ANNO LXXVI - N. 2 
APRILE - GIUGNO 2024 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe Fiengo 
- CONDIRETTORI: 
Maurizio Borgo, 
Stefano Varone. 

CONDIRETTORE: 
Gianni De Bellis 
per la cura del “Contenzioso tributario. Osservatorio”. 

COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Carlo 
Maria 
Pisana 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Stefano 
Maria 
Cerillo 
-Pierfrancesco 
La 
Spina 
Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Antonino 
Ripepi 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Daniela 
Canzoneri, 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Bruno 
Dettori, 
Erica 
Farinelli, 
Michele 
Gerardo, 
Alberto 
Giovannini, 
Emanuele 
Manzo, 
Edoardo 
Morena, 
Giovanni 
Palatiello, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Valentina 
Pilloni, 
Sabrina 
Pugliese, 
Fabio 
Ratto 
Trabucco, 
Paolo 
Sciascia, 
Francesca 
Subrani, 
Gustavo 
Visentini. 


E-mail 
Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


gianni.debellis@avvocaturastato.it 
maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
stefano.varone@avvocaturastato.it 


ABBONAMENTO 
ANNUO 
..............................................................................€ 40,00 
UN 
NUMERO 
.............................................................................................. € 12,00 


Per 
abbonamenti 
ed 
acquisti 
inviare 
copia 
della 
quietanza 
di 
versamento 
di 
bonifico 
bancario 
o 
postale 
a 
favore 
della 
Tesoreria 
dello 
Stato 
specificando 
codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
pregati 
di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



i 
n 
d 
i 
c 
e 
-s 
o 
m 
m 
a 
r 
i 
o 
A ricordo dell’Avv. Bruno Bausano 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
TEMI 
ISTITUZIONALI 
Memorandum 
d’intesa 
tra 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
della 
Repubblica 
Italiana e 
l’Avvocatura Generale 
dello Stato del 
Regno di 
Spagna, 
Roma 8 aprile 2025 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
1 
Michele 
Gerardo, 
Gli 
Avvocati 
dello 
Stato 
nella 
scienza 
giuridica 
italiana 
. 
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. 
›› 
5 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Giovanni 
Palatiello, 
Le 
Sezioni 
Unite 
sulla 
messa 
in 
mora 
della 
P.A. 
per 
ritardo 
nei 
pagamenti 
(Cass., 
Sez. 
Un., 
sent. 
19 
maggio 
2025 
n. 
13249). 
. 
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›› 
51 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Daniela 
Canzoneri, 
L’avvocato 
dello 
Stato. 
Qualche 
chiarimento 
dalla 
recente 
ordinanza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
del 
27 
marzo 2025 n. 8164 
sulla mancata sottoscrizione degli atti defensionali 
›› 
80 
Wally 
ferrante, 
Incandidabilità 
sopravvenuta 
(i.e. 
mandati 
elettivi 
assunti 
nelle 
more 
della 
definizione 
del 
procedimento) 
degli 
amministratori 
dichiarati 
responsabili 
ex 
artt. 
143, 
comma 
11 
e 
248, 
comma 
5 
TUEL 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
89 
CONTENZIOSO 
TRIBUTARIO 
- OSSERVATORIO 
Erica 
farinelli, 
Sulla 
parziale 
illegittimità 
costituzionale 
del 
divieto 
di 
“nova” 
in appello nel 
processo tributario ex 
art. 58 D.Lgs. 546/1992 
(C. 
Cost., sent. 27 marzo 2025 n. 36) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
97 
Erica 
farinelli, Giudicato penale 
assolutorio nel 
processo tributario. La 
rimessione 
alle 
Sezioni 
Unite 
di 
talune 
rilevanti 
questioni 
concernenti 
l’ambito di 
efficacia dell’art. 21-bis 
D.Lgs. 74/2000 
(Cass., Sez. V, ord. 
4 marzo 2025 n. 5714) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
126 
Alberto 
Giovannini, 
Il 
rapporto 
fra 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
(c.d. 
“rottamazione 
quater” 
) 
e 
i 
giudizi 
pendenti, 
ai 
sensi 
dell’art. 
1, 
comma 236, legge 
29 dicembre 
2022, n. 197 
(Cass., Sez. V, ord. 5 marzo 
2025 n. 5830; Cass., Sez. III, ord. 30 marzo 2025 n. 8383) 
. . . . . . . . . . . ›› 
141 
Valentina 
Pilloni, L’inutilizzabilità dei 
documenti 
non prodotti 
nel 
procedimento 
tributario: disamina delle 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 32 e 
33 
del d.P.R. 600/1973 (Cass., Sez. V, ord. 5 aprile 2025 n. 9001) 
. . . . . . . . ›› 
157 
I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Procedimento 
amministrativo 
di 
rimborso 
delle 
spese 
legali 
previsto e 
disciplinato dall’art. 32 della L. 22 maggio 1975, 
n. 
152 
(c.d. 
“legge 
Reale”). 
Riguardo 
alla 
consulenza 
dell’Avvocatura 
dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
171 



Bruno Dettori, Dipinti 
murali. Modalità di 
applicazione 
della tutela prevista 
dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, D.Lgs. 42/2004. . . pag. 
177 
Emanuele 
Manzo, 
Emolumenti 
o 
retribuzioni 
nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro 
dipendente 
o 
autonomo 
con 
pubbliche 
amministrazioni: 
riguardo 
all’applicazione 
del 
c.d. 
“tetto 
retributivo” 
(art. 
23-ter, 
comma 
2, 
D.L. 
6 
dicembre 
2011, 
n. 
201; 
art. 
1, 
comma 
471, 
L. 
27 
dicembre 
2013, 
n. 
147 
e 
s.m.i.) 
. 
. 
. 
. 
›› 
181 
Emanuele 
Manzo, 
In 
merito 
ai 
presupposti 
giuridici 
delle 
azioni 
che 
Agenzia 
delle 
entrate 
-Riscossione 
(ADER) 
intende 
intraprendere 
nei 
confronti 
di 
quegli 
Enti 
locali 
che 
negano il 
diritto ai 
rimborsi 
dei 
costi 
relativi 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
dipendenti 
di 
ADER 
per 
le 
cariche 
pubbliche 
ricoperte 
ex 
artt. 79 e 
80, D.lgs. n. 267/2000 e 
art. 20, Legge 
regionale 
siciliana 23 dicembre 2000, n. 30. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
184 
Edoardo Morena, L’istituto della certificazione 
del 
credito ex 
art. 9, co. 
3 bis, D.L. n. 185 del 
2008, conv. in L. 2/2009: quesito sul 
dies 
a quo di 
decorrenza degli interessi moratori di cui al D.lgs. 231/2002. . . . . . . . . ›› 
197 
francesca 
Subrani, Sentenza Corte 
costituzionale 
n. 185/2021. Declaratoria 
di 
incostituzionalità della sanzione 
amministrativa di 
cui 
all’art. 7, 
co. 
6, 
secondo 
periodo, 
del 
decreto-legge 
13 
settembre 
2012, 
n. 
158 
conv. 
in l. n. 189/2012. Quesiti sui limiti di retroattività 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
203 
Sabrina 
Pugliese, 
Avvocature 
c.d. 
interne 
delle 
Amministrazioni 
Pubbliche 
e 
del 
Parastato. 
Interpretazione 
della 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
1 
co. 
208 
Legge 
Finanziaria 
2006: 
quesito 
sulla 
liquidabilità 
degli 
oneri 
riflessi 
-contributivi 
e 
previdenziali 
-a 
carico 
della 
parte 
soccombente 
di 
un 
giudizio 
›› 
206 
Giovanni 
Palatiello, Rateizzazione 
del 
debito per 
RTP 
(ossia i 
dazi 
doganali 
da versare 
all’Unione 
europea) concessa dall’Agente 
della riscossione. 
Rilievi 
della Corte 
dei 
Conti 
UE 
e 
della Commissione 
sul 
criterio 
adottato dall’Italia in sede 
di 
ripartizione 
/ 
imputazione 
delle 
somme 
a 
valere su tributi, interessi e spese amministrative 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
219 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
fabio 
Ratto 
Trabucco, 
L’auspicabile 
rafforzamento 
dei 
poteri 
e 
delle 
funzioni 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
quale 
passo ulteriore verso una maggiore trasparenza e partecipazione civica 
›› 
237 
Paolo 
Sciascia, 
L’Erasmus 
italiano. 
Una 
nuova 
opportunità 
di 
formazione 
per gli studenti universitari 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
263 
RECENSIONI 
Roberto 
Garofoli, 
Bernardo 
Giorgio 
Mattarella, 
Governare 
le 
fragilità. 
Istituzioni, sicurezza nazionale, competitività, Mondadori, 2025. 
Note sul libro di Gustavo Visentini 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
277 



Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Diana Ranucci 
. . . . . . . . . . . 
Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Antonio Livio Tarentini 
. . . . . 
Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Federico Vigoriti. . . . . . . . . . 


A ricordo dell’Avv. Bruno Bausano 


Con profondo dispiacere 
comunico che 
nella giornata di 
ieri 
è 
venuto a 
mancare l’avv. Bruno Bausano, Avvocato generale dello Stato onorario 
(*) 


Il Segretario Generale 
Avv. Maurizio Greco 


(*) E-mail Segreteria Generale, mercoledì 4 giugno 2025 14:11. 



TEMIISTITUZIONALI
Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


MEMORANDUM 
D’INTESA 
TRA 
L’AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
DELLA 
REPUBBLICA 
ITALIANA 
E 
L’AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
DEL 
REGNO 
DI 
SPAGNA 


RIUNITI 
L’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
della 
Repubblica 
Italiana, 
rappresentata 
dal suo titolare, Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


e 
L’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
del 
Regno 
di 
Spagna, 
rappresentata 
dal 
suo 
titolare, Avv. David Vilas Álvarez 
(d’ora in poi e congiuntamente i 
FIRMATARI) 


CONSIDERANDO 
Che 
approfondire 
i 
processi 
di 
integrazione 
tra 
i 
paesi 
FIRMATARI 
di 
questo 
Memorandum 
mediante 
strumenti 
efficienti 
ed efficaci 
contribuisce 
alla 
realizzazione 
e costruzione di un’unione tra le nazioni; 
Che 
gli 
Stati 
dispongono di 
istituzioni 
incaricate 
della 
rappresentanza 
e 
della 
difesa 
legale 
dello 
Stato 
dinanzi 
a 
tribunali 
giudiziari, 
amministrativi 
o 
arbitrali 
nazionali, esteri e internazionali; 
Che 
entrambi 
i 
FIRMATARI 
concordano 
sulla 
necessità 
di 
unire 
gli 
sforzi 
per 
creare 
spazi 
di 
cooperazione, 
coordinazione, 
analisi, 
dibattiti, 
scambio 
di 
esperienze 
e ricerca di sinergie in temi di interesse comune. 


PERTANTO 
Essendo stati debitamente autorizzati in virtù della loro nomina, 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


PROPONGONO 
PRIMO PUNTO - OBIETTIVI 


1. 
Gli 
obiettivi 
di 
questo 
Memorandum 
d’Intesa 
si 
ispirano 
ai 
principi 
di 
uguaglianza, 
reciprocità 
e 
mutuo 
beneficio, 
nella 
misura 
e 
in 
conformità 
con 
le 
competenze 
di 
ciascun FIRMATARIO, secondo la 
legislazione 
interna 
del 
rispettivo 
Stato. 
Gli obiettivi di questo Memorandum d’Intesa sono i seguenti: 
a) Rafforzare 
i 
legami 
di 
cooperazione 
e 
solidarietà 
reciproca 
tra 
i 
FIRMATARI 
nell’esercizio delle loro funzioni; 
b) Promuovere 
meccanismi 
nazionali 
e 
internazionali 
per migliorare 
la 
consulenza 
legale, la 
rappresentanza 
giudiziaria 
ed extragiudiziale 
degli 
Stati 
sovrani 
nelle controversie civili; 
c) 
Condividere 
esperienze 
e 
contribuire 
al 
miglioramento 
della 
legge, 
della 
dottrina 
giuridica 
e 
della 
giurisprudenza 
che 
riconoscono i 
diritti 
e 
le 
prerogative 
degli Stati sovrani a livello nazionale, internazionale e straniero; 
d) 
Facilitare 
e 
incoraggiare 
iniziative 
per 
migliorare 
l’esperienza 
professionale 
dei membri e dei funzionari dei 
FIRMATARI; 
e) Adottare 
sforzi 
per la 
creazione 
di 
meccanismi 
di 
coordinamento e 
cooperazione 
tra 
i 
servizi 
giuridici 
per 
raggiungere 
gli 
obiettivi 
stabiliti 
in 
questo 
Memorandum d’Intesa a livello multilaterale; 
f) Promuovere 
la 
cooperazione 
reciproca 
tra 
i 
FIRMATARI 
in qualsiasi 
altra 
area 
di interesse e competenza comune. 
SECONDO PUNTO - MECCANISMI DI COOPERAZIONE 


2. I FIRMATARI manifestano la 
loro intenzione 
di 
contribuire 
al 
raggiungimento 
degli 
obiettivi 
di 
questo Memorandum 
d’Intesa 
attraverso i 
seguenti 
meccanismi 
di cooperazione: 
a) 
Cooperazione 
reciproca 
tra 
i 
FIRMATARI, 
senza 
pregiudizio 
per 
i 
meccanismi 
formali 
di 
cooperazione 
internazionale 
in 
conformità 
con 
i 
trattati 
vigenti 
e 
con l’ordinamento giuridico di ciascuno Stato; 
b) 
Diffusione 
di 
informazioni 
e 
promozione 
di 
dibattiti 
su 
temi 
di 
interesse 
comune 
attraverso 
relazioni, 
pubblicazioni, 
conferenze 
e 
altre 
iniziative 
simili; 
a) Creazione 
di 
gruppi 
di 
lavoro, programmi 
di 
visite 
tecniche 
e 
tutti 
gli 
altri 
metodi 
destinati 
a 
realizzare 
lo 
scambio 
personale 
di 
esperienze, 
inclusa 
la 
messa 
a 
disposizione 
dell’altro FIRMATARIO 
di 
strutture 
e 
ambienti 
per la 
realizzazione 
di 
eventi 
e 
lavori 
comuni 
collegati 
all’attuazione 
delle 
disposizioni 
di questo Memorandum d’Intesa. 
TERZO PUNTO - PUNTI DI CONTATTO 


3. Ogni 
FIRMATARIO 
designerà 
un organo e 
un professionista 
di 
tale 
organo per 
la 
comunicazione 
tra 
i 
FIRMATARI 
e 
l’attuazione 
degli 
obiettivi 
e 
delle 
attività 
previste in questo Memorandum d’Intesa. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


3.1 
Il 
Punto 
di 
Contatto, 
il 
nome, 
il 
telefono 
e 
l’email 
dei 
professionisti, 
inclusi 
eventuali 
cambiamenti, saranno comunicati 
dai 
FIRMATARI per iscritto all’istituzione 
entro 5 (cinque) giorni 
lavorativi 
dalla 
data 
delle 
modifiche 
avvenute 
internamente. 
3.2 Ai 
fini 
dell’attuazione 
del 
Memorandum 
d’Intesa, i 
FIRMATARI, attraverso 
i 
loro Punti 
di 
Contatto, daranno priorità 
a 
mezzi 
di 
comunicazione 
agili 
ed 
efficaci, 
come 
email, 
telefono, 
videoconferenza 
o 
qualsiasi 
altro 
mezzo 
idoneo 
a tale scopo. 
3.3 
I 
Punti 
di 
Contatto 
cercheranno 
di 
riunirsi 
ogni 
sei 
mesi 
per 
valutare 
il 
progresso 
e l’evoluzione nell’attuazione del presente Memorandum. 
QUARTO PUNTO - FINANZIAMENTO E 
ASPETTI OPERATIVI 


4. 
La 
stipula 
del 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
non 
implica 
il 
trasferimento 
di 
risorse 
finanziarie 
tra 
i 
FIRMATARI. 
Il 
finanziamento 
delle 
attività 
previste 
in 
questo 
Memorandum 
d’Intesa 
sarà 
effettuato 
in 
base 
alla 
disponibilità 
di 
bilancio 
dei 
FIRMATARI 
e 
in 
conformità 
con 
le 
loro 
norme 
e 
leggi, 
nonché 
con 
i 
trattati 
e 
gli 
accordi 
internazionali 
firmati 
dai 
rispettivi 
paesi. 
Perché 
le 
attività 
di 
cooperazione 
possano 
generare 
obblighi 
onerosi 
di 
qualsiasi 
tipo, 
sarà 
necessaria 
la 
preventiva 
adozione 
di 
accordi 
giuridicamente 
vincolanti 
e 
di 
misure 
di 
bilancio 
conformemente 
all’ordinamento 
giuridico 
di 
ciascun 
FIRMATARIO. 
Tali 
attività 
saranno 
svolte 
utilizzando 
risorse 
umane, 
informatiche, 
mobiliari 
e 
materiali 
fornite 
da 
ciascuna 
delle 
organizzazioni 
firmatarie. 
In ogni 
caso, le 
spese 
sostenute 
dai 
FIRMATARI a 
seguito del 
presente 
memorandum 
saranno 
condizionate 
dall’esistenza 
di 
una 
disponibilità 
di 
bilancio 
annuale ordinaria, nel rispetto della legislazione vigente. 
4.1 Le 
spese 
di 
viaggio e 
soggiorno dei 
rappresentanti 
dei 
FIRMATARI 
saranno 
a carico della rispettiva istituzione, salvo diverso accordo tra i 
FIRMATARI. 
4.2 Il 
personale 
designato da 
ciascun FIRMATARIO 
continuerà 
a 
dipendere 
dal-
l’istituzione 
di 
appartenenza, 
in 
modo 
che 
non 
si 
creino 
relazioni 
di 
lavoro 
con l’altro FIRMATARIO, il 
quale 
non sarà 
in nessun caso considerato come 
datore 
di lavoro sostituto. 
QUINTO PUNTO - DISPOSIZIONI FINALI 


5. 
Il 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
non 
è 
giuridicamente 
vincolante 
né 
è 
soggetto 
al Diritto internazionale. 
5.1 Il 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
entrerà 
in vigore 
dalla 
data 
di 
firma 
da 
parte 
dei 
FIRMATARI 
e 
terminerà 
dopo 24 (ventiquattro) mesi, rinnovabile 
previo 
accordo espresso dei 
FIRMATARI, soggetto alla 
stessa 
procedura 
per la 
sua 
adozione 
per una 
o più proroghe 
che, singolarmente 
o congiuntamente, non 
superino la durata inizialmente prevista. 
5.2 Il 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
potrà 
essere 
modificato su richiesta 
di 
uno dei 
FIRMATARI 
con l’approvazione 
di 
entrambi, mediante 
la 
stipula 
di 
un 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Annesso in cui 
sarà 
indicata 
la 
data 
a 
partire 
dalla 
quale 
le 
modifiche 
previste 
entreranno in vigore. 


5.3 
Ciascun 
FIRMATARIO 
potrà 
chiedere 
in 
qualsiasi 
momento 
la 
cessazione 
dell’applicazione 
del 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
mediante 
notifica 
scritta 
all’altro 
FIRMATARIO 
con 
un 
preavviso 
minimo 
di 
2 
(due) 
mesi, 
senza 
necessità 
di 
alcuna 
motivazione. 
Tale 
opzione 
non 
darà 
luogo 
a 
indennizzi 
di 
alcun 
tipo. 
5.4 Qualsiasi 
dubbio o problema 
riguardante 
l’applicazione 
del 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
sarà 
risolto 
in 
modo 
amichevole 
dai 
FIRMATARI 
sulla 
base 
delle regole della buona fede. 
Il 
presente 
Memorandum 
d’Intesa 
è 
sottoscritto 
in 
2 
(due) 
copie 
originali 
nelle 
lingue 
italiano 
e 
spagnolo, 
tutte 
considerate 
valide. 
Le 
istituzioni 
conserveranno 
una copia per ciascuna lingua. 


Firmato nella città di Roma, il giorno 08 del mese di aprile dell’anno 2025. 


Gabriella Palmieri Sandulli 
David Vilas Álvarez 


Avvocato Generale dello Stato 
Abogado General del Estado 
Della Repubblica Italiana 
del Reino de España 



TEMI 
ISTITUZIONALI 


Gli 
Avvocati dello Stato nella scienza giuridica italiana 


Michele Gerardo* 


SommARIo: 1. Introduzione 
-2. Contributo del 
primo Avvocato Generale 
Erariale, Giuseppe 
mantellini, allo sviluppo del 
diritto amministrativo -3. oronzo Quarta -4. Gian Domenico 
Tiepolo -5. Adriano De 
Cupis 
-6. Raffaello D’Ancona -7. Salvatore 
d’Amelio -8. 
Francesco menestrina, uno dei 
protagonisti 
dell’“età d’oro” 
della procedura civile 
italiana 


-9. Nicola Stolfi, organizzatore 
sistematico del 
diritto civile 
-10. Gaetano Scavonetti 
-11. 
Adolfo 
Giaquinto 
-12. 
Avvocati 
dello 
Stato 
che 
collaborarono 
al 
Nuovo 
Digesto 
italiano 
(1937-1940) 
-13. 
Salvatore 
Scoca, 
padre 
della 
democrazia 
-14. 
Giuseppe 
Azzariti 
e 
Giuseppe 
Belli 
-15. Nicola Catalano, padre 
del 
rinvio pregiudiziale 
d’interpretazione 
e 
apostolo del 
primato del 
diritto comunitario -16. Dario Foligno -17. Francesco Chiarotti 
-18. Giuseppe 
Guglielmi 
-19. Tommaso Tomasicchio -20. Antonino Freni, grand commis 
e 
selettore 
di 
talenti 
-21. Carlo Bafile 
-22. Aldo Alabiso -23. Pietro Pavone 
-24. Pier 
Giorgio Ferri 
-25. 
Ignazio Francesco Caramazza - 26. Conclusione. 
1. Introduzione. 
L’Avvocatura 
dello Stato, che 
si 
articola 
nell’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato con sede 
a 
Roma 
e 
nelle 
Avvocature 
Distrettuali 
dello Stato (in numero 
di 
25 presso le 
sedi 
di 
Corte 
di 
Appello), è 
l’organo legale 
dello Stato e 
degli 
enti 
pubblici 
autorizzati 
ad avvalersi 
del 
suo patrocinio. È 
incardinata 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
e 
difende 
in giudizio -in via 
organica 
ed esclusiva 
-i 
soggetti 
abilitati 
ad avvalersi 
del 
suo patrocinio; 
rende 
inoltre 
i 
pareri 
obbligatori 
per legge 
(es. negli 
atti 
di 
transazione) e 
quelli 
facoltativamente 
richiesti. 


Il 
ruolo organico degli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato è 
composto da 
443 unità 
(343 Avvocati 
e 
100 Procuratori), delle 
quali 
sono attualmente 
coperte 
392 unità. 


L’Avvocatura 
dello Stato è 
un istituto con quasi 
150 anni 
di 
vita, essendo 
stata 
creata 
nel 
1876. Il 
suo atto di 
nascita 
può essere 
individuato nella 
emanazione 
del 
regolamento 16 gennaio 1876, n. 2914 (serie 
II) (1). Va 
precisato 
che 
con 
il 
R.D. 
20 
novembre 
1930, 
n. 
1483 
si 
mutò 
la 
denominazione 
del-
l’Istituto da Regia 
Avvocatura Erariale in Avvocatura dello Stato. 


L’Istituto ha 
mantenuto nel 
tempo una 
accentuata 
posizione 
di 
indipendenza 
funzionale. 
La 
selezione 
severa 
al 
fine 
dell’ingresso 
nell’Istituto 
ha 
consentito 
una 
gestione 
efficiente 
-nel 
rispetto del 
principio di 
economicità 
-del 
contenzioso, numeroso e variabile nel tempo (2). 

(*) Avvocato dello Stato. 


(1) Così: 
L’ 
Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
Istituto Poligrafico dello Stato, 1976, p. 258. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Nel 
primo 
trentennio 
dalla 
istituzione 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
gli 
Avvocati 
dello Stato sono stati 
scelti 
con chiamata 
diretta. “Nei 
primi 
decenni, 
l’Avvocato generale 
ritenne 
che 
la esigenza di 
avvalersi 
prevalentemente 
di 
persone 
che 
già avessero dimostrato di 
possedere 
capacità ed attitudini 
professionali 
contrastasse 
con 
l’assunzione 
per 
concorso 
dei 
nuovi 
avvocati 
e 
procuratori, 
cosicché 
il 
personale 
dell’Avvocatura 
crebbe 
<<per 
cooptazione>>, 
con 
la 
diretta 
ingerenza 
dell’Avvocato 
generale 
medesimo” 
(3). 
Nel-
l’Italia 
liberale 
dell’epoca 
la 
scelta 
circa 
le 
persone 
da 
assumere 
è 
caduta 
su 
persone 
di 
elevato livello di 
qualificazione 
e 
con spiccate 
caratteristiche 
professionali 
forensi. 
Quando 
poi 
l’assunzione 
per 
concorso 
-in 
aggiunta 
alla 
chiamata 
diretta 
-venne 
prevista 
dalla 
legge 
e 
dal 
regolamento del 
1907 (confermata 
con la 
legge 
22 giugno 1913, n. 679), l’orientamento circa 
una 
pregressa 
esperienza 
forense 
ai 
fini 
della 
assunzione 
venne 
mantenuto, 
richiedendosi, ai 
fini 
della 
partecipazione 
al 
concorso, il 
pregresso esercizio 
effettivo della 
professione 
forense. Va 
evidenziato che 
-al 
fine 
di 
fugare 
sospetti 
di 
assunzioni 
amicali 
-il 
sistema 
della 
chiamata 
diretta 
era 
circondato 
da 
una 
serie 
di 
cautele 
atte 
a 
garantire 
la 
capacità 
professionale 
di 
chi 
veniva 
chiamato ad assumere 
la 
veste 
di 
Avvocato dello Stato, come 
anche 
la 
funzionalità 
dell’Istituto. 
Infatti: 
I) 
la 
chiamata 
era 
possibile 
per 
la 
metà 
dei 
posti 
vacanti 
in 
ciascun 
grado 
e 
in 
ciascuna 
classe 
del 
ruolo 
degli 
avvocati; 
II) 
potevano 
essere 
chiamati: 
a) 
laureati 
in 
giurisprudenza 
che 
avessero 
esercitato 
la 
professione 
di 
avvocato 
per 
almeno 
dieci 
anni 
o 
per 
sei 
anni 
quando 
fossero 
insegnanti 
effettivi 
di 
materie 
giuridiche 
in 
un 
Istituto 
governativo 
di 
istruzione 
superiore, 
quando 
avessero 
acquistato 
“meritata 
fama 
nell’esercizio 
forense”; 


b) magistrati 
che 
consentissero al 
passaggio di 
carriera 
(4). Un tale 
sistema 
è 
stato 
usato 
con 
accortezza 
e 
prudenza 
in 
situazioni 
particolari 
(ad 
esempio 
per 
sopperire 
ad esigenze 
di 
personale 
di 
sedi 
delle 
Avvocature 
distrettuali), ed ha 
consentito di 
scegliere 
specialmente 
magistrati, che 
poi 
non hanno smentito 
la 
fiducia 
loro accordata 
con la 
nomina 
(5). Il 
sistema 
della 
chiamata 
diretta 
è 
(2) All’evidenza, le 
modificazioni 
e 
le 
trasformazioni 
dello Stato implicano il 
mutamento della 
tipologia 
del 
contenzioso che 
lo riguarda. Fino agli 
anni 
’60 del 
secolo scorso l’Avvocatura 
dello Stato 
trattava 
in 
prevalenza 
cause 
tributarie; 
negli 
anni 
’70 
è 
esploso 
il 
contenzioso 
del 
lavoro; 
l’adesione 
sempre 
più 
convinta 
all’Unione 
Europea 
ha 
determinato 
un 
contenzioso 
interno 
conseguenza 
di 
inadempimenti 
ad obblighi 
comunitari; 
le 
nuove 
frontiere 
della 
responsabilità 
civile 
hanno determinato la 
nascita 
di 
nuovi 
tipi 
di 
responsabilità 
dello 
Stato 
(quale 
la 
responsabilità 
per 
omesso 
controllo 
del 
sangue 
trasfuso e 
per omessa 
vigilanza 
nell’attività 
bancaria, etc.); 
la 
stipula 
della 
Convenzione 
Europea 
sulla 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo ha 
fatto germinare 
-a 
partire 
dal 
2002 -le 
cause 
in tema 
di 
cd. legge 
Pinto in ordine al ristoro della ingiusta durata del processo. 
(3) Così: 
L’ 
Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 265. 
(4) Per tali 
aspetti: 
L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., pp. 264-266. 
(5) Così: 
L’ 
Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 381. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


stato confermato dall’art. 31 R.D. 30 ottobre 
1933, n. 1611 (6) per essere 
poi 
eliminato con la L. 3 aprile 1979, n. 103. 


La 
possibilità 
della 
cooptazione 
spiega 
l’alta 
mobilità 
delle 
professionalità 
chiamate 
a 
far 
parte 
dell’Istituto: 
si 
passava 
dalla 
magistratura 
ordinaria 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
viceversa; 
analogamente 
poteva 
avvenire 
con 
riguardo 
al 
Consiglio 
di 
Stato. 
Oronzo 
Quarta, 
dopo 
dieci 
anni 
di 
magistratura 
giudicante, 
passò 
nei 
ranghi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato; 
dopo 
quindici 
anni 
trascorsi 
nell’Istituto 
(dal 
1876 
al 
1891), 
rientrò 
nei 
ranghi 
della 
Magistratura, 
concludendo 
la 
sua 
carriera 
come 
primo 
Presidente 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
(7). 
Achille 
Nucci, 
da 
Presidente 
del 
Tribunale 
di 
Napoli, 
venne 
chiamato 
direttamente 
alla 
carica 
di 
Avvocato 
Distrettuale 
di 
Napoli 
nel 
1907, 
per 
poi 
rientrare 
in 
Magistratura 
nel 
1922 
(8). 
Adolfo 
Giaquinto 
venne 
chiamato 
direttamente 
alla 
carica 
di 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
nel 
1938 
da 
primo 
Presidente 
della 
Corte 
di 
appello 
di 
Roma, 
per 
poi 
rientrare 
nei 
ruoli 
della 
Magistratura 
nel 
1945 
quale 
presidente 
di 
sezione 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
(9). 


In 
modo 
costante, 
per 
tutta 
la 
storia 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
numerosi 
Avvocati 
dello Stato hanno approfondito, scientificamente, vari 
istituti 
e 
materie, 
a 
ciò 
stimolati 
dalla 
complessità 
e 
varietà 
del 
contenzioso, 
oltre 
che 
dagli 
interessi scientifici individuali. 


Il 
presente 
studio si 
propone 
di 
ricordare 
figure 
che 
hanno dato un particolare 
contributo alla scienza giuridica italiana. 


Già 
nel 
1951, 
in 
occasione 
del 
75° 
annuale 
della 
istituzione 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
sulla 
presente 
Rassegna 
venne 
pubblicato 
un 
articolo 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
Giuseppe 
Chicca, 
che 
-oltre 
ad 
esporre 
in 
sintesi 
i 
principi 
determinanti 
lo 
sviluppo 
storico 
dell’Istituto 
e 
le 
principali 
tappe 
della 
sua 
evoluzione 
fino 
all’ordinamento 
dell’inizio 
del 
secondo 
dopoguerra 
-recava 
una 
serie 
di 
cenni 
biografici 
su 
“coloro 
che 
nel 
passato 
hanno 
onorato 
con 
la 
loro 
opera 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ed 
hanno 
contribuito 
ad 
accrescerne 
il 
prestigio” 
(10). 
Tali 
cenni 
biografici 
riguardavano 
Antonio 


(6) “Al 
posto di 
vice 
avvocato generale 
dello Stato ed a non oltre 
la metà dei 
posti 
vacanti 
in ciascun 
grado 
del 
ruolo 
degli 
avvocati 
dello 
Stato 
possono 
essere 
nominati, 
con 
decreto 
Reale, 
su 
proposta 
del 
Capo del 
Governo, per 
il 
vice 
avvocato generale 
inteso l’avvocato generale 
e 
previa deliberazione 
del Consiglio dei ministri, e per gli altri intesa la Commissione del personale: 
a) i 
laureati 
in giurisprudenza che 
esercitino nel 
Regno la professione 
di 
avvocato da non meno di 
dieci 
anni, o da non meno di 
sei 
quando siano insegnanti 
effettivi 
di 
materie 
giuridiche 
in un Istituto governativo 
di istruzione superiore, e che abbiano acquistato meritata fama nell’esercizio forense; 
b) 
i 
magistrati 
che 
consentano 
al 
passaggio. 
Questi 
potranno 
essere 
collocati 
nel 
grado 
immediatamente 
superiore a quello dal quale provengono”. 
(7) Per tali 
dati: 
L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 563. 
(8) Per tali 
dati: 
L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 562. 
(9) 
Per 
tali 
dati: 
voce 
Giaquinto 
Adolfo, 
Novissimo 
Digesto 
Italiano, 
vol. 
VII, 
UTET, 
1961, 
p. 
836. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Cafaro, 
Giacomo 
Giuseppe 
Costa, 
Ernesto 
D’Agostino, 
Salvatore 
D’Amelio, 
Raffaello 
D’Ancona, 
Adriano 
De 
Cupis, 
Francesco 
Di 
Gennaro, 
Adolfo 
Giaquinto, 
Francesco 
Lo 
Bianco, 
Giuseppe 
Mantellini, 
Gian 
Carlo 
Messa, 
Achille 
Nucci, 
Angelo 
Paoletti, 
Oronzo 
Quarta, 
Giuseppe 
Ricciardi, 
Gaetano 
Scavonetti, 
Gian 
Domenico 
Tiepolo 
e 
Giovanni 
Villa. 
Gli 
stessi 
cenni 
saranno 
poi 
ripresi 
-ed 
ampliati 
con 
riguardo 
alla 
platea 
degli 
Avvocati 
dello 
Stato 
nel 
volume 
del 
Centenario 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
(11), 
con 
apposita 
appendice 
(pp. 
557-565). 


2. 
Contributo 
del 
primo 
Avvocato 
Generale 
Erariale, 
Giuseppe 
mantellini, 
allo sviluppo del diritto amministrativo. 
Giuseppe 
Mantellini 
(1816-1885) 
è 
stato 
tra 
i 
maggiori 
esponenti 
del 
pensiero 
giuspubblicistico 
della 
seconda 
metà 
dell’Ottocento. 
Nel 
1851, 
a 
soli 
trentacinque 
anni, fu nominato Avvocato Regio di 
Toscana; 
ricoprì 
la 
carica 
fino 
all’abolizione 
dell’Istituto, 
avvenuta 
nel 
1862. 
Nel 
Regno 
d’Italia 
fu, 
dapprima, 
Direttore 
Generale 
del 
Contenzioso, 
poi 
Consigliere 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
di 
Firenze, Consigliere 
di 
Stato e 
Parlamentare. Fu, infine, il 
primo 
Regio 
Avvocato 
Erariale 
del 
Regno 
d’Italia 
dall’istituzione 
dell’Avvocatura 
erariale nel 1876 alla morte avvenuta nel 1885. 


Come 
studioso 
del 
funzionamento 
della 
pubblica 
amministrazione, 
fu 
autore 
di 
numerosissimi 
scritti, 
alcuni 
dei 
quali 
contribuirono 
ad 
alimentare 
il 
dibattito degli 
anni 
Sessanta 
-Ottanta 
su temi 
che 
hanno riguardato la 
rappresentatività 
della 
classe 
politica 
e 
i 
confini 
entro 
i 
quali 
il 
potere 
politico 
poteva 
e/o doveva 
estendere 
la 
propria 
azione 
senza 
ledere 
gli 
interessi 
del 
singolo 
cittadino. 

Le 
sue 
opere 
hanno influenzato la 
riflessione 
sul 
diritto amministrativo, 
sulla 
sua 
tecnicizzazione 
e 
sul 
riconoscimento di 
uno statuto scientifico al 
diritto 
pubblico. Sono da 
segnalare, in particolare, i 
tre 
volumi 
su I conflitti 
di 
attribuzione 
(Firenze, G. Barbera 
editore, 1871-78) e 
i 
tre 
su Lo Stato e 
il 
codice 
civile 
(ibid., 1880-82). 

Nel 
primo volume 
de 
I conflitti 
di 
attribuzione, dopo aver passato in rassegna 
lo stato della 
legislazione 
in vigore 
in alcuni 
paesi 
europei, si 
sofferma 
sulla 
legge 
del 
20 marzo 1865 con cui 
in Italia, abolito il 
contenzioso amministrativo, 
la 
competenza 
in materia 
di 
conflitti 
riguardanti 
l’amministrazione 
passò al 
Consiglio di 
Stato. Proprio esaminando le 
sentenze 
consiliari, Mantellini 
dichiara 
l’inadeguatezza 
del 
nuovo sistema. Né 
mutò giudizio nel 
1873 
quando, 
nel 
secondo 
volume, 
prese 
in 
rassegna 
le 
sentenze 
più 
recenti. 
Nel 


(10) G. ChICCA, La evoluzione 
storica dei 
principii 
della soggezione 
alla giurisdizione 
e 
della difesa 
legale dello Stato, in Rass. Avv. Stato, 1951, n. 1, pp. 1-38. 
(11) Il 
già 
citato volume 
L’ 
Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del centenario, Istituto Poligrafico dello Stato, 1976. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


terzo 
volume, 
del 
1878, 
scritto 
a 
commento 
della 
legge 
del 
31 
marzo 
1877 
che 
attribuiva 
alla 
Cassazione 
di 
Roma 
la 
soluzione 
dei 
conflitti, 
valutava, 
invece, 
positivamente 
le 
innovazioni 
che 
la 
legge, 
accogliendo 
parzialmente 
le 
sue 
proposte, aveva introdotto. 

Nei 
tre 
volumi 
de 
Lo 
Stato 
e 
il 
codice 
civile 
Mantellini 
espone 
in 
maniera 
sistematica 
le 
idee 
circa 
la 
funzione 
del 
diritto amministrativo nel 
sistema 
costituzionale 
italiano. Questi i contenuti essenziali dei tre volumi: 


• 
Lo 
Stato 
e 
il 
codice 
civile, 
Volume 
Primo. 
Parte 
Prima, 
Lo 
Stato 
persona 
e 
del 
Danno dallo Stato; 
Parte 
Seconda, Tributi 
e 
Asse 
Ecclesiastico, G. Barbera 
editore, 1880, pp. 619. 
All’inizio 
del 
libro, 
nella 
lettera 
all’editore 
Barbera, 
si 
legge: 
“Avvocato 
erariale, 
ne 
serbo 
da 
trentasei 
anni 
il 
concetto 
di 
difensore 
dei 
contribuenti, 
ai 
quali 
dall’erario 
non 
si 
fa 
che 
prestare 
il 
nome 
alle 
liti 
”. 
Nell’introduzione 
viene 
evidenziato 
che 
allo 
Stato, 
salve 
specialità 
(frutto 
di 
regole 
espresse 
o 
di 
principi) 
(12), 
si 
applica 
il 
Codice 
Civile; 
l’autore 
rileva 
che 
“Le 
obbligazioni, 
dice 
il 
codice 
all’art.1097, 
derivano 
dalla 
legge, 
da 
contratto 
e 
da 
quasi 
contratto, 
da 
delitto 
o 
quasi 
delitto. 
Lo 
stesso 
codice 
dimentica 
poi 
di 
trattare 
le 
obbligazioni 
derivanti 
da 
legge; 
e 
per 
lo 
Stato 
queste 
leggi 
[…] 
sono 
tante, 
da 
formare 
un 
codice 
più 
voluminoso 
del 
codice 
comune. 
[…]. 
Nei 
contratti 
le 
regole 
scritte 
nel 
codice 
si 
applicano 
all’amministrazione 
dello 
Stato 
subordinatamente 
alle 
leggi 
amministrative, 
di 
contabilità 
generale 
dello 
Stato, 
dei 
lavori 
pubblici 
ec. 
Né 
da 
tali 
leggi 
amministrative 
potrebbero 
sfuggire 
nell’applicazione 
all’amministrazione 
dello 
Stato 
le 
regole 
della 
negotiorum 
gestio 
e 
della 
condictio 
indebiti” 
(p. 
7); 
ancora 
“I 
contratti 
che 
l’amministrazione 
fa 
cogli 
imprenditori 
d’opere, 
ad 
appalto 
o 
cottimo, 
si 
regolano 
col 
codice, 
ma 
più 
colle 
leggi 
di 
contabilità 
e 
dei 
lavori 
pubblici, 
(12) 
Questi 
principi, 
creativi 
spesso 
di 
una 
posizione 
di 
favore 
per 
lo 
Stato, 
hanno 
resistito 
fin 
quasi 
ai 
giorni 
d’oggi. Per lungo tempo (fino a 
Cass. S.U., 26 maggio 2015, n. 10798) si 
è 
ritenuto in 
giurisprudenza 
che 
affinché 
all’impoverito possa 
essere 
attribuito l’indennizzo ex art. 2041 c.c., è 
necessario 
che 
la 
P.A. abbia 
riconosciuto, anche 
implicitamente, l’utilità 
della 
prestazione 
svolta 
o che 
ne 
abbia 
tratto una 
qualche 
utilità. Ancora: 
per lungo tempo si 
è 
ritenuto che 
il 
procedimento contabile 
di 
spesa 
-con le 
fasi 
di 
impegno, liquidazione, ordinazione 
e 
pagamento -oggetto di 
esame 
del 
successivo 
capitolo, condizionasse 
la 
esigibilità 
della 
obbligazione 
dello Stato, in deroga 
all’art. 1183, comma 
1, 
c.c. secondo cui 
“Se 
non è 
determinato il 
tempo in cui 
la prestazione 
deve 
essere 
eseguita, il 
creditore 
può 
esigerla 
immediatamente. 
Qualora 
tuttavia, 
in 
virtù 
degli 
usi 
o 
per 
la 
natura 
della 
prestazione 
ovvero 
per 
il 
modo 
o 
il 
luogo 
dell’esecuzione, 
sia 
necessario 
un 
termine, 
questo, 
in 
mancanza 
di 
accordo 
delle 
parti, è 
stabilito dal 
giudice”; 
e 
si 
è 
ritenuto altresì 
che 
la 
pendenza 
del 
detto procedimento, e 
in 
specie 
l’emissione 
dell’ordine 
di 
pagamento, inibisse 
la 
produzione 
degli 
interessi 
moratori 
-in quanto 
la 
pendenza 
giustifica 
la 
condotta 
dell’amm.ne 
ed esclude 
la 
imputabilità 
del 
ritardo nell’adempimento 
-e 
rendesse 
privo del 
requisito della 
esigibilità 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
ai 
fini 
della 
produzione 
degli 
interessi 
corrispettivi 
ex art. 1282, comma 
1, c.c. secondo cui 
“I crediti 
liquidi 
ed esigibili 
di 
somme 
di 
denaro producono interessi 
di 
pieno diritto, salvo che 
la legge 
o il 
titolo stabiliscano diversamente”. 
Queste 
tesi 
non vengono più sostenute. Ciò in quanto le 
norme 
sulla 
contabilità 
dello Stato e 
degli 
enti 
pubblici 
territoriali 
sul 
pagamento 
dei 
debiti 
della 
P.A. 
hanno 
valenza 
esclusivamente 
interna, 
regolando 
rapporti interorganici e non anche intersoggettivi. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


coi 
capitolati 
generali 
e 
speciali 
” 
(p. 
10); 
vi 
è 
poi 
la 
sintesi 
del 
pensiero 
dell’autore 
sulla 
materia: 
“È 
dunque 
vero 
che 
per 
lo 
Stato 
non 
può 
aversi 
e 
non 
si 
ha 
che 
uno 
speciale 
diritto 
civile, 
sia 
che 
si 
consideri 
nella 
persona, 


o 
nei 
beni, 
come 
nei 
diritti 
e 
nelle 
obbligazioni; 
o 
che 
nel 
definire 
i 
rapporti 
civili 
dello 
Stato 
coi 
privati, 
se 
non 
può, 
come 
non 
può, 
bandirsi 
il 
codice 
e 
men 
che 
mai 
la 
ragione 
del 
codice, 
è 
giuocoforza 
accompagnare 
al 
codice 
le 
leggi 
amministrative 
per 
derivarvi 
il 
principio 
che 
temperi 
con 
la 
pubblica 
la 
privata 
ragione. 
E 
appunto 
a 
questa 
dimostrazione 
è 
inteso 
il 
tema: 
lo 
Stato 
e 
il 
Codice 
civile; 
[…] 
ma 
sia 
detto 
una 
volta 
per 
tutte. 
Diritto 
speciale 
è 
diritto 
singolare, 
che 
s’informa 
da 
causa 
di 
pubblica 
necessità 
o 
utilità, 
non 
privilegio 
che 
s’ispira 
da 
odio 
o 
favor 
di 
persona. 
Il 
privilegio 
è 
deviazione 
dal 
comune 
diritto, 
il 
gius 
singolare 
ne 
forma 
parte, 
con 
accomodare 
le 
più 
generali 
sue 
disposizioni 
a 
peculiari 
qualità, 
a 
condizioni 
di 
ceti 
o 
d’interessi: 
pupilli, 
soldati, 
studenti, 
cherici, 
donne, 
causa 
della 
dote, 
causa 
pia, 
causa 
liberale. 
Senza 
tener 
conto 
delle 
diseguaglianze 
soggettive, 
che 
dall’individuo 
distinguono 
l’ente 
morale, 
e 
però 
lo 
Stato 
(l’ente 
morale 
per 
eccellenza) 
le 
comuni 
definizioni 
di 
gius 
civile 
tanto 
discorderebbero 
dalla 
ragione 
del 
codice, 
quanto 
maggiore 
ne 
apparisse 
la 
letterale 
concordia. 
Sono 
diseguaglianze 
che 
eguagliano” 
(pp. 
13-14). 
Il 
volume 
tratta 
dello 
Stato 
persona, 
sia 
come 
ente 
politico 
che 
come 
persona 
civile, 
cioè 
nel 
possesso 
dei 
beni, 
nei 
contratti, 
nel 
convenire 
o 
nell’esser 
convenuto 
in 
giudizio 
(duplice 
persona 
dello 
Stato); 
vi 
sono 
esposte 
le 
varie 
teorie 
dello 
Stato 
a 
partire 
dai 
pensatori 
greci 
e 
romani, 
medioevali 
e 
moderni. 
Quindi 
si 
espone 
il 
danno 
cagionato 
dallo 
Stato, 
sia 
in 
relazione 
al 
fatto 
suo 
proprio 
che 
alle 
“male 
fatte” 
degli 
impiegati, 
con 
disciplina 
che 
si 
discosta, 
molto 
di 
più 
che 
in 
altra 
materia, 
dalla 
disciplina 
dettata 
dal 
codice 
per 
le 
relazioni 
private. 
Segue 
poi 
la 
materia 
della 
legislazione 
tributaria, dove 
lo Stato impone 
obbligazioni 
civili, anziché 
assumerle, verso i 
contribuenti; 
viene 
esposta 
la 
disciplina 
dei 
tributi 
diretti 
(sui 
terreni, sui 
fabbricati, volture 
catastali, ricchezza 
mobile, tassa 
di 
manomorta, tassa 
sul 
macinato) e 
dei 
tributi 
indiretti 
(le 
sette 
tasse: 
registro, bollo, di 
circolazione 
e 
sui 
capitali 
di 
società, concessioni 
governative, 
ipotecarie, spese di giustizia, proventi diversi). 
Il 
volume 
si 
conclude 
con 
l’esposizione 
delle 
leggi 
e 
della 
giurisprudenza 
sull’asse 
ecclesiastico, a 
partire 
dalla 
fondamentale 
legge 
del 
1871 sulle 
guarentigie 
della Santa Sede. 
• 
Lo Stato e 
il 
codice 
civile, Volume 
Secondo. Parte 
Terza, Beni 
e 
Contratti 
dello Stato, G. Barbera editore, 1882, pp. 705. 
Il 
libro parla 
dei 
beni 
dello Stato, secondo la 
dicotomia 
beni 
pubblici 
e 
beni 
patrimoniali. 
I 
beni 
pubblici 
vengono 
distinti 
in: 
I) 
cose 
pubbliche 
(lido 
del 
mare, 
porti, 
seni 
e 
spiagge; 
strade; 
fiumi 
e 
torrenti; 
porte, 
mura, 
fosse, 
bastioni 
delle 
piazze 
da 
guerra 
e 
delle 
fortezze); 
II) 
cose 
fatte 
pubbliche 
per 
l’uso: 
cose 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


pubbliche 
per 
destinazione, 
quali 
statue 
ed 
immagini 
situate 
in 
pubblico, 
legati 
ad 
patriam, 
biblioteche, 
gallerie, 
musei 
in 
fedecommesso; 
oggetti 
d’antichità; 
proprietà 
letteraria; 
invenzioni 
e 
scoperte; 
III) 
cose 
fatte 
pubbliche 
dalla 
legge 
(miniere e saline); IV) pesca e caccia; 
V) 
usi civici. 
Vi 
è 
poi 
la 
disciplina 
degli 
acquisti 
dello 
Stato, 
sia 
con 
mezzi 
di 
diritto 
pubblico 
che 
di 
diritto 
privato: 
trattati 
internazionali, 
pubblici 
prestiti, 
espropriazioni 
per 
pubblica 
utilità, 
arruolamenti 
militari 
e 
civili, 
concessioni 
governative 
(concessioni 
unilaterali 
e 
concessioni-contratti), contratti 
sia 
di 
forniture 
che 
di lavori pubblici. 
Si 
chiude 
con 
la 
disciplina 
dei 
contratti, 
alla 
luce 
della 
legge 
e 
del 
regolamento 
di 
contabilità, con trattazione 
della 
capacità 
di 
contrarre 
in nome 
dello Stato, 
delle forme e degli effetti dipendenti da leggi amministrative. 


• 
Lo 
Stato 
e 
il 
codice 
civile, 
Volume 
Terzo. 
Parte 
Quarta, 
Dei 
giudizi 
dello 
Stato, G. Barbera editore, 1882, pp. 543. 
Nel 
volume 
viene 
esposta 
la 
disciplina 
dell’amministrazione 
in 
giudizio 
a 
mezzo degli 
avvocati 
erariali, con ampia 
premessa 
storica 
nell’ambito della 
quale 
l’autore 
evidenzia 
che 
“In Roma si 
facevan sentire 
l’impero e 
la giurisdizione, 
poco o niente 
la gestione; come 
ora in Inghilterra, dove 
lo Stato impera, 
poco 
governa 
e 
anche 
meno 
amministra; 
differentemente 
che 
in 
Francia, 
dove 
l’amministrazione 
si 
mescola in tutto, su cui 
delibera essa stessa, agisce 
e 
giudica, 
per 
autorità 
consultive, 
per 
autorità 
agenti, 
e 
per 
autorità 
giudicanti. 
E 
anche 
in Italia siamo su quella via della molta ingerenza dell’amministrazione 
o 
del 
governo, 
sebbene 
per 
le 
sue 
contestazioni 
l’amministrazione 
italiana 
non 
abbia 
giudici 
propri 
come 
la 
francese” 
(p. 
4). 
L’autore, 
a 
volo 
d’uccello, 
fa 
una 
sintesi 
mirabile 
dei 
caratteri 
dello 
Stato 
“amministrativo” 
nelle 
principali 
esperienze 
giuridiche, in una 
fase 
storica 
(1882) nella 
quale 
in 
Italia 
non vi 
era 
un giudice 
amministrativo, dovendosi 
attendere 
il 
1889 per la 
creazione della IV sezione del Consiglio di Stato. 
Trattando dei 
precedenti 
storici 
degli 
avvocati 
erariali, vengono evocate 
le 
figure 
più suggestive. Si 
enuncia 
che: 
“Papiniano è 
l’antistes 
juris 
degli 
avvocati 
erariali; il maestro che hanno preso ad esempio” (p. 27) (13). 
Si 
prosegue 
con 
la 
trattazione 
dei 
giudici 
dell’amministrazione, 
tra 
cui 
la 
Cassazione 
di 
Roma, 
la 
Corte 
dei 
conti 
e 
le 
giurisdizioni 
speciali. 
Si 
tratta 
poi 
delle 
peculiarità 
delle 
cause 
dell’amministrazione. Vengono, in chiusura, riportati 
alcuni casi di giurisprudenza amministrativa. 
Dedicata 
alla 
giustizia 
amministrativa 
fu 
l’ultima 
opera 
(Papiniano, 
Roma 
1885), scritta 
come 
strenna 
del 
capodanno 1885 a 
uso degli 
impiegati 
erariali, 
cui l’autore proponeva il modello del giurista romano Papiniano. 

(13) Proseguendo nella 
carrellata: 
“Consulente 
della Corona inglese, Attorney 
general, fu primo 
Francesco Bacone” 
(p. 29); 
Grozio fu avvocato fiscale 
in Olanda 
(p. 29); 
Francesco Maria 
Costantini 
fu avvocato fiscale della Camera capitolina, eletto da Papa Clemente XI (p. 31). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Oltre 
a 
ciò, 
quasi 
a 
dimostrazione 
di 
quella 
ecletticità 
degli 
avvocati 
regi, 
egli 
scrisse 
di 
economia 
e 
di 
finanza, forte 
della 
sua 
esperienza 
di 
consulente 
della Banca 
Toscana (14). 


Nella 
veste 
specifica 
di 
Avvocato 
Generale 
redasse 
le 
prime 
relazioni 
periodiche 
sullo 
stato 
del 
contenzioso. 
La 
pubblicazione 
delle 
relazioni 
periodiche 
dell’Avvocato 
Generale 
Erariale, 
poi 
dello 
Stato, 
è 
proseguita 
con 
cadenza 
annuale 
e 
poi 
pluriennale, 
per 
un 
secolo, 
fino 
al 
1980 
(15). 
La 
relazione 
per 
l’anno 
1878 
descrive 
il 
consultivo 
e 
il 
contenzioso 
curato 
dalle 
otto 
Avvocature, 
una 
generale 
(quella 
di 
Roma) 
e 
sette 
erariali 
(quelle 
di 
Firenze, 
Genova, 
Milano, 
Napoli, 
Palermo, 
Torino 
e 
Venezia). 
Accanto 
a 
dati 
statistici 
vi 
sono 
anche 
riflessioni 
ricostruttive; 
fino 
al 
1923 
-anno 
in 
cui 
venne 
unificata 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
civile 
a 
Roma 
-vi 
erano 
le 
Corti 
di 
Cassazione 
regionali 
ubicate 
presso 
le 
ex 
capitali 
degli 
Stati 
preunitari 
(Torino, 
Firenze, 
Roma, 
Napoli 
e 
Palermo). 
Giuseppe 
Mantellini, 
nella 
citata 
relazione 
(p. 
10) 
evidenzia 
che 
“cinque 
Corti 
regolatrici, 
quante 
se 
ne 
hanno 
in 
Italia, 
sono 
un 
anacronismo 
che 
ha 
durato 
troppo, 
col 
non 
potersi 
a 
meno 
d’averne, 
come 
se 
ne 
hanno, 
tali 
effetti 
che 
non 
tornano 
a 
onore 
della 
istituzione 
e 
non 
edificano 
la 
giustizia”. 


Le 
relazioni 
periodiche 
dell’avvocato 
Generale 
-ricognitive 
dello 
stato 
del 
contenzioso 
delle 
amministrazioni 
statali 
-erano 
molto 
apprezzate 
dai 
pratici 
e 
dagli 
studiosi 
della 
contabilità 
di 
Stato. 
Basti 
evidenziare 
che, 
in 
un 
diffuso 
manuale 
di 
contabilità 
di 
Stato 
(16), 
le 
relazioni 
quinquennali 
del-
l’Avvocatura 
erano 
la 
fonte 
principale 
di 
cognizione. 


È 
stato rilevato che 
“Ebbe 
un’alta concezione 
dello Stato, di 
cui 
difese 
con passione, quasi 
mistica, le 
prerogative 
e 
gli 
interessi. Dalla sua opera il 
diritto pubblico interno trasse 
indirizzo e 
sistema. L’Istituto dell’Avvocatura 
erariale, già Avvocatura dello Stato, si 
elevò per 
suo merito a principale 
organo 
della vita giuridica dello Stato” (17). 


3. oronzo Quarta. 
Oronzo Quarta 
(1840-1934) entrò in Magistratura 
nel 
1863, ma 
nel 
1876 
fu 
uno 
dei 
primi 
ad 
affiancare 
Mantellini 
nella 
creazione 
e 
formazione 
del-
l’Avvocatura 
erariale. Profondo conoscitore 
di 
ogni 
ramo del 
diritto, che 
pa


(14) Per tali 
dati: 
A. ChIAVISTELLI, voce 
mantellini 
Giuseppe, in Dizionario Biografico degli 
Italiani 
-Volume 
69 
(2007), 
Istituto 
dell’Enciclopedia 
Treccani 
ed 
altresì 
L’Avvocatura 
dello 
Stato, 
Studio 
storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., pp. 237-238. 
(15) In specie: 
relazioni 
per l’anno 1878, 1879, 1880, 1881, 1882, 1883, per gli 
anni 
1884-1885, 
1888-1899, 1899-1900, 1900-1901, 1901-1904, per l’anno 1907, 1908, 1909, 1910, per gli 
anni 
19121925, 
1926-1929, 1930-1941, 1942-1950, 1951-1955, 1956-1960, 1961-1965, 1966-1970, 1971-1975, 
1976-1980. 
(16) A. BENNATI, manuale di contabilità di Stato, XII edizione, Jovene editore, 1990. 
(17) Così: 
F.P. GABRIELI, 
voce 
mantellini 
Giuseppe, in Nuovo Digesto Italiano, vol. VIII, UTET, 
1939, p. 116. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


droneggiava 
con assoluta 
sicurezza 
nei 
suoi 
poliedrici 
aspetti, studiò in particolare 
il 
diritto tributario, che 
allora 
muoveva 
i 
primi 
passi; 
il 
suo Commento 
alla legge 
sulla Imposta di 
Ricchezza mobile 
è 
opera 
che 
non soltanto ha 
informato 
di 
sé 
tutti 
gli 
studi 
di 
quel 
periodo 
in 
materia, 
e 
le 
stesse 
manifestazioni 
giurisprudenziali, 
ma 
è 
restato 
per 
gran 
tempo 
modello 
insuperato 
e 
fonte 
inesauribile 
di 
esame. Quarta 
rimase 
in Avvocatura 
quindici 
anni, poi 
nel 
1891 
rientrò in Magistratura: 
nel 
1904 Procuratore 
Generale 
di 
Corte 
di 
cassazione 
di 
Roma, e 
senatore, raggiunse 
nel 
1911 la 
più alta 
carica 
della 
Prima 
presidenza 
della Corte di cassazione di Roma (18). 


Lo 
“Studio 
sulla 
legge 
dell’imposta 
di 
ricchezza 
mobile”, 
1889, 
Tipografia 
della 
Camera 
dei 
Deputati 
-Roma, si 
articola 
in due 
volumi 
(volume 
I: 
pp. 
1-1086; volume II, parte I: pp. 1087-1796). 


L’opera 
costituisce 
una 
esposizione 
monumentale 
-redatta 
come 
precisa 
nell’ 
“Avvertenza” 
a 
pag. 3 “Quale 
avvocato erariale, e 
più ancora qual 
componente 
della Commissione 
centrale” 
-della 
più importante 
imposta 
diretta 
dell’epoca, con lo scopo di 
“raccogliere 
coordinare 
e 
raffrontare 
i 
non poche 
atti 
legislativi 
e 
regolamentari 
emanati 
dal 
1864 
sino 
ad 
oggi 
in 
Italia; 
a 
chiarire 
la 
lettera 
di 
ciascuna 
disposizione 
del 
testo 
unico 
e 
levarne 
il 
concetto 
preciso, con applicazione 
alle 
più importanti 
contingenze 
di 
fatto già verificate, 
o 
che 
possono 
verificarsi, 
consultando 
all’uopo 
tutti 
i 
lavori 
preparatorii 
relativi, e 
tenendo a guida i 
fondamentali 
principii 
di 
diritto tributario, gl’insegnamenti 
della 
dottrina 
non 
meno 
che 
gli 
autorevoli 
responsi 
dell’ordinaria 
e 
della 
amministrativa 
magistratura; 
ad 
esaminare 
infine, 
se 
la 
legge 
attuale, 


o 
quanto 
alle 
sue 
modalità, 
o 
quanto 
al 
suo 
contenuto, 
debba 
essere 
in 
qualche 
parte ritoccata” (pag. 4 dell’ “Avvertenza”). 
Dopo una 
introduzione 
storica 
e 
una 
esposizione 
delle 
tecniche 
di 
interpretazione, 
vi 
è 
il 
commento 
alla 
legge 
dell’imposta 
di 
ricchezza 
mobile 
(R.D. 
24 agosto 1877, n. 4021 che 
approvò il 
testo unico delle 
leggi 
d’imposta 
sui 
redditi 
della 
ricchezza 
mobile 
e 
regolamento 
del 
24 
agosto 
1877). 
Ogni 
articolo 
della 
legge 
è 
seguito dal 
sommario del 
commento e 
dal 
commento. Si 
inizia 
a 
pag. 56 con l’art. 1: 
“È 
stabilita un’imposta sui 
redditi 
della ricchezza mobile 
nell’aliquota uniforme 
del 
dodici 
per 
cento”; 
poi 
vi 
è 
il 
sommario degli 
otto 
paragrafi 
del 
commento, quindi 
segue 
il 
commento; 
nel 
1° 
paragrafo di 
commento 
si 
precisa 
che 
“le 
imposte 
sono 
il 
prelevamento 
operato 
dallo 
Stato 
sulla 
fortuna, o sul 
lavoro lucrativo dei 
cittadini, per 
provvedere 
ai 
bisogni 
della 
sociale 
comunanza” 
(pp. 56-57); 
sono imposte 
dirette 
quelle 
che 
“investono 
relazioni 
permanenti, come 
l’esistenza, la possessione, il 
godimento durevole 
di un obbietto” (pag. 57). 


(18) 
Per 
tali 
dati: 
G. 
ChICCA, 
La 
evoluzione 
storica 
dei 
principii 
della 
soggezione 
alla 
giurisdizione 
e della difesa legale dello Stato, cit., pp. 31-32. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


4. Gian Domenico Tiepolo. 
Gian 
Domenico 
Tiepolo 
(1832-1904), 
dopo 
essere 
entrato 
in 
Magistratura 
passò 
negli 
uffici 
del 
contenzioso, 
ove 
fu 
chiamato 
da 
Mantellini 
a 
far 
parte 
del 
primo 
nucleo 
della 
nascente 
Avvocatura 
Erariale; 
fu 
poi 
sostituto 
Avvocato 
Generale 
Erariale, 
per 
diventare 
Avvocato 
Generale 
Erariale 
(1897-1903). 


Si 
ricordano 
di 
lui: 
Commento 
alle 
leggi 
sull’Asse 
ecclesiastico, 
Conflitti 
di 
attribuzione, 
Acque 
pubbliche 
e 
diritti 
demaniali, 
un 
volume 
sulle 
acque 
pubbliche e notevoli scritti di giustizia amministrativa (19). 

“I suoi 
scritti 
e 
le 
sue 
monografie 
-Commento alle 
leggi 
sull’Asse 
ecclesiastico, 
Conflitti 
di 
attribuzione, Acque 
pubbliche 
e 
diritti 
demaniali, per 
citarne 
alcuni 
-testimoniano 
del 
suo 
fecondo 
lavoro 
pure 
in 
questo 
campo: 
indagine 
severa, 
profondità 
scientifica, 
logica 
irrefutabile 
sono 
i 
pregi 
che 
maggiormente 
lo contraddistinguono, e 
che 
testimoniano delle 
sue 
qualità di 
studioso” (20). 


5. Adriano De Cupis. 
Adriano De 
Cupis 
(1845-1930) fu tra 
i 
primi 
giovani 
funzionari 
amministrativi 
che 
entrarono a 
far parte 
dell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1877, assegnato 
a 
Palermo, prima, e 
a 
Roma 
in secondo tempo. Vice 
avvocato nel 
1892, 
le 
sue 
notevoli 
qualità 
gli 
valsero la 
nomina 
a 
Consigliere 
di 
Stato. Collocato 
a 
riposo il 
Tiepolo nel 
1904, Adriano De 
Cupis 
venne 
chiamato alla 
successione 
reggendo l’Istituto fino al 1913. 


Profondo conoscitore 
di 
ogni 
attività 
amministrativa, la 
sua 
fama 
di 
studioso 
-già 
nota 
per taluni 
studi 
in tema 
di 
competenza 
e 
di 
giurisdizione 
e 
di 
espropriazione 
per 
pubblica 
utilità 
-resta 
soprattutto 
legata 
a 
quella 
opera 
sulla 
Contabilità di 
Stato 
di 
cui 
egli, per primo, seppe 
dare 
una 
compiuta 
visione, 
attraverso 
un’organica 
trattazione 
della 
materia, 
che 
non 
soltanto 
valse 
a 
fissare 
i 
principi 
generali 
in un allora 
ignoto settore 
della 
amministrazione 
della 
cosa 
pubblica, ma 
costituì 
per molti 
anni 
un modello insuperato cui 
si 
continuava 
ad attingere (21). 


L’esatto 
titolo 
dell’opera 
maggiore 
del 
De 
Cupis 
è 
Legge 
sull’amministrazione 
del 
patrimonio dello Stato e 
sulla contabilità generale 
(Testo unico 
approvato 
con 
R.D. 
17 
febbraio 
1884, 
n. 
2016) 
annotata 
dall’Avvocato 
Adriano De 
Cupis 
seguita dal 
relativo regolamento, II edizione, Unione 
Tipografico 
Editrice 
-Torino, 
1899, 
pp. 
1027. 
L’opera 
è 
un 
commento 
alla 
legge 


(19) L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, cit., p. 
565; 
G. 
PALEOLOGO, 
La 
prima 
Quarta 
Sezione, 
p. 
4, 
in 
Studi 
per 
il 
centenario 
della 
Quarta 
Sezione, 
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1989. 
(20) Così: 
G. ChICCA, La evoluzione 
storica dei 
principii 
della soggezione 
alla giurisdizione 
e 
della difesa legale dello Stato, cit., p. 33. 
(21) 
Per 
tali 
dati: 
G. 
ChICCA, 
La 
evoluzione 
storica 
dei 
principii 
della 
soggezione 
alla 
giurisdizione 
e della difesa legale dello Stato, cit., p. 28. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


di 
contabilità 
e 
si 
dipana 
in articoli 
della 
legge 
seguiti 
dal 
sommario del 
commento 
e dal commento. 


6. Raffaello D’Ancona. 
Raffaello 
D’Ancona 
(1864-1933) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1893 per divenire 
nel 
1913 Sostituto Avvocato Generale. Dopo trent’anni 
di 
permanenza 
nelle 
file 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
nel 
1919 
passò 
in 
Magistratura 
quale 
consigliere 
della 
Corte 
di 
cassazione, divenendo Primo presidente 
della 
Corte 
di 
appello di 
Ancona 
e 
poi 
presidente 
di 
sezione 
presso la 
Corte Suprema. 


La 
preparazione 
giuridica 
dello 
studioso 
e 
del 
cultore 
di 
diritto 
romano 
si 
era 
venuta 
affinando 
con 
lo 
studio 
assiduo 
del 
diritto 
pubblico; 
elevatissimo 
fu 
il 
contributo 
da 
lui 
per 
lunghi 
anni 
prestato 
alla 
indagine 
giuridica, 
specialmente 
nel 
campo 
tributario, 
sia 
nella 
sfera 
contenziosa 
che 
in 
quella 
consultiva. 


Vanno 
ricordate, 
fra 
l’altro, 
una 
monografia 
sul 
concetto 
di 
dote 
nel 
diritto 
romano 
(“Il 
concetto 
della 
dote 
nel 
diritto 
romano: 
studio 
storico-giuridico”, 
Firenze, 
1889) 
e 
la 
traduzione 
del 
commentario 
del 
Gluck 
alle 
Pandette 
-libri 
XXII, 
XXIV 
e 
XXVI 
(Commentario 
alle 
Pandette 
di 
Federico 
Glück; 
tradotto 
ed 
annotato 
da 
Raffaello 
D’Ancona, 
Milano, 
Società 
editrice 
libraria, 
1898) 
(22). 


7. Salvatore d’Amelio. 
Salvatore 
D’Amelio (1867-1928), Sostituto Avvocato Generale 
Erariale 
nel 
1908, Avvocato Distrettuale 
di 
Milano nel 
1914; 
nello stesso anno 1914 
passò in Magistratura, divenendo primo presidente 
di 
Corte 
d’Appello e 
poi 
Presidente del 
Tribunale superiore delle acque. 


Lasciò 
una 
ricca 
serie 
di 
scritti, 
di 
cui 
quelli 
giovanili, 
del 
decennio 
18851995, 
in prevalenza 
dedicati 
a 
questioni 
sociologiche; 
quelli 
del 
periodo successivo, 
sparsi 
in un gran numero di 
riviste, attinenti 
in particolare 
a 
problemi 
concreti 
che 
gli 
poneva 
la 
sua 
attività 
di 
avvocato dello Stato; 
quelli 
dell’età 
matura 
rivolti 
a 
questioni 
generali 
di 
diritto pubblico: 
carattere 
di 
pubblicità 
degli 
enti 
autarchici, 
istituzioni 
di 
beneficenza, 
capacità 
degli 
enti 
di 
fatto, 
configurazione dell’eccesso di potere, responsabilità dello Stato, ecc. 


La 
sua 
benemerenza 
maggiore 
consiste 
nell’essere 
stato 
il 
promotore, 
nel 
1909, della 
Rivista di 
diritto pubblico, di 
cui 
restò direttore 
attivo ed efficace 
fino alla 
morte, contribuendo così 
alla 
rinascita 
degli 
studi 
di 
diritto pubblico 
in Italia. Giurista 
di 
larga 
cultura 
classica 
e 
letteraria, scrisse 
anche 
odierni 
problemi del diritto pubblico 
in 
Dante, Roma, 1926 (23). 


(22) 
Per 
tali 
dati: 
G. 
ChICCA, 
La 
evoluzione 
storica 
dei 
principii 
della 
soggezione 
alla 
giurisdizione 
e della difesa legale dello Stato, cit., pp. 27-28. 
(23) Per tali 
dati: 
voce 
D’Amelio Salvatore, Novissimo Digesto Italiano, vol. V, UTET, 1960, p. 
109. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


L’opera 
principale 
è 
sicuramente 
La 
beneficenza 
nel 
diritto 
italiano, 
II 
edizione 
(riveduta 
ed 
aggiornata 
rispetto 
alla 
prima 
edizione 
del 
1909), 
Tipografia 
delle 
mantellate 
-Roma, 
1928, 
pp. 
960. 
Il 
testo 
costituisce 
una 
descrizione 
esaustiva 
della 
complessa 
e 
importante 
materia 
della 
beneficenza 
e 
dell’assistenza. 
Contiene 
i 
cenni 
storici 
delle 
leggi 
sull’assistenza 
e 
beneficenza 
(con 
esame 
dettagliato 
di 
quelle 
degli 
Stati 
preunitari), 
i 
testi 
delle 
leggi 
vigenti 
coordinati 
e 
unificati 
(in 
primo 
luogo 
la 
fondamentale 
L. 
17 
luglio 
1890, 
n. 
6792 
sulle 
Opere 
Pie, 
c.d. 
legge 
Crispi, 
ed 
i 
regolamenti 
del 
1891) 
e 
la 
glossa 
alla 
legislazione 
vigente. 
La 
glossa 
consiste 
in 
un 
ampio 
commento 
-oltre 
600 
pagine 
-alla 
normazione 
in 
materia, 
con 
esposizione 
di 
quella 
relativa 
alle 
Istituzioni 
pubbliche 
di 
assistenza 
e 
beneficenza 
(c.d. 
IPAB), 
agli 
amministratori 
e 
all’amministrazione 
e 
contabilità 
delle 
IPAB, 
alla 
tutela 
dinanzi 
all’autorità 
giurisdizionale 
e 
amministrativa, 
alla 
vigilanza 
e 
ingerenza 
governativa 
sulle 
IPAB, 
alle 
modifiche 
statutarie 
e 
vicende 
soggettive 
delle 
IPAB 
e 
all’esercizio 
dell’assistenza 
e 
beneficenza, 
specie 
quella 
ospedaliera. 
Non 
viene 
trascurato 
qualche 
accenno 
o 
richiamo 
alle 
scienze 
sociali. 


8. Francesco menestrina, uno dei 
protagonisti 
dell’“età d’oro” 
della procedura 
civile italiana. 
Francesco 
Menestrina 
(1872-1961), 
giurista 
trentino, 
si 
laureò 
all’Università 
di 
Graz 
il 
27 ottobre 
1896. Nel 
1898 ottenne 
una 
borsa 
di 
perfezionamento 
per prepararsi 
alla 
libera 
docenza 
di 
Diritto processuale 
civile 
presso 
la 
cattedra 
in 
lingua 
italiana 
all’Università 
di 
Innsbruck: 
studiò 
perciò 
a 
Roma, 
a 
Vienna 
ed a 
Lipsia 
(con Adolf Wach), e 
conobbe 
i 
giuristi 
Giuseppe 
Chio-
venda e 
Albrecht Mendelssohn-Bartholdy. 

Nel 
1895 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
del 
Regno 
d’Italia, 
divenendo 
poi 
Avvocato Distrettuale 
dello Stato, prima 
a 
L’Aquila 
e 
poi 
a 
Trieste. Restò 
nell’Istituto fino al pensionamento, nel 1942. 


Cultore 
di 
storia 
giuridica 
e 
di 
storia 
locale, 
partecipò 
attivamente 
alla 
fondazione 
nel 
1919 
della 
Società 
di 
Studi 
Trentini, 
di 
cui 
fu 
presidente 
in 
due 
diversi 
periodi. 
Ormai 
in 
pensione, 
nel 
secondo 
dopoguerra 
ebbe 
un 
ruolo 
importante 
nella 
messa 
a 
punto del 
progetto di 
Statuto autonomo della 
nuova 
regione 
Trentino Alto Adige (24). 


Preparò, 
nel 
1901, 
il 
lavoro 
“L’accessione 
nell’esecuzione. 
Un 
contributo 
alla teoria del 
cumulo processuale”, accolto a 
Innsbruck con il 
massimo dei 
voti; 
con esso il 
Menestrina 
apportò un contributo notevolissimo e 
fecondo di 
risultati, anche 
sul 
piano della 
futura 
legislazione, alla 
teoria 
del 
cumulo pro


(24) Per tali 
dati: 
G. ROSSI, Francesco menestrina, storico e 
giurista, protagonista della vita culturale 
e 
politica nel 
Trentino del 
XX 
secolo, in Studi 
trentini 
di 
scienze 
storiche. 
Sezione 
prima 
(ISSN: 
0392-0690), 88/4 (2009), pp. 961-990. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


cessuale 
soggettivo, scoprendo, per la 
prima 
volta 
al 
di 
fuori 
dell’ipotesi 
del 
“consorzio” 
(l’unica 
fino 
ad 
allora 
rilevata 
nella 
letteratura), 
ipotesi 
di 
aggruppamento 
di 
parti 
comprensive 
oltre 
che 
dei 
creditori 
istanti 
in una 
esecuzione 
speciale 
anche 
dei 
creditori 
insinuatisi 
nel 
concorso 
fallimentare. 
Su 
questa 
opera 
così 
si 
espresse, 
nel 
1905, 
la 
Commissione 
giudicatrice 
del 
concorso 
per 
professore 
ordinario 
alla 
cattedra 
di 
procedura 
civile 
ed 
ordinamento 
giudiziario 
nella 
R. Università 
di 
Napoli: 
“La Commissione 
riconosce 
che 
questa 
opera del 
menestrina è 
un contributo notevolissimo alla storia ed alla trattazione 
generale 
del 
processo esecutivo. Condotta con metodo rigorosamente 
scientifico, 
penetrata 
da 
un 
acuto 
spirito 
critico, 
essa, 
con 
grande 
padronanza 
della 
dottrina 
e 
della 
storia, 
sistema 
in 
una 
sintesi 
felice 
i 
rapporti 
processuali 
reciproci 
dei 
creditori 
nella 
istanza 
esecutiva. 
Il 
trattato 
del 
menestrina 
mutua 
ad 
un 
diritto 
straniero 
(l’austriaco) 
le 
norme 
positive 
che 
costituiscono 
la 
materia, 
su cui 
esso logicamente 
si 
svolge; ma non è 
estraneo al 
nostro, al 
quale 
essi 
si 
riporta 
con 
assidua 
comparazione, 
ed 
alla 
cui 
storia 
efficacemente 
contribuisce 
mercè pregiate indagini sugli statuti italiani” (25). 

In 
seguito 
poi 
ad 
esame 
orale, 
il 
1° 
novembre 
1901 
venne 
nominato 
libero 
docente 
di 
diritto processuale 
civile 
ed esecutivo. In quell’anno, a 
causa 
degli 
incidenti 
fra 
studenti 
trentini 
e 
studenti 
tedeschi, non riuscì 
a 
tenere 
la 
prolusione 
su “L’influenza dei 
diritti 
latini 
nella legge 
austriaca di 
procedura civile 
”, 
che 
comunque 
lesse 
successivamente 
e 
pubblicò 
nella 
“Gazzetta 
dei 
Tribunali” di 
Vienna l’anno seguente. 


Nel 
1904 pubblicò “La pregiudiciale 
nel 
processo civile”. Intensificò gli 
studi 
e 
pubblicò 
due 
lunghi 
saggi: 
“Giandomenico 
Romagnosi 
a 
Trento 
(17911802)” 
in “Tridentum” 
(1908-1909), raccolto anche 
in volume, e 
“Il 
processo 
civile 
nello Stato Pontificio” 
nella 
“Rivista 
italiana 
per le 
scienze 
giuridiche” 
di 
Torino (1908). 


Nel 
1910 vide 
la 
luce 
nella 
“Gazzetta 
dei 
Tribunali” 
di 
Vienna 
(a 
cui 
collaborò 
anche 
successivamente) il 
saggio “Il 
processo civile 
nella pratica dei 
giudizi 
trentini” 
(uscito 
anche 
in 
tedesco 
nella 
“Rheinische 
Zeitschrift 
für 
Zivil 
und Prozessrecht”); 
nel 
1911 uscì 
nella 
“Rivista 
di 
diritto civile” 
di 
Milano il 
saggio 
“Nel 
centenario 
del 
codice 
civile 
generale 
austriaco” 
e 
nel 
1913 
venne 
pubblicato nel 
volume 
di 
studi 
in onore 
di 
Adolf Wach il 
contributo “Il 
codice 
giudiziario barbacoviano (1788)”. 


Collaborò, con pregevoli 
articoli, a 
diverse 
riviste 
nazionali 
e 
internazionali 
di 
diritto, soprattutto la 
“Rivista 
di 
diritto processuale 
civile” 
di 
Padova 
diretta 
da 
Giuseppe 
Chiovenda 
e 
Francesco 
Carnelutti 
(26), 
ma 
anche 
“Il 
Foro 


(25) 
Giudizio 
riportato 
in 
F. 
CIPRIANI, 
Storie 
di 
processualisti 
e 
di 
oligarchi, 
Giuffré, 
1991, 
p. 
486. 
(26) Tra 
i 
contributi 
maggiori: 
F. MENESTRINA, Il 
foro generale 
dell’erario, in Rivista di 
Diritto 
processuale 
civile, I (1924), parte 
I, pp. 297-318; 
ID., Passaggio in giudicato della sentenza di 
primo 
grado, in Rivista di 
Diritto processuale 
civile, V 
(1928), parte 
II, pp. 202-222; 
ID., L’avvocatura dello 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


delle 
Nuove 
Provincie” 
di 
Padova 
(27), 
la 
“Rassegna 
bibliografica 
delle 
scienze 
giuridiche”, 
“Giurisprudenza 
italiana” 
(28) 
, 
“Zeitschrift 
für 
deutschen 
Civilprozess” e “Zentralblatt für die Juristische Praxis”. 


Collaborò 
all’ 
“Enciclopedia 
delle 
scienze, 
lettere 
ed 
arti” 
dell’Istituto 
Treccani 
con 
le 
voci 
“Azione 
civile”e“Barbacovi, 
Francesco” 
(1930). 
Inoltre 
collaborò al 
“Nuovo Digesto Italiano” 
della 
UTET 
con le 
voci 
“Nuove 
Provincie” 
(1938) 
(29) 
e 
“Proroga 
di 
giurisdizione 
e 
di 
competenza” 
(1940) 
(30), 
ed al 
“Commento al 
nuovo Codice 
di 
procedura di 
civile” 
diretto per la 
UTET 
da 
Mariano D’Amelio con il 
commento agli 
articoli 
41-68 (1943) (31). Dal 
1935, intanto, per tre 
volte 
da 
Padova 
gli 
venne 
proposta 
la 
cattedra 
di 
procedura 
civile che era stata lasciata da Carnelutti. 


A 
Padova 
tenne 
i 
corsi 
di 
storia 
generale 
del 
processo civile 
e 
di 
processo 
di 
cooperazione 
nei 
suoi 
vari 
stadi 
nel 
1938-39 e 
diritto processuale 
civile 
nel 
1939-40 (frutto di 
tale 
impegno sono le 
“Lezioni 
di 
diritto processuale 
civile” 
riassunte 
da 
Silvia 
Furlanelli 
e 
pubblicate 
dal 
G.U.F. di 
Padova 
nel 
1939); 
a 
Venezia, dal 
1938 al 
1942, tenne 
lezioni 
di 
diritto processuale 
civile 
(raccolte 
poi 
in 
“Diritto 
processuale 
civile. 
Riassunto 
delle 
lezioni...”, 
a 
cura 
del 
G.U.F. 
di 
Venezia, 1943). 


Fece 
parte, 
sino 
agli 
anni 
'50 
inoltrati, 
di 
diverse 
commissioni 
provinciali 
relative 
a 
usi 
civici 
(1949-1950), urbanistica 
e 
piani 
regolatori 
(1950-1951), 
tutela 
delle 
bellezze 
naturali 
e 
del 
paesaggio (1951); 
contribuì 
al 
dibattito sul 
regime 
delle 
acque, 
all’elaborazione 
di 
un 
progetto 
di 
nuova 
legge 
tavolare 
(1953-1954) e fornì vari pareri legali a Provincia e Regione (32). 

Il 
contributo più importante 
di 
Menestrina 
alla 
scienza 
giuridica 
italiana 
è 
contenuto nella 
pubblicazione 
del 
1904 “La pregiudiciale 
nel 
processo civile” 
(33), 
sotto 
l’impero 
del 
codice 
di 
procedura 
civile 
del 
1865. 
Nel 
testo 
l’autore 
con 
riguardo 
alle 
questioni 
pregiudiziali 
-intese 
come 
antecedenti 
logici, 
il 
cui 
esame 
si 
impone 
al 
giudice 
al 
fine 
di 
pervenire 
all’esame 
dell’oggetto 
della 
domanda, che 
costituisce 
lo scopo dialettico del 
processo -opera 


stato in Italia e 
all’estero, in Rivista di 
Diritto processuale 
civile, VIII (1931), parte 
I, pp. 201-233; 
ID., 
Il 
processo davanti 
a giudice 
incompetente 
e 
la condanna delle 
spese, in Rivista di 
Diritto processuale 
civile, XVI (1937). 


(27) F. MENESTRINA, L’azione 
di 
sindacato nelle 
terre 
redente, in Il 
Foro delle 
Nuove 
Provincie, 
VIII (1929), pp. 274-283. 
(28) F. MENESTRINA, La notificazione 
del 
ricorso per 
cassazione 
alle 
amministrazioni 
statali, in 
Giurisprudenza Italiana e la Legge, vol. 89, 1937, I, coll. 409-416. 
(29) F. MENESTRINA, Nuove 
Provincie, voce 
del 
Nuovo Digesto Italiano, vol. VIII, UTET, 1939, 
pp. 1179-1186. 
(30) F. MENESTRINA, Proroga di 
giurisdizione 
e 
di 
competenza, voce 
del 
Nuovo Digesto Italiano, 
vol. X, UTET, 1939, pp. 779-780. 
(31) 
F. 
MENESTRINA, 
Commento 
al 
nuovo 
codice 
di 
procedura 
civile, 
Artt. 
41-68, 
nel 
Commentario 
diretto da MARIANO 
D’AMELIO, Torino 1943, pp. 215-325. 
(32) Per tali dati: 
www.cultura.trentino.it. 
(33) La pregiudiciale nel processo civile, Vienna, 1904, ristampato a Milano nel 1963. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


la 
celebre 
distinzione in tre 
categorie: I) punti 
pregiudiziali, che ricorrono allorché 
l’antecedente 
logico 
non 
è 
controverso; 
II) 
questioni 
pregiudiziali 
in 
senso stretto, che 
ricorrono allorché 
l’antecedente 
logico è 
controverso; 
III) 
cause 
pregiudiziali, che 
ricorrono allorquando l’antecedente 
logico è 
controverso 
e 
accertato 
con 
sentenza 
assistita 
dall’autorità 
della 
cosa 
giudicata 
(oo.cc., pp. 26, 123, 149). 


A 
tale 
tricotomia 
si 
è 
uniformato l’art. 34 c.p.c. del 
1942 (34), il 
quale, 
pur esaminando il 
problema 
sotto il 
più limitato profilo dello spostamento di 
competenza, pone 
in assai 
chiara 
evidenza 
che 
si 
ha 
accertamento incidentale 
(vale 
a 
dire 
l’antecedente 
logico si 
trasforma 
in causa 
pregiudiziale) non soltanto 
se 
una 
questione 
pregiudiziale 
è 
controversa, 
ma 
anche 
quando 
su 
di 
essa 


o per legge 
o per volontà 
delle 
parti 
si 
chiede 
l’accertamento con efficacia 
di 
giudicato (35). 
Negli 
anni 
’10 del 
secolo scorso, Alfredo Rocco -nel 
fare 
il 
punto dopo 
mezzo secolo dalla 
proclamazione 
del 
Regno d’Italia 
-dichiarò che 
i 
migliori 
processualcivilisti 
erano 
Ludovico 
Mortara, 
Antonio 
Castellari, 
Giuseppe 
Chiovenda, Federico Cammeo e 
Francesco Menestrina 
(36). Menestrina 
fece 
parte, nel 
1924, della 
Sottocommissione 
reale 
C per la 
riforma 
del 
codice 
di 
procedura 
civile, 
della 
quale 
era 
presidente 
Ludovico 
Mortara 
e 
vicepresidente 
Giuseppe 
Chiovenda. 
Componenti 
della 
Sottocommissione 
C 
erano 
quattro 
professori 
(Piero 
Calamandrei, 
Federico 
Cammeo, 
Francesco 
Carnelutti 
ed 
Enrico Redenti), un avvocato dello Stato (Francesco Menestrina), sei 
magistrati 
e tre avvocati (37). 


La 
cifra 
dell’importanza 
del 
Menestrina 
quale 
studioso 
del 
processo 
civile 
è 
data 
dalla 
partecipazione 
nel 
1927 alle 
onoranze 
per uno dei 
più importanti 
processualcivilisti 
dell’epoca, ossia 
Giuseppe 
Chiovenda 
(38), suo coetaneo 
e 
buon amico (39); 
in tale 
occasione 
scrisse 
un saggio sulla 
statistica 
giudiziaria 
(40). 

Menestrina 
è 
stato uno dei 
protagonisti 
della 
procedura 
civile 
italiana 
in 


(34) “(Accertamenti 
incidentali) Il 
gidice, se 
per 
legge 
o per 
esplicita domanda di 
una delle 
parti 
è 
necessario 
decidere 
con 
efficacia 
di 
giudicato 
una 
questione 
pregiudiziale 
che 
appartiene 
per 
materia 
o 
valore 
alla 
competenza 
di 
un 
giudice 
superiore, 
rimette 
tutta 
la 
causa 
a 
quest’ultimo, 
assegnando 
alle 
parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”. 
(35) Per tali 
rilievi: 
V. ANDRIOLI, Commento al 
codice 
di 
procedura civile, vol. I, III edizione, Jovene, 
1957, p. 113. Per tale 
contributo del 
Menestrina 
altresì: 
E. ALLORIO 
(diretto da), Commentario del 
codice di procedura civile, libro I, tomo I, UTET, 1973, p. 330. 
(36) 
A. 
ROCCO, 
La 
scienza 
del 
diritto 
privato 
in 
Italia 
negli 
ultimi 
cinquant’anni, 
in 
Riv. 
Dir. 
Comm., 
1911, I, p. 303. 
(37) F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., p. 260. 
(38) Studi 
di 
diritto processuale 
in onore 
di 
Giuseppe 
Chiovenda nel 
venticinquesimo anno del 
suo insegnamento, Cedam 
-Padova, 1927, pp. 850, a 
cura 
dei 
Professori 
ANTONIO 
CASTELLARI, PIERO 
CALAMANDREI, FRANCESCO 
CARNELUTTI, ENRICO 
REDENTI, ANTONIO 
SEGNI. 
(39) F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., pp. 310-311. 
(40) F. MENESTRINA, La statistica giudiziaria civile in Italia, op. cit., pp. 537-582. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


un’epoca 
di 
giganti. 
I 
primi 
quarant’anni 
del 
Novecento 
sono 
stati 
una 
stagione 
eccezionale: 
accanto a 
Ludovico Mortara 
vi 
erano le 
tre 
C della 
procedura 
civile 
italiana, 
ossia 
Giuseppe 
Chiovenda, 
Francesco 
Carnelutti 
e 
Piero 
Calamandre, 
per 
non 
parlare 
di 
Federico 
Cammeo 
e 
di 
Enrico 
Redenti. 
La 
procedura 
civile 
italiana 
faceva 
da 
guida 
al 
mondo, 
le 
opere 
di 
Chiovenda 
erano tradotte in spagnolo. 

È 
stato 
rilevato 
che 
fu 
“Fautore 
della 
riforma 
del 
processo 
nel 
senso 
della 
oralità 
e 
della 
concentrazione, 
mostrò 
tuttavia 
le 
mende 
del 
processo 
austriaco, 
che 
molti 
proceduristi 
italiani 
pensavano 
di 
prendere 
a 
modello” 
(41). 


9. Nicola Stolfi, organizzatore sistematico del diritto civile. 
Nicola 
Stolfi 
(1877-1945) 
entrò 
in 
Magistratura 
nel 
1901, 
nel 
1914 
passò 
alla 
Regia 
Avvocatura 
di 
Stato e 
fu nominato Avvocato Distrettuale 
prima 
a 
Venezia e poi a Firenze. 

Fu 
libero 
docente 
di 
Diritto 
civile 
nella 
Regia 
Università 
di 
Torino 
e 
nella 
Regia 
Università 
di 
Napoli. Insegnò diritto corporativo e 
istituzioni 
di 
diritto 
privato nella Regia Università di Padova. 


Fece 
parte 
di 
commissioni 
legislative 
e 
di 
commissioni 
internazionali 
per 
la legislazione sui diritti d’autore e sulla proprietà industriale. 


L’opera 
maggiore 
è 
un 
trattato 
di 
Diritto 
civile, 
9 
voll., 
Torino 
1919-1934. 

Tra 
le 
opere 
principali: 
Codice 
della proprietà letteraria ed artistica, Firenze, 
1928; 
Diritto corporativo e 
diritto privato, Roma, 1932; 
La proprietà 
intellettuale, II edizione, Torino, 1915; 
I segni 
di 
distinzione 
personale 
(cognome, 
prenome, soprannome, pseudonimo, titoli 
nobiliari, e 
altri 
distintivi 
araldici), Napoli, 1905, oltre 
ad un centinaio di 
studi 
ed articoli 
in materia 
di 
regime 
delle 
acque 
pubbliche 
e 
private, 
di 
procedura 
civile, 
di 
ordinamento 
giudiziario, di 
notariato, di 
brevetti 
di 
invenzione, di 
diritto sindacale 
e 
corporativo. 
Notevoli 
gli 
studi 
in tema 
di 
radiofonia 
nei 
rapporti 
con il 
diritto civile. 
Alcune sue opere sono state tradotte in lingue estere (42). 


La proprietà intellettuale 
è 
un trattato sulla 
materia 
in due 
volumi, che 
fu 
anche 
tradotto 
in 
francese 
(43). 
Il 
primo 
volume 
reca 
la 
prefazione 
di 
Leonardo 
Coviello; 
il 
secondo reca 
la 
prefazione 
di 
E.h. Perreau utilizzata 
per la 
traduzione 
francese dell’intero trattato (44). 


Vi 
è 
la 
trattazione 
del 
regolamento giuridico della 
proprietà 
intellettuale, 
in uno a 
dottrina, giurisprudenza 
e 
convenzioni 
internazionali. Viene 
esposta: 


(41) 
Così: 
F.P. 
GABRIELI, 
voce 
menestrina 
Francesco, 
in 
Nuovo 
Digesto 
Italiano, 
vol. 
VIII, 
UTET, 
1939, p. 422. 
(42) Per tali 
dati: 
voce 
Stolfi 
Nicola, in Nuovo Digesto Italiano, vol. XII, 1, UTET, 1940, p. 907. 
(43) 
La 
proprietà 
intellettuale, 
vol. 
I, 
II 
edizione, 
UTET, 
1915, 
pp. 
530; 
La 
proprietà 
intellettuale, 
vol. II, II edizione, UTET, 1917, pp. 782. 
(44) L’opera 
in esame 
è 
stata 
inserita 
nella 
Bibliothèque 
internationale 
de 
droit 
privé 
et 
de 
droit 
criminel 
edita dalla Casa editrice Giard e Brière di Parigi nel 1915. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


la 
storia 
della 
proprietà 
intellettuale, rivendicando a 
Venezia 
la 
priorità 
della 
protezione 
concessa 
con il 
sistema 
dei 
privilegi 
allora 
in vigore, non solo ad 
editori, ma 
anche 
a 
letterati, artisti 
e 
finanche 
a 
stranieri; 
la 
natura 
giuridica 
ed 
il 
fondamento 
della 
proprietà 
intellettuale 
(letteraria, 
scientifica 
ed 
artistica); 
i 
soggetti 
della 
proprietà 
intellettuale; 
l’oggetto 
della 
proprietà 
intellettuale 
(si 
questiona, 
tra 
l’altro, 
della 
tutelabilità 
delle 
fotografie, 
dei 
film, 
delle 
opere 
immorali, 
dei 
sermoni 
degli 
ecclesiastici 
nell’esercizio 
del 
loro 
ministero, 
delle 
lezioni 
dei 
professori); 
la 
durata 
dei 
diritti 
d’autore; 
le 
formalità 
prescritte 
per 
acquistare 
e 
conservare 
la 
proprietà 
letteraria; 
l’esercizio 
della 
proprietà 
intellettuale 
da 
parte 
dell’autore 
e 
dei 
suoi 
eredi; 
l’esercizio della 
proprietà 
intellettuale 
da 
parte 
degli 
aventi 
causa 
dell’autore 
(a 
mezzo, 
tra 
l’altro, 
del 
contratto 
di 
vendita 
e 
donazione 
del 
“corpus 
mechanicum”, 
del 
contratto 
di 
edizione, 
del 
contratto 
di 
rappresentazione 
o 
di 
esecuzione); 
la 
tutela 
giuridica 
della 
proprietà 
intellettuale; 
i 
rapporti 
internazionali 
(Convenzione 
di 
Berna, 
Convenzioni americane, trattati particolari). 


Stolfi 
ha 
dato alla 
trattazione 
della 
proprietà 
intellettuale 
forma 
accurata, 
limpida 
e 
concisa 
e 
ha 
prospettato con grande 
chiarezza 
le 
varie 
opinioni, per 
ogni 
questione 
presa 
in 
esame, 
criticando 
quelle 
che 
contrastano 
con 
le 
sue 
teoriche. 

Opera 
monumentale 
è 
il 
trattato di 
Diritto civile 
in nove 
volumi 
per i 
tipi 
della 
UTET. Un unico autore 
illustra 
-in modo sistematico e 
non esegetico tutto 
il 
diritto civile, con una 
esposizione 
piana, chiara, proporzionata, con inquadramenti 
storici 
e 
comparatistici 
e 
ampia 
bibliografia, 
per 
ogni 
argomento, 
nazionale e straniera. Questi i contenuti essenziali dei nove volumi: 


• 
volume 
I, parte 
I: 
Fonti, disposizioni 
preliminari 
e 
transitorie, UTET, 
1919, pp. 820 (45). 
Vi 
è 
un’ampia 
trattazione 
della 
storia 
delle 
fonti 
del 
diritto civile 
italiano (pp. 
221-563, 
con 
esposizione 
degli 
antichi 
diritti 
italici), 
della 
interpretazione 
e 
applicazione 
del 
diritto (pp. 564-753), con appendice 
riportante 
le 
leggi 
civili 
dei vari stati del mondo. 
• 
volume 
I, 
parte 
II: 
Il 
negozio 
giuridico 
e 
l’azione, 
UTET, 
1931, 
pp. 
918 
(46). 
Vengono trattati 
i 
soggetti 
di 
diritto. In primo luogo le 
persone 
fisiche: 
principio 
e 
fine 
dell’esistenza 
delle 
persone, gli 
status, sede, differenze 
giuridiche 
tra 
gli 
uomini 
per: 
età, sesso, salute, condanne 
penali; 
registri 
di 
stato civile. 
Quindi 
le 
persone 
giuridiche. 
Infine 
gli 
enti 
di 
fatto 
(associazioni 
di 
fatto 
e 
comitati). 
Con riguardo alle 
associazioni 
di 
fatto si 
rileva 
che 
“Il 
decreto Alfieri 
(45) Lucano tra 
i 
lucani, il 
volume 
è 
dedicato alla 
memoria 
di 
Emanuele 
Gianturco e 
Nicola 
Coviello, 
tutti nati ad Avigliano in Basilicata (Gianturco nel 1857, Coviello nel 1867, Stolfi nel 1877). 
(46) Il 
volume 
è 
dedicato a 
Gaetano Scavonetti, Avvocato Generale 
dello Stato. Il 
testo della 
dedica, 
richiamando le 
parole 
di 
Maurice 
Maeterlinck: 
“Vi 
dedico questo libro, che 
è, per 
così 
dire, opera 
vostra. 
Vi 
è 
una 
collaborazione 
più 
alta 
e 
più 
vera 
di 
quella 
della 
penna: 
è 
la 
collaborazione 
del 
pensiero 
e dell’esempio”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


del 
26 settembre 
1848 riconosce 
esplicitamente 
alle 
persone 
il 
diritto di 
associazione, 
che 
rientra tra i 
diritti 
pubblici 
subbiettivi” 
(pp. 374-375); 
viene 
rilevata 
-in coerenza 
con le 
acquisizioni 
dell’epoca 
-una 
differenza 
netta 
tra 
la 
persona 
giuridica 
e 
l’associazione 
di 
fatto: 
“le 
persone 
giuridiche 
costituiscono 
un ente 
astratto, diverso dai 
membri 
che 
lo compongono. Invece 
nelle 
associazioni 
non 
vi 
è 
unità 
di 
subbietto, 
ma 
gli 
associati 
acquistano 
e 
si 
obbligano 
personalmente 
di 
fronte 
ai 
terzi. Di 
qui 
deriva, che 
soggetto passivo della liberalità 
è, 
nelle 
persone 
giuridiche, 
l’ente 
astratto; 
laddove 
nelle 
associazioni 
sono i 
singoli 
soci. Perciò in rapporto alle 
prime 
vale 
una liberalità devoluta 
allo 
scopo 
che 
esse 
si 
propongono 
di 
conseguire; 
in 
rapporto 
alle 
altre 
bisogna 
che 
siano determinate 
le 
persone 
cui 
sono fatte. Ed anche 
il 
patrimonio è 
diversamente 
concepito 
e 
regolato: 
nelle 
persone 
giuridiche, 
spetta 
all’ente 
astratto 
ed 
è 
indipendente 
da 
quello 
particolare 
dei 
membri; 
nelle 
associazioni, 
non vi 
è 
unità di 
patrimonio, il 
quale 
si 
considera comune 
a tutti 
i 
membri 
dell’associazione, 
sicché 
risente 
le 
influenze 
che 
i 
patrimoni 
di 
costoro 
subiscono 
” 
(pp. 
377-378). 
Circa 
la 
disciplina 
dell’ente 
di 
fatto, 
acclarata 
la 
inapplicabilità 
delle 
norme 
del 
codice 
civile 
in 
tema 
di 
società 
civili 
ed 
in 
tema 
di 
persone 
giuridiche, “E 
poiché 
esso non è 
stato regolato dal 
Codice 
civile, 
non 
rimane 
che 
appigliarsi 
alle 
regole 
generali 
delle 
obbligazioni 
(art. 
1103), 
e 
alla intenzione 
dei 
contraenti 
(art. 1131), non senza rilevare 
fin da ora, che 
in questa materia, uno dei 
principi 
regolatori 
deve 
essere 
quello consacrato 
nell’art. 1124 (47)” 
(p. 380). 
Vi 
è 
poi 
l’esposizione 
dell’oggetto 
di 
diritti 
(con 
le 
consuete 
distinzioni 
tra 
cose), 
dell’acquisto, 
modificazione 
e 
perdita 
di 
diritti 
(in 
questa 
sede 
è 
trattato 
il negozio giuridico) e delle difese giudiziarie dei diritti. 


•volume II, parte I: 
Il possesso e la proprietà, UTET, 1926, pp. 715. 
Il 
testo 
è 
stato 
tradotto 
in 
lingua 
bulgara. 
Vengono 
trattate: 
le 
tipologie 
del 
possesso; 
l’usucapione 
o prescrizione 
acquisitiva; 
la 
proprietà 
ed i 
suoi 
limiti; 
il 
condominio e 
la 
proprietà 
collettiva, come 
il 
compascolo (48); 
i 
modi 
di 
acquisto 
e le tutele. 
• 
volume 
II, 
parte 
II: 
I 
diritti 
reali 
di 
godimento, 
UTET, 
1928, 
pp. 
626 
(49). 
(47) Secondo il 
quale 
“I contratti 
debbono essere 
eseguiti 
di 
buona fede, ed obbligano non solo 
a quanto nei 
medesimi 
espresso, ma anche 
a tutte 
le 
conseguenze 
che 
secondo l’equità, l’uso o la legge 
derivano”. 
(48) 
“Nel 
medio 
Evo, 
perdurando 
la 
grande 
utilità 
dei 
pascoli, 
sorse 
l’opportunità, 
che 
i 
proprietari 
di 
fondi 
s’impegnassero al 
pascolo reciproco. Per 
consuetudine 
cioè 
o per 
tacito consenso, i 
detti 
proprietari 
dei 
fondi 
vicini 
mandarono 
i 
loro 
animali 
nel 
proprio 
fondo, 
sectis 
segetibus, 
per 
godere 
di 
eguale 
diritto per 
il 
fondo vicino. E 
siffatto diritto, che 
oramai 
si 
perde 
nella notte 
dei 
tempi, dura 
tuttora col 
medesimo carattere 
con quale 
nacque. Pertanto ne 
godono i 
proprietari 
di 
determinati 
fondi 
e 
solo per 
fondo determinati 
[…]. 
In Italia il 
compascolo vige 
tuttora in alcune 
province 
meridionali 
(Puglia e Calabria), e in Sicilia” (pp. 355-356). 
(49) Il 
volume 
è 
dedicato al 
Ministro della 
giustizia 
Alfredo Rocco “artefice 
sommo del 
rinnovamento 
della legislazione italiana questo piccolo segno di grande stima e di devozione profonda”. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


Vengono 
esposte: 
le 
servitù 
personali 
(usufrutto, 
uso, 
abitazione); 
le 
servitù 
prediali; 
enfiteusi; 
superficie; 
diritti 
reali 
sotto leggi 
anteriori 
(oneri 
reali, usi 
civici 
e 
domini 
collettivi); 
diritti 
assoluti 
sopra 
beni 
giuridici 
immateriali 
(proprietà 
intellettuale e industriale). 


• 
volume 
II, 
parte 
III: 
I 
diritti 
reali 
di 
garanzia, 
UTET, 
1932, 
pp. 
443 
(50). 
Vengono trattati i prelievi (51), i privilegi, i pegni e le ipoteche. 
•volume III: 
Le obbligazioni in generale, UTET, 1932, pp. 528 (52). 
Vengono esposte: 
le 
varie 
specie 
di 
obbligazioni; 
le 
fonti 
delle 
obbligazioni 
ossia 
i 
contratti, 
i 
quasi 
contratti 
(gestione 
di 
negozi, 
ripetizione 
dell’indebito), 
i 
delitti 
e 
quasi 
delitti, la 
legge; 
gli 
effetti 
delle 
obbligazioni; 
la 
trasmissione 
delle 
obbligazioni 
(successione 
nel 
credito, 
successione 
nel 
debito); 
l’estinzione 
delle obbligazioni. 
•volume IV: 
I contratti speciali, UTET, 1934, pp. 643 (53). 
Vi 
è 
l’esposizione 
di: 
donazione; 
compravendita; 
permuta; 
locazione; 
deposito 
e 
sequestro; 
comodato; 
precario; 
transazione; 
contratto estimatorio; 
contratti 
relativi 
al 
credito (mutuo, rendita 
fondiaria, rendita 
semplice, contratto vitalizio); 
anticresi; 
fideiussione; 
giuoco 
e 
scommessa; 
contratti 
relativi 
alle 
prestazioni 
umane 
(locazione 
di 
opere, 
contratto 
di 
appalto, 
contratto 
di 
trasporto, 
il mandato, la società, la mezzadria). 
•volume 
V: 
Diritto di famiglia, UTET, 1921, pp. 869 (54). 
Vi 
è 
l’esposizione 
di: 
matrimonio; 
rapporti 
personali 
tra 
i 
coniugi 
(con il 
principio 
cardine 
dell’epoca: 
il 
marito è 
il 
capo della 
famiglia; 
la 
moglie 
segue 
la 
condizione 
civile 
di 
lui); 
rapporti 
patrimoniali 
tra 
i 
coniugi 
(separazione 
dei 
beni 
con 
la 
disciplina 
della 
autorizzazione 
maritale; 
regime 
dotale; 
comunione 
dei 
beni; 
convenzioni 
matrimoniali); 
famiglia 
(azioni 
di 
stato, 
rapporti 
tra 
i 
coniugi e tra i genitori ed i figli); adozione; prole nata fuori dal matrimonio. 
•volume 
VI: 
Il diritto delle successioni, UTET, 1934, pp. 777. 
Vi 
è 
la trattazione 
istituzionale 
della 
materia, con esposizione 
degli istituti tipici 
dell’epoca 
quali 
la 
divisione 
dell’ascendente 
tra 
i 
discendenti 
(divisio 
inter 
liberos) e, in modo ampio, dei fedecommessi. 
All’indomani 
della 
riforma 
codicistica 
del 
diritto 
civile 
-in 
collaborazione 
con il 
fratello Francesco -redasse, per i 
tipi 
della 
Casa 
editrice 
Jovene 
di 
Napoli 
un 
ampio 
commento 
al 
Codice 
Civile: 
Il 
nuovo 
Codice 
Civile 
commentato 


(50) Il volume è dedicato “Al 
prof. 
Amedeo 
Giannini 
affettuosamente”. 
(51) “Dicesi 
che 
ha il 
diritto di 
prelievo o prelevamento colui 
che, avendo un diritto dominicale 
o un diritto reale 
sopra una cosa espropriata, può chiedere 
che 
sia separata a suo vantaggio la parte 
del 
prezzo ritratto dalla vendita forzata, corrispondente 
al 
valore 
della sua proprietà o del 
diritto reale. 
Da tale 
definizione 
discende, che 
chi 
gode 
del 
prelievo non entra in concorso coi 
creditori 
del 
debitore 
espropriato, ma preleva per 
sè 
solo e 
prima degli 
altri 
creditori 
la parte 
del 
prezzo che 
gli 
compete” 
(p. 
22). 
(52) Il volume è dedicato “Alla mia carissima mamma e alla santa memoria di mio padre”. 
(53) Il volume è dedicato “Alla mia Lillina 24 luglio 1933”. 
(54) Il volume è dedicato “Alla soave e cara memoria di mia moglie e di mia figlia Sina”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


con 
i 
lavori 
preparatori 
-La 
più 
recente 
giurisprudenza 
del 
vecchio 
e 
il 
nuovo 
codice 
-Le 
norme 
di 
attuazione. Poté 
curare 
il 
commento solo dei 
primi 
tre 
libri 
(Libro I Delle 
persone, 1939, pp. 523; 
Libro II Delle 
successioni, 1941, 
pp. 
571; 
Libro 
III 
Della 
proprietà, 
1944, 
pp. 
567) 
ed 
il 
tomo 
I 
del 
libro 
IV 
(Delle 
obbligazioni, 
1949, 
pp. 
295), 
essendo 
venuto 
meno 
ai 
vivi 
nell’anno 
1945; la restante parte dell’opera venne completata da altri giuristi. 


Per ogni 
articolo del 
codice 
è 
riportato il 
testo, se 
del 
caso la 
bibliografia, 
i lavori preparatori ed il commento. 


Per il 
nuovo Digesto è 
stato autore 
dei 
seguenti 
lavori: 
voce 
Capacità civile, 
vol. II, 1937, pp. 758-772; 
voce 
Capacità di 
agire, vol. II, 1937, pp. 777778; 
voce 
Capacità giuridica, vol. II, 1937, pp. 782-788. 


10. Gaetano Scavonetti. 
Gaetano 
Scavonetti 
(1876-1957) 
(55), 
entrato 
nell’Avvocatura 
Erariale 
nel 
1906, divenne 
presto il 
più diretto collaboratore 
dell’Avvocato Generale 
Giovanni 
Villa, al 
quale 
successe 
nel 
1921. Senatore 
del 
Regno nel 
1929. Fu 
“costretto 
alle 
dimissioni 
nel 
1938 
per 
scarsa 
ortodossia 
politica” 
(56). 
Tornò 
alla 
vita 
pubblica 
nel 
dopoguerra 
come 
membro 
e 
poi 
Presidente 
dell’Alta 
Corte per la Regione siciliana; si ritirò da tale carica nel 1952. 


Quale 
Avvocato Generale, riuscì 
nel 
breve 
volgere 
di 
un decennio a 
condurre 
in porto ben quattro radicali 
riforme 
di 
struttura 
dell’Istituto (quelle 
del 
1923, 1925, 1930 e 
1933), che 
fecero dell’Avvocatura 
dello Stato un organismo 
di 
alta 
efficienza 
e 
perfettamente 
sintonizzato 
con 
le 
esigenze 
e 
aspirazioni 
di 
legalità 
dell’azione 
amministrativa 
(57). È 
legato al 
suo nome 
l’accentramento 
presso l’Avvocatura 
dello Stato del 
patrocinio delle 
Amministrazioni 
statali, anche 
ad ordinamento autonomo, e 
altresì 
l’istituzione 
del 
“Foro dello 
Stato” 
(art. 19 del 
R.D. 30 dicembre 
1923, n. 2828) (58), in virtù del 
quale 
la 
trattazione 
delle 
cause 
che 
interessano le 
Amministrazioni 
deve 
avvenire, per 
la 
stragrande 
maggioranza, presso le 
Autorità 
giudiziarie 
della 
sede 
delle 
singole 
Avvocature. 


(55) Scheda 
biografica 
alla 
voce 
Scavonetti 
Gaetano, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVI, 
UTET, 1969, p. 684. 
(56) Così: 
L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 564. 
(57) Per tali 
dati: 
L’ 
Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
cit., p. 564. 
(58) 
“La 
competenza 
per 
territorio 
nelle 
cause 
nelle 
quali 
è 
parte 
una 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato, anche 
nel 
caso di 
più convenuti 
ai 
sensi 
dell’art. 98 del 
Codice 
di 
procedura civile, spetta al 
Tribunale 
o alla Corte 
di 
appello del 
luogo dove 
ha sede 
l’ufficio della Regia avvocatura erariale 
nel 
cui 
distretto si 
trova il 
Tribunale 
o la Corte 
di 
appello che 
sarebbe 
competente 
secondo le 
norme 
ordinarie. 
Quando 
l’Amministrazione 
dello 
Stato 
è 
chiamata 
in 
garantia, 
la 
cognizione 
così 
della 
causa 
principale 
come 
dell’azione 
in garantia è 
devoluta, sulla semplice 
richiesta dell’Amministrazione, con ordinanza 
del presidente, all’autorità giudiziaria competente a norma del comma precedente”. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


Opera 
principale: 
L’equità 
della 
Pubblica 
Amministrazione, 
Padova, 
1933. 

Fu 
altresì 
autore 
di 
due 
voci 
enciclopediche 
per 
il 
Nuovo 
Digesto 
italiano 
della 
UTET: 
della 
voce 
Avvocatura dello Stato (vol. II, 1937, pp. 69-78) e 
altresì 
della voce 
Foro dello Stato 
(vol. VI, 1938, pp. 100-103). 


11. Adolfo Giaquinto. 
Adolfo Giaquinto (1878-1971), entrato in Magistratura 
nel 
1903, ne 
percorse 
tutti 
i 
gradi 
fino a 
quello di 
Primo presidente 
della 
Corte 
di 
appello di 
Roma. Fu avvocato generale 
presso la 
Corte 
di 
cassazione, ove 
si 
distinse 
per 
la 
limpidità 
e 
precisione 
di 
pensiero nelle 
requisitorie 
nei 
processi 
civili. Fu 
Avvocato Generale dello Stato dal 1938 al 1945. 

Fece 
parte 
della 
Commissione 
parlamentare 
per 
il 
Codice 
Civile 
e 
di 
quelle 
ministeriali 
per 
i 
Codici 
Civile 
e 
Procedura 
Civile. 
Fu 
nominato 
nel 
1916 libero docente 
di 
diritto amministrativo e 
scienza 
dell’amministrazione 
e insegnò presso l’Università prima di Napoli e poi di Roma. 

Dedicò la 
sua 
attività 
a 
molte 
istituzioni 
e 
a 
compiti 
di 
giustizia: 
liquidatore 
degli 
usi 
civici 
a 
Napoli, componente 
del 
Tribunale 
superiore 
delle 
acque 
pubbliche, 
della 
Commissione 
per 
la 
riforma 
delle 
legislazioni 
sulla 
espropriazione 
per causa 
di 
pubblica 
utilità. Fu infine, per molti 
anni 
Presidente 
della 
Commissione Centrale delle Imposte (59). 


Sue 
opere 
principali 
sono: 
Teoria generale 
della responsabilità e 
sua applicazione 
agli 
enti 
pubblici, Santa 
Maria 
Capua 
Vetere, 1909; 
La responsabilità 
degli 
enti 
pubblici, 
Santa 
Maria 
Capua 
Vetere, 
in 
tre 
volumi, 
II 
edizione, 
1912; 
Della 
attività 
statale, 
Napoli, 
1915; 
Lezioni 
di 
diritto 
amministrativo 
presso 
la 
R. 
Università 
di 
Roma, 
Roma, 
1938 
(60). 
Con 
riguardo 
all’opera 
del 
1909 sulla 
responsabilità 
degli 
enti 
pubblici 
è 
stato detto: 
“opera rivoluzionaria, 
forse, 
la 
sua, 
nel 
periodo 
in 
cui 
fu 
scritta; 
ma 
essa 
contiene 
in 
sé 
le 
basi 
ed il 
fondamento delle 
nuove 
teorie 
sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione; 
ed 
ha 
di 
sé 
improntato 
tutti 
gli 
studi 
che 
successivamente 
si 
sono 
venuti 
svolgendo 
nella 
materia, 
ponendosi 
come 
una 
pietra 
miliare 
della 
giuspublicistica italiana” (61). 


Fu altresì 
autore 
di 
diverse 
voci 
enciclopediche 
per il 
Nuovo Digesto italiano 
della 
UTET: 
della 
voce 
Contratto amministrativo 
(vol. IV, 1938, pp. 9297), 
della 
voce 
Contributo 
di 
miglioria 
(vol. 
IV, 
1938, 
pp. 
152-155), 
della 
voce 
Diritto amministrativo 
(vol. IV, 1938, pp. 888-893), della 
voce 
Diritto pub


(59) Dati riportati sulla 
Rass. Avv. Stato, 1971, p. 2 nel riportare la notizia del Suo decesso. 
(60) Per tali 
dati: 
voce 
Giaquinto Adolfo, Nuovo Digesto Italiano, vol. VI, UTET, 1938, p. 259 ed 
altresì voce 
Giaquinto Adolfo, Novissimo Digesto Italiano, cit., 836. 
(61) Così: 
G. ChICCA, La evoluzione 
storica dei 
principii 
della soggezione 
alla giurisdizione 
e 
della difesa legale dello Stato, cit., p. 29. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


blico 
(vol. IV, 1938, pp. 1191-1193) e 
della 
voce 
Espropriazione 
per 
pubblica 
utilità 
(vol. V, 1938, pp. 649-662). 


12. Avvocati 
dello Stato che 
collaborarono al 
Nuovo Digesto italiano (19371940). 
Tra 
le 
due 
guerre 
mondiali, dal 
1937 al 
1940, venne 
pubblicato -a 
cura 
Mariano D’Amelio, Primo Presidente 
della 
Corte 
di 
Cassazione, con la 
collaborazione 
di 
Antonio Azara, Presidente 
di 
Sezione 
della 
Corte 
di 
Cassazione 


-il 
Nuovo Digesto italiano, voll. I-XII (13 tomi), per i 
tipi 
della 
UTET, ossia 
la 
più importante 
enciclopedia 
giuridica 
dell’epoca. Opera 
completata 
in appena 
tre 
anni, a 
cinquanta 
anni 
dalla 
pubblicazione 
del 
primo volume 
del 
Digesto 
Italiano, enciclopedia 
metodica 
e 
alfabetica 
di 
legislazione, di 
dottrina 
e 
di 
giurisprudenza 
redatta 
sotto la 
direzione 
di 
Giuseppe 
Saredo e 
Luigi 
Lucchini. 
Al 
Nuovo 
Digesto 
hanno 
partecipato 
tutti 
i 
giuristi 
d’Italia; 
professori 
universitari, 
pratici 
del 
diritto, 
alti 
funzionari 
dei 
vari 
Ministeri 
tecnici. 
In 
totale 
oltre 600 autori hanno atteso alla redazione delle novemila voci dell’opera. 


Tra 
i 
collaboratori 
dell’opera, 
con 
contributi 
significativi, 
vi 
sono 
stati 
numerosi 
Avvocati 
dello 
Stato 
che 
hanno 
spaziato 
in 
vari 
campi 
del 
diritto, 
con prevalenza - intuitivamente - nel diritto pubblico. 


Di 
seguito 
si 
riporta 
il 
nominativo 
degli 
Avvocati 
dello 
Stato 
in 
uno 
al 
contributo prestato. 
Con riguardo alle voci afferenti al diritto pubblico: 


• 
Giuseppe 
Belli, 
Sostituto 
Avvocato 
dello 
Stato: 
voce 
Parchi 
della 
rimembranza, 
vol. 
IX, 
1939, 
p. 
446; 
voce 
Parchi 
naturali, 
vol. 
IX, 
1939, 
p. 
446; 
voce 
Parere, vol. IX, 1939, p. 451; 
voce 
Passaggi 
a livello, vol. IX, 1939, pp. 
509-510; 
voce 
Patente 
(Tassa di), vol. IX, 1939, p. 524; 
voce 
Pomodori, vol. 
IX, 1939, p. 1244; voce 
Prenotazione, vol. X, 1939, p. 193; 
• 
Ernesto Chiomenti, Sostituto Avvocato dello Stato, voce 
Impiegati 
ferroviari 
statali, vol. VI, 1938, pp. 765-773; 
• 
Carlo 
Dedin, 
Sostituto 
Avvocato 
dello 
Stato, 
voce 
Prestiti 
pubblici, 
vol. 
X, 1939, pp. 308-315; voce 
Prestito a premio, vol. X, 1939, pp. 330-333; 
• 
Francesco Di 
Gennaro, Vice 
Avvocato dello Stato, voce 
Demanio speleologico, 
vol. IV, 1938, pp. 697-701; 
• 
Gino Fornaci, Sostituto Avvocato dello Stato, voce 
Anticipazioni 
e 
sovvenzioni, 
vol. I, 1937, pp. 482-484; 
• 
Luigi 
Malpeli, Sostituto Avvocato Generale 
dello Stato, voce 
Ferrovie 
dello Stato, vol. V, 1938, pp. 1066-1078. 
Con riguardo alle voci afferenti al diritto civile: 


• 
Gian 
Carlo 
Messa, 
Vice 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
voce 
mutuo 
(diritto 
civile), vol. VIII, 1939, pp. 834-848; 
• 
Giuseppe 
Azzariti, Sostituto Avvocato dello Stato, voce 
Diseredazione, 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


vol. 
IV, 
1938, 
pp. 
38-40; 
voce 
Filiazione 
(diritto 
civile), 
vol. 
V, 
1938, 
pp. 
11361160; 
voce 
maternità (ricerca della), vol. VIII, 1939, pp. 217-218; 
voce 
Paternità 
(ricerca della), vol. IX, 1939, pp. 527-533; 


• 
Nicola 
Stolfi, Avvocato dello Stato, voce 
Capacità civile, vol. II, 1937, 
pp. 
758-772; 
voce 
Capacità 
di 
agire, 
vol. 
II, 
1937, 
pp. 
777-778; 
voce 
Capacità 
giuridica, vol. II, 1937, pp. 782-788. 
Nel diritto processuale civile vi sono le voci di 


• 
Francesco Menestrina, Sostituto Avvocato Generale 
dello Stato poi 
Avvocato 
Distrettuale 
dello 
Stato: 
voce 
Giattanza 
(giudizio 
di), 
vol. 
VI, 
1938, 
pp. 
260-261; 
voce 
mendelssohn 
Bartholdy 
Alberto, 
vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
421; 
voce 
Nuove 
province, vol. VIII, 1939, pp. 1179-1186; 
voce 
Procedure 
bagatellari, 
vol. X, 1939, pp. 612-613; 
voce 
Proroga di 
giurisdizione 
e 
di 
competenza, 
vol. 
X, 
1939, 
pp. 
779-780; 
voce 
Wach 
Adolfo, 
vol. 
XII, 
2, 
1940, 
p. 
1149. 
• 
hanno 
riguardato 
invece 
varie 
branche 
del 
diritto 
le 
numerosissime 
voci 
redatte da Dario Foligno, Sostituto Avvocato dello Stato (62). 
• 
Infine, siccome 
nelle 
opere 
enciclopediche 
solitamente 
la 
voce 
relativa 
a 
una 
data 
istituzione 
viene 
confezionata 
dal 
vertice 
della 
stessa, le 
voci 
relative 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
sono 
state 
redatte 
dall’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato Gaetano Scavonetti. Si 
tratta 
della 
voce 
Avvocatura dello Stato, vol. II, 
1937, pp. 69-78 e della voce 
Foro dello Stato, vol. VI, 1938, pp. 100-103. 
13. Salvatore Scoca, padre della democrazia 
(63). 
Una 
caratteristica 
degli 
Avvocati 
dello 
Stato, 
vieppiù 
quelli 
rivestenti 
posizioni 
apicali, è 
stata 
quella 
di 
partecipare, in posizioni 
di 
primo piano, alla 
vita 
istituzionale 
del 
Paese. I primi 
Avvocati 
Generali, durante 
la 
carica, sono 
stati 
anche 
Ministri. 
Giacomo 
Giuseppe 
Costa 
-Avvocato 
Generale 
dopo 
Mantellini, 
dal 
1885 al 
1897 -fu Ministro di 
Grazia 
e 
Giustizia; 
Giovanni 
Villa 
Avvocato 
Generale 
dal 
1913 al 
1921 -fu Ministro dei 
Trasporti 
e 
Vice 
Presidente 
del Consiglio dei Ministri. 


(62) Voce 
Consiglio comunale, vol. III, 1938, pp. 877-888; 
voce 
Consiglio provinciale, vol. III, 
1938, pp. 918-919; 
voce 
Erario, vol. V, 1938, pp. 451; 
voce 
Ermeneutica, vol. V, 1938, p. 481; 
voce 
Gemelli, vol. VI, 1938, p. 217; 
voce 
Giunta comunale, vol. VI, 1938, pp. 344-345; 
voce 
Grida in combattimento, 
vol. VI, 1938, pp. 507-508; 
voce 
In praeteritum 
non vivitur, vol. VI, 1938, pp. 1126-1127; 
voce 
Interregno, vol. VII, 1938, p. 75; 
voce 
Istruzione 
ministeriale, vol. VII, 1938, pp. 346-348; 
voce 
Liberum 
veto, vol. VII, 1938, pp. 892-893; 
voce 
Libripens, vol. VII, 1938, p. 949; 
voce 
maggioranza, 
vol. VII, 1938, pp. 1113-1115; 
voce 
magistrato delle 
acque, vol. VIII, 1939, p. 5; 
voce 
malitiis 
non est 
indulgendum, vol. VIII, 1939, pp. 35-36; 
voce 
mandamento, vol. VIII, 1939, p. 50; 
voce 
mandato imperativo, 
vol. VIII, 1939, pp. 102-104; 
voce 
meeting, vol. VIII, 1939, p. 417; 
voce 
messo comunale, 
vol. VIII, 1939, p. 433; 
voce 
monte 
delle 
pensioni, vol. VIII, 1939, p. 719; 
voce 
monte 
di 
famiglia, vol. 
VIII, 1939, pp. 719-720; 
voce 
monte 
di 
maritaggio o monacaggio, vol. VIII, 1939, p. 720; 
voce 
Notaio 
della corona, vol. VIII, 1939, pp. 1054-1055. 
(63) Così 
è 
definito il 
Nostro in un articolo a 
Lui 
dedicato in occasione 
dei 
sessanta 
anni 
della 
morte: 
V. SBRESCIA, Scoca, padre 
della democrazia, in “Il 
Quotidiano del 
Sud”, 12 dicembre 
2021, p. 
16. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Salvatore 
Scoca 
(1894-1962), 
coniugando 
l’impegno 
burocratico 
con 
l’impegno 
politico, 
è 
stato 
uno 
dei 
protagonisti 
della 
vita 
politico-istituzionale 
del 
secondo dopoguerra. Fu Sottosegretario di 
Stato al 
Ministero del 
Tesoro 
nel 
Governo Bonomi 
III (1944-1945) e 
poi 
Sottosegretario di 
Stato al 
Ministero 
delle 
Finanze 
nel 
Governo De 
Gasperi 
II (1946-1947), Ministro per la 
riforma 
della 
pubblica 
Amministrazione 
nel 
Gabinetto 
Pella 
(1953-1954). 
Nel 
1946 
fu 
nominato 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
carica 
ricoperta 
fino 
alla 
sua 
morte. Fu eletto Deputato nel 
1948 e 
nel 
1953. Affiancò la 
sua 
attività 
di 
funzionario 
dello Stato con quella 
di 
attento studioso di 
problemi 
economici 
e 
finanziari, 
come risulta dalle diverse sue pubblicazioni. 


Presso 
la 
Regia 
Università 
degli 
Studi 
economici 
e 
commerciali 
di 
Trieste, 
Scoca 
fu 
incaricato 
dell’insegnamento 
di 
Scienza 
delle 
finanze 
e 
diritto 
finanziario 
dall’anno accademico 1926-27 all’anno accademico 1931-32, dell’insegnamento 
di 
Politica 
economica 
negli 
anni 
accademici 
1929-30 e 
1930-31 
e 
nell’anno 
accademico 
1929-30 
tenne 
un 
ciclo 
di 
conferenze 
in 
materia 
di 
Legislazione 
tributaria 
nei 
Corsi 
di 
specializzazione 
per la 
“organizzazione, 
amministrazione 
ed economia industriale” 
e 
per la 
“Preparazione 
professionale 
in 
materia 
di 
economia 
e 
commercio” 
(64). 
Docente 
di 
diritto 
finanziario, 
poi, 
anche 
presso 
la 
Facoltà 
di 
giurisprudenza 
dell’Università 
di 
Roma 
nel-
l’anno 
accademico 
1940-1941. 
Direttore, 
con 
Achille 
Donato 
Giannini 
e 
Carlo 
D’Amelio, 
della 
Rivista 
italiana 
di 
diritto 
finanziario, 
e 
poi 
dal 
1949 
sotto 
l’alta 
guida 
di 
Luigi 
Einaudi 
e 
insieme 
con Giannini, Griziotti 
e 
Vanoni, della 
Rivista 
di 
diritto finanziario e 
scienza 
delle 
finanze. Contribuì, con una 
serie 
di 
pubblicazioni, articoli, note 
a 
sentenze, al 
fiorire 
della 
scuola 
italiana 
di 
diritto 
finanziario. “Egli 
fu considerato tra gli 
studiosi 
più autorevoli 
del 
diritto 
finanziario, uno dei 
maestri 
di 
questa disciplina. Fu molto apprezzato per 
la 
sua non comune 
capacità di 
analisi 
degli 
istituti 
giuridici 
del 
diritto finanziario, 
per 
il 
suo 
rigore 
metodologico, 
per 
la 
sua 
organica 
visione 
di 
sistema. 
[...]. 
Fu, 
poi, 
eletto 
alla 
Costituente, 
ove 
contribuì 
a 
gettare 
le 
basi 
della 
nuova 
Costituzione, Si 
batté, in particolare, per 
sancire 
il 
principio della progressività 
contributiva, ispirandosi 
ad una visione 
fondata sull’equità e 
sulla giustizia 
sociale, fu il 
“padre” 
dell’art. 53 della Costituzione 
in virtù del 
quale 
“Tutti 
sono tenuti 
a concorrere 
alle 
spese 
pubbliche 
in ragione 
della loro capacità 
contributiva. 
Il 
sistema 
tributario 
è 
informato 
a 
criteri 
di 
progressività” 
[…]. 
Relatore 
di 
maggioranza, 
fu, 
in 
Parlamento, 
uno 
dei 
fondatori 
della 
CA


(64) 
Tanto 
è 
stato 
ricordato 
nel 
Convegno 
“Salvatore 
Scoca 
e 
la 
Regia 
Università 
degli 
Studi 
economici 
e 
commerciali 
di 
Trieste 
-La ricerca e 
l’insegnamento di 
Scienza delle 
finanze 
e 
Diritto finanziario”, 
tenutosi 
presso l’Università 
degli 
Studi 
di 
Trieste 
in occasione 
dei 
sessanta 
anni 
della 
morte. 
Nel 
Convegno si 
è 
anche 
ricordato che, in seguito, nel 
suo ruolo di 
Ministro, Scoca 
svolse 
un ruolo di 
primo piano nei 
rapporti 
governativi 
e 
diplomatici 
e 
dette 
un decisivo contributo per l’affermazione 
nei 
fatti 
della 
italianità 
di 
Trieste; 
e 
lo fece 
con la 
passione 
che 
gli 
derivava 
dalla 
vecchia 
e 
serena 
frequentazione 
della città, delle sue istituzioni culturali e dei suoi abitanti. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


SmEZ 
e 
sostenitore 
delle 
politiche 
straordinarie 
per 
le 
regioni 
insufficientemente 
sviluppate del meridione” (65). 


Fece 
parte 
di 
innumerevoli 
Commissioni 
e 
organi 
collegiali, sempre 
ricercato 
per la 
profonda 
conoscenza 
dei 
problemi 
giuridici, da 
cui 
non andava 
mai 
disgiunto 
un 
naturale 
innato 
equilibrio 
nella 
ricerca 
di 
adeguate 
soluzioni. 
E 
si 
vuol 
qui 
ricordare 
la 
sua 
partecipazione 
al 
Consiglio del 
Contenzioso diplomatico 
e 
alla 
Commissione 
per la 
formazione 
dei 
testi 
unici 
e 
delle 
leggi 
tributarie, 
che, 
sotto 
la 
Sua 
presidenza, 
ha 
licenziato 
il 
testo 
unico 
sulle 
imposte 
dirette 
ed ha 
portato a 
termine 
la 
elaborazione 
di 
quello della 
legge 
sulla 
riscossione 
(66). 


Opere 
principali: 
Le 
entrate 
ordinarie 
dello 
Stato, 
Padova, 
1927; 
Le 
entrate 
straordinarie 
dello 
Stato, 
Padova, 
1928; 
Effetti 
finanziari 
della 
svalutazione 
della 
moneta; 
L’evasione 
dell’imposta 
di 
ricchezza 
mobile 
(Dir. 
Prat. 
Trib., 
1928); 
Sulla 
causa 
giuridica 
dell’imposta 
(Riv. 
Dir. 
Pubbl., 
1932); 
Elementi 
di 
scienza 
delle 
finanze, 
Lanciano, 
1936; 
Gli 
enti 
impositori 
quali 
soggetti 
passivi 
di 
imposizione 
(Riv. 
It. 
Dir. 
Fin., 
1937); 
Situazione 
finanziaria 
e 
riforma 
tributaria 
(Ibid., 
1939); 
Appunti 
per 
la 
riforma 
tributaria, 
Roma, 
1944 
(67). 


È 
stato 
altresì 
autore 
-come 
già 
Gaetano 
Scavonetti 
per 
il 
Nuovo 
Digesto 


-della 
redazione 
della 
voce 
Avvocatura dello Stato, (vol. I, 2, 1958, pp. 16851690) 
e 
della 
voce 
Foro dello Stato 
(vol. VII, 1961, pp. 503-595) per il 
Novissimo 
Digesto italiano, (III edizione del Digesto della UTET). 
Per 
la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
pubblicato: 
Leggi 
di 
bilancio 
e 
leggi 
finanziarie 
nell’articolo 
81 
della 
Costituzione 
(1960, 
n. 
1-2-3, 
pp. 
1-9). 


14. Giuseppe 
Azzariti e Giuseppe Belli. 
Giuseppe 
Azzariti 
e 
Giuseppe 
Belli 
hanno 
entrambi 
collaborato, 
con 
ampi 
contributi, 
al 
Nuovo 
Digesto 
Italiano, 
come 
registrato 
innanzi, 
e 
al 
Novissimo 
Digesto 
Italiano. 
In 
quest’ultima 
opera 
enciclopedica, 
anzi, 
sono 
stati 
gli 
unici 
Avvocati 
dello Stato a 
collaborare 
con continuità, avendo redatto quasi 
tutte 
le 
voci 
aventi 
quali 
autori 
Avvocati 
dello Stato (con l’eccezione 
delle 
voci 
Avvocatura 
dello Stato 
e 
Foro dello Stato, affidate 
alla 
redazione 
dell’Avvocato 
Generale Salvatore Scoca). 


• 
Giuseppe 
Azzariti 
(1908-2000) svolse 
tutta 
la 
carriera 
nell’Avvocatura 
dello Stato, per diventare 
Sostituto Avvocato Generale 
dello Stato, poi 
Avvocato 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
e 
infine 
Vice 
Avvocato Generale 
dello 
Stato. Quale 
tecnico si 
prestò altresì 
alla 
società 
civile, svolgendo l’incarico 
di 
assessore 
al 
bilancio al 
Comune 
di 
Napoli 
tra 
gli 
anni 
’60 e 
gli 
anni 
’70 del 
(65) Così 
V. SBRESCIA, Scoca, padre 
della democrazia, in “Il 
Quotidiano del 
Sud”, 12 dicembre 
2021, p. 16. 
(66) Dati riportati nella 
Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, gennaio 
-giugno 1962, pp. 1-2. 
(67) Su tali 
dati: 
voce 
Scoca Salvatore, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVI, UTET, 1969, p. 
783. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


secolo 
scorso. 
Donò 
tutta 
la 
sua 
ricchissima 
biblioteca 
giuridica 
all’Avvocatura 
Distrettuale dello Stato di Campobasso. 


Civilista 
classico, 
si 
è 
interessato 
in 
particolare, 
in 
modo 
costante, 
per 
decenni 
(a 
partire 
dagli 
anni 
’30 e 
fino agli 
anni 
‘90 del 
secolo passato), della 
disciplina della famiglia e delle successioni. 


È 
autore, 
con 
Francesco 
Saverio 
Azzariti 
e 
Giovanni 
Martinez, 
di 
un 
ampio 
testo 
istituzionale, 
molto 
diffuso, 
sulle 
successioni: 
Successioni 
per 
causa 
di 
morte 
e 
donazioni, 
per 
i 
tipi 
della 
CEDAM, 
giunto 
nel 
1959 
alla 
terza 
edizione, pp. 798. 


Altro 
testo 
importante, 
descrittivo 
della 
successione 
necessaria 
e 
della 
successione 
legittima, 
è 
Successione 
dei 
legittimari 
e 
successione 
dei 
legittimi, 
in 
Giurisprudenza 
sistematica 
di 
diritto 
civile 
e 
commerciale 
fondata 
da 
W. 
Bigiavi, II edizione, UTET, 1989, pp. 509 (III edizione 
nel 
1997, pp. 510, aggiornata 
da 
A. Iannaccone). 


ha 
curato, 
per 
il 
Trattato 
di 
Diritto 
Privato, 
diretto 
da 
Pietro 
Rescigno, 
per 
i 
tipi 
della 
UTET, 
giunto 
nel 
1997 
alla 
II 
edizione, 
“L’accettazione 
del-
l’eredità”, “La separazione 
dei 
beni 
del 
defunto da quelli 
dell’erede”, “La rinunzia 
all’eredità”e“L’eredità giacente” 
(nel 
5° 
volume: 
Successioni 
Tomo 
Primo, pp. 133-219) e 
“La divisione” 
(nel 
6° 
volume: 
Successioni 
Tomo secondo, 
pp. 391-479). 


Giuseppe 
Azzariti 
ha 
scritto, come 
evidenziato innanzi, importanti 
voci 
enciclopediche 
per 
il 
Nuovo 
Digesto 
(alla 
fine 
degli 
anni 
’30 
del 
secolo 
scorso) 
e 
per 
il 
Novissimo 
Digesto 
tra 
il 
1959 
ed 
il 
1971. 
Per 
il 
Nuovo 
Digesto 
è 
autore 
dei 
seguenti 
lavori: 
voce 
Diseredazione, vol. IV, 1938, pp. 38-40; 
voce 
Filiazione 
(diritto 
civile), 
vol. 
V, 
1938, 
pp. 
1136-1160; 
voce 
maternità 
(ricerca 
della), vol. VIII, 1939, pp. 217-218; 
voce 
Paternità (ricerca della), vol. IX, 
1939, pp. 527-533. 


Per il 
Novissimo Digesto è 
autore 
delle 
seguenti 
voci: 
Contestazione 
di 
stato, 
vol. 
IV, 
1959, 
pp. 
398-402; 
Debiti 
ereditari 
(pagamento 
dei), 
vol. 
V, 
1960, 
pp. 
182-187; 
Disconoscimento 
(azione 
di), 
vol. 
V, 
1960, 
pp. 
1091-1098; 
Filiazione 
legittima e 
naturale, vol. VII, 1961, pp. 315-333; 
Legittimazione 
dei 
figli 
(diritto civile), vol. IX, 1963, pp. 727-731; 
maternità (dichiarazione 
di), vol. X, 1964, pp. 323-325; 
Paternità (dichiarazione 
di), vol. XII, 1965, 
pp. 
557-565; 
Possesso 
di 
stato 
(dichiarazione 
di), 
vol. 
XIII, 
1966, 
pp. 
419422; 
Reclamo 
di 
stato 
(azione 
di), 
vol. 
XIV, 
1967, 
pp. 
1068-1070; 
Stato 
civile, 
vol. XVIII, 1971, pp. 292-301; 
Successioni 
(diritto civile), Successione 
testamentaria, 
vol. XVIII, 1971, pp. 805-862. 


Per 
l’Enciclopedia 
giuridica 
Treccani 
è 
autore 
della 
voce 
Successione. 


III) SUCCESSIoNE 
LEGITTImA, vol. XXX, 1993, pp. 1-12. 
È 
autore 
di 
numerosi 
articoli 
sulla 
materia 
delle 
successioni 
pubblicati 
sulle 
più importanti 
riviste 
giuridiche 
italiane, tra 
cui 
la 
Giustizia 
civile, Giurisprudenza 
italiana, Rivista di diritto privato. 



TEMI 
ISTITUZIONALI 


Per la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato ha 
scritto i 
seguenti 
articoli: 
In 
tema 
di 
responsabilità 
degli 
eredi 
del 
contribuente, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1959, 
n. 
3-4, 
pp. 
41-44; 
I 
termini 
per 
l’accertamento 
e 
per 
la 
iscrizione 
a 
ruolo delle 
imposte 
dirette, in Rass. Avv. Stato, 1960, n. 7-8-9-10-11-12, 
pp. 
69-73. 


• 
Anche 
Giuseppe 
Belli 
(1905-1965), 
come 
Giuseppe 
Azzariti, 
svolse 
tutta 
la 
carriera 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
per 
diventare 
infine 
Vice 
Avvocato 
Generale 
dello Stato. 
ha 
scritto importanti 
voci 
enciclopediche 
per il 
Nuovo Digesto e 
per il 
Novissimo Digesto. 


Per il 
Nuovo Digesto è 
autore 
delle 
seguenti 
voci 
enciclopediche: 
Parchi 
della rimembranza, vol. IX, 1939, p. 446; 
Parchi 
naturali, vol. IX, 1939, p. 
446; 
Parere, vol. IX, 1939, p. 451; 
Passaggi 
a livello, vol. IX, 1939, pp. 509 
-510; 
Patente 
(Tassa di), vol. IX, 1939, p. 524; 
Pomodori, vol. IX, 1939, p. 
1244; 
Prenotazione, vol. X, 1939, p. 193. 


Per 
il 
Novissimo 
Digesto 
è 
autore 
delle 
seguenti 
voci: 
Croce 
rossa, 
vol. 
V, 
1960, 
pp. 
18-20; 
Funerale, 
vol. 
VII, 
1961, 
pp. 
674-675; 
Industria 
e 
industrializzazione, 
vol. 
VIII, 
1962, 
pp. 
621-629; 
Istituto 
Poligrafico 
dello 
Stato, 
vol. 
IX, 
1963, 
p. 
262; 
mercato, 
fiera 
ed 
esposizione, 
vol. 
X, 
1964, 
pp. 
569-574. 


È 
autore 
altresì 
della 
importante 
voce 
enciclopedica 
Avvocatura 
dello 
Stato, in Enc. del diritto, vol. IV, Giuffré, 1959, pp. 670-680. 


Per la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato ha 
scritto i 
seguenti 
articoli: 
Il 
solve 
et 
repete 
e 
la Costituzione, in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 11-12, pp. 1 
-6; 
La illegittimità costituzionale 
delle 
leggi 
nel 
processo civile, in Rass. Avv. 
Stato, 
1950, 
n. 
2, 
pp. 
1-7; 
L’intervento 
dello 
stato 
per 
la 
responsabilità 
dei 
danni 
cagionati 
dagli 
impianti 
nucleari, in Rass. Avv. Stato, 1958, n. 5 
-6, pp. 
53-55. 


15. Nicola Catalano, padre 
del 
rinvio pregiudiziale 
d’interpretazione 
e 
apostolo 
del primato del diritto comunitario. 
Nicola 
Catalano 
(1910-1984) 
è 
stato 
tra 
le 
figure 
di 
primo 
piano 
nella 
fase 
pioneristica 
di 
applicazione 
del 
diritto 
comunitario, 
tanto 
che 
in 
un 
recente 
saggio è 
definito come 
il 
“padre 
del 
rinvio pregiudiziale 
d’interpretazione 
e 
apostolo del primato del diritto comunitario” (68). 


Entrato 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1939 
come 
vincitore 
di 
concorso, 
nel 
1955 fu promosso Sostituto Avvocato Generale 
dello Stato, ruolo che 
ricoprì 
fino 
al 
1° 
maggio 
1962 
allorché 
lasciò 
i 
ranghi 
dell’Avvocatura. 
Nel 


(68) Così 
A. ARENA 
e 
A. ROSANò, Nicola Catalano (1910-1984): padre 
del 
rinvio pregiudiziale 
d’interpretazione 
e 
apostolo del 
primato del 
diritto comunitario, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 1 2024. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


1958 
fu 
nominato 
nell’alta 
carica 
di 
Giudice 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
delle 
Comunità 
Europee, che mantenne fino all’8 marzo 1962. 


Catalano 
partecipò, 
in 
qualità 
di 
delegato 
italiano, 
al 
Groupe 
de 
rédaction, 
il 
comitato di 
giuristi 
(noto, per tale 
ragione, anche 
come 
Groupe 
juridique) 
al 
quale 
fu 
affidato 
il 
compito 
di 
redigere 
le 
disposizioni 
generali 
e 
istituzionali 
dei 
Trattati 
di 
Roma. Tale 
comitato svolse 
i 
propri 
lavori 
tra 
la 
fine 
del 
1956 e 
l’inizio del 
1957. Fu proprio Catalano a 
proporre 
al 
Groupe 
de 
rédaction 
l’introduzione 
di 
un 
procedimento 
pregiudiziale 
con 
un 
oggetto 
più 
ampio 
di 
quello 
previsto 
dall’art. 
41 
del 
Trattato 
CECA, 
che 
consentiva 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
di 
pronunciarsi 
solo sulla 
validità 
delle 
deliberazioni 
dell’Alta 
Autorità 
e 
del 
Consiglio speciale 
dei 
Ministri. In particolare, Catalano formulò la 
prima 
bozza 
di 
quello 
che 
sarebbe 
diventato 
l’art. 
177 
del 
Trattato 
che 
istituisce 
la 
Comunità 
Economica 
Europea 
(CEE), che 
previde 
espressamente 
il 
potere 
dei 
giudici 
comunitari 
di 
pronunciarsi 
sull’interpretazione 
di 
tale 
trattato 
e 
del 
diritto derivato. 


Nel 
formulare 
questo 
nuovo 
tipo 
di 
rinvio 
pregiudiziale, 
Catalano 
si 
ispirò 
alla 
questione 
incidentale 
di 
costituzionalità 
prevista 
nell’ordinamento 
italiano 
(69). 
In 
effetti, 
va 
ricordato 
che 
all’epoca 
in 
cui 
Catalano 
collaborava 
con 
il 
Groupe 
de 
rédaction, 
egli 
faceva 
ancora 
parte 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
che, 
in 
tale 
veste, 
aveva 
partecipato 
ai 
primi 
procedimenti 
incidentali 
decisi 
dalla 
Corte 
costituzionale, 
pubblicando 
anche 
un 
articolo 
sugli 
aspetti 
procedurali 
di 
tale 
sindacato 
di 
costituzionalità 
(70). 


Le 
pronunce 
pregiudiziali 
hanno permesso alla 
Corte 
di 
Giustizia 
di 
affermare 
ed elaborare 
una 
serie 
di 
principi 
cardine 
del 
diritto comunitario, tra 
cui 
quello 
del 
primato 
delle 
norme 
comunitarie 
sulle 
norme 
degli 
Stati 
membri. 
Catalano 
fu 
fautore 
di 
tale 
principio 
fin 
dall’inizio 
del 
processo 
di 
integrazione 
europea, 
in 
quanto 
corollario 
della 
sua 
concezione 
delle 
Comunità 
europee 
come 
organizzazioni 
con “finalità indubbiamente 
federalistiche” 
(71) o addirittura 
“federazioni 
parziali” 
(72). 
Il 
nesso 
tra 
il 
principio 
del 
primato 
e 
la 
concezione 
delle 
Comunità 
europee 
di 
Catalano si 
coglie 
nella 
sua 
pubblicazione 


(69) 
In 
tal 
senso 
N. 
CATALANO, 
La 
Corte 
costituzionale 
e 
le 
Comunità 
europee 
(nota 
a 
Corte 
cost., 
sentenza 6 aprile 
1963, n. 49), in Il 
Foro italiano, 1963, parte 
V, col. 67 e 
ss., ove 
si 
afferma 
che 
l’art. 
177 del 
Trattato CEE 
era 
“ispirato” 
all’art. 23 della 
legge 
11 marzo 1953, n. 87, recante 
“Norme 
sulla 
costituzione 
e 
sul 
funzionamento della Corte 
Costituzionale”; 
N. CATALANO, Disciplina delle 
importazioni 
del 
petrolio 
in 
Francia 
e 
disposizioni 
del 
Trattato 
CEE 
(nota 
a 
Corte 
giust., 
4 
febbraio 
1965, 
causa 
20/64, Albatros 
c. So.pe.co.), in Il 
Foro italiano, 1965, parte 
V, col. 63, dove 
si 
legge 
che 
l’art. 177 del 
Trattato CEE 
è 
stato “direttamente 
ispirato” 
dalla 
questione 
incidentale 
di 
costituzionalità 
prevista 
dal-
l’ordinamento italiano. 
(70) N. CATALANO, Della “rilevanza” 
della questione 
costituzionale 
quale 
condizione 
dell’ordinanza 
di trasmissione alla Corte, in Rass. Avv. Stato, 1957, pp. 1 e ss. 
(71) 
N. 
CATALANO, 
Le 
fonti 
normative 
della 
Comunità 
Europea 
del 
Carbone 
e 
dell’Acciaio, 
in 
Actes officiels du Congrès d’études sur la C.E.C.A, Milano, 1957, vol. II, pp. 120-121. 
(72) 
N. 
CATALANO, 
manuale 
di 
diritto 
delle 
Comunità 
europee, 
1965, 
pp. 
21-22 
e 
ID., 
La 
Comunità 
economica europea e l’Euratom, 1957, p. 6. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


del 
1966 intitolata 
Elementi 
istituzionali 
di 
diritto comunitario, in cui 
sottolineò 
che 
il 
primato 
delle 
norme 
comunitarie 
sulle 
norme 
interne 
era 
un’esigenza 
giuridica 
che 
discendeva 
dal 
“tipo 
federale 
di 
struttura 
realizzata” 
dai 
Trattati 
comunitari (73). 


Catalano 
prese 
parte 
attivamente 
ai 
dibattiti 
accademici 
sulla 
natura 
delle 
Comunità 
europee. Intervenne 
alla 
Conferenza 
di 
Stresa 
del 
1957, dove 
fu relatore 
sulle 
fonti 
del 
diritto CECA, e 
nello stesso anno pubblicò la 
prima 
monografia 
in italiano sulla 
CEE 
e 
l’Euratom, con prefazione 
del 
Ministro degli 
esteri Gaetano Martino. 

Dopo l’esperienza 
di 
giudice 
comunitario, Catalano continuò a 
seguire 
e 
commentare 
gli 
sviluppi 
del 
diritto comunitario: 
fu autore 
di 
oltre 
cento pubblicazioni, 
di 
cui 
oltre 
trenta 
note 
a 
sentenza 
pubblicate 
nel 
Foro italiano. Nel 
1962 
egli 
pubblicò, 
in 
italiano 
e 
in 
francese, 
il 
proprio 
manuale 
di 
diritto 
delle 
Comunità europee, al 
quale 
seguì 
una 
seconda 
edizione, anch’essa 
in italiano 
e 
in 
francese, 
nel 
1965. 
Nel 
1963, 
nell’ambito 
del 
Colloquio 
dell’Aia 
organizzato 
dalla 
Federazione 
Internazionale 
di 
Diritto Europeo (FIDE), fu coautore, 
insieme 
a 
Riccardo Monaco, del 
rapporto per l’Italia 
sull’applicabilità 
diretta 
e 
immediata 
del 
diritto comunitario. Inoltre, nel 
1983, pubblicò nella 
rivista 
fondata 
da 
Altiero 
Spinelli 
e 
Felice 
Ippolito, 
Le 
Crocodile: 
lettre 
aux 
membres 
du 
Parlement 
européen, 
un 
parere 
sulla 
legittimità 
giuridica 
e 
istituzionale 
del 
progetto di 
Trattato che 
istituisce 
l’Unione 
europea, approvato l’anno successivo 
dal 
Parlamento europeo. Nel 
1984 diede 
alle 
stampe, insieme 
a 
Riccardo 
Scarpa, il suo ultimo volume, Principi di diritto comunitario. 


Infine, l’impegno di 
Catalano a 
favore 
dell’integrazione 
europea 
si 
manifestò 
nell’associazionismo 
e 
nella 
politica. 
Divenne 
presidente 
dell’Associazione 
italiana 
giuristi 
europei, 
fondata 
nel 
1958 
per 
promuovere 
la 
conoscenza 
del 
diritto 
comunitario. 
Fu 
membro 
del 
Consiglio 
italiano 
del 
Movimento 
europeo, un’organizzazione 
creata 
nel 
1948 per coordinare 
i 
partiti, 
le associazioni ed i sindacati a favore dell’integrazione europea (74). 


Opere 
principali: 
La 
Comunità 
economica 
europea 
e 
l’Euratom, 
I 
edizione, 
Giuffré, 1957 e 
II edizione, Giuffré, 1959, pp. 613; 
manuale 
di 
diritto 
delle 
Comunità europee, II edizione, Giuffré, 1965; 
Principi 
di 
diritto comunitario, 
Giuffrè, 1984. 


Di 
primaria 
importanza 
è 
l’opera 
La 
Comunità 
economica 
europea 
e 
l’Euratom 
(75). 
Il 
libro 
del 
1957, 
quindi 
coevo 
alla 
stipula 
dei 
trattati 
di 
Roma 
sulla 
costituzione 
della 
C.E.E. 
e 
dell’EURATOM, 
costituisce 
il 
primo 
tenta


(73) N. CATALANO, Elementi 
istituzionali 
di 
diritto comunitario, in IV 
Corso di 
diritto e 
di 
economia 
delle Comunità europee, Milano, 1966, p. 78. 
(74) 
Quanto 
innanzi 
riportato 
sulla 
attività 
del 
Catalano 
è 
stato 
desunto 
dal 
citato 
saggio 
di 
A. 
ARENA 
e 
A. ROSANò, Nicola Catalano (1910-1984): padre 
del 
rinvio pregiudiziale 
d’interpretazione 
e 
apostolo del primato del diritto comunitario. 
(75) Sulla quale la recensione in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 9-10, pp. 149-151. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


tivo 
di 
una 
sistemazione 
organica 
delle 
norme 
dei 
due 
trattati 
e 
consente, 
per 
ciò 
solo, 
una 
sintetica 
visione 
d’insieme. 
Catalano, 
in 
modo 
lucido, 
evidenzia 
che 
la 
Comunità 
Economica 
Europea 
e 
l’Euratom 
sono 
qualche 
cosa 
di 
nuovo 
nel 
mondo 
degli 
istituti 
giuridici 
internazionali, 
e 
precisamente 
qualche 
cosa 
di 
meno 
di 
uno 
Stato 
federale, 
ma 
qualche 
cosa 
di 
più 
delle 
Unioni 
Internazionali. 
Si 
tratterebbe, 
secondo 
l’autore, 
di 
strutture 
di 
nuovo 
tipo, 
tendenti 
verso 
lo 
Stato 
federale, 
il 
quale 
potrebbe 
rappresentare 
la 
tappa 
finale 
del 
loro 
sviluppo, 
quando 
cioè, 
dall’integrazione 
economica 
si 
dovesse 
passare 
all’integrazione 
politica. 
Tanto 
viene 
dimostrato 
nei 
capitoli 
relativi 
alle 
istituzioni 
e 
alle 
fonti 
del 
diritto. 
L’autore 
evidenzia 
che 
nessun 
trattato 
internazionale 
(salvo 
quello 
istitutivo 
della 
C.E.C.A., 
ma 
in 
misura 
minore) 
ha 
finora 
dato 
vita 
ad 
istituzioni 
del 
genere 
di 
quelle 
previste 
dal 
Trattato 
della 
C.E.E., 
né 
si 
era 
mai 
finora 
verificato 
il 
caso 
che 
in 
forza 
di 
un 
trattato 
potessero 
inserirsi 
immediatamente 
nell’ordinamento 
giuridico 
statale 
norme 
provenienti 
da 
fonti 
di 
produzione 
non 
statali 
(regolamenti 
deliberati 
dal 
Consiglio). 
È 
inutile 
sottolineare 
l’importanza 
che 
dal 
punto 
di 
vista 
politico 
hanno 
queste 
novità; 
basterà 
riflettere 
in 
proposito 
che 
esse, 
se 
pur 
non 
eliminano, 
riducono 
grandemente 
quello 
che 
è 
il 
maggiore 
ostacolo 
al 
funzionamento 
degli 
organismi 
internazionali 
creati 
da 
trattati 
multilaterali, 
e 
cioè 
la 
vischiosità 
insita 
nel 
processo 
di 
adattamento 
della 
legislazione 
dei 
singoli 
Stati 
alle 
norme 
dei 
trattati 
e, 
in 
genere, 
alle 
deliberazioni 
degli 
organi 
direttivi 
delle 
istituzioni 
internazionali. 
Catalano 
evidenzia 
l’assoluta 
importanza 
della 
natura, 
delle 
funzioni, 
e 
della 
competenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
regolata 
negli 
artt. 
164, 
188 
e 
192 
del 
Trattato 
della 
C.E.E. 
La 
novità 
assoluta, 
per 
quanto 
riguarda 
questa 
istituzione, 
è 
costituita 
dalla 
norma 
contenuta 
nell’art. 
177 
il 
quale 
stabilisce 
che 
la 
Corte 
di 
giustizia 
è 
competente 
a 
pronunziarsi 
sull’interpretazione 
del 
trattato, 
sulla 
validità 
ed 
interpretazione 
degli 
atti 
compiuti 
dalle 
istituzioni 
della 
comunità 
e 
sulla 
interpretazione 
degli 
Statuti 
degli 
organismi 
creati 
con 
atto 
del 
Consiglio; 
tale 
competenza 
è 
esclusiva 
nel 
senso 
che 
quando 
una 
questione 
del 
genere 
è 
sollevata 
in 
un 
giudizio 
pendente 
avanti 
una 
giurisdizione 
nazionale, 
prima 
o 
poi, 
essa 
finisce 
con 
l’essere 
obbligatoriamente 
rimessa 
al 
giudizio 
della 
Corte 
di 
Giustizia. 
È 
certo 
la 
prima 
volta 
che 
uno 
Stato 
inserisce 
nel 
suo 
ordinamento 
giuridico 
una 
norma 
in 
forza 
della 
quale 
una 
vertenza 
giudiziaria 
non 
può 
trovare 
la 
sua 
definizione 
davanti 
ad 
un 
giudice 
nazionale 
ma 
deve 
svolgersi, 
sia 
pure 
per 
una 
fase, 
davanti 
ad 
un 
giudice 
non 
nazionale. 


La 
ricostruzione 
del 
Catalano, nel 
corso dei 
decenni 
successivi, sarebbe 
diventata 
l’opinione 
comune. 
La 
grandezza 
dell’autore 
è 
che 
fin 
da 
subito, 
ossia 
prima 
ancora 
che 
le 
istituzioni 
abbiano iniziato a 
funzionare, ha 
individuato 
i dati caratterizzanti delle comunità europee e la loro assoluta novità. 

È 
altresì 
autore 
della 
voce 
C.E.R.N. (organizzazione 
Europea per 
le 
Ricerche 
Nucleari), in Novissimo Digesto, vol. III, UTET, 1959, pp. 12-124 e 



TEMI 
ISTITUZIONALI 


della 
voce 
EURATom 
(Comunità 
europea 
dell’energia 
atomica), 
in 
Novissimo 
Digesto, vol. VI, UTET, 1960, pp. 1039-1043. 


Per 
la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
pubblicato: 
La 
controversia 
franco-americana avanti 
la corte 
dell’Aja, in Rass. Avv. Stato, 1952, n. 
10-11, pp. 167-179 (si 
esamina 
una 
importante 
controversia 
-sfociata 
nella 
pronuncia 
del 
27 
agosto 
1952 
della 
Corte 
internazionale 
di 
giustizia 
-nella 
quale 
per la 
prima 
volta 
il 
Governo degli 
Stati 
Uniti 
d’America 
ha 
accettato 
l’arbitrato della 
Corte 
internazionale 
di 
Giustizia; 
ciò è 
avvenuto in occasione 
della 
controversia 
con la 
Francia 
-quale 
potenza 
protettrice 
dell’Impero sceriffiano 
del 
Marocco -concernente 
la 
legittimità 
ed applicabilità 
nei 
confronti 
dei 
cittadini 
americani 
di 
un 
decreto 
sceriffiano 
del 
30 
dicembre 
1948 
sul 
controllo 
delle 
importazioni 
sans 
devises 
<franco-valuta>); 
Della 
“rilevanza” 
della 
questione 
costituzionale 
quale 
condizione 
dell’ordinanza 
di 
trasmissione 
alla Corte, in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 1-2, pp. 1-7. 


16. Dario Foligno. 
Dario Foligno (1902-1975) entrò nell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1937, 
vi 
percorse 
i 
vari 
gradi 
fino alla 
carica 
di 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato, 
con la quale si congedò dall’Istituto. 


Giurista 
dai 
molteplici 
interessi, si 
è 
occupato principalmente 
di 
temi 
afferenti 
al diritto amministrativo. 

La 
sua 
opera 
principale 
è 
L’Attività 
Amministrativa, 
Giuffrè, 
1966, 
pp. 
319 (76). Con tale 
opera 
l’autore 
estende 
la 
sua 
indagine 
a 
tutto il 
campo del-
l’attività 
giuridica 
di 
tipo imperativo della 
Pubblica 
Amministrazione. Il 
secondo 
capitolo 
reca 
una 
approfondita 
analisi 
dell’atto 
amministrativo, 
mettendone 
in luce 
la 
sua 
collocazione 
nella 
fenomenologia 
giuridica, il 
complesso 
procedimento della 
sua 
formazione, la 
sua 
distinzione 
dagli 
atti 
di 
altri 
poteri 
e 
dagli 
atti 
politici, la 
individuazione 
degli 
atti 
generali 
e 
speciali, i 
caratteri 
peculiari 
dell’atto 
amministrativo: 
tipicità, 
nominatività, 
esecutorietà 
ed 
irretroattività. 
Il 
quarto 
capitolo 
espone 
l’invalidità 
dell’atto 
amministrativo; 
all’uopo l’autore 
sussume 
tale 
nozione 
sotto il 
più ampio paradigma 
delle 
difformità 
dell’atto medesimo dall’ordinamento giuridico e 
trae 
da 
tale 
collocazione 
lo spunto per ricollegare 
ai 
gradi 
di 
formazione 
dell’atto (esaminati 
nel 
secondo capitolo) le 
fattispecie 
di 
difformità 
dall’ordinamento giuridico (inesistenza, 
imputazione, invalidità, nullità, illiceità, annullabilità, illegittimità 
e 
inefficacia) 
come 
sanzioni 
ordinamentali 
o 
cause 
impeditive 
di 
perfezione, 
validità, 
efficacia. L’ultima 
parte 
del 
volume 
in rassegna 
è 
dedicata 
al 
tema 
dei 
ricorsi amministrativi. 


Foligno ha 
scritto, come 
evidenziato innanzi, numerose 
voci 
enciclope


(76) Sulla quale la recensione di 
A. SALVATORI, in Rass. Avv. Stato, 1966, II, pp. 78-79. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


diche 
per il 
Nuovo Digesto; 
è 
autore 
dei 
seguenti 
lavori: 
Voce 
Consiglio comunale, 
vol. 
III, 
1938, 
pp. 
877-888; 
voce 
Consiglio 
provinciale, 
vol. 
III, 
1938, 
pp. 
918-919; 
voce 
Erario, 
vol. 
V, 
1938, 
pp. 
451; 
voce 
Ermeneutica, 
vol. 
V, 
1938, 
p. 
481; 
voce 
Gemelli, 
vol. 
VI, 
1938, 
p. 
217; 
voce 
Giunta 
comunale, 
vol. 
VI, 
1938, 
p. 
344-345; 
voce 
Grida 
in 
combattimento, 
vol. 
VI, 
1938, 
p. 
507508; 
voce 
In praeteritum 
non vivitur, vol. VI, 1938, pp. 1126-1127; 
voce 
Interregno, 
vol. VII, 1938, p. 75; 
voce 
Istruzione 
ministeriale, vol. VII, 1938, 
pp. 346-348; 
voce 
Liberum 
veto, vol. VII, 1938, pp. 892-893; 
voce 
Libripens, 
vol. 
VII, 
1938, 
p. 
949; 
voce 
maggioranza, 
vol. 
VII, 
1938, 
pp. 
1113-1115; 
voce 
magistrato delle 
acque, vol. VIII, 1939, p. 5; 
voce 
malitiis 
non est 
indulgendum, 
vol. 
VIII, 
1939, 
pp. 
35-36; 
voce 
mandamento, 
vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
50; 
voce 
mandato imperativo, vol. VIII, 1939, pp. 102-104; 
voce 
meeting, vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
417; 
voce 
messo 
comunale, 
vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
433; 
voce 
monte 
delle 
pensioni, 
vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
719; 
voce 
monte 
di 
famiglia, 
vol. 
VIII, 
1939, 
pp. 
719-720; 
voce 
monte 
di 
maritaggio 
o 
monacaggio, 
vol. 
VIII, 
1939, 
p. 
720; 
voce 
Notaio della corona, vol. VIII, 1939, pp. 1054-1055. 


Per la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato ha 
scritto i 
seguenti 
articoli: 
Ricorso gerarchico e 
provvedimenti 
di 
urgenza, in Rass. Avv. Stato, 1950, n. 
1, 
pp. 
1-14; 
Cenni 
giuridici 
intorno 
alla 
confisca 
dei 
beni, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1950, n. 4, pp. 97-101; 
Contrappunti 
in tema di 
sistemazione 
degli 
atti 
della 
R.S.I., in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 1, pp. 8-13; 
Esecuzione 
dell’atto giurisdizionale 
e 
concessione 
della forza pubblica, in Rass. Avv. Stato, 1952, n. 1 
-2, 
pp. 1-7; 
I soggetti 
nel 
contenzioso costituzionale, in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 
5-6, pp. 65-94; 
La pretesa responsabilità della P.A. per 
lesione 
di 
interessi 
legittimi, 
in Rass. Avv. Stato, 1963, n. 1-2-3, pp. 1-23; 
Gli 
effetti 
della dichiarazione 
di 
illegittimità costituzionale 
(nuovi 
spunti 
in margine 
alla sentenza 
sul 
plus-valore 
delle 
aree 
fabbricabili), 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1966, 
II, 
pp. 
181188; 
Lo 
Stato 
in 
giudizio 
fra 
Stato 
Comunità 
e 
Stato 
apparato, 
Rass. 
Avv. 
Stato, 1968, II, pp. 69-87. 


ha 
scritto inoltre 
il 
saggio Titolarità del 
credito per 
imposte 
dirette 
e 
garanzia 
fideiussoria 
in Scritti 
giuridici 
in memoria 
di 
Marcello Barberio Corsetti, 
Giuffré, 1964, pag. 243 ss. 


17. Francesco Chiarotti. 
Francesco 
Chiarotti 
(1916-1994) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1942, vi 
percorse 
i 
vari 
gradi 
fino alla 
carica 
di 
Vice 
Avvocato Generale 
dello 
Stato. 


Come 
giurista 
si 
è 
interessato in particolar modo a 
temi 
relativi 
al 
diritto 
penale. 


È 
autore 
della 
importante 
monografia, 
La 
nozione 
di 
appartenenza 
nel 
diritto penale, Giuffré, 1950, pp. 145, opera 
ancora 
attuale 
per le 
questioni 
affrontate. 
Con tale 
opera 
si 
prende 
posizione 
sulla 
tematica 
della 
appartenenza 



TEMI 
ISTITUZIONALI 


nel 
diritto penale, rilevante 
nell’ambito dei 
delitti 
contro il 
patrimonio e 
nelle 
confische. In dottrina 
si 
discute 
sull’individuazione 
della 
corretta 
nozione 
di 
appartenenza. Da 
un lato, è 
stata 
ipotizzata 
un’interpretazione 
stricto sensu, 
secondo cui 
per “appartenenza” 
si 
intende, ai 
fini 
di 
interesse 
del 
diritto penale, 
solo quella 
connessa 
al 
diritto di 
proprietà, con l’effetto che 
soltanto il 
diritto di 
proprietà 
è 
suscettibile 
di 
confisca. Dall’altro lato (e 
tra 
questi 
vi 
è 
Chiarotti), tale 
nozione 
-recependo una 
concezione 
elaborata 
dai 
privatisti 
diviene 
sinonimo di 
“titolarità di 
un diritto avente 
per 
oggetto un bene” 
(77). 


Per l’Enciclopedia 
del 
diritto della 
Giuffré, ha 
curato la 
redazione 
delle 
seguenti 
voci: 
Abuso di 
autorità (contro arrestati 
o detenuti), vol. I, 1958, pp. 
175-178; 
Apertura 
arbitraria 
di 
luoghi 
o 
di 
oggetti, 
vol. 
II, 
1958, 
pp. 
586-587; 
Armi 
ed 
esplosivi, 
vol. 
III, 
1959, 
pp. 
26-33; 
Cadavere 
(dir. 
pen.), 
vol. 
V, 
1959, 
pp. 
771-775; 
Cittadino 
che 
porta 
le 
armi 
contro 
lo 
Stato 
italiano, 
vol. 
VII, 
1960, 
pp. 
160-163; 
Concussione 
(diritto 
vigente), 
vol. 
VIII, 
1961, 
pp. 
700710; 
Contagio 
da 
malattie 
veneree, 
vol. 
IX, 
1961, 
pp. 
612-614; 
Defunti 
(delitti 
contro la pietà dei), vol. XI, 1962, pp. 896-900; 
Detenzione 
abusiva di 
armi, 
vol. 
XII, 
1964, 
pp. 
335-338; 
Disturbo 
delle 
occupazioni 
o 
del 
riposo 
delle 
persone, 
vol. XIII, 1964, pp. 343-345. 


Per la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato ha 
scritto i 
seguenti 
articoli: 
L’appartenenza nei 
più recenti 
sviluppi 
della dottrina e 
della giurisprudenza, 
Rass. Avv. Stato, 1955, nn. 5 
-6, pp.100-104; 
Sulla costituzione 
di 
parte 
civile 
dell’amministrazione 
finanziaria nei 
processi 
per 
contrabbando, Rass. Avv. 
Stato, 1955, nn. 1-2, pp. 1-6. 


18. Giuseppe Guglielmi. 
Giuseppe 
Guglielmi 
(1916-1995) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1946 
e 
vi 
restò 
in 
servizio 
fino 
al 
1968, 
lasciando 
l’Istituto 
con 
la 
carica 
di 
Sostituto Avvocato Generale dello Stato. 


Giurista 
poliedrico, 
si 
è 
interessato 
della 
materia 
tributaria 
e 
del 
diritto 
costituzionale e amministrativo. 


Con 
il 
collega 
Giorgio 
Azzariti, 
futuro 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
ha 
scritto 
l’importante 
opera 
Le 
imposte 
di 
registro, 
sesto 
volume 
del 
Trattato 
di 
Diritto 
Tributario 
diretto 
da 
Achille 
Donato 
Giannini, 
UTET, 
1959, 
pp. 


207. 
Gli 
autori, 
partendo 
da 
una 
analisi 
del 
rapporto 
giuridico 
tributario 
di 
registro 
e 
della 
natura 
delle 
obbligazioni 
tributarie, 
espongono 
in 
modo 
istituzionale 
la 
complessa 
ed 
affascinante 
disciplina 
dell’imposta 
di 
registro, 
la 
“madre 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato” 
secondo 
l’Avvocato 
dello 
Stato 
Massimo 
Mari, 
ad 
evidenziare 
l’importanza 
-specie 
nel 
contenzioso 
del 
passato 
-di 
questo 
tributo. 
(77) F. ChIAROTTI, La nozione di appartenenza nel diritto penale, Giuffré, 1950, p. 56. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Per la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato ha 
scritto i 
seguenti 
articoli: 
L’art. 
28 
della 
Costituzione 
e 
la 
responsabilità 
dello 
stato 
e 
degli 
enti 
pubblici, 
in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 6 
-7, pp. 169-176; 
I contratti 
della pubblica amministrazione 
-parte 
prima, in Rass. Avv. Stato, 1951, n. 3, pp. 61-65; 
I contratti 
della 
pubblica 
amministrazione 
-parte 
seconda, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1951, n. 4, pp. 83-89; 
L’obbligo dell’amministrazione 
di 
conformarsi 
al 
giudicato, 
in Rass. Avv. Stato, 1953, n. 1 
-2, pp. 1-11; 
Questione 
di 
competenza 
costituzionale 
e 
giurisdizione 
-studi 
in 
onore 
di 
Guido 
Zanobini, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 1960, n. 7-8 
-9-10-11-12, pp. 65-68; 
Corte 
dei 
conti 
e 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale, in Rass. Avv. Stato, 1962, n. 7-9, pp. 68-69; 
Ancora 
su 
“questione 
di 
competenza 
costituzionale 
e 
giurisdizione”, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 1963, n. 1-2-3, pp. 28-30. 


19. Tommaso Tomasicchio. 
Tommaso 
Tomasicchio 
(1915-1995) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1940; 
fu Sostituto Avvocato Generale 
dello Stato e 
poi 
Avvocato Distrettuale 
dello Stato di Catanzaro. 


Giurista 
versatile, 
la 
sua 
principale 
opera 
è 
senz’altro 
il 
manuale 
del 
contenzioso 
tributario, 
I 
edizione 
1978, 
II 
edizione 
1986, 
CEDAM, 
pp. 
510. 
Opera 
istituzionale 
che 
descrive 
il 
processo 
tributario 
nella 
vigenza 
del 
d.P.R. 
26 
ottobre 
1972, 
n. 
636, 
innovato 
in 
modo 
incisivo 
con 
il 
d.P.R. 
3 
novembre 
1981, 
n. 
739. 
Nella 
prima 
parte 
dell’opera 
vi 
è 
l’esposizione 
dei 
presupposti 
del 
processo 
tributario 
(giurisdizione 
e 
competenza), 
del 
giudice 
e 
dei 
suoi 
ausiliari, 
delle 
parti 
e 
dell’assistenza 
tecnica, 
degli 
atti 
e 
dei 
termini 
del 
processo 
tributario, 
del 
processo 
in 
generale 
e 
degli 
atti 
impugnabili. 
Nella 
seconda 
parte 
dell’opera 
vi 
è 
l’esposizione 
delle 
varie 
fasi 
del 
processo 
e 
l’attuazione 
delle 
decisioni: 
i 
giudizi 
dinanzi 
alla 
Commissione 
tributaria 
di 
I 
e 
di 
II 
grado; 
le 
impugnative 
avverso 
le 
decisioni 
della 
Commissione 
tributaria 
di 
II 
grado 
(impugnativa 
alla 
Commissione 
Tributaria 
Centrale 
ed 
impugnativa 
alla 
Corte 
di 
appello); 
il 
ricorso 
per 
cassazione 
e 
le 
altre 
impugnazioni 
(opposizione 
di 
terzo 
e 
revocazione); 
sospensione, 
interruzione 
ed 
estinzione 
del 
processo 
tributario; 
i 
poteri 
istruttori 
e 
la 
prova 
nel 
processo 
tributario; 
l’esecuzione 
delle 
decisioni 
tributarie. 
L’opera 
si 
fa 
apprezzare 
per 
la 
sua 
sistematicità, 
chiarezza 
e 
proporzione, 
con 
ampi 
riferimenti 
storici, 
dottrinali 
e 
giurisprudenziali 
ed 
altresì 
rilievi 
critici 
(l’autore, 
tra 
l’altro 
-a 
pag. 
24 
-rileva: 
“Tre 
gradi 
di 
giurisdizione, 
oltre 
quello 
davanti 
alla 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, 
sono 
troppi; 
inopportuna 
e 
fonte 
di 
complicazione 
è 
poi 
la 
esistente 
divaricazione 
facoltativa, 
dopo 
la 
decisione 
della 
Commissione 
di 
secondo 
grado, 
tra 
Corte 
di 
Appello 
e 
Commissione 
Centrale 
”); 
si 
evidenzia 
la 
natura 
giurisdizionale 
delle 
Commissioni 
tributarie, 
anche 
di 
quelle 
preesistenti 
alla 
riforma 
del 
1972 
(pp. 
54-55). 


Altra 
opera 
rilevante 
è 
il 
massimario 
dell’espropriazione 
per 
pubblica 



TEMI 
ISTITUZIONALI 


utilità e 
della requisizione, a 
cura 
di 
T. Tomasicchio, Jandi 
Sapi 
editore, 1953, 
in ordine 
alla 
quale 
è 
stato rilevato che 
“per 
quanto ci 
consta, è 
la prima del 
genere, nella materia trattata, e 
che 
ha raggiunto lo scopo pratico che 
si 
proponeva” 
(78). 


ha 
scritto 
poi, 
con 
il 
collega 
Carmelo 
Carbone, 
Le 
sanzioni 
fiscali, 
terzo 
volume 
del 
Trattato 
di 
Diritto 
Tributario, 
diretto 
da 
Achille 
Donato 
Giannini, 
UTET, 
1959, 
pp. 
268. 
Il 
libro 
opera 
una 
trattazione 
sistematica 
delle 
sanzioni 
nel 
campo 
tributario, 
con 
originali 
spunti 
ricostruttivi; 
ad 
es., 
nell’opera 
si 
sostiene 
l’estensione 
della 
clemenza 
costituzionale 
-costituita 
dall’amnistia 
e 
dall’indulto 
-anche 
a 
sanzioni 
extrapenali, 
nello 
specifico 
a 
quelle 
fiscali 
(79). 


È 
autore 
poi, 
con 
il 
collega 
Giorgio 
Amorth 
(Avvocato 
dello 
Stato 
dal 
1948 al 
1954, di 
seguito Magistrato), di 
due 
opere 
di 
grande 
importanza 
sistematica 
e 
pratica, 
dedicate 
alle 
peculiarità 
della 
presenza 
dello 
Stato 
in 
giudizio. 

Allorché 
la 
controversia 
dinanzi 
al 
giudice 
ordinario 
abbia 
quale 
parte 
una 
amministrazione 
dello 
Stato, 
anche 
ad 
ordinamento 
autonomo, 
vi 
sono 
regole 
processuali 
peculiari, 
che 
derogano 
alle 
ordinarie 
regole. 
In 
queste 
controversie 
opera 
il 
patrocinio 
istituzionale 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
in 
favore 
delle 
amministrazioni 
dello 
Stato, 
anche 
ad 
ordinamento 
autonomo. 
Tale 
patrocinio 
comporta 
l’applicazione 
delle 
disposizioni 
contenute 
nel 
T.U. 
delle 
leggi 
e 
delle 
norme 
giuridiche 
sulla 
rappresentanza 
e 
difesa 
in 
giudizio 
dello 
Stato 
e 
sull’ordinamento 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
nel 
regolamento 
approvati, 
rispettivamente, 
con 
regi 
decreti 
30 
ottobre 
1933, 
numeri 
1611 
e 
1612, 
nonché 
degli 
artt. 
25 
(sul 
foro 
erariale) 
e 
144 
(sul 
luogo 
delle 
notifiche) 
c.p.c. 
Si 
tratta 
di 
un 
regime 
processuale 
speciale 
di 
assistenza 
legale 
e 
di 
patrocinio, 
con 
norme 
imperative 
ed 
inderogabili, 
connotato 
fondamentalmente 
da: 
a) 
mandato 
ex 
lege:“La 
rappresentanza, 
il 
patrocinio 
e 
l’assistenza 
in 
giudizio 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato, 
anche 
se 
organizzate 
ad 
ordinamento 
autonomo, 
spettano 
alla 
Avvocatura 
dello 
Stato. 
Gli 
avvocati 
dello 
Stato, 
esercitano 
le 
loro 
funzioni 
innanzi 
a 
tutte 
le 
giurisdizioni 
ed 
in 
qualunque 
sede 
e 
non 
hanno 
bisogno 
di 
mandato, 
neppure 
nei 
casi 
nei 
quali 
le 
norme 
ordinarie 
richiedono 
il 
mandato 
speciale, 
bastando 
che 
consti 
della 
loro 
qualità” 
(art. 
1 
R.D. 
n. 
1611/1933). 
Lo 
jus 
po


(78) 
Così 
nella 
recensione 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1954, 
nn. 
8-9, 
p. 
187, 
ove 
si 
osserva 
altresì 
che 
“Ciò che 
rende 
l’opera particolarmente 
pregevole 
è, soprattutto, l’indice-sommario redatto con criteri 
sistematici 
aderenti 
ai 
principi 
teorici 
adottati 
dalla migliore 
dottrina. È 
proprio grazie 
a questo indice 
sommario che 
la ricerca delle 
massime 
può essere 
effettuata con facilità, (agevolata anche 
dall’indice 
alfabetico analitico da usarsi 
tuttavia in modo puramente 
sussidiario), sì 
che 
il 
difetto principale 
delle 
opere 
del 
genere 
(e, cioè, la difficoltà del 
reperimento della massima adeguata alla fattispecie) appare 
quasi eliminato. 
Riteniamo 
che 
questa 
pubblicazione 
sia 
una 
opera 
la 
quale 
non 
può 
mancare 
nelle 
biblioteche 
di 
coloro 
che 
si 
occupano, sia dal 
punto di 
vista teorico, sia dal 
punto di 
vista pratico e 
professionale, delle 
importanti 
materie della espropriazione e della requisizione”. 
(79) C. CARBONE 
-T. TOMASICChIO, Le sanzioni fiscali, UTET, 1959, p. 73. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


stulandi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
organico, 
obbligatorio 
ed 
esclusivo; 
b) 
regole 
speciali 
sulla 
competenza 
territoriale 
(cd. 
foro 
erariale: 
artt. 
6-10 
R.D. 


n. 
1611/1933 
e 
art. 
25 
c.p.c.) 
(80); 
c) 
regole 
speciali 
sulla 
notificazione 
degli 
atti 
processuali 
(presso 
l’Avvocatura 
dello 
Stato: 
art. 
11, 
comma 
1, 
R.D. 
n. 
1611/1933 
(81) 
e 
art. 
144 
c.p.c. 
(82)); 
d) 
prenotazione 
a 
debito 
delle 
spese 
di 
giudizio 
(83). 
La 
materia 
è, 
all’evidenza, 
molto 
tecnica, 
sicché 
-per 
i 
pratici 
è 
grandemente 
utile 
un’opera 
che 
dipani 
la 
complessa 
disciplina. 
A 
tanto 
ha 
provveduto 
Tomasicchio, 
con 
Amorth, 
con 
due 
opere: 
La citazione 
in giudizio delle 
amministrazioni 
dello Stato e 
degli 
enti 
patrocinati 
dalla 
Avvocatura 
dello 
Stato, 
di 
G. 
Amorth 
e 
T. 
Tomasicchio, 
CEDAM, I edizione 1956 (pp. 240), II edizione 1958 (pp. 258). 


Il 
giudizio civile 
con lo Stato: manuale 
teorico pratico, di 
G. Amorth e 


T. Tomasicchio, CEDAM, 1963, pp. 313. 
L’utilità 
(diremmo 
necessità) 
di 
un’opera 
del 
genere 
è 
comprovata 
dal 
fatto che 
-nel 
corso dei 
decenni 
-altri 
autori 
si 
sono cimentati 
ad esporre 
la 
materia dello “Stato in giudizio” (84). 


20. Antonino Freni, grand commis e selettore di talenti. 
Antonino Freni 
(1929-2006) entrò nell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1960; 
vi 
percorse 
i 
vari 
gradi 
fino alla 
carica 
di 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato. 


Nino 
Freni 
è 
stato 
giurista 
partecipe 
della 
scuola 
di 
Francesco 
Santoro 
Passarelli, che 
nel 
secondo dopoguerra 
ha 
ricostituito il 
diritto del 
lavoro su 
severe 
basi 
civilistiche 
ed 
ha 
fornito 
una 
intensa 
collaborazione 
a 
Gino 
Giugni, 
divenendo 
partecipe 
di 
un 
nuovo 
modo 
di 
fare 
diritto 
del 
lavoro 
più 
aperto 
agli influssi internazionali e alle relazioni industriali. 


(80) 
Quest’ultimo 
articolo 
così 
dispone: 
“Per 
le 
cause 
nelle 
quali 
è 
parte 
un’amministrazione 
dello Stato è 
competente, a norma delle 
leggi 
speciali 
sulla rappresentanza e 
difesa dello Stato in giudizio 
e 
nei 
casi 
ivi 
previsti, il 
giudice 
del 
luogo dove 
ha sede 
l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel 
cui 
distretto si 
trova il 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
secondo le 
norme 
ordinarie. Quando l’amministrazione 
è 
convenuta, tale 
distretto si 
determina con riguardo al 
giudice 
del 
luogo in cui 
è 
sorta o deve 
eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda”. 
(81) “Tutte 
le 
citazioni, i 
ricorsi 
e 
qualsiasi 
altro atto di 
opposizione 
giudiziale, nonché 
le 
opposizioni 
ad ingiunzione 
e 
gli 
atti 
istitutivi 
di 
giudizi 
che 
si 
svolgono innanzi 
alle 
giurisdizioni 
amministrative 
o 
speciali, 
od 
innanzi 
agli 
arbitri, 
devono 
essere 
notificati 
alle 
Amministrazioni 
dello 
Stato 
presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel 
cui 
distretto ha sede 
l’Autorità giudiziaria innanzi 
alla 
quale è portata la causa, nella persona del ministro competente”. 
(82) Art. 144, comma 
1, c.p.c.: 
“Per 
le 
amministrazioni 
dello Stato si 
osservano le 
disposizioni 
delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell’avvocatura dello Stato”. 
(83) Per questi 
aspetti: 
S. DE 
FELICE 
-M. GERARDO, Diritto amministrativo, volume 
III: 
Giustizia 
amministrativa, Pubblicazione indipendente, Amazon Distribuzione, 2024, pp. 57-58. 
(84) Tra 
questi 
citiamo: 
P. PAVONE, Lo Stato in giudizio. Enti 
pubblici 
ed Avvocatura dello Stato, 
Giuffré, I edizione, 1982, II edizione, 2002, pp. 426; 
L. BARRECA, La Pubblica Amministrazione 
parte 
nel 
processo civile, Giuffré, 1994, pp. 336; 
A. BRUNI, G. PALATIELLO, La difesa dello Stato nel 
processo, 
UTET 
Giuridica, 
2011, 
pp. 
344; 
A. 
MEZZOTERO, 
D. 
ROMEI, 
Il 
patrocinio 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
CSA Editrice, 2016, pp. 319. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


Negli 
anni 
Sessanta 
del 
secolo trascorso Freni 
visse 
il 
momento topico 
del 
riformismo di 
centro-sinistra. Come 
Capo dell’Ufficio legislativo del 
Ministero 
del 
lavoro egli 
fornì 
un contributo importante 
alla 
trasformazione 
del 
Paese. Con il 
Ministro Giacomo Brodolini, durante 
il 
primo governo Rumor 
(1968-69), impostò alcune 
fondamentali 
riforme 
nel 
mondo del 
lavoro: 
il 
superamento 
delle 
gabbie 
salariali, la 
ristrutturazione 
del 
sistema 
previdenziale 
e 
l’elaborazione 
dello Statuto dei 
lavoratori, che 
poi 
vennero definite 
dal 
Ministro 
Donnat 
Cattin. 
Da 
quell’intensa 
esperienza 
uscì 
il 
primo 
commento 
allo 
Statuto dei 
lavoratori 
in collaborazione 
con Gino Giugni, che 
in quegli 
anni 
era stato la mente delle innovazioni prospettate. 

Vuol 
farsi 
riferimento 
all’opera 
A. 
Freni, 
G. 
Giugni, 
Lo 
statuto 
dei 
lavoratori 
-Commento 
alla 
legge 
20 
maggio 
1970, 
n. 
300, 
Giuffré, 
1971, 
pp. 
224 
(85). 
Si 
tratta 
di 
un 
commento, 
articolo 
per 
articolo, 
della 
legge 
20 
maggio 
1970, 
n. 
300, 
che 
individua 
nella 
maniera 
più 
minuta 
ed 
analitica 
possibile 
(e 
con 
esemplare 
chiarezza) 
le 
questioni 
e 
i 
dubbi 
che 
possono 
sorgere 
nell’interpretazione 
delle 
varie 
disposizioni, 
indicandone 
la 
soluzione 
secondo 
una 
chiara 
prospettiva 
sistematica. 
Tale 
opera 
assunse 
un 
valore 
e 
un’importanza 
pratica, 
che 
non 
occorre 
certo 
sottolineare, 
nella 
fase 
di 
prima 
applicazione 
dello 
“statuto 
dei 
lavoratori” 
(definito 
dagli 
Autori 
“il 
più 
notevole 
atto 
innovativo, 
dopo 
l’emanazione 
della 
Costituzione, 
in 
tema 
di 
diritto 
sindacale 
e 
del 
lavoro”). 


Per 
circa 
quarant’anni 
Nino 
Freni 
ricoprì 
ruoli 
apicali 
all’interno 
delle 
Istituzioni 
(Capo 
di 
Gabinetto 
e/o 
Capo 
Ufficio 
legislativo 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
o 
Ministeri). 
Egli 
faceva 
parte 
di 
quel 
piccolo 
gruppo 
di 
alti 
funzionari 
che 
controllano 
il 
flusso 
tra 
politica 
e 
amministrazione 
e 
che 
rappresentano la 
continuità 
dello Stato, al 
di 
là 
delle 
fibrillazioni 
politiche. 
ha 
rappresentato soprattutto un anello di 
raccordo indispensabile 
tra 
politica 
e amministrazione. 


Freni 
ha 
esercitato 
una 
funzione 
strategica 
di 
selettore 
e 
reclutatore 
di 
capacità 
da 
mettere 
al 
servizio delle 
istituzioni, portando ad un livello elevatissimo 
l’attività 
degli 
staff 
di 
diretta 
collaborazione 
tra 
personale 
politico 
e 
amministrazione 
tecnica 
sia 
dal 
punto di 
vista 
delle 
funzioni 
espletate, sia 
da 
quello della selezione di personale adeguato. 


Per quanto riguarda 
il 
primo punto, Nino Freni 
è 
stato uno degli 
autori 
del 
D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165, che 
-chiosando tra 
art. 95 e 
97 della 
Cost. 


-ha 
cercato di 
chiarire 
la 
divisione 
dei 
compiti 
tra 
politica 
e 
amministrazione 
e 
che 
all’art. 14 ha 
individuato negli 
uffici 
di 
diretta 
collaborazione 
gli 
strumenti 
di 
supporto 
e 
di 
raccordo 
con 
l’amministrazione. 
In 
questo 
specifico 
ambito 
Freni 
si 
rendeva 
conto 
dell’importanza 
della 
funzione 
di 
raccordo 
degli 
staff, che 
attenuava 
in maniera 
funzionale 
la 
“separatezza” 
eventuale 
tra 
politica 
ed amministrazione. 
(85) Recensione di M. CONTI, in Rass. Avv. Stato, 1971, II, pp. 43-45. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Circa 
la 
funzione 
di 
reclutatore, Nino Freni 
è 
stato un insuperabile 
cercatore 
di 
talenti 
tecnico-amministrativi 
da 
mettere 
a 
disposizione 
delle 
istituzioni: 
egli 
saggiava 
il 
terreno; 
verificava 
le 
capacità 
e 
promuoveva 
i 
talenti, 
che 
dovevano 
non 
soltanto 
avere 
capacità 
analitiche, 
ma 
anche 
sintetiche. 
Decine 
di 
alti 
funzionari 
dello 
Stato 
e 
di 
accademici 
prestati 
alla 
politica 
sono 
stati da lui individuati e selezionati al servizio delle istituzioni (86). 

21. Carlo Bafile. 
Carlo Bafile 
(1927-2015) entrò nell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1957; 
fu 
Avvocato Distrettuale 
dello Stato de 
L’Aquila 
e 
poi 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato. 


La 
sua 
attività 
scientifica 
ha 
riguardato prevalentemente 
il 
campo tributario, 
sia negli aspetti sostanziali che processuali. 


La 
sua 
principale 
opera 
è 
Introduzione 
al 
diritto 
tributario, 
Cedam, 
1978, 
pp. 
403 
(87). 
Opera 
istituzionale, 
mirante 
ad 
una 
sistemazione 
organica 
e 
scientifica 
della 
materia, totalmente 
rinnovata 
all’indomani 
della 
riforma 
tributaria 
del 
1971-1973. Vengono esposti 
i 
principi 
generali, il 
rapporto giuridico 
d’imposta 
(obbligazione 
tributaria, 
attività 
amministrativa 
tributaria, 
rapporto giuridico formale), il 
procedimento amministrativo tributario (di 
accertamento, 
esecutivo, 
sanzionatorio 
e 
repressivo) 
e 
il 
contenzioso 
(ricorsi 
amministrativi, 
giurisdizione 
tributaria, 
ordinaria, 
amministrativa 
e 
penale). 
Si 
evidenzia 
la 
natura 
giurisdizionale 
delle 
Commissioni 
tributarie. 
Con 
riguardo 
al 
provvedimento impugnabile, l’autore 
avverte 
che 
il 
processo tributario non 
è 
di 
impugnazione-annullamento, 
ma 
di 
accertamento 
del 
rapporto, 
ovvero 
di 
impugnazione-merito. 


ha 
scritto 
anche 
opere 
monografiche 
in 
materia 
di 
processo 
tributario, 
quali 
Il 
giudizio di 
terzo grado nel 
processo tributario, Giuffré, 1982, pp.157 
e 
Il nuovo processo tributario, Cedam, 1994, pp. 242. 

Per 
l’Enciclopedia 
giuridica 
Treccani 
è 
autore 
della 
voce 
Imposta, 
vol. 
XVI, 1989, pp. 1-9. 


Per 
la 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
pubblicato 
-oltre 
a 
numerosissime 
note 
a 
sentenza 
relative 
agli 
aspetti 
sostanziali 
e 
processuale 
in 
materia 
tributaria 
-gli 
articoli: 
L’efficacia 
delle 
indicazioni 
urbanistiche 
sull’indennità 
di 
espropriazione, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1968, 
II, 
pp. 
173-180; 
Solidarietà 
tributaria: 
Questioni 
di 
diritto 
transitorio, 
in 
Rass. 
Avv. 
Stato, 
1970, 
II, 
pp. 
189-194. 


(86) Per tali 
dati: 
relazione 
di 
FULCO 
LANChESTER 
“Nino Freni: un selettore 
di 
talenti” 
al 
Convegno 
“Amministrazione, 
Economia 
e 
Politica. 
In 
ricordo 
di 
Nino 
Freni” 
(Parlamentino 
del 
CNEL-Roma, 
7 giugno 2007), Pubblicato in: 
Parlalex, SCRITTI RECENTI. 
(87) Sul quale la recensione di M. FANELLI, in Rass. Avv. Stato, 1979, II, pp. 116-118. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


22. Aldo Alabiso. 
Aldo 
Alabiso 
(1928-2021) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1952. 
Prestò servizio, fino al 
collocamento a 
riposo per il 
raggiungimento dei 
limiti 
di età, presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. 


Come giurista, Alabiso ha trattato temi istituzionali del diritto civile. 


Opera 
di 
grande 
ricostruzione 
sistematica 
è 
Il 
contratto 
preliminare, 
Giuffré, 
1966, 
pp. 
307 
(88), 
tuttora 
leggibile 
con 
frutto. 
Sulla 
scia 
di 
autorevoli 
cultori, 
italiani 
e 
stranieri, 
di 
teoria 
generale 
del 
diritto 
(in 
primis 
hans 
Kelsen, 
con 
la 
“Dottrina 
pura 
del 
diritto”, 
individuante 
nel 
negozio 
giuridico 
una 
fonte 
del 
diritto) 
e 
del 
diritto 
pubblico 
(Santi 
Romano), 
Alabiso 
con 
Il 
contratto 
preliminare, 
ha 
inteso 
dichiaratamente 
procedere 
ad 
una 
rivalutazione 
del 
concetto 
di 
negozio 
giuridico 
come 
fattispecie 
produttrice 
di 
diritto, 
sostenendo 
che 
solo 
tale 
concetto 
-unitamente 
alla 
teoria 
che 
distingue 
la 
“fattispecie”, 
come 
concetto 
statico, 
dal 
“procedimento”, 
come 
concetto 
dinamico 
-consente 
di 
dare 
una 
soddisfacente 
configurazione 
giuridica 
al 
contratto 
preliminare. 
Secondo 
la 
tesi 
centrale 
enunciata 
nel 
volume, 
ferma 
restando 
la 
concezione 
normativa 
del 
negozio 
giuridico, 
la 
collocazione 
del 
contratto 
preliminare 
nel 
quadro 
delle 
figure 
prese 
in 
esame 
dalla 
scienza 
giuridica 
non 
può 
prescindere 
dalla 
considerazione 
del 
carattere 
procedimentale 
del 
fenomeno 
considerato 
nella 
sua 
interezza, 
perché 
solo 
tale 
carattere 
può 
descrivere 
compiutamente, 
nel 
suo 
dinamismo, 
il 
ciclo 
di 
normazione 
privata 
che 
ha 
inizio 
con 
il 
contratto 
preliminare 
e 
si 
chiude 
con 
il 
contratto 
definitivo. 


Partendo da 
queste 
premesse 
di 
teoria 
generale 
del 
diritto e 
dalla 
considerazione 
delle 
origini 
storiche 
e 
dello sviluppo del 
concetto di 
contratto preliminare 
nelle 
dottrine 
italiana, 
francese 
e 
tedesca, 
Alabiso 
osserva 
che, 
nell’esercizio del 
potere 
di 
autonomia 
lor conferito dalla 
legge, i 
privati 
possono 
attuare 
il 
regolamento degli 
interessi 
meritevoli 
di 
tutela 
giuridica 
o attraverso 
un’unica 
pattuizione 
negoziale, mediante 
un contratto, cioè, definito 
“uninegoziale” 
o attraverso un più complesso procedimento costituito da 
due 
successive pattuizioni, il contratto preliminare ed il contratto definitivo. 


Nella 
prima 
ipotesi, la 
volizione 
delle 
parti 
si 
concreterebbe 
in una 
volizione-
azione 
(secondo 
la 
terminologia 
del 
Santi 
Romano), 
in 
una 
normazione, 
cioè, 
immediatamente 
disciplinante 
gli 
interessi 
in 
gioco; 
nella 
seconda 
ipotesi, 
il 
fenomeno dinamico necessario alla 
realizzazione 
di 
una 
statuizione 
normativa 
privata 
si 
dividerebbe 
in due 
fasi 
ben distinte, la 
prima, concretantesi 
in 
una 
volizione-preliminare 
diretta 
a 
porre 
le 
norme 
di 
un futuro contratto ed 
in una 
volizione-azione, avente 
ad oggetto l’obbligo delle 
parti, immediatamente 
operativo, 
di 
stipulare 
il 
contratto 
definitivo, 
la 
seconda, 
consistente 


(88) Sul quale la recensione di 
L. MAZZELLA, in Rass. Avv. Stato, 1966, II, pp. 133-136. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


nell’emanazione 
della 
normazione 
concreta 
già 
concordata 
(conclusione 
del 
contratto definitivo). 


Delineata 
la 
struttura 
del 
contratto 
preliminare, 
definito 
come 
una 
fase 
del 
procedimento 
di 
normazione 
negoziale 
privata 
consistente 
nell’accordo 
di 
due 
o 
più 
parti 
di 
porre 
alcune 
norme 
costituenti 
semplici 
volizioni-preliminari 
e, nel 
contempo, una 
norma 
costituente 
volizione-azione 
che 
vincola 
le 
parti 
all’emanazione 
della 
normazione 
privata 
definitiva, in modo del 
tutto corrispondente 
a 
quella 
preliminare 
già 
concordata, l’autore 
nella 
successiva 
trattazione, 
concernente 
gli 
elementi 
del 
contratto 
preliminare, 
trova 
modo 
di 
affrontare 
e 
risolvere, 
in 
maniera 
conseguente 
alle 
premesse 
di 
ordine 
generale 
adottate, i più noti problemi agitati dalla dottrina nella delicata materia. 


Soluzione 
affermativa 
viene 
da 
lui 
proposta 
per la 
questione 
dell’ammissibilità 
di 
contratti 
preliminari 
ad 
alcune 
categorie 
di 
contratti 
(consensuali, 
reali, 
estintivi, 
ad 
efficacia 
reale). 
Parimenti 
favorevole 
egli 
si 
dichiara 
all’ammissibilità 
di 
contratto 
preliminare 
alla 
donazione 
ed 
alla 
fideiussione, 
mentre 
forti 
dubbi 
esprime 
in ordine 
alla 
configurabilità 
di 
un contratto preliminare 
di transazione. 


ha 
scritto 
altresì 
la 
monografia 
Il 
testamento, 
Editore 
Fratelli 
Conte, 
1975, 
pp. 317. 


23. Pietro Pavone. 
Pietro Ugo Pavone 
è 
entrato nell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1960 all’età 
di 
venticinque 
anni; 
è 
stato 
Avvocato 
Distrettuale 
dello 
Stato 
de 
L’Aquila 
e 
poi 
Avvocato Distrettuale dello Stato di Catania. 


Pavone 
è 
l’autore 
di 
una 
delle 
opere 
più 
consultate 
dai 
neoassunti 
nel-
l’Avvocatura 
dello Stato e 
da 
coloro che 
vogliono intraprendere 
un giudizio 
contro lo Stato: 
Lo Stato in giudizio. Enti 
pubblici 
ed Avvocatura dello Stato, 
II edizione, Giuffré, 2002, pp. 426. Vi 
è 
una 
esposizione 
chiara 
e 
sistematica, 
con ampio corredo giurisprudenziale, della 
difesa 
in giudizio delle 
Amministrazioni 
Pubbliche 
patrocinate 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato; 
difesa 
che 
presenta 
le 
peculiarità 
già 
evidenziate 
nel 
precedente 
paragrafo 
19, 
trattando 
delle 
analoghe opere di 
Amorth e 
Tomasicchio. 


Il 
testo potrebbe 
essere 
rappresentato con la 
figura 
di 
due 
circonferenze 
uguali 
incidenti: 
la 
parte 
comune 
attiene 
allo 
Stato 
in 
giudizio 
attraverso 
l’Avvocatura; 
le 
parti 
laterali 
concernono 
rispettivamente 
il 
tema 
dei 
giudizi, 
in 
cui 
lo 
Stato 
non 
è 
rappresentato 
dall’Avvocatura, 
ed 
il 
tema 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
ad 
altri 
Enti. 
Nella 
parte 
prima 
vengono 
esaminate 
le 
modalità 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura; 
nella 
parte 
seconda 
viene 
trattato 
il 
tema 
dello 
Stato in giudizio davanti 
al 
giudice 
ordinario (con esame, tra 
l’altro di: 
foro 
erariale 
e 
sue 
deroghe; 
legittimazione 
processuale 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato; 
notificazione 
degli 
atti 
giudiziari 
alle 
Amministrazioni 
dello 
Stato); 
nella 
terza 
lo Stato nei 
giudizi 
davanti 
alle 
giurisdizioni 
speciali 
e 
straniere 
(Consi



TEMI 
ISTITUZIONALI 


glio 
di 
Stato 
e 
T.a.r., 
Corte 
dei 
conti, 
Commissioni 
tributarie, 
Corte 
costituzionale, 
Tribunale 
militare 
di 
pace, giudici 
soprannazionali, internazionali 
e 
stranieri); 
nella 
quarta 
il 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
ad 
altri 
Enti. 
L’Appendice 
reca l’Elenco degli Enti Pubblici assistiti dall’Avvocatura dello Stato. 


ha 
scritto anche 
L’ingiunzione 
fiscale. opposizioni 
e 
ricorsi. La procedura 
esecutiva speciale, Maggioli 
Editore, 1985, pp. 401. Il 
testo tratta 
della 
autotutela 
esecutiva 
in base 
alla 
ingiunzione 
fiscale 
ex R.D. 14 aprile 
1910, n. 
639, strumento tuttora 
utilizzabile 
per la 
riscossione 
delle 
entrate 
patrimoniali 
di 
diritto privato da 
parte 
di 
tutte 
le 
PP.AA. Il 
comma 
2 dell’art. 21 ter 
L. 7 
agosto 1990, n. 241 (89) consente 
a 
tutte 
le 
PP.AA. di 
utilizzare 
lo strumento 
dell’autotutela 
costituito 
dall’ingiunzione 
fiscale 
(consentito 
in 
origine 
solo 
alle 
Amm.ni 
Statali 
e 
agli 
enti 
locali 
ex art. 1 R.D. cit. e 
agli 
altri 
enti 
previsti 
dalla 
legge). L’ingiunzione 
fiscale 
è 
utilizzabile 
-in base 
alla 
previsione 
del 
citato art. 1 R.D. cit. -per le 
entrate 
tributarie 
(ma, sul 
punto, è 
stato soppiantato 
dal 
ruolo) e 
per le 
entrate 
patrimoniali, purché 
il 
credito sia 
certo, liquido 
ed esigibile 
(es. ripetizione 
di 
indebito, credito in base 
ad un contratto di 
locazione, 
ecc.). L’art. 2 R.D. n. 639 citato, dispone 
che 
il 
procedimento di 
coazione 
comincia 
con 
l’ingiunzione 
la 
quale 
consiste 
nell’ordine, 
emesso 
dal 
competente 
ufficio 
dell’ente 
creditore, 
di 
pagare 
entro 
trenta 
giorni, 
sotto 
pena 
degli 
atti 
esecutivi, la 
somma 
dovuta; 
l’ingiunzione 
è 
notificata, nella 
forma 
delle 
citazioni, da 
un ufficiale 
giudiziario. Ove 
tale 
ingiunzione 
non sortisca 
effetto, al 
fine 
della 
riscossione 
delle 
somme 
in via 
coattiva 
potranno essere 
seguite 
tre 
diverse 
strade: 
I) esecuzione 
nei 
modi 
ordinari 
previsti 
nel 
codice 
di 
rito 
civile. 
Ciò 
in 
quanto 
l’ingiunzione 
fiscale 
rientra 
tra 
“gli 
altri 
atti 
ai 
quali 
la 
legge 
attribuisce 
espressamente 
efficacia 
esecutiva” 
(art. 
474, 
n. 
1 
c.p.c.); 
II) 
esecuzione 
speciale 
prevista 
nel 
R.D. 
n. 
639/1910 
citato. 
È 
una 
procedura 
accelerata, 
tuttavia 
non 
facile 
da 
gestire 
attesi 
i 
rimandi 
al 
codice 
di 
procedura 
civile 
del 
1865, che 
in tanti 
punti 
è 
diverso da 
quello attuale; 
III) 
esecuzione 
speciale 
mediante 
la 
procedura 
di 
riscossione 
tramite 
ruolo, 
secondo 
la 
disciplina 
contenuta 
nel 
d.P.R. 29 settembre 
1973 n. 602, nel 
d.P.R. 
28 gennaio 1988, n. 43 e nel D.L.vo 26 febbraio 1999, n. 46. 


24. Pier Giorgio Ferri. 
Pier 
Giorgio 
Ferri 
(1936-1998) 
entrò 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
1963 
e 
prestò 
servizio 
presso 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato, 
con 
una 
lunga 
esperienza 
professionale 
nel 
campo della 
protezione 
del 
patrimonio storico-artistico 
e dell’ambiente, fino alla morte avvenuta prematuramente. 


In 
collaborazione 
con 
Tommaso 
Alibrandi 
ha 
pubblicato 
varie 
opere 
sulla 
disciplina 
giuridica 
dei 
beni 
culturali 
e 
ambientali. 
Il 
lavoro 
più 
impor


(89) “Ai 
fini 
dell’esecuzione 
delle 
obbligazioni 
aventi 
ad oggetto somme 
di 
denaro si 
applicano 
le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


tante 
frutto 
di 
tale 
collaborazione 
è 
senz’altro 
il 
testo 
I 
beni 
culturali 
e 
ambientali, 
Giuffré, 
I 
edizione 
1978 
pp. 
682, 
III 
edizione, 
1995, 
pp. 
774, 
compreso 
nella 
prestigiosa 
collana 
“Commentario 
di 
legislazione 
amministrativa” 
fondata 
da 
F. 
Piga 
e 
diretta 
da 
R. 
Laschena. 
Vi 
è 
una 
sistemazione 
completa 
ed 
organica 
di 
una 
materia 
squisitamente 
poliedrica 
nella 
vigenza 
delle 
fondamentali 
leggi 
1° 
giugno 
1939, 
n. 
1089 
(tutela 
delle 
cose 
d’interesse 
artistico 


o 
storico) 
e 
29 
giugno 
1939, 
n. 
1497 
(protezione 
delle 
bellezze 
naturali), 
poi 
abrogate 
e 
sostituite 
dal 
D.L.vo 
29 
ottobre 
1999, 
n. 
490 
(testo 
unico 
delle 
disposizioni 
legislative 
in 
materia 
di 
beni 
culturali 
e 
ambientali), 
a 
sua 
volta 
abrogato 
e 
sostituito 
dal 
D.L.vo 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42 
(codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio). 
La 
consultazione 
del 
testo 
è 
ancora 
utile, 
atteso 
che 
vi 
è 
continuità 
di 
disciplina 
negli 
istituti 
caratterizzanti. 
Vengono 
esposti: 
i 
principi 
generali 
dei 
beni 
culturali 
ed 
ambientali; 
l’organizzazione 
amministrativa 
(il 
Ministero 
per 
i 
beni 
culturali 
e 
ambientali 
e 
le 
Regioni); 
i 
beni 
(tipologia 
e 
procedimenti 
di 
individuazione); 
la 
gestione 
dei 
detti 
beni 
e 
quindi: 
conservazione, 
tutela 
ambientale, 
godimento 
pubblico, 
circolazione, 
acquisti 
dello 
Stato, 
commercio 
ed 
esportazione 
dei 
beni 
culturali; 
espropriazione 
per 
interesse 
culturale; 
ritrovamenti 
e 
scoperte, 
gestione 
del 
vincolo 
paesistico; 
sistema 
sanzionatorio. 
La 
materia 
dei 
beni 
culturali 
e 
ambientali 
risulta 
tipicamente 
pluridimensionale 
e 
interdisciplinare 
ed 
appare 
variamente 
regolata 
e 
interessata 
così 
dal 
costituzionale 
come 
dal 
civile, 
dall’internazionale 
-e 
segnatamente 
dal 
comunitario 
-dall’amministrativo 
e 
dal 
penale. 
Il 
dato 
unificatore 
del 
lavoro 
consiste, 
in 
definitiva, 
nel 
comune 
patrimonio 
di 
consapevolezza 
del 
fatto 
che 
ognuno 
dei 
temi 
affrontati 
non 
può 
essere 
compiutamente 
risolto 
se 
non 
ricorrendo 
alle 
indicazioni 
fornite 
da 
tutti 
i 
rami 
del 
diritto 
con 
esso 
interferenti 
e 
nella 
altrettanto 
percezione 
della 
norma 
come 
dato 
storico-sociologico, 
condizionato 
dai 
tempi 
e 
dalle 
strutture; 
momento 
di 
un 
divenire 
la 
cui 
analisi 
non 
può 
prescindere 
né 
dallo 
studio 
del 
passato 
né 
da 
quello 
dei 
mutamenti 
della 
società 
civile 
e 
della 
relativa 
coscienza. 
Basti 
citare, 
al 
riguardo, 
l’ampio 
risalto 
dato 
al 
profilo 
dell’interferenza 
fra 
regime 
dei 
beni 
e 
problematica 
degli 
strumenti 
urbanistici; 
dato 
indicativo 
-insieme 
con 
molti 
altri 
analoghi 
-della 
linea 
di 
lavoro 
seguita 
dagli 
Autori, 
attenti 
sempre 
più 
che 
al 
momento 
astratto 
e 
statico 
della 
norma 
a 
quello 
concreto 
e 
dinamico 
del 
divenire 
del 
diritto 
vivente 
(90). 


Per 
l’Enciclopedia 
del 
diritto 
della 
Giuffré 
ha 
redatto 
la 
voce 
Parchi, 
vol. 
XXXI, 1981, pp. 623-638 ed altresì 
la 
voce 
Raccolta d’arte, vol. XXXVIII, 
1987, pp. 171-175. 


ha 
scritto 
altresì 
la 
voce 
“Avvocatura 
dello 
Stato” 
sulla 
Enciclopedia 
Giuridica 
Treccani, vol. IV, Roma 1988, pp. 1-5. 


(90) Su tali aspetti la recensione di I.F. CARAMAZZA, in Rass. Avv. Stato, 1979, II, pp. 115-116. 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


ha 
scritto, poi, l’articolo 
Il 
ministero dell’Ecologia, in Rivista 
Amministrativa 
della Repubblica Italiana, 1984, 226 ss. 


25. Ignazio Francesco Caramazza 
Ignazio Francesco Caramazza 
è 
entrato nell’Avvocatura 
dello Stato nel 
1964 
all’età 
di 
ventisette 
anni; 
è 
stato 
Segretario 
Generale, 
Vice 
Avvocato 
Generale 
ed, infine, Avvocato Generale. 


Sottosegretario 
di 
Stato 
per 
l’interno, 
quale 
membro 
tecnico 
del 
Governo, 
dal 
23 gennaio 1995 al 
16 maggio 1996 con il 
Governo Dini. Membro della 
Commissione 
per l’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
per oltre 
un trentennio, 
dal 1991 al 2024. 


Per 
l’Enciclopedia 
giuridica 
Treccani 
è 
autore 
della 
voce 
Documentazione 
e 
documento 
II) 
DIRITTo 
AmmINISTRATIVo 
(con 
Paola 
Palmieri), 
vol. 
XI, 
1994, 
pp. 1-7. 


È 
stato 
uno 
degli 
autori 
del 
libro 
sul 
Centenario 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, il 
più volte 
citato volume 
L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico 
per 
le 
celebrazioni 
del 
centenario, 
Istituto 
Poligrafico 
dello 
Stato, 
1976, 
avendo 
redatto 
le 
parti 
relative 
a 
“L’Avvocato 
Regio 
nel 
Granducato 
di 
Toscana” 
(pp. 185-239) e 
“Alcuni 
contributi 
dell’Avvocatura dello Stato nello 
svolgimento dei giudizi di costituzionalità” (pp. 498-509). 


Caramazza, 
quale 
giurista, 
si 
è 
occupato 
prevalentemente 
di 
temi 
relativi 
alla 
giustizia 
e 
al 
processo 
amministrativo, 
specie 
nei 
rapporti 
di 
confine 
con 
le 
altre 
giurisdizioni, 
e 
della 
difesa 
dello 
Stato 
in 
giudizio, 
anche 
con 
aspetti 
comparatistici. 
Tanto 
a 
mezzo 
di 
interventi 
in 
Convegni, 
saggi, 
studi 
ed 
articoli, 
in 
un 
arco 
quarantennale 
(91). 
L’intenso 
lavoro 
di 
Caramazza 
è 
documentato 
sulla 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato. 
Nell’editoriale, 
contenuto 
nella 
Rassegna 
del 
2012, 
n. 
2, 
pp. 
1 
e 
ss. 
il 
direttore 
Giuseppe 
Fiengo 
-all’epoca 
Avvocato 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
-evidenzia: 
“Il 
30 
settembre 
2012 
l’avv. 
Ignazio 
F. 
Caramazza, 
ha 
lasciato, 
per 
raggiunti 
limiti 
di 
età, 
la 
carica 
di 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
alla 
quale 
era 
stato 
chiamato 
dal 
Governo 
il 
1° 
marzo 
2010. 
Chi 
sfoglia, 
magari 
anche 
solo 
sul 
web, 
la 
collezione 
della 
“Rassegna 
Avvocatura 
dello 
Stato”, 
trova, 
a 
partire 
dal 
1965, 
un 
riferimento 
costante 
ad 
articoli, 
studi, 
interventi 
ed, 
in 
generale, 
a 
scritti 
dell’avv. 
Ignazio 
F. 
Caramazza: 
dalle 
prime 
esperienze 
di 
commento 
sul 
codice 
penale 
ai 
grandi 
temi 
sulla 
storia 
e 
sull’evoluzione 
del 
diritto 
costituzionale 
ed 
amministrativo, 
fino 
ad 
un 
intero 
volume 
della 
Ras


(91) 
Esemplificativa 
di 
tale 
lavoro 
è 
la 
relazione 
“L’Avvocatura 
dello 
Stato 
nella 
storia 
e 
nel-
l’esperienza degli 
altri 
paesi” 
al 
Primo Congresso Nazionale 
degli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato 
“L’Avvocatura dello Stato verso il 
2000 nel 
solco della tradizione”, tenutosi 
a 
Firenze 
dal 
2 al 
4 giugno 
1989 
(in 
Atti 
del 
Primo 
Congresso 
Nazionale 
degli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello 
Stato, 
1989, 
MCS 
Congress, 
pp. 27-63). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


segna 
dedicato 
al 
conflitto 
di 
attribuzione 
con 
la 
Procura 
della 
Repubblica 
di 
milano 
sul 
caso 
Abu 
omar 
a 
lui 
affidato 
per 
la 
difesa. 
oltre 
alla 
continuità 
dell’impegno 
di 
studio 
e 
riflessione, 
messo 
in 
tanti 
anni 
a 
disposizione 
dei 
colleghi 
dell’Avvocatura, 
in 
questa 
lunga 
carrellata 
di 
scritti 
colpisce 
per 
quanti 
hanno 
avuto 
occasione 
di 
conoscerlo 
nella 
concreta 
attività 
d’Istituto 
-la 
profonda 
interazione 
che 
si 
coglie 
tra 
la 
rigorosa 
qualità 
scientifica, 
l’eleganza 
nell’argomentare 
e 
la 
solidità 
delle 
tesi 
con 
il 
modo 
razionale 
e 
concludente 
di 
svolgere 
dall’altra 
parte 
il 
lavoro 
professionale 
e 
gli 
impegni 
istituzionali: 
al 
ministero 
degli 
Interni, 
a 
tre 
lustri 
di 
distanza, 
ancora 
ricordano 
con 
apprezzamento 
il 
suo 
razionale 
e 
proficuo 
impegno 
come 
sottosegretario 
nel 
Governo 
Dini. 
La 
stessa 
recente 
decisione 
(molto 
apprezzata) 
di 
mantenere 
in 
vita, 
nella 
situazione 
di 
gravi 
difficoltà 
economiche 
di 
questi 
anni, 
anche 
l’edizione 
a 
stampa 
della 
“Rassegna 
Avvocatura 
dello 
Stato” 
indica 
in 
realtà 
come, 
per 
Ignazio 
Caramazza, 
non 
fosse 
concepibile 
la 
continuità 
nella 
sua 
attività 
professionale 
ed 
istituzionale 
senza 
un 
correlato 
riferimento 
al 
rigore 
logico 
che 
la 
redazione 
di 
scritti 
da 
pubblicare 
(e 
da 
leggere 
con 
l’attenzione 
che 
si 
dedica 
“alla 
carta”) 
necessariamente 
impongono. 
In 
questo 
contesto 
la 
sua 
esperienza 
di 
avvocato 
dello 
Stato, 
e 
poi 
di 
Avvocato 
Generale, 
può 
quindi 
essere 
letta, 
per 
essere 
compresa 
nei 
suoi 
tratti 
distintivi, 
nella 
chiave 
elitaria 
della 
cultura 
giuridica, 
dell’argomentare 
accurato 
ed 
attento 
alle 
prassi 
e 
delle 
scelte 
sue 
tutte, 
anche 
quelle 
eventualmente 
non 
condivise, 
fondate 
comunque 
su 
un 
ragionare 
lucido, 
puntuale, 
“scientifico”. 
Le 
esperienze 
svolte 
da 
Ignazio 
F. 
Ca-
ramazza 
nella 
commissione 
governativa 
sul 
procedimento 
amministrativo 
e 
sull’accesso 
(la 
legge 
n. 
241 
del 
‘90) 
mostrano 
che 
l’idea 
guida 
è 
stata 
quella 
di 
appartenere 
ad 
un 
Istituto 
che, 
sin 
dall’origine 
e 
nel 
suo 
concreto 
operare, 
dovesse 
sempre 
conservare 
il 
suo 
modo 
di 
porsi 
all’esterno 
in 
maniera 
sobria, 
elegante 
ed 
efficace 
[…]”. 
Segue 
l’elenco 
delle 
pubblicazioni 
di 
Caramazza 
nella 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
(92). 


(92) 
Le 
forche 
caudine 
dell’art. 
5 
del 
codice 
penale, 
1965, 
I, 
855; 
mutata 
destinazione 
dei 
prodotti 
petroliferi 
e 
fraudolento procacciamento di 
buoni 
speciali, 1966, I, 248; 
In tema di 
repressione 
penale 
dei 
danneggiamenti 
recati 
al 
patrimonio storico, artistico ed archeologico nazionale, 1966, I, 744; 
In 
tema di 
competenza per 
connessione, 1977, I, 289; 
L’Avvocatura Generale 
dello Stato e 
l’archivio del 
contenzioso delle 
amministrazioni 
pubbliche 
e 
delle 
consultazioni, 1978, II, 115; 
L’istruttoria nel 
processo 
amministrativo: brevi 
note 
ai 
margini 
di 
un progetto di 
riforma, 1980, II, 39; 
L’equo canone 
nella 
locazione 
di 
immobili 
urbani: natura dei 
compiti 
dell’ISTAT; giudice 
competente 
nelle 
relative 
controversie, 
“anno precedente” 
cui 
riferire 
la valutazione, 1981, I, 736; 
Il 
congresso di 
messina del 
3-8 novembre 
1981, 
1981, 
II, 
27; 
In 
tema 
di 
responsabilità 
civile 
per 
fatto 
del 
giudice, 
1982, 
I, 
297; 
Depenalizzazione 
e 
decriminalizzazione 
nel 
diritto comparato, 1982, II, 125; 
Banche 
dei 
dati 
e 
privacy 
del 
cittadino: il 
sistema svedese, 1983, II, 13; 
L’accesso dei 
cittadini 
ai 
documenti 
della pubblica amministrazione, 
1984, 
II, 
141; 
La 
prova 
nel 
processo 
amministrativo, 
1985, 
II, 
87 
(*); 
Le 
misure 
cautelari 
nel 
processo amministrativo, 1986, II, 87 (*); 
Interesse 
legittimo e 
procedimento, 1988, II, 1 (*); 
Il 
“diritto 
civile 
e 
politico” 
del 
cittadino 
nella 
cognizione 
dell’autorità 
giudiziaria 
ordinaria: 
ipotesi 
di 
genesi 
storica 
dell’interesse 
legittimo, 
1988, 
II, 
83 
(*); 
L’atto 
amministrativo 
illegittimo 
e 
la 
dottrina 
dell’“ultra 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


26. Conclusione. 
Per 
quanto 
esposto 
nei 
paragrafi 
precedenti, 
emerge 
che 
nei 
centocinquant’anni 
della 
loro attività 
gli 
Avvocati 
dello Stato, oltre 
che 
svolgere 
con 
dignità 
ed onore 
il 
proprio compito di 
difendere 
e 
consigliare 
le 
Amministrazioni 
dello 
Stato, 
hanno 
svolto 
un 
ruolo 
di 
primo 
piano 
nella 
scienza 
giuridica, 
specie 
del 
diritto pubblico, nelle 
varie 
e 
mutevoli 
fasi 
storiche, a 
partire 
dai 
primordi 
dello 
Stato 
unitario 
(nel 
quale 
vi 
era 
un 
processo 
di 
assestamento 
delle 
Istituzioni) fino all’epoca 
attuale 
caratterizzata 
da 
una 
accelerazione 
informatica 
dell’agire. 


vires”, 1989, I, 354; 
Avvocatura dello Stato e 
giustizia amministrativa, 1989, II, 1 (*); 
La giurisdizione 
amministrativa 
(100 
anni 
dopo 
l’istituzione 
della 
IV 
sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato), 
1990, 
II, 
1 
(*); 
L’avvocato 
del 
processo 
amministrativo, 
1990, 
II, 
11 
(*); 
Il 
processo 
amministrativo 
nella 
sua 
evoluzione 
storica, 
1990, 
II, 
57 
(*); 
La 
nuova 
disciplina 
degli 
stupefacenti 
al 
vaglio 
della 
Corte 
Costituzionale, 
1991, I, 199 (*); 
L’attività della SIAE 
nella gestione 
economica dei 
diritti 
d’autore, 1991, I, 393 (*); 
Concessione 
di 
committenza 
e 
giurisdizione, 
1991, 
I, 
459 
(*); 
Appunti 
sulla 
tutela 
cautelare 
nel 
processo 
amministrativo, 1992, II, 1 (*); 
Problemi 
attuativi 
della legge 
numero 241/90, 1993, II, 1 (*); 
L’unicità 
della giurisdizione: un mito ricorrente, 1993, II, 89; 
Effettività della tutela: ottemperanza, 1994, II, 93 
(*); 
Da una amministrazione 
senza giudice 
verso una giustizia senza amministrazione?, 1997, II, 3; 
Il 
segreto di 
Stato, 1998, I, 23; 
Brevi 
note 
sull’incidente 
di 
costituzionalità nella fase 
cautelare, 1998, I, 
255; 
L’informe 
creatura cambia ancora volto, 1999, II, 87; 
Equiordinazione 
dei 
poteri 
nei 
conflitti 
dinanzi 
alla Corte, 2000, I, 25; 
Epilogo di 
un conflitto tra potere 
politico e 
potere 
giudiziario in tema di 
segreto 
di 
Stato, 
2000, 
I, 
39; 
In 
ricordo 
di 
massimo 
Severo 
Giannini, 
2001, 
I, 
18; 
Risarcimento 
del 
danno 
e 
giudizio amministrativo, 2001, I, 30; 
I limiti 
costituzionali 
della giurisdizione 
esclusiva, 2001, II, 26; 
Pubblica 
Amministrazione 
e 
tutela 
del 
cittadino, 
2002, 
I, 
319; 
Incidente 
di 
costituzionalità 
e 
giurisdizione 
in 
sede 
di 
giudizio 
cautelare 
amministrativo. 
Un 
dialogo 
difficile 
tra 
complessità 
e 
incomprensioni, 
2003, I, 220; 
Il 
principio “simul 
stabunt, simul 
cadent” 
nello statuto regionale 
siciliano, 2003, III, 145; 
Limiti 
all’irresponsabilità del 
Presidente 
della Repubblica, 2004, II, 547; 
Le 
nuove 
frontiere 
della giurisdizione 
amministrativa (dopo la sentenza della Corte 
Costituzionale 
6 luglio 2004 n. 204), 2004, III, 
741; 
Federalismo 
e 
autonomie 
locali, 
2004, 
IV, 
1041; 
Intervento 
per 
l’assegnazione 
del 
Premio 
Antonio 
Sorrentino 2005, 2005, I, VII; 
Funzione 
pubblica e 
giurisdizione, 2005, III, 280; 
Cenni 
storici, funzioni 
ed organizzazione 
dell’Avvocatura dello Stato: relazione 
all’incontro tenutosi 
il 
1° 
marzo 2006 a Rabat 
(marocco), 
2006, 
I, 
10 
(*); 
Concessione 
della 
grazia, 
conflitto 
tra 
poteri 
dello 
Stato, 
2006, 
I, 
109; 
Prime 
evoluzioni 
della 
giustizia 
amministrativa: 
contributi 
dell’Avvocatura 
erariale, 
2007, 
III, 
5 
(*); 
Il 
segreto 
di 
Stato: atto III. Con la risoluzione 
dei 
sei 
conflitti 
di 
attribuzione 
la Corte 
costituzionale 
completa la 
relativa disciplina, 2009, I, 13; 
Discorso di 
insediamento dell’Avvocato Generale 
Ignazio Francesco 
Caramazza. Roma, 14 ottobre 
2012, Sala Vanvitelli, Palazzo S. Agostino, 2010, IV, 6; 
Intervento del-
l’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
avv. 
Ignazio 
Francesco 
Caramazza 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’anno giudiziario 2011, 2011, I, 1; 
Audizione 
dell’Avvocato Generale 
davanti 
alla 
Commissione 
giustizia 
della 
Camera. 
Legge 
117/88, 
2011, 
I, 
7; 
Conferimento 
del 
dottorato 
in 
legge 
“honoris 
causa” 
all’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato. 
Loyola 
University 
di 
Chicago, 
21 
maggio 
2011, 
2011, 
II, 
1; 
Conferimento 
del 
Premio 
Aldo 
Sandulli 
2011 
all’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato. 
motivazione 
del 
premio e 
testo del 
ringraziamento, 2011, IV, 1; 
“Lectio magistralis” 
dell’avv. Ignazio Francesco 
Caramazza: “La difesa dello Stato in giudizio e 
la soluzione 
italiana”. Introduce 
il 
dott. Gianni 
Letta. 
Roma, Università Luiss 
“Guido Carli”, Sala delle 
Colonne, 2012, I, 1; 
Intervento dell’Avvocato Generale 
dello Stato in occasione 
della cerimonia di 
inaugurazione 
dell’anno giudiziario 2012, 2012, I, 32; 
Potere 
giudiziario e 
diritto europeo, 2012, I, 63 (*); 
Il 
patrocinio dello Stato italiano dinanzi 
alla Corte 
Europea dei 
Diritti 
dell’Uomo di 
Strasburgo. Attività svolte 
e 
considerazioni 
generali, 2012, II, 7; 
Europa: 
l’unico continente che ha un contenuto, 2012, II, 39. 
Le pubblicazioni che recano l’asterisco (*) sono fatte con un coautore. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2024 


Solo per fare 
dei 
nomi, Nicola 
Stolfi, Francesco Menestrina, Nicola 
Catalano 
hanno 
operato 
da 
protagonisti 
nella 
scienza, 
rispettivamente, 
del 
diritto 
civile, del diritto processuale civile e del diritto comunitario. 


Tanto 
è 
la 
conseguenza, 
come 
già 
rilevato 
nella 
introduzione, 
degli 
stimoli 
somministrati 
dalla 
complessità 
e 
varietà 
del 
contenzioso oltre 
che 
degli 
interessi 
scientifici 
individuali, 
in 
uno 
alla 
severa 
selezione 
per 
l’ingresso 
nell’Istituto. 



ContenzioSonAzionALe
Le Sezioni Unite sulla messa in mora 
della P.A. per ritardo nei pagamenti 


Giovanni Palatiello* 


La 
recente 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
Civili 
19 maggio 2025 n. 13249, 
premessa 
una 
interessante 
ricostruzione 
della 
disciplina 
codicistica 
in materia 
di 
luogo e 
tempo dell’adempimento delle 
obbligazioni, ha 
affrontato il 
tema 
del ritardo della P.A. nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. 


La 
questione 
controversa, 
in 
fattispecie 
non 
soggetta 
ratione 
temporis 
al 
d.lgs. 
n. 
231/2002, 
riguardava, 
in 
particolare, 
i 
presupposti 
della 
mora 
del-
l’amministrazione 
finanziaria 
nel 
pagamento 
di 
contributi 
comunitari 
(c.d. 
restituzioni 
all’esportazione 
in 
favore 
di 
esportatori 
di 
prodotti 
agricoli 
verso 
paesi 
terzi), 
intervenuto 
oltre 
il 
termine 
previsto 
per 
l’adempimento 
decorrente 
dalla 
presentazione 
dell’istanza 
dell’esportatore. 
Nell’interesse 
del-
l’Agenzia 
delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
aveva 
censurato 
la 
decisione 
della 
Corte 
di 
appello 
di 
Napoli 
per 
“Violazione 
e/o 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 
1219, 
1182, 
1224 
e 
1282 
c.c., 
in 
relazione 
agli 
artt. 
269 
e 
ss. 
del 
R.D. 
n. 
827/1924 
ed 
al 
R.D. 
n. 
2440/1923”. 
In 
sostanza, 
la 
domanda 
di 
pagamento 
del 
contributo, 
atteso 
che 
è 
proposta 
prima 
del 
decorso 
del 
termine 
per 
la 
definizione 
del 
procedimento, 
non 
può 
comportare 
gli 
effetti 
della 
mora 
debendi. 
Infatti, 
nessun 
ritardo 
può 
ancora 
ritenersi 
verificato 
prima 
ancora 
della 
scadenza 
del 
predetto 
termine. 
Da 
qui 
l’impossibilità 
di 
poter 
configurare 
un 
diritto 
al 
pagamento 
di 
interessi 
e 
maggior 
danno, 
ex 
art. 
1224 
cod. 
civ., 
in 
assenza 
di 
una 
costituzione 
in 
mora 
successiva 
alla 
mera 
domanda 
di 
pagamento. 


Le 
Sezioni 
Unite 
-disattendendo 
le 
difese 
dell’Avvocatura 
Generale 



(*) Avvocato dello Stato. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


hanno 
affermato 
che 
la 
richiesta 
dell’esportatore 
sarebbe 
idonea 
di 
per 
sé 
a 
costituire 
in 
mora 
la 
P.A. 
ai 
fini 
della 
decorrenza 
degli 
interessi 
di 
mora 
e 
del 
maggior 
danno 
ex 
art. 
1224 
c.c, 
benché 
tale 
richiesta 
fosse 
antecedente 
alla 
scadenza 
del 
termine 
per 
l’adempimento. 
Questo 
il 
principio 
di 
diritto 
enunciato: 


“In tema di 
‘restituzioni’ 
all’esportazione 
come 
disciplinate 
dal 
Regolamento 
(Cee) 
n. 
3665/87 
della 
Commissione 
del 
27 
novembre 
1987, 
applicabile 
ratione 
temporis, 
la 
richiesta 
stragiudiziale 
di 
corresponsione 
del 
relativo 
sussidio 
economico, rivolta dal 
creditore 
esportatore 
nei 
confronti 
dell’Amministrazione 
finanziaria 
debitrice, 
costituisce 
atto 
idoneo 
a 
costituire 
in 
mora 
quest’ultima, 
anche 
agli 
effetti 
delle 
norme 
di 
contabilità 
di 
Stato, 
a 
decorrere 
dalla scadenza del 
termine 
ragionevole 
-nella specie 
definitivamente 
fissato 
dal 
giudice 
di 
merito -entro il 
quale 
l’Amministrazione 
medesima deve 
svolgere 
e 
completare 
il 
procedimento di 
verifica previsto dal 
Regolamento suddetto. 


Pertanto, 
conclusasi 
positivamente 
tale 
verifica 
e 
spirato 
quel 
termine 
senza 
l’avvenuto 
pagamento 
del 
menzionato 
sussidio, 
spettano 
al 
creditore 
esportatore 
gli 
interessi 
moratori 
sull’importo 
dello 
stesso 
e 
con 
l’indicata 
decorrenza”. 


La pronuncia non può che destare perplessità. 

Sotto 
il 
profilo 
pratico, 
il 
termine 
di 
legge 
per 
l’adempimento 
è 
funzionale 
a 
consentire 
all’autorità 
amministrativa 
nazionale 
di 
verificare 
l’effettiva 
esportazione e la congruità del 
quantum 
richiesto. 

Sotto il 
profilo della 
ricostruzione 
dogmatica, se 
è 
pur vero che 
il 
diritto 
comunitario attribuisce 
il 
credito all’esportatore 
per il 
solo fatto dell’esportazione, 
rimane 
il 
fatto 
che 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
di 
legge 
per 
l’adempimento 
quel credito non era liquido, né esigibile. 

In definitiva, ritenere 
che 
la 
P.A. -i 
cui 
debiti 
pecuniari 
sono e 
restano 
“quérables” 
-sia 
in 
mora 
prima 
della 
scadenza 
di 
quel 
termine 
appare 
una 
soluzione 
non del 
tutto lineare. Siffatta 
natura 
del 
debito comporta 
infatti 
che 
il 
ritardo nei 
pagamenti 
non determini 
automaticamente 
gli 
effetti 
della 
costituzione 
in mora 
ex 
re, ai 
sensi 
dell’art. 1219, comma 
2, n. 3, cod. civ., occorrendo, 
invece, 
affinché 
sorga 
la 
responsabilità 
da 
tardivo 
adempimento 
con 
conseguente 
obbligo 
di 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
e 
di 
risarcimento 
dell’eventuale 
maggior danno, la 
costituzione 
in mora 
mediante 
intimazione 
scritta 
di 
cui 
allo stesso art. 1219, comma 
1 (cfr., ex 
multis, Cass. nn. 
29776 
e 
23823 
del 
2020; 
Cass. 
n. 
19085 
del 
2015; 
Cass. 
n. 
5066 
del 
2009; 
Cass. nn. 19320 e 10691 del 2005). 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


Corte 
di 
cassazione, Sezioni 
Unite, sentenza 19 maggio 2025 n. 13249 
-Pres. P. D’Ascola, 
Est. e. Campese 
-Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
(avv. gen. Stato) c. JLM 
S.r.l. (avv.ti 


G. visconti, M. Confortini, G. Mandara). 
FAtti Di CAUSA 


1. Con atto ritualmente 
notificato il 
20 dicembre 
2002, il 
Fallimento Italgrani 
s.p.a. citò il 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
Finanze 
e 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
innanzi 
al 
tribunale 
di 
Napoli 
chiedendone 
la 
condanna 
al 
pagamento, 
tra 
l’altro, 
degli 
interessi 
moratori 
e 
del 
maggior danno ex 
art. 1224, comma 
2, cod. civ. connessi 
alla 
mancata 
tempestiva 
corresponsione, 
in suo favore, delle 
restituzioni 
all’esportazione 
e 
del 
prefinanziamento ai 
quali 
aveva 
diritto, in quanto esportatrice 
di 
prodotti 
agricoli, richiesti 
per gli 
anni 
compresi 
fra 
il 
1990 ed il 
1997. Precisò che 
la 
Italgrani 
s.p.a., quando era 
in bonis, aveva 
promosso analoga 
domanda, con citazione 
del 
15 dicembre 
1997, ma 
il 
relativo giudizio era 
stato dichiarato interrotto 
per il suo fallimento e non riassunto. 
2. Costituitisi 
entrambi 
i 
convenuti, l’adito tribunale 
partenopeo, esaurita 
l’istruttoria, nel 
corso della 
quale 
fu disposta 
ed espletata 
una 
consulenza 
tecnica 
d’ufficio, dichiarò il 
difetto 
di 
legittimazione 
passiva 
del 
Ministero predetto e, accertato l’inadempimento per la 
ritardata 
evasione 
delle 
descritte 
istanze 
di 
restituzione 
all’esportazione 
presentate 
dalla 
menzionata 
società 
in bonis, determinò in sessanta 
giorni 
il 
termine 
di 
evasione 
delle 
istanze 
medesime, 
sia 
per quelle 
presentate 
a 
partire 
dal 
19 ottobre 
1994 -epoca 
di 
entrata 
in vigore 
del 
d.m. n. 
678/1994, contenente 
il 
regolamento di 
attuazione 
della 
legge 
n. 241/1990 -che 
per quelle 
inoltrate 
in 
epoca 
anteriore, 
e 
condannò 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
al 
pagamento, 
in 
favore 
dell’attore, 
degli 
interessi 
moratori 
e 
del 
maggior 
danno, 
ex 
art. 
1224, 
comma 
2, 
cod. civ., sulla base di quanto determinato dal consulente tecnico di ufficio. 
3. Il 
gravame 
promosso dall’Agenzia 
predetta 
fu respinto dalla 
Corte 
di 
appello di 
Napoli 
con 
sentenza 
del 
21 
febbraio 
2019, 
n. 
971, 
pronunciata 
nel 
contraddittorio 
con 
Progetto 
Grano 
s.p.a. 
(medio 
tempore 
subentrata 
al 
Fallimento 
Italgrani 
s.p.a., 
quale 
assuntore 
del 
concordato 
fallimentare 
proposto dalla 
medesima 
società) ed il 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
Finanze. 
3.1 Per quanto qui 
ancora 
di 
interesse, quella 
corte 
rimarcò che 
la 
questione 
della 
mora 
ex 
re 
relativa 
all’obbligazione 
di 
pagamento delle 
restituzioni 
e 
dei 
prefinanziamenti 
alla 
quale 
era 
tenuta 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
non 
presentava 
il 
carattere 
della 
novità, 
essendo 
stata 
già 
considerata 
dal 
tribunale 
per 
giustificare 
l’accoglimento 
della 
domanda, 
sicché 
la 
censura 
esposta, sul 
punto, dall’appellante 
era 
sicuramente 
ammissibile. tuttavia 
la 
considerò 
infondata. 
4. Per la 
cassazione 
di 
questa 
decisione 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
ha 
promosso 
ricorso affidato ad un motivo. Ha 
resistito, con controricorso, Progetto Grano s.p.a., 
Successivamente, si 
è 
costituita 
in giudizio JLM 
s.r.l. a 
socio unico, quale 
incorporante 
per 
fusione e successore a titolo universale di quest’ultima. 
5. Con ordinanza 
interlocutoria 
n. 14648/2023, resa 
all’esito dell’adunanza 
camerale 
del 
22 maggio 2023, la 
Prima 
Sezione 
civile 
di 
questa 
Corte, assegnataria 
del 
procedimento, ha 
rilevato un contrasto interno alla 
Sezione, «idoneo a refluire 
sul 
presente 
giudizio, nel 
quale 
pure 
è 
in discussione 
la questione 
della rilevanza della legislazione 
interna in tema di 
pagamenti 
della Pubblica Amministrazione 
rispetto all’obbligazione 
derivante 
sulla stessa in dipendenza 
di 
rapporti 
disciplinati 
da 
fonti 
comunitarie 
». 
Pertanto, 
ha 
ritenuto 
doveroso 
rimettere 
la 
decisione 
della 
causa 
alla 
pubblica 
udienza, 
poi 
tenutasi 
il 
5 
ottobre 
2023, 
all’esito 
della 
quale, con altra 
ordinanza 
interlocutoria 
del 
22 novembre 
2023, n. 32405, ha 
trasmesso 

rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


gli 
atti 
alla 
Prima 
Presidente 
la 
quale 
ha 
rimesso alle 
Sezioni 
Unite 
l’esame 
della 
questione 
«di 
massima di 
particolare 
rilevanza in ordine 
alla idoneità dell’istanza di 
restituzione 
al-
l’esportazione 
a costituire 
atto di 
costituzione 
in mora della P.A. ed agli 
effetti 
delle 
norme 
in 
tema di 
contabilità di 
Stato ai 
fini 
del 
riconoscimento di 
interessi, moratori 
o corrispettivi, 
nelle 
obbligazioni 
a 
carico 
della 
P.A. 
nascenti 
dalla 
domanda 
di 
restituzione 
all’importazione 
per i prodotti soggetti a un regime di prezzi unici». 


6. 
Il 
Procuratore 
generale, 
che 
ha 
depositato 
memoria, 
ha 
concluso 
per 
il 
rigetto 
del 
ricorso, 
discusso oralmente 
alla 
pubblica 
udienza 
del 
giorno 11 marzo 2025, in prossimità 
della 
quale 
sono state depositate da entrambe le parti memorie 
ex 
art. 378 cod. proc. civ. 
RAGioni DeLLA DeCiSione 


1. 
– 
La 
tempestività 
del 
ricorso. 
È 
opportuno 
premettere 
che 
l’avvenuta 
notificazione 
della 
sentenza 
oggi 
impugnata, “con formula esecutiva, in data 24 aprile 
2019, alla sola Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli” 
(cfr. pag. 1 del 
ricorso) deve 
considerarsi 
inidonea 
a 
far decorrere 
il 
termine 
breve 
di 
cui 
all’art. 325, comma 
2, cod. proc. civ., posto che, come 
ancora 
recentemente 
ribadito 
da 
Cass. 
n. 
13165 
del 
2024, 
quest’ultimo 
decorre 
«dalla 
notificazione 
della 
sentenza 
effettuata, 
ex 
art. 
285 
c.p.c., 
al 
procuratore 
della 
parte 
costituita, 
nel 
domicilio 
(reale 
od eletto) del 
medesimo, sicché 
la notificazione 
fatta, ai 
sensi 
dell’art. 479 c.p.c., alla 
parte 
personalmente 
non è 
idonea a far 
decorrere 
il 
suddetto termine». Nessun dubbio, pertanto, 
può sorgere 
circa 
la 
tempestività 
dell’odierno ricorso, notificato il 
19 marzo 2020, nel 
termine 
annuale 
di 
cui 
all’art. 327 cod. proc. civ. (nel 
testo -qui 
applicabile 
ratione 
temporis 
trattandosi 
di 
processo 
iniziato, 
in 
primo 
grado, 
nel 
dicembre 
2002 
-anteriore 
alla 
riforma 
apportatagli 
dalla 
legge 
n. 69 del 
2009), decorrente 
dalla 
data 
di 
pubblicazione 
(21 febbraio 
2019) 
della 
sentenza 
impugnata, 
maggiorata 
del 
periodo 
di 
sospensione 
feriale 
e 
tenuto 
conto, 
altresì, delle 
misure 
adottate 
dal 
legislatore 
per far fronte 
all’emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19: 
in 
particolare, 
di 
quanto 
disposto 
dall’art. 
83, 
comma 
2, 
del 
d.l. 
n. 
18 
del 
2020 
(convertito, 
con modificazioni, dalla 
legge 
n. 27 del 
2020), che 
ha 
sospeso, per il 
periodo dal 
9 
marzo 2020 al 
15 aprile 
2020, successivamente 
allungato fino all’11 maggio 2020 dall’art. 
36 
del 
d.l. 
n. 
23 
del 
2020 
(convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
n. 
40 
del 
2020), 
il 
decorso 
dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. 
2. – Il 
motivo di 
ricorso. 
Con l’unico motivo, rubricato «Violazione 
e/o falsa applicazione 
degli 
artt. 1219, 1182, 1224 e 
1282 c.c., in relazione 
agli 
artt. 269 e 
ss. del 
r.d. n. 827/1924 
ed 
al 
r.d. 
n. 
2440/1923 
(art. 
360, 
comma 
1, 
n. 
3, 
c.p.c.)», 
l’Agenzia 
ricorrente 
ascrive 
alla 
corte 
distrettuale 
di 
avere 
errato nel 
non considerare 
che, pur essendo integralmente 
regolata 
dal 
diritto 
comunitario 
la 
materia 
delle 
integrazioni 
di 
prezzo 
ai 
produttori 
agricoli 
esportatori 
verso 
Paesi 
Ue, 
comunque 
rimangono 
applicabili 
le 
normative 
in 
tema 
di 
contabilità 
dello 
Stato e 
di 
debiti 
pecuniari 
della 
Pubblica 
Amministrazione. Pertanto, essendo l’obbligazione 
quérable, il 
ritardo non può concretizzarsi 
se 
non a 
seguito di 
una 
specifica 
intimazione 
di 
pagamento. Né, al 
contempo, la 
domanda 
di 
pagamento del 
contributo può valere 
come 
intimazione 
ai 
sensi 
dell’art. 1219 cod. civ., atteso che 
essa 
è 
proposta 
prima 
del 
decorso del 
termine 
ragionevole 
previsto 
per 
la 
definizione 
del 
procedimento, 
cosicché, 
per 
altro 
verso, 
nessun ritardo può ancora 
ritenersi 
verificato prima 
della 
scadenza 
del 
predetto termine. Da 
qui 
l’impossibilità, 
secondo 
l’assunto 
della 
medesima 
Agenzia, 
di 
poter 
configurare 
un 
diritto 
al 
pagamento 
di 
interessi 
e 
maggior 
danno, 
ex 
art. 
1224 
cod. 
civ., 
in 
assenza 
di 
una 
costituzione 
in mora 
diversa 
da 
quella 
costituita 
dalla 
notifica 
dell’atto di 
citazione 
effettuata 
ad istanza 
della 
Italgrani 
s.p.a., 
quando 
era 
in 
bonis, 
il 
15 
dicembre 
1997. 
D’altra 
parte, 
la 
natura 
quérable 

CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


dell’obbligazione 
e 
la 
incidenza 
della 
normativa 
in materia 
di 
contabilità 
dello Stato escluderebbero 
il 
decorso 
degli 
interessi 
corrispettivi 
dall’intervenuto 
decorso 
del 
termine 
ragionevole 
per la definizione del procedimento. 


3. – Le 
eccezioni 
pregiudiziali. Giova 
rimarcare, innanzitutto, che 
l’eccezione 
di 
inammissibilità 
di 
questa 
doglianza, sollevata 
dalla 
originaria 
controricorrente 
Progetto Grano s.p.a. 
(oggi 
JLM 
s.r.l. a 
socio unico) in relazione 
alla 
sua 
parte 
concernente 
la 
decorrenza 
e 
la 
quantificazione 
degli 
interessi 
di 
mora 
(ciò sul 
presupposto che 
l’eccezione 
del 
difetto di 
costituzione 
in 
mora 
e 
della 
natura 
quérable 
dell’obbligazione 
non 
era 
stata 
formulata 
dalla 
convenuta 
Agenzia 
nel 
corso del 
giudizio di 
primo grado, con conseguente 
inammissibilità 
del gravame sul punto), non merita seguito. 
La 
corte 
territoriale, infatti, si 
è 
espressa 
a 
tale 
proposito (cfr. 
pag. 10, righe 
4-6, della 
sentenza 
oggi 
impugnata), ritenendo ammissibile 
il 
motivo di 
gravame 
e, su questa 
pronuncia, 
non 
vi 
è 
stata 
proposizione 
di 
alcun 
ricorso 
incidentale 
condizionato 
ad 
opera 
della 
menzionata 
controricorrente. 


3.1. 
Il 
motivo 
di 
ricorso, 
invece, 
deve 
considerarsi 
inammissibile, 
fin 
da 
ora, 
laddove 
diretto 
a 
censurare 
per violazione 
di 
legge 
la 
decisione 
della 
corte 
partenopea 
anche 
nella 
parte 
riguardante 
il 
maggior danno riconosciuto alla 
originaria 
attrice 
ex 
art. 1224, comma 
2, cod. 
civ. 
Infatti, il 
terzo motivo di 
gravame 
in quella 
sede 
formulato dall’Agenzia 
oggi 
ricorrente, 
con cui 
era 
stata 
lamentata 
l’assoluta 
assenza 
di 
motivazione 
della 
decisione 
di 
primo grado 
con riguardo proprio alla 
quantificazione 
di 
tale 
maggior danno, è 
stato dichiarato inammissibile 
dalla 
corte 
suddetta, secondo cui 
«all’appellante 
non è 
consentito dolersi 
solo della carenza 
di 
motivazione, senza neanche 
indicare 
le 
diverse 
ragioni 
che 
avrebbero condotto ad 
una decisione differente» (cfr. pag. 14 della medesima sentenza). 


L’odierna 
doglianza, 
tuttavia, 
non 
contiene 
una 
specifica 
contestazione 
di 
questa 
statuizione 
di 
inammissibilità, avendo focalizzato la 
propria 
attenzione 
direttamente 
ed esclusivamente 
sulla 
richiesta 
di 
revisione 
“nel 
merito”, anche 
in parte 
qua, della 
decisione 
della 
corte 
distrettuale. 


Al 
cospetto di 
una 
pronuncia 
come 
quella 
appena 
descritta 
della 
Corte 
di 
appello, la 
ricorrente, 
al 
fine 
di 
consentire 
il 
riesame 
del 
merito 
della 
corrispondente 
domanda, 
avrebbe 
dovuto, 
ancor prima, contestare 
la 
correttezza 
della 
valutazione 
di 
inammissibilità 
di 
quel 
motivo di 
appello, adducendo l’erronea 
applicazione 
della 
previsione 
di 
cui 
all’art. 342 cod. proc. civ., 
di 
cui 
ha 
fatto sostanziale 
applicazione 
la 
sentenza 
impugnata: 
ciò in quanto solo la 
previa 
denuncia, con successo, dell’eventuale 
error 
in procedendo 
commesso dalla 
corte 
suddetta 
avrebbe 
permesso 
di 
riproporre 
la 
censura, 
se 
del 
caso, 
al 
giudice 
del 
rinvio. 
In 
tal 
senso, 
rileva 
quanto affermato, in termini, da 
Cass. n. 21514 del 
2019 (vedasi 
pure 
Cass. n. 9243 del 
2004). 


resta 
solo da 
precisare, infine, -considerato il 
tenore 
di 
Cass. n. 3093 del 
1989, secondo 
cui 
«In 
tema 
di 
obbligazioni 
pecuniarie, 
l’inadempimento 
colposo 
del 
debitore 
costituisce 
presupposto 
comune 
tanto 
al 
fine 
dell’attribuzione 
degli 
interessi 
moratori, 
di 
cui 
all’art. 
1224 primo comma cod. civ., quanto al 
fine 
del 
riconoscimento del 
maggior 
danno, previsto 
dal 
secondo 
comma 
di 
detta 
norma» 
-che, 
nell’odierna 
vicenda, 
il 
giudicato 
interno 
formatosi 
sulla 
sola 
quantificazione 
del 
maggior danno ex 
art. 1224, comma 
2, cod. proc. civ., non osta 
all’esame 
del 
formulato 
motivo 
di 
ricorso. 
esso, 
infatti, 
attaccando 
la 
statuizione 
sugli 
interessi 
moratori 
del 
comma 
1 del 
medesimo articolo, censura 
l’an 
della 
mora, sicché, in caso di 
suo 
rigetto, resterà 
fermo il 
giudicato interno predetto sul 
quantum 
del 
maggior danno, mentre, 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


nell’ipotesi 
di 
suo accoglimento, si 
verificherebbe 
un effetto di 
ricaduta 
ex 
art. 336, comma 
2, cod. proc. civ. 


4. 
– 
L’ordinanza 
interlocutoria 
n. 
32405 
del 
2023 
e 
le 
questioni 
rimesse 
alle 
Sezioni 
Unite. 
In quella 
sede, il 
Collegio, dopo aver descritto la 
concreta 
fattispecie 
sottoposta 
al 
suo esame 
ed aver richiamato il 
quadro normativo di 
riferimento (regolamento Ce 
n. 565/1980 e 
regolamento 
Ce 
n. 3665/1987, applicabili 
ratione 
temporis, che 
hanno disciplinato il 
pagamento, 
in favore 
dei 
produttori 
agricoli, di 
somme 
per il 
diritto alle 
restituzioni 
all’esportazione 
per 
i prodotti soggetti ad un regime di prezzi unici), ha ricordato, in primis, che, nell’odierna vicenda, 
sia 
il 
tribunale 
che 
la 
corte 
di 
appello hanno ritenuto che 
il 
termine 
per il 
versamento 
delle 
restituzioni 
dovesse 
desumersi 
dal 
sistema 
e 
l’hanno 
determinato 
in 
sessanta 
giorni, 
“dalla 
data 
del 
completamento 
della 
documentazione”, 
altresì 
ritenendo 
che 
tale 
termine, 
una 
volta 
decorso, non rendesse 
più ipotizzabile 
alcuna 
necessità 
di 
una 
ulteriore 
intimazione 
di 
pagamento e, dunque, che 
non fosse 
necessario un atto specifico di 
costituzione 
in mora 
ai 
sensi 
dell’art. 1219 cod. civ., già 
esso risultando implicitamente 
contenuto nella 
originaria 
richiesta 
di 
pagamento 
inoltrata 
da 
Italgrani 
s.p.a. 
in 
bonis 
all’Agenzia 
delle 
Dogane 
ancor 
prima 
di 
agire 
giudizialmente 
nei 
suoi 
confronti. Secondo la 
corte 
d’appello, peraltro, il 
corrispondente 
motivo 
di 
gravame 
proposto 
da 
quest’ultima 
nemmeno 
aveva 
ragion 
d’essere, 
stante 
il 
maturatosi 
diritto 
alla 
corresponsione 
al 
produttore 
di 
interessi 
corrispettivi 
per 
effetto 
della scadenza del termine per la definizione del procedimento relativo alle restituzioni. 
4.1. L’ordinanza 
in esame 
ha 
rimarcato, poi, che 
le 
questioni 
poste 
dal 
motivo di 
ricorso 
non 
attengono 
alla 
verifica 
dell’esistenza, 
o 
non, 
all’interno 
dell’ordinamento, 
del 
termine 
entro 
il 
quale 
la 
domanda 
originariamente 
proposta 
dalla 
Italgrani 
s.p.a 
in 
bonis 
doveva 
essere 
esitata 
al 
fine 
del 
riconoscimento 
delle 
invocate 
restituzioni 
all’esportazione 
(sul 
punto, 
infatti, 
si 
è 
formato il 
giudicato interno, non essendo stata 
specificamente 
impugnata 
la 
determinazione 
di 
quel 
termine 
come 
quantificata 
dal 
giudice 
di 
merito), 
ma 
riguardano 
i 
profili, 
rimasti 
ancora 
controversi, concernenti, rispettivamente: 
i) se, rispetto all’obbligazione 
di 
cui 
si 
discute, 
debba, o non, trovare 
applicazione 
la 
disciplina 
prevista 
per le 
obbligazioni 
di 
pagamento 
di 
denaro alle 
quali 
è 
tenuta 
la 
P.A.: 
disciplina 
che, in deroga 
agli 
artt. 1219, comma 
2, 
n. 3, e 
1182 cod. civ., prevede 
la 
necessità 
di 
un atto di 
costituzione 
in mora 
anche 
per le 
obbligazioni 
per le 
quali 
sia 
scaduto il 
termine, dovendo l’obbligazione 
dell’amministrazione 
essere 
adempiuta 
ed eseguita 
presso il 
domicilio del 
debitore; 
ii) 
se 
sia 
corretta 
la 
statuizione 
della 
corte 
partenopea 
che 
ha 
ritenuto essere 
insorta 
comunque 
l’obbligazione 
del 
pagamento 
di 
interessi 
corrispettivi 
a 
carico dell’Agenzia 
delle 
Dogane 
per effetto della 
scadenza 
del 
termine 
fissato per definire 
il 
procedimento di 
riconoscimento del 
diritto alla 
restituzione 
ed al 
prefinanziamento in favore 
del 
produttore, anche 
a 
non volere 
considerare 
verificata 
la 
mora 
per effetto della 
scadenza 
del 
termine 
per la 
definizione 
del 
procedimento di 
verifica 
dell’esistenza 
del medesimo diritto alle restituzioni all’importazione. 
4.2. ricordati, allora, i 
principi 
espressi 
da 
Cass., SU, n. 1561 del 
1977, -in forza 
dei 
quali 
le 
“restituzioni”, benché 
disciplinate 
da 
regolamenti 
comunitari, per quanto attiene 
alle 
modalità 
e 
tempi 
del 
loro pagamento restano assoggettate 
alle 
norme 
di 
diritto interno (con la 
conseguenza 
che 
il 
credito dell’esportatore 
diviene 
liquido ed esigibile, e 
perciò produttivo 
di 
interessi 
compensativi, solo quando sia 
stata 
ordinata 
la 
spesa 
ed emesso il 
relativo ordinativo 
di 
pagamento, ai 
sensi 
dell’art. 270 del 
r.d. n. 827 del 
1924) -il 
Collegio remittente 
ha 
sottolineato l’esigenza 
di 
verificarne 
la 
tenuta 
con la 
giurisprudenza 
successiva 
formatasi 
in 
tema 
di 
irrilevanza 
della 
definizione 
del 
procedimento 
di 
spesa 
per 
i 
debiti 
pecuniari 
da 
ritardo 
della P.A. 

CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


Questa 
Corte, infatti, -sebbene 
ferma 
nel 
ritenere 
che 
sui 
debiti 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
per i 
quali 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
pubblica 
stabiliscono, in deroga 
al 
principio di 
cui 
all’art. 
1182, 
comma 
3, 
cod. 
civ., 
che 
i 
pagamenti 
si 
effettuano 
presso 
gli 
uffici 
di 
tesoreria 
dell’Amministrazione 
debitrice, la 
natura 
quérable 
dell’obbligazione 
comporta 
che 
il 
ritardo 
nei 
pagamenti 
non determina 
automaticamente 
gli 
effetti 
della 
costituzione 
in mora 
ex 
re, ai 
sensi 
dell’art. 1219, comma 
2, n. 3, cod. civ., occorrendo, invece, affinché 
sorga 
la 
responsabilità 
da 
tardivo adempimento con conseguente 
obbligo di 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
e 
di 
risarcimento 
dell’eventuale 
maggior 
danno, 
la 
costituzione 
in 
mora 
mediante 
intimazione 
scritta 
di 
cui 
allo stesso art. 1219, comma 
1 (cfr., ex 
multis, Cass. nn. 29776 e 
23823 del 
2020; 
Cass. n. 19085 del 
2015; 
Cass. n. 5066 del 
2009; 
Cass. nn. 19320 e 
10691 
del 
2005) 
-ha 
ulteriormente 
specificato 
che, 
ove 
vi 
sia 
un 
colpevole 
ritardo 
nell’espletamento 
della 
procedura 
di 
liquidazione, l’Amministrazione 
è 
tenuta 
a 
corrispondere 
gli 
interessi 
moratori, 
a 
prescindere 
dall’emissione, o meno, del 
mandato di 
pagamento (così, ex 
aliis, Cass., 
SU, n. 2065 del 
1980; 
Cass., SU, nn. 359 e 
4351 del 
1985; 
Cass. n. 3632 del 
1980; 
Cass. n. 
1759 del 
1982; 
Cass. nn. 1673, 1674, 2264 e 
6597 del 
1983; 
Cass. nn. 406 e 
3533 del 
1985; 
Cass. n. 2675 del 
1986, Cass. n. 16683 del 
2002). Pertanto, secondo questo indirizzo ermeneutico, 
in tema 
di 
mora 
in ordine 
ai 
contratti 
stipulati 
dalla 
P.A., le 
regole 
di 
diritto privato 
sull’esatto adempimento delle 
obbligazioni 
(artt. 1218 e 
1224 cod. civ.) si 
applicano anche 
ai 
debiti 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
medesima, sicché 
l’eventuale 
esigenza 
di 
adottare 
le 
procedure 
della 
contabilità 
pubblica 
non 
giustifica, 
in 
caso 
di 
colpevole 
ritardo 
nelle 
formalità 
di 
liquidazione, 
la 
deroga 
al 
principio, 
desumibile 
dall’art. 
1218 
cod. 
civ., 
della 
responsabilità 
del 
debitore 
per 
l’inesatto 
o 
tardivo 
adempimento 
della 
prestazione 
(responsabilità 
che 
si 
attua 
con 
la 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
come 
forma 
di 
risarcimento 
minimo), 
né 
a 
quello, posto dall’art. 1224, comma 
1, cod. civ., che 
identifica 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
con il giorno della costituzione in mora. 


L’ordinanza 
interlocutoria 
n. 32405/2023, dunque, si 
è 
interrogata 
sulla 
possibilità 
di 
ammettere 
una 
tutela 
differenziata 
tra 
le 
obbligazioni 
della 
P.A., disciplinate 
dal 
diritto comunitario 
e 
relative 
alle 
restituzioni 
alle 
esportazioni 
per prodotti 
soggetti 
ad un regime 
di 
prezzi 
unici 
(per le 
quali, come 
affermato dalle 
Sezioni 
Unite 
fin dal 
1977, è 
necessario, pur in presenza 
di 
un ritardo nell’adempimento da 
parte 
dell’amministrazione, l’emissione 
di 
un titolo 
di 
spesa), e 
le 
altre 
obbligazioni 
della 
P.A. per le 
quali, invece, il 
colpevole 
ritardo determina 
l’insorgenza 
del 
diritto agli 
interessi 
moratori 
a 
prescindere 
dall’emissione 
di 
un mandato di 
pagamento. 


4.3. 
Con 
specifico 
riferimento, 
poi, 
alla 
questione 
dell’incidenza, 
al 
fine 
del 
riconoscimento 
degli 
interessi 
corrispettivi 
a 
carico della 
P.A. in assenza 
di 
titolo di 
spesa, della 
idoneità, o 
non, della 
richiesta 
del 
contributo comunitario che 
apre 
il 
procedimento di 
verifica 
dei 
suoi 
presupposti 
e 
di 
eventuale 
loro erogazione 
(che, nella 
prospettiva 
esposta 
nel 
ricorso per cassazione, 
non può valere 
come 
intimazione 
ex 
art. 1219, comma 
1, cod. civ. nei 
confronti 
della 
P.A., intervenendo prima 
del 
decorso del 
termine 
ragionevole 
e, quindi, in assenza 
di 
un ritardo. 
tesi 
che 
si 
oppone 
a 
quella 
propugnata, invece, dalla 
difesa 
della 
controricorrente 
ed in 
parte 
fatta 
propria 
dalla 
corte 
di 
appello, 
volta 
a 
sostenere 
che 
l’istanza 
di 
restituzione 
riguarda 
un diritto già 
riconosciuto al 
produttore 
che, alla 
scadenza 
del 
termine 
finalizzato unicamente 
a 
mettere 
in campo le 
risorse 
finanziarie 
necessarie 
per l’erogazione 
del 
sussidio, dà 
luogo al 
riconoscimento 
degli 
interessi 
con 
decorrenza 
dall’originaria 
istanza), 
la 
medesima 
ordinanza 
interlocutoria 
ha 
ricordato che 
il 
consolidato orientamento della 
Suprema 
Corte, in forza 
del 
quale 
il 
credito 
pecuniario 
vantato 
nei 
confronti 
della 
P.A. 
non 
può 
ritenersi 
liquido 
ed 
esigibile 

rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


fino a 
quando l’amministrazione 
non abbia 
emesso il 
titolo di 
spesa 
in conformità 
a 
quanto 
previsto dall’art. 270 del 
r.d. n. 827 del 
1924 (cfr. ex 
plurimis, Cass., n. 19452 del 
2012; 
Cass. 


n. 18377 del 
2010; 
Cass. n. 17909 del 
2004; 
Cass. n. 2071 del 
2000), sembra 
essere 
stato in 
parte 
superato Cass., Sez. 1, n. 11655 del 
2020, che 
ha 
ritenuto che 
i 
debiti 
dello Stato e 
degli 
altri 
enti 
pubblici 
diventano liquidi 
ed esigibili 
quando ne 
sia 
determinato l’ammontare 
a 
prescindere 
dal 
procedimento 
contabile 
di 
impegno 
e 
ordinazione 
della 
spesa. 
Affermazione, 
quest’ultima, che, però, è 
stata 
apertamente 
disattesa 
dalla 
Cass., Sez. 1, n. 118 del 
2023, tornata 
a posizionarsi sull’orientamento tradizionale. 
4.4. Così 
delineate 
le 
principali 
posizioni 
di 
questa 
Corte 
sul 
tema 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
(con riferimento agli 
effetti 
del 
loro ritardato adempimento 
ed 
alla 
riconoscibilità 
degli 
interessi 
corrispettivi 
riguardanti 
un 
debito 
liquido 
ed 
esigibile 
in assenza 
di 
un titolo di 
spesa), nella 
ordinanza 
di 
rimessione 
de 
qua sono state 
illustrate 
in 
modo 
dettagliato 
le 
ragioni 
a 
sostegno 
della 
rimessione 
alle 
Sezioni 
Unite 
delle 
questioni controverse. 
In 
particolare, 
i 
plurimi 
temi 
dibattuti 
in 
relazione 
al 
motivo 
di 
ricorso, 
risolti 
in 
modo 
non 
sempre 
univoco 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
sono 
stati 
così 
declinati 
dal 
Collegio 
remittente: 
a) 
natura 
ed 
effetti 
dell’istanza 
di 
restituzione 
all’importazione 
per 
prodotti 
soggetti 
ad 
un 
regime 
di 
prezzi 
unici 
e 
sua 
idoneità, 
o 
non, 
a 
costituire 
atto 
idoneo 
ex 
se 
a 
determinare 
il 
sorgere 
dell’obbligazione 
della 
P.A. 
alla 
scadenza 
del 
termine 
“ragionevole” 
entro 
il 
quale 
l’amministrazione 
deve 
definire 
il 
procedimento; 
b) 
efficacia 
delle 
disposizioni 
in 
tema 
di 
contabilità 
di 
Stato 
riguardo 
alle 
obbligazioni 
di 
restituzione 
alle 
importazioni 
azionate 
dalla 
società 
nei 
confronti 
dell’amministrazione 
pubblica; 
c) 
ammissibilità 
di 
una 
tutela 
differenziata 
tra 
le 
obbligazioni 
della 
P.A., 
disciplinate 
dal 
diritto 
comunitario 
e 
relative 
alle 
restituzioni 
alle 
esportazioni 
per 
prodotti 
soggetti 
ad 
un 
regime 
di 
prezzi 
unici 
(per 
le 
quali, 
come 
affermato 
dalle 
Sezioni 
Unite 
fin 
dal 
1977, 
è 
necessario, 
pur 
in 
presenza 
di 
un 
ritardo 
nell’adempimento 
da 
parte 
dell’amministrazione, 
l’emissione 
di 
un 
titolo 
di 
spesa), 
e 
le 
altre 
obbligazioni 
della 
P.A. 
per 
le 
quali, 
invece, 
il 
colpevole 
ritardo 
determina 
l’insorgenza 
del 
diritto 
agli 
interessi 
moratori 
a 
prescindere 
dall’emissione 
di 
un 
mandato 
di 
pagamento; 
d) 
effetti 
della 
mancata 
emissione 
del 
titolo 
di 
spesa 
sugli 
interessi 
corrispettivi; 
e) 
coerenza 
dei 
principi 
affermati 
dalla 
Suprema 
Corte 
in 
tema 
di 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A. 
a 
seconda 
che 
si 
verta 
in 
tema 
di 
interessi 
moratori 
o 
corrispettivi 
(atteso 
che 
la 
normativa 
contabile 
di 
rango 
secondario 
in 
tema 
di 
contabilità 
pubblica 
è 
stata 
ritenuta, 
a 
volte, 
idonea 
a 
modificare 
la 
regolamentazione 
di 
cui 
agli 
artt. 
1182 
e 
1282 
del 
codice 
civile, 
mentre, 
in 
altre 
occasioni, 
si 
è 
giunti 
a 
soluzioni 
opposte); 
f) 
necessità 
di 
risolvere 
la 
questione 
relativa 
alle 
conseguenze 
del 
mancato 
adempimento 
delle 
restituzioni 
all’esportazione 
in 
modo 
coerente 
con 
il 
diritto 
dell’Unione 
e 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
generali 
di 
equivalenza 
ed 
effettività. 
Con 
riferimento 
a 
tale 
ultimo 
profilo, 
e, 
in 
particolare, 
quanto 
al 
principio 
di 
equivalenza 
(da 
cui 
discende 
che 
gli 
individui 
che 
fanno 
valere 
i 
diritti 
conferiti 
dall’ordinamento 
giuridico 
dell’Unione 
non 
devono 
essere 
svantaggiati 
rispetto 
a 
quelli 
che 
fanno 
valere 
diritti 
di 
natura 
meramente 
interna. 
Cfr. 
Corte 
giust., 
7 
marzo 
2018, 
causa 
C-494/16, 
Santoro, 
§ 
39; 
Corte 
giust., 
14 
febbraio 
2019, 
causa 
C-562/17, 
Nestrade, 
§ 
37), 
nell’ordinanza 
viene 
rimarcata 
l’esigenza 
di 
interrogarsi 
sulla 
compatibilità 
di 
un 
regime 
differenziato 
tra 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A., 
sorte 
sulla 
base 
di 
un 
rapporto 
privatistico 
(per 
le 
quali 
non 
è 
richiesto 
un 
titolo 
di 
spesa), 
ed 
obbligazioni 
relative 
alle 
restituzioni 
all’esportazioni 
(per 
le 
quali, 
invece, 
è 
richiesto 
un 
mandato 
di 
pagamento), 
sottolineandosi, 
altresì, 
come 
la 
rilevanza 
delle 
norme 
di 
contabilità 
impedirebbe 
al 
creditore 
di 
avere 
un 
mezzo 
di 
tutela 
acceleratorio 
ri



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


spetto 
alla 
mancata 
emissione 
del 
titolo 
di 
spesa 
da 
parte 
della 
P.A. 
In 
merito 
al 
necessario 
rispetto 
del 
principio 
di 
effettività, 
infine, 
il 
Collegio 
remittente 
ha 
richiamato 
i 
principi 
affermati 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
in 
tema 
di 
ritardo 
nel 
versamento 
delle 
restituzioni 
all’importazione 
(sentenze 
del 
18 
aprile 
2013, 
Irimie, 
C-565/11, 
punti 
da 
26 
a 
28, 
e 
del 
23 
aprile 
2020, 
Sole-Mizo 
e 
Dalmandi 
Mezőgazdasági, 
C-13/18 
e 
C-126/18, 
punti 
43, 
49 
e 
51) 
in 
forza 
dei 
quali 
determinate 
modalità 
di 
pagamento 
degli 
interessi 
non 
devono 
finire 
per 
privare 
l’interessato 
di 
un 
rimborso 
adeguato 
per 
la 
perdita 
causatagli, 
con 
conseguente 
contrarietà 
al 
diritto 
dell’Unione 
di 
un 
meccanismo 
giuridico 
che 
non 
consenta 
l’esercizio 
effettivo 
del 
diritto 
al 
rimborso 
ed 
al 
pagamento 
degli 
interessi. 


5. 
– 
Il 
tempo 
ed 
il 
luogo 
dell’adempimento 
nelle 
obbligazioni. 
Le 
questioni 
trattate 
nell’ordinanza 
interlocutoria 
rendono opportuno un breve 
esame 
della 
normativa 
codicistica 
riguardante 
il 
luogo 
ed 
il 
tempo 
dell’adempimento 
delle 
obbligazioni, 
atteso 
che 
proprio 
in 
relazione 
a 
questi 
aspetti 
si 
manifestano le 
peculiarità 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie. A 
seconda, infatti, 
che 
per 
l’esecuzione 
della 
prestazione 
sia 
stato 
fissato, 
o 
non, 
un 
termine 
ed 
in 
rapporto 
al 
luogo in cui 
deve 
essere 
eseguito il 
pagamento (domicilio del 
creditore, del 
debitore 
o di 
un 
terzo), anche 
il 
regime 
di 
decorrenza 
degli 
interessi 
viene 
ad esserne 
influenzato. ove, poi, 
debitrice 
sia 
una 
Pubblica 
Amministrazione, 
occorre 
tenere 
conto 
anche 
di 
quanto 
sancito 
dalla 
legge 
sulla 
contabilità 
generale 
dello Stato (r.d. 18 novembre 
1923, n. 2440) e 
dal 
regolamento 
di cui al r.d. 23 maggio 1924, n. 827. 
5.1. 
La 
lettura 
dell’art. 
1182, 
ultimo 
comma, 
cod. 
civ. 
evidenzia 
chiaramente 
che 
il 
modello 
al 
quale 
si 
è 
attenuto anche 
il 
nostro codice 
è 
quello delle 
obbligazioni 
che 
debbono essere 
adempiute 
al 
domicilio del 
debitore 
(obbligazioni 
“quérables”), per cui, nella 
generalità 
dei 
casi, è 
sufficiente 
che 
il 
debitore, al 
tempo della 
scadenza, appresti 
nel 
proprio domicilio la 
prestazione 
a 
disposizione 
del 
creditore, 
il 
quale 
avrà, 
pertanto, 
l’onere 
di 
recarsi 
presso 
il 
medesimo per esigere ed ottenere quanto gli spetta. 
L’opposto 
criterio, 
invece, 
è 
seguito 
per 
le 
obbligazioni 
pecuniarie, 
laddove 
l’art. 
1182, 
comma 
3, cod. civ., innovando rispetto a 
quanto stabilito dal 
codice 
abrogato (all’art. 1249), 
dispone 
che 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
vadano adempiute 
“al 
domicilio che 
il 
creditore 
ha al 
tempo della scadenza” 
(obbligazioni 
portables). Nella 
relazione 
al 
libro delle 
obbligazioni 
l’abbandono del 
tradizionale 
criterio del 
favor 
debitoris 
viene 
giustificato con il 
riferimento 
al 
fatto che 
“con i 
mezzi 
di 
trasmissione 
del 
denaro oggi 
a disposizione 
di 
tutti, diviene 
più 
agevole 
per 
il 
debitore 
l’adempimento al 
domicilio del 
creditore 
che 
non a questi 
di 
ottenere 
il 
pagamento al 
domicilio del 
debitore”. tuttavia, come 
pure 
è 
stato osservato in dottrina, la 
valutazione 
complessiva 
della 
regola 
di 
cui 
all’art. 1182, comma 
3, cod. civ. mostra 
come 
la 
norma 
sia 
particolarmente 
severa 
nei 
confronti 
del 
debitore: 
questi, infatti, a 
stretto rigore, va 
ritenuto inadempiente 
se 
la 
somma 
da 
lui 
dovuta, ove 
pure 
ne 
sia 
provato il 
tempestivo invio, 
non pervenga 
nella 
disponibilità 
del 
creditore 
nel 
termine 
stabilito, dovendo il 
debitore 
medesimo 
dimostrare che ciò non si è potuto verificare per causa a lui non imputabile. 


Il 
fatto 
che 
tutte 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
siano 
portables 
assume 
rilevanza, 
poi, 
-per 
quanto 
di 
specifico 
interesse 
in 
relazione 
alle 
questioni 
oggi 
all’esame 
di 
queste 
Sezioni 
Unite 
-al 
fine 
dell’applicazione 
a 
tali 
obbligazioni 
del 
principio 
della 
mora 
ex 
re, 
ove 
l’obbligazione 
pecuniaria 
sia 
assistita 
da 
un 
termine 
per 
il 
pagamento 
(cfr. 
art. 
1219, 
comma 
2, 
n. 
3, 
cod. 
civ.). 


Una 
“deroga 
legale” 
al 
carattere 
portabile 
dei 
pagamenti 
di 
somme 
è 
quella 
relativa 
ai 
pagamenti 
dei 
debiti 
dello 
Stato 
e 
degli 
altri 
enti 
pubblici 
territoriali, 
che, 
ai 
sensi 
della 
già 
ricordata 
normativa 
sulla 
contabilità 
generale 
dello 
Stato 
e 
di 
quella 
relativa 
agli 
enti 
locali, 
così 
come 
interpretata 
dalla 
giurisprudenza, 
prevede 
che 
i 
pagamenti 
delle 
spese 
vadano 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


effettuati 
e 
riscossi 
presso 
il 
luogo 
in 
cui 
ha 
sede 
l’ufficio 
di 
tesoreria 
tenuto 
a 
procedere 
al 
relativo 
pagamento, 
a 
seguito 
dell’esibizione 
del 
mandato. 
Si 
tratta 
di 
un 
principio 
che 
esprime 
un 
antico 
privilegio 
“ispirato 
a 
criteri 
di 
ordine 
pubblico, 
in 
quanto 
dettato 
da 
esigenza 
di 
regolare 
e 
razionale 
svolgimento 
della 
gestione 
amministrativa 
e 
contabile 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
cui 
è 
affidata 
la 
soddisfazione 
di 
interessi 
collettivi 
” 
(cfr. 
Cass. 
n. 
2556 
del 
1964). 


5.2. 
Con 
riguardo, 
invece, 
al 
“tempo” 
dell’adempimento, 
dalla 
disciplina 
contenuta 
nel 
codice 
civile 
(artt. 1183-1187 e 
1218 e 
ss.) si 
ricavano, i 
seguenti 
principi: 
i) 
il 
debitore 
di 
una 
somma 
liquida 
ed 
esigibile 
è 
tenuto 
ad 
effettuare 
il 
pagamento 
alla 
scadenza 
dell’obbligazione; 
ii) 
il 
ritardo nell’adempimento, in quanto violazione 
della 
modalità 
temporale 
di 
esecuzione 
della 
prestazione, costituisce 
lesione 
del 
diritto del 
creditore 
e 
si 
pone 
quale 
fonte 
di 
un autonomo 
obbligo risarcitorio. 
Questi 
principi 
sono 
stati 
ritenuti, 
da 
parte 
della 
dottrina, 
inapplicabili 
alle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
Pubblica 
Amministrazione, 
osservandosi, 
in 
proposito 
(come 
si 
vedrà, 
più 
esaustivamente, 
nel 
prosieguo 
di 
questa 
motivazione), 
che 
tali 
debiti 
pecuniari 
si 
possono 
considerare 
liquidi 
ed esigibili 
soltanto dopo che 
la 
relativa 
spesa 
sia 
stata 
ordinata 
dall’Amministrazione, 
con l’emissione 
del 
titolo, nelle 
forme 
prescritte 
dalle 
norme 
di 
contabilità. In 
questo 
modo 
si 
è 
affermata, 
anche 
con 
riguardo 
alla 
definizione 
della 
liquidità 
dei 
debiti 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
l’applicazione 
di 
una 
nozione 
particolare, 
venendosi 
a 
distinguere 
la 
liquidità 
ed esigibilità 
stabilità 
dal 
codice 
civile 
dalla 
liquidazione 
contabile, disciplinata 
dal 
regolamento 
di 
contabilità 
di 
Stato. 
Proprio 
in 
ossequio 
alla 
tesi 
dell’inesigibilità 
contabile, 
allora, è 
stato sostenuto che 
“il 
diritto di 
credito pecuniario verso l’Erario, non diversamente 
dall’analogo diritto verso qualsiasi 
altro debitore, può essere 
considerato perfetto dal 
momento 
in 
cui 
il 
credito 
diventa 
liquido 
ed 
esigibile 
ai 
sensi 
del 
diritto 
comune, 
e 
cioè 
delle 
leggi 
civili; 
il 
diritto 
di 
pagamento 
di 
tale 
credito 
rimane, 
però, 
in 
stato 
di 
pendenza 
fin 
quando, 
a 
seguito 
degli 
altri 
adempimenti 
previsti 
dalla 
legislazione 
sulla 
contabilità 
di 
Stato, 
non sia stato emesso il 
titolo di 
spesa 
”. In particolare, la 
costruzione 
di 
un’autonoma 
teoria 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
Pubblica 
Amministrazione, 
caratterizzata 
da 
una 
disciplina 
specifica 
e 
da 
autonomi 
principi, 
è 
stata 
fondata 
sull’efficacia 
cd. 
esterna 
riconosciuta 
alle 
norme 
della 
contabilità 
di 
Stato, 
che, 
avendo 
forza 
di 
diritto 
oggettivo, 
avrebbero 
efficacia 
vincolante 
non 
soltanto 
all’interno, 
nei 
confronti 
dell’Amministrazione, 
ma 
anche 
all’esterno, 
nei confronti dei creditori statali. 


Fin 
da 
ora, 
tuttavia, 
è 
doveroso 
rimarcare 
che 
la 
tesi 
dell’efficacia 
esterna 
delle 
norme 
di 
contabilità 
è 
costretta 
a 
confrontarsi 
con 
quanto 
affermato 
dalla 
Corte 
costituzionale 
nella 
sentenza 
26 
maggio 
1981 
n. 
71, 
con 
la 
quale 
è 
stata 
riconosciuta 
all’art. 
270 
del 
r.d. 
23 
maggio 
1924, 
n. 
827, 
natura 
regolamentare, 
con 
la 
conseguenza 
che, 
come 
si 
legge 
in 
quella 
pronuncia, 
“con 
questa 
fonte 
non 
possono 
crearsi 
norme 
provviste 
dello 
stesso 
valore 
di 
legge 
”. 


La 
teoria 
dell’inesigibilità 
contabile, poi, è 
stata 
fortemente 
avversata 
da 
gran parte 
della 
dottrina, essendosi 
sottolineato che 
le 
norme 
di 
contabilità 
sono norme 
di 
organizzazione 
“… 
indirizzate 
a 
disciplinare 
l’impiego 
e 
la 
destinazione 
delle 
risorse 
pubbliche 
in 
conformità 
delle 
leggi 
contabili 
e 
del 
bilancio, 
e, 
quindi, 
assolvono 
esclusivamente 
al 
compito 
del 
migliore 
perseguimento 
dell’interesse 
generale 
finanziario 
(…): 
il 
loro 
ambito 
oggettivo 
di 
operatività 
rimane 
necessariamente 
fermo alla regolamentazione 
di 
rapporti 
tra organi 
della Pubblica 
Amministrazione”. È 
stato osservato, inoltre, che 
le 
norme 
di 
contabilità 
dello Stato regolano 
non rapporti 
intersoggettivi, ma 
soltanto rapporti 
interorganici, e, “disciplinando forme 
e 
mo



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


dalità dell’azione 
amministrativa, non possono estendere 
a loro efficacia fino a condizionare 


o limitare la operatività delle norme comuni sui rapporti obbligatori 
”. 
6.– Il 
ritardo nell’adempimento: natura ed effetti 
della costituzione 
in mora. 
Ai 
sensi 
del-
l’art. 1282, comma 
1, cod. civ., laddove 
un credito sia 
liquido ed esigibile 
ed il 
debitore 
non 
adempia 
o ritardi 
nell’adempimento, sorge 
in capo al 
creditore 
il 
diritto di 
ottenere 
interessi 
(salvo che 
la 
legge 
o il 
titolo dispongano diversamente). Nel 
prosieguo di 
questa 
motivazione 
si 
darà 
conto 
degli 
indirizzi 
ermeneutici 
di 
questa 
Corte 
circa 
l’applicazione 
della 
menzionata 
disposizione 
con 
riferimento 
alle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
Pubblica 
Amministrazione, 
fin 
da 
ora 
evidenziandosi, 
peraltro, 
che, 
come 
riconosciuto 
da 
tempo 
dalla 
dottrina, 
il 
principio 
espresso 
da 
quell’articolo 
è 
operante 
anche 
nei 
confronti 
dell’Amministrazione 
predetta, 
atteso 
che “i debiti pecuniari sono - di per sé e per chiunque - fruttiferi 
”. 


Giusta 
l’art. 1219, comma 
1, cod. civ., poi, il 
debitore 
è 
costituito in mora 
per iniziativa 
del creditore, mediante intimazione o richiesta formale di adempimento. 


Le 
questioni 
oggi 
all’attenzione 
delle 
Sezioni 
Unite 
rendono qui 
opportuna 
una 
sintetica 
riflessione 
circa 
la 
necessità, o non, di 
annoverare 
la 
costituzione 
in mora 
tra 
i 
presupposti 
del 
“ritardo” 
dell’adempimento (e, dunque, sulla 
necessità 
di 
una 
tale 
costituzione 
affinché 
sorgano le conseguenze giuridiche che la legge riconnette a questa situazione). 


La 
mora 
del 
debitore 
(cd. mora solvendi 
o debendi), come 
è 
noto, presuppone 
un inadempimento 
(o 
adempimento 
inesatto) 
sotto 
il 
profilo 
cronologico: 
in 
altre 
parole, 
può 
configurarsi 
la 
mora 
solvendi 
quando 
il 
medesimo 
debitore 
è 
in 
ritardo 
nell’adempimento, 
in 
quanto 
è 
scaduto 
il 
termine 
entro il 
quale 
la 
prestazione 
doveva 
essere 
da 
lui 
eseguita 
e 
questa, tuttavia, 
sia 
ancora 
possibile. 
ecco, 
dunque, 
che 
il 
ritardo 
nell’adempimento 
della 
prestazione 
produce 
due 
conseguenze 
principali: 
il 
risarcimento del 
danno (cfr. 
l’art. 1218 cod. civ. e 
l’art. 1224 
cod. civ. per la 
specifica 
ipotesi 
del 
ritardo nelle 
obbligazioni 
pecuniarie) ed il 
passaggio, sul 
debitore, del 
rischio per la 
impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
derivante 
da 
causa 
a 
lui 
non 
imputabile 
ove 
non 
dimostri 
che 
l’oggetto 
della 
prestazione 
sarebbe 
ugualmente 
perito 
presso il creditore (cfr. 
l’art. 1221 cod. civ.). 


La 
dottrina 
prevalente 
ha 
sottolineato 
come 
il 
legislatore 
esclude, 
senza 
possibilità 
di 
equivoci, 
la 
necessità 
della 
costituzione 
in mora 
per i 
casi 
esplicitamente 
elencati 
nell’art. 1219 
cod. civ., i 
quali 
coprono la 
parte 
di 
gran lunga 
preponderante 
delle 
obbligazioni, atteso che, 
giusta 
il 
principio di 
cui 
all’art. 1182, comma 
3, cod. civ., per il 
quale 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
si 
adempiono al 
domicilio del 
creditore, una 
larghissima 
parte 
delle 
obbligazioni 
viene 
ad essere 
compresa 
nella 
previsione 
dell’art. 1219, comma 
2, n. 3, cod. civ. Si 
è 
opinato, dunque, 
da 
un lato, che 
non è 
in alcun modo giustificato fondare 
la 
specifica 
qualifica 
della 
situazione 
di 
mora 
ed 
assegnarle 
una 
maggiore 
pienezza 
di 
effetti 
esclusivamente 
in 
base 
all’avvenuta 
intimazione 
o 
richiesta 
del 
creditore, quando, 
nella 
maggior 
parte 
dei 
casi, 
la 
legge 
non sembra 
richiedere 
alcuna 
attività 
del 
creditore 
per la 
messa 
in moto delle 
conseguenze 
del 
ritardo; 
dall’altro, che, quando un termine 
(per l’adempimento) è 
fissato rigorosamente 
in 
rapporto 
al 
calendario, 
la 
costituzione 
in 
mora 
finisce 
con 
l’essere 
priva 
di 
qualsivoglia 
funzione 
stante 
il 
principio dies 
interpellat 
pro homine. Di 
conseguenza, se 
una 
ratio 
può assegnarsi 
alla 
richiesta 
di 
costituzione 
in mora, essa 
deve 
ragionevolmente 
ricollegarsi 
agli 
inconvenienti 
cui 
può dar luogo, in relazione 
alle 
difficoltà 
di 
prova, il 
sistema 
dell’automaticità 
della 
mora 
in 
base 
alla 
semplice 
scadenza 
del 
termine. 
Pertanto, 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
pagamento 
deve 
essere 
eseguito 
al 
domicilio 
del 
debitore 
ed 
il 
creditore, 
alla 
scadenza, 
non si 
presenta 
al 
detto domicilio, la 
semplice 
scadenza 
del 
termine 
non è 
sufficiente 
a 
far 
considerare 
moroso il 
debitore 
e, in questo caso, la 
costituzione 
in mora 
ha 
la 
funzione 
“di 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


accertare 
la infruttuosa scadenza attraverso la prova che 
il 
creditore 
ha richiesto l’adempimento 
”. 


Da 
una 
tale 
considerazione, allora, si 
è 
fatta 
derivare 
una 
tendenza 
ad attenuare 
il 
requisito 
della 
costituzione 
in mora: 
tendenza 
che, nel 
caso in cui 
il 
termine 
sia 
rigoroso, può trovare 
la 
sua 
giustificazione 
nel 
principio generale 
della 
buona 
fede, proprio in relazione 
alla 
individuata 
funzione 
della 
costituzione 
in mora 
medesima: 
se 
questa 
serve 
esclusivamente 
ad accertare 
la 
infruttuosa 
scadenza 
del 
termine, 
sarebbe 
contrario 
alla 
buona 
fede, 
dunque, 
richiederla quando tale scadenza risulti 
aliunde 
sicura. 


Infine, anticipando quanto meglio si 
spiegherà 
più avanti, va 
qui 
evidenziato che 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ritiene 
che, con riguardo ai 
debiti 
pecuniari 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
per i 
quali 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
pubblica 
stabiliscono, in deroga 
al 
principio di 
cui 
all’art. 
1182, 
comma 
3, 
cod. 
civ., 
che 
i 
pagamenti 
si 
effettuano 
presso 
gli 
uffici 
di 
tesoreria 
dell’amministrazione 
debitrice, la 
natura 
quérable 
dell’obbligazione 
comporta 
che 
il 
ritardo 
nel 
pagamento non determina 
automaticamente 
gli 
effetti 
della 
mora, ai 
sensi 
dell’art. 1219, 
comma 
2, 
n. 
3, 
cod. 
civ., 
occorrendo 
invece 
-affinché 
sorga 
la 
responsabilità 
da 
tardivo 
adempimento 
con 
conseguente 
obbligo 
di 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
e 
di 
risarcimento 
dell’eventuale 
maggior danno -la 
costituzione 
in mora 
mediante 
intimazione 
scritta 
di 
cui 
al 
primo comma 
dello stesso art. 1219 c.c. (cfr. ex 
aliis, Cass. n. 2478 del 
2001; 
Cass. nn. 19320 
e 
19768 
del 
2005; 
Cass. 
n. 
5066 
del 
2009; 
Cass. 
n. 
19084 
del 
2015). 
Da 
tempo, 
inoltre, 
è 
stato 
precisato che 
la 
costituzione 
in mora 
è 
elemento costitutivo della 
pretesa 
nei 
confronti 
di 
una 
Pubblica 
Amministrazione 
avente 
ad 
oggetto 
la 
corresponsione 
degli 
interessi 
e 
dell’eventuale 
maggior danno da 
svalutazione 
monetaria 
(cfr. Cass. n. 21340 del 
2013; 
Cass. n. 10058 del 
2010). 


Peraltro, proprio con riguardo al 
principio di 
buona 
fede, giova 
ricordare 
che, nel 
2020, il 
legislatore, 
intervenendo 
sulla 
formulazione 
dell’art. 
1 
della 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
ha 
espressamente 
previsto 
che 
“I 
rapporti 
tra 
il 
cittadino 
e 
la 
pubblica 
amministrazione 
sono 
improntati 
ai principi della collaborazione e della buona fede”. 


Costituisce, da 
ultimo, principio consolidato che, al 
fine 
della 
costituzione 
in mora, l’intimazione 
al 
debitore 
non 
esige 
l’uso 
di 
formule 
solenni, 
ritenendosi 
sufficiente 
che 
il 
creditore 
manifesti a quest’ultimo l’intenzione di non tollerare ritardi. 


7. – Tipologie 
di 
interessi 
-Giova 
qui 
un breve 
cenno alla 
distinzione 
tra 
le 
varie 
categorie 
di interessi. 
Secondo 
una 
distinzione 
ormai 
acquisita 
dall’elaborazione 
dogmatica, 
gli 
interessi 
moratori 
si 
distinguono 
da 
quelli 
corrispettivi, 
ovvero 
dagli 
interessi 
che 
assolvono 
alla 
funzione 
di 
corrispettivo del 
denaro altrui, perché 
costituiscono una 
forma 
di 
risarcimento del 
danno cagionato 
al creditore per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria. 


L’utilità 
di 
tale 
distinzione, tuttavia, è 
stata 
svalutata 
da 
una 
parte 
della 
dottrina, la 
quale 
ha 
ritenuto che, in presenza 
di 
un credito esigibile, la 
decorrenza 
degli 
interessi 
costituisca 
una 
conseguenza 
automatica 
del 
ritardo subito dal 
creditore 
nel 
godimento della 
somma 
dovutagli, 
prescindendo del tutto dalla prova del danno. 


Un più recente 
approccio interpretativo muove 
dalla 
“regola dell’allineamento del 
tasso 
degli 
interessi 
moratori 
a 
quello 
convenzionale 
degli 
interessi 
corrispettivi”, 
espressa 
dall’art. 
1224, comma 
1, cod. civ., in forza 
della 
quale 
agli 
interessi 
moratori 
deve 
essere 
riconosciuta 
una 
(concorrente) funzione 
remunerativa, nella 
misura 
in cui 
compensano il 
creditore 
“della 
mancata percezione 
di 
quei 
frutti 
che 
la somma attesa per 
sua natura è 
in grado di 
produrre 
per 
il 
tempo ulteriore 
rispetto alla scadenza del 
termine 
che 
il 
debitore 
impone 
al 
primo col 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


suo inadempimento”, per affermare 
che 
anche 
dopo la 
scadenza 
del 
termine 
vi 
sia 
un prolungamento 
del rapporto di corrispettività. 


Secondo altra 
impostazione, a 
differenza 
degli 
interessi 
corrispettivi, quelli 
moratori 
postulano 
l’imputabilità (a titolo di dolo o colpa) del ritardo nell’adempimento. 


Non è 
mancato, peraltro, chi 
ha 
ritenuto che 
gli 
artt. 1224 e 
1282 cod. civ. si 
integrino reciprocamente, 
nel 
senso che, ove 
il 
debitore 
versi 
in una 
situazione 
di 
ritardo non imputabile, 
ciò non lo esonererebbe 
dall’obbligo di 
corrispondere 
gli 
interessi 
ex 
art. 1282 cod. civ., sempre 
che abbia comunque goduto della disponibilità della somma. 


In 
giurisprudenza, 
la 
diversità 
di 
funzione 
degli 
interessi 
corrispettivi 
e 
moratori 
è 
stata 
evidenziata, 
sotto 
il 
profilo 
processuale, 
con 
riferimento 
alla 
specificità 
della 
domanda, 
da 
Cass. n. 20868 del 
2015, la 
quale 
ha 
affermato che 
«La domanda di 
corresponsione 
degli 
interessi 
non 
accompagnata 
da 
alcuna 
particolare 
qualificazione 
va 
intesa 
come 
rivolta 
al 
conseguimento 
soltanto 
degli 
interessi 
corrispettivi, 
i 
quali, 
come 
quelli 
compensativi, 
sono 
dovuti 
indipendentemente 
dalla 
colpa 
del 
debitore 
nel 
mancato 
o 
ritardato 
pagamento, 
salva 
l’ipotesi 
della 
mora 
del 
creditore, 
atteso 
che 
la 
funzione 
primaria 
degli 
interessi 
nelle 
obbligazioni 
pecuniarie 
è 
quella 
corrispettiva, 
collegata 
alla 
loro 
natura 
di 
frutti 
civili 
della 
somma 
dovuta, 
mentre, nei 
contratti 
di 
scambio, caratterizzati 
dalla contemporaneità delle 
reciproche 
prestazioni, 
è 
quella compensativa, dovendosi 
invece 
riconoscere 
carattere 
secondario alla funzione 
risarcitoria, 
propria 
degli 
interessi 
di 
mora, 
che 
presuppone 
l’accertamento 
del 
colpevole 
ritardo o la costituzione 
in mora “ex 
lege” 
del 
debitore, e 
quindi 
la proposizione 
di 
un’espressa domanda, distinta da quella del 
pagamento del 
capitale». Già 
in precedenza, 
peraltro, Cass. n. 1377 del 
2008 aveva 
affermato che 
«La richiesta di 
corresponsione 
degli 
interessi, non seguita da alcuna particolare 
qualificazione, deve 
essere 
intesa come 
rivolta 
all’ottenimento 
soltanto 
degli 
interessi 
corrispettivi, 
i 
quali, 
come 
quelli 
compensativi, 
decorrono, 
in base 
al 
principio della naturale 
fecondità del 
denaro, indipendentemente 
dalla 
colpa del 
debitore 
nel 
mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi 
della mora del 
creditore
» (In particolare, si 
trattava 
di 
fattispecie 
in cui 
gli 
interessi 
sulla 
somma 
rivendicata 
dal 
promittente 
venditore 
a 
titolo 
di 
prezzo 
nei 
confronti 
del 
promissario 
acquirente, 
vennero 
qualificati 
come 
corrispettivi 
e 
fatti 
decorrere 
dalla 
data 
in cui 
il 
credito era 
divenuto liquido ed 
esigibile). 


8. – L’evoluzione 
giurisprudenziale 
in materia di 
ritardo della Pubblica Amministrazione 
nell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie. 
Muovendo 
dal 
rilievo 
che 
l’ordinanza 
interlocutoria 
ha 
ritenuto 
che 
nella 
decisione 
impugnata 
sono 
individuabili 
due 
rationes 
decidendi 
(una 
riguardante 
la 
debenza, o non, degli 
interessi 
moratori, ex 
art. 1224, comma 
1, cod. civ.; 
l’altra, concernente 
la 
eventuale 
spettanza, comunque, di 
quelli 
corrispettivi 
ex 
art. 1282 cod. 
civ.), si 
rivela 
opportuna, a 
questo punto, una 
ricognizione 
dell’evoluzione 
giurisprudenziale 
in 
materia 
di 
ritardo 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
nell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie. 
8.1. 
La 
Corte 
di 
cassazione 
è 
stata 
più 
volte 
chiamata 
a 
risolvere 
la 
questione 
dell’incidenza 
esplicata 
sulla 
posizione 
giuridica 
del 
creditore 
dalla 
sottoposizione 
delle 
spese 
degli 
enti 
pubblici 
al 
procedimento 
contabile 
disciplinato 
dalla 
legge 
sulla 
contabilità 
generale 
dello 
Stato 
(r.d. 
18 
novembre 
1923, 
n. 
2440) 
e 
dal 
regolamento 
di 
cui 
al 
r.d. 
23 
maggio 
1924, 
n. 
827, 
in 
forza 
del 
quale 
l’effettivo 
pagamento 
è 
preceduto 
da 
una 
fase 
di 
impegno 
di 
spesa, 
all’esito 
della 
quale 
una 
determinata 
somma 
viene 
vincolata 
ad 
una 
destinazione 
nell’ambito 
di 
un 
capitolo 
di 
bilancio, 
da 
una 
fase 
di 
liquidazione 
della 
spesa, 
consistente 
in 
una 
serie 
di 
accertamenti 
diretti 
a 
determinare 
l’effettivo 
ammontare 
del 
credito, 
e 
da 

rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


una 
fase 
di 
ordinazione 
della 
spesa 
diretta 
agli 
uffici 
pubblici 
di 
tesoreria 
(cd. 
titolo 
di 
spesa). 


Secondo 
un 
primo 
orientamento 
(cfr. 
Cass., 
SU, 
n. 
1561 
del 
1977; 
Cass. 
n. 
4140 
del 
1982), 
rimasto 
a 
lungo 
consolidato, 
la 
procedura 
di 
spesa 
pubblica 
impedisce 
l’applicazione 
della 
disciplina 
codicistica 
sugli 
interessi 
corrispettivi 
e 
moratori 
perché 
il 
carattere 
discrezionale 
della 
distribuzione 
delle 
spese 
e 
degli 
ordinativi 
di 
pagamento esclude 
la 
configurabilità 
di 
un diritto del 
creditore 
alla 
sollecita 
definizione 
del 
procedimento contabile 
e 
rende 
insindacabile 
il 
mancato rispetto, da 
parte 
dell’ente, del 
termine 
legale 
o negoziale 
di 
pagamento. In 
quest’ottica, l’efficacia 
esterna 
attribuita 
alle 
norme 
sulla 
contabilità 
pubblica 
condiziona 
la 
stessa 
liquidità 
ed esigibilità 
dei 
crediti 
e 
rende, di 
conseguenza, inconfigurabile 
la 
“mora de-
bendi” 
della 
P.A., impedendo la 
decorrenza 
degli 
stessi 
interessi 
corrispettivi. tale 
approccio 
ermeneutico 
ha 
condotto 
all’enunciazione 
del 
principio 
secondo 
il 
quale 
prima 
dell’emissione 
del 
titolo 
di 
spesa 
sui 
debiti 
pecuniari 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
non 
decorrono 
interessi 
moratori, né corrispettivi. 


Alla 
luce 
delle 
osservazioni 
della 
dottrina 
maggioritaria, 
incentrate 
sull’inidoneità 
delle 
norme 
sulla 
contabilità 
di 
Stato 
a 
derogare 
alle 
norme 
codicistiche 
in 
ragione 
della 
loro 
portata 
meramente 
interna 
e 
della 
destinazione 
alla 
disciplina 
dei 
rapporti 
interorganici 
tra 
gli 
uffici 
della 
Pubblica 
Amministrazione, e 
non di 
quelli 
intersoggettivi 
tra 
quest’ultima 
e 
i 
terzi, la 
Suprema 
Corte 
ha 
intrapreso un nuovo percorso interpretativo recependo, tuttavia, soltanto 
in 
parte 
i 
rilievi 
critici 
svolti 
dagli 
studiosi. 
In 
particolare, 
la 
stessa, 
per 
un 
verso, 
ha 
condiviso 
l’assunto secondo il 
quale 
il 
privato è 
titolare 
di 
un diritto soggettivo perfetto al 
pagamento 
alla 
scadenza 
contrattuale 
(cfr. 
Cass., SU, n. 3071 del 
1983) ed il 
ritardo nell’espletamento 
del 
procedimento di 
spesa 
non impedisce 
che 
l’ente 
pubblico sia 
condannato al 
pagamento 
previa 
costituzione 
in 
mora, 
ma, 
per 
altro 
verso, 
ha 
confermato 
il 
principio 
per 
il 
quale 
i 
debiti 
pecuniari 
nei 
confronti 
della 
P.A. 
sono 
“quérables” 
in 
quanto, 
alla 
stregua 
della 
disciplina 
contabile, 
devono 
essere 
eseguiti 
presso 
il 
domicilio 
del 
debitore, 
dovendo 
il 
“locus 
solutionis” 
identificarsi 
con gli 
uffici 
di 
tesoreria 
della 
Pubblica 
Amministrazione. Si 
è, inoltre, precisato 
che 
l’Amministrazione, a 
seguito di 
costituzione 
in mora, è 
tenuta 
alla 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori, a 
prescindere 
dall’emissione 
di 
un titolo di 
spesa, ma 
tale 
titolo costituisce 
presupposto 
indefettibile 
per 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
corrispettivi, 
divenendo 
i 
crediti 
nei 
suoi 
confronti 
liquidi 
ed esigibili, ai 
sensi 
dell’art. 1282 cod. civ., solo allorquando la 
relativa 
spesa sia stata ordinata. 


Un integrale 
superamento dell’indirizzo tradizionale 
si 
è 
avuto soltanto con Cass., SU, n. 
3451 del 
1985, con cui 
è 
stata 
affermata, per la 
prima 
volta, la 
piena 
ed incondizionata 
applicabilità 
delle 
norme 
codicistiche 
e, in particolare, degli 
artt. 1282 e 
1224 cod. civ. ai 
contratti 
con la P.A. 


La 
nuova 
impostazione 
delineata 
dalle 
Sezioni 
Unite 
è 
stata 
recepita 
dalla 
sola 
giurisprudenza 
amministrativa 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
Iv, 
26 
maggio 
1998, 
n. 
876), 
mentre 
la 
giurisprudenza 
della 
Cassazione, 
ad 
eccezione 
di 
pochissime 
pronunce 
(quali, 
ad 
esempio, 
Cass., 
SU, n. 2263 del 
1985), ha 
continuato ad applicare 
il 
principio secondo il 
quale 
i 
debiti 
della 


P.A. 
divengono 
liquidi 
ed 
esigibili 
e, 
dunque, 
producono 
interessi 
corrispettivi, 
solo 
a 
far 
data 
dall’emissione 
del 
mandato 
di 
pagamento 
e 
gli 
interessi 
di 
mora 
sono 
dovuti 
dal 
momento 
della 
formale 
costituzione 
in 
mora 
dell’ente 
pubblico 
(cfr., 
ex 
aliis, 
Cass. 
n. 
690 
del 
1987; 
Cass., SU, n. 3469 del 1988; Cass. n. 5342 del 1989; Cass. n. 6447 del 1990). 
Successivamente 
la 
Suprema 
Corte 
è 
tornata 
ad 
affermare 
i 
principi 
enunciati 
dalle 
Sezioni 
Unite 
nel 
1985 
(cfr., 
ex 
multis, 
6627 
del 
1997; 
Cass. 
n. 
1871 
del 
1999; 
Cass. 
n. 
6032 
del 
2001), 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


per poi 
attestarsi 
nuovamente, in tempi 
più recenti, sull’orientamento tradizionale 
caratterizzato 
dalla 
distinzione 
del 
regime 
giuridico 
applicabile 
alle 
conseguenze 
del 
ritardo 
nell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A. e, segnatamente, dal 
condizionamento degli 
interessi 
corrispettivi 
all’emissione 
del 
titolo di 
spesa 
e 
degli 
interessi 
moratori 
alla 
sola 
costituzione 
in mora, a 
prescindere 
dall’esaurimento del 
procedimento contabile 
(cfr., ad esempio, 
Cass. n. 2071 del 
2000; 
Cass. n. 13859 del 
2002; 
Cass. n. 17909 del 
2004; 
Cass. n. 9369 
del 2005; Cass. n. 18377 del 2010). 


È 
andato consolidandosi, così, il 
principio secondo cui, poiché 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
pubblica 
stabiliscono, in deroga 
al 
principio di 
cui 
all’art. 1182, comma 
3, cod. civ., che 
i 
pagamenti 
si 
effettuano 
presso 
gli 
uffici 
di 
tesoreria 
dell’amministrazione 
debitrice, 
la 
natura 
“quérable” 
dell’obbligazione 
comporta 
che 
il 
ritardo nel 
pagamento non determina 
automaticamente 
gli 
effetti 
della 
mora, ai 
sensi 
dell’art. 1219, comma 
2, n. 3, cod. civ., occorrendo, 
invece, affinché 
sorga 
la 
responsabilità 
da 
tardivo adempimento con conseguente 
obbligo di 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
e 
di 
risarcimento 
dell’eventuale 
maggior 
danno, 
la 
costituzione 
in mora 
mediante 
intimazione 
scritta 
di 
cui 
al 
comma 
1 dello stesso art. 1219 cod. 


civ. (cfr., ex 
plurimis, Cass. n. 19320 del 
2005; 
Cass. n. 5066 del 
2009; 
Cass. n. 19084 del 
2015). 
La 
ricostruzione 
fin 
qui 
descritta 
ha 
subito 
una 
drastica 
riduzione 
applicativa 
a 
seguito 
del-
l’entrata 
in vigore 
del 
d.lgs. 9 ottobre 
2002, n. 231, di 
“Attuazione 
della direttiva 2000/35/CE 
relativa alla lotta contro i 
ritardi 
di 
pagamento nelle 
transazioni 
commerciali”, il 
quale 
trova 
applicazione 
con 
riferimento 
ai 
pagamenti 
effettuati 
a 
titolo 
di 
corrispettivo 
nelle 
“transazioni 
commerciali 
”, ivi 
comprese 
quelle 
in cui 
sia 
parte 
la 
Pubblica 
Amministrazione, ed introduce 
in 
via 
generalizzata 
l’automatismo 
della 
“mora 
ex 
re” 
e 
l’applicazione 
di 
un 
tasso 
di 
interesse 
di 
mora 
significativamente 
più elevato rispetto a 
quello legale. Ne 
consegue 
che 
lo speciale 
statuto dei 
debiti 
della 
P.A. delineato attraverso la 
sintetizzata 
evoluzione 
giurisprudenziale 
continua 
a 
trovare 
applicazione 
nelle 
sole 
ipotesi 
in cui 
l’obbligazione 
pecuniaria 
sia 
stata 
assunta 
dall’Amministrazione 
al 
di 
fuori 
di 
un contratto sussumibile 
nella 
nozione 
eurounitaria 
di 
“transazione 
commerciale” 
delineata 
dall’art. 2, comma 
1, lett. a, del 
citato decreto legislativo. 
tale 
situazione 
viene 
a 
configurarsi 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
la 
fonte 
negoziale 
dell’obbligazione 
della 
P.A. sia 
connotata 
in senso pubblicistico perché 
significativamente 
conformata 
dalla disciplina eteronoma e funzionalizzata alla cura dell’interesse generale. 


Questa 
Corte, inoltre, ha 
ritenuto manifestamente 
infondata 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale, 
in relazione 
agli 
artt. 3 e 
24 Cost., dell’art. 270 r.d. n. 827 del 
1924, in quanto interpretato 
nel 
senso che 
i 
debiti 
pecuniari 
dello Stato diventano liquidi 
ed esigibili 
solo dopo 
l’ordinativo di 
spesa 
e 
l’emissione 
del 
relativo titolo, evidenziando che 
la 
differenza 
di 
trattamento 
normativo 
tra 
debitore 
privato 
e 
Stato 
è 
giustificata 
dalla 
circostanza 
che 
quest’ultimo 
persegue, anche 
nell’attuazione 
di 
rapporti 
obbligatori, interessi 
generali 
(cfr. 
Cass. n. 1749 
del 2008). 


In continuità 
con i 
principi 
affermati 
dalle 
Sezioni 
Unite 
nel 
1985, poi, ma 
in consapevole 
contrasto con il 
suesposto orientamento tradizionale, si 
è 
posta, recentemente, la 
pronuncia 
resa 
da 
Cass. n. 11655 del 
2020 (diffusamente 
richiamata 
nell’ordinanza 
di 
rimessione), che 
ha 
sottolineato 
come 
il 
credito 
pecuniario 
verso 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
divenga 
liquido 
ed esigibile, come 
ogni 
altro credito verso soggetti 
privati, in conformità 
alle 
norme 
comuni 
del 
codice 
civile, 
quando 
ne 
sia 
determinato 
l’ammontare 
e 
se 
ne 
possa 
ottenere, 
alla 
scadenza, 
il 
puntuale 
adempimento. In particolare, nella 
decisione 
in esame, tre 
sono i 
principali 
argomenti 
che 
hanno reso evidente 
la 
necessità 
di 
un superamento dell’orientamento consolidato: 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


i) 
in 
primo 
luogo, 
la 
Corte 
ha 
rilevato 
che 
il 
principio 
di 
automatica 
decorrenza 
degli 
interessi 
corrispettivi 
non ammette 
deroghe, se 
non espresse, posto che 
l’art. 1282, comma 
1, cod. civ. 
prevede 
che 
i 
crediti 
liquidi 
ed 
esigibili 
di 
somme 
di 
denaro 
producano 
interessi 
di 
pieno 
diritto «salvo che 
la legge 
o il 
titolo stabiliscano diversamente». Considerato, pertanto, che 
l’art. 
270 
r.d. 
n. 
827 
del 
1924 
non 
ha 
forza 
di 
legge, 
bensì 
di 
atto 
regolamentare 
“come 
rilevato 
dalla Corte 
costituzionale 
(n. 75 del 
1987 e 
n. 71 del 
1981) e 
indirettamente 
desumibile 
dal-
l’art. 88 del 
r.d. n. 2440 del 
1923 
” 
e 
che 
la 
normativa 
contabile 
non può interferire 
su quella 
civilistica, 
operando 
su 
piani 
diversi, 
la 
stessa 
Corte 
ha 
escluso 
che 
le 
disposizioni 
regolamentari 
possano 
produrre 
effetti 
derogatori 
della 
menzionata 
disciplina 
legale 
prevista 
dal 
codice 
civile; 
ii) 
in 
secondo 
luogo, 
è 
stato 
evidenziato 
che 
la 
liquidazione 
della 
spesa 
costituisce 
oggetto di 
un procedimento contabile 
che, da 
un lato, è 
interno all’Amministrazione 
e, dal-
l’altro, 
è 
esterno 
alla 
fattispecie 
costitutiva 
dell’obbligazione, 
atteso 
che 
presuppone 
l’esistenza 
di 
un debito già 
perfezionato, liquido ed esigibile. Nella 
pronuncia, infatti, si 
legge 
che 
“essa 
presuppone 
l’esistenza 
di 
un 
debito 
già 
perfezionato, 
liquido 
ed 
esigibile, 
come 
si 
desume 
dal 
fatto 
che 
«la 
liquidazione 
delle 
spese 
deve 
essere 
appoggiata 
a 
titoli 
e 
documenti 
comprovanti 
il 
diritto 
acquisito 
dai 
creditori 
dello 
Stato» 
(art. 
277 
del 
r.d. 
n. 
827 
del 
1924), 
che 
gli 
«impegni 
sugli 
stanziamenti 
di 
competenza [hanno ad oggetto] 
le 
sole 
somme 
dovute 
dallo Stato a seguito 
di 
obbligazioni 
giuridicamente 
perfezionate» 
(art. 
34 
della 
legge 
n. 
169 
del 
31 
dicembre 
2009), che 
l’impegno di 
spesa costituisce 
una fase 
del 
procedimento di 
spesa «a seguito di 
obbligazione 
giuridicamente 
perfezionata» 
(art. 
183 
del 
T.U. 
delle 
leggi 
sull'ordinamento 
degli 
enti 
locali, di 
cui 
al 
d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267)”; 
iii) 
in terzo luogo, la 
Corte 
ha 
ritenuto 
che 
l’orientamento 
maggioritario 
si 
rivela 
anche 
contraddittorio 
laddove 
afferma 
che 
l’esigenza 
di 
adottare 
le 
procedure 
della 
contabilità 
pubblica 
non giustifica, in caso di 
colpevole 
ritardo nelle 
formalità 
di 
liquidazione 
del 
credito, la 
deroga 
al 
principio di 
cui 
agli 
artt. 
1218 e 
1224 cod. civ. senza 
chiarire, poi, per quale 
ragione 
l’impossibilità 
di 
derogare 
alla 
disciplina 
civilistica 
dovrebbe 
valere 
solo 
per 
gli 
interessi 
moratori 
e 
non 
per 
quelli 
corrispettivi, 
tenuto 
conto 
che, 
peraltro, 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
moratori 
presuppone 
anch’essa 
un 
credito esigibile. 
La 
successiva 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(cfr. 
Cass. 
n. 
118 
del 
2023) 
ha 
ritenuto 
“più 
convincente 
e 
appropriato l’orientamento maggioritario attestato sulla differenza, per 
gli 
effetti 
che 
ne 
conseguono a proposito del 
debito da interessi, dei 
fini 
del 
debitore 
pubblico rispetto 
a quello privato; differenza alla quale 
sono funzionali 
le 
più complesse 
procedure 
di 
verifica 
della 
inerenza 
e 
della 
effettiva 
corrispondenza 
della 
prestazione 
alle 
previsioni 
di 
spesa alle 
quali 
è 
funzionale 
il 
procedimento afferente”. In particolare, nella 
pronuncia 
da 
ultimo 
citata 
è 
stato sottolineato che 
“ove 
venga in questione 
il 
rapporto con la pubblica amministrazione, 
la 
nozione 
di 
“liquidità” 
del 
credito 
va 
intesa 
in 
un’accezione 
peculiare, 
essendo 
effetto 
del 
completamento 
del 
procedimento 
amministrativo 
di 
liquidazione, 
lontana, 
dunque, dalla nozione comune desumibile dall’art. 1282 c.c.”. 


8.2. 
occorre 
dare 
conto, 
infine, 
dell’indirizzo 
ermeneutico 
cui 
è 
pervenuta 
questa 
Corte 
esaminando i 
casi 
in cui 
l’Amministrazione 
debitrice 
colposamente 
ritardi 
l’attivazione 
dei 
procedimenti 
necessari 
a 
che 
i 
crediti 
verso lo Stato divengano esigibili: 
in proposito, costituisce 
orientamento 
ormai 
consolidato 
che 
le 
disposizioni 
del 
già 
più 
volte 
citato 
r.d. 
del 
1924 
non escludono che 
la 
P.A. sia 
tenuta, in tal 
caso, al 
pagamento degli 
interessi 
moratori 
ed al 
risarcimento dei 
danni 
(cfr. Cass., SU, n. 359 del 
1985; 
Cass., SU, n. 1446 del 
1995, la 
quale 
ha 
precisato che, con riguardo ai 
contratti 
stipulati 
dalla 
P.A., le 
regole 
di 
diritto privato sul-
l’esatto 
adempimento 
delle 
obbligazioni 
si 
applicano 
anche 
ai 
debiti 
dell’amministrazione 

CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


medesima 
e, 
in 
caso 
di 
colpevole 
ritardo 
nella 
loro 
liquidazione, 
l’eventuale 
esigenza 
di 
adottare 
le 
procedure 
della 
contabilità 
pubblica 
non giustifica 
la 
deroga 
né 
al 
principio della 
responsabilità 
del 
debitore 
per 
l’inesatto 
o 
tardivo 
adempimento 
della 
prestazione 
responsabilità 
che 
si 
attua 
con la 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
come 
forma 
di 
risarcimento 
minimo -né 
a 
quello che 
identifica 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
con il 
giorno della 
costituzione 
in mora). La 
Corte, inoltre, ha 
ripetutamente 
sancito che, ove 
vi 
sia 
un colpevole 
ritardo nell’espletamento della 
procedura 
di 
liquidazione, l’Amministrazione 
è 
tenuta 
a 
corrispondere 
gli 
interessi 
moratori, a 
prescindere 
dall’emissione 
o meno del 
mandato di 
pagamento 
(cfr., 
ex 
aliis, 
Cass., 
SU, 
n. 
2065 
del 
29 
marzo 
1980; 
Cass., 
SU, 
nn. 
359 
e 
4351 
del 
1985; 
Cass. n. 1759 del 
1982; 
Cass. nn. 1673-1674 del 
1983; 
Cass. n. 406 del 
1985; 
Cass. n. 
2675 del 1986; Cass. n. 16683 del 2002. Più recentemente, vedasi Cass. n. 13763 del 2021). 


8.3. Neppure 
può sottacersi, da 
ultimo, quanto già 
affermato da 
questa 
Corte 
in materia 
di 
obbligazioni pecuniarie dello Stato derivanti da regolamenti comunitari. 
In 
particolare, 
pronunciandosi 
proprio 
su 
fattispecie 
analoghe 
a 
quella 
oggetto 
della 
vicenda 
interessata 
dalla 
questione 
oggi 
all’attenzione 
di 
queste 
Sezioni 
Unite, Cass., SU, n. 1561 del 
1977 (richiamata 
anche 
nell’ordinanza 
di 
rimessione) ha 
statuito che 
le 
“restituzioni”, ossia 
le 
integrazioni 
sui 
prezzi 
mondiali 
dei 
prodotti 
agricoli, 
che 
l’amministrazione 
finanziaria 
italiana 
deve 
corrispondere 
agli 
esportatori, 
sono 
disciplinate 
dai 
regolamenti 
comunitari 
(n. 
120/67, 139/67 e 
1041/67) per quanto attiene 
alle 
loro condizioni 
ed al 
loro ammontare, ma 
restano 
disciplinate 
dal 
diritto 
interno 
italiano 
quanto 
alle 
modalità 
e 
tempi 
del 
loro 
pagamento, 
con la 
conseguenza 
che 
il 
credito dell’esportatore 
diviene 
liquido ed esigibile, e 
perciò produttivo 
di 
interessi 
compensativi, solo quando sia 
stata 
ordinata 
la 
spesa 
ed emesso il 
relativo 
ordinativo di pagamento, ai sensi dell’art. 270 della legge sulla contabilità di Stato. 


La 
giurisprudenza 
successiva, 
chiamata 
a 
pronunciarsi 
sui 
regolamenti 
comunitari 
che 
accordano 
un’integrazione 
di 
prezzo 
ai 
produttori 
di 
olio 
di 
oliva 
(n. 
136/66, 
754/67 
e 
successivi), 
ha 
affermato 
che 
tale 
disciplina, 
pur 
escludendo 
ogni 
margine 
di 
discrezionalità 
per 
i 
competenti 
organi 
degli 
Stati 
membri, 
tenuti 
a 
porre 
in 
essere 
un’attività 
di 
mero 
accertamento 
delle 
condizioni 
richieste 
per 
la 
delimitazione 
quantitativa 
dello 
intervento 
a 
favore 
dei 
produttori, 
e 
pur 
avendo 
compiutamente 
individuato 
il 
corrispondente 
rapporto 
obbligatorio 
che 
si 
instaura 
tra 
lo 
Stato 
debitore 
ed 
i 
produttori 
creditori, 
non 
ha 
previsto 
il 
termine 
di 
adempimento 
dell’obbligo 
di 
corrispondere 
le 
somme 
dovute 
al 
predetto 
titolo. 
Si 
è 
precisato, 
dunque, 
che: 
i) 
laddove 
il 
legislatore 
comunitario 
ha 
inteso 
stabilire 
(direttamente) 
anche 
il 
termine 
dell’adempimento 
lo 
ha 
esplicitamente 
fatto, 
come 
dimostrano 
i 
casi 
in 
cui 
la 
disciplina 
regolamentare 
comprende 
anche 
il 
termine 
entro 
cui 
l’obbligo 
(comunitario) 
va 
adempiuto 
(cfr., 
ad 
esempio 
i 
regolamenti 
Cee 
n. 
1975/69 
e 
n. 
2195/69 
secondo 
cui 
il 
pagamento 
del 
premio 
di 
macellazione 
deve 
avvenire 
entro 
due 
mesi 
della 
presentazione 
della 
prova 
della 
avvenuta 
macellazione); 
ii) 
ove 
manca 
il 
termine, 
il 
legislatore 
comunitario 
ha 
volutamente 
omesso 
di 
fissarlo 
non 
già 
per 
disinteresse, 
incompatibile 
con 
la 
natura 
stessa 
della 
materia 
disciplinata, 
ma 
in 
quanto 
ne 
ha 
rimesso 
la 
disciplina 
al 
diritto 
interno, 
sul 
presupposto 
che 
negli 
ordinamenti 
degli 
Stati 
membri 
il 
termine 
dell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
trova 
la 
sua 
specifica 
disciplina. 
Si 
è 
ritenuto, 
pertanto, 
per 
la 
presunzione 
di 
completezza 
della 
disciplina 
comunitaria 
ed 
in 
mancanza 
di 
diversi 
criteri 
desumibili 
dallo 
stesso 
regolamento, 
che 
l’interesse 
comunitario 
insito 
nella 
corrispondente 
disciplina 
si 
sia 
esaurito 
nella 
predisposizione 
del 
meccanismo 
che 
ha 
assicurato 
la 
costituzione 
del 
rapporto 
obbligatorio 
(Stato 
-produttore) 
ed 
il 
suo 
contenuto 
(integrazione 
del 
prezzo), 
e 
che, 
per 
quanto 
riguarda 
la 
sua 
attuazione, 
il 
legislatore 
comunitario, 
omettendo 
la 
fissazione 
diretta 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


del 
termine, 
abbia 
considerato 
idoneo 
a 
garantire 
l’interesse 
comunitario 
il 
richiamo 
implicito 
degli 
ordinamenti 
interni, 
sul 
presupposto 
che 
in 
quegli 
ordinamenti 
il 
termine 
dell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
trova 
la 
sua 
specifica 
disciplina: 
“e 
così 
per 
l’ordinamento 
italiano 
la 
norma 
dell’art. 
1183 
c.c. 
che 
nel 
caso, 
con 
l’immediata 
esigibilità 
del 
credito, 
realizza 
il 
massimo 
della 
sua 
tutela, 
salva 
però 
l’applicabilità 
di 
principi 
che 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
di 
Stato 
dettano 
in 
materia 
di 
debiti 
pecuniari 
della 
pubblica 
amministrazione, 
per 
cui 
la 
stessa 
può 
essere 
considerata 
in 
mora, 
e 
tenuta 
a 
corrispondere 
i 
relativi 
interessi, 
solo 
quando, 
dopo 
l’espletamento 
di 
tutti 
i 
controlli 
e 
gli 
accertamenti 
previsti, 
ritardi 
ingiustificatamente 
di 
versare 
al 
creditore 
le 
somme 
a 
costui 
spettanti”(cfr. 
Cass. 
n. 
6738 
del 
1983; 
Cass. 
n. 
2762 
del 
1978; 
Cass., 
SU, 
n. 
1561 
del 
1977; 
Cass., 
SU, 
n. 
1060 
del 
1977). 
Particolarmente 
significativa, 
peraltro, 
si 
rivela 
proprio 
l’appena 
citata 
Cass. 
n. 
6738 
del 
1983 
nella 
parte 
in 
cui 
ha 
precisato 
che, 
nel 
caso 
del 
pagamento 
dei 
premi 
ai 
produttori 
d’olio 
d’oliva, 
la 
relativa 
disciplina 
comunitaria 
è 
ispirata 
all’interesse 
di 
fronteggiare 
la 
concorrenza 
dei 
Paesi 
terzi 
e, 
quindi, 
“a 
tutelare 
il 
generale 
interesse 
della 
Comunità 
oltre 
alla 
protezione 
degli 
interessi 
dei 
produttori 
d’olio 
d’oliva 
dei 
singoli 
Stati 
membri 
” 
per 
cui 
“l’esigenza 
di 
un 
termine 
ultimo 
per 
il 
versamento 
dell’integrazione 
è 
alla 
base 
del 
sistema 
stesso, 
costituendo 
l’obiettivo 
prefissosi 
dal 
legislatore 
comunitario 
nel 
prevedere 
tale 
forma 
di 
aiuto 
alla 
produzione 
”. 


9. – Le 
“restituzioni” 
alla 
esportazione. venendo, ora, alla 
concreta 
fattispecie 
oggetto del-
l’odierno giudizio, è 
utile 
ricordare 
che, nel 
contesto della 
politica 
agricola 
comune, la 
Comunità 
europea, 
attraverso 
le 
“restituzioni”, 
“rimborsava” 
agli 
esportatori 
verso 
Paesi 
extra-Ue 
una 
parte 
del 
prezzo di 
vendita 
del 
prodotto agricolo, così 
da 
rendere 
quest’ultimo 
competitivo 
sui 
mercati 
esteri, 
annullando 
la 
differenza 
tra 
il 
prezzo 
comunitario 
e 
quello 
mondiale. La 
misura 
dell’intervento è 
sempre 
stata 
variabile, rapportata, in linea 
di 
principio, 
alla 
differenza 
tra 
i 
prezzi 
dei 
prodotti 
agricoli 
regolamentati 
in sede 
comunitaria 
ed i 
prezzi 
praticati sul mercato mondiale, nella misura necessaria per agevolare le esportazioni. 
Circa 
le 
domande 
di 
pagamento di 
queste 
“restituzioni” 
concernenti 
le 
annualità 
comprese 
tra 
il 
1990 ed il 
1997, formulate 
dalla 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
e, dopo il 
suo fallimento, dalla 
sua 
Curatela, 
la 
disciplina 
utilizzabile 
ratione 
temporis 
era 
quella 
di 
cui 
ai 
reg. 
Ce 
nn. 
565/1980 
e 
3665/1987. 
In 
particolare, 
per 
quanto 
di 
specifico 
interesse 
in 
questa 
sede, 
nel 
reg. Ce 
n. 565/1980, all’art. 4 era 
stabilito che: 
“a richiesta dell’interessato, viene 
pagato 
un importo pari 
alla restituzione 
all’esportazione 
non appena i 
prodotti 
di 
base 
sono posti 
sotto 
controllo 
doganale 
che 
garantisca 
che 
i 
prodotti 
trasformati 
o 
le 
merci 
saranno 
esportati 
entro un determinato termine” (termine che non era compiutamente individuato). 


Nel 
successivo regolamento 3665/1987 era 
stata 
prevista 
una 
disciplina 
di 
dettaglio più 
articolata. In primo luogo, nel 
penultimo considerando (con espressioni 
che 
verranno poi 
riprese 
anche 
nel 
sessantesimo 
considerando 
del 
successivo 
regolamento 
n. 
800/1999), 
era 
stato indicato che 
“ai 
fini 
di 
una buona gestione 
amministrativa, occorre 
esigere 
che 
la domanda 
e 
tutti 
gli 
altri 
documenti 
necessari 
al 
pagamento 
della 
restituzione 
vengano 
presentati 
entro 
un 
ragionevole 
termine, 
salvo 
caso 
di 
forza 
maggiore, 
in 
particolare 
quando 
non 
è 
stato 
possibile 
rispettare 
il 
termine 
a 
causa 
di 
ritardi 
amministrativi 
non 
imputabili 
all’esportatore”. 
Gli 
artt. 4 e 
5, poi, subordinavano il 
diritto al 
pagamento della 
“restituzione” 
alla 
presentazione 
della 
prova 
che 
i 
prodotti 
per 
i 
quali 
era 
stata 
accettata 
la 
dichiarazione 
di 
accettazione 
avessero lasciato il 
territorio doganale 
della 
Comunità 
e 
fossero stati 
importati 
in un Paese terzo, entro dodici mesi dalla data di accettazione di detta dichiarazione. 


L’appena 
descritta 
disciplina 
normativa 
qui 
applicabile 
non 
prevedeva, 
invece, 
la 
fissazione 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


di 
un termine 
per il 
pagamento. Con riferimento a 
tale 
aspetto, tuttavia, deve 
ricordarsi 
che, 
come 
sottolineato nell’ordinanza 
interlocutoria 
n. 32405 del 
2023, nella 
specifica 
vicenda 
in 
esame 
la 
determinazione 
del 
termine 
“ragionevole” 
in 60 giorni 
(nel 
silenzio della 
norma 
comunitaria), 
da parte del giudice di merito, è ormai passata in giudicato. 


esigenze 
di 
completezza, infine, impongono di 
precisare 
che 
il 
successivo regolamento 


n. 
800/1999 
(qui, 
però, 
inutilizzabile 
ratione 
temporis), 
prendendo 
atto 
del 
fatto 
che 
“il 
termine 
per 
l’esecuzione 
del 
pagamento 
delle 
restituzioni 
all’esportazione 
varia 
da 
uno 
Stato 
membro 
all’altro” 
e 
dell’opportunità 
di 
stabilire 
un “termine 
finale 
uniforme 
per 
il 
pagamento delle 
restituzioni 
all’esportazione 
da parte 
degli 
organismi 
pagatori” 
per evitare 
distorsioni 
della 
concorrenza 
(considerando 61), nel 
titolo Iv 
(“procedura di 
versamento della restituzione”), 
all’art. 49 ha 
previsto che 
le 
autorità 
competenti 
eseguano il 
versamento entro il 
termine 
di 
tre 
mesi 
“a decorrere 
dal 
giorno in cui 
dispongono di 
tutti 
gli 
elementi 
idonei 
all’evasione 
della pratica”. I casi 
in cui 
il 
termine 
di 
tre 
mesi 
può essere 
superato sono specificamente 
indicati: 
“a) 
forza 
maggiore, 
b) 
una 
specifica 
indagine 
amministrativa 
concernente 
il 
diritto 
alla restituzione; c) per 
applicare 
la compensazione 
di 
cui 
all’articolo 52, paragrafo 2, secondo 
comma”. 
10. – 
I principi 
di 
equivalenza ed effettività nella giurisprudenza della Corte 
di 
Giustizia. 
L’ordinanza 
interlocutoria 
n. 32405 del 
2023 sottolinea, infine, che 
le 
questioni 
poste 
all’attenzione 
delle 
Sezioni 
Unite 
attengono 
anche 
a 
possibili 
violazioni 
del 
diritto 
dell’Unione, 
sulle quali si è pronunciata più volte la Corte di Giustizia. 
Ancor prima 
di 
procedere 
ad una 
sintetica 
ricognizione 
delle 
decisioni 
di 
quest’ultima 
di 
effettivo interesse 
in questa 
sede, però, è 
doveroso ricordare 
che 
la 
Corte 
eDU 
ha 
da 
tempo 
affermato 
che 
un 
credito 
certo 
ed 
esigibile 
è 
considerato 
un 
bene 
ai 
sensi 
dell’art. 
1, 
Protocollo 
1, CeDU 
e 
che 
un organe 
de 
l’Etat 
non può utilizzare 
le 
proprie 
difficoltà 
finanziarie 
come 
giustificazione per il mancato pagamento dei propri debiti certi ed esigibili. 


Fermo quanto precede, va 
osservato che, con specifico riferimento alle 
questioni 
oggi 
al-
l’attenzione 
di 
queste 
Sezioni 
Unite, la 
Corte 
di 
Giustizia, nella 
sentenza 
del 
28 aprile 
2022, 
cause 
riunite 
C-415/2056, 
C-419/20 
e 
C-427/20, 
Gräfendorfer 
Geflügel-und 
Tiefkühlfeinkost 
Produktions 
GmbH 
e 
a., ha 
affermato che, nel 
caso in cui 
“siano state 
pagate 
in ritardo restituzioni 
all’esportazione 
ad un interessato, in violazione 
del 
diritto dell’Unione, quest’ultimo 
ha il 
diritto di 
ottenere 
il 
pagamento di 
interessi 
volti 
a compensare 
l’indisponibilità dell’importo 
di 
denaro corrispondente” 
(§ 58). Secondo la 
costante 
giurisprudenza 
della 
medesima 
Corte, peraltro, in mancanza 
di 
una 
normativa 
dell’Unione, spetta 
all’ordinamento giuridico 
interno di 
ciascuno Stato membro stabilire 
le 
modalità 
in base 
alle 
quali 
gli 
interessi 
devono 
essere 
pagati 
in caso di 
rimborso di 
importi 
di 
denaro riscossi 
in violazione 
del 
diritto del-
l’Unione. tuttavia, si 
aggiunge, tali 
modalità 
devono rispettare 
i 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività, 
requisito 
che 
implica, 
in 
particolare, 
che 
esse 
non 
siano 
congegnate 
in 
modo 
da 
rendere 
eccessivamente 
difficile 
o 
praticamente 
impossibile 
l’esercizio 
del 
diritto 
al 
pagamento 
degli 
interessi 
garantito dal 
diritto dell’Unione 
(cfr. 
sentenze 
del 
19 luglio 2012, Littlewoods 
Retail 
e 
a., C-591/10, punti 
27 e 
28, e 
del 
6 ottobre 
2015, Târşia, C-69/14, punti 
26 
e 27). 


Del 
resto, proprio il 
principio di 
effettività, come 
sottolineato da 
attenta 
dottrina, è 
stato da 
tempo utilizzato dalla 
Corte 
di 
cassazione 
e 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
come 
un principio funzionale 
ad eliminare 
le 
restrizioni 
nazionali 
nella 
protezione 
dei 
diritti, potenziare 
la 
funzione 
ermeneutica 
ed individuare 
i 
rimedi 
più adeguati 
alla 
lesione. Il 
principio della 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva 
dei 
diritti 
che 
gli 
amministrati 
traggono dal 
diritto dell’Unione, per come 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


riconosciuto dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
è 
un principio generale, discendente 
dal 
dovere 
generale 
di 
leale 
collaborazione 
in capo agli 
Stati 
membri, il 
quale 
investe 
anche 
le 
autorità 
giurisdizionali 
nazionali, nel 
senso che 
queste 
ultime 
devono assicurare 
sempre 
e 
in ogni 
caso una 
protezione giudiziaria effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. 


Non va 
dimenticato, peraltro, proprio con riferimento al 
principio di 
effettività 
ed alla 
rilevanza 
delle 
norme 
di 
contabilità, che, come 
rimarcato nell’ordinanza 
interlocutoria 
(cfr. 
§ 
13.23), tanto per gli 
interessi 
corrispettivi 
che 
per quelli 
moratori 
(nonché 
per quelli 
relativi 
al 
ritardo nell’adempimento dell’obbligazione 
nascente 
dalle 
restituzioni 
alle 
importazioni) 
il 
creditore 
non 
potrebbe 
disporre 
di 
un 
mezzo 
di 
tutela 
acceleratorio 
rispetto 
alla 
mancata 
emissione 
del 
titolo di 
spesa 
da 
parte 
della 
P.A. La 
Corte 
costituzionale, invece, fin dalla 
sentenza 
n. 
190 
del 
1985, 
ha 
più 
volte 
sottolineato 
il 
riconoscimento 
del 
significato 
costituzionale 
della 
tutela 
cautelare 
come 
necessario ed essenziale 
corollario del 
più generale 
principio di 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
di 
cui 
all’art. 
24 
Cost. 
In 
particolare, 
il 
giudice 
delle 
leggi 
ha 
precisato 
come 
la 
tutela 
cautelare 
eserciti 
una 
“funzione 
strumentale 
all’effettività 
della stessa tutela giurisdizionale 
”. 

Con riferimento, invece, al 
principio di 
equivalenza, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
da 
tempo affermato 
che 
il 
rispetto 
dello 
stesso 
presuppone 
che 
la 
norma 
nazionale 
controversa 
si 
applichi 
indifferentemente 
ai 
ricorsi 
fondati 
sulla 
violazione 
del 
diritto dell’Unione 
e 
a 
quelli 
fondati 
sull’inosservanza 
del 
diritto interno aventi 
oggetto e 
causa 
analoghi. Al 
fine 
di 
verificare 
se 
tale 
principio sia 
stato rispettato, spetta 
al 
giudice 
nazionale 
accertare 
se 
le 
modalità 
procedurali 
volte 
a 
garantire, nel 
diritto interno, la 
tutela 
dei 
diritti 
derivanti 
ai 
singoli 
dal 
diritto del-
l’Unione 
siano conformi 
a 
detto principio ed esaminare 
tanto l’oggetto quanto gli 
elementi 
essenziali 
dei 
pretesi 
analoghi 
ricorsi 
di 
natura 
interna. A 
tal 
titolo, il 
giudice 
nazionale 
deve 
verificare 
l’analogia 
dei 
ricorsi 
di 
cui 
trattasi 
sotto il 
profilo del 
loro oggetto, della 
loro causa 
e 
dei 
loro 
elementi 
essenziali 
(cfr., 
in 
tal 
senso, 
sentenza 
del 
29 
ottobre 
2009, 
Pontin, 
C-63/08, 
racc. pag. I-10467, punto 45 e 
giurisprudenza 
citata; 
sentenza 
19 luglio 2012, Littlewoods 
Retail e a., C-591/10, punto 31). 


11. – La soluzione 
delle 
questioni 
poste 
dalla ordinanza di 
rimessione. 
Nella 
concreta 
fattispecie, 
non è 
più in discussione 
l’esistenza, o meno, all’interno dell’ordinamento, di 
un termine 
entro il 
quale 
la 
domanda 
di 
pagamento originariamente 
proposta 
dalla 
Italgrani 
s.p.a 
in 
bonis 
e 
poi 
ribadita 
dalla 
Curatela 
del 
suo Fallimento doveva 
essere 
esitata 
al 
fine 
del 
riconoscimento 
delle 
invocate 
“restituzioni” 
all’esportazione 
poiché, sul 
punto, si 
è 
formato il 
giudicato 
interno, 
non 
essendo 
stata 
specificamente 
impugnata 
la 
determinazione 
di 
quel 
termine 
come quantificata dal giudice di merito. 
Il 
primo dei 
profili 
concerne 
il 
se, rispetto all’obbligazione 
di 
cui 
si 
discute, debba, o non, 
trovare 
applicazione 
la 
disciplina 
prevista 
per 
le 
obbligazioni 
di 
pagamento 
di 
denaro 
alle 
quali 
è 
tenuta 
la 
P.A.: 
disciplina 
che, come 
si 
è 
già 
spiegato, in deroga 
agli 
artt. 1219, comma 
2, n. 3, e 
1182 cod. civ., prevede 
la 
necessità 
di 
un atto di 
costituzione 
in mora 
anche 
per le 
obbligazioni 
per 
le 
quali 
sia 
scaduto 
il 
termine, 
dovendo 
l’obbligazione 
dell’amministrazione 
essere adempiuta ed eseguita presso il domicilio del debitore. 


In 
particolare, 
si 
tratta 
di 
stabilire 
se 
(come 
sostenuto 
dall’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
oggi 
ricorrente) gli 
interessi 
moratori 
invocati 
dalla 
parte 
attrice 
siano dovuti 
solo a 
decorrere 
dalla 
prima 
domanda 
giudiziale 
formulata 
da 
Italgrani 
s.p.a. 
in 
bonis 
il 
15 
dicembre 
1997 ed esclusivamente 
per quelle 
sue 
istanze 
non ancora 
evase 
a 
quella 
data 
e 
sempre 
che, 
rispetto a 
tali 
istanze 
(inevase 
alla 
medesima 
data), la 
Pubblica 
Amministrazione 
avesse 
ingiustificatamente 
superato il 
termine 
ragionevole 
di 
sessanta 
giorni 
(dal 
completamento della 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


pratica) 
individuato 
dai 
giudici 
di 
merito 
come 
applicabile 
alla 
fattispecie, 
oppure, 
invece 
(come 
rivendicato dalla 
parte 
controricorrente 
Progetto Grano s.p.a., poi 
incorporata 
per fusione 
da 
JLM 
s.r.l. a 
socio unico), quegli 
interessi 
siano spettanti 
fin dalla 
scadenza 
del 
sessantesimo 
giorno successivo alle 
singole 
richieste 
di 
pagamento presentate 
da 
Italgrani 
s.p.a. 
in bonis 
dal 
1990 al 
1997, quest’ultime 
implicitamente 
valendo quali 
atti 
di 
costituzione 
in 
mora dell’Agenzia debitrice. 


11.1. ritengono le Sezioni Unite che sia corretta la seconda di tali ipotesi. 
Invero, 
le 
“restituzioni” 
alle 
esportazioni 
oggetto 
di 
causa 
sono 
riconosciute 
in 
forza 
di 
una 
normativa 
di 
fonte 
comunitaria, il 
regolamento (Cee) n. 3665/87 della 
Commissione 
del 
27 
novembre 
1987 (qui 
utilizzabile 
ratione 
temporis) recante 
“modalità comuni 
di 
applicazione 
del 
regime 
delle 
restituzioni 
all’esportazione 
per 
i 
prodotti 
agricoli”. trattasi, dunque, di 
una 
disciplina 
direttamente 
applicabile 
nell’ordinamento italiano, da 
cui 
originano, da 
un lato, il 
diritto soggettivo dell’esportatore 
a 
tali 
rimborsi 
e, dall’altro, il 
corrispondente 
obbligo per le 
autorità 
competenti 
di 
procedere 
ai 
versamenti. 
tanto 
ha 
trovato 
conferma 
già 
nella 
decisione 
resa 
da 
Cass., SU, n. 9129 del 
1991, in cui 
si 
legge, tra 
l’altro, che 
«[…], questa Corte 
ha riconosciuto 
(S.U. 
n. 
1561-1977; 
n. 
4107-81) 
consistenza 
di 
diritto 
soggettivo 
alle 
posizioni 
degli 
operatori 
in tema di 
restituzioni 
all’esportazione 
di 
prodotti 
agricoli 
previste 
dall’ordinamento 
comunitario. 
Le 
c.d. 
restituzioni, 
ossia 
le 
integrazioni 
sui 
prezzi 
mondiali 
dei 
prodotti 
agricoli 
rispetto a quelli 
in effetti 
poi 
realizzati, soggette 
a riconoscimento all’esito dell’operazione 
effettuata con l’esportazione 
verso paesi 
terzi 
in regime 
di 
prefinanziamento, costituiscono, 
per 
gli 
enti 
competenti 
in materia dei 
singoli 
Stati 
membri, un preciso obbligo -cui 
corrisponde 
un diritto soggettivo dell’operatore 
-quando concorrono le 
condizioni 
previste 
dall’ordinamento 
comunitario 
direttamente 
applicabili 
all’interno 
dello 
Stato. 
Le 
controversie 
in 
ordine 
al 
pagamento 
di 
dette 
restituzioni 
non 
possono 
pertanto 
che 
essere 
devolute 
alla 
cognizione del giudice ordinario 
[…]. 


Il 
regolamento suddetto attribuisce 
all’impresa 
esportatrice 
il 
diritto di 
ottenere, mediante 
la 
formulazione 
di 
un’istanza, 
la 
“restituzione” 
(o 
l’attribuzione 
definitiva, 
conseguente 
ad 
una 
restituzione 
anticipata 
o ad un prefinanziamento) a 
condizione 
che 
le 
merci, per le 
quali 
sia 
stata 
accettata 
la 
dichiarazione 
di 
esportazione, 
siano 
state 
effettivamente 
esportate 
nei 
termini 
prescritti (e non siano reimportate). 


Detto altrimenti: 
il 
titolo costitutivo del 
rapporto obbligatorio che 
lega 
l’impresa 
esportatrice 
e 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
(o, se 
si 
preferisce, la 
fonte 
dell’obbligazione 
pecuniaria 
della 
Pubblica 
Amministrazione) non va 
rinvenuto nell’istanza 
di 
pagamento che 
l’impresa 
rivolge 
alla 
Pubblica 
Amministrazione, 
bensì 
nella 
norma 
di 
legge 
(il 
già 
citato 
regolamento) 
che 
attribuisce 
all’impresa 
esportatrice 
il 
diritto 
di 
ottenere 
le 
“restituzioni”. 
Quest’ultima, 
infatti, 
quando 
chiede 
la 
“restituzione” 
o 
l’attribuzione 
definitiva 
è 
già 
astrattamente 
titolare 
del 
diritto di 
credito, in relazione 
al 
quale 
deve 
esserne 
soltanto concretamente 
accertata 
la 
legittimità 
della 
corrispondente 
richiesta 
di 
pagamento, mediante 
la 
verifica 
che 
le 
merci 
per le 
quali 
sia 
stata 
accettata 
la 
dichiarazione 
di 
esportazione 
siano 
state 
tempestivamente 
esportate 
e non reimportate, con il conseguente apprestamento, poi, dei mezzi per adempiere. 


Nell’odierna 
vicenda, il 
tribunale, prima, e 
la 
corte 
di 
appello, poi, hanno accertato e 
dichiarato 
l’esistenza, 
all’interno 
dell’ordinamento 
nazionale, 
del 
termine 
entro 
il 
quale 
un’istanza 
come 
quella 
suddetta 
si 
sarebbe 
dovuta 
esitare 
al 
fine 
del 
riconoscimento 
delle 
“restituzioni” 
all’esportazione: 
termine 
pacificamente 
determinato, 
ormai 
con 
valore 
di 
giudicato, 
nella 
misura, ritenuta 
ragionevole, di 
sessanta 
giorni 
dal 
completamento dell’invio della 
documentazione 
a tal fine necessaria. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


Pertanto, 
una 
volta 
individuato 
dal 
tribunale 
(con 
statuizione 
in 
parte 
qua 
non 
più 
censurata 
nei 
gradi 
successivi) il 
“termine 
ragionevole” 
(sessanta 
giorni 
dal 
completamento dell’invio 
della 
documentazione 
a 
tal 
fine 
necessaria) entro il 
quale 
avrebbe 
dovuto evadere 
le 
richieste 
rivoltele 
da 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
al 
fine 
di 
ottenere 
le 
“restituzioni” 
alle 
esportazioni 
per 
gli 
anni 
dal 
1990 
al 
1997, 
ben 
può 
ritenersi 
che, 
proprio 
nel 
rispetto 
di 
quel 
termine, 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
avrebbe 
dovuto svolgere 
e 
completare 
il 
descritto procedimento di 
verifica 
previsto 
dal 
regolamento comunitario qui 
concretamente 
applicabile, evidentemente 
finalizzato 
anche 
agli 
scopi 
propri 
di 
quello 
di 
contabilità 
di 
cui 
al 
r.d. 
n. 
827 
del 
1924, 
per 
poi 
adempiere, 
nell’ipotesi 
di 
esito positivo di 
quella 
verifica, la 
sua 
prestazione 
(pagamento delle 
“restituzione” 
predette, diritto riconosciuto alla 
istante 
dalla 
normativa 
comunitaria/unionale). Ciò, 
tuttavia, 
non 
è 
accaduto 
(la 
corrispondente 
circostanza, 
peraltro, 
è 
rimasta 
incontroversa), 
sicché 
la 
medesima 
Agenzia 
non può che 
subirne 
le 
conseguenze 
(in termini, appunto, di 
pagamento 
degli interessi moratori). 


Alteris 
verbis, 
stante 
la 
presunzione 
di 
completezza 
della 
disciplina 
comunitaria 
applicabile 
ratione 
temporis 
ed in mancanza 
di 
diversi 
criteri 
desumibili 
dal 
relativo (e 
già 
descritto) regolamento, 
l’interesse 
comunitario insito nella 
corrispondente 
disciplina 
delle 
“restituzioni” 
all’esportazione 
si 
è 
esaurito nella 
predisposizione 
del 
meccanismo che 
ha 
assicurato la 
costituzione 
del 
rapporto obbligatorio (Stato-produttore) ed il 
suo contenuto (integrazione 
del 
prezzo), mentre, per quanto riguarda 
la 
sua 
attuazione, il 
legislatore 
comunitario, omettendo 
la 
fissazione 
diretta 
del 
termine, ha 
considerato idoneo a 
garantire 
l’interesse 
comunitario il 
richiamo implicito degli 
ordinamenti 
interni, sul 
presupposto che 
in quegli 
ordinamenti 
il 
termine 
dell’adempimento delle obbligazioni trova la sua specifica disciplina. 


Per quanto concerne 
l’ordinamento italiano, esiste 
la 
norma 
dell’art. 1183 cod. civ., ma 
la 
relativa 
disciplina 
deve 
tenere 
conto dell’applicabilità 
dei 
principi 
che 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
di 
Stato dettano in materia 
di 
debiti 
pecuniari 
della 
Pubblica 
Amministrazione, per cui 
la 
stessa 
può 
essere 
considerata 
in 
mora, 
e 
tenuta 
a 
corrispondere 
i 
relativi 
interessi, 
solo 
quando, dopo l’espletamento di 
tutti 
i 
controlli 
e 
gli 
accertamenti 
previsti, ritardi 
ingiustificatamente 
di versare al creditore le somme a costui spettanti. 


ecco, allora, che, nella 
concreta 
vicenda 
oggi 
all’attenzione 
di 
queste 
Sezioni 
Unite, una 
volta 
definitivamente 
individuato 
dai 
giudici 
di 
merito 
il 
“termine 
ragionevole” 
entro 
il 
quale 
avrebbe 
dovuto evadere 
le 
richieste 
rivoltele 
da 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
al 
fine 
di 
ottenere 
le 
“restituzioni” 
alle 
esportazioni 
per 
gli 
anni 
dal 
1990 
al 
1997, 
proprio 
in 
quel 
termine 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
avrebbe 
dovuto 
completare 
(ma 
ciò 
pacificamente 
non 
è 
accaduto, 
con 
le 
relative 
conseguenze 
di 
cui 
si 
è 
già 
detto), nell’ipotesi 
di 
esito positiva 
della 
verifica 
impostale 
dal 
regolamento 
predetto, anche 
il 
procedimento per adempiere 
la 
sua 
prestazione 
(pagamento, appunto, 
delle “restituzioni” predette). 


In 
termini 
ancora 
più 
espliciti, 
dunque, 
deve 
ritenersi 
che 
se 
al 
debitore 
è 
necessario 
un 
periodo 
di 
tempo per l’approntamento della 
prestazione 
dovuta, egli 
sarà 
tenuto a 
dare 
l’avvio 
alla 
corrispondente 
attività 
in tempo utile 
perché 
la 
prestazione 
stessa 
possa 
essere 
effettuata 
al 
momento in cui 
viene 
a 
scadenza 
il 
suo termine 
di 
adempimento: 
pertanto, nelle 
obbligazioni 
pecuniarie 
dello 
Stato, 
ove 
l’approntamento 
delle 
prestazioni 
richiede 
l’iter 
procedi-
mentale 
previsto dalla 
sua 
normativa 
di 
contabilità 
(cfr. il 
due 
r.d. n. 2440 del 
2023 e 
gli 
artt. 
269 e 
ss. del 
r.d. n. 827 del 
1924), l’avvio delle 
formalità 
di 
pagamento deve 
essere 
previsto 
in tempo utile 
perché 
il 
denaro possa 
essere 
consegnato al 
creditore 
alla 
scadenza 
del 
termine 
fissato. Se 
ciò non accade, non si 
ha 
soltanto, in concreto, la 
maturazione 
del 
diritto di 
credito 
e 
l’acquisto di 
un diritto al 
pagamento già 
astrattamente 
previsto dalla 
legge 
(nella 
specie 
un 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


regolamento 
comunitario), 
bensì 
un 
vero 
e 
proprio 
inadempimento, 
che 
apre 
la 
strada 
a 
qualsiasi 
forma di reazione contro di esso prevista dall’ordinamento. 


11.2. occorre 
interrogarsi, a 
questo punto, sulla 
possibilità, ritenuta 
dalla 
corte 
partenopea 
ma 
qui 
contestata 
dall’Avvocatura 
dello Stato, di 
considerare, nella 
concreta 
fattispecie, le 
richieste 
di 
pagamento delle 
“restituzioni” 
alla 
esportazione 
relative 
agli 
anni 
1990-1997, inoltrate 
da 
Italgrani 
s.p.a. 
in 
bonis 
all’Agenzia 
delle 
Dogane 
(oggi 
Agenzia 
delle 
Dogane 
dei 
Monopoli) anteriormente 
alla 
instaurazione 
(anche) nei 
suoi 
confronti, con citazione 
del 
15 
dicembre 
1997, 
del 
corrispondente 
giudizio 
innanzi 
al 
tribunale 
di 
Napoli, 
come 
implicita 
costituzione in mora. 
La risposta deve essere positiva. 


Si 
è 
già 
spiegato 
che 
dette 
“restituzioni” 
sono 
riconosciute 
in 
forza 
di 
una 
normativa 
di 
fonte 
comunitaria, 
il 
regolamento 
(Cee) 
n. 
3665/87 
della 
Commissione 
del 
27 
novembre 
1987 
(applicabile 
ratione 
temporis), 
da 
cui 
originano, 
da 
un 
lato, 
il 
diritto 
soggettivo 
del-
l’esportatore 
a 
tali 
rimborsi 
e, dall’altro, il 
corrispondente 
obbligo per le 
autorità 
competenti 
di procedere ai versamenti. 


Quel 
regolamento 
riconosce 
all’impresa 
esportatrice 
il 
diritto 
di 
ottenere, 
mediante 
la 
formulazione 
di 
un’istanza, la 
“restituzione” 
(o l’attribuzione 
definitiva, conseguente 
ad una 
restituzione 
anticipata 
o 
ad 
un 
prefinanziamento) 
a 
condizione 
che 
le 
merci, 
per 
le 
quali 
sia 
stata 
accettata 
la 
dichiarazione 
di 
esportazione, 
siano 
state 
effettivamente 
esportate 
nei 
termini 
prescritti 
(e 
non siano reimportate). L’impresa, dunque, quando chiede 
la 
“restituzione” 
o l’attribuzione 
definitiva 
è 
già 
astrattamente 
titolare 
del 
diritto di 
credito, in relazione 
al 
quale 
deve 
esserne 
soltanto concretamente 
accertata 
la 
legittimità 
della 
corrispondente 
richiesta 
di 
pagamento, 
mediante 
la 
verifica 
che 
le 
merci 
per 
le 
quali 
sia 
stata 
accettata 
la 
dichiarazione 
di 
esportazione 
siano state 
tempestivamente 
esportate 
e 
non reimportate, con il 
conseguente 
apprestamento, 
poi, dei mezzi per adempiere. 


Nella 
specie, per effetto del 
corrispondente 
giudicato interno formatosi 
sul 
punto, non è 
più 
in 
discussione 
l’esistenza, 
all’interno 
dell’ordinamento, 
del 
termine 
(sessanta 
giorni, 
dalla 
ricezione, 
da 
parte 
di 
Agenzia 
delle 
Dogane, 
dell’intera 
documentazione 
a 
tal 
fine 
necessaria) 
entro il 
quale 
le 
istanze 
di 
Italgrani 
s.p.a. 
in bonis 
dovevano essere 
esitate 
al 
fine 
del 
riconoscimento 
delle “restituzioni” all’esportazione e del relativo pagamento. 


È 
ragionevole, allora, che 
la 
medesima 
esigenza 
assicurata 
da 
una 
costituzione 
in mora 
ossia 
il 
consentire 
al 
debitore 
di 
apprestare 
i 
mezzi 
per adempiere, fissando il 
dies 
a quo 
a 
decorrere 
dal 
quale 
l’inadempimento non è 
più giustificato e 
si 
costituisce 
in capo al 
debitore 
l’obbligo di 
corrispondere 
gli 
interessi 
moratori 
-sia 
stata 
assolta, nel 
caso di 
specie, proprio 
dalle 
istanze 
predette, 
essendo 
le 
stesse 
da 
valutarsi 
in 
relazione 
proprio 
a 
quel 
termine 
di 
adempimento ragionevole 
come 
concretamente 
individuato da 
entrambi 
i 
giudici 
di 
merito e 
trascorso il 
quale 
un ulteriore 
atto di 
messa 
in mora 
del 
debitore, con assegnazione 
di 
un termine 
per adempiere si sarebbe rivelato un autentico nonsenso. 


Il 
contrario 
assunto 
dell’Agenzia 
delle 
Dogane, 
dunque, 
secondo 
cui 
quelle 
istanze 
non 
potevano costituire 
un atto di 
costituzione 
in mora 
perché 
intervenute 
prima 
del 
decorso del 
termine ragionevole e, quindi, in assenza di un ritardo, non merita seguito. 


esso, infatti, si 
rivela 
in aperto contrasto con la 
dottrina 
che, con unanime 
indirizzo, ammette 
che 
“il 
creditore 
[possa] 
anche 
intimare 
[l’adempimento] 
prima del 
tempo, al 
fine 
di 
ricevere 
il 
pagamento alla scadenza”. Ciò senza 
dimenticare 
che 
anche 
questa 
Corte 
ha 
già 
riconosciuto che 
l’efficacia 
di 
una 
inequivoca 
richiesta 
di 
pagamento che 
il 
creditore 
abbia 
inviato al 
proprio debitore 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
del 
debito di 
quest’ultimo, ben 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


può 
essere 
evidentemente 
differita 
al 
momento 
della 
intervenuta 
scadenza 
di 
quel 
termine 
(cfr. 
sostanzialmente, in tal 
senso, Cass. n. 6549 del 
2016, -resa, peraltro, in fattispecie 
di 
obbligazione 
quérable 
di 
una 
P.A. -a 
tenore 
della 
quale 
«L’atto di 
costituzione 
in mora non richiede 
l’uso di 
formule 
solenni, né 
l’osservanza di 
particolari 
adempimenti, sicché 
l’invio di 
una fattura commerciale 
-sebbene, di 
per 
sé, insufficiente 
ai 
fini 
ed agli 
affetti 
di 
cui 
all’art. 
1219, comma 1, c.c. -può risultare 
idoneo a tale 
scopo allorché 
l’emissione 
del 
documento 
di 
natura fiscale 
sia intervenuta in relazione 
all’esecuzione 
di 
un contratto che 
preveda pagamenti 
ripetuti 
a scadenze 
predeterminate 
e 
purché 
lo stesso risulti 
corredato dall’indicazione 
di 
un 
termine 
per 
il 
pagamento 
e 
dall’avviso 
che, 
se 
lo 
stesso 
non 
interverrà 
prima 
della 
scadenza, il debitore dovrà ritenersi costituito in mora»). 


Del 
resto, sarebbe 
ragionevolmente 
privo di 
senso l’art. 1219, comma 
2, n. 2, cod. civ. (secondo 
cui 
“Non è 
necessaria la costituzione 
in mora… 
quando il 
debitore 
ha dichiarato per 
iscritto di 
non volere 
eseguire 
l’obbligazione”) ove 
non si 
postulasse, sul 
piano logico, anche 
una richiesta di pagamento anteriore al termine di scadenza del relativo debito. 


Nella 
specie, quindi, le 
richieste 
di 
pagamento suddette, inoltrate 
dopo le 
intervenute 
regolari 
esportazioni 
(le 
quali, come 
si 
è 
già 
ripetutamente 
puntualizzato, costituiscono il 
fatto 
generatore 
del 
rapporto obbligatorio), possono considerarsi 
come 
pienamente 
idonee 
a 
determinare 
la 
mora 
del 
debitore 
a 
decorrere 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
ritenuto 
come 
ragionevole 
per 
l’adempimento 
della 
sua 
prestazione. 
In 
altri 
termini, 
una 
volta 
definitivamente 
individuato 
dal 
tribunale 
il 
“termine 
ragionevole” 
entro il 
quale 
avrebbe 
dovuto evadere 
le 
richieste 
rivoltele 
da 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
al 
fine 
di 
ottenere 
le 
“restituzioni” 
alle 
esportazioni 
per gli 
anni dal 1990 al 1997, proprio in quel termine l’Agenzia delle Dogane avrebbe dovuto svolgere 
il 
complessivo 
procedimento 
per 
poi 
adempiere 
la 
sua 
prestazione 
(pagamento, 
appunto, 
delle 
“restituzione” 
predette) già 
ripetutamente 
richiestale 
dalla 
prima 
anteriormente 
alla 
instaurazione 
del 
giudizio innanzi 
al 
tribunale 
ma 
con effetti, quanto alla 
costituzione 
in mora, 
da 
considerarsi 
verificatisi 
dopo la 
scadenza 
di 
quel 
termine. Non avendolo fatto (e 
la 
circostanza, 
giova 
ripeterlo, 
è 
sostanzialmente 
pacifica) 
-anzi 
avendolo 
più 
volte 
ostacolato, 
come 
chiaramente 
emerge 
dalla 
decisione 
di 
primo grado nella 
quale 
si 
dà 
atto dei 
vari 
provvedimenti 
di 
fermo amministrativo con i 
quali 
erano stati 
temporaneamente 
sospesi 
i 
pagamenti 
delle 
restituzioni 
all’esportazione 
dovute 
ad Italgrani 
s.p.a., adottati 
sulla 
base 
di 
atti 
risultati 
illegittimi 
al 
vaglio dell’autorità 
giudiziaria 
innanzi 
alla 
quale 
erano stati 
contestati 
-ne 
risponde 
delle 
conseguenze. ed è 
proprio questo quanto sostanzialmente 
ha 
ritenuto la 
corte 
d’appello, laddove 
ha 
opinato che 
«[…] 
la peculiarità della fattispecie 
è 
tale 
da rendere 
inconcepibile 
la necessità della costituzione 
in mora ex 
art. 1219 c.c., posto che 
questa deve 
ritenersi 
implicita nella originaria richiesta di 
pagamento del 
contributo» (cfr. pag. 10 della 
sentenza impugnata). 


Diversamente, 
si 
riconoscerebbe 
alla 
Pubblica 
Amministrazione 
un 
irragionevole 
privilegio, 
considerato che, al 
tempo necessario per adempiere 
(fissato dai 
giudici 
di 
merito in sessanta 
giorni, in deroga 
all’art. 1183 cod. civ. e, dunque, alla 
regola 
dell’immediata 
esigibilità 
del 
credito), si 
aggiungerebbe 
l’ulteriore 
periodo di 
tempo che 
il 
creditore, con l’atto di 
costituzione 
in 
mora, 
dovrebbe 
concedere 
al 
debitore/Pubblica 
Amministrazione, 
senza 
dimenticare, 
peraltro, che 
il 
creditore 
nemmeno potrebbe 
disporre 
di 
un mezzo di 
tutela 
acceleratorio rispetto 
alla mancata emissione del titolo di spesa da parte della P.A. 


Deve 
considerarsi, inoltre, che 
se 
l’obbligazione 
deve 
adempiersi 
al 
domicilio del 
debitore 
(come, appunto, accade 
per le 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A., da 
adempiersi 
presso gli 
uffici 
di 
tesoreria 
di 
quest’ultima) ed il 
creditore 
ivi 
non si 
reca, potrebbe 
generarsi 
incertezza 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


circa 
la 
effettiva 
infruttuosa 
scadenza 
del 
termine 
di 
adempimento 
dell’obbligazione 
previsto, 
ma 
se 
una 
tale 
incertezza 
risulta 
esclusa 
aliunde 
perché 
c’è 
già 
stata 
una 
richiesta 
di 
pagamento, 
sebbene 
anteriore 
alla 
scadenza 
di 
detto termine 
(come 
pacificamente 
accaduto nella 
vicenda 
in esame, considerando le 
richieste 
di 
riconoscimento del 
contributo inoltrate 
da 
Italgrani 
s.p.a 
in bonis 
alla 
Agenzia 
delle 
Dogane 
prima 
di 
intraprendere, poi, il 
giudizio innanzi 
al 
tribunale 
di 
Napoli), non ha 
senso, anche 
in nome 
del 
principio di 
buona 
fede, pretenderne 
un’altra. 


In altre 
parole, in una 
fattispecie 
affatto peculiare 
-in ragione 
della 
sua 
concreta 
disciplina 
come 
dettata 
dal 
già 
menzionato regolamento comunitario qui 
applicabile 
ratione 
temporis 


-come 
quella 
oggi 
all’attenzione 
di 
queste 
Sezioni 
Unite 
risulta 
affatto ragionevole 
un’attenuazione 
del 
requisito della 
costituzione 
in mora 
laddove 
un termine 
di 
adempimento (o, se 
si 
preferisce, di 
evasione 
della 
richiesta 
di 
pagamento delle 
“restituzioni” 
de 
quibus) già 
sia 
stato 
definitivamente 
stabilito 
giudizialmente, 
tanto 
potendo 
trovare 
la 
sua 
giustificazione 
nel 
principio generale 
della 
buona 
fede 
valutato in relazione 
alla 
suddetta 
individuata 
funzione 
(unitamente 
ad altre) della 
costituzione 
in mora. Se 
questa 
serve 
anche 
o esclusivamente 
ad 
accertare 
la 
infruttuosa 
scadenza 
del 
termine 
previsto per l’adempimento dell’obbligazione, 
sarebbe 
contrario 
alla 
buona 
fede 
(ricordandosi 
pure 
che, 
nel 
2020, 
il 
legislatore, 
intervenendo 
sulla 
formulazione 
dell’art. 1 della 
legge 
n. 241 del 
1990, ha 
espressamente 
previsto che 
“i 
rapporti 
tra il 
cittadino e 
la pubblica amministrazione 
sono improntati 
ai 
principi 
della collaborazione 
e della buona fede”) richiederla quando tale scadenza risulti 
aliunde 
sicura. 
resta 
solo da 
aggiungere 
che, per il 
tenore 
dell’intimazione 
volta 
a 
richiedere 
l’adempimento 
di 
un’obbligazione, non si 
esige 
l’uso di 
formule 
solenni, ritenendosi 
sufficiente 
che 
il 
creditore 
manifesti 
al 
debitore 
l’intenzione 
di 
non 
tollerare 
ritardi. 
È 
un 
atto 
giuridico 
in 
senso 
stretto, 
a 
carattere 
recettizio, 
sulla 
cui 
concreta 
possibilità 
a 
valere 
come 
messa 
in 
mora 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
è 
costante 
nell’affermare 
che 
trattasi 
di 
valutazione 
rimessa 
al 
giudice 
di merito. 


11.3. Si impongono, infine, alcune precisazioni. 
Innanzitutto, 
le 
appena 
descritte 
soluzioni 
consentono 
agevolmente 
di 
conciliare 
quanto 
stabilito 
da 
Cass., 
SU, 
n. 
1561/1977 
(che, 
in 
una 
fattispecie 
in 
cui, 
diversamente 
da 
quella 
oggi 
in 
esame, 
non 
era 
stato 
giudizialmente 
individuato 
alcun 
termine 
per 
l’evasione 
della 
corrispondente 
pratica 
da 
parte 
della 
P.A., 
ha 
avuto 
modo 
di 
chiarire, 
con 
riferimento 
ad 
altra 
tipologia 
di 
provvidenze 
riconosciute 
a 
livello 
comunitario 
in 
favore 
di 
produttori 
agricoli, 
peraltro 
parzialmente 
sovrapponibile 
quanto 
alle 
condizioni 
previste 
per 
il 
riconoscimento 
delle 
provvidenze, 
che 
le 
cosiddette 
“restituzioni”, 
ossia 
le 
integrazioni 
sui 
prezzi 
mondiali 
dei 
prodotti 
agricoli, 
che 
l’Amministrazione 
finanziaria 
italiana 
[come 
le 
amministrazioni 
degli 
altri 
Paesi 
aderenti 
alla 
Cee] 
deve 
corrispondere 
agli 
esportatori, 
sono 
disciplinate 
dai 
regolamenti 
comunitari 
[…] 
per 
quanto 
attiene 
alle 
loro 
condizioni 
ed 
al 
loro 
ammontare, 
ma 
restano 
disciplinate 
dal 
diritto 
interno 
italiano 
quanto 
alle 
modalità 
e 
ai 
tempi 
del 
loro 
pagamento. 
Da 
ciò 
consegue 
che 
il 
credito 
dell’esportatore 
diviene 
liquido 
ed 
esigibile, 
e 
perciò 
produttivo 
di 
interessi 
compensativi, 
solo 
quando 
sia 
stata 
ordinata 
la 
spesa 
ed 
emesso 
il 
relativo 
ordinativo 
di 
pagamento, 
ai 
sensi 
dell’art. 
270 
della 
legge 
sulla 
contabilità 
di 
stato 
r.D. 
23 
maggio 
1924 
n. 
827), 
da 
Cass. 
n. 
6738 
del 
1983 
(in 
cui 
si 
è 
precisato 
che, 
nel 
caso 
del 
pagamento 
dei 
premi 
ai 
produttori 
d’olio 
d’oliva, 
la 
relativa 
disciplina 
comunitaria 
è 
ispirata 
all’interesse 
di 
fronteggiare 
la 
concorrenza 
dei 
paesi 
terzi 
e, 
quindi, 
“a 
tutelare 
il 
generale 
interesse 
della 
Comunità 
oltre 
alla 
protezione 
degli 
interessi 
dei 
produttori 
d’olio 
d’oliva 
dei 
singoli 
Stati 
membri 
” 
per 
cui 
“l’esigenza 
di 
un 
termine 
ul



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


timo 
per 
il 
versamento 
dell’integrazione 
è 
alla 
base 
del 
sistema 
stesso, 
costituendo 
l’obiettivo 
prefissosi 
dal 
legislatore 
comunitario 
nel 
prevedere 
tale 
forma 
di 
aiuto 
alla 
produzione”) 
e 
dalla 
ulteriore 
giurisprudenza 
formatasi 
con 
riguardo 
ai 
regolamenti 
comunitari 


(n. 
136/66, 
754/67 
e 
successivi) 
che 
accordano 
un’integrazione 
di 
prezzo 
ai 
produttori 
di 
olio 
di 
oliva, 
con 
la 
successiva 
giurisprudenza 
consolidatasi 
presso 
questa 
Corte 
in 
tema 
di 
irrilevanza 
della 
definizione 
del 
procedimento 
di 
spesa 
per 
i 
debiti 
pecuniari 
da 
ritardo 
della 
P.A. 
nell’adempimento 
delle 
obbligazioni 
derivanti 
da 
contratti 
da 
essa 
stipulati: 
ciò 
nella 
misura 
in 
cui 
si 
è 
ripetutamente 
affermato 
che, 
ove 
vi 
sia 
un 
colpevole 
ritardo 
nell’espletamento 
della 
procedura 
di 
liquidazione, 
l’Amministrazione 
è 
tenuta 
a 
corrispondere 
gli 
interessi 
moratori, 
a 
prescindere 
dall’emissione 
o 
meno 
del 
mandato 
di 
pagamento. 
In 
tema 
di 
mora, 
in 
ordine 
ai 
contratti 
stipulati 
dalla 
P.A., 
le 
regole 
di 
diritto 
si 
applicano, 
si 
è 
detto, 
anche 
ai 
debiti 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
medesima. 
Sicché 
l’eventuale 
esigenza 
di 
adottare 
le 
procedure 
della 
contabilità 
pubblica 
non 
giustifica, 
in 
caso 
di 
colpevole 
ritardo 
nelle 
formalità 
di 
liquidazione, 
la 
deroga 
al 
principio, 
desumibile 
dall’art. 
1218 
cod. 
civ., 
della 
responsabilità 
del 
debitore 
per 
l’inesatto 
o 
tardivo 
adempimento 
della 
prestazione 
(responsabilità 
che 
si 
attua 
con 
la 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
come 
forma 
di 
risarcimento 
minimo) 
ed 
al 
principio, 
posto 
dall’art. 
1224, 
comma 
1, 
cod. 
civ., 
che 
identifica 
la 
data 
di 
decorrenza 
degli 
interessi 
con 
il 
giorno 
della 
costituzione 
in 
mora. 
Le 
medesime 
soluzioni, 
poi, 
si 
rivelano 
pienamente 
coerenti 
con 
quanto 
ritenuto 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con 
riferimento 
ai 
principi 
di 
effettività 
ed 
equivalenza. 
In 
particolare, 
e 
con 
specifico 
riferimento 
alle 
questioni 
in 
esame, 
nella 
sentenza 
del 
28 
aprile 
2022, 
cause 
riunite 
C-415/2056, 
C-419/20 
e 
C-427/20, 
Gräfendorfer 
Geflügel-und 
Tiefkühlfeinkost 
Produktions 
GmbH 
e 
a., 
in 
cui 
-come 
si 
è 
già 
detto 
in 
precedenza 
-i 
Giudici 
di 
Lussemburgo 
hanno 
affermato 
che, 
nel 
caso 
in 
cui 
“siano 
state 
pagate 
in 
ritardo 
restituzioni 
all’esportazione 
ad 
un 
interessato, 
in 
violazione 
del 
diritto 
dell’Unione, 
quest’ultimo 
ha 
il 
diritto 
di 
ottenere 
il 
pagamento 
di 
interessi 
volti 
a 
compensare 
l’indisponibilità 
dell’importo 
di 
denaro 
corrispondente” 
(cfr. 
§ 
58). 
Secondo 
la 
costante 
giurisprudenza 
di 
quegli 
stessi 
Giudici, 
inoltre, 
in 
mancanza 
di 
una 
normativa 
dell’Unione, 
spetta 
all’ordinamento 
giuridico 
interno 
di 
ciascuno 
Stato 
membro 
stabilire 
le 
modalità 
in 
base 
alle 
quali 
gli 
interessi 
devono 
essere 
pagati 
in 
caso 
di 
rimborso 
di 
importi 
di 
denaro 
riscossi 
in 
violazione 
del 
diritto 
del-
l’Unione. 
tuttavia, 
si 
aggiunge, 
tali 
modalità 
devono 
rispettare 
i 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività, 
requisito 
che 
implica, 
in 
particolare, 
che 
esse 
non 
siano 
congegnate 
in 
modo 
da 
rendere 
eccessivamente 
difficile 
o 
praticamente 
impossibile 
l’esercizio 
del 
diritto 
al 
pagamento 
degli 
interessi 
garantito 
dal 
diritto 
dell’Unione 
(cfr. 
sentenze 
del 
19 
luglio 
2012, 
Littlewoods 
Retail 
e 
a., 
C-591/10, 
punti 
27 
e 
28, 
e 
del 
6 
ottobre 
2015, 
Târşia, 
C-69/14, 
punti 
26 
e 
27). 


Del 
resto, proprio il 
principio di 
effettività 
costituisce 
un principio funzionale 
ad eliminare 
le 
restrizioni 
nazionali 
nella 
protezione 
dei 
diritti, potenziare 
la 
funzione 
ermeneutica 
ed individuare 
i 
rimedi 
più adeguati 
alla 
lesione. Pertanto, la 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva 
dei 
diritti 
che 
gli 
amministrati 
traggono dal 
diritto dell’Unione, per come 
riconosciuta 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia, costituisce 
un principio generale, discendente 
dal 
dovere 
generale 
di 
leale 
collaborazione 
in 
capo 
agli 
Stati 
membri, 
il 
quale 
investe 
anche 
le 
autorità 
giurisdizionali 
nazionali, 
nel 
senso 
che 
queste 
ultime 
devono 
assicurare 
sempre 
e 
in 
ogni 
caso 
una 
protezione 
giudiziaria 
effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. 


resta 
da 
dire 
che, sempre 
con riferimento al 
principio di 
effettività 
ed alla 
rilevanza 
delle 
norme 
di 
contabilità, che, come 
pure 
si 
è 
già 
rimarcato, quanto agli 
interessi 
relativi 
al 
ritardo 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


nell’adempimento dell’obbligazione 
nascente 
dalle 
restituzioni 
alle 
importazioni, il 
creditore 
nemmeno 
potrebbe 
disporre 
di 
un 
mezzo 
di 
tutela 
acceleratorio 
rispetto 
alla 
mancata 
emissione 
del 
titolo 
di 
spesa 
da 
parte 
della 
P.A. 
La 
Corte 
costituzionale, 
invece, 
fin 
dalla 
metà 
degli 
anni 
ottanta 
del 
secolo scorso, ha 
più volte 
sottolineato il 
riconoscimento del 
significato costituzionale 
della 
tutela 
cautelare 
come 
necessario ed essenziale 
corollario del 
più generale 
principio 
di 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
di 
cui 
all’art. 24 Cost. In particolare, il 
giudice 
delle 
leggi 
ha 
precisato come 
la 
tutela 
cautelare 
eserciti 
una 
“funzione 
strumentale 
all’effettività 
della stessa tutela giurisdizionale” (cfr. sent. n. 190 del 1985). 


esigenze 
di 
completezza, 
infine, 
impongono 
una 
ulteriore 
considerazione. 
È 
innegabile 
che, nella 
vicenda 
oggi 
all’attenzione 
di 
queste 
Sezioni 
Unite, sia 
inapplicabile 
(sia 
ratione 
temporis, 
sia 
perché 
non 
si 
è 
al 
cospetto 
di 
transazioni 
commerciali 
tra 
privato 
e 
Pubblica 
Amministrazione 
e 
sia, soprattutto, in ragione 
di 
quanto si 
è 
già 
detto circa 
la 
possibilità 
di 
attribuire 
la 
natura 
di 
valido 
atto 
di 
costituzione 
in 
mora 
alle 
richieste 
di 
pagamento 
delle 
restituzioni 
inoltrate 
da 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
all’Agenzia 
delle 
Dogane 
prima 
dell’instaurazione 
del 
giudizio 
innanzi 
al 
tribunale 
di 
Napoli) 
la 
disciplina 
prevista, 
in 
tema 
di 
interessi, 
dal 
d.lgs. n. 231/2002, recante 
la 
“Attuazione 
della direttiva 2000/35/CE 
relativa alla lotta 
contro 
i 
ritardi 
di 
pagamento 
nelle 
transazioni 
commerciali”. 
Ciò 
non 
toglie, 
tuttavia, 
che 
proprio quella 
disciplina 
(ripetesi, qui 
inutilizzabile) -cfr. in particolare 
l’art. 7, comma 
5, del 
menzionato d.lgs. -non consente 
di 
considerare 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A. come 
sempre ed assolutamente incompatibili con la fattispecie della ipotesi della mora 
ex re. 


11.4. Sempre 
in tema 
di 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
Pubblica 
Amministrazione, l’ordinanza 
interlocutoria 
n. 
32405 
del 
2023 
prospetta 
anche 
la 
questione 
«relativa 
agli 
effetti 
della 
mancata emissione 
del 
titolo di 
spesa sugli 
interessi 
corrispettivi» (cfr. 
pag. 21-22), con riguardo 
alla 
quale 
ha 
evidenziato i 
principi 
dissonanti 
di 
Cass. n. 11655 del 
2020 rispetto all’orientamento 
tradizionale, 
oltre 
che 
maggioritario, 
caratterizzato 
dalla 
distinzione 
del 
regime 
giuridico applicabile 
alle 
conseguenze 
del 
ritardo nell’adempimento delle 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
P.A. e, segnatamente, dal 
condizionamento degli 
interessi 
corrispettivi 
all’emissione 
del 
titolo 
di 
spesa. 
Principi 
che, 
tuttavia, 
non 
hanno 
trovato 
seguito, 
almeno 
per 
ora, 
nella 
successiva 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(cfr. 
Cass. 
n. 
118 
del 
2023), 
che 
ha 
ritenuto 
«più 
convincente 
e 
appropriato l’orientamento maggioritario attestato sulla differenza, per 
gli 
effetti 
che 
ne 
conseguono a proposito del 
debito da interessi, dei 
fini 
del 
debitore 
pubblico rispetto 
a quello privato; differenza alla quale 
sono funzionali 
le 
più complesse 
procedure 
di 
verifica 
della 
inerenza 
e 
della 
effettiva 
corrispondenza 
della 
prestazione 
alle 
previsioni 
di 
spesa alle quali è funzionale il procedimento afferente». 
La 
decisione 
su 
tale 
questione, 
oggetto, 
giusta 
la 
medesima 
ordinanza 
interlocutoria, 
di 
una 
seconda, 
autonoma 
ratio 
decidendi 
rinvenibile 
nella 
sentenza 
oggi 
impugnata, 
rimane 
tuttavia 
assorbita 
sia 
in 
ragione 
di 
quanto 
è 
già 
ampiamente 
detto 
finora 
con 
riferimento 
a 
quella 
che 
è 
chiaramente 
l’altra, e 
principale, ratio decidendi 
della 
medesima 
sentenza, assolutamente 
sufficiente 
per 
dirimere 
l’odierna 
lite 
tra 
le 
parti 
-ricordandosi, 
peraltro, 
da 
un 
lato, 
che, come 
si 
legge 
in Cass., SU, n. 19681 del 
2019, «ogni 
pronuncia giudiziaria trova il 
proprio 
limite 
nel 
collegamento 
con 
una 
vicenda 
concreta. 
Com’è 
stato 
incisivamente 
detto 
nelle 
note 
sentenze 
sulla compensatio lucri 
cum 
damno, alle 
Sezioni 
Unite 
non è 
affidata “l’enunciazione 
di 
principi 
generali 
e 
astratti 
o di 
verità dogmatiche 
sul 
diritto, ma la soluzione 
di 
questioni 
di 
principio 
di 
valenza 
nomofilattica 
pur 
sempre 
riferibili 
alla 
specificità 
del 
singolo 
caso della vita” 
(sentenze 
22 maggio 2018, n. 12564, n. 12565, n. 12566 e 
n. 12567)»; 
dal-
l’altro, che 
ove 
la 
corrispondente 
motivazione 
di 
una 
sentenza 
sia 
sorretta 
da 
una 
pluralità 
di 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


ragioni, distinte 
ed autonome, ciascuna 
delle 
quali 
giuridicamente 
e 
logicamente 
sufficiente 
a 
giustificare 
la 
decisione 
adottata 
sul 
punto, l’omessa 
impugnazione 
o inefficace 
di 
una 
di 
esse 
rende 
inammissibile, 
per 
difetto 
di 
interesse, 
la 
censura 
relativa 
alle 
altre, 
la 
quale, 
essendo 
divenuta 
definitiva 
l’autonoma 
motivazione 
non impugnata, non potrebbe 
produrre 
in alcun 
caso l’annullamento, in parte 
qua, della 
sentenza 
(cfr., ex 
multis, anche 
nelle 
rispettive 
motivazioni, 
Cass. nn. 5102 e 
4067 del 
2024; 
Cass. nn. 26801 e 
4355 del 
2023; 
Cass. n. 4738 del 
2022; 
Cass. n. 22697 del 
2021; 
Cass., SU, n. 10012 del 
2021) -sia 
perché 
l’unico formulato 
motivo di 
ricorso dell’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli 
è 
concretamente 
focalizzato, in 
realtà, 
sul 
solo 
tema 
degli 
interessi 
moratori, 
non 
anche 
di 
quelli 
corrispettivi: 
su 
quest’ultimo 
punto, infatti, si 
rinviene 
solo un fugace 
accenno -cfr. 
pag. 12 del 
ricorso -al 
fatto che 
impropriamente 
l’art. 1282 cod. civ. sarebbe 
stato richiamato dalla 
corte 
distrettuale 
discutendosi, 
nella 
specie, di 
interessi 
moratori 
e 
non di 
interessi 
corrispettivi. Né 
ad una 
tale 
carenza 
può 
porre 
rimedio 
il 
contenuto 
della 
memoria 
ex 
art. 
380-bis.1 
cod. 
proc. 
civ., 
quest’ultima 
essendo 
destinata 
esclusivamente 
ad 
illustrare 
le 
censure 
già 
proposte, 
senza 
poterne 
introdurre 
di 
nuove 
(cfr., 
ex 
multis, 
anche 
nelle 
rispettive 
motivazioni, 
Cass. 
n. 
4979 
del 
2024; 
Cass. 
n. 
17893 del 2020; Cass. n. 24007 del 2017; Cass. n. 26332 del 2016). 


12. – La decisione 
del 
ricorso ed il 
principio di 
diritto. 
Alla 
stregua 
di 
quanto si 
è 
spiegato 
circa 
la 
possibilità 
di 
considerare, 
nella 
specie, 
come 
pienamente 
idonee 
a 
determinare 
la 
mora 
dell’Amministrazione 
finanziaria 
debitrice, a 
decorrere 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
definitivamente 
ritenuto come 
ragionevole 
dai 
giudici 
di 
merito per il 
suo adempimento, le 
richieste 
di 
pagamento delle 
“restituzioni” 
alle 
esportazioni, per gli 
anni 
1990 
-1997, inoltrate 
da 
Italgrani 
s.p.a. in bonis 
all’Agenzia 
delle 
Dogane 
(oggi 
Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli) 
anteriormente 
alla 
instaurazione, con citazione 
a 
quest’ultima 
notificata 
il 
15 dicembre 
1997, 
del 
giudizio innanzi 
al 
tribunale 
di 
Napoli, l’odierno ricorso della 
menzionata 
Agenzia 
deve 
essere respinto, contestualmente enunciandosi il seguente principio di diritto: 
«In 
tema 
di 
“restituzioni” 
all’esportazione 
come 
disciplinate 
dal 
Regolamento 
(Cee) 
n. 
3665/87 della Commissione 
del 
27 novembre 
1987, applicabile 
ratione 
temporis, la richiesta 
stragiudiziale 
di 
corresponsione 
del 
relativo sussidio economico, rivolta dal 
creditore 
esportatore 
nei 
confronti 
dell’Amministrazione 
finanziaria debitrice, costituisce 
atto idoneo a costituire 
in 
mora 
quest’ultima, 
anche 
agli 
effetti 
delle 
norme 
di 
contabilità 
di 
Stato, 
a 
decorrere 
dalla scadenza del 
termine 
ragionevole 
-nella specie 
definitivamente 
fissato dal 
giudice 
di 
merito -entro il 
quale 
l’Amministrazione 
medesima deve 
svolgere 
e 
completare 
il 
procedimento 
di 
verifica previsto dal 
Regolamento suddetto. Pertanto, conclusasi 
positivamente 
tale 
verifica 
e 
spirato 
quel 
termine 
senza 
l’avvenuto 
pagamento 
del 
menzionato 
sussidio, 
spettano 
al 
creditore 
esportatore 
gli 
interessi 
moratori 
sull’importo dello stesso e 
con l’indicata decorrenza
». 


13. – 
Le 
spese 
giudiziali. 
Le 
spese 
di 
questo giudizio di 
legittimità 
possono essere 
interamente 
compensate tra le parti tenuto conto della complessità delle questioni trattate. 
Non vi 
è 
luogo, infine, a 
pronuncia 
sul 
raddoppio del 
contributo unificato, perché 
il 
provvedimento 
con 
cui 
il 
giudice 
dell’impugnazione, 
nel 
respingere 
integralmente 
la 
stessa 
(ovvero 
nel 
dichiararla 
inammissibile 
o improcedibile), disponga, a 
carico della 
parte 
che 
l’abbia 
proposta, 
l’obbligo di 
versare, ai 
sensi 
dell’art. 13, comma 
1-quater, del 
d.P.r. 30 maggio 2002, 


n. 115, nel 
testo introdotto dall’art. 1, comma 
17, della 
legge 
24 dicembre 
2012, n. 228, un 
ulteriore 
importo a 
titolo di 
contributo unificato, pari 
a 
quello dovuto ai 
sensi 
del 
comma 
1bis 
del 
medesimo 
art. 
13, 
non 
può 
aver 
luogo 
nei 
confronti 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato, 
istituzionalmente 
esonerate, per valutazione 
normativa 
della 
loro qualità 
soggettiva, dal 
ma

CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


teriale 
versamento del 
contributo stesso, mediante 
il 
meccanismo della 
prenotazione 
a 
debito 
(cfr. 
Cass., 
Sez. 
U., 
25 
novembre 
2013, 
n. 
26280; 
Cass., 
14 
marzo 
2014, 
n. 
5955; 
Cass. 
n. 
33825 del 2024). 


PeR QUeSti MotiVi 


La 
Corte 
rigetta 
il 
ricorso e 
compensa 
interamente 
tra 
le 
parti 
le 
spese 
di 
questo giudizio 
di legittimità. 


Così 
deciso in roma, nella 
camera 
di 
consiglio delle 
Sezioni 
Unite 
civili 
della 
Corte 
Suprema 
di cassazione, il giorno 11 marzo 2025. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


L’avvocato dello Stato. Qualche chiarimento dalla recente 
ordinanza della Corte di Cassazione del 27 marzo 2025 

n. 8164 sulla mancata sottoscrizione degli atti defensionali 
In 
rassegna 
l’interessante 
e 
favorevole 
ordinanza 
alla 
difesa 
erariale 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
del 
27 marzo 2025 n. 8164, recante, fra 
l’altro i 
seguenti 
principi: 
“La 
comparsa 
di 
costituzione 
in giudizio, non firmata, non è 
inesistente, 
ma 
nulla, 
e 
dunque 
è 
sanabile, 
per 
raggiungimento 
dello 
scopo, 
così 
come 
lo 
è 
la 
citazione 
non 
sottoscritta 
… 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
un 
ufficio 
in cui 
i 
singoli 
avvocati 
o procuratori 
sono fungibili, non rappresentano singolarmente 
all’esterno 
l’ufficio, 
il 
quale, 
secondo 
le 
previsioni 
della 
legge 
istitutiva 
(r.d. n. 1611/1933) è ufficio impersonale. 

Ciò significa 
che 
sebbene 
l’atto sia 
stato redatto da 
uno degli 
avvocati, 
che 
ha 
omesso di 
firmarlo, può essere 
ratificato da 
altro degli 
avvocati 
dello 
Stato, con efficacia sanante”. 


Enrico De Giovanni 
(*) 


Ct 46054/2021(**) 


AvvoCAtUrA GeNerALe DeLLo StAto 


Corte SUPreMA DI CASSAzIoNe 


rICorSo Per CASSAzIoNe 


Per il 
Ministero della 
Difesa 
(c.f. 8042560589) in persona 
del 
Ministro pro-tempore, rappresentato 
e 
difeso 
ex 
lege 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
80224030587 
fax: 
0696514000, 
PeC: 
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) 
presso 
i 
cui 
uffici 
è 
domiciliato 
in 
roma, alla via dei Portoghesi n. 12; 


CoNtro 
-omissis-rapp.to e 
difeso dagli 
Avv.ti 
Giuseppe 
Colella 
(c.f. CLLGPP39519A662Q 
-p. iva 
06535750720) 
e 
Nicola 
Colella 
(c.f. 
CLLNC168r29A662z 
-p. 
iva 
06535750720) 
elett.te 
dom.to presso il 
loro studio in Bari 
alla 
via 
Durazzo n. 34 -telefax: 
080.5588104 -PeC colelli.
nicola68@avvvocatibari.legalmail.it e colelli.giuseppe39@avvocatibari.legalmail.it; 


avverso e per la cassazione 
della 
sentenza 
parziale 
n. 1687/2021 della 
Corte 
d’Appello di 
Bari 
terza 
sezione 
civile 
resa 
inter 
partes 
nel 
giudizio recante 
il 
nr. 845/19 r.G., pubblicata 
il 
30 settembre 
2021 non notificata. 
Oggetto: 
risarcimento 
danni 
alla 
salute 
in 
dipendenza 
di 
malattia 
giudicata 
dipendente 
da 
causa di servizio 
Motivi: 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 156, 157, 158, 180 e 
182 c.p.c. in relazione 


(*) 
vice 
Avvocato Generale. 
(**) 
Si pubblica - per la parte di interesse - il ricorso per cassazione prodotto dalla difesa erariale. 


CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


all’art. 360 n. 3) c.p.c. violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’art. 1 del 
r.D. n. 1611/1933 in relazione 
all’art. 360 n. 3) c.p.c. 
(...) 


I PreGreSSI GrADI DI GIUDIzIo 


Il 
sig. -omissis-, sul 
presupposto di 
aver contratto malattia 
tubercolare 
durante 
il 
servizio 
di 
leva 
prestato nel 
1965-1966, in ragione 
della 
quale 
gli 
venne 
riconosciuta 
pensione 
privilegiata 
con sentenza 
nr. 120/95 della 
sezione 
pugliese 
della 
Corte 
dei 
Conti, conveniva 
nel 
2005 il 
Ministero della 
Difesa 
avanti 
al 
tribunale 
di 
Bari 
per il 
risarcimento del 
danno alla 
salute 
che 
assumeva 
imputabile 
all’amministrazione 
convenuta 
in 
ragione 
della 
patologia 
contratta. 


Il giudizio assumeva il n. rG 2463/2005. 


Si 
costituiva 
in giudizio il 
Ministero della 
Difesa 
eccependo in via 
preliminare 
la 
maturata 
prescrizione 
di 
ogni 
avversa 
pretesa, contestando nel 
merito le 
domande 
e 
sollevando eccezione 
di 
compensatio lucri 
cum 
damno 
in relazione 
a 
quanto percepito dall’attore 
a 
titolo di 
pensione privilegiata. 


Istruita 
la 
causa 
con CtU 
medico-legale, con sentenza 
nr. 1028/11 il 
tribunale 
di 
Bari 
dichiarò 
il 
difetto 
di 
giurisdizione 
dell’AGo, 
ponendo 
a 
carico 
dell’attore 
le 
spese 
di 
CtU 
e 
compensando le altre spese processuali. 


Avverso detta 
sentenza 
proponeva 
appello l’odierno ricorrente 
affidando il 
gravame 
ai 
seguenti 
motivi: 
1. Sulla giurisdizione. 2. Sul 
merito della domanda. 4. Sull’eccezione 
di 
prescrizione. 
3. Sull’inesistenza giuridica dell’atto di costituzione del Ministero. 


Il 
terzo motivo veniva 
così 
articolato: 
“Nel 
corso del 
giudizio di 
primo grado, si 
è 
eccepita 
l’inesistenza giuridica, e 
comunque 
l’assoluta nullità, dell’atto di 
costituzione 
in giudizio del 
Ministero della Difesa, per 
carenza di 
sottoscrizione 
da parte 
del 
difensore. Detta eccezione, 
ad 
ogni 
effetto 
di 
legge, 
viene 
espressamente 
ribadita 
anche 
in 
sede 
di 
appello. 
Come 
rilevato 
ed 
eccepito 
nel 
corso 
dell’udienza 
del 
13 
luglio 
2010, 
l’atto 
di 
costituzione 
del 
Ministero 
convenuto, 
nell’originale 
come, ovviamente, nelle 
copie, è 
del 
tutto privo di 
sottoscrizione 
del 
difensore. 
Si 
deve 
al 
riguardo 
evidenziare 
che 
detti 
atti, 
essendo 
privi 
anche 
di 
mandato 
come 
inevitabile 
in ragione 
del 
particolare 
rapporto di 
difesa dell’Avvocatura dello Stato -, 
non 
recano 
sottoscrizione 
alcuna, 
in 
nessuna 
loro 
parte. 
Secondo 
il 
costante 
orientamento 
della 
Suprema 
Corte 
di 
Cassazione, 
la 
mancanza 
della 
sottoscrizione 
del 
procuratore 
nel-
l’originale 
dell’atto 
comporta 
l’inesistenza 
di 
questo, 
mentre 
la 
mancanza 
della 
sottoscrizione 
del procuratore nella copia dell’atto notificato ne determina la nullità 
(...)”. 


Con sentenza 
nr. 150/14 la 
Corte 
di 
appello di 
Bari 
dichiarava 
la 
giurisdizione 
ordinaria 
rimettendo 
la causa al Giudice 
a quo. 


Il 
giudizio veniva 
riassunto e 
l’attore 
insisteva 
nella 
domanda 
originaria, che 
il 
Ministero 
chiese 
di 
rigettare 
reiterando le 
eccezioni 
e 
difese 
già 
sollevate 
e 
spiegate 
nella 
memoria 
versata 
in atti al momento della costituzione nel giudizio originario. 


Il 
tribunale 
di 
Bari 
con 
sentenza 
n. 
1116/19 
emessa 
il 
13-14 
marzo 
2019, 
in 
accoglimento 
della 
eccezione 
di 
prescrizione 
del 
diritto, 
sollevata 
dal 
Ministero, 
rigettava 
le 
avverse 
domande. 


Avverso detta sentenza proponeva appello l’odierno ricorrente. 


Il Ministero resisteva in giudizio concludendo per il rigetto del gravame. 


LA DeCISIoNe oGGI IMPUGNAtA 
La 
Corte 
d’appello 
ha 
affrontato, 
ed 
illegittimamente 
risolto, 
la 
seguente 
questione 
processuale. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


-Il 
Ministero -[nell’originario giudizio definitosi 
con sentenza 
di 
declaratoria 
del 
difetto 
di 
giurisdizione] si 
costituiva, eccependo in via 
preliminare 
la 
prescrizione 
delle 
avverse 
pretese 
- con comparsa 
non firmata 
dall’avvocato dello Stato G.C. estensore dell’atto; 
-All’udienza 
del 
28 
giugno 
2005 
l’avvocato 
dello 
Stato 
N.S. 
si 
riportava 
integralmente 
alla comparsa chiedendo rinvio per la trattazione; 


-Secondo il 
tribunale 
di 
Bari, l’avvocato dello Stato, comparendo all’udienza 
del 
28 giugno 
2005, 
faceva 
propria 
la 
comparsa 
compiendo 
un 
atto 
equivalente 
alla 
sottoscrizione 
mancante 
dell’avv. C., con effetto sanante. 
- Il 
tribunale riteneva pertanto tempestiva e rituale l’eccezione di prescrizione. 
-L’appellante 
ha 
contestato il 
verificarsi 
della 
sanatoria 
e 
la 
ritualità 
dell’eccezione 
di 
prescrizione, 
contestata anche nel merito. 
-Il 
motivo inerente 
la 
presunta 
inesistenza/nullità 
della 
costituzione 
in giudizio del 
Ministero 
della 
Difesa 
è 
stato ritenuto fondato dalla 
Corte 
di 
appello con la 
sentenza 
oggi 
gravata, 
sulla scorta della seguente motivazione: 
«Il 
motivo è 
fondato, non essendosi 
verificata sanatoria dei 
vizi 
di 
quella comparsa. La 
Corte 
premette 
che 
il 
testo vigente 
dell’art. 182 cpv. c.p.c., che 
ha ampliato le 
ipotesi 
di 
sanatoria 
dei 
vizi 
della 
procura, 
non 
ha 
portata 
meramente 
interpretativa 
di 
quello 
preesistente 
e, 
per 
il 
suo 
carattere 
fortemente 
innovativo, 
non 
si 
applica 
retroattivamente 
(Cass. 
8933/19). 
Inoltre 
il 
difetto di 
mandato, essendo rilevabile 
di 
ufficio (Cass. 8104/21 e 
24212/18), non 
può essere 
sanato dal 
comportamento della parte 
controinteressata (che, nella specie, eccepì 
il 
difetto 
solo 
nella 
conclusionale 
di 
primo 
grado), 
e 
in 
particolare 
dall’accettazione 
del 
contraddittorio 
sul 
merito. In concreto, poi, il 
comportamento dell’Avvocatura dello Stato non 
ha 
avuto 
l’effetto 
sanante 
che 
la 
giurisprudenza 
(ad 
es., 
Cass. 
13688/01) 
riconosce 
all’idonea 
iniziativa della parte 
anche 
in caso di 
mancata attivazione 
del 
giudice. Ed infatti, l’essersi 
l’avvocato 
erariale 
S. 
riportato 
il 
28 
giugno 
2005 
alla 
comparsa 
depositata 
il 
31 
maggio 
2005, recante 
l’indicazione 
a stampa ma non 
la firma dell’avvocato erariale 
C., costituiva 
una mera conferma di 
stile 
delle 
precedenti 
difese, ma non 
una ratifica o convalida della 
carenza in 
esame. Ciò al 
più 
sarebbe 
stato ipotizzabile, sia pure 
con 
un 
certo sforzo, solo se 
a comparire 
il 
28 giugno 2005 fosse 
stato proprio l’avv. C. La mancata sanatoria del 
vizio 
del 
mandato difensivo precluse 
quindi 
al 
Ministero la rituale 
formulazione 
dell’eccezione 
di prescrizione, che va pertanto respinta 
». 


Nel merito la Corte territoriale ha ritenuto quanto segue: 
(...) 
La 
Corte 
territoriale 
ha 
quindi, con sentenza 
parziale 
ed in riforma 
della 
sentenza 
impu


gnata, rigettato l’eccezione 
di 
prescrizione 
disponendo con separata 
ordinanza 
per la 
prosecuzione 
del 
giudizio. Avverso tale 
decisione 
il 
Ministero della 
Difesa, come 
sopra 
rapp.to e 
difeso, interpone il presente ricorso ritenendola viziata alla luce dei seguenti 


MotIvI 


i) Violazione 
e 
falsa applicazione 
degli 
artt. 156, 157, 158, 180 e 
182 c.p.c. in 
relazione 
all’art. 360 n. 3) c.p.c. Violazione 
e 
falsa applicazione 
dell’art. 1 del 
R.D. n. 1611/1933 in 
relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c. 
La 
Corte 
territoriale 
è 
incorsa 
in errore 
di 
sussunzione 
nel 
ritenere 
che 
la 
mancata 
sottoscrizione 
della 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta 
depositata 
nell’interesse 
del 
Ministero 
odierno 
ricorrente, 
integrasse 
il 
vizio 
di 
difetto 
di 
mandato, 
rilevabile 
di 
ufficio 
(Cass. 
8104/21 
e 24212/18). 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


Che 
il 
Giudice 
d’appello sia 
incorso in detto errore 
è 
confermato anche 
dal 
richiamo agli 
arresti di codesta Corte. 


La 
fattispecie 
decisa 
con il 
primo di 
detti 
arresti 
(Cass. n. 8104/2021) ineriva 
al 
difetto di 
ius 
postulandi 
dell’Università 
degli 
Studi 
di 
roma 
“La 
Sapienza”, per mancata 
produzione 
della 
motivata 
Delibera 
del 
Consiglio di 
amministrazione, ai 
sensi 
del 
r.D. n. 1611 del 
1933, 
art. 43, comma 
4, non essendo sufficiente 
la 
produzione 
del 
solo decreto del 
rettore, quale 
legale 
rappresentante 
dell’ente, ad affidare 
lo ius 
postulandi 
ad un avvocato del 
libero foro in 
luogo dell’Avvocatura dello Stato. 


Peraltro 
codesta 
Corte 
ha 
deciso 
nel 
senso 
della 
infondatezza 
del 
motivo 
del 
relativo 
motivo 
di ricorso avendo ritenuto quanto segue: 


«Là 
dove 
si 
faccia 
questione 
all’interno 
del 
processo 
della 
mancanza 
del 
potere 
rappresentativo 
sostanziale 
sub 
specie 
del 
difetto 
di 
autorizzazione 
in 
capo 
alla 
persona 
che 
abbia 
proposto 
domanda 
o 
abbia 
contraddetto 
a 
quella 
altrui 
costituendosi 
in 
giudizio 
e 
conferendo 
mandato 
ad 
un 
difensore, 
l’invalidità 
della 
procura 
alle 
liti 
e 
quindi 
il 
difetto 
di 
ius 
postulandi 
in 
capo 
al 
patrocinatore 
non 
è 
mancanza 
tale 
da 
integrare 
una 
nullità 
insanabile 
e 
rilevabile 
ex 
officio 
in 
ogni 
stato 
e 
grado 
del 
giudizio, 
insensibile, 
come 
tale, 
a 
preclusioni 
o 
decadenze. 
1.1.2. 
L’indicata 
fattispecie 
non 
figura 
tra 
quelle 
per 
le 
quali 
la 
nullità 
risulti 
comminata 
dalla 
legge 
(art. 
156 
c.p.c., 
comma 
1) 
nè 
è 
qualificata 
come 
insanabile 
(art. 
158 
c.p.c., 
comma 
1, 
sui 
vizi 
relativi 
alla 
costituzione 
del 
giudice 
o 
all’intervento 
del 
pubblico 
ministero). 
1.1.3. 
In 
tal 
senso 
depone 
anche 
il 
disposto 
di 
cui 
all’art. 
182 
c.p.c., 
comma 
2 
(nel 
testo, 
applicabile 
“ratione 
temporis”, 
anteriore 
alla 
modifica 
introdotta 
dalla 
L. 
n. 
69 
del 
2009, 
art. 
46), 
che, 
secondo 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, 
va 
inteso, 
anche 
alla 
luce 
della 
successiva 
novella, 
nel 
senso 
che 
il 
giudice 
è 
tenuto 
a 
promuovere 
la 
sanatoria 
del 
vizio, 
assegnando 
un 
termine 
alla 
parte 
che 
non 
vi 
abbia 
già 
provveduto 
di 
sua 
iniziativa 
(Cass. 
n. 
22559 
del 
4 
novembre 
2015; 
per 
una 
fattispecie 
in 
cui 
si 
distingueva 
tra 
le 
figure 
del 
difetto 
di 
rappresentanza 
e 
di 
carenza 
assoluta 
con 
conseguente 
insanabilità 
soltanto 
di 
quest’ultima: 
Cass. 
SU 
n. 
10414 
del 
27 
aprile 
2017; 
ancora 
sulla 
distinzione 
tra 
inesistenza 
e 
nullità 
della 
procura 
e 
conseguente 
regime 
di 
insanabilità-sanabilità 
dell’atto 
nella 
novellata 
previsione 
dell’art. 
182 
c.p.c.; 
Cass. 
n. 
24257 
del 
4 
ottobre 
2018). 
L’applicabilità 
del 
meccanismo 
della 
sanatoria 
vale 
a 
predicare 
il 
carattere 
non 
assoluto 
della 
nullità 
e 
tanto 
per 
un 
percorso 
interpretativo 
guidato 
dalla 
disciplina 
contenuta 
nel 
novellato 
art. 
182 
cit. 
che, 
dando 
espressamente 
ingresso 
alla 
sanatoria 
per 
assegnazione 
di 
un 
termine 
perentorio 
la 
cui 
osservanza 
sana 
con 
effetti 
ex 
tunc 
il 
vizio 
originario 
del 
difetto 
di 
rappresentanza 
o 
di 
assistenza 
o 
di 
autorizzazione, 
stabilisce 
del 
vizio 
emendato 
la 
non 
ascrivibilità 
ad 
una 
nullità 
assoluta». 


La 
fattispecie 
decisa 
con il 
secondo arresto (Cass. 24212/18) atteneva 
alla 
dedotta 
nullità 
della 
procura 
in quanto non materialmente 
unita 
al 
ricorso ed in quanto mancante 
della 
specifica 
indicazione della causa per la quale il mandato era stato rilasciato. 


La 
Corte 
d’appello ha 
omesso di 
considerare 
che 
gli 
Avvocati 
ed i 
Procuratori 
dello Stato 
stanno in giudizio senza 
necessità 
di 
mandato -generale 
o speciale 
-essendo sufficiente 
che 
essi 
provino 
la 
loro 
qualità 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
di 
cui 
all’art. 
1 
del 
r.D. 
1611/1933 
a 
mente 
del 
quale 
“La 
rappresentanza, il 
patrocinio e 
l’assistenza 
in giudizio delle 
Amministrazioni 
dello Stato, anche 
se 
organizzate 
ad ordinamento autonomo, spettano alla 
Avvocatura 
dello 
Stato. Gli 
avvocati 
dello Stato, esercitano le 
loro funzioni 
innanzi 
a 
tutte 
le 
giurisdizioni 
ed 
in qualunque 
sede 
e 
non hanno bisogno di 
mandato, neppure 
nei 
casi 
nei 
quali 
le 
norme 
ordinarie 
richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità”. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


Nel 
caso che 
ci 
occupa 
quindi 
erroneamente 
il 
difetto di 
sottoscrizione 
da 
parte 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
redattore 
della 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta, 
è 
stato 
ritenuto 
dal 
Giudice 
di secondo grado quale vizio attinente al difetto di 
ius postulandi. 


Inquadrata 
correttamente 
la 
questione 
è 
noto che 
quando di 
un atto è 
certa 
la 
provenienza 
dall’Avvocatura 
dello Stato la 
mancata 
sottoscrizione 
non ne 
determina 
la 
nullità 
(Cons. St., 
vI, 
13 
luglio 
1991 
n. 
456; 
Cass. 
13 
luglio 
1993 
n. 
7741, 
in 
Giust. 
civ., 
1993, 
I, 
2631; 
9 
giugno 
1993 
n. 
591; 
22 
febbraio 
1990 
n. 
1308; 
3 
giugno 
1988 
n. 
3788; 
SS.UU. 
15 
marzo 
1982 
n. 
1672; 
Cons. St. Iv, 7 settembre 
1988 in rass. Avv. St. 1988, I, 121; 
vI, 22 maggio 1981 n. 
225; 
vI, 5 febbraio 1980 n. 122; 
Iv, 6 aprile 
1979 n. 256; 
Iv, 24 ottobre 
1978 n. 934; 
Cass. 
13 luglio 1993 n. 7741, cit.; 
9 giugno 1993 n. 591; 
Cons. St., vI, 25 marzo 1989 n. 278 in 
Cons. 
St. 
1989, 
1, 
361; 
vI, 
15 
marzo 
1977 
n. 
239, 
in 
Giust. 
civ. 
1978, 
11, 
18; 
11 
febbraio 
1977 n. 88 in Foro amm. 1977, I, 124; 
App. roma 
18 febbraio 1969 n. 336 in rass. Avv. St. 
1969, 1, 151). 


Sulla 
questione 
che 
ci 
occupa 
sembra 
dirimente 
la 
decisione 
assunta 
dal 
Consiglio di 
Stato 
in fattispecie simile (cfr. C.d.S. n. 2983/2007). 


«1. Con il 
primo motivo di 
appello si 
deduce 
l’erroneità 
della 
sentenza 
nella 
parte 
in cui 
rigetta 
l’eccezione 
di 
inammissibilità 
della 
costituzione 
in giudizio dell’Avvocatura 
di 
Stato, 
formulata 
per la 
mancata 
sottoscrizione 
del 
controricorso e 
della 
memoria 
successivamente 
presentata. La 
censura 
è 
infondata. Il 
tAr ha 
respinto l’eccezione 
ritenendo che 
la 
presenza 
all’udienza 
di 
discussione 
dell’avvocato 
dello Stato 
fosse 
idonea 
a 
fare 
ritenere 
l’Amministrazione 
costituita 
in 
giudizio 
in 
quanto 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
la 
rappresentanza 
in 
giudizio 
della 
Amministrazione 
dello 
Stato 
indipendentemente 
dal 
conferimento 
di 
un 
mandato specifico. L’appellante 
contesta 
tale 
argomentazione, rilevando che 
la 
propria 
eccezione 
mirava 
ad 
evidenziare 
-a 
monte 
-l’assenza 
di 
volontà 
della 
difesa 
erariale 
a 
costituirsi 
in giudizio, con ciò dovendosi 
ritenere 
inesistente 
(dunque 
non sanabile) la 
sua 
presenza 
in 
giudizio. osserva 
il 
Collegio che 
dalla 
mancata 
sottoscrizione 
degli 
atti 
defensionali 
non è 
evincibile 
tale 
(assenza 
di) 
volontà 
ma, 
al 
più, 
l’invalidità 
(o 
l’inesistenza) 
di 
tali 
atti 
e, 
dunque, 
l’inidoneità 
degli 
stessi 
ad attivare 
il 
rapporto processuale 
in capo all’Amministrazione. Senonchè, 
successivamente 
ai 
medesimi, la 
difesa 
erariale 
è 
comparsa 
in giudizio, attività 
autonoma 
rispetto a quella viziata». 
Appare 
necessario ribadire 
la 
piena 
esistenza, efficacia 
e 
legittimità 
degli 
atti 
processuali 
della difesa erariale ragione per la quale il motivo dell’avverso gravame andava rigettato. 


L’eccezione 
avversa 
circa 
l’inesistenza 
di 
tali 
atti 
-disattesa 
dal 
Giudice 
di 
prime 
cure 
era 
peraltro 
stata 
formulata 
da 
parte 
attrice 
per 
la 
prima 
volta 
solo 
in 
sede 
di 
precisazione 
delle 
conclusioni 
(in violazione 
anche 
del 
vecchio rito, che 
prevedeva 
all’uopo l’udienza 
di 
prima 
comparizione delle parti ex art. 180 c.p.c.). 


L’elenco delle 
pronunce 
di 
legittimità 
operato da 
controparte 
avanti 
al 
giudizio definitosi 
con l’impugnata 
sentenza 
si 
riferiscono, per lo più, a 
casi 
inerenti 
alla 
mancata 
sottoscrizione 
dell’atto introduttivo del 
giudizio e, in ogni 
caso, non smentiscono, né 
contraddicono, altro 
orientamento 
ancora 
attuale 
di 
codesta 
Suprema 
Corte 
che 
qui 
si 
riporta 
per 
la 
sua 
importanza: 
“allorquando 
la 
parte 
convenuta 
non 
si 
sia 
limitata 
a 
depositare 
in 
cancelleria 
una 
comparsa 
priva della sottoscrizione 
del 
difensore, ma abbia partecipato attivamente 
al 
giudizio senza 
che 
siano 
sorte 
contestazioni 
in 
ordine 
all’individuazione 
del 
procuratore 
costituito, 
la 
nullità 
non 
può 
essere 
pronunciata; 
ostandovi 
la 
sanatoria 
generale 
che 
il 
comma 
3 
dell’art. 
157 


c.p.c. fa derivare 
dal 
raggiungimento dello scopo dell’atto viziato” 
(così 
Cass., sez. I, sent. 
12 novembre 1998, n. 11410). 

CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


ebbene 
è 
ormai 
oltremodo evidente 
che 
la 
difesa 
erariale 
non si 
sia 
limitata 
a 
depositare 
un 
atto 
privo 
di 
sottoscrizione 
in 
cancelleria, 
ma 
che 
abbia 
attivamente 
partecipato 
alle 
attività 
processuali e istruttorie. 


A 
fronte 
dell’attività 
difensiva 
spiegata 
la 
controparte 
non ha 
eccepito alcunché 
(salvo, si 
ribadisce, 
in 
sede 
di 
precisazione 
delle 
conclusioni), 
tacitamente 
rinunciando 
a 
opporre 
la 
nullità 
(secondo il disposto dell’art. 157, comma 3, c.p.c.). 


L’atto ha comunque 
raggiunto lo scopo cui 
era destinato, e 
pertanto non 
poteva pronunciarsene 
la nullità, giusto l’art. 156, comma 3, c.p.c. 


Una 
diversa 
lettura 
delle 
norme 
processuali 
sarebbe 
evidentemente 
viziata 
da 
superficialità, 
nonché 
da 
una 
sottovalutazione 
del 
rilievo dato dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
agli 
aspetti 
sostanziali del processo. 


Del 
resto, come 
evidenziato anche 
nella 
sentenza 
di 
prime 
cure 
n. 1116/2019, la 
controversia 
era 
soggetta 
al 
precedente 
rito, onde 
l’eccezione 
di 
prescrizione 
sollevata 
dall’Amministrazione 
era 
proponibile 
ben oltre 
il 
termine 
per la 
costituzione 
in giudizio del 
convenuto. 


A 
ciò 
consegue 
che, 
pur 
non 
volendo 
reputare 
prodotti 
gli 
effetti 
della 
comparsa 
sin 
dal 
momento del 
suo deposito e 
ove 
non si 
consideri 
perfezionata 
una 
sanatoria 
ex 
tunc, nel 
caso 
di 
specie 
vi 
è 
stata, in ogni 
caso, una 
sanatoria 
ex 
nunc, essendo nel 
corso della 
prima 
udienza 
comparso un Avvocato dello Stato, il 
quale 
ha 
fatto proprio il 
contenuto della 
comparsa 
depositata, 
di fatto consentendo all’atto originario di raggiungere lo scopo. 


A 
ciò si 
aggiunga 
che 
né 
in sede 
di 
prima 
udienza, né 
nel 
corso delle 
udienze 
successive, 
è 
mai 
stata 
contestata 
la 
qualità 
o 
lo 
ius 
postulandi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
quale 
difensore 
del 
Ministero, evidenza 
che 
rende 
insussistente 
l’asserita 
incertezza 
relativa 
alla 
rappresentanza 
del soggetto e al contenuto delle difese. 


L’Avvocato dello Stato appartiene, secondo quanto disposto dal 
r.D. 1611/1933, a 
un organo 
impersonale, 
in 
cui 
gli 
Avvocati 
e 
i 
Procuratori 
dello 
Stato 
si 
sostituiscono 
tra 
loro, 
fanno 
proprie 
le 
difese 
dei 
colleghi, mutano nel 
corso del 
giudizio, senza 
che 
la 
necessità 
di 
alcuna 
delega, alcun mandato, alcuna nuova costituzione di difensore. 


A 
tal 
riguardo, 
ha 
quindi 
errato 
la 
Corte 
d’Appello 
nel 
ritenere 
che 
la 
adesione 
ai 
precedenti 
scritti 
non potesse 
essersi 
ritualmente 
configurata 
in quanto all’udienza 
presenziava 
un Avvocato 
dello 
Stato 
diverso 
dal 
firmatario 
della 
memoria, 
atteso 
che 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
un 
organo 
unitario, 
onde 
i 
singoli 
Avvocati 
dello 
Stato 
devono 
ritenersi 
fungibili 
in 
relazione 
al giudizio. 


La 
sentenza 
n. 
1116/2019 
del 
tribunale 
di 
Bari, 
motivata 
come 
segue, 
meritava 
quindi 
conferma. 


«Iscritto 
il 
procedimento 
al 
n. 
2463/2005 
rg 
trib. 
Bari, 
con 
comparsa 
di 
risposta, 
priva 
di 
sottoscrizione 
dall’avvocato 
dello 
Stato, 
depositata 
in 
cancelleria 
i1 
31 
maggio 
2005 
per 
l’udienza 
indicata 
in 
citazione 
del 
27 
giugno 
2005, 
si 
costituiva 
in 
giudizio 
il 
Ministero 
della 
Difesa, 
chiedendo 
il 
rigetto 
della 
domanda 
per 
la 
intervenuta 
prescrizione 
di 
ogni 
pretesa 
attorea 
nonché 
per 
l’infondatezza 
in 
diritto 
e 
in 
fatto 
della 
pretesa. 
Alla 
prima 
udienza 
di 
comparizione 
del 
28 
giugno 
2005, 
presenti 
i 
difensori 
delle 
parti 
ed 
in 
particolare 
l’avvocato 
dello 
Stato 
che 
si 
riporta(va) 
integralmente 
alla 
propria 
comparsa, 
il 
giudice, 
a 
mente 
dell’art. 
180 
c.p.c. 
nel 
testo 
vigente 
all’epoca 
della 
introduzione 
del 
giudizio 
(ossia 
prima 
delle 
modifiche 
di 
cui 
al 
d.l. 
14 
marzo 
2005 
n. 
35 
conv. 
in 
L. 
n. 
80 
del 
2005), 
rinviava 
alla 
successiva 
udienza 
del 
30 
maggio 
2006 
assegnando 
a 
parte 
convenuto 
termine 
fino 
a 
20 
giorni 
prima 
per 
proporre 
le 
eccezioni 
di 
rito 
e 
di 
merito 
non 
rilevabili 
d’ufficio 
.A 
quest’udienza 
venivano 
assegnati 
alle 
parti 
i 
termini 
ex 
art. 
184 
c.p.c. 
per 
produrre 
i 
docu



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


menti 
ed 
indicare 
dei 
mezzi 
di 
prova, 
la 
causa 
era 
istruita 
con 
prova 
per 
testi 
chiesta 
dal-
l’attore 
e 
con 
CtU 
medico-legale. 
Alla 
udienza 
di 
PC 
del 
13 
luglio 
2010 
il 
difensore 
del-
l’attore 
per 
la 
prima 
volta 
rilevava 
la 
mancanza 
della 
sottoscrizione 
dell’avvocato 
dello 
Stato 
della 
comparsa 
di 
costituzione 
del 
Ministero 
presente 
in 
atti. 
riservata 
la 
causa 
in 
decisione 
veniva 
emessa 
la 
sentenza 
n. 
1028/2011 
con 
la 
quale 
il 
tribunale 
di 
Bari 
dichiarava 
il 
proprio 
difetto 
di 
giurisdizione 
in 
favore 
del 
Giudice 
amministrativo. 
tale 
pronuncia 
veniva 
impugnata 
dal 
-omissis-con 
atto 
di 
appello 
notificato 
in 
data 
20 
marzo 
2012; 
il 
Ministero 
si 
costituiva 
in 
giudizio 
chiedendo 
il 
rigetto 
del 
gravame 
a 
In 
condanna 
alle 
Spese 
di 
parte 
appellante. 
La 
Corte 
d’Appello 
di 
Bari, 
con 
sentenza 
del 
5 
febbraio 
2014 
dep. 
13 
febbraio 
2014 
disponeva 
la 
rimessione 
al 
giudice 
di 
primo 
grado, 
ritenuta 
la 
giurisdizione 
dell’A.G.o. 
La 
causa 
veniva 
dunque 
riassunta 
dal 
-omissis-in 
data 
8 
maggio 
2014 
e 
il 
procedimento 
iscritto 
al 
n. 
71100/2014 
rg. 
Instaurato 
il 
contraddittorio, 
la 
causa 
veniva 
riservata 
per 
la 
decisione 
in 
data 
11 
luglio 
2017 
e 
rimessa 
sul 
ruolo 
con 
ordinanza 
del 
29 
luglio 
2018 
con 
cui 
il 
giudice 
prospettava 
a 
parte 
attrice 
l’abbandono 
della 
domanda 
alla 
luce 
della 
sollevata 
eccezione 
di 
prescrizione. 
rifiutata 
la 
Proposta 
del 
giudice 
dalla 
difesa 
dell’attore 


(v. 
ud. 
22 
marzo 
2018), 
a 
seguito 
di 
alcuni 
rinvii 
la 
causa 
veniva 
nuovamente 
riservata 
per 
la 
decisione 
il 
12 
dicembre 
2018. 
Al 
fine 
di 
delibare 
l’eccezione 
preliminare 
di 
prescrizione 
sollevata 
dal 
Ministero 
convenuto 
occorre 
affrontare 
la 
questione 
relativa 
alla 
validità 
della 
costituzione 
in 
giudizio 
dell’amministrazione 
dello 
Stato, 
atteso 
che 
l’atto 
di 
costituzione 
della 
difesa 
erariale 
depositato 
nel 
corso 
del 
primo 
giudizio 
nel 
quale 
l’eccezione 
era 
stata 
posta 
-giudizio 
poi 
qui 
riassunto 
per 
rimessione 
al 
primo 
giudice 
disposta 
dalla 
corte 
d’Appello 
a 
seguito 
della 
riforma 
della 
precedente 
sentenza 
declinatoria 
della 
giurisdizione 
-era 
privo 
della 
sottoscrizione 
del 
difensore. 
ebbene, 
ritiene 
questo 
giudice 
che, 
sebbene 
l’atto 
giudiziario 
non 
fosse 
stato 
sottoscritto 
dall’avvocato 
dello 
Stato, 
deve 
nondimeno 
rilevarsi 
che 
il 
presente 
giudizio 
era 
sottoposto 
al 
rito 
antecedente 
la 
novella 
di 
cui 
al 
d.l. 
35 
del 
2005 
e 
che 
quindi 
l’eccezione 
di 
prescrizione 
non 
andava 
proposta 
venti 
giorni 
prima 
della 
udienza 
indicata 
in 
citazione 
-come 
avviene 
oggi 
-ma 
venti 
giorni 
prima 
della 
seconda 
udienza 
che 
il 
giudice 
fissava 
all’esito 
della 
prima 
udienza. 
Posto 
quindi 
che 
alla 
prima 
udienza 
comparì 
la 
difesa 
erariale 
e 
che 
l’avvocato 
dell’attore 
accettò 
il 
contraddittorio 
senza 
nulla 
rilevare 
sulla 
mancata 
sottoscrizione 
dell’atto 
di 
costituzione, 
deve 
ritenersi 
che 
allorquando 
l’avvocato 
dello 
Stato 
si 
riportò 
innanzi 
al 
giudice 
alla 
propria 
memoria 
di 
costituzione, 
facendola 
così 
propria, 
produsse 
il 
medesimo 
effetto 
giuridico 
che 
deriva 
dalla 
sottoscrizione 
dell’atto. 
Da 
tale 
condotta 
segue 
che 
la 
costituzione 
in 
giudizio 
dell’avvocatura 
dello 
Stato 
deve 
ritenersi 
essere 
regolarmente 
avvenuta 
quantomeno 
alla 
prima 
udienza 
del 
28 
giugno 
2005 
e 
che 
quindi 
l’eccezione 
di 
prescrizione 
sia 
stata 
in 
tale 
frangente 
validamente 
proposta 
e 
ne 
deriva 
ulteriormente 
che 
essa 
sia 
stata 
anche 
tempestiva 
in 
quanto 
presentata 
nel 
termine 
concesso 
a 
tal 
fine 
dal 
giudice 
ex 
art. 
180 
c.p.c. 
(nel 
testo 
dell’epoca), 
rispetto 
alla 
successiva 
udienza 
del 
30 
marzo 
2006. 
verificato, 
quindi, 
che 
la 
costituzione 
della 
amministrazione 
è 
avvenuta 
in 
modo 
tempestivo 
quanto 
alla 
proposizione 
della 
eccezione 
di 
prescrizione, 
passiamo 
al 
suo 
esame 
». 
Il 
tribunale, con motivazione 
altrettanto corretta 
e 
scevra 
da 
vizi, accolse 
l’eccezione 
di 
prescrizione, così rigettando le avverse domande. 
(...) 
PtM 
Il 
Ministero della 
Difesa, in persona 
del 
Ministro in carica, come 
sopra 
rapp.to e 
difeso, 
conclude per l’accoglimento del ricorso con ogni consequenziale pronuncia. 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


Spese come per legge. 
(...) 
roma, 25 marzo 2022 


Daniela Canzoneri 
Avvocato dello Stato 


Cassazione civile, Sez. terza, ordinanza 27 marzo 2025 n. 8164 
-Pres. e. vincenti, Est. 


G. Cricenti - Min. Difesa (avv. gen. Stato) c. omissis. 
FAttI DI CAUSA 
1.-omissis, sul 
presupposto di 
avere 
contratto una 
malattia 
tubercolare 
nel 
corso del 
servizio 
militare 
(1965-1966), ha 
citato in giudizio, nel 
2005, il 
Ministero della 
Difesa, davanti 
al 
tribunale 
di Bari. 
Il 
Ministero si 
è 
costituito ed ha 
eccepito, innanzitutto, la 
prescrizione 
del 
diritto. tuttavia, la 
costituzione 
in giudizio è 
avvenuta 
con comparsa 
non sottoscritta 
dall’avvocato dello Stato 
che 
l’aveva 
redatta. Si 
è 
presentato tuttavia 
all’udienza 
un diverso Avvocato dello Stato, che 
si è riportato alla comparsa. 
Al 
momento della 
precisazione 
delle 
conclusioni, l’attore 
ha 
eccepito la 
nullità 
della 
costituzione 
in 
giudizio 
del 
Ministero, 
per 
via, 
per 
l’appunto, 
della 
mancata 
sottoscrizione 
della 
comparsa. 
In quella occasione, il 
tribunale di Bari ha dichiarato il difetto di giurisdizione. 
La 
decisione 
è 
stata 
impugnata, 
la 
Corte 
di 
Appello 
l’ha 
annullata 
rimettendo 
la 
causa 
al 
primo 
giudice, 
che 
dunque 
ha 
deciso 
la 
causa 
nel 
merito, 
accogliendo 
l’eccezione 
di 
prescrizione 
fatta dal Ministero. 
Questa 
sentenza 
è 
stata 
a 
sua 
volta 
oggetto di 
impugnazione, davanti 
la 
Corte 
di 
Appello di 
Bari, 
che 
però 
ha 
ritenuto 
che 
l’eccezione 
di 
prescrizione 
accolta 
dal 
tribunale 
presupponesse 
una 
valida 
costituzione 
in giudizio del 
Ministero, che 
quella 
eccezione 
aveva 
proposto, e 
che, 
essendo 
invece 
la 
costituzione 
in 
giudizio 
nulla 
e 
neanche 
sanata 
dalla 
comparsa 
dell’avvocato, 
l’eccezione in essa contenuta non poteva tenersi in conto. 
2.- Questa 
sentenza 
è 
oggetto di 
ricorso per Cassazione 
da 
parte 
del 
Ministero della 
Difesa, 
con un motivo di ricorso. 
L’intimato non si è costituito. 


rAGIoNI DeLLA DeCISIoNe 
1.-L’unico 
motivo 
di 
ricorso 
prospetta 
violazione 
degli 
articoli 
156, 
157, 
158, 
180 
e 
182 
c.p.c. 
La tesi è la seguente. 
La 
comparsa 
di 
costituzione 
priva 
di 
sottoscrizione 
è, si, nulla, ma 
altresì 
sanabile 
dalla 
comparazione 
del 
difensore 
che 
la 
fa 
propria. 
tendendo 
conto 
del 
fatto 
che 
l’Avvocatura 
dello 
Stato non ha 
bisogno di 
mandato, e 
che 
i 
suoi 
membri 
sono fungibili, in quanto è 
l’ufficio a 
rappresentare 
la 
pubblica 
amministrazione 
in giudizio, e 
non già 
il 
singolo procuratore, con 
la 
conseguenza 
che, 
sebbene 
l’atto 
sia 
stato 
redatto 
da 
un 
avvocato, 
può 
comparire 
in 
giudizio 
un diverso avvocato e ratificare l’operato di quello. 
Il motivo è fondato. 
La 
comparsa 
di 
costituzione 
in giudizio, non firmata, non è 
inesistente, ma 
nulla, e 
dunque 
è 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


sanabile, 
per 
raggiungimento 
dello 
scopo, 
così 
come 
lo 
è 
la 
citazione 
non 
sottoscritta 
(per 
tale 
ipotesi v. Cass. 8815/2020). 
È 
principio di 
diritto, infatti, che 
<< la comparsa di 
risposta non sottoscritta dal 
difensore, 
mancando la certezza della sua provenienza, è 
nulla, essendo l’atto privo di 
un requisito indispensabile 
per 
il 
raggiungimento 
dello 
scopo. 
Tuttavia, 
allorquando 
la 
parte 
convenuta 
non 
si 
sia limitata a depositare 
in cancelleria una comparsa priva della sottoscrizione 
del 
difensore, 
ma abbia partecipato attivamente 
al 
giudizio senza che 
siano sorte 
contestazioni 
in ordine 
all’individuazione 
del 
procuratore 
costituito, 
la 
nullità 
non 
può 
essere 
pronunciata, 
ostandovi 
la sanatoria generale 
che 
il 
comma terzo dell’art. 157 cod. proc. civ. fa derivare 
dal raggiungimento dello scopo dell’atto viziato 
>> (Cass. 11410/1998). 
Inoltre, può predicarsi 
sanatoria 
per raggiungimento dello scopo quando “possa desumersi 
la 
paternità certa dell’atto processuale 
da elementi 
qualificanti, tra i 
quali 
la notificazione 
del 
ricorso nativo digitale 
dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale 
dello Stato censita nel 
REGINDE 
e 
il 
successivo deposito della sua copia analogica con attestazione 
di 
conformità 
sottoscritta dall’avvocato dello Stato” (Cass. sez. un. 6477/2024). 
Non può addursi 
che 
il 
procuratore 
che 
è 
comparso all’udienza 
e 
che, riportandosi 
alla 
comparsa, 
l’avrebbe 
fatta 
propria, era 
persona 
fisica 
diversa 
dal 
procuratore 
di 
udienza 
che 
aveva 
redatto l’atto e 
che 
avrebbe 
dovuto sottoscriverlo: 
che 
poi 
è 
la 
tesi 
della 
decisione 
impugnata, 
la 
quale 
per l’appunto ha 
ritenuto che 
solo la 
comparizione 
del 
medesimo procuratore, ossia 
di 
colui 
che 
avrebbe 
dovuto 
sottoscrivere 
l’atto, 
avendolo 
redatto, 
avrebbe 
potuto 
avere 
effetto 
sanante, sul presupposto del raggiungimento dello scopo. 
Questa 
tesi 
non può essere 
sostenuta, nella 
fattispecie, in quanto l’Avvocatura 
dello Stato è 
un ufficio in cui 
i 
singoli 
avvocati 
o procuratori 
sono fungibili, non rappresentano singolarmente 
all’esterno 
l’ufficio, 
il 
quale, 
secondo 
le 
previsioni 
della 
legge 
istitutiva 
(r.d. 
n. 
1611/1933) è ufficio impersonale. 
Ciò significa che sebbene l’atto sia stato redatto da uno degli avvocati, che ha omesso di firmarlo, 
può essere ratificato da altro degli avvocati dello Stato, con efficacia sanante. 
In altri 
termini 
<<gli 
avvocati 
dello Stato esercitano le 
loro funzioni 
innanzi 
a tutte 
le 
giurisdizioni 
ed in qualunque 
sede, senza bisogno di 
mandato, neppur 
quando, come 
nel 
caso del 
ricorso 
per 
cassazione, 
è 
richiesto 
il 
mandato 
speciale 
e 
che, 
avendo 
la 
difesa 
dell’Avvocatura 
dello Stato carattere 
impersonale, ed essendo quindi 
gli 
avvocati 
dello Stato pienamente 
fungibili 
nel 
compimento di 
atti 
processuali 
relativi 
ad un medesimo giudizio, l’atto introduttivo 
di 
questo 
è 
valido 
anche 
se 
la 
sottoscrizione 
è 
apposta 
da 
avvocato 
diverso 
da 
quello 
che 
materialmente 
ha 
redatto 
l’atto, 
unica 
condizione 
richiesta 
essendo 
la 
spendita 
della 
qualità 
professionale abilitante alla difesa>> (Cass. 13627/2018). 
Ne 
deriva 
che, da 
un lato, l’atto non sottoscritto può essere 
sanato e 
che, per altro verso, la 
sanatoria 
può 
validamente 
provenire 
dallo 
stesso 
ufficio 
che 
ha 
redatto 
l’atto, 
non 
essendo 
necessario che provenga dal medesimo Avvocato dello Stato che l’ha redatto. 
Il ricorso va dunque accolto e la decisione cassata con rinvio. 


P.Q.M. 
La Corte accoglie il ricorso. 
Cassa 
la 
decisione 
impugnata 
e 
rinvia 
alla 
Corte 
di 
Appello di 
Bari, in diversa 
composizione, 
anche per le spese del giudizio di legittimità. 
Dispone 
che, 
in 
caso 
di 
utilizzazione 
del 
presente 
provvedimento 
in 
qualsiasi 
forma, 
sia 
omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di 
omissis, ivi riportati. 
Così deciso in roma, il 24 febbraio 2025. 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


incandidabilità sopravvenuta (i.e. mandati elettivi 
assunti nelle more della definizione del procedimento) 
degli amministratori dichiarati responsabili 
ex artt. 143, comma 11 e 248, comma 5 tUeL 


Sulla 
questione 
della 
decadenza 
dalla 
carica 
in caso di 
rielezione 
in pendenza 
del 
giudizio di 
incandidabilità 
per infiltrazioni 
mafiose 
dell’ente 
locale 
sciolto ex art. 143, comma 
11 tUeL 
o del 
giudizio di 
incandidabilità 
innanzi 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
per dissesto finanziario ex art. 248, comma 
5 tUeL 
allorché 
sopravvenga 
l’incandidabilità 
definitiva 
quando 
sia 
già 
in 
corso 
il 
turno 
elettorale 
successivo all’adozione 
del 
provvedimento di 
rigore, si 
pubblica 
il 
parere reso dalla 
Avvocatura Generale dello Stato 
(*) 


«1. Con nota 
del 
18 luglio 2024, n. 22811, codesta 
amministrazione 
ha 
chiesto di 
valutare 
la 
percorribilità 
del 
ricorso per revocazione 
dell’ordinanza 
della 
Corte 
di 
cassazione 
n. 9927/2024 nella 
parte 
in cui 
ha 
dichiarato inammissibile 
il 
secondo motivo di 
ricorso riguardante 
l’ambito applicativo della 
misura 
interdittiva 
dell’incandidabilità 
ex art. 143, comma 
11 tUeL 
e 
gli 
effetti 
derivanti 
dall’accertamento 
giurisdizionale 
definitivo 
sui 
mandati 
elettivi 
assunti nelle more della definizione del relativo procedimento. 
Al 
di 
là 
del 
caso concreto, codesta 
amministrazione 
ha 
chiesto inoltre 
a 
questa 
Avvocatura 
di 
esprimere 
in linea 
generale 
il 
proprio avviso in merito 
alla 
questione 
dell’incandidabilità 
sopravvenuta 
ai 
sensi 
del 
combinato 
disposto 
degli 
artt. 
10, 
comma 
4, 
11, 
comma 
7 
e 
16, 
comma 
2 
del 
decreto 
legislativo 


n. 235 del 
2021 (t.U. delle 
disposizioni 
in materia 
di 
incandidabilità 
e 
di 
divieto 
di 
ricoprire 
cariche 
elettive 
e 
di 
Governo conseguenti 
a 
sentenze 
definitive 
di 
condanna 
per delitti 
non colposi, a 
norma 
dell’art. 1, comma 
63, della 
legge 
delega 
6 novembre 
2012, n. 190, c.d. Legge 
Severino) sia 
in relazione 
all’incandidabilità 
conseguente 
allo scioglimento degli 
enti 
locali 
per infiltrazioni 
mafiose 
(art. 
143, 
comma 
11 
tUeL) 
sia 
in 
merito 
all’incandidabilità 
derivante 
dall’accertata 
responsabilità 
per 
aver 
contribuito 
al 
dissesto 
finanziario 
dell’ente 
locale 
(art. 248, comma 
5 tUeL), norme 
entrambe 
richiamate 
dal-
l’art. 16, comma 2 del d.lgs n. 235 del 2012. 
2. Con nota 
del 
20 novembre 
2024, n. 721359, questa 
Avvocatura 
ha 
comunicato 
di 
aver 
proposto 
ricorso 
per 
revocazione 
ex 
art. 
391 
bis 
e 
395, 
comma 
1, 
n. 
4 
c.p.c. 
avverso 
l’ordinanza 
della 
Corte 
di 
cassazione 
n. 
9927/2024 nella 
parte 
in cui 
ha 
dichiarato inammissibile 
il 
secondo motivo di 
ricorso, omettendo di 
pronunciarsi 
sulla 
questione 
degli 
effetti 
dell’incandidabilità 
definitiva sopravvenuta. 
(*) Parere del 03/04/2025-237587, AL 3759/2021, Sez. Iv, Avv. Wally Ferrante. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


3. 
Con successiva 
nota 
del 
30 gennaio 2025, n. 3298, codesta 
amministrazione 
ha 
ulteriormente 
esplicitato la 
rilevanza 
del 
richiesto parere, considerato 
l’elevato 
numero 
di 
casi 
sul 
territorio 
nazionale, 
segnalati 
dalle 
competenti 
Prefetture, 
riguardanti 
amministratori, 
attualmente 
in 
carica, 
colpiti 
da 
declaratoria 
definitiva 
di 
incandidabilità 
ex art. 143, comma 
11 tUeL 
del 
giudice 
ordinario 
nonché 
da 
sentenza 
di 
condanna 
della 
Conte 
dei 
Conti 
ex 
art. 248, comma 5 tUeL. 
L’avviso chiesto a 
questa 
Avvocatura 
concerne 
sostanzialmente 
l’operatività 
delle 
cause 
di 
incandidabilità 
derivanti 
dall’accertamento 
giudiziale 
della 
responsabilità 
degli 
amministratori 
ai 
sensi 
dell’art. 
143, 
comma 
11 
tUeL 
(responsabilità 
per lo scioglimento degli 
enti 
locali 
per infiltrazioni 
mafiose) e 
ai 
sensi 
dell’art. 248, comma 
5 tUeL 
(responsabilità 
per dissesto finanziario) 
quando tale 
accertamento sopraggiunga 
nel 
corso di 
un mandato elettivo assunto 
dagli 
stessi 
amministratori 
nelle 
more 
della 
definizione 
dei 
giudizi, rispettivamente, 
innanzi al giudice civile e al giudice contabile. 


4. 
Innanzitutto, va 
premesso che 
l’art. 143, comma 
11, tUeL, come 
modificato 
dall’art. 28, comma 
1-bis, decreto-legge 
4 ottobre 
2018, n. 113, convertito 
con modificazioni 
dalla 
legge 
1° 
dicembre 
2018, n. 132 così 
dispone: 
“Fatta salva ogni 
altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente 
prevista, 
gli 
amministratori 
responsabili 
delle 
condotte 
che 
hanno 
dato 
causa 
allo 
scioglimento 
di 
cui 
al 
presente 
articolo 
non 
possono 
essere 
candidati 
alle 
elezioni 
per 
la Camera dei 
deputati, per 
il 
Senato della Repubblica e 
per 
il 
Parlamento 
europeo 
nonché 
alle 
elezioni 
regionali, 
provinciali, 
comunali 
e 
circoscrizionali, 
in 
relazione 
ai 
due 
turni 
elettorali 
successivi 
allo 
scioglimento 
stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo”. 
La 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
avuto 
modo 
di 
pronunciarsi 
sulle 
questioni 
concernenti 
la 
sfera 
di 
operatività 
e 
la 
decorrenza 
degli 
effetti 
della 
declaratoria 
di 
incandidabilità 
di 
cui 
all’art. 
143, 
comma 
11, 
del 
decreto 
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, (cfr. Corte 
di 
Cassazione, Sezione 
Prima 
Civile, sentenza 22 settembre 2015, n. 18696). 


In 
detta 
pronuncia, 
erroneamente 
invocata 
quale 
precedente 
a 
sostegno 
della 
tesi 
contraria 
sia 
dalla 
Corte 
d’appello 
di 
Napoli 
nel 
decreto 
del 
9 
dicembre 
2020, 
sia 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
nella 
citata 
ordinanza 
n. 
9927/2024 
oggetto 
di 
revocazione, 
estrapolando 
statuizioni 
non 
correttamente 
inquadrate 
nel 
contesto fattuale, la 
Corte, ha 
affermato quanto segue: 
“L’interpretazione 
sostenuta dalle 
parti 
private, non 
è 
condivisibile, perché 
conduce 
a una sostanziale 
e 
implicita abrogazione 
della norma, che 
sarebbe 
tanto più 
irragionevole 
in 
quanto 
renderebbe 
l’incandidabilità 
inoperativa 
proprio 
quando il 
provvedimento giurisdizionale 
assuma il 
carattere 
della definitività. 


È 
invece 
ragionevole 
interpretare 
la norma nel 
senso che 
l’incandidabi



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


lità operi 
quando, come 
previsto dalla norma, ‘sia dichiarata con provvedimento 
definitivo’, valendo evidentemente 
per 
tutti 
i 
turni 
elettorali 
successivi 
che 
si 
svolgeranno nella regione 
nel 
cui 
territorio si 
trova l’ente 
interessato 
dallo 
scioglimento, 
sebbene 
nella 
stessa 
regione 
si 
siano 
svolti 
uno 
o 
più 
turni 
elettorali 
(di 
identica 
o 
differente 
tipologia) 
successivamente 
allo 
scioglimento 
dell’ente 
ma prima che 
il 
provvedimento giurisdizionale 
dichiarativo dell’incandidabilità 
abbia assunto il 
carattere 
della definitività” 
(Cass. civ., sez. I, 
n. 18696 del 2015 cit.). 


Al 
riguardo, va 
precisato che, contrariamente 
a 
quanto accaduto nell’isolata 
ordinanza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 
9927/2024 
oggetto 
di 
revocazione, 
in cui 
gli 
amministratori 
dichiarati 
incandidabili 
sono stati 
nelle 
more 
rieletti 
e 
hanno sostenuto che 
detta 
misura 
di 
rigore 
si 
debba 
applicare 
solo ai 
turni 
elettorali 
successivi 
alla 
definitività 
del 
provvedimento che 
la 
commina, nel 
caso deciso dall’invocata 
sentenza 
della 
Suprema 
Corte 
n. 18696 del 
2015, la 
Corte 
d’appello 
aveva 
dichiarato 
l’improcedibilità 
(sopravvenuta) 
della 
domanda 
del 
Ministero dell’Interno atteso che, nelle 
more 
del 
giudizio, si 
erano 
già 
svolti 
due 
turni 
elettorali 
e 
pertanto 1’incandidabilità 
non avrebbe 
potuto 
essere 
pronunciata 
per ulteriori 
turni 
elettorali 
successivi 
alla 
definitività 
del 
provvedimento giurisdizionale. 


orbene, la 
Corte 
di 
Cassazione, nel 
riformare 
tale 
pronuncia, ha 
significativamente 
precisato che, il 
problema 
si 
pone 
quando, com’è 
avvenuto nel 
caso di 
specie, vi 
sia 
una 
distanza 
temporale 
-che 
in una 
ridotta 
misura 
è 
fisiologica, 
nonostante 
l’urgenza 
con 
la 
quale 
è 
previsto 
che 
siano 
trattate 
le 
controversie 
in materia 
elettorale 
(dal 
D.Lgs. n. 150 del 
2011, art. 22, comma 


16) -tra 
la 
data 
di 
scioglimento dell’ente 
e 
l’adozione 
del 
provvedimento definitivo 
di 
incandidabilità. In tal 
caso, è 
ben possibile 
che 
dopo la 
prima 
data 
e 
prima 
del 
provvedimento definitivo di 
incandidabilità 
si 
tengano turni 
elettorali 
nell’ambito 
della 
regione, 
ai 
quali 
potrebbero 
partecipare 
i 
medesimi 
candidati 
colpiti 
dalla 
misura 
interdittiva 
divenuta 
definitiva 
solo successivamente. 
Anche 
gli 
altri 
precedenti 
citati 
dalla 
Suprema 
Corte 
nella 
più 
volte 
citata 
ordinanza 
n. 
9927/2024 
oggetto 
di 
revocazione 
sono 
tutti 
conformi 
a 
tale 
principio: 
la 
sentenza 
n. 9883/16 ha 
respinto il 
ricorso per cassazione 
delle 
parti 
private 
e 
accolto il 
ricorso incidentale 
del 
Ministero dell’Interno affermando 
che 
“deve 
ritenersi 
che 
“l’incandidabilità operi 
quando, come 
previsto dalla 
norma, 
“sia 
dichiarata 
con 
provvedimento 
definitivo”, 
valendo 
evidentemente 
per 
tutti 
i 
turni 
elettorali 
successivi 
che 
si 
svolgeranno nella regione 
nel 
cui 
territorio si 
trova l’ente 
interessato dallo scioglimento, sebbene 
nella stessa 
regione 
si 
siano svolti 
uno o più turni 
elettorali 
(di 
identica o differente 
tipologia) 
successivamente 
allo scioglimento dell’ente 
ma prima che 
il 
provvedimento 
giurisdizionale 
dichiarativo 
dell’incandidabilità 
abbia 
assunto 
il 
carattere 
della 
definitività”. 
Correttamente, 
dunque, 
i 
giudici 
d’appello 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


hanno 
escluso l’improcedibilità dichiarata in 
primo grado” 
mentre 
la 
sentenza 
n. 23069/16 ha 
accolto il 
ricorso per cassazione 
del 
Ministero dell’Interno, 
chiarendo 
“come 
l’incandidabilità 
temporanea 
e 
territorialmente 
delimitata 
rappresenti 
una 
misura 
interdittiva, 
volta 
a 
rimediare 
al 
rischio 
che 
quanti 
abbiano cagionato il 
grave 
dissesto possano aspirare 
a ricoprire 
cariche 
identiche 
o 
simili 
a 
quelle 
rivestite 
e, 
in 
tal 
modo, 
potenzialmente 
perpetuare 
l’ingerenza 
inquinante 
nella 
vita 
delle 
amministrazioni 
democratiche 
locali 
”. 


Anche 
la 
sentenza 
della 
Suprema 
Corte 
n. 18627/2017, nel 
rigettare 
il 
ricorso 
degli 
ex amministratori 
locali, che 
invocavano la 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
per effetto dell’avvenuto svolgimento delle 
elezioni 
nelle 
more 
del 
giudizio, 
ha 
ribadito 
che 
“l’interpretazione 
sostenuta 
nel 
ricorso 
non 
è 
condivisibile, 
perché 
conduce 
a 
una 
sostanziale 
e 
implicita 
abrogazione 
della 
norma, che 
sarebbe 
tanto più irragionevole 
in quanto renderebbe 
l’incandidabilità 
inoperativa proprio quando il 
provvedimento giurisdizionale 
assuma 
il carattere della definitività”. 


Di 
analogo tenore 
è 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 15725/2019 


-che 
rigetta 
il 
ricorso dell’ex sindaco -secondo la 
quale 
la 
necessaria 
definitività 
del 
provvedimento 
giurisdizionale 
che 
dichiara 
l’incandidabilità 
comporta 
che 
non 
possono 
considerarsi, 
ai 
fini 
dell’applicabilità 
della 
norma, 
i 
turni 
elettorali 
già 
svoltisi 
prima 
di 
tale 
definitività 
ma 
quelli 
ad essa 
successivi. 
5. Da 
tali 
principi, quale 
logica 
conseguenza, deriva 
che, sulla 
scorta 
del 
combinato disposto degli 
artt. 10, comma 
4, 11, comma 
7 e 
16, comma 
2 del 
decreto 
legislativo 
n. 
235 
del 
2012, 
la 
declaratoria 
di 
incandidabilità, 
una 
volta 
accertata 
con sentenza 
passata 
in giudicato, comporta 
la 
decadenza 
di 
diritto 
dalla 
carica 
dell’amministratore 
che, 
nelle 
more 
del 
procedimento, 
sia 
stato 
nuovamente eletto, ferma restando la validità delle stesse elezioni. 
Ai 
sensi 
dell’art. 10, comma 
4 del 
d.lgs. n. 235 del 
2012 “4. Le 
sentenze 
definitive 
di 
condanna ed i 
provvedimenti 
di 
cui 
al 
comma 1, emesse 
nei 
confronti 
di 
presidenti 
di 
provincia, sindaci, presidenti 
di 
circoscrizione 
o consiglieri 
provinciali, 
comunali 
o 
circoscrizionali 
in 
carica, 
sono 
immediatamente 
comunicate, 
dal 
pubblico 
ministero 
presso 
il 
giudice 
indicato 
nell’articolo 
665 
del 
codice 
di 
procedura penale, all’organo consiliare 
di 
rispettiva appartenenza, 
ai 
fini 
della 
dichiarazione 
di 
decadenza, 
ed 
al 
prefetto 
territorialmente 
competente 
”. 


A 
norma 
del 
successivo art. 11, comma 
7, “7. Chi 
ricopre 
una delle 
cariche 
indicate 
all’articolo 10, comma 1, decade 
da essa di 
diritto dalla data del 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 
di 
condanna 
o 
dalla 
data 
in 
cui 
diviene 
definitivo il provvedimento che applica la misura di prevenzione 
”. 


Infine, a 
norma 
dell’art. 16, comma 
2 del 
medesimo decreto legislativo, 
“2. Le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
testo unico, limitatamente 
a quelle 
pre



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


viste 
per 
l’accertamento dell’incandidabilità in fase 
di 
ammissione 
delle 
candidature, 
per 
la mancata proclamazione, per 
i 
ricorsi 
e 
per 
il 
procedimento 
di 
dichiarazione 
in caso di 
incandidabilità sopravvenuta, si 
applicano anche 
alle 
incandidabilità non 
derivanti 
da sentenza penale 
di 
condanna, disciplinate 
dagli 
articoli 
143, comma 11, e 
248, comma 5, del 
decreto legislativo 
18 agosto 2000, n. 267 
”. 


Il 
naturale 
corollario 
della 
decadenza 
dalla 
carica 
ricoperta 
nelle 
more 
del 
giudizio 
di 
incandidabilità, 
a 
decorrere 
dalla 
definitività 
del 
provvedimento 
giurisdizionale 
-pena 
un’interpretatio abrogans 
della 
normativa 
posta 
a 
presidio 
del 
buon andamento e 
del 
corretto funzionamento degli 
enti 
locali, a 
beneficio 
dell’intera 
collettività 
-ha 
trovato 
riscontro 
nella 
giurisprudenza 
di 
merito 
(cfr. 
tribunale 
di 
Napoli 
Nord, 
Sezione 
I 
Civile, 
ordinanza 
22 
settembre 
2016 -n. r.G. 708712016) secondo la 
quale 
non può sostenersi 
che 
l’applicazione 
della 
causa 
di 
incandidabilità 
ai 
mandati 
in corso sarebbe, di 
fatto, incostituzionale 
e 
mirerebbe 
ad 
annullare 
la 
volontà 
popolare 
nel 
frattempo 
esplicatasi, 
oltre 
che 
il 
diritto 
di 
elettorato 
passivo 
ex 
art. 
51 
Cost. 
del 
candidato 
eventualmente 
eletto. 
Come 
giustamente 
osservato 
(ex 
multis, 
tribunale 
di 
Napoli 
Nord, 
ord. 
del 
22 
giugno 
2016), 
qualora 
si 
posticipasse 
in 
avanti 
l’operatività 
dell’accertata 
incandidabilità 
alle 
operazioni 
elettorali 
successive 
a 
quelle 
svoltesi 
e 
per le 
quali 
il 
candidato è 
risultato eletto, si 
determinerebbe 
l’incongrua 
conseguenza 
dell’amministratore 
pubblico 
che, 
pur 
destinatario 
dell’incandidabilità 
in 
via 
definitiva, 
e, 
per 
l’effetto, 
ritenuto 
responsabile 
delle 
gravi 
condotte 
poste 
a 
fondamento, resterebbe 
ugualmente 
in carica, ciò contrastando 
proprio 
con 
altre 
norme 
costituzionali 
di 
riferimento 
(ad 
esempio 
l’art. 54, comma 
2 Costituzione, laddove 
evidenzia 
i 
requisiti 
soggettivi 
che 
debbono possedere 
gli 
amministratori 
pubblici 
e 
l’art. 97 Cost., laddove, invece, 
è 
necessario che 
i 
pubblici 
uffici 
siano organizzati 
al 
fine 
di 
garantire 
il 
“buon 
andamento” 
della 
pubblica 
amministrazione) 
(tribunale 
ordinario 
di 
Nocera Inferiore, ordinanza 9 ottobre 2019 - r.G. n. 4472/2019). 


Con particolare 
riferimento alla 
posizione 
di 
vertice 
del 
primo cittadino, 
si 
evidenzia 
inoltre 
che, 
nell’ottica 
del 
bilanciamento 
degli 
interessi 
aventi 
pari 
dignità 
costituzionale 
come 
l’art. 51, ovvero il 
diritto di 
elettorato passivo e 
l’art. 
97, 
ossia 
il 
buon 
andamento 
l’imparzialità 
della 
pubblica 
amministrazione, 
unitamente 
all’art. 54, comma 
2 (disciplina 
e 
onore 
dei 
titolari 
di 
funzioni 
pubbliche), 
«non 
è 
certamente 
tollerabile, 
nel 
nostro 
ordinamento 
giuridico, che 
un Sindaco, pur 
eletto tramite 
il 
consenso popolare, permanga 
in 
carica, 
seppur 
colpito, 
in 
via 
definitiva, 
da 
una 
causa 
di 
incandidabilità 
che 
ne 
ha accertato la responsabilità personale, ai 
fini 
che 
l’art. 143, comma 
11 TUEL si prefigge». 


Del 
resto, non sembra 
dubitabile 
che 
le 
predette 
considerazioni 
valgano 
anche 
con 
riguardo 
alla 
causa 
di 
incandidabilità 
accertata 
ai 
sensi 
dell’art. 
143, 
comma 
11, t.U.e.L., atteso che 
quest’ultima 
“in nulla diverge, se 
non per 
i 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


fatti 
che 
ne 
hanno 
portato 
alla 
dichiarazione, 
da 
quelle 
espressamente 
previste 
dagli 
artt. 
10 
e 
11 
della 
Legge 
Severino: 
in 
entrambi 
i 
casi, 
come 
correttamente 
osservato 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
con 
sent. 
n. 
236/2015 
con 
particolare 
riferimento 
a 
quelle 
“penali”, 
il 
suo 
accertamento 
definitivo 
ex 
post, 
comporta 
il 
venir 
meno, ex ante, di 
un 
requisito essenziale 
per 
la permanenza nella 
carica 
e 
questo 
... 
a 
prescindere 
da 
un’eventuale 
proclamazione, 
medio 
tempore 
intervenuta...”. 


6. 
Quanto 
all’estensione 
di 
tali 
principi 
all’incandidabilità 
ex 
art. 
248, 
comma 
5 tUeL, si 
ricorda 
che 
in base 
a 
tale 
disposizione 
“... gli 
amministratori 
che 
la 
Corte 
dei 
conti 
ha 
riconosciuto, 
anche 
in 
primo 
grado, 
responsabili 
di 
aver 
contribuito con condotte, dolose 
o gravemente 
colpose, sia omissive 
che 
commissive, 
al 
verificarsi 
del 
dissesto 
finanziario, 
non 
possono 
ricoprire, 
per 
un 
periodo 
di 
dieci 
anni, 
incarichi 
di 
assessore, 
di 
revisore 
dei 
conti 
di 
enti 
locali 
e 
di 
rappresentante 
di 
enti 
locali 
presso altri 
enti, istituzioni 
ed organismi 
pubblici 
e 
privati. 
I 
sindaci 
e 
i 
presidenti 
di 
provincia 
ritenuti 
responsabili 
ai 
sensi 
del 
periodo precedente, inoltre, non 
sono candidabili, per 
un 
periodo di 
dieci 
anni, alle 
cariche 
di 
sindaco, di 
presidente 
di 
provincia, di 
presidente 
di 
Giunta regionale, nonché 
di 
membro dei 
consigli 
comunali, dei 
consigli 
provinciali, delle 
assemblee 
e 
dei 
consigli 
regionali, del 
Parlamento 
e 
del 
Parlamento 
europeo. 
Non 
possono 
altresì 
ricoprire 
per 
un 
periodo 
di 
tempo di 
dieci 
anni 
la carica di 
assessore 
comunale, provinciale 
o regionale 
né 
alcuna 
carica 
in 
enti 
vigilati 
o 
partecipati 
da 
enti 
pubblici. 
Ai 
medesimi 
soggetti, 
ove 
riconosciuti 
responsabili, 
le 
sezioni 
giurisdizionali 
regionali 
della 
Corte 
dei 
conti 
irrogano 
una 
sanzione 
pecuniaria 
pari 
ad 
un 
minimo 
di 
cinque 
e 
fino 
ad 
un 
massimo 
di 
venti 
volte 
la 
retribuzione 
mensile 
lorda 
dovuta 
al 
momento di commissione della violazione...”. 
Ferma 
restando 
l’applicazione 
della 
decadenza 
dal 
mandato, 
alla 
luce 
del-
l’espresso richiamo anche 
a 
detta 
disposizione 
da 
parte 
dell’art. 16, comma 
2 
del 
d.lgs. n. 235 del 
2012, codesta 
amministrazione 
chiede 
se, alla 
luce 
della 
formulazione 
della 
norma, si 
debba 
provvedere 
alla 
sospensione 
dell’amministratore 
che, nelle 
more 
del 
giudizio, sia 
stato rieletto sin dalla 
pronuncia 
di 
primo grado del giudice contabile. 


La 
previsione 
del 
riconoscimento della 
responsabilità 
per il 
dissesto finanziario, 
a 
titolo di 
dolo o colpa 
grave, “anche 
in primo grado” 
condurrebbe 
a 
ritenere 
legittima 
la 
sospensione 
dalla 
carica 
sino alla 
definitività 
del 
provvedìmento. 


tuttavia, come 
correttamente 
osservato da 
codesta 
amministrazione, pur 
essendo 
le 
sentenze 
della 
Corte 
dei 
Conti 
esecutive 
ai 
sensi 
dell’art. 
134, 
comma 
4 del 
codice 
giustizia 
contabile, ai 
sensi 
dell’art. 190, comma 
4 dello 
stesso 
codice 
la 
proposizione 
dell’appello 
sospende 
l’esecuzione 
della 
sentenza 
impugnata. 


Non si 
ritiene 
pertanto che 
i 
provvedimenti 
non definitivi 
della 
Corte 
dei 



CoNteNzIoSo 
NAzIoNALe 


Conti 
ex art. 248, comma 
5 tUeL 
debbano essere 
portati 
ad esecuzione 
adottando 
una 
sospensione 
dalla 
carica 
fino 
all’esito 
del 
giudizio, 
anche 
tenuto 
conto 
delle 
disfunzioni 
che 
un 
provvedimento 
interinale 
e 
temporaneo 
potrebbe 
comportare nella gestione politico-amministrativa dell’ente locale. 


Del 
resto, l’identità 
di 
ratio 
di 
tale 
norma 
e 
di 
quella 
di 
cui 
all’art. 143, 
comma 
11 tUeL, che 
invece 
richiede 
espressamente 
la 
definitività 
del 
provvedimento, 
depone 
per una 
applicazione 
uniforme 
delle 
relative 
misure 
di 
rigore, 
suggerendo 
prudenzialmente, 
in 
entrambi 
i 
casi, 
di 
attendere 
il 
passaggio 
in giudicato del provvedimento giurisdizionale. 


7. Quanto allo strumento attivabile 
dall’autorità 
amministrativa 
in caso 
di 
inerzia 
o di 
rifiuto dell’organo consiliare 
nel 
dichiarare 
la 
decadenza 
del-
l’amministratore 
in 
carica 
per 
effetto 
dell’incandidabilità 
definitiva 
sopravvenuta 
-da 
intendersi 
non 
nel 
senso 
che 
sono 
sopravvenute 
le 
ragioni 
che 
la 
determinano, non applicandosi 
infatti 
a 
comportamenti 
posti 
in essere 
dopo le 
elezioni, 
ma 
solo 
nel 
senso 
che 
è 
sopravvenuto 
l’accertamento 
definitivo 
di 
comportamenti 
posti 
in essere 
prima 
delle 
elezioni 
-è 
stata 
esperita, in relazione 
al 
Comune 
di 
Platì, l’azione 
popolare 
di 
cui 
all’art. 70 tUeL. tale 
disposizione 
prevede 
che 
“1. La decadenza dalla carica di 
sindaco, presidente 
della provincia, consigliere 
comunale, provinciale 
o circoscrizionale 
può essere 
promossa in prima istanza da qualsiasi 
cittadino elettore 
del 
comune, o 
da 
chiunque 
altro 
vi 
abbia 
interesse 
davanti 
al 
tribunale 
civile. 
2. 
L’azione 
può 
essere 
promossa 
anche 
dal 
prefetto. 
3. 
Alle 
controversie 
previste 
dal 
presente 
articolo 
si 
applica 
l’articolo 
22 
del 
decreto 
legislativo 
1° 
settembre 
2011, 
n. 150 
”. 
tale 
rimedio, che 
prevede 
esplicitamente 
la 
legittimazione 
del 
prefetto, 
sconta 
l’incomprimibile 
dilatazione 
dei 
tempi 
per 
l’esecuzione 
della 
misura 
di 
rigore, 
rischiando 
di 
trasformarsi 
in 
un 
duplicato 
dell’azione 
ex 
art. 
143, 
comma 
11 tULPS, nell’ambito del 
quale 
vi 
è 
il 
rischio che 
venga 
rimesso in 
discussione quanto già accertato, a scopo meramente strumentale. 


Parrebbe 
più consono ai 
principi 
di 
economia 
processuale 
e 
di 
efficacia 
dell’azione 
amministrativa 
-anche 
al 
fine 
di 
non frustrare 
la 
ratio 
della 
normativa, 
che 
è 
quella 
di 
impedire 
che 
amministratori 
che 
si 
siano resi 
responsabili 
dello 
scioglimento 
o 
del 
dissesto 
finanziario 
dell’ente 
locale 
proseguano 
ad 
esercitare 
le 
loro 
funzioni 
-ritenere 
che 
la 
decadenza 
operi 
automaticamente 
ope 
legis, nelle 
forme 
di 
una 
doverosa 
presa 
d’atto da 
parte 
dell’organo consiliare 
anche su impulso del prefetto. 


In tema 
di 
responsabilità 
da 
dissesto finanziario, tale 
effetto automatico 
della 
decadenza, 
discendente 
direttamente 
dalla 
legge, 
è 
stato 
avallato 
dalle 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
con 
la 
sentenza 
n. 
13205/2024, 
in 
base 
alla 
quale 
“le 
sanzioni 
interdittive 
a carico degli 
ex 
amministratori 
comunali, 
conseguono di 
diritto all’accertamento della condotta contributiva al 
dissesto, 
nell’ambito 
del 
medesimo 
rito, 
speciale, 
sanzionatorio, 
come 
ritenuto 
dalle 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


Sezioni 
riunite 
della 
Corte 
dei 
conti 
(pronuncia 
n. 
4/2022). 
Dunque, 
il 
positivo 
accertamento della responsabilità da contribuzione 
al 
dissesto si 
pone 
come 
condizione necessaria e presupposto per l’applicazione delle sanzioni c.d. di 
status. 
Come 
si 
evince 
dal 
testo 
normativo, 
si 
tratta 
di 
conseguenze 
applicabili 
ex lege 
ai 
responsabili 
delle 
gravi 
inadempienze, individuate 
e 
descritte 
dal 
legislatore. 
All’accertamento, 
in 
sede 
giurisdizionale 
contabile, 
delle 
condotte 
poste 
in essere 
in difformità dei 
parametri 
sopra indicati, segue 
automaticamente 
e ipso iure l’interdizione dalle cariche”. 


tale 
principio 
sembra 
potersi 
applicare 
anche 
alla 
decadenza 
conseguente 
all’incandidabilità 
per 
aver 
concorso 
a 
provocare 
lo 
scioglimento 
dell’ente 
locale 
ex art. 143, comma 
11 tUeL, considerato il 
rinvio ad entrambe 
le 
norme 
(art. 143, comma 
11 e 
art. 248, comma 
5 tUeL) operato dall’art. 16, comma 
2 d.lgs. n. 235 del 
2012 ai 
fini 
dell’estensione 
della 
disciplina 
in tema 
di 
decadenza 
di 
diritto dalla 
carica 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
10, comma 
4 e 
11, comma 
7 del medesimo decreto legislativo. 


L’Avvocato dello Stato 
il 
Vice 
Avvocato Generale 


Wally Ferrante ettore Figliolia 
» 



ContenzioSotributariooSServatorio
Sulla parziale illegittimità costituzionale del divieto di “nova” 
in appello nel processo tributario ex art. 58 D.Lgs. 546/1992 


Nota 
a 
Corte 
CostituzioNale, seNteNza 
27 marzo 
2025 N. 36 


Erica Farinelli* 


sommario: 1. l’oggetto della sentenza in commento: il 
novellato art. 58, comma terzo, 
del 
D.lgs. 
546/1992 
-2. 
la 
fondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionali 
concernenti 
il 
divieto del 
deposito delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della legittimità della sottoscrizione 
degli 
atti 
-3. l’infondatezza delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionali 
concernenti 
il 
divieto 
di 
produzione 
in 
appello 
delle 
notifiche 
dell’atto 
impugnato 
-4. 
la 
fondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
concernenti 
la disciplina transitoria. 


1. l’oggetto della sentenza in commento: il 
novellato art. 58, comma terzo, 
del D.lgs. 546/1992. 
Con la 
sentenza 
in esame, la 
Corte 
costituzionale 
è 
stata 
chiamata 
a 
pronunciarsi 
sulle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
del 
novellato 
art. 
58, 
comma 
terzo, del 
D.lgs. 546/1992 per violazione 
degli 
artt. 3, primo comma, 
24, 
secondo 
comma, 
102, 
primo 
comma, 
e 
111, 
primo 
e 
secondo 
comma, 
della 
Costituzione, sollevate 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
Tributaria 
di 
Secondo Grado 
della Campania e della Lombardia. 


La 
norma 
in 
questione, 
come 
modificata 
dall’art. 
1, 
comma 
1, 
lett. 
bb) 
del D.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, prevede che 


“1. 
Non 
sono 
ammessi 
nuovi 
mezzi 
di 
prova 
e 
non 
possono 
essere 
prodotti 
nuovi 
documenti, 
salvo 
che 
il 
collegio 
li 
ritenga 
indispensabili 
ai 
fini 
della 
decisione 
della causa ovvero che 
la parte 
dimostri 
di 
non aver 
potuto proporli 


o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 
(*) Avvocato dello Stato. 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


2. Possono essere 
proposti 
motivi 
aggiunti 
qualora la parte 
venga a conoscenza 
di 
documenti, 
non 
prodotti 
dalle 
altre 
parti 
nel 
giudizio 
di 
primo 
grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati. 
3. Non è 
mai 
consentito il 
deposito delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della legittimità della sottoscrizione 
degli 
atti, delle 
notifiche 
dell’atto impugnato ovvero degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
che 
possono 
essere 
prodotti 
in 
primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis”. 
Per effetto della 
riforma 
operata 
dal 
D.lgs. 220/2023 (1), a 
far data 
dal 
5 
gennaio 
2024, 
risulta 
venuta 
meno, 
ai 
sensi 
del 
primo 
comma, 
la 
facoltà 
di 
produrre 
in 
secondo 
grado 
nuovi 
documenti, 
salvo 
quelli 
ritenuti 
indispensabili 


o di 
cui 
risulti 
provata 
l’impossibilità 
di 
preventiva 
produzione, e 
vietato in 
modo 
assoluto, 
ai 
sensi 
del 
terzo 
comma, 
il 
deposito 
«delle 
deleghe, 
delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, 
delle 
notifiche 
dell’atto 
impugnato 
ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
che 
possono 
essere 
prodotti 
in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». 
Secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, D.lgs. 220/2023: 


“le 
disposizioni 
del 
presente 
decreto 
si 
applicano 
ai 
giudizi 
instaurati, 
in 
primo 
e 
in 
secondo 
grado, 
con 
ricorso 
notificato 
successivamente 
al 
1° 
settembre 
2024, 
fatta 
eccezione 
per 
quelle 
di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
1, 
lettere 
d), 
e), 
f), 
i), 
n), 
o), 
p), 
q), 
s), 
t), 
u), 
v), 
z), 
aa), 
bb), 
cc) 
e 
dd) 
che 
si 
applicano 
ai 
giudizi 
instaurati, 
in 
primo 
e 
in 
secondo 
grado, 
nonché 
in 
Cassazione, 
a 
decorrere 
dal 
giorno 
successivo 
all’entrata 
in 
vigore 
del 
presente 
decreto”. 


2. la fondatezza delle 
questioni 
di 
legittimità costituzionali 
concernenti 
il 
divieto 
del 
deposito 
delle 
deleghe, 
delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti. 
Dopo 
avere 
ricostruito 
il 
quadro 
normativo 
in 
cui 
si 
inseriscono 
le 
disposizioni 
oggetto 
di 
censura 
(2), 
raffrontandolo 
con 
la 
versione 
originaria 
dell’art. 
58 
del 
D.lgs. 
546/1992 
(3), 
la 
Corte 
dichiara, 
anzitutto, 
fondata 
la 


(1) 
In 
attuazione 
di 
quanto 
previsto 
dall’art. 
19 
della 
legge 
delega 
n. 
111/2023, 
rubricato 
«Princìpi 
e 
criteri 
direttivi 
per 
la revisione 
della disciplina e 
l’organizzazione 
del 
contenzioso tributario», che, al 
comma 
1, lettera 
d), aveva 
previsto che 
il 
Governo, nella 
revisione 
della 
disciplina 
del 
contenzioso tributario, 
avrebbe 
dovuto “rafforzare 
il 
divieto di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi 
processuali 
successivi 
al primo”. 
(2) Il 
novellato art. 58 D.lgs. 546/1992 è 
stato trasfuso nell’art. 112 del 
D.lgs. 175/2024 (testo 
unico della giustizia tributaria), in vigore 
dal 
29 novembre 
2024, ma 
applicabile 
dal 
1° 
gennaio 2026, 
data 
da 
cui 
decorrono 
l’abrogazione 
delle 
disposizioni 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
e 
l’efficacia 
dello 
stesso 
testo unico, come espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso D.lgs. n. 175 del 2024. 
(3) La 
norma 
allora 
vigente, al 
comma 
1, vietava 
l’ingresso di 
nuove 
prove 
in appello, salvo che 
il 
giudice 
non 
le 
ritenesse 
necessarie 
ai 
fini 
della 
decisione 
o 
che 
la 
parte 
dimostrasse 
di 
non 
averle 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
58, 
comma 
3, 
D.lgs. 
546/1992 
nella 
parte 
in 
cui 
vieta 
il 
deposito 
delle 
deleghe, 
delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti. 


Pur dichiarandosi 
consapevole 
della 
prioritaria 
«esigenza di 
arginare 
la 
dilatazione 
dei 
tempi 
di 
definizione 
del 
giudizio 
tributario», 
la 
Corte 
sottolinea 
che, quanto alle 
deleghe, alle 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, l’impossibilità 
di 
dedurli 
in appello nei 
casi 
in cui 
il 
giudice 
ne 
ritenga 
indispensabile 
l’acquisizione 
o 
ne 
sia 
stata 
impossibile 
la 
deduzione 
in 
primo 
grado 
per 
causa 
non imputabile 
alla 
parte, «esibisce 
una manifesta irragionevolezza, così 
travalicando 
il 
limite 
all’esercizio della pur 
ampia discrezionalità riconosciuta 
al legislatore nella configurazione degli istituti processuali». 


Trattasi 
di 
atti 
attinenti, 
invero, 
alla 
legittimazione 
processuale 
o 
alla 
rappresentanza 
tecnica 
e, quindi, alla 
regolare 
costituzione 
del 
rapporto processuale, 
sì 
che 
non possono considerarsi 
soggette 
al 
giudizio di 
indispensabilità 
di 
cui 
all’art. 
58, 
comma 
1, 
del 
D.lgs. 
546/1992, 
né 
ricadono 
nello 
speciale 
divieto 
di cui al comma 3 di tale disposizione. 


La 
deroga 
alla 
regola 
della 
limitata 
acquisibilità 
di 
nova 
istruttori 
introdotta 
per le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
risulta, 
ad avviso della 
Corte, priva 
di 
una 
ragionevole 
ragione, trattandosi 
di 
atti 
appartenenti 
al 
più ampio genus 
delle 
prove 
documentali 
e 
che 
non presentano, 
per 
di 
più, 
tratti 
differenziali 
idonei 
ad 
incidere 
sul 
meccanismo 
di 
acquisizione 
dei medesimi. 


La 
manifesta 
irragionevolezza 
della 
norma 
in questione 
risulta, vieppiù, 
evidente 
ove 
si 
consideri 
che 
«il 
divieto assoluto di 
produzione 
dei 
documenti 
con i 
quali 
si 
fornisce 
la prova della legittimazione 
sostanziale 
o processuale 
altera la parità delle 
armi, in quanto sottrae 
una facoltà difensiva alla parte 
che, in base 
al 
thema decidendum, sia chiamata a fornirne 
dimostrazione 
in 
giudizio». 


Sotto 
altro 
profilo, 
il 
divieto 
di 
depositare 
in 
appello 
le 
deleghe, 
le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere, pur quando ne 
sia 
stata 
incolpevolmente 
impossibile 
la 
produzione 
in 
primo 
grado, 
determina 
una 
ingiustificabile 
compressione 
del 
diritto 
alla 
prova, 
quale 
nucleo 
essenziale 
del 
diritto 
di 
difesa 


potute 
dedurre 
nel 
precedente 
grado di 
giudizio per causa 
ad essa 
non imputabile, ma, al 
comma 
2, precisava 
che era “fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”. 
La 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
aveva 
interpretato 
quest’ultima 
previsione 
con 
particolare 
ampiezza, 
indicando 
come 
unico 
limite 
alla 
producibilità 
di 
nuovi 
documenti 
nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado 
l’essere 
gli 
stessi 
diretti 
a 
dimostrare 
la 
fondatezza 
delle 
domande 
e 
delle 
eccezioni 
precluse 
dall’art. 
57 
del 
D.lgs. 546/1992 (Cass. 26 giugno 2024, n. 17638; 
Cass. 10 aprile 
2024, n. 9635; 
Cass. 25 ottobre 
2024, 


n. 27741; 
Cass. 24 luglio 2024, n. 20550; 
Cass. 22 aprile 
2024, n. 10788; 
Cass. 27 febbraio 2024, n. 
5199). 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


e 
del 
contraddittorio, 
considerato 
che 
il 
giudizio 
di 
appello 
costituisce 
la 
prima 
e 
unica 
occasione 
per dedurre 
i 
mezzi 
di 
prova 
che 
non siano stati 
introdotti 
in primo grado per causa non imputabile alla parte (4). 


Di 
qui 
la 
declaratoria 
di 
illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
D.lgs. 546/1992, come 
introdotto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
D.lgs. 
220/2023, 
limitatamente 
alle 
parole 
«delle 
deleghe, 
delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della legittimità della sottoscrizione 
degli atti,». 


3. 
l’infondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionali 
concernenti 
il 
divieto 
di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato. 
Per 
quanto 
concerne, 
invece, 
il 
divieto 
di 
produzione 
in 
appello 
delle 
«notifiche 
dell’atto impugnato ovvero degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono presupposto 
di 
legittimità che 
possono essere 
prodotti 
in primo grado anche 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 14 comma 6-bis», sempre 
sancito dall’art. 58, comma 
3, del 
D.lgs. 


n. 
546 
del 
1992, 
la 
Corte 
rigetta 
tutte 
le 
censure 
formulate 
dalle 
Corti 
rimettenti 
sia 
quanto 
al 
presunto 
eccesso 
di 
delega 
(5) 
sia 
quanto 
alla 
presunta 
violazione 
del 
principio 
di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 
3, 
primo 
comma, 
Cost., 
del 
diritto 
alla 
prova 
ex 
art. 24, secondo comma, Cost. e 
al 
contraddittorio ex 
art. 111, 
secondo comma, Cost. 
La 
Corte 
costituzionale 
evidenzia, al 
proposito, che 
i 
documenti 
in questione 
-a 
differenza 
delle 
notifiche 
degli 
atti 
processuali 
-forniscono 
«la 
prova 
di 
una condizione 
di 
validità o di 
efficacia dell’esercizio della funzione 
impositiva, 
e 
per 
tale 
ragione 
la 
produzione 
degli 
stessi 
nei 
giudizi 
in 
cui 
tale 
profilo 
risulti 
controverso esaurisce 
l’attività istruttoria», sì 
che 
il 
legislatore 
ha 
ritenuto 
in 
modo 
non 
irragionevole 
«superflua, 
perché 
inutilmente 
dilatoria, 
l’operatività del 
modello temperato di 
cui 
all’art. 58, comma 1, del 
d.lgs. n. 
546 del 1992». 


In 
altri 
termini, 
la 
Corte 
costituzionale 
sottolinea 
che 
si 
è 
voluto, 
in 
tal 
modo, evitare 
che 
nelle 
controversie 
in cui 
si 
faccia 
questione 
della 
esistenza 


o della 
validità 
delle 
notifiche 
il 
giudizio di 
appello venga 
instaurato al 
solo 
fine 
di 
effettuare 
un 
deposito 
documentale 
che, 
pur 
essendo 
da 
solo 
sufficiente 
per la definizione del giudizio, sia stato omesso in primo grado. 
(4) La 
regola 
della 
deducibilità 
in secondo grado costituisce, ad avviso della 
Corte, una 
declinazione 
dell’istituto 
della 
rimessione 
in 
termini 
previsto 
dall’art. 
153 
c.p.c. 
-applicabile 
anche 
nel 
processo 
tributario (Cass. 17 giugno 2015, n. 12544) -, che, essendo posto a 
presidio delle 
garanzie 
costituzionali 
difensive 
e 
del 
giusto processo, rappresenta 
«un essenziale 
rimedio per 
eliminare, in via successiva, le 
conseguenze pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole». 
(5) 
La 
Corte 
costituzionale 
esclude, 
considerata 
l’ampiezza 
del 
criterio 
fissato 
dall’art. 
19, 
comma 
1, 
lettera 
d), 
della 
legge 
delega, 
che 
il 
legislatore 
delegato, 
nel 
prevedere, 
accanto 
ad 
un 
generale 
divieto 
di 
nova 
temperato, l’ulteriore 
e 
più stringente 
norma 
proibitiva 
di 
cui 
al 
censurato art. 58, comma 
3, si 
sia discostato dalla 
ratio 
della legge delega. 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


In 
secondo 
luogo, 
il 
divieto 
di 
produzione 
delle 
notifiche 
in 
appello 
si 
sottrae 
alle 
censure 
di 
irragionevolezza 
e 
di 
violazione 
degli 
artt. 24 e 
111, secondo 
comma, Cost., anche 
là 
dove 
non esclude 
dal 
proprio ambito di 
applicazione 
l’ipotesi 
in 
cui 
la 
parte 
dimostri 
di 
non 
aver 
potuto 
depositare 
il 
documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 


rispetto alla 
notificazione 
degli 
atti 
tributari 
-sottolinea 
la 
Corte 
-non è 
configurabile, 
infatti, 
sul 
piano 
logico, 
«né 
l’ipotesi 
in 
cui 
il 
documento 
venga 
ad esistenza successivamente 
allo spirare 
dei 
termini 
per 
le 
deduzioni 
istruttorie 
del 
giudizio di 
primo grado in cui 
sia in contestazione 
l’atto notificato, 
né 
quella 
in 
cui 
l’amministrazione 
venga 
a 
conoscenza 
della 
sua 
esistenza 
solo dopo che sia maturata detta preclusione». 


non è 
ritenuta 
fondata 
neppure 
la 
censura 
di 
violazione 
del 
principio di 
eguaglianza 
e 
di 
parità 
delle 
armi, considerato che 
il 
regime 
diversificato introdotto 
per gli atti in questione risulta non manifestamente irragionevole. 


La 
Corte, infine, ritiene 
non fondata 
anche 
la 
censura 
con la 
quale 
si 
lamenta 
che 
tale 
disposizione 
impedirebbe 
al 
giudice 
di 
pervenire 
ad una 
decisione 
giusta 
attraverso 
la 
ricerca 
della 
verità 
materiale, 
in 
contrasto 
con 
gli 
artt. 102, primo comma, e 
111, primo comma, Cost., atteso che 
«l’aderenza 
della ricostruzione 
processuale 
dei 
fatti 
alla verità materiale 
non è 
oggetto di 
specifica protezione costituzionale». 


4. 
la 
fondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
concernenti 
la 
disciplina 
transitoria. 
La 
Corte 
costituzionale 
reputa, 
infine, 
fondate 
le 
censure, 
formulate 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
3 
e 
111 
Cost., 
in 
relazione 
all’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
D.lgs. 
220/2023, 
con 
cui 
si 
prospetta, 
la 
«palese 
ed 
ingiustificata 
violazione» 
del 
principio del 
giusto processo «sotto il 
profilo della prevedibilità delle 
regole 
processuali 
dell’intero percorso di 
tutela» e, dall’altro, il 
pregiudizio recato 
alla 
scelta 
difensiva 
delle 
parti 
dei 
processi 
già 
instaurati 
in 
primo 
grado 
al 
momento dell’entrata in vigore della novella processuale. 


Ferma 
restando 
l’ampia 
discrezionalità 
del 
legislatore 
nelle 
scelte 
relative 
alla 
disciplina 
della 
successione 
di 
leggi 
processuali 
nel 
tempo, 
l’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
D.lgs. 
220/2023 
dispone 
l’immediata 
applicazione 
del 
nuovo 
art. 
58 
del 
D.lgs. 
546/1992 
(segnatamente 
delle 
disposizioni 
«di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
1, letter[a] 
[…] 
bb)» del 
D.lgs. n. 220 del 
2023, che 
hanno riscritto in senso 
più restrittivo la 
disciplina 
dei 
nova 
istruttori 
in appello dettata 
dal 
previgente 
art. 58) ai 
processi 
di 
primo e 
secondo grado e 
di 
cassazione 
incardinati 
a 
far 
data 
dal 
giorno 
successivo 
all’entrata 
in 
vigore 
(prevista 
per 
il 
4 
gennaio 
2024) 
del medesimo D.lgs. 220/2023. 


La 
Corte 
evidenzia, al 
riguardo, che 
la 
previsione 
transitoria 
non si 
premura 
affatto di 
considerare 
che, nei 
processi 
iniziati 
in grado di 
appello dopo 
tale 
data, il 
cui 
primo grado sia 
stato incardinato nel 
vigore 
della 
precedente 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


disciplina, le 
parti, confidando sulla 
facoltà, loro riconosciuta 
dal 
previgente 
art. 58, comma 
2, di 
depositare 
documenti 
anche 
nell’eventuale 
processo di 
gravame, potrebbero averne omesso la produzione in prime cure. 


Di 
talché, lo ius 
superveniens, sebbene 
formalmente 
operante 
per il 
futuro, 
finisce 
nella 
sostanza 
per 
incidere 
sugli 
effetti 
giuridici 
di 
situazioni 
processuali 
verificatesi 
nei 
giudizi 
iniziati 
nel 
vigore 
della 
precedente 
normativa 
e 
ancora 
in corso, frustrando così 
l’aspettativa 
delle 
parti 
che 
avevano confidato 
nella 
possibilità 
di 
esercitare 
il 
loro diritto alla 
prova 
anche 
in appello e 
ledendo quindi il legittimo affidamento. 


Da 
tanto 
è 
conseguita 
la 
declaratoria 
di 
illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
D.lgs. 
220/2023, 
nella 
parte 
in 
cui 
prescrive 
che 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 
1, 
comma 
1, 
lettera 
bb), 
dello 
stesso 
D.lgs. 
220/2023 
si 
applicano 
ai 
giudizi 
instaurati 
in 
secondo 
grado 
a 
decorrere 
dal 
giorno 
successivo 
alla 
sua 
entrata 
in 
vigore, 
anziché 
ai 
giudizi 
di 
appello 
il 
cui 
primo 
grado 
sia 
instaurato 
successivamente 
all’entrata 
in 
vigore 
del 
D.lgs. 
220/2023. 


Invero, per effetto di 
tale 
ultima 
pronuncia 
di 
incostituzionalità, il 
nuovo 
art. 58 D.lgs. 546/1992 non è 
più (immediatamente) applicabile 
ai 
giudizi 
di 
secondo grado. e 
poiché 
le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
norma 
sono 
state 
sollevate 
nell’ambito 
di 
due 
giudizi 
di 
appello, 
la 
Corte 
avrebbe 
potuto 
anche 
dichiarare 
inammissibili 
le 
altre 
questioni 
sull’art. 
58 
D.lgs. 
546/1992 per difetto di rilevanza. 


È 
innegabile, 
infatti, 
che 
i 
giudici 
remittenti 
davanti 
ai 
quali 
proseguiranno 
le 
cause, non potranno che 
(preliminarmente) dichiarare 
inapplicabile 
in toto 
la 
norma 
in quel 
giudizio, senza 
possibilità 
di 
esaminare 
le 
questioni 
applicative 
derivanti 
dalla 
pronuncia 
di 
parziale 
incostituzionalità 
dell’art. 
58, 
comma 3, D.lgs. 546/1992. 


La 
scelta 
della 
Corte 
di 
non 
dichiarare 
inammissibile 
la 
questione 
relativa 
al 
comma 
3, 
sembra 
tuttavia 
inserirsi 
nel 
solco 
della 
più 
recente 
giurisprudenza 
del 
Giudice 
delle 
leggi, meno rigorosa 
di 
un tempo nell’accertare 
il 
requisito 
della 
rilevanza 
della 
questione 
sollevata 
(si 
veda, 
da 
ultimo, 
la 
sentenza 
n. 
77/2024). 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


Corte 
costituzionale, 
sentenza 
27 
marzo 
2025 
n. 
36 
-Pres. 
G. 
Amoroso, 
red. 
M.r. 
San 
Giorgio 
-Giudizi 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
decreto 
legislativo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546 
(Disposizioni 
sul 
processo 
tributario 
in 
attuazione 
della 
delega 
al 
Governo 
contenuta 
nell’art. 
30 
della 
legge 
30 
dicembre 
1991, 
n. 
413), 
come 
introdotto 
dall’art. 
1, 
comma 
1, 
lettera 
bb), 
del 
decreto 
legislativo 
30 
dicembre 
2023, 
n. 
220 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
contenzioso 
tributario), 
promossi 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
della 
Campania, 
sezione 
16, 
e 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
della 
Lombardia, 
sezione 
19, 
con 
ordinanze 
del 
9 
luglio 
2024 
e 
del 
27 
settembre 
2024. 


ritenuto in fatto 


1.– Con ordinanza 
del 
9 luglio 2024, iscritta 
al 
n. 170 reg. ord. 2024, la 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo grado della 
Campania, sezione 
16, ha 
sollevato, in riferimento agli 
artt. 
3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 
111, primo e 
secondo comma, 
della 
Costituzione, questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
decreto 
legislativo 31 dicembre 
1992, n. 546 (Disposizioni 
sul 
processo tributario in attuazione 
della 
delega 
al 
Governo contenuta 
nell’art. 30 della 
legge 
30 dicembre 
1991, n. 413), come 
introdotto 
dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
decreto legislativo 30 dicembre 
2023, n. 220 (Disposizioni 
in materia di contenzioso tributario). 


1.1.– La 
Corte 
rimettente 
premette 
di 
essere 
investita 
dell’appello proposto da 
un contribuente 
contro la 
sentenza 
che 
aveva 
respinto parzialmente 
il 
ricorso dallo stesso spiegato nei 
confronti 
dell’Agenzia 
delle 
entrate 
-riscossione 
(ADer), avverso un’intimazione 
di 
pagamento 
fondata, tra le altre, su sei cartelle di pagamento relative a vari tributi. 


Il 
giudice 
a quo 
riferisce 
che, in prime 
cure, il 
ricorrente 
aveva 
dedotto diversi 
profili 
di 
illegittimità 
dell’atto 
impugnato, 
tra 
i 
quali 
l’omessa 
notificazione 
degli 
atti 
ad 
esso 
presupposti, 
e 
che, nel 
contraddittorio con l’ADer, la 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
primo grado aveva 
accolto il 
ricorso solo con riferimento alla 
censura 
di 
difetto di 
notificazione 
di 
due 
delle 
sei 
cartelle di pagamento azionate. 


Avverso tale 
pronuncia 
-prosegue 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
-il 
contribuente 
aveva 
proposto 
appello con atto notificato il 
30 gennaio 2024, lamentando che 
neanche 
per le 
restanti 
cartelle 
vi 
fosse 
in atti 
la 
prova 
dell’avvenuta 
notificazione, essendosi 
l’Amministrazione 
finanziaria 
limitata 
a 
produrre 
copia 
delle 
relative 
ricevute, dalle 
quali, peraltro, risultava 
che 
una 
delle 
cartelle 
era 
stata 
ritirata 
da 
un 
soggetto 
a 
lui 
sconosciuto, 
ancorché 
qualificato 
come 
“convivente”. 
nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado 
si 
era 
costituita 
l’ADer 
deducendo 
che 
ciascuna 
delle 
cartelle 
indicate 
dalla 
controparte 
era 
stata 
notificata 
mediante 
consegna 
nelle 
mani 
di 
familiare 
convivente 
e 
che 
risultava 
inviato 
l’avviso 
di 
legge 
a 
mezzo 
di 
lettera 
raccomandata 
come da distinta versata in atti. 


Tanto premesso, la 
Corte 
rimettente 
rileva 
che 
nel 
fascicolo di 
primo grado non risultano 
prodotte 
tutte 
le 
relazioni 
di 
notificazione 
delle 
quattro cartelle 
di 
pagamento, presupposte 
al-
l’intimazione impugnata, ritenute dal giudice di primo grado validamente notificate. 


L’ordinanza 
di 
rimessione 
aggiunge 
che 
nel 
giudizio di 
appello l’Amministrazione 
ha 
prodotto 
ulteriori 
documenti 
intesi 
a 
dimostrare 
l’avvenuta 
notifica 
delle 
cartelle 
poste 
a 
fondamento 
dell’ingiunzione 
di 
pagamento e 
che, tuttavia, l’appellante 
ha 
eccepito l’irritualità 
di 
tale 
deposito in base 
all’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
introdotto dall’art. 
1, comma 1, lettera 
bb), del d.lgs. n. 220 del 2023. 


1.2.– Il 
giudice 
a quo dubita 
della 
legittimità 
costituzionale 
di 
tale 
disposizione 
sospettan



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


done, come 
si 
è 
riferito, il 
contrasto con gli 
artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, 
primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. 


1.3.– In punto di 
rilevanza, la 
Corte 
rimettente 
sottolinea 
come 
la 
nuova 
disciplina 
trovi 
applicazione 
nel 
giudizio principale, avendo l’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 stabilito 
che 
le 
disposizioni 
di 
detto decreto operano nei 
giudizi 
instaurati, in primo e 
in secondo 
grado, 
con 
ricorso 
notificato 
successivamente 
al 
1° 
settembre 
2024, 
fatta 
eccezione 
per 
le 
modifiche 
elencate 
nell’art. 1, comma 
1 -tra 
cui, alla 
lettera 
bb), figura 
anche 
la 
riforma 
delle 
prove 
in 
appello 
-, 
che, 
invece, 
si 
applicano 
ai 
giudizi 
incardinati, 
in 
primo 
e 
in 
secondo 
grado, 
nonché 
in Cassazione, a 
decorrere 
dal 
giorno successivo all’entrata 
in vigore 
dello stesso decreto 
legislativo. 


1.4.– La 
Corte 
rimettente 
esclude, poi, la 
praticabilità 
di 
una 
interpretazione 
costituzionalmente 
orientata 
della 
disposizione 
censurata, ritenendo che 
ad essa 
osti 
l’inequivoco tenore 
letterale della stessa. 


1.5.– 
Quanto 
al 
profilo 
della 
non 
manifesta 
infondatezza 
delle 
questioni 
sollevate, 
il 
giudice 
a 
quo 
denuncia 
anzitutto 
il 
contrasto 
con 
«il 
canone 
della 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 
3, 
primo comma, Cost.». osserva 
in proposito che 
la 
pur ampia 
discrezionalità 
di 
cui 
gode 
il 
legislatore 
nella 
conformazione 
degli 
istituti 
processuali 
incontra 
il 
limite 
della 
manifesta 
irragionevolezza. 
nella 
specie 
tale 
limite 
sarebbe 
stato 
superato, 
in 
quanto 
la 
disposizione 
in 
scrutinio 
esprimerebbe 
una 
scelta 
legislativa 
arbitraria 
«che 
ineluttabilmente 
perturba 
il 
canone 
dell’eguaglianza». 


1.6.– 
rileva, 
in 
particolare, 
il 
Collegio 
rimettente 
che 
la 
disposizione 
censurata, 
per 
un 
verso, al 
comma 
1, al 
pari 
dell’art. 345 del 
codice 
di 
procedura 
civile 
nella 
versione 
anteriore 
alla 
riforma 
introdotta 
dalla 
legge 
18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni 
per lo sviluppo economico, 
la 
semplificazione, la 
competitività 
nonché 
in materia 
di 
processo civile), consente 
al 
giudice 
la 
valutazione 
della 
indispensabilità 
della 
documentazione 
prodotta 
soltanto 
in 
secondo 
grado; 
per altro verso, al 
comma 
3, impedisce 
al 
medesimo giudice 
di 
compiere 
tale 
verifica 
«per una 
certa 
tipologia 
di 
atti», quali 
sono le 
notificazioni, «ontologicamente 
indispensabili 
secondo l’anzidetta accezione». 


La 
previsione 
di 
cui 
al 
comma 
3 -del 
tutto inedita 
nel 
sistema 
processuale 
generale 
-determinerebbe, 
così, una 
«autoevidente 
contraddizione», in quanto priverebbe 
il 
giudice 
dello 
stesso potere 
di 
delibazione 
della 
prova 
riconosciutogli 
dal 
comma 
1. una 
formulazione 
siffatta 
sarebbe 
indice 
sintomatico della 
irragionevolezza 
e 
della 
illogicità 
intrinseca 
della 
disposizione 
censurata 
e 
determinerebbe, 
al 
contempo, 
un’ingiustificata 
differenziazione 
del 
trattamento delle parti del giudizio. 


Secondo il 
rimettente, il 
legislatore 
avrebbe 
così 
compiuto da 
sé 
il 
giudizio di 
indispensabilità 
-che, invece, lo stesso comma 
1 del 
riformato art. 58 demanda 
al 
giudice 
-peraltro in 
modo imperscrutabile 
e 
contrario al 
canone 
di 
razionalità 
pratica 
ispirato dal 
criterio dell’id 
quod plerumque 
accidit. 
non risulterebbe, infatti, comprensibile 
la 
ratio 
dell’esclusione 
dei 
documenti 
indicati 
nel 
comma 
3 tra 
quelli 
depositabili 
al 
ricorrere 
dei 
presupposti 
di 
cui 
al 
comma 
1, considerato che 
«il 
loro principale 
tratto comune 
distintivo» è 
da 
individuarsi 
nella 
«possibile decisività della loro tardiva produzione nel determinare l’esito della lite». 


1.7.– Secondo il 
giudice 
a quo, una 
simile 
«perimetrazione 
in negativo della 
potestas 
iudicandi
» costituirebbe 
anche 
una 
illegittima 
intromissione 
del 
legislatore 
in un ambito, quale 
è 
quello della 
valutazione 
della 
indispensabilità 
delle 
prove, riservato all’autorità 
giudiziaria, 
in violazione 
degli 
artt. 102, primo comma, 111, primo comma, e 
24, secondo comma, Cost. 


1.8.– 
La 
disposizione 
censurata 
sarebbe, 
altresì, 
in 
contrasto 
con 
l’art. 
111, 
primo 
e 
secondo 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


comma, Cost., secondo cui 
il 
giusto processo deve 
necessariamente 
svolgersi 
nel 
contraddittorio 
tra 
le 
parti 
e 
in condizioni 
di 
parità, davanti 
ad un giudice 
terzo e 
imparziale, onde 
consentire 
la ricerca della verità processuale e una decisione giusta. 


Il 
rimettente 
esclude, poi, che 
il 
denunciato sacrificio dell’esercizio della 
funzione 
giurisdizionale 
sia 
giustificato 
dall’esigenza 
di 
assicurare 
la 
ragionevole 
durata 
del 
processo, 
posto 
che, 
come 
chiarito 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale, 
tale 
principio 
è 
leso 
soltanto 
da 
norme 
procedurali 
che 
comportino una 
dilatazione 
dei 
tempi 
del 
processo non sorretta 
da 
alcuna 
logica 
esigenza. 


1.9.– 
L’art. 
111, 
secondo 
comma, 
Cost. 
sarebbe 
ancora 
leso 
sotto 
il 
profilo 
della 
violazione 
del 
principio di 
eguaglianza 
tra 
le 
parti 
del 
processo, posto che, alla 
stregua 
della 
disciplina 
censurata, 
mentre 
la 
parte 
privata 
può 
produrre 
nuovi 
documenti, 
sia 
pure 
entro 
i 
limiti 
stabiliti 
dai 
novellati 
commi 
1 e 
2 dell’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, la 
parte 
pubblica 
non può depositare 
le specifiche tipologie di documenti elencati nel comma 3 di detta disposizione. 


Secondo 
la 
Corte 
rimettente, 
infatti, 
alla 
stregua 
delle 
connotazioni 
generali 
del 
diritto 
e 
del 
processo 
tributario 
e 
di 
una 
«oggettiva 
regola 
di 
esperienza», 
la 
documentazione 
indicata 
nella 
disposizione 
in 
scrutinio 
riguarda 
gli 
atti 
«che 
rendono 
legittima 
la 
pretesa 
tributaria 
della 
parte 
pubblica» 
e, 
quindi, 
attengono 
all’attività 
difensiva 
dalla 
stessa 
ordinariamente 
svolta. 


viene, altresì, rimarcato che 
la 
disciplina 
in scrutinio non consente 
l’acquisizione 
dei 
documenti 
da 
essa 
indicati 
neppure 
quando 
l’indispensabilità 
della 
relativa 
produzione 
derivi 
dalle 
difese 
svolte 
dalla 
controparte 
nell’atto 
di 
appello 
ovvero 
dal 
deposito 
di 
documenti 
dalla stessa effettuato ai sensi dell’art. 58, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 546 del 1992. 


2.– 
nel 
giudizio 
è 
intervenuto 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall’Avvocatura 
generale 
dello Stato, chiedendo dichiararsi 
inammissibili 
e 
comunque 
manifestamente 
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. 


2.1.– A 
sostegno della 
inammissibilità, la 
difesa 
statale 
deduce, anzitutto, che 
il 
giudice 
a 
quo, 
riconducendo 
le 
violazioni 
denunciate 
alla 
immediata 
applicabilità 
della 
nuova 
disciplina 
ai 
giudizi 
in corso, ivi 
compresi 
quelli 
svolti 
in primo grado nel 
vigore 
del 
precedente 
regime 
processuale, sarebbe 
incorso nella 
erronea 
individuazione 
della 
disposizione 
espressiva 
della 
scelta 
legislativa 
ritenuta 
costituzionalmente 
illegittima, che 
invece 
sarebbe 
da 
ravvisare 
nel-
l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023. 


2.1.1.– 
Le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
sarebbero 
inammissibili 
anche 
perché 
muoverebbero da una erronea interpretazione del dato normativo. 


Ad 
avviso 
dell’interveniente, 
l’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
come 
introdotto 
dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, non precluderebbe 
affatto il 
deposito 
della 
documentazione 
comprovante 
la 
notificazione 
degli 
atti 
impugnati, ma 
si 
limiterebbe 
a 
vietare 
la 
produzione 
di 
tre 
tipologie 
di 
atti 
-le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di 
potere 
-ulteriormente 
specificando, 
in 
relazione 
all’ultima 
delle 
categorie 
menzionate, 
che 
essa 
riguarda 
quelli 
che 
rilevano 
«ai 
fini» 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti 
e 
delle 
notifiche 
dell’atto impugnato, ovvero degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono il 
presupposto 
di legittimità. 


Secondo la 
difesa 
statale, la 
disposizione 
censurata, «declinata 
in forma 
non sintetica», sarebbe 
diretta 
a 
vietare 
il 
deposito delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
atti 
di 
conferimento di 
potere, distinti 
in tre 
gruppi: 
quelli 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, 
quelli 
rilevanti 
ai 
fini 
delle 
notifiche 
dell’atto 
impugnato 
e 
quelli 
rilevanti 
ai 
fini 
delle 
notifiche degli atti che costituiscono presupposto di legittimità dell’atto impugnato. 


Alla 
stregua 
di 
tale 
lettura, 
avvalorata 
dal 
dato 
testuale 
dell’impiego, 
nella 
elencazione, 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


della 
congiunzione 
“e”, non sarebbe 
stata 
introdotta 
alcuna 
preclusione 
espressa 
alla 
produzione 
in appello della 
documentazione 
comprovante 
la 
notificazione 
dell’atto impugnato, dal 
momento che 
oggetto del 
divieto sarebbero, in definitiva, soltanto gli 
atti 
di 
conferimento di 
potere rilevanti ai fini delle notifiche degli atti. 


2.1.2.– Il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
eccepisce 
l’inammissibilità 
delle 
questioni 
anche 
sotto il 
profilo del 
mancato esperimento, da 
parte 
della 
Corte 
rimettente, di 
una, pur 
possibile, interpretazione costituzionalmente orientata. 


Secondo l’interveniente, la 
previsione 
della 
verifica 
della 
indispensabilità 
dei 
documenti 
di 
cui 
all’art. 
58, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
costituirebbe 
«norma 
portante 
di 
chiusura 
della nuova disciplina» e per questo andrebbe coordinata con il divieto posto dal comma 3. 


Tale 
interpretazione 
della 
disposizione 
in esame 
evidenzierebbe 
che 
la 
valutazione 
di 
indispensabilità 
debba 
essere 
riferita 
anche 
ai 
documenti 
elencati 
nel 
citato comma 
3, in linea 
con i 
principi 
costituzionali 
della 
tutela 
del 
diritto di 
difesa, del 
giusto processo e 
della 
parità 
delle armi in giudizio, nonché di eguaglianza e di ragionevolezza. 


2.2.– Ad avviso dell’interveniente, le 
censure 
formulate 
dal 
rimettente 
sarebbero, comunque, 
manifestamente 
infondate, in quanto poggerebbero su una 
«discutibile 
lettura 
atomistica 
ed isolata 
del 
comma 
3 dell’art. 58 che 
oblitera 
la 
relazione 
di 
complementarità 
necessariamente 
esistente 
tra 
il 
menzionato comma 
3 e 
il 
comma 
1 del 
medesimo articolo, quale 
disposizione 
contenente un principio portante del sistema delle prove nel processo tributario». 


In ogni 
caso, osserva 
la 
difesa 
statale, il 
divieto di 
depositare 
le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
-e 
non anche 
le 
notifiche 
degli 
atti 
impugnati 
-risponde 
all’esigenza 
di 
«evitare 
carenze 
probatorie 
dovute 
a 
negligenza, essendo ora 
le 
parti 
obbligate 
a 
un 
maggior rigore sin dall’avvio del giudizio». 


3.– Con ordinanza 
del 
27 settembre 
2024, iscritta 
al 
n. 199 reg. ord. 2024, la 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo grado della 
Lombardia, sezione 
19, ha 
sollevato questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dello 
stesso 
art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
come 
introdotto 
dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, in riferimento ai 
medesimi 
parametri 
costituzionali evocati nell’ordinanza iscritta al n. 170 reg. ord. 2024. 


3.1.– 
La 
Corte 
rimettente 
premette 
di 
essere 
investita 
dell’appello 
proposto 
dall’ADer 
avverso 
la 
sentenza 
di 
primo grado che 
aveva 
accolto l’impugnazione 
promossa 
da 
un contribuente 
contro 
una 
comunicazione 
preventiva 
di 
iscrizione 
ipotecaria, 
in 
quanto, 
stante 
la 
tardiva 
costituzione 
dell’amministrazione 
resistente, non si 
era 
potuto tenere 
conto dei 
documenti 
dalla stessa depositati. 


Il 
giudice 
a quo 
espone 
che, a 
sostegno del 
ricorso di 
primo grado, il 
contribuente 
aveva 
contestato la 
mancata 
notificazione 
di 
cinque 
cartelle 
di 
pagamento richiamate 
nell’atto impugnato, 
il difetto di motivazione di quest’ultimo e la prescrizione della pretesa erariale. 


La 
Corte 
rimettente 
riferisce 
che, con l’atto di 
appello, l’ADer ha 
prodotto nuovamente 
i 
documenti 
depositati 
in 
primo 
grado, 
tra 
cui 
le 
notificazioni 
delle 
cartelle 
esattoriali, 
e 
che 
l’appellato ha 
disconosciuto la 
conformità 
agli 
originali, ai 
sensi 
dell’art. 2719 del 
codice 
civile, 
delle 
copie 
di 
dette 
notificazioni, 
in 
relazione 
a 
due 
delle 
quali 
ha 
anche 
dedotto 
la 
nullità 
per omesso invio della raccomandata di comunicazione di avvenuta notifica. 


L’ordinanza 
di 
rimessione 
chiarisce, quindi, che 
il 
giudizio di 
primo grado è 
iniziato nel 
vigore 
dell’art. 
58 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
nella 
versione 
anteriore 
alle 
modifiche 
allo 
stesso 
apportate 
dall’art. 
1, 
comma 
1, 
lettera 
bb), 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023, 
e 
che, 
tuttavia, 
il 
processo 
di 
appello, essendo stato incardinato il 
9 febbraio 2024, in base 
all’art. 4 di 
tale 
decreto legislativo, 
soggiace alla nuova disciplina. 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


Ad avviso del 
giudice 
a quo, nel 
giudizio di 
appello sarebbe, pertanto, vietato produrre 
i 
documenti 
di 
cui 
al 
comma 
3 del 
citato art. 58, in quanto introdotti 
in primo grado in modo 
irrituale. 


La 
Corte 
rimettente 
dà, 
quindi, 
atto 
dell’avvenuto 
promovimento 
dell’incidente 
di 
costituzionalità 
dell’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
come 
introdotto 
dall’art. 
1, 
comma 
1, 
lettera 
bb), 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023, 
ad 
opera 
della 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
della 
Campania 
per 
poi 
sollevare 
anch’essa 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
di 
tale 
disposizione, 
precisando, 
tuttavia, 
che 
l’esame 
della 
non 
manifesta 
infondatezza 
deve 
essere 
condotto 
non 
in 
termini 
generali, 
ma 
limitatamente 
all’applicazione 
della 
nuova 
disciplina 
durante 
la 
fase 
transitoria. 


3.2.– ricostruito, quindi, il 
nuovo assetto normativo introdotto dagli 
artt. 1, comma 
1, lettera 
bb), e 
4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, il 
giudice 
a quo 
osserva 
come 
l’intervento 
riformatore 
abbia 
modificato drasticamente 
la 
disciplina 
delle 
produzioni 
documentali 
in appello, 
laddove 
la 
«legge 
delega» 
prevedeva 
unicamente 
di 
rafforzare 
il 
divieto 
di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi 
successivi 
al 
primo 
e 
non 
di 
introdurre 
un 
divieto 
assoluto 
né, 
tanto 
meno, di sancire un trattamento differenziato per tipologia di documenti. 


Secondo il 
giudice 
a quo, il 
regime 
delineato dal 
censurato comma 
3 dell’art. 58, «particolarmente 
rigoroso» e 
privo di 
qualsivoglia 
fondamento nella 
legge 
delega, sarebbe 
reso ancor 
più drastico dalla previsione della sua immediata applicabilità ai giudizi in corso. 


3.3.– In punto di 
rilevanza, la 
Corte 
rimettente 
ritiene 
che 
detta 
disposizione 
debba 
trovare 
applicazione 
nel 
giudizio principale 
ed esclude 
che 
la 
sua 
formulazione 
letterale 
si 
presti 
ad 
una interpretazione costituzionalmente orientata. 


3.4.– Quanto alle 
ragioni 
di 
non manifesta 
infondatezza 
delle 
questioni 
sollevate, secondo 
il 
giudice 
a 
quo 
la 
disciplina 
censurata 
violerebbe, 
anzitutto, 
l’art. 
3, 
primo 
comma, 
Cost., 
sotto il profilo dell’irragionevolezza. 


Si 
osserva, al 
riguardo, nella 
ordinanza 
di 
rimessione 
che, per quanto il 
legislatore 
goda 
di 
ampia 
discrezionalità 
in materia 
processuale, la 
scelta 
di 
rendere 
il 
divieto di 
produzione 
in 
appello delle 
indicate 
tipologie 
di 
documenti 
immediatamente 
applicabile 
alle 
controversie 
già 
instaurate 
in primo grado al 
momento dell’entrata 
in vigore 
della 
novella 
sia 
«indubbiamente 
irrazionale». 


La 
previsione 
della 
immediata 
applicabilità 
del 
nuovo regime 
giuridico ai 
giudizi 
in corso 
inciderebbe, 
infatti, 
in 
modo 
«gravemente 
pregiudizievole 
ed 
irreparabile» 
sulla 
legittima 
scelta 
difensiva 
delle 
parti 
di 
rinviare, nell’esercizio di 
una 
facoltà 
riconosciuta 
dalla 
legge, 
la produzione di documenti all’eventuale giudizio di appello. 


3.4.1.– 
La 
violazione 
dell’art. 
3, 
primo 
comma, 
Cost. 
sarebbe 
resa 
evidente 
dalla 
circostanza 
che, a 
differenza 
delle 
parti 
dei 
giudizi 
introdotti 
successivamente 
all’entrata 
in vigore 
della 
novella, le 
quali 
hanno la 
possibilità 
di 
decidere 
«nella 
piena 
consapevolezza 
della 
situazione
», le parti dei giudizi in corso non hanno potuto compiere tale valutazione. 


3.5.– La 
Corte 
rimettente 
lamenta, altresì, che 
il 
divieto assoluto introdotto con la 
novella 
del 
2023 
nell’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
non 
trovi 
riscontro 
nella 
legge 
delega 
(legge 
9 
agosto 
2023 
n. 
111, 
recante 
«Delega 
al 
Governo 
per 
la 
riforma 
fiscale»), 
la 
quale 
aveva 
previsto esclusivamente 
il 
rafforzamento del 
divieto di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi processuali successivi al primo. 


nella 
stessa 
legge 
delega, osserva 
il 
giudice 
a quo, non era 
contemplata 
neppure 
la 
possibilità 
di 
applicare 
il 
nuovo regime 
processuale 
compendiato nell’art. 58, commi 
1 e 
3, ai 
giudizi 
in corso. 


3.6.– Da 
ultimo, secondo il 
giudice 
a quo, l’introduzione, ad opera 
della 
disposizione 
cen



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


surata, di 
un divieto assoluto di 
produzione 
di 
documenti 
in appello anche 
nel 
caso in cui 
ricorrano 
i 
presupposti 
di 
cui 
al 
comma 
1 dell’art. 58, che 
ne 
consentirebbero l’acquisizione, 
realizzerebbe 
un’interferenza 
nell’esercizio della 
funzione 
giurisdizionale, determinando, altresì, 
la 
lesione 
del 
diritto alla 
prova 
e 
una 
«palese 
ed ingiustificata 
violazione» del 
principio 
del 
giusto processo, in contrasto con gli 
artt. 102, primo comma, 24, secondo comma, e 
111, 
primo e secondo comma, Cost. 


Il 
vulnus 
al 
principio del 
giusto processo, conclude 
la 
Corte 
rimettente, sarebbe 
particolarmente 
evidente 
sotto 
il 
profilo 
della 
non 
prevedibilità 
delle 
«regole 
processuali 
dell’intero 
percorso di tutela». 


4.– Anche 
nel 
giudizio promosso con l’ordinanza 
iscritta 
al 
n. 199 reg. ord. 2024 è 
intervenuto 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall’Avvocatura 
generale 
dello Stato, concludendo per la 
declaratoria 
di 
inammissibilità 
e 
comunque 
di 
non fondatezza 
delle questioni di legittimità costituzionale. 


4.1.– 
Sotto 
il 
primo 
profilo, 
l’interveniente 
deduce 
anzitutto 
la 
erronea 
individuazione 
della 
disposizione 
all’origine 
del 
denunciato vulnus 
al 
principio di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 3 
Cost., rilevando che, nella 
prospettazione 
della 
Corte 
rimettente, l’illegittimità 
costituzionale 
della 
disposizione 
censurata 
deriverebbe, 
anzitutto, 
dalla 
sua 
immediata 
applicabilità 
ai 
giudizi 
in corso, così 
che 
oggetto di 
censura 
avrebbe 
dovuto essere 
non l’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. 


n. 546 del 1992, ma l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023. 
4.1.1.– La 
censura 
relativa 
all’eccesso di 
delega 
sarebbe, invece, inammissibile 
in ragione 
della 
erronea 
identificazione 
del 
parametro 
costituzionale, 
avendo 
la 
rimettente 
ricondotto 
tale vizio alla violazione dell’art. 3 Cost. e non dell’art. 76 Cost. 


4.1.2.– 
L’interveniente 
eccepisce, 
altresì, 
la 
inammissibilità 
di 
tutte 
le 
censure 
articolate 
nell’ordinanza 
di 
rimessione 
per non avere 
il 
giudice 
a quo 
praticato una 
«doverosa 
(e 
possibile) 
interpretazione 
costituzionalmente 
orientata», la 
quale 
avrebbe 
consentito di 
superare 
i 
prospettati dubbi di illegittimità costituzionale. 


Con argomentazioni 
sovrapponibili 
a 
quelle 
spese 
nel 
giudizio promosso con l’ordinanza 
iscritta 
al 
n. 170 reg. ord. 2024, la 
difesa 
statale 
sostiene 
che 
l’inammissibilità 
delle 
questioni 
deriverebbe 
anche 
dalla 
erronea 
ricostruzione 
della 
disposizione 
censurata, dovendo la 
stessa 
essere 
interpretata, secondo il 
suo significato letterale, nel 
senso di 
riferire 
il 
divieto di 
produzione 
in appello esclusivamente 
alle 
deleghe, alle 
procure 
e 
agli 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di potere e non anche alle notificazioni. 


Inoltre, secondo la 
difesa 
statale, l’interpretazione 
conforme 
a 
Costituzione 
dei 
commi 
1 e 
3 dell’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 avrebbe 
posto in luce 
come 
il 
legislatore 
abbia 
inteso 
ammettere la verifica di indispensabilità anche per i documenti indicati nel citato comma 3. 


4.1.3.– L’interveniente 
ha, altresì, ribadito quanto dedotto, in relazione 
alla 
richiamata 
ordinanza 
iscritta 
al 
n. 170 del 
reg. ord. 2024, in merito alla 
possibilità 
di 
superare 
in via 
ermeneutica 
i 
sospetti 
di 
illegittimità 
costituzionale 
legati 
alla 
immediata 
applicabilità 
di 
norme 
processuali restrittive di facoltà precedentemente riconosciute. 


Secondo l’interveniente, sarebbe 
mancata 
un’indagine 
volta 
a 
distinguere, tra 
le 
numerose 
disposizioni 
elencate 
nell’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, quelle 
effettivamente 
applicabili 
non solo ai 
giudizi 
incardinati 
in primo grado, ma 
anche 
a 
quelli 
instaurati 
in appello (come nel caso di specie) e in cassazione. 


4.2.– 
In 
subordine, 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
ha 
concluso 
per 
la 
non 
fondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevate. 
La 
scelta 
di 
predisporre 
per 
le 
categorie 
di 
atti 
indicate 
nel 
comma 
3 
dell’art. 
58 
una 
disciplina 
distinta 
ed 
autonoma 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


rispetto 
a 
quella 
generale 
dettata 
dal 
comma 
1 
della 
stessa 
disposizione 
risponderebbe 
all’esigenza 
di 
ribadirne 
espressamente 
l’assoggettamento 
alla 
regola 
generale 
della 
non 
producibilità 
per 
la 
prima 
volta 
in 
appello, 
alla 
luce 
del 
principio 
di 
economia 
dei 
mezzi 
giuridici 
e 
di 
accelerazione 
del 
giudizio. 
Ciò, 
nella 
prospettiva 
di 
evitare 
carenze 
probatorie 
dovute 
a 
negligenza 
imponendo 
alle 
parti 
un 
maggior 
rigore 
sin 
dall’avvio 
del 
giudizio, 
in 
linea 
con 
l’esigenza 
di 
concentrazione 
processuale 
e 
con 
la 
valorizzazione 
del 
principio 
di 
autoresponsabilità. 


Considerato in diritto 


1.– Con ordinanza 
del 
9 luglio 2024 (reg. ord. n. 170 del 
2024), la 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo grado della 
Campania 
(CGT 
Campania), sezione 
16, ha 
sollevato, in riferimento 
agli 
artt. 
3, 
primo 
comma, 
24, 
secondo 
comma, 
102, 
primo 
comma, 
e 
111, 
primo 
e 
secondo 
comma, 
Cost., 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 


n. 546 del 
1992 -come 
introdotto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 
-, 
ai 
sensi 
del 
quale, 
nel 
giudizio 
di 
appello 
tributario 
«[n]on 
è 
mai 
consentito 
il 
deposito 
delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, delle 
notifiche 
dell’atto impugnato ovvero degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono presupposto di 
legittimità 
che 
possono essere 
prodotti 
in primo grado anche 
ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». 
1.1.– Secondo la 
Corte 
rimettente, la 
disposizione 
censurata 
contrasterebbe, anzitutto, con 
il 
principio di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, ponendo un divieto 
probatorio privo di 
una 
ratio 
coerente 
con un «criterio di 
razionalità 
pratica», esprimerebbe 
una 
scelta 
che 
travalica 
i 
limiti 
della 
pur ampia 
discrezionalità 
riservata 
al 
legislatore 
nella configurazione degli istituti processuali e «perturba il canone dell’eguaglianza». 


Per altro verso, la 
disciplina 
in questione 
rivelerebbe 
una 
«autoevidente 
contraddizione» 
sintomatica 
di 
irragionevolezza 
e 
di 
illogicità 
intrinseca, in quanto impedirebbe 
al 
giudice 
di 
appello la 
valutazione 
di 
indispensabilità 
delle 
nuove 
prove 
-allo stesso demandata, in via 
generale, dal 
comma 
1 del 
medesimo art. 58 -in relazione 
ad alcune 
tipologie 
di 
documenti 
«ontologicamente indispensabili» ai fini della decisione. 


1.2.– La 
CGT 
Campania 
ravvisa, altresì, una 
illegittima 
intromissione 
del 
legislatore 
in un 
ambito riservato all’autorità 
giurisdizionale, in contrasto con gli 
artt. 102, primo comma, e 
111, primo comma, Cost. 


La 
legge 
-osserva 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
-può tipizzare 
il 
valore 
probatorio di 
alcuni 
mezzi 
istruttori 
e 
anche 
impedire 
l’acquisizione 
di 
determinate 
prove 
in appello, ma 
non può 
enucleare 
una 
serie 
eterogenea 
di 
documenti 
e 
inibire 
al 
giudice 
di 
valutarne 
la 
indispensabilità 
ai fini dell’acquisizione in secondo grado. 


1.3.– Sarebbe, inoltre, leso il 
diritto di 
difesa, inteso come 
diritto al 
giudizio e 
alla 
prova, 
in contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. 


1.4.– 
La 
disposizione 
censurata 
confliggerebbe, 
poi, 
con 
l’art. 
111, 
primo 
e 
secondo 
comma, 
Cost., in quanto vulnererebbe 
il 
contraddittorio e 
impedirebbe 
al 
giudice 
di 
pervenire 
ad una 
decisione «possibilmente giusta» attraverso la ricerca della «verità materiale». 


1.5.– Sarebbero, infine, violati 
gli 
artt. 24, primo comma, e 
111, primo e 
secondo comma, 
Cost., quest’ultimo in relazione 
alla 
garanzia 
della 
parità 
tra 
le 
parti 
del 
processo, posto che, 
se 
la 
parte 
privata 
può produrre 
nuovi 
documenti 
-sia 
pure 
nei 
limiti 
stabiliti 
dai 
commi 
1 e 
2 dello stesso art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
riformati 
dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 -, alla 
parte 
pubblica 
è 
vietato depositare 
proprio gli 
atti 
che 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


«rendono 
legittima 
la 
pretesa 
tributaria» 
e, 
quindi, 
secondo 
una 
regola 
di 
esperienza, 
attengono 
all’attività difensiva dalla stessa ordinariamente svolta. 


2.– Anche 
la 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo grado della 
Lombardia 
(CGT 
Lombardia), 
sezione 
19, con ordinanza 
del 
27 settembre 
2024 (reg. ord. n. 199 del 
2024), ha 
sollevato 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, 
come 
inserito dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023. Tale 
disposizione 
è 
censurata, 
anzitutto, 
perché 
ne 
è 
prevista 
l’applicazione 
ai 
giudizi 
instaurati 
in 
grado 
di 
appello 
a 
decorrere 
dal 
giorno successivo alla 
sua 
entrata 
in vigore 
e, dunque, anche 
a 
quelli 
aventi 
ad oggetto sentenze rese in base alla disciplina previgente. 


2.1.– 
Tale 
previsione 
sarebbe 
«indubbiamente 
irrazionale», 
in 
quanto, 
in 
contrasto 
con 
l’art. 
3 
Cost., 
inciderebbe 
in 
modo 
«gravemente 
pregiudizievole 
ed 
irreparabile» 
sulla 
scelta 
difensiva 
delle 
parti 
di 
rinviare, nell’esercizio di 
una 
facoltà 
loro riconosciuta 
dalla 
disciplina 
previgente, 
il deposito di documenti all’eventuale giudizio di appello. 


2.2.– Sarebbe, poi, violato il 
principio di 
eguaglianza, in quanto, non essendo stata 
esclusa 
l’applicazione 
del 
divieto posto dall’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 -così 
come 
della 
previsione 
di 
cui 
al 
comma 
1 della 
stessa 
disposizione 
-per i 
casi 
in cui 
«le 
parti 
non 
abbiano avuto la 
possibilità 
di 
decidere 
se 
produrre 
o meno nei 
termini 
documenti 
in primo 
grado», 
si 
determinerebbe 
una 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
le 
parti 
dei 
giudizi 
in 
corso 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
nuova 
disciplina, 
le 
quali 
non 
hanno 
potuto 
compiere 
tale 
valutazione, 
e 
quelle 
dei 
giudizi 
introdotti 
successivamente 
a 
tale 
data, che, invece, hanno potuto decidere 
«nella piena consapevolezza della situazione». 


2.3.– Lamenta, ancora, la 
Corte 
rimettente 
che 
né 
il 
«divieto assoluto» di 
cui 
all’art. 58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
né 
la 
previsione 
dell’applicabilità 
del 
nuovo 
regime 
anche 
ai 
giudizi 
in corso troverebbero «alcun fondamento nella 
legge 
delega», la 
quale 
si 
è 
limitata 
a 
demandare 
al 
Governo il 
compito di 
rafforzare 
il 
divieto di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi processuali successivi al primo. 


2.4.– 
Sarebbero, 
infine, 
violati 
gli 
artt. 
102, 
primo 
comma, 
24, 
secondo 
comma, 
e 
111, 
primo e 
secondo comma, Cost., in quanto l’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, introducendo, 
in 
relazione 
a 
determinati 
documenti, 
un 
divieto 
assoluto 
di 
produzione 
in 
appello, 
in deroga 
alla 
previsione 
di 
cui 
al 
comma 
1 del 
medesimo art. 58 -che, invece, consente 
l’acquisizione 
dei 
documenti 
indispensabili 
o non depositati 
in primo grado per causa 
non imputabile 
-, 
realizzerebbe 
un’interferenza 
nell’esercizio 
della 
funzione 
giurisdizionale 
e 
una 
lesione 
del 
diritto 
alla 
prova, 
determinando 
una 
«palese 
ed 
ingiustificata 
violazione» 
del 
principio 
del 
giusto 
processo 
«sotto 
il 
profilo 
della 
prevedibilità 
delle 
regole 
processuali 
dell’intero 
percorso di tutela». 


3.– 
Le 
due 
ordinanze 
di 
rimessione 
censurano 
discipline 
in 
parte 
coincidenti 
e 
in 
parte 
funzionalmente 
connesse 
ed evocano i 
medesimi 
parametri, sicché 
ne 
è 
opportuna 
la 
riunione 
ai 
fini di una decisione congiunta. 


4.– In via 
preliminare, devono essere 
esaminate 
le 
eccezioni 
di 
inammissibilità 
formulate 
dal Presidente del Consiglio dei ministri. 


4.1.– In entrambi 
i 
giudizi 
l’interveniente 
ha 
eccepito l’erroneità 
dell’indicazione 
della 
disposizione 
censurata 
-l’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 -rispetto alle 
deduzioni 
svolte, 
sostenendo 
che 
i 
dubbi 
di 
legittimità 
costituzionale, 
per 
come 
formulati, 
investirebbero, 
in realtà, la 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, secondo la 
quale 
lo 
ius 
superveniens 
sulle 
prove 
in 
appello 
trova 
applicazione 
anche 
nei 
processi 
introdotti 
in secondo grado (e in Cassazione) a far data dal 5 gennaio 2024. 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


4.1.1.– Le eccezioni non sono fondate. 


4.1.2.– Per quanto riguarda 
il 
giudizio iscritto al 
n. 170 reg. ord. 2024, dalla 
lettura 
complessiva 
dell’ordinanza 
di 
rimessione 
emerge 
con sufficiente 
chiarezza 
che 
il 
riferimento alla 
normativa 
intertemporale, 
peraltro 
solo 
accennato, 
ha 
una 
finalità 
soltanto 
argomentativa, 
mentre 
l’oggetto 
delle 
questioni 
effettivamente 
sollevate 
è 
costituito 
dalla 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
58, comma 3, in sé considerata. 


Poiché, dunque, il 
richiamo al 
regime 
transitorio non evoca 
un’autonoma 
questione, deve 
escludersi che si versi in ipotesi di 
aberratio ictus. 


4.1.3.– neanche 
la 
CGT 
Lombardia 
(reg. ord. n. 199 del 
2024), è 
incorsa 
nell’erronea 
individuazione 
della normativa all’origine dei denunciati 
vulnera 
costituzionali. 


È 
pur vero che, come 
puntualizzato nell’ordinanza 
di 
rimessione, le 
censure 
investono in 
via 
prioritaria 
la 
disciplina 
intertemporale 
in 
base 
alla 
quale 
le 
nuove 
regole 
sulle 
prove 
in 
appello 
si 
applicano ai 
giudizi 
di 
secondo grado incardinati 
dopo il 
5 gennaio 2024, così 
come 
prevede l’art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 220 del 2023. 


Ciò non di 
meno, la 
mancanza 
di 
una 
formale 
indicazione 
di 
tale 
disposizione 
tra 
quelle 
sospettate 
di 
illegittimità 
costituzionale 
deve 
ritenersi 
ininfluente 
ai 
fini 
dell’ammissibilità 
delle 
questioni, in quanto dalla 
lettura 
complessiva 
dell’ordinanza 
di 
rimessione 
risulta 
chiaramente 
che 
il 
giudice 
a 
quo 
ha 
inteso 
censurare 
in 
modo 
particolare 
tale 
disposizione 
(ex 
plurimis, 
sentenze n. 9 del 2025, n. 143 del 2023 e n. 223 del 2022). 


D’altronde, come 
ripetutamente 
affermato da 
questa 
Corte, il 
thema decidendum 
deve 
essere 
identificato alla 
stregua 
del 
contenuto delle 
censure 
formulate 
nell’ordinanza 
di 
rimessione 
(sentenza 
n. 142 del 
2023) e, quindi, ricostruendo l’effettiva 
volontà 
del 
rimettente 
in 
base 
ad una 
lettura 
coordinata 
della 
motivazione 
e 
del 
dispositivo (ex 
plurimis, sentenze 
n. 
35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022). 


4.2.– 
non 
sussiste 
neppure 
l’ulteriore 
profilo 
di 
inammissibilità 
che 
l’interveniente 
ravvisa 
nella 
erronea 
indicazione, 
nell’ordinanza 
iscritta 
al 
n. 
199 
reg. 
ord. 
2024, 
dell’art. 
3 
Cost. 
come parametro della denunciata violazione di eccesso di delega. 


La 
censura 
con la 
quale 
la 
CGT 
Lombardia 
lamenta 
che 
la 
disciplina 
in scrutinio non troverebbe 
fondamento nella 
legge 
delega 
n. 111 del 
2023 è, infatti, illustrata 
in modo tale 
da 
rendere evidente che la norma evocata a parametro sia quella espressa dall’art. 76 Cost. 


Pertanto, 
l’inesatta 
indicazione 
del 
precetto 
costituzionale 
ritenuto 
violato, 
non 
impedendo 
di 
identificare 
con 
chiarezza 
la 
consistenza 
della 
questione 
sollevata, 
non 
ne 
determina 
la 
inammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021 e n. 87 del 2017) 


4.3.– 
In 
entrambi 
i 
giudizi 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
imputa 
al 
giudice 
rimettente 
di 
non 
aver 
colto 
il 
corretto 
significato 
letterale 
dell’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
in 
base 
al 
quale 
il 
deposito 
della 
documentazione 
comprovante 
la 
notificazione 
dell’atto 
impugnato 
ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
non 
sarebbe 
affatto 
precluso. 


Più precisamente, secondo la 
difesa 
statale, la 
disposizione 
in scrutinio vieterebbe 
il 
deposito 
di 
tre 
tipologie 
di 
atti 
-le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
-per 
poi 
specificare 
che 
tale 
ultima 
categoria 
comprende 
gli 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
che 
rilevano 
ai 
fini: 
a) 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti; 
b) 
delle 
notifiche 
dell’atto 
impugnato; 
c) delle notifiche degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità. 


Il 
legislatore 
avrebbe 
inteso, così, aggregare 
in un’unica 
proposizione 
reggente 
i 
tre 
ambiti 
indicati 
dalla 
disposizione 
censurata, 
ossia 
quello 
che 
riguarda 
la 
sottoscrizione 
degli 
atti, 
quello che 
concerne 
le 
notifiche 
dell’atto impugnato e 
quello che 
attiene 
alla 
notifica 
degli 
atti che costituiscono il presupposto di legittimità. 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


Dalla 
ritenuta 
erroneità 
delle 
soluzioni 
ermeneutiche 
sulle 
quali 
poggiano i 
dubbi 
di 
illegittimità 
costituzionale 
l’interveniente 
fa 
derivare 
l’inammissibilità 
delle 
questioni 
sollevate. 


4.3.1.– 
Anche 
questa 
eccezione 
è 
priva 
di 
fondamento, 
atteso 
che, 
come 
più 
volte 
affermato 
da 
questa 
Corte, la 
correttezza 
della 
scelta 
interpretativa 
da 
cui 
muove 
il 
rimettente 
è 
estranea 
al 
vaglio 
di 
ammissibilità 
delle 
questioni 
e 
attiene 
propriamente 
al 
merito 
e 
perciò 
deve 
essere 
apprezzata 
unitamente 
a 
quest’ultimo (ex 
aliis, sentenze 
n. 76 del 
2021, n. 281 del 
2020 e 
n. 
75 del 2019). 


4.4.– 
L’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato 
rinviene 
un 
ulteriore 
profilo 
di 
inammissibilità 
nella 
mancata 
sperimentazione, da 
parte 
di 
entrambi 
i 
giudici 
a quibus, di 
una 
pur praticabile 
interpretazione costituzionalmente orientata. 


4.4.1.– A 
tal 
fine, l’interveniente 
argomenta 
che 
il 
nuovo art. 58, comma 
1, del 
d.lgs. n. 
546 del 
1992, come 
inserito dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, contiene 
una 
«norma 
portante 
di 
chiusura 
della 
nuova 
disciplina» che 
deve 
essere 
coordinata 
con 
il 
divieto sancito dal 
comma 
3. Per mezzo di 
questa 
operazione 
ermeneutica, la 
valutazione 
di 
indispensabilità 
andrebbe, quindi, riferita 
anche 
ai 
documenti 
elencati 
nel 
comma 
3, in ossequio 
ai 
principi 
costituzionali 
della 
tutela 
del 
diritto di 
difesa, del 
giusto processo e 
della 
parità delle armi in giudizio, di ragionevolezza e di eguaglianza. 


4.4.2.– Secondo la 
difesa 
statale, un tentativo «fattiv[o] (e 
non solo apparente)» di 
interpretazione 
conforme 
non sarebbe 
stato compiuto neppure 
con riferimento alla 
disciplina 
intertemporale, 
la 
quale 
si 
presterebbe, 
invece, 
ad 
una 
lettura 
che, 
nella 
fase 
transitoria, 
consenta 
di 
ammettere 
il 
deposito dei 
documenti 
vietati 
ai 
sensi 
dell’art. 58, comma 
3, in quanto -sottolinea 
la difesa dello Stato - «documenti “indispensabili” ai fini della decisione». 


4.4.3.– neanche queste eccezioni sono fondate. 


Le 
Corti 
rimettenti 
hanno 
escluso 
la 
praticabilità 
di 
un’alternativa 
ermeneutica 
idonea 
a 
superare 
i 
dubbi 
di 
illegittimità 
costituzionale 
reputando l’interpretazione 
conforme 
incompatibile 
con l’inequivoco tenore 
letterale 
della 
disciplina 
censurata. Tanto è 
sufficiente 
per ritenere 
insussistente 
l’eccepita 
inammissibilità, 
attenendo 
poi 
al 
merito 
la 
verifica 
della 
possibilità 
di 
una 
interpretazione 
conforme 
della 
disposizione 
censurata 
(ex 
plurimis, 
sentenze 


n. 5 del 2025, n. 202 e n. 104 del 2023). 
5.– 
All’esame 
del 
merito 
delle 
questioni 
è 
opportuno 
premettere 
la 
ricostruzione 
del 
quadro 
normativo in cui si inseriscono le disposizioni oggetto di censura. 
5.1.– L’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, rubricato «nuove 
prove 
in appello», è 
stato radicalmente 
modificato dall’art. 1, comma 1, lettera 
bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, mediante la 
riscrittura dei commi 1 e 2 e l’aggiunta del comma 3. 


Il 
comma 
1 riformato prevede 
che 
«[n]on sono ammessi 
nuovi 
mezzi 
di 
prova 
e 
non possono 
essere 
prodotti 
nuovi 
documenti, 
salvo 
che 
il 
collegio 
li 
ritenga 
indispensabili 
ai 
fini 
della 
decisione 
della 
causa 
ovvero che 
la 
parte 
dimostri 
di 
non aver potuto proporli 
o produrli 
nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile». 


Il 
nuovo 
comma 
2 
stabilisce, 
invece, 
che 
«[p]ossono 
essere 
proposti 
motivi 
aggiunti 
qualora 
la 
parte 
venga 
a 
conoscenza 
di 
documenti, non prodotti 
dalle 
altre 
parti 
nel 
giudizio di 
primo 
grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati». 


Infine, 
a 
norma 
del 
comma 
3, 
inserito 
ex 
novo 
nel 
corpo 
dell’art. 
58, 
«[n]on 
è 
mai 
consentito 
il 
deposito delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, delle 
notifiche 
dell’atto impugnato ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono presupposto di 
legittimità 
che 
possono essere 
prodotti 
in primo 
grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


Il 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023 
ha 
apportato 
le 
suddette 
modifiche 
in 
attuazione 
della 
legge 
delega 


n. 111 del 
2023, il 
cui 
art. 19, rubricato «Princìpi 
e 
criteri 
direttivi 
per la 
revisione 
della 
disciplina 
e 
l’organizzazione 
del 
contenzioso tributario», al 
comma 
1, lettera 
d), aveva 
previsto 
che 
il 
Governo, 
nella 
revisione 
della 
disciplina 
del 
contenzioso 
tributario, 
avrebbe 
dovuto 
«rafforzare 
il 
divieto di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi 
processuali 
successivi 
al 
primo». 
5.1.1.– La 
novella 
in scrutinio si 
inserisce 
in un ampio intervento di 
revisione 
del 
processo 
tributario che, a 
completamento del 
disegno di 
riforma 
avviato con la 
legge 
31 agosto 2022, 


n. 130 (Disposizioni 
in materia 
di 
giustizia 
e 
di 
processo tributari) e 
in linea 
con le 
finalità 
di 
riduzione 
del 
contenzioso 
tributario 
previste 
dal 
Piano 
nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(Pnrr), si 
prefigge 
di 
deflazionare 
il 
contenzioso attualmente 
pendente 
davanti 
alle 
corti 
di 
giustizia 
tributaria 
e 
alla 
Corte 
di 
cassazione; 
di 
ridurre 
i 
tempi 
delle 
controversie 
tributarie; 
di 
garantire 
la 
parità 
delle 
armi 
tra 
le 
parti 
del 
processo tributario; 
di 
completare 
la 
digitalizzazione 
della giustizia tributaria. 
5.1.2.– va 
aggiunto che 
il 
novellato art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 è 
stato pedissequamente 
trasfuso 
nell’art. 
112 
del 
decreto 
legislativo 
14 
novembre 
2024, 
n. 
175 
(Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria), 
in 
vigore 
dal 
29 
novembre 
2024, 
ma 
applicabile 
dal 
1° 
gennaio 
2026, data 
da 
cui 
decorrono l’abrogazione 
delle 
disposizioni 
del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 e 
l’efficacia 
dello stesso testo unico, come 
espressamente 
previsto agli 
artt. 130 e 
131 dello stesso 
d.lgs. n. 175 del 2024. 


5.2.– L’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
riscritto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), 
del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, a 
norma 
dell’art. 4, comma 
1, di 
quest’ultimo decreto legislativo, 
è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella 
Gazzetta ufficiale, avvenuta 
il 3 gennaio 2024, e dunque il 4 gennaio 2024. 


Il 
comma 
2 del 
citato art. 4 del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 ha, però, stabilito che 
«[l]e 
disposizioni 
del 
presente 
decreto si 
applicano ai 
giudizi 
instaurati, in primo e 
in secondo grado, con 
ricorso notificato successivamente 
al 
1° 
settembre 
2024, fatta 
eccezione 
per quelle 
di 
cui 
all’articolo 
1, comma 
1, lettere 
d), e), f), i), n), o), 
p), q), s), t), u), 
v), z), aa), bb), cc) e 
dd), che 
si 
applicano ai 
giudizi 
instaurati, in primo e 
in secondo grado, nonché 
in Cassazione, a 
decorrere 
dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto». 


Per 
quel 
che 
concerne, 
dunque, 
la 
novella 
sulle 
prove 
in 
appello 
introdotta 
dall’art. 
1, 
comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, la 
previsione 
transitoria 
prescrive 
che 
detta 
disciplina 
si 
applichi 
ai 
giudizi 
instaurati 
in primo grado, in secondo grado e 
in Cassazione, a 
decorrere 
dal 
giorno 
successivo 
all’entrata 
in 
vigore 
del 
decreto 
legislativo, 
ossia 
dal 
5 
gennaio 
2024, 
laddove 
per 
le 
disposizioni 
diverse 
da 
quelle 
elencate 
nel 
comma 
2 
la 
riforma 
si 
applica 
«ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 
1° settembre 2024». 


5.3.– 
nella 
relazione 
di 
accompagnamento 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023 
si 
chiarisce 
che 
la 
novella 
legislativa 
riscrive 
l’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 prevedendo, nell’ottica 
del 
rafforzamento 
del 
divieto 
di 
nova 
nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado 
programmato 
dalla 
legge 
delega, 
«la 
preclusione 
espressa 
per il 
giudice 
d’appello di 
fondare 
la 
propria 
decisione 
su prove 
che 
avrebbero potuto essere disposte o acquisite nel giudizio di primo grado». 


viene, anche, rimarcato che 
«[r]esta 
comunque 
eccezionalmente 
ferma 
la 
possibilità 
per il 
giudice 
di 
secondo grado di 
acquisire 
le 
prove 
pretermesse 
nel 
primo grado, in ragione 
della 
loro 
indispensabilità 
ai 
fini 
della 
decisione, 
oppure 
in 
esito 
alla 
dimostrazione 
della 
riferibilità 
della mancanza probatoria a causa non imputabile alla parte appellante». 


nella 
stessa 
relazione 
si 
precisa 
che 
«si 
è 
ritenuto opportuno, all’esito di 
ulteriori 
appro



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


fondimenti, 
effettuati 
su 
impulso 
delle 
Commissioni 
riunite 
II 
e 
vI 
di 
Camera 
e 
Senato, 
in 
un’ottica 
di 
ulteriore 
rafforzamento del 
divieto di 
produzione 
di 
nuovi 
documenti 
in secondo 
grado 
[…], 
di 
vietare 
il 
deposito 
di 
deleghe, 
procure 
e 
altri 
atti 
di 
conferimento 
di 
potere, 
nonché 
di 
notifiche 
dell’atto impugnato ovvero di 
atti 
che 
ne 
costituiscono presupposto di 
legittimità 
e 
che 
possono essere 
prodotti 
in primo grado, anche 
ai 
sensi 
dell’articolo 14 comma 
6-bis». 


5.4.– È 
utile 
ricordare 
che, nella 
versione 
originaria, l’art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, al 
comma 
1, vietava 
l’ingresso di 
nuove 
prove 
in appello, salvo che 
il 
giudice 
non le 
ritenesse 
necessarie 
ai 
fini 
della 
decisione 
o che 
la 
parte 
dimostrasse 
di 
non averle 
potute 
dedurre 
nel 
precedente 
grado 
di 
giudizio 
per 
causa 
ad 
essa 
non 
imputabile, 
ma, 
al 
comma 
2, 
precisava 
che «[è] fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti». 


La 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
aveva 
interpretato quest’ultima 
previsione 
con particolare 
ampiezza, indicando come 
unico limite 
alla 
producibilità 
di 
nuovi 
documenti 
nel 
giudizio di 
secondo grado l’essere 
gli 
stessi 
diretti 
a 
dimostrare 
la 
fondatezza 
delle 
domande 
e 
delle 
eccezioni 
precluse 
dall’art. 57 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 (Corte 
di 
cassazione, sezione 
quinta 
civile, 
sentenze 
26 
giugno 
2024, 
n. 
17638 
e 
10 
aprile 
2024, 
n. 
9635; 
ordinanze 
25 
ottobre 
2024, 


n. 27741, 24 luglio 2024, n. 20550, 22 aprile 2024, n. 10788 e 27 febbraio 2024, n. 5199). 
5.4.1.– La 
previgente 
disciplina 
dei 
nova 
istruttori 
nell’appello tributario rinveniva 
il 
suo 
immediato referente nell’omologo regime dettato dal codice di procedura civile. 
Il 
contenuto 
precettivo 
del 
comma 
1 
dell’originario 
art. 
58 
era, 
infatti, 
pressoché 
coincidente 
con quello dell’art. 345 cod. proc. civ. nella 
formulazione 
assunta 
per effetto delle 
modifiche 
ad esso apportate 
dall’art. 52 della 
legge 
26 novembre 
1990, n. 353 (Provvedimenti 
urgenti 
per il 
processo civile). La 
disposizione 
del 
processo tributario ricalcava 
quella 
dettata 
per il 
processo civile 
sia 
quanto alla 
proibizione, in linea 
di 
principio, di 
nuove 
prove 
in appello, 
sia 
quanto 
alla 
previsione 
di 
un 
duplice 
temperamento 
a 
tale 
divieto, 
costituito 
dall’ammissione 
tanto 
della 
prova 
non 
dedotta 
in 
prime 
cure 
per 
causa 
non 
imputabile 
alla 
parte, 
quanto 
di 
quella ritenuta dal giudice necessaria ai fini della decisione. 


Come 
confermato dalla 
relazione 
illustrativa 
dello schema 
di 
decreto legislativo sulla 
disciplina 
del 
processo dinanzi 
agli 
organi 
speciali 
di 
giurisdizione 
in materia 
tributaria 
esaminato 
in Commissione 
bicamerale 
il 
16 dicembre 
1992, dal 
coevo modello civilistico l’art. 58 
si 
discostava 
per la 
previsione 
espressa 
della 
facoltà, per le 
parti, di 
produrre 
in appello nuovi 
documenti 
a 
prescindere 
dalla 
ricorrenza 
di 
una 
delle 
condizioni 
richieste 
dal 
comma 
1 per 
l’introduzione degli altri mezzi di prova. 


L’art. 345 cod. proc. civ., nel 
testo risultante 
dalla 
riforma 
introdotta 
dalla 
legge 
n. 353 del 
1990, disponeva, infatti, che 
«[n]el 
giudizio d’appello non possono proporsi 
domande 
nuove 
e, 
se 
proposte, 
debbono 
essere 
dichiarate 
inammissibili 
d’ufficio. 
Possono 
tuttavia 
domandarsi 
gli 
interessi, 
i 
frutti 
e 
gli 
accessori 
maturati 
dopo 
la 
sentenza 
impugnata, 
nonché 
il 
risarcimento 
dei 
danni 
sofferti 
dopo 
la 
sentenza 
stessa. 
non 
possono 
proporsi 
nuove 
eccezioni, 
che 
non 
siano 
rilevabili 
anche 
d’ufficio. 
non 
sono 
ammessi 
nuovi 
mezzi 
di 
prova, 
salvo 
che 
il 
collegio 
non li 
ritenga 
indispensabili 
ai 
fini 
della 
decisione 
della 
causa 
ovvero che 
la 
parte 
dimostri 
di 
non aver potuto proporli 
nel 
giudizio di 
primo grado per causa 
ad essa 
non imputabile. Può 
sempre deferirsi il giuramento decisorio». 


5.4.2.– La 
disciplina 
del 
processo civile 
che 
il 
legislatore 
del 
1992, nel 
configurare 
il 
giudizio 
tributario di 
secondo grado, ha 
tenuto presente 
è 
stata, tuttavia, oggetto di 
due 
ulteriori 
interventi 
riformatori, 
i 
quali 
hanno 
riscritto 
la 
disposizione 
del 
codice 
di 
rito 
in 
senso 
sempre 
più restrittivo, rendendo via via più netto il divario tra i due sistemi. 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


5.4.2.1.– 
L’art. 
345 
cod. 
proc. 
civ. 
è 
stato 
dapprima 
modificato 
dall’art. 
46, 
comma 
18, 
della 
legge 
n. 69 del 
2009, il 
quale 
ha 
aggiunto alla 
regola 
generale 
della 
impossibilità 
di 
assumere 
nuove 
prove 
in appello l’espresso divieto di 
produzione 
di 
nuovi 
documenti. un’analoga 
formulazione 
è 
stata 
di 
lì 
a 
poco adottata 
per il 
processo amministrativo dall’Allegato 1 
(Codice 
del 
processo amministrativo) al 
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione 
dell’articolo 44 della 
legge 
18 giugno 2009, n. 69, recante 
delega 
al 
governo per il 
riordino 
del 
processo 
amministrativo), 
il 
cui 
art. 
104, 
comma 
2, 
dispone 
che 
«[n]on 
sono 
ammessi 
nuovi 
mezzi 
di 
prova 
e 
non possono essere 
prodotti 
nuovi 
documenti, salvo che 
il 
collegio li 
ritenga 
indispensabili 
ai 
fini 
della 
decisione 
della 
causa, ovvero che 
la 
parte 
dimostri 
di 
non 
aver 
potuto 
proporli 
o 
produrli 
nel 
giudizio 
di 
primo 
grado 
per 
causa 
ad 
essa 
non 
imputabile». 


5.4.2.2.– 
La 
disciplina 
delle 
prove 
nell’appello 
civile 
è 
stata, 
infine, 
oggetto 
di 
un’ulteriore 
significativa 
revisione 
ad 
opera 
dell’art. 
54, 
comma 
1, 
lettera 
0b), 
del 
decreto-legge 
22 
giugno 
2012, 
n. 
83 
(Misure 
urgenti 
per 
la 
crescita 
del 
Paese), 
convertito, 
con 
modificazioni, 
nella 
legge 
7 agosto 2012, n. 134, il 
quale 
ha 
eliminato la 
possibilità 
di 
svolgere 
attività 
istruttoria 
in secondo grado in ragione 
della 
indispensabilità 
del 
mezzo probatorio, rendendo ancora 
più 
marcata 
la 
configurazione 
del 
giudizio 
di 
appello 
quale 
revisio 
prioris 
instantiae, 
piuttosto 
che come 
novum iudicium. 


5.4.2.3.– L’ammissibilità 
in appello di 
nuove 
prove 
indispensabili 
è, invece, rimasta 
ferma 
per il 
rito semplificato di 
cognizione 
e 
per il 
cosiddetto “rito Fornero”, non essendo stati 
modificati 
né 
l’art. 704-quater 
cod. proc. civ., né 
l’art. 1, comma 
59, della 
legge 
28 giugno 2012, 


n. 
92 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
riforma 
del 
mercato 
del 
lavoro 
in 
una 
prospettiva 
di 
crescita) 
-in seguito abrogati 
-, nonché 
per il 
rito del 
lavoro, essendo l’art. 437, secondo comma, cod. 
proc. civ. rimasto immutato. 
6.– Tutto ciò premesso, passando all’esame 
del 
merito delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevate, 
va 
anzitutto 
precisato 
che 
non 
risulta 
persuasiva 
l’interpretazione 
della 
disciplina 
in scrutinio prospettata 
dalla 
difesa 
statale 
-già 
illustrata 
nei 
precedenti 
punti 
4.3. 
e 
4.4. -, in base 
alla 
quale, da 
un lato, il 
divieto oggetto di 
censura 
non riguarderebbe 
le 
notificazioni 
dell’atto impugnato e 
degli 
atti 
presupposti 
e, dall’altro, tanto l’art. 58, comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
quanto 
l’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023 
si 
presterebbero 
ad una interpretazione conforme idonea a scongiurare le ipotizzate violazioni costituzionali. 


6.1.– Alla 
stregua 
dei 
comuni 
canoni 
ermeneutici, letterale 
e 
logico, il 
tenore 
dell’art. 58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
non 
consente, 
anzitutto, 
di 
escludere 
le 
notificazioni 
dallo 
spettro applicativo del divieto in esso sancito. 


nell’elenco 
riportato 
nella 
previsione 
in 
scrutinio 
è, 
infatti, 
possibile 
distinguere 
due 
gruppi 
omogenei 
di 
documenti, al 
primo dei 
quali 
vanno ascritti 
sia 
quelli 
riconducibili 
alle 
nozioni 
giuridiche 
delle 
«deleghe» 
e 
delle 
«procure», 
sia 
quelli 
ricadenti 
nella 
descrizione 
concettuale, 
ad esse 
funzionalmente 
affine, degli 
«altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti». 
Diversamente 
da 
quanto 
ritenuto 
dall’interveniente, 
infatti, la 
congiunzione 
“e” 
e 
l’aggettivo “altri” 
connettono logicamente 
il 
terzo elemento ai 
primi 
due, 
alla 
stregua 
di 
una 
clausola 
di 
chiusura 
che 
completa 
il 
primo 
ambito 
di 
operatività 
del 
divieto e, al 
contempo, lo distingue 
dal 
secondo, che, invece, comprende 
le 
notificazioni 
tanto del provvedimento impugnato quanto degli atti presupposti. 


6.2.– Deve, inoltre, rilevarsi 
che, contrariamente 
a 
quanto sostenuto dalla 
difesa 
statale, la 
configurazione 
del 
nuovo art. 58 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 offre 
una 
assoluta 
resistenza 
ad 
una 
lettura 
che, in chiave 
costituzionale, predichi 
la 
soggezione 
delle 
ipotesi 
contemplate 
nel 
comma 3 alla regola generale espressa dal comma 1. 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


6.2.1.– L’art. 58 riformato detta, infatti, una 
disciplina 
composita, articolata 
in una 
norma 
proibitiva 
generale, codificata 
nel 
comma 
1, che 
sancisce 
un divieto di 
nova 
istruttori 
in appello 
avente 
portata 
relativa, 
che, 
cioè, 
soffre 
una 
duplice 
eccezione 
nel 
caso 
in 
cui 
nuovo 
materiale 
probatorio, 
documentale 
e 
non, 
risulti 
indispensabile 
ai 
fini 
della 
decisione 
o 
la 
parte 
interessata 
dimostri 
di 
non averlo potuto introdurre 
in primo grado per causa 
ad essa 
non imputabile; 
e 
da 
una 
norma 
proibitiva 
speciale 
-contenente, cioè, un divieto di 
produzione 
in 
appello 
di 
alcuni 
specifici 
documenti 
-formulata 
in 
termini 
di 
assolutezza, 
come 
reso 
evidente 
dall’incipit 
dell’enunciato normativo («[n]on è mai consentito»). 


L’espressa 
indicazione 
delle 
ipotesi 
escluse 
dall’ambito applicativo della 
regola 
generale 
e 
la 
perentorietà 
del 
tenore 
letterale 
del 
divieto 
precludono 
una 
esegesi 
che 
faccia 
ricadere 
anche i documenti elencati al comma 3 nel divieto probatorio temperato di cui al comma 1. 


6.3.– Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla disciplina transitoria. 


L’inequivoca 
formulazione 
letterale 
dell’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023 
-il 
quale, in modo espresso, fa 
ricadere 
sotto lo ius 
superveniens 
i 
giudizi 
di 
appello incardinati 
dal 
giorno successivo all’entrata 
in vigore 
dell’innovazione 
normativa 
-non si 
presta 
all’interpretazione 
conforme proposta dall’interveniente al fine di escludere le lesioni denunciate. 


7.– Ciò posto, la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 
546 del 
1992, sollevata 
dalla 
CGT 
Campania 
in riferimento agli 
artt. 3, primo comma, 24, secondo 
comma, 
e 
111, 
secondo 
comma, 
Cost. 
è 
fondata 
nella 
parte 
in 
cui 
vieta 
il 
deposito 
delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della sottoscrizione degli atti. 


7.1.– Questa 
Corte 
è 
consapevole 
che 
la 
scelta 
legislativa 
di 
introdurre 
limiti 
più o meno 
stringenti 
all’ingresso 
di 
nuovo 
materiale 
cognitivo 
nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado 
involge 
opzioni 
assiologiche 
sulle 
finalità 
del 
processo di 
significativa 
complessità, come 
dimostrano le 
oscillazioni 
che 
hanno caratterizzato l’evoluzione 
legislativa 
dei 
nova 
nell’appello civile, di 
cui 
il 
recente 
intervento 
riformatore 
sull’omologo 
istituto 
del 
processo 
tributario 
ha 
certamente 
tenuto conto. Il 
legislatore 
è, infatti, chiamato a 
compiere 
una 
ponderazione 
tra 
le 
istanze 
di 
celerità 
e 
di 
certezza 
che 
informano 
il 
sistema 
delle 
preclusioni 
e 
l’esigenza 
di 
un 
accertamento 
giudiziale che sia il più aderente possibile alla verità materiale. 


ed è 
evidente 
che, con l’introduzione 
del 
divieto ex 
art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, il 
legislatore 
abbia 
inteso accordare 
priorità 
all’esigenza 
di 
arginare 
la 
dilatazione 
dei 
tempi di definizione del giudizio tributario. 


Gli 
stessi 
lavori 
preparatori 
confermano 
che 
il 
divieto 
è 
volto 
a 
circoscrivere 
ulteriormente, 
rispetto 
a 
quanto 
già 
previsto 
al 
comma 
1 
dello 
stesso 
art. 
58, 
lo 
spazio 
per 
un’appendice 
istruttoria 
in appello, in linea 
con gli 
obiettivi 
di 
riduzione 
del 
contenzioso tributario indicati 
dalla legge delega n. 111 del 2023 e dal Pnrr. 


Il 
divieto 
concerne, 
infatti, 
due 
tipologie 
di 
documenti 
-quelli 
comprovanti, 
rispettivamente, 
il 
conferimento del 
potere 
rappresentativo sostanziale 
e 
processuale 
e 
la 
notificazione 
dell’atto 
impugnato 
e 
di 
quelli 
ad 
esso 
presupposto 
-la 
cui 
mancata 
acquisizione 
in 
prime 
cure 
è 
all’origine 
di 
un vasto contenzioso, nell’ambito del 
quale, nel 
vigore 
del 
precedente 
testo dell’art. 58, la 
Corte 
di 
cassazione 
aveva 
confermato la 
producibilità 
in appello di 
entrambe 
le 
tipologie 
di 
prove 
documentali 
in questione 
(ex 
aliis, Corte 
di 
cassazione, sezione 
quinta 
civile, sentenza 
17 luglio 2019, n. 19190; 
ordinanze 
16 dicembre 
2024, n. 32657 e 
26 
maggio 2021, n. 14567). 


7.2.– Per quanto riguarda, però, le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti, la 
esclusione 
degli 
stessi 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


dalla 
regola 
-prevista 
per la 
generalità 
delle 
prove 
-della 
deducibilità 
in appello nei 
casi 
in 
cui il giudice ne ritenga indispensabile l’acquisizione o ne sia stata impossibile la deduzione 
in primo grado per causa 
non imputabile 
alla 
parte 
esibisce 
una 
manifesta 
irragionevolezza, 
così 
travalicando il 
limite 
all’esercizio della 
pur ampia 
discrezionalità 
riconosciuta 
al 
legislatore 
nella 
configurazione 
degli 
istituti 
processuali 
(ex 
multis, 
sentenze 
n. 
189 
e 
n. 
96 
del 
2024, 
n. 67 del 2023). 


7.3.– L’ampiezza 
semantica 
dei 
termini 
«deleghe» e 
«procure», confermata 
dalla 
clausola 
di 
chiusura 
concernente 
gli 
«altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere», induce 
ad includere 
nel 
perimetro 
del 
divieto ex 
art. 58, comma 
3, non solo le 
deleghe 
con cui 
viene 
attribuito il 
potere 
di 
firma 
degli 
atti 
impositivi 
e, più in generale, gli 
atti 
di 
conferimento della 
rappresentanza 
sul 
piano 
sostanziale, 
ma 
anche 
gli 
atti 
costituenti 
il 
presupposto 
della 
rappresentanza 
processuale 
e quelli di designazione del difensore abilitato all’assistenza tecnica in giudizio. 


7.3.1.– Il 
concetto di 
delega 
evoca, anzitutto, l’atto di 
conferimento della 
legittimazione 
sostitutiva 
indicato da 
diverse 
disposizioni 
come 
requisito di 
validità 
dell’accertamento tributario. 
emblematico, al 
riguardo, è 
l’art. 42 del 
decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
29 
settembre 
1973, 
n. 
600 
(Disposizioni 
comuni 
in 
materia 
di 
accertamento 
delle 
imposte 
sui 
redditi), il 
quale 
richiede, a 
pena 
di 
nullità 
dell’avviso di 
accertamento, la 
sottoscrizione 
del 
capo dell’ufficio, ovvero del 
direttore 
provinciale, o del 
funzionario della 
carriera 
direttiva 
da 
lui 
delegato 
(Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
quinta 
civile, 
ordinanza 
31 
ottobre 
2018, 
n. 
27871), con previsione estesa da specifiche disposizioni normative a diversi altri tributi. 


7.3.2.– I termini 
«deleghe» e 
«procure», rimandano, altresì, agli 
atti 
di 
attribuzione 
della 
rappresentanza 
processuale 
incidenti 
sulla 
capacità 
di 
stare 
in giudizio di 
cui 
all’art. 11 del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 e, quindi, da 
un lato, agli 
atti 
con cui 
i 
dirigenti 
degli 
uffici 
che, ai 
sensi 
dei 
commi 
2, 
3 
e 
3-ter 
della 
stessa 
disposizione, 
possono 
stare 
in 
giudizio 
anche 
direttamente, 
trasferiscono 
ad 
altro 
funzionario 
il 
potere 
di 
rappresentanza 
processuale 
ovvero 
il 
solo 
potere 
di 
firma 
degli 
atti 
processuali 
(ex 
aliis, Corte 
di 
cassazione, sezione 
quinta 
civile, sentenza 
14 
ottobre 
2015, n. 20628); 
dall’altro lato alle 
procure, generali 
o speciali, con cui 
le 
altre 
parti, 
a 
mente 
del 
comma 
1 
della 
medesima 
disposizione, 
possono 
designare 
un 
rappresentante 
processuale. 


Ancora, 
le 
deleghe 
e 
le 
procure 
richiamano 
il 
conferimento 
del 
potere 
di 
assistenza 
tecnica 
in 
giudizio 
ai 
soggetti 
abilitati 
ai 
sensi 
dell’art. 
12, 
comma 
3, 
del 
medesimo 
decreto 
legislativo. 


7.3.2.1.– 
Pur 
tuttavia, 
nell’accezione 
indicata 
nel 
punto 
precedente, 
gli 
atti 
in 
questione 
non costituiscono temi 
di 
prova 
soggetti 
alle 
ordinarie 
preclusioni 
istruttorie, in quanto non 
attengono al 
merito della 
causa, ma 
alla 
legittimazione 
processuale 
o alla 
rappresentanza 
tecnica 
e, quindi, alla 
regolare 
costituzione 
del 
rapporto processuale. esse 
non sono, pertanto, 
soggette 
al 
giudizio di 
indispensabilità 
supposto dall’art. 58, comma 
1, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, né ricadono nello speciale divieto di cui al comma 3 di tale disposizione. 


7.4.– Ciò precisato, va 
rilevato che, con la 
riforma 
di 
cui 
al 
d.lgs. n. 220 del 
2023, il 
legislatore 
ha 
optato 
per 
un 
modello 
di 
gravame 
ad 
istruttoria 
chiusa, 
temperato 
dal 
riconoscimento 
della 
facoltà, per le 
parti, di 
introdurre 
in secondo grado prove 
nuove 
indispensabili 
ai 
fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado. 


A 
fronte 
di 
una 
configurazione 
siffatta, la 
deroga 
alla 
regola 
della 
limitata 
acquisibilità 
di 
nova 
istruttori 
introdotta 
per le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
risulta 
priva di una ragionevole 
ratio distinguendi. 


La 
sottrazione 
di 
tali 
documenti 
al 
regime 
generale, pur perseguendo la 
finalità 
deflattiva 
di 
limitare 
ulteriormente 
il 
materiale 
cognitivo 
acquisibile 
in 
appello, 
non 
trova 
appiglio 
nelle 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


caratteristiche 
oggettive 
-strutturali, effettuali 
e 
funzionali 
-degli 
atti 
esclusi, non essendo 
rinvenibile 
in essi 
un elemento differenziale 
sul 
quale 
il 
legislatore, nell’esercizio della 
sua 
discrezionalità, possa costruire una disciplina diversificata. 


All’opposto, le 
deleghe, le 
procure 
e 
gli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
non solo appartengono 
al 
più ampio genus 
delle 
prove 
documentali, che 
l’art. 58, comma 
1, sottopone 
alla 
regola 
generale 
della 
producibilità, al 
ricorrere 
dei 
requisiti 
prescritti, in secondo grado, ma 
a 
differenza 
delle 
notificazioni 
dell’atto 
impugnato 
e 
di 
quelli 
presupposti, 
di 
cui 
si 
dirà 
meglio 
più avanti 
-non presentano tratti 
differenziali 
idonei 
ad incidere 
sul 
meccanismo di 
acquisizione 
di 
nova 
istruttori in appello. 


7.4.1.– La 
manifesta 
irragionevolezza 
del 
frammento normativo in esame 
viene 
ancor più 
chiaramente 
in luce 
ove 
si 
consideri 
che 
il 
divieto assoluto di 
produzione 
dei 
documenti 
con 
i 
quali 
si 
fornisce 
la 
prova 
della 
legittimazione 
sostanziale 
o processuale 
altera 
la 
parità 
delle 
armi, in quanto sottrae 
una 
facoltà 
difensiva 
alla 
parte 
che, in base 
al 
thema decidendum, sia 
chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio. 


7.5.– 
Deve, 
ancora, 
evidenziarsi 
che 
la 
disposizione 
in 
scrutinio, 
là 
dove 
inibisce 
il 
deposito 
in appello delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
pur quando 
ne 
sia 
stata 
incolpevolmente 
impossibile 
la 
produzione 
in primo grado, comporta 
un’ingiustificabile 
compressione 
del 
diritto 
alla 
prova 
(sentenze 
n. 
41 
del 
2024 
e 
n. 
275 
del 
1990), 
quale 
nucleo essenziale 
del 
diritto di 
difesa 
ex 
art. 24 Cost. (sentenze 
n. 205 del 
1997 e 
n. 248 
del 1974) e del contraddittorio. 


7.5.1.– occorre, infatti, considerare 
che 
il 
processo di 
appello costituisce 
la 
prima 
e 
unica 
occasione 
per dedurre 
i 
mezzi 
di 
prova 
che 
non siano stati 
introdotti 
in primo grado per causa 
non imputabile alla parte. 


La 
regola 
della 
deducibilità 
in secondo grado costituisce, in questo caso, una 
declinazione 
dell’istituto 
della 
rimessione 
in 
termini 
previsto 
dall’art. 
153 
cod. 
proc. 
civ. 
-applicabile 
anche 
nel 
processo 
tributario 
(ex 
aliis, 
Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
quinta 
civile, 
sentenza 
17 
giugno 
2015, n. 12544) -, il 
quale, essendo posto a 
presidio delle 
garanzie 
costituzionali 
difensive 
e 
del 
giusto processo (Corte 
di 
cassazione, sezione 
prima 
civile, ordinanza 
15 luglio 2024, n. 
19395), rappresenta 
un essenziale 
rimedio per eliminare, in via 
successiva, le 
conseguenze 
pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole. 


né, in relazione 
alla 
specifica 
ipotesi 
in esame, le 
conseguenze 
sfavorevoli 
derivanti 
dal 
divieto ex 
art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992 possono ritenersi 
adeguatamente 
bilanciate 
dall’interesse all’accelerazione dei tempi di definizione del giudizio. 


La 
finalità 
acceleratoria 
e 
deflattiva 
è, infatti, realizzata 
sopprimendo il 
diritto alla 
prova 
nei 
casi 
in cui 
il 
giudizio di 
appello rappresenta 
l’unica 
occasione 
per il 
suo esercizio, essendone 
stata 
la 
deduzione 
in 
prime 
cure 
impossibile 
a 
causa 
di 
un 
fatto 
ostativo 
esterno 
alla 
sfera 
volitiva e di controllo della parte. 


7.6.– 
Alla 
luce 
di 
quanto 
fin 
qui 
esposto, 
deve 
essere 
dichiarata 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
introdotto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, limitatamente 
alle 
parole 
«delle 
deleghe, delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti,». 


7.7.– rispetto al 
frammento normativo investito dalla 
dichiarazione 
di 
illegittimità 
costituzionale 
tutte le altre censure sono assorbite. 


8.– 
Per 
quanto 
concerne, 
invece, 
il 
divieto 
di 
produzione 
in 
appello 
delle 
«notifiche 
dell’atto 
impugnato 
ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
che 
possono 
essere 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


prodotti 
in primo grado anche 
ai 
sensi 
dell’articolo 14 comma 
6-bis», pure 
sancito dall’art. 
58, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
nessuna 
delle 
censure 
formulate 
dalle 
Corti 
rimettenti 
può trovare accoglimento. 


8.1.– Priorità 
logica 
deve 
essere 
accordata 
alla 
doglianza 
di 
eccesso di 
delega 
formulata 
dalla 
CGT 
Lombardia, la 
quale, come 
già 
detto, è 
da 
ritenersi 
riferibile 
al 
parametro di 
cui 
all’art. 
76 
Cost., 
non 
formalmente 
evocato, 
ma 
implicitamente 
sotteso 
dalle 
argomentazioni 
sviluppate 
dalla rimettente. 


8.1.1– Come 
chiarito dalla 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, la 
previsione 
di 
cui 
all’art. 76 
Cost. non osta 
all’emanazione, da 
parte 
del 
legislatore 
delegato, di 
norme 
che 
rappresentino 
un coerente 
sviluppo e 
un completamento delle 
scelte 
espresse 
dal 
legislatore 
delegante, dovendosi 
escludere 
che 
la 
funzione 
del 
primo sia 
limitata 
ad una 
mera 
scansione 
linguistica 
di 
previsioni stabilite dal secondo. 


Il 
sindacato costituzionale 
sulla 
delega 
legislativa 
deve, pertanto, svolgersi 
attraverso un 
confronto tra 
gli 
esiti 
di 
due 
processi 
ermeneutici 
paralleli, riguardanti, da 
un lato, le 
disposizioni 
che 
determinano 
l’oggetto, 
i 
princìpi 
e 
i 
criteri 
direttivi 
indicati 
dalla 
legge 
di 
delegazione 
e, dall’altro, le 
disposizioni 
stabilite 
dal 
legislatore 
delegato, da 
interpretarsi 
nel 
significato 
compatibile 
con 
i 
princìpi 
e 
i 
criteri 
direttivi 
della 
delega. 
Tale 
affermazione, 
se 
porta 
a 
ritenere 
del 
tutto fisiologica 
quell’attività 
normativa 
di 
completamento e 
sviluppo delle 
scelte 
del 
delegante, 
circoscrive, 
d’altra 
parte, 
il 
vizio 
in 
discorso 
ai 
casi 
di 
dilatazione 
dell’oggetto 
indicato 
dalla 
legge 
di 
delega, fino all’estremo di 
ricomprendere 
in esso materie 
che 
ne 
erano escluse 
(ex aliis, sentenze n. 129 del 2024 e n. 96 del 2020). 


8.1.2.– nel 
caso di 
specie, considerata 
l’ampiezza 
del 
criterio fissato dall’art. 19, comma 
1, lettera 
d), della 
legge 
delega 
n. 111 del 
2023, secondo il 
quale 
il 
Governo, nella 
revisione 
della 
disciplina 
del 
contenzioso tributario, avrebbe 
dovuto «rafforzare 
il 
divieto di 
produrre 
nuovi 
documenti 
nei 
gradi 
processuali 
successivi 
al 
primo», 
non 
può 
ritenersi 
che 
il 
legislatore 
delegato, nel 
prevedere, accanto ad un generale 
divieto di 
nova 
temperato, l’ulteriore 
e 
più 
stringente 
norma 
proibitiva 
di 
cui 
al 
censurato art. 58, comma 
3, si 
sia 
discostato dalla 
ratio 
della legge delega. 


8.2.– 
non 
contrasta, 
inoltre, 
con 
il 
principio 
di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 
3, 
primo 
comma, 
Cost. 
né 
lede 
il 
diritto 
alla 
prova 
ex 
art. 
24, 
secondo 
comma, 
Cost. 
e 
al 
contraddittorio 
ex 
art. 111, secondo comma, Cost. la 
scelta, alla 
base 
della 
previsione 
in scrutinio, di 
proibire 
il deposito delle notificazioni anche quando risultino indispensabili ai fini della decisione. 


8.2.1.– In proposito, è 
utile 
ricordare 
che, secondo la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, è 
indispensabile 
la 
prova 
idonea 
ad 
eliminare 
ogni 
possibile 
incertezza 
circa 
la 
ricostruzione 
fattuale 
accolta 
dalla 
pronuncia 
gravata, 
smentendola 
o 
confermandola, 
senza 
lasciare 
margini 
di 
dubbio, 
oppure 
quella 
in grado di 
provare 
quanto rimasto non dimostrato o non sufficientemente 
dimostrato, a 
prescindere 
dal 
rilievo che 
la 
parte 
interessata 
fosse 
incorsa, per propria 
negligenza 
o per altra 
causa, nelle 
preclusioni 
istruttorie 
del 
primo grado (Corte 
di 
cassazione, sezioni 
unite civili, sentenza 4 maggio 2017, n. 10790). 


8.2.2.– 
La 
facoltà 
di 
dedurre 
in 
appello 
una 
prova 
nuova, 
ma 
indispensabile 
costituisce, 
dunque, 
uno 
strumento 
di 
contemperamento 
tra 
il 
regime 
delle 
preclusioni 
istruttorie 
-il 
quale 
«non è 
un carattere 
tanto coessenziale 
al 
sistema 
da 
non ammettere 
alternative, essendo soltanto 
una 
tecnica 
elaborata 
per 
assicurare 
rispetto 
del 
contraddittorio, 
parità 
delle 
parti 
nel 
processo e 
sua 
ragionevole 
durata» (ancora 
Cass., sez. un. civ., n. 10790 del 
2017) -e 
l’esigenza 
che l’accertamento giudiziale sia aderente alla realtà dei fatti. 


La 
predisposizione 
di 
una 
disciplina 
che, 
al 
fine 
di 
favorire 
la 
ricerca 
della 
verità 
materiale, 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


accordi 
alle 
parti 
la 
possibilità 
di 
integrare 
in appello le 
carenze 
probatorie 
emerse 
all’esito 
del 
giudizio 
di 
primo 
grado 
non 
costituisce, 
dunque, 
una 
garanzia 
indefettibile 
del 
giusto 
processo, 
ma, piuttosto, un’attenuazione 
del 
rigore 
delle 
preclusioni 
istruttorie 
in appello, che 
il 
legislatore 
può, o meno, accordare 
«sulla 
base 
di 
una 
scelta 
discrezionale, come 
tale 
insindacabile
» (sentenza 
n. 199 del 
2017) e 
calibrare 
secondo le 
caratteristiche 
e 
le 
esigenze 
del 
tipo 
di processo. 


È, infatti, significativo che 
nel 
processo civile, all’esito di 
una 
travagliata 
evoluzione 
legislativa, 
tale facoltà sia stata espunta dalla disciplina dell’appello. 


Ciò che, invece, in ossequio ai 
principi 
consacrati 
negli 
artt. 24 e 
111 Cost., deve 
essere 
necessariamente 
assicurato è 
un sistema 
processuale 
che 
garantisca 
alle 
parti 
l’esercizio del 
diritto alla prova in almeno uno dei gradi di giudizio. 


8.2.3.– Ciò premesso, diversamente 
da 
quanto ritenuto dalle 
Corti 
rimettenti, rispetto alle 
notificazioni 
dell’atto 
impugnato 
e 
di 
quelli 
presupposti, 
la 
deroga 
in 
scrutinio 
appare 
sorretta 
da una adeguata ragione giustificativa. 


I documenti 
in esame 
-a 
differenza 
delle 
notifiche 
degli 
atti 
processuali 
che, essendo volte 
a 
documentare 
la 
regolarità 
dell’instaurazione 
e 
dello svolgimento del 
processo, sfuggono al 
divieto 
probatorio 
in 
scrutinio 
-forniscono 
la 
prova 
di 
una 
condizione 
di 
validità 
o 
di 
efficacia 
dell’esercizio 
della 
funzione 
impositiva, 
e 
per 
tale 
ragione 
la 
produzione 
degli 
stessi 
nei 
giudizi 
in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria. 


Infatti, 
la 
notificazione, 
da 
un 
lato, 
è 
condizione 
di 
efficacia 
degli 
atti 
impositivi, 
in 
quanto, 
stante 
il 
loro carattere 
recettizio, consente 
ad essi 
la 
produzione 
degli 
effetti, senza 
tuttavia 
incidere 
sulla 
loro validità 
(Corte 
di 
cassazione, sezione 
quinta 
civile, ordinanza 
24 agosto 
2018, 
n. 
21071); 
dall’altro 
lato, 
integra 
un 
requisito 
di 
validità 
dell’atto 
consequenziale, 
posto 
che, secondo una 
consolidata 
giurisprudenza 
di 
legittimità, l’omissione 
della 
notifica 
di 
un 
atto 
presupposto 
costituisce 
un 
vizio 
procedurale 
che 
comporta 
la 
nullità 
dell’atto 
consequenziale 
notificato (Corte 
di 
cassazione, sezioni 
unite 
civili, sentenza 
4 marzo 2008, n. 5791; 
sezione 
quinta civile, ordinanza 18 gennaio 2018, n. 1144). 


va, inoltre, considerato che, come 
chiarito dalle 
pronunce 
ora 
richiamate, in quest’ultimo 
caso la 
nullità 
può essere 
fatta 
valere 
dal 
contribuente 
mediante 
la 
scelta, consentita 
dall’art. 
19, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
di 
impugnare 
solo 
l’atto 
consequenziale 
notificatogli, 
facendo valere 
il 
vizio derivante 
dall’omessa 
notifica 
dell’atto presupposto, o di 
impugnare 
cumulativamente 
anche 
quello presupposto (nell’ordine, cartella 
di 
pagamento, avviso di 
accertamento 
o avviso di 
liquidazione) non notificato, facendo valere 
i 
vizi 
che 
inficiano quest’ultimo, 
per contestare radicalmente la pretesa tributaria. 


La 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
anche 
evidenziato che 
se, in quest’ultimo caso, il 
giudizio verte 
sull’esistenza, o meno, della 
pretesa 
tributaria, nel 
primo il 
giudice 
è 
chiamato a 
verificare 
esclusivamente 
la 
sussistenza, 
o 
meno, 
del 
difetto 
di 
notifica, 
al 
fine 
di 
pronunciarsi 
sulla 
nullità 
dell’atto consequenziale 
(con eventuale 
estinzione 
della 
pretesa 
tributaria 
a 
seconda 
se 
i 
termini di decadenza siano o meno decorsi) (Cass., sez. un. civ., n. 5791 del 2008). 


Da 
ciò deriva 
che, in tale 
ultima 
evenienza, la 
dimostrazione, o meno, della 
notificazione 
contestata definisce il giudizio. 


8.2.4.– ed è 
in ragione 
di 
tale 
attitudine 
dimostrativa 
che, rispetto alle 
notificazioni, il 
legislatore 
ha 
ritenuto superflua, perché 
inutilmente 
dilatoria, l’operatività 
del 
modello temperato 
di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992. 


Si 
è 
voluto, in questo modo, evitare 
che 
nelle 
controversie 
in cui 
si 
faccia 
questione 
della 
esistenza 
o della 
validità 
delle 
notifiche 
il 
giudizio di 
appello venga 
instaurato al 
solo fine 
di 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


effettuare 
un deposito documentale 
che, pur essendo da 
solo sufficiente 
per la 
definizione 
del 
giudizio, sia stato omesso in prime cure. 


8.3.– Il 
divieto di 
produzione 
delle 
notifiche 
in appello si 
sottrae 
alle 
censure 
di 
irragionevolezza 
e 
di 
violazione 
degli 
artt. 24 e 
111, secondo comma, Cost., anche 
là 
dove 
non esclude 
dal 
proprio ambito di 
applicazione 
l’ipotesi 
in cui 
la 
parte 
dimostri 
di 
non aver potuto depositare 
il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 


8.3.1.– 
Giova, 
anzitutto, 
ricordare 
che 
nella 
disciplina 
generale 
dei 
nova 
istruttori 
in 
appello 
la 
causa 
non imputabile 
coincide 
con un fatto estraneo alla 
sfera 
di 
controllo della 
parte 
che 
rende 
impossibile 
la 
tempestiva 
deduzione 
della 
prova 
in prime 
cure. In tale 
nozione 
rientra 
anche 
il 
caso 
di 
ignoranza 
incolpevole 
della 
esistenza 
della 
prova 
o 
quello 
in 
cui 
la 
stessa 
prova 
sia 
venuta 
ad esistenza 
in un momento successivo al 
maturare 
delle 
preclusioni 
istruttorie 
del giudizio di primo grado. 


va 
anche 
rammentato che 
nelle 
suddette 
evenienze, ai 
fini 
della 
restituzione 
in termini, la 
valutazione 
dell’imputabilità 
dell’impedimento 
deve 
effettuarsi 
con 
riferimento 
allo 
sforzo 
di 
diligenza 
richiesto nel 
caso concreto (Corte 
di 
cassazione, sezione 
terza 
civile, ordinanza 
25 
novembre 2024, n. 30324). 


8.3.2.– rispetto alla 
notificazione 
degli 
atti 
tributari 
non è 
configurabile, sul 
piano logico, 
né 
l’ipotesi 
in cui 
il 
documento venga 
ad esistenza 
successivamente 
allo spirare 
dei 
termini 
per le 
deduzioni 
istruttorie 
del 
giudizio di 
primo grado in cui 
sia 
in contestazione 
l’atto notificato, 
né 
quella 
in cui 
l’amministrazione 
venga 
a 
conoscenza 
della 
sua 
esistenza 
solo dopo 
che sia maturata detta preclusione. 


Ciò in quanto l’atto tributario produce 
i 
suoi 
effetti 
tipici 
per mezzo della 
notificazione, 
sicché 
o la 
notifica 
esiste 
-e 
quindi 
deve 
essere 
necessariamente 
conosciuta 
dall’amministrazione, 
sulla 
quale 
grava 
un dovere 
qualificato di 
documentazione 
del 
procedimento notifica-
torio 
e 
di 
conservazione 
e 
custodia 
dei 
relativi 
atti 
-prima 
che 
la 
pretesa 
impositiva 
venga 
azionata, oppure 
la 
stessa 
pretesa 
è 
da 
ritenersi 
inefficace 
ab origine 
e 
quindi 
non può essere 
fatta valere. 


8.3.3.– 
Inoltre, 
laddove 
le 
contestazioni 
cadano 
sulla 
notifica 
di 
un 
atto 
presupposto 
emesso 
da 
un soggetto diverso da 
quello che 
ha 
adottato l’atto impugnato, il 
comma 
6-bis 
dell’art. 14 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
parimenti 
introdotto 
dal 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023, 
impone 
che 
il 
ricorso 
introduttivo sia 
sempre 
proposto nei 
riguardi 
di 
entrambi 
i 
soggetti, al 
fine 
di 
consentire 
che 
la 
produzione 
della 
notifica 
avvenga 
direttamente 
ad opera 
dell’ente 
che 
ha 
provveduto alla 
sua esecuzione. 


Diverso è, invece, il 
caso in cui 
l’impossibilità 
di 
produrre 
in primo grado la 
documentazione 
attestante 
la 
notificazione 
dell’atto impugnato derivi 
dalla 
sua 
distruzione 
o perdita 
per 
fatto 
estraneo 
alla 
sfera 
di 
controllo 
dell’amministrazione, 
venendo, 
in 
tale 
evenienza, 
in 
considerazione 
la 
diversa 
facoltà, 
da 
esercitarsi 
pur 
sempre 
entro 
i 
termini 
per 
le 
deduzioni 
istruttorie 
del 
giudizio di 
primo grado, di 
ricostruire 
il 
documento smarrito o distrutto attraverso 
altri 
mezzi 
di 
prova, come 
ad esempio la 
testimonianza 
scritta 
ex 
art. 257-bis 
cod. proc. civ., 
estesa 
anche 
al 
processo tributario dall’art. 7, comma 
4, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
sostituito 
dall’art. 
4, 
comma 
1, 
lettera 
c), 
della 
legge 
31 
agosto 
2022 
n. 
130 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
giustizia 
e 
di 
processo 
tributari): 
ciò 
in 
applicazione 
del 
principio 
generale 
desumibile 
dall’art. 2724 cod. civ., la 
cui 
estensione 
al 
diritto tributario è 
stata 
confermata 
dalla 
stessa 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
sesta 
civile, 
ordinanza 
16 
novembre 
2016, n. 23331). 


8.3.4.– È 
evidente 
come 
la 
restrizione 
operata 
dall’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


1992 
sia 
diretta 
a 
evitare 
che 
il 
giudizio 
di 
primo 
grado 
venga 
inutilmente 
instaurato 
in 
difetto 
di 
una 
regolare 
notifica, 
nonché 
ad 
arginare 
le 
distorsioni 
processuali 
indotte 
dalla 
«grave 
vulnerabilità 
ed 
inefficienza, 
anche 
con 
riferimento 
al 
sistema 
delle 
notifiche, 
che 
ancora 
affligge 
il sistema italiano della riscossione» (sentenza n. 190 del 2023). 


non può, infatti 
non ricordarsi 
come 
le 
gravi 
inefficienze 
del 
sistema 
della 
riscossione 
abbiano 
dato 
origine 
«“[al]l’enorme 
proliferazione, 
negli 
ultimi 
anni, 
di 
controversie 
strumentali 
di 
impugnazione 
degli 
estratti 
di 
ruolo radicate 
dai 
debitori 
iscritti 
a 
ruolo” 
con “un aumento 
esponenziale 
delle 
cause 
[…] innanzi 
alle 
Commissioni 
Tributarie, ai 
Giudici 
di 
Pace 
e, più 
in 
generale, 
alla 
Magistratura 
ordinaria 
per 
far 
valere, 
spesso 
pretestuosamente, 
ogni 
sorta 
d’eccezione 
avverso cartelle 
notificate 
anche 
molti 
anni 
prima, senza 
che 
l’Agente 
della 
riscossione 
si 
fosse 
attivato 
in 
alcun 
modo 
per 
il 
recupero 
delle 
pretese 
ad 
esse 
sottese, 
e 
perfino 
nei 
casi 
in 
cui 
vi 
avesse 
rinunciato, 
anche 
nell’esercizio 
dell’autotutela” 
(relazione 
finale 
della 
Commissione 
interministeriale 
per la 
riforma 
della 
giustizia 
tributaria 
del 
30 giugno 2021)» 
(ancora, sentenza n. 190 del 2023). 


8.4.– Sempre 
con riferimento al 
divieto di 
produzione 
in appello delle 
notificazioni, non è 
fondata 
neppure 
la 
censura 
di 
violazione 
del 
principio di 
eguaglianza 
e 
di 
parità 
delle 
armi, 
posto che, come 
già 
evidenziato, il 
regime 
diversificato introdotto per gli 
atti 
in questione 
risulta 
non manifestamente irragionevole. 


8.5.– 
Parimenti 
non 
fondata 
è 
la 
censura 
con 
la 
quale 
si 
lamenta 
che 
la 
disposizione 
in 
scrutinio 
impedirebbe 
al 
giudice 
di 
pervenire 
ad una 
decisione 
giusta 
attraverso la 
ricerca 
della 
verità materiale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost. 


L’aderenza 
della 
ricostruzione 
processuale 
dei 
fatti 
alla 
verità 
materiale 
non è 
oggetto di 
specifica 
protezione 
costituzionale, essendo piuttosto le 
garanzie 
del 
giusto processo espressamente 
sancite 
dall’art. 111 Cost. a 
coadiuvare 
il 
giudice 
nell’accertamento della 
verità 
conducendolo 
ad una decisione giusta. 


8.6.– Deve, infine, escludersi 
la 
denunciata 
ingerenza 
del 
legislatore 
nel 
potere 
giurisdizionale 
di valutazione della prova. 


Anzitutto, 
l’apprezzamento 
della 
indispensabilità 
non 
concerne 
l’attitudine 
dimostrativa 
della 
prova, quanto, piuttosto, la 
sua 
idoneità 
ad eliminare 
ogni 
possibile 
incertezza 
in ordine 
ad una 
ricostruzione 
fattuale 
già 
effettuata 
dal 
giudice 
di 
prime 
cure 
(Cass., sez. un. civ., n. 
10790 del 2017). 


In ogni 
caso, l’ordinamento processuale 
ammette 
la 
possibilità 
che 
il 
potere 
giudiziale 
di 
valutazione 
della 
prova 
subisca 
limitazioni 
imposte 
dalla 
legge, 
come 
è 
reso 
evidente 
dal 
principio 
generale 
espresso dall’art. 116 cod. proc. civ., secondo il 
quale 
il 
giudice 
deve 
valutare 
le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. 


9.– venendo alle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevate 
dalla 
CGT 
Lombardia 
in 
riferimento all’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, sono fondate 
le 
censure 
ex 
artt. 3 
e 
111 Cost., con cui 
si 
prospetta, da 
un lato, la 
«palese 
ed ingiustificata 
violazione» del 
principio 
del 
giusto 
processo 
«sotto 
il 
profilo 
della 
prevedibilità 
delle 
regole 
processuali 
dell’intero 
percorso di 
tutela» e, dall’altro, il 
pregiudizio recato alla 
scelta 
difensiva 
delle 
parti 
dei 
processi 
già 
instaurati 
in 
primo 
grado 
al 
momento 
dell’entrata 
in 
vigore 
della 
novella 
processuale. 


9.1.– Questa 
Corte 
ha 
affermato che 
ampia 
è 
la 
discrezionalità 
del 
legislatore 
nell’operare 
le 
scelte 
più opportune 
per disciplinare 
la 
successione 
di 
leggi 
processuali 
nel 
tempo (ordinanze 
n. 382 e n. 213 del 2005). 


Il 
regime 
transitorio 
è, 
infatti, 
«volto 
ad 
assicurare 
il 
passaggio 
da 
una 
disciplina 
ad 
un’altra 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


secondo tempi 
e 
scale 
di 
priorità 
che 
rientrano nel 
senso politico della 
discrezionalità 
legislativa, 
sì 
che 
ben 
può 
essere 
mantenuta 
in 
vita 
solo 
una 
parte 
ovvero 
la 
totalità 
delle 
norme 
abrogate 
in 
riferimento 
a 
situazioni 
pendenti, 
e 
variamente 
stabilita 
la 
sorte 
dei 
processi 
in 
corso» (sentenza n. 400 del 1996). 


In 
relazione 
alle 
disposizioni 
intertemporali, 
questa 
Corte 
ha 
peraltro 
precisato 
che 
vige 
«il 
principio 
generale 
il 
quale 
esige 
che 
il 
passaggio 
da 
un 
previgente 
ad 
un 
nuovo 
regime 
processuale 
non 
sia 
regolato 
da 
norme 
manifestamente 
irragionevoli 
e 
lesive 
dell’affidamento 
nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite» (sentenza n. 309 del 2008). 


Il 
principio 
della 
tutela 
dell’affidamento 
come 
«ricaduta 
e 
declinazione 
“soggettiva”» 
della 
certezza 
del 
diritto, la 
quale, a 
propria 
volta, integra 
un «elemento fondamentale 
e 
indispensabile 
dello Stato di 
diritto», è 
connaturato sia 
all’ordinamento nazionale, sia 
al 
sistema 
giuridico 
sovranazionale (sentenze n. 70 e n. 4 del 2024, n. 210 del 2021). 


Tale 
principio non esclude 
che 
il 
legislatore 
possa 
adottare 
disposizioni 
che 
modificano in 
senso sfavorevole 
agli 
interessati 
la 
disciplina 
di 
rapporti 
giuridici, anche 
in relazione 
a 
diritti 
soggettivi 
perfetti. 
Ciò 
può 
avvenire, 
tuttavia, 
a 
condizione 
«che 
tali 
disposizioni 
non 
trasmodino 
in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a 
situazioni 
sostanziali 
fondate 
sulle 
leggi 
precedenti, l’affidamento dei 
cittadini 
nella 
sicurezza 
giuridica» (sentenza 
n. 216 
del 2023; nello stesso senso, sentenza n. 145 del 2022). 


9.2.– Il limite della ragionevolezza risulta, nella specie, superato. 


L’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 dispone 
l’immediata 
applicazione 
del 
nuovo 
art. 
58 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
(segnatamente 
delle 
disposizioni 
«di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
1, letter[a] […] 
bb)» del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, che 
hanno riscritto in senso più restrittivo la 
disciplina 
dei 
nova 
istruttori 
in appello dettata 
dal 
previgente 
art. 58) ai 
processi 
di 
primo e 
secondo 
grado 
e 
di 
cassazione 
incardinati 
a 
far 
data 
dal 
giorno 
successivo 
all’entrata 
in 
vigore 
(prevista per il 4 gennaio 2024) del medesimo d.lgs. n. 220 del 2023. 


Così 
disponendo, tuttavia, la 
previsione 
transitoria 
oblitera 
la 
circostanza 
che 
nei 
processi 
iniziati 
in grado di 
appello dopo tale 
data, il 
cui 
primo grado sia 
stato incardinato nel 
vigore 
della 
precedente 
disciplina, le 
parti, confidando sulla 
facoltà, loro riconosciuta 
dal 
previgente 
art. 58, comma 
2, di 
depositare 
documenti 
anche 
nell’eventuale 
processo di 
gravame, potrebbero 
averne omesso la produzione in prime cure. 


Infatti, 
nei 
casi 
in 
cui, 
al 
momento 
dell’entrata 
in 
vigore 
della 
novella, 
i 
termini 
per 
le 
deduzioni 
istruttorie 
ex 
art. 
32 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992 
siano 
già 
spirati, 
le 
parti 
non 
hanno 
la 
possibilità 
di 
prevenire 
le 
conseguenze 
dei 
sopravvenuti 
divieti 
probatori 
-e 
in 
special 
modo 
di 
quello 
assoluto 
ex 
art. 
58, 
comma 
3 
-mediante 
un 
tempestivo 
deposito 
nel 
giudizio 
di 
primo 
grado. 


In 
questo 
modo, 
lo 
ius 
superveniens, 
sebbene 
formalmente 
operi 
per 
il 
futuro, 
nella 
sostanza 
incide 
sugli 
effetti 
giuridici 
di 
situazioni 
processuali 
verificatesi 
nei 
giudizi 
iniziati 
nel 
vigore 
della precedente normativa e ancora in corso. 


esso, 
infatti, 
finisce 
per 
riconsiderare, 
sanzionandola 
ex 
post, 
la 
mancata 
produzione 
di 
documenti 
in primo grado, senza 
considerare 
che 
la 
disciplina 
previgente 
ne 
consentiva 
ampiamente 
il 
differimento 
in 
appello, 
come 
confermato 
dalla 
ricordata 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
secondo 
cui 
la 
producibilità 
di 
nuovi 
documenti 
nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado 
era 
da 
escludere 
per 
i 
soli 
documenti 
diretti 
a 
dimostrare 
la 
fondatezza 
delle 
domande 
e 
delle 
eccezioni 
precluse 
dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992. 


In 
definitiva, 
per 
i 
processi 
nei 
quali, 
al 
momento 
dell’entrata 
in 
vigore 
della 
novella, 
siano 
già 
decorsi 
i 
termini 
per le 
produzioni 
documentali 
in primo grado, l’immediata 
efficacia 
del 
mutamento normativo determina 
conseguenze 
non dissimili 
da 
quelle 
della 
retroattività 
im



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


propria, in quanto, frustrando l’aspettativa 
delle 
parti 
che 
hanno confidato nella 
possibilità 
di 
esercitare 
il 
loro diritto alla 
prova 
anche 
in appello, lede 
il 
legittimo affidamento, «da 
considerarsi 
ricaduta 
e 
declinazione 
“soggettiva” 
dell’indispensabile 
carattere 
di 
coerenza 
di 
un 
ordinamento 
giuridico, quale 
manifestazione 
del 
valore 
della 
certezza 
del 
diritto» (sentenza 
n. 
108 del 2019). 


È 
pur vero che, con riferimento particolare 
ai 
rapporti 
di 
durata, e 
alle 
modificazioni 
peggiorative 
che 
su di 
essi 
incidono secondo il 
meccanismo della 
cosiddetta 
retroattività 
impropria, 
questa 
Corte 
ha 
più volte 
affermato che 
il 
legislatore 
dispone 
di 
ampia 
discrezionalità 
e 
può anche 
modificare 
in senso sfavorevole 
la 
disciplina 
di 
quei 
rapporti, ancorché 
l’oggetto 
sia 
costituito da 
diritti 
soggettivi 
perfetti, e 
comunque 
a 
condizione 
che 
la 
retroattività 
trovi 
adeguata 
giustificazione 
sul 
piano della 
ragionevolezza 
e 
non trasmodi 
in un regolamento irrazionalmente 
lesivo del 
legittimo affidamento dei 
cittadini 
(ex 
plurimis, sentenze 
n. 136 del 
2022, n. 234 del 2020 e n. 241 del 2019). 


Tuttavia, una 
giustificazione 
siffatta 
non si 
ravvisa 
nel 
caso di 
specie, non potendo la 
pur 
legittima 
esigenza 
di 
dare 
immediata 
attuazione 
alla 
disciplina 
che 
il 
legislatore 
ha 
ritenuto 
più adeguata 
e 
opportuna, così 
sostituendola 
a 
quella 
contestualmente 
abrogata, prevalere 
su 
situazioni giuridiche già maturate nel previgente assetto normativo. 


Del 
resto, 
in 
relazione 
alla 
previgente 
disciplina 
dei 
nova 
in 
appello 
dettata 
dall’art. 
58 
del 
d.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
l’art. 
79, 
comma 
1, 
dello 
stesso 
decreto 
legislativo 
aveva 
espressamente 
previsto 
che 
le 
relative 
disposizioni 
«non 
si 
applicano 
ai 
giudizi 
già 
pendenti 
in 
grado 
d’appello 
davanti 
alla 
commissione 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
e 
a 
quelli 
iniziati 
davanti 
alla 
commissione 
tributaria 
regionale 
se 
il 
primo 
grado 
si 
è 
svolto 
sotto 
la 
disciplina 
della 
legge 
anteriore». 


9.3.– L’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 deve, pertanto, essere 
dichiarato costituzionalmente 
illegittimo 
nella 
parte 
in 
cui 
prescrive 
che 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 
1, 
comma 
1, lettera 
bb), dello stesso d.lgs. n. 220 del 
2023 si 
applicano ai 
giudizi 
instaurati 
in secondo 
grado 
a 
decorrere 
dal 
giorno 
successivo 
alla 
sua 
entrata 
in 
vigore, 
anziché 
ai 
giudizi 
di 
appello 
il 
cui 
primo 
grado 
sia 
instaurato 
successivamente 
all’entrata 
in 
vigore 
del 
d.lgs. 
n. 
220 
del 
2023. 


9.4.– Le 
restanti 
censure 
riguardanti 
l’art. 4, comma 
2, del 
d.lgs. n. 220 del 
2023 sono assorbite. 


Per 
QueSTI 
MoTIvI 


LA CorTe CoSTITuzIonALe 


riuniti i giudizi, 


1) dichiara 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
decreto legislativo 31 
dicembre 
1992, n. 546 (Disposizioni 
sul 
processo tributario in attuazione 
della 
delega 
al 
Governo 
contenuta 
nell’art. 30 della 
legge 
30 dicembre 
1991, n. 413), come 
introdotto dall’art. 
1, 
comma 
1, 
lettera 
bb), 
del 
decreto 
legislativo 
30 
dicembre 
2023, 
n. 
220 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
contenzioso 
tributario), 
limitatamente 
alle 
parole 
«delle 
deleghe, 
delle 
procure 
e 
degli 
altri 
atti 
di 
conferimento di 
potere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
legittimità 
della 
sottoscrizione 
degli 
atti,»; 
2) dichiara 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 4, comma 
2, del 
decreto legislativo 30 dicembre 
2023, 
n. 
220 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
contenzioso 
tributario), 
nella 
parte 
in 
cui 
prescrive 
che 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), dello stesso d.lgs. n. 220 del 
2023 si 
applicano ai 
giudizi 
instaurati 
in secondo grado a 
decorrere 
dal 
giorno successivo alla 
sua 
entrata 
in vigore, anziché 
ai 
giudizi 
di 
appello il 
cui 
primo grado sia 
instaurato successivamente 
all’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo; 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


3) dichiara non fondate 
le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
introdotto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, nella 
parte 
in cui 
non consente 
la 
produzione 
in appello delle 
«notifiche 
dell’atto impugnato 
ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
che 
possono 
essere 
prodotti 
in primo grado anche 
ai 
sensi 
dell’articolo 14 comma 
6-bis», sollevate, in riferimento 
agli 
artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 
111, primo e 
secondo 
comma, 
della 
Costituzione, 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
della 
Campania, 
sezione 16, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 
4) dichiara 
non fondate 
le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 58, comma 
3, del 
d.lgs. n. 546 del 
1992, come 
introdotto dall’art. 1, comma 
1, lettera 
bb), del 
d.lgs. n. 220 del 
2023, nella 
parte 
in cui 
non consente 
la 
produzione 
in appello delle 
«notifiche 
dell’atto impugnato 
ovvero 
degli 
atti 
che 
ne 
costituiscono 
presupposto 
di 
legittimità 
che 
possono 
essere 
prodotti 
in primo grado anche 
ai 
sensi 
dell’articolo 14 comma 
6-bis», sollevate, in riferimento 
agli 
artt. 
3, 
primo 
comma, 
24, 
secondo 
comma, 
76, 
102, 
primo 
comma, 
e 
111, 
primo 
e 
secondo 
comma, Cost., dalla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo grado della 
Lombardia, sezione 
19, con l’ordinanza indicata in epigrafe. 
Così 
deciso in roma, nella 
sede 
della 
Corte 
costituzionale, Palazzo della 
Consulta, il 
30 
gennaio 2025. 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


Giudicato 
penale 
assolutorio 
nel 
processo 
tributario. 
La 
rimessione 
alle 
Sezioni 
unite 
di 
talune 
rilevanti 
questioni 
concernenti 
l’ambito 
di 
efficacia 
dell’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
74/2000 


Nota 
a 
Corte 
Di 
CassazioNe, sezioNe 
tributaria, orDiNaNza 
4 marzo 
2025 N. 5714 


Erica Farinelli* 


sommario: 1. l’ordinanza di 
rimessione 
alle 
sezioni 
unite 
-2. il 
contrasto giurisprudenziale 
profilatosi 
con riferimento agli 
effetti 
nel 
processo tributario, anche 
di 
cassazione, 
del 
giudicato penale 
assolutorio -3. la rilevanza della sentenza penale 
assolutoria pronunciata 
ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. 


1. l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite. 
Con l’ordinanza 
in commento, la 
Cassazione, dopo avere 
premesso che 
sulla 
questione 
relativa 
agli 
effetti 
nel 
processo 
tributario, 
anche 
di 
cassazione, 
del 
giudicato penale 
assolutorio si 
sono «formati 
due, non conciliabili, orientamenti
», ha 
ritenuto di 
rimettere, ai 
sensi 
dell’art. 374, comma 
2, c.p.c., alla 
pronuncia 
delle 
Sezioni 
unite 
la 
soluzione 
di 
talune 
rilevanti 
questioni 
concernenti 
l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis 
D.Lgs. 74/2000. 


Tale 
disposizione 
(introdotta 
con 
l’art. 
1, 
comma 
1, 
lett. 
m), 
D.Lgs. 
14 
giugno 2024, n. 87), così dispone ai primi due commi: 


1. la sentenza irrevocabile 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste 
o 
l’imputato 
non 
lo 
ha 
commesso, 
pronunciata 
in 
seguito 
a 
dibattimento 
nei 
confronti 
del 
medesimo 
soggetto 
e 
sugli 
stessi 
fatti 
materiali 
oggetto 
di 
valutazione 
nel 
processo tributario, ha, in questo, efficacia di 
giudicato, in ogni 
stato e 
grado, quanto ai fatti medesimi. 
2. la sentenza penale 
irrevocabile 
di 
cui 
al 
comma 1 può essere 
depositata 
anche 
nel 
giudizio 
di 
Cassazione 
fino 
a 
quindici 
giorni 
prima 
dell’udienza 
o dell’adunanza in camera di consiglio 
(1). 
nel 
giudizio 
in 
questione 
-concernente 
l’impugnazione 
degli 
avvisi 
d’accertamento 
e 
degli 
atti 
di 
contestazione 
relativi 
ai 
maggiori 
redditi 
percepiti 
nel 
territorio 
dello 
Stato 
-le 
ricorrenti, 
nel 
rispetto 
del 
termine 
di 
quindici 
giorni 
prima 
dell’udienza 
previsto dall’art. 21-bis, comma 
2, D.Lgs. 74/2000, 
avevano depositato sentenza 
penale 
assolutoria, ai 
sensi 
dell’art. 530, comma 
2, c.p.p., dal 
reato di 
omessa 
dichiarazione 
dei 
redditi 
perché 
il 
fatto non sussiste. 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) 
L’intero 
art. 
21-bis 
è 
stato 
trasfuso 
nell’art. 
112 
del 
D.Lgs. 
175/2024 
(Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria), in vigore 
dal 
29 novembre 
2024, ma 
applicabile 
dal 
1° 
gennaio 2026, data 
da 
cui 
decorrono 
l’abrogazione 
delle 
disposizioni 
del 
D.Lgs. n. 546 del 
1992 e 
l’efficacia 
dello stesso testo unico, come 
espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso D.Lgs. n. 175 del 2024. 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


La 
Suprema 
Corte, dopo avere 
ricostruito la 
cornice 
normativa 
(2) e 
giurisprudenziale 
(3) antecedente 
all’intervento normativo in questione, si 
è 
soffermata, 
in 
particolare, 
sulle 
questioni 
di 
diritto 
intertemporale 
sollevate 
dall’art. 21-bis 
D.Lgs. 74/2000 e 
sugli 
effetti 
del 
giudicato penale 
assolutorio 
nel giudizio tributario. 


Sotto il 
primo profilo, la 
Corte 
ha 
chiarito che 
detta 
norma 
risulta 
applicabile 
quale 
«ius 
superveniens» anche 
ai 
casi 
in cui 
la 
sentenza 
penale 
assolutoria 
sia divenuta irrevocabile 


«prima della operatività di 
detto articolo e, alla data della sua entrata 
in vigore, risulta ancora pendente 
il 
giudizio di 
cassazione 
contro la sentenza 
tributaria d’appello che 
ha condannato il 
contribuente 
in relazione 
ai 
medesimi 
fatti, 
rilevanti 
penalmente, 
dai 
quali 
egli 
è 
stato 
irrevocabilmente 
assolto, 
in 
esito 
a 
giudizio 
dibattimentale, 
con 
una 
delle 
formule 
di 
merito 
previste 
dal 
codice 
di 
rito penale 
(perché 
il 
fatto non sussiste 
o perché 
l’imputato non l’ha 
commesso)» 
(cfr. 
Cass. 
1021/2025; 
Cass. 
30814/2024; 
Cass. 
23609/2024; 
Cass. 23570/2024; Cass. 21584/2024). 


Quanto al 
secondo profilo, la 
Corte 
ha 
evidenziato che, in relazione 
agli 
effetti, 
ai 
sensi 
dell’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, 
nel 
processo 
tributario, 
anche 
di 
cassazione, 
della 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione, 
si 
sono 
formati 
due contrapposti orientamenti. 


2. 
il 
contrasto 
giurisprudenziale 
profilatosi 
con 
riferimento 
agli 
effetti 
nel 
processo 
tributario, anche di cassazione, del giudicato penale assolutorio. 
Il 
primo riconosce 
l’efficacia 
del 
giudicato penale 
anche 
ai 
fini 
dell’accertamento 
del 
presupposto impositivo 
e, dunque, ai 
fini 
del 
rapporto tra 
contribuente 
ed 
erario; 
il 
secondo, 
invece, 
operando 
una 
lettura 
riduttiva 
della 
novella, 
ritiene 
che 
il 
giudicato 
esplicherebbe 
i 
suoi 
effetti 
esclusivamente 
con 
riguardo alle 
sanzioni 
irrogate, mentre, con riguardo all’imposta, ancorché 
i 
fatti 
accertati 
siano gli 
stessi, la 
sentenza 
penale 
assolutoria 
continuerebbe 
a 


(2) In particolare, dopo l’abbandono della 
c.d. pregiudiziale 
tributaria 
di 
cui 
all’art. 21, comma 
4, 
legge 
7 gennaio 1929, n. 4, l’art. 12 del 
D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla 
legge 
7 agosto 1982, n. 
516, aveva 
disposto la 
rilevanza, nel 
processo tributario, del 
giudicato penale, sia 
assolutorio sia 
di 
condanna, 
in riferimento ai medesimi fatti materiali. 
Tale 
sistema 
venne 
poi 
superato, sia 
a 
seguito della 
introduzione 
del 
nuovo codice 
di 
procedura 
penale, 
sia 
ad opera 
del 
D.Lgs. 74/2000, in favore 
del 
c.d. “doppio binario” 
e, quindi, dell’autonomia 
reciproca 
tra i due procedimenti. 
(3) In tema 
di 
rapporti 
tra 
processo tributario e 
processo penale, la 
Corte 
di 
cassazione 
aveva 
costantemente 
affermato il 
principio secondo cui 
la 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
dal 
reato 
tributario, 
emessa 
con 
la 
formula 
“perché 
il 
fatto 
non 
sussiste”, 
non 
spiegava 
automaticamente 
efficacia 
di 
giudicato nel 
processo tributario, ancorché 
i 
fatti 
accertati 
in sede 
penale 
fossero gli 
stessi 
per i 
quali 
l’Amministrazione 
finanziaria 
aveva 
promosso l’accertamento nei 
confronti 
del 
contribuente, potendo 
essere 
presa 
in 
considerazione 
come 
possibile 
fonte 
di 
prova 
dal 
giudice 
tributario, 
chiamato 
a 
verificarne 
la 
rilevanza 
nell’ambito specifico in cui 
detta 
decisione 
era 
destinata 
ad operare 
(Cass. 27 giugno 2019, 
n. 17258). 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


valere 
come 
possibile 
fonte 
di 
prova, autonomamente 
valutabile 
dal 
giudice 
tributario. 


Più in dettaglio, secondo il 
primo orientamento, la 
norma 
in questione, 
nel 
riconoscere 
efficacia 
di 
giudicato nel 
processo tributario alla 
sentenza 
penale 
dibattimentale 
irrevocabile 
di 
assoluzione, in relazione 
ai 
medesimi 
fatti, 
rilevanti 
penalmente, con una 
delle 
formule 
ampiamente 
liberatorie 
previste 
dal 
codice 
di 
rito (“perché 
il 
fatto non sussiste”o “perché 
l’imputato non l’ha 
commesso”), indurrebbe 
a 
ritenere 
che, anche 
con riferimento al 
giudizio tributario, 
tali 
fatti 
non 
sussistano, 
venendo 
così 
meno 
il 
relativo 
presupposto 
impositivo (4). 


Si 
è 
precisato, al 
riguardo, che 
l’art. 21-bis 
D.lgs. 74/2000, nell’ottica 
di 
attuare 
il 
principio di 
non contraddizione 
e 
di 
coerenza 
del 
sistema 
perseguito 
dalla 
riforma 
(5), imporrebbe 
di 
riconoscere 
efficacia 
vincolante 
nel 
processo 
tributario 
al 
giudicato 
penale 
assolutorio 
formatosi 
a 
seguito 
di 
giudizio 
dibattimentale, 
a condizione che: 


1) tale 
giudicato abbia 
ad oggetto gli 
stessi 
fatti 
materiali 
oggetto di 
valutazione 
nel processo tributario; 
2) l’assoluzione 
sia 
avvenuta 
sulla 
base 
di 
una 
delle 
due 
formule 
“perché 
il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non l’ha commesso”. 
Il 
secondo orientamento ritiene, invece, che 
l’art. 21-bis 
D.Lgs. 74/2000 
si 
riferisca 
esclusivamente 
al 
trattamento sanzionatorio e 
non anche 
all’accertamento 
dell’imposta 
(6), 
rispetto 
alla 
quale 
la 
sentenza 
penale 
assolutoria 
continuerebbe 
ad 
assumere 
rilievo 
come 
mero 
elemento 
di 
prova, 
oggetto 
di 
autonoma 
valutazione 
da 
parte 
del 
giudice 
tributario unitamente 
agli 
altri 
elementi 
di prova introdotti nel giudizio. 


Tale 
diversa 
interpretazione 
si 
fonda 
su 
una 
differente 
lettura 
della 
novella, 
volta 
a 
coglierne 
esclusivamente 
la 
finalità 
di 
razionalizzazione 
del 
sistema 
sanzionatorio penale e tributario vigente. 


(4) 
In 
tal 
senso, 
si 
sono 
espresse 
Cass. 
1021/2025; 
Cass. 
936/2025; 
Cass. 
30814/2024; 
Cass. 
30675/2024; Cass. 23609/2024; Cass. 23570/2024; Cass. 21584/2024. 
(5) 
L’art. 
20, 
comma 
1, 
della 
legge 
delega 
n. 
111/2023, 
al 
comma 
1, 
lett. 
a, 
n. 
1), 
aveva 
delegato 
il 
Governo 
a 
“razionalizzare 
il 
sistema 
sanzionatorio 
amministrativo 
e 
penale, 
anche 
attraverso 
una 
maggiore 
integrazione 
tra 
i 
diversi 
tipi 
di 
sanzione, 
ai 
fini 
del 
completo 
adeguamento 
al 
principio 
del 
ne 
bis 
in 
idem” 
e, 
al 
comma 
1, 
lett. 
a, 
n. 
3) 
a 
“rivedere 
i 
rapporti 
tra 
il 
processo 
penale 
e 
il 
processo 
tributario 
prevedendo, 
in 
coerenza 
con 
i 
principi 
generali 
dell’ordinamento, 
che, 
nei 
casi 
di 
sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto 
non 
sussiste 
o 
l’imputato 
non 
lo 
ha 
commesso, 
i 
fatti 
materiali 
accertati 
in 
sede 
dibattimentale 
facciano 
stato 
nel 
processo 
tributario 
quanto 
all’accertamento 
dei 
fatti 
medesimi...”. 
nella 
relazione 
illustrativa 
del 
Decreto 
legislativo 
attuativo 
14 
giugno 
2024, 
n. 
87, 
si 
afferma 
che 
“l’obiettivo del 
citato articolo 20, comma 1, lettera a), numero 1), è 
quello di 
conseguire 
una maggiore 
integrazione 
tra sanzioni 
amministrative 
e 
penali, evitando forme 
di 
duplicazione 
non compatibili 
con 
il 
divieto di 
bis 
in idem”, laddove 
“l’articolo 20, comma 1, lettera a), numero 3) è 
finalizzato, invece, 
alla revisione dei rapporti tra processo penale e processo tributario”. 
(6) Cfr. Cass. 3800/2025, nonché, in senso conforme, Cass. 4916/2025, Cass. 4921/2025, Cass. 
4924/2025 e Cass. 4935/2025. 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


In 
un 
sistema 
ancora 
governato 
dal 
c.d. 
doppio 
binario, 
l’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
74/2000 
avrebbe, 
pertanto, 
la 
sola 
funzione 
di 
estendere 
anche 
alla 
fase 
di 
cognizione 
l’ambito di 
applicazione 
del 
principio di 
specialità 
tra 
disposizioni 
amministrative 
e 
penali, 
previsto 
dall’art. 
19 
del 
medesimo 
D.Lgs. 
74/2000. 


Sono 
stati 
valorizzati, 
inoltre, 
sia 
l’introduzione, 
con 
la 
novella, 
anche 
dell’art. 21-ter 
D.Lgs. 74/2000 che 
ha 
regolato il 
-pur diverso -versante 
del 
cumulo sanzionatorio nel 
caso di 
riconosciuta 
responsabilità, sì 
da 
evitare 
un 
trattamento 
eccessivamente 
gravoso, 
sia, 
sul 
piano 
strettamente 
letterale, 
il 
dettato del comma 3 dell’art. 21-bis 
D.Lgs. 74/2000, secondo cui: 


“le 
disposizioni 
dei 
commi 
1 
e 
2 
si 
applicano, 
limitatamente 
alle 
ipotesi 
di 
sentenza 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto 
non 
sussiste, 
anche 
nei 
confronti 
della 
persona 
fisica 
nell’interesse 
della 
quale 
ha 
agito 
il 
dipendente, 
il 
rappresentante 
legale 
o 
negoziale, 
ovvero 
nei 
confronti 
dell’ente 
e 
società, 
con 
o 
senza 
personalità 
giuridica, 
nell’interesse 
dei 
quali 
ha 
agito 
il 
rappresentante 
o 
l’amministratore 
anche 
di 
fatto, 
nonché 
nei 
confronti 
dei 
loro 
soci 
o 
associati”. 


L’utilizzo della 
congiunzione 
“anche”, riferita 
alla 
persona 
fisica 
o alla 
società, nonché 
ai 
soci 
o associati 
«si 
spiegherebbe 
soltanto in chiave 
sanzionatoria, 
poiché 
l’accertamento del 
tributo è 
naturalmente 
riferito al 
soggetto 
passivo, che 
è 
l’imprenditore 
individuale 
o la società, non certo alla persona 
che 
abbia agito per 
loro, né 
ai 
soci 
e 
agli 
associati, che 
rispondono ad altro 
titolo» (così l’ordinanza in commento). 


3. 
la 
rilevanza 
della 
sentenza 
penale 
assolutoria 
pronunciata 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, comma 2, c.p.p. 
L’ordinanza 
in esame 
si 
sofferma, poi, sulla 
rilevanza della sentenza penale 
pronunciata 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, 
comma 
2, 
c.p.p., 
essendosi 
formati 
anche in questo caso due orientamenti contrapposti. 


Da 
un 
lato 
(7), 
se 
ne 
è 
escluso 
il 
rilievo 
ai 
fini 
della 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
74/2000, 
considerato 
che 
la 
giurisprudenza 
civile, 
nell’interpretare 
gli 
artt. 651-654 c.p.p., ha 
attribuito, anche 
sulla 
base 
del 
maggior approfondimento 
istruttorio 
tipico 
del 
processo 
penale, 
differente 
valore 
alle 
ipotesi 
di 
assoluzione 
pronunciate 
a 
norma 
del 
primo comma 
rispetto a 
quelle 
pronunciate 
a 
norma 
del 
secondo 
comma, 
con 
orientamento 
consolidato 
fatto 
proprio 
anche dalle Sezioni unite (Cass. SS.uu. 26 gennaio 2011 n. 1768) (8). 


(7) 
Cfr., 
al 
riguardo, 
Cass. 
3800/2025, 
nonché, 
successivamente, 
Cass. 
4291/2025 
e 
Cass. 
4294/2025. 
(8) 
Con 
riferimento 
all’art. 
652 
c.p.p., 
ma 
anche 
rispetto 
agli 
artt. 
651, 
653 
e 
654 
c.p.p., 
le 
Sezioni 
unite 
hanno affermato che 
«la sentenza di 
assoluzione 
è 
idonea a produrre 
gli 
effetti 
di 
giudicato ivi 
indicati 
non in relazione 
alla formula utilizzata, bensì 
solo in quanto contenga, in termini 
categorici, un 
effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto». 
Tale 
principio è 
stato recepito anche 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa, secondo cui: 
«l’efficacia vin

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


La 
ricostruzione 
della 
situazione 
fattuale 
con 
estrema 
certezza 
si 
avrebbe, 
infatti, solamente 
nei 
casi 
in cui 
la 
pronuncia 
assolutoria 
sia 
stata 
resa 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, 
comma 
1, 
c.p.p. 
(prova 
positiva 
che 
superi 
ogni 
ragionevole 
dubbio) 
e 
non 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
pronuncia 
di 
assoluzione 
sia 
stata 
resa 
ai 
sensi 
dell’art. 530, comma 2, c.p.p. (prova mancante, insufficiente o carente). 


Dall’altro 
lato 
(9), 
si 
è 
ritenuto, 
invece, 
di 
potere 
estendere 
gli 
effetti 
dell’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
74/2000 
anche 
alle 
sentenze 
assolutorie 
pronunciate 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, 
comma 
2, 
c.p.p. 
in 
ragione 
della 
autonomia 
della 
nuova 
disciplina 
e 
della 
mancata 
esclusione 
espressa 
del 
secondo 
comma 
da 
parte 
del 
legislatore. 


In conclusione, considerata 
la 
non uniformità 
delle 
decisioni 
assunte 
e 
la 
rilevanza 
di 
ambito 
generale 
dei 
principi 
alle 
stesse 
sottese, 
la 
Corte 
ha 
ritenuto 
di 
rimettere 
gli 
atti 
alla 
Prima 
Presidente 
per le 
sue 
determinazioni 
in ordine 
alla 
eventuale 
assegnazione 
del 
ricorso 
alle 
Sezioni 
unite 
per 
questione 
di 
massima 
di 
particolare 
importanza 
sia 
in 
relazione 
al 
profilo 
della 
estensione 
anche 
al 
rapporto impositivo degli 
effetti 
della 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
dal 
reato tributario, sia 
in ordine 
alla 
applicabilità 
della 
nuova 
disciplina 
alla 
ipotesi 
di 
assoluzione 
con la 
formula 
prevista 
dall’art. 530, comma 
2, c.p.p. 


L’udienza 
risulta 
fissata 
davanti 
alle 
Sezioni 
unite 
civili 
per il 
prossimo 
7 ottobre 2025. 


Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
tributaria, 
ordinanza 
4 
marzo 
2025 
n. 
5714 
-Pres. 
e. 
Cirillo, 
rel. G.P. Macagno -G.A.G.S. (avv. e. Pauletti), G.A.S. (avv. r. nicastro) c. Agenzia 
delle 
entrate (avv. gen. Stato). 


FATTI DI CAuSA 


1. Con gli 
avvisi 
d’accertamento e 
gli 
atti 
di 
contestazione 
impugnati 
nel 
presente 
giudizio 
l’Agenzia 
delle 
entrate 
imputava 
alle 
signore 
A.G.S.G. e 
A.S.G. i 
maggiori 
redditi 
percepiti 
nel 
territorio dello Stato italiano nel 
periodo compreso tra 
gli 
anni 
2004 e 
2010 e 
sanzionava 
l’omessa 
dichiarazione 
(mediante 
compilazione 
del 
quadro rW) di 
ingenti 
capitali 
mobiliari 
e 
immobiliari 
posseduti 
all’estero. L’operato dell’ufficio trovava 
fondamento nell’attività 
di 
controllo 
posta 
in 
essere 
dall’ufficio 
Centrale 
per 
il 
Contrasto 
agli 
Illeciti 
Fiscali 
Internazionali 
-u.C.I.F.I. e 
volto ad individuare 
l’effettivo domicilio fiscale 
delle 
contribuenti, che 
l’Amministrazione 
finanziaria 
affermava 
essere 
nel 
territorio 
italiano 
e 
non 
in 
St. 
Moritz 
(Svizzera), 
come formalmente risultante. 
2. Le 
signore 
G. proponevano ricorso avverso gli 
atti 
impositivi 
dinanzi 
alla 
Commissione 
tributaria provinciale di Milano, che, previa riunione, li accoglieva. 
colante 
del 
giudicato penale 
è 
configurabile 
solo allorché 
la sussistenza dei 
reati 
contestati 
sia stata 
esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p.» (Consiglio di Stato, Sez. 2, 2509/2014). 


(9) In tal senso, Cass. 23570/2024 e Cass. 23609/2024. 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


3. 
Quindi 
la 
Commissione 
tributaria 
regionale 
della 
Lombardia, 
in 
parziale 
accoglimento 
del-
l’appello 
proposto 
dall’Agenzia 
delle 
entrate, 
con 
la 
sentenza 
n. 
1685/2017, 
depositata 
in 
data 
11 aprile 
2017, rigettava 
i 
ricorsi 
introduttivi 
delle 
contribuenti, fatta 
salva 
l’applicazione 
del 
cumulo 
giuridico 
delle 
sanzioni, 
condannando 
le 
appellate 
alla 
rifusione 
delle 
spese 
di 
entrambi 
i gradi di giudizio. 
4. 
Avverso 
la 
predetta 
sentenza 
le 
contribuenti 
hanno 
proposto 
separati 
ricorsi, 
sorretti 
da 
otto 
identici motivi e l’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso. 
5. 
Le 
ricorrenti, 
in 
data 
17 
gennaio 
2025, 
nel 
rispetto 
del 
termine 
di 
quindici 
giorni 
prima 
del-
l’udienza 
prescritto 
dall’art. 
21-bis 
del 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, 
hanno 
depositato, 
unitamente 
a 
memorie 
illustrative 
ex 
art. 
378 
c.p.c., 
la 
sentenza 
n. 
14010/2015 
del 
23 
dicembre 
2015 
del 
Tribunale 
di 
Milano, 
Sezione 
2 
Penale, 
pronunciata 
all’esito 
della 
fase 
dibattimentale, 
in 
copia 
conforme 
all’originale 
debitamente 
attestata, e 
divenuta 
irrevocabile 
in data 
7 maggio 2016 
per mancata 
impugnazione, come 
risulta 
dalla 
formula 
apposta 
a 
pagina 
64 della 
stessa, che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, 
comma 
2, 
c.p.p., 
ha 
assolto 
le 
ricorrenti 
dal 
reato 
di 
omessa 
dichiarazione 
dei 
redditi 
ad esse 
ascritto ai 
sensi 
dell’art. 5 del 
D.Lgs. n. 74/2000 per gli 
anni 
dal 
2007 al 
2010 perché 
il 
fatto non sussiste, e 
ha 
dichiarato di 
non dover procedere 
per gli 
anni 
dal 
2004 
al 2006 essendo il reato estintosi per intervenuta prescrizione. 
rAGIonI DeLLA DeCISIone 


1. I motivi di ricorso 
1.1. Con il 
primo comune 
motivo di 
ricorso le 
contribuenti 
denunciano, in relazione 
all’art. 
360, comma 
1, n. 4 c.p.c., la 
violazione 
degli 
artt. 132, comma 
1, n. 4, c.p.c. e 
36, comma 
2, 
n. 4, del 
D.Lgs. 546/1992, per motivazione 
apparente, per avere 
la 
CTr valutato in maniera 
globale 
ed indistinta 
situazioni 
-e 
segnatamente 
l’effettiva 
residenza 
ai 
fini 
fiscali 
in Italia 
per numerose 
annualità 
d’imposta 
di 
due 
distinti 
soggetti 
-le 
sorelle 
A. ed A.G., che 
avevano 
vite 
familiari 
e 
lavorative 
diverse 
e 
che 
richiedevano, viceversa, necessariamente, un’analisi 
specifica ed autonoma. 
1.2. 
Con 
il 
secondo 
motivo 
di 
ricorso 
si 
denuncia, 
in 
relazione 
all’art. 
360, 
comma 
1, 
n. 
4 
c.p.c., 
la 
violazione 
degli 
artt. 
132, 
comma 
1, 
n. 
4, 
c.p.c. 
e 
36, 
comma 
2, 
n. 
4, 
del 
D.Lgs. 
546/1992, per insanabile 
contrasto tra 
motivazione 
e 
dispositivo in relazione 
a 
specifici 
punti 
della pronuncia impugnata. 
1.3. 
Con 
il 
terzo 
motivo 
di 
ricorso 
si 
lamenta, 
in 
relazione 
all’art. 
360, 
comma 
1, 
n. 
3, 
c.p.c., 
la 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 
2727 
e 
2729 
c.c. 
e 
2, 
comma 
2, 
del 
D.P.r. 
n. 
917/1986, 
anche 
in 
relazione 
all’art. 
43 
c.c., 
in 
quanto 
la 
Commissione 
territoriale 
avrebbe 
omesso 
l’esame 
del 
quadro 
indiziario 
complessivo 
e 
dell’intero 
materiale 
probatorio 
versato 
agli 
atti 
dalle 
ricorrenti, 
non 
essendosi 
correttamente 
confrontata 
con 
la 
qualità 
indiziaria 
degli 
elementi 
forniti 
dall’ufficio 
e 
la 
idoneità 
delle 
“prove 
contrarie” 
o 
controprove 
offerte, 
che, 
come 
definitivamente 
statuito 
anche 
dal 
giudice 
penale 
investito 
della 
medesima 
vicenda, 
erano 
utili 
a 
privare 
di 
univocità 
e 
congruenza 
gli 
elementi 
forniti 
dall’ufficio, 
ed 
erano 
tali 
da 
sostenere 
che 
il 
centro 
principale 
degli 
interessi 
vitali 
delle 
ricorrenti 
andassero 
individuati 
in 
Svizzera. 
1.4. Con il 
quarto motivo di 
ricorso si 
lamenta, in relazione 
all’art. 360, comma 
1, n. 3 c.p.c., 
la 
violazione 
del 
combinato disposto degli 
artt. 2, commi 
2 e 
2-bis 
del 
D.P.r. n. 917/1986 e 
43 
c.c., 
per 
avere 
i 
giudici 
di 
seconde 
cure 
ritenuto 
le 
signore 
G. 
residenti 
ai 
fini 
fiscali 
in 
Italia, senza 
valutare, tuttavia, la 
volontà 
delle 
stesse 
di 
dimorare 
a 
Saint 
Moritz, in Svizzera 
e, dunque, senza 
tenere 
in considerazione 
gli 
elementi 
che 
legavano le 
ricorrenti 
al 
territorio 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


svizzero né 
la 
circostanza 
che 
la 
Svizzera 
fosse 
pacificamente 
riconosciuta 
dai 
terzi 
come 
il 
centro vitale degli interessi delle ricorrenti. 


1.5. Con il 
quinto motivo di 
ricorso, proposto in via 
subordinata, si 
denuncia, in relazione 
all’art. 
360, comma 
1, n. 3 c.p.c., la 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 2727 e 
2729 c.c., 12 del 
D.L. 
n. 78/2009 e 
degli 
art. 4 e 
5 del 
D.L. n. 167/1990, deducendosi 
che 
i 
giudici 
di 
seconde 
cure 
avrebbero accolto l’appello dell’Agenzia 
delle 
entrate 
sebbene 
le 
presunzioni 
di 
sussistenza 
di 
redditi 
sottratti 
a 
tassazione 
e 
di 
attività 
finanziarie 
detenute 
all’estero in violazione 
degli 
obblighi 
di 
monitoraggio fiscale 
trovassero il 
loro fondamento non già 
in fatti 
noti, bensì 
in 
fatti meramente presunti dalla medesima 
Agenzia delle entrate. 
1.6. Con il 
sesto motivo di 
ricorso, anch’esso proposto in via 
subordinata, si 
lamenta, in relazione 
all’art. 360, comma 
1, n. 4, c.p.c., la 
violazione 
degli 
artt. 132, comma 
1, n. 4, c.p.c. e 
36, 
comma 
2, 
n. 
4, 
del 
D.Lgs. 
546/1992, 
per 
insanabi1e 
contraddittorietà 
ed 
incomprensibilità 
della 
motivazione 
stante 
la 
presenza 
di 
argomentazioni 
tra 
loro contrastanti, con riguardo al 
capo della sentenza ove si afferma l’applicabilità dell’art. 12 del D.L n. 78/2009. 
1.7. Con il 
settimo motivo di 
ricorso, anch’esso proposto in via 
subordinata, si 
lamenta, in relazione 
all’art. 360, comma 
1, n. 3 c.p.c., la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’art. 12, del 
D.L. 
78/2009, 
stante 
la 
natura 
di 
norma 
sostanziale 
e 
conseguentemente 
irretroattiva 
della 
stessa. 
1.8. Con l’ottavo motivo di 
ricorso, anch’esso proposto in via 
subordinata, si 
lamenta, in relazione 
all’art. 360, comma 
1, n. 3 c.p.c., la 
violazione 
dell’art. 15 del 
D.Lgs. n. 546/1992, 
per avere 
i 
giudici 
di 
seconde 
cure 
condannato al 
pagamento integrale 
delle 
spese 
esclusivamente 
le 
ricorrenti, nonostante 
la 
soccombenza 
parziale 
dell’Agenzia 
delle 
entrate 
in ordine 
alle 
pretese 
avanzale 
a 
titolo di 
sanzioni 
per la 
mancata 
applicazione 
del 
cumulo giuridico ai 
sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 546/1992. 
2. L’oggetto della controversia. 
2.1. La 
questione 
che 
si 
pone, con sicura 
rilevanza 
per il 
presente 
giudizio, quanto meno in 
relazione 
ai 
primi 
quattro motivi 
di 
ricorso, proposti 
in via 
principale, e 
in riferimento agli 
anni 
di 
imposta 
dal 
2007 al 
2010, è 
quella 
degli 
effetti 
nel 
processo tributario, anche 
di 
cassazione, 
della 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
dal 
reato 
tributario, 
emessa 
ad 
esito 
del 
dibattimento con la 
formula 
“perché 
il 
fatto non sussiste”, con l’ulteriore 
appendice, anch’essa 
rilevante 
nel 
caso 
di 
specie, 
della 
disciplina 
applicabile 
alla 
assoluzione 
con 
la 
formula 
prevista 
dal 
secondo 
comma 
dell’art. 
530 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
il 
tutto 
alla 
luce 
della 
innovazione 
apportata 
dall’art. 21-bis 
D.Lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 
1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore 
dal 
29 giugno 2024, quindi 
trasposto nel-
l’art. 
119 
del 
Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria 
(D.Lgs. 
14 
novembre 
2024, 
n. 
175), 
vigente 
dal 1° gennaio 2026. 
2.2. non vi 
è 
dubbio che 
i 
fatti 
posti 
alla 
base 
degli 
avvisi 
di 
accertamento e 
degli 
atti 
di 
contestazione 
impugnati 
siano gli 
stessi 
fatti 
oggetto dell’imputazione 
penale 
dalla 
quale 
le 
contribuenti 
sono state definitivamente assolte. 
Ad esito di 
ampia 
argomentazione, il 
Tribunale 
di 
Milano ha 
affermato che 
“In conclusione, 
gli 
elementi 
sopra 
indicati, utilizzati 
dall’Agenzia 
delle 
entrate 
e 
fatti 
propri 
dal 
PM 
nel 
presente 
giudizio, 
a 
sostegno 
della 
residenza 
effettiva 
italiana 
delle 
due 
imputate 
e, 
di 
conseguenza, 
del 
loro 
obbligo 
contributivo 
in 
relazione 
a 
tutti 
i 
redditi 
posseduti, 
indipendentemente 
dal 
luogo di 
produzione, risultano “contraddetti” 
e 
posti 
in dubbio da 
altri 
di 
segno contrario, 
provati 
dalla 
difesa 
che 
dimostrerebbero, invece, il 
legame 
e 
collegamento effettivo e 
reale 
delle 
due 
imputate 
con la 
Svizzera. ne 
consegue, quindi, che 
in tale 
situazione 
di 
“contrad

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


dittorietà 
della 
prova” 
tutti 
gli 
imputati 
vanno mandati 
assolti 
con la 
formula 
dubitativa 
“perché 
il 
fatto non sussiste” 
in relazione 
al 
reato loro contestato per quanto riguarda 
gli 
anni 
di 
imposta dal 2007 al 2010”. 

3. Lo “stato dell’arte” prima dell’intervento normativo. 
Si 
rende 
opportuno, in premessa, ricostruire 
quello che 
era 
lo “stato dell’arte” 
prima 
dell’intervento 
normativo 
di 
cui 
si 
discute, 
con 
riguardo 
sia 
alla 
cornice 
normativa, 
sia 
all’intervento 
nomofilattico di questa Suprema Corte. 
3.1. Dopo l’abbandono della 
c.d. pregiudiziale 
tributaria 
di 
cui 
all’art. 21, comma 
4, legge 
7 
gennaio 1929, n. 4, l’art. 12 del 
D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla 
legge 
7 agosto 1982, 
n. 
516, 
aveva 
disposto 
la 
rilevanza 
nel 
processo 
tributario 
del 
giudicato 
penale, 
sia 
assolutorio 
sia di condanna, in riferimento ai medesimi fatti materiali. 
Tale 
sistema 
venne 
poi 
superato, 
sia 
a 
seguito 
della 
introduzione 
del 
nuovo 
codice 
di 
procedura 
penale, sia 
ad opera 
del 
D.Lgs. n. 74/2000, in vigenza 
del 
quale 
il 
tema 
del 
raccordo tra 
i 
due 
procedimenti 
è 
stato 
interpretato 
in 
termini 
di 
“doppio 
binario” 
e 
quindi 
di 
autonomia 
reciproca 
dei medesimi. 
3.2. Sul 
punto questa 
Corte 
ha 
costantemente 
affermato, in tema 
di 
rapporti 
tra 
processo tributario 
e 
processo penale, che 
la 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
dal 
reato tributario, 
emessa 
con 
la 
formula 
“perché 
il 
fatto 
non 
sussiste”, 
non 
spiega 
automaticamente 
efficacia 
di 
giudicato nel 
processo tributario, ancorché 
i 
fatti 
accertati 
in sede 
penale 
siano gli 
stessi 
per i 
quali 
l’Amministrazione 
finanziaria 
ha 
promosso l’accertamento nei 
confronti 
del 
contribuente, 
ma 
può 
essere 
presa 
in 
considerazione 
come 
possibile 
fonte 
di 
prova 
dal 
giudice 
tributario, 
il 
quale, 
nell’esercizio 
dei 
propri 
poteri 
di 
valutazione, 
deve 
verificarne 
la 
rilevanza 
nell’ambito specifico in cui 
detta 
decisione 
è 
destinata 
ad operare 
(Cass. 27 giugno 2019, n. 
17258; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720). 
3.3. Si 
è 
precisato, infatti, che 
l’art. 654 c.p.p., che 
stabilisce 
l’efficacia 
vincolante 
del 
giudicato 
penale 
nel 
giudizio civile 
ed amministrativo nei 
confronti 
di 
coloro che 
abbiano partecipato 
al 
processo penale 
-norma 
operante, in base 
all’art. 207 disp. att. c.p.p., anche 
per i 
reati 
previsti 
da 
leggi 
speciali, ed avente, quindi, portata 
immediatamente 
modificativa 
dell’art. 12 
del 
D.L. n. 429/1982, conv. dalla 
legge 
n. 516/1982, disposizione 
che 
regolava 
l’autorità 
del 
giudicato 
penale 
in 
materia 
di 
imposte 
sui 
redditi 
e 
sul 
valore 
aggiunto, 
poi 
espressamente 
abrogata 
dall’art. 
25, 
lett. 
d), 
del 
D.Lgs. 
n. 
74/2000 
-, 
la 
sottopone 
alla 
duplice 
condizione 
che 
nel 
giudizio civile 
o amministrativo (e, quindi, anche 
in quello tributario) la 
soluzione 
dipenda 
dagli 
stessi 
fatti 
materiali 
che 
furono oggetto del 
giudicato penale 
e 
che 
la 
legge 
civile 
non ponga limitazione alla prova “della posizione soggettiva controversa”. 
3.4. 
Atteso 
che 
nel 
processo 
tributario 
vigono 
i 
limiti 
in 
materia 
di 
prova 
posti 
dall’art. 
7, 
comma 
4, D.Lgs. n. 546/1992 (e, in precedenza, dall’art. 35, comma 
4, del 
d.P.r. 26 ottobre 
1972, 
n. 
636), 
e 
trovano 
ingresso, 
con 
rilievo 
probatorio, 
in 
materia 
di 
determinazione 
del 
reddito d’impresa, anche 
presunzioni 
semplici 
(art. 39, comma 
2, d.P.r. n. 600/1973), prive 
dei 
requisiti 
prescritti 
ai 
fini 
della 
formazione 
di 
siffatta 
prova 
tanto nel 
processo civile 
(art. 
2729, comma 
1, c.c.), quanto nel 
processo penale 
(art. 192, comma 
2, c.p.p.), la 
conseguenza 
del 
mutato quadro normativo era 
che 
nessuna 
automatica 
autorità 
di 
cosa 
giudicata 
potesse 
più attribuirsi 
nel 
separato giudizio tributario alla 
sentenza 
penale 
irrevocabile, di 
condanna 
o di 
assoluzione, emessa 
in materia 
di 
reati 
tributari, ancorché 
i 
fatti 
accertati 
in sede 
penale 
siano 
gli 
stessi 
per 
i 
quali 
l’Amministrazione 
finanziaria 
ha 
promosso 
l’accertamento 
nei 
confronti 
del 
contribuente. 
Pertanto, 
il 
giudice 
tributario 
non 
poteva 
limitarsi 
a 
rilevare 
l’esistenza 
di 
una 
sentenza 
definitiva 
in 
materia 
di 
reati 
tributari, 
estendendone 
automaticamente 
gli 
effetti 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


con 
riguardo 
all’azione 
accertatrice 
del 
singolo 
ufficio 
tributario, 
ma, 
nell’esercizio 
dei 
propri 
autonomi 
poteri 
di 
valutazione 
della 
condotta 
delle 
parti 
e 
del 
materiale 
probatorio acquisito 
agli 
atti 
(art. 116 c.p.c.), doveva, in ogni 
caso, verificarne 
la 
rilevanza 
nell’ambito specifico 
in cui 
esso è 
destinato ad operare 
(Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; 
Cass. 24 novembre 
2017, 


n. 28174; 
Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; 
Cass. 27 febbraio 2013, n. 4924; 
Cass. 27 settembre 
2011, n. 19786; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720; Cass. 24 maggio 2005, n. 10945). 
3.5. 
Questa 
Corte, 
di 
conseguenza, 
ha 
precisato, 
quanto 
alla 
produzione 
della 
sentenza 
penale 
di 
assoluzione 
nel 
giudizio di 
cassazione 
in sede 
di 
memoria 
difensiva 
ex art. 378 c.p.c., che 
il 
principio secondo cui, nel 
giudizio di 
cassazione, l’esistenza 
del 
giudicato esterno è, al 
pari 
di 
quella 
del 
giudicato 
interno, 
rilevabile 
d’ufficio, 
non 
solo 
qualora 
emerga 
da 
atti 
comunque 
prodotti 
nel 
giudizio di 
merito, ma 
anche 
nell’ipotesi 
in cui 
il 
giudicato si 
sia 
formato successivamente 
alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
impugnata, con correlativa 
inopponibilità 
del 
divieto 
di 
cui 
all’art. 
372 
c.p.c., 
non 
può 
trovare 
applicazione 
laddove 
la 
sentenza 
passata 
in 
giudicato 
venga 
invocata, ai 
sensi 
dell’art. 654 c.p.p., unicamente 
al 
fine 
di 
dimostrare 
l’effettiva 
sussistenza 
(o insussistenza) dei 
fatti. In tali 
casi 
il 
giudicato non assume 
alcuna 
valenza 
enunciativa 
della 
regula 
iuris 
alla 
quale 
il 
giudice 
civile 
ha 
il 
dovere 
di 
conformarsi 
nel 
caso 
concreto, mentre 
la 
sua 
astratta 
rilevanza 
potrebbe 
ravvisarsi 
soltanto in relazione 
all’affermazione 
(o negazione) di 
meri 
fatti 
materiali, ossia 
a 
valutazioni 
di 
stretto merito non deducibili 
nel 
giudizio 
di 
legittimità. 
ne 
consegue 
l’inammissibilità 
della 
produzione 
della 
sentenza 
penale, 
siccome 
estranea 
all’ambito 
previsionale 
dell’art. 
372 
c.p.c. 
(Cass., 
sez. 
un., 
2 
febbraio 
2017, n. 2735, di 
cui 
fanno applicazione, tra 
tante, Cass. 26 settembre 
2017, n. 22376; 
Cass. 
11 aprile 2024, n. 9900; Cass. 9 giugno 2023, n. 16413). 
4. L’introduzione del nuovo art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000. 
Tale 
assetto, 
come 
si 
è 
anticipato 
in 
premessa, 
è 
stato 
innovato 
dall’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 
1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore 
dal 
29 
giugno 
2024, 
(quindi 
trasposto 
nell’art. 
119 
del 
Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria 
D.
Lgs. 
14 
novembre 
2024, 
n. 
175), 
rubricato 
“efficacia 
delle 
sentenze 
penali 
nel 
processo 
tributario e 
nel 
processo di 
Cassazione”, il 
quale 
dispone: 
“1. La 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste 
o l’imputato non lo ha 
commesso, pronunciata 
in 
seguito 
a 
dibattimento 
nei 
confronti 
del 
medesimo 
soggetto 
e 
sugli 
stessi 
fatti 
materiali 
oggetto 
di 
valutazione 
nel 
processo 
tributario, 
ha, 
in 
questo, 
efficacia 
di 
giudicato, 
in 
ogni 
stato 
e 
grado, quanto ai 
fatti 
medesimi. 2. La 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
cui 
al 
comma 
1 può essere 
depositata 
anche 
nel 
giudizio di 
Cassazione 
fino a 
quindici 
giorni 
prima 
dell’udienza 
o 
dell’adunanza 
in camera 
di 
consiglio. 3. Le 
disposizioni 
dei 
commi 
1 e 
2 si 
applicano, limitatamente 
alle 
ipotesi 
di 
sentenza 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste, anche 
nei 
confronti 
della 
persona 
fisica 
nell’interesse 
della 
quale 
ha 
agito il 
dipendente, il 
rappresentante 
legale 
o negoziale, ovvero nei 
confronti 
dell’ente 
e 
società, con o senza 
personalità 
giuridica, 
nell’interesse 
dei 
quali 
ha 
agito il 
rappresentante 
o l’amministratore 
anche 
di 
fatto, nonché 
nei confronti dei loro soci o associati”. 
5. L’efficacia intertemporale della nuova disposizione. 
5.1. La 
prima 
questione 
che 
si 
è 
posta, in relazione 
alla 
efficacia 
intertemporale 
della 
nuova 
disposizione, 
è 
stata 
affrontata 
e 
risolta 
da 
questa 
Suprema 
Corte 
con 
esiti, 
in 
ultimo, 
pressoché 
unanimi, sì da costituire, allo stato, diritto vivente. 
5.2. Si 
è 
infatti 
chiarito che 
“L’art. 21-bis 
del 
D.Lgs. n. 74 del 
2000, introdotto dal 
D.Lgs. n. 
87 del 
2024, che 
riconosce 
efficacia 
di 
giudicato nel 
processo tributario alla 
sentenza 
penale 
dibattimentale 
irrevocabile 
di 
assoluzione, 
è 
applicabile, 
quale 
ius 
superveniens, 
anche 
ai 
casi 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


in cui 
detta 
sentenza 
è 
divenuta 
irrevocabile 
prima 
della 
operatività 
di 
detto articolo e, alla 
data 
della 
sua 
entrata 
in 
vigore, 
risulta 
ancora 
pendente 
il 
giudizio 
di 
cassazione 
contro 
la 
sentenza 
tributaria 
d’appello che 
ha 
condannato il 
contribuente 
in relazione 
ai 
medesimi 
fatti, rilevanti 
penalmente, 
dai 
quali 
egli 
è 
stato 
irrevocabilmente 
assolto, 
in 
esito 
a 
giudizio 
dibattimentale, con una 
delle 
formule 
di 
merito previste 
dal 
codice 
di 
rito penale 
(perché 
il 
fatto non sussiste 
o perché 
l’imputato non l’ha 
commesso)” 
(cfr. Cass. n. 30814/2024; 
Cass. 


n. 
23570/2024, 
Cass. 
n. 
21584/2024, 
Cass. 
n. 
23609/2024; 
da 
ultimo, 
v. 
ancora 
Cass. 
n. 
1021/2025). 
5.3. Le 
disposizioni 
in esame 
appaiono infatti 
avere 
carattere 
processuale, incidendo sulla 
efficacia 
esterna 
nel 
processo tributario del 
giudicato penale 
(il 
primo comma) e 
sulle 
modalità 
di produzione nel giudizio di cassazione (il secondo comma). 
Come 
è 
noto, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale 
di 
legittimità, sono sostanziali 
le 
norme 
che 
consistono in regole 
di 
giudizio la 
cui 
applicazione 
ha 
una 
diretta 
ricaduta 
sulla 
decisione 
di 
merito, 
di 
accoglimento 
o 
di 
rigetto 
della 
domanda, 
mentre 
hanno 
carattere 
processuale 
le 
disposizioni 
che 
disciplinano i 
modi 
di 
deduzione, ammissione 
e 
assunzione 
delle 
prove 
(Cass. 23 febbraio 2007, n. 4225; 
Cass. 2 aprile 
2015, n. 6743; 
Cass. 17 
luglio 018 n. 18912). 
5.4. 
va 
ancora 
rilevato 
che 
questa 
Corte, 
in 
analogo 
snodo 
normativo, 
pronunciandosi 
sull’efficacia 
del 
sopravvenuto art. 654 c.p.p. rispetto alla 
previsione 
dell’art. 12, comma 
1, del 
D.L. n. 429/1982, conv. dalla 
legge 
n. 516/1982, che 
prevedeva 
allora 
la 
efficacia 
vincolante 
del 
giudicato penale, ha 
osservato che 
“la 
norma 
attiene 
ai 
poteri 
doveri 
del 
giudice 
civile 
(od 
amministrativo) quando statuisce 
dopo il 
formarsi 
di 
giudicato penale, e, quindi, alla 
fase 
decisionale 
del 
relativo procedimento, di 
modo che 
deve 
trovare 
applicazione 
quando tale 
fase 
sia successiva alla sua entrata in vigore” (Cass. 5 luglio 1995, n. 7403). 
5.5. Si 
osserva 
ancora 
che, in tema 
di 
disposizioni 
processuali, questa 
Corte 
ha 
affermato il 
principio 
che, 
in 
mancanza 
di 
una 
disposizione 
transitoria 
(circostanza 
che 
ricorre 
anche 
nella 
disciplina 
in esame), debba 
essere 
applicato il 
principio per il 
quale, nel 
caso di 
successione 
di 
leggi 
processuali 
nel 
tempo, 
ove 
il 
legislatore 
non 
abbia 
diversamente 
disposto, 
in 
ossequio 
alla 
regola 
generale 
di 
cui 
all’art. 11 delle 
preleggi, la 
nuova 
norma 
disciplina 
non solo i 
processi 
iniziati 
successivamente 
alla 
sua 
entrata 
in vigore 
ma 
anche 
i 
singoli 
atti, ad essa 
successivamente 
compiuti, 
di 
processi 
iniziati 
prima 
della 
sua 
entrata 
in 
vigore 
(così 
Cass. 
3 
aprile 
2017, n. 8590; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27525; Cass. 12 settembre 2014, n. 19270). 
6. Gli effetti del giudicato penale di assoluzione nel giudizio tributario. 
Analoga 
convergenza 
non 
è, 
al 
contrario, 
ravvisabile 
in 
merito 
agli 
effetti 
che 
genera, 
nel 
processo 
tributario, anche 
di 
cassazione, 
la 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
che 
risponda 
ai 
requisiti 
previsti 
all’art. 
21-bis 
del 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, 
essendosi 
formati 
a 
tale 
riguardo due, non conciliabili, orientamenti, di 
cui: 
i) il 
primo riconosce 
l’efficacia 
del 
giudicato 
penale 
anche 
ai 
fini 
dell’accertamento del 
presupposto impositivo, e 
dunque 
ai 
fini 
del 
rapporto tra 
contribuente 
ed erario, ii) il 
secondo opera 
una 
lettura 
riduttiva 
della 
novella 
legislativa, 
che 
esplicherebbe 
i 
suoi 
effetti 
esclusivamente 
con riguardo alle 
sanzioni 
irrogate, 
mentre 
con riguardo all’imposta 
la 
sentenza 
penale, ancorché 
i 
fatti 
accertati 
in sede 
penale 
siano 
gli 
stessi 
per 
i 
quali 
l’Amministrazione 
finanziaria 
ha 
promosso 
l’accertamento 
nei 
confronti 
del 
contribuente, continuerebbe 
ad essere 
una 
possibile 
fonte 
di 
prova, autonomamente 
valutabile dal giudice tributario, esattamente come avveniva prima della recente riforma. 
7. La 
prima 
tesi: 
l’art. 21-bis 
del 
D.Lgs. n. 74/2000 riguarda 
l’imposta, ossia 
la 
decisione 
del 
giudice tributario sulla sussistenza del presupposto impositivo. 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


7.1. 
Secondo 
un 
primo 
orientamento 
(manifestato 
da 
questa 
Corte 
con 
le 
coeve 
decisioni 
Cass. 
n. 
23570/2024 
e 
Cass. 
n. 
23609/2024, 
successivamente 
ribadito, 
inter 
alias, 
da 
Cass. 
21584/2024, 
Cass. 
n. 
30675/2024, 
Cass. 
n. 
30814/2024 
e, 
da 
ultimo, 
ancora 
da 
Cass. 
n. 
936/2025 e 
n. 1021/2025) l’art. 21-bis 
del 
D.Lgs. n. 74 del 
2000, introdotto dal 
D.Lgs. n. 87 
del 
2024, che 
riconosce 
efficacia 
di 
giudicato nel 
processo tributario alla 
sentenza 
penale 
dibattimentale 
irrevocabile 
di 
assoluzione, in relazione 
ai 
medesimi 
fatti, rilevanti 
penalmente, 
con 
una 
delle 
formule 
“di 
merito” 
previste 
dal 
codice 
di 
rito 
penale 
(perché 
il 
fatto 
non 
sussiste 
o 
perché 
l’imputato 
non 
l’ha 
commesso), 
comporta 
che 
debba 
ritenersi, 
anche 
con 
riferimento 
al 
giudizio tributario, che 
tali 
fatti 
non sussistano, così 
venendo meno il 
relativo presupposto 
impositivo delle riprese fiscali. 
7.2. L’art. 21-bis 
cit., che 
non si 
accompagna 
alla 
previsione 
di 
una 
sospensione 
obbligatoria 
del 
processo 
tributario 
in 
pendenza 
di 
quello 
penale, 
impone 
di 
riconoscere 
efficacia 
vincolante 
nel 
processo tributario al 
giudicato penale 
assolutorio formatosi 
a 
seguito di 
giudizio dibattimentale, 
purché 
tale 
giudicato 
abbia 
ad 
oggetto 
gli 
stessi 
fatti 
materiali 
oggetto 
di 
valutazione 
nel 
processo tributario e 
purché 
l’assoluzione 
sia 
avvenuta 
in base 
ad una 
delle 
due 
formule 
sopra 
indicate; 
l’efficacia 
del 
giudicato attiene 
quindi 
agli 
“stessi 
fatti 
materiali”, dovendosi 
ritenere 
che, quando si 
discute 
di 
efficacia 
della 
sentenza 
penale 
nel 
giudizio tributario non ci 
si 
riferisce 
al 
giudicato penale 
in sé 
e 
per sé, ma 
all’accertamento dei 
fatti 
contenuti 
nella 
relativa 
decisione. e 
quindi, ciò che 
interessa 
non è 
il 
valore 
extra-penale 
del 
dispositivo della 
sentenza, 
ma 
il 
valore 
extra-penale 
degli 
accertamenti 
di 
fatto 
che, 
presenti 
i 
requisiti 
prescritti 
dell’art. 21-bis 
cit., “fanno stato” nel giudizio tributario. 
e 
dunque, per l’orientamento richiamato risulta 
centrale 
la 
valorizzazione 
dell’univocità 
del-
l’accertamento materiale del fatto. 
7.3. 
Quanto 
osservato, 
in 
effetti, 
come 
è 
stato 
anche 
rilevato 
in 
dottrina, 
risponde 
all’obiettivo 
della 
riforma 
di 
attuare 
il 
principio 
di 
non 
contraddizione 
e 
di 
coerenza 
del 
sistema, 
innovando 
la 
struttura 
del 
c.d. doppio binario per armonizzarne 
la 
disciplina 
con i 
principi 
generali 
del-
l’ordinamento, con primario riferimento all’art. 53, comma 
1 della 
Costituzione 
che 
impone, 
quale 
requisito strutturale 
dell’obbligazione 
tributaria, l’effettività 
e 
realità 
del 
presupposto 
impositivo. 
Ciò non solo, pertanto, nella 
prospettiva 
del 
rispetto del 
principio del 
ne 
bis 
in idem, ma, appunto, 
anche 
per l’esigenza 
di 
attuare 
il 
principio di 
non contraddizione 
e 
di 
coerenza 
del 
sistema, 
con recupero della 
omogeneità 
della 
verità 
processuale 
sul 
fatto e 
in ultima 
istanza, 
scongiurando 
l’eventualità 
che, 
per 
effetto 
di 
un 
doppio 
binario 
processuale, 
ciò 
che 
non 
esiste 
dal 
punto 
di 
vista 
fenomenico 
in 
ambito 
penale, 
possa 
invece 
esserlo 
in 
ambito 
tributario, 
ciò, 
almeno, 
quando 
l’accertamento 
penale 
sia 
stato 
esito 
del 
giudizio 
dibattimentale, 
dotato 
di 
caratteristiche strutturali e di 
standard 
probatori più elevati di quelli del processo tributario. 
7.4. Da 
quanto sinora 
osservato discende, quale 
necessario corollario, il 
superamento, con riguardo 
al 
processo tributario, delle 
limitazioni 
poste 
dall’art. 654 c.p.p., con riguardo ai 
differenti 
regimi 
probatori, 
alla 
estensione 
dell’efficacia, 
nei 
giudizi 
civili 
o 
amministrativi 
dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale. 
7.5. 
Le 
tesi 
formulate 
nelle 
ora 
richiamate 
pronunce 
di 
questa 
Corte 
troverebbero 
conforto 
nella 
ratio 
legis 
desumibile 
dai 
principi 
e 
criteri 
direttivi 
predicati 
dall’art. 
20, 
comma 
1, 
della 
legge 
delega 
n. 111 del 
2023, che, pur sotto il 
“cappello” 
unitario della 
rubrica 
che 
recita 
“revisione 
del 
sistema 
sanzionatorio 
tributario, 
amministrativo 
e 
penale, 
con 
riferimento 
alle 
imposte 
sui 
redditi, all’IvA 
e 
agli 
altri 
tributi 
indiretti 
nonché 
ai 
tributi 
degli 
enti 
territoriali”, 
affida 
al 
Governo delegato due 
finalità 
distinte 
ed autonome: 
al 
comma 
1, lett. a 
n. 1) quella 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


di 
“razionalizzare 
il 
sistema 
sanzionatorio 
amministrativo 
e 
penale, 
anche 
attraverso 
una 
maggiore 
integrazione 
tra 
i 
diversi 
tipi 
di 
sanzione, ai 
fini 
del 
completo adeguamento al 
principio 
del 
ne 
bis 
in idem” 
e, al 
comma 
1, lett. a, n. 3) quella 
di 
“rivedere 
i 
rapporti 
tra 
il 
processo penale 
e 
il 
processo 
tributario 
prevedendo, 
in 
coerenza 
con 
i 
principi 
generali 
dell’ordinamento, 
che, nei 
casi 
di 
sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste 
o l’imputato 
non lo ha 
commesso, i 
fatti 
materiali 
accertati 
in sede 
dibattimentale 
facciano stato nel 
processo 
tributario quanto all’accertamento dei 
fatti 
medesimi 
(...)”, sì 
che, se 
il 
primo criterio 
direttivo può ritenersi 
inteso alla 
regolazione 
coerente 
delle 
conseguenze 
sanzionatorie 
derivanti 
dalla 
necessaria 
separatezza 
dei 
giudizi, penale 
e 
tributario, e 
del 
procedimento amministrativo 
tributario, il 
secondo risulta, al 
contrario, diretto a 
regolare 
l’estensione 
al 
giudizio 
tributario 
del 
giudicato 
penale 
dibattimentale 
di 
assoluzione 
con 
formula 
di 
merito, 
nell’ipotesi 
di 
identità 
dei 
fatti 
materiali 
posti 
a 
fondamento della 
fattispecie 
criminosa 
e 
della 
ripresa 
fiscale. 


7.6. La 
volontà 
del 
legislatore, così 
delineata, troverebbe 
inoltre 
conferma 
nella 
relazione 
illustrativa 
del 
decreto 
legislativo 
attuativo 
14 
giugno 
2024, 
n. 
87, 
ove, 
in 
particolare, 
si 
afferma 
che 
“l’obiettivo del 
citato articolo 20, comma 
1, lettera 
a), numero 1), è 
quello di 
conseguire 
una 
maggiore 
integrazione 
tra 
sanzioni 
amministrative 
e 
penali, evitando forme 
di 
duplicazione 
non compatibili 
con il 
divieto di 
bis 
in idem”, laddove 
“l’articolo 20, comma 
1, lettera 
a), numero 3) è 
finalizzato, invece, alla 
revisione 
dei 
rapporti 
tra 
processo penale 
e 
processo 
tributario”. 
7.7. 
Da 
ultimo, 
pur 
nei 
limiti 
della 
natura 
compilativa 
di 
tali 
strumenti 
normativi, 
non 
sarebbe 
priva 
di 
rilievo, 
ai 
fini 
di 
una 
ricognizione 
pur 
postuma 
della 
voluntas 
legis, 
la 
circostanza 
dell’avvenuta 
trasposizione, con efficacia 
del 
1° 
gennaio 2026, dell’art. 21-bis 
D.Lgs. n. 74 
del 
2000 
all’art. 
119 
del 
Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria 
(D.Lgs. 
n. 
175 
del 
2024), 
mentre 
l’art. 21 del 
medesimo D.Lgs. n. 74 è 
stato inserito all’art. 98 del 
Testo unico delle 
sanzioni 
tributarie amministrative e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1° gennaio 2026. 
8. 
La 
seconda 
tesi: 
l’art. 
21-bis 
del 
D.Lgs. 
n. 
74/2000 
si 
riferisce 
esclusivamente 
al 
trattamento 
sanzionatorio e 
non riguarda 
l’imposta, ossia 
la 
decisione 
del 
giudice 
tributario sulla 
pretesa 
impositiva. 
8.1. Successivamente, a 
partire 
da 
Cass. n. 3800/2025 (conformi 
Cass. n. 4916/2025, Cass. n. 
4921/2025, Cass. n. 4924/2025 e 
Cass. n. 4935/2025), è 
stato manifestato un difforme 
orientamento 
secondo il 
quale 
l’art. 21-bis 
del 
D.Lgs. n. 74 del 
2000 si 
riferisce 
esclusivamente 
alle 
sanzioni 
tributarie 
e 
non 
all’accertamento 
dell’imposta, 
rispetto 
alla 
quale 
la 
sentenza 
penale 
assolutoria 
continuerebbe 
ad assumere 
rilievo come 
mero elemento di 
prova, oggetto di 
autonoma 
valutazione 
da 
parte 
del 
giudice 
tributario unitamente 
agli 
altri 
elementi 
di 
prova 
introdotti nel giudizio. 
8.2. La 
diversa 
tesi 
si 
fonda 
su una 
lettura 
della 
novella, e 
degli 
atti 
preparatori, intesa 
a 
coglierne 
esclusivamente 
la 
finalità 
di 
razionalizzazione 
del 
sistema 
sanzionatorio penale 
e 
tributario 
vigente, mediante 
la 
loro integrazione, nella 
prospettiva 
del 
rispetto del 
principio del 
ne bis in idem. 
8.3. 
L’introduzione 
dell’art. 
21-bis 
cit., 
in 
un 
sistema 
ancora 
governato 
dal 
c.d. 
doppio 
binario, 
avrebbe 
pertanto la 
sola 
funzione 
di 
estendere 
anche 
alla 
fase 
di 
cognizione 
l’ambito di 
applicazione 
del 
principio di 
specialità 
tra 
disposizioni 
amministrative 
e 
penali, previsto dall’art. 
19 
del 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, 
il 
quale 
stabilisce 
che 
“Quando 
uno 
stesso 
fatto 
è 
punito 
da 
una 
delle 
disposizioni 
del 
titolo 
II 
e 
da 
una 
disposizione 
che 
prevede 
una 
sanzione 
amministrativa, 
si applica la disposizione speciale”. 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


L’effetto della 
novella 
sarebbe, dunque, l’estensione 
al 
giudizio di 
cognizione 
-ed anche 
al 
giudizio 
di 
cassazione 
-della 
deducibilità 
della 
pronuncia 
penale 
di 
assoluzione 
per 
le 
formule 
“il 
fatto non sussiste” 
e 
“l'imputato non lo ha 
commesso”, sì 
che 
la 
relativa 
valutazione 
non 
sarebbe più limitata alla sola fase riscossiva. 
e 
dunque 
l’esigenza 
tutelata 
dal 
legislatore 
-ma 
già 
presente 
nelle 
originarie 
previsioni 
-sarebbe 
esclusivamente 
quella 
di 
trattare 
in termini 
unitari, per evitare 
criticità 
o incongruenze, 
gli 
esiti 
finali 
sanzionatori 
derivanti 
dalla 
necessaria 
separatezza 
dei 
giudizi, penale 
e 
tributario, 
e del procedimento amministrativo tributario. 


8.4. Il 
rapporto di 
imposta 
che 
intercorre 
tra 
il 
contribuente 
e 
l’erario -incardinato tra 
dovere 
contributivo e 
capacità 
contributiva 
in funzione 
della 
giusta 
imposizione 
-secondo il 
richiamato 
orientamento, non partecipa 
pertanto, in quanto tale, al 
rapporto penale, che 
attiene, invece, 
all’aspetto 
sanzionatorio, 
per 
il 
quale 
si 
pone, 
differentemente, 
l’esigenza 
di 
una 
valutazione unitaria e contemperata del complessivo trattamento afflittivo. 
8.5. Le 
decisioni 
menzionate 
fanno, inoltre, riferimento al 
dato -di 
sistema 
-della 
introduzione, 
con la 
novella, anche 
dell’art. 21-ter 
D.Lgs. n. 74 del 
2000 che 
ha 
regolato il 
-pur diverso 
-diverso versante 
del 
cumulo sanzionatorio nel 
caso di 
riconosciuta 
responsabilità, sì 
da 
evitare 
che 
il 
trattamento 
risulti 
eccessivamente 
gravoso, 
prevedendo 
che 
“il 
giudice 
o 
l’autorità 
amministrativa, al 
momento della 
determinazione 
delle 
sanzioni 
di 
propria 
competenza 
e 
al 
fine 
di 
ridurne 
la 
relativa 
misura, tiene 
conto di 
quelle 
già 
irrogate 
con provvedimento o 
con sentenza assunti in via definitiva”. 
8.6. Ancora, sul 
piano strettamente 
letterale, viene 
posto in rilievo il 
dettato del 
comma 
3 del-
l’art. 21-bis 
cit., che 
prevede: 
“3. Le 
disposizioni 
dei 
commi 
1 e 
2 si 
applicano, limitatamente 
alle 
ipotesi 
di 
sentenza 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste, anche 
nei 
confronti 
della 
persona 
fisica 
nell’interesse 
della 
quale 
ha 
agito il 
dipendente, il 
rappresentante 
legale 
o negoziale, 
ovvero nei 
confronti 
dell’ente 
e 
società, con o senza 
personalità 
giuridica, nell’interesse 
dei 
quali 
ha 
agito 
il 
rappresentante 
o 
l’amministratore 
anche 
di 
fatto, 
nonché 
nei 
confronti 
dei loro soci o associati”. 
A 
tale 
riguardo 
si 
afferma 
che 
l’utilizzo 
della 
congiunzione 
“anche”, 
riferita 
alla 
persona 
fisica 
o alla 
società, nonché 
ai 
soci 
o associati 
si 
spiegherebbe 
soltanto in chiave 
sanzionatoria, poiché 
l’accertamento 
del 
tributo 
è 
naturalmente 
riferito 
al 
soggetto 
passivo, 
che 
è 
l’imprenditore 
individuale 
o la 
società, non certo alla 
persona 
che 
abbia 
agito per loro, né 
ai 
soci 
e 
agli 
associati, 
che rispondono ad altro titolo. 
8.6.1. Per completezza, giova 
comunque, a 
tale 
proposito, rilevare 
che, secondo la 
ricostruzione 
operata 
dall’opposto orientamento, gli 
effetti 
della 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
nei 
termini 
di 
cui 
all’art. 21-bis 
cit. si 
riverberano non solo sul 
rapporto impositivo, 
ma 
sul 
conseguente 
trattamento 
sanzionatorio, 
e 
quindi 
ben 
potrebbe 
giustificarsi, 
in 
tale 
ottica, il dato letterale evidenziato. 
8.7. Infine, l’orientamento qui 
da 
ultimo richiamato sottolinea 
la 
neutralità 
del 
dato formale 
della 
avvenuta 
trasposizione 
dell’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
n. 
74 
del 
2000 
all’art. 
119 
del 
Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria 
(D.Lgs. n. 175 del 
2024), e 
della 
differente 
trasposizione 
dell’art. 21 
del 
medesimo 
D.Lgs. 
n. 
74 
all’art. 
98 
del 
Testo 
unico 
delle 
sanzioni 
tributarie 
amministrative 
e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1° gennaio 2026. 
9) La 
seconda 
questione: 
la 
rilevanza 
della 
sentenza 
penale 
pronunciata 
ai 
sensi 
dell’art. 530, 
comma 2, c.p.p. 
non vi 
è, inoltre, convergenza 
di 
orientamento in ordine 
alla 
rilevanza 
nel 
giudizio tributario 
delle 
sentenze 
penali 
di 
assoluzione 
pronunziate 
ex 
art. 
530, 
secondo 
comma, 
c.p.p., 
questione 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


che assume specifica rilevanza in ordine alla fattispecie oggetto del ricorso qui in esame. 

10. Il primo orientamento. 
10.1. Si 
è 
formato, a 
tale 
riguardo, un orientamento inteso ad escluderne 
il 
rilievo ai 
fini 
della 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 21-bis 
cit. in esame 
(a 
partire 
da 
Cass. n. 3800/2025, seguita 
da 
Cass. 
n. 4291/2025 e Cass. n. 4294/2025). 
È 
stato, in particolare, affermato, che, pur dovendosi 
considerare 
che 
nel 
giudizio penale 
la 
prova 
positiva 
dell’innocenza 
dell’imputato (art. 530, comma 
1) e 
la 
prova 
negativa 
della 
sua 
responsabilità 
(art. 
530, 
comma 
2) 
hanno 
pari 
valore, 
la 
giurisprudenza 
civile, 
invece, 
nel-
l’interpretare 
gli 
artt. 
651-654 
c.p.p., 
ha 
distinto 
le 
due 
situazioni, 
attribuendo 
differente 
valore 
alle 
ipotesi 
di 
assoluzione 
pronunciate 
a 
norma 
del 
primo 
comma 
rispetto 
a 
quelle 
pronunciate 
a 
norma 
del 
secondo 
comma, 
con 
orientamento 
consolidato 
da 
oltre 
trent’anni 
e 
che 
ha 
trovato 
il 
suo riconoscimento anche 
da 
parte 
delle 
Sezioni 
unite 
(v. Sez. u, n. 1768 del 
26 gennaio 
2011, che, con riguardo all’art. 652, ma 
anche 
rispetto agli 
artt. 651,653 e 
654 c.p.p., ha 
affermato 
che 
“la 
sentenza 
di 
assoluzione 
è 
idonea 
a 
produrre 
gli 
effetti 
di 
giudicato ivi 
indicati 
non in relazione 
alla 
formula 
utilizzata, bensì 
solo in quanto contenga, in termini 
categorici, 
un effettivo e 
positivo accertamento circa 
l’insussistenza 
del 
fatto”). Il 
principio, si 
osserva, 
è 
stato 
affermato 
anche 
dal 
giudice 
amministrativo 
(Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
2, 
n. 
2509 
del 
2014), secondo il 
quale 
“l’efficacia 
vincolante 
del 
giudicato penale 
è 
configurabile 
solo allorché 
la 
sussistenza 
dei 
reati 
contestati 
sia 
stata 
esclusa 
ai 
sensi 
dell’art. 
530, 
comma 
1, 
c.p.p.”. 
10.2. La 
giustificazione 
logica 
e 
giuridica 
dell’orientamento che 
distingue 
la 
rilevanza 
ai 
fini 
civili 
tra 
i 
due 
commi 
viene 
altresì 
colta 
nel 
fatto che 
il 
fondamento sostanziale 
della 
scelta 
di 
attribuire 
efficacia 
di 
giudicato 
alla 
sentenza 
penale 
di 
assoluzione 
(per 
le 
formule 
assolutorie 
di 
insussistenza 
del 
fatto e 
per non aver commesso il 
fatto, qui 
in rilievo) deriva 
dal 
maggior 
approfondimento istruttorio che 
caratterizza 
il 
processo penale 
rispetto a 
quello civile 
(e 
tributario) 
e 
dalla 
possibilità, 
propria 
del 
processo 
penale, 
di 
ricostruire 
la 
situazione 
fattuale 
con estrema certezza. 
10.3. Tale 
condizione 
(ossia 
la 
ricostruzione 
della 
situazione 
fattuale 
con estrema 
certezza) si 
avrebbe, tuttavia, solamente 
nei 
casi 
in cui 
la 
pronuncia 
di 
assoluzione 
sia 
resa 
ex art. 530, 
comma 
1, c.p.p. (prova 
positiva 
che 
superi 
ogni 
ragionevole 
dubbio) e 
non nei 
casi 
in cui 
la 
pronuncia 
di 
assoluzione 
sia 
resa 
ex art. 530, comma 
2, c.p.p. (prova 
mancante, insufficiente 
o carente). 
11. Il secondo orientamento. 
11.1. La 
tesi 
contraria, favorevole 
alla 
estensione 
degli 
effetti 
dell’art. 21-bis 
cit. anche 
alle 
sentenze 
di 
assoluzione 
con formula 
di 
merito pronunciate 
ai 
sensi 
dell’art. 530, comma 
2, 
c.p.p., 
è 
ravvisabile, 
seppure 
in 
forma 
inespressa, 
in 
Cass. 
n. 
23570/2024 
e 
Cass. 
n. 
23609/2024. 
11.2. Per completezza, a 
tale 
riguardo, può osservarsi 
che 
l’art. 21-bis 
del 
D.Lgs. n. 74/2000 
sfugge 
al 
sistema 
degli 
artt. 651-654 c.p.p., ponendosi 
come 
regola 
autonoma 
e 
speciale, e 
dunque 
verrebbe 
meno anche 
il 
riferimento agli 
esiti 
della 
consolidata 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
formatasi al riguardo. 
Ciò 
vale, 
in 
primo 
luogo, 
in 
relazione 
ai 
presupposti 
di 
applicabilità, 
rilevandosi, 
ad 
esempio, 
che 
l’art. 
21-bis 
cit., 
a 
differenza 
della 
disciplina 
dettata 
dall’art. 
652 
c.p.p., 
non 
equipara, 
quoad 
effectum, 
alla 
sentenza 
dibattimentale 
la 
sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
pronunciata 
a 
norma 
dell’articolo 
442 
c.p.p., 
anche 
se 
la 
parte 
civile 
abbia 
accettato 
il 
rito 
abbreviato. 
Ancora, 
e 
con 
maggior 
rilievo 
euristico, 
la 
disciplina 
dell’art. 
21-bis 
cit. 
elude 
la 
clausola 
di 
compatibilità 
con 
le 
limitazioni 
alla 
prova 
imposte 
dalla 
“legge 
civile” 
predicata 
dall’art. 
654 
c.p.c. 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


11.3. 
e 
dunque, 
in 
ragione 
della 
autonomia 
della 
nuova 
disciplina, 
potrebbe 
valorizzarsi 
l’elemento 
testuale 
della 
mancata 
esplicita 
esclusione, nell’art. 21-bis 
cit., dell’efficacia 
extra-penale 
della 
sentenza 
di 
assoluzione 
pronunciata 
ai 
sensi 
del 
secondo 
comma 
dell’art. 
530 
c.p.p. 
osservandosi 
che 
la 
ratio 
della 
novella 
è 
dichiaratamente 
semplificatoria, 
di 
integrazione 
completa 
dei 
due 
sistemi, e 
tende 
ad uniformare 
gli 
esiti 
penali 
e 
tributari 
sui 
medesimi 
fatti 
accertati, potrebbe 
pertanto ritenersi 
che, se 
il 
legislatore 
avesse 
voluto escludere 
il 
secondo 
comma 
lo avrebbe 
fatto, così 
come 
ha 
escluso le 
assoluzioni 
a 
seguito di 
giudizi 
non dibattimentali. 
11.4. Infine, sul 
versante 
prospettico del 
rispetto del 
principio del 
ne 
bis 
in idem, non appare 
peregrino 
osservare 
che 
anche 
il 
secondo 
comma 
dell’art. 
530 
c.p.p. 
esprime 
un 
accertamento, 
negativo, in merito alla 
insussistenza 
dei 
fatti 
materiali 
oggetto della 
imputazione, per come 
contestati, comuni ai fatti oggetto della pretesa tributaria. 
12. Conclusioni. 
Il 
Collegio ritiene, in conclusione, che, considerati 
la 
non uniformità 
delle 
decisioni 
assunte 
e 
la 
rilevanza 
dei 
principi 
sottesi, di 
ambito generale, possano ricorrere 
i 
presupposti 
per una 
pronuncia 
delle 
Sezioni 
unite 
della 
Corte 
ai 
sensi 
dell’art. 
374, 
secondo 
comma, 
c.p.c., 
in 
merito 
all’ambito 
di 
efficacia 
dall’art. 
21-bis 
D.Lgs. 
n. 
74/2000, 
introdotto 
dall’art. 
1, 
comma 
1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore 
dal 
29 giugno 2024, quindi 
trasposto nel-
l’art. 
119 
del 
Testo 
unico 
della 
giustizia 
tributaria 
(D.Lgs. 
14 
novembre 
2024, 
n. 
175), 
vigente 
dal 
1° 
gennaio 2026, sia 
in relazione 
al 
profilo della 
estensione 
anche 
al 
rapporto impositivo 
degli 
effetti 
della 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
dal 
reato tributario, emessa 
ad 
esito del 
dibattimento con la 
formula 
“perché 
il 
fatto non sussiste”, sia 
in ordine 
alla 
applicabilità 
della 
nuova 
disciplina 
alla 
ipotesi 
di 
assoluzione 
con la 
formula 
prevista 
dal 
secondo 
comma dell’art. 530 del codice di procedura penale. 
È 
opportuno, pertanto, ai 
sensi 
del 
richiamato art. 374, secondo comma, c.p.c., rimettere 
gli 
atti 
alla 
Prima 
Presidente 
per le 
sue 
determinazioni 
in ordine 
alla 
eventuale 
assegnazione 
del 
ricorso alle sezioni unite per questione di massima di particolare importanza. 
P.Q.M. 
rimette 
gli 
atti 
alla 
Prima 
Presidente 
per 
l’eventuale 
assegnazione 
del 
ricorso 
alle 
sezioni 
unite. 
Così deciso in roma, il 5 febbraio 2025 ed il 28 febbraio 2025. 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


il rapporto fra procedura di definizione agevolata 

(c.d. “rottamazione quater”) e i giudizi pendenti, ai sensi 
dell’art. 1, comma 236, legge 29 dicembre 2022, n. 197 
Alberto Giovannini* 


Con l’ordinanza n. 5830 del 
5 marzo 2025 
la 
Sezione 
tributaria 
della 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
ritenuto di 
rimettere 
la 
causa 
alla 
Prima 
Presidente 
per 
l’eventuale 
assegnazione 
alle 
Sezioni 
unite 
(1) 
in 
ordine 
alla 
questione 
di 
massima 
di particolare importanza così formulata: 


«se, ove 
il 
contribuente 
abbia dichiarato di 
aderire 
alla definizione 
agevolata 
per 
i 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della riscossione 
dall’1 gennaio 2000 
al 
30 giugno 2022 (c.d. “rottamazione 
quater”), con la proposta di 
un piano 
di 
dilazione 
rateale 
del 
debito 
e 
l’assunzione 
dell’obbligo 
di 
rinunciare 
ai 
giudizi 
tributari 
pendenti, procedendo all’adempimento parziale 
del 
debito rateizzato 
dopo 
la 
comunicazione 
favorevole 
dell’agente 
della 
riscossione, 
l’art. 
1, comma 236, della legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, imponga la sospensione 
dei 
giudizi 
tributari 
fino 
all’integrale 
soddisfacimento 
del 
debito 
rateizzato 
ovvero 
consenta, 
altrimenti, 
la 
definizione 
immediata 
dei 
giudizi 
tributari 
mediante 
la 
dichiarazione 
di 
estinzione 
oppure 
mediante 
la 
dichiarazione 
di 
inammissibilità dei ricorsi per carenza sopravvenuta di interesse». 


La 
previsione 
normativa 
della 
cui 
interpretazione 
si 
chiede 
di 
investire 
le 
Sezioni unite recita: 


«Nella 
dichiarazione 
di 
cui 
al 
comma 
235 
[diretta 
a 
«manifesta(re) 
al-
l’agente 
della 
riscossione 
la 
sua 
volontà 
di 
procedere 
alla 
definizione» 
agevolata] 
il 
debitore 
indica 
l’eventuale 
pendenza 
di 
giudizi 
aventi 
ad 
oggetto 
i 
carichi 
in 
essa 
ricompresi 
e 
assume 
l’impegno 
a 
rinunciare 
agli 
stessi 
giudizi, 
che, 
dietro 
presentazione 
di 
copia 
della 
dichiarazione 
e 
nelle 
more 
del 
pagamento 
delle 
somme 
dovute, 
sono 
sospesi 
dal 
giudice. 
l’estinzione 
del 
giudizio 
è 
subordinata 
all’effettivo 
perfezionamento 
della 
definizione 
e 
alla 
produzione, 
nello 
stesso 
giudizio, 
della 
documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati; 
in 
caso 
contrario, 
il 
giudice 
revoca 
la 
sospensione 
su 
istanza 
di 
una 
delle 
parti». 


Le 
perplessità 
ermeneutiche 
investono, 
in 
particolare, 
il 
rapporto 
fra 
la 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
e 
il 
giudizio 
che 
abbia 
ad 
oggetto 
la 
pretesa 
impositiva 
oggetto della 
prima 
e, in particolare, come 
si 
coordinino la 
previsione 
della 
sospensione 
necessaria 
del 
giudizio e 
la 
rinuncia 
allo stesso formulata 
nella 
richiesta 
di 
adesione 
alla 
procedura, specie 
a 
fronte 
del 
secondo 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) L’udienza 
è 
stata 
fissata 
davanti 
alle 
Sezioni 
unite 
per il 
giorno 8 luglio 2025 (Ct. 26951/21, 
avv. Stato M.L. Cherubini). 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


alinea 
della 
disposizione 
che 
subordina 
l’estinzione 
del 
giudizio “all’effettivo 
perfezionamento 
della 
definizione 
e 
alla 
produzione, 
nello 
stesso 
giudizio, 
della documentazione attestante i pagamenti effettuati”. 


La 
questione 
si 
inscrive 
nell’ambito della 
procedura 
della 
c.d. “rottamazione 
quater” 
(con 
il 
termine 
“rottamazione” 
ci 
si 
riferisce, 
infatti, 
colloquialmente 
alla 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
pendenti 
che 
siano 
già 
stati 
affidati 
dall’ente 
impositore 
all’Agente 
della 
riscossione), 
che 
consente 
ai 
contribuenti 
di 
definire 
i 
carichi 
affidati 
all’Agenzia 
delle 
entrate-riscossione 
dal 
1° 
gennaio 
2000 al 
30 giugno 2022, pagando esclusivamente 
l’imposta 
principale, 
le 
spese 
per eventuali 
procedure 
esecutive 
e 
i 
diritti 
di 
notifica, con l’esonero, 
invece, dal pagamento di sanzioni, interessi e aggio. 


Si 
tratta 
di 
problematica 
sorta 
in 
questi 
termini 
solo 
in 
occasione 
della 
procedura 
di 
“rottamazione 
quater” 
e 
non, 
invece, 
per 
le 
precedenti 
“rottamazioni”. 


nella 
prima 
“rottamazione”, di 
cui 
al 
d.l. 22 ottobre 
2016, n. 193, convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
L. 
1° 
dicembre 
2016, 
n. 
225 
(art. 
6), 
e 
nella 
successiva 
“rottamazione 
bis”, 
di 
cui 
al 
d.l. 
16 
ottobre 
2017, 
n. 
148, 
convertito 
con modificazioni 
dalla 
L. 4 dicembre 
2017, n. 172 (art. 1, che 
disciplina 
la 
procedura 
estendendo gli 
effetti 
temporali 
della 
precedente 
“rottamazione” 
e, 
quindi, rinviando alla 
stessa) era, infatti, previsto l’impegno del 
debitore 
a 
rinunciare 
al 
giudizio 
pendente 
sul 
medesimo 
carico 
oggetto 
di 
definizione 
agevolata, 
rinuncia 
che, 
secondo 
il 
giudice 
della 
legittimità, 
era 
di 
per 
sé 
sufficiente 
a 
comportare 
l’estinzione 
del 
giudizio, 
senza 
necessità 
che 
l’ufficio 
attestasse 
la 
regolarità 
del 
pagamento 
(cfr., 
da 
ultimo, 
Cass., 
6 
novembre 
2024, 


n. 
28602), 
pagamento 
che, 
però, 
laddove 
nelle 
more 
intervenuto, 
avrebbe 
consentito 
la 
declaratoria 
della 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
(cfr., 
Cass., 
3 ottobre 2018, n. 24083). 
Con riferimento alla 
“rottamazione 
ter”, di 
cui 
all’art. 3, d.l. 23 ottobre 
2018, n. 119, convertito con modificazioni 
dalla 
L. 17 dicembre 
2018, n. 136, 
la 
giurisprudenza, 
nonostante 
la 
formulazione 
della 
disposizione 
fosse 
del 
tutto 
identica 
a 
quella 
oggetto in esame 
(2), si 
era, invece, attestata 
uniformemente 
su 
una 
interpretazione 
che 
riteneva 
sufficiente, 
ai 
fini 
della 
declaratoria 
di 
estinzione 
del 
procedimento, il 
perfezionamento della 
procedura 
amministrativa 
di 
definizione 
agevolata 
e 
la 
documentazione 
dei 
soli 
pagamenti 
già 
effettuati 
(cfr., Cass., 24 luglio 2024, n. 20626). 


(2) Così 
recitava, infatti, l’art. 3, comma 
6, d.l. 119/2018: 
«Nella dichiarazione 
di 
cui 
al 
comma 
5 il 
debitore 
indica l’eventuale 
pendenza di 
giudizi 
aventi 
ad oggetto i 
carichi 
in essa ricompresi 
e 
assume 
l’impegno a rinunciare 
agli 
stessi 
giudizi, che, dietro presentazione 
di 
copia della dichiarazione 
e 
nelle 
more 
del 
pagamento delle 
somme 
dovute, sono sospesi 
dal 
giudice. l’estinzione 
del 
giudizio è 
subordinata 
all’effettivo 
perfezionamento 
della 
definizione 
e 
alla 
produzione, 
nello 
stesso 
giudizio, 
della 
documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati; in caso contrario, il 
giudice 
revoca la sospensione 
su 
istanza di una delle parti». 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


Con 
riferimento 
alla 
c.d. 
“rottamazione 
quater”, 
la 
necessità 
di 
rimessione 
della 
questione 
alle 
Sezioni 
unite 
è 
giustificata, 
nell’ordinanza 
qui 
in 
commento, 
dalla 
esistenza, nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità, di 
tre 
diversi 
orientamenti 
che possono essere riassunti come segue. 


Secondo una 
prima 
impostazione 
ermeneutica, ispirata 
al 
criterio strettamente 
letterale, in caso di 
adesione 
del 
contribuente 
alla 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
di 
cui 
ai 
commi 
235 
ss. 
(c.d. 
“rottamazione 
quater”), 
il 
processo 
dovrebbe 
essere 
sospeso 
sino 
al 
pagamento 
di 
tutte 
le 
somme 
dovute, 
nel 
caso di 
rateizzazione. una 
volta 
che 
il 
contribuente 
documenti 
l’avvenuta 
estinzione 
del 
debito, 
il 
giudizio 
potrà 
essere 
estinto; 
in 
caso 
contrario, 
«su 
istanza di 
una delle 
parti» l’ordinanza 
di 
sospensione 
sarà 
revocata 
con conseguente 
prosecuzione del procedimento giurisdizionale. 


Se 
tale 
lettura 
ha 
certamente 
il 
pregio di 
rispettare 
il 
dato letterale 
della 
disposizione 
de 
qua, la 
stessa 
è 
criticata 
da 
una 
seconda 
linea 
interpretativa, 
definibile 
come 
“costituzionalmente 
orientata”, che 
ritiene 
non conforme 
al 
principio di 
ragionevole 
durata 
del 
processo (anche 
in ossequio all’obiettivo 
di 
riduzione 
del 
contenzioso 
tributario 
perseguito 
nell’ambito 
del 
P.n.r.r.) 
una 
tesi 
che 
opini 
per 
la 
sospensione 
del 
giudizio 
sino 
all’intero 
adempimento 
del 
proprio 
debito 
da 
parte 
del 
contribuente, 
cui 
sarebbe 
rimessa 
arbitrariamente 
la 
scelta 
di 
proseguire 
o 
meno 
il 
giudizio. 
Secondo 
questa 
impostazione, 
affinché 
il 
giudice 
possa 
dichiarare 
l’estinzione 
del 
giudizio 
sarebbe 
sufficiente 
la 
produzione 
da 
parte 
del 
contribuente 
della 
domanda 
di 
adesione 
e 
di 
documentazione 
attestante 
il 
pagamento 
delle 
rate 
scadute 
sino 
a 
tale 
momento, 
non 
occorrendo, 
quindi, 
attendere 
l’adempimento 
integrale 
del 
debito 
da 
parte 
del contribuente. 


Si 
pone 
nell’alveo 
di 
questa 
seconda 
interpretazione 
anche 
il 
terzo 
orientamento 
individuato dalla 
Corte 
nell’ordinanza 
di 
rimessione, che 
però, adottando 
una 
chiave 
di 
lettura 
“sistematica” 
della 
disposizione 
de 
qua, 
ritiene 
che, una 
volta 
che 
il 
contribuente 
abbia 
aderito alla 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
e 
abbia, 
quindi, 
rinunciato 
ai 
giudizi 
pendenti 
che 
riguardino 
i 
crediti 
oggetto della 
medesima 
procedura, il 
ricorso da 
questi 
proposto dovrebbe 
essere 
dichiarato inammissibile 
per sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse, non rendendosi 
così 
necessaria 
neanche 
la 
produzione 
della 
documentazione 
attestante 
i pagamenti effettuati. 


La 
medesima 
questione 
è 
stata, 
poi, 
rimessa 
anche 
dalla 
Sez. 
III 
della 
Suprema 
Corte, con l’ordinanza n. 8383 del 
30 marzo 2025, che 
ha 
integrato il 
quesito appena riportato, chiedendo altresì che sia chiarito: 


-se 
il 
principio 
che 
le 
Sezioni 
unite 
sono 
chiamate 
ad 
enunciare 
trovi 
applicazione 
anche 
per «crediti 
diversi 
da quelli 
tributari 
e, soprattutto, come 
nella specie, restitutori o risarcitori»; 


-se 
l’estinzione 
del 
debito ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
236, l. 197/2022 
comporti 
o 
meno 
l’estinzione 
anche 
dell’obbligazione 
del 
coobbligato 
non 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


aderente 
alla 
procedura 
di 
“rottamazione 
delle 
cartelle 
di 
pagamento”, come 
previsto 
dall’art. 
1, 
comma 
202, 
l. 
197/2022, 
nel 
diverso 
caso 
della 
definizione 
agevolata delle controversie tributarie dell’Agenzia delle entrate. 


Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
tributaria, 
ordinanza 
5 
marzo 
2025 
n. 
5830 
-Pres. 
G.M. 
Stalla, 
rel. 
G. 
Lo 
Sardo 
-Protom 
Group 
S.p.A. 
(avv. 
T. 
elefante) 
c. 
Agenzia 
delle 
entrate 
(avv. gen. Stato) (r.g. 19326/2021); 
upfront 
Advisory s.r.l. (avv. T. elefante) c. Agenzia 
delle 
entrate (avv. gen. Stato) (r.g. 19335/2021). 


riLevato CHe: 


1. La 
“Protom 
Group s.p.a.” 
(nel 
procedimento iscritto al 
n. 19326/2021 r.G.) e 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
(nel 
procedimento iscritto al 
n. 19335/2021 r.G.) hanno proposto separati 
ricorsi 
-entrambi 
sulla 
base 
di 
quattro motivi 
-per la 
cassazione, il 
primo, della 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
Tributaria 
regionale 
della 
Campania 
il 
5 
gennaio 
2021, 
n. 
100/20/2021 e, il 
secondo, della 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
Tributaria 
regionale 
della 
Campania 
il 
5 gennaio 2021, n. 93/20/2021, che 
-in controversie 
aventi 
a 
comune 
oggetto 
l’impugnazione 
dell’avviso di 
liquidazione 
n. 18/IT/000346/000/P001 della 
maggiore 
imposta 
di 
registro, per un totale 
di 
€ 93.185,25, in relazione 
ad una 
permuta 
con conguaglio 
(a 
mezzo di 
rogito notarile 
del 
28 dicembre 
2017) tra 
la 
“Protom 
Group s.p.a.” 
e 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
-hanno rigettato, rispettivamente, la 
prima, l’appello proposto dalla 
“Protom 
Group s.p.a.” 
nei 
confronti 
dell’Agenzia 
delle 
entrate 
avverso la 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
tributaria 
provinciale 
di 
napoli 
il 
15 
luglio 
2019, 
n. 
8603/22/2019, 
con 
condanna 
alla 
rifusione 
delle 
spese 
giudiziali 
e, 
la 
seconda, 
l’appello 
proposto 
dalla 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
nei 
confronti 
dell’Agenzia 
delle 
entrate 
avverso 
la 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
tributaria 
provinciale 
di 
napoli 
il 
22 marzo 2019, n. 3619/35/2019, con condanna 
alla rifusione delle spese giudiziali. 
2. Con le 
predette 
sentenze, la 
Commissione 
tributaria 
regionale 
ha 
confermato le 
decisioni 
di 
prime 
cure 
-che 
avevano respinto i 
ricorsi 
originari 
delle 
contribuenti 
-sul 
comune 
rilievo 
che 
l’operazione 
realizzata 
non 
integrasse 
una 
semplice 
permuta 
(con 
conguaglio) 
di 
rami 
aziendali 
tra 
la 
“Protom 
Group s.p.a.” 
e 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
con pattuizione 
di 
uno 
dei 
reciproci 
trasferimenti 
a 
favore 
della 
“taurus 
s.r.l.”, bensì 
la 
sequenza 
di 
una 
permuta 
di 
rami 
aziendali 
tra 
la 
“Protom 
Group s.p.a.” 
e 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
e 
di 
una 
compravendita 
di ramo aziendale tra la “Protom Group s.p.a.” e la “taurus s.r.l.”. 
3. L’Agenzia delle entrate ha resistito con separati controricorsi. 
4. A 
seguito dell’emanazione 
di 
cartella 
di 
pagamento n. 06820200044348834001 in dipendenza 
dell’avviso di 
liquidazione 
in contestazione, con istanze 
depositate 
il 
12 gennaio 2024, 
la 
“Protom 
Group s.p.a.” 
e 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
hanno chiesto di 
rinviare 
le 
cause 
a 
nuovo 
ruolo, 
avendo 
la 
“upfront 
advisory 
s.r.l.” 
aderito 
alla 
definizione 
agevolata 
dei 
«carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della riscossione 
nel 
periodo compreso dal 
1° 
gennaio 2000 al 
30 giugno 
2022» (c.d. “rottamazione 
quater”), ai 
sensi 
dell’art. 1, commi 
231 
-252, della 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197 
(*), ed avendo la 
stessa 
ottenuto dall’Agenzia 
delle 
entrate 
-riscossione 
(*) 
rectius “legge 29 dicembre 2022, n. 197” (n.d.r.). 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


la 
rateizzazione 
massima 
del 
debito 
tributario 
(per 
un 
totale 
di 
diciotto 
rate, 
di 
cui 
due 
già 
corrisposte), per cui, in forza 
di 
ordinanze 
interlocutorie, la 
trattazione 
delle 
cause 
è 
stata 
differita 
all’adunanza camerale del 17 settembre 2024. 


5. Con istanze 
depositate 
il 
4 settembre 
2024, le 
ricorrenti 
hanno chiesto un ulteriore 
rinvio 
delle 
cause 
a 
nuovo ruolo in attesa 
del 
perfezionamento della 
definizione 
agevolata 
a 
favore 
della 
coobbligata 
solidale 
aderente 
(stante 
il 
pagamento di 
cinque 
rate), venendo a 
scadenza 
l’ultima rata del piano di dilazione il 30 novembre 2027. 
6. Indi, con ulteriori 
ordinanze 
interlocutorie, il 
collegio ha 
rinviato le 
cause 
a 
nuovo ruolo 
per la 
trattazione 
in pubblica 
udienza, anche 
al 
fine 
di 
addivenire 
ad una 
composizione 
dei 
diversi 
orientamenti 
sorti 
all’interno della 
Sezione 
Tributaria 
in ordine 
alla 
possibilità 
di 
una 
chiusura anticipata dei suddetti procedimenti. 
7. Con conclusioni 
scritte 
ribadite 
in udienza, il 
Procuratore 
Generale 
si 
è 
espresso per la 
dichiarazione 
di estinzione dei suddetti procedimenti. 
8. nelle 
more, le 
ricorrenti 
hanno depositato la 
quietanza 
di 
pagamento della 
sesta 
rata 
del 
piano di rateizzazione. 
ConSiDerato CHe: 


1. Preliminarmente, si 
deve 
disporre 
la 
riunione 
tra 
i 
procedimenti 
iscritti 
ai 
nn. 19326/2021 
r.G. 
e 
19335/2021 
r.G. 
(segnatamente, 
del 
secondo 
al 
primo, 
in 
base 
alla 
precedenza 
di 
iscrizione 
a 
ruolo), avendo entrambi 
per oggetto l’impugnazione 
del 
medesimo avviso di 
liquidazione 
della 
maggiore 
imposta 
di 
registro 
sul 
contratto 
stipulato 
tra 
le 
ricorrenti 
(art. 
273, 
primo 
comma, 
cod. 
proc. 
civ., 
in 
relazione 
all’art. 
29, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546). 
va 
segnalato, altresì, che 
la 
scelta 
di 
fissare 
-con ordinanza 
interlocutoria 
-la 
trattazione 
in 
pubblica 
udienza 
della 
questione 
specificata 
in 
appresso 
è 
stata 
seguita 
anche 
da 
altra 
Sezione 
di questa Corte (v. Cass., Sez. 3^, 29 novembre 2024, n. 30705). 
2. Ancora, pur in assenza 
di 
una 
previsione 
normativa 
ad hoc, si 
può ritenere, con un’interpretazione 
analogica 
(per 
l’identità 
di 
ratio 
legis: 
art. 
12, 
secondo 
comma, 
disp. 
prel. 
cod. 
civ.) dell’art. 1, comma 
202, della 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197 (riguardante 
la 
definizione 
agevolata 
delle 
controversie 
tributarie), che 
in caso di 
coobbligazione 
solidale 
e 
di 
presentazione 
della 
dichiarazione 
di 
adesione 
alla 
“rottamazione 
quater” 
da 
parte 
di 
uno solo dei 
coobbligati, 
i 
pagamenti 
effettuati 
ai 
fini 
della 
rottamazione 
delle 
cartelle 
di 
pagamento 
liberano 
anche 
gli 
altri 
coobbligati 
non aderenti, i 
quali 
vengono a 
beneficiare 
dell’estinzione 
del 
procedimento. 
3. Ciò posto, la 
decisione 
sull’istanza 
di 
definizione 
agevolata 
impone 
al 
collegio di 
valutare 
l’esatta 
portata 
dell’art. 
1, 
comma 
236, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
a 
tenore 
del 
quale: 
«Nella dichiarazione 
di 
cui 
al 
comma 235 
[diretta 
a 
«manifesta(re) all’agente 
della riscossione 
la sua volontà di 
procedere 
alla definizione» agevolata] 
il 
debitore 
indica l’eventuale 
pendenza di 
giudizi 
aventi 
ad oggetto i 
carichi 
in essa ricompresi 
e 
assume 
l’impegno 
a rinunciare 
agli 
stessi 
giudizi, che, dietro presentazione 
di 
copia della dichiarazione 
e 
nelle 
more 
del 
pagamento delle 
somme 
dovute, sono sospesi 
dal 
giudice. l’estinzione 
del 
giudizio 
è 
subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione 
e 
alla produzione, nello stesso 
giudizio, della documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati; in caso contrario, il 
giudice 
revoca la sospensione su istanza di una delle parti». 
In particolare, l’attenzione 
deve 
essere 
concentrata 
sull’operatività 
della 
fattispecie 
contrassegnata 
dalla 
dichiarazione 
di 
adesione 
del 
contribuente, in cui 
è 
specificata 
la 
volontà 
di 
rateizzare 
il 
debito, è 
indicato il 
numero delle 
rate 
di 
cui 
ci 
si 
intende 
avvalere 
ed è 
manifestato 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


l’impegno a 
rinunciare 
ai 
giudizi 
pendenti 
riguardanti 
detti 
carichi, e 
dalla 
correlativa 
comunicazione 
dell’agente 
della 
riscossione, in cui 
è 
cristallizzato l’importo dovuto e 
sono fissate 
le scadenze delle singole rate. 
A 
tale 
riguardo, si 
deve 
tener conto della 
relazione 
redatta 
dall’ufficio del 
Massimario e 
del 
ruolo di 
questa 
Corte 
il 
16 dicembre 
2024, n. 87 (su sollecitazione 
pervenuta 
con nota 
trasmessa 
dal Presidente della Sezione 
Tributaria il 13 settembre 2024). 


4. La 
succitata 
disposizione 
trova 
il 
suo antecedente 
nell’art. 3, comma 
6, del 
d.l. 23 ottobre 
2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
17 dicembre 
2018, n. 136 (portante 
la 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
affidati 
all’agente 
della 
riscossione 
dall’1 gennaio 2000 
al 
31 
dicembre 
2017 
-c.d. 
“rottamazione 
ter”), 
il 
quale 
pedissequamente 
stabiliva 
che: 
«Nella 
dichiarazione 
di 
cui 
al 
comma 5 il 
debitore 
indica l’eventuale 
pendenza di 
giudizi 
aventi 
ad 
oggetto i 
carichi 
in essa ricompresi 
e 
assume 
l’impegno a rinunciare 
agli 
stessi 
giudizi, che, 
dietro presentazione 
di 
copia della dichiarazione 
e 
nelle 
more 
del 
pagamento delle 
somme 
dovute, sono sospesi 
dal 
giudice. l’estinzione 
del 
giudizio è 
subordinata all’effettivo perfezionamento 
della definizione 
e 
alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati; 
in 
caso 
contrario, 
il 
giudice 
revoca 
la 
sospensione 
su 
istanza 
di una delle parti». 
Diversamente, l’art. 6 del 
d.l. 22 ottobre 
2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
1 
dicembre 
2016, 
n. 
225 
(portante 
la 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della 
riscossione 
dal 
2000 al 
2016 -c.d. “prima rottamazione”), e 
l’art. 1 del 
d.l. 16 ottobre 
2017, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
4 dicembre 
2017, n. 172 (portante 
la 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della 
riscossione 
dall’1 
gennaio 
al 
30 
settembre 
2017 
-c.d. 
“rottamazione 
bis”), 
non 
presentano 
disposizioni 
riferite 
espressamente 
all’estinzione 
del 
giudizio, per cui 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
affrontato prevalentemente 
la 
questione 
della 
natura 
giuridica 
della 
rinuncia 
del 
contribuente 
ai 
giudizi 
relativi 
ai 
carichi 
oggetto della 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
e 
della 
formula 
con cui 
definire 
il 
relativo 
giudizio. 
In proposito, dopo singoli 
arresti 
di 
diverso e 
vario tenore 
(Cass. Sez. 6^-5, 10 gennaio 2017, 
n. 5497; 
Cass., Sez. 5^, 20 gennaio 2017, n. 1507; 
Cass., Sez. 5^, 16 febbraio 2017, n. 4157), 
si 
è 
delineato un orientamento per il 
quale, a 
fronte 
della 
richiesta 
di 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
formulata 
dal 
contribuente 
che 
aveva 
aderito alla 
definizione 
agevolata, si 
è 
ritenuto 
che 
l’istanza 
dovesse 
essere 
«interpretata 
come 
rinuncia 
al 
ricorso», 
con 
effetto 
estintivo del 
processo ex 
art. 391 cod. proc. civ. (in termini: 
Cass., Sez. 5^, 27 aprile 
2017, n. 
10474; 
Cass. Sez. 6^-5, 3 ottobre 
2018, n. 24083; 
Cass., Sez. Lav., 2 maggio 2019, n. 11540; 
Cass., Sez. 6^-5, 24 novembre 2020, n. 29293). 
Secondo tale 
indirizzo, il 
contribuente 
sarebbe 
titolare 
di 
un diritto potestativo che 
realizza 
un vero e 
proprio potere 
di 
conformazione, cioè 
di 
sostituire 
al 
regolamento della 
situazione 
sostanziale 
debitoria 
esistente 
ed 
eventualmente 
sub 
iudice, 
la 
nuova 
regolamentazione 
anche 
quantitativa 
del 
dovuto, imperniata 
sulle 
modalità 
di 
adempimento previste 
e 
da 
fissarsi 
dal-
l’esattore 
e 
che 
una 
tale 
sostituzione 
non 
necessita 
dell’accettazione 
da 
parte 
dell’agente 
della 
riscossione 
essendo 
espressione 
di 
scelte 
di 
convenienza 
o 
comunque 
discrezionali: 
l’esattore 
ha, dunque, solo la 
possibilità 
di 
contestare 
la 
ricorrenza 
dei 
presupposti 
per l’applicazione 
della 
norma 
e 
dunque 
della 
ascrivibilità 
della 
dichiarazione 
alla 
previsione 
normativa, 
mentre 
al 
di 
fuori 
di 
queste 
ipotesi 
ha 
l’obbligo di 
dare 
corso alla 
richiesta 
del 
contribuente 
(Cass., 
Sez. 6^-5, 3 ottobre 2018, n. 24083). 
Siffatte 
argomentazioni, elaborate 
con riguardo alla 
prima 
rottamazione, sono state 
mutuate 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


in alcune 
decisioni 
riferite 
all’applicazione 
dell’art. 3, comma 
6, del 
d.l. 23 ottobre 
2018, n. 
119, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
17 dicembre 
2018, n. 136, nonostante 
tale 
ultimo 
impianto 
normativo 
presenti, 
come 
si 
è 
già 
evidenziato, 
analogamente 
a 
quello 
di 
cui 
alla 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
l’elemento 
normativo 
innovativo 
di 
cui 
si 
è 
detto, 
ovvero 
delle disposizioni dedicate all’estinzione del giudizio. 
In particolare, si 
è 
ritenuto che 
il 
mancato pagamento integrale 
di 
quanto dovuto per la 
definizione 
agevolata 
non è 
ostativo alla 
dichiarazione 
di 
estinzione 
del 
giudizio, poiché 
in presenza 
della 
dichiarazione 
del 
debitore 
di 
avvalersi 
della 
definizione 
agevolata 
con impegno a 
rinunciare 
al 
giudizio, cui 
sia 
seguita 
la 
comunicazione 
dell’esattore 
ai 
sensi 
del 
comma 
3 di 
tale 
norma, opera 
il 
meccanismo estintivo di 
cui 
si 
è 
sopra 
riferito ovvero il 
giudizio di 
cassazione 
viene 
dichiarato estinto, ex 
art. 391 cod. proc. civ., rispettivamente 
per rinuncia 
del 
debitore, qualora 
egli 
sia 
ricorrente, ovvero perché 
ricorre 
un caso di 
estinzione 
ex 
lege, qualora 
sia resistente o intimato (Cass., Sez. 5^, 6 dicembre 2023, n. 36431). 
Anche 
una 
successiva 
decisione, riguardante 
la 
presentazione 
di 
un’istanza 
ex 
art. 5 del 
d.l. 
23 
ottobre 
2018, 
n. 
119, 
volta 
alla 
c.d. 
“rottamazione” 
per 
risorse 
proprie 
dell’unione 
europea, 
definibile 
però 
secondo 
la 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
3 
dello 
stesso 
decreto 
ovvero 
della 
c.d. 
“rottamazione 
ter”, nella 
quale 
si 
evidenzia 
che 
la 
fattispecie 
estintiva 
delineata 
dall’art. 3, 
comma 
6, ha 
come 
elementi 
costitutivi, da 
un lato, la 
domanda 
di 
definizione 
agevolata 
del 
contribuente 
contenente 
l’impegno 
a 
rinunciare 
al 
giudizio 
e, 
dall’altro, 
l’accoglimento 
da 
parte 
dell’agente 
della 
riscossione 
della 
sua 
istanza, con individuazione 
delle 
somme 
da 
versare 
e 
delle 
(eventuali) rate 
in cui 
viene 
suddiviso il 
debito, configurandosi, dunque, una 
fattispecie 
di estinzione del giudizio ex lege 
(Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). 
Con riguardo alla 
questione 
dell’eventuale 
necessità 
che 
il 
pagamento delle 
somme 
indicate 
nella 
comunicazione 
dell’agente 
della 
riscossione 
sia 
integrale 
ai 
fini 
dell’estinzione 
del 
giudizio, 
la 
Suprema 
Corte, tenuto conto della 
lettera 
della 
norma 
e 
delle 
varie 
fasi 
in cui 
si 
articola 
il 
procedimento, 
ha 
ritenuto 
che 
«il 
perfezionamento 
della 
definizione» 
si 
identifichi 
con 
l’accettazione 
da 
parte 
dell’amministrazione 
finanziaria 
dell’istanza 
del 
contribuente, corredata 
dall’impegno 
di 
quest’ultimo 
a 
rinunciare 
ai 
giudizi, 
attinendo 
il 
pagamento 
delle 
somme 
dovute 
al 
piano dell’adempimento dell’obbligo assunto con la 
dichiarazione, sicché 
l’eventuale 
mancato 
integrale 
pagamento 
non 
tocca 
la 
definizione 
agevolata 
che 
si 
è 
comunque 
perfezionata, 
quanto 
piuttosto 
i 
suoi 
soli 
effetti, 
determinando 
il 
potenziale 
avvio 
di 
nuove 
procedure riscossive (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). 
Quanto, poi, all’elemento della 
«produzione 
della documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati
», la 
locuzione 
normativa 
farebbe 
riferimento non già 
al 
pagamento integrale 
del 
debito, 
quanto 
alla 
loro 
integralità 
rispetto 
al 
momento 
in 
cui 
viene 
fatta 
valere 
la 
fattispecie 
estintiva, 
«trattandosi 
di 
riscontro 
necessario 
perché 
la 
definizione 
agevolata 
sia, 
in 
quel 
momento, 
produttiva degli 
effetti 
processuali 
suoi 
propri, che 
restano distinti 
dall’effetto sostanziale 
dell’estinzione 
del 
debito, 
che, 
invece, 
richiede, 
ai 
sensi 
del 
successivo 
comma 
14, 
l’integralità del pagamento» (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). 
A 
tale 
proposito, il 
menzionato arresto ha 
concluso che 
«occorre 
considerare 
che 
una lettura 
della norma di 
cui 
all’art. 3, comma 6, che 
richiedesse, ai 
fini 
dell’estinzione 
del 
giudizio, 
l’intero 
arco 
dei 
pagamenti 
concordati 
fra 
erario 
e 
contribuente 
finirebbe 
per 
immutare 
l’estinzione 
espressamente 
contenuta 
nel 
disposto 
normativo 
in 
una 
fattispecie 
implicita, 
e 
anomala, di 
“blocco” 
del 
giudizio stesso, al 
di 
fuori 
delle 
ipotesi 
di 
sospensione 
previste 
dal-
l’ordinamento vigente. il 
processo verrebbe 
collocato in uno stato di 
peculiare 
quiescenza, 
destinato 
a 
protrarsi 
fino 
allo 
spirare 
del 
termine 
ultimo 
scandito 
da 
un 
piano 
di 
rateizzazione 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


concordato 
altrove, 
piano 
che, 
infine, 
si 
offrirebbe 
ad 
un 
accertamento 
banco 
judicis, 
non 
esplicitato dalla norma in esame 
e 
finalizzato ad appurare 
l’esecuzione 
completa e 
puntuale 
di 
tutti 
i 
versamenti 
pattuiti 
nel 
quadro della “rottamazione”. (...) in secondo luogo, l’interpretazione 
che 
postula la verifica dell’integralità del 
pagamento in sede 
giudiziale 
per 
accedere 
alla declaratoria di 
estinzione 
finisce 
per 
sovrapporre 
la fattispecie 
estintiva disegnata 
dall’art. 3, comma 6, cit. alla declaratoria di 
cessazione 
della materia del 
contendere, cui 
si 
assiste 
in caso di 
compiuto pagamento ed estinzione 
del 
debito» (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 
2024, n. 20626). 


5. medio tempore, è 
sopravvenuta 
la 
sentenza 
depositata 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
il 
28 novembre 
2024, n. 189, la 
quale, tra 
l’altro, ha 
dichiarato l’infondatezza 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
1, 
comma 
198, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
in 
riferimento agli 
artt. 3, 24, 53 e 
111 Cost., sul 
rilevo conclusivo che 
«la declaratoria di 
estinzione 
del 
processo, 
che 
il 
comma 
198 
dell’art. 
1 
della 
legge 
n. 
197 
del 
2022 
correla 
al 
deposito 
di 
copia della domanda di 
definizione 
e 
del 
versamento degli 
importi 
dovuti 
o della prima 
rata, 
risulta 
frutto 
di 
una 
scelta 
non 
irragionevole 
nell’ottica 
di 
favorire 
l’immediata 
chiusura 
delle 
controversie 
tributarie 
pendenti 
e 
di 
incentivare 
i 
pagamenti 
non 
ancora 
eseguiti, 
e 
neppure 
comporta alcun effetto preclusivo del 
diritto di 
azione 
o di 
difesa o lesione 
delle 
condizioni 
di parità delle parti nel processo». 
In 
particolare, 
tale 
decisione 
ha 
sottolineato 
che 
«la 
disciplina 
della 
definizione 
agevolata 
contenuta nei 
commi 
da 186 a 205 dell’art. 1 della legge 
n. 197 del 
2022 deve 
essere 
letta 
nell’ambito del 
più ampio contesto degli 
interventi 
di 
carattere 
strutturale 
attuativi 
degli 
impegni 
assunti 
nel 
P.N.r.r. 
e 
nel 
Piano 
nazionale 
degli 
investimenti 
complementari 
al 
P.N.r.r. 
e 
trova 
origine 
e 
giustificazione 
nella 
situazione 
critica 
dello 
stato 
del 
contenzioso 
tributario, 
risultante 
anche 
dalla 
relazione 
alla 
legge 
oggetto 
del 
presente 
giudizio», 
mettendo 
in 
risalto 
-in una 
prospettiva 
più ampia 
ed onnicomprensiva, destinata 
a 
coinvolgere 
anche 
la 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
pendenti 
-che 
«(l)’evidente 
finalità principale 
di 
tale 
disciplina 
è, quindi, quella di 
conseguire 
rapidamente 
gli 
obiettivi 
di 
riduzione 
del 
numero dei 
giudizi 
tributari 
pendenti, 
in 
attuazione 
degli 
impegni 
assunti 
nel 
P.N.r.r. 
e 
nel 
Piano 
nazionale 
degli investimenti complementari al P.N.r.r.». 
6. venendo all’esame 
del 
thema decidendum, il 
collegio è 
chiamato a 
stabilire, in caso di 
adesione 
del 
contribuente 
alla 
definizione 
agevolata 
per i 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della 
riscossione 
dall’1 
gennaio 
2000 
al 
30 
giugno 
2022, 
con 
piano 
di 
dilazione 
rateale 
e 
pagamento 
parziale 
del 
debito 
rateizzato, 
se 
e 
come 
il 
giudizio 
tributario 
(tanto 
in 
sede 
di 
legittimità, 
quanto in sede 
di 
merito) possa 
essere 
definito senza 
attendere 
l’esito conclusivo della 
rateizzazione 
concordata. 
Peraltro, 
l’importanza 
della 
risposta 
da 
dare 
al 
quesito 
è 
indirettamente 
evidenziata 
da 
un 
passo della 
relazione 
inaugurale 
della 
Prima 
Presidente 
della 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione 
sull’amministrazione 
della 
giustizia 
per 
l’anno 
2024, 
nell’Assemblea 
Generale 
del 
24 
gennaio 
2025, che 
ha 
individuato (paragrafo 6) uno dei 
fattori 
ostativi 
alla 
decongestione 
del 
contenzioso 
tributario 
nel«la 
rateizzazione, 
nell’ambito 
delle 
procedure 
di 
c.d. 
rottamazione, 
del 
debito 
impositivo fino al 
2028 con conseguente 
stato di 
quiescenza del 
processo, in contrasto 
con il principio di ragionevole durata applicabile anche al giudizio tributario». 
7. In ordine 
all’esegesi 
dell’art. 1, comma 
236, della 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, come 
si 
è 
già 
anticipato con le 
ordinanze 
interlocutorie 
del 
7 ottobre 
2024 nei 
procedimenti 
ora 
riuniti, 
si 
sono 
delineati 
orientamenti 
confliggenti 
in 
seno 
alla 
Sezione 
Tributaria 
di 
questa 
Corte. 
7.1 
Secondo 
un 
primo 
indirizzo 
(che 
è 
condiviso 
anche 
da 
altre 
Sezioni 
di 
questa 
Corte: 
Cass., 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


Sez. 
Lav., 
8 
agosto 
2023, 
n. 
24138; 
Cass., 
Sez. 
Lav., 
7 
agosto 
2024, 
n. 
22312; 
Cass., 
Sez. 
2^, 
16 
luglio 
2024, 
n. 
19628), 
in 
apparente 
maggiore 
sintonia 
con 
il 
tenore 
letterale 
del 
dettato 
normativo 
(che 
prevede, 
da 
un 
lato, 
l’impegno 
a 
rinunciare 
ai 
giudizi 
pendenti 
aventi 
oggetto 
i 
carichi 
per 
i 
quali 
è 
intervenuta 
richiesta 
di 
definizione 
agevolata 
e, 
dall’altro, 
che 
l’estinzione 
del 
giudizio 
è 
subordinata 
all’effettivo 
perfezionamento 
della 
definizione 
e 
alla 
produzione, 
nello 
stesso 
giudizio, 
della 
documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati), 
deve 
affermarsi 
che 
non 
sia 
possibile 
addivenire 
ad 
una 
dichiarazione 
di 
estinzione 
del 
giudizio 
per 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
e 
che 
il 
giudizio 
va 
sospeso 
sino 
al 
30 
novembre 
2027; 
per 
cui, 
nelle 
more 
del 
perfezionamento 
dell’adesione, 
la 
causa 
va 
rinviata 
a 
nuovo 
ruolo 
in 
attesa 
dell’esecuzione 
dei 
pagamenti 
previsti 
(in 
termini: 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
24 
gennaio 
2023, 
n. 
2105; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
21 
agosto 
2023, 
n. 
24967; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
4 
ottobre 
2023, 
nn. 
27951 
e 
27954; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
11 
ottobre 
2023, 
n. 
28379; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
19 
febbraio 
2024, 
nn. 
4301, 
4325 
e 
4301; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
23 
febbraio 
2024, 
nn. 
4839 
e 
4859; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
21 
marzo 
2024, 
n. 
7639; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
25 
marzo 
2024, 
n. 
8028; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
7 
maggio 
2024, 
nn. 
12325 
e 
12337; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
20 
maggio 
2024, 
nn. 
13980 
e 
13983; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
21 
maggio 
2024, 
n. 
14088; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
12 
giugno 
2024, 
n. 
16412; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
30 
giugno 
2024, 
n. 
16454; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
24 
luglio 
2024, 
n. 
20649; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
30 
luglio 
2024, 
n. 
21405; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
8 
agosto 
2024, 
n. 
22397; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
9 
agosto 
2024, 
n. 
22658; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
10 
settembre 
2024, 
n. 
24274; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
12 
settembre 
2024, 
n. 
24479; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
13 
settembre 
2024, 
n. 
24585; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
17 
settembre 
2024, 
n. 
24933; 
Cass., 
Sez. 
Trib. 
13 
novembre 
2024, 
n. 
29343; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
3 
dicembre 
2024, 
n. 
30940). 
Siffatta 
conclusione 
sembrerebbe 
trovare 
conferma 
nella 
relazione 
illustrativa 
del 
disegno di 
legge, poi 
divenuto la 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, che 
parafrasa 
le 
nuove 
norme 
e 
specifica 
che: 
«tali 
giudizi 
verranno 
sospesi 
dal 
giudice, 
fino 
al 
pagamento 
di 
quanto 
dovuto, 
dietro 
presentazione 
di 
copia 
della 
stessa 
dichiarazione. 
successivamente, 
il 
giudizio 
si 
estinguerà 
a seguito della produzione, a cura di 
una delle 
parti, della documentazione 
attestante 
i 
versamenti 
eseguiti 
per 
perfezionare 
la definizione. se 
invece 
le 
somme 
dovute 
non saranno 
integralmente 
pagate 
(e 
quindi, ai 
sensi 
del 
comma 14, la definizione 
non si 
perfezionerà), la 
sospensione del giudizio sarà revocata dal giudice su istanza di una delle predette parti». 
Secondo 
la 
relazione 
redatta 
in 
subiecta 
materia 
dall’ufficio 
del 
Massimario 
e 
del 
ruolo 
(paragrafo 
5): 
«Pur 
non indugiando, all’evidenza, sul 
senso delle 
scelte 
lessicali 
compiute 
dal 
legislatore 
e 
soprattutto sulla loro possibile 
innovatività in rapporto con il 
testo delle 
precedenti 
rottamazioni, 
la 
citata 
relazione 
sembra 
affermare 
che 
le 
somme 
che 
il 
contribuente 
deve 
versare 
all’agente 
della riscossione 
siano funzionali 
all’effettivo perfezionamento della 
definizione 
agevolata e 
che, conseguentemente, il 
predetto pagamento degli 
importi 
dovuti 
non possa dirsi riferito al solo piano degli effetti della definizione agevolata». 
Analoghe 
conclusioni 
si 
possono 
trarre 
dal 
dossier 
della 
Camera 
dei 
Deputati 
e 
del 
Senato 
della 
repubblica 
sulla 
“legge 
di 
bilancio 2023” 
(dossier XIX^ 
Legislatura 
del 
26 gennaio 
2023). Anche 
in detto contributo, nella 
parte 
dedicata 
al 
commento all’art. 1, commi 
1-368 
(volume 
I°), infatti, pur non essendo presente 
una 
spiegazione 
esplicita 
delle 
norme 
in questione, 
si 
evidenzia 
che: 
«le 
disposizioni 
in commento chiariscono puntualmente 
le 
conseguenze 
della 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
sui 
giudizi 
pendenti. 
in 
particolare, 
tali 
giudizi 
sono sospesi 
dal 
giudice, fino al 
pagamento di 
quanto dovuto, dietro presentazione 
di 
copia della stessa dichiarazione. successivamente, il 
giudizio si 
estingue 
a seguito della produzione, 
a cura di 
una delle 
parti, della documentazione 
attestante 
i 
versamenti 
eseguiti 
per 
perfezionare 
la definizione. se, invece, le 
somme 
dovute 
non sono integralmente 
pagate, la 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


sospensione 
del 
giudizio viene 
revocata dal 
giudice 
su istanza di 
una delle 
predette 
parti» 
(pag. 304). 
ed 
anche 
la 
circolare 
emanata 
dall’Agenzia 
delle 
entrate 
il 
27 
gennaio 
2023, 
n. 
2/e 
(in 
materia 
di 
“legge 
29 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
(legge 
di 
bilancio 
2023) 
-“tregua 
fiscale”), 
con 
riguardo 
alla 
c.d. “rottamazione 
quater” 
(paragrafo 9), si 
limita 
sostanzialmente 
a 
parafrasare 
il 
contenuto 
del 
comma 
236 e, trattando il 
tema 
del 
mancato, tardivo o insufficiente 
versamento, 
superiore 
a 
cinque 
giorni, dell’unica 
rata 
ovvero di 
una 
di 
quelle 
in cui 
è 
stato dilazionato il 
pagamento delle 
somme 
dovute, specifica 
che 
si 
determina 
in questi 
casi 
«l’inefficacia della 
definizione». 
Dunque, 
dai 
lavori 
preparatori 
ed 
attuativi 
della 
legge 
29 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
non 
sembrano 
emergere 
utili 
spunti 
di 
carattere 
esegetico sul 
perfezionamento della 
definizione 
agevolata, 
che, invece, si 
ritrovano nella 
circolare 
emanata 
dall’Agenzia 
delle 
entrate 
l’8 marzo 2017, 


n. 2/e 
(in materia 
di 
“Definizione 
agevolata dei 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della riscossione 
dal 
2000 al 
2016 -art. 6 del 
decreto-legge 
22 ottobre 
2016, n. 193 -Chiarimenti”). In verità, 
pur riguardando la 
c.d. “prima rottamazione”, la 
quale, come 
si 
è 
detto, non conteneva 
disposizioni 
esplicite 
sull’estinzione 
dei 
giudizi 
tributari, tale 
documento ha 
precisato (paragrafo 
4) che 
«la definizione 
agevolata si 
articola (...) in un procedimento che 
ha inizio con la presentazione 
all’agente 
della riscossione 
della dichiarazione 
del 
debitore 
con cui 
questi 
manifesta 
all’agente 
stesso la propria volontà di 
avvalersi 
della definizione 
agevolata e 
termina 
con il 
pagamento integrale 
e 
tempestivo di 
quanto dovuto». Di 
qui 
la 
conclusione 
che 
«la definizione 
si 
perfeziona 
non 
con 
la 
presentazione 
della 
dichiarazione 
o 
con 
il 
versamento 
della 
prima rata (in caso di 
opzione 
per 
il 
pagamento rateale), ma con il 
pagamento integrale 
e 
tempestivo delle somme dovute». 
Su tali 
premesse, l’ufficio del 
Massimario e 
del 
ruolo (paragrafo 5) ha 
manifestato la 
convinzione 
«che 
il 
legislatore 
(...) 
abbia 
sempre 
considerato 
il 
pagamento 
integrale 
delle 
somme 
dovute 
funzionale 
al 
perfezionamento della definizione 
agevolata e 
che, pertanto, in assenza 
di 
esso, non possa che 
essere 
vanificato l’effetto innescato con la presentazione 
da parte 
del 
contribuente 
della 
dichiarazione 
di 
avvalimento 
della 
definizione 
agevolata, 
riscontrata 
dalla 
comunicazione 
dell’agente 
della 
riscossione 
e 
con 
l’avvio 
dei 
pagamenti 
concordati 
(sospensione 
del 
giudizio, 
sospensione 
dei 
termini 
di 
prescrizione 
e 
decadenza 
per 
il 
recupero 
dei 
carichi 
oggetto 
di 
dichiarazione, 
divieto 
di 
iscrizione 
di 
nuovi 
fermi 
amministrativi 
e 
ipoteche 
e 
di 
avvio 
di 
nuove 
procedure 
esecutive 
o 
prosecuzione 
di 
quelle 
avviate) 
e 
destinato 
naturaliter 
a 
condurre 
all’estinzione 
del 
giudizio 
riguardante 
i 
carichi 
oggetto 
della 
definizione, 
con 
contestuale 
estinzione del debito erariale». 
né 
va 
sottovalutato che 
parte 
consistente 
della 
dottrina 
ritiene 
di 
optare 
per tale 
soluzione, 
sul 
presupposto 
che 
soltanto 
il 
puntuale 
e 
tempestivo 
versamento 
integrale 
dell’importo 
dovuto 
è 
condicio sine 
qua non 
per il 
perfezionamento della 
definizione 
agevolata, dovendosi 
intendere 
come 
comportamento concludente 
con il 
quale 
il 
contribuente 
manifesta 
la 
propria 
intenzione 
di rinunciare alla lite. 
7.2 un secondo indirizzo, richiamandosi 
al 
principio costituzionale 
di 
ragionevole 
durata 
del 
processo (art. 111, secondo comma, Cost.), sulle 
premesse 
che 
il 
pagamento integrale 
non è 
presentato 
dalla 
norma 
quale 
requisito 
indispensabile 
per 
l’estinzione 
del 
giudizio, 
alla 
cui 
declaratoria 
sono 
sufficienti 
anche 
soltanto 
la 
domanda 
di 
adesione 
alla 
definizione 
agevolata 
e 
la 
documentazione 
di 
alcuni 
fra 
i 
pagamenti 
(quelli 
fino 
a 
quel 
momento 
effettuati), 
essendo 
gli 
altri 
importi, se 
del 
caso, procrastinati 
e 
diluiti 
nel 
tempo, e 
che 
neppure 
si 
può ritenere 
che 
il 
cronoprogramma 
pattuito 
dal 
contribuente 
con 
l’erario 
-che 
ha 
ad 
oggetto 
l’esecuzione 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


di 
un 
piano 
destinato 
a 
procrastinare 
i 
pagamenti 
nel 
tempo, 
rimodulando 
negozialmente 
tempi 
e 
modi 
di 
adempimento dell’obbligazione 
tributaria 
-possa 
riverberarsi 
nel 
processo vincolandone 
la 
dinamica 
in senso impeditivo all’estinzione, ha 
affermato il 
principio che, in tema 
di 
definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
affidati 
all’agente 
della 
riscossione 
ex 
art. 1, commi 
231 
-252, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197 
(c.d. 
“rottamazione-quater”), 
il 
comma 
236 
della 
norma 
delinea 
una 
fattispecie 
di 
estinzione 
del 
processo che 
non postula 
il 
pagamento del-
l’intero ammontare 
dovuto in ragione 
del 
piano rateale 
concordato, presupponendo ex 
lege 
esclusivamente 
che 
si 
sia 
perfezionata 
la 
procedura 
amministrativa 
di 
rottamazione 
-in virtù 
della 
dichiarazione 
del 
contribuente 
di 
volersi 
avvalere 
della 
procedura, 
rinunciando 
ai 
giudizi 
in 
corso, 
seguita 
dalla 
comunicazione 
dell’agente 
della 
riscossione 
su 
numero, 
ammontare 
delle 
rate 
e 
relative 
scadenze 
-e 
che 
siano documentati 
in giudizio i 
soli 
pagamenti 
già 
effettuati 
con riferimento alla 
procedura 
di 
definizione 
prescelta 
(in termini: 
Cass., Sez. Trib., 30 
agosto 2024, n. 23381; 
Cass., Sez. Trib., 11 settembre 
2024, nn. 24428 e 
24431; 
Cass., Sez. 
Trib., 26 settembre 2024, n. 27572; Cass., Sez. Trib., 13 dicembre 2024, n. 32376). 
Tale 
interpretazione 
si 
muove 
nel 
solco dell’orientamento formatosi 
nella 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
in relazione 
all’applicazione 
dell’art. 3, comma 
6, del 
d.l. 23 ottobre 
2018, n. 
119 (c.d. “rottamazione 
ter 
”) (menzionato al 
precedente 
punto 4), secondo cui 
è 
necessario 
distinguere 
la 
fase 
del 
perfezionamento della 
definizione 
agevolata 
dalla 
fase 
della 
sua 
efficacia: 
per effetto della 
dichiarazione 
di 
adesione, seguita 
dalla 
comunicazione 
formale 
del-
l’agente 
della 
riscossione, 
la 
procedura 
di 
“rottamazione 
” 
si 
perfeziona, 
rimanendo 
i 
pagamenti 
una 
mera 
appendice 
esecutiva 
di 
un 
procedimento 
concluso 
e 
definito. 
La 
locuzione 
normativa 
farebbe, dunque, riferimento non già 
al 
pagamento integrale 
del 
debito, ma 
alla 
integralità 
dei 
pagamenti 
rispetto al 
momento in cui 
viene 
fatta 
valere 
la 
fattispecie 
estintiva, 
trattandosi 
di 
riscontro necessario perché 
la 
definizione 
agevolata 
sia, in quel 
momento, produttiva 
degli 
effetti 
processuali 
suoi 
propri, che 
restano distinti 
dall’effetto sostanziale 
del-
l’estinzione 
del 
debito, che, invece, richiede, ai 
sensi 
del 
comma 
244 dell’art. 1 (e 
del 
comma 
14 dell’art. 3) l’integralità del pagamento. 
Secondo 
la 
relazione 
redatta 
in 
subiecta 
materia 
dall’ufficio 
del 
Massimario 
e 
del 
ruolo 
(paragrafo 
5): 
«Detto 
orientamento 
valorizza, 
(...) 
innanzitutto 
il 
dato 
rappresentato 
dal 
fatto 
che 
la rottamazione 
quater prevede, alla pari 
delle 
precedenti, il 
necessario preliminare 
incontro 
delle 
volontà delle 
due 
parti 
interessate 
e 
che 
tale 
elemento potrebbe 
indurre 
a sostenere 
che 
la rottamazione, essendo riconducibile 
alla generale 
categoria dell’accordo tra le 
parti, 
si 
perfezioni, 
alla 
pari 
di 
qualsivoglia 
altro 
accordo, 
con 
lo 
scambio 
delle 
manifestazioni 
di 
volontà dei 
soggetti 
interessati 
e 
dunque, nel 
caso di 
specie, quando l’agente 
della riscossione, 
verificata la ricorrenza dei 
presupposti 
per 
l’accesso alla definizione 
agevolata, ne 
dà 
comunicazione al contribuente». 
Peraltro, a 
favore 
di 
tale 
soluzione, si 
potrebbe 
sostenere 
che, quando il 
legislatore 
ha 
inteso 
identificare 
il 
momento 
perfezionativo 
della 
definizione 
agevolata 
e/o 
ancorarla 
al 
pagamento 
integrale 
degli 
importi 
dovuti, nel 
corpo della 
stessa 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, lo ha 
fatto espressamente. 
Così, con riguardo alla 
definizione 
agevolata 
delle 
controversie 
attribuite 
alla 
giurisdizione 
tributaria 
in 
cui 
è 
parte 
l’Agenzia 
delle 
entrate 
ovvero 
l’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
Monopoli, 
pendenti 
in ogni 
stato e 
grado del 
giudizio, compreso quello innanzi 
alla 
Corte 
di 
cassazione, 
il 
comma 
194 dell’art. 1 della 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, specifica 
che: 
«la definizione 
agevolata si 
perfeziona con la presentazione 
della domanda di 
cui 
al 
comma 195 e 
con il 
pagamento 
degli importi dovuti ai sensi dei commi da 186 a 191 entro il 30 settembre 2023». 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


ed ancora, in alternativa 
alla 
definizione 
agevolata 
di 
cui 
ai 
commi 
da 
186 a 
204, il 
comma 
213 prevede 
per le 
controversie 
tributarie 
pendenti, alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
legge 
23 dicembre 
2022, n. 197, innanzi 
alla 
Corte 
di 
cassazione, in cui 
è 
parte 
l’Agenzia 
delle 
entrate 
ed 
aventi 
ad 
oggetto 
atti 
impositivi, 
che 
il 
ricorrente 
«può 
rinunciare 
al 
ricorso 
principale 


o incidentale 
a seguito dell’intervenuta definizione 
transattiva con la controparte, perfezionatasi 
ai 
sensi 
del 
comma 215», comma 
che 
chiarisce 
che 
«(l)a definizione 
transattiva si 
perfeziona 
con 
la 
sottoscrizione 
e 
con 
il 
pagamento 
integrale 
delle 
somme 
dovute 
entro 
venti 
giorni dalla sottoscrizione dell’accordo intervenuto tra le parti». 
In 
proposito, 
l’ufficio 
del 
Massimario 
e 
del 
ruolo 
ha 
significativamente 
segnalato 
(paragrafo 
5) che: 
«se 
è 
vero che 
nei 
casi 
da ultimo richiamati, si 
discute 
di 
definizione 
agevolata delle 
controversie 
pendenti 
dinanzi 
ai 
giudici 
tributari 
o alla Corte 
di 
cassazione 
o di 
definizione 
transattiva di 
tali 
controversie, e 
dunque 
di 
strumenti 
diversi 
rispetto alla definizione 
agevolata 
dei 
carichi 
affidati 
all’agente 
della riscossione, appare 
in ogni 
caso d’interesse 
il 
dato 
della scelta del 
legislatore 
di 
esplicitare 
in tali 
ipotesi 
la modalità con cui 
si 
perfeziona la 
definizione 
e 
la necessità del 
pagamento integrale 
degli 
importi 
dovuti 
a tali 
fini, scelta non 
compiuta nel 
caso della definizione 
agevolata che 
ci 
occupa, laddove 
il 
legislatore, come 
più 
volte 
evidenziato, ha utilizzato le 
equivoche 
espressioni 
“effettivo perfezionamento della definizione 
agevolata” 
e 
“documentazione 
attestante 
i 
pagamenti 
effettuati” 
e 
non 
già 
“integrali”
». Inoltre, «nessun danno verrebbe 
arrecato all’erario, poiché 
il 
comma 244 dell’art. 
1 della l. n. 197 prevede 
che 
in caso di 
insufficiente, ritardato o omesso pagamento degli 
importi 
pattuiti, la definizione 
non produce 
effetti, riprendono a decorrere 
i 
termini 
di 
prescrizione 
e 
di 
decadenza 
per 
il 
recupero 
dei 
carichi 
oggetto 
della 
dichiarazione, 
gli 
eventuali 
versamenti 
effettuati 
sono 
acquisiti 
a 
titolo 
di 
acconto 
dell’importo 
complessivamente 
dovuto 
e 
l’agente 
della riscossione 
prosegue 
l’attività di 
recupero del 
debito residuo, previsioni 
che 
valgono, pertanto, a porre 
al 
riparo l’amministrazione 
finanziaria da dichiarazioni 
dei 
contribuenti 
non sostenute da una seria volontà di adempiere agli impegni assunti». 
Da 
ultimo, 
la 
tesi 
dell’estinzione 
anticipata 
del 
giudizio 
tributario 
rispetto 
all’esaurimento 
della 
rateizzazione 
concordata 
sarebbe 
più coerente 
con l’obiettivo indicato dal 
P.n.r.r. (paragrafo 
2/A) di 
un celere 
smaltimento del 
contenzioso tributario attraverso «interventi 
(...) 
rivolti 
a ridurre 
il 
numero di 
ricorsi 
alla Cassazione, a farli 
decidere 
più speditamente, oltre 
che in modo adeguato». 
In tal 
senso, il 
citato documento dell’ufficio del 
Massimario e 
del 
ruolo (paragrafo 6) ha 
rimarcato 
che: 
«una 
tale 
opzione 
ermeneutica 
potrebbe 
valorizzare 
la 
duplice 
ratio 
della 
misura 
in parola che 
è, infatti, sì 
volta a favorire 
la riscossione 
dei 
tributi 
ma ha anche 
la natura di 
strumento deflattivo. ed invero, soprattutto la rottamazione 
quater, in modo più spiccato rispetto 
alle 
precedenti, 
in 
considerazione 
degli 
obiettivi 
del 
P.N.r.r. 
riguardanti 
il 
settore 
“giustizia”, ha lo scopo di 
ridurre 
il 
carico del 
contenzioso tributario, obiettivo che 
sarebbe 
inevitabilmente 
frustrato 
dalla 
necessità 
di 
mantenere 
quiescente 
un 
numero 
rilevante 
di 
giudizi, 
tramite 
la loro sospensione, in astratto, fino al 
2028, in attesa dell’integrale 
pagamento 
delle somme dovute da parte dei contribuenti». 
7.3 Secondo un terzo indirizzo (anche 
di 
recente 
condiviso da 
altre 
Sezioni 
di 
questa 
Corte: 
Cass., 
Sez. 
Lav., 
28 
settembre 
2023, 
n. 
27539; 
Cass., 
Sez. 
Lav., 
8 
gennaio 
2024, 
n. 
621; 
Cass., 
Sez. 2^, 6 novembre 
2024, n. 28550; 
Cass., Sez. Lav., 4 dicembre 
2024, n. 31001), nella 
fattispecie 
in disamina, si 
devono escludere 
tanto l’estinzione 
del 
giudizio ai 
sensi 
dell’art. 1, 
comma 
236, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
che 
prevedendo 
la 
sospensione 
del 
giudizio 
«nelle 
more 
del 
pagamento 
delle 
somme 
dovute», 
presuppone 
l’integrale 
pagamento 
delle 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


rate 
dovute, quanto l’estinzione 
del 
giudizio ai 
sensi 
dell’art. 390 cod. proc. civ., non essendo 
stata 
esplicitata 
alcuna 
rinunzia 
e 
non risultando neppure 
che 
il 
difensore 
sia 
munito di 
mandato 
speciale; 
l’istanza, 
però, 
rivela 
che 
è 
sostanzialmente 
venuto 
meno 
l’interesse 
ex 
art. 
100 
cod. 
proc. 
civ. 
in 
capo 
alla 
parte 
ricorrente, 
che, 
aderendo 
alla 
definizione 
agevolata, 
ha 
assunto 
comunque 
l’impegno a 
rinunziare 
ai 
giudizi 
pendenti, e 
ciò giustifica 
la 
pronuncia 
di 
inammissibilità 
del 
ricorso per sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse 
ad agire 
(in termini: 
Cass., Sez. 
Trib., 2 gennaio 2024, n. 46; 
Cass., Sez. Trib., 1 febbraio 2024, n. 3010; 
Cass., Sez. Trib., 26 
febbraio 2024, n. 5011; 
Cass., Sez. Trib., 3 aprile 
2024, n. 8784; 
Cass., Sez. Trib., 4 giugno 
2024, 
n. 
15587; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
19 
giugno 
2024, 
n. 
16951; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
20 
giugno 
2024, 


n. 
17125; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
8 
luglio 
2024, 
nn. 
18629 
e 
18658; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
13 
agosto 
2014, 
n. 
22821; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
10 
settembre 
2024, 
n. 
24333; 
Cass., 
Sez. 
Trib., 
11 
settembre 
2024, n. 24423; Cass., Sez. Trib., 12 gennaio 2025, n. 780). 
Pur 
muovendo 
dall’implicita 
premessa 
che 
la 
formula 
decisoria 
dell’«estinzione 
del 
giudizio» 
tributario 
sia 
inscindibilmente 
collegata 
al 
completamento 
dei 
pagamenti 
rateizzati 
(in 
sintonia 
col 
testo letterale 
della 
norma 
richiamata), tale 
interpretazione 
perviene 
alla 
definizione 
anticipata 
della 
causa 
attraverso una 
soluzione 
alternativa 
di 
carattere 
strettamente 
processuale, 
che 
valorizza 
l’incidenza 
della 
mera 
adesione 
alla 
definizione 
agevolata 
sull’ulteriore 
sopravvivenza 
del 
giudizio tributario per la 
cessata 
conseguibilità 
di 
un’utilità 
residua 
dall’emanazione 
del provvedimento richiesto. 
8. 
nessun 
contributo 
interpretativo 
pare, 
infine, 
derivare 
dal 
recente 
provvedimento 
legislativo 
di 
riammissione 
alla 
rateazione 
dei 
contribuenti 
già 
ammessi 
alla 
“rottamazione 
quater 
” 
e 
poi 
da 
questa 
decaduti 
per inadempimento al 
31 dicembre 
2024 [art. 3-bis 
del 
d.l. 27 dicembre 
2024, n. 202 (“Disposizioni 
urgenti 
in materia di 
termini 
normativi”) convertito, con modificazioni, 
dalla 
legge 
21 febbraio 2025, n. 15, in G.u., Serie 
Generale, 24 febbraio 2025, n. 
45]. Si 
tratta, infatti, non di 
una 
nuova 
procedura 
di 
rottamazione, ma 
di 
un provvedimento di 
mera 
rimessione 
in 
termini 
(secondo 
le 
previgenti 
scadenze 
rateali) 
in 
continuità 
con 
la 
stessa 
procedura 
di 
“rottamazione 
quater 
”, 
di 
cui 
mutua 
i 
medesimi 
caratteri 
fondamentali 
ed 
effetti 
estintivi sui processi pendenti, negli stessi dubitativi termini di cui si è dato conto. 
9. Al 
fine 
di 
dare 
soluzione 
ad una 
questione 
di 
ordine 
processuale 
ed intersezionale 
di 
cui 
non 
può 
non 
evidenziarsi 
la 
particolare 
importanza, 
in 
relazione 
sia 
ai 
riflessi 
patrimoniali 
per i 
contribuenti, gli 
enti 
impositori 
e 
gli 
agenti 
della 
riscossione, sia 
alle 
ricadute 
deflattive 
sull’arretrato accumulato dalla 
giurisdizione 
in materia 
tributaria 
(sia 
di 
merito sia 
di 
legittimità), 
il 
collegio 
ritiene 
di 
dover 
rimettere 
la 
causa 
alla 
Prima 
Presidente 
della 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione 
affinché 
valuti 
la 
sua 
eventuale 
assegnazione 
alle 
Sezioni 
unite 
Civili, ai 
sensi 
dell’art. 374, secondo comma, ultima 
parte, cod. proc. civ., in relazione 
al 
quesito: 
“Se, ove 
il 
contribuente 
abbia 
dichiarato 
di 
aderire 
alla 
definizione 
agevolata 
per 
i 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della 
riscossione 
dall’1 
gennaio 
2000 
al 
30 
giugno 
2022 
(c.d. 
“rottamazione 
quater”), 
con 
la proposta di 
un 
piano di 
dilazione 
rateale 
del 
debito e 
l’assunzione 
dell’obbligo di 
rinunciare 
ai 
giudizi 
tributari 
pendenti, procedendo all’adempimento parziale 
del 
debito rateizzato 
dopo 
la 
comunicazione 
favorevole 
dell’agente 
della 
riscossione, 
l’art. 
1, 
comma 
236, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
imponga 
la 
sospensione 
dei 
giudizi 
tributari 
fino 
all’integrale 
soddisfacimento 
del 
debito 
rateizzato 
ovvero 
consenta, 
altrimenti, 
la 
definizione 
immediata dei 
giudizi 
tributari 
mediante 
la dichiarazione 
di 
estinzione 
oppure 
mediante 
la 
dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi per carenza sopravvenuta di interesse 
”. 
P.Q.M. 


La 
Corte 
dispone 
la 
riunione 
dei 
ricorsi 
nn. 19326/21 rg e 
19335/21 rg e 
rimette 
le 
cause 
così 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


riunite 
alla 
Prima 
Presidente 
per l’eventuale 
assegnazione 
alle 
Sezioni 
unite 
Civili 
in ordine 
alla questione di massima di particolare importanza di cui in motivazione. 
Così deciso a roma, nella camera di consiglio della Sezione 
Tributaria, il 25 febbraio 2025. 

Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
terza, 
ordinanza 
30 
marzo 
2023 
n. 
8383 
-Pres. 
F. 
De 
Stefano, 
rel. C. valle 
-b.Y., P.L.M.A. (avv. F.S. Prattichizzo) c. Intesa 
Sanpaolo S.p.A. (avv. P. Cantore) 
e 
banca 
del 
Mezzogiorno 
Mediocredito 
Centrale 
S.p.A. 
(avv. 
L. 
Martucci); 
Agenzia 
delle entrate riscossione. 


ConSiDerato CHe 


Y.b. 
e 
L.M.A.P., 
quali 
garanti 
della 
F.I. 
Petroli, 
finanziata 
dalla 
Medio 
Credito 
Centrale 
S.p.a., tramite 
banche 
private, ai 
sensi 
della 
legge 
n. 662 del 
1996, sono stati 
escussi 
con procedura 
esattoriale a seguito dell’inadempimento della debitrice principale; 
proposta 
da 
essi 
opposizione 
all’esecuzione 
dinanzi 
al 
Tribunale 
di 
Foggia, 
questa, 
nel 
contraddittorio 
con MCC S.p.a. e 
ubI banca 
S.p.a., è 
stata 
in parte 
dichiarata 
inammissibile 
e 
in 
parte rigettata; 


la 
Corte 
d’appello 
di 
bari, 
nel 
ricostituito 
contraddittorio 
con 
MCC 
S.p.a. 
e 
banca 
ubI 
S.p.a., con sentenza 
n. 1325 del 
14 settembre 
2022, ha 
rigettato l’impugnazione; 
avverso la 
sentenza 
della 
Corte 
territoriale 
propongono ricorso per cassazione, con cinque 
motivi, Y.b. 
e L.M.A.P.; 


rispondono con separati controricorsi MCC S.p.a. e banca Intesa S.p.a.; 


il 
ricorso è 
stato trattato all’adunanza 
camerale 
del 
25 novembre 
2024 e, all’esito, è 
stato 
rimesso alla 
pubblica 
udienza, con ordinanza 
interlocutoria 
n. 30705 del 
29 novembre 
2024; 


il ricorso è stato, quindi, chiamato all’udienza pubblica del 26 marzo 2025 per la quale: 


il 
Procuratore 
Generale 
ha 
presentato 
conclusioni 
scritte 
per 
l’estinzione 
del 
giudizio 
o, 
in 


subordine, 
per 
il 
rinvio 
a 
nuovo 
ruolo 
in 
attesa 
della 
pronuncia 
delle 
sezioni 
unite 
su 
questione 
rimessa 
da 
altra 
Sezione 
di 
questa 
Corte 
con 
ordinanza 
interlocutoria 
n. 
5830 
del 
5 
marzo 
2025; 
i 
ricorrenti 
e 
la 
banca 
Intesa 
S.p.a. e 
il 
Medio Credito Centrale 
banca 
del 
Mezzogiorno 


S.p.a. hanno depositato memoria; 
nella 
memoria 
difensiva 
depositata 
dalla 
difesa 
dei 
ricorrenti 
per 
l’adunanza 
del 
25 
novembre 
2024 è 
stato dedotto -e 
provato con allegazione 
di 
documentazione 
apposita 
-che, con 
domanda 
presentata 
telematicamente 
in data 
28 giugno 2023 prot. n. W-2023062808239992, 


L.M.A.P. 
ha 
aderito 
alla 
definizione 
agevolata 
c.d. 
rottamazione 
quater, 
come 
disciplinata 
dall’art. 1, commi 
da 
231 a 
252, della 
legge 
n. 197 del 
23 dicembre 
2022, in relazione 
alla 
cartella n. 04320160013629682001 oggetto della presente controversia; 
questa 
Corte, con ordinanza 
interlocutoria 
n. 30705 del 
29 novembre 
2024, deliberata 
all’esito 
dell’adunanza 
camerale 
del 
25 
novembre 
2024, 
rimetteva 
il 
ricorso 
alla 
pubblica 
udienza, in ordine 
alla 
questione 
degli 
effetti 
dell’adesione 
alla 
procedura 
di 
definizione 
agevolata 
di 
cui 
all’art. 1, commi 
231 e 
seguenti, della 
legge 
n. 197 del 
2022 in quanto avente 
particolare 
rilevanza 
di 
diritto, anche 
alla 
stregua 
delle 
ordinanze 
di 
rimessione 
alla 
pubblica 
udienza 
già 
adottate 
da 
altra 
Sezione 
di 
questa 
Corte 
(per tutte: 
Cass. nn. 26437 e 
26467 del 
10 ottobre 2024, n. 27138 del 21 ottobre 2024, n. 27286 del 22 ottobre 2024); 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


la 
detta 
prospettazione 
dei 
ricorrenti 
è 
stata 
ribadita 
con 
la 
memoria 
per 
l’udienza 
pubblica; 


il 
Procuratore 
Generale 
ha 
ritenuto, nelle 
proprie 
conclusioni 
scritte, sussistenti 
i 
presupposti 
per la dichiarazione di estinzione con riferimento alla posizione di L.M.A.P.; 


la 
Medio 
Credito 
Centrale 
S.p.a. 
ha 
ribadito 
le 
conclusioni 
per 
il 
rigetto 
o 
l’inammissibilità 
del ricorso; 


la 
banca 
Intesa 
San Paolo S.p.a., anche 
quale 
incorporante 
ubS 
S.p.a. ha 
chiesto che 
nel 
caso di 
estinzione 
i 
ricorrenti 
siano condannati 
al 
pagamento delle 
spese 
di 
lite 
sulla 
base 
del 
criterio della soccombenza virtuale; 


nelle 
more 
della 
fissazione 
del 
ricorso in udienza 
pubblica 
altra 
sezione 
di 
questa 
Corte, 
con 
ordinanza 
interlocutoria 
n. 
5830 
del 
5 
marzo 
2025, 
ha 
rimesso 
il 
ricorso 
n. 
r.G. 
19326/2021, in materia 
tributaria, alla 
Prima 
Presidente 
in ordine 
alla 
questione 
del 
seguente 
tenore 
testuale: 
«se, 
ove 
il 
contribuente 
abbia 
dichiarato 
di 
aderire 
alla 
definizione 
agevolata 
per 
i 
carichi 
affidati 
agli 
agenti 
della 
riscossione 
dall’1 
gennaio 
2000 
al 
30 
giugno 
2022 
(c.d. 
“rottamazione 
quater”), con la proposta di 
un piano di 
dilazione 
rateale 
del 
debito e 
l’assunzione 
dell’obbligo 
di 
rinunciare 
ai 
giudizi 
tributari 
pendenti, 
procedendo 
all’adempimento 
parziale 
del 
debito 
rateizzato 
dopo 
la 
comunicazione 
favorevole 
dell’agente 
della 
riscossione, 
l’art. 
1, 
comma 
236, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197, 
imponga 
la 
sospensione 
dei 
giudizi 
tributari 
fino all’integrale 
soddisfacimento del 
debito rateizzato ovvero consenta, altrimenti, 
la definizione 
immediata dei 
giudizi 
tributari 
mediante 
la dichiarazione 
di 
estinzione 
oppure 
mediante 
la 
dichiarazione 
di 
inammissibilità 
dei 
ricorsi 
per 
carenza 
sopravvenuta 
di 
interesse
»; 


la 
medesima 
questione 
è 
rilevante 
anche 
ai 
fini 
della 
definizione 
della 
posizione 
processuale 
del 
ricorrente 
P., che 
ha 
attivato il 
procedimento previsto dalla 
vista 
normativa, ove 
questa 
possa 
applicarsi 
anche 
ai 
crediti 
diversi 
da 
quelli 
tributari 
e, soprattutto, come 
nella 
specie, 
restitutori 
o risarcitori: 
punto sul 
quale 
pure 
vanno specificamente 
investite 
le 
Sezioni 
unite, 
onde 
evitare 
che 
la 
pronuncia 
già 
sollecitata 
dalla 
ricordata 
interlocutoria 
possa 
limitarsi 
ai 
crediti 
tributari, senza 
affrontare 
la 
tematica 
delle 
cartelle 
attivate 
per i 
crediti 
di 
natura 
diversa; 


nella 
richiamata 
ordinanza 
interlocutoria 
n. 5830 del 
5 marzo 2025 si 
è, inoltre, alla 
pag. 
2, affermato: 


«ancora, pur 
in assenza di 
una previsione 
normativa ad hoc, si 
può ritenere, con un’interpretazione 
analogica (per 
l’identità di 
ratio legis: art. 12, secondo comma, disp. prel. cod. 
civ.) 
dell’art. 
1, 
comma 
202, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2022, 
n. 
197 
(riguardante 
la 
definizione 
agevolata delle 
controversie 
tributarie), che 
in caso di 
coobbligazione 
solidale 
e 
di 
presentazione 
della dichiarazione 
di 
adesione 
alla “rottamazione 
quater” 
da parte 
di 
uno solo dei 
coobbligati, i 
pagamenti 
effettuati 
ai 
fini 
della rottamazione 
delle 
cartelle 
di 
pagamento liberano 
anche 
gli 
altri 
coobbligati 
non aderenti, i 
quali 
vengono a beneficiare 
dell’estinzione 
del procedimento»; 


la 
detta 
questione 
è 
posta, 
come 
sopra 
tratteggiata, 
ma 
non 
trasposta 
nella 
formulazione 
del 
quesito alle 
Sezioni 
unite 
ad opera 
della 
richiamata 
precedente 
ordinanza 
interlocutoria, 
anche 
nella 
presente 
controversia, nella 
quale, inoltre, si 
pone 
anche 
la 
questione 
della 
posizione 
dell’altra 
ricorrente, 
coobbligata 
solidale, 
nella 
specie 
Y.b., 
che, 
incontestatamente, 
non 
ha 
inteso addivenire 
alla 
definizione 
agevolata 
di 
cui 
alle 
più volte 
richiamate 
previsioni 
di 
legge, 
cosicché, 
qualora 
si 
dovesse 
addivenire 
alla 
soluzione 
dell’estinzione 
dell’obbligazione 
da 
parte 
del 
debitore 
principale 
o del 
coobbligato, la 
sua 
posizione, di 
fideiussore, potrebbe 
ancora ritenersi non definita; 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


la 
questione 
riveste, 
invero, 
notevole 
importanza, 
teorica 
e 
pratica, 
per 
l’ampiezza 
delle 
conseguenze 
sull’assetto, la 
durata 
e 
l’esito del 
contenzioso, seriale, per il 
concreto recupero 
dei 
crediti 
erariali 
non 
tributari: 
tanto 
da 
qualificarsi 
come 
questione 
di 
massima 
di 
particolare 
importanza; 


si 
ritiene, pertanto, che 
la 
causa 
debba 
essere 
trasmessa 
alla 
Prima 
Presidente, affinché 
valuti 
la 
rimessione 
alle 
Sezioni 
unite 
delle 
questioni 
delle 
conseguenze 
processuali 
dell’adesione 
del 
debitore 
alla 
c.d. rottamazione 
quater, come 
disciplinata 
dall’art. 1, commi 
da 
231 
a 
252, della 
legge 
n. 197 del 
23 dicembre 
2022, nonché 
dell’estensione 
o meno della 
relativa 
disciplina 
ai 
crediti 
non tributari 
-e, nella 
specie, aventi 
ad oggetto il 
recupero di 
indebiti 
-e 
della 
posizione 
del 
coobbligato in via 
solidale 
col 
debitore 
principale 
-nella 
specie, quale 
fideiussore 
- che non abbia aderito alla definizione agevolata; 


p. q. m. 
rimette la causa alla Prima Presidente, affinché valuti la rimessione alle Sezioni unite. 


Così 
deciso 
in 
roma, 
nella 
camera 
di 
consiglio 
della 
Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
III 
civile, 
in data 26 marzo 2025. 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


L’inutilizzabilità dei documenti non prodotti 
nel procedimento tributario: disamina delle disposizioni 
di cui agli artt. 32 e 33 del d.P.r. 600/1973 


Nota 
a 
Corte 
Di 
CassazioNe, sezioNe 
tributaria, orDiNaNza 
5 aPrile 
2025 N. 9001 


Valentina Pilloni* 

sommario: 
1. 
l’inutilizzabilità 
della 
documentazione 
tributaria 
non 
prodotta 
in 
sede 
procedimentale. 
Due 
fattispecie 
a 
confronto 
-2. 
l’ordinanza 
n. 
9001/2025 
della 
Corte 
di 
cassazione 
-2.1. 
i 
presupposti 
applicativi 
dell’inutilizzabilità 
prevista 
dall’art. 
32 
del 
d.P.r. 
600/1973. Differenze 
e 
analogie 
con l’inutilizzabilità a seguito di 
accesso ispettivo -2.2 il 
regime 
giuridico 
dell’inutilizzabilità 
nel 
processo 
tributario. 
rapporti 
con 
l’inutilizzabilità 
penale. 

1. 
l’inutilizzabilità 
della 
documentazione 
tributaria 
non 
prodotta 
in 
sede 
procedimentale. 
Due fattispecie a confronto. 
L’art. 
32 
del 
d.P.r. 
600/1973, 
al 
quarto 
e 
quinto 
comma, 
stabilisce 
espressamente 
che: 


«4. le 
notizie 
ed i 
dati 
non addotti 
e 
gli 
atti, i 
documenti, i 
libri 
ed i 
registri 
non 
esibiti 
o 
non 
trasmessi 
in 
risposta 
agli 
inviti 
dell’ufficio 
non 
possono 
essere 
presi 
in considerazione 
a favore 
del 
contribuente, ai 
fini 
dell’accertamento 
in sede 
amministrativa e 
contenziosa. Di 
ciò l’ufficio deve 
informare 
il 
contribuente contestualmente alla richiesta. 
5. 
le 
cause 
di 
inutilizzabilità 
previste 
dal 
terzo 
comma 
[ora 
quarto 
comma, 
n.d.r.] 
non 
operano 
nei 
confronti 
del 
contribuente 
che 
depositi 
in 
allegato 
all’atto 
introduttivo 
del 
giudizio 
di 
primo 
grado 
in 
sede 
contenziosa 
le 
notizie, 
i 
dati, 
i 
documenti, 
i 
libri 
e 
i 
registri, 
dichiarando 
comunque 
contestualmente 
di 
non 
aver 
potuto 
adempiere 
alle 
richieste 
degli 
uffici 
per 
causa 
a 
lui 
non 
imputabile». 
L’ambito 
di 
operatività 
di 
tale 
disposizione 
è 
esteso 
agli 
accertamenti 
compiuti 
in materia 
di 
imposta 
sul 
valore 
aggiunto dal 
penultimo comma 
del-
l’art. 51 del d.P.r. 633/1972. 

A 
tale 
fattispecie 
si 
affianca 
quella 
ricavabile 
del 
combinato disposto di 
cui 
agli 
artt. 
33, 
comma 
1, 
d.P.r. 
600/1973 
e 
52, 
comma 
5 
del 
d.P.r. 
633/1972. 
Quest’ultima, in particolare, prevede testualmente che: 


«i libri, registri, scritture 
e 
documenti 
di 
cui 
è 
rifiutata l’esibizione 
non 
possono essere 
presi 
in considerazione 
a favore 
del 
contribuente 
ai 
fini 
del-
l’accertamento 
in 
sede 
amministrativa 
o 
contenziosa. 
Per 
rifiuto 
di 
esibizione 
si 
intendono 
anche 
la 
dichiarazione 
di 
non 
possedere 
i 
libri, 
registri, 
documenti 
e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione». 

(*) Procuratore dello Stato. 



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


Tali 
disposizioni 
introducono 
nel 
sistema 
di 
accertamento 
delle 
pretese 
tributarie 
due 
ipotesi 
di 
inutilizzabilità 
della 
documentazione. In particolare, 
le 
fattispecie 
citate 
ricollegano il 
medesimo effetto preclusivo al 
ricorrere 
di 
presupposti 
diversi 
la 
cui 
declinazione 
è 
dal 
legislatore 
articolata 
sulla 
base 
del differente meccanismo accertativo impiegato dall’ufficio procedente. 

nell’ipotesi 
di 
accertamenti 
non 
implicanti 
l’accesso 
dei 
verificatori 
nella 
sede 
del 
contribuente, 
l’inutilizzabilità 
deriva 
dalla 
mancata 
trasmissione 
della 
documentazione 
richiesta 
dall’ufficio. In questo caso, pertanto, la 
norma 
attribuisce 
rilievo al 
contegno omissivo del 
destinatario dell’invito facendo da 
quest’ultimo 
discendere 
la 
preclusione 
probatoria 
prevista. 
L’inutilizzabilità 
potrà 
in tale 
ipotesi 
essere 
esclusa 
solo ove 
il 
ricorrente 
dimostri, già 
nell’atto 
introduttivo del 
giudizio di 
primo grado, di 
non aver potuto adempiere 
alle 
richieste 
dell’ufficio per causa a lui non imputabile. 

nel 
caso, invece, di 
accertamenti 
compiuti 
attraverso accesso ispettivo, 
l’inutilizzabilità 
è 
dalle 
disposizioni 
rilevanti 
ricollegata 
al 
rifiuto 
di 
esibizione 
serbato dal 
contribuente. Per espressa 
dizione 
normativa 
al 
rifiuto esplicito è 
equiparata la dichiarazione di non possedere la documentazione richiesta. 

Di 
tali 
fattispecie 
si 
è 
occupata 
la 
Corte 
di 
cassazione 
nella 
ordinanza 
9001/2025. 

2. l’ordinanza n. 9001/2025 della Corte di cassazione. 
Con tale 
pronuncia 
la 
Corte 
di 
cassazione, chiarito il 
discremen 
tra 
le 
due 
ipotesi 
di 
inutilizzabilità, 
ribadisce, 
con 
specifico 
riguardo 
all’omessa 
trasmissione 
della 
documentazione 
richiesta 
attraverso 
l’inoltro 
di 
questionari, 
quanto 
segue: 


«5.4. 
la 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
ha 
chiarito, 
pertanto, 
che 
l’omessa o intempestiva risposta dei 
dati 
richiesti 
dall’Amministrazione 
finanziaria 
in 
sede 
di 
accertamento 
fiscale 
comporta, 
ex 
art. 
32, 
quarto 
comma, 
d.P.R. 
n. 
600 
del 
1973, 
l’automatica 
inutilizzabilità, 
amministrativa 
e 
processuale, 
della 
documentazione 
prodotta 
tardivamente, 
in 
quanto 
la 
comminatoria 
è 
direttamente 
ed 
oggettivamente 
riferita 
alla 
sussistenza 
di 
tale 
condotta, non essendo richiesto alcun ulteriore 
meccanismo di 
attivazione 
di 
parte; 
al 
contrario, 
l’eventuale 
deroga 
all’inutilizzabilità, 
deve 
essere 
fatta 
valere 
dal 
contribuente 
con le 
modalità ivi 
previste 
entro il 
termine 
per 
il 
deposito 
dell’atto introduttivo di 
primo grado (Cass. 22 luglio 2020, n. 15600, 
Cass. 22 giugno 2018, n. 16548; Cass. 23 marzo 2016, n. 5734). 


Corollario 
dell’automatica 
inutilizzabilità 
della 
documentazione 
richiesta 
dai 
verificatori 
e 
non 
esibita 
dal 
contribuente 
è 
quindi 
l’operatività 
della 
conseguente 
preclusione 
processuale, 
anche 
a 
prescindere 
dalla 
proposizione, 
da 
parte 
dell’Ufficio, 
di 
una 
tempestiva 
eccezione. 
si 
è 
precisato, 
infatti, 
che, 
in 
tema 
di 
accertamento 
tributario, 
l’omessa 
o 
intempestiva 
esibizione 
da 
parte 
del 
contribuente 
di 
dati 
e 
documenti 
in 
sede 
amministrativa 
è 
sanzionata 
con 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


la 
preclusione 
processuale 
della 
loro 
allegazione 
e 
produzione 
in 
giudizio, 
che 
prevale 
anche 
rispetto 
all’art. 
58, 
secondo 
comma, 
D.lgs. 
n. 
546 
del 
1992, 
e 
che 
non 
può 
ritenersi 
sanata 
nemmeno 
ove 
l’amministrazione 
finanziaria 
non 
sollevi 
la 
relativa 
eccezione 
in 
sede 
di 
udienza 
di 
discussione 
della 
causa, 
atteso 
il 
carattere 
perentorio 
del 
termine 
di 
cui 
all’art. 
32 
d.P.r. 
n. 
600 
del 
1973. 
Pertanto, 
l’omessa 
o 
intempestiva 
risposta 
è 
legittimamente 
sanzionata 
con 
la 
preclusione 
amministrativa 
e 
processuale 
di 
allegazione 
di 
dati 
e 
documenti 
non 
forniti 
nella 
sede 
precontenziosa 
e 
neppure 
trova 
applicazione 
l’art. 
57 
D.lgs. 


n. 
546 
del 
1992, 
che 
non 
consente 
alle 
parti 
di 
proporre 
in 
appello 
(Cass. 
n. 
1539 
del 
2024, 
Cass. 
n. 
15600 
del 
2020 
cit.,Cass. 
n. 
16548 
del 
2018 
cit.). 
È 
stato puntualizzato, però, che 
l’omessa esibizione, da parte 
del 
contribuente, 
dei 
documenti 
in 
sede 
amministrativa 
determina 
l’inutilizzabilità 
della 
successiva produzione 
in sede 
contenziosa, prevista dall’art. 32 d.P.r. n. 600 
del 
1973, solo in 
presenza dello specifico presupposto, la cui 
prova incombe 
sull’Amministrazione, 
costituito 
dall’invito 
specifico 
e 
puntuale 
all’esibizione, 
accompagnato 
dall’avvertimento 
circa 
le 
conseguenze 
della 
sua 
mancata 
ottemperanza; infatti, non può costituire 
rifiuto la mancata esibizione 
di 
qualcosa 
che 
non 
si 
è 
richiesto 
(Cass. 
n. 
1539 
del 
2024 
e 
Cass. 
15600 
del 
2020, cit., Cass. 12 aprile 2017, n. 9487). 


Quanto 
alle 
caratteristiche 
del 
questionario, 
questa 
Corte 
ha 
ritenuto 
sufficientemente 
specifico un invito da cui 
emerga che 
la parte 
è 
stata espressamente 
invitata, 
con 
riferimento 
ai 
beni 
attinti 
dall’accertamento 
a 
depositare 
eventuale 
documentazione 
giustificativa di 
redditi 
esenti, assoggettati 
a ritenuta 
d’imposta, 
tassati 
con 
sistemi 
forfettari 
o 
disinvestimenti, 
smobilizzi, 
altre 
disponibilità 
anche 
provenienti 
da 
terzi 
ma 
messi 
a 
disposizione 
del 
contribuente 
così 
come 
previsto dall’art. 38 d.P.r. n. 600 del 
1973 (Cass. n. 15600 
del 2020, cit.)». 

La 
Corte, dunque, in linea 
di 
continuità 
con il 
proprio consolidato orientamento 
in materia, qualifica, in primo luogo, l’inutilizzabilità 
indagata 
come 
automatica 
giacché 
“la 
comminatoria 
è 
direttamente 
ed 
oggettivamente 
riferita 
alla sussistenza” del contegno omissivo del contribuente. 

Al 
contempo, stabilisce 
che 
tale 
preclusione 
può dirsi 
integrata 
solo ove 
il 
questionario trasmesso presenti 
un contenuto sufficientemente 
specifico in 
grado 
di 
consentire 
la 
qualificazione 
della 
condotta 
del 
contribuente 
in 
termini 
di 
contegno inadempiente 
anche 
alla 
luce 
del 
puntuale 
avvertimento fornito 
in merito alle conseguenze dell’inottemperanza. 

Da 
ultimo, la 
Corte 
-nel 
declinare 
le 
conseguenze 
dell’inadempimento 
e, 
parallelamente, 
il 
regime 
dell’inutilizzabilità 
-ricorda 
che 
costituisce 
corollario 
dell’automaticità 
di 
tale 
effetto 
preclusivo 
la 
sua 
produzione 
a 
prescindere 
dalla 
proposizione, 
da 
parte 
dell’ufficio, 
di 
una 
tempestiva 
eccezione 
con ciò che 
ne 
consegue 
circa 
la 
sottrazione 
di 
tali 
documenti 
alle 
regole 
probatorie 
previste in via generale dalle norme del processo tributario. 


rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


2.1. 
i 
presupposti 
applicativi 
dell’inutilizzabilità 
prevista 
dall’art. 
32 
del 
d.P.r. 
600/1973. 
Differenze 
e 
analogie 
con 
l’inutilizzabilità 
a 
seguito 
di 
accesso 
ispettivo. 
Come 
suggerito 
dal 
medesimo 
iter 
argomentativo 
della 
pronuncia, 
una 
piena 
comprensione 
della 
fattispecie 
di 
inutilizzabilità 
contemplata 
dal 
già 
citato 
art. 32 passa 
per il 
raffronto tra 
quest’ultima 
e 
quella 
prevista 
dal 
successivo 
art. 
33, 
letto 
in 
combinato 
disposto 
con 
l’art. 
52, 
comma 
5 
del 
d.P.r. 
633/1972. 

Muovendo dalla 
corretta 
individuazione 
del 
presupposto posto a 
fondamento 
dell’inutilizzabilità 
prevista 
in caso di 
accesso ispettivo è, infatti, possibile 
ricavare, 
quasi 
sulla 
base 
di 
una 
logica 
a 
contrario, 
quali 
connotati 
debba 
avere, 
invece, 
la 
condotta 
cui 
l’art. 
32, 
comma 
1 
ricollega 
l’effetto 
ivi 
previsto. 

In 
quest’ordine 
di 
idee, 
occorre, 
dunque, 
ricordare, 
in 
aderenza 
con 
quanto 
affermato nella 
pronuncia 
in commento, che 
il 
proprium 
dell’inutilizzabilità 
conseguente 
all’accesso 
ispettivo 
è 
rappresentato 
dall’intenzionalità 
del 
rifiuto. 
In 
questi 
termini, 
significativo 
appare 
quanto 
statuito 
dalla 
Corte 
di 
cassazione 
nella 
pronuncia 
n. 16757 del 
14 giugno 2021 per cui 
l’art. 33 «prevede 
chiaramente 
come 
elemento essenziale 
della condotta che 
origina la preclusione 
quello 
della 
intenzionalità 
di 
non 
consentire 
l’esame 
della 
documentazione». 
Tale 
preclusione 
può, dunque, dirsi 
sussistere 
solo al 
ricorrere 
di 
tre 
concorrenti 
elementi 
connotanti 
la 
dichiarazione 
resa 
dal 
contribuente 
nel 
corso del-
l’accesso ovvero «la sua non veridicità o, più in generale, il 
suo strutturarsi 
quale 
sostanziale 
rifiuto di 
esibizione, evincibile 
anche 
da meri 
indizi; la coscienza 
e 
la volontà della dichiarazione 
stessa; ed il 
dolo, costituito dalla volontà 
del 
contribuente 
di 
impedire 
che, nel 
corso dell’accesso, possa essere 
effettuata l’ispezione del documento» (Cass., 20731/2019). 

nessun 
rilievo 
può, 
né 
deve, 
invece, 
essere 
attribuito 
all’intenzionalità 
ove 
l’inutilizzabilità 
derivi 
da 
accertamenti 
eseguiti 
a 
distanza 
(ex art. 32). In 
tal 
caso, 
infatti, 
l’effetto 
preclusivo 
deriva, 
come 
già 
anticipato, 
dal 
mero 
contegno 
inadempiente imputabile al contribuente. 

Il 
diverso atteggiarsi 
della 
fattispecie 
costitutiva 
della 
preclusione 
si 
ripercuote, 
inoltre, 
sulla 
corretta 
ripartizione 
dell’onere 
probatorio 
nelle 
due 
ipotesi. 
Difatti 
«qualora 
l’omessa 
esibizione 
della 
documentazione 
consegua 
all’invio di 
una apposita comunicazione 
o di 
questionario da parte 
dell’amministrazione 
finanziaria, è 
il 
contribuente 
a essere 
onerato della prova che 
l’inadempimento è 
avvenuto per 
causa a lui 
non imputabile, mentre, nel 
caso 
in 
cui 
la 
richiesta 
sia 
stata 
effettuata 
nell’ambito 
di 
una 
attività 
di 
esame 
e 
controllo svolta dai 
verificatori 
in sede 
di 
accesso presso il 
contribuente 
o in 
luoghi 
a 
questi 
collegati, 
è 
l’amministrazione 
finanziaria 
a 
essere 
onerata 
della prova della sussistenza dei 
presupposti 
sostanziali 
che 
rendono illegittimo 
il rifiuto» (Cass., 31345/2023). 

La 
rilevanza 
dell’elemento dell’intenzionalità 
incide, al 
contempo, sulla 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


corretta 
delimitazione 
delle 
condotte 
legittimanti 
l’operatività 
della 
preclusione 
nelle 
due 
fattispecie. Difatti, mentre 
l’inutilizzabilità 
intenzionale 
impone 
di 
escludere, 
necessariamente, 
dall’ambito 
di 
operatività 
della 
norma 
ogni 
rifiuto 
proveniente 
da 
un 
soggetto 
diverso 
dal 
contribuente 
nei 
cui 
riguardi 
dovrà 
poi 
formarsi 
la 
preclusione, non altrettanto può dirsi, invece, in relazione 
all’inutilizzabilità 
ricollegata 
al 
mero contegno omissivo imputabile 
del 
destinatario 
del questionario. 

In 
questi 
termini, 
interessante 
appare 
quanto 
affermato 
dalla 
Corte 
di 
cassazione 
nella 
pronuncia 
n. 2847/2022, la 
quale 
-premesso l’obbligo del 
curatore, 
cui 
sia 
stata 
trasmessa 
la 
documentazione 
contabile 
della 
società 
debitrice, 
di 
rispondere 
al 
questionario 
inoltrato 
dal 
Fisco 
-fa 
derivare 
la 
preclusione 
probatoria 
contemplata 
dall’art. 
32 
in 
commento 
dal 
contegno 
tenuto 
da 
un 
soggetto 
diverso 
rispetto 
al 
titolare 
del 
rapporto 
di 
imposta 
cui 
l’accertamento 
si riferisce. 

D’altra 
parte, 
la 
semplice 
imputabilità 
del 
contegno 
inadempiente 
al 
contribuente 
consente, 
inoltre, 
di 
ricollegare 
l’inutilizzabilità 
prevista 
dall’art. 
32 
anche 
alle 
ipotesi 
in 
cui 
la 
richiesta 
di 
informazioni, 
pur 
non 
conosciuta 
dal 
suo 
destinatario, 
sia 
entrata 
nella 
sua 
sfera 
di 
conoscibilità 
a 
norma 
del-
l’art. 
1335 
c.c. 
In 
un 
suo 
precedente, 
infatti, 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
chiarito 
che 
«deve 
escludersi 
che 
il 
giudice 
d’appello 
abbia 
violato 
la 
norma 
di 
cui 
all’art. 
32, 
ultimo 
comma, 
del 
citato 
D.P.r., 
atteso 
che: 
(a) 
l’unico 
motivo 
addotto 
dalla 
contribuente 
a 
giustificazione 
dell’inottemperanza 
alla 
richiesta 
di 
invio 
di 
documenti 
avanzata 
dall’ufficio 
era 
quello 
di 
non 
avere 
avuto 
conoscenza 
dell’invito 
a 
tal 
fine 
notificatole 
ai 
sensi 
del 
comma 
1, 
n. 
3) 
del 
menzionato 
articolo, 
perché 
da 
essa 
mai 
ricevuto; 
(b) 
la 
presunzione 
legale 
di 
conoscenza 
sancita 
dall’art. 
1335 
c.c. 
può 
derivare 
anche 
dal 
perfezionamento 
della 
procedura 
notificatoria 
tramite 
il 
meccanismo 
della 
compiuta 
giacenza 
(cfr. 
Cass. 
n. 
19232/2018, 
Cass. 
n. 
23260/2017, 
Cass. 
n. 
14256/2007)» 
(Cass., 
26133/2024). 


Deve, 
dunque, 
ritenersi 
che 
l’inutilizzabilità 
dell’art. 
32 
del 
d.P.r. 
600/1973 possa 
dirsi 
integrata 
-in maniera 
non dissimile 
da 
quanto accade, 
mutatis 
mutandis, 
nell’ambito 
della 
responsabilità 
da 
inadempimento 
prevista 
dall’art. 1218 c.c. -ogniqualvolta 
la 
causa 
che 
ha 
impedito di 
dar seguito alla 
trasmissione 
della 
documentazione 
richiesta 
sia 
imputabile 
al 
contribuente 
non 
rilevando, 
a 
tal 
fine, 
l’elemento 
soggettivo 
che 
accompagna 
il 
contegno 
omissivo 
ai fini del perfezionarsi dell’effetto preclusivo. 

Tali 
annotazioni 
consentono di 
ritenere 
non condivisile 
la 
tesi, pur rinvenibile 
in 
alcuni 
precedenti 
della 
Suprema 
Corte 
(si 
veda, 
in 
tal 
senso, 
da 
ultimo 
Cass., 
20731/2019 
emessa 
con 
specifico 
riguardo 
alle 
ipotesi 
di 
accesso 
ispettivo) 
per cui 
la 
compatibilità 
con gli 
artt. 24 e 
53 Cost. della 
preclusione 
indagata 
riposerebbe, 
necessariamente, 
nella 
manifestazione 
di 
un 
contegno 
intenzionale 
non potendo dirsi 
a 
tal 
fine 
sufficiente 
«il 
mancato possesso im



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


putabile 
a negligenza o imperizia nella custodia e 
conservazione 
della documentazione 
contabile». 

occorre 
a 
tal 
proposito ricordare 
che 
la 
verifica 
in merito alla 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 32, commi 
4 e 
5, del 
d.P.r. 600/1973 è 
stata 
devoluta 
al 
sindacato 
della 
Corte 
costituzionale 
in 
almeno 
due 
occasioni. 
Ci 
si 
riferisce, 
in particolare, ai 
procedimenti 
incidentali 
definiti 
rispettivamente 
con l’ordinanza 
n. 181/2007 e con la sentenza n. 26/2015. 

Con la 
prima 
pronuncia, la 
Corte 
ha 
dichiarato la 
manifesta 
infondatezza 
della 
questione 
deferitale, con riguardo all’art. 53 Cost., affermando espressamente 
che 
«la preclusione 
prevista dalla norma censurata, risolvendosi 
in 
un divieto di 
allegazione 
in giudizio dei 
dati 
e 
dei 
documenti 
non forniti 
dal 
contribuente 
in 
risposta 
all’invito 
dell’amministrazione 
finanziaria, 
opera 
sul 
piano esclusivamente 
processuale 
ed è 
perciò inidonea a menomare 
il 
principio 
di capacità contributiva». 

La 
seconda, 
invece, 
esitata 
nella 
declaratoria 
di 
inammissibilità 
della 
questione 
(per erronea 
individuazione 
della 
norma 
tacciata 
di 
sospetta 
incostituzionalità), 
ha, 
comunque, 
avuto 
modo 
di 
affermare, 
seppur 
con 
statuizione 
non 
espressa, che 
la 
preclusione 
processuale 
indagata 
può derivare, secondo l’interpretazione 
giurisprudenziale, 
anche 
da 
un 
contegno 
omissivo 
meramente 
colposo del contribuente. 

Può, 
pertanto, 
ritenersi 
che 
la 
compatibilità 
costituzionale 
dell’inutilizzabilità 
contemplata 
dall’art. 
32 
in 
commento 
non 
poggi 
sulla 
volontarietà 
della 
condotta 
omissiva 
tenuta, bensì 
sull’accertata 
imputabile 
violazione 
del 
dovere 
collaborativo 
sorto 
a 
seguito 
della 
puntuale 
e 
specifica 
richiesta 
trasmessa 
dall’ufficio. 
Tale 
lettura 
appare, 
inoltre, 
coerente 
con 
l’obbligo 
di 
collaborazione 
previsto dall’art. 10, comma 
1 (1), dello Statuto del 
contribuente 
inserendosi, a pieno titolo, nell’assetto relazionale da esso inaugurato. 


2.2 il 
regime 
giuridico dell’inutilizzabilità nel 
processo tributario. rapporti 
con l’inutilizzabilità penale. 
Dalla 
trattazione 
che 
precede 
emerge, dunque, come 
entrambe 
le 
disposizioni 
esaminate 
contemplino, 
seppur 
al 
ricorrere 
di 
presupposti 
diversi, 
il 
medesimo effetto tipico ovvero l’inutilizzabilità, a 
favore 
del 
contribuente 
(e, 
pertanto, relativa-soggettiva), della 
documentazione 
puntualmente 
richiesta 
e 
non 
trasmessa 
a 
seguito 
dell’esplicito 
invito, 
in 
tal 
senso, 
da 
parte 
dell’ufficio. 

Deve, dunque, ritenersi 
che 
il 
minimo comune 
denominatore 
delle 
fattispecie 
indagate 
sia 
costituito dall’identità 
dell’effetto derivante 
dal 
perfezionamento 
degli elementi costitutivi declinati nelle due norme. 

La 
non 
assoggettabilità 
dei 
documenti 
inutilizzabili 
alle 
disposizioni 
con


(1) 
L’art. 
10, 
comma 
1, 
della 
Legge 
212/2000 
dispone: 
“i 
rapporti 
tra 
contribuente 
e 
amministrazione 
finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


template 
dalla 
disciplina 
del 
processo tributario (sia 
sotto il 
profilo della 
deduzione 
dell’effetto in giudizio che 
in relazione 
alla 
inoperatività, nel 
caso di 
specie, 
delle 
ordinarie 
regole 
probatorie), 
non 
può 
essere, 
invero, 
fatta 
derivare 
dal 
particolare 
riparto 
dell’onere 
probatorio 
contemplato 
dall’art. 
32 
trattandosi 
invece di una conseguenza insita nell’inutilizzabilità in quanto tale. 

Le 
due 
ipotesi 
di 
decadenza 
sopra 
richiamate 
connotano lo statuto stesso 
dell’inutilizzabilità 
tributaria, 
dovendo 
queste 
essere 
ravvisate 
anche 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
(così 
come 
accade 
nei 
casi 
di 
accesso 
ispettivo), 
l’effetto 
preclusivo 
derivi 
da 
una 
fattispecie 
il 
cui 
accertamento 
richieda 
l’attivazione 
dell’ufficio 
al fine di fornire prova della condotta dalla quale deriva. 

D’altra 
parte, 
tali 
peculiarità 
paiono 
essere 
necessariamente 
correlate 
alla 
portata 
extra 
processuale 
della 
preclusione 
indagata. 
Difatti, 
come 
desumibile 
chiaramente 
dal 
tenore 
letterale 
delle 
disposizioni 
rilevanti, l’inutilizzabilità 
della 
documentazione 
favorevole 
al 
contribuente 
non opera, in via 
esclusiva, 
nell’eventuale 
giudizio tributario instaurato con l’impugnazione 
dell’atto impositivo, 
ricorrendo già 
nella 
fase 
procedimentale 
così 
da 
precludere, anche 
in quella 
sede 
(ad esempio in tema 
di 
accertamento per adesione), l’impiego 
dei 
documenti 
non 
tempestivamente 
trasmessi. 
I 
confini 
della 
fattispecie, 
esorbitanti 
dall’ambito 
esclusivamente 
processuale, 
non 
possono 
che 
rendere 
la 
stessa 
tendenzialmente 
insensibile 
alle 
dinamiche 
che, in via 
generale, governano 
la produzione di documentazione nel processo. 

Significativo, 
in 
questa 
prospettiva, 
appare 
quanto 
stabilito 
dal 
neo 
introdotto 
art. 10-quater, comma 
1, lett. g) della 
legge 
n. 212/2000: 
la 
fattispecie 
di 
autotutela 
obbligatoria 
ivi 
contemplata, 
infatti, 
non 
trova 
applicazione 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
la 
produzione 
della 
documentazione 
attestante 
la 
natura 
indebita 
della 
pretesa 
veicolata 
nell’atto impositivo sia 
ormai 
preclusa 
dal 
perfezionarsi 
delle 
decadenze 
contemplate 
dalla 
legge. Tale 
disposizione 
attesta, 
ancora 
una 
volta, 
la 
portata 
onnicomprensiva 
dell’inutilizzabilità 
probatoria 
dando 
prova 
della 
non 
impiegabilità 
della 
documentazione 
per 
cui 
siano 
venute 
a 
perfezionarsi 
le 
decadenze 
previste 
dalla 
legge, 
neppure 
al 
fine 
di 
far 
sorgere 
il dovere di autotutela previsto, altrimenti, in via generale. 

Attraverso 
la 
previsione 
del 
concetto 
di 
inutilizzabilità 
nell’ambito 
del 
diritto tributario, il 
Legislatore 
ha 
inteso dunque, sulla 
falsariga 
di 
quanto accaduto 
con riguardo al 
processo penale 
attraverso il 
Codice 
del 
1988 (2), in


(2) Come 
è 
noto, invero, la 
sanzione 
dell’inutilizzabilità 
è 
stata 
introdotta 
dal 
Legislatore 
processual-
penalistico 
del 
1988 
con 
il 
fine 
precipuo 
di 
individuare 
una 
causa 
di 
invalidità 
che, 
sottraendo 
alcune 
violazioni 
alla 
categoria 
della 
nullità 
e 
alle 
dinamiche 
che 
le 
sono 
proprie 
(in 
primis, 
i 
meccanismi 
della 
sanatoria 
e 
decadenza 
contemplati 
dalle 
pertinenti 
disposizioni 
processuali), rendesse 
non impiegabile, 
in 
via 
generale, 
il 
risultato 
probatorio 
acquisito 
in 
violazione 
dei 
divieti 
previsti 
dalla 
legge. 
Come 
precisato, infatti, anche 
di 
recente 
dalla 
Corte 
costituzionale 
con la 
pronuncia 
n. 219/2019 «la 
scelta 
del 
legislatore 
è 
stata 
quella 
di 
introdurre 
un 
meccanismo 
preclusivo 
che 
direttamente 
attingesse, 
dissolvendola, la stessa “idoneità” 
probatoria di 
atti 
vietati 
dalla legge, distinguendo in tal 
modo net

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


trodurre 
una 
causa 
di 
invalidità 
degli 
atti 
alternativa 
rispetto alla 
mera 
decadenza 
o nullità, la 
quale 
rendesse 
definitivamente 
non impiegabile 
il 
risultato 
probatorio 
acquisito 
ai 
fini 
dell’accertamento 
compiuto 
sottraendo 
la 
prova 
irregolare 
ad 
ogni 
forma 
di 
sanatoria 
o 
rimessione 
in 
termini 
(così 
si 
spiega 
l’inoperatività, nel 
caso di 
specie, del 
disposto di 
cui 
all’art. 58, comma 
2, del 
D.Lgs. 
546/1992 
ratione 
temporis 
vigente 
ribadita 
dalla 
pronuncia 
in 
commento). 


Tale 
osservazione 
consente 
di 
ritenere 
che 
le 
norme 
contemplate 
dagli 
artt. 32 e 
33 del 
d.P.r. 600/1973, e 
dalle 
disposizioni 
omologhe 
in materia 
di 
IvA, 
introducano 
ipotesi 
di 
inutilizzabilità 
tributaria 
che 
si 
affiancano 
alle 
inutilizzabilità 
processual-penalistiche 
ribadendo 
il 
doppio-binario 
già 
ravvisato, 
anche 
sul 
punto, dalla 
consolidata 
giurisprudenza 
dalla 
Suprema 
Corte 
in materia. 
A 
tal 
fine 
è 
interessante 
richiamare 
quanto affermato sul 
tema 
da 
Cass. 
31243/2019 (conforme 
a 
numerose 
altre) a 
mente 
della 
quale 
«l’amministrazione 
finanziaria, 
nell’attività 
di 
contrasto 
e 
accertamento 
dell’evasione 
fiscale, 
può, 
in 
linea 
di 
principio, 
avvalersi 
di 
qualsiasi 
elemento 
di 
valore 
indiziario, anche 
unico, ancorché 
acquisito illegittimamente 
secondo l’ordinamento 
processuale 
penale, con 
esclusione 
di 
quelli 
la cui 
inutilizzabilità 
discenda da una specifica disposizione 
della legge 
tributaria o dal 
fatto di 
essere 
acquisiti 
in 
violazione 
di 
diritti 
fondamentali 
di 
rango costituzionale, 
stante 
la netta differenziazione 
tra processo penale 
e 
tributario, secondo un 
principio sancito non solo dalle 
norme 
sui 
reati 
tributari 
(art. 12 del 
d.l. n. 
429 
del 
1982, 
successivamente 
confermato 
dall’art. 
20 
del 
d.lgs. 
n. 
74 
del 
2000), ma anche 
dalle 
disposizioni 
generali 
dettate 
dagli 
artt. 2 e 
654 c.p.p. 
ed espressamente 
dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che 
impone 
l’obbligo del 
rispetto 
delle 
disposizioni 
del 
codice 
di 
procedura penale 
quando, nel 
corso di 
attività 
ispettive, 
emergano 
indizi 
di 
reato 
ma 
soltanto 
ai 
fini 
dell’applicazione 
della legge penale». 

Tuttavia 
su tale 
assetto ordinamentale 
potrebbe 
incidere 
quanto previsto 
dal 
nuovo art. 7-quinquies 
della 
legge 
212/2000, secondo cui 
«non sono utilizzabili 
ai 
fini 
dell’accertamento amministrativo o giudiziale 
del 
tributo gli 
elementi 
di 
prova acquisiti 
oltre 
i 
termini 
di 
cui 
all’articolo 12, comma 5, o in 
violazione 
di 
legge». La 
norma 
sembrerebbe 
rendere 
non utilizzabile 
(questa 
volta a favore del contribuente, ma forse anche a suo carico), ai fini tributari, 
ogni 
prova 
acquisita 
in contrasto con la 
legge. L’ampliamento della 
categoria 
dell’inutilizzabilità 
sembra 
emergere 
dal 
confronto tra 
il 
testo finale 
della 
disposizione 
con 
la 
versione 
che 
figurava 
nello 
schema 
di 
decreto 
legislativo 
recato 
nell’atto 
del 
Governo 
del 
30 
novembre 
2023 
n. 
97. 
La 
norma 
originariamente 
proposta, uniformandosi 
alla 
giurisprudenza 
poc’anzi 
richia


tamente 
tale 
fenomeno 
dai 
profili 
di 
inefficacia 
conseguenti 
alla 
eventuale 
violazione 
di 
una 
regola 
sancita 
a pena di nullità dell’atto». 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


mata, 
prevedeva 
infatti 
che 
«non 
sono 
utilizzabili 
ai 
fini 
dell’accertamento 
amministrativo o giudiziale 
del 
tributo gli 
elementi 
di 
prova acquisiti 
oltre 
i 
termini 
previsti 
dallo statuto del 
contribuente 
per 
l’esecuzione 
di 
verifiche 
da 
parte 
dell’amministrazione 
finanziaria (di 
cui 
all’articolo 12, comma 5 della 
medesima 
legge 
n. 
212 
del 
2000), 
o 
in 
violazione 
di 
libertà 
costituzionalmente 
riconosciute 
». occorrerà, pertanto, comprendere 
quale 
interpretazione 
della 
disposizione 
offrirà 
la 
giurisprudenza 
al 
fine 
di 
verificare 
la 
persistenza, 
in 
materia, del doppio-binario sopra richiamato. 

Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
Quinta, 
ordinanza 
5 
aprile 
2025 
n. 
9001 
-Pres. 
L. 
napolitano, 
rel. r. Angarano -P.M. e 
C.L., nella 
dichiarata 
qualità 
di 
ex soci 
della 
Admen s.r.l. in liquidazione 
(avv. S. Chiessi) c. Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato). 


rilevato che: 


1. In data 
30 gennaio 2013 l’Agenzia 
delle 
entrate 
notificava 
alla 
Admen Pubblicità 
s.r.l. 
esercente 
l’attività 
di 
studi 
di 
promozione 
pubblicitaria 
-cancellata 
dal 
registro delle 
imprese 
in data 
15 luglio 2014 -avviso di 
accertamento con il 
quale 
recuperava 
una 
maggiore 
Ires 
e 
una maggiore Irap. 
L’ufficio rilevava 
la 
mancata 
dichiarazione, con riferimento all’anno 2006, dei 
redditi 
derivanti 
dalla 
vendita 
di 
immobili 
ad uso ufficio avvenuta 
nelle 
date 
del 
14 luglio 2006 e 
del 
2 
novembre 
2006. 
Per 
l’effetto, 
con 
processo 
verbale 
di 
constatazione 
del 
30 
ottobre 
2012, 
contestava 
l’omessa 
istituzione 
tenuta 
e 
conservazione 
delle 
scritture 
contabili, l’omessa 
presentazione 
della 
dichiarazione 
annuale 
delle 
imposte 
sui 
redditi 
per 
l’anno 
d’imposta 
2006, 
la 
mancata 
dichiarazione 
di 
ricavi 
per 
euro 
570.000,00. 
Di 
conseguenza 
accertava 
una 
maggiore 
Ires di euro 188.100,00 ed una maggiore Irap di euro 24.225,00. 


2. 
L’atto 
impositivo 
veniva 
impugnato 
innanzi 
alla 
C.t.p. 
Di 
Milano 
dalla 
società 
in 
persona 
del liquidatore M.P. ed anche da quest’ultimo in proprio. 
3. La C.t.p. rigettava il ricorso. 
4. 
Avverso 
detta 
sentenza 
spiegavano 
appello 
sia 
la 
società 
che 
M.P. 
in 
proprio. 
Il 
giudizio, 
dichiarato 
interrotto 
all’udienza 
del 
13 
Aprile 
2015 
in 
ragione 
della 
cancellazione 
della 
società 
dal 
registro 
delle 
imprese, 
veniva 
successivamente 
riassunto 
da 
M.P. 
e 
L.C. 
quali 
ex 
soci 
della 
società ormai estinta. 
La C.t.r. rigettava l’appello. 
Avverso detta 
sentenza 
ricorrono entrambi 
i 
soci 
e 
l’Agenzia 
delle 
entrate 
resiste 
a 
mezzo 
controricorso. 

Considerato che: 


1. I contribuenti propongono cinque motivi. 
1.1. Con il 
primo motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione 
o falsa 
applicazione, dell’art. 43, comma 
3 d.P.r. 29 settembre 
1973 n. 600 e 
dell’art. 
57, 
comma 
3 
d.P.r. 
26 
ottobre 
1972 
n. 
633, 
così 
come 
modificati 
dall’art. 
1, 
comma 
132, 
legge 31 dicembre 2015 n. 207. 
Censurano la 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in cui 
ha 
ritenuto applicabile 
per l’accerta



rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


mento il 
c.d. termine 
raddoppiato, nonostante 
la 
mancata 
presentazione 
di 
denuncia 
di 
reato 
entro 
il 
31 
dicembre 
del 
quinto 
anno 
successivo 
a 
quello 
in 
cui 
la 
dichiarazione 
avrebbe 
dovuto 
essere presentata. 


1.2. 
Con 
il 
secondo 
motivo 
denunciano, 
ex 
art. 
360, primo 
comma, 
n. 
3 
cod. 
proc. 
civ., 
violazione 
o falsa 
applicazione, dell’art. 43, comma 
2, d.P.r. n. 600 del 
1973 e 
dell’art. 57 
comma 3, d.P.r. n. 633 del 1972. 
Censurano la 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in cui 
ha 
ritenuto applicabile 
per l’accertamento 
il 
c.d. 
termine 
raddoppiato, 
senza 
accertare 
se 
sussistevano, 
almeno 
astrattamente, 
i 
presupposti 
per l’obbligo di 
presentazione 
di 
denuncia 
ai 
sensi 
dell’art. 331 cod. proc. pen. 
per qualcuno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. 


1.3. 
Con 
il 
terzo 
motivo 
denunciano 
violazione 
o 
falsa 
applicazione, 
ex 
art. 
360, 
primo 
comma, n. 3 cod. proc. civ., degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. 
Censurano la 
sentenza 
nella 
parte 
in cui, ai 
fini 
dell’applicazione 
del 
termine 
raddoppiato, 
ha 
ritenuto provata 
la 
presentazione 
di 
denuncia 
da 
parte 
dell’Amministrazione, circostanza 
meramente dedotta 
ex adverso. 


1.4. Con il 
quarto motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione 
o 
falsa 
applicazione, 
dell’art. 
43, 
comma 
3, 
d.P.r. 
n. 
600 
del 
1973 
e 
dell’art. 
57, 
comma 3, d.P.r. n. 633 del 1972. 
Censurano 
la 
sentenza 
impugnata 
per 
aver 
ritenuto 
applicabile 
il 
raddoppio 
dei 
termini 
anche all’accertamento relativo all’Irap. 


1.5. 
Con 
il 
quinto 
motivo 
denunciano, 
ex 
art. 
360, 
primo 
comma, 
n. 
5, 
cod. 
proc. 
civ. 
omesso esame 
circa 
un fatto decisivo per il 
giudizio che 
è 
stato oggetto di 
discussione 
tra 
le 
parti, 
e, 
comunque, 
ex 
art. 
360, 
primo 
comma 
n. 
3, 
cod. 
proc. 
civ., 
violazione 
dell’art. 
39, 
comma 2, d.P.r. n. 600 del 1973. 
Premesso che 
l’ufficio aveva 
fatto ricorso al 
metodo dell’accertamento induttivo puro in 
ragione 
della 
mancata 
presentazione 
della 
dichiarazione 
dei 
redditi, 
censurano 
la 
sentenza 
impugnata 
per 
aver 
omesso 
di 
esaminare 
un 
fatto 
decisivo, 
ovvero 
la 
possibilità 
di 
dedurre 
i 
costi 
sostenuti 
dalla 
società, 
non 
documentati 
in 
fase 
di 
accertamento, 
ma 
comunque 
provati 
in 
corso 
di 
causa. 
Censurano, 
altresì, 
la 
sentenza 
impugnata 
per 
non 
essersi 
pronunciata 
sulla 
possibilità 
di 
documentare 
i 
costi 
sostenuti 
in sede 
contenziosa 
laddove 
non fosse 
stato possibile 
farlo in fase 
di 
accertamento in quanto non vi 
era 
stata 
da 
parte 
degli 
organi 
accertatori 
alcuna 
richiesta 
di 
produzione 
documentale. 
Precisano, 
in 
particolare, 
che 
gli 
organi 
accertatori 
non avevano mai 
espressamente 
richiesto l’esibizione 
delle 
fatture 
d’acquisto e 
gli 
altri 
costi 
documentati 
relativi 
ai 
ricavi 
corrispondenti 
alle 
due 
fatture 
dalle 
quali 
era 
scaturito l’accertamento. 


2. I primi 
tre 
motivi 
vanno esaminati 
congiuntamente 
in quanto hanno ad oggetto la 
sussistenza 
dei presupposti per il c.d. raddoppio dei termini di accertamento. 
I motivi 
sono infondati, se 
pure 
la 
motivazione 
va 
corretta 
ex art. 384, ultimo comma, cod. 
proc. civ. 


2.1. In ordine 
alla 
disciplina 
applicabile 
alla 
fattispecie, va 
evidenziato che 
l’avviso di 
accertamento 
è 
stato notificato il 
30 dicembre 
2013. vigeva, pertanto, il 
regime 
transitorio di 
cui 
al 
d.lgs. 
n. 
128 
del 
1015 
che 
faceva 
salvi, 
quanto 
alla 
disciplina 
dei 
termini 
di 
accertamento, 
gli avvisi di accertamento già notificati alla data di sua entrata in vigore. 
Si 
applica, 
pertanto, 
l’art. 
43, 
comma 
3, 
d.P.r. 
n. 
600 
del 
1973 
e 
l’art. 
57, 
comma 
3, 
(commi 
inseriti 
dall’art. 37 commi 
24, e 
25 d.l. n. 223 del 
2006, convertito con modificazioni, dalla 
legge 
n. 
248 
del 
2006, 
in 
vigore 
dal 
4 
luglio 
2006) 
i 
quali 
prevedono 
che, 
in 
caso 
di 
violazione 



ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


che 
comporta 
obbligo 
di 
denuncia 
ai 
sensi 
dell’art. 
331 
cod. 
proc. 
civ. 
per 
uno 
dei 
reati 
previsti 
dal 
d.lgs. n. 74 del 
2000, i 
termini 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti 
(cioè, in caso di 
presentazione 
della 
dichiarazione, il 
termine 
del 
31 dicembre 
del 
quarto anno successivo a 
quello di 
presentazione 
della 
dichiarazione, nonché, in caso di 
omessa 
presentazione 
della 
dichiarazione, il 
termine 
del 
31 dicembre 
del 
quinto anno successivo a 
quello in cui 
la 
dichiarazione 
avrebbe 
dovuto essere 
presentata) sono raddoppiati 
relativamente 
al 
periodo d’imposta 
in cui 
è 
stata 
commessa la violazione. 

2.2. Il 
raddoppio dei 
termini 
-come 
detto previsto per l’Irpef dall’art. 43, comma 
3, d.P.r. 
n. 600 del 
1973 e 
per l’Iva 
dall’art. 57, comma 
3, del 
d.P.r. n. 633 del 
1972 -consegue, nel-
l’assetto 
anteriore 
alle 
modifiche 
sopra 
citate, 
alla 
ricorrenza 
di 
seri 
indizi 
di 
reato 
che 
facciano 
insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. 
I termini, così 
detti, «raddoppiati» non si 
innestano su quelli 
ordinari, ma 
operano autonomamente 
allorché 
si 
riscontrino 
elementi 
obiettivi 
tali 
da 
rendere 
obbligatoria 
la 
denuncia 
penale 
per 
i 
reati 
previsti 
dal 
d.lgs. 
n. 
74 
del 
2000 
(tra 
le 
tante 
Cass. 
20 
dicembre 
2022, 
n. 
37252, 
Cass. 
3 
maggio 
2018, 
n. 
10483, 
Cass. 
16 
dicembre 
2016, 
n. 
26037). 
In 
particolare, 
come 
chiarito 
dalla 
Corte 
costituzionale, i 
termini 
ordinari 
operano in presenza 
di 
violazioni 
tributarie 
per le 
quali 
non sorge 
l’obbligo di 
denuncia 
penale 
per reati 
previsti 
dal 
d.lgs. n. 74 del 
2000; 
mentre 
i 
termini 
raddoppiati 
operano in presenza 
di 
violazioni 
tributarie 
per le 
quali 
v’è 
l’obbligo 
di 
denuncia 
(Corte 
cost. 25 luglio 2011, n. 247). In altri 
termini, ciò che 
rileva 
è 
solo la 
sussistenza 
dell’obbligo 
di 
denuncia, 
perché 
essa 
soltanto 
connota 
obiettivamente, 
sin 
dal-
l’origine, la 
fattispecie 
di 
illecito tributario alla 
quale 
è 
connessa 
l’applicabilità 
dei 
termini 
in 
misura doppia. 


La 
dizione 
legislativa 
rende 
chiaro che 
il 
raddoppio è 
legato all’astratta 
sussistenza 
di 
un 
reato perseguibile 
d’ufficio, che 
fa 
sorgere 
l’obbligo di 
denuncia 
in capo al 
pubblico ufficiale 
e 
non dipende 
dal 
suo accertamento in concreto. L’istituto presuppone 
la 
sussistenza 
dell’obbligo 
di 
presentazione 
della 
denuncia 
penale, a 
prescindere 
dall’esito del 
procedimento e 
nonostante 
l’eventuale 
estinzione 
del 
reato 
per 
archiviazione, 
rilevando 
solo 
l’astratta 
configurabilità 
di 
un 
illecito 
penale, 
atteso 
il 
regime 
c.d. 
del 
doppio 
binario 
tra 
giudizio 
penale 
e 
procedimento 
tributario 
(Cass. 
15 
settembre 
2022 
n. 
27250). 
nello 
stesso 
senso 
si 
è 
aggiunto 
che 
il 
raddoppio 
dei 
termini, 
rilevando 
unicamente 
la 
sussistenza 
dell’obbligo 
di 
presentazione 
di 
denuncia 
penale, 
opera 
nonostante 
l’eventuale 
prescrizione 
del 
reato 
(Cass. 
11 
aprile 
2017, 
n. 9322). 


2.3. Questa 
Corte 
ha 
chiarito, altresì, che 
ciò non rende 
di 
per sé 
legittimo qualunque 
accertamento 
compiuto dall’Amministrazione 
finanziaria 
oltre 
il 
termine 
ordinario fissato dalla 
legge, 
dovendo, 
al 
contrario, 
essere 
evitato, 
come 
chiarito 
dalla 
Corte 
costituzionale 
nella 
sentenza 
n. 247 del 
2011, un uso pretestuoso e 
strumentale 
delle 
disposizioni 
in esame 
al 
fine 
di 
fruire 
ingiustificatamente 
di 
un più ampio termine 
di 
accertamento. Tuttavia, si 
è 
osservato, 
in 
proposito 
che 
la 
ratio 
sottesa 
all’istituto 
del 
raddoppio 
dei 
termini, 
di 
natura 
essenzialmente 
procedimentale, è 
quella 
di 
dare 
all’ufficio un tempo maggiore 
per gli 
accertamenti 
nei 
casi 
più gravi 
in cui 
gli 
elementi 
emersi 
presentino rilievo penale; 
che 
la 
possibilità 
che, proprio 
ad 
esito 
di 
quegli 
accertamenti 
e 
del 
contraddittorio 
endoprocedimentale, 
le 
iniziali 
emergenze 
vengano 
ridimensionate 
e 
l’atto 
impositivo 
si 
fondi 
su 
elementi 
privi 
di 
rilievo 
penale 
non 
può certamente 
implicare, a 
posteriori, il 
venir meno dei 
presupposti 
di 
applicazione 
del 
termine 
più lungo, salvo che 
non emerga 
un uso pretestuoso o strumentale 
della 
disposizione, al 
solo 
fine 
di 
fruire, 
ingiustificatamente, 
di 
un 
tempo 
più 
ampio 
(Cass. 
14 
luglio 
2023, 
n. 
20409). 
2.4. nella 
fattispecie 
in esame 
non è 
controverso che 
alla 
società 
fossero state 
contestate 

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


violazioni 
astrattamente 
idonee 
ad integrate 
uno dei 
reati 
di 
cui 
al 
d.lgs. n. 74 del 
2000. In ragione 
di 
ciò i 
termini 
per l’accertamento erano soggetti 
al 
c.d. raddoppio restando irrilevante 
che fosse stata o meno presentata la denuncia di reato. 


2.5. 
La 
C.t.r. 
nell’escludere 
la 
decadenza 
dal 
potere 
impositivo, 
se 
pure 
ha 
fatto 
riferimento 
alla 
effettiva 
presentazione 
della 
denuncia, che 
il 
ricorrente 
invece 
assume 
non essere 
stata 
documentata, ha comunque deciso conformemente alla giurisprudenza di legittimità. 
3. Il quarto motivo, relativo ai termini per l’accertamento dell’Irap, è fondato. 
3.1. 
In 
primo 
luogo 
va 
rigettata 
l’eccezione 
di 
inammissibilità 
sollevata 
dal 
controricorrente 
sul 
presupposto che 
si 
tratti 
di 
motivo nuovo. Il 
contribuente 
sin dal 
primo grado di 
giudizio 
ha 
sostenuto che 
l’ufficio era 
decaduto dal 
potere 
accertativo per decorso dei 
termini. Il 
motivo, 
pertanto, veniva 
formulato con riferimento ad entrambe 
le 
imposte 
oggetto di 
recupero 
e, come tale andava scrutinato. 
3.2. Il 
c.d. «raddoppio dei 
termini» per la 
notifica, a 
pena 
di 
decadenza 
degli 
avvisi 
di 
accertamento, 
previsto 
dall’art. 
43 
d.P.r. 
n. 
600 
del 
1973 
in 
caso 
di 
violazione 
che 
comporti 
obbligo 
di 
denuncia 
per 
reati 
tributari 
non 
può 
trovare 
applicazione 
per 
l’Irap, 
poiché 
le 
violazioni 
delle 
relative 
disposizioni 
non sono presidiate 
da 
sanzioni 
penali 
(Cass. 3 maggio 
2018, n. 10483). 
3.3. La 
C.t.r., nel 
ritenere 
che 
all’intero accertamento si 
applicasse 
il 
termine 
raddoppiato 
non si è attenuta a questi principi. 
4. 
Il 
quinto 
motivo 
è 
inammissibile 
nella 
parte 
in 
cui 
si 
lamenta, 
ai 
sensi 
dell’art. 
360 
primo, 
comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame 
di 
fatti 
decisivi 
per il 
giudizio in quanto la 
censura 
incorre nella preclusione derivante dalla c.d. «doppia conforme». 
4.1. nell’ipotesi 
di 
«doppia 
conforme», prevista 
dall’art. 348-ter, comma 
5, cod. proc. civ. 
(applicabile, ai 
sensi 
dell’art. 54, comma 
2, del 
d.l. n. 83 del 
2012, convertito con modificazioni 
dalla 
legge 
n. 134 del 
2012, ai 
giudizi 
d’appello introdotti 
con ricorso depositato o con 
citazione 
di 
cui 
sia 
stata 
richiesta 
la 
notificazione 
dal 
giorno 11 settembre 
2012), il 
ricorrente 
in cassazione 
-per evitare 
l’inammissibilità 
del 
motivo di 
cui 
all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. 
(nel 
testo 
riformulato 
dall’art. 
54, 
comma 
3, 
del 
d.l. 
n. 
83 
cit. 
ed 
applicabile 
alle 
sentenze 
pubblicate 
dal 
giorno 11 settembre 
2012) -deve 
indicare 
le 
ragioni 
di 
fatto poste 
a 
base, rispettivamente, 
della 
decisione 
di 
primo grado e 
della 
sentenza 
di 
rigetto dell’appello, dimostrando 
che 
esse 
sono tra 
loro diverse 
(Cass. 22 dicembre 
2016, n. 26774; 
in senso conforme: 
Cass. 
Sez. u. 21 settembre 2018, n. 22430). 
nella 
specie, posto che 
il 
giudizio d’appello è 
iniziato nel 
2014, la 
doglianza 
è 
inammissibile 
poiché 
le 
decisioni 
dei 
gradi 
di 
merito, 
entrambe 
di 
rigetto 
(c.d. 
doppia 
conforme), 
si 
fondano 
sulle 
medesime 
ragioni 
di 
fatto e, del 
resto, parte 
ricorrente 
non ha 
nemmeno sostenuto 
il 
contrario. La 
sentenza 
di 
secondo grado, infatti, non ha 
fatto altro che 
esplicitare, per altro 
in maniera 
congrua 
e 
logica, il 
percorso motivazionale 
seguito dalla 
sentenza 
di 
primo grado 
per giungere, dai 
maggiori 
compensi 
accertati, rispetto a 
quelli 
dichiarati 
alla 
determinazione 
del maggiore reddito. 


5. Il motivo è fondato, invece, nella parte in cui prospetta una violazione di legge. 
5.1. non è 
controverso tra 
le 
parti 
che 
l’accertamento è 
stato condotto con il 
metodo c.d. 
induttivo puro ex art. 39, comma 
2, lett. d), d.P.r. n. 600 del 
1973 stante 
l’omessa 
presentazione 
delle dichiarazione dei redditi. 
5.2. Questa 
Corte 
ha 
chiarito che, in ossequio al 
principio di 
capacità 
contributiva 
-l’Amministrazione 
deve 
tener 
conto 
non 
solo 
dei 
maggiori 
ricavi 
ma 
anche 
della 
incidenza 
percentuale 
dei 
costi 
relativi 
(Corte 
cost. 
n. 
225 
del 
2005). 
L’Amministrazione 
finanziaria, 
in 

ConTenzIoSo 
TrIbuTArIo -oSServATorIo 


sede 
di 
accertamento induttivo, deve 
procedere 
alla 
ricostruzione 
della 
situazione 
reddituale 
complessiva 
del 
contribuente, 
tenendo 
conto 
anche 
delle 
componenti 
negative 
del 
reddito 
che 
siano comunque 
emerse 
dagli 
accertamenti 
compiuti, tanto che, qualora 
per alcuni 
proventi 
non sia 
possibile 
accertare 
i 
costi, questi 
possono essere 
determinati 
induttivamente, perché 
diversamente 
si 
assoggetterebbe 
ad 
imposta, 
come 
reddito 
d’impresa, 
il 
profitto 
lordo, 
anziché 
quello netto, in contrasto con il 
parametro costituzionale 
della 
capacità 
contributiva 
di 
cui 
all’art. 
53 Cost.» (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26748). 


5.3. 
Quanto, 
poi, 
alla 
documentazione 
prodotta 
in 
sede 
giudiziale 
-con 
riferimento 
alla 
quale 
il 
contribuente 
si 
duole 
del 
silenzio 
serbato 
dalla 
C.t.r. 
in 
sentenza 
e 
sulla 
cui 
utilizzabilità 
vi 
è 
contrasto tra 
le 
parti 
-viene 
in rilievo l’art. 32 d.P.r. n. 600 del 
1973 (richiamato dall’art. 
51 d.P.r. n. 633 del 
1972 quanto all’iva) il 
quale 
prevede 
che 
«le 
notizie 
ed i 
dati 
non addotti 
e 
gli 
atti, i 
documenti, i 
libri 
ed i 
registri 
non esibiti 
o non trasmessi 
in risposta 
agli 
inviti 
del-
l’ufficio non possono essere 
presi 
in considerazione 
a 
favore 
del 
contribuente, ai 
fini 
dell’accertamento 
in 
sede 
amministrativa 
e 
contenziosa. 
Di 
ciò 
l’ufficio 
deve 
informare 
il 
contribuente 
contestualmente 
alla 
richiesta. 
Le 
cause 
di 
inutilizzabilità 
previste 
dal 
terzo 
comma 
non 
operano 
nei 
confronti 
del 
contribuente 
che 
depositi 
in 
allegato 
all’atto 
introduttivo 
del 
giudizio 
di 
primo 
grado 
in 
sede 
contenziosa 
le 
notizie, 
i 
dati, 
i 
documenti, 
i 
libri 
e 
i 
registri, 
dichiarando 
comunque 
contestualmente 
di 
non 
aver 
potuto 
adempiere 
alle 
richieste 
degli 
uffici 
per causa a lui non imputabile». 
non è 
pertinente, invece, l’art. 33 d.P.r. n. 600 del 
1973 (di 
identico tenore 
dell’art. 52 c. 
5 d.P.r. n. 633 del 
1972 in materia 
di 
iva) secondo il 
quale 
«i 
libri, registri, scritture 
e 
documenti 
di 
cui 
è 
rifiutata 
l’esibizione 
non possono essere 
presi 
in considerazione 
a 
favore 
del 
contribuente 
ai 
fini 
dell’accertamento 
in 
sede 
amministrativa 
o 
contenziosa. 
Per 
rifiuto 
di 
esibizione 
si 
intendono 
anche 
la 
dichiarazione 
di 
non 
possedere 
i 
libri, 
registri, 
documenti 
e 
scritture 
e la sottrazione di essi alla ispezione». 


Detta 
ultima 
disposizione 
prevede 
chiaramente 
come 
elemento essenziale 
della 
condotta 
che 
origina 
la 
preclusione 
quello della 
intenzionalità 
di 
non consentire 
l’esame 
della 
documentazione 
e, infatti, trova 
applicazione 
ai 
soli 
casi 
di 
ispezione, con ciò intendendo l’attività 
di 
esame 
e 
controllo 
svolta 
dai 
verificatori 
in 
sede 
di 
accesso 
presso 
il 
contribuente 
o 
in 
luoghi 
a 
questi 
collegati, al 
di 
fuori 
dell’ufficio, non nei 
casi 
in cui 
i 
documenti 
sono richiesti 
con 
l’invio di 
apposita 
comunicazione 
o questionario ma 
senza 
introduzione 
e 
stazionamento per 
quanto 
necessario 
di 
personale 
dell’Amministrazione 
presso 
il 
soggetto 
sottoposto 
a 
controllo 
(Cass. 14 luglio 2021 n. 16757). 


5.4. La 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
ha 
chiarito, pertanto, che 
l’omessa 
o intempestiva 
risposta 
dei 
dati 
richiesti 
dall’Amministrazione 
finanziaria 
in 
sede 
di 
accertamento 
fiscale 
comporta, ex art. 32, quarto comma, d.P.r. n. 600 del 
1973, l’automatica 
inutilizzabilità, amministrativa 
e 
processuale, 
della 
documentazione 
prodotta 
tardivamente, 
in 
quanto 
la 
comminatoria 
è 
direttamente 
ed 
oggettivamente 
riferita 
alla 
sussistenza 
di 
tale 
condotta, 
non 
essendo richiesto alcun ulteriore 
meccanismo di 
attivazione 
di 
parte; 
al 
contrario, l’eventuale 
deroga 
all’inutilizzabilità, 
deve 
essere 
fatta 
valere 
dal 
contribuente 
con 
le 
modalità 
ivi 
previste 
entro il 
termine 
per il 
deposito dell’atto introduttivo di 
primo grado (Cass. 22 luglio 2020, n. 
15600, Cass. 22 giugno 2018, n. 16548; 
Cass. 23 marzo 2016, n. 5734). Corollario dell’automatica 
inutilizzabilità 
della 
documentazione 
richiesta 
dai 
verificatori 
e 
non esibita 
dal 
contribuente 
è 
quindi 
l’operatività 
della 
conseguente 
preclusione 
processuale, anche 
a 
prescindere 
dalla 
proposizione, da 
parte 
dell’ufficio, di 
una 
tempestiva 
eccezione. Si 
è 
precisato, infatti, 
che, in tema 
di 
accertamento tributario, l’omessa 
o intempestiva 
esibizione 
da 
parte 
del 
con

rASSeGnA 
AvvoCATurA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2024 


tribuente 
di 
dati 
e 
documenti 
in sede 
amministrativa 
è 
sanzionata 
con la 
preclusione 
processuale 
della 
loro allegazione 
e 
produzione 
in giudizio, che 
prevale 
anche 
rispetto all’art. 58, 
secondo comma, d.lgs. n. 546 del 
1992, e 
che 
non può ritenersi 
sanata 
nemmeno ove 
l’Amministrazione 
finanziaria 
non sollevi 
la 
relativa 
eccezione 
in sede 
di 
udienza 
di 
discussione 
della 
causa, atteso il 
carattere 
perentorio del 
termine 
di 
cui 
all’art. 32 d.P.r. n. 600 del 
1973. 
Pertanto, 
l’omessa 
o 
intempestiva 
risposta 
è 
legittimamente 
sanzionata 
con 
la 
preclusione 
amministrativa 
e 
processuale 
di 
allegazione 
di 
dati 
e 
documenti 
non forniti 
nella 
sede 
precontenziosa 
e 
neppure 
trova 
applicazione 
l’art. 57 d.lgs 
n. 546 del 
1992, che 
non consente 
alle 
parti 
di 
proporre 
in 
appello 
(Cass. 
n. 
1539 
del 
2024, 
Cass. 
n. 
15600 
del 
2020 
cit., 
Cass. 
n. 
16548 del 2018 cit.). 


È 
stato puntualizzato, però, che 
l’omessa 
esibizione, da 
parte 
del 
contribuente, dei 
documenti 
in sede 
amministrativa 
determina 
l’inutilizzabilità 
della 
successiva 
produzione 
in sede 
contenziosa, prevista 
dall’art. 32 d.P.r. n. 600 del 
1973, solo in presenza 
dello specifico presupposto, 
la 
cui 
prova 
incombe 
sull’Amministrazione, costituito dall’invito specifico e 
puntuale 
all’esibizione, accompagnato dall’avvertimento circa 
le 
conseguenze 
della 
sua 
mancata 
ottemperanza; 
infatti, non può costituire 
rifiuto la 
mancata 
esibizione 
di 
qualcosa 
che 
non si 
è 
richiesto 
(Cass. 
n. 
1539 
del 
2024 
e 
Cass. 
15600 
del 
2020, 
cit., 
Cass. 
12 
aprile 
2017, 
n. 
9487). 


Quanto alle 
caratteristiche 
del 
questionario, questa 
Corte 
ha 
ritenuto sufficientemente 
specifico 
un invito da 
cui 
emerga 
che 
la 
parte 
è 
stata 
espressamente 
invitata, con riferimento ai 
beni 
attinti 
dall’accertamento a 
depositare 
eventuale 
documentazione 
giustificativa 
di 
redditi 
esenti, assoggettati 
a 
ritenuta 
d’imposta, tassati 
con sistemi 
forfettari 
o disinvestimenti, smobilizzi, 
altre 
disponibilità 
anche 
provenienti 
da 
terzi 
ma 
messi 
a 
disposizione 
del 
contribuente 
così come previsto dall’art. 38 d.P.r. n. 600 del 1973 (Cass. n. 15600 del 2020, cit.). 


5.5. La 
C.t.r. non si 
è 
attenuta 
a 
questi 
principi, in quanto si 
è 
limitata 
a 
ritenere 
legittima 
la ricostruzione del reddito in via induttiva senza compiere alcuna verifica sui costi. 
Al 
contrario, 
avrebbe 
dovuto 
accertare, 
in 
primo 
luogo 
l’ammissibilità 
della 
produzione 
documentale 
alla 
luce 
di 
principi 
sopra 
esposti 
e, in ogni 
caso, se 
l’Amministrazione 
avesse 
ridotto 
il 
maggior 
reddito 
d’impresa 
accertato 
di 
una 
percentuale 
di 
costi, 
pure 
induttivamente 
determinata. 

6. In conclusione, vanno accolti 
il 
quarto ed il 
quinto motivo di 
ricorso, quest’ultimo limitatamente 
alla 
violazione 
di 
legge, disattesi 
tutti 
gli 
altri; 
la 
sentenza 
impugnata 
va 
annullata 
con 
rinvio 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
della 
Lombardia, 
in 
diversa 
composizione, 
che 
si 
atterrà 
ai 
principi 
esposti 
e 
si 
pronuncerà 
anche 
sulle 
spese 
del 
giudizio di 
legittimità. 
P.Q.M. 


La 
Corte 
accoglie, il 
quarto ed il 
quinto motivo di 
ricorso, nei 
limiti 
di 
cui 
in motivazione, 
disattesi 
gli 
altri, cassa 
la 
sentenza 
impugnata 
e 
rinvia 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado della 
Lombardia, in diversa 
composizione, la 
quale 
provvederà 
anche 
al 
regolamento 
delle spese del giudizio di legittimità. 

Così deciso in roma, il 5 marzo 2025. 



PAReRideLComitAtoConSuLtivo
Procedimento amministrativo di rimborso 
delle spese legali previsto e disciplinato dall’art. 32 
della L. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge Reale”). 
Riguardo alla consulenza dell’Avvocatura dello Stato 


Parere 
del 
20/03/2024-197102, al 1671/2024, 
Sez. V, aVV. enrico 
de 
GioVanni 


Codesta 
Amministrazione, 
nella 
nota 
in 
epigrafe, 
pone 
il 
quesito 
che 
così, 
in breve, si può riassumere. 


L’articolo 
32 
della 
L. 
22 
maggio 
1975, 
n. 
152 
(c.d. 
“legge 
reale”) 
prevede 
una 
fattispecie 
“speciale” 
in materia 
di 
rimborso delle 
spese 
legali, con il 
dichiarato 
obiettivo di 
offrire 
una 
“tutela rafforzata” 
agli 
operatori 
delle 
Forze 
di 
Polizia 
impiegati 
nell’espletamento dei 
compiti 
istituzionali 
di 
tutela 
del-
l’ordine 
pubblico e 
della 
sicurezza 
collettiva; 
esso presenta 
la 
eadem 
ratio 
rispetto 
all’articolo 18 del 
decreto legge 
25 marzo 1997, n. 67, convertito con 
legge 23 maggio 1997, n. 135 (disposizione di natura “generale”). 


L’Avvocatura 
dello 
Stato 
svolge 
una 
“funzione 
generale 
consultiva 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
patrocinate”, anche, a fortiori, in 
tutti 
i 
casi 
-come, 
appunto, 
quelli 
relativi 
alla 
tutela 
legale 
dei 
dipendenti 
pubblici 
-in cui 
sia 
prevista 
un’erogazione 
di 
denaro pubblico con conseguente 
deminutio patrimonii 
dell’Erario; 
appare 
pertanto opportuno che 
siffatta 
funzione 
consultiva 
sia 
svolta 
con riferimento ad entrambe 
le 
fattispecie 
disciplinate 
dalle disposizioni citate. 


Di 
recente, tuttavia, viene 
segnalato che 
qualche 
Avvocatura 
distrettuale, 
interessata 
in sede 
di 
istruttoria 
procedimentale, ha 
reso, per fattispecie 
riconducibili 
all’articolo 32 della 
“legge 
reale” 
un parere 
di 
congruità 
nel 
quale 
ha 
affermato che 
“il 
tenore 
letterale 
del 
citato art. 32 -specie 
se 
confrontato a 
quello del 
citato art. 18 -sembra deporre 
nel 
senso che 
gravino sulla amministrazione 
di 
appartenenza tutte 
le 
spese 
di 
difesa sostenute 
dall’interessato, 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


senza un previo vaglio di 
congruità”. Viene 
inoltre 
segnalato che 
talune 
Organizzazioni 
sindacali 
della 
Polizia 
di 
Stato sostengono che, nelle 
situazioni 
testé 
riportate, le 
Amministrazioni 
debbano “autodeterminarsi”, a 
prescindere 
dal parere dell’Avvocatura dello Stato. 


Tanto 
rilevato 
viene 
chiesto 
alla 
Scrivente 
di 
esprimersi 
“in 
ordine 
all’esatta 
individuazione 
del 
corretto 
iter 
procedimentale 
da 
seguire, 
in 
quanto 
la 
prassi 
amministrativa 
si 
è 
basata 
sulla 
richiesta 
del 
parere 
di 
congruità 
alle 
competenti 
avvocature 
dello 
Stato 
anche 
in 
relazione 
alle 
fattispecie 
sussumibili 
nell’alveo 
dell’articolo 
32 
della 
legge 
n. 
152 
del 
1975, 
in 
analogia 
a 
quanto 
previsto 
per 
quelle 
riconducibili 
all’articolo 
18 
del 
decreto 
legge 
n. 
67 
del 
1997 
”. 


Tanto premesso si rileva quanto segue. 


Questo G.U., in continuità 
con il 
parere 
espresso in data 
18 maggio 2021 
nel 
CT 
26963/20, 
e 
in 
ulteriore 
approfondimento 
del 
medesimo, 
ritiene 
quanto 
segue. 


Va 
premesso che 
il 
pregresso parere 
testé 
citato fu reso all’Arma 
dei 
carabinieri 
a 
riscontro di 
una 
richiesta 
di 
parere 
avente 
ad oggetto l’istruttoria 
da 
svolgere 
in 
merito 
alle 
richieste 
di 
anticipazione 
delle 
spese 
legali 
presentate 
ai 
sensi 
dell’art. 
29 
del 
Decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
15 
aprile 
2018, 


n. 39 di 
recepimento dell’accordo sindacale 
e 
del 
provvedimento di 
concertazione 
per il 
personale 
non dirigente 
delle 
forze 
di 
Polizia 
ad Ordinamento civile 
e 
militare 
“Triennio 
normativo 
ed 
economico 
2016-2018 
”; 
siffatta 
disposizione prevede, fra l’altro, che agli: 
“2... ufficiali 
o agenti 
di 
pubblica sicurezza o di 
polizia giudiziaria indagati 
o imputati 
per 
fatti 
inerenti 
al 
servizio, che 
intendono avvalersi 
di 
un libero 
professionista 
di 
fiducia, 
può 
essere 
anticipata, 
a 
richiesta 
dell’interessato, compatibilmente 
con le 
disponibilità di 
bilancio dell’amministrazione 
di 
appartenenza, una somma che, anche 
in modo frazionato, non 
può 
superare 
complessivamente 
l’importo 
di 
euro 
5.000,00 
per 
le 
spese 
legali, 
salvo 
rivalsa 
se 
al 
termine 
del 
procedimento 
viene 
accertata 
la 
responsabilità 
del dipendente a titolo di dolo. 


3. 
l’importo 
di 
cui 
al 
comma 
2 
può 
essere 
anticipato, 
anche 
al 
personale 
convenuto in giudizi 
per 
responsabilità civile 
ed amministrativa previsti 
dalle 
disposizioni 
di 
cui 
al 
comma 1, salvo rivalsa ai 
sensi 
delle 
medesime 
norme... 
5. la richiesta di 
rimborso, fermi 
restando i 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall’avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
18 
del 
decreto-legge 
25 
marzo 1997, n. 67, convertito con legge 
23 maggio 1997, n. 135, ha efficacia 
fino alla decisione dell’amministrazione 
”. 
La 
Scrivente, in quella 
occasione 
così 
opinava: 
“la norma in esame 
non 
esplicita 
la 
procedura 
da 
seguire 
nella 
fase 
istruttoria: 
si 
ritiene, 
tuttavia, 
certamente 
possibile 
e 
molto opportuno applicare 
le 
regole 
procedurali 
ordinariamente 
seguite nei casi di cui all’art. 18 del d.l. 67/97 
”. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Richiamato il 
precedente, a 
cui 
con la 
presente 
nota 
si 
intende 
dare 
continuità 
e 
sviluppo 
argomentativo, 
venendo 
all’odierno 
quesito, 
riferito 
nello 
specifico all’art. 32 della c.d. “legge Reale”, si rileva quanto segue. 


Va 
innanzitutto condivisa 
l’analisi, puntualmente 
svolta 
da 
codesta 
Amministrazione, 
in 
merito 
all’eadem 
ratio 
dell’art. 
32 
della 
L. 
152/75 
(c.d. 
“legge 
Reale”) 
e 
dell’art. 
18 
del 
D.L. 
67/97 
(ratio 
che 
appare 
rinvenibile 
anche 
nel 
testé 
rammentato art. 29 del 
Decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
15 
aprile 
2018, 
n. 
39): 
pur 
nel 
rapporto 
di 
specialità 
della 
prima 
norma 
citata 
(art. 


32) rispetto alla 
successiva 
(art. 18), indubbiamente 
entrambe 
le 
disposizioni 
attuano, con riferimento al 
rimborso delle 
spese 
legali 
sopportate 
da 
pubblici 
dipendenti 
in 
relazione 
a 
giudizi 
connessi 
con 
l’espletamento 
del 
servizio, 
principi 
generali 
dell’ordinamento identificabili 
(come 
ripetutamente 
ritenuto 
dalla 
giurisprudenza 
sia 
civile 
che 
amministrativa) in quelli 
recati 
dal 
codice 
civile 
negli 
artt. 1703 e 
ss. (contratto di 
mandato), 2028 e 
ss. (negotiorum 
gestio), 
2041-2042 (arricchimento ingiustificato). 
Le 
due 
disposizioni, 
dunque, 
ponendosi 
nel 
solco 
di 
un 
quadro 
normativo 
già 
consolidato, 
si 
presentano 
quali 
disposizioni 
sostanzialmente 
ricognitive 
del 
principio 
generale 
(riconducibile 
in 
via 
generale 
al 
divieto 
di 
locupletatio 
cum 
aliena 
iactura), 
secondo 
il 
quale 
chi 
agisce 
“diligentemente” 
nel 
perseguimento 
di 
interessi 
altrui 
-e 
in 
particolare 
dei 
fini 
pubblici 
-non 
deve 
sopportare 
le 
conseguenze 
svantaggiose 
o 
dannose 
che 
derivano 
a 
causa 
dell’attività 
svolta 
(cfr. 
ex 
multis: 
Cons. 
Stato, 
sez. 
IV, 
11 
aprile 
2007, 
n. 
1681, 
con 
ampi 
richiami 
giurisprudenziali; 
nonché 
pure 
CGA, 
sez. 
Consultiva, 
parere 
del 
4 
aprile 
2006, 
n. 
358/2006, 
che 
richiama 
i 
pareri 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
n. 
1215/98 
e 
n. 
3218/2003; 
cfr. 
pure 
Cons. 
Stato, 
14 
aprile 
2000, 
n. 
2242; 
Cons. 
Stato, 
sent. 
8079/2019). 


Finalità 
di 
entrambe 
le 
disposizioni 
appare 
peraltro, con ogni 
evidenza, 
anche 
quella 
di 
consentire 
al 
pubblico dipendente 
di 
svolgere 
le 
proprie 
funzioni 
senza 
il 
timore 
di 
dover sottostare 
a 
gravose 
conseguenze 
economiche 
e 
dunque 
di 
tenere 
indenni 
dalle 
spese 
legali 
i 
dipendenti 
pubblici 
che 
hanno tenuto 
un comportamento rispettoso degli 
obblighi 
su di 
essi 
gravanti 
in relazione 
alla 
prestazione 
del 
servizio 
(come 
peraltro 
chiarito 
dalla 
stessa 
relazione 
illustrativa 
al 
d.l. 67/97): 
in tal 
senso le 
due 
norme 
sembrano alla 
Scrivente 
riconducibili 
anche, 
in 
via 
generale, 
al 
principio 
di 
buon 
andamento 
dell’azione 
amministrativa di cui all’art. 97 Cost. 


A 
ciò 
si 
aggiungano 
i 
corretti 
richiami 
di 
codesta 
Amministrazione 
al 
D.L. 
45/05 (art. 3 bis) e al d.P.R. 39/18 (artt. 12 e 29). 


Tanto rilevato in via 
generale, va 
anche 
pienamente 
condivisa 
l’analisi, 
svolta 
nel 
quesito, che 
valorizza 
i 
principi 
esposti 
nella 
sentenza 
delle 
SS.UU. 
della 
Suprema 
Corte 
n. 13681/15, ed in particolare 
l’esigenza 
di 
“bilanciare 
il 
diritto di 
difesa del 
dipendente 
della P.a. con il 
ragionevole 
contenimento 
della spesa pubblica per avvocati difensori privati 
”. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


nella 
rammentata 
sentenza 
le 
SS.UU. sottolineano infatti 
come 
si 
debba 
tenere 
“conto 
delle 
esigenze 
di 
finanza 
pubblica, 
che 
impongono 
di 
non 
far 
carico all’erario di 
oneri 
eccedenti 
quanto è 
necessario e 
al 
contempo sufficiente, 
per 
soddisfare 
gli 
interessi 
generali 
e 
i 
doveri 
giuridici 
che 
presidiano 
l’istituto 
del 
rimborso 
spese 
” 
rispettando 
il 
“concetto 
di 
contemperamento 
dell’esigenza 
di 
salvaguardia 
della 
prudenza 
nell’erogazione 
della 
spesa 
pubblica 
e 
di 
protezione 
del 
dipendente 
infondatamente 
accusato, che 
è 
però ben 
spiegata dai 
riferimenti, che 
si 
rinvengono già nella pronuncia suddetta e 
nei 
precedenti 
giurisprudenziali 
noti, ai 
principi 
di 
affidamento, ragionevolezza 
e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla costituzione”. 


Siffatto 
bilanciamento 
di 
contrapposti 
interessi 
deve 
(nel 
caso 
dell’art. 
18 
citato) o può (nel 
caso dell’art. 32 citato, salvo quanto più oltre 
si 
dirà 
circa 
l’ipotizzabile 
doverosità 
della 
consultazione 
con 
la 
Difesa 
Erariale) 
essere 
garantito 
dall’espressione 
di 
un parere 
dell’Avvocatura 
dello Stato, parere 
connotato 
da discrezionalità tecnica. 


Alla 
luce 
dei 
principi 
esposti 
si 
potrà 
fornire 
risposta 
al 
quesito 
posto 
nella 
nota che si riscontra. 


Come 
si 
è 
testé 
sottolineato il 
parere 
dell’Avvocatura 
dello Stato in tema 
di 
congruità 
del 
rimborso concedibile 
deve 
necessariamente 
essere 
acquisito, 
per espressa 
previsione 
di 
legge, laddove 
il 
rimborso (o l’anticipazione) delle 
spese 
legali 
sia 
richiesto ex art. 18 del 
d.l. 67/97: 
nel 
caso in cui 
il 
rimborso o 
l’anticipazione 
sia 
invece 
richiesto ex art. 32 l. 152/75 non è 
espressamente 
previsto, 
nella 
citata 
norma, 
un 
esplicito 
obbligo 
per 
l’Amministrazione 
di 
acquisizione 
del 
previo 
parere 
di 
congruità; 
va 
tuttavia 
osservato 
che 
il 
d.P.R. 
15 
marzo 
2018, 
n. 
39 
(recante 
“recepimento 
dell’accordo 
sindacale 
e 
del 
provvedimento di 
concertazione 
per 
il 
personale 
non dirigente 
delle 
Forze 
di 
polizia 
ad 
ordinamento 
civile 
e 
militare 
«Triennio 
normativo 
ed 
economico 
2016-2018»), all’art. 12, nel 
fare 
riferimento al 
beneficio di 
cui 
all’art. 32 citato, 
specifica 
che 
“la 
richiesta 
di 
rimborso 
fermi 
restando 
i 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall’avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
18 
del 
decreto-legge 
25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 
23 maggio 1997, n. 135, ha efficacia 
fino alla decisione 
dell’amministrazione” 
(enfasi 
aggiunta); 
il 
successivo 
art. 29 presenta 
analoga 
previsione 
con richiamo ai 
“limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall’avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
18 
del 
decreto-legge 
25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 23 maggio 1997, n. 135”. 


A 
ciò si 
aggiunga 
quanto previsto dal 
D.L. 31 marzo 2005, n. 45 (“disposizioni 
urgenti 
per 
la funzionalità dell’amministrazione 
della pubblica sicurezza, 
delle 
Forze 
di 
polizia e 
del 
corpo nazionale 
dei 
vigili 
del 
fuoco”), 
ove, 
all’art. 
3-bis 
(“adeguamento 
delle 
disposizioni 
in 
materia 
di 
tutela 
legale”) 
si 
legge 
che 
“1. Per 
le 
anticipazioni 
dovute 
al 
personale 
destinatario 
delle 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 32 della legge 
22 maggio 1975, n. 152, e 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


all’articolo 18 del 
decreto-legge 
25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, 
dalla legge 
23 maggio 1997, n. 135, per 
le 
quali 
il 
parere 
dell’avvocatura 
dello Stato non sia pervenuto all’amministrazione 
competente 
entro 
il 
termine 
di 
quarantacinque 
giorni, la stessa amministrazione... può procedere, 
nel 
limite 
del 
30 
per 
cento 
della 
richiesta 
di 
anticipazione...”, 
previsione 
che 
dunque 
presuppone 
la 
richiesta 
del 
parere 
di 
congruità 
all’Avvocatura 
dello 
Stato sia 
nel 
caso in cui 
l’anticipazione 
sia 
richiesta 
ai 
sensi 
dell’art. 32 l. n. 
152/1975 sia 
nell’ipotesi 
in cui 
l’anticipo sia 
domandato a 
mente 
dell’art. 18 
d.l. n. 67/1997. 


Dunque, a 
legislazione 
vigente 
appare 
ragionevole 
ritenere 
che 
la 
previsione 
di 
cui 
all’art. 32 in esame 
sia 
integrata, sul 
piano sistematico e 
con riferimento 
al 
parere 
di 
congruità 
dell’Avvocatura 
dello Stato, dai 
predetti 
d.P.R. 


n. 39/2018 e 
d.l. n. 45/2005; 
in ogni 
caso, anche 
a 
voler diversamente 
opinare 
circa 
la 
doverosità 
dell’acquisizione 
del 
parere, le 
citate 
disposizioni 
evidenziano 
come 
sia 
comunque 
altamente 
opportuno provvedere 
alla 
acquisizione 
dello stesso. 
Si 
tratta, peraltro, di 
strumento finalizzato alla 
segnalata 
esigenza 
di 
un 
corretto bilanciamento tra 
il 
diritto di 
difesa 
del 
dipendente 
e 
il 
contenimento 
della 
spesa 
pubblica; 
esigenza 
che 
può, ovviamente, essere 
soddisfatta 
attraverso 
la 
consultazione 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
che, 
nell’esercizio 
della 
funzione 
consultiva 
in 
favore 
delle 
Amministrazioni 
patrocinate 
di 
cui 
al 
R.D. 
1611/1933 (cfr. in particolare, gli 
artt. 13 e 
47), potrà 
esprimere 
le 
proprie 
valutazioni. 


Va 
peraltro 
al 
riguardo 
sottolineato 
che 
neanche 
l’art. 
18 
del 
d.l. 
67/97 
prevede 
l’acquisizione 
necessaria 
del 
parere 
dell’Avvocatura 
dello Stato sulla 
effettiva 
debenza 
del 
rimborso 
(an); 
è 
previsto 
solo 
il 
parere 
obbligatorio 
e 
vincolante 
sull’entità 
(quantum) del 
rimborso (erogabile 
solo “nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall’avvocatura dello Stato”). Tuttavia, nell’esercizio della 
generale 
funzione 
consultiva 
prevista 
dalla 
legge, 
l’Avvocatura 
rende 
sempre, 
ove 
interpellata 
ex 
art. 
18 
citato, 
anche 
le 
proprie 
valutazioni 
sull’an 
debeatur 
e 
la 
costante 
giurisprudenza 
conferma 
la 
piena 
legittimità 
di 
questa 
prassi. La 
stessa 
disposizione, poi, prevede 
che 
l’Avvocatura 
sia 
sentita 
anche 
in caso di 
anticipazione 
del 
rimborso delle 
spese: 
in questo caso la 
norma 
non specifica 
se 
il 
parere 
riguardi 
sia 
l’an 
che 
il 
quantum 
o solo quest’ultimo; 
resta 
il 
fatto 
che 
la 
prassi 
seguita 
dalle 
Amministrazioni 
e 
dall’Avvocatura 
è 
orientata 
al-
l’espressione 
di 
pareri 
su 
entrambi 
i 
profili; 
peraltro, 
si 
tratta 
di 
un’applicazione 
della 
norma 
certamente 
più cautelativa 
per l’Amministrazione, e 
dunque 
sicuramente 
preferibile. 


Si 
conferma, 
pertanto, 
la 
linea 
valutativa 
già 
espressa 
dalla 
Scrivente 
con 
la 
citata 
consultazione 
del 
18 maggio 2021, CT 
26963/20; 
si 
ritiene 
dunque 
quanto 
meno 
molto 
opportuno 
-se 
non 
addirittura 
doveroso, 
alla 
luce 
di 
quanto 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


prima 
segnalato -applicare, anche 
nei 
procedimenti 
per richieste 
di 
anticipazione 
o rimborso ex art. 32 1. 152/1975, le 
regole 
procedurali 
ordinariamente 
seguite nei casi di cui all’art. 18 del D.L. 67/1997. 


Eventuali 
diverse 
valutazioni 
non 
risultano 
condivisibili, 
giacché 
la 
facoltà 
delle 
Amministrazioni 
patrocinate 
di 
ricorrere 
alla 
consulenza 
dell’Avvocatura 
dello Stato non appare 
in alcun modo compressa 
o limitata 
dal 
citato 
art. 
32; 
è 
pertanto 
corretta, 
e 
da 
praticare 
per 
il 
futuro, 
la 
prassi 
di 
chiedere 
alla 
competente 
Avvocatura 
dello Stato la 
valutazione 
circa 
la 
congruità 
delle 
somme 
richieste 
(a 
titolo di 
anticipazione 
o di 
rimborso) anche 
nell’ipotesi 
di 
cui all’art. 32 1. 152/75. 


Sarà 
cura 
di 
questo 
G.U. 
informare 
le 
Avvocature 
distrettuali 
al 
fine 
di 
garantire 
una 
prassi 
unitaria 
nella 
trattazione 
delle 
relative 
richieste 
di 
parere. 


Sul 
presente 
parere 
si 
è 
espresso in senso conforme 
il 
Comitato Consultivo 
dell’Avvocatura dello Stato nella seduta del giorno 27 febbraio 2024. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


dipinti murali. modalità di applicazione della tutela prevista 
dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, d.Lgs. 42/2004 


Parere 
del 
10/04/2024-245505/06/07/08, 
al 42771/2023, Sez. iV, aVV. Bruno 
deTTori 


Come 
noto 
a 
codeste 
Amministrazioni, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
milano 
ha 
chiesto 
a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
un 
parere 
di 
massima 
(all. 
1) 
in 
ordine 
alle 
modalità 
di 
applicazione 
della 
tutela 
prevista 
dagli 
artt. 11, comma 
1, lett. 


a) 
e 
50, 
comma 
1, 
D.Lgs. 
42/2004, 
in 
particolare 
domandando 
se 
le 
fattispecie 
ivi 
individuate 
richiedano, o meno, l’accertamento dell’interesse 
culturale, e 
se 
lo stesso sia 
determinato, o meno, dalla 
mera 
appartenenza 
oggettiva 
dei 
beni 
alla 
tipologia 
descritta 
dal 
legislatore. Con la 
conseguenza, in caso di 
risposta 
affermativa, 
dell’automatico 
assoggettamento 
alla 
tutela 
ivi 
prevista, 
senza necessità di avviare alcun procedimento amministrativo. 
La 
fattispecie 
concreta 
concerne, come 
altrettanto noto, i 
murales 
realizzati 
presso i 
locali 
occupati 
dal 
Centro Sociale 
Leoncavallo a 
milano, in riferimento 
ai 
quali 
la 
Soprintendenza 
di 
milano 
ha 
ricordato 
-con 
nota 
prot. 
0006005 del 
9 maggio 2023 (all. 2), impugnata 
davanti 
al 
T.a.r. di 
milano dai 
proprietari 
dell’immobile 
occupato -che 
“i 
dipinti 
murali 
risultano sottoposti 
a 
tutela 
ope 
legis, 
ai 
sensi 
del 
combinato 
disposto 
degli 
artt. 
11 
e 
50 
del 
d.lgs. 
42/2004 
codice 
dei 
Beni 
culturali 
e 
del 
Paesaggio: 
essi 
non 
solo 
non 
possono 
essere 
deturpati 
o danneggiati, ma non possono essere 
staccati, e 
per 
estensione 
distrutti, senza l’autorizzazione della Soprintendenza”. 


All’atto della 
redazione 
delle 
difese 
davanti 
al 
T.a.r., l’Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
milano 
ha 
manifestato 
le 
proprie 
perplessità 
(all. 
3) 
in 
ordine 
a 
quanto 
sostenuto 
dalla 
Soprintendenza 
nella 
citata 
nota, 
ritenendo 
che 
nelle 
fattispecie 
individuate 
dall’art. 
11 
sia 
richiesto 
l’accertamento 
dell’interesse 
culturale. 
Ipotizza 
l’Avvocatura 
di 
milano che 
tali 
categorie 
di 
beni 
costituiscano una 
specie 
nell’ambito del 
più ampio genere 
delineato dall’art. 10; 
la 
peculiarità 
che 
le 
connota 
non risiederebbe 
nell’automatismo della 
tutela, bensì 
nella 
limitazione 
della 
tutela 
alle 
prescrizioni 
dettate 
dalle 
disposizioni 
cui 
ciascuna 
fattispecie 
rinvia 
e 
-per quanto concerne 
in particolare 
l’art. 11 co. 1, lett. a) 
che 
qui 
interessa 
-a 
quelle 
dell’art. 50 comma 
1. Con la 
conseguenza 
che, nel 
caso sottoposto al 
giudizio del 
T.a.r. milano, la 
dichiarazione 
dell’assoggettamento 
dei 
murales 
alla 
tutela 
prevista 
dall’art. 
50 
comma 
1 
cit. 
presupporrebbe 
l’accertamento 
dell’effettiva 
appartenenza 
di 
essi 
alla 
categoria 
individuata 
dall’art. 11 comma 
1 lett. a) e 
la 
verifica 
dell’interesse 
culturale 
nelle 
forme 
prescritte 
dall’art. 12, cui 
dev’essere 
assicurata 
la 
partecipazione 
dei 
soggetti 
interessati. 


*** 
Da 
qui 
la 
richiesta 
di 
un 
parere 
di 
massima 
a 
questa 
Avvocatura 
Generale, 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


ai 
fini 
della 
cui 
redazione 
hanno successivamente 
fatto conoscere 
il 
proprio 
avviso la DG 
ABAP e la Soprintendenza di milano. 


La 
DG 
ABAP 
(all. 4) ritiene 
che 
le 
tipologie 
di 
beni 
individuate 
dell’art. 
11 sarebbero sottoposte 
a 
disposizioni 
di 
tutela 
speciali, applicabili 
ope 
legis, 
che 
costituirebbero un regime 
di 
tutela 
specifico e 
limitato rispetto al 
regime 
ordinario discendente 
dal 
provvedimento amministrativo di 
vincolo. Con riferimento 
agli 
affreschi, o graffiti, e 
in genere 
agli 
“altri 
elementi 
decorativi 
di 
edificio” 
di 
cui 
all’articolo 11, comma 
1, lettera 
a) del 
Codice, il 
divieto di 
distacco o rimozione 
senza 
la 
previa 
autorizzazione 
ministeriale 
di 
cui 
all’art. 
50, comma 
1, si 
applicherebbe 
“ope 
legis” 
anche 
nel 
caso in cui 
tali 
elementi 
non 
siano 
stati 
sottoposti 
alla 
dichiarazione 
di 
interesse 
culturale 
di 
cui 
all’art. 


13. In considerazione 
della 
loro specialità, le 
disposizioni 
in parola 
non potrebbero 
essere 
interpretate 
estensivamente, 
sicché 
non 
vi 
rientrerebbe 
qualunque 
orpello realizzato su un edificio, avendo il 
legislatore 
voluto tutelare 
con 
la 
lettera 
a) -“cose” 
(gli 
affreschi, gli 
stemmi, i 
graffiti, le 
lapidi, le 
iscrizioni, 
i 
tabernacoli 
ed altri 
elementi 
decorativi 
di 
edifici 
...) che, pur non oggetto 
di 
uno 
specifico 
provvedimento 
di 
tutela, 
rivestano 
un 
interesse 
“storico” 
e 
possiedano perciò il 
requisito di 
vetustà 
-risalenza 
ad oltre 
settanta 
anni 
richiesto 
in via ordinaria per la sottoposizione a tutela dei beni culturali. 
La 
Soprintendenza 
di 
milano 
(all. 5) sottolinea, in base 
a 
un’interpretazione 
letterale 
e 
sistematica, che 
l’art. 11, nell’elencare 
le 
diverse 
“tipologie 
di 
cose” 
oggetto 
di 
specifiche 
disposizioni 
di 
tutela, 
prevede 
espressamente 
per ciascuna, ove 
ritenuto necessario, diverse 
e 
ulteriori 
specificazioni, tra 
cui 
quella 
della 
vetustà 
dell’opera 
(v. 
lett. 
d), 
f) 
e 
h) 
dell’art. 
11); 
pertanto, 
poiché, 
al 
contrario, 
alla 
lett. 
a), 
nulla 
è 
specificato 
dal 
legislatore, 
ipotizza 
che 
sarebbe 
in primis 
il 
tenore 
letterale 
del 
combinato disposto ex art. 11, comma 
1, lett. 


a) 
e 
50, 
comma 
1 
ad 
imporre 
la 
tutela 
ope 
legis, 
senza 
la 
necessità 
che 
la 
“cosa” 
abbia una particolare vetustà. 
*** 
Così 
riassunti 
i 
termini 
della 
questione, sembra 
in primo luogo a 
questa 
Avvocatura 
che 
debba 
darsi 
prevalenza 
alla 
tesi 
dell’operatività 
ope 
legis 
della 
tutela speciale apprestata dall’art. 11, comma 1, lett. a), D.Lgs. 42/2004. 


E 
tanto, in primo luogo, si 
desume 
dall’aggiunta 
nella 
norma 
stessa, ad 
opera 
del 
D.Lgs. 62/2008, del 
comma 
1 
bis 
a 
mente 
del 
quale 
“Per 
le 
cose 
di 
cui 
al 
comma 1, resta ferma l’applicabilità delle 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
12 e 
13, qualora sussistano i 
presupposti 
e 
le 
condizioni 
stabiliti 
dall’articolo 
10 
”. 


Tale 
specificazione, 
non 
presente 
nell’originaria 
formulazione 
della 
norma, non può -a 
parere 
di 
questa 
Avvocatura 
-che 
essere 
letta 
come 
una 
conferma 
del 
fatto 
che 
le 
“cose” 
indicate 
al 
comma 
1 
(e, 
per 
quel 
che 
in 
questa 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


sede 
interessa, gli 
affreschi, gli 
stemmi, i 
graffiti, le 
lapidi, le 
iscrizioni, i 
tabernacoli 
ed 
altri 
elementi 
decorativi 
di 
edifici 
...) 
sono 
soggette 
alla 
tutela 
puntualmente 
individuata 
(che 
nel 
caso specifico è 
quella 
apprestata 
dall’art. 
50, comma 
1, del 
codice), che 
opera 
ope 
legis, in considerazione 
della 
mera 
appartenenza delle cose alla tipologia indicata dalla norma. 


In tale 
contesto, l’aggiunta 
del 
comma 
1 bis 
non può quindi 
che 
leggersi 
con la 
voluntas 
legis 
di 
specificare 
che 
tale 
tutela 
-normativamente 
stabilita 
e 
per 
così 
dire 
“minima” 
-si 
possa 
ampliare, 
in 
caso 
di 
successiva 
dichiarazione 
di 
interesse 
culturale, con l’applicazione 
di 
tutte 
le 
misure 
protettive 
proprie 
dei beni culturali soggetti a vincolo. 


L’inequivocabile 
volontà 
del 
legislatore 
trova 
riscontro nella 
scelta 
di 
disporre, 
con 
il 
citato 
D.Lgs. 
62/2008, 
che 
la 
tutela 
speciale 
abbia 
ad 
oggetto 
“cose” 
e 
non “beni” 
culturali, come 
si 
evince 
dalla 
modifica 
apportata 
alla 
rubrica 
e 
al 
frammento prescrittivo del 
comma 
1 dell’art. 11, che 
recita: 
“Sono 
assoggettate 
alle 
disposizioni 
espressamente 
richiamate 
le 
seguenti 
tipologie 
di 
cose”, 
in 
luogo 
del 
previgente: 
“Fatta 
salva 
l’applicazione 
dell’articolo 
10, 
qualora ne 
ricorrano presupposti 
e 
condizioni, sono beni 
culturali, in quanto 
oggetto di specifiche disposizioni del presente Titolo: 
”. 


La 
tutela 
rispetto a 
condotte 
non autorizzate 
di 
distacco -a 
prescindere 
da 
uno specifico provvedimento di 
vincolo -delle 
“cose” 
indicate 
dal 
comma 
1, 
lett. 
a), 
dell’art. 
11 
D.Lgs. 
42/2004 
trova 
del 
resto 
conferma 
letterale 
in 
un’altra 
previsione 
del 
codice 
dei 
beni 
culturali, ovverossia 
nell’art. 169 lett. 


b) a 
mente 
del 
quale 
è 
sanzionato penalmente 
“chiunque, senza l’autorizzazione 
del 
soprintendente, 
procede 
al 
distacco 
di 
affreschi, 
stemmi, 
graffiti, 
iscrizioni, 
tabernacoli 
ed 
altri 
ornamenti 
di 
edifici, 
esposti 
o 
non 
alla 
pubblica 
vista, anche se non ci sia stata la dichiarazione prevista dall’articolo 13 
”. 
né 
pare 
che 
siffatta 
interpretazione 
della 
norma 
possa 
porsi 
in contrasto 
con i 
principi 
espressi 
dalla 
L. 241/1990 e 
con la 
conseguente 
necessità 
che 
sia 
assicurata 
la 
partecipazione 
dei 
soggetti 
interessati 
e/o controinteressati 
al 
distacco. La 
tutela 
assicurata 
dall’art. 50, comma 
1, D.Lgs. 42/2004 si 
sostanzia 
infatti 
in un provvisorio divieto di 
distacco, cui 
accede 
un procedimento 
amministrativo finalizato all’emissione, o al 
definitivo diniego, dell’autorizzazione 
al 
distacco 
stesso. 
Ed 
è 
in 
questa 
fase 
che 
trovano 
garanzia 
i 
diritti 
partecipativi di cui alla legge 241/90. 


Ad 
avviso 
della 
Scrivente, 
inoltre, 
la 
tutela 
speciale 
(ossia 
il 
divieto 
di 
distacco 
in 
assenza 
di 
autorizzazione) 
opera 
anche 
per 
i 
“murales”, 
siccome 
sussumibili 
nella 
categoria 
degli 
affreschi 
e 
comunque 
nell’ampia 
previsione 
“ed 
altri 
elementi 
decorativi 
di 
edifici 
esposti 
o 
non 
alla 
pubblica 
vista,” 
di 
cui 
alla lettera a) dell’art. 11. 


La 
stessa 
lettera 
a) dell’art. 11, poi, nulla 
prevede 
in ordine 
al 
requisito 
della 
vetustà, che 
la 
norma 
riferisce 
invece 
-alla 
lettera 
d) -“alle 
opere 
di 
pittura, 
di scultura, di grafica e qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente”. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


Di 
tal 
che, 
pur 
condividendo 
l’opportunità 
di 
un’interpretazione 
restrittiva 
della 
norma 
auspicata 
dalla 
DG 
ABAP, non pare 
convincente 
il 
riferimento dalla 
stessa 
DG 
ABAP 
ipotizzato 
-a 
una 
datazione 
risalente 
ad 
almeno 
settanta 
anni. Tale 
datazione 
appare 
infatti 
non coerente 
con la 
lettera 
della 
norma, in 
cui 
il 
legislatore 
ha 
inserito espressamente 
il 
limite 
di 
settanta 
anni 
per le 
sole 
cose 
di 
cui 
alla 
lettera 
d) dell’art. 11, e 
ha 
previsto altri 
limiti 
temporali 
per le 
cose 
di 
cui 
alle 
lettere 
f) (venticinque 
anni) e 
h) (cinquanta 
anni), mentre 
ha 
omesso ogni riferimento temporale a quelle di cui alla lettera a). 


*** 


Alla 
luce 
di 
tali 
considerazioni, la 
nota 
della 
Soprintendenza 
di 
milano 
impugnata 
innanzi 
al 
locale 
T.a.r. -limitandosi 
a 
rendere 
edotti 
i 
destinatari 
di 
quanto 
previsto 
dagli 
artt. 
11, 
comma 
1, 
lett. 
a) 
e 
50, 
comma 
1, 
D.Lgs. 
42/2004 


- appare carente di contenuto provvedimentale e quindi di portata precettiva. 
Sulla 
questione 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
consultivo 
dell’Avvocatura 
dello Stato che, nella seduta del 10 aprile 2024, si è espresso in conformità. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro 
dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni: 
riguardo all’applicazione del c.d. “tetto retributivo” 
(art. 23-ter, comma 2, d.L. 6 dicembre 2011, n. 201; 
art. 1, comma 471, L. 27 dicembre 2013, n. 147 e s.m.i.) 


Parere 
del 
26/07/2024-490345, 
al 18278/2024, Sez. i BiS, aVV. emanuele 
manzo 


Con 
la 
nota 
in 
epigrafe, 
codesta 
Amministrazione 
ha 
sottoposto 
alla 
Scrivente 
una 
richiesta 
di 
parere 
in merito all’applicabilità 
del 
limite 
retributivo 
di 
cui 
all’art. 23-ter, comma 
2, del 
D.L. 6 dicembre 
2011, n. 201 a 
chiunque 
riceva 
a 
carico delle 
finanze 
pubbliche 
emolumenti 
o retribuzioni 
nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro dipendente 
o autonomo con pubbliche 
amministrazioni 
statali 
o solo a 
coloro che, a 
qualsiasi 
titolo, siano chiamati 
a 
svolgere 
l’esercizio 
di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate. 


La 
questione 
si 
è 
posta, in particolare, nel 
contesto di 
una 
procedura 
di 
affidamento di 
incarichi 
di 
lavoro autonomo, ai 
sensi 
dell’art. 7 comma 
6 del 
D.lgs. 165/2001, per esperto nell’ambito di un Progetto PnRR. 


*** 
L’art. 23-ter, al 
comma 
1, prevede 
l’applicazione 
del 
c.d. “tetto retributivo” 
a 
«chiunque 
riceva a carico delle 
finanze 
pubbliche 
emolumenti 
o retribuzioni 
nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro 
dipendente 
o 
autonomo 
con 
pubbliche 
amministrazioni 
statali, 
di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165, 
e 
successive 
modificazioni, 
ivi 
incluso 
il 
personale 
in regime 
di 
diritto pubblico di 
cui 
all’articolo 3 del 
medesimo decreto 
legislativo» (art. 23-ter, comma 1). 
Il 
successivo comma 
2 dell’art. 23-ter 
stabilisce 
che 
«il 
personale 
di 
cui 
al 
comma 1 
che 
è 
chiamato, conservando il 
trattamento economico riconosciuto 
dall’amministrazione 
di 
appartenenza, all’esercizio di 
funzioni 
direttive, 
dirigenziali 
o 
equiparate, 
anche 
in 
posizione 
di 
fuori 
ruolo 
o 
di 
aspettativa, 
presso 
ministeri 
o 
enti 
pubblici 
nazionali, 
comprese 
le 
autorità 
amministrative 
indipendenti, non può ricevere, a titolo di 
retribuzione 
o di 
indennità 
per 
l’incarico ricoperto, o anche 
soltanto per 
il 
rimborso delle 
spese, 
più del 
25 per 
cento dell’ammontare 
complessivo del 
trattamento economico 
percepito». 
Pertanto, da 
una 
lettura 
congiunta 
dei 
due 
commi 
si 
desume 
che 
il 
limite 
retributivo del 
25% di 
cui 
al 
comma 
2 dell’art. 23-ter, applicandosi 
al 
“personale 
di 
cui 
al 
comma 
1”, 
ha 
da 
sempre 
trovato 
sicura 
applicazione 
a 
“chiunque 
riceva a carico delle 
finanze 
pubbliche 
emolumenti 
o retribuzioni 
nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro 
dipendente 
o 
autonomo 
con 
pubbliche 
amministrazioni”, 
essendo perciò irrilevante 
la 
natura 
del 
rapporto di 
lavoro (se 
subordinato o 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


autonomo), purché 
tale 
personale 
sia 
chiamato a 
svolgere 
“funzioni 
direttive, 
dirigenziali o equiparate”. 


Il 
comma 
471 della 
legge 
n. 147/2013 ha 
poi 
stabilito che 
«a decorrere 
dal 
1° 
gennaio 
2014 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 
23-ter 
del 
decreto 
legge 
6 dicembre 
2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 
22 dicembre 
2011, 
n. 
214, 
in 
materia 
di 
trattamenti 
economici, 
si 
applicano 
a 
chiunque 
riceva 
a 
carico 
delle 
finanze 
pubbliche 
retribuzioni 
o 
emolumenti 
comunque 
denominati 
in 
ragione 
di 
rapporti 
di 
lavoro subordinato o autonomo 
intercorrenti 
con 
le 
autorità 
amministrative 
indipendenti, 
con 
gli 
enti 
pubblici 
economici 
e 
con le 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
all’articolo 1, comma 2, 
del 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e 
successive 
modificazioni, ivi 
incluso il 
personale 
di 
diritto pubblico di 
cui 
all’articolo 3 del 
medesimo decreto 
legislativo». 


Tale 
norma 
ha 
certamente 
esteso la 
portata 
soggettiva 
della 
limitazione 
retributiva 
sotto il 
profilo delle 
amministrazioni 
interessate: 
mentre 
l’art. 23ter, 
comma 
2, cit. contemplava 
solo le 
«pubbliche 
amministrazioni 
statali» e 
il 
personale 
in regime 
di 
diritto pubblico, il 
comma 
471 contempla 
ora 
anche 
i 
rapporti 
instaurati 
«con gli 
enti 
pubblici 
economici 
e 
con le 
pubbliche 
amministrazioni
» di 
cui 
al 
d.lgs. n. 165/2001, senza 
più alcuna 
limitazione 
alle 
sole 
amministrazioni 
statali. 
La 
norma 
non 
ha 
invece 
esteso 
la 
tipologia 
di 
rapporti 
coinvolti 
(di 
lavoro autonomo o subordinato), in quanto il 
limite 
retributivo 
in esame, come 
detto, ha 
da 
sempre 
trovato applicazione 
a 
“chiunque 
riceva 
a 
carico 
delle 
finanze 
pubbliche 
emolumenti 
o 
retribuzioni 
nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro dipendente 
o autonomo 
con pubbliche 
amministrazioni” 
(ovvero 
al personale di cui al comma 1 dell’art. 23-ter 
cit.). 


In tale 
contesto, il 
quesito si 
riduce 
allora 
nello stabilire 
se 
la 
locuzione 
“chiunque 
riceva 
a 
carico 
delle 
finanze 
pubbliche 
retribuzioni 
o 
emolumenti 
comunque 
denominati 
in 
ragione 
di 
rapporti 
di 
lavoro subordinato o autonomo” 
(comma 
471) possa 
aver tacitamente 
abrogato la 
speciale 
condizione 
posta 
dal 
comma 
2 
dell’art. 
23-ter, 
inerente 
“all’esercizio 
di 
funzioni 
direttive, 
dirigenziali o equiparate 
”. 


Un simile 
esito interpretativo, ad avviso della 
Scrivente, non pare 
consentito, 
e ciò per almeno un duplice ordine di considerazioni. 


In 
primo 
luogo, 
non 
pare 
sostenibile 
che 
il 
comma 
471 
della 
legge 
n. 
147/2013 
abbia 
tacitamente 
abrogato 
l’altra 
condizione 
posta 
dal 
comma 
2 
dell’art. 
23-ter, 
atteso 
che 
quest’ultima 
norma 
continua 
ad 
essere 
espressamente 
richiamata 
dal 
citato 
comma 
471, 
ivi 
prevedendosi 
che: 
«le 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 23-ter 
del 
decreto-legge 
6 dicembre 
2011, n. 201, convertito, 
con modificazioni, dalla legge 
22 dicembre 
2011, n. 214, in materia di 
trattamenti 
economici 
si 
applicano 
a 
chiunque...». 
La 
tecnica 
normativa 
adottata 
dal 
legislatore, di 
mero rinvio alle 
“disposizioni” 
di 
altro articolo, di 
cui 
evidentemente 
si 
presuppone 
la 
piena 
persistente 
applicabilità, induce 
a 
rite



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


nere 
che 
nella 
specie 
non sia 
ravvisabile 
un fenomeno di 
abrogazione 
tacita 
della 
condizione 
inerente 
“all’esercizio 
di 
funzioni 
direttive, 
dirigenziali 
o 
equiparate”. 


In secondo luogo, non pare 
che 
il 
riferimento onnicomprensivo alla 
generalità 
dei 
rapporti 
di 
lavoro autonomo o subordinato, concernente 
perciò il 
titolo 
costitutivo del 
rapporto, possa 
di 
per sé 
incidere, determinandone 
una 
abrogazione 
tacita 
(per 
asserita 
incompatibilità), 
su 
una 
disposizione 
che 
si 
occupa 
invece 
del 
diverso aspetto delle 
funzioni 
esercitate. Detto altrimenti, 
posto che 
le 
funzioni 
direttive, dirigenziali 
o equiparate 
potrebbero essere 
indifferentemente 
conferite 
con 
contratto 
di 
lavoro 
subordinato 
o 
autonomo 
e 
che 
l’art. 23-ter 
si 
applica 
-da 
sempre 
-a 
prescindere 
dalla 
tipologia 
di 
rapporto 
di 
lavoro, 
non 
pare 
sostenibile 
che 
la 
locuzione 
“nell’ambito 
di 
rapporti 
di 
lavoro 
dipendente 
o 
autonomo” 
possa 
aver 
abrogato 
la 
speciale 
condizione 
inerente alle funzioni concretamente esercitate. 


*** 


Ciò posto, dall’esame 
dell’avviso pubblico e 
della 
bozza 
di 
contratto trasmessa, 
non risulta 
che 
l’incarico da 
conferire 
implichi 
l’esercizio di 
funzioni 
direttive, dirigenziali 
o equiparate, avendo infatti 
ad oggetto l’attività 
di 
progettazione 
e 
monitoraggio 
“senza 
vincolo 
di 
subordinazione, 
in 
piena 
autonomia, 
anche 
in relazione 
ai 
tempi 
ed ai 
luoghi 
di 
lavoro, con l’utilizzo di 
mezzi 
propri”. Al 
contempo, il 
compenso annuo previsto nell’avviso pubblico, pari 
ad 
€ 
50.000 
lordi, 
nemmeno 
risulta 
equiparabile 
a 
quello 
spettante 
al 
personale 
che svolge propriamente funzioni direttive o dirigenziali. 


ne 
consegue 
che 
non 
pare 
pertinente 
il 
riferimento 
alla 
risalente 
Circolare 


n. 8 del 
3 agosto 2012 della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri 
(anteriore 
all’entrata 
in 
vigore 
dello 
stesso 
comma 
471 
della 
legge 
n. 
147/2013), 
laddove 
chiarisce 
l’applicabilità 
dei 
menzionati 
limiti 
retributivi 
a 
coloro 
che 
svolgono 
“le 
funzioni 
per 
le 
quali 
i 
regolamenti 
di 
organizzazione 
o di 
diretta collaborazione 
delle 
amministrazioni 
interessate 
prevedono 
responsabilità 
di 
direzione, 
coordinamento 
e 
gestionali, 
nonché 
quelle 
ad 
esse 
equiparate 
dal 
punto 
di vista retributivo”. 
Tenuto conto della 
rilevanza 
di 
massima 
della 
questione 
il 
parere 
viene 
esteso anche al Dipartimento della funzione pubblica. 


La 
questione 
è 
stata 
sottoposta 
all’esame 
del 
Comitato 
Consultivo 
del-
l’Avvocatura 
dello Stato di 
cui 
all’art. 26 della 
legge 
3 aprile 
1979 n. 103, che 
si è espresso in senso conforme nella seduta del 25 luglio 2024. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


in 
merito 
ai 
presupposti 
giuridici 
delle 
azioni 
che 
Agenzia 
delle 
entrate-riscossione 
(AdeR) 
intende 
intraprendere 
nei 
confronti 
di 
quegli 
enti 
locali 
che 
negano 
il 
diritto 
ai 
rimborsi 
dei 
costi 
relativi 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
dipendenti 
AdeR 
per 
le 
cariche 
pubbliche 
ricoperte 
ex 
artt. 
79 
e 
80, 
d.lgs. 
n. 
267/2000 
e 
art. 
20, 
Legge 
regionale 
siciliana 
23 
dicembre 
2000, 
n. 
30 


Parere 
del 
26/07/2024-490357/58/59/60, 
al 9854/2024, Sez. i BiS, aVV. emanuele 
manzo 


I. I quesiti. 
Con la 
nota 
in epigrafe, codesta 
Agenzia 
ha 
sottoposto alla 
Scrivente 
la 
questione 
del 
diritto al 
rimborso dei 
costi 
relativi 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
propri 
dipendenti 
che 
abbiano assunto cariche 
pubbliche 
presso Enti 
locali 
ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
degli 
artt. 79 e 
80 D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.). In particolare, 
codesta 
Agenzia 
chiede 
di 
conoscere 
se 
sussistano i 
presupposti 
giuridici 
per 
agire, anche 
in via 
giudiziale, nei 
confronti 
degli 
Enti 
locali 
che 
negano il 
diritto 
di 
ADER al rimborso dei predetti costi. 


Inoltre, con riferimento agli 
Enti 
locali 
siciliani, si 
pone 
l’ulteriore 
questione 
dell’applicabilità 
dell’art. 
20 
Legge 
regionale 
siciliana 
23 
dicembre 
2000, n. 30, che 
reca 
una 
disciplina 
del 
diritto al 
rimborso parzialmente 
difforme 
da quella statale. 


II. Il quadro normativo di riferimento. 
In attuazione 
dell’art. 51, comma 
3, Cost., l’art. 77, comma 
1, T.U.E.L. 
dispone 
che: 
“la repubblica tutela il 
diritto di 
ogni 
cittadino chiamato a ricoprire 
cariche 
pubbliche 
nelle 
amministrazioni 
degli 
enti 
locali 
ad espletare 
il 
mandato, 
disponendo 
del 
tempo, 
dei 
servizi 
e 
delle 
risorse 
necessari 
ed 
usufruendo 
di 
indennità 
e 
di 
rimborsi 
spese 
nei 
modi 
e 
nei 
limiti 
previsti 
dalla 
legge”. 


Il successivo art. 79 TUEL prevede che: 


“1. 
1 
lavoratori 
dipendenti, 
pubblici 
e 
privati, 
componenti 
dei 
consigli 
comunali, provinciali, metropolitani, delle 
comunità montane 
e 
delle 
unioni 
di 
comuni, nonché 
dei 
consigli 
circoscrizionali 
dei 
comuni 
con popolazione 
superiore 
a 
500.000 
abitanti, 
hanno 
diritto 
di 
assentarsi 
dal 
servizio 
per 
il 
tempo strettamente 
necessario per 
la partecipazione 
a ciascuna seduta dei 
rispettivi 
consigli 
e 
per 
il 
raggiungimento 
del 
luogo 
di 
suo 
svolgimento. 
nel 
caso in cui 
i 
consigli 
si 
svolgano in orario serale, i 
predetti 
lavoratori 
hanno 
diritto di 
non riprendere 
il 
lavoro prima delle 
ore 
8 del 
giorno successivo; nel 
caso in cui 
i 
lavori 
dei 
consigli 
si 
protraggano oltre 
la mezzanotte, hanno diritto 
di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva. 


2. 
(...). 

PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


3. 
i 
lavoratori 
dipendenti 
facenti 
parte 
delle 
giunte 
comunali, 
provinciali, 
metropolitane, 
delle 
comunità 
montane, 
nonché 
degli 
organi 
esecutivi 
dei 
consigli 
circoscrizionali, dei 
municipi, delle 
unioni 
di 
comuni 
e 
dei 
consorzi 
fra 
enti 
locali, 
ovvero 
facenti 
parte 
delle 
commissioni 
consiliari 
o 
circoscrizionali 
formalmente 
istituite 
nonché 
delle 
commissioni 
comunali 
previste 
per 
legge, 
ovvero membri 
delle 
conferenze 
dei 
capogruppo e 
degli 
organismi 
di 
pari 
opportunità, 
previsti 
dagli 
statuti 
e 
dai 
regolamenti 
consiliari, hanno diritto di 
assentarsi 
dal 
servizio per 
partecipare 
alle 
riunioni 
degli 
organi 
di 
cui 
fanno 
parte 
per 
la 
loro 
effettiva 
durata. 
il 
diritto 
di 
assentarsi 
di 
cui 
al 
presente 
comma 
comprende 
il 
tempo 
per 
raggiungere 
il 
luogo 
della 
riunione 
e 
rientrare 
al posto di lavoro. 
4. 1 componenti 
degli 
organi 
esecutivi 
dei 
comuni, delle 
province, delle 
città 
metropolitane, 
delle 
unioni 
di 
comuni, 
delle 
comunità 
montane 
e 
dei 
consorzi 
fra enti 
locali, e 
i 
presidenti 
dei 
consigli 
comunali, provinciali 
e 
circoscrizionali, 
nonché 
i 
presidenti 
dei 
gruppi 
consiliari 
delle 
province 
e 
dei 
comuni 
con 
popolazione 
superiore 
a 
15.000 
abitanti, 
hanno 
diritto, 
oltre 
ai 
permessi 
di 
cui 
ai 
precedenti 
commi, 
di 
assentarsi 
dai 
rispettivi 
posti 
di 
lavoro 
per 
un massimo di 
24 ore 
lavorative 
al 
mese, elevate 
a 48 ore 
per 
i 
sindaci, 
presidenti 
delle 
province, 
sindaci 
metropolitani, 
presidenti 
delle 
comunità 
montane, presidenti 
dei 
consigli 
provinciali 
e 
dei 
comuni 
con popolazione 
superiore 
a 30.000 abitanti. 
5. i lavoratori 
dipendenti 
di 
cui 
al 
presente 
articolo hanno diritto ad ulteriori 
permessi 
non 
retribuiti 
sino 
ad 
un 
massimo 
di 
24 
ore 
lavorative 
mensili 
qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato. 
6. 
l’attività 
ed 
i 
tempi 
di 
espletamento 
del 
mandato 
per 
i 
quali 
i 
lavoratori 
chiedono 
ed 
ottengono 
permessi, 
retribuiti 
e 
non 
retribuiti, 
devono 
essere 
prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell’ente”. 
Il 
diritto del 
datore 
di 
lavoro al 
rimborso dei 
costi 
relativi 
ai 
suddetti 
permessi 
fruiti 
dal 
dipendente 
che 
ricopra 
cariche 
pubbliche 
è 
previsto dall’art. 
80 T.U.E.L., secondo cui: 


“le 
assenze 
dal 
servizio di 
cui 
ai 
commi 
1, 2, 3 e 
4 dell’articolo 79 sono 
retribuite 
al 
lavoratore 
dal 
datore 
di 
lavoro. 
Gli 
oneri 
per 
i 
permessi 
retribuiti 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
da 
privati 
o 
da 
enti 
pubblici 
economici 
sono 
a 
carico 
dell’ente 
presso il 
quale 
gli 
stessi 
lavoratori 
esercitano le 
funzioni 
pubbliche 
di 
cui 
all’articolo 79. l’ente, su richiesta documentata del 
datore 
di 
lavoro, è 
tenuto a rimborsare 
quanto dallo stesso corrisposto, per 
retribuzioni 
ed assicurazioni, 
per 
le 
ore 
o 
giornate 
di 
effettiva 
assenza 
del 
lavoratore. 
il 
rimborso 
viene 
effettuato dall’ente 
entro trenta giorni 
dalla richiesta. le 
somme 
rimborsate 
sono 
esenti 
da 
imposta 
sul 
valore 
aggiunto 
ai 
sensi 
dell’articolo 
8, 
comma 35, della legge 11 marzo 1988, n. 67 
”. 


La 
norma 
è 
dunque 
chiara 
nel 
riconoscere 
il 
diritto al 
rimborso esclusivamente 
in favore 
dei 
datori 
di 
lavoro privati 
e 
degli 
enti 
pubblici 
economici. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


L’art. 20 Legge 
regionale 
siciliana 
23 dicembre 
2000, n. 30 reca 
infine 
una disciplina 
ad hoc 
per i Comuni siciliani: 


“1. 
i 
lavoratori 
dipendenti, 
pubblici 
e 
privati, 
componenti 
dei 
consigli 
comunali, provinciali 
e 
delle 
unioni 
di 
comuni 
nonché 
dei 
consigli 
circoscrizionali 
dei 
comuni 
con popolazione 
superiore 
a duecentomila abitanti, hanno 
diritto di 
assentarsi 
dal 
servizio per 
l’intera giornata in cui 
sono convocati 
i 
rispettivi 
consigli. 
nel 
caso 
in 
cui 
i 
consigli 
si 
svolgano 
in 
orario 
serale, 
i 
predetti 
lavoratori 
hanno diritto di 
non riprendere 
il 
lavoro prima delle 
ore 
8 del 
giorno 
successivo; 
nel 
caso 
in 
cui 
i 
lavori 
dei 
consigli 
si 
protraggano 
oltre 
l’una, 
hanno 
diritto 
di 
assentarsi 
dal 
servizio 
per 
l’intera 
giornata 
successiva. 


2. 
i componenti 
delle 
commissioni 
consiliari 
previsti 
dai 
regolamenti 
e 
dagli 
statuti 
dei 
comuni 
hanno 
diritto 
di 
assentarsi 
dal 
servizio 
per 
partecipare 
a 
ciascuna 
seduta. 
il 
diritto 
di 
assentarsi 
di 
cui 
al 
presente 
comma 
comprende 
un tempo massimo di 
due 
ore 
prima dell’orario di 
convocazione 
della seduta 
ed il tempo strettamente necessario per rientrare al posto di lavoro. 
3. 
i lavoratori 
dipendenti 
facenti 
parte 
delle 
giunte 
comunali, degli 
organi 
esecutivi 
delle 
unioni 
di 
comuni, dei 
consorzi 
fra enti 
locali 
ovvero delle 
commissioni 
consiliari 
o 
circoscrizionali 
formalmente 
istituite 
e 
delle 
commissioni 
comunali 
previste 
per 
legge, ovvero membri 
delle 
conferenze 
dei 
capigruppo 
e 
degli 
organismi 
di 
pari 
opportunità, 
previsti 
dagli 
statuti 
e 
dai 
regolamenti 
consiliari, 
hanno 
diritto 
di 
assentarsi 
dal 
servizio 
per 
partecipare 
alle 
riunioni 
degli 
organi 
di 
cui 
fanno parte 
per 
la loro effettivo durata. il 
diritto 
di 
assentarsi 
di 
cui 
al 
presente 
comma comprende 
un tempo massimo di 
due 
ore 
prima 
dell’orario 
di 
convocazione 
della 
riunione 
e 
un’ora 
dopo 
la 
fine 
della stessa. Per 
i 
militari 
di 
leva o richiamati 
o per 
coloro che 
svolgano 
il 
servizio sostitutivo si 
applica l’ultimo periodo dell’articolo 80 del 
decreto 
legislativo 18 agosto 2000, n. 267. 
4. 
i componenti 
degli 
organi 
esecutivi 
dei 
comuni, delle 
province, delle 
unioni 
di 
comuni, dei 
consorzi 
fra enti 
locali 
e 
i 
presidenti 
dei 
consigli 
comunali, 
provinciali 
e 
circoscrizionali, nonché 
i 
presidenti 
dei 
gruppi 
consiliari 
delle 
province 
e 
dei 
comuni 
con popolazione 
superiore 
a diecimila abitanti, 
hanno diritto, oltre 
ai 
permessi 
di 
cui 
ai 
precedenti 
commi, di 
assentarsi 
dai 
rispettivi 
posti 
di 
lavoro per 
un massimo di 
36 ore 
lavorative 
al 
mese, elevate 
a 48 ore 
per 
i 
sindaci, presidenti 
delle 
province, presidenti 
dei 
consigli 
provinciali 
e dei comuni con popolazione superiore a trentamila abitanti. 
5. 
a 
decorrere 
dall’entrata in vigore 
della presente 
legge, gli 
oneri 
per 
i 
permessi 
retribuiti 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
da privati 
e 
da enti 
pubblici 
economici 
sono a carico dell’ente 
presso il 
quale 
gli 
stessi 
lavoratori 
esercitano 
le 
funzioni 
pubbliche 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti. 
l’ente, 
su 
richiesta 
documentata 
del 
datore 
di 
lavoro, è 
tenuto a rimborsare 
quanto dallo stesso corrisposto 
per 
retribuzioni 
ed 
assicurazioni 
per 
le 
ore 
o 
giornate 
di 
effettiva 
assenza del 
lavoratore. in nessun caso l’ammontare 
complessivo da rimbor

PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


sare 
nell’ambito di 
un mese 
può superare 
l’importo pari 
ad un terzo o, limitatamente 
ai 
comuni 
con 
popolazione 
inferiore 
a 
10.000 
abitanti, 
pari 
alla 
metà dell’indennità massima prevista per 
il 
rispettivo sindaco o presidente 
di 
provincia. 

6. 
i lavoratori 
dipendenti 
di 
cui 
al 
presente 
articolo hanno diritto ad ulteriori 
permessi 
non 
retribuiti 
sino 
ad 
un 
massimo 
di 
24 
ore 
lavorative 
mensili 
qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato”. 
III. Le contestazioni di alcuni Enti locali. 
Alcuni 
Comuni, a 
seguito delle 
richieste 
periodiche 
di 
rimborso dei 
costi 
ex 
art. 80 T.U.E.L. inviate 
tempo per tempo dalle 
ex società 
del 
Gruppo Equitalia 
e 
poi 
da 
ADER, 
si 
sono 
opposti 
al 
rimborso 
de 
quo 
sulla 
base 
dell’assunto 
che 
ADER vada 
annoverato tra 
le 
“amministrazioni 
pubbliche” 
e, per tale 
ragione, 
escluso dall’applicazione della citata norma. 


I Comuni 
hanno fondato il 
loro convincimento sul 
risalente 
parere 
del 
16 
novembre 
2011, n. 706, con cui 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
sostenuto che, ai 
fini 
qui in esame, si debbano considerare amministrazioni pubbliche: 


a. tutte quelle indicate dall’art. 1, comma 2 del D.lgs. 165/2001; 
b. gli 
enti 
e 
gli 
altri 
soggetti 
inseriti 
nel 
conto economico consolidato, individuati, 
ai sensi dell’art. l, comma 2 e 3, D.lgs n. 196/2009, dall’ISTAT; 
c. quelle 
società 
alle 
quali 
la 
legge 
attribuisce 
espressamente 
personalità 
giuridica di diritto pubblico. 
Rientrando ADER nell’elenco ISTAT 
ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
2 e 
3, 
D.lgs. n. 196/2009, sostengono alcuni 
Comuni 
(e 
la 
stessa 
Prefettura 
di 
Benevento), 
non sussisterebbero i presupposti per invocare il diritto al rimborso. 


Analogo 
discorso, 
secondo 
altri 
Comuni, 
varrebbe 
per 
la 
disciolta 
Riscossione 
Sicilia 
s.p.a., 
ferma 
restando, 
con 
riferimento 
al 
territorio 
siciliano, 
l’operatività 
della 
ulteriore 
limitazione 
del 
diritto al 
rimborso ai 
sensi 
dell’art. 20, 
comma 5, L.R. n. 30/2000. 


*** 


IV. La risposta ai quesiti. 
IV.1. Premessa. 
Come 
è 
noto, 
allo 
stato 
attuale 
non 
esiste 
una 
nozione 
univoca 
di 
pubblica 
amministrazione 
in senso soggettivo: 
i 
tradizionali 
criteri 
distintivi 
degli 
enti 
pubblici 
sono 
stati 
superati, 
lasciando 
spazio, 
sotto 
l’influsso 
dell’ordinamento 
eurounitario, ad un nuovo concetto di 
pubblica 
amministrazione 
c.d. «a geometrie 
variabili», che 
non solo prescinde 
da 
omologazioni 
rigide 
ma 
che 
soprattutto 
consente 
di 
tracciare 
il 
perimetro 
degli 
enti 
pubblici 
in 
maniera 
elastica, 
attraverso 
la 
valorizzazione 
dell’aspetto 
funzionale, 
cioè 
delle 
finalità 
perseguite. 


Secondo 
l’insegnamento 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


(sentenza 
28 
giugno 
2016, 
n. 
13), 
non 
deve 
dimenticarsi 
«la 
linea 
evolutiva 
che 
-a 
livello 
nazionale 
e 
comunitario 
-interessa 
la 
nozione 
stessa 
di 
“pubblica 
amministrazione”, 
quale 
nozione 
non 
univoca, 
ma 
da 
ricondurre, 
di 
volta 
in 
volta, 
a 
normative 
diverse 
e 
alle 
relative 
finalità 
(a 
titolo 
esemplificativo: 
d.lgs. 
n. 
163 
del 
2006 
cit. 
-c.d. 
codice 
degli 
appalti 
-in 
tema 
di 
procedure 
ad 
evidenza 
pubblica, 
a 
cui 
debbono 
attenersi 
diverse 
figure 
soggettive, 
sia 
pubbliche 
che 
private; 
legge 
31 
dicembre 
2009, 
n. 
196, 
art. 
1, 
comma 
1, 
in 
tema 
di 
amministrazioni 
che 
concorrono 
al 
perseguimento 
degli 
obiettivi 
di 
finanza 
pubblica, 
in 
conformità 
al 
sistema 
europeo 
dei 
conti 
nazionali 
e 
regionali 
nella 
comunità 
ue 
-c.d. 
Sec 
95 
-; 
d.lgs. 
n. 
33 
del 
14 
marzo 
2013, 
in 
tema 
di 
obblighi 
di 
pubblicità, 
trasparenza 
e 
diffusione 
di 
informazioni 
da 
parte 
delle 
pubbliche 
amministrazioni). 
nei 
vari 
contesti 
normativi 
(quelli 
sopra 
indicati 
caratterizzati, 
rispettivamente, 
dal 
controllo 
e 
dal 
finanziamento 
pubblico, 
nonché 
dal 
contrasto 
della 
illegalità 
nell’amministrazione) 
all’apparato 
-centrale 
e 
decentrato 
-dello 
Stato 
ed 
alle 
autonomie 
locali 
si 
aggiungono 
diverse 
tipologie 
di 
soggetti 
privati 
... 
Si 
introduce 
in 
tal 
modo 
quella 
nozione 
funzionale 
di 
Stato, 
che 
è 
stata 
individuata 
dalla 
giurisprudenza 
comunitaria 
a 
partire 
dalla 
sentenza 
della 
corte 
di 
Giustizia 
del 
20 
settembre 
1988 
(causa 
31/87 
-Beentjes), 
che 
riconduceva 
a 
detta 
nozione 
personalità 
giuridiche 
distinte, 
ma 
dipendenti 
in 
modo 
sostanziale 
dai 
pubblici 
poteri, 
per 
il 
perseguimento 
di 
interessi 
che 
lo 
Stato 
stesso 
intende 
soddisfare 
direttamente, 
o 
nei 
confronti 
dei 
quali 
sceglie 
di 
mantenere 
un’influenza 
determinante». 


non essendo dunque 
riscontrabile 
una 
definizione 
univoca 
legislativa 
di 
pubblica 
amministrazione 
alla 
quale 
sia 
collegata 
l’operatività 
di 
un 
corpus 
omogeneo 
di 
regole 
e 
principi, 
sopperiscono 
le 
molteplici 
normative 
settoriali 
che 
definiscono 
il 
loro 
campo 
d’applicazione 
rispetto 
ad 
un 
novero 
di 
enti, 
talvolta 
indicati tassativamente. 


Trasferendo tali 
considerazioni 
alla 
questione 
qui 
in esame, si 
deve 
evidenziare 
che 
l’art. 
80 
T.U.E.L. 
non 
esclude 
il 
diritto 
al 
rimborso 
in 
favore 
della 
“pubblica 
amministrazione” 
genericamente 
intesa, ma 
individua 
in positivo 
i 
soggetti 
a 
cui 
tale 
rimborso 
spetta: 
privati 
datori 
di 
lavoro 
ed 
enti 
pubblici 
economici. 
ne 
consegue 
che 
la 
nozione 
di 
“pubblica 
amministrazione” 
che, 
a 
contrariis, 
è 
presupposta 
dal 
citato art. 80 T.U.E.L. (onde 
escludere 
il 
diritto al 
rimborso) 
deve 
essere 
perimetrata 
tenendo 
conto 
che 
dalla 
stessa 
esulano 
-per 
espressa 
previsione 
di 
legge 
-gli 
enti 
pubblici 
economici. Il 
che 
consente 
di 
individuare 
un preciso filo conduttore 
tra 
la 
definizione 
di 
pubblica 
amministrazione 
rilevante 
ai 
sensi 
del 
Testo 
Unico 
sul 
Pubblico 
Impiego 
(D.lgs 
n. 
165/2001, di 
seguito T.U.P.I.) e 
quella 
presupposta 
dall’art. 80 T.U.E.L., nel 
senso che in entrambe non rientrano gli enti pubblici economici. 


Invero, 
così 
come 
il 
rapporto 
di 
lavoro 
alle 
dipendenze 
di 
un 
ente 
pubblico 
economico 
esula 
dal 
campo 
di 
applicazione 
del 
T.U.P.I. 
(si 
veda 
l’art. 
1, 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


comma 
2), alla 
stessa 
stregua 
esso è 
considerato dall’art. 80 T.U.E.L., che 
lo 
assimila 
infatti 
al 
rapporto di 
lavoro privato (riconoscendo perciò al 
datore 
di 
lavoro-ente pubblico economico il diritto al rimborso). 


IV.2. L’interpretazione 
letterale, sistematica e 
teleologica dell’art. 80 T. 
U.E.L. 
Come 
ha 
ben 
precisato 
la 
giurisprudenza 
contabile 
a 
far 
data 
dal 
2013 
(Sezione 
Regionale 
Lazio 
del 
n. 
182/2013/PAR), 
“l’implicita 
esclusione 
della 
generalità 
degli 
enti 
pubblici 
istituzionali 
dal 
novero 
dei 
datori 
di 
lavoro 
aventi 
titolo 
al 
rimborso 
-ricavabile 
“a 
contrariis” 
dalla 
testuale 
attribuzione 
di 
tale 
diritto, oltreché 
ai 
soggetti 
privati, ai 
soli 
enti 
pubblici 
economici 
-va 
spiegata in ragione 
della collocazione 
originaria della norma in un contesto 
di 
principi 
e 
regole 
di 
finanza pubblica derivata, caratterizzata dalla totale 
neutralità di 
siffatte 
operazioni 
finanziarie 
per 
i 
bilanci 
dei 
singoli 
enti 
pubblici 
in esse 
coinvolti 
e 
per 
il 
pubblico erario in generale”, ma 
“appare 
certamente 
meno 
spiegabile 
nell’attuale 
contesto 
evolutivo 
dei 
rapporti 
finanziari 
fra Stato ed enti 
territoriali, che 
trova riferimento nelle 
innovazioni 
della costituzione 
economica, intesa a valorizzare 
l’autonomia e 
la responsabilizzazione 
di 
questi 
ultimi 
nella sana gestione 
di 
risorse 
proprie 
e 
nell’osservanza 
dei 
propri 
equilibri 
di 
bilancio, con l’introduzione 
di 
limiti 
e 
vincoli 
di 
contenimento 
di talune voci di spesa da garantire singolarmente”. 


In disparte 
ogni 
considerazione 
relativa 
all’opportunità 
di 
un intervento 
legislativo sul 
punto -pure 
sottolineata 
dalla 
giurisprudenza 
contabile 
richiamata 
-la 
ratio 
dell’art. 
80 
cit. 
è 
non 
solo 
quella 
di 
valorizzare 
l’identità 
(o 
fungibilità) 
tra 
“funzioni 
pubbliche” 
esercitate 
dai 
pubblici 
dipendenti 
che 
abbiano 
assunto cariche 
elettive 
in Enti 
locali 
e 
quelle 
che 
gli 
stessi 
avrebbero svolto 
presso 
i 
datori 
di 
lavoro 
pubblici, 
come 
si 
legge 
nel 
menzionato 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato del 
16 novembre 
2011, n. 706; 
bensì 
anche 
quella 
di 
assicurare 
e 
preservare 
l’economicità 
della 
gestione 
che 
ispira 
l’attività 
di 
impresa 
(non solo dei datori di lavoro privati, ma) di ogni ente pubblico economico. 


Orbene, l’art. 1, co. 3 del 
D.L. n. 193/2016, convertito con modificazioni 
dalla 
Legge 
1° 
dicembre 
2016, n. 225, qualifica 
l’Agenzia 
delle 
entrate 
-Riscossione 
proprio come 
“ente 
pubblico economico”, dotato di 
autonomia 
organizzativa, 
patrimoniale, 
contabile 
e 
di 
gestione, 
e 
come 
tale, 
aggiunge 
il 
successivo co. 6, essa 
è 
sottoposta 
“alle 
disposizioni 
del 
codice 
civile 
e 
delle 
altre leggi relative alle persone giuridiche private”. 


Ad 
avviso 
di 
questa 
Avvocatura, 
il 
chiaro 
dato 
letterale 
sopra 
riportato 
impone 
di 
ritenere 
che 
ADER abbia 
sicuramente 
diritto al 
rimborso ex 
art. 80 


T.U.E.L. 
in 
relazione 
a 
tutti 
i 
permessi 
fruiti 
da 
suoi 
dipendenti 
a 
decorrere 
dal 
1° 
luglio 2017, ovvero a 
far data 
dall’istituzione 
del 
nuovo ente 
pubblico 
economico 
-ADER, 
dovendosi 
al 
riguardo 
de 
plano 
applicarsi 
l’art. 
80 
cit., 
che assimila ai datori di lavori privati gli “enti pubblici economici 
”. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


A 
fronte 
dell’inequivocabile 
tenore 
testuale 
della 
norma 
in 
esame, 
non 
pare 
infatti 
possibile 
invocare 
interpretazioni 
-fondate 
su 
una 
malintesa 
e 
non 
condivisibile 
lettura 
del 
richiamato parere 
del 
Consiglio di 
Stato, di 
cui 
si 
dirà 
meglio 
infra 
-dirette 
ad 
espungere, 
dal 
novero 
degli 
aventi 
diritto 
al 
rimborso, 
i 
datori 
di 
lavoro 
che 
abbiano 
la 
forma 
giuridica 
di 
enti 
pubblici 
economici 
sol 
perché 
inseriti, a 
tutt’altri 
fini, nell’elenco ISTAT 
di 
cui 
all’art. 1, comma 
2 e 
3, D.lgs. n. 196/2009. Posto che 
nel 
citato elenco ISTAT 
rientrano tutti 
gli 
“enti 
produttori 
di 
servizi 
tecnici 
e 
economici”, una 
simile 
interpretazione 
si 
tradurrebbe, infatti, in una 
non consentita 
interpretatio abrogans 
del 
disposto 
dell’art. 
80 
T.U.E.L., 
che, 
si 
ribadisce, 
seguendo 
la 
medesima 
logica 
del 
T.U.P.I., 
ha 
positivamente 
assimilato, 
ai 
fini 
qui 
in 
esame, 
i 
datori 
di 
lavori 
privati e gli “enti pubblici economici 
”. 


*** 


Il 
dubbio 
interpretativo 
potrebbe 
astrattamente 
porsi, 
sulla 
scorta 
del 
citato 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
in 
relazione 
ai 
permessi 
fruiti 
anteriormente 
al 
1° 
luglio 
2017 
dagli 
allora 
dipendenti 
delle 
società 
pubbliche 
del 
Gruppo 
Equitalia. 


In effetti, il 
citato parere 
si 
era 
occupato proprio della 
natura 
giuridica 
di 
talune 
società 
pubbliche 
(Poste 
Italiane 
s.p.a. e 
Trenitalia 
s.p.a.), concludendo 
nel 
senso che, ai 
sensi 
dell’art. 80, secondo periodo, T.U.E.L., non sarebbero 
rimborsabili 
gli 
oneri 
per 
permessi 
retribuiti 
dei 
dipendenti 
correlati 
a 
funzioni 
pubbliche, per tutte 
le 
società 
inserite 
nel 
conto economico consolidato individuate 
dall’ISTAT 
e 
per quelle 
che 
hanno per legge 
personalità 
giuridica 
di 
diritto pubblico. 


Una 
simile 
conclusione, che 
nella 
sua 
generalizzazione 
non pare 
potersi 
oggi 
condividere, merita 
di 
essere 
precisata 
ed attualizzata, anche 
in considerazione 
dell’evoluzione 
normativa 
che 
si 
è 
da 
ultimo registrata 
in tema 
di 
società 
pubbliche, tenendo a 
mente 
che 
lo stesso parere 
del 
Consiglio di 
Stato 
ha 
fornito 
una 
soluzione 
calibrata 
sul 
caso 
di 
specie, 
auspicando 
comunque 
“un 
intervento 
chiarificatore 
del 
legislatore” 
ed 
una 
“iniziativa 
normativa 
generale 
sull’effettiva 
natura 
delle 
S.p.a. 
pubbliche”, 
che 
come 
è 
noto 
si 
sarebbe 
poi 
concretizzata 
nell’adozione 
del 
D.lgs. 
n. 
175/2016 
(Testo 
unico 
in 
materia 
di società a partecipazione pubblica: di seguito T.U.S.P.). 


In primo luogo, se 
è 
vero che 
l’art. 80 T.U.E.L. non menziona 
espressamente 
le 
società 
pubbliche 
tra 
gli 
aventi 
diritto al 
rimborso, la 
circostanza 
che 
il 
legislatore 
abbia 
voluto riconoscere 
la 
spettanza 
del 
rimborso, non solo ai 
datori 
di 
lavoro privati, ma 
anche 
agli 
enti 
pubblici 
economici, dovrebbe 
indurre 
a 
ritenere, 
a 
fortiori, 
che 
tale 
rimborso 
spetti 
pure 
alle 
società 
pubbliche, 
le 
quali 
-costituendo 
di 
regola 
l’evoluzione 
formalmente 
privatistica 
degli 
originari 
enti 
pubblici 
economici 
-si 
atteggiano, 
applicando 
le 
categorie 
del 


T.U.P.I. e 
del 
T.U.S.P., a 
datori 
di 
lavoro privati. Ed infatti, al 
pari 
degli 
enti 
pubblici 
economici, le 
società 
pubbliche 
(che 
spesso, come 
detto, sono state 
costituite 
proprio 
per 
superare 
il 
modello 
organizzativo 
dell’ente 
pubblico 
eco

PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


nomico) 
sono 
“imprese 
pubbliche” 
che 
svolgono 
attività 
di 
produzione 
di 
beni 
e/o servizi 
secondo criteri 
ispirati 
alla 
economicità 
della 
gestione, ma 
che 
-a 
differenza 
dell’ente 
pubblico 
economico 
-assumono 
anche 
la 
forma 
e 
la 
natura 
giuridica di soggetto privato (società per azioni). 


Come 
rammenta 
lo 
stesso 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
ai 
fini 
della 
nozione 
di 
rapporto 
di 
lavoro 
alle 
dipendenze 
della 
pubblica 
amministrazione, 
assume 
rilievo 
l’art. 
1, 
comma 
2, 
D.Lgs. 
n. 
165/2001, 
che 
prevede 
analiticamente 
cosa 
si 
debba 
intendere 
per 
“amministrazione 
pubblica”, 
“escludendo 
gli 
enti 
pubblici 
economici 
(e 
a 
fortiori 
le 
società 
per 
azioni 
a 
capitale 
pubblico) 
”. 


ma 
se 
così 
è, 
e 
perciò 
se 
il 
parametro 
di 
riferimento 
ai 
fini 
della 
soluzione 
della 
questione 
qui 
in 
esame 
è 
la 
nozione 
di 
“amministrazione 
pubblica” 
adottata 
in tema 
di 
pubblico impiego, non pare 
allora 
pertinente 
il 
richiamo al 
regime 
speciale 
posto 
dalla 
legge 
31 
dicembre 
2009, 
n. 
196, 
che, 
all’art. 
1, 
comma 
2, individua 
a 
tutt’altri 
fini 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
alle 
quali 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
in 
materia 
di 
finanza 
pubblica, 
le 
quali 
per 
l’appunto 
«concorrono al 
perseguimento degli 
obiettivi 
di 
finanza pubblica definiti 
in 
ambito nazionale 
in coerenza con le 
procedure 
e 
i 
criteri 
stabiliti 
dall’unione 
europea» (comma 1). 


Ora, 
ad 
avviso 
della 
Scrivente, 
se 
la 
legge 
attribuisce 
il 
diritto 
al 
rimborso 
alle 
imprese 
pubbliche 
che 
assumono la 
forma 
di 
ente 
pubblico economico, 
ovvero a 
soggetti 
che 
a 
taluni 
fini 
pure 
sono ricondotti 
alla 
“pubblica 
amministrazione” 
(ad 
esempio, 
proprio 
nell’ambito 
del 
conto 
consolidato 
della 
pubblica 
amministrazione 
di 
cui 
al 
menzionato elenco ISTAT 
ex 
art. 1, commi 
2 
e 
3, l. n. 196/2009 nonché 
ai 
fini 
della 
costituzione 
di 
società 
pubbliche: 
cfr. 
art. 2, comma 
1, D.lgs. n. 175/2016), sarebbe 
del 
tutto irragionevole 
ritenere 
che 
tale 
diritto non spetti 
alla 
medesima 
impresa 
pubblica 
svolta 
-per di 
più anche 
nelle forme privatistiche. 


Deve 
allora 
ritenersi 
che 
i 
lavoratori 
dipendenti 
di 
società 
pubbliche 
rientrino 
a 
pieno titolo nella 
nozione 
di 
“dipendenti 
da privati” 
a 
cui 
allude 
l’art. 
80 T.U.E.L. 


Una 
conferma 
può essere 
tratta 
dalla 
sopravvenuta 
disciplina 
in tema 
di 
società pubbliche contenuta nel 
T.U.S.P.: 


-l’art. 1, comma 
3, prevede 
che 
“Per 
tutto quanto non derogato dalle 
disposizioni 
del 
presente 
decreto, 
si 
applicano 
alle 
società 
a 
partecipazione 
pubblica 
le 
norme 
sulle 
società contenute 
nel 
codice 
civile 
e 
le 
norme 
generali 
di 
diritto privato”; 
-mentre 
l’art. 
19 
dispone 
che 
“Salvo 
quanto 
previsto 
dal 
presente 
decreto, 
ai 
rapporti 
di 
lavoro dei 
dipendenti 
delle 
società a controllo pubblico si 
applicano 
le 
disposizioni 
del 
capo i titolo ii. del 
libro V 
del 
codice 
civile, dalle 
leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


IV.3. 
La 
giurisprudenza 
contabile 
e 
civile 
in 
materia. 
Alla 
luce 
di 
quanto 
sopra 
esposto, 
paiono 
corretti, 
ad 
avviso 
di 
questa 
Avvocatura, 
gli 
approdi 
della 
giurisprudenza 
contabile 
in 
materia, 
di 
cui 
dà 
conto 
anche 
codesta 
Agenzia. 
Segnatamente, 
la 
deliberazione 
n. 
90/2022/Par 
della 
Corte 
dei 
Conti 
Sezione 
Regionale 
di 
Controllo 
per 
la 
Sardegna, 
in 
linea 
con 
l’orientamento 
espresso 
dalla 
Sezione 
Regionale 
Lombardia 
nella 
deliberazione 


n. 
256/2017/PAR 
e 
dalla 
Sezione 
Regionale 
Piemonte 
nella 
deliberazione 
n. 
55/2019/SRCPIE/PAR, 
“... 
condivide 
l’approdo 
ermeneutico 
giurisprudenziale 
in 
virtù 
del 
quale 
le 
società 
a 
partecipazione 
pubblica 
(anche 
cd. 
in 
house) 
-e 
dunque 
a 
fortiori 
anche 
“gli 
enti 
pubblici 
economici 
totalmente 
controllati 
dallo 
Stato” 
oggetto 
del 
presente 
quesito 
unitamente 
alle 
predette 
società 
-debbano 
essere 
comprese 
tra 
i 
soggetti 
aventi 
diritto 
al 
rimborso 
per 
i 
permessi 
retribuiti 
di 
cui 
all’art. 
80 
del 
Tuel, 
in 
modo 
da 
assicurare 
che 
i 
relativi 
oneri 
siano 
sopportati 
dall’ente 
che 
beneficia 
dell’esercizio 
delle 
funzioni 
pubbliche”. 
In particolare, merita condivisione: 


-il 
rilievo che 
“deve 
ritenersi 
decisiva a tal 
fine, a prescindere 
da ogni 
disquisizione 
generale 
sulla 
natura 
sostanziale 
di 
tali 
soggetti 
la 
qualificazione 
formale 
ossia 
la 
costituzione 
in 
forma 
societaria 
con 
connessa 
distinzione 
soggettiva 
tra 
società 
e 
soci 
così 
come 
la 
separazione 
dei 
rispettivi 
patrimoni 
(che 
esclude 
che 
la provenienza pubblica delle 
risorse 
impiegate 
nel 
capitale 
sociale 
determini 
automaticamente 
l’acquisizione 
della 
natura 
pubblicistica 
delle disponibilità finanziarie della società)”; 
-il 
convincimento 
che, 
“di 
converso 
(...), 
per 
escludere 
l’applicazione 
dell’art. 
80, 
in 
conformità 
alla 
ratio 
dianzi 
esposta 
ed 
alla 
luce 
dei 
vigenti 
principi 
costituzionali 
di 
finanza 
pubblica, 
non 
sembra 
assumere 
significato 
il 
possesso 
di 
requisiti, 
indicati 
da 
altre 
norme 
specifiche 
e 
ad 
altri 
fini, 
quali 
indici 
di 
assimilazione 
di 
talune 
società 
partecipate 
a 
pubbliche 
amministrazioni, 
come 
l’inclusione 
della 
società 
interessata 
nell’ambito 
del 
conto 
consolidato 
della 
pubblica 
amministrazione 
di 
cui 
all’art. 
1, 
commi 
2 
e 
3, 
della 
legge 


n. 
196/2009 
(legge 
di 
contabilità 
pubblica), 
che 
non 
snatura 
le 
caratteristiche 
di 
autonomia 
organizzativa 
e 
finanziaria, 
ma 
rileva 
unicamente 
sul 
diverso 
piano 
dell’omogenea 
costruzione 
dei 
macro 
aggregati 
di 
finanza 
pubblica”; 
-l’osservazione 
che 
“l’orientamento 
sopra 
esposto 
trova 
conferma 
anche 
nel 
decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di 
società 
a partecipazione 
pubblica) che 
all’art. 1, comma 3, stabilisce 
che 
“per 
tutto 
quanto 
non 
derogato 
dalle 
disposizioni 
del 
presente 
decreto, 
si 
applicano 
alle 
società 
a 
partecipazione 
pubblica 
le 
norme 
sulle 
società 
contenute 
nel 
codice civile e le norme generali di diritto privato”. 


L’orientamento 
della 
giurisprudenza 
contabile 
è 
stato 
inoltre 
condiviso 
(oltre 
che 
dalla 
giurisprudenza 
civile 
di 
merito 
menzionata 
da 
codesta 
Agenzia) 
anche 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
(ord. 11 giugno 2020 n. 11265), la 
quale 
ha 
affermato che: 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


“i punti 
destinati 
a venire 
in rilievo sono saldamente 
espressi 
dal 
principio 
per 
il 
quale, con la previsione 
contenuta nell’art. 80 T.u.e.l., in ragione 
della quale 
sono a carico degli 
enti 
pubblici 
presso cui 
svolgono le 
proprie 
funzioni 
i 
permessi 
retribuiti 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
“da privati 
o enti 
pubblici 
economici” 
si 
è 
voluto garantire 
lo svolgimento di 
funzioni 
pubbliche 
da 
parte 
di 
lavoratori 
dipendenti, senza che 
il 
relativo onere 
vada a ricadere 
sui 
datori 
di 
lavoro privati 
anzichè 
rimanere 
a carico delle 
risorse 
pubbliche 
e 
del bilancio dell’ente che beneficia di tali funzioni. 


l’indicata 
premessa 
è 
espressiva 
del 
generale 
principio 
civilistico 
del 
divieto 
di 
indebito arricchimento (art. 2041 c. c.) che 
vuole 
che 
il 
soggetto che 
si avvantaggi della prestazione sopporti gli oneri economici. 


l’ente 
locale 
presso 
il 
quale 
svolgono 
incarico 
elettivo 
i 
dipendenti 
di 
una 
società 
in 
house 
deve 
provvedere 
ai 
permessi 
retribuiti 
che 
sono 
stati 
fruiti 
dai 
primi 
in adempimento del 
munus 
pubblico e 
che 
restano così 
addossati, 
quali 
spese 
per 
il 
funzionamento degli 
organi 
politici, all’ente 
presso il 
quale 
il dipendente è chiamato a svolgere funzioni politiche. 


7.2. 
converge 
al 
raggiungimento 
del 
risultato, 
insieme 
al 
richiamato 
principio civilistico dell’indebito arricchimento, il 
rilievo che 
deve 
essere 
accordato 
ai 
principi 
intesi 
a 
valorizzare 
autonomia 
e 
responsabilizzazione 
degli 
enti 
territoriali 
destinati 
a valere 
anche 
rispetto allo svolgimento dell’attività 
sociale, 
in 
regime 
di 
economicità, 
cui 
è 
tenuta 
la 
società 
in 
house, 
nell’assenza 
di 
obblighi 
di 
consolidamento dei 
propri 
conti 
con i 
bilanci 
degli 
enti 
fruitori 
delle prestazioni. 
7.3. Vi 
è 
poi 
l’argomento delle 
forme 
adottate 
e 
quindi 
dell’intervenuta 
costituzione 
secondo 
il 
modello 
societario 
del 
soggetto 
prestatore 
del 
servizio 
in 
house 
a 
cui 
si 
accompagna 
la 
distinzione 
soggettiva 
tra 
società 
partecipata 
e 
socio pubblico e 
la separazione 
dei 
rispettivi 
patrimoni, con esclusione 
che 
la provenienza pubblica delle 
risorse 
impiegate 
nel 
capitale 
sociale 
comporti 
automaticamente 
l’acquisizione 
della natura pubblicistica delle 
disponibilità 
finanziarie della società. 
7.4. 
Per 
converso, 
per 
escludere 
l’applicazione 
dell’art. 
80, 
in 
conformità 
alla ratio dianzi 
esposta ed alla luce 
dei 
vigenti 
principi 
costituzionali 
di 
finanza 
pubblica 
non 
assume 
significato 
il 
possesso 
di 
requisiti, 
indicati 
da 
altre 
norme 
specifiche 
e 
ad 
altri 
fini, 
quali 
sono 
gli 
indici 
di 
assimilazione 
di 
talune 
società partecipate 
a pubbliche 
amministrazioni, come 
l’inclusione 
della società 
interessata 
nell’ambito 
del 
conto 
consolidato 
della 
pubblica 
amministrazione 
di 
cui 
alla 
l. 
n. 
196 
del 
2009, 
art. 
1, 
commi 
2 
e 
3, 
(legge 
di 
contabilità 
pubblica), 
che 
non 
vale 
a 
snaturare 
le 
caratteristiche 
di 
autonomia 
organizzativa 
e 
finanziaria, 
ma, 
come 
osservato 
dai 
giudici 
amministrativi 
(vd. supra sub n. 7), rileva unicamente 
sul 
diverso piano dell’omogenea costruzione 
dei macro aggregati di finanza pubblica. 
8. conclusivamente, per 
il 
cennato quadro di 
riferimento, gli 
oneri 
deri

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


vanti 
dalla 
fruizione, 
da 
parte 
dei 
dipendenti 
di 
società 
a 
partecipazione 
pubblica, 
dei 
permessi 
retribuiti 
previsti 
per 
l’esercizio 
di 
funzioni 
elettive 
presso 
un 
ente 
locale 
partecipante 
sono 
a 
carico 
di 
quest’ultimo 
e 
devono 
essere 
rimborsati 
alla società datrice 
di 
lavoro, nei 
termini 
e 
secondo le 
modalità 
di cui all’art. 80 T.U.E.L.”. 


*** 


ne 
consegue, 
ad 
avviso 
di 
questa 
Avvocatura, 
che 
ADER 
ha 
diritto 
al 
rimborso 
ex 
art. 
80 
T.U.E.L. 
dei 
costi 
relativi 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
suoi 
dipendenti 
che 
abbiano 
assunto 
cariche 
elettive 
in 
Enti 
locali, 
e 
ciò 
anche 
con 
riferimento 
ai 
periodi 
in cui 
l’attività 
di 
riscossione 
era 
svolta 
da 
società 
pubbliche 
appartenenti 
al Gruppo Equitalia. 


IV.4. Il diritto al rimborso nei confronti degli Enti locali siciliani. 
Analogo 
discorso, 
sia 
pure 
con 
le 
precisazioni 
che 
verranno 
di 
seguito 
svolte, deve valere altresì per i Comuni della Regione Sicilia. 


Le 
superiori 
considerazioni 
consentono anzitutto di 
ritenere 
che 
sussista 
il 
diritto di 
ADER al 
rimborso dei 
costi 
anche 
in relazione 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
dipendenti 
della 
disciolta 
Riscossione 
Sicilia 
S.p.A., 
non 
essendo 
pertinente 
il 
suo inserimento nel 
citato elenco ISTAT 
ed assumendo invece 
rilievo 
la 
circostanza 
che 
i 
rapporti 
di 
lavoro alle 
sue 
dipendenze 
fossero da 
considerare, 
ai fini qui in esame, rapporti di diritto privato. 


Le 
modalità 
di 
esercizio del 
diritto al 
rimborso nei 
confronti 
dei 
Comuni 
siciliani 
devono tuttavia 
confrontarsi 
con le 
specificità 
della 
legislazione 
regionale 
in materia, atteso che, come correttamente rileva codesta 
Agenzia: 


-l’art. 1, comma 
2, T.U.E.L. dispone 
che: 
“le 
disposizioni 
del 
presente 
testo unico non si 
applicano alle 
regioni 
a statuto speciale 
e 
alle 
province 
autonome 
di 
Trento 
e 
di 
Bolzano 
se 
incompatibili 
con 
le 
attribuzioni 
previste 
dagli statuti e dalle relative norme di attuazione”; 
-l’art. 14 dello Statuto della 
Regione 
Siciliana 
prevede 
che: 
“l’assemblea, 
nell’ambito 
della 
regione 
e 
nei 
limiti 
delle 
leggi 
costituzionali 
dello 
Stato, 
senza 
pregiudizio 
delle 
riforme 
agrarie 
e 
industriali 
deliberate 
dalla 
costituente 
del 
popolo 
italiano, 
ha 
la 
legislazione 
esclusiva 
sulle 
seguenti 
materie: 
... omissis... 
- o) regime degli enti locali 
e delle circoscrizioni relative; ... omissis”. 
In materia, la 
L.R. Sicilia 
n. 30/2000 prevede, all’art. 15, comma 
2, che: 
“2. il 
presente 
capo disciplina il 
regime 
delle 
aspettative, dei 
permessi 
e 


delle 
indennità degli 
amministratori 
degli 
enti 
locali. Per 
amministratori, ai 
soli 
fini 
del 
presente 
capo, si 
intendono i 
sindaci, i 
presidenti 
delle 
province, 
i 
consiglieri 
dei 
comuni 
e 
delle 
province, i 
componenti 
delle 
giunte 
comunali 
e 
provinciali, 
i 
presidenti 
dei 
consigli 
comunali 
e 
provinciali, 
i 
componenti 
degli 
organi 
delle 
unioni 
di 
comuni, 
dei 
consorzi 
fra 
enti 
locali 
ed 
i 
componenti 
degli organi di decentramento”. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Tale 
previsione, 
che 
si 
riferisce 
non 
solo 
ai 
titolari 
di 
cariche 
elettive, 
ma, 
più in generale, ai 
titolari 
di 
cariche 
pubbliche, non pare 
assumere 
una 
portata 
soggettiva 
più ampia 
rispetto a 
quella 
di 
cui 
alla 
legge 
statale 
(anche 
l’art. 79 
T.U.E.L., 
sopra 
trascritto, 
non 
è 
limito 
alle 
cariche 
elettive, 
comprendendo 
anche 
i 
componenti 
“delle 
giunte 
comunali, provinciali, metropolitane, delle 
comunità 
montane, 
nonché 
degli 
organi 
esecutivi 
dei 
consigli 
circoscrizionali, 
dei 
municipi, delle 
unioni 
di 
comuni 
e 
dei 
consorzi 
fra enti 
locali, ovvero facenti 
parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali ...”). 


Tuttavia, il 
successivo art. 20, comma 
5, L.R. Sicilia 
n. 30/2000 prevede 
che: 


“a 
decorrere 
dall’entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
legge 
gli 
oneri 
per 
i 
permessi 
retribuiti 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
da privati 
e 
da enti 
pubblici 
economici 
sono a carico dell’ente 
presso il 
quale 
gli 
stessi 
lavoratori 
esercitano 
le 
funzioni 
pubbliche 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti. 
l’ente, 
su 
richiesta 
documentata 
del 
datore 
di 
lavoro, è 
tenuto a rimborsare 
quanto dallo stesso corrisposto 
per 
retribuzioni 
ed 
assicurazioni 
per 
le 
ore 
o 
giornate 
di 
effettiva 
assenza del 
lavoratore. in nessun caso l’ammontare 
complessivo da rimborsare 
nell’ambito di 
un mese 
può superare 
l’importo pari 
ad un 
terzo 
o, limitatamente 
ai 
comuni 
con 
popolazione 
inferiore 
a 
10.000 
abitanti, 
pari 
alla 
metà 
dell’indennità massima prevista per 
il 
rispettivo sindaco o presidente 
di 
provincia”. 


La 
norma 
regionale, destinata 
a 
prevalere 
su quella 
statale, prevede 
dunque 
una 
limitazione 
del 
diritto al 
rimborso (ad un terzo o alla 
meta 
dell’indennità). 


A 
prescindere 
da 
ogni 
considerazione 
sulla 
legittimità 
di 
una 
simile 
previsione, 
non pare 
revocabile 
in dubbio, in linea 
con la 
stessa 
prassi 
della 
Regione 
Siciliana 
(Circolare 
n. 
2 
del 
1° 
febbraio 
2018 
dell’Assessorato 
delle 
Autonomie 
Locali 
e 
della 
Funzione 
Pubblica 
della 
Regione 
Siciliana 
e 
parere 


n. 1715/RE 
del 
7 novembre 
2017 dell’Ufficio Legislativo e 
Legale 
della 
Regione 
Siciliana), che 
i 
costi 
non rimborsabili 
debbano restare 
a 
carico del 
datore 
di 
lavoro: 
la 
norma 
prevede, 
infatti, 
che 
il 
datore 
di 
lavoro 
debba 
comunque 
corrispondere 
“retribuzioni 
ed assicurazioni 
per 
le 
ore 
o giornate 
di 
effettiva assenza del 
lavoratore”, così 
riconoscendosi 
piena 
tutela 
al 
lavoratore 
che 
abbia 
assunto una 
carica 
pubblica 
a 
norma 
dell’art. 51, comma 
3, 
Cost., mentre 
è 
il 
conseguente 
diritto al 
rimborso del 
datore 
di 
lavoro nei 
confronti 
dell’Ente locale che soffre di una limitazione quantitativa 
ex lege. 
V. Conclusioni. 
In conclusione, questa 
Avvocatura 
è 
dell’avviso che 
sussistano i 
presupposti 
giuridici 
per agire, in via 
stragiudiziale, nonché, all’occorrenza, anche 
in via 
giudiziale, nei 
confronti 
degli 
Enti 
locali 
che 
negano il 
diritto di 
ADER 
al 
rimborso, anche 
per il 
periodo antecedente 
al 
1° 
luglio 2017, dei 
costi 
rela



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


tivi 
ai 
permessi 
fruiti 
dai 
propri 
dipendenti 
per le 
cariche 
pubbliche 
ricoperte 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
79 
e 
80 
T.U.E.L., 
ferma 
restando 
la 
limitazione 
di 
cui 
all’art. 
20, 
comma 
5, 
della 
L.R. 
n. 
30/2000 
per 
le 
eventuali 
azioni 
di 
rimborso 
nei 
confronti degli Enti locali siciliani. 


*** 


Tenuto conto della 
rilevanza 
di 
massima 
della 
questione 
nonché 
dell’esistenza 
di 
prassi 
difformi 
sul 
territorio 
nazionale, 
il 
presente 
parere 
viene 
esteso, 
anche 
al 
fine 
di 
prevenire 
un non auspicabile 
contenzioso con gli 
Enti 
locali, 
al 
competente 
Dipartimento 
del 
ministero 
dell’Interno 
nonché 
al 
Dipartimento 
della funzione pubblica e alla Regione Siciliana. 


La 
questione 
è 
stata 
sottoposta 
all’esame 
del 
Comitato 
Consultivo 
del-
l’Avvocatura 
dello Stato di 
cui 
all’art. 26 della 
legge 
3 aprile 
1979 n. 103, che 
si è espresso in senso conforme nella seduta del 25 luglio 2024. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


L’istituto 
della 
certificazione 
del 
credito 
ex 
art. 
9, 
co. 
3 
bis, 


d.L. 
n. 
185 
del 
2008, 
conv. 
in 
L. 
2/2009: 
quesito 
sul 
dies 
a 
quo 
di 
decorrenza 
degli 
interessi 
moratori 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
231/2002 
Parere 
del 
15/10/2024-628301/02, 
al 23760/2024, Sez. iV, Proc. edoardo 
morena 


Con la 
presente, si 
riscontra 
la 
nota 
con la 
quale 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ha 
trasmesso la 
richiesta 
di 
parere 
in merito all’individuazione 
del 
dies 
a 
quo 
di 
decorrenza 
degli 
interessi 
di 
cui 
al 
D.lgs. 
231/2002 
in 
caso 
di 
certificazione del credito. 


In particolare, si 
chiede 
se 
gli 
interessi 
moratori 
di 
cui 
al 
Decreto citato 
decorrano dalla 
data 
di 
scadenza 
delle 
singole 
fatture 
ovvero dalla 
data 
di 
pagamento 
indicata nella certificazione del credito. 


Ciò 
premesso, 
la 
risoluzione 
del 
quesito 
in 
oggetto 
postula 
necessariamente 
la 
ricostruzione, 
in 
termini 
di 
normativa 
e 
inquadramento 
giuridico, 
dell’istituto della certificazione del credito. 


* 


La 
certificazione 
del 
credito, disciplinata 
dal 
D.L. n. 185/2008 e 
dal 
D.L. 


n. 
25/2013, 
consente, 
in 
via 
generale, 
una 
più 
agevole 
circolazione 
e 
attuazione 
del 
credito, anche 
nell’interesse 
dei 
terzi 
(cessionari, istituti 
bancari), vantato 
nei confronti della pubblica amministrazione. 
nello specifico, la descritta certificazione abilita il creditore: 


-da 
un lato, ad ottenere 
una 
qualificazione 
del 
credito come 
“certo, liquido 
ed esigibile”; 
-dall’altro 
lato, 
a 
ricevere 
una 
data 
certa, 
non 
superiore 
all’anno 
dalla 
data 
di 
richiesta, 
entro 
cui 
l’ente 
si 
impegna 
ad 
effettuare 
il 
pagamento 
del 
credito; 


-dall’altro lato ancora, ad avvalersi 
della 
possibilità, a 
valle 
della 
certificazione, 
di 
rivolgersi 
a 
istituti 
di 
credito 
specializzati 
nell’acquisto 
del 
credito, 
così da assicurare una immediata liquidità. 
Tali 
finalità 
e 
funzioni 
risultano 
espressamente 
individuate 
dal 
comma 
3-bis 
dell’art. 
9 
del 
D.L. 
n. 
185 
del 
2008, 
conv. 
dalla 
L. 
n. 
2 
del 
2009, 
che 
così 
dispone: 
“Su 
istanza 
del 
creditore 
di 
somme 
dovute 
per 
somministrazioni, 
forniture, 
appalti 
e 
prestazioni 
professionali, 
((le 
pubbliche 
amministrazioni, 
di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165)) 
certificano, 
nel 
rispetto 
delle 
disposizioni 
normative 
vigenti 
in 
materia 
di 
patto 
di 
stabilità 
interno, 
entro 
il 
termine 
di 
trenta 
giorni 
dalla 
data 
di 
ricezione 
dell’istanza, 
se 
il 
relativo 
credito 
sia 
certo, 
liquido 
ed 
esigibile, 
anche 
al 
fine 
di 
consentire 
al 
creditore 
la 
cessione 
pro 
soluto 
o 
pro 
solvendo 
a 
favore 
di 
banche 
o 
intermediari 
finanziari 
riconosciuti 
dalla 
legislazione 
vigente. 
Scaduto 
il 
predetto 
termine, 
su 
nuova 
istanza 
del 
credi



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


tore, 
è 
nominato 
un 
commissario 
ad 
acta, 
con 
oneri 
a 
carico 
dell’ente 
debitore. 
la 
nomina 
è 
effettuata 
dall’ufficio 
centrale 
del 
bilancio 
competente 
per 
le 
certificazioni 
di 
pertinenza 
delle 
amministrazioni 
statali 
centrali, 
degli 
enti 
pubblici 
non 
economici 
nazionali 
e 
delle 
agenzie 
di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300; 
dalla 
ragioneria 
territoriale 
dello 
Stato 
competente 
per 
territorio 
per 
le 
certificazioni 
di 
pertinenza 
delle 
altre 
amministrazioni. 
Ferma 
restando 
l’attivazione 
da 
parte 
del 
creditore 
dei 
poteri 
sostitutivi, 
il 
mancato 
rispetto 
dell’obbligo 
di 
certificazione 
o 
il 
diniego 
non 
motivato 
di 
certificazione, 
anche 
parziale, 
comporta 
a 
carico 
del 
dirigente 
responsabile 
l’applicazione 
delle 
sanzioni 
di 
cui 
all’articolo 
7 
comma 
2, 
del 
decreto 
legge 
8 
aprile 
2013, 
n. 
35, 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
legge 
6 
giugno 
2013, 
n. 
64. 
la 
pubblica 
amministrazione 
di 
cui 
al 
primo 
periodo 
che 
risulti 
inadempiente 
non 
può 
procedere 
ad 
assunzioni 
di 
personale 


o 
ricorrere 
all’indebitamento 
fino 
al 
permanere 
dell’inadempimento. 
la 
cessione 
dei 
crediti 
oggetto 
di 
certificazione 
avviene 
nel 
rispetto 
dell’articolo 
117 
del 
codice 
di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 
12 
aprile 
2006, 
n. 
163. 
Ferma 
restando 
l’efficacia 
liberatoria 
dei 
pagamenti 
eseguiti 
dal 
debitore 
ceduto, 
si 
applicano 
gli 
articoli 
5, 
comma 
1, 
e 
7, 
comma 
1, 
della 
legge 
21 
febbraio 
1991, 
n. 
52. 
la 
certificazione 
deve 
indicare 
obbligatoriamente 
la 
data 
prevista 
di 
pagamento. 
le 
certificazioni 
già 
rilasciate 
senza 
data 
devono 
essere 
integrate 
a 
cura 
dell’amministrazione 
utilizzando 
la 
piattaforma 
elettronica 
di 
cui 
all’articolo 
7, 
comma 
1, 
del 
citato 
decreto-legge 
n. 
35 
del 
2013 
con 
l’apposizione 
della 
data 
prevista 
per 
il 
pagamento 
”. 
* 


Al 
fine 
di 
addivenire 
a 
un 
corretto 
inquadramento 
sotto 
il 
profilo 
tecnico-
giuridico dell’istituto in commento, preme 
evidenziarsi 
che, nella 
prospettiva 
accolta 
dalla 
giurisprudenza 
di 
merito più recente 
(cfr., tra 
le 
altre, Tribunale 
Frosinone, n. 50 del 
10 gennaio 2023; 
Tribunale 
nocera 
Inferiore, sez. II, n. 
482 del 
12 marzo 2023), la 
predetta 
certificazione 
assume 
una 
qualificazione 
eminentemente privatistica. 


Più nello specifico, essa 
si 
atteggia 
alla 
stregua 
di 
peculiare 
ricognizione 
di 
pagamento 
(cfr., 
in 
questo 
senso, 
T.a.r. 
Sicilia 
Palermo, 
Sez. 
II, 
Sent., 
7 
febbraio 
2023, n. 383, T.a.r. Sicilia, Sez. I, Sent., 12 dicembre 
2023, n. 3706, il 
“Vademecum 
Breve 
guida 
alla 
certificazione 
dei 
crediti”, 
presente 
sul 
sito 
web 
del 
m.E.F., nonché 
l’art. 7, del 
D.L. 35/2013, rubricato esplicitamente 
“ricognizione 
dei 
debiti 
contratti 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni”), mediante 
la 
quale 
l’ente, all’esito di 
determinate 
verifiche, riconosce, in virtù del 
rapporto 
obbligatorio 
intercorrente 
tra 
le 
parti, 
l’esistenza 
della 
condizione 
debitoria 
nei confronti del fornitore. 


La 
qualificazione 
dell’istituto in esame 
quale 
atto ricognitivo del 
debito 
ne conforma, inevitabilmente, gli effetti. 


Difatti, aderendo a 
tale 
configurazione, la 
certificazione 
non costituisce 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


autonoma 
fonte 
di 
obbligazione, 
ma 
ha 
solo 
un 
effetto 
confermativo 
di 
un 
preesistente rapporto fondamentale. 


Essa 
determina, ex 
art. 1988 c.c., un’astrazione 
meramente 
processuale 
della 
“causa 
debendi”, 
da 
cui 
deriva 
una 
semplice 
“relevatio 
ab 
onere 
probandi 
” 
che 
dispensa 
il 
destinatario della 
dichiarazione 
dall’onere 
di 
provare 
quel 
rapporto, che 
si 
presume 
fino a 
prova 
contraria, ma 
dalla 
cui 
esistenza 
o 
validità 
non può prescindersi 
sotto il 
profilo sostanziale, venendo meno ogni 
effetto vincolante 
della 
ricognizione 
stessa 
ove 
rimanga 
giudizialmente 
provato 
che 
il 
rapporto 
suddetto 
non 
è 
mai 
sorto, 
o 
è 
invalido, 
o 
si 
è 
estinto, 
ovvero 
che 
esista 
una 
condizione 
o un altro elemento ad esso attinente 
che 
possa 
comunque 
incidere 
sull’obbligazione 
derivante 
dal 
riconoscimento 
(cfr. 
Cass. 
civ. n. 20689/16). 


Le 
coordinate 
interpretative 
ora 
riassunte 
sembrano, quantomeno prima 
facie, 
ostare 
a 
una 
soluzione 
ermeneutica 
che 
individui 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
di 
cui 
al 
D.lgs. 
231/2002 
a 
partire 
dalla 
data 
di 
pagamento 
indicata 
nella 
certificazione, anziché dalla scadenza della singola fattura. 


Tale 
conclusione, 
del 
resto, 
trova 
conferma 
nel 
D.m. 
del 
22 
maggio 
2012, 
in materia 
di 
“modalità di 
certificazione 
del 
credito, anche 
in forma telematica, 
di 
somme 
dovute 
per 
somministrazione, 
forniture 
e 
appalti, 
da 
parte 
delle 
regioni, degli 
enti 
locali 
e 
degli 
enti 
del 
Servizio Sanitario nazionale, di 
cui 
all’articolo 
9, 
commi 
3-bis 
e 
3-ter 
del 
decreto-legge 
29 
novembre 
2008, 
n. 
185, convertito con modificazioni 
dalla legge 
28 gennaio 2009, n. 2 e 
successive 
modificazioni 
e 
integrazioni”, 
che, 
all’art. 
1, 
comma 
2, 
espressamente 
precisa 
che: 
“resta fermo che 
la certificazione 
non 
pregiudica il 
diritto del 
creditore 
agli 
interessi 
relativi 
ai 
crediti 
di 
cui 
al 
comma 
1, 
in 
qualunque 
modo definiti, come 
regolati 
dalla normativa vigente 
o, ove 
possibile 
e 
indicato, 
dalle pattuizioni contrattuali tra le parti”. 


In questo senso, può richiamarsi, altresì, la 
delibera 
della 
Corte 
dei 
Conti 
Toscana, Sez. contr., n. 4/2013, ai 
sensi 
della 
quale: 
“Tale 
normativa (art. 4 
del 
d.lgs. n. 231/2002) non confligge, così, con la disposizione 
di 
cui 
all’art. 
9, comma 3 bis, del 
d.l. n. 185/2008, convertito dalla legge 
n. 2/2009 e 
successive 
modificazioni 
ed integrazioni, che 
disciplina, invece, l’iter 
del 
pagamento 
dei 
debiti 
pregressi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
consentendo 
al 
creditore 
di 
richiedere 
la certificazione 
del 
credito ai 
fini 
della cessione 
pro 
soluto 
o 
pro 
solvendo 
dello 
stesso, 
essendo 
il 
ricorso 
a 
tale 
facoltà 
volto 
a 
soddisfare, al 
fine 
di 
un adempimento seppur 
tardivo in ragione 
del 
ritardo 
del 
debitore 
quale 
circostanza impeditiva dell’estinzione 
del 
rapporto obbligatorio, 
i 
crediti 
vantati 
dai 
soggetti 
privati 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
debitrici. Pertanto le 
due 
norme 
si 
pongono su 
piani 
differenti, stante 
la diversa 
ratio, l’una prevedendo, nell’ambito delle 
transazioni 
commerciali, dei 
termini 
legali 
entro i 
quali 
il 
pagamento deve 
essere 
soddisfatto al 
fine 
di 
non 
incorrere 
nella corresponsione 
al 
creditore 
degli 
interessi 
di 
mora, e 
dunque 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


il 
rispetto temporale 
dei 
pagamenti 
entro termini 
certi 
da parte 
del 
debitore, 
l’altra 
conferendo 
la 
possibilità 
al 
creditore, 
su 
sua 
istanza, 
di 
ottenere 
la 
certificazione 
del 
credito ai 
fini 
della successiva cessione 
pro solvendo o pro soluto 
dello 
stesso, 
in 
costanza 
di 
debiti 
pregressi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
nei 
confronti 
dei 
creditori 
e, quindi 
presupponendosi 
anche 
l’evidente 
mancato rispetto della normativa recata dal 
d.lgs. n. 231/2002 e 
il 
conseguente 
ulteriore 
esborso per 
la P.a. di 
rilevanti 
interessi 
moratori 
generati 
dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione”. 


ne 
consegue 
che, 
nella 
prospettiva 
ora 
citata, 
la 
certificazione 
del 
credito 
postula, necessariamente, l’avvenuta 
scadenza 
del 
termine 
di 
pagamento del 
debito 
(cfr. 
anche 
“Vademecum 
Breve 
guida 
alla 
certificazione 
dei 
crediti”, 
pag. 3, nota 
a 
pié 
di 
pagina 
n. 2: 
“ai 
fini 
dell’ottenimento della certificazione, 
il 
credito 
è 
certo, 
liquido 
ed 
esigibile 
quando 
è 
riferito 
ad 
un’obbligazione 
perfezionata, correttamente 
registrata nelle 
scritture 
contabili 
dell’ente 
debitore 
e 
per 
la quale 
è 
scaduto il 
termine 
di 
pagamento. inoltre, non debbono 
sussistere 
fattori 
impeditivi 
del 
pagamento, 
come 
l’esistenza 
di 
contenziosi, 
eccezioni di inadempimento o condizioni sospensive”). 


Coerentemente 
a 
tale 
ricostruzione, “il 
sistema delineato dall’art. 9, co. 
3bis 
d.l. n. 185/2008 (nonché 
del 
dm 25 giugno 2012) costituisce 
uno strumento 
ampliativo delle 
possibilità spettanti 
all’impresa in credito con la p.a 
per 
addivenire 
al 
recupero dello stesso e, come 
si 
evidenza, non impedisce 
all’impresa 
di 
ricorrere, in via principale, al 
rimedio giurisdizionale, né 
interferisce 
con 
la 
disciplina 
dei 
pagamenti 
ex 
d.lgs. 
n. 
231/2002 
(stante 
la 
diversità 
oggettiva 
di 
presupposti), 
non 
impedendo 
all’impresa 
(in 
alternativa 
alla certificazione) di 
agire 
in sede 
giurisdizionale 
e 
ciò anche 
per 
gli 
importi 
dovuti 
a 
titolo 
di 
interessi 
moratori 
o 
per 
il 
risarcimento 
dei 
danni” 
(T.a.r. 
Lazio, Sez. II, Sent., 13 gennaio 2023, n. 622). 


In sostanza, dall’autonomia 
tra 
le 
discipline 
in esame, operanti 
su piani 
distinti, non può che 
conseguire 
la 
decorrenza, automatica, degli 
interessi 
di 
mora 
a 
partire 
dalla 
scadenza 
delle 
singole 
fatture, 
in 
coerenza 
con 
quanto 
previsto 
dal 
D.lgs. 231/2002, che 
prescrive 
termini 
di 
pagamento predeterminati 
con 
una 
forte 
limitazione 
alla 
eventuale 
deroga 
pattizia 
(cfr., 
in 
particolare, 
art. 
4, 
comma 
4, 
del 
citato 
D.lgs.), 
non 
risultando 
ostativa 
a 
siffatta 
conclusione 
l’intervenuta 
certificazione 
del 
credito, 
che 
determina, 
invece, 
una 
(mera) 
astrazione c.d. processuale del rapporto. 


La 
conclusione 
ora 
descritta 
si 
correla, peraltro, alla 
funzione 
svolta 
dal-
l’istituto della 
certificazione 
del 
credito, che 
mira 
a 
favorire 
lo smobilizzo dei 
crediti 
vantati 
dalle 
imprese 
nei 
confronti 
della 
P.A., 
operando 
sinergicamente 
con la 
disciplina 
di 
derivazione 
euro-unitaria 
sui 
ritardi 
nei 
pagamenti 
delle 
transazioni 
commerciali, 
nell’ottica 
del 
buon 
funzionamento 
dell’economia 
nazionale. 


* 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Tantomeno risulta 
dirimente 
ai 
fini 
di 
una 
diversa 
conclusione 
al 
quesito 
oggetto 
del 
presente 
parere, 
la 
configurazione, 
in 
tesi, 
pubblicistica 
dell’istituto 
in 
esame 
quale 
espressione 
di 
un 
potere, 
ancorché 
vincolato, 
espletato 
dal-
l’Amministrazione 
in virtù della 
posizione 
di 
“supremazia” 
che 
la 
stessa 
riveste 
nell’ordinamento quale 
soggetto istituzionalmente 
preposto alla 
tutela 
di 
interessi pubblicistici. 


Più nello specifico, secondo una 
certa 
impostazione, la 
certificazione 
del 
credito non rappresenterebbe 
una 
“(...) attività meramente 
ricognitiva di 
documentazione, 
di 
una 
manifestazione 
di 
scienza 
e 
conoscenza 
i 
cui 
presupposti, 
contenuti 
ed 
effetti 
siano 
integralmente 
predeterminati 
dalla 
legge, 
poiché 
sottesi 
all’emissione 
del 
provvedimento 
in 
questione 
sono 
i 
poteri 
di 
verifica 
dell’esistenza e 
regolarità dell’obbligazione, del 
mancato intervento di 
cause 
di 
estinzione 
del 
debito, di 
modo che 
la corrispondente 
posizione 
dei 
privati 
interessati 
non risulta essere 
di 
diritto, in quanto nell’esercizio di 
tale 
potestà 
amministrativa 
di 
carattere 
autoritativo 
l’amministrazione 
non 
agisce 
iure 
privatorum, e 
correlativamente, il 
privato non è 
titolare 
di 
un diritto soggettivo” 
(Cons. giust. amm. Sicilia, Sent., 13 settembre 2021, n. 802). 


Facendo applicazione 
di 
tali 
coordinate 
ermeneutiche, si 
è 
ritenuto che 
la 
certificazione 
del 
credito integrerebbe 
un “atto soggettivamente 
ed oggettivamente 
amministrativo, emesso nell’esercizio di 
poteri 
autoritativi 
e 
che 
non 
si 
esaurisce 
in 
una 
mera 
operazione 
contabile 
che 
culmina 
nella 
certificazione 
del 
credito, 
essendo, 
invece, 
dal 
punto 
di 
vista 
logico 
e 
semantico, 
espressione 
di 
un 
motivato 
giudizio 
critico” 
(T.a.r. 
Campania 
-Salerno, 
Sez. 
III, 
22 
dicembre 
2023, n. 3033). 


Tale 
qualificazione 
risulterebbe, del 
resto, confermata 
dallo stesso art. 9, 
comma 
3-bis, del 
D.L. 185/2008, laddove 
prevede, a 
fronte 
dell’inerzia 
del-
l’Amministrazione 
sull’istanza 
di 
certificazione 
veicolata 
dal 
creditore, 
la 
nomina 
del 
Commissario 
ad 
acta 
ovvero 
la 
possibilità 
di 
esperire 
poteri 
sostitutivi. 


Sennonché, per un verso 
la 
ricostruzione 
pubblicistica 
dell’istituto, alla 
stregua 
di 
vero e 
proprio “provvedimento amministrativo”, risulta 
assai 
controversa 
nella stessa giurisprudenza amministrativa. 


A 
tal 
fine, 
può 
richiamarsi 
Cons. 
Stato 
n. 
4188/2019, 
punto 
3.3.2., 
per 
cui 
la 
certificazione 
del 
credito “non ha effetti 
costitutivi, ma meramente 
dichiarativi”, 
nonché 
T.a.r. Sicilia 
Palermo, Sez. II, Sent., 28 maggio 2021, n. 1765, 
per 
cui 
l’attività 
in 
esame 
“non 
è 
di 
tipo 
autoritativo 
ma 
meramente 
ricognitiva 
e 
certificativa 
(non 
costitutiva) 
di 
un 
debito 
da 
parte 
dell’amministrazione 
medesima”. 


Per altro verso 
e 
in ogni 
caso, siffatta 
configurazione 
non sembrerebbe 
comunque 
idonea 
a 
mutare 
la 
soluzione 
alla 
problematica 
oggetto 
del 
presente 
parere, 
non 
potendosi 
ricollegare 
a 
tale 
attività 
-e, 
correlativamente, 
al 
“provvedimento” 
di 
certificazione 
-un effetto preclusivo/demolitorio rispetto agli 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


interessi 
ex 
D.lgs. 
231/2002 
che 
risultano, 
invece, 
già 
maturati 
al 
momento 
dell’istanza. 


Tale 
ultima 
conclusione, del 
resto, non trova 
a 
suo favore 
concreti 
indici 
normativi, limitandosi 
il 
legislatore 
a 
specificare, all’art. 9, comma 
3-bis, del 


D.L. n. 185 del 
2008, conv. dalla 
L. n. 2 del 
2009, che 
“(...) la certificazione 
deve 
indicare 
obbligatoriamente 
la 
data 
prevista 
di 
pagamento 
(...)”, 
senza 
che 
da 
ciò possa 
trarsi 
sic 
et 
simpliciter 
l’azzeramento degli 
interessi 
nel 
frattempo 
maturati. 
* 


Ciò 
considerato, 
questo 
G.U. 
ritiene 
di 
dover 
rimeditare 
il 
precedente 
avviso 
espresso 
in 
materia, 
alla 
luce 
di 
una 
complessiva 
ricognizione 
sistematica 
della 
normativa 
rilevante 
e 
del 
successivo attestarsi 
della 
giurisprudenza 
che 
ha 
qualificato 
la 
certificazione 
del 
credito 
quale 
(mera) 
ricognizione 
di 
debito, 
così 
da 
individuare 
il 
dies 
a quo 
di 
decorrenza 
degli 
interessi 
di 
cui 
al 
D.lgs. 
231/2002 -non alla 
data 
di 
pagamento indicata 
nell’atto di 
certificazione, ma 


-a partire dalla scadenza di ciascuna singola fattura. 
La 
presente 
consultazione 
è 
stata 
resa 
sentito 
previamente 
il 
Comitato 
Consultivo dell’Avvocatura 
dello Stato che, nella 
seduta 
del 
10 ottobre 
2024, 
si è espresso in conformità. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Sentenza Corte costituzionale n. 185/2021. declaratoria di 
incostituzionalità della sanzione amministrativa di cui all’art. 
7, co. 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, 


n. 158 conv. in l. n. 189/2012. Quesiti sui limiti di retroattività 
Parere 
del 
12/02/2025-108126/108127, 
al 43050/2021, Sez. iii, aVV. FranceSca 
SuBrani 


Con la 
nota 
in epigrafe, codesta 
Agenzia 
ha 
chiesto il 
parere 
dello scrivente 
G.U. riguardo ai 
limiti 
di 
retroattività 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
in 
oggetto, 
la 
quale 
ha 
dichiarato 
incostituzionale 
la 
sanzione 
amministrativa 
di 
cui 
al 
sesto comma, secondo periodo, dell’art. 7 del 
d.l. n. 
158/2012, conv. con modif. dalla L. n. 189/12. 


I 
quesiti 
posti 
riguardano, 
in 
particolare, 
la 
perdurante 
debenza 
della 
sanzione 
non 
ancora 
versata 
al 
tempo 
della 
dichiarazione 
di 
incostituzionalità, 
ma 
non impugnata 
dal 
destinatario; 
della 
sanzione 
impugnata, ma 
accertata 
come 
dovuta 
con sentenza 
passata 
in giudicato, o ancora 
versata 
solo parzialmente 
per effetto di 
rateizzazione. Con riguardo alla 
iscrizione 
a 
ruolo a 
seguito del 
mancato adempimento spontaneo, poi, codesta 
Agenzia 
chiede 
se 
essa 
possa 
considerarsi 
equivalente 
al 
pagamento spontaneo ai 
fini 
di 
una 
qualificazione 
come 
eseguita 
della 
sanzione, il 
che 
dovrebbe 
costituire 
un limite 
alla 
retroattività 
della dichiarazione di incostituzionalità. 


nella 
richiesta 
di 
parere 
si 
richiamano i 
principi 
affermati 
dalla 
Corte 
costituzionale 
con la 
sentenza 
n. 68/2021, la 
quale 
ha 
dichiarato l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 
30, 
quarto 
comma, 
della 
legge 
n. 
87 
del 
1953 
“in 
quanto interpretato nel 
senso che 
la disposizione 
non si 
applica in relazione 
alla sanzione 
amministrativa accessoria della revoca della patente 
di 
guida 
[sanzione 
amministrativa a connotazione 
punitiva], disposta con sentenza irrevocabile”. 
Codesta 
Agenzia 
pone 
un quesito circa 
l’applicabilità 
nel 
caso di 
specie dei principi in essa affermati. 


Si 
rileva 
anzitutto 
che 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
espressamente 
qualificato 
sostanzialmente 
penale 
la 
sanzione 
qui 
in esame. L’ampliamento del 
concetto 
di 
materia 
penale 
origina, 
è 
noto, 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
EDU 
8 
giugno 
1976, engel 
e 
altri 
c. Paesi 
Bassi, con la 
quale 
la 
Corte 
ha 
indicato i 
criteri 
con 
cui 
determinare 
quali 
misure 
abbiano 
natura 
sostanzialmente 
penale: 
la 
qualificazione 
giuridica 
interna; 
la 
natura 
dell’illecito e 
la 
funzione 
del 
conseguente 
provvedimento previsto, che 
deve 
essere 
applicabile 
in modo generale 
e 
avere 
scopo 
preventivo 
e 
repressivo; 
la 
gravità 
della 
sanzione, 
non 
necessariamente 
privativa 
della 
libertà 
personale. 
Tali 
criteri, 
alternativi 
e 
non 
cumulativi, 
sono 
stati 
confermati 
e 
si 
sono 
consolidati 
nella 
giurisprudenza 
successiva della stessa Corte, e sono stati accolti nel diritto interno. 


“Superando 
precedenti 
decisioni 
di 
segno 
contrario”, 
si 
legge 
nella 
citata 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


sentenza 
n. 
68 
del 
2021 
della 
Corte 
costituzionale, 
“questa 
corte 
ha 
ormai 
esteso alle 
sanzioni 
amministrative 
a carattere 
punitivo -in quanto tali 
(indipendentemente, 
cioè, 
dalla 
caratura 
dei 
beni 
incisi) 
-larga 
parte 
dello 
“statuto 
costituzionale” 
sostanziale 
delle 
sanzioni 
penali: 
sia 
quello 
basato 
sull’art. 
25 cost. -irretroattività della norma sfavorevole 
(sentenze 
n. 96 del 
2020, n. 
223 del 
2018 e 
n. 68 del 
2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze 
n. 
112 del 
2019 e 
n. 121 del 
2018; ordinanza n. 117 del 
2029), determinatezza 
dell’illecito e 
delle 
sanzioni 
(sentenze 
n. 134 del 
2029 e 
n. 121 del 
2028) -sia 
quello 
basato 
su 
altri 
parametri, 
e 
in 
particolare 
sull’art. 
3 
cost. 
-retroattività 
della lex 
mitior 
(sentenza n. 63 del 
2019), proporzionalità della sanzione 
alla 
gravità del 
fatto (sentenza n. 112 del 
2019). [...] 
il 
principio di 
legalità costituzionale 
della 
pena 
[...] 
è 
“più 
forte” 
di 
quello 
di 
retroattività 
in 
mitius, 
il 
quale, 
nel 
caso 
di 
successione 
di 
leggi 
modificative, 
incontra, 
di 
regola, 
in 
base 
alla normativa codicistica, il 
limite 
della definitività della pronuncia di 
condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen). alla luce 
del 
diritto vivente 
formatosi 
in sede 
di 
interpretazione 
dell’art. 30, quarto comma, della legge 
n. 
87 del 
1953 -come 
si 
è 
visto (supra, punto 2.2. del 
considerato in diritto) tale 
limite 
non opera invece 
nel 
caso di 
declaratoria di 
illegittimità costituzionale 
che 
rimoduli 
il 
trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza 
che 
la pena risulti 
conforme 
a costituzione 
lungo tutto il 
corso della sua esecuzione 
prevale 
sulle 
esigenze 
di 
certezza e 
stabilità dei 
rapporti 
giuridici, a 
cui presidio, è posto l’istituto del giudicato”. 


Con la 
sentenza 
n. 63 del 
2019, invece, la 
Corte 
aveva 
dichiarato costituzionalmente 
illegittimo l’art. 6, comma 
2, del 
d.lgs. n. 72/2015, in relazione 
agli 
artt. 
3 
e 
117 
comma 
1 
Cost. 
(quest’ultimo 
per 
rinvio 
all’art. 
7 
della 
CEDU), nella 
parte 
in cui 
esclude 
l’applicazione 
retroattiva 
delle 
modifiche 
favorevoli 
apportate 
alle 
sanzioni 
amministrative 
previste 
per l’illecito disciplinato 
dall’art. 187-bis 
del 
d.lgs. n. 58/1998, “dato che 
la regola di 
derivazione 
penale 
deve 
ritenersi 
applicabile 
anche 
agli 
illeciti 
amministrativi 
aventi 
natura e 
funzione 
punitiva, salvo che 
vi 
sia la necessità di 
tutelare 
interessi 
di 
rango costituzionale 
prevalenti 
tali 
da resistere 
al 
«vaglio positivo di 
ragionevolezza
», 
al 
cui 
metro 
debbono 
essere 
valutate 
le 
deroghe 
al 
principio 
di 
retroattività 
in 
mitius” 
(sulla 
necessità 
di 
un 
vaglio 
positivo 
di 
ragionevolezza 


v. Corte cost., sent. n. 394 del 2006). 
Quando poi 
l’inapplicabilità 
della 
sanzione 
sia 
conseguenza 
non di 
una 
abolitio criminis, ma 
di 
una 
pronuncia 
di 
illegittimità 
costituzionale, la 
massima 
retroattività 
favorevole 
deve 
a 
maggior ragione 
ritenersi. Il 
titolo della 
sanzione 
pecuniaria 
è 
infatti 
da 
considerare 
inesistente 
fin 
dall’origine, 
una 
volta 
eliminata 
dall’ordinamento la 
norma 
che 
la 
prevedeva. La 
norma 
incostituzionale 
viene 
infatti 
espunta 
dall’ordinamento 
perché 
affetta 
da 
invalidità 
originaria, appunto, per cui 
essa 
non è 
più applicabile 
dal 
giudice 
davanti 
al 
quale sia invocata. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Le 
sentenze 
di 
accoglimento delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale, 
pur avendo efficacia 
retroattiva, non operano peraltro, per consolidato principio 
operante 
anche 
nella 
materia 
penale, 
con 
riferimento 
ai 
cosiddetti 
“rapporti 
esauriti” 
(cfr. 
Cass. 
pen., 
sez. 
IV, 
sent. 
1 
febbraio 
2018, 
n. 
12261), 
ossia 
quando 
la 
pena 
sia 
stata 
interamente 
eseguita 
(v. al 
riguardo S.U., sentenza 
Gatto, 14 
ottobre 2014, tuttora punto di riferimento in materia). 


Al 
riguardo la 
S.C., con riguardo alle 
sanzioni 
pecuniarie 
penali, superando 
opposto 
orientamento 
(espresso 
da 
Cass. 
pen., 
19 
ottobre 
2018, 
n. 
20248), ha 
affermato la 
possibilità 
di 
pervenire 
alla 
rideterminazione 
in executivis 
della 
pena 
irrogata 
sulla 
base 
di 
una 
cornice 
edittale 
poi 
dichiarata 
incostituzionale, 
perché 
il 
mancato 
integrale 
adempimento 
della 
sanzione 
pecuniaria 
non permette 
di 
ravvisare 
esaurimento del 
rapporto (Cass. pen., 27 
aprile 
2020, 
n. 
13072). 
Deve 
dedursene 
che, 
nel 
caso 
di 
integrale 
adempimento 
prima 
della 
declaratoria 
di 
incostituzionalità, il 
rapporto è 
invece 
da 
considerarsi 
esaurito ai sensi dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953. 


Pertanto, per effetto della 
dichiarazione 
di 
incostituzionalità 
della 
norma 
che 
la 
prevedeva, la 
sanzione 
irrogata 
da 
codesta 
Agenzia 
sembra 
alla 
Scrivente 
doversi 
considerare 
non dovuta 
in tutti 
i 
casi 
evidenziati 
nella 
richiesta 
di 
parere, con conseguente 
obbligo di 
restituzione 
delle 
somme 
già 
ricevute 
in pagamento. In applicazione 
dei 
principi 
in materia 
di 
ripetizione 
dell’indebito, 
tuttavia, troverà 
applicazione 
il 
termine 
di 
prescrizione 
ordinario decennale, 
decorrente dal momento del pagamento delle singole rate. 


Esaurito 
deve 
invece 
considerarsi 
il 
rapporto 
quando 
la 
sanzione 
pecuniaria 
sia 
stata 
interamente 
corrisposta, per cui 
in tal 
caso le 
somme 
riscosse 
non dovranno essere restituite. 


In conclusione: 


-chi 
non abbia 
ancora 
pagato è 
liberato, anche 
se 
vi 
è 
giudicato sulla 
debenza 
della 
sanzione 
o 
consolidamento 
del 
provvedimento 
per 
mancata 
impugnazione; 
-chi 
abbia 
solo parzialmente 
adempiuto ha 
diritto di 
chiedere 
la 
ripetizione 
dell’indebito nei 
limiti 
della 
prescrizione, perché 
il 
rapporto non può in 
tal caso dirsi esaurito; 
-chi 
abbia 
interamente 
adempiuto prima 
della 
declaratoria 
di 
incostituzionalità 
non ha 
diritto di 
chiedere 
la 
ripetizione 
dell’indebito, perché 
il 
rapporto 
è da considerarsi esaurito. 
Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato consultivo, che 
si 
è 
espresso in 
conformità nella seduta del 22 gennaio 2025. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


Avvocature 
c.d. 
interne 
delle 
Amministrazioni 
Pubbliche 
e 
del 
Parastato. 
interpretazione 
della 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
1 
co. 
208 
Legge 
Finanziaria 
2006: 
quesito 
sulla 
liquidabilità 
degli 
oneri 
riflessi 
-contributivi 
e 
previdenziali 
a 
carico 
della 
parte 
soccombente 
di 
un 
giudizio 


Parere 
del 
25/02/2025-140041, al 19762/2023, Sez. iii, aVV. SaBrina 
PuGlieSe 
Parere 
del 
25/02/2025-140062/140064, al 31374/2023, Sez. iii, aVV. SaBrina 
PuGlieSe 


Con due 
autonome 
richieste 
di 
parere, il 
ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
e 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
milano chiedono allo scrivente 
Generale 
Ufficio di 
esprimersi 
sulla 
questione 
di 
massima 
relativa 
alla 
richiesta 
avanzata 
dall’Ente 
territoriale 
(nel 
primo caso Regione 
Umbria, nel 
secondo caso Città 
metropolitana 
di 
milano) di 
pagare, in aggiunta 
alle 
spese 
di lite liquidate in sentenza, i c.d. oneri riflessi. 


nello 
specifico, 
sia 
il 
ministero 
che 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
rimettente 
riferiscono 
che 
in 
fase 
di 
pagamento 
la 
controparte 
ha 
precisato 
che, 
in 
sostituzione 
di 
ivA 
e 
CPA, 
vanno 
liquidati 
gli 
oneri 
riflessi, 
in 
quanto 
il 
difensore 
è 
“interno” 
all’avvocatura 
regionale 
e 
all’avvocatura 
comunale: 
evidenziano, 
tuttavia, 
un 
dubbio 
interpretativo 
circa 
la 
legittimità 
della 
suddetta 
richiesta, 
corroborato 
da 
un 
contrasto 
giurisprudenziale. 


Al 
fine 
di 
rispondere 
compiutamente 
al 
quesito 
posto 
occorre 
preliminarmente 
esaminare 
l’istituto 
degli 
oneri 
riflessi 
per 
poi 
passare 
agli 
orientamenti 
giurisprudenziali registratisi. 


Premessa. inquadramento della questione. 


Come 
noto, 
il 
regolamento 
delle 
spese 
di 
lite 
è 
disciplinato 
dall’art. 
91 
c.p.c., 
ai 
sensi 
del 
quale 
“il 
giudice, 
con 
la 
sentenza 
che 
chiude 
il 
processo 
davanti 
a 
lui, 
condanna 
la 
parte 
soccombente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
a 
favore 
dell’altra 
parte 
e 
ne 
liquida 
l’ammontare 
insieme 
con 
gli 
onorari 
di 
difesa”: 
la 
ratio 
della 
norma, 
evidentemente 
di 
chiovendiana 
memoria, 
è 
quella 
di 
tenere 
indenne 
la 
parte 
vittoriosa 
da 
ogni 
spesa 
che 
ha 
subito 
in 
virtù 
della 
lite, 
ripristinando 
lo 
status 
quo 
ante. 
Gli 
oneri 
accessori 
cui 
normalmente 
si 
riferiscono 
le 
decisioni 
giudiziarie 
per 
i 
c.d. 
avvocati 
del 
libero 
foro 
sono 
gli 
accessori 
previsti 
per 
legge, 
quali 
IVA 
e 
CPA 
(Cassa 
Previdenza 
Avvocati) 
che, 
in 
quanto 
giustappunto 
accessori, 
si 
aggiungono 
al 
compenso 
delle 
spese 
di 
lite 
sostenute 
dalla 
parte 
vittoriosa 
e, 
pertanto, 
vengono 
liquidati 
a 
parte 
dal 
giudice. 


Alla 
disciplina 
generale, prevista 
per gli 
avvocati 
che 
esercitano la 
libera 
professione, 
è 
sopraggiunta, 
in 
tempi 
recenti, 
una 
disciplina 
settoriale 
che 
concerne 
esclusivamente 
le 
avvocature 
c.d. 
interne 
delle 
Amministrazioni 
Pubbliche 
e 
del 
Parastato (1), cristallizzata 
dalla 
legge 
del 
23 dicembre 
2005, n. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


266 (finanziaria 
2006) il 
cui 
art. 1 comma 
208 afferma 
che 
“le 
somme 
finalizzate 
alla 
corresponsione 
di 
compensi 
professionali 
comunque 
dovuti 
al 
personale 
dell’avvocatura interna delle 
amministrazioni 
pubbliche 
sulla base 
di 
specifiche 
disposizioni 
contrattuali 
sono 
da 
considerare 
comprensive 
degli 
oneri 
riflessi 
a 
carico 
del 
datore 
di 
lavoro”. 
Ebbene, 
proprio 
in 
ragione 
di 
tale 
novum 
normativo 
si 
è 
acceso 
un 
vivace 
dibattito 
interpretativo 
concernente 
la 
reale 
portata 
della 
norma 
poc’anzi 
riportata 
che 
ha 
condotto alla 
richiesta 
di parere che nella presente sede si riscontra. 


Si 
evidenzia 
sin 
d’ora 
che 
da 
attenta 
analisi 
delle 
pronunce 
registrate 
sulla 
questione sono emersi distinti profili, strettamente connessi tra loro: 


1. l’esatta 
perimetrazione 
della 
locuzione 
“oneri 
riflessi” 
con riferimento 
all’inclusione, o meno, dell’IRAP; 
2. se 
tale 
voce 
sia 
già 
inclusa, o meno, nella 
liquidazione 
delle 
spese 
da 
parte del giudice; 
3. 
a 
chi 
spetti 
il 
pagamento 
degli 
“oneri 
riflessi” 
nel 
caso 
in 
cui 
questi 
vengano espressamente 
indicati 
autonomamente 
dal 
giudice 
in sede 
di 
regolamentazione 
delle spese di lite. 
1. L’esatta perimetrazione. Profili definitori. 
Come 
già 
evidenziato, 
il 
problema 
degli 
oneri 
c.d. 
riflessi 
riguarda 
esclusivamente 
i 
lavoratori/avvocati 
delle 
c.d. avvocature 
interne 
ex art. 23 legge 


n. 247 del 
2012 in quanto, essendo carente 
tanto l’attività 
imprenditoriale 
autonoma, 
quanto l’obbligatorietà 
dell’iscrizione 
all’albo ordinario forense, sul 
compenso liquidato in sentenza non devono calcolarsi né l’IVA né il CPA. 
In tal 
senso si 
è 
infatti 
espressa 
la 
giurisprudenza 
evidenziando, con riferimento 
all’InPS, che 
“con il 
quarto motivo la ricorrente 
lamenta la violazione 
e 
falsa 
applicazione 
del 
d.P.r. 
n. 
633 
del 
1972, 
art. 
1, 
l. 
n. 
247 
del 
2012, 
art. 
1, 
l. 
n. 
247 
del 
2012, 
artt. 
21 
e 
23, 
e 
l’omesso 
esame 
di 
fatti 
decisivi 


(1) Che, a 
seguito della 
riforma 
dell’ordinamento forense 
di 
cui 
alla 
legge 
n. 247 del 
31 dicembre 
2012, risultano unitariamente 
riconducibili 
nell’ambito di 
applicabilità 
dell’art. 23 della 
legge 
cit. (Avvocati 
degli 
enti 
pubblici) 
a 
mente 
del 
quale: 
“1. 
Fatti 
salvi 
i 
diritti 
acquisiti 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
legge, 
gli 
avvocati 
degli 
uffici 
legali 
specificamente 
istituiti 
presso 
gli 
enti 
pubblici, 
anche 
se 
trasformati 
in persone 
giuridiche 
di 
diritto privato, sino a quando siano partecipati 
prevalentemente 
da 
enti 
pubblici, 
ai 
quali 
venga 
assicurata 
la 
piena 
indipendenza 
ed 
autonomia 
nella 
trattazione 
esclusiva 
e 
stabile 
degli 
affari 
legali 
dell’ente 
ed 
un 
trattamento 
economico 
adeguato 
alla 
funzione 
professionale 
svolta, sono iscritti 
in un elenco speciale 
annesso all’albo. l’iscrizione 
nell’elenco è 
obbligatoria 
per 
compiere 
le 
prestazioni 
indicate 
nell’articolo 
2. 
nel 
contratto 
di 
lavoro 
è 
garantita 
l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato. 
2. Per 
l’iscrizione 
nell’elenco gli 
interessati 
presentano la deliberazione 
dell’ente 
dalla quale 
risulti 
la 
stabile 
costituzione 
di 
un ufficio legale 
con specifica attribuzione 
della trattazione 
degli 
affari 
legali 
dell’ente 
stesso e 
l’appartenenza a tale 
ufficio del 
professionista incaricato in forma esclusiva di 
tali 
funzioni; 
la 
responsabilità 
dell’ufficio 
è 
affidata 
ad 
un 
avvocato 
iscritto 
nell’elenco 
speciale 
che 
esercita 
i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale. 
3. Gli avvocati iscritti nell’elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine”. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


per 
il 
giudizio poiché 
la corte 
territoriale 
avrebbe 
errato nel 
riconoscere 
agli 
avvocati 
dell’inPS, dipendenti 
di 
quest’ultimo ente, oltre 
ai 
compensi 
professionali, 
l’iVa 
e 
la cPa. la doglianza merita accoglimento, in quanto gli 
avvocati 
dell’inPS, 
sono 
dipendenti 
di 
quest’ultimo 
ente, 
con 
la 
conseguenza 
che 
la prestazione 
da loro resa in 
favore 
di 
detta P.A. non 
è 
assoggettata ad 
IVA 
ex D.P.R. n. 633 del 
1972, non venendo in rilievo una cessione 
di 
beni 
od 
una 
prestazione 
di 
servizi 
nell’esercizio 
di 
una 
professione. 
inoltre, 
essi 


non 
sono iscritti 
all’albo ordinario degli 
avvocati, ma ad un 
albo speciale 
e 
quindi, non 
alla Cassa previdenziale 
degli 
Avvocati, 
ma ad una apposita gestione 
separata, al 
che 
consegue 
la non debenza della cPa” 
(Cass. Civ., Sez. 
Lav., Ord. n. 6343/2023). 


Pertanto, posto che 
non debbano riconoscersi 
IVA 
e 
CPA, tuttavia, a 
carico 
del 
datore 
di 
lavoro/Ente 
pubblico, 
sussistono 
degli 
oneri 
aggiuntivi 
in 
virtù della peculiare posizione lavorativa subordinata. 


Tali 
oneri, che 
verranno meglio definiti 
nel 
prosieguo come 
oneri 
previdenziali 
e 
assistenziali, devono essere 
tenuti 
distinti 
tanto dalla 
posta 
retributiva 
“fissa” 
quanto dalla 
posta 
“variabile” 
costituita 
dagli 
onorari 
(o propine) 
in 
quanto 
“la 
corresponsione 
dei 
compensi 
professionali 
(cd. 
onorari) 
che, 
come 
è 
noto, non presentano i 
requisiti 
di 
stabilità, predeterminazione, fissità 
e 
continuità propri, invece, dello stipendio tabellare, vada effettuata al 
netto 
degli 
oneri 
riflessi 
a carico del 
datore 
di 
lavoro” 
(Corte 
dei 
Conti, Sez. Reg. 
Controllo Emilia Romagna, Delibera n. 34/2007/par n. 4). 


1.1 Gli oneri diretti e gli oneri riflessi. L’iRAP. 
Per 
l’esatta 
perimetrazione 
della 
locuzione 
“oneri 
riflessi” 
è 
di 
ausilio 
la 
giurisprudenza 
contabile 
che 
ha 
rimarcato 
la 
distinzione 
tra 
oneri 
fiscali, 
da 
un 
lato, 
e 
oneri 
previdenziali 
e 
assistenziali, 
dall’altro, 
chiarendo 
che 
i 
primi 
sarebbero 
“diretti” 
in 
quanto 
a 
carico 
dell’Amministrazione 
stessa 
in 
contrapposizione 
con 
i 
secondi 
“indiretti” 
e, 
quindi, 
“riflessi” 
(Corte 
dei 
Conti, 
Sezioni 
Riunite, 
deliberazione 
n. 
33/COnT/2010). 
Dunque 
“l’espressione 
oneri 
riflessi, 
se 
da 
una 
parte 
ricomprende 
gli 
oneri 
previdenziali 
e 
assistenziali, 
dall’altra, 
non 
può 
estendersi 
all’IRAP 
” 
(da 
ultimo 
Corte 
dei 
Conti, 
adunanza 
n. 
2/SEZ.AUT/2023) 
in 
quanto 
“per 
detti 
soggetti, 
non 
si 
realizzano 
i 
presupposti 
per 
l’applicazione 
dell’iraP 
dato 
che 
tali 
soggetti 
sono 
privi 
di 
autonoma 
organizzazione... 
infatti, 
il 
presupposto 
impositivo 
dell’iraP 
si 
realizza 
in 
capo 
all’ente 
che 
eroga 
il 
compenso 
di 
lavoro 
dipendente, 
il 
quale 
rappresenta 
il 
soggetto 
passivo 
dell’imposta, 
cioè 
colui 
che, 
nella 
valutazione 
del 
legislatore, 
in 
quanto 
titolare 
di 
detta 
organizzazione 
è 
tenuto 
a 
concorrere 
alle 
spese 
pubbliche, 
ai 
fini 
di 
detto 
tributo; 
conseguentemente 
l’onere 
fiscale 
non 
può 
gravare 
sul 
lavoratore 
dipendente 
in 
relazione 
a 
compensi 
di 
natura 
retributiva 
(agenzia 
delle 
entrate, 
risoluzione 
n. 
123/e 
del 
2 
aprile 
2008) 
bensì 
unicamente 
sul 
datore 
di 
lavoro 
” 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


(Corte 
dei 
Conti, 
Sezioni 
Riunite, 
deliberazione 
n. 
33 
cit., 
ripresa 
anche 
ex 
multis 
da 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
ordinanza 
n. 
21398/2019 
e 
da 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
ordinanza 
n. 
4681/2024). 


Del 
resto, 
l’espunzione 
dell’IRAP 
dagli 
oneri 
riflessi 
risulta 
altresì 
pacifica 
da 
un’analisi 
sistematica 
della 
medesima 
legge 
finanziaria 
per 
il 
2006 
in 
quanto 
“il 
legislatore 
fa 
espressamente 
riferimento 
all’iraP 
nei 
commi 
181 
(“comprensive 
degli 
oneri 
contributivi 
e 
dell’iraP), 
185 
(“comprensive 
degli 
oneri 
contributivi 
e 
dell’iraP) 
e 
198 
(“al 
lordo 
degli 
oneri 
riflessi 
a 
carico 
delle 
amministrazioni 
e 
dell’iraP); 
diversamente, 
nel 
comma 
208, 
oggetto 
della 
richiesta 
interpretativa, 
si 
fa 
riferimento 
esclusivamente 
agli 
“oneri 
riflessi” 
che, 
specie 
nel 
comma 
198, 
sono 
distinti 
dagli 
oneri 
fiscali 
derivanti 
dall’iraP. 
il 
confronto 
tra 
le 
espressioni 
utilizzate 
dal 
legislatore 
nei 
commi 
citati 
(in 
particolare 
i 
commi 
198 
e 
208) 
della 
stessa 
legge 
finanziaria 
n. 
266 
del 
2005, 
secondo 
il 
princpio 
ubi 
lex 
voluit 
dixit, 
ubi 
noluit 
tacuit 
(corte 
conti, 
sez. 
reg. 
di 
controllo 
per 
il 
molise, 
n. 
6/2009/Par), 
conduce 
ad 
escludere, 
in 
base 
al 
criterio 
testuale, 
che 
l’IRAP 
possa 
qualificarsi 
quale 
species 
degli 
oneri 
riflessi” 
(Corte 
dei 
Conti, 
Sezioni 
Riunite, 
deliberazione 
n. 
33 
cit.; 
nonché, 
altresì, 
Corte 
dei 
Conti, 
Sez. 
Reg. 
Controllo 
Emilia 
Romagna, 
Delibera 
n. 
34 
cit.). 


Ricostruito, quindi, il 
quadro generale 
emerge 
un primo punto fisso della 
disciplina, ossia 
che 
nella definizione 
di 
oneri 
riflessi 
non 
può mai 
includersi 
l’iRAP 
che 
per sua 
natura 
di 
“onere 
diretto”, ove 
ne 
ricorrano i 
presupposti, 
grava sempre ed esclusivamente sull’ente/datore di lavoro. 


2. La liquidazione 
onnicomprensiva operata dal 
giudice. i 
profili 
interni. 
Quanto evidenziato, tuttavia, non è 
sufficiente 
a 
dirimere 
tutti 
i 
dubbi 
interpretativi 
poiché, come 
precedentemente 
osservato, il 
dibattito si 
è 
ulteriormente 
sviluppato 
con 
riferimento 
a 
un 
diverso 
profilo, 
ossia 
se 
i 
suddetti 
oneri 
riflessi 
(solo contributivi 
e 
previdenziali, senza 
oneri 
fiscali 
e 
IRAP) possano 


o meno considerarsi 
già 
inclusi 
nella 
liquidazione 
operata 
in sede 
di 
regolamentazione 
delle spese dal giudice. 
In 
altri 
termini, 
ci 
si 
è 
chiesti 
se 
il 
quantum 
liquidato 
in 
sede 
di 
sentenza 
sia già comprensivo degli 
“oneri 
riflessi” 
-dovendo, quindi, l’Ente/datore 
di 
lavoro operare 
una trattenuta 
prima 
di 
versare 
gli 
onorari 
-oppure 
se 
il 
quantum 
liquidato 
sia 
riferibile 
esclusivamente 
agli 
onorari 
dell’avvocato, 
ricadendo il peso degli oneri riflessi sull’Ente/datore di lavoro. 

2.1 La sentenza n. 33 del 2009 della Corte Costituzionale. 
La 
prima 
posizione, 
concernente 
la 
possibilità 
che 
la 
liquidazione 
operata 
dal 
giudice 
in 
sede 
di 
regolamento 
delle 
spese 
sia 
onnicomprensiva 
tanto 
della 
retribuzione 
professionale 
degli 
avvocati/dipendenti 
quanto degli 
oneri 
riflessi, è stata sottoposta al vaglio della Consulta. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


Difatti, all’indomani 
dell’entrata 
in vigore 
della 
summenzionata 
norma 
contenuta 
nella 
finanziaria 
2006 il 
giudice 
delle 
leggi 
è 
stato chiamato a 
pronunciarsi 
circa 
la 
lamentata 
violazione 
del 
principio di 
solidarietà 
ex artt. 2 e 
3 Cost. nonché 
circa 
l’eventuale 
lesione 
della 
libertà 
di 
contrattazione 
collettiva 
ex art. 39 Cost. 


In 
particolare, 
secondo 
il 
giudice 
rimettente, 
l’art. 
1 
comma 
208, 
della 
legge 
23 dicembre 
2005, n. 266, “prevedendo che 
i 
compensi 
comunque 
corrisposti 
a personale 
dell’avvocatura interna delle 
amministrazioni 
pubbliche 
debbano considerarsi 
“al 
lordo” degli 
oneri 
contributivi 
a carico del 
datore 
di 
lavoro, violerebbe 
il 
principio di 
solidarietà di 
cui 
agli 
articoli 
2 e 
3 cost., 
in 
quanto 
l’intervento 
di 
contenimento 
della 
spesa 
pubblica 
operato 
dalla 
norma 
censurata 
colpirebbe, 
irragionevolmente, 
soltanto 
una 
ristretta 
cerchia 
di 
pubblici 
dipendenti”. 
Inoltre, 
“la 
norma 
censurata, 
per 
una 
conclamata 
esigenza 
di 
contenimento della spesa pubblica, ha introdotto una deroga all’art. 
2115 del 
codice 
civile, che 
prevede, in via di 
principio, per 
l’imprenditore 
ed 
il 
prestatore 
di 
lavoro l’obbligo di 
contribuzione, in 
parti 
uguali, alle 
istituzioni 
di 
previdenza 
ed 
assistenza 
” 
e, 
invece, 
secondo 
il 
giudice 
rimettente 
“avrebbe 
illegittimamente 
operato 
una 
trattenuta 
[...] 
con 
conseguente 
decurtazione 
del 
complessivo 
trattamento 
retributivo 
[...] 
altresì, 
in 
contrasto 
con l’art. 39 cost., comprimendo la sfera riservata alla contrattazione 
collettiva 
in 
materia 
di 
retribuzione. 
infatti, 
mentre 
il 
regolamento 
procede 
a 
mezzo 
di 
vari 
contratti 
collettivi 
che 
si 
succedono 
nel 
tempo, 
la 
norma 
censurata 
pone 
in contrasto con “specifiche 
previsioni 
contrattuali” 
e 
quindi 
con l’art. 
39 cost. nel quale trova fondamento la generale autonomia collettiva”. 


Il 
giudice 
delle 
leggi, dopo aver rammentato “che 
tutti 
i 
legali 
dipendenti 
di 
enti 
pubblici 
non 
economici 
fruiscono, 
in 
aggiunta 
allo 
stipendio 
tabellare, 
di 
una quota di 
retribuzione 
quantificata sulla base 
della legge 
e 
delle 
tariffe 
professionali 
forensi” 
ha 
ritenuto 
non 
fondate 
tutte 
le 
questioni 
sollevate, 
precisando 
che 
“nel 
caso di 
specie, l’accollo contributivo posto ad integrale 
carico 
del 
lavoratore 
riguarda 
soltanto 
la 
parte 
relativa 
ai 
compensi 
professionali 
e 
non 
l’intera 
retribuzione 
complessiva. 
non 
ricorre 
alcuna 
violazione 
neppure 
dell’art. 3 cost. sotto entrambi 
i 
profili 
enunciati. con riferimento 
alla 
parità 
di 
trattamento, 
il 
personale 
dell’avvocatura 
interna 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
è 
il 
solo 
che 
percepisce 
i 
suddetti 
compensi, 
sicché 
manca un tertium 
comparationis 
su cui 
operare 
il 
raffronto con il 
trattamento 
economico riservato agli 
altri 
dpendenti 
dell[a 
medesima] amministrazione. 
né 
sussiste 
la manifesta irragionevolezza che 
si 
assume 
desunta dalla sotto-
posizione 
alla 
medesima 
imposizione 
di 
compensi 
di 
diversa 
natura 
e 
funzione, 
perché 
-nell’ottica della traslazione 
degli 
oneri 
previdenziali 
-è 
del 
tutto irrilevante 
la derivazione 
di 
quei 
compensi 
dalla condanna di 
controparte 
alle 
spese 
del 
giudizio, 
piuttosto 
che 
dalla 
loro 
compensazione 
tra 
le 
parti. 
Quanto 
alla 
dedotta 
violazione 
dell’art. 
39 
cost., 
si 
rileva 
che 
la 
norma 
censurata 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


non 
mira ad una riduzione 
del 
trattamento retributivo complessivo 
dell’avvocato 
dipendente 
previsto 
dalla 
contrattazione 
collettiva, 
ma 
disciplina 
piuttosto 
la 
distribuzione 
del 
carico 
contributivo 
tra 
ente 
pubblico-datore 
di 
lavoro 
e 
dipendente. e 
tale 
materia è 
estranea all’ambito dell’autonomia negoziale 
collettiva”. 

Dunque, 
riassumendo, 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
ritenuto 
di 
salvare 
la 
norma 
evidenziando 
la 
legittimità 
costituzionale 
della 
traslazione 
del 
peso 
degli 
oneri 
riflessi 
sull’avvocato/dipendente 
-in luogo dell’Ente/datore 
di 
lavoro 
-in quanto tale 
trattenuta, andando a 
incidere 
solo sulla 
quota variabile 
(quale gli onorari), 
non lede la retribuzione 
fissa 
stipendiale. 


2.2 La giurisprudenza della Corte di Cassazione. 
La 
questione 
è 
stata 
altresì 
posta 
all’attenzione 
della 
Suprema 
Corte, 
chiamata 
a 
pronunciarsi 
in molteplici 
occasioni 
sull’espressa 
domanda 
del 
ricorrente 
-quale 
il 
dipendente/avvocato 
interno 
-che, 
impugnando 
la 
liquidazione 
operata 
dall’Ente/datore 
di 
lavoro degli 
onorari 
di 
causa 
al 
“lordo degli 
oneri 
riflessi”, lamenta 
l’illegittimità della trattenuta. 

Ebbene, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
confermato l’assetto prospettato dalla 
Corte 
Costituzionale 
ritenendo 
che 
la 
trattenuta 
operata 
dall’Ente/datore 
di 
lavoro 
sia 
da 
considerarsi 
legittima 
proprio 
in 
virtù 
della 
natura 
accessoria 
degli onorari 
(quota variabile) rispetto alla retribuzione fissa stipendiale. 


Dunque, nel 
confermare 
la 
legittimità 
della 
liquidazione 
dei 
compensi 
al 
lordo degli 
onorari 
ha 
evidenziato che 
“la deroga al 
principio del 
concorso 
negli 
oneri 
contributivi 
è, nel 
caso di 
specie, limitata alle 
sole 
somme 
erogate 
per 
compensi 
professionali 
che, seppur 
aventi 
natura retributiva, assumono 
un 
aspetto accessorio dell’intera retribuzione. Peraltro, se 
non può negarsi 
che 
un 
diverso 
assetto, 
comunque 
si 
ripete 
selettivamente 
limitato 
ai 
soli 
compensi 
professionali, 
del 
riparto 
dell’onere 
contributivo 
incide 
necessariamente 
sul 
quantum 
della erogazione 
netta, va pur 
detto che 
la possibilità di 
operare 
tale 
deroga da parte 
della legge 
non lede 
la competenza della contrattazione 
collettiva perché 
l’intervento, come 
rilevato dalla corte 
costituzionale, 
riguarda 
il 
regime 
degli 
oneri 
contributivi 
che 
accedono 
alla 
prestazione 
e 
non 
la 
regolamentazione 
dell’emolumento 
in 
sé 
considerato” 
e, 
dunque, poiché 
“la nozione 
di 
“compensi 
professionali” 
da liquidare 
agli 
avvocati 
interni, contenuta nei 
ccnl 
e 
nei 
regolamenti 
interni, va riferita ai 
diritti 
ed 
onorari 
di 
avvocato 
liquidati 
dal 
giudice 
e 
la 
questione 
che 
forma 
oggetto del 
giudizio è 
se 
tali 
compensi 
devono considerarsi 
al 
lordo dei 
c.d. 
“oneri 
riflessi 
” 
(Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
sentenza 
n. 
16579/2017; 
conformi 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
sentenza 
n. 
16838/2017, 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
sentenza 
n. 
17356/2017 e, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., ord. n. 15489/2023). 


Dunque, fermo che 
“con l’entrata in vigore 
delle 
norme 
citate 
l’importo 
versato ai 
propri 
dipendenti 
è 
da considerarsi 
al 
lordo degli 
oneri 
riflessi 
[...] 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


È del 
tutto evidente 
che, con 
l’approvazione 
di 
tale 
legge, è 
stato (di 
fatto) 
ridotto 
il 
trattamento 
retributivo 
degli 
avvocati 
dipendenti 
degli 
enti 
pubblici; 
né 
la corte 
costituzionale, nella sententa n. 33 del 
2009, ha affermato il 
contrario 
[...] la corte 
costituzionale 
afferma che 
non è 
stata influenzata la retribuzione 
lorda degli 
avvocati/dipendenti, poiché 
la diversa ripartizione 
degli 
oneri 
contributivi 
ha inciso sul 
netto percepito dagli 
stessi. La conseguenza 
dell’introduzione 
di 
tale 
norma di 
legge 
è 
che 
l’ente 
pubblico sopporta un 
costo minore 
nella propria difesa in 
giudizio, poiché 
gli 
oneri 
contributivi 
sono posti 
a carico dei 
dipendenti 
cui 
vengono distribuiti 
gli 
importi 
riconosciuti 
a 
titolo 
di 
rimborso 
delle 
spese 
di 
lite 
” 
(Cass. 
Civ, 
Sez. 
II, 
ord. 
n. 
7499/2023). 


In 
conclusione, 
per 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
la 
trattenuta 
del-
l’Ente/datore 
di 
lavoro 
degli 
“oneri 
riflessi” 
deve 
operarsi 
sull’ammontare 
lordo 
liquidato 
dal 
giudice: 
conseguentemente, 
a 
seguito 
dell’introduzione 
del-
l’art. 1 comma 
208 della 
legge 
finanziaria 
2006, incidendo la 
suddetta 
trattenuta 
sugli 
onorari, il 
costo degli 
“oneri 
riflessi” 
è 
traslato dall’Ente/datore 
di 
lavoro sull’avvocato/dipendente, riducendo di 
fatto il 
trattamento economico 
globalmente inteso (fisso e variabile). 


3. La liquidazione degli “oneri riflessi”. 
Conformemente 
a 
tale 
orientamento formatosi 
con riferimento al 
profilo 
prettamente 
interno 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
che, 
quindi, 
riguarda 
esclusivamente 
il 
riparto 
datore/Ente 
e 
dipendente/avvocato, 
si 
sono 
registrate 
altresì 
pronunce 
che 
hanno 
preso 
espressamente 
posizione 
circa 
l’addebitabilità 
degli 
“oneri 
riflessi” a carico della controparte. 


3.1 L’orientamento che, negando la liquidazione 
espressa degli 
oneri 
riflessi, non consente di porli a carico della parte soccombente. 
La 
pronuncia 
maggiormente 
esaustiva 
sul 
punto 
risulta 
essere 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
II, 
ord. 
n. 
7499/2023, 
già 
precedentemente 
cit. 
sub 
§ 
2.2, 
che 
ha 
compiutamente 
evidenziato 
“Quanto 
alla 
richiesta 
di 
“Maggiorazione 
per 
oneri 
riflessi” 
formulata 
dalla 
Provincia 
di 
Verona 
nel 
controricorso 
[...] 
dall’intepretazione 
testuale 
delle 
predette 
norme 
emerge 
che 
esse 
agiscano 
esclusivamente 
nei 
rapporti 
interni 
tra 
datore 
di 
lavoro 
e 
avvocato/dipendente, 
anche 
perché 
ispirate 
a 
finalità 
di 
contenimento 
della 
spesa 
pubblica. 
infatti, 
mentre 
in 
precedenza 
gli 
importi 
da 
corrispondere 
agli 
avvocati 
dipendenti 
degli 
enti 
pubblici, 
sulla 
base 
delle 
previsioni 
del 
c.c.n.l. 
applicabile, 
erano 
pari 
alle 
spese 
di 
lite 
riconosciute 
a 
favore 
dell’ente 
ed 
era 
poi 
a 
carico 
del-
l’amministrazione 
pubblica 
il 
pagamento 
della 
relativa 
contribuzione, 
con 
l’entrata 
in 
vigore 
delle 
norme 
citate 
l’importo 
versato 
ai 
propri 
dipendenti 
è 
da 
considerarsi 
al 
lordo 
degli 
oneri 
riflessi. 
È 
del 
tutto 
evidente 
che, 
con 
l’approvazione 
di 
tale 
legge 
è 
stato (di 
fatto) ridotto il 
trattamento retributivo 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


degli 
avvocati 
dipendenti 
degli 
enti 
pubblici: 
né 
la 
corte 
costituzionale, 
nella 
sentenra 
n. 
33 
del 
2009, 
ha 
affermato 
il 
contrario 
[...] 
la 
corte 
costituzionale 
afferma 
che 
non 
è 
stata 
influenzata 
la 
retribuzione 
lorda 
degli 
avvocati/dipendenti, 
poiché 
la 
diversa 
ripatizione 
degli 
oneri 
contributivi 
ha 
inciso 
sul 
netto 
percepito 
dagli 
stessi. 
la 
conseguenza 
dell’introduzione 
di 
tale 
norma 
di 
legge 
è 
che 
l’ente 
pubblico 
sopporta 
un 
costo 
minore 
nella 
propria 
spesa 
in 
giudizio, 
poiché 
gli 
oneri 
contributivi 
sono 
posti 
a 
carico 
dei 
dipendenti 
cui 
vengono 
distribuiti 
gli 
importi 
riconosciuti 
a 
titolo 
di 
rimborso 
delle 
spese 
di 
lite. 
Trattandosi 
di 
somme 
che 
attengono 
al 
rapporto 
retributivo 
del 
difensore 
con 
il 
proprio 
ente 
di 
appartenenza, 
appare 
evidente 
che 
la 
pretesa 
di 
ottenere, 
a 
carico 
della 
controparte 
soccombente, 
il 
pagamento 
degli 
oneri 
riflessi 
risulti 
infondata”. 
Con 
motivazione 
più 
stringata, 
si 
registra 
altresì 
nel 
medesimo 
anno 
Cass. 
Civ., 
Sez. 
Lav., 
ord. 
n. 
15489/2023 
che 
afferma 
“in 
armonia 
con 
le 
conclusioni 
rassegnate 
nel 
controricorso 
non 
si 
provvede 
alla 
liquidazione 
di 
i.V.a. 
e 
c.p.a, 
in 
quanto 
il 
patrocinio 
del 
comune 
è 
stato 
esercitato 
da 
avvocati 
interni 
dell’ente 
(si 
confronti 
in 
fattispecie 
analoga, 
cass. 
n. 
6346 
del 
2023). 
Le 
spese 
legali 
vengono 
quindi 
liquidate 
in 
misura 
già 
comprensiva 
di 
tutti 
gli 
oneri 
ivi 
compresi 
quelli 
cd. 
riflessi 
(cfr. 
in 
tal 
senso 
cass. 
n. 
16579 
del 
2017, 
ma 
anche 
la 
successiva 
conforme 
cass. 
n. 
31989 
del 
2018, 
entrambe 
in 
termini, 
sebbene 
riferite 
ad 
avvocati 
interni 
di 
enti 
del 
cd. 
parastato)”. 


3.2 L’orientamento che, statuendo espressamente 
sugli 
oneri 
riflessi, 
consente di porli a carico della parte soccombente. 
Tuttavia, a 
tale 
orientamento, si 
contrappongono talune 
pronunce 
distoniche 
che, invece, liquidando espressamente 
nel 
dispositivo la 
voce 
“oneri 
riflessi” 
parrebbero 
addossare 
il 
suddetto 
costo 
a 
carico 
della 
parte 
soccombente: 
in 
tal 
modo, 
la 
liquidazione 
si 
sposterebbe 
da 
un 
piano 
finora 
squisitamente 
interno -relativo al 
rapporto lavorativo -a un 
piano esterno, di 
natura 
prettamente processuale. 


nello 
specifico, 
trattasi 
di 
T.a.r. 
Bologna, 
sent. 
n. 
151/2016 
secondo 
il 
quale 
“le 
spese 
del 
giudizio seguono la soccombenza e 
si 
liquidano come 
in 
dispositivo. 
A 
tale 
ultimo 
proposito, 
per 
completezza 
espositiva, 
merita 
un 
cenno 
la 
questione, 
discussa 
in 
pubblica 
udienza, 
circa 
la 
liquidabilità 
degli 
oneri 
riflessi 
a 
carico 
della 
parte 
saccombente, 
laddove 
risulti 
vittoriosa, 
come 
nel 
caso di 
specie, un’amministrazione 
pubblica difesa da un avvocato 
iscritto all’elenco speciale. il 
collegio ritiene 
che 
risponda a criteri 
di 
ragionevolezza 
equiparare 
gli 
avvocati 
dell’avvocatura 
pubblica 
a 
quelli 
del 
libero 
foro, per 
quanto riguarda l’attività da essi 
svolta in giudizio, fermi 
restando i 
rapporti 
interni 
tra l’avvocato pubblico e 
l’ente 
datore 
di 
lavoro. di 
conseguenza 
laddove, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, 
risulti 
vittoriosa 
un’amministrazione 
pubblica difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale, la formula comu



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


nemente 
utilizzata 
nella 
parte 
dispositiva 
“oltre 
oneri 
accessori 
di 
legge” 
deve 
essere 
intesa 
nel 
senso 
che 
devono 
essere 
corrisposti, 
dalla 
parte 
soccombente, 
i 
cd. 
“oneri 
riflessi” 
nella 
misura 
di 
legge, 
in 
luogo 
del 
CAP 
e 
dell’IVA 
dovuti 
nella 
misura 
di 
legge 
all’avvocato 
del 
libero 
foro” 
(conforme 
altresì 
T.a.r. 
Piemonte, sentenza n. 1104/2017). 


Da 
ultimo, sempre 
nel 
medesimo tracciato interpretativo si 
segnalano le 
Sezioni 
Unite 
della 
Cassazione, n. 3592/2023 che 
-seppur emesse 
su profili 
non concernenti 
gli 
oneri 
riflessi, ma 
relativi 
esclusivamente 
a 
profili 
di 
giurisdizione 
-in sede 
di 
regolamento delle 
spese 
di 
lite 
hanno affermato espressamente 
“il 
ricorso deve 
essere 
dichiarato inammissibile, con la conseguente 
condanna dei 
ricorrenti, 
in solido fra loro, al 
pagamento, in 
favore 
del 
controricorrente 
Comune 
di 
Milano, delle 
spese 
del 
presente 
giudizio, che 
si 
liquidano 
nei 
sensi 
di 
cui 
in 
dispositivo, con 
il 
riconoscimento degli 
invocati 
oneri 
riflessi 
in 
sostituzione 
di 
iva e 
cpa, essendo stato detto comune 
patrocinato 
dalla sua avvocatura interna”. 


La 
summenzionata 
pronuncia 
è 
stata, 
poi, 
acriticamente 
seguita 
anche 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa, 
tra 
cui 
Cons. 
St. 
sez. 
VII, 
sentenza 
n. 
5754/2023, “le 
spese 
seguono la soccombenza. essendo il 
comune 
di 
napoli 
rappresentato 
e 
difeso 
in 
giudizio 
dagli 
avvocati 
dell’avvocatura 
comunale 
interna, vanno riconosciuti 
in favore 
dei 
difensori 
non solo i 
compensi 
professionali 
spettanti, ma, in sostituzione 
di 
iva e 
cpa, anche 
gli 
oneri 
riflessi, 
nella misura e 
sulle 
voci 
come 
per 
legge 
(cass. sez. unite 
civili 
-ordinanza 6 
febbraio 2023 n. 3592)” 
(conforme, altresì, T.a.r. milano, sez. II, sentenza 
n. 
1307/2023) nonché, ancor più di 
recente 
e 
sempre 
esclusivamente 
in sede 
di 
regolamento 
delle 
spese 
di 
lite, 
Cass. 
Civ. 
sez. 
II, 
ord. 
n. 
29654/2024 
“la 
corte 
rigetta 
il 
ricorso 
e 
condanna 
la 
ricorrente 
al 
pagamento, 
in 
favore 
del 
comune 
controricorrente, delle 
spese 
sostenute 
nel 
giudizio di 
cassazione, che 
liquida 
in complessivi 
€ 2.200,00, di 
cui 
€ 200,00 per 
esborsi, oltre 
al 
rimborso forfettario 
nella misura del 15% ed oneri riflessi”. 


4. La risposta al quesito posto. 
A 
parere 
della 
Scrivente 
occorre 
darsi 
continuità 
alla 
posizione 
espressa 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
che 
ha 
confermato 
l’assetto 
delineato 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
e, 
quindi, 
circa 
l’esclusiva 
dimensione 
interna 
degli 
oneri 
riflessi. 


Del 
resto, la 
pronuncia 
della 
Consulta 
ha 
evidenziato, sul 
piano sostanziale, 
che 
a 
seguito della 
novella 
normativa 
gli 
oneri 
riflessi 
non sono più a 
carico 
della 
parte 
che 
sta 
in 
giudizio 
(l’Ente) 
bensì 
di 
un 
suo 
dipendente 
(l’Avvocato 
dell’Ente), non sussistendo, quindi, i 
presupposti 
per considerare 
tale 
voce come una spesa subita dalla parte soccombente. 

Inoltre, mentre 
da 
un lato le 
pronunce 
che 
hanno dato seguito alla 
summenzionata 
statuizione 
della 
Consulta 
sono 
intervenute 
in 
giudizi 
direttamente 
concernenti 
la 
questione, le 
pronunce 
registrate 
di 
segno opposto si 
sono di



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


scostate 
da 
tali 
principi 
esclusivamente 
nella 
fase 
di 
regolamentazione 
delle 
spese 
di 
lite: 
conseguentemente, 
la 
liquidazione 
di 
tali 
oneri 
riflessi, 
è 
avvenuta 
incidenter 
senza 
che 
possano 
considerarsi 
affrontate 
e, 
quindi, 
superate 
le 
corpose 
argomentazioni 
di 
Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 7499/2023 (cfr. supra 
§ 2.2 
e 3.1). 


Inoltre, 
occorre 
altresì 
considerare 
la 
base 
normativa 
e 
la 
tipologia 
di 
spese delle quali trattasi. 


mentre, infatti, sussiste 
una 
espressa 
previsione 
che 
pone 
a 
carico della 
parte 
soccombente 
la 
ripetizione, per i 
c.d. avvocati 
del 
libero foro, di 
IVA 
e 
CPA, altrettanto non può dirsi per le avvocature c.d. interne. 


4.1 L’ivA e i contributi previdenziali per il lavoratore autonomo. 
In particolare, gli 
avvocati 
liberi 
professionisti 
sono qualificabili, ai 
fini 
IVA, come 
eroganti 
una 
prestazione 
(professionale) di 
servizi 
nonché, a 
fini 
impositivi, come lavoratori autonomi. 


Dal 
ché, per l’IVA, l’art. 18 del 
d.P.R. n. 633/1972 stabilisce 
che 
“il 
soggetto 
che 
effettua la cessione 
di 
beni 
o prestazione 
di 
servizi 
imponibile 
deve 
addebitare 
la 
relativa 
imposta, 
a 
titolo 
di 
rivalsa, 
al 
cessionario 
o 
al 
committente 
”: 
ne 
discende 
che 
l’addebito nei 
confronti 
dell’originario committente, 
quale 
la 
parte 
patrocinata 
in giudizio, trasla 
sul 
soggetto soccombente 
proprio 
in virtù di quanto statuito dal già citato art. 91 c.p.c. 


Specularmente, 
per 
quanto 
concerne 
la 
Cassa 
Previdenziale 
Avvocati, 
posto 
che 
ai 
sensi 
dell’art. 
1 
del 
Regolamento 
Unico 
della 
Previdenza 
Forense 
l’iscrizione 
alla 
Cassa 
è 
obbligatorio, ai 
sensi 
del 
combinato disposto di 
cui 
all’art. 2, comma 
26, della 
legge 
335/1995 (2) e 
ex art. 1, comma 
212, della 
legge 
662/1996 
(3), 
ai 
fini 
previdenziali 
e 
assistenziali, 
il 
lavoratore 
auto


(2) a 
decorrere 
dal 
1 gennaio 1996, sono tenuti 
all’iscrizione 
presso una apposita Gestione 
separata, 
presso l’inPS, e 
finalizzata all’estensione 
dell’assicurazione 
generale 
obbligatoria per 
l’invalidità, 
la 
vecchiaia 
ed 
i 
superstiti, 
i 
soggetti 
che 
esercitano 
per 
professione 
abituale, 
ancorché 
non 
esclusiva, 
attività 
di 
lavoro 
autonomo, 
di 
cui 
al 
comma 
1 
dell’articolo 
49 
[che, 
ai 
sensi 
di 
quanto 
disposto 
dall’art. 2, comma 
4 del 
D.Lgs. 12 dicembre 
2003, n. 344, il 
riferimento al 
presente 
articolo, deve 
intendersi 
l’attuale 
art. 53] del 
testo unico delle 
imposte 
sui 
redditi, approvato con decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
22 
dicembre 
1986, 
n. 
917, 
e 
successive 
modificazioni 
ed 
integrazioni, 
nonché 
i 
titolari 
di 
rapporti 
di 
collaborazione 
coordinata e 
continuativa, di 
cui 
al 
comma 2, lettera a), dell’articolo 49 
del 
medesimo testo unico e 
gli 
incaricati 
alla vendita a domicilio di 
cui 
all’articolo 36 della legge 
11 
giugno 1971, n. 426. Sono esclusi 
dall’obbligo i 
soggetti 
assegnatari 
di 
borse 
di 
studio, limitatamente 
alla relativa attività”. 
(3) “ai 
fini 
dell’obbligo previsto dall’articolo 2, comma 26, della legge 
8 agosto 1995, n. 335, i 
soggetti 
titolari 
di 
redditi 
di 
lavoro autonomo di 
cui 
all’articolo 49, comma 1 [che, ai 
sensi 
di 
quanto 
disposto dall’art. 2, comma 
4 del 
D.Lgs. 12 dicembre 
2003, n. 344, il 
riferimento al 
presente 
articolo, 
deve 
intendersi 
l’attuale 
art. 
53], 
del 
testo 
unico 
delle 
imposte 
sui 
redditi, 
approvato 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della repubblica 22 dicembre 
1986, n. 917, e 
successive 
modificazioni, hanno titolo ad addebitare 
ai 
committenti, con effetto dal 
26 settembre 
1996, in via definitiva, una percentuale 
nella misura 
del 4 per cento dei compensi lordi 
”. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


nomo ha 
il 
diritto di 
addebitarne 
ai 
committenti 
(e, dunque, anche 
in tal 
caso, 
per essi, alla parte soccombente) una percentuale sui compensi. 


4.2 il lavoratore subordinato. 
Al 
contrario, 
il 
professionista 
delle 
c.d. 
avvocature 
interne 
è 
un 
lavoratore 
di tipo subordinato, sebbene con acclarate peculiarità. 


Pertanto, come 
ricordato dalla 
giustizia 
contabile 
in tema 
di 
IRAP 
(cfr. 
supra 
§ 1.1), gli 
oneri 
riflessi 
in quanto qualificabili 
come 
oneri 
previdenziali 
e 
assistenziali 
spettano al 
datore 
di 
lavoro ex art. 2115 c.c. a 
mente 
del 
quale 
“Salvo 
diverse 
disposizioni 
della 
legge, 
l’imprenditore 
e 
il 
prestatore 
di 
lavoro 
contribuiscono 
in 
parti 
eguali 
alle 
istituzioni 
di 
previdenza 
e 
di 
assistenza. 
l’imprenditore 
è 
responsabile 
del 
versamento 
del 
contributo, 
anche 
per 
la 
parte 
che 
è 
a 
carico 
del 
prestatore 
di 
lavoro, 
salvo 
il 
diritto 
di 
rivalsa 
secondo 
le 
leggi 
speciali. 
È 
nullo 
qualsiasi 
patto 
diretto 
ad 
eludere 
gli 
obblighi 
relativi 
alla previdenza o all’assistenza”. 


La 
clausola 
di 
salvaguardia 
introduttiva 
dell’art. 2115 c.c., come 
confermato 
dalla 
menzionata 
Corte 
Costituzionale 
del 
2009, ricomprende 
anche 
la 
previsione 
dell’art. 1 comma 
208 della 
legge 
finanziaria 
2006, nella 
parte 
in 
cui 
prevede 
-in deroga 
alla 
previsione 
delle 
“parti 
eguali” 
-una 
suddivisione 
del 
peso 
previdenziale 
e 
assistenziale 
in 
parti 
diverse, 
ossia 
a 
carico 
(integrale) 
dell’avvocato/lavoratore 
dipendente, incidendo sulla 
retribuzione 
“variabile” 
(gli onorari) e, dunque, non equamente ripartita (cfr. § 2.1). 

Tuttavia, tale 
diversa 
ripartizione 
concerne 
esclusivamente 
un profilo interno 
del 
rapporto 
lavorativo 
e, 
infatti, 
occorre 
rimembrare 
il 
dato 
normativo 
dal 
quale 
si 
è 
partiti 
nell’estensione 
del 
presente 
parere 
ossia 
che 
“le 
somme 
finalizzate 
alla 
corresponsione 
di 
compensi 
professionali 
comunque 
dovuti 
al 
personale 
dell’avvocatura 
interna 
delle 
amministrarioni 
pubbliche 
sulla 
base 
di 
specifiche 
disposizioni 
contrattuali 
sono 
da 
considerare 
comprensive 
degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro”. 


ne 
consegue 
che, se 
da 
un lato è 
ammissibile 
una 
suddivisione 
interna 
diversa 
-dalle 
“parti 
eguali” 
richiesta 
dall’art. 2115 c.c. -del 
carico assistenziale 
e 
previdenziale, dall’altro 
è 
da escludersi 
l’addebito di 
tali 
contributi 
su 
di 
un 
soggetto 
estraneo 
al 
rapporto 
lavorativo 
in 
assenza 
di 
una 
espressa 
previsione 
normativa 
come, invece, è 
possibile 
riscontrare 
nell’ipotesi 
di 
lavoratori 
autonomi (confronta 
supra 
§ 4.1). 


5. i rimedi esperibili nel caso concreto. 
Posto 
quanto 
sopra, 
occorre 
esaminare 
i 
rimedi 
esperibili 
nel 
caso 
concreto. 


5.1 Generica condanna. 
nel 
caso in cui 
non 
vi 
sia una statuizione 
espressa 
relativa 
agli 
“oneri 
riflessi” 
bensì 
una 
generica indicazione 
di 
“rimborso spese 
generali 
ed ac



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


cessori 
di 
legge”, 
la 
richiesta 
dell’Ente 
dovrà 
essere 
disattesa, 
poiché 
non 
suffragata 
né 
da 
una 
base 
normativa 
né 
da 
una 
espressa 
statuizione 
del 
giudicante. 

Anzi, 
in 
sede 
di 
opposizione 
ex 
art. 
615 
c.p.c. 
si 
è 
registrata 
un’interessante 
pronuncia 
del 
Tribunale 
di 
Torino 
che, 
nel 
rigettare 
in 
sede 
esecutiva 
la 
richiesta 
del 
Comune 
di 
Torino 
al 
pagamento 
degli 
“oneri 
riflessi”, 
ha 
condiviso 
l’impostazione 
tanto 
della 
sentenza 
n. 
33 
del 
2009 
della 
Corte 
Costituzionale 
quanto 
dell’ordinanza 
n. 
7499/2023 
della 
Cassazione 
evidenziando, 
ulteriormente, 
che 
“la 
conseguenza 
dell’introduzione 
di 
tale 
norma 
di 
legge 
[quale 
l’art. 
1 
comma 
208 
della 
legge 
del 
23 
dicembre 
2005, 
n. 
266] 
è 
che 
l’ente 
pubblico 
sopporta 
un 
costo 
minore 
nella 
propria 
difesa 
in 
giudizio, 
poiché 
gli 
oneri 
contributivi 
sono 
posti 
a 
carico 
dei 
dipendenti 
cui 
vengono 
distribuiti 
gli 
importi 
riconosciuti 
a 
titolo 
di 
rimborso 
delle 
spese 
di 
lite. 
richiamando 
quanto 
sopra 
detto 
in 
merito 
alla 
finalità 
dell’articolo 
91 
c.p.c., 
appare 
evidente 
che 
la 
pretesa 
di 
ottenere, 
a 
carico 
della 
parte 
soccombente, 
il 
pagamento 
degli 
oneri 
riflessi 
è 
chiaramente 
infondata: 
infatti, 
se 
la 
condanna 
alla 
refusione 
delle 
spese 
di 
lite 
è 
fatta 
a 
favore 
della 
parte 
e 
non 
del 
suo 
difensore, 
non 
si 
vede 
come 
il 
comune 
di 
Torino 
possa 
chiedere 
[...] 
il 
pagamento 
di 
un 
importo 
che 
non 
è 
tenuto 
a 
versare 
alla 
propria 
avvocatura 
interna. 
Paradossalmente, 
il 
diritto 
alla 
maggiorazione 
delle 
spese 
di 
lite 
con 
riferimento 
agli 
oneri 
riflessi 
poteva 
essere 
vautato 
in 
epoca 
precedente 
all’entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
266/2005, 
in 
quanto 
era 
un 
onere 
che 
la 
parte 
sopportava 
per 
la 
propria 
difesa 
in 
giudizio; 
con 
la 
riforma 
operata 
da 
tale 
norma, 
non 
vi 
è 
ragione 
per 
gravare 
la 
parte 
soccombente 
alla 
rifusione 
di 
un 
onere 
che 
la 
parte 
vittoriosa 
non 
deve 
pagare” 
(Trib. 
Torino, 
sentenza 
n. 
640/2021). 


Si 
menziona, tra 
l’altro, in tema 
di 
debenza 
delle 
spese 
processuali, la 
recente 
pronuncia 
del 
Consiglio di 
Stato che, con sentenza 
n. 9819 del 
6 dicembre 
2024, 
ha 
sottolineato 
“quanto 
alle 
spese 
processuali 
riconosciute 
in 
sentenza, 
deve 
ritenersi 
che 
esse 
siano dovute 
solo se 
e 
nella misura in 
cui 
sono 
previsti 
dalla 
legge, 
tanto 
che 
sono 
dovute 
anche 
se 
non 
menzionate 
specificamente 
in sentenza (cass. civ., sez. ii, n. 9385 del 
2019, sez. lav., n. 3970 
del 
2018); di 
conseguenza, la previsione 
che 
figura nella impugnata sentenza 
deve 
essere 
ritenuta 
pleonastica, 
comunque 
non 
lesiva 
della 
posizione 
soggettiva 
della 
parte, 
in 
quanto 
accompagnata 
da 
una 
previsione 
(che 
può 
anche 
essere solo implicita) di conformità alla legge”. 


Trattasi, in concreto, del 
caso relativo alla 
Città 
metropolitana 
di 
milano 
di 
cui 
alla 
richiesta 
di 
parere 
formulata 
dall’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
milano 
su richiesta 
dell’Agenzia 
delle 
Dogane 
e 
dei 
monopoli, Direzione 
Territoriale 
Lombardia. 


5.2 espressa condanna. 
nel 
caso 
in 
cui, 
invece, 
vi 
sia 
una 
espressa 
condanna 
al 
pagamento 
anche 
degli 
“oneri 
riflessi”, 
calcolati 
in 
sostituzione 
di 
IVA 
e 
CPA 
come 
nella 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


giurisprudenza 
citata 
sub § 3.2, risulterebbe 
opportuno -a fortiori 
ove 
siano 
rinvenibili 
ulteriori 
profili 
di 
censura 
-impugnare 
la 
suddetta 
statuizione 
anche 
al 
fine 
di 
sottoporre 
(4) il 
contrasto giurisprudenziale 
al 
vaglio delle 
Sezioni 
Unite della Cassazione. 


Trattasi, 
in 
concreto, 
del 
caso 
relativo 
alla 
Regione 
Umbria 
sottoposto 
dal 
ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
e, per il 
quale, è 
pendente 
il 
termine 
per il ricorso in Cassazione. 


Reso il parere nei termini espressi, si resta a disposizione. 


Le 
questioni 
oggetto 
del 
parere, 
considerati 
i 
profili 
di 
massima, 
sono 
state 
sottoposte 
all’esame 
del 
Comitato Consultivo che 
si 
è 
espresso in conformità 
nella seduta del 22 gennaio 2025. 


(4) In questo caso espressamente, al contrario di quanto statuito da SS.UU. n. 3592/2023. 

PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 
219 


Rateizzazione del debito per RPt (ossia i dazi doganali 
da versare all’unione europea) concessa dall’Agente 
della riscossione. Rilievi della Corte dei Conti ue e 
della Commissione sul criterio adottato dall’italia in sede 
di ripartizione/imputazione delle somme a valere 
su tributi, interessi e spese amministrative 


Parere 
del 
21/03/2025-205744-45, 
al 14858/2018, Sez. iii, aVV. GioVanni 
PalaTiello 


indice e sommario. 


i. 
L’originaria 
richiesta 
di 
parere 
di 
cui 
alla 
nota 
di 
codesta 
Agenzia 
prot. 
n. 
39560/Ru del 5 aprile 2018 ..................................................................................... 
p. 2 
ii. il 
parere 
interlocutorio di 
questa Avvocatura Generale 
di 
cui 
alla nota prot. 
432069 del 28 giugno 2023 ....................................................................................... 
p. 4 
iii. Le 
precisazioni 
fornite 
dai 
Servizi 
della Commissione 
europea con 
la nota 
Ares (2023)8084776 del 27 novembre 2023 ............................................................ 
p. 4 
iv. La richiesta istruttoria di 
questa Avvocatura Generale 
di 
cui 
alla nota prot. 
374732 del 5 giugno 2024 ......................................................................................... 
p. 6 
v. il 
riscontro fornito da codesta Agenzia con 
nota prot. 682859/Ru 
del 
12 novembre 
2024 .............................................................................................................. 
p. 6 
v.1. 
La 
nota 
dei 
Servizi 
della 
Commissione 
Ares 
(2024) 
5737841 
dell’8 
agosto 
2024, trasmessa successivamente alla nota del 12 novembre 2024 ...................... 
p. 7 
v.2. Gli sviluppi successivi della vicenda sino al mese di febbraio 2025 ............. 
p. 8 
vi. individuazione della questione giuridica posta ............................................... 
p. 8 
vi.1. Analisi della questione giuridica posta .......................................................... 
p. 10 
vii. 
L’articolo 
9, 
paragrafo 
2, 
della 
decisione 
del 
Consiglio 
n. 
2020/2053/ue, 
euratom 
relativa al 
sistema delle 
risorse 
proprie 
dell’unione 
europea .................. p. 18 
viii. 
Conclusioni 
....................................................................................................... 
p. 19 
i. L’originaria richiesta di 
parere 
di 
cui 
alla nota di 
codesta Agenzia 
prot. n. 39560/Ru del 5 aprile 2018. 
Con 
nota 
prot. 
n. 
39560/RU 
in 
data 
5 
aprile 
2018 
codesta 
Agenzia 
ha 
sottoposto 
alle 
valutazioni 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale 
una 
delicata 
e 
complessa 
questione 
inerente, in estrema 
sintesi, al 
criterio adottato dall’Italia 
in 
sede 
di 
ripartizione/imputazione 
delle 
somme 
a 
valere 
su tributi, interessi 
e 
spese 
amministrative, corrisposte 
dal 
debitore 
iscritto a 
ruolo, che 
abbia 
ottenuto, 
dall’agente 
della 
riscossione, la 
rateizzazione 
del 
proprio debito, costituito 
da 
dazi 
doganali 
-annoverabili 
tra 
le 
c.d. Risorse 
Proprie 
Tradizionali 
ex 
art. 2 comma 
1, lett. a) della 
Decisione 
14 dicembre 
2020 n. 2020/2053/UE 
Euratom, 
relativa 
al 
sistema 
delle 
risorse 
proprie 
dell’Unione 
Europea, 
da 
mettere 
a 
disposizione 
del 
bilancio dell’Unione 
-ed imposte 
nazionali 
(in genere, 
Iva all’importazione), destinate al bilancio nazionale. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


nella 
richiesta 
di 
parere 
si 
rappresenta 
che 
su tale 
questione 
“è 
in corso 
da 
tempo 
un 
serrato 
confronto 
con 
le 
istituzioni 
europee 
che 
potrebbe 
sfociare, 
a breve, (ove 
non risolto) in una procedura d’infrazione 
a carico dell’italia”. 


Tanto 
premesso, 
codesta 
Agenzia 
espone 
che 
l’art. 
19 
del 
d.P.R. 
n. 
602/1973 
attribuisce 
ad 
Agenzia 
Entrate-Riscossione 
la 
facoltà 
di 
concedere 
al 
contribuente 
(ove 
quest’ultimo 
si 
trovi 
in 
una 
situazione 
di 
“obiettiva 
difficoltà”) 
il 
pagamento 
in 
modalità 
rateizzata 
delle 
somme 
iscritte 
a 
ruolo, 
fino 
ad 
un 
massimo 
di 
settantadue 
rate 
mensili; 
detta 
rateazione 
ha 
ad 
oggetto 
l’intero 
importo 
iscritto 
a 
ruolo 
che 
è 
costituito 
non 
solo 
dalle 
imposte 
accertate 
ma 
anche 
dagli 
interessi 
di 
mora 
maturati, 
nonché 
dai 
costi 
sostenuti 
dall’amministrazione 
per 
l’attività 
di 
accertamento/riscossione 
(istruttorie, 
notifica 
degli 
atti, 
ecc..); 
su 
tali 
somme 
gravano, 
inoltre, 
gli 
ulteriori 
interessi 
dovuti 
dai 
contribuenti 
in 
virtù 
della 
agevolazione 
ottenuta 
(la 
rateazione 
del 
debito). 


In 
base 
all’articolo 
31 
del 
citato 
d.P.R., 
gli 
importi 
rateizzati 
(che 
possono 
essere 
generati 
sia 
da 
tributi 
nazionali, sia 
-per quanto d’interesse 
in questa 
sede 
-da 
Risorse 
proprie 
tradizionali, 
ossia 
i 
dazi 
doganali 
da 
versare 
al-
l’Unione 
europea), vengono suddivisi 
proporzionalmente 
tra 
tributi 
nazionali 
(in 
genere, 
IVA 
all’importazione), 
Risorse 
proprie 
tradizionali, 
interessi 
e 
oneri 
amministrativi 
vari: 
in 
sostanza, 
ogni 
rata 
comprende 
una 
quota 
proporzionale 
di ciascun cespite iscritto a ruolo. 


Al 
riguardo codesta 
Agenzia 
rappresenta 
che 
“la corte 
dei 
conti 
europea 
e 
la 
commissione 
ue 
contestano... 
detto 
criterio 
di 
ripartizione/imputazione 
del 
debito, ritenuto non conforme 
alle 
“disposizioni 
europee”, adducendo, in 
buona sostanza, le seguenti argomentazioni: 


a) 
la 
ripartizione 
e 
la 
rateazione 
in 
argomento 
dovrebbero 
assicurare 
prioritariamente 
il 
soddisfacimento del 
“capitale”, ossia la porzione 
“tributaria” 
delle 
somme 
dovute 
dal 
contribuente, anziché 
includere 
sin dall’inizio 
le 
sopra citate 
quote 
a valere 
su interessi 
e 
spese 
amministrative: secondo le 
istituzioni 
unionali, 
le 
rate 
dovrebbero 
essere 
esclusivamente 
costituite 
dal 
debito tributario (sia di 
fonte 
europea che 
nazionale) fino ad integrale 
restituzione 
dello stesso, e, solo in un secondo tempo, da interessi 
e 
costi 
amministrativi; 
in 
pratica, 
l’incidenza 
di 
dette 
ultime 
componenti 
sull’intero 
piano 
di 
rateazione 
(secondo 
il 
metodo 
attualmente 
in 
uso) 
comporterebbe, 
di 
fatto, 
una 
“riduzione” 
delle 
risorse 
proprie 
tradizionali 
dell’ue 
in 
occasione 
della 
riscossione 
di 
ogni 
singola 
rata, 
oltre 
che 
una 
indebita 
discriminazione 
tra 
tributi 
nazionali 
e 
dazi 
doganali. Per 
quanto riguarda i 
costi 
amministrativi, 
la loro remunerazione 
-affermano le 
autorità europee 
-è 
peraltro già assicurata, 
relativamente 
ai 
dazi, dalla ritenuta ad hoc 
del 
20% prevista dall’art. 2, 
paragrafo 3, della decisione 
del 
consiglio ue 
del 
26 maggio 2014 (sul 
“sistema 
delle 
risorse 
proprie 
dell’unione 
europea”, pubblicata in Guue/serie 
l 
168 del 
7 giugno 2014) applicata all’atto di 
ogni 
versamento delle 
rPT 
al 

PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


bilancio 
ue, 
conseguendone 
che 
l’erario 
europeo 
finisce, 
in 
definitiva, 
per 
scontare ben 2 volte gli oneri in questione. 


Codesta 
Agenzia 
espone, in particolare, che 
secondo le 
Istituzioni 
Europee, 
il 
criterio di 
riscossione 
delle 
RPT 
sino ad ora 
utilizzato dalle 
autorità 
nazionali 
si 
porrebbe 
in 
contrasto 
con 
quanto 
stabilito 
dal 
“Compendio” 
diramato 
dalla 
Commissione 
il 
25 giugno 2013 in tema 
di 
“Procedura interna per 
la 
gestione 
dei 
casi 
di 
inesigibilità (write-off)” 
il 
quale, al 
punto 3.2, lettera 
c), 
specifica 
in particolare 
che 
“...ogni 
importo che 
sia stato recuperato 
... 
deve 
essere 
ripartito proporzionalmente 
tra i 
due 
tipi 
di 
risorse 
(RPT 
e 
diritti 
nazionali), 
prima della detrazione delle spese di riscossione e degli interessi”. 


Su tali 
basi 
“le 
istituzioni 
europee 
hanno a più riprese 
chiesto all’italia 
... 
di: 
1) 
rettificare 
la 
contestata 
procedura 
in 
conformità 
alle 
poc’anzi 
riferite 
istruzioni 
europee: 
il 
che 
significherebbe 
intervenire, 
in 
primis, 
sul 
vigente 
impianto 
normativo 
di 
cui 
ai 
sopra 
richiamati 
artt. 
19 
e 
31 
del 
dPr 
n. 
602/73; 


2) effettuare 
una ricognizione 
a livello nazionale 
di 
tutti 
i 
casi 
trattati 
in base 
al 
contestato metodo di 
ripartizione, dal 
2014 ad oggi; 3) mettere 
a disposizione 
dell’ue, senza indugio, tutte 
le 
connesse 
perdite 
di 
rPT 
sinora accumulate, 
onde interrompere l’ulteriore maturazione di interessi di mora”. 
Codesta 
Agenzia 
ha 
poi 
esposto le 
argomentazioni 
giuridiche 
sino ad ora 
utilizzate 
nelle 
interlocuzioni 
con le 
Istituzioni 
europee 
per difendere 
la 
posizione 
italiana. 


In 
conclusione 
codesta 
Agenzia 
“pur 
convenendo 
sul 
rilievo 
inerente 
i 
costi 
amministrativi 
(effettivamente 
già 
coperti 
dalla 
prevista 
ritenuta 
del 
20%), non ritiene 
ammissibile 
la pretesa dell’u.e. di 
“differire”, nell’ambito 
della rateazione, il recupero degli interessi”. 


Tutto ciò rappresentato, viene 
chiesto se 
-ad avviso della 
Scrivente 
-“vi 
siano 
le 
condizioni 
giuridiche 
e 
fattuali 
per 
poter 
insistere 
sulla 
linea 
difensiva 
sinora 
osservata 
da 
questa 
agenzia 
(considerata 
la 
delicatezza 
dei 
profili 
messi 
in 
discussione 
dalla 
commissione 
europea, 
nonché 
l’onerosità 
e 
la 
complessità 
degli 
eventuali 
correttivi 
da porre 
in essere 
per 
ottemperare 
alle 
richieste 
dell’autorità di 
Bruxelles), anche 
a fronte 
dell’eventuale 
avvio di 
una 
procedura contenziosa nei 
confronti 
dell’italia, fino al 
possibile 
deferimento 
del 
caso dinnanzi 
alla corte 
di 
Giustizia, ovvero se 
sia più opportuno, se 
non 
necessario, recedere da ogni ulteriore forma di resistenza”. 


ii. il 
parere 
interlocutorio di 
questa Avvocatura Generale 
di 
cui 
alla 
nota prot. 432069 del 28 giugno 2023. 
In riscontro alla 
illustrata 
nota 
prot. n. 39560/RU 
in data 
5 aprile 
2018 di 
codesta 
Agenzia, questa 
Avvocatura 
Generale 
ha 
fornito un primo parere 
interlocutorio 
(di 
cui 
alla 
nota 
prot. 432069 del 
28 giugno 2023) con il 
quale 
ha 
suggerito 
a 
codesta 
Agenzia 
di 
richiedere 
“alle 
istituzioni 
unionali, 
tramite 
rappresentanza Permanente, in relazione 
alla scheda di 
constatazioni 
preli



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


minari 
n. 1508 (che 
dovrebbe 
essere 
quella che 
ci 
occupa e 
che, al 
momento, 
sembrerebbe 
essere 
sospesa), la chiara e 
precisa indicazione 
della base 
giuridica 
eurounitaria 
(vincolante) 
per 
gli 
Stati 
Membri 
del 
criterio 
indicato 
dalla 
Commissione 
e 
comunque 
specifici 
chiarimenti 
sulle 
ragioni 
per 
le 
quali 
il 
criterio 
di 
rateizzazione 
utilizzato 
dalle 
autorità 
italiane 
comporterebbe 
una 
diminuzione delle rPT messe a disposizione dell’unione 
”. 


iii. 
Le 
precisazioni 
fornite 
dai 
Servizi 
della 
Commissione 
europea 
con la nota Ares (2023) 8084776 del 27 novembre 2023. 
Con nota 
prot. 10640/RI del 
6 maggio 2024 codesta 
Agenzia 
ha 
qui 
trasmesso 
“il 
parere 
fornito 
dai 
servizi 
della 
commissione 
con 
nota 
ares 
(2023)8084776 
del 
27 
novembre 
2023 
”, 
evidenziando 
che 
“nella 
sezione 
“scheda di 
constatazioni 
preliminari 
n. 1508” 
la direzione 
generale 
bilancio 
B4 
ha 
individuato 
i 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività 
quali 
basi 
giuridiche 
per 
la richiesta di 
modifica della procedura di 
ripartizione 
e 
rateazione 
posta 
in essere 
dall’italia, sostanzialmente 
orientata ad ottenere 
il 
prioritario soddisfacimento 
del “capitale” dovuto a titolo di rPT 
”. 


In particolare, nella 
nota 
Ares 
(2023) 8084776 del 
27 novembre 
2023, i 
servizi 
della 
Commissione, nel 
paragrafo rubricato “Scheda di 
constatazioni 
preliminari 
n. 
1508”-Gli 
interessi 
sono 
detratti 
prima 
della 
suddivisione 
proporzionale 
fra dazi 
nazionali 
e 
risorse 
proprie 
tradizionali”, hanno esposto e 
dedotto 
quanto 
segue: 
“I 
servizi 
della 
Commissione 
avevano 
chiesto 
una 
modifica 
della procedura per 
renderla conforme 
al 
compendio, alla normativa 
sulle 
risorse 
proprie 
e 
all’articolo 325 TFue 
e 
avevano sottolineato che 
occorreva 
risolvere 
rapidamente 
ed efficacemente 
questa annosa questione. le 
autorità italiane 
erano state 
invitate 
a informare 
i 
servizi 
della commissione 
in 
merito 
alle 
misure 
correttive 
previste 
e 
alle 
(potenziali) 
tempistiche 
per 
l’attuazione 
delle 
stesse 
ed erano state 
avvertite 
del 
fatto che, in caso di 
disaccordo 
persistente, 
i 
servizi 
della 
commissione 
si 
sarebbero 
visti 
costretti 
a 
prendere 
in considerazione 
questo fascicolo ai 
fini 
dell’apertura di 
una procedura 
di 
infrazione 
a norma dell’articolo 258 TFue. le 
perdite 
pregresse 
di 
rPT 
avrebbero dovuto essere 
messe 
a disposizione 
senza ulteriore 
indugio, al 
fine di interrompere il cumulo degli interessi di mora. 


Le 
autorità 
italiane 
hanno 
invitato 
i 
servizi 
della 
commissione 
a 
fornire: 


-indicazione 
puntuale 
della 
base 
giuridica 
eurounitaria 
(vincolante) 
per 
gli 
Stati 
membri 
del 
criterio indicato dalla commissione 
per 
la rateizzazione 
delle somme riscosse dall’agente della riscossione; 


-chiara indicazione 
delle 
ragioni 
per 
le 
quali 
il 
criterio di 
rateizzazione 
attualmente 
utilizzato dalle 
autorità italiane 
comporterebbe 
una diminuzione 
delle rPT messe a disposizione dell’unione. 
I 
servizi 
della 
Commissione 
ringraziano 
le 
autorità 
italiane 
per 
aver 
sollevato 
tali questioni e informano le autorità italiane di quanto segue. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Gli 
Stati 
devono attenersi 
ai 
principi 
di 
equivalenza e 
di 
effettività, fermamente 
consolidati 
nella 
legislazione 
dell’ue 
dalla 
giurisprudenza 
della 
corte 
di 
giustizia (si 
vedano al 
riguardo le 
sentenze: del 
18 marzo 2010 nelle 
cause 
riunite 
da 
c-317/08 
a 
c-320/08, 
punto 
49; 
del 
27 
giugno 
2013, 
c-93/12, 
punti 35 e 36; e del 1° agosto 2022, c-242/22 PPu, punto 75). 


il 
principio 
di 
equivalenza 
implica 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
alle 
risorse 
proprie 
tradizionali 
(rPT) 
non 
debbano 
essere 
meno 
favorevoli 
di 
quelle 
applicabili 
alle 
imposte 
nazionali. il 
principio di 
efficacia impone 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
non 
rendano 
impossibile, 
o 
eccessivamente 
difficoltoso 
nella pratica, il 
recupero dei 
debiti 
a titolo delle 
rPT. ne 
consegue 
che 
le 
autorità italiane 
dovrebbero attribuire 
alle 
rPT 
gli 
importi 
recuperati 
coerentemente 
con tali 
principi. i debiti 
a titolo delle 
rPT 
dovrebbero essere 
rimborsati 
(almeno) 
proporzionalmente 
alla 
loro 
incidenza 
sui 
debiti 
a 
livello 
nazionale 
dovuti 
per 
imposte 
nazionali, 
e 
quindi 
il 
loro 
rimborso 
dovrebbe 
avere 
la priorità sui 
costi 
accessori 
addebitati 
al 
debitore, che 
costituiscono 
reddito nazionale. Tra i 
costi 
accessori 
rientrano, tra l’altro, gli 
interessi 
di 
mora (compresi 
quelli 
indicati 
all’articolo 114 cdu) e 
i 
costi 
o le 
sanzioni 
supplementari 
imposti 
al 
debitore. Tali 
costi 
accessori, in quanto reddito nazionale, 
non 
dovrebbero 
essere 
inclusi 
nel 
calcolo 
della 
quota 
delle 
rPT 
sugli 
importi 
versati, 
ossia 
non 
devono 
incidere 
negativamente 
sulla 
messa 
a 
disposizione 
parziale 
delle 
rPT 
fino 
a 
quando 
queste 
ultime 
non 
siano 
state 
messe 
a disposizione 
integralmente. i costi 
procedurali 
(ad esempio i 
costi 
di 
recupero) sostenuti 
per 
le 
rPT 
sono già coperti 
dalla percentuale 
di 
riscossione 
del 
25 %, come 
previsto dall’articolo 9, paragrafo 2, della decisione 
n. 
2020/2053 del consiglio. 


esempio: 


per 
una 
determinata 
importazione 
sono 
calcolate 
le 
seguenti 
obbligazioni 
(al 
lordo): dazi 
doganali 
2.000 eur, accise 
8.000 eur, spese 
di 
recupero ai 
sensi 
della 
normativa 
nazionale 
1.000 
eur 
e 
interessi 
di 
mora 
maturati 
1.000 
eur. Se 
sono recuperati 
1.000 eur, le 
autorità italiane 
devono mettere 
a disposizione 
del 
bilancio 
dell’ue 
il 
20 
% 
dell’importo 
recuperato 
(al 
lordo: 
200 
eur), 
cioè 
la 
quota 
delle 
rPT 
dell’importo 
complessivo 
di 
imposte 
e 
dazi 


(10.000 
eur). 
la 
stessa 
proporzione 
si 
applica 
fino 
a 
quando 
non 
è 
stato 
messo a disposizione 
del 
bilancio dell’ue 
il 
totale 
lordo di 
2.000 eur, e 
solo 
successivamente 
possono essere 
soddisfatti 
i 
costi 
di 
recupero e 
gli 
interessi 
di mora nazionali. 
di 
conseguenza, 
i 
servizi 
della 
commissione 
chiedono 
una 
modifica 
della 
procedura per 
renderla conforme 
al 
ragionamento suesposto e 
sottolineano 
che 
occorre 
risolvere 
rapidamente 
ed 
efficacemente 
questa 
annosa 
questione. 
le 
autorità 
italiane 
sono 
nuovamente 
invitate 
a 
informare 
i 
servizi 
della 
commissione 
in 
merito 
alle 
misure 
correttive 
previste 
e 
alle 
(potenziali) 
tempistiche 
per 
l’attuazione 
delle 
stesse 
e 
sono avvertite 
del 
fatto che, in caso di 
disac



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


cordo 
persistente, 
i 
servizi 
della 
commissione 
si 
vedranno 
costretti 
a 
prendere 
in considerazione 
questo fascicolo ai 
fini 
dell’apertura di 
una procedura di 
infrazione 
a norma dell’articolo 258 TFue. le 
perdite 
pregresse 
di 
rPT 
dovrebbero 
essere 
messe 
a disposizione 
senza ulteriore 
indugio al 
fine 
di 
interrompere 
il cumulo degli interessi di mora. 


la scheda di constatazioni preliminari n. 1508 rimane in sospeso”. 


iv. La richiesta istruttoria di 
questa Avvocatura Generale 
di 
cui 
alla 
nota prot. 374732 del 5 giugno 2024. 
Questa 
Avvocatura 
Generale, 
preso 
atto 
della 
nota 
dei 
Servizi 
della 
Commissione 
Europea 
Ares 
(2023) 
8084776 
del 
27 
novembre 
2023, 
con 
nota 
prot. 
374732 del 
5 giugno 2024, chiedeva 
a 
codesta 
Agenzia 
chiarimenti 
in merito 
ai 
criteri 
di 
imputazione, in base 
al 
diritto nazionale, degli 
importi 
rimborsati 
dal 
debitore 
iscritto a 
ruolo, nonché 
alle 
eventuali 
differenze 
di 
regime 
tra 
i 
criteri 
di 
imputazione 
utilizzati 
per il 
recupero delle 
RPT 
e 
delle 
imposte 
nazionali. 


La 
nota 
veniva 
inviata 
anche 
ad Agenzia 
delle 
Entrate 
-Riscossione 
affinché 
fornisse 
direttamente 
alla 
Scrivente 
il 
proprio contributo in relazione 
alle predette richieste di chiarimenti. 


v. 
il 
riscontro fornito da codesta Agenzia con 
nota prot. 682859/Ru 
del 12 novembre 2024. 
mentreAgenzia 
delle 
Entrate 
-Riscossione 
non 
ha 
fornito 
alcun 
riscontro, 
codesta 
Agenzia 
delle 
Dogane 
ha 
trasmesso alla 
Scrivente 
una 
articolata 
nota 
(prot. 682859/RU 
del 
12 novembre 
2024) nella 
quale, dopo aver illustrato la 
disciplina 
normativa 
nazionale 
della 
riscossione 
delle 
somme 
iscritte 
a 
ruolo 
da 
essa 
Agenzia 
a 
titolo 
di 
RPT 
e 
di 
imposte 
nazionali 
(IVA 
all’importazione), 
ha 
compiutamente 
descritto i 
criteri 
di 
imputazione 
delle 
somme 
rimborsate 
dal 
debitore 
iscritto a 
ruolo che 
abbia 
richiesto e 
ottenuto dall’Agente 
della 
riscossione 
la 
dilazione 
di 
pagamento con rateizzazione; 
ha 
puntualizzato che 
non esistono differenze 
di 
regime 
tra 
criteri 
di 
imputazione 
utilizzati 
nel 
recupero 
di 
RPT 
e 
di 
imposte 
nazionali; 
ha 
evidenziato 
che, 
dal 
31 
dicembre 
2021, 
non viene 
più recuperata 
la 
quota 
“oneri 
di 
riscossione”, che 
è 
stata 
soppressa 
dalla 
Legge 
di 
bilancio 
per 
il 
2022 
(Legge 
n. 
234/2021), 
ed 
infine, 
ha 
concluso 
che: 
“nella 
attuale 
modalità 
di 
riparto 
delle 
rate 
richiesto 
dal 
debitore”, 
la 
singola 
rata 
è 
composta, 
oltre 
che 
dalla 
quota 
afferente 
al 
capitale, 
anche 
dagli 
“interessi 
di 
mora ex 
art. 114 cdu 
e 
«dagli: 
n.d:r.» interessi 
di 
rateizzazione 
a copertura dell’agevolazione 
di 
pagamento concessa dall’agenzia entrate-
riscossione, 
nonché 
«dalle: 
n.d.r.» 
eventuali 
spese 
esecutive 
e 
diritti 
di 
notifica 
dei documenti”. 


nelle 
nota 
prot. 682859/RU 
del 
12 novembre 
2024 codesta 
Agenzia 
ha 
richiamato 
la 
nota 
Ares 
(2024) 
5737841 
dei 
servizi 
della 
Commissione 
in 
data 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


8 agosto 2024 nella 
quale 
sono stati 
ribaditi 
i 
principi 
di 
equivalenza 
ed effettività 
nel 
recupero delle 
RPT, e 
sono stati 
invocati 
nuovamente 
i 
contenuti 
di 
cui all’art. 325 TFUE, nonché la “normativa sulle risorse proprie”. 


v.1. 
La 
nota 
dei 
Servizi 
della 
Commissione 
Ares 
(2024) 
5737841 
dell’8 
agosto 2024 trasmessa successivamente alla nota del 12 novembre 2024. 
In 
particolare 
nella 
predetta 
nota 
Ares 
(2024) 
5737841 
della 
Commissione 
in data 
8 agosto 2024, successivamente 
trasmessa 
a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
da 
codesta 
Agenzia, si 
legge 
nuovamente 
quanto segue: 
“Scheda di 
constatazioni 
preliminari 
n. 
1508 
-Gli 
interessi 
sono 
detratti 
prima 
della 
suddivisione 
proporzionale 
fra dazi 
nazionali 
e 
risorse 
proprie 
tradizionali. 


I 
servizi 
della Commissione 
avevano chiesto una modifica della procedura 
per 
renderla 
conforme 
al 
compendio, 
alla 
normativa 
sulle 
risorse 
proprie 
e 
all’articolo 325 TFue 
e 
avevano sottolineato la necessità di 
risolvere 
rapidamente 
ed efficacemente 
questa annosa questione. Gli 
Stati 
membri 
devono 
attenersi 
ai 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività, 
fermamente 
consolidati 
nella 
legislazione 
dell’ue 
dalla 
giurisprudenza 
della 
corte 
di 
giustizia 
(si 
vedano 
al 
riguardo 
le 
sentenze: 
del 
18 
marzo 
2010 
nelle 
cause 
riunite 
da 
c‑317/08 a c-320/08, punto 49; del 
27 giugno 2013, c-93/12, punti 
35 e 
36; 
e 
del 
1° 
agosto 2022, c-242/22 PPu, punto 75). il 
principio di 
equivalenza 
implica 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
alle 
risorse 
proprie 
tradizionali 
(rPT) non debbano essere 
meno favorevoli 
di 
quelle 
applicabili 
alle 
imposte 
nazionali. il 
principio di 
efficacia impone 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
non rendano impossibile, o eccessivamente 
difficoltoso nella pratica, il 
recupero 
dei 
debiti 
a 
titolo 
delle 
rPT. 
ne 
consegue 
che 
le 
autorità 
italiane 
dovrebbero 
attribuire 
alle 
rPT 
gli 
importi 
recuperati 
coerentemente 
con 
tali 
principi. 
i debiti 
a titolo delle 
rPT 
dovrebbero essere 
rimborsati 
(almeno) proporzionalmente 
alla loro incidenza sui debiti a livello nazionale dovuti per 
imposte 
nazionali, 
e 
quindi 
il 
loro 
rimborso 
dovrebbe 
avere 
la 
priorità 
sui 
costi 
accessori 
addebitati 
al 
debitore, 
che 
costituiscono 
reddito 
nazionale. 
Tra 
i 
costi 
accessori 
rientrano, 
tra 
l’altro, 
gli 
interessi 
di 
mora 
(compresi 
quelli 
indicati 
all’articolo 
114 
cdu) 
e 
i 
costi 
o 
le 
sanzioni 
supplementari, 
imposti 
al 
debitore. 
Tali 
costi 
accessori, 
in 
quanto 
reddito 
nazionale, 
non 
dovrebbero 
essere 
inclusi 
nel 
calcolo della quota delle 
rPT 
sugli 
importi 
versati, ossia non devono incidere 
negativamente 
sulla 
messa 
a 
disposizione 
parziale 
delle 
rPT 
fino 
a 
quando queste 
ultime 
non siano state 
messe 
a disposizione 
integralmente. i 
costi 
procedurali 
(ad esempio i 
costi 
di 
recupero) sostenuti 
per 
le 
rPT 
sono 
già coperti 
dalla percentuale 
di 
riscossione 
del 
25 %, come 
previsto dall’articolo 
9, paragrafo 2, della decisione n. 2020/2053 del consiglio. 


esempio: 


per 
una 
determinata 
importazione 
sono 
calcolate 
le 
seguenti 
obbligazioni 
(al 
lordo): dazi 
doganali 
2.000 eur, accise 
8.000 eur, spese 
di 
recupero ai 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


sensi 
della 
normativa 
nazionale 
1.000 
eur 
e 
interessi 
di 
mora 
maturati 
1.000 
eur. Se 
sono recuperati 
1.000 eur, le 
autorità italiane 
devono mettere 
a disposizione 
del 
bilancio 
dell’ue 
il 
20 
% 
dell’importo 
recuperato 
(al 
lordo: 
200 
eur), 
cioè 
la 
quota 
delle 
rPT 
dell’importo 
complessivo 
di 
imposte 
e 
dazi 


(10.000 
eur). 
la 
stessa 
proporzione 
si 
applica 
fino 
a 
quando 
non 
è 
stato 
messo a disposizione 
del 
bilancio dell’ue 
il 
totale 
lordo di 
2.000 eur, e 
solo 
successivamente 
possono essere 
soddisfatti 
i 
costi 
di 
recupero e 
gli 
interessi 
di mora nazionali. 
di 
conseguenza, 
i 
servizi 
della 
commissione 
chiedono 
una 
modifica 
della 
procedura per 
renderla conforme 
al 
ragionamento suesposto e 
sottolineano 
che 
occorre 
risolvere 
rapidamente 
ed 
efficacemente 
questa 
annosa 
questione. 
le 
autorità 
italiane 
sono 
nuovamente 
invitate 
a 
informare 
i 
servizi 
della 
commissione 
in 
merito 
alle 
misure 
correttive 
previste 
e 
alle 
(potenziali) 
tempistiche 
per 
l’attuazione 
delle 
stesse 
e 
sono avvertite 
del 
fatto che, in caso di 
disaccordo 
persistente, 
i 
servizi 
della 
commissione 
si 
vedranno 
costretti 
a 
prendere 
in considerazione 
questo fascicolo ai 
fini 
dell’apertura di 
una procedura di 
infrazione 
a norma dell’articolo 258 TFue. le 
perdite 
pregresse 
di 
rPT 
dovrebbero 
essere 
messe 
a disposizione 
senza ulteriore 
indugio al 
fine 
di 
interrompere 
il cumulo degli interessi di mora...”. 


v.2. 
Gli 
sviluppi 
successivi 
della 
vicenda 
sino 
al 
mese 
di 
febbraio 
2025. 
La 
Commissione 
Europea 
-D.G. 
for 
Budget, 
con 
nota 
AGOR-TOR/202412/
agenda-03 
in 
data 
12 
novembre 
2024 
avente 
ad 
oggetto: 
“Guidelines 
on 
the 
commission’s 
assessment 
of 
write-off 
reports 
concerning traditional 
own 
resources 
(Tor). 
article 
13 
of 
council 
regulation 
no 
609/2014 
of 
26 
may 
2014”, 
ha 
adottato 
un 
aggiornamento 
del 
“Compendio” 
diramato 
il 
25 
giugno 
2013. 


In tale 
aggiornamento -d’ora 
in poi 
“nuovo Compendio”-, nel 
paragrafo 


4.4.2.1. 
rubricato 
“amounts 
assigned 
to 
other 
debts 
of 
the 
operator” 
(cfr. 
pag. 
45), 
la 
Commissione 
Europea 
ha 
riprodotto 
testualniente 
il 
contenuto 
della 
predetta 
nota 
Ares 
(2024) 
5737841 
in 
data 
8 
agosto 
2024, 
riproponendo 
anche 
“l’esempio” ivi già contenuto. 
nell’audit 
della 
Corte 
dei 
Conti 
Europea 
in data 
10 febbraio 2025 indirizzato 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
italiana, alle 
pagine 
6 e 
7, sotto la 
rubrica 
“errata 
ripartizione 
dei 
pagamenti 
parziali 
tra rPT 
ed entrate 
nazionali”, viene 
nuovamente 
segnalato 
che: 
“i 
pagamenti 
parziali 
versati 
dai 
debitori 
erano 
ripartiti 
in modo non corretto tra rPT 
ed entrate 
nazionali. ciò ha inciso sugli 
importi 
delle 
entrate 
ue 
e 
sul 
tempo necessario perché 
questi 
fossero messi 
a 
disposizione 
del 
bilancio ue” 
(v. punto 7) e 
che 
“la prassi 
utilizzata in italia 
per 
ripartire 
i 
pagamenti 
parziali 
tra rPT 
ed entrate 
nazionali 
non segue 
gli 
orientamenti del compendio” (v. punto 13). 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


vi. individuazione della questione giuridica posta. 
Come 
emerge 
dall’esame 
delle 
note 
Ares 
in data 
27 novembre 
2023 ed 
in data 
dell’8 agosto 2024, e 
del 
nuovo Compendio della 
Commissione, nonché 
dell’audit 
in 
data 
10 
febbraio 
2025 
della 
Corte 
dei 
Conti 
Europea, 
tali 
Istituzioni, 
con 
specifico 
riferimento 
alle 
procedure 
nazionali 
di 
recupero 
dei 
debiti 
a 
titolo delle 
RPT, contestano i 
criteri 
di 
imputazione 
degli 
importi 
recuperati, 
applicati 
dalle 
autorità 
nazionali, 
assumendo, 
in 
sostanza, 
che 
le 
somme 
recuperate 
dovrebbero essere 
imputate 
innanzitutto al 
capitale 
dovuto 
dal 
debitore 
a 
titolo di 
RPT 
(eventualmente, ove 
nelle 
somme 
iscritte 
a 
ruolo 
fossero ricomprese 
anche 
imposte 
nazionali, ripartendo l’importo recuperato 
proporzionalmente 
tra 
RPT 
ed 
imposte 
nazionali); 
soltanto 
dopo 
l’integrale 
rimborso 
del 
debito 
per 
capitale, 
potrebbero 
essere 
soddisfatti 
i 
costi 
accessori 
addebitati 
al 
debitore 
(nei 
quali 
rientrerebbero gli 
interessi 
di 
mora, i 
costi 
di 
riscossione 
e 
le 
sanzioni 
supplementari), i 
quali 
“costi 
accessori” 
rappresenterebbero 
“reddito 
nazionale” 
e, 
pertanto, 
andrebbero 
necessariamente 
postergati 
rispetto al capitale dovuto a titolo di RPT. 



Per chiarire 
la 
propria 
posizione, i 
Servizi 
della 
Commissione, da 
ultimo 
nel nuovo Compendio, hanno fornito il seguente 


esempio: 


per 
una 
determinata 
importazione 
sono 
calcolate 
le 
seguenti 
obbligazioni 
(al 
lordo): dazi 
doganali 
2.000 eur, accise 
8.000 eur, spese 
di 
recupero ai 
sensi 
della 
normativa 
nazionale 
1.000 
eur 
e 
interessi 
di 
mora 
maturati 
1.000 
eur. Se 
sono recuperti 
1.000 eur, le 
autorità italiane 
devono mettere 
a disposizione 
del 
bilancio 
dell’ue 
il 
20% 
dell’importo 
recuperato 
(al 
lordo: 
200 
eur), 
cioé 
la 
quota 
delle 
rPT 
dell’importo 
complessivo 
di 
imposte 
e 
dazi 


(10.000 
eur). 
la 
stessa 
proporzione 
si 
applica 
fino 
a 
quando 
non 
è 
stato 
messo a disposizione 
del 
bilancio dell’ue 
il 
totale 
lordo di 
2.000 eur, e 
solo 
successivamente 
possono essere 
sodisfatti 
i 
costi 
di 
recupero e 
gli 
interessi 
di 
mora nazionali. 
Invece, 
in 
Italia, 
accade 
che, 
nel 
caso 
di 
somme 
iscritte 
a 
ruolo 
dall’Agenzia 
delle 
Dogane 
a 
titolo 
di 
dazi 
(rientranti 
nella 
catagoria 
delle 
RPT) 
e 
di 
IVA 
all’importazione 
(in 
genere 
associata 
all’obbligazione 
daziaria), 
ove 
il 
debitore 
iscritto ottenga 
la 
rateizzazione 
(che 
può giungere 
sino a 
72 rate), le 
singole 
rate 
non vengono imputate, in via 
prioritaria, interamente 
al 
capitale 
sino alla 
integrale 
restituzione 
di 
esso, postergando “i 
costi 
accessori” 
e 
gli 
interessi 
di 
mora 
(costituenti 
anch’essi 
un’entrata 
nazionale), ma 
vengono ripartite 
-sin 
dalla 
prima 
rata 
e 
sino 
all’ultima, 
e 
dunque, 
per 
tutta 
la 
durata 
del 
piano 
di 
ammortamento -tra 
capitale 
per imposta, interessi 
di 
mora, interessi 
di 
rateizzazione 
a 
copertura 
della 
dilazione 
di 
pagamento concessa 
dall’Agenzia 
Entrate 
-Riscossione 
ed 
eventuali 
spese 
esecutive 
e 
diritti 
di 
notifica 
degli 
atti 
riscossione. 


nel 
piano 
di 
ammortamento 
in 
genere 
predisposto 
dalle 
autorità 
nazionali 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


la 
quota 
per capitale 
è 
crescente 
e 
la 
quota 
interessi 
decrescente, secondo il 
criterio 
“alla 
francese” 
che 
favorisce, 
inizialmente, 
il 
pagamento 
degli 
interessi. 


La 
procedura 
di 
rateizzazione 
applicata 
dalle 
autorità 
nazionali 
non sarebbe, 
dunque, conforme 
al 
criterio indicato dalla 
Commissione 
e 
dalla 
Corte 
dei 
Conti 
Europea, 
e 
comporterebbe 
una 
perdita 
di 
RPT 
per 
il 
bilancio 
del-
l’Unione, o, comunque, un ritardo nella 
messa 
a 
disposizione 
delle 
RPT, produttivo 
di interessi di mora a carico della Repubblica italiana. 


Di 
conseguenza, 
i 
servizi 
della 
Commissione 
hanno 
chiesto 
una 
modifica 
della procedura nazionale per renderla conforme all’esempio suesposto. 


Codesta 
Agenzia 
ha, in sostanza, chiesto a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
un 
parere 
in 
merito 
alla 
fondatezza 
(o 
meno) 
della 
richiesta 
della 
Commissione. 


vi.1. Analisi della questione giuridica posta. 
Occorre 
iniziare 
la 
disamina 
della 
questione 
posta 
partendo 
dall’esame 
della 
base 
giuridica 
sulla 
quale 
i 
servizi 
della 
Commissione 
hanno fondato la 
propria 
richiesta 
di 
modifica 
della 
procedura 
nazionale 
di 
riscossione 
delle 
RPT. 


I 
servizi 
della 
Commissione, 
in 
un 
primo 
momento, 
hanno 
fondato 
la 
loro 
richiesta sulle seguenti, asserite, basi giuridiche: 


-un “compendio” 
diramato dalla 
Commissione 
stessa 
il 
25 giugno 2013 
in tema 
di 
“Procedura interna per 
la gestione 
dei 
casi 
di 
inesigibilità (writeoff)”; 
- sulla “normativa sulle risorse proprie”, senza ulteriori specificazioni; 
-e sull’articolo 325 del 
TFUE. 
Tali 
asserite 
basi 
giuridiche 
sono state 
richiamate, anche 
di 
recente, dai 
Servizi 
della 
Commissione 
nella 
nota 
Ares 
(2024) 
5737841 
dell’8 
agosto 
2024 
(v. pagina 2). 


nel 
predetto “Compendio”, nella 
versione 
aggiornata 
al 
25 giugno 2013, 
al 
punto 3.2, lettera 
c), si 
afferma, in effetti, che 
“... ogni 
importo che 
sia stato 
recuperato 
... 
deve 
essere 
ripartito 
proporzionalmente 
tra 
i 
due 
tipi 
di 
risorse” 
«RPT 
e 
diritti 
nazionali 
n.d.r.», 
prima della detrazione 
delle 
spese 
di 
riscossione 
e 
degli 
interessi. 
Gli 
Stati 
membri 
devono 
mettere 
a 
disposizione 
tali 
importi 
secondo le modalità sopra riferite 
”. 


Sennonché, come 
già 
rilevato da 
questa 
Avvocatura 
Generale 
nella 
nota 
prot. 432069 del 
28 giugno 2023, il 
predetto “compendio”- per stessa 
ammissione 
della 
Commissione 
-non ha, di 
per sé, natura 
di 
atto normativo vincolante 
per 
gli 
Stati 
membri: 
nella 
nota 
conclusiva 
di 
tale 
documento, 
che 
è 
stata 
qui 
trasmessa 
da 
codesta 
Agenzia 
in allegato alla 
nota 
prot. n. 39560/RU 
del 
5 aprile 
2018, si 
precisa, infatti, che 
il 
Compendio “costituisce 
un mero strumento 
di 
lavoro, 
da 
diffondere 
solo 
a 
scopo 
informativo”, 
e 
che 
“il 
solo 
facente 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


fede” 
per 
gli 
Stati 
membri 
è 
“il 
testo 
della 
legislazione 
applicabile 
pubblicato 
nella Gazzetta ufficiale 
della ue, interpretato dalla corte 
di 
Giustizia europea” 
. 


Tale 
precisazione 
si 
ritrova 
anche 
nel 
nuovo 
Compendio 
del 
22 
novembre 
2024: 
infatti 
nel 
“1. 
Preamble”, 
alla 
fine 
di 
pagina 
5, 
si 
legge, 
di 
nuovo, 
quanto 
segue: 
“moreover, 
it 
is 
reminded 
that 
only 
the 
text 
of 
the 
applicable 
legislation 
published in the 
official 
Journal 
of 
the 
eu 
and its 
interpretation given by 
the 
court 
of 
Justice 
of 
the 
european union (‘cJeu’) have 
legally 
binding character 
”. 


Tale 
“compendio” 
-ed 
i 
suoi 
aggiornamenti 
-appare, 
dunque, 
assimilabile 
ad 
una 
mera 
“circolare 
interpretativa” 
e, 
come 
tale, 
non 
è 
vincolante 
per 
gli 
Stati 
membri 
ed 
è, 
di 
per 
sé, 
assolutamente 
inidoneo 
ad 
innovare 
l’ordinamento 
giuridico 
dell’U.E. 
con 
l’imposizione 
di 
nuovi 
obblighi 
in 
capo 
agli 
Stati 
membri. 


Quanto 
alla 
“normativa 
sulle 
risorse 
proprie”, 
la 
legislazione 
unionale 
vincolante 
nulla 
dispone, 
in 
realtà, 
in 
tema 
di 
criteri 
di 
imputazione 
delle 
somme 
rimborsate 
dal 
debitore 
dell’obbligazione 
daziaria, il 
quale 
abbia 
ottenuto 
dallo Stato membro la 
dilazione 
di 
pagamento con rateizzazione 
del 
debito. 


La 
materia 
risulta, infatti, riservata 
ai 
singoli 
Stati 
membri 
come 
si 
desume: 


-dalla 
decisione 
del 
Consiglio n. 2020/2053/UE, Euratom 
relativa 
al 
sistema 
delle 
risorse 
proprie 
dell’Unione 
Europea 
(la 
quale, all’articolo 9, rubricato 
“riscossione 
delle 
risorse 
proprie 
e 
messa 
a 
disposizione 
della 
commissione”, al 
paragrafo 1, prevede, appunto, che: 
“Le 
risorse 
proprie 
di 
cui 
all’articolo 
2, 
paragrafo 
1, 
lettera 
a),(1) 
sono 
riscosse 
dagli 
Stati 
membri 
conformemente 
alle 
disposizioni 
legislative, 
regolamentari 
o 
amministrative 
nazionali. Se 
del 
caso, gli 
Stati 
membri 
adattano tali 
disposizioni 
per 
conformarsi 
alla normativa dell’unione”); 
-e, 
comunque, 
dalla 
costante 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’U.E, secondo cui 
“è 
compito dell’ordinamento giuridico interno di 
ciascuno 
Stato membro, se 
non vi 
sono disposizioni 
comunitarie 
in materia, stabilire 
le 
modalità 
e 
le 
condizioni 
di 
riscossione 
degli 
oneri 
finanziari 
comunitari, purché 
dette 
modalità e 
condizioni 
non rendano il 
sistema di 
riscossione 
delle 
tasse 
e 
degli 
oneri 
comunitari 
meno efficace 
di 
quello relativo 


(1) L’articolo 2, paragrafo 1, lettera 
a) della 
predetta 
decisione 
prevede 
che: 
1. costituiscono risorse 
proprie iscritte nel bilancio dell’unione le entrate provenienti: 
a) 
dalle 
risorse 
proprie 
tradizionali 
costituite 
da 
prelievi, 
premi, 
importi 
supplementari 
o 
compensativi, 
importi 
o 
elementi 
aggiuntivi, 
dazi 
della 
tariffa 
doganale 
comune 
e 
altri 
dazi 
fissati 
o 
da 
fissare 
da 
parte 
delle 
istituzioni 
dell’unione 
sugli 
scambi 
con paesi 
terzi, dazi 
doganali 
sui 
prodotti 
che 
rientrano nel-
l’ambito di 
applicazione 
del 
trattato, ormai 
scaduto, che 
istituisce 
la comunità europea del 
carbone 
e 
dell’acciaio, nonché 
contributi 
e 
altri 
dazi 
previsti 
nell’ambito dell’organizzazione 
comune 
dei 
mercati 
nel settore dello zucchero”. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


alle 
tasse 
ed agli 
oneri 
nazionali 
dello stesso tipo, né 
rendano praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’attuazione 
della normativa comunitaria” 
(cfr. la 
sentenza 
del 
14 maggio 1996, The 
Queen, cause 
riunite 
C-153/94 
e C-204/94, punto 66 e la giurisprudenza ivi citata). 


L’art. 
325 
del 
TFUE, 
pure 
richiamato 
dai 
servizi 
della 
Commissione, 
non 
pare pertinente rispetto alla questione in trattazione. 


Ed invero, secondo la 
costante 
giurisprudenza 
della 
C.G.U.E. “l’articolo 
325, paragrafo 1, TFue, obbliga gli 
Stati 
membri 
a lottate 
contro la frode 
e 
le 
altre 
attività 
illegali 
lesive 
degli 
interessi 
finanziari 
dell’unione 
con 
misure 
dissuasive 
ed 
effettive” 
(cfr. 
Grande 
Sezione, 
sentenza 
del 
24 
luglio 
2023, 
Statul 
român, C-107/23, punto 83 e la giurisprudenza ivi citata). 


nella 
specie, 
la 
Commissione 
contesta 
le 
modalità 
di 
imputazione, 
da 
parte 
della 
Repubblica 
italiana, delle 
somme 
rimborsate 
dai 
debitori 
nazionali 
a 
titolo di 
RPT, già 
iscritti 
a 
ruolo sulla 
base 
di 
un tempestivo accertamento 
dell’obbligazione 
doganale; 
il 
che 
implica 
che 
la 
Repubblica 
italiana 
ha 
puntualmente 
adempiuto gli 
obblighi 
su di 
essa 
incombenti 
in base 
al 
predetto articolo 
325 
TFUE, 
i 
quali 
si 
riferiscono, 
evidentemente, 
alla 
sola 
attività 
a 
monte dell’accertamento daziario. 


Risulta, 
invece, 
astrattamente 
pertinente 
il 
riferimento, 
che 
si 
legge 
in 
entrambe 
le 
note 
Ares 
della 
Commissione 
in data 
27 novembre 
2023 ed in data 
8 agosto 2024, nonché 
nel 
nuovo Compendio (par. 4.4.2.1., pag. 45), ai 
principi 
di 
equivalenza e 
di 
effettività 
che, peraltro, vengono costantemente 
richiamati 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’U.E. 
in 
relazione 
alle 
materie, 
non 
oggetto di 
armonizzazione 
a 
livello comunitario, rispetto alle 
quali 
vige 
la 
regola 
generale 
dell’autonomia 
procedurale 
degli 
Stati 
membri 
(si 
vedano, 
tra 
le 
tante, la 
sentenza 
del 
15 giugno 2023, eco advocacy 
clG, C-721/21, 
punto 21; 
sentenza 
del 
7 giugno 2007, van der 
Weerd e 
a., da 
C-222/05 a 
C225/
05, punto 28 e 
giurisprudenza 
ivi 
citata; 
la 
sentenza 
del 
10 giugno 2021, 
BnP 
Paribas 
Personal 
Finance, da 
C-776/19 a 
C-782/19, punto 27; 
nonché 
la 
sentenza 
del 
16 
luglio 
2020, 
caixabank 
e 
Banco 
Bilbao 
Vizcaya 
argentaria, 
C-224/19 e C-259/19, punto 83 e giurisprudenza ivi citata). 


Come 
si 
è 
visto, la 
Corte 
esige 
che 
tali 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività 
vengano 
rispettati 
dagli 
Stati 
membri 
anche 
nel 
disciplinare 
le 
“modalità 
e 
le 
condizioni 
di 
riscossione 
degli 
oneri 
finanziari 
comunitari”, (cfr. la 
citata 
sentenza del 14 maggio 1996, punto 66). 


Ebbene 
la 
Commissione 
afferma 
che 
“il 
principio 
di 
equivalenza 
implica 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
alle 
risorse 
proprie 
tradizionali 
(rPT) non 
debbano essere 
meno favorevoli 
di 
quelle 
applicabili 
alle 
imposte 
nazionali. 
il 
principio 
di 
efficacia 
impone 
che 
le 
norme 
nazionali 
applicabili 
non 
rendano 
impossibile, o eccessivamente 
difficoltoso nella pratica, il 
recupero dei 
debiti 
a titolo delle rPT 
”. 


Anche 
nel 
nuovo 
Compendio, 
si 
legge 
quanto 
segue: 
“The 
principle 
of 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


equivalence 
implies 
that 
national 
rules 
applicable 
to Tor 
should not 
be 
less 
favourable 
than those 
applicable 
to national 
taxes. The 
principle 
of 
effectiveness 
requires 
that 
applicable 
national 
rules 
do 
not 
render 
the 
recovery 
of 
Tor 
debts impossible or excessively difficult in practice” (par. 4.4.2.1., pag. 45). 


È, 
dunque, 
necessario 
verificare 
se 
la 
procedura 
di 
rateizzazione 
delle 
somme 
iscritte 
a 
ruolo a 
titolo di 
RPT, applicata 
dalle 
autorità 
nazionali, sia 
o 
meno conforme a tali principi. 

Quanto 
al 
principio 
di 
equivalenza, 
codesta 
Agenzia, 
nella 
nota 
prot. 
682859/RU 
del 
12 novembre 
2024, nel 
fornire 
riscontro alla 
richiesta 
di 
chiarimenti 
formulata 
dalla 
Scrivente 
con la 
nota 
del 
28 giugno 2023, ha 
espressamente 
e 
testualmente 
affermato che 
“non esistono differenze 
di 
regime 
tra 
criteri 
di 
imputazione 
utilizzati 
nel 
recupero di 
rPT 
e 
di 
imposte 
nazionali” 
(cfr. pagina 3, all’inizio). 


Stando, 
dunque, 
a 
quanto 
rappresentato 
da 
codesta 
Agenzia, 
nella 
materia 
de 
qua 
il 
principio 
di 
equivalenza 
deve 
ritenersi 
rispettato 
dalla 
Repubblica 
italiana. 


Quanto 
al 
principio 
di 
efficacia 
(o 
di 
effettività), 
la 
costante 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’U.E. lo ritiene 
violato da 
parte 
dello Stato 
membro quando e 
solo quando 
la 
disciplina 
nazionale 
renda 
“praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile” 
l’attuazione 
della 
normativa 
comunitaria 
(si 
vedano al 
riguardo le 
sentenze, citate 
dalla 
stessa 
Commissione, del 
18 marzo 2010 nelle 
cause 
riunite 
da 
C-317/08 a 
C-320/08, punto 48; 
del 
27 
giugno 2013, C-93/12, punto 36; 
e 
del 
1° 
agosto 2022, C-242/22 PPU, punto 
75; 
nonché 
anche 
la 
sentenza 
del 
10 giugno 2021, BnP 
Paribas 
Personal 
Finance, 
da 
C-776/19 
a 
C-782/19, 
punto 
27 
e 
giurisprudenza 
ivi 
citata; 
sentenza 
della Grande Sezione, del 15 aprile 2008, impact, C-268/06, punto 46). 


La 
questione 
si 
risolve, pertanto, nello stabilire 
se 
la 
procedura 
di 
rateizzazione 
delle 
somme 
iscritte 
a 
ruolo a 
titolo di 
RPT, applicata 
dalle 
autorità 
nazionali, renda 
“praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile” 
il 
recupero 
e la messa a disposizione dei debiti a titolo delle RPT. 


Il 
principio di 
efficacia/effettività 
deve 
essere 
interpretato in modo coerente 
con 
il 
principio 
di 
attribuzione 
di 
cui 
all’articolo 
5, 
paragrafo 
2, 
TUE 
(ex 
articolo 
5 
del 
TCE), 
e 
secondo 
il 
canone 
di 
proporzionalità, 
principio 
generale 
dell’ordinamento 
comunitario, 
cioè 
in 
modo 
tale 
da 
evitare 
che 
la 
sua 
concreta 
applicazione 
ponga 
sostanzialmente 
nel 
nulla 
la 
sfera 
di 
autonomia 
procedurale 
che spetta agli Stati membri nelle materie non armonizzate. 


Occorre, pertanto, ritenere 
che, nel 
giudizio circa 
il 
rispetto del 
principio 
di 
efficacia 
(o di 
effettività), rilevino esclusivamente 
situazioni 
estreme, tali 
cioè 
da 
rendere 
“praticamente 
impossibile 
o 
eccessivamente 
difficile” 
l’attuazione 
della 
normativa 
comunitaria 
e 
l’esercizio dei 
diritti 
da 
essa 
riconosciuta, 
rientrando, invece, tutte 
le 
altre 
situazioni 
nella 
insindacabile 
sfera 
di 
autonomia procedurale degli Stati membri. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


vi.2. 
Orbene, 
dalla 
attenta 
disamina 
della 
pertinente 
disciplina 
nazionale, 
richiamata 
da 
codesta 
Agenzia 
nelle 
note 
prot. n. 39560/RU 
in data 
5 aprile 
2018 
e 
prot. 
682859/RU 
del 
12 
novembre 
2024, 
risulta 
che, 
a 
seguito 
del-
l’iscrizione 
a 
ruolo del 
credito per RPT, vengono posti 
a 
carico del 
debitore 
iscritto 
oneri/costi 
accessori 
per 
“spese 
esecutive” 
e 
per 
“notifica 
della 
cartella 
di pagamento e degli altri atti di riscossione” (art. 17 d.lgs. n. 112/1999). 
Dal 
31 
dicembre 
2021, 
non 
viene 
più 
recuperata 
la 
quota 
“oneri 
di 
riscossione”, 
che 
è 
stata 
soppressa 
dalla 
Legge 
di 
bilancio 
per 
il 
2022 
(Legge 
n. 
234/2021). 


Anche 
per i 
crediti 
daziari 
la 
cui 
gestione 
è 
affidata 
a 
codesta 
Agenzia, la 
dilazione 
di 
pagamento è 
disciplinata 
dall’art. 19 d.P.R. n. 602/1973, richiamato 
dall’art. 9, comma 
3 sexies, del 
D.L. n. 16/12, convertito con modificazioni 
dalla Legge n. 44/12. 


Inoltre, sulle 
somme 
per le 
quali 
il 
pagamento è 
stato rateizzato si 
applicano 
interessi 
ulteriori, 
il 
cui 
ammontare 
è 
riscosso 
unitamente 
all’imposta 
alle scadenze stabilite (art. 21, co. 3, d.P.R. n. 602/1973). 


L’imputazione 
dei 
pagamenti 
è 
regolata 
dall’art. 
31, 
co. 
3, 
d.P.R. 
n. 
602/1973. 


In base 
all’articolo 31, co. 3, del 
citato d.P.R. gli 
importi 
rateizzati 
(che 
possono essere 
generati 
sia 
da 
tributi 
nazionali, sia 
-per quanto d’interesse 
in 
questa 
sede 
-da 
Risorse 
proprie 
tradizionali, ossia 
i 
dazi 
doganali 
da 
versare 
all’Unione 
europea), 
vengono 
suddivisi 
proporzionalmente 
tra 
tributi 
nazionali 
(es. IVA), risorse 
proprie 
tradizionali, interessi 
e 
oneri 
amministrativi 
vari: 
in 
sostanza, 
ogni 
rata 
comprende 
una 
quota 
proporzionale 
di 
ciascun 
cespite 
iscritto a ruolo. 


Di 
talché 
-ha 
concluso codesta 
Agenzia 
nella 
nota 
prot. 682859/RU 
del 
12 novembre 
2024 -“nella attuale 
modalità di 
riparto delle 
rate 
richiesto dal 
debitore, 
la 
singola 
rata 
è 
composta, 
oltre 
che 
dalla 
quota 
afferente 
al 
capitale, 
anche 
dagli 
“interessi 
di 
mora ex 
art. 114 cdu 
e 
«dagli: 
n.d.r.» interessi 
di 
rateizzazione 
a 
copertura 
dell’agevolazione 
di 
pagamento 
concessa 
dal-
l’agenzia 
entrate-riscossione, 
nonché 
«dalle: 
n.d.r.» 
eventuali 
spese 
esecutive 
e diritti di notifica dei documenti 
”. 


(...) 


vi.3. 
Ciò posto, i 
servizi 
della 
Commissione 
non contestano la 
rateizzazione 
in sé, né 
il 
numero di 
rate 
in cui, secondo il 
diritto nazionale, può essere 
dilazionato 
il 
pagamento; 
al 
contempo 
gli 
stessi 
servizi 
della 
Commissione 
ammettono la 
possibilità 
che 
la 
quota 
capitale 
venga 
imputata 
proporzionalmente 
sia 
alle 
RPT, sia 
alle 
imposte 
nazionali, che 
è 
esattamente 
quanto praticato 
da 
ADER nel piano di rateizzazione qui fatto pervenire. 
La 
quota 
capitale, che 
come 
si 
è 
visto è 
crescente, include, oltre 
all’imposta 
IVA all’importazione, le RPT e gli interessi di mora ex art. 114 CDU. 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


Inoltre, 
all’interno 
di 
ogni 
singola 
rata, 
figura 
anche 
una 
quota, 
decrescente, 
di interessi di rateizzazione. 


Gli 
interessi 
di 
mora 
inclusi 
nella 
quota 
capitale 
hanno 
una 
specifica 
base 
giuridica 
unionale 
(art. 114, paragrafi 
1 e 
2, del 
Codice 
Doganale 
dell’Unione 


(c.d. CDU) di 
cui 
al 
Reg. 952/2013 che 
prevede 
che 
gli 
interessi 
di 
mora 
costituiscano 
una 
componente 
dell’obbligazione 
doganale 
(2)); 
anche 
gli 
interessi 
di 
rateizzazione 
(ai 
quali 
viene 
imputata 
una 
quota 
decrescente 
di 
ogni 
singola 
rata) hanno una 
base 
giuridica 
unionale, costituita 
dall’articolo 112, 
paragrafi 1 e 2, del CDU (3). 
ne 
consegue 
che 
ogni 
singola 
rata 
è 
imputata, 
per 
la 
quasi 
sua 
totalità, 
dalle 
autorità 
nazionali 
a componenti 
del 
debito iscritto a ruolo aventi 
una 
copertura giuridica unionale: 
(...) la 
quota 
capitale 
(comprensiva 
degli 
interessi 
di 
mora 
ex 
art. 
114 
CDU) 
e 
gli 
interessi 
di 
rateizzazione 
coprono, 
dunque, 
pressoché l’intera rata. 


Tanto si riscontra anche nelle rate successive alla prima. 


Gli 
interessi 
di 
mora 
e 
di 
rateizzazione 
costituiscono, in base 
agli 
articoli 
112 e 
114 CDU, componenti 
dell’obbligazione 
daziaria 
e, dalle 
predette 
disposizioni 
normative 
unionali 
o da 
altre 
(comunque 
non indicate 
dai 
Servizi 
della 
Commissione), non è 
dato ricavare 
in modo chiaro ed inequivoco la 
regola 
della 
postergazione, 
nel 
recupero 
coattivo 
dell’obbligazione 
daziaria, 
degli 
interessi 
predetti 
(costituenti 
entrate 
nazionali) 
rispetto 
al 
capitale 
per 
RPT di spettanza del bilancio unionale. 


È, del 
resto, significativo che 
i 
Servizi 
della 
Commissione, al 
fine 
di 
so


(2) 
A 
norma 
dell’art. 
114, 
paragrafi 
1 
e 
2, 
del 
Codice 
Doganale 
dell’Unione 
di 
cui 
al 
Reg. 
952/2013 
“1. 
Sull’importo dei 
dazi 
all’importazione 
o all’esportazione 
è 
applicato un 
interesse 
di 
mora dalla 
data 
di 
scadenza 
del 
termine 
prescritto 
fino 
alla 
data 
del 
pagamento. 
Per 
gli 
Stati 
membri 
la 
cui 
moneta 
è 
l’euro, il 
tasso di 
interesse 
di 
mora è 
pari 
al 
tasso di 
interesse 
pubblicato nella Gazzetta ufficiale 
del-
l’unione 
europea, serie 
c, che 
la Banca centrale 
europea ha applicato alle 
sue 
operazioni 
di 
rifinanziamento 
principali 
il 
primo giorno del 
mese 
della scadenza, maggiorato di 
due 
punti 
percentuali. Per 
uno Stato membro la cui 
moneta non è 
l’euro, il 
tasso di 
interesse 
di 
mora è 
pari 
al 
tasso applicato il 
primo giorno del 
mese 
in questione 
dalla banca centrale 
nazionale 
per 
le 
sue 
operazioni 
di 
rifinanziamento 
principali, 
maggiorato 
di 
due 
punti 
percentuali, 
oppure, 
per 
uno 
Stato 
membro 
per 
il 
quale 
il 
tasso 
della 
banca 
centrale 
nazionale 
non 
è 
disponibile, 
il 
tasso 
più 
equivalente 
applicato 
il 
primo 
giorno 
del 
mese 
in questione 
sui 
mercati 
monetari 
dei 
singoli 
Stati 
membri, maggiorato di 
due 
punti 
percentuali. 
2. Se 
l’obbligazione 
doganale 
è 
sorta sulla base 
dell’articolo 79 o dell’articolo 82, o se 
la notifica del-
l’obbligazione 
doganale 
avviene 
in seguito a un controllo ex 
post, oltre 
all’importo dei 
dazi 
all’importazione 
o all’esportazione 
viene 
applicato un interesse 
di 
mora dalla data in cui 
è 
sorta l’obbligazione 
doganale 
fino alla data della notifica. il 
tasso dell’interesse 
di 
mora è 
fissato a norma del 
paragrafo 
1 
”. 
(3) 
A 
norma 
dell’art. 
112, 
paragrafi 
1 
e 
2, 
del 
Codice 
Doganale 
dell’Unione 
di 
cui 
al 
Reg. 
952/2013, 
“le 
autorità 
doganali 
possono 
concedere 
al 
debitore 
agevolazioni 
di 
pagamento 
diverse 
dalla 
dilazione di pagamento purché sia costituita una garanzia. 
2. La concessione 
di 
agevolazioni 
a norma del 
paragrafo 1 comporta l’applicazione 
di 
un 
interesse 
di credito sull’importo dei dazi all’importazione o all’esportazione 
” . 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


stenere 
e 
giustificare, 
tale 
asserita 
“postergazione”, 
invochino 
il 
generale 
principio 
di 
efficacia 
(o 
di 
effettività), 
che 
appunto 
postula 
l’assenza, 
nelle 
materie 
riservate 
all’autonomia 
procedurale 
degli 
Stati 
membri, di 
specifiche 
disposizioni 
unionali di armonizzazione. 


Sotto tali 
aspetti, dunque, 
i 
criteri 
di 
imputazione 
della 
singola 
rata 
recuperata, 
applicati 
dalle 
autorità 
nazionali, in 
quanto preordinati 
ad 
assicurare 
la 
riscossione 
(anche) 
di 
componenti 
accessorie 
dell’obbligazione 
daziaria 
(previste 
nel 
predetto 
Cdu 
di 
cui 
al 
Reg. 
n. 
952/2013) 
e 
non 
espressamente 
“postergate”, 
rispetto 
al 
capitale, 
dal 
predetto 
CDU, 
non 
sembra 
possano dare 
luogo a 
responsabilità 
dello Stato per violazione 
del 
diritto 
unionale, in ossequio ai 
principi 
della 
certezza 
del 
diritto e 
di 
tutela 
del 
legittimo 
affidamento che 
fanno parte 
dell’ordinamento giuridico dell’Unione 
europea 
e, 
a 
tale 
titolo, 
essi 
devono 
essere 
rispettati 
anche 
dalle 
istituzioni 
dell’Unione, 
e 
non 
solo 
dagli 
Stati 
membri 
nell’esercizio 
dei 
poteri 
ad 
essi 
conferiti 
dagli 
atti 
normativi 
dell’Unione 
(cfr., tra 
le 
tante, Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea, 
sentenza 
del 
30 
aprile 
2020, 
Hecta 
Viticol 
Srl, 
C184/
19, punto 32, sentenza 
del 
9 giugno 2016, Wolfgang und dr. Wilfried rey 
Grundstücksgemeinschaft, C-332/14, punto 49, sentenza 
del 
29 aprile 
2004, 
Gemeente leusden 
e Holin Groep, C-487/01, punto 57). 


vi.4. 
Sotto 
un 
diverso, 
e 
subordinato, 
profilo, 
si 
osserva 
che 
-nell’ambito 
del 
piano di 
ammortamento qui 
fatto pervenire, e 
che 
si 
ha 
ragione 
di 
ritenere 
sufficientemente 
rappresentativo della 
prassi 
nazionale 
-in ogni 
rata 
è 
inclusa 
una “quota capitale” la quale, come già rilevato, 
i. 
viene 
imputata 
alle 
RPT, per circa 
il 
70,78 % del 
suo ammontare 
(cioè 
dell’ammontare della predetta “quota capitale”); 
ii. 
è 
crescente 
e, nel 
corso del 
piano di 
ammortamento, arriva 
a 
coprire 
il 
100% della 
singola 
rata; 
di 
conseguenza 
aumentano progressivamente 
anche 
le somme imputate alle RPT. 
Siffatta 
modalità 
di 
imputazione 
delle 
somme 
recuperate 
non 
sembra 
obiettivamente 
tale 
da 
“rendere 
impossibile, 
o 
eccessivamente 
difficoltoso 
nella pratica, il 
recupero dei 
debiti 
a titolo delle 
rPT 
”; 
di 
certo non lo rende 
assolutamente 
impossibile, come 
dimostra 
il 
fatto che 
le 
RPT 
vengono ordinariamente 
recuperate 
dalle 
autorità 
nazionali, anche 
in caso di 
rateazione 
del 
debito, e 
riversate 
al 
bilancio dell’Unione; 
ma 
neppure 
“eccessivamente 
difficoltoso”. 


Come 
già 
evidenziato 
in 
precedenza, 
la 
costante 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’U.E. ritiene 
violato il 
principio di 
efficacia/effettività 
soltanto nelle 
ipotesi 
in cui 
le 
prassi 
e 
le 
procedure 
nazionali 
-adottate 
dagli 
Stati 
membri 
nell’esercizio 
dell’autonomia 
procedurale 
ad 
essi 
spettante 
-rendano 
“eccessivamente difficoltosa” l’attuazione del diritto dell’Unione. 


Con 
il 
termine 
“eccessivamente”, 
sempre 
associato 
nelle 
sue 
pronunce 



PARERI 
DEL 
COmITATO 
COnSULTIVO 


all’aggettivo 
“difficoltoso” 
o 
“difficile”, 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
mostra 
di 
ritenere 
rilevanti, 
ad 
evidente 
garanzia 
dell’autonomia 
procedurale 
degli 
Stati 
membri, 
soltanto 
le 
situazioni 
nelle 
quali 
sia 
provato 
che 
le 
prassi 
nazionali 
comportino, 
indirettamente, un 
impedimento particolarmente 
grave 
e 
serio 
rispetto all’obiettivo 
della puntuale attuazione della normativa comunitaria. 


Orbene, 
nella 
fattispecie, 
sulla 
base 
delle 
evidenze 
istruttorie 
attualmente 
a 
disposizione 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale, non risulta 
che 
i 
criteri 
di 
imputazione 
applicati 
dalle 
autorità 
nazionali 
abbiano 
effettivamente 
comportato 


-al 
di 
là 
della 
mera 
dilatazione 
dei 
tempi 
dell’integrale 
recupero (delle 
RPT 
dovute 
dal 
debitore), poi 
comunque 
effettivamente 
avvenuto -la 
perdita 
definitiva 
di 
RPT, con una 
significativa 
ricorrenza 
statistica, che 
non si 
sarebbe 
con 
certezza 
verificata 
se 
fosse 
stato 
applicato, 
in 
fase 
di 
imputazione 
delle 
somme 
recuperate, 
il 
diverso 
criterio 
proposto 
dalle 
istituzioni 
unionali, 
tenuto 
anche 
conto 
di 
tutte 
le 
circostanze 
del 
caso 
concreto 
(come, 
ad 
esempio, 
la 
prestazione, da 
parte 
del 
debitore, di 
garanzie 
a 
corredo dell’istanza 
di 
rateizzazione). 
Per tutte 
le 
esposte 
ragioni, questa 
Avvocatura 
Generale 
ritiene 
che, allo 
stato, e 
salvo ulteriori 
e 
diverse 
emergenze 
istruttorie, vi 
siano le 
condizioni, 
giuridiche 
e 
fattuali, per poter insistere 
-nei 
rapporti 
con i 
servizi 
della 
Commissione 
- sulla linea difensiva sinora osservata da codesta 
Agenzia. 


vii. 
L’articolo 
9, 
paragrafo 
2, 
della 
decisione 
del 
Consiglio 
n. 
2020/2053/ue, 
euratom 
relativa 
al 
sistema 
delle 
risorse 
proprie 
del-
l’unione europea. 
nelle 
note 
Ares 
(2023) 8084776 del 
27 novembre 
2023, ed Ares 
(2024) 
5737841 
dell’8 
agosto 
2024, 
i 
servizi 
della 
Commissione 
rilevano 
che: 
“i 
costi 
procedurali 
(ad esempio i 
costi 
di 
recupero) sostenuti 
per 
le 
rPT 
sono già coperti 
dalla percentuale 
di 
riscossione 
del 
25 %, come 
previsto dall’articolo 9, 
paragrafo 2, della decisione n. 2020/2053 del consiglio”. 


Tale rilievo è condivisibile. 


Ed 
invero, 
l’articolo 
9, 
paragrafo 
2, 
della 
decisione 
del 
Consiglio 
n. 
2020/2053/UE, Euratom 
relativa 
al 
sistema 
delle 
risorse 
proprie 
dell’Unione 
Europea 
prevede 
che: 
“gli 
Stati 
membri 
trattengono, 
a 
titolo 
di 
spese 
di 
riscossione, 
il 
25 % degli 
importi 
di 
cui 
all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a)”. 


La 
percentuale 
sopra 
menzionata, 
a 
parere 
della 
Scrivente, 
ha 
la 
funzione 
di 
ristoro dei 
costi 
sostenuti 
dalle 
Amministrazioni 
nazionali 
per l’attivazione 
e la gestione delle procedure di riscossione delle RPT. 


Pertanto 
tale 
percentuale, 
quando 
nel 
ruolo 
siano 
comprese 
RTP, 
copre 
le 
spese 
esecutive 
e 
di 
notifica 
della 
cartella 
di 
pagamento 
e 
di 
eventuali 
ulteriori 
atti di riscossione. 


La 
decisione 
è 
atto 
direttamente 
applicabile 
e 
vincolante 
per 
gli 
Stati 
membri ex art. 288 TFUE. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2024 


Per consolidata 
giurisprudenza 
nazionale 
(cfr., tra 
le 
tante, Cons. Stato, 
Adunanza 
Plenaria, 
sent. 
n. 
17/2021, 
punti 
32, 
35 
e 
36) 
e 
comunitaria 
(cfr. 
sentenza 
22 
giugno 
1989, 
Fratelli 
costanzo, 
C-103/88, 
punto 
31; 
più 
di 
recente 
cfr. sentenza 
19 novembre 
2009, Filipiak, C-314/08, punto 82), in forza 
del 
principio di 
primazia 
del 
diritto comunitario, tutti 
gli 
organi 
dello Stato membro 
-quindi 
non 
soltanto 
i 
giudici, 
ma 
anche 
la 
pubblica 
amministrazione 
sono 
tenuti 
ad applicare 
le 
disposizioni 
UE 
self-executing, eventualmente 
disapplicando 
le norme nazionali ad esse non conformi. 


nella 
specie, codesta 
Agenzia 
nella 
nota 
prot. 682859/RU 
del 
12 novembre 
2024 riferisce 
che 
i 
costi 
imputati 
al 
debitore 
a 
titolo di 
“oneri 
di 
riscossione” 
non sono più applicati 
per i 
crediti 
affidati 
all’Agente 
della 
riscossione 
a 
partire 
dal 
1° 
gennaio 2022 in virtù della 
modifica 
dell’art. 17, comma 
1 del 
Decreto legislativo 13 aprile 
1999, n. 112, apportata 
dalla 
Legge 
di 
bilancio 
per il 2022 (Legge n. 234/2021). 


(...) 


Pertanto, 
limitatamente 
alla 
procedura 
di 
riscossione 
delle 
RPt,i 
predetti 
costi 
accessori 
non potrebbero essere 
addebitati 
al 
debitore 
nelle 
singole 
rate 
e, ove 
ciò fosse 
avvenuto, le 
somme 
eventualmente 
già 
rimborsate 
dal 
debitore 
per 
“costi 
accessori” 
della 
tipologia 
sopra 
descritta 
(e 
cioè 
per 
“spese 
esecutive 
e 
diritti 
di 
notifica dei 
documenti”), ove 
richiesto dall’interessato 
nel 
termine 
ordinario di 
prescrizione, andrebbero restituite 
all’avente 
diritto od almeno imputate al capitale nel piano di ammortamento. 


viii. Conclusioni. 
Alla 
luce 
delle 
osservazioni 
che 
precedono questa 
Avvocatura 
Generale 
esprime, in conclusione, il parere che segue: 


i. 
allo stato, e 
salvo ulteriori 
e 
diverse 
emergenze 
istruttorie, vi 
sono le 
condizioni, giuridiche 
e 
fattuali, per poter insistere 
-nei 
rapporti 
con i 
servizi 
della 
Commissione 
-sulla 
linea 
difensiva 
sinora 
osservata 
da 
codesta 
Agenzia. 
ii. 
l’articolo 
9, 
paragrafo 
2, 
della 
decisione 
del 
Consiglio 
n. 
2020/2053/UE, Euratom 
relativa 
al 
sistema 
delle 
risorse 
proprie 
dell’Unione 
Europea 
-norma 
direttamente 
applicabile 
dagli 
Stati 
membri 
(e 
dai 
relativi 
organi 
nazionali, anche 
dell’apparato amministrativo) -osta, limitatamente 
alla 
procedura 
di 
riscossione 
delle 
RPT, 
alla 
possibilità 
di 
imporre 
al 
debitore 
iscritto a 
ruolo ulteriori 
“costi 
accessori” 
per “spese 
esecutive 
e 
diritti 
di 
notifica 
dei documenti”. 
§§§ 


Sulle 
questioni 
oggetto 
del 
presente 
parere 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
che si è espresso in conformità nella seduta del 19 marzo 2025. 



LegIsLazIoneedattuaLItà
L’auspicabile rafforzamento dei poteri e delle funzioni 
della Commissione per l’accesso ai documenti 
amministrativi quale passo ulteriore verso una 
maggiore trasparenza e partecipazione civica 


Fabio Ratto Trabucco 
(*) 


Sommario: 
1. 
La 
trasparenza 
come 
impegnativa 
e 
sofferta 
conquista 
della 
pubblica 
amministrazione 
italiana 
-2. 
Le 
proposte 
di 
potenziamento 
della 
funzione 
giustiziale 
della 
Commissione 
per 
l’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
-3. Per 
una riflessione 
sull’effettività del 
diritto di accesso e della sua tutela amministrativa. 


Il 
contributo analizza 
l’evoluzione 
dei 
poteri 
e 
delle 
funzioni 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
quale 
titolare 
della 
funzione 
giustiziale 
deflattiva 
a 
mezzo 
ricorso 
gerarchico 
improprio 
al 
fine 
di 
riesame 
dei 
dinieghi 
e 
dei 
differimenti 
all’accesso opposti 
dalle 
amministrazioni 
pubbliche diverse da quelle locali. 

Traguardando 
il 
testo 
primigenio 
della 
legge 
n. 
241 
del 
1990 
che 
non 
prevedeva 
tale 
competenza 
introdotta 
solo 
dalla 
legge 
n. 
15 
del 
2005 
si 
esaminano 
le 
proposte 
di 
potenziamento 
dell’assise 
variamente 
ipotizzate, 
dall’attribuzione 
di 
maggiori 
competenze 
decisionali 
all’ampliamento 
della 
nozione 
di 
accesso, 
dal 
rafforzamento 
dell’indipendenza 
all’implementazione 
di 
maggiori 
celerità, 
trasparenza 
e 
pubblicità 
nei 
procedimenti 
velocizzando 
l’iter 
decisionale. 
Inoltre, segnalata 
l’opportunità 
di 
un incremento del 
numero dei 
componenti 
tecnici 
dell’assise 
a 
scapito 
di 
quelli 
politici, 
risulterebbe 
utile 
imporre 
l’obbligatorietà 
del 
ricorso 
alla 
Commissione 
per 
l’accesso 
nonché 
l’onere 
per 


(*) 
Esperto in ambito giuspubblicistico italiano e comparato. 


Il 
presente 
contributo è 
stato pubblicato in 
La responsabilità amministrativa delle 
società e 
degli 
enti, 2025, 1, 217-237. 



RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


le 
pubbliche 
amministrazioni 
d’impugnare 
le 
decisioni 
sfavorevoli 
in caso di 
persistente 
mancata 
ostensione 
dei 
documenti 
richiesti 
a 
prescindere 
dall’adozione 
di un provvedimento confermativo del diniego. 

Il 
complementare 
rafforzamento del 
raccordo con il 
Garante 
privacy 
e 
la 
Corte 
dei 
conti 
appare 
altresì 
utile 
onde 
responsabilizzare 
maggiormente 
la 
pubblica 
amministrazione 
in presenza 
di 
dinieghi 
del 
tutto grossolani 
ovvero 
palesemente 
contra legem, acclarati 
in sede 
giurisdizionale 
e 
perciò passibili 
di sanzione sotto forma di recupero del danno erariale. 


1. La trasparenza come 
impegnativa e 
sofferta conquista della pubblica amministrazione 
italiana. 
Il 
nostro 
Paese 
ha 
conosciuto 
un 
progressivo, 
ineluttabile 
e 
radicale 
mutamento 
nella 
concezione 
dei 
rapporti 
fra 
trasparenza 
e 
segretezza 
del-
l’attività 
amministrativa 
operato 
da 
varie 
leggi 
di 
riforma 
a 
partire 
dalla 
seconda 
metà 
degli 
anni 
ottanta 
del 
secolo 
scorso. 
Esso 
è 
stato 
preceduto 
-e 
seguito 
-da 
interventi 
legislativi 
di 
vario 
genere, 
tutti 
espressione 
di 
una 
concezione 
moderna 
di 
amministrazione 
al 
servizio 
dei 
cittadini, 
e 
quindi 
di 
una 
più 
matura 
ed 
avanzata 
consapevolezza 
dei 
rapporti 
fra 
utenti 
ed 
amministrazioni. 
Del 
resto, 
anche 
sulla 
base 
delle 
spinte 
provenienti 
dalla 
sede 
comunitaria 
e 
da 
una 
sorta 
di 
allomorfismo 
normativo 
generato 
da 
altre 
esperienze 
straniere 
(in 
particolare 
francia, 
Germania, 
svezia 
ed 
UsA), 
il 
nostro 
ordinamento 
aveva 
già 
conosciuto 
alcune 
precedenti 
esplicitazioni 
del 
principio 
di 
trasparenza, 
per 
quanto 
tutte 
riguardanti 
ambiti 
settoriali. 
in 
primis 
ricordiamo 
l’accesso 
agli 
atti 
ed 
alle 
informazioni 
degli 
enti 
locali, 
già 
disciplinato 
dalla 
legge 
n. 
816 
del 
1985, 
prima, 
e 
dalla 
legge 
n. 
142 
del 
1990, 
poi, 
ed 
attualmente 
dal 
d.lgs. 
n. 
267 
del 
2000, 
al 
cui 
interno 
vanno 
distinte 
ulteriori 
due 
figure, 
a 
seconda 
che 
venga 
riconosciuto 
ai 
cittadini 
ovvero 
ai 
consiglieri 
locali. 
Prima 
ancora 
basti 
il 
riferimento 
alla 
legge 
urbanistica 
n. 
765 
del 
1967 
(ora 
d.P.R. 
n. 
380 
del 
2001, 
quale 
Testo 
Unico 
edilizia, 
TUE), 
che 
riconosceva 
il 
diritto 
di 
visionare 
presso 
gli 
uffici 
comunali 
gli 
atti 
edilizi 
nonché 
la 
legge 
n. 
833 
del 
1978 
istitutiva 
del 
servizio 
sanitario 
nazionale 
a 
carattere 
universale 
che 
onerava 
le 
già 
Unità 
(oggi 
Aziende) 
sanitarie 
locali 
ad 
assicurare 
l’informazione 
sanitaria 
ed 
ambientale 
ai 
lavoratori 
esposti 
a 
rischio. 


In generale, quando si 
parla 
di 
trasparenza, si 
fa 
riferimento ad una 
locuzione 
di 
significato tanto ampio quanto evanescente, che 
richiama 
a 
sua 
volta 
i 
concetti 
di 
pubblicità 
ed accessibilità 
alle 
informazioni 
ed agli 
atti 
detenuti 
da 
un’istituzione, 
pubblica 
o 
privata 
che 
sia, 
operante 
nei 
vari 
settori 
della 
vita 
sociale, 
economica 
ed 
in 
generale 
pubblica 
(1). 
la 
trasparenza 
amministrativa 
è 
infatti 
astrazione 
di 
difficile 
perimetrazione, potendo riguardare 
il 
modo di 


(1) Cfr. AlfonsI, Trasparenza amministrativa. Un diritto in via di affermazione, napoli, 2018. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


essere 
e 
rappresentarsi 
del 
potere 
pubblico in senso soggettivo, ma 
anche 
le 
modalità 
di 
esercizio del 
potere 
pubblico in senso oggettivo. la 
trasparenza 
è 
ad 
un 
tempo 
sia 
una 
qualità 
tipica 
dell’agire 
amministrativo, 
sia 
parte 
integrante 
del 
principio costituzionale 
della 
buona 
amministrazione, ma 
é 
altresì 
un 
valore 
fondamentale 
per 
l’attuazione 
della 
vita 
democratica 
ed 
uno 
strumento 
di 
difesa 
della 
democrazia 
stessa. In definitiva, essa 
appare 
sempre 
più 
come 
elemento determinante 
dell’equilibrio tra 
le 
libertà 
ed i 
diritti 
degli 
amministrati 
(quali 
singoli 
individui 
e 
collettività 
di 
persone), da 
un lato, e 
poteri 
pubblici e poteri privati, dall’altro (2). 


nel 
particolare 
rapporto fra 
cittadini 
e 
pubblica 
amministrazione, l’affermazione 
della 
trasparenza 
amministrativa 
non 
è 
certo 
stata 
una 
conquista 
facile 
ed immediata 
(3). l’Assemblea 
Costituente 
ha 
certamente 
avuto il 
pregio di 
redigere 
la 
Carta 
fondamentale 
italiana 
ma 
senza 
in alcun modo degnarsi 
di 
citare 
espressamente 
la 
trasparenza 
nella 
pubblica 
amministrazione. Del 
resto 
correva 
l’anno 
1948 
ed 
altre 
erano 
le 
esigenze 
dell’amministrazione 
che 
usciva 
dalla 
fascistizzazione 
e 
relative, 
non 
sempre 
fruttuose, 
epurazioni. 
Proprio 
questa 
appare 
la 
cartina 
di 
tornasole 
degli 
sforzi 
che 
questo 
prezioso 
ed 
ineludibile 
concetto 
ha 
dovuto 
affrontare 
onde 
finalmente 
imporsi 
nel 
nostro 
ordinamento 
giuridico. 

nelle 
legislazioni 
delle 
moderne 
democrazie 
occidentali 
il 
principio giuridico 
di 
trasparenza 
e 
la 
partecipazione 
della 
collettività 
alle 
decisioni 
del-
l’autorità 
pubblica 
si 
sono affermati 
fin dalla 
seconda 
metà 
del 
secolo scorso. 
Tuttavia, la 
funzione 
di 
controllo sull’operato della 
pubblica 
amministrazione 
risale 
alla 
tradizione 
giuridica 
scandinava 
e 
particolarmente 
del 
Regno 
di 
svezia 
con la 
legge 
sulla 
libertà 
di 
stampa 
del 
1766. solo molto tempo dopo, tali 
principi 
hanno 
avuto 
riconoscimento 
negli 
UsA 
con 
il 
Freedom 
of 
information 
act 
(foA) del 
1967 mentre 
in francia 
ed in Germania 
nel 
1978. In Italia 
s’è 
invece 
affermata 
con estrema 
lentezza 
e 
solo con sedimenti 
nei 
decenni, tanto 
progressivi quanto sovente scoordinati fra loro. 

Infatti, nel 
Belpaese, come 
sappiamo, la 
trasparenza 
amministrativa 
s’è 
affacciata 
con 
estremo 
gravissimo 
e 
colpevole 
ritardo 
rispetto 
a 
molte 
altre 
nazioni 
occidentali. Basti 
richiamare 
in tema 
l’originario art. 15, d.P.R. n. 3 
del 
1957, in tema 
di 
pubblico impiego, che 
sanciva 
il 
ferreo segreto amministrativo 
(ovvero d’ufficio) quale 
regola 
generalizzata, vietando l’accesso agli 
atti 
dell’autorità 
pubblica 
qualora 
la 
diffusione 
dei 
documenti 
recasse 
un potenziale 
danno. Il 
segreto non aveva 
quindi 
carattere 
oggettivo, non essendo 
fondato 
sul 
tipo 
di 
documento 
oggetto 
d’interesse, 
ma 
sulle 
potenzialità 
di 


(2) Cfr. TERRACCIAno, La trasparenza amministrativa da valore 
funzionale 
alla democrazia partecipativa 
a mero (utile?) strumento di 
contrasto della corruzione, in amministrativ@mente, 2014, 1112, 
1-10. 
(3) Cfr. oRofIno, Profili giuridici della trasparenza amministrativa, Bari, 2013, passim. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


danno secondo una 
valutazione 
ampiamente 
discrezionale 
compiuta 
dall’amministrazione. 


la 
difficoltà 
d’interpretare 
quando un atto determinasse 
un pregiudizio 
all’amministrazione 
si 
tramutava 
in 
concreto 
nell’esclusione 
della 
conoscibilità 
degli 
atti. 
Tale 
condizione 
aveva 
determinato 
estrema 
sfiducia 
nel 
corpo 
sociale 
impedendo alla 
collettività 
ogni 
forma 
di 
partecipazione 
e 
controllo. Il 
cittadino 
era 
lontano anni 
luce 
dai 
processi 
decisionali 
del 
potere 
pubblico che 
lo 
considerava 
alla 
stregua 
di 
un suddito, modello ancien régime, muovendosi 
unilateralmente in ambiti d’assoluta discrezionalità ed arbitrarietà. 


solo con la 
legge 
n. 241 del 
1990, originata 
da 
un disegno di 
legge 
del 
Governo Goria 
ed approvata 
durante 
il 
seguente 
esecutivo Andreotti 
vI -che 
con l’art. 15 ha 
modificato proprio il 
citato art. 15, d.P.R. n. 3 del 
1957 -il 
segreto 
amministrativo 
non 
è 
più 
la 
regola 
poiché 
è 
riconosciuto 
in 
linea 
di 
principio 
che 
«tutti 
i 
documenti 
amministrativi 
sono accessibili», ex 
art. 22, c. 3, 
ed 
è 
stato 
eliminato 
il 
collegamento 
fra 
segreto 
e 
potenzialità 
di 
danno 
del-
l’accesso, 
escludendo 
ogni 
valutazione 
della 
pubblica 
amministrazione 
sul 
diritto 
di 
accesso, i 
cui 
limiti 
-soggettivi, oggettivi 
e 
funzionali 
-sono di 
natura 
eccezionale e previsti direttamente dalla legge. 


la 
riforma 
copernicana 
del 
1990 costituisce 
un punto di 
svolta 
nei 
rapporti 
tra 
cittadini 
e 
pubblica 
amministrazione 
perché 
la 
trasparenza 
costituisce 
un 
dovere 
generale 
dei 
pubblici 
poteri, 
cui 
corrisponde 
il 
diritto 
soggettivo 
dei 
cittadini 
di 
chiedere 
o ricevere 
le 
informazioni 
per esercitare 
il 
controllo democratico 
non solo dell’attività 
autoritativa 
e 
dei 
suoi 
risultati 
ma 
anche 
degli 
aspetti 
dell’organizzazione. si 
tratta 
di 
un nuovo paradigma 
per cui 
l’amministrazione 
non è 
più il 
“bruto” 
da 
temere 
e 
l’autorità 
cui 
contrapporsi, ma 
un 
alleato del cittadino al suo pieno servizio. 


Al 
modello 
d’amministrazione 
sovrana, 
culturalmente 
refrattaria 
a 
fornire 
ad 
una 
sorta 
di 
vassalli 
dei 
dati, 
documenti 
o 
informazioni, 
si 
sostituisce 
quello 
dell’amministrazione 
“democratica” 
al 
servizio 
dei 
cittadini, 
introducendo 
l’idea 
d’amministrazione 
in posizione 
paritaria 
nel 
rapporto con il 
cittadino, 
oggi 
considerato non più suddito bensì 
utente. si 
tratta 
di 
un passo in avanti 
verso la 
piena 
ed assoluta 
realizzazione 
del 
principio di 
trasparenza 
e 
dei 
suoi 
sottesi 
valori 
costituzionali, in primis 
lo stesso principio di 
democraticità, ex 
art. 1 Cost. (4). 


la 
trasparenza 
non è 
dunque 
uno strumento giuridico ottriato ma 
deriva 


(4) Cons. stato, Ad. Plen., 2 aprile 
2020, n. 10. Cfr.: 
AGnolETTo, Le 
nuove 
linee 
interpretative 
per 
l’esercizio 
del 
diritto 
di 
accesso 
alla 
luce 
dell’ad. 
Plen. 
2 
aprile 
2020, 
n. 
10: 
uno 
sguardo 
oltre 
l’accesso 
agli 
atti 
di 
gara, in rivista giuridica di 
urbanistica, 2020, 4, 1007-1042; 
MolITERnI, Pluralità di 
accessi, finalità della trasparenza e 
disciplina dei 
contratti 
pubblici, in Giornale 
di 
diritto amministrativo, 
2020, 4, 505-519; 
GRIGnAnI, Commento ad una prima lettura della sentenza 2 aprile 
2020, n. 10 
del 
Consiglio di 
Stato sull’accesso agli 
atti 
nelle 
procedure 
ad evidenza pubblica, in il 
Foro amministrativo, 
2020, 4, 748-763. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


da 
fondamentali 
esigenze 
dei 
cittadini 
per trasformare 
il 
modello d’amministrazione 
chiusa, 
tipica 
dei 
regimi 
totalitari, 
in 
modello 
d’amministrazione 
aperta 
al 
servizio pieno del 
cittadino. I mali, le 
inefficienze 
e 
l’atteggiamento 
ostile 
della 
pubblica 
amministrazione 
sono talmente 
noti 
da 
non dover essere 
rammentati. nella 
vita 
dello stato apparato, peraltro, alla 
tendenziale 
e 
sedimentata 
inefficienza 
s’accompagna 
una 
scarsa 
sensibilità 
verso 
la 
crisi 
del-
l’amministrazione 
ed il 
tema, molto spesso, si 
risolve 
nel 
prendere 
atto che, 
seppur ci 
siano buone 
leggi 
amministrative, si 
rischia 
tuttavia 
la 
desuetudine 


o 
l’interpretazione 
riduttiva, 
essendo 
insufficienti 
le 
strutture, 
incongrua 
la 
disponibilità 
di risorse e poco avveduta la gestione degli uffici. 
nella 
vita 
quotidiana 
dei 
cittadini, invece, l’importanza 
della 
trasparenza 
amministrativa 
è 
d’immediata 
percezione. 
Una 
burocrazia 
oppressiva, 
con 
strutture 
elefantiache, 
procedure 
poco 
chiare 
e 
lunghi 
tempi 
di 
definizione 
delle 
pratiche, 
costituisce 
un 
fardello 
ineliminabile 
e 
rischia 
di 
divenire 
un 
asfissiante 
carico che, oltre 
a 
recare 
pregiudizi 
ingiusti, in termini 
di 
tempo e 
denaro, ad imprenditori 
e 
professionisti, allontana 
gli 
investitori 
esteri, poco 
attratti dall’inefficienza degli uffici pubblici italiani. 


Proprio a 
queste 
situazioni, che 
riguardano aspetti 
pratici 
della 
vita 
quotidiana, 
intende 
rimediare 
la 
trasparenza 
amministrativa, 
che 
assicura 
la 
più 
ampia 
conoscenza 
delle 
informazioni 
sia 
all’interno del 
circuito amministrativo 
(5), sia 
tra 
questo ed i 
cittadini, mediante 
l’obbligo di 
pubblicità 
imposto 
all’amministrazione, 
cioè 
di 
comunicare 
le 
informazioni 
da 
un’istituzione 
alla 
collettività 
(informazione 
attiva) 
ed 
il 
diritto 
d’accesso 
dei 
cittadini, 
cioè 
d’acquisizione 
di 
documenti 
su richiesta 
motivata 
dell’interessato (informazione 
passiva). 

Del 
resto, 
la 
consapevolezza 
della 
pubblica 
amministrazione 
di 
essere 
attenzionata 
e 
controllata 
attraverso 
la 
trasparenza 
determina 
effetti 
virtuosi, 
spingendo 
i 
pubblici 
poteri 
ad 
assicurare 
il 
diritto 
di 
difesa 
al 
cittadino 
sin 
dalla 
fase 
procedimentale, 
il 
principio 
di 
legalità 
ed 
imparzialità 
nonché 
l’efficienza, 
l’efficacia, 
e 
dunque 
in 
generale 
il 
buon 
andamento. 
Tali 
elementi 
non 
possono 
essere 
assenti 
in 
alcun 
settore 
dello 
scibile 
della 
pubblica 
amministrazione. 
Del 
resto, 
si 
ricordi 
che 
il 
famoso 
giudice 
della 
Corte 
suprema 
statunitense 
d’inizio novecento louis 
Dembitz 
Brandeis 
affermava 
che 
la 
luce 
del 
sole 
è 
il miglior disinfettante mentre la luce elettrica é il miglior poliziotto (6). 

Tuttavia, 
a 
fronte 
della 
notoria 
affermazione 
di 
principio 
contenuta 
nell’art. 
1, 
c. 
1, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
per 
cui 
l’attività 
amministrativa 
è 
retta, 
fra 
l’altro, 
dal 
criterio 
della 
trasparenza, 
non 
corrisponde 
in 
concreto 
un 
completo 
ed 
esau


(5) 
Cfr. 
CoRRADo, 
Conoscere 
per 
partecipare. 
La 
strada 
tracciata 
dalla 
trasparenza 
amministrativa, 
napoli, 2018. 
(6) Cfr. BRAnDEIs, What 
Publicity 
Can Do, in Harper’s 
Weekly, 1913, 58, 10, per cui: 
«sunlight 
is said to be the best disinfectant; electric light the most efficient policeman». 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


stivo 
diritto 
dei 
cittadini 
all’accesso 
alle 
informazioni 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
della 
sua 
attività. 
Infatti, 
complice 
anche 
il 
mancato 
coordinamento 
dei 
diversi 
interventi 
legislativi 
sedimentati 
negli 
anni, 
s’è 
ingenerato 
un 
certo 
disordine 
fra 
le 
sette 
diverse 
figure 
di 
accesso 
attualmente 
previste 
(7). 
Dall’accesso 
agli 
atti 
ed 
alle 
informazioni 
degli 
enti 
locali, 
al 
cui 
interno 
si 
distinguono 
ulteriori 
due 
figure, 
a 
seconda 
che 
sia 
riconosciuto 
ai 
cittadini 
ovvero 
ai 
consiglieri 
comunali 
(artt. 
10 
e 
43, 
c. 
2, 
d.lgs. 
267 
del 
2001) 
(8), 
all’accesso 
in 
materia 
ambientale, 
ex 
d.lgs. 
n. 
195 
del 
2005, 
in 
attuazione 
della 
direttiva 
n. 
2003/4/CE 
sull’accesso 
del 
pubblico 
all’informazione 
ambientale 
(9); 
dall’accesso 
in 
materia 
di 
contratti 
pubblici, 
ex 
d.lgs. 
n. 
50 
del 
2016, 
con 
oggetto 
circoscritto 
«agli 
atti 
delle 
procedure 
di 
affidamento 
e 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici, 
ivi 
comprese 
le 
candidature 
e 
le 
offerte» 
(10), 
all’accesso 
procedimentale, 
ex 
art. 
22 
ss., 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
all’accesso 
civico 
semplice, 
finalizzato 
ad 
ottenere 
la 
pubblicazione 
degli 
atti 
amministrativi 
e 
disciplinato 
dall’art. 
5, 
c. 
1, 
d.lgs. 
n. 
33 
del 
2013 
nella 
sua 
versione 
originaria; 
ed 
infine 
l’accesso 
civico 
generalizzato, 
finalizzato 
anch’esso 
ad 
ottenere, 
come 
già 
l’accesso 
procedimentale, 
visione 
e 
copia 
di 
dati 
e 
documenti 
amministrativi, 
disciplinato 
dall’art. 
5, 
c. 
2, 
d.lgs. 
n. 
33 
cit., 
come 
modificato 
dal 
d.lgs. 
n. 
97 
del 
2016, 
quale 
cd. 
terza 
generazione 
dell’accesso 
(11). 
A 
fronte 
d’un 
tal 
coacervo 
d’istituti 
per 
il 
diritto 
d’accesso 
ne 
consegue 
il 
pernicioso 
rischio 
che, 
ad 
onta 
dei 
plurimi 
interventi 
normativi, 
l’effettiva 
garanzia 
di 
trasparenza 
attraverso 
tale 
diritto 
di 
conoscibilità 
degli 
atti, 
anziché 
amplificarsi 
sia 
stata 
razionalizzata 
a 
mero 
esercizio 
di 
stile. 
le 
nette 
prese 
di 
posizione 
giurisprudenziale 
in 
materia 
di 
trasparenza 
quale 
principio 
generale 
d’imparzialità 
ed 
efficienza 
dell’amministrazione 
sin 
dalla 
fine 
degli 
anni 
novanta 
del 
secolo 
scorso 
(12), 
non 
appaiono 
di 
per 
sé 
sufficienti 
a 
fugare 
i 
dubbi 
di 
dispersione 
del 
prezioso 
nettare 
della 
trasparenza 
onde 
rendere 
la 
pubblica 
amministrazione 
un’autentica 
casa 
trasparente. 


(7) Cfr. ColAPIETRo, il 
complesso bilanciamento tra il 
principio di 
trasparenza e 
il 
diritto alla 
“privacy”: 
la 
disciplina 
delle 
diverse 
forme 
di 
accesso 
e 
degli 
obblighi 
di 
pubblicazione, 
in 
Federalismi.it, 2020, 14, 64-91 e 
fRAnCARIo, il 
diritto di 
accesso deve 
essere 
una garanzia effettiva e 
non una mera declamazione retorica, in ivi, 2019, 10, 2-3. 
(8) Cfr. MAnGAnARo, L’accesso agli 
atti 
e 
alle 
informazioni 
degli 
enti 
locali, in sAnDUllI 
(cur.), 
Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1272 ss. 
(9) Cfr. ConTIERI, DI 
fIoRE, L’accesso alle 
informazioni 
ambientali, in sAnDUllI 
(cur.), Codice 
dell’azione 
amministrativa, 
cit., 
1250 
ss. 
e 
s. 
GRAssI, 
Procedimenti 
amministrativi 
e 
tutela 
dell’ambiente, 
in ivi, 1505 ss. 
(10) Cfr. MEzzACAPo, Commento all’art 
53. accesso agli 
atti 
e 
riservatezza, in EsPosITo 
(cur.), 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici. Commentario di 
dottrina e 
giurisprudenza, Assago, 2017, 648 ss. e 
DE 
nICTolIs, i nuovi 
appalti 
pubblici. appalti 
e 
concessioni 
dopo il 
d.lgs. 56/2017, Bologna, 2017, 1250 
ss. 
(11) Cfr. ColAPIETRo, La terza generazione 
della trasparenza amministrativa. Dall’accesso documentale 
all’accesso generalizzato, passando per l’accesso civico, napoli, 2016. 
(12) 
T.a.r. 
Calabria, 
Catanzaro, 
sez. 
I, 
17 
gennaio 
2012, 
n. 
24; 
Cons. 
stato, 
sez. 
Iv, 
22 
marzo 
2007, 
n. 1384; Cons. stato, Ad. Plen., 4 febbraio 1997, n. 5. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


sovviene 
in aiuto all’utente 
solo il 
fatto che 
la 
distinzione 
fra 
i 
principi 
di 
trasparenza 
e 
d’accessibilità 
totale 
sia 
stata 
stemperata 
nel 
fatto che 
tutti 
gli 
istituti 
d’accesso 
costituiscono 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
erogate 
dalle 
amministrazioni 
pubbliche, 
ex 
art. 
117, 
c. 
2, 
lett. 
m), 
Cost. 
Pertanto, 
dal 
diritto 
d’ottenere 
l’ostensione 
di 
specifici 
documenti 
si 
passa 
al 
più generale 
diritto 
d’informazione 
sull’organizzazione 
interna 
della 
pubblica 
amministrazione 
al 
fine 
di 
predisporre 
forme 
diffuse 
di 
controllo sociale 
sull’operato della 
pubblica 
amministrazione, 
spingendo 
quest’ultima 
al 
miglioramento 
delle 
performance 
dei servizi offerti al cittadino. 


Infatti, purtroppo, anziché 
una 
“Casa 
di 
vetro” 
di 
turatiana 
memoria 
per 
cui, salvo che 
sussista 
un ineluttabile 
primario interesse 
pubblico che 
impone 
un 
segreto, 
la 
casa 
dell’amministrazione 
dev’essere 
vitrea 
(13), 
la 
pubblica 
amministrazione 
appare 
piuttosto 
ancora 
come 
una 
sorta 
di 
“Casa 
delle 
Carte” 
ovvero un mare 
magnum 
telematico a 
volte 
ancora 
a 
metà 
del 
guado fra 
modalità 
cartacea 
e 
digitale. sussiste 
dunque 
l’impellente 
necessità 
d’implementare 
una 
decisa 
azione 
onde 
avviare 
definitivamente 
il 
cristallino 
accesso 
all’amministrazione 
da 
parte 
dei 
consociati 
con snellimenti, semplificazioni, 
efficientamenti 
e 
velocizzazioni. 
occorre 
muoversi 
sia 
con 
i 
privati 
interessati, 
sia 
internamente 
agli 
enti, 
ed 
anche 
con 
il 
prezioso 
supporto 
dell’Autorità 
nazionale 
Anticorruzione 
(AnAC) 
attraverso 
una 
collaborazione 
fattiva, 
fruttuosa 
e 
sinergica 
tra 
gli 
attori 
socio-economici 
e 
le 
istituzioni. 
Al 
fine 
di 
raggiungere 
tale 
obiettivo risulta 
però imprescindibile 
supportare 
finanziariamente 
sia 
l’informatizzazione 
dell’arcipelago 
della 
pubblica 
amministrazione, 
che 
la 
formazione 
del 
personale 
e 
degli 
utenti 
affinché 
questo iter 
sia 
vissuto 
positivamente 
come 
una 
vera 
e 
propria 
rivoluzione 
culturale 
tesa 
a 
migliorare 
la 
vita 
di 
chi 
opera 
all’interno 
degli 
enti 
ed 
a 
un 
tempo 
di 
chi 
fruisce 
la 
pubblica 
amministrazione. 

nel 
contesto dell’amministrazione 
pubblica, se 
la 
trasparenza 
è 
un principio 
fondamentale 
che 
consente 
ai 
cittadini 
di 
monitorare 
l’operato 
delle 
istituzioni 
e 
di 
garantire 
che 
le 
decisioni 
siano 
prese 
in 
modo 
corretto 
e 
responsabile, 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
(CADA) costituita 
con un mero ruolo sussidiario sin dagli 
albori 
del 
testo primigenio 
contenuto all’art. 27, legge 
n. 241 del 
1990, svolge 
ora 
un ruolo cruciale 
in 
materia 
di 
open 
government 
(14), 
fungendo 
anche 
da 
garante 
per 


(13) 
si 
richiamano 
le 
parole 
pronunciate 
da 
filippo 
Turati 
nel 
discorso 
alla 
Camera 
del 
17 
giugno 
1908: 
«viene 
poi 
l’offesa 
al 
decoro della 
Amministrazione. Che 
cosa 
può essere 
questo decoro? 
[…]. 
Per mantenere 
il 
decoro della 
Amministrazione, non bisogna 
non dir niente 
[…]. Io dico che 
bisognerebbe 
intanto definire 
ossia 
limitare 
ciò che 
è 
segreto di 
ufficio. Dove 
un superiore, pubblico interesse 
non imponga un segreto momentaneo, la casa dell’Amministrazione dovrebb’essere di vetro». 
(14) 
Cfr. 
RATTo 
TRABUCCo, 
il 
ruolo 
degli 
attori 
a 
sostegno 
di 
e-government 
ed 
open 
data 
nel-
l’amministrazione 
pubblica 
italiana: 
aGiD, 
CaDa 
e 
Difensore 
civico, 
in 
La 
responsabilità 
amministrativa 
delle società e degli enti, 2024, 1, 209-2011. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


l’accesso 
agli 
atti 
ed 
ai 
documenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
in 
forza 
della 
novella 
operata 
con l’art. 18, legge 
n. 15 del 
2005 e 
con l’attuazione 
regolamentare 
di 
cui 
all’art. 
12, 
d.P.R. 
n. 
184 
del 
2006. 
Inizialmente 
infatti 
l’azione 
svolta 
dalla 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi, 
peraltro 
discutibilmente 
inserita 
nell’ambito 
del 
Dipartimento 
per 
il 
coordinamento 
amministrativo (DICA) della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, risultava 
esclusivamente 
ricondotta 
all’attività 
conoscitiva, 
di 
vigilanza, 
di 
coordinamento nonché 
consultiva 
(15), nei 
confronti 
di 
tutte 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
onde 
garantire 
i 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
in 
tale 
ambito. 
Infatti, 
non 
s’obliteri 
il 
dirimente 
aspetto 
che 
l’accesso 
ai 
documenti 
è 
indicato, 
ex 
art. 
22, 
c. 
2, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
quale 
afferente 
ai 
«livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali 
che 
devono essere 
garantiti 
su 
tutto 
il 
territorio 
nazionale 
ai 
sensi 
dell’articolo 
117, 
secondo 
comma, 
lett. 
m), 
della 
Costituzione». A 
sua 
volta 
la 
giurisprudenza 
ha 
chiarito che 
la 
titolarità 
della 
ridetta 
funzione 
non è 
lesiva 
dell’autonomia 
delle 
Regioni 
e 
degli 
enti 
locali 
che 
possono in ogni 
caso prevedere 
forme 
e 
livelli 
ulteriori 
di 
vigilanza 
e 
tutela 
onde 
assicurare 
il 
diritto di 
accesso in conformità 
ai 
principi 
costituzionali 
e legislativi (16). 

la 
posizione 
della 
Commissione 
incardinata 
nell’organo 
di 
vertice 
del 
potere 
esecutivo 
è 
stata 
peraltro 
pure 
aspramente 
criticata 
dalla 
dottrina 
in 
quanto 
antitetica 
alla 
posizione 
di 
neutralità 
imposta 
dal 
ruolo 
che 
la 
Commissione 
è 
chiamata 
a 
svolgere 
all’interno 
dell’amministrazione. 
Una 
funzione 
giustiziale 
propriamente 
detta, infatti, richiederebbe 
una 
netta 
separazione, in 
termini 
di 
organizzazione 
e 
di 
nomina, fra 
amministrazione 
attiva 
e 
quella 
deputata 
a risolvere i contenziosi insorti dall’azione pubblica. 

Tuttavia, 
apparentemente, 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
è 
di 
per sé 
un organismo collegiale 
indipendente, che 
ha 
come 
compito principale 
quello di 
garantire 
l’accesso ai 
documenti 
amministrativi, 
favorendo la 
trasparenza 
nell’operato delle 
pubbliche 
amministrazioni. Come 
anticipato e 
meglio si 
vedrà 
nel 
prosieguo, la 
sua 
funzione 
primaria 
ha 
natura 
giustiziale 
e 
consiste, ex 
art. 25, c. 4, legge 
n. 241 del 
1990, nell’esaminare 
e 
decidere 
sulle 
denegate 
ovvero 
differite 
istanze 
di 
accesso 
ai 
documenti 
(escluse 
le 
amministrazioni 
locali 
per 
le 
quali 
opera 
il 
Difensore 
Civico, 
ex 
art. 15, legge 
n. 340 del 
2000) e 
quindi 
di 
risolvere 
in sede 
giustiziale 
amministrativa 
eventuali 
conflitti 
tra 
gli 
enti 
pubblici 
statali 
ed 
i 
richiedenti. 
la 
stessa 
nasce 
in Italia 
seguendo pedissequamente 
la 
falsariga 
di 
quanto avvenuto 
in 
francia 
con 
la 
Commission 
d’accès 
aux 
documents 
administratifs, 
creata 
oltralpe 
con poteri 
giustiziali 
deflattivi 
del 
contenzioso sin dall’art. 5, 


(15) 
Cfr. 
ARsì, 
La 
commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi, 
in 
il 
Foro 
amministrativo, 
1995, 11-12, 2893-2927. 
(16) Cons. stato, sez. I, 13 febbraio 2006, n. 3586/2005. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


legge 
17 luglio 1978, n. 78-753, che 
ha 
affidato alla 
stessa 
il 
compito di 
«vegliare 
sul 
rispetto della 
libertà 
di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi» onde 
prevenire il contenzioso. 

la 
francia 
è 
stata 
infatti 
tra 
i 
Paesi 
europei 
pionieri 
in materia 
di 
contenzioso 
extragiudiziale 
in materia 
di 
accesso, introducendo un’avanzata 
regolamentazione 
sulla 
trasparenza 
e 
non 
già 
solo 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi, basti 
pensare 
alle 
coeve 
leggi 
del 
6 gennaio 1978, n. 78-17, 
sull’informatica 
e 
relative 
libertà 
e 
del 
3 gennaio 1979, n. 79-18, in materia 
di 
archivi 
pubblici. Peraltro, e 
significativamente, onde 
mantenere 
la 
normativa 
al 
passo con i 
tempi, al 
fine 
d’assicurare 
un accesso il 
più agevole 
possibile 
in 
conformità 
alla 
rapida 
evoluzione 
tecnologica, 
il 
legislatore 
francese 
è 
successivamente 
intervenuto con il 
Capitolo II della 
legge 
del 
12 aprile 
2000, n. 
2000-321, in cui 
sono state 
armonizzate 
le 
differenti 
procedure 
previste 
nelle 
tre 
leggi 
sopra 
richiamate, uniformando alcuni 
regimi 
speciali 
ed ampliando 
la 
competenza 
della 
Commissione 
per l’accesso che 
per l’effetto ha 
visto rilanciato 
il 
proprio 
ruolo 
in 
materia 
di 
tutela 
giustiziale 
avanti 
al 
diniego 
all’accesso. 
Infatti, 
in 
caso 
di 
diniego 
all’accesso, 
espresso 
o 
tacito 
che 
sia, 
l’art. 
2, c. 2 e 
3, decreto del 
28 giugno 1988, la 
Commissione 
deve 
essere 
obbligatoriamente 
adita 
entro due 
mesi 
ed in ogni 
caso anteriormente 
all’azione 
giurisdizionale 
per 
eccesso 
di 
potere 
teso 
ad 
impedire 
l’ostensione 
degli 
atti 
richiesti. 
Il 
mezzo 
principale 
d’intervento 
della 
Commissione 
francese 
è 
il 
parere 
che 
viene 
reso sulle 
istanze 
di 
soggetti 
cui 
è 
stato impedito l’accesso ad 
un documento amministrativo. si 
tratta 
dunque 
di 
un potere 
consultivo e 
non 
giurisdizionale 
ma 
l’attività 
dell’assise 
transalpina 
è 
cresciuta 
esponenzialmente 
negli 
anni 
con le 
richieste 
di 
parere 
che 
superano addirittura 
il 
miliardo 
annuale 
e 
-questo è 
il 
dato dirimente 
-oltre 
l’80% dei 
pareri 
ha 
avuto ottemperanza 
da 
parte 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
interessate. 
Per 
conseguenza 
è 
stato 
massimizzato 
l’effetto 
deflattivo 
sulla 
giustizia 
amministrativa 
transalpina 
che 
di 
fatto s’occupa 
solo dei 
casi 
più complessi 
e 
delicati 
in relazione 
anche 
alla 
tipologia 
dei 
dati 
personali 
di 
terzi 
contenuti 
nel 
documento 
oggetto 
d’accesso (17). 


nel 
caso 
italiano 
sappiamo 
che 
la 
funzione 
giustiziale 
è 
stata 
invece 
anzitutto 
discutibilmente 
frazionata 
fra 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
ed 
il 
Difensore 
Civico. 
Infatti, 
affidare 
la 
tutela 
amministrativa 
ad 
un 
organo 
centrale 
ed 
a 
più 
organi 
regionali 
e/o 
locali 
appare 
piuttosto 
contraddittorio 
in 
rapporto 
all’art. 
22, 
c. 
2, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
laddove 
l’accesso 
è 
inserito 
fra 
le 
materie 
rientranti 
nella 
competenza 
legislativa 
esclusiva 
statale 
e 
dunque 
s’intende 
assicurare 
l’uniforme 
applicazione 
del 
diritto 
di 
accesso 
su 
tutto 
il 


(17) Cfr. CAvAnA, La commissione 
d’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
(CaDa) in Francia e 
l’introduzione 
nell’ordinamento 
italiano 
del 
ricorso 
extragiudiziale 
al 
Difensore 
civico, 
in 
Studium 
iuris, 
2001, 9, 1119-1122. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


territorio 
nazionale, 
vincolando 
le 
Regioni 
e 
gli 
enti 
locali 
al 
rispetto 
dei 
principi 
di 
cui 
al 
Capo 
v 
della 
legge 
n. 
241 
del 
1990. 
Di 
fatto, 
vista 
la 
presenza 
di 
quattro 
parlamentari 
ed 
il 
sottosegretario 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio, 
in 
un 
rapporto 
politici/tecnici 
di 
ben 
5/11, 
si 
ravvede 
una 
ben 
maggiore 
connotazione 
politica 
della 
Commissione 
italiana 
rispetto 
a 
quella 
francese 
(18). 
Il 
legislatore 
italiano 
non 
ha 
quindi 
sapientemente 
pensato 
ad 
un 
organo 
a 
carattere 
strettamente 
para 
-giurisdizionale 
alla 
stregua 
delle 
Autorità 
amministrative 
indipendenti 
e 
ciò 
appare 
costituire 
un 
vulnus 
d’origine 
dell’assise. 


In 
particolare, 
la 
Commissione 
ha 
assunto 
con 
la 
novella 
operata 
dall’art. 
18, legge 
n. 15 del 
2005, il 
compito di 
riesaminare 
i 
dinieghi 
ovvero i 
differimenti 
opposti 
dalle 
amministrazioni 
pubbliche 
statali, centrali 
e 
periferiche, 
alle 
richieste 
di 
accesso ai 
documenti 
e 
di 
pronunciarsi 
con un provvedimento 
definitivo sulla 
legittimità 
dei 
relativi 
dinieghi 
ovvero differimenti. le 
decisioni 
della 
Commissione, 
pur 
non 
vincolanti 
per 
le 
amministrazioni, 
hanno 
tuttavia 
nel 
tempo assunto autorevolezza 
e 
prestigio nonché 
costituiscono un 
punto 
indiscutibile 
del 
percorso 
intrapreso 
per 
rendere 
effettivo 
il 
diritto 
di 
accesso 
ai 
documenti 
amministrativi. Al 
riguardo non sfugge 
che 
il 
potere 
d’intervento 
giustiziale 
dell’assise 
perviene 
in 
Italia 
con 
grave 
ritardo 
rispetto 
all’esempio francese 
che 
data 
con quasi 
un trentennio d’anticipo. Infatti, solo 
con l’art. 15, legge 
n. 340 del 
2000 s’inaugura 
il 
potere 
di 
riesame 
amministrativo 
del 
diniego 
in 
materia 
d’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
da 
parte 
del 
Difensore 
Civico per le 
amministrazioni 
locali 
(19), ma 
occorrerà 
ancora 
un 
lustro 
affinché 
tale 
competenza 
sia 
assegnata 
anche 
alla 
già 
esistente 
Commissione 
per l’accesso per le 
restanti 
amministrazioni 
statali, centrali 
e 
periferiche 
(20). 


nei 
paragrafi 
che 
seguono 
s’intende 
quindi 
analizzare 
e 
valutare 
le 
misure 
che 
possano precipuamente 
mirare 
a 
potenziare 
i 
poteri 
e 
le 
funzioni 
di 
tale 
Commissione, onde 
rafforzare 
la 
tutela 
del 
diritto di 
accesso in sede 
amministrativa 
anteriormente 
al 
ricorso formale 
al 
Giudice 
amministrativo e 
per l’ef


(18) 
Cfr. 
sAnDUllI, 
L’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi, 
in 
Giornale 
di 
diritto 
amministrativo, 
2005, 5, 494-498. 
(19) Cfr. CAsTRonovo, Un nuovo compito per 
i 
Difensori 
Civici: verificare 
la legittimità del 
diniego 
di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi, in Nuova rassegna di 
legislazione, dottrina e 
giurisprudenza, 
2002, 7, 799-801. 
(20) 
In 
tema, 
senza 
pretesa 
d’esaustività, 
cfr.: 
RATTo 
TRABUCCo, 
il 
diritto 
di 
accesso 
documentale 
nel 
prisma della trasparenza della Pubblica amministrazione, lecce, 2022, 81-86; 
BAUsIlIo, il 
diritto 
di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi: profili 
giurisprudenziali, vicalvi, 2016; 
ColAPIETRo, il 
diritto 
di 
accesso e 
la Commissione 
per 
l’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
a vent’anni 
dalla legge 
n. 241 
del 
1990, napoli, 2012; 
nEsTA, il 
diritto di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi: legge 
241 del 
1990, 
leggi 
n. 
15 
e 
n. 
80 
del 
2005, 
D.P.r. 
n. 
184 
del 
2006, 
Torino, 
2006; 
oCChIEnA, 
i 
poteri 
della 
Commissione 
per 
l’accesso ai 
documenti 
amministrativi: in particolare, la funzione 
giustiziale 
ex 
L. n. 241/1990 e 
d.P.r. 
n. 
184/2006, 
in 
Giustizia 
amministrativa, 
2006, 
6, 
1242-1252; 
PAnozzo, 
La 
Commissione 
per 
l’accesso ai documenti amministrativi, in Lo Stato Civile italiano, 2005, 8, 599-606 e 7, 516-523. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


fetto 
incrementare 
ancora 
la 
trasparenza 
della 
pubblica 
amministrazione 
in 
sede 
d’ostensione 
documentale 
a 
fronte 
di 
un 
sotteso 
interesse 
giuridicamente 
rilevante. 


2. Le 
proposte 
di 
potenziamento della funzione 
giustiziale 
della Commissione 
per l’accesso ai documenti amministrativi. 
In tempi 
recenti, l’esigenza 
di 
un maggiore 
rafforzamento delle 
funzioni 
della 
Commissione 
per l’accesso è 
emersa 
con crescente 
urgenza, in un contesto 
sociale 
e 
politico caratterizzato da 
una 
pressante 
richiesta 
di 
trasparenza 
da 
parte 
dei 
cittadini 
e 
dalla 
necessità 
di 
adeguamento alle 
direttive 
europee 
sedimentate 
nel 
tempo in materia 
di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi. Infatti, 
non si 
dimentichi 
che 
numerosi 
sono gli 
indici 
normativi 
della 
rilevanza 
del 
diritto 
di 
accesso 
anche 
a 
livello 
sovranazionale 
e 
particolarmente 
europeo. 
sin 
dalla 
dichiarazione 
n. 
17 
allegata 
al 
Trattato 
sull’Unione 
europea 
del 
1992, 
si 
rinvengono 
nel 
diritto 
comunitario 
espressioni 
dell’importanza 
del 
principio 
di 
trasparenza 
e 
del 
diritto di 
accesso che 
ne 
costituisce 
uno dei 
precipitati 
più 
rilevanti, come 
del 
resto la 
stessa 
Commissione 
per l’accesso ha 
avuto modo 
di 
rilevare 
nell’ambito di 
un ricorso nei 
confronti 
dell’ente 
universitario eurounitario 
(21). 

orbene, come 
noto nel 
dettaglio normativo italiano, l’art. 25, c. 4, legge 


n. 241 del 
1990, prevede 
la 
facoltà 
per il 
soggetto a 
cui 
è 
stato opposto un diniego 
all’accesso, espresso o tacito, di 
«presentare 
ricorso al 
Tribunale 
amministrativo 
regionale» ma 
anche 
di 
chiedere 
il 
«riesame» della 
determinazione 
di 
diniego -ove 
si 
tratti 
di 
atti 
delle 
amministrazioni 
statali, centrali 
e 
periferiche 
-alla 
«Commissione 
per l’accesso» di 
cui 
al 
successivo art. 27, istituita 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
precisando, 
nel 
prosieguo, 
che 
«qualora 
il 
richiedente 
si 
sia 
rivolto […] alla 
Commissione, il 
termine 
di 
cui 
al 
comma 
5», 
concernente 
la 
disciplina 
delle 
«controversie 
relative 
all’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
[…] decorre 
dalla 
data 
di 
ricevimento della 
comunicazione 
[…] della Commissione». 
Indi, 
proprio 
in 
ragione 
delle 
peculiarità 
che 
connotano 
i 
rimedi 
esperibili 
avverso 
i 
dinieghi 
ovvero 
i 
differimenti 
all’accesso, 
la 
giurisprudenza 
ha 
più 
volte 
configurato 
l’istanza 
di 
riesame 
alla 
Commissione 
per 
l’accesso 
in 
termini 
di 
“ricorso 
gerarchico 
improprio” 
(22), 
connotato 
dall’assenza 
di 
un 
vincolo 
gerarchico 
tra 
amministrazione 
giudicante 
e 
amministrazione 
giudicata, 
e, 
comunque, 
affermato 
che, 
pur 
partendo 
dal 
presupposto 
che 
l’oggetto 
del 
giudizio 
in 
materia 
di 
accesso 
non 
può 
che 
essere 
identificato 
con 


(21) Decisione CADA, 29 maggio 2024, n. 25. 
(22) Cons. stato, sez. vI, 27 maggio 2003, n. 2938. Cfr. vETRò, Commento all’art. 25 commi 
4, 
5, 5-bis 
e 
6, in PAolAnTonIo, PolICE, zITo 
(cur.), La Pubblica amministrazione 
e 
la sua azione. Saggi 
critici sulla L. n. 241/1990, riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2005, 751. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


la 
verifica 
circa 
la 
fondatezza 
o 
meno 
dell’istanza 
presentata 
all’amministrazione 
e, 
quindi, 
dall’accertamento 
diretto 
del 
diritto, 
il 
sindacato 
del 
Giudice 
non 
può 
prescindere 
ma, 
anzi, 
deve 
necessariamente 
prendere 
in 
considerazione 
anche 
le 
determinazioni 
assunte 
dalla 
Commissione 
per 
l’accesso 
(23). 
Infatti, 
le 
norme 
di 
legge 
e 
regolamentari 
che 
delineano 
il 
procedimento 
innanzi 
alla 
Commissione 
per 
l’accesso, 
configurano 
in 
modo 
chiaro 
un 
iter 
di 
tipo 
giustiziale, 
avendo 
la 
giurisprudenza 
osservato 
in 
particolare 
che: 
«il 
trasferimento 
in 
sede 
giurisdizionale 
di 
una 
controversia 
instaurata 
in 
sede 
gerarchica 
possa 
avvenire 
solo 
quando 
il 
procedimento 
giustiziale 
sia 
stato 
correttamente 
instaurato, 
ciò 
discendendo 
dalla 
necessità 
di 
evitare 
facili 
elusioni 
del 
termine 
decadenziale 
previsto 
per 
l’esercizio 
dell’azione 
innanzi 
al 
giudice. 
Tale 
principio 
è 
applicabile 
anche 
all’actio 
ad 
exhibendum 
in 
quanto, 
come 
chiarito 
dalla 
giurisprudenza, 
la 
natura 
impugnatoria 
del 
relativo 
ricorso 
prescinde 
dalla 
natura 
della 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
sottostante
» 
(24). 


Una 
tale 
ricostruzione 
giuridica 
si 
presenta, 
del 
resto, 
come 
la 
più 
aderente 
al 
dettato 
normativo, 
il 
quale 
-consentendo 
la 
facoltà 
dell’interessato 
di 
adire 
in 
prima 
battuta 
il 
Giudice 
amministrativo 
ma 
anche 
di 
procedere, 
per 
contro, 
con 
un’istanza 
di 
«riesame», 
tra 
gli 
altri, 
alla 
Commissione 
per 
l’accesso, 
con 
piena 
salvezza 
del 
potere 
di 
adire, 
a 
seguito 
del 
non 
buon 
esito 
di 
quest’ultima, 
il 
Giudice 
amministrativo 
-impone 
di 
configurare 
un 
sistema 
di 
tutela 
articolato, 
il 
quale 
trova, 
peraltro, 
valida 
conferma 
proprio 
nell’art. 
25, 
c. 
4, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
nella 
parte 
in 
cui 
è 
statuita 
la 
decorrenza 
del 
termine 
di 
legge 
utile 
per 
proporre 
il 
ricorso 
avverso 
il 
diniego 
di 
accesso 
«dalla 
data 
di 
ricevimento, 
da 
parte 
del 
richiedente, 
dell’esito 
della 
sua 
istanza 
alla 
Commissione». 


Preso così 
atto che 
l’istanza 
di 
riesame 
dei 
dinieghi 
dell’accesso costituisce 
una 
fase 
sì 
eventuale 
ma, comunque, non trascurabile 
una 
volta 
che 
il 
richiedente 
si 
sia 
avvalso di 
essa, tanto da 
incidere 
sulla 
decorrenza 
del 
termine 
perentorio 
previsto 
per 
l’azione 
giurisdizionale 
dall’art. 
116 
del 
Codice 
del 
processo amministrativo di 
cui 
al 
d.lgs. n. 104 del 
2010, risulta, dunque, evidente 
che 
il 
richiedente 
-per 
ottenere 
tutela 
di 
fronte 
al 
Giudice 
amministrativo 


-non potrà 
ignorare 
la 
decisione 
negativa 
assunta 
dalla 
Commissione 
e, anzi, 
dovrà procedere giudizialmente anche nei confronti di quest’ultima. 
Quindi, 
ecco 
che 
l’azione, 
ex 
art. 
116 
cit., 
proposta 
dinanzi 
al 
Giudice 
amministrativo a 
seguito dell’istanza 
di 
riesame 
formulata 
alla 
Commissione 
per l’accesso, utile 
a 
incidere 
sulla 
decorrenza 
del 
termine 
di 
trenta 
giorni 
all’uopo 
previsto, 
non 
può 
non 
investire 
necessariamente 
anche 
la 
decisione 
resa 


(23) T.a.r. lazio, Roma, sez. II, 5 agosto 2011, n. 7015. 
(24) T.a.r. lazio, Roma, sez. I, 5 maggio 2008, n. 3675 e 
Cons. stato, Ad. Plen., 18 aprile 
2006, 
n. 6. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


dalla 
menzionata 
Commissione 
e, 
dunque, 
il 
relativo 
giudizio 
non 
può 
ritenersi 
correttamente 
instaurato 
se 
non 
anche 
in 
virtù 
della 
chiamata 
in 
causa 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, presso cui 
la 
Commissione 
de 
qua 
risulta 
istituita. 


non vi 
è 
-del 
resto -chi 
non veda 
come 
la 
mancata 
presa 
in considerazione 
o, comunque, l’assoluta 
trascuratezza 
da 
parte 
del 
ricorrente 
contro la 
decisione 
-comunque 
-negativa 
assunta 
dalla 
Commissione 
per 
l’accesso, 
ossia 
la 
proposizione 
dell’azione 
prevista 
dall’art. 
116 
cit., 
esclusivamente 
avverso 
il 
provvedimento di 
diniego originariamente 
opposto dall’amministrazione, 
con 
chiamata 
in 
causa 
unicamente 
di 
quest’ultima, 
si 
presti 
indefettibilmente 
a 
determinare 
non 
solo 
problemi 
in 
ordine 
al 
rispetto 
del 
termine 
decadenziale 
di 
legge 
(atteso che 
-in relazione 
a 
casi 
di 
tale 
genere 
-il 
termine 
de 
quo 
dovrebbe 
essere 
ragionevolmente 
computato a 
fare 
data 
dal-
l’adozione 
del 
diniego 
e 
non 
-per 
contro 
-dalla 
data 
di 
ricevimento 
del 
riscontro 
della 
Commissione) ma 
anche 
in rapporto all’interesse 
alla 
decisione, 
stante il permanere di una decisione negativa sulla richiesta di accesso. 


In conclusione, se 
è 
vero che 
l’accesso costituisce 
sì 
un “diritto” 
teso al 
conseguimento di 
un bene 
della 
vita 
ma 
l’esperibilità 
dell’azione 
prevista 
per 
la 
tutela 
dello 
stesso 
in 
sede 
giurisdizionale 
risulta 
soggetta 
a 
un 
termine 
di 
legge 
decadenziale, 
non 
sono 
riscontrabili 
motivi 
per 
porre 
in 
discussione 
che, 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
il 
richiedente 
si 
sia 
attivato presso la 
Commissione 
per 
l’accesso e 
non abbia 
trovato soddisfazione 
alla 
sua 
pretesa 
a 
causa 
del 
negativo 
pronunciamento 
di 
quest’ultima, 
la 
suddetta 
Commissione 
costituisca 
una 
parte 
“necessaria” 
del 
giudizio di 
seguito instaurato dinanzi 
al 
Giudice 
amministrativo. 
ossia 
una 
parte 
la 
cui 
mancata 
evocazione 
in giudizio non può che 
determinare 
l’inammissibilità 
dell’azione 
proposta, nel 
rispetto del 
principio 
del contraddittorio e, più in generale, del diritto di difesa (25). 


Chiarito 
quanto 
sopra 
in 
punto 
di 
non 
certo 
recessiva 
posizione 
della 
Commissione 
per l’accesso nel 
quadro della 
pedissequa 
eventuale 
tutela 
giurisdizionale 
in materia 
d’accesso, occorre 
passare 
all’esame 
di 
alcune 
auspicabili 
riforme 
al 
fine 
del 
rafforzamento 
dei 
poteri 
e 
delle 
funzioni 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
in 
sede 
giustiziale, 
le 
quali appaiono articolarsi su almeno quattro piani differenti. 


Anzitutto 
si 
tratta 
di 
attribuire 
maggiori 
competenze 
decisionali 
all’assise. 
Una 
delle 
novità 
più 
significative 
riguarda 
infatti 
l’ampliamento 
delle 
titolarità 
della 
Commissione. 
Risulterebbe 
opportuno 
che 
il 
collegio 
non 
solo 
possa 
pronunciarsi 
sui 
dinieghi 
o sui 
differimenti 
per l’accesso, ma 
anche 
su eventuali 
ritardi 
ingiustificati 
da 
parte 
delle 
amministrazioni 
nel 
fornire 
i 
documenti 
richiesti. 
In questo modo, la 
Commissione 
diventerebbe 
un vero e 
proprio organo 
di 
garanzia, 
in 
grado 
di 
vigilare 
sull’efficienza 
e 
sull’efficacia 
della 


(25) T.a.r. lazio, Roma, sez. I-bis, 15 novembre 2018, n. 11022. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


pubblica 
amministrazione. 
Al 
riguardo, 
richiamando 
il 
modello 
transalpino, 
sarebbe 
opportuno valutare 
l’attribuzione 
integrale 
della 
funzione 
giustiziale 
amministrativa 
in 
materia 
d’accesso 
alla 
sola 
Commissione 
superando 
per 
l’effetto 
la 
titolarità 
affidata 
ai 
Difensori 
Civici 
che 
peraltro sono organi 
la 
cui 
effettività 
decisionale 
appare 
in 
alcuni 
casi 
incerta 
e 
dunque 
a 
scapito 
dell’autorevolezza 
della 
determinazione 
stessa. 
si 
tratta 
infatti 
di 
un 
tipo 
d’alternative 
Dispute 
resolution 
(ADR) pubblicistica 
con svariati 
punti 
critici 
di 
un modello defensionale 
civico su cui 
si 
dovrebbe 
intervenire 
per assicurare 
una maggiore efficacia (26). 


In 
secondo 
luogo 
si 
tratterebbe 
di 
ampliare 
la 
nozione 
di 
accesso 
ai 
documenti 
amministrativi. 
se 
il 
diritto 
di 
accesso 
riguarda 
i 
documenti 
già 
esistenti, 
formati 
e 
detenuti 
dall’amministrazione, 
sarebbe 
opportuno 
discutere 
di 
un 
estensione 
dell’accesso 
anche 
a 
quelli 
in 
itinere 
che 
potrebbero 
essere 
creati 
in 
futuro 
ovvero 
a 
quelli 
che 
non 
sono 
formalmente 
classificati 
come 
“documenti” 
ma 
che, 
di 
fatto, 
contengono 
informazioni 
rilevanti 
per 
i 
cittadini. 


In 
terzo 
luogo 
sussiste 
l’esigenza 
di 
rafforzare 
l’indipendenza 
della 
Commissione 
per l’accesso. Al 
fine 
di 
garantire 
che 
l’assise 
possa 
operare 
senza 
influenze 
politiche 
o 
istituzionali, 
le 
proposte 
di 
modifica 
prevedono 
infatti 
anche 
il 
consolidamento 
della 
sua 
indipendenza. 
Questo 
implica 
una 
maggiore 
autonomia 
nell’organizzazione 
interna, 
nella 
gestione 
delle 
risorse 
e 
nella 
formulazione 
delle proprie decisioni. 

Anzitutto, 
al 
fine 
di 
una 
maggiore 
indipendenza 
dell’organo 
si 
ritiene 
che 
la 
Commissione 
dovrebbe 
essere 
configurata 
quale 
autorità 
amministrativa 
indipendente 
attraverso la 
designazione 
e/o elezione 
di 
componenti 
esclusivamente 
tecnici 
e 
non 
anche 
politici 
da 
parte 
di 
figure 
di 
garanzia 
quali 
i 
Presidenti 
delle 
Camere 
ovvero il 
Capo dello stato, al 
pari 
di 
quanto avviene 
per altre 
authorities 
come 
il 
Garante 
privacy. si 
potrebbe 
a 
tal 
fine 
preconizzare 
la 
creazione 
di 
un’Autorità 
Garante 
per l’accesso ai 
documenti 
amministrativi, 
con l’ipotetico acronimo di 
AGADA ovvero GADA. 


Al 
contrario potrebbe 
prevedersi 
l’elezione 
parlamentare 
con una 
maggioranza 
qualificata, il 
tutto previa 
pubblicazione 
di 
un bando al 
fine 
del 
successivo 
deposito 
di 
candidature 
da 
vagliare. 
Qualora 
la 
ridetta 
strada 
non 
risulti 
politicamente 
praticabile, quantomeno dovrebbe 
essere 
totalmente 
espunta 
la 
presenza 
dei 
cinque 
componenti 
politici 
ovvero il 
sottosegretario alla 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
quale 
Presidente 
di 
diritto 
ed 
i 
quattro 
membri 
di 
designazione 
da 
parte 
dei 
due 
Presidenti 
parlamentari. 
Correlativamente 
andrebbe 
incrementata 
la 
presenza 
delle 
restanti 
quattro 
categorie 
di 
membri 
tec


(26) Cfr. PosTERARo, L’amministrazione 
contenziosa: le 
“alternative 
Dispute 
resolution” 
(con 
particolare riguardo alla figura del difensore civico), in il processo, 2021, 2, 265-326. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


nici 
(magistrati, 
avvocati 
erariali, 
docenti 
universitari 
e 
dirigenti 
pubblici) 
nonché 
pure 
aumentando 
il 
numero 
degli 
esperti 
tecnici 
che 
al 
momento, 
nella 
misura 
massima 
di 
cinque 
unità, 
svolgono 
solo 
funzioni 
consultive 
dell’assise. 
Potrebbe 
inoltre 
essere 
opportuna 
la 
designazione 
di 
membri 
anche 
da 
parte 
dei 
Consigli 
nazionali 
forense, del 
notariato e 
dei 
Commercialisti, accanto 
alle 
già 
previste 
nomine 
tecniche, 
magistratuali 
e 
dell’Avvocatura 
di 
stato. 
la 
stessa 
presenza 
dei 
docenti 
universitari 
di 
ruolo in materie 
giuridico-amministrative 
potrebbe 
essere 
incrementata 
-quantomeno 
raddoppiata 
-al 
pari 
di 
quella 
dei 
dirigenti 
statali 
e 
degli 
enti 
pubblici 
che 
pure 
era 
stata 
inizialmente 
prevista 
con quattro membri 
per ciascuna 
categoria, ma 
è 
stata 
poi 
discutibilmente 
e 
rispettivamente 
ridotta 
ad una 
unità 
per i 
docenti 
nonché 
espunta 
del 
tutto per i 
dirigenti, prima 
dall’art. 18, legge 
n. 15 del 
2005 e 
poi 
dall’art. 47bis, 
decreto legge 
n. 69 del 
2013, convertito in legge 
n. 98 del 
2013, in sede 
di 
misure 
semplificative 
dell’attività 
del 
collegio, i 
cui 
componenti 
sono stati 
per l’effetto drasticamente 
ridotti 
da 
sedici 
a 
dieci 
oltre 
il 
Presidente. Al 
contrario 
risulta 
quanto mai 
opportuno un incremento dei 
membri 
tecnici 
del 
collegio. 
occorre 
dunque 
ripensare 
puntualmente 
le 
scelte 
politiche 
di 
natura 
organizzativo-finanziario effettuate 
con le 
novelle 
operate 
nel 
2005 e 
2013, 
per 
l’effetto 
incrementando 
il 
numero 
di 
componenti 
tecnici 
dell’assise, 
a 
partire 
dagli 
accademici 
e 
dai 
dirigenti 
pubblici, 
eventualmente 
aggregando 
anche 
avvocati, commercialisti 
e 
notai, onde 
fronteggiare 
l’inevitabile 
progressiva 
lievitazione 
del 
contenzioso, vieppiù se 
fosse 
assegnata 
la 
competenza 
giustiziale 
anche 
per le 
amministrazioni 
locali 
espungendo per converso quella 
del 
Difensore Civico. 


le 
coeve 
previsioni 
inserite 
nel 
2013 per cui 
la 
Commissione 
delibera 
a 
maggioranza 
dei 
presenti 
-in luogo della 
validità 
in presenza 
di 
sette 
membri 
come 
anteriormente 
previsto -ed il 
disposto per cui 
l’assenza 
dei 
componenti 
per tre 
sedute 
consecutive 
ne 
determina 
la 
decadenza, appaiono in ogni 
caso 
indispensabili 
allo scopo dell’efficientamento dei 
lavori 
del 
collegio evitando 
che 
l’assenteismo -particolarmente 
da 
parte 
dei 
quattro parlamentari 
inevitabilmente 
onerati 
anche 
dell’attività 
della 
Camera 
di 
appartenenza 
-determini 
impossibilità 
al 
proficuo svolgimento dei 
lavori. Parimenti 
in ordine 
alla 
novella 
semplificativa 
per cui 
i 
componenti 
magistratuali 
e 
dell’Avvocatura 
erariale 
possono 
essere 
nominati 
ovvero 
continuare 
ad 
esercitare 
l’incarico 
anche 
se 
in 
stato 
di 
quiescenza, 
di 
fatto 
acconsentendo 
che 
pure 
soggetti 
delle 
ridette 
istituzioni 
cessati 
dal 
servizio 
possano 
comunque 
svolgere 
l’incarico 
di 
riesame 
giustiziale 
per 
l’accesso. 
s’evita 
in 
tal 
modo 
la 
sottrazione 
di 
utili 
risorse 
umane 
alla 
sempre 
sostanziosa 
e 
pressante 
attività 
giudiziaria 
quotidiana 
con 
annessi carichi di lavoro delle tre magistrature e dell’Avvocatura erariale. 


In 
quarto 
luogo 
come 
obliterare 
la 
necessità 
di 
assicurare 
una 
ancor 
maggiore 
celerità, 
trasparenza 
e 
pubblicità 
nei 
procedimenti 
dell’assise 
velocizzando 
il 
suo 
iter 
decisionale, 
già 
peraltro 
oggetto 
da 
anni 
di 
completa 



RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


digitalizzazione 
degli 
atti 
dei 
singoli 
affari 
sottoposti 
all’esame. 
l’idea 
è 
quella 
di 
ridurre 
sotto trenta 
giorni 
i 
tempi 
di 
risposta 
alle 
istanze 
di 
riesame 
dei 
dinieghi 
all’accesso, creando una 
procedura 
più snella 
e 
trasparente, che 
consenta 
ai 
cittadini 
di 
ottenere 
e 
seco 
ricevere 
telematicamente 
il 
provvedimento 
decisorio in tempi 
rapidi, 
id est 
per esempio entro un arco d’alcune 
settimane. 
Peraltro, il 
principio di 
silenzio-rigetto previsto dalla 
norma 
in materia 
di 
riesame 
ed incoerente 
con la 
funzione 
stessa 
di 
trasparenza 
e 
di 
tutela 
del 
cittadino 
svolta 
dalla 
Commissione, 
risulta 
sovvertito 
nella 
prassi 
laddove 
l’organo 
esamina 
e 
decide 
ogni 
ricorso 
pervenuto, 
impedendo 
quindi 
la 
formazione 
del 
silenzio-rigetto. 
Inoltre, 
sarebbe 
opportuno 
che 
le 
decisioni 
della 
Commissione 
fossero rese 
pubbliche 
in maniera 
tempestiva 
ed accessibile 
a 
mezzo del 
relativo 
sito web, favorendo una 
maggiore 
fiducia 
nel 
processo decisionale. Parimenti 
dovrebbero 
essere 
pubblicati 
i 
provvedimenti 
di 
riesame 
oggetto 
d’impugnazione 
da 
parte 
delle 
amministrazioni 
statali, centrali 
e 
periferiche, 
ovvero degli 
accedenti 
ed i 
loro relativi 
esiti 
al 
Tribunale 
amministrativo regionale 
del 
lazio ed al 
Consiglio di 
stato, per ogni 
buon fine 
agli 
interessati 
onde 
avere 
un più completo ed esaustivo quadro sugli 
esiti 
dei 
casi 
esaminati. 
la 
sussistenza 
di 
dinieghi 
all’accesso del 
tutto infondati 
e 
pretestuosi, fondati 
su 
oziose 
se 
non 
assenti 
motivazioni, 
è 
stata 
peraltro 
più 
volte 
acclarata 
in 
sede 
giurisdizionale (27). 


A 
sua 
volta, 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
dovrebbe 
essere 
chiamata 
a 
collaborare 
in modo più stretto con altri 
organi 
di 
controllo e 
particolarmente 
con le 
autorità 
amministrative 
indipendenti 
(salva 
la 
pure 
auspicabile 
ipotesi 
sopra 
menzionata 
che 
la 
stessa 
sia 
riconfigurata 
quale 
authority), 
a 
partire 
dall’Autorità 
Garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
dalla 
Corte 
dei 
conti, onde 
garantire 
una 
supervisione 
congiunta 
circa 
questioni 
che 
coinvolgono 
trasparenza, privacy 
e 
buon andamento della 
pubblica 
amministrazione, 
anche 
al 
fine 
del 
perseguimento del 
danno erariale 
sotteso a 
dinieghi 
all’accesso 
del tutto grossolani. 


Ancora, 
occorre 
rammentare 
come 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
dovrebbe 
potersi 
esprimere 
in 
sede 
giustiziale 
anche 
avverso 
ai 
dinieghi 
espressi 


o taciti 
ovvero ai 
differimenti 
relativi 
all’accesso civico semplice 
e 
generaliz(
27) fra 
gli 
altri, si 
citano alcuni 
eloquenti 
casi 
con l’indicazione 
delle 
amministrazioni 
soccombenti 
e 
condannate 
alle 
spese: 
T.a.r. 
lazio, 
Roma, 
sez. 
III-bis, 
27 
ottobre 
2020, 
n. 
10972 
e 
3 
giugno 
2020, n. 5895, relative 
all’Ufficio scolastico Regionale 
per il 
lazio del 
Ministero dell’Istruzione, del-
l’Università 
e 
della 
Ricerca; 
T.a.r. 
Toscana, 
sez. 
I, 
10 
febbraio 
2017, 
n. 
200, 
relativa 
all’Ufficio 
scolastico 
Regionale 
per la 
Toscana 
del 
citato dicastero; 
T.a.r. sicilia, Palermo, sez. I, 11 maggio 2012, n. 954, relativa 
all’Azienda 
sanitaria 
Provinciale 
di 
Caltanissetta; 
Cons. stato, sez. Iv, 10 aprile 
2009, n. 2243, 
relativa 
al 
Comune 
di 
Dobbiaco; 
Cons. stato, sez. Iv, 21 agosto 2006, n. 4855, relativa 
al 
Comune 
di 
solofra; 
Cons. stato, sez. v, 4 maggio 2004, n. 2716, relativa 
al 
Comune 
di 
villasor; 
T.a.r. Emilia-Romagna, 
Bologna, 
sez. 
II, 
29 
gennaio 
2004, 
n. 
140, 
relativa 
al 
Comune 
di 
Castel 
Maggiore; 
T.a.r. 
sardegna, 
sez. I, 29 aprile 
2003, n. 495, relativa 
al 
Comune 
di 
villasor in prime 
cure 
per la 
sopracitata 
sentenza 
d’appello. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


zato opposti 
dalle 
amministrazioni 
statali, centrali 
e 
periferiche, ex 
art. 5, c. 1 
e 
2, 
d.lgs. 
n. 
33 
del 
2013, 
al 
pari 
di 
quanto 
è 
stato 
previsto 
all’art. 
5, 
c. 
8, 
d.lgs. 
cit., per il 
Difensore 
Civico nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
locali. Diversamente 
appare 
un’evidente 
ed ingiustificabile 
asimmetria 
che 
trascende 
nel-
l’aporia 
e 
lede 
palesemente 
la 
posizione 
dell’accedente 
civico 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
statali, centrali 
e 
periferiche, il 
quale 
ai 
fini 
di 
tutela 
si 
vede 
quindi 
costretto ad adire 
necessariamente 
la 
via 
più onerosa 
via 
giurisdizionale 
avanti 
al 
competente 
Tribunale 
amministrativo regionale 
e 
se 
del 
caso 
in appello al Consiglio di stato. 


Infine, se 
non appare 
per nulla 
opportuna 
la 
previsione 
di 
una 
tassa 
per 
ottenere 
il 
riesame 
in materia 
di 
dinieghi 
o differimenti 
all’accesso da 
parte 
della 
Commissione, sarebbe 
in ogni 
caso necessario che 
la 
stessa 
potesse 
pronunciarsi 
anche 
sulla 
legittimità 
dei 
costi 
imposti 
agli 
accedenti 
dalle 
amministrazioni 
pubbliche. Infatti, in sede 
di 
tutela, la 
stessa 
assise 
ha 
avuto modo 
di 
affermare 
che, l’eventuale 
lamentata 
eccessività 
dei 
costi 
di 
accesso, esula 
dalla 
propria 
competenza, in quanto non inerente 
il 
riconoscimento del 
diritto 
di 
accesso ma 
le 
modalità 
organizzative 
poste 
in essere 
dall’amministrazione 
per 
l’esercizio 
del 
diritto 
stesso 
(28), 
di 
fatto 
così 
escludendo 
un 
suo 
sindacato 
in un ambito che 
difficilmente 
potrebbe 
giungere 
alla 
decisione 
del 
Giudice 
amministrativo, stante gli inevitabili correlati costi di giustizia. 


Peraltro, l’attuale 
completa 
gratuità 
e 
la 
facilità 
ed immediatezza 
di 
presentazione 
dei 
ricorsi 
alla 
Commissione 
per l’accesso, attraverso l’uso degli 
strumenti 
elettronici 
-in primis 
la 
posta 
elettronica 
certificata 
ora 
indispensabile 
per 
adire 
l’assise 
-, 
ha 
generato 
negli 
ultimi 
anni 
l’incremento 
esponenziale 
del 
numero 
dei 
gravami, 
anche 
con 
fenomeni 
di 
ricorrenti 
quasi 
seriali, 
ma 
questo 
non 
può 
trasformarsi 
in 
un 
pretesto 
per 
l’introduzione 
di 
costi 
di 
accesso 
ad una forma di tutela che in ogni caso permane di carattere amministrativo. 


Dunque, lo strumento di 
tutela 
giustiziale 
amministrativa 
offerto al 
cittadino 
con 
la 
Commissione 
per 
l’accesso 
non 
solo 
favorisce 
l’esercizio 
effettivo 
del 
diritto d’accesso nei 
confronti 
dell’amministrazione 
pubblica, ma, tenuto 
altresì 
presente 
il 
non 
trascurabile 
costo 
di 
un 
eventuale 
ricorso 
giurisdizionale, 
contribuisce 
anche 
ad una 
consistente 
riduzione 
del 
contenzioso avanti 
ai 
Tribunali 
amministrativi 
regionali 
ed 
al 
Consiglio 
di 
stato. 
In 
materia 
si 
consideri 
il 
non irrilevante 
dato per cui 
il 
numero di 
decisioni 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
oggetto 
di 
successiva 
impugnazione 
al 
Tribunale 
amministrativo 
regionale 
del 
lazio, 
sede 
di 
Roma, 
s’attesta 
ampiamente 
al 
di 
sotto 
del 
2% 
circa. 


Per certo il 
cittadino dovrebbe 
essere 
ancora 
maggiormente 
incentivato 
ad adire 
la 
Commissione 
(ed il 
Difensore 
Civico) rispetto al 
tradizionale 
ricorso 
giurisdizionale 
non 
risultando 
sufficiente 
la 
gratuità 
e 
l’assenza 
dell’ob


(28) Decisione CADA, 17 novembre 2016. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


bligo d’assistenza 
legale 
ovvero la 
possibilità 
d’invio del 
gravame 
per via 
telematica. 
Peraltro si 
consideri 
che, se 
le 
spese 
di 
giustizia 
per il 
ricorso giurisdizionale 
in 
materia 
d’accesso, 
ex 
art. 
13, 
c. 
6-bis, 
d.P.R. 
n. 
115 
del 
2002, 
gravano per l’importo di 
euro trecento, l’obbligo d’assistenza 
legale 
non sussiste 
neppure 
avanti 
al 
Tribunale 
amministrativo 
regionale. 
Discutibilmente 
permane 
invece 
innanzi 
al 
Consiglio di 
stato, laddove 
l’art. 95, comma 
6, del 
Codice 
del 
processo amministrativo di 
cui 
al 
d.lgs. n. 104 del 
2010, ha 
circoscritto 
le 
ipotesi 
di 
difesa 
personale 
ai 
soli 
giudizi 
di 
primo grado, sancendo 
l’inapplicabilità 
alle 
impugnazioni 
dell’art. 
23, 
c. 
1, 
del 
ridetto 
Codice, 
in 
punto 
di 
esenzione 
dell’assistenza, 
di 
talché 
è 
necessario 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
stato 
il 
ministero 
di 
un 
difensore 
all’uopo 
abilitato. 
si 
tratta 
di 
un’ingiustificata 
aporia 
in odore 
d’incostituzionalità 
che 
la 
giurisprudenza 
amministrativo ha 
pienamente 
legittimato in modo del 
tutto assertivo ed apparente 
(29), ritenendo 
tale 
esclusione 
per il 
solo grado di 
giudizio superiore 
circa 
la 
medesima 
materia 
di 
contenzioso in materia 
d’accesso, ex 
art. 116, del 
Codice 
del 
processo 
amministrativo, 
non 
lesiva 
del 
diritto 
di 
difesa 
costituzionalmente 
garantito 
(30), 
realizzando 
tuttavia 
per 
certo 
in 
tal 
modo 
la 
“gioia” 
dei 
patrocinatori 
iscritti all’albo delle giurisdizioni superiori. 

3. Per 
una riflessione 
sull’effettività del 
diritto di 
accesso e 
della sua tutela 
amministrativa. 
Il 
potenziamento della 
Commissione 
per l’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
rappresenta 
un 
passo 
importante 
verso 
una 
pubblica 
amministrazione 
più 
trasparente, 
accessibile 
e 
vicina 
ai 
cittadini. 
l’ampliamento 
delle 
sue 
competenze 
e 
la 
rafforzata 
indipendenza 
sono misure 
che 
rispondono ad una 
crescente 
domanda 
di 
accountability 
ovvero 
di 
responsabilità 
delle 
istituzioni 
nei 
confronti 
della 
società 
civile. si 
tratta 
infatti 
di 
uno strumento giustiziale 
che 
consente 
d’ottenere 
una 
tutela 
del 
tutto esente 
da 
costi 
per l’accedente, a 
nulla 
valendo 
che 
la 
stessa 
protezione 
non 
sia 
strettamente 
vincolante 
per 
la 
pubblica 
amministrazione. 
semmai, 
come 
già 
sopra 
preconizzato, 
il 
legislatore 
dovrebbe 
prevedere 
che 
sia 
la 
sola 
stessa 
pubblica 
amministrazione 
soccombente 
avanti 
alla 
Commissione 
per l’accesso -e 
non anche 
il 
privato di 
cui 
sia 
riconosciuta 
la 
legittimità 
dell’accesso 
-ad 
intraprendere 
la 
via 
giurisdizionale 
laddove non intenda ottemperare alla decisione sfavorevole dell’assise. 

Del 
resto, rispetto all’ordinamento francese, laddove 
il 
ricorso alla 
Commissione 
per 
l’accesso 
è 
obbligatorio 
prima 
del 
rimedio 
giurisdizionale 
alla 
Corte 
amministrativa, 
il 
legislatore 
nostrano 
ha 
previsto 
una 
tutela 
amministrativa 
barocca 
del 
tutto 
facoltativa 
e 
che 
dunque 
non 
condiziona 
in 
alcun 


(29) 
Cons. 
stato, 
sez. 
vI, 
27 
dicembre 
2011, 
n. 
6846; 
Cons. 
stato, 
sez. 
v, 
19 
ottobre 
2011, 
n. 
5623. 
(30) 
Cons. 
stato, 
sez. 
Iv, 
12 
luglio 
2013, 
n. 
3760; 
Cons. 
stato, 
sez. 
Iv, 
28 
febbraio 
2012, 
n. 
1162. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


modo il 
diritto d’agire 
avanti 
agli 
organi 
giurisdizionali 
amministrativi. l’accedente 
a 
cui 
sia 
stato denegato l’accesso è 
infatti 
del 
tutto libero di 
scegliere 
fra 
ricorrere 
alla 
Commissione 
amministrativa 
ovvero al 
Tribunale 
amministrativo 
regionale 
senza 
che 
la 
prima 
ipotesi 
abbia 
effetti 
preclusivi 
della 
seconda. 
A 
sua 
volta 
la 
previsione 
della 
sospensione 
dei 
termini 
per il 
ricorso 
giurisdizionale 
sino 
alla 
data 
di 
ricevimento 
della 
decisione 
della 
Commissione 
risponde 
all’esigenza 
di 
evitare 
i 
rischi 
d’illegittimità 
costituzionale 
derivanti 
dalla 
cd. 
alternatività 
fra 
ricorso 
amministrativo 
e 
giurisdizionale, 
la 
cui 
eventuale 
introduzione 
avrebbe 
dovuto garantire 
ai 
controinteressati 
all’accesso il 
diritto alla 
trasposizione 
e 
conseguente 
decisione 
in sede 
giurisdizionale 
del 
ricorso, parimenti 
a 
quanto avviene, ex 
art. 10, d.P.R. n. 1199 del 
1971, per il 
ricorso straordinario al Capo dello stato. 


Permangono 
infatti 
delle 
debolezze 
intrinseche 
all’azione 
della 
Commissione 
per l’accesso che 
non assicura 
gli 
stessi 
requisiti 
del 
Giudice 
amministrativo 
e 
detiene 
poteri 
più labili 
del 
ridetto. se 
è 
infatti 
vero che, ex 
artt. 25, 


c. 4, legge 
n. 241 del 
1990 ed art. 12, c. 9, d.P.R. n. 184 del 
2006, la 
decisione 
dell’assise 
attiva 
un 
nuovo 
esercizio 
del 
potere 
discrezionale 
dell’amministrazione 
sull’istanza 
di 
accesso che, se 
intende 
negare 
ancora 
l’ostensione, può 
adottare 
entro trenta 
giorni 
dalla 
comunicazione 
della 
decisione 
un provvedimento 
motivato 
di 
conferma 
del 
diniego 
aprendo 
così 
per 
l’accedente 
la 
strada 
al ricorso giurisdizionale entro ulteriori trenta giorni. 
Tuttavia, l’anello debole 
della 
normativa 
in materia 
di 
tutela 
giustiziale 
della 
Commissione 
per l’accesso risiede 
nella 
non infrequente 
ipotesi 
in cui 
l’amministrazione 
non 
adotti 
il 
provvedimento 
confermativo 
del 
diniego 
posto 
che 
è 
formalmente 
previsto il 
silenzio assenso al 
fine 
dell’ostensione 
-, 
ma 
concretamente 
non consenta 
poi 
la 
visione 
o l’estrazione 
di 
copia 
dei 
documenti 
richiesti. Infatti, alcun potere 
coercitivo, neppure 
minimale, detiene 
la 
Commissione 
nel 
caso in cui 
l’amministrazione 
non intenda 
in alcun modo 
ostendere 
la 
documentazione 
richiesta 
e 
dunque 
mantenga 
un 
deprecabile 
comportamento 
omissivo (rectius, manifestamente 
ostruzionistico). la 
scelta 
del 
legislatore 
del 
2005 di 
confermare 
quanto già 
previsto nel 
2000 circa 
la 
“efficacia” 
della 
decisione 
del 
Difensore 
Civico 
appare 
del 
tutto 
criticabile 
laddove 
non 
s’assicura 
tutela 
al 
privato. 
Infatti, 
si 
badi 
che 
il 
silenzio 
accoglimento 
non è 
impugnabile 
per carenza 
d’interesse 
da 
parte 
dell’accedente 
ma 
nonostante 
ciò l’amministrazione 
ben può persistere 
nel 
suo atteggiamento di 
sostanziale 
diniego 
rifiutando 
l’accesso 
-anche 
solo 
implicitamente 
senza 
l’adozione 
d’alcun ulteriore 
provvedimento negativo -, pur a 
fronte 
della 
titolarità 
da 
parte 
dell’accedente 
di 
un inequivocabile 
titolo giuridico che 
fonda 
la sua pretesa d’accesso quale acclarato dalla Commissione (31). 

Appare 
evidente 
che 
in 
punto 
d’effettività 
della 
tutela 
in 
sede 
giustiziale 


(31) Cfr. fRACChIA, riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino, 2003. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


della 
Commissione 
per 
l’accesso 
(e 
del 
Difensore 
Civico) 
costituisce 
un 
grave 
vulnus 
il 
fatto 
che 
la 
decisione 
dell’assise 
non 
detenga 
necessariamente 
un 
carattere 
auto-applicativo. 
Infatti, 
a 
prescindere 
dalla 
presenza 
di 
un 
diniego 
espresso 
ovvero 
tacito, 
l’ostensione 
dei 
documenti 
amministrativi 
impone 
sempre 
l’adozione 
di 
atti 
e 
comportamenti 
amministrativi. 
Il 
legislatore 
avrebbe 
quindi 
dovuto 
attribuire 
alla 
Commissione 
per 
l’accesso 
(ed 
al 
Difensore 
Civico) 
adeguati 
strumenti 
coercitivi 
tesi 
ad 
imporre 
all’amministrazione 
l’esibizione 
dei 
documenti 
richiesti. 
si 
tratta 
di 
poteri 
che 
non 
essendo 
espressamente 
previsti 
dalla 
norma 
che 
si 
limita 
all’esercizio 
di 
un 
sindacato 
amministrativo 
sulla 
legittimità 
del 
diniego 
ovvero 
del 
differimento, 
non 
possono 
certo 
essere 
dedotti 
implicitamente 
attribuendo 
alla 
Commissione 
la 
titolarità 
a 
sostituirsi 
alla 
pubblica 
amministrazione 
che 
impedisce 
l’accesso 
documentale. 
Risulta 
dunque 
evidente 
la 
differenza 
d’effettività 
rispetto 
al 
ricorso 
giurisdizionale 
laddove 
l’art. 
25, 
c. 
6, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
prevede 
che 
«il 
Giudice 
amministrativo, 
sussistendone 
i 
presupposti, 
ordina 
l’esibizione 
dei 
documenti 
richiesti». 


Appare 
perciò necessario comprendere 
quale 
tipologia 
di 
tutela 
possa 
attivare 
l’accedente 
al 
quale 
non sia 
riconosciuto l’accesso neppure 
dopo avere 
ottenuto 
una 
decisione 
favorevole 
che 
censura 
l’illegittimità 
del 
diniego 
ovvero 
del 
differimento 
opposto 
dalla 
pubblica 
amministrazione. 
orbene, 
contro 
il 
silenzio 
accoglimento 
non 
risulta 
esperibile 
l’azione 
di 
ricorso 
avverso 
il 
silenzio 
dell’amministrazione, 
ex 
art. 
117, 
del 
Codice 
del 
Processo 
Amministrativo 
(32), sia 
perché 
il 
rimedio è 
percorribile 
solo contro il 
silenzio-rifiuto ovvero 
inadempimento, sia 
in quanto a 
fronte 
di 
una 
decisione 
favorevole 
dovrebbe 
accertarsi 
la 
carenza 
dell’interesse 
ad 
agire 
in 
capo 
al 
ricorrente. 
Parimenti 
non appare 
percorribile 
neppure 
la 
via 
del 
giudizio in materia 
d’inesecuzione 
ovvero 
elusione 
della 
decisione 
amministrativa 
resa 
dalla 
Commissione 
per 
l’accesso (33), in quanto tale 
atto amministrativo é 
insuscettibile 
d’essere 
oggetto 
di 
un giudizio di 
ottemperanza 
e 
così, per esempio, la 
suprema 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
escluso la 
possibilità 
di 
ricorrere 
in ottemperanza 
per ottenere 
l’esecuzione 
delle 
decisioni 
rese 
sul 
ricorso 
straordinario 
(34). 
l’unica 
via 
concretamente 
ed 
utilmente 
percorribile 
dall’accedente 
è 
il 
ricorso 
al 
Tribunale 
amministrativo regionale 
al 
fine 
d’ottenere 
una 
decisione 
dotata 
dell’esecutorietà 
tesa 
ad assicurare 
l’ostensione 
dei 
documenti 
richiesti. Compete 
infatti 
al 
Giudice 
amministrativo ordinare 
l’esibizione 
documentale 
e 
l’art. 25, c. 5, 
legge 
n. 
241 
del 
1990, 
ammette 
il 
gravame 
non 
solo 
contro 
le 
«determinazioni 
amministrative 
concernenti 
il 
diritto 
di 
accesso», 
bensì 
anche 
«nei 
casi 
previsti 


(32) Cfr. AnDREIs, Commento all’art. 21, legge 
Tar. i riti 
speciali, in RoMAno, vIllATA 
(cur.), 
Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2009, 749. 
(33) Cfr. CIRIllo, Diritto all’accesso e 
diritto alla riservatezza: un difficile 
equilibrio mobile, in 
il Consiglio di Stato, 2004, 7-8, 1681-1684. 
(34) Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


dal 
comma 
4» dello stesso art. 25, cit., tra 
cui 
deve 
ritenersi 
rientrare 
il 
silenzio-
assenso 
opposto 
dalla 
pubblica 
amministrazione 
dopo 
la 
decisione 
ad 
essa 
sfavorevole 
resa 
dalla 
Commissione 
per l’accesso (o dal 
Difensore 
Civico). 
Per 
quanto 
non 
sia 
espressamente 
previsto 
ma 
neppure 
tassativamente 
escluso 
dalla 
norma 
citata, dovrebbe 
potersi 
estendere 
in via 
analogica 
all’azione 
di 
ricorso anche 
il 
caso in cui 
l’ente 
pubblico non consenta 
la 
materiale 
ostensione 
del 
documento 
richiesto 
pur 
in 
assenza 
di 
un 
formale 
provvedimento 
confermativo di diniego. 


Tuttavia, permane 
fondamentale 
che 
le 
modifiche 
sopra 
esposte 
in punto 
d’effettività 
debbano essere 
accompagnate 
da 
adeguate 
risorse 
e 
supporto organizzativo 
per 
garantire 
che 
la 
Commissione 
possa 
adempiere 
efficacemente 
ai 
suoi 
nuovi 
compiti. solo con un adeguato rafforzamento delle 
sue 
capacità 
operative, infatti, la 
Commissione 
potrà 
rispondere 
in maniera 
tempestiva 
ed 
imparziale 
alle 
crescenti 
richieste 
di 
trasparenza 
e 
di 
partecipazione 
dei 
cittadini. 
Del 
resto, sin dal 
2010 i 
componenti 
della 
Commissione 
operano a 
titolo 
onorario e 
completamente 
non retribuito, senza 
percepire 
alcun compenso, né 
rimborso per l’attività svolta. 


solo un organo collegiale 
indipendente 
formato da 
professionisti 
stimati 
e 
capaci 
ovvero più tecnici 
che 
politici, può creare 
un certo potere 
di 
persuasione 
ed influenza 
o quanto meno una 
capacità 
d’ascolto da 
parte 
della 
pubblica 
amministrazione 
sino al 
punto che 
la 
stragrande 
maggioranza 
delle 
sue 
decisioni 
venga 
accolta 
dall’ente 
pubblico di 
turno creando di 
fatto una 
maggiore 
snellezza 
procedimentale. si 
tratta 
di 
quanto avvenuto e 
tuttora 
avviene 
in francia 
laddove 
il 
ricorso alla 
Commissione 
non è 
una 
mera 
aggiunta 
facoltativa 
al 
ricorso giurisdizionale, bensì 
è 
del 
tutto obbligatorio prima 
di 
ricorrere 
alla 
Corte 
amministrativa 
e 
gli 
effetti 
di 
deflazione 
del 
relativo 
contenzioso sono stati notevoli e vistosi. 


In 
sintesi, 
rafforzare 
i 
poteri 
e 
le 
funzioni 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
per 
farle 
acquisire 
un’ancora 
maggiore 
autorevolezza, 
significa 
non solo migliorare 
la 
trasparenza 
dell’amministrazione 
pubblica, 
ma 
anche 
implementare 
la 
democrazia 
partecipativa, dando ai 
cittadini 
strumenti 
più 
efficaci 
per 
monitorare 
e 
influenzare 
le 
decisioni 
pubbliche 
(35). 
si 
tratta 
di 
un 
passo 
fondamentale 
verso 
una 
capacità 
amministrativa 
pubblica 
più aperta, semplificata 
e 
snella, nonché 
responsabile 
ed al 
servizio della 
collettività 
(36). 


non 
a 
caso, 
anche 
le 
letture 
ermeneutiche 
più 
ampie 
della 
giurisprudenza 
in 
materia 
di 
diritto 
di 
accesso, 
trovano 
la 
loro 
ragion 
d’essere 
proprio 
in 
questo 


(35) Cfr. fERRonI, il 
dibattito pubblico, la democrazia partecipativa e 
le 
semplificazioni: luci 
ed 
ombre, in CARAvAlE, CECCAnTI, fRosInA, PICIACChIA, zEI 
(cur.), Scritti 
in onore 
di 
Fulco Lanchester, I, 
napoli, 2022, 539-557. 
(36) Cfr. CAPoRossI, i Comuni 
e 
la sfida della sostenibilità: misurazione 
della capacità amministrativa 
pubblica, tra efficienza, trasparenza e anticorruzione, soveria Mannelli, 2021. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


generale 
mutato assetto (voluto anche 
dallo stesso legislatore), in cui 
è 
riconosciuta 
agli 
interessati 
la 
possibilità 
di 
conoscere 
appieno 
anche 
i 
percorsi 
attraverso 
cui 
si 
è 
formata 
la 
scelta 
decisionale 
dell’amministrazione 
in 
termini 
di 
ampliamento delle 
dinamiche 
partecipative 
e 
di 
tutela 
del 
principio di 
buon 
andamento 
della 
pubblica 
amministrazione. 
la 
glasnost 
dell’amministrazione 
italiana 
-per dirla 
con il 
termine 
russo che 
sin dall’ottocento indicava 
la 
pubblicità 
delle 
decisioni 
giuridiche 
e 
poi 
in voga 
alla 
fine 
degli 
anni 
ottanta 
del 
secolo 
scorso 
per 
definire 
le 
riforme 
nel 
senso 
della 
trasparenza 
del 
socialismo 
“dal 
volto umano” 
-non lascia 
quindi 
spazio a 
plateali 
e 
grossolani 
dinieghi 
all’accesso, 
sistematicamente 
sconfessati 
dalla 
Commissione 
per 
l’accesso, 
dal Difensore Civico ovvero dal Giudice amministrativo (37). 


Rifiuti 
che 
sono 
spesso 
disposti 
da 
burocrati 
e 
“colletti 
bianchi” 
di 
stato 
sovente 
connotati 
da 
claudicante 
preparazione 
giuridica, 
in 
forza 
di 
dubbie 
elevazioni 
professionali 
ben 
lontane 
dal 
concetto 
meritocratico 
grazie 
a 
procedure 
ope 
legis 
o 
similari. 
ovvero 
in 
quanto 
soggetti 
generalmente 
arroccati 
su 
posizioni 
di 
ignobile 
supponenza 
ed 
alterigia, 
digiuni 
e 
profani, 
veri 
o 
presunti, 
della 
più 
elementare 
normativa 
e 
discendente 
granitica 
giurisprudenza 
ultraventennale 
in 
materia 
di 
accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
ed 
alla 
privacy. 
Trattasi 
di 
soggetti 
che 
impersonano 
pro 
tempore 
gli 
uffici 
quali 
si 
riscontrano 
a 
macchia 
di 
leopardo 
(fortunatamente 
non 
sempre, 
sia 
chiaro!) 
nell’arcipelago 
della 
pubblica 
amministrazione, 
a 
livello 
sia 
centrale 
che 
locale, 
in 
pubblici 
uffici 
utili 
o 
pleonastici 
che 
siano, 
spesso 
pure 
inutilmente 
sperperando 
risorse 
per 
l’acquisto 
di 
banche 
dati 
giuridiche 
o 
altri 
supporti 
d’aggiornamento 
ovvero 
organizzando 
attività 
di 
formazione 
non 
sempre 
adeguata. 


In forza 
di 
quanto sopra 
l’auspicio è 
che 
la 
Commissione 
per l’accesso 
possa 
spingersi 
oltre 
l’accertamento 
dell’illegittimità 
del 
diniego 
di 
accesso 
con l’esercizio di 
veri 
e 
propri 
poteri 
sanzionatori 
di 
natura 
pecuniaria, esattamente 
al 
pari 
di 
quanto avviene 
da 
parte 
delle 
Autorità 
amministrative 
indipendenti 
nei 
settori 
di 
rispettiva 
competenza. Il 
riferimento è 
alla 
previsione 
della 
facoltà 
d’irrogare 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie 
nei 
confronti 
dei 
responsabili 
dei 
procedimenti 
d’accesso 
delle 
amministrazioni 
colpevoli 
di 
pretestuosi 
ed 
abnormi 
dinieghi 
all’accesso 
pacificamente 
contrari 
alla 
normativa 
e 
consolidata 
giurisprudenza. Il 
tutto con relativa 
discendente 
segnalazione 
di 
danno 
erariale 
alla 
competente 
Procura 
regionale 
della 
Corte 
dei 
conti, 
affinché 
siano 
così 
direttamente 
puniti 
i 
dipendenti 
pubblici 
responsabili 
di 
una 
grave 
violazione 
di 
diritto soggettivo del 
cittadino quale 
costituito dal


(37) 
Cfr. 
RATTo 
TRABUCCo, 
i 
dinieghi 
grossolani 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi: 
esperienze 
applicative 
nell’epoca della trasparenza, in rassegna avvocatura dello Stato, 2018, 3, 172-184 
e 
ID., 
i 
dinieghi 
grossolani 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi. 
Problematiche 
applicative 
nell’era 
della trasparenza a fronte 
del 
caso limite 
del 
tribunale 
militare 
di 
Verona, in Quaderni 
amministrativi, 
2018, 2-3, 22-41. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


l’accesso ai 
documenti 
amministrativi. la 
violazione 
del 
principio di 
correttezza 
e 
lealtà, nonché 
la 
sussistenza 
degli 
elementi, costitutivi 
della 
colpa, negligenza, 
imprudenza 
e 
imperizia, 
attestanti 
l’intollerabile 
superficialità 
dell’azione 
amministrativa 
e 
del 
suo autore 
di 
turno, devono infatti 
essere 
necessariamente 
sanzionati in ambito contabile. 


Parimenti, 
l’illegittimo 
e 
pretestuoso 
diniego 
all’ostensione 
di 
documenti 
amministrativi 
dovrebbe 
normativamente 
essere 
configurato quale 
violazione 
dei 
doveri 
d’ufficio, 
al 
pari, 
per 
esempio, 
di 
quanto 
previsto 
dall’art. 
76, 
d.P.R. 


n. 445 del 
2000, recante 
il 
Testo unico in materia 
di 
documentazione 
amministrativa 
(TUDA), nel 
caso della 
mancata 
accettazione 
delle 
dichiarazioni 
sostitutive 
di 
certificazioni 
o 
dell’atto 
di 
notorietà, 
basilare 
fondamento 
della 
semplificazione 
amministrativa 
nel 
senso di 
consentire 
al 
cittadino l’autodichiarazione 
in 
luogo 
della 
produzione 
dei 
certificati 
ovvero 
degli 
atti 
comprovanti 
fatti, stati 
e 
qualità 
personali 
a 
diretta 
conoscenza 
dell’interessato. Per 
conseguenza 
ne 
deriverebbe 
la 
pacifica 
responsabilità 
disciplinare 
del 
pubblico 
dipendente 
colpevole 
per 
l’inadempimento/violazione 
in 
punto 
di 
diritto 
di 
accesso 
a 
documenti 
amministrativi 
e 
quindi 
doverosamente 
sanzionabile 
dall’amministrazione 
di 
appartenenza 
quale 
grave 
violazione 
disciplinare 
passibile 
di 
sospensione 
dal 
servizio e 
dalla 
retribuzione, previo iter 
gestito dal-
l’apposito Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD). 
né 
si 
obliterino le 
ricadute 
penalistiche 
dell’omessa 
ostensione 
in malafede 
laddove 
ci 
si 
limita 
in questa 
sede 
a 
rammentare 
che 
per giurisprudenza 
consolidata 
in tema 
di 
rifiuto ed omissione 
di 
atti 
d’ufficio, ex 
art. 328 c.p., 
tale 
fattispecie 
delittuosa 
è 
ben configurabile 
anche 
in presenza 
di 
omissione 
e 
silenzio sulle 
richieste 
ostensive 
di 
documenti 
amministrativi, posto che 
la 
rilevanza 
penale 
del 
comportamento 
omissivo 
del 
pubblico 
ufficiale 
(o 
del-
l’incaricato di 
pubblico servizio) non viene 
vanificata 
dalla 
previsione 
del 
rimedio 
amministrativo 
anche 
contro 
il 
semplice 
silenzio 
e 
conserva 
la 
sua 
autonomia 
rispetto a 
tale 
rimedio. l’effetto penale 
obbedisce 
all’esigenza 
di 
reprimere 
quei 
comportamenti 
del 
pubblico ufficiale 
che 
contravvengono al 
principio di 
correttezza 
e 
buon andamento dell’attività 
amministrativa; 
il 
rimedio 
amministrativo, invece, assicura 
la 
possibilità 
di 
dare 
forza 
ed effettiva 
attuazione 
al 
suo diritto di 
accesso ai 
documenti 
(38). Così, ai 
fini 
della 
integrazione 
del 
delitto di 
omissione 
di 
atti 
d’ufficio in sede 
di 
accesso, è 
irrilevante 
il 
formarsi 
del 
silenzio-rifiuto 
entro 
la 
scadenza 
del 
termine 
di 
trenta 
giorni 
dalla 
richiesta 
del 
privato. 
ne 
consegue 
che 
il 
silenzio-rifiuto 
deve 
considerarsi 
inadempimento 
e, 
quindi, 
come 
condotta 
omissiva 
richiesta 
per 
la 
configurazione 
della 
fattispecie 
incriminatrice 
(39). Inoltre, più nel 
dettaglio, 


(38) Cass. pen., sez. v, 8 gennaio 1997, Capuano. 
(39) Ex 
multis: 
Cass. pen., sez. vI, 6 ottobre 
2015, n. 42610; 
Cass. pen., sez. vI, 17 ottobre 
2013, 
n. 
45629, 
Proc. 
Gen. 
App. 
in 
proc. 
Giuffrida, 
rv. 
257706; 
Cass. 
pen., 
sez. 
vI, 
24 
novembre 
2009, 
n. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


per aversi 
omissione 
di 
atti 
di 
ufficio rilevante, ex 
art. 328, c. 2, c.p., in caso 
di 
richiesta 
di 
accesso a 
documenti 
amministrativi 
sono necessari 
la 
richiesta 
espressa 
dell’interessato, 
l’inerzia 
del 
pubblico 
ufficiale 
o 
dell’incaricato 
di 
pubblico servizio obbligato a 
provvedere 
(di 
fatto il 
responsabile 
del 
procedimento 
d’accesso) che 
si 
sia 
protratta 
oltre 
trenta 
giorni 
dalla 
richiesta 
nonché 
un’ulteriore 
richiesta 
dell’interessato con valore 
di 
messa 
in mora 
e 
l’inutile 
decorso di 
altri 
trenta 
giorni 
da 
tale 
ultima 
istanza 
senza 
che 
il 
pubblico ufficiale 
o l’incaricato di 
pubblico servizio abbia 
provveduto o, quantomeno, risposto 
per 
esporre 
le 
ragioni 
del 
ritardo. 
Infatti, 
è 
granitico 
l’orientamento 
della 
suprema 
Corte 
di 
cassazione 
in tema 
di 
rifiuto ed omissione 
di 
atti 
d’ufficio, 
ex 
art. 
328 
c.p., 
per 
cui 
la 
richiesta 
del 
privato, 
affinché 
sia 
rilevante, 
deve 
atteggiarsi 
come 
vera 
diffida 
(40) -non assumendo rilievo una 
mera 
segnalazione 
-, quale 
atto ontologicamente 
distinto dalla 
mera 
istanza 
dell’interessato 
volta 
ad 
ottenere 
l’adozione 
di 
un 
provvedimento 
amministrativo. 
Essa 
è 
dunque 
un 
atto 
necessario 
ed 
imprescindibile 
ai 
fini 
della 
configurazione 
del 
reato di 
cui 
all’art. 328 c.p. nel 
caso dell’omissione 
di 
atti 
d’ufficio in sede 
di 
esercizio del diritto d’accesso a documenti amministrativi (41). 


Conclusivamente, 
l’ostensione 
dei 
documenti 
amministrativi 
deve 
quindi 
ritenersi 
l’assoluta 
regola 
mentre 
il 
diniego 
deve 
concepirsi 
come 
una 
mera 
eventuale 
rara 
eccezione, per cui 
il 
rigetto d’accesso dovrà 
essere 
sempre 
assistito 
da 
chiara, esauriente 
e 
convincente 
motivazione 
e 
non certo ridursi 
a 
mera 
dichiarazione 
“di 
stile” 
come 
invece 
ancora 
purtroppo avviene 
da 
parte 
d’inadeguati 
specifici 
pubblici 
dipendenti 
che 
si 
ergono così 
a 
secretare 
illegittimamente 
atti 
dell’amministrazione 
di 
appartenenza. 
Trattasi, 
a 
ben 
vedere, 
di 
dipendenti 
ignavi 
privi 
di 
quell’ordinaria 
intelligenza 
ed umanità 
per comprendere 
e 
soddisfare 
l’istanza 
d’accesso 
che 
la 
stessa 
giurisprudenza 
ha 
infatti 
qualificato anche 
come 
tesa 
al 
conseguimento di 
un autonomo bene 
della 
vita 
(42). la 
citata 
tipologia 
di 
personale 
pubblico dovrebbe 
quindi 
essere 
espulsa 
dall’amministrazione, previe 
sanzioni 
di 
natura 
disciplinare, penale 
e 
contabile. 
Corollario della 
predetta 
regola 
è 
che 
il 
silenzio serbato su istanze 
d’accesso 
è 
ipotesi 
ancor più eccezionale, da 
circoscrivere 
in ambiti 
limitatissimi 
di 
domande 
palesemente 
pretestuose, incerte 
ovvero emulative 
e 
dunque 
im


7348, Di 
venere, rv. 246025; 
Cass. pen., sez. vI, 15 novembre 
2005, n. 41225, P.M. in proc. Grassi 
ed 
altro, rv. 232765; Cass. pen., sez. vI, 6 aprile 2000, n. 5691, scorsone, rv. 217339. 


(40) Cass. pen., sez. vI, 27 settembre 2010, n. 40008, Iorio. 
(41) Trib. Pescara, 7 maggio 2008 e 20 febbraio 2001, P.f. 
(42) 
Ex 
plurimis: 
T.a.r. 
lazio, 
Roma, 
sez. 
III-quater, 
10 
febbraio 
2023, 
n. 
2297; 
T.a.r. 
Puglia, 
lecce, sez. II, 27 marzo 2020, n. 415; 
Cons. stato, sez. v, 27 giugno 2018, n. 3953; 
Cons. stato, sez. v, 
18 
ottobre 
2017, 
n. 
4813; 
Cons. 
stato, 
Ad. 
Plen., 
24 
aprile 
2012, 
n. 
7; 
Cons. 
stato, 
sez. 
vI, 
9 
marzo 
2011, n. 1492; 
Cons. stato, sez. Iv, 3 agosto 2010, n. 5173; 
Cons. stato, sez. vI, 27 ottobre 
2006, n. 
6440. 
Cfr. 
RATTo 
TRABUCCo, 
i 
potenziali 
fruttuosi 
sviluppi 
della 
nozione 
del 
diritto 
di 
accesso 
quale 
teso al 
conseguimento di 
un autonomo bene 
della vita ai 
fini 
delle 
istanze 
ostensive 
delle 
associazione 
di consumatori, in Lexitalia.it, 29 giugno 2021. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


meritevoli 
di 
riscontro, 
anche 
in 
quanto 
potenzialmente 
trascendenti 
nell’abuso 
del 
diritto (43). ferma 
l’esigenza 
di 
contrastare 
derive 
elusive 
e 
opportunistiche 
nonché, in ultima 
analisi, vere 
e 
proprie 
forme 
di 
abusivo esercizio del 
diritto 
di 
accesso, si 
tratta 
di 
regole 
semplici 
e 
fondamentali, ispirate, secondo 
l’ormai 
noto 
insegnamento 
dei 
Giudici 
amministrativi, 
a 
valori 
fondanti 
di 
qualsiasi 
vera 
democrazia 
in cui 
la 
burocrazia 
è 
al 
servizio del 
cittadino e 
non 
di 
se 
stessa, 
secondo 
una 
logica 
perversa 
di 
autoreferenzialità 
in 
base 
alla 
quale 
il cittadino è suddito e non referente dell’azione amministrativa. 


Tuttavia, l’ignavia 
nel 
rispetto delle 
regole, elemento consolidato nel 
retroterra 
culturale 
italiano nonché 
mediterraneo, vieppiù a 
fronte 
di 
una 
certa 
impreparazione 
del 
personale 
della 
pubblica 
amministrazione 
-non 
di 
rado 
assunto anche 
“raschiando” 
i 
“fondi” 
delle 
graduatorie 
concorsuali, in alcuni 
casi 
pure 
datate 
-, impedisce 
troppo spesso di 
realizzare 
qualsivoglia 
intento 
punitivo 
nei 
confronti 
d’inefficienti 
burocrati 
del 
deep 
state 
che 
restano 
al 
loro 
posto, 
mentre 
gli 
infingardi 
ed 
ammalianti 
politici 
passano. 
Del 
resto, 
uno 
“stato profondo” 
può configurarsi 
anche 
in funzionari 
di 
carriera 
che 
di 
per 
sé 
non si 
muovono al 
fine 
di 
sovvertire 
questo o quel 
governo, bensì 
per sostenere 
i 
propri 
esclusivi 
interessi 
e 
prebende. l’intento di 
uno deep state 
può 
comprendere 
infatti 
non solo la 
continuità 
dello stato stesso ma 
anche 
la 
conservazione 
del 
rapporto di 
lavoro per i 
suoi 
membri 
ovvero adepti 
e 
discepoli 
nonché 
il 
perseguimento 
di 
complessivi 
obiettivi 
ideologici 
non 
necessariamente 
sostenuti 
dalla 
maggioranza 
dell’opinione 
pubblica. Il 
risultato in materia 
di 
trasparenza 
è 
di 
fatto 
impedire 
all’accedente 
la 
conoscenza 
di 
documenti 
amministrativi, 
da 
cui 
la 
finalistica 
grave 
lesione 
del 
non 
avere 
contezza 
dei 
propri 
stessi 
diritti, come 
uno dei 
Padri 
Costituenti 
degli 
stati 
Uniti 
d’America, Benjamin Rush, ben già 
aveva 
annotato nel 
suo programma 
del 
1786 
per 
la 
creazione 
di 
scuole 
pubbliche 
in 
Pennsylvania 
e 
per 
sviluppare 
l’educazione 
in 
sinergia 
con 
il 
governo 
repubblicano 
del 
nuovo 
stato 
federato, 
con l’acuta 
affermazione 
per cui: 
«la 
libertà 
può esistere 
solo laddove 
c’è 
conoscenza. 
senza 
apprendimento, gli 
uomini 
non saprebbero quali 
sono i 
loro 
diritti» 
(44). 
Per 
tale 
motivo 
s’impone 
dunque 
l’imprescindibile 
rafforzamento 


(43) Cons. stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3 che 
richiama 
Cass. civ., sez. I, 3 maggio 2010, 
n. 
10634. 
Cfr. 
fIn, 
Una 
coraggiosa 
pronuncia 
della 
corte 
di 
legittimità: 
l’onere 
delle 
spese 
come 
rimedio 
contro 
un 
uso 
scorretto 
dello 
strumento 
processuale, 
in 
Corriere 
giuridico, 
2011, 
3, 
371-383. 
Per 
un 
ancoraggio dell’abuso del 
processo, in correlazione 
agli 
artt. 24, 111 e 
113, Cost., nonché 
ai 
principi 
del 
diritto 
europeo, 
si 
vedano 
gli 
artt. 
88, 
91, 
94 
e 
96, 
c.p.c., 
e 
gli 
artt. 
1, 
2 
e 
26, 
c.p.a. 
In 
tema, 
cfr. 
fIoRDAlIsI, 
abuso 
del 
diritto 
altrui. 
Una 
figura 
formale 
di 
qualificazione 
giuridica, 
Torino, 
2020 
e 
vERsIGlIonI, 
abuso del diritto. Logica e Costituzione, Pisa, 2016. 
(44) Cfr. RUsh, Essays, Literary, moral 
and Philosophical, Philadelphia, 1798, 1, per cui: 
«freedom 
can exist 
only in the 
society of knowledge. without 
learning, men are 
incapable 
of knowing their 
rights 
and where 
learning is 
confined to a 
few 
people, liberty can be 
neither equal 
nor universal», ma 
si 
veda 
anche 
RUDolPh 
(cur.), Essays 
on Education in the 
Early 
republic, Cambridge, 1965, contenente 
saggi 
e 
scritti 
pubblicati 
tra 
il 
1786 e 
il 
1799 da 
Rush ed altri 
Padri 
Costituenti 
americani, che 
rappre

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


della 
trasparenza 
per via 
amministrativa 
attraverso il 
potenziamento del 
ruolo 
della 
Commissione 
per 
l’accesso 
(e 
del 
Difensore 
Civico 
a 
livello 
locale), 
perché 
riprendendo oriana 
fallaci 
«vi 
sono momenti 
nella 
vita, in cui 
tacere 
diventa 
una 
colpa 
e 
parlare 
diventa 
un 
obbligo. 
Un 
dovere 
civile, 
una 
sfida 
morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre» (45). 

solo 
un’amministrazione 
del 
tutto 
aperta 
può 
sopperire 
ai 
pervasivi 
e 
serpeggianti 
caratteri 
della 
collusione 
e 
della 
connivenza, se 
non del 
nepotismo, 
che 
ancora 
aleggiano nel 
nostro Paese 
a 
detrimento di 
trasparenza 
e 
meritocrazia, 
anche 
a 
causa 
di 
una 
mancata 
regolamentazione 
delle 
attività 
di 
lobbying 
(46) e 
di 
una 
più stringente 
interpretazione 
dei 
concetti 
di 
astensione 
e 
ricusazione 
del 
Giudice 
amministrativo 
anche 
in 
materia 
di 
procedure 
concorsuali 
(47). ovvero utilizzando il 
più recente 
neologismo dell’“amichettismo” 
che 
sta 
ad 
indicare 
il 
fenomeno 
fondato 
sull’impiego 
di 
familiari 
ed 
amici, 
“amichetti” 
appunto, per gestire 
non già 
solo la 
res 
publica, ma 
anche 
tutto il 
corollario 
che 
le 
ruota 
intorno 
(48). 
Risulta 
infatti 
evidente 
che 
per 
tali 
abusivi 
(se 
non illegali) “andazzi” 
non risulta 
certo confacente 
e 
gradita 
la 
previsione 
di 
un efficace 
quadro ordinamentale 
focalizzato sulla 
trasparenza 
dell’amministrazione. 
la 
collusione 
fra 
gruppi, 
discepolanze 
ovvero 
conventicole 
di 
potere 
a 
fini 
di 
lesione 
del 
merito ovvero in generale 
del 
buon andamento della 
pubblica 
amministrazione 
aborrisce 
qualsivoglia 
esercizio penetrante 
del 
diritto 
d’accesso, 
men 
che 
meno 
se 
in 
tandem 
con 
un 
discendente, 
solerte 
e 
puntuale 
sistema efficiente di tutela avanti al diniego illegittimo o supposto tale. 


la 
tutela 
amministrativa 
avanti 
alla 
Commissione 
per l’accesso ai 
documenti 
amministrativi, 
gratuita 
per 
l’accedente 
ed 
autorevole 
per 
l’amministrazione, 
costituisce 
proprio 
tale 
ridetta 
estrinsecazione 
per 
la 
quale 
non 
può 
dunque 
che 
auspicarsi 
uno 
strenuo 
rafforzamento 
da 
parte 
del 
legislatore, 
purtroppo 
sovente 
ignavo in punto di 
massimizzazione 
della 
trasparenza 
amministrativa. 


sentano il 
primo tentativo formale 
di 
definire 
le 
responsabilità, capacità 
e 
prospettive 
dell’educazione 
americana nel periodo iniziale della storia repubblicana statunitense. 


(45) Cfr. fAllACI, La rabbia e l’orgoglio, Milano, 2001, 78. 
(46) 
Cfr. 
DonInI, 
regolamentare 
il 
lobbying 
per 
rafforzare 
la 
trasparenza, 
in 
Federalismi.it, 
2024, 
29, 1-32 e 
GIAvAzzI, MonGIllo, PETRIllo, Lobbying e 
traffico di 
influenze 
illecite: regolamentazione 
amministrativa e tutela penale, Torino, 2019. 
(47) Cons. Giust. Amm. Reg. sic., sez. giur., ord. 15 maggio 2023, n. 332. 
(48) Cfr. ABBATE, L’amichettismo, Milano, 2023, 5. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


L’erasmus italiano. una nuova opportunità 
di formazione per gli studenti universitari 


Paolo Sciascia* 


Sommario: 
1. 
Premessa 
-2. 
Dal 
Programma 
Erasmus 
all’Erasmus 
plus 
-3. 
L’Erasmus 
plus 
nell’istruzione 
superiore 
-4. 
La 
mobilità 
degli 
studenti 
dell’istruzione 
superiore 
-5. 
L’Erasmus 
italiano: 
un’altra 
opportunità 
di 
mobilità 
e 
di 
formazione 
-6. 
il 
decreto 
del 
ministro 
dell’università 
e 
della 
ricerca 
n. 
548 
del 
28 
marzo 
2024 
-7. 
Esito 
della 
prima 
esperienza 
-8. 
il 
decreto 
del 
ministro 
dell’università 
e 
della 
ricerca 
n. 
397 
del 
16 
maggio 
2025. 


1. Premessa. 
la 
legge 
di 
bilancio per il 
2024 (art. 1, commi 
312, 313, 314 della 
legge 
30 
dicembre 
2023 
n. 
213 
recante 
“Bilancio 
di 
previsione 
dello 
Stato 
per 
l’anno 
finanziario 
2024 
e 
bilancio 
pluriennale 
per 
il 
triennio 
2024-2026”) 
ha 
istituito 
nello stato di 
previsione 
del 
Ministero dell’università 
e 
della 
ricerca 
un nuovo 
fondo 
denominato 
“Fondo 
per 
l’Erasmus 
italiano”, 
deputato 
al 
finanziamento 
di 
borse 
di 
studio per gli 
studenti 
che 
desiderino effettuare 
una 
parte 
del 
percorso 
di studi in una università diversa da quella di iscrizione. 


Il 
programma 
di 
mobilità 
degli 
studenti 
tra 
atenei 
italiani 
era 
già 
stato introdotto 
con il 
decreto 6 giugno 2023, n. 96 “regolamento concernente 
modifiche 
al 
regolamento recante 
norme 
concernenti 
l’autonomia didattica degli 
atenei, approvato con decreto ministeriale 
22 ottobre 
2004, n. 270, del 
ministro 
dell’istruzione, dell’università e 
della ricerca”, che 
ha 
inserito, all’art. 5 
del 
decreto ministeriale 
22 ottobre 
2004 n. 270, un nuovo comma 
5-bis, che 
contempla 
la 
possibilità 
dei 
regolamenti 
didattici 
di 
ateneo di 
disciplinare 
le 
modalità 
di 
acquisizione 
di 
parte 
dei 
crediti 
formativi 
universitari 
presso 
atenei 
italiani 
diversi 
da 
quello nel 
quale 
è 
iscritto lo studente, sulla 
base 
di 
convenzioni 
di 
mobilità 
stipulate 
tra 
le 
istituzioni 
interessate. 
Il 
citato 
decreto 
non 
prevedeva 
tuttavia 
un 
supporto 
economico 
per 
gli 
studenti 
in 
mobilità, 
inserito 
con la legge di bilancio per il 2024. 

Questo breve 
saggio illustra 
il 
percorso compiuto dagli 
uffici 
del 
Ministero 
dell’università 
e 
della 
ricerca 
e 
dal 
sistema 
universitario per disciplinare 
il 
funzionamento 
del 
fondo 
e 
intende 
tracciare 
un 
bilancio 
della 
sua 
prima 
applicazione, 
anche 
allo 
scopo 
di 
individuare 
le 
possibili 
strategie 
per 
valorizzare 
la nuova opportunità di formazione. 

Appare 
utile 
avviare 
l’analisi 
con un richiamo alle 
principali 
caratteristiche 
del 
Programma 
Erasmus 
e 
alla 
sua 
evoluzione, interrogandosi 
sulla 
pos


(*) Dirigente del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. 


RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


sibile 
applicazione 
di 
alcune 
soluzioni 
adottate 
in 
ambito 
Erasmus 
alla 
mobilità 
tra atenei italiani. 

2. Dal Programma Erasmus al programma Erasmus plus. 
Come 
è 
noto il 
Programma 
Erasmus 
(acronimo di 
European community 
action 
Scheme 
for 
the 
mobility 
of 
University 
Students, 
denominazione 
che 
rende 
omaggio a 
Erasmo da 
Rotterdam, il 
grande 
umanista 
olandese 
che 
500 
anni 
fa 
viaggiò 
in 
tutta 
Europa 
per 
comprenderne 
le 
differenti 
culture) 
è 
un’iniziativa 
dell’Unione 
europea 
nata 
nel 
1987 
con 
l’obiettivo 
di 
promuovere 
la 
mobilità 
e 
la 
cooperazione 
internazionale 
tra 
le 
università 
europee 
e 
favorire 
l’integrazione 
e 
l’apprendimento 
interculturale. 
si 
tratta 
del 
più 
noto 
e 
longevo 
dei 
programmi 
finanziati 
dall’UE 
nell’ambito della 
mobilità 
tra 
Paesi 
comunitari. 
la 
mobilità 
in 
tema 
di 
istruzione 
e 
formazione 
è 
d’altra 
parte 
un 
aspetto 
essenziale 
della 
libera 
circolazione 
delle 
persone, uno dei 
principali 
obiettivi 
dell’azione 
dell’Unione 
europea 
nel 
campo 
dell’istruzione 
e 
della 
formazione. 


Il 
Programma 
Erasmus 
-oggi 
Erasmus 
plus 
come 
si 
dirà 
a 
breve 
-coinvolge 
33 
Paesi, 
tra 
cui 
i 
27 
stati 
membri 
dell’Unione 
europea 
oltre 
a 
Islanda, 
liechtenstein, 
norvegia, 
Macedonia 
del 
nord, 
serbia 
e 
Turchia. 
I 
Paesi 
terzi 
non 
associati 
al 
Programma 
possono 
prendere 
parte 
ad 
alcune 
azioni, 
secondo 
determinati 
criteri 
o 
condizioni. 
ogni 
anno, 
circa 
800.000 
studenti 
partecipano 
al 
Programma 
e 
oltre 
nove 
milioni 
di 
studenti 
ne 
hanno 
beneficiato 
dal 
suo 
inizio. 


nel 
percepito 
comune 
la 
parola 
Erasmus 
viene 
associata 
allo 
scambio 
culturale 
ed educativo all’estero durante 
il 
periodo universitario. Tuttavia, nel 
corso degli 
anni, il 
Programma 
si 
è 
progressivamente 
sviluppato, sia 
con riferimento 
alla 
tipologia 
di 
opportunità 
offerte, 
sia 
con 
riferimento 
all’ambito 
dei 
soggetti 
destinatari 
degli 
interventi, 
assumendo 
la 
denominazione 
Erasmus 
plus 
e 
trasformandosi 
in un programma 
di 
più ampi 
obiettivi 
che 
promuove 
la 
mobilità 
e 
la 
cooperazione 
nel 
campo 
dell’istruzione 
scolastica 
e 
superiore, 
della 
formazione 
professionale, dell’educazione 
degli 
adulti, degli 
operatori 
attivi nel settore del sostegno ai giovani e dello sport. 

Il Programma Erasmus plus è oggi costituito da tre “azioni chiave” (1): 


Azione 
chiave 
1: 
mobilità 
individuale 
ai 
fini 
dell’apprendimento. 
Intende 
incoraggiare 
la 
mobilità 
degli 
studenti, 
del 
personale 
educativo, 
degli 
animatori 
giovanili, dei 
giovani 
e 
degli 
adulti. I finanziamenti 
sono rivolti 
alle 
organizzazioni, 
che 
possono 
prevedere 
di 
inviare 
studenti 
e 
personale 
in 
altri 
Paesi 
partecipanti 
o accogliere 
studenti 
e 
personale 
provenienti 
da 
altri 
Paesi. Possono 
anche organizzare attività didattiche, formative e di volontariato. 

(1) 
Tutte 
le 
informazioni 
aggiornate 
sullo 
sviluppo 
del 
Programma 
Erasmus 
Plus 
sono 
consultabili 
sul 
sito 
www.erasmusplus.it 
gestito 
dall’Istituto 
nazionale 
di 
documentazione, 
innovazione 
e 
ricerca 
educativa (InDIRE). 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


Azione 
chiave 
2: 
innovazione 
e 
buone 
pratiche. 
l’obiettivo 
principale 
dell’azione 
è 
lo sviluppo e 
l’implementazione 
di 
pratiche 
innovative 
e 
sperimentali 
nel 
settore 
dell’istruzione 
superiore, 
nell’ottica 
di 
un 
accrescimento 
delle capacità delle organizzazioni di collaborare a livello transnazionale. 

Azione 
chiave 
3: 
sostegno alla riforma delle 
politiche. 
Punta 
ad accrescere 
la 
partecipazione 
dei 
giovani 
alla 
vita 
democratica, specie 
nell’ambito 
di 
dibattiti 
con i 
responsabili 
politici, nonché 
a 
sviluppare 
le 
conoscenze 
nel 
campo dell’istruzione, della formazione e della gioventù. 

Il 
Programma 
Erasmus 
plus 
è 
finanziato tramite 
risorse 
allocate 
annualmente 
attraverso il 
bilancio dell’Unione. Per il 
periodo 2021-2027 il 
budget 
complessivo di 
Erasmus 
plus 
è 
stato fissato a 
circa 
28,4 miliardi 
di 
euro registrando 
un aumento quasi 
doppio rispetto al 
Programma 
2014-2020, a 
dimostrazione 
dell’importanza 
crescente 
della 
mobilità 
e 
della 
cooperazione 
nell’istruzione 
e 
nella 
formazione 
a 
livello europeo. I finanziamenti 
possono 
essere 
integrati 
da 
contributi 
nazionali 
o regionali, a 
seconda 
delle 
politiche 
e 
delle 
priorità 
di 
ciascun 
Paese 
partecipante, 
o 
anche 
da 
risorse 
delle 
istituzioni 
educative e delle organizzazioni coinvolte. 

Il 
Programma 
è 
gestito 
dalla 
Commissione 
europea, 
DG 
EAC 
(Education 
and 
Culture) 
con 
l’assistenza 
delle 
Agenzie 
nazionali 
dei 
Paesi 
partecipanti. 
In 
Italia 
le 
Agenzie 
competenti 
sono: 
l’Istituto 
nazionale 
di 
documentazione, 
innovazione 
e 
ricerca 
educativa 
(InDIRE) 
che 
si 
occupa 
della 
gestione 
e 
dell’attuazione 
delle 
attività 
di 
Erasmus 
plus 
in 
Italia 
relative 
all’istruzione, 
supportando 
le 
istituzioni 
educative, 
le 
organizzazioni 
e 
i 
partecipanti 
nel 
processo 
di 
candidatura 
e 
nella 
realizzazione 
dei 
progetti; 
l’Istituto 
nazionale 
per 
l’analisi 
delle 
politiche 
pubbliche 
(InAPP) 
per 
il 
settore 
della 
formazione 
professionale 
e 
l’Agenzia 
italiana 
per 
la 
gioventù 
per 
il 
settore 
giovanile. 


3. L’Erasmus plus nell’istruzione superiore. 
volendo 
analizzare 
Erasmus 
plus 
da 
punto 
di 
vista 
trasversale 
e 
circoscritto 
al 
settore 
dell’istruzione 
superiore, 
le 
azioni 
sono 
principalmente 
volte 
ad 
attivare 
cooperazioni 
internazionali 
e 
percorsi 
di 
alta 
formazione 
accademica, 
oltre, 
ovviamente, 
a 
sostenere 
la 
mobilità 
degli 
studenti, 
dei 
neolaureati 
e 
del 
personale 
docente 
e 
amministrativo, 
aspetto 
di 
cui 
si 
parlerà 
diffusamente 
più 
avanti. 


Per 
quanto 
riguarda 
le 
azioni 
riconducibili 
al 
capitolo 
della 
cooperazione 
internazionale, 
Erasmus 
plus 
sostiene 
le 
organizzazioni 
pubbliche 
e 
private 
con 
sede 
in 
uno 
dei 
Paesi 
partecipanti 
al 
Programma 
o 
in 
un 
Paese 
partner, 
nella 
creazione 
di 
“Partenariati 
per 
la 
cooperazione” 
la 
cui 
durata 
può 
andare 
dai 
12 
ai 
36 
mesi. 
I 
partenariati 
possono 
chiedere 
il 
finanziamento 
di 
progetti 
di 
cooperazione 
internazionale 
su 
temi 
individuati 
come 
prioritari 
a 
livello 
europeo 
e 
nazionale 
(2), 
che 
abbiano 
un 
impatto 
diretto 



RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


sul 
settore 
dell’istruzione 
superiore 
e 
sui 
suoi 
destinatari 
(studenti, 
docenti, 
ricercatori, 
staff 
accademico). 


nell’ambito 
dei 
partenariati 
per 
la 
cooperazione 
assumono 
particolare 
rilievo 
i 
partenariati 
tra 
le 
Università 
europee 
(EUn 
-European 
Universities 
Network) 
che 
rappresentano 
l’iniziativa 
chiave 
per 
il 
raggiungimento 
dello 
spazio 
europeo 
dell’istruzione 
superiore, 
una 
forma 
di 
cooperazione 
strategica 
tra 
gli 
istituti 
di 
istruzione 
superiore, 
le 
organizzazioni 
studentesche, 
le 
autorità 
governative 
e 
la 
Commissione 
europea, che 
ha 
come 
scopo principale 
quello 
di 
assicurare 
la 
massima 
comparabilità, compatibilità 
e 
coerenza 
tra 
i 
sistemi 
di 
educazione 
degli 
stati 
membri, per garantire 
la 
mobilità 
e 
reciproca 
riconoscibilità 
tra 
i 
percorsi 
formativi 
e 
costruire 
sistemi 
di 
istruzione 
e 
formazione 
più 
resilienti 
e 
inclusivi. 
I 
partenariati 
definiscono 
una 
strategia 
a 
lungo 
termine 
per raggiungere 
alti 
livelli 
di 
qualità 
nell’istruzione, nella 
ricerca 
e 
nell’innovazione, 
grazie 
a 
programmi 
di 
insegnamento in almeno due 
lingue 
straniere. 
Gli 
studenti 
possono 
scegliere 
i 
corsi 
più 
adatti 
ai 
loro 
percorsi 
formativi 
presso 
i 
diversi 
istituti 
partner delle 
alleanze, fino al 
conseguimento del 
titolo finale. 


Altro 
aspetto 
della 
cooperazione 
internazionale, 
nel 
quale 
la 
cooperazione 
accademica 
istituzionale 
è 
combinata 
con la 
mobilità 
individuale, sono i 
corsi 
di 
eccellenza 
organizzati 
da 
consorzi 
di 
università, 
costituiti 
da 
almeno 
tre 
Paesi 
europei, che 
rilasciano un titolo finale 
riconosciuto in tutti 
i 
Paesi 
che 
partecipano alla 
rete 
(Erasmus 
mundus). l’obiettivo è 
di 
incoraggiare 
lo sviluppo 
di 
programmi 
di 
studio transnazionali 
e 
integrati, capaci 
di 
attrarre 
studenti 
qualificati 
da 
ogni 
parte 
del 
mondo per rafforzare 
la 
capacità 
attrattiva 
e 
l’eccellenza dell’istruzione superiore europea. 

Infine, 
rimanendo 
al 
campo 
della 
cooperazione 
internazionale, 
merita 
un 
accenno 
il 
progetto 
di 
cooperazione 
transnazionale 
tra 
gli 
istituti 
di 
istruzione 
superiore 
che 
la 
Commissione 
europea 
sta 
portando 
avanti 
per 
la 
creazione 
di 
nuovo 
titolo 
di 
studio 
universalmente 
riconosciuto, 
rilasciato 
dopo 
aver 
conseguito 
i 
titoli 
di 
laurea, 
master 
o 
dottorato, 
erogati 
a 
livello 
nazionale. 
Questo 
progetto 
è 
sviluppato 
partendo 
dai 
risultati 
di 
sei 
progetti 
pilota 
Erasmus 
plus 
che 
hanno 
coinvolto 
più 
di 
140 
istituti 
di 
istruzione 
superiore 
di 
tutti 
i 
Paesi 
dell’UE 
e 
si 
avvale 
del 
sostegno 
che 
Erasmus 
plus 
garantisce 
ai 
progetti 
di 
percorsi 
di 
laurea 
europei 
che 
consentono 
ai 
Paesi 
dell’UE, 
insieme 
alle 
agenzie 
di 
accreditamento 
e 
garanzia 
della 
qualità, 
alle 
università, 
agli 
studenti, 
alle 
parti 
economiche 
e 
sociali, 
di 
orientarsi 
nel 
percorso 
verso 
una 
laurea 
europea 
(3). 


Per 
quanto 
riguarda 
invece 
la 
ricerca 
e 
la 
formazione 
accademica 
occorre 
far riferimento ai 
progetti 
Jean monnet 
per l’istruzione 
superiore, indirizzati 


(2) nella 
programmazione 
Erasmus 
plus 
2021-2027, la 
progettazione 
internazionale 
è 
indirizzata 
ai 
macro-temi: 
inclusione 
e 
diversità; 
trasformazione 
digitale; 
sostenibilità 
ambientale; 
cittadinanza 
attiva. 
(3) 
https://education.ec.europa.eu/news/commission-presents-a-blueprint-for-a-european-degree. 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


a 
sostenere 
l’insegnamento e 
la 
ricerca 
nel 
campo degli 
studi 
sull’Unione 
europea 
in 
tutto 
il 
mondo, 
con 
particolare 
riferimento 
al 
processo 
di 
integrazione, 
ai 
valori 
europei 
e 
all’elaborazione 
delle 
politiche 
a 
livello nazionale 
e 
europeo. 
scopo dei 
progetti 
Jean monet 
è 
favorire 
il 
dialogo tra 
mondo accademico, 
ricercatori 
e 
responsabili 
politici, 
agendo 
anche 
come 
veicolo 
della 
diplomazia pubblica nei confronti di Paesi partner. 

4. La mobilità degli studenti dell’istruzione superiore. 
Passando 
al 
capitolo 
della 
mobilità 
degli 
studenti, 
attraverso 
le 
diverse 
iniziative 
che 
compongono il 
Programma 
Erasmus 
plus, gli 
studenti 
ed i 
neolaureati 
possono, per un verso, migliorare 
le 
proprie 
possibilità 
di 
apprendimento 
e 
rafforzare 
il 
grado 
di 
occupabilità 
e 
il 
miglioramento 
delle 
prospettive 
di 
carriera; 
per altro verso migliorare 
la 
consapevolezza 
del 
progetto europeo 
e 
dei 
valori 
dell’UE 
oltre 
a 
migliorare 
le 
competenze 
linguistiche, sviluppare 
abilità 
interculturali 
e 
creare 
una 
rete 
di 
contatti 
internazionali 
(4). 
È 
interessato 
dai 
programmi 
di 
mobilità 
anche 
il 
personale 
docente 
e 
lo 
staff 
amministrativo 
il 
quale 
ha 
la 
possibilità 
di 
migliorare 
e 
potenziare 
i 
metodi 
di 
apprendimento 
e insegnamento e di diversificare e aggiornare le proprie competenze (5). 

Il 
Programma 
Erasmus 
plus 
offre 
la 
possibilità 
agli 
iscritti 
ad un istituto 
di 
istruzione 
superiore 
(6) di 
svolgere, fin dal 
primo anno di 
studi, un periodo 
di 
mobilità 
da 
tre 
a 
dodici 
mesi, 
partecipando 
alle 
lezioni 
e 
sostenendo 
gli 
esami 
in 
un 
altro 
istituto 
di 
un 
Paese 
che 
partecipa 
al 
Programma 
oppure 
anche 
effettuando 
ricerche 
per 
la 
tesi 
conclusiva 
per 
il 
conseguimento 
del 
titolo 
finale 
del corso frequentato (7). 

(4) 
secondo 
i 
dati 
che 
emergono 
dai 
questionari 
compilati 
da 
44.527 
studenti 
Erasmus 
nell’ambito 
della 
Call 
2022, 
alla 
motivazione 
per 
svolgere 
un’esperienza 
di 
studio 
hanno 
contribuito, 
per 
oltre 
il 
75,5% dei 
casi, la 
voglia 
di 
apprendere 
o migliorare 
l’uso di 
lingue 
straniere 
e 
sperimentare 
differenti 
curricula. Il 
54,7% degli 
studenti 
ha 
ritenuto importante 
l’approccio con diverse 
pratiche 
di 
apprendimento 
e 
insegnamento. Riguardo alla 
crescita 
personale, una 
forte 
spinta 
a 
partecipare 
al 
Programma 
è 
stata 
data 
dal 
desiderio di 
vivere 
all’estero, incontrare 
nuove 
persone 
e 
sviluppare 
soft 
skills. In merito 
all’occupabilità, 
oltre 
il 
50% 
degli 
studenti 
considera 
Erasmus 
un 
elemento 
importante 
per 
il 
curriculum, 
utile 
per 
accrescere 
le 
opportunità 
di 
lavoro 
all’estero, 
mentre 
il 
34,3% 
pensa 
che 
sia 
un’esperienza 
utile 
ad aumentare le possibilità occupazionali in Italia. 
(5) nel 
2024 il 
budget 
per la 
mobilità 
universitaria 
ha 
raggiunto 131,2 milioni 
di 
euro, con un incremento 
del 
15,4% rispetto all’anno precedente. Tra 
istituti 
di 
istruzione 
superiore 
e 
consorzi, hanno 
ricevuto il 
finanziamento 298 istituzioni, a 
fronte 
delle 
286 del 
2023. le 
istituzioni 
finanziate 
hanno la 
facoltà di gestire in piena autonomia le 36.082 borse di mobilità assegnate, di cui 31.838 per studenti. 
(6) 
nel 
nostro 
ordinamento 
si 
definisce 
istituto 
di 
istruzione 
superiore 
qualsiasi 
tipo 
di 
istituto 
che, a 
prescindere 
dalle 
diverse 
possibili 
denominazioni, offre 
istruzione 
o formazione 
professionale 
di 
terzo livello o rilascia lauree o altre qualifiche riconosciute di terzo livello. 
(7) la 
mobilità 
per motivi 
di 
studio è 
basata 
sul 
sistema 
di 
riconoscimento e 
di 
trasferimento dei 
crediti 
(ECTs), uno strumento dello spazio Europeo dell’Istruzione 
superiore 
(EhEA) che 
rende 
più 
trasparenti 
gli 
studi 
ed i 
percorsi 
formativi, contribuendo in tal 
modo a 
migliorare 
la 
qualità 
dell’istruzione 
superiore. secondo le 
definizioni 
europee 
fornite 
nella 
ECTs 
Users’ 
Guide 
del 
2015 (ECTs 
Key 
Features, 
2015): 
“i 
crediti 
ECTS 
esprimono 
il 
carico 
di 
lavoro 
basato 
sui 
risultati 
di 
apprendimento 
de

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


la 
mobilità 
si 
svolge 
presso istituti 
di 
istruzione 
superiore 
che 
hanno ricevuto 
l’accreditamento 
rilasciato 
dalla 
Commissione 
europea 
(Erasmus 
Charter 
for 
Higher 
Education -EChE 
o Carta 
Erasmus 
per l’Istruzione 
superiore 
-CEIs) 
previa 
sottoscrizione 
di 
accordi 
inter 
istituzionali 
(8) 
tra 
gli 
istituti 
stessi 
e 
un contratto di 
apprendimento (o learning agreement) tra 
lo studente, 
l’organizzazione 
di 
invio e 
quella 
di 
accoglienza, che 
garantisce 
una 
pianificazione 
efficace 
del 
periodo di 
studio per far sì 
che 
lo studente 
interessato ottenga 
il riconoscimento delle attività svolte all’estero (9). 

Accanto alla 
mobilità 
per motivi 
di 
studio è 
anche 
contemplata, fin dal 
primo anno di 
corso, la 
mobilità 
per svolgere 
un periodo di 
tirocinio presso 
un istituto di 
istruzione 
superiore 
o presso una 
serie 
di 
organizzazioni 
pubbliche 
o 
private 
(organizzazioni 
di 
un 
Paese 
aderente 
al 
Programma 
attive 
nel 
mercato 
del 
lavoro 
o 
nei 
settori 
dell’istruzione, 
della 
formazione, 
della 
gioventù, 
della 
ricerca 
e 
innovazione; 
organizzazioni 
senza 
scopo di 
lucro, associazioni, 
onG; 
organismi 
per l’orientamento professionale). la 
mobilità 
per 
tirocinio è 
offerta 
anche 
ai 
“neolaureati” 
che 
dovranno rispondere 
al 
bando di 
ateneo 
durante 
l’ultimo 
anno 
di 
studio 
del 
percorso 
formativo 
intrapreso 
e 
prima 
di 
aver conseguito il 
titolo finale 
e 
dovranno svolgere 
il 
tirocinio entro 
un anno dalla 
laurea 
(10). Il 
tirocinio può assumere 
anche 
la 
forma 
di 
attività 


finiti. i risultati 
di 
apprendimento descrivono quanto gli 
studenti 
dovrebbero conoscere, comprendere 
ed essere 
in grado di 
fare 
dopo aver 
concluso con successo un processo di 
apprendimento. il 
carico di 
lavoro indica il 
tempo di 
cui 
gli 
studenti 
avranno prevedibilmente 
bisogno per 
svolgere 
tutte 
le 
attività 
di 
apprendimento (lezioni, seminari, esercitazioni, progetti, studio individuale, preparazione 
e 
svolgimento 
degli 
esami, ecc.) richieste 
per 
il 
raggiungimento dei 
risultati 
di 
apprendimento attesi”. Tutti 
i 
crediti 
acquisiti 
durante 
un periodo di 
studio all’estero devono essere 
trasferiti 
senza 
indugi 
e 
utilizzati 
per 
il 
conseguimento 
del 
titolo 
di 
studio 
perseguito, 
senza 
richiedere 
allo 
studente 
alcuna 
ulteriore 
attività 


o verifica di apprendimento. 
(8) Gli 
accordi 
interistituzionali 
regolano la 
mobilità 
degli 
studenti 
e 
del 
personale 
docente/amministrativo. 
Gli 
istituti 
firmatari 
si 
impegnano a 
rispettare 
i 
requisiti 
di 
qualità 
previsti 
dalla 
carta 
Erasmus 
per 
tutti 
gli 
aspetti 
organizzativi 
e 
gestionali 
della 
mobilità 
e 
concordano 
una 
serie 
di 
misure 
quantitative 
e 
qualitative 
per 
garantire 
la 
qualità 
e 
l’impatto 
positivo 
della 
mobilità. 
nel 
caso 
di 
mobilità 
con istituti 
dei 
Paesi 
partner che 
non sono titolari 
di 
accreditamento della 
Commissione 
europea, il 
rispetto 
dei 
requisiti 
di 
qualità 
è 
garantito mediante 
le 
prescrizioni 
dell’accordo interistituzionale 
con il 
quale gli istituti firmatari si impegnano a rispettare una serie di misure quantitative e qualitative. 
(9) Già 
nella 
programmazione 
Erasmus 
plus 
2014/2020 era 
vigente 
la 
possibilità 
di 
svolgere 
periodi 
di 
mobilità 
da 
e 
verso 
Paesi 
extra 
europei, 
attraverso 
l’azione 
denominata 
international 
Credit 
mobility 
-ICM. 
Questa 
azione 
ha 
consentito 
accordi 
interuniversitari 
tra 
atenei 
di 
Paesi 
aderenti 
al 
Programma 
e 
Paesi 
partner 
permettendo 
la 
mobilità 
a 
studenti, 
docenti 
e 
staff. 
nell’ambito 
del 
settennio 
2021-27, l’azione 
identificata 
come 
KA171 si 
riattiva 
a 
partire 
dal 
2022 sotto la 
denominazione 
di 
Mobilità 
internazionale 
e 
coinvolge 
Paesi 
terzi 
non 
associati 
al 
programma. 
secondo 
l’ultimo 
report, 
la 
mobilità 
extra 
europea 
ha 
visto l’assegnazione 
di 
4.916 borse 
di 
studio, con particolare 
attenzione 
ai 
Paesi 
dei Balcani occidentali e dell’Africa sub-sahariana. 
(10) la 
mobilità 
Erasmus 
plus 
riguarda 
anche 
il 
personale 
docente 
degli 
istituti 
di 
istruzione 
superiore 
per acquisire 
nuove 
abilità 
professionali 
e 
aggiornare 
le 
proprie 
competenze 
e 
confrontarsi 
con 
nuovi 
metodi 
di 
docenza. la 
durata 
di 
questa 
mobilità 
è 
da 
2 a 
5 giorni, a 
seconda 
dell’azione 
cui 
si 
prende 
parte, fino a 
un massimo di 
2 mesi. È 
coinvolto anche 
il 
personale 
proveniente 
da 
impresa, invitato 
per attività 
di 
docenza 
o formazione 
presso un istituto di 
istruzione 
superiore 
per trasferire 
compe

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


di 
assistente 
didattico, nel 
caso di 
futuri 
insegnanti, e 
di 
assistente 
alla 
ricerca 
per studenti e dottorandi. 

Il 
periodo di 
mobilità 
per studio o tirocinio può riguardare 
anche 
i 
dottorandi: 
in questo caso la 
durata 
della 
mobilità 
ai 
fini 
di 
studio o di 
tirocinio va 
dai cinque ai trenta giorni o da due a dodici mesi. 

Tra 
le 
novità 
introdotte 
nel 
Programma 
Erasmus 
plus 
2021-2027 c’è 
la 
possibilità, 
per 
qualsiasi 
studente 
in 
mobilità 
per 
studio 
o 
per 
tirocinio, 
di 
combinare 
un breve 
periodo di 
mobilità 
fisica 
(da 
cinque 
a 
trenta 
giorni) con attività 
di 
apprendimento e 
cooperazione 
online. si 
tratta 
dei 
cosiddetti 
Blended 
intensive 
Programme 
(BIP) 
a 
cui 
possono 
partecipare 
gruppi 
congiunti 
di 
studenti, 
di 
personale 
docente 
e 
di 
staff 
amministrativo 
provenienti 
da 
diversi 
Paesi 
e 
chiamati 
a 
collaborare 
su 
specifiche 
attività 
in 
modo 
collettivo 
e 
simultaneo. 
Dal 
punto 
di 
vista 
dei 
contenuti 
i 
Blended 
intensive 
Programme 
sono programmi 
già 
esistenti, che 
vengono rinnovati 
nelle 
modalità 
di 
erogazione, 
o programmi 
del 
tutto nuovi, pensati 
per lo sviluppo di 
curricula 
transnazionali 
e 
transdisciplinari 
o 
per 
lo 
sviluppo 
di 
metodi 
di 
docenza 
e 
di 
apprendimento innovativi, compresa la collaborazione online (11). 

non bisogna 
poi 
dimenticare 
gli 
investimenti 
che 
il 
Programma 
Erasmus 
plus 
sta 
compiendo 
su 
iniziative 
dirette 
a 
coinvolgere 
sempre 
di 
più 
le 
persone 
con 
disabilità 
o 
con 
difficoltà 
socioeconomiche 
e/o 
culturali, 
come 
ad 
esempio 
il riconoscimento dei costi reali nelle mobilità di apprendimento. 


5. L’Erasmus italiano: un’altra opportunità di mobilità e di formazione. 
Come 
già 
accennato in premessa, con la 
legge 
di 
bilancio 2024 (art. 1, 
commi 
312, 313, 314 della 
legge 
30 dicembre 
2023 n. 213 recante 
“Bilancio 
di 
previsione 
dello Stato per 
l’anno finanziario 2024 e 
bilancio pluriennale 
per 
il 
triennio 
2024-2026 
”) 
è 
stato 
introdotto 
nel 
sistema 
universitario 
un 
nuovo canale 
di 
finanziamento destinato ad erogare 
borse 
di 
studio agli 
studenti 
che desiderino partecipare ad una mobilità tra università italiane. 


la 
norma 
di 
legge 
primaria 
prevede 
l’istituzione, 
nello 
stato 
di 
previsione 
del 
Ministero 
dell’università 
e 
della 
ricerca, 
del 
“Fondo 
per 
l’Erasmus 
italiano”: 
una 
dotazione 
di 
3 milioni 
di 
euro per l’anno 2024 e 
di 
7 milioni 
di 
euro per l’anno 2025, finalizzata 
“all’erogazione 
di 
borse 
di 
studio in favore 
degli 
studenti 
iscritti 
ai 
corsi 
di 
laurea 
o 
di 
laurea 
magistrale, 
che 
partecipano 
a programmi 
di 
mobilità sulla base 
di 
convenzioni 
stipulate 
ai 
sensi 
dell’articolo 
5, 
comma 
5-bis, 
del 
regolamento 
di 
cui 
al 
decreto 
del 
ministro 
dell’istruzione, 
dell’università 
e 
della 
ricerca 
22 
ottobre 
2004, 
n. 
270 
”. 
la 
norma 


tenze 
e 
know-how 
al 
personale 
e 
agli 
studenti, migliorare 
la 
cooperazione 
con gli 
istituti 
di 
istruzione 
superiore e contribuire allo sviluppo di programmi e metodi innovativi. 


(11) negli 
ultimi 
anni 
i 
Blended intensive 
Programme 
sono cresciuti 
del 
15%. oggi 
si 
contano 
442 programmi. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


prevede 
poi 
l’esenzione 
fiscale 
per detti 
contributi 
e 
dispone 
il 
rinvio ad un 
successivo 
decreto 
del 
Ministero 
dell’università 
e 
della 
ricerca, 
adottato 
previa 
intesa 
in sede 
di 
Conferenza 
permanente 
per i 
rapporti 
tra 
lo stato, le 
Regioni 
e 
le 
Province 
autonome 
di 
Trento 
e 
di 
Bolzano, 
per 
tutta 
la 
disciplina 
attuativa, 
in 
particolare 
la 
definizione 
dell’ammontare 
degli 
importi 
erogabili 
per 
la 
singola 
borsa 
di 
studio, 
le 
modalità 
per 
la 
richiesta 
del 
beneficio 
e 
per 
l’erogazione 
delle 
borse, 
il 
valore 
dell’indicatore 
della 
situazione 
economica 
equivalente 
(IsEE) per l’accesso alla borsa di studio. 

le 
disposizioni 
sono 
presenti 
nel 
testo 
originario 
del 
disegno 
di 
legge 
di 
bilancio: 
la 
relazione 
illustrativa 
stabilisce 
che 
la 
finalità 
di 
tali 
disposizioni 
è 
quella 
di 
supportare 
la 
costruzione 
di 
percorsi 
di 
studio 
innovativi 
per 
gli 
studenti 
universitari, 
nonché 
di 
incentivare 
le 
università 
statali 
e 
non 
statali, 
legalmente 
riconosciute, 
a 
rafforzare 
l’integrazione 
e 
la 
complementarità 
tra 
le 
rispettive 
offerte 
formative. 
Grazie 
al 
progetto 
dell’Erasmus 
italiano 
-rileva 
ancora 
la 
relazione 
illustrativa 
-gli 
studenti 
universitari 
potranno 
liberamente 
associare 
più 
opzioni 
formative 
proposte 
nell’ateneo 
di 
iscrizione 
oppure 
disponibili 
in 
ogni 
altro 
ateneo 
italiano, 
secondo 
un 
piano 
di 
studi 
comprendente 
anche 
attività 
formative 
diverse 
da 
quelle 
previste 
dal 
regolamento 
didattico, 
purché 
coerenti 
con 
il 
corso 
di 
studi 
dell’anno 
accademico 
di 
immatricolazione. 


Come 
detto 
la 
legge 
di 
bilancio 
prevede 
un 
nuovo 
finanziamento 
a 
favore 
di 
un 
programma 
di 
mobilità 
che, 
a 
ben 
vedere, 
era 
stato 
già 
introdotto 
con 
il 
decreto 
6 
giugno 
2023, 
n. 
96 
“regolamento 
concernente 
modifiche 
al 
regolamento 
recante 
norme 
concernenti 
l’autonomia 
didattica 
degli 
atenei, 
approvato 
con 
decreto 
ministeriale 
22 
ottobre 
2004, 
n. 
270, 
del 
ministro 
dell’istruzione, 
dell’università 
e 
della 
ricerca”, 
che 
ha 
inserito, 
all’art. 
5 
del 
D.M. 
270/2004, 
un 
nuovo 
comma 
5-bis 
secondo 
cui 
i 
regolamenti 
didattici 
di 
ateneo 
disciplinano 
le 
modalità 
di 
acquisizione 
di 
parte 
dei 
crediti 
formativi 
universitari 
presso 
atenei 
italiani 
diversi 
da 
quello 
nel 
quale 
è 
iscritto 
lo 
studente, 
sulla 
base 
di 
convenzioni 
di 
mobilità 
stipulate 
tra 
le 
istituzioni 
interessate. 


Peraltro 
la 
disposizione 
del 
citato 
comma 
5-bis 
del 
decreto 
22 
ottobre 
2004, 


n. 
270 
va 
anche 
inquadrata 
nell’ambito 
delle 
altre 
novità 
introdotte 
dal 
decreto 
ministeriale 
n. 
96 
del 
6 
giugno 
2023 
con 
il 
quale, 
in 
attuazione 
della 
Riforma 
1.5 
“Riforma 
delle 
classi 
di 
laurea” 
della 
Missione 
4, 
Componente 
1, 
del 
PnRR, 
è 
stata 
introdotta 
la 
possibilità 
per 
gli 
studenti 
di 
presentare 
dei 
piani 
di 
studio 
individuali 
con 
insegnamenti 
anche 
diversi 
da 
quelli 
presenti 
nel 
regolamento 
didattico 
del 
corso 
di 
studi, 
purché 
coerenti 
con 
l’ordinamento 
didattico 
del 
corso 
stesso. 
si 
tratta 
di 
interventi 
tutti 
indirizzati 
a 
rafforzare 
l’interdisciplinarità 
e 
la 
flessibilità 
dell’offerta 
formativa 
universitaria 
per 
fronteggiare 
il 
disallineamento 
emergente 
tra 
offerta 
formativa 
e 
domanda 
occupazionale 
(12). 
(12) Il 
decreto n. 96 è 
a 
sua 
volta 
norma 
secondaria 
attuativa 
dell’articolo 17, comma 
95, della 
legge 
15 maggio 1997, n. 127, recante 
“misure 
urgenti 
per 
lo snellimento dell’attività amministrativa e 

lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


6. il 
decreto del 
ministro dell’università e 
della ricerca n. 548 del 
28 marzo 
2024. 
Il 
28 marzo 2024 il 
Ministero dell’università 
e 
della 
ricerca 
ha 
adottato il 
primo decreto attuativo (n. 548) della 
disposizione 
contenuta 
nella 
legge 
di 
bilancio con il 
quale 
sono state 
effettuate 
alcune 
scelte 
decisive 
per l’applicazione 
dell’Erasmus italiano. 

volendo 
avviare 
l’analisi 
dagli 
aspetti 
che 
la 
legge 
espressamente 
indica 
come 
contenuti 
obbligatori 
del 
decreto, 
vanno 
citati: 
a) 
l’ammontare 
degli 
importi 
erogabili 
per 
singola 
borsa 
di 
studio; 
b) 
le 
modalità 
per 
la 
richiesta 
del 
beneficio 
e 
per 
l’erogazione 
delle 
borse 
di 
studio; 
c) 
il 
valore 
dell’indicatore 
della 
situazione 
economica 
equivalente 
(IsEE) 
per 
l’accesso 
alla 
borsa 
di 
studio. 


Quanto al 
primo punto, il 
decreto n. 548 prevede 
solo il 
valore 
massimo 
della 
borsa 
erogabile 
per singola 
mensilità, pari 
a 
1000 euro, e 
rimette 
la 
fissazione 
dell’importo preciso alle 
università 
firmatarie 
delle 
convenzioni 
che 
dovranno assumere 
come 
criterio guida 
la 
stima 
forfettaria 
delle 
spese 
che 
lo 
studente 
è 
chiamato a 
sostenere 
per partecipare 
al 
programma 
di 
mobilità. si 
tratta 
di 
una 
scelta 
che 
il 
Ministero ha 
preferito rispetto all’indicazione 
di 
un 
importo fisso e 
che 
mira 
a 
creare 
una 
proporzionalità 
tra 
l’importo della 
borsa 
di 
studio 
e 
gli 
oneri 
a 
carico 
dello 
studente: 
a 
seconda 
della 
distanza 
tra 
le 
università 
firmatarie 
della 
convenzione 
la 
mobilità 
può infatti 
comportare 
spese 
anche molto differenti a carico dello studente. 

È 
poi 
prevista 
una 
preclusione 
all’assegnazione 
della 
borsa 
di 
studio per 
gli 
studenti 
che 
svolgano il 
periodo di 
mobilità 
in una 
università 
la 
cui 
sede 
didattica 
è 
collocata 
nello 
stesso 
comune 
di 
quella 
di 
provenienza. 
Al 
riguardo 
occorre 
considerare 
che 
non esiste 
nella 
norma 
primaria 
alcuna 
prescrizione 
in 
merito 
alla 
collocazione 
territoriale 
delle 
università 
partecipanti 
al 
programma 
di 
mobilità: 
in altre 
parole, potrebbero sottoscrivere 
un accordo per 
l’integrazione 
e 
la 
complementarità 
tra 
le 
rispettive 
offerte 
formative 
e 
la 
mobilità 
degli 
studenti 
anche 
atenei 
tra 
loro molto vicini, aventi 
sede 
nella 
medesima 
regione 
o anche 
nella 
medesima 
provincia, con conseguenti 
spese 
per la 
mobilità 
circoscritte 
o addirittura 
da 
presumere 
quasi 
inesistenti, laddove 
gli 
atenei abbiano sede nel medesimo comune. 


Peraltro, 
la 
scelta 
legislativa 
di 
ammettere 
la 
mobilità 
anche 
tra 
università 
vicine 
appare 
condivisibile 
considerata 
la 
circostanza 
che 
l’integrazione 
e 
la 


dei 
procedimenti 
di 
decisione 
e 
di 
controllo” 
come 
novellato, con l’aggiunta 
di 
due 
ulteriori 
periodi, da 
parte 
dell’articolo 14, comma 
1, del 
decreto-legge 
6 novembre 
2021, n. 152, convertito con legge 
29 dicembre 
2021, n. 233. Tale 
novella 
ha 
dettato alcuni 
indirizzi 
al 
fine 
della 
determinazione 
dei 
criteri 
generali 
per 
la 
riforma 
degli 
ordinamenti 
degli 
studi 
dei 
corsi 
universitari, 
ponendo 
le 
basi 
per 
il 
rafforzamento della 
interdisciplinarità 
e 
l’inserimento di 
elementi 
di 
maggiore 
flessibilità 
nei 
corsi 
di 
studi. 
la 
novella 
si 
inserisce 
nell’ambito 
della 
realizzazione 
degli 
obiettivi 
del 
Piano 
nazionale 
di 
Ripresa 
e 
Resilienza, in particolare 
in relazione 
alla 
Missione 
4, Componente 
1, Riforma 
1.5 (intitolata 
appunto 
“Riforma delle classi di laurea”). 



RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


complementarità 
tra 
le 
offerte 
formative 
di 
università 
appartenenti 
alla 
medesima 
regione 
potrebbe 
agevolare 
la 
creazione 
di 
professionalità 
specializzate 
per la 
realizzazione 
di 
specifici 
programmi 
di 
sviluppo regionale, supportati 
economicamente dalla regione medesima. 


Quanto alla 
fissazione 
del 
valore 
dell’indicatore 
della 
situazione 
economica 
equivalente 
(IsEE) per l’accesso alla 
borsa 
di 
studio, il 
D.M. n. 548 ha 
recepito il 
valore 
di 
36.000 euro, che 
rappresenta 
la 
soglia 
generalmente 
applicata 
dagli 
organismi 
del 
diritto allo studio per le 
iniziative 
in relazione 
alle 
quali emerge l’opportunità di allargare la platea dei destinatari. 

Quanto 
invece 
alle 
modalità 
di 
richiesta 
del 
beneficio 
e 
di 
erogazione 
delle 
borse 
è 
stata 
definita 
una 
procedura 
in 
due 
fasi: 
l’indizione 
da 
parte 
delle 
università 
di 
procedure 
selettive 
per 
l’individuazione 
degli 
studenti 
idonei 
per 
l’assegnazione 
della 
borsa 
e 
la 
successiva 
comunicazione 
al 
Ministero 
dell’entità 
dei 
fondi 
necessari 
per 
finanziare 
il 
numero 
complessivo 
di 
borse 
di 
studio, 
dato 
dalla 
somma 
del 
valore 
delle 
borse 
di 
studio 
che 
l’università 
intende 
erogare 
per 
ciascun 
corso 
di 
studio 
in 
relazione 
al 
quale 
è 
previsto 
un 
programma 
di 
mobilità. 


se 
le 
procedure 
di 
selezione 
degli 
studenti 
idonei 
sono 
interamente 
rimesse 
alle 
decisioni 
delle 
università 
(il 
decreto non indica 
i 
parametri 
per la 
formazione 
della 
graduatoria 
che 
sono 
fissati 
autonomamente 
dai 
responsabili 
di 
ciascun 
corso 
di 
studio), 
è 
viceversa 
rimessa 
agli 
uffici 
del 
Ministero 
la 
scelta 
sui 
criteri 
di 
riparto 
delle 
risorse, 
qualora 
l’ammontare 
complessivo 
delle 
richieste 
ecceda 
gli 
stanziamenti 
di 
bilancio e 
risulti 
necessaria 
una 
riduzione 
proporzionale di ciascuna richiesta. 

Il 
decreto 
prevede 
che 
il 
riparto 
avverrà 
“tenendo 
conto 
dell’incidenza 
del 
numero 
delle 
richieste 
dell’ateneo 
rispetto 
al 
numero 
complessivo 
delle 
richieste degli atenei”. 

Al riguardo sono stati ipotizzati due criteri diversi: 


a) 
assegnazione 
a 
ciascuna 
università 
di 
una 
percentuale 
del 
fondo pari 
all’incidenza 
percentuale 
del 
numero delle 
proprie 
richieste 
sul 
numero totale 
delle 
richieste 
medesime. Ipotizzando ad esempio un numero complessivo di 
borse 
richieste 
pari 
a 
500 e 
tre 
università 
che 
richiedano, la 
prima 
200 borse, 
la 
seconda 
250 borse 
e 
la 
terza 
50 borse, applicando questo criterio alla 
prima 
università 
verrebbe 
assegnato 
il 
40% 
del 
fondo 
(200 
borse 
pari 
al 
40% 
di 
500); 
alla seconda il 50%; alla terza il 10%; 
b) 
assegnazione 
a 
ciascuna 
università 
della 
quota 
percentuale 
del 
fondo 
capace 
di 
coprire 
la 
totalità 
degli 
importi 
delle 
richieste: 
se 
il 
fondo è 
di 
euro 
3.000.000 e 
le 
richieste 
delle 
università 
sono pari 
a 
euro 3.500.000 allora 
vuol 
dire 
che 
il 
fondo 
copre 
l’85% 
delle 
richieste 
(3.000.000/3.500.000). 
A 
ciascuna 
università 
verrà 
assegnato un importo pari 
all’85% del 
valore 
complessivo 
delle proprie richieste. 
Tuttavia, 
in 
occasione 
della 
prima 
assegnazione 
di 
risorse, 
i 
suddetti 
criteri 
non hanno trovato applicazione 
in quanto l’ammontare 
complessivo delle 
ri



lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


chieste 
è 
stato 
inferiore 
ai 
fondi 
a 
disposizione 
(euro 
1.877.0700 
rispetto 
a 


3.000.000 disponibili). 
fin 
qui 
le 
disposizioni 
che 
si 
riferiscono 
ai 
contenuti 
obbligatori 
del 
decreto. 
Quanto 
invece 
alle 
restanti 
disposizioni, 
va 
segnalata 
la 
precisazione 
sull’ambito di 
applicazione 
del 
nuovo programma 
di 
mobilità 
(art. 2, comma 


1) che 
può riguardare 
tutti 
i 
corsi 
di 
laurea, laurea 
magistrale 
e 
laurea 
a 
ciclo 
unico, erogati 
da 
atenei 
italiani 
statali 
e 
non statali 
legalmente 
riconosciuti, in 
modalità 
convenzionale 
o mista. È 
stato dunque 
escluso che 
il 
programma 
di 
mobilità possa riguardare i corsi erogati interamente a distanza. 
Il 
D.M. 
n. 
548 
ha 
poi 
individuato 
la 
sottoscrizione 
di 
una 
convenzione 
tra 
l’ateneo 
di 
provenienza 
e 
l’ateneo 
di 
destinazione, 
ai 
sensi 
dell’art. 
5, 
comma 
5bis, 
del 
decreto 
n. 
270 
del 
2004, 
come 
primo 
adempimento 
necessario 
per 
accedere 
ai 
finanziamenti 
statali. 
Il 
decreto 
ha 
quindi 
indicato 
i 
contenuti 
obbligatori 
delle 
convenzioni 
che 
gli 
atenei 
sono 
stati 
chiamati 
a 
sottoscrivere, 
vale 
a 
dire: 
a) 
il 
numero 
massimo 
di 
studenti 
che 
ciascun 
ateneo 
è 
disponibile 
ad 
ospitare 
relativamente 
a 
ciascun 
corso 
di 
studio 
per 
il 
quale 
la 
convenzione 
prevede 
un 
programma 
di 
mobilità; 
b) 
i 
corsi 
di 
laurea, 
laurea 
magistrale 
e 
a 
ciclo 
unico 
coinvolti 
nel 
programma 
di 
mobilità; 
c) 
la 
durata 
del 
programma 
di 
mobilità 
(da 
3 
a 
6 
mesi) 
(13); 
d) 
l’importo 
della 
borsa 
di 
studio; 
e) 
il 
numero 
minimo 
di 
CfU 
relativi 
alle 
attività 
formative 
svolte 
-tra 
le 
quali 
rientra 
anche 
la 
preparazione 
della 
tesi 
di 
laurea 
-riconosciuti 
allo 
studente 
in 
considerazione 
del 
periodo 
di 
mobilità. 


la 
raccolta 
di 
tutte 
le 
convenzioni 
ha 
consentito al 
Ministero di 
individuare 
il 
grado di 
adesione 
delle 
università 
al 
nuovo programma 
di 
mobilità 
e, 
conseguentemente, 
di 
programmare 
le 
conseguenti 
decisioni 
sulla 
gestione 
delle risorse economiche. 

7. Esito della prima esperienza. 
le 
università 
hanno 
comunicato 
al 
MUR 
i 
dati 
sul 
numero 
di 
studenti 
idonei 
all’assegnazione 
della 
borsa 
di 
studio e 
il 
conseguente 
ammontare 
dei 
fondi 
necessari 
il 
4 ottobre 
2024. Prima 
di 
questa 
data 
le 
medesime 
università 
erano state 
invitate 
a 
caricare 
sulla 
piattaforma 
predisposta 
da 
Cineca 
le 
convenzioni 
sottoscritte. 


Dai 
dati 
raccolti 
risulta 
che 
44 università 
hanno aderito al 
programma 
di 
mobilità. le 
convenzioni 
registrate 
nella 
piattaforma 
sono complessivamente 
761 di 
cui 
496 riferite 
a 
percorsi 
di 
laurea 
magistrale; 
157 a 
lauree 
triennali 
e 
108 a percorsi di laurea a ciclo unico. 

(13) la 
durata 
del 
programma 
di 
mobilità 
non è 
stabilita 
dalla 
legge 
primaria 
che 
sul 
punto non 
opera 
alcun rinvio obbligatorio alle 
disposizioni 
attuative. Il 
Ministero ha 
ritenuto di 
fissare 
il 
suddetto 
termine 
minimo e 
massimo di 
durata 
del 
programma 
di 
mobilità 
per assicurare 
un riparto di 
risorse 
bilanciato 
tra 
le 
università. Il 
termine 
va 
riferito al 
singolo anno accademico: 
nulla 
osta, quindi, che 
uno 
studente possa svolgere più di un periodo di mobilità durante il corso di studi. 

RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


Rispetto 
al 
dato 
sul 
numero 
di 
programmi 
di 
mobilità 
introdotti 
dalle 
università 
è 
emerso un dato di 
studenti 
assegnatari 
delle 
borse 
di 
studio piuttosto 
disallineato, indice 
del 
fatto che 
molti 
programmi 
di 
mobilità 
non hanno ricevuto 
adesione 
da 
parte 
degli 
studenti. 
Il 
numero 
complessivo 
delle 
borse 
di 
studio per le 
quali 
è 
stato richiesto il 
finanziamento è 
infatti 
pari 
a 
468, un numero 
quindi 
significativamente 
minore 
rispetto 
alle 
761 
convenzioni 
e 
che 
inequivocabilmente 
dimostra 
come 
molti 
bandi 
siano 
andati 
deserti. 
Al 
riguardo 
va 
peraltro 
svolta 
un’ulteriore 
considerazione 
che 
tuttavia 
non 
contraddice 
la 
predetta 
conclusione: 
le 
468 borse 
potrebbero non corrispondere 
al 
numero degli 
studenti 
che 
hanno effettivamente 
partecipato al 
programma 
di 
mobilità: 
tra 
i 
partecipanti 
potrebbero 
infatti 
essere 
compresi 
anche 
studenti 
con un IsEE 
superiore 
a 
36.000 che 
non sono stati 
conteggiati 
tra 
i 
potenziali 
beneficiari 
della 
borsa 
di 
studio. In altri 
termini 
nei 
bandi 
delle 
università 
la 
soglia 
IsEE 
di 
36.000 
euro 
potrebbe 
essere 
stata 
prevista 
come 
preclusione 
alla 
sola 
assegnazione 
della 
borsa 
di 
studio e 
non alla 
partecipazione 
alla 
procedura 
selettiva 
per 
poter 
essere 
compresi 
nel 
programma 
di 
mobilità, 
pur 
non 
potendo usufruire della borsa. 

Come 
già 
detto le 
borse 
sono state 
tutte 
interamente 
finanziate 
dal 
Ministero 
in quanto l’importo complessivo dei 
fondi 
richiesti 
è 
risultato inferiore 
agli stanziamenti di bilancio. 


la 
ripartizione 
sulla 
base 
del 
criterio geografico mostra 
che 
le 
università 
del 
nord 
hanno 
ottenuto 
124 
borse, 
quelle 
del 
Centro 
128 
e 
quelle 
del 
sud 


216. la 
durata 
media 
del 
periodo di 
mobilità 
è 
di 
6 mesi 
e 
l’importo medio 
della borsa di studio è di 600 euro circa. 
Da 
una 
prima 
analisi 
dei 
dati, 
gli 
uffici 
del 
Ministero 
sono 
giunti 
alla 
conclusione 
che 
alcune 
delle 
possibili 
ragioni 
del 
circoscritto 
interesse 
mostrato 
dagli 
studenti 
rispetto 
al 
programma 
di 
mobilità 
potrebbero 
essere 
riconducibili 
a 
scelte 
organizzative 
che, 
per 
un 
verso, 
non 
hanno 
agevolato 
la 
conoscenza 
di 
questa 
nuova 
opportunità 
di 
formazione 
(l’entrata 
in 
vigore 
del 
D.M. 
n. 
548 
e 
la 
successione 
degli 
adempimenti 
della 
procedura 
amministrativa 
di 
erogazione 
dei 
fondi 
hanno 
determinato 
la 
pubblicazione 
dei 
bandi 
durante 
la 
pausa 
estiva), 
per 
altro 
verso 
potrebbero 
aver 
disincentivato 
l’adesione 
di 
studenti 
effettivamente 
motivati 
(la 
regola 
secondo 
la 
quale 
può 
presentare 
istanza 
per 
ottenere 
la 
borsa 
di 
studio 
lo 
studente 
regolarmente 
iscritto 
presso 
l’università 
di 
provenienza 
che 
dichiari 
un 
valore 
IsEE 
non 
superiore 
ad 
€ 
36.000,00 
per 
l’anno 
precedente). 


Partendo 
da 
queste 
considerazioni 
è 
stata 
avviata 
una 
nuova 
istruttoria 
per la 
modifica 
del 
D.M. n. 548 con l’obiettivo di 
incoraggiare 
ed agevolare 
l’adesione degli studenti all’Erasmus italiano. 

8. il 
decreto del 
ministro dell’università e 
della ricerca n. 397 del 
16 maggio 
2025. 
le 
principali 
novità 
introdotte 
dal 
D.M. n. 397 del 
16 maggio 2025 che, 



lEGIslAzIonE 
ED 
ATTUAlITà 


con 
riferimento 
alle 
procedure 
dell’anno 
2025, 
sostituisce 
il 
decreto 
n. 
548 
del 
28 marzo 2024, sono di seguito sintetizzate. 


È 
stata 
rivista 
l’impostazione, che 
caratterizzava 
il 
D.M. n. 548, secondo 
la 
quale 
un atto del 
Ministero indica 
i 
contenuti 
delle 
convenzioni 
che 
le 
università 
sottoscrivono per definire 
il 
programma 
di 
mobilità. Trattandosi 
di 
un 
atto 
di 
natura 
negoziale 
sottoscritto 
tra 
atenei, 
la 
definizione 
del 
contenuto 
delle 
convenzioni 
è 
rimesso all’autonomia 
delle 
parti, seppure 
il 
decreto, in 
coerenza 
con gli 
obiettivi 
del 
D.M. n. 96 del 
6 giugno 2023, si 
preoccupa 
di 
ricordare 
che 
tali 
convenzioni 
“sono 
finalizzate 
a 
supportare 
la 
costruzione 
di 
percorsi 
di 
studio innovativi 
che 
promuovano l’interdisciplinarietà e 
la flessibilità 
dell’offerta formativa, rafforzando l’integrazione 
e 
la complementarietà 
tra gli atenei”. 

Il 
D.M. n. 397 prevede 
che 
le 
università 
comunichino al 
Ministero alcuni 
dati 
che 
sono necessari 
per mantenere 
un monitoraggio costante 
e 
aggiornato 
su come 
viene 
recepito e 
sviluppato il 
programma 
di 
mobilità 
nel 
sistema 
universitario. 
Questo 
monitoraggio 
viene 
realizzato 
anche 
attraverso 
una 
profonda 
revisione 
della 
piattaforma 
informatica 
che 
lo 
scorso 
anno 
ha 
consentito 
di 
acquisire 
le 
convenzioni 
e 
gli 
altri 
elementi 
necessari 
per 
l’erogazione 
dei 
fondi. 
senza 
voler entrare 
in aspetti 
prettamente 
tecnici, la 
nuova 
piattaforma, organizzata 
in 
modo 
tale 
da 
dare 
evidenza 
delle 
specificità 
di 
applicazione 
del 
programma 
di 
mobilità 
al 
singolo corso di 
studi, raccoglierà 
i 
dati 
relativi 
a 
tutti 
i 
corsi 
di 
laurea, laurea 
magistrale 
e 
a 
ciclo unico coinvolti 
nel 
programma 
di 
mobilità e, per ciascun corso di studio, indicherà: 


1. 
la 
durata 
in termini 
di 
mesi 
e 
giorni 
del 
programma 
di 
mobilità 
(da 
un 
minimo di 3 ad un massimo di 6 mesi); 
2. 
l’importo della borsa di studio; 
3. 
il 
numero minimo di 
CfU 
relativi 
alle 
attività 
formative 
svolte 
-tra 
le 
quali 
rientra 
anche 
la 
preparazione 
della 
tesi 
di 
laurea 
-che 
saranno riconosciuti 
allo studente in considerazione del periodo di mobilità; 
4. 
il 
numero di 
studenti 
selezionati 
per ciascuna 
edizione 
del 
programma 
di mobilità; 
5. 
il numero di studenti che hanno concluso il programma di mobilità; 
6. 
l’importo 
dei 
fondi 
non 
utilizzati 
dall’ateneo 
per 
ciascuna 
edizione 
del 
programma. 
In 
questo 
modo, 
attraverso 
l’aggiornamento 
costante 
del 
sistema 
nel 
corso 
delle 
varie 
fasi 
della 
procedura, il 
Ministero potrà 
costantemente 
acquisire 
un 
quadro completo degli 
atenei 
che 
hanno aderito al 
programma 
e, per ciascun 
ateneo, 
l’elenco 
dei 
corsi 
di 
studio 
interessati 
e 
dei 
relativi 
studenti 
partecipanti. 


È 
stata 
anche 
eliminata 
la 
comunicazione 
del 
numero massimo studenti 
che 
l’ateneo 
può 
ospitare 
poiché 
si 
tratta 
di 
un 
aspetto 
che, 
seppur 
potrà 
essere 
indicato nelle convenzioni, non è utile ai fini della procedura in parola. 


RAssEGnA 
AvvoCATURA 
DEllo 
sTATo -n. 2/2024 


Passando invece 
alle 
misure 
che 
sono state 
individuate 
per incoraggiare 
la 
partecipazione 
degli 
studenti 
al 
programma 
di 
mobilità, anche 
in considerazione 
delle 
maggiori 
risorse 
a 
disposizione 
per l’anno 2025, il 
Ministero è 
intervenuto su due aspetti. 


Per 
un 
verso 
è 
stato 
previsto 
un 
innalzamento 
del 
valore 
dell’indicatore 
della 
situazione 
economica 
equivalente 
(IsEE) 
per 
l’accesso 
alla 
borsa 
di 
studio 
a 
€ 
50.000,00. 
Come 
già 
accennato 
è 
infatti 
probabile 
che 
nell’ambito 
degli 
studenti 
titolari 
di 
un 
IsEE 
superiore 
a 
36.000 
euro 
ve 
ne 
sia 
una 
significativa 
percentuale 
che 
è 
interessata 
al 
programma 
di 
mobilità 
e 
che 
tuttavia 
non ha 
presentato 
domanda, 
considerata 
la 
circostanza 
che 
l’università 
non 
avrebbe 
potuto 
comprenderli 
nella 
graduatoria 
dei 
potenziali 
assegnatari 
della 
borsa. 
l’innalzamento 
della 
soglia 
IsEE 
dovrebbe 
dunque 
consentire 
l’ampliamento 
della 
platea 
dei 
possibili 
beneficiari 
e, 
conseguentemente, 
aumentare 
il 
numero 
di 
borse. 
Il 
confronto 
del 
numero 
di 
partecipazioni 
tra 
la 
prima 
e 
le 
successive 
edizioni 
del 
programma 
di 
mobilità 
potrà 
dimostrare 
quale 
sia 
l’effettiva 
incidenza 
dell’innalzamento 
della 
soglia 
IsEE 
sulla 
partecipazione 
a 
questa 
iniziativa. 


Altre 
novità 
per agevolare 
la 
partecipazione 
degli 
studenti 
sono state 
introdotte 
nella 
procedura 
attraverso 
la 
quale 
le 
amministrazioni 
universitarie 
selezionano 
gli 
studenti 
e 
ricevono 
dal 
Ministero 
le 
risorse 
per 
il 
finanziamento 
delle 
borse 
di 
studio. 
Considerato 
che 
la 
durata 
massima 
del 
programma 
di 
mobilità 
è 
stata 
fissata 
in 6 mesi, la 
procedura 
di 
manifestazione 
di 
interesse 
e 
la 
successiva 
fase 
di 
erogazione 
delle 
risorse 
-tramite 
la 
modifica 
dell’art. 
4, 
comma 
1 
e 
dell’art. 
6, 
comma 
1 
-è 
stata 
articolata 
in 
un 
doppio 
ciclo 
di 
bandi, 
così 
da 
garantire 
la 
copertura 
dell’intero 
anno 
accademico. 
le 
università 
potranno effettuare 
una 
prima 
selezione 
nel 
mese 
di 
giugno, per gli 
studenti 
che 
svolgeranno il 
programma 
di 
mobilità 
nel 
primo semestre 
dell’anno accademico 
successivo 
e 
una 
seconda 
selezione 
nel 
mese 
di 
ottobre, 
diretta 
agli 
studenti che partiranno invece nel secondo semestre. 

Ulteriori 
azioni 
di 
valorizzazione 
potranno essere 
svolte 
sul 
piano della 
comunicazione 
e 
promozione, come 
avviene 
per il 
Programma 
Erasmus 
plus, 
eventualmente 
anche 
mutuando alcune 
delle 
scelte 
effettuate 
in quella 
sede. 
Appare 
utile 
in particolare 
che 
siano raccontate 
e 
approfondite 
le 
esperienze 
di 
mobilità 
degli 
studenti 
e 
sia 
dato risalto ai 
risultati 
degli 
scambi 
attraverso 
la 
testimonianza 
diretta 
dei 
partecipanti. Questo è 
un aspetto importante 
del 
lavoro che 
il 
Ministero e 
le 
università 
dovranno attuare 
attraverso vari 
canali, 
dal 
sito istituzionale, alla 
stampa, ai 
social, agli 
eventi 
in presenza, per la 
promozione 
e 
la 
valorizzazione 
del 
programma, con l’idea 
di 
dare 
ispirazione 
a 
nuovi 
partecipanti 
e 
di 
condividere 
output 
utili 
anche 
nelle 
sessioni 
di 
orientamento 
che gli atenei svolgono con gli studenti delle scuole superiori. 


RECENSIONI
ROBERTO 
GAROFOLI, BERNARDO 
GIORGIO 
MATTARELLA 
(*), Governare 
le 
fragilità. Istituzioni, sicurezza nazionale, competitività. 


(Arnoldo 
MondAdori 
EditorE, 2025, pp. 372) 


- note sul libro Gli 
Autori 
suggeriscono quello che 
si 
dovrebbe 
fare 
per migliorare 
il 
sistema, 
senza 
occuparsi 
della 
Costituzione. 
Il 
metodo 
(non 
comune) 
è 
assai 
corretto: 
obbliga 
alla 
verifica 
paziente 
dei 
problemi 
e 
degli 
ostacoli; 
evita 
l’illusione 
semplicistica 
che 
cambiando la 
Carta 
risolviamo i 
nodi 
sollevati 
nel 
quotidiano 
dalle 
organizzazioni, 
che 
sono 
di 
mezzi 
e, 
soprattutto, 
di 
risorse 
umane. La 
dimostrazione 
è 
nel 
corso dello studio, che 
è 
ricognitivo di 
cosa 
si 
può fare 
per Governare 
le 
fragilità; 
ci 
dice 
quanto già 
di 
positivo si 
è 
fatto; 
ma per vero, nella sostanza, è assai critico sui punti cruciali. 


Numerose 
le 
riflessioni; 
ne 
prendo 
alcune, 
accentuando 
quanto 
già 
ritrovo 
nel testo. 

* Negli 
appalti 
pubblici 
è 
fondamentale 
la 
concentrazione 
degli 
acquisti, 
avviata 
ma 
poi 
arrestata 
per scarso impegno politico di 
fronte 
alla 
frammentazione 
delle 
stazioni 
appaltanti. Proprio questa 
mattina 
ho avuto un incontro 
con un piccolo comune 
la 
cui 
stazione 
appaltante 
si 
era 
servita, come 
di 
consueto, 
di 
esponenti 
e 
di 
consulenti 
esterni: 
non è 
semplice 
togliere 
al 
comune 
questa sua prerogativa, di scegliersi i fiduciari. 
* 
Per 
vincere 
l’evasione 
(tax 
gap) 
è 
certamente 
utile 
quanto 
si 
sta 
facendo, 
ma 
i 
punti 
cruciali 
restano: 
-drastica 
riduzione 
dell’uso del 
contante; 
-gli 
indici 
di 
spesa 
come 
presunzione 
per l’accertamento; 
-e, aggiungo, l’elimina(*) 
Roberto Garofoli, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. 


Bernardo Giorgio Mattarella, Professore 
ordinario di 
Diritto amministrativo presso il 
Dipartimento 


di giurisprudenza della Luiss Guido Carli. 



RASSeGNA 
AvvoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -N. 2/2024 


zione 
delle 
leggi 
di 
condono, che 
non raramente 
arrivano a 
proteggere 
da 
accertamenti 
di 
elusioni 
d’imposta 
ormai 
giunti 
a 
conclusione, così 
impedendo 
la 
formazione 
di 
prassi 
che 
avviano alla 
corretta 
certezza 
dei 
comportamenti. 


* 
Ben 
descritto 
è 
lo 
stato 
confuso 
della 
legislazione. 
A 
mio 
avviso 
il 
punto 
focale 
è 
l’assenza 
di 
un procedimento legislativo decisamente 
accentrato. Il 
disegno di 
legge 
deve 
essere 
accentrato in unica 
sede 
governativa, sottoposto 
ad un parere 
di 
organo tecnico (es. Cons. Stato): 
mero parere, ma 
utile 
innanzitutto 
perché 
il 
testo deve 
esistere 
approvato e 
non come 
bozza; 
poi, perché 
va 
capito da 
un soggetto terzo, che 
può aiutare 
anche 
il 
pubblico a 
capire. Il 
Parlamento 
va 
assai 
rafforzato 
nella 
cognizione 
tecnica 
(non 
si 
può 
pretendere 
dal 
parlamentare 
la 
cognizione 
di 
ogni 
punto delle 
leggi); 
nella 
stesura 
finale 
ugualmente 
sottoposto a 
parere 
tecnico. Attualmente 
l’iniziativa 
del 
disegno 
di 
legge 
è 
talmente 
decentrata 
che 
non raramente 
cade 
nelle 
mani 
dei 
destinatari 
principali 
delle 
leggi, che 
finiscono con l’avere 
influenza 
sproporzionata 
(ciascuno, pubblico o privato, si 
fa 
la 
sua 
legge). Ancora: 
noi 
soffriamo di 
deleghe 
che 
spesso 
sono 
un 
vuoto 
rinvio 
alla 
decisione 
politica 
del 
Governo, 
anziché 
del 
Parlamento. 
Soffriamo 
anche 
di 
una 
normativa 
secondaria 
fuori 
controllo, finanche circolari delle agenzie pubbliche. 
* Interessante 
la 
ricognizione 
sullo stato delle 
università, ed il 
richiamo 
alle 
telematiche, 
sfuggite 
alle 
regole 
generali 
per 
insufficienza 
della 
legge 
che 
le 
ha 
previste, ora 
fonte 
di 
grave 
distorsione, ben spiegata. Condivido i 
problemi 
della ricerca; nelle materie giuridiche è grave il vuoto che si è creato. 
* Non serve 
moltiplicare 
le 
leggi 
di 
riforma 
della 
giustizia 
se 
non risolviamo 
problemi 
di 
base. Il 
numero davvero eccessivo degli 
avvocati 
abilitati 
al 
contenzioso (non è 
l’italiano litigioso, è 
il 
difensore 
che 
cerca 
il 
litigio); 
lo 
sforzo va 
concentrato sul 
tribunale, il 
maggiore 
impegnato per la 
qualità 
del 
processo; 
la 
Cass., come 
già 
sta 
avvenendo, solo garante 
dell’unità 
dell’ordinamento. 
In un sistema 
che 
funzioni 
la 
mediazione 
si 
ridimensiona, resta 
affidata 
alle 
parti: 
gli 
avvocati 
hanno il 
dovere 
di 
tentarla; 
e 
resta 
assorbita 
dalla 
conciliazione; 
così 
come 
oggi 
la 
vediamo, 
serve 
soltanto 
ad 
accrescere 
gli 
anni 
del contenzioso (e, forse, ad aggiungere un nuovo giudice, con costi inutili). 
La 
lettura 
è 
quanto mai 
opportuna 
per chi 
voglia 
avere 
un quadro d’insieme, 
pensato 
da 
chi 
ha 
esperienza 
profonda 
delle 
questioni. 
Anzi, 
fa 
riflettere 
sulle 
carenze 
della 
ricerca, 
che 
resta 
affidata 
alla 
buona 
volontà 
di 
singoli; 
alla 
disponibilità 
del 
loro tempo. Dobbiamo far rivivere 
centri 
istituzionali 
di 
ricerca 
di 
base 
ai 
quali 
sia 
affidato il 
lavoro continuo di 
informazione 
ed elaborazione 
(come 
era, ad es. la 
Scuola 
universitaria 
di 
Pavia 
per il 
tributario). La 
conoscenza 
degli 
addetti 
ai 
lavori 
si 
trasferisce 
ai 
cultori 
delle 
materie, 
per 
poi 
diffondersi 
verso il 
pubblico tramite 
la 
pubblicistica 
e 
la 
stampa, per divenire 
anche 
slogan, ma 
pensati, non intuiti; 
capaci 
di 
influenze 
positive. In questo 



ReCeNSIoNI 
279 


modo lo studio teorico si 
fa 
concreto. Non mi 
piace 
sentirmi 
dire: 
-studi 
la 
teoria 
che 
non 
serve, 
quello 
che 
serve 
è 
la 
situazione 
contingente 
che 
mi 
trovo 
ad affrontare, per la quale non trovo il caposaldo nella tua teoria. 


Gustavo Visentini 
(*) 


(*) 
Già 
Professore 
ordinario 
di 
Diritto 
commerciale 
presso 
l’università 
Luiss 
Guido 
Carli; 
Direttore 
scientifico della Fondazione Bruno visentini. 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Alla 
carissima 
Amica 
Diana 
Ranucci, per la 
quale, da 
domani, inizia 
una 
nuova, importante 
fase 
di 
vita, vanno -da 
parte 
mia 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello 
Stato 
e 
del 
Personale 
dell’Avvocatura 
-i 
più 
affettuosi 
auguri 
e 
ringraziamenti 
per avere 
unito sempre, nei 
trentacinque 
anni 
di 
servizio, al 
grande, 
proficuo 
impegno 
professionale 
l’orgoglio 
dell’appartenenza 
al 
nostro 
Istituto. 


Un forte abbraccio, 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, martedì 22 aprile 2025 08:33. 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


In occasione 
del 
Suo collocamento a 
riposo, dopo quarantatré 
anni 
di 
significativa 
presenza, all’Avv. Antonio Livio Tarentini, Avvocato Distrettuale 
di 
Lecce, vanno i 
saluti 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Come 
Avvocato Distrettuale 
si 
è 
sempre 
impegnato per tenere 
alto il 
livello 
professionale 
e 
organizzativo 
delle 
Sedi 
in 
cui 
ha 
svolto 
tale 
incarico 
con 
passione, 
dedizione 
ed 
equilibrio, 
che 
hanno 
caratterizzato 
anche 
la 
Sua 
attività 
come Componente del Comitato Consultivo. 


Al 
caro Antonio, Collega 
e 
Amico che 
ha 
sempre 
svolto le 
Sue 
funzioni 
onorando 
l’Istituto 
con 
la 
Sua 
grande 
professionalità, 
ogni 
augurio 
più 
sincero. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, sabato 26 aprile 2025 08:01. 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


All’Avv. Federico Vigoriti, che 
oggi, dopo quarantatré 
anni, lascia 
il 
servizio, 
vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più cari 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, sabato 10 maggio 2025 08:00. 



Finito di stampare nel mese di giugno 2025 
Tipografia Gemmagraf 2007 S.r.l. 
Via 
Tor De’ Schiavi 227 - 00172 Roma