ANNO LXXVI - N. 3-4 LUGLIO - DICEMBRE 2024 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Stefano Varone. CONDIRETTORE: Gianni De Bellis per la cura del “Contenzioso tributario. Osservatorio”. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Carlo Maria Pisana -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Stefano Maria Cerillo -Pierfrancesco La Spina Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Antonino Ripepi -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Giacomo Aiello, Ennio Antonio Apicella, Matteo Bellucci, Francesco Caporaso, Emiliana Cicatelli, Francesca D’Ambrosio, Enrico De Giovanni, Cecilia De Nicola, Gianna Maria De Socio, Michele Gerardo, Rosaria Maria Giovinazzo, Angela Granato, Emanuele Manzo, Lisa Medici, Edoardo Morena, Gaetana Natale, Giovanni Palatiello, Gabriella Palmieri, Carmela Pluchino. E-mail Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it gianni.debellis@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it stefano.varone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario Visita di Sua Santità Papa Leone XIV - 1° settembre 2025 . . . . . . . . . . . Scomparsa dell’Avvocato Generale Emerito Oscar Fiumara . . . . . . . . . A ricordo dell’Avv. Bartolomeo Mangogna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’Avv. Maurizio Fiorilli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’Avv. Nicola Bruni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della Assemblea Generale della Corte Suprema di Cassazione sul tema “Le prospettive di una moderna nomofilachia”, Roma 19 giugno 2025 . . . . . . . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione dei funerali dell’Avvocato Generale Emerito Oscar Fiumara, Basilica di S. Agostino in Campo Marzio, 29 settembre 2025 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Protocollo aggiuntivo ai Memorandum d’Intesa firmati tra l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile e l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana in data 11 aprile 2014 e 16 novembre 2018, Roma 5 settembre 2025. . . . . . . . . . . . . . . . . Lisa Medici, Maurizio Fiorilli, l’avvocato di Stato in prima linea contro i predatori dell’arte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio fiorilli, La restituzione del Cratere di Eufronio . . . . . . . . . . . . Ennio Antonio Apicella, Relazione introduttiva al convegno “Il nuovo codice dei contratti. Un primo bilancio applicativo”, organizzato dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro il 17 giugno 2025 presso la Sala del Tricolore della Prefettura di Catanzaro . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Giovanni Palatiello, La rinuncia abdicativa secondo le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 agosto 2025 n. 23093). . . . . . . . . . . . . . . . Angela Granato, Incapacità naturale del lavoratore e impugnativa del licenziamento (C. cost., sent. 18 luglio 2025 n. 111) . . . . . . . . . . . . . . . . . Matteo Bellucci, Nel mezzo del cammin della translatio iudicii... (Cons. Giust. Amm. Regione siciliana, sent. 27 febbraio 2025 n. 137). . . . . . . . CONTENZIOSO TRIBUTARIO - OSSERVATORIO Carmela Pluchino, Incidenza della violazione tributaria sulla partecipazione a gare di appalto. Esclusione automatica per l’omesso pagamento di imposte definitivamente accertate per un importo superiore ai 5.000 euro (C. cost., sent. 28 luglio 2025 n. 138) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emanuele Manzo, Amministratori di fatto o di diritto di società di capitali. La traslazione dell’imponibile dalla società al suo dominus (Cass. civ., Sez. V, ord. 27 agosto 2025 n. 23987). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 7 ›› 10 ›› 13 ›› 15 ›› 19 ›› 33 ›› 82 ›› 106 ›› 125 ›› 144 francesca D’Ambrosio, Sull’assenza di termini di decadenza per l’Amministrazione finanziaria rispetto a crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione (Cass. civ., Sez. V, sent. 19 settembre 2025 n. 25683) . . . . . pag. 157 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Gianna Maria De Socio, Cecilia De Nicola, Notificazione degli atti di attuazione dei sequestri conservativi. Quesito sulla attuale operatività del criterio di competenza territoriale secondo il disposto letterale dell’art. 678 c.p.c. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 163 Enrico De Giovanni, Emiliana Cicatelli, Rimborso spese patrocinio legale ai sensi dell’art. 18 D.L. n. 67/1997, conv. in L. 135/1997. Quesito in ordine alla applicabilità della disposizione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 170 Marina Russo, Polizze assicurative al personale tecnico dipendente stipulate a copertura della responsabilità civile per le attività previste dal d.lgs. 36/2023 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 174 Edoardo Morena, Effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., a seguito delle modifiche introdotte dalla c.d. riforma “Cartabia”, sul disposto dell’art. 120, comma 1, Codice della strada . ›› 178 Giacomo Aiello, Normativa applicabile agli accordi stipulati dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane con le reti di distribuzione (GDO) e di e-commerce di Paesi esteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 184 Giacomo Aiello, Sulla irrogazione della sanzione da omesso pagamento del Contributo Unificato ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 16, co. 1-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, 71 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 e 4 co. 1 lett. B, D.lgs 14 giugno 2024 n. 87 . . . . . . . . . . . . ›› 187 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Carlo Maria Pisana, Introduzione alla nozione giuridica di mafia . . . . . ›› 193 francesco Caporaso, Il commissariamento come strumento per la realizzazione delle grandi opere pubbliche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 203 Gaetana Natale, Profili giuridici e ruolo delle istituzioni nel sostenere gli operatori della sicurezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 208 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, La rilevanza giuridica degli animali: oggetto di diritto e di tutele. Considerazioni sulla soggettività e capacità degli animali . . ›› 229 Rosaria Maria Giovinazzo, Actio finium regundorum tra piani paesaggistici, piani per i parchi e disciplina degli usi civici . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 291 Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Giovanni Nobile . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Melania Nicoli . . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Giovanni Pedone . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Ettore Figliolia . . . . . . . . . . . Visita di Sua Santità Papa Leone XIV - 1° settembre 2025 Come è ormai consuetudine, il nostro Istituto ha avuto il privilegio di ospitare la tradizionale riunione conviviale dei Padri capitolari in occasione dell’apertura del Capitolo Generale dell’Ordine di Sant’Agostino e che si è svolto il 1° settembre 2025 nella suggestiva cornice della Sala Vanvitelli. Un appuntamento atteso e sentito che da sempre rappresenta un momento di profonda riflessione e condivisione. L’edizione di quest’anno ha assunto un significato straordinario: come riportato dall’articolo di VaticanNews ... Sua Santità Papa Leone XIV, dopo aver preso parte alla Messa presso la Chiesa di Sant’Agostino, ha, poi, fatto visita anche al nostro Istituto onorandoci con la Sua presenza, la Sua parola e la Sua benedizione, rendendo così questo solenne appuntamento ancora più profondo e toccante. La visita del Santo Padre ha rappresentato un evento di eccezionale importanza spirituale e pastorale, che resterà impresso nella memoria e nella storia dell’Avvocatura dello Stato. Gabriella Palmieri Scomparsa dell’Avvocato Generale Emerito Oscar Fiumara Con infinita tristezza e con grande commozione comunico che nel pomeriggio di ieri è deceduto l’Avvocato Generale Emerito Oscar Fiumara. Ho espresso alla Figlia Milena -a nome di tutta l’Avvocatura dello Stato e mio personale -la più sincera e affettuosa partecipazione al grave lutto che l’ha colpita. Desidero ricordare la Sua eminente figura istituzionale e le Sue grandi qualità umane. Nel corso della Sua lunga e prestigiosa carriera ha, infatti, dato sempre lustro all’Istituto, al quale è stato ed è rimasto costantemente legato da un vivo senso di appartenenza, dall’orgoglio dell’appartenenza. Basterà solo ricordare che si deve alla Sua iniziativa la bellissima pubblicazione dedicata al Complesso agostiniano, di cui fa parte anche la Sede dell’Avvocatura Generale dello Stato, e la riapertura della porta di collegamento con la Biblioteca Angelica, attraversando la quale, il 1° settembre scorso, Sua Santità Papa Leone XIV, dopo aver preso parte alla Messa presso la Chiesa di Sant’Agostino, ha, poi, fatto visita anche al nostro Istituto onorandoci con la Sua presenza, la Sua parola e la Sua benedizione. I funerali si terranno lunedì 29 settembre alle ore 11,00 presso la Basilica di S. Agostino in Campo Marzio (*) Gabriella Palmieri (*) E-mail Avvocato Generale dello Stato, domenica 28 settembre 2025 09:48. A ricordo dell’Avv. Bartolomeo Mangogna Con profondo dispiacere comunico che il 25 giugno scorso è venuto a mancare l’avv. Bartolomeo Mangogna, Avvocato generale dello Stato onorario (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, lunedì 30 giugno 2025 16:21. A ricordo dell’Avv. Maurizio Fiorilli Con profondo dispiacere comunico che è venuto a mancare l’avv. Maurizio Fiorilli, Avvocato generale dello Stato onorario (*) Il Segretario Generale f.f. (*) E-mail Segreteria Generale, lunedì 11 agosto 2025 08:46. A ricordo dell’Avv. Nicola Bruni Con grande tristezza e profondo dispiacere comunico che è venuto a mancare l’Avv. Nicola Bruni, già avvocato dello Stato, ... (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, martedì 30 settembre 2025 12:49. temiistituzionAli AssembleA GenerAle dellA Corte supremA di CAssAzione sul temA “ le prospettive di unA modernA nomofilAChiA” (*) il diAloGo trA Corte di CAssAzione e Giurisdizioni sovrAnAzionAli Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 1. Signora Prima Presidente, Signor Presidente Aggiunto, Signor Procuratore Generale, Autorità, Gentili Ospiti, sono davvero onorata di prendere la parola in questa solenne Assemblea in rappresentanza dell’Istituto che ho l’alto privilegio di dirigere. 2. Il mio intervento sul tema del “Il dialogo tra Corte di cassazione e giurisdizioni sovranazionali ”, Corte EDU e Corte di giustizia, sarà svolto sia nell’ottica della visione istituzionale d’insieme, sia attraverso la descrizione della dinamica concreta di tale dialogo grazie al ruolo dell’Avvocatura dello Stato, per la quale l’impegno in sede sovranazionale si inquadra perfettamente nelle attribuzioni istituzionali. 3.1. Per quanto riguarda la CEDU, va, innanzitutto, osservato che tra le più significative novità introdotte con il Protocollo n. 15, in vigore dal 1° febbraio 2022 (1), è l’inserimento, nel preambolo della Convenzione, del richiamo sia al principio di sussidiarietà quale regola di precedenza, sia alla teoria del margine di apprezzamento, progressivamente emersa nella giurisprudenza, come parametro limite dell’intervento e, dunque, di salvaguardia delle specificità. (*) Evento tenutosi giovedì 19 giugno 2025, Aula Magna del Palazzo di Giustizia. (1) L’Italia ha depositato lo strumento di ratifica presso il Segretariato Generale del Consiglio d’Europa il 21 aprile 2021 e il Protocollo è entrato in vigore, dopo tutte le ratifiche, il 1° febbraio 2022. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Entrambe costituiscono espressione del più generale principio di prossimità che governa funzionalmente i sistemi multilivello. Incamerarli nella Convenzione ha lo scopo di garantire una più puntuale definizione dello spazio giudiziale riconosciuto alla Corte EDU in relazione ai margini di enforcement dei diritti, che, tuttora, sono riservati alle giurisdizioni interne dei Paesi membri. L’operatività del criterio del “margine di apprezzamento” ricorre nella giurisprudenza relativa ad importanti disposizioni della Convenzione, come quelle in tema di diritti di libertà e di sicurezza personale (art. 5). L’ambito giurisdizionale costituisce, dunque, la dimensione privilegiata della tutela dei diritti umani, in ideale continuazione con le riflessioni svolte nell’intervento del Cons. Reggiani che mi ha preceduto, e nella variegata tipologia dei casi di specie offerti da una realtà sociale complessa e in continua evoluzione, come ha ricordato il Presidente Giusti. Di qui il primato della regola concreta, da ricostruirsi sempre più nel dialogo tra i diversi livelli del- l’esperienza giudiziale. 3.2. Il sistema multilivello è imperniato sul primato della tutela come criterio di sintesi nella compresenza di fonti e giudici nazionali e sovranazionali e, in un ordinamento così frammentato, una funzione decisiva è svolta proprio dal dialogo tra le Corti, inteso come momento di confronto e di reciproco arricchimento, per una tutela il più possibile uniforme e integrata. Il dialogo tra le Corti può essere reso più efficace e favorito dallo sviluppo di una cultura giuridica comune ai diversi ordinamenti e livelli, che tenga conto delle inevitabili differenze, ma che amplifichi gli aspetti di identità. Rafforza questo modello di dialogo la novità dello strumento processuale previsto nel Protocollo n. 16: il rinvio pregiudiziale facoltativo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che consolida il ruolo attivo delle giurisdizioni nazionali in via preventiva e immediata (2). 5.1. La CEDU, la Corte di giustizia e il Tribunale dell’Unione europea hanno assunto sempre maggiore importanza all’interno del nostro ordinamento. Inoltre, il sistema UE e quello CEDU, benché separati ed autonomi, mostrano sempre maggiori spazi di interconnessione: sempre più spesso le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE dai giudici nazionali individuano come parametri di riferimento norme della Convenzione EDU e che la CGUE li considera utili e li valuta ai fini della pronuncia. Il meccanismo elaborato dal Protocollo 16 ha, inoltre, punti di contatto (2) Il Protocollo è entrato in vigore nel 2018 ed è stato ratificato da 24 Stati (la Lettonia ha firmato il 2 giugno 2025, sicché è plausibile una prossima ratifica); l’Italia l’ha firmato nel 2013, ma il processo di ratifica non è stato completato. TEMI ISTITUzIOnALI con quello regolato dall’art. 267 del TFUE: rinvio pregiudiziale alla Corte, che si pronuncia prima della decisione nazionale del caso concreto, è uno strumento di dialogo con le giurisdizioni nazionali; ma si distingue dalla pregiudiziale unionale, in linea con le diverse caratteristiche delle due Corti, perché: a) può essere proposto solo dalle Corti apicali; b) che hanno la facoltà e non l’obbligo di chiedere il parere; c) che non ha efficacia vincolante né per l’autorità nazionale che ha formulato il quesito, né per le autorità degli altri Stati, fermo restando che il giudice nazionale, ragionevolmente, non si discosterà dai principi di diritto espressi, considerato il ruolo della Corte nell’interpretazione della Convenzione. 5.3. Altro strumento di dialogo efficace fra le Corti è rappresentato dalla sottoscrizione di Protocolli e la prima di queste Intese, in ordine temporale è dell’11 dicembre 2015, stilata dalla Corte di cassazione e dalla Corte EDU, nella prospettiva della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, diretta a garantire l’uniforme interpretazione e «... conformemente all’ordinamento Costituzionale vigente e nel rispetto del principio della certezza del diritto, il pieno effetto delle norme della Convenzione, nell’interpretazione loro data dalla Corte» (3); e, come ha ricordato la Prima Presidente Cassano nel Suo odierno discorso introduttivo, è rafforzato dall’istituzione di Gruppi di studio per l’attuazione dei Protocolli con la CEDU e con la CGUE. 5.4. La Corte di cassazione ha cercato di risolvere possibili discrasie con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, come si evince, in estrema sintesi, da tre gruppi di contenziosi attualmente pendenti dinanzi alla Corte in cui si manifestano tre possibili esiti del “dialogo”. A) Il contenzioso su rito abbreviato e principio di retroattività in mitius dove la Corte EDU, con la sentenza Cesarano c. Italia (4), ha recepito l’elaborazione delle Sezioni Unite e delimitato l’applicazione dell’art. 7 della Convenzione in senso conforme. B) Il contenzioso sulla natura di diverse “confische di proventi illeciti” (diretta, allargata, antimafia). La giurisprudenza della Cassazione (5) ha evitato il rischio di un vuoto di tutela convenzionale ricorrendo agli strumenti processuali (e non sostanziali) vigenti per uniformarsi alla giurisprudenza della Corte EDU. C) Il contenzioso in tema di aspetto reputazionale della presunzione di innocenza nei confronti di imputati prosciolti, ma sottoposti alla confisca di proventi di “reato”. (3) Corte Edu, Grande Camera, Fabris c. Francia, sentenza 7 febbraio 2013, ricorso n. 16754/08, pag. 19. (4) Corte EDU, Prima Sezione, sentenza 17 ottobre 2024, ricorso n. 71250/16. (5) Cass., S.U. penali, 23 febbraio 2024, n. 8052, Rizzi. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Il dialogo prosegue anche in attesa dell’entrata in vigore dello strumento di dialogo convenzionale costituito dal citato Protocollo 16. 6.1. Per quanto riguarda la Corte di giustizia ed il Tribunale dell’Unione europea, i giudizi pregiudiziali rappresentano la competenza non contenziosa e incidentale più importante e il principale strumento di dialogo con le Corti nazionali. La Corte di giustizia condivide, dal 1° ottobre 2024, con il Tribunale dell’Unione europea, la competenza a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni, dagli organi od organismi dell’Unione. Il trasferimento parziale della competenza pregiudiziale riguarda, fra le altre, materie di particolare interesse per la Corte di cassazione come il sistema comune di imposta sul valore aggiunto, i diritti di accisa e il codice doganale. La Corte di giustizia conserva, tuttavia, la competenza a conoscere delle questioni pregiudiziali che, nelle predette materie, riguardano profili indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della Carta dei diritti fondamentali del- l’Unione europea. 6.2. L’art. 267 TFUE costituisce un ricorso di primaria importanza per il cittadino ed un mezzo fondamentale di creazione del diritto. L’Italia si pone molto al di sopra della media degli altri Stati membri nel proporre questioni pregiudiziali, i giudici italiani guardano con attenzione al diritto dell’Unione e, prima di applicarlo, nei casi di dubbi interpretativi, preferiscono rivolgersi alla Corte di giustizia. Dalle statistiche, risulta che il maggior numero dei rinvii pregiudiziali verte sulla fiscalità. L’importanza del rinvio pregiudiziale, strumento di stretta cooperazione “da giudice a giudice”, tra la Corte e il Tribunale Ue, da un lato, e gli organi giurisdizionali degli Stati membri, dall’altro, è stata sottolineata dalla stessa Corte di giustizia come la “chiave di volta” del sistema giurisdizionale del- l’Unione europea. Il rinvio pregiudiziale è, infatti, una procedura importante per il diritto dell’Unione europea, perché mira a garantirne l’interpretazione e l’applicazione uniformi in seno all’Unione. Come accaduto nella nota causa C-497/20, su rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione con riferimento all’art. 111, comma 8, della Cost., articolo che ha richiamato anche il Presidente della Corte costituzionale Amoroso nel Suo odierno intervento introduttivo, che, secondo la giurisprudenza nazionale, non consente al singolo di contestare, nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi a tale giudice, la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa. TEMI ISTITUzIOnALI La Corte, riunita in Grande Sezione, ha dichiarato, con sentenza del 21 dicembre 2021, che una siffatta disposizione è conforme al diritto del- l’Unione. L’articolo 19 del TUE affida ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia il compito di garantire la piena applicazione del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri, nonché la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza di detto diritto e, pertanto, il ruolo dei giudici nazionali nell’applicazione del diritto dell’Unione è importantissimo. Come ha chiarito la stessa Corte di giustizia, la nozione di organo giurisdizionale proponente la questione pregiudiziale è interpretata quale nozione autonoma del diritto dell’Unione, tenendo conto di un insieme di elementi, come il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, che applichi norme giuridiche e che sia indipendente. Quando una questione è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a proporre un rinvio pregiudiziale (art. 267, terzo comma, TFUE), salvo che esista già una giurisprudenza consolidata in materia (c.d. acte éclairé) o che la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (c.d. acte clair). 6.3. La garanzia dell’effettività dei diritti passa anche e soprattutto attraverso un efficace dialogo tra le Corti nazionali ed europea; dialogo che tra la Corte di cassazione e la Corte di giustizia dell’Unione europea è efficacemente proseguito anche nel 2024, nel corso del quale la Cassazione ha proposto undici questioni di rinvio pregiudiziale, in aumento rispetto al 2023, su diverse tematiche di rilevante interesse, come tutela dei consumatori e protezione dei marchi. Sempre nel 2024, sono state depositate 11 decisioni su cause pregiudiziali provenienti dalla Corte di cassazione, tra le quali va segnalata, per l’importanza economica e di principio, la sentenza relativa alla causa C-713/22 (6), che ha affermato importanti principi in tema di responsabilità solidale tra le società risultanti da una scissione, in relazione ai costi di bonifica e ai danni ambientali dovuti ad eventi antecedenti alla scissione. 7. In conclusione è fondamentale, dunque, perseguire la via del dialogo istituzionale e della leale collaborazione fra le Corti, che attenta dottrina definisce “un oculato dialogo intergiurisprudenziale” (7), senza elidere il (6) Sentenza CGUE, Grande Sezione, 29 luglio 2024, Livanova. (7) A. RUGGERI, Il ‘dialogo’ fra le Corti: una precisazione di metodo per una nozione apparentemente bonne à tout faire, Consulta online, 2021, fasc. III, passim e pagg. 678-680 in particolare, anche sull’indefettibile ruolo del legislatore. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 ruolo del legislatore, e, nello stesso tempo, e a tal fine, massimizzare l’utilizzo degli strumenti forniti dal sistema processuale nazionale e sovranazionale. Grazie per l’attenzione. TEMI ISTITUzIOnALI bAsiliCA di s. AGostino in CAmpo mArzio 29 settembre 2025 funerAli dell’AvvoCAto GenerAle emerito osCAr fiumArA Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri La notizia della scomparsa dell’Avvocato Generale Emerito Oscar Fiumara, “il nostro Oscar”, ci ha immensamente rattristato anche perché l’abbiamo sempre visto e ricordato come una persona entusiasta, che amava la vita con passione, energia e con ottimismo. Aveva, infatti, un carattere molto socievole, instaurava facilmente i rapporti interpersonali grazie alla Sua conversazione sempre brillante, per la Sua vasta cultura e per i suoi molteplici interessi, dalla musica classica al- l’attività sportiva. Con grande riservatezza viveva i Suoi intensi e profondi affetti familiari, ma, ciò nonostante, trapelavano spesso questi Suoi sentimenti. Sarebbe difficile ripercorrere in breve tempo la carriera professionale dell’Avv. Fiumara. Il Suo valore era unanimemente riconosciuto e, soprattutto, era nota a tutti la Sua affezione assoluta per l’Avvocatura dello Stato e per il ruolo di Avvocato dello Stato. Il Suo impegno professionale si è svolto prevalentemente all’interno del nostro Istituto e anche quando ha ricoperto prestigiosi incarichi ministeriali li ha sempre considerati come una proiezione del lavoro istituzionale; anche per questo è un Esempio importante soprattutto per i nostri giovani Colleghi. Verso le giovani generazioni l’Avv. Fiumara ha dimostrato sempre grande disponibilità nel dare consigli e insegnamenti, in linea con lo spirito del nostro Istituto di valorizzare il legame intergenerazionale e che lo rende, anche per questo, un unicum nel panorama generale. È stato un vero pioniere del contenzioso -come si chiamava allora -comunitario che ha iniziato a praticare ininterrottamente dal 1977, partecipando alle udienze innanzi alla Corte di giustizia, insieme con un ristrettissimo gruppo di altri Avvocati dello Stato esperti anch’essi di diritto comunitario. Per questo ha sempre curato le relazioni internazionali dell’Avvocatura con le omologhe Istituzioni europee ed extraeuropee. Nel corso del Suo intervento al Convegno organizzato, il 23 marzo 2007, in occasione dei 50 anni di funzionamento della Corte di giustizia, ha significativamente riconosciuto l’importanza non solo dell’attività dei giudici nazionali che, ponendo le questioni pregiudiziali, contribuiscono all’armonizzazione del diritto nazionale con quello europeo e al consolidarsi degli RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 orientamenti del diritto comunitario, ma anche della collaborazione con gli Avvocati del Foro libero, per l’efficacia del contraddittorio processuale. Mi ha molto colpito, perché condivido lo stesso senso di rammarico, che, sempre in quell’occasione, abbia rimpianto che l’Avvocato Generale -per evidenti ragioni anche di compatibilità con la carica istituzionale -non possa più, inevitabilmente, svolgere le funzioni proprie dell’Avvocato dello Stato, come andare in udienza e/o scrivere gli atti processuali. Anche se ovviamente la nomina ad Avvocato Generale ha costituito il coronamento del Suo appassionato lavoro di Avvocato dello Stato. Come Avvocato Generale (dal 2005 al 2010) ha ottenuto aumenti nel- l’organico del personale togato e di quello amministrativo e modifiche sostanziali nei criteri della ripartizione degli onorari; e ha sempre curato con attenzione i rapporti con le Avvocature Distrettuali. Ha avuto sempre un interesse particolare per la sede dell’Istituto. Fu Sua, infatti, l’idea di pubblicare un volume che trattasse non solo della storia del- l’Avvocatura dello Stato ma, appunto, dell’intero complesso architettonico (con la Basilica di S. Agostino e la Biblioteca angelica) in cui si trova la nostra sede (il Convento agostiniano). Appassionato com’era di storia, considerava, infatti, la Biblioteca Angelica e questa Basilica come ancora integrate nel Convento. Nella presentazione a quello splendido libro, datata gennaio 2009, l’Avv. Fiumara aveva richiamato, infatti, l’idea del “complesso” che intitola l’opera, facendo riferimento al luogo come “tripartito” di culto, di lavoro, di studio, “un ‘complesso’, unità nel molteplice”. Per questo ha fortemente voluto anche la riapertura del collegamento fra la Biblioteca angelica e la Galleria del primo piano della nostra sede. In occasione della mia visita di ieri mattina alla camera ardente, i Suoi figli, Misha e Milly, mi hanno mostrato una lettera datata 14 febbraio 2009, con la quale l’allora Priore Generale OSA Robert Prevost ringraziava vivamente per l’omaggio del libro sul complesso di S. Agostino in Campo Marzio, auspicando che nel futuro i rapporti fra la Comunità di Sant’Agostino e l’Avvocatura dello Stato “siano sempre di proficua e sincera collaborazione”; e la celebrazione di oggi ne è la dimostrazione più assoluta. Con una toccante linea di continuità rappresentata dalla circostanza che, il 1° settembre scorso, in occasione della tradizionale riunione conviviale dei Padri capitolari per l’apertura del Capitolo Generale dell’Ordine, che abbiamo il privilegio di ospitare nella suggestiva cornice della Sala Vanvitelli, Sua Santità Papa Leone XIV, dopo aver preso parte alla Messa presso la Chiesa di Sant’Agostino, proprio attraversando il collegamento con la Biblioteca Angelica, ha fatto visita anche al nostro Istituto, onorandoci con la Sua presenza, la Sua parola e la Sua benedizione. Durante la pandemia, non potendosi svolgere la tradizionale cerimonia TEMI ISTITUzIOnALI degli auguri per le note restrizioni, l’Avv. Fiumara mi ha suggerito di far rieditare il francobollo emesso nel 1976 in occasione del Centenario dell’Avvocatura dello Stato. Ho seguito il Suo prezioso consiglio ed è stato un dono e anche un modo per ricordare i nostri compiti istituzionali. Nell’ultima telefonata, l’Avv. Fiumara ha sottolineato che nel 2026 ricorreranno i 150 anni dell’Avvocatura dello Stato, segnalando l’importanza della ricorrenza nella speranza di poter essere presente alle celebrazioni. In quell’occasione Lo onoreremo con il nostro affettuoso ricordo e con la nostra sincera gratitudine. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Avvocatura Generaledello Stato protoCollo AGGiuntivo Ai memorAndum d’intesA firmAti trA l’AvvoCAturA GenerAle dell’unione dellA repubbliCA federAtivA del brAsile e l’AvvoCAturA GenerAle dello stAto dellA repubbliCA itAliAnA in dAtA 11 Aprile 2014 e 16 novembre 2018 Ai sensi dell’articolo 11, comma 1 e 3, del Memorandum d’Intesa firmato in data 11 aprile 2014, e dell’articolo 8, comma 1, del Memorandum d’Intesa firmato in data 16 novembre 2018, entrambi tra l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile e l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana, le autorità brasiliana e italiana, dopo nuovi colloqui e considerando gli interessi istituzionali e degli Stati rispettivi, hanno stabilito il seguente Protocollo Aggiuntivo ai suddetti Memoranda: Articolo 1 Proroga della validità del Memorandum Il Memorandum d’Intesa firmato tra l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile e l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana, in data 11 aprile 2014, è prorogato a tempo indeterminato, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, restando ferma la possibilità di esclusione prevista nel comma 6. Articolo 2 Integrazione del Memorandum Il Memorandum d’Intesa firmato tra l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile e l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana, in data 11 aprile 2014, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 3, è integrato dalle seguenti disposizioni: 1. Le Istituzioni firmatarie del presente Protocollo potranno offrirsi reciprocamente consulenza, assistenza e collaborazione, in campo giuridico e nel rispetto delle normative vigenti nei rispettivi ordinamenti nazionali e, in particolare: I. Per quanto riguarda l’Avvocatura Generale dello Stato Italiano, nei termini e condizioni previsti dall’art. 48 del Regio Decreto 1611/1933, previa autorizzazione conforme all’art. 43 del medesimo Regio Decreto; nonché, ai sensi e condizioni degli articoli 47 e 48 dello stesso Regio Decreto 1611/1933, per questioni sorte nel territorio dello Stato italiano o dell’Unione Europea, con riferimento a trattati, accordi e convenzioni sottoscritti dalle sue Istituzioni, TEMI ISTITUzIOnALI purché richiesta da organi della Repubblica Federativa del Brasile secondo le formalità previste. II. Per quanto riguarda l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile, nei termini e condizioni previsti dall’art. 131 della Costituzione Federale, dalla Legge Complementare n. 73 del 1993, dai trattati bilaterali, dalle convenzioni internazionali e da normative specifiche, per l’ assistenza, la consulenza e il supporto giuridico alla Repubblica Italiana e alle istituzioni pubbliche ad essa collegate, purché richiesta secondo le formalità previste, al fine di adempiere agli obblighi derivanti da accordi, trattati e convenzioni sottoscritti tra gli Stati e le loro Istituzioni, nonché per cooperare con la nazione amica per fini leciti e pacifici. 2. Costituiscono oggetto d’interesse per la promozione dei contatti istituzionali e per l’approfondimento delle relazioni di cooperazione e studio: I. La promozione di contatti e di forum internazionali delle Avvocature di Stato, in conformità con l’articolo 2 del Memorandum d’Intesa firmato tra le Parti in data 16 novembre 2018; II. L’assistenza reciproca nella ricerca sul diritto costituzionale comparato e internazionale, con l’obiettivo di migliorare la difesa di atti o norme giuridiche davanti a giurisdizioni costituzionali e internazionali; III. La creazione di un programma scientifico-accademico continuativo, gestito da scuole o enti istituzionali, dedicato: a) alla formazione di avvocati, dirigenti, collaboratori e funzionari amministrativi delle rispettive Istituzioni; b) al rafforzamento delle cooperazioni istituzionali sopra menzionate. Articolo 3 Punti di Contatto L’articolo 3, del Memorandum d’Intesa, firmato in data 16 novembre 2018, e l’articolo 5 del Memorandum d’Intesa, firmato in data 11 aprile 2014, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 3, assumono il seguente tenore: 1. La redazione del Piano di Cooperazione e l’attuazione delle altre attività previste dai Memorandum di Intese firmate saranno affidate ai Punti di Contatto designati dalle Parti. 2. L’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile designa come Punto di Contatto, ai fini del presente Memorandum, l’Ufficio dell’Avvocato Generale dell’Unione Brasiliano, con facoltà di delega nell’esercizio delle funzioni. 3. L’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana designa come Punto di Contatto, ai fini del presente Memorandum, l’Ufficio dell’Avvocato Generale dello Stato Italiano, con facoltà di delega nell’esercizio delle funzioni. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Articolo 4 Disposizioni Finali Le clausole non modificate dei Memorandum d’Intese firmati tra l’Avvocatura Generale dell’Unione della Repubblica Federativa del Brasile e l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana, in data 11 aprile 2014 e 16 novembre 2018, restano pienamente in vigore. I firmatari sottoscrivono il presente Protocollo Aggiuntivo al Memorandum d’Intesa in due originali, redatti in lingua portoghese e italiana, entrambi i testi facenti ugualmente fede. Roma, 5 settembre 2025 ADvOCACIA GERAL DA UnIÃO DA AvvOCATURA GEnERALE DELLO STATO REPÙBLICA FEDERATIvA DO BRASIL DELLA REPUBBLICA ITALIAnA JORGE MESSIAS GABRIELLA PALMIERI TEMI ISTITUzIOnALI maurizio fiorilli, l’avvocato di stato in prima linea contro i predatori dell’arte (*) Con le sue battaglie legali ha ottenuto la restituzione di centinaia di capolavori trafugati dall’Italia Maurizio Fiorilli se n’è andato il 10 agosto 2025, lasciando un vuoto difficile da colmare tra quanti, in Italia e all’estero, hanno fatto della tutela del patrimonio culturale una vera missione di vita. Per oltre cinquant’anni, dal 1965 al 2017, ha difeso lo Stato italiano nei tribunali di mezzo mondo, incarnando la figura dell’avvocato inflessibile e del negoziatore capace di trasformare dispute legali e fredde carte processuali in storie di ritorni, di riappropriazione di identità e memoria. Il suo lavoro andava oltre il diritto: era diplomazia culturale, sostenuta dalla convinzione che un’opera d’arte, anche se custodita nel più prestigioso dei musei, appartenga innanzitutto alla terra da cui proviene e alle persone che ne custodiscono la storia. Alla guida della Commissione speciale per la restituzione del patrimonio culturale nazionale trafugato all’estero, istituita con il Codice dei Beni Culturali del 2004, ha riportato in Italia oltre duecento capolavori. non più trofei di guerra come ai tempi di Rodolfo Siviero, ma reperti archeologici e opere d’arte sottratti in tempi recenti da tombaroli e trafficanti, pezzi unici di storia che senza il suo impegno sarebbero rimasti dietro vetrine lontane. Il momento più celebre della sua carriera resta la restituzione, nel 2007, di 39 opere dal Getty Museum di Los Angeles, tra cui la Dea di Morgantina e il cratere con il Ratto d’Europa. Anni di trattative durissime, con dossier e contro-dossier, minacce di rottura e colpi di scena. Alla fine vinse la sua ostinazione: non solo firmò l’accordo, ma accompagnò personalmente i reperti recuperati dal museo all’aeroporto, fino a vederli imbarcare per l’Italia. Il Telegraph lo ribattezzò “Flagello dei predatori di tombe”. Il caso dell’Atleta di Fano, recuperato nell’Adriatico e finito al Getty, è rimasto aperto fino alla fine: una sentenza definitiva della Cassazione ne ordina la restituzione, ma il museo resiste. Lo stesso impegno lo riversò in indagini interne, come lo scandalo della Biblioteca dei Girolamini a napoli, dove smascherò un furto sistematico di volumi rari, o nel caso Symes, che coinvolgeva 700 reperti etruschi nascosti nei magazzini dell’antiquario londinese. Il suo metodo era fatto di squadra e di ascolto, ma anche di fermezza. Al suo fianco lavoravano magistrati, Carabinieri TPC, tecnici e studiosi, in un fronte compatto. Il primo grande processo del 2004 colpì duramente reti cri (*) Articolo pubblicato l’11 agosto 2025 in ‘The Journal of Cultural Heritage Crime (JCHC)’ -testata giornalistica culturale, che questa Rassegna ringrazia, unitamente a Lisa Medici, Autrice dell’articolo. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 minali responsabili di saccheggi nelle necropoli etrusche e magnogreche, dove opere rimaste intatte per millenni venivano ridotte in frammenti per facilitarne il contrabbando. Molti di quei reperti, una volta usciti dall’Italia, finivano nei musei americani, giapponesi o europei, pronti a pagare cifre esorbitanti per avere pezzi rari, senza chiedere troppo sulla provenienza. Fiorilli vedeva nella Convenzione UnESCO del 1970 non solo uno strumento giuridico, ma un manifesto etico: un bene culturale perde significato se non se ne conoscono storia e origine. Questa visione lo portò a stringere accordi innovativi, come quello con il Museum of Fine Arts di Boston per la nomina di un curatore della provenienza, e persino con Sotheby’s, che per un periodo segnalò gli oggetti sospetti alle autorità italiane. non mancarono le amarezze. Denunciò il disinteresse della politica verso la “lista Siviero” di opere trafugate in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale e lamentò l’abbandono, da parte delle istituzioni, di quella che per lui era una battaglia strategica per il Paese. I limiti erano enormi: prescrizioni abbreviate, scarsa collaborazione internazionale, costi proibitivi e leggi straniere permissive verso il mercato antiquario. Con la sua scomparsa, l’Italia perde un esempio di competenza, ostinazione e integrità. TEMI ISTITUzIOnALI la restituzione del Cratere di eufronio (*) Il ricordo di Maurizio Fiorilli si collega inevitabilmente alla sua grande apertura a procedure sperimentate dirette al recupero di opere d’arte, reperite in Italia e illecitamente trafugate all’estero. La riconsegna del vaso di Eufronio da parte del Metropolitan Museum di New York (di cui si pubblica la storia) ha aperto nei rapporti internazionali una nuova strada che ricolloca i beni culturali di ciascun paese nel loro contesto originario. Tutto ciò è indubbio e va ricordato. Ma l’umanità, la dolcezza e la perspicacia professionale di Maurizio Fiorilli restano anch’essi nel nostro cuore. Roma, 6 ottobre 2025 Giuseppe Fiengo «A partire dagli anni Settanta molti bacini archeologici del nostro Paese sono stati depredati di incommensurabili ricchezze: seguendo percorsi e traffici illeciti, i reperti archeologici, provenienti da scavi clandestini, venivano venduti a mercanti senza scrupoli e, tramite questi, ceduti a importanti musei europei, americani e giapponesi o anche a ricchi collezionisti; nei cataloghi di musei i titoli di provenienza di questi oggetti esposti venivano indicati genericamente con la dizione “dal mercato europeo”. La decontestualizzazione che subiscono i reperti scavati clandestinamente li rende, infatti muti: essi non forniscono più informazioni agli studiosi sulla loro provenienza, sul corredo di cui eventualmente facevano parte, sugli oggetti da cui erano accompagnati; lo scavo clandestino, oltre al danno al patrimonio nazionale, cancella irrimediabilmente tutta la storia che gli oggetti recano con sé e di cui sono testimoni. I processi penali, che pur sono stati avviati dagli organi alla tutela dei beni culturali e dalla magistratura, non possono oltrepassare i confini nazionali, e gli studiosi di archeologia erano spesso indotti a privilegiare i contatti di studio rispetto all’impulso di richiedere in restituzione i beni trafugati. In questo contesto la riconsegna all’Italia del Cratere di Eufronio segna una chiara inversione di tendenza, frutto dell’attività svolta dall’Avvocatura dello Stato per promuovere un’efficace collaborazione tra tutti gli organi istituzionalmente interessati alla repressione dei reati in materia di beni culturali e alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano. Di Eufronio -artista del Ceramico di Atene, appartenente al gruppo di pionieri (come furono denominati i primi pittori attici tardo-arcaici che svilupparono la tecnica a figure rosse) si conoscono oggi ventisei opere. (*) Articolo pubblicato in La Chiesa, la Biblioteca Angelica, l’Avvocatura Generale dello Stato. Il complesso di Sant’Agostino in Campo Marzio, libreria dello stato, gennaio mmiX, pp. 150-153. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Sul lato principale del Cratere è raffigurata la morte di Sarpedonte, eroe figlio di zeus e Laodamia, che combatteva come alleato dei Troiani -si tratta di un celebre episodio della guerra di Troia -con il dio Hermes, qui nella sua funzione di messaggero di zeus e conduttore delle anime dei morti, che guida la personificazione del Sonno (Hypnos) e della Morte (Thanatos), che trasportano il corpo dell’eroe caduto nella Lidia, sua patria, per il funerale. L’altro lato del vaso raffigura giovani che si armano prima della battaglia, quasi un’allusione al destino di morte che potrebbe accomunare i giovani al povero Sarpedonte. nel 1973 il Metropolitan Museum di new York presentò al pubblico il Cratere di Eufronio indicandone la provenienza dal mercato europeo. Un giornalista americano, Gage, cominciò a fare indagini sulla storia del reperto e intervistò a Cerveteri un tombarolo, (è gergo che indica chi pratica gli scavi clandestini), che gli dichiarò di essere uno dei sette uomini che avevano trovato il cratere. Proseguendo l’indagine giornalistica, Gage venne a conoscenza che l’acquirente del cratere era Robert Hecht, il quale, dopo tentativi infruttuosi di venderlo in Europa, lo aveva offerto a Dietrich von Bothmer, notissimo studioso americano di ceramica e curatore del Metropolitan Museum. Lo studioso era rimasto entusiasta dell’oggetto e, dopo la conferma dell’interesse all’acquisto da parte del direttore e del vicedirettore del museo, si era recato a zurigo nella casa di un noto restauratore e mercante d’arte svizzero, che aveva ricomposto il cratere pervenuto in frammenti, per esaminarlo. Thomas Hoving, direttore del Metropolitan, disse a Hecht che era la cosa più bella mai offerta al museo da quando ne era il direttore e cominciarono a discutere sul prezzo e sulle modalità di pagamento. Il cratere venne portato dallo stesso Hecht a new York, viaggiando in prima classe sul volo TWA zurigo-new York. La magistratura italiana aprì un procedimento penale a carico delle persone che erano state indicate come gli scavatori del cratere, che peraltro negarono di conoscere Robert Hecht. Tuttavia, nel marzo 1973, i Carabinieri a seguito di una telefonata anonima, ritrovarono, avvolti in un giornale, due frammenti mancanti del cratere, già richiesti a Hecht da un personaggio americano che diceva di agire per conto del Metropolitan Museum di new York. L’indagine dei Carabinieri identificò il luogo nel quale era stato scavato il cratere e ricostruì i particolari della contrattazione alla quale aveva partecipato come intermediario un collettore italiano di reperti archeologici rinvenienti da scavi clandestini. venne ordinata la cattura di Robert Hecht, che risiedeva in Italia, ma il provvedimento venne annullato dalla Corte di Cassazione e questi lasciò il territorio italiano. Sottoposto a giudizio negli Stati Uniti, negò di avere mai acquistato oggetti in Italia e fu quindi assolto perché le dichiarazioni dei tombaroli italiani non sono state riconosciute conferenti. In Italia, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali si costituì in giudizio nel procedimento penale a carico degli scavatori, ma la condanna degli impu TEMI ISTITUzIOnALI tati non consentì di ottenere in restituzione il Cratere acquistato dal museo in Svizzera, dov’era stato trasferito clandestinamente dell’intermediario. Solo molti anni dopo, nell’ambito di un’altra istruttoria penale condotta dalla procura della Repubblica di Roma, venne rinvenuto a Parigi nella abitazione di Robert Hecht un manoscritto nel quale vengono ricostruite le modalità e individuate le persone attraverso le quali il Cratere di Eufronio è giunto al Metropolitan Museum. Il Cratere venne acquisito da un intermediario italiano e da questi offerto a Robert Hecht, al quale dapprima furono fornite delle foto scattate con polaroid, e, quindi, mostrati i frammenti in Svizzera. Dopo la conclusione del negoziato, i frammenti furono consegnati per il restauro e la custodia ad un noto restauratore associato ai trafficanti internazionali di beni archeologici a Ginevra. L’indagine svolta dalla magistratura italiana e dai Carabinieri ha quindi consentito di accertare fatti e rapporti relativi ai protagonisti del traffico illecito internazionale di beni culturali provenienti da scavi clandestini in Italia. Con l’intervento dell’Avvocatura dello Stato tuttavia la ricostruzione dei fatti non si è fermata all’accertamento della responsabilità penale, ma è stata anche finalizzata a sorreggere una domanda di restituzione fondata sul diritto internazionale e sul sistema di codici etici e di regole comportamentali, universalmente accettati dalle istituzioni culturali. A fondamento del negoziato con il Metropolitan Museum di new York è stata posta la Convenzione UnE- SCO del 1970 sulla restituzione dei beni culturali illecitamente sottratti al Paese di origine storica. La Convenzione, che pone per lo Stato di origine storica l’obbligo della tutela del proprio patrimonio culturale e per gli Stati membri l’obbligo di collaborare per la preservazione del detto patrimonio, contiene due precetti in precedenza non valorizzati, ma che sono stati fondamentali per la conclusione positiva dei negoziati di restituzione. Il primo riguarda tutte le istituzioni culturali e prescrive che “i musei, le biblioteche e gli archivi, in quanto istituzioni culturali, devono vigilare affinché la costruzione delle loro collezioni sia fondata su principi morali universalmente riconosciuti”. Il coinvolgimento nel traffico clandestino del personale del museo, universalmente riconosciuto e apprezzato nel modo della ricerca e della cultura, riverberava sulla istituzione la macchia della palese violazione della norma internazionale. I fatti e i rapporti tra le persone coinvolte nella contrattazione del Cratere di Eufronio con altre vicende conosciute ha consentito di provare che nell’acquisto non era stata osservata la dovuta diligenza. Il secondo precetto della Convenzione UnESCO del 1970 che ha assunto rilievo per individuare la linea di condotta da tenere nei negoziati con le istituzioni culturali estere è che l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni culturali recano danno alla comprensione tra le nazioni: pertanto le questioni di restituzione non possono essere considerate nei rapporti tra gli Stati come una criticità da risolvere in via politica. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Alla luce di tale principio sono improprie tutte le posizioni governative che mirano a proteggere in ogni caso come patrimonio nazionale le acquisizioni da parte delle istituzioni museali. Ed in realtà il Governo degli Stati uniti ha mantenuto un atteggiamento neutrale ed ha collaborato pienamente con le Autorità italiane per chiarire la vicenda. Gli incontri avuti con la magistratura americana e con i corpi di polizia durante le rogatorie richieste dalla Procura della Repubblica di Roma hanno consentito di completare la conoscenza dei fatti e di acquisire la conferma di particolari di rilevante interesse a restituzione del Cratere. I rapporti con la stampa internazionale e nazionale sono stati intensi ed improntati alla massima prudenza. Accanto alla pubblicazione della richiesta di restituzione era necessario che passasse anche l’indirizzo adottato, di non criminalizzare la attuale dirigenza del Metropolitan Museum, ma di non nascondere alcuno dei fatti dedotti a sostegno della richiesta di restituzione, oltre alla fermezza nella richiesta di ottenere un gesto significativo a prova che il Museo si affiancava all’Italia nel contrasto del traffico illecito di beni archeologici. L’utilizzo della norma nazionale, che fissa la durata della permanenza all’estero dei beni culturali oltre ai fini espositivi anche per lo studio ed il restauro, ha facilitato la restituzione del reperto, consentendo l’inserimento di tale operazione in un accordo culturale di lunga durata, che prevede la collaborazione tra l’Italia e il Metropolitan Museum di new York per scavi, ricerche e studi congiunti. L’accordo culturale concluso è uno strumento di tutela e di valorizzazione del nostro patrimonio culturale e di collaborazione internazionale e per tale motivo è stato depositato presso il Segretariato dell’UnESCO. La collaborazione tra gli organi coinvolti nella vicenda ed il superamento delle barriere formali che hanno ostacolato in passato il recupero dei beni culturali ha consentito la conclusione del negoziato e la restituzione del Cratere di Eufronio al suo contesto culturale e nel contempo ha fornito le basi per una interpretazione della Convenzione UnESCO del 1970 in senso non formale, ma coerente con i principi sui quali si è formato il consenso degli Stati membri. Il Cratere, restituito all’Italia dal Metropolitan Museum di new York, è stato presentato al pubblico italiano il 18 gennaio 2008 nella Sala vanvitelli della Avvocatura Generale dello Stato in riconoscimento della attività svolta dall’Istituto per creare il nuovo condiviso atteggiamento internazionale che vede l’unione degli Stati nella responsabilità di garantire e tutelare pubblico accesso al patrimonio artistico della umanità contro gli scavi clandestini e l’illegale “fuga” delle opere d’arte. Maurizio Fiorilli avvocato dello Stato» TEMI ISTITUzIOnALI uno sguardo d’insieme sul codice dei contratti (*) Ennio Antonio Apicella Avvocato distrettuale dello Stato di Catanzaro SOMMARIO: 1. Disciplina degli appalti pubblici e instabilità normativa -2. Le fondamenta del nuovo codice -2.1. Semplificazione e tempestività -2.2. Autoesecutività -2.3. Digitalizzazione -3. Il mutato paradigma normativo -4. Codice dei contratti e attività amministrativa. 1. Disciplina degli appalti pubblici e instabilità normativa. La realizzazione delle opere pubbliche e l’acquisto di beni e servizi per la pubblica amministrazione rappresentano uno strumento fondamentale per lo sviluppo del Paese, tanto che la disciplina degli appalti è da sempre all’attenzione delle Istituzioni pubbliche e del sistema imprenditoriale. Il problema più rilevante che affrontano le amministrazioni e gli operatori economici è certamente rappresentato dall’instabilità normativa. La prima disciplina organica delle opere pubbliche risale al 1865, coeva all’unità d’Italia, ed era parte integrante della legge per l’unificazione amministrativa del Regno (l’allegato F alla legge n. 2248, denominato legge fondamentale sui lavori pubblici, seguito dal regolamento n. 350 del 1895). Gli acquisti di beni e servizi furono normati qualche decennio dopo dalla legge di contabilità del 1923, tanto che l’attività contrattuale della p.a. venne considerata una branca della contabilità pubblica. La legge fondamentale sulle opere pubbliche del 1865 ha trovato applicazione fino alla stagione delle leggi Merloni, uno, bis e ter (1994, 1995 e 1998) e, quindi, per quasi centrotrenta anni, anche se integrata e modificata da numerosi interventi normativi. nel 1995, con il d.lgs. n. 157, venne attuata la direttiva europea 92/50/CEE sugli appalti pubblici di servizi, mentre la disciplina pubblicistica delle forniture rimase sostanzialmente quella del 1923. La prima codificazione della materia fu operata dal codice degli appalti del 2006 (il d.lgs. 163), con i suoi tre correttivi, che per la prima volta disciplinava unitariamente lavori, servizi e forniture. Un successivo codice dei contratti pubblici venne approvato con il d.lgs. n. 50 del 2016, oggi sostituito dal d.lgs. 36/2023. Quindi, la legge fondamentale sui lavori pubblici è rimasta in vigore per quasi centrotrenta anni, la legge di contabilità pubblica per oltre settanta, il (*) Relazione introduttiva, integrata dai riferimenti bibliografici, al convegno “Il nuovo codice dei contratti. Un primo bilancio applicativo”, organizzato dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro il 17 giugno 2025 presso la Sala del Tricolore della Prefettura di Catanzaro. Relazione che l’Autore ritiene opportuno condividere con i colleghi dell’Avvocatura dello Stato e gli altri lettori della Rassegna. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 pacchetto Merloni meno di dodici anni. Undici anni è vissuto il recepimento della direttiva sugli appalti di servizi, dieci anni il codice del 2006, sette quello del 2016. Il fenomeno è certamente imputabile alla brusca accelerazione che ha avuto l’evoluzione della nostra società, dal punto di vista economico-sociale e dei bisogni da soddisfare, ma fa comunque riflettere. nel convegno annuale dell’Avvocatura dello Stato di Catanzaro del 2023, avevo rilevato che il processo è un cantiere eterno, a causa delle ripetute riforme che negli ultimi trenta anni hanno cercato, per lo più invano, un recupero di efficienza delle regole processuali (1). Purtroppo, anche la disciplina degli appalti pubblici è, ormai da tempo, un cantiere eterno. non si tratta soltanto dell’approvazione di tre successivi codici dei contratti pubblici in poco più di quindici anni, modalità che non pare compatibile con l’obiettivo di stabilità cui deve mirare qualunque programma di codificazione normativa (2). Riferisce un attento osservatore (3) che il codice degli appalti del 2016 in sei anni è stato modificato 818 volte e che il solo articolo 36 è cambiato 16 volte. non ho modo di verificare l’esattezza di questo dato: ma se effettivamente fossero intervenute solo il 10% di queste modifiche -dunque 80, in sette anni -, il dato sarebbe già inquietante. Ebbene, la situazione attuale appare tutt’altro che confortante. In poco più di due anni dall’entrata in vigore, il codice dei contratti del 2023 ha subito ben nove interventi correttivi, modificativi o integrativi, in gran parte sporadici, che producono un effetto normativo incerto e attentano alla coerenza sistematica della codificazione, creando una trama normativa sempre più fragile (4). Emerge soprattutto l’improvvisazione di chi è chiamato a predisporre le modifiche normative. valga per tutte la recente modifica all’art. 136 del codice: la legge n. 42/2025 ha aggiunto all’art. 136 il comma 4-bis, senza accorgersi (1) E.A. APICELLA, Riforme legislative ed efficienza del processo, in questa Rivista 2023, vol. II, 46 ss. (2) Come opportunamente evidenzia P. DE LISE, Dal codice “De Lise” al codice “Frattini”: alcuni spunti di raffronto e riflessione, in C. COnTESSA, P. DEL vECCHIO, Codice dei contratti pubblici, vol. I, 2^ ed., napoli, 2025, XLv, L. (3) M. LOnGOnI, Il codice degli appalti modificato 818 volte, in ItaliaOggi, 16 marzo 2022 n. 63. (4) Per questi rilievi, C. COnTESSA, Codice dei contratti, il rischio di trasformarsi in un cantiere incompiuto, in ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com, 2025; G. ORETO, Codice dei contratti pubblici: modifiche continue, coerenza smarrita, in www.lavoripubblici.it, 2025. Più in generale, sull’esigenza di stabilità e sull’opportunità di una tregua normativa nel settore dei contratti pubblici, ancora C. COnTESSA, Il decreto correttivo al codice dei contratti fra (parziali) innovazioni e aspetti di continuità, in C. COnTESSA, P. DEL vECCHIO, Codice dei contratti pubblici, vol. I, cit., LXII, LXXXIv. TEMI ISTITUzIOnALI che… la norma aveva già un comma 4-bis, che era stato introdotto dal correttivo del 2024. Di fronte a questa perdurante precarietà normativa, in un settore cruciale per l’intera economia, è davvero difficile pensare che gli operatori economici e gli investitori, anche stranieri, possano nutrire fiducia sull’affidabilità del nostro Paese. Allo stesso modo, la legislazione alluvionale che ormai caratterizza ogni settore dell’azione pubblica impedisce la stabilità e l’uniformità delle decisioni, prima amministrative e poi giudiziarie, che sono elementi imprescindibili per raggiungere un accettabile grado di certezza delle situazioni giuridiche. Si tratta di temi molto avvertiti proprio nel mondo produttivo, perché attengono alla competitività del nostro Paese ed alla capacità di attrarre investimenti, ma riguardano anche la riduzione della conflittualità tra imprese e pubblica amministrazione e la concreta realizzazione dei programmi: in definitiva, il benessere della comunità nazionale. Ma c’è di più. Sembra ormai imminente la modifica delle direttive europee del 2014, considerato che le istituzioni europee seguono di solito un intervallo temporale decennale nell’aggiornamento delle regole relative al settore dei contratti pubblici. È allora evidente il rischio che sia necessario, a breve, intervenire ancora una volta pesantemente su una disciplina che amministrazioni pubbliche e operatori economici sono ben lontani dall’aver digerito. 2. Le fondamenta del nuovo codice. Le aspettative destate dal nuovo codice dei contratti pubblici sono davvero elevate. Gli addebiti mossi alla precedente codificazione erano sostanzialmente quelli della complessità; della estrema analiticità della disciplina; della complicata articolazione delle fonti regolatrici, frammentate tra codice, regolamenti e linee guida Anac; dell’appesantimento procedurale che era derivato da questa impostazione. Critiche ulteriori suscitava la mancata attuazione del codice. Infatti, il legislatore del 2016 aveva compiuto il gravissimo errore di declinare le regole degli appalti pubblici in una costellazione di norme, linee guida (vincolanti e non) e decreti attuativi, di difficile gestione, anche perché molte di queste misure attuative non erano mai state approvate. Soprattutto, la normativa del 2016 esprimeva una evidente sfiducia non solo per le amministrazioni pubbliche e i loro dipendenti, ma anche per le imprese. Le procedure di scelta del contraente erano considerate il terreno ideale nel quale si annidava il malaffare, sicché il codice si prefiggeva l’obiettivo di prevenire fenomeni corruttivi mediante l’inserimento di strumenti di prevenzione e l’ampio utilizzo di linee guida Anac. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Dunque, era il codice del sospetto. Il legislatore del 2023 ripudia la complessità della disciplina precedente, caratterizzata da fonti frammentate e regole dettagliate, e adotta un nuovo paradigma, costruito su fondamenta che si intersecano reciprocamente. 2.1. Semplificazione e tempestività. In primo luogo, semplificazione e massima tempestività, in linea con le previsioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che considera la semplificazione delle norme in materia di appalti pubblici -che riguarda non solo la fase di affidamento, ma anche quelle di pianificazione, programmazione e progettazione -obiettivo essenziale per l’efficiente realizzazione delle infrastrutture ed il rilancio dell’attività edilizia. Le più significative modalità di attuazione di tale obiettivo sono individuate dal Piano nella conferenza di servizi accelerata, nella previsione di un termine massimo per l’aggiudicazione dei contratti, con riduzione dei tempi tra pubblicazione del bando e aggiudicazione, e nell’introduzione di misure per il contenimento dei tempi di esecuzione del contratto, in relazione alle tipologie di appalto. Il rispetto dei tempi procedimentali è certamente uno dei più gravi problemi che affliggono le nostre pubbliche amministrazioni e, al tempo stesso, può forse essere considerata l’aspirazione più grande dei destinatari dell’azione amministrativa, cittadini e imprese. La disattenzione del personale delle pubbliche amministrazioni sulla durata dei procedimenti è, purtroppo, generalizzata e, naturalmente, investe anche il settore dei contratti pubblici. Secondo uno studio dell’Autorità nazionale Anticorruzione dell’ottobre del 2024 sui tempi di aggiudicazione degli appalti pubblici in Italia, che rielabora i dati pubblicati dalla Commissione europea, il confronto con gli altri Paesi dell’Unione è impietoso. nel periodo dal 2018 al 2022 i tempi delle procedure relative agli appalti di rilevanza europea aggiudicate in Italia sulla base del criterio qualità/prezzo sono stati mediamente di 279 giorni. Se anche volessimo considerare la nota positiva della riduzione dei tempi medi nel 2021 a 243 giorni e nel 2022 a 201 giorni (probabile effetto dei provvedimenti normativi di semplificazione adottati nel periodo pandemico) (5), siamo ancora distanti dai 180 giorni della Spagna e, soprattutto, dai 102 giorni della Francia. Rimane comunque (5) In particolare, la c.d. inversione procedimentale, che consente di dare precedenza alla valutazione delle offerte rispetto alla verifica della documentazione amministrativa presentata dall’operatore economico, limitando la verifica al solo vincitore e riducendo, di conseguenza, i tempi di conclusione del procedimento di scelta del contraente. TEMI ISTITUzIOnALI improponibile un confronto con la Germania, dove le procedure di appalto durano mediamente 84 giorni. Appare, tuttavia, singolare che il Piano (e la stessa Autorità) non si soffermino sulla necessità di semplificare e accelerare, a monte, l’iter di approvazione delle opere pubbliche, spesso caratterizzato da interferenze tra codice dei contratti ed altri strumenti normativi (tipicamente, codice dell’ambiente e codice dei beni culturali), che comportano tempi davvero inaccettabili tra l’ideazione dell’intervento e l’indizione della gara ed hanno spesso determinato il ricorso allo strumento del commissariamento. Tale modalità straordinaria di attuazione degli interventi ha consentito di conseguire apprezzabili risultati in termini di riduzione della filiera approvativa proprio nel territorio calabrese. La massima tempestività (nell’affidamento del contratto e nella sua esecuzione) è ora prevista espressamente come componente del risultato utile, al quale il codice orienta l’intera attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni. Per realizzare tale obiettivo, il legislatore si affida alla digitalizzazione delle procedure, anche mediante impiego di algoritmi e dell’intelligenza artificiale, ed al sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, finalizzato ad accrescerne la capacità amministrativa. Il decreto correttivo di fine 2024 ha ulteriormente spinto sull’efficienza decisionale delle stazioni appaltanti, prevedendo il monitoraggio semestrale dei tempi medi tra il termine di presentazione delle offerte e la stipula del contratto. Ove il tempo medio rilevato sia superiore a centosessanta giorni, le stazioni appaltanti devono comunicare tempestivamente all’Autorità nazionale anticorruzione un piano di riorganizzazione contenente le misure e gli obiettivi temporali per ridurre le tempistiche di affidamento (art. 11, commi 4-bis, 4ter e 4-quater dell’allegato II.4 al codice). Di recente, l’Autorità nazionale Anticorruzione ha richiamato l’attenzione delle stazioni appaltanti proprio sui tempi di conclusione delle procedure di affidamento (6), evidenziando che il mancato rispetto del principio della massima tempestività nell’aggiudicazione e nella stipula del contratto rischia anche di pregiudicare il mantenimento degli impegni assunti nell’ambito del P.n.R.R., con grave danno economico per il Paese. nell’ambito delle funzioni di vigilanza attribuite all’Autorità ci pare che il monitoraggio sul rispetto dei tempi programmati sia da estendere anche alla fase di esecuzione dei contratti pubblici che, pur dovendo anch’essa essere orientata al risultato, è spesso contrassegnata da ritardi ingiustificati. (6) Comunicato del Presidente Anac dell’11 marzo 2025. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 2.2. Autoesecutività. La seconda direttrice sulla quale si muove l’intervento normativo del 2013 è costituita dall’immediata applicabilità del codice senza necessità di attendere l’adozione di eventuali provvedimenti attuativi regolamentari, superando anche il meccanismo delle linee guida Anac che caratterizzava la disciplina precedente. Si tratta di una impostazione innovativa (7), perché comporta la contestuale entrata in vigore delle regole base del sistema e del necessario corredo di regole attuative subprimarie, che potranno essere comunque adattate nel corso del tempo attraverso un peculiare e flessibile meccanismo di delegificazione. La relazione spiega che la “autoesecutività” è stata realizzata anche mediante rinvio, in vari casi, direttamente agli allegati delle direttive, assicurando così sia uno sfoltimento della legislazione interna, sia il suo adeguamento immediato e automatico alle future modifiche delle norme europee. Tuttavia, questa “autosufficienza”, che già non era completa nella prima stesura del codice, perché alcune norme rinviano ancora a regolamenti ministeriali ed a provvedimenti di altre autorità (ad es., sempre l’Anac (8) o l’Agid), esce ridimensionata dal correttivo di fine 2024. Infatti, l’attuale articolo 226-bis del codice -presentato come disposizione di semplificazione normativa -prevede tre diverse modalità di intervento su alcuni degli allegati, che ora possono essere abrogati o sostituiti non solo mediante regolamenti adottati ai sensi dell’articolo 17 della legge n. 400/1988 (9), ma anche mediante decreti ministeriali di natura non regolamentare, riservando alla fonte primaria solo una parte ridotta della disciplina contenuta negli attuali allegati. Oltre a riprodurre il vizio genetico capitale del codice del 2016 (ossia, la frammentazione normativa), l’attenuazione della “autoesecutività” presenterebbe il rischio -segnalato dal Consiglio di Stato (10) nel parere sullo schema di decreto legislativo correttivo -di un effetto di degradazione della fonte normativa (11) nel caso in cui la produzione regolamentare sostitutiva venga estesa al di là dei contenuti strettamente attuativi degli articoli del codice, che è propria degli allegati, “realizzando una delegificazione indiretta ed implicita che eccederebbe oggettivamente i presupposti e la funzione (legalmente sanciti) dell’operazione di delegificazione stessa”. (7) Come rileva P. DE LISE, Dal codice “De Lise” al codice “Frattini”, cit., XLvIII, che auspica la replica dello stesso meccanismo in altri settori dell’ordinamento. (8) Ad esempio, l’Anac ha emanato ben dodici provvedimenti attuativi. (9) Ossia, decreto del Presidente della Repubblica o decreto ministeriale. (10) Commissione speciale 2 dicembre 2014 n. 1463, in www.giustizia-amministrativa.it, § 62.2. (11) Si tratta, in verità, di un rischio già presente nella stesura del codice precedente al correttivo. TEMI ISTITUzIOnALI 2.3. Digitalizzazione. Un ruolo fondamentale nell’impianto del nuovo codice è attribuita alla terza linea di intervento, rappresentata dalla digitalizzazione dell’intero ciclo di vita dei contratti pubblici -inteso come l’insieme di tutte le attività finalizzate all’esecuzione dell’opera, del servizio o della fornitura, dalla programmazione alla definizione del fabbisogno e fino alla completa esecuzione del contratto -e dall’interoperabilità dei relativi dati, secondo il principio dell’once only, ossia dell’unicità dell’invio di dati, documenti e informazioni alle stazioni appaltanti. La digitalizzazione è prevista dal P.n.R.R. come modalità attuativa della semplificazione, ma viene utilizzata dal legislatore anche come veicolo di trasparenza dell’azione amministrativa e di prevenzione della corruzione, in quanto consente la tracciabilità di tutte le attività, la partecipazione e il controllo, finalizzate al rispetto del principio di legalità. Come osserva la relazione al codice, dunque, la digitalizzazione dovrebbe assicurare efficacia, efficienza e rispetto delle regole. Si tratta di un cambiamento epocale, che dovrebbe produrre significativi benefici in termini di qualità delle procedure (12 ), sotto il profilo sia della riduzione degli oneri amministrativi ed economici e così della durata, sia dello stimolo alla partecipazione di nuovi operatori economici, anche se la fase di avvio del nuovo processo ha comportato notevoli difficoltà operative, correlate all’assenza di un percorso di transizione verso le nuove regole ed alla necessità di allineare gli assetti organizzativi di tutti i soggetti coinvolti. Oltre a spingere sulla digitalizzazione, il codice non manca di aprire all’intelligenza artificiale, includendola (art. 30) tra le tecnologie avanzate che possono essere impiegate nelle procedure automatizzate degli appalti per migliorare l’efficienza delle stazioni appaltanti. Del resto, la giurisprudenza ha già avuto occasione di confermare la legittimità dell’impiego dell’I.A. nella redazione dell’offerta tecnica, al fine di migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi offerti (13). 3. Il mutato paradigma normativo. Sulla base di queste direttrici, il codice disegna la nuova disciplina degli appalti pubblici conferendo centralità a numerosi principi generali, che costituiscono una delle principali note distintive del complessivo intervento normativo. Molti dei principi indicati nei primi undici articoli del codice recepiscono orientamenti della giurisprudenza del Consiglio di Stato, ma si tratta di una modalità non inusuale, poiché anche in precedenza il legislatore ha positiviz (12) Facendo da traino per altri settori dell’azione amministrativa. (13) T.a.r. Roma, sez. II, 3 marzo 2025 n. 4546. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 zato principi già affermati dal giudice amministrativo (in tema di procedimento amministrativo nella legge n. 241/1990 e di processo amministrativo nel codice del 2010). Anzi, alcuni principi erano indicati anche nella precedente disciplina (14), ma il nuovo codice li amplia, li enuncia in maniera completamente diversa e li sistematizza, ponendoli quali fondamenta di ogni futura procedura di gara. Ciò che appare inusuale, invece, è il numero dei principi, la loro ampiezza e, soprattutto, la mancata precisazione della loro valenza. Ciò ha destato numerosi interrogativi (15). I primi tre super-principi -risultato, fiducia, accesso al mercato -hanno certamente fondamento valoriale. Gli altri sembrano, piuttosto, specifiche discipline di dettaglio. Si tratta, o no, di regole precettive, vincolanti per l’amministrazione ed il giudice? È previsto che le disposizioni del codice si interpretino e si applichino solo in base ai primi tre principi. Esiste, dunque, una gerarchia interna ai principi? Ancora, l’enunciazione degli articoli da 1 a 11 del codice è esaustiva? La giurisprudenza continua ad individuare ulteriori principi che regolano la materia: es. unicità dell’offerta, autovincolo, equivalenza, rotazione, etc. Si tratta di questioni di particolare rilievo perché riguardano l’esercizio dell’attività giurisdizionale e, ancor prima, il concreto svolgimento delle attività amministrative concernenti l’affidamento e l’esecuzione dell’appalto. Le incertezze originate da tali interrogativi, ancora una volta, possono incidere sulla tempistica e sulla prevedibilità delle decisioni amministrative (e giurisdizionali), alle quali aspira soprattutto il mercato. In ogni caso, i principi generali sono posti come “stella polare” che dovrebbe condurre costantemente l’azione amministrativa e non solo nel settore dei contratti pubblici. La giurisprudenza (16) tende ormai a riconoscere al principio del risultato una portata espansiva, che travalica i confini del settore dei contratti pubblici e permea ogni ambito dell’azione amministrativa. Indicando nel risultato il criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, il nuovo codice recupera l’originario profilo funzionale della disciplina degli (14) Artt. 29 e 30 d.lgs. n. 50/2016, sui quali, per tutti, G. DE vInCI, I principi, in Appalti e contratti pubblici. Commentario sistematico, a cura di F. SAITTA, Milano, 2016 (e-book). (15) Già sollevati da C. vOLPE, Il nuovo codice dei contratti pubblici: dall’emergenza del modello Genova a nuove procedure di ordinaria efficienza per la competitività sul mercato, in www.giustiziaamministrativa. it, 2023, § 5. (16) Cons. St., sez. II, 9 maggio 2025 n. 3959, in tema di erogazione degli incentivi alle attività economiche. TEMI ISTITUzIOnALI appalti pubblici, ossia la realizzazione dell’opera alle migliori condizioni, la regolare esecuzione del servizio, l’esatto adempimento della fornitura. Il tutto, naturalmente, nel rispetto delle regole di legalità, trasparenza e concorrenza. È stato segnalato (17) che negli ultimi venti anni il legislatore aveva sovvertito la naturale gerarchia degli interessi protetti, attribuendo valenza primaria alle finalità di tutela della concorrenza e del mercato rispetto al buon andamento e al conseguimento del risultato. La disciplina degli appalti pubblici era pure divenuta lo strumento per realizzare fini diversi da quelli propri dell’acquisizione di beni, servizi e opere: pari opportunità, scelte ecologiche, garanzia dei posti di lavoro (clausole sociali), contrasto alle irregolarità fiscali e contributive, prevenzione della corruzione (18). Il nuovo codice, oltre a ristabilire la corretta gerarchia degli interessi declinando come prioritario il principio del risultato -, ribalta la logica del sospetto che permeava le regole precedenti ed adotta esplicitamente come principio cardine la fiducia reciproca tra amministrazione e operatore economico. nasce così un diverso modello, che guarda alla concorrenza non più come finalità da perseguire in astratto, ma in funzione del miglior risultato possibile nell’affidare ed eseguire i contratti pubblici (art. 1, comma 2, del codice) (19) e valorizza il potere discrezionale delle stazioni appaltanti, in precedenza mortificato da una normazione di estremo dettaglio: il c.d. “il ritorno del potere” (20). Discrezionalità da esercitare prioritariamente in direzione del risultato utile, che comprende non solo la decisione se ricorrere al mercato, ma anche la scelta del contenuto del contratto e del modello di procedura da utilizzare (21). Coerentemente con il deciso cambio di prospettiva, il legislatore predilige la fase di esecuzione del contratto. Il risultato va perseguito non solo nella fase di scelta del contraente, retta dal diritto pubblico, ma anche in quella tradizionalmente civilistica dello svolgimento del rapporto. (17) G. nAPOLITAnO, Committenza pubblica e principio del risultato, in Il nuovo codice degli appalti: la scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano? Interventi rielaborati del convegno tenuto il 23 gennaio 2023 nella sala vanvitelli dell’Avvocatura generale dello Stato, Rimini, 2023, § 2, che evidenzia gli effetti anticoncorrenziali di disposizioni adottate con finalità astratte di prevenzione della corruzione e tutela della legalità. (18) Così, S. vInTI, Il nuovo codice appalti e le due domande senza risposta sul fine da perseguire, in www.ilriformista.it, 2023. (19) Si tratta di un profondo mutamento di prospettiva che, tuttavia, ha suscitato dubbi di compatibilità con le regole eurounitarie: C. vOLPE, Il nuovo codice dei contratti pubblici, cit., § 5; F. LUCIAnI, Prime riflessioni sul principio del risultato nella disciplina dei contratti pubblici, in F. GUzzI, Innovazione e conservazione nel nuovo codice dei contratti pubblici, napoli, 2024, 131. (20) Così, C. vOLPE, Il nuovo codice dei contratti pubblici, cit., § 6. (21) F. CARInGELLA, Il nuovo codice dei contratti pubblici: uno sguardo d’insieme, in www.italiappalti. it, 2023, § 3; G. nAPOLITAnO, Committenza pubblica e principio del risultato, cit., § 3. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Il codice potenzia le regole pubblicistiche relative alla fase esecutiva, sempre più connotata dalla presenza di un diritto speciale, e sembra porre le basi per superare la dicotomia, finora netta, tra la fase dell’evidenza pubblica e quella dell’esecuzione del contratto, con conseguenti riflessi anche in tema di giurisdizione sullo svolgimento del rapporto, finora pacificamente devoluta al giudice ordinario (22). È il caso soprattutto della risoluzione in corso d’opera, che consente alla stazione appaltante di rimettere in discussione in qualunque momento l’esito di una gara, senza limiti di tempo (23), uscendo dallo schema prevalentemente privatistico di reazione all’inadempimento e, dunque, di patologia del rapporto (24). 4. Codice dei contratti e attività amministrativa. L’approvazione del codice non è stata preceduta dall’analisi di impatto della regolamentazione (25), da utilizzare come supporto alle decisioni del- l’organo politico di vertice dell’amministrazione in ordine all’opportunità dell’intervento normativo. Le modifiche introdotte a fine 2024 sono, invece, accompagnate da una relazione che espone il contesto complessivo dell’intervento correttivo, alla luce delle principali problematiche operative emerse, dopo l’entrata in vigore del codice, dalla consultazione con i principali stakeholders e con molte stazioni appaltanti, nonché dalle criticità segnalate dall’Anac. vengono altresì illustrate la logica delle scelte effettuate, anche in riferimento al perseguimento degli obiettivi fissati dal P.n.R.R. e al confronto con la Commissione europea, nonché i potenziali effetti attesi dall’intervento correttivo riguardo alla riduzione dei tempi e degli adempimenti connessi al ciclo di vita dei contratti pubblici, al potenziamento della concorrenzialità del mercato nazionale delle commesse ed al complessivo efficientamento della spesa pubblica. Tuttavia, il parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto correttivo (26) ritiene inadeguata tale analisi, che si risolve in una mera enunciazione dell’oggetto e delle modalità di intervento, correttivo ed integrativo, sulle di( 22) Per questi rilievi, S. vInTI, Il nuovo codice appalti, cit.; M. MACCHIA, Il ruolo dei principi nel Codice dei contratti, in M. MACCHIA (a cura di), Costruire e acquistare. Lezioni sul nuovo codice dei contratti pubblici, Torino, 2024, 9. (23) Quando emerge nel corso del rapporto che l’appaltatore doveva essere escluso dalla gara, o che l’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati (art. 122, comma 1, del codice). (24) S. vInTI, Il nuovo codice appalti, cit., che rileva il superamento dell’inoppugnabilità dell’atto e dei limiti all’esercizio dell’autotutela, nonché il potenziale ampliamento della platea dei soggetti interessati al giudizio, se questo dovesse svolgersi di fronte al giudice amministrativo: non più solo i contraenti, secondo lo schema tipicamente civilistico, ma chiunque abbia interesse alla risoluzione. (25) Ossia la valutazione preventiva degli effetti dell’intervento normativo sulle attività dei cittadini e delle imprese, nonché sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, richiesta dall’art. 14 della legge 28 novembre 2005 n. 246. (26) Commissione speciale 2 dicembre 2014 n. 1463, cit., § 4. TEMI ISTITUzIOnALI sposizioni del codice, mentre sarebbe stato necessario stimare in modo specifico i dati macroeconomici in termini di variazioni attese, al fine di confermare oggettivamente la ratio sostanziale delle modifiche e l’impatto socio-economico che effettivamente le giustifichi. In particolare, secondo la Commissione speciale, non emergono i dati e le analisi che -alla luce della prima esperienza applicativa del codice -giustificano le modifiche normative, né le variazioni, quantitative e qualitative, che si prevede possano derivare dall’impianto del correttivo. Mancando una attendibile analisi di impatto della regolamentazione, preventiva al processo normativo, i margini di effettiva attuazione delle scelte legislative dovranno essere verificati attraverso la concreta applicazione dei nuovi istituti che potrà e saprà farne la composita galassia delle nostre amministrazioni pubbliche, soprattutto territoriali. In tal senso, sarebbe stata particolarmente utile nella commissione redigente una significativa presenza, tra gli esperti, di dirigenti amministrativi, in grado di contribuire alla definizione della nuova disciplina alla luce dell’esperienza concreta di amministrazione attiva nell’acquisizione di beni e servizi e nella realizzazione delle opere pubbliche. Sotto altro profilo, non mancano perplessità sul taglio complessivo del codice. Come è stato osservato (27), se le nuove norme si apprezzano per la tecnica raffinata, alcune previsioni appaiono indissolubilmente legate a visioni di tipo dogmatico e la stessa relazione illustrativa denota un approccio di tipo “dottrinale”, sicché l’impressione che si ricava è che la commissione redigente abbia inteso “fare dottrina”. Impostazione che non appare propriamente compatibile con le dinamiche dell’attività amministrativa quotidiana e con le note difficoltà nelle quali versa la nostra pubblica amministrazione (grave scopertura degli organici, carenza di risorse per la formazione, elevata età media del personale, scarsa propensione all’aggiornamento professionale). La stessa relazione illustrativa al codice, molto onestamente, riconosce che la reale riforma del settore necessita di almeno tre condizioni essenziali “non legislative”: • una adeguata formazione dei funzionari pubblici che saranno chiamati ad applicare il nuovo codice; • una riqualificazione selettiva delle stazioni appaltanti; • l’effettiva attuazione della digitalizzazione, consentendo, nel rispetto di tutte le regole di sicurezza, una piena interoperabilità delle banche dati pubbliche. (27) Così, M.L. AnTOnIOLI, Buona fede, affidamento e responsabilità civile della P.A. nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Ceridap -Rivista interdisciplinare sul diritto delle amministrazioni pubbliche, fasc. 4/2023, 4: si ha la sensazione che la commissione legislativa abbia “codificato” la propria weltanschauung, cosa che è avvenuta mediante la gemmazione delle costruzioni giuridiche propugnate dai giudici di palazzo Spada. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 Del resto, il Piano nazionale di ripresa e resilienza imputa la scarsa efficacia delle politiche di semplificazione normativa finora attuate al progressivo impoverimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali, che ha indebolito la capacità amministrativa della pubblica amministrazione, nonché all’adozione di misure di semplificazione legislativa non accompagnate dai necessari interventi di carattere organizzativo. Il Piano riconosce espressamente che i limiti fino ad oggi incontrati nel- l’azione di semplificazione normativa, possono essere superati agendo contestualmente sul versante dell’organizzazione e della digitalizzazione delle amministrazioni, con il necessario sforzo di investimento (28). nonostante queste indicazioni, la riforma non è stata accompagnata da alcuna misura organizzativa, così come mancano del tutto i necessari investimenti finanziari, sia sul versante più generale dell’organizzazione, sia su quello specifico della digitalizzazione. Anzi, il nuovo codice si segnala per la presenza della famigerata clausola di invarianza finanziaria: dall’attuazione del presente codice e dei suoi allegati non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 228). Incurante della mancanza di risorse specificamente destinate, che già rende problematica l’effettività delle nuove disposizioni, il nostro legislatore si preoccupa di aggiungere un precetto indirizzato direttamente alle pubbliche amministrazioni: le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal presente codice e dai suoi allegati con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente (articolo 228, comma 2, del codice). Torna, periodicamente, la pia illusione di questo Paese che possano essere approvati interventi di riforma, anche sofisticati e innovativi, senza effettuare alcun investimento economico per garantirne l’attuazione, salvo ad esprimere successivo disappunto per il loro fallimento. Il tema dei vincoli finanziari, come dicevamo, riguarda particolarmente il profilo della digitalizzazione, anch’essa da attuare con le ordinarie risorse di bilancio. Sono mancati del tutto percorsi di “transizione digitale” per stazioni appaltanti ed operatori economici, così come è ancora del tutto trascurata l’esigenza che le amministrazioni si dotino dei necessari strumenti tecnologici. neppure si comprende come, e da quale soggetto pubblico, sarà garantita la tanto sbandierata “piena interoperabilità” delle banche dati pubbliche tra i vari livelli di governo (Stato e suoi enti strumentali, regioni e loro enti, autonomie locali). (28) Sulla necessità di implementazione amministrativa della riforma, riguardo a formazione, digitalizzazione e qualificazione delle stazioni appaltanti, ma anche relativamente al monitoraggio funzionale ad una verifica di impatto ex post, L. CARBOnE, L. CORDì, Dal nuovo codice al correttivo: bilanci e prospettive, in C. COnTESSA, P. DEL vECCHIO, Codice dei contratti pubblici, vol. I, cit., Lv. TEMI ISTITUzIOnALI Sarebbe stato necessario realizzare una grande piattaforma pubblica, utile per garantire la completa unitarietà e coerenza del sistema (29), ma, soprattutto, manca completamente la consapevolezza che la digitalizzazione non può essere una semplice metafora digitale dei processi operativi finora svolti su carta, ma richiede una profonda reingegnerizzazione delle procedure (30). Ancora una volta, sarebbe molto chiara l’indicazione che emerge dalla relazione di accompagnamento al codice: molte delle criticità dell’e-procurement in ambito pubblico sono dovute ad un approccio disfunzionale, che si è limitato a digitalizzare singole fasi, ovvero ad adottare documenti digitalizzati, senza modificare processi e procedure amministrative preesistenti, rese particolarmente complesse dall’ipertrofia normativa che nel nostro ordinamento caratterizza la gestione degli appalti pubblici. La trasformazione digitale del- l’attività amministrativa e, in particolare, del procedimento, richiede necessariamente un ripensamento complessivo e una ideazione di procedure e adempimenti in ottica nativa digitale. La stessa formazione dei dipendenti pubblici, in assenza di risorse aggiuntive, è rimessa ad iniziative autonome delle singole amministrazioni, essendo finora risultate troppo deboli (e comunque di lungo periodo) quelle messe in campo a livello centrale. Eppure, la competenza tecnica del personale addetto alle nuove procedure digitali costituisce certamente una precondizione per l’attuazione della digitalizzazione, che richiede non solo l’acquisto di dispositivi e di software, ma rende indispensabile un’azione mirata attraverso attività formative e di aggiornamento continuo in funzione della rapidità dell’evoluzione digitale. Anche riguardo alla qualificazione delle stazioni appaltanti ci sarebbe da intervenire decisamente, quantomeno riguardo al loro numero, quantificato nell’ultimo report diffuso dall’Autorità nazionale anticorruzione in 4.839 alla data del 31 marzo 2025, esclusi i soggetti pubblici qualificati di diritto. vanno introdotti requisiti molto più stringenti affinché la qualificazione venga attribuita dalle sole stazioni appaltanti dotate di un’organizzazione amministrativa adeguata alla necessità di assicurare la legittimità e massima tempestività delle procedure e che garantisca una formazione del personale specifica e continua, imposta dall’elevato tasso di specializzazione della di (29) In proposito, il riferimento è la Provincia autonoma di Trento, che ha realizzato e messo a disposizione di tutte le amministrazioni aggiudicatrici del sistema locale una piattaforma di e-procurement, finanziata con le risorse del P.n.C., che consente la gestione dei flussi legati alle diverse procedure, dalla programmazione del fabbisogno all’esecuzione dei contratti e alla verifica finale dei risultati. (30) L. OLIvERI, La paralisi digitale della PA, in www.phastidio.net, 2024, il quale opportunamente rileva che per far funzionare il sistema occorre comprendere che certe operatività non si possono stabilire nelle torri d’avorio e che occorre ascoltare anche e soprattutto il “praticone” di campagna. RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO -n. 3-4/2024 sciplina di settore. Com’è stato autorevolmente rilevato (31), bisognerebbe anche vincere la propensione di molte amministrazioni a gestire in proprio le procedure di gara, per motivi non sempre virtuosi. Conclusivamente, l’enunciazione normativa del nuovo paradigma ispirato al principio del risultato non sembra sufficiente per garantire il passaggio ad una visione diversa della committenza pubblica, che sia in grado di perseguire effettivamente l’obiettivo prioritario di realizzare le opere, di acquisire i beni, di affidare i servizi alle migliori condizioni, rapidamente e nel rispetto di legalità, trasparenza e concorrenza. Come ha subito rilevato la dottrina (32), la produzione di effettivi benefici per la comunità dipenderà dalla capacità di calare nel concreto tale enunciazione non solo sul piano dell’azione, ma anche su quello dell’organizzazione amministrativa. (31) M. CLARICH, Appalti pubblici, ecco perché i tempi di aggiudicazione restano troppo lunghi, in www.milanofinanza.it, 2024. (32) Ancora G. nAPOLITAnO, Committenza pubblica e principio del risultato, cit., §§ 3, 4, che rileva come all’affermazione del principio del risultato non abbia corrisposto un coerente adeguamento del sistema di governo dei contratti pubblici. ContenzioSonazionaLe La rinuncia abdicativa secondo le Sezioni Unite: Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 11 agosto 2025 n. 23093 Giovanni Palatiello* In cause di rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. promosse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia, le Sezioni Unite con la sentenza n. 23093 dell’11 agosto 2025 (U.P. del 27 maggio 2025) si sono pronunciate sulla c.d. rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare. Le S.U. hanno parzialmente confermato il parere del Comitato Consultivo del 14 marzo 2018 (ct 37243/17 Avv. Giovanni Palatiello)(1), segnatamente nella misura in cui hanno affermato che “l’atto di abdicazione rientra nel contenuto del diritto di proprietà” e che il rinunciante continua a rispondere nei confronti dei terzi delle obbligazioni risarcitorie derivanti dalle proprie condotte passate (commissive e/o omissive), ante rinuncia, come desumibile dal- l’art. 882 c.c. (v. pagina 32 della motivazione, in relazione al paragrafo 10 del parere del Co.Co). Le Sezioni Unite si sono invece discostate dal parere nella parte in cui hanno affermato che la facoltà di rinuncia non incontra alcun limite perché “la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››”. Tale conclusione desta perplessità perché: 1) disapplica rispetto all’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare il combinato disposto degli articoli 1324, 1322, co. 2, e 1343 c.c. che invece disciplina, oltre ai contratti, tutti gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto (*) Avvocato dello Stato. (1) Pubblicato in questa Rassegna, 2019, III, pp. 217-226. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 patrimoniale, aderendo ad una concezione “ottocentesca” della proprietà privata, ormai superata dal tempo e dalla Storia: in sostanza l’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare sarebbe l’unica tipologia di negozio giuridico sottratta al controllo di meritevolezza/liceità; 2) ignora l’ultimo periodo dell’art. 832 c.c. che richiama il proprietario all’osservanza “dei limiti e degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, nei quali, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, devono includersi gli articoli 2, 41 e 42 Cost. che, per questa via, acquistano rilievo di norme imperative cogenti per il proprietario e di regole di validità dell’atto dismissivo, che il giudice, in quanto soggetto alla Legge, deve applicare, ove gli sia richiesto. Le Sezioni Unite -insistendo sull’acquisto dello Stato ex art. 827 c.c. quale effetto solo riflesso ed indiretto dell’atto abdicativo (e per questa ragione negando allo Stato il potere di rifiuto eliminativo, invocato dall’Avvocatura Generale nella memoria (2) e nella discussione orale) -non sembrano aver ben colto la reale natura della c.d. rinuncia abdicativa che è stata illustrata nelle difese scritte e orali: si era, cioè, evidenziato che l’immobile vacante (che, cioè, non sia di proprietà di alcuno) non esiste in diritto perché, nell’esatto istante in cui il rinunciante sottoscrive l’atto notarile di rinuncia, l’immobile transita, senza soluzione di continuità, nel patrimonio dello Stato, senza essere mai, neanche per una frazione di secondo, “vacante”… e tale effetto sostanzialmente traslativo è voluto dal rinunciante, secondo l’id quod plerumque accidit. Così cade l’obiezione (l’assenza di un terzo inciso dalla vicenda dismissiva) sulla base della quale le S.U. hanno negato il potere di rifiuto eliminativo allo Stato che è, in realtà, una sorta di oblato ex lege rispetto all’atto dismissivo (come si desume dalla lettera dell’art. 827 c.c. a mente del quale “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”), rendendosi così applicabile alla vicenda -in via diretta, o almeno analogica - l’art. 1333, co. 2, c.c. Peraltro l’interpretazione offerta dalle S.U. consente di eludere le norme sulla rinuncia ereditaria: è noto che la rinuncia parziale all’eredità non è ammessa ex art. 520 c.c.; in base ai principi affermati dalle S.U., il chiamato al- l’eredità (che includa, oltre ad attività, anche beni immobili “sgraditi” perché “dannosi” o inquinati) può accettare l’eredità e poi, un secondo dopo, rinunciare al singolo immobile pericolante o abusivo compreso nell’asse ereditario. La sentenza desta, inoltre, perplessità nella parte in cui afferma che “il carattere originario dell’acquisto ex art. 827 cod. civ. non è affatto per ciò (2) Memoria che in uno alla presente annotazione, in allegato, si pubblica (memoria ex art. 378, co. 2, c.p.c. prodotta dall’Avvocatura generale dello Stato nella causa n. R.G. 11382/2024, AL 25738/2024 - Sez. III -Avv.ti G. Palatiello e V. D’Alò). ConTenZIoSo nAZIonALe solo ostativo alla permanenza dei diritti reali di godimento o di garanzia gravanti sull’immobile, né estingue le iscrizioni e trascrizioni preesistenti ”. Tale affermazione non sembra del tutto coerente con l’affermata natura originaria dell’acquisto ex art. 827 c.c.; ulteriori perplessità sorgono dalla lettura di pagina 24, ove si afferma che “la medesima natura originaria, e non traslativa, dell’acquisizione degli immobili vacanti al patrimonio dello Stato rende inapplicabili le disposizioni in materia di nullità urbanistiche, conformità catastale e prestazione energetica richiamate nelle difese delle amministrazioni statali ”. In sostanza le Sezioni Unite ammettono, attraverso l’escamotage della rinuncia abdicativa, la possibilità del trasferimento allo Stato di un immobile totalmente abusivo, avallando così una chiara ipotesi di frode alla legge ex art. 1344 c.c. in danno dello Stato, e dunque della collettività intera. Peraltro è noto che chi acquista un immobile a titolo originario (per accessione, cioè per averlo costruito sul proprio fondo) deve osservare le norme edilizie ed urbanistiche; per cui la natura originaria dell’acquisto non è argomento idoneo a giustificare, nella vicenda dismissiva, la disapplicazione “delle disposizioni in materia di nullità urbanistiche, conformità catastale e prestazione energetica richiamate nelle difese delle amministrazioni statali”. A fronte della posizione assunta dalla Sezioni Unite, (che comporterà senz’altro un aumento delle rinunce nei prossimi mesi, con un notevole impatto finanziario sul bilancio dello Stato) si rende necessario un intervento legislativo, nell’esercizio della riserva di cui all’art. 42, co. 2, Cost., come, peraltro, prospettato dalle stesse Sezioni Unite. Allegato A.L. 25738/2024 - Sez. III - Avv.ti G. Palatiello e V. d’Alò. Avvocatura Generale dello Stato ecc.ma CorTe SUPreMA dI CASSAZIone SeZIonI UnITe CIVILI Udienza pubblica del 27 maggio 2025 (rg. n. 11382/2024 - n. 2 del ruolo) rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p. MeMorIA ex art. 378, co. 2, c.p.c. nell’interesse del MInISTero deLL’eConoMIA e deLLe FInAnZe (C.F. 80207790587), in persona del Ministro in carica, -d’ora in poi, breviter: MeF -e dell’AGenZIA deL deMAnIo (C.F. 06340981007), in persona del direttore pro tempore, entrambi rappresentati e difesi ex lege (artt. 1 e 11 r.d. 1611/1933 rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 quanto al MeF ed artt. 72 d.lgs. 300/1999 e 43 r.d. 1611/1933 quanto all’Agenzia del demanio) dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587: per il ricevimento di atti FAX 06-96514000 e PeC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato. it) presso i cui uffici sono domiciliati ex lege in roma, alla via dei Portoghesi n. 12; -attori nel giudizio principale contro B.B. e C.C.; - convenuti nel giudizio principale §§§ Premessa 1. Il Ministero dell’economia e delle Finanze (tuttora centro di imputazione della proprietà dei beni dello Stato: cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. civ., Sez. 5, n. 727/2025) e l’Agenzia del demanio (quale gestore ex lege degli stessi: cfr. art. 65 d.lgs. 300/1999) hanno promosso un giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Venezia per l’accertamento e la conseguente declaratoria della nullità, invalidità e comunque inefficacia dell’atto notarile unilaterale, trascritto nei registri immobiliari, con cui alcuni privati hanno rinunciato alla proprietà di un terreno sito nel Comune di Belluno (esposto a rischio di scivolamento, smottamenti e/o eventi franosi e, dunque, inservibile, privo di reale valore economico, oltre che segnalato nell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia -c.d. “progetto IFFI” dell’Istituto Superiore per la Protezione e la ricerca Ambientale), con il conseguente asserito acquisto automatico ex art. 827 c.c. degli stessi terreni in capo allo Stato. 2. L’adito Tribunale ordinario di Venezia, con ordinanza in data 22 aprile 2024, ha disposto ex art. 363 bis c.p.c. il rinvio pregiudiziale degli atti alla Suprema Corte di Cassazione (sospendendo contestualmente la causa dinanzi a sé) per la risoluzione delle seguenti questioni di diritto -di particolare rilevanza teorica e pratica, che non risultano essere state mai affrontate ex professo in sede di legittimità -: a. se sia ammissibile nel nostro sistema giuridico, in linea di principio, la c.d. rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, effettuata con atto notarile unilaterale, al di fuori delle ipotesi della c.d. rinuncia liberatoria previste dalla legge; b. nel caso di soluzione positiva alla prima questione, se sia possibile ed, eventualmente in quali limiti, il sindacato da parte dell’autorità giudiziaria dell’atto di rinuncia posto in essere dal privato, con particolare riferimento ai profili della meritevolezza degli interessi perseguiti (c.d. causa in concreto nel negozio), in considerazione del tenore dell’art. 1324 c.c. 3. Con decreto del 25 giugno 2024 la Prima Presidente della Corte di Cassazione ha dichiarato l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis ConTenZIoSo nAZIonALe disposto dal Tribunale di Venezia e ha assegnato la relativa questione alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto. 4. Come riferito anche nell’analogo decreto del 29 febbraio 2024 della Prima Presidente della Corte di Cassazione, relativo ad altro rinvio pregiudiziale con cui sono stati sollevati quesiti sovrapponibili (r.g. 2098/2024), sulle delicate questioni giuridiche pervenute all’esame ex art. 363 bis c.p.c. di codeste ecc.me Sezioni Unite civili, il Comitato Consultivo ex art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103 dell’Avvocatura Generale dello Stato ha già reso in data 14 marzo 2018 un parere di massima (1). 5. Le tesi sostenute nel parere di questa Avvocatura Generale sono state condivise negli ultimi anni da numerose pronunce dei giudici di merito, sia ordinari che amministrativi (2). 6. Il rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. alla S.C. disposto dal Tribunale ordinario di Venezia fa ora sorgere la necessità, per questa Avvocatura Generale, di riesaminare la questione facendosi carico dei rilievi del giudice a quo. 7. Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno fissato la discussione della questione pregiudiziale per l’udienza pubblica del 27 maggio 2025, in vista della quale le intestate Amministrazioni dello Stato, ut supra rappresentate e difese, sottopongono all’ecc.ma Corte le seguenti considerazioni giuridiche, anche in replica alla memoria della Procura Generale depositata in data 6 maggio 2025. dIrITTo 8. Si ritiene, innanzitutto, opportuno fornire a codesta ecc.ma Corte un quadro fattuale aggiornato in relazione alle questioni poste dal giudice a quo; tale quadro fattuale conferma che, come già condivisibilmente ritenuto dalla (1) In tale parere di massima (v. rass. Avv. St., 3, 2019, pp. 217-226) questa Avvocatura Generale ha ritenuto, in estrema sintesi, che la c.d. rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare sia ammissibile in astratto, ferma restando la necessità (trattandosi di negozio atipico unilaterale a contenuto patrimoniale) di vagliare, caso per caso, la meritevolezza ex artt. 1322 e 1343 c.c. dell’interesse concretamente perseguito dal rinunciante, da valutarsi anche alla luce dei precetti costituzionali di cui agli artt. 2, 41 e 42 della Carta Fondamentale. nel parere di massima, ferma restando la possibilità, per i privati, di rinunciare alla proprietà soltanto “improduttiva”, sono state enucleate alcune ipotesi di “non meritevolezza” della rinuncia abdicativa e, in ogni caso, rispetto ad esse è stata prospettata la possibilità di invocarne la nullità anche sotto altri profili (ex art. 1345 c.c., ex art. 1344, e, comunque, ex art. 833 c.c.). (2) Cfr., tra le tante, T.a.r. Lombardia -Milano, Sez. IV, sent. 18 dicembre 2020, n. 2553; Trib. Perugia, Sez. 2^ civ., sent. 6 maggio 2021 n. 704; Trib. Milano, Sez. 4^ civ., ord. 3 novembre 2021 (r.G. 8808/21); Trib. Milano, Sez. 4^ civ., ord. 20 maggio 2022 (r.G. 45320/21); Corte d’appello di Genova, Sez. 2^ civ., sent. 17 gennaio 2022, n. 50 (r.G. 221/19); Trib. Torino, Sez. 2^ civ., ord. 8 giugno 2022 (r.G. 2959/21); Trib. Torino, Sez. 2^ civ., ord. 16 giugno 2023 (r.G. 2438/23); Trib. Torino, Sez. 2^ civ., ord. 24 ottobre 2023 (r.G. 2925/23); Trib. Torino, Sez. 2^ civ., ord. 10 agosto 2023 (r.G. 4655/23). rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 Prima Presidente, ricorrono, nella specie, tutti i presupposti del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. e segnatamente quello di cui al comma 1, n. 3 “(la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi)”. 9. ed invero, all’attualità, sull’intero territorio nazionale risultano istruiti n. 128 affari legali connessi alla c.d. rinuncia abdicativa (dei quali n. 89 pendenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria, e n. 39 in fase stragiudiziale), come meglio illustrato nella tabella sottostante: affari legali - oggetto: rinuncia abdicativa dr Veneto 1 dr Toscana e Umbria 6 dr Sicilia 2 dr Sardegna 1 dr Puglia e Basilicata 10 dr Piemonte e Valle d’Aosta 10 dr Marche 10 dr Lombardia 4 dr Liguria 27 dr Lazio 3 dr Friuli Venezia Giulia 7 dr emilia romagna 7 dr Campania 18 dr Calabria 8 dr Abruzzo e Molise 11 direzione Affari Legali e Contenzioso 1 dIr. roMA CAPITALe 2 (dati aggiornati a Marzo 2025) 10. Gli atti di rinuncia allo stato conosciuti dalla deducente Agenzia del demanio hanno ad oggetto immobili inagibili, privi di valore economico e, anzi, costituenti fonte di potenziali e rilevanti esborsi economici a carico del ConTenZIoSo nAZIonALe bilancio dello Stato (e, dunque, della collettività intera) in ragione del grave stato di degrado o dissesto in cui essi versano: trattasi, per lo più, di edifici collabenti o di immobili inquinati o situati in zone ad alto rischio idro-geologico e di frane. 11. Tanto doverosamente premesso in punto di fatto, si può ora passare ad affrontare le questioni giuridiche poste dal giudice a quo. 12. Codesta ecc.ma Corte ha riconosciuto, in termini generali, l’esistenza nel sistema della “rinunzia abdicativa o dismissiva o estintiva”, definendola “quale negozio unilaterale e normalmente non recettizio, che, allorché si esteriorizza, anche tacitamente, diviene efficace, e perciò irrevocabile” (così, da ultimo, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 36224 del 28 dicembre 2023, alla pagina 31 della motivazione in diritto, nonché la giurisprudenza di legittimità ivi citata). 13. essendo il diritto di proprietà immobiliare disponibile, bisogna ammettere che la rinuncia abdicativa, quale istituto di carattere generale, possa avere ad oggetto anche tale diritto. 14. La rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare è, dunque, una species del più ampio genus, già riconosciuto ed ammesso dalla giurisprudenza di codesta Corte. 15. Come si vedrà infra, la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare viene generalmente ricostruita in dottrina come un negozio giuridico unilaterale inter vivos atipico, avente un indubitabile contenuto patrimoniale, perché determina la fuoriuscita di un bene immobile dal patrimonio del rinunciante che, quindi, risulta ridotto rispetto alla sua consistenza originaria. 16. Tale particolare ipotesi di rinuncia abdicativa -in quanto negozio atipico -risulta, allora, per ciò solo, astrattamente ammissibile ex artt. 1322, co. 2, e 1324 c.c. (con le precisazioni di cui si dirà nel prosieguo) proprio perché non espressamente vietata dalla legge (3) (a differenza, ad esempio, del patto commissorio: cfr. art. 2744 c.c. o dei patti successori: cfr. art. 458 c.c.) ed, anzi, implicitamente ammessa e consentita dall’articolo 827 c.c. il quale, sotto la rubrica “beni immobili vacanti”, prevede che: “I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato” (4). 17. L’art. 827 c.c. -al fine di garantire ed assicurare la certezza dei rap( 3) Ergo tutte le questioni, sollevate in dottrina ed in giurisprudenza, circa la interpretazione e la portata dell’art. 1350 n. 5) e dell’art. 2643 n. 5) c.c., nonché circa le varie ipotesi legali tipiche di “rinunzia liberatoria” non sembrano decisive per il tema in trattazione, nel senso che la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, in quanto negozio atipico ex art. 1322 c.c. in relazione all’art. 1324 c.c., non espressamente vietato dalla legge, deve, per ciò solo, ritenersi astrattamente ammissibile, con le precisazioni di cui si dirà infra. (4) nel territorio delle regioni ad autonomia speciale Trentino-Alto Adige, Sicilia e Sardegna, i beni immobili vacanti spettano al patrimonio regionale, secondo le rispettive disposizioni statutarie, aventi, peraltro, contenuto identico all’art. 827 c.c. (cfr. l’art. 67 u.c. d.p.r. 670/1972, per il Trentino- Alto Adige; l’art. 34 del r.d.lgs. n. 455/1946 per la Sicilia e l’art. 14, co. 3, L. Cost. 3 del 1948 per la Sardegna). rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 porti giuridici e della circolazione degli immobili, preservando, al contempo, l’ordine pubblico (ne cives ad arma ruant) -sembrerebbe, dunque, aver regolato la sorte dell’immobile rinunciato prevedendone, secondo una risalente pronuncia di codesta Corte, l’acquisto a titolo originario in capo allo Stato (arg. ex Cass. civ., sez. 2, n. 2862/1995). 18. Secondo una opposta tesi, l’art. 827 c.c. sarebbe una mera “norma di chiusura” applicabile soltanto agli immobili “acefali” alla data di entrata in vigore del codice del 1942 e che, pertanto, avrebbe esaurito la sua funzione all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice del 1942. 19. Tale tesi -peraltro avversata dalla migliore dottrina civilistica [SAn- Toro PASSAreLLI, BIAnCA] -non persuade, per ragioni storiche e sistematiche. 20. Sul piano storico, è utile ricordare che nella dottrina formatasi nel vigore del codice civile del 1865 (c.d. “codice Pisanelli”) era assolutamente pacifico che i beni immobili, così come i beni mobili, potessero formare oggetto di abbandono, inteso come rinuncia al diritto di proprietà [ex variis BrUGI, BoZZI, SIMonCeLLI, CoVIeLLo]. 21. Piuttosto, i temi oggetto di discussione erano, da un lato, la struttura dell’atto di abbandono -fronteggiandosi la posizione di chi riteneva che fosse sufficiente una mera manifestazione di volontà, mediante atto negoziale, a quella di chi richiedeva che a questa si accompagnasse l’atto materiale di dismissione della res - e, dall’altro, la sorte dei beni abbandonati. 22. Quanto a tale ultimo profilo, più specificatamente, si discuteva se il bene immobile rinunciato potesse essere acquistato da terzi per occupazione, o se esso fosse acquistato dallo Stato. 23. Al fine di dirimere il contrasto, il legislatore del 1942 ha introdotto l’art. 827 c.c. (5), con il quale ha accolto tale ultima tesi. 24. Sul piano sistematico, la tesi restrittiva che ravvisa nell’articolo 827 c.c. una mera norma di chiusura conduce all’esito paradossale (e quindi inaccettabile) di circoscriverne l’applicabilità alla sola ipotesi di scuola dell’insula in mari nata (per giunta entro i confini del mare territoriale), atteso che l’insula in flumine nata è già disciplinata dall’art. 945 c.c.; quando pare chiaro ed evidente che l’intenzione del Legislatore storico del 1942 non fosse quella di occuparsi di questa ipotesi assolutamente residuale (“quod raro accidit”) (6), non essendo ad essa operato neppur alcun riferimento nei lavori preparatori (7). (5) La locuzione utilizzata dall’art. 827 c.c. per indicare i beni immobili vacanti (“beni immobili che non sono in proprietà di alcuno”) è speculare a quella utilizzata nell’art. 923, comma 1, c.c. per indicare le cose suscettibili di occupazione (“cose mobili che non sono in proprietà di alcuno”), che, ai sensi del successivo comma 2, sono le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia o pesca. (6) Cfr. d. 41. 1. 7. 3 Gai 2 rer. cott.:“Insula quae in mari nascitur (quod raro accidit), occupantis fit: nullius enim esse creditur. ConTenZIoSo nAZIonALe 25. Infine, tale lettura restrittiva è anche errata in punto di diritto perché, nel tentativo di trovare un serio ambito applicativo all’art. 827 c.c., lo riferisce agli immobili solo abbandonati dei quali sia incerto il proprietario, quando è noto che la mera derelictio dell’immobile (inteso come mero atto materiale di abbandono non formalizzato con atto scritto con le forme di cui all’art. 1350 c.c. e poi trascritto) non produce l’effetto estintivo della proprietà, ma lascia semmai spazio all’acquisto per usucapione da parte di terzi; se poi l’immobile vacante è incluso in una eredità giacente, sono altre le disposizioni applicabili (artt. 528 c.c. e ss. in relazione all’art. 586 c.c. ed all’art. 1, co. 260, L. 296/2006). 26. L’articolo 1, comma 260, L. 296/2006 (8) menziona, in effetti, “gli immobili vacanti”: tale disposizione -intervenuta ben sessantaquattro anni dopo l’entrata in vigore del codice civile -è, però, semmai idonea a far sorgere il dubbio che essa si riferisca anche agli immobili oggetto di rinuncia per atto inter vivos e dei quali lo Stato non abbia cognizione; tuttavia, occorre osservare come, secondo il consolidato orientamento di codesta ecc.ma Corte (9), siffatta norma è stata dettata allo scopo di consentire allo Stato “l’effettivo esercizio dei diritti successori e di impedirne l’estinzione a favore di terzi possessori”, finendo così con l’essere riferita ai soli acquisti ex art. 586 c.c. 27. Assodato, dunque, che l’art. 827 c.c. presuppone implicitamente la rinuncia alla proprietà immobiliare e regola la sorte dell’immobile rinunciato, si tratta, semmai di verificare come operi l’acquisto, in capo allo Stato, ex art. 827 c.c. dell’immobile vacante e se vi siano e quali siano i poteri di reazione dello Stato a fronte di tale acquisto. 28. Ai fini di tale indagine, sul piano metodologico, occorre dare all’827 c.c., entrato in vigore nel 1942, una interpretazione adeguatrice che sia conforme alla sopravvenuta Costituzione repubblicana (in vigore dal 1 gennaio 1948) e che sia anche in linea con il sistema complessivo del codice civile, (7) Cfr. relazione al codice civile, n. 398, ove, a commento dell’art. 827 c.c. è dato pianamente leggere: “Colmando una lacuna del codice del 1865, la quale aveva aperto l’adito a dubbi e a soluzioni diverse, ho disposto (art. 827 del c.c.) che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato: con questa nuova norma è pertanto escluso che vi siano beni immobili senza proprietario”. (8) 260. Allo scopo di devolvere allo Stato i beni vacanti o derivanti da eredità giacenti, il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’interno ed il Ministro dell’economia e delle finanze, determina, con decreto da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i criteri per l’acquisizione dei dati e delle informazioni rilevanti per individuare i beni giacenti o vacanti nel territorio dello Stato. Al possesso esercitato sugli immobili vacanti o derivanti da eredità giacenti si applica la disposizione dell’articolo 1163 del codice civile sino a quando il terzo esercente attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale non notifichi all’Agenzia del demanio di essere in possesso del bene vacante o derivante da eredità giacenti. Nella comunicazione inoltrata all’Agenzia del demanio gli immobili sui quali è esercitato il possesso corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale deve essere identificato descrivendone la consistenza mediante la indicazione dei dati catastali”. (9) Cfr. Cass. civ., sez. II, 27 dicembre 2024, n. 34572; Cass. civ., sez. II, 27 dicembre 2024, n. 34567; Cass. civ., Sez. II, 11 giugno 2013, n. 14655; Cass. civ., Sez. II, 26 gennaio 2010, n. 1549. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 dal quale è ricavabile il principio generale (invito beneficium non datur) secondo cui il soggetto beneficiato da un incremento patrimoniale ad opera di un terzo in virtù di un negozio da quest’ultimo concluso ha il potere di impedire tale arricchimento (cfr., ad esempio, l’art. 1236 c.c. in materia di remissione del debito, l’art. 649, co. 1, c.c. in materia di legato, l’art. 519 c.c. in materia di rinuncia all’eredità, gli artt. 1333, co. 1, e 1411, co. 3, c.c. in materia rispettivamente, di contratto con obbligazioni a carico del solo proponente e a favore di terzo). 29. Secondo la tesi prevalente in dottrina (10) la rinuncia c.d. “abdicativa” al diritto di proprietà su un bene immobile viene generalmente ricostruita come negozio giuridico unilaterale, da farsi per iscritto ad substantiam, non recettizio, trascrivibile solo contro il rinunciante, che produce un effetto diretto, e cioè l’estinzione, in capo al rinunciante, del diritto di proprietà su quell’immobile, ed un effetto indiretto, e cioè l’acquisto della proprietà di quell’immobile, a titolo originario, da parte dello Stato ex art. 827 c.c.; tale ultimo acquisto in capo all’erario sarebbe automatico, nel senso che non richiederebbe accettazione, e non sarebbe rifiutabile poiché l’ordinamento giuridico non ammette l’esistenza di immobili “vacanti”. 30. L’acquisto dell’immobile in capo allo Stato non sarebbe, cioè, l’effetto dell’atto di abbandono, ma effetto automatico della norma (l’art. 827 c.c. appunto). 31. In base a tale orientamento, la rinuncia abdicativa si differenzierebbe dalla rinuncia traslativa, in quanto l’assenza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto, e l’assenza della natura contrattuale, fanno sì che gli effetti in capo allo Stato si produrrebbero “ipso iure”, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. 32. Per il perfezionamento dell’atto rinunziativo non sarebbe, pertanto, richiesto l’intervento né l’espressa accettazione del terzo, ossia dello Stato, né che lo stesso debba esserne notiziato. 33. Tale ultimo assunto, secondo cui il rinunziante non dovrebbe neppure dare notizia allo Stato della rinunzia, è, evidentemente, insostenibile in diritto perché la condotta del terzo rinunziante che ometta di dare allo Stato (e per esso al competente ufficio dell’Agenzia del demanio) comunicazione formale dell’atto di rinunzia (che dovrebbe essere trascritta soltanto contro il rinunciante e non anche a favore dell’Agenzia del demanio) è, all’evidenza, una condotta antigiuridica ed antisociale che, in violazione del principio della buonafede in senso oggettivo e del neminem laedere, espone a pericolo la vita ed i beni dei consociati, nel caso di dismissione di immobile “dannoso”. (10) MAIoCe, Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, 1989, Milano, p. 923; BeTTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, XV, t. 2, Torino, 1960, p. 299). ConTenZIoSo nAZIonALe 34. di qui una prima conclusione, e cioè che il rinunciante deve dare formale comunicazione dell’atto di rinunzia allo Stato (e per esso all’Agenzia del demanio) onde consentirgli tutte le opportune valutazioni ed iniziative al riguardo. 35. È bene poi soffermarsi su un profilo giuridico di notevole importanza, che pare non essere stato adeguatamente indagato da chi, sino ad ora, si è occupato della questione. 36. L’art. 827 c.c. prevede logicamente una cesura temporale tra la rinuncia e l’acquisto da parte dello Stato. 37. L’immobile, per effetto della rinuncia, diviene res nullius, e siccome l’ordinamento non tollera immobili vacanti, tale immobile, in quanto vacante, passerebbe nel “patrimonio dello Stato”. 38. ed è qui che si annida un’evidente aporia logica che vizia tutta la ricostruzione della c.d. rinunzia abdicativa. 39. ed invero, il bene immobile rinunciato, ove se ne assuma l’acquisto automatico da parte dello Stato come effetto legale (indiretto) dell’atto abdicativo, non è mai realmente vacante de iure, perché, nell’esatto momento in cui esso viene fatto oggetto di atto di rinuncia, cioè nel preciso istante in cui venga sottoscritto dianzi al notaio l’atto abdicativo, l’immobile verrebbe acquistato automaticamente dallo Stato, proprio perché l’ordinamento non tollera la vacanza degli immobili, quasi alla stregua di un horror vacui. 40. In sostanza, l’immobile non si troverebbe mai in una reale condizione giuridica di vacanza, non sarebbe, cioè, mai un immobile adespota ‘di proprietà di nessuno’, ma transiterebbe senza iato o cesure temporali di sorta dal patrimonio del rinunciante a quello dello Stato, secondo il meccanismo della rinuncia non abdicativa, ma traslativa: si tratterebbe, cioè, di un vero e proprio trasferimento, senza, però, necessità di accettazione. 41. nella realtà delle cose, ed al di là delle astratte categorie giuridiche, non è agevole separare -in relazione all’atto di rinuncia -l’effetto dismissivo da parte del rinunciante con quello acquisitivo in capo allo Stato (11), di talché si è di fronte ad un atto solo in apparenza esclusivamente dismissivo, ma a contenuto sostanzialmente traslativo, che viene ad incidere negativamente sulla sfera giuridica altrui (Stato), senza (apparentemente) rimedi azionabili da parte di quest’ultimo. 42. Sul piano della volontà del rinunziante è, poi, francamente specioso, ed anzi è un vero infingimento, sostenere che egli voglia soltanto dismettere il proprio immobile, quando, nella sostanza dell’operazione e nella realtà delle cose, è evidente che il suo vero e primo obiettivo è quello di trasferirlo (11) Cfr. Corte d’Appello di Genova, Sentenza n. 1114/2020; Sentenza n. 50/2022; Sentenza n. 1369/2024; Tribunale di Genova, Sentenza n. 1377/2024; ordinanza 328/A del 1 febbraio 2019; Tribunale di Genova, III Sezione Civile, 18 luglio 2023. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 allo Stato, accollandogli tutti i relativi oneri e le passività; traslazione di responsabilità che, dunque, non può non rientrare nel focus della volontà negoziale del rinunciante, costituendo un effetto necessitato della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare così come strutturata nell’ordinamento vigente per effetto del combinato disposto degli artt. 827, 2043, 2051 e 2053 c.c. 43. In altri termini, anche l’effetto traslativo di cui all’art. 827 c.c. deve ritenersi voluto dal rinunciante, il quale rinuncia all’immobile perché sa e proprio perché sa che l’immobile -nel momento esatto in cui sottoscrive l’atto di rinunzia -passa ex lege (automaticamente e senza soluzione di continuità) allo Stato; circostanza, questa, del resto dimostrata dall’espresso richiamo all’effetto acquisitivo ex art. 827 c.c. in capo allo Stato operato more solito negli atti di rinuncia abdicativa come quello oggetto del presente giudizio principale, ove è dato leggere (cfr. All. 1 - pag. 2): ArTICoLo 3 Per effetto del presente atto, la proprietà del terreno in oggetto viene acquistata ex lege dallo Stato, ai sensi dell’articolo 827 del Codice Civile. I comparenti chiedono pertanto che il presente atto venga trascritto, ai sensi del- l’articolo 2643, primo comma n. 5, del Codice Civile, contro di essi medesimi e volturato a favore dello Stato, utilizzando a tale fine il Codice Fiscale relativo al demanio dello Stato (97905320582), non esistendo un Codice Fiscale specifico relativo al patrimonio disponibile. 44. ed allora, occorre riconoscere che, sia sul piano degli effetti giuridici che su quello della volontà del rinunciante, siamo di fronte ad una rinuncia ancipite, formalmente (soltanto) abdicativa, ma, nella sostanza, traslativa (determinandosi il trasferimento del bene nell’istante esatto del perfezionamento dell’atto di rinunzia, senza che abbia mai effettivamente luogo, de iure, l’effettiva vacanza dell’immobile, neppure per una frazione di secondo). 45. È assai dubbio che una rinunzia siffatta possa avvenire senza accettazione dello Stato, normalmente necessaria per le rinunce sostanzialmente traslative, ed al di fuori dello strumento della donazione, con tutte le relative formalità. 46. ed in ogni caso, è assolutamente inaccettabile l’idea che lo Stato sia privo di strumenti di reazione all’acquisto (imposto) di beni inquinati, costosi o dannosi. 47. ed allora, ove non si voglia soverchiamente forzare il sistema, è indispensabile ritenere -nel contesto di una lettura adeguatrice della norma del- l’art. 827 c.c., ed in ossequio al principio generale che vieta l’arricchimento imposto (che non può non valere anche per lo Stato ex artt. 3 e 97 Cost.) -che lo Stato, a fronte di tale rinuncia “ancipite”, sia munito del potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto, con efficacia ex tunc, il cui esercizio (entro un ter ConTenZIoSo nAZIonALe mine ragionevole), mediante atto scritto unilaterale (a fronte della comunicazione della rinunzia, che abbiamo visto essere doverosa per il rinunciante), rimuove, ora per allora, l’effetto (sostanzialmente traslativo) che si determina ex art. 827 c.c. (in via provvisoria) in conseguenza dell’atto di rinuncia, facendo così retrocedere l’immobile in capo al rinunciante. 48. Per assicurare l’ineludibile continuità delle trascrizioni ex artt. 2644 e 2650 c.c., e per garantire la certezza delle situazioni giuridiche, l’atto (scritto) di rifiuto, previa notifica da parte dell’Agenzia del demanio (per conto dello Stato) al rinunciante, deve considerarsi trascrivibile ex artt. 2643, co. 1, n. 5), e 2645 c.c., in un’ottica di necessaria simmetria rispetto alla rinuncia del privato, “a favore” del rinunciante e “contro” lo Stato. 49. L’interpretazione adeguatrice dell’art. 827 c.c. che qui si propugna trova un puntuale riscontro nella lettera della disposizione stessa, letta in un’attenta ottica sistematica. 50. Come rilevato da chiara dottrina (BIGLIAZZI GerI, BreCCIA, BU- SneLLI, nAToLI), nelle fonti del diritto romano la titolarità del diritto di proprietà è sempre indicata con il termine appartenenza, il quale metteva in evidenza la condizione giuridica della res che ne costituiva l’oggetto: l’essere, cioè, questa, per così dire, riservata ad un determinato soggetto (ad eum pertinens). 51. Anche nel codice civile italiano il riferimento al fenomeno della c.d. appartenenza di un bene ad un determinato soggetto è sempre indicativo del diritto di proprietà nel senso di cui all’art. 832 c.c. (cfr. artt. 822, 824, 826, 830, 879, 881, 897, 932, 934 c.c.) (12). 52. L’art. 42 della Costituzione, dopo aver stabilito che la proprietà è pubblica o privata, usa il verbo appartenere indifferentemente per i beni economici sia dei privati che dello Stato. 53. Si noti che l’articolo 827 c.c., in riferimento ai “beni immobili che non sono in proprietà di alcuno”, usa invece la locuzione “spettano al patrimonio dello Stato” (13). (12) Anche negli antecedenti storici della norma del codice del 1942 viene usata la diversa espressione “appartengono”. In particolare, l’art. 734 del code napoleon prevedeva che: “Les biens qui n’ont pas de maître appartiennent à l’État”. L’art. 464 del codice civile del regno delle due Sicilie prevedeva che: “Tutti i beni vacanti e senza padrone, e quelli delle persone che muoiono senza eredi, o le cui eredità sono abbandonate, appartengono al demanio pubblico”. Ai sensi dell’articolo 397 del codice parmense: “Appartengono allo Stato le strade da lui mantenute, le acque dei fiumi navigabili, le fortezze colle loro fosse e bastioni, e generalmente le parti del territorio non soggette a privata proprietà, i beni vacanti, e quelli delle persone che muojono senza eredi, o le cui eredità sono abbandonate”. (13) Come si è visto, gli statuti delle regioni speciali Trentino-Alto Adige, Sicilia e Sardegna, utilizzano la stessa locuzione normativa. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 54. L’art. 827 c.c., dunque, con riguardo, ai “beni immobili che non sono in proprietà di alcuno”, non usa l’espressione “appartengono allo Stato”sempre associata nel sistema del codice al diritto di proprietà, anche pubblica -e non prevede neppure che i beni immobili oggetto di rinuncia siano “di proprietà dello Stato”. 55. L’articolo 827 c.c., per gli immobili rinunciati, usa -unica disposizione codicistica tra quelle dedicate ai beni -il termine “spettano” -e non già “appartengono” -, in tal modo volendo enfatizzare che, all’esito dell’intervenuta rinuncia, tali immobili non sono ineludibilmente acquisiti al patrimonio dello Stato, essendo rimessa a quest’ultimo la possibilità di consolidare o meno l’effetto acquisitivo. 56. Il Legislatore del 1942, dunque, nel disciplinare, con l’articolo 827 c.c., la vicenda acquisitiva dell’immobile oggetto di rinuncia in capo all’erario, anziché soffermarsi sul profilo della titolarità del diritto dominicale, ha posto l’accento sull’ingresso del bene nel patrimonio dello Stato. 57. La locuzione normativa utilizzata dal Legislatore storico nell’articolo 827 c.c. -lungi dall’essere casuale o dal costituire insignificante variante linguistica rispetto al sistema del codice civile -è, invece, assai rilevante sul piano della ricostruzione dell’istituto, perché, come rilevato al par. 55 della presente memoria, sembrerebbe presupporre logicamente o, per lo meno, non escludere la possibilità che il bene immobile, proprio in ossequio al principio generale secondo cui “invito beneficium non datur” (che il Legislatore storico ha, evidentemente, tenuto presente), possa essere fatto uscire dal patrimonio dello Stato in cui è entrato, mediante successivo rifiuto ex tunc: se un bene entra nel patrimonio di un terzo (qui lo Stato), non può rimanervi contro la volontà del terzo. 58. di talché, l’articolo 827 c.c. deve essere necessariamente interpretato nel senso che, se un bene immobile è oggetto di rinuncia, lo Stato non ne diventa proprietario in modo definitivo ed irretrattabile ma soltanto in via provvisoria perché, in ossequio al principio generale del divieto degli arricchimenti imposti, dispone del potere di rifiuto eliminativo, con effetto ex tunc, dell’acquisto, il cui esercizio -entro un termine ragionevole, tenuto conto delle esigenze istruttorie del caso -produce gli effetti che si sono visti supra (vedi punto 47 che precede). 59. del resto, se la rinuncia c.d. abdicativa viene ricostruita come negozio giuridico unilaterale, bisogna allora, per coerenza, riconoscere l’applicabilità alla stessa in via analogica, se non addirittura in via diretta, dell’articolo 1333 c.c. che, secondo la giurisprudenza di codesta Corte, si riferisce anche ai negozi giuridici unilaterali produttivi di un effetto reale (cfr. Cass. Civ., sez. II, n. 9500/1987 sull’applicabilità dell’art. 1333 c.c. al pagamento traslativo). 60. In altri termini, se la rinuncia alla proprietà immobiliare è un negozio giuridico unilaterale ad effetto reale che, quindi, attribuisce un diritto di pro ConTenZIoSo nAZIonALe prietà all’erario dello Stato, allora quest’ultimo, quale sostanziale “destinatario”, dispone (anche) del potere di rifiuto eliminativo ex art. 1333, co. 2, c.c. “nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi”, proprio perché nessuno (neppure lo Stato) può subire modifiche non volute alla propria sfera giuridica. 61. Tale conclusione è avvalorata dal termine “spettano”, utilizzato dal- l’articolo 827 c.c., il quale consente, in diritto, di configurare lo Stato come “destinatario” dell’attribuzione patrimoniale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1333, co. 2, c.c., cioè come soggetto che riceve un incremento patrimoniale (che a lui “spetta” ex lege), tenuto anche conto del fatto che, come rilevato supra (v. paragrafo n. 34 della presente memoria), l’atto dismissivo, in ossequio ai principi generali della buona fede in senso oggettivo e del neminem laedere, va necessariamente comunicato all’Agenzia del demanio. 62. del resto, se l’art. 827 c.c., come osserva la Procura Generale nel punto 63 della requisitoria, è espressione della sovranità dello Stato, deve allora riconoscersi che lo Stato, nell’esercizio di quella stessa sovranità, è libero di rifiutare (con efficacia ex tunc) l’acquisto dell’immobile “dannoso”. 63. Tale interpretazione adeguatrice dell’art. 827 c.c., oltre ad essere conforme alla lettera della legge, riceve un solido argomento a sostegno dal confronto dello stesso art. 827 c.c. con il disposto dell’art. 586 c.c. 64. L’art. 586, co. 1, c.c. in materia successoria prevede che, in mancanza di altri successibili, l’acquisto dell’asse ereditario da parte dello Stato opera di diritto “e non può farsi luogo a rinunzia”. 65. entrambe le disposizioni (quella di cui all’art. 827 c.c. e quella di cui all’art. 586 c.c.) prevedono una fattispecie di acquisto automatico in capo allo Stato, sia pure in ambiti diversi. 66. Se l’articolo 586 c.c. si è premurato di precisare che non può farsi luogo a rinunzia (ex art. 521 c.c. che opera ex tunc), ciò significa che, di regola, anche allo Stato, in ogni altro caso di acquisto automatico ope legis, spetta, conformemente alla regola generale che vieta gli acquisti imposti, il potere di rifiuto (eliminativo nel caso dell’art. 827 c.c.). 67. Sotto altro profilo, si osserva che l’art. 586 c.c. prevede, al comma 2, la limitazione della responsabilità dello Stato intra vires: il che giustifica la deroga, con riguardo allo Stato erede necessario, al principio generale che vieta gli acquisti imposti; ma tale principio generale deve riespandersi rispetto alla fattispecie di cui all’art. 827 c.c., che non prevede alcuna limitazione di responsabilità patrimoniale analoga a quella di cui all’art. 586, comma 2, c.c. 68. Secondo una diversa lettura dell’art. 827 c.c., tale disposizione sarebbe volta a far sì che gli oneri manutentivi, di messa in sicurezza e, più in generale, i costi connessi alla proprietà di beni “dannosi” (perché collabenti, inquinati o, comunque, versanti in una situazione di dissesto idro-geologico), siano fi rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 nanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario. 69. di conseguenza, non sarebbe possibile riconoscere allo Stato un potere di rifiuto dell’acquisto ex art. 827 c.c., perché incompatibile con la predetta asserita ratio legis. 70. Tale interpretazione dell’art. 827 c.c. non può essere condivisa perché eccedente rispetto all’intenzione del legislatore storico del 1942, e perché non in linea con il principio di solidarietà, quale si evince dall’articolo 2 della Costituzione. 71. Quanto al primo aspetto, si rileva che il legislatore storico del 1942, quando ha introdotto l’articolo 827 c.c., era ispirato da finalità di polizia (“ne cives ad arma ruant”) e dal principio del dominio eminente dello Stato sovrano sul proprio territorio, e non intendeva in alcun modo accollare alla collettività gli oneri manutentivi, di messa in sicurezza e, più in generale, i costi connessi alla proprietà di beni “dannosi”; né intendeva provvedere a tali oneri in luogo dei cittadini eventualmente privi dei mezzi economici necessari per farvi fronte. 72. Quanto al principio di solidarietà ex art. 2 Cost., esso non può giammai operare in una “sola direzione”, ossia solo a svantaggio (qui lo Stato) di uno dei soggetti della relazione giuridicamente rilevante. 73. del resto, interpretando l’articolo 827 c.c. nel senso che lo Stato non sarebbe munito del potere di rifiuto (eliminativo) dell’acquisto dell’immobile rinunciato, si esporrebbe la disposizione a fondati dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 41, comma 2, e 97 della Carta Fondamentale. 74. In primo luogo, il mancato riconoscimento, in capo allo Stato, della facoltà di rifiutare l’acquisto di un bene immobile “dannoso” si pone in contrasto con il principio di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., che, come si è visto, non opera in senso unidirezionale (a tutto svantaggio dello Stato), ma impone dei doveri anche ai consociati; inoltre, finirebbe con il consentire un’irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., rispetto alle ipotesi di incremento del patrimonio del terzo per effetto diretto del negozio, ove il rifiuto dell’oblato è positivamente stabilito ex art. 1333, comma 2, c.c. (cfr. anche art. 1411, comma 2, c.c.); infine, tale opzione esegetica incentiverebbe gli atti di rinuncia, in contrasto con il dovere dei consociati, ricavabile dal combinato disposto degli articoli 2 e 41, co. 2, Cost., di attivarsi per mantenere in buono stato manutentivo l’immobile, e con grave pregiudizio per il buon andamento ex art. 97 Cost. della Pubblica amministrazione, che sarebbe obbligata a distogliere risorse finanziarie destinate alle proprie attività istituzionali, per dirottarle su progetti di risanamento di immobili dannosi, estemporaneamente rinunciati dal privato. 75. Al di là della questione del potere di rifiuto eliminativo, si ritiene che ConTenZIoSo nAZIonALe l’atto di rinuncia -in quanto negozio giuridico unilaterale inter vivos atipico, avente un indubitabile contenuto patrimoniale -sia sempre soggetto al controllo causale di meritevolezza ex art. 1322 c.c., i cui parametri sono costituiti dai valori costituzionali, ai quali l’art. 832 c.c., secondo una lettura costituzionalmente orientata, opera un rinvio espresso (nella parte in cui richiama “i limiti” e “gli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”). 76. ed invero, come in precedenza si è rilevato, la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare presenta un indubitabile contenuto patrimoniale, perché determina la fuoriuscita di un bene immobile dal patrimonio del rinunciante che, quindi, risulta ridotto rispetto alla sua consistenza originaria. 77. ne consegue che, ai sensi dell’art. 1324 c.c., alla rinuncia abdicativa deve ritenersi applicabile il secondo comma dell’art. 1322 c.c. per cui occorre indagare, caso per caso, la causa dell’atto dismissivo della proprietà immobiliare al fine di valutarne la meritevolezza secondo l’ordinamento giuridico. 78. Con riferimento al negozio unilaterale atipico di rinuncia abdicativa parte della dottrina, come noto, rinviene la relativa causa nella mera dismissione del diritto: la rinuncia abdicativa sarebbe, dunque, un “patto nudo” (oppure, detto altrimenti, un “negozio astratto” o “acausale”), la cui funzione si identificherebbe con la sola dismissione del diritto, alla quale è rivolta la manifestazione di volontà, con la conseguenza che tale negozio sarebbe in sé sempre meritevole di tutela e non si potrà mai avere nullità per illiceità o non meritevolezza della causa. 79. Tale ricostruzione non è condivisibile in quanto, da una parte, sembra ispirata alla visione ottocentesca assoluta del diritto dominicale, che considera solo il diritto di godere e disporre pienamente del bene, senza tenere conto della funzione sociale della proprietà ex art. 42, co. 2, Cost., e degli ulteriori limiti alle prerogative e facoltà dominicali ricavabili dal disposto degli artt. 2 e 41, comma 2, della Carta Fondamentale e, dall’altra, non è in linea con la moderna concezione della causa del negozio giuridico, quale funzione economico -individuale dell’atto, detta anche “causa in concreto” (14). 80. Sul piano causale, dunque, ogni qualvolta l’atto di rinuncia venisse posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’erario ex art. 827 c.c. -e dunque in capo alla collettività intera -i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale: cfr. art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia sarebbe nullo in ragione della non meritevolezza e/o (14) Per tale intendendosi “... lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (cd. causa concreta), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato” (così Cass. civ., sez. 3, n. 10490/2006). rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c. perché in palese contrasto con le istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., e (comunque) con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art. 2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati ex art. 41, comma 2, Cost., l’una e gli altri costituenti limiti inderogabili delle prerogative dominicali ex art. 832 c.c. 81. Una violazione di tali limiti (con la conseguente nullità dell’atto dismissivo ex artt. 1322 e 1343 c.c.) potrebbe riscontrarsi, in concreto, ed a titolo puramente esemplificativo, quando la rinuncia sia diretta a liberarsi: di terreni con evidenti problemi di dissesto idrogeologico, con conseguente accollo in capo all’erario di tutti i costi necessari per le opere di consolidamento, demolizione e manutenzione relativi ai beni stessi; di edifici inutilizzabili e diruti o collabenti, per liberarsi dei costi di demolizione; della parte inquinata (da terzi) di un unico terreno acquistato (potendosi ammettere anche la rinuncia parziale), per far gravare sullo Stato le spese di bonifica con beneficio diretto della zona limitrofa rimasta oggetto di proprietà privata. 82. Al riguardo, non può essere condiviso quell’orientamento della giurisprudenza di merito, riportato nell’ordinanza di rinvio resa dal Tribunale di L’Aquila, rubricata al n. 2098/24 di r.G. di codesta Corte (cfr. pag. 11), secondo il quale “[…] la rinuncia abdicativa non diverrebbe di per sé illegittima perché posta in essere in base a mere valutazioni di convenienza e opportunità, peraltro riscontrabili in maniera analoga nelle fattispecie di cui agli artt. 1104 e 1070 c.c. (cfr. Trib. Firenze, 15 settembre 2022, n. 2529, secondo cui “Al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo”; in senso conforme Trib. L’Aquila, 10 ottobre 2023, n. 623; Trib. L’Aquila, 23 ottobre 2023, n. 656; Trib. L’Aquila, 27 ottobre 2023, n. 682)”. 83. ed invero, come si è visto in precedenza, il principio di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., non opera in senso unidirezionale (a tutto svantaggio dello Stato), ma impone dei doveri anche ai consociati. 84. Il riferito orientamento della giurisprudenza di merito è assai “diseducativo” per la collettività sociale perché incentiva gli atti di rinuncia, in contrasto con il dovere dei consociati, ricavabile dal combinato disposto degli articoli 2 e 41, co. 2, Cost., di attivarsi per mantenere in buono stato manutentivo l’immobile. 85. del resto, giova qui rammentare che codesta Corte, nel chiarire la portata del principio di correttezza/buona fede in senso oggettivo ex artt. 1175 ConTenZIoSo nAZIonALe e 1375 c.c. quale strumento di integrazione del contratto, ha precisato che il dovere solidaristico ex art. 2 Cost. non può essere interpretato nel senso che la parte onerata sia tenuta ad “attività gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici” (così, ex multis, Cass. civ, sez. 3, n. 8497/2020, Cass. civ. sez. 3, n. 6735/2005). 86. Mutatis mutandis, lo Stato non può essere tenuto ad accollarsi indiscriminatamente tutti i beni “dannosi o pericolosi” perché ciò esula dall’obbligo di solidarietà economica e sociale ex art. 2 Cost., il quale neppure gli impone di “soccorrere”, con i mezzi della fiscalità generale, il proprietario privo di mezzi economici. 87. Il controllo sulla meritevolezza dell’atto dismissivo (da condursi nei termini e con le modalità di cui ai paragrafi 79, 80 e 81 della presente memoria) serve a selezionare le rinunce ammesse rispetto a quelle che non lo siano, assicurando così un ragionevole punto di equilibrio tra autonomia privata e adempimento degli obblighi costituzionali di solidarietà economica e sociale ex art. 2 Cost. in capo ad entrambe le parti. 88. La Procura Generale conviene, in linea di principio, con tale impostazione (cfr. punti 84, 86 e 89 della requisitoria), salvo poi circoscrivere il giudizio di meritevolezza a “casi eccezionali” aventi un impatto particolarmente rilevante sulla finanza pubblica. 89. Tale impostazione restrittiva del giudizio di meritevolezza non può essere condivisa perché è evidente che una volta che si ammetta, come sembra doveroso, un giudizio sul rispetto, da parte dell’atto dismissivo, dei valori costituzionali, tale giudizio “valoriale” non può essere poi circoscritto a “casi eccezionali”, giacché i valori costituzionali sono sempre cogenti e da rispettare, non solo “in casi eccezionali”. 90. In disparte il profilo causale, sopra approfondito, alla medesima conclusione della possibile nullità della rinuncia c.d. abdicativa alla proprietà immobiliare (nelle ipotesi delineate nei precedenti paragrafi 80 e 81), sembra doversi pervenire anche per un’altra ragione di ordine sistematico, connessa all’applicabilità dell’art. 1345 c.c. (motivo illecito) anche ai negozi unilaterali, riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte. 91. ed invero, l’art. 1345 c.c., dettato in materia contrattuale, prevede che “Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”. 92. da tale norma si ricava il principio generale secondo il quale il motivo in funzione del quale ciascuna parte si determina a porre in essere un negozio giuridico rimane generalmente estraneo al contenuto del contratto ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante qualunque sia l’importanza che assuma per il singolo, salvo che: i. per entrambe le parti l’accordo rifletta un medesimo motivo (“comune”); rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 ii. il motivo comune sia “illecito”, cioè contrario a norma imperativa o ai boni mores; iii. il motivo illecito comune sia stato esclusivo, cioè determinante del consenso. 93. Qualora ricorrano queste condizioni il contratto è illecito e pertanto, in virtù dell’art. 1418 c.c., nullo. 94. dalla disciplina in esame potrebbe trarsi la conclusione che l’art. 1345 c.c. non possa trovare applicazione, per il tramite dell’art. 1324 c.c., agli atti giuridici unilaterali, poiché rispetto a questi ultimi, mancando la comunanza dei motivi illeciti determinanti, a causa dell’unilateralità dell’atto posto in essere, le ragioni che hanno spinto la parte sarebbe sempre irrilevanti da un punto di vista giuridico. 95. Tuttavia, due sono le considerazioni che posso essere portate a sostegno della tesi contraria e quindi a favore dell’applicabilità dell’art. 1345 c.c. anche agli atti unilaterali. 96. In primo luogo, si può rilevare come il Legislatore abbia espressamente riconosciuto rilevanza al motivo illecito, anche quando questo non sia comune (cfr. artt. 788 e 626 c.c., in materia, rispettivamente, di donazione e testamento). non può, dunque, escludersi che il motivo illecito, qualora sia il solo che abbia determinato il soggetto al compimento dell’atto unilaterale, possa inficiare il negozio giuridico rendendolo nullo (ex artt. 1324, 1345 e 1418 c.c.) anche ove, come nell’ipotesi di rinunzia alla proprietà, non si tratti di un atto bilaterale e, quindi, non si possa parlare di “motivo ... comune”. 97. In secondo luogo, la giurisprudenza di codesta Corte, soprattutto in materia di diritto del lavoro, ha affermato che: “La norma dettata dall’art. 1345 c.c. che, derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all’art. 1324 c.c., trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’art. 1343 c.c., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” (cfr. massima della sent. Cassazione civile, sez. II, 19 ottobre 2005, n. 20197: ex plurimis Cass. lav. 755/82, 1017/85, 4747/95, 7188/01, 11191/02, 11633/02, 10189/04). 98. nel caso di specie deciso da codesta Corte, quest’ultima, dopo aver affermato tale principio, era giunta alla conclusione secondo la quale “sussistendone le condizioni di fatto, deve qualificarsi affetto da motivo illecito e quindi nullo, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c., l’atto di recesso da un rapporto di agenzia che, diretto nei confronti di un agente costituito in forma di ConTenZIoSo nAZIonALe società di persone, risulti ispirato dalla sola finalità di rappresaglia e di ritorsione nei confronti del comportamento sindacale tenuto dai soci di quest’ultima, dovendosi ritenere un siffatto motivo contrario alle norme imperative poste a tutela delle libertà sindacali dei lavoratori, norme che, in ragione del valore e della tutela che lo stesso dettato costituzionale assegna al “lavoro”, nella sua accezione più ampia, appaiono estensibili, al di fuori dei rapporti di lavoro subordinato, a tutti coloro che svolgono attività lavorativa, anche se in forma parasubordinata o autonoma” (cfr. massima della sent. Cassazione civile, n. 20197/2005 cit.). 99. Codesta ecc.ma Corte di Cassazione giunge ad applicare l’art. 1345 c.c. anche agli atti unilaterali, tramite l’art. 1324 c.c., analizzando la ratio della prima norma “da individuarsi nell’esigenza di evitare gli abusi del diritto, ricorrente quando l’atto di autonomia privata sia finalizzato esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali”. Questa medesima finalità, infatti, può ben può essere posta anche a “presidio di quelle situazioni soggettive che potrebbero essere pregiudicate dal compimento di atti unilaterali, esclusivamente o prevalentemente determinati da siffatte finalità. Sicché, se in tema di atti bilaterali o plurilaterali, la finalità illecita determinante per essere tale, necessariamente deve essere riferibile a tutti i partecipi, il requisito della relativa comunanza non è, ovviamente, esigibile, per la contraddizione che non lo consente, quando la stessa infici un atto unilaterale, non altrimenti motivato o determinato anche da ragioni concorrenti di minore rilevanza ed il movente illecito sia riconoscibile, (…)” occorrendo che l’illiceità sia rivelata da elementi obiettivi esteriori, evidenzianti il relativo collegamento con l’atto; l’onere della relativa prova naturalmente incombe sulla parte che alleghi l’invalidità dell’atto” (cfr. sent. Cassazione civile, n. 20197/2005 cit.). 100. Pertanto, alla luce della suddetta giurisprudenza di legittimità, affinché il motivo illecito di un atto unilaterale assuma rilevanza giuridica, comportandone la nullità ex art. 1418 c.c. è necessario che: 1. il motivo sia illecito; 2. il motivo illecito sia la ragione determinante del soggetto che pone in essere l’atto unilaterale; 3. il motivo illecito sia oggettivamente riconoscibile dall’atto, o, comunque, sia ragionevolmente desumibile da elementi estrinseci. 101. Alla luce di quanto fin qui affermato, può, dunque, ritenersi -ad avviso di questa Avvocatura Generale -che l’atto di rinunzia al diritto di proprietà, qualora sia unicamente diretto al perseguimento di finalità non consentite dall’ordinamento giuridico, come quella di voler far ricadere sullo Stato, per il tramite dell’art. 827 c.c., la responsabilità dei danni provocati dal- l’immobile esposto a rischi idrogeologici, possa considerarsi -in disparte il profilo causale -comunque nullo per illiceità dei motivi ex artt. 1324, 1345 e rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 1418 c.c., ove il motivo illecito sia la ragione esclusiva dell’atto e sia evincibile dal contenuto di quest’ultimo e/o dalle circostanze obiettive che ne hanno preceduto e/o accompagnato la redazione. 102. orbene, al di là dell’eventualità, effettivamente “scolastica” e residuale, che il motivo illecito determinante sia espressamente enunciato nell’atto dismissivo, il relativo (ovviamente, non semplice) onere probatorio potrà essere assolto dallo Stato attore allegando e dimostrando elementi obiettivi estrinseci (quali, ad esempio, l’inclusione dell’immobile nei piani del rischio idrogeologico redatti dall’Autorità di Bacino; precedenti e documentati episodi alluvionali che abbiano interessato il bene; ordinanze contingibili ed urgenti emesse dal Sindaco quale Ufficiale di Governo con riferimento alla zona in cui ricade il bene, etc...) dai quali sia possibile desumere, con il necessario grado di verisimiglianza ex artt. 2727 e ss. c.c., che l’atto dismissivo aveva, quale unica finalità, quella di accollare allo Stato le spese di manutenzione e ripristino del bene, unitamente alla responsabilità (civile e penale) per i futuri dissesti. 103. Potrà anche farsi ricorso ad una consulenza tecnica d’ufficio (c.d. “percipiente”: cfr. Cass., civ., sez. 3, n. 12387/20; nonché, da ultimo, Cass. civ., sez. 3, n. 11136/25) al fine di verificare se l’immobile oggetto di rinuncia versasse in stato di dissesto idrogeologico o fosse inquinato, onde, poi, in caso positivo, inferirne la nullità dell’atto dismissivo per le ragioni sopra evidenziate. 104. Sotto altro profilo, ma sempre connesso all’aspetto causale del negozio giuridico, l’atto dismissivo del bene immobile (nei casi enunciati nel paragrafo 81 della presente memoria) posto in essere con l’unico intento di far ricadere sullo Stato (e, dunque, sull’intera collettività) gli oneri connessi alla titolarità del diritto di proprietà, nonché le eventuali future responsabilità (e senza alcuna previa accettazione da parte dell’erario) potrebbe essere considerato in frode alla legge, e quindi nullo in virtù dell’art. 1344 c.c., poiché obiettivamente volto (sfruttando la combinazione dell’effetto abdicativo del- l’atto di rinuncia e dell’effetto acquisitivo ex lege in capo allo Stato del bene dismesso) al conseguimento di un risultato in contrasto con i limiti costituzionali, -come tali “imperativi” e, dunque inderogabili -delle facoltà e prerogative dominicali, tra l’altro eludendo le discipline legislative (altrettanto inderogabili) in materia di “allineamento catastale” (cfr. art. 29, comma 1-bis, L. 52/1985), in materia urbanistica (cfr. art. 40 L. 47/1985 ed artt. 30 e 46 d.P.r. 380/2001) ed in materia di prestazione energetica (cfr. art. 6, co. 3, d.lgs. 192/05), le quali, nella prassi notarile, vengono generalmente ritenute non applicabili con riferimento alle ipotesi di rinuncia immobiliare meramente abdicativa, al di fuori dello schema della donazione. 105. Un siffatto negozio unilaterale di rinuncia potrebbe, infine, essere considerato nullo perché in contrasto con il generale divieto di abuso del diritto, laddove la rinuncia venga posta in essere al solo fine (utilitaristico ed ConTenZIoSo nAZIonALe egoistico) di trasferire in capo alla collettività gli oneri connessi alla titolarità del bene e la relativa responsabilità per gli eventuali futuri danni (fermo restando quanto si dirà nei successivi paragrafi con riferimento alle situazioni pregresse), e, dunque, per una finalità che, sotto altro angolo prospettico, può qualificarsi meramente emulativa ex art. 833 c.c., e, come tale, disapprovata dall’ordinamento. 106. In ogni caso, in tutte le ipotesi di rinuncia meramente abdicativa, ritiene questa Avvocatura Generale che rimanga ferma la responsabilità del rinunciante ex artt. 2043, 2051 e 2053 c.c. nei confronti dei terzi per i danni a cui questi abbia dato causa con il fatto proprio omissivo, cioè con l’omissione, in passato, dei necessari ed ineludibili interventi di manutenzione e messa in sicurezza del proprio immobile. 107. Tale illecito -in quanto omissivo -presenta, infatti, natura permanente e cessa solo con il compimento dell’attività doverosa (che, nel caso della rinuncia c.d. abdicativa, è evidentemente mancata) e, dunque, non viene meno per effetto della mera dismissione del bene. 108. Siffatta conclusione appare coerente con il peculiare atteggiarsi del- l’istituto della rinuncia meramente abdicativa la quale, secondo la comune opinione della dottrina, non può mai comportare la liberazione del rinunciante dalle obbligazioni pregresse, mancando una espressa previsione legislativa che lo consenta, invece rintracciabile nelle ipotesi tipizzate di rinuncia c.d. “liberatoria”. 109. Ad ulteriore conforto dell’interpretazione che qui si sostiene, osserva questa Avvocatura Generale come in base al disposto dell’art. 882, comma 3, c.c. (15) -dettato con riferimento ad un’ipotesi tipizzata di rinunzia (cfr. secondo comma) -anche nei casi di rinunzia c.d. liberatoria (nei quali, cioè, in linea di principio, il Legislatore ha previsto la liberazione del rinunziante dagli obblighi pregressi) non è consentito al medesimo rinunziante di sottrarsi a quelle obbligazioni alle quali abbia dato luogo con “il fatto proprio”. 110. Il disposto del terzo comma dell’art. 882 c.c. sembrerebbe, dunque, lasciar intendere che, nel caso di rinuncia alla proprietà immobiliare, la regola generale, espressione del precetto del “neminem laedere”, sia nel senso che il rinunziante continua a rispondere nei confronti dei terzi delle obbligazioni risarcitorie derivanti dalle proprie condotte passate (commissive e/o omissive), tanto è vero che il Legislatore ha avvertito la necessità di ribadire tale regola proprio nel disciplinare un’ipotesi di rinunzia liberatoria, che, di per sé, comporta la liberazione dalle obbligazioni pregresse. 111. In conclusione, il rinunziante non è liberato dai suoi eventuali pregressi obblighi risarcitori nei confronti dei terzi, nei quali non subentra di certo (15) Ai sensi dell’art. 882, comma 3, c.c. “la rinunzia non libera il rinunziante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio”. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 lo Stato, atteso che l’asserito acquisto ex art. 827 c.c. avviene a titolo originario, quindi senza che vi sia una sostituzione dello Stato asserito acquirente nella posizione dell’asserito dante causa/rinunciante. 112. ne consegue ulteriormente che lo Stato potrà rivalersi nei confronti del rinunciante per tutti gli esborsi eventualmente sostenuti, anche in favore dei terzi, in ragione ed a causa dell’immobile “dannoso”, anche nel periodo successivo all’atto di rinuncia, ove si dimostri che il dissesto e/o il crollo e/o la rovina dell’immobile non sarebbero avvenuti ove il terzo avesse provveduto alla tempestiva esecuzione, a tempo debito, dei necessari interventi di riparazione. 113. Trattandosi di acquisto a titolo originario, il bene rinunciato passa in mano pubblica libero da diritti, di qualunque natura, vantati dai terzi sul bene, anche se in buona fede; in generale, infatti, l’acquisto a titolo originario prevale sempre sugli acquisti a titolo derivativo, a prescindere dalla data di trascrizione di questi ultimi (16). P.T.M. Si chiede all’ecc.ma Corte di Cassazione -Sezioni Unite Civili di voler enunciare ex art. 363 bis c.p.c. i seguenti principi di diritto: “Ove si ritenga la ammissibilità, in astratto, della c.d. rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, ed ove si ritenga che tale rinuncia possa comportare l’acquisto dell’immobile ex art. 827 c.c. in capo allo Stato senza necessità di accettazione da parte di quest’ultimo, ed al di fuori dello strumento della donazione, con tutte le relative formalità, accertare e dichiarare: i. che il terzo rinunciante ha l’obbligo giuridico di comunicare l’atto di rinuncia allo Stato (e per esso alla competente Direzione Regionale dell’Agenzia del Demanio); ii. e che l’articolo 827 c.c., in base ad una doverosa lettura adeguatrice costituzionalmente orientata, deve essere interpretato nel senso che allo Stato spetta il potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto, con efficacia ex tunc, da esercitarsi con le modalità di cui ai paragrafi 47 e 48 della presente memoria. In via del tutto subordinata, accertare e dichiarare: che, ogni qualvolta l’atto di rinuncia venisse posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. -e dunque in capo alla collettività intera -i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale: cfr. art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose (16) Si vedano, in tema di usucapione, Cass. civ., sez. II, 6 marzo 2022, n. 8590; Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2008, n. 18888; Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 2005, n. 2161. ConTenZIoSo nAZIonALe e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia sarebbe nullo: in via principale: a.) in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.; in subordine: b.) per illiceità del motivo (ai sensi dell’art. 1345 c.c.); in ulteriore subordine: c.) per essere l’operazione realizzata in frode alla legge (a mente dell’art. 1344 c.c.); in via ulteriormente gradata: d.) perché compiuta in violazione del divieto di abuso del diritto ex art. 833 c.c.; In tutte le ipotesi, accertare e dichiarare, infine, che: il rinunziante continua a rispondere nei confronti dei terzi delle obbligazioni risarcitorie derivanti dalle proprie condotte passate (commissive e/o omissive)”. Si deposita il seguente documento: -All. 1 -Atto di rinuncia al diritto di proprietà del 29 luglio 2019 (già prodotto sub doc. 1 all’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado). roma, 14 maggio 2025 il Procuratore dello Stato (Valerio d’Alò) l’avvocato dello Stato (Giovanni Palatiello) Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 11 agosto 2025, n. 23093 -Pres. P. d’Ascola, Rel. A. Scarpa -rinvio pregiudiziale iscritto al n. r.G. 2098/2024, disposto dal Tribunale di L’Aquila con ordinanza del 17 gennaio 2024 nella causa pendente tra Ministero dell’economia e delle finanze, Agenzia del demanio (avv. gen. Stato) e A.A.; rinvio pregiudiziale iscritto al n. r.G. 11382/2024, disposto dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 23 aprile 2024 nella causa pendente tra Ministero dell’economia e delle finanze, Agenzia del demanio (avv. gen. Stato) e B.B., C.C. (avv. F. Pierpaolo). FATTI dI CAUSA 1. -Il 23 marzo 2020 è stato rogato e successivamente trascritto dal notaio edenio Franchi un atto con cui A.A. (quest’ultima in seguito deceduta, restandone erede A.A.) hanno rinunciato alla proprietà di fondi siti nel Comune di Bomba. Si tratterebbe di terreni sostanzialmente inservibili e privi di valore economico in quanto, come emergente dal certificato di destinazione urbanistica, tutti sottoposti a Vincolo Pericolosità elevata P2 del Piano di Assetto Idrogeologico predisposto dalla regione Abruzzo. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 nel corso di un procedimento instaurato dal Ministero dell’economia e delle finanze e dal- l’Agenzia del demanio per ottenere la declaratoria di nullità, o comunque di inefficacia nei confronti dello Stato dell’atto notarile, il Tribunale di L’Aquila ha pronunciato in data 17 gennaio 2024 ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis cod. proc. civ., iscritta al n. r.G. 2098/2024. L’ordinanza del Tribunale di L’Aquila riferisce che le amministrazioni attrici hanno dedotto a fondamento delle loro domande la non configurabilità nel nostro ordinamento di una generica facoltà di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, perciò sostenendo la illiceità o non meritevolezza della causa dell’atto impugnato, ovvero la illiceità del motivo determinante, o la frode alla legge, o ancora l’abuso del diritto. 1.1. -Il Tribunale di L’Aquila ha così ravvisato la sussistenza delle condizioni per disporre il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., per la risoluzione della questione di diritto “attinente all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, nonché all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto”. 1.2. -Secondo il rimettente si tratterebbe di questione mai espressamente affrontata dalla Corte di cassazione, ma soltanto incidentalmente considerata nella sentenza delle Sezioni Unite n. 1907 del 1997, in tema di “occupazione appropriativa”, ove si richiamava l’interpretazione secondo cui la proposizione da parte dell’interessato dell’azione di risarcimento del danno per la perdita definitiva del bene avrebbe innescato implicitamente “un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.)”. Il Tribunale di L’Aquila ricorda altresì la sentenza pronunciata dal Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 20 gennaio 2020, n. 2, pure essa limitata alla rinuncia abdicativa nella materia del- l’espropriazione, ovvero alla possibilità di riconoscere la stessa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A., in seguito all’irreversibile trasformazione del fondo occupato. 1.3. -L’ordinanza di rinvio spiega quindi perché la questione sollevata sia necessaria alla definizione del giudizio, da essa dipendendo l’eventuale nullità dell’atto stipulato il 23 marzo 2020, o, altrimenti, l’ambito del sindacato di meritevolezza di tutela degli interessi che detto atto è diretto a realizzare. 1.4. -Il Tribunale di L’Aquila evidenzia inoltre che la questione posta presenta gravi difficoltà interpretative, confrontandosi nella giurisprudenza di merito ed in dottrina due orientamenti contrapposti. Una prima interpretazione reputa ammissibile la rinuncia abdicativa alla proprietà, argomentando dagli artt. 827, 1118 comma 2, 1350 n. 5) e 2643 n. 5 del codice civile. La rinuncia abdicativa alla proprietà darebbe luogo, per questa tesi, ad un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, né traslativo (a differenza delle ipotesi di c.d. abbandono liberatorio, di cui agli artt. 550, 882, 1070 e 1104 del codice civile), con effetti soltanto indiretti sui terzi. L’opinione avversa ravvisa, invece, nelle norme citate ipotesi, comunque, di rinunce traslative o liberatorie, oppure deroghe giustificate dal diverso regime delle cose comuni, richiama le ulteriori disposizioni contenute negli artt. 963 e 2814 del codice civile e spiega l’art. 827 cod. civ. come disposizione “di chiusura”, desumendone che i beni immobili, a differenza delle cose mobili, non possono essere di “proprietà di alcuno”. Secondo questa impostazione, tutte le fattispecie in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunate dal dato che, a fronte di essa, la proprietà immobiliare non rimane “ace ConTenZIoSo nAZIonALe fala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà, ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. 1.5. -Il Tribunale di L’Aquila prosegue prospettando gli ulteriori dubbi che sorgono ove pure si ammetta la rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare, dubbi legati al perimetro della verifica giudiziale della meritevolezza degli interessi che l’atto sia diretto a realizzare, o anche di eventuale illiceità della causa o del motivo che lo determina. Il rimettente considera i doveri di custodia che incombono sul proprietario di un immobile, la cui inosservanza è ragione di responsabilità civile e penale, nonché gli oneri tributari che discendono dal dominio. Il sindacato di meritevolezza e di liceità dell’atto di rinuncia abdicativa opererebbe anche nella cornice degli artt. 2, 41, secondo comma, e 42 della Costituzione. L’ordinanza di rinvio riporta inoltre un diverso approccio ermeneutico, che nega il vaglio di meritevolezza degli interessi perseguiti con la rinuncia abdicativa alla proprietà, come anche l’analisi della causa da essa esplicitata, giacché espressione del più generale diritto di disporre della cosa accordato al proprietario dall’art. 832 cod. civ. Secondo il giudice rimettente, si porrebbe unicamente un limite di illiceità della rinuncia abdicativa in relazione al fine ed al motivo dell’operazione. nessuna illegittimità potrebbe, altrimenti, predicarsi, ove la rinuncia alla proprietà sia ispirata da scelte di convenienza economica e di risparmio di spesa. Una valutazione di meritevolezza della rinuncia alla proprietà dei fondi siti nel Comune di Bomba espressa da A.A. nell’atto del 23 marzo 2020 è comunque alla base delle domande avanzate dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio, stante il vincolo di pericolosità gravante su tali beni attuativo del vigente Piano di Assetto Idrogeologico regionale. Le rinuncianti, secondo le Amministrazioni attrici, avrebbero in tal modo inteso trasferire sulla collettività i rischi e costi connessi alla gestione dei fondi. 1.6. -Infine, il Tribunale di L’Aquila ha sostenuto che la questione devoluta col rinvio pregiudiziale è suscettibile di porsi in numerosi giudizi, in relazione ad immobili caratterizzati da problematiche strutturali di diverso tipo presenti sull’intero territorio nazionale, esponendo al riguardo la difesa delle amministrazioni attrici che si è instaurata una “prassi notarile” di trascrizioni di atti di rinuncia alla proprietà immobiliare. Il giudice rimettente riferisce, peraltro, che identiche questioni si sono poste in altri tre procedimenti già definiti dal medesimo Tribunale e devono essere esaminate in altro giudizio pendente dinanzi ad esso. 2. -La Prima Presidente, con decreto del 29 febbraio 2024 (pubblicato, al pari del provvedimento che ha disposto il rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 137-ter disp. att. cod. proc. civ.), ha dichiarato ammissibile la questione ed ha assegnato la stessa alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto. Il decreto della Prima Presidente ha verificato la sussistenza delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 363-bis cod. proc. civ. Tale provvedimento, in particolare, quanto al presupposto della suscettibilità della questione di porsi in numerosi giudizi, ha considerato un parere dell’Avvocatura generale dello Stato, in cui si suggerisce al Ministero della giustizia di invitare i Consigli notarili ad adoperarsi affinché i propri iscritti diano comunicazione degli atti di rinuncia alla proprietà immobiliare da essi ricevuti al competente ufficio dell’Agenzia del demanio, onde consentirgli di adottare tutte le iniziative opportune, compreso l’eventuale esperimento dell’actio nullitatis. Il decreto di ammissibilità ha aggiunto che la rilevanza pratica della questione emerge anche dai richiami che la giurisprudenza effettua alla figura della dismissione della proprietà immobiliare in diversi contesti, quali, ad esempio, il settore delle espropriazioni e il settore tributario. Quanto alla grave difficoltà interpretativa della questione, il decreto della Prima rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 Presidente ne ha altresì considerato la consistenza dogmatica e sistematica e le ricadute anche in ambiti pubblicistici. 3. -Il Tribunale di Venezia ha pronunciato in data 23 aprile 2024 ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis cod. proc. civ., iscritta al n. r.G. 11382/2024, nel corso di un procedimento instaurato dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio per ottenere la declaratoria di nullità di un atto rogato dal notaio Stefano Stivanello (rep. 11623; racc. 8505), con il quale i convenuti B.B. e C.C. avevano rinunciato unilateralmente ad un immobile sito in Belluno. A sostegno dell’allegata invalidità o inefficacia dell’atto, le amministrazioni attrici hanno rappresentato che l’area dove è collocato l’immobile oggetto di causa è compresa nell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia, sicché la rinuncia abdicativa compiuta comporta la traslazione di costi elevatissimi e responsabilità civile e penale in capo allo Stato e alla collettività. Le attrici deducono l’inammissibilità nel nostro ordinamento di un negozio unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, o, in subordine, la nullità dell’atto impugnato per illiceità della causa o dei motivi, la immeritevolezza degli interessi perseguita dai disponenti, o la configurabilità di un abuso del diritto. 3.1. -Il Tribunale di Venezia ha quindi ravvisato la sussistenza delle condizioni per disporre il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., per la risoluzione della questione di diritto “attinente all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, nonché all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto”, richiamando quanto affermato nel decreto della Prima Presidente del 29 febbraio 2024 pronunciato con riguardo all’ordinanza di rinvio del Tribunale di L’Aquila nel procedimento iscritto al n. r.G. 2098/2024. 4. -La Prima Presidente, con decreto del 25 giugno 2024 (pubblicato ai sensi dell’art. 137ter disp. att. cod. proc. civ.), ha dichiarato ammissibile la questione ed ha assegnato la stessa alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto, ribadendo la sussistenza delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 363-bis cod. proc. civ. come nel precedente decreto del 29 febbraio 2024. 5. -Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta, chiedendo di enunciare il seguente principio di diritto: “la rinuncia al diritto di proprietà immobiliare è ammissibile, quale atto negoziale in cui si estrinseca lo statuto proprietario. Il relativo negozio unilaterale a carattere abdicativo, non traslativo, non recettizio, irrevocabile, sottoposto a forma scritta ad substantiam e trascrivibile esclusivamente contro il rinunciante, comporta ipso iure l’acquisizione a titolo originario da parte dello Stato del bene oggetto di rinuncia ex art. 827 c.c. Esso è comunque soggetto a un giudizio di meritevolezza agganciato ai valori costituzionali, fondanti l’ordinamento giuridico, e al rispetto del diritto europeo, di modo che il negozio unilaterale di rinuncia abdicativa del diritto di proprietà immobiliare in casi eccezionali può essere considerato immeritevole di tutela e, quindi, nullo se consista in un’operazione economica che si ponga in netto e irriducibile contrasto con gli interessi pubblici, collettivi e generali espressi dalla Costituzione e dai Trattati europei e concretantisi, in particolare, nel principio costituzionale della parità di bilancio e dei relativi vincoli europei di bilancio, senza che a tal fine sia sufficiente il mero perseguimento da parte del rinunciante di un fine egoistico”. 5.1. -Hanno depositato memorie il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia del demanio, i quali hanno chiesto che vengano enunciati i seguenti principi di diritto: “[o]ve si ritenga la ammissibilità, in astratto, della c.d. rinuncia abdicativa al diritto di pro ConTenZIoSo nAZIonALe prietà immobiliare, ed ove si ritenga che tale rinuncia possa comportare l’acquisto dell’immobile ex art. 827 c.c. in capo allo Stato senza necessità di accettazione da parte di quest’ultimo, ed al di fuori dello strumento della donazione, con tutte le relative formalità, accertare e dichiarare: i. che il terzo rinunciante ha l’obbligo giuridico di comunicare l’atto di rinuncia allo Stato (e per esso alla competente Direzione Regionale dell’Agenzia del Demanio); ii. e che l’articolo 827 c.c., in base ad una doverosa lettura adeguatrice costituzionalmente orientata, deve essere interpretato nel senso che allo Stato spetta il potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto, con efficacia ex tunc, da esercitarsi con le modalità di cui ai paragrafi 47 e 48 della presente memoria. In via del tutto subordinata, accertare e dichiarare: che, ogni qualvolta l’atto di rinuncia venisse posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. -e dunque in capo alla collettività intera -i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale: cfr. art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia sarebbe nullo: in via principale: a.) in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.; in subordine: b.) per illiceità del motivo (ai sensi dell’art. 1345 c.c.); in ulteriore subordine: c.) per essere l’operazione realizzata in frode alla legge (a mente dell’art. 1344 c.c.); in via ulteriormente gradata: d.) perché compiuta in violazione del divieto di abuso del diritto ex art. 833 c.c.; In tutte le ipotesi, accertare e dichiarare, infine, che: il rinunziante continua a rispondere nei confronti dei terzi delle obbligazioni risarcitorie derivanti dalle proprie condotte passate (commissive e/o omissive)”. nel procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. r.G. 11382/2024 hanno depositato memoria anche B.B. e C.C., concludendo nel senso che sia ritenuta ammissibile la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare e che sia negato che la sindacabilità giudiziale dell’atto di rinuncia possa condurre ad una declaratoria di “nullità”, potendosi al più giustificare una pretesa risarcitoria della P.A. a norma dell’art. 2051 cod. civ. rAGIonI deLLA deCISIone 1.-Il procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. r.G. 2098/2024, disposto dal Tribunale di L’Aquila, e il procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. r.G. 11382/2024, disposto dal Tribunale di Venezia, vertono sulla medesima questione, sicché ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta. 2. -Il problema della rinunciabilità del diritto di proprietà immobiliare non può dirsi recente. Se per il diritto romano classico la rinuncia alla proprietà degli immobili era compresa nella più ampia facoltà di derelictio, discutendosi soltanto se oltre la volontà del proprietario e l’effettivo abbandono della cosa occorresse altresì l’occupazione del bene da parte di un terzo, il diritto moderno ha preso ad interessarsene essenzialmente per condizionarne la validità ad rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 una dichiarazione in forma scritta da rendere pubblica mediante trascrizione (ad esempio, art. 1314, n. 3, del codice civile 1865) o, nelle legislazioni di tipo germanico, mediante iscrizione nei libri fondiari. Già oltre un secolo fa, si affermava in dottrina che la rarità dei casi in cui potesse avvenire una rinuncia del titolare alla proprietà di un immobile giustificava che l’ordinamento civilistico ne limitasse la disciplina alla previsione di specifiche formalità, senza curarsi di regolare più nel dettaglio tale modo di dismissione, pur avvertendo che detta rinuncia serve a soddisfare l’esigenza, tutt’altro che infrequente, di disfarsi di fondi la cui gestione risulti non soltanto infruttuosa, ma anche dannosa. È questa la situazione che sembra accomunare le due vicende oggetto dei giudizi pendenti dinanzi al Tribunale di L’Aquila e al Tribunale di Venezia. Gli immobili su cui vertono le due cause risultano sottoposti a vincoli conformativi della proprietà privata finalizzati alla tutela dell’interesse pubblico alla stabilità e alla difesa dell’assetto idrogeologico del territorio, il che comporta la prescrizione di limiti ed obblighi alle rispettive facoltà dominicali. 2.1. -nelle memorie depositate il 14 maggio 2025, il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia del demanio espongono che al momento sull’intero territorio nazionale risultano istruiti n. 128 affari legali connessi alla c.d. rinuncia abdicativa (dei quali n. 89 pendenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria e n. 39 in fase stragiudiziale). 3. -La giurisprudenza di questa Corte ha, in realtà, sia pure marginalmente, affrontato il tema della rinuncia alla proprietà degli immobili, in sostanza dandone sempre per scontata l’ammissibilità, salvo il rispetto dei requisiti formali. 3.1. -Così, ad esempio, Cass. 28 maggio 1996, n. 4945, ha affermato che la “la rinuncia agli effetti positivi del decorso del tempo da parte del possessore di un bene immobile altrui non equivale alla rinuncia al diritto di proprietà già acquisito -che renderebbe l’immobile vacante (e, come tale, spettante al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ.) -ma conserva inalterato il diritto di proprietà del precedente titolare, attraverso il rifiuto di far valere la tutela giuridica concessa nei confronti del possesso ininterrotto protratto per il periodo di tempo previsto dalla legge”. Secondo la sentenza n. 4945 del 1996, pertanto, alla rinuncia a far valere l’acquisto per usucapione maturatosi per effetto del possesso ininterrotto del fondo protrattosi per un certo periodo di tempo non sarebbe applicabile l’“art. 1350, n. 5, cod. civ. che impone l’osservanza della forma scritta a pena di nullità per gli atti di rinuncia a diritti reali, assoluti o limitati, su beni immobili, poiché... tale disposizione si limita a prescrivere i requisiti formali che deve osservare il negozio unilaterale abdicativo con il quale si rinuncia ad un diritto reale già acquistato col rispetto delle forme prescritte dalla legge (atto scritto o sentenza trascritta agli effetti dell’opponibilità a terzi)”. dissentendo dal precedente di cui alla sentenza 9 dicembre 1970, n. 2616, la sentenza n. 4945 del 1996 ha aggiunto che “non sembra ipotizzabile una rinuncia implicita al diritto di proprietà immobiliare con effetti erga omnes, dal momento che l’unico caso espressamente disciplinato -che è quello dell’abbandono del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante al fine di ottenere la liberazione delle spese necessarie per l’uso o la conservazione della servitù (art. 1070 cod. civ.) -suona come deroga al principio di generale esclusione della rinuncia tacita alla proprietà immobiliare, il quale discende dalla considerazione che la facoltà di godimento spettante al suo titolare può esprimersi anche nella mancanza di qualsiasi comportamento attivo, sicché l’inerzia del titolare non può rivestire connotati qualificanti agli effetti della dimissione del diritto di proprietà”. ConTenZIoSo nAZIonALe Identicamente risolvendo la medesima questione della rinuncia a far valere l’acquisto all’usucapione, come ipotesi distinta dalla rinuncia ad un diritto di proprietà già acquisito, si sono poi pronunciate Cass. 5 settembre 1998, n. 8815; Cass. 1 aprile 1999, n. 3122; Cass. 19 gennaio 2018, n. 1363. 3.2. -Sempre con riguardo alla prescrizione di forma scritta ex art. 1350, n. 5, cod. civ., Cass. 26 luglio 1983, n. 5133, vi ha ritenuto soggetta la rinuncia del coerede al diritto di proprietà (esclusiva) sui beni immobili assegnatigli in sede di divisione ereditaria. Così anche Cass. Sez. Un. 29 marzo 2011, n. 7098, ha inteso sottoposta alla forma scritta di cui all’art. 1350, n. 5, cod. civ. la rinuncia del legittimario al legato avente ad oggetto un bene immobile disposto dal testatore ai sensi dell’art. 551 cod. civ., in quanto atto dismissivo della proprietà di beni già acquisiti al suo patrimonio (si vedano anche Cass. 22 giugno 2010, n. 15124; Cass. 3 luglio 2000, n. 8878). Viceversa, Cass. 28 luglio 1975, n. 2924, ha escluso la soggezione al precetto di forma scritta ad substantiam della rinuncia all’azione di risoluzione di un contratto di alienazione immobiliare, sostenendo che l’esigenza della forma essenziale per la rinuncia al diritto di proprietà su beni immobili ricorre solo quando il diritto medesimo costituisca l’oggetto immediato e diretto della rinuncia stessa. 4. -La Corte europea dei diritti dell’Uomo, Grande Camera, con sentenza 30 agosto 2007, J.A. Pye (Oxford) Ltd E J.A. Pye (Oxford) Land Ltd v. United Kingdom (ric. n. 44302/02), ha negato che la disciplina dell’adverse possession, dapprima vigente nel regno Unito, contrastasse con l’art. 1, prot. 1, CedU, intendendo l’istituto come vicenda estintiva non della proprietà del vecchio titolare, ma del diritto dello stesso di recuperare il fondo che avesse abbandonato, a fronte della nascita di un nuovo titolo di acquisto in capo al possessore, compatibile con la necessità dello Stato di disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale. 5. -La Corte costituzionale, con sentenza 27 febbraio 2024, n. 28, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 633 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 42 e 47 della Costituzione, ha osservato che, poiché scopo della incriminazione ai sensi dell’art. 633 cod. pen. è la tutela del diritto di godere pacificamente o di disporre dell’immobile, spettante al proprietario, al possessore o al detentore qualificato, oggetto dell’azione delittuosa non possono che essere terreni o edifici altrui, senza alcuna distinzione, e quindi anche terreni incolti, o non produttivi, nonché edifici disabitati o abbandonati. L’art. 633 cod. pen., pertanto, trovando applicazione anche in ipotesi di invasione di edifici in stato di abbandono da più anni, non confligge con l’art. 42 Cost., “non discendendo dallo stato di abbandono un automatico effetto estintivo dello ius excludendi alios riservato al titolare della situazione di attribuzione del bene”. La sentenza n. 28 del 2024 ha ulteriormente precisato che l’incriminazione della condotta di invasione di edifici in stato di abbandono nemmeno appare in contrasto con la “funzione sociale” del diritto di proprietà, sia pure posta in stretta relazione all’art. 2 Cost., “in quanto il dovere del proprietario di partecipare alla soddisfazione di interessi generali e all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale non significa affatto che la proprietà, anche se in stato di abbandono, debba soffrire menomazioni da parte di chiunque voglia limitarne la fruizione”. 6. -Come riferito anche dai Tribunali rimettenti, il Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria), con sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, ha affermato che, con riguardo alla disciplina posta dal- l’art. 42-bis del d.P.r. n. 327 del 2001, l’illecito permanente dell’autorità, che utilizza un bene rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, viene meno nei casi previsti da detta disposizione (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti di natura transattiva; mentre non può essere ravvisata una rinuncia abdicativa implicita nell’atto di proposizione in giudizio, da parte del privato illegittimamente espropriato, della richiesta di risarcimento del danno per la perdita della proprietà occupata dalla P.A. a seguito dell’irreversibile trasformazione del fondo. L’approdo raggiunto dai giudici amministrativi resta, comunque, confinato all’ambito della vicenda della cosiddetta occupazione usurpativa e dunque alla sequenza occupazione-rinuncia- esproprio anomalo. 7. -Le questioni devolute con le ordinanze di rinvio pregiudiziale sono sintetizzabili come “ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili”e“eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto”. Queste Sezioni Unite sono chiamate dunque a pronunciarsi, enunciando i principi di diritto ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., nell’ambito della risoluzione di tali due questioni, necessarie alla definizione dei giudizi a quibus, e cioè degli indispensabili antecedenti logico- giuridici influenti sull’esito del thema decidendum dei processi di merito pendenti tra le parti. non mette conto occuparsi in questa sede di precisazioni, dettagli applicativi o normative settoriali che nella pratica potrebbero venire ulteriormente in rilievo in casi specifici. Le questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia inducono perciò a riflettere preliminarmente sulla portata del “diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, enunciato dall’art. 832 del codice civile, e sulla configurabilità di un “limite”, da rinvenire nella legge, a norma dell’art. 42, secondo comma della Costituzione, alla possibilità giuridica di rinunciare alla titolarità dell’immobile, che permei il contenuto del diritto stesso e così ricada sulla rilevanza dell’atto abdicativo. 8.- La facoltà di disporre, che pur l’art. 832 cod. civ. si preoccupa di specificare nella definizione del contenuto della proprietà, è, per il vero, caratteristica normale di tutti i diritti patrimoniali, traducendosi, di regola, nella possibilità di trasferire la situazione giuridica ad altro soggetto, in modo da realizzarne il valore. La facoltà di disposizione, intesa come possibilità di alienare, non è, dunque, caratteristica tipizzante del diritto di proprietà, né, più in generale, dei diritti reali di godimento (si pensi al divieto di cessione di cui all’art. 1024 cod. civ.). Peraltro, anche l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si apre enunciando che “[o]gni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità”. 8.1. -Che l’utilità di scambio in cui si sostanzia il “diritto di disporre” non sia tratto fisionomico della proprietà lo si ricava, secondo alcune letture, anche dall’ambito di estensione del divieto di alienazione ex art. 1379 cod. civ., ove lo stesso non si reputi limitato al solo diritto di proprietà, pur avendo la giurisprudenza solitamente declinato la ratio di tale norma proprio nella prospettiva della sacralità dei poteri dispositivi dominicali (ad esempio, Cass. 2 agosto 2023, n. 23616; Cass. 20 novembre 2019, n. 30246; Cass. 20 giugno 2017, n. 15240). Quanto ai divieti normativi di alienazione altrimenti previsti, con riguardo a determinati beni o alle ipotesi di prelazioni legali, essi suppongono comunque atti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà, ovvero operazioni economiche che comportino la diminuzione volontaria del patrimonio del disponente con relativo vantaggio in via diretta dell’altra parte, destinataria dell’attribuzione del diritto trasmesso. 8.2. -L’esercizio della facoltà di disporre della proprietà non implica nemmeno necessaria ConTenZIoSo nAZIonALe mente lo scambio con un suo corrispettivo. Il pensiero va in proposito alla donazione, oltre che, come dai più si assume, proprio alla rinuncia del diritto. Si evidenzia, in ogni modo, che l’idoneità di una cosa a formare oggetto del diritto di proprietà implica essenzialmente che essa possa essere sia trasferita a terzi, ovvero scambiata con altre cose, sia rinunciata da parte del titolare. 8.3. -Pure le sentenze di queste Sezioni Unite del 15 novembre 2022, n. 33645 e n. 33659, hanno spiegato il diritto “di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, ex art. 832 cod. civ., non come limitato allo jus vendendi, ma come potere di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, recependone la definizione quale “profilo più intenso del diritto di godere”. 9. -Il tema in esame coinvolge, dunque, anche la concorrente facoltà di “godere” delle cose, parimenti elevata dall’art. 832 cod. civ. a contenuto della proprietà, e che si spiega come attuazione, ad opera del titolare, dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione di attribuzione tra soggetto e bene. Si tratta di facoltà evidentemente non scissa da quella di disporre della cosa, tant’è che viene spiegata come potere di scegliere la destinazione economica da imprimere ad essa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile. Che il “diritto di godere” della res “in modo pieno ed esclusivo”, seppur “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, equivalga a dare attuazione all’interesse patrimoniale del proprietario, appare convinzione condivisa altresì nella elaborazione giurisprudenziale della teoria dei “beni comuni”, la quale ha evidenziato proprio la “diversità di fondo” tra i due tipi della proprietà pubblica e privata, per delineare l’esigenza di un autonomo statuto degli immobili di natura “non privata”, giacché, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegati “alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini” (Cass. Sez. Unite 14 febbraio 2011, n. 3665). La categoria dei “beni comuni” rappresenta, così, un inquadramento sistematico in grado di offrire al problema dei beni immobili abbandonati una risposta diversa rispetto a quella fornita dal codice civile, sia pure limitatamente a quelli oggetto di interesse ad una gestione diretta in forma comunitaria. 10.-nel valutare la meritevolezza della scelta di destinazione e di utilizzazione del singolo bene operata dal proprietario, peraltro, viene in primo piano il principio dettato dall’art. 42, secondo comma, Cost., che chiede alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata determinandone i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la “funzione sociale”. In dottrina si è rimarcato che il precetto costituzionale, in tal modo, ha richiesto alla legge ordinaria di disciplinare l’intera materia della proprietà privata, riferendosi tanto ai “modi d’acquisto” (e quindi al regime dell’appartenenza ed alle sue vicende: acquisto, modificazione, estinzione, diritti parziali), quanto ai “modi di godimento” (e cioè alla fruizione rimessa al titolare, come anche alla “utilizzazione” correlata agli atti autoritativi aventi effetti conformativi della proprietà privata) ed infine ai “limiti” (che fanno rinvio alla conformazione del contenuto del diritto di proprietà realizzato dalla legge). Al riguardo, la Corte costituzionale ha spiegato che “[l]’art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la “funzione sociale”. Quest’ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale” (Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348). Tuttavia, si è anche chiarito che l’art. 42, secondo comma, Cost., non ha “trasformato la proprietà privata in una funzione pubblica ”: piuttosto, la Costituzione “ha chiaramente continuato a considerare la proprietà pri rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 vata come un diritto soggettivo, ma ha affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale” (Corte cost. 28 luglio 1983, n. 252). La concezione della funzione sociale della proprietà come strumento attuativo della soddisfazione di interessi generali, e non dell’interesse economico individuale del titolare, svolge il suo ruolo mediante limitazioni legali delle facoltà di disposizione e di godimento che si giustificano per intere categorie di beni, inserendosi nella struttura del diritto e vincolandolo indissolubilmente ad un esercizio conformato. La contrarietà all’art. 42 Cost. è stata, così, esclusa talvolta, in ragione dell’adeguato bilanciamento fra la tutela della proprietà e il perseguimento di interessi generali, anche proprio con riguardo a scelte legislative volte a “diluire nel tempo l’abbandono degli immobili” in particolari zone (Corte cost. 28 aprile 1994, n. 166), mentre è stata dichiarata l’illegittimità, sulla base dello stesso parametro, di disposizioni che, vietando gli interventi edilizi di manutenzione degli immobili, ne provocassero “un progressivo abbandono e perimento” (Corte cost. 29 dicembre 1995, n. 529). Se la “funzione sociale” “esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione” (Corte cost. 23 aprile 1986, n. 108; Corte cost. 30 aprile 2015, n. 71), non vi è, comunque, un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale” legati alla affermazione della responsabilità per l’uso dannoso del bene. dalla cornice ordinamentale non emerge, dunque, un generale potere-dovere del proprietario di esercitare i suoi poteri in maniera “funzionale” al sistema socio-economico: il godimento del bene resta forma di esercizio del diritto di proprietà appartenente al titolare per il soddisfacimento di un interesse patrimoniale da lui disponibile. Il minimo costituzionale del diritto di proprietà, pertanto, è dato sia dal legame di appartenenza del bene, sia dall’apprezzabile valore economico dello stesso. Se le facoltà di godere e disporre della cosa risultano annullate, e non residua alcuna utilità patrimoniale per il dominus, viene meno la medesima proprietà, non potendosi riqualificare il titolare come gestore nell’interesse collettivo. 11. -Per dare risposta alle questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia non è indispensabile verificare se la pienezza e l’esclusività del “diritto di godere e disporre” attribuito al proprietario comprendano tuttora, come si affermava espressamente in alcune codificazioni e in alcuni trattati dell’ottocento, anche il potere di abbandonare la cosa. La condizione di abbandono rileva per i beni mobili, nel senso che la derelizione comporta quale effetto legale la perdita della proprietà e consente il successivo acquisto a titolo originario in capo all’occupante (art. 923 cod. civ.). Si tratta di fattispecie estintiva e (eventualmente) acquisitiva della proprietà estranea alla categoria dei beni immobili per i vincoli formali prescritti dagli artt. 1350, n. 5, e 2643, n. 5, cod. civ. nella rinuncia alla proprietà immobiliare al fine del prodursi dell’effetto abdicativo non basta il comportamento materiale dell’abbandono (sia pur accompagnato dall’animus derelinquendi), ma occorre comunque il compimento di un atto dispositivo. 11.1. -Quando, peraltro, l’ordinamento pone divieti ai proprietari di disporre di determinati beni mediante abbandono incontrollato degli stessi, la illegittimità della condotta dismissiva viene affermata non già sindacando l’abusività dell’atto di abdicazione, rientrante nel contenuto del diritto di proprietà, ma per la violazione di norme imperative di ordine pubblico, che, ConTenZIoSo nAZIonALe in via generale ed astratta, esprimono scelte tassative che il legislatore ha ritenuto essenziali ed irrinunciabili per gli interessi della collettività. 12. -estraneo al nucleo fondamentale del dubbio interpretativo posto dai Tribunali rimettenti è anche il dibattito sulle fattispecie di c.d. “abbandono liberatorio” (indicativamente, artt. 882, 963, 1104, 1070 cod. civ.), che, pur nelle peculiarità delle singole ipotesi normative, si caratterizzano per il tratto distintivo del perseguimento di una funzione che va oltre l’abdicazione e consiste nella liberazione da un’obbligazione connessa alla cosa, la quale deve essere adempiuta dal titolare del medesimo diritto reale che si dismette e nasce a carico di quest’ultimo nel momento in cui si verifica la circostanza prevista dalla legge per il suo sorgere, sicché, venuto meno lo ius ad rem che consente l’identificazione del soggetto debitore, vien meno anche la causa obligandi. Pur convenendo con l’impostazione che la liberazione dall’obbligo di contribuire alle spese costituisce pur sempre un effetto e non la causa di queste fattispecie abdicative, quel che connota le stesse è l’interesse rilevante di altri soggetti (il comproprietario, il concedente, il proprietario del fondo dominante), i quali sono investiti a loro volta di un autonomo diritto reale ad utilizzare il medesimo bene. Si parla perciò, con riguardo alle figure di “abbandono liberatorio”, di rinunce qualitativamente diverse dalla rinuncia alla proprietà esclusiva, incidendo esse inevitabilmente, mediante acquisto o “accrescimento” ope legis, nella sfera giuridica di un altro soggetto del rapporto reale. Quando queste Sezioni Unite, con le sentenze del 10 giugno 1988, nn. da 3940 a 3946, rese nell’ambito del contenzioso sugli effetti della illegittima occupazione e radicale trasformazione di fondi privati per la costruzione di opere pubbliche, presero in esame le “varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del proprio diritto (art. 550, 1070, 1104 cod. civ.)”, sottolinearono che “la rinunzia del proprietario assume costantemente carattere di gratuità, di volontaria accettazione, cioè, di una decurtazione del proprio patrimonio, sia pure in vista di evitare spese od oneri maggiori; ma non può mai tradursi in strumento per immutare nel patrimonio stesso una sua componente sostituendo al bene immobile dereliquendo il suo controvalore monetario ed imponendo ad altri il prestarsi a tanto mercé una sorta di acquisto coattivo”. Le stesse pronunce considerarono che l’abbandono della proprietà, “proprio perché di per sé incapace di approdare ad effetti traslativi nei confronti di terzi determinati”, determinerebbe “quella vacuità di assetto proprietario dante luogo, secondo la previsione di cui all’art. 827 cod. civ., alla attribuzione del bene stesso al patrimonio dello Stato”. Fu pure ritenuto in quelle pronunce che “in tanto è possibile ricollegare una qualsiasi conseguenza giuridica alla volontà, che il privato avrebbe manifestato, di dismettere il diritto dominicale su di un bene, in quanto nel momento della manifestazione non sia venuta meno la situazione soggettiva di appartenenza”. Le ipotesi di abbandono liberatorio realizzano, dunque, prioritariamente -e non come mero effetto riflesso della rinuncia al diritto reale - una funzione satisfattiva rispetto ad obbligazioni che sono a carico del rinunciante, e si connotano come vicenda estintiva (e non anche mediatamente traslativa) di una posizione soggettiva complessa del medesimo dichiarante. Ciò ne segna anche il tratto distintivo rispetto alle facoltà di “cessione” di cui agli artt. 888 e 1128, quarto comma, cod. civ., le quali realizzano, piuttosto, una esplicita funzione traslativa di natura reale. 13. -La rinuncia alla proprietà immobiliare, sulla cui ammissibilità si interrogano i Tribunali rimettenti, è atto essenzialmente unilaterale, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismet rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 tere il diritto, senza interessarsi della destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto. L’unilateralità e non recettizietà dell’atto di rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile sono conseguenze dell’interesse individuale che essa realizza con la dichiarazione del titolare del diritto soggettivo diretta unicamente a dismettere il medesimo. Tale dichiarazione va manifestata nel mondo esterno perché produca il suo effetto mediante atto pubblico o scrittura privata e va trascritta perché sia opponibile a determinati terzi, ma non deve rivolgersi ad una determinata persona perché ne abbia conoscenza, seppure si tratti di persona interessata alla rinuncia. 13.1. -L’adempimento della trascrizione ex art. 2643, n. 5, cod. civ. (ove si parla di atti “tra vivi”, al pari dell’art. 1324 cod. civ.) della rinuncia alla proprietà immobiliare contro il suo autore, in quanto atto abdicativo unilaterale, non ha efficacia costitutiva e nemmeno svolge, in realtà, la funzione tipica, disposta dall’art. 2644 cod. civ., di dirimere i possibili conflitti tra più acquirenti a titolo derivativo dal medesimo dante causa, producendosi il conseguente acquisto dello Stato, stabilito dall’art. 827 cod. civ., a titolo originario, ove sia dimostrata la situazione di fatto della vacanza del bene. essendo l’acquisizione a titolo originario al patrimonio disponibile statale un effetto riflesso, ma legislativamente automatico, della rinuncia abdicativa, la soluzione, proposta in dottrina, di eseguire la formalità anche in favore dello Stato, nelle forme della pubblicità dichiarativa prevista per gli atti traslativi, viene peraltro motivata dall’opportunità di una siffatta segnalazione per l’operatività del principio di continuità e per l’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi (ad esempio, l’eventuale successivo acquirente dal rinunciante). Incidentalmente, può osservarsi anche che il carattere originario dell’acquisto ex art. 827 cod. civ. non è affatto per ciò solo ostativo alla permanenza dei diritti reali di godimento o di garanzia gravanti sull’immobile, né estingue le iscrizioni e trascrizioni preesistenti. Come spiegato dalla Corte costituzionale nella sentenza 3 ottobre 2024, n. 160, “la sorte di un diritto reale minore non è in sé pregiudicata dalla natura originaria dell’acquisto, bensì dipende dalla funzione di quest’ultimo e da come viene regolamentato dal legislatore”. Inoltre, la medesima natura originaria, e non traslativa, dell’acquisizione degli immobili vacanti al patrimonio dello Stato rende inapplicabili le disposizioni in materia di nullità urbanistiche, conformità catastale e prestazione energetica richiamate nelle difese delle amministrazioni statali. 13.2. -In quanto atto non recettizio e pure privo di alcun effetto liberatorio, la prescrizione di un onere comunicativo in capo al rinunciante, che si aggiunga all’adempimento dell’onere della trascrizione, inerisce non al campo delle regole di validità e di efficacia della rinuncia, su cui si incentrano le questioni di diritto oggetto dei rinvii pregiudiziali e da risolvere in questa sede, giacché necessarie alla definizione dei processi a quibus, quanto a quello delle regole di comportamento, che possono essere soltanto fonte di eventuale responsabilità. 14. -In quanto atto unilaterale diretto ad estinguere un diritto patrimoniale, nella specie modalità di esercizio della facoltà di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo accordata dall’art. 832 cod. civ., l’unico interesse e l’unico intento che hanno rilievo giuridico sono quelli dell’autore della dichiarazione di rinuncia. Così delineata, la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa” (e quindi anche la propugnata meritevolezza dell’ interesse perseguito) in sé stessa e non nell’atto di un “altro contraente” cui sia destinata, né, del resto, produce un vincolo contrattuale. Si tratta di una forma attuativa del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, come sarebbe altrimenti consentito dall’art. 42, secondo comma, della Costituzione, ove si ravvi ConTenZIoSo nAZIonALe sasse un immediato controinteressato che, a tutela della propria sfera giuridica, potesse opporre il veto all’effetto abdicativo, in maniera da costringere il rinunciante a rimanere titolare della proprietà. La deduzione ermeneutica che la proprietà sia essenzialmente disponibile e contemporaneamente irrinunciabile, perché indissolubilmente collegata a doveri, obblighi, limiti e funzioni, non può negare che essa, allora, dovrebbe rientrare tra quelle posizioni assegnate (anche) per la tutela di un interesse altrui, o di un interesse collettivo, diverso se non opposto rispetto a quello del titolare. Così pure la tesi che la rinuncia alla proprietà immobiliare non riuscirebbe comunque a cancellare la materialità della res in cui essa si identifica, ammettendosi l’estinzione di tale diritto soltanto in ipotesi di sopravvenuta mancanza dell’oggetto per perimento totale del bene, merita la replica che si tratterebbe, dunque, di una “proprietà imposta”. L’art. 2 Cost. giustifica la prescrizione al proprietario di obblighi e di comportamenti in funzione di salvaguardia di interessi fondamentali aventi rilevanza collettiva, quali, in particolare, la tutela della salute e dell’ambiente, ma non anche l’imposizione della proprietà privata in sé. non rappresenta argomento decisivo per affermare la irrinunciabilità della proprietà immobiliare nemmeno la constatazione della inestinguibilità del diritto che si desume dalla imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione. Basta al riguardo osservare che l’art. 948, terzo comma, cod. civ. è riferibile tanto ai beni immobili quanto ai beni mobili e che la generale imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione si coordina con la possibilità dell’acquisto della proprietà per usucapione, sicché in tal caso il diritto non si estingue per il semplice non uso, ma in conseguenza dell’avvenuto acquisto del diritto da parte di altra persona. 15. -non possono condividersi i dubbi sulla atipicità dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, che si vorrebbe non espressamente consentita dalla legge. È risaputa la consueta obiezione che fa leva sulla lettera degli artt. 1350, n. 5 e 2643, n. 5, cod. civ. e sulla ratio degli artt. 827 e 923 cod. civ. Sono altrettanto ricorrenti le repliche che ricavano la rinunciabilità della proprietà dalla sua struttura di diritto assoluto di natura patrimoniale, la cui persistente titolarità non è destinata a soddisfare l’interesse antagonistico diretto di alcun altro soggetto del rapporto. Quello che appare metodologicamente errato è tuttavia ricercare nella legge non un esplicito divieto di rinunciare alla proprietà delle cose, o di alcune cose, quanto, al contrario, una positiva affermazione che la proprietà possa essere rinunciata. dal vigente regime ordinamentale di appartenenza dei beni, ricavabile dal secondo e dal terzo comma dell’art. 42 Cost., dall’art. 1 del Protocollo I addizionale della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, pur restando escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato, spetterebbe comunque al legislatore adottare una restrizione o imporre addirittura una esclusione della facoltà di rinunciarvi. La irrinunciabilità della proprietà non può, del resto, tramutarsi in un sacrificio illimitato e perpetuo del potere di realizzare il valore del bene e di attuare l’interesse patrimoniale a sceglierne la destinazione economica, allo scopo esclusivo di vincolare il proprietario a continuare a sostenerne i costi di gestione altrimenti gravanti sulla collettività, così trasformando la proprietà privata in una funzione pubblica. Un limite ragionevole e temporaneo di liceità delle rinunce alla proprietà degli immobili diseconomici, attenendo al regime di appartenenza e a quello di godimento di determinati beni, nonché alla rilevanza che i medesimi rivelino rispetto a beni o ad interessi della pubblica am rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 ministrazione, dovrebbe, pertanto, essere in ogni caso conclamato da una legge che renda oggettivamente identificabili a priori tali immobili per contrassegni intrinseci e che sia rivolta alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate situazioni. 15.1. -non pare corretto ribaltare la prospettiva, sostenendo che con la rinuncia alla proprietà immobiliare e l’acquisto automatico da parte dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ. si esaurisce la funzione sociale ex art. 42 Cost. e viene meno la ratio di tutela del diritto. Al contrario, la previsione dell’attribuzione al patrimonio disponibile statale degli immobili vacanti prende atto del potere di disporre mediante rinunzia da riconoscere al privato proprietario, ove questi non tragga alcuna utilità economica dal bene, e lo compensa con l’espressione di un consenso preventivo ex lege all’acquisto nell’ambito della proprietà pubblica, la quale ha, in quanto tale, funzione sociale. Gli argomenti adoperati nel vasto dibattito generatosi negli ultimi anni per sindacare, sotto i profili della invalidità, della immeritevolezza o dell’abusività, l’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, in quanto presupposto della situazione che porta poi all’acquisto legale ex art. 827 cod. civ., allorché essa abbia ad oggetto beni “dispendiosi” o “disutili”, si appellano al principio di intangibilità della sfera giuridica altrui se non in ipotesi di effetti patrimonialmente vantaggiosi per l’interessato e della facoltà di rifiuto da parte di quest’ultimo (ad un “potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto” si riferiscono le memorie depositate dal Ministero del- l’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio). Si tratta di limite notoriamente ravvisato in presenza di attribuzioni traslative di diritti reali, le quali abbiano effetto nei confronti di terzi in maniera che costoro possano risentire un potenziale pregiudizio per gli oneri o gli obblighi di custodia e di gestione discendenti dalla titolarità degli “iura in rem”; qui detto limite opererebbe, invece, in concreto come correttivo di una vicenda di acquisto a titolo originario. Sono quindi da condividere le tesi di coloro che negano che nella rinuncia alla proprietà immobiliare possa ravvisarsi una proposta diretta a concludere un contratto, rifiutabile dal destinatario, secondo il procedimento di formazione dell’accordo di cui all’art. 1333 cod. civ. La replica più convincente a queste teorie viene portata evidenziando che la relazione funzionale e strutturale ed i meccanismi di efficacia inerenti ad un atto di dismissione della proprietà privata e ad un modo di acquisizione della proprietà pubblica vengono così ricostruiti, di caso in caso, secondo le logiche contingenti delle diseconomie esterne delle attività produttive e dell’aspetto sociale dei costi e dei benefici collettivi dell’operazione, a seconda che la proprietà di quel dato bene risulti per il suo titolare situazione giuridica di vantaggio o, al contrario, “negativa”. 16. -Se la rinuncia è una forma di attuazione dell’interesse del proprietario, che si esprime “erga omnes”, un possibile limite esterno ad essa, pur non espressamente disposto dalla legge, si ravviserebbe, secondo alcuni, per esigenze di tutela riflessa di soggetti che si trovano in altre situazioni inerenti al bene. Per dirsi non conforme al contenuto stesso della proprietà, dovrebbe trattarsi, tuttavia, di atto non riconducibile all’astratta possibilità di soddisfare i bisogni del dominus, e cioè non orientato a realizzare alcun concreto ed apprezzabile interesse del titolare verso il bene, comunque consistente nella scelta della sua destinazione. L’interesse del proprietario in riferimento al bene giuridico, come si è già considerato, discende dalla natura reale del diritto e dalla intrinseca patrimonialità del suo oggetto, sicché la rinuncia potrebbe rivelarsi, di caso in caso, atto inutile o dannoso soltanto se volta a perseguire esclusivamente un interesse insuscettibile di valutazione economica rispetto alla res, e quindi di per sé estraneo all’esercizio della proprietà. ConTenZIoSo nAZIonALe 16.1. -In proposito, viene opposto il divieto degli atti d’emulazione di cui all’art. 833 cod. civ., che impedisce al proprietario di “fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. La giurisprudenza di questa Corte spiega l’atto d’emulazione come comportamento che il proprietario, in quanto tale ed in connessione alle facoltà che a detto titolo gli spettano, pone in essere senza ritrarne alcun apprezzabile vantaggio, quanto meno in termini di risparmio di spesa, e spinto unicamente dall’animus nocendi. In sostanza, deve trattarsi di attività non corrispondente a quelle espressamente previste dalla legge come rientranti fra i poteri del proprietario, né sorretta da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale (ex multis, Cass. Sez. Unite 16 maggio 1983, n. 3359). In tale prospettiva, l’atto emulativo è valutato negativamente dall’ordinamento giacché si pone del tutto all’esterno della relazione tipica di interesse corrente tra proprietario e bene giuridico. Così anche ad intendere l’art. 833 cod. civ., in parallelo agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., quale espressione di un più generale principio ordinamentale di divieto di abuso del diritto, il profilo acquisirebbe rilievo dirimente solo considerando che la rinuncia alla proprietà non costituisca un atto di esercizio del dominio potenzialmente realizzatore dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione assoluta di attribuzione tra soggetto e bene. Allorché si invoca un controllo giudiziale sull’esercizio asociale della proprietà, lo si fa con riguardo a quei concreti comportamenti proprietari di esercizio attivo dei poteri di utilizzazione del bene, che sacrificano le ragioni dei terzi e che vengono valutati secondo i canoni della responsabilità civile. Una volta, invece, ammessa la rinuncia abdicativa alla proprietà come modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione del bene, le categorie degli atti emulativi e dell’abuso del diritto non possono ergersi a limiti della stessa per la tutela di interessi altrui o per la salvaguardia di scopi generali di varia natura. In particolare, le tesi che condizionano la rinuncia alla proprietà immobiliare alla verifica del possibile “danno alla sicurezza” che limita in negativo l’iniziativa economica privata ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., assoggettano la relazione dominicale tra titolare e bene, che è riconosciuta dall’art. 42 Cost., alle diverse regole dell’attività di utilizzazione del patrimonio e del mercato. Così, anche il libero godimento della proprietà privata sarebbe sottoposto al limite generale del suo svolgimento in contrasto con l’utilità sociale o che possa recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, quale quello stabilito per l’esercizio di ogni attività produttiva. 16.2. -Analogo discorso può farsi analizzando la relazione di eventuale implicazione tra rinuncia alla proprietà e disciplina della tutela antidelittuale, ove quest’ultima volesse intendersi limitativa della realizzazione dell’interesse proprietario per garantire, nella composizione del conflitto, la protezione dell’interesse all’integrità patrimoniale di terzi. La rinuncia, si sostiene, sarebbe impedita se volta ad incidere artatamente sul regime della responsabilità aquiliana derivante dalla proprietà immobiliare (art. 2053 cod. civ., ma anche art. 2051 cod. civ. ove il proprietario abbia del bene, come di norma, anche la custodia; si veda Cass. 29 settembre 2017, n. 22839). Tuttavia, le disposizioni in tema di responsabilità per fatti illeciti che fanno riferimento alla proprietà guardano ad essa come ragione di disponibilità della cosa che comporti il potere dovere di intervento sulla stessa, da verificare nel momento in cui si è verificato il danno (così Cass. 7 agosto 2013, n. 18855, precisava che l’obbligo di risarcire il danno, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., non è un’obbligazione propter rem, che si trasferisce dal venditore al compratore insieme alla proprietà dell’immobile da cui il danno stesso proviene; Cass. 16 luglio 1966, rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 n. 1924, e Cass. 3 marzo 1965, n. 360, precisavano che, ai fini della responsabilità ex art. 2053 cod. civ., il momento in cui la qualifica di proprietario dell’edificio assume rilevanza per l’individuazione del soggetto passivo è quello della avvenuta rovina della costruzione, restando ininfluenti i trasferimenti di proprietà avvenuti prima o dopo l’evento dannoso; ma si veda anche Cass. Sez. Un. 16 febbraio 2016, n. 2951, per la autonomia dell’obbligazione risarcitoria rispetto alla proprietà del bene cui ineriscono i danni). L’argomento che la condotta manutentiva è giuridicamente doverosa per il proprietario (ai sensi dell’art. 2053 cod. civ.) o che su di esso spieghi effetti il rapporto custodiale con la cosa (ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.) è insuperabile quale criterio giustificativo della realità delle obbligazioni che trovano la propria ragion d’essere nelle anzidette fattispecie di responsabilità speciali, in base al principio cuius commoda eius et incommoda, ma si rivela fallace, cioè privo di validità logica, se adoperato a confutazione della rinunciabilità della proprietà. La responsabilità per i danni che siano causalmente collegati alla proprietà di un immobile, e il cui fatto illecito generatore si rinvenga nella negligente costruzione/manutenzione o custodia dello stesso, persiste anche in caso di rinuncia abdicativa (e non liberatoria) al bene. In forza dell’acquisto al patrimonio dello Stato, stabilito dall’art. 827 cod. civ., quest’ultimo diviene vincolato propter rem per i soli obblighi gestori sorti dopo la rinuncia, mentre le responsabilità risarcitorie sorte anteriormente restano a carico del rinunciante. Se ne trae plausibile conferma dalla disciplina dettata dall’art. 882 cod. civ. per la fattispecie della rinuncia al diritto di comunione sul muro comune e della correlata esenzione dall’obbligo di contribuzione nelle spese di riparazione e ricostruzione, ove si nega l’effetto liberatorio per il rinunciante che “abbia dato causa col fatto proprio”, trasferendosi, a causa della dismissione del diritto reale, l’onere delle spese dipendenti dall’uso normale della cosa, e non invece di quelle connesse ad un pregresso titolo di responsabilità personale. Mentre l’onere delle spese di riparazione e ricostruzione del muro comune per quelle cause di deterioramento dipendenti dal suo uso normale è, ai sensi dell’art. 882 cod. civ., a carico di tutti i comproprietari, in proporzione del diritto di ciascuno, e si trasferisce, perciò, in capo a chiunque sia proprietario della cosa nel momento in cui si presenta la necessità della riparazione o della ricostruzione, l’onere delle spese provocate dal fatto di uno dei partecipanti, essendo connesso alla responsabilità personale di questo, grava esclusivamente sul soggetto che vi ha dato causa e non si trasferisce, quindi, a causa del trasferimento del diritto reale, al condomino che gli è succeduto. riveste significato in tale prospettiva altresì la ricostruzione operata nella sentenza di queste Sezioni Unite del 1 febbraio 2023, n. 3077, in tema di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, pervenendo alla conclusione che l’obbligo di adottare le misure di messa in sicurezza idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga”, e non del proprietario incolpevole per il sol fatto che gli appartiene la titolarità del fondo. nel medesimo angolo di visuale si colloca la sentenza 4 gennaio 2024, n. 199, che, a proposito del diritto di rivalsa della pubblica amministrazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese relative agli interventi di bonifica e ripristino ambientale eseguiti in via sostitutiva, ai sensi dell’art. 17 del d.Lgs. n. 22 del 1997 (e, successivamente, degli artt. 242, 244 e 250 del d.Lgs. n. 152 del 2006), ha delineato i tratti di un’obbligazione indennitaria ex lege, gravante sul medesimo responsabile ed avente ad oggetto il recupero degli esborsi necessari all’espletamento di una “pubblica funzione”, sostenuti “alla stregua di un peculiare meccanismo di sussidiarietà verticale”, attraverso il quale, “a garanzia della tutela di un bene ConTenZIoSo nAZIonALe di interesse super-individuale e dotato di rilevanza costituzionale, è sempre assicurato il ripristino ambientale”. L’incidenza della responsabilità per i danni recati a terzi dalla cosa non può, quindi, individuarsi come limite della facoltà di disporne rinunziandovi, addossando al proprietario il dovere di rimanere tale, in maniera da agevolare la ricerca del soggetto obbligato a risarcire i medesimi danni connessi a detta qualità. L’auspicio di un sindacato sull’utilità concreta e sull’abusività della rinuncia alla proprietà immobiliare postula, viceversa, la necessità di un controllo dall’esterno di tale modo di esercizio del diritto dominicale, che realizza un interesse del titolare verso il bene, utilizzando gli strumenti della teoria del negozio e della causa per esigenze di tutela riflessa di soggetti che si trovano in altre situazioni inerenti al bene e siano portatori di interessi confliggenti nel medesimo regolamento. 17. -effetto essenziale ed immediato dell’atto unilaterale e non recettizio di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare è la dismissione del diritto dalla sfera giuridica del titolare. non nell’atto di rinuncia, ma nell’effetto riflesso essenziale che esso provoca, trova poi causa l’art. 827 cod. civ., in base al quale i beni immobili “che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato” (o della regione, in forza degli statuti speciali della Sardegna, della regione Siciliana e del Trentino-Alto Adige). La giurisprudenza di questa Corte descrive l’art. 827 cod. civ. come fattispecie produttiva di un effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto, quale la vacanza del bene immobile (Cass. 2 marzo 2007, n. 4975; Cass. 27 gennaio 1976, n. 256), ovvero come ipotesi di acquisto “a carattere chiaramente originario”, a differenza dell’acquisto iure successionis, e quindi a titolo derivativo, dei beni (immobili, mobili e crediti) in caso di devoluzione dell’eredità allo Stato per mancanza di altri successibili, ai sensi dell’art. 586 cod. civ. (Cass. 11 marzo 1995, n. 2862). La natura successoria dell’acquisto dell’eredità da parte dello Stato, che non necessita di accettazione né è passibile di rinuncia o di rilascio liberatorio (i quali, peraltro, determinerebbero comunque l’acquisto ex art. 827 cod. civ.), essendo finalizzato alla liquidazione in favore di creditori e legatari, giustifica la previsione nel secondo comma dell’art. 586 cod. civ. della responsabilità intra vires hereditatis. La relazione al codice civile spiegava: “[c]olmando una lacuna del codice del 1865, la quale aveva aperto l’adito a dubbi e a soluzioni diverse, ho disposto (art. 827) che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato: con questa nuova norma è pertanto escluso che vi siano beni immobili senza proprietario” (n. 398); e poi (n. 430): “[l]’art. 923, riproducendo con lieve variante l’art. 711 del codice precedente, pone in evidenza che l’occupazione, come modo di acquisto della proprietà, è limitata alle cose mobili. L’esclusione della possibilità di acquistare per occupazione i beni immobili si coordina con la norma che ho introdotto nell’art. 827 per attribuire al patrimonio dello Stato i beni immobili che non siano di proprietà di alcuno. È così risolta una questione che traeva vita dalla formula generica dell’articolo 711 del codice anteriore” (ove non si distingueva tra “cose” mobili e immobili, né si era riprodotto l’art. 713 del vigente codice civile francese). La soluzione raggiunta nel codice del 1942 indubitabilmente risulta più in linea con le esigenze di certezza giuridica delle posizioni immobiliari, altrimenti pregiudicate ove si fosse optato per la rilevanza acquisitiva dell’occupazione degli immobili abbandonati. Torna alla mente la recente affermazione della già richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 2024, secondo cui alla inutilizzazione di terreni o edifici non si correla alcun automatico ed istantaneo effetto estintivo del dominio, né, in forza degli artt. 42 e 2 Cost., la proprietà in stato di rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 abbandono può soffrire menomazioni da parte di chiunque voglia limitarne la fruizione. Per soddisfare i bisogni di sicurezza nella circolazione dei beni immobili e di tutela delle aspettative di colui che si sia posto stabilmente in una relazione qualificata con un fondo, il nostro ordinamento ha scelto di servirsi del rimedio dell’usucapione, che pure costituisce un modo di acquisto originario della proprietà in conseguenza di un fatto giuridico (possesso, decorso del termine) e non di un rapporto con il precedente titolare del diritto, ma si pone in conflitto con la pretesa del soggetto usucapito. L’art. 1, comma 260, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha poi rimesso ad un decreto del Ministro della giustizia la determinazione dei criteri per l’acquisizione dei dati e delle informazioni rilevanti per individuare i beni giacenti o vacanti da devolvere allo Stato, prescrivendo anche l’applicazione dell’art. 1163 cod. civ. al possesso esercitato su tali immobili sino a quando il terzo, esercente attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale, non notifichi all’Agenzia del demanio detta situazione. Va rimarcato che questa disposizione non suppone alcun giudizio di “convenienza” nella individuazione degli immobili vacanti da devolvere allo Stato. 17.1. -Appare improprio ridurre la portata precettiva dell’art. 827 cod. civ. a criterio di allocazione del rischio della mancata o incerta prova della proprietà. Tale disposizione è, piuttosto, una regola di attribuzione allo Stato di tutti gli immobili non appartenenti ad alcuno, senza che rilevi che si tratti, o meno, di beni abbandonati da un precedente titolare, o di beni produttivi, o di beni aventi un residuo valore di mercato. Così inteso, l’art. 827 cod. civ. non appare argomento dirimente per affermare l’ammissibilità o l’inammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare. Come chiarisce il riportato stralcio della relazione al codice civile, la norma fu introdotta per replicare il principio, già tipico del sistema feudale, che non vi possono essere beni immobili senza padrone. L’art. 827 cod. civ. fa sistema con l’art. 838 cod. civ., il quale attribuisce all’autorità amministrativa il potere di far luogo all’espropriazione di beni di generale utilità, allorché il proprietario ne abbia abbandonato la conservazione, la coltivazione o l’esercizio. non di meno, quando l’acquisto in capo allo Stato dell’immobile che non sia in proprietà di alcuno deriva dalla rinuncia del precedente titolare, si ipotizzano controlli di meritevolezza e di validità sotto il profilo causale per cautelare l’amministrazione dall’eventualità di un atto abdicativo del privato che sia unicamente diretto a far ricadere su di essa la responsabilità dei danni provocati dall’immobile (il quale versi in condizioni di dissesto idrogeologico, o sia inquinato, o anche soltanto diruto o pericolante), oppure a provocare l’estinzione per confusione delle obbligazioni di diritto pubblico (in specie, di quelle tributarie), che vedono creditore lo Stato. La rinuncia alla proprietà immobiliare è stata indagata da alcuni studiosi, in quest’ottica, anche quale possibile ipotesi di abuso del diritto tributario, ovvero in relazione al principio generale antielusivo, così da renderla inopponibile all’Amministrazione finanziaria, al qual fine occorrerebbe, tuttavia, dimostrare che il negozio sia posto in essere soltanto per ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta ed in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di siffatti benefici. Si assume, ulteriormente, che la rinuncia alla proprietà di un immobile non rivelerebbe alcuna utilità giuridica, se non la realizzazione del mero interesse materiale di fatto, pur estraneo ad ogni rapporto fra rinunciante e Stato, a provocare l’obbligo d’acquisto dannoso in mano pubblica, con le annesse ricadute patrimonialmente pregiudizievoli. Tuttavia, come si è già ritenuto, la rinuncia alla proprietà immobiliare persegue l’unica finalità ConTenZIoSo nAZIonALe tipica di dismettere il diritto e regola unicamente l’interesse patrimoniale del proprietario, senza che abbiano rilievo interessi pratici del dominus diversi dall’intenzione puramente abdicatoria, e senza richiedere che alcun altro soggetto controinteressato alla rinuncia ne abbia conoscenza o vi presti assenso, altrimenti costringendo il rinunciante a rimanere proprietario. L’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non è causalmente rivolto alla costituzione di un nuovo rapporto giuridico in cui la titolarità del bene è attribuita all’amministrazione statale. Lo Stato diventa proprietario dopo che è venuta meno la precedente relazione di attribuzione tra il soggetto e la situazione giuridica di proprietà. L’acquisizione al patrimonio disponibile dello Stato trova, perciò, il proprio titolo costitutivo nella vacanza, e non nella rinuncia. neppure condiziona l’efficacia immediata della rinuncia, restando dato comunque esterno al perfezionamento della fattispecie abdicativa, la questione inerente alla automaticità dell’acquisto dello Stato, o piuttosto alla procedimentalizzazione di quest’ultimo, che postulerebbe una fase valutativa della convenienza dell’acquisizione dell’immobile al patrimonio pubblico. L’acuta distinzione tra “titolarità” e “spettanza” della proprietà, fondata sul tenore letterale dell’art. 827 cod. civ., dal quale si desumerebbe che “spetta” allo Stato una verifica del fondamento dell’acquisto, non permette comunque di ravvisare una soggezione del rinunciante ad un diritto potestativo dell’amministrazione statale, esercitabile mediante manifestazione unilaterale della volontà di impedire a quello di escludere il bene dal suo patrimonio e di aderire all’effetto dell’ingresso dell’immobile nel dominio pubblico. Si osserva, ancora, che, mentre l’art. 586 cod. civ., prescrivendo l’acquisto dell’eredità da parte dello Stato, in mancanza di successibili, è una disposizione inevitabile, imposta dalla morte e dalla necessità di dare seguito ai rapporti giuridici già facenti capo al de cuius, la rinuncia abdicativa alla proprietà è atto volontario. deriva, tuttavia, da un’opzione anche il regime di acquisto pubblico creato nell’art. 827 cod. civ., avendo l’ordinamento esplicitato mediante esso una funzione sovrana dello Stato sul territorio, ispirata da un ravvisato interesse pubblico a che gli immobili vacanti non diventino res nullius liberamente occupabili dai privati. È il legislatore che, per i beni immobili, a differenza di quanto stabilito dall’art. 923 cod. civ. per le cose mobili abbandonate (ove l’acquisto a titolo originario postula un comportamento apprensivo che si sostanzia nell’occupazione), fa seguire alla rinuncia alla proprietà ed al suo effetto dismissivo del diritto la condizione dell’acquisizione legale a titolo originario in favore dello Stato, senza che quest’ultimo sia chiamato a svolgere alcuna attività positiva di accettazione o di impossessamento. Il che non impedisce, tuttavia, che il legislatore possa altrimenti rimodulare il vigente art. 827 cod. civ., in modo da trovare un diverso assetto di equilibrio nei rapporti tra pubblico e privato, operando una riforma di sistema in ordine al regime dei beni immobili vacanti e del correlato acquisto al patrimonio dello Stato e scegliendo i mezzi che riterrà così più idonei a realizzare la tutela dei fini costituzionalmente necessari nella composizione della pluralità degli interessi in gioco, evincibili pure dalle esigenze prospettate nelle difese delle amministrazioni attrici. 17.2. -La circostanza che, come evidenziato nelle difese del Ministero dell’economia e delle finanze e dell’Agenzia del demanio, gli atti di rinuncia oggetto delle cause in esame contenessero clausole nelle quali si prevedeva espressamente l’acquisto dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ., non denota per ciò solo una caratterizzazione quale manifestazione di volontà dei rinuncianti rivolta a produrre tale effetto. Queste clausole risultano al più ricognitive della spettanza ex lege degli immobili rinunciati al patrimonio dello Stato, essendosene verificati i presupposti: esse, cioè, costituiscono la mera ricognizione del verificarsi di un effetto legale rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 e non realizzano un negozio bilaterale traslativo della proprietà, che abbia bisogno del consenso dell’acquirente. 17.3. -L’acquisizione al patrimonio pubblico dei beni immobili che non sono proprietà di alcuno si spiega, quindi, come espressione della sovranità dello Stato, evolutivamente intesa non quale principio soggettivo di autorità, ma come sintesi dei valori essenziali della comunità che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali, nella specie in materia di governo del territorio, quelli paesaggistici, ambientali, archeologici e di prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, e, prima ancora, in materia di “sicurezza”, quelli collegati alla tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone. Questo nucleo fondamentale di valori, in cui si sostanziano i rapporti tra comunità ed apparato autoritario, si impone su qualsiasi pretesa soggettiva di dominio, e non è dunque influenzato dal venir meno dell’interesse particolare del proprietario rinunciante e dalla soggezione dello stesso agli oneri relativi, né è temperato da verifiche caso per caso afferenti alla convenienza economica dell’acquisto statale. del resto, se il fondamento della irrinunciabilità della proprietà degli immobili si voglia spiegare per le asserite prevalenti ragioni di tutela dell’interesse generale, è indimostrato, se non proprio in rapporto di opposizione con l’explanans, il dato che una migliore tutela dell’interesse della collettività sia garantita dalla preclusione dell’effetto dismissivo “antisociale” e dalla permanente titolarità imposta al rinunciante. L’evocazione comparativa dei sistemi giuridici di common law, orientati nel senso della irrinunciabilità della proprietà immobiliare, conferma che quella soluzione trova giustificazione non nel differente punto di equilibrio tra proprietà privata del singolo e diritti sociali, quanto nella diversa organizzazione dello Stato. rispetto alle prerogative della sovranità statale in tema di sicurezza e governo del territorio, la prospettazione della nullità di una rinuncia alla proprietà immobiliare mossa dal solo “fine egoistico” di trasferire in capo all’erario, per effetto dell’art. 827 cod. civ., i costi e i danni dei terreni con problemi di dissesto idrogeologico, o inquinati, o gli edifici inutilizzabili, dà vita ad un singolare principio di sussidiarietà orizzontale di compiti nel rapporto fra privati proprietari, investiti prioritariamente del perseguimento di interessi generali a vocazione sociale, e autorità pubblica, la quale subentrerebbe nella titolarità del bene solo se tali interessi siano stati previamente soddisfatti dai rinuncianti. 17.4. -delineata la spettanza al patrimonio dello Stato ex art. 827 cod. civ. quale effetto riflesso, e non “interno”, della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, nemmeno può ergersi a ragione di non meritevolezza, ovvero a causa di nullità dell’atto privato di disposizione del bene la violazione del principio di cui all’art. 81, primo comma, Cost., che chiama lo Stato ad assicurare “l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. L’ “equilibrio di bilancio” e la “copertura economica delle spese” (di cui all’art. 81, terzo comma, Cost.) operano, secondo la giurisprudenza costituzionale, come “due facce della stessa medaglia, dal momento che l’equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle pertinenti risorse” (Corte cost., sentenze n. 165 del 2023, n. 44 del 2021, n. 274 del 2017 e n. 184 del 2016). Si tratta, dunque, di clausole generali poste a presidio delle esigenze di finanza pubblica, implicate altresì dai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea ed operanti nel sindacato di costituzionalità attinente a qualsiasi previsione legislativa che possa, anche solo in via ipotetica, determinare nuove spese. da siffatti principi, funzionali a preservare l’equilibrio economico-finanziario del ConTenZIoSo nAZIonALe complesso delle amministrazioni pubbliche e a garantire l’unità economica della repubblica, non può ad un tempo trarsi un limite generale, ovvero una “regola di validità”, del- l’autonomia privata. Anche su tale aspetto, resta ovviamente ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare la disciplina dei beni immobili vacanti, provvedendo, ove ritenga, a graduare l’attuazione dei valori costituzionali implicati nel rispetto del vincolo dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico. 17.5. -Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 827 cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 41, secondo comma, e 97 Cost., sollevate dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio, oltre che non rilevanti, non essendo questa Corte chiamata a fare immediata applicazione della disposizione censurata per pronunciare sui rinvii pregiudiziali, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., sono, pertanto, manifestamente infondate. L’acquisto ex lege dei beni immobili vacanti da parte dello Stato, senza che sia riconosciuto un “potere di rifiuto eliminativo”, non si pone affatto di per sé in contrasto con i principi fondamentali della solidarietà e dell’uguaglianza economica e sociale, non consente lo svolgimento di alcuna forma di esercizio della libertà di iniziativa economica in contrasto con l’utilità sociale, né arreca un vulnus ai principi del buon andamento finanziario e della programmazione del- l’attività amministrativa. I dubbi dedotti in proposito dalle difese delle amministrazioni statali si risolvono, piuttosto, in inconvenienti di fatto, come tali inidonei a incidere sulla lamentata lesione di parametri costituzionali. 17.6. -In definitiva sul punto, non appare predicabile che la rinuncia alla proprietà di un immobile sia valida, e che perciò provochi quella situazione di vacanza presupposta dalla legge ai fini dell’acquisizione al patrimonio dello Stato, solo se il bene sia “non inutile”, ovvero “conveniente”, in base al suo valore economico, come se dovessero valutarsi i vantaggi di una prestazione in relazione al sacrificio provocato da una prevista controprestazione. Tanto la rinuncia del privato proprietario, quanto l’acquisto dello Stato, rilevano in funzione della realizzazione di interessi che costituiscono un prius rispetto alla qualificazione giuridica delle rispettive fattispecie, prescindendo dal fatto che abbiano ad oggetto un bene utile, o profittevole, in termini di valore economico puramente soggettivo, e che l’uno e l’altro abbiano un plausibile interesse, rispettivamente, a dismetterlo e ad acquisirlo e conservarlo. La relazione di proprietà tutelata dall’ordinamento intercorre in via diretta e immediata tra soggetto e bene corporale, indipendentemente dal valore d’uso di quest’ultimo. 18. -Quanto sinora affermato a proposito della ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà su beni immobili consente di dare risposta anche al secondo profilo delle questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia, inerente all’ “eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto”. 18.1. -non è in discussione la possibilità per i creditori del rinunziante alla proprietà di un immobile di proporre un’azione revocatoria per domandare che sia dichiarato inefficace nei loro confronti l’atto abdicativo di rinuncia, importando esso una pregiudizievole modificazione giuridico-economica della situazione patrimoniale del debitore. 18.2. -Il dibattito si incentra, piuttosto, sulla verifica della “meritevolezza e/o illiceità della causa” dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, o della “illiceità del motivo”, o della “frode alla legge”, o della “nullità per contrasto col divieto di abuso del diritto”. In tale dibattito, si deve tener conto degli approdi della giurisprudenza di questa Corte in ordine all’ambito del sindacato di meritevolezza ex art. 1322, secondo comma, cod. civ., ancorato al presupposto dell’atipicità del negozio; ovvero al controllo sul rispetto dei “limiti imposti dalla legge”, di cui al medesimo art. 1322, primo comma, da compiersi attra rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 verso lo spettro delle norme costituzionali e sovranazionali (Cass. Sez. Un. 24 settembre 2018, n. 22437). Tutti questi possibili rimedi invalidanti dell’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non appaiono praticabili in base a quanto dapprima sostenuto con riguardo all’ammissibilità della rinuncia stessa. 19. -Come già detto, la rinuncia alla proprietà immobiliare è atto essenzialmente unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, senza interessarsi della futura destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto. In quanto modo di attuazione dell’interesse patrimoniale del proprietario, nella specie mediante esercizio della facoltà di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo accordata dall’art. 832 cod. civ., l’unico intento che ha rilievo giuridico è quello dell’autore della dichiarazione di rinuncia. La rinuncia costituisce forma di espressione del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, limite che l’art. 42, secondo comma, Cost. potrebbe, viceversa, in astratto fondare ove si ravvisasse un immediato controinteressato il quale, a tutela della propria sfera giuridica, potesse impedire il prodursi del- l’effetto abdicativo, in maniera da imporre al rinunciante di rimanere titolare della proprietà. Pertanto, la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa” in sé stessa e non nell’atto di un “altro contraente” cui sia destinata, e quindi soddisfa anche il controllo di meritevolezza dell’interesse perseguito. La meritevolezza della rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile va apprezzata non come mezzo di valutazione della congruità di uno scambio economicamente significativo in base alle regole del mercato, ma con riferimento al potere dominicale di scegliere la destinazione economica da imprimere alla cosa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile. 19.1. -A fronte di un atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario diretto alla perdita del diritto, non può peraltro comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., sia pure inteso quale specificazione con riferimento alla proprietà privata del- l’art. 2 Cost., per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (come evincibile da Corte cost., ordinanze 24 ottobre 2013, n. 248, e 2 aprile 2014, n. 77). La rinuncia alla proprietà immobiliare animata dal “fine egoistico” di accollare allo Stato le spese e i danni dei fondi in dissesto idrogeologico, inquinati o inutilizzabili, analizzata in base alla funzione obiettiva che il rinunciante intenzionalmente attribuisce al negozio e, quindi, alle finalità individuali, concrete, che ne condizionano il senso e la portata, dovrebbe dirsi contraria ad una norma imperativa, oppure il mezzo per frodare l’applicazione di una siffatta norma, o ispirata da un motivo illecito determinante obiettivizzato nell’atto abdicativo. Sotto un profilo formale, l’applicazione diretta da parte del giudice del principio della “funzione sociale” ex art. 42, secondo comma, Cost., come norma imperativa e quindi come regola di validità cui la rinuncia alla proprietà immobiliare debba sottostare, è preclusa dalla riserva di legge che condiziona la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti. L’art. 42, secondo comma, Cost. contempla, invero, una riserva di legge relativa, rafforzata dall’indicazione dello scopo della funzione sociale (nonché dell’accessibilità a tutti), la quale così rappresenta l’indirizzo generale cui deve ispirarsi la legislazione ordinaria: ciò comporta che le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, possono essere stabilite solo dal legislatore, e non dal giudice. ConTenZIoSo nAZIonALe Sotto un profilo sostanziale, osta a ritenere che la rinuncia alla proprietà immobiliare possa realizzare un contrasto con l’art. 42, secondo comma, Cost., la considerazione, già svolta, che tale norma non implica un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”, essendo dato il minimo costituzionale del diritto di proprietà sia dal legame di appartenenza del bene, sia dall’apprezzabile valore economico dello stesso. 19.2. -Consistendo la rinuncia abdicativa alla proprietà in un atto di esercizio del dominio realizzatore dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione assoluta di attribuzione tra soggetto e bene, essa non si presta ad un impiego come strumento diretto ad eludere norme imperative per ottenere un risultato vietato dalla legge, né può pensarsi finalizzata esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali. Quello che la rinuncia esprime è l’interesse, a saldo totalmente negativo, a disfarsi della proprietà, e cioè il disinteresse a mantenere la titolarità del bene, mentre l’ipotizzato abuso abdicativo supporrebbe un esercizio della facoltà proprietaria diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato. d’altro canto, la rinuncia alla proprietà di un immobile non può mai dirsi voluta per conseguire l’effetto di farne ricadere gli oneri sullo Stato, giacché la conseguenza della insorgenza della responsabilità statale propter rem discende non dall’autoregolamento degli interessi dettato dal rinunciante, ma, come già affermato, dall’acquisto ex lege stabilito dall’art. 827 cod. civ. Sempre perché la rinuncia alla proprietà di un immobile dà luogo ad una modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione della res, non è, dunque, sostenibile un controllo giudiziale che preluda ad una tutela demolitoria dell’atto contro gli abusi di cui siano rimasti vittime terzi interessati, per la salvaguardia di scopi generali e di ragioni di efficienza economica. Ciò non implica una confutazione delle autorevoli tesi che ravvisano nella funzione sociale ex art. 42, secondo comma, Cost. un “limite interno” precettivo della proprietà, che regola in negativo i comportamenti del proprietario, vietandogli quelle attività non espressamente previste dalla legge come rientranti fra i suoi poteri, né sorrette da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale, e pertanto esterne alla relazione tipica di interesse corrente tra dominus e bene. L’esercizio antisociale della proprietà rimane soggetto al controllo giudiziale con riguardo a quei concreti comportamenti proprietari che sacrificano le ragioni dei terzi e che vengono perciò valutati secondo i canoni della responsabilità civile. Quel che qui si intende è che, in presenza di un atto di disposizione patrimoniale, quale la rinuncia formale alla proprietà di un immobile, essenzialmente votato alla perdita del diritto, non può invocarsi lo scopo della funzione sociale -che l’art. 42, secondo comma, Cost. impone alla normazione conformativa del contenuto del diritto di proprietà -per decidere della validità di tale atto, affidando al giudice un “sindacato di costituzionalità” della medesima rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare in nome di un bilanciamento di interessi da sovrapporre a quello operato nel codice civile. 19.3. -Per ricostruire altrimenti la nullità della rinuncia ad immobili “dannosi” come dipendente dalla impossibilità giuridica del suo oggetto, fa comunque difetto la base legale che ostacoli in modo assoluto il risultato cui essa è diretta. 20. - devono quindi enunciarsi i seguenti principi di diritto: 20.1. -La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza del- l’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa”, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nel- l’adesione di un “altro contraente”. 20.2. -Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un “fine egoistico”, non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”. Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato. 21. -Viene disposta la restituzione degli atti, rispettivamente, al Tribunale di L’Aquila e al Tribunale di Venezia. non vi è luogo a provvedere sulle spese sostenute nei procedimenti di rinvio pregiudiziale, non sussistendo in relazione ad essi una soccombenza riferibile alla iniziativa delle parti. P.Q.M. La Corte, pronunciando sui rinvii pregiudiziali disposti dal Tribunale di L’Aquila e dal Tribunale di Venezia con le ordinanze in epigrafe, enuncia i seguenti principi di diritto: 1. -La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa”, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un “altro contraente”. 2. -Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un “fine egoistico”, non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”. Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della fa ConTenZIoSo nAZIonALe coltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato. Si dispone la restituzione degli atti al Tribunale di L’Aquila e al Tribunale di Venezia. Così deciso in roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di cassazione, il 27 maggio 2025. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 incapacità naturale del lavoratore e impugnativa del licenziamento NOTA A CORTE COSTITUzIONALE, SENTENzA 18 LUGLIO 2025 N. 111 Angela Granato* SOMMARIO: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione -2. La soluzione della Corte costituzionale - 3. Osservazioni conclusive 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. La sentenza in commento è stata occasionata dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 l. n. 604/1966, sollevata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, ed offre uno spunto di riflessione in ordine alle conseguenze che l’incapacità naturale può provocare sulla validità ed efficacia di un atto recettizio quale il licenziamento. Il profilo discusso nel giudizio a quo, infatti, concerneva la tardività o meno dell’impugnazione proposta dalla ricorrente avverso il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata che la società datrice di lavoro aveva intimato con missiva ricevuta dalla lavoratrice nel settembre del 2015. In particolare, la stessa aveva provveduto a giustificare la propria assenza dal servizio con lettera trasmessa nel maggio 2016 e a depositare il relativo ricorso nel dicembre 2016, rappresentando di non aver avuto conoscenza del contenuto dell’atto di licenziamento a causa di uno stato di incapacità naturale e di aver riacquistato la pienezza delle facoltà cognitive e volitive solo all’esito di un trattamento sanitario obbligatorio. Con la sentenza censurata in sede di legittimità la Corte d’Appello di Palermo aveva concluso nel senso della tardività dell’impugnazione, in quanto proposta oltre il termine di decadenza di sessanta giorni “dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta”, previsto dall’art. 6, co. 1, l. n. 604/1966: la disposizione, difatti, contempla un primo termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnazione, anche stragiudiziale, del licenziamento ed un secondo termine di centottanta giorni per il deposito del ricorso, previsto a pena di inefficacia (1). (*) Procuratore dello Stato. (1) «Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione ConTenZIoSo nAZIonALe La decisione della Corte territoriale si fondava sulla circostanza che il termine di decadenza dall’impugnativa di licenziamento non è suscettibile di interruzione o di sospensione e nel principio, già emerso nella giurisprudenza di legittimità (2), dell’irrilevanza di un eventuale stato di incapacità naturale del destinatario sulla validità ed efficacia di tale atto recettizio. Avverso tale sentenza la lavoratrice aveva proposto ricorso per cassazione, censurando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1334 e 1335 c.c. in relazione alla decorrenza del termine di decadenza previsto dall’art. 6 l. 604/1966, che il Giudice di seconde cure avrebbe commesso laddove non aveva considerato l’incidenza dello stato di incapacità naturale, riscontrato dalla consulenza tecnica d’ufficio disposta nel primo grado di giudizio, sulla capacità della stessa di formare una volontà cosciente e, quindi, di comprendere il contenuto dell’atto. Investite della questione di massima di particolare importanza, le Sezioni unite civili hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 l. n. 604/1966 “nella parte in cui, facendo decorrere in ogni caso il termine di decadenza dalla data di ricezione della comunicazione del licenziamento, preclude l’azione al lavoratore licenziato che, in ragione dell’incolpevole stato di incapacità di intendere e di volere derivato da patologia fisica o psichica, non si sia attivato nel termine di legge e l’abbia fatto, una volta recuperata la piena capacità, tempestivamente rispetto a detto successivo momento temporale” (Cass., ord. n. 23874/2024). L’ordinanza muove dalla constatazione che, nei casi di incapacità naturale processualmente dimostrata, la decorrenza del termine di decadenza dalla ricezione della comunicazione finisce per tutelare prevalentemente l’interesse della parte datoriale al consolidamento degli effetti dell’atto, a discapito del diritto di azione e di altri diritti costituzionalmente garantiti del lavoratore. Il contrasto, nella prospettiva delle Sezioni unite, si configura rispetto all’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza che sotto quello del- l’uguaglianza, agli artt. 4, 24, 32, co. 1, 35 Cost. e, nei casi in cui la alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo » (art. 6, co. 1 e 2, l. 604/1966). (2) Si veda, a titolo esemplificativo, Cass. n. 5545/2007: «il termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’atto di licenziamento, che l’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 fissa per l’impugnazione del licenziamento stesso da parte del lavoratore, è un termine di decadenza e come tale insuscettibile, a norma dell’art. 2964 cod. civ., sia di interruzione sia, in mancanza di disposizione contraria, di sospensione, senza che a termini dell’art. 1335 cod. civ. possano rilevare le condizioni soggettive del destinatario, ed in ispecie la sua capacità di intendere e di volere, salva la tutela nei limiti dell’art. 428 cod. civ.». rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 menomazione sia duratura, agli artt. 117 e 11 Cost., in relazione agli obblighi imposti dalla Convenzione o.n.U del 13 dicembre 2006, ratificata con L. 3 marzo 2009, n. 18, e dalla direttiva 2000/78/Ce. 2. La soluzione della Corte costituzionale. Il bilanciamento tra l’esigenza di assicurare la stabilità degli effetti degli atti datoriali e i diritti fondamentali dei lavoratori rappresenta solo uno dei profili interessati dalla questione di legittimità in esame. L’ordinanza di rimessione, infatti, ha intercettato altre tematiche di analogo rilievo, quali la portata della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. (3) e l’inapplicabilità alla decadenza delle cause di interruzione e sospensione della prescrizione, prevista dall’art. 2964 c.c. Al riguardo, però, deve anticiparsi che tanto le Sezioni unite quanto il Giudice delle leggi hanno cautamente circoscritto il thema decidendum alla sola materia dell’impugnativa del licenziamento, escludendo l’art. 1335 c.c. dalle disposizioni censurate sebbene nel giudizio a quo si discuta della sua falsa applicazione. La norma, secondo la lettura condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritarie, prevede una presunzione relativa di conoscenza, superabile dal destinatario solo dimostrando circostanze oggettive ed incolpevoli che hanno impedito all’atto recettizio di entrare nella sua sfera di conoscibilità e senza che rilevi la sua effettiva capacità di apprezzarne il contenuto. nonostante la rigida applicazione della presunzione si traduca in una potenziale compressione dell’art. 24 Cost. ogniqualvolta alla conoscenza legale dell’atto recettizio sia collegato un termine di decadenza funzionale all’esercizio del diritto di difesa, il bilanciamento di interessi sotteso alla disciplina dell’art. 1335 c.c., posta a presidio della certezza dei rapporti giuridici, ha sconsigliato un intervento additivo sulla norma. Tanto premesso, la Corte costituzionale, disattese le pregiudiziali eccezioni di inammissibilità, ha ritenuto fondata la questione di legittimità. nello specifico, l’attenzione della Corte si è concentrata sul primo dei due termini -ossia quello di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione -che l’art. 6, co. 1, l. 604/1966 prevede ai fini dell’impugnazione, anche stragiudiziale, del licenziamento. orbene, secondo la Corte siffatto onere procedurale, inasprito dalla qualificazione del termine come di “decadenza”, si traduce in un ostacolo all’accesso alla tutela giurisdizionale in tutti i casi in cui il lavoratore si trovi in uno (3) L’art. 1335 c.c., giova ricordarlo, prevede che «la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». ConTenZIoSo nAZIonALe stato di incapacità naturale a lui non imputabile e non sia in grado di comprendere il significato dell’atto né di determinarsi sulle eventuali iniziative da intraprendere. Benché il concreto atteggiarsi del diritto di azione e la scelta della natura decadenziale o prescrizionale di un termine sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, tale opzione non può sacrificare l’esercizio del diritto cui si riferisce, al punto da renderlo impossibile o oltremodo difficoltoso. A ciò deve aggiungersi che, nell’ambito della impugnativa del licenziamento, il vulnus che una tale scelta legislativa produce alle prerogative del lavoratore è reso ancora più evidente dalla mancanza nell’ordinamento di specifiche forme di tutela preventiva in caso di sua incapacità naturale. Pertanto, ritenuta l’irragionevolezza della scelta legislativa, la Corte ha vagliato le possibili modalità di riconduzione a legittimità della normativa censurata, pervenendo alla conclusione della non praticabilità della soluzione prospettata nell’ordinanza di rimessione. difatti, l’intervento additivo sollecitato dal giudice a quo, ad avviso della Corte, avrebbe comportato l’introduzione di una causa di differimento sine die del termine previsto dall’art. 6 l. 604/1966 con inevitabili ripercussioni sulla tenuta della disciplina generale della decadenza, cui sono inapplicabili le disposizioni sulla sospensione e sull’interruzione previste in materia di prescrizione (4): come è noto, la decadenza risponde ad esigenze di certezza del traffico giuridico e può essere impedita solo attraverso il compimento del- l’atto, senza possibilità di interruzione o di sospensione (5), salvo, in quest’ultimo caso, che “sia disposto altrimenti” (art. 2964 c.c.). Per tale ragione, la riconduzione a legittimità della disciplina censurata è (4) L’intervento additivo suggerito alla Corte costituzionale, pertanto, si sarebbe mal conciliato con la disciplina che ispira l’istituto della decadenza. Giova ricordare, infatti, che l’art. 2964 c.c., escludendo che alla decadenza siano applicabili le norme previste in materia di interruzione e sospensione della prescrizione, sembra confermare l’applicabilità delle ulteriori disposizioni, quali l’art. 2935 c.c. in tema di decorrenza, a mente del quale “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Secondo la lettura che di tale norma è emersa nella giurisprudenza di legittimità «l’impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex art. 2935 c.c., è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli ostacoli di mero fatto (come il ritardo indotto dalle necessità di accertamento del diritto) o gli impedimenti soggettivi, per i quali il successivo art. 2941 c.c. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione della prescrizione» (cfr. Cass. civ. n. 14193/2021). ne consegue che, al pari di quanto accade per la prescrizione, solo ostacoli giuridici, e non anche impedimenti di mero fatto ovvero condizioni soggettive, possono incidere sulla iniziale decorrenza del termine di decadenza. (5) A tale riguardo, considerata l’ampia portata dell’art. 2935 c.c. -che esprime un principio ragionevole laddove preclude che a fronte di ostacoli giuridici i termini di prescrizione (ovvero di decadenza) non possano iniziare a decorrere -si ritiene che non sia sostenibile una interpretazione della disciplina delle cause di sospensione nel senso della loro tassatività (cfr. Cass. 16692/2022), che arrivi ad escludere la rilevanza dei suddetti ostacoli giuridici ove sopravvengano nel corso del termine. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 avvenuta tenendo conto sia della gravosità dell’onere imposto al lavoratore sia dell’esigenza di certezza in ordine alla stabilizzazione degli effetti del licenziamento. Ciò è stato possibile limitando l’intervento al termine di decadenza di sessanta giorni previsto per l’impugnativa, anche stragiudiziale, del licenziamento e, nel contempo, mantenendo ferma la previsione di un termine complessivo massimo, quantificato in duecentoquaranta giorni che decorrono dalla ricezione della comunicazione. In particolare, la Corte ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 6, co. 1, l. 604/1966, «nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche extragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche extragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, mediante il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato». 3. Osservazioni conclusive. Il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla Suprema Corte ha rievocato un risalente dibattito circa l’effettività delle forme di tutela che l’ordinamento riconosce ad un soggetto non compos sui, ma capace di agire. Sul versante sostanziale, è noto come la tutela dell’incapace naturale dal compimento di atti pregiudizievoli sia affidata alla disciplina prevista dall’art. 428 c.c. -per i negozi unilaterali ed i contratti -e dagli artt. 120 c.c., 591 c.c. e 775 c.c. -per matrimonio, testamento e donazione -nonché dall’art. 2046 c.c. per quanto riguarda gli atti illeciti. La scelta del legislatore, dunque, è stata quella di accordare all’incapace rimedi di tipo successivo, che presuppongono, cioè, il compimento di un atto pregiudizievole e si traducono nella possibilità di conseguirne l’annullamento al ricorrere dei presupposti previsti dalla normativa di riferimento (6). Quanto al piano processuale, non vi è dubbio che la disciplina di cui agli artt. 75 ss. c.p.c., riconoscendo la capacità di stare in giudizio alle persone che hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere, attribuisca rilevanza solo ai casi in cui l’incapacità sia legalmente accertata. (6) Sul favor legislativo verso forme di tutela successiva si veda Corte cost. n. 168/2023. In detta occasione, il Giudice delle leggi ha segnalato la cautela che traspare dall’ordinamento verso forme di tutela preventiva che, presupponendo “a loro volta, una incidenza sulla capacità legale d’agire, e dunque ricadono su un profilo importante della persona, che attiene al suo modo di essere e di agire nel mondo giuridico”, richiedono una particolare attenzione rispetto al tipo di accertamento necessario per poter limitare la capacità legale ed un vaglio delle effettive condizioni dell’interessato. ConTenZIoSo nAZIonALe Il codice di rito, infatti, non contempla con norme ad hoc l’eventualità che un incapace naturale partecipi al processo, così finendo per escludere che lo stato di incapacità del soggetto che non sia compos sui abbia un peso sulla sua capacità di essere parte e di compiere atti del processo. La tutela dell’incapace naturale, invero, è affidata a tutte quelle previsioni, quali gli artt. 70, co. 3, 71 e 473 bis.14 c.p.c. nonché l’art. 73 r.d. n. 12/1941, che, disciplinando in termini generali il potere-dovere di attivazione del Pubblico Ministero, demandano ad un organo pubblico la salvaguardia delle sue prerogative ad un giusto processo (7). Tale cornice normativa è stata ritenuta costituzionalmente legittima dal Giudice delle leggi, che, investito in più occasioni di dubbi di legittimità in ordine al differente trattamento che il codice di rito riserva ad incapacità legale e naturale, ne ha escluso la fondatezza, sul presupposto del preminente interesse a non consentire limitazioni della capacità d’agire in assenza di adeguati procedimenti di accertamento della gravità dello stato di incapacità (8). dalla disciplina di cui sopra, dunque, emerge come l’obiettivo di contemperare l’esigenza di tutelare il diritto di difesa dell’incapace con quello di non limitare a priori la sua capacità processuale sia stato perseguito confidando nel potere di intervento del P.M. che ben può garantire le condizioni per una attuazione piena del contraddittorio, valutando, ad esempio, l’opportunità di promuovere il giudizio per la nomina di un amministratore di sostegno o i procedimenti per l’interdizione o l’inabilitazione. nel caso di specie, tuttavia, a venire in rilievo non è la protezione del- l’incapace naturale nel processo, ma la garanzia di accesso al processo. Infatti, come precisato nell’ordinanza di rimessione e nella sentenza in commento, i diritti fondamentali al lavoro ed alla salute trovano il proprio strumento di realizzazione nel diritto, parimenti costituzionalmente garantito, di agire in giudizio. non è un caso che uno dei parametri di costituzionalità della normativa censurata sia stato individuato dalla Cassazione proprio nell’art. 24 Cost., che subirebbe una ingiustificata ed irragionevole compressione ove si escludesse (7) L’art. 73, co. 1, r.d. n. 12/1941, in particolare, prevede che «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari». (8) Cfr. Corte cost. n. 198/2006, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 78 c.p.c., in quanto « l’ordinamento prevede -specie a seguito della legge 9 gennaio 2004, n. 6 -forme di protezione dell’incapace naturale, che, attesa l’estrema varietà di ipotesi nelle quali tale forma di incapacità può darsi (sentenza n. 468 del 1992; ordinanza n. 206 del 1995), prendono già in considerazione -anche attraverso provvedimenti provvisori -l’esigenza che tale protezione consegua ad un procedimento adeguato alla gravità di un provvedimento che incide sulla capacità di agire, anche processuale, del soggetto che appare affetto da incapacità naturale ». rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 l’incidenza dello stato di incapacità naturale del lavoratore sulla decorrenza del termine di decadenza. Tale aspetto è stato enfatizzato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza in commento, in quanto in materia di licenziamento un siffatto pregiudizio si traduce, a sua volta, nella perdita della possibilità di contrastare l’illegittima iniziativa datoriale e, quindi, in un sacrificio del diritto fondamentale al lavoro, specie ove si consideri che il superamento del termine di impugnazione preclude al lavoratore il successivo accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune (9). Pertanto, la sentenza in commento si segnala, da un lato, per essere indice di quella rinnovata sensibilità verso la protezione dei soggetti vulnerabili, che già in altre occasioni ha trovato eco nella giurisprudenza costituzionale (10). dall’altro lato, si segnala perché la soluzione individuata dalla Corte esprime un ragionevole contemperamento tra le esigenze coinvolte, laddove, pur escludendo l’onere della previa impugnazione anche stragiudiziale in capo al lavoratore incapace, mantiene ferma la necessità di rispettare il termine massimo di duecentoquaranta giorni decorrenti non dalla cessazione dello stato di incapacità ma dalla ricezione della comunicazione del licenziamento. Per tale via, la Corte ha ovviato agli inconvenienti che un riconoscimento generalizzato della rilevanza di situazioni meramente soggettive avrebbe prodotto sulla certezza dei rapporti giuridici oltre che sulla tenuta della disciplina delle cause di sospensione della decadenza, nonché a problemi di ordine pratico legati alla necessità di acquisire in giudizio la prova del momento in cui è cessato lo stato di incapacità. Corte Costituzionale, sentenza 18 luglio 2025 n. 111 -Pres. G. Amoroso, Red. M.r. San Giorgio -Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (norme sui licenziamenti individuali), promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nel procedimento vertente tra G.A. e r. spa con ordinanza del 5 settembre 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 19 maggio 2025. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 5 settembre 2024, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2024, la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (norme sui licenziamenti individuali), in riferi (9) Cfr. ex plurimis Cass. n. 9827/2021, Cass. n. 5107/2010 e Cass. n. 10235/2009. (10) Si veda, a titolo esemplificativo, Corte cost. n. 322/2011, che ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri tale stato di incapacità naturale». ConTenZIoSo nAZIonALe mento agli artt. 3, 4, primo comma, 24, primo comma, 32, primo comma, 35, primo comma, 11 e 117 (recte: 117, primo comma) della Costituzione, questi ultimi due in relazione all’art. 27, paragrafo 1, lettera c), della Convenzione delle nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18 (ratifica ed esecuzione della Convenzione delle nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a new York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità) e alla direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 1.1.– La Corte di cassazione riferisce di essere investita del ricorso promosso da G.A. avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo che aveva confermato la pronuncia di primo grado, la quale aveva accertato la tardività della impugnazione proposta dalla stessa ricorrente avverso il licenziamento disciplinare intimatole dalla M.F.M. spa (ora: r. spa) per assenza ingiustificata dal lavoro dal 1° al 18 agosto 2015. La Corte d’appello -espone il giudice a quo -aveva premesso che la società datrice di lavoro aveva contestato l’illecito disciplinare alla dipendente, invitandola a fornire giustificazioni, mediante raccomandata da lei ricevuta il 21 agosto 2015; che la stessa società, non avendo ottenuto risposta entro il termine concesso, aveva irrogato alla lavoratrice la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, ai sensi degli artt. 46 e 48 del «CCnL di settore », con missiva dalla stessa ricevuta, previa sottoscrizione dell’avviso di ricevimento del- l’atto, il 10 settembre 2015; che il licenziamento non era stato impugnato nel termine di sessanta giorni previsto dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966 e che solo con lettera del 19 maggio 2016 la lavoratrice aveva contattato la società datrice di lavoro al fine di giustificare la propria assenza dal servizio; che la stessa dipendente aveva poi impugnato il licenziamento con ricorso notificato il 9 dicembre 2016, sostenendo di essersi trovata in condizioni di incapacità naturale che le avevano impedito di avere effettiva conoscenza del contenuto dell’atto. La Corte rimettente aggiunge che il giudice di secondo grado, condividendo la decisione di prime cure, aveva ritenuto che il termine di decadenza fosse spirato, non essendo lo stesso suscettibile di sospensione. La Corte d’appello aveva fatto applicazione del principio espresso dalla sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 9 marzo 2007, n. 5545, secondo la quale la validità o l’efficacia degli atti recettizi prescinde dall’eventuale stato di incapacità naturale del soggetto al quale sono indirizzati, posto che la disciplina di tali atti è espressione del principio dell’affidamento e il legislatore, da un lato, ha previsto l’annullabilità ex art. 428 del codice civile dei soli atti unilaterali posti in essere dall’incapace naturale e, dall’altro, all’art. 1335 cod. civ., ha dettato una regola volta a garantire la certezza giuridica della conoscenza dell’atto da parte del suo destinatario, a prescindere dalla capacità di quest’ultimo di apprezzarne il valore e di determinarsi di conseguenza. 1.2.– Le Sezioni unite espongono, quindi, che, con il primo motivo di ricorso, è stata denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1334 e 1335 cod. civ. in relazione alla decorrenza del termine di decadenza previsto dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966. A sostegno di tale censura -prosegue l’ordinanza di rimessione -la ricorrente ha dedotto che, dall’estate del 2015 al mese di maggio 2016, era stata affetta da grave crisi depressiva con dissociazione dalla realtà e aveva riacquistato la pienezza delle facoltà cognitive e volitive soltanto dopo essere stata sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio, disposto su se rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 gnalazione del centro di salute mentale di un ospedale; che aveva dimostrato il suo stato di assoluta incapacità di intendere e di volere producendo gli atti del giudizio avente a oggetto l’affidamento del proprio figlio minore e, in particolare, la relazione di consulenza tecnica d’ufficio ivi espletata; che l’esito di tale accertamento era stato confermato anche dal consulente tecnico d’ufficio designato nella prima fase del giudizio di impugnazione del licenziamento, il quale aveva concluso che, nel periodo sopra indicato, il disturbo psicotico breve con stato paranoide aveva impedito alla ricorrente la formazione di una volontà cosciente. La stessa ricorrente ha, quindi, argomentato che, poiché l’art. 1335 cod. civ. introduce una presunzione relativa, superabile dal destinatario che provi di non avere avuto notizia dell’atto senza sua colpa, non può essere ritenuta irrilevante, ai fini del suo superamento, l’incapacità naturale del destinatario determinata da problemi psichici. Ha, inoltre, sostenuto che la tutela dell’affidamento che ispira la disposizione suddetta non può giungere sino a sacrificare integralmente altri diritti fondamentali come il diritto alla salute, il diritto di difesa e il diritto al lavoro. 1.2.1.– La Corte di cassazione aggiunge che, con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ., la ricorrente ha denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ravvisato nella mancata valutazione della consulenza tecnica d’ufficio medico legale, lamentando, in particolare, che le conclusioni rassegnate dall’ausiliare del giudice avrebbero dovuto condurre a escludere l’applicabilità del principio enunciato dalla Corte di cassazione nella ricordata sentenza n. 5545 del 2007, giacché nel giudizio dalla stessa definito la lavoratrice non aveva dimostrato di essere stata senza sua colpa impossibilitata a conoscere il contenuto della lettera di licenziamento. Inoltre, ad avviso della ricorrente, i giudici del merito, ritenendo maturata la decadenza dalla impugnazione, non si sarebbero espressi sulla legittimità della sanzione espulsiva, la quale, però, avrebbe dovuto essere esclusa, posto che il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria applicabile nel caso di specie, pur prevedendo che l’assenza debba essere giustificata dal lavoratore «entro i due giorni successivi», fa salvi i casi di comprovato impedimento, tra i quali si inscrive anche l’incapacità naturale. 1.3.– Tanto premesso, il giudice a quo espone che, con ordinanza interlocutoria del 27 settembre 2023, n. 27483, la sezione lavoro della Corte di cassazione, originariamente investita del ricorso, ha chiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni unite per chiarire «se uno stato di incapacità naturale, processualmente dimostrato e non contestato, sussistente nel momento in cui l’atto sia giunto all’indirizzo, rilevi ai fini del superamento, da parte del destinatario, della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. in quanto incidente sulla possibilità di averne notizia, senza sua colpa». 1.4.– Ciò posto, le Sezioni unite rimettenti ritengono rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento ai richiamati parametri costituzionali, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, come riformulato dall’art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), nella parte in cui, nel prevedere che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero di quella dei relativi motivi, se non contestuale, «fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente ConTenZIoSo nAZIonALe alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità». 1.5.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che la Corte territoriale, richiamando l’orientamento consolidato formatosi nella giurisprudenza di legittimità a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 25 ottobre 1982, n. 5563, ha escluso «in radice» che, ai fini del decorso del termine di decadenza, assuma rilevanza l’incapacità naturale dedotta dalla lavoratrice e, pertanto, non ha esaminato le prove dalla stessa dedotte per dimostrarne l’effettiva sussistenza. rileva, quindi, che, poiché la sentenza impugnata è fondata in via esclusiva sull’intervenuta maturazione del termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, che lo stesso giudice del merito ha fatto decorrere dalla data di ricezione della lettera di licenziamento, e il ricorso per cassazione censura l’esito al quale è pervenuta la Corte territoriale, sussiste «l’effettivo e concreto rapporto di strumentalità» fra la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale proposte e la definizione del giudizio principale. 1.6.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ricostruisce, anzitutto, il quadro normativo in cui si colloca la disposizione censurata, ricordando come l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità assuma che il termine per l’impugnazione del licenziamento abbia natura decadenziale e, in quanto tale, sia insuscettibile, a norma dell’art. 2964 cod. civ., sia di interruzione sia di sospensione, e interpreti l’art. 1335 cod. civ. in adesione alla teoria della ricezione, secondo cui rileva non la conoscenza in senso proprio, ma la conoscibilità dell’atto, ricavabile da una circostanza oggettivamente verificabile, quale è la consegna di esso al domicilio del destinatario. La disposizione codicistica, osserva la Corte rimettente, stabilisce, infatti, una equivalenza giuridica tra la conoscenza e la conoscibilità e introduce una presunzione iuris tantum in base alla quale quest’ultima deriva dalla consegna dell’atto al domicilio del destinatario. Ciò sarebbe confermato dall’oggetto della prova contraria, individuato dall’art. 1335 cod. civ. nella «impossibilità di averne notizia» e non nella conoscenza effettiva del contenuto dell’atto. La prova idonea a vincere la presunzione deve, quindi, riguardare circostanze che attengano non alle condizioni soggettive del ricevente, ma a fattori esterni e oggettivi che, concernendo il collegamento del soggetto con il luogo di consegna, siano idonei a escludere la conoscibilità dell’atto. Il giudice a quo evidenzia come la ratio della suindicata previsione, da individuarsi nel- l’esigenza di protezione della certezza dei rapporti giuridici, esprima un bilanciamento di interessi riferibile «all’intero complesso delle relazioni obbligatorie e contrattuali», così che non sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata che, forzandone la lettera, prenda in considerazione soltanto gli atti recettizi «dalla cui conoscenza decorre il termine per il compimento di un’attività» e gli interessi, pur costituzionalmente rilevanti, che vengono in rilievo nel rapporto di lavoro, ma non in altre relazioni giuridiche che sono disciplinate dall’art. 1335 cod. civ. esclude, quindi, che, in materia di impugnazione del licenziamento, all’incapacità naturale del destinatario possa attribuirsi rilevanza attraverso una rilettura dello stesso art. 1335 cod. civ., osservando, altresì, come la tutela dell’incapace non possa essere assicurata neppure applicando l’art. 428 cod. civ., in quanto l’azione di annullamento ivi prevista si riferisce all’atto unilaterale e al contratto e non anche ai comportamenti omissivi, ossia all’ipotesi in cui l’incapace non agisca a tutela dei propri diritti. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 neanche rispetto a quest’ultima disposizione sarebbe, pertanto, sperimentabile l’interpretazione costituzionalmente orientata. 1.7.– Le Sezioni unite ritengono, pertanto, che la valutazione debba essere circoscritta alla disciplina recata dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966. neppure tale disposizione si presterebbe, tuttavia, a una interpretazione conforme a Costituzione, attesa l’insuperabilità del suo tenore letterale, che univocamente fa decorrere il termine per l’impugnazione dalla ricezione della comunicazione del licenziamento e quindi dalla conoscenza legale di cui all’art. 1335 cod. civ. Il Collegio rimettente ricorda che, nell’interpretare, ad altri fini, la previsione in scrutinio, le stesse Sezioni unite hanno evidenziato che la finalità di certezza giuridica non è estranea al rapporto di lavoro subordinato, in quanto l’imposizione di un breve termine di decadenza entro cui l’impugnazione del licenziamento deve essere proposta esprime l’esigenza di contemperare il diritto del lavoratore all’eliminazione delle conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale con l’interesse del datore di lavoro alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa, esigenza cui il legislatore fa fronte condizionando la tutela del prestatore alla sua tempestiva attivazione, in mancanza della quale il suo diritto alla legittimità degli atti datoriali recede a fronte dell’interesse alla stabilizzazione degli effetti del licenziamento (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 14 aprile 2010, n. 8830). Il giudice a quo rammenta, però, come la pronuncia ora richiamata abbia anche precisato che tale conseguenza non deriva dal consolidarsi degli effetti del licenziamento illegittimo a tutela dell’affidamento, ma dall’esito negativo del vaglio di concreta meritevolezza dell’interesse del lavoratore che non abbia tempestivamente dato impulso agli strumenti che l’ordinamento gli riconosce. rimarca, ancora, la particolare natura degli interessi coinvolti dall’impugnazione del licenziamento, i quali trascendono quelli di cui sono portatori i contraenti «nella normalità del diritto dei contratti», perché il recesso dal contratto di lavoro incide su diritti fondamentali della persona (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 194 del 2018) e, di conseguenza, l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo (viene citata la sentenza di questa Corte n. 59 del 2021). richiama, altresì, la giurisprudenza costituzionale secondo cui, sebbene il legislatore goda di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e il controllo di legittimità costituzionale debba limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, al Giudice delle leggi compete comunque la verifica «che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale» (sentenza n. 212 del 2020). 1.8.– Tutto ciò premesso, le Sezioni unite dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, «nella parte in cui, facendo decorrere in ogni caso il termine di decadenza dalla data di ricezione della comunicazione del licenziamento, preclude l’azione al lavoratore licenziato che, in ragione dell’incolpevole stato di incapacità di intendere e di volere derivato da patologia fisica o psichica, non si sia attivato nel termine di legge e l’abbia fatto, una volta recuperata la piena capacità, tempestivamente rispetto a detto successivo momento temporale». 1.8.1.– In tale ipotesi, osserva l’ordinanza di rimessione, «l’operatività del termine di decadenza finisce per valorizzare unicamente l’interesse della parte datoriale al consolidamento degli effetti dell’atto adottato e per comprimere oltre misura il diritto di azione del lavoratore, ConTenZIoSo nAZIonALe riferito al diritto al lavoro, che la Carta costituzionale espressamente tutela agli artt. 24, comma 1, 4, comma 1, e 35, comma 1». 1.8.2.– Secondo il giudice a quo, la scelta del legislatore di non considerare meritevole di tutela il lavoratore licenziato che non si attivi tempestivamente, anche nel caso in cui la mancata impugnazione del recesso dipenda dalla sua «assoluta incolpevole incapacità di comprendere e di autodeterminarsi», sarebbe affetta da irragionevolezza, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto non opererebbe alcun bilanciamento tra gli interessi in conflitto. 1.8.3.– L’art. 3 Cost. risulterebbe leso anche in riferimento al principio di eguaglianza, non potendo la situazione della persona incapace essere equiparata a quella del soggetto «che tale non è». 1.8.4.– Ancora, l’omessa considerazione, ai fini della individuazione del dies a quo del termine di decadenza, dello «stato di incapacità naturale derivante da malattia», confliggerebbe con l’art. 32, primo comma, Cost. 1.8.5.– Sarebbero, infine, violati gli artt. 117, primo comma, e 11 Cost., in quanto, nei casi in cui la menomazione, pur non essendo permanente, sia duratura (nei termini precisati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, sezione terza, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed daouidi), la disciplina censurata si risolverebbe in una discriminazione in danno della persona disabile, in violazione degli obblighi, imposti dall’art. 27, paragrafo 1, lettera c), della Convenzione onU per i diritti delle persone con disabilità e dalla direttiva 2000/78/Ce, di assicurare allo stesso disabile l’esercizio dei suoi diritti e di adottare misure adeguate per rimediare «agli svantaggi provocati dalla applicazione di una disposizione che, seppure apparentemente neutra, determina una disparità con gli altri lavoratori». 1.9.– da ultimo, la Corte di cassazione osserva che l’auspicato intervento additivo non risulterebbe incoerente con la disciplina generale della decadenza sancita dall’art. 2964 cod. civ., in quanto tale disposizione, pur escludendo l’operatività delle cause di sospensione della prescrizione, «fa salve [le] disposizioni speciali, disposizioni che il legislatore, in effetti, ha dettato con riferimento a singole azioni (artt. 245, 489 cod. civ.), in considerazione della particolare natura del diritto al quale il termine di decadenza si riferisce». Si tratta, prosegue l’ordinanza di rimessione, di casi in cui il legislatore ha ritenuto di dovere attribuire rilevanza allo stato di incapacità legale del titolare del diritto ed è significativo che questa Corte, nella sentenza n. 3229 (recte: n. 322) del 2011, «abbia equiparato all’incapacità legale quella naturale derivante da grave infermità di mente, finché la stessa perduri». Tali ragioni «possono essere ritenute ricorrenti anche in relazione all’impugnazione del licenziamento, ossia ad un atto che coinvolge direttamente la persona del lavoratore e pone in discussione interessi che trascendono quelli meramente economici rilevanti nei rapporti contrattuali di durata». Il giudice a quo esclude che la pronuncia additiva richiesta possa minare la certezza dei rapporti giuridici, in quanto la diversa decorrenza del termine di impugnazione «richiederà che nel processo la parte, oltre a dimostrare lo stato di assoluta incapacità di intendere e di volere sussistente al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, fornisca anche la prova della data in cui lo stesso è cessato». 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibili o comunque non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. 2.1.– L’interveniente rileva anzitutto che dall’ordinanza di rimessione risulta che, con lettera rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 del 19 maggio 2016, la ricorrente nel giudizio a quo ha contattato la società datrice di lavoro al fine di giustificare la protratta assenza dal servizio. Secondo la difesa statale, ciò dimostrerebbe che, alla data suddetta, la lavoratrice avesse piena consapevolezza della sanzione espulsiva irrogatale e che, quindi, la missiva dalla stessa inviata al datore di lavoro valesse quale impugnazione stragiudiziale del licenziamento. Pertanto, assumendo tale data quale dies a quo della decorrenza del termine per l’impugnazione del licenziamento, il ricorso avrebbe dovuto essere depositato entro il 18 luglio 2016. osserva al riguardo l’Avvocatura generale dello Stato che nell’ordinanza di rimessione non si indica il giorno del deposito del ricorso, ma soltanto quello della sua notificazione (ossia il 9 dicembre 2016). Il giudice a quo, non dando conto di aver verificato se la ricorrente, una volta recuperata la piena capacità, si sia tempestivamente attivata, rispetto a detto successivo momento temporale, per consolidare l’impugnazione stragiudiziale ai sensi dell’art. 6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966, avrebbe fornito una inadeguata motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate. 2.1.1.– In subordine, l’interveniente osserva che se, invece, si ritenesse che il giudice a quo abbia fatto riferimento alla sola notifica del ricorso, non avendo inteso attribuire alla missiva del 19 maggio 2016 la valenza di una impugnazione stragiudiziale, la questione dovrebbe ritenersi inammissibile per difetto di rilevanza. La ricorrente, infatti, avendo recuperato la piena capacità almeno dal 19 maggio 2016, avrebbe dovuto manifestare la volontà di impugnare l’atto espulsivo entro il 18 luglio 2016 e, tuttavia, ha notificato il ricorso soltanto il 9 dicembre 2016. 2.2.– nel merito, la difesa statale, dopo aver ricordato la giurisprudenza costituzionale che riconosce al legislatore ampia discrezionalità nella configurazione degli istituti processuali, ha sottolineato come la disposizione censurata richiami il principio di conoscenza legale degli atti recettizi fissato in via generale dall’art. 1335 cod. civ. Ad avviso dell’interveniente, tale disposizione, nel bilanciare i contrapposti principi della certezza dei rapporti giuridici e del diritto alla salute e al lavoro, ha utilizzato un criterio di proporzionalità che la rende immune da irragionevolezza manifesta. 3.– È, infine, pervenuta, in data 26 novembre 2024, l’opinione scritta, quale amicus curiae, ai sensi dell’art. 6 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, del- l’Associazione Comma2 -Lavoro è dignità -ammessa con decreto presidenziale del 7 aprile 2025 - contenente argomentazioni adesive alle censure del giudice a quo. L’associazione ha rilevato come la Corte rimettente abbia correttamente limitato la questione di legittimità costituzionale all’art. 6 della legge n. 604 del 1966 senza estenderla all’art. 1335 cod. civ., il quale, nella interpretazione fornitane dal diritto vivente, esclude ogni considerazione delle condizioni soggettive del destinatario, attribuendo rilevanza alla sola conoscenza legale dell’atto -e non all’evento psichico della sua effettiva conoscenza -, in quanto è posto a presidio della certezza dei rapporti giuridici. L’amicus curiae ha, quindi, concluso per l’accoglimento delle questioni sollevate, ove non si ritenga praticabile una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 428 cod. civ., in base alla quale la tutela ivi prevista sia estesa anche alla condotta omissiva del lavoratore coincidente con la mancata tempestiva impugnazione del licenziamento. Considerato in diritto 1.– La Corte di cassazione, sezioni unite civili, dubita della legittimità costituzionale del ConTenZIoSo nAZIonALe l’art. 6 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui, nel prevedere che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta -ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale -, «fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità». 1.1.– Il giudice a quo ritiene, anzitutto, violati gli artt. 4, primo comma, 24, primo comma, e 35, primo comma, Cost., poiché la disposizione censurata, nella ipotesi prospettata, valorizzerebbe esclusivamente l’interesse del datore di lavoro al consolidamento degli effetti del licenziamento, comprimendo «oltre misura» il diritto di azione del lavoratore, correlato al diritto al lavoro, che la Costituzione espressamente tutela. 1.2.– Sarebbe, inoltre, leso l’art. 3 Cost., per un duplice profilo. 1.2.1.– da un lato, il mancato riconoscimento di tutela a favore del lavoratore licenziato che non si attivi tempestivamente, neppure a fronte di un atto che coinvolge fortemente la qualità della vita propria e della propria famiglia, si rivelerebbe irragionevole, non operando alcun bilanciamento tra gli interessi in conflitto, quando riguardi il dipendente che abbia omesso di impugnare il licenziamento a causa di una totale, e incolpevole, incapacità di autodeterminarsi. 1.2.2.– dall’altro lato, l’art. 3 Cost. sarebbe violato anche in riferimento al principio di eguaglianza, in quanto la situazione della persona incapace di intendere e di volere verrebbe equiparata a quella del soggetto che tale non è. 1.3.– La Corte rimettente ritiene che la disposizione censurata leda, altresì, l’art. 32, primo comma, Cost., in quanto «[l]’omessa considerazione dello stato di incapacità naturale derivante da malattia ai fini della individuazione del dies a quo del termine di decadenza» per l’impugnazione del licenziamento si porrebbe «in contrasto con la tutela della salute [costituzionalmente] garantita». 1.4.– Sarebbero, infine, violati, nei casi in cui la menomazione, seppure non permanente, sia duratura, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 27, paragrafo 1, lettera c), della Convenzione onU per i diritti delle persone con disabilità e alla direttiva 2000/78/Ce, «che impongono, fra l’altro, di assicurare al disabile l’esercizio dei propri diritti (art. 27, lett. c, della Convenzione) e di adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati dalla applicazione di una disposizione che, seppure apparentemente neutra, determina una disparità con gli altri lavoratori». nelle ipotesi considerate, la previsione censurata realizzerebbe, infatti, una discriminazione in danno della persona disabile, in contrasto con i richiamati obblighi imposti dalle suddette fonti sovranazionali. 2.– In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri. 2.1.– La difesa statale denuncia, anzitutto, la carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate. 2.1.1.– L’eccezione non è fondata. dall’ordinanza di rimessione si ricava che nel giudizio principale la ricorrente ha censurato la pronuncia di merito che aveva dichiarato la tardività della sua impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in quanto comunicata oltre il termine previsto dall’art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 rispetto a questo thema decidendum la Corte rimettente ha fornito tutti gli elementi descrittivi necessari al vaglio della rilevanza. L’ulteriore decadenza prospettata dall’interveniente -derivante dalla asserita tardività del- l’impugnazione giudiziale rispetto alla, pur intempestiva, contestazione stragiudiziale -non risulta, infatti, in discussione tra le parti del giudizio principale, né potrebbe essere rilevata d’ufficio dal giudice (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 settembre 2011, n. 19405). 2.1.2.– Per le medesime ragioni deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità formulata dall’interveniente in via subordinata. La difesa statale deduce che la ricorrente nel giudizio principale, avendo recuperato la piena capacità di intendere e di volere almeno a far data dal 19 maggio 2016, avrebbe dovuto manifestare la volontà di impugnare l’atto espulsivo entro il 18 luglio 2016, mentre ha notificato il ricorso soltanto il 9 dicembre 2016: donde il difetto di rilevanza della questione. Anche questa eccezione, vertendo su un segmento della impugnazione del licenziamento diverso da quello che, alla stregua dell’ordinanza di rimessione, risulta controverso nel giudizio a quo, è destituita di fondamento. 2.2.– Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono, pertanto, rilevanti. La Corte rimettente è chiamata a fare applicazione della disposizione censurata e tanto è sufficiente per ritenere sussistente la rilevanza, la quale deve essere valutata «in ingresso del giudizio incidentale a prescindere dalla maggiore o minore ricaduta che l’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale, in ipotesi anche solo parziale rispetto al petitum del giudice rimettente, possa avere nel giudizio principale (sentenza n. 41 del 2021)» (sentenza n. 167 del 2022). 3.– All’esame del merito delle questioni di legittimità costituzionale è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la disposizione censurata. 3.1.– L’art. 6 della legge n. 604 del 1966, disponendo, al primo comma, che «[i]l licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso», onera il lavoratore che intenda contestare l’atto datoriale di una previa impugnativa da esperirsi, anche in via stragiudiziale, nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’atto espulsivo. La stessa disposizione, al secondo comma, introduce un ulteriore onere di avvio del procedimento giurisdizionale entro un termine, anch’esso di decadenza, la cui inosservanza è sanzionata con l’inefficacia sopravvenuta della precedente impugnativa. In particolare, è previsto che «[l]’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo ». 3.2.– La disposizione censurata, nella formulazione originaria, contemplava il solo onere ConTenZIoSo nAZIonALe di impugnazione del licenziamento con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla ricezione della sua comunicazione ovvero da quella dei relativi motivi, ove non contestuale a quella dell’atto di recesso. I lavori parlamentari confermano che l’introduzione di un termine breve di decadenza per l’impugnazione dell’atto datoriale mirava a evitare l’insorgere di controversie a distanza di tempo, ciò che avrebbe reso certamente meno agevole l’accertamento dei fatti che ad esse avevano dato luogo. Alla stregua di tale disciplina, il lavoratore, una volta che avesse scongiurato il maturare della decadenza attraverso l’impugnazione stragiudiziale, avrebbe potuto esperire l’azione di annullamento del licenziamento nel termine quinquennale di cui all’art. 1442 cod. civ., decorrente dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 1° dicembre 2010, n. 24366) ovvero agire per la dichiarazione di nullità senza alcun limite temporale. 3.3.– L’art. 6 della legge n. 604 del 1966 è stato significativamente riformato dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, il quale -per ciò che rileva ai fini dell’esame delle odierne questioni di legittimità costituzionale -, al comma 1, ha introdotto, accanto all’onere di previa impugnazione stragiudiziale, l’ulteriore onere di tempestivo avvio del giudizio, da assolvere entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, termine poi ridotto a centottanta dall’art. 1, comma 38 della legge 28 giugno 2012, n. 92 (disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Il citato art. 32 della legge n. 183 del 2010 ha poi esteso tale disciplina della decadenza anche ad altre ipotesi. 3.4.– Infine, questa Corte, con la sentenza n. 212 del 2020, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 «nella parte in cui non prevede che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 del codice di procedura civile». 3.5.‒ Il superamento del termine di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale, ovvero dei termini ulteriori per il deposito del ricorso, anche cautelare se anteriore alla causa, o per attivare le procedure di conciliazione o di arbitrato, rispettivamente indicati nel primo e nel secondo comma della disposizione in scrutinio, dà luogo a decadenza (ex aliis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 4 novembre 2024, n. 28266 e 17 luglio 2024, n. 19740), per effetto della quale al lavoratore è precluso anche l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 14 aprile 2021, n. 9827). 3.6.– Questa Corte ha individuato il fondamento della imposizione del doppio termine decadenziale nell’esigenza di deflazionare il contenzioso e di garantire, nell’interesse della parte datoriale, la certezza dei costi delle vertenze quiescenti. Si è, in particolare, osservato che la finalità della riforma del 2010 è «quella di contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo» (sentenza n. 155 del 2014) e che il legislatore ha perseguito «l’intento di evitare che un possibile contenzioso, attivabile dal lavoratore, possa rimanere latente per tutto il tempo di prescrizione dell’azione di annullamento ovvero per un tempo lungo e indefinito in caso di azione di nullità» (sentenza n. 212 del 2020). rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 3.7.– Il primo dei termini contemplati dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966 decorre dalla comunicazione al prestatore di lavoro del licenziamento in forma scritta e, precisamente, dal momento in cui, in base a quanto disposto dall’art. 1334 cod. civ., l’atto datoriale produce effetto. dal carattere recettizio del licenziamento (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 29 marzo 2017, n. 8136) deriva, infatti, che, ai sensi dell’art. 1335 cod. civ. -a mente del quale «[l]a proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia» -esso si presume conoscibile nel momento in cui è recapitato all’indirizzo del lavoratore e non nel diverso momento in cui questi ne prenda effettiva conoscenza (Cass., n. 5545 del 2007). 3.7.1.– La giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che la validità e l’efficacia degli atti che, come il licenziamento, hanno natura recettizia prescinde dall’eventuale stato di incapacità naturale del soggetto cui sono diretti. Il legislatore ha, infatti, predisposto regole, come l’art. 1335 cod. civ., che consentono di stabilire la certezza giuridica della loro conoscibilità da parte dei destinatari, indipendentemente dalla capacità degli stessi di apprezzarne il valore e di determinarsi in conseguenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 giugno 1985 n. 3612 e Cass., n. 5563 del 1982). Si è, ancora, precisato che il termine entro il quale, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, deve essere proposta l’impugnazione, anche in via stragiudiziale, del licenziamento, avendo natura decadenziale, è insuscettibile, a norma dell’art. 2964 cod. civ., sia di interruzione sia, in mancanza di disposizione contraria, di sospensione. esso «produce il suo effetto preclusivo in conseguenza della inerzia del titolare del diritto, senza che le condizioni soggettive del titolare e, in particolare, la sua capacità di intendere e di volere, rilevino in alcun modo e possano costituire cause di interruzione o di sospensione» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 marzo 1987, n. 2197). 3.8.– Le pronunce appena ricordate concordano con gli esiti interpretativi cui la stessa giurisprudenza di legittimità è giunta in relazione alla disciplina generale delle dichiarazioni recettizie. Secondo un consolidato indirizzo, infatti, la regola dettata dall’art. 1335 cod. civ., alla stregua della quale ogni dichiarazione diretta a una persona determinata si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, opera per tale solo fatto oggettivo. Grava, pertanto, sul destinatario l’onere di superare tale presunzione provando di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di acquisire la conoscenza della dichiarazione, a causa di un evento eccezionale ed estraneo alla sua volontà (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 19 agosto 2016, n. 17204; sezione terza civile, sentenze 22 ottobre 2013, n. 23920, 8 agosto 2007, n. 17417 e 4 giugno 2002, n. 8073; sezione lavoro, sentenza 11 aprile 1990, n. 3061). 3.9.– La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, escluso che, nel caso in cui il destinatario dell’atto recettizio versi in condizioni di incapacità naturale, trovi applicazione l’art. 428, primo comma, cod. civ., a mente del quale «[g]li atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio al- l’autore». Si è, infatti, argomentato che tale previsione riferisce l’annullabilità agli atti «compiuti» ConTenZIoSo nAZIonALe dalla persona incapace e per questa pregiudizievoli, così che deve escludersi che il rimedio in questione sia esperibile nel caso in cui il pregiudizio derivi dal mancato compimento di un atto, pur dipendente dall’incapacità (Cass., n. 3612 del 1985). 3.10.– nella cornice giurisprudenziale sin qui ricomposta si colloca l’ordinanza di rimessione all’odierno esame. 4.– Prima di esaminare il merito delle questioni sollevate occorre delimitare esattamente il thema decidendum. 4.1.– La questione di massima di particolare importanza della quale sono state investite le Sezioni unite rimettenti concerne la rilevanza, ai fini del superamento della presunzione di conoscibilità stabilita dall’art. 1335 cod. civ., dello stato di incapacità naturale, processualmente accertato e non contestato, in cui versi il destinatario della dichiarazione recettizia nel momento in cui l’atto giunge al suo indirizzo. La Corte rimettente esclude, tuttavia, che la tutela del lavoratore colpito da incapacità naturale possa essere assicurata attraverso una rimeditazione dell’interpretazione nomofilattica degli artt. 1335, 2964 e 428 cod. civ., in quanto tali disposizioni oppongono una assoluta resistenza a una revisione ermeneutica che scongiuri i vulnera costituzionali prospettati dall’ordinanza interlocutoria. In aggiunta, osserva che la disciplina generale degli atti recettizi è posta a presidio della certezza dei rapporti giuridici ed esprime un preciso bilanciamento di interessi operato dal legislatore in relazione «all’intero complesso delle relazioni obbligatorie e contrattuali», mentre l’azione di annullamento ex art. 428 cod. civ. non si presta a essere estesa ai comportamenti omissivi. Assume, quindi, che al segnalato vuoto di tutela debba porsi rimedio intervenendo sulla sola disciplina dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e, segnatamente, sull’esordio del termine di decadenza al quale è sottoposta. La Corte rimettente, in particolare, circoscrive il petitum alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui àncora il dies a quo del termine per l’impugnazione del licenziamento al fatto obiettivo della ricezione della relativa comunicazione, anche nell’ipotesi in cui il lavoratore non sia in grado di comprenderne la portata e di autodeterminarsi consapevolmente in merito all’utilizzo degli strumenti predisposti dall’ordinamento per farne valere l’illegittimità. 4.1.1.– Va anche evidenziato che, nonostante il giudice a quo censuri l’art. 6 della legge n. 604 del 1966 senza ulteriori precisazioni, il contenuto precettivo effettivamente investito dai dubbi di illegittimità costituzionale è solo quello del primo comma, come è reso evidente dalla riproduzione del suo contenuto nel petitum dell’ordinanza di rimessione e, comunque, dal tenore complessivo delle argomentazioni svolte. È, quindi, soltanto in relazione a tale comma che va condotto lo scrutinio di costituzionalità. 4.1.2.– deve, infine, rilevarsi che la mancata indicazione nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione dell’art. 24, primo comma, Cost. -la cui violazione risulta, invece, dedotta e argomentata nella parte motiva -non pregiudica la corretta individuazione della censura fondata su tale parametro (ex aliis, sentenza n. 164 del 2023). 5.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966, sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 24, primo comma, e 35, primo comma, Cost. sono fondate. 5.1.– La disciplina relativa alla impugnazione del licenziamento sopra richiamata, sotto rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 ponendo l’azione volta a far valere l’illegittimità di tale provvedimento a un duplice termine decadenziale, da un lato, deroga al precetto sancito dall’art. 2967 cod. civ., secondo cui, una volta che la decadenza sia stata impedita, il diritto rimane soggetto alle disposizioni che regolano la prescrizione, e, dall’altro, costituisce lex specialis rispetto al regime generale delle impugnative negoziali e delle correlate azioni risarcitorie. 5.2.– d’altronde, il legislatore gode di ampia discrezionalità non solo nel qualificare l’inerzia estintiva delle situazioni giuridiche soggettive in termini di decadenza o di prescrizione e nel determinare il tempo necessario alla rispettiva maturazione, ma anche nel combinare termini di prescrizione e di decadenza. 5.2.1.– Per quanto concerne, in particolare, il diritto di azione, la scelta della natura, decadenziale o prescrizionale, e della stessa durata del termine cui condizionare l’esercizio di un diritto in giudizio è riconducibile alla discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali ed è calibrata secondo le speciali caratteristiche di ogni singolo procedimento (sentenza n. 94 del 2017). Per costante giurisprudenza di questa Corte, tale discrezionalità incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (tra le più recenti, sentenze n. 76, n. 39 e n. 36 del 2025, n. 189 e n. 96 del 2024, n. 67 del 2023), il quale è da intendersi valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» (sentenza n. 76 del 2025; in senso conforme, ex aliis, sentenze n. 271 del 2019, n. 121 e n. 44 del 2016), in quanto vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (ex aliis, sentenze n. 13 del 2022, n. 230 e n. 148 del 2021, n. 271 del 2019). 5.3.– La non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di sottoporre a decadenza l’esercizio del diritto di azione dipende anzitutto dalla congruità del termine, la quale va apprezzata non solo rispetto all’interesse di chi è onerato della sua osservanza, ma anche in rapporto alla funzione a esso assegnata nell’ordinamento giuridico (sentenze n. 161 del 2000, n. 234 del 1974, n. 114 del 1972). In ogni caso, l’introduzione di un termine di decadenza non deve mai tradursi nella esclusione della effettiva possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, rendendola meramente apparente o, comunque, estremamente difficile (ancora, sentenze n. 94 del 2017, n. 161 del 2000, n. 234 del 1974; per l’affermazione del principio in materia di prescrizione, sentenza n. 32 del 2024). 5.4.– Tanto precisato, il termine per la impugnazione, anche in via stragiudiziale, del licenziamento previsto dall’art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966 -sul quale si appuntano le censure del giudice a quo -, è parte di uno speciale regime decadenziale che, come già evidenziato, trova in via generale giustificazione nelle esigenze, ritenute dal legislatore meritevoli di tutela, di fare emergere in tempi brevi il contenzioso sul recesso datoriale (sentenza n. 212 del 2020), di tutelare l’affidamento che il datore di lavoro ripone sulla stabilizzazione degli effetti del licenziamento e di garantire la speditezza del giudizio promosso per accertarne la legittimità (sentenza n. 155 del 2014). In definitiva, esso è volto a «contemperare il diritto del prestatore all’eliminazione delle conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale con l’interesse del datore di lavoro alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa […] subordinando la tutela del lavoratore alla circostanza che questi tempestivamente si attivi, sì che in mancanza di pronta iniziativa del prestatore il diritto di questo alla legittimità degli atti datoriali di gestione recede a fronte della stabilizzazione delle conseguenze del licenziamento» (Cass., sez. un. civ., n. 8830 del 2010). ConTenZIoSo nAZIonALe Lo stesso termine ex art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966 può ritenersi normalmente adeguato al tipo di atto il cui compimento è richiesto a pena di decadenza, potendo il lavoratore validamente provvedervi mediante invio al datore di lavoro, anche per mezzo di un’associazione sindacale, di una comunicazione scritta -per la quale non è richiesta una formulazione specifica (ex aliis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 aprile 2021, n. 10883) - in cui si limiti a manifestare la sua volontà di impugnare il licenziamento. 5.5.– Tale onere procedurale può, tuttavia, tradursi in un vero e proprio ostacolo all’accesso alla tutela giurisdizionale nel caso in cui, al momento della ricezione della comunicazione del recesso, o comunque in pendenza del termine di decadenza in esame, l’interessato, in ragione di una patologia o di altra causa perturbatrice a lui non imputabile, si trovi in uno stato di incapacità di intendere e di volere. nelle situazioni indicate il lavoratore, specie se versi in condizione di marginalizzazione sociale e non possa contare sull’aiuto di familiari, non essendo in grado di comprendere la portata dell’atto datoriale e di determinarsi in merito alle iniziative da assumere, viene a trovarsi nella impossibilità -se lo stato di perturbazione psichica perdura per l’intero termine o comunque nella oggettiva difficoltà -se l’alterazione si verifica in pendenza di esso, così incidendo sulla possibilità di fruirne per intero -, di scongiurare, attraverso una valida e tempestiva impugnazione stragiudiziale, la consumazione del diritto alla tutela giurisdizionale. In definitiva, per il lavoratore colpito da incapacità naturale, l’onere di impugnazione in esame può comportare la perdita definitiva della possibilità di contrastare l’iniziativa datoriale e, dunque, di «“[…] non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente” (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto)» (sentenza n. 194 del 2018): ciò in aperto contrasto con il diritto al lavoro garantito dall’art. 4, primo comma, Cost. -diritto fondamentale (ancora, sentenza n. 194 del 2018) e fondamento dell’ordinamento repubblicano (sentenze n. 183 e n. 125 del 2022) -e con la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni » riconosciuta dall’art. 35, primo comma, Cost. nella fattispecie in scrutinio, la garanzia di tali diritti, che rinviene nella tutela giurisdizionale sancita dall’art. 24 Cost. un indispensabile strumento di realizzazione, risulta, infatti, irreparabilmente compromessa, non sussistendo un rimedio tardivo attraverso il quale l’interessato, una volta recuperata la pienezza delle facoltà intellettive e volitive, possa far valere l’illegittimità dell’atto espulsivo. 5.5.1.– Il vulnus ai suddetti precetti costituzionali emerge con particolare evidenza nel- l’ipotesi, oggetto del giudizio a quo, in cui l’interessata assume che la propria incapacità naturale sia stata all’origine della stessa condotta sanzionata con il licenziamento non tempestivamente impugnato e abbia, al contempo, impedito al lavoratore di esercitare il diritto di difesa in sede disciplinare, fornendo le sue giustificazioni nel termine di cui all’art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento). È, infatti, significativo che la stessa Corte di cassazione abbia affermato che il lavoratore che intenda contestare la legittimità della sanzione datoriale per essersi trovato nel- l’impossibilità di esercitare il diritto di difesa in sede disciplinare a causa di una minorata capacità di intendere e di volere, può far valere tale impedimento attraverso l’impugnazione giudiziale, dimostrando, appunto, di essersi trovato, nella pendenza del suddetto termine, in stato di incapacità naturale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 30 maggio 2001, n. 7374). 5.6.– L’esigenza di effettività delle evocate garanzie costituzionali è resa, nella specie, an rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 cora più pressante dalla condizione di particolare vulnerabilità in cui versa il titolare degli interessi incisi dalla scelta legislativa censurata. 5.6.1.– L’ordinamento interviene con varie misure a tutelare la persona che, a causa di una perturbazione, anche temporanea, della propria sfera intellettiva e volitiva, non sia in grado di comprendere il significato e le conseguenze dei propri atti, né di autodeterminarsi liberamente e coscientemente per tutelare i propri interessi. L’incapacità di intendere e di volere costituisce, anzitutto, causa di annullamento degli atti negoziali posti in essere dal soggetto incapace (art. 428, commi primo e secondo, cod. civ., per i negozi unilaterali e i contratti; art. 120 cod. civ., per il matrimonio; art. 591, secondo comma, numero 3, cod. civ., per il testamento; art. 775 cod. civ., per la donazione). Questa Corte ha, in proposito, osservato come la nozione di incapacità naturale sia «estremamente lata», in quanto «potrebbe riguardare non solo una condizione transitoria del soggetto, presente al momento dell’atto, ma potrebbe essere anche indice di uno stato di infermità (artt. 404, 414 e 415 cod. civ.) o di una “menomazione fisica o psichica” (art. 404 cod. civ.), che necessitano di tutele preventive», così potendo essere oggetto di valutazione nei procedimenti di interdizione o di inabilitazione ovvero di amministrazione di sostegno (sentenza n. 168 del 2023). 5.6.2.– Sul versante processuale, diversi sono gli istituti diretti a evitare che l’incapacità naturale, sia essa momentanea o persistente, possa di per sé sola riverberarsi sulla capacità processuale dell’interessato. Si tratta di disposizioni, come gli artt. 70, terzo comma, 71 e 473-bis.14 cod. proc. civ. e l’art. 73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario), essenzialmente intese alla protezione processuale dell’incapace e a garantire allo stesso un giusto processo (ancora, sentenza n. 168 del 2023). 5.7.– nell’ordinamento non è, tuttavia, rinvenibile una specifica misura a presidio del lavoratore che, a causa di una pur temporanea alterazione psichica, non assolva tempestivamente l’onere della previa impugnazione stragiudiziale del licenziamento intimatogli, così perdendo la possibilità di contestarlo in sede giurisdizionale. Poiché la persona in condizione di incapacità naturale non può contare sulle misure di protezione accordate dall’ordinamento all’incapace legale -e, in particolare, sulla rappresentanza o sull’assistenza previste per l’interdetto, l’inabilitato e il beneficiario dell’amministrazione di sostegno -, nella situazione in esame, l’effettività della difesa del lavoratore licenziato potrebbe essere vanificata dalla intempestiva attivazione dei soggetti -come gli assistenti sociali e gli operatori del Servizio sanitario nazionale -ai quali la legge affida la tutela delle persone incapaci anche attraverso la sollecitazione o il diretto promovimento dei procedimenti di protezione (come l’amministrazione di sostegno) e della correlata nomina, anche in via d’urgenza, di un rappresentante provvisorio dell’incapace. Il termine di sessanta giorni imposto dalla previsione in scrutinio può rivelarsi troppo breve affinché la condizione di minorata capacità del lavoratore giunga a conoscenza delle istituzioni preposte alla protezione delle persone in condizione di fragilità in tempo utile perché possano essere attivate misure idonee a scongiurare la consumazione del diritto di impugnazione. In tale ipotesi, la persona colpita da incapacità di intendere e di volere non può essere privata, a causa della sua condizione, del diritto di agire e di difendersi in giudizio. Va, infine, ribadito che è compito della repubblica, ai sensi dell’art. 3, secondo comma, Cost., rimuovere gli ostacoli materiali che, per le persone affette da fragilità, si frappongono al godimento effettivo dei diritti costituzionali (ex aliis, sentenze n. 25, n. 3 e n. 1 del 2025, n. 258 del 2017 e n. 163 del 1993). ConTenZIoSo nAZIonALe 5.8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, l’art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui non considera l’incompatibilità del rigido meccanismo decadenziale prescritto con una condizione soggettiva, come l’incapacità di intendere e di volere, che impedisce all’interessato di scongiurare le gravi conseguenze derivanti dal maturare della causa estintiva, si palesa manifestamente irragionevole, ponendosi in contrasto con l’art. 3 Cost. e ledendo, al contempo, il diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e alla sua tutela (art. 35, primo comma, Cost.) anche giurisdizionale (art. 24, prima comma, Cost.). 5.9.– L’accertato vulnus costituzionale non può, tuttavia, essere sanato nei termini indicati dalla Corte rimettente e, cioè, attraverso una pronuncia additiva che inserisca nella disposizione censurata una causa di differimento della decorrenza del termine per l’impugnazione stragiudiziale dalla data della ricezione del licenziamento a quella del riacquisto, da parte del- l’interessato, della piena capacità di intendere e di volere. 5.9.1.– È pur vero che questa Corte ha già sperimentato una simile tecnica decisoria (sentenze n. 133 del 2021, n. 322 del 2011, n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985), anche con specifico riferimento all’incapacità naturale (in particolare, sentenza n. 322 del 2011); ma essa se ne è avvalsa in relazione a diritti, come quello di azione di disconoscimento della paternità e di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, la cui natura personalissima ha consentito eccezionalmente di differire sine die la decorrenza del termine di decadenza. 5.10.– di regola, però, una indefettibile esigenza di tutela della certezza dei rapporti giuridici impone che i termini decadenziali decorrano per il solo fatto materiale del trascorrere del tempo, indipendentemente dalle situazioni soggettive e oggettive dalle quali sia dipeso l’inutile maturare della causa estintiva, e salve le eccezioni tassativamente previste dalla legge, dal momento che il fondamento della decadenza coincide con l’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge o dalla volontà dei privati (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 11 febbraio 2010, n. 3078). 5.10.1.– Anche questa Corte ha sottolineato che l’istituto della decadenza risponde alla «necessità obiettiva che particolari atti siano compiuti in un ristretto tempo, specie nell’interesse di altri soggetti, e quindi a prescindere dalle circostanze soggettive di chi deve compiere quegli atti» (sentenza n. 14 del 1994), mentre, per la prescrizione, gli artt. 2941 e seguenti cod. civ. ammettono -sia pure mediante previsioni connotate da eccezionalità (sentenza n. 86 del 2025) -la sospensione del decorso del termine in ragione di diverse circostanze che rendono difficile l’esercizio del diritto. 5.11.– La individuazione delle ipotesi, eccezionali e tassative, in cui è possibile tenere conto di circostanze che rendono eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto sottoposto a decadenza postula il contemperamento tra i diversi interessi, individuali e superindividuali, cui l’ordinamento, nel prevedere le singole ipotesi decadenziali, accorda protezione e l’esigenza del soggetto gravato dell’onere di sollecito compimento dell’atto richiesto dalla legge di conservare il suo diritto. La pronuncia auspicata dal giudice a quo finirebbe per introdurre un elemento di aleatorietà in un regime decadenziale orientato da specifiche esigenze di celerità e di sicurezza dei rapporti giuridici. dal differimento potrebbe, infatti, derivare una dilatazione indefinita del termine per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento -e, di riflesso, di quella giudiziale -, in contrasto con la eminente finalità di tutela dell’affidamento sulla definitiva stabilizzazione del recesso datoriale che informa la previsione censurata. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 5.12.– Spetta, pertanto, a questa Corte individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, non essendo vincolata dalla formulazione del petitum nell’ordinanza di rimessione, che ha solo la funzione di indicare il contenuto e il verso delle censure (sentenze n. 83 e n. 53 del 2025, n. 128, n. 90, n. 46 e n. 12 del 2024, n. 221 del 2023). 5.12.1.– Alle riscontrate violazioni costituzionali deve porsi rimedio, senza stravolgere la funzione della norma censurata con pregiudizio delle esigenze di certezza ad essa sottese, sollevando dall’onere della previa impugnazione stragiudiziale il lavoratore che, a causa di un perturbamento, anche di tipo transitorio, delle proprie facoltà cognitive o volitive, non sia in grado di comprendere l’effettiva portata dell’atto espulsivo e, quindi, di attivarsi tempestivamente, così incorrendo nella perdita irrimediabile della possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale. La riconduzione a legittimità della disposizione censurata deve, pertanto, essere assicurata escludendo, nella situazione suddetta, l’operatività dell’onere della previa impugnazione stragiudiziale, pur mantenendo fermo lo sbarramento finale costituito dal complessivo termine massimo per l’impugnazione giudiziale in misura di duecentoquaranta giorni, dato dalla somma del termine per la impugnazione stragiudiziale di cui al primo comma dell’art. 6, pari a sessanta giorni, e del successivo termine per il deposito del ricorso, anche cautelare (sentenza n. 212 del 2020), o per la comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato, stabilito dal secondo comma in centottanta giorni. In questo modo, da un lato, si evita di pretendere dal lavoratore colpito da incapacità naturale di manifestare la volontà di reagire all’atto espulsivo entro un termine -quello di cui al primo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 -che, per la sua ridotta estensione, potrebbe risultare insufficiente a consentire sia che la condizione patologica all’origine dell’incapacità regredisca e l’interessato recuperi le proprie facoltà intellettive e volitive, sia che le istituzioni deputate alla cura e alla protezione, anche giuridica, delle persone incapaci possano intervenire. dall’altro lato, resta, comunque, garantita l’esigenza di certezza e di celerità che informa la disciplina in scrutinio, dal momento che la stabilizzazione degli effetti dell’atto datoriale interviene entro lo stesso termine -fisso e predeterminato -di cui, in caso di impugnazione extragiudiziale tempestiva, deve comunque essere atteso il decorso per poter ritenere il licenziamento non più contestabile. 6.– L’art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 4, primo comma, 24, primo comma, e 35, primo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche extragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche extragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, mediante il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato. 6.1.– restano assorbiti gli ulteriori profili di censura. Per QUeSTI MoTIVI LA CorTe CoSTITUZIonALe dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui non prevede che, se al momento ConTenZIoSo nAZIonALe della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche extragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche extragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, mediante il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato. Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 giugno 2025. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 nel mezzo del cammin della “translatio iudicii”… NOTA A CONSIGLIO DI GIUSTIzIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, SENTENzA 27 FEbbRAIO 2025 N. 137 Matteo Bellucci* SOMMARIO: 1. Il cammino della translatio iudicii -2. La sentenza n. 137/2025 del Consiglio di Giustizia Amministrativa - 3. brevi considerazioni critiche. ALLEGATO: Memoria di costituzione con richiesta di rimessione all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c.p.a. prodotta dalla Difesa erariale. 1. Il cammino della translatio iudicii. Con le sentenze nn. 4109 e 77 del 2007, rispettivamente della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, ha inizio il cammino trionfale della translatio iudicii, che, da istituto codicistico (art. 50 c.p.c.) deputato alla conservazione degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta dinanzi al giudice ordinario incompetente, diventa centrale nell’architettura dell’ordinamento: garanzia di effettività della tutela giurisdizionale. Anche lungo i fili di una trama assiologica complessa, come quella Costituzionale, vi sono orditi che, pur immersi nel groviglio, si delineano con nettezza, orientando l’intera tessitura. Tra questi, vi è il principio di effettività della tutela giurisdizionale, intessuto dalla Consulta attraverso gli articoli 24 e 111 della Costituzione, che assegnano «all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi». ebbene, essendo questa «la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali -prosegue la Corte -, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti […] è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale » (Corte Costituzionale, sentenza n. 77/2007). nel 2007, dunque, il Giudice delle leggi apre la strada alla translatio iudicii, principio da tempo invocato dalla dottrina, e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, legge 1034/1971, nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo amministrativo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di (*) Praticante presso l’Avvocatura generale dello Stato. ConTenZIoSo nAZIonALe giurisdizione. Sicché, oggi, anche grazie all’introduzione dell’art. 59 (1), comma 2 della legge n. 69/2009, un giudizio proposto davanti a un giudice sfornito di giurisdizione sulla causa, può essere proseguito senza pregiudizi davanti al giudice munito di giurisdizione. Ma vi è di più. La portata dell’istituto della translatio iudicii, infatti, ha conosciuto un altro ampliamento nel 2013, quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 223, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile». e, successivamente, ne è stata riconosciuta l’operatività anche nel caso in cui il difetto di giurisdizione sia dichiarato con d.P.r. nel ricorso straordinario al Presidente della repubblica (cfr. Cass. 17400/2024). Prima di muovere verso il tema che qui sarà discusso, riavvolgiamo leggermente il nastro sino al 2016, quando la Corte di Cassazione ha affermato a Sezioni Unite che «l’appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall’art. 341 c.p.c. non determina l’inammissibilità dell’impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della “translatio iudicii”» (Cass. SS.UU. n. 18121/2016). Sulla scia dell’insegnamento della Suprema Corte, infatti, nel 2023 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha mutato la propria giurisprudenza sul- l’inammissibilità dell’appello avverso una sentenza di un T.a.r. per la Sicilia, che sia stato proposto proprio dinanzi ai Giudici di Palazzo Spada, ritenendo che un tale atto di appello possa essere «deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato». Muovendo dal riconoscimento della competenza funzionale inderogabile della Sezione staccata di Palermo, dunque, il Consiglio di Stato ammette che la propria giurisprudenza debba essere oggetto di rimeditazione, ed è questo il punto: «anche (1) L’art. 59 della legge n. 69/2009 così dispone ai commi 1 e 2: “1. Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo. 2. Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile”. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 in considerazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 14 settembre 2016, n. 18121, per la quale non va dichiarato inammissibile -e può esservi la translatio iudicii -l’appello proposto ad una incompetente Corte d’appello civile» (Ad. Plen. Consiglio di Stato, n. 10/2023). Insomma, l’ordito del principio di effettività della tutela giurisdizionale è attraversato dalla translatio iudicii: un filo di trama che conduce alla regola generale di conservazione degli effetti processuali e sostanziali: un principio immanente al nostro ordinamento, la cui unica, isolata eccezione è rappresentata dal caso di appello erroneamente proposto dinanzi al Consiglio di Stato, anziché al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione siciliana. 2. La sentenza n. 137/2025 del Consiglio di Giustizia Amministrativa. Con la sentenza n. 137/2025, il Consiglio di Giustizia Amministrativa ha dichiarato l’irricevibilità di un atto di appello proposto tempestivamente presso il Consiglio di Stato, ma depositato tardivamente presso la propria segreteria, in violazione del termine perentorio di cui all’art. 94 c.p.a. (2). dunque, nonostante l’Adunanza Plenaria del 2023 abbia qualificato il C.G.A. come una “sezione staccata” del Consiglio di Stato, la sezione di Palermo, muovendo dal principio di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 373 del 2003 (che ne sancisce la competenza funzionale inderogabile in ordine agli atti di appello avverso una sentenza resa da un T.a.r. siciliano), chiude (nuovamente) la porta ai principi relativi alla translatio iudicii. Secondo l’interpretazione del Collegio, le due sentenze gemelle del Consiglio di Stato (Ad. Plen. nn. 9 e 10 del 2023), lungi dall’accogliere i principi della translatio iudicii per casi come quello in esame, si limiterebbero a salvaguardare l’autonomia decisionale del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana in ordine alla sorte dell’appello, precludendo alle Sezioni romane del Consiglio di Stato di concludere il giudizio nel senso del- l’inammissibilità, e lasciando «impregiudicata ogni statuizione, in rito, sul merito e sulle spese». Qualora si volesse scongiurare la dichiarazione d’inammissibilità dell’atto di appello, dunque, l’appellante dovrebbe ravvedersi dell’errore commesso e depositare l’atto di appello presso il C.G.A. entro i termini decadenziali previsti dall’art. 94 c.p.a; ovvero, previa rinnovazione della notifica dell’appello nel termine di cui all’art. 92 c.p.a. In altre parole, secondo il Consiglio di Giustizia, nel caso in esame non opererebbero i principi relativi alla translatio iu (2) In forza dell’art. 94 del c.p.a. “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’articolo 45, unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni”. ConTenZIoSo nAZIonALe dicii, «giacché essi sono stati forgiati -dapprima dalla Corte costituzionale, quindi dalla legge processuale -con esclusivo riguardo ai giudizi di primo grado (rispetto ai quali l’eventuale errore di selezione è assai più facile, sicché occorre che sia reso emendabile)». In realtà, per apprezzare nella sua completezza l’impianto argomentativo sotteso a questa (rigida) posizione del C.G.A., dobbiamo dar conto di un precedente: la sentenza n. 227/2024, ove vengono spesi ulteriori argomenti. Innanzitutto, il Collegio ivi si sofferma, escludendone l’operatività, sul- l’art. 15, co. 4 del c.p.a., che accoglie (e disciplina), nell’ambito del processo amministrativo, l’istituto della translatio iudicii. ebbene, nei rapporti tra Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia Amministrativa, l’applicazione di questo articolo implicherebbe l’illegittima estensione analogica della portata di una norma processuale a casi in essa non rientranti, così violando il divieto di cui all’art. 14 disp. prel. c.c., poiché -prosegue il Collegio -«deve ritenersi inammissibile, in linea di principio, il ricorso all’analogia in un settore, come quello delle norme processuali […], contraddistinto da regole di stretta interpretazione, in quanto incidenti in senso limitativo sulle possibili modalità di esercizio del diritto costituzionale (art. 24 Cost.) di agire in giudizio per la tutela della propria sfera giuridica […], dovendosi anche considerare […] che, in un processo di parti ed a giurisdizione c.d. soggettiva qual è quello amministrativo, ad ogni vantaggio concesso in via interpretativa a una parte corrisponde un pregiudizio, uguale e contrario, agli interessi della controparte, che sono ovviamente di pari rango». Inoltre, non potrebbe applicarsi neanche l’art. 50 c.p.c., che disciplina l’istituto della translatio iudicii nel processo civile, poiché, da un lato, questo incontrerebbe il limite della compatibilità previsto dall’art. 39, comma 1 del c.p.a., e, dall’altro, anche qualora se ne volesse riconoscere la valenza di norma esplicativa di un principio generale, la sua operatività extracodicistica -chiosa il Consiglio -sarebbe stata «implicitamente disattesa dal legislatore del 2010 con la previsione di un’apposita disciplina all’art. 15, co. 4, c.p.a., in relazione al solo giudizio di primo grado e con l’omessa previsione di un analogo sistema di traslazione (rectius: di salvezza degli effetti, nella specie processuali) del giudizio in appello nei rapporti tra Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana». In altre parole, la sezione di Palermo, analizzando le disposizioni che disciplinano l’istituto della translatio iudicii tanto nel processo amministrativo, quanto in quello civile, anziché desumere la portata generale del principio, ne circoscrive l’ambito applicativo, preferendo conservare la massima discrezionalità su ogni statuizione: «in rito, sul merito e sulle spese», come non manca mai di sottolineare. Infine -ed è forse questo l’argomento che più sorprende -, il Collegio esclude che possa configurarsi una questione di legittimità costituzionale rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 tanto rispetto all’art. 3, quanto all’art. 24 della Costituzione -nei riguardi delle norme del codice del processo amministrativo che non prevedono la translatio iudicii in sede di appello. Segnatamente, l’appartenenza del diritto di difesa all’alveo dei principi supremi dell’ordinamento (così Corte Costituzionale, sentenza n. 232/1989), secondo il Consiglio di Giustizia, se «giustifica in primo grado la previsione di regole tendenti a salvaguardare la proposta azione come la translatio iudicii […], non comporta, del pari, la necessità che analoghe regole operino anche a favore di colui il quale intenda rimettere in discussione il decisum di prime cure perché non gradito», sicché l’errore nella proposizione dell’appello non assumerebbe più rilevanza sul piano dell’accesso alla giustizia, bensì su quello della tensione verso il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. e ancora, neppure potrebbe darsi una violazione dell’art. 3 Cost., poiché, non sussistendo «un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali» (Corte Cost. n. 101/2006; n. 67/2007; n. 393/2008), secondo il C.G.A., un confronto con quanto previsto nel processo civile -così come in quello amministrativo, del resto -non sarebbe pertinente: il legislatore, infatti, disporrebbe di ampia discrezionalità in tema di disciplina del processo e, nel caso di specie, non potrebbe ritenersi manifestamente irragionevole o arbitraria l’omessa previsione della translatio iudicii (cfr. Corte Cost. nn. 58 e 80/2020; n. 13/2022; n. 73/2022). 3. brevi considerazioni critiche. non coglieremmo appieno la sentenza n. 137/2025 del Consiglio di Giustizia Amministrativa, se non la collocassimo nella sua peculiare prospettiva. rubando le parole alla Consulta, potremmo dire che questa sentenza rappresenta una strenua difesa di un’antica tradizione siciliana: una tradizione di «decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali», che ha origine nell’ordinamento del regno delle due Sicilie, passa per l’esperienza della Corte di Cassazione di Palermo, ed è ora sancita in via di principio dall’art. 23 dello Statuto speciale della regione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 4 novembre 2004, n. 316). ora, il punto è che qui non è affatto in discussione la competenza della sezione di Palermo, tanto gelosamente custodita nel verbo del Collegio. Piuttosto, sono in gioco la natura e la portata del principio della translatio iudicii (e, quindi, dell’effettività della tutela giurisdizionale), che non dovrebbero essere nella disponibilità di contingenti dispute intorno al potere di ius dicere. In un ordinamento in cui non esistono diritti tiranni né prerogative assolute (così la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 85/2013), specchiarsi nell’immagine della propria autonomia, anche quando tali prerogative non sono realmente in discussione, non può che suscitare perplessità. d’altro canto, anche se giustificata dalla «salvaguardia di un valore di rango primario, in ConTenZIoSo nAZIonALe quanto costituzionalmente affermato, riconosciuto e tutelato, qual è quello dell’autonomia della Regione Siciliana» (C.G.A. sentenza n. 227/2024), la costante esaltazione della propria “specialità funzionale” -quando avviene a discapito del principio di effettività della tutela giurisdizionale -rischia di tradursi in un esercizio autoreferenziale del potere. Innanzitutto, l’intransigente esclusione dell’analogia in materia processuale rischia di scadere in una petizione di principio. del resto, tanto il codice di procedura amministrativa, quanto quello di procedura civile, si ispirano al «principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a sé stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito» (Corte Costituzionale, sentenza n. 77/2007). Peraltro, tale impostazione trova conferma proprio nella disciplina sulla competenza del giudice: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18121/2016, hanno infatti riconosciuto l’operatività della translatio iudicii (art. 50 c.p.c.) anche nei casi in cui l’appello sia stato erroneamente proposto dinanzi a un giudice incompetente per territorio o grado, ritenendo comunque valido il rapporto processuale instaurato. e ancora, nel 2023, il Consiglio di Stato, riconsiderando il proprio orientamento sull’inammissibilità dell’appello avverso le sentenze del T.a.r. per la Sicilia, ha fatto espresso riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di translatio iudicii, nel chiaro intento di estendere la portata applicativa dell’art. 15, comma 4, c.p.a. anche al caso in cui l’atto di appello sia stato erroneamente proposto dinanzi al Consiglio di Stato, anziché al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione siciliana (Ad. Plen. Consiglio di Stato, n. 10/2023). Ma vi è di più. escludere perentoriamente che possano darsi dubbi di legittimità costituzionale -peraltro, muovendo dal fragile assunto per cui l’errore nella proposizione dell’appello non assumerebbe più rilevanza sul piano dell’accesso alla giustizia -dimostra una certa leggerezza nella lettura della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul punto. Secondo la costante giurisprudenza della Consulta, in effetti, il legislatore «dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene superato qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio» (così Corte Costituzionale, sentenza n. 148/2021). Ma l’interpretazione offerta dalla Corte del concetto di “diritto di agire in giudizio” non è affatto appiattita sul solo giudizio di primo grado, come, invece, vorrebbe il Consiglio di Giustizia Amministrativa. nella stessa sentenza, infatti, il Giudice delle leggi dopo aver dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, del c.p.a., nella parte in cui subordinava la rinnovazione della notifica nulla (con salvezza ex tunc degli effetti) alla mancanza di colpa del notificante -, afferma che l’effetto di impedimento della decadenza va ricollegato all’esercizio del rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 l’azione entro il termine perentorio, precisando che la violazione del dettato costituzionale consegue non solo alla decadenza del termine per la proposizione del ricorso (60 giorni), «ma anche dalla proposizione delle altre azioni per le quali è previsto un termine decadenziale». Sicché -senza scomodare nuovamente la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ritengono integralmente applicabile l’istituto della translatio iudicii anche nel giudizio di appello -tanto dovrebbe bastare per comprendere come il tentativo della sezione di Palermo di restringere la portata operativa della translatio, come se il giudizio di appello fosse un qualcosa di diverso da quello di primo grado sotto il profilo della difficoltà, non colpisce affatto nel segno. Insomma, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione siciliana, anziché insistere nell’argomentazione a contrario cercando riparo nella (presunta) volontà del legislatore, avrebbe dovuto intendere correttamente il significato della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale, riconoscendo la portata generale dell’istituto della translatio iudicii (e la conseguente salvezza delle decadenze) a garanzia del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Allegato(*) Avvocatura Generale dello Stato Ct. 14486/19 (Avv. de Bellis) eCC.Mo ConSIGLIo dI GIUSTIZIA AMMInISTrATIVA Per LA reGIone SICILIAnA MeMorIA dI CoSTITUZIone Con rICHIeSTA dI rIMeSSIone ALL’AdUnAnZA PLenArIA eX ArT. 99 CPA nel ricorso n. 1034/2024 per la PreSIdenZA deL ConSIGLIo deI MInISTrI (CF: 80188230587) in persona del Presidente del Consiglio pro-tempore, il MInISTero deLL’eConoMIA e deLLe FInAnZe (CF: 80207790587) in persona del Ministro pro-tempore, e L’AVVoCATUrA GenerALe deLLo STATo (C.F. 80224030587) in persona dell’Avvocato Generale pro-tempore, tutti rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587 fax: 0696514000, PeC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) presso i cui uffici sono domiciliati in roma, alla via dei Portoghesi n. 12 appellanti contro -omissis-rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Immordino (C.F. (*) Si pubblicano per la parte di interesse gli scritti difensivi dell’Avvocatura erariale. ConTenZIoSo nAZIonALe MMrGnn62A23B429H giovanniimmordino@pec.it), e Giuseppe Immordino (C.F. MMrGPP63P18B429G giuseppeimmordino@pec.it) appellato per la parziale riforma della sentenza n. 54/2024 del t.a.r. per la Sicilia -emessa inter partes il 15 novembre 2023 e depositata il 9 gennaio 2024 nella causa r.g. 615/2019. * * * * A seguito del decreto 29 agosto 2024 del Presidente del Consiglio di Stato che ha disposto “L’assegnazione del fascicolo NRG 3645/2024 alla Sezione giurisdizionale del Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione siciliana” in esecuzione dell’ordinanza collegiale n. 7190/2024 emessa dalla VII sezione dello stesso Consiglio di Stato, le Amministrazioni appellanti si costituiscono richiamando integralmente il contenuto dell’atto di appello che per comodità di lettura di seguito si riporta. * * * (...) * * * A quanto sopra esposto, si aggiungono le seguenti osservazioni. Questa difesa è consapevole della recente posizione del C.G.A. in tema di erronea proposizione dell’appello al Consiglio di Stato anziché davanti allo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa (sentenza n. 227/2024), secondo cui a seguito della dichiarazione di incompetenza del C.d.S. in favore del C.G.A. non opererebbe integralmente la translatio iudicii con la conseguenza che la tempestività dell’appello andrebbe valutata rispetto non alla data di deposito dell’appello davanti al C.d.S., bensì davanti allo stesso C.G.A. Si ritiene tuttavia che tale giurisprudenza -che potrebbe nel caso in esame portare a una pronuncia di irricevibilità dell’appello proposto dall’Amministrazione -debba essere rimeditata, se del caso mediante una rimessione della questione all’Adunanza Plenaria. e ciò sulla base delle considerazioni che seguono. I principi dell’Adunanza Plenaria n. 10/2023 Com’è noto, nella sentenza n. 10/2023 l’Adunanza Plenaria ha affermato i seguenti princìpi: «6.1.) Nel caso di proposizione al Consiglio di Stato con sede in Roma di un appello proponibile alla Sezione giurisdizionale staccata di Palermo, la Sezione del Consiglio di Stato non può decidere la causa, poiché la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo è inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale, avente rango costituzionale, e non può dar luogo alla definizione del giudizio con una pronuncia del Consiglio di Stato con sede in Roma. 6.2.) Anche per evitare il differimento della definizione del giudizio, la Presidenza del Consiglio di Stato deve trasmettere alla Segreteria della Se rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 zione staccata di Palermo l’appello proposto al Consiglio di Stato avente sede in Roma, proposto avverso una sentenza del TAR per la Sicilia. * * * «l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato». * * * orbene, nella citata sentenza n. 227/2024, codesto C.G.A., dopo avere correttamente affermato che spetta ad esso valutare l’ammissibilità e la fondatezza del gravame -ha tuttavia ritenuto che “assume esclusivo rilievo il momento in cui l’appello è stato proposto (alias depositato) dalla parte appellante dinanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana e non dinanzi al Consiglio di Stato”. Tale affermazione non appare condivisibile, in quanto incompatibile con la natura della translatio e soprattutto con la qualificazione del C.G.A. come “Sezione del Consiglio di Stato”, operata dall’Adunanza Plenaria. ed infatti, si verificherebbe una situazione paradossale, considerato che: -un giudizio proposto davanti a un giudice sfornito di giurisdizione sulla causa, può essere proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, ai sensi dell’art. 59 comma 2 della legge n. 69/2009, secondo cui “Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute” (1); -analoga conseguenza deriva anche nel caso in cui il difetto di giurisdizione sia dichiarato con d.P.r. nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (cfr. Cass. 17400/2024, che esclude la translatio solo per i d.P.r. emessi nel regime anteriore alle modifiche del 2009 che hanno reso giurisdizionale tale rimedio impugnatorio); -analoga conseguenza deriva anche nel caso di dichiarata incompetenza (1) Cons. Stato, sentenza n. 1841/2019: “il processo iniziato davanti ad un giudice, che ha poi dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, e riassunto nel termine di legge davanti al giudice, indicato dal primo come dotato di giurisdizione, non costituisce un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio per quanto inizialmente introdotto davanti a giudice carente della giurisdizione. Infatti, mediante l’istituto della translatio iudicii si mira proprio a realizzare la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda originaria, con esclusione della necessità della riproposizione ex novo della domanda”. ConTenZIoSo nAZIonALe da parte degli arbitri rispetto al Giudice e viceversa, come si evince dal- l’art. 819-quater c.p.c. (che fa seguito alla sentenza di incostituzionalità n. 223/2013) (2); -anche in campo civile la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che «L’appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall’art. 341 c.p.c. non determina l’inammissibilità dell’impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della “translatio iudicii”» (Cass. SS.UU. n. 18121/2016). Alla generale regola della conservazione degli effetti processuali e sostanziali dell’impugnazione proposta davanti a un giudice incompetente o privo di giurisdizione, farebbe dunque eccezione solo il caso in esame -di appello proposto al C.d.S. anziché al C.G.A. -e ciò, nonostante si tratti di organi del medesimo giudice d’appello, tenuto conto che l’Adunanza Plenaria ha espressamente qualificato il C.G.A. come “Sezione staccata” del Consiglio di Stato. Una simile conclusione, tuttavia, si pone in evidente contrasto con i principi costituzionali. nella storica sentenza n. 77/2007, la Corte Costituzionale ha infatti ricordato che «Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente (2) La Corte Costituzionale con la sentenza n. 223/2013 ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile”. Si legge nella motivazione della pronuncia: «nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (ove assunta nel rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse. Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro ». rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 avviene quando la disciplina dei loro rapporti -per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato -è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale. Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta. Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente -nel regolare questioni di rito -il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente -volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito -non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa. Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice. 6.-Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell’ordinamento impone a questa Corte di limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale, dall’ordinamento». * * * Quindi il Giudice delle leggi ha ritenuto incompatibile con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost. un sistema che non consenta la translatio tra giudici di diverse giurisdizioni e che soprattutto non preveda la ConTenZIoSo nAZIonALe conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, cioè esattamente la situazione che si verificherebbe nel caso in esame, laddove codesto C.G.A. intendesse valutare la tempestività dell’appello proposto dall’Amministrazione, non rispetto alla data di notifica e deposito non presso il Consiglio di Stato, bensì presso lo stesso C.G.A. I principi stabiliti nella citata sentenza n. 77/2007, sono stati di recente ribaditi dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 148/2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, del CPA, nella parte in cui subordinava la rinnovazione della notifica nulla (con salvezza ex tunc degli effetti) alla mancanza di colpa del notificante. Si legge al riguardo nella sentenza n. 148/2021: «4.-Sono, invece, fondate le questioni sollevate dal Consiglio di Stato in riferimento agli ulteriori parametri di cui agli artt. 3, 24 e 113 Cost., con assorbimento degli altri. 4.1.- Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene superato qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (ex multis, sentenze n. 102 del 2021, n. 253, n. 95, n. 80, n. 79 del 2020 e n. 271 del 2019). Con particolare riferimento all’art. 24 Cost., questa Corte ha altresì specificato che esso non comporta che il cittadino debba conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento del- l’attività processuale (tra le tante, sentenze n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016). Ciò posto, la norma censurata sacrifica in modo irragionevole l’esigenza di preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda e conduce ad esiti sproporzionati rispetto al fine cui la norma stessa tende. 4.2.-Il difetto di proporzione tra il mezzo e il fine è reso evidente dall’effetto combinato che sull’esercizio del diritto di azione producono, da un lato, la denunciata limitazione alla rinnovazione della notifica e, dall’altro, la decadenza dall’impugnazione degli atti amministrativi allo spirare del termine di sessanta giorni di cui all’art. 29 cod. proc. amm. (ma anche dalla proposizione delle altre azioni per le quali è previsto un termine decadenziale). [...] L’effetto di impedimento della decadenza va, in definitiva, ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio, ma non può essere escluso dalla nullità della notificazione, non integrando quest’ultima un elemento costitutivo dell’atto che ne forma oggetto, bensì assolvendo ad una funzione, strumentale e servente, di conoscenza legale e di instaurazione del contraddittorio. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 Ed è proprio in ragione del rapporto di accessorietà che intercorre tra il procedimento notificatorio e l’atto da notificare che si giustifica il meccanismo processuale della rinnovazione della notifica che risulti affetta da vizi che non siano di gravità tale da decretarne l’inesistenza. 4.3.-Se, dunque, le forme degli atti processuali non sono “fine a se stesse”, ma sono funzionali alla migliore qualità della decisione di merito (sentenza n. 77 del 2007), essendo deputate al conseguimento di un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell’ambito del processo, la limitazione, posta dall’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., della rinnovazione della notificazione del ricorso alle sole ipotesi in cui la nullità non sia imputabile al notificante non risulta proporzionata agli effetti che ne derivano, tanto più che essa non è posta a presidio di alcuno specifico interesse che non sia già tutelato dalla previsione del termine di decadenza. Inoltre, tale limitazione, ogni volta che l’accertamento della nullità interviene dopo lo spirare di detto termine -e, quindi, particolarmente nel- l’azione di annullamento, data la brevità dello stesso -comporta la perdita definitiva della possibilità di ottenere una pronuncia giurisdizionale di merito, con grave compromissione del diritto di agire in giudizio. 5.- Deve, in conclusione, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., limitatamente alla locuzione, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante». * * * orbene, anche nel presente giudizio “L’effetto di impedimento della decadenza va ... ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio” (ed è incontestato che l’atto di appello sia stato notificato e depositato presso il Consiglio di Stato nei termini di legge). né può costituire ostacolo all’applicazione dei suesposti principi la circostanza che nel caso in esame l’errore (nella individuazione della Sezione del giudice di appello) si sia verificato in una fase diversa da quella introduttiva del giudizio (3). (3) Si afferma al riguardo nella sentenza 227/2024 del C.G.A,. che se si “giustifica in primo grado la previsione di regole tendenti a salvaguardare la proposta azione come la translatio iudicii -declinata, de iure condito, nelle sue ben note varianti: a) della riassunzione dello stesso giudizio, quando non si travalichino i confini del plesso giurisdizionale originariamente adito; b) della riproponibilità della domanda in un diverso giudizio, ma con le salvezze previste dalla legge, quando occorra perseguire il bene della vita davanti a una giurisdizione diversa da quella adita (cfr., in proposito, C.G.A.R.S., Sez. giur., 27 luglio 2023, n. 468) -per assicurare a tutti gli interessati l’accesso alla giustizia, [ciò] non comporta, del pari, la necessità che analoghe regole operino anche a favore di colui il quale intenda rimettere in discussione il decisum di prime cure perché non gradito. L’ordinamento, in questi casi, detta un complesso di regole contraddistinte da scadenze maggiormente rigide e da formalità più rigorose...”. ConTenZIoSo nAZIonALe nella citata sentenza 148/2021 la Corte costituzionale ha infatti avuto cura di precisare che la violazione del dettato costituzionale conseguiva non solo alla decadenza del termine per la proposizione del ricorso (60 giorni), “ma anche dalla proposizione delle altre azioni per le quali è previsto un termine decadenziale”. La pronuncia è pertanto pertinente anche al caso in esame, senza considerare, inoltre, che le SS.UU. della Suprema Corte -sentenza n. 18121/2016 citata -ritengono integralmente applicabile la translatio anche nel giudizio di appello. Tale posizione è stata di recente ribadita da Cass. SS.UU. n. 11866/2020, che così si esprime: «Nella decisione in esame queste Sezioni unite hanno anche messo in luce come la nozione di “competenza funzionale” propria del giudice di appello (nella quale si intrecciano criteri di competenza “orizzontale” e “verticale”) induce a ritenere applicabile il principio della translatio iudicii non solo nelle ipotesi di erronea individuazione del giudice territorialmente competente, ma anche in quella di erronea individuazione del giudice competente per grado. In entrambi i casi, infatti, ci si trova in presenza di un errore che cade sulla individuazione del giudice avanti al quale deve essere avanzato l’appello avverso la decisione di primo grado, e che, perciò, non incide sull’esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul modo di esercizio di tale potere». * * * In conclusione, si ritiene che una lettura costituzionalmente orientata del quadro normativo vigente, consenta di ritenere nel caso in esame -in cui vi è stata tempestiva proposizione e successivo deposito dell’appello presso il Consiglio di Stato -impedita qualsiasi decadenza, sia alla luce dei principi costituzionali sopra richiamati, sia tenuto conto della natura di Sezione staccata del C.d.S. di codesta C.G.A. Qualora si volesse invece confermare la giurisprudenza di cui alla sentenza n. 227/2024, si chiede che la questione venga rimessa nuovamente all’Adunanza Plenaria (che questa volta si pronuncerebbe nella composizione integrata da due Magistrati del C.G.A.), ai sensi dell’art. 99, comma 1, CPA secondo cui “La sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria”. Così come sarebbe obbligatoria una rimessione all’Adunanza Plenaria, qualora si volesse rimettere in discussione il principio della sentenza n. 10/2023 della stessa Adunanza Plenaria che ha qualificato il C.G.A. come Sezione staccata del C.d.S. L’obbligo di rimessione deriverebbe infatti dal comma 3 del citato art. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 99, secondo cui “Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. * * * Tutto ciò premesso le Amministrazione resistenti assumono le seguenti ConCLUSIonI Voglia l’ecc.mo Consiglio ritenere tempestivo e ricevibile -se del caso previa rimessione della questione all’Adunanza Plenaria -l’appello proposto dall’Amministrazione e per l’effetto riformare la sentenza n. 54/2024 pronunciata dal Tribunale Amministrativo regionale per la Sicilia, nella parte in cui ha parzialmente accolto la domanda avversaria, rigettando integralmente l’originario ricorso di primo grado e i motivi aggiunti, con ogni conseguente statuizione in ordine a spese, diritti ed onorari del giudizio. roma, 7 novembre 2024 Gianni de BeLLIS AVVoCATo deLLo STATo Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza 27 febbraio 2025 n. 137 -Pres. e. de Francisco, Est. G. Chinè -Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della economia e delle Finanze e Avvocatura Generale dello Stato (avv. gen. Stato) c. -omissis- (avv.ti G. Immordino e G. Immordino). FATTo (...) 3. Con la sentenza n. 54 del 9 gennaio 2024 il TAr Sicilia ha accolto soltanto in parte il ricorso introduttivo, mentre ha respinto i motivi aggiunti. Ha inoltre compensato le spese di lite. 4. Con atto di appello indirizzato al Consiglio di Stato, e iscritto al r.G. n. 3645/2024, le Amministrazioni parzialmente soccombenti nel giudizio di primo grado hanno chiesto la riforma della sentenza del TAr Sicilia e, per l’effetto, respingersi integralmente il ricorso dell’odierno appellato. 6. All’esito dell’udienza tenutasi dinanzi alla Sezione VII del Consiglio di Stato in data 18 giugno 2024, con ordinanza n. 7190 del 21 agosto 2024, il Giudicante ha dichiarato la propria incompetenza ex art. 15, comma 4, c.p.a. e ha disposto “che, a cura del Presidente del Consiglio di Stato, la causa sia assegnata alla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in ragione della sua competenza funzionale, impregiudicata ogni statuizione, in rito, sul merito e sulle spese”. 7. Conseguentemente, con nota prot. 237 del 30 agosto 2024 il Presidente del Consiglio di Stato ha disposto “l’assegnazione del fascicolo NRG 3645/2024 alla Sezione giurisdizionale del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana”, mandando alla Segreteria della Settima Sezione del Consiglio di Stato per la trasmissione. 8. Pervenuti gli atti al Consiglio di Giustizia Amministrativa presso la regione Siciliana, sia parte appellante, sia parte appellata, hanno depositato scritti difensivi. In particolare, parte appellante, con distinte memorie depositate rispettivamente in data 10 no ConTenZIoSo nAZIonALe vembre 2024 e 28 gennaio 2025, ha insistito nelle già rassegnate conclusioni, deducendo, in punto di ricevibilità dell’appello, che occorre fare esclusivo riferimento alla data di avvenuto deposito dell’atto di appello dinanzi al Consiglio di Stato e non a quello di ricezione del fascicolo processuale da parte del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana. dichiarando di conoscere il contrario indirizzo giurisprudenziale della Sezione che porterebbe nel caso di specie ad una pronuncia di irricevibilità dell’atto di gravame, parte appellante ha richiesto la rimessione della relativa questione interpretativa alla Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a. Parte appellata, dopo essersi costituita con atto di mera forma in data 21 ottobre 2024 dinanzi alla Sezione, con memoria depositata in data 3 gennaio 2025 ha eccepito l’irricevibilità del- l’appello e, nel merito, ne ha dedotto la integrale infondatezza. 9. Alla udienza pubblica del 19 febbraio 2025 la causa è stata trattenuta per la decisione. dIrITTo 10. L’appello si palesa irricevibile. 11. richiamando propri precedenti in termini (cfr. C.G.A.r.S. n. 243 del 29 marzo 2024; Id. 26 marzo 2024, n. 227; Id. 12 febbraio 2024, n. 107), osserva il Collegio che in caso di erronea proposizione dinanzi al Consiglio di Stato di un atto di appello avverso una sentenza resa da un TAr siciliano, in ossequio all’indirizzo enunciato dall’Adunanza del Consiglio di Stato (cfr. Ad. Pl. nn. 9 e 10 del 2023), e alla luce del fondamentale principio di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 373 del 2003, attuativo dell’art. 23 dello Statuto speciale della regione siciliana, avente rango di legge costituzionale: a) “la questione della ammissibilità o meno dell’appello -come ogni altra questione concernente il giudizio -può essere decisa esclusivamente dal Consiglio di giustizia amministrativa”; b) “la Sezione del Consiglio di Stato non può decidere la causa, poiché la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo (i.e. C.G.A.R.S.) è inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale, avente rango costituzionale, e non può dar luogo alla definizione del giudizio con una pronuncia del Consiglio di Stato con sede in Roma”; c) con il corollario che “la Presidenza del Consiglio di Stato deve trasmettere alla Segreteria della Sezione staccata di Palermo l’appello proposto al Consiglio di Stato” e, qualora l’appello sia stato già assegnato ad una delle Sezioni del Consiglio di Stato, “la Sezione avente sede in Roma non può decidere in sede cautelare e con ordinanza deve dichiarare la propria incompetenza, affinché il giudizio possa essere riassunto innanzi alla Sezione staccata”. 11.1. Alla luce delle suesposte coordinate normative e giurisprudenziali, la Sezione VII del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 7190 del 21 agosto 2024, ha dichiarato la propria incompetenza funzionale ex art. 15, comma 4, c.p.a. e ha disposto “che, a cura del Presidente del Consiglio di Stato, la causa sia assegnata alla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in ragione della sua competenza funzionale, impregiudicata ogni statuizione, in rito, sul merito e sulle spese”. 11.2. Ciò posto, risulta nel caso di specie per tabulas che l’appello in epigrafe, erroneamente indirizzato al Consiglio di Stato, è stato ritualmente notificato e conseguentemente depositato in data 7 maggio 2024, ma è pervenuto alla Segreteria di questo Consiglio -dopo l’ordinanza recante declaratoria di incompetenza funzionale -soltanto in data 3 settembre 2024 (in quanto trasmesso con nota del Presidente del Consiglio di Stato in data 29 agosto 2024). rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 Pertanto, questa Sezione, munita di competenza inderogabile a decidere l’appello in epigrafe nei termini già sopra evidenziati (sia per tutti i profili di rito, che nel merito), non può che rilevare la palese tardività del deposito dell’appello presso la Segreteria del C.G.A.r.S., in violazione del termine perentorio di cui all’art. 94 c.p.c. 11.3. Al riguardo, occorre ulteriormente precisare che l’erronea proposizione dell’appello dinanzi al Consiglio di Stato non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità dell’impugnazione, come affermato dall’Ad. Plen. nn. 9 e 10 del 2023, poiché l’appellante potrebbe, comunque, ravvedersi dell’errore commesso e -rendendone ovviamente edotte le controparti -depositarlo presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana, purché entro i termini decadenziali previsti per il deposito dall’art. 45 c.p.a., decorrenti dalla notifica; ovvero, previa sua rinnovazione nel termine di cui all’art. 92 c.p.a. In tal caso, infatti, l’appello, sebbene inizialmente proposto a roma, sarebbe tempestivo e meriterebbe l’esame nel merito a Palermo: ciò dando conto della ragione per cui non spetta in alcun caso alla sede romana del Consiglio di Stato dichiarare l’inammissibilità del gravame ivi erroneamente introdotto, essa dovendosi invece limitare a disporne la trasmissione a Palermo. 11.4. diversamente, nondimeno, l’appello è irricevibile, non potendo l’appellante ottenere neanche la rimessione in termini di cui all’art. 37 c.p.a. in quanto unico responsabile dell’errore in cui è incorso per ignorantia legis -e, in particolare, dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. 24 dicembre 2003, n. 373 -che, com’è noto, non scusat: errore che, infatti, all’evidenza non presenta alcuno dei requisiti per la sua c.d. scusabilità. 11.4. In conclusione, l’eccezione di irricevibilità proposta negli scritti difensivi dell’appellato si palesa fondata. 11.5. né, come erroneamente dedotto negli scritti difensivi dell’Avvocatura erariale, sussistono nel caso di specie i presupposti di legge per disporre una nuova rimessione alla Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a. Tale norma stabilisce che “Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. In sintesi, una nuova rimessione alla Plenaria sarebbe imposta dalla norma soltanto nel caso in cui la Sezione ritenesse di non condividere un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 9 e 10 del 2023. Ma non quando la Sezione -come è evidente nel caso in esame -facendo puntuale applicazione delle decisioni della Adunanza Plenaria, accolga una eccezione preliminare di rito, rientrante -per espressa previsione della Plenaria -nella propria esclusiva competenza cognitoria funzionale. Si rammenta, invero, che è proprio la Plenaria ad avere stabilito che “la questione della ammissibilità o meno dell’appello -come ogni altra questione concernente il giudizio -può essere decisa esclusivamente dal Consiglio di giustizia amministrativa” e che “l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato”. Anche il dispositivo delle due sentenze gemelle nn. 9 e 10 del 2023 chiaramente depone a favore della salvaguardia dell’autonomia decisionale del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana sulla sorte dell’appello, nella parte in cui, dopo avere enunciato il ConTenZIoSo nAZIonALe principio di diritto del punto 7) della motivazione, dispone l’assegnazione della causa alla Sezione giurisdizionale del C.G.A.r.S., “impregiudicata ogni statuizione, in rito, sul merito e sulle spese ”. A ciò deve essere aggiunto che le due pronunce dell’Adunanza Plenaria (sia perché emesse non nella composizione integrata di cui all’art. 10, comma 4, c.p.a., né con gli effetti ivi previsti; sia, soprattutto, perché dirette a superare l’orientamento pregresso, e consolidato, secondo cui la mera proposizione a roma dell’appello l’avrebbe reso ex se ineluttabilmente inammissibile, a prescindere da ogni ulteriore vicenda, ivi inclusa la tempestiva riconduzione, in qualsiasi forma, a questa sede naturale siciliana) risultano rivolte essenzialmente alle Sezioni romane del Consiglio di Stato (com’è, peraltro, pianamente confermato dal loro contenuto, che si è testé riferito), non avendo inteso “pregiudicare” in alcun modo “ogni statuizione in rito, sul merito e sulle spese”, che si è anzi voluta espressamente riservare a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa. La loro ratio, infatti, deve rinvenirsi proprio nell’affermazione di un principio di diritto vincolante per le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto preclusivo del potere di concludere il giudizio nel senso dell’inammissibilità, spettando la decisione sulla sorte del- l’appello a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa, nell’esercizio delle prerogative sue proprie, in ragione della competenza funzionale inderogabile della quale esso solo è titolare secundum constitutionem (ossia, come si è detto, secondo l’art. 23 dello Statuto regionale siciliano). né, invero, un contrasto di giurisprudenza con le sezioni romane del Consiglio di Stato potrebbe configurarsi, quand’anche astrattamente, giacché -proprio in linea con i principi di diritto affermati dall’Adunanza plenaria -solo a questa sezione siciliana (dopo che il gravame sia trasmigrato, in qualsiasi modo, davanti a questo Consiglio) compete comunque pronunziare su tutte le questioni “in rito, in merito e sulle spese” relative a ogni impugnazione proposta contro le pronunzie del T.A.r. Sicilia, sede di Palermo o Sezione staccata di Catania: ciò che elide in radice ogni possibilità di conflitto esegetico con le altre sezioni del Consiglio di Stato. Infine, neppure, possono invocarsi a proposito i principi relativi alla c.d. translatio iudicii, giacché essi sono stati forgiati -dapprima dalla Corte costituzionale, quindi dalla legge processuale -con esclusivo riguardo ai giudizi di primo grado (rispetto ai quali l’eventuale errore di selezione è assai più facile, sicché occorre che sia reso emendabile); così come non rilevano gli orientamenti più recenti della Corte di Cassazione, espressi con riguardo a una giurisdizione diversa e nella quale, peraltro, ci sono 26 Corti di appello (e 3 sezioni staccate) i cui distretti neppure coincidono sempre con i confini regionali o provinciali. 11.6. Pertanto, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio, l’appello va dichiarato irricevibile. 12. In virtù della novità dell’indirizzo giurisprudenziale di cui ha fatto applicazione il Collegio per definire il giudizio, le spese del grado possono essere comunque compensate tra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara irricevibile. Spese compensate. ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento (Ue) 2016/679 del rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo -n. 3-4/2024 Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellato. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 19 febbraio 2025. contEnzIosotrIbutarIoossErvatorIo Incidenza della violazione tributaria sulla partecipazione a gare di appalto. Esclusione automatica per l’omesso pagamento di imposte definitivamente accertate per un importo superiore ai 5.000 euro Nota a Corte CostituzioNale, seNteNza 28 luglio 2025 N. 138 Carmela Pluchino* Con la sentenza n. 138/2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, sollevata con ordinanza n. 7518/2024 dal Consiglio di Stato, Sezione terza, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che costituiscono gravi violazioni rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e, in ogni caso, correlato al valore dell’appalto. Il Collegio rimettente, dopo avere enucleato le rationes decidendi enunciate dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 7/2024 e concernenti la medesima questio iuris, ha rilevato quanto segue. La previsione recata dall’art. 48-bis incide, in omaggio ad una ratio squisitamente esattiva, sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni prescrivendo la sospensione del pagamento superiore a tale soglia dovuto a qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche o società a prevalente partecipazione pubblica “se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un (*) Avvocato dello Stato. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Il meccanismo emula una sorta di compensazione allargata all’intero settore pubblico, sulla falsariga della cd. compensatio lucri cum damno obliqua prevista in materia di danno erariale (v. art. 1, co. 1-bis, legge n. 20 del 1994) e persegue chiaramente l’obiettivo di assicurare effettività alla pretesa impositiva e preservare gli interessi erariali in fase esattiva. Secondo il rimettente, mentre il meccanismo compensativo-esattivo dell’art. 48-bis ha un funzionamento sostanzialmente lineare, in quanto inibisce il pagamento dell’amministrazione solo sino a concorrenza del debitum risultante dalle cartelle esattoriali insolute, dunque senza pregiudizio delle ulteriori ragioni creditorie dell’operatore economico, il congegno escludente divisato dall’art. 80, comma 4 (“un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione…”) mercé la eterointegrazione con il valore-soglia di 5 mila euro, scolpisce un vero e proprio automatismo legale, che esclude dal mercato delle commesse pubbliche l’operatore economico, indipendentemente dal valore dell’appalto, con risultati paradossali, come avvenuto nel caso di specie (in cui era contestato l’omesso pagamento di un contributo unificato -debito di natura tributaria -per un importo di € 18.000). Con riferimento al tertium comparationis al Consiglio di Stato non è sfuggito il discrimen ontologico che potrebbe giustificare la disparità regolatoria tra i due plessi normativi: l’ordinamento differenzierebbe i meccanismi escludenti in ragione del grado di accertamento della violazione e del correlativo potere, vincolato o discrezionale, demandato all’amministrazione. Questo del resto è stato l’argomento impiegato da altre Sezioni del Consiglio di Stato, in sede di vaglio di speculari questioni di legittimità costituzionale. Ad avviso del Collegio però tali argomenti si prestano a confutazione. Innanzitutto, la pacifica facoltatività della deroga all’esclusione laddove “sarebbe chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di imposte” (v. art. 57, par. 3 Dir. 24/2014/UE) non esime il legislatore nazionale, una volta deciso di avvalersene, dall’apprestare ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo un meccanismo coerente con il principio di proporzionalità e ragionevolezza. In secondo luogo, la fissazione della soglia dell’insoluto rilevante in valore assoluto -e di importo effimero -non favorisce necessariamente la parità di trattamento, agevolando asseritamente il buon andamento della pubblica amministrazione nella verifica di affidabilità del futuro contraente. L’intervento correttivo che il giudice rimettente ha profilato come necessario per ricondurre l’automatismo legale ad effetto escludente, di cui all’art. 80, comma 4 primo e secondo periodo, nei binari dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, sarebbe consistito nell’inserzione di una chiara previsione di principio per ancorare la determinazione della soglia escludente al valore dell’appalto, sulla falsariga del congegno divisato dal settimo periodo (1) e inverato, infine, dal D.M. 28 settembre 2022. La Consulta ha, preliminarmente, disatteso l’eccezione di inammissibilità proposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri, in relazione alla richiesta del rimettente di una sentenza additiva di principio, rilevando che “ai fini del- l’ammissibilità del giudizio è sufficiente «la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018)» (sentenza n. 95 del 2022), mentre «l’assenza di una soluzione a rime obbligate non è preclusiva di per sé sola del- l’esame nel merito delle censure» (sentenza n. 48 del 2021)”. nel decidere il merito della prospettata questione, dopo avere svolto una breve disamina della cornice normativa che regola il requisito della regolarità fiscale, richiesto per la partecipazione alle gare per l’affidamento di contratti pubblici, ed enucleato i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, ha concluso per l’infondatezza della questione sottoposta al proprio vaglio. Il giudice delle leggi ha, innanzitutto, valorizzato la ratio della norma censurata, che mira a tutelare l’integrità, la correttezza e l’affidabilità dei con 1) L’art. 50 comma 4, settimo periodo, del D.Lgs. 50/2016 così dispone: “Costituiscono gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale quelle stabilite da un apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili e previo parere del Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente periodo, recante limiti e condizioni per l’operatività della causa di esclusione relativa a violazioni non definitivamente accertate che, in ogni caso, devono essere correlate al valore dell’appalto e comunque di importo non inferiore a 35.000 euro. il presente comma non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l’estinzione, il pagamento o l’impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande”. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 correnti con cui l’amministrazione è chiamata a contrattare, nonché quello di indurre indirettamente gli operatori economici ad assolvere ai propri obblighi fiscali integralmente e nei tempi di legge, oltre alla finalità di tutela della concorrenza, coerentemente con la giurisprudenza europea. Ha quindi ravvisato l’idoneità della misura in esame allo scopo, in quanto la determinazione dell’importo fisso di € 5.000, da un lato, garantisce la massima partecipazione alle gare di appalto, evitando l’esclusione di operatori economici per violazioni fiscali “bagatellari”; dall’altro, favorisce la par condicio tra i partecipanti, ancorando ad un importo predefinito l’esclusione dalla gara. tali argomentazioni risultano condivisibili; lo stesso Consiglio di Stato, di recente, aveva ritenuto che l’individuazione della misura dell’indebitamento fiscale rilevante ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara, in presenza di violazioni definitivamente accertate, rientrasse nella discrezionalità del legislatore e, nello specifico, la sua predeterminazione nell’importo di € 5.000,00, effettuata mediante rinvio alle disposizioni dell’art. 48-bis, comma 1 e 2-bis, del d.P.R. n. 602/1973, non presentava i profili di irrazionalità o assoluta arbitrarietà cui la Corte Costituzionale àncora i limiti del proprio sindacato sulla discrezionalità legislativa (cfr. Cons. Stato, sentenza n. 1890/2023). Prefissando nei termini sopra indicati la soglia dell’insoluto rilevante, il legislatore nazionale -sottolineava il Consiglio di Stato -ha dunque inteso favorire «la parità di trattamento dei soggetti partecipanti alle pubbliche gare, senza compromettere, anzi agevolando, il buon andamento della pubblica amministrazione, nella verifica di affidabilità del futuro contraente». nella sentenza in commento la Corte Costituzionale ha ritenuto la misura necessaria, tenuto conto dell’obbligo imposto dalla direttiva 2014/24/UE, di escludere l’operatore economico che ha commesso una violazione fiscale definitivamente accertata; della considerazione che il legislatore nazionale si è mosso all’interno delle strette maglie, fissate dalla disciplina comunitaria, con riguardo alla possibilità di consentire l’accesso alle gare dell’operatore economico che ha debiti fiscali, tranne il caso del mancato pagamento di “piccoli importi di imposte” (cfr. art. 57, par. 3, della direttiva succitata). La norma ha superato il vaglio della Consulta, anche sotto il profilo della “proporzionalità”, in quanto, pur essendo l’importo di 5.000 euro stato mutuato da una norma che risponde ad una finalità non sovrapponibile a quella perseguita dal Codice dei contratti pubblici, tuttavia la soglia in questione può trovare applicazione anche al fine di selezionare operatori affidabili per l’aggiudicazione degli appalti, esprimendo un certo grado di significatività del debito fiscale, al di sopra del quale il legislatore -nell’ambito della propria discrezionalità -ha ritenuto di escludere dalla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo Al riguardo, occorre considerare che il principio di proporzionalità, nella elaborazione esegetica ormai consolidatasi, richiede l’adozione di misure idonee e necessarie, che quindi permettano il raggiungimento del fine prefissato configurandosi come le uniche possibili a detto scopo o, perlomeno, che arrechino il minor sacrificio di interessi confliggenti, laddove vi sia una pluralità di misure perseguibili, atteso che le scelte amministrative ovvero legislative non devono rappresentare un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato (nella sentenza la Corte ricorda che “sono tre le condizioni richieste per il superamento del test di proporzionalità: che l’imposizione di oneri sia idonea rispetto ai fini perseguiti; che venga scelta la misura meno restrittiva dei diritti oggetto di bilanciamento; che tali oneri non siano sproporzionati”). Il principio di ragionevolezza, d’altra parte, impone la coerenza della scelta con il fine perseguito, e la sua stretta correlazione con una precisa esigenza di tutela. Dunque, in applicazione dei principi appena richiamati, il legislatore è chiamato preliminarmente ad operare un’indagine e una valutazione degli interessi in gioco e, poi, a predisporre una misura che risponda all’interesse da perseguire e che abbia il corretto punto di bilanciamento tra interessi inevitabilmente confliggenti. Per quanto riguarda la ravvisata non manifesta irragionevolezza, la Corte ha dunque a ragione evidenziato che la diversa disciplina dettata per le violazioni non definitivamente accertate (che sono “gravi” solo se superiori al dieci per cento del valore dell’appalto e comunque non inferiori a 35.000 euro) non può assurgere a valido indice comparativo, introducendo quest’ultima una causa di esclusione prevista in via facoltativa dalla direttiva comunitaria e tenendo conto del rischio che il debito possa poi risultare inesistente. La Corte ha pertanto correttamente ritenuto in linea con il diritto unionale e rispondente ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza la scelta del legislatore di diversificare il meccanismo di qualificazione delle “gravi violazioni”, a seconda che si tratti di violazioni definitivamente accertate o meno, potendo essa trovare giustificazione nel fatto che, da un lato, si hanno violazioni già certe (in quanto inoppugnate o già oggetto di giudicato), in relazione alle quali il potere dell’amministrazione è del tutto vincolato, con un effetto escludente dalle procedure di gara; dall’altro, invece, che vengono in rilievo violazioni ancora sub iudice (di cui, quindi, potrebbe ancora accertarsi la non debenza, ovvero un ammontare più contenuto rispetto all’originaria pretesa), per cui l’esclusione non è automaticamente rimessa al superamento della soglia di cui all’art. 48-bis, del d.P.R. 602/73. L’art. 80, comma 4, regolamenta dunque (al quinto periodo e successivi) una causa di estromissione facoltativa che àncora l’esclusione dalla procedura all’ipotesi in cui la stazione appaltante sia a conoscenza e possa adeguatamente RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 dimostrare che l’operatore economico non abbia ottemperato a un obbligo di pagamento di imposte o tasse per un importo che, con esclusione di sanzioni e interessi, è pari o superiore al 10% del valore dell’appalto e comunque per un importo non inferiore a 35.000 euro. La fattispecie ivi disciplinata appare evidentemente incomparabile, per presupposti e modalità di esercizio del potere da parte della stazione appaltante, con la diversa causa di esclusione automatica prevista dalla norma di cui si discute. nell’ipotesi di esclusione obbligatoria, infatti, il requisito dell’accertamento definitivo rende certo l’inadempimento tributario o previdenziale e, quindi, consente di qualificare il soggetto che partecipa alla gara come inaffidabile in partenza. In altre parole, l’esistenza di un accertamento non contestabile giustifica la maggiore rigidità nell’entità del debito rilevante per l’esclusione, collegata alla natura certa della violazione perpetrata. La disciplina della sospensione facoltativa, invece, presenta profili di maggiore elasticità e, quindi, contempla un importo maggiore del debito maturato, proprio perché non riguarda una situazione definita. In questo caso l’affidabilità del soggetto partecipante all’appalto non è chiara e l’esclusione dall’appalto, con cui il soggetto viene sanzionato, è comprensibilmente fondata su un debito più consistente, che può rappresentare un indice idoneo a fondare un giudizio di inaffidabilità. In assenza di accertamento definitivo, del resto, tale giudizio si presterebbe ad un margine di discrezionalità e, quindi, di contestazione, eccessivo e non giustificabile se non fosse ancorato a debiti più consistenti o comunque proporzionali al valore dell’appalto. Come è noto, la “ragionevolezza”, quale canone di valutazione proprio del giudizio di costituzionalità è stato definito dalla stessa Corte come quel criterio di “razionalità pratica” (sentenza n. 172 del 1996), con il quale viene moderata la discrezionalità del legislatore. nell’ambito del giudizio di costituzionalità, si tratta dunque di applicare una logica aperta e flessibile, in cui i valori e i principi assunti a parametro, di volta in volta, si definiscono e si riempiono di contenuti, collocandosi in un ordine relazionale sempre diverso. La Corte nella sentenza n. 85 del 2013 ben esprime questo concetto, così statuendo: “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. la tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012)”. Peraltro, l’inottemperanza a obblighi fiscali definitamente accertati potrebbe conferire un indebito vantaggio competitivo determinando, in virtù dell’illecito risparmio, una lesione del principio di leale concorrenza. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo Chiarisce ancora la Corte che la disposizione è diretta a “favorire la par condicio tra i partecipanti alle gare, ancorando a un importo predefinito l’esclusione dalla gara, di modo che tutti gli offerenti siano consapevoli delle conseguenze connesse alla commissione di una violazione fiscale definitivamente accertata che superi la soglia legislativa”. La misura dell’indebitamento fiscale rilevante è frutto, dunque, di una scelta discrezionale operata dal legislatore e la sua predeterminazione nell’importo di € 5.000,00, effettuata mediante rinvio alle disposizioni dell’articolo 48-bis, comma 1 e 2-bis, del d.P.R. n. 602/1973, si pone in linea con il dettato della Direttiva 2014/24/UE. L’articolo 57, paragrafo 2, della citata direttiva stabilisce infatti che “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se l’amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza del fatto che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali e se ciò è stato stabilito da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo e vincolante secondo la legislazione del paese dove è stabilito o dello stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice”. nulla dispone il legislatore eurounionale in ordine ad eventuali soglie di applicazione; né, ai fini di una eventuale censura della norma attuativa della disposizione citata, sembra potersi evocare il disposto di cui al successivo paragrafo 3, laddove affida al legislatore nazionale -per esigenze imperative connesse a un interesse generale -la facoltà di introdurre deroghe all’obbligatorietà dell’esclusione, nel caso in cui la stessa risultasse “chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di imposte o contributi previdenziali”. tale impostazione è ribadita anche nel considerando 100 della direttiva, il quale dispone che “[…] il mancato pagamento di imposte o contributi previdenziali dovrebbe altresì condurre all’esclusione obbligatoria a livello di unione. gli stati membri dovrebbero, tuttavia, avere la facoltà di prevedere una deroga a queste esclusioni obbligatorie in situazioni eccezionali in cui esigenze imperative di interesse generale rendano indispensabile l’aggiudicazione di un appalto. […]”. Di tale facoltà il legislatore nazionale si è avvalso, individuando una soglia di non rilevanza dell’inadempimento tributario pari a quella prevista dal- l’articolo 48-bis del d.P.R. n. 602/1973. Al riguardo la Corte precisa che la soglia “esprime un certo grado di significatività del debito fiscale, al di sopra del quale il legislatore nella sua discrezionalità ha ritenuto di non consentire la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici”, evidenziando che la misura “si rivela non manifestamente irragionevole, in quanto essa contempera l’esigenza di trattare con estrema severità, come richiesto dalle norme europee, i concor RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 renti che hanno commesso violazioni fiscali definitivamente accertate con la possibilità di consentire loro la partecipazione a fronte di violazioni di importo non significativo”. Da ultimo la Corte, dopo avere dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato, ha comunque ricordato che spetta al legislatore, nell’osservanza del diritto unionale europeo, valutare l’opportunità di prevedere una diversa soglia di esclusione per le violazioni fiscali definitivamente accertate, in modo da perseguire con maggiore efficacia l’obiettivo della massima partecipazione possibile degli operatori economici alle gare per l’affidamento di appalti pubblici. Al legislatore spetta altresì di valutare la possibilità, in ossequio al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di non escludere l’operatore economico che abbia commesso una violazione di importo superiore alla soglia di rilevanza, nel caso in cui provveda tempestivamente al pagamento del debito fiscale rimasto inadempiuto. corte costituzionale, sentenza 28 luglio 2025 n. 138 -Pres. g. Amoroso, red. M. D’Alberti -giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), promosso dal Consiglio di Stato, sezione terza, nel procedimento vertente tra Markas srl e Azienda unità sanitaria locale - IRCCS Reggio Emilia e altri, con ordinanza dell’11 settembre 2024. ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza dell’11 settembre 2024, iscritta al n. 196 reg. ord. del 2024, il Consiglio di Stato, sezione terza, dubita, in riferimento all’art. 3 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), ove si prevede che le violazioni definitivamente accertate rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse sono «gravi», e quindi causano l’esclusione dalla partecipazione a una procedura di appalto, se comportano un omesso pagamento superiore all’importo di cui all’art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), importo attualmente pari a 5.000 euro. 1.1.– Il rimettente premette di doversi pronunciare sull’impugnazione della sentenza del tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, 5 febbraio 2024, n. 18, che ha respinto il ricorso presentato da Markas srl contro l’aggiudicazione in favore di Dussmann Service srl dell’appalto per «l’affidamento di servizi di accompagnamento e trasporto interno di utenti/pazienti deambulanti ovvero posizionati su sedia a rotelle, barella o letto, trasporto di materiale biologico e sanitario e trasporto salme/cadaveri in tre lotti distinti di durata quinquennale, occorrente all’Unione d’Acquisto delle Aziende Sanitarie associate all’AvEn”. Le censure articolate da Markas srl, non accolte dal giudice di primo grado e riproposte in appello, riguardavano la violazione del- l’art. 80 del d.lgs. n. 50 n. 2016 per la mancata esclusione di Dussmann Service srl dalla gara, in ragione della carenza del requisito di regolarità fiscale e della correlativa omissione ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo informativa, e dell’art. 97 del d.lgs. n. 50 del 2016, per l’incongruità dell’offerta sotto il profilo dei costi della manodopera. 1.2.– Il giudice a quo, dopo avere confutato alcune eccezioni preliminari sollevate dalle parti e relative alla formazione di preclusioni processuali, ha chiarito che alla questione sottoposta erano «pienamente esportabili le rationes decidendi» enunciate in una vertenza speculare nella decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 24 aprile 2024, n. 7, che ha affrontato la medesima quaestio iuris, vale a dire la rilevanza, ai fini dell’esclusione dalla gara di Dussmann Service srl, del mancato pagamento di una somma di 18.000 euro a titolo di contributo unificato e relative sanzioni. La decisione in questione, dopo aver ribadito il principio della necessaria continuità del possesso dei requisiti di ammissione previsti dal bando per tutta la durata della gara, e del conseguente onere per il partecipante di dichiarare, sin dalla presentazione dell’offerta, l’eventuale carenza di uno di tali requisiti, aveva osservato che Dussmann Service srl risultava inadempiente rispetto al versamento del contributo unificato, che «va ascritto alla categoria delle entrate tributarie». L’inadempimento era da ritenersi definitivo e, poiché a fronte di un debito di 27.000 euro Dussmann Service srl aveva pagato solo 9.000 euro, residuavano 18.000 euro. L’importo era superiore a quello previsto dall’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, pari a 5.000 euro, e, pertanto, non poteva revocarsi in dubbio che al momento della partecipazione alla gara Dussmann Service srl fosse carente del requisito di regolarità fiscale. Il rimettente fa proprie le considerazioni dell’Adunanza plenaria e ritiene non conferenti le eccezioni dell’appellata Dussmann Service srl attinenti alla peculiare natura del contributo unificato e delle sue modalità di accertamento e relativa notifica. Quanto alle questioni di legittimità costituzionale prospettate dall’appellata sull’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, il rimettente considera manifestamente infondate quelle poste in riferimento agli artt. 3, per disparità di trattamento, 41 e 97 Cost., mentre condivide i dubbi dell’appellata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo del contrasto della disposizione con i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Ciò in quanto si considera «grave» la violazione tributaria nel caso di «mero superamento della soglia fissa e predeterminata di cinquemila euro, in forza della relatio all’art. 48-bis d.P.R. 602 del 1973». 1.3.– In punto di rilevanza, il rimettente fa presente che, applicando la disposizione censurata, dovrebbe trovare accoglimento il primo motivo di appello presentato da Markas srl, con la conseguente esclusione di Dussmann Service srl dalla procedura, alla luce dell’acclarata violazione, definitivamente accertata, della normativa fiscale in materia di contributo unificato. Infatti, il debito tributario in questione era pari a 18.000 euro e quindi, come detto, superiore alla soglia di 5.000 euro stabilita, per mezzo del rinvio all’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, dall’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016. Il dato testuale non lascerebbe, inoltre, spazio a esegesi difformi o a interpretazioni correttive, non potendosi disapplicare -come pure richiesto da Dussmann Service srl -la norma statale per contrasto con il principio comunitario di proporzionalità, tenuto conto che non si è in presenza di una sanzione in senso tecnico. non sarebbe neppure percorribile una linea ermeneutica adeguatrice, volta ad assicurare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, perché qualsiasi intervento comporterebbe una non consentita eterointegrazione normativa. 1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente, dopo avere svolto alcune considerazioni preliminari di carattere storico-sistematico, descrive l’assetto della fattispecie di esclusione dalle procedure di appalto dell’operatore economico per irregolarità fiscale fissato dal d.lgs. n. 50 del 2016, caratterizzato dalla distinzione tra le violazioni definitivamente ac RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 certate e quelle non definitivamente accertate. Per le prime, è prevista l’automatica esclusione dalla gara e la soglia di gravità è individuata per relationem con l’importo di cui all’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973. Le gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale sono invece oggetto di valutazione da parte della stazione appaltante ai fini dell’eventuale esclusione. Esse sono quelle «stabilite da un apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili e previo parere del Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri […] che, [in ogni caso], devono essere correlate al valore dell’appalto e comunque di importo non inferiore a 35.000 euro». In attuazione di tale rinvio alla fonte regolamentare, è stato adottato il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 28 settembre 2022 (Disposizioni in materia di possibile esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate), per il quale la violazione fiscale non definitivamente accertata «si considera grave quando comporta l’inottemperanza ad un obbligo di pagamento di imposte o tasse per un importo che, con esclusione di sanzioni e interessi, è pari o superiore al 10% del valore dell’appalto. […] In ogni caso, l’importo della violazione non deve essere inferiore a 35.000 euro”. Il giudice a quo, dopo un inquadramento generale dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, osserva che la previsione recata dal richiamato art. 48-bis incide, «in omaggio ad una ratio squisitamente esattiva», sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni, prescrivendo la sospensione del pagamento superiore all’importo di 5.000 euro dovuto a qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche o società a prevalente partecipazione pubblica «se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione ». In tal modo, prende avvio una procedura esecutiva mediante atto di pignoramento del credito sino a concorrenza della somma dovuta in base alle cartelle insolute, oltre aggi e accessori. In tale contesto, il valore-soglia di 5.000 euro rappresenterebbe, secondo il rimettente, una opzione regolatoria estremamente razionale, in quanto inibisce il pagamento dell’amministrazione solo sino a concorrenza del debitum risultante dalle cartelle esattoriali insolute, dunque senza pregiudizio delle ulteriori ragioni creditorie dell’operatore economico. Invece, la sua applicazione come causa automaticamente escludente dalle gare per l’aggiudicazione di appalti per irregolarità fiscali porterebbe ad esiti paradossali, come nel caso di specie, dove a fronte di un appalto dell’importo di 9.543.000 euro «un operatore economico del calibro di Dussmann service dovrebbe essere escluso per un debitum fiscale definitivamente accertato pari a soli 18 mila euro, dunque 530 volte inferiore a quello dell’appalto in causa». Una simile sproporzione non sarebbe giustificata né dalla ratio legis intrinseca -il perseguimento del- l’integrità e affidabilità dell’operatore economico con cui l’amministrazione si ritrova a contrattare -né dalla «ratio legis estrinseca, di indole fiscale, tesa a perseguire la compliance impo-esattiva». Il rimettente si interroga su quale sia «la misura altrimenti perseguibile per contemperare gli scopi perseguiti» e richiama, quale tertium comparationis, il differente meccanismo determinativo della soglia di gravità relativo alle violazioni tributarie non definitivamente accertate. Pur nella consapevolezza della diversità tra le due fattispecie e delle notazioni critiche espresse dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che le ritiene incomparabili, il giudice a quo nutre forti perplessità sulla ragionevolezza dello «statuto dicotomico della gravità della violazione tributaria», tenendo anche conto della circostanza che «sino al 31 gennaio 2022 la ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo relatio all’importo di cui all’art. 48-bis d.P.R. 602/1973 operava indistintamente con riguardo alle violazioni definitive e non definitive e solo all’indomani dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge europea 2019-2020 (legge 23 dicembre 2021, n. 238) è comparso il nuovo congegno determinativo della soglia di gravità su base parametrica per le violazioni non definitive». Allargando l’esame ad altri settori dell’ordinamento, il rimettente osserva che le soglie di rilevanza penal-tributaria per taluni reati, quali la dichiarazione fraudolenta o infedele, cui si correla in sede di responsabilità amministrativa dipendente da reato l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, sono «marcatamente superiori a quella prevista per le irregolarità fiscali automaticamente escludenti dalla disciplina sui contratti pubblici». Per riportare entro i canoni di proporzionalità e ragionevolezza l’automatismo a effetto escludente previsto dalla disposizione censurata sarebbe sufficiente, secondo il rimettente, un intervento additivo di principio di questa Corte, «secondo cui costituiscono gravi violazioni definitivamente accertate quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e che, in ogni caso, sono correlate al valore dell’appalto». 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che in primo luogo eccepisce l’inammissibilità della questione sottoposta, in quanto nel caso di pronuncia additiva di questa Corte, il Consiglio di Stato dovrebbe comunque applicare l’ipotesi di esclusione individuabile nel limite posto dall’art. 48bis del d.P.R. n. 602 del 1973 e -nelle more di un successivo intervento del legislatore -la causa di esclusione si farebbe dipendere da valutazioni discrezionali delle stazioni appaltanti, con grave pregiudizio per la certezza del diritto. L’Avvocatura dello Stato ritiene, inoltre, non censurabile la discrezionalità esercitata dal legislatore nel disciplinare la fattispecie, in quanto non manifestamente irragionevole. nel merito, la stessa difesa statale chiede che la questione sia dichiarata non fondata, sottolineando come la disciplina censurata sia in linea con il diritto dell’Unione europea e che la fattispecie descritta nella diversa ipotesi di violazioni non definitivamente accertate sarebbe incomparabile, per presupposti e modalità di esercizio del potere da parte della stazione appaltante. Inoltre, il giudice rimettente avrebbe operato «una lettura “frazionata” e non sistematica » dell’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, che non introdurrebbe alcun “automatismo legale”, in quanto la causa di esclusione potrebbe operare solo laddove l’operatore economico, pur incorso in una violazione degli obblighi fiscali, non abbia comunque proceduto, prima della presentazione della domanda di partecipazione alla procedura di gara, a un “ravvedimento operoso”. non sarebbe, poi, corretto il confronto operato rispetto all’ordinamento settoriale delle sanzioni, ispirato a logiche diverse da quelle che reggono la disciplina delle cause di esclusione dalle procedure di appalto. Il meccanismo censurato sarebbe non solo idoneo allo scopo (selezionare solo operatori puntualmente in regola con gli obblighi fiscali, al netto degli importi bagatellari), ma anche necessario, in quanto sarebbe quello che arreca il minor sacrificio di interessi confliggenti, vale a dire quello degli operatori economici al favor partecipationis e quello del contraente pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sull’affidabilità e sulla solidità finanziaria degli stessi. Peraltro, aggiunge la difesa statale, l’inottemperanza a obblighi fiscali definitamente accertati potrebbe conferire un indebito vantaggio competitivo determinando, in virtù dell’illecito risparmio, una lesione del principio di leale concorrenza. La misura dell’indebitamento fiscale rilevante sarebbe RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 anche in linea con l’art. 57 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici che abroga la direttiva 2004/18/UE, che consente agli Stati membri di non disporre l’esclusione dalle procedure di appalto degli operatori economici che hanno obblighi verso il fisco solo nel caso di «piccoli importi di imposte». Dunque, l’introduzione di un limite correlato anche al valore dell’appalto, così come proposto dal giudice a quo, potrebbe risultare in contrasto con il diritto comunitario. 3.– Si è costituita in giudizio Dussmann Service srl che, dopo una ricostruzione della vicenda contenziosa e del quadro normativo di riferimento, ha condiviso le osservazioni fatte dal rimettente, sottolineando come l’automatica esclusione dell’impresa dalla gara sarebbe una reazione dell’ordinamento irragionevole e sproporzionata rispetto alla tenuità dell’infrazione e del disvalore sociale che la caratterizza. L’automatismo espulsivo in questione, inoltre, nel caso di specie apparirebbe ancor più non proporzionato, venendo in considerazione una gara del valore di circa 9 milioni di euro a fronte del mancato pagamento, «per di più inconsapevole, di un “debito” di Euro 18.000 (tra l’altro poi subito saldato)». Di contro, il sistema delineato dal legislatore nazionale in relazione alle violazioni fiscali non definitivamente accertate risponderebbe in maniera coerente al canone di proporzionalità, con evidente irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni definitivamente accertate, poiché il disvalore della condotta non cambierebbe a seconda che l’illecito fiscale sia accertato in modo definitivo o non definitivo. 4.– Si è costituita in giudizio anche Markas srl che ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata. Con successiva memoria, la parte ha fatto presente che la disposizione censurata svolge diverse funzioni, tra le quali la tutela della concorrenza, «perché il concorrente che non paga i debiti con l’erario gode di un indebito vantaggio competitivo ». Aggiunge che l’interesse alla regolarità fiscale è posto a beneficio del bilancio nazionale e non sussiste «un diritto dell’operatore economico ad una quota di evasione/inottemperanza». Markas srl osserva, inoltre, che l’esclusione dalla gara non è una sanzione, se non in senso improprio, «e non può essere graduata in alcun modo». La scelta del legislatore di un importo fisso sarebbe obbligata, a fronte dei principi comunitari, perché se ci si affidasse a una soglia che varia in percentuale sul valore della gara si avrebbe il risultato, nel caso di gare di valore elevato, di esorbitare dal concetto di mancato pagamento di «piccoli importi di imposte», al quale fa riferimento la normativa europea in termini derogatori rispetto all’ipotesi dell’esclusione automatica dalla gara del concorrente moroso. Conclude affermando che la previsione di un automatismo escludente, a fronte del mancato possesso del requisito in parola, sarebbe rispettoso dei principi di trasparenza dell’azione amministrativa e parità di trattamento. 5.– Con memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, Dussmann Service srl ha sottolineato l’estrema peculiarità e la complessità della vicenda fattuale che ha condotto il rimettente a sollevare la questione di legittimità costituzionale. In particolare, ha osservato che l’Adunanza plenaria, con la citata sentenza n. 7 del 2024, aveva qualificato il «“debito” relativo al pagamento del “contributo unificato” e della “sanzione pecuniaria” in termini di violazione ai sensi dell’art. 80, comma 4, D.lgs. 50/2016» e aveva affermato per la prima volta la «non esaustività delle certificazioni rilasciate dalla Agenzia delle Entrate» al fine di dimostrare, per la partecipazione alle gare, l’assenza di obblighi fiscali. tali fattori, aggiunge la società, sarebbero rilevanti anche al fine di affermare l’assoluta buona fede di Dussmann Service srl al momento della presentazione dell’offerta poiché -non sapendo dell’esistenza del predetto debito - avrebbe fatto legittimo affidamento sulle risultanze di tali certificazioni. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo Richiamata, poi, la disciplina europea, Dussmann Service srl sostiene che non vi sarebbe alcun contrasto tra la lettura prospettata dall’ordinanza di rimessione e la direttiva 2014/24/UE, essendo in discussione proprio la legittimità costituzionale «della scelta legislativa di stabilire l’esclusione automatica in relazione ad un importo “fisso” ed “esiguo” ed in alcun modo correlato al valore della procedura di gara». non sarebbe, poi, pertinente il riferimento effettuato da Markas srl al principio della tutela della concorrenza perché, anzi, sarebbe l’esclusione automatica di un concorrente in ragione del superamento di una soglia fissa e di importo effimero a porsi in contrasto con il principio di massima competitività. Ribadisce, inoltre, che il debito di 18.000 euro era stato estinto un anno prima dell’aggiudicazione della gara cosicché, nella fattispecie, non sarebbe neppure astrattamente prospettabile un vulnus della ratio del requisito della regolarità fiscale. L’assenza di proporzionalità della misura afflittiva sarebbe ulteriormente confermata dalla circostanza che per partecipare alla gara, secondo il regime allora vigente, doveva essere presentata una fideiussione provvisoria in favore della stazione appaltante nella misura del 2 per cento del valore dell’appalto e una garanzia definitiva pari al 10 per cento dell’importo contrattuale, adempimenti posti in essere da Dussmann Service srl in qualità di aggiudicataria. Ulteriore profilo di irragionevolezza sarebbe rappresentato dal fatto che non è prevista, in relazione alla causa di esclusione per irregolarità fiscale, alcuna misura di self cleaning, che è invece ammessa dallo stesso art. 80, comma 7, del d.lgs. n. 50 del 2016 nel corso della procedura di gara con riguardo a tutta una serie di gravi fattispecie delittuose. Dussmann Service srl conclude affermando che il tertium comparationis richiamato dal rimettente non sarebbe disomogeneo, in quanto proteggerebbe il medesimo bene giuridico, e pertanto rileverebbe ai fini della valutazione della irragionevolezza e non proporzionalità della disposizione censurata. Considerato in diritto 1.– Il Consiglio di Stato, sezione terza, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 196 del 2024), solleva, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 50 del 2016, ove si prevede che le violazioni definitivamente accertate rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse sono «gravi», e quindi causano l’esclusione dalla partecipazione a una procedura di appalto, se comportano un omesso pagamento superiore all’importo di cui all’art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, del d.P.R. n. 602 del 1973, attualmente pari a 5.000 euro. Il rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo del contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Ciò in quanto viene considerata «grave» la violazione tributaria nel caso di «mero superamento della soglia fissa e predeterminata di cinquemila euro, in forza della relatio all’art. 48-bis d.P.R. 602 del 1973». Il giudice a quo osserva che la previsione recata dal richiamato art. 48-bis incide, «in omaggio ad una ratio squisitamente esattiva», sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni, prescrivendo la sospensione del pagamento superiore a una certa soglia dovuto a qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche o società a prevalente partecipazione pubblica se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo. La sua applicazione come causa automaticamente escludente dagli appalti per irregolarità fiscali sarebbe irragionevole e sproporzionata, in quanto non sarebbe giustificata né dalla ratio legis intrinseca -il perse RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 guimento dell’integrità e affidabilità dell’operatore economico con cui l’amministrazione si ritrova a contrattare -né dalla «ratio legis estrinseca, di indole fiscale, tesa a perseguire la compliance impo-esattiva». Per riportare entro i canoni di proporzionalità e ragionevolezza l’automatismo a effetto escludente previsto dalla disposizione censurata sarebbe sufficiente, secondo il rimettente, un intervento additivo di principio di questa Corte, «secondo cui costituiscono gravi violazioni definitivamente accertate quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e che, in ogni caso, sono correlate al valore dell’appalto ». 2.– In via preliminare, va disattesa l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura dello Stato, in relazione alla richiesta del rimettente di una sentenza additiva di principio avente il dispositivo sopra riportato. Secondo l’Avvocatura, nel caso di tale pronuncia additiva il Consiglio di Stato dovrebbe comunque ritenere grave la violazione compiuta da Dussmann Service srl, in quanto superiore a 5.000 euro, «e -nelle more di un successivo intervento dellegislatore -si farebbe dipendere da valutazioni del tutto discrezionali delle Stazioni appaltanti la causa di esclusione automatica, con grave pregiudizio per la certezza del diritto». La difesa dello Stato, dunque, da un lato dubita dell’utilità del tipo di soluzione prescelta dal rimettente (una sentenza additiva di principio) allo scopo di risolvere la controversia che gli è stata sottoposta, dall’altro sostiene che l’intervento richiesto provocherebbe, fino all’adozione di una nuova disciplina legislativa sul punto, un vuoto di tutela non consentito. Quanto al primo aspetto, concernente la richiesta di una pronuncia additiva di principio, si rammenta che il petitum dell’ordinanza di rimessione ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure mosse dal giudice rimettente, ma non vincola questa Corte, che, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata (sentenza n. 221 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto; in senso conforme, più di recente, sentenza n. 12 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto)» (così, tra le più recenti, la sentenza n. 46 del 2024). Avuto riguardo al secondo aspetto, relativo al paventato vuoto di tutela che si creerebbe nell’attesa dell’intervento del legislatore, questa Corte, in sintonia con la propria recente giurisprudenza, rileva che ai fini dell’ammissibilità del giudizio è sufficiente «la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018)» (sentenza n. 95 del 2022), mentre «l’assenza di una soluzione a rime obbligate non è preclusiva di per sé sola dell’esame nel merito delle censure» (sentenza n. 48 del 2021). 3.– Passando al merito della questione, essa si incentra sul richiamo operato dall’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 all’importo previsto dall’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, attualmente pari a 5.000 euro. Il legislatore, attraverso questo richiamo, ha individuato per relationem l’importo al di sopra del quale la violazione fiscale è considerata «grave». L’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 prevede, per i pagamenti dovuti dalle pubbliche amministrazioni, la sospensione del versamento di importo superiore a 5.000 euro, dovuto a qualsiasi titolo da amministrazioni pubbliche o società a prevalente partecipazione pubblica ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo «se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo»; in caso affermativo, le amministrazioni non procedono al pagamento e segnalano la circostanza al- l’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo. 4.– È opportuna una breve disamina della cornice normativa che regola il requisito della regolarità fiscale richiesto per la partecipazione a gare per l’affidamento di contratti pubblici. In origine, la direttiva 18/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, rimetteva alla discrezionalità legislativa dei singoli Stati membri la scelta se introdurre una causa di esclusione dalle gare a carico dell’operatore economico «che non [fosse] in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell’amministrazione aggiudicatrice » (art. 45, paragrafo 2, lettera f ). Il legislatore italiano, con l’art. 38, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), si era avvalso della facoltà prevista dalla direttiva e aveva stabilito l’esclusione dalle gare dell’operatore economico che aveva commesso «violazioni definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse». L’art. 4 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo -Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, aveva modificato la previsione, richiedendo che le violazioni fossero «gravi». A seguito dell’adozione della direttiva 2014/24/UE, tale disciplina è mutata in maniera significativa. Ai sensi dell’art. 57, paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE gli Stati membri sono ora infatti obbligati a prevedere l’esclusione dalle gare degli operatori economici che non hanno «ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte», quando l’inottemperanza agli obblighi è stata definitivamente accertata. Accanto a questa fattispecie di esclusione obbligatoria è stata inserita una ulteriore ipotesi, relativa alle violazioni di obblighi fiscali (e previdenziali) non definitivamente accertate. In questo caso, è rimessa agli stessi Stati la decisione se introdurre una causa automatica di esclusione dalla gara ovvero lasciare alla stazione appaltante la decisione se procedere all’esclusione. In entrambe le ipotesi, la causa di esclusione «non è più applicabile quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe» (art. 57, paragrafo 2, ultimo periodo). La direttiva ha introdotto anche la possibilità per gli Stati membri di prevedere alcune deroghe rispetto all’esclusione obbligatoria dalle gare dell’impresa che non ha ottemperato a obblighi fiscali (o contributivi) accertati in via definitiva. Per quanto qui rileva, la deroga è, tra l’altro, consentita «nei casi in cui un’esclusione sarebbe chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di imposte» (art. 57, paragrafo 3, secondo periodo). Dunque, mentre nella pregressa disciplina dettata dal legislatore europeo l’esclusione dalle gare, per qualsiasi tipo di violazione degli obblighi fiscali, era rimessa alla scelta degli Stati, la direttiva 2014/24/UE distingue le violazioni degli obblighi fiscali definitivamente accertate da quelle non definitivamente accertate. All’interno di questa dicotomia impone agli Stati RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 membri di prevedere l’esclusione automatica dalle gare solo per le violazioni definitivamente accertate, per le quali la direttiva consente di introdurre una deroga all’obbligo di esclusione, qualora essa sia «chiaramente sproporzionata», in particolare per il mancato pagamento di «piccoli importi di imposte» (ancora art. 57, paragrafo 3, secondo periodo). nel recepire la direttiva 2014/24/UE, il d.lgs. n. 50 del 2016 aveva in origine disciplinato, all’art. 80, comma 4, solo la causa di esclusione obbligatoria relativa alle «gravi» violazioni definitivamente accertate di obblighi fiscali, specificando che «[c]ostituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602». La Commissione europea, nel 2019, avviava una procedura di infrazione, con la quale veniva contestato allo Stato italiano il mancato recepimento delle previsioni del diritto del- l’Unione riguardanti le violazioni fiscali non definitivamente accertate. Il legislatore nazionale modificava quindi l’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevedendo che le stazioni appaltanti potessero escludere l’operatore economico che aveva commesso una violazione non definitivamente accertata «grave», in quanto superiore all’importo del richiamato art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973. Successivamente, l’art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 è stato nuovamente modificato dall’art. 10, comma 1, lettera c), numero 1), della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea -Legge europea 2019-2020) ed è stato affidato a un decreto del Ministero dell’economia e delle finanze il compito di stabilire quali fossero le gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale, che «in ogni caso, devono essere correlate al valore dell’appalto e comunque di importo non inferiore a 35.000 euro». Il decreto del Mef del 28 settembre 2022, oltre ad avere stabilito all’art. 4 quando una violazione fiscale si considera «non definitivamente accertata», ha altresì individuato all’art. 2 la soglia di gravità, fissandola nella misura del 10 per cento del valore dell’appalto e aggiungendo che «[i]n ogni caso, l’importo della violazione non deve essere inferiore a 35.000 euro». Da ultimo, è intervenuto il decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al governo in materia di contratti pubblici), che ha sostituito il d.lgs. n. 50 del 2016. Esso ora regola, agli artt. 94 e 95, la causa di esclusione derivante dalla violazione di obblighi fiscali, in maniera sostanzialmente identica alla disposizione in esame. tuttavia, tale disposizione continua ad applicarsi, ai sensi dell’art. 226, comma 2, del d.lgs. n. 36 del 2023 ratione temporis, in quanto nel giudizio a quo si controverte di una procedura di gara già bandita al momento del- l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici. 5.– È altresì opportuno richiamare i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale avuto riguardo ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità. Questa Corte ha ritenuto sussistente una lesione del principio di ragionevolezza «quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come “contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata” (sentenza n. 416 del 2000)» (sentenza n. 6 del 2019; nello stesso senso, di recente, sentenza n. 125 del 2022). In tal caso, il giudizio di ragionevolezza consiste in un «apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la ‘causa’ normativa che la deve assistere» (sentenze n. 195 del 2022 e n. 6 del 2019). Si è anche rilevato che, qualora il legislatore abbia inteso contemperare, attraverso la di ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo sposizione censurata, due diritti, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 20 del 2019; in termini, sentenze n. 5 del 2023, 188 del 2022 e n. 1 del 2014). Dunque, sono tre le condizioni richieste per il superamento del test di proporzionalità: che l’imposizione di oneri sia idonea rispetto ai fini perseguiti; che venga scelta la misura meno restrittiva dei diritti oggetto di bilanciamento; che tali oneri non siano sproporzionati. Il test si considera invece non superato, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., quando -a fronte dell’esigenza di porre in essere un bilanciamento tra i diritti antagonisti -si realizza una «manifesta sproporzione del congegno normativo approntato rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna differenziazione» (così sempre la sentenza n. 20 del 2019). 6.– Così ricostruiti i tratti normativi e giurisprudenziali di riferimento, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 50 del 2016, sollevata dal Consiglio di Stato in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata. Infatti, dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata si evince che il giudizio sulla possibile irragionevolezza e sul difetto di proporzionalità della disposizione censurata dal Consiglio di Stato rimettente presuppone, in primo luogo, l’individuazione della sua ratio. Come costantemente rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, l’esclusione dell’operatore che ha commesso gravi violazioni definitivamente accertate degli obblighi fiscali ha lo scopo di assicurare l’integrità, la correttezza e l’affidabilità dei concorrenti con cui l’amministrazione è chiamata a contrattare nonché quello di indurre indirettamente gli operatori economici ad assolvere ai propri obblighi fiscali integralmente e nei tempi di legge (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenze 23 febbraio 2023, n. 1890 e 27 luglio 2021, n. 5563). La deroga all’esclusione, come detto, opera nel caso in cui il debito fiscale sia inferiore alla menzionata soglia di 5.000 euro. La determinazione di tale importo fisso risponde a un duplice obiettivo: da un lato, garantire la massima partecipazione alle gare di appalto, evitando l’esclusione di operatori economici che hanno commesso violazioni fiscali “bagatellari”; dal- l’altro, favorire la par condicio tra i partecipanti alle gare, ancorando a un importo predefinito l’esclusione dalla gara, di modo che tutti gli offerenti siano consapevoli delle conseguenze connesse alla commissione di una violazione fiscale definitivamente accertata che superi la soglia legislativa. La disposizione censurata persegue anche finalità di tutela della concorrenza, in quanto garantisce la “parità delle armi” degli operatori economici, che sanno di poter confidare nella esclusione dalla gara del concorrente che non ha adempiuto correttamente agli obblighi fiscali. Ciò coerentemente con la giurisprudenza europea, secondo la quale «[i] principi di trasparenza e di parità di trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici richiedono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per tutti i concorrenti» (Corte di giustizia dell’Unione europea, 26 settembre 2024, cause riunite C-403/23 e C404/ 23, Luxone srl e Sofein spa). RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 Dunque, la misura in esame si rivela idonea allo scopo. 7.– La misura è altresì necessaria, tenuto conto: dell’obbligo, imposto dalla direttiva 2014/24/UE, di escludere l’operatore economico che ha commesso una violazione fiscale definitivamente accertata; della circostanza che il legislatore nazionale ha esercitato una deroga, muovendosi all’interno delle strette maglie fissate dalla disciplina comunitaria, la quale mostra un chiaro disfavore per la possibilità di consentire l’accesso alle gare dell’operatore economico che ha debiti fiscali, tranne il caso del mancato pagamento di «piccoli importi di imposte» (art. 57, paragrafo 3, della direttiva). 8.– Quanto alla proporzionalità in senso stretto della misura, si rileva che l’importo di 5.000 euro individuato dal legislatore nazionale è mutuato da una norma che, come correttamente ricostruito dal rimettente, risponde a una finalità non sovrapponibile a quella perseguita dal codice dei contratti pubblici. Infatti, l’art. 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, ha ad oggetto l’attivazione di meccanismi compensativo-esattivi nei confronti di un soggetto che è al contempo beneficiario di somme dovute dallo Stato e inadempiente agli obblighi fiscali. L’art. 48-bis reca una disciplina afferente al campo dell’imposizione fiscale e individua un limite al di sotto del quale lo Stato non ritiene utile attivare la compensazione in danno del debitore fiscale. tuttavia, la soglia richiamata può trovare applicazione anche al fine di selezionare operatori economici affidabili per l’aggiudicazione degli appalti. Essa, infatti, esprime un certo grado di significatività del debito fiscale, al di sopra del quale il legislatore nella sua discrezionalità ha ritenuto di non consentire la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici. 9.– La misura, infine, si rivela non manifestamente irragionevole, in quanto essa contempera l’esigenza di trattare con estrema severità, come richiesto dalle norme europee, i concorrenti che hanno commesso violazioni fiscali definitivamente accertate con la possibilità di consentire loro la partecipazione a fronte di violazioni di importo non significativo. La diversa disciplina che regola il caso di violazioni non definitivamente accertate, che sono «gravi» solo se superiori al 10 per cento del valore dell’appalto (e comunque non inferiori a 35.000 euro), non può costituire un valido indice comparativo ai fini del giudizio di ragionevolezza della disposizione censurata. tale disposizione, infatti, introduce una causa di esclusione prevista in via meramente facoltativa dalla direttiva comunitaria e, nell’individuare condizioni più favorevoli per l’operatore economico che ha presuntivamente commesso violazioni fiscali, tiene conto dei rischi sottesi alla decisione di escluderlo da una gara nonostante il debitum in questione possa poi rivelarsi non esistente. 10.– Conclusivamente, la questione di legittimità costituzionale promossa dal Consiglio di Stato non è fondata. 11.– Spetta al legislatore, nell’osservanza delle norme dell’Unione europea, valutare l’opportunità di prevedere una diversa soglia di esclusione per le violazioni fiscali definitivamente accertate, in modo da perseguire con maggiore efficacia l’obiettivo di garantire la più ampia partecipazione possibile degli operatori economici alle gare per l’affidamento di appalti pubblici. Spetta altresì al legislatore, nella misura in cui ciò corrisponda alle esigenze del buon andamento dell’amministrazione, considerare la possibilità di non escludere dalla partecipazione alla gara l’operatore economico che abbia commesso una violazione di importo superiore alla soglia di rilevanza, qualora provveda a pagare tempestivamente il debito fiscale rimasto inadempiuto. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo PER QUEStI MotIvI LA CoRtE CoStItUzIonALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione terza, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2025. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 amministratori di fatto o di diritto di società di capitali. La traslazione dell’imponibile dalla società al suo dominus Nota a CassazioNe Civile, sezioNe tributaria, orDiNaNza 27 agosto 2025 N. 23987 Emanuele Manzo* soMMario: 1. Premessa: i principi in tema di sanzioni relative al rapporto tributario di persone giuridiche -2. Dalla “riferibilità” delle sanzioni alla “traslazione” dell’imponibile -3. l’estensione dei medesimi principi all’iva -4. responsabilità solidale tra interposto ed interponente? 1. Premessa: i principi in tema di sanzioni relative al rapporto tributario di persone giuridiche. L’ordinanza in commento opera una ricostruzione completa, e in parte innovativa, dei rapporti tra amministratore, di fatto o di diritto, e società di capitali, al fine della imputazione delle violazioni in materia di imposte sul reddito e di Iva all’amministratore anziché alla società. La pronuncia muove dai principi enunciati in materia di sanzioni relative al rapporto tributario di persone giuridiche, che giova brevemente rievocare. L’art. 7 del del d.l. n. 269 del 2003, innovando significativamente il sistema sanzionatorio tributario, dispone, al comma 1, che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”, prevedendo al comma 3 che “Nei casi di cui al presente articolo le disposizioni del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, si applicano in quanto compatibili”. L’introduzione della “riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie” (come recita la rubrica dell’art. 7 in parola) consente, da un lato, di perseguire il soggetto che ha realmente tratto vantaggio dalla violazione, ovvero il contribuente persona giuridica e, dall’altro, di lasciare indenne il soggetto che ha agito esclusivamente per assicurare il perseguimento del vantaggio economico del contribuente-società e che non ha tratto alcun beneficio dalla violazione. Proprio valorizzando la lettera e la ratio del citato art. 7, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta al riconoscimento di casi in cui la persona fisica può continuare a rispondere. Possono in particolare essere individuate, alla luce del diritto vivente, tre fattispecie nelle quali viene meno l’esclusiva riferibilità della sanzione all’ente: 1) la prima è quella delle società c.d. cartiere, “atteso che, in tal caso, la società è una mera fictio, utilizzata quale schermo per sottrarsi alle conse(*) Avvocato dello Stato. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo guenze degli illeciti tributari commessi a personale vantaggio dell’amministratore di fatto, con la conseguenza che viene meno la ratio che giustifica l’applicazione del suddetto art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice del- l’illecito” (da ultimo, tra le tante, Cass. n. 24530 del 2025); 2) la seconda riguarda il caso del soggetto che abbia operato nel proprio esclusivo interesse, giacché “la deroga al principio della responsabilità personale dell’autore della violazione, prevista in caso di riferibilità della sanzione alla persona giuridica, ex art. 7, comma 1, D.l. n. 269/2003, si applica soltanto quando la persona fisica che ha realizzato la violazione abbia agito nell’interesse ed a vantaggio della persona giuridica, effettiva beneficiaria della condotta”(ex multis Cass. n.11658 del 2024; Cass. n. 36510 del 2021); 3) la terza, di più recente elaborazione, concerne il concorrente esterno ex art. 9 D.Lgs. n. 472/1997. La Suprema Corte, superando il precedente orientamento che escludeva l’applicabilità dell’art. 9 citato in ragione dell’avverbio “esclusivamente” inserito nell’art. 7 del D.L. n. 269/2003, che avrebbe reso le sanzioni amministrative applicabili solo alla persona giuridica, ha infatti aderito alla posizione sostenuta dall’Agenzia delle Entrate, affermando che: i) l’art. 7, in quanto eccezione al principio generale di personalità della sanzione, ha carattere eccezionale, imponendosene una applicazione limitata alle persone fisiche titolari di un rapporto organico (di diritto o di fatto) con l’ente contribuente; ii) all’avverbio “esclusivamente” va data una interpretazione sistematica che riconduca la norma alla sola persona giuridica contribuente titolare del rapporto tributario cui è collegata la violazione tributaria commessa; iii) lo stesso art. 7, al comma 3, fa salve le disposizioni del D.Lgs. n. 472/1997, in quanto compatibili, e tra queste certamente rientra anche l’art. 9 che disciplina le ipotesi del concorso di persone, non potendosi ammettere una interpretazione di fatto abrogatrice del citato art. 9 (cfr. Cass. n. 20697 del 2024 nonché nn. 23172, 23196 e 23229 del 2024). 2. Dalla “riferibilità” delle sanzioni alla “traslazione” dell’imponibile. Ciò premesso, la fattispecie che qui maggiormente interessa è la seconda. Come si è ricordato, l’art. 7 citato, in quanto deroga al principio personalistico, trova applicazione solamente se viene provato che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica; per contro “qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio che giustifica l’applicazione dell’art. 7, D.l. n. 269 del 2003 e deve essere ripri RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 stinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito”. Al riguardo, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la prova dell’utilizzo strumentale della società per perseguire scopi personali o, comunque, diversi da quelli societari non richiede la dimostrazione che la società sia una mera fictio (cfr. Cass. civ., Sez. v, ord. 1° aprile 2022, n. 10651; Cass. civ., Sez. v, ord. 20 ottobre 2021, n. 29038; Cass. civ., Sez. v, sent. 22 novembre 2021, n. 36037; Cass. civ., Sez. v, ord. 13 novembre 2020, n. 25757). Ebbene, la pronuncia in commento riconosce che i principi affermatisi in tema di sanzioni debbano a fortiori valere in riferimento alle imposte evase, imponendosi “la traslazione dell’imponibile dalla società al soggetto che l’ha gestita «uti dominus», idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo delle imposte dovute”. Sotto questo profilo, decisiva è la disciplina dell’interposizione nel sistema tributario, contenuta all’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973. Relativamente all’ambito di applicazione della citata disposizione normativa, in base all’orientamento univoco della giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass., n. 9890/2023; n. 33710/2021; n. 27394/2020; n. 33443/2018) -confermato anche dalla pronuncia in commento -sono ad essa riconducibili sia le ipotesi di interposizione fittizia che quelle di interposizione reale, per mezzo delle quali la tassazione avviene in capo a un soggetto differente rispetto al reale percettore del reddito. La disciplina antielusiva in esame non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto di imposta. È richiesta la prova, attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, della gestione uti dominus dell’impresa e dell’effettivo possesso del reddito del soggetto interposto. L’onere di provare che il reddito debba essere imputato ad un altro soggetto è a carico dell’Amministrazione finanziaria, ma ciò “non attiene agli elementi costitutivi dell’interposizione” poiché oggetto della prova non è la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a prescindere dalla sua formale titolarità. nel caso del reddito d’impresa il ragionamento da operare riguarda la figura dell’amministratore della società, essendo del tutto irrilevante la sua qualificazione come amministratore di diritto o di fatto, dovendo l’Amministrazione essere in grado di provare la traslazione del reddito realizzato dal- l’ente collettivo percettore interposto al soggetto persona fisica interponente come se fosse stato prodotto da quest’ultimo. Dunque, la prova che incombe sull’Amministrazione finanziaria ha ad oggetto il totale asservimento della società interposta all’interponente, ovvero: da un lato, l’esistenza di una re ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo lazione di diritto o di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto; dall’altro, che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società. 3. l’estensione dei medesimi principi all’iva. Del tutto condivisibilmente, la pronuncia in esame estende tali approdi, in forza degli stessi schemi argomentativi sin qui esposti, anche all’IvA, sebbene tale tributo non rientri nello spettro applicativo dell’art. 37 cit. In effetti, l’IvA è un tributo armonizzato, per il quale è strutturale -in forza del diritto euro-unitario -l’idea di prevalenza della sostanza sulla forma (1), il che di per sé consentirebbe l’applicazione dei riferiti principi, senza dubbi di sorta, ai casi di interposizione fittizia. Analoga conclusione viene tuttavia raggiunta anche per le fattispecie di interposizione reale. Sul punto, la Cassazione mostra di condividere l’opinione secondo cui, nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio, sia pure per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società. Le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario. Invero, come ricorda la Suprema Corte, l’art. 6, par. 4, della direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (c.d. sesta direttiva) (2), corrispondente all’art. 3, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere -sulla scorta di una finzione giuridica -che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale. giova sottolineare, sul punto, sebbene la pronuncia in commento non lo precisi, che resta estranea e irrilevante ogni indagine sul carattere oneroso o meno del rapporto di mandato: infatti, ai fini dell’applicazione della disciplina IvA del mandato senza rappresentanza, la norma unionale non contiene alcun riferimento ad un eventuale carattere oneroso della partecipazione alla prestazione di servizi (v. Corte di giustizia, 19 dicembre 2019, in C-707/18, amaranti land investment srl, punto 38). L’irregolarità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, (1) Si pensi, a titolo puramente esemplificativo, alle regole riguardanti il divieto di aiuti di Stato (art. 107 tFUE), le quali non prendono in considerazione il mezzo tecnico attraverso il quale l’aiuto è concesso. oppure talune applicazioni del principio di non discriminazione, che si riferisce non soltanto alle discriminazioni palesi ma, per l’appunto, anche a quelle occulte, così ponendo in secondo piano la struttura (forma) della disciplina contraria ai princìpi unionali. (2) L’art. 6 par. 4 della sesta Direttiva IvA è ora trasfuso nell’art. 28 della Direttiva 2006/112/CE, secondo cui “Qualora un soggetto passivo che agisca in nome proprio ma per conto terzi partecipi ad una prestazione di servizi, si ritiene che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo personale”. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione, posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’operazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro, ove vengano in rilievo operazioni inesistenti, ciò refluisce sulla sua posizione. Deve infine ritenersi che la delineata ricostruzione abbia immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio. L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive. La fattispecie è, come già detto, esterna al perimetro dell’art. 7 del D.L. n. 269 del 2003: il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, “proprio di società o enti con personalità giuridica” ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio del- l’interponente. Detto altrimenti, se il contribuente non riveste la posizione di (mero) amministratore (di diritto o di fatto) ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, assume rilievo, anche sotto tale profilo, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non già quello della società. 4. responsabilità solidale tra interposto ed interponente? Residua sullo sfondo una ulteriore questione, non espressamente affrontata dalla pronuncia in esame, concernente l’eventuale corresponsabilità del- l’interposto. Il comma 4 dell’art. 37 cit. prevede che “le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso. l’amministrazione procede al rimborso dopo che l’accertamento, nei confronti del soggetto interponente, è divenuto definitivo ed in misura non superiore all’imposta effettivamente percepita a seguito di tale accertamento”. Secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità l’interposto non sarebbe mai soggetto passivo di imposta in quanto non ha il possesso effettivo dei redditi. In questo senso si è affermato che “la norma in esame ha la finalità di fondare la pretesa nei confronti dell’interponente, ma non dispone in ordine alla correlativa pretesa nei confronti dell’interposto. la norma è coerente con il sistema, in quanto ha la funzione di attribuire l’onere del pagamento delle imposte nei confronti di chi è l’effettivo titolare dei redditi. l’interposto non è soggetto passivo di imposta, in quanto non ha il possesso dei redditi, e ciò è il precipitato del principio di capacità contributiva, oltre che ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo di quanto previsto dall’art. 1 del d.P.r. n. 917/1986 (secondo cui il presupposto dell’imposta sui redditi delle persone fisiche è il possesso del reddito). una previsione normativa che avesse avuto l’intento di aggiungere alla responsabilità dell’interponente anche quella dell’interposto avrebbe dovuto chiaramente esprimere tale volontà legislativa (vedi, ad esempio, in materia di iva l’art. 60 bis del d.P.r. 633/1972, che aggiunge all’obbligo del cedente anche quello del cessionario) ” (Cass. 18 gennaio 2023, n. 1491, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26414). Pertanto, seguendo questo orientamento, laddove l’Ufficio accerti l’interposizione potrebbe agire solo contro l’interponente, mentre laddove l’interposto abbia già pagato, questi avrà diritto al rimborso (in coerenza con il principio di capacità contributiva). ne deriva che il soggetto interposto potrebbe, in ipotesi, impugnare un avviso di accertamento emesso nei suoi confronti deducendo l’esistenza di una interposizione con altro soggetto e così ottenere l’annullamento di quell’avviso. E ciò anche laddove l’Amministrazione finanziaria non fosse ancora riuscita a riscuotere l’imposta dall’interponente. Un simile esito pare, tuttavia, poco coerente con la logica sottesa all’art. 37 cit., norma che mira chiaramente ad ampliare le possibilità per l’Amministrazione finanziaria di proficuo esercizio del potere impositivo in tutti i casi di interposizione. Del resto, seguendo il menzionato orientamento, risulterebbe difficile giustificare la ragione per cui il rimborso previsto dal citato comma 4 dell’art. 37 non sia integrale, bensì limitato all’imposta effettivamente recuperata nei confronti dell’interponente. In altre circostanze, la stessa Suprema Corte, ponendosi in (inconsapevole) contrasto con la giurisprudenza sopra richiamata, ha tuttavia affermato che, sebbene l’art. 37 cit. contempli espressamente il caso in cui l’accertamento a carico dell’interponente sia divenuto definitivo dopo il pagamento da parte dell’interposto (in questo senso andrebbe quindi letto l’avverbio “successivamente”), “non esclude che l’agenzia abbia dovuto procedere contemporaneamente nei confronti di entrambi i soggetti, secondo una valutazione legislativa dove pesa il disvalore dell’interposizione (sia reale che fittizia) e il principio di affidamento nei confronti dei terzi (fra questi compresa l’amministrazione finanziaria) che si esprime anche nella limitazione del rimborso a quanto effettivamente riscosso dall’interponente” (Cass. n. 9336/2020). In effetti, la ratio antielusiva e latamente sanzionatoria della disposizione in esame vale a spiegare la limitazione legale del diritto al rimborso (si noti che analoga limitazione del diritto al rimborso è prevista dall’art. 10-bis, comma 11, della legge 212/2000 in tema di abuso del diritto, che riproduce analoga norma dell’art. 37-bis del d.P.R. 600/1973) e, dunque, ben potrebbe giustificare l’esercizio contestuale del potere impositivo nei confronti dell’interponente e dell’interposto, secondo una logica che, in definitiva, non pare essere così distante da quella che ispira i regimi di responsabilità solidale. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 cassazione civile, sezione tributaria, ordinanza 27 agosto 2025 n. 23987 -Pres. A.M. Perrino, rel. F. Federici -Ricorso proposto da A.A. (avv. R. Rechichi) c. Agenzia delle Entrate (avv. gen. Stato). FAttI DI CAUSA Dalla sentenza impugnata si evince che l’Agenzia delle entrate notificò al ricorrente gli avvisi d’accertamento, con i quali, per gli anni d’imposta 2007 e 2008 e per quanto qui di interesse, gli furono contestate condotte finalizzate all’ideazione e alla realizzazione di operazioni soggettivamente inesistenti inserite in una frode carosello, con conseguente pretesa di versamento dell’Iva evasa, oltre interessi e sanzioni. In particolare, a seguito di indagini condotte dalla gdF, furono rilevate operazioni di cessione comunitaria di merce (bevande) tra le società nord Est Commerciale Srl, Italy Import Srl e Fb Market, operazioni nelle quali la prima importava merce da operatori intracomunitari, con autoassolvimento fittizio dell’iva sui prodotti, e le altre due partecipavano alla frode carosello. Il A.A., formalmente legato alla Italy Import da un contratto di associazione in partecipazione, fu identificato come l’amministratore di fatto della nord Est Commerciale e riconosciuto quale soggetto fiscalmente responsabile degli illeciti ai fini Iva. Seguì il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Mantova nella sentenza n. 119/02/2013, che rigettò il ricorso. L’appello fu respinto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza n. 6633/32/2016. Il giudice regionale, dopo aver illustrato i termini della controversia, ha ritenuto che la nord Est fosse una “società fantasma”, costituita con lo scopo di organizzare una frode ai danni dello Stato e ha stabilito che il A.A., unitamente ad altri due partecipanti alle condotte frodatorie (b.b. e C.C., non coinvolti in questo giudizio), fosse l’ideatore e il gestore della frode. Ha pertanto respinto le difese del contribuente, condannandolo alle spese. Il ricorrente ha censurato con quattro motivi la sentenza, della quale ha chiesto la cassazione, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. nell’adunanza camerale dell’11 marzo 2025 la causa è stata trattata e decisa. RAgIonI DELLA DECISIonE Con il primo motivo il ricorrente lamenta la “violazione degli art. 2697 e 2639 c.c. e dell’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.”, per avere la Commissione tributaria Regionale della Lombardia dichiarato, senza alcuna prova o indizio grave, preciso e concordante a carico di A.A., l’essere stato l’amministratore di fatto della nord Est Commerciale Srl, e per l’effetto tenuto a pagare I’IvA a lui richiesta negli avvisi di accertamento ora impugnati, oltre sanzioni, pur nell’assenza dei presupposti di fatto necessari; con il secondo motivo si duole della violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972 , e dell’art. 8 Legge 10 marzo 2000 n. 74, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice regionale, senza alcuna prova o indizio, avrebbe dichiarato che il ricorrente aveva emesso fatture soggettivamente inesistenti, ed avrebbe identificato nella sua persona l’ideatore e gestore della frode fiscale contestata alle varie società in essa ritenute coinvolte. I due motivi possono essere trattati congiuntamente, perché tra loro connessi. Deve intanto respingersi, con riferimento al primo di essi, l’eccepita novità della difesa del contribuente -sollevata dall’Agenzia delle entrate -, poiché proprio dalla negazione, sin dal ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo l’inizio della controversia, della propria soggettività passiva rispetto all’avviso d’accertamento, da indirizzarsi esclusivamente, secondo la prospettazione difensiva, nei confronti della società, si desume come il A.A. abbia sempre affermato la propria estraneità ai fatti, contestando dunque la qualità addebitatagli di amministratore di fatto. nel merito i due motivi sono infondati, quando non inammissibili. Il ricorrente sostiene che non vi fossero prove a suo carico per affermarne il ruolo di amministratore di fatto della nord Est Commerciale, unitamente agli altri soggetti coinvolti nelle indagini e verifiche (estranei al presente giudizio); di modo che, lamenta, la decisione presa con la sentenza impugnata non è giustificata da un processo logico che assuma elementi di fatto accertati nelle norme di diritto applicate, ma si basa su un sillogismo irrazionale. In realtà la sentenza contiene passaggi significativi ed esaustivi in ordine al ruolo ed alle responsabilità di A.A., che esprimono a pieno il processo logico della mancanza del quale si duole il ricorrente. Da essa, nella parte dedicata al vaglio dei motivi d’appello, è dato evincere che il giudice, “in base a quanto specificamente ricostruito dalla guardia di Finanza” (a pag. 6 del ricorso, peraltro, si dà conto che il p.v.c. del 28 febbraio 2011, a pag. 14, oltre a descrivere i rapporti tra A.A., b.b. e C.C., riferiva anche degli accertamenti, basati sulla documentazione della StI Internazionale Spa, sul ruolo di A.A. con riferimento alla nord Est Commerciale, posti poi a fondamento degli avvisi), ha condiviso la statuizione di primo grado, la quale si era ampiamente soffermata sulla predetta società, ritenuta una società fantasma per essere priva di struttura organizzativa e di personale dipendente, per avere trasferito in un biennio più volte la sede sociale in Italia, e infine in bulgaria, e in quest’ultimo paese senza iscriversi nel registro del commercio, per risultare inadeguati i locali adibiti all’attività commerciale formalmente espletata, per non aver mai versato l’Iva, per non aver mai conseguito margini di guadagno dalle operazioni di acquisto e vendita di beni alla F.b. Market, che poi risultavano a loro volta ceduti alla Italy Import. Peraltro, ha evidenziato che quest’ultima società, con la quale il A.A. aveva pur avuto rapporti per un contratto di associazione in partecipazione, fosse in concreto la società al centro delle operazioni illegali contestate, giustappunto in virtù del ruolo assunto proprio dal ricorrente, coerentemente indicato come gestore e ideatore della frode; desumendosi dalle circostanze illustrate la sua capacità decisionale, a maggior ragione nei riguardi di una società fittizia, perché costituita al solo fine di realizzare la frode, come la nord Est Commerciale Srl. ne discende pertanto che nessuna violazione delle regole di governo delle prove possa essere contestata al giudice d’appello, che, al contrario, ha sceverato gli elementi essenziali che ha ritenuto di apprezzare, secondo il suo insindacabile potere di accertamento del merito dei fatti. In altri termini sono proprio quei dati riportati nelle pagg. 2 e 3 della sentenza, ricostruiti sulla base delle indagini della guardia di finanza, a costituire il riscontro della prospettazione erariale, che la Commissione regionale, a conferma della decisione di primo grado, ha deciso di condividere (sulla vicendevole integrazione delle due sentenze dei giudici di merito che abbiano deciso in modo conforme vedi Cass. 19 giugno 2019, n. 16504). Diversamente, ove con le sue censure la difesa del contribuente abbia inteso contestare in fatto le conclusioni cui è pervenuta la Commissione regionale, si tratterebbe di motivi inammissibili sotto un duplice aspetto. Perché solleciterebbero in sede di legittimità un inammissibile riesame del merito della controversia, e, ancor più, perché i motivi violerebbero i limiti di ricorribilità avverso la sentenza dinanzi alla Corte di cassazione, ex art. 360, quarto comma, c.p.c., per essere la pronuncia d’appello conforme a quella di primo grado, senza che il ricorrente abbia dimostrato che le ragioni di fatto, su cui si fondano la pronuncia di primo grado e RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 quella di appello, sono diverse (cfr., tra varie, vedi Cass. 29 gennaio 2024, n. 2930); anzi, al contrario, il ricorrente sottolinea la piena corrispondenza del ragionamento speso in primo e in secondo grado (v. pag. 14 del ricorso “In realtà non vi è alcuna prova o serio indizio che sia stato richiamato dalla Commissione tributaria di primo grado e, da ultimo, dalla Commissione tributaria Regionale”). Di contro, così come individuato il ruolo del A.A., a questi doveva ricondursi la pretesa fiscale. A tal fine, tenendo conto dei principi enunciati in materia di sanzioni relative al rapporto tributario, la giurisprudenza di legittimità ha intanto ritenuto che esse siano a carico della società dotata di personalità giuridica, ex art. 7 del D.L. n. 269 del 2003, anche quando gestita da un amministratore di fatto, salvo che nelle ipotesi di società “cartiera”, atteso che, in tal caso, si tratterebbe di una mera “fictio”, utilizzata quale schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari, commessi a personale vantaggio dell’amministratore di fatto, con il conseguente venir meno della stessa ratio che giustifica l’applicazione del suddetto art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendosi pertanto ripristinare la regola generale, secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (Cass., 20 ottobre 2021, n. 29038; 22 novembre 2021, n. 36003). Questa Corte ha peraltro avvertito che, nell’interposizione del gestore “uti dominus” alla società di capitali interposta, non ha rilievo il rapporto fiscale di quest’ultima, ma quello che fa capo direttamente all’interponente, sicché la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del D.L. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite all’attività del gestore uti dominus (Cass., 25 luglio 2022, n. 23231). L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione dei tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive. L’attenzione speculare alla compagine sociale ha consentito pertanto di affermare che, perché difetti la ratio dell’art. 7, D.L. n. 269 del 2003, che sanziona la sola società dotata di personalità giuridica, e sia ripristinata la regola secondo cui la sanzione pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito, è necessario acquisire riscontri probatori, anche presuntivi, valevoli ad escludere la vitalità della società medesima, quand’anche gestita da un amministratore di fatto (Cass., 23 gennaio 2023, n. 1946). La vitalità, infatti si contrappone alla sua gestione e direzione da parte di un soggetto terzo uti dominus. A maggior ragione tanto vale in riferimento alle imposte, atteso che si tratterebbe, come nel caso di specie, di una società paravento, dietro la quale si cela, secondo la prospettazione erariale e secondo quanto riconosciuto dal giudice d’appello, il A.A., i cui interessi esclusivi sarebbero coperti dalla società. Ed infatti quanto all’imposizione sul reddito, la richiamata giurisprudenza ha chiarito che, ferma l’effettività della società di capitali -al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite -, il fatto costitutivo dell’imposizione tributaria è rappresentato dal possesso effettivo di un reddito “per interposta persona”, secondo lo schema disciplinato dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/73, ossia di soggetto che disponga delle risorse del soggetto interposto (Cass., 23231/2022 cit.). La traslazione del reddito d’impresa dall’interposto (società) all’interponente ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo per le imposte dovute. L’oggetto della prova incombente sull’Amministrazione finanziaria, peraltro, non attiene agli elementi costitutivi dell’interposizione, ma solo -come precisa la norma -al riscontro del dato che “egli [il soggetto terzo] ne è l’effettivo possessore ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo per interposta persona”: la funzione della norma, dunque, è quella di evitare che il contribuente (effettivo possessore) si sottragga al prelievo occultando all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito. Ciò significa che la posizione dell’interponente non è quella di mero gestore-amministratore dell’ente collettivo, ma di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto. A fronte di tale prova, che può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass. n. 29228 del 20 ottobre 2021; Cass. n. 5276 del 17 febbraio 2022). A ben vedere, allora, l’esegesi della disciplina positiva, pur originariamente focalizzata sulla verifica della effettiva operatività della società, della sua vitalità, dietro la quale può nascondersi un amministratore di fatto, ha opportunamente perso interesse a “classificare” il ruolo, ossia la funzione del soggetto operante “dietro” la medesima società. non è cioè utile comprendere se ci si trovi o meno al cospetto di un amministratore formale o un amministratore di fatto. Quello che invece deve emergere è che il soggetto terzo si comporti uti dominus, ossia come colui che ne gestisce e dirige le risorse -autonomamente dalla società e anche, se del caso, indipendentemente dagli interessi di questa -, ideando e ponendo in essere le condotte (illecite) dalle quali e per le quali possa insorgere un credito erariale. In tali ipotesi assume rilevanza non il rapporto fiscale della società, ma quello che fa capo direttamente all’interponente, che dunque è l’effettivo possessore del reddito d’impresa ed al quale dunque l’amministrazione finanziaria ha diritto di chiedere conto. Il percorso interpretativo converge sui risultati esegetici cui questa stessa Corte perviene, sia pure su altro fronte, in tema di società di capitali e “socio tiranno”, laddove si è affermato che la nozione di abuso della personalità giuridica assume rilievo al fine di contrastare lo schermo dietro cui si cela il “socio tiranno”, in modo tale da accollargli la responsabilità illimitata per le obbligazioni contratte dalla società di capitali, da lui diretta e controllata, consentendo l’aggressione del suo patrimonio personale da parte dei creditori della società (cfr. Cass., 22 giugno 2022, n. 20181). Conclusioni per le quali è appena il caso di evidenziare che l’utilizzo strumentale della società non pone in dubbio l’esistenza della società medesima, nel rispetto dunque dei principi enucleabili dall’art. 2332 c.c., con esclusione di ogni ipotesi di simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali, che sia iscritta nel registro delle imprese, e per la quale non è configurabile alcuna ipotesi simulatoria in ragione della natura stessa del contratto sociale. Sulla base di quanto testé chiarito, con riguardo poi all’Iva, che rileva nell’odierno giudizio, trova altrettanta coerenza l’opinione secondo cui, nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio, sia pure per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società. Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali). orbene, l’art. 6, par. 4, della Sesta direttiva, corrispondente all’art. 3, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale. Si realizza, in altri termini, la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche, fornite consecutivamente sull’assunto che l’operatore che RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 partecipa alla prestazione di servizi abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in causa C274/ 15, Commissione c/ lussemburgo, punto 86; nella giurisprudenza interna, v., ex multis, Cass., 23 novembre 2018, n. 30360; 29 settembre 2020, n. 20591): il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio, rispettivamente, gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante. ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’Iva, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’Iva (v. Corte di giustizia, in causa C-274/15 cit., punto 87). L’irregolarità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’operazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro comporta, ove vengano in rilievo -come nella specie -operazioni soggettivamente inesistenti inserite in una frode carosello, che ciò refluisce sulla sua posizione, neppure essendo in dubbio la consapevolezza della frode. Deve in definitiva affermarsi il principio secondo cui, in tema di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, per la traslazione dell’imponibile dalla società al soggetto che l’ha gestita “uti dominus”, idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo delle imposte dovute, non è decisivo “classificare” la funzione del soggetto operante “dietro” la medesima società, e cioè comprendere se ci si trovi o meno al cospetto di un amministratore formale o un amministratore di fatto, perché quello che deve emergere è che il soggetto terzo si comporti uti dominus, ossia come colui che ne gestisce e dirige le risorse -autonomamente dalla società e anche, se del caso, indipendentemente dagli interessi di questa -, ideando e ponendo in essere le condotte (illecite) dalle quali e per le quali possa insorgere un credito erariale. Chiariti i principi in materia, la pronuncia impugnata si è attenuta ad essi, poiché il giudice regionale -che pur ha richiamato il supposto ruolo di amministratore di fatto del A.A. -, rispetto alle operazioni contestate dall’erario, ha soprattutto valorizzato la sua funzione di “ideatore e gestore” della frode fiscale, così evidenziando il ruolo in concreto tenuto nel complesso collegamento delle tre società, nonché quello svolto uti dominus in ragione dei propri interessi. In conclusione, i due motivi vanno rigettati. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7, comma 1, della L. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché il giudice regionale non avrebbe riconosciuto l’illegittimità degli avvisi di accertamento, nei quali ci si riportava a verifiche nei confronti della nord Est Commerciale Srl, della ditta individuale F.b. Market e della ltaly Import Srl, neppure richiamati per relationem, ed a molteplici processi verbali di constatazione (PvC) effettuati dalla guardia di Finanza, neppure prodotti nel corso del presente giudizio, richiamando numerose fatture, mai portate a conoscenza del ricorrente. Il motivo è infondato, quanto alla doglianza relativa alla mancata allegazione di fatture che il ricorrente assume mai conosciute, né mai portate a sua a conoscenza, perché si tratta di questione irrilevante. È difatti utile rammentare che, in tema di accertamento, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, come disciplinato dall’art. 7 della L. n. 212 del 2000 e dall’art. 42 del d.P.R. n. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo 600 del 1973, notificati all’amministratore di fatto, è soddisfatto mediante rinvio per relationem al processo verbale di constatazione riguardante la maggiore materia imponibile della società, ancorché solo nei confronti di quest’ultima rilasciato, giacché egli, ingerendosi nel- l’amministrazione ed esercitando i poteri propri inerenti alla gestione societaria, pur in difetto di una formale investitura, ha l’obbligo, al pari dell’amministratore di diritto, di conoscere l’andamento dell’intera attività sociale; ed infatti, attesi gli incontestati poteri gestori di fatto del contribuente, si doveva ritenere che lo stesso fosse a conoscenza di ogni vicenda riguardante la società, ovvero che avesse comunque la possibilità di conoscerla (Cass., 6 marzo 2025, n. 5930). Il che a maggior ragione vale in un caso, come quello in esame, in cui si discute dell’ideatore di una frode commessa per mezzo di società schermo, a fronte, perdipiù, della statuizione contenuta in sentenza che i rilievi contenuti nei p.v.c. erano “comunque riportati negli avvisi” mediante rinvio per relationem (a pag. 8 del ricorso, d’altronde, il ricorrente riferisce che agli avvisi di accertamento impugnati era allegato il suddetto p.v.c. del 28 febbraio 2011). Con il quarto motivo si lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. Il giudice regionale avrebbe omesso la motivazione o avrebbe deciso con motivazione apparente, in ordine alle sue responsabilità e al suo coinvolgimento nelle violazioni contestate dall’Amministrazione finanziaria. Esso va parimenti rigettato. Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, non è viziata la decisione quando motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166). RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 nel caso di specie, per quanto già chiarito in occasione dell’esame dei primi due motivi, la sentenza risulta ampiamente esaustiva, emergendo con chiarezza la ricostruzione della vicenda all’esame del giudice d’appello e degli elementi, ritenuti significativi, al fine di identificare le responsabilità addebitate al A.A. ed in particolare del ruolo chiave ad esso riconosciuto nella condotta tradottasi nella realizzazione di una frode carosello, il congegno della quale prevede appunto che il fatturante è, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo, ma l’operazione si iscrive -per quanto riguarda quel trasferimento o per quanto riguarda i passaggi precedenti -in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l’avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’IvA da parte di un cedente (da ultimo, in termini, Cass. 20 agosto 2025, nn. 23622 e 23624). In particolare, risulta chiaramente esplicato il ruolo del ricorrente, il nominativo del quale, “come accertato” in esito alle indagini della guardia di finanza, “veniva rinvenuto... fra i nominativi degli operatori”, laddove in sentenza si legge che “il destinatario finale della merce Italy Import Srl poneva in essere un’attività del tutto antieconomica, in quanto versava corrispettivi di ammontare superiore rispetto a quelli che avrebbe potuto concordare, negoziando direttamente con l’operatore intracomunitario”. Emerge cioè con evidenza che la nord Est Commerciale, la quale “non ha mai versato l’Iva” e “non conseguiva margini di guadagno dalle operazioni di acquisto e successiva vendita di merce alla F.b. Market, la quale a sua volta cedeva la merce alla ltaly Import”, fosse per il giudice una società schermo, strumentale alle condotte della Italy Import e dunque, per entrambe, del A.A., effettivo dominus dei meccanismi frodatori messi in atto: si ricava difatti dalla sentenza, in definitiva, che nord Est Commerciale era società fittizia, mentre chi negoziava era Italy Import, “che aveva scambi sulla base dei legami e dell’attività svolta da A.A.”. Il A.A., dunque, quale ideatore e gestore della frode, che avveniva sulla base dei suoi legami e delle sue attività, risponde non già alla figura di -mero -gestore dell’ente, ma di dominus delle risorse di esso, utilizzate ai propri fini, secondo i principi dinanzi indicati. Il ricorso, in definitiva, va rigettato. Le spese seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di Euro 13.000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma l’11 marzo 2025. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo sull’assenza di termini di decadenza per l’amministrazione finanziaria rispetto a crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione Nota a Corte Di CassazioNe, sezioNe tributaria, seNteNza 19 setteMbre 2025 N. 25683 Francesca D’Ambrosio* Con la sentenza n. 25683/2025, la Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso proposto dall’Avvocatura generale dello Stato per conto dell’Agenzia delle Entrate, riepiloga i concetti in tema di presupposti delle istanze di rimborso e relativo regime processuale. La pronuncia conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla mancata consolidazione del diritto del contribuente in tema di eccedenze di imposta chieste a rimborso nella dichiarazione, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del potere di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria. La Corte di Cassazione, quindi, si pone nel solco esegetico tracciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 15 marzo 2016, affermando la portata generale del principio di diritto ivi espresso declinato nei seguenti termini: “in tema di rimborso d’imposte, l’amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio «quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum»”. tale principio risulta ribadito dalla successiva giurisprudenza di legittimità e precisato dalle sentenze delle Sezioni Unite nn. 21765 e 21766 del 29 luglio 2021, che estendono il principio anche all’IvA, nel senso della sua inapplicabilità ove il credito sia scaturito dalla sottostima dell’imposta dovuta che, in realtà, era maggiore: “l’eccedenza detraibile oggetto della pretesa di rimborso che va accertata nel termine di decadenza ivi stabilito è, quindi, quella che deriva dalla sottostima del debito, che deve essere oggetto di rettifica; diversamente, il credito che nasca dal coacervo delle poste detraibili che prevalgano sul debito, e che quindi eccedano l’imposta liquidata, esiste in quanto ne sussistano i fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione, né è necessario che sia accertato dall’amministrazione, non potendo l’inerzia equivalere al riconoscimento implicito del credito, per (*) Avvocato dello Stato. RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 l’assenza di fatti impeditivi o preclusivi del rimborso, in ragione di un obbligo dell’amministrazione di attivarsi, derivante anche dalla combinazione dei commi 2 e 5 dell’art. 6 dello statuto dei diritti del contribuente, avendo il legislatore, a contrario, preso in considerazione l’inerzia assegnando ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile ex art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 ”. La decisione in commento si apprezza anche per aver dichiarato infondati i dubbi di costituzionalità paventati dal contribuente facendo proprie le argomentazioni svolte nella memoria dall’Avvocatura dello Stato. nel respingere le censure di incostituzionalità, infatti, si precisa come non venga in questione un differente trattamento tra le operazioni a debito e quelle a credito, bensì l’applicazione delle medesime regole di giudizio a situazioni differenti per cui è inevitabile che la declinazione risulti modulata in senso divergente, laddove si intenda contestare la sussistenza del diritto al rimborso (i.e. di un credito nei confronti del Fisco). In base ai consolidati principi della giurisprudenza di legittimità richiamati nella pronuncia in commento, ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, incombe sul contribuente che agisca in giudizio per il riconoscimento del proprio credito d’imposta dimostrare, in qualità di attore in senso sostanziale, i fatti costitutivi della pretesa azionata. La dimostrazione dei fatti costitutivi del credito d’imposta non è affatto integrata da un mero richiamo alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui sarebbe sorto l’asserito credito o alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui il credito è stato domandato a rimborso, essendo necessario addurre gli elementi costitutivi del meccanismo fisiologico di applicazione del tributo. Può dunque ritenersi ormai acquisizione del diritto vivente l’assenza di un effetto accertativo del credito vantato conseguente all’omesso esercizio del potere di controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate, dal momento che l’incontrovertibilità del credito può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato, in conformità ai principi costituzionali che sono alla base del potere di accertamento o verifica di cui agli articoli 23, 53 e 97 della Costituzione. D’altro canto, il mero decorso del termine decadenziale previsto per l’esercizio dell’azione accertatrice non muta la natura meramente dichiarativa e non costitutiva della dichiarazione, la quale non ha capacità di divenire definitiva, per quanto non rettificata dall’Ufficio, così impedendo la cristallizzazione del credito di imposta ivi indicato: l’unica fonte del rapporto tributario è la legge mentre la dichiarazione ha “solo” rilevanza procedurale. ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo cassazione civile, sezione Quinta, sentenza 19 settembre 2025 n. 25683 -Pres. L. napolitano, rel. R. Crucitti -Agenzia delle Entrate (avv. gen. Stato) c. banca Ifis Spa (avv.ti M. baldassini e g. Caliceti). FAttI DI CAUSA 1. banca IFIS Spa notificò alla Direzione regionale Lombardia dell’Agenzia delle entrate la scrittura privata del 9 gennaio 2015 con la quale aveva acquistato da FbM Hudson Italiana Spa, in amministrazione controllata, crediti fiscali IRPEg per i periodi di imposta 1994 e 1995 chiesti a rimborso dalla cedente con modelli 760. A seguito di istanza di sollecito da parte della banca, l’Amministrazione finanziaria, con nota del 18 luglio 2016, richiese la documentazione relativa al rimborso. La richiesta rimase inevasa. A fronte della mancata erogazione del rimborso la banca propose ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano avverso il silenzio rifiuto serbato dall’Amministrazione finanziaria. La C.t.P. accolse il ricorso condannando l’Amministrazione finanziaria al pagamento del- l’intera somma chiesta a rimborso. La decisione, appellata dall’Agenzia delle entrate, venne integralmente confermata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe. In particolare e in estrema sintesi, il giudice di appello riteneva che il credito di imposta, esposto in dichiarazione, imponesse all’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, di eseguire il rimborso entro l’anno solare successivo alla data di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione dei redditi, con la conseguenza che, nel caso in esame, il rimborso era dovuto, avendo l’Ufficio avanzato richiesta di documentazione solamente in data 18 luglio 2016. Avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, articolato su unico motivo. banca IFIS Spa ha resistito con controricorso. In prossimità della pubblica udienza il P.M., nella persona del sostituto procuratore generale Alessandro Pepe, ha depositato memoria concludendo per l’accoglimento del ricorso. Ha depositato memoria pure l’Agenzia delle entrate. RAgIonI DELLA DECISIonE 1. Con l’unico motivo di ricorso -rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 36bis d.P.r. n. 600 del 1973, dell’art. 42 bis d.P.r. n. 602/1973 nonché dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. -l’Agenzia delle entrate censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che gravasse sull’Ufficio l’obbligo di istruire a tempo debito, i rimborsi richiesti nelle dichiarazioni presentate nel 1995 e nel 1996, laddove, per converso, la richiesta della documentazione all’appellata è avvenuta solamente il 18 luglio 2016. tale argomentazione, secondo la prospettazione difensiva, si poneva in aperto contrasto con i principi di diritto sanciti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 5069/2016 confermata da decisioni successive. In particolare, l’assunto della C.t.R. -secondo cui era dovuto il rimborso del credito IRPEg richiesto dalla Società, sulla mancata contestazione dello stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria nel termine fissato dall’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 per la liquidazione della dichiarazione -si poneva in diritto contrasto con la corretta interpretazione, anche alla luce del diritto vivente consolidatosi sul punto, delle norme indicate in rubrica. Secondo la RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 ricorrente la sentenza impugnata risultava, inoltre, erronea anche in relazione al riparto del- l’onere della prova atteso che non considerava che il contribuente che si attiva per ottenere il riconoscimento del credito riveste il ruolo di attore sia in senso formale che sostanziale. nel caso di specie, infatti, la cessionaria non aveva prodotto, né all’Amministrazione né in giudizio la certificazione delle ritenute d’acconto esposte nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni 1994 e 1995 comprovanti l’asserito credito. 1.1. In controricorso la banca, nel ribadire la correttezza della sentenza impugnata in quanto fondata su un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme di sistema, ha sollevato questione di legittimità della soluzione accolta dalla sentenza n. 5069/2016 delle Sezioni Unite per violazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione. 1.2. Il ricorso è fondato non potendosi condividere gli assunti sui quali la C.t.R. ha fondato il suo convincimento. La decisione si pone, infatti, in aperto contrasto con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui “In tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” (Cass., Sez. U., 15 marzo 2016 n. 5069). La C.t.R. non si allinea a tale soluzione puntando sul fatto che, nel caso deciso dalle Sezioni Unite, si trattava di esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazione azionarie, per cui occorreva “presidiare l’osservanza del divieto di aiuti di Stato” e, inoltre, si discuteva di un rimborso “disomogeneo”, riguardante “un’esenzione fiscale” e non “un credito portato in una dichiarazione fiscale periodico” (così la CtR). 1.3 tali argomentazioni non colgono nel segno. L’enunciazione delle Sezioni Unite è, infatti, di carattere generale: “l’Amministrazione finanziaria non è soggetta a termini di decadenza nel decidere le domande di rimborso, atteso che i “termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum”. La successiva giurisprudenza di legittimità si è conformata a tale principio (v., tra le altre, Cass. 17 giugno 2016, n. 12557; Cass. 31 gennaio 2018, n. 2392; Cass. 6 febbraio 2019, n. 3404; Cass. 13 marzo 2019, n. 7132; Cass. 30 ottobre 2019, n. 27841) ribadito anche da Cass., Sez. U., 29 luglio 2021, n. 21766, con la precisazione che ciò non vale ove il credito sia scaturito dalla sottostima dell’imposta dovuta che, in realtà, era maggiore e che è stata evasa (fattispecie estranea al caso in esame). Per tale ultima decisione, che ha peraltro esteso il principio anche all’IvA, non è sufficiente ai fini del rimborso del credito che esso sia esposto in dichiarazione; nè l’inerzia può equivalere al riconoscimento implicito del credito, per l’assenza di fatti impeditivi o preclusivi del rimborso, in ragione di un obbligo dell’amministrazione di attivarsi, derivante anche dalla combinazione dei commi 2 e 5 dell’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente. Al contrario, il legislatore prende sì in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile: l’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546 ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso; e il silenzio rifiuto funge da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale. L’omesso esercizio del potere di controllo non determina, quindi, alcun effetto accertativo ContEnzIoSo tRIbUtARIo -oSSERvAtoRIo del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato, evidenziando, altresì le Sezioni Unite che il credito di cui si discute, anche non dovuto, divenga incontrovertibile soltanto perché è indicato in una dichiarazione non più assoggettabile al potere di accertamento o verifica, striderebbe con la matrice costituzionale dell’azione impositiva, presidiata dai precetti della riserva di legge (art. 23 Cost.), del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), e anche dell’imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost). Successivi plurimi interventi hanno, poi, ulteriormente precisato che lo svolgimento senza rilievi del controllo automatizzato ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (del resto, finalizzato esclusivamente a ridurre i crediti di imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione) non equivale a riconoscimento implicito del credito esposto in dichiarazione, potendo questo essere contestato anche dopo la scadenza dei termini per l’accertamento (Cass. 13 marzo 2019, n. 7132; Cass. 18 febbraio 2022, n. 5446; Cass. 19 ottobre 2022, n. 30804). Peraltro, va pure ricordato, come evidenziato dal P.g., che l’altra norma richiamata dalla C.t.R. a sostegno della tesi della decadenza, ossia l’art. 36 bis, comma 1, del d.P.R. n. 602/73 (secondo cui: “Avvalendosi di procedure automatizzate, l’amministrazione finanziaria procede, entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo, alla liquidazione delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti, nonchè dei rimborsi spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti”), è stata oggetto di un esplicito intervento legislativo ad opera dell’art. 28 della legge n. 449/97, esplicitamente definito come “norma interpretativa” che ha chiarito che “Il primo comma dell’articolo 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare sino alla data stabilita nell’articolo 16 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non è stabilito a pena di decadenza”. ne consegue l’inesistenza della decadenza predicata dalla C.t.R. 1.4 non risultano, poi, fondati i dubbi di costituzionalità paventati dalla controricorrente dal momento che le ragioni a fondamento dell’orientamento delle Sezioni Unite di codesta Corte n. 5069/16 cit., ai cui principi hanno sostanzialmente dato continuità Cass. S.U. nn. 21765/21 e 21766/21 cit., si innestano sull’applicazione di criteri generali disciplinanti la materia tributaria, primo tra tutti quello dell’onere della prova. non si tratta, dunque, di trattare diversamente le operazioni a debito e quelle a credito, bensì di applicare le medesime regole di giudizio a situazioni differenti per cui è inevitabile che la declinazione risulti modulata in senso divergente, laddove si intenda contestare la sussistenza del diritto al rimborso. Ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, infatti, incombe sul contribuente che agisca in giudizio per il riconoscimento del proprio credito d’imposta dimostrare, in qualità di attore in senso sostanziale, i fatti costitutivi del diritto di credito. Così, di recente, Cass. n. 8651/2022 secondo cui “in tema di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, quest’ultimo riveste la qualità di attore in senso non solo formale -come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo -ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, RASSEgnA AvvoCAtURA DELLo StAto -n. 3-4/2024 costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o -dove in concreto ne ricorrono i presupposti l’applicazione del principio di non contestazione”. Sennonché, la dimostrazione dei fatti costitutivi del credito d’imposta non è affatto integrata da un mero richiamo alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui sarebbe sorto l’asserito credito o alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui il credito è stato domandato a rimborso, essendo necessario addurre gli elementi costituitivi del meccanismo fisiologico di applicazione del tributo. giova sul punto richiamare i principi di cui a Cass. n. 13906/2022, secondo cui “incombe sul contribuente, il quale invochi il riconoscimento di un credito d’imposta, l’onere di provare i fatti costitutivi dell’esistenza del credito e, a tal fine, non è sufficiente l’esposizione della pretesa nella dichiarazione, poiché il credito fiscale non nasce da questa, ma dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo (Cass. n. 27580 del 2018; Cass. n. 18427 del 2012; Cass. 18427 del 2012)”. D’altro canto, il consolidamento di un credito IRPEg inesistente indicato in dichiarazione per il mero decorso del termine decadenziale previsto per l’esercizio dell’azione accertatrice si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali dell’azione impositiva (artt. 23 e 53 Cost.), attesa la natura meramente dichiarativa e non costitutiva della dichiarazione la quale non ha capacità di divenire definitiva, per quanto non rettificata dall’Ufficio, poiché unica fonte del rapporto tributario è la legge mentre la dichiarazione ha “solo” rilevanza procedurale. 2. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso va, quindi, accolto, con cassazione della sentenza impugnata, che si è discostata da tutti i principi sopra esposti, e rinvio al giudice del merito il quale provvederà al riesame, adeguandosi, e al regolamento delle spese di questo giudizio. La Corte P.Q.M. in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione tributaria, il 10 settembre 2025. PareridelComitatoCoNsultivo Notificazione degli atti di attuazione dei sequestri conservativi. Quesito sulla attuale operatività del criterio di competenza territoriale secondo il disposto letterale dell’art. 678 c.p.c. Parere del 21/07/2025-498782, al 42825/2024, Sez. a.G., avv. Gianna Maria de Socio, Proc. cecilia de nicola Con la nota indicata a margine codesta Avvocatura Distrettuale ha messo in luce alcune criticità emerse nel corso dell’esecuzione, su incarico dell’Agenzia delle Entrate, delle ordinanze di sequestri conservativi di crediti emesse dal Giudice tributario, criticità tali da indurre a riflettere sulla attuale operatività del criterio di competenza territoriale dettato dall’art. 678 c.p.c. (esecuzione del sequestro conservativo sui mobili). Tanto premesso, considerata la primaria rilevanza operativa della questione, codesta Avvocatura ha chiesto alla Scrivente di fornire i necessari chiarimenti ed utili direttive a riguardo. *** Al fine di meglio inquadrare la tematica in rilievo pare opportuno, preliminarmente, riportare il contenuto della disposizione in esame. L’art. 678 c.p.c. (esecuzione del sequestro conservativo sui mobili), sancisce al primo comma, per quanto di interesse, che “il sequestro conservativo sui mobili e sui crediti si esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi. in quest’ultimo caso il sequestrante deve, con l’atto di sequestro, citare il terzo a comparire davanti al tribunale del luogo di residenza del terzo stesso per rendere la dichiarazione di cui all’articolo 547. il giudizio sulle controversie relative all’accertamento dell’obbligo del terzo è sospeso fino all’esito di quello sul merito, a meno che il terzo non chieda l’immediato accertamento dei propri obblighi”. Orbene l’Avvocatura Distrettuale di Milano ha riscontrato un difetto di rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 coordinamento della predetta disposizione rispetto al criterio di competenza territoriale previsto in via generale dall’art. 26-bis comma 2 c.p.c. (Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti), secondo cui, al di fuori dei casi in cui si applica il foro erariale, “per l’espropriazione forzata di crediti è competente il giudice del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”. Sul piano pratico il suddetto quadro normativo comporta che in presenza di più terzi a fronte di un credito vantato nei confronti di un unico debitore, ogni terzo deve essere citato dinanzi al tribunale del luogo di propria residenza (con conseguente coinvolgimento delle diverse Avvocature Distrettuali di volta in volta competenti), salvo poi ripristinare, a seguito delle formalità susseguenti alla conversione del pignoramento, il criterio del luogo del debitore esecutando. Ciò alimenta il rischio -osserva codesta Avvocatura Distrettuale -che vengano sollevate eccezioni di incompetenza strumentali nel corso della predetta conversione del sequestro in pignoramento. Si evidenziano inoltre problematiche pratiche connesse ai sequestri autorizzati dal giudice tributario ai sensi dell’art. 22 D.lgs. 472/1997. In tale quadro codesta Avvocatura ha manifestato perplessità in ordine alla perdurante operatività, per il sequestro conservativo presso terzi, del criterio territoriale espressamente menzionato dall’art. 678 c.p.c., evidenziando che sarebbe “maggiormente coerente e funzionale” ipotizzare una lettura “recessiva” del criterio di competenza territoriale del luogo di residenza del terzo debitore contenuto nell’art. 678 c.p.c., lettura di fatto avallata da parte della giurisprudenza di merito (al qual fine si cita Trib. Napoli rg. 11450/2019), a vantaggio dell’applicazione, anche per i sequestri conservativi, del criterio del foro del debitore sancito in via generale dall’art. 26-bis c.p.c. *** Il quesito presenta profili ermeneutici e pratici che devono essere attentamente considerati al fine di rendere il richiesto parere. La ricostruzione ermeneutica suggerita da codesta Avvocatura muove dalla considerazione secondo cui la regola contenuta nell’art. 678 c.p.c. risultava “calibrata, ponderata ed allineata” con la previgente disciplina normativa in materia di esecuzioni dei crediti, incentrata sul ruolo immediatamente attivo e processualmente rilevante del debitor debitoris. In effetti il previgente art. 543 c.p.c., nel prescrivere il contenuto dell’atto di pignoramento di crediti del debitore verso terzi o di cose del debitore che sono in possesso di terzi, includeva “4) la citazione del terzo e del debitore a comparire davanti al giudice dell’esecuzione del luogo di residenza del terzo, affinché questi faccia la dichiarazione di cui all’articolo 547 e il debitore sia presente alla dichiarazione e agli atti ulteriori” e l’art. 547 c.p.c. disponeva: “con dichiarazione all’udienza il terzo, personalmente o a mezzo di manda PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO tario speciale, deve specificare di quali cose o di quali somme è debitore o si trova in possesso, e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna”. Il criterio territoriale di competenza per l’espropriazione forzata di crediti -fissato dal vecchio art. 26 bis c.p.c. nel “luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede” -era giustificato dall’esigenza di salvaguardare le ragioni del terzo, il quale doveva attivamente partecipare al giudizio esecutivo pur non essendo parte dell’espropriazione. Senonché l’originaria esigenza di protezione del terzo è venuta assottigliandosi nel quadro normativo attuale delle espropriazioni presso terzi (essendo oggi possibile l’invio della dichiarazione ex art. 547 c.p.c. a mezzo raccomandata o a mezzo di posta elettronica certificata al creditore procedente), al punto che nelle espropriazioni presso terzi la competenza territoriale è ora fissata nel luogo di residenza del debitore (art. 26-bis c.p.c. davanti al quale va eseguita la citazione in base al vigente art. 543 c.p.c.). Ciò secondo codesta Avvocatura Distrettuale potrebbe consentire una rilettura dell’art. 678 c.p.c. alla luce del mutato quadro normativo complessivo, in considerazione del quale il criterio di competenza territoriale dei sequestri, rimasto ancorato al luogo di residenza del terzo, si dovrebbe poter ritenere ormai obsoleto. Non vi è dubbio che l’interpretazione prospettata risponderebbe all’esigenza di deflazionare il contenzioso giudiziario, in ottica di assicurare la ragionevole durata dei processi ex art. 111 Cost. Occorre tuttavia valutare la tenuta degli argomenti a sostegno della tesi prospettata, che in buona sostanza postula una interpretazione latamente abrogativa della disposizione contenuta nell’art. 678 c.p.c. Partendo dall’argomento di carattere testuale, codesta Avvocatura Distrettuale propone di valorizzare in via interpretativa la prima parte dell’art. 678 c.p.c. (secondo cui “il sequestro conservativo sui mobili e sui crediti si esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi”), attribuendo a detto richiamo la capacità di creare un rinvio “aperto e dinamico” alle norme sull’esecuzione, ivi compresa quella sul foro generale delle esecuzioni presso terzi posta dall’art. 26 bis c.p.c., rinvio in forza del quale risulterebbe fortemente ridimensionata la valenza della seconda parte dell’art. 678 (secondo cui “il sequestrante deve, con l’atto di sequestro, citare il terzo a comparire davanti al tribunale del luogo di residenza del terzo stesso per rendere la dichiarazione di cui all’articolo 547”). Tale soluzione ermeneutica non appare pienamente in linea con il quadro normativo. La piana lettura dell’art. 678 c.p.c. evidenzia una disposizione a struttura bipartita che vede l’enunciazione di una regola di carattere generale presente nella prima parte della disposizione stessa (consistente nel rinvio alle “norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi”), alla quale fa seguito una disposizione di carattere speciale (contenuta nella seconda parte dell’art. 678, che identifica il foro di competenza nel “luogo di residenza rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 del terzo”), sicché il richiamo alle norme generali sul pignoramento vale, a ben vedere, quale mera disposizione di chiusura operante in assenza di disposizioni specifiche (tale è il foro del terzo) dettate dal legislatore in riferimento al sequestro. In tale contesto si ravvisa il forte rischio che una operazione ermeneutica come quella prospettata possa essere considerata violativa del principio secondo cui la disposizione speciale prevale su quella generale. In senso contrario neppure potrebbe militare la rilevata anteriorità dell’art. 678 c.p.c. rispetto alla vigente disposizione contenuta nell’art. 26 bis c.p.c. (introdotta dall’art. 1, comma 29, L. 26 novembre 2021, n. 206, a decorrere dal 24 dicembre 2021), dal momento che il criterio cronologico in base al quale lex posterior derogat priori non opera nel caso in cui la disposizione anteriore abbia -come indubbiamente è nel caso in esame -la valenza di norma speciale (“lex posterior generalis non derogat priori speciali”, sul punto cfr. Corte cost. 30 giugno 2022, n. 163 in cui si trova affermato il principio secondo cui “Qualora manchino elementi indicativi di una contraria volontà del legislatore deve ritenersi operante il criterio lex generalis posterior non derogat priori speciali”). D’altra parte, neppure sembra che l’art. 678 c.p.c. possa essere ritenuto inciso da una abrogazione tacita o implicita (a ciò sembrando alludere la prospettata “operatività recessiva” della norma in esame), attesa la difficoltà di configurare nel caso in esame un “conflitto” in senso tecnico, ossia la coesistenza di norme che disciplinano la stessa fattispecie in modi diversi. Com’è noto, l’art. 15 delle preleggi identifica due forme di abrogazione non espressa, vale a dire l’abrogazione implicita per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti e l’abrogazione tacita, per nuova integrale disciplina della materia, che si verifica anche in assenza di una puntuale incompatibilità fra norme. Diversamente dall’abrogazione espressa, le abrogazioni non espresse riconosciute con estrema prudenza dalla giurisprudenza e dalla stessa dottrina -richiedono una duplice operazione ermeneutica, che si deve effettuare sia sulla disposizione abrogatrice e sia sulla disposizione da abrogare, postulando un confronto fra le norme (o i principi) che esse contengono, tale da tradursi in un rapporto di inconciliabilità tra le stesse. Orbene, nel caso in esame appare difficile ravvisare una chiara incompatibilità di tipo antinomico tra l’art. 678 c.p.c. e altre disposizioni normative previgenti o sopravvenute. Al proposito, si ricorda che la Corte di nomofilachia ritiene indispensabile, per riconoscere i presupposti dell’abrogazione implicita, “Una contraddizione di tal grado da rendere impossibile l’applicazione contemporanea delle due leggi ” (cfr. Cass. civ., 12 novembre 1973, n. 2979, Cass. civ. n. 234/1979, Cass. civ. n. 1760/1995 ex multis), sicché la stessa formula utilizzata PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO dalla Suprema Corte sembra postulare l’esistenza -a contrario -di contraddizioni di grado inferiore che rendono non impossibile la contemporanea applicazione delle due norme, escludendo in tali casi la possibilità di configurare una abrogazione implicita nel senso sopra delineato. A questo riguardo, è il caso di osservare che il foro del debitore posto dall’art. 26 bis c.p.c. costituisce una regola non immune da deroghe (una delle quali opera, ad esempio, laddove deve prevalere il foro erariale qualora il debitore esecutato sia una pubblica amministrazione), deroghe che indeboliscono il fondamento stesso sotteso alla auspicata “lettura recessiva”, avallando una ricostruzione del quadro ordinamentale in termini articolati e non monolitici, come tale compatibile con una scelta normativa che, accanto ad una previsione di carattere generale (quale quella espressa dal criterio del foro del debitore previsto dall’art. 26 bis c.p.c.), pone altre previsioni normative di segno diverso (quali quelle espresse dal criterio del foro erariale ovvero dal criterio del foro del terzo di cui all’art. 678 c.p.c.) che si pongono in consentita deroga alla regola di carattere generale. Nel delineato contesto difficilmente potrebbe dunque arrivarsi ad affermare che la disposizione contenuta nell’art. 678 c.p.c. si trovi in rapporto di “incompatibilità”, intesa in senso tecnico, con il quadro normativo complessivo. D’altra parte, neppure si ravvisano elementi sufficienti per riscontrare una abrogazione tacita. Nel richiamare le criticità del menzionato istituto dell’abrogazione tacita (segnalata dalla dottrina più attenta) connesse sia alla difficoltà di definire i confini della “nuova disciplina integrale della materia” (nel senso inteso dal- l’art. 15 prel.), sia alla connessa difficoltà di stabilire in presenza di quali presupposti si possa dire che la nuova legge abbia regolato la stessa materia e che l’abbia regolata integralmente o, invece, solo parzialmente, si osserva che la Cassazione è solita prediligere una connotazione alquanto restrittiva del concetto di “identità della materia” (al proposito giova ricordare che, segnatamente in materia penale, la Cassazione individua l’identità di materia nel fatto che le due norme, abrogante e abrogata, siano connotate dalla stessa oggettività giuridica e dalla stessa ratio). Ebbene, le sopra richiamate difficoltà ermeneutiche che caratterizzano in via generale l’istituto dell’abrogazione tacita puntualmente si riscontrerebbero anche con riferimento alla fattispecie in esame laddove si cerchi di rinvenire le basi normative per sostenere un simile tipo di abrogazione in riferimento all’art. 678 c.p.c. In primo luogo, va evidenziata la difficoltà di reperire, nel settore in esame, una “nuova integrale disciplina della materia” (la sola idonea a condurre alla abrogazione tacita della disposizione in esame), tale non potendo considerarsi la stessa riforma Cartabia la quale, mentre è intervenuta in modo rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 sostanziale sul processo esecutivo, non ha stravolto i connotati strutturali del procedimento cautelare, limitandosi a correggere alcuni profili applicativi che avevano generato problemi applicativi nella prassi, inserendo solo talune novità tese a rendere più funzionali determinati settori, con ciò confermandosi l’impossibilità di configurare una materia che sia stata oggetto di una nuova disciplina integrale. Anche gli artt. 543 e 547 c.p.c., che entrano nella disciplina del sequestro conservativo per effetto del richiamo contenuto nell’art. 678 c.p.c., sono -a ben vedere -del tutto neutrali rispetto alla tematica della competenza territoriale, sicché dette disposizioni non sono di per sé idonee a costituire un elemento seriamente ostativo alla operatività dell’art. 678 c.p.c. fino al punto da renderne impossibile l’applicazione. D’altra parte, neppure sembra possibile coltivare utilmente il tentativo di attrarre il sequestro -in quanto “pignoramento anticipato” -nell’ambito della disciplina delle esecuzioni al fine di poter dipoi affermare che, in conseguenza di tale “attrazione”, si configurerebbe un conflitto tra la disposizione prevista dall’art. 678 c.p.c. e la norma che disciplina il foro generale del debitore ai sensi dell’art. 26 bis alla quale il sequestro -inteso appunto come “pignoramento anticipato” - dovrebbe ritenersi assoggettato. Al proposito, giova ricordare che, al di là di ogni altra considerazione, la giurisprudenza ha più volte ribadito che “l’attuazione di tali misure cautelari, pur avvenendo nelle forme previste per il pignoramento (sequestro conservativo), non trasforma i provvedimenti stessi in atti di esecuzione forzata né li assoggetta alla specifica competenza del giudice dell’esecuzione, trattandosi di mero richiamo della legge alle operazioni esecutive e non all’intero sistema di tutela giurisdizionale stabilito in materia” (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2003, n. 19101). La pronuncia appena citata statuisce inoltre che “anche nel nuovo ordinamento non c’è ragione di discostarsi dal precedente indirizzo giurisprudenziale, circa il limitato senso del richiamo al processo esecutivo, poiché il nuovo art. 669 “duodecies” fa salve le norme sui sequestri e rimanda a quelle sul pignoramento solo per i provvedimenti anticipatori aventi ad oggetto somme di denaro e non anche per il sequestro conservativo”. Anche per tali ragioni, dunque, non appare possibile configurare i presupposti per una interpretazione abrogativa della disposizione in esame. In conclusione, si deve rilevare che la “lettura recessiva” dell’art. 678 c.p.c. andrebbe incontro, vista la difficoltà di giustificarla sulla base di una ricostruzione giuridica sufficientemente rigorosa, a un elevato rischio di smentita in sede giurisdizionale, con notevoli pregiudizi che potrebbero derivare dalla possibile invalidazione della successiva espropriazione forzata in conseguenza della attuazione del sequestro conservativo in forme non coerenti con la lettera della legge. In tale ottica, le esigenze di certezza del diritto e di effettività della tutela PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO degli interessi erariali (da ritenere prevalenti rispetto al pur condivisibile fine di garantire un’uniformità formale della procedura cautelare rispetto a quella esecutiva e alla pur rilevante esigenza di deflazionare il contenzioso) fanno propendere senz’altro per la scelta di mantenere l’interpretazione letterale dell’art. 678 c.p.c., che comunque trova avallo nella giurisprudenza della Corte di legittimità, la quale si esprime nel senso che “il sequestro conservativo sui crediti si esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento presso terzi ed il sequestrante deve, con l’atto di sequestro, citare il terzo a comparire davanti al pretore del luogo di residenza del terzo per rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. (art. 678 c.p.c., comma 1, prima parte)” (Cass. SS.uu. n. 8979/1990). Le suddette conclusioni sembrano tanto più rilevanti quando si consideri che -pure ammesso che si potesse pervenire alla auspicata rimodulazione per via interpretativa del criterio di competenza territoriale per i sequestri in termini coerenti con quanto previsto dall’art. 26 bis c.p.c. -ciò non consentirebbe di risolvere in radice una delle principali criticità rilevate da codesta Avvocatura Distrettuale, ossia quella connessa al mancato allineamento del processo cautelare al processo esecutivo. *** In conclusione, pur evidenziando che i risvolti inerenti alla questione in esame appaiono indubbiamente delicati, alla luce dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale si ritiene preferibile seguitare la prassi in uso di notificare gli atti di attuazione dei sequestri conservativi presso il luogo di residenza del terzo debitore, secondo il disposto letterale dell’art. 678 c.p.c. Si resta a disposizione per ogni ulteriore chiarimento in merito. Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 17 luglio 2025. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 rimborso spese patrocinio legale ai sensi dell’art. 18 d.l. n. 67/1997, conv. in l. 135/1997. Quesito in ordine alla applicabilità della disposizione Parere reSo in via ordinaria del 05/07/2024-441689, al 37167/2023, Sez. v, avv. enrico de Giovanni, Proc. eMiliana cicatelli A riscontro della nota in epigrafe indicata, con la quale codesta Amministrazione ha chiesto alla Scrivente di esprimere il proprio avviso in ordine alla applicabilità dell’art. 18 d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, alla “richiesta di rimborso formulata dall’..., on.le...” in qualità di indagato “per fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e per i quali il procedimento penale è stato definito con un provvedimento di esclusione di responsabilità” si rappresenta quanto segue. Coessenziale rispetto alla soluzione del quesito è la necessità di verificare se la posizione dell’odierno istante, con riferimento al suo ruolo di Ministro sia assimilabile o meno a quella di “dipendente di amministrazione statale”, onde vagliare se la corrispondente pretesa possa essere ricondotta nell’alveo dell’art. 18 d.l. n. 67/1997. Appare utile premettere che, in linea con quanto emerge dai lavori preparatori del citato d.l. e secondo un consolidato indirizzo interpretativo, il rimborso delle spese legali risponde all’esigenza di sollevare i dipendenti di amministrazioni statali dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio e di tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, e, quindi, nell’interesse, dell’Amministrazione, dalle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali; con la conseguenza che il diritto al rimborso può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cons. Stato, sez. Iv, 10 gennaio 2020, n. 239; Id., sez. Iv, 28 novembre 2019, n. 8137; Id., sez. Iv, 7 marzo 2005, n. 913; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. vI, 6 aprile 2023, n. 2146; Id., 30 marzo 2018, n. 2055; T.a.r. Lazio, roma, sez. II, 17 ottobre 2019, n. 11962). L’art. 18 d.l. n. 67/1997, rubricato “rimborso delle spese di patrocinio legale” statuisce: “1. le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle ammininistrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’avvocalura dello Stato. le amministrazioni interessate, sentita l’avvocatura dello PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità. [...]” (sottolineatura aggiunta). Per costante indirizzo della giurisprudenza, cui si è ripetutamente allineato anche il Comitato consultivo di questa Avvocatura -e al netto di isolati precedenti (T.a.r. Sicilia, Palermo, sez. I, 10 dicembre 2007, n. 3348; T.a.r. Basilicata, Potenza, sez. I, 1 luglio 2019, n. 558) -la previsione di cui al citato art. 18 è norma di stretta interpretazione, insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica e, in quanto tale, deve ritenersi applicabile ai soli casi espressamente disciplinati dalla legge (cfr. amplius, Cons. Stato, sez. Iv, 13 gennaio 2020, n. 280: “la necessità che la disposizione sia oggetto di stretta interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali [...] nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’ (cfr. cons. Stato, Sez. iv, 28 novembre 2019, n. 8137)”. Di “univoca giurisprudenza” discorre C. cost., 9 dicembre 2020, n. 267, richiamando Cons. Stato, sez. Iv, 13 gennaio 2020, n. 281 nonché Cass. civ., sez. I, 10 dicembre 2004, n. 23138). Per quanto qui rileva, la natura eccezionale della norma, discendente dalla indiscutibile qualificazione della stessa in termini di norma di spesa (1), si proietta sul profilo soggettivo della disposizione che ricomprende, in via esclusiva, i “dipendenti di amministrazioni statali”, come confermato ora dalla interpretazione cui è di recente pervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 267 del 2020). Con riferimento alla titolarità del diritto al rimborso riconosciuto per le spese legali sostenute nei giudizi di responsabilità promossi per fatti inerenti alla funzione, quando questi si siano conclusi con accertamento negativo della responsabilità, la sentenza appena menzionata ha chiarito che l’art. 18 d.l. n. 67/1997 “testualmente individua i beneficiari del rimborso nei «dipendenti di amministrazioni statali» e le «amministrazioni di appartenenza» quali obbligate” e ha riconosciuto la correttezza della premessa interpretativa dalla quale è scaturito il sollevato dubbio di costituzionalità “vale a dire l’impossibilità di estendere per via interpretativa il diritto al rimborso a soggetti che operano nell’interesse dell’amministrazione al di fuori da un rapporto di impiego”, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, cit., in rifermento all’art. 3 Cost. (2) nella parte in cui non prevede (1) Cons. Stato, sez. I, Adunanza di Sezione del 4 novembre 2009, parere n. 667/2010: “[...] trattandosi di norma di spesa, è di stretta interpretazione, sicché un’estensione della fattispecie domanda un intervento espresso del legislatore e non può essere affidata alla mutevole opinione dell’interprete”. (2) Per completezza, si osserva che la declaratoria di incostituzionalità ha investito l’art. 18, comma 1, d.l. n. 67/1997, “nella parte in cui non prevede che il Ministero della giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al giudice di pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa”. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 la rimborsabilità delle spese di patrocinio legale in favore dei giudici di pace. Se ne inferisce che la attuale formulazione dell’art. 18, comma 1, cit., impedisce di estendere il beneficio del rimborso delle spese di patrocinio a fattispecie nelle quali non sia ravvisabile il rapporto di dipendenza intorno al quale la norma gravita. Questa opzione interpretativa, d’altronde, si rivela coerente con l’impostazione che ricostruisce il rimborso delle spese legali come un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto; ne deriva che un siffatto criterio di imputazione può operare solo in quanto siano ravvisabili un rapporto di stretta dipendenza nonché un nesso di strumentalità tra l’adempimento dei doveri istituzionali e il compimento dell’atto. Che il rapporto di dipendenza costituisca, a legislazione vigente, elemento indefettibile affinché la previsione del rimborso delle spese legali possa trovare applicazione è confermato anche da una decisione del giudice delle leggi (sentenza n. 189/2020) in cui oggetto del sindacato di costituzionalità era una previsione della legge della Provincia Autonoma di Trento (art. 92 della legge prov. Trento n. 12 del 1983 e dell’art. 18 della legge prov. Trento n. 3 del 1999), di contenuto in massima parte sovrapponibile alla normativa che qui viene in rilievo. È stato infatti osservato che tale disposizione, insieme all’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, e all’art. 31, comma 2, cod. giust. contabile, «si inserisce nel quadro di un complessivo apparato normativo volto a evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, anche laddove esso si concluda senza l’accertamento di responsabilità» (C. cost., sentenza n. 189 del 2020). Le accennate coordinate ermeneutiche contribuiscono a validare l’idea che la condotta del dipendente, consistente in atti o in comportamenti, debba essere espressione della volontà dell’Amministrazione di appartenenza e a questa riferibile, in quanto finalizzata al perseguimento dei suoi fini istituzionali (cfr. Cons. Stato, Sez. Iv, 28 novembre 2019, n. 8137). Ove tali condizioni ricorrano, il principio di immedesimazione organica consente l’imputazione in capo all’Amministrazione dell’intera attività, quindi anche degli effetti, scaturenti dai comportamenti posti in essere dal titolare dell’organo. Nella fattispecie ora all’esame, benché sussista il presupposto oggettivo del provvedimento di esclusione di responsabilità dell’indagato (...), la lettera della norma sembra ostare ad una equiparazione della posizione dell’istante a quella di un dipendente dell’Amministrazione. E tanto, in lineare applicazione del principio ermeneutico enucleato dall’art. 12 Preleggi (3). (3) Sul punto, si rimanda ai puntuali rilievi in ordine alla centralità del dato letterale nell’ambito dell’attività interpretativa svolti da Cass., 31 ottobre 2018, n. 27755 e Cass. 28 gennaio 2021, n. 2061. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO Il Ministro, per quanto qui interessa, si configura come il naturale organo di congiunzione tra politica ed amministrazione, sebbene questo ruolo non appaia univoco, ma assuma connotazioni diverse nei distinti settori dell’azione amministrativa. Nondimeno, sembra che il ruolo di Ministro non implichi l’inserimento strutturale nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, nonostante lo svolgimento di funzioni pubbliche, né tantomeno soggiace allo statuto tipico del pubblico impiego. Dunque non sembra che, nella fattispecie, il Ministro possa essere considerato dipendente dell’Amministrazione con la conseguenza che, allo stato, non può beneficiare del richiesto rimborso poiché non sembra possibile accedere ad una logica di estensione in via interpretativa del principio enucleato nell’art. 18 d.l. n. 67/1997 anche a soggetti rispetto ai quali non sia integrato il predetto rapporto di dipendenza; si consideri, poi, che il legislatore ha talora già operato una graduale estensione ritagliata su specifiche categorie di funzionari onorari (come nel caso degli amministratori degli enti locali, di cui alla summenzionata sentenza n. 189/2020), circostanza che sembra confermare l’inesistenza, a legislazione vigente, di un principio generale di rimborsabilità delle spese legali in favore dei funzionari onorari. L’art. 18, comma 1, d.l. n. 67/1997, per come ricostruito nella sua portata precettiva e per come interpretato dalla giurisprudenza, induce pertanto a ritenere che, nella fattispecie, non sussistano, allo stato e de jure condito, le condizioni previste dalla legge per addebitare allo Stato l’onere delle spese legali sostenute dall’..., per l’esercizio del diritto di difesa nel corso dei due procedimenti summenzionati, definiti con provvedimento di archiviazione. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 Polizze assicurative al personale tecnico dipendente stipulate a copertura della responsabilità civile per le attività previste dal d.lgs. 36/2023 Parere del 02/12/2024-749873, al 35659/2024, Sez. v, avv. Marina rUSSo Con la nota a margine è stato chiesto il parere della Scrivente in relazione alle polizze assicurative stipulate a copertura della responsabilità civile per le attività previste dal D.lgs. 36/2023. In particolare, si chiede se l’obbligatorietà di detta stipula riguardi tutto il personale dipendente dell’Amministrazione incaricato delle attività tecniche di cui all’allegato I.10 del D.lgs. 36/2023, oppure debba ritenersi limitato ai soli dipendenti che svolgono l’incarico di progettista o di verifica del progetto. La questione investe senza dubbio aspetti di massima in quanto coinvolge tutte le stazioni appaltanti tenute all’applicazione del Codice dei Contratti ed è stata già oggetto di attenzione da parte del Ministero delle Infrastrutture e dell’ANAC. Deve innanzitutto premettersi che il problema non riguarda la responsabilità amministrativa del dipendente nei confronti della sua amministrazione per i profili che attengono al danno erariale e al suo risarcimento, ma più propriamente riguarda la responsabilità civile dei dipendenti verso terzi. Per tale ragione, non pare conferente il riferimento all’art. 3, comma 59, delle legge 244/2007 e al divieto -sanzionato dalla nullità -sancito nel primo periodo della stessa norma (“È nullo il contratto di assicurazione con il quale un ente pubblico assicuri i propri amministratori per i rischi derivanti dal- l’espletamento dei compiti istituzionali connessi con la carica e riguardanti la responsabilità per danni cagionati allo stato o ad enti pubblici e la responsabilità contabile”), dovendosi invece fare esclusivo riferimento alla disciplina speciale del Codice degli appalti. venendo al merito del quesito, il tema si pone in quanto la previsione legislativa espressamente impone l’obbligo di copertura assicurativa in capo all’amministrazione solo in favore dei “progettisti qualora dipendenti dal- l’amministrazione” (art. 5, punto 9 All. I.7) e del “soggetto incaricato dell’attività di verifica” (art. 37, comma 3 All. I.7). Ne deriverebbe che, intendendosi tale normativa come speciale, e quindi di stretta interpretazione, la copertura assicurativa sarebbe obbligatoria solo per quelle figure, e non estensibile in via analogica alle altre categorie di dipendenti. La conseguenza sarebbe però che siffatta garanzia finirebbe per non essere dovuta in favore di tutti gli altri soggetti che, all’interno dell’organico delle stazioni appaltanti, svolgono attività tecniche (ad esempio il responsa PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO bile del Progetto, il Direttore dei Lavori quando dipendente) con maggiore proiezione verso terzi e quindi addirittura potenzialmente più idonee ad essere fonte di responsabilità e a produrre danni. Ciò ha indotto più d’uno (il Ministero delle Infrastrutture con risposta a specifico quesito 2163/2023, la Corte dei Conti con la deliberazione n. 145/2624 della Sezione regionale Piemonte e l’ANAC con parere n. 64/23) a propendere per una lettura estensiva delle norme in materia. Tuttavia, la normativa resta poco rassicurante sotto il profilo letterale e ciò rafforza nell’esigenza di darne un’interpretazione adeguatamente motivata nell’intento di allontanare il più possibile il rischio di rimprovero per un non corretto impiego di denaro pubblico nella stipula di polizze non dovute. Occorre a tal fine prendere le mosse dal contesto normativo più generale nel quale la norma dell’Allegato al Codice si inserisce, del quale contesto assumono significativo rilievo: ⦁ l’art. 2, comma 4, per cui in applicazione del “principio della fiducia” enunciato al comma 1 “[...] le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale [...]”; ⦁ l’art. 45, comma 2 per cui “le stazioni appaltanti e gli enti concedenti destinano risorse finanziarie per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti specificate nell’allegato i.10 per le finalità indicate dal comma 5 (1), a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 [...]”. Dal combinato disposto delle summenzionate norme (la prima espressiva di un vero e proprio principio fondamentale che deve informare l’interpretazione di tutto il sistema del Codice) emerge chiaramente il favore del legislatore verso la generalizzazione delle garanzie assicurative a copertura della responsabilità civile, un quadro evidentemente ispirato dalla ratio di incentivare massimamente la protezione delle attività potenzialmente foriere di responsabilità civile verso terzi; ciò nell’evidente assunto che la stipula delle polizze corrisponda al comune interesse di tutti gli attori del sistema (infatti, alla base dell’attribuzione e dell’esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici vi è il principio della “fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta” di tutti tali attori: “dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”). Nell’intenzione del legislatore, quindi, la copertura assicurativa va incentivata a beneficio dei potenziali danneggiati, che hanno interesse a veder accresciuta la garanzia patrimoniale dei propri crediti risarcitori, dei dipendenti dell’Amministrazione, che hanno interesse ad operare con la copertura di una garanzia assicurativa, e dell’Amministrazione stessa in quanto coobbligata in (1) Tra le quali rientrano quelle di cui ai comma 7, lett. c: “per la copertura degli oneri di assicurazione obbligatoria del personale ”. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 solido con i propri dipendenti in ragione del rapporto di immedesimazione organica (salve restando -su tale ultimo punto -le considerazioni che saranno esposte nell’ultimo paragrafo del presente parere). Così ricostruito il contesto normativo di riferimento, ne risulta -accanto agli obblighi di assicurazione espressamente previsti come tali -una più generale facoltà delle stazioni appaltanti, specialmente e decisamente incentivata dalla legge, di stipulare polizze assicurative per tutti quei dipendenti che siano chiamati a svolgere funzioni tecniche. In altri termini, accanto ad un obbligo di assicurazione vi è una facoltà di assicurare i propri dipendenti, e lo spirito della legge pare decisamente indirizzato a raccomandarne l’esercizio, proprio in considerazione dell’interesse pubblico in vista del quale è attribuita. Ma anche qui è opportuna una precisazione. L’Allegato I.10 al Codice elenca le funzioni tecniche di cui si compendia il processo realizzativo di un contratto pubblico al fine di individuare i destinatari e gli incentivi economici previsti per legge, e correttamente si fa rilevare come per questa ragione detta norma non possa automaticamente individuare i beneficiari della polizza assicurativa. Infatti, non tutte le attività e le funzioni ivi contemplate implicano effetti esterni dell’attività amministrativa, e quindi non comportando potenziali responsabilità verso terzi (si pensi ad esempio quelle di mera collaborazione, di programmazione, di redazione del documento di fattibilità, della mera predisposizione dei documenti di gara), non avrebbero ragione di essere coperte assicurativamente va da sé, poi, che la copertura assicurativa in discorso deve intendersi riferita solo ai dipendenti dell’Amministrazione: le espressioni utilizzate dal legislatore nelle norme sopra richiamate (“personale”; “dipendenti”) evocano infatti solo coloro che sono legati all’Amministrazione da un rapporto di lavoro, essendo la copertura assicurativa dei professionisti esterni oggetto di specifica distinta disciplina. In definitiva, se da un lato è chiaro l’obbligo per l’Amministrazione pubblica di dotare di copertura assicurativa i propri dipendenti incaricati della verifica e della validazione dei progetti, non e certamente preclusa la possibihta di assicurare anche le altre figure tecniche interne, qualora incaricate di attività e/o funzioni capaci di generare responsabilità. §§§ Tale essendo il parere della Scrivente, esso va a margine accompagnato da alcune considerazioni derivanti dalla sopra ricordata situazione di immedesimazione organica tra il dipendente pubblico e l’Amministrazione di appartenenza, in virtù della quale il fatto dell’uno determina la responsabilità (anche) dell’altra. Come detto, la legge vieta all’Amministrazione di stipulare garanzia as PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO sicurativa per i danni che il dipendente in ragione della propria carica cagiona allo Stato e agli enti pubblici, e vieta quindi di coprire la responsabilità per danno erariale, che, come noto, discende da dolo o colpa grave. Deve quindi essere chiarito a livello legislativo, al fine della relativa assicurabilità, il rapporto tra la responsabilità del dipendente verso terzi e la responsabilità del dipendente verso l’amministrazione quando le somme che essa deve pagare al terzo per il fatto del dipendente commesso con dolo o colpa grave costituiscono danno erariale. In secondo luogo va segnalato il concreto rischio che il sistema assicurativo delineato dal Codice degli appalti, al di là dell’intento in astratto perseguito, possa rivelarsi, all’atto pratico, privo di sostanziale utilità per l’Amministrazione. Infatti, quasi mai nella quotidiana esperienza del contenzioso accade che l’azione risarcitoria che il terzo danneggiato promuove per il danno cagionato dal dipendente veda il dipendente stesso chiamato in giudizio, preferendo il danneggiato convenire solo l’Amministrazione. In tale caso, all’estraneità al giudizio del dipendente si accompagnerebbe anche l’assenza della compagnia di assicurazione (che peraltro l’Amministrazione, non avendo domande da proporre contro il dipendente assicurato, non avrebbe titolo per chiamare in causa), e comporterebbe l’inopponibilità agli stessi dell’eventuale sentenza di condanna, rendendo sostanzialmente inutile l’onere sopportato dall’Amministrazione per la stipula di polizze dalla cui esistenza finirebbe per non trarre, neppure indirettamente, reale beneficio. Per queste ragioni, il presente parere viene trasmesso per le opportune valutazioni sia al Dipartimento affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri che all’ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, affinché valutino se tenerne conto nel percorso di modifica del Codice dei contratti di cui al “Correttivo” in via di definizione. *** *** *** Sulla questione oggetto del presente parere, attesa la sua rilevanza di massima, è stato sentito il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che nella seduta del 22 novembre 2024 si è espresso in conformità. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., a seguito delle modifiche introdotte dalla c.d. riforma “Cartabia”, sul disposto dell’art. 120, comma 1, Codice della strada Parere del 27/01/2025-60553/60554, al 39103/2024, Sez. iv, Proc. edoardo Morena Si riscontra la nota con la quale è stato richiesto a questo G.u. di esprimere il proprio avviso in ordine alla questione se la riduzione degli effetti extra-penali della sentenza ex art. 444 c.p.p., a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 25, co. 1, lett. b) d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma “Cartabia”), possa aver inciso sul disposto dell’art. 120, comma 1, del cod. strada, così da impedire di accordare rilevanza, ai fini del diniego del titolo abilitativo alla guida, a una eventuale pronuncia di patteggiamento che sia stata adottata nei confronti del privato. In via preliminare, si evidenzia che, ai sensi dell’art. 120, comma 1, del cod. strada: “1. non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali o alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ad eccezione di quella di cui all’articolo 2, e dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi, nonché i soggetti destinatari dei divieti di cui agli articoli 75, comma 1, lettera a), e 75-bis, comma 1, lettera f), del medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della repubblica n. 309 del 1990 per tutta la durata dei predetti divieti. non possono di nuovo conseguire la patente di guida le persone a cui sia applicata per la seconda volta, con sentenza di condanna per il reato di cui al terzo periodo del comma 2 dell’articolo 222, la revoca della patente ai sensi del quarto periodo del medesimo comma”. La disposizione citata attribuisce, pertanto, rilevanza ostativa al rilascio del titolo abilitativo alla guida a talune circostanze e, per quel che più interessa, alla intervenuta “condanna” per determinati reati, fermi eventuali provvedimenti riabilitativi. Ciò rilevato, alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 25, co. 1, lett. b) d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma “Cartabia”), l’art. 445 c.p.p., rubricato “effetti dell’applicazione della pena su richiesta”, al comma 1-bis, oggi così dispone: “la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza, prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”. Concordemente a quanto ritenuto da codesta Avvocatura Distrettuale, il primo periodo del citato comma non sembra assumere rilevanza ai fini del presente quesito giacché si riferisce esclusivamente a “giudizi” e non anche a procedimenti amministrativi, come quello volto al rilascio del titolo abilitativo. Diversamente, dal tenore testuale del secondo periodo della novellata disposizione sembra ricavarsi che, salvo il caso di applicazione di pene accessorie, tutte quelle disposizioni legislative non qualificabili come penali “che equiparano” la pronuncia ex art. 444 c.p.p. alla sentenza di condanna non trovano più applicazione a far data dall’entrata in vigore della riforma Cartabia. In altri termini, laddove non si applichino pene accessorie, verranno meno anche tutti gli altri effetti penali, e cioè quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna ovvero di patteggiamento, secondo quanto prescritto da leggi speciali. Il terzo periodo specifica poi che, in ogni caso, salvo quanto disposto dai periodi che precedono ovvero da diverse disposizioni di legge, la sentenza di patteggiamento è equiparata a una pronuncia di condanna. * Ai fini della applicabilità, o meno, dell’art. 445, comma 1-bis, 2° periodo, c.p.p., diviene, a questo punto, essenziale e dirimente stabilire, in primo luogo, se all’art. 120, comma 1, del cod. strada, possa essere riconosciuta, o meno, natura di legge penale, e, in secondo luogo, se tale disposizione “equipar[i] la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna”. Sotto il primo profilo, preme rilevare che la giurisprudenza consolidata (cfr. Corte Cost. n. 22/2018 e i riferimenti giurisprudenziali ivi citati) ha più volte escluso la natura sanzionatoria della revoca della patente di guida ex art. 120, comma 2, del cod. strada, con principi pienamente (e a maggior ragione) estendibili anche al provvedimento di diniego di rilascio della patente di cui al comma 1. Difatti, lungi dal presentare portata sanzionatoria, la revoca, come il diniego, rappresenterebbero, meramente, “la constatazione dell’insussistenza ([originaria o] sopravvenuta) dei «requisiti morali» prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione” (cfr. Corte Cost. n. 22/2018). Si è altresì precisato, sempre al fine di escludere qualsivoglia carattere sanzionatorio-penale alle misure di cui all’art. 120, del cod. strada, che “diversamente dal “ritiro” della patente disposto dal giudice penale ai sensi dell’art. 85 del d.P.r. n. 309 del 1990, la “revoca” del titolo in via ammini rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 strativa, di cui alla disposizione censurata, non risponde ad una funzione punitiva, retributiva o dissuasiva dalla commissione di illeciti e trova, viceversa, la sua ratio nell’individuazione di un perimetro di affidabilità morale del soggetto, cui è rilasciata la patente di guida, e nella selezione di ipotesi in presenza delle quali tale affidabilità viene meno. Per cui quelli che vengono, nel nostro caso, in rilievo sono, appunto, solo effetti riflessi della condanna penale, in settori ordinamentali diversi da quello cui è affidata la funzione repressiva degli illeciti con le misure afflittive al riguardo previste” (cfr. Corte Cost. n. 22/2018). Invero, a differenza della revoca della patente disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento, rispetto alla quale sono state riconosciute “connotazioni sostanzialmente punitive ” (cfr. Corte Cost. n. 68/2021), nel caso di specie la misura è disposta dall’autorità amministrativa e presenta una evidente funzione preventiva e non già repressiva (cfr., per le considerazioni ivi svolte, Corte Cost. n. 148/2022). * Sotto il secondo profilo, preme altresì evidenziare che l’art. 120, comma 1, del cod. strada non opera, esso stesso, una equiparazione esplicita tra la sentenza di patteggiamento e quella di condanna, limitandosi ad attribuire rilevanza ostativa alla “condanna” per determinati reati. Sennonché, il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia ha ritenuto rilevante a tali fini, tenuto anche conto dell’ampio tenore letterale della precitata disposizione, anche la sentenza ex art. 444 c.p.p. intervenuta nei riguardi del privato, atteso che “[a]nche la sentenza emessa nella forma processuale disciplinata dall’art. 444 accerta la responsabilità agli effetti della legge penale, pur se con peculiarità di rito”; sicché, “[i]l momento c.d. negoziale investe, invero, l’entità della pena, ma non certo il merito della sussistenza degli estremi della responsabilità penale che, ancorché con cognizione sommaria, è sempre accertata dal giudice” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 3791/2025). In senso conforme a tale interpretazione estensiva dell’art. 120, del cod. strada, può richiamarsi anche la sentenza n. 281/2023 della Corte Costituzionale che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del cod. strada, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui si applica(va) anche con riferimento a sentenze pronunziate, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, ha -indirettamente ma necessariamente -confermato la rilevanza di tali pronunce pro futuro. Ciò rilevato, atteso che l’art. 445, comma 1-bis, 2° periodo, c.p.p. ha riguardo alle disposizioni extra-penali che “equiparano” le due tipologie di sentenza, occorre chiedersi se tali debbano considerarsi soltanto le disposizioni PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO extra-penali che expressis verbis considerano le pronunce di patteggianiento ex art. 444 c.p.p., oppure se l’equiparazione possa ritenersi soddisfatta a mezzo del passaggio finale del più volte menzionato co. 1-bis, con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, scatterebbe l’inoperatività di tali disposizioni extra- penali sol che s’accerti che, nel caso concreto, la pena patteggiata non includa pene accessorie, a prescindere dalla circostanza che la norma extra-penale prenda in espressa considerazione le pronunce rese ai sensi dell’art. 444 del codice del rito. Pare a questo Organo Legale che la seconda proposta interpretativa sappia farsi preferire alla prima. E invero, l’ermeneusi che si stima preferibile è, da una parte, quella che maggiormente valorizza il canone esegetico letterale (primo dei parametri interpretativi, come noto, da cui prendere le mosse in tema di interpretazione normativa); dall’altra, foriera di precipitati applicativi concreti ben più ragionevoli rispetto a quelli cui condurrebbe l’opposta impostazione ermeneutica, che parrebbe, pertanto, da scartare a fronte di una interpretazione che, tra l’altro, appare costituzionalmente orientata (noto essendo che la ragionevolezza è, per granitica giurisprudenza della Corte delle leggi, corollario del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta fondamentale). Quanto all’osservanza del canone interpretativo letterale, si osserva che la disposizione in esame si limita a prevedere che le “disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna ”, senza tuttavia prender posizione in alcun modo sulle modalità a mezzo delle quali tale equiparazione debba, a livello di tecnica legislativa, essere operata. L’art. 445, co. 1-bis, secondo periodo, c.p.p., cioè, non prevede la necessità che la norma extra-penale, di volta in volta, all’esame prenda in espressa considerazione la pronuncia di patteggiamento. Soccorre, a tal fine, il terzo periodo della citata disposizione che espressamente prevede l’equiparazione tra le due tipologie di sentenza. Conseguentemente, può concludersi che la disposizione all’esame deve essere intesa nel senso che fa riferimento alle disposizioni di legge diverse da quelle penali che equiparano, esse stesse in modo espresso oppure a mezzo della generale clausola di equiparazione di cui al periodo finale dell’art. 445, comma 1-bis c.p.p., le pronunce di patteggiamento a quelle di condanna. L’approdo interpretativo cui conduce l’argomento letterale, s’è anticipato, è, del resto, confortato dalla ragionevolezza dei risultati pratici che restituisce, specie se confrontati a quelli, invece illogici, che deriverebbero dall’adesione all’opposta tesi. Infatti, se passasse la lettura secondo cui la disposizione in esame va intesa nel senso di riferirsi soltanto alle norme extra-penali che operano, esse stesse e in modo espresso, l’equiparazione tra condanne e patteggiamenti, ciò porterebbe ad affermare che -a fronte dell’assenza di pene accessorie nel caso rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 concreto -persistono gli effetti extra-penali in caso di patteggiamento allorché tali effetti dipendano da norme che fanno generico riferimento alla condanna penale, come loro presupposto; e, per converso, che detti effetti vengono messi in non cale allorché la norma che li prevede li agganci, alternativamente, alla condanna o al patteggiamento. Si tratta di un esito applicativo assolutamente irragionevole, che conferma, quindi, la bontà dell’opposta interpretazione. Invero, è evidente che, allorché il Legislatore si spinge a precisare che un determinato effetto segue non soltanto alla condanna, ma anche al patteggiamento, mostra un rigore ben maggiore rispetto all’ipotesi in cui fa riferimento, come presupposto d’un effetto extra-penale, unicamente alla condanna penale. Quest’ultima, infatti, è categoria fortemente eterogenea in punto di disvalore della condotta sanzionata, sol che si consideri che il condannato potrebbe aver ricevuto anche la pena dell’ergastolo, o della reclusione a decine di anni. La pronuncia di patteggiamento, di converso, s’accosta ontologicamente ad una sanzione penale contenuta in punto di dosimetria della pena, peraltro spesso agganciandosi (almeno nei casi di patteggiamento c.d. ristretto) a fattispecie concrete in cui la pena detentiva, sebbene prevista in dispositivo (cosa comunque non scontata, specie, appunto, in caso di patteggiamento c.d. ristretto), non sarà concretamente portata ad esecuzione, siccome condizionalmente sospesa o destinata ad essere paralizzata da misure alternative alla detenzione. In sintesi, la pronuncia di condanna è categoria che include, strutturalmente, anche ipotesi ben più gravi di quelle considerate dal patteggiamento, il quale istituto, per i limiti di pena massimi previsti perché la sentenza ex art. 444 c.p.p. possa esser pronunciata, guarda, invece, a ipotesi criminose di contenuta gravità. Con questa premessa, è evidente che l’ermeneusi opposta a quella qui sostenuta è manifestamente irragionevole, in quanto implicherebbe che: -per un verso, nelle ipotesi in cui il Legislatore s’è spinto ad espressamente indicare i patteggianti, oltre che i condannati, come destinatari di un effetto extra-penale (così mostrando, appunto, un livello di rigore elevato, siccome ha precisato che tale effetto riguarderà anche chi dovesse -non essere condannato ad una pena, in tesi anche grave, ma soltanto -aver patteggiato per una pena tenue), allora verrebbero meno anche detti effetti extra-penali; -per altro verso, allorché il Legislatore non abbia considerato i patteggianti, limitandosi a individuare nei condannati il bersaglio dell’effetto extra- penale (così mostrando un livello di rigore meno elevato), allora questo, per i destinatari di una sentenza ex art. 444 c.p.p., dovrebbe persistere. L’irragionevolezza dell’ermeneusi che non si condivide, pertanto, dimora in ciò: si finirebbe per negare ogni rilievo -ostativo -alla sentenza di patteggiamento nelle ipotesi in cui il legislatore “extra-penale” ha previsto un trattamento espressamente più rigoroso, per l’appunto, tramite una equiparazione PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO esplicita degli effetti della pronuncia di patteggiamento a quella di condanna. E diversamente, si avallerebbe, invece, un trattamento di rigore -attesa l’equiparazione di effetti tra le pronunce -laddove il legislatore non ha previsto espressamente tale analogia. A ciò si aggiunga, poi, che la conclusione ermeneutica che si ritiene preferibile risulta maggiormente coerente con la ratio perseguita dal Legislatore in sede di riforma, laddove, nel novellare la disciplina dell’efficacia extra-penale della sentenza di cui all’art. 444 c.p.p., ha avuto l’evidente fine di escludere, al ricorrere dei requisiti ivi prescritti, l’equiparazione tra quella pronuncia e la sentenza di condanna, a prescindere dalle modalità con cui essa veniva realizzata -esplicitamente ovvero tramite rinvio alla generale clausola di equiparazione ora prevista al periodo finale dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. * Esclusa pertanto la natura penale dell’istituto in commento e ritenuto applicabile il disposto dell’art. 445 comma 1-bis, c.p.p. anche laddove difetti una equiparazione “esplicita”, questo G.u. ritiene che, alla luce della novella legislativa, la sentenza di patteggiamento ex art. 444 cit., salva l’ipotesi di applicazione di pene accessorie, non possa considerarsi causa ostativa ai fini del rilascio del titolo abilitativo ai sensi dell’art. 120, comma 1, cod. strada, ferme, in ogni caso, le prerogative prefettizie preordinate alla verifica della idoneità psico-fisica a tutela della pubblica sicurezza, specie nei casi in cui la sentenza di patteggiamento abbia avuto riguardo a condotte di assunzione di sostanze stupefacenti. La presente consultazione è stata resa sentito previamente il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che, nella seduta del 22 gennaio 2025, si è espresso in conformità. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 Normativa applicabile agli accordi stipulati dall’agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane con le reti di distribuzione (Gdo) e di e-commerce di Paesi esteri Parere del 09/05/2025-321328, al 15952/2018, Sez. vi, avv. GiacoMo aiello Con la nota che si riscontra, torna all’attenzione di questo Legale ufficio la questione della normativa applicabile agli accordi stipulati da codesta Agenzia con le reti di distribuzione (GDO) e di e-commerce di Paesi esteri. Con il precedente parere del 1 agosto 2018 prot. 416103, a cui si rinvia integralmente, erano state approfondite la natura giuridica e le finalità degli strumenti contrattuali in esame nel quadro della disciplina all’epoca vigente ed in particolare dell’art. 30, comma 2 lett. d) del DL 133/2014 convertito con modificazioni dalla L. 164/2014. In estrema sintesi, all’epoca si è ritenuto che le convenzioni stipulate da codesta Agenzia rientrano nella categoria dei contratti di diritto internazionale privato e che, come tali, sono assoggettati alla disciplina giuridica del Paese a cui appartiene la GDO o la piattaforma di e-commerce per quanto attiene alla loro esecuzione. In merito alle modalità di scelta del contraente si è ammessa la possibilità di selezionarlo con la procedura negoziata senza la previa pubblicazione del bando, in considerazione delle specifiche caratteristiche tecniche della prestazione offerta dalla GDO o dalle piattaforme di e-commerce, che non consentono di individuare alternative concorrenziali di pari valore od efficacia. Secondo la giurisprudenza amministrativa, la procedura di affidamento ha infatti in sé natura neutra, e si connota solo in virtù della natura del soggetto che la pone in essere, essendo indispensabile, sia per la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sia per l’applicazione del diritto pubblico degli appalti, che il soggetto procedente sia obbligato al rispetto delle procedure di evidenza pubblica, in base al diritto comunitario o interno (Cfr. Ad. Plen. 16/2011). Muovendo dall’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti e dalle modifiche normative medio tempore sopravvenute, che hanno portato al- l’abrogazione dei commi da 1 a 5 dell’art. 30 del DL 133/2014 sopra citato, codesta Agenzia chiede di conoscere se le conclusioni della precedente consultazione della Scrivente, peraltro condivise in toto dal Consiglio del- l’ANAC nell’Adunanza del 30 ottobre 2018, possano o meno essere confermate, essendo imminente l’adozione delle nuove Linee Guida, valevoli a partire dall’anno in corso, nelle quali si assegna, agli accordi di collaborazione con i principali operatori della GDO e dell’e-commerce, PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO rilevanza strategica nella promozione internazionale dei prodotti Made in Italy. Con riguardo alla fase di scelta del contraente, si deve anzitutto osservare che la disposizione sulla procedura negoziata senza pubblicazione del bando contenuta nell’art. 76 D.lgs. n. 36/2023, pur confermando le circostanze nelle quali è consentito individuare il fornitore con questa modalità di scelta (1), fornisce nel primo comma indicazioni ben più articolate in merito alla motivazione che deve accompagnare siffatta opzione da parte della committente. Si prevede infatti che “le stazioni appaltanti possono aggiudicare appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara quando ricorrono i presupposti fissati dai commi seguenti, dandone motivatamente conto nel primo atto della procedura in relazione alla specifica situazione di fatto e alle caratteristiche dei mercati potenzialmente interessati e delle dinamiche che li caratterizzano, e nel rispetto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3. A tali fini le stazioni appaltanti tengono conto degli esiti delle consultazioni di mercato eventualmente eseguite, rivolte anche ad analizzare i mercati europei oppure, se del caso, extraeuropei ”. Ne consegue che codesta Agenzia, in base al parametro richiamato, dovrà fare precedere la scelta dell’accordo con la GDO od i gestori delle piattaforme di e-commerce, da un’analisi delle caratteristiche del mercato di riferimento in funzione della realizzazione delle finalità di carattere generale compendiate nei primi tre articoli del nuovo codice degli appalti e di quelle specificamente assegnate sia dall’art. 30 DL 133/2014, sia dalla legge 27 dicembre 2023, n. 206, recante “disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in italy”. La mancata riproposizione nel nuovo codice degli appalti dell’art. 4 di quello previgente non sembra invece implicare il fatto che l’Amministrazione sia esonerata dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica, essendo gli stessi ormai inverati, oltre che nell’art. 97 Cost., anche e soprattutto nella legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo. Per quanto invece riguarda la parziale abrogazione dell’art. 30 DL n. 133/2014 (2), si ritiene che la stessa sia stata dettata principalmente dalla necessità di trasferire la vigilanza sull’ICE dall’allora MISE al MAECI, delegificando nel contempo i criteri inerenti alla scelta delle soluzioni ottimali ai fini dell’attuazione del Piano per la promozione straordinaria del Made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia. (1) Con riferimento all’art. 76 comma 2 lett. b) n. 2 si riscontra una perfetta identità lessicale, con il previgente art. 63 comma 2 lett. b) n. 2 D.lgs. n. 50/2016. (2) Per effetto dell’art. 1, comma 50, lett. d) della L. n. 234/2021 (Legge di bilancio 2022). rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 L’art. 2 della l. n. 206/2023 continua ad assegnare del resto anche a codesta Agenzia la funzione della promozione dei prodotti made in Italy, nel quadro delle linee guida e di indirizzo strategico definite dalla cabina di regia di cui all’articolo 14, comma 18-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Spetta dunque a questo organismo interministeriale l’elaborazione delle linee guida, sia ai fini dell’individuazione dei mercati sui quali investire, sia per la determinazione degli strumenti più efficaci nell’ottica della promozione dei prodotti italiani all’estero. A questo proposito merita di essere richiamata la rilevanza assegnata dalle ultime linee guida approvate dalla cabina di regia in data 8 marzo 2024, agli accordi con la GDO e l’e-commerce, considerati un tassello fondamentale del capitolo riservato alle linee strategiche per l’internazionalizzazione. Alla luce di quanto precede, si ritiene che pur essendo stata in certa misura modificata la cornice regolatoria di riferimento di codesta Agenzia, possano essere confermate le conclusioni espresse in esito alla precedente consultazione sopra richiamata. *** Involgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta dell’8 Aprile 2025. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO sulla irrogazione della sanzione da omesso pagamento del Contributo unificato ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 16, co. 1-bis del d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, 71 del d.P.r. 26 aprile 1986, n. 131 e 4 co. 1 lett. B, d.lgs. 14 giugno 2024 n. 87 Parere del 12/05/2025-327034, al 34572/2024, Sez. vi, avv. GiacoMo aiello Con la nota che si riscontra è stato chiesto alla Scrivente un parere relativo all’irrogazione della sanzione da omesso pagamento del Contributo unificato ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 16, comma 1-bis del d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, 71 del d.P.r. 26 aprile 1986, n. 131 e 4 comma 1 lett. B, D.lgs. 14 giugno 2024 n. 87. Più precisamente si fa riferimento alla richiesta del Presidente della Commissione Paritetica tra Ministero della Giustizia ed Equita1ia Giustizia S.p.A., prevista all’art. 4 della Convenzione tra il Ministero della Giustizia e da Equitalia Giustizia S.p.A. (sottoscritta in data 23 settembre 2010, come da ultimo modificata in data 23 ottobre 2023), relativa all’applicazione delle sanzioni amministrative, così come ridotte dal D.lgs. 14 giugno 2024 n. 87. Si vuole in particolare conoscere se dette sanzioni pecuniarie siano applicabili solo agli illeciti commessi dal 1 settembre 2024 in poi o anche alle violazioni commesse fino al 31 agosto 2024. Il d.P.r. del 30 maggio 2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) all’art. 16 co.1 bis dispone che: “in caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, si applica la sanzione di cui all’art. 71 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della repubblica 26 aprile 1986 n. 131, esclusa la detrazione ivi prevista”. L’art. 4, co.1, lett. B, D.lgs. 14 giugno 2024 n. 87 (rubricato revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti) prevede che: “1. al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto 2 del Presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131, sono apportate le seguenti modificazioni: (...) b) all’articolo 71, comma 1, le parole: «dal cento al duecento » sono sostituite dalle seguenti: «pari al settanta» (...)”. L’art. 71 del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, come modificato dal citato decreto, attualmente in vigore prevede inoltre quanto segue: “Se il valore definitivamente accertato dei beni o diritti di cui al terzo e al quarto comma dell’articolo 51, ridotto di un quarto, supera quello dichiarato, si applica la sanzione amministrativa pari al settanta per cento della maggiore imposta dovuta (anteriormente alla modifica disponeva: “si rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggiore imposta dovuta”). Per i beni e i diritti di cui al quarto comma dell’articolo 52 la sanzione si applica anche se la debenza non è superiore al quarto del valore accertato”. L’art. 5 del D.lgs. 87/2024 così dispone: “le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4 si applicano alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024 ”. Dunque la legge delega, con riferimento alle sanzioni amministrative, ha inteso conseguire un miglioramento della proporzionalità delle sanzioni, mirando ad un’attenuazione generale della loro misura afflittiva ed ad una loro riparametrazione ai livelli esistenti negli altri Stati europei. Pertanto, a decorrere dal 1° settembre 2024, in caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, si applica la sanzione amministrativa pari al settanta per cento della maggiore imposta dovuta. Diversamente, in tema di omissioni totali o parziali di pagamento del contributo unificato commesse fino al 31 agosto 2024 sono due le interpretazioni praticabili. una prima si fonda sul principio della lex mitior, statuito dall’art. 3, co. 3, D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, che impone l’applicazione della legge più favorevole in materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, tranne i casi in cui il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo. Il provvedimento di accertamento e irrogazione della sanzione può considerarsi definitivo quando l’importo da pagare sia stato esattamente determinato nel suo ammontare e non sia più possibile proporre impugnazione per decorso dei termini di legge (cfr. Cass. sez. vI n. 40233 del 15 dicembre 2021). Ne discenderebbe l’applicazione della sanzione ridotta nella misura fissa del 70% anche a tutti i casi di violazioni tributarie commesse prima del 1 settembre 2024, consistenti in omesso o ritardato pagamento del contributo unificato nei procedimenti iscritti a ruolo generale fino al 31 agosto 2024, per le quali non sia stato emesso, ovvero, non sia divenuto definitivo il provvedimento di irrogazione della sanzione che determina esattamente il suo ammontare. Occorre tuttavia valutare se il richiamato principio positivo possa trovare applicazione anche nella peculiare fattispecie in esame. Intanto occorre osservare che, in materia di sanzioni amministrative la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha affermato il principio dell’applicabilità retroattiva della legge penale più favorevole, non estendendolo anche al sistema delle sanzioni amministrative nel suo complesso, dovendo lo stesso riguardare singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, abbiano natura sostanzialmente punitiva. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO Nel quadro delle garanzie apprestate dalla CEDu, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio di retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative. Né sussiste un analogo vincolo costituzionale, rientrando nella discrezionalità del Legislatore, pur sempre nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore. Il differente e più favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni, come quelle tributarie e valutarie, trova infatti fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non può trasformarsi da eccezione a regola, coerentemente con il principio generale di irretroattività della legge e con il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali (Corte cost., 20 luglio 2016, n. 193). Pertanto con riferimento al diritto sanzionatorio amministrativo, solo quando la sanzione ha natura sostanzialmente penale, si estende la fondamentale garanzia consacrata dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dalla giurisprudenza della Corte EDu relativa all’art. 7 CEDu. Il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha portato all’estensione ad esse, da parte della Corte Costituzionale, di larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali, basato sull’art. 25 Cost., sulla determinatezza dell’illecito e delle sanzioni, sulla violazione del ne bis in idem, sulla retroattività della lex mitior, sulla proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto nonché sulla rilevanza di una sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria (Corte cost., 27 luglio 2023, n. 169). Quindi in tema di retroattività della legge, il principio della retroattività della lex mitior trova in genere applicazione per le sole sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale. Si intendono quelle misure punitive che, pur non appartenendo al genus delle sanzioni penali stricto sensu intese secondo l’ordinamento nazionale, nondimeno, per la loro particolare natura, per la rilevanza degli interessi presidiati, nonché per il grado di severità che le caratterizza, vanno ad esse assimilate, ai fini dell’applicabilità delle garanzie di difesa contemplate dalla CEDu per la materia penale. Nel caso di specie la sanzione di cui all’art. 71 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131, richiamata dall’art. l6 del d.P.r. n. 115/2002 per la fattispecie di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, correttamente si identifica nell’ambito delle sanzioni amministrative in materia tributaria. rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 Il contributo unificato va infatti ascritto alla categoria delle entrate tributarie, delle quali condivide tutte le caratteristiche essenziali, quali la doverosità della prestazione e il collegamento della stessa ad una pubblica spesa, cioè quella per il servizio giudiziario ai fini del suo finanziamento (Cfr. da ultimo Cass. v Ord. 17 ottobre 2024, n. 26995), con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante. Identica natura fiscale va riconosciuta alle sanzioni pecuniarie conseguenti al mancato o al ritardato pagamento del contributo unificato, trattandosi di obbligazioni accessorie che hanno fondamento in un rapporto di tipo tributario (si veda l’art. 2, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che, infatti, attribuisce la giurisdizione sulle sanzioni in parola al Giudice Tributario) (CdS Ad. Plen. 24 aprile 2024, n. 7). Occorre inoltre rilevare che il Giudice di Legittimità si è pronunciato, proprio in relazione alla compatibilità dell’art. 5 D.lgs. n. 87/2024 con i principi della CEDu e costituzionali, statuendo che “l’applicazione della sanzione più favorevole è preclusa da una espressa previsione normativa, ed in particolar modo all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024, secondo cui la rivisitazione delle sanzioni amministrative in materia fiscale, complessivamente favorevole al contribuente, va applicata a partire dalle violazioni commesse dal 1 settembre 2024, così derogando al generale principio di retroattività della legge più favorevole, la scelta del legislatore non appare in contrasto con i principi costituzionali né con quelli unionali ” (Cass. v Sent. 19 gennaio 2025, n. 1274). Quindi, stando al tenore letterale dell’art. 5 D.lgs. 87/2024 ed allo stato della giurisprudenza, per tutte le violazioni commesse fino al 31 agosto 2024, nell’intimazione di pagamento di contributo unificato omesso o ridotto, la sanzione dovrebbe essere determinata come nel regime previgente, nella misura variabile dal 100% al 200% dell’imposta evasa. La diversa soluzione, incentrata sull’applicazione dell’art. 3 D.lgs. n. 472/1997, pur astrattamente praticabile, non dovrebbe trovare accoglimento nella fattispecie in esame dal momento che, come rammenta puntualmente anche codesto ufficio, la relazione illustrativa alla novella normativa di cui all’art. 5 D.lgs. n. 87/2024 è estremamente specifica nell’escludere siffatta evenienza. Senza ripercorrere puntualmente l’insieme delle argomentazioni svolte in siffatto documento, che deve considerarsi uno strumento privilegiato di interpretazione della ratio legis della norma in esame, merita di essere rilevato come si escluda espressamente la possibilità dell’applicazione della sanzione nella misura ridotta alle violazioni commesse prima del 1 settembre 2024, valorizzandosi tra l’altro l’interesse primario al mantenimento dell’equilibrio di bilancio pubblico ex art. 81 Cost., in quanto, l’applicazione retroattiva della sanzione in misura ridotta, potrebbe generare la perdita di entrate già contabi PArErI DEL COMITATO CONSuLTIvO lizzate, con la conseguente necessità di drenare risorse dalla fiscalità generale per coprire la sopravvenienza passiva. Per le ragioni che precedono, non sembrerebbe che nel caso di specie possa darsi seguito all’interpretazione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cfr. Cass. 30 marzo 2021, n. 8716; 30 dicembre 2024, n. 34909; 6 febbraio 2025, n. 2950) laddove si è ammessa l’applicazione retroattiva della sanzione in misura ridotta nel rispetto del principio del favor rei. Tali pronunce non sembrano peraltro escludere l’interpretazione propugnata dal momento che la decisione del 2021 riguarda la disciplina precedente (rispetto alla quale peraltro è intervenuta una circolare dell’Agenzia dell’Entrate favorevole al contribuente), mentre le ordinanze n. 34909 del 2024 e 2950 del 2025 hanno demandato al giudice del rinvio la decisione in concreto del caso di specie e la connessa valutazione della fondatezza della questione di illegittimità costituzionale. Con il secondo quesito, viene chiesto se sia applicabile alle sanzioni in esame la “definizione agevolata” potendosi considerare tuttora praticabile la facoltà di “ravvedimento operoso” di cui all’art. 16, comma 3, D.lgs. 472/1997 e, in caso affermativo, come debba calcolarsi l’entità del pagamento (33% o 23,3 %). In ordine al procedimento di irrogazione delle sanzioni, il D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472 e in particolare all’art. 16 co. 3 D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, così come modificato a decorrere dal 1 febbraio 2011, in base al quale “entro il termine previsto per la proposizione del ricorso, il trasgressore e i soggetti obbligati in solido possono definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata e comunque non inferiore ad un terzo dei minimi edittali, ovvero delle misure fisse o proporzionali per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo. le somme dovute possono essere versate anche ratealmente in un massimo di 8 rate trimestrali di pari importo ovvero in un massimo di 16 rate trimestrali se le somme dovute superano i 50.000 € (...). Sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi calcolati dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata. in caso di inadempimento dei pagamenti rateali si applicano le disposizioni di cui all’articolo 15 ter del decreto del presidente della repubblica 29 settembre 1973 n. 602. la definizione agevolata impedisce l’irrogazione delle sanzioni accessorie (...)”. Questa disposizione non è stata intaccata dalla riforma di cui al D.lgs. n. 87/2024 che, sotto altro profilo, ha invece ammesso la possibilità della definizione agevolata laddove ha modificato il comma 5 dell’art. 13 del medesimo decreto anche in caso di utilizzazione in compensazione di crediti esistenti. Ne consegue che, per le violazioni commesse entro il 31 agosto 2024, la misura della sanzione è commisurata ad un terzo del minimo edittale ovvero rASSEGNA AvvOCATurA DELLO STATO -N. 3-4/2024 il 100% della sanzione e conseguentemente è pari al 33% dell’importo dovuto e non versato. Mentre, per le violazioni commesse dal 1 settembre 2024, si ritiene applicabile la definizione agevolata mediante pagamento del terzo della sanzione amministrativa, che si applicherà sulla misura fissa del 70% del contributo dovuto e non versato, ovvero nella misura del 23,34%. *** Involgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 9 Maggio 2025. LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ Introduzione alla nozione giuridica di mafia Carlo Maria Pisana* Breviter: L’autore sintetizza i caratteri dell’associazione mafiosa secondo la norma definitoria dell’art. 416 bis c.p., ponendo a confronto la fattispecie normativa con la fenomenologia reale. Approfondisce in particolare l’emergenza di nuovi fenomeni criminali, che sono stati ricondotti al paradigma dell’associazione mafiosa mediante un adattamento interpretativo della norma codicistica pensata per contesti e territori molto diversi. SommArio: 1. La mafia si può mangiare? -2. La ricerca dei caratteri del fenomeno -3. La definizione normativa dell’art. 416 bis c.p. -4. il metodo mafioso -5. Le finalità dell’associazione mafiosa -6. Altre mafie: vecchie e nuove -7. Questioni poste dalle nuove mafie 8. Conclusione. 1. La mafia si può mangiare? La Mafia per lungo tempo non ha avuto cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano e, a dire il vero, neanche nelle conversazioni delle persone per bene. A Palermo, negli anni ’70, quando già i primi clamorosi omicidi di magistrati e uomini delle Forze dell’ordine erano stati commessi, la buona borghesia cittadina ne negava l’esistenza e addirittura accusava i giornalisti di volere screditare la Sicilia. Ricordo il signore del piano di sopra che parlando a mio padre, magistrato, diceva “mafia, mafia, ma che cos’è? si vede? si tocca? si può mangiare?” . Eppure c’era. 2. La ricerca dei caratteri del fenomeno Il primo passo per il riconoscimento giuridico della Mafia fu costituito (*) Avvocato dello Stato. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 dall’art. 1 della Legge 31 maggio 1967, n. 575 relativa alle misure di prevenzione ante delictum da applicarsi “agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso” (1). Negli anni precedenti l’attenzione del Parlamento si era indirizzata sul tema con l’istituzione di una commissione di inchiesta, ma non esisteva una definizione normativa di che cosa fosse la mafia (2). Pertanto, la giurisprudenza dovette supplire a tale lacuna attraverso un processo di elaborazione ricalcato sui caratteri del fenomeno sociologico presente nella Sicilia occidentale. Ciò portò a spostare la ricerca dell’elemento identificativo del fenomeno dall’aspetto organizzativo, proprio della associazione per delinquere, a quello della modalità di comportamento e dunque agli aspetti di vita individuale degli appartenenti e al metodo seguito. Quest’ultimo aspetto finì per essere determinante. Soltanto nel 1982, già assassinato il 3 agosto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, finalmente l’art. 1, L. 13 setembre 1982, n. 646 introdusse all’art. 416-bis del codice penale una fattispecie ad hoc tutt’oggi in vigore “Associazioni di tipo mafioso anche straniere” (3). 3. La definizione normativa dell’art. 416 bis c.p. La definizione di mafia, o meglio di associazione di tipo mafioso, si desume dal comma 3 dell’articolo: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. 4. il metodo mafioso L’elemento distintivo è costituito non da una caratteristica intrinseca dell’organizzazione, ma dall’adozione di un metodo e dalla persecuzione di specifici fini (4). Tale metodo si incentra sulla “forza di intimidazione del vincolo associativo”. (1) L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 1 “La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso …”. (2) La «Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia» fu prevista con la legge 20 dicembre 1962, n. 1720, ma si insediò soltanto nella seguente legislatura il 6 luglio 1963 e produsse importanti relazioni fine al termine dei lavori nel 1976. (3) La rubrica legis è stata arricchita del riferimento alle associazioni anche straniere nel 2008, a seguito dell’emergere di nuovi fenomeni di criminalità di importazione. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà Con il termine “forza” si designa la intrinseca idoneità di un aggregato umano di incutere paura nei terzi mediante un potere di fatto, che si esplica in modo arbitrario. Con il termine “intimidazione” si richiama il metus indotto in un ambito indeterminato di soggetti, costituenti il contesto di azione dell’associazione mafiosa. La specificità del fenomeno sta nel fatto che tale forza non deve appartenere a uno o più singoli, ma al gruppo in quanto tale: anzi possono partecipare e normalmente partecipano a siffatte associazioni persone che non hanno mai usato la violenza (e peraltro proprio in ciò risiede la natura pervasiva nel corpo sociale del fenomeno). La capacità di intimidazione può essere riconosciuta al gruppo criminale o per avere già utilizzato in passato la violenza, o per essere evidente al contesto di riferimento la sua capacità di farvi ricorso (5). un’altra caratteristica differenziale rispetto alla comune associazione per delinquere sta nella direzione della forza del vincolo. occorre in via generale osservare che una cosa è la forza del vincolo e un’altra è la forza dell’organizzazione espressa all’esterno come capacità di commettere determinate azioni. Mutuando i concetti della Fisica: la prima è la forza che unisce i neutroni del nucleo, la seconda è la quantità di moto impressa a un corpo. Nelle ordinarie associazioni per delinquere la forza del vincolo è diretta soltanto all’interno, allo scopo di mantenere la coesione e la sicurezza come gruppo. Nel caso della associazione mafiosa la forza di vincolo è diretta all’esterno del gruppo e grava sul contesto di riferimento, determinandone l’assoggettamento e l’omertà (6). La forza intimidatrice deve essere infatti tale da determinare una “condizione di assoggettamento e di omertà”. Al di sotto di tale limite non può pro (4) Significativa del rilievo distintivo del metodo una pronuncia in tema di aggravante mafiosa, di cui all’art. 416 bis 1 c.p.: “non è sufficiente il mero collegamento degli autori del reato con contesti di criminalità organizzata o la caratura mafiosa degli stessi; è necessario che venga utilizzato il metodo mafioso, ovvero che la condotta reato sia facilitata dalla forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo. Non è la modalità latamente “intimidatoria” di commissione del fatto … ma è l’essersi avvalsi di un radicamento già esistente di una organizzazione mafiosa in quel territorio come fattore di semplificazione della condotta illecita” Cass. pen., Sez. I, Sentenza, 12 marzo 2025, n. 22278 con riferimento a fatti di camorra. (5) Si è discusso sulla necessità o meno di riscontrare una serie ripetuta di fatti di violenza già compiuti facenti capo ad una specifica consorteria criminale. Questo specifico aspetto è stato approfondito dalla giurisprudenza dell’ultimo decennio, che si è dovuta confrontare con “nuove mafie” diverse da quelle “storiche”, con mafie delocalizzate, ossia fuori dai territori di origine, mafie “a soggettività differente”. (6) Cass. pen., Sez. I, 18 aprile 2012, n. 35627: “l’associazione di tipo mafioso si connota rispetto all’associazione per delinquere per la sua capacità di proiettarsi verso l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, per l’assoggettamento e l’omertà che è in grado di determinare diffusivamente nella collettività insediata nell’area di operatività del sodalizio, collettività nella quale la presenza associativa deve possedere la capacità di diffondere un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice ed intimidatrice del gruppo”. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 priamente parlarsi di mafia. Il contesto territoriale peraltro può anche essere molto ristretto. Di conseguenza si può ipotizzare che una nuova consorteria criminale viva “un momento di trapasso” dalla condizione di mera associazione per delinquere a quello di associazione di stampo mafioso, allorché può disporre di una sufficiente “fama” o “avviamento” criminale (7). L’assoggettamento consiste nella condizione di sudditanza, costrizione e soggezione indotta dalla forza del vincolo associativo, ossia dalla sua fama criminale, nel contesto in cui opera. Esso si risolve in una compressione della libertà morale. Con il termine “omertà”, il legislatore fa riferimento alla progressiva sfiducia dei cittadini nella idoneità dello Stato a garantire una valida protezione contro l’organizzazione criminale, quale effetto del protrarsi della condizione di assoggettamento. Ne segue l’indisponibilità a collaborare con le istituzioni. Assoggettamento ed omertà sono collegati da un nesso di causa-effetto alla forza intimidatrice. Sostanzialmente sono le patologie indotte nella società civile dall’incombenza dell’organismo dotato di forza intimidatoria. Differisce l’associazione di stampo mafioso dalla ordinaria associazione per delinquere per il rapporto tra mezzi e fini. La seconda è costituita al fine di commettere un numero indeterminato di delitti (8). La prima commette delitti per conseguire i suoi fini. In sostanza, commette delitti al fine di acquisire la “fama” criminale e intimidire il contesto di riferimento. Si avvale poi dello stato di soggezione così provocato, per conseguire i suoi scopi. L’uso del metodo intimidatorio porta in definitiva ad un potere dell’associazione riconosciuto nel contesto. Se volessimo utilizzare la classificazione delle legittimazioni del potere di Max Weber (potere tradizionale, potere carismatico e potere razionale) dovremmo concludere che quello mafioso è un potere razionale, cioé basato su un apparato e su regole condivise nel loro contesto, genus di legittimazione che, paradossalmente, appartiene anche allo Stato (9). (7) La questione non è pacifica poiché vi è anche chi sostiene che debba qualificarsi mafiosa anche l’associazione che non ha ancora raggiunto una fama criminale in grado di ottenere l’assoggettamento, ma ha commesso delitti per conseguirla e segue un metodo mafioso volto all’intimidazione. Altra questione, affrontata infra, attiene all’effettiva manifestazione della forza attraverso atti di violenza. Con riferimento alle “mafie delocalizzate” la Suprema Corte ritiene che: la configurabilità del delitto di cui all’art. 416-bis, cod. pen. non richiede necessarie forme di esteriorizzazione della forza intimi- datrice, caratterizzanti il sodalizio mafioso, in quanto la forza d’intimidazione posseduta e la tangibile percezione della stessa sul territorio di riferimento, in termini di assoggettamento e omertà, possono desumersi dalla replica del modulo organizzativo e dai tratti distintivi della “casa madre”, con la quale mantengono uno stretto legame” Cass. pen., Sez. v, Sentenza, 30 gennaio 2024, n. 14403 riferita a una “locale” di ‘ndrangheta a Torino. (8) Art. 416 c.p. comma 1: “Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni ”. (9) Max Weber “Economia e società” 1922 . LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà 5. Le finalità dell’associazione mafiosa Il fenomeno mafioso, nonostante la scia di sangue lasciata nel nostro Paese, non può definirsi come violenza bruta incontrollata. La violenza mafiosa non è cieca, ma razionale, ossia tesa a un fine esattamente come la violenza politica. Anzi è più razionale della violenza politica, poiché questa ha spesso fini utopistici, quella mafiosa ha obiettivi molto concreti. L’esibizione della ferocia anche estrema, tipica di alcune formazioni o di alcuni periodi, ha pur sempre uno scopo: o l’affermazione di un potere contestato, o l’acquisizione di una fama criminale. La norma incriminatrice, oltre alla commissione di delitti, indica quattro finalità : -“per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche”; -per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo “di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici”; -“o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”; -“ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto”. Le prime due sono espressive del fenomeno mafioso, la terza è una formula residuale, la quarta è anch’essa caratterizzante ed è stata introdotta successivamente (10). La prima finalità ha ad oggetto la penetrazione del potere mafioso, in qualunque forma si vada a manifestare, nel tessuto imprenditoriale. Può essere perseguita attraverso il tradizionale “pizzo”, in modo diretto, condizionando la cessione di attività attraverso danneggiamenti ripetuti o minacce personali, ma anche attraverso metodi meno cruenti quali l’erogazione di prestiti in momenti di difficoltà garantiti dalla partecipazione al capitale, dall’assunzione di uomini fidati o mediante forme di condizionamento esterno come rapporti di forniture essenziali, tipica quella del cemento o dei noli di macchinari, in regime esclusivo. Può costituire l’oggetto diretto dell’attività intimidatoria, o può avvenire in modo indiretto con il reimpiego di capitali provenienti da attività illecite. La seconda finalità individua il più conosciuto campo di azione delle organizzazioni mafiose, ossia quello degli appalti e dei provvedimenti espansivi della Pubblica Amministrazione. Si tratta di uno scopo sempre inerente all’inserimento in attività economiche, che vanno dalle concessioni di lavori, autorizzazioni all’esercizio di attività economiche, aggiudicazione di appalti di opere, forniture e servizi. La terza finalità elencata è, come si accennava, una formula residuale, (10) Il riferimento alla finalità di manipolazione elettorale è stato introdotto dall’art. 11-bis, D.L. 8 giugno 1992, n. 306. La stessa legge ha altresì introdotto l’art. 416 ter c.p. che punisco lo scambio elettorale politico-mafioso. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 volta a contenere gli obiettivi criminali sempre di tipo lucrativo, diversi da quelli sopra elencati. Il tenore letterale fa riferimento a profitti e vantaggi, indicando utilità, non necessariamente monetizzate, ma comunque di tipo economico (11). La quarta, introdotta nel 1992, risponde all’emersione inquietante della capacità delle organizzazioni mafiose di alterare la competizione elettorale, stringendo al contempo pericolose alleanze con amministrazioni locali o addirittura forze politiche di livello nazionale. A contrastare il fenomeno assolve anche la norma incriminatrice dell’art. 416 ter c.p. introdotto contestualmente e rubricato “scambio elettorale politico-mafioso”. Quanto detto non significa che l’associazione mafiosa non possa seguire anche altri obiettivi, di tipo intermedio. La finalità tipicamente mafiosa può convivere, ed anzi spesso convive, con altre finalità criminali, quali il traffico di stupefacenti (12), ma la finalizzazione ultima rimane comunque quella di acquisire un potere di natura economica, designato in letteratura come “monopolio”. La peculiarità risiede nella aspirazione al controllo assoluto di un territorio, ledendo con ciò il bene giuridico dell’ordine pubblico (13). occorre chiedersi se la tipizzazione compiuta dalla norma incriminatrice risponda a pieno al fenomeno criminale quale si manifesta nella società. La norma lega il fenomeno mafioso al conseguimento di una finalità economica. Ciò mi pare limitativo. La fenomenologia reale sembra indicare piuttosto una finalità di acquisizione e mantenimento del potere in un contesto, obiettivo non necessariamente monetizzabile. Questa definizione della norma incriminatrice ha costretto la giurisprudenza a forzature per poter ricondurre alla nozione dell’art. 416 bis i condizionamenti finalizzati alla assunzione in posti (11) Cass. pen., Sez. I, 1 ottobre 2014, n. 16353 ha invece riportato alla categoria dei “vantaggi ingiusti” il fine perseguito con metodo mafioso di affermarsi come gruppo egemone nella comunità nigeriana di Torino: “L’art. 416-bis c.p., come è noto, nel tipizzare l’associazione di tipo mafioso, dopo averne descritto, nei primi due commi e nella parte iniziale del terzo comma, i requisiti di natura strutturale, indica e descrive le finalità perseguite dal sodalizio affinché possa, appunto, riconoscersi giuridicamente nella figura delineata dalla norma incriminatrice. …Tra dette finalità quella accertata nella vicenda … è quella descritta come realizzazione di “profitti o vantaggi ingiusti per sè o per altri”. La formula normativa fa riferimento infatti non soltanto a profitti di natura economica, bensì anche a “vantaggi ingiusti”, genericamente ed atipicamente indicati … Nel caso di specie il vantaggio ingiusto conseguito dai due gruppi organizzati coinvolti nei fatti di causa è quello di apparire ed affermarsi come il gruppo egemone della numerosa ed affollata comunità nigeriana di Torino …”. (12) “rispondono sia del reato di associazione finalizzata al narcotraffico che di quello di associazione di tipo mafioso, qualora il traffico di stupefacenti rientri tra le attività dell’associazione mafiosa e sia gestito attraverso un’associazione appositamente costituita, diretta dai componenti di quella mafiosa, non solo questi ultimi, ma anche coloro che abbiano operato esclusivamente nell’ambito del traffico di stupefacenti, purché nella consapevolezza che lo stesso fosse gestito dal sodalizio mafioso” Cass. pen., Sez. vI, Sentenza, 20 marzo 2025, n. 17002. (13) “L’associazione di tipo mafioso … pone a rischio i beni giuridici … con particolare riguardo all’ordine pubblico, all’iniziativa economica e alla libera partecipazione dei cittadini alla vita politica” Cass. pen., Sez. vI, 6 marzo 2024, n. 17511. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà pubblici: ossia a ipotizzare che si tratti di un obiettivo intermedio consistente nel consolidamento del consenso sociale, pur sempre funzionale al conseguimento fine ultimo economico. In sostanza, si può dubitare che il potere economico sia la finalità e non piuttosto il mezzo per conseguire il puro e semplice potere su una comunità, rivaleggiando con il potere costituito. La tesi non è nuova: anche i primi studiosi della Mafia ne hanno riconosciuto la natura di ordinamento giuridico (14) a sé stante. 6. Altre mafie: vecchie e nuove Infine, vale la pena di porre attenzione sull’ultimo comma dell’articolo in esame: “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”. La disposizione supera l’ottica localistica, che identificava la Mafia con il territorio siciliano, per dare atto che si tratta di un modello criminale già riprodotto tradizionalmente in altre aree del territorio nazionale, sia pure con caratteristiche proprie. La Camorra campana risulta menzionata dalla norma fin dall’origine, mentre la menzione della ‘Ndrangheta calabrese era stata introdotta nel 2010 con norma poi abrogata. Il comma in oggetto, infatti, non richiede una elencazione nominativa delle organizzazioni di stampo mafioso esistenti (vi sarebbero anche la Sacra Corona unita pugliese e la Società Foggiana, ultima nata delle formazioni tradizionali). Ciò che è sufficiente ad attribuire la connotazione mafiosa a una associazione per delinquere non è il territorio di origine, ma la rispondenza al modello dell’art. 416 bis c.p. e quindi il ricorso al binomio intimidazione/soggezione. La norma trova quindi applicazione anche alle mafie di importazione, che impongono il proprio potere in un contesto spesso non territoriale ma sociale, come per esempio un determinato ramo di attività criminale o un gruppo di immigrazione, nonché alle nuove mafie che tendono a riprodurre i modelli tradizionali in altre parti del territorio nazionale. 7. Questioni poste dalle nuove mafie La comparsa di nuove formazioni mafiose pone all’interprete nuovi quesiti, vertenti sulla possibilità di ricondurre tali fenomeni criminali al paradigma normativo elaborato in relazione a realtà sociali e territoriali molto diverse. Si tratta di organizzazioni criminali di importazione, in concomitanza con la trasformazione del nostro Paese da terra di emigrazione in terra di immi (14) Notissima la tesi della Mafia come ordinamento giuridico espressa dal SANTI RoMANo in “L’ordinamento giuridico” Pisa 1917. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 grazione. Ma anche di trasferimento di metodi criminali propri di alcune zone del territorio nazionale in altre diverse. La migrazione delle mafie al Nord è infatti un fatto ben conosciuto ormai e oggetto di numerosi processi. Inoltre, vi è l’evoluzione di vecchi paradigmi nelle stesse terre di origine. In relazione alle mafie di importazione si è posto, ai fini della riconoscibilità dello schema normativo, una duplice questione: se fosse ipotizzabile un metodo mafioso il cui contesto di riferimento non è territoriale; se la finalità perseguita dovesse necessariamente essere di tipo economico. Mi sembra emblematico il caso, che portò alla ribalta la mafia nigeriana, affrontato dalla Cass. pen., Sez. I, Sent., 1 ottobre 2014, n. 16353. Nei primi anni 2000 a Torino imperversava la criminalità di origine di tale paese ai danni di altri emigrati della medesima provenienza. È emerso un fenomeno storico e sociologico sorto in Nigeria e riproposto in Italia. In Nigeria, infatti, si erano formati gruppi organizzati di origine tribale, i quali, originariamente costituitisi con finalità solidaristiche, si sono nel tempo trasformati in clan violenti, definiti SECRET CuLTS, tra loro contrapposti con fini di predominio territoriale e solidarietà criminale, gerarchicamente organizzati e militarmente strutturati anche sulla base di riti simbolici di iniziazione. Nella città di Torino, all’epoca, operavano due clan costituiti da almeno 100 adepti ciascuno, quello degli EIYE e quello dei BLACK AXE. La forza intimidatoria del vincolo nel presente caso era rivolta esclusivamente nei confronti della comunità nigeriana: quindi priva di un territorio e circoscritta a un contesto etnico (15). I due gruppi non sembravano perseguire una vera e propria finalità economica, ma il predominio sulla intera comunità nigeriana della città. In relazione al primo quesito, ossia “mafia senza territorio”, “la Corte ha ritenuto corretta la contestazione a carico dei ricorrenti ai sensi dell’art. 416bis c.p. in relazione al loro inserimento in uno dei due gruppi dedotti in giudizio e questo pur in considerazione del carattere esclusivamente etnico dei due sodalizi e della operatività dei medesimi nell’ambito della comunità nigeriana, accertatamente assai numerosa, di Torino”. In relazione al secondo, ossia “mafia non solo per denaro”, ha affermato che “La formula normativa fa riferimento, infatti, non soltanto a profitti di natura economica, bensì anche a “vantaggi ingiusti”, genericamente ed atipicamente indicati … Nel caso di specie il vantaggio ingiusto conseguito dai due gruppi organizzati coinvolti nei fatti di causa è quello di apparire ed affermarsi come il gruppo egemone”. Le nuove mafie nazionali (le mafie “delocalizzate”, ossia fuori dai territori di origine, e le mafie “a soggettività differente”, ossia caratterizzate dalla presenza di un soggetto già membro di un’altra organizzazione cessata) hanno (15) una riproposizione insomma del regime della “capitazione” dell’epoca dei regni romano- barbarici. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà posto ulteriori quesiti ermeneutici. Si è discusso se per potersi ravvisare il requisito della “forza del vincolo associativo” idoneo a produrre intimidazione, fosse necessario o meno di riscontrare una pregressa serie ripetuta di fatti di violenza propri di una specifica consorteria criminale. Quanto alle mafie delocalizzate, il tema è stato affrontato dalla Cass. pen., Sez. v, Sentenza, 30 gennaio 2024, n. 14403 in relazione alla “Locale” della ‘ndrangheta operante a Torino e provincia (16), diretta emanazione della “locale di San mauro marchesato”. La locale torinese era in stretto collegamento con alcune delle altre strutture della 'ndrangheta piemontese e con le strutture della Calabria, rispetto alle quali manteneva autonomia organizzativa e potere decisionale sul territorio. La peculiarità sta nel fatto che l’organizzazione, pur esercitando una forza intimidatrice, non aveva compiuto quella serie di reati sul territorio che valgono a conquistare la “fama criminale”. La Corte ha ritenuto in proposito che: “il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. possa ritenersi concretamente configurato anche nell’ipotesi in cui non vi siano forme manifeste di esteriorizzazione della forza intimidatrice. E tanto non solo non rappresenta una violazione del principio di legalità, ma non comporta neanche l’illogica deduzione che non occorra provare l’esistenza dei presupposti fondanti la fattispecie. Ciò che caratterizza il sodalizio mafioso è la forza di intimidazione posseduta e la tangibile percezione che di essa ne ha il territorio di riferimento, in termini di assoggettamento ed omertà. Elementi che, proprio in quanto riferiti ad una diffuso stato di soggezione psicologica, ben possono desumersi dal semplice collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” (in relazione alla quale tali elementi risultano storicamente provati), della quale la prima conserva il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere) e i relativi tratti distintivi”. La replicazione di uno schema già dotato di capacità intimidatoria rende pertanto possibile l’assoggettamento e l’esercizio del potere mafioso, pur in assenza di particolare esibizione di violenza. Ancora più particolare è la situazione del “gruppo mafioso a soggettività differente”. Tale fenomeno è stato considerato come la figura intermedia tra mafie nuove e mafie storiche. Infatti, in questi casi si assiste all’inserimento all’interno di una nuova formazione, con ruolo organizzativo, di un soggetto già noto sul territorio per appartenenza ad altra organizzazione cessata. ora, la nuova associazione riesce a imporre una nuova e diffusa condizione di omertà, mutuando per gemmazione, il carattere intimidatorio della vecchia associazione mafiosa nei confronti della collettività. Quindi non esteriorizza la manifestazione della forza. L’argomento è (16) È solo una coincidenza che il caso giudiziario si riferisca alla stessa città piemontese. Sarebbe errato desumerne che sia divenuta la nuova capitale delle mafie. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 stato approfondito dalla Cass. pen., Sez. II, Sentenza, 17 maggio 2024, n. 24901 in un caso riguardante la Società Foggiana. osserva la Corte che sebbene il gruppo a “soggettività differente, rientra nelle categorie già analizzate delle “nuove mafie” o “mafie atipiche”, deve pur sempre sottolinearsi che l’inserimento, spesso con ruolo direttivo od organizzativo, di un soggetto già definitivamente condannato per 416-bis cod. pen., in qualche modo muta il tema della necessaria prova della esteriorizzazione; ed invero l’inserimento del soggetto definitivamente condannato proprio per partecipazione ad associazione mafiosa, richiama il potere intimidatorio scaturente dalla precedente partecipazione”. Pertanto “finisce per mutuare, quanto meno in parte, il vincolo intimidatorio in precedenza già manifestatosi, sfruttandone la fama criminale”. In definitiva, le nuove realtà fenomeniche hanno portato la giurisprudenza ad applicare la fattispecie incriminatrice al di fuori dell’originario schema, ravvisando l’associazione di stampo mafioso anche qualora la forza del vincolo non abbia richiesto esteriorizzazioni violente, perché già conosciuta e rispettata nel contesto di azione. Lo stesso contesto, originariamente concepito in chiave territoriale, può declinarsi in modo diverso purché vi sia la possibilità di ricondurre i soggetti coartati alla nozione sociologica di gruppo. 8. Conclusione In definitiva, la norma definitoria dell’associazione di tipo mafioso, introdotta 40 anni fa dopo tanta attesa, dimostra tutt’oggi vitalità e capacità di adattamento alle nuove realtà criminali, purtroppo non rassicuranti, che accompagnano i nuovi fenomeni sociali del nostro Paese. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà Il commissariamento come strumento per la realizzazione delle grandi opere pubbliche Francesco Caporaso* relazione al convegno “il nuovo codice dei contratti. Un primo bilancio applicativo”, organizzato dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro il 17 giugno 2025 presso la Sala del Tricolore della Prefettura di Catanzaro. il relatore, direttore centrale Anas, non giurista, si sofferma sulle ragioni del commissariamento delle opere pubbliche e, soprattutto, focalizza un profilo rimasto del tutto in ombra in questa materia: il tema sul quale concentrarsi non è la durata delle procedure di appalto (comunque molto più lunga che negli altri Paesi europei), ma soprattutto i tempi lunghissimi tra l’ideazione dell’opera e l’avvio dell’appalto, tempi sui quali può intervenire utilmente il commissariamento. «vorrei raccontarvi qual è stata la mia esperienza nel realizzare l’impegno che mi era stato assegnato e come l’ho interpretato. Io sono commissario su un’opera dal 2021 e su un’altra dal 2025. Il commissariamento ha un perimetro particolare e anche abbastanza scivoloso, secondo me. Io ho interpretato questo ruolo su tre cardini fondamentali: il primo è “le aree di intervento dei poteri commissariali ”, in particolare sull’iter approvativo degli interventi; il secondo cardine è “il presidio unitario dei processi del commissario straordinario del governo”; il terzo cardine è “l’attività di monitoraggio estesa all’intera filiera delle commesse per tramite dei protocolli legalità”. A questo proposito io devo ringraziare tutti i Prefetti: alcuni protocolli sono stati già stipulati, in particolare con Catanzaro e vibo valentia -sto facendo riferimento alle opere di cui sono commissario -e a Cosenza abbiamo già avuto una grande esperienza fuori dal commissariamento. Alcuni protocolli, invece, li dovrò stipulare a breve, ma anche questa è stata un’esperienza estremamente costruttiva, perché mi ha consentito di raggiungere gli obiettivi, di ridurre le perdite di tempo, e a volte anche di raggiungere l’obiettivo che altrimenti non si sarebbe potuto raggiungere. Ho sviluppato questo intervento in due punti fondamentali, cercando di dare conto della mia interpretazione della figura del commissario di governo e poi ho predisposto una breve presentazione che dà atto, con delle immagini (*) Ingegnere, Direttore centrale Anas. Commissario straordinario per la riqualificazione della s.s. 106 Ionica e per gli interventi infrastrutturali sulla s.s. 182 “Trasversale delle serre”. Si riceve e si pubblica il presente contributo (n.d.r.). RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 estremamente significative, di come ho messo a terra le opere di cui sono commissario. La difficoltà principale che ho avuto fin dall’inizio, quando mi è stato assegnato questo ruolo, è stata rappresentata dall’individuazione dei confini del commissariamento: cosa può fare un commissario? L’attenzione, poi, l’ho limitata all’esperienza dei commissariamenti disposti in base alla disciplina dettata dal decreto 32/2019, cosiddetto “sblocca cantieri”, previsti nella realizzazione di interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità progettuale. Il decreto legge 32/2019 ha attirato subito le critiche di molti osservatori e le preoccupazioni di ANAC, che evidenziava come la norma non prevedesse criteri in base ai quali individuare gli interventi prioritari e non indicasse la normativa applicabile in concreto, lasciando ai singoli commissari la soluzione dei problemi applicativi e interpretativi. I legittimi dubbi di ANAC erano accresciuti dalla formulazione normativa dei poteri derogatori dei commissari, prevedendo che essi operano in deroga alle disposizioni di legge in materia di contratti pubblici, fatto salvo il rispetto dei principi comuni relativi alle modalità di affidamento ed esecuzione degli appalti (di alcuni di questi principi), e delle disposizioni del codice delle leggi antimafia, delle misure di prevenzione, ma anche di quelli relativi all’applicazione delle norme in materia di valutazione di impatto ambientale e di beni culturali. Quindi si capisce immediatamente l’ampiezza di questi poteri derogatori e la difficoltà di chi viene chiamato a prendere una decisione rispetto a un “bazooka” che gli viene fornito. L’esperienza maturata nell’ambito dei commissariamenti di opere stradali dimostra però come, nei fatti, sia stato molto limitato il ricorso ai poteri derogatori, da porsi anche in relazione con la scelta operata dalla totalità dei commissari straordinari -perlomeno di ANAS, quindi di infrastrutture stradali di non avvalersi della facoltà riconosciuta alla norma di assumere le funzioni di stazione appaltante, avvalendosi a tal fine delle strutture di ANAS come soggetto attuatore. ANAS ha operato nelle procedure di affidamento nell’ordinaria applicazione del Codice degli appalti, senza nessuna deroga, tranne rarissime eccezioni. Si aggiunga che, a scongiurare comunque le criticità evidenziate da ANAC, è intervenuto il Piano Nazionale Anticorruzione del 2022, in cui sono state proposte alcune possibili misure di prevenzione a cui anche le strutture commissariali potevano fare riferimento. Successivamente, in continuità con gli indirizzi già espressi, l’ANAC ha anche promosso la prevenzione e il contrasto ai casi di cattiva amministrazione che possono interessare sia i commissari straordinari di governo sia i relativi soggetti attuatori, mediante l’indicazione di misure aggiuntive. ultimamente, c’è una delibera interessante di ANAC del febbraio 2025 su questo tema. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà Arriviamo al primo cardine, cioè quello dell’iter approvativo degli interventi. L’esperienza maturata rispetto agli interventi infrastrutturali stradali ha posto in evidenza come l’area di maggior intervento dei commissari straordinari -quindi non solo mia, ma anche di quelli che operano su tutto il territorio nazionale, perlomeno sulle infrastrutture stradali e sulla rete ferroviaria -è costituita dall’iter approvativo delle opere. L’articolo 4, comma 2, del decreto 32 prevede il dimezzamento dei termini dei procedimenti in materia ambientale e la fissazione in sessanta giorni dei termini in materia di tutela di beni culturali e paesaggistici, costituendo pertanto il principale riferimento normativo di accelerazione procedurale. Nell’ambito dei procedimenti autorizzativi in tema ambientale è da evidenziare la possibilità, sempre riconosciuta dal decreto legge 32, per il Commissario di governo, d’intesa con i Presidenti delle Regioni territorialmente competenti, di richiedere al Ministero dell’Ambiente di individuare la Regione quale autorità competente allo svolgimento della procedura di vIA o alla verifica di assoggettabilità a vIA. Questo passaggio è quello più importante, in quanto ha consentito a molte procedure commissariali di arrivare a terra, cioè di essere appaltate in tempi veramente rapidi, in particolare in Calabria. La norma risponde all’esigenza di incidere sulle tempistiche di rilascio dei pareri di competenza della Commissione vIA, in ragione del carico di lavoro di cui è aggravata. Perché? Mentre le opere del PNRR hanno una corsia privilegiata, le opere, seppur commissariate, seguono un iter che a volte porta a tempistiche inimmaginabili, di anni. L’altro cardine era quello del presidio unitario dei processi. Perché il commissario riesce ad incidere e ottenere risultati concreti? Non può essere sottovalutata la possibilità di interlocuzione diretta dei commissari con i singoli uffici competenti al rilascio dei pareri, in un dedalo di norme pazzesco. Sul piano operativo, qualsiasi stazione appaltante, con un’organizzazione mediamente complessa, interloquisce con i singoli enti competenti al rilascio dei nulla osta o dei pareri di competenza, riflettendo il carattere complesso della propria organizzazione, spesso quindi in maniera frammentata e talvolta senza un presidio unitario dei processi. La figura commissariale ha il grande vantaggio di consentire un presidio unitario e una unitaria interlocuzione con gli enti che incidono nell’iter approvativo. Se poi riesce, anche nei confronti degli enti, grazie all’interlocuzione che può avere con i loro vertici, a far sì che gli stessi procedano a una semplificazione dei processi endoprocedimentali, questo effetto è ancora più significativo. Ciò attiene più a una sorta di “moral suasion”, che non all’esercizio dei poteri derogatori. Nell’esperienza maturata, l’impressione è che la forza persuasiva dell’in RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 terlocuzione del commissario straordinario si fondi proprio sull’attribuzione dei poteri derogatori, per quanto non esercitati. Questo deve essere posto in relazione anche con la struttura snella che assiste i commissari straordinari: le strutture commissariali costituite da poche unità, che fanno da staff al commissario e lo aiutano nei processi estremamente complessi. L’impressione nitida è che a un’organizzazione complessa corrispondano processi complessi e di complessa gestione. Tutto questo porta ad affrontare il tema del possibile ruolo dei commissariamenti nell’ambito del nuovo codice degli appalti, che è il tema del vostro convegno, che appunto muove dal dichiarato fine di semplificare le procedure di appalto. Il d.lgs. 36 ha quello scopo: incentivare la competenza tecnica e garantire maggiore trasparenza ed equità nel settore. già dai principi enunciati nei primi articoli -come il principio del risultato, il principio della fiducia e il principio dell’accesso al mercato -emerge chiaramente l’intento del legislatore. A questi si aggiungono numerose disposizioni, tra cui il tema della digitalizzazione, oggi molto discusso, che rappresentano un volano per la modernizzazione dei processi d’appalto. occorrerà però ancora del tempo per capire se ci sarà una reale efficacia delle misure adottate. L’impressione, desumibile anche dalla gestione commissariale, è che nonostante lo sforzo innegabile del legislatore vi siano ancora resistenze applicative che potrebbero rendere tuttora attuale lo strumento del commissariamento. Le resistenze principali sono connesse all’inesistenza, per così dire, di un vocabolario comune, di una cassetta degli attrezzi uguale per tutti gli attori dei processi approvativi dell’opera. Sempre più spesso accade che gli uffici competenti alla cura degli aspetti ambientali richiedano di essere ingaggiati a norma del codice dell’ambiente; quelli della tutela dei beni archeologici e paesaggistici a norma del codice dei beni culturali; le stazioni appaltanti, invece, si muovano secondo il codice dei contratti. Non è agevole operare una sintesi efficace tra norme di corpi normativi così eterogenei e complessi. In questo senso, quindi, la figura commissariale può continuare a esercitare un ruolo, non tanto in un’ottica necessariamente derogatoria, come ho detto, quanto piuttosto di mediazione, potendo assolvere una funzione propulsiva nell’ottica della garanzia dei tempi. Se questi sono lasciati alla gestione di organizzazioni complesse, rischiano di permearsi di tale complessità e sfociare in ritardi, che a volte rendono impossibile realizzare l’opera. volendo semplificare il quadro, il tema di fronte è quello dell’efficienza. Rispetto a questo, la figura commissariale di cui al decreto legge 32, nell’esperienza delle infrastrutture stradali, può dirsi che ha portato significativi risultati. Questo è assolutamente vero, perlomeno qui in Calabria. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà Ho fatto cenno, all’inizio, alle preoccupazioni palesate da ANAC nell’imminenza dell’adozione delle norme del decreto 32, e il tema della prevenzione e del contrasto dei casi di cattiva amministrazione ha occupato per i commissari ANAS una sicura centralità. oltre alla possibilità di adesione al protocollo di intesa per la vigilanza collaborativa sugli interventi infrastrutturali prioritari con ANAC e oltre al- l’attenzione agli aspetti connessi alla sicurezza sui luoghi di lavoro, e più in generale al tema occupazionale -connesso al protocollo tra Ministero delle Infrastrutture e sindacati, che ha caratterizzato l’azione di tutti i commissari, che presidia tutte le opere commissariate -i commissari straordinari, mutuando la consolidata esperienza già maturata in ANAS, si sono fatti promotori della stipula con le Prefetture di stringenti protocolli di legalità. Ma non solo, perché per esempio con la Prefettura di Catanzaro e con la Prefettura di vibo valentia abbiamo stipulato anche dei protocolli che, nel solco del protocollo generale stipulato con le parti sociali, vanno a incidere sulla riduzione e sulla prevenzione degli incidenti sui luoghi di lavoro. La pervasività di queste attività di monitoraggio e dei protocolli di legalità è evidente sin dalle previsioni in tema di conferimento di dati relativi a tutti gli affidamenti che gravitano intorno alla commessa, oltreché in tema di estensione delle verifiche antimafia, di settimanale di cantiere che reca l’esatta indicazione delle attività e presenze in cantiere, dell’obbligo per l’affidatario di introdurre clausole risolutive espresse nei contratti di sua competenza per tutte le ipotesi previste nel protocollo. ulteriori disposizioni riguardano la prevenzione delle interferenze illecite di natura mafiosa, con specifico riferimento ad eventuali mancate denunce di atti intimidatori o illecite richieste, il monitoraggio e il tracciamento ai fini della trasparenza dei flussi di manodopera, le verifiche sulle procedure di esproprio: insomma, tutti gli aspetti connessi o legati al ciclo di vita della commessa sono scandagliati con il supporto della Prefettura e del gruppo interforze, non residuando alcun aspetto della vita esecutiva dell’appalto che non sia oggetto di incisivo controllo. Detto questo, per fare il punto di quello che ho fatto secondo il mio modo di interpretare e modulare l’azione del commissario ho predisposto questa presentazione(*) ». (*) Presentazione pubblicata sulla home page dell’Avvocatura dello Stato, Sezione dedicata a questa Rassegna all’indirizzo https://www.avvocaturastato.it/sites/avvocaturastato.it/files/2025-09/Caporaso% 20e%20slides_Layout%201.pdf. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 Profili giuridici e ruolo delle istituzioni nel sostenere gli operatori di pubblica sicurezza Gaetana Natale* SommArio: 1. introduzione. La crescente attenzione del legislatore e delle istituzioni verso la tutela della salute psicologica del personale della sicurezza -2. il quadro normativo di riferimento -2.1. La Costituzione e i principi fondamentali -2.2. il Codice dell’ordinamento militare e i regolamenti attuativi -2.3. La normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro -2.4. La normativa speciale e le circolari ministeriali -3. il ruolo delle istituzioni nel sostegno psicologico -3.1. Programmi di prevenzione e formazione e interventi post-evento traumatico -4. il disagio psicologico: riconoscimento e gestione -4.1. il minnesota multiphasic Personality inventory e il sindacato del giudice amministrativo -4.2. Emozioni, resilienza e intelligenza emotiva nel contesto operativo -5. L’inidoneità al servizio e l’inattitudine sopravvenuta -5.1. Quando il disagio “sconfina” nell’inidoneità -5.2. il principio dirimente: l’Adunanza Plenaria sulla Polizia di Stato -5.3. Le conseguenze operative della distinzione -6. Conclusioni. 1. introduzione. La crescente attenzione del legislatore e delle istituzioni verso la tutela della salute psicologica del personale della sicurezza. Il tema del benessere e del malessere lavorativo costituisce oggetto di approfondimento in numerosi ambiti disciplinari, trovando nel diritto un terreno particolarmente sensibile. La normativa comunitaria e nazionale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ha progressivamente posto l’accento sull’esigenza di valutare e gestire i rischi psicosociali, nonché di monitorare i fattori stressogeni legati al contesto e al contenuto della prestazione lavorativa. Tale evoluzione ha favorito la diffusione di una cultura orientata alla tutela complessiva della salute del lavoratore, intesa non più soltanto nella sua dimensione fisica, ma anche psichica. Nel descritto quadro, la salvaguardia della salute psicologica degli operatori delle Forze armate e delle Forze di polizia ad ordinamento militare assume oggi un rilievo centrale, poiché richiede un delicato bilanciamento tra il rispetto dei diritti fondamentali della persona, le esigenze organizzative e i profili di sicurezza collettiva. L’equilibrio tra corpo e mente, difatti, non rappresenta un mero diritto individuale, ma costituisce il presupposto funzionale per l’adempimento efficace di compiti che incidono direttamente sulla difesa nazionale e sulla tutela dell’ordine pubblico. La crescente consapevolezza circa l’impatto che il disagio psicologico esercita sulla performance operativa -si pensi al burnout, allo stress da missione o ai disturbi post-traumatici da stress -ha indotto le istituzioni a predi (*) Avvocato dello Stato e professore di Sistemi giuridici Comparati. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà sporre strumenti di prevenzione, monitoraggio e sostegno sempre maggiori. Peraltro, tale sforzo deve costantemente confrontarsi con il quadro normativo e giurisprudenziale che disciplina l’idoneità psico-fisica al servizio, quadro che, nei casi più gravi, può condurre alla dichiarazione di inidoneità o di inattitudine sopravvenuta, con conseguenze significative per la carriera dell’operatore. Ne deriva che il ruolo delle istituzioni non può esaurirsi in una funzione meramente valutativa o di controllo, ma deve estendersi sino a ricomprendere la responsabilità di garantire condizioni ambientali e organizzative idonee a tutelare il benessere complessivo del personale. In tale prospettiva si colloca, ad esempio, il lavoro del Comitato tecnico- scientifico istituito dallo Stato Maggiore della Difesa per lo studio dei disturbi mentali nel personale militare, impegnato nella definizione di linee guida contenenti criteri diagnostici specifici per i disturbi traumatici e le manifestazioni psicopatologiche del disagio in ambito militare. Tra gli strumenti elaborati, merita particolare menzione la scheda di rilevamento dell’evento psicotraumatico, destinata a migliorare i flussi informativi e a favorire la diagnosi categoriale dei disturbi correlati al trauma. 2. il quadro normativo di riferimento. 2.1. La Costituzione e i principi fondamentali. La Costituzione italiana pone all’art. 32 la centralità della salute, intesa quale diritto fondamentale del singolo e quale interesse della collettività, riconoscendone la necessità di tutelare tanto la dimensione fisica quanto quella psichica. Il diritto alla salute costituisce, al contempo, un limite all’esercizio del- l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), che non può esplicarsi se non nel rispetto di regole poste a tutela della dignità e integrità del lavoratore. A ciò si aggiunge la previsione di cui all’art. 35 Cost., che impegna la Repubblica a tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Per il personale militare e delle Forze di polizia, il diritto alla salute si interseca con il dovere costituzionale di difesa della Patria (art. 52 Cost.), il quale implica disponibilità, efficienza e prontezza operativa. Ne discende un rapporto intrinsecamente delicato tra tutela individuale e interesse pubblico: da un lato, la salute del singolo deve essere preservata e garantita; dall’altro lato, l’idoneità psico-fisica al servizio si configura quale requisito imprescindibile per l’espletamento delle funzioni istituzionali. 2.2. il Codice dell’ordinamento militare e i regolamenti attuativi. Il D.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (“Codice dell’ordinamento militare”), costituisce la primaria fonte normativa in materia. In particolare, esso disciplina i requisiti di idoneità psico-fisica per l’ac RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 cesso e la permanenza nei ruoli delle Forze armate, gli accertamenti periodici affidati alle commissioni mediche ospedaliere, e le procedure per il collocamento in congedo, in aspettativa o per il transito nei ruoli civili nei casi di accertata inidoneità. Il d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (“Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”), integra tale disciplina, dettando regole di dettaglio sulle modalità di esecuzione delle visite mediche, sulla composizione delle commissioni sanitarie e sulle forme di tutela giurisdizionale avverso i relativi provvedimenti. L’impiego del personale militare e di polizia è connotato dal rifiuto della dimensione negoziale, tipica del rapporto privatistico, e della conseguente collocazione in una posizione di “soggezione speciale” rispetto all’Amministrazione. Tale vincolo di status si traduce in doveri e prerogative che trovano giustificazione nell’esigenza di perseguire l’interesse generale, riflesso nella rigida disciplina pubblicistica che governa i rapporti di servizio. un momento di svolta è rappresentato dall’emanazione della Legge 1 aprile 1981, n. 121, che ha riformato l’ordinamento della Polizia di Stato. L’art. 3, co. 1, ha qualificato l’Amministrazione della pubblica sicurezza come “civile”, sebbene ad ordinamento speciale, mantenendo comunque una struttura piramidale e gerarchica che richiama i modelli militari. In tale contesto, l’art. 36 ha delegato il governo ad emanare decreti attuativi volti a disciplinare, tra l’altro, il passaggio del personale giudicato non idoneo ad altre qualifiche equivalenti all’interno della stessa Amministrazione o di altre amministrazioni statali. In attuazione di tale previsione è stato adottato il d.P.R. 24 aprile 1982, n. 339 (“Passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato”), il cui art. 1 (1) regola il trasferimento del dipendente dichiarato assolutamente inidoneo ai compiti originari, a condizione che la sua infermità ne consenta un diverso impiego. L’inidoneità psico-fisica, pertanto, non deve necessariamente tradursi in un’incapacità lavorativa assoluta: in tale ultimo caso, difatti, opererebbe il regime ordinario della dispensa dal servizio. Tale coerenza interna dell’ordinamento conferma come l’inidoneità assoluta comporti la cessazione del rapporto, mentre nei casi residui si prediliga la ricollocazione del dipendente. (1) Art. 1, d.P.R. n. 339/1982: “il personale dei ruoli della Polizia di Stato, che espleta funzioni di polizia, giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all’assolvimento dei compiti d’istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l’infermità accertata ne consenta lo ulteriore impiego. La domanda deve essere presentata al Dipartimento della pubblica sicurezza entro trenta giorni dalla notifica all’interessato del giudizio di inidoneità assoluta”. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà 2.3. La normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. un riferimento imprescindibile in materia è rappresentato dalla Direttiva 89/391/CEE, recepita inizialmente con il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e oggi confluita nel D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (“Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro”). La disciplina trova applicazione anche al settore militare, pur con alcune deroghe giustificate da ragioni di sicurezza nazionale. Ai sensi dell’art. 28, è imposto l’obbligo di valutare tutti i rischi connessi all’attività lavorativa, compresi quelli di natura psicosociale e da stress lavoro- correlato. Tale previsione ha favorito l’introduzione, anche nelle Forze armate, di programmi di prevenzione e gestione del disagio psicologico. La valutazione dei rischi è effettuata sotto il controllo della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, ed è articolata in due fasi: una valutazione oggettiva, condotta tramite osservazioni dirette, indicatori aziendali e check list; una valutazione soggettiva, basata su questionari strutturati, focus group e interviste. Il D.Lgs. n. 81/2008 ha in tal modo inaugurato un ampio dibattito metodologico ed epistemologico sulla misurazione dello stress lavoro-correlato, aprendo la strada a strumenti di analisi sempre più sofisticati e funzionali alla prevenzione dei rischi psicosociali. 2.4. La normativa speciale e le circolari ministeriali. Accanto alle fonti primarie, un ruolo significativo è svolto dalle circolari e direttive emanate dal Ministero della Difesa e dal Ministero dell’Interno. Tali atti, pur non avendo forza di legge, stabiliscono protocolli operativi, procedure di monitoraggio del personale e criteri di gestione dei casi di fragilità psicologica. La loro funzione di indirizzo contribuisce a garantire uniformità di azione amministrativa e costituisce un parametro di legittimità per l’operato delle amministrazioni. Inoltre, le linee guida adottate a livello istituzionale -predisposte dai Ministeri competenti, dalle Regioni, dall’INAIL e dall’ISPESL, e approvate in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni -rappresentano strumenti essenziali di coordinamento, volti ad assicurare un’applicazione omogenea della normativa in materia di salute e sicurezza anche in settori caratterizzati da particolari esigenze operative. 3. il ruolo delle istituzioni nel sostegno psicologico. Nello svolgimento delle proprie funzioni, gli operatori di pubblica sicurezza sono esposti a situazioni ad elevato impatto emotivo e potenzialmente traumatiche. Ne deriva la necessità di una pianificazione organizzativa che tenga conto non solo degli aspetti operativi, ma anche dell’incidenza psicologica degli eventi, predisponendo misure di sostegno adeguate sia nella fase preventiva, sia a seguito dell’intervento posto in essere. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 Da più parti si evidenzia come l’attenzione sia stata storicamente rivolta in misura prevalente alle conseguenze psichiche subite dalle vittime dirette, trascurando gli effetti che l’esposizione agli stessi eventi produce sui gruppi di primo soccorso. Questi ultimi, pur essendo tra i primi ad intervenire nei luoghi critici e a fornire assistenza immediata alle vittime, sono stati riconosciuti quali soggetti vulnerabili ed esposti a tali problematiche soltanto a partire dagli anni Novanta, in ambito internazionale. Da allora, è emersa con chiarezza la criticità dei contesti operativi in cui tali categorie operano e le conseguenze che ne possono derivare sul piano personale e professionale (2). Sul versante della prevenzione secondaria, risulta oggi imprescindibile non solo ricorrere alle risorse tipiche della psicologia dell’emergenza, ma anche promuovere interventi diffusi volti a fornire strategie di coping e tecniche di resilienza (3). L’obiettivo non è unicamente ridurre la sintomatologia correlata allo stress, ma altresì rafforzare la capacità dell’operatore di mantenere efficienza e continuità di servizio in contesti critici. In tale prospettiva, le Forze armate e le Forze di polizia ad ordinamento militare hanno progressivamente introdotto figure professionali dedicate alla tutela del benessere psichico del personale. Psicologi militari e medici psichiatri operano presso ospedali militari, centri di selezione e reclutamento, nonché all’interno dei reparti maggiormente esposti a stress operativo. A ciò si aggiungono sportelli di ascolto e servizi di counseling, concepiti come presidi accessibili a chi avverta i primi segnali di disagio. Questi strumenti rispondono ad una duplice finalità: da un lato, fornire supporto immediato al personale in difficoltà; dall’altro lato, consentire al- l’Amministrazione di monitorare in modo costante il livello di benessere psico-fisico del personale, orientando l’azione in chiave preventiva piuttosto che meramente reattiva. In particolare, nell’ambito delle Forse armate italiane, l’area sanitaria della Difesa dispone di una rete articolata in strutture e funzioni con compiti di prevenzione, presa in carico e indirizzo sul benessere psicologico del personale, tra cui: -Indirizzo centrale: la Direzione generale della sanità militare e l’Ispettorato generale della sanità militare definiscono gli indirizzi tecnici, raccolgono dati e coordinano le politiche sanitarie interforze, comprese quelle psichiatriche e psicologiche; -Comitati e organismi tecnici: opera un Comitato tecnico-scientifico per (2) KLEIM B. e WESTPHAL M., mental Health in First responders: A review and recommendation for Prevention and intervention Strategies, in Traumatology, 2011, 17(4), pp. 7-24 (3) DE LuCA M.L., impatto psicologico del Covid-19. Traiettorie prototipiche, rischi e opportunità nei possibili percorsi di risposta psicologica all’emergenza pandemica, in Studio moralia, 2020, 58(2), pp. 315-332. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà la “Psichiatria e Psicologia militare”, con funzioni di supporto tecnico alle decisioni e di raccordo tra area sanitaria e comandi operativi; -Servizi di psicologia delle Forze armate: ciascuna Forza (Esercito, Marina, Aereonautica, Arma dei Carabinieri) mantiene propri servizi di psicologia, con équipe distribuite sul territorio -presso ambulatori militari, centri di selezione e valutazione attitudinali, reparti -che erogano attività di counseling, valutazioni clinico-attitudinali e programmi di prevenzione; -Protocolli di collaborazione con l’ordine degli psicologi: specifici accordi favoriscono la cooperazione con la rete civile, sia in ambito formativo che per la prevenzione e l’indirizzo deontologico; -Canali di primo contatto: oltre a sportelli interni, sono attivi sistemi di segnalazione e di prevenzione del suicidio, che forniscono procedure chiare e univoche per l’attivazione rapida del supporto clinico e di comando. 3.1. Programmi di prevenzione e formazione e interventi post-evento traumatico. Accanto agli interventi individuali, le Istituzioni hanno progressivamente investito in programmi di prevenzione collettiva, fondati sull’idea che il disagio psicologico non debba essere affrontato unicamente nella fase acuta, ma soprattutto prevenuto mediante strumenti di educazione, consapevolezza e rafforzamento delle risorse personali. In tale prospettiva si collocano corsi di formazione sulla gestione dello stress, moduli di preparazione psicologica alle missioni all’estero e programmi di resilience training, finalizzati a potenziare la capacità degli operatori di fronteggiare eventi traumatici senza sviluppare conseguenze invalidanti (4). Le strategie di prevenzione perseguono, in termini generali, l’obiettivo di formare individui in grado di reagire adeguatamente alle avversità, modulando gli interventi in relazione alla specificità delle mansioni e delle caratteristiche personali degli operatori di pubblica sicurezza, così da ridurre l’onere psicologico connesso alle attività operative di soccorso (5). Sotto il profilo tecnico giuridico, il versante prevenzionistico si ispira ai principi generali della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, adattati alle peculiarità del settore militare e della pubblica sicurezza. In particolare, trovano applicazione: (4) Cfr. Ministero dell’Interno, Procedure e strategie di contrasto agli effetti di eventi psico- traumatici, linee guida, 2023, ove si legge «L’approccio corretto deve essere centrato su interventi preventivi e strutturali che, oltre ad assicurare la massima garanzia per la tutela della salute del personale, richiedono la necessità di consapevolezza e di partecipazione responsabile da parte di ogni singola componente dell’Amministrazione, nella convinzione che il benessere organizzativo, cui si deve necessariamente tendere, rappresenta la condizione che consente di affrontare con successo anche le criticità peggiori». (5) KLEIM B. e WESTPHAL M., mental Health in First responders, cit., pp. 7-24 RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 -La valutazione del rischio da stress lavoro-correlato (SLC), integrata nel Documento di valutazione dei rischi; -Le metodologie INAIL per la valutazione e gestione del rischio SLC (modello 2017 e successive integrazioni), utili a monitorare fattori organizzativi, eventi critici, turnazioni ed esposizione a traumi; -La formazione obbligatoria del personale di comando, finalizzata al riconoscimento precoce dei segnali di disagio, alla gestione dei team dopo eventi critici e alle tecniche di de-escalation; -Attività strutturate di debriefing e defusing successivamente a eventi ad elevato impatto psichico; -Piani di promozione del benessere, comprendenti programmi di resilienza, supporto tra pari, campagne di contrasto allo stigma e percorsi di rientro protetto dopo congedi per motivi di salute. Il fulcro di tali politiche risiede, dunque, nella riduzione dell’esposizione ai fattori di rischio, nell’individuazione precoce del disagio e nell’attivazione di percorsi volontari e riservati, con lo scopo di evitare che condizioni transitorie si trasformino in inidoneità permanente. Quando poi le misure di prevenzioni non risultino sufficienti, le Istituzioni intervengono mediante specifici protocolli di gestione del disagio successivo a eventi traumatici. È oramai prassi consolidata, al termine di missioni particolarmente gravose ovvero in seguito a incidenti operativi, organizzare sessioni di debriefing psicologico collettivo, condotte da psicologi militari. Tali incontri consentono l’elaborazione condivisa dell’esperienza vissuta e contribuiscono a prevenire l’insorgenza di disturbi post-traumatici da stress. Il percorso assistenziale tipico si articola in tre fasi: 1. valutazione iniziale presso le strutture di psicologia e psichiatria militare; 2. Elaborazione di un piano terapeutico, eventualmente accompagnato da temporanei limiti d’impiego (ad esempio: esclusione dal servizio armato, dai turni notturni o dalle operazioni sul campo); 3. Rientro graduale in servizio oppure invio alla Commissione medica ospedaliera (CMo) per la verifica dell’idoneità, qualora il quadro clinico presenti carattere significativo o persistente. Le Forze armate non operano, comunque, in isolamento. Negli ultimi anni si è sviluppata una fitta rete di convenzioni con strutture sanitarie civili, università e centri di ricerca, finalizzata alla condivisione di metodologie, all’aggiornamento scientifico delle pratiche diagnostiche e all’ampliamento delle possibilità terapeutiche. Questa apertura verso il sistema civile rappresenta un’evoluzione culturale rilevante: essa supera la logica tradizionale dell’autosufficienza militare e promuove la costruzione di una rete integrata di tutela, capace di rafforzare gli strumenti di protezione della salute psicologica degli operatori. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà 4. il disagio psicologico: riconoscimento e gestione. La gestione del disagio psicologico all’interno delle Forze armate e nelle Forze di polizia si fonda, sul piano operativo e giuridico, su una distinzione preliminare: da un lato, i casi di disagio temporaneo, legati a contingenze specifiche e potenzialmente reversibili; dall’altro lato, le patologie psichiatriche strutturate, che incidono invece in modo permanente sulla capacità di servizio. Il disagio temporaneo comprende condizioni reattive e transitorie, suscettibili di miglioramento mediante misure organizzative e terapeutiche (riduzione dei carichi operativi, congedi brevi, interventi di counselling e supporto psicologico); la patologia psichiatrica, invece, include patologie persistenti che possono compromettere in misura significativa l’idoneità al servizio e rendere necessarie valutazioni medico-legali più approfondite. L’Amministrazione è tenuta a valutare ogni caso singolarmente, nel rispetto dei principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza, in coerenza con il buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). Non sono dunque ammissibili automatismi espulsivi: ogni scelta deve essere motivata sulla base delle condizioni specifiche dell’interessato. Sotto il profilo della prevenzione e della gestione clinica, è necessario che la valutazione psicodiagnostica non si limiti a test standardizzati, ma sia integrata da colloqui clinici individuali, osservazioni contestuali e documentazione temporale (valutazioni ripetute e monitoraggio), così da fondare decisioni prognostiche e amministrative su elementi circostanziati. La giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che i provvedimenti di inidoneità devono fondarsi su un accertamento medico puntuale e coerente, sindacabile dal giudice solo nel caso di manifesta illogicità o difetto di motivazione. In quest’ottica, l’ordinamento militare prevede diversi strumenti di tutela per il personale che presenti fragilità psicologiche: misure di convalescenza per motivi di salute disposte dal dirigente sanitario, aspettativa per infermità, che consente un periodo di assenza retribuita per cure, trasferimenti o collocamenti in congedo nei casi di inidoneità permanente o irreversibile, nonché la possibilità di transitare in ruoli civici ove previsto. Tali rimedi riflettono l’esigenza di bilanciare, da un lato, la tutela della salute del singolo militare e, dall’altro lato, la necessità di garantire l’efficacia operativa del servizio. Lo sviluppo della psicologia militare affonda le radici nella Prima guerra Mondiale, quando le forze armate statunitensi si trovarono di fronte all’urgenza di selezionare rapidamente un numero imponente di soldati. Fu in quel contesto che un gruppo di psicologi, guidati da Robert M. Yerkes, allora presidente dell’American Psychological Association, progettò due strumenti rivoluzionari: i test Army Alpha e Army Beta, previsti rispettiva RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 mente per i candidati alfabetizzati e per coloro che non conoscevano la lingua inglese. Con questi strumenti furono valutati circa 1,75 milioni di uomini, segnando la nascita su larga scala dell’uso della psicologia per scopi militari (6). A partire da allora, il legame fra psicologia e mondo militare si è decisamente consolidato. Non solo perché i militari sono inevitabilmente esposti ad eventi traumatici -guerre, missioni umanitarie, calamità naturali -che possono indurre disturbi come il PTSD, l’ansia o la depressione, ma anche perché la selezione del personale richiede di individuare con attenzione i soggetti idonei, evitando l’arruolamento di individui mentalmente fragili o potenzialmente instabili. In questo quadro, oltre a strumenti moderni come il “simulatore di plasticità cerebrale”, resta centrale un test che ha segnato la storia della psicodiagnostica: il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) (7). 4.1. il minnesota multiphasic Personality inventory e il sindacato del giudice amministrativo. Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), sviluppato negli anni Quaranta del Novecento dallo psicologo Hathaway e dal neuropsichiatra McKinley presso l’università del Minnesota, è ancora oggi uno dei più completi questionari di personalità autosomministrati, poiché in grado di intercettare molteplici dimensioni di tratto dell’organizzazione intrapsichica e interpersonale dell’individuo (8). (6) CELENTANo g., Dalla selezione al campo di battaglia: come agisce la psicologia militare, in difesaonline. it, 23 maggio 2025, consultabile al seguente link: https://www.difesaonline.it/2025/05/23/dallaselezione- al-campo-di-battaglia-come-agisce-la-psicologia-militare/ (7) CELENTANo g., Dalla selezione al campo di battaglia, cit.: «Il minnesota multiphasic Personality inventory (MMPI), sviluppato negli anni ’30, pubblicato nel 1942 ed utilizzato in ambito militare negli anni ’40 per valutare la salute mentale dei soldati, è oggi usato anche in contesti civili ad alta responsabilità, come la selezione degli autisti di bus. Essendo uno strumento diagnostico, il suo utilizzo è regolato da normative specifiche come l’ADA (Americans with Disabilities Act -legge federale statunitense del 1990 che proibisce discriminazioni contro persone con disabilità in ambito lavorativo, pubblico, scolastico e nei trasporti) negli Stati uniti. L’MMPI è uno dei test psicodiagnostici più utilizzati al mondo, consente lo screening iniziale dei candidati (per rilevare tratti come paranoia, ansia patologica, psicosi o devianza) e la valutazione per l’accesso a incarichi sensibili o corpi speciali, ma anche il monitoraggio per le fasi di reinserimento post-trauma. È uno dei quattro test cardine della valutazione psicologica per l’arruolamento seppur oggi affiancato a recenti strumenti di indagine cognitiva». (8) D’ANToNIo A., il test mmPi: dalla sua prima versione agli ultimi aggiornamenti, 3 maggio 2019, consultabile al seguente link: https://www.stateofmind.it/2019/05/mmpi-test-personalita/, che dà contezza dell’evoluzione del MMPI: il test MMPI è sorto dall’esigenza di valutare l’idoneità del personale militare a prestare servizio durante la Prima guerra Mondiale. I due autori, al fine di migliorare l’attendibilità e la validità dello strumento, nella costruzione del questionario hanno seguito il seguente criterio di valutazione empirica: Hathaway e McKinley estrassero 504 affermazioni, ritenute in grado di indagare le molteplici aree di sviluppo dell’individuo, da un range iniziale di più di 1000 (tratte da precedenti scale su atteggiamenti personali e sociali, casi clinici, ecc.). Tali affermazioni furono poi pro LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà La sua prima versione comprendeva scale di validità -come la Lie scale, la Kcorrection e la Infrequency -e scale cliniche orientate a cogliere le principali aree psicopatologiche: nevrotica, sociopatica e psicotica. Nonostante i limiti iniziali, lo strumento si è affermato progressivamente come uno dei più utilizzati in ambito clinico, medico-legale e forense. L’originario MMPI è stato sostituito con una revisione nel 1989, il MMPI2 (9), ha ampliato il questionario a 567 item (10), mantenendo sostanzialmente invariata la struttura originaria. Questa versione ha offerto maggiore stabilità temporale, ma non un incremento significativo della consistenza interna delle scale (11), come dimostrato dalle altissime correlazioni tra le scale del test originario e quella della nuova versione (12). Successivamente, nel 2008, Ben-Porath e Tellegen hanno elaborato il c.d. MMPI-2 Restructured Form (MMPI-2-RF) (13), formato da 338 item e 51 scale, di cui 9 di validità e 42 sostanziali, e cioè legate al disagio psichico. Rilevanza particolare riveste la c.d. scala della Demoralizzazione -che riflette una forma d’ansia vissuta da coloro che sperimentano un disagio psicologico -, introdotta per isolare il fattore trasversale di disagio psicologico che condizionava i punteggi complessivi (14). Questa evoluzione ha contribuito a migliorare validità e attendibilità dello strumento, riducendo l’influenza di variabile spurie. L’accuratezza diagnostica dell’MMPI, nelle sue diverse versioni, è mediamente più alta rispetto ad altre tecniche psicodiagnostiche, ma non supera mai l’80%, con tassi di falsi negativi e falsi positivi che oscillano tra il 20 e il 25% (15). Nonostante questi margini di errore, il test continua a rappresentare poste a due gruppi di persone, uno formato da individui che lamentavano uno o più disagi psichici e l’altro da individui che non presentavano alcun disagio di natura psichica. (9) Cfr. SIRIgATTI S., Dal mmPi al mmPi-2 nella continuità e nell’innovazione, in gRANIERI A., i test di personalità: Quantità e qualità, Torino, utet, 1998, pp. 69-109. (10) Cfr. BuTCHER J.N., WILLIAMS C.L., Fondamenti per l’interpretazione del mmPi-2 e del mmPi-A, o.S. organizzazioni Speciali, Firenze, 1996. (11) La consistenza interna riflette quanto i diversi item o quesiti che compongono un test siano omogenei tra di loro e con il punteggio complessivo. (12) gli item della seconda versione rimasero sostanzialmente equivalenti agli item originali e le correlazioni tra i punteggi delle scale cliniche originali del test MMPI e quelle del MMPI-2 rimasero tutte superiori a .98. (13) TELLEgEN A., BEN-PoRATH Y.S., MCNuLTY J.L., ARBISI P.A., gRAHAM J.R., KEAMMER B., mmPi-2 restructured Clinical (rC) scales: Development, validation and interpretation, 2003. (14) D’ANToNIo A., il test mmPi: dalla sua prima versione agli ultimi aggiornamenti, 3 maggio 2019, cit. In particolare, gli studiosi hanno effettuato numerose analisi sulle nuove scale ristrutturate, isolando anche la Scala Demoralizzazione, e hanno verificato come le scale cliniche rimangono strettamente connesse alla dimensione sottostante misurata, nonostante il test sia costituito da meno item rispetto alle sue precedenti versioni. (15) Per un approfondimento cfr. MARTINo v. et al., il test mmPi-2 Fuzzy. incremento dell’accuratezza diagnostica del mmPi-2 per mezzo di un innovativo metodo di somministrazione, dati preliminari di una ricerca, in riv. it. med. Leg., 2013, 3, p. 1307. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 un pilastro della valutazione psicologica, grazie soprattutto alla sua capacità di intercettare i tentativi di falsificazione delle risposte. È ampiamente utilizzato anche in Italia, in particolare nei contesti di selezione militare e di screening psicoattitudinale. Al fianco del MMPI viene spesso impiegato anche il c.d. test di Rorschach, che consente di indagare dinamiche profonde della personalità e di aggirare le difese razionali del soggetto, particolarmente accentuate in contesti come quello militare (16). Sebbene la letteratura scientifica sull’uso combinato di MMPI-2 e Rorschach in ambito lavorativo e traumatico sia ancora in fase di sviluppo, taluni studi hanno dimostrato l’efficacia di questi strumenti nel rilevare sintomi legati a dolori cronici, stress post-traumatico nelle forze dell’ordine (17) ovvero esiti psicopatologici derivanti da pratiche di mobbing (18). Ciò posto, se da un lato il MMPI rappresenta uno strumento scientifico di grande rilievo, dall’altro lato il suo utilizzo in sede concorsuale solleva delicati profili giuridici. Difatti, le valutazioni effettuate tramite il Minnesota test rientrano nella categoria giuridica della discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione: si tratta, cioè, di scelte fondate su strumenti specialistici e sullo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche. Ciò comporta che il sindacato del giudice amministrativo non può sostituirsi alla valutazione tecnica dell’amministrazione, ma deve limitarsi a verificare la correttezza del metodo e la razionalità delle conclusioni. È dunque un sindacato intrinseco, non sostitutivo. In tale prospettiva, la giurisprudenza ha chiarito che il sindacato giurisdizionale può estendersi solo ai vizi macroscopici, ictu oculi percepibili -manifesta illogicità, travisamento dei fatti, insufficienza e contraddittorietà della motivazione -, sintomatici dell’eccesso di potere amministrativo, e non può tradursi in una sostituzione alla valutazione tecnica effettuata dall’amministrazione. Si vedano, ad esempio, le pronunce del Consiglio di Stato (Sez. Iv, n. 3554/2004) e del T.a.r. Lazio (n. 4682/2017), che hanno ribadito come il (16) DASSISTI L. et al., il minnesota multiphasic Personalitiy inventory (mmPi-2) e il Test di rorschach nelle valutazioni forensi e medico legali sugli eventi traumatici in ambito lavorativo: dati preliminari di una ricerca, in riv. it. med. Leg., 2021, 3, pp. 783 ss., che esplica come il test di Rorschach sia composto da stimoli che il soggetto deve identificare mettendo in atto competenze di problem-solving percettivo-cognitive, riproducendo di fronte alle tavole il suo tipico atteggiamento di fronte alla realtà in generale. (17) HAISCH D.C., MEYERS L.S., mmPi-2 assessed post-traumatic stress disorder related to job stress, coping, and personality in police agencies, in Stress and Health, 2004, 20, pp. 223-229. (18) Per un approfondimento v. DASSISTI L. et al., il minnesota multiphasic Personalitiy inventory (mmPi-2) e il Test di rorschach nelle valutazioni forensi e medico legali sugli eventi traumatici in ambito lavorativo, cit., p. 784, ove si evidenzia che, invece, il test di Rorschach è stato oggetto di studio in ricerche atte a indagare la presenza di sintomi psicopatologici insorti a seguito di un trauma cranico sul luogo di lavoro, ovvero a causa di inalazioni di solventi organici, a fronte di lamentele sulla compromissione di funzioni cognitive e cambiamenti di personalità. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà controllo giurisprudenziale debba restare un controllo ab externo, volto a verificare l’esattezza e la coerenza dei parametri scientifici impiegati (19). Dunque, in concreto, sarà possibile per il giudice amministrativo evidenziare discrasie e contraddizioni relativamente alla documentazione del singolo candidato; aporie che inficino la valutazione dell’ufficiale psicologo (se manifestamente irragionevole, illogica, e contradditoria); manifesta illogicità e insufficienza della motivazione. La situazione sul punto, peraltro, risulta tutt’altro che pacifica. È davvero così lineare il controllo giurisdizionale quando si tratta di valutare l’equilibrio psicologico di un candidato? (20). Si è già detto che il Consiglio di Stato (ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 1326/2013) ha riconosciuto che l’accertamento dei requisiti psico-attitudinali per l’accesso nella Polizia di Stato costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, sottratta al sindacato del giudice salvo macroscopici errori. Eppure, la stessa giurisprudenza ha ammesso che la determinazione finale deve comunque consentire agli interessati di comprendere i criteri adottati, includendo anche la valutazione di eventuali precedenti di servizio, pur non sufficienti da soli a superare le prove attitudinali (T.a.r. Lazio, Sez. I-bis, n. 9692/2017; n. 4231/2017). In definitiva, dunque, si può sostenere che i test come il descritto MMPI, pur essendo strumenti scientificamente fondati, si collocano in una zona di confine tra la valutazione tecnica e il giudizio di legittimità. Il giudice può sindacare il metodo e la motivazione, ma non può sostituirsi all’amministrazione nel merito della valutazione psico-attitudinale. 4.2. Emozioni, resilienza e intelligenza emotiva nel contesto operativo. Come si è cercato di evidenziare, il disagio psicologico che può colpire i militari e gli operatori della sicurezza non si limita ad una mera questione clinica o diagnostica, ma investe la sfera più profonda del rapporto tra emozioni, autocontrollo e capacità di affrontare situazioni critiche. La neurobiologia ha chiarito come l’amigdala, struttura appartenente al sistema limbico, rivesta un ruolo centrale nella gestione delle reazioni emotive primarie, in particolare della paura, e come il suo corretto bilanciamento con le funzioni cognitive della corteccia prefrontale costituisca un presupposto essenziale per mantenere lucidità e controllo in contesti ad alta intensità operativa, evitando reazioni impulsive o disfunzionali (21). Da qui l’importanza di coltivare la c.d. intelligenza emotiva, intesa (19) Per un approfondimento della questione si rinvia a NATALE g., L’intelligenza Artificiale in Sanità: il dialogo necessario tra medicina, etica e diritto, CEDAM, 2025, pp. 48 ss. (20) ibidem, p. 48. (21) ibidem, p. 49. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 come la capacità di riconoscere, comprendere e modulare le proprie emozioni e quelle altrui, che per il personale militare e di polizia non deve rappresentare un elemento accessorio, bensì un requisito professionale determinante (22). La formazione e l’addestramento, pertanto, non possono limitarsi agli aspetti tecnico-operativi, ma devono includere percorsi volti a rafforzare la resilienza individuale, la gestione dello stress e la prevenzione del burnout, in adempimento non solo di esigenze organizzative, ma anche di obblighi normativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che impongono di valutare e governare i rischi psicosociali. In tale prospettiva si colloca la crescente attenzione verso le patologie maggiormente riscontrate tra i militari impegnati in contesti ad alta criticità, tra cui il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), che compromette profondamente la qualità della vita del soggetto, generando flashback, ipervigilanza, insonnia e difficoltà reazionari. Il riconoscimento del PTSD come infermità dipendente da causa di servizio, oltre ad avere rilevanti conseguenze sul piano sanitario, assume rilievo anche sotto il profilo giuridico, incidendo sull’accesso a benefici quali un equo indennizzo, pensione privilegiata e, nei casi più gravi, sulla dichiarazione di inidoneità permanente (23). Accanto al PTSD, tuttavia, si riscontrano altri disturbi che incidono sulla prontezza e sull’efficienza del personale, quali depressione, ansia generalizzata, dipendenza e fenomeni di somatizzazione, che impongono una gestione attenta e articolata. La risposta a queste esigenze è stata affidata allo sviluppo della psicologica militare, settore che in Italia ha progressivamente acquisito una dimensione strutturale e trasversale. gli psicologi militari non si limitano a intervenire nella fase di selezione dei candidati, ma accompagnano l’intero percorso professionale dell’operatore: dalla valutazione psico-attitudinale all’arruolamento, ai programmi di prevenzione e resilienza durante la carriera, al supporto diretto nei teatri operativi internazionali, sino al reinserimento dopo periodi di congedo per motivi di salute (24). La loro attività spazia dai colloqui clinici ai debriefing post-evento traumatico, dalla gestione dei casi di disagio temporaneo alla collaborazione con psichiatri e commissioni mediche per l’inquadramento delle situazioni più gravi. Tale impegno si innesta all’interno di una rete istituzionale che coinvolge la Direzione generale e l’Ispettorato generale della sanità militare, i servizi psicologici delle singole Forze armate e i comitati tecnico-scientifici (22) ibidem, p. 50. (23) SoMMovIgo M., Combattendo le ombre: il PTSD nel Comando militare, in Lagiustizia.net, 22 maggio 2023, consultabile al seguente link: https://lagiustizia.net/combattendo-le-ombre-il-ptsd-nelcontesto- militare-e-la-strada-verso-la-guarigione/ (24) ibidem. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà interforze, a testimonianza di un approccio sempre più sistemico e coordinato. Particolarmente significativa è l’apertura verso il mondo civile, favorita da protocolli di collaborazione con università, centri di ricerca e strutture ospedaliere, che ha permesso di superare logiche autoreferenziali e di innalzare il livello scientifico e operativo degli interventi. In questo modo la psicologia militare si configura non più come ambito specialistico isolato, ma come parte integrante di una rete di tutela complessiva, capace di coniugare esigenze di efficienza organizzativa e rispetto dei diritti fondamentali della persona. 5. L’inidoneità al servizio e l’inattitudine sopravvenuta. 5.1. Quando il disagio “sconfina” nell’inidoneità. occorre innanzitutto distinguere tra l’inidoneità psico-fisica e l’inattitudine attitudinale sopravvenuta. La prima si configura come condizione sanitaria che incide sulla capacità lavorativa in modo assoluto, determinando l’impossibilità di svolgere qualsiasi attività, ovvero in modo relativo, limitando in via permanente lo svolgimento di alcune funzioni. Si tratta, pertanto, di un accertamento medico-legale, affidato agli organi sanitari militari, i cui esiti possono condurre, a seconda dei casi, alla risoluzione del rapporto di impiego o a una ricollocazione compatibile con le residue capacità operative. Diverso è il caso dell’inattitudine attitudinale sopravvenuta, che non attiene ad una patologia clinicamente accertata, ma alla perdita delle qualità professionali richieste per l’espletamento delle funzioni di polizia o militari: affidabilità nell’uso delle armi, autocontrollo in contesti critici, prontezza operativa. In tal caso si tratta, dunque, di una valutazione di carattere tecnico-professionale, che non presuppone necessariamente l’esistenza di una malattia invalidante. Risulta necessario domandarsi cosa avviene nelle situazioni di confine, e cioè, ad esempio, nel caso di disturbi d’ansia insorti dopo eventi traumatici, all’assunzione di psicofarmaci o a forme croniche di insonnia. In tali casi, si rende necessaria una valutazione integrata, clinica e attitudinale, volta a stabilire se il quadro sia stabile, se vi siano margini di peggioramento prevedibile, quale sia l’impatto concreto sulle mansioni critiche e in che misura l’operatore aderisca ad un eventuale percorso terapeutico. Difatti, solo allorquando, all’esito della valutazione di tali elementi, risulti un’incapacità permanente o incompatibili con le funzioni essenziali al servizio, il disagio psicologico si traduce in inidoneità. La verifica dell’idoneità è affidata in prima istanza alle Commissioni mediche ospedaliere (CMo). Avverso le loro determinazioni è poi ammesso ricorso amministrativo dinanzi alla Commissione medica interforze di seconda istanza (CMI), che decide in via definitiva nell’ambito della procedura amministrativa. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 Restano comunque azionabili i rimedi giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo, ancora una volta limitati a vizi procedurali o per manifesta illogicità del giudizio tecnico-valutativo. In tal caso, l’iter da seguire è contrassegnato da alcuni principi essenziali: diritto all’informazione, diritto a far acquisire documentazione clinica pertinente, tracciabilità degli scambi tra autorità sanitaria e comando, proporzionalità delle eventuali misure cautelative adottate sulle mansioni del- l’interessato. 5.2. il principio dirimente: l’Adunanza Plenaria sulla Polizia di Stato. La tracciata distinzione tra inidoneità psico-fisica e inattitudine attitudinale sopravvenuta ha trovato una sistematizzazione autorevole nella sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 29 marzo 2023, n. 12 (25). La menzionata decisione compie, anzitutto, una ricognizione delle norme in materia di inidoneità psico-fisica, anche alla luce dell’art. 55-octies del (25) In tale pronuncia, il Consiglio di Stato ha affermato il seguente principio di diritto: “L’inidoneità attitudinale sopravvenuta non rientra nelle previsioni di cui all’art. 1, D.P.r. n. 339/1982 e di conseguenza non dà luogo al passaggio del dipendente della Forza di Polizia ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, ma è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 T.U. impiegati civili dello Stato”. Per un approfondimento cfr. CASTELLuCCI S., La cessazione dal servizio del personale della Polizia di Stato per inidoneità attitudinale, in Giurisprudenza italiana, 2024, 1, pp. 157 ss.: la vicenda trae origine dall’automatica sospensione cautelare di un assistente capo della Polizia di Stato, dovuta, ex art. 9, co. 1, d.P.R. n. 737/1981, alla carcerazione preventiva cui era stato sottoposto come imputato di una serie di gravi delitti. Al decorrere dei cinque anni (termine oltre il quale la sospensione deve essere revocata di diritto ex art. 9 co. 2 L. n. 19/1990), il dipendente veniva effettivamente riammesso in servizio, e la Questura avviava il procedimento per la verifica dei requisiti psicofisici e attitudinali, a norma del D.M. n. 198/2003. La valutazione della commissione medica deputata a tale compito riteneva però che il dipendente non fosse idoneo sotto il profilo attitudinale. Di conseguenza, il Ministero dell’Interno disponeva la cessazione dal servizio del dipendente, in quanto privo di uno dei requisiti previsti dall’art. 25, co. 2, L. n. 121/1981. Il provvedimento veniva contestato in giudizio dall’impiegato, che sosteneva come la rivalutazione del profilo attitudinale, con i medesimi accertamenti valevoli per l’accesso in Polizia, fosse illegittimo. In ogni caso, poi, la sopravvenuta inidoneità non potrebbe fare interrompere il rapporto di impiego, dal momento che l’art. 58, d.P.R. n. 335/1982 (‘‘Cause di cessazione dal servizio’’) richiama due fonti normative (il d.P.R. n. 3/1957 e il n. 1092/1973) che non prevedono tale ipotesi interruttiva del servizio. L’unica strada percorribile, stando alla ricostruzione testuale proposta dall’interessato, sarebbe dunque il passaggio ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni statali che non richiedono la sussistenza dei requisiti attitudinali, trovando, su questo motivo di ricorso, l’accoglimento da parte del T.a.r. dell’Emilia-Romagna. Con l’impugnazione della sentenza al Consiglio di Stato, il Ministero dell’Interno richiamava il d.P.R. n. 339/1982, specificamente dedicato al passaggio ad altri ruoli del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, per sottolineare come soltanto l’inidoneità per motivi di salute possa eventualmente dare luogo al transito del dipendente a compiti diversi nella stessa amministrazione o anche ad altre amministrazioni e non, invece, nel caso di inidoneità attitudinale. Il silenzio serbato dalla legge su questa tipologia di inidoneità, da non confondere con la prima, crea un cono d’ombra che, in caso di accertamento negativo delle qualità attitudinali, non può che condurre l’amministrazione a fare cessare il rapporto di servizio. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà D.Lgs. n. 165/2001, introdotto mediante D.Lgs. n. 150/2009, e del regolamento attuativo di cui al d.P.R. n. 171/2011. Quest’ultimo, infatti, all’art. 2 (26), opera una distinzione tra inidoneità psicofisica permanente assoluta, che impedisce lo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa e, pertanto, conduce alla cessazione del rapporto di lavoro, e inidoneità psicofisica relativa, che limita lo svolgimento di alcune mansioni e impone all’amministrazione di tentare il recupero del dipendente attraverso compiti compatibili (27). Per accedere ai ruoli della Polizia di Stato e rimanervi, non è sufficiente l’accertamento della dimensione psicofisica dell’individuo, ma deve sussistere pure un’idoneità di natura attitudinale. Il requisito dell’attitudine, peraltro, si lega proprio alla delicatezza richiesta a chi è chiamato ad esercitare la forza, «che pur nel monopolio dello Stato non può essere bruta e ingiustificata» (28). Relativamente alla Polizia di Stato, l’art. 25, co. 2, della L. n. 121/1981 prevede che i requisiti psicofisici e attitudinali degli appartenenti ai ruoli siano stabiliti mediante d.P.R., mentre il D.M. n. 198/2003 specifica tali requisiti attraverso tabelle distinte a seconda dei ruoli e delle funzioni (29). Del resto, proprio la formulazione di tale normativa aveva suscitato in giurisprudenza contrasti circa la possibilità di effettuare verifiche attitudinali anche in costanza di rapporto di lavoro. L’Adunanza Plenaria ha chiarito che, laddove venga meno il requisito attitudinale, il rapporto di lavoro del personale della Polizia di Stato non può proseguire né all’interno della stessa amministrazione né in altre amministrazioni pubbliche. Difatti, l’inidoneità che consente il transito ad altri ruoli è esclusivamente quella per motivi di salute, e cioè solo quella di natura psicofisica, e non già quella per difetto di attitudine. Le due figure presentano infatti ontologie e ratio differenti: l’“invalido” è colui che, per effetto di una patologia, non è in grado di svolgere determinate attività; l’“inattitudine” è invece (26) Ai sensi dell’art. 2, d.P.R. 171/2011 (“inidoneità psicofisica”): «Ai fini del presente decreto, si intende per inidoneità psicofisica permanente assoluta o relativa quanto contenuto nelle lettere a) o b): a) inidoneità psicofisica permanente assoluta lo stato di colui che a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa; b) inidoneità psicofisica permanente relativa, lo stato di colui che a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell’impossibilità permanente allo svolgimento di alcune o di tutte le mansioni del- l’area, categoria o qualifica di inquadramento». (27) CASALE D., L’inidoneità psicofisica del lavoratore pubblico, Bologna, 2013, pp. 218-244. (28) In questi termini CASTELLuCCI S., La cessazione dal servizio del personale della Polizia di Stato per inidoneità attitudinale, cit., p. 160. (29) CASTELLuCCI S., op. cit., p. 160: «La rubrica dell’art. 2, in effetti, contiene un riferimento agli accertamenti attitudinali, ma al primo e al secondo comma si riferisce in maniera esplicita soltanto all’idoneità fisica e psichica, e da questo dettaglio si traeva l’argomento per sostenere che le verifiche attitudinali verso il personale in servizio non fossero consentite. Una Commissione speciale consultiva del Consiglio di Stato, su quesito del ministero dell’interno, ha però fatto chiarezza in materia con il parere n. 4787 del 4 ottobre 2010, il cui contenuto sembra essere stato recepito dalle pronunce successive ». RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 concetto che concerne la capacità soggettiva di esercitare una funzione in condizioni di sicurezza e affidabilità, a prescindere da un quadro clinico patologico. Ad avviso del Supremo giudice, è proprio la netta differenza logico-sistematica tra le due figure che impedisce di estendere in via analogica la normativa di favore del d.P.R. n. 339/1982 (30). In sostanza, il Consiglio di Stato ha affermato che l’“inidoneità attitudinale sopravvenuta” al servizio è condizione diversa dalla patologia “inidoneità psicologica sfociata in una malattia” e non può comportare il transito nell’amministrazione civile. La pronuncia esclude dunque che l’assenza del requisito attitudinale possa essere assimilata all’handicap, così da porsi in contrasto con la Dir. 2000/78/CE. La distinzione concettuale tra handicap e inattitudine attitudinale rende conforme alla direttiva la disciplina nazionale, che nel bilanciamento tra interessi opposti privilegia l’esigenza dell’amministrazione di disporre di personale idoneo rispetto all’interesse del singolo alla conservazione del posto. 5.3. Le conseguenze operative della distinzione. All’esito di tale disamina, dal quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento emerge una distinzione operativa di notevole rilevanza. Laddove sia accertata una patologia che incide in modo permanente sulla capacità lavorativa -si pensi ad un disturbo dell’umore diagnosticato o un disturbo post-traumatico da stress stabilizzato -la competenza è medico-legale, e la conseguenza è la dichiarazione di inidoneità psico-fisica. In tal caso, l’amministrazione deve valutare, se si tratta di inidoneità relativa, il ricollocamento in mansioni compatibili, mentre in caso di inidoneità assoluta il rapporto di impiego si estingue. Diversamente, qualora emergano deficit attitudinali significativi, come gradi difficoltà di autocontrollo in situazioni critiche, condotte inaffidabili nel- l’uso delle armi o incapacità di cooperazione, la sede corretta diviene la valutazione tecnico-professionale. L’eventuale inattitudine sopravvenuta comporta la cessazione del rapporto senza possibilità di transito in altri ruoli, trattandosi di un requisito connaturato all’esercizio delle funzioni di polizia e militari. Ciò posto, la questione maggiormente problematica concerne la necessità di comprendere in che modo si possa distinguere l’inidoneità attitudinale dal- l’inidoneità psicologia nell’ambito dell’attività istruttoria del procedimento amministrativo, e in che modo si dimostra nell’ambito del processo (31). (30) CASTELLuCCI S., op. cit., p. 161, il quale aggiunge: “siccome tutti i ruoli della Polizia di Stato richiedono la sussistenza dei requisiti attitudinali, ci sarebbe solo un’alternativa all’interruzione del rapporto, quella di una sua novazione soggettiva con altre amministrazioni che non impongono tale verifica. Siffatta opzione tuttavia non è stata prevista dal legislatore e quindi non è percorribile. Non vi è peraltro alcuna lacuna normativa da colmare, dal momento che trova applicazione la regola generale della cessazione del rapporto”. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà Come già anticipato, il sindacato giurisdizionale sugli accertamenti sanitari e attitudinali sia notoriamente limitato. Il giudice amministrativo non può sostituire le proprie valutazioni a quelle degli organi tecnici, ma può intervenire soltanto in presenza di vizi macroscopici: violazioni procedurali, difetti di istruttoria, illogicità manifesta, travisamento dei fatti o abnormità della decisione. Inoltre, il controllo è circoscritto al momento in cui il giudizio tecnico è stato reso, con conseguente irrilevanza di eventuali miglioramenti clinici successivi o di perizie di parte, se non diretti a dimostrare errori originari o anomalie procedimentali. Le valutazioni di idoneità o inidoneità sono pertanto da considerarsi tendenzialmente irripetibili. La motivazione degli organi tecnici può essere anche sintetica, purché coerente con i parametri di settore e supportata da atti di diagnosi e valutazione tracciabili. Tale impostazione rafforza la natura eminentemente tecnica dell’accertamento e delimita il ruolo del giudice al controllo esterno di legittimità, senza possibilità di ingerirsi nel merito delle valutazioni sanitarie o attitudinali. 6. Conclusioni. L’analisi compiuta nei paragrafi precedenti consente di trarre talune considerazioni conclusive sul trattamento del disagio psicologico, dell’inidoneità e dell’inattitudine attitudinale nel contesto delle Forze di polizia e degli apparati militari. In particolare, risulta evidente la complessità della gestione del suddetto disagio psicologico, per regolare la quale gli strumenti giuridici e istituzionale devono operare in sinergia, al fine di garantire un’adeguata tutela tanto del singolo operatore quanto dell’efficienza e della sicurezza del servizio. La distinzione tra disagio temporaneo e patologie psichiatriche strutturate consente di calibrare gli interventi: misure organizzative, supporto psicologico e, nei casi più gravi, valutazioni cliniche e attitudinali mirate. gli strumenti psicometrici, come il descritto Minnesota Multiphasic Personality Inventory e il test di Rorschach, rappresentano un fondamentale supporto tecnico per l’individuazione di fragilità psicologiche, ma richiedono pur sempre un’interpretazione attenta e calata nel contesto individuale. Ancora, la gestione dell’inidoneità e dell’inattitudine sopravvenuta mostra come la dimensione clinica e quella attitudinale debbano essere considerate separatamente. In particolare, come evidenziato, l’inidoneità psico-fisica, derivante da patologie, può comportare ricollocazioni o cessazione del rapporto, mentre l’inattitudine attitudinale sopravvenuta determina la cessazione del (31) Per un approfondimento, sia consentito rinviare a NATALE g., L’intelligenza Artificiale in Sanità: il dialogo necessario tra medicina, etica e diritto, cit., pp. 48 ss. RASSEgNA AvvoCATuRA DELLo STATo -N. 3-4/2024 rapporto senza possibilità alcuna di transito ad altri ruoli, a tutela della sicurezza pubblica e della funzionalità delle istituzioni. L’interesse suscitato dai fatti di cronaca che raccontano il disagio psichico delle Forze di polizia ha certamente accelerato un cambiamento interno ed esterno all’organizzazione (32). In tale prospettiva, è stato rafforzato il numero degli psicologi dedicati al Servizio di Psicologia, e parallelamente sono stati attivati spazi riservati di ascolto, in cui gli operatori possono trovare accoglienza, consulenza e sostegno per affrontare difficoltà di natura lavorativa, familiare o personale. In definitiva, il ruolo delle istituzioni si rivela fondamentale, in quanto deve assolvere al delicato compito di far conciliare interessi contrapposti: garantire la tutela della salute e del benessere psicologico degli operatori e prevenire il disagio, senza compromettere l’efficienza operativa e la sicurezza dei cittadini. L’ordinamento e le strutture istituzionali sono chiamati a bilanciare le esigenze individuali e collettive, attraverso procedure rigorose, strumenti scientifici aggiornati e un quadro giuridico coerente, capace di adattarsi alle sfide complesse poste dal contesto operativo contemporaneo. Bibliografia: BoNAguRA I., LA SELvA S., PAoNE M. (Eds.), il Progetto di intervento, in idem, Covid-19. il sostegno psicologico, Direzione Centrale di Sanità. Ministero dell’Interno BuTCHER J.N., WILLIAMS C.L., Fondamenti per l’interpretazione del mmPi-2 e del mmPi-A, o.S. organizzazioni Speciali, Firenze, 1996 CASALE D., L’inidoneità psicofisica del lavoratore pubblico, Bologna, 2013 CASTELLuCCI S., La cessazione dal servizio del personale della Polizia di Stato per inidoneità attitudinale, in Giurisprudenza italiana, 2024, 1, pp. 157 ss. CELENTANo g., Dalla selezione al campo di battaglia: come agisce la psicologia militare, in difesaonline.it, 23 maggio 2025 D’ANToNIo A., il test mmPi: dalla sua prima versione agli ultimi aggiornamenti, 3 maggio 2019 DASSISTI L. et al., il minnesota multiphasic Personalitiy inventory (mmPi-2) e il Test di rorschach nelle valutazioni forensi e medico legali sugli eventi traumatici in ambito lavorativo: dati preliminari di una ricerca, in riv. it. med. Leg., 2021, 3, pp. 781 ss. DE LuCA M.L., impatto psicologico del Covid-19. Traiettorie prototipiche, rischi e opportunità nei possibili percorsi di risposta psicologica all’emergenza pandemica, in Studio moralia, 2020, 58(2), pp. 315-332 (32) Cfr. LuCARoNI S., il buio sotto la divisa. morti misteriose tra i servitori dello Stato, Round Robin Editrice, 2021; MASELLI S., DEL CASALE A., PAoLI E., PoMPILI M., gARBARINo S., Suicide Trends in the italian State Police during the SArS-CoV-2 Pandemic: A Comparison with the Pre-Pandemic Period, International Journal of Environmental Research and Public Health, 2022, 19(10), pp. 1-10. LEgISLAzIoNE ED ATTuALITà HAISCH D.C., MEYERS L.S., mmPi-2 assessed post-traumatic stress disorder related to job stress, coping, and personality in police agencies, in Stress and Health, 2004, 20, pp. 223 KLEIM B. e WESTPHAL M., mental Health in First responders: A review and recommendation for Prevention and intervention Strategies, in Traumatology, 2011, 17(4), pp. 7-24 LuCARoNI S., il buio sotto la divisa. morti misteriose tra i servitori dello Stato, Round Robin Editrice, 2021 MARTINo v. et al., il test mmPi-2 Fuzzy. incremento dell’accuratezza diagnostica del mmPi2 per mezzo di un innovativo metodo di somministrazione, dati preliminari di una ricerca, in riv. it. med. Leg., 2013, 3, pp. 1307 ss. MASELLI S., DEL CASALE A., PAoLI E., PoMPILI M., gARBARINo S., Suicide Trends in the italian State Police during the SArS-CoV-2 Pandemic: A Comparison with the Pre-Pandemic Period, International Journal of Environmental Research and Public Health, 2022, 19(10), pp. 1-10 NATALE g., L’intelligenza Artificiale in Sanità: il dialogo necessario tra medicina, etica e diritto, CEDAM, 2025 SIRIgATTI S., Dal mmPi al mmPi-2 nella continuità e nell’innovazione, in gRANIERI A., i test di personalità: Quantità e qualità, Torino, utet, 1998 SoMMovIgo M., Combattendo le ombre: il PTSD nel Comando militare, in Lagiustizia.net, 22 maggio 2023 TELLEgEN A., BEN-PoRATH Y.S., MCNuLTY J.L., ARBISI P.A., gRAHAM J.R., KEAMMER B., mmPi-2 restructured Clinical (rC) scales: Development, validation and interpretation, 2003 Contributididottrina La rilevanza giuridica degli animali: oggetto di diritto e di tutele. Considerazioni sulla soggettività e capacità degli animali Michele Gerardo* Sommario: 1. introduzione. Diritto degli animali e “benessere degli animali” -2. relazione tra l’uomo e gli animali nel pensiero filosofico -3. Disciplina nel diritto internazionale universale vincolante lo Stato italiano -4. Disciplina nel diritto internazionale regionale vincolante lo Stato italiano -5. Previsioni di tutela ad iniziativa della società civile a livello internazionale -6. La disciplina nel diritto dell’Unione Europea -7. La disciplina nel codice civile -8. orientamenti giurisprudenziali in materia civile -9. La disciplina nel codice di procedura civile -10. La disciplina nel codice penale ed in norme incriminatrici extracodicistiche -11. La disciplina nel diritto amministrativo -12. Situazioni giuridiche soggettive collegate agli animali -13. Tutela delle situazioni giuridiche soggettive collegate agli animali -14. Soggettività di diritto degli animali -15. Conclusioni. 1. introduzione. Diritto degli animali e “benessere degli animali”. Animale, nel senso più ampio, è ogni essere animato, cioè ogni organismo vivente dotato di sensi e capace di movimenti spontanei: in questo senso, è un animale anche l’uomo. Gli animali sono esseri senzienti, capaci di reagire agli stimoli psico-fisici e di provare emozioni (capaci, ad esempio, di provare dolore fisico e psichico). Sono, inoltre, esseri dotati di cognizione; difatti tutti gli animali hanno qualche forma di memoria: talvolta elementare (l’accentuazione o l’attenuazione di risposte a stimoli), altre volte molto sofisticata. L’uomo è un animale dotato di raziocinio, assente negli altri animali, ed è caratterizzato da: (*) Avvocato distrettuale dello Stato di Napoli. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 -l’autocoscienza, il linguaggio articolato e simbolico ed il pensiero astratto; -l’intenzionalità condivisa, i gesti cooperativi e la soluzione cooperativa dei problemi (il porsi un obiettivo comune e lavorare per il suo raggiungimento in quanto tale, e non per un eventuale vantaggio individuale); - il senso di equità, il senso di vergogna e di colpa; -la capacità di insegnare, ossia quel processo di trasmissione di informazione in cui docente e discente sono consci del processo e dei rispettivi ruoli; -il progresso culturale, vale a dire una dimensione culturale che progressivamente si arricchisce di innovazioni basandosi sulle acquisizioni precedenti; - la posizione eretta; -la progressiva encefalizzazione (ossia la tendenza alla crescita del cervello nell’evoluzione di ominidi e genere Homo). Il diritto romano distingueva gli animali selvatici (fera), i domestici (domestica) e gli addomesticati (mansuefacta) (1). La categoria degli animali domestici comprende sia gli animali abituati a vivere insieme all’uomo o comunque negli ambienti tipici dell’uomo, sia gli animali che abbiano acquisito abitudini della cattività. Quest’ultima locuzione si riferisce a quelle specie vissute in luoghi protetti dall’uomo, laddove tali ambienti abbiano impedito loro di sviluppare gli istinti di sopravvivenza propri degli animali cresciuti liberamente. detta distinzione conserva importanza nel nostro diritto, nel quale è emersa -in tempi relativamente recenti -l’ulteriore tipologia degli animali d’affezione, da compagnia, caratterizzati dal particolare rapporto che li lega al padrone. Può essere definito animale d’affezione “ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all’uomo, come il cane per disabili, gli animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella pubblicità. Gli animali selvatici non sono considerati animali da compagnia”. Tale definizione è contenuta nell’art. 1 dell’Accordo tra il Ministro della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in materia di benessere degli animali da compagnia e pet-therapy del 6 febbraio 2003. Nell’ordinamento -da sempre e con gradazioni variabili nel tempo e nei luoghi -gli animali costituiscono oggetto di diritto e vieppiù oggetto di tutela, atteso che l’animale è un organismo senziente e suscettibile di dolore, “cosa che si impone, in sé e per sé, al rispetto dell’uomo” (2). La tutela giuridica da parte dell’ordinamento è riconosciuta, al massimo livello, (1) Su tale distinzione: G.G. BoLLA, voce animali, in Nuovo Digesto italiano, vol. I, UTET, 1937, p. 454. (2) Così G. GUIdI, voce animali (Protezione degli), in Nuovo Digesto italiano, vol. I, UTET, 1937, p. 461. CoNTrIBUTI dI doTTrINA nell’art. 9, comma 3, della Costituzione, secondo cui “La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Si evidenzia che nella disposizione in esame “gli animali vengono in rilievo non in quanto “specie” animali, bensì a livello individuale, ciascuno di essi singolarmente considerato in quanto essere vivente” (3). Si parla di diritto degli animali come l’insieme delle normative e delle discipline che riguardano il rapporto tra animali e diritto, sia nell’ambito pubblicistico e penalistico, sia in quello privatistico (4). La problematica investe la tutela contro abusi e crudeltà ed altresì il riconoscimento di uno status per gli animali che garantisca, da un lato, i loro diritti (il primo e basilare è il diritto alla vita, poi il diritto a non soffrire) e, dall’altro lato, i doveri dell’uomo verso l’animale. I testi normativi recenti, con riguardo alle tutele degli animali, utilizzano l’espressione “benessere degli animali”. Il “benessere” di un animale può essere definito come il suo stato con riferimento allo sforzo per sopravvivere nel suo ambiente; esso può variare da molto buono a molto scadente e può essere valutato scientificamente. I meccanismi di sopravvivenza possono essere fisiologici, comportamentali, cerebrali -come quelli che sviluppano le sensazioni -o di risposta a patologie. Sia le sensazioni come il dolore, la paura, il piacere alimentare o sessuale, sia la salute, sono componenti importanti del benessere, ma non lo esauriscono. Il dibattito se sia o meno accettabile uccidere un animale per il suo utilizzo da parte dell’uomo pone una questione etica, ma non riguarda il benessere animale in senso tecnico-scientifico, che, invece, concerne ciò che accade prima della morte, incluso il modo in cui gli animali sono trattati durante l’ultima parte della loro vita, in particolare prima di essere macellati, e il modo in cui vengono uccisi. Queste situazioni e percezioni, entro certi limiti tecnicamente “misurabili” dalle scienze, si sommano alla complessità della questione di quali specie animali debbano essere protette. Il concetto di senzienza influenza notevolmente le valutazioni umane su cosa proteggere; va, tuttavia, rilevato che l’opinione umana su quali individui siano senzienti è variata molto con il passare del tempo, per ricomprendere dapprima tutti gli esseri umani invece che solo una parte di essi, poi certi mammiferi tenuti per compagnia, quindi certi animali che sembravano simili agli umani, come le scimmie, poi i grandi mammiferi, poi tutti i mammiferi, poi tutti gli animali a sangue caldo, poi tutti i vertebrati e infine anche alcuni invertebrati (5). (3) Così F. MUCCI, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 1 - 2022, p. 258. (4) Per una introduzione: d. CErINI, animali (diritto degli), Digesto Discipline Privatistiche -Sezione Civile -ottavo aggiornamento, 2013; M. PITTALIS, La tutela normativa e giurisprudenziale degli esseri animali, in www.altalex.it (10 febbraio 2022); r. CATErINA, Lettura martinetti. Gli animali nel diritto: da cose a soggetti?, in rivista di filosofia, Fascicolo 1, aprile 2024, pp. 39-62. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 dal 2024 l’organizzazione mondiale per la salute animale (WoAH) propone una nuova definizione di benessere degli animali: “Benessere degli animali significa lo stato fisico e mentale di un animale in relazione alle condizioni in cui vive e muore. Un animale gode di un buon benessere se è sano, comodo, ben nutrito, sicuro, non soffre di stati spiacevoli come dolore, paura e angoscia ed è in grado di esprimere comportamenti importanti per il suo stato fisico e mentale. Un buon benessere degli animali richiede la prevenzione delle malattie e cure veterinarie adeguate, un riparo, una gestione e un’alimentazione, un ambiente stimolante e sicuro, una manipolazione e una macellazione o un abbattimento non crudeli. mentre il benessere animale si riferisce allo stato dell’animale, il trattamento che un animale riceve è coperto da altri termini come cura degli animali, allevamento e trattamento umano” (6). 2. relazione tra l’uomo e gli animali nel pensiero filosofico. Nella storia del pensiero sono state elaborate varie tesi circa il rapporto dell’uomo con gli animali (7). vi sono i sostenitori di una visione gerarchica ed antropocentrica dell’universo (che è quella - nella sostanza - prevalente negli ordinamenti positivi). Il teorico più importante di tale visione è stato Aristotele (Iv sec. a.C.). Nella Politica scrive: “Bisogna credere che le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi”. Sulla scia di Aristotele si è pronunciato Crisippo (III sec. a.C.). San Tommaso d’Aquino (XIII sec.) pone l’uomo al vertice della scala del creato e gli attribuisce un’anima razionale immortale. Al contrario, secondo lui, gli animali sono dotati della sola anima sensitiva, destinata a perire col corpo. Per tale motivo, nella Somma Teologica egli può affermare che non è peccato per l’uomo uccidere gli animali e che “nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti sono fatti per quelli più perfetti”. Inoltre, per San Tommaso, gli animali sono dominati dall’istinto e privi di senso morale; di conseguenza, il comportamento umano nei loro confronti è irrilevante. (5) Quanto sinora esposto sul benessere di un animale è stato desunto da F. MUCCI, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, cit., pp. 259-260. Sul benessere animale, altresì: S. CASTIGNoNE, Che qualità della vita per gli animali non-umani?, in rivista di filosofia, Fascicolo 1, aprile 2001, pp. 71-96. (6) Per tali dati: L. CANToNE, i diritti degli animali in Europa: una questione di moralità, religione e diritto, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 1 - 2025, p. 203. (7) Per una sintetica panoramica: L. GANGALE, i diritti degli animali da aristotele a martha Nussbaum, in Filosofia e nuovi sentieri / ISSN 2282-5711 (filosofiaenuovisentieri.com, 5 maggio 2024). CoNTrIBUTI dI doTTrINA Con Cartesio (XvII sec.), campione del razionalismo, vi è la completa svalutazione del mondo animale, dal momento che, in un universo dominato da leggi meccaniche, l’unico soggetto pensante è l’uomo, mentre gli animali sono ridotti ad automi, senza pensiero e senza sensibilità. Numerosi sono i teorici di una visione non antropocentrica del mondo. Teofrasto (Iv-III sec. a.C.), nel trattato Della pietà si appella al concetto di “giustizia” per riferirsi al rapporto tra l’uomo e gli animali: egli condanna i sacrifici cruenti e il consumo di carne, affermando che uccidere animali è ingiusto, perché li priva della vita. Enuncia che “Se qualcuno sostenesse che, non diversamente dai frutti della terra, il dio ci ha dato anche gli animali per il nostro uso, gli risponderei che, sacrificando esseri viventi, si commette contro di loro un’ingiustizia, perché si fa rapina della loro vita”. Stratone di Lampsaco (Iv-III sec. a.C.) afferma che ogni essere vivente fornito di percezione e di sensibilità, ovvero ogni animale, è dotato anche di mente, riconoscendo così una comunanza fra umani e animali. Lucrezio (I sec. a.C.) e Plutarco (II sec.) attribuiscono agli animali delle qualità che li accomunano agli uomini: il percepire, il sentire, il desiderare e Lucrezio anche il soffrire; entrambi gli autori si oppongono all’uccisione degli animali per soddisfare il palato umano ed entrambi si soffermano sulla brutalità dell’uomo, che infligge dolore e sofferenza a degli esseri indifesi. Analoghi concetti sono sostenuti da Celso (II sec.). Porfirio (III sec.) nel trattato Sull’astinenza dagli animali, ove sostiene che il vegetarianesimo è la maggiore forma di rispetto per altre forme di vita sul pianeta, afferma che gli animali hanno un’anima razionale e, credendo inoltre nella trasmigrazione delle anime anche nei corpi animali, considera il consumo di carne come una forma di cannibalismo. Michel de Montaigne (XvI sec.), nei Saggi, ritiene gli animali capaci di linguaggio e di comunicazione fra loro, capaci di altruismo e di amore: “Come potrebbero non parlare tra loro? Parlano pure a noi e noi a loro. in quante maniere parliamo ai nostri cani? Ed essi ci rispondono”. Pierre Bayle (XvII sec.), nel suo Dizionario storico-critico, nel rivalutare le abilità degli animali, spiega che l’anima degli animali e quella degli uomini sono della stessa natura e che l’anima dei primi è come quella dei bambini. In effetti, dice Bayle, anche Aristotele e Cicerone all’età di un anno non avevano pensieri più sublimi di quelli di un cane e se la loro infanzia si fosse prolungata fino a trenta o quarant’anni, i loro pensieri sarebbero rimasti al livello di “sensazioni o ghiottonerie”. È dunque un puro caso che essi abbiano superato gli animali. Ma c’è di più: le bestie non peccano, tuttavia la loro anima è soggetta al dolore e alla miseria, mentre invece gli uomini peccano ogni qual volta uccidono, cacciano e pescano ricorrendo a mille astuzie e violenze. Gottfried Wilhelm von Leibniz (XvII-XvIII sec.), nella Teodicea (1697), sostiene l’idea che dio non ha una prospettiva antropocentrica, ma è amore rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 vole verso ogni creatura, badando all’equilibrio dell’universo. Anche gli animali, secondo lui, hanno sentimenti, memoria, morale, un’anima. A ribadire che gli animali hanno sentimenti, memoria e idee è poi voltaire (XvIII), che, come specifica alla voce “Bestie” del suo Dizionario filosofico, ritiene una vergogna e una miseria “aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e sentimento, che fanno sempre tutto ciò che fanno nella stessa maniera, non imparano niente, non si perfezionano”. Secondo lui, basta osservare il mondo degli uccelli: essi fanno il loro nido adattandosi alla posizione della base che trovano (un muro, il ramo di un albero); i canarini imparano immediatamente un’arietta e si correggono se sbagliano. È condannata la pratica della vivisezione sugli animali vivi, per la sofferenza che ad essi procura questa pratica. Analoghi concetti sono affermati, nel XvIII secolo, da altri filosofi illuministi, quali Jean-Jacques rousseau, Étienne Bonnot de Condillac (8), Charles Bonnet (il quale riconosce che tutti gli esseri hanno un’anima), Immanuel Kant. Jeremy Bentham (XvIII-XIX sec.), oltre alle tradizionali considerazioni sull’intelligenza e sul linguaggio degli animali, aggiunge un elemento di riflessione nuovo circa la considerazione morale che si deve ad essi, e cioè la loro capacità di soffrire. Nell’introduzione ai principi della morale e della legislazione egli scrive: “La domanda da porre non è: ‘Possono ragionare?’, né ‘Possono parlare?’, ma: ‘Possono soffrire?’ ”. Inoltre, nella stessa opera Bentham profetizza: “Verrà il giorno in cui gli animali del creato acquisiranno quei diritti che non avrebbero potuto essere loro sottratti se non dalla mano della tirannia. Perché dovrebbe la legge negare la sua protezione a un qualsiasi essere sensibile?”. Il Novecento è un secolo prolifico di filosofi che ribadiscono il rispetto che si deve agli animali. Tra questi: Piero Martinetti (1872-1943) (9), Cesare Goretti (1886-1952) (10), Albert Scheitzer (1875-1965) (11), richard Hood (8) Nel Trattato sugli animali sostiene che negli animali le abitudini considerate naturali sono in realtà dovute all’esperienza (cioè acquisite), quindi l’istinto può essere assimilato all’intelligenza. Egli attribuisce agli animali tutte le facoltà umane e confuta così la teoria cartesiana dell’automatismo degli animali. Condillac infatti nega che la sensibilità degli animali sia diversa da quella degli esseri umani: “Se le bestie sentono, sentono come noi”. (9) Negli scritti La psiche degli animali e Pietà verso gli animali, Martinetti sostiene che gli animali, così come gli esseri umani, possiedono intelletto e coscienza e, in generale, una vita interiore, come emerge dagli “atteggiamenti, i gesti, la fisionomia”; questa vita interiore è “forse estremamente diversa e lontana da quella umana” ma “ha anch’essa i caratteri della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico”; quindi l’etica non deve limitarsi alla regolazione dei rapporti infraumani, ma deve estendersi a ricercare il benessere e la felicità anche per tutte quelle forme di vita senzienti (cioè provviste di un sistema nervoso) che come l’uomo sono in grado di provare gioia e dolore. Martinetti cita le prove di intelligenza che sanno dare animali come cani e cavalli, ma anche la stupefacente capacità organizzativa delle formiche e di altri piccoli insetti, che l’uomo ha il dovere di rispettare, prestando attenzione a non distruggere ciò che la natura costruisce. (10) Goretti afferma che gli animali sono veri e propri “soggetti di diritto” e che l’animale ha una CoNTrIBUTI dI doTTrINA Jack dudley ryder (1940) (12), Thomas Howard regan (1938-2017), Peter Singer (1946), Martha Nussbaum (1947), Gary Lawrence Francione (1954). Singer, filosofo utilitarista, nel testo Liberazione animale, ha esposto le sue tesi contro lo specismo (13). Per Singer l’azione moralmente giusta è quella che massimizza la soddisfazione delle preferenze del maggior numero di esseri senzienti; in tale categoria Singer include anche gli animali dotati, al pari della specie umana, della capacità di soffrire e, quindi, della preferenza a non soffrire. La specie umana non è l’unica in grado di provare sofferenza o dolore. Ed è innegabile che ciò succede anche a tutti gli animali di specie non umana, molti dei quali sono in grado di provare anche forme di sofferenza che vanno al di là di quella fisica (l’angoscia di una madre separata dai suoi piccoli, la noia dell’essere rinchiusi in una gabbia senza aver nulla da fare). È proprio questo che ci rende uguali agli animali non-umani e che porta a ritenere la sperimentazione scientifica sugli animali e il consumo di carne atti ingiustificabili, dettati unicamente dalla nostra concezione specista, profondamente radicata nella civiltà occidentale odierna. Secondo Singer, la differenza di specie non è in sé una differenza moralmente rilevante. Considerare la differenza di specie come moralmente rilevante in sé è quindi una forma di indebito pregiudizio al pari del razzismo o del sessismo, in cui si considerano differenze “coscienza giuridica” e una percezione del giuridico. Nel saggio L’animale quale soggetto di diritto enuncia: “Come non possiamo negare all’animale in modo sia pure crepuscolare l’uso della categoria della causalità, così non possiamo escludere che l’animale partecipando al nostro mondo non abbia un senso oscuro di quello che può essere la proprietà, l’obbligazione. Casi innumerevoli dimostrano come il cane sia custode geloso della proprietà del suo padrone e come ne compartecipi all’uso. oscuramente deve operare in esso questa visione della realtà esteriore come cosa propria, che nell’uomo civile arriva alle costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l’animale che rende un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. [...] Deve pure sentire in sé per quanto oscuramente e in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e scambiati. Naturalmente l’animale non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà, l’obbligazione; basta che dimostri esteriormente di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile”. (11) Per l’illustre medico e filantropo, ogni distruzione di vita deve passare prima attraverso il criterio della necessità. Questo è vero per gli animali e per la vegetazione, giacché anche in questo caso la distruzione sconsiderata di alberi e di piante può portare a drammatiche conseguenze. Quanto agli animali, che servono da cavia, il pretesto umanitario dell’esperimento non può giustificare tutti i sacrifici e le sofferenze che gli si impongono. Anche se la finalità dell’esperimento è valida, a volte si infliggono agli animali crudeli torture provocate da svegli per semplificare il lavoro. L’etica del rispetto della vita ordina di alleviare ogni sofferenza inutile: non è la sofferenza dell’animale che può dare servizio all’uomo, ma l’osservazione della sua guarigione: “Ti sentirai solidale con ogni forma di vita e la rispetterai in ogni condizione: ecco il più grande comandamento nella sua formula più semplice”. (12) Assertore del painismo, teoria morale che sostiene i diritti degli animali affermando che l’azione morale deve essere basata sulla riduzione del dolore (pain) degli esseri senzienti, comprendendo quindi tutti gli animali: la sofferenza non può essere accettata in nome di principi utilitaristici. Più specificatamente il painismo può essere considerato come un compromesso tra la posizione utilitaristica di Peter Singer e quella di Tom regan concernente il principio morale che vieta di servirsi degli altri come mezzo per il conseguimento dei nostri fini. (13) ossia l’opinione della minore considerazione attribuita dagli esseri umani, sul piano morale, alle altre specie animali. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 moralmente neutre, come la razza o il genere sessuale, come fondanti differenze di trattamento o di considerazione morale. regan è fautore della tesi, esplicata nel suo più noto trattato i diritti animali, secondo cui gli animali sono soggetti-di-una-vita, esattamente come gli esseri umani, e che, se si accetta l’idea di dare valore alla vita di un essere umano a prescindere dal grado di razionalità che questi dimostra, allora si deve dare un valore simile anche a quella degli animali. Solo gli esseri con valore intrinseco hanno diritti (il valore intrinseco è il valore di un soggetto al di là del suo valore in rapporto con altre persone); solo soggetti-di-vita hanno valore intrinseco; solo gli esseri autocoscienti, con desideri e speranze, attori deliberati con possibilità di pensare un futuro, sono soggetti-di-vita; tutti i mammiferi mentalmente normali sopra l’anno d’età sono soggetti-divita ed hanno quindi diritti. Trattare un animale come un mezzo per un fine significa violare i suoi diritti. Uno dei problemi della posizione dei diritti animali è legato ai conflitti tra diritti (a parità di diritti, come deve essere operata una scelta eticamente valida?) ed al fatto che regan pone l’egualitarismo a livello del soggetto per sé e in maniera assoluta, slegato dal contesto. In questo modo si può arrivare a delle conclusioni difficilmente accettabili, come ad esempio che la vita di un cane, ceteris paribus, vale quanto quella di un uomo. Per risolvere questo problema regan deve accettare soluzioni non logicamente implicate dalla sua posizione di partenza. Egli deve, infatti, accettare che in caso di conflitto d’interessi, il diritto di uno dei soggetti dovrà essere sacrificato, anche se sarà nostro dovere fare in modo di minimizzare questo sacrificio; ma, aggiunge regan, non possiamo sacrificare il diritto di qualcuno solo perché facendolo sarebbe massimizzato il benessere generale, sacrificando quindi i diritti per l’utilità. Nussbaum, nella sua celebre teoria delle capacità Le nuove frontiere della giustizia (14), che è alla base della sua idea di giustizia, riconosce che sia gli umani che gli animali hanno capacità e afferma che gli Stati debbono sostenere e favorire lo sviluppo di ciascuna di esse. Tutti gli animali, non solo l’uomo, temono i mali esterni in grado di danneggiarli. Anche qui, come nelle altre emozioni, c’è una componente valutativa dei vantaggi e dei danni che la realtà esterna comporta per noi: “La paura non è solo la prima emozione a presentarsi nella vita umana, è anche la più ampiamente condivisa all’interno del regno animale”. Secondo Nussbaum, nel mondo animale, la paura è superata da forme di cooperazione (magnifica quella tra gli elefanti). Il bambino, invece, ha solo un modo per ottenere ciò che vuole: usare gli altri. Nus (14) Le capacità di cui parla Nussbaum sono: 1) vita; 2) Salute fisica; 3) Integrità fisica; 4) Sensi, immaginazione e pensiero; 5) Sentimenti; 6) ragione pratica; 7) Appartenenza; 8) Altre specie; 9) Gioco; 10) Controllo del proprio ambiente. Le prime tre capacità, all’evidenza, sono equiparabili a diritti fondamentali. CoNTrIBUTI dI doTTrINA sbaum è convinta che la lista di capacità, convenientemente allargata, debba essere attenta e rispettosa delle forme di vita di ciascuna specie e che si debba promuovere la capacità di vivere e di agire in funzione della forma di vita di ciascuna specie. La filosofa è altresì convinta che tutte le considerevoli ingiustizie portate avanti dall’industria alimentare, come nella pesca e nella caccia sportiva, debbano essere fermate. In tal senso, anche l’utilizzo di carne artificiale, ottenuta da cellule staminali, può, secondo lei, contribuire ad un mondo più giusto. Francione, sostiene il diritto fondamentale degli animali a non essere trattati come oggetti di proprietà degli esseri umani. Per Francione il fatto che un essere sia senziente significa necessariamente che esso sia in possesso dell’interesse a continuare la propria esistenza e viene rifiutata l’idea che gli animali non siano dotati dell’interesse a non essere usati, ma solo dell’interesse a come vengono usati. Per Francione la nostra incapacità, per limiti epistemologici, di capire il significato della morte per i non umani non implica che un non umano senziente sia privo dell’interesse a continuare la propria esistenza. Egli è contrario all’idea secondo cui gli animali, per essere riconosciuti detentori del diritto a non essere usati come risorse umane, debbano possedere caratteristiche cognitive simili a quelle umane, quali autocoscienza, abilità linguistiche o autonomia delle preferenze (come nel caso dei delfini e delle grandi scimmie). Nel pensiero di Francione il riconoscimento dei diritti agli animali origina dal principio di uguale considerazione, poiché -egli afferma -se gli animali sono considerati proprietà, i loro interessi non potranno mai ricevere una considerazione paritaria (15). Le opinioni filosofiche sul diritto degli animali hanno larga eco nel mondo contemporaneo. Sono numerosi i movimenti, gruppi, associazioni che hanno come obiettivo la tutela del diritto degli animali. Anche le legislazioni nazionali e le fonti internazionali hanno recepito vari postulati delle tesi animaliste, con distinguo a seconda della tipologia di animali, persistendo il concetto della legittimità della uccisione degli animali al fine della alimentazione. (15) Ha sostenuto: “Sono d’accordo che senza dubbio sia sbagliato usare grandi scimmie non umane nella ricerca o nei circhi, o confinarle negli zoo, o usarle per qualsiasi altro scopo. ma rifiuto quella che chiamo la posizione delle ‘menti simili’, che collega lo status morale dei non umani al loro possesso di caratteristiche cognitive simili a quelle umane. Lo sfruttamento delle grandi scimmie non umane è immorale per lo stesso motivo per cui è immorale sfruttare le centinaia di milioni di topi e ratti che sono sistematicamente sfruttati nei laboratori o i miliardi di non umani che uccidiamo e mangiamo: le grandi scimmie non umane e tutti questi altri non umani sono, come noi, senzienti. Sono coscienti; sono soggettivamente consapevoli; hanno interessi; possono soffrire. Nessuna caratteristica oltre al- l’essere senzienti è richiesta per la personalità”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 3. Disciplina nel diritto internazionale universale vincolante lo Stato italiano. I) Un trattato a carattere universale che contempla anche obblighi degli Stati con riferimento al benessere animale è la Convenzione di Washington del 3 marzo 1973 sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione (CITES), ratificata in Italia con L. 19 dicembre 1975, n. 874; tale materia è attualmente disciplinata anche dal regolamento CE n. 338/97 del 9 dicembre 1996. L’articolo III, paragrafo 2, lett. c) dispone che -ai fini della esportazione -qualunque animale vivente sarà preparato e trasportato in maniera tale da evitare i rischi di ferite, di malattie, o di maltrattamenti. L’articolo vIII, paragrafi 3 e 4 -tra le misure che dovranno essere prese dalle Parti contraenti prevede: “3. Per quanto possibile, le Parti cureranno che le formalità richieste per il commercio degli specimens siano eseguite con un minimo di dilazione. allo scopo di facilitare queste formalità, ognuna delle Parti dovrà designare dei porti di uscita e dei porti d’entrata dove gli specimens dovranno essere presentati per essere sdoganati. Del pari le Parti dovranno verificare che ogni specimen vivo, durante qualunque periodo di transito, permanenza o trasporto, sia adeguatamente trattato, allo scopo di ridurre al minimo il rischio di ferite, di malattie o di maltrattamenti. 4. Nel caso di confisca di uno specimen vivente in conformità con le disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo: a) lo specimen sarà affidato ad una autorità amministrativa dello Stato che effettua la confisca; b) l’autorità amministrativa, dopo una consultazione con lo Stato di esportazione, rimanderà lo specimen al suddetto Stato a spese del medesimo, oppure ad un Centro di osservazione e salvaguardia o ad altro luogo considerato dalla detta autorità amministrativa appropriato e compatibile con gli scopi della presente Convenzione; e c) l’autorità amministrativa potrà ottenere il consiglio di un’autorità scientifica, oppure, quando lo riterrà desiderabile, potrà consultarsi con la Segreteria, allo scopo di facilitare la decisione da prendersi in conformità col capoverso b) del presente paragrafo, comprendendosi in ciò la scelta del Centro di osservazione e salvaguardia o di un altro luogo”. viene rilevato in dottrina che, non disponendo la Convenzione di efficaci meccanismi di controllo, è difficile che vengano effettivamente contestate le violazioni degli obblighi che essa impone con riferimento al benessere animale (16). II) Altro trattato a carattere universale che contempla anche obblighi degli Stati con riferimento al benessere animale è il Protocollo sulla protezione ambientale al trattato antartico, con annessi ed atto finale, fatto a Madrid il 4 ot( 16) In tal senso F. MUCCI, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, cit., p. 261. CoNTrIBUTI dI doTTrINA tobre 1991 e ratificato con L. 15 febbraio 1995, n. 54 il cui art. 3 dell’“annesso ii” -relativo alla protezione della fauna e della flora native -così dispone: “1. Saranno vietate la cattura o le interferenze nocive, tranne che in conformità con un permesso. 2. Questi permessi specificheranno le attività autorizzate, ivi compreso quando, dove e da chi devono essere svolte e saranno rilasciate solo nelle seguenti circostanze: (a) per fornire campioni destinati a studi scientifici o informazioni scientifiche; (b) per fornire campioni per musei, erbari, giardini zoologici e botanici, o altre istituzioni o utilizzazioni educative o culturali; (c) per provvedere alle conseguenze inevitabili di attività scientifiche non diversamente autorizzate in base ai sotto-paragrafi (a) o (b) precedenti, o alla costruzione e funzionamento di attrezzature di supporto scientifico. 3. il rilascio di questi permessi sarà limitato in modo da assicurare che: (a) non siano catturati più animali, uccelli o piante native di quanto non sia strettamente necessario per soddisfare agli scopi stabiliti nel paragrafo 2 sopra; (b) siano uccisi solo piccoli quantitativi di mammiferi o uccelli nativi ed in nessun caso siano uccisi più mammiferi o uccelli nativi della popolazione locale di quanti possano, in combinazione con altre catture consentite, essere normalmente sostituiti per via di riproduzione naturale nella stagione successiva; (c) sia preservata la diversità delle specie, nonché l’habitat essenziale alla loro esistenza ed all’equilibrio dei sistemi ecologici esistenti nell’ambito della zona del Trattato antartico. 4. ogni specie di mammiferi, uccelli e piante native elencate all’appendice a al presente annesso (17) sarà designata come “Specie particolarmente protetta” e godrà di una particolare protezione delle Parti. 5. Non saranno rilasciati permessi per catturare specie particolarmente protette salvo se la cattura: (a) è effettuata per finalità scientifiche obbligatorie; (b) non pone a repentaglio la sopravvivenza o il ricupero di quella specie o popolazione locale; (c) si avvale di tecniche non letali laddove appropriato. 6. Tutte le catture di mammiferi e di uccelli indigeni saranno effettuate secondo modalità comportanti il minimo grado di pena e di sofferenza possibile”. III) Altro trattato a carattere universale che contempla anche obblighi degli Stati con riferimento al benessere animale è la Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli viventi allo stato selvatico, adottata a Parigi il 18 ottobre 1950, alla quale l’Italia ha aderito con L. 24 novembre 1978, n. 812. Tra l’altro, si dispone: le Alte Parti Contraenti si impegnano a vietare i procedimenti che sono suscettibili di portare alla distruzione o alla cattura in massa di uccelli o di infliggere agli stessi inutili sofferenze (art. 5); ciascuna Parte Contraente si impegna a redigere un elenco degli uccelli di cui è lecita l’uccisione o la cattura sul proprio territorio, nel rispetto tuttavia, delle condi( 17) “Specie particolarmente protette Tutte le specie del genere arctocephalus, Foche da pelliccia. ommatophoca rossili, Foca di ross”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 zioni previste dalla presente Convenzione (art. 8); allo scopo di attenuare le conseguenze della rapida sparizione per fatto dell’uomo, dei luoghi favorevoli alla riproduzione degli uccelli, le Alte Parti Contraenti si impegnano ad incoraggiare ed a favorire immediatamente, con tutti i mezzi possibili, la creazione di riserve acquatiche o terrestri, di dimensioni ed in ubicazioni appropriate ove gli uccelli possano nidificare ed allevare le loro nidiate in sicurezza ed ove gli uccelli migratori possano ugualmente riposarsi e trovare il proprio nutrimento in tutta tranquillità (art. 11). Iv) vi è poi la Convenzione sulla conservazione delle specie migratorie appartenenti alla fauna selvatica, adottata a Bonn il 23 giugno 1979, ratificata con L. 25 gennaio 1983, n. 42. L’articolo II -recante i Principi fondamentali -enuncia: “1. Le parti riconoscono l’importanza che riveste la questione della conservazione delle specie migratrici e l’importanza del fatto che gli Stati dell’area di distribuzione si accordino, laddove possibile ed opportuno, circa l’azione da intraprendere a questo fine; esse accordano una particolare attenzione alle specie migratrici che si trovano in stato di conservazione sfavorevole e prendono, singolarmente o in cooperazione, le misure necessarie per la conservazione delle specie e del loro habitat. 2. Le Parti riconoscono la necessità di adottare misure per evitare che una specie migratrice possa divenire una specie minacciata. 3. in particolare le Parti: a) dovrebbero promuovere lavori di ricerca relativi alle specie migratrici, cooperare a tali lavori o fornire il proprio appoggio; b) si sforzano di accordare una protezione immediata alle specie migratrici elencate nell’allegato i; c) si sforzano di concludere “accordi” sulla conservazione e la gestione delle specie migratrici elencate nell’allegato ii”. v) Con riferimento agli animali selvatici, sempre a livello universale, sono state adottate risoluzioni e raccomandazioni non vincolanti riguardo al benessere animale, la prima delle quali, adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare, risale al 1958. Con tali atti si richiedeva agli Stati di imporre, con tutti i mezzi a loro disposizione, che si utilizzassero metodi per la cattura e l’uccisione degli animali marini, in particolare delle balene e delle foche, che evitassero loro il più possibile di soffrire (18). 4. Disciplina nel diritto internazionale regionale vincolante lo Stato italiano. Tra le convenzioni concluse in seno al Consiglio d’Europa, vincolanti per l’Italia, ricordiamo quelle sulla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, sulla protezione degli animali negli allevamenti, sulla protezione degli animali da macello, sulla protezione degli animali da compagnia: (18) Per tali dati F. MUCCI, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, cit., p. 262. CoNTrIBUTI dI doTTrINA I) Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, adottata a Berna il 19 settembre 1979, ratificata dall’Italia con L. 5 agosto 1981, n. 503. Si dispone, tra l’altro, che ogni parte contraente adotterà necessarie e appropriate leggi e regolamenti al fine di proteggere gli habitat di specie di flora e fauna selvatiche ed al fine di salvaguardare gli habitat naturali che minacciano di scomparire (art. 4) e adotterà altresì necessarie e opportune leggi e regolamenti onde provvedere alla particolare salvaguardia delle specie di fauna selvatica enumerate agli allegati II e III (artt. 6 e 7). II) Convenzione europea sulla protezione degli animali negli allevamenti, adottata a Strasburgo il 10 marzo 1976, ratificata dall’Italia con L. 14 ottobre 1985, n. 623. La Convenzione si applica all’alimentazione, alle cure ed al ricovero degli animali specie nei sistemi moderni di allevamento intensivo (art. 1). È prescritto che “ogni animale deve beneficiare di un ricovero, di una alimentazione e di cure che -tenuto conto della specie, del suo grado di sviluppo, d’adattamento e di addomesticamento -siano appropriate ai suoi bisogni fisiologici ed etologici, conformemente all’esperienza acquisita ed alle conoscenze scientifiche” (art. 3). Per l’art. 4 “1. La libertà di movimento peculiare all’animale, tenuto conto della sua specie e conformemente all’esperienza acquisita ed alle conoscenze scientifiche, non deve essere ostacolata in maniera che ciò possa procurargli sofferenze o danni inutili. 2. Se un animale viene continuamente o abitualmente legato, incatenato o tenuto costretto, bisogna assicurargli sufficiente spazio per i suoi bisogni fisiologici ed etologici, conformemente a quanto dettato dall’esperienza acquisita e dalle conoscenze scientifiche”. Per l’art. 5 “L’illuminazione, la temperatura, il tasso di umidità, la circolazione dell’aria, l’aerazione del ricovero dell’animale e le altre condizioni ambientali quali la concentrazione dei gas o l’intensità del rumore devono essere appropriati -tenuto conto della specie, del suo grado di sviluppo, di adattamento e di addomesticamento -ai suoi bisogni fisiologici ed etologici, in conformità con l’esperienza acquisita e le cognizioni scientifiche”. Giusta l’art. 6 “Nessun animale deve essere alimentato in modo tale che ne risultino sofferenze e danni inutili; inoltre la sua alimentazione non deve contenere sostanze che possano causargli sofferenze o danni inutili”. All’art. 7 sono previste ispezioni per controllare l’osservanza delle norme in esame. III) Convenzione europea sulla protezione degli animali da macello, adottata a Strasburgo il 10 maggio 1979, ratificata dall’Italia con L. 14 ottobre 1985, n. 623. La Convenzione si applica all’avviamento, al ricovero, all’immobilizzazione, allo stordimento e all’abbattimento degli animali domestici appartenenti alle seguenti specie: solipedi (19), ruminanti, suini, conigli e rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 pollame. Per l’art. 2, commi 3 e 4, “3. Ciascuna Parte Contraente vigila affinché la progettazione, costruzione e conduzione dei mattatoi, nonché il loro funzionamento, assicurino le condizioni appropriate previste dalla presente Convenzione al fine di evitare, nella massima misura possibile, di provocare eccitazioni, dolori o sofferenze agli animali. 4. Ciascuna Parte Contraente vigila per risparmiare agli animali abbattuti nei macelli o fuori di essi qualsiasi dolore o sofferenze evitabili”. L’art. 3, comma 1, dispone che gli animali devono essere scaricati nel più breve tempo possibile e che durante le attese nei mezzi di trasporto essi devono essere posti al riparo da condizioni climatiche eccessive e beneficiare altresì di una aerazione adeguata. Gli animali devono essere scaricati, avviati ai mattatoi ed ivi ricoverati fino alla loro macellazione con ogni cura secondo le disposizioni dettate dagli artt. 4-6 (20). L’art. 7 detta disposizioni sul ricovero degli animali, prescrivendo -tra l’altro -che: gli animali devono essere tenuti al riparo degli effetti meteorologici o climatici sfavorevoli; i mattatoi devono disporre di zone coperte munite di dispositivi di attacco con mangiatoie e abbeveratoi; gli animali che per motivi di specie, sesso, età od origine sono ostili fra di loro devono essere separati; gli animali che sono stati trasportati in gabbie, cesti o casse, devono essere abbattuti il più presto possibile; le stalle devono essere arieggiate e permettere la pulizia e la disinfezione oltre allo scolo completo dei liquami; durante il foraggiamento le stalle devono essere sufficientemente illuminate. Gli artt. 8 e 9 dettano disposizioni sulla cura degli animali, prescrivendo -tra l’altro -che: gli animali devono avere a disposizione l’acqua, a meno che non siano avviati nei locali di macellazione al più presto possibile; ad eccezione di quelli che saranno abbattuti entro le dodici ore dopo l’arrivo, gli animali devono essere foraggiati ed abbeverati moderatamente ad intervalli appropriati; le condizioni e lo stato di salute degli animali devono costituire l’oggetto di una ispezione da eseguirsi almeno due volte al giorno, mattina e sera; gli animali malati, indeboliti o feriti devono essere immediatamente abbattuti e, se ciò non è possibile, devono essere separati dagli altri, in attesa di essere abbattuti. Gli artt. 12 -19 dettano disposizioni sulla macellazione degli animali, prescrivendo -tra l’altro -che: gli animali devono essere immobilizzati, se necessario, immediatamente prima di essere abbattuti e, salvo le eccezioni previste dall’art. 17 (21), storditi secondo procedimenti appropriati; è proi (19) ossia: mammiferi che, come il cavallo, hanno gli arti terminanti in un unico dito, rivestito da uno zoccolo compatto. (20) Tra l’altro, giusta il comma 3 dell’art. 4 “Gli animali non devono essere né impauriti né eccitati. in ogni caso bisogna aver cura affinché gli animali non si rovescino o possano cadere dai ponti, dalle rampe o dalle passerelle. in particolare è proibito sollevare gli animali per la testa, per le zampe o per la coda in modo tale che questo provochi loro dolori o sofferenze”. (21) “1. Ciascuna Parte Contraente può autorizzare deroghe alle disposizioni relative alla fase CoNTrIBUTI dI doTTrINA bito impiegare mezzi di contenzione che causino sofferenze evitabili, legare le membra posteriori degli animali o appenderli prima della fase di stordimento; secondo i procedimenti di stordimento autorizzati dalle Parti Contraenti, gli animali devono cadere in uno stato di incoscienza nel quale vanno mantenuti sino al momento dell’abbattimento, risparmiando comunque loro ogni sofferenza evitabile. Iv) Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, adottata a Strasburgo il 13 novembre 1987, ratificata dall’Italia con L. 4 novembre 2010, n. 201. Nel preambolo si riconosce “l’importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”. Giusta l’art. 1, par. 1, della Convenzione “Per animale da compagnia si intende ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto dall’uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per suo diletto e compagnia”. Tra i principi enunciati per il mantenimento degli animali da compagnia ricordiamo: -i principi fondamentali per il benessere degli animali fissati nell’art. 3: “1 Nessuno causerà inutilmente dolori, sofferenze o angosce ad un animale da compagnia. 2 Nessuno deve abbandonare un animale da compagnia”; -quelli relativi al mantenimento. L’art. 4 enuncia: “1. ogni persona che tenga un animale da compagnia o che abbia accettato di occuparsene sarà responsabile della sua salute e del suo benessere. 2. ogni persona che tenga un animale da compagnia o se ne occupi, deve provvedere alla sua installazione e fornirgli cure ed attenzione, tenendo conto dei suoi bisogni etologici secondo la sua specie e la sua razza ed in particolare: a rifornirlo in quantità sufficiente di cibo e di acqua di sua convenienza; b procurargli adeguate possibilità di esercizio; c prendere tutti i ragionevoli provvedimenti per impedire che fugga. 3. Un animale non deve essere tenuto come animale da compagnia se: a le condizioni di cui al paragrafo 2 di cui sopra non sono soddisfatte, oppure b benché tali condizioni siano soddisfatte, l’animale non può adattarsi alla cattività”; -quelli relativi alla riproduzione, art. 5: “Qualsiasi persona la quale selezioni un animale da compagnia per riproduzione, è tenuta a tener conto preliminare di stordimento nei seguenti casi: abbattimento secondo riti religiosi; […]. 2. Le Parti Contraenti che faranno ricorso alle deroghe di cui al paragrafo 1 del presente articolo devono aver cura, tuttavia, a che nel caso di simili abbattimenti venga risparmiato agli animali ogni sofferenza o dolore evitabili”. L’art. 13 precisa che “Nel caso di abbattimento rituale, è obbligatorio immobilizzare gli animali della specie bovina prima dell’abbattimento, mediante un procedimento meccanico, allo scopo di evitare all’animale ogni dolore, sofferenza ed eccitazione, come anche ogni ferita o contusione”. L’art. 14 precisa altresì che “È proibito impiegare mezzi di contenzione che causino sofferenze evitabili, legare le membra posteriori degli animali o appenderli prima della fase di stordimento; e nel caso di abbattimento rituale, prima che il sangue sia completamente sgorgato […]”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 delle caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali che sono di natura tale da mettere a repentaglio la salute ed il benessere della progenitura o dell’animale femmina”; -quelli relativi all’addestramento. Giusta l’art. 7 “Nessun animale da compagnia deve essere addestrato con metodi che possono danneggiare la sua salute ed il suo benessere, in particolare costringendo l’animale ad oltrepassare le sue capacità o forza naturale, o utilizzando mezzi artificiali che causano ferite o dolori, sofferenze ed angosce inutili”; -quelli relativi al commercio, allevamento e custodia a fini commerciali, rifugi per animali. L’art. 8 prescrive: “1. Qualsiasi persona la quale […] pratichi il commercio o l’allevamento o la custodia di animali da compagnia a fini commerciali, o gestisca un rifugio per animali deve dichiararlo all’autorità competente entro un termine adeguato che sarà stabilito da ciascuna Parte. Qualsiasi persona la quale intenda praticare una delle predette attività deve farne dichiarazione all’autorità competente. […]. 3. Le attività di cui sopra possono essere esercitate solamente se: a la persona responsabile è in possesso delle nozioni e della capacità necessarie all’esercizio di tale attività, avendo sia una formazione professionale, sia un’esperienza sufficiente per quanto riguarda gli animali da compagnia; b i locali e le attrezzature utilizzate per l’attività soddisfano ai requisiti di cui all’articolo 4. […]; -quelli relativi alla pubblicità, spettacoli, esposizioni, competizioni e manifestazioni analoghe. All’uopo l’art. 9 prescrive: “1. Gli animali da compagnia non possono essere utilizzati per pubblicità, spettacoli, esposizioni, competizioni o manifestazione analoghe a meno che: a) l’organizzatore non abbia provveduto a creare le condizioni necessarie per un trattamento di tali animali che sia conforme con i requisiti dell’articolo 4 paragrafo 2 e che b) la loro salute ed il loro benessere non siano messi a repentaglio. 2. Nessuna sostanza deve essere somministrata ad un animale da compagnia, nessun trattamento deve essergli applicato, né alcun procedimento utilizzato per elevare o diminuire il livello naturale delle sue prestazioni: a) nel corso di competizioni; b) in qualsiasi altro momento, qualora ciò possa mettere a repentaglio la salute ed il benessere dell’animale”; -quelli relativi agli interventi chirurgici. Art. 10: “1. Gli interventi chirurgici destinati a modificare l’aspetto di un animale da compagnia, o finalizzati ad altri scopi non curativi debbono essere vietati, in particolare: a) il taglio della coda; b) il taglio delle orecchie; c) la recisione delle corde vocali; d) l’esportazione delle unghie e dei denti. 2. Saranno autorizzate eccezioni a tale divieto solamente: a) se un veterinario considera un intervento non curativo necessario sia per ragioni di medicina veterinaria, sia nell’interesse di un determinato animale; b) per impedire la riproduzione. 3. a) gli interventi nel corso dei quali l’animale proverà o sarà suscettibile di provare forti dolori debbono essere effettuati solamente in anestesia e da un veterinario o sotto il suo con CoNTrIBUTI dI doTTrINA trollo; b) gli interventi che non richiedono anestesia possono essere praticati da una persona competente in conformità con la legislazione nazionale”; -quelli relativi alla uccisione. Per l’art. 11 “1. Solo un veterinario o altra persona competente deve procedere all’uccisione di un animale da compagnia, tranne che in casi di urgenza per porre fine alle sofferenze di un animale e qualora non si possa ottenere rapidamente l’assistenza di un veterinario o di altra persona competente, o in ogni altro caso di emergenza configurato dalla legislazione nazionale. ogni uccisione deve essere effettuata con il minimo di sofferenze fisiche e morali in considerazione delle circostanze. il metodo prescelto, tranne che in casi di urgenza, deve: a) sia indurre una perdita di coscienza immediata e successivamente la morte; b) sia iniziare con la somministrazione di un’anestesia generale profonda seguita da un procedimento che arrechi la morte in maniera certa. La persona responsabile del- l’uccisione deve accertarsi della morte dell’animale prima di eliminarne la spoglia. […]”. vi è la previsione poi di misure complementari per gli animali randagi, per tali intendendosi “ogni animale da compagnia senza alloggio domestico o che si trova all’esterno dei limiti dell’alloggio domestico del suo proprietario o custode e che non è sotto il controllo o la diretta sorveglianza di alcun proprietario o custode” (art. 1, par. 5, della Convenzione). L’art. 12 disciplina la riduzione del numero di animali randagi: “Quando una Parte ritiene che il numero di animali randagi rappresenta un problema per detta Parte, essa deve adottare le misure legislative e/o amministrative necessarie a ridurre tale numero con metodi che non causino dolori, sofferenze o angosce che potrebbero essere evitate. a) Tali misure debbono comportare che: i) se questi animali debbono essere catturati, ciò sia fatto con il minimo di sofferenze fisiche e morali tenendo conto della natura dell’animale; ii) nel caso che gli animali catturati siano tenuti o uccisi, ciò sia fatto in conformità con i principi stabiliti dalla presente Convenzione. b) Le Parti si impegnano a prendere in considerazione: i) l’identificazione permanente di cani e gatti con mezzi adeguati che causino solo dolori, sofferenze o angosce di poco conto o passeggere, come il tatuaggio abbinato alla registrazione del numero e dei nominativi ed indirizzi dei proprietari; ii) di ridurre la riproduzione non pianificata dei cani e dei gatti col promuovere la loro sterilizzazione; iii) di incoraggiare le persone che rinvengono un cane o un gatto randagio, a segnalarlo all’autorità competente”. Nei testi delle Convenzioni innanzi citati -e a fortiori nelle Convenzioni del diritto internazionale universale descritte nel precedente paragrafo 3 -si evita accuratamente di utilizzare espressioni prevedenti in modo espresso un diritto e/o interesse in capo all’animale. vi sono norme che prescrivono comandi o divieti ai soggetti di diritto che entrano in relazione con gli animali. Tuttavia, in numerosi casi si tutela in modo indiretto un interesse collegabile rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 all’animale. Quando, ad es. all’art. 4 della Convenzione per la protezione degli animali da compagnia si dettano prescrizioni circa il mantenimento dell’animale, si tutelano indirettamente la sua salute e il suo benessere. La protezione della vita non è nemmeno presa in considerazione per quelle specie animali che sono utilizzate per la produzione di generi alimentari (la protezione della specie sì, per evitare l’esaurimento di una risorsa e perché la diversità biologica in sé è considerata una risorsa) e solo la protezione dalle sofferenze “inutili” è ritenuta moralmente inaccettabile e dunque vietata, con il paradosso che l’uccisione, se non in contrasto con la sopravvivenza della specie e non “inumana”, è consentita, anzi, in molti casi normale (22). 5. Previsioni di tutela ad iniziativa della società civile a livello internazionale. Un catalogo dei diritti fondamentali degli animali è contenuto nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’animale”, redatta dalla Lega Internazionale dei diritti dell’Animale (L.I.d.A.) e da altre associazioni animaliste. Tale catalogo è stato proclamato a Parigi, presso la sede dell’Unesco il 15 ottobre 1978. va precisato che il testo non è riconducibile all’Unesco, ma a soggetti privati. Si tratta, infatti, di un testo adottato a Londra nel 1977 ad una riunione di organizzazioni non governative, la cui proclamazione presso la sede del- l’UNESCo è stata un’iniziativa privata, che non ha visto il coinvolgimento istituzionale dell’organizzazione. Nella premessa si prende atto che “ogni animale ha dei diritti”. L’art. 1 riconosce il primo e basilare diritto, il diritto alla vita: “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza”; tale diritto viene precisato all’art. 11 (“ogni atto che comporti l’uccisione di un animale senza necessità è un biocidio, cioè un delitto contro la vita”) e all’art. 12 (“ogni atto che comporti l’uccisione di un gran numero di animali selvaggi è un genocidio, cioè un delitto contro la specie”). L’art. 2 stabilisce: “a) ogni animale ha diritto al rispetto; b) l’uomo, in quanto specie animale, non può attribuirsi il diritto di sterminare gli altri animali o di sfruttarli violando questo diritto. Egli ha il dovere di mettere le sue conoscenze al servizio degli animali; c) ogni animale ha diritto alla considerazione, alle cure e alla protezione dell’uomo”. L’art. 3 riconosce il diritto dell’animale a non soffrire: “a) Nessun animale dovrà essere sottoposto a maltrattamenti e ad atti crudeli; b) se la soppressione di un animale è necessaria, deve essere istantanea, senza dolore, né angoscia”; l’art. 6 precisa: “b) l’abbandono di un animale è un atto crudele e degradante”. L’art. 4 ha ad oggetto gli animali selvatici: “a) ogni animale che appar (22) Per tali rilievi F. MUCCI, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, cit., pp. 263 e 266. CoNTrIBUTI dI doTTrINA tiene ad una specie selvaggia ha il diritto di vivere libero nel suo ambiente naturale terrestre, aereo o acquatico e ha il diritto di riprodursi; b) ogni privazione di libertà, anche se a fini educativi, è contraria a questo diritto”. L’art. 5 enuncia: “a) ogni animale appartenente ad una specie che vive abitualmente nell’ambiente dell’uomo ha diritto di vivere e di crescere secondo il ritmo e nelle condizioni di vita e di libertà che sono proprie della sua specie; b) ogni modifica di questo ritmo e di queste condizioni imposta dal- l’uomo a fini mercantili è contraria a questo diritto”. Per l’art. 7 “ogni animale che lavora ha diritto a ragionevoli limitazioni di durata e intensità di lavoro, ad un’alimentazione adeguata e al riposo”. La dichiarazione non vieta la sperimentazione animale, ma la sottopone a condizioni; l’art. 8 enuncia: “a) La sperimentazione animale che implica una sofferenza fisica o psichica è incompatibile con i diritti dell’animale sia che si tratti di una sperimentazione medica, scientifica, commerciale, sia d’ogni altra forma di sperimentazione; b) le tecniche sostitutive devono essere utilizzate e sviluppate”. La dichiarazione presuppone la possibilità dell’uso di alimenti animali, non prende posizione a favore del vegetarianismo, ma la sottopone a condizioni; giusta l’art. 9 “Nel caso che l’animale sia allevato per l’alimentazione deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà e dolore”. Gli artt. 10 e 13 riconoscono il diritto alla dignità dell’animale: art. 10 “a) Nessun animale deve essere usato per il divertimento dell’uomo; b) le esibizioni di animali e gli spettacoli che utilizzano degli animali sono incompatibili con la dignità dell’animale”; art. 13 “a) L’animale morto deve essere trattato con rispetto; b) le scene di violenza di cui gli animali sono vittime devono essere proibite al cinema e alla televisione salvo che non abbiano come fine di mostrare un attentato ai diritti dell’animale”. Per l’art. 14 “i diritti dell’animale devono essere difesi dalla legge come i diritti dell’uomo”. La dichiarazione non ha, evidentemente, valore giuridico, provenendo da attori non governativi; ha lo scopo di proporre un codice etico di cura e di rispetto verso ogni animale e costituisce un riferimento culturale importante nel dibattito sovrannazionale. La stessa, ad oggi, non ha avuto un’eco pratica significativa, in quanto non è stata tradotta in documenti vincolanti per gli Stati. 6. La disciplina nel diritto dell’Unione Europea. L’art. 13 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) recita: “Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale”. In questo testo la posizione dell’animale muove dalla sua connotazione di soggetto: l’animale è, infatti, identificato per la prima volta come essere senziente, distinto dall’ambiente; l’animale è un individuo, non mero componente della fauna. di fatto questa è la prima previsione normativa che segna il tentativo di innovare la visione antropocentrica, riconoscendo agli animali uno status degno di attenzione e rispetto a prescindere dal legame tra il loro benessere e la tutela della salute umana o altri fini; pur non riconoscendo l’articolo una soggettività giuridica agli animali, ne segna un chiaro confine con le cose, che consiste in una non ben specificata capacità di esseri senzienti (23). viene, tuttavia, evidenziato che una debolezza del- l’obbligo previsto dall’articolo è rappresentata dalla sua subordinazione al rispetto di normative legislative o amministrative in relazione a riti religiosi, tradizioni culturali e patrimonio regionale. Inoltre, l’articolo si applica a settori specifici, il che impedisce di considerare il “benessere degli animali” un principio generale (24). Tra le eccezioni alla regola della tutela del benessere animale possiamo citare: le corride di tori (ricomprese nelle eccezioni delle tradizioni culturali e del patrimonio regionale degli Stati membri) legalmente permesse non solo in Spagna, ma anche in Portogallo e nel sud della Francia; la macellazione rituale, ossia una serie di atti correlati alla macellazione di animali prescritti da una religione (ricompresa nella eccezione dei riti religiosi), nelle religioni ebraica ed islamica, nella quale è vietata qualunque forma di stordimento del- l’animale da macellare. Norme speciali e per determinati ambiti sono contenute nel diritto derivato (regolamenti e direttive in uno agli atti di ricezione) dell’Unione Europea. ricordiamo: I) regolamento (CEE) n. 3254/91 del 4 novembre 1991, che vieta l’uso di tagliole nella Comunità e l’introduzione nella Comunità di pellicce e di prodotti manifatturati di talune specie di animali selvatici originari di paesi che utilizzano per la loro cattura tagliole o metodi non conformi alle norme concordate a livello internazionale in materia di cattura mediante trappole senza crudeltà. Ai fini del regolamento si intende per tagliola “un congegno destinato (23) Per questi rilievi: L. CANToNE, i diritti degli animali in Europa: una questione di moralità, religione e diritto, cit., p. 193. (24) Per questi rilievi, ancora: L. CANToNE, i diritti degli animali in Europa: una questione di moralità, religione e diritto, cit., p. 195. CoNTrIBUTI dI doTTrINA a trattenere o catturare un animale mediante ganasce che si chiudono saldamente su uno o più arti dell’animale, impedendo all’arto o agli arti in questione di sottrarsi alla presa” (art. 1); II) regolamento (CE) n. 338/97 del 9 dicembre 1996 relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio. Il regolamento fissa -tra l’altro -requisiti acché il commercio della fauna selvatica: non abbia effetti negativi sullo stato di conservazione della specie o sull’estensione del territorio occupato dalla popolazione della specie interessata e non sia pregiudizievole per la sopravvivenza della specie interessata; avvenga in modo da ridurre al minimo il rischio di lesioni, danno alla salute o maltrattamento. Sono vietati l’acquisto, l’offerta di acquisto, l’acquisizione in qualunque forma a fini commerciali, l’esposizione in pubblico per fini commerciali, l’uso a scopo di lucro e l’alienazione, nonché la detenzione, l’offerta o il trasporto a fini di alienazione, di esemplari delle specie elencate nell’allegato A; III) d.P.r. 8 settembre 1997, n. 357 (regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e semi- naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche). Aspetto di rilevanza è la tutela delle specie faunistiche. Giusta l’art. 8, comma 1, per le specie animali di cui all’allegato d, lettera a) (25), del regolamento, è fatto divieto di: “a) catturare o uccidere esemplari di tali specie nell’ambiente naturale; b) perturbare tali specie, in particolare durante tutte le fasi del ciclo riproduttivo o durante l’ibernazione, lo svernamento e la migrazione; c) distruggere o raccogliere le uova e i nidi nell’ambiente naturale; d) danneggiare o distruggere i siti di riproduzione o le aree di sosta”; inoltre “è vietato il possesso, il trasporto, lo scambio e la commercializzazione di esemplari prelevati dall’ambiente naturale”. Ancora, qualora risulti necessario sulla base dei dati di monitoraggio, le regioni e gli Enti parco nazionali stabiliscono adeguate misure per rendere il prelievo nell’ambiente naturale degli esemplari delle specie (25) “Specie animali e vegetali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa Le specie che figurano nel presente allegato sono indicate: - con il nome della specie o della sottospecie oppure - con l’insieme delle specie appartenenti ad un taxon superiore o ad una parte indicata di detto taxon. L’abbreviazione «spp.» dopo il nome di una famiglia o di un genere serve a designare tutte le specie che appartengono a tale genere o famiglia. a) aNimaLi VErTEBraTi, mammiFEri, iNSECTiVora […tra cui: Soricidae, Talpidae], miCroCHiroPTEra Tutte le specie, mEGaCHiroPTEra […] roDENTia […tra cui: Castoridae, Cricetidae], CarNiVora […tra cui: Canidae], arTioDaCTYLa […tra cui: Cervidae, Bovidae, Bison bonasus, Capra pyrenaica pyrenaica], CETaCEa Tutte le specie, rETTiLi, TESTUDiNaTa […tra cui: Testudinidae, Cheloniidae, Caretta caretta], SaUria […tra cui: Lacertidae], oPHiDia […tra cui: Colubridae, Natrix natrix corsa,Viperidae], aNFiBi, CaUDaTa […tra cui: Salamandridae], aNUra […tra cui: rana italica], PESCi, aCiPENSEriFormES […], SaLmoNiFormES […], CYPriNiFormES […], aTHEriNiFormES […], PErCiFormES […], iNVErTEBraTi: arTroPoDi, CrUSTaCEa [...], iNSECTa […], araCHNiDa […], moLLUSCHi, GaSTroPoDa […], BiVaLVia […], ECHiNoDErmaTa […]”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 di fauna selvatiche di cui all’allegato E (26), nonché il loro sfruttamento, compatibile con il mantenimento delle suddette specie in uno stato di conservazione soddisfacente; sono in ogni caso vietati tutti i mezzi di cattura non selettivi suscettibili di provocare localmente la scomparsa o di perturbare gravemente la tranquillità delle specie, di cui all’allegato E (art. 10); Iv) d.L.vo 26 marzo 2001, n. 146 (attuazione della direttiva 98/58/CE relativa alla protezione degli animali negli allevamenti). Ai fini del decreto si intende per animale “qualsiasi animale, inclusi pesci, rettili e anfibi, allevato o custodito per la produzione di derrate alimentari, lana, pelli, pellicce o per altri scopi agricoli” (art. 1, comma 2, lett. a); il decreto non si applica agli animali: “a) che vivono in ambiente selvatico; b) destinati a partecipare a gare, esposizioni, manifestazioni, ad attività culturali o sportive; c) da sperimentazione o da laboratorio; d) invertebrati” (art. 1, comma 3). Il proprietario o il custode ovvero il detentore deve: “a) adottare misure adeguate per garantire il benessere dei propri animali e affinché non vengano loro provocati dolore, sofferenze o lesioni inutili; b) allevare e custodire gli animali diversi dai pesci, rettili e anfibi, in conformità alle disposizioni di cui all’allegato” (art. 2, comma 1). Giusta l’art. 3 l’allevamento di animali con il solo e principale scopo di macellarli per il valore della loro pelliccia deve avvenire in conformità alle (26) “Specie animali e vegetali di interesse comunitario il cui prelievo nella natura e il cui sfruttamento potrebbero formare oggetto di misure di gestione Le specie che figurano nel presente allegato sono indicate: - con il nome della specie o della sottospecie oppure - con l’insieme delle specie appartenenti ad un taxon superiore o ad una parte indicata di detto taxon. L’abbreviazione “spp”. dopo il nome di una famiglia o di un genere serve a designare tutte le specie che appartengono a tale genere o famiglia. a) aNimaLi VErTEBraTi mammiFEri roDENTia […tra cui: Castoridae], CarNiVora […tra cui: Canidae, mustelidae], DUPLiCiDENTaTa […], ar- TioDaCTYLa […tra cui: Bovidae] aNFiBi aNUra […] PESCi PETromYZoNiFormES […], aCiPENSEriFormES […], CLUPEiFormES […], SaLmoNiFormES […], CYPriNi- FormES […], SiLUriFormES […], PErCiFormES […] iNVErTEBraTi CoELENTEraTa CNiDaria […] moLLUSCa GaSTroPoDa - STYLommaToPHora […], BiVaLVia - UNioNoiDa […] aNNELiDa HirUDiNoiDEa -arHYNCHoBDELLaE […] arTHroPoDa CrUSTaCEa - DECaPoDa […], iNSECTa - LEPiDoPTEra […]”. CoNTrIBUTI dI doTTrINA ulteriori disposizioni dettate al punto 22 dell’allegato. L’allegato stabilisce, tra i 22 punti, quanto segue: 2. Tutti gli animali tenuti in sistemi di allevamento, il cui benessere richieda un’assistenza frequente dell’uomo, sono ispezionati almeno una volta al giorno. Gli animali allevati o custoditi in altri sistemi sono ispezionati a intervalli sufficienti al fine di evitare loro sofferenze. 4. Gli animali malati o feriti devono ricevere immediatamente un trattamento appropriato e, qualora un animale non reagisca alle cure in questione, deve essere consultato un medico veterinario. ove necessario gli animali malati o feriti vengono isolati in appositi locali muniti, se del caso, di lettiere asciutte o confortevoli. 7. La libertà di movimento propria dell’animale, in funzione della sua specie e secondo l’esperienza acquisita e le conoscenze scientifiche, non deve essere limitata in modo tale da causargli inutili sofferenze o lesioni. Allorché continuamente o regolarmente legato, incatenato o trattenuto, l’animale deve poter disporre di uno spazio adeguato alle sue esigenze fisiologiche ed etologiche, secondo l’esperienza acquisita e le conoscenze scientifiche. 8. I materiali che devono essere utilizzati per la costruzione dei locali di stabulazione e, in particolare, dei recinti e delle attrezzature con i quali gli animali possono venire a contatto, non devono essere nocivi per gli animali e devono poter essere accuratamente puliti e disinfettati. 9. I locali di stabulazione e i dispositivi di attacco degli animali devono essere costruiti e mantenuti in modo che non vi siano spigoli taglienti o sporgenze tali da provocare lesioni agli animali. 10. La circolazione dell’aria, la quantità di polvere, la temperatura, l’umidità relativa dell’aria e le concentrazioni di gas devono essere mantenute entro limiti non dannosi per gli animali. 11. Gli animali custoditi nei fabbricati non devono essere tenuti costantemente al buio o esposti ad illuminazione artificiale senza un adeguato periodo di riposo. Se la luce naturale disponibile è insufficiente a soddisfare esigenze comportamentali e fisiologiche degli animali, occorre prevedere un’adeguata illuminazione artificiale. 12. Agli animali custoditi al di fuori dei fabbricati deve essere fornito, in funzione delle necessità e delle possibilità, un riparo adeguato dalle intemperie, dai predatori e da rischi per la salute. 13. ogni impianto automatico o meccanico indispensabile per la salute ed il benessere degli animali deve essere ispezionato almeno una volta al giorno. Se la salute ed il benessere degli animali dipendono da un impianto di ventilazione artificiale, deve essere previsto un adeguato impianto di riserva per garantire un ricambio di aria sufficiente a salvaguardare la salute e il benessere degli animali. 14. Agli animali deve essere fornita un’alimentazione sana adatta alla loro rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 età e specie e in quantità sufficiente a mantenerli in buona salute e a soddisfare le loro esigenze nutrizionali. Gli alimenti o i liquidi sono somministrati agli animali in modo da non causare loro inutili sofferenze o lesioni e non contengono sostanze che possano causare inutili sofferenze o lesioni. 15. Tutti gli animali devono avere accesso ai mangimi ad intervalli adeguati alle loro necessità fisiologiche. 16. Tutti gli animali devono avere accesso ad un’appropriata quantità di acqua, di qualità adeguata, o devono poter soddisfare le loro esigenze di assorbimento di liquidi in altri modi. 19. È vietata la bruciatura dei tendini ed il taglio di ali per i volatili e di code per i bovini se non a fini terapeutici certificati. La cauterizzazione del- l’abbozzo corneale è ammessa al di sotto delle tre settimane di vita. Il taglio del becco deve essere effettuato nei primi giorni di vita con il solo uso di apparecchiature che riducano al minimo le sofferenze degli animali. La castrazione è consentita per mantenere la qualità dei prodotti e le pratiche tradizionali di produzione a condizione che tali operazioni siano effettuate prima del raggiungimento della maturità sessuale da personale qualificato, riducendo al minimo ogni sofferenza per gli animali. È vietato l’uso dell’alimentazione forzata per anatre ed oche e la spiumatura di volatili vivi. Le pratiche di cui al presente punto sono effettuate sotto il controllo del medico veterinario dell’azienda. 20. Non devono essere praticati l’allevamento naturale o artificiale o procedimenti di allevamento che provochino o possano provocare agli animali in questione sofferenze o lesioni. Questa disposizione non impedisce il ricorso a taluni procedimenti che possono causare sofferenze o ferite minime o momentanee o richiedere interventi che non causano lesioni durevoli, se consentiti dalle disposizioni nazionali. 21. Nessun animale deve essere custodito in un allevamento se non sia ragionevole attendersi, in base al suo genotipo o fenotipo, che ciò possa avvenire senza effetti negativi sulla sua salute o sul suo benessere. v) regolamento (CE) n. 998/2003 del 26 maggio 2003 relativo alle condizioni di polizia sanitaria applicabili ai movimenti a carattere non commerciale di animali da compagnia (prevede che i cani, gatti e furetti accompagnati dal loro proprietario o da persona alla quale l’animale è stato affidato, durante gli spostamenti tra gli Stati membri, debbano essere identificati tramite un tatuaggio o tramite transponditore; l’accompagnatore, inoltre, deve essere possessore di uno specifico passaporto individuale rilasciato da un veterinario abilitato dall’autorità competente). vI) regolamento (CE) n. 1/2005 del 22 dicembre 2004 sulla protezione degli animali durante il trasporto. Esso “si applica al trasporto di animali vertebrati vivi all’interno della Comunità, compresi i controlli specifici che i funzionari competenti devono effettuare sulle partite che entrano nel territorio CoNTrIBUTI dI doTTrINA doganale della Comunità o che ne escono” (art. 1). Si prevede che: nessuno è autorizzato a trasportare o a far trasportare animali in condizioni tali da esporli a lesioni o a sofferenze inutili (art. 3 ) (27); nessuno è autorizzato a trasportare animali senza recare sul mezzo di trasporto una documentazione che specifichi i dati rilevanti (art. 4) (28). vII) regolamento (CE) n. 1523/2007 dell’11 dicembre 2007 che vieta la commercializzazione, l’importazione nella comunità e l’esportazione fuori della comunità di pellicce di cane e di gatto e di prodotti che le contengono. vIII) regolamento (CE) n. 1099/2009 del 24 settembre 2009 relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento. Esso “disciplina l’abbattimento degli animali allevati o detenuti per la produzione di alimenti, lana, pelli, pellicce o altri prodotti, nonché l’abbattimento di animali a fini di spopolamento e operazioni correlate” (art. 1). Tra l’altro, si prevede che: durante l’abbattimento (ossia qualsiasi processo applicato intenzionalmente che determini la morte dell’animale) sono risparmiati agli animali dolori, ansia o sofferenze evitabili (art. 3); gli animali sono abbattuti esclusivamente previo stordimento (ossia qualsiasi processo indotto intenzionalmente che provochi in modo indolore la perdita di coscienza e di sensibilità, incluso qualsiasi processo determinante la morte istantanea) e la perdita di coscienza e di sensibilità deve essere mantenuta fino alla morte dell’animale (art. 4 ) (29). Con il d.L.vo 6 novembre 2013, n. 131 è stata dettata la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al regolamento in esame relativo alle cautele da adottare durante la macellazione o l’abbattimento degli animali. (27) La disposizione precisa: “inoltre sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) sono state previamente prese tutte le disposizioni necessarie per ridurre al minimo la durata del viaggio e assicurare i bisogni degli animali durante il viaggio; b) gli animali sono idonei per il viaggio previsto; c) i mezzi di trasporto sono progettati, costruiti, mantenuti e usati in modo da evitare lesioni e sofferenze e assicurare l’incolumità degli animali; d) le strutture di carico e scarico devono essere adeguatamente progettate, costruite, mantenute e usate in modo da evitare lesioni e sofferenze e assicurare l’incolumità degli animali; e) il personale che accudisce gli animali è formato o, secondo il caso, idoneo a tal fine e espleta i propri compiti senza violenza e senza usare nessun metodo suscettibile di causare all’animale spavento, lesioni o sofferenze inutili; f) il trasporto è effettuato senza indugio verso il luogo di destinazione e le condizioni di benessere degli animali sono controllate a intervalli regolari e opportunamente preservate; g) agli animali è garantito un sufficiente spazio d’impiantito e un’altezza sufficiente considerati la loro taglia e il viaggio previsto; h) acqua, alimenti e riposo sono offerti agli animali, a opportuni intervalli, sono appropriati per qualità e quantità alle loro specie e taglia”. (28) Il regolamento tiene conto della Convenzione europea sulla protezione degli animali nel trasporto internazionale del 1968: nel Considerando (4) del regolamento si enuncia “La maggior parte degli Stati membri ha ratificato la Convenzione europea sulla protezione degli animali nei trasporti internazionali e il Consiglio ha dato mandato alla Commissione di negoziare per conto della Comunità la Convenzione europea riveduta sulla protezione degli animali nei trasporti internazionali”. La detta Convenzione è stata riformata nel 2003. (29) Queste disposizioni -giusta il par. 4 dell’articolo -“non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un macello”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 IX) regolamento (CE) n. 1223/2009 del 30 novembre 2009 sui prodotti cosmetici, che (all’art. 18) sancisce il divieto assoluto di vendere o importare prodotti e ingredienti cosmetici testati sugli animali. X) d.L.vo 27 settembre 2010, n. 181 (attuazione della direttiva 2007/43/CE che stabilisce norme minime per la protezione di polli allevati per la produzione di carne) (30). È previsto che tutti gli stabilimenti devono rispettare le disposizioni di cui all’allegato I e la densità massima di allevamento in ogni capannone dello stabilimento non deve superare in alcun momento 33 kg/m² (art. 3, commi 1 e 2). L’allegato I detta norme funzionali a garantire, nella situazione data, il benessere animale; ad es. è prescritto che: tutti i polli hanno accesso in modo permanente a una lettiera asciutta e friabile in superficie, vi deve essere sufficiente ventilazione per evitare il surriscaldamento e che il livello sonoro deve essere il più basso possibile; sono proibiti tutti gli interventi chirurgici, effettuati a fini diversi da quelli terapeutici o diagnostici, che recano danno o perdita di una parte sensibile del corpo o alterazione della struttura ossea e la troncatura del becco può tuttavia essere autorizzata dal- l’Autorità Sanitaria competente per territorio una volta esaurite le altre misure volte a impedire plumofagia e cannibalismo. In tali casi, detta operazione è effettuata, soltanto previo parere di un veterinario, da personale qualificato su pulcini di età inferiore a 10 giorni. Inoltre, l’Autorità Sanitaria competente per territorio può autorizzare la castrazione degli animali. La castrazione è effettuata soltanto con la supervisione di un veterinario e ad opera di personale specificamente formato. XI) d.L.vo 7 luglio 2011, n. 122 (attuazione della direttiva 2008/120/CE che stabilisce le norme minime per la protezione dei suini confinati in azienda per l’allevamento e l’ingrasso). XII) d.L.vo 7 luglio 2011, n. 126 (attuazione della direttiva 2008/119/CE che stabilisce i requisiti minimi che devono essere previsti negli allevamenti per la protezione dei vitelli confinati per l’allevamento e l’ingrasso). XIII) d.L.vo 4 marzo 2014, n. 26 (attuazione della direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici). L’utilizzo degli animali a fini scientifici riguarda qualsiasi uso, invasivo o non invasivo, di un animale ai fini sperimentali o ad altri fini scientifici dal risultato noto o ignoto, o ai fini educativi, che possa causare all’animale un livello di dolore, sofferenza, distress danno prolungato equivalente o superiore a quello provocato dall’inserimento di un ago secondo le buone prassi veterinarie. Tanto è possibile “unicamente per i seguenti fini: a) la ricerca di base; b) la ricerca applicata o traslazionale che persegue uno dei seguenti scopi: (30) vi è altresì il d.L.vo 29 luglio 2003, n. 267 recante l’attuazione delle direttive 1999/74/CE e 2002/4/CE per la protezione delle galline ovaiole e la registrazione dei relativi stabilimenti di allevamento. CoNTrIBUTI dI doTTrINA 1) la profilassi, la prevenzione, la diagnosi o la cura delle malattie, del cattivo stato di salute o di altre anomalie o dei loro effetti sugli esseri umani, sugli animali o sulle piante; 2) la valutazione, la rilevazione, il controllo o le modificazioni delle condizioni fisiologiche negli esseri umani, negli animali o nelle piante; 3) il benessere degli animali ed il miglioramento delle condizioni di produzione per gli animali allevati a fini zootecnici; c) per realizzare uno degli scopi di cui alla lettera b) nell’ambito dello sviluppo, della produzione o delle prove di qualità, di efficacia e di innocuità dei farmaci, dei prodotti alimentari, dei mangimi e di altre sostanze o prodotti; d) la protezione del- l’ambiente naturale, nell’interesse della salute o del benessere degli esseri umani o degli animali; e) la ricerca finalizzata alla conservazione delle specie; f) l’insegnamento superiore o la formazione ai fini dell’acquisizione, del mantenimento o del miglioramento di competenze professionali; g) le indagini medico- legali” (art. 5). A questi fini la soppressione degli animali avviene con modalità che arrecano il minimo dolore, sofferenza e distress possibile e secondo i metodi di cui all’allegato Iv (art. 6). È vietato -l’impiego di animali, ivi compresi i primati non umani, delle specie in via di estinzione elencate nell’allegato A del regolamento (UE) n. 750/2013 della Commissione UE del 29 luglio 2013 (art. 7); -l’impiego nelle procedure di animali prelevati allo stato selvatico (art. 9); -l’allevamento di cani, gatti e primati non umani per le finalità di cui al decreto in esame (art. 10); -l’impiego nelle procedure di animali randagi o provenienti da canili o rifugi, nonché di animali selvatici delle specie domestiche (art. 11). A questi divieti è consentita una eccezione: il Ministero può autorizzare, in via eccezionale, l’impiego delle specie di animali innanzi descritte, quando è scientificamente provato che è impossibile raggiungere lo scopo della procedura utilizzando specie diverse dalle stesse e che la procedura persegue scopi descritti nell’art. 5, puntualmente indicati nelle disposizioni eccettuative. Circa la scelta dei metodi l’art. 13 così dispone: “1. Non sono autorizzabili le procedure che prevedono l’impiego di animali vivi per le quali esistono altri metodi o strategie di sperimentazione, riconosciute dalla legislazione del- l’Unione europea, ovvero prevedono metodi vietati dalla normativa vigente nazionale. 2. Qualora il ricorso all’impiego di animali è inevitabile sono seguite, a parità di risultati, le procedure che: a) richiedono il minor numero di animali; b) utilizzano animali con la minore capacità di provare dolore, sofferenza, distress o danno prolungato; c) sono in grado di minimizzare dolore, sofferenza, distress o danno prolungato; d) offrono le maggiori probabilità di risultati soddisfacenti; e) hanno il più favorevole rapporto tra danno e beneficio. 3. Nelle procedure di cui al comma 2, va evitata la morte come punto finale, preferendo punti finali più precoci e umanitari. Qualora la morte come rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 punto finale è inevitabile, la procedura soddisfa le seguenti condizioni: a) comportare la morte del minor numero possibile di animali; b) ridurre al minimo la durata e l’intensità della sofferenza dell’animale, garantendo per quanto possibile una morte senza dolore”. Sono vietate le procedure che non prevedono anestesia o analgesia, qualora esse causano dolore intenso a seguito di gravi lesioni all’animale (art. 14). Non sono autorizzabili procedure sugli animali che comportano dolori, sofferenze o distress intensi che possono protrarsi e non possono essere alleviati (art. 15). Nella sistemazione e della cura degli animali utilizzati a fini scientifici è prescritto che: a) gli animali dispongono di alloggio e godono di un ambiente, di un’alimentazione, di acqua e di cure adeguate alla loro salute e al loro benessere; b) qualsiasi limitazione alla possibilità dell’animale di soddisfare i bisogni fisiologici e comportamentali è mantenuta al minimo; c) le condizioni fisiche in cui gli animali allevati, tenuti o utilizzati sono soggette a controlli giornalieri; d) sono adottate misure intese a eliminare tempestivamente qualsiasi difetto o dolore, sofferenza, di- stress o danno prolungato evitabili eventualmente rilevati; e) gli animali sono trasportati in condizioni appropriate tali da ridurre al minimo sofferenza e stress in relazione alla specie, alla durata dello spostamento e al tipo di mezzo impiegato (art. 22). L’art. 28 del decreto ha previsto la creazione di un fascicolo personale con riguardo a cani, gatti e primati non umani (31). L’art. 29 ha previsto inoltre che ogni cane, gatto o primate non umano è contrassegnato da un microchip, ove non interferisce con la procedura, ovvero da un marchio permanente di identificazione individuale, da apporre entro la fine dello svezzamento, nel modo meno doloroso possibile. XIv) regolamento (UE) 2016/429 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, relativo alle malattie animali trasmissibili e che modifica e abroga taluni atti in materia di sanità animale (“normativa in materia di sanità animale”). Con il d.L.vo 5 agosto 2022, n. 135 sono state dettare le disposizioni di attuazione di detto regolamento. 7. La disciplina nel codice civile. Nel codice civile vi è una visione quasi esclusivamente patrimonialistica degli animali. All’uopo si indicano, in sintesi, gli aspetti disciplinati. (31) “1. ogni cane, gatto e primate non umano è dotato di un fascicolo individuale che lo accompagna per tutto il periodo in cui è tenuto. il fascicolo è creato alla nascita, o subito dopo tale data, è prontamente aggiornato e contiene ogni informazione pertinente sulla situazione riproduttiva, veterinaria e sociale del singolo animale e sui progetti nei quali è utilizzato. 2. Nel fascicolo di cui al comma 1 sono riportate altresì le seguenti informazioni: a) identità; b) luogo e data di nascita, se noti; c) se è allevato per essere usato nelle procedure; d) per i primati non umani, se discendono da primati non umani nati in cattività. 3. il fascicolo è tenuto per un minimo di tre anni dalla morte dell’animale o dal suo reinserimento ed è messo a disposizione dell’autorità competente. in caso di reinserimento, le informazioni pertinenti sulle cure veterinarie e sulla situazione sociale tratte dal fascicolo accompagnano l’animale”. CoNTrIBUTI dI doTTrINA I) Animali disciplinati come mere “cose mobili”, come cose che possono costituire “oggetto” di diritti reali (artt. 812, 816, 820, 923, 924, 925, 926, 994, 1160, 1161, 2052 c.c.). II) Animali costituenti oggetto di rapporti negoziali. Gli animali possono costituire oggetto di compravendita (art. 1496 c.c.) (32); secondo la giurisprudenza, l’animale, e in particolare l’animale d’affezione, oltre a costituire bene giuridico possibile oggetto del contratto di compravendita, può essere qualificato anche come “bene di consumo” ai sensi dell’art. 128 d.L.vo 6 settembre 2005 n. 206 (codice del consumo) (33). Mandrie o greggi possono costituire oggetto di usufrutto (art. 994 c.c.) (34); gli animali sono compresi nelle scorte vive di un fondo oggetto di usufrutto (art. 998 c.c.) (35) ed anche nella dotazione del fondo oggetto di contratto di affitto (art. 1641 c.c.) (36). L’allevamento di animali connota il contratto di soccida (artt. 2170-2185 c.c.) ed è una delle attività caratterizzanti l’imprenditore agricolo (art. 2135 c.c.) (37). (32) “Nella vendita di animali la garanzia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali. Se neppure questi dispongono si osservano le norme che precedono”. (33) Così Cass. 25 settembre 2018, n. 22728, che enuncia i seguenti principi di diritto: “-«La compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto»; -«Nella compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 del codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto»”. (34) “Se l’usufrutto è stabilito sopra una mandra o un gregge, l’usufruttuario è tenuto a surrogare gli animali periti, fino alla concorrente quantità dei nati, dopo che la mandra o il gregge ha cominciato ad essere mancante del numero primitivo. Se la mandra o il gregge perisce interamente per causa non imputabile all’usufruttuario, questi non è obbligato verso il proprietario che a rendere conto delle pelli o del loro valore”. (35) “Le scorte vive e morte di un fondo devono essere restituite in eguale quantità e qualità. L’eccedenza o la deficienza di esse deve essere regolata in danaro, secondo il loro valore al termine dell’usufrutto”. (36) “Quando il bestiame da lavoro o da allevamento, costituente la dotazione del fondo, è stato in tutto o in parte fornito dal locatore, si osservano le disposizioni degli articoli seguenti [artt. 1642 1645 c.c.], salvi le norme corporative o i patti diversi”. (37) “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 Un caso particolare di locazione di animali può dirsi il contratto di monta, che consiste nella locazione dell’animale maschio perché fornisca l’energia genetica di cui è capace (leggi sulla monta taurina e cavalli stalloni). III) Acquisto a titolo originario di animali. Gli animali che formano oggetto di caccia o di pesca si possono acquistare, a titolo originario, con l’occupazione (art. 923, comma 2, c.c.). Per gli animali che formano oggetto di caccia -giusta la disciplina sulla fauna selvatica contenuta nella L. 11 febbraio 1992, n. 157 (38) -l’acquisto per occupazione si ha solo a seguito dell’abbattimento e solo quando questo avvenga nell’ambito di attività venatoria esercitata nel pieno rispetto delle vigenti disposizioni. A differenza delle specie cacciabili, i pesci, finché vivono allo stato naturale, continuano ad essere qualificabili come res nullius. I conigli o pesci che passano ad un’altra conigliera o peschiera si acquistano dal proprietario di queste, purché non vi siano stati attirati con arte o con frode; la stessa norma si osserva per i colombi che passano ad altra colombaia, salve le diverse disposizioni di legge sui colombi viaggiatori (art. 926 c.c.). Iv) responsabilità civile per danni arrecati da animali. Ai sensi dell’art. 2052 c.c. “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”. v) Ingresso nel fondo altrui per recuperare propri animali. Il codice riconosce il diritto di accedere al fondo altrui in favore di chi vuole riprendere l’animale che vi si sia riparato sfuggendo alla custodia (art. 843, comma 3, c.c.). Gli animali mansuefatti possono essere inseguiti dal proprietario nel fondo altrui, salvo il diritto del proprietario del fondo a indennità per il danno; essi appartengono a chi se ne è impossessato, se non sono reclamati entro venti giorni da quando il proprietario ha avuto conoscenza del luogo dove si trovano (art. 925 c.c.). Il proprietario di sciami di api ha diritto di inseguirli sul fondo altrui, ma deve indennità per il danno cagionato al fondo; se non li ha inseguiti entro due giorni o ha cessato durante due giorni di inseguirli, può prenderli e ritenerli il proprietario del fondo (art. 924 c.c.). L’art. 896 bis c.c. disciplina le distanze minime per gli apiari. vI) Frutti. I parti degli animali costituiscono frutti naturali (art. 820, comma 1, c.c.). (38) La novella ha fatto venir meno la natura di res nullius degli animali selvatici, che invece sono entrati a far parte del patrimonio indisponibile dello Stato, suscettibile di “trasformarsi” in proprietà privata solo al ricorso di determinati requisiti; ne consegue, che l’art. 923 c.c. non potrà mai applicarsi alle specie non cacciabili e pure a quelle cacciabili se l’attività venatoria non è esercitata nei tempi e con le modalità previste. CoNTrIBUTI dI doTTrINA vII) Momenti esistenziali nella disciplina della materia. In questa ipertrofia patrimonialistica, momenti esistenziali possono rinvenirsi nella previsione secondo cui le norme del regolamento del condominio “non possono vietare di possedere o detenere animali domestici” (art. 1138, comma 5, c.c.). Tanto a tutela dell’interesse del proprietario a godere della compagnia di cani e/o gatti e di altri animali domestici, compagni fondamentali nella vita di alcune persone. La relazione con gli animali di affezione esce dall’orbita della proprietà e si colloca immeditamente nello spazio della personalità dell’uomo (rectius: è una espressione di un diritto della personalità, costituzionalmente inviolabile ex art. 2 Cost.); il valore dell’animale di affezione non rientra -almeno non propriamente - nell’ambito della patrimonialità (39). La disposizione in esame è coerente con l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, che pone al centro il benessere degli animali e la loro funzione sociale. Questa visione si allinea con il crescente riconoscimento del valore affettivo e relazionale degli animali domestici, considerati ormai non più meri beni materiali, ma esseri senzienti con un ruolo significativo nella vita delle persone. In questo contesto, le restrizioni assolute imposte dai regolamenti condominiali -anche se contrattuali -appaiono in contrasto con il principio di tutela dei diritti individuali e della dignità umana. L’effetto pratico di questa impostazione è che qualsiasi clausola regolamentare che imponga un divieto generalizzato alla detenzione di animali domestici all’interno del condominio è da ritenersi nulla, indipendentemente dalla sua origine. Tale interpretazione comporta un’importante limitazione al potere regolamentare dei condomini e dei costruttori, garantendo una tutela rafforzata per i proprietari di animali domestici. Una questione essenziale è quella di garantire un giusto equilibrio tra i diritti dei proprietari di animali e quelli degli altri condomini, evitando situazioni di disturbo o pregiudizio alla convivenza pacifica. Sebbene il diritto alla detenzione di animali domestici sia garantito, rimangono valide le regole sulla corretta gestione degli spazi comuni e sul rispetto della quiete condominiale. Ad esempio, eventuali comportamenti molesti degli animali (rumori eccessivi, odori sgradevoli, mancanza di pulizia) possono ancora essere oggetto di intervento da parte dell’amministrazione condominiale (40). vIII) Tecniche per stimolare condotte materiali e morali in favore di animali. Lo stimolo di specifiche condotte a beneficio degli animali può essere conseguito con l’apposizione di condizioni negoziali nelle quali l’evento futuro ed incerto è la cura, la tutela, la protezione di animali. Analoga finalità si può (39) In tal senso: P. doNAdoNI, Sulla natura giuridica della relazione con l’animale di affezione. La biotecia tra diritto di proprietà e diritto della personalità, in materiali per un storia della cultura giuridica, Fascioli 1, giugno 2014, pp. 261-263. (40) Su tali aspetti: M. CISTAro, regolamento condominiale e animali domestici: il riconoscimento del loro valore affettivo, in immobili & proprietà, n. 6, 1 giugno 2025, pp. 361 e ss. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 conseguire con la previsione di oneri, beneficianti animali, nei negozi a titolo gratuito (41). Possono essere create associazioni e fondazioni oppure costituiti trust aventi quale scopo la cura e/o tutela di animali. Una reminiscenza della favola di Esopo ha condotto alla descrizione del patto societario squilibrato come “patto leonino” (art. 2265 c.c.) (42). da questa rapida sintesi emerge che, in linea di massima, il nostro codice considera gli animali alla stregua di oggetti (cose mobili). Come tali, essi sono -ad esempio -parte del patrimonio del defunto, tanto quanto un’automobile, una casa ecc., quindi sostanzialmente possono andare in eredità a qualcuno. Proprio perché gli animali non sono considerati soggetti giuridici, ma “beni” di proprietà, la legge non consente di lasciare per disposizione testamentaria i propri beni direttamente agli animali. È però possibile devolvere i propri beni ad un ente o ad una persona alla specifica condizione o con l’onere che questi compiano le operazioni di cura e assistenza desiderate. In altre parole è possibile effettuare dei lasciti a favore di un altro soggetto (persona fisica o giuridica) che si prenda cura dell’animale e nominare un esecutore testamentario, ossia un soggetto terzo con il compito di verificare che vengano esattamente eseguite le disposizioni testamentarie lasciate dal proprietario. 8. orientamenti giurisprudenziali in materia civile. Con decreto del 7 dicembre 2011 il giudice tutelare di varese ha affermato l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un vero e proprio diritto soggettivo al- l’animale da compagnia (43). Il caso è quello di un’anziana signora, che -costretta a trasferirsi presso una residenza per anziani a causa di una malattia invalidante e non emendabile -ha manifestato il desiderio di mantenere un rapporto stabile con il proprio cane, affidato alla sua migliore amica a causa del divieto di detenzione di animali stabilito presso il centro assistenziale. Nel ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno, la signora chiedeva la regolamentazione dei compiti da imporre all’amica nella cura del cane (come portarlo a passeggio, come nutrirlo) e, soprattutto, dei giorni di visita presso il Centro, per continuare a vederlo. Il giudice ha osservato che “nell’attuale ordinamento, il sentimento per gli animali ha protezione costituzionale e riconoscimento europeo cosicché deve essere riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo all’animale da compagnia; diritto che, quindi, va riconosciuto (41) Artt. 647-648 c.c. per il testamento e artt. 793-794 c.c. per la donazione. Pacificamente, in dottrina e giurisprudenza, si ritiene che l’autonomia privata consenta di apporre l’onere a tutti gli altri negozi a titolo gratuito, quali comodato o mutuo a titolo gratuito. (42) “È nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”. (43) Caso citato altresì in M. PITTALIS, La tutela normativa e giurisprudenziale degli esseri animali, cit. CoNTrIBUTI dI doTTrINA anche in capo all’anziano soggetto vulnerabile dove, ad esempio, nel caso di specie, tale soggetto esprima, fortemente, la voglia e il desiderio di continuare a poter frequentare il proprio cane”. La valenza della pronuncia in esame può essere colta appieno ove si considerino le conseguenze del riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’animale da compagnia anche in altri ambiti del diritto. Si pensi a quello della crisi matrimoniale (separazione e divorzio), per cui i giudici dovranno tenere conto dell’esigenza di regolamentazione del rapporto con l’animale domestico, che sia oggetto di contesa tra i coniugi litigiosi. Circa l’affidamento dell’animale di affezione in caso di crisi della coppia, si è pervenuti al riconoscimento dell’animale stesso come “essere senziente”, non più collocabile nell’area semantica concettuale delle cose (Tribunale Milano 13 marzo 2013), riconoscendo, da ultimo, la necessità di salvaguardare l’interesse materiale, spirituale ed affettivo dell’animale domestico, con applicazione analogica delle disposizioni in tema di affidamento dei minori (Tribunale roma 15 marzo 2016, n. 5322); in termini di “assegnazione” e non di affidamento si era invece espresso il Tribunale di Sciacca (sent. 19 febbraio 2019), che ha affermato che nella scelta del regime di assegnazione esclusivo ad uno dei coniugi o alternato tra di essi deve essere preferita la parte che assicuri il miglior sviluppo dell’identità dell’animale stesso ed ha disposto l’assegnazione esclusiva del gatto e l’affidamento condiviso del cane (44). Si pensi, poi, all’ambito della responsabilità extracontrattuale per il danno subito dal proprietario per il pregiudizio arrecato all’animale di affezione, dove tuttora pesa l’opinione espressa dalla Cassazione a Sezioni Unite del 2008 n. 26972, che incidentalmente ha inquadrato tra i danni bagatellari quello da perdita di animale domestico, escludendone la risarcibilità ex art. 2059 c.c. (45). (44) Casistica citata in M. PITTALIS, La tutela normativa e giurisprudenziale degli esseri animali, cit. (45) Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972: -“3.2. […] al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. in tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia. -“3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della per rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 va rilevato che l’opinione espressa dalle Sezioni Unite della Cassazione non ha avuto un seguito uniforme (46). I precedenti giurisprudenziali aventi ad oggetto danni provocati ad animali (ed ai loro proprietari) per fatto illecito di terzi o per veterinary malpractice aumentano. In questa sede si fa riferimento al danno subito dal proprietario: quanto dovuto al proprietario trova fondamento in un diritto proprio di quest’ultimo (il diritto di proprietà, o, se trattasi di animale da reddito, il diritto ai frutti che risulti pregiudicato): ciò è diretta conseguenza del fatto che l’animale è, per la legge, mero oggetto. L’ordinamento riconosce innanzitutto al proprietario la risarcibilità del danno materiale conseguente alla perdita totale (morte o sottrazione definitiva) o parziale (lesione) del bene (si pensi ad un cavallo da corsa reso incapace di competere, oppure a un animale da esposizione che venga menomato). A fronte di tale situazione -che può derivare da fatto illecito (anche penale) o da un inadempimento contrattuale -si riconosce, generalmente, al proprietario il diritto al risarcimento nei limiti del valore di mercato del bene-animale, in caso di morte, o della diminuzione del valore di mercato. Tale tipologia di danno corrisponde a ciò che il diritto nordamericano individua come fair market value (valore equo). Quando, invece, l’animale non ha un valore di mercato significativo, la somma riconosciuta al proprietario a titolo di danno materiale tende quasi sempre ad essere irrisoria. Il che, ovviamente, può non apparire fair al soggetto privato della presenza dell’animale, specialmente in presenza di un legame affettivo forte. In questi casi, occorre verificare la possibilità di riconoscere altre due componenti del danno, ossia il risarcimento delle spese necessarie per le cure e il sostentamento dell’animale ferito, se ve ne sono, e la possibilità di ottenere sona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. in tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava ‘stressata’ per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008). E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nel- l’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007)”. (46) Si rileva in dottrina che “Dal 2008 ad oggi, sono pervenute all’osservatorio 24 sentenze in tema di danno da perdita dell’animale d’affezione. Di queste: 10 sentenze si collocano nel solco del- l’orientamento inaugurato dalla SS.UU. del 2008 e, richiamando quegli arresti, negano dunque ristoro al pregiudizio non patrimoniale; viceversa le restanti sentenze, si pongono in posizione critica rispetto alla Cassazione, riconoscendo e ristorando il pregiudizio. […] Si pone, fin da subito, in aperta critica con la Cassazione, il Tribunale di rovereto [sentenza 18 ottobre 2009], il quale evidenzia come il rapporto tra il padrone e l’animale si inserisca, a pieno titolo, in una di quelle attività realizzatrici della persona tutelate all’art. 2 Cost. e goda, pertanto, della copertura costituzionale necessaria a garantirne la tutela risarcitoria” (così: E. SErANI, il risarcimento del danno da perdita dell’animale d’affezione a 10 anni dalle SS.UU. 2008: il lungo cammino di un danno controverso, in Danno e responsabilità, n. 2, 1 marzo 2019, pp. 208 e ss.). CoNTrIBUTI dI doTTrINA il ristoro del danno morale per la privazione del rapporto con l’animale. Infine, un cenno merita il problema della eventuale sussistenza, e conseguente risarcibilità, del danno biologico iure proprio, analogamente a quanto riconosciuto in giurisprudenza per la perdita di un congiunto. Quanto al danno materiale, va evidenziato che le spese mediche sostenute per la cura dell’animale sono dovute al proprietario (o ad altro soggetto che le abbia sostenute), a prescindere dal valore venale dell’animale stesso. Si tratta, infatti, di un danno diretto derivante dall’illecito che deve essere risarcito senza limiti. Il risultato non è ovvio, in quanto, trattandosi di bene, decisioni risalenti avevano previsto, in applicazione del criterio di economicità, che le spese fossero rifuse solo entro il limite del valore di mercato dell’animale. Questo limite è stato superato in molte giurisdizioni; anche la giurisprudenza italiana, pur in assenza di riferimenti normativi, sembra allinearsi a questa soluzione. Ciò si deve anche alla presenza di assicurazioni che garantiscono gli stessi responsabili (attraverso polizze di responsabilità civile). Le spese saranno riconosciute, ovviamente, su presentazione della necessaria documentazione (spese veterinarie, medicinali, ecc.). Laddove vi sia una polizza assicurativa che copre le spese mediche per l’animale, il ristoro potrà derivare direttamente dall’assicuratore, con sua surroga nei confronti del responsabile nei limiti dell’indennizzo versato. Nell’ambito dei danni riconosciuti per la perdita di un animale a causa di fatto del terzo, si pone il problema di stabilire se, oltre al danno materiale, vi sia spazio per altre voci risarcitorie, in particolare con riferimento al danno biologico (del proprietario) ed al danno morale (la sofferenza emotiva derivante dalla perdita dell’animale). Quanto al danno biologico, esso potrebbe essere ricondotto al pregiudizio derivante dalla privazione del rapporto con l’altro. La costante giurisprudenza autoctona conferma che la perdita di un congiunto può essere fonte di danno biologico laddove, a seguito del trauma, la persona cada in uno stato soggettivo di sofferenza non limitato al patema d’animo transeunte, ma degenerato in una patologia psichica permanente (disturbo post-traumatico da stress caratterizzato da tono triste dell’umore, tendenza al pianto, stato di tensione associato a momenti di angoscia nell’affrontare i temi legati all’evento luttuoso in presenza di segni critici di patologia depressiva). In relazione alla presenza di un danno biologico iure proprio per morte del congiunto, la giurisprudenza ne ha distinto ed avallato la sussistenza in via disgiunta dal danno morale. Muovendo da questa ricostruzione, si può affermare che, in via del tutto astratta, dovrebbe essere pienamente riconosciuto il danno biologico iure proprio anche in caso di perdita dell’animale, ovviamente non in via automatica, ma in base ad una rigorosa prova. La giurisprudenza, rispetto al caso qui in esame, è però del tutto priva di precedenti rilevanti. oltre ai limiti probatori, imposti dal criterio generale per cui il soggetto che intende far valere un diritto deve darne prova, si pone rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 una specifica difficoltà che, anche in relazione alla perdita di persone care, riconosce il danno biologico iure proprio, cioè in capo allo stesso familiare, solo laddove la sofferenza psico-fisica sia tale da non ridursi al danno morale (c.d. pain and suffering; ossia dolore e sofferenza) ma si traduca in un pregiudizio della stabilità psico-fisica dell’individuo per effetto del patimento subito e della perdita del legame familiare. È evidente che, sino a quando l’animale continuerà ad essere identificato come un mero bene, il percorso per provare che la privazione del rapporto affettivo con l’animale sia talmente grave da portare ad un danno biologico iure proprio appare tutto in salita. Infine, si pone il problema di valutare la risarcibilità del danno morale conseguente a perdita dell’animale d’affezione. In via generale, nel nostro ordinamento il danno morale è riconosciuto secondo la regola dell’art. 2059 c.c., che prevede che il danno non patrimoniale sia risarcito solo nei casi determinati dalla legge, ovvero nei casi in cui l’azione configura anche un reato. La giurisprudenza -con condivisibile atteggiamento pro-victim -ha esteso l’applicazione del danno morale sino a renderla pressoché automatica e ha superato il limite della configurazione del reato previsto dall’art. 2059 c.c. (47). In tempi più recenti, la giurisprudenza di legittimità in sede civile è tornata sul problema del riconoscimento del danno morale a fronte di uccisione del- l’animale. Con una decisione del 2007, la Suprema Corte ha ammesso la risarcibilità del danno morale per perdita di animale in via del tutto astratta, pur negandone la sussistenza nell’ambito della specifica controversia (48). E nonostante una successiva decisione della Suprema Corte abbia confermato il diritto al ristoro del danno morale in capo al proprietario per la morte dell’animale domestico avvenuto durante la custodia presso terzi (49), la giurisprudenza di merito continua ad essere recalcitrante e non univoca. (47) Il diritto vivente, ossia l’orientamento del giudice di legittimità a partire dall’anno 2008, superando la lettera dell’art. 2059 c.c., ritiene che i “casi determinati dalla legge” ex art. 2059 c.c. devono essere individuati nei diritti fondamentali tutelati nella Costituzione (salute ex art. 32 Cost., lavoro ex art. 36 Cost., diritto alla vita di relazione ex art. 2 Cost., ecc.). ossia, la circostanza che un valore sia tutelato nella Costituzione comporta che implicitamente vi è una previsione di tutela con la tecnica del risarcimento del danno. (48) Cass., 27 giugno 2007, n. 14846: “NEL QUarTo moTiVo si deduce l’error in iudicando per la esclusione del danno esistenziale in relazione alla perdita dell’amato cavallo (omiSSiS), cui i coniugi erano particolarmente affezionati. in senso contrario si osserva che, pur ammettendo questa Corte (V. Cass. SS unite 14 marzo 2006 n. 6572 e Cass. 15 giugno 2005 n. 15022) la tutela di situazioni soggettive costituzionalmente protette o legislativamente protette come figure tipiche di danno non patrimoniale, rientranti sotto l’ambito dell’art. 2059 c.c., costituzionalmente orientato, la perdita del cavallo in questione, come animale da affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta. La parte che domanda la tutela di tale danno, ha l’onere della prova sia per l’an che per il quantum debatur, e non appare sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita delle qualità della vita. inoltre la specifica deduzione del danno esistenziale impedisce di considerare la perdita, sotto un profilo diverso del danno patrimoniale (già risarcito) o del danno morale soggettivo e transeunte”. CoNTrIBUTI dI doTTrINA Il fatto illecito, oltre che un danno al proprietario dell’animale, può arrecare un danno direttamente all’animale. Non essendo l’animale un soggetto di diritto non si configura evidentemente un diritto dell’animale al risarcimento. Tuttavia, in sostituzione dell’animale, può agire un ente esponenziale. Tale problematica verrà di seguito esposta nel paragrafo relativo alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive collegate agli animali. 9. La disciplina nel codice di procedura civile. Nell’art. 514 c.p.c. è previsto che tra le “cose mobili assolutamente impignorabili” vi sono “6-bis) gli animali di affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali; 6-ter) gli animali impiegati ai fini terapeutici o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o dei figli”. L’impignorabilità è collegata ad un interesse esistenziale del debitore e non ad un interesse rilevante ascrivibile all’animale. Nella disciplina delle “Cose pignorabili in particolari circostanze di tempo” si prevede che “i bachi da seta possono essere pignorati solo quando sono nella maggior parte sui rami per formare il bozzolo” (art. 516, comma 2, c.p.c.). 10. La disciplina nel codice penale ed in norme incriminatrici extracodicistiche. La legislazione penale da tempo annovera norme che puniscono i reati rivolti contro gli animali (50). Il codice Zanardelli del 1889, primo codice penale dell’Italia unita, prevedeva il reato di maltrattamento di animali. L’art. 491 così disponeva: “Chiunque incrudelisce verso animali o, senza necessità, li maltratta ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive, è punito con ammenda. […] alla stessa pena soggiace anche colui il quale per solo fine scientifico o didattico, ma fuori dei luoghi destinati all’insegnamento, sottopone animali ad esperimenti tali da destare ribrezzo”. rilevava, in proposito, il Ministro di grazia e giustizia Zanardelli nella sua relazione accompagnatoria al codice, che “le crudeltà verso gli animali (che non v’è motivo di limitare, come fa il codice sardo, alle specie domestiche) devono essere condannate e proibite perché il martoriare con animo spietato esseri (49) Cass., 25 febbraio 2009, n. 4493, enunciante che sussiste la responsabilità della clinica veterinaria, in forza del contratto di prestazione d’opera professionale inter partes eseguito con imperizia e negligenza, con conseguente titolo dell’attore al risarcimento del danno morale ai sensi dell’art. 2059 c.c.; nel caso di specie è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, equitativamente determinato ai sensi dell’art. 113 c.p.c., dovuto per la perdita di un animale (gatto) a causa di una trasfusione di sangue che ne ha determinato la morte. (50) Per una introduzione: v. FErrArA -G. SAvIELLo, osservazioni sulle norme a protezione degli animali. Uno sguardo al bene giuridico di categoria, in rassegna dell’arma dei Carabinieri, 2025, 1, pp. 57 e ss. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 sensibili, recando loro fieri tormenti, non cessa di essere un male perché quelli che ne soffrono sono privi dell’umana ragione”. I. Il codice penale prevede -al titolo IX bis del libro II, rubricato “Dei delitti contro gli animali” -un gruppo di delitti che offendono gli animali, di seguito indicati. -Art. 544 bis (Uccisione di animali) “1. Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000. 2. Se il fatto è commesso adoperando sevizie o prolungando volutamente le sofferenze del- l’animale, la pena è della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 10.000 a euro 60.000”. La previsione del reato di uccisione di animali riconosce il valore giuridico della vita dell’animale, che è soggetto passivo del reato e non mero oggetto materiale. Per crudeltà va intesa la causazione della morte con modalità o per motivi che urtano la sensibilità umana. L’assenza di necessità richiama invece una nozione più ampia di quella di cui all’art. 54 c.p., riferendosi all’esigenza di soddisfare un bisogno umano o fini produttivi legalizzati. Nelle attività di macellazione o abbattimento di animali la morte dell’animale sarà cagionata con crudeltà e senza necessità laddove non vengano adottate le procedure delineate nelle fonti dell’U.E. innanzi descritte in tema di protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento. -Art. 544 ter (Maltrattamento di animali) “1. Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. 2. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. 3. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo e al secondo comma deriva la morte dell’animale”. -Art. 544 quater (Spettacoli o manifestazioni vietati) “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 15.000 a 30.000 euro. 2. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in relazione all’esercizio di scommesse clandestine o al fine di trarne profitto per sé od altri ovvero se ne deriva la morte dell’animale”. -Art. 544 quinquies (divieto di combattimenti tra animali) “1. Chiunque promuove, organizza o dirige combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l’integrità fisica è punito con la CoNTrIBUTI dI doTTrINA reclusione da due a quattro anni e con la multa da 50.000 a 160.000 euro. 2. La pena è aumentata da un terzo alla metà: 1) se le predette attività sono compiute in concorso con minorenni o da persone armate; 2) se le predette attività sono promosse utilizzando videoriproduzioni o materiale di qualsiasi tipo contenente scene o immagini dei combattimenti o delle competizioni; 3) se il colpevole cura la ripresa o la registrazione in qualsiasi forma dei combattimenti o delle competizioni. 3. Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, allevando o addestrando animali li destina sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi alla loro partecipazione ai combattimenti di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica anche ai proprietari o ai detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni di cui al primo comma, se consenzienti, e a chiunque partecipa a qualsiasi titolo ai combattimenti o alle competizioni di cui al primo comma. 4. Chiunque, anche se non presente sul luogo del reato, fuori dei casi di concorso nel medesimo, organizza o effettua scommesse sui combattimenti e sulle competizioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro” (51). va evidenziato che la portata generale delle norme incriminatrici innanzi riportate viene depotenziata dalla disposizione (contenuta pudicamente nelle disposizioni di attuazioni del codice penale) secondo cui “Le disposizioni del titolo iX bis del libro ii del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di animali. Le disposizioni del titolo iX bis del libro ii del codice penale non si applicano altresì alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente” (art. 19 ter disp. att. c.p.). (51) L’art. 544 sexies c.p. statuisce: “1. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 544-ter, 544-quater e 544-quinquies, è sempre ordinata la confisca dell’animale, salvo che appartenga a persona estranea al reato. 2. È altresì disposta la sospensione da tre mesi a tre anni dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta è pronunciata nei confronti di chi svolge le predette attività. in caso di recidiva è disposta l’interdizione dall’esercizio delle attività medesime. 3. Fatto salvo quanto disposto dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’articolo 260-bis del codice di procedura penale, quando si procede per i delitti di cui agli articoli 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies e 638 del presente codice e di cui all’articolo 4 della legge 4 novembre 2010, n. 201, consumati o tentati, all’indagato, imputato o proprietario è vietato abbattere o alienare a terzi gli animali, anche qualora sugli stessi non sussista il vincolo cautelare del sequestro, fino alla sentenza definitiva”. L’art. 544 septies c.p. statuisce: “Le pene previste dagli articoli 544 bis, 544 ter, 544 quater, 544 quinquies e 638 sono aumentate: a) se i fatti sono commessi alla presenza di minori; b) se i fatti sono commessi nei confronti di più animali; c) se l’autore diffonde, attraverso strumenti informatici o telematici, immagini, video o altre rappresentazioni del fatto commesso”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 II. Nella disciplina delle contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi vengono punite le seguenti condotte: -abbandono di animali, giusta l’art. 727 c.p.: “1. Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da euro 5.000 a euro 10.000. Quando il fatto di cui al primo periodo avviene su strada o nelle relative pertinenze, la pena è aumentata di un terzo. 2. alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze. 3. all’accertamento del reato di cui al primo comma consegue in ogni caso, ove il fatto sia commesso mediante l’uso di veicoli, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi a un anno”. Stante il delitto di maltrattamenti ex art. 544 ter c.p., la norma in esame si applica quando questo non risulti applicabile, in aggiunta alle ipotesi colpose. L’art. 727 c.p., nel contemplare un reato contravvenzionale procedibile d’ufficio, vale a sensibilizzare contro il fenomeno dell’abbandono volontario degli animali di affezione, specie nel periodo estivo, ma colpisce anche penalmente i comportamenti di negligenza e di indifferenza verso la sorte del- l’animale. Si è precisato in giurisprudenza che “il bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 727 c.p., è costituito non dalla integrità fisica dell’animale, bensì dalla sua stessa condizione di essere vivente perciò meritevole di tutela in relazione a tutte quelle attività dell’uomo che possano comportare, anche soltanto per indifferenza o negligenza od incuria, l’inflizione di inutili sofferenze” (52). L’art. 589 bis c.p. (omicidio stradale), con l’evidente finalità di disincentivare l’abbandono degli animali, dopo avere prescritto che “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o interna è punito con la reclusione da due a sette anni” enuncia che “La stessa pena si applica a colui che abbandona animali domestici su strada o nelle relative pertinenze quando dall’abbandono consegue un incidente stradale che cagiona la morte”. Analogamente, e con la stessa finalità, l’art. 590 bis c.p. (Lesioni personali stradali o nautiche gravi o gravissime), dopo avere prescritto “Chiunque cagioni per colpa ad altri una lesione personale con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o interna, è punito con la reclusione da tre mesi a un anno per lesioni gravi e da un anno a tre anni per le lesioni gravissime” enuncia altresì “Le stesse pene si applicano a colui che abbandona gli animali domestici su strada o nelle relative pertinenze quando dall’abbandono consegue un incidente stradale che cagiona le lesioni personali”; (52) Così Cass. pen., 9 ottobre 2017, n. 46365. CoNTrIBUTI dI doTTrINA -uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette (art. 727 bis c.p.) (53). III. Le disposizioni del codice penale analizzate nei precedenti punti I e II tutelano, in coerenza al precetto costituzionale di cui all’art. 9, comma 3, Cost., un interesse rilevante ascrivibile all’animale, operano una tutela diretta dell’animale quale autonomo essere senziente -capace di reagire agli stimoli psico-fisici e di provare emozioni -e non quale beneficiario riflesso (54). L’animale è il soggetto passivo del reato e non mero oggetto materiale. Si è precisato che “Un passaggio storico si è verificato con la L. 22 novembre 1993, n. 473, che ha tutelato gli animali, domestici e selvatici, da ogni forma di maltrattamento, incrudelimento ed uccisione gratuita, non più semplicemente in via indiretta, come già avveniva in passato, sul presupposto che detta condotta offendeva il sentimento degli uomini, ma in via diretta, sul presupposto che il maltrattamento è comportamento contro altro essere vivente (sia pure animale e non umano). in altri termini, per effetto della suddetta legge, l’animale di affezione non è più un mero oggetto nel nostro ordinamento, ma un soggetto, capace di emozioni proprie e, soprattutto, in grado di sviluppare forti legami di affetto con il padrone e con la famiglia che lo accoglie” (55). va evidenziato, quanto al bene giuridico tutelato dalle disposizioni penali, che si riteneva (e si ritiene tuttora da vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali) che le norme penali in materia di protezione degli animali tutelano il sentimento di pietà che l’uomo prova verso le sofferenze inflitte agli animali (56). (53) “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, fuori dai casi consentiti, uccide, cattura o detiene esemplari appartenenti ad una specie animale selvatica protetta è punito con l’arresto da tre mesi a un anno e con l’ammenda fino a 8.000 euro, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie. […]. 3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, fuori dai casi consentiti, viola i divieti di commercializzazione di cui all’articolo 8, comma 2, del decreto del Presidente della repubblica 8 settembre 1997, n. 357, è punito con l’arresto da due a otto mesi e con l’ammenda fino a 10.000 euro”. (54) In tal senso anche v. FErrArA -G. SAvIELLo, osservazioni sulle norme a protezione degli animali. Uno sguardo al bene giuridico di categoria, in rassegna dell’arma dei Carabinieri, cit., pp. 58, 60, 67-70. Con riguardo al reato di maltrattamenti di animali ex art. 727 c.p. si è sostenuto (Cass. pen., 7 novembre 2007, n. 44287) che configurano tale reato, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità dell’animale, producendo un dolore (nella specie il maltrattamento era consistito nella detenzione, all’interno di un canile, di animali obbligati in recinti e gabbie carenti dei requisiti previsti dalla legge ed in condizioni igieniche disastrose). (55) Così Cass. pen., 11 aprile 2017, n. 18167. (56) Critici su tale ricostruzione v. FErrArA -G. SAvIELLo, osservazioni sulle norme a protezione degli animali. Uno sguardo al bene giuridico di categoria, in rassegna dell’arma dei Carabinieri, cit., pp. 63 e ss. anche per il rilievo che i sentimenti non possono essere oggetto di tutela penale. Con una novella al codice penale (L. 6 giugno 2025, n. 82) è stato modificato il titolo IX bis del libro secondo del codice penale intitolato precedentemente “Dei delitti contro il sentimento per gli animali” ed oggi “Dei delitti contro gli animali”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 Gli animali sono portatori di diritti e di interessi protetti dalle norme giuridiche. A loro tutela, venendo in rilievo interessi adespoti, vi è l’azione del- l’attore pubblico, del Pubblico Ministero che procede d’ufficio, ed altresì l’azione civile (proposta in via autonoma nel processo civile o mediante la costituzione di parte civile nel processo penale) dei soggetti esponenziali di interessi diffusi a tutela degli interessi degli animali. A quest’ultimo riguardo si è precisato in giurisprudenza che una associazione statutariamente deputata alla protezione di una determinata categoria di animali deve riconoscersi come tendenzialmente portatrice degli interessi penalmente tutelati dagli artt. 544 bis ss. e 727 c.p., ma, per evitare forme di abnorme dilatazione nella legittimazione alla tutela civilistica, è necessario che vi sia anche una forma di collegamento territoriale tra l’associazione ed il luogo in cui l’interesse è stato inciso (57). Tanto in disparte all’azione civile del proprietario dell’animale per il ristoro dei danni ad esso arrecati (58). L’art. 7 L. 20 luglio 2004, n. 189 (disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate) dispone che le associazioni e gli enti tutelanti gli animali -individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’interno (59) -perseguono, ai sensi dell’art. 91 c.p.p., finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla detta legge (ossia: artt. 544 bis -544 sexies c.p.; art. 638 c.p.; art. 727 c.p.). L’art. 91 c.p.p., avente ad oggetto i diritti e facoltà degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, prevede che “Gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”. dall’art. 7 cit. si evince che vi è il riconoscimento legislativo della qualità di “persona offesa dal reato” all’animale oggetto della condotta criminosa del delinquente; qualità riconosciuta altresì alle associazioni di protezione degli animali. Iv. Nell’ambito dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone è punita l’uccisione o il danneggiamento di animali altrui. All’uopo l’art. 638 c.p. dispone: “Chiunque senza necessità uccide o rende (57) Cass. pen., 5 ottobre 2017, n. 4562. (58) Cass. pen., 15 giugno 2023, n. 37847: “3.12. […] il delitto di uccisione di animali di cui all’art. 544-bis c.p. assorbe anche il disvalore eventualmente derivante dall’essere l’animale di proprietà altrui; il proprietario, pertanto, siccome titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento e lesa dall’azione del reo, è certamente titolato a costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti da reato; 3.13.non vi è pertanto alcuna contraddizione nel fatto che la proprietaria del gatto si sia costituita parte civile ed abbia ottenuto il risarcimento dei danni (ancorché da liquidarsi in separata sede)”. (59) Attualmente l’individuazione è operata dall’art. 12 del d.L.vo 5 agosto 2022, n. 135. CoNTrIBUTI dI doTTrINA inservibili o comunque deteriora tre o più animali raccolti in gregge o in mandria, ovvero compie il fatto su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. La disposizione tutela l’interesse all’integrità del patrimonio del soggetto passivo con particolare riferimento agli animali che lo compongono, nonché quello della salvaguardia del patrimonio zootecnico nazionale e della tutela del sentimento di pietà verso gli animali. v. Infine il codice penale prevede altre fattispecie di reato nelle quali l’animale è uno strumento, una modalità della commissione della condotta criminosa oppure l’oggetto del reato. vengono in rilievo le seguenti fattispecie: -diffusione di una malattia degli animali (art. 500 c.p.) (60), a tutela del- l’economia pubblica costituente il bene giuridico protetto; -l’aggravante del furto ex art. 625 n. 8 c.p. (se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria); -introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo (art. 636 c.p.); -disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone suscitando o non impedendo strepiti di animali (art. 659 c.p.). È stata depenalizzata, in virtù dell’art. 33, comma 1, L. 24 novembre 1981, n. 689 e costituisce un illecito amministrativo, la condotta di omessa custodia e mal governo di animali (illo tempore costituente reato contravvenzionale ex art. 672 c.p.). vI. L’art. 4 della L. 4 novembre 2010, n. 201 (ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno) criminalizza il traffico illecito di animali da compagnia. All’uopo si dispone: “1. Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, reiteratamente o tramite attività organizzate, introduce nel territorio nazionale animali da compagnia di cui all’allegato i, parte a, del regolamento (CE) n. 998/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 maggio 2003, privi di sistemi per l’identificazione individuale o delle necessarie certificazioni sanitarie o non muniti, ove richiesto, di passaporto individuale, è punito con la reclusione da quattro a diciotto mesi e con la multa da euro 6.000 a euro 30.000. 2. La pena di cui al comma 1 si applica altresì a chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, trasporta, cede o riceve a qualunque titolo animali da compagnia di cui all’allegato i, parte a, del regolamento (60) “Chiunque cagiona la diffusione di una malattia alle piante o agli animali, pericolosa all’economia rurale o forestale, ovvero al patrimonio zootecnico della nazione, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se la diffusione avviene per colpa, la pena è della multa da lire mille a ventimila”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 (CE) n. 998/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 maggio 2003, introdotti nel territorio nazionale in violazione del citato comma 1. 3. La pena è aumentata se gli animali di cui al comma 1 hanno un’età accertata inferiore a dodici settimane o se provengono da zone sottoposte a misure restrittive di polizia veterinaria adottate per contrastare la diffusione di malattie trasmissibili proprie della specie. […].”. 11. La disciplina nel diritto amministrativo. La disciplina di diritto amministrativo è posta -nelle situazioni che coinvolgono animali -a presidio dell’ordinato svolgimento del vivere civile, ossia è eminentemente di polizia amministrativa. Tra le numerosissime disposizioni ricordiamo quelle di seguito indicate. I. “Senza licenza della autorità locale di pubblica sicurezza è vietato dare, anche temporaneamente, per mestiere, pubblici trattenimenti, esporre alla pubblica vista rarità, persone, animali, gabinetti ottici o altri oggetti di curiosità, ovvero dare audizioni all’aperto. Per eventi fino ad un massimo di 200 partecipanti e che si svolgono entro le ore 24 del giorno di inizio, la licenza è sostituita dalla segnalazione certificata di inizio attività di cui all’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, presentata allo sportello unico per le attività produttive o ufficio analogo” (art. 69 r.d. 18 giugno 1931, n. 773, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). II. La disciplina contenuta nei regolamenti locali di igiene e sanità e di polizia veterinaria (artt. 344-346 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, testo unico delle leggi sanitarie). III. “L’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, da cui derivi danno a uno o più animali d’affezione, da reddito o protetti, ha l’obbligo di fermarsi e di porre in atto ogni misura idonea ad assicurare un tempestivo intervento di soccorso agli animali che abbiano subito il danno. Chiunque non ottempera agli obblighi di cui al periodo precedente è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 421 a € 1.691. Le persone coinvolte in un incidente con danno a uno o più animali d’affezione, da reddito o protetti devono porre in atto ogni misura idonea ad assicurare un tempestivo intervento di soccorso. Chiunque non ottempera all’obbligo di cui al periodo precedente è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 85 a € 337” (art. 189, comma 9 bis, d.L.vo 30 aprile 1992, n. 285, nuovo codice della strada). All’evidenza la disposizione riconosce un implicito diritto dell’animale ad essere soccorso, non spiegandosi altrimenti il dovere di soccorrere previsto dallo stesso codice anche in presenza di animali res nullius. Le regole previste mirano a indurre chiunque si imbatta in un animale ferito ad attivarsi con il soccorso diretto o chiamando gli opportuni aiuti. La previsione di tale obbligo, che non risulta immediatamente correlato a un diritto proprietario di altri (seb CoNTrIBUTI dI doTTrINA bene vi sia un limite al dovere di soccorso riferito agli animali da affezione, da reddito o protetti, riconosce -come detto innanzi -implicitamente il diritto dell’animale alla vita o a vedersi soccorso, alleviando le sofferenze). Il legislatore non ha agito in via positiva, affermando expressis verbis un diritto (quello dell’animale), ma ha operato in via rimediale, prevedendo la sanzione a fronte della violazione di un dovere: in questo modo si è riconosciuto, attraverso lo strumento di tutela, il diritto implicito alla vita e alla cura in capo al- l’animale. Ciò è confermato dal fatto che l’obbligo di soccorso è previsto indipendentemente dall’esistenza di un proprietario dell’animale al quale debba essere garantita la “sopravvivenza” della proprietà stessa. Iv. “Sui veicoli diversi da quelli autorizzati a norma dell’art. 38 del decreto del Presidente della repubblica 8 febbraio 1954, n. 320, è vietato il trasporto di animali domestici in numero superiore a uno e comunque in condizioni da costituire impedimento o pericolo per la guida. È consentito il trasporto di soli animali domestici, anche in numero superiore, purché custoditi in apposita gabbia o contenitore o nel vano posteriore al posto di guida appositamente diviso da rete od altro analogo mezzo idoneo che, se installati in via permanente, devono essere autorizzati dal competente ufficio competente del Dipartimento per i trasporti terrestri” (art. 169, comma 6, d.L.vo n. 285/1992; la violazione della disposizione comporta l’applicazione di sanzione amministrativa pecuniaria di cui al successivo comma 10). v. L. 14 agosto 1991, n. 281 (legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo). L’art. 1, avente ad oggetto i principi generali, enuncia: “Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente”. L’art. 2 disciplina il trattamento dei cani e di altri animali di affezione: “1. il controllo della popolazione dei cani e dei gatti mediante la limitazione delle nascite viene effettuato, tenuto conto del progresso scientifico, presso i servizi veterinari delle unità sanitarie locali. i proprietari o i detentori possono ricorrere a proprie spese agli ambulatori veterinari autorizzati delle società cinofile, delle società protettrici degli animali e di privati. 2. i cani vaganti ritrovati, catturati o comunque ricoverati presso le strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4, non possono essere soppressi. 3. i cani catturati o comunque provenienti dalle strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4, non possono essere destinati alla sperimentazione. 4. i cani vaganti catturati, regolarmente tatuati, sono restituiti al proprietario o al detentore. 5. i cani vaganti non tatuati catturati, nonché i cani ospitati presso le strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4, devono essere tatuati; se non reclamati entro il termine di sessanta giorni possono essere ceduti a privati che diano rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 garanzie di buon trattamento o ad associazioni protezioniste, previo trattamento profilattico contro la rabbia, l’echinococcosi e altre malattie trasmissibili. 6. i cani ricoverati nelle strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4, […] possono essere soppressi, in modo esclusivamente eutanasico, ad opera di medici veterinari, soltanto se gravemente malati, incurabili o di comprovata pericolosità. 7. È vietato a chiunque maltrattare i gatti che vivono in libertà. 8. i gatti che vivono in libertà sono sterilizzati dall’autorità sanitaria competente per territorio e riammessi nel loro gruppo. 9. i gatti in libertà possono essere soppressi soltanto se gravemente malati o incurabili. 10. Gli enti e le associazioni protezioniste possono, d’intesa con le unità sanitarie locali, avere in gestione le colonie di gatti che vivono in libertà, assicurandone la cura della salute e le condizioni di sopravvivenza. 11. Gli enti e le associazioni protezioniste possono gestire le strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4, sotto il controllo sanitario dei servizi veterinari dell’unità sanitaria locale. 12. Le strutture di cui al comma 1 dell’articolo 4 possono tenere in custodia a pagamento cani di proprietà e garantiscono il servizio di pronto soccorso”. La trasgressione dei precetti contenuti nella legge sul randagismo comporta l’applicazione di sanzioni amministrative (61). dalla legge in esame -raccordata con le altre disposizioni rilevanti -si può desumere che il Sindaco è da ritenersi responsabile del benessere degli animali presenti sul territorio comunale. All’uopo si precisa in giurisprudenza: “invero, in via generale, il D.P.r. 31 marzo 1979, all’art. 3, attribuisce al Sindaco la vigilanza sull’osservanza delle leggi e delle norme relative alla protezione degli animali presenti sul territorio comunale. D’altra parte, in base al D.P.r. 8 febbraio 1954, n. 320, recante regolamento di Polizia Veterinaria, il Sindaco è individuato quale massima autorità sanitaria locale, con poteri decisioni e coercitivi maggiori a quelli riconosciuti agli operatori del Servizio aUSL (operatori che, esercitando funzioni di vigilanza, svolgono di fatto un ruolo di supporto tecnico per il Sindaco). Ed ancora: la L. 8 giugno 1990, n. 142 sull’ordinamento delle autonomie locali e le più recenti L. n. 94 del 1997 e L. n. 127 del 1997, nonché i successivi decreti attuativi ed i successivi regolamenti sulle autonomie locali hanno definito ulteriormente gli (61) Art. 5 (Sanzioni) “1. Chiunque abbandona cani, gatti o qualsiasi altro animale custodito nella propria abitazione, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire trecentomila a lire un milione. 2. Chiunque omette di iscrivere il proprio cane all’anagrafe di cui al comma 1 dell’articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di lire centocinquantamila. 3. Chiunque, avendo iscritto il cane all’anagrafe di cui al comma 1 dell’articolo 3, omette di sottoporlo al tatuaggio, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di lire centomila. 4. Chiunque fa commercio di cani o gatti al fine di sperimentazione, in violazione delle leggi vigenti, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire cinquemilioni a lire diecimilioni”. CoNTrIBUTI dI doTTrINA ambiti delle competenze comunali in materia. E la L. 14 agosto 1991, n. 281, all’art. 4, ha attribuito espressamente ai Comuni il risanamento dei canili comunali e la costruzione di rifugi per cani. in definitiva, in base al combinato disposto di cui alle norme citate, il Comune, nella persona del Sindaco, è da ritenersi il responsabile del benessere degli animali presenti sul territorio comunale, rispetto ai quali vanta una posizione di garanzia, che comporta l’obbligo di far fronte al loro mantenimento in caso di confisca. Se, invero, deve ammettersi una responsabilità dello Stato per le spese di custodia nel corso del procedimento e del processo penale, deve invece escludersi che tale responsabilità permanga anche dopo il passaggio in giudicato del provvedimento che ha disposto la confisca, allorquando cioè si ripristinano, in capo ai comuni, tutti i doveri e gli oneri previsti dalla normativa vigente, sopra succintamente richiamata” (62). vI. L. 11 febbraio 1992, n. 157 (norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio). L’art. 1, rubricato fauna selvatica, tra l’altro, enuncia: “1. La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale. […] 2. L’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole. […]”. Circa l’oggetto della tutela, l’art. 2 ai commi 1 e 2 enuncia: “1. Fanno parte della fauna selvatica oggetto della tutela della presente legge le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale. Sono particolarmente protette, anche sotto il profilo sanzionatorio, le seguenti specie: a) mammiferi: lupo (Canis lupus), sciacallo dorato (Canis aureus), orso (Ursus arctos), martora (martes martes), puzzola (mustela putorius), lontra (Lutra lutra), gatto selvatico (Felis sylvestris), lince (Lynx lynx), foca monaca (monachus monachus), tutte le specie di cetacei (Cetacea), cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), camoscio d’abruzzo (rupicapra pyrenaica); b) uccelli: marangone minore (Phalacrocorax pigmeus), marangone dal ciuffo (Phalacrocorax aristotelis), tutte le specie di pellicani (Pelecanidae), tarabuso (Botaurus stellaris), tutte le specie di cicogne (Ciconiidae), spatola (Platalea leucorodia), mignattaio (Plegadis falcinellus), fenicottero (Phoenicopterus ruber), cigno reale (Cygnus olor), cigno selvatico (Cygnus cygnus), volpoca (Tadorna tadorna), fistione turco (Netta rufina), gobbo rugginoso (oxyura leucocephala), tutte le specie di rapaci diurni (accipitriformes e falconiformes), pollo sultano (Porphyrio porphyrio), otarda (otis tarda), gallina prataiola (Tetrax tetrax), gru (Grus grus), piviere tortolino (Eudromias morinellus), avocetta (recurvirostra avosetta), cavaliere d’italia (Himantopus (62) Così Cass. pen., 11 aprile 2017, n. 18167. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 himantopus), occhione (Burhinus oedicnemus), pernice di mare (Glareola pratincola), gabbiano corso (Larus audouinii), gabbiano corallino (Larus melanocephalus), gabbiano roseo (Larus genei), sterna zampenere (Gelochelidon nilotica), sterna maggiore (Sterna caspia), tutte le specie di rapaci notturni (Strigiformes), ghiandaia marina (Coracias garrulus), tutte le specie di picchi (Picidae), gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax); c) tutte le altre specie che direttive comunitarie o convenzioni internazionali o apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri indicano come minacciate di estinzione. 2. Le norme della presente legge non si applicano alle talpe, ai ratti, ai topi propriamente detti, alle nutrie, alle arvicole. in ogni caso, per le specie alloctone, comprese quelle di cui al periodo precedente, con esclusione delle specie individuate dal decreto del ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 19 gennaio 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 31 del 7 febbraio 2015, la gestione è finalizzata all’eradicazione o comunque al controllo delle popolazioni; gli interventi di controllo o eradicazione sono realizzati come disposto dall’articolo 19”. Giusta l’art. 3 (divieto di uccellagione) “È vietata in tutto il territorio nazionale ogni forma di uccellagione e di cattura di uccelli e di mammiferi selvatici, nonché il prelievo di uova, nidi e piccoli nati”. L’art. 4 (Cattura temporanea e inanellamento) enuncia: “1. Le regioni, su parere dell’istituto nazionale per la fauna selvatica, possono autorizzare esclusivamente gli istituti scientifici delle università e del Consiglio nazionale delle ricerche e i musei di storia naturale ad effettuare, a scopo di studio e ricerca scientifica, la cattura e l’utilizzazione di mammiferi ed uccelli, nonché il prelievo di uova, nidi e piccoli nati. 2. L’attività di cattura temporanea per l’inanellamento degli uccelli a scopo scientifico è organizzata e coordinata sull’intero territorio nazionale dall’istituto nazionale per la fauna selvatica; tale attività funge da schema nazionale di inanellamento in seno all’Unione europea per l’inanellamento (EUriNG). L’attività di inanellamento può essere svolta esclusivamente da titolari di specifica autorizzazione, rilasciata dalle regioni su parere dell’istituto nazionale per la fauna selvatica; l’espressione di tale parere è subordinata alla partecipazione a specifici corsi di istruzione, organizzati dallo stesso istituto, ed al superamento del relativo esame finale. […]”. L’art. 10 regola i piani faunistico-venatori: “1. Tutto il territorio agro- silvo-pastorale nazionale è soggetto a pianificazione faunistico-venatoria finalizzata, per quanto attiene alle specie carnivore, alla conservazione delle effettive capacità riproduttive e al contenimento naturale di altre specie e, per quanto riguarda le altre specie, al conseguimento della densità ottimale e alla sua conservazione mediante la riqualificazione delle risorse ambientali e la regolamentazione del prelievo venatorio. 2. Le regioni e le province, con le modalità ai commi 7 e 10, realizzano la pianificazione di cui al comma 1 me CoNTrIBUTI dI doTTrINA diante la destinazione differenziata del territorio. 3. il territorio agro-silvopastorale di ogni regione è destinato per una quota dal 20 al 30 per cento a protezione della fauna selvatica, fatta eccezione per il territorio delle alpi di ciascuna regione, che costituisce una zona faunistica a sé stante ed è destinato a protezione nella percentuale dal 10 al 20 per cento. in dette percentuali sono compresi i territori ove sia comunque vietata l’attività venatoria anche per effetto di altri leggi o disposizioni. 4. il territorio di protezione di cui al comma 3 comprende anche i territori di cui al comma 8, lettera a), b) e c). Si intende per protezione il divieto di abbattimento e cattura a fini venatori accompagnato da provvedimenti atti ad agevolare la sosta della fauna, la riproduzione, la cura della prole. 5. il territorio agro-silvo-pastorale regionale può essere destinato nella percentuale massima globale del 15 per cento a caccia riservata a gestione privata ai sensi dell’articolo 16, comma 1, e a centri privati di riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale. 6. Sul rimanente territorio agro-silvo-pastorale le regioni promuovono forme di gestione programmata della caccia, secondo le modalità stabilite dall’articolo 14. 7. ai fini della pianificazione generale del territorio agro-silvo-pastorale le province predispongono, articolandoli per comprensori omogenei, piani faunistico-venatori. Le province predispongono altresì piani di miglioramento ambientale tesi a favorire la riproduzione naturale di fauna selvatica nonché piani di immissione di fauna selvatica anche tramite la cattura di selvatici presenti in soprannumero nei parchi nazionali e regionali ed in altri ambiti faunistici, salvo accertamento delle compatibilità genetiche da parte dell’istituto nazionale per la fauna selvatica e sentite le organizzazioni professionali agricole presenti nel Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale tramite le loro strutture regionali. 8. i piani faunistico-venatori di cui al comma 7 comprendono: a) le oasi di protezione, destinate al rifugio, alla riproduzione ed alla sosta della fauna selvatica; b) le zone di ripopolamento e cattura, destinate alla riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale ed alla cattura della stessa per l’immissione sul territorio in tempi e condizioni utili all’ambientamento fino alla ricostituzione e alla stabilizzazione della densità faunistica ottimale per il territorio; c) i centri pubblici di riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale, ai fini di ricostituzione delle popolazioni autoctone; d) i centri privati di riproduzione di fauna selvatica allo stato naturale, organizzati in forma di azienda agricola singola, consortile o cooperativa, ove è vietato l’esercizio dell’attività venatoria ed è consentito il prelievo di animali allevati appartenenti a specie cacciabili da parte del titolare dell’impresa agricola, di dipendenti della stessa e di persone nominativamente indicate; e) le zone e i periodi per l’addestramento, l’allenamento e le gare di cani anche su fauna selvatica naturale o con l’abbattimento di fauna di allevamento appartenente a specie cacciabili, la cui gestione può essere affidata ad associazioni venatorie e cinofile ovvero ad imprenditori agricoli singoli o as rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 sociati; f) i criteri per la determinazione del risarcimento in favore dei conduttori dei fondi rustici per i danni arrecati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e alle opere approntate su fondi vincolati per gli scopi di cui alle lettere a), b) e c); g) i criteri della corresponsione degli incentivi in favore dei proprietari o conduttori dei fondi rustici, singoli o associati, che si impegnino alla tutela ed al ripristino degli habitat naturali e all’incremento della fauna selvatica nelle zone di cui alle lettere a) e b); h) l’identificazione delle zone in cui sono collocabili gli appostamenti fissi. […]”. L’art. 12 regola l’esercizio dell’attività venatoria: “1. L’attività venatoria si svolge per una concessione che lo Stato rilascia ai cittadini che la richiedano e che posseggano i requisiti previsti dalla presente legge. 2. Costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l’impiego dei mezzi di cui all’articolo 13. 3. È considerato altresì esercizio venatorio il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla. 4. ogni altro modo di abbattimento è vietato, salvo che non avvenga per caso fortuito o per forza maggiore. 5. Fatto salvo l’esercizio venatorio con l’arco o con il falco, l’esercizio venatorio stesso può essere praticato in via esclusiva in una delle seguenti forme: a) vagante in zona alpi; b) da appostamento fisso; c) nell’insieme delle altre forme di attività venatoria consentite dalla presente legge e praticate nel rimanente territorio destinato all’attività venatoria programmata. 6. La fauna selvatica abbattuta durante l’esercizio venatorio nel rispetto delle disposizioni della presente legge appartiene a colui che l’ha cacciata. […] 8. L’attività venatoria può essere esercitata da chi abbia compiuto il diciottesimo anno di età e sia munito della licenza di porto di fucile per uso di caccia, di polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall’uso delle armi o degli arnesi utili all’attività venatoria, con massimale di lire un miliardo per ogni sinistro, di cui lire 750 milioni per ogni persona danneggiata e lire 250 milioni per danni ad animali ed a cose, nonché di polizza assicurativa per infortuni correlata all’esercizio dell’attività venatoria, con massimale di lire 100 milioni per morte o invalidità permanente. […] 10. in caso di sinistro colui che ha subito il danno può procedere ad azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione presso la quale colui che ha causato il danno ha contratto la relativa polizza. 11. La licenza di porto di fucile per uso di caccia ha validità su tutto il territorio nazionale e consente l’esercizio venatorio nel rispetto delle norme di cui alla presente legge e delle norme emanate dalle regioni. 12. ai fini dell’esercizio dell’attività venatorio è altresì necessario il possesso di un apposito tesserino rilasciato dalla regione di residenza, ove sono indicate le specifiche norme inerenti il calendario regionale, nonché le forme di cui al comma 5 e gli ambiti territoriali di caccia ove è consentita l’attività venatoria. Per l’esercizio della caccia in regioni diverse da quella di residenza è neces CoNTrIBUTI dI doTTrINA sario che, a cura di quest’ultima, vengano apposte sul predetto tesserino le indicazioni sopramenzionate […]”. vII. L. 20 luglio 2004, n. 189 (disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate). L’art. 2, comma 1, dispone che “È vietato utilizzare cani (Canis lupus familiaris) e gatti (felis silvestris e felis catus) per la produzione o il confezionamento di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e articoli di pelletteria costituiti od ottenuti, in tutto o in parte, dalle pelli o dalle pellicce dei medesimi, nonché commercializzare, esportare o introdurre le stesse nel territorio nazionale”, con la previsione di sanzioni penali ed amministrative in caso di violazione della regola. vIII. d.L.vo 11 maggio 2018, n. 52, recante la disciplina della riproduzione animale, sia con monta naturale che con inseminazione artificiale. IX. d.L. vo 28 febbraio 2021, n. 36 (attuazione dell’articolo 5 della legge 8 agosto 2019, n. 86, recante riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo). Il titolo Iv del testo (artt. 19 -24) disciplina le attività di sport che prevedono l’impiego di animali con la finalità di garantire il benessere degli animali impiegati in attività sportive, con particolare riguardo al cavallo atleta. Con una sorta riconoscimento per l’attività svolta è prescritto che “È fatto divieto di macellare o sopprimere altrimenti gli animali non più impiegati in attività sportive, fatta eccezione per l’abbattimento umanitario” (art. 19, comma 6); X. Art. 10 L. 6 giugno 2025, n. 82. Questa disposizione sancisce il divieto di detenzione di animali di affezione alla catena. viene così disposto: “1. al proprietario o al detentore, anche temporaneo, di animali di affezione è fatto divieto di custodirli nel luogo di detenzione e dimora tenendoli legati con la catena o con altro strumento di contenzione similare che ne impedisca il movimento, salvo che ciò sia imposto da documentate ragioni sanitarie o da temporanee esigenze di sicurezza. 2. Salvo che il fatto costituisca reato, a chiunque viola il divieto di cui al comma 1 si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 500 euro a 5.000 euro”. 12. Situazioni giuridiche soggettive collegate agli animali. dal rapido excursus innanzi effettuato emerge che l’animale viene in rilievo per il diritto sotto un duplice profilo. In primo luogo come possibile oggetto di un diritto -come un bene ex art. 810 c.c. (63) -nella titolarità di un soggetto di diritto (persona fisica, persona giuridica, ente di fatto). Possibile, non necessario. vi sono gli animali (63) Secondo cui “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 selvatici che sono res communes omnium, anche se per l’Italia titolare della fauna selvatica è lo Stato. Animali senza padrone sono anche quelli randagi. In secondo luogo come entità alla quale l’ordinamento collega interessi (diritti soggettivi e/o interessi legittimi e/o interessi diffusi) meritevoli di tutela; a fronte di tali interessi vi sono dei doveri dell’uomo nei confronti degli animali (64). A tutela di tali interessi -ove gli stessi abbiano una rilevanza ultraindividuale, non meramente privatistica e, quindi, pubblicistica intervengono gli organi pubblici appositamente individuati dall’ordinamento, ossia: a) lo Stato per la tutela penale; b) gli enti pubblici (la Pubblica amministrazione) per la tutela amministrativa. ove invece i detti interessi abbiano una rilevanza individuale (esclusivamente inerenti all’animale), privatistica, si pone il problema della loro tutela. L’animale, non costituendo un soggetto di diritto, non è titolare giuridico dei detti interessi, che -come innanzi evidenziato -sono adespoti. In questa evenienza alla loro tutela si provvede ad opera di un legittimato straordinario, in surrogazione, individuato dall’ordinamento. Il legittimato straordinario va individuato nell’ente esponenziale degli interessi degli animali, che può, quindi, provvedere alla tutela civile degli interessi animali e può avere anche un ruolo sussidiario nell’ambito della tutela penale ed amministrativa. Per la piena intellegibilità di quanto esposto appare opportuno esplicare i concetti di interesse diffuso e di ente esponenziale. di norma gli interessi (65) sono in attribuzione ad un determinato soggetto (con la posizione di diritto soggettivo oppure di interesse legittimo), che ne è titolare. Gli interessi diffusi, invece, sono privi di titolare: sono interessi appar (64) Si rileva in giurisprudenza: “Va tuttavia precisato che la disciplina pubblicistica che appresta tutela agli animali non rende comunque questi ultimi titolari di diritti. L’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti per la semplice ragione che è privo della c.d. ‘capacità giuridica’(che si definisce, appunto, come la capacità di essere soggetti di diritti e di obblighi); capacità che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. L’animale, perciò, è solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica. in questo senso, la comune espressione ‘diritti degli animali’ va intesa in senso atecnico, agiuridico, con essa intendendosi riferire, non già alla (inconfigurabile) titolarità di diritti soggettivi da parte degli animali, ma al complesso della tutela giuridica che il diritto pubblico appresta in difesa di quegli esseri viventi” (così Cass. 25 settembre 2018, n. 22728). (65) I soggetti giuridici agiscono a tutela di un dato interesse, di conseguenza le situazioni soggettive coinvolgono interessi. “L’interesse non è il bene, ma il valore relativo che un determinato bene ha per un certo soggetto, sì che s’intende, fra l’altro, come in ordine allo stesso bene sia possibile una gradazione degli interessi di più soggetti” (Così: F. SANToro PASSArELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX edizione, Jovene, 1966, p. 69). Il soggetto tende al bene, è con esso in un rapporto di tensione, vuole conseguirlo. L’interesse è ciò che può contribuire a soddisfare i bisogni del soggetto, e quindi la tendenza verso quel quid idoneo a soddisfare i bisogni dell’agente. L’interesse è giuridico se è preso in considerazione dal diritto. Gli interessi privi di qualunque protezione costituiscono gli interessi di fatto perché il diritto non assume posizione verso di essi e li lascia alla loro sorte. dal punto di vista della qualità del titolare distinguiamo gli interessi in privati e pubblici. CoNTrIBUTI dI doTTrINA tenenti ad una pluralità indifferenziata di soggetti, a collettività indeterminate. Essi hanno ad oggetto un bene della vita non appropriabile in forma individuale (66). Interesse diffuso è quello avente ad oggetto l’ambiente, il paesaggio, la biodiversità e gli ecosistemi, il patrimonio culturale, la concorrenza, i consumatori, la tutela degli animali. L’interesse, ad esempio, al- l’ambiente salubre è un interesse appartenente in modo indistinto e indifferenziato ai componenti della comunità locale, senza ascriversi ad uno specifico residente. Questi interessi vengono definiti “adespoti”. La tutela degli interessi diffusi, in assenza di un autonomo e “naturale” titolare è problematica e ha dato luogo a un pluridecennale dibattito in dottrina e giurisprudenza (67). raccogliendo gli stimoli forniti dal legislatore e dalla giurisprudenza si può ritenere che la tutela degli interessi diffusi possa aversi con la individuazione di un soggetto ad hoc (creato appositamente o riconosciuto come idoneo se preesistente) attributario della cura dell’intero interesse o di una frazione di esso e, quindi, della titolarità in toto o pro parte dell’interesse. Tanto a mezzo di una legge che attribuisca la cura dell’interesse diffuso a un dato soggetto o della iniziativa spontanea di interessati che creino, contrattualmente, un centro organizzato, un ente collettivo deputato alla cura dell’interesse in esame. Il legislatore spesso è intervenuto in tema di interessi diffusi, con varie tecniche di tutela, soggettivizzandoli. Ciò è accaduto, ad esempio, con l’interesse all’ambiente salubre, che è stato attribuito alla titolarità dello Stato con riconoscimento di specifici interessi in capo ad associazioni di categoria individuate dal Ministero dell’Ambiente (68). Una soggettivizzazione può aversi anche in via contrattuale, oltrecché in via istituzionale. difatti è possibile che determinati soggetti creino un ente col (66) Per una introduzione generale: N. TroCKEr, voce interessi collettivi e diffusi, in Enc. Giur., Giuffré, vol. XvII, 1989, pp. 1-9. r. FErrArA, voce interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto Discipline Pubblicistiche, UTET, vol. vIII, 1993, pp. 481-500. (67) Per il quale ex plurimis: r. FErrArA, voce interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., pp. 482-495. (68) Art. 13, comma 1, L. 8 luglio 1986, n. 349: “Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni sono individuate con decreto del ministro dell’ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell’ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell’azione e della sua rilevanza esterna, previo parere del Consiglio nazionale per l’ambiente […]”. A queste associazioni è riconosciuta: a) la legittimazione all’intervento nei giudizi per danno ambientale e a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi (art. 18, comma 5, L. n. 349/1986); b) la titolarità dell’interesse alla richiesta dell’intervento statale in materia di prevenzione e ripristino ambientale (art. 309, comma 2, d.L.vo 3 aprile 2006, n. 152); c) la legittimazione ad impugnare, con ricorso al T.a.r. o con ricorso straordinario al Presidente della repubblica, l’autorizzazione paesaggistica (art. 146, comma 12, d.L.vo 22 gennaio 2004, n. 42, prevedente altresì che “Le sentenze e le ordinanze del Tribunale amministrativo regionale possono essere appellate dai medesimi soggetti, anche se non abbiano proposto ricorso di primo grado”); d) la legittimazione a proporre ricorso giurisdizionale avverso il nulla osta rilasciato dall’Ente parco (art. 13, comma 2, L. n. 394/1991). rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 lettivo avente lo specifico scopo di tutelare un interesse diffuso; tutela concretantesi, poi, in iniziative (o azioni) ed interventi, sia in sede di procedimento amministrativo che in sede giurisdizionale. Ciò è possibile senza la necessità di un espresso riconoscimento legislativo e al di fuori dei modelli delineati dal legislatore (salvo, beninteso, che la legge non preveda l’esclusività sia della tipologia dei soggetti collettivi, che delle azioni di tutela). vengono in rilievo, difatti, formazioni sociali ex art. 2 Cost. -create da soggetti interessati, nel libero esercizio dell’autonomia privata -coerenti con i principi della sussidiarietà orizzontale ex art. 118, comma 4, Cost. (69). In armonia con i principi regolatori degli enti collettivi, specie non patrimoniali (associazioni, comitati, fondazioni), lo scopo non egoistico deve essere ben delineato e il patrimonio congruo rispetto agli obiettivi statutari (70). All’uopo, per consolidato orientamento giurisprudenziale, si richiedono tre requisiti: a) gli enti devono perseguire statutariamente in modo strutturato e non occasionale obiettivi di tutela; b) devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità; c) devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (71). Questa puntualizzazione è coerente con le categorie generali: l’ente collettivo -in possesso degli elementi costitutivi (plurisoggettività, scopo, patrimonio) -è un soggetto di diritto, titolare del diritto di azione ex art. 24 Cost. a tutela delle proprie situazioni soggettive. (69) Conf. Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020, n. 6 secondo cui “Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”. (70) L’art. 1, comma 3, d.P.r. 10 febbraio 2000, n. 361 -contenente norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private del primo libro del codice civile -prescrive: “ai fini del riconoscimento è necessario che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo”. (71) Ex plurimis: Cons. Stato, 16 febbraio 2010, n. 885. In senso analogo: Cons. Stato, 5 aprile 2022, n. 2520 secondo cui in tema di impugnazione di provvedimenti che incidono sull’ambiente, la legittimazione al ricorso, ovvero la titolarità di un interesse differenziato dal quivis de populo, è stabilita ex lege per le associazioni nazionali iscritte nell’apposito registro tenuto dal Ministero dell’ambiente (artt. 13 e 18, L. n. 349/1986); per le associazioni (e le sezioni) di carattere locale deve essere fornita la prova rigorosa dei seguenti tre requisiti: i) che l’associazione tuteli in modo effettivo e non occasionale determinati interessi diffusi; ii) che abbia nel suo statuto una disposizione specifica che qualifichi la tutela di questi interessi come finalità dell’associazione; iii) che sia configurabile un effettivo pregiudizio agli interessi giuridici protetti al centro dell’attività dell’associazione. Ancora: Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020, n. 6 affermante il principio di diritto che gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso. CoNTrIBUTI dI doTTrINA L’interesse diffuso, con la soggettivizzazione istituzionale o volontaria, può integrare un diritto soggettivo o un interesse legittimo del quale è titolare l’ente esponenziale (72). Nella specifica materia che ci riguarda molto variegato e partecipato è l’associazionismo a tutela degli animali. Tra gli enti collettivi a protezione degli animali ricordiamo: l’Ente Nazionale Protezione Animali (Enpa) (73); l’organizzazione Internazionale Protezione Animali (oipa) (74); l’Associazione Nazionale Protezione Animali per la vita (Anpav) (75); la LIPU -“Lega (72) Su tali concetti (interesse diffuso ed ente esponenziale): S. dE FELICE, M. GErArdo, Diritto amministrativo, 1, Parte generale, Pubblicazione indipendente, distribuzione su Amazon Libri, 2024, pp. 115-118. (73) Giusta l’art. 1, comma 1, dello Statuto l’Ente ha per scopi:“a) di provvedere alla protezione degli animali, della biodiversità, della natura, degli ecosistemi e degli habitat naturali, per il futuro di tutte le specie viventi del pianeta; b) di svolgere ogni attività di tutela dei diritti degli animali in ambito legislativo, giudiziario, sociale, culturale, didattico e formativo in italia e all’estero; c) di promuovere comportamenti e stili di vita rispettosi degli animali e della loro dignità, della biodiversità, della conservazione della natura, degli equilibri climatici, della sostenibilità ambientale, e contro forme di sfruttamento come gli allevamenti intensivi, l’attività venatoria, la sperimentazione animale; d) di orientare i comportamenti umani alla solidarietà, al volontariato, alla sussidiarietà, contro ogni forma di violenza, di costrizione, di prevaricazione, di maltrattamento, di discriminazione di razza, di specie, di genere; e) di collaborare con ogni soggetto giuridico, istituzione o ente, italiani o stranieri, pubblici o privati, affinché la protezione degli animali e la tutela dei loro diritti nonché i comportamenti umani rispettosi degli animali non umani e dell’ambiente, siano incentivati, promossi e sviluppati, anche concorrendo per queste finalità al perfezionamento della normativa vigente in italia, nell’Unione Europea, nel mondo; f) di sviluppare ogni attività di protezione degli animali e di tutela dei loro diritti nonché la difesa dell’ambiente e della biodiversità anche tramite l’istituzione e la gestione di strutture di assistenza e di ricovero di animali -ad esempio per la prevenzione e la lotta al randagismo -, oasi, aree di protezione, centri di recupero della fauna selvatica, contribuendo con ciò a far fronte alle esigenze di assistenza veterinaria e di fornitura di prestazioni e servizi ai propri aderenti; g) di cooperare anche tramite le proprie Guardie Zoofile con le autorità preposte alla prevenzione e alla repressione dei reati contro gli animali e contro l’ambiente, tramite attività diretta o sussidiaria; h) di promuovere e realizzare interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni dell’ambiente e al- l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; i) di adoperarsi per proteggere, soccorrere e curare gli animali e tutelare l’ambiente anche in situazioni e contesti straordinari o emergenziali partecipando anche a iniziative, missioni e progetti di protezione civile (ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni) nonché di cooperazione internazionale (ai sensi della legge 11 agosto 2014, n. 125, e successive modificazioni) nell’ambito e nel rispetto delle relative normative; j) organizzazione e gestione di attività culturali, formative, artistiche o ricreative di particolare interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo; k) di svolgere tutte le attività collaterali, connesse, secondarie e strumentali rispetto a queste ultime, secondo criteri e limiti definiti dalla normativa”. (74) Giusta l’art. 2, comma 1, dello Statuto: “L’organizzazione persegue esclusivamente finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e si batte per l’abolizione di ogni forma di sfruttamento e violenza sugli animali oltre che per la tutela della salute umana e della vita animale e vegetale nel suo complesso. L’organizzazione vuole portare il proprio contributo per un mondo migliore, più sano e più umano, per una medicina non basata sulla violenza, per una struttura sanitaria più efficiente, per la difesa della biodiversità e degli ecosistemi”. (75) Giusta l’art. 1, comma 1, dello Statuto ha per scopo: “a. di provvedere alla protezione degli animali, della natura e degli habitat naturali, per il futuro di tutte le specie del pianeta; B. di svolgere rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 italiana protezione uccelli” (76); il WWF (World Wildlife Fund) Italia (77), la Lega Anti vivisezione (LAv) (78). ogni attività di tutela dei diritti degli animali in ambito legislativo, giudiziario, sociale, culturale, didattico e formativo in italia e all’estero; C. di promuovere comportamenti e stili di vita rispettosi degli animali e della loro dignità, D. La conservazione della natura, della sostenibilità ambientale, e contro forme di sfruttamento come gli allevamenti intensivi, l’attività venatoria, la sperimentazione animale; E. di orientare i comportamenti della popolazione alla solidarietà, al volontariato, alla sussidiarietà, contro ogni violenza, di costrizione, di prevaricazione, di maltrattamento, di discriminazione di specie e di genere; F. di collaborare con ogni soggetto giuridico, istituzione o ente, italiani o stranieri, pubblici o privati, affinché la protezione degli animali e la tutela dei loro diritti nonché i comportamenti rispettosi delle persone per gli animali e dell’ambiente, siano incentivati e sviluppati, anche concorrendo per queste finalità al miglioramento e approfondimento della normativa vigente in italia, nell’Unione Europea; G. di sviluppare ogni attività di protezione degli animali e di tutela dei loro diritti nonché la difesa dell’ambiente e dei parchi, istituzione e gestione di strutture di assistenza е di ricovero di animali ad esempio per la prevenzione e la lotta al randagismo, oasi, aree di protezione, centri di recupero della fauna selvatica, contribuendo con ciò a far fronte alle esigenze di assistenza veterinaria e di fornitura di prestazioni e servizi ai propri aderenti anche tramite strutture ricreative, (circoli sociali) organizzazioni di corsi e sensibilizzazione tramite l’area didattica nelle scuole con personale qualificato; H. di cooperare anche tramite l’istituzione delle proprie Guardie Zoofile ed ecozoofile tramite riconoscimento del ministero dell’ambiente, con le autorità preposte alla prevenzione e alla repressione dei reati contro gli animali e contro l’ambiente, tramite attività diretta o sussidiaria; i. di promuovere e realizzare interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni dell’ambiente e al- l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; J. di adoperarsi per proteggere, soccorrere e curare gli animali e tutelare l’ambiente anche in situazioni e contesti straordinari o emergenziali partecipando anche a iniziative e progetti di protezione civile (ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni) nonché di cooperazione internazionale (ai sensi della legge 11 agosto 2014, n. 125, e successive modificazioni) nell’ambito e nel rispetto delle relative normative; K. organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di particolare interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo; L. di svolgere tutte le attività collaterali, connesse, secondarie e strumentali rispetto a queste ultime, secondo criteri e limiti definiti dalla normativa”. (76) Giusta l’art. 4 dello Statuto: “[…] La missione della Lipu è la protezione degli uccelli selvatici, la conservazione della biodiversità e la promozione della cultura ecologica. […]. adoperarsi per il diritto degli uccelli di esistere e svolgere il proprio ciclo vitale, inclusa una migrazione il più possibile priva di minacce, è il grande impegno della Lipu e la ragione primaria della sua esistenza”. (77) Giusta l’art. 4 dello Statuto: “il WWF italia persegue la tutela e la valorizzazione della natura e dell’ambiente a fini di solidarietà sociale e senza scopo di lucro. La missione del WWF italia è fermare e far regredire il degrado del nostro Pianeta e contribuire a costruire un futuro in cui l’umanità possa vivere in armonia con la natura. il WWF italia ha come obiettivo la conservazione della natura e dei processi ecologici in tutto il mondo attraverso il perseguimento della conservazione della diversità genetica delle specie e degli ecosistemi, l’uso sostenibile delle risorse naturali, e la riduzione degli impatti antropici a beneficio delle presenti e delle future generazioni. […]”. (78) Giusta l’art. 2 dello Statuto: “L’associazione persegue esclusivamente finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale svolgendo attività di interesse generale, non ha fine di lucro né alcun altro fine che sia incompatibile con le proprie finalità. La LaV ha per fine la Liberazione animale, l’affermazione dei diritti degli animali non umani e la loro protezione, la lotta alla zoomafia e la difesa dell’ambiente. Si batte per l’abolizione della vivisezione, della pesca, della caccia, delle produzioni animali, dell’allevamento, del commercio, degli spettacoli con animali e dell’utilizzo di qualsiasi essere vivente. Difende la Terra e i suoi ecosistemi. opera nella Protezione Civile. La LaV combatte lo specismo lottando contro ogni forma di violenza, prevaricazione e sfruttamento, per il rispetto del diritto alla vita, alla dignità e alla libertà di ogni individuo umano e non umano. La LaV ha inoltre lo scopo della salvaguardia della salute degli umani anche attraverso la diffusione della cultura tecnicoscientifica indi CoNTrIBUTI dI doTTrINA 13. Tutela delle situazioni giuridiche soggettive collegate agli animali. Circa le tutele (79) e i soggetti legittimati ad attivarle occorre distinguere a seconda del tipo di illecito commesso (penale, civile, amministrativo). occorre osservare in via preliminare che una stessa condotta può integrare più tipologie di illeciti, oltre che della stessa specie (ad es. più violazioni di leggi penali), anche di specie diverse. A quest’ultimo proposito, ad esempio, l’incidente stradale cagionato volontariamente con ferimento del cane trasportato appartenente a terzi (ad es. perché rubato) integra -al tempo stesso -un illecito penale (art. 544 ter c.p.), un illecito amministrativo (violazione del codice della strada: art. 189, comma 9 bis, del codice della strada) e un illecito civile (danno risarcibile arrecato al padrone del cane e allo stesso cane). Tanto per la autonomia delle valutazioni giuridiche contenute nella disposizione normativa, salvi i casi particolari -nel rapporto tra illecito penale ed amministrativo - di applicazione della sola norma speciale. I) Nell’illecito penale, ossia nel caso di condotte lesive degli animali integranti fattispecie di reato (80), ad agire a tutela dell’interesse leso è un attore pubblico, il pubblico ministero, organo dello Stato. Il P.M. agisce, d’ufficio, in giudizio per fare accertare le condotte pregiudizievoli e far condannare penalmente i responsabili della commissione del reato. II) Nell’illecito amministrativo, ossia nel caso di condotte lesive degli animali integranti fattispecie di illecito amministrativo (81), ad agire a tutela del- cando, con tutti i mezzi a disposizione, come convivere con gli altri animali in modo corretto e non conflittuale, portando gli umani da una visione antropocentrica ad una biocentrica. La LaV inoltre promuove e garantisce i diritti degli individui che aderiscono e perseguono i principi della Liberazione animale in ogni sede opportuna, anche giudiziaria, e si batte contro discriminazioni o distorsioni che hanno ad oggetto tali principi. La LaV riconosce nella scelta etica vegana e nei valori dell’antispecismo principi fondanti dell’associazione”. (79) Sulla problematica, con particolare riguardo alla tutela penale: A. vALASTro, La tutela giuridica degli animali e i suoi livelli, in Quaderni costituzionali, Fasciolo 1/2006, marzo, pp. 67 68. (80) Si ha l’illecito penale allorché venga violata la legge penale, ossia una legge prevedente reati e conseguenti sanzioni penali -applicate dal giudice penale -costituite dalle pene principali (detentive e pene pecuniarie) e dalle pene accessorie (artt. 17-39 c.p.). Tanto a tutela dell’interesse generale del- l’ordinamento giuridico. I principi costituzionali dominanti la materia sono gli artt. 25, comma 2, e 27, comma 1, Cost. (81) Si ha l’illecito amministrativo, allorché venga violato un provvedimento oppure una legge amministrativa -ossia una legge prevedente il rispetto di obblighi inerenti ad un rapporto giuridico con la P.A. a tutela dell’interesse pubblico in attribuzione alla P.A. parte del rapporto -con conseguente applicazione della sanzione amministrativa, applicata non dall’autorità giurisdizionale, se non in casi eccezionali come nel caso dell’art. 24 L. 24 novembre 1981, n. 689, ma dall’autorità amministrativa nell’esercizio del potere di autotutela o da soggetti diversi esercitanti funzioni pubbliche come i concessionari. La sanzione amministrativa tende a garantire l’osservanza dei doveri imposti ai cittadini. I parametri costituzionali in materia sono gli artt. 23 (circa la riserva di legge per l’imposizione di prestazioni personali e patrimoniali), 28 (per le sanzioni disciplinari) e 97, comma 2 (con riguardo al principio del giusto procedimento). La sanzione amministrativa è una pena in senso stretto, con natura afflittiva in quanto colpisce l’autore dell’illecito; essa ha uno scopo repressivo e punitivo del colpevole. Le san rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 l’interesse leso è sempre un attore pubblico, costituito dalla specifica Pubblica Amministrazione attributaria della cura dell’interesse pubblico. Questa d’ufficio, accerta l’infrazione, la contesta al responsabile e -ove risulti la trasgressione applica una sanzione amministrativa al responsabile dell’illecito (sanzione amministrativa pecuniaria, chiusura di locali, sequestro, confisca, ecc.). III) Nell’illecito civile, ossia nel caso di condotte lesive degli animali integranti violazione della generale regola del neminem laedere (art. 2043 c.c.) (82), vi può essere un attore privato -l’ente esponenziale avente quale scopo la tutela degli interessi animali lesi -che agisce a specifica tutela degli interessi animali lesi. Mentre la tutela penale ed amministrativa è connotata dalla doverosità, quella civile è priva di tale carattere. L’azione è basata sulla spontaneità dell’azione degli enti esponenziali aventi quale scopo la tutela degli interessi animali lesi. L’ente esponenziale esercita l’azione risarcitoria nella sede civile, dinanzi al giudice ordinario, oppure in sede penale (dinanzi al giudice penale) costituendosi parte civile (83). L’ente esponenziale agisce in giudizio per fare accertare le condotte pregiudizievoli e far condannare i responsabili al risarcimento del danno, in forma specifica (ad es. condanna dei responsabili alla cura del cane fatto oggetto di maltrattamenti) o per equivalente monetario (con valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.). Iv) Nel penale, oltre al potere di costituirsi parte civile, l’ente esponenziale può coadiuvare -quale persona offesa, senza necessità di costituirsi parte civile -l’azione pubblica, esercitando i poteri previsti nell’art. 91 c.p.p. secondo cui “Gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”. A quest’ultimo riguardo l’art. 90, comma 1, zioni amministrative vanno distinte in principali ed accessorie. Le sanzioni principali sono la sanzione amministrativa pecuniaria (ipotesi tipica) e le altre previste dalla legge (ad es.: divieto di contrattare con la P.A. quale unica conseguenza di determinate trasgressioni). Le sanzioni accessorie sono interdittive oppure non interdittive. Le sanzioni interdittive limitano, nei confronti del trasgressore, l’esercizio di facoltà o diritti spettanti in base alla legge o un provvedimento amministrativo. Le sanzioni non interdittive privano il titolare di un dato diritto (es. confisca). (82) Si ha l’illecito civile allorché venga violata una legge civile, ossia una legge prevedente il rispetto di obblighi inerenti ad un rapporto giuridico a tutela dell’interesse particolare di una delle parti del rapporto, con conseguenti sanzioni civili (risarcimento del danno in forma specifica [per le restituzioni] o per equivalente ex artt. 1218-1229 e 2043-2059 c.c.). L’illecito civile è orientato alla riparazione di un danno ingiusto, alla restaurazione dell’altrui diritto in conseguenza dell’aggressione di siffatto diritto altrui. I principi costituzionali in materia sono gli artt. 2 e 24, comma 1, Cost. (83) Art. 74 c.p.p.: “L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’articolo 185 del codice penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”. CoNTrIBUTI dI doTTrINA c.p.p. dispone: “La persona offesa dal reato, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge, in ogni stato e grado del procedimento può presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova”. La persona offesa del reato è il titolare del bene giuridico leso dalla commissione dello specifico reato. Essa, pur non essendo parte, gode di molteplici diritti e facoltà; è soggetto processuale che possiede poteri di sollecitazione probatoria e di impulso processuale (cd. accusa sussidiaria), che rilevano principalmente nella fase delle indagini preliminari. ricognitivamente, l’art. 7 L. 20 luglio 2004, n. 189 dispone che le associazioni e gli enti che tutelano gli animali -individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’interno (84) -perseguono, ai sensi dell’art. 91 c.p.p., finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla detta legge (ossia: artt. 544 bis -544 sexies c.p.; art. 638 c.p.; art. 727 c.p.). Al fine dell’esercizio di tali poteri non è necessario che le associazioni e gli enti siano individuati con le modalità indicate nell’art. 7 cit.: richiamando quanto esposto nel precedente paragrafo a proposito dell’ente esponenziale costituito contrattualmente, qualsiasi ente avente i tre requisiti ivi delineati (perseguire statutariamente in modo strutturato e non occasionale obiettivi di tutela degli interessi degli animali; con adeguato grado di rappresentatività e stabilità; con un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso) può esercitare i poteri della persona offesa, oltre che costituirsi parte civile (85). (84) Attualmente l’individuazione è operata dall’art.12 del d.L.vo 5 agosto 2022, n. 135. (85) Conf. Cass. pen., 5 ottobre 2017, n. 4562: “la L. n. 189 del 2004, art. 7 riconosce automaticamente, in favore di tali associazioni ed enti (individuate al solo fine di ottenere l’affidamento e la custodia degli animali), l’esistenza della finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla stessa legge, ma non esclude in alcun modo che tale finalità possa essere perseguita anche da associazioni diverse da quelle così individuate, le quali deducano di aver subito un danno diretto dal reato. Ciò anche, e soprattutto, ove si consideri che persona danneggiata (legittimata a costituirsi parte civile) e persona offesa (legittimata a esercitare anche le facoltà espressamente previste dal titolo Vi del libro primo parte prima dei codice di rito) non sono normativamente sovrapponibili e che mentre l’art. 91 c.p.p., attribuisce agli enti e alle associazioni ivi indicati, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato, l’art. 74 c.p.p. riconosce a chiunque assuma di avere subito un danno in conseguenza del reato, la legittimazione all’azione civile nel processo penale. Ne consegue che è pienamente ammissibile la costituzione di parte civile di un’associazione, anche non riconosciuta, che avanzi, iure proprio, la pretesa risarcitoria, assumendo di aver subito, per effetto del reato, un danno, patrimoniale o non, consistente nell’offesa all’interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente alla personalità o all’identità dell’ente (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, dep. 18/09/2014, Espenhahn, rv. 261110). Ciò sul presupposto che determinati organismi abbiano ‘fatto di un determinato interesse’ collettivo ‘l’oggetto principale della propria esistenza’, tanto che esso sia ‘diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio e come tale ha assunto una consistenza di diritto di soggettivo’. Nondimeno, perché questo accada è necessario, secondo la giurisprudenza di questa Corte, fare riferimento ad una situazione storica determinata, al ruolo concretamente svolto dall’organismo che si costituisce nel giudizio e alla sua rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 v) In ambito amministrativo, l’ente esponenziale -può intervenire nel procedimento amministrativo destinato alla adozione di un provvedimento incidente su un interesse animale del quale ha la cura statutaria. Tanto è previsto nell’art. 9 L. 7 agosto 1990 n. 241 secondo cui: “Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento ”. La disposizione consente la massima partecipazione al procedimento, sul presupposto che l’interveniente possa subire un pregiudizio dall’emanando provvedimento. Si rileva in dottrina che la formulazione della legge è generica (“possa derivare un pregiudizio ”); non è infatti richiesto che il pregiudizio sia diretto ed attuale, escludendosi che la partecipazione al procedimento determini ex se anche l’interesse sostanziale alla proposizione a proporre ricorso giurisdizionale (86). Possono intervenire, tra gli altri, i controinteressati, portatori di interessi pubblici o privati, tra cui i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati. L’interveniente, portatore di interessi diffusi, è titolare di un interesse legittimo. L’intervento, in assenza di disposizioni organizzative fissanti un termine ragionevole, è ammesso fino all’adozione della decisione finale (87); -può impugnare dinanzi al giudice amministrativo il provvedimento della Pubblica amministrazione lesivo degli interessi animali dei quali ha la cura statutaria (ad es. calendario venatorio adottato contra legem). 14. Soggettività di diritto degli animali. La teoria generale del diritto civile riconosce, attualmente, come “soggetti di diritto” unicamente l’uomo e le personae fictae, cioè le persone capacità di rappresentare, in un contesto ben determinato, gli interessi per la cui tutela si intende esercitare, nel processo penale, l’azione civile. osserva, sul punto, il Collegio come non possa dubitarsi che un’associazione, la quale, come nel caso di specie, sia statutariamente deputata alla protezione di una determinata categoria di animali (cani), debba riconoscersi come tendenzialmente portatrice degli interessi penalmente tutelati, tra gli altri, dai reati di cui agli artt. 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies e 727 c.p. (così Sez. 3, n. 34095 del 12/05/2006, dep. 12/10/2006, P.o. in proc. Cortinovis ed altro, in motivazione). in una siffatta ipotesi, infatti, l’ente, per l’attività concretamente svolta e, appunto, per la sua finalità statutaria primaria, coincidente con la tutela dei cani, ovvero degli interessi lesi dai reati contestati, si fa portatore, secondo il ricordato meccanismo di immedesimazione, di una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale”. (86) L. MAZZAroLLI, G. PErICU, A. roMANo, F.A. rovErSI MoNACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, Iv edizione, Monduzzi, 2005, p. 653. In senso contrario r. FErrArA, voce interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., p. 492 per il quale negare la possibilità della impugnazione giurisdizionale porterebbe alla creazione di una speciale figura di interessi solo amministrativamente protetti. (87) Per tali aspetti: S. dE FELICE, M. GErArdo, Diritto amministrativo, 1, Parte generale, cit., p. 543. CoNTrIBUTI dI doTTrINA giuridiche (libri I e Iv del codice civile) e gli enti di fatto (associazione non riconosciuta, comitato, ecc.): tutto il resto può solo costituire oggetto di diritto. Ma non è stato sempre così. Nel Medioevo -e in specie dal XIII al XvI secolo -processi penali aventi quali imputati gli animali erano pratica relativamente comune, specie nel caso in cui gli stessi avessero ucciso un essere umano. Nei tribunali era del tutto normale processare (e il più delle volte condannare) anche poveri maiali, cavalli e tori che, secondo il punto di vista umano, si erano macchiati di colpe gravi (danni alle proprietà, di solito; nei casi peggiori, omicidi). In tale contesto l’animale, reputato imputabile penalmente, era - all’evidenza - reputato un soggetto di diritto. L’attribuzione della soggettività giuridica agli animali è una scelta politica consentita dal diritto, una libera opzione legislativa. Non vi è una ontologica impossibilità di attribuire la soggettività di diritto agli animali. Molto dipende dalla evoluzione (o involuzione) della società, dalla cultura di un popolo, da credenze religiose (88). De iure condendo potrebbe anche giungersi, in un futuro non remoto, ad attribuire la soggettività giuridica agli animali di affezione. L’animale di affezione possiede caratteristiche e presenta reazioni che l’uomo può intendere come espressione di un dolore o di una sofferenza affini ai suoi. L’uomo è portato a provare empatia e amorevolezza verso chi condivide con lui spazi comunicativi e familiari (89). Già nella legislazione attuale, come si è visto innanzi, il diritto alla vita è espressamente riconosciuto ai cani e ai gatti (giusta L. 14 agosto 1991, n. 281: legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo); alla luce del quadro normativo innanzi riassunto è dato desumere che l’animale di affezione, tra tutti gli animali, è quello più protetto dall’ordinamento giuridico. Come, con arbitrio artistico, Walt disney antropomorfizzò Pippo ma la (88) Nella Bibbia vi è una visione antropocentrica con riguardo al rapporto tra l’uomo e gli animali, come confermato in Genesi, I, 28: “dominate [riferito agli uomini e alle donne] sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”. (89) S. CASTIGNoNE, Che qualità della vita per gli animali non-umani?, cit., p. 95, osserva: “Se si vanno a vedere i risultati di diversi questionari rivolti a capire perché le persone tengono animali da compagnia, si trovano le seguenti risposte: per motivi di osservazione etologica (il che spiegherebbe il successo di opere divulgative come quelle di Konrad Lorenz e di Desmond morris, nonché delle varie trasmissioni televisive dedicate agli animali); per motivi estetici, soprattutto per gli animali di razza; perché l’animale in casa ci ricollega in qualche modo al mondo naturale che abbiamo perduto; per ricostituire il mondo familiare dell’infanzia; come substitut d’enfant, vale a dire per sostituire i bambini- figli che non ci sono o che sono cresciuti; per facilitare i contatti sociali: è stato osservato come non ci sia modo migliore per fare conoscenze che girare per i parchi pubblici con un cane; per essere protetti; e infine (ma è la motivazione più forte di tutte) per il bisogno di affetto. L’animale da compagnia, di solito il cane o il gatto (ma ve ne possono essere di tanti tipi), svolge tutte queste funzioni e può occupare un posto importante nella nostra vita, sicuramente in senso positivo” in rivista di filosofia, Fascicolo 1, aprile 2001, pp. 71-96. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 sciò cane Pluto, l’ordinamento giuridico potrebbe attribuire la qualità di soggetto di diritto ai cani, in quanto esseri più senzienti, e negarla alle rane. venendo in rilievo un soggetto che, tuttavia, è incapace di intendere e di volere, di provvedere alla cura dei propri interessi, al fine di regolare i rapporti giuridici dei quali è titolare si potrebbe applicare la disciplina prevista per gli incapaci di agire; in specie quella prevista in materia di interdizione giudiziale in conseguenza di infermità di mente (artt. 414-432 c.c. in quanto applicabili). Tanto anche sugli stimoli di elaborazioni filosofiche sul punto, ad es. di Pierre Bayle e di Cesare Goretti (come esposte innanzi). L’animale sarebbe un soggetto di diritto, dotato della capacità giuridica con la possibilità di essere titolare di un proprio patrimonio. Potrebbe ricevere beni -e divenire titolare di diritti reali o di credito -per testamento; potrebbe alienare o acquistare beni. Non avendo la capacità di agire, in sua rappresentanza agirebbe il tutore, se del caso autorizzato dal giudice. Potrebbe altresì agire per il risarcimento del danno subito per la lesione diretta dei suoi interessi (ad es. in conseguenza di maltrattamenti); giusta l’art. 75 comma 2, c.p.c. starebbe in giudizio a mezzo del tutore. 15. Conclusioni. Giunti al termine della disamina sulla rilevanza giuridica degli animali possiamo rilevare che: -gli animali d’affezione, almeno nell’ordinamento giuridico italiano, si vedono riconosciuto il diritto alla vita, salvi i casi di conflitto di interesse. difatti, di fronte a conflitti tra l’interesse umano e l’interesse animale, prevale sempre l’interesse umano con possibilità di uccidere e/o ledere qualsivoglia animale, compresi quelli d’affezione; -ad eccezione degli animali d’affezione, è possibile uccidere tutti gli altri animali per esigenze reputate rilevanti per l’uomo (es. per l’alimentazione umana); -in tutti i casi in cui è possibile uccidere un animale è generalmente prescritto che non vengano procurate sofferenze. Ma purtroppo questa non è una regola assoluta: nell’Unione Europea nei casi previsti da riti religiosi, da tradizioni culturali e dal patrimonio regionale, si possono anche arrecare sofferenze nell’uccidere. In conclusione, occorre prendere atto che gli ordinamenti positivi hanno ancora una visione antropocentrica circa il rapporto tra l’uomo e gli animali. CoNTrIBUTI dI doTTrINA actio finium regundorum tra piani paesaggistici, piani per i parchi e disciplina degli usi civici Rosa Maria Giovinazzo* “Tutto cangia, il ciel s’abbella, l’aria è pura, il dì raggiante, la Natura è lieta anch’ella. E allo sguardo incerto, errante, tutto dolce e nuovo appar. Quel contento che in me sento non può l’anima spiegar…” (Gioacchino rossini, Atto Iv, Finale del Grand opèra “Guillaume Tell”, 1829, Parigi) Sommario: 0. Sintesi della legislazione oggetto della discussione -1. Pianificazione paesaggistica e delle aree protette: tra premesse di inquadramento e “riconoscimento dei volti” della tutela -2. il coordinamento della pianificazione paesaggistica con la pianificazione di settore dell’Ente parco: “contrasti” e “temperamenti” -3. il coordinamento pianificatorio ambientale e tutela degli usi civici. 0. Sintesi della legislazione oggetto della discussione. • Articolo 145, terzo comma (ultima parte), d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione «[…] Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette». • Art. 12, comma 7, L. 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) Piano del parco «il piano ha effetto di dichiarazione di pubblico interesse e di urgenza e di indifferibilità per gli interventi in esso previsti e sostituisce ad ogni livello Il presente contributo nasce da una riflessione condivisa dall’Autrice con l’Avvocato dello Stato Paolo Marchini, al quale l’Autrice esprime la sua più sincera gratitudine. (*) Specialista in professioni legali, abilitata all’esercizio della professione forense presso la Corte d’Appello di reggio Calabria; ha svolto un tirocinio formativo presso la Procura Generale della Corte di Cassazione (Magistrato affidatario: dottor Fulvio Baldi); diplomata JUMP (Job University Matching project) -Fondazione rUI. Ha partecipato ad alcuni volumi collettanei e di commento, da ultimo, al “nuovo” Codice dei Contratti Pubblici (nella specie, sub art. 28, in Commentario al Codice dei Contratti Pubblici, (a cura di) S. CIMINI e A. GIordANo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2025), nonché collaborato con la rivista giuridica “Giurisprudenza Penale”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione». 1. Pianificazione paesaggistica e delle aree protette: tra premesse di inquadramento e “riconoscimento dei volti” della tutela. L’indagine sulla natura reale, apparente, ovvero “parzialmente” apparente del contrasto normativo insito tra l’art. 145, comma 3, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e l’art. 12, comma 7, della Legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) risente, evidentemente, della complessità e trasversalità dei campi oggetto di cura, ossia: il paesaggio, il governo del territorio (1), l’ambiente. Sebbene, infatti, non possa, o meglio, non debba considerarsi antistorico l’argomento per cui “ogni norma occupa un territorio”, è altrettanto vero che, nel caso in discussione, tale affermazione potrebbe presentare delle “complicazioni applicative” di non poco conto, vieppiù alla luce delle inevitabili interazioni tra le diverse discipline coinvolte. Effettivamente, un medesimo spazio territoriale potrebbe, al contempo, essere sensibile tanto alla disciplina urbanistica, quanto a quella paesaggistica, quanto a quella ambientale. Pertanto, il compito dell’interprete sarebbe proprio quello di individuare una criteriologia sufficientemente idonea a stabilire l’actio finium regundorum tra le variegate discipline amministrative, nel rispetto dei criteri di riparto della competenza legislativa scolpiti nel novellato art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3 (2). Il citato intervento riformatore avrebbe, dunque, messo in dialogo il “paesaggio” non solo con la tradizionale urbanistica, bensì con il più ampio e complesso governo del territorio (3), il quale, ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., (1) rispetto a quest’ultimo profilo viene in rilievo, in particolare, la materia dell’urbanistica, in quanto species del più ampio genus “governo del territorio”. (2) Articolo, questo, da leggere in combinato disposto normativo con la clausola dischiusa nel riformulato art. 9 Cost. ad opera della legge costituzionale dell’11 febbraio 2022, n. 1, che avrebbe espressamente consacrato la tutela dell’ambiente insieme a quella della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle generazioni future. In proposito, la Corte Costituzionale, nella recente pronuncia n. 105 del 2024, ha affermato che «la riforma del 2022 consacra direttamente nel testo della Costituzione il mandato di tutela dell’ambiente, inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso; e vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua effettiva difesa». (3) In particolare, «il governo del territorio comprende, oltre all’urbanistica, anche l’organizzazione di tutti gli interventi che hanno, comunque, una incidenza fisica sul territorio, in quanto comportano trasformazioni degli assetti e degli equilibri che gli urbanisti chiamano sistemi territoriali». Cfr. S. AMoroSINo, Diritti dei beni culturali e del paesaggio, Seconda Edizione, Wolters Kluwer, 2024, p. 250. CoNTrIBUTI dI doTTrINA viene annoverato tra le materie di competenza concorrente tra Stato (per gli aspetti generali) e regioni (per gli aspetti di dettaglio). Un’ulteriore diade che attanaglia la disciplina che si andrà esaminando è quella intercorrente tra paesaggio e ambiente, stante la diversità dei concetti che trascende, evidentemente, le possibili (e inevitabili) connessioni (4). In relazione al concetto di paesaggio, una prima tesi datata nel tempo e fondata sul criterio della cd. pietrificazione, identificava il bene in questione come l’insieme delle bellezze naturali, dotate di qualità estetiche tali da suscitare quegli “entusiasmi spirituali” idonei a giustificare un interesse pubblico alla conservazione dei cd. “quadri naturali” (5). Una diversa tesi definisce il paesaggio come «forma del Paese», che viene «creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, in modo intensivo o estensivo, nelle città o nella campagna, che agisce sul suolo, che produce segni della sua cultura» (6). Attualmente, la nozione di paesaggio è contenuta nel canone normativo offerto dall’art. 131, comma 1, del Codice Urbani, che lo intende come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni» (7). Con riguardo al concetto giuridico di ambiente, diversamente, lo stesso è stato oggetto di molteplici tentativi definitori da parte della giurisprudenza e della dottrina, che avrebbero cercato di colmarne il vulnus. Un primo orientamento, risalente agli inizi degli anni Settanta, definiva il concetto di ambiente alla stregua di una “terzina musicale”, le cui “note” erano costituite dalla tutela del paesaggio e culturale; dalla lotta contro gli inquinamenti del suolo, dell’aria e dell’acqua; dal governo del territorio. Ebbene, in tale contesto, si collocava l’ulteriore orientamento che identificava l’ambiente nel diritto alla salubrità, da cui conseguiva, in via diretta (4) d’altronde, uno stesso territorio ben potrebbe rappresentare, contestualmente, tanto un sito ambientale da salvaguardare, quanto un’area paesaggistica da vincolare. Per un maggiore approfondimento sulle tecniche di tutela dei cd. “interessi differenziati” che insistono su un medesimo contesto spaziale, Cfr. v. CErULLI IrELLI, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in riv. trim. dir. pubbl., 1985; A. ANGIULI, Piano paesaggistico e piani ad incidenza territoriale. Un profilo ricostruttivo, in riv. giur. urbanistica, 2009, pp. 291 ss. (5) In questo senso, la visione di “bello della natura” è tale da ingenerare, secondo la concezione di Benedetto Croce, profonde “affinità elettive” con il “bello dell’arte”. Si guarda alla Natura, quindi, con lo stesso stupore e ardore con cui si ascolta un “quadro di un’esposizione” di Mussorgsky, ovvero si osserva un paesaggio preraffaellita dagli slanci fiabeschi, oppure si legge un dipinto dannunziano in versi. (6) Cfr. A. PrEdIErI, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, pp. 11 ss. (7) Consiglio di Stato, Sez. Iv, 28 gennaio 2022, n. 624: «In tema di tutela del paesaggio, la nozione accolta dalla Convenzione europea del paesaggio, stipulata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la l. 9 gennaio 2006, n. 14, introduce un concetto certamente ampio di “paesaggio”, non più riconducibile al solo ambiente naturale statico, ma concepibile quale frutto dell’interazione tra uomo e ambiente, valorizzando anche gli aspetti identitari e culturali, di modo che è pertanto la sintesi dell’azione di fattori naturali, umani e delle loro interrelazioni a contribuire a delineare la nozione, complessa e plurivoca, di “paesaggio”». rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 ed immediata, l’ulteriore profilo di tutela della salute ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo un’ulteriore ricostruzione, invece, l’ambiente (8) avrebbe rappresentato un bene comune appartenente a tutti i cittadini. E ancora, la concezione cd. ecologica considera l’ambiente come «equilibrio ecologico della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento» (9). L’orientamento prevalente, avallato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in seno alla celebre pronuncia n. 6 del 2020, definisce l’ambiente come «bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna della quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità». In altri termini, la natura polimorfa del bene in argomento è tale da elevarlo a oggetto di una pluralità di funzioni amministrative, che vanno dalla salvaguardia dell’aria, dell’acqua e del suolo dagli inquinamenti (10), alla tutela dei beni naturali (fauna e specie vegetali), fino agli habitat protetti (parchi e riserve naturali), quindi alla gestione dei rifiuti e alla bonifica dei siti inquinati, chiudendo con la disciplina urbanistica ed edilizia (11). (8) In questo contesto, doveroso appare il rimando al tema degli “usi civici”. Secondo il mirabile insegnamento di Paolo Grossi, «[…] Nel pianeta degli assetti fondiari collettivi il rapporto uomo/terra non è riducibile all’emungimento di un forziere di ricchezza, né la terra è qui, in prima linea, ricchezza. Si tratta, al contrario, di un rapporto complesso, un rapporto fondamentale, che impegna i componenti di una comunità in tutta la loro integralità. Il rapporto non si esaurisce in una dimensione economica o tecnico-agronomica, ma investe quella spirituale e culturale. Qui la terra non è solo porzione di una valle o di una montagna, ma è altresì di un costume, di una storia, e si crea fra uomo e terra una relazione forte, una familiarità che investe anche la sfera del sentimento. E nasce da tutto questo il profondo rispetto per le regole scritte nelle cose e agevolmente decifrabili sol che si abbia la voglia di leggerle; nasce da tutto questo l’inabdicabile armonia tra azione umana e natura, insomma la tutela dell’ambiente, che è facile constatare nell’ambito degli assetti fondiari collettivi». Cfr. P. GroSSI, il mondo delle terre collettive - itinerari giuridici tra ieri e domani, Quodlibet Ius, 2019, p. 86. (9) Per un maggiore approfondimento della concezione ecologica di ambiente, si veda B. CArAvITA -A. MorroNE, ambiente e Costituzione, in B. CArAvITA -L. CASSETTI -A. MorroNE (a cura di), Diritto dell’ambiente. (10) Con particolare riguardo alla tutela contro l’inquinamento acustico, non può non rinviarsi al concetto di “paesaggio sonoro” (cd. soundscape), elaborato dall’etnomusicologo e compositore canadese r. Murray Schafer intorno alla fine del secolo XX: «il paesaggio sonoro è una composizione indeterminata sulla quale non abbiamo alcun controllo, oppure siamo noi i suoi compositori e i suoi esecutori, responsabili di darne forma e bellezza?». La suggestione dischiusa nella “visione orchestrale” del mondo cattura l’attenzione del giurista, de iure condendo, in ordine all’opportunità di importare il concetto di “paesaggio sonoro” nell’alveo della tutela dell’ambiente ai sensi del novellato art. 9 Cost. Per l’approfondimento, vedasi, per tutti, r. MUrrAy SCHAFEr, il paesaggio sonoro -il nostro ambiente acustico e l’accordatura del mondo, Le Sfere, Casa ricordi, 2022. (11) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione Iv, 10 maggio 2012, n. 2710: «Il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti. L’ambiente, dunque, costituisce inevitabilmente l’oggetto (anche) dell’eser CoNTrIBUTI dI doTTrINA Ne consegue che il bene ambiente così descritto, più che individuare “l’oggetto” statico di una tutela tranquillamente circoscritta nei suoi confini, sarebbe più correttamente espressione di quella che la giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni riconosciuto come “materia valore” dinamica e trasversale (12)(13). da un punto di vista strutturale, infatti, il bene ambiente, parimenti alla concorrenza, viene in rilievo come bene giuridico meta-individuale che farebbe insorgere, laddove vulnerato, una situazione giuridica di interesse diffuso (14). cizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l’esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tener conto del “valore ambiente”, al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi». Ne deriva che «gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possono comportare danno per l’ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia “ambiente”, in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni». In merito alla triade “ambiente -interessi diffusi -legittimazione degli enti esponenziali”, vedasi, v. LoPILATo, manuale di diritto amministrativo, Parte generale, vol. I, Terza edizione, 2021. (12) Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 febbraio 2020, n. 6; Consiglio di Stato, Sezione v, 15 luglio 2013, n. 3808; Consiglio di Stato, Sezione v, 12 marzo 2019 n. 1640. (13) Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 27 luglio 2016, n. 17: «[…] la tutela dell’ambiente non è una “materia” in senso tecnico, perché è da intendere come valore costituzionalmente protetto, una sorta di “materia trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali; fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni rispondenti a esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, con la conseguenza che l’intervento regionale è possibile soltanto in quanto introduca una disciplina idonea a realizzare un ampliamento dei livelli di tutela e non derogatoria in senso peggiorativo […]». Cfr. Corte Costituzionale, sentenze 22 luglio 2011, n. 245 e 22 luglio 2009, n. 225. (14) Sul carattere sostanzialmente adespota del bene ambiente, sembra opportuno fornire qualche coordinata di dettaglio, finanche all’ulteriore fine di meglio tratteggiare il coordinamento tra la natura meta-individuale dell’interesse diffuso in questione e quella più in generale “soggettiva” del processo amministrativo. Ebbene, sulla natura soggettiva del processo amministrativo, la stessa trova la sua spiegazione essenziale nell’art. 24 Cost., il quale, nel consacrare il principio di giustiziabilità delle pretese, sancisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Sicché, il preminente valore attribuito alla posizione del singolo avrebbe determinato, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, un vero e proprio ribaltamento del paradigma, considerando l’interesse pubblico come interesse “occasionalmente” protetto. Ciò preliminarmente detto, quanto alle condizioni dell’azione, nella specie, si individuano nella legittimazione a ricorrere, da un lato, e nell’interesse ad agire, dall’altro. In riferimento alla legittimazione a ricorrere, la stessa definisce la proiezione processuale della situazione giuridica sostanziale sottesa al giudizio, la quale deve presentare, ai fini della rilevanza giuridica, i caratteri della qualificazione e della differenziazione. Con riguardo alla prima, ossia alla qualificazione, la stessa potrebbe essere intesa come lo stabile attributo legale di idoneità, sia pur in astratto, alla pretesa vantata. diversamente, con riguardo alla differenziazione, la stessa ha il pregio di “soggettivizzare” in concreto il giudizio, consentendo al ricorrente di differenziarsi dal più generico quisque de populo. In riferimento all’interesse ad agire, lo stesso funge da “completamento” alla qualificazione giuridica rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 2. il coordinamento (15) della pianificazione paesaggistica con la pianificazione di settore dell’Ente parco: “contrasti” e “temperamenti”. Ad una prima lettura dei disposti in commento, l’impressione è quella di oggetto della controversia, stabilendo la lesione all’interesse della cui legittimità si discute come concreta ed attuale, giammai meramente potenziale. Adesso, se questa è la regola, nondimeno la stessa non va esente da eccezioni, specie laddove a venire in considerazione siano beni che, per le loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche, sono insuscettibili di apprensione individuale. Precisamente, si tratta della tutela degli interessi meta-individuali e, in particolare, degli interessi diffusi. rispetto a tali interessi, manca una definizione precettiva a livello normativo, costituendo tale enunciazione il risultato dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Con il termine interesse diffuso, si individua un interesse peculiare, che vive allo stato fluido, magmatico, e che è destinato all’intera collettività. La considerazione per la quale si tratterebbe di un bene a fruizione collettiva legittimerebbe, quindi, la sua ulteriore qualificazione di bene adespota. I settori nevralgici in tema di interessi diffusi riguardano l’ambiente e la concorrenza, i quali, secondo le più recenti acquisizioni giurisprudenziali, costituirebbero dei beni-valore a rilevanza trasversale, tali da giustificare forme di tutela rafforzata che trascendono la posizione individuale del singolo, legittimando forme particolari di accesso diretto alla giustizia amministrativa da parte di Autorità indipendenti. ora, gli interessi diffusi in discussione, sia pur non espressamente tipizzati nei loro aspetti sostanziali in sede legislativa, sarebbero stati comunque “nominati” in alcuni campi della normazione primaria: al riguardo, si pensi all’art. 9 della legge n. 241 del 1990, quindi all’art. 4, comma 2, della legge n. 180 del 2011. In passato, si dubitava dell’apprezzabilità dell’interesse diffuso come situazione giuridica meritoria di autonoma tutela giurisdizionale, per le evidenti connessioni con l’interesse pubblico oggettivo. Attualmente, l’interesse diffuso ha raggiunto dignità di situazione giuridica sostanziale indipendente e, in quanto tale, meritevole di riguardo in sede giurisdizionale, sia pur con le criticità in essa insite. In particolare, la questione maggiormente delicata, peraltro giunta all’attenzione della Plenaria del Consiglio di Stato, avrebbe riguardato i profili di differenziazione dell’interesse in questione, in ragione della valenza, come poc’anzi riferito, normalmente soggettiva (al netto delle ipotesi tassative di giurisdizione oggettiva) del processo amministrativo. differenziazione, questa, che andrebbe letta alla luce del disposto ex art. 81 c.p.c., il quale, sotto la rubrica “sostituzione processuale”, stabilisce che fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. La tutela dell’interesse diffuso, infatti, avrebbe avuto come legittimati a ricorrere, enti esponenziali di categoria iscritti in appositi elenchi predisposti con decreto ministeriale. Secondo un primo orientamento, l’ente esponenziale di categoria avrebbe fatto valere in nome proprio un diritto altrui in virtù di una fictio iuris, la quale non era comunque tale da far trasalire la dissociazione sussistente tra la titolarità della situazione giuridica e la legittimazione a proporre il giudizio in caso di sua violazione. In definitiva, la natura soggettiva del processo sarebbe stata salvaguardata dalla legittimazione tipica predeterminata per interposizione legislativa, secondo le prescrizioni sulla legittimazione straordinaria processuale disciplinate ai sensi del citato art. 81 c.p.c. Cionondimeno, la Plenaria accoglie un secondo orientamento di segno opposto, intendendo la legittimazione come “atipica”. Gli enti esponenziali abilitati a far valere la tutela dell’interesse adespota “proprio” sono quelli che, sia pur non espressamente nominati ex lege, presentano requisiti specificamente individuati dalla normativa di settore, ovvero dalla tassativizzazione pretoria. In conclusione, l’ente legittimato dovrà perseguire in maniera non occasionale l’interesse diffuso omogeneo oggetto di protezione, quindi essere dotato di un elevato grado di rappresentatività e stabilità (cd. interesse adespota istituzionalizzato), vieppiù non presentando profili di macroscopica conflittualità. Pertanto, il requisito essenziale dell’omogeneità potrà dirsi assente laddove, ad esempio, si accerti la presenza, nell’ambito della categoria rappresentata, di “ambientalisti” presso i quali è contestualmente “diffuso” un interesse diametralmente opposto a quello avanzato in corso di giudizio. CoNTrIBUTI dI doTTrINA una vera e propria “invasione di campo” dell’art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004, sulla disciplina settoriale, attualmente vigente, delle aree protette di cui all’art. 12 della legge n. 394 del 1991 (16). Precisamente, l’oggetto specifico del contrasto attiene ai rapporti di coordinamento tra i piani paesaggistici del Codice del 2004 (così come modificato dal successivo d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157) e i piani dei parchi (17) previsti dalla legge quadro del 1991 (18)(19). (15) Per maggiori approfondimenti, cfr. M. BrEGANZE dE CAPNIST, Diritto del paesaggio, Cleup s.c., Padova, 2021; S. AMoroSINo, i rapporti tra i piani dei parchi e i piani paesaggistici alla luce del Codice Urbani, Aedon (ISSN 1127-1345), Fascicolo 3, dicembre 2006; M.A. SANdULLI, Commentario al codice del beni culturali e del paesaggio (art. 145), Terza edizione, Giuffrè; G. roSSI (a cura), Diritto dell’ambiente, Seconda edizione, G. Giappichelli Editore, Torino; A. ANGIULI -v.C. JAMBrENGHI (a cura), art. 145, Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, G. Giappichelli, Torino; G. LEoNE, A. LEo TArASCo, art. 145, Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, CEdAM, 2006. (16) La legge 6 dicembre 1991, n. 394 disciplina le aree protette, stabilendo che, ai fini delle prescrizioni in esse contenute, costituiscono patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che presentano rilevante valore naturalistico e ambientale (art. 1, comma 2). (17) Secondo autorevole dottrina (P.G. FErrI), il parco naturale si configura quale entità complessa di parti eterogenee, contraddistinto dall’inerenza ad aree più o meno vaste, il cui oggetto di tutela non si inquadra esclusivamente in criteri “estetici” improntati su mere suggestioni romantiche ovvero sul- l’amenità dei luoghi, prevalendo una valutazione scientifica, focalizzata sulla particolarità della conformazione geologica o floro-faunistica del territorio. Per un maggiore approfondimento della figura giuridica in discussione, si veda, Enc. Giur. Treccani, vol. XXv, voce Parchi Naturali. (18) Sul piano qualificatorio, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 27 luglio 2016, n. 17, ha definito la legge n. 394 del 1991 come “normativa organica del settore sui piani e le aree protette”, con conseguente riferimento alla “specialità della materia”. incidenter tantum, il quesito giuridico dal quale sarebbe insorto il contrasto giurisprudenziale ha riguardato la sorte dell’art. 13, commi 1 e 4, della legge 394/1991 (che sancisce l’operatività del silenzio assenso in materia di tutela ambientale e paesaggistica), a fronte della successiva legge n. 80 del 2005 che, nel riformulare l’art. 20 della legge 241 del 1990, ne ha escluso tale possibilità. Ebbene, secondo i giudici di Palazzo Spada, nessun fenomeno abrogatorio tacito/implicito avrebbe colpito l’art. 13 della legge quadro sulle aree protette, stabilendo, tale disposto, una specialità di regime procedimentale inidonea, per sua natura, a recare nocumento all’interesse sensibile sostanziale in discussione. Inoltre, in corrispondenza con l’intento, la Plenaria evidenzia alcuni argomenti di carattere storico, osservando che «[…] non solo l’eccezionale previsione del silenzio-assenso in tema di nulla osta dell’art. 13 era collocata in un quadro sistematico generale (quello dell’originario art. 20 l. n. 241 del 1990) di segno opposto; ma anche che si inseriva in una normativa organica del settore sui parchi e le aree protette (la l. n. 394 del 1991), dove era il bilanciamento complessivo degli interessi ivi coinvolti a prevedere il silenzio assenso come effetto di una valutazione legislativa ponderata e giustificata dalla specialità della materia: sicché sarebbe alterare quella coerenza il figurare che, per questa parte, un elemento di quel complesso equilibrio sia stato tacitamente -ciò senza apposita riconsiderazione da parte del legislatore - rimosso dalla riforma del 2005 […]». (19) Il piano del parco (art. 12, Legge quadro delle aree protette) costituisce, insieme al regolamento del parco (art. 11 Legge quadro), l’atto di pianificazione fondamentale che l’ente parco deve utilizzare. Più segnatamente, il piano del parco, adottato nel rispetto delle formalità previste dall’art. 12, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e nel Bollettino ufficiale della regione, è immediatamente vincolante nei confronti rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 Ebbene, il novellato art. 145, comma 3, sotto la rubrica “coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, prescrive che «per quanto attiene alla tutela del paesaggio (20), le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette». Altrimenti, l’art. 12, comma 7, della legge 394 del 1991, con riguardo alla valenza del piano parco, stabilisce che «il piano ha effetto di dichiarazione di pubblico generale interesse e di urgenza e di indifferibilità per gli interventi in esso previsti e sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione». Pertanto, il decreto correttivo del 2006 avrebbe definito la primazia dei piani paesaggistici nel rapporto con gli altri strumenti di governo del territorio, ivi compresi quelli del piano per il parco, in virtù dell’espresso richiamo agli “enti gestori delle aree naturali protette”. delle amministrazioni e dei privati (art. 12, comma 8); persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali, nonché storici, culturali, antropologici tradizionali affidati all’ente parco (art. 12, comma 1). La suddivisione territoriale per aree avviene mediante l’opera di zonizzazione, che conforma il contenuto giuridico del bene alle sue caratteristiche naturali. dal punto di vista giuridico qualificatorio, infatti, il piano del parco individua uno strumento di pianificazione di natura conformativa, che realizza in un’unica sede (il piano settoriale del parco, appunto) il governo del territorio. In particolare, il piano suddivide il proprio ambito territoriale in: a) “riserve integrali”, nelle quali l’ambiente naturale è conservato nella sua integrità; b) “riserve generali orientate”, nelle quali sono vietate le nuove opere edilizie, l’ampliamento delle costruzioni esistenti e l’esecuzione di opere di trasformazione del territorio, ammettendosi solo le utilizzazioni produttive tradizionali, la realizzazione delle infrastrutture strettamente necessarie, nonché gli interventi di gestione delle risorse naturali, a cura dell’ente parco; c) “aree di protezione”, nelle quali possono essere proseguite le attività agro-silvo-pastorali, quindi quelle di pesca e di raccolta di prodotti naturali, nonché attività volte ad incoraggiare la produzione artigianale di qualità; d) “aree di promozione economica e sociale”, nelle quali sono consentite attività compatibili con le finalità di parco, essendo tali aree, nella specie, funzionalizzate sia al progresso socio-culturale delle collettività locali, sia al miglior godimento da parte dei visitatori. Concludendo, l’obiettivo fondamentale del piano sarebbe quello di distinguere le zone che meritano una conservazione integrale o tendenzialmente tale, da quelle in cui si ammette una qualche attività antropica. Per un maggiore approfondimento, vedasi, r. FErrArA -M.A. SANdULLI, Trattato di diritto dell’ambiente, vol. III, Tutela della natura e del paesaggio, 2014; L. dE LUCIA, Piani paesaggistici e piani per i parchi. Proposta per una razionale divisione del lavoro amministrativo, in G. BErGoNZINI, P. MArZANo, rivista giuridica di Urbanistica, Maggioli Editore; L. LUGArESI, Diritto dell’ambiente, Sesta edizione, Wolters Kluwer, 2020; P. dELL’ANNo -E. PICoZZA, Trattato di diritto dell’ambiente, vol. III, Tutele parallele- Norme processuali, Wolters Kluwer. (20) In via di prima approssimazione, la pericope normativa in commento sembrerebbe introdurre, mutuando categorie penalistiche, una clausola di riserva espressione del principio di sussidiarietà, laddove l’intervento dell’art. 145 cit. sarebbe, appunto, “sussidiario” rispetto a quanto congiuntamente assegnato al piano per il parco. CoNTrIBUTI dI doTTrINA La disposizione in discorso, invero, integrerebbe una regola di tutela primaria del paesaggio in alcun modo derogabile dalla legislazione regionale che, «nella cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali, deve rispettare gli standard minimi uniformi di tutela previsti dalla normativa statale, potendo al limite introdurre un surplus di tutela e non un regime peggiorativo» (21). In questo modo, la legislazione regionale, ben lungi dal manifestare la sua potestas legiferandi alla stregua di una autoreferenziale quanto solitaria monade leibniziana, si muoverebbe insieme alla legislazione statuale, in un “tutto armonico” che fa della “cura” dell’interesse paesaggistico la sua più alta dimora (22). Incidentalmente, appare opportuno precisare che, da un punto di vista formale- strutturale, l’art. 145 in esame risponde allo schema tipico della “norma interposta”, nel senso che la sua “diretta” violazione è tale da provocare la violazione “indiretta” della Costituzione che ad esso ha inteso assegnare copertura costituzionale (23). La rilevanza del valore primario e assoluto del paesaggio sulle scelte di pianificazione sarebbe stata messa in evidenza dalla Corte Costituzionale nel corso della pronuncia n. 367/2007. In quell’occasione, infatti, i giudici delle leggi affermarono una sorta di principio di gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli di territorio, ponendo al vertice della piramide il piano paesaggistico. E ancora, la più recente giurisprudenza costituzionale, con sentenza n. (21) In questi termini, F. PErCHINUNNo, il principio di prevalenza del piano paesaggistico nel recente approdo della Consulta (Nota a Corte Costituzionale n. 251/2021), in rivista Giuridica ambienteDiritto. it, ISSN 1974-9572 - Anno XXII - Fascicolo n. 1/2022. (22) La prevalenza della tutela paesaggistica statale sarebbe, quindi, non assoluta ma relativa, dovendo la stessa necessariamente porsi in ascolto con l’ulteriore legislazione regionale, benché non contrastante. A conferma del ragionamento, sovviene la recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 32 del 2018, la quale, nell’introdurre il criterio della “prevalenza della norma di tutela più rigorosa”, è pervenuta alle seguenti affermazioni di principio: «[…] Ancorché la tutela paesaggistica apprestata dallo Stato costituisca un limite inderogabile, tuttavia è esclusa l’illegittimità di norme regionali che non deroghino, in pejus, agli standard fissati a livello statale, bensì stabiliscano norme di tutela più rigorose, salvo il sindacato di ragionevolezza. Il rapporto che intercorre tra gli strumenti di pianificazione paesistica e i piani urbanistici è simile a quello che caratterizza il rapporto tra le competenze statali in materia di tutela del- l’ambiente e del paesaggio (ambito trasversale riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato) e quelle delle regioni nelle materie di loro specifica attribuzione. Se è vero che le previsioni dei piani paesaggistici sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici (così come esplicitamente dispone l’art. 145, comma 3, d.lgs. n. 42/2004, Codice dei beni culturali), non vi è alcuna preclusione a che gli strumenti urbanistici dettino, eventualmente, nell’ambito di propria competenza, disposizioni aggiuntive anche più restrittive dello strumento sovraordinato […]». (23) In casi simili, la disposizione vulnerata sarebbe quella dell’art. 117, comma 2, lettera s), che riserva alla potestà esclusiva statale la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 251 del 2021 ha dichiarato, in accoglimento del ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, l’illegittimità costituzionale di alcuni articoli della legge della regione Puglia n. 30, del 21 settembre 2020, istitutiva dei parchi naturali regionali “Costa ripagnola” (nel territorio di Polignano a Mare) e “Mar Piccolo” (nel territorio tarantino), in quanto ritenuti violativi del principio di prevalenza del piano paesaggistico sancito ai sensi e per gli effetti dell’art. 145, comma 3, cod. beni culturali (24). Ciò detto, il “fotogramma” normativo e giurisprudenziale poc’anzi catturato, sembrerebbe decretare, almeno in via di prima approssimazione, una sorta di stato di “dormienza” (25) della normativa di settore dell’ente parco in favore di quella prevista dal piano paesaggistico, il quale prevarrebbe incondizionatamente. Tuttavia, a ben guardare, una conclusione di assoluta prevalenza della regolamentazione paesaggistica si mostra non del tutto appagante, necessitando, in ragione, di ulteriori indagini. Una più attenta lettura del disposto de quo consentirebbe, infatti, di perimetrare in maniera più sofisticata il territorio occupato dalla norma, incidendo, evidentemente, sulla “sorte” dell’art. 12, comma 7, della legge quadro sulle aree protette. Tanto premesso, si esclude che tra i piani paesaggistici e i piani dei parchi possa sussistere un rapporto di totale “dominanza” del primo per due ordini di ragioni che riguardano, rispettivamente, la non completa sovrapponibilità dell’oggetto, nonché delle funzioni che contraddistinguono le due tipologie di piano. In relazione all’oggetto, il contenuto precettivo dei piani paesaggistici coincide solo parzialmente con quello dei piani dei parchi, dovendo questi ultimi necessariamente «contenere anche delle prescrizioni relative alla salvaguardia dei beni naturalistici (ad esempio fauna, vegetazione, formazioni geologiche ecc.)» (26), rispetto alle quali l’Ente parco ha competenza disciplinare esclusiva. In relazione alle funzioni che guidano le due tipologie di piano, mentre il piano paesaggistico è volto ad assicurare, ai sensi dell’art. 135 del codice dei beni culturali, «che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono», il piano per il parco viene in rilievo come bene ambientale complesso, ordinato alla tutela dei valori naturali e ambientali (art. 12, comma 1, legge 6 dicembre 1991, n. 394) degli ecosi (24) In senso analogo, vedasi Corte Costituzionale, sentenze 20 maggio 2020, n. 134 e 23 gennaio 2018, n. 68. (25) L’art. 12 della legge quadro in discussione risulta, infatti, attualmente vigente. (26) L’espressione è di S. AMoroSINo, Diritto dei beni culturali e del paesaggio, Seconda Edizione, Wolters Kluwer, 2024. CoNTrIBUTI dI doTTrINA stemi naturali presenti nel parco stesso e che rendono la Natura “luogo” di bellezza unico e irripetibile (27). Ne deriva che la prevalenza del piano paesaggistico sul piano del parco sarebbe circoscritta ai soli aspetti di competenza comune. Esemplificando, si pensi alla salvaguardia dei centri storici, montani o rurali, nonché alle fasce di rispetto dei laghi, del mare, quindi dei corsi d’acqua esistenti nel territorio del parco. Pertanto, tutto ciò che sta “fuori” dall’oggetto di tutela del piano paesaggistico, continuerà ad essere elemento di disciplina propria dell’Ente parco (28). In questo senso, le due norme in discussione, più che palesare un’ipotesi di contrasto sincronico, sarebbero più correttamente caratterizzate da una relazione di specialità reciproca (29), laddove alla specialità dell’una si accom (27) In altri termini, l’inquadramento del parco, risolvendosi nella suddivisione dell’area in zone interessate da vincoli di destinazione di diversa entità, introduce significative modifiche nell’assetto prescrittivo-conformativo, «posto che la legislazione regionale […] adotta un modello concentrico di zonizzazione, con un nucleo centrale di massima protezione (zone di riserva integrale) ed aree sempre più periferiche con vincoli di intensità decrescente (zone di riserva orientata, zone di protezione senza filtro)», cit. Enciclopedia Giuridica, Treccani, vol. XXv, voce Parchi Naturali. (28) In questo senso, l’art. 12 continuerebbe a esistere, ravvisandosi, al più, un fenomeno di abrogazione implicita parziale per quel che concerne gli aspetti di tutela eminentemente paesaggistica. Per un maggiore inquadramento sistematico circa la distinzione “abrogazione tacita” e “abrogazione implicita”, vedasi Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 27 luglio 2016, n. 17: «va in proposito rammentato che, per invalsa considerazione, a norma dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, vi è abrogazione inespressa di una legge quando vi è incompatibilità fra nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita), ovvero quando la nuova regola l’intera materia già regolata dalla anteriore (abrogazione implicita): per cui detta incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione delle due leggi in comparazione, sì che dall’applicazione ed osservanza della nuova derivi necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (ex multis, Cass., I, 21 febbraio 2001, n. 2505)». (29) Nel senso che entrambe le fattispecie sarebbero dotate di elementi oggettivi/soggettivi tali da renderle reciprocamente speciali. Nel diritto penale, secondo una certa dottrina, la specialità reciproca non sarebbe una vera e propria specialità la quale, a dispetto della prima, si manifesterebbe solo nei casi di specialità per aggiunta (la fattispecie speciale è quella che contiene un elemento astrattamente non tipizzato in quella generale; al riguardo, si pensi ai rapporti intercorrenti tra il reato permanente di sequestro di persona “generale” ai sensi dell’art. 605 c.p. e quello di sequestro di persona “speciale per aggiunta” contraddistinto dal dolo specifico di estorsione ai sensi dell’art. 630 c.p.), ovvero per specificazione (in questo caso, la fattispecie speciale è quella che dettaglia in maniera più puntuale un elemento oggettivo ovvero soggettivo già presente in quella generale; al riguardo, si pensi ai rapporti tra il delitto di omicidio “generale” ex art. 575 c.p. e il delitto “speciale per specificazione” di infanticidio in condizioni di abbandono materiale o morale ex art. 578 c.p.). In proposito, occorre puntualizzare che il criterio penalistico prevalentemente utilizzato ai fini dell’individuazione di un concorso apparente di norme o meno, si ravvisa nel criterio di specialità ex art. 15 c.p. (espressione, tra l’altro, dell’ulteriore principio di divieto del bis in idem sostanziale), fondato su un criterio logico-formale di raffronto strutturale tra fattispecie astratte (cd. specialità in astratto). verrebbero, infatti, guardati con sospetto, per la loro ontologica incontrollabilità/incalcolabilità negli esiti applicativi, tutti quei criteri sostanzialistici radicati su opinabili giudizi di valore che tengono conto, ad esempio, dell’eterogeneità o meno dell’interesse giuridico tutelato nelle diverse fattispecie di reato, rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 pagnerebbe la specialità dell’altra, in relazione tanto agli aspetti non disciplinati (30), quanto a quelli “diversamente” disciplinati (31). Più nel dettaglio, in merito alla primazia dei piani paesaggistici ex art. 145 rispetto ai piani del parco ex art. 12, si ravvisa una prevalenza (32) “settoriale” e non anche “generale”, in quanto limitata ai soli “aspetti paesaggistici”, «sicché ben può affermarsi che la disciplina più restrittiva rispetto al piano paesaggistico stabilita per determinate aree sia volta a tutelare quegli ulteriori valori che il Piano dei Parchi pure tutela e non violi quindi il principio di prevalenza sopra evidenziato» (33) (34). Si ritiene, dunque, che il conflitto tra le due norme possa ragionevolmente risolversi applicando il criterio gerarchico parziale (35), guidato da una specialità per materia altrettanto parziale (36), in quanto “temperata” da una “riserva di competenza” in favore dell’Ente Parco per le questioni estranee al “piano paesaggistico” (37). Inoltre, con riferimento all’ambito di operatività dei piani in esame, non può non rilevarsi un “ribaltamento” della prospettiva tra quanto prefigurato dalla legge quadro del 1991 sulle aree protette, e quanto, invece, previsto dal- l’art. 145 “nuova versione”: 1) La legge quadro del 1991 stabiliva che il piano allora paesistico (ex lege Galasso 431/1985) che fosse stato approvato “per primo”, ben poteva ricomprendere anche i territori dei parchi. Nondimeno, l’approvazione successiva del piano del parco determinava ipso facto la sostituzione delle prescrizioni dei piani stessi a quelle del piano paesistico. nonché del “grado” d’offesa ad un bene giuridico sostanzialmente omogeneo (cd. criterio dell’assorbimento- consunzione). Se, infatti, la certezza del diritto è auspicabile, la prevedibilità è assolutamente necessaria! (30) Con riguardo alla potestà legislativa esclusiva dell’Ente parco. (31) Con riguardo alla potestà legislativa dell’Ente parco difforme e contenutisticamente deteriore rispetto ai dicta del piano paesaggistico. (32) In merito, vedasi Consiglio di Stato, Sez. Iv, 20 febbraio 2020, n.1355: «I piani paesaggistici sono in cima alla piramide degli strumenti di pianificazione del territorio e ad essi devono conformarsi in caso di contrasto gli altri strumenti urbanistici». Sulla “prevalenza” del piano paesaggistico, cfr. A. SoLA, il rapporto di primazia dei piani paesaggistici -Nota in commento a Consiglio di Stato n. 1355-2020, in rivista Giuridica ambienteDiritto.it -ISSN 1974-9562 - Anno XX - Fascicolo 2/2020. (33) In questi termini, Consiglio di Stato, Sezione v, sentenza n. 3518 del 2012. (34) Secondo tale orientamento giurisprudenziale, dunque, la legittimità di una norma del piano parco rispetto a quella prevista nel piano paesaggistico dovrà essere valutata tenuto conto dello scopo dalla stessa concretamente perseguito. (35) In verità, più che criterio gerarchico stricto sensu, sarebbe forse più opportuno valorizzare il diverso criterio cronologico, benché sui generis (in quanto “completato” dall’ulteriore criterio della competenza), in virtù del quale “legis posteriori derogat anteriori”. (36) Poiché circoscritta alle sole “questioni paesaggistiche”. (37) da questo punto di vista, sembrerebbe emergere tra le due norme un regime di “segregazione giuridica”, che rispetta la “disciplina autorizzata” degli strumenti di pianificazione territoriale diversi dal piano paesaggistico. CoNTrIBUTI dI doTTrINA in sintesi: il piano dell’ente parco prevaleva sul piano paesistico, quand’anche successivo. 2) Per converso, il d.lgs. 157/2006 sancisce che il piano paesaggistico è destinato a dispiegare i suoi effetti in tutto il territorio regionale, incluse le aree ricomprese nei parchi. Conseguentemente, sull’Ente Parco graverà, in caso di difformità, un onere di adeguamento delle prescrizioni dei piani dei parchi antecedenti a quelle contenute nel piano paesaggistico, ovvero di conformazione in ordine ai piani dei parchi futuri (laddove il piano paesaggistico sia anteriore a quello del piano settoriale). in sintesi: il piano paesaggistico, ma solo per i profili di tutela del paesaggio, sarà sempre prevalente rispetto alle prescrizioni contenute nel piano dell’Ente parco, quand’anche successivo. orbene, la conclusione prospettata è quanto meno problematica e, piuttosto che chiudere la questione, rimanda ad un suo ulteriore approfondimento. Ad un primo sguardo, quanto poc’anzi riferito appare in “drammatica contraddizione” con il richiamato principio di diritto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nell’ambito della pronuncia n. 17 del 27 luglio 2016 sul silenzio assenso in materia lato sensu ambientale. Sembrerebbe, infatti, di assistere ad un ingiustificato trattamento diversificato dell’uguale, dove, precisamente, nell’ipotesi di silenzio assenso, continuerebbe a prevalere l’art. 13 della legge quadro del 1991 sul riformulato art. 20 della legge 241 del 1990, diversamente da quanto accadrebbe per gli atti di pianificazione dell’ente parco, segnati dalla “surroga” del piano paesaggistico ex art. 145, terzo comma, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 sul piano dell’ente parco per gli aspetti di tutela eminentemente paesaggistici. Ebbene, è possibile superare “l’apparente” contrasto prendendo in considerazione tre argomenti (di tipo storico, esegetico e sistematico): 1) In primo luogo, secondo l’intentio del legislatore storico, l’art. 13 nasce con il preciso scopo di “dare un nome” al silenzio-assenso nel campo paesaggistico e ambientale delle aree protette, a dispetto di un art. 20 (vecchia formulazione) che nulla disponeva in proposito. del resto, è principio di antica sapienza quello per cui “ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit”; 2) In secondo luogo, da un punto di vista di esegesi normativa, l’art. 13 in esame si qualifica come “norma speciale del procedimento amministrativo”, non anche come norma prescrittiva di regolazione dell’interesse sensibile sotto il profilo sostanziale; 3) In terzo luogo, sul piano sistematico, sarebbe proprio il principio di specialità reciproca a confermare l’autosufficienza e piena vigenza della normativa di settore sulle aree protette, in una sorta di “eterogenesi dei fini” che escluderebbe la sussistenza di uno “status” di totale soggezione della legge 394 alle disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio. Pertanto, malgrado le perplessità e resistenze iniziali, il quadro normativo rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 illustrato appare nel complesso equilibrato, in quanto coerente con il preminente fine di “cura” dell’ambiente. 3. il coordinamento pianificatorio ambientale e tutela degli usi civici. Con l’espressione “usi civici” si definiscono i diritti delle terre spettanti ai componenti di comunità organizzate in un determinato ordinamento politico-amministrativo, al fine di trarne una fonte di parziale sostentamento (38). A titolo esemplificativo, si pensi al diritto di pascolare il proprio bestiame, di seminare, di fare la legna, di raccogliere fieni, di tagliare arbusti. In questo senso, i diritti di uso civico spetterebbero al singolo componente della comunità non uti singuli, bensì uti cives, ossia in quanto appartenente a quella determinata collettività. Sul piano disciplinatorio, la normativa generale in materia di usi civici è contenuta nella legge 16 giugno 1927, n. 1766, che ha avuto il pregio di istituire la figura del commissario per il riordino degli usi civici al fine della loro liquidazione e conseguente trasformazione, a seconda dei casi, in proprietà pubbliche o private. La materia è attualmente regolata dalla legge 20 novembre 2017, n. 168 (recante disposizioni in materia di “domini collettivi”), la quale si sviluppa parallelamente all’articolato normativo del 1927, a tutt’oggi vigente. Quanto al “riconoscimento” dell’uso civico nell’ordinamento costituzionale, si osserva come la Corte Costituzionale abbia assegnato al diritto in discorso specifico “valore ambientale” (39). In proposito, è opportuno evidenziare come la rilevanza ambientale delle terre assoggettate a usi civici sia stata recepita dall’art. 11, comma 5, della legge quadro sulle aree protette, n. 394 del 1991, che fa espressamente salvi “i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali, che sono esercitati secondo le consuetudini locali”. Ebbene, il menzionato disposto va coordinato con il successivo art. 12 della legge in esame, relativo alle attività di zonizzazione del territorio del- l’area naturale protetta e che rappresenta, evidentemente, l’elemento “insostenibile” del legame “usi civici -aree protette” (40). Con preciso riguardo alla regolamentazione degli usi civici nei parchi nazionali (41), si osserva come tutti i Parchi, sebbene nel rispetto della nor (38) Con essi, si realizza una nuova concezione di proprietà dinamica intesa come “dominio utile”, ossia come diritto di ricavare dal bene determinate utilità, che supera, evidentemente, l’antica concezione romanistica di proprietà recepita come dominio statico ed esclusivo fondato sul titolo. (39) Tale pregevole investitura, sarebbe stata consacrata dapprima dalla legge Galasso (L. 431/1985), per poi cristallizzarsi nel Codice dei beni culturali e del paesaggio. (40) Laddove, ad esempio, un uso civico di pascolo insistesse su un’area che il piano successivo del parco qualifica di “riserva integrale”, di per sé incompatibile con l’attività pastorizia. CoNTrIBUTI dI doTTrINA mativa nazionale (42), consentano in linea generale l’esercizio degli usi civici sui propri territori. Nondimeno, siffatti diritti verrebbero “conformati” alla luce delle peculiarità degli strumenti di gestione territoriale della singola area protetta (43). Nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, ad esempio, i riferimenti agli usi civici sono dettagliati in tre documenti: il decreto istitutivo, le norme di attuazione del piano del Parco e il regolamento del Parco. All’uopo, l’art. 37 del regolamento del Parco fa precisa menzione del rapporto tra usi civici e zonizzazione del territorio, indicando per il diritto di legnatico in zone classificate come B, C, e d i limiti massimi previsti dagli usi civici. diversamente, per quel che concerne le aree a “riserva integrale”, si rimanda alle norme di attuazione che sanciscono il «divieto di prelievo e di utilizzo delle risorse naturali biotiche ed abiotiche fatta eccezione nei casi di assoluta necessità per il benessere delle popolazioni locali e per il miglioramento della riserva». Altre proposte di coordinamento sono contenute nella regolamentazione del Piano Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (44). Segnatamente, nelle zone in cui ricadono diritti di uso civico è prevista la possibilità per l’Ente parco di assumere in gestione diretta tali aree, tramite pagamento di un canone, oppure, in alternativa, di procedere alla liquidazione degli usi civici. Inoltre, con riguardo all’attività di pascolo e di raccolta della legna secca a terra, la stessa sarebbe consentita nelle zone B, unitamente al taglio degli alberi in piedi, purché destinato all’approvvigionamento di legna da ardere per la popolazione residente (45). del resto, la legge quadro del 1991 non fornisce indicazioni sul “destino” degli usi civici in siffatti territori, ingenerando potenziali conflitti tra diritti delle comunità e tutela delle aree protette. Ad esempio, rispetto all’esercizio di attività antropiche in aree contraddistinte da riserva integrale (zona A) (46), l’attività antropica, secondo un certo orientamento, non sarebbe esclusa laddove la stessa non determini un mutamento sostanziale delle terre. dunque, un siffatto modo di procedere, piuttosto che rappresentare una (41) Cfr. STEFANo dELIPErI, Diritti di uso civico e parchi naturali, una convivenza possibile e auspicabile, nota all’ordinanza del Commissario per gli usi civici per la Sardegna n. 2 del 24 gennaio 2020. (42) rappresentata, nella specie, dalla Legge 1766/1927 e dalla Legge 394/1991. (43) Cfr. P. CoroNA, S. dE PAULIS, d. dI SANTo, F. roGGEro, F. BoTTALICo, d. GIULIArELLI, C. LISA, A. QUATrINI, v. QUATrINI, A.ToMAo, B. FErrArI (a cura di) Contributo di ricerca “Terre civiche nelle aree protette: la carta degli usi civici del Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga”. (44) Trattasi di proposte in corso di approvazione. (45) Sicché, nella zona A un tale uso civico cesserebbe di esistere per incompatibilità di tutela ambientale. (46) Ai sensi dell’art. 12, comma 2, lett. a), della legge n. 394 del 1991, si definiscono “riserve integrali” quelle parti di territorio nelle quali “l’ambiente naturale è conservato nella sua integrità”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 3-4/2024 minaccia da debellare, ben potrebbe delineare una virtuosa modalità di gestione dell’uso civico, che concorre alla conservazione dell’ambiente ai lumi del novellato art. 9 Cost. (47). Al riguardo, sarebbe lo stesso articolo 1 della legge 20 novembre 2017, n. 168 a riconoscere i domini collettivi come «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», in quanto tale «a) soggetto a Costituzione; b) dotato di capacità di autonormazione, sia per l’amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l’amministrazione vincolata e discrezionale; c) dotato di capacità di gestione del patrimonio naturale, economico e culturale, che fa capo alla base territoriale della proprietà collettiva, considerato come comproprietà inter-generazionale; d) caratterizzato dall’esistenza di una collettività i cui membri hanno in proprietà terreni ed insieme esercitano più o meno estesi diritti di godimento, individualmente o collettivamente, su terreni che il comune amministra o la comunità da esso distinta ha in proprietà pubblica o collettiva» (48). In definitiva, l’uso civico, elevandosi a “diritto conformato” (49) al potere (47) Ciò, naturalmente, tenuto conto della natura dell’uso civico di cui trattasi. (48) Si pone, quindi, il problema di “dove inizia” e “dove finisce” l’autonomia ordinamentale del dominio collettivo, posto che, in uno Stato di diritto a vocazione costituzionale, il concetto di autonomia mal si concilia con quello di autosufficienza radicale, dovendo, siffatto ordinamento, porsi sinfonica- mente in dialogo con i diversi “strumenti” che compongono “l’orchestra”. Al riguardo, doveroso è il rimando alla concezione istituzionale di ordinamento giuridico, mirabilmente spiegata da SANTI roMANo nel Saggio “L’ordinamento giuridico”. (49) Cfr. Corte Costituzionale n. 391 del 1989: «La destinazione pubblica dei beni di demanio civico non si determina in funzione dell’esercizio dei diritti di uso civico, connessi a economie familiari di consumo sempre meno attuali, bensì in funzione dell’utilizzazione di tali beni a fini di interesse generale. Per i beni silvo-pastorali la destinazione pubblica all’utilizzazione come fattori produttivi, impressa dalla legge del 1927 (artt. 11, lett. a, e 12, primo comma), viene subordinata, nel nuovo ordinamento costituzionale, all’interesse di conservazione dell’ambiente naturale in vista di un’utilizzazione come beni ecologici, tutelato dall’art. 9, secondo comma, Cost. Con questa norma costituzionale, che (cfr. Corte cost. n. 359 del 1985 e n. 151 del 1986), deve integrarsi la funzione sociale della proprietà assicurata dall’art. 42, secondo comma, alla quale anche i demani civici, sotto l’aspetto privatistico costituito dei diritti reali di godimento attribuiti ai singoli (cfr. Corte cost. n. 142 del 1972), sono sottoposti. A livello di legislazione ordinaria l’integrazione tra le due norme costituzionali ha preso corpo nell’assoggettamento delle terre gravate da usi civici a vincolo paesaggistico ai sensi della legge n. 431 del 1985. Pertanto l’art. 1 della legge regionale n. 55 del 1978, che istituisce il parco e le riserve naturali di cui è causa, l’art. 2, che ne definisce i confini includendovi terre di uso civico, e l’art. 3, che tra le finalità dell’istituzione annovera pure quella di , trovano fondamento costituzionale nel principio di tutela del paesaggio: per il tramite dell’art. 42, secondo comma, Cost. esso opera come criterio di conformazione dei diritti reali esistenti sulle terre incluse nel parco e nelle riserve. Il limite che ne risulta all’esercizio dei diritti di uso civico non incide eccessivamente sul loro contenuto, né può dirsi sproporzionato alle esigenze di conservazione della natura. L’art. 8 fa salve le attività agrosilvo pastorali attualmente praticate (secondo comma, lettere l e m, quarto comma, n. 3, col quale va coordinato il divieto dell’art. 2 della legge n. 20 del 1987) e la costruzione di nuovi manufatti ad esse funzionali (primo comma, lett. g), o tutt’al più le assoggetta a controllo dell’autorità regionale (quarto comma, n. 2; sesto comma, n. 5), mentre il divieto stabilito dall’art. 11 della legge n. 20 del 1987 a sal CoNTrIBUTI dI doTTrINA pianificatorio dell’ente parco, si troverebbe a svolgere il ruolo di “compartecipe primario” nei processi di “cura” del bene ambiente, benché senza mai rinunciare alle proprie caratteristiche identitarie. d’altro canto, la stessa valenza paesaggistica incisa nei diritti di uso civico non impedirebbe alla pianificazione del Parco di regolamentarli «laddove ciò risultasse utile e necessario alla tutela di tutto quel complesso di valori, naturalistici e culturali, affidati dalla Legge alla cura dell’Ente Parco» (50). vaguardia del sottobosco è temperato dalla riserva del diritto di fungatico a favore delle comunità locali prevista dall’art. 9, il quale ne consente l’esercizio in tre giorni della settimana, più che sufficienti data la misura in cui il diritto è contenuto dall’art. 12, terzo comma, della legge sugli usi civici. II divieto assoluto di pesca è circoscritto alle riserve naturali (art. 8, secondo comma, lett. n della legge n. 55 del 1978), mentre nel parco la pesca resta consentita nel corso principale del fiume Sesia (art. 15 della legge n. 20 del 1987). Infine, per quanto riguarda la lamentata , si osserva che l’art. 8, sesto comma, n. 4 della legge n. 55 del 1978, in conformità dell’art. 3 della legge propedeutica n. 43 del 1975, eccettua dal divieto di tagli boschivi . del resto, la funzione sociale della proprietà può giustificare anche limiti ablatori di certe utilità economiche, purché non assumano carattere espropriativo (nel qual caso, peraltro, la questione di legittimità si porrebbe in relazione al terzo comma dell’art. 42 Cost., non richiamato nell’ordinanza di rimessione) e rispettino il canone della ragionevolezza». (50) La citazione è tratta da una memoria dell’Avvocatura Generale dello Stato in difesa dell’Ente Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise contro il Comune di Picinisco. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE In occasione del Suo collocamento a riposo, dopo quarantaquattro anni di significativa presenza, all’Avv. Giovanni Nobile in servizio presso l’Avvocatura Distrettuale di Palermo, vanno i saluti più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Al caro Giovanni, Collega e Amico che ha sempre svolto le Sue funzioni onorando l’Istituto con la Sua grande professionalità, ogni augurio più sincero. Gabriella Palmieri (*) E-mail Segreteria Particolare, giovedì 24/07/2025 08:17. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE All’Avv. Melania Nicoli, che oggi, dopo trentacinque anni, lascia il servizio, vanno i saluti e gli auguri più cari miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri (*) E-mail Segreteria Particolare, giovedì 31/07/2025 08:01. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE In occasione del Suo collocamento a riposo, dopo quarantadue anni di significativa presenza, all’Avv. Giovanni Pedone in servizio presso l’Avvocatura Distrettuale di Lecce, vanno i saluti più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Al caro Giovanni, Collega e Amico che ha sempre svolto le Sue funzioni onorando l’Istituto con la Sua grande professionalità, la Sua dedizione e il Suo alto senso dello Stato dimostrati anche durante il periodo di reggenza coma Avvocato Distrettuale di Lecce, ogni augurio più sincero. Gabriella Palmieri (*) E-mail Segreteria Particolare, sabato 09/08/2025 08:03 (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Oggi lascia il servizio, per raggiunti limiti di età, dopo quarantatré anni di prestigiosa e significativa presenza, il Vice Avvocato Generale dello Stato Ettore Figliolia. L’Avv. Figliolia ha onorato l’Avvocatura e il Paese con la Sua altissima professionalità, con il Suo costante impegno e con le Sue elevate doti professionali e umane, acquisendo grandissima stima e considerazione sia presso i Colleghi per i quali ha rappresentato un punto di riferimento, sia negli ambienti giudiziari e del Foro, sia presso le Pubbliche Amministrazioni. Al carissimo Collega e Amico vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri (*) E-mail Segreteria Particolare, martedì 16/09/2025 08:01 Finito di stampare nel mese di ottobre 2025 Tipografia Gemmagraf 2007 S.r.l. Via Tor De’ Schiavi 227 - 00172 Roma