Avvocatura dello Stato

ISTITUZIONALE

Aspetti giuridici del multilinguismo

Ultimo aggiornamento: 14/05/2008 12:33:55
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(Intervento dell'Avvocato Genererale dello Stato, Oscar Fiumara, al convegno su “La parità delle lingue nell'Unione Europea" – Firenze 10 maggio 2008).
 

Il tema del multilinguismo non appare subito nel diritto comunitario – oggi dovremmo meglio dire diritto europeo – nella sua configurazione attuale.
In una fase iniziale, appunto quella strettamente “comunitaria” del diritto europeo, il tema viene posto come tema del regime linguistico delle neonate istituzioni europee; cioè, a prima vista, come un tema interno o organizzativo, non come un tema di principio. Ma anche in questa fase è già significativo come l’art. 290 del Trattato CE (uso, naturalmente, la numerazione attuale) lo affronti: l’art. 290 attribuisce al Consiglio la competenza a deliberare sul regime linguistico delle istituzioni, e prevede che tale competenza sia esercitata all’unanimità.
Quindi la materia linguistica, anche in questa proiezione meramente interna, venne da subito considerata come riserva propria degli Stati membri (dei quali il Consiglio è l’espressione istituzionale), e sottratta sia alla Comunità come tale (di cui la Commissione è l’espressione istituzionale), sia alle mutevoli maggioranze che possono formarsi in seno al Consiglio, e che talvolta hanno segnato nella storia della costruzione comunitaria la prevalenza di “assi” e di interessi di taluni Stati rispetto all’insieme della Comunità stessa.
In sostanza, l’art. 290 diceva (e dice, poiché anche il Trattato di Lisbona lo ha lasciato immutato) che il regime linguistico non è un fatto puramente tecnico (per questo è sottratto alla Commissione), e che non è un fatto puramente politico (per questo, nell’ambito del Consiglio, lo ha sottratto al gioco delle maggioranze).
Già in questa disciplina della materia, si vede quindi che tutto ciò che, in ambito comunitario, tocca le lingue, viene considerato come attinente ai fondamenti della costruzione comunitaria stessa, cioè come un qualcosa che riguarda in modo immediato la ragione d’essere e gli scopi essenziali della costruzione comunitaria, per cui va regolato attraverso competenze e procedimenti di pregnante garanzia. In breve, già l’art. 290 CE dichiara che in materia linguistica non sono ammessi interventi di cui non siano certi la legittimazione democratica e la approfondita ponderazione.
Ed è significativo che questa configurazione della materia linguistica come materia attinente ad interessi fondamentali della Comunità venga posta innanzitutto in una norma, come l’art. 290 CE, che apparentemente, come dicevo, si occupa di un problema meramente organizzativo interno della Comunità, cioè della lingua di funzionamento delle Istituzioni comunitarie: in tal modo l’art. 290 viene a dire non solo che la lingua non è mai un mero fatto organizzativo ed è sempre un fatto di importanza giuridica fondamentale nella costruzione comunitaria. Molto di più, viene a dire che la garanzia fondamentale della lingua opera nell’ordinamento comunitario innanzitutto con riferimento alle espressioni giuridiche della Comunità. Dalle istituzioni comunitarie promana infatti il diritto comunitario, e tale diritto, dichiara l’art. 290, deve esprimersi in tutte le lingue comunitarie.
Del resto, è noto che il diritto è sempre, in origine, un fatto linguistico: la norma  ha sempre la forma di una proposizione linguistica (soprattutto, ma non solo, nel diritto scritto; ciò rimane vero, mutatis mutandis, anche nel diritto fondato sul precedente giurisprudenziale): il potere giuridico è, quindi, innanzitutto potere linguistico. Ne discende che in una Comunità, anzi, ormai, in un’Unione, fondata sull’eguaglianza degli Stati e dei loro cittadini, tutte le lingue debbono possedere la medesima dignità giuridica: il diritto europeo è destinato, per sua natura, a manifestarsi in tutte le lingue europee. Il giorno in cui talune lingue soltanto acquisissero il ruolo di lingue specifiche dell’espressione giuridica europea, il diritto così espresso non sarebbe più autenticamente europeo.
Se queste premesse sono vere, bisogna allora esaminare lo sviluppo del tema successivamente alla posizione dell’art. 290 CE.
Il primo sviluppo fu proprio il regolamento 1/58 che oggi celebriamo. E fu uno sviluppo coerente perché quel regolamento stabilì che tutte le lingue degli Stati membri sono non solo le lingue ufficiali, ma anche le lingue di lavoro della Comunità, cioè le lingue dell’attuazione pratica del diritto europeo, che dunque neppure a livello pratico conosce lingue privilegiate.
Decisivo fu poi l’impulso dato dal Trattato di Amsterdam, che introdusse nell’art. 6 del Trattato dell’Unione il paragrafo 3, secondo il quale l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri. E l’espressione ineliminabile dell’identità nazionale è, ovviamente, la lingua.
Il Trattato di Amsterdam introdusse poi nell’art. 21 del Trattato CE il paragrafo 3, in base al quale ogni cittadino dell’Unione può scrivere alle Istituzioni nella propria lingua e ha diritto di ottenere una risposta nella stessa lingua.
Questa innovazione è importantissima dal punto di vista sistematico perché si collega immediatamente con la grande innovazione del Trattato di Amsterdam, che è l’introduzione, con il nuovo articolo 17 del Trattato CE, della cittadinanza dell’Unione. Il diritto alla propria lingua nei rapporti giuridici con le Istituzioni comunitarie è quindi uno dei contenuti fondamentali e inalienabili della cittadinanza comunitaria. Privato di questo contenuto, il principio della cittadinanza comunitaria rischierebbe di scadere a proclamazione retorica.
L’art. 21 n. 3 e l’art. 17 del Trattato CE modificati dal Trattato di Amsterdam completano quindi quel processo di affermazione del multilinguismo fin dall’inizio intuito dall’originaria (e non a caso mai mutata) formulazione dell’art. 290 CE: il multilinguismo come valore fondante dell’Unione, e quindi non solo come fatto organizzativo ma, ben di più, come garanzia giuridica fondamentale dei cittadini europei.
Corona questo sviluppo il recente Trattato di Lisbona, che modifica l’art. 2 del Trattato dell’Unione introducendo il principio secondo cui l’Unione rispetta la diversità linguistica. In tal modo viene data definitiva rilevanza giuridica al principio del multilinguismo, che negli stessi termini era stato fino ad ora affermato soltanto dall’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui valore giuridico, come si sa, non può giungere fino a modificare i trattati fondamentali.
Insomma, il multilinguismo è sempre, in tutte le sue manifestazioni, un valore giuridico, non soltanto un valore culturale. La vicenda normativa che ho riassunto esclude che si possano stabilire due piani: quello delle lingue europee intese come fatto di espressione culturale (che sono ovviamente tutte, poiché ogni paese europeo è portatore di una cultura secolare), e quello delle lingue europee da intendere come fatto di espressione giuridica (che potrebbero anche non essere tutte le lingue europee). No: l’espressione giuridica europea è necessariamente multilingue al pari dell’espressione culturale. Se vogliamo, rappresenta la cultura europea che si fa diritto.
In questa prospettiva, il Trattato di Lisbona avrebbe forse potuto fare ancora di più, cioè confermare l’art. 81 della seconda parte della Costituzione europea, che costituzionalizzava direttamente il principio dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, contenente il divieto di discriminazione in base alla lingua. Il Trattato di Lisbona si è limitato a riformulare l’art. 6 del Trattato dell’Unione, includendo in esso un rinvio espresso alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quindi anche all’art. 21, e la previsione che quest’ultima ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Un percorso un po’ più lungo per affermare comunque un principio irrinunciabile: la lingua nazionale fa parte del patrimonio giuridico inalienabile di ciascun cittadino europeo allo stesso modo nei suoi rapporti con gli altri cittadini e con le Istituzioni comunitarie. Ogni restrizione in proposito sarebbe discriminatoria.
A conclusione non può farsi a meno di citare il contributo della giurisprudenza comunitaria. La Corte di giustizia a Grande sezione nella recente sentenza dell’11 dicembre 2007 (causa C-161/06) ha statuito che nessun obbligo giuridico di fonte comunitaria può essere imposto a cittadini comunitari se il testo normativo da cui l’obbligo discende non è tradotto e pubblicato ufficialmente nella lingua nazionale del cittadino interessato; e ha anche, preliminarmente, statuito che rientra nella sua competenza valutare le implicazioni che sui diritti dell’interessato può avere la mancata pubblicazione  del testo normativo nella lingua nazionale, anche se tale mancata pubblicazione sia imputabile non alla Comunità bensì allo Stato membro di cui il cittadino fa parte.
In tal modo si è ribadito che il diritto comunitario si deve necessariamente esprimere in tutte le lingue dell’Unione; e ciò, vorrei aggiungere, deve valere non solo per l’espressione strettamente normativa di tale diritto, bensì anche per le sue espressioni giurisdizionali e amministrative. La dottrina della divisione dei poteri infatti insegna che i poteri sono tre, ma il diritto è uno, e identica deve essere la sua espressione.
Ma si è anche stabilito, e questo è forse il contributo più innovativo e rilevante ai nostri fini, che il diritto individuale al multilinguismo nei rapporti giuridici comunitari ha un proprio giudice naturale appunto nel giudice comunitario: il rapporto giuridico concernente il multilinguismo, insomma, non è mai un rapporto puramente interno, sottratto al sindacato della Corte.
Ciò completa il percorso che ho tracciato: infatti nessuna garanzia è veramente tale fino a che non trova il proprio giudice.