ANNO LXXVI - N. 2 APRILE - GIUGNO 2024 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Stefano Varone. CONDIRETTORE: Gianni De Bellis per la cura del “Contenzioso tributario. Osservatorio”. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Carlo Maria Pisana -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Stefano Maria Cerillo -Pierfrancesco La Spina Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Antonino Ripepi -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Daniela Canzoneri, Enrico De Giovanni, Bruno Dettori, Erica Farinelli, Michele Gerardo, Alberto Giovannini, Emanuele Manzo, Edoardo Morena, Giovanni Palatiello, Gabriella Palmieri Sandulli, Valentina Pilloni, Sabrina Pugliese, Fabio Ratto Trabucco, Paolo Sciascia, Francesca Subrani, Gustavo Visentini. E-mail Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it gianni.debellis@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it stefano.varone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 i n d i c e -s o m m a r i o A ricordo dell’Avv. Bruno Bausano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Memorandum d’intesa tra l’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana e l’Avvocatura Generale dello Stato del Regno di Spagna, Roma 8 aprile 2025 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Michele Gerardo, Gli Avvocati dello Stato nella scienza giuridica italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 5 CONTENZIOSO NAZIONALE Giovanni Palatiello, Le Sezioni Unite sulla messa in mora della P.A. per ritardo nei pagamenti (Cass., Sez. Un., sent. 19 maggio 2025 n. 13249). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 51 Enrico De Giovanni, Daniela Canzoneri, L’avvocato dello Stato. Qualche chiarimento dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione del 27 marzo 2025 n. 8164 sulla mancata sottoscrizione degli atti defensionali ›› 80 Wally ferrante, Incandidabilità sopravvenuta (i.e. mandati elettivi assunti nelle more della definizione del procedimento) degli amministratori dichiarati responsabili ex artt. 143, comma 11 e 248, comma 5 TUEL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 89 CONTENZIOSO TRIBUTARIO - OSSERVATORIO Erica farinelli, Sulla parziale illegittimità costituzionale del divieto di “nova” in appello nel processo tributario ex art. 58 D.Lgs. 546/1992 (C. Cost., sent. 27 marzo 2025 n. 36) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 97 Erica farinelli, Giudicato penale assolutorio nel processo tributario. La rimessione alle Sezioni Unite di talune rilevanti questioni concernenti l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 (Cass., Sez. V, ord. 4 marzo 2025 n. 5714) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 126 Alberto Giovannini, Il rapporto fra procedura di definizione agevolata (c.d. “rottamazione quater” ) e i giudizi pendenti, ai sensi dell’art. 1, comma 236, legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Cass., Sez. V, ord. 5 marzo 2025 n. 5830; Cass., Sez. III, ord. 30 marzo 2025 n. 8383) . . . . . . . . . . . ›› 141 Valentina Pilloni, L’inutilizzabilità dei documenti non prodotti nel procedimento tributario: disamina delle disposizioni di cui agli artt. 32 e 33 del d.P.R. 600/1973 (Cass., Sez. V, ord. 5 aprile 2025 n. 9001) . . . . . . . . ›› 157 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Enrico De Giovanni, Procedimento amministrativo di rimborso delle spese legali previsto e disciplinato dall’art. 32 della L. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge Reale”). Riguardo alla consulenza dell’Avvocatura dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 171 Bruno Dettori, Dipinti murali. Modalità di applicazione della tutela prevista dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, D.Lgs. 42/2004. . . pag. 177 Emanuele Manzo, Emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni: riguardo all’applicazione del c.d. “tetto retributivo” (art. 23-ter, comma 2, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201; art. 1, comma 471, L. 27 dicembre 2013, n. 147 e s.m.i.) . . . . ›› 181 Emanuele Manzo, In merito ai presupposti giuridici delle azioni che Agenzia delle entrate -Riscossione (ADER) intende intraprendere nei confronti di quegli Enti locali che negano il diritto ai rimborsi dei costi relativi ai permessi fruiti dai dipendenti di ADER per le cariche pubbliche ricoperte ex artt. 79 e 80, D.lgs. n. 267/2000 e art. 20, Legge regionale siciliana 23 dicembre 2000, n. 30. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 184 Edoardo Morena, L’istituto della certificazione del credito ex art. 9, co. 3 bis, D.L. n. 185 del 2008, conv. in L. 2/2009: quesito sul dies a quo di decorrenza degli interessi moratori di cui al D.lgs. 231/2002. . . . . . . . . ›› 197 francesca Subrani, Sentenza Corte costituzionale n. 185/2021. Declaratoria di incostituzionalità della sanzione amministrativa di cui all’art. 7, co. 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 conv. in l. n. 189/2012. Quesiti sui limiti di retroattività . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 203 Sabrina Pugliese, Avvocature c.d. interne delle Amministrazioni Pubbliche e del Parastato. Interpretazione della disciplina di cui all’art. 1 co. 208 Legge Finanziaria 2006: quesito sulla liquidabilità degli oneri riflessi -contributivi e previdenziali -a carico della parte soccombente di un giudizio ›› 206 Giovanni Palatiello, Rateizzazione del debito per RTP (ossia i dazi doganali da versare all’Unione europea) concessa dall’Agente della riscossione. Rilievi della Corte dei Conti UE e della Commissione sul criterio adottato dall’Italia in sede di ripartizione / imputazione delle somme a valere su tributi, interessi e spese amministrative . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 219 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà fabio Ratto Trabucco, L’auspicabile rafforzamento dei poteri e delle funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi quale passo ulteriore verso una maggiore trasparenza e partecipazione civica ›› 237 Paolo Sciascia, L’Erasmus italiano. Una nuova opportunità di formazione per gli studenti universitari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 263 RECENSIONI Roberto Garofoli, Bernardo Giorgio Mattarella, Governare le fragilità. Istituzioni, sicurezza nazionale, competitività, Mondadori, 2025. Note sul libro di Gustavo Visentini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 277 Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Diana Ranucci . . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Antonio Livio Tarentini . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, Avv. Federico Vigoriti. . . . . . . . . . A ricordo dell’Avv. Bruno Bausano Con profondo dispiacere comunico che nella giornata di ieri è venuto a mancare l’avv. Bruno Bausano, Avvocato generale dello Stato onorario (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, mercoledì 4 giugno 2025 14:11. TEMIISTITUZIONALI Avvocatura Generaledello Stato MEMORANDUM D’INTESA TRA L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO DELLA REPUBBLICA ITALIANA E L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO DEL REGNO DI SPAGNA RIUNITI L’Avvocatura Generale dello Stato della Repubblica Italiana, rappresentata dal suo titolare, Avv. Gabriella Palmieri Sandulli e L’Avvocatura Generale dello Stato del Regno di Spagna, rappresentata dal suo titolare, Avv. David Vilas Álvarez (d’ora in poi e congiuntamente i FIRMATARI) CONSIDERANDO Che approfondire i processi di integrazione tra i paesi FIRMATARI di questo Memorandum mediante strumenti efficienti ed efficaci contribuisce alla realizzazione e costruzione di un’unione tra le nazioni; Che gli Stati dispongono di istituzioni incaricate della rappresentanza e della difesa legale dello Stato dinanzi a tribunali giudiziari, amministrativi o arbitrali nazionali, esteri e internazionali; Che entrambi i FIRMATARI concordano sulla necessità di unire gli sforzi per creare spazi di cooperazione, coordinazione, analisi, dibattiti, scambio di esperienze e ricerca di sinergie in temi di interesse comune. PERTANTO Essendo stati debitamente autorizzati in virtù della loro nomina, RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 PROPONGONO PRIMO PUNTO - OBIETTIVI 1. Gli obiettivi di questo Memorandum d’Intesa si ispirano ai principi di uguaglianza, reciprocità e mutuo beneficio, nella misura e in conformità con le competenze di ciascun FIRMATARIO, secondo la legislazione interna del rispettivo Stato. Gli obiettivi di questo Memorandum d’Intesa sono i seguenti: a) Rafforzare i legami di cooperazione e solidarietà reciproca tra i FIRMATARI nell’esercizio delle loro funzioni; b) Promuovere meccanismi nazionali e internazionali per migliorare la consulenza legale, la rappresentanza giudiziaria ed extragiudiziale degli Stati sovrani nelle controversie civili; c) Condividere esperienze e contribuire al miglioramento della legge, della dottrina giuridica e della giurisprudenza che riconoscono i diritti e le prerogative degli Stati sovrani a livello nazionale, internazionale e straniero; d) Facilitare e incoraggiare iniziative per migliorare l’esperienza professionale dei membri e dei funzionari dei FIRMATARI; e) Adottare sforzi per la creazione di meccanismi di coordinamento e cooperazione tra i servizi giuridici per raggiungere gli obiettivi stabiliti in questo Memorandum d’Intesa a livello multilaterale; f) Promuovere la cooperazione reciproca tra i FIRMATARI in qualsiasi altra area di interesse e competenza comune. SECONDO PUNTO - MECCANISMI DI COOPERAZIONE 2. I FIRMATARI manifestano la loro intenzione di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di questo Memorandum d’Intesa attraverso i seguenti meccanismi di cooperazione: a) Cooperazione reciproca tra i FIRMATARI, senza pregiudizio per i meccanismi formali di cooperazione internazionale in conformità con i trattati vigenti e con l’ordinamento giuridico di ciascuno Stato; b) Diffusione di informazioni e promozione di dibattiti su temi di interesse comune attraverso relazioni, pubblicazioni, conferenze e altre iniziative simili; a) Creazione di gruppi di lavoro, programmi di visite tecniche e tutti gli altri metodi destinati a realizzare lo scambio personale di esperienze, inclusa la messa a disposizione dell’altro FIRMATARIO di strutture e ambienti per la realizzazione di eventi e lavori comuni collegati all’attuazione delle disposizioni di questo Memorandum d’Intesa. TERZO PUNTO - PUNTI DI CONTATTO 3. Ogni FIRMATARIO designerà un organo e un professionista di tale organo per la comunicazione tra i FIRMATARI e l’attuazione degli obiettivi e delle attività previste in questo Memorandum d’Intesa. TEMI ISTITUZIONALI 3.1 Il Punto di Contatto, il nome, il telefono e l’email dei professionisti, inclusi eventuali cambiamenti, saranno comunicati dai FIRMATARI per iscritto all’istituzione entro 5 (cinque) giorni lavorativi dalla data delle modifiche avvenute internamente. 3.2 Ai fini dell’attuazione del Memorandum d’Intesa, i FIRMATARI, attraverso i loro Punti di Contatto, daranno priorità a mezzi di comunicazione agili ed efficaci, come email, telefono, videoconferenza o qualsiasi altro mezzo idoneo a tale scopo. 3.3 I Punti di Contatto cercheranno di riunirsi ogni sei mesi per valutare il progresso e l’evoluzione nell’attuazione del presente Memorandum. QUARTO PUNTO - FINANZIAMENTO E ASPETTI OPERATIVI 4. La stipula del presente Memorandum d’Intesa non implica il trasferimento di risorse finanziarie tra i FIRMATARI. Il finanziamento delle attività previste in questo Memorandum d’Intesa sarà effettuato in base alla disponibilità di bilancio dei FIRMATARI e in conformità con le loro norme e leggi, nonché con i trattati e gli accordi internazionali firmati dai rispettivi paesi. Perché le attività di cooperazione possano generare obblighi onerosi di qualsiasi tipo, sarà necessaria la preventiva adozione di accordi giuridicamente vincolanti e di misure di bilancio conformemente all’ordinamento giuridico di ciascun FIRMATARIO. Tali attività saranno svolte utilizzando risorse umane, informatiche, mobiliari e materiali fornite da ciascuna delle organizzazioni firmatarie. In ogni caso, le spese sostenute dai FIRMATARI a seguito del presente memorandum saranno condizionate dall’esistenza di una disponibilità di bilancio annuale ordinaria, nel rispetto della legislazione vigente. 4.1 Le spese di viaggio e soggiorno dei rappresentanti dei FIRMATARI saranno a carico della rispettiva istituzione, salvo diverso accordo tra i FIRMATARI. 4.2 Il personale designato da ciascun FIRMATARIO continuerà a dipendere dal- l’istituzione di appartenenza, in modo che non si creino relazioni di lavoro con l’altro FIRMATARIO, il quale non sarà in nessun caso considerato come datore di lavoro sostituto. QUINTO PUNTO - DISPOSIZIONI FINALI 5. Il presente Memorandum d’Intesa non è giuridicamente vincolante né è soggetto al Diritto internazionale. 5.1 Il presente Memorandum d’Intesa entrerà in vigore dalla data di firma da parte dei FIRMATARI e terminerà dopo 24 (ventiquattro) mesi, rinnovabile previo accordo espresso dei FIRMATARI, soggetto alla stessa procedura per la sua adozione per una o più proroghe che, singolarmente o congiuntamente, non superino la durata inizialmente prevista. 5.2 Il presente Memorandum d’Intesa potrà essere modificato su richiesta di uno dei FIRMATARI con l’approvazione di entrambi, mediante la stipula di un RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Annesso in cui sarà indicata la data a partire dalla quale le modifiche previste entreranno in vigore. 5.3 Ciascun FIRMATARIO potrà chiedere in qualsiasi momento la cessazione dell’applicazione del presente Memorandum d’Intesa mediante notifica scritta all’altro FIRMATARIO con un preavviso minimo di 2 (due) mesi, senza necessità di alcuna motivazione. Tale opzione non darà luogo a indennizzi di alcun tipo. 5.4 Qualsiasi dubbio o problema riguardante l’applicazione del presente Memorandum d’Intesa sarà risolto in modo amichevole dai FIRMATARI sulla base delle regole della buona fede. Il presente Memorandum d’Intesa è sottoscritto in 2 (due) copie originali nelle lingue italiano e spagnolo, tutte considerate valide. Le istituzioni conserveranno una copia per ciascuna lingua. Firmato nella città di Roma, il giorno 08 del mese di aprile dell’anno 2025. Gabriella Palmieri Sandulli David Vilas Álvarez Avvocato Generale dello Stato Abogado General del Estado Della Repubblica Italiana del Reino de España TEMI ISTITUZIONALI Gli Avvocati dello Stato nella scienza giuridica italiana Michele Gerardo* SommARIo: 1. Introduzione -2. Contributo del primo Avvocato Generale Erariale, Giuseppe mantellini, allo sviluppo del diritto amministrativo -3. oronzo Quarta -4. Gian Domenico Tiepolo -5. Adriano De Cupis -6. Raffaello D’Ancona -7. Salvatore d’Amelio -8. Francesco menestrina, uno dei protagonisti dell’“età d’oro” della procedura civile italiana -9. Nicola Stolfi, organizzatore sistematico del diritto civile -10. Gaetano Scavonetti -11. Adolfo Giaquinto -12. Avvocati dello Stato che collaborarono al Nuovo Digesto italiano (1937-1940) -13. Salvatore Scoca, padre della democrazia -14. Giuseppe Azzariti e Giuseppe Belli -15. Nicola Catalano, padre del rinvio pregiudiziale d’interpretazione e apostolo del primato del diritto comunitario -16. Dario Foligno -17. Francesco Chiarotti -18. Giuseppe Guglielmi -19. Tommaso Tomasicchio -20. Antonino Freni, grand commis e selettore di talenti -21. Carlo Bafile -22. Aldo Alabiso -23. Pietro Pavone -24. Pier Giorgio Ferri -25. Ignazio Francesco Caramazza - 26. Conclusione. 1. Introduzione. L’Avvocatura dello Stato, che si articola nell’Avvocatura Generale dello Stato con sede a Roma e nelle Avvocature Distrettuali dello Stato (in numero di 25 presso le sedi di Corte di Appello), è l’organo legale dello Stato e degli enti pubblici autorizzati ad avvalersi del suo patrocinio. È incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e difende in giudizio -in via organica ed esclusiva -i soggetti abilitati ad avvalersi del suo patrocinio; rende inoltre i pareri obbligatori per legge (es. negli atti di transazione) e quelli facoltativamente richiesti. Il ruolo organico degli Avvocati e Procuratori dello Stato è composto da 443 unità (343 Avvocati e 100 Procuratori), delle quali sono attualmente coperte 392 unità. L’Avvocatura dello Stato è un istituto con quasi 150 anni di vita, essendo stata creata nel 1876. Il suo atto di nascita può essere individuato nella emanazione del regolamento 16 gennaio 1876, n. 2914 (serie II) (1). Va precisato che con il R.D. 20 novembre 1930, n. 1483 si mutò la denominazione del- l’Istituto da Regia Avvocatura Erariale in Avvocatura dello Stato. L’Istituto ha mantenuto nel tempo una accentuata posizione di indipendenza funzionale. La selezione severa al fine dell’ingresso nell’Istituto ha consentito una gestione efficiente -nel rispetto del principio di economicità -del contenzioso, numeroso e variabile nel tempo (2). (*) Avvocato dello Stato. (1) Così: L’ Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, Istituto Poligrafico dello Stato, 1976, p. 258. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Nel primo trentennio dalla istituzione dell’Avvocatura dello Stato, gli Avvocati dello Stato sono stati scelti con chiamata diretta. “Nei primi decenni, l’Avvocato generale ritenne che la esigenza di avvalersi prevalentemente di persone che già avessero dimostrato di possedere capacità ed attitudini professionali contrastasse con l’assunzione per concorso dei nuovi avvocati e procuratori, cosicché il personale dell’Avvocatura crebbe <<per cooptazione>>, con la diretta ingerenza dell’Avvocato generale medesimo” (3). Nel- l’Italia liberale dell’epoca la scelta circa le persone da assumere è caduta su persone di elevato livello di qualificazione e con spiccate caratteristiche professionali forensi. Quando poi l’assunzione per concorso -in aggiunta alla chiamata diretta -venne prevista dalla legge e dal regolamento del 1907 (confermata con la legge 22 giugno 1913, n. 679), l’orientamento circa una pregressa esperienza forense ai fini della assunzione venne mantenuto, richiedendosi, ai fini della partecipazione al concorso, il pregresso esercizio effettivo della professione forense. Va evidenziato che -al fine di fugare sospetti di assunzioni amicali -il sistema della chiamata diretta era circondato da una serie di cautele atte a garantire la capacità professionale di chi veniva chiamato ad assumere la veste di Avvocato dello Stato, come anche la funzionalità dell’Istituto. Infatti: I) la chiamata era possibile per la metà dei posti vacanti in ciascun grado e in ciascuna classe del ruolo degli avvocati; II) potevano essere chiamati: a) laureati in giurisprudenza che avessero esercitato la professione di avvocato per almeno dieci anni o per sei anni quando fossero insegnanti effettivi di materie giuridiche in un Istituto governativo di istruzione superiore, quando avessero acquistato “meritata fama nell’esercizio forense”; b) magistrati che consentissero al passaggio di carriera (4). Un tale sistema è stato usato con accortezza e prudenza in situazioni particolari (ad esempio per sopperire ad esigenze di personale di sedi delle Avvocature distrettuali), ed ha consentito di scegliere specialmente magistrati, che poi non hanno smentito la fiducia loro accordata con la nomina (5). Il sistema della chiamata diretta è (2) All’evidenza, le modificazioni e le trasformazioni dello Stato implicano il mutamento della tipologia del contenzioso che lo riguarda. Fino agli anni ’60 del secolo scorso l’Avvocatura dello Stato trattava in prevalenza cause tributarie; negli anni ’70 è esploso il contenzioso del lavoro; l’adesione sempre più convinta all’Unione Europea ha determinato un contenzioso interno conseguenza di inadempimenti ad obblighi comunitari; le nuove frontiere della responsabilità civile hanno determinato la nascita di nuovi tipi di responsabilità dello Stato (quale la responsabilità per omesso controllo del sangue trasfuso e per omessa vigilanza nell’attività bancaria, etc.); la stipula della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo ha fatto germinare -a partire dal 2002 -le cause in tema di cd. legge Pinto in ordine al ristoro della ingiusta durata del processo. (3) Così: L’ Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 265. (4) Per tali aspetti: L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., pp. 264-266. (5) Così: L’ Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 381. TEMI ISTITUZIONALI stato confermato dall’art. 31 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (6) per essere poi eliminato con la L. 3 aprile 1979, n. 103. La possibilità della cooptazione spiega l’alta mobilità delle professionalità chiamate a far parte dell’Istituto: si passava dalla magistratura ordinaria all’Avvocatura dello Stato e viceversa; analogamente poteva avvenire con riguardo al Consiglio di Stato. Oronzo Quarta, dopo dieci anni di magistratura giudicante, passò nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato; dopo quindici anni trascorsi nell’Istituto (dal 1876 al 1891), rientrò nei ranghi della Magistratura, concludendo la sua carriera come primo Presidente della Corte di Cassazione (7). Achille Nucci, da Presidente del Tribunale di Napoli, venne chiamato direttamente alla carica di Avvocato Distrettuale di Napoli nel 1907, per poi rientrare in Magistratura nel 1922 (8). Adolfo Giaquinto venne chiamato direttamente alla carica di Avvocato Generale dello Stato nel 1938 da primo Presidente della Corte di appello di Roma, per poi rientrare nei ruoli della Magistratura nel 1945 quale presidente di sezione della Corte di Cassazione (9). In modo costante, per tutta la storia dell’Avvocatura dello Stato, numerosi Avvocati dello Stato hanno approfondito, scientificamente, vari istituti e materie, a ciò stimolati dalla complessità e varietà del contenzioso, oltre che dagli interessi scientifici individuali. Il presente studio si propone di ricordare figure che hanno dato un particolare contributo alla scienza giuridica italiana. Già nel 1951, in occasione del 75° annuale della istituzione dell’Avvocatura dello Stato, sulla presente Rassegna venne pubblicato un articolo dell’Avvocato dello Stato Giuseppe Chicca, che -oltre ad esporre in sintesi i principi determinanti lo sviluppo storico dell’Istituto e le principali tappe della sua evoluzione fino all’ordinamento dell’inizio del secondo dopoguerra -recava una serie di cenni biografici su “coloro che nel passato hanno onorato con la loro opera l’Avvocatura dello Stato ed hanno contribuito ad accrescerne il prestigio” (10). Tali cenni biografici riguardavano Antonio (6) “Al posto di vice avvocato generale dello Stato ed a non oltre la metà dei posti vacanti in ciascun grado del ruolo degli avvocati dello Stato possono essere nominati, con decreto Reale, su proposta del Capo del Governo, per il vice avvocato generale inteso l’avvocato generale e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, e per gli altri intesa la Commissione del personale: a) i laureati in giurisprudenza che esercitino nel Regno la professione di avvocato da non meno di dieci anni, o da non meno di sei quando siano insegnanti effettivi di materie giuridiche in un Istituto governativo di istruzione superiore, e che abbiano acquistato meritata fama nell’esercizio forense; b) i magistrati che consentano al passaggio. Questi potranno essere collocati nel grado immediatamente superiore a quello dal quale provengono”. (7) Per tali dati: L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 563. (8) Per tali dati: L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 562. (9) Per tali dati: voce Giaquinto Adolfo, Novissimo Digesto Italiano, vol. VII, UTET, 1961, p. 836. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Cafaro, Giacomo Giuseppe Costa, Ernesto D’Agostino, Salvatore D’Amelio, Raffaello D’Ancona, Adriano De Cupis, Francesco Di Gennaro, Adolfo Giaquinto, Francesco Lo Bianco, Giuseppe Mantellini, Gian Carlo Messa, Achille Nucci, Angelo Paoletti, Oronzo Quarta, Giuseppe Ricciardi, Gaetano Scavonetti, Gian Domenico Tiepolo e Giovanni Villa. Gli stessi cenni saranno poi ripresi -ed ampliati con riguardo alla platea degli Avvocati dello Stato nel volume del Centenario dell’Avvocatura dello Stato (11), con apposita appendice (pp. 557-565). 2. Contributo del primo Avvocato Generale Erariale, Giuseppe mantellini, allo sviluppo del diritto amministrativo. Giuseppe Mantellini (1816-1885) è stato tra i maggiori esponenti del pensiero giuspubblicistico della seconda metà dell’Ottocento. Nel 1851, a soli trentacinque anni, fu nominato Avvocato Regio di Toscana; ricoprì la carica fino all’abolizione dell’Istituto, avvenuta nel 1862. Nel Regno d’Italia fu, dapprima, Direttore Generale del Contenzioso, poi Consigliere della Corte di Cassazione di Firenze, Consigliere di Stato e Parlamentare. Fu, infine, il primo Regio Avvocato Erariale del Regno d’Italia dall’istituzione dell’Avvocatura erariale nel 1876 alla morte avvenuta nel 1885. Come studioso del funzionamento della pubblica amministrazione, fu autore di numerosissimi scritti, alcuni dei quali contribuirono ad alimentare il dibattito degli anni Sessanta -Ottanta su temi che hanno riguardato la rappresentatività della classe politica e i confini entro i quali il potere politico poteva e/o doveva estendere la propria azione senza ledere gli interessi del singolo cittadino. Le sue opere hanno influenzato la riflessione sul diritto amministrativo, sulla sua tecnicizzazione e sul riconoscimento di uno statuto scientifico al diritto pubblico. Sono da segnalare, in particolare, i tre volumi su I conflitti di attribuzione (Firenze, G. Barbera editore, 1871-78) e i tre su Lo Stato e il codice civile (ibid., 1880-82). Nel primo volume de I conflitti di attribuzione, dopo aver passato in rassegna lo stato della legislazione in vigore in alcuni paesi europei, si sofferma sulla legge del 20 marzo 1865 con cui in Italia, abolito il contenzioso amministrativo, la competenza in materia di conflitti riguardanti l’amministrazione passò al Consiglio di Stato. Proprio esaminando le sentenze consiliari, Mantellini dichiara l’inadeguatezza del nuovo sistema. Né mutò giudizio nel 1873 quando, nel secondo volume, prese in rassegna le sentenze più recenti. Nel (10) G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, in Rass. Avv. Stato, 1951, n. 1, pp. 1-38. (11) Il già citato volume L’ Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, Istituto Poligrafico dello Stato, 1976. TEMI ISTITUZIONALI terzo volume, del 1878, scritto a commento della legge del 31 marzo 1877 che attribuiva alla Cassazione di Roma la soluzione dei conflitti, valutava, invece, positivamente le innovazioni che la legge, accogliendo parzialmente le sue proposte, aveva introdotto. Nei tre volumi de Lo Stato e il codice civile Mantellini espone in maniera sistematica le idee circa la funzione del diritto amministrativo nel sistema costituzionale italiano. Questi i contenuti essenziali dei tre volumi: • Lo Stato e il codice civile, Volume Primo. Parte Prima, Lo Stato persona e del Danno dallo Stato; Parte Seconda, Tributi e Asse Ecclesiastico, G. Barbera editore, 1880, pp. 619. All’inizio del libro, nella lettera all’editore Barbera, si legge: “Avvocato erariale, ne serbo da trentasei anni il concetto di difensore dei contribuenti, ai quali dall’erario non si fa che prestare il nome alle liti ”. Nell’introduzione viene evidenziato che allo Stato, salve specialità (frutto di regole espresse o di principi) (12), si applica il Codice Civile; l’autore rileva che “Le obbligazioni, dice il codice all’art.1097, derivano dalla legge, da contratto e da quasi contratto, da delitto o quasi delitto. Lo stesso codice dimentica poi di trattare le obbligazioni derivanti da legge; e per lo Stato queste leggi […] sono tante, da formare un codice più voluminoso del codice comune. […]. Nei contratti le regole scritte nel codice si applicano all’amministrazione dello Stato subordinatamente alle leggi amministrative, di contabilità generale dello Stato, dei lavori pubblici ec. Né da tali leggi amministrative potrebbero sfuggire nell’applicazione all’amministrazione dello Stato le regole della negotiorum gestio e della condictio indebiti” (p. 7); ancora “I contratti che l’amministrazione fa cogli imprenditori d’opere, ad appalto o cottimo, si regolano col codice, ma più colle leggi di contabilità e dei lavori pubblici, (12) Questi principi, creativi spesso di una posizione di favore per lo Stato, hanno resistito fin quasi ai giorni d’oggi. Per lungo tempo (fino a Cass. S.U., 26 maggio 2015, n. 10798) si è ritenuto in giurisprudenza che affinché all’impoverito possa essere attribuito l’indennizzo ex art. 2041 c.c., è necessario che la P.A. abbia riconosciuto, anche implicitamente, l’utilità della prestazione svolta o che ne abbia tratto una qualche utilità. Ancora: per lungo tempo si è ritenuto che il procedimento contabile di spesa -con le fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento -oggetto di esame del successivo capitolo, condizionasse la esigibilità della obbligazione dello Stato, in deroga all’art. 1183, comma 1, c.c. secondo cui “Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice”; e si è ritenuto altresì che la pendenza del detto procedimento, e in specie l’emissione dell’ordine di pagamento, inibisse la produzione degli interessi moratori -in quanto la pendenza giustifica la condotta dell’amm.ne ed esclude la imputabilità del ritardo nell’adempimento -e rendesse privo del requisito della esigibilità le obbligazioni pecuniarie ai fini della produzione degli interessi corrispettivi ex art. 1282, comma 1, c.c. secondo cui “I crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente”. Queste tesi non vengono più sostenute. Ciò in quanto le norme sulla contabilità dello Stato e degli enti pubblici territoriali sul pagamento dei debiti della P.A. hanno valenza esclusivamente interna, regolando rapporti interorganici e non anche intersoggettivi. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 coi capitolati generali e speciali ” (p. 10); vi è poi la sintesi del pensiero dell’autore sulla materia: “È dunque vero che per lo Stato non può aversi e non si ha che uno speciale diritto civile, sia che si consideri nella persona, o nei beni, come nei diritti e nelle obbligazioni; o che nel definire i rapporti civili dello Stato coi privati, se non può, come non può, bandirsi il codice e men che mai la ragione del codice, è giuocoforza accompagnare al codice le leggi amministrative per derivarvi il principio che temperi con la pubblica la privata ragione. E appunto a questa dimostrazione è inteso il tema: lo Stato e il Codice civile; […] ma sia detto una volta per tutte. Diritto speciale è diritto singolare, che s’informa da causa di pubblica necessità o utilità, non privilegio che s’ispira da odio o favor di persona. Il privilegio è deviazione dal comune diritto, il gius singolare ne forma parte, con accomodare le più generali sue disposizioni a peculiari qualità, a condizioni di ceti o d’interessi: pupilli, soldati, studenti, cherici, donne, causa della dote, causa pia, causa liberale. Senza tener conto delle diseguaglianze soggettive, che dall’individuo distinguono l’ente morale, e però lo Stato (l’ente morale per eccellenza) le comuni definizioni di gius civile tanto discorderebbero dalla ragione del codice, quanto maggiore ne apparisse la letterale concordia. Sono diseguaglianze che eguagliano” (pp. 13-14). Il volume tratta dello Stato persona, sia come ente politico che come persona civile, cioè nel possesso dei beni, nei contratti, nel convenire o nell’esser convenuto in giudizio (duplice persona dello Stato); vi sono esposte le varie teorie dello Stato a partire dai pensatori greci e romani, medioevali e moderni. Quindi si espone il danno cagionato dallo Stato, sia in relazione al fatto suo proprio che alle “male fatte” degli impiegati, con disciplina che si discosta, molto di più che in altra materia, dalla disciplina dettata dal codice per le relazioni private. Segue poi la materia della legislazione tributaria, dove lo Stato impone obbligazioni civili, anziché assumerle, verso i contribuenti; viene esposta la disciplina dei tributi diretti (sui terreni, sui fabbricati, volture catastali, ricchezza mobile, tassa di manomorta, tassa sul macinato) e dei tributi indiretti (le sette tasse: registro, bollo, di circolazione e sui capitali di società, concessioni governative, ipotecarie, spese di giustizia, proventi diversi). Il volume si conclude con l’esposizione delle leggi e della giurisprudenza sull’asse ecclesiastico, a partire dalla fondamentale legge del 1871 sulle guarentigie della Santa Sede. • Lo Stato e il codice civile, Volume Secondo. Parte Terza, Beni e Contratti dello Stato, G. Barbera editore, 1882, pp. 705. Il libro parla dei beni dello Stato, secondo la dicotomia beni pubblici e beni patrimoniali. I beni pubblici vengono distinti in: I) cose pubbliche (lido del mare, porti, seni e spiagge; strade; fiumi e torrenti; porte, mura, fosse, bastioni delle piazze da guerra e delle fortezze); II) cose fatte pubbliche per l’uso: cose TEMI ISTITUZIONALI pubbliche per destinazione, quali statue ed immagini situate in pubblico, legati ad patriam, biblioteche, gallerie, musei in fedecommesso; oggetti d’antichità; proprietà letteraria; invenzioni e scoperte; III) cose fatte pubbliche dalla legge (miniere e saline); IV) pesca e caccia; V) usi civici. Vi è poi la disciplina degli acquisti dello Stato, sia con mezzi di diritto pubblico che di diritto privato: trattati internazionali, pubblici prestiti, espropriazioni per pubblica utilità, arruolamenti militari e civili, concessioni governative (concessioni unilaterali e concessioni-contratti), contratti sia di forniture che di lavori pubblici. Si chiude con la disciplina dei contratti, alla luce della legge e del regolamento di contabilità, con trattazione della capacità di contrarre in nome dello Stato, delle forme e degli effetti dipendenti da leggi amministrative. • Lo Stato e il codice civile, Volume Terzo. Parte Quarta, Dei giudizi dello Stato, G. Barbera editore, 1882, pp. 543. Nel volume viene esposta la disciplina dell’amministrazione in giudizio a mezzo degli avvocati erariali, con ampia premessa storica nell’ambito della quale l’autore evidenzia che “In Roma si facevan sentire l’impero e la giurisdizione, poco o niente la gestione; come ora in Inghilterra, dove lo Stato impera, poco governa e anche meno amministra; differentemente che in Francia, dove l’amministrazione si mescola in tutto, su cui delibera essa stessa, agisce e giudica, per autorità consultive, per autorità agenti, e per autorità giudicanti. E anche in Italia siamo su quella via della molta ingerenza dell’amministrazione o del governo, sebbene per le sue contestazioni l’amministrazione italiana non abbia giudici propri come la francese” (p. 4). L’autore, a volo d’uccello, fa una sintesi mirabile dei caratteri dello Stato “amministrativo” nelle principali esperienze giuridiche, in una fase storica (1882) nella quale in Italia non vi era un giudice amministrativo, dovendosi attendere il 1889 per la creazione della IV sezione del Consiglio di Stato. Trattando dei precedenti storici degli avvocati erariali, vengono evocate le figure più suggestive. Si enuncia che: “Papiniano è l’antistes juris degli avvocati erariali; il maestro che hanno preso ad esempio” (p. 27) (13). Si prosegue con la trattazione dei giudici dell’amministrazione, tra cui la Cassazione di Roma, la Corte dei conti e le giurisdizioni speciali. Si tratta poi delle peculiarità delle cause dell’amministrazione. Vengono, in chiusura, riportati alcuni casi di giurisprudenza amministrativa. Dedicata alla giustizia amministrativa fu l’ultima opera (Papiniano, Roma 1885), scritta come strenna del capodanno 1885 a uso degli impiegati erariali, cui l’autore proponeva il modello del giurista romano Papiniano. (13) Proseguendo nella carrellata: “Consulente della Corona inglese, Attorney general, fu primo Francesco Bacone” (p. 29); Grozio fu avvocato fiscale in Olanda (p. 29); Francesco Maria Costantini fu avvocato fiscale della Camera capitolina, eletto da Papa Clemente XI (p. 31). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Oltre a ciò, quasi a dimostrazione di quella ecletticità degli avvocati regi, egli scrisse di economia e di finanza, forte della sua esperienza di consulente della Banca Toscana (14). Nella veste specifica di Avvocato Generale redasse le prime relazioni periodiche sullo stato del contenzioso. La pubblicazione delle relazioni periodiche dell’Avvocato Generale Erariale, poi dello Stato, è proseguita con cadenza annuale e poi pluriennale, per un secolo, fino al 1980 (15). La relazione per l’anno 1878 descrive il consultivo e il contenzioso curato dalle otto Avvocature, una generale (quella di Roma) e sette erariali (quelle di Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Torino e Venezia). Accanto a dati statistici vi sono anche riflessioni ricostruttive; fino al 1923 -anno in cui venne unificata la Corte di Cassazione civile a Roma -vi erano le Corti di Cassazione regionali ubicate presso le ex capitali degli Stati preunitari (Torino, Firenze, Roma, Napoli e Palermo). Giuseppe Mantellini, nella citata relazione (p. 10) evidenzia che “cinque Corti regolatrici, quante se ne hanno in Italia, sono un anacronismo che ha durato troppo, col non potersi a meno d’averne, come se ne hanno, tali effetti che non tornano a onore della istituzione e non edificano la giustizia”. Le relazioni periodiche dell’avvocato Generale -ricognitive dello stato del contenzioso delle amministrazioni statali -erano molto apprezzate dai pratici e dagli studiosi della contabilità di Stato. Basti evidenziare che, in un diffuso manuale di contabilità di Stato (16), le relazioni quinquennali del- l’Avvocatura erano la fonte principale di cognizione. È stato rilevato che “Ebbe un’alta concezione dello Stato, di cui difese con passione, quasi mistica, le prerogative e gli interessi. Dalla sua opera il diritto pubblico interno trasse indirizzo e sistema. L’Istituto dell’Avvocatura erariale, già Avvocatura dello Stato, si elevò per suo merito a principale organo della vita giuridica dello Stato” (17). 3. oronzo Quarta. Oronzo Quarta (1840-1934) entrò in Magistratura nel 1863, ma nel 1876 fu uno dei primi ad affiancare Mantellini nella creazione e formazione del- l’Avvocatura erariale. Profondo conoscitore di ogni ramo del diritto, che pa (14) Per tali dati: A. ChIAVISTELLI, voce mantellini Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani -Volume 69 (2007), Istituto dell’Enciclopedia Treccani ed altresì L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., pp. 237-238. (15) In specie: relazioni per l’anno 1878, 1879, 1880, 1881, 1882, 1883, per gli anni 1884-1885, 1888-1899, 1899-1900, 1900-1901, 1901-1904, per l’anno 1907, 1908, 1909, 1910, per gli anni 19121925, 1926-1929, 1930-1941, 1942-1950, 1951-1955, 1956-1960, 1961-1965, 1966-1970, 1971-1975, 1976-1980. (16) A. BENNATI, manuale di contabilità di Stato, XII edizione, Jovene editore, 1990. (17) Così: F.P. GABRIELI, voce mantellini Giuseppe, in Nuovo Digesto Italiano, vol. VIII, UTET, 1939, p. 116. TEMI ISTITUZIONALI droneggiava con assoluta sicurezza nei suoi poliedrici aspetti, studiò in particolare il diritto tributario, che allora muoveva i primi passi; il suo Commento alla legge sulla Imposta di Ricchezza mobile è opera che non soltanto ha informato di sé tutti gli studi di quel periodo in materia, e le stesse manifestazioni giurisprudenziali, ma è restato per gran tempo modello insuperato e fonte inesauribile di esame. Quarta rimase in Avvocatura quindici anni, poi nel 1891 rientrò in Magistratura: nel 1904 Procuratore Generale di Corte di cassazione di Roma, e senatore, raggiunse nel 1911 la più alta carica della Prima presidenza della Corte di cassazione di Roma (18). Lo “Studio sulla legge dell’imposta di ricchezza mobile”, 1889, Tipografia della Camera dei Deputati -Roma, si articola in due volumi (volume I: pp. 1-1086; volume II, parte I: pp. 1087-1796). L’opera costituisce una esposizione monumentale -redatta come precisa nell’ “Avvertenza” a pag. 3 “Quale avvocato erariale, e più ancora qual componente della Commissione centrale” -della più importante imposta diretta dell’epoca, con lo scopo di “raccogliere coordinare e raffrontare i non poche atti legislativi e regolamentari emanati dal 1864 sino ad oggi in Italia; a chiarire la lettera di ciascuna disposizione del testo unico e levarne il concetto preciso, con applicazione alle più importanti contingenze di fatto già verificate, o che possono verificarsi, consultando all’uopo tutti i lavori preparatorii relativi, e tenendo a guida i fondamentali principii di diritto tributario, gl’insegnamenti della dottrina non meno che gli autorevoli responsi dell’ordinaria e della amministrativa magistratura; ad esaminare infine, se la legge attuale, o quanto alle sue modalità, o quanto al suo contenuto, debba essere in qualche parte ritoccata” (pag. 4 dell’ “Avvertenza”). Dopo una introduzione storica e una esposizione delle tecniche di interpretazione, vi è il commento alla legge dell’imposta di ricchezza mobile (R.D. 24 agosto 1877, n. 4021 che approvò il testo unico delle leggi d’imposta sui redditi della ricchezza mobile e regolamento del 24 agosto 1877). Ogni articolo della legge è seguito dal sommario del commento e dal commento. Si inizia a pag. 56 con l’art. 1: “È stabilita un’imposta sui redditi della ricchezza mobile nell’aliquota uniforme del dodici per cento”; poi vi è il sommario degli otto paragrafi del commento, quindi segue il commento; nel 1° paragrafo di commento si precisa che “le imposte sono il prelevamento operato dallo Stato sulla fortuna, o sul lavoro lucrativo dei cittadini, per provvedere ai bisogni della sociale comunanza” (pp. 56-57); sono imposte dirette quelle che “investono relazioni permanenti, come l’esistenza, la possessione, il godimento durevole di un obbietto” (pag. 57). (18) Per tali dati: G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, cit., pp. 31-32. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 4. Gian Domenico Tiepolo. Gian Domenico Tiepolo (1832-1904), dopo essere entrato in Magistratura passò negli uffici del contenzioso, ove fu chiamato da Mantellini a far parte del primo nucleo della nascente Avvocatura Erariale; fu poi sostituto Avvocato Generale Erariale, per diventare Avvocato Generale Erariale (1897-1903). Si ricordano di lui: Commento alle leggi sull’Asse ecclesiastico, Conflitti di attribuzione, Acque pubbliche e diritti demaniali, un volume sulle acque pubbliche e notevoli scritti di giustizia amministrativa (19). “I suoi scritti e le sue monografie -Commento alle leggi sull’Asse ecclesiastico, Conflitti di attribuzione, Acque pubbliche e diritti demaniali, per citarne alcuni -testimoniano del suo fecondo lavoro pure in questo campo: indagine severa, profondità scientifica, logica irrefutabile sono i pregi che maggiormente lo contraddistinguono, e che testimoniano delle sue qualità di studioso” (20). 5. Adriano De Cupis. Adriano De Cupis (1845-1930) fu tra i primi giovani funzionari amministrativi che entrarono a far parte dell’Avvocatura dello Stato nel 1877, assegnato a Palermo, prima, e a Roma in secondo tempo. Vice avvocato nel 1892, le sue notevoli qualità gli valsero la nomina a Consigliere di Stato. Collocato a riposo il Tiepolo nel 1904, Adriano De Cupis venne chiamato alla successione reggendo l’Istituto fino al 1913. Profondo conoscitore di ogni attività amministrativa, la sua fama di studioso -già nota per taluni studi in tema di competenza e di giurisdizione e di espropriazione per pubblica utilità -resta soprattutto legata a quella opera sulla Contabilità di Stato di cui egli, per primo, seppe dare una compiuta visione, attraverso un’organica trattazione della materia, che non soltanto valse a fissare i principi generali in un allora ignoto settore della amministrazione della cosa pubblica, ma costituì per molti anni un modello insuperato cui si continuava ad attingere (21). L’esatto titolo dell’opera maggiore del De Cupis è Legge sull’amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità generale (Testo unico approvato con R.D. 17 febbraio 1884, n. 2016) annotata dall’Avvocato Adriano De Cupis seguita dal relativo regolamento, II edizione, Unione Tipografico Editrice -Torino, 1899, pp. 1027. L’opera è un commento alla legge (19) L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 565; G. PALEOLOGO, La prima Quarta Sezione, p. 4, in Studi per il centenario della Quarta Sezione, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1989. (20) Così: G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, cit., p. 33. (21) Per tali dati: G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, cit., p. 28. TEMI ISTITUZIONALI di contabilità e si dipana in articoli della legge seguiti dal sommario del commento e dal commento. 6. Raffaello D’Ancona. Raffaello D’Ancona (1864-1933) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1893 per divenire nel 1913 Sostituto Avvocato Generale. Dopo trent’anni di permanenza nelle file dell’Avvocatura dello Stato, nel 1919 passò in Magistratura quale consigliere della Corte di cassazione, divenendo Primo presidente della Corte di appello di Ancona e poi presidente di sezione presso la Corte Suprema. La preparazione giuridica dello studioso e del cultore di diritto romano si era venuta affinando con lo studio assiduo del diritto pubblico; elevatissimo fu il contributo da lui per lunghi anni prestato alla indagine giuridica, specialmente nel campo tributario, sia nella sfera contenziosa che in quella consultiva. Vanno ricordate, fra l’altro, una monografia sul concetto di dote nel diritto romano (“Il concetto della dote nel diritto romano: studio storico-giuridico”, Firenze, 1889) e la traduzione del commentario del Gluck alle Pandette -libri XXII, XXIV e XXVI (Commentario alle Pandette di Federico Glück; tradotto ed annotato da Raffaello D’Ancona, Milano, Società editrice libraria, 1898) (22). 7. Salvatore d’Amelio. Salvatore D’Amelio (1867-1928), Sostituto Avvocato Generale Erariale nel 1908, Avvocato Distrettuale di Milano nel 1914; nello stesso anno 1914 passò in Magistratura, divenendo primo presidente di Corte d’Appello e poi Presidente del Tribunale superiore delle acque. Lasciò una ricca serie di scritti, di cui quelli giovanili, del decennio 18851995, in prevalenza dedicati a questioni sociologiche; quelli del periodo successivo, sparsi in un gran numero di riviste, attinenti in particolare a problemi concreti che gli poneva la sua attività di avvocato dello Stato; quelli dell’età matura rivolti a questioni generali di diritto pubblico: carattere di pubblicità degli enti autarchici, istituzioni di beneficenza, capacità degli enti di fatto, configurazione dell’eccesso di potere, responsabilità dello Stato, ecc. La sua benemerenza maggiore consiste nell’essere stato il promotore, nel 1909, della Rivista di diritto pubblico, di cui restò direttore attivo ed efficace fino alla morte, contribuendo così alla rinascita degli studi di diritto pubblico in Italia. Giurista di larga cultura classica e letteraria, scrisse anche odierni problemi del diritto pubblico in Dante, Roma, 1926 (23). (22) Per tali dati: G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, cit., pp. 27-28. (23) Per tali dati: voce D’Amelio Salvatore, Novissimo Digesto Italiano, vol. V, UTET, 1960, p. 109. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 L’opera principale è sicuramente La beneficenza nel diritto italiano, II edizione (riveduta ed aggiornata rispetto alla prima edizione del 1909), Tipografia delle mantellate -Roma, 1928, pp. 960. Il testo costituisce una descrizione esaustiva della complessa e importante materia della beneficenza e dell’assistenza. Contiene i cenni storici delle leggi sull’assistenza e beneficenza (con esame dettagliato di quelle degli Stati preunitari), i testi delle leggi vigenti coordinati e unificati (in primo luogo la fondamentale L. 17 luglio 1890, n. 6792 sulle Opere Pie, c.d. legge Crispi, ed i regolamenti del 1891) e la glossa alla legislazione vigente. La glossa consiste in un ampio commento -oltre 600 pagine -alla normazione in materia, con esposizione di quella relativa alle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (c.d. IPAB), agli amministratori e all’amministrazione e contabilità delle IPAB, alla tutela dinanzi all’autorità giurisdizionale e amministrativa, alla vigilanza e ingerenza governativa sulle IPAB, alle modifiche statutarie e vicende soggettive delle IPAB e all’esercizio dell’assistenza e beneficenza, specie quella ospedaliera. Non viene trascurato qualche accenno o richiamo alle scienze sociali. 8. Francesco menestrina, uno dei protagonisti dell’“età d’oro” della procedura civile italiana. Francesco Menestrina (1872-1961), giurista trentino, si laureò all’Università di Graz il 27 ottobre 1896. Nel 1898 ottenne una borsa di perfezionamento per prepararsi alla libera docenza di Diritto processuale civile presso la cattedra in lingua italiana all’Università di Innsbruck: studiò perciò a Roma, a Vienna ed a Lipsia (con Adolf Wach), e conobbe i giuristi Giuseppe Chio- venda e Albrecht Mendelssohn-Bartholdy. Nel 1895 entrò nell’Avvocatura dello Stato del Regno d’Italia, divenendo poi Avvocato Distrettuale dello Stato, prima a L’Aquila e poi a Trieste. Restò nell’Istituto fino al pensionamento, nel 1942. Cultore di storia giuridica e di storia locale, partecipò attivamente alla fondazione nel 1919 della Società di Studi Trentini, di cui fu presidente in due diversi periodi. Ormai in pensione, nel secondo dopoguerra ebbe un ruolo importante nella messa a punto del progetto di Statuto autonomo della nuova regione Trentino Alto Adige (24). Preparò, nel 1901, il lavoro “L’accessione nell’esecuzione. Un contributo alla teoria del cumulo processuale”, accolto a Innsbruck con il massimo dei voti; con esso il Menestrina apportò un contributo notevolissimo e fecondo di risultati, anche sul piano della futura legislazione, alla teoria del cumulo pro (24) Per tali dati: G. ROSSI, Francesco menestrina, storico e giurista, protagonista della vita culturale e politica nel Trentino del XX secolo, in Studi trentini di scienze storiche. Sezione prima (ISSN: 0392-0690), 88/4 (2009), pp. 961-990. TEMI ISTITUZIONALI cessuale soggettivo, scoprendo, per la prima volta al di fuori dell’ipotesi del “consorzio” (l’unica fino ad allora rilevata nella letteratura), ipotesi di aggruppamento di parti comprensive oltre che dei creditori istanti in una esecuzione speciale anche dei creditori insinuatisi nel concorso fallimentare. Su questa opera così si espresse, nel 1905, la Commissione giudicatrice del concorso per professore ordinario alla cattedra di procedura civile ed ordinamento giudiziario nella R. Università di Napoli: “La Commissione riconosce che questa opera del menestrina è un contributo notevolissimo alla storia ed alla trattazione generale del processo esecutivo. Condotta con metodo rigorosamente scientifico, penetrata da un acuto spirito critico, essa, con grande padronanza della dottrina e della storia, sistema in una sintesi felice i rapporti processuali reciproci dei creditori nella istanza esecutiva. Il trattato del menestrina mutua ad un diritto straniero (l’austriaco) le norme positive che costituiscono la materia, su cui esso logicamente si svolge; ma non è estraneo al nostro, al quale essi si riporta con assidua comparazione, ed alla cui storia efficacemente contribuisce mercè pregiate indagini sugli statuti italiani” (25). In seguito poi ad esame orale, il 1° novembre 1901 venne nominato libero docente di diritto processuale civile ed esecutivo. In quell’anno, a causa degli incidenti fra studenti trentini e studenti tedeschi, non riuscì a tenere la prolusione su “L’influenza dei diritti latini nella legge austriaca di procedura civile ”, che comunque lesse successivamente e pubblicò nella “Gazzetta dei Tribunali” di Vienna l’anno seguente. Nel 1904 pubblicò “La pregiudiciale nel processo civile”. Intensificò gli studi e pubblicò due lunghi saggi: “Giandomenico Romagnosi a Trento (17911802)” in “Tridentum” (1908-1909), raccolto anche in volume, e “Il processo civile nello Stato Pontificio” nella “Rivista italiana per le scienze giuridiche” di Torino (1908). Nel 1910 vide la luce nella “Gazzetta dei Tribunali” di Vienna (a cui collaborò anche successivamente) il saggio “Il processo civile nella pratica dei giudizi trentini” (uscito anche in tedesco nella “Rheinische Zeitschrift für Zivil und Prozessrecht”); nel 1911 uscì nella “Rivista di diritto civile” di Milano il saggio “Nel centenario del codice civile generale austriaco” e nel 1913 venne pubblicato nel volume di studi in onore di Adolf Wach il contributo “Il codice giudiziario barbacoviano (1788)”. Collaborò, con pregevoli articoli, a diverse riviste nazionali e internazionali di diritto, soprattutto la “Rivista di diritto processuale civile” di Padova diretta da Giuseppe Chiovenda e Francesco Carnelutti (26), ma anche “Il Foro (25) Giudizio riportato in F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Giuffré, 1991, p. 486. (26) Tra i contributi maggiori: F. MENESTRINA, Il foro generale dell’erario, in Rivista di Diritto processuale civile, I (1924), parte I, pp. 297-318; ID., Passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in Rivista di Diritto processuale civile, V (1928), parte II, pp. 202-222; ID., L’avvocatura dello RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 delle Nuove Provincie” di Padova (27), la “Rassegna bibliografica delle scienze giuridiche”, “Giurisprudenza italiana” (28) , “Zeitschrift für deutschen Civilprozess” e “Zentralblatt für die Juristische Praxis”. Collaborò all’ “Enciclopedia delle scienze, lettere ed arti” dell’Istituto Treccani con le voci “Azione civile”e“Barbacovi, Francesco” (1930). Inoltre collaborò al “Nuovo Digesto Italiano” della UTET con le voci “Nuove Provincie” (1938) (29) e “Proroga di giurisdizione e di competenza” (1940) (30), ed al “Commento al nuovo Codice di procedura di civile” diretto per la UTET da Mariano D’Amelio con il commento agli articoli 41-68 (1943) (31). Dal 1935, intanto, per tre volte da Padova gli venne proposta la cattedra di procedura civile che era stata lasciata da Carnelutti. A Padova tenne i corsi di storia generale del processo civile e di processo di cooperazione nei suoi vari stadi nel 1938-39 e diritto processuale civile nel 1939-40 (frutto di tale impegno sono le “Lezioni di diritto processuale civile” riassunte da Silvia Furlanelli e pubblicate dal G.U.F. di Padova nel 1939); a Venezia, dal 1938 al 1942, tenne lezioni di diritto processuale civile (raccolte poi in “Diritto processuale civile. Riassunto delle lezioni...”, a cura del G.U.F. di Venezia, 1943). Fece parte, sino agli anni '50 inoltrati, di diverse commissioni provinciali relative a usi civici (1949-1950), urbanistica e piani regolatori (1950-1951), tutela delle bellezze naturali e del paesaggio (1951); contribuì al dibattito sul regime delle acque, all’elaborazione di un progetto di nuova legge tavolare (1953-1954) e fornì vari pareri legali a Provincia e Regione (32). Il contributo più importante di Menestrina alla scienza giuridica italiana è contenuto nella pubblicazione del 1904 “La pregiudiciale nel processo civile” (33), sotto l’impero del codice di procedura civile del 1865. Nel testo l’autore con riguardo alle questioni pregiudiziali -intese come antecedenti logici, il cui esame si impone al giudice al fine di pervenire all’esame dell’oggetto della domanda, che costituisce lo scopo dialettico del processo -opera stato in Italia e all’estero, in Rivista di Diritto processuale civile, VIII (1931), parte I, pp. 201-233; ID., Il processo davanti a giudice incompetente e la condanna delle spese, in Rivista di Diritto processuale civile, XVI (1937). (27) F. MENESTRINA, L’azione di sindacato nelle terre redente, in Il Foro delle Nuove Provincie, VIII (1929), pp. 274-283. (28) F. MENESTRINA, La notificazione del ricorso per cassazione alle amministrazioni statali, in Giurisprudenza Italiana e la Legge, vol. 89, 1937, I, coll. 409-416. (29) F. MENESTRINA, Nuove Provincie, voce del Nuovo Digesto Italiano, vol. VIII, UTET, 1939, pp. 1179-1186. (30) F. MENESTRINA, Proroga di giurisdizione e di competenza, voce del Nuovo Digesto Italiano, vol. X, UTET, 1939, pp. 779-780. (31) F. MENESTRINA, Commento al nuovo codice di procedura civile, Artt. 41-68, nel Commentario diretto da MARIANO D’AMELIO, Torino 1943, pp. 215-325. (32) Per tali dati: www.cultura.trentino.it. (33) La pregiudiciale nel processo civile, Vienna, 1904, ristampato a Milano nel 1963. TEMI ISTITUZIONALI la celebre distinzione in tre categorie: I) punti pregiudiziali, che ricorrono allorché l’antecedente logico non è controverso; II) questioni pregiudiziali in senso stretto, che ricorrono allorché l’antecedente logico è controverso; III) cause pregiudiziali, che ricorrono allorquando l’antecedente logico è controverso e accertato con sentenza assistita dall’autorità della cosa giudicata (oo.cc., pp. 26, 123, 149). A tale tricotomia si è uniformato l’art. 34 c.p.c. del 1942 (34), il quale, pur esaminando il problema sotto il più limitato profilo dello spostamento di competenza, pone in assai chiara evidenza che si ha accertamento incidentale (vale a dire l’antecedente logico si trasforma in causa pregiudiziale) non soltanto se una questione pregiudiziale è controversa, ma anche quando su di essa o per legge o per volontà delle parti si chiede l’accertamento con efficacia di giudicato (35). Negli anni ’10 del secolo scorso, Alfredo Rocco -nel fare il punto dopo mezzo secolo dalla proclamazione del Regno d’Italia -dichiarò che i migliori processualcivilisti erano Ludovico Mortara, Antonio Castellari, Giuseppe Chiovenda, Federico Cammeo e Francesco Menestrina (36). Menestrina fece parte, nel 1924, della Sottocommissione reale C per la riforma del codice di procedura civile, della quale era presidente Ludovico Mortara e vicepresidente Giuseppe Chiovenda. Componenti della Sottocommissione C erano quattro professori (Piero Calamandrei, Federico Cammeo, Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti), un avvocato dello Stato (Francesco Menestrina), sei magistrati e tre avvocati (37). La cifra dell’importanza del Menestrina quale studioso del processo civile è data dalla partecipazione nel 1927 alle onoranze per uno dei più importanti processualcivilisti dell’epoca, ossia Giuseppe Chiovenda (38), suo coetaneo e buon amico (39); in tale occasione scrisse un saggio sulla statistica giudiziaria (40). Menestrina è stato uno dei protagonisti della procedura civile italiana in (34) “(Accertamenti incidentali) Il gidice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”. (35) Per tali rilievi: V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol. I, III edizione, Jovene, 1957, p. 113. Per tale contributo del Menestrina altresì: E. ALLORIO (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, libro I, tomo I, UTET, 1973, p. 330. (36) A. ROCCO, La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant’anni, in Riv. Dir. Comm., 1911, I, p. 303. (37) F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., p. 260. (38) Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, Cedam -Padova, 1927, pp. 850, a cura dei Professori ANTONIO CASTELLARI, PIERO CALAMANDREI, FRANCESCO CARNELUTTI, ENRICO REDENTI, ANTONIO SEGNI. (39) F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., pp. 310-311. (40) F. MENESTRINA, La statistica giudiziaria civile in Italia, op. cit., pp. 537-582. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 un’epoca di giganti. I primi quarant’anni del Novecento sono stati una stagione eccezionale: accanto a Ludovico Mortara vi erano le tre C della procedura civile italiana, ossia Giuseppe Chiovenda, Francesco Carnelutti e Piero Calamandre, per non parlare di Federico Cammeo e di Enrico Redenti. La procedura civile italiana faceva da guida al mondo, le opere di Chiovenda erano tradotte in spagnolo. È stato rilevato che fu “Fautore della riforma del processo nel senso della oralità e della concentrazione, mostrò tuttavia le mende del processo austriaco, che molti proceduristi italiani pensavano di prendere a modello” (41). 9. Nicola Stolfi, organizzatore sistematico del diritto civile. Nicola Stolfi (1877-1945) entrò in Magistratura nel 1901, nel 1914 passò alla Regia Avvocatura di Stato e fu nominato Avvocato Distrettuale prima a Venezia e poi a Firenze. Fu libero docente di Diritto civile nella Regia Università di Torino e nella Regia Università di Napoli. Insegnò diritto corporativo e istituzioni di diritto privato nella Regia Università di Padova. Fece parte di commissioni legislative e di commissioni internazionali per la legislazione sui diritti d’autore e sulla proprietà industriale. L’opera maggiore è un trattato di Diritto civile, 9 voll., Torino 1919-1934. Tra le opere principali: Codice della proprietà letteraria ed artistica, Firenze, 1928; Diritto corporativo e diritto privato, Roma, 1932; La proprietà intellettuale, II edizione, Torino, 1915; I segni di distinzione personale (cognome, prenome, soprannome, pseudonimo, titoli nobiliari, e altri distintivi araldici), Napoli, 1905, oltre ad un centinaio di studi ed articoli in materia di regime delle acque pubbliche e private, di procedura civile, di ordinamento giudiziario, di notariato, di brevetti di invenzione, di diritto sindacale e corporativo. Notevoli gli studi in tema di radiofonia nei rapporti con il diritto civile. Alcune sue opere sono state tradotte in lingue estere (42). La proprietà intellettuale è un trattato sulla materia in due volumi, che fu anche tradotto in francese (43). Il primo volume reca la prefazione di Leonardo Coviello; il secondo reca la prefazione di E.h. Perreau utilizzata per la traduzione francese dell’intero trattato (44). Vi è la trattazione del regolamento giuridico della proprietà intellettuale, in uno a dottrina, giurisprudenza e convenzioni internazionali. Viene esposta: (41) Così: F.P. GABRIELI, voce menestrina Francesco, in Nuovo Digesto Italiano, vol. VIII, UTET, 1939, p. 422. (42) Per tali dati: voce Stolfi Nicola, in Nuovo Digesto Italiano, vol. XII, 1, UTET, 1940, p. 907. (43) La proprietà intellettuale, vol. I, II edizione, UTET, 1915, pp. 530; La proprietà intellettuale, vol. II, II edizione, UTET, 1917, pp. 782. (44) L’opera in esame è stata inserita nella Bibliothèque internationale de droit privé et de droit criminel edita dalla Casa editrice Giard e Brière di Parigi nel 1915. TEMI ISTITUZIONALI la storia della proprietà intellettuale, rivendicando a Venezia la priorità della protezione concessa con il sistema dei privilegi allora in vigore, non solo ad editori, ma anche a letterati, artisti e finanche a stranieri; la natura giuridica ed il fondamento della proprietà intellettuale (letteraria, scientifica ed artistica); i soggetti della proprietà intellettuale; l’oggetto della proprietà intellettuale (si questiona, tra l’altro, della tutelabilità delle fotografie, dei film, delle opere immorali, dei sermoni degli ecclesiastici nell’esercizio del loro ministero, delle lezioni dei professori); la durata dei diritti d’autore; le formalità prescritte per acquistare e conservare la proprietà letteraria; l’esercizio della proprietà intellettuale da parte dell’autore e dei suoi eredi; l’esercizio della proprietà intellettuale da parte degli aventi causa dell’autore (a mezzo, tra l’altro, del contratto di vendita e donazione del “corpus mechanicum”, del contratto di edizione, del contratto di rappresentazione o di esecuzione); la tutela giuridica della proprietà intellettuale; i rapporti internazionali (Convenzione di Berna, Convenzioni americane, trattati particolari). Stolfi ha dato alla trattazione della proprietà intellettuale forma accurata, limpida e concisa e ha prospettato con grande chiarezza le varie opinioni, per ogni questione presa in esame, criticando quelle che contrastano con le sue teoriche. Opera monumentale è il trattato di Diritto civile in nove volumi per i tipi della UTET. Un unico autore illustra -in modo sistematico e non esegetico tutto il diritto civile, con una esposizione piana, chiara, proporzionata, con inquadramenti storici e comparatistici e ampia bibliografia, per ogni argomento, nazionale e straniera. Questi i contenuti essenziali dei nove volumi: • volume I, parte I: Fonti, disposizioni preliminari e transitorie, UTET, 1919, pp. 820 (45). Vi è un’ampia trattazione della storia delle fonti del diritto civile italiano (pp. 221-563, con esposizione degli antichi diritti italici), della interpretazione e applicazione del diritto (pp. 564-753), con appendice riportante le leggi civili dei vari stati del mondo. • volume I, parte II: Il negozio giuridico e l’azione, UTET, 1931, pp. 918 (46). Vengono trattati i soggetti di diritto. In primo luogo le persone fisiche: principio e fine dell’esistenza delle persone, gli status, sede, differenze giuridiche tra gli uomini per: età, sesso, salute, condanne penali; registri di stato civile. Quindi le persone giuridiche. Infine gli enti di fatto (associazioni di fatto e comitati). Con riguardo alle associazioni di fatto si rileva che “Il decreto Alfieri (45) Lucano tra i lucani, il volume è dedicato alla memoria di Emanuele Gianturco e Nicola Coviello, tutti nati ad Avigliano in Basilicata (Gianturco nel 1857, Coviello nel 1867, Stolfi nel 1877). (46) Il volume è dedicato a Gaetano Scavonetti, Avvocato Generale dello Stato. Il testo della dedica, richiamando le parole di Maurice Maeterlinck: “Vi dedico questo libro, che è, per così dire, opera vostra. Vi è una collaborazione più alta e più vera di quella della penna: è la collaborazione del pensiero e dell’esempio”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 del 26 settembre 1848 riconosce esplicitamente alle persone il diritto di associazione, che rientra tra i diritti pubblici subbiettivi” (pp. 374-375); viene rilevata -in coerenza con le acquisizioni dell’epoca -una differenza netta tra la persona giuridica e l’associazione di fatto: “le persone giuridiche costituiscono un ente astratto, diverso dai membri che lo compongono. Invece nelle associazioni non vi è unità di subbietto, ma gli associati acquistano e si obbligano personalmente di fronte ai terzi. Di qui deriva, che soggetto passivo della liberalità è, nelle persone giuridiche, l’ente astratto; laddove nelle associazioni sono i singoli soci. Perciò in rapporto alle prime vale una liberalità devoluta allo scopo che esse si propongono di conseguire; in rapporto alle altre bisogna che siano determinate le persone cui sono fatte. Ed anche il patrimonio è diversamente concepito e regolato: nelle persone giuridiche, spetta all’ente astratto ed è indipendente da quello particolare dei membri; nelle associazioni, non vi è unità di patrimonio, il quale si considera comune a tutti i membri dell’associazione, sicché risente le influenze che i patrimoni di costoro subiscono ” (pp. 377-378). Circa la disciplina dell’ente di fatto, acclarata la inapplicabilità delle norme del codice civile in tema di società civili ed in tema di persone giuridiche, “E poiché esso non è stato regolato dal Codice civile, non rimane che appigliarsi alle regole generali delle obbligazioni (art. 1103), e alla intenzione dei contraenti (art. 1131), non senza rilevare fin da ora, che in questa materia, uno dei principi regolatori deve essere quello consacrato nell’art. 1124 (47)” (p. 380). Vi è poi l’esposizione dell’oggetto di diritti (con le consuete distinzioni tra cose), dell’acquisto, modificazione e perdita di diritti (in questa sede è trattato il negozio giuridico) e delle difese giudiziarie dei diritti. •volume II, parte I: Il possesso e la proprietà, UTET, 1926, pp. 715. Il testo è stato tradotto in lingua bulgara. Vengono trattate: le tipologie del possesso; l’usucapione o prescrizione acquisitiva; la proprietà ed i suoi limiti; il condominio e la proprietà collettiva, come il compascolo (48); i modi di acquisto e le tutele. • volume II, parte II: I diritti reali di godimento, UTET, 1928, pp. 626 (49). (47) Secondo il quale “I contratti debbono essere eseguiti di buona fede, ed obbligano non solo a quanto nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge derivano”. (48) “Nel medio Evo, perdurando la grande utilità dei pascoli, sorse l’opportunità, che i proprietari di fondi s’impegnassero al pascolo reciproco. Per consuetudine cioè o per tacito consenso, i detti proprietari dei fondi vicini mandarono i loro animali nel proprio fondo, sectis segetibus, per godere di eguale diritto per il fondo vicino. E siffatto diritto, che oramai si perde nella notte dei tempi, dura tuttora col medesimo carattere con quale nacque. Pertanto ne godono i proprietari di determinati fondi e solo per fondo determinati […]. In Italia il compascolo vige tuttora in alcune province meridionali (Puglia e Calabria), e in Sicilia” (pp. 355-356). (49) Il volume è dedicato al Ministro della giustizia Alfredo Rocco “artefice sommo del rinnovamento della legislazione italiana questo piccolo segno di grande stima e di devozione profonda”. TEMI ISTITUZIONALI Vengono esposte: le servitù personali (usufrutto, uso, abitazione); le servitù prediali; enfiteusi; superficie; diritti reali sotto leggi anteriori (oneri reali, usi civici e domini collettivi); diritti assoluti sopra beni giuridici immateriali (proprietà intellettuale e industriale). • volume II, parte III: I diritti reali di garanzia, UTET, 1932, pp. 443 (50). Vengono trattati i prelievi (51), i privilegi, i pegni e le ipoteche. •volume III: Le obbligazioni in generale, UTET, 1932, pp. 528 (52). Vengono esposte: le varie specie di obbligazioni; le fonti delle obbligazioni ossia i contratti, i quasi contratti (gestione di negozi, ripetizione dell’indebito), i delitti e quasi delitti, la legge; gli effetti delle obbligazioni; la trasmissione delle obbligazioni (successione nel credito, successione nel debito); l’estinzione delle obbligazioni. •volume IV: I contratti speciali, UTET, 1934, pp. 643 (53). Vi è l’esposizione di: donazione; compravendita; permuta; locazione; deposito e sequestro; comodato; precario; transazione; contratto estimatorio; contratti relativi al credito (mutuo, rendita fondiaria, rendita semplice, contratto vitalizio); anticresi; fideiussione; giuoco e scommessa; contratti relativi alle prestazioni umane (locazione di opere, contratto di appalto, contratto di trasporto, il mandato, la società, la mezzadria). •volume V: Diritto di famiglia, UTET, 1921, pp. 869 (54). Vi è l’esposizione di: matrimonio; rapporti personali tra i coniugi (con il principio cardine dell’epoca: il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui); rapporti patrimoniali tra i coniugi (separazione dei beni con la disciplina della autorizzazione maritale; regime dotale; comunione dei beni; convenzioni matrimoniali); famiglia (azioni di stato, rapporti tra i coniugi e tra i genitori ed i figli); adozione; prole nata fuori dal matrimonio. •volume VI: Il diritto delle successioni, UTET, 1934, pp. 777. Vi è la trattazione istituzionale della materia, con esposizione degli istituti tipici dell’epoca quali la divisione dell’ascendente tra i discendenti (divisio inter liberos) e, in modo ampio, dei fedecommessi. All’indomani della riforma codicistica del diritto civile -in collaborazione con il fratello Francesco -redasse, per i tipi della Casa editrice Jovene di Napoli un ampio commento al Codice Civile: Il nuovo Codice Civile commentato (50) Il volume è dedicato “Al prof. Amedeo Giannini affettuosamente”. (51) “Dicesi che ha il diritto di prelievo o prelevamento colui che, avendo un diritto dominicale o un diritto reale sopra una cosa espropriata, può chiedere che sia separata a suo vantaggio la parte del prezzo ritratto dalla vendita forzata, corrispondente al valore della sua proprietà o del diritto reale. Da tale definizione discende, che chi gode del prelievo non entra in concorso coi creditori del debitore espropriato, ma preleva per sè solo e prima degli altri creditori la parte del prezzo che gli compete” (p. 22). (52) Il volume è dedicato “Alla mia carissima mamma e alla santa memoria di mio padre”. (53) Il volume è dedicato “Alla mia Lillina 24 luglio 1933”. (54) Il volume è dedicato “Alla soave e cara memoria di mia moglie e di mia figlia Sina”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 con i lavori preparatori -La più recente giurisprudenza del vecchio e il nuovo codice -Le norme di attuazione. Poté curare il commento solo dei primi tre libri (Libro I Delle persone, 1939, pp. 523; Libro II Delle successioni, 1941, pp. 571; Libro III Della proprietà, 1944, pp. 567) ed il tomo I del libro IV (Delle obbligazioni, 1949, pp. 295), essendo venuto meno ai vivi nell’anno 1945; la restante parte dell’opera venne completata da altri giuristi. Per ogni articolo del codice è riportato il testo, se del caso la bibliografia, i lavori preparatori ed il commento. Per il nuovo Digesto è stato autore dei seguenti lavori: voce Capacità civile, vol. II, 1937, pp. 758-772; voce Capacità di agire, vol. II, 1937, pp. 777778; voce Capacità giuridica, vol. II, 1937, pp. 782-788. 10. Gaetano Scavonetti. Gaetano Scavonetti (1876-1957) (55), entrato nell’Avvocatura Erariale nel 1906, divenne presto il più diretto collaboratore dell’Avvocato Generale Giovanni Villa, al quale successe nel 1921. Senatore del Regno nel 1929. Fu “costretto alle dimissioni nel 1938 per scarsa ortodossia politica” (56). Tornò alla vita pubblica nel dopoguerra come membro e poi Presidente dell’Alta Corte per la Regione siciliana; si ritirò da tale carica nel 1952. Quale Avvocato Generale, riuscì nel breve volgere di un decennio a condurre in porto ben quattro radicali riforme di struttura dell’Istituto (quelle del 1923, 1925, 1930 e 1933), che fecero dell’Avvocatura dello Stato un organismo di alta efficienza e perfettamente sintonizzato con le esigenze e aspirazioni di legalità dell’azione amministrativa (57). È legato al suo nome l’accentramento presso l’Avvocatura dello Stato del patrocinio delle Amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e altresì l’istituzione del “Foro dello Stato” (art. 19 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2828) (58), in virtù del quale la trattazione delle cause che interessano le Amministrazioni deve avvenire, per la stragrande maggioranza, presso le Autorità giudiziarie della sede delle singole Avvocature. (55) Scheda biografica alla voce Scavonetti Gaetano, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVI, UTET, 1969, p. 684. (56) Così: L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 564. (57) Per tali dati: L’ Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, cit., p. 564. (58) “La competenza per territorio nelle cause nelle quali è parte una delle Amministrazioni dello Stato, anche nel caso di più convenuti ai sensi dell’art. 98 del Codice di procedura civile, spetta al Tribunale o alla Corte di appello del luogo dove ha sede l’ufficio della Regia avvocatura erariale nel cui distretto si trova il Tribunale o la Corte di appello che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l’Amministrazione dello Stato è chiamata in garantia, la cognizione così della causa principale come dell’azione in garantia è devoluta, sulla semplice richiesta dell’Amministrazione, con ordinanza del presidente, all’autorità giudiziaria competente a norma del comma precedente”. TEMI ISTITUZIONALI Opera principale: L’equità della Pubblica Amministrazione, Padova, 1933. Fu altresì autore di due voci enciclopediche per il Nuovo Digesto italiano della UTET: della voce Avvocatura dello Stato (vol. II, 1937, pp. 69-78) e altresì della voce Foro dello Stato (vol. VI, 1938, pp. 100-103). 11. Adolfo Giaquinto. Adolfo Giaquinto (1878-1971), entrato in Magistratura nel 1903, ne percorse tutti i gradi fino a quello di Primo presidente della Corte di appello di Roma. Fu avvocato generale presso la Corte di cassazione, ove si distinse per la limpidità e precisione di pensiero nelle requisitorie nei processi civili. Fu Avvocato Generale dello Stato dal 1938 al 1945. Fece parte della Commissione parlamentare per il Codice Civile e di quelle ministeriali per i Codici Civile e Procedura Civile. Fu nominato nel 1916 libero docente di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione e insegnò presso l’Università prima di Napoli e poi di Roma. Dedicò la sua attività a molte istituzioni e a compiti di giustizia: liquidatore degli usi civici a Napoli, componente del Tribunale superiore delle acque pubbliche, della Commissione per la riforma delle legislazioni sulla espropriazione per causa di pubblica utilità. Fu infine, per molti anni Presidente della Commissione Centrale delle Imposte (59). Sue opere principali sono: Teoria generale della responsabilità e sua applicazione agli enti pubblici, Santa Maria Capua Vetere, 1909; La responsabilità degli enti pubblici, Santa Maria Capua Vetere, in tre volumi, II edizione, 1912; Della attività statale, Napoli, 1915; Lezioni di diritto amministrativo presso la R. Università di Roma, Roma, 1938 (60). Con riguardo all’opera del 1909 sulla responsabilità degli enti pubblici è stato detto: “opera rivoluzionaria, forse, la sua, nel periodo in cui fu scritta; ma essa contiene in sé le basi ed il fondamento delle nuove teorie sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione; ed ha di sé improntato tutti gli studi che successivamente si sono venuti svolgendo nella materia, ponendosi come una pietra miliare della giuspublicistica italiana” (61). Fu altresì autore di diverse voci enciclopediche per il Nuovo Digesto italiano della UTET: della voce Contratto amministrativo (vol. IV, 1938, pp. 9297), della voce Contributo di miglioria (vol. IV, 1938, pp. 152-155), della voce Diritto amministrativo (vol. IV, 1938, pp. 888-893), della voce Diritto pub (59) Dati riportati sulla Rass. Avv. Stato, 1971, p. 2 nel riportare la notizia del Suo decesso. (60) Per tali dati: voce Giaquinto Adolfo, Nuovo Digesto Italiano, vol. VI, UTET, 1938, p. 259 ed altresì voce Giaquinto Adolfo, Novissimo Digesto Italiano, cit., 836. (61) Così: G. ChICCA, La evoluzione storica dei principii della soggezione alla giurisdizione e della difesa legale dello Stato, cit., p. 29. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 blico (vol. IV, 1938, pp. 1191-1193) e della voce Espropriazione per pubblica utilità (vol. V, 1938, pp. 649-662). 12. Avvocati dello Stato che collaborarono al Nuovo Digesto italiano (19371940). Tra le due guerre mondiali, dal 1937 al 1940, venne pubblicato -a cura Mariano D’Amelio, Primo Presidente della Corte di Cassazione, con la collaborazione di Antonio Azara, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione -il Nuovo Digesto italiano, voll. I-XII (13 tomi), per i tipi della UTET, ossia la più importante enciclopedia giuridica dell’epoca. Opera completata in appena tre anni, a cinquanta anni dalla pubblicazione del primo volume del Digesto Italiano, enciclopedia metodica e alfabetica di legislazione, di dottrina e di giurisprudenza redatta sotto la direzione di Giuseppe Saredo e Luigi Lucchini. Al Nuovo Digesto hanno partecipato tutti i giuristi d’Italia; professori universitari, pratici del diritto, alti funzionari dei vari Ministeri tecnici. In totale oltre 600 autori hanno atteso alla redazione delle novemila voci dell’opera. Tra i collaboratori dell’opera, con contributi significativi, vi sono stati numerosi Avvocati dello Stato che hanno spaziato in vari campi del diritto, con prevalenza - intuitivamente - nel diritto pubblico. Di seguito si riporta il nominativo degli Avvocati dello Stato in uno al contributo prestato. Con riguardo alle voci afferenti al diritto pubblico: • Giuseppe Belli, Sostituto Avvocato dello Stato: voce Parchi della rimembranza, vol. IX, 1939, p. 446; voce Parchi naturali, vol. IX, 1939, p. 446; voce Parere, vol. IX, 1939, p. 451; voce Passaggi a livello, vol. IX, 1939, pp. 509-510; voce Patente (Tassa di), vol. IX, 1939, p. 524; voce Pomodori, vol. IX, 1939, p. 1244; voce Prenotazione, vol. X, 1939, p. 193; • Ernesto Chiomenti, Sostituto Avvocato dello Stato, voce Impiegati ferroviari statali, vol. VI, 1938, pp. 765-773; • Carlo Dedin, Sostituto Avvocato dello Stato, voce Prestiti pubblici, vol. X, 1939, pp. 308-315; voce Prestito a premio, vol. X, 1939, pp. 330-333; • Francesco Di Gennaro, Vice Avvocato dello Stato, voce Demanio speleologico, vol. IV, 1938, pp. 697-701; • Gino Fornaci, Sostituto Avvocato dello Stato, voce Anticipazioni e sovvenzioni, vol. I, 1937, pp. 482-484; • Luigi Malpeli, Sostituto Avvocato Generale dello Stato, voce Ferrovie dello Stato, vol. V, 1938, pp. 1066-1078. Con riguardo alle voci afferenti al diritto civile: • Gian Carlo Messa, Vice Avvocato Generale dello Stato, voce mutuo (diritto civile), vol. VIII, 1939, pp. 834-848; • Giuseppe Azzariti, Sostituto Avvocato dello Stato, voce Diseredazione, TEMI ISTITUZIONALI vol. IV, 1938, pp. 38-40; voce Filiazione (diritto civile), vol. V, 1938, pp. 11361160; voce maternità (ricerca della), vol. VIII, 1939, pp. 217-218; voce Paternità (ricerca della), vol. IX, 1939, pp. 527-533; • Nicola Stolfi, Avvocato dello Stato, voce Capacità civile, vol. II, 1937, pp. 758-772; voce Capacità di agire, vol. II, 1937, pp. 777-778; voce Capacità giuridica, vol. II, 1937, pp. 782-788. Nel diritto processuale civile vi sono le voci di • Francesco Menestrina, Sostituto Avvocato Generale dello Stato poi Avvocato Distrettuale dello Stato: voce Giattanza (giudizio di), vol. VI, 1938, pp. 260-261; voce mendelssohn Bartholdy Alberto, vol. VIII, 1939, p. 421; voce Nuove province, vol. VIII, 1939, pp. 1179-1186; voce Procedure bagatellari, vol. X, 1939, pp. 612-613; voce Proroga di giurisdizione e di competenza, vol. X, 1939, pp. 779-780; voce Wach Adolfo, vol. XII, 2, 1940, p. 1149. • hanno riguardato invece varie branche del diritto le numerosissime voci redatte da Dario Foligno, Sostituto Avvocato dello Stato (62). • Infine, siccome nelle opere enciclopediche solitamente la voce relativa a una data istituzione viene confezionata dal vertice della stessa, le voci relative all’Avvocatura dello Stato sono state redatte dall’Avvocato Generale dello Stato Gaetano Scavonetti. Si tratta della voce Avvocatura dello Stato, vol. II, 1937, pp. 69-78 e della voce Foro dello Stato, vol. VI, 1938, pp. 100-103. 13. Salvatore Scoca, padre della democrazia (63). Una caratteristica degli Avvocati dello Stato, vieppiù quelli rivestenti posizioni apicali, è stata quella di partecipare, in posizioni di primo piano, alla vita istituzionale del Paese. I primi Avvocati Generali, durante la carica, sono stati anche Ministri. Giacomo Giuseppe Costa -Avvocato Generale dopo Mantellini, dal 1885 al 1897 -fu Ministro di Grazia e Giustizia; Giovanni Villa Avvocato Generale dal 1913 al 1921 -fu Ministro dei Trasporti e Vice Presidente del Consiglio dei Ministri. (62) Voce Consiglio comunale, vol. III, 1938, pp. 877-888; voce Consiglio provinciale, vol. III, 1938, pp. 918-919; voce Erario, vol. V, 1938, pp. 451; voce Ermeneutica, vol. V, 1938, p. 481; voce Gemelli, vol. VI, 1938, p. 217; voce Giunta comunale, vol. VI, 1938, pp. 344-345; voce Grida in combattimento, vol. VI, 1938, pp. 507-508; voce In praeteritum non vivitur, vol. VI, 1938, pp. 1126-1127; voce Interregno, vol. VII, 1938, p. 75; voce Istruzione ministeriale, vol. VII, 1938, pp. 346-348; voce Liberum veto, vol. VII, 1938, pp. 892-893; voce Libripens, vol. VII, 1938, p. 949; voce maggioranza, vol. VII, 1938, pp. 1113-1115; voce magistrato delle acque, vol. VIII, 1939, p. 5; voce malitiis non est indulgendum, vol. VIII, 1939, pp. 35-36; voce mandamento, vol. VIII, 1939, p. 50; voce mandato imperativo, vol. VIII, 1939, pp. 102-104; voce meeting, vol. VIII, 1939, p. 417; voce messo comunale, vol. VIII, 1939, p. 433; voce monte delle pensioni, vol. VIII, 1939, p. 719; voce monte di famiglia, vol. VIII, 1939, pp. 719-720; voce monte di maritaggio o monacaggio, vol. VIII, 1939, p. 720; voce Notaio della corona, vol. VIII, 1939, pp. 1054-1055. (63) Così è definito il Nostro in un articolo a Lui dedicato in occasione dei sessanta anni della morte: V. SBRESCIA, Scoca, padre della democrazia, in “Il Quotidiano del Sud”, 12 dicembre 2021, p. 16. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Salvatore Scoca (1894-1962), coniugando l’impegno burocratico con l’impegno politico, è stato uno dei protagonisti della vita politico-istituzionale del secondo dopoguerra. Fu Sottosegretario di Stato al Ministero del Tesoro nel Governo Bonomi III (1944-1945) e poi Sottosegretario di Stato al Ministero delle Finanze nel Governo De Gasperi II (1946-1947), Ministro per la riforma della pubblica Amministrazione nel Gabinetto Pella (1953-1954). Nel 1946 fu nominato Avvocato Generale dello Stato, carica ricoperta fino alla sua morte. Fu eletto Deputato nel 1948 e nel 1953. Affiancò la sua attività di funzionario dello Stato con quella di attento studioso di problemi economici e finanziari, come risulta dalle diverse sue pubblicazioni. Presso la Regia Università degli Studi economici e commerciali di Trieste, Scoca fu incaricato dell’insegnamento di Scienza delle finanze e diritto finanziario dall’anno accademico 1926-27 all’anno accademico 1931-32, dell’insegnamento di Politica economica negli anni accademici 1929-30 e 1930-31 e nell’anno accademico 1929-30 tenne un ciclo di conferenze in materia di Legislazione tributaria nei Corsi di specializzazione per la “organizzazione, amministrazione ed economia industriale” e per la “Preparazione professionale in materia di economia e commercio” (64). Docente di diritto finanziario, poi, anche presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma nel- l’anno accademico 1940-1941. Direttore, con Achille Donato Giannini e Carlo D’Amelio, della Rivista italiana di diritto finanziario, e poi dal 1949 sotto l’alta guida di Luigi Einaudi e insieme con Giannini, Griziotti e Vanoni, della Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. Contribuì, con una serie di pubblicazioni, articoli, note a sentenze, al fiorire della scuola italiana di diritto finanziario. “Egli fu considerato tra gli studiosi più autorevoli del diritto finanziario, uno dei maestri di questa disciplina. Fu molto apprezzato per la sua non comune capacità di analisi degli istituti giuridici del diritto finanziario, per il suo rigore metodologico, per la sua organica visione di sistema. [...]. Fu, poi, eletto alla Costituente, ove contribuì a gettare le basi della nuova Costituzione, Si batté, in particolare, per sancire il principio della progressività contributiva, ispirandosi ad una visione fondata sull’equità e sulla giustizia sociale, fu il “padre” dell’art. 53 della Costituzione in virtù del quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” […]. Relatore di maggioranza, fu, in Parlamento, uno dei fondatori della CA (64) Tanto è stato ricordato nel Convegno “Salvatore Scoca e la Regia Università degli Studi economici e commerciali di Trieste -La ricerca e l’insegnamento di Scienza delle finanze e Diritto finanziario”, tenutosi presso l’Università degli Studi di Trieste in occasione dei sessanta anni della morte. Nel Convegno si è anche ricordato che, in seguito, nel suo ruolo di Ministro, Scoca svolse un ruolo di primo piano nei rapporti governativi e diplomatici e dette un decisivo contributo per l’affermazione nei fatti della italianità di Trieste; e lo fece con la passione che gli derivava dalla vecchia e serena frequentazione della città, delle sue istituzioni culturali e dei suoi abitanti. TEMI ISTITUZIONALI SmEZ e sostenitore delle politiche straordinarie per le regioni insufficientemente sviluppate del meridione” (65). Fece parte di innumerevoli Commissioni e organi collegiali, sempre ricercato per la profonda conoscenza dei problemi giuridici, da cui non andava mai disgiunto un naturale innato equilibrio nella ricerca di adeguate soluzioni. E si vuol qui ricordare la sua partecipazione al Consiglio del Contenzioso diplomatico e alla Commissione per la formazione dei testi unici e delle leggi tributarie, che, sotto la Sua presidenza, ha licenziato il testo unico sulle imposte dirette ed ha portato a termine la elaborazione di quello della legge sulla riscossione (66). Opere principali: Le entrate ordinarie dello Stato, Padova, 1927; Le entrate straordinarie dello Stato, Padova, 1928; Effetti finanziari della svalutazione della moneta; L’evasione dell’imposta di ricchezza mobile (Dir. Prat. Trib., 1928); Sulla causa giuridica dell’imposta (Riv. Dir. Pubbl., 1932); Elementi di scienza delle finanze, Lanciano, 1936; Gli enti impositori quali soggetti passivi di imposizione (Riv. It. Dir. Fin., 1937); Situazione finanziaria e riforma tributaria (Ibid., 1939); Appunti per la riforma tributaria, Roma, 1944 (67). È stato altresì autore -come già Gaetano Scavonetti per il Nuovo Digesto -della redazione della voce Avvocatura dello Stato, (vol. I, 2, 1958, pp. 16851690) e della voce Foro dello Stato (vol. VII, 1961, pp. 503-595) per il Novissimo Digesto italiano, (III edizione del Digesto della UTET). Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha pubblicato: Leggi di bilancio e leggi finanziarie nell’articolo 81 della Costituzione (1960, n. 1-2-3, pp. 1-9). 14. Giuseppe Azzariti e Giuseppe Belli. Giuseppe Azzariti e Giuseppe Belli hanno entrambi collaborato, con ampi contributi, al Nuovo Digesto Italiano, come registrato innanzi, e al Novissimo Digesto Italiano. In quest’ultima opera enciclopedica, anzi, sono stati gli unici Avvocati dello Stato a collaborare con continuità, avendo redatto quasi tutte le voci aventi quali autori Avvocati dello Stato (con l’eccezione delle voci Avvocatura dello Stato e Foro dello Stato, affidate alla redazione dell’Avvocato Generale Salvatore Scoca). • Giuseppe Azzariti (1908-2000) svolse tutta la carriera nell’Avvocatura dello Stato, per diventare Sostituto Avvocato Generale dello Stato, poi Avvocato Distrettuale dello Stato di Napoli e infine Vice Avvocato Generale dello Stato. Quale tecnico si prestò altresì alla società civile, svolgendo l’incarico di assessore al bilancio al Comune di Napoli tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del (65) Così V. SBRESCIA, Scoca, padre della democrazia, in “Il Quotidiano del Sud”, 12 dicembre 2021, p. 16. (66) Dati riportati nella Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, gennaio -giugno 1962, pp. 1-2. (67) Su tali dati: voce Scoca Salvatore, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVI, UTET, 1969, p. 783. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 secolo scorso. Donò tutta la sua ricchissima biblioteca giuridica all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Campobasso. Civilista classico, si è interessato in particolare, in modo costante, per decenni (a partire dagli anni ’30 e fino agli anni ‘90 del secolo passato), della disciplina della famiglia e delle successioni. È autore, con Francesco Saverio Azzariti e Giovanni Martinez, di un ampio testo istituzionale, molto diffuso, sulle successioni: Successioni per causa di morte e donazioni, per i tipi della CEDAM, giunto nel 1959 alla terza edizione, pp. 798. Altro testo importante, descrittivo della successione necessaria e della successione legittima, è Successione dei legittimari e successione dei legittimi, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale fondata da W. Bigiavi, II edizione, UTET, 1989, pp. 509 (III edizione nel 1997, pp. 510, aggiornata da A. Iannaccone). ha curato, per il Trattato di Diritto Privato, diretto da Pietro Rescigno, per i tipi della UTET, giunto nel 1997 alla II edizione, “L’accettazione del- l’eredità”, “La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede”, “La rinunzia all’eredità”e“L’eredità giacente” (nel 5° volume: Successioni Tomo Primo, pp. 133-219) e “La divisione” (nel 6° volume: Successioni Tomo secondo, pp. 391-479). Giuseppe Azzariti ha scritto, come evidenziato innanzi, importanti voci enciclopediche per il Nuovo Digesto (alla fine degli anni ’30 del secolo scorso) e per il Novissimo Digesto tra il 1959 ed il 1971. Per il Nuovo Digesto è autore dei seguenti lavori: voce Diseredazione, vol. IV, 1938, pp. 38-40; voce Filiazione (diritto civile), vol. V, 1938, pp. 1136-1160; voce maternità (ricerca della), vol. VIII, 1939, pp. 217-218; voce Paternità (ricerca della), vol. IX, 1939, pp. 527-533. Per il Novissimo Digesto è autore delle seguenti voci: Contestazione di stato, vol. IV, 1959, pp. 398-402; Debiti ereditari (pagamento dei), vol. V, 1960, pp. 182-187; Disconoscimento (azione di), vol. V, 1960, pp. 1091-1098; Filiazione legittima e naturale, vol. VII, 1961, pp. 315-333; Legittimazione dei figli (diritto civile), vol. IX, 1963, pp. 727-731; maternità (dichiarazione di), vol. X, 1964, pp. 323-325; Paternità (dichiarazione di), vol. XII, 1965, pp. 557-565; Possesso di stato (dichiarazione di), vol. XIII, 1966, pp. 419422; Reclamo di stato (azione di), vol. XIV, 1967, pp. 1068-1070; Stato civile, vol. XVIII, 1971, pp. 292-301; Successioni (diritto civile), Successione testamentaria, vol. XVIII, 1971, pp. 805-862. Per l’Enciclopedia giuridica Treccani è autore della voce Successione. III) SUCCESSIoNE LEGITTImA, vol. XXX, 1993, pp. 1-12. È autore di numerosi articoli sulla materia delle successioni pubblicati sulle più importanti riviste giuridiche italiane, tra cui la Giustizia civile, Giurisprudenza italiana, Rivista di diritto privato. TEMI ISTITUZIONALI Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha scritto i seguenti articoli: In tema di responsabilità degli eredi del contribuente, in Rass. Avv. Stato, 1959, n. 3-4, pp. 41-44; I termini per l’accertamento e per la iscrizione a ruolo delle imposte dirette, in Rass. Avv. Stato, 1960, n. 7-8-9-10-11-12, pp. 69-73. • Anche Giuseppe Belli (1905-1965), come Giuseppe Azzariti, svolse tutta la carriera nell’Avvocatura dello Stato, per diventare infine Vice Avvocato Generale dello Stato. ha scritto importanti voci enciclopediche per il Nuovo Digesto e per il Novissimo Digesto. Per il Nuovo Digesto è autore delle seguenti voci enciclopediche: Parchi della rimembranza, vol. IX, 1939, p. 446; Parchi naturali, vol. IX, 1939, p. 446; Parere, vol. IX, 1939, p. 451; Passaggi a livello, vol. IX, 1939, pp. 509 -510; Patente (Tassa di), vol. IX, 1939, p. 524; Pomodori, vol. IX, 1939, p. 1244; Prenotazione, vol. X, 1939, p. 193. Per il Novissimo Digesto è autore delle seguenti voci: Croce rossa, vol. V, 1960, pp. 18-20; Funerale, vol. VII, 1961, pp. 674-675; Industria e industrializzazione, vol. VIII, 1962, pp. 621-629; Istituto Poligrafico dello Stato, vol. IX, 1963, p. 262; mercato, fiera ed esposizione, vol. X, 1964, pp. 569-574. È autore altresì della importante voce enciclopedica Avvocatura dello Stato, in Enc. del diritto, vol. IV, Giuffré, 1959, pp. 670-680. Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha scritto i seguenti articoli: Il solve et repete e la Costituzione, in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 11-12, pp. 1 -6; La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, in Rass. Avv. Stato, 1950, n. 2, pp. 1-7; L’intervento dello stato per la responsabilità dei danni cagionati dagli impianti nucleari, in Rass. Avv. Stato, 1958, n. 5 -6, pp. 53-55. 15. Nicola Catalano, padre del rinvio pregiudiziale d’interpretazione e apostolo del primato del diritto comunitario. Nicola Catalano (1910-1984) è stato tra le figure di primo piano nella fase pioneristica di applicazione del diritto comunitario, tanto che in un recente saggio è definito come il “padre del rinvio pregiudiziale d’interpretazione e apostolo del primato del diritto comunitario” (68). Entrato nell’Avvocatura dello Stato nel 1939 come vincitore di concorso, nel 1955 fu promosso Sostituto Avvocato Generale dello Stato, ruolo che ricoprì fino al 1° maggio 1962 allorché lasciò i ranghi dell’Avvocatura. Nel (68) Così A. ARENA e A. ROSANò, Nicola Catalano (1910-1984): padre del rinvio pregiudiziale d’interpretazione e apostolo del primato del diritto comunitario, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 1 2024. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 1958 fu nominato nell’alta carica di Giudice della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che mantenne fino all’8 marzo 1962. Catalano partecipò, in qualità di delegato italiano, al Groupe de rédaction, il comitato di giuristi (noto, per tale ragione, anche come Groupe juridique) al quale fu affidato il compito di redigere le disposizioni generali e istituzionali dei Trattati di Roma. Tale comitato svolse i propri lavori tra la fine del 1956 e l’inizio del 1957. Fu proprio Catalano a proporre al Groupe de rédaction l’introduzione di un procedimento pregiudiziale con un oggetto più ampio di quello previsto dall’art. 41 del Trattato CECA, che consentiva alla Corte di giustizia di pronunciarsi solo sulla validità delle deliberazioni dell’Alta Autorità e del Consiglio speciale dei Ministri. In particolare, Catalano formulò la prima bozza di quello che sarebbe diventato l’art. 177 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE), che previde espressamente il potere dei giudici comunitari di pronunciarsi sull’interpretazione di tale trattato e del diritto derivato. Nel formulare questo nuovo tipo di rinvio pregiudiziale, Catalano si ispirò alla questione incidentale di costituzionalità prevista nell’ordinamento italiano (69). In effetti, va ricordato che all’epoca in cui Catalano collaborava con il Groupe de rédaction, egli faceva ancora parte dell’Avvocatura dello Stato e che, in tale veste, aveva partecipato ai primi procedimenti incidentali decisi dalla Corte costituzionale, pubblicando anche un articolo sugli aspetti procedurali di tale sindacato di costituzionalità (70). Le pronunce pregiudiziali hanno permesso alla Corte di Giustizia di affermare ed elaborare una serie di principi cardine del diritto comunitario, tra cui quello del primato delle norme comunitarie sulle norme degli Stati membri. Catalano fu fautore di tale principio fin dall’inizio del processo di integrazione europea, in quanto corollario della sua concezione delle Comunità europee come organizzazioni con “finalità indubbiamente federalistiche” (71) o addirittura “federazioni parziali” (72). Il nesso tra il principio del primato e la concezione delle Comunità europee di Catalano si coglie nella sua pubblicazione (69) In tal senso N. CATALANO, La Corte costituzionale e le Comunità europee (nota a Corte cost., sentenza 6 aprile 1963, n. 49), in Il Foro italiano, 1963, parte V, col. 67 e ss., ove si afferma che l’art. 177 del Trattato CEE era “ispirato” all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale”; N. CATALANO, Disciplina delle importazioni del petrolio in Francia e disposizioni del Trattato CEE (nota a Corte giust., 4 febbraio 1965, causa 20/64, Albatros c. So.pe.co.), in Il Foro italiano, 1965, parte V, col. 63, dove si legge che l’art. 177 del Trattato CEE è stato “direttamente ispirato” dalla questione incidentale di costituzionalità prevista dal- l’ordinamento italiano. (70) N. CATALANO, Della “rilevanza” della questione costituzionale quale condizione dell’ordinanza di trasmissione alla Corte, in Rass. Avv. Stato, 1957, pp. 1 e ss. (71) N. CATALANO, Le fonti normative della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, in Actes officiels du Congrès d’études sur la C.E.C.A, Milano, 1957, vol. II, pp. 120-121. (72) N. CATALANO, manuale di diritto delle Comunità europee, 1965, pp. 21-22 e ID., La Comunità economica europea e l’Euratom, 1957, p. 6. TEMI ISTITUZIONALI del 1966 intitolata Elementi istituzionali di diritto comunitario, in cui sottolineò che il primato delle norme comunitarie sulle norme interne era un’esigenza giuridica che discendeva dal “tipo federale di struttura realizzata” dai Trattati comunitari (73). Catalano prese parte attivamente ai dibattiti accademici sulla natura delle Comunità europee. Intervenne alla Conferenza di Stresa del 1957, dove fu relatore sulle fonti del diritto CECA, e nello stesso anno pubblicò la prima monografia in italiano sulla CEE e l’Euratom, con prefazione del Ministro degli esteri Gaetano Martino. Dopo l’esperienza di giudice comunitario, Catalano continuò a seguire e commentare gli sviluppi del diritto comunitario: fu autore di oltre cento pubblicazioni, di cui oltre trenta note a sentenza pubblicate nel Foro italiano. Nel 1962 egli pubblicò, in italiano e in francese, il proprio manuale di diritto delle Comunità europee, al quale seguì una seconda edizione, anch’essa in italiano e in francese, nel 1965. Nel 1963, nell’ambito del Colloquio dell’Aia organizzato dalla Federazione Internazionale di Diritto Europeo (FIDE), fu coautore, insieme a Riccardo Monaco, del rapporto per l’Italia sull’applicabilità diretta e immediata del diritto comunitario. Inoltre, nel 1983, pubblicò nella rivista fondata da Altiero Spinelli e Felice Ippolito, Le Crocodile: lettre aux membres du Parlement européen, un parere sulla legittimità giuridica e istituzionale del progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea, approvato l’anno successivo dal Parlamento europeo. Nel 1984 diede alle stampe, insieme a Riccardo Scarpa, il suo ultimo volume, Principi di diritto comunitario. Infine, l’impegno di Catalano a favore dell’integrazione europea si manifestò nell’associazionismo e nella politica. Divenne presidente dell’Associazione italiana giuristi europei, fondata nel 1958 per promuovere la conoscenza del diritto comunitario. Fu membro del Consiglio italiano del Movimento europeo, un’organizzazione creata nel 1948 per coordinare i partiti, le associazioni ed i sindacati a favore dell’integrazione europea (74). Opere principali: La Comunità economica europea e l’Euratom, I edizione, Giuffré, 1957 e II edizione, Giuffré, 1959, pp. 613; manuale di diritto delle Comunità europee, II edizione, Giuffré, 1965; Principi di diritto comunitario, Giuffrè, 1984. Di primaria importanza è l’opera La Comunità economica europea e l’Euratom (75). Il libro del 1957, quindi coevo alla stipula dei trattati di Roma sulla costituzione della C.E.E. e dell’EURATOM, costituisce il primo tenta (73) N. CATALANO, Elementi istituzionali di diritto comunitario, in IV Corso di diritto e di economia delle Comunità europee, Milano, 1966, p. 78. (74) Quanto innanzi riportato sulla attività del Catalano è stato desunto dal citato saggio di A. ARENA e A. ROSANò, Nicola Catalano (1910-1984): padre del rinvio pregiudiziale d’interpretazione e apostolo del primato del diritto comunitario. (75) Sulla quale la recensione in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 9-10, pp. 149-151. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 tivo di una sistemazione organica delle norme dei due trattati e consente, per ciò solo, una sintetica visione d’insieme. Catalano, in modo lucido, evidenzia che la Comunità Economica Europea e l’Euratom sono qualche cosa di nuovo nel mondo degli istituti giuridici internazionali, e precisamente qualche cosa di meno di uno Stato federale, ma qualche cosa di più delle Unioni Internazionali. Si tratterebbe, secondo l’autore, di strutture di nuovo tipo, tendenti verso lo Stato federale, il quale potrebbe rappresentare la tappa finale del loro sviluppo, quando cioè, dall’integrazione economica si dovesse passare all’integrazione politica. Tanto viene dimostrato nei capitoli relativi alle istituzioni e alle fonti del diritto. L’autore evidenzia che nessun trattato internazionale (salvo quello istitutivo della C.E.C.A., ma in misura minore) ha finora dato vita ad istituzioni del genere di quelle previste dal Trattato della C.E.E., né si era mai finora verificato il caso che in forza di un trattato potessero inserirsi immediatamente nell’ordinamento giuridico statale norme provenienti da fonti di produzione non statali (regolamenti deliberati dal Consiglio). È inutile sottolineare l’importanza che dal punto di vista politico hanno queste novità; basterà riflettere in proposito che esse, se pur non eliminano, riducono grandemente quello che è il maggiore ostacolo al funzionamento degli organismi internazionali creati da trattati multilaterali, e cioè la vischiosità insita nel processo di adattamento della legislazione dei singoli Stati alle norme dei trattati e, in genere, alle deliberazioni degli organi direttivi delle istituzioni internazionali. Catalano evidenzia l’assoluta importanza della natura, delle funzioni, e della competenza della Corte di Giustizia, regolata negli artt. 164, 188 e 192 del Trattato della C.E.E. La novità assoluta, per quanto riguarda questa istituzione, è costituita dalla norma contenuta nell’art. 177 il quale stabilisce che la Corte di giustizia è competente a pronunziarsi sull’interpretazione del trattato, sulla validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della comunità e sulla interpretazione degli Statuti degli organismi creati con atto del Consiglio; tale competenza è esclusiva nel senso che quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente avanti una giurisdizione nazionale, prima o poi, essa finisce con l’essere obbligatoriamente rimessa al giudizio della Corte di Giustizia. È certo la prima volta che uno Stato inserisce nel suo ordinamento giuridico una norma in forza della quale una vertenza giudiziaria non può trovare la sua definizione davanti ad un giudice nazionale ma deve svolgersi, sia pure per una fase, davanti ad un giudice non nazionale. La ricostruzione del Catalano, nel corso dei decenni successivi, sarebbe diventata l’opinione comune. La grandezza dell’autore è che fin da subito, ossia prima ancora che le istituzioni abbiano iniziato a funzionare, ha individuato i dati caratterizzanti delle comunità europee e la loro assoluta novità. È altresì autore della voce C.E.R.N. (organizzazione Europea per le Ricerche Nucleari), in Novissimo Digesto, vol. III, UTET, 1959, pp. 12-124 e TEMI ISTITUZIONALI della voce EURATom (Comunità europea dell’energia atomica), in Novissimo Digesto, vol. VI, UTET, 1960, pp. 1039-1043. Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha pubblicato: La controversia franco-americana avanti la corte dell’Aja, in Rass. Avv. Stato, 1952, n. 10-11, pp. 167-179 (si esamina una importante controversia -sfociata nella pronuncia del 27 agosto 1952 della Corte internazionale di giustizia -nella quale per la prima volta il Governo degli Stati Uniti d’America ha accettato l’arbitrato della Corte internazionale di Giustizia; ciò è avvenuto in occasione della controversia con la Francia -quale potenza protettrice dell’Impero sceriffiano del Marocco -concernente la legittimità ed applicabilità nei confronti dei cittadini americani di un decreto sceriffiano del 30 dicembre 1948 sul controllo delle importazioni sans devises <franco-valuta>); Della “rilevanza” della questione costituzionale quale condizione dell’ordinanza di trasmissione alla Corte, in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 1-2, pp. 1-7. 16. Dario Foligno. Dario Foligno (1902-1975) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1937, vi percorse i vari gradi fino alla carica di Vice Avvocato Generale dello Stato, con la quale si congedò dall’Istituto. Giurista dai molteplici interessi, si è occupato principalmente di temi afferenti al diritto amministrativo. La sua opera principale è L’Attività Amministrativa, Giuffrè, 1966, pp. 319 (76). Con tale opera l’autore estende la sua indagine a tutto il campo del- l’attività giuridica di tipo imperativo della Pubblica Amministrazione. Il secondo capitolo reca una approfondita analisi dell’atto amministrativo, mettendone in luce la sua collocazione nella fenomenologia giuridica, il complesso procedimento della sua formazione, la sua distinzione dagli atti di altri poteri e dagli atti politici, la individuazione degli atti generali e speciali, i caratteri peculiari dell’atto amministrativo: tipicità, nominatività, esecutorietà ed irretroattività. Il quarto capitolo espone l’invalidità dell’atto amministrativo; all’uopo l’autore sussume tale nozione sotto il più ampio paradigma delle difformità dell’atto medesimo dall’ordinamento giuridico e trae da tale collocazione lo spunto per ricollegare ai gradi di formazione dell’atto (esaminati nel secondo capitolo) le fattispecie di difformità dall’ordinamento giuridico (inesistenza, imputazione, invalidità, nullità, illiceità, annullabilità, illegittimità e inefficacia) come sanzioni ordinamentali o cause impeditive di perfezione, validità, efficacia. L’ultima parte del volume in rassegna è dedicata al tema dei ricorsi amministrativi. Foligno ha scritto, come evidenziato innanzi, numerose voci enciclope (76) Sulla quale la recensione di A. SALVATORI, in Rass. Avv. Stato, 1966, II, pp. 78-79. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 diche per il Nuovo Digesto; è autore dei seguenti lavori: Voce Consiglio comunale, vol. III, 1938, pp. 877-888; voce Consiglio provinciale, vol. III, 1938, pp. 918-919; voce Erario, vol. V, 1938, pp. 451; voce Ermeneutica, vol. V, 1938, p. 481; voce Gemelli, vol. VI, 1938, p. 217; voce Giunta comunale, vol. VI, 1938, p. 344-345; voce Grida in combattimento, vol. VI, 1938, p. 507508; voce In praeteritum non vivitur, vol. VI, 1938, pp. 1126-1127; voce Interregno, vol. VII, 1938, p. 75; voce Istruzione ministeriale, vol. VII, 1938, pp. 346-348; voce Liberum veto, vol. VII, 1938, pp. 892-893; voce Libripens, vol. VII, 1938, p. 949; voce maggioranza, vol. VII, 1938, pp. 1113-1115; voce magistrato delle acque, vol. VIII, 1939, p. 5; voce malitiis non est indulgendum, vol. VIII, 1939, pp. 35-36; voce mandamento, vol. VIII, 1939, p. 50; voce mandato imperativo, vol. VIII, 1939, pp. 102-104; voce meeting, vol. VIII, 1939, p. 417; voce messo comunale, vol. VIII, 1939, p. 433; voce monte delle pensioni, vol. VIII, 1939, p. 719; voce monte di famiglia, vol. VIII, 1939, pp. 719-720; voce monte di maritaggio o monacaggio, vol. VIII, 1939, p. 720; voce Notaio della corona, vol. VIII, 1939, pp. 1054-1055. Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha scritto i seguenti articoli: Ricorso gerarchico e provvedimenti di urgenza, in Rass. Avv. Stato, 1950, n. 1, pp. 1-14; Cenni giuridici intorno alla confisca dei beni, in Rass. Avv. Stato, 1950, n. 4, pp. 97-101; Contrappunti in tema di sistemazione degli atti della R.S.I., in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 1, pp. 8-13; Esecuzione dell’atto giurisdizionale e concessione della forza pubblica, in Rass. Avv. Stato, 1952, n. 1 -2, pp. 1-7; I soggetti nel contenzioso costituzionale, in Rass. Avv. Stato, 1957, n. 5-6, pp. 65-94; La pretesa responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, in Rass. Avv. Stato, 1963, n. 1-2-3, pp. 1-23; Gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale (nuovi spunti in margine alla sentenza sul plus-valore delle aree fabbricabili), Rass. Avv. Stato, 1966, II, pp. 181188; Lo Stato in giudizio fra Stato Comunità e Stato apparato, Rass. Avv. Stato, 1968, II, pp. 69-87. ha scritto inoltre il saggio Titolarità del credito per imposte dirette e garanzia fideiussoria in Scritti giuridici in memoria di Marcello Barberio Corsetti, Giuffré, 1964, pag. 243 ss. 17. Francesco Chiarotti. Francesco Chiarotti (1916-1994) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1942, vi percorse i vari gradi fino alla carica di Vice Avvocato Generale dello Stato. Come giurista si è interessato in particolar modo a temi relativi al diritto penale. È autore della importante monografia, La nozione di appartenenza nel diritto penale, Giuffré, 1950, pp. 145, opera ancora attuale per le questioni affrontate. Con tale opera si prende posizione sulla tematica della appartenenza TEMI ISTITUZIONALI nel diritto penale, rilevante nell’ambito dei delitti contro il patrimonio e nelle confische. In dottrina si discute sull’individuazione della corretta nozione di appartenenza. Da un lato, è stata ipotizzata un’interpretazione stricto sensu, secondo cui per “appartenenza” si intende, ai fini di interesse del diritto penale, solo quella connessa al diritto di proprietà, con l’effetto che soltanto il diritto di proprietà è suscettibile di confisca. Dall’altro lato (e tra questi vi è Chiarotti), tale nozione -recependo una concezione elaborata dai privatisti diviene sinonimo di “titolarità di un diritto avente per oggetto un bene” (77). Per l’Enciclopedia del diritto della Giuffré, ha curato la redazione delle seguenti voci: Abuso di autorità (contro arrestati o detenuti), vol. I, 1958, pp. 175-178; Apertura arbitraria di luoghi o di oggetti, vol. II, 1958, pp. 586-587; Armi ed esplosivi, vol. III, 1959, pp. 26-33; Cadavere (dir. pen.), vol. V, 1959, pp. 771-775; Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano, vol. VII, 1960, pp. 160-163; Concussione (diritto vigente), vol. VIII, 1961, pp. 700710; Contagio da malattie veneree, vol. IX, 1961, pp. 612-614; Defunti (delitti contro la pietà dei), vol. XI, 1962, pp. 896-900; Detenzione abusiva di armi, vol. XII, 1964, pp. 335-338; Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, vol. XIII, 1964, pp. 343-345. Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha scritto i seguenti articoli: L’appartenenza nei più recenti sviluppi della dottrina e della giurisprudenza, Rass. Avv. Stato, 1955, nn. 5 -6, pp.100-104; Sulla costituzione di parte civile dell’amministrazione finanziaria nei processi per contrabbando, Rass. Avv. Stato, 1955, nn. 1-2, pp. 1-6. 18. Giuseppe Guglielmi. Giuseppe Guglielmi (1916-1995) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1946 e vi restò in servizio fino al 1968, lasciando l’Istituto con la carica di Sostituto Avvocato Generale dello Stato. Giurista poliedrico, si è interessato della materia tributaria e del diritto costituzionale e amministrativo. Con il collega Giorgio Azzariti, futuro Avvocato Generale dello Stato, ha scritto l’importante opera Le imposte di registro, sesto volume del Trattato di Diritto Tributario diretto da Achille Donato Giannini, UTET, 1959, pp. 207. Gli autori, partendo da una analisi del rapporto giuridico tributario di registro e della natura delle obbligazioni tributarie, espongono in modo istituzionale la complessa ed affascinante disciplina dell’imposta di registro, la “madre dell’Avvocatura dello Stato” secondo l’Avvocato dello Stato Massimo Mari, ad evidenziare l’importanza -specie nel contenzioso del passato -di questo tributo. (77) F. ChIAROTTI, La nozione di appartenenza nel diritto penale, Giuffré, 1950, p. 56. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha scritto i seguenti articoli: L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità dello stato e degli enti pubblici, in Rass. Avv. Stato, 1949, n. 6 -7, pp. 169-176; I contratti della pubblica amministrazione -parte prima, in Rass. Avv. Stato, 1951, n. 3, pp. 61-65; I contratti della pubblica amministrazione -parte seconda, in Rass. Avv. Stato, 1951, n. 4, pp. 83-89; L’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato, in Rass. Avv. Stato, 1953, n. 1 -2, pp. 1-11; Questione di competenza costituzionale e giurisdizione -studi in onore di Guido Zanobini, in Rass. Avv. Stato, 1960, n. 7-8 -9-10-11-12, pp. 65-68; Corte dei conti e questione di legittimità costituzionale, in Rass. Avv. Stato, 1962, n. 7-9, pp. 68-69; Ancora su “questione di competenza costituzionale e giurisdizione”, in Rass. Avv. Stato, 1963, n. 1-2-3, pp. 28-30. 19. Tommaso Tomasicchio. Tommaso Tomasicchio (1915-1995) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1940; fu Sostituto Avvocato Generale dello Stato e poi Avvocato Distrettuale dello Stato di Catanzaro. Giurista versatile, la sua principale opera è senz’altro il manuale del contenzioso tributario, I edizione 1978, II edizione 1986, CEDAM, pp. 510. Opera istituzionale che descrive il processo tributario nella vigenza del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, innovato in modo incisivo con il d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739. Nella prima parte dell’opera vi è l’esposizione dei presupposti del processo tributario (giurisdizione e competenza), del giudice e dei suoi ausiliari, delle parti e dell’assistenza tecnica, degli atti e dei termini del processo tributario, del processo in generale e degli atti impugnabili. Nella seconda parte dell’opera vi è l’esposizione delle varie fasi del processo e l’attuazione delle decisioni: i giudizi dinanzi alla Commissione tributaria di I e di II grado; le impugnative avverso le decisioni della Commissione tributaria di II grado (impugnativa alla Commissione Tributaria Centrale ed impugnativa alla Corte di appello); il ricorso per cassazione e le altre impugnazioni (opposizione di terzo e revocazione); sospensione, interruzione ed estinzione del processo tributario; i poteri istruttori e la prova nel processo tributario; l’esecuzione delle decisioni tributarie. L’opera si fa apprezzare per la sua sistematicità, chiarezza e proporzione, con ampi riferimenti storici, dottrinali e giurisprudenziali ed altresì rilievi critici (l’autore, tra l’altro -a pag. 24 -rileva: “Tre gradi di giurisdizione, oltre quello davanti alla Corte Suprema di Cassazione, sono troppi; inopportuna e fonte di complicazione è poi la esistente divaricazione facoltativa, dopo la decisione della Commissione di secondo grado, tra Corte di Appello e Commissione Centrale ”); si evidenzia la natura giurisdizionale delle Commissioni tributarie, anche di quelle preesistenti alla riforma del 1972 (pp. 54-55). Altra opera rilevante è il massimario dell’espropriazione per pubblica TEMI ISTITUZIONALI utilità e della requisizione, a cura di T. Tomasicchio, Jandi Sapi editore, 1953, in ordine alla quale è stato rilevato che “per quanto ci consta, è la prima del genere, nella materia trattata, e che ha raggiunto lo scopo pratico che si proponeva” (78). ha scritto poi, con il collega Carmelo Carbone, Le sanzioni fiscali, terzo volume del Trattato di Diritto Tributario, diretto da Achille Donato Giannini, UTET, 1959, pp. 268. Il libro opera una trattazione sistematica delle sanzioni nel campo tributario, con originali spunti ricostruttivi; ad es., nell’opera si sostiene l’estensione della clemenza costituzionale -costituita dall’amnistia e dall’indulto -anche a sanzioni extrapenali, nello specifico a quelle fiscali (79). È autore poi, con il collega Giorgio Amorth (Avvocato dello Stato dal 1948 al 1954, di seguito Magistrato), di due opere di grande importanza sistematica e pratica, dedicate alle peculiarità della presenza dello Stato in giudizio. Allorché la controversia dinanzi al giudice ordinario abbia quale parte una amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, vi sono regole processuali peculiari, che derogano alle ordinarie regole. In queste controversie opera il patrocinio istituzionale dell’Avvocatura dello Stato in favore delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Tale patrocinio comporta l’applicazione delle disposizioni contenute nel T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato e nel regolamento approvati, rispettivamente, con regi decreti 30 ottobre 1933, numeri 1611 e 1612, nonché degli artt. 25 (sul foro erariale) e 144 (sul luogo delle notifiche) c.p.c. Si tratta di un regime processuale speciale di assistenza legale e di patrocinio, con norme imperative ed inderogabili, connotato fondamentalmente da: a) mandato ex lege:“La rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano alla Avvocatura dello Stato. Gli avvocati dello Stato, esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità” (art. 1 R.D. n. 1611/1933). Lo jus po (78) Così nella recensione in Rass. Avv. Stato, 1954, nn. 8-9, p. 187, ove si osserva altresì che “Ciò che rende l’opera particolarmente pregevole è, soprattutto, l’indice-sommario redatto con criteri sistematici aderenti ai principi teorici adottati dalla migliore dottrina. È proprio grazie a questo indice sommario che la ricerca delle massime può essere effettuata con facilità, (agevolata anche dall’indice alfabetico analitico da usarsi tuttavia in modo puramente sussidiario), sì che il difetto principale delle opere del genere (e, cioè, la difficoltà del reperimento della massima adeguata alla fattispecie) appare quasi eliminato. Riteniamo che questa pubblicazione sia una opera la quale non può mancare nelle biblioteche di coloro che si occupano, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista pratico e professionale, delle importanti materie della espropriazione e della requisizione”. (79) C. CARBONE -T. TOMASICChIO, Le sanzioni fiscali, UTET, 1959, p. 73. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 stulandi dell’Avvocatura dello Stato è organico, obbligatorio ed esclusivo; b) regole speciali sulla competenza territoriale (cd. foro erariale: artt. 6-10 R.D. n. 1611/1933 e art. 25 c.p.c.) (80); c) regole speciali sulla notificazione degli atti processuali (presso l’Avvocatura dello Stato: art. 11, comma 1, R.D. n. 1611/1933 (81) e art. 144 c.p.c. (82)); d) prenotazione a debito delle spese di giudizio (83). La materia è, all’evidenza, molto tecnica, sicché -per i pratici è grandemente utile un’opera che dipani la complessa disciplina. A tanto ha provveduto Tomasicchio, con Amorth, con due opere: La citazione in giudizio delle amministrazioni dello Stato e degli enti patrocinati dalla Avvocatura dello Stato, di G. Amorth e T. Tomasicchio, CEDAM, I edizione 1956 (pp. 240), II edizione 1958 (pp. 258). Il giudizio civile con lo Stato: manuale teorico pratico, di G. Amorth e T. Tomasicchio, CEDAM, 1963, pp. 313. L’utilità (diremmo necessità) di un’opera del genere è comprovata dal fatto che -nel corso dei decenni -altri autori si sono cimentati ad esporre la materia dello “Stato in giudizio” (84). 20. Antonino Freni, grand commis e selettore di talenti. Antonino Freni (1929-2006) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1960; vi percorse i vari gradi fino alla carica di Vice Avvocato Generale dello Stato. Nino Freni è stato giurista partecipe della scuola di Francesco Santoro Passarelli, che nel secondo dopoguerra ha ricostituito il diritto del lavoro su severe basi civilistiche ed ha fornito una intensa collaborazione a Gino Giugni, divenendo partecipe di un nuovo modo di fare diritto del lavoro più aperto agli influssi internazionali e alle relazioni industriali. (80) Quest’ultimo articolo così dispone: “Per le cause nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l’amministrazione è convenuta, tale distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda”. (81) “Tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del ministro competente”. (82) Art. 144, comma 1, c.p.c.: “Per le amministrazioni dello Stato si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell’avvocatura dello Stato”. (83) Per questi aspetti: S. DE FELICE -M. GERARDO, Diritto amministrativo, volume III: Giustizia amministrativa, Pubblicazione indipendente, Amazon Distribuzione, 2024, pp. 57-58. (84) Tra questi citiamo: P. PAVONE, Lo Stato in giudizio. Enti pubblici ed Avvocatura dello Stato, Giuffré, I edizione, 1982, II edizione, 2002, pp. 426; L. BARRECA, La Pubblica Amministrazione parte nel processo civile, Giuffré, 1994, pp. 336; A. BRUNI, G. PALATIELLO, La difesa dello Stato nel processo, UTET Giuridica, 2011, pp. 344; A. MEZZOTERO, D. ROMEI, Il patrocinio delle pubbliche amministrazioni, CSA Editrice, 2016, pp. 319. TEMI ISTITUZIONALI Negli anni Sessanta del secolo trascorso Freni visse il momento topico del riformismo di centro-sinistra. Come Capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro egli fornì un contributo importante alla trasformazione del Paese. Con il Ministro Giacomo Brodolini, durante il primo governo Rumor (1968-69), impostò alcune fondamentali riforme nel mondo del lavoro: il superamento delle gabbie salariali, la ristrutturazione del sistema previdenziale e l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori, che poi vennero definite dal Ministro Donnat Cattin. Da quell’intensa esperienza uscì il primo commento allo Statuto dei lavoratori in collaborazione con Gino Giugni, che in quegli anni era stato la mente delle innovazioni prospettate. Vuol farsi riferimento all’opera A. Freni, G. Giugni, Lo statuto dei lavoratori -Commento alla legge 20 maggio 1970, n. 300, Giuffré, 1971, pp. 224 (85). Si tratta di un commento, articolo per articolo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, che individua nella maniera più minuta ed analitica possibile (e con esemplare chiarezza) le questioni e i dubbi che possono sorgere nell’interpretazione delle varie disposizioni, indicandone la soluzione secondo una chiara prospettiva sistematica. Tale opera assunse un valore e un’importanza pratica, che non occorre certo sottolineare, nella fase di prima applicazione dello “statuto dei lavoratori” (definito dagli Autori “il più notevole atto innovativo, dopo l’emanazione della Costituzione, in tema di diritto sindacale e del lavoro”). Per circa quarant’anni Nino Freni ricoprì ruoli apicali all’interno delle Istituzioni (Capo di Gabinetto e/o Capo Ufficio legislativo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o Ministeri). Egli faceva parte di quel piccolo gruppo di alti funzionari che controllano il flusso tra politica e amministrazione e che rappresentano la continuità dello Stato, al di là delle fibrillazioni politiche. ha rappresentato soprattutto un anello di raccordo indispensabile tra politica e amministrazione. Freni ha esercitato una funzione strategica di selettore e reclutatore di capacità da mettere al servizio delle istituzioni, portando ad un livello elevatissimo l’attività degli staff di diretta collaborazione tra personale politico e amministrazione tecnica sia dal punto di vista delle funzioni espletate, sia da quello della selezione di personale adeguato. Per quanto riguarda il primo punto, Nino Freni è stato uno degli autori del D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165, che -chiosando tra art. 95 e 97 della Cost. -ha cercato di chiarire la divisione dei compiti tra politica e amministrazione e che all’art. 14 ha individuato negli uffici di diretta collaborazione gli strumenti di supporto e di raccordo con l’amministrazione. In questo specifico ambito Freni si rendeva conto dell’importanza della funzione di raccordo degli staff, che attenuava in maniera funzionale la “separatezza” eventuale tra politica ed amministrazione. (85) Recensione di M. CONTI, in Rass. Avv. Stato, 1971, II, pp. 43-45. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Circa la funzione di reclutatore, Nino Freni è stato un insuperabile cercatore di talenti tecnico-amministrativi da mettere a disposizione delle istituzioni: egli saggiava il terreno; verificava le capacità e promuoveva i talenti, che dovevano non soltanto avere capacità analitiche, ma anche sintetiche. Decine di alti funzionari dello Stato e di accademici prestati alla politica sono stati da lui individuati e selezionati al servizio delle istituzioni (86). 21. Carlo Bafile. Carlo Bafile (1927-2015) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1957; fu Avvocato Distrettuale dello Stato de L’Aquila e poi Vice Avvocato Generale dello Stato. La sua attività scientifica ha riguardato prevalentemente il campo tributario, sia negli aspetti sostanziali che processuali. La sua principale opera è Introduzione al diritto tributario, Cedam, 1978, pp. 403 (87). Opera istituzionale, mirante ad una sistemazione organica e scientifica della materia, totalmente rinnovata all’indomani della riforma tributaria del 1971-1973. Vengono esposti i principi generali, il rapporto giuridico d’imposta (obbligazione tributaria, attività amministrativa tributaria, rapporto giuridico formale), il procedimento amministrativo tributario (di accertamento, esecutivo, sanzionatorio e repressivo) e il contenzioso (ricorsi amministrativi, giurisdizione tributaria, ordinaria, amministrativa e penale). Si evidenzia la natura giurisdizionale delle Commissioni tributarie. Con riguardo al provvedimento impugnabile, l’autore avverte che il processo tributario non è di impugnazione-annullamento, ma di accertamento del rapporto, ovvero di impugnazione-merito. ha scritto anche opere monografiche in materia di processo tributario, quali Il giudizio di terzo grado nel processo tributario, Giuffré, 1982, pp.157 e Il nuovo processo tributario, Cedam, 1994, pp. 242. Per l’Enciclopedia giuridica Treccani è autore della voce Imposta, vol. XVI, 1989, pp. 1-9. Per la Rassegna dell’Avvocatura dello Stato ha pubblicato -oltre a numerosissime note a sentenza relative agli aspetti sostanziali e processuale in materia tributaria -gli articoli: L’efficacia delle indicazioni urbanistiche sull’indennità di espropriazione, in Rass. Avv. Stato, 1968, II, pp. 173-180; Solidarietà tributaria: Questioni di diritto transitorio, in Rass. Avv. Stato, 1970, II, pp. 189-194. (86) Per tali dati: relazione di FULCO LANChESTER “Nino Freni: un selettore di talenti” al Convegno “Amministrazione, Economia e Politica. In ricordo di Nino Freni” (Parlamentino del CNEL-Roma, 7 giugno 2007), Pubblicato in: Parlalex, SCRITTI RECENTI. (87) Sul quale la recensione di M. FANELLI, in Rass. Avv. Stato, 1979, II, pp. 116-118. TEMI ISTITUZIONALI 22. Aldo Alabiso. Aldo Alabiso (1928-2021) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1952. Prestò servizio, fino al collocamento a riposo per il raggiungimento dei limiti di età, presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Come giurista, Alabiso ha trattato temi istituzionali del diritto civile. Opera di grande ricostruzione sistematica è Il contratto preliminare, Giuffré, 1966, pp. 307 (88), tuttora leggibile con frutto. Sulla scia di autorevoli cultori, italiani e stranieri, di teoria generale del diritto (in primis hans Kelsen, con la “Dottrina pura del diritto”, individuante nel negozio giuridico una fonte del diritto) e del diritto pubblico (Santi Romano), Alabiso con Il contratto preliminare, ha inteso dichiaratamente procedere ad una rivalutazione del concetto di negozio giuridico come fattispecie produttrice di diritto, sostenendo che solo tale concetto -unitamente alla teoria che distingue la “fattispecie”, come concetto statico, dal “procedimento”, come concetto dinamico -consente di dare una soddisfacente configurazione giuridica al contratto preliminare. Secondo la tesi centrale enunciata nel volume, ferma restando la concezione normativa del negozio giuridico, la collocazione del contratto preliminare nel quadro delle figure prese in esame dalla scienza giuridica non può prescindere dalla considerazione del carattere procedimentale del fenomeno considerato nella sua interezza, perché solo tale carattere può descrivere compiutamente, nel suo dinamismo, il ciclo di normazione privata che ha inizio con il contratto preliminare e si chiude con il contratto definitivo. Partendo da queste premesse di teoria generale del diritto e dalla considerazione delle origini storiche e dello sviluppo del concetto di contratto preliminare nelle dottrine italiana, francese e tedesca, Alabiso osserva che, nell’esercizio del potere di autonomia lor conferito dalla legge, i privati possono attuare il regolamento degli interessi meritevoli di tutela giuridica o attraverso un’unica pattuizione negoziale, mediante un contratto, cioè, definito “uninegoziale” o attraverso un più complesso procedimento costituito da due successive pattuizioni, il contratto preliminare ed il contratto definitivo. Nella prima ipotesi, la volizione delle parti si concreterebbe in una volizione- azione (secondo la terminologia del Santi Romano), in una normazione, cioè, immediatamente disciplinante gli interessi in gioco; nella seconda ipotesi, il fenomeno dinamico necessario alla realizzazione di una statuizione normativa privata si dividerebbe in due fasi ben distinte, la prima, concretantesi in una volizione-preliminare diretta a porre le norme di un futuro contratto ed in una volizione-azione, avente ad oggetto l’obbligo delle parti, immediatamente operativo, di stipulare il contratto definitivo, la seconda, consistente (88) Sul quale la recensione di L. MAZZELLA, in Rass. Avv. Stato, 1966, II, pp. 133-136. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 nell’emanazione della normazione concreta già concordata (conclusione del contratto definitivo). Delineata la struttura del contratto preliminare, definito come una fase del procedimento di normazione negoziale privata consistente nell’accordo di due o più parti di porre alcune norme costituenti semplici volizioni-preliminari e, nel contempo, una norma costituente volizione-azione che vincola le parti all’emanazione della normazione privata definitiva, in modo del tutto corrispondente a quella preliminare già concordata, l’autore nella successiva trattazione, concernente gli elementi del contratto preliminare, trova modo di affrontare e risolvere, in maniera conseguente alle premesse di ordine generale adottate, i più noti problemi agitati dalla dottrina nella delicata materia. Soluzione affermativa viene da lui proposta per la questione dell’ammissibilità di contratti preliminari ad alcune categorie di contratti (consensuali, reali, estintivi, ad efficacia reale). Parimenti favorevole egli si dichiara all’ammissibilità di contratto preliminare alla donazione ed alla fideiussione, mentre forti dubbi esprime in ordine alla configurabilità di un contratto preliminare di transazione. ha scritto altresì la monografia Il testamento, Editore Fratelli Conte, 1975, pp. 317. 23. Pietro Pavone. Pietro Ugo Pavone è entrato nell’Avvocatura dello Stato nel 1960 all’età di venticinque anni; è stato Avvocato Distrettuale dello Stato de L’Aquila e poi Avvocato Distrettuale dello Stato di Catania. Pavone è l’autore di una delle opere più consultate dai neoassunti nel- l’Avvocatura dello Stato e da coloro che vogliono intraprendere un giudizio contro lo Stato: Lo Stato in giudizio. Enti pubblici ed Avvocatura dello Stato, II edizione, Giuffré, 2002, pp. 426. Vi è una esposizione chiara e sistematica, con ampio corredo giurisprudenziale, della difesa in giudizio delle Amministrazioni Pubbliche patrocinate dall’Avvocatura dello Stato; difesa che presenta le peculiarità già evidenziate nel precedente paragrafo 19, trattando delle analoghe opere di Amorth e Tomasicchio. Il testo potrebbe essere rappresentato con la figura di due circonferenze uguali incidenti: la parte comune attiene allo Stato in giudizio attraverso l’Avvocatura; le parti laterali concernono rispettivamente il tema dei giudizi, in cui lo Stato non è rappresentato dall’Avvocatura, ed il tema del patrocinio dell’Avvocatura ad altri Enti. Nella parte prima vengono esaminate le modalità del patrocinio dell’Avvocatura; nella parte seconda viene trattato il tema dello Stato in giudizio davanti al giudice ordinario (con esame, tra l’altro di: foro erariale e sue deroghe; legittimazione processuale delle Amministrazioni dello Stato; notificazione degli atti giudiziari alle Amministrazioni dello Stato); nella terza lo Stato nei giudizi davanti alle giurisdizioni speciali e straniere (Consi TEMI ISTITUZIONALI glio di Stato e T.a.r., Corte dei conti, Commissioni tributarie, Corte costituzionale, Tribunale militare di pace, giudici soprannazionali, internazionali e stranieri); nella quarta il patrocinio dell’Avvocatura ad altri Enti. L’Appendice reca l’Elenco degli Enti Pubblici assistiti dall’Avvocatura dello Stato. ha scritto anche L’ingiunzione fiscale. opposizioni e ricorsi. La procedura esecutiva speciale, Maggioli Editore, 1985, pp. 401. Il testo tratta della autotutela esecutiva in base alla ingiunzione fiscale ex R.D. 14 aprile 1910, n. 639, strumento tuttora utilizzabile per la riscossione delle entrate patrimoniali di diritto privato da parte di tutte le PP.AA. Il comma 2 dell’art. 21 ter L. 7 agosto 1990, n. 241 (89) consente a tutte le PP.AA. di utilizzare lo strumento dell’autotutela costituito dall’ingiunzione fiscale (consentito in origine solo alle Amm.ni Statali e agli enti locali ex art. 1 R.D. cit. e agli altri enti previsti dalla legge). L’ingiunzione fiscale è utilizzabile -in base alla previsione del citato art. 1 R.D. cit. -per le entrate tributarie (ma, sul punto, è stato soppiantato dal ruolo) e per le entrate patrimoniali, purché il credito sia certo, liquido ed esigibile (es. ripetizione di indebito, credito in base ad un contratto di locazione, ecc.). L’art. 2 R.D. n. 639 citato, dispone che il procedimento di coazione comincia con l’ingiunzione la quale consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare entro trenta giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta; l’ingiunzione è notificata, nella forma delle citazioni, da un ufficiale giudiziario. Ove tale ingiunzione non sortisca effetto, al fine della riscossione delle somme in via coattiva potranno essere seguite tre diverse strade: I) esecuzione nei modi ordinari previsti nel codice di rito civile. Ciò in quanto l’ingiunzione fiscale rientra tra “gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva” (art. 474, n. 1 c.p.c.); II) esecuzione speciale prevista nel R.D. n. 639/1910 citato. È una procedura accelerata, tuttavia non facile da gestire attesi i rimandi al codice di procedura civile del 1865, che in tanti punti è diverso da quello attuale; III) esecuzione speciale mediante la procedura di riscossione tramite ruolo, secondo la disciplina contenuta nel d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, nel d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 e nel D.L.vo 26 febbraio 1999, n. 46. 24. Pier Giorgio Ferri. Pier Giorgio Ferri (1936-1998) entrò nell’Avvocatura dello Stato nel 1963 e prestò servizio presso l’Avvocatura Generale dello Stato, con una lunga esperienza professionale nel campo della protezione del patrimonio storico-artistico e dell’ambiente, fino alla morte avvenuta prematuramente. In collaborazione con Tommaso Alibrandi ha pubblicato varie opere sulla disciplina giuridica dei beni culturali e ambientali. Il lavoro più impor (89) “Ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 tante frutto di tale collaborazione è senz’altro il testo I beni culturali e ambientali, Giuffré, I edizione 1978 pp. 682, III edizione, 1995, pp. 774, compreso nella prestigiosa collana “Commentario di legislazione amministrativa” fondata da F. Piga e diretta da R. Laschena. Vi è una sistemazione completa ed organica di una materia squisitamente poliedrica nella vigenza delle fondamentali leggi 1° giugno 1939, n. 1089 (tutela delle cose d’interesse artistico o storico) e 29 giugno 1939, n. 1497 (protezione delle bellezze naturali), poi abrogate e sostituite dal D.L.vo 29 ottobre 1999, n. 490 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), a sua volta abrogato e sostituito dal D.L.vo 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio). La consultazione del testo è ancora utile, atteso che vi è continuità di disciplina negli istituti caratterizzanti. Vengono esposti: i principi generali dei beni culturali ed ambientali; l’organizzazione amministrativa (il Ministero per i beni culturali e ambientali e le Regioni); i beni (tipologia e procedimenti di individuazione); la gestione dei detti beni e quindi: conservazione, tutela ambientale, godimento pubblico, circolazione, acquisti dello Stato, commercio ed esportazione dei beni culturali; espropriazione per interesse culturale; ritrovamenti e scoperte, gestione del vincolo paesistico; sistema sanzionatorio. La materia dei beni culturali e ambientali risulta tipicamente pluridimensionale e interdisciplinare ed appare variamente regolata e interessata così dal costituzionale come dal civile, dall’internazionale -e segnatamente dal comunitario -dall’amministrativo e dal penale. Il dato unificatore del lavoro consiste, in definitiva, nel comune patrimonio di consapevolezza del fatto che ognuno dei temi affrontati non può essere compiutamente risolto se non ricorrendo alle indicazioni fornite da tutti i rami del diritto con esso interferenti e nella altrettanto percezione della norma come dato storico-sociologico, condizionato dai tempi e dalle strutture; momento di un divenire la cui analisi non può prescindere né dallo studio del passato né da quello dei mutamenti della società civile e della relativa coscienza. Basti citare, al riguardo, l’ampio risalto dato al profilo dell’interferenza fra regime dei beni e problematica degli strumenti urbanistici; dato indicativo -insieme con molti altri analoghi -della linea di lavoro seguita dagli Autori, attenti sempre più che al momento astratto e statico della norma a quello concreto e dinamico del divenire del diritto vivente (90). Per l’Enciclopedia del diritto della Giuffré ha redatto la voce Parchi, vol. XXXI, 1981, pp. 623-638 ed altresì la voce Raccolta d’arte, vol. XXXVIII, 1987, pp. 171-175. ha scritto altresì la voce “Avvocatura dello Stato” sulla Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. IV, Roma 1988, pp. 1-5. (90) Su tali aspetti la recensione di I.F. CARAMAZZA, in Rass. Avv. Stato, 1979, II, pp. 115-116. TEMI ISTITUZIONALI ha scritto, poi, l’articolo Il ministero dell’Ecologia, in Rivista Amministrativa della Repubblica Italiana, 1984, 226 ss. 25. Ignazio Francesco Caramazza Ignazio Francesco Caramazza è entrato nell’Avvocatura dello Stato nel 1964 all’età di ventisette anni; è stato Segretario Generale, Vice Avvocato Generale ed, infine, Avvocato Generale. Sottosegretario di Stato per l’interno, quale membro tecnico del Governo, dal 23 gennaio 1995 al 16 maggio 1996 con il Governo Dini. Membro della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi per oltre un trentennio, dal 1991 al 2024. Per l’Enciclopedia giuridica Treccani è autore della voce Documentazione e documento II) DIRITTo AmmINISTRATIVo (con Paola Palmieri), vol. XI, 1994, pp. 1-7. È stato uno degli autori del libro sul Centenario dell’Avvocatura dello Stato, il più volte citato volume L’Avvocatura dello Stato, Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, Istituto Poligrafico dello Stato, 1976, avendo redatto le parti relative a “L’Avvocato Regio nel Granducato di Toscana” (pp. 185-239) e “Alcuni contributi dell’Avvocatura dello Stato nello svolgimento dei giudizi di costituzionalità” (pp. 498-509). Caramazza, quale giurista, si è occupato prevalentemente di temi relativi alla giustizia e al processo amministrativo, specie nei rapporti di confine con le altre giurisdizioni, e della difesa dello Stato in giudizio, anche con aspetti comparatistici. Tanto a mezzo di interventi in Convegni, saggi, studi ed articoli, in un arco quarantennale (91). L’intenso lavoro di Caramazza è documentato sulla Rassegna dell’Avvocatura dello Stato. Nell’editoriale, contenuto nella Rassegna del 2012, n. 2, pp. 1 e ss. il direttore Giuseppe Fiengo -all’epoca Avvocato Distrettuale dello Stato di Napoli -evidenzia: “Il 30 settembre 2012 l’avv. Ignazio F. Caramazza, ha lasciato, per raggiunti limiti di età, la carica di Avvocato Generale dello Stato, alla quale era stato chiamato dal Governo il 1° marzo 2010. Chi sfoglia, magari anche solo sul web, la collezione della “Rassegna Avvocatura dello Stato”, trova, a partire dal 1965, un riferimento costante ad articoli, studi, interventi ed, in generale, a scritti dell’avv. Ignazio F. Caramazza: dalle prime esperienze di commento sul codice penale ai grandi temi sulla storia e sull’evoluzione del diritto costituzionale ed amministrativo, fino ad un intero volume della Ras (91) Esemplificativa di tale lavoro è la relazione “L’Avvocatura dello Stato nella storia e nel- l’esperienza degli altri paesi” al Primo Congresso Nazionale degli Avvocati e Procuratori dello Stato “L’Avvocatura dello Stato verso il 2000 nel solco della tradizione”, tenutosi a Firenze dal 2 al 4 giugno 1989 (in Atti del Primo Congresso Nazionale degli Avvocati e Procuratori dello Stato, 1989, MCS Congress, pp. 27-63). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 segna dedicato al conflitto di attribuzione con la Procura della Repubblica di milano sul caso Abu omar a lui affidato per la difesa. oltre alla continuità dell’impegno di studio e riflessione, messo in tanti anni a disposizione dei colleghi dell’Avvocatura, in questa lunga carrellata di scritti colpisce per quanti hanno avuto occasione di conoscerlo nella concreta attività d’Istituto -la profonda interazione che si coglie tra la rigorosa qualità scientifica, l’eleganza nell’argomentare e la solidità delle tesi con il modo razionale e concludente di svolgere dall’altra parte il lavoro professionale e gli impegni istituzionali: al ministero degli Interni, a tre lustri di distanza, ancora ricordano con apprezzamento il suo razionale e proficuo impegno come sottosegretario nel Governo Dini. La stessa recente decisione (molto apprezzata) di mantenere in vita, nella situazione di gravi difficoltà economiche di questi anni, anche l’edizione a stampa della “Rassegna Avvocatura dello Stato” indica in realtà come, per Ignazio Caramazza, non fosse concepibile la continuità nella sua attività professionale ed istituzionale senza un correlato riferimento al rigore logico che la redazione di scritti da pubblicare (e da leggere con l’attenzione che si dedica “alla carta”) necessariamente impongono. In questo contesto la sua esperienza di avvocato dello Stato, e poi di Avvocato Generale, può quindi essere letta, per essere compresa nei suoi tratti distintivi, nella chiave elitaria della cultura giuridica, dell’argomentare accurato ed attento alle prassi e delle scelte sue tutte, anche quelle eventualmente non condivise, fondate comunque su un ragionare lucido, puntuale, “scientifico”. Le esperienze svolte da Ignazio F. Ca- ramazza nella commissione governativa sul procedimento amministrativo e sull’accesso (la legge n. 241 del ‘90) mostrano che l’idea guida è stata quella di appartenere ad un Istituto che, sin dall’origine e nel suo concreto operare, dovesse sempre conservare il suo modo di porsi all’esterno in maniera sobria, elegante ed efficace […]”. Segue l’elenco delle pubblicazioni di Caramazza nella Rassegna dell’Avvocatura dello Stato (92). (92) Le forche caudine dell’art. 5 del codice penale, 1965, I, 855; mutata destinazione dei prodotti petroliferi e fraudolento procacciamento di buoni speciali, 1966, I, 248; In tema di repressione penale dei danneggiamenti recati al patrimonio storico, artistico ed archeologico nazionale, 1966, I, 744; In tema di competenza per connessione, 1977, I, 289; L’Avvocatura Generale dello Stato e l’archivio del contenzioso delle amministrazioni pubbliche e delle consultazioni, 1978, II, 115; L’istruttoria nel processo amministrativo: brevi note ai margini di un progetto di riforma, 1980, II, 39; L’equo canone nella locazione di immobili urbani: natura dei compiti dell’ISTAT; giudice competente nelle relative controversie, “anno precedente” cui riferire la valutazione, 1981, I, 736; Il congresso di messina del 3-8 novembre 1981, 1981, II, 27; In tema di responsabilità civile per fatto del giudice, 1982, I, 297; Depenalizzazione e decriminalizzazione nel diritto comparato, 1982, II, 125; Banche dei dati e privacy del cittadino: il sistema svedese, 1983, II, 13; L’accesso dei cittadini ai documenti della pubblica amministrazione, 1984, II, 141; La prova nel processo amministrativo, 1985, II, 87 (*); Le misure cautelari nel processo amministrativo, 1986, II, 87 (*); Interesse legittimo e procedimento, 1988, II, 1 (*); Il “diritto civile e politico” del cittadino nella cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria: ipotesi di genesi storica dell’interesse legittimo, 1988, II, 83 (*); L’atto amministrativo illegittimo e la dottrina dell’“ultra TEMI ISTITUZIONALI 26. Conclusione. Per quanto esposto nei paragrafi precedenti, emerge che nei centocinquant’anni della loro attività gli Avvocati dello Stato, oltre che svolgere con dignità ed onore il proprio compito di difendere e consigliare le Amministrazioni dello Stato, hanno svolto un ruolo di primo piano nella scienza giuridica, specie del diritto pubblico, nelle varie e mutevoli fasi storiche, a partire dai primordi dello Stato unitario (nel quale vi era un processo di assestamento delle Istituzioni) fino all’epoca attuale caratterizzata da una accelerazione informatica dell’agire. vires”, 1989, I, 354; Avvocatura dello Stato e giustizia amministrativa, 1989, II, 1 (*); La giurisdizione amministrativa (100 anni dopo l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato), 1990, II, 1 (*); L’avvocato del processo amministrativo, 1990, II, 11 (*); Il processo amministrativo nella sua evoluzione storica, 1990, II, 57 (*); La nuova disciplina degli stupefacenti al vaglio della Corte Costituzionale, 1991, I, 199 (*); L’attività della SIAE nella gestione economica dei diritti d’autore, 1991, I, 393 (*); Concessione di committenza e giurisdizione, 1991, I, 459 (*); Appunti sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, 1992, II, 1 (*); Problemi attuativi della legge numero 241/90, 1993, II, 1 (*); L’unicità della giurisdizione: un mito ricorrente, 1993, II, 89; Effettività della tutela: ottemperanza, 1994, II, 93 (*); Da una amministrazione senza giudice verso una giustizia senza amministrazione?, 1997, II, 3; Il segreto di Stato, 1998, I, 23; Brevi note sull’incidente di costituzionalità nella fase cautelare, 1998, I, 255; L’informe creatura cambia ancora volto, 1999, II, 87; Equiordinazione dei poteri nei conflitti dinanzi alla Corte, 2000, I, 25; Epilogo di un conflitto tra potere politico e potere giudiziario in tema di segreto di Stato, 2000, I, 39; In ricordo di massimo Severo Giannini, 2001, I, 18; Risarcimento del danno e giudizio amministrativo, 2001, I, 30; I limiti costituzionali della giurisdizione esclusiva, 2001, II, 26; Pubblica Amministrazione e tutela del cittadino, 2002, I, 319; Incidente di costituzionalità e giurisdizione in sede di giudizio cautelare amministrativo. Un dialogo difficile tra complessità e incomprensioni, 2003, I, 220; Il principio “simul stabunt, simul cadent” nello statuto regionale siciliano, 2003, III, 145; Limiti all’irresponsabilità del Presidente della Repubblica, 2004, II, 547; Le nuove frontiere della giurisdizione amministrativa (dopo la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204), 2004, III, 741; Federalismo e autonomie locali, 2004, IV, 1041; Intervento per l’assegnazione del Premio Antonio Sorrentino 2005, 2005, I, VII; Funzione pubblica e giurisdizione, 2005, III, 280; Cenni storici, funzioni ed organizzazione dell’Avvocatura dello Stato: relazione all’incontro tenutosi il 1° marzo 2006 a Rabat (marocco), 2006, I, 10 (*); Concessione della grazia, conflitto tra poteri dello Stato, 2006, I, 109; Prime evoluzioni della giustizia amministrativa: contributi dell’Avvocatura erariale, 2007, III, 5 (*); Il segreto di Stato: atto III. Con la risoluzione dei sei conflitti di attribuzione la Corte costituzionale completa la relativa disciplina, 2009, I, 13; Discorso di insediamento dell’Avvocato Generale Ignazio Francesco Caramazza. Roma, 14 ottobre 2012, Sala Vanvitelli, Palazzo S. Agostino, 2010, IV, 6; Intervento del- l’Avvocato Generale dello Stato avv. Ignazio Francesco Caramazza in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011, 2011, I, 1; Audizione dell’Avvocato Generale davanti alla Commissione giustizia della Camera. Legge 117/88, 2011, I, 7; Conferimento del dottorato in legge “honoris causa” all’Avvocato Generale dello Stato. Loyola University di Chicago, 21 maggio 2011, 2011, II, 1; Conferimento del Premio Aldo Sandulli 2011 all’Avvocato Generale dello Stato. motivazione del premio e testo del ringraziamento, 2011, IV, 1; “Lectio magistralis” dell’avv. Ignazio Francesco Caramazza: “La difesa dello Stato in giudizio e la soluzione italiana”. Introduce il dott. Gianni Letta. Roma, Università Luiss “Guido Carli”, Sala delle Colonne, 2012, I, 1; Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, 2012, I, 32; Potere giudiziario e diritto europeo, 2012, I, 63 (*); Il patrocinio dello Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Attività svolte e considerazioni generali, 2012, II, 7; Europa: l’unico continente che ha un contenuto, 2012, II, 39. Le pubblicazioni che recano l’asterisco (*) sono fatte con un coautore. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 2/2024 Solo per fare dei nomi, Nicola Stolfi, Francesco Menestrina, Nicola Catalano hanno operato da protagonisti nella scienza, rispettivamente, del diritto civile, del diritto processuale civile e del diritto comunitario. Tanto è la conseguenza, come già rilevato nella introduzione, degli stimoli somministrati dalla complessità e varietà del contenzioso oltre che degli interessi scientifici individuali, in uno alla severa selezione per l’ingresso nell’Istituto. ContenzioSonAzionALe Le Sezioni Unite sulla messa in mora della P.A. per ritardo nei pagamenti Giovanni Palatiello* La recente sentenza delle Sezioni Unite Civili 19 maggio 2025 n. 13249, premessa una interessante ricostruzione della disciplina codicistica in materia di luogo e tempo dell’adempimento delle obbligazioni, ha affrontato il tema del ritardo della P.A. nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. La questione controversa, in fattispecie non soggetta ratione temporis al d.lgs. n. 231/2002, riguardava, in particolare, i presupposti della mora del- l’amministrazione finanziaria nel pagamento di contributi comunitari (c.d. restituzioni all’esportazione in favore di esportatori di prodotti agricoli verso paesi terzi), intervenuto oltre il termine previsto per l’adempimento decorrente dalla presentazione dell’istanza dell’esportatore. Nell’interesse del- l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, l’Avvocatura dello Stato aveva censurato la decisione della Corte di appello di Napoli per “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1219, 1182, 1224 e 1282 c.c., in relazione agli artt. 269 e ss. del R.D. n. 827/1924 ed al R.D. n. 2440/1923”. In sostanza, la domanda di pagamento del contributo, atteso che è proposta prima del decorso del termine per la definizione del procedimento, non può comportare gli effetti della mora debendi. Infatti, nessun ritardo può ancora ritenersi verificato prima ancora della scadenza del predetto termine. Da qui l’impossibilità di poter configurare un diritto al pagamento di interessi e maggior danno, ex art. 1224 cod. civ., in assenza di una costituzione in mora successiva alla mera domanda di pagamento. Le Sezioni Unite -disattendendo le difese dell’Avvocatura Generale (*) Avvocato dello Stato. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 hanno affermato che la richiesta dell’esportatore sarebbe idonea di per sé a costituire in mora la P.A. ai fini della decorrenza degli interessi di mora e del maggior danno ex art. 1224 c.c, benché tale richiesta fosse antecedente alla scadenza del termine per l’adempimento. Questo il principio di diritto enunciato: “In tema di ‘restituzioni’ all’esportazione come disciplinate dal Regolamento (Cee) n. 3665/87 della Commissione del 27 novembre 1987, applicabile ratione temporis, la richiesta stragiudiziale di corresponsione del relativo sussidio economico, rivolta dal creditore esportatore nei confronti dell’Amministrazione finanziaria debitrice, costituisce atto idoneo a costituire in mora quest’ultima, anche agli effetti delle norme di contabilità di Stato, a decorrere dalla scadenza del termine ragionevole -nella specie definitivamente fissato dal giudice di merito -entro il quale l’Amministrazione medesima deve svolgere e completare il procedimento di verifica previsto dal Regolamento suddetto. Pertanto, conclusasi positivamente tale verifica e spirato quel termine senza l’avvenuto pagamento del menzionato sussidio, spettano al creditore esportatore gli interessi moratori sull’importo dello stesso e con l’indicata decorrenza”. La pronuncia non può che destare perplessità. Sotto il profilo pratico, il termine di legge per l’adempimento è funzionale a consentire all’autorità amministrativa nazionale di verificare l’effettiva esportazione e la congruità del quantum richiesto. Sotto il profilo della ricostruzione dogmatica, se è pur vero che il diritto comunitario attribuisce il credito all’esportatore per il solo fatto dell’esportazione, rimane il fatto che prima della scadenza del termine di legge per l’adempimento quel credito non era liquido, né esigibile. In definitiva, ritenere che la P.A. -i cui debiti pecuniari sono e restano “quérables” -sia in mora prima della scadenza di quel termine appare una soluzione non del tutto lineare. Siffatta natura del debito comporta infatti che il ritardo nei pagamenti non determini automaticamente gli effetti della costituzione in mora ex re, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ., occorrendo, invece, affinché sorga la responsabilità da tardivo adempimento con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno, la costituzione in mora mediante intimazione scritta di cui allo stesso art. 1219, comma 1 (cfr., ex multis, Cass. nn. 29776 e 23823 del 2020; Cass. n. 19085 del 2015; Cass. n. 5066 del 2009; Cass. nn. 19320 e 10691 del 2005). CoNteNzIoSo NAzIoNALe Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza 19 maggio 2025 n. 13249 -Pres. P. D’Ascola, Est. e. Campese -Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (avv. gen. Stato) c. JLM S.r.l. (avv.ti G. visconti, M. Confortini, G. Mandara). FAtti Di CAUSA 1. Con atto ritualmente notificato il 20 dicembre 2002, il Fallimento Italgrani s.p.a. citò il Ministero dell’economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli innanzi al tribunale di Napoli chiedendone la condanna al pagamento, tra l’altro, degli interessi moratori e del maggior danno ex art. 1224, comma 2, cod. civ. connessi alla mancata tempestiva corresponsione, in suo favore, delle restituzioni all’esportazione e del prefinanziamento ai quali aveva diritto, in quanto esportatrice di prodotti agricoli, richiesti per gli anni compresi fra il 1990 ed il 1997. Precisò che la Italgrani s.p.a., quando era in bonis, aveva promosso analoga domanda, con citazione del 15 dicembre 1997, ma il relativo giudizio era stato dichiarato interrotto per il suo fallimento e non riassunto. 2. Costituitisi entrambi i convenuti, l’adito tribunale partenopeo, esaurita l’istruttoria, nel corso della quale fu disposta ed espletata una consulenza tecnica d’ufficio, dichiarò il difetto di legittimazione passiva del Ministero predetto e, accertato l’inadempimento per la ritardata evasione delle descritte istanze di restituzione all’esportazione presentate dalla menzionata società in bonis, determinò in sessanta giorni il termine di evasione delle istanze medesime, sia per quelle presentate a partire dal 19 ottobre 1994 -epoca di entrata in vigore del d.m. n. 678/1994, contenente il regolamento di attuazione della legge n. 241/1990 -che per quelle inoltrate in epoca anteriore, e condannò l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli al pagamento, in favore dell’attore, degli interessi moratori e del maggior danno, ex art. 1224, comma 2, cod. civ., sulla base di quanto determinato dal consulente tecnico di ufficio. 3. Il gravame promosso dall’Agenzia predetta fu respinto dalla Corte di appello di Napoli con sentenza del 21 febbraio 2019, n. 971, pronunciata nel contraddittorio con Progetto Grano s.p.a. (medio tempore subentrata al Fallimento Italgrani s.p.a., quale assuntore del concordato fallimentare proposto dalla medesima società) ed il Ministero dell’economia e delle Finanze. 3.1 Per quanto qui ancora di interesse, quella corte rimarcò che la questione della mora ex re relativa all’obbligazione di pagamento delle restituzioni e dei prefinanziamenti alla quale era tenuta l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli non presentava il carattere della novità, essendo stata già considerata dal tribunale per giustificare l’accoglimento della domanda, sicché la censura esposta, sul punto, dall’appellante era sicuramente ammissibile. tuttavia la considerò infondata. 4. Per la cassazione di questa decisione l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha promosso ricorso affidato ad un motivo. Ha resistito, con controricorso, Progetto Grano s.p.a., Successivamente, si è costituita in giudizio JLM s.r.l. a socio unico, quale incorporante per fusione e successore a titolo universale di quest’ultima. 5. Con ordinanza interlocutoria n. 14648/2023, resa all’esito dell’adunanza camerale del 22 maggio 2023, la Prima Sezione civile di questa Corte, assegnataria del procedimento, ha rilevato un contrasto interno alla Sezione, «idoneo a refluire sul presente giudizio, nel quale pure è in discussione la questione della rilevanza della legislazione interna in tema di pagamenti della Pubblica Amministrazione rispetto all’obbligazione derivante sulla stessa in dipendenza di rapporti disciplinati da fonti comunitarie ». Pertanto, ha ritenuto doveroso rimettere la decisione della causa alla pubblica udienza, poi tenutasi il 5 ottobre 2023, all’esito della quale, con altra ordinanza interlocutoria del 22 novembre 2023, n. 32405, ha trasmesso rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 gli atti alla Prima Presidente la quale ha rimesso alle Sezioni Unite l’esame della questione «di massima di particolare rilevanza in ordine alla idoneità dell’istanza di restituzione al- l’esportazione a costituire atto di costituzione in mora della P.A. ed agli effetti delle norme in tema di contabilità di Stato ai fini del riconoscimento di interessi, moratori o corrispettivi, nelle obbligazioni a carico della P.A. nascenti dalla domanda di restituzione all’importazione per i prodotti soggetti a un regime di prezzi unici». 6. Il Procuratore generale, che ha depositato memoria, ha concluso per il rigetto del ricorso, discusso oralmente alla pubblica udienza del giorno 11 marzo 2025, in prossimità della quale sono state depositate da entrambe le parti memorie ex art. 378 cod. proc. civ. RAGioni DeLLA DeCiSione 1. – La tempestività del ricorso. È opportuno premettere che l’avvenuta notificazione della sentenza oggi impugnata, “con formula esecutiva, in data 24 aprile 2019, alla sola Agenzia delle Dogane e dei Monopoli” (cfr. pag. 1 del ricorso) deve considerarsi inidonea a far decorrere il termine breve di cui all’art. 325, comma 2, cod. proc. civ., posto che, come ancora recentemente ribadito da Cass. n. 13165 del 2024, quest’ultimo decorre «dalla notificazione della sentenza effettuata, ex art. 285 c.p.c., al procuratore della parte costituita, nel domicilio (reale od eletto) del medesimo, sicché la notificazione fatta, ai sensi dell’art. 479 c.p.c., alla parte personalmente non è idonea a far decorrere il suddetto termine». Nessun dubbio, pertanto, può sorgere circa la tempestività dell’odierno ricorso, notificato il 19 marzo 2020, nel termine annuale di cui all’art. 327 cod. proc. civ. (nel testo -qui applicabile ratione temporis trattandosi di processo iniziato, in primo grado, nel dicembre 2002 -anteriore alla riforma apportatagli dalla legge n. 69 del 2009), decorrente dalla data di pubblicazione (21 febbraio 2019) della sentenza impugnata, maggiorata del periodo di sospensione feriale e tenuto conto, altresì, delle misure adottate dal legislatore per far fronte all’emergenza epidemiologica da Covid-19: in particolare, di quanto disposto dall’art. 83, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 2020), che ha sospeso, per il periodo dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020, successivamente allungato fino all’11 maggio 2020 dall’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 40 del 2020), il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. 2. – Il motivo di ricorso. Con l’unico motivo, rubricato «Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1219, 1182, 1224 e 1282 c.c., in relazione agli artt. 269 e ss. del r.d. n. 827/1924 ed al r.d. n. 2440/1923 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)», l’Agenzia ricorrente ascrive alla corte distrettuale di avere errato nel non considerare che, pur essendo integralmente regolata dal diritto comunitario la materia delle integrazioni di prezzo ai produttori agricoli esportatori verso Paesi Ue, comunque rimangono applicabili le normative in tema di contabilità dello Stato e di debiti pecuniari della Pubblica Amministrazione. Pertanto, essendo l’obbligazione quérable, il ritardo non può concretizzarsi se non a seguito di una specifica intimazione di pagamento. Né, al contempo, la domanda di pagamento del contributo può valere come intimazione ai sensi dell’art. 1219 cod. civ., atteso che essa è proposta prima del decorso del termine ragionevole previsto per la definizione del procedimento, cosicché, per altro verso, nessun ritardo può ancora ritenersi verificato prima della scadenza del predetto termine. Da qui l’impossibilità, secondo l’assunto della medesima Agenzia, di poter configurare un diritto al pagamento di interessi e maggior danno, ex art. 1224 cod. civ., in assenza di una costituzione in mora diversa da quella costituita dalla notifica dell’atto di citazione effettuata ad istanza della Italgrani s.p.a., quando era in bonis, il 15 dicembre 1997. D’altra parte, la natura quérable CoNteNzIoSo NAzIoNALe dell’obbligazione e la incidenza della normativa in materia di contabilità dello Stato escluderebbero il decorso degli interessi corrispettivi dall’intervenuto decorso del termine ragionevole per la definizione del procedimento. 3. – Le eccezioni pregiudiziali. Giova rimarcare, innanzitutto, che l’eccezione di inammissibilità di questa doglianza, sollevata dalla originaria controricorrente Progetto Grano s.p.a. (oggi JLM s.r.l. a socio unico) in relazione alla sua parte concernente la decorrenza e la quantificazione degli interessi di mora (ciò sul presupposto che l’eccezione del difetto di costituzione in mora e della natura quérable dell’obbligazione non era stata formulata dalla convenuta Agenzia nel corso del giudizio di primo grado, con conseguente inammissibilità del gravame sul punto), non merita seguito. La corte territoriale, infatti, si è espressa a tale proposito (cfr. pag. 10, righe 4-6, della sentenza oggi impugnata), ritenendo ammissibile il motivo di gravame e, su questa pronuncia, non vi è stata proposizione di alcun ricorso incidentale condizionato ad opera della menzionata controricorrente. 3.1. Il motivo di ricorso, invece, deve considerarsi inammissibile, fin da ora, laddove diretto a censurare per violazione di legge la decisione della corte partenopea anche nella parte riguardante il maggior danno riconosciuto alla originaria attrice ex art. 1224, comma 2, cod. civ. Infatti, il terzo motivo di gravame in quella sede formulato dall’Agenzia oggi ricorrente, con cui era stata lamentata l’assoluta assenza di motivazione della decisione di primo grado con riguardo proprio alla quantificazione di tale maggior danno, è stato dichiarato inammissibile dalla corte suddetta, secondo cui «all’appellante non è consentito dolersi solo della carenza di motivazione, senza neanche indicare le diverse ragioni che avrebbero condotto ad una decisione differente» (cfr. pag. 14 della medesima sentenza). L’odierna doglianza, tuttavia, non contiene una specifica contestazione di questa statuizione di inammissibilità, avendo focalizzato la propria attenzione direttamente ed esclusivamente sulla richiesta di revisione “nel merito”, anche in parte qua, della decisione della corte distrettuale. Al cospetto di una pronuncia come quella appena descritta della Corte di appello, la ricorrente, al fine di consentire il riesame del merito della corrispondente domanda, avrebbe dovuto, ancor prima, contestare la correttezza della valutazione di inammissibilità di quel motivo di appello, adducendo l’erronea applicazione della previsione di cui all’art. 342 cod. proc. civ., di cui ha fatto sostanziale applicazione la sentenza impugnata: ciò in quanto solo la previa denuncia, con successo, dell’eventuale error in procedendo commesso dalla corte suddetta avrebbe permesso di riproporre la censura, se del caso, al giudice del rinvio. In tal senso, rileva quanto affermato, in termini, da Cass. n. 21514 del 2019 (vedasi pure Cass. n. 9243 del 2004). resta solo da precisare, infine, -considerato il tenore di Cass. n. 3093 del 1989, secondo cui «In tema di obbligazioni pecuniarie, l’inadempimento colposo del debitore costituisce presupposto comune tanto al fine dell’attribuzione degli interessi moratori, di cui all’art. 1224 primo comma cod. civ., quanto al fine del riconoscimento del maggior danno, previsto dal secondo comma di detta norma» -che, nell’odierna vicenda, il giudicato interno formatosi sulla sola quantificazione del maggior danno ex art. 1224, comma 2, cod. proc. civ., non osta all’esame del formulato motivo di ricorso. esso, infatti, attaccando la statuizione sugli interessi moratori del comma 1 del medesimo articolo, censura l’an della mora, sicché, in caso di suo rigetto, resterà fermo il giudicato interno predetto sul quantum del maggior danno, mentre, rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 nell’ipotesi di suo accoglimento, si verificherebbe un effetto di ricaduta ex art. 336, comma 2, cod. proc. civ. 4. – L’ordinanza interlocutoria n. 32405 del 2023 e le questioni rimesse alle Sezioni Unite. In quella sede, il Collegio, dopo aver descritto la concreta fattispecie sottoposta al suo esame ed aver richiamato il quadro normativo di riferimento (regolamento Ce n. 565/1980 e regolamento Ce n. 3665/1987, applicabili ratione temporis, che hanno disciplinato il pagamento, in favore dei produttori agricoli, di somme per il diritto alle restituzioni all’esportazione per i prodotti soggetti ad un regime di prezzi unici), ha ricordato, in primis, che, nell’odierna vicenda, sia il tribunale che la corte di appello hanno ritenuto che il termine per il versamento delle restituzioni dovesse desumersi dal sistema e l’hanno determinato in sessanta giorni, “dalla data del completamento della documentazione”, altresì ritenendo che tale termine, una volta decorso, non rendesse più ipotizzabile alcuna necessità di una ulteriore intimazione di pagamento e, dunque, che non fosse necessario un atto specifico di costituzione in mora ai sensi dell’art. 1219 cod. civ., già esso risultando implicitamente contenuto nella originaria richiesta di pagamento inoltrata da Italgrani s.p.a. in bonis all’Agenzia delle Dogane ancor prima di agire giudizialmente nei suoi confronti. Secondo la corte d’appello, peraltro, il corrispondente motivo di gravame proposto da quest’ultima nemmeno aveva ragion d’essere, stante il maturatosi diritto alla corresponsione al produttore di interessi corrispettivi per effetto della scadenza del termine per la definizione del procedimento relativo alle restituzioni. 4.1. L’ordinanza in esame ha rimarcato, poi, che le questioni poste dal motivo di ricorso non attengono alla verifica dell’esistenza, o non, all’interno dell’ordinamento, del termine entro il quale la domanda originariamente proposta dalla Italgrani s.p.a in bonis doveva essere esitata al fine del riconoscimento delle invocate restituzioni all’esportazione (sul punto, infatti, si è formato il giudicato interno, non essendo stata specificamente impugnata la determinazione di quel termine come quantificata dal giudice di merito), ma riguardano i profili, rimasti ancora controversi, concernenti, rispettivamente: i) se, rispetto all’obbligazione di cui si discute, debba, o non, trovare applicazione la disciplina prevista per le obbligazioni di pagamento di denaro alle quali è tenuta la P.A.: disciplina che, in deroga agli artt. 1219, comma 2, n. 3, e 1182 cod. civ., prevede la necessità di un atto di costituzione in mora anche per le obbligazioni per le quali sia scaduto il termine, dovendo l’obbligazione dell’amministrazione essere adempiuta ed eseguita presso il domicilio del debitore; ii) se sia corretta la statuizione della corte partenopea che ha ritenuto essere insorta comunque l’obbligazione del pagamento di interessi corrispettivi a carico dell’Agenzia delle Dogane per effetto della scadenza del termine fissato per definire il procedimento di riconoscimento del diritto alla restituzione ed al prefinanziamento in favore del produttore, anche a non volere considerare verificata la mora per effetto della scadenza del termine per la definizione del procedimento di verifica dell’esistenza del medesimo diritto alle restituzioni all’importazione. 4.2. ricordati, allora, i principi espressi da Cass., SU, n. 1561 del 1977, -in forza dei quali le “restituzioni”, benché disciplinate da regolamenti comunitari, per quanto attiene alle modalità e tempi del loro pagamento restano assoggettate alle norme di diritto interno (con la conseguenza che il credito dell’esportatore diviene liquido ed esigibile, e perciò produttivo di interessi compensativi, solo quando sia stata ordinata la spesa ed emesso il relativo ordinativo di pagamento, ai sensi dell’art. 270 del r.d. n. 827 del 1924) -il Collegio remittente ha sottolineato l’esigenza di verificarne la tenuta con la giurisprudenza successiva formatasi in tema di irrilevanza della definizione del procedimento di spesa per i debiti pecuniari da ritardo della P.A. CoNteNzIoSo NAzIoNALe Questa Corte, infatti, -sebbene ferma nel ritenere che sui debiti delle Pubbliche Amministrazioni, per i quali le norme sulla contabilità pubblica stabiliscono, in deroga al principio di cui all’art. 1182, comma 3, cod. civ., che i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell’Amministrazione debitrice, la natura quérable dell’obbligazione comporta che il ritardo nei pagamenti non determina automaticamente gli effetti della costituzione in mora ex re, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ., occorrendo, invece, affinché sorga la responsabilità da tardivo adempimento con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno, la costituzione in mora mediante intimazione scritta di cui allo stesso art. 1219, comma 1 (cfr., ex multis, Cass. nn. 29776 e 23823 del 2020; Cass. n. 19085 del 2015; Cass. n. 5066 del 2009; Cass. nn. 19320 e 10691 del 2005) -ha ulteriormente specificato che, ove vi sia un colpevole ritardo nell’espletamento della procedura di liquidazione, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere gli interessi moratori, a prescindere dall’emissione, o meno, del mandato di pagamento (così, ex aliis, Cass., SU, n. 2065 del 1980; Cass., SU, nn. 359 e 4351 del 1985; Cass. n. 3632 del 1980; Cass. n. 1759 del 1982; Cass. nn. 1673, 1674, 2264 e 6597 del 1983; Cass. nn. 406 e 3533 del 1985; Cass. n. 2675 del 1986, Cass. n. 16683 del 2002). Pertanto, secondo questo indirizzo ermeneutico, in tema di mora in ordine ai contratti stipulati dalla P.A., le regole di diritto privato sull’esatto adempimento delle obbligazioni (artt. 1218 e 1224 cod. civ.) si applicano anche ai debiti della Pubblica Amministrazione medesima, sicché l’eventuale esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica non giustifica, in caso di colpevole ritardo nelle formalità di liquidazione, la deroga al principio, desumibile dall’art. 1218 cod. civ., della responsabilità del debitore per l’inesatto o tardivo adempimento della prestazione (responsabilità che si attua con la corresponsione degli interessi moratori come forma di risarcimento minimo), né a quello, posto dall’art. 1224, comma 1, cod. civ., che identifica la decorrenza degli interessi con il giorno della costituzione in mora. L’ordinanza interlocutoria n. 32405/2023, dunque, si è interrogata sulla possibilità di ammettere una tutela differenziata tra le obbligazioni della P.A., disciplinate dal diritto comunitario e relative alle restituzioni alle esportazioni per prodotti soggetti ad un regime di prezzi unici (per le quali, come affermato dalle Sezioni Unite fin dal 1977, è necessario, pur in presenza di un ritardo nell’adempimento da parte dell’amministrazione, l’emissione di un titolo di spesa), e le altre obbligazioni della P.A. per le quali, invece, il colpevole ritardo determina l’insorgenza del diritto agli interessi moratori a prescindere dall’emissione di un mandato di pagamento. 4.3. Con specifico riferimento, poi, alla questione dell’incidenza, al fine del riconoscimento degli interessi corrispettivi a carico della P.A. in assenza di titolo di spesa, della idoneità, o non, della richiesta del contributo comunitario che apre il procedimento di verifica dei suoi presupposti e di eventuale loro erogazione (che, nella prospettiva esposta nel ricorso per cassazione, non può valere come intimazione ex art. 1219, comma 1, cod. civ. nei confronti della P.A., intervenendo prima del decorso del termine ragionevole e, quindi, in assenza di un ritardo. tesi che si oppone a quella propugnata, invece, dalla difesa della controricorrente ed in parte fatta propria dalla corte di appello, volta a sostenere che l’istanza di restituzione riguarda un diritto già riconosciuto al produttore che, alla scadenza del termine finalizzato unicamente a mettere in campo le risorse finanziarie necessarie per l’erogazione del sussidio, dà luogo al riconoscimento degli interessi con decorrenza dall’originaria istanza), la medesima ordinanza interlocutoria ha ricordato che il consolidato orientamento della Suprema Corte, in forza del quale il credito pecuniario vantato nei confronti della P.A. non può ritenersi liquido ed esigibile rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 fino a quando l’amministrazione non abbia emesso il titolo di spesa in conformità a quanto previsto dall’art. 270 del r.d. n. 827 del 1924 (cfr. ex plurimis, Cass., n. 19452 del 2012; Cass. n. 18377 del 2010; Cass. n. 17909 del 2004; Cass. n. 2071 del 2000), sembra essere stato in parte superato Cass., Sez. 1, n. 11655 del 2020, che ha ritenuto che i debiti dello Stato e degli altri enti pubblici diventano liquidi ed esigibili quando ne sia determinato l’ammontare a prescindere dal procedimento contabile di impegno e ordinazione della spesa. Affermazione, quest’ultima, che, però, è stata apertamente disattesa dalla Cass., Sez. 1, n. 118 del 2023, tornata a posizionarsi sull’orientamento tradizionale. 4.4. Così delineate le principali posizioni di questa Corte sul tema delle obbligazioni pecuniarie della Pubblica Amministrazione (con riferimento agli effetti del loro ritardato adempimento ed alla riconoscibilità degli interessi corrispettivi riguardanti un debito liquido ed esigibile in assenza di un titolo di spesa), nella ordinanza di rimessione de qua sono state illustrate in modo dettagliato le ragioni a sostegno della rimessione alle Sezioni Unite delle questioni controverse. In particolare, i plurimi temi dibattuti in relazione al motivo di ricorso, risolti in modo non sempre univoco dalla giurisprudenza di legittimità, sono stati così declinati dal Collegio remittente: a) natura ed effetti dell’istanza di restituzione all’importazione per prodotti soggetti ad un regime di prezzi unici e sua idoneità, o non, a costituire atto idoneo ex se a determinare il sorgere dell’obbligazione della P.A. alla scadenza del termine “ragionevole” entro il quale l’amministrazione deve definire il procedimento; b) efficacia delle disposizioni in tema di contabilità di Stato riguardo alle obbligazioni di restituzione alle importazioni azionate dalla società nei confronti dell’amministrazione pubblica; c) ammissibilità di una tutela differenziata tra le obbligazioni della P.A., disciplinate dal diritto comunitario e relative alle restituzioni alle esportazioni per prodotti soggetti ad un regime di prezzi unici (per le quali, come affermato dalle Sezioni Unite fin dal 1977, è necessario, pur in presenza di un ritardo nell’adempimento da parte dell’amministrazione, l’emissione di un titolo di spesa), e le altre obbligazioni della P.A. per le quali, invece, il colpevole ritardo determina l’insorgenza del diritto agli interessi moratori a prescindere dall’emissione di un mandato di pagamento; d) effetti della mancata emissione del titolo di spesa sugli interessi corrispettivi; e) coerenza dei principi affermati dalla Suprema Corte in tema di obbligazioni pecuniarie della P.A. a seconda che si verta in tema di interessi moratori o corrispettivi (atteso che la normativa contabile di rango secondario in tema di contabilità pubblica è stata ritenuta, a volte, idonea a modificare la regolamentazione di cui agli artt. 1182 e 1282 del codice civile, mentre, in altre occasioni, si è giunti a soluzioni opposte); f) necessità di risolvere la questione relativa alle conseguenze del mancato adempimento delle restituzioni all’esportazione in modo coerente con il diritto dell’Unione e nel rispetto dei principi generali di equivalenza ed effettività. Con riferimento a tale ultimo profilo, e, in particolare, quanto al principio di equivalenza (da cui discende che gli individui che fanno valere i diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione non devono essere svantaggiati rispetto a quelli che fanno valere diritti di natura meramente interna. Cfr. Corte giust., 7 marzo 2018, causa C-494/16, Santoro, § 39; Corte giust., 14 febbraio 2019, causa C-562/17, Nestrade, § 37), nell’ordinanza viene rimarcata l’esigenza di interrogarsi sulla compatibilità di un regime differenziato tra obbligazioni pecuniarie della P.A., sorte sulla base di un rapporto privatistico (per le quali non è richiesto un titolo di spesa), ed obbligazioni relative alle restituzioni all’esportazioni (per le quali, invece, è richiesto un mandato di pagamento), sottolineandosi, altresì, come la rilevanza delle norme di contabilità impedirebbe al creditore di avere un mezzo di tutela acceleratorio ri CoNteNzIoSo NAzIoNALe spetto alla mancata emissione del titolo di spesa da parte della P.A. In merito al necessario rispetto del principio di effettività, infine, il Collegio remittente ha richiamato i principi affermati dalla Corte di Giustizia in tema di ritardo nel versamento delle restituzioni all’importazione (sentenze del 18 aprile 2013, Irimie, C-565/11, punti da 26 a 28, e del 23 aprile 2020, Sole-Mizo e Dalmandi Mezőgazdasági, C-13/18 e C-126/18, punti 43, 49 e 51) in forza dei quali determinate modalità di pagamento degli interessi non devono finire per privare l’interessato di un rimborso adeguato per la perdita causatagli, con conseguente contrarietà al diritto dell’Unione di un meccanismo giuridico che non consenta l’esercizio effettivo del diritto al rimborso ed al pagamento degli interessi. 5. – Il tempo ed il luogo dell’adempimento nelle obbligazioni. Le questioni trattate nell’ordinanza interlocutoria rendono opportuno un breve esame della normativa codicistica riguardante il luogo ed il tempo dell’adempimento delle obbligazioni, atteso che proprio in relazione a questi aspetti si manifestano le peculiarità delle obbligazioni pecuniarie. A seconda, infatti, che per l’esecuzione della prestazione sia stato fissato, o non, un termine ed in rapporto al luogo in cui deve essere eseguito il pagamento (domicilio del creditore, del debitore o di un terzo), anche il regime di decorrenza degli interessi viene ad esserne influenzato. ove, poi, debitrice sia una Pubblica Amministrazione, occorre tenere conto anche di quanto sancito dalla legge sulla contabilità generale dello Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440) e dal regolamento di cui al r.d. 23 maggio 1924, n. 827. 5.1. La lettura dell’art. 1182, ultimo comma, cod. civ. evidenzia chiaramente che il modello al quale si è attenuto anche il nostro codice è quello delle obbligazioni che debbono essere adempiute al domicilio del debitore (obbligazioni “quérables”), per cui, nella generalità dei casi, è sufficiente che il debitore, al tempo della scadenza, appresti nel proprio domicilio la prestazione a disposizione del creditore, il quale avrà, pertanto, l’onere di recarsi presso il medesimo per esigere ed ottenere quanto gli spetta. L’opposto criterio, invece, è seguito per le obbligazioni pecuniarie, laddove l’art. 1182, comma 3, cod. civ., innovando rispetto a quanto stabilito dal codice abrogato (all’art. 1249), dispone che le obbligazioni pecuniarie vadano adempiute “al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza” (obbligazioni portables). Nella relazione al libro delle obbligazioni l’abbandono del tradizionale criterio del favor debitoris viene giustificato con il riferimento al fatto che “con i mezzi di trasmissione del denaro oggi a disposizione di tutti, diviene più agevole per il debitore l’adempimento al domicilio del creditore che non a questi di ottenere il pagamento al domicilio del debitore”. tuttavia, come pure è stato osservato in dottrina, la valutazione complessiva della regola di cui all’art. 1182, comma 3, cod. civ. mostra come la norma sia particolarmente severa nei confronti del debitore: questi, infatti, a stretto rigore, va ritenuto inadempiente se la somma da lui dovuta, ove pure ne sia provato il tempestivo invio, non pervenga nella disponibilità del creditore nel termine stabilito, dovendo il debitore medesimo dimostrare che ciò non si è potuto verificare per causa a lui non imputabile. Il fatto che tutte le obbligazioni pecuniarie siano portables assume rilevanza, poi, -per quanto di specifico interesse in relazione alle questioni oggi all’esame di queste Sezioni Unite -al fine dell’applicazione a tali obbligazioni del principio della mora ex re, ove l’obbligazione pecuniaria sia assistita da un termine per il pagamento (cfr. art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ.). Una “deroga legale” al carattere portabile dei pagamenti di somme è quella relativa ai pagamenti dei debiti dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali, che, ai sensi della già ricordata normativa sulla contabilità generale dello Stato e di quella relativa agli enti locali, così come interpretata dalla giurisprudenza, prevede che i pagamenti delle spese vadano rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 effettuati e riscossi presso il luogo in cui ha sede l’ufficio di tesoreria tenuto a procedere al relativo pagamento, a seguito dell’esibizione del mandato. Si tratta di un principio che esprime un antico privilegio “ispirato a criteri di ordine pubblico, in quanto dettato da esigenza di regolare e razionale svolgimento della gestione amministrativa e contabile delle pubbliche amministrazioni cui è affidata la soddisfazione di interessi collettivi ” (cfr. Cass. n. 2556 del 1964). 5.2. Con riguardo, invece, al “tempo” dell’adempimento, dalla disciplina contenuta nel codice civile (artt. 1183-1187 e 1218 e ss.) si ricavano, i seguenti principi: i) il debitore di una somma liquida ed esigibile è tenuto ad effettuare il pagamento alla scadenza dell’obbligazione; ii) il ritardo nell’adempimento, in quanto violazione della modalità temporale di esecuzione della prestazione, costituisce lesione del diritto del creditore e si pone quale fonte di un autonomo obbligo risarcitorio. Questi principi sono stati ritenuti, da parte della dottrina, inapplicabili alle obbligazioni pecuniarie della Pubblica Amministrazione, osservandosi, in proposito (come si vedrà, più esaustivamente, nel prosieguo di questa motivazione), che tali debiti pecuniari si possono considerare liquidi ed esigibili soltanto dopo che la relativa spesa sia stata ordinata dall’Amministrazione, con l’emissione del titolo, nelle forme prescritte dalle norme di contabilità. In questo modo si è affermata, anche con riguardo alla definizione della liquidità dei debiti delle Pubbliche Amministrazioni, l’applicazione di una nozione particolare, venendosi a distinguere la liquidità ed esigibilità stabilità dal codice civile dalla liquidazione contabile, disciplinata dal regolamento di contabilità di Stato. Proprio in ossequio alla tesi dell’inesigibilità contabile, allora, è stato sostenuto che “il diritto di credito pecuniario verso l’Erario, non diversamente dall’analogo diritto verso qualsiasi altro debitore, può essere considerato perfetto dal momento in cui il credito diventa liquido ed esigibile ai sensi del diritto comune, e cioè delle leggi civili; il diritto di pagamento di tale credito rimane, però, in stato di pendenza fin quando, a seguito degli altri adempimenti previsti dalla legislazione sulla contabilità di Stato, non sia stato emesso il titolo di spesa ”. In particolare, la costruzione di un’autonoma teoria delle obbligazioni pecuniarie della Pubblica Amministrazione, caratterizzata da una disciplina specifica e da autonomi principi, è stata fondata sull’efficacia cd. esterna riconosciuta alle norme della contabilità di Stato, che, avendo forza di diritto oggettivo, avrebbero efficacia vincolante non soltanto all’interno, nei confronti dell’Amministrazione, ma anche all’esterno, nei confronti dei creditori statali. Fin da ora, tuttavia, è doveroso rimarcare che la tesi dell’efficacia esterna delle norme di contabilità è costretta a confrontarsi con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 maggio 1981 n. 71, con la quale è stata riconosciuta all’art. 270 del r.d. 23 maggio 1924, n. 827, natura regolamentare, con la conseguenza che, come si legge in quella pronuncia, “con questa fonte non possono crearsi norme provviste dello stesso valore di legge ”. La teoria dell’inesigibilità contabile, poi, è stata fortemente avversata da gran parte della dottrina, essendosi sottolineato che le norme di contabilità sono norme di organizzazione “… indirizzate a disciplinare l’impiego e la destinazione delle risorse pubbliche in conformità delle leggi contabili e del bilancio, e, quindi, assolvono esclusivamente al compito del migliore perseguimento dell’interesse generale finanziario (…): il loro ambito oggettivo di operatività rimane necessariamente fermo alla regolamentazione di rapporti tra organi della Pubblica Amministrazione”. È stato osservato, inoltre, che le norme di contabilità dello Stato regolano non rapporti intersoggettivi, ma soltanto rapporti interorganici, e, “disciplinando forme e mo CoNteNzIoSo NAzIoNALe dalità dell’azione amministrativa, non possono estendere a loro efficacia fino a condizionare o limitare la operatività delle norme comuni sui rapporti obbligatori ”. 6.– Il ritardo nell’adempimento: natura ed effetti della costituzione in mora. Ai sensi del- l’art. 1282, comma 1, cod. civ., laddove un credito sia liquido ed esigibile ed il debitore non adempia o ritardi nell’adempimento, sorge in capo al creditore il diritto di ottenere interessi (salvo che la legge o il titolo dispongano diversamente). Nel prosieguo di questa motivazione si darà conto degli indirizzi ermeneutici di questa Corte circa l’applicazione della menzionata disposizione con riferimento alle obbligazioni pecuniarie della Pubblica Amministrazione, fin da ora evidenziandosi, peraltro, che, come riconosciuto da tempo dalla dottrina, il principio espresso da quell’articolo è operante anche nei confronti dell’Amministrazione predetta, atteso che “i debiti pecuniari sono - di per sé e per chiunque - fruttiferi ”. Giusta l’art. 1219, comma 1, cod. civ., poi, il debitore è costituito in mora per iniziativa del creditore, mediante intimazione o richiesta formale di adempimento. Le questioni oggi all’attenzione delle Sezioni Unite rendono qui opportuna una sintetica riflessione circa la necessità, o non, di annoverare la costituzione in mora tra i presupposti del “ritardo” dell’adempimento (e, dunque, sulla necessità di una tale costituzione affinché sorgano le conseguenze giuridiche che la legge riconnette a questa situazione). La mora del debitore (cd. mora solvendi o debendi), come è noto, presuppone un inadempimento (o adempimento inesatto) sotto il profilo cronologico: in altre parole, può configurarsi la mora solvendi quando il medesimo debitore è in ritardo nell’adempimento, in quanto è scaduto il termine entro il quale la prestazione doveva essere da lui eseguita e questa, tuttavia, sia ancora possibile. ecco, dunque, che il ritardo nell’adempimento della prestazione produce due conseguenze principali: il risarcimento del danno (cfr. l’art. 1218 cod. civ. e l’art. 1224 cod. civ. per la specifica ipotesi del ritardo nelle obbligazioni pecuniarie) ed il passaggio, sul debitore, del rischio per la impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ove non dimostri che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore (cfr. l’art. 1221 cod. civ.). La dottrina prevalente ha sottolineato come il legislatore esclude, senza possibilità di equivoci, la necessità della costituzione in mora per i casi esplicitamente elencati nell’art. 1219 cod. civ., i quali coprono la parte di gran lunga preponderante delle obbligazioni, atteso che, giusta il principio di cui all’art. 1182, comma 3, cod. civ., per il quale le obbligazioni pecuniarie si adempiono al domicilio del creditore, una larghissima parte delle obbligazioni viene ad essere compresa nella previsione dell’art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ. Si è opinato, dunque, da un lato, che non è in alcun modo giustificato fondare la specifica qualifica della situazione di mora ed assegnarle una maggiore pienezza di effetti esclusivamente in base all’avvenuta intimazione o richiesta del creditore, quando, nella maggior parte dei casi, la legge non sembra richiedere alcuna attività del creditore per la messa in moto delle conseguenze del ritardo; dall’altro, che, quando un termine (per l’adempimento) è fissato rigorosamente in rapporto al calendario, la costituzione in mora finisce con l’essere priva di qualsivoglia funzione stante il principio dies interpellat pro homine. Di conseguenza, se una ratio può assegnarsi alla richiesta di costituzione in mora, essa deve ragionevolmente ricollegarsi agli inconvenienti cui può dar luogo, in relazione alle difficoltà di prova, il sistema dell’automaticità della mora in base alla semplice scadenza del termine. Pertanto, nelle ipotesi in cui il pagamento deve essere eseguito al domicilio del debitore ed il creditore, alla scadenza, non si presenta al detto domicilio, la semplice scadenza del termine non è sufficiente a far considerare moroso il debitore e, in questo caso, la costituzione in mora ha la funzione “di rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 accertare la infruttuosa scadenza attraverso la prova che il creditore ha richiesto l’adempimento ”. Da una tale considerazione, allora, si è fatta derivare una tendenza ad attenuare il requisito della costituzione in mora: tendenza che, nel caso in cui il termine sia rigoroso, può trovare la sua giustificazione nel principio generale della buona fede, proprio in relazione alla individuata funzione della costituzione in mora medesima: se questa serve esclusivamente ad accertare la infruttuosa scadenza del termine, sarebbe contrario alla buona fede, dunque, richiederla quando tale scadenza risulti aliunde sicura. Infine, anticipando quanto meglio si spiegherà più avanti, va qui evidenziato che la giurisprudenza di legittimità ritiene che, con riguardo ai debiti pecuniari delle Pubbliche Amministrazioni, per i quali le norme sulla contabilità pubblica stabiliscono, in deroga al principio di cui all’art. 1182, comma 3, cod. civ., che i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell’amministrazione debitrice, la natura quérable dell’obbligazione comporta che il ritardo nel pagamento non determina automaticamente gli effetti della mora, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ., occorrendo invece -affinché sorga la responsabilità da tardivo adempimento con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno -la costituzione in mora mediante intimazione scritta di cui al primo comma dello stesso art. 1219 c.c. (cfr. ex aliis, Cass. n. 2478 del 2001; Cass. nn. 19320 e 19768 del 2005; Cass. n. 5066 del 2009; Cass. n. 19084 del 2015). Da tempo, inoltre, è stato precisato che la costituzione in mora è elemento costitutivo della pretesa nei confronti di una Pubblica Amministrazione avente ad oggetto la corresponsione degli interessi e dell’eventuale maggior danno da svalutazione monetaria (cfr. Cass. n. 21340 del 2013; Cass. n. 10058 del 2010). Peraltro, proprio con riguardo al principio di buona fede, giova ricordare che, nel 2020, il legislatore, intervenendo sulla formulazione dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, ha espressamente previsto che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede”. Costituisce, da ultimo, principio consolidato che, al fine della costituzione in mora, l’intimazione al debitore non esige l’uso di formule solenni, ritenendosi sufficiente che il creditore manifesti a quest’ultimo l’intenzione di non tollerare ritardi. 7. – Tipologie di interessi -Giova qui un breve cenno alla distinzione tra le varie categorie di interessi. Secondo una distinzione ormai acquisita dall’elaborazione dogmatica, gli interessi moratori si distinguono da quelli corrispettivi, ovvero dagli interessi che assolvono alla funzione di corrispettivo del denaro altrui, perché costituiscono una forma di risarcimento del danno cagionato al creditore per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria. L’utilità di tale distinzione, tuttavia, è stata svalutata da una parte della dottrina, la quale ha ritenuto che, in presenza di un credito esigibile, la decorrenza degli interessi costituisca una conseguenza automatica del ritardo subito dal creditore nel godimento della somma dovutagli, prescindendo del tutto dalla prova del danno. Un più recente approccio interpretativo muove dalla “regola dell’allineamento del tasso degli interessi moratori a quello convenzionale degli interessi corrispettivi”, espressa dall’art. 1224, comma 1, cod. civ., in forza della quale agli interessi moratori deve essere riconosciuta una (concorrente) funzione remunerativa, nella misura in cui compensano il creditore “della mancata percezione di quei frutti che la somma attesa per sua natura è in grado di produrre per il tempo ulteriore rispetto alla scadenza del termine che il debitore impone al primo col CoNteNzIoSo NAzIoNALe suo inadempimento”, per affermare che anche dopo la scadenza del termine vi sia un prolungamento del rapporto di corrispettività. Secondo altra impostazione, a differenza degli interessi corrispettivi, quelli moratori postulano l’imputabilità (a titolo di dolo o colpa) del ritardo nell’adempimento. Non è mancato, peraltro, chi ha ritenuto che gli artt. 1224 e 1282 cod. civ. si integrino reciprocamente, nel senso che, ove il debitore versi in una situazione di ritardo non imputabile, ciò non lo esonererebbe dall’obbligo di corrispondere gli interessi ex art. 1282 cod. civ., sempre che abbia comunque goduto della disponibilità della somma. In giurisprudenza, la diversità di funzione degli interessi corrispettivi e moratori è stata evidenziata, sotto il profilo processuale, con riferimento alla specificità della domanda, da Cass. n. 20868 del 2015, la quale ha affermato che «La domanda di corresponsione degli interessi non accompagnata da alcuna particolare qualificazione va intesa come rivolta al conseguimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, sono dovuti indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore, atteso che la funzione primaria degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie è quella corrispettiva, collegata alla loro natura di frutti civili della somma dovuta, mentre, nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, è quella compensativa, dovendosi invece riconoscere carattere secondario alla funzione risarcitoria, propria degli interessi di mora, che presuppone l’accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora “ex lege” del debitore, e quindi la proposizione di un’espressa domanda, distinta da quella del pagamento del capitale». Già in precedenza, peraltro, Cass. n. 1377 del 2008 aveva affermato che «La richiesta di corresponsione degli interessi, non seguita da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta all’ottenimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore » (In particolare, si trattava di fattispecie in cui gli interessi sulla somma rivendicata dal promittente venditore a titolo di prezzo nei confronti del promissario acquirente, vennero qualificati come corrispettivi e fatti decorrere dalla data in cui il credito era divenuto liquido ed esigibile). 8. – L’evoluzione giurisprudenziale in materia di ritardo della Pubblica Amministrazione nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Muovendo dal rilievo che l’ordinanza interlocutoria ha ritenuto che nella decisione impugnata sono individuabili due rationes decidendi (una riguardante la debenza, o non, degli interessi moratori, ex art. 1224, comma 1, cod. civ.; l’altra, concernente la eventuale spettanza, comunque, di quelli corrispettivi ex art. 1282 cod. civ.), si rivela opportuna, a questo punto, una ricognizione dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di ritardo della Pubblica Amministrazione nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. 8.1. La Corte di cassazione è stata più volte chiamata a risolvere la questione dell’incidenza esplicata sulla posizione giuridica del creditore dalla sottoposizione delle spese degli enti pubblici al procedimento contabile disciplinato dalla legge sulla contabilità generale dello Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440) e dal regolamento di cui al r.d. 23 maggio 1924, n. 827, in forza del quale l’effettivo pagamento è preceduto da una fase di impegno di spesa, all’esito della quale una determinata somma viene vincolata ad una destinazione nell’ambito di un capitolo di bilancio, da una fase di liquidazione della spesa, consistente in una serie di accertamenti diretti a determinare l’effettivo ammontare del credito, e da rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 una fase di ordinazione della spesa diretta agli uffici pubblici di tesoreria (cd. titolo di spesa). Secondo un primo orientamento (cfr. Cass., SU, n. 1561 del 1977; Cass. n. 4140 del 1982), rimasto a lungo consolidato, la procedura di spesa pubblica impedisce l’applicazione della disciplina codicistica sugli interessi corrispettivi e moratori perché il carattere discrezionale della distribuzione delle spese e degli ordinativi di pagamento esclude la configurabilità di un diritto del creditore alla sollecita definizione del procedimento contabile e rende insindacabile il mancato rispetto, da parte dell’ente, del termine legale o negoziale di pagamento. In quest’ottica, l’efficacia esterna attribuita alle norme sulla contabilità pubblica condiziona la stessa liquidità ed esigibilità dei crediti e rende, di conseguenza, inconfigurabile la “mora de- bendi” della P.A., impedendo la decorrenza degli stessi interessi corrispettivi. tale approccio ermeneutico ha condotto all’enunciazione del principio secondo il quale prima dell’emissione del titolo di spesa sui debiti pecuniari della Pubblica Amministrazione non decorrono interessi moratori, né corrispettivi. Alla luce delle osservazioni della dottrina maggioritaria, incentrate sull’inidoneità delle norme sulla contabilità di Stato a derogare alle norme codicistiche in ragione della loro portata meramente interna e della destinazione alla disciplina dei rapporti interorganici tra gli uffici della Pubblica Amministrazione, e non di quelli intersoggettivi tra quest’ultima e i terzi, la Suprema Corte ha intrapreso un nuovo percorso interpretativo recependo, tuttavia, soltanto in parte i rilievi critici svolti dagli studiosi. In particolare, la stessa, per un verso, ha condiviso l’assunto secondo il quale il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto al pagamento alla scadenza contrattuale (cfr. Cass., SU, n. 3071 del 1983) ed il ritardo nell’espletamento del procedimento di spesa non impedisce che l’ente pubblico sia condannato al pagamento previa costituzione in mora, ma, per altro verso, ha confermato il principio per il quale i debiti pecuniari nei confronti della P.A. sono “quérables” in quanto, alla stregua della disciplina contabile, devono essere eseguiti presso il domicilio del debitore, dovendo il “locus solutionis” identificarsi con gli uffici di tesoreria della Pubblica Amministrazione. Si è, inoltre, precisato che l’Amministrazione, a seguito di costituzione in mora, è tenuta alla corresponsione degli interessi moratori, a prescindere dall’emissione di un titolo di spesa, ma tale titolo costituisce presupposto indefettibile per la decorrenza degli interessi corrispettivi, divenendo i crediti nei suoi confronti liquidi ed esigibili, ai sensi dell’art. 1282 cod. civ., solo allorquando la relativa spesa sia stata ordinata. Un integrale superamento dell’indirizzo tradizionale si è avuto soltanto con Cass., SU, n. 3451 del 1985, con cui è stata affermata, per la prima volta, la piena ed incondizionata applicabilità delle norme codicistiche e, in particolare, degli artt. 1282 e 1224 cod. civ. ai contratti con la P.A. La nuova impostazione delineata dalle Sezioni Unite è stata recepita dalla sola giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. Iv, 26 maggio 1998, n. 876), mentre la giurisprudenza della Cassazione, ad eccezione di pochissime pronunce (quali, ad esempio, Cass., SU, n. 2263 del 1985), ha continuato ad applicare il principio secondo il quale i debiti della P.A. divengono liquidi ed esigibili e, dunque, producono interessi corrispettivi, solo a far data dall’emissione del mandato di pagamento e gli interessi di mora sono dovuti dal momento della formale costituzione in mora dell’ente pubblico (cfr., ex aliis, Cass. n. 690 del 1987; Cass., SU, n. 3469 del 1988; Cass. n. 5342 del 1989; Cass. n. 6447 del 1990). Successivamente la Suprema Corte è tornata ad affermare i principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 1985 (cfr., ex multis, 6627 del 1997; Cass. n. 1871 del 1999; Cass. n. 6032 del 2001), CoNteNzIoSo NAzIoNALe per poi attestarsi nuovamente, in tempi più recenti, sull’orientamento tradizionale caratterizzato dalla distinzione del regime giuridico applicabile alle conseguenze del ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie della P.A. e, segnatamente, dal condizionamento degli interessi corrispettivi all’emissione del titolo di spesa e degli interessi moratori alla sola costituzione in mora, a prescindere dall’esaurimento del procedimento contabile (cfr., ad esempio, Cass. n. 2071 del 2000; Cass. n. 13859 del 2002; Cass. n. 17909 del 2004; Cass. n. 9369 del 2005; Cass. n. 18377 del 2010). È andato consolidandosi, così, il principio secondo cui, poiché le norme sulla contabilità pubblica stabiliscono, in deroga al principio di cui all’art. 1182, comma 3, cod. civ., che i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell’amministrazione debitrice, la natura “quérable” dell’obbligazione comporta che il ritardo nel pagamento non determina automaticamente gli effetti della mora, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, cod. civ., occorrendo, invece, affinché sorga la responsabilità da tardivo adempimento con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno, la costituzione in mora mediante intimazione scritta di cui al comma 1 dello stesso art. 1219 cod. civ. (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19320 del 2005; Cass. n. 5066 del 2009; Cass. n. 19084 del 2015). La ricostruzione fin qui descritta ha subito una drastica riduzione applicativa a seguito del- l’entrata in vigore del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, di “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, il quale trova applicazione con riferimento ai pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo nelle “transazioni commerciali ”, ivi comprese quelle in cui sia parte la Pubblica Amministrazione, ed introduce in via generalizzata l’automatismo della “mora ex re” e l’applicazione di un tasso di interesse di mora significativamente più elevato rispetto a quello legale. Ne consegue che lo speciale statuto dei debiti della P.A. delineato attraverso la sintetizzata evoluzione giurisprudenziale continua a trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui l’obbligazione pecuniaria sia stata assunta dall’Amministrazione al di fuori di un contratto sussumibile nella nozione eurounitaria di “transazione commerciale” delineata dall’art. 2, comma 1, lett. a, del citato decreto legislativo. tale situazione viene a configurarsi in tutti i casi in cui la fonte negoziale dell’obbligazione della P.A. sia connotata in senso pubblicistico perché significativamente conformata dalla disciplina eteronoma e funzionalizzata alla cura dell’interesse generale. Questa Corte, inoltre, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 270 r.d. n. 827 del 1924, in quanto interpretato nel senso che i debiti pecuniari dello Stato diventano liquidi ed esigibili solo dopo l’ordinativo di spesa e l’emissione del relativo titolo, evidenziando che la differenza di trattamento normativo tra debitore privato e Stato è giustificata dalla circostanza che quest’ultimo persegue, anche nell’attuazione di rapporti obbligatori, interessi generali (cfr. Cass. n. 1749 del 2008). In continuità con i principi affermati dalle Sezioni Unite nel 1985, poi, ma in consapevole contrasto con il suesposto orientamento tradizionale, si è posta, recentemente, la pronuncia resa da Cass. n. 11655 del 2020 (diffusamente richiamata nell’ordinanza di rimessione), che ha sottolineato come il credito pecuniario verso la Pubblica Amministrazione divenga liquido ed esigibile, come ogni altro credito verso soggetti privati, in conformità alle norme comuni del codice civile, quando ne sia determinato l’ammontare e se ne possa ottenere, alla scadenza, il puntuale adempimento. In particolare, nella decisione in esame, tre sono i principali argomenti che hanno reso evidente la necessità di un superamento dell’orientamento consolidato: rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 i) in primo luogo, la Corte ha rilevato che il principio di automatica decorrenza degli interessi corrispettivi non ammette deroghe, se non espresse, posto che l’art. 1282, comma 1, cod. civ. prevede che i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producano interessi di pieno diritto «salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente». Considerato, pertanto, che l’art. 270 r.d. n. 827 del 1924 non ha forza di legge, bensì di atto regolamentare “come rilevato dalla Corte costituzionale (n. 75 del 1987 e n. 71 del 1981) e indirettamente desumibile dal- l’art. 88 del r.d. n. 2440 del 1923 ” e che la normativa contabile non può interferire su quella civilistica, operando su piani diversi, la stessa Corte ha escluso che le disposizioni regolamentari possano produrre effetti derogatori della menzionata disciplina legale prevista dal codice civile; ii) in secondo luogo, è stato evidenziato che la liquidazione della spesa costituisce oggetto di un procedimento contabile che, da un lato, è interno all’Amministrazione e, dal- l’altro, è esterno alla fattispecie costitutiva dell’obbligazione, atteso che presuppone l’esistenza di un debito già perfezionato, liquido ed esigibile. Nella pronuncia, infatti, si legge che “essa presuppone l’esistenza di un debito già perfezionato, liquido ed esigibile, come si desume dal fatto che «la liquidazione delle spese deve essere appoggiata a titoli e documenti comprovanti il diritto acquisito dai creditori dello Stato» (art. 277 del r.d. n. 827 del 1924), che gli «impegni sugli stanziamenti di competenza [hanno ad oggetto] le sole somme dovute dallo Stato a seguito di obbligazioni giuridicamente perfezionate» (art. 34 della legge n. 169 del 31 dicembre 2009), che l’impegno di spesa costituisce una fase del procedimento di spesa «a seguito di obbligazione giuridicamente perfezionata» (art. 183 del T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267)”; iii) in terzo luogo, la Corte ha ritenuto che l’orientamento maggioritario si rivela anche contraddittorio laddove afferma che l’esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica non giustifica, in caso di colpevole ritardo nelle formalità di liquidazione del credito, la deroga al principio di cui agli artt. 1218 e 1224 cod. civ. senza chiarire, poi, per quale ragione l’impossibilità di derogare alla disciplina civilistica dovrebbe valere solo per gli interessi moratori e non per quelli corrispettivi, tenuto conto che, peraltro, la decorrenza degli interessi moratori presuppone anch’essa un credito esigibile. La successiva giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 118 del 2023) ha ritenuto “più convincente e appropriato l’orientamento maggioritario attestato sulla differenza, per gli effetti che ne conseguono a proposito del debito da interessi, dei fini del debitore pubblico rispetto a quello privato; differenza alla quale sono funzionali le più complesse procedure di verifica della inerenza e della effettiva corrispondenza della prestazione alle previsioni di spesa alle quali è funzionale il procedimento afferente”. In particolare, nella pronuncia da ultimo citata è stato sottolineato che “ove venga in questione il rapporto con la pubblica amministrazione, la nozione di “liquidità” del credito va intesa in un’accezione peculiare, essendo effetto del completamento del procedimento amministrativo di liquidazione, lontana, dunque, dalla nozione comune desumibile dall’art. 1282 c.c.”. 8.2. occorre dare conto, infine, dell’indirizzo ermeneutico cui è pervenuta questa Corte esaminando i casi in cui l’Amministrazione debitrice colposamente ritardi l’attivazione dei procedimenti necessari a che i crediti verso lo Stato divengano esigibili: in proposito, costituisce orientamento ormai consolidato che le disposizioni del già più volte citato r.d. del 1924 non escludono che la P.A. sia tenuta, in tal caso, al pagamento degli interessi moratori ed al risarcimento dei danni (cfr. Cass., SU, n. 359 del 1985; Cass., SU, n. 1446 del 1995, la quale ha precisato che, con riguardo ai contratti stipulati dalla P.A., le regole di diritto privato sul- l’esatto adempimento delle obbligazioni si applicano anche ai debiti dell’amministrazione CoNteNzIoSo NAzIoNALe medesima e, in caso di colpevole ritardo nella loro liquidazione, l’eventuale esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica non giustifica la deroga né al principio della responsabilità del debitore per l’inesatto o tardivo adempimento della prestazione responsabilità che si attua con la corresponsione degli interessi moratori come forma di risarcimento minimo -né a quello che identifica la decorrenza degli interessi con il giorno della costituzione in mora). La Corte, inoltre, ha ripetutamente sancito che, ove vi sia un colpevole ritardo nell’espletamento della procedura di liquidazione, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere gli interessi moratori, a prescindere dall’emissione o meno del mandato di pagamento (cfr., ex aliis, Cass., SU, n. 2065 del 29 marzo 1980; Cass., SU, nn. 359 e 4351 del 1985; Cass. n. 1759 del 1982; Cass. nn. 1673-1674 del 1983; Cass. n. 406 del 1985; Cass. n. 2675 del 1986; Cass. n. 16683 del 2002. Più recentemente, vedasi Cass. n. 13763 del 2021). 8.3. Neppure può sottacersi, da ultimo, quanto già affermato da questa Corte in materia di obbligazioni pecuniarie dello Stato derivanti da regolamenti comunitari. In particolare, pronunciandosi proprio su fattispecie analoghe a quella oggetto della vicenda interessata dalla questione oggi all’attenzione di queste Sezioni Unite, Cass., SU, n. 1561 del 1977 (richiamata anche nell’ordinanza di rimessione) ha statuito che le “restituzioni”, ossia le integrazioni sui prezzi mondiali dei prodotti agricoli, che l’amministrazione finanziaria italiana deve corrispondere agli esportatori, sono disciplinate dai regolamenti comunitari (n. 120/67, 139/67 e 1041/67) per quanto attiene alle loro condizioni ed al loro ammontare, ma restano disciplinate dal diritto interno italiano quanto alle modalità e tempi del loro pagamento, con la conseguenza che il credito dell’esportatore diviene liquido ed esigibile, e perciò produttivo di interessi compensativi, solo quando sia stata ordinata la spesa ed emesso il relativo ordinativo di pagamento, ai sensi dell’art. 270 della legge sulla contabilità di Stato. La giurisprudenza successiva, chiamata a pronunciarsi sui regolamenti comunitari che accordano un’integrazione di prezzo ai produttori di olio di oliva (n. 136/66, 754/67 e successivi), ha affermato che tale disciplina, pur escludendo ogni margine di discrezionalità per i competenti organi degli Stati membri, tenuti a porre in essere un’attività di mero accertamento delle condizioni richieste per la delimitazione quantitativa dello intervento a favore dei produttori, e pur avendo compiutamente individuato il corrispondente rapporto obbligatorio che si instaura tra lo Stato debitore ed i produttori creditori, non ha previsto il termine di adempimento dell’obbligo di corrispondere le somme dovute al predetto titolo. Si è precisato, dunque, che: i) laddove il legislatore comunitario ha inteso stabilire (direttamente) anche il termine dell’adempimento lo ha esplicitamente fatto, come dimostrano i casi in cui la disciplina regolamentare comprende anche il termine entro cui l’obbligo (comunitario) va adempiuto (cfr., ad esempio i regolamenti Cee n. 1975/69 e n. 2195/69 secondo cui il pagamento del premio di macellazione deve avvenire entro due mesi della presentazione della prova della avvenuta macellazione); ii) ove manca il termine, il legislatore comunitario ha volutamente omesso di fissarlo non già per disinteresse, incompatibile con la natura stessa della materia disciplinata, ma in quanto ne ha rimesso la disciplina al diritto interno, sul presupposto che negli ordinamenti degli Stati membri il termine dell’adempimento delle obbligazioni trova la sua specifica disciplina. Si è ritenuto, pertanto, per la presunzione di completezza della disciplina comunitaria ed in mancanza di diversi criteri desumibili dallo stesso regolamento, che l’interesse comunitario insito nella corrispondente disciplina si sia esaurito nella predisposizione del meccanismo che ha assicurato la costituzione del rapporto obbligatorio (Stato -produttore) ed il suo contenuto (integrazione del prezzo), e che, per quanto riguarda la sua attuazione, il legislatore comunitario, omettendo la fissazione diretta rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 del termine, abbia considerato idoneo a garantire l’interesse comunitario il richiamo implicito degli ordinamenti interni, sul presupposto che in quegli ordinamenti il termine dell’adempimento delle obbligazioni trova la sua specifica disciplina: “e così per l’ordinamento italiano la norma dell’art. 1183 c.c. che nel caso, con l’immediata esigibilità del credito, realizza il massimo della sua tutela, salva però l’applicabilità di principi che le norme sulla contabilità di Stato dettano in materia di debiti pecuniari della pubblica amministrazione, per cui la stessa può essere considerata in mora, e tenuta a corrispondere i relativi interessi, solo quando, dopo l’espletamento di tutti i controlli e gli accertamenti previsti, ritardi ingiustificatamente di versare al creditore le somme a costui spettanti”(cfr. Cass. n. 6738 del 1983; Cass. n. 2762 del 1978; Cass., SU, n. 1561 del 1977; Cass., SU, n. 1060 del 1977). Particolarmente significativa, peraltro, si rivela proprio l’appena citata Cass. n. 6738 del 1983 nella parte in cui ha precisato che, nel caso del pagamento dei premi ai produttori d’olio d’oliva, la relativa disciplina comunitaria è ispirata all’interesse di fronteggiare la concorrenza dei Paesi terzi e, quindi, “a tutelare il generale interesse della Comunità oltre alla protezione degli interessi dei produttori d’olio d’oliva dei singoli Stati membri ” per cui “l’esigenza di un termine ultimo per il versamento dell’integrazione è alla base del sistema stesso, costituendo l’obiettivo prefissosi dal legislatore comunitario nel prevedere tale forma di aiuto alla produzione ”. 9. – Le “restituzioni” alla esportazione. venendo, ora, alla concreta fattispecie oggetto del- l’odierno giudizio, è utile ricordare che, nel contesto della politica agricola comune, la Comunità europea, attraverso le “restituzioni”, “rimborsava” agli esportatori verso Paesi extra-Ue una parte del prezzo di vendita del prodotto agricolo, così da rendere quest’ultimo competitivo sui mercati esteri, annullando la differenza tra il prezzo comunitario e quello mondiale. La misura dell’intervento è sempre stata variabile, rapportata, in linea di principio, alla differenza tra i prezzi dei prodotti agricoli regolamentati in sede comunitaria ed i prezzi praticati sul mercato mondiale, nella misura necessaria per agevolare le esportazioni. Circa le domande di pagamento di queste “restituzioni” concernenti le annualità comprese tra il 1990 ed il 1997, formulate dalla Italgrani s.p.a. in bonis e, dopo il suo fallimento, dalla sua Curatela, la disciplina utilizzabile ratione temporis era quella di cui ai reg. Ce nn. 565/1980 e 3665/1987. In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, nel reg. Ce n. 565/1980, all’art. 4 era stabilito che: “a richiesta dell’interessato, viene pagato un importo pari alla restituzione all’esportazione non appena i prodotti di base sono posti sotto controllo doganale che garantisca che i prodotti trasformati o le merci saranno esportati entro un determinato termine” (termine che non era compiutamente individuato). Nel successivo regolamento 3665/1987 era stata prevista una disciplina di dettaglio più articolata. In primo luogo, nel penultimo considerando (con espressioni che verranno poi riprese anche nel sessantesimo considerando del successivo regolamento n. 800/1999), era stato indicato che “ai fini di una buona gestione amministrativa, occorre esigere che la domanda e tutti gli altri documenti necessari al pagamento della restituzione vengano presentati entro un ragionevole termine, salvo caso di forza maggiore, in particolare quando non è stato possibile rispettare il termine a causa di ritardi amministrativi non imputabili all’esportatore”. Gli artt. 4 e 5, poi, subordinavano il diritto al pagamento della “restituzione” alla presentazione della prova che i prodotti per i quali era stata accettata la dichiarazione di accettazione avessero lasciato il territorio doganale della Comunità e fossero stati importati in un Paese terzo, entro dodici mesi dalla data di accettazione di detta dichiarazione. L’appena descritta disciplina normativa qui applicabile non prevedeva, invece, la fissazione CoNteNzIoSo NAzIoNALe di un termine per il pagamento. Con riferimento a tale aspetto, tuttavia, deve ricordarsi che, come sottolineato nell’ordinanza interlocutoria n. 32405 del 2023, nella specifica vicenda in esame la determinazione del termine “ragionevole” in 60 giorni (nel silenzio della norma comunitaria), da parte del giudice di merito, è ormai passata in giudicato. esigenze di completezza, infine, impongono di precisare che il successivo regolamento n. 800/1999 (qui, però, inutilizzabile ratione temporis), prendendo atto del fatto che “il termine per l’esecuzione del pagamento delle restituzioni all’esportazione varia da uno Stato membro all’altro” e dell’opportunità di stabilire un “termine finale uniforme per il pagamento delle restituzioni all’esportazione da parte degli organismi pagatori” per evitare distorsioni della concorrenza (considerando 61), nel titolo Iv (“procedura di versamento della restituzione”), all’art. 49 ha previsto che le autorità competenti eseguano il versamento entro il termine di tre mesi “a decorrere dal giorno in cui dispongono di tutti gli elementi idonei all’evasione della pratica”. I casi in cui il termine di tre mesi può essere superato sono specificamente indicati: “a) forza maggiore, b) una specifica indagine amministrativa concernente il diritto alla restituzione; c) per applicare la compensazione di cui all’articolo 52, paragrafo 2, secondo comma”. 10. – I principi di equivalenza ed effettività nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. L’ordinanza interlocutoria n. 32405 del 2023 sottolinea, infine, che le questioni poste all’attenzione delle Sezioni Unite attengono anche a possibili violazioni del diritto dell’Unione, sulle quali si è pronunciata più volte la Corte di Giustizia. Ancor prima di procedere ad una sintetica ricognizione delle decisioni di quest’ultima di effettivo interesse in questa sede, però, è doveroso ricordare che la Corte eDU ha da tempo affermato che un credito certo ed esigibile è considerato un bene ai sensi dell’art. 1, Protocollo 1, CeDU e che un organe de l’Etat non può utilizzare le proprie difficoltà finanziarie come giustificazione per il mancato pagamento dei propri debiti certi ed esigibili. Fermo quanto precede, va osservato che, con specifico riferimento alle questioni oggi al- l’attenzione di queste Sezioni Unite, la Corte di Giustizia, nella sentenza del 28 aprile 2022, cause riunite C-415/2056, C-419/20 e C-427/20, Gräfendorfer Geflügel-und Tiefkühlfeinkost Produktions GmbH e a., ha affermato che, nel caso in cui “siano state pagate in ritardo restituzioni all’esportazione ad un interessato, in violazione del diritto dell’Unione, quest’ultimo ha il diritto di ottenere il pagamento di interessi volti a compensare l’indisponibilità dell’importo di denaro corrispondente” (§ 58). Secondo la costante giurisprudenza della medesima Corte, peraltro, in mancanza di una normativa dell’Unione, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità in base alle quali gli interessi devono essere pagati in caso di rimborso di importi di denaro riscossi in violazione del diritto del- l’Unione. tuttavia, si aggiunge, tali modalità devono rispettare i principi di equivalenza e di effettività, requisito che implica, in particolare, che esse non siano congegnate in modo da rendere eccessivamente difficile o praticamente impossibile l’esercizio del diritto al pagamento degli interessi garantito dal diritto dell’Unione (cfr. sentenze del 19 luglio 2012, Littlewoods Retail e a., C-591/10, punti 27 e 28, e del 6 ottobre 2015, Târşia, C-69/14, punti 26 e 27). Del resto, proprio il principio di effettività, come sottolineato da attenta dottrina, è stato da tempo utilizzato dalla Corte di cassazione e dalla Corte di Giustizia come un principio funzionale ad eliminare le restrizioni nazionali nella protezione dei diritti, potenziare la funzione ermeneutica ed individuare i rimedi più adeguati alla lesione. Il principio della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che gli amministrati traggono dal diritto dell’Unione, per come rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 riconosciuto dalla Corte di Giustizia è un principio generale, discendente dal dovere generale di leale collaborazione in capo agli Stati membri, il quale investe anche le autorità giurisdizionali nazionali, nel senso che queste ultime devono assicurare sempre e in ogni caso una protezione giudiziaria effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Non va dimenticato, peraltro, proprio con riferimento al principio di effettività ed alla rilevanza delle norme di contabilità, che, come rimarcato nell’ordinanza interlocutoria (cfr. § 13.23), tanto per gli interessi corrispettivi che per quelli moratori (nonché per quelli relativi al ritardo nell’adempimento dell’obbligazione nascente dalle restituzioni alle importazioni) il creditore non potrebbe disporre di un mezzo di tutela acceleratorio rispetto alla mancata emissione del titolo di spesa da parte della P.A. La Corte costituzionale, invece, fin dalla sentenza n. 190 del 1985, ha più volte sottolineato il riconoscimento del significato costituzionale della tutela cautelare come necessario ed essenziale corollario del più generale principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost. In particolare, il giudice delle leggi ha precisato come la tutela cautelare eserciti una “funzione strumentale all’effettività della stessa tutela giurisdizionale ”. Con riferimento, invece, al principio di equivalenza, la Corte di Giustizia ha da tempo affermato che il rispetto dello stesso presuppone che la norma nazionale controversa si applichi indifferentemente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto dell’Unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi oggetto e causa analoghi. Al fine di verificare se tale principio sia stato rispettato, spetta al giudice nazionale accertare se le modalità procedurali volte a garantire, nel diritto interno, la tutela dei diritti derivanti ai singoli dal diritto del- l’Unione siano conformi a detto principio ed esaminare tanto l’oggetto quanto gli elementi essenziali dei pretesi analoghi ricorsi di natura interna. A tal titolo, il giudice nazionale deve verificare l’analogia dei ricorsi di cui trattasi sotto il profilo del loro oggetto, della loro causa e dei loro elementi essenziali (cfr., in tal senso, sentenza del 29 ottobre 2009, Pontin, C-63/08, racc. pag. I-10467, punto 45 e giurisprudenza citata; sentenza 19 luglio 2012, Littlewoods Retail e a., C-591/10, punto 31). 11. – La soluzione delle questioni poste dalla ordinanza di rimessione. Nella concreta fattispecie, non è più in discussione l’esistenza, o meno, all’interno dell’ordinamento, di un termine entro il quale la domanda di pagamento originariamente proposta dalla Italgrani s.p.a in bonis e poi ribadita dalla Curatela del suo Fallimento doveva essere esitata al fine del riconoscimento delle invocate “restituzioni” all’esportazione poiché, sul punto, si è formato il giudicato interno, non essendo stata specificamente impugnata la determinazione di quel termine come quantificata dal giudice di merito. Il primo dei profili concerne il se, rispetto all’obbligazione di cui si discute, debba, o non, trovare applicazione la disciplina prevista per le obbligazioni di pagamento di denaro alle quali è tenuta la P.A.: disciplina che, come si è già spiegato, in deroga agli artt. 1219, comma 2, n. 3, e 1182 cod. civ., prevede la necessità di un atto di costituzione in mora anche per le obbligazioni per le quali sia scaduto il termine, dovendo l’obbligazione dell’amministrazione essere adempiuta ed eseguita presso il domicilio del debitore. In particolare, si tratta di stabilire se (come sostenuto dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli oggi ricorrente) gli interessi moratori invocati dalla parte attrice siano dovuti solo a decorrere dalla prima domanda giudiziale formulata da Italgrani s.p.a. in bonis il 15 dicembre 1997 ed esclusivamente per quelle sue istanze non ancora evase a quella data e sempre che, rispetto a tali istanze (inevase alla medesima data), la Pubblica Amministrazione avesse ingiustificatamente superato il termine ragionevole di sessanta giorni (dal completamento della CoNteNzIoSo NAzIoNALe pratica) individuato dai giudici di merito come applicabile alla fattispecie, oppure, invece (come rivendicato dalla parte controricorrente Progetto Grano s.p.a., poi incorporata per fusione da JLM s.r.l. a socio unico), quegli interessi siano spettanti fin dalla scadenza del sessantesimo giorno successivo alle singole richieste di pagamento presentate da Italgrani s.p.a. in bonis dal 1990 al 1997, quest’ultime implicitamente valendo quali atti di costituzione in mora dell’Agenzia debitrice. 11.1. ritengono le Sezioni Unite che sia corretta la seconda di tali ipotesi. Invero, le “restituzioni” alle esportazioni oggetto di causa sono riconosciute in forza di una normativa di fonte comunitaria, il regolamento (Cee) n. 3665/87 della Commissione del 27 novembre 1987 (qui utilizzabile ratione temporis) recante “modalità comuni di applicazione del regime delle restituzioni all’esportazione per i prodotti agricoli”. trattasi, dunque, di una disciplina direttamente applicabile nell’ordinamento italiano, da cui originano, da un lato, il diritto soggettivo dell’esportatore a tali rimborsi e, dall’altro, il corrispondente obbligo per le autorità competenti di procedere ai versamenti. tanto ha trovato conferma già nella decisione resa da Cass., SU, n. 9129 del 1991, in cui si legge, tra l’altro, che «[…], questa Corte ha riconosciuto (S.U. n. 1561-1977; n. 4107-81) consistenza di diritto soggettivo alle posizioni degli operatori in tema di restituzioni all’esportazione di prodotti agricoli previste dall’ordinamento comunitario. Le c.d. restituzioni, ossia le integrazioni sui prezzi mondiali dei prodotti agricoli rispetto a quelli in effetti poi realizzati, soggette a riconoscimento all’esito dell’operazione effettuata con l’esportazione verso paesi terzi in regime di prefinanziamento, costituiscono, per gli enti competenti in materia dei singoli Stati membri, un preciso obbligo -cui corrisponde un diritto soggettivo dell’operatore -quando concorrono le condizioni previste dall’ordinamento comunitario direttamente applicabili all’interno dello Stato. Le controversie in ordine al pagamento di dette restituzioni non possono pertanto che essere devolute alla cognizione del giudice ordinario […]. Il regolamento suddetto attribuisce all’impresa esportatrice il diritto di ottenere, mediante la formulazione di un’istanza, la “restituzione” (o l’attribuzione definitiva, conseguente ad una restituzione anticipata o ad un prefinanziamento) a condizione che le merci, per le quali sia stata accettata la dichiarazione di esportazione, siano state effettivamente esportate nei termini prescritti (e non siano reimportate). Detto altrimenti: il titolo costitutivo del rapporto obbligatorio che lega l’impresa esportatrice e la Pubblica Amministrazione (o, se si preferisce, la fonte dell’obbligazione pecuniaria della Pubblica Amministrazione) non va rinvenuto nell’istanza di pagamento che l’impresa rivolge alla Pubblica Amministrazione, bensì nella norma di legge (il già citato regolamento) che attribuisce all’impresa esportatrice il diritto di ottenere le “restituzioni”. Quest’ultima, infatti, quando chiede la “restituzione” o l’attribuzione definitiva è già astrattamente titolare del diritto di credito, in relazione al quale deve esserne soltanto concretamente accertata la legittimità della corrispondente richiesta di pagamento, mediante la verifica che le merci per le quali sia stata accettata la dichiarazione di esportazione siano state tempestivamente esportate e non reimportate, con il conseguente apprestamento, poi, dei mezzi per adempiere. Nell’odierna vicenda, il tribunale, prima, e la corte di appello, poi, hanno accertato e dichiarato l’esistenza, all’interno dell’ordinamento nazionale, del termine entro il quale un’istanza come quella suddetta si sarebbe dovuta esitare al fine del riconoscimento delle “restituzioni” all’esportazione: termine pacificamente determinato, ormai con valore di giudicato, nella misura, ritenuta ragionevole, di sessanta giorni dal completamento dell’invio della documentazione a tal fine necessaria. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 Pertanto, una volta individuato dal tribunale (con statuizione in parte qua non più censurata nei gradi successivi) il “termine ragionevole” (sessanta giorni dal completamento dell’invio della documentazione a tal fine necessaria) entro il quale avrebbe dovuto evadere le richieste rivoltele da Italgrani s.p.a. in bonis al fine di ottenere le “restituzioni” alle esportazioni per gli anni dal 1990 al 1997, ben può ritenersi che, proprio nel rispetto di quel termine, l’Agenzia delle Dogane avrebbe dovuto svolgere e completare il descritto procedimento di verifica previsto dal regolamento comunitario qui concretamente applicabile, evidentemente finalizzato anche agli scopi propri di quello di contabilità di cui al r.d. n. 827 del 1924, per poi adempiere, nell’ipotesi di esito positivo di quella verifica, la sua prestazione (pagamento delle “restituzione” predette, diritto riconosciuto alla istante dalla normativa comunitaria/unionale). Ciò, tuttavia, non è accaduto (la corrispondente circostanza, peraltro, è rimasta incontroversa), sicché la medesima Agenzia non può che subirne le conseguenze (in termini, appunto, di pagamento degli interessi moratori). Alteris verbis, stante la presunzione di completezza della disciplina comunitaria applicabile ratione temporis ed in mancanza di diversi criteri desumibili dal relativo (e già descritto) regolamento, l’interesse comunitario insito nella corrispondente disciplina delle “restituzioni” all’esportazione si è esaurito nella predisposizione del meccanismo che ha assicurato la costituzione del rapporto obbligatorio (Stato-produttore) ed il suo contenuto (integrazione del prezzo), mentre, per quanto riguarda la sua attuazione, il legislatore comunitario, omettendo la fissazione diretta del termine, ha considerato idoneo a garantire l’interesse comunitario il richiamo implicito degli ordinamenti interni, sul presupposto che in quegli ordinamenti il termine dell’adempimento delle obbligazioni trova la sua specifica disciplina. Per quanto concerne l’ordinamento italiano, esiste la norma dell’art. 1183 cod. civ., ma la relativa disciplina deve tenere conto dell’applicabilità dei principi che le norme sulla contabilità di Stato dettano in materia di debiti pecuniari della Pubblica Amministrazione, per cui la stessa può essere considerata in mora, e tenuta a corrispondere i relativi interessi, solo quando, dopo l’espletamento di tutti i controlli e gli accertamenti previsti, ritardi ingiustificatamente di versare al creditore le somme a costui spettanti. ecco, allora, che, nella concreta vicenda oggi all’attenzione di queste Sezioni Unite, una volta definitivamente individuato dai giudici di merito il “termine ragionevole” entro il quale avrebbe dovuto evadere le richieste rivoltele da Italgrani s.p.a. in bonis al fine di ottenere le “restituzioni” alle esportazioni per gli anni dal 1990 al 1997, proprio in quel termine l’Agenzia delle Dogane avrebbe dovuto completare (ma ciò pacificamente non è accaduto, con le relative conseguenze di cui si è già detto), nell’ipotesi di esito positiva della verifica impostale dal regolamento predetto, anche il procedimento per adempiere la sua prestazione (pagamento, appunto, delle “restituzioni” predette). In termini ancora più espliciti, dunque, deve ritenersi che se al debitore è necessario un periodo di tempo per l’approntamento della prestazione dovuta, egli sarà tenuto a dare l’avvio alla corrispondente attività in tempo utile perché la prestazione stessa possa essere effettuata al momento in cui viene a scadenza il suo termine di adempimento: pertanto, nelle obbligazioni pecuniarie dello Stato, ove l’approntamento delle prestazioni richiede l’iter procedi- mentale previsto dalla sua normativa di contabilità (cfr. il due r.d. n. 2440 del 2023 e gli artt. 269 e ss. del r.d. n. 827 del 1924), l’avvio delle formalità di pagamento deve essere previsto in tempo utile perché il denaro possa essere consegnato al creditore alla scadenza del termine fissato. Se ciò non accade, non si ha soltanto, in concreto, la maturazione del diritto di credito e l’acquisto di un diritto al pagamento già astrattamente previsto dalla legge (nella specie un CoNteNzIoSo NAzIoNALe regolamento comunitario), bensì un vero e proprio inadempimento, che apre la strada a qualsiasi forma di reazione contro di esso prevista dall’ordinamento. 11.2. occorre interrogarsi, a questo punto, sulla possibilità, ritenuta dalla corte partenopea ma qui contestata dall’Avvocatura dello Stato, di considerare, nella concreta fattispecie, le richieste di pagamento delle “restituzioni” alla esportazione relative agli anni 1990-1997, inoltrate da Italgrani s.p.a. in bonis all’Agenzia delle Dogane (oggi Agenzia delle Dogane dei Monopoli) anteriormente alla instaurazione (anche) nei suoi confronti, con citazione del 15 dicembre 1997, del corrispondente giudizio innanzi al tribunale di Napoli, come implicita costituzione in mora. La risposta deve essere positiva. Si è già spiegato che dette “restituzioni” sono riconosciute in forza di una normativa di fonte comunitaria, il regolamento (Cee) n. 3665/87 della Commissione del 27 novembre 1987 (applicabile ratione temporis), da cui originano, da un lato, il diritto soggettivo del- l’esportatore a tali rimborsi e, dall’altro, il corrispondente obbligo per le autorità competenti di procedere ai versamenti. Quel regolamento riconosce all’impresa esportatrice il diritto di ottenere, mediante la formulazione di un’istanza, la “restituzione” (o l’attribuzione definitiva, conseguente ad una restituzione anticipata o ad un prefinanziamento) a condizione che le merci, per le quali sia stata accettata la dichiarazione di esportazione, siano state effettivamente esportate nei termini prescritti (e non siano reimportate). L’impresa, dunque, quando chiede la “restituzione” o l’attribuzione definitiva è già astrattamente titolare del diritto di credito, in relazione al quale deve esserne soltanto concretamente accertata la legittimità della corrispondente richiesta di pagamento, mediante la verifica che le merci per le quali sia stata accettata la dichiarazione di esportazione siano state tempestivamente esportate e non reimportate, con il conseguente apprestamento, poi, dei mezzi per adempiere. Nella specie, per effetto del corrispondente giudicato interno formatosi sul punto, non è più in discussione l’esistenza, all’interno dell’ordinamento, del termine (sessanta giorni, dalla ricezione, da parte di Agenzia delle Dogane, dell’intera documentazione a tal fine necessaria) entro il quale le istanze di Italgrani s.p.a. in bonis dovevano essere esitate al fine del riconoscimento delle “restituzioni” all’esportazione e del relativo pagamento. È ragionevole, allora, che la medesima esigenza assicurata da una costituzione in mora ossia il consentire al debitore di apprestare i mezzi per adempiere, fissando il dies a quo a decorrere dal quale l’inadempimento non è più giustificato e si costituisce in capo al debitore l’obbligo di corrispondere gli interessi moratori -sia stata assolta, nel caso di specie, proprio dalle istanze predette, essendo le stesse da valutarsi in relazione proprio a quel termine di adempimento ragionevole come concretamente individuato da entrambi i giudici di merito e trascorso il quale un ulteriore atto di messa in mora del debitore, con assegnazione di un termine per adempiere si sarebbe rivelato un autentico nonsenso. Il contrario assunto dell’Agenzia delle Dogane, dunque, secondo cui quelle istanze non potevano costituire un atto di costituzione in mora perché intervenute prima del decorso del termine ragionevole e, quindi, in assenza di un ritardo, non merita seguito. esso, infatti, si rivela in aperto contrasto con la dottrina che, con unanime indirizzo, ammette che “il creditore [possa] anche intimare [l’adempimento] prima del tempo, al fine di ricevere il pagamento alla scadenza”. Ciò senza dimenticare che anche questa Corte ha già riconosciuto che l’efficacia di una inequivoca richiesta di pagamento che il creditore abbia inviato al proprio debitore prima della scadenza del termine del debito di quest’ultimo, ben rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 può essere evidentemente differita al momento della intervenuta scadenza di quel termine (cfr. sostanzialmente, in tal senso, Cass. n. 6549 del 2016, -resa, peraltro, in fattispecie di obbligazione quérable di una P.A. -a tenore della quale «L’atto di costituzione in mora non richiede l’uso di formule solenni, né l’osservanza di particolari adempimenti, sicché l’invio di una fattura commerciale -sebbene, di per sé, insufficiente ai fini ed agli affetti di cui all’art. 1219, comma 1, c.c. -può risultare idoneo a tale scopo allorché l’emissione del documento di natura fiscale sia intervenuta in relazione all’esecuzione di un contratto che preveda pagamenti ripetuti a scadenze predeterminate e purché lo stesso risulti corredato dall’indicazione di un termine per il pagamento e dall’avviso che, se lo stesso non interverrà prima della scadenza, il debitore dovrà ritenersi costituito in mora»). Del resto, sarebbe ragionevolmente privo di senso l’art. 1219, comma 2, n. 2, cod. civ. (secondo cui “Non è necessaria la costituzione in mora… quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere eseguire l’obbligazione”) ove non si postulasse, sul piano logico, anche una richiesta di pagamento anteriore al termine di scadenza del relativo debito. Nella specie, quindi, le richieste di pagamento suddette, inoltrate dopo le intervenute regolari esportazioni (le quali, come si è già ripetutamente puntualizzato, costituiscono il fatto generatore del rapporto obbligatorio), possono considerarsi come pienamente idonee a determinare la mora del debitore a decorrere dalla scadenza del termine ritenuto come ragionevole per l’adempimento della sua prestazione. In altri termini, una volta definitivamente individuato dal tribunale il “termine ragionevole” entro il quale avrebbe dovuto evadere le richieste rivoltele da Italgrani s.p.a. in bonis al fine di ottenere le “restituzioni” alle esportazioni per gli anni dal 1990 al 1997, proprio in quel termine l’Agenzia delle Dogane avrebbe dovuto svolgere il complessivo procedimento per poi adempiere la sua prestazione (pagamento, appunto, delle “restituzione” predette) già ripetutamente richiestale dalla prima anteriormente alla instaurazione del giudizio innanzi al tribunale ma con effetti, quanto alla costituzione in mora, da considerarsi verificatisi dopo la scadenza di quel termine. Non avendolo fatto (e la circostanza, giova ripeterlo, è sostanzialmente pacifica) -anzi avendolo più volte ostacolato, come chiaramente emerge dalla decisione di primo grado nella quale si dà atto dei vari provvedimenti di fermo amministrativo con i quali erano stati temporaneamente sospesi i pagamenti delle restituzioni all’esportazione dovute ad Italgrani s.p.a., adottati sulla base di atti risultati illegittimi al vaglio dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale erano stati contestati -ne risponde delle conseguenze. ed è proprio questo quanto sostanzialmente ha ritenuto la corte d’appello, laddove ha opinato che «[…] la peculiarità della fattispecie è tale da rendere inconcepibile la necessità della costituzione in mora ex art. 1219 c.c., posto che questa deve ritenersi implicita nella originaria richiesta di pagamento del contributo» (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). Diversamente, si riconoscerebbe alla Pubblica Amministrazione un irragionevole privilegio, considerato che, al tempo necessario per adempiere (fissato dai giudici di merito in sessanta giorni, in deroga all’art. 1183 cod. civ. e, dunque, alla regola dell’immediata esigibilità del credito), si aggiungerebbe l’ulteriore periodo di tempo che il creditore, con l’atto di costituzione in mora, dovrebbe concedere al debitore/Pubblica Amministrazione, senza dimenticare, peraltro, che il creditore nemmeno potrebbe disporre di un mezzo di tutela acceleratorio rispetto alla mancata emissione del titolo di spesa da parte della P.A. Deve considerarsi, inoltre, che se l’obbligazione deve adempiersi al domicilio del debitore (come, appunto, accade per le obbligazioni pecuniarie della P.A., da adempiersi presso gli uffici di tesoreria di quest’ultima) ed il creditore ivi non si reca, potrebbe generarsi incertezza CoNteNzIoSo NAzIoNALe circa la effettiva infruttuosa scadenza del termine di adempimento dell’obbligazione previsto, ma se una tale incertezza risulta esclusa aliunde perché c’è già stata una richiesta di pagamento, sebbene anteriore alla scadenza di detto termine (come pacificamente accaduto nella vicenda in esame, considerando le richieste di riconoscimento del contributo inoltrate da Italgrani s.p.a in bonis alla Agenzia delle Dogane prima di intraprendere, poi, il giudizio innanzi al tribunale di Napoli), non ha senso, anche in nome del principio di buona fede, pretenderne un’altra. In altre parole, in una fattispecie affatto peculiare -in ragione della sua concreta disciplina come dettata dal già menzionato regolamento comunitario qui applicabile ratione temporis -come quella oggi all’attenzione di queste Sezioni Unite risulta affatto ragionevole un’attenuazione del requisito della costituzione in mora laddove un termine di adempimento (o, se si preferisce, di evasione della richiesta di pagamento delle “restituzioni” de quibus) già sia stato definitivamente stabilito giudizialmente, tanto potendo trovare la sua giustificazione nel principio generale della buona fede valutato in relazione alla suddetta individuata funzione (unitamente ad altre) della costituzione in mora. Se questa serve anche o esclusivamente ad accertare la infruttuosa scadenza del termine previsto per l’adempimento dell’obbligazione, sarebbe contrario alla buona fede (ricordandosi pure che, nel 2020, il legislatore, intervenendo sulla formulazione dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, ha espressamente previsto che “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede”) richiederla quando tale scadenza risulti aliunde sicura. resta solo da aggiungere che, per il tenore dell’intimazione volta a richiedere l’adempimento di un’obbligazione, non si esige l’uso di formule solenni, ritenendosi sufficiente che il creditore manifesti al debitore l’intenzione di non tollerare ritardi. È un atto giuridico in senso stretto, a carattere recettizio, sulla cui concreta possibilità a valere come messa in mora la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che trattasi di valutazione rimessa al giudice di merito. 11.3. Si impongono, infine, alcune precisazioni. Innanzitutto, le appena descritte soluzioni consentono agevolmente di conciliare quanto stabilito da Cass., SU, n. 1561/1977 (che, in una fattispecie in cui, diversamente da quella oggi in esame, non era stato giudizialmente individuato alcun termine per l’evasione della corrispondente pratica da parte della P.A., ha avuto modo di chiarire, con riferimento ad altra tipologia di provvidenze riconosciute a livello comunitario in favore di produttori agricoli, peraltro parzialmente sovrapponibile quanto alle condizioni previste per il riconoscimento delle provvidenze, che le cosiddette “restituzioni”, ossia le integrazioni sui prezzi mondiali dei prodotti agricoli, che l’Amministrazione finanziaria italiana [come le amministrazioni degli altri Paesi aderenti alla Cee] deve corrispondere agli esportatori, sono disciplinate dai regolamenti comunitari […] per quanto attiene alle loro condizioni ed al loro ammontare, ma restano disciplinate dal diritto interno italiano quanto alle modalità e ai tempi del loro pagamento. Da ciò consegue che il credito dell’esportatore diviene liquido ed esigibile, e perciò produttivo di interessi compensativi, solo quando sia stata ordinata la spesa ed emesso il relativo ordinativo di pagamento, ai sensi dell’art. 270 della legge sulla contabilità di stato r.D. 23 maggio 1924 n. 827), da Cass. n. 6738 del 1983 (in cui si è precisato che, nel caso del pagamento dei premi ai produttori d’olio d’oliva, la relativa disciplina comunitaria è ispirata all’interesse di fronteggiare la concorrenza dei paesi terzi e, quindi, “a tutelare il generale interesse della Comunità oltre alla protezione degli interessi dei produttori d’olio d’oliva dei singoli Stati membri ” per cui “l’esigenza di un termine ul rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 timo per il versamento dell’integrazione è alla base del sistema stesso, costituendo l’obiettivo prefissosi dal legislatore comunitario nel prevedere tale forma di aiuto alla produzione”) e dalla ulteriore giurisprudenza formatasi con riguardo ai regolamenti comunitari (n. 136/66, 754/67 e successivi) che accordano un’integrazione di prezzo ai produttori di olio di oliva, con la successiva giurisprudenza consolidatasi presso questa Corte in tema di irrilevanza della definizione del procedimento di spesa per i debiti pecuniari da ritardo della P.A. nell’adempimento delle obbligazioni derivanti da contratti da essa stipulati: ciò nella misura in cui si è ripetutamente affermato che, ove vi sia un colpevole ritardo nell’espletamento della procedura di liquidazione, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere gli interessi moratori, a prescindere dall’emissione o meno del mandato di pagamento. In tema di mora, in ordine ai contratti stipulati dalla P.A., le regole di diritto si applicano, si è detto, anche ai debiti della Pubblica Amministrazione medesima. Sicché l’eventuale esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica non giustifica, in caso di colpevole ritardo nelle formalità di liquidazione, la deroga al principio, desumibile dall’art. 1218 cod. civ., della responsabilità del debitore per l’inesatto o tardivo adempimento della prestazione (responsabilità che si attua con la corresponsione degli interessi moratori come forma di risarcimento minimo) ed al principio, posto dall’art. 1224, comma 1, cod. civ., che identifica la data di decorrenza degli interessi con il giorno della costituzione in mora. Le medesime soluzioni, poi, si rivelano pienamente coerenti con quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia con riferimento ai principi di effettività ed equivalenza. In particolare, e con specifico riferimento alle questioni in esame, nella sentenza del 28 aprile 2022, cause riunite C-415/2056, C-419/20 e C-427/20, Gräfendorfer Geflügel-und Tiefkühlfeinkost Produktions GmbH e a., in cui -come si è già detto in precedenza -i Giudici di Lussemburgo hanno affermato che, nel caso in cui “siano state pagate in ritardo restituzioni all’esportazione ad un interessato, in violazione del diritto dell’Unione, quest’ultimo ha il diritto di ottenere il pagamento di interessi volti a compensare l’indisponibilità dell’importo di denaro corrispondente” (cfr. § 58). Secondo la costante giurisprudenza di quegli stessi Giudici, inoltre, in mancanza di una normativa dell’Unione, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità in base alle quali gli interessi devono essere pagati in caso di rimborso di importi di denaro riscossi in violazione del diritto del- l’Unione. tuttavia, si aggiunge, tali modalità devono rispettare i principi di equivalenza e di effettività, requisito che implica, in particolare, che esse non siano congegnate in modo da rendere eccessivamente difficile o praticamente impossibile l’esercizio del diritto al pagamento degli interessi garantito dal diritto dell’Unione (cfr. sentenze del 19 luglio 2012, Littlewoods Retail e a., C-591/10, punti 27 e 28, e del 6 ottobre 2015, Târşia, C-69/14, punti 26 e 27). Del resto, proprio il principio di effettività costituisce un principio funzionale ad eliminare le restrizioni nazionali nella protezione dei diritti, potenziare la funzione ermeneutica ed individuare i rimedi più adeguati alla lesione. Pertanto, la tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che gli amministrati traggono dal diritto dell’Unione, per come riconosciuta dalla Corte di Giustizia, costituisce un principio generale, discendente dal dovere generale di leale collaborazione in capo agli Stati membri, il quale investe anche le autorità giurisdizionali nazionali, nel senso che queste ultime devono assicurare sempre e in ogni caso una protezione giudiziaria effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. resta da dire che, sempre con riferimento al principio di effettività ed alla rilevanza delle norme di contabilità, che, come pure si è già rimarcato, quanto agli interessi relativi al ritardo CoNteNzIoSo NAzIoNALe nell’adempimento dell’obbligazione nascente dalle restituzioni alle importazioni, il creditore nemmeno potrebbe disporre di un mezzo di tutela acceleratorio rispetto alla mancata emissione del titolo di spesa da parte della P.A. La Corte costituzionale, invece, fin dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, ha più volte sottolineato il riconoscimento del significato costituzionale della tutela cautelare come necessario ed essenziale corollario del più generale principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost. In particolare, il giudice delle leggi ha precisato come la tutela cautelare eserciti una “funzione strumentale all’effettività della stessa tutela giurisdizionale” (cfr. sent. n. 190 del 1985). esigenze di completezza, infine, impongono una ulteriore considerazione. È innegabile che, nella vicenda oggi all’attenzione di queste Sezioni Unite, sia inapplicabile (sia ratione temporis, sia perché non si è al cospetto di transazioni commerciali tra privato e Pubblica Amministrazione e sia, soprattutto, in ragione di quanto si è già detto circa la possibilità di attribuire la natura di valido atto di costituzione in mora alle richieste di pagamento delle restituzioni inoltrate da Italgrani s.p.a. in bonis all’Agenzia delle Dogane prima dell’instaurazione del giudizio innanzi al tribunale di Napoli) la disciplina prevista, in tema di interessi, dal d.lgs. n. 231/2002, recante la “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. Ciò non toglie, tuttavia, che proprio quella disciplina (ripetesi, qui inutilizzabile) -cfr. in particolare l’art. 7, comma 5, del menzionato d.lgs. -non consente di considerare le obbligazioni pecuniarie della P.A. come sempre ed assolutamente incompatibili con la fattispecie della ipotesi della mora ex re. 11.4. Sempre in tema di obbligazioni pecuniarie della Pubblica Amministrazione, l’ordinanza interlocutoria n. 32405 del 2023 prospetta anche la questione «relativa agli effetti della mancata emissione del titolo di spesa sugli interessi corrispettivi» (cfr. pag. 21-22), con riguardo alla quale ha evidenziato i principi dissonanti di Cass. n. 11655 del 2020 rispetto all’orientamento tradizionale, oltre che maggioritario, caratterizzato dalla distinzione del regime giuridico applicabile alle conseguenze del ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie della P.A. e, segnatamente, dal condizionamento degli interessi corrispettivi all’emissione del titolo di spesa. Principi che, tuttavia, non hanno trovato seguito, almeno per ora, nella successiva giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 118 del 2023), che ha ritenuto «più convincente e appropriato l’orientamento maggioritario attestato sulla differenza, per gli effetti che ne conseguono a proposito del debito da interessi, dei fini del debitore pubblico rispetto a quello privato; differenza alla quale sono funzionali le più complesse procedure di verifica della inerenza e della effettiva corrispondenza della prestazione alle previsioni di spesa alle quali è funzionale il procedimento afferente». La decisione su tale questione, oggetto, giusta la medesima ordinanza interlocutoria, di una seconda, autonoma ratio decidendi rinvenibile nella sentenza oggi impugnata, rimane tuttavia assorbita sia in ragione di quanto è già ampiamente detto finora con riferimento a quella che è chiaramente l’altra, e principale, ratio decidendi della medesima sentenza, assolutamente sufficiente per dirimere l’odierna lite tra le parti -ricordandosi, peraltro, da un lato, che, come si legge in Cass., SU, n. 19681 del 2019, «ogni pronuncia giudiziaria trova il proprio limite nel collegamento con una vicenda concreta. Com’è stato incisivamente detto nelle note sentenze sulla compensatio lucri cum damno, alle Sezioni Unite non è affidata “l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alla specificità del singolo caso della vita” (sentenze 22 maggio 2018, n. 12564, n. 12565, n. 12566 e n. 12567)»; dal- l’altro, che ove la corrispondente motivazione di una sentenza sia sorretta da una pluralità di rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto, l’omessa impugnazione o inefficace di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua, della sentenza (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 5102 e 4067 del 2024; Cass. nn. 26801 e 4355 del 2023; Cass. n. 4738 del 2022; Cass. n. 22697 del 2021; Cass., SU, n. 10012 del 2021) -sia perché l’unico formulato motivo di ricorso dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli è concretamente focalizzato, in realtà, sul solo tema degli interessi moratori, non anche di quelli corrispettivi: su quest’ultimo punto, infatti, si rinviene solo un fugace accenno -cfr. pag. 12 del ricorso -al fatto che impropriamente l’art. 1282 cod. civ. sarebbe stato richiamato dalla corte distrettuale discutendosi, nella specie, di interessi moratori e non di interessi corrispettivi. Né ad una tale carenza può porre rimedio il contenuto della memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., quest’ultima essendo destinata esclusivamente ad illustrare le censure già proposte, senza poterne introdurre di nuove (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4979 del 2024; Cass. n. 17893 del 2020; Cass. n. 24007 del 2017; Cass. n. 26332 del 2016). 12. – La decisione del ricorso ed il principio di diritto. Alla stregua di quanto si è spiegato circa la possibilità di considerare, nella specie, come pienamente idonee a determinare la mora dell’Amministrazione finanziaria debitrice, a decorrere dalla scadenza del termine definitivamente ritenuto come ragionevole dai giudici di merito per il suo adempimento, le richieste di pagamento delle “restituzioni” alle esportazioni, per gli anni 1990 -1997, inoltrate da Italgrani s.p.a. in bonis all’Agenzia delle Dogane (oggi Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) anteriormente alla instaurazione, con citazione a quest’ultima notificata il 15 dicembre 1997, del giudizio innanzi al tribunale di Napoli, l’odierno ricorso della menzionata Agenzia deve essere respinto, contestualmente enunciandosi il seguente principio di diritto: «In tema di “restituzioni” all’esportazione come disciplinate dal Regolamento (Cee) n. 3665/87 della Commissione del 27 novembre 1987, applicabile ratione temporis, la richiesta stragiudiziale di corresponsione del relativo sussidio economico, rivolta dal creditore esportatore nei confronti dell’Amministrazione finanziaria debitrice, costituisce atto idoneo a costituire in mora quest’ultima, anche agli effetti delle norme di contabilità di Stato, a decorrere dalla scadenza del termine ragionevole -nella specie definitivamente fissato dal giudice di merito -entro il quale l’Amministrazione medesima deve svolgere e completare il procedimento di verifica previsto dal Regolamento suddetto. Pertanto, conclusasi positivamente tale verifica e spirato quel termine senza l’avvenuto pagamento del menzionato sussidio, spettano al creditore esportatore gli interessi moratori sull’importo dello stesso e con l’indicata decorrenza ». 13. – Le spese giudiziali. Le spese di questo giudizio di legittimità possono essere interamente compensate tra le parti tenuto conto della complessità delle questioni trattate. Non vi è luogo, infine, a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa (ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile), disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal ma CoNteNzIoSo NAzIoNALe teriale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (cfr. Cass., Sez. U., 25 novembre 2013, n. 26280; Cass., 14 marzo 2014, n. 5955; Cass. n. 33825 del 2024). PeR QUeSti MotiVi La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità. Così deciso in roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione, il giorno 11 marzo 2025. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 L’avvocato dello Stato. Qualche chiarimento dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione del 27 marzo 2025 n. 8164 sulla mancata sottoscrizione degli atti defensionali In rassegna l’interessante e favorevole ordinanza alla difesa erariale della Corte di Cassazione del 27 marzo 2025 n. 8164, recante, fra l’altro i seguenti principi: “La comparsa di costituzione in giudizio, non firmata, non è inesistente, ma nulla, e dunque è sanabile, per raggiungimento dello scopo, così come lo è la citazione non sottoscritta … l’Avvocatura dello Stato è un ufficio in cui i singoli avvocati o procuratori sono fungibili, non rappresentano singolarmente all’esterno l’ufficio, il quale, secondo le previsioni della legge istitutiva (r.d. n. 1611/1933) è ufficio impersonale. Ciò significa che sebbene l’atto sia stato redatto da uno degli avvocati, che ha omesso di firmarlo, può essere ratificato da altro degli avvocati dello Stato, con efficacia sanante”. Enrico De Giovanni (*) Ct 46054/2021(**) AvvoCAtUrA GeNerALe DeLLo StAto Corte SUPreMA DI CASSAzIoNe rICorSo Per CASSAzIoNe Per il Ministero della Difesa (c.f. 8042560589) in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587 fax: 0696514000, PeC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) presso i cui uffici è domiciliato in roma, alla via dei Portoghesi n. 12; CoNtro -omissis-rapp.to e difeso dagli Avv.ti Giuseppe Colella (c.f. CLLGPP39519A662Q -p. iva 06535750720) e Nicola Colella (c.f. CLLNC168r29A662z -p. iva 06535750720) elett.te dom.to presso il loro studio in Bari alla via Durazzo n. 34 -telefax: 080.5588104 -PeC colelli. nicola68@avvvocatibari.legalmail.it e colelli.giuseppe39@avvocatibari.legalmail.it; avverso e per la cassazione della sentenza parziale n. 1687/2021 della Corte d’Appello di Bari terza sezione civile resa inter partes nel giudizio recante il nr. 845/19 r.G., pubblicata il 30 settembre 2021 non notificata. Oggetto: risarcimento danni alla salute in dipendenza di malattia giudicata dipendente da causa di servizio Motivi: violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 157, 158, 180 e 182 c.p.c. in relazione (*) vice Avvocato Generale. (**) Si pubblica - per la parte di interesse - il ricorso per cassazione prodotto dalla difesa erariale. CoNteNzIoSo NAzIoNALe all’art. 360 n. 3) c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del r.D. n. 1611/1933 in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c. (...) I PreGreSSI GrADI DI GIUDIzIo Il sig. -omissis-, sul presupposto di aver contratto malattia tubercolare durante il servizio di leva prestato nel 1965-1966, in ragione della quale gli venne riconosciuta pensione privilegiata con sentenza nr. 120/95 della sezione pugliese della Corte dei Conti, conveniva nel 2005 il Ministero della Difesa avanti al tribunale di Bari per il risarcimento del danno alla salute che assumeva imputabile all’amministrazione convenuta in ragione della patologia contratta. Il giudizio assumeva il n. rG 2463/2005. Si costituiva in giudizio il Ministero della Difesa eccependo in via preliminare la maturata prescrizione di ogni avversa pretesa, contestando nel merito le domande e sollevando eccezione di compensatio lucri cum damno in relazione a quanto percepito dall’attore a titolo di pensione privilegiata. Istruita la causa con CtU medico-legale, con sentenza nr. 1028/11 il tribunale di Bari dichiarò il difetto di giurisdizione dell’AGo, ponendo a carico dell’attore le spese di CtU e compensando le altre spese processuali. Avverso detta sentenza proponeva appello l’odierno ricorrente affidando il gravame ai seguenti motivi: 1. Sulla giurisdizione. 2. Sul merito della domanda. 4. Sull’eccezione di prescrizione. 3. Sull’inesistenza giuridica dell’atto di costituzione del Ministero. Il terzo motivo veniva così articolato: “Nel corso del giudizio di primo grado, si è eccepita l’inesistenza giuridica, e comunque l’assoluta nullità, dell’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa, per carenza di sottoscrizione da parte del difensore. Detta eccezione, ad ogni effetto di legge, viene espressamente ribadita anche in sede di appello. Come rilevato ed eccepito nel corso dell’udienza del 13 luglio 2010, l’atto di costituzione del Ministero convenuto, nell’originale come, ovviamente, nelle copie, è del tutto privo di sottoscrizione del difensore. Si deve al riguardo evidenziare che detti atti, essendo privi anche di mandato come inevitabile in ragione del particolare rapporto di difesa dell’Avvocatura dello Stato -, non recano sottoscrizione alcuna, in nessuna loro parte. Secondo il costante orientamento della Suprema Corte di Cassazione, la mancanza della sottoscrizione del procuratore nel- l’originale dell’atto comporta l’inesistenza di questo, mentre la mancanza della sottoscrizione del procuratore nella copia dell’atto notificato ne determina la nullità (...)”. Con sentenza nr. 150/14 la Corte di appello di Bari dichiarava la giurisdizione ordinaria rimettendo la causa al Giudice a quo. Il giudizio veniva riassunto e l’attore insisteva nella domanda originaria, che il Ministero chiese di rigettare reiterando le eccezioni e difese già sollevate e spiegate nella memoria versata in atti al momento della costituzione nel giudizio originario. Il tribunale di Bari con sentenza n. 1116/19 emessa il 13-14 marzo 2019, in accoglimento della eccezione di prescrizione del diritto, sollevata dal Ministero, rigettava le avverse domande. Avverso detta sentenza proponeva appello l’odierno ricorrente. Il Ministero resisteva in giudizio concludendo per il rigetto del gravame. LA DeCISIoNe oGGI IMPUGNAtA La Corte d’appello ha affrontato, ed illegittimamente risolto, la seguente questione processuale. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 -Il Ministero -[nell’originario giudizio definitosi con sentenza di declaratoria del difetto di giurisdizione] si costituiva, eccependo in via preliminare la prescrizione delle avverse pretese - con comparsa non firmata dall’avvocato dello Stato G.C. estensore dell’atto; -All’udienza del 28 giugno 2005 l’avvocato dello Stato N.S. si riportava integralmente alla comparsa chiedendo rinvio per la trattazione; -Secondo il tribunale di Bari, l’avvocato dello Stato, comparendo all’udienza del 28 giugno 2005, faceva propria la comparsa compiendo un atto equivalente alla sottoscrizione mancante dell’avv. C., con effetto sanante. - Il tribunale riteneva pertanto tempestiva e rituale l’eccezione di prescrizione. -L’appellante ha contestato il verificarsi della sanatoria e la ritualità dell’eccezione di prescrizione, contestata anche nel merito. -Il motivo inerente la presunta inesistenza/nullità della costituzione in giudizio del Ministero della Difesa è stato ritenuto fondato dalla Corte di appello con la sentenza oggi gravata, sulla scorta della seguente motivazione: «Il motivo è fondato, non essendosi verificata sanatoria dei vizi di quella comparsa. La Corte premette che il testo vigente dell’art. 182 cpv. c.p.c., che ha ampliato le ipotesi di sanatoria dei vizi della procura, non ha portata meramente interpretativa di quello preesistente e, per il suo carattere fortemente innovativo, non si applica retroattivamente (Cass. 8933/19). Inoltre il difetto di mandato, essendo rilevabile di ufficio (Cass. 8104/21 e 24212/18), non può essere sanato dal comportamento della parte controinteressata (che, nella specie, eccepì il difetto solo nella conclusionale di primo grado), e in particolare dall’accettazione del contraddittorio sul merito. In concreto, poi, il comportamento dell’Avvocatura dello Stato non ha avuto l’effetto sanante che la giurisprudenza (ad es., Cass. 13688/01) riconosce all’idonea iniziativa della parte anche in caso di mancata attivazione del giudice. Ed infatti, l’essersi l’avvocato erariale S. riportato il 28 giugno 2005 alla comparsa depositata il 31 maggio 2005, recante l’indicazione a stampa ma non la firma dell’avvocato erariale C., costituiva una mera conferma di stile delle precedenti difese, ma non una ratifica o convalida della carenza in esame. Ciò al più sarebbe stato ipotizzabile, sia pure con un certo sforzo, solo se a comparire il 28 giugno 2005 fosse stato proprio l’avv. C. La mancata sanatoria del vizio del mandato difensivo precluse quindi al Ministero la rituale formulazione dell’eccezione di prescrizione, che va pertanto respinta ». Nel merito la Corte territoriale ha ritenuto quanto segue: (...) La Corte territoriale ha quindi, con sentenza parziale ed in riforma della sentenza impu gnata, rigettato l’eccezione di prescrizione disponendo con separata ordinanza per la prosecuzione del giudizio. Avverso tale decisione il Ministero della Difesa, come sopra rapp.to e difeso, interpone il presente ricorso ritenendola viziata alla luce dei seguenti MotIvI i) Violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 157, 158, 180 e 182 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del R.D. n. 1611/1933 in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c. La Corte territoriale è incorsa in errore di sussunzione nel ritenere che la mancata sottoscrizione della comparsa di costituzione e risposta depositata nell’interesse del Ministero odierno ricorrente, integrasse il vizio di difetto di mandato, rilevabile di ufficio (Cass. 8104/21 e 24212/18). CoNteNzIoSo NAzIoNALe Che il Giudice d’appello sia incorso in detto errore è confermato anche dal richiamo agli arresti di codesta Corte. La fattispecie decisa con il primo di detti arresti (Cass. n. 8104/2021) ineriva al difetto di ius postulandi dell’Università degli Studi di roma “La Sapienza”, per mancata produzione della motivata Delibera del Consiglio di amministrazione, ai sensi del r.D. n. 1611 del 1933, art. 43, comma 4, non essendo sufficiente la produzione del solo decreto del rettore, quale legale rappresentante dell’ente, ad affidare lo ius postulandi ad un avvocato del libero foro in luogo dell’Avvocatura dello Stato. Peraltro codesta Corte ha deciso nel senso della infondatezza del motivo del relativo motivo di ricorso avendo ritenuto quanto segue: «Là dove si faccia questione all’interno del processo della mancanza del potere rappresentativo sostanziale sub specie del difetto di autorizzazione in capo alla persona che abbia proposto domanda o abbia contraddetto a quella altrui costituendosi in giudizio e conferendo mandato ad un difensore, l’invalidità della procura alle liti e quindi il difetto di ius postulandi in capo al patrocinatore non è mancanza tale da integrare una nullità insanabile e rilevabile ex officio in ogni stato e grado del giudizio, insensibile, come tale, a preclusioni o decadenze. 1.1.2. L’indicata fattispecie non figura tra quelle per le quali la nullità risulti comminata dalla legge (art. 156 c.p.c., comma 1) nè è qualificata come insanabile (art. 158 c.p.c., comma 1, sui vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del pubblico ministero). 1.1.3. In tal senso depone anche il disposto di cui all’art. 182 c.p.c., comma 2 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2009, art. 46), che, secondo giurisprudenza di questa Corte, va inteso, anche alla luce della successiva novella, nel senso che il giudice è tenuto a promuovere la sanatoria del vizio, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa (Cass. n. 22559 del 4 novembre 2015; per una fattispecie in cui si distingueva tra le figure del difetto di rappresentanza e di carenza assoluta con conseguente insanabilità soltanto di quest’ultima: Cass. SU n. 10414 del 27 aprile 2017; ancora sulla distinzione tra inesistenza e nullità della procura e conseguente regime di insanabilità-sanabilità dell’atto nella novellata previsione dell’art. 182 c.p.c.; Cass. n. 24257 del 4 ottobre 2018). L’applicabilità del meccanismo della sanatoria vale a predicare il carattere non assoluto della nullità e tanto per un percorso interpretativo guidato dalla disciplina contenuta nel novellato art. 182 cit. che, dando espressamente ingresso alla sanatoria per assegnazione di un termine perentorio la cui osservanza sana con effetti ex tunc il vizio originario del difetto di rappresentanza o di assistenza o di autorizzazione, stabilisce del vizio emendato la non ascrivibilità ad una nullità assoluta». La fattispecie decisa con il secondo arresto (Cass. 24212/18) atteneva alla dedotta nullità della procura in quanto non materialmente unita al ricorso ed in quanto mancante della specifica indicazione della causa per la quale il mandato era stato rilasciato. La Corte d’appello ha omesso di considerare che gli Avvocati ed i Procuratori dello Stato stanno in giudizio senza necessità di mandato -generale o speciale -essendo sufficiente che essi provino la loro qualità ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1 del r.D. 1611/1933 a mente del quale “La rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano alla Avvocatura dello Stato. Gli avvocati dello Stato, esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità”. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 Nel caso che ci occupa quindi erroneamente il difetto di sottoscrizione da parte dell’Avvocato dello Stato redattore della comparsa di costituzione e risposta, è stato ritenuto dal Giudice di secondo grado quale vizio attinente al difetto di ius postulandi. Inquadrata correttamente la questione è noto che quando di un atto è certa la provenienza dall’Avvocatura dello Stato la mancata sottoscrizione non ne determina la nullità (Cons. St., vI, 13 luglio 1991 n. 456; Cass. 13 luglio 1993 n. 7741, in Giust. civ., 1993, I, 2631; 9 giugno 1993 n. 591; 22 febbraio 1990 n. 1308; 3 giugno 1988 n. 3788; SS.UU. 15 marzo 1982 n. 1672; Cons. St. Iv, 7 settembre 1988 in rass. Avv. St. 1988, I, 121; vI, 22 maggio 1981 n. 225; vI, 5 febbraio 1980 n. 122; Iv, 6 aprile 1979 n. 256; Iv, 24 ottobre 1978 n. 934; Cass. 13 luglio 1993 n. 7741, cit.; 9 giugno 1993 n. 591; Cons. St., vI, 25 marzo 1989 n. 278 in Cons. St. 1989, 1, 361; vI, 15 marzo 1977 n. 239, in Giust. civ. 1978, 11, 18; 11 febbraio 1977 n. 88 in Foro amm. 1977, I, 124; App. roma 18 febbraio 1969 n. 336 in rass. Avv. St. 1969, 1, 151). Sulla questione che ci occupa sembra dirimente la decisione assunta dal Consiglio di Stato in fattispecie simile (cfr. C.d.S. n. 2983/2007). «1. Con il primo motivo di appello si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui rigetta l’eccezione di inammissibilità della costituzione in giudizio dell’Avvocatura di Stato, formulata per la mancata sottoscrizione del controricorso e della memoria successivamente presentata. La censura è infondata. Il tAr ha respinto l’eccezione ritenendo che la presenza all’udienza di discussione dell’avvocato dello Stato fosse idonea a fare ritenere l’Amministrazione costituita in giudizio in quanto l’Avvocatura dello Stato ha la rappresentanza in giudizio della Amministrazione dello Stato indipendentemente dal conferimento di un mandato specifico. L’appellante contesta tale argomentazione, rilevando che la propria eccezione mirava ad evidenziare -a monte -l’assenza di volontà della difesa erariale a costituirsi in giudizio, con ciò dovendosi ritenere inesistente (dunque non sanabile) la sua presenza in giudizio. osserva il Collegio che dalla mancata sottoscrizione degli atti defensionali non è evincibile tale (assenza di) volontà ma, al più, l’invalidità (o l’inesistenza) di tali atti e, dunque, l’inidoneità degli stessi ad attivare il rapporto processuale in capo all’Amministrazione. Senonchè, successivamente ai medesimi, la difesa erariale è comparsa in giudizio, attività autonoma rispetto a quella viziata». Appare necessario ribadire la piena esistenza, efficacia e legittimità degli atti processuali della difesa erariale ragione per la quale il motivo dell’avverso gravame andava rigettato. L’eccezione avversa circa l’inesistenza di tali atti -disattesa dal Giudice di prime cure era peraltro stata formulata da parte attrice per la prima volta solo in sede di precisazione delle conclusioni (in violazione anche del vecchio rito, che prevedeva all’uopo l’udienza di prima comparizione delle parti ex art. 180 c.p.c.). L’elenco delle pronunce di legittimità operato da controparte avanti al giudizio definitosi con l’impugnata sentenza si riferiscono, per lo più, a casi inerenti alla mancata sottoscrizione dell’atto introduttivo del giudizio e, in ogni caso, non smentiscono, né contraddicono, altro orientamento ancora attuale di codesta Suprema Corte che qui si riporta per la sua importanza: “allorquando la parte convenuta non si sia limitata a depositare in cancelleria una comparsa priva della sottoscrizione del difensore, ma abbia partecipato attivamente al giudizio senza che siano sorte contestazioni in ordine all’individuazione del procuratore costituito, la nullità non può essere pronunciata; ostandovi la sanatoria generale che il comma 3 dell’art. 157 c.p.c. fa derivare dal raggiungimento dello scopo dell’atto viziato” (così Cass., sez. I, sent. 12 novembre 1998, n. 11410). CoNteNzIoSo NAzIoNALe ebbene è ormai oltremodo evidente che la difesa erariale non si sia limitata a depositare un atto privo di sottoscrizione in cancelleria, ma che abbia attivamente partecipato alle attività processuali e istruttorie. A fronte dell’attività difensiva spiegata la controparte non ha eccepito alcunché (salvo, si ribadisce, in sede di precisazione delle conclusioni), tacitamente rinunciando a opporre la nullità (secondo il disposto dell’art. 157, comma 3, c.p.c.). L’atto ha comunque raggiunto lo scopo cui era destinato, e pertanto non poteva pronunciarsene la nullità, giusto l’art. 156, comma 3, c.p.c. Una diversa lettura delle norme processuali sarebbe evidentemente viziata da superficialità, nonché da una sottovalutazione del rilievo dato dalla giurisprudenza di legittimità agli aspetti sostanziali del processo. Del resto, come evidenziato anche nella sentenza di prime cure n. 1116/2019, la controversia era soggetta al precedente rito, onde l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Amministrazione era proponibile ben oltre il termine per la costituzione in giudizio del convenuto. A ciò consegue che, pur non volendo reputare prodotti gli effetti della comparsa sin dal momento del suo deposito e ove non si consideri perfezionata una sanatoria ex tunc, nel caso di specie vi è stata, in ogni caso, una sanatoria ex nunc, essendo nel corso della prima udienza comparso un Avvocato dello Stato, il quale ha fatto proprio il contenuto della comparsa depositata, di fatto consentendo all’atto originario di raggiungere lo scopo. A ciò si aggiunga che né in sede di prima udienza, né nel corso delle udienze successive, è mai stata contestata la qualità o lo ius postulandi dell’Avvocatura dello Stato quale difensore del Ministero, evidenza che rende insussistente l’asserita incertezza relativa alla rappresentanza del soggetto e al contenuto delle difese. L’Avvocato dello Stato appartiene, secondo quanto disposto dal r.D. 1611/1933, a un organo impersonale, in cui gli Avvocati e i Procuratori dello Stato si sostituiscono tra loro, fanno proprie le difese dei colleghi, mutano nel corso del giudizio, senza che la necessità di alcuna delega, alcun mandato, alcuna nuova costituzione di difensore. A tal riguardo, ha quindi errato la Corte d’Appello nel ritenere che la adesione ai precedenti scritti non potesse essersi ritualmente configurata in quanto all’udienza presenziava un Avvocato dello Stato diverso dal firmatario della memoria, atteso che l’Avvocatura dello Stato è un organo unitario, onde i singoli Avvocati dello Stato devono ritenersi fungibili in relazione al giudizio. La sentenza n. 1116/2019 del tribunale di Bari, motivata come segue, meritava quindi conferma. «Iscritto il procedimento al n. 2463/2005 rg trib. Bari, con comparsa di risposta, priva di sottoscrizione dall’avvocato dello Stato, depositata in cancelleria i1 31 maggio 2005 per l’udienza indicata in citazione del 27 giugno 2005, si costituiva in giudizio il Ministero della Difesa, chiedendo il rigetto della domanda per la intervenuta prescrizione di ogni pretesa attorea nonché per l’infondatezza in diritto e in fatto della pretesa. Alla prima udienza di comparizione del 28 giugno 2005, presenti i difensori delle parti ed in particolare l’avvocato dello Stato che si riporta(va) integralmente alla propria comparsa, il giudice, a mente dell’art. 180 c.p.c. nel testo vigente all’epoca della introduzione del giudizio (ossia prima delle modifiche di cui al d.l. 14 marzo 2005 n. 35 conv. in L. n. 80 del 2005), rinviava alla successiva udienza del 30 maggio 2006 assegnando a parte convenuto termine fino a 20 giorni prima per proporre le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio .A quest’udienza venivano assegnati alle parti i termini ex art. 184 c.p.c. per produrre i docu rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 menti ed indicare dei mezzi di prova, la causa era istruita con prova per testi chiesta dal- l’attore e con CtU medico-legale. Alla udienza di PC del 13 luglio 2010 il difensore del- l’attore per la prima volta rilevava la mancanza della sottoscrizione dell’avvocato dello Stato della comparsa di costituzione del Ministero presente in atti. riservata la causa in decisione veniva emessa la sentenza n. 1028/2011 con la quale il tribunale di Bari dichiarava il proprio difetto di giurisdizione in favore del Giudice amministrativo. tale pronuncia veniva impugnata dal -omissis-con atto di appello notificato in data 20 marzo 2012; il Ministero si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del gravame a In condanna alle Spese di parte appellante. La Corte d’Appello di Bari, con sentenza del 5 febbraio 2014 dep. 13 febbraio 2014 disponeva la rimessione al giudice di primo grado, ritenuta la giurisdizione dell’A.G.o. La causa veniva dunque riassunta dal -omissis-in data 8 maggio 2014 e il procedimento iscritto al n. 71100/2014 rg. Instaurato il contraddittorio, la causa veniva riservata per la decisione in data 11 luglio 2017 e rimessa sul ruolo con ordinanza del 29 luglio 2018 con cui il giudice prospettava a parte attrice l’abbandono della domanda alla luce della sollevata eccezione di prescrizione. rifiutata la Proposta del giudice dalla difesa dell’attore (v. ud. 22 marzo 2018), a seguito di alcuni rinvii la causa veniva nuovamente riservata per la decisione il 12 dicembre 2018. Al fine di delibare l’eccezione preliminare di prescrizione sollevata dal Ministero convenuto occorre affrontare la questione relativa alla validità della costituzione in giudizio dell’amministrazione dello Stato, atteso che l’atto di costituzione della difesa erariale depositato nel corso del primo giudizio nel quale l’eccezione era stata posta -giudizio poi qui riassunto per rimessione al primo giudice disposta dalla corte d’Appello a seguito della riforma della precedente sentenza declinatoria della giurisdizione -era privo della sottoscrizione del difensore. ebbene, ritiene questo giudice che, sebbene l’atto giudiziario non fosse stato sottoscritto dall’avvocato dello Stato, deve nondimeno rilevarsi che il presente giudizio era sottoposto al rito antecedente la novella di cui al d.l. 35 del 2005 e che quindi l’eccezione di prescrizione non andava proposta venti giorni prima della udienza indicata in citazione -come avviene oggi -ma venti giorni prima della seconda udienza che il giudice fissava all’esito della prima udienza. Posto quindi che alla prima udienza comparì la difesa erariale e che l’avvocato dell’attore accettò il contraddittorio senza nulla rilevare sulla mancata sottoscrizione dell’atto di costituzione, deve ritenersi che allorquando l’avvocato dello Stato si riportò innanzi al giudice alla propria memoria di costituzione, facendola così propria, produsse il medesimo effetto giuridico che deriva dalla sottoscrizione dell’atto. Da tale condotta segue che la costituzione in giudizio dell’avvocatura dello Stato deve ritenersi essere regolarmente avvenuta quantomeno alla prima udienza del 28 giugno 2005 e che quindi l’eccezione di prescrizione sia stata in tale frangente validamente proposta e ne deriva ulteriormente che essa sia stata anche tempestiva in quanto presentata nel termine concesso a tal fine dal giudice ex art. 180 c.p.c. (nel testo dell’epoca), rispetto alla successiva udienza del 30 marzo 2006. verificato, quindi, che la costituzione della amministrazione è avvenuta in modo tempestivo quanto alla proposizione della eccezione di prescrizione, passiamo al suo esame ». Il tribunale, con motivazione altrettanto corretta e scevra da vizi, accolse l’eccezione di prescrizione, così rigettando le avverse domande. (...) PtM Il Ministero della Difesa, in persona del Ministro in carica, come sopra rapp.to e difeso, conclude per l’accoglimento del ricorso con ogni consequenziale pronuncia. CoNteNzIoSo NAzIoNALe Spese come per legge. (...) roma, 25 marzo 2022 Daniela Canzoneri Avvocato dello Stato Cassazione civile, Sez. terza, ordinanza 27 marzo 2025 n. 8164 -Pres. e. vincenti, Est. G. Cricenti - Min. Difesa (avv. gen. Stato) c. omissis. FAttI DI CAUSA 1.-omissis, sul presupposto di avere contratto una malattia tubercolare nel corso del servizio militare (1965-1966), ha citato in giudizio, nel 2005, il Ministero della Difesa, davanti al tribunale di Bari. Il Ministero si è costituito ed ha eccepito, innanzitutto, la prescrizione del diritto. tuttavia, la costituzione in giudizio è avvenuta con comparsa non sottoscritta dall’avvocato dello Stato che l’aveva redatta. Si è presentato tuttavia all’udienza un diverso Avvocato dello Stato, che si è riportato alla comparsa. Al momento della precisazione delle conclusioni, l’attore ha eccepito la nullità della costituzione in giudizio del Ministero, per via, per l’appunto, della mancata sottoscrizione della comparsa. In quella occasione, il tribunale di Bari ha dichiarato il difetto di giurisdizione. La decisione è stata impugnata, la Corte di Appello l’ha annullata rimettendo la causa al primo giudice, che dunque ha deciso la causa nel merito, accogliendo l’eccezione di prescrizione fatta dal Ministero. Questa sentenza è stata a sua volta oggetto di impugnazione, davanti la Corte di Appello di Bari, che però ha ritenuto che l’eccezione di prescrizione accolta dal tribunale presupponesse una valida costituzione in giudizio del Ministero, che quella eccezione aveva proposto, e che, essendo invece la costituzione in giudizio nulla e neanche sanata dalla comparsa dell’avvocato, l’eccezione in essa contenuta non poteva tenersi in conto. 2.- Questa sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione da parte del Ministero della Difesa, con un motivo di ricorso. L’intimato non si è costituito. rAGIoNI DeLLA DeCISIoNe 1.-L’unico motivo di ricorso prospetta violazione degli articoli 156, 157, 158, 180 e 182 c.p.c. La tesi è la seguente. La comparsa di costituzione priva di sottoscrizione è, si, nulla, ma altresì sanabile dalla comparazione del difensore che la fa propria. tendendo conto del fatto che l’Avvocatura dello Stato non ha bisogno di mandato, e che i suoi membri sono fungibili, in quanto è l’ufficio a rappresentare la pubblica amministrazione in giudizio, e non già il singolo procuratore, con la conseguenza che, sebbene l’atto sia stato redatto da un avvocato, può comparire in giudizio un diverso avvocato e ratificare l’operato di quello. Il motivo è fondato. La comparsa di costituzione in giudizio, non firmata, non è inesistente, ma nulla, e dunque è rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 sanabile, per raggiungimento dello scopo, così come lo è la citazione non sottoscritta (per tale ipotesi v. Cass. 8815/2020). È principio di diritto, infatti, che << la comparsa di risposta non sottoscritta dal difensore, mancando la certezza della sua provenienza, è nulla, essendo l’atto privo di un requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo. Tuttavia, allorquando la parte convenuta non si sia limitata a depositare in cancelleria una comparsa priva della sottoscrizione del difensore, ma abbia partecipato attivamente al giudizio senza che siano sorte contestazioni in ordine all’individuazione del procuratore costituito, la nullità non può essere pronunciata, ostandovi la sanatoria generale che il comma terzo dell’art. 157 cod. proc. civ. fa derivare dal raggiungimento dello scopo dell’atto viziato >> (Cass. 11410/1998). Inoltre, può predicarsi sanatoria per raggiungimento dello scopo quando “possa desumersi la paternità certa dell’atto processuale da elementi qualificanti, tra i quali la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE e il successivo deposito della sua copia analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato” (Cass. sez. un. 6477/2024). Non può addursi che il procuratore che è comparso all’udienza e che, riportandosi alla comparsa, l’avrebbe fatta propria, era persona fisica diversa dal procuratore di udienza che aveva redatto l’atto e che avrebbe dovuto sottoscriverlo: che poi è la tesi della decisione impugnata, la quale per l’appunto ha ritenuto che solo la comparizione del medesimo procuratore, ossia di colui che avrebbe dovuto sottoscrivere l’atto, avendolo redatto, avrebbe potuto avere effetto sanante, sul presupposto del raggiungimento dello scopo. Questa tesi non può essere sostenuta, nella fattispecie, in quanto l’Avvocatura dello Stato è un ufficio in cui i singoli avvocati o procuratori sono fungibili, non rappresentano singolarmente all’esterno l’ufficio, il quale, secondo le previsioni della legge istitutiva (r.d. n. 1611/1933) è ufficio impersonale. Ciò significa che sebbene l’atto sia stato redatto da uno degli avvocati, che ha omesso di firmarlo, può essere ratificato da altro degli avvocati dello Stato, con efficacia sanante. In altri termini <<gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede, senza bisogno di mandato, neppur quando, come nel caso del ricorso per cassazione, è richiesto il mandato speciale e che, avendo la difesa dell’Avvocatura dello Stato carattere impersonale, ed essendo quindi gli avvocati dello Stato pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa>> (Cass. 13627/2018). Ne deriva che, da un lato, l’atto non sottoscritto può essere sanato e che, per altro verso, la sanatoria può validamente provenire dallo stesso ufficio che ha redatto l’atto, non essendo necessario che provenga dal medesimo Avvocato dello Stato che l’ha redatto. Il ricorso va dunque accolto e la decisione cassata con rinvio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Dispone che, in caso di utilizzazione del presente provvedimento in qualsiasi forma, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di omissis, ivi riportati. Così deciso in roma, il 24 febbraio 2025. CoNteNzIoSo NAzIoNALe incandidabilità sopravvenuta (i.e. mandati elettivi assunti nelle more della definizione del procedimento) degli amministratori dichiarati responsabili ex artt. 143, comma 11 e 248, comma 5 tUeL Sulla questione della decadenza dalla carica in caso di rielezione in pendenza del giudizio di incandidabilità per infiltrazioni mafiose dell’ente locale sciolto ex art. 143, comma 11 tUeL o del giudizio di incandidabilità innanzi alla Corte dei Conti per dissesto finanziario ex art. 248, comma 5 tUeL allorché sopravvenga l’incandidabilità definitiva quando sia già in corso il turno elettorale successivo all’adozione del provvedimento di rigore, si pubblica il parere reso dalla Avvocatura Generale dello Stato (*) «1. Con nota del 18 luglio 2024, n. 22811, codesta amministrazione ha chiesto di valutare la percorribilità del ricorso per revocazione dell’ordinanza della Corte di cassazione n. 9927/2024 nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso riguardante l’ambito applicativo della misura interdittiva dell’incandidabilità ex art. 143, comma 11 tUeL e gli effetti derivanti dall’accertamento giurisdizionale definitivo sui mandati elettivi assunti nelle more della definizione del relativo procedimento. Al di là del caso concreto, codesta amministrazione ha chiesto inoltre a questa Avvocatura di esprimere in linea generale il proprio avviso in merito alla questione dell’incandidabilità sopravvenuta ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 4, 11, comma 7 e 16, comma 2 del decreto legislativo n. 235 del 2021 (t.U. delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’art. 1, comma 63, della legge delega 6 novembre 2012, n. 190, c.d. Legge Severino) sia in relazione all’incandidabilità conseguente allo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose (art. 143, comma 11 tUeL) sia in merito all’incandidabilità derivante dall’accertata responsabilità per aver contribuito al dissesto finanziario dell’ente locale (art. 248, comma 5 tUeL), norme entrambe richiamate dal- l’art. 16, comma 2 del d.lgs n. 235 del 2012. 2. Con nota del 20 novembre 2024, n. 721359, questa Avvocatura ha comunicato di aver proposto ricorso per revocazione ex art. 391 bis e 395, comma 1, n. 4 c.p.c. avverso l’ordinanza della Corte di cassazione n. 9927/2024 nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso, omettendo di pronunciarsi sulla questione degli effetti dell’incandidabilità definitiva sopravvenuta. (*) Parere del 03/04/2025-237587, AL 3759/2021, Sez. Iv, Avv. Wally Ferrante. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 3. Con successiva nota del 30 gennaio 2025, n. 3298, codesta amministrazione ha ulteriormente esplicitato la rilevanza del richiesto parere, considerato l’elevato numero di casi sul territorio nazionale, segnalati dalle competenti Prefetture, riguardanti amministratori, attualmente in carica, colpiti da declaratoria definitiva di incandidabilità ex art. 143, comma 11 tUeL del giudice ordinario nonché da sentenza di condanna della Conte dei Conti ex art. 248, comma 5 tUeL. L’avviso chiesto a questa Avvocatura concerne sostanzialmente l’operatività delle cause di incandidabilità derivanti dall’accertamento giudiziale della responsabilità degli amministratori ai sensi dell’art. 143, comma 11 tUeL (responsabilità per lo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose) e ai sensi dell’art. 248, comma 5 tUeL (responsabilità per dissesto finanziario) quando tale accertamento sopraggiunga nel corso di un mandato elettivo assunto dagli stessi amministratori nelle more della definizione dei giudizi, rispettivamente, innanzi al giudice civile e al giudice contabile. 4. Innanzitutto, va premesso che l’art. 143, comma 11, tUeL, come modificato dall’art. 28, comma 1-bis, decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132 così dispone: “Fatta salva ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo”. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi sulle questioni concernenti la sfera di operatività e la decorrenza degli effetti della declaratoria di incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, (cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza 22 settembre 2015, n. 18696). In detta pronuncia, erroneamente invocata quale precedente a sostegno della tesi contraria sia dalla Corte d’appello di Napoli nel decreto del 9 dicembre 2020, sia dalla Corte di Cassazione nella citata ordinanza n. 9927/2024 oggetto di revocazione, estrapolando statuizioni non correttamente inquadrate nel contesto fattuale, la Corte, ha affermato quanto segue: “L’interpretazione sostenuta dalle parti private, non è condivisibile, perché conduce a una sostanziale e implicita abrogazione della norma, che sarebbe tanto più irragionevole in quanto renderebbe l’incandidabilità inoperativa proprio quando il provvedimento giurisdizionale assuma il carattere della definitività. È invece ragionevole interpretare la norma nel senso che l’incandidabi CoNteNzIoSo NAzIoNALe lità operi quando, come previsto dalla norma, ‘sia dichiarata con provvedimento definitivo’, valendo evidentemente per tutti i turni elettorali successivi che si svolgeranno nella regione nel cui territorio si trova l’ente interessato dallo scioglimento, sebbene nella stessa regione si siano svolti uno o più turni elettorali (di identica o differente tipologia) successivamente allo scioglimento dell’ente ma prima che il provvedimento giurisdizionale dichiarativo dell’incandidabilità abbia assunto il carattere della definitività” (Cass. civ., sez. I, n. 18696 del 2015 cit.). Al riguardo, va precisato che, contrariamente a quanto accaduto nell’isolata ordinanza della Corte di Cassazione n. 9927/2024 oggetto di revocazione, in cui gli amministratori dichiarati incandidabili sono stati nelle more rieletti e hanno sostenuto che detta misura di rigore si debba applicare solo ai turni elettorali successivi alla definitività del provvedimento che la commina, nel caso deciso dall’invocata sentenza della Suprema Corte n. 18696 del 2015, la Corte d’appello aveva dichiarato l’improcedibilità (sopravvenuta) della domanda del Ministero dell’Interno atteso che, nelle more del giudizio, si erano già svolti due turni elettorali e pertanto 1’incandidabilità non avrebbe potuto essere pronunciata per ulteriori turni elettorali successivi alla definitività del provvedimento giurisdizionale. orbene, la Corte di Cassazione, nel riformare tale pronuncia, ha significativamente precisato che, il problema si pone quando, com’è avvenuto nel caso di specie, vi sia una distanza temporale -che in una ridotta misura è fisiologica, nonostante l’urgenza con la quale è previsto che siano trattate le controversie in materia elettorale (dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 22, comma 16) -tra la data di scioglimento dell’ente e l’adozione del provvedimento definitivo di incandidabilità. In tal caso, è ben possibile che dopo la prima data e prima del provvedimento definitivo di incandidabilità si tengano turni elettorali nell’ambito della regione, ai quali potrebbero partecipare i medesimi candidati colpiti dalla misura interdittiva divenuta definitiva solo successivamente. Anche gli altri precedenti citati dalla Suprema Corte nella più volte citata ordinanza n. 9927/2024 oggetto di revocazione sono tutti conformi a tale principio: la sentenza n. 9883/16 ha respinto il ricorso per cassazione delle parti private e accolto il ricorso incidentale del Ministero dell’Interno affermando che “deve ritenersi che “l’incandidabilità operi quando, come previsto dalla norma, “sia dichiarata con provvedimento definitivo”, valendo evidentemente per tutti i turni elettorali successivi che si svolgeranno nella regione nel cui territorio si trova l’ente interessato dallo scioglimento, sebbene nella stessa regione si siano svolti uno o più turni elettorali (di identica o differente tipologia) successivamente allo scioglimento dell’ente ma prima che il provvedimento giurisdizionale dichiarativo dell’incandidabilità abbia assunto il carattere della definitività”. Correttamente, dunque, i giudici d’appello rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 hanno escluso l’improcedibilità dichiarata in primo grado” mentre la sentenza n. 23069/16 ha accolto il ricorso per cassazione del Ministero dell’Interno, chiarendo “come l’incandidabilità temporanea e territorialmente delimitata rappresenti una misura interdittiva, volta a rimediare al rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali ”. Anche la sentenza della Suprema Corte n. 18627/2017, nel rigettare il ricorso degli ex amministratori locali, che invocavano la cessazione della materia del contendere per effetto dell’avvenuto svolgimento delle elezioni nelle more del giudizio, ha ribadito che “l’interpretazione sostenuta nel ricorso non è condivisibile, perché conduce a una sostanziale e implicita abrogazione della norma, che sarebbe tanto più irragionevole in quanto renderebbe l’incandidabilità inoperativa proprio quando il provvedimento giurisdizionale assuma il carattere della definitività”. Di analogo tenore è la sentenza della Corte di Cassazione n. 15725/2019 -che rigetta il ricorso dell’ex sindaco -secondo la quale la necessaria definitività del provvedimento giurisdizionale che dichiara l’incandidabilità comporta che non possono considerarsi, ai fini dell’applicabilità della norma, i turni elettorali già svoltisi prima di tale definitività ma quelli ad essa successivi. 5. Da tali principi, quale logica conseguenza, deriva che, sulla scorta del combinato disposto degli artt. 10, comma 4, 11, comma 7 e 16, comma 2 del decreto legislativo n. 235 del 2012, la declaratoria di incandidabilità, una volta accertata con sentenza passata in giudicato, comporta la decadenza di diritto dalla carica dell’amministratore che, nelle more del procedimento, sia stato nuovamente eletto, ferma restando la validità delle stesse elezioni. Ai sensi dell’art. 10, comma 4 del d.lgs. n. 235 del 2012 “4. Le sentenze definitive di condanna ed i provvedimenti di cui al comma 1, emesse nei confronti di presidenti di provincia, sindaci, presidenti di circoscrizione o consiglieri provinciali, comunali o circoscrizionali in carica, sono immediatamente comunicate, dal pubblico ministero presso il giudice indicato nell’articolo 665 del codice di procedura penale, all’organo consiliare di rispettiva appartenenza, ai fini della dichiarazione di decadenza, ed al prefetto territorialmente competente ”. A norma del successivo art. 11, comma 7, “7. Chi ricopre una delle cariche indicate all’articolo 10, comma 1, decade da essa di diritto dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna o dalla data in cui diviene definitivo il provvedimento che applica la misura di prevenzione ”. Infine, a norma dell’art. 16, comma 2 del medesimo decreto legislativo, “2. Le disposizioni di cui al presente testo unico, limitatamente a quelle pre CoNteNzIoSo NAzIoNALe viste per l’accertamento dell’incandidabilità in fase di ammissione delle candidature, per la mancata proclamazione, per i ricorsi e per il procedimento di dichiarazione in caso di incandidabilità sopravvenuta, si applicano anche alle incandidabilità non derivanti da sentenza penale di condanna, disciplinate dagli articoli 143, comma 11, e 248, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 ”. Il naturale corollario della decadenza dalla carica ricoperta nelle more del giudizio di incandidabilità, a decorrere dalla definitività del provvedimento giurisdizionale -pena un’interpretatio abrogans della normativa posta a presidio del buon andamento e del corretto funzionamento degli enti locali, a beneficio dell’intera collettività -ha trovato riscontro nella giurisprudenza di merito (cfr. tribunale di Napoli Nord, Sezione I Civile, ordinanza 22 settembre 2016 -n. r.G. 708712016) secondo la quale non può sostenersi che l’applicazione della causa di incandidabilità ai mandati in corso sarebbe, di fatto, incostituzionale e mirerebbe ad annullare la volontà popolare nel frattempo esplicatasi, oltre che il diritto di elettorato passivo ex art. 51 Cost. del candidato eventualmente eletto. Come giustamente osservato (ex multis, tribunale di Napoli Nord, ord. del 22 giugno 2016), qualora si posticipasse in avanti l’operatività dell’accertata incandidabilità alle operazioni elettorali successive a quelle svoltesi e per le quali il candidato è risultato eletto, si determinerebbe l’incongrua conseguenza dell’amministratore pubblico che, pur destinatario dell’incandidabilità in via definitiva, e, per l’effetto, ritenuto responsabile delle gravi condotte poste a fondamento, resterebbe ugualmente in carica, ciò contrastando proprio con altre norme costituzionali di riferimento (ad esempio l’art. 54, comma 2 Costituzione, laddove evidenzia i requisiti soggettivi che debbono possedere gli amministratori pubblici e l’art. 97 Cost., laddove, invece, è necessario che i pubblici uffici siano organizzati al fine di garantire il “buon andamento” della pubblica amministrazione) (tribunale ordinario di Nocera Inferiore, ordinanza 9 ottobre 2019 - r.G. n. 4472/2019). Con particolare riferimento alla posizione di vertice del primo cittadino, si evidenzia inoltre che, nell’ottica del bilanciamento degli interessi aventi pari dignità costituzionale come l’art. 51, ovvero il diritto di elettorato passivo e l’art. 97, ossia il buon andamento l’imparzialità della pubblica amministrazione, unitamente all’art. 54, comma 2 (disciplina e onore dei titolari di funzioni pubbliche), «non è certamente tollerabile, nel nostro ordinamento giuridico, che un Sindaco, pur eletto tramite il consenso popolare, permanga in carica, seppur colpito, in via definitiva, da una causa di incandidabilità che ne ha accertato la responsabilità personale, ai fini che l’art. 143, comma 11 TUEL si prefigge». Del resto, non sembra dubitabile che le predette considerazioni valgano anche con riguardo alla causa di incandidabilità accertata ai sensi dell’art. 143, comma 11, t.U.e.L., atteso che quest’ultima “in nulla diverge, se non per i rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 fatti che ne hanno portato alla dichiarazione, da quelle espressamente previste dagli artt. 10 e 11 della Legge Severino: in entrambi i casi, come correttamente osservato dalla Corte Costituzionale con sent. n. 236/2015 con particolare riferimento a quelle “penali”, il suo accertamento definitivo ex post, comporta il venir meno, ex ante, di un requisito essenziale per la permanenza nella carica e questo ... a prescindere da un’eventuale proclamazione, medio tempore intervenuta...”. 6. Quanto all’estensione di tali principi all’incandidabilità ex art. 248, comma 5 tUeL, si ricorda che in base a tale disposizione “... gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale né alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione...”. Ferma restando l’applicazione della decadenza dal mandato, alla luce del- l’espresso richiamo anche a detta disposizione da parte dell’art. 16, comma 2 del d.lgs. n. 235 del 2012, codesta amministrazione chiede se, alla luce della formulazione della norma, si debba provvedere alla sospensione dell’amministratore che, nelle more del giudizio, sia stato rieletto sin dalla pronuncia di primo grado del giudice contabile. La previsione del riconoscimento della responsabilità per il dissesto finanziario, a titolo di dolo o colpa grave, “anche in primo grado” condurrebbe a ritenere legittima la sospensione dalla carica sino alla definitività del provvedìmento. tuttavia, come correttamente osservato da codesta amministrazione, pur essendo le sentenze della Corte dei Conti esecutive ai sensi dell’art. 134, comma 4 del codice giustizia contabile, ai sensi dell’art. 190, comma 4 dello stesso codice la proposizione dell’appello sospende l’esecuzione della sentenza impugnata. Non si ritiene pertanto che i provvedimenti non definitivi della Corte dei CoNteNzIoSo NAzIoNALe Conti ex art. 248, comma 5 tUeL debbano essere portati ad esecuzione adottando una sospensione dalla carica fino all’esito del giudizio, anche tenuto conto delle disfunzioni che un provvedimento interinale e temporaneo potrebbe comportare nella gestione politico-amministrativa dell’ente locale. Del resto, l’identità di ratio di tale norma e di quella di cui all’art. 143, comma 11 tUeL, che invece richiede espressamente la definitività del provvedimento, depone per una applicazione uniforme delle relative misure di rigore, suggerendo prudenzialmente, in entrambi i casi, di attendere il passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale. 7. Quanto allo strumento attivabile dall’autorità amministrativa in caso di inerzia o di rifiuto dell’organo consiliare nel dichiarare la decadenza del- l’amministratore in carica per effetto dell’incandidabilità definitiva sopravvenuta -da intendersi non nel senso che sono sopravvenute le ragioni che la determinano, non applicandosi infatti a comportamenti posti in essere dopo le elezioni, ma solo nel senso che è sopravvenuto l’accertamento definitivo di comportamenti posti in essere prima delle elezioni -è stata esperita, in relazione al Comune di Platì, l’azione popolare di cui all’art. 70 tUeL. tale disposizione prevede che “1. La decadenza dalla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale può essere promossa in prima istanza da qualsiasi cittadino elettore del comune, o da chiunque altro vi abbia interesse davanti al tribunale civile. 2. L’azione può essere promossa anche dal prefetto. 3. Alle controversie previste dal presente articolo si applica l’articolo 22 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 ”. tale rimedio, che prevede esplicitamente la legittimazione del prefetto, sconta l’incomprimibile dilatazione dei tempi per l’esecuzione della misura di rigore, rischiando di trasformarsi in un duplicato dell’azione ex art. 143, comma 11 tULPS, nell’ambito del quale vi è il rischio che venga rimesso in discussione quanto già accertato, a scopo meramente strumentale. Parrebbe più consono ai principi di economia processuale e di efficacia dell’azione amministrativa -anche al fine di non frustrare la ratio della normativa, che è quella di impedire che amministratori che si siano resi responsabili dello scioglimento o del dissesto finanziario dell’ente locale proseguano ad esercitare le loro funzioni -ritenere che la decadenza operi automaticamente ope legis, nelle forme di una doverosa presa d’atto da parte dell’organo consiliare anche su impulso del prefetto. In tema di responsabilità da dissesto finanziario, tale effetto automatico della decadenza, discendente direttamente dalla legge, è stato avallato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13205/2024, in base alla quale “le sanzioni interdittive a carico degli ex amministratori comunali, conseguono di diritto all’accertamento della condotta contributiva al dissesto, nell’ambito del medesimo rito, speciale, sanzionatorio, come ritenuto dalle rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 2/2024 Sezioni riunite della Corte dei conti (pronuncia n. 4/2022). Dunque, il positivo accertamento della responsabilità da contribuzione al dissesto si pone come condizione necessaria e presupposto per l’applicazione delle sanzioni c.d. di status. Come si evince dal testo normativo, si tratta di conseguenze applicabili ex lege ai responsabili delle gravi inadempienze, individuate e descritte dal legislatore. All’accertamento, in sede giurisdizionale contabile, delle condotte poste in essere in difformità dei parametri sopra indicati, segue automaticamente e ipso iure l’interdizione dalle cariche”. tale principio sembra potersi applicare anche alla decadenza conseguente all’incandidabilità per aver concorso a provocare lo scioglimento dell’ente locale ex art. 143, comma 11 tUeL, considerato il rinvio ad entrambe le norme (art. 143, comma 11 e art. 248, comma 5 tUeL) operato dall’art. 16, comma 2 d.lgs. n. 235 del 2012 ai fini dell’estensione della disciplina in tema di decadenza di diritto dalla carica ai sensi degli articoli 10, comma 4 e 11, comma 7 del medesimo decreto legislativo. L’Avvocato dello Stato il Vice Avvocato Generale Wally Ferrante ettore Figliolia » ContenzioSotributariooSServatorio Sulla parziale illegittimità costituzionale del divieto di “nova” in appello nel processo tributario ex art. 58 D.Lgs. 546/1992 Nota a Corte CostituzioNale, seNteNza 27 marzo 2025 N. 36 Erica Farinelli* sommario: 1. l’oggetto della sentenza in commento: il novellato art. 58, comma terzo, del D.lgs. 546/1992 -2. la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionali concernenti il divieto del deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti -3. l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionali concernenti il divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato -4. la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale concernenti la disciplina transitoria. 1. l’oggetto della sentenza in commento: il novellato art. 58, comma terzo, del D.lgs. 546/1992. Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulle questioni di legittimità costituzionale del novellato art. 58, comma terzo, del D.lgs. 546/1992 per violazione degli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, sollevate dalla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Campania e della Lombardia. La norma in questione, come modificata dall’art. 1, comma 1, lett. bb) del D.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, prevede che “1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. (*) Avvocato dello Stato. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati. 3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis”. Per effetto della riforma operata dal D.lgs. 220/2023 (1), a far data dal 5 gennaio 2024, risulta venuta meno, ai sensi del primo comma, la facoltà di produrre in secondo grado nuovi documenti, salvo quelli ritenuti indispensabili o di cui risulti provata l’impossibilità di preventiva produzione, e vietato in modo assoluto, ai sensi del terzo comma, il deposito «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». Secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, D.lgs. 220/2023: “le disposizioni del presente decreto si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 1, comma 1, lettere d), e), f), i), n), o), p), q), s), t), u), v), z), aa), bb), cc) e dd) che si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto”. 2. la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionali concernenti il divieto del deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti. Dopo avere ricostruito il quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni oggetto di censura (2), raffrontandolo con la versione originaria dell’art. 58 del D.lgs. 546/1992 (3), la Corte dichiara, anzitutto, fondata la (1) In attuazione di quanto previsto dall’art. 19 della legge delega n. 111/2023, rubricato «Princìpi e criteri direttivi per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario», che, al comma 1, lettera d), aveva previsto che il Governo, nella revisione della disciplina del contenzioso tributario, avrebbe dovuto “rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo”. (2) Il novellato art. 58 D.lgs. 546/1992 è stato trasfuso nell’art. 112 del D.lgs. 175/2024 (testo unico della giustizia tributaria), in vigore dal 29 novembre 2024, ma applicabile dal 1° gennaio 2026, data da cui decorrono l’abrogazione delle disposizioni del d.lgs. n. 546 del 1992 e l’efficacia dello stesso testo unico, come espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso D.lgs. n. 175 del 2024. (3) La norma allora vigente, al comma 1, vietava l’ingresso di nuove prove in appello, salvo che il giudice non le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostrasse di non averle ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.lgs. 546/1992 nella parte in cui vieta il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti. Pur dichiarandosi consapevole della prioritaria «esigenza di arginare la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio tributario», la Corte sottolinea che, quanto alle deleghe, alle procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, l’impossibilità di dedurli in appello nei casi in cui il giudice ne ritenga indispensabile l’acquisizione o ne sia stata impossibile la deduzione in primo grado per causa non imputabile alla parte, «esibisce una manifesta irragionevolezza, così travalicando il limite all’esercizio della pur ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nella configurazione degli istituti processuali». Trattasi di atti attinenti, invero, alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e, quindi, alla regolare costituzione del rapporto processuale, sì che non possono considerarsi soggette al giudizio di indispensabilità di cui all’art. 58, comma 1, del D.lgs. 546/1992, né ricadono nello speciale divieto di cui al comma 3 di tale disposizione. La deroga alla regola della limitata acquisibilità di nova istruttori introdotta per le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere risulta, ad avviso della Corte, priva di una ragionevole ragione, trattandosi di atti appartenenti al più ampio genus delle prove documentali e che non presentano, per di più, tratti differenziali idonei ad incidere sul meccanismo di acquisizione dei medesimi. La manifesta irragionevolezza della norma in questione risulta, vieppiù, evidente ove si consideri che «il divieto assoluto di produzione dei documenti con i quali si fornisce la prova della legittimazione sostanziale o processuale altera la parità delle armi, in quanto sottrae una facoltà difensiva alla parte che, in base al thema decidendum, sia chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio». Sotto altro profilo, il divieto di depositare in appello le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, determina una ingiustificabile compressione del diritto alla prova, quale nucleo essenziale del diritto di difesa potute dedurre nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile, ma, al comma 2, precisava che era “fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”. La giurisprudenza di legittimità aveva interpretato quest’ultima previsione con particolare ampiezza, indicando come unico limite alla producibilità di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado l’essere gli stessi diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall’art. 57 del D.lgs. 546/1992 (Cass. 26 giugno 2024, n. 17638; Cass. 10 aprile 2024, n. 9635; Cass. 25 ottobre 2024, n. 27741; Cass. 24 luglio 2024, n. 20550; Cass. 22 aprile 2024, n. 10788; Cass. 27 febbraio 2024, n. 5199). rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 e del contraddittorio, considerato che il giudizio di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi di prova che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte (4). Di qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del D.lgs. 546/1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del D.lgs. 220/2023, limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,». 3. l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionali concernenti il divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato. Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi del- l’articolo 14 comma 6-bis», sempre sancito dall’art. 58, comma 3, del D.lgs. n. 546 del 1992, la Corte rigetta tutte le censure formulate dalle Corti rimettenti sia quanto al presunto eccesso di delega (5) sia quanto alla presunta violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., del diritto alla prova ex art. 24, secondo comma, Cost. e al contraddittorio ex art. 111, secondo comma, Cost. La Corte costituzionale evidenzia, al proposito, che i documenti in questione -a differenza delle notifiche degli atti processuali -forniscono «la prova di una condizione di validità o di efficacia dell’esercizio della funzione impositiva, e per tale ragione la produzione degli stessi nei giudizi in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria», sì che il legislatore ha ritenuto in modo non irragionevole «superflua, perché inutilmente dilatoria, l’operatività del modello temperato di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992». In altri termini, la Corte costituzionale sottolinea che si è voluto, in tal modo, evitare che nelle controversie in cui si faccia questione della esistenza o della validità delle notifiche il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in primo grado. (4) La regola della deducibilità in secondo grado costituisce, ad avviso della Corte, una declinazione dell’istituto della rimessione in termini previsto dall’art. 153 c.p.c. -applicabile anche nel processo tributario (Cass. 17 giugno 2015, n. 12544) -, che, essendo posto a presidio delle garanzie costituzionali difensive e del giusto processo, rappresenta «un essenziale rimedio per eliminare, in via successiva, le conseguenze pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole». (5) La Corte costituzionale esclude, considerata l’ampiezza del criterio fissato dall’art. 19, comma 1, lettera d), della legge delega, che il legislatore delegato, nel prevedere, accanto ad un generale divieto di nova temperato, l’ulteriore e più stringente norma proibitiva di cui al censurato art. 58, comma 3, si sia discostato dalla ratio della legge delega. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo In secondo luogo, il divieto di produzione delle notifiche in appello si sottrae alle censure di irragionevolezza e di violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., anche là dove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. rispetto alla notificazione degli atti tributari -sottolinea la Corte -non è configurabile, infatti, sul piano logico, «né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado in cui sia in contestazione l’atto notificato, né quella in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione». non è ritenuta fondata neppure la censura di violazione del principio di eguaglianza e di parità delle armi, considerato che il regime diversificato introdotto per gli atti in questione risulta non manifestamente irragionevole. La Corte, infine, ritiene non fondata anche la censura con la quale si lamenta che tale disposizione impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione giusta attraverso la ricerca della verità materiale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost., atteso che «l’aderenza della ricostruzione processuale dei fatti alla verità materiale non è oggetto di specifica protezione costituzionale». 4. la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale concernenti la disciplina transitoria. La Corte costituzionale reputa, infine, fondate le censure, formulate ai sensi degli artt. 3 e 111 Cost., in relazione all’art. 4, comma 2, del D.lgs. 220/2023, con cui si prospetta, la «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo «sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela» e, dall’altro, il pregiudizio recato alla scelta difensiva delle parti dei processi già instaurati in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella processuale. Ferma restando l’ampia discrezionalità del legislatore nelle scelte relative alla disciplina della successione di leggi processuali nel tempo, l’art. 4, comma 2, del D.lgs. 220/2023 dispone l’immediata applicazione del nuovo art. 58 del D.lgs. 546/1992 (segnatamente delle disposizioni «di cui all’articolo 1, comma 1, letter[a] […] bb)» del D.lgs. n. 220 del 2023, che hanno riscritto in senso più restrittivo la disciplina dei nova istruttori in appello dettata dal previgente art. 58) ai processi di primo e secondo grado e di cassazione incardinati a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore (prevista per il 4 gennaio 2024) del medesimo D.lgs. 220/2023. La Corte evidenzia, al riguardo, che la previsione transitoria non si premura affatto di considerare che, nei processi iniziati in grado di appello dopo tale data, il cui primo grado sia stato incardinato nel vigore della precedente rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 disciplina, le parti, confidando sulla facoltà, loro riconosciuta dal previgente art. 58, comma 2, di depositare documenti anche nell’eventuale processo di gravame, potrebbero averne omesso la produzione in prime cure. Di talché, lo ius superveniens, sebbene formalmente operante per il futuro, finisce nella sostanza per incidere sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso, frustrando così l’aspettativa delle parti che avevano confidato nella possibilità di esercitare il loro diritto alla prova anche in appello e ledendo quindi il legittimo affidamento. Da tanto è conseguita la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del D.lgs. 220/2023, nella parte in cui prescrive che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettera bb), dello stesso D.lgs. 220/2023 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del D.lgs. 220/2023. Invero, per effetto di tale ultima pronuncia di incostituzionalità, il nuovo art. 58 D.lgs. 546/1992 non è più (immediatamente) applicabile ai giudizi di secondo grado. e poiché le questioni di legittimità costituzionale della norma sono state sollevate nell’ambito di due giudizi di appello, la Corte avrebbe potuto anche dichiarare inammissibili le altre questioni sull’art. 58 D.lgs. 546/1992 per difetto di rilevanza. È innegabile, infatti, che i giudici remittenti davanti ai quali proseguiranno le cause, non potranno che (preliminarmente) dichiarare inapplicabile in toto la norma in quel giudizio, senza possibilità di esaminare le questioni applicative derivanti dalla pronuncia di parziale incostituzionalità dell’art. 58, comma 3, D.lgs. 546/1992. La scelta della Corte di non dichiarare inammissibile la questione relativa al comma 3, sembra tuttavia inserirsi nel solco della più recente giurisprudenza del Giudice delle leggi, meno rigorosa di un tempo nell’accertare il requisito della rilevanza della questione sollevata (si veda, da ultimo, la sentenza n. 77/2024). ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo Corte costituzionale, sentenza 27 marzo 2025 n. 36 -Pres. G. Amoroso, red. M.r. San Giorgio -Giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario), promossi dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, sezione 16, e dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 19, con ordinanze del 9 luglio 2024 e del 27 settembre 2024. ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 9 luglio 2024, iscritta al n. 170 reg. ord. 2024, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, sezione 16, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario). 1.1.– La Corte rimettente premette di essere investita dell’appello proposto da un contribuente contro la sentenza che aveva respinto parzialmente il ricorso dallo stesso spiegato nei confronti dell’Agenzia delle entrate -riscossione (ADer), avverso un’intimazione di pagamento fondata, tra le altre, su sei cartelle di pagamento relative a vari tributi. Il giudice a quo riferisce che, in prime cure, il ricorrente aveva dedotto diversi profili di illegittimità dell’atto impugnato, tra i quali l’omessa notificazione degli atti ad esso presupposti, e che, nel contraddittorio con l’ADer, la Corte di giustizia tributaria di primo grado aveva accolto il ricorso solo con riferimento alla censura di difetto di notificazione di due delle sei cartelle di pagamento azionate. Avverso tale pronuncia -prosegue l’ordinanza di rimessione -il contribuente aveva proposto appello con atto notificato il 30 gennaio 2024, lamentando che neanche per le restanti cartelle vi fosse in atti la prova dell’avvenuta notificazione, essendosi l’Amministrazione finanziaria limitata a produrre copia delle relative ricevute, dalle quali, peraltro, risultava che una delle cartelle era stata ritirata da un soggetto a lui sconosciuto, ancorché qualificato come “convivente”. nel giudizio di secondo grado si era costituita l’ADer deducendo che ciascuna delle cartelle indicate dalla controparte era stata notificata mediante consegna nelle mani di familiare convivente e che risultava inviato l’avviso di legge a mezzo di lettera raccomandata come da distinta versata in atti. Tanto premesso, la Corte rimettente rileva che nel fascicolo di primo grado non risultano prodotte tutte le relazioni di notificazione delle quattro cartelle di pagamento, presupposte al- l’intimazione impugnata, ritenute dal giudice di primo grado validamente notificate. L’ordinanza di rimessione aggiunge che nel giudizio di appello l’Amministrazione ha prodotto ulteriori documenti intesi a dimostrare l’avvenuta notifica delle cartelle poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento e che, tuttavia, l’appellante ha eccepito l’irritualità di tale deposito in base all’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023. 1.2.– Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione sospettan rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 done, come si è riferito, il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. 1.3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente sottolinea come la nuova disciplina trovi applicazione nel giudizio principale, avendo l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 stabilito che le disposizioni di detto decreto operano nei giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per le modifiche elencate nell’art. 1, comma 1 -tra cui, alla lettera bb), figura anche la riforma delle prove in appello -, che, invece, si applicano ai giudizi incardinati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso decreto legislativo. 1.4.– La Corte rimettente esclude, poi, la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, ritenendo che ad essa osti l’inequivoco tenore letterale della stessa. 1.5.– Quanto al profilo della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il giudice a quo denuncia anzitutto il contrasto con «il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost.». osserva in proposito che la pur ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza. nella specie tale limite sarebbe stato superato, in quanto la disposizione in scrutinio esprimerebbe una scelta legislativa arbitraria «che ineluttabilmente perturba il canone dell’eguaglianza». 1.6.– rileva, in particolare, il Collegio rimettente che la disposizione censurata, per un verso, al comma 1, al pari dell’art. 345 del codice di procedura civile nella versione anteriore alla riforma introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), consente al giudice la valutazione della indispensabilità della documentazione prodotta soltanto in secondo grado; per altro verso, al comma 3, impedisce al medesimo giudice di compiere tale verifica «per una certa tipologia di atti», quali sono le notificazioni, «ontologicamente indispensabili secondo l’anzidetta accezione». La previsione di cui al comma 3 -del tutto inedita nel sistema processuale generale -determinerebbe, così, una «autoevidente contraddizione», in quanto priverebbe il giudice dello stesso potere di delibazione della prova riconosciutogli dal comma 1. una formulazione siffatta sarebbe indice sintomatico della irragionevolezza e della illogicità intrinseca della disposizione censurata e determinerebbe, al contempo, un’ingiustificata differenziazione del trattamento delle parti del giudizio. Secondo il rimettente, il legislatore avrebbe così compiuto da sé il giudizio di indispensabilità -che, invece, lo stesso comma 1 del riformato art. 58 demanda al giudice -peraltro in modo imperscrutabile e contrario al canone di razionalità pratica ispirato dal criterio dell’id quod plerumque accidit. non risulterebbe, infatti, comprensibile la ratio dell’esclusione dei documenti indicati nel comma 3 tra quelli depositabili al ricorrere dei presupposti di cui al comma 1, considerato che «il loro principale tratto comune distintivo» è da individuarsi nella «possibile decisività della loro tardiva produzione nel determinare l’esito della lite». 1.7.– Secondo il giudice a quo, una simile «perimetrazione in negativo della potestas iudicandi » costituirebbe anche una illegittima intromissione del legislatore in un ambito, quale è quello della valutazione della indispensabilità delle prove, riservato all’autorità giudiziaria, in violazione degli artt. 102, primo comma, 111, primo comma, e 24, secondo comma, Cost. 1.8.– La disposizione censurata sarebbe, altresì, in contrasto con l’art. 111, primo e secondo ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo comma, Cost., secondo cui il giusto processo deve necessariamente svolgersi nel contraddittorio tra le parti e in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale, onde consentire la ricerca della verità processuale e una decisione giusta. Il rimettente esclude, poi, che il denunciato sacrificio dell’esercizio della funzione giurisdizionale sia giustificato dall’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, tale principio è leso soltanto da norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza. 1.9.– L’art. 111, secondo comma, Cost. sarebbe ancora leso sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza tra le parti del processo, posto che, alla stregua della disciplina censurata, mentre la parte privata può produrre nuovi documenti, sia pure entro i limiti stabiliti dai novellati commi 1 e 2 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, la parte pubblica non può depositare le specifiche tipologie di documenti elencati nel comma 3 di detta disposizione. Secondo la Corte rimettente, infatti, alla stregua delle connotazioni generali del diritto e del processo tributario e di una «oggettiva regola di esperienza», la documentazione indicata nella disposizione in scrutinio riguarda gli atti «che rendono legittima la pretesa tributaria della parte pubblica» e, quindi, attengono all’attività difensiva dalla stessa ordinariamente svolta. viene, altresì, rimarcato che la disciplina in scrutinio non consente l’acquisizione dei documenti da essa indicati neppure quando l’indispensabilità della relativa produzione derivi dalle difese svolte dalla controparte nell’atto di appello ovvero dal deposito di documenti dalla stessa effettuato ai sensi dell’art. 58, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 546 del 1992. 2.– nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibili e comunque manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. 2.1.– A sostegno della inammissibilità, la difesa statale deduce, anzitutto, che il giudice a quo, riconducendo le violazioni denunciate alla immediata applicabilità della nuova disciplina ai giudizi in corso, ivi compresi quelli svolti in primo grado nel vigore del precedente regime processuale, sarebbe incorso nella erronea individuazione della disposizione espressiva della scelta legislativa ritenuta costituzionalmente illegittima, che invece sarebbe da ravvisare nel- l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023. 2.1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili anche perché muoverebbero da una erronea interpretazione del dato normativo. Ad avviso dell’interveniente, l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, non precluderebbe affatto il deposito della documentazione comprovante la notificazione degli atti impugnati, ma si limiterebbe a vietare la produzione di tre tipologie di atti -le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere -ulteriormente specificando, in relazione all’ultima delle categorie menzionate, che essa riguarda quelli che rilevano «ai fini» della legittimità della sottoscrizione degli atti e delle notifiche dell’atto impugnato, ovvero degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità. Secondo la difesa statale, la disposizione censurata, «declinata in forma non sintetica», sarebbe diretta a vietare il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, distinti in tre gruppi: quelli rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, quelli rilevanti ai fini delle notifiche dell’atto impugnato e quelli rilevanti ai fini delle notifiche degli atti che costituiscono presupposto di legittimità dell’atto impugnato. Alla stregua di tale lettura, avvalorata dal dato testuale dell’impiego, nella elencazione, rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 della congiunzione “e”, non sarebbe stata introdotta alcuna preclusione espressa alla produzione in appello della documentazione comprovante la notificazione dell’atto impugnato, dal momento che oggetto del divieto sarebbero, in definitiva, soltanto gli atti di conferimento di potere rilevanti ai fini delle notifiche degli atti. 2.1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce l’inammissibilità delle questioni anche sotto il profilo del mancato esperimento, da parte della Corte rimettente, di una, pur possibile, interpretazione costituzionalmente orientata. Secondo l’interveniente, la previsione della verifica della indispensabilità dei documenti di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 costituirebbe «norma portante di chiusura della nuova disciplina» e per questo andrebbe coordinata con il divieto posto dal comma 3. Tale interpretazione della disposizione in esame evidenzierebbe che la valutazione di indispensabilità debba essere riferita anche ai documenti elencati nel citato comma 3, in linea con i principi costituzionali della tutela del diritto di difesa, del giusto processo e della parità delle armi in giudizio, nonché di eguaglianza e di ragionevolezza. 2.2.– Ad avviso dell’interveniente, le censure formulate dal rimettente sarebbero, comunque, manifestamente infondate, in quanto poggerebbero su una «discutibile lettura atomistica ed isolata del comma 3 dell’art. 58 che oblitera la relazione di complementarità necessariamente esistente tra il menzionato comma 3 e il comma 1 del medesimo articolo, quale disposizione contenente un principio portante del sistema delle prove nel processo tributario». In ogni caso, osserva la difesa statale, il divieto di depositare le deleghe, le procure e gli atti di conferimento di potere -e non anche le notifiche degli atti impugnati -risponde all’esigenza di «evitare carenze probatorie dovute a negligenza, essendo ora le parti obbligate a un maggior rigore sin dall’avvio del giudizio». 3.– Con ordinanza del 27 settembre 2024, iscritta al n. 199 reg. ord. 2024, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 19, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati nell’ordinanza iscritta al n. 170 reg. ord. 2024. 3.1.– La Corte rimettente premette di essere investita dell’appello proposto dall’ADer avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto l’impugnazione promossa da un contribuente contro una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria, in quanto, stante la tardiva costituzione dell’amministrazione resistente, non si era potuto tenere conto dei documenti dalla stessa depositati. Il giudice a quo espone che, a sostegno del ricorso di primo grado, il contribuente aveva contestato la mancata notificazione di cinque cartelle di pagamento richiamate nell’atto impugnato, il difetto di motivazione di quest’ultimo e la prescrizione della pretesa erariale. La Corte rimettente riferisce che, con l’atto di appello, l’ADer ha prodotto nuovamente i documenti depositati in primo grado, tra cui le notificazioni delle cartelle esattoriali, e che l’appellato ha disconosciuto la conformità agli originali, ai sensi dell’art. 2719 del codice civile, delle copie di dette notificazioni, in relazione a due delle quali ha anche dedotto la nullità per omesso invio della raccomandata di comunicazione di avvenuta notifica. L’ordinanza di rimessione chiarisce, quindi, che il giudizio di primo grado è iniziato nel vigore dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella versione anteriore alle modifiche allo stesso apportate dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, e che, tuttavia, il processo di appello, essendo stato incardinato il 9 febbraio 2024, in base all’art. 4 di tale decreto legislativo, soggiace alla nuova disciplina. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo Ad avviso del giudice a quo, nel giudizio di appello sarebbe, pertanto, vietato produrre i documenti di cui al comma 3 del citato art. 58, in quanto introdotti in primo grado in modo irrituale. La Corte rimettente dà, quindi, atto dell’avvenuto promovimento dell’incidente di costituzionalità dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, ad opera della Corte di giustizia tributaria della Campania per poi sollevare anch’essa questioni di legittimità costituzionale di tale disposizione, precisando, tuttavia, che l’esame della non manifesta infondatezza deve essere condotto non in termini generali, ma limitatamente all’applicazione della nuova disciplina durante la fase transitoria. 3.2.– ricostruito, quindi, il nuovo assetto normativo introdotto dagli artt. 1, comma 1, lettera bb), e 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, il giudice a quo osserva come l’intervento riformatore abbia modificato drasticamente la disciplina delle produzioni documentali in appello, laddove la «legge delega» prevedeva unicamente di rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi successivi al primo e non di introdurre un divieto assoluto né, tanto meno, di sancire un trattamento differenziato per tipologia di documenti. Secondo il giudice a quo, il regime delineato dal censurato comma 3 dell’art. 58, «particolarmente rigoroso» e privo di qualsivoglia fondamento nella legge delega, sarebbe reso ancor più drastico dalla previsione della sua immediata applicabilità ai giudizi in corso. 3.3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente ritiene che detta disposizione debba trovare applicazione nel giudizio principale ed esclude che la sua formulazione letterale si presti ad una interpretazione costituzionalmente orientata. 3.4.– Quanto alle ragioni di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, secondo il giudice a quo la disciplina censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza. Si osserva, al riguardo, nella ordinanza di rimessione che, per quanto il legislatore goda di ampia discrezionalità in materia processuale, la scelta di rendere il divieto di produzione in appello delle indicate tipologie di documenti immediatamente applicabile alle controversie già instaurate in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella sia «indubbiamente irrazionale». La previsione della immediata applicabilità del nuovo regime giuridico ai giudizi in corso inciderebbe, infatti, in modo «gravemente pregiudizievole ed irreparabile» sulla legittima scelta difensiva delle parti di rinviare, nell’esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge, la produzione di documenti all’eventuale giudizio di appello. 3.4.1.– La violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. sarebbe resa evidente dalla circostanza che, a differenza delle parti dei giudizi introdotti successivamente all’entrata in vigore della novella, le quali hanno la possibilità di decidere «nella piena consapevolezza della situazione », le parti dei giudizi in corso non hanno potuto compiere tale valutazione. 3.5.– La Corte rimettente lamenta, altresì, che il divieto assoluto introdotto con la novella del 2023 nell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 non trovi riscontro nella legge delega (legge 9 agosto 2023 n. 111, recante «Delega al Governo per la riforma fiscale»), la quale aveva previsto esclusivamente il rafforzamento del divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo. nella stessa legge delega, osserva il giudice a quo, non era contemplata neppure la possibilità di applicare il nuovo regime processuale compendiato nell’art. 58, commi 1 e 3, ai giudizi in corso. 3.6.– Da ultimo, secondo il giudice a quo, l’introduzione, ad opera della disposizione cen rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 surata, di un divieto assoluto di produzione di documenti in appello anche nel caso in cui ricorrano i presupposti di cui al comma 1 dell’art. 58, che ne consentirebbero l’acquisizione, realizzerebbe un’interferenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinando, altresì, la lesione del diritto alla prova e una «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. Il vulnus al principio del giusto processo, conclude la Corte rimettente, sarebbe particolarmente evidente sotto il profilo della non prevedibilità delle «regole processuali dell’intero percorso di tutela». 4.– Anche nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 199 reg. ord. 2024 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità e comunque di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale. 4.1.– Sotto il primo profilo, l’interveniente deduce anzitutto la erronea individuazione della disposizione all’origine del denunciato vulnus al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., rilevando che, nella prospettazione della Corte rimettente, l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata deriverebbe, anzitutto, dalla sua immediata applicabilità ai giudizi in corso, così che oggetto di censura avrebbe dovuto essere non l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023. 4.1.1.– La censura relativa all’eccesso di delega sarebbe, invece, inammissibile in ragione della erronea identificazione del parametro costituzionale, avendo la rimettente ricondotto tale vizio alla violazione dell’art. 3 Cost. e non dell’art. 76 Cost. 4.1.2.– L’interveniente eccepisce, altresì, la inammissibilità di tutte le censure articolate nell’ordinanza di rimessione per non avere il giudice a quo praticato una «doverosa (e possibile) interpretazione costituzionalmente orientata», la quale avrebbe consentito di superare i prospettati dubbi di illegittimità costituzionale. Con argomentazioni sovrapponibili a quelle spese nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 170 reg. ord. 2024, la difesa statale sostiene che l’inammissibilità delle questioni deriverebbe anche dalla erronea ricostruzione della disposizione censurata, dovendo la stessa essere interpretata, secondo il suo significato letterale, nel senso di riferire il divieto di produzione in appello esclusivamente alle deleghe, alle procure e agli altri atti di conferimento di potere e non anche alle notificazioni. Inoltre, secondo la difesa statale, l’interpretazione conforme a Costituzione dei commi 1 e 3 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 avrebbe posto in luce come il legislatore abbia inteso ammettere la verifica di indispensabilità anche per i documenti indicati nel citato comma 3. 4.1.3.– L’interveniente ha, altresì, ribadito quanto dedotto, in relazione alla richiamata ordinanza iscritta al n. 170 del reg. ord. 2024, in merito alla possibilità di superare in via ermeneutica i sospetti di illegittimità costituzionale legati alla immediata applicabilità di norme processuali restrittive di facoltà precedentemente riconosciute. Secondo l’interveniente, sarebbe mancata un’indagine volta a distinguere, tra le numerose disposizioni elencate nell’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, quelle effettivamente applicabili non solo ai giudizi incardinati in primo grado, ma anche a quelli instaurati in appello (come nel caso di specie) e in cassazione. 4.2.– In subordine, il Presidente del Consiglio dei ministri ha concluso per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. La scelta di predisporre per le categorie di atti indicate nel comma 3 dell’art. 58 una disciplina distinta ed autonoma ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo rispetto a quella generale dettata dal comma 1 della stessa disposizione risponderebbe all’esigenza di ribadirne espressamente l’assoggettamento alla regola generale della non producibilità per la prima volta in appello, alla luce del principio di economia dei mezzi giuridici e di accelerazione del giudizio. Ciò, nella prospettiva di evitare carenze probatorie dovute a negligenza imponendo alle parti un maggior rigore sin dall’avvio del giudizio, in linea con l’esigenza di concentrazione processuale e con la valorizzazione del principio di autoresponsabilità. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 9 luglio 2024 (reg. ord. n. 170 del 2024), la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania (CGT Campania), sezione 16, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 -come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023 -, ai sensi del quale, nel giudizio di appello tributario «[n]on è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». 1.1.– Secondo la Corte rimettente, la disposizione censurata contrasterebbe, anzitutto, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, ponendo un divieto probatorio privo di una ratio coerente con un «criterio di razionalità pratica», esprimerebbe una scelta che travalica i limiti della pur ampia discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione degli istituti processuali e «perturba il canone dell’eguaglianza». Per altro verso, la disciplina in questione rivelerebbe una «autoevidente contraddizione» sintomatica di irragionevolezza e di illogicità intrinseca, in quanto impedirebbe al giudice di appello la valutazione di indispensabilità delle nuove prove -allo stesso demandata, in via generale, dal comma 1 del medesimo art. 58 -in relazione ad alcune tipologie di documenti «ontologicamente indispensabili» ai fini della decisione. 1.2.– La CGT Campania ravvisa, altresì, una illegittima intromissione del legislatore in un ambito riservato all’autorità giurisdizionale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost. La legge -osserva l’ordinanza di rimessione -può tipizzare il valore probatorio di alcuni mezzi istruttori e anche impedire l’acquisizione di determinate prove in appello, ma non può enucleare una serie eterogenea di documenti e inibire al giudice di valutarne la indispensabilità ai fini dell’acquisizione in secondo grado. 1.3.– Sarebbe, inoltre, leso il diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e alla prova, in contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. 1.4.– La disposizione censurata confliggerebbe, poi, con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto vulnererebbe il contraddittorio e impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione «possibilmente giusta» attraverso la ricerca della «verità materiale». 1.5.– Sarebbero, infine, violati gli artt. 24, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla garanzia della parità tra le parti del processo, posto che, se la parte privata può produrre nuovi documenti -sia pure nei limiti stabiliti dai commi 1 e 2 dello stesso art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, come riformati dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023 -, alla parte pubblica è vietato depositare proprio gli atti che rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 «rendono legittima la pretesa tributaria» e, quindi, secondo una regola di esperienza, attengono all’attività difensiva dalla stessa ordinariamente svolta. 2.– Anche la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia (CGT Lombardia), sezione 19, con ordinanza del 27 settembre 2024 (reg. ord. n. 199 del 2024), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come inserito dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023. Tale disposizione è censurata, anzitutto, perché ne è prevista l’applicazione ai giudizi instaurati in grado di appello a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore e, dunque, anche a quelli aventi ad oggetto sentenze rese in base alla disciplina previgente. 2.1.– Tale previsione sarebbe «indubbiamente irrazionale», in quanto, in contrasto con l’art. 3 Cost., inciderebbe in modo «gravemente pregiudizievole ed irreparabile» sulla scelta difensiva delle parti di rinviare, nell’esercizio di una facoltà loro riconosciuta dalla disciplina previgente, il deposito di documenti all’eventuale giudizio di appello. 2.2.– Sarebbe, poi, violato il principio di eguaglianza, in quanto, non essendo stata esclusa l’applicazione del divieto posto dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 -così come della previsione di cui al comma 1 della stessa disposizione -per i casi in cui «le parti non abbiano avuto la possibilità di decidere se produrre o meno nei termini documenti in primo grado», si determinerebbe una disparità di trattamento tra le parti dei giudizi in corso alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, le quali non hanno potuto compiere tale valutazione, e quelle dei giudizi introdotti successivamente a tale data, che, invece, hanno potuto decidere «nella piena consapevolezza della situazione». 2.3.– Lamenta, ancora, la Corte rimettente che né il «divieto assoluto» di cui all’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, né la previsione dell’applicabilità del nuovo regime anche ai giudizi in corso troverebbero «alcun fondamento nella legge delega», la quale si è limitata a demandare al Governo il compito di rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo. 2.4.– Sarebbero, infine, violati gli artt. 102, primo comma, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, introducendo, in relazione a determinati documenti, un divieto assoluto di produzione in appello, in deroga alla previsione di cui al comma 1 del medesimo art. 58 -che, invece, consente l’acquisizione dei documenti indispensabili o non depositati in primo grado per causa non imputabile -, realizzerebbe un’interferenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale e una lesione del diritto alla prova, determinando una «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo «sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela». 3.– Le due ordinanze di rimessione censurano discipline in parte coincidenti e in parte funzionalmente connesse ed evocano i medesimi parametri, sicché ne è opportuna la riunione ai fini di una decisione congiunta. 4.– In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri. 4.1.– In entrambi i giudizi l’interveniente ha eccepito l’erroneità dell’indicazione della disposizione censurata -l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 -rispetto alle deduzioni svolte, sostenendo che i dubbi di legittimità costituzionale, per come formulati, investirebbero, in realtà, la disciplina contenuta nell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, secondo la quale lo ius superveniens sulle prove in appello trova applicazione anche nei processi introdotti in secondo grado (e in Cassazione) a far data dal 5 gennaio 2024. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo 4.1.1.– Le eccezioni non sono fondate. 4.1.2.– Per quanto riguarda il giudizio iscritto al n. 170 reg. ord. 2024, dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione emerge con sufficiente chiarezza che il riferimento alla normativa intertemporale, peraltro solo accennato, ha una finalità soltanto argomentativa, mentre l’oggetto delle questioni effettivamente sollevate è costituito dalla disciplina di cui all’art. 58, comma 3, in sé considerata. Poiché, dunque, il richiamo al regime transitorio non evoca un’autonoma questione, deve escludersi che si versi in ipotesi di aberratio ictus. 4.1.3.– neanche la CGT Lombardia (reg. ord. n. 199 del 2024), è incorsa nell’erronea individuazione della normativa all’origine dei denunciati vulnera costituzionali. È pur vero che, come puntualizzato nell’ordinanza di rimessione, le censure investono in via prioritaria la disciplina intertemporale in base alla quale le nuove regole sulle prove in appello si applicano ai giudizi di secondo grado incardinati dopo il 5 gennaio 2024, così come prevede l’art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 220 del 2023. Ciò non di meno, la mancanza di una formale indicazione di tale disposizione tra quelle sospettate di illegittimità costituzionale deve ritenersi ininfluente ai fini dell’ammissibilità delle questioni, in quanto dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione risulta chiaramente che il giudice a quo ha inteso censurare in modo particolare tale disposizione (ex plurimis, sentenze n. 9 del 2025, n. 143 del 2023 e n. 223 del 2022). D’altronde, come ripetutamente affermato da questa Corte, il thema decidendum deve essere identificato alla stregua del contenuto delle censure formulate nell’ordinanza di rimessione (sentenza n. 142 del 2023) e, quindi, ricostruendo l’effettiva volontà del rimettente in base ad una lettura coordinata della motivazione e del dispositivo (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022). 4.2.– non sussiste neppure l’ulteriore profilo di inammissibilità che l’interveniente ravvisa nella erronea indicazione, nell’ordinanza iscritta al n. 199 reg. ord. 2024, dell’art. 3 Cost. come parametro della denunciata violazione di eccesso di delega. La censura con la quale la CGT Lombardia lamenta che la disciplina in scrutinio non troverebbe fondamento nella legge delega n. 111 del 2023 è, infatti, illustrata in modo tale da rendere evidente che la norma evocata a parametro sia quella espressa dall’art. 76 Cost. Pertanto, l’inesatta indicazione del precetto costituzionale ritenuto violato, non impedendo di identificare con chiarezza la consistenza della questione sollevata, non ne determina la inammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021 e n. 87 del 2017) 4.3.– In entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri imputa al giudice rimettente di non aver colto il corretto significato letterale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, in base al quale il deposito della documentazione comprovante la notificazione dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità non sarebbe affatto precluso. Più precisamente, secondo la difesa statale, la disposizione in scrutinio vieterebbe il deposito di tre tipologie di atti -le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere -per poi specificare che tale ultima categoria comprende gli atti di conferimento di potere che rilevano ai fini: a) della legittimità della sottoscrizione degli atti; b) delle notifiche dell’atto impugnato; c) delle notifiche degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità. Il legislatore avrebbe inteso, così, aggregare in un’unica proposizione reggente i tre ambiti indicati dalla disposizione censurata, ossia quello che riguarda la sottoscrizione degli atti, quello che concerne le notifiche dell’atto impugnato e quello che attiene alla notifica degli atti che costituiscono il presupposto di legittimità. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 Dalla ritenuta erroneità delle soluzioni ermeneutiche sulle quali poggiano i dubbi di illegittimità costituzionale l’interveniente fa derivare l’inammissibilità delle questioni sollevate. 4.3.1.– Anche questa eccezione è priva di fondamento, atteso che, come più volte affermato da questa Corte, la correttezza della scelta interpretativa da cui muove il rimettente è estranea al vaglio di ammissibilità delle questioni e attiene propriamente al merito e perciò deve essere apprezzata unitamente a quest’ultimo (ex aliis, sentenze n. 76 del 2021, n. 281 del 2020 e n. 75 del 2019). 4.4.– L’Avvocatura generale dello Stato rinviene un ulteriore profilo di inammissibilità nella mancata sperimentazione, da parte di entrambi i giudici a quibus, di una pur praticabile interpretazione costituzionalmente orientata. 4.4.1.– A tal fine, l’interveniente argomenta che il nuovo art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, come inserito dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, contiene una «norma portante di chiusura della nuova disciplina» che deve essere coordinata con il divieto sancito dal comma 3. Per mezzo di questa operazione ermeneutica, la valutazione di indispensabilità andrebbe, quindi, riferita anche ai documenti elencati nel comma 3, in ossequio ai principi costituzionali della tutela del diritto di difesa, del giusto processo e della parità delle armi in giudizio, di ragionevolezza e di eguaglianza. 4.4.2.– Secondo la difesa statale, un tentativo «fattiv[o] (e non solo apparente)» di interpretazione conforme non sarebbe stato compiuto neppure con riferimento alla disciplina intertemporale, la quale si presterebbe, invece, ad una lettura che, nella fase transitoria, consenta di ammettere il deposito dei documenti vietati ai sensi dell’art. 58, comma 3, in quanto -sottolinea la difesa dello Stato - «documenti “indispensabili” ai fini della decisione». 4.4.3.– neanche queste eccezioni sono fondate. Le Corti rimettenti hanno escluso la praticabilità di un’alternativa ermeneutica idonea a superare i dubbi di illegittimità costituzionale reputando l’interpretazione conforme incompatibile con l’inequivoco tenore letterale della disciplina censurata. Tanto è sufficiente per ritenere insussistente l’eccepita inammissibilità, attenendo poi al merito la verifica della possibilità di una interpretazione conforme della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 5 del 2025, n. 202 e n. 104 del 2023). 5.– All’esame del merito delle questioni è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni oggetto di censura. 5.1.– L’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, rubricato «nuove prove in appello», è stato radicalmente modificato dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, mediante la riscrittura dei commi 1 e 2 e l’aggiunta del comma 3. Il comma 1 riformato prevede che «[n]on sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile». Il nuovo comma 2 stabilisce, invece, che «[p]ossono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati». Infine, a norma del comma 3, inserito ex novo nel corpo dell’art. 58, «[n]on è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo Il d.lgs. n. 220 del 2023 ha apportato le suddette modifiche in attuazione della legge delega n. 111 del 2023, il cui art. 19, rubricato «Princìpi e criteri direttivi per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario», al comma 1, lettera d), aveva previsto che il Governo, nella revisione della disciplina del contenzioso tributario, avrebbe dovuto «rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo». 5.1.1.– La novella in scrutinio si inserisce in un ampio intervento di revisione del processo tributario che, a completamento del disegno di riforma avviato con la legge 31 agosto 2022, n. 130 (Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari) e in linea con le finalità di riduzione del contenzioso tributario previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), si prefigge di deflazionare il contenzioso attualmente pendente davanti alle corti di giustizia tributaria e alla Corte di cassazione; di ridurre i tempi delle controversie tributarie; di garantire la parità delle armi tra le parti del processo tributario; di completare la digitalizzazione della giustizia tributaria. 5.1.2.– va aggiunto che il novellato art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 è stato pedissequamente trasfuso nell’art. 112 del decreto legislativo 14 novembre 2024, n. 175 (Testo unico della giustizia tributaria), in vigore dal 29 novembre 2024, ma applicabile dal 1° gennaio 2026, data da cui decorrono l’abrogazione delle disposizioni del d.lgs. n. 546 del 1992 e l’efficacia dello stesso testo unico, come espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso d.lgs. n. 175 del 2024. 5.2.– L’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, come riscritto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, a norma dell’art. 4, comma 1, di quest’ultimo decreto legislativo, è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, avvenuta il 3 gennaio 2024, e dunque il 4 gennaio 2024. Il comma 2 del citato art. 4 del d.lgs. n. 220 del 2023 ha, però, stabilito che «[l]e disposizioni del presente decreto si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 1, comma 1, lettere d), e), f), i), n), o), p), q), s), t), u), v), z), aa), bb), cc) e dd), che si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto». Per quel che concerne, dunque, la novella sulle prove in appello introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, la previsione transitoria prescrive che detta disciplina si applichi ai giudizi instaurati in primo grado, in secondo grado e in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del decreto legislativo, ossia dal 5 gennaio 2024, laddove per le disposizioni diverse da quelle elencate nel comma 2 la riforma si applica «ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024». 5.3.– nella relazione di accompagnamento del d.lgs. n. 220 del 2023 si chiarisce che la novella legislativa riscrive l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 prevedendo, nell’ottica del rafforzamento del divieto di nova nel giudizio di secondo grado programmato dalla legge delega, «la preclusione espressa per il giudice d’appello di fondare la propria decisione su prove che avrebbero potuto essere disposte o acquisite nel giudizio di primo grado». viene, anche, rimarcato che «[r]esta comunque eccezionalmente ferma la possibilità per il giudice di secondo grado di acquisire le prove pretermesse nel primo grado, in ragione della loro indispensabilità ai fini della decisione, oppure in esito alla dimostrazione della riferibilità della mancanza probatoria a causa non imputabile alla parte appellante». nella stessa relazione si precisa che «si è ritenuto opportuno, all’esito di ulteriori appro rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 fondimenti, effettuati su impulso delle Commissioni riunite II e vI di Camera e Senato, in un’ottica di ulteriore rafforzamento del divieto di produzione di nuovi documenti in secondo grado […], di vietare il deposito di deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere, nonché di notifiche dell’atto impugnato ovvero di atti che ne costituiscono presupposto di legittimità e che possono essere prodotti in primo grado, anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». 5.4.– È utile ricordare che, nella versione originaria, l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, al comma 1, vietava l’ingresso di nuove prove in appello, salvo che il giudice non le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostrasse di non averle potute dedurre nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile, ma, al comma 2, precisava che «[è] fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti». La giurisprudenza di legittimità aveva interpretato quest’ultima previsione con particolare ampiezza, indicando come unico limite alla producibilità di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado l’essere gli stessi diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 26 giugno 2024, n. 17638 e 10 aprile 2024, n. 9635; ordinanze 25 ottobre 2024, n. 27741, 24 luglio 2024, n. 20550, 22 aprile 2024, n. 10788 e 27 febbraio 2024, n. 5199). 5.4.1.– La previgente disciplina dei nova istruttori nell’appello tributario rinveniva il suo immediato referente nell’omologo regime dettato dal codice di procedura civile. Il contenuto precettivo del comma 1 dell’originario art. 58 era, infatti, pressoché coincidente con quello dell’art. 345 cod. proc. civ. nella formulazione assunta per effetto delle modifiche ad esso apportate dall’art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile). La disposizione del processo tributario ricalcava quella dettata per il processo civile sia quanto alla proibizione, in linea di principio, di nuove prove in appello, sia quanto alla previsione di un duplice temperamento a tale divieto, costituito dall’ammissione tanto della prova non dedotta in prime cure per causa non imputabile alla parte, quanto di quella ritenuta dal giudice necessaria ai fini della decisione. Come confermato dalla relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo sulla disciplina del processo dinanzi agli organi speciali di giurisdizione in materia tributaria esaminato in Commissione bicamerale il 16 dicembre 1992, dal coevo modello civilistico l’art. 58 si discostava per la previsione espressa della facoltà, per le parti, di produrre in appello nuovi documenti a prescindere dalla ricorrenza di una delle condizioni richieste dal comma 1 per l’introduzione degli altri mezzi di prova. L’art. 345 cod. proc. civ., nel testo risultante dalla riforma introdotta dalla legge n. 353 del 1990, disponeva, infatti, che «[n]el giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio». 5.4.2.– La disciplina del processo civile che il legislatore del 1992, nel configurare il giudizio tributario di secondo grado, ha tenuto presente è stata, tuttavia, oggetto di due ulteriori interventi riformatori, i quali hanno riscritto la disposizione del codice di rito in senso sempre più restrittivo, rendendo via via più netto il divario tra i due sistemi. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo 5.4.2.1.– L’art. 345 cod. proc. civ. è stato dapprima modificato dall’art. 46, comma 18, della legge n. 69 del 2009, il quale ha aggiunto alla regola generale della impossibilità di assumere nuove prove in appello l’espresso divieto di produzione di nuovi documenti. un’analoga formulazione è stata di lì a poco adottata per il processo amministrativo dall’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), il cui art. 104, comma 2, dispone che «[n]on sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile». 5.4.2.2.– La disciplina delle prove nell’appello civile è stata, infine, oggetto di un’ulteriore significativa revisione ad opera dell’art. 54, comma 1, lettera 0b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale ha eliminato la possibilità di svolgere attività istruttoria in secondo grado in ragione della indispensabilità del mezzo probatorio, rendendo ancora più marcata la configurazione del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae, piuttosto che come novum iudicium. 5.4.2.3.– L’ammissibilità in appello di nuove prove indispensabili è, invece, rimasta ferma per il rito semplificato di cognizione e per il cosiddetto “rito Fornero”, non essendo stati modificati né l’art. 704-quater cod. proc. civ., né l’art. 1, comma 59, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) -in seguito abrogati -, nonché per il rito del lavoro, essendo l’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. rimasto immutato. 6.– Tutto ciò premesso, passando all’esame del merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, va anzitutto precisato che non risulta persuasiva l’interpretazione della disciplina in scrutinio prospettata dalla difesa statale -già illustrata nei precedenti punti 4.3. e 4.4. -, in base alla quale, da un lato, il divieto oggetto di censura non riguarderebbe le notificazioni dell’atto impugnato e degli atti presupposti e, dall’altro, tanto l’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, quanto l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 si presterebbero ad una interpretazione conforme idonea a scongiurare le ipotizzate violazioni costituzionali. 6.1.– Alla stregua dei comuni canoni ermeneutici, letterale e logico, il tenore dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 non consente, anzitutto, di escludere le notificazioni dallo spettro applicativo del divieto in esso sancito. nell’elenco riportato nella previsione in scrutinio è, infatti, possibile distinguere due gruppi omogenei di documenti, al primo dei quali vanno ascritti sia quelli riconducibili alle nozioni giuridiche delle «deleghe» e delle «procure», sia quelli ricadenti nella descrizione concettuale, ad esse funzionalmente affine, degli «altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti». Diversamente da quanto ritenuto dall’interveniente, infatti, la congiunzione “e” e l’aggettivo “altri” connettono logicamente il terzo elemento ai primi due, alla stregua di una clausola di chiusura che completa il primo ambito di operatività del divieto e, al contempo, lo distingue dal secondo, che, invece, comprende le notificazioni tanto del provvedimento impugnato quanto degli atti presupposti. 6.2.– Deve, inoltre, rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa statale, la configurazione del nuovo art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 offre una assoluta resistenza ad una lettura che, in chiave costituzionale, predichi la soggezione delle ipotesi contemplate nel comma 3 alla regola generale espressa dal comma 1. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 6.2.1.– L’art. 58 riformato detta, infatti, una disciplina composita, articolata in una norma proibitiva generale, codificata nel comma 1, che sancisce un divieto di nova istruttori in appello avente portata relativa, che, cioè, soffre una duplice eccezione nel caso in cui nuovo materiale probatorio, documentale e non, risulti indispensabile ai fini della decisione o la parte interessata dimostri di non averlo potuto introdurre in primo grado per causa ad essa non imputabile; e da una norma proibitiva speciale -contenente, cioè, un divieto di produzione in appello di alcuni specifici documenti -formulata in termini di assolutezza, come reso evidente dall’incipit dell’enunciato normativo («[n]on è mai consentito»). L’espressa indicazione delle ipotesi escluse dall’ambito applicativo della regola generale e la perentorietà del tenore letterale del divieto precludono una esegesi che faccia ricadere anche i documenti elencati al comma 3 nel divieto probatorio temperato di cui al comma 1. 6.3.– Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla disciplina transitoria. L’inequivoca formulazione letterale dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 -il quale, in modo espresso, fa ricadere sotto lo ius superveniens i giudizi di appello incardinati dal giorno successivo all’entrata in vigore dell’innovazione normativa -non si presta all’interpretazione conforme proposta dall’interveniente al fine di escludere le lesioni denunciate. 7.– Ciò posto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata dalla CGT Campania in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. è fondata nella parte in cui vieta il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti. 7.1.– Questa Corte è consapevole che la scelta legislativa di introdurre limiti più o meno stringenti all’ingresso di nuovo materiale cognitivo nel giudizio di secondo grado involge opzioni assiologiche sulle finalità del processo di significativa complessità, come dimostrano le oscillazioni che hanno caratterizzato l’evoluzione legislativa dei nova nell’appello civile, di cui il recente intervento riformatore sull’omologo istituto del processo tributario ha certamente tenuto conto. Il legislatore è, infatti, chiamato a compiere una ponderazione tra le istanze di celerità e di certezza che informano il sistema delle preclusioni e l’esigenza di un accertamento giudiziale che sia il più aderente possibile alla verità materiale. ed è evidente che, con l’introduzione del divieto ex art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, il legislatore abbia inteso accordare priorità all’esigenza di arginare la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio tributario. Gli stessi lavori preparatori confermano che il divieto è volto a circoscrivere ulteriormente, rispetto a quanto già previsto al comma 1 dello stesso art. 58, lo spazio per un’appendice istruttoria in appello, in linea con gli obiettivi di riduzione del contenzioso tributario indicati dalla legge delega n. 111 del 2023 e dal Pnrr. Il divieto concerne, infatti, due tipologie di documenti -quelli comprovanti, rispettivamente, il conferimento del potere rappresentativo sostanziale e processuale e la notificazione dell’atto impugnato e di quelli ad esso presupposto -la cui mancata acquisizione in prime cure è all’origine di un vasto contenzioso, nell’ambito del quale, nel vigore del precedente testo dell’art. 58, la Corte di cassazione aveva confermato la producibilità in appello di entrambe le tipologie di prove documentali in questione (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 17 luglio 2019, n. 19190; ordinanze 16 dicembre 2024, n. 32657 e 26 maggio 2021, n. 14567). 7.2.– Per quanto riguarda, però, le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, la esclusione degli stessi ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo dalla regola -prevista per la generalità delle prove -della deducibilità in appello nei casi in cui il giudice ne ritenga indispensabile l’acquisizione o ne sia stata impossibile la deduzione in primo grado per causa non imputabile alla parte esibisce una manifesta irragionevolezza, così travalicando il limite all’esercizio della pur ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nella configurazione degli istituti processuali (ex multis, sentenze n. 189 e n. 96 del 2024, n. 67 del 2023). 7.3.– L’ampiezza semantica dei termini «deleghe» e «procure», confermata dalla clausola di chiusura concernente gli «altri atti di conferimento di potere», induce ad includere nel perimetro del divieto ex art. 58, comma 3, non solo le deleghe con cui viene attribuito il potere di firma degli atti impositivi e, più in generale, gli atti di conferimento della rappresentanza sul piano sostanziale, ma anche gli atti costituenti il presupposto della rappresentanza processuale e quelli di designazione del difensore abilitato all’assistenza tecnica in giudizio. 7.3.1.– Il concetto di delega evoca, anzitutto, l’atto di conferimento della legittimazione sostitutiva indicato da diverse disposizioni come requisito di validità dell’accertamento tributario. emblematico, al riguardo, è l’art. 42 del decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), il quale richiede, a pena di nullità dell’avviso di accertamento, la sottoscrizione del capo dell’ufficio, ovvero del direttore provinciale, o del funzionario della carriera direttiva da lui delegato (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 31 ottobre 2018, n. 27871), con previsione estesa da specifiche disposizioni normative a diversi altri tributi. 7.3.2.– I termini «deleghe» e «procure», rimandano, altresì, agli atti di attribuzione della rappresentanza processuale incidenti sulla capacità di stare in giudizio di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, quindi, da un lato, agli atti con cui i dirigenti degli uffici che, ai sensi dei commi 2, 3 e 3-ter della stessa disposizione, possono stare in giudizio anche direttamente, trasferiscono ad altro funzionario il potere di rappresentanza processuale ovvero il solo potere di firma degli atti processuali (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 14 ottobre 2015, n. 20628); dall’altro lato alle procure, generali o speciali, con cui le altre parti, a mente del comma 1 della medesima disposizione, possono designare un rappresentante processuale. Ancora, le deleghe e le procure richiamano il conferimento del potere di assistenza tecnica in giudizio ai soggetti abilitati ai sensi dell’art. 12, comma 3, del medesimo decreto legislativo. 7.3.2.1.– Pur tuttavia, nell’accezione indicata nel punto precedente, gli atti in questione non costituiscono temi di prova soggetti alle ordinarie preclusioni istruttorie, in quanto non attengono al merito della causa, ma alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e, quindi, alla regolare costituzione del rapporto processuale. esse non sono, pertanto, soggette al giudizio di indispensabilità supposto dall’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, né ricadono nello speciale divieto di cui al comma 3 di tale disposizione. 7.4.– Ciò precisato, va rilevato che, con la riforma di cui al d.lgs. n. 220 del 2023, il legislatore ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato dal riconoscimento della facoltà, per le parti, di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado. A fronte di una configurazione siffatta, la deroga alla regola della limitata acquisibilità di nova istruttori introdotta per le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere risulta priva di una ragionevole ratio distinguendi. La sottrazione di tali documenti al regime generale, pur perseguendo la finalità deflattiva di limitare ulteriormente il materiale cognitivo acquisibile in appello, non trova appiglio nelle rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 caratteristiche oggettive -strutturali, effettuali e funzionali -degli atti esclusi, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa costruire una disciplina diversificata. All’opposto, le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere non solo appartengono al più ampio genus delle prove documentali, che l’art. 58, comma 1, sottopone alla regola generale della producibilità, al ricorrere dei requisiti prescritti, in secondo grado, ma a differenza delle notificazioni dell’atto impugnato e di quelli presupposti, di cui si dirà meglio più avanti -non presentano tratti differenziali idonei ad incidere sul meccanismo di acquisizione di nova istruttori in appello. 7.4.1.– La manifesta irragionevolezza del frammento normativo in esame viene ancor più chiaramente in luce ove si consideri che il divieto assoluto di produzione dei documenti con i quali si fornisce la prova della legittimazione sostanziale o processuale altera la parità delle armi, in quanto sottrae una facoltà difensiva alla parte che, in base al thema decidendum, sia chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio. 7.5.– Deve, ancora, evidenziarsi che la disposizione in scrutinio, là dove inibisce il deposito in appello delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comporta un’ingiustificabile compressione del diritto alla prova (sentenze n. 41 del 2024 e n. 275 del 1990), quale nucleo essenziale del diritto di difesa ex art. 24 Cost. (sentenze n. 205 del 1997 e n. 248 del 1974) e del contraddittorio. 7.5.1.– occorre, infatti, considerare che il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi di prova che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte. La regola della deducibilità in secondo grado costituisce, in questo caso, una declinazione dell’istituto della rimessione in termini previsto dall’art. 153 cod. proc. civ. -applicabile anche nel processo tributario (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 17 giugno 2015, n. 12544) -, il quale, essendo posto a presidio delle garanzie costituzionali difensive e del giusto processo (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 luglio 2024, n. 19395), rappresenta un essenziale rimedio per eliminare, in via successiva, le conseguenze pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole. né, in relazione alla specifica ipotesi in esame, le conseguenze sfavorevoli derivanti dal divieto ex art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 possono ritenersi adeguatamente bilanciate dall’interesse all’accelerazione dei tempi di definizione del giudizio. La finalità acceleratoria e deflattiva è, infatti, realizzata sopprimendo il diritto alla prova nei casi in cui il giudizio di appello rappresenta l’unica occasione per il suo esercizio, essendone stata la deduzione in prime cure impossibile a causa di un fatto ostativo esterno alla sfera volitiva e di controllo della parte. 7.6.– Alla luce di quanto fin qui esposto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,». 7.7.– rispetto al frammento normativo investito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale tutte le altre censure sono assorbite. 8.– Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis», pure sancito dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nessuna delle censure formulate dalle Corti rimettenti può trovare accoglimento. 8.1.– Priorità logica deve essere accordata alla doglianza di eccesso di delega formulata dalla CGT Lombardia, la quale, come già detto, è da ritenersi riferibile al parametro di cui all’art. 76 Cost., non formalmente evocato, ma implicitamente sotteso dalle argomentazioni sviluppate dalla rimettente. 8.1.1– Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, pertanto, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Tale affermazione, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse (ex aliis, sentenze n. 129 del 2024 e n. 96 del 2020). 8.1.2.– nel caso di specie, considerata l’ampiezza del criterio fissato dall’art. 19, comma 1, lettera d), della legge delega n. 111 del 2023, secondo il quale il Governo, nella revisione della disciplina del contenzioso tributario, avrebbe dovuto «rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo», non può ritenersi che il legislatore delegato, nel prevedere, accanto ad un generale divieto di nova temperato, l’ulteriore e più stringente norma proibitiva di cui al censurato art. 58, comma 3, si sia discostato dalla ratio della legge delega. 8.2.– non contrasta, inoltre, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost. né lede il diritto alla prova ex art. 24, secondo comma, Cost. e al contraddittorio ex art. 111, secondo comma, Cost. la scelta, alla base della previsione in scrutinio, di proibire il deposito delle notificazioni anche quando risultino indispensabili ai fini della decisione. 8.2.1.– In proposito, è utile ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è indispensabile la prova idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola, senza lasciare margini di dubbio, oppure quella in grado di provare quanto rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata fosse incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 maggio 2017, n. 10790). 8.2.2.– La facoltà di dedurre in appello una prova nuova, ma indispensabile costituisce, dunque, uno strumento di contemperamento tra il regime delle preclusioni istruttorie -il quale «non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare rispetto del contraddittorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata» (ancora Cass., sez. un. civ., n. 10790 del 2017) -e l’esigenza che l’accertamento giudiziale sia aderente alla realtà dei fatti. La predisposizione di una disciplina che, al fine di favorire la ricerca della verità materiale, rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 accordi alle parti la possibilità di integrare in appello le carenze probatorie emerse all’esito del giudizio di primo grado non costituisce, dunque, una garanzia indefettibile del giusto processo, ma, piuttosto, un’attenuazione del rigore delle preclusioni istruttorie in appello, che il legislatore può, o meno, accordare «sulla base di una scelta discrezionale, come tale insindacabile » (sentenza n. 199 del 2017) e calibrare secondo le caratteristiche e le esigenze del tipo di processo. È, infatti, significativo che nel processo civile, all’esito di una travagliata evoluzione legislativa, tale facoltà sia stata espunta dalla disciplina dell’appello. Ciò che, invece, in ossequio ai principi consacrati negli artt. 24 e 111 Cost., deve essere necessariamente assicurato è un sistema processuale che garantisca alle parti l’esercizio del diritto alla prova in almeno uno dei gradi di giudizio. 8.2.3.– Ciò premesso, diversamente da quanto ritenuto dalle Corti rimettenti, rispetto alle notificazioni dell’atto impugnato e di quelli presupposti, la deroga in scrutinio appare sorretta da una adeguata ragione giustificativa. I documenti in esame -a differenza delle notifiche degli atti processuali che, essendo volte a documentare la regolarità dell’instaurazione e dello svolgimento del processo, sfuggono al divieto probatorio in scrutinio -forniscono la prova di una condizione di validità o di efficacia dell’esercizio della funzione impositiva, e per tale ragione la produzione degli stessi nei giudizi in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria. Infatti, la notificazione, da un lato, è condizione di efficacia degli atti impositivi, in quanto, stante il loro carattere recettizio, consente ad essi la produzione degli effetti, senza tuttavia incidere sulla loro validità (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 24 agosto 2018, n. 21071); dall’altro lato, integra un requisito di validità dell’atto consequenziale, posto che, secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 marzo 2008, n. 5791; sezione quinta civile, ordinanza 18 gennaio 2018, n. 1144). va, inoltre, considerato che, come chiarito dalle pronunce ora richiamate, in quest’ultimo caso la nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli, facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria. La Corte di cassazione ha anche evidenziato che se, in quest’ultimo caso, il giudizio verte sull’esistenza, o meno, della pretesa tributaria, nel primo il giudice è chiamato a verificare esclusivamente la sussistenza, o meno, del difetto di notifica, al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi) (Cass., sez. un. civ., n. 5791 del 2008). Da ciò deriva che, in tale ultima evenienza, la dimostrazione, o meno, della notificazione contestata definisce il giudizio. 8.2.4.– ed è in ragione di tale attitudine dimostrativa che, rispetto alle notificazioni, il legislatore ha ritenuto superflua, perché inutilmente dilatoria, l’operatività del modello temperato di cui all’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992. Si è voluto, in questo modo, evitare che nelle controversie in cui si faccia questione della esistenza o della validità delle notifiche il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure. 8.3.– Il divieto di produzione delle notifiche in appello si sottrae alle censure di irragionevolezza e di violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., anche là dove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 8.3.1.– Giova, anzitutto, ricordare che nella disciplina generale dei nova istruttori in appello la causa non imputabile coincide con un fatto estraneo alla sfera di controllo della parte che rende impossibile la tempestiva deduzione della prova in prime cure. In tale nozione rientra anche il caso di ignoranza incolpevole della esistenza della prova o quello in cui la stessa prova sia venuta ad esistenza in un momento successivo al maturare delle preclusioni istruttorie del giudizio di primo grado. va anche rammentato che nelle suddette evenienze, ai fini della restituzione in termini, la valutazione dell’imputabilità dell’impedimento deve effettuarsi con riferimento allo sforzo di diligenza richiesto nel caso concreto (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 25 novembre 2024, n. 30324). 8.3.2.– rispetto alla notificazione degli atti tributari non è configurabile, sul piano logico, né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado in cui sia in contestazione l’atto notificato, né quella in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione. Ciò in quanto l’atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste -e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notifica- torio e di conservazione e custodia dei relativi atti -prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere. 8.3.3.– Inoltre, laddove le contestazioni cadano sulla notifica di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha adottato l’atto impugnato, il comma 6-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, parimenti introdotto dal d.lgs. n. 220 del 2023, impone che il ricorso introduttivo sia sempre proposto nei riguardi di entrambi i soggetti, al fine di consentire che la produzione della notifica avvenga direttamente ad opera dell’ente che ha provveduto alla sua esecuzione. Diverso è, invece, il caso in cui l’impossibilità di produrre in primo grado la documentazione attestante la notificazione dell’atto impugnato derivi dalla sua distruzione o perdita per fatto estraneo alla sfera di controllo dell’amministrazione, venendo, in tale evenienza, in considerazione la diversa facoltà, da esercitarsi pur sempre entro i termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado, di ricostruire il documento smarrito o distrutto attraverso altri mezzi di prova, come ad esempio la testimonianza scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., estesa anche al processo tributario dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, come sostituito dall’art. 4, comma 1, lettera c), della legge 31 agosto 2022 n. 130 (Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari): ciò in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2724 cod. civ., la cui estensione al diritto tributario è stata confermata dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 16 novembre 2016, n. 23331). 8.3.4.– È evidente come la restrizione operata dall’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 1992 sia diretta a evitare che il giudizio di primo grado venga inutilmente instaurato in difetto di una regolare notifica, nonché ad arginare le distorsioni processuali indotte dalla «grave vulnerabilità ed inefficienza, anche con riferimento al sistema delle notifiche, che ancora affligge il sistema italiano della riscossione» (sentenza n. 190 del 2023). non può, infatti non ricordarsi come le gravi inefficienze del sistema della riscossione abbiano dato origine «“[al]l’enorme proliferazione, negli ultimi anni, di controversie strumentali di impugnazione degli estratti di ruolo radicate dai debitori iscritti a ruolo” con “un aumento esponenziale delle cause […] innanzi alle Commissioni Tributarie, ai Giudici di Pace e, più in generale, alla Magistratura ordinaria per far valere, spesso pretestuosamente, ogni sorta d’eccezione avverso cartelle notificate anche molti anni prima, senza che l’Agente della riscossione si fosse attivato in alcun modo per il recupero delle pretese ad esse sottese, e perfino nei casi in cui vi avesse rinunciato, anche nell’esercizio dell’autotutela” (relazione finale della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria del 30 giugno 2021)» (ancora, sentenza n. 190 del 2023). 8.4.– Sempre con riferimento al divieto di produzione in appello delle notificazioni, non è fondata neppure la censura di violazione del principio di eguaglianza e di parità delle armi, posto che, come già evidenziato, il regime diversificato introdotto per gli atti in questione risulta non manifestamente irragionevole. 8.5.– Parimenti non fondata è la censura con la quale si lamenta che la disposizione in scrutinio impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione giusta attraverso la ricerca della verità materiale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost. L’aderenza della ricostruzione processuale dei fatti alla verità materiale non è oggetto di specifica protezione costituzionale, essendo piuttosto le garanzie del giusto processo espressamente sancite dall’art. 111 Cost. a coadiuvare il giudice nell’accertamento della verità conducendolo ad una decisione giusta. 8.6.– Deve, infine, escludersi la denunciata ingerenza del legislatore nel potere giurisdizionale di valutazione della prova. Anzitutto, l’apprezzamento della indispensabilità non concerne l’attitudine dimostrativa della prova, quanto, piuttosto, la sua idoneità ad eliminare ogni possibile incertezza in ordine ad una ricostruzione fattuale già effettuata dal giudice di prime cure (Cass., sez. un. civ., n. 10790 del 2017). In ogni caso, l’ordinamento processuale ammette la possibilità che il potere giudiziale di valutazione della prova subisca limitazioni imposte dalla legge, come è reso evidente dal principio generale espresso dall’art. 116 cod. proc. civ., secondo il quale il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. 9.– venendo alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla CGT Lombardia in riferimento all’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023, sono fondate le censure ex artt. 3 e 111 Cost., con cui si prospetta, da un lato, la «palese ed ingiustificata violazione» del principio del giusto processo «sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela» e, dall’altro, il pregiudizio recato alla scelta difensiva delle parti dei processi già instaurati in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella processuale. 9.1.– Questa Corte ha affermato che ampia è la discrezionalità del legislatore nell’operare le scelte più opportune per disciplinare la successione di leggi processuali nel tempo (ordinanze n. 382 e n. 213 del 2005). Il regime transitorio è, infatti, «volto ad assicurare il passaggio da una disciplina ad un’altra ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo secondo tempi e scale di priorità che rientrano nel senso politico della discrezionalità legislativa, sì che ben può essere mantenuta in vita solo una parte ovvero la totalità delle norme abrogate in riferimento a situazioni pendenti, e variamente stabilita la sorte dei processi in corso» (sentenza n. 400 del 1996). In relazione alle disposizioni intertemporali, questa Corte ha peraltro precisato che vige «il principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite» (sentenza n. 309 del 2008). Il principio della tutela dell’affidamento come «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», è connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 70 e n. 4 del 2024, n. 210 del 2021). Tale principio non esclude che il legislatore possa adottare disposizioni che modificano in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici, anche in relazione a diritti soggettivi perfetti. Ciò può avvenire, tuttavia, a condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica» (sentenza n. 216 del 2023; nello stesso senso, sentenza n. 145 del 2022). 9.2.– Il limite della ragionevolezza risulta, nella specie, superato. L’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 dispone l’immediata applicazione del nuovo art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 (segnatamente delle disposizioni «di cui all’articolo 1, comma 1, letter[a] […] bb)» del d.lgs. n. 220 del 2023, che hanno riscritto in senso più restrittivo la disciplina dei nova istruttori in appello dettata dal previgente art. 58) ai processi di primo e secondo grado e di cassazione incardinati a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore (prevista per il 4 gennaio 2024) del medesimo d.lgs. n. 220 del 2023. Così disponendo, tuttavia, la previsione transitoria oblitera la circostanza che nei processi iniziati in grado di appello dopo tale data, il cui primo grado sia stato incardinato nel vigore della precedente disciplina, le parti, confidando sulla facoltà, loro riconosciuta dal previgente art. 58, comma 2, di depositare documenti anche nell’eventuale processo di gravame, potrebbero averne omesso la produzione in prime cure. Infatti, nei casi in cui, al momento dell’entrata in vigore della novella, i termini per le deduzioni istruttorie ex art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 siano già spirati, le parti non hanno la possibilità di prevenire le conseguenze dei sopravvenuti divieti probatori -e in special modo di quello assoluto ex art. 58, comma 3 -mediante un tempestivo deposito nel giudizio di primo grado. In questo modo, lo ius superveniens, sebbene formalmente operi per il futuro, nella sostanza incide sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso. esso, infatti, finisce per riconsiderare, sanzionandola ex post, la mancata produzione di documenti in primo grado, senza considerare che la disciplina previgente ne consentiva ampiamente il differimento in appello, come confermato dalla ricordata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la producibilità di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado era da escludere per i soli documenti diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992. In definitiva, per i processi nei quali, al momento dell’entrata in vigore della novella, siano già decorsi i termini per le produzioni documentali in primo grado, l’immediata efficacia del mutamento normativo determina conseguenze non dissimili da quelle della retroattività im rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 propria, in quanto, frustrando l’aspettativa delle parti che hanno confidato nella possibilità di esercitare il loro diritto alla prova anche in appello, lede il legittimo affidamento, «da considerarsi ricaduta e declinazione “soggettiva” dell’indispensabile carattere di coerenza di un ordinamento giuridico, quale manifestazione del valore della certezza del diritto» (sentenza n. 108 del 2019). È pur vero che, con riferimento particolare ai rapporti di durata, e alle modificazioni peggiorative che su di essi incidono secondo il meccanismo della cosiddetta retroattività impropria, questa Corte ha più volte affermato che il legislatore dispone di ampia discrezionalità e può anche modificare in senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorché l’oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, e comunque a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non trasmodi in un regolamento irrazionalmente lesivo del legittimo affidamento dei cittadini (ex plurimis, sentenze n. 136 del 2022, n. 234 del 2020 e n. 241 del 2019). Tuttavia, una giustificazione siffatta non si ravvisa nel caso di specie, non potendo la pur legittima esigenza di dare immediata attuazione alla disciplina che il legislatore ha ritenuto più adeguata e opportuna, così sostituendola a quella contestualmente abrogata, prevalere su situazioni giuridiche già maturate nel previgente assetto normativo. Del resto, in relazione alla previgente disciplina dei nova in appello dettata dall’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, l’art. 79, comma 1, dello stesso decreto legislativo aveva espressamente previsto che le relative disposizioni «non si applicano ai giudizi già pendenti in grado d’appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore». 9.3.– L’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prescrive che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettera bb), dello stesso d.lgs. n. 220 del 2023 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 220 del 2023. 9.4.– Le restanti censure riguardanti l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 del 2023 sono assorbite. Per QueSTI MoTIvI LA CorTe CoSTITuzIonALe riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario), limitatamente alle parole «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,»; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario), nella parte in cui prescrive che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettera bb), dello stesso d.lgs. n. 220 del 2023 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo; ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo 3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, nella parte in cui non consente la produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis», sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, sezione 16, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, nella parte in cui non consente la produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis», sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 76, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 19, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 gennaio 2025. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 Giudicato penale assolutorio nel processo tributario. La rimessione alle Sezioni unite di talune rilevanti questioni concernenti l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 Nota a Corte Di CassazioNe, sezioNe tributaria, orDiNaNza 4 marzo 2025 N. 5714 Erica Farinelli* sommario: 1. l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite -2. il contrasto giurisprudenziale profilatosi con riferimento agli effetti nel processo tributario, anche di cassazione, del giudicato penale assolutorio -3. la rilevanza della sentenza penale assolutoria pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. 1. l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite. Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, dopo avere premesso che sulla questione relativa agli effetti nel processo tributario, anche di cassazione, del giudicato penale assolutorio si sono «formati due, non conciliabili, orientamenti », ha ritenuto di rimettere, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., alla pronuncia delle Sezioni unite la soluzione di talune rilevanti questioni concernenti l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000. Tale disposizione (introdotta con l’art. 1, comma 1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87), così dispone ai primi due commi: 1. la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. 2. la sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio (1). nel giudizio in questione -concernente l’impugnazione degli avvisi d’accertamento e degli atti di contestazione relativi ai maggiori redditi percepiti nel territorio dello Stato -le ricorrenti, nel rispetto del termine di quindici giorni prima dell’udienza previsto dall’art. 21-bis, comma 2, D.Lgs. 74/2000, avevano depositato sentenza penale assolutoria, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., dal reato di omessa dichiarazione dei redditi perché il fatto non sussiste. (*) Avvocato dello Stato. (1) L’intero art. 21-bis è stato trasfuso nell’art. 112 del D.Lgs. 175/2024 (Testo unico della giustizia tributaria), in vigore dal 29 novembre 2024, ma applicabile dal 1° gennaio 2026, data da cui decorrono l’abrogazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 546 del 1992 e l’efficacia dello stesso testo unico, come espressamente previsto agli artt. 130 e 131 dello stesso D.Lgs. n. 175 del 2024. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo La Suprema Corte, dopo avere ricostruito la cornice normativa (2) e giurisprudenziale (3) antecedente all’intervento normativo in questione, si è soffermata, in particolare, sulle questioni di diritto intertemporale sollevate dall’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 e sugli effetti del giudicato penale assolutorio nel giudizio tributario. Sotto il primo profilo, la Corte ha chiarito che detta norma risulta applicabile quale «ius superveniens» anche ai casi in cui la sentenza penale assolutoria sia divenuta irrevocabile «prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso)» (cfr. Cass. 1021/2025; Cass. 30814/2024; Cass. 23609/2024; Cass. 23570/2024; Cass. 21584/2024). Quanto al secondo profilo, la Corte ha evidenziato che, in relazione agli effetti, ai sensi dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, nel processo tributario, anche di cassazione, della sentenza penale irrevocabile di assoluzione, si sono formati due contrapposti orientamenti. 2. il contrasto giurisprudenziale profilatosi con riferimento agli effetti nel processo tributario, anche di cassazione, del giudicato penale assolutorio. Il primo riconosce l’efficacia del giudicato penale anche ai fini dell’accertamento del presupposto impositivo e, dunque, ai fini del rapporto tra contribuente ed erario; il secondo, invece, operando una lettura riduttiva della novella, ritiene che il giudicato esplicherebbe i suoi effetti esclusivamente con riguardo alle sanzioni irrogate, mentre, con riguardo all’imposta, ancorché i fatti accertati siano gli stessi, la sentenza penale assolutoria continuerebbe a (2) In particolare, dopo l’abbandono della c.d. pregiudiziale tributaria di cui all’art. 21, comma 4, legge 7 gennaio 1929, n. 4, l’art. 12 del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, aveva disposto la rilevanza, nel processo tributario, del giudicato penale, sia assolutorio sia di condanna, in riferimento ai medesimi fatti materiali. Tale sistema venne poi superato, sia a seguito della introduzione del nuovo codice di procedura penale, sia ad opera del D.Lgs. 74/2000, in favore del c.d. “doppio binario” e, quindi, dell’autonomia reciproca tra i due procedimenti. (3) In tema di rapporti tra processo tributario e processo penale, la Corte di cassazione aveva costantemente affermato il principio secondo cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiegava automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale fossero gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria aveva promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, potendo essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, chiamato a verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione era destinata ad operare (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258). rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 valere come possibile fonte di prova, autonomamente valutabile dal giudice tributario. Più in dettaglio, secondo il primo orientamento, la norma in questione, nel riconoscere efficacia di giudicato nel processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, con una delle formule ampiamente liberatorie previste dal codice di rito (“perché il fatto non sussiste”o “perché l’imputato non l’ha commesso”), indurrebbe a ritenere che, anche con riferimento al giudizio tributario, tali fatti non sussistano, venendo così meno il relativo presupposto impositivo (4). Si è precisato, al riguardo, che l’art. 21-bis D.lgs. 74/2000, nell’ottica di attuare il principio di non contraddizione e di coerenza del sistema perseguito dalla riforma (5), imporrebbe di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio formatosi a seguito di giudizio dibattimentale, a condizione che: 1) tale giudicato abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario; 2) l’assoluzione sia avvenuta sulla base di una delle due formule “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non l’ha commesso”. Il secondo orientamento ritiene, invece, che l’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 si riferisca esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche all’accertamento dell’imposta (6), rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria continuerebbe ad assumere rilievo come mero elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio. Tale diversa interpretazione si fonda su una differente lettura della novella, volta a coglierne esclusivamente la finalità di razionalizzazione del sistema sanzionatorio penale e tributario vigente. (4) In tal senso, si sono espresse Cass. 1021/2025; Cass. 936/2025; Cass. 30814/2024; Cass. 30675/2024; Cass. 23609/2024; Cass. 23570/2024; Cass. 21584/2024. (5) L’art. 20, comma 1, della legge delega n. 111/2023, al comma 1, lett. a, n. 1), aveva delegato il Governo a “razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem” e, al comma 1, lett. a, n. 3) a “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i principi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi...”. nella relazione illustrativa del Decreto legislativo attuativo 14 giugno 2024, n. 87, si afferma che “l’obiettivo del citato articolo 20, comma 1, lettera a), numero 1), è quello di conseguire una maggiore integrazione tra sanzioni amministrative e penali, evitando forme di duplicazione non compatibili con il divieto di bis in idem”, laddove “l’articolo 20, comma 1, lettera a), numero 3) è finalizzato, invece, alla revisione dei rapporti tra processo penale e processo tributario”. (6) Cfr. Cass. 3800/2025, nonché, in senso conforme, Cass. 4916/2025, Cass. 4921/2025, Cass. 4924/2025 e Cass. 4935/2025. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo In un sistema ancora governato dal c.d. doppio binario, l’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 avrebbe, pertanto, la sola funzione di estendere anche alla fase di cognizione l’ambito di applicazione del principio di specialità tra disposizioni amministrative e penali, previsto dall’art. 19 del medesimo D.Lgs. 74/2000. Sono stati valorizzati, inoltre, sia l’introduzione, con la novella, anche dell’art. 21-ter D.Lgs. 74/2000 che ha regolato il -pur diverso -versante del cumulo sanzionatorio nel caso di riconosciuta responsabilità, sì da evitare un trattamento eccessivamente gravoso, sia, sul piano strettamente letterale, il dettato del comma 3 dell’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000, secondo cui: “le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”. L’utilizzo della congiunzione “anche”, riferita alla persona fisica o alla società, nonché ai soci o associati «si spiegherebbe soltanto in chiave sanzionatoria, poiché l’accertamento del tributo è naturalmente riferito al soggetto passivo, che è l’imprenditore individuale o la società, non certo alla persona che abbia agito per loro, né ai soci e agli associati, che rispondono ad altro titolo» (così l’ordinanza in commento). 3. la rilevanza della sentenza penale assolutoria pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. L’ordinanza in esame si sofferma, poi, sulla rilevanza della sentenza penale pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., essendosi formati anche in questo caso due orientamenti contrapposti. Da un lato (7), se ne è escluso il rilievo ai fini della disciplina di cui all’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000, considerato che la giurisprudenza civile, nell’interpretare gli artt. 651-654 c.p.p., ha attribuito, anche sulla base del maggior approfondimento istruttorio tipico del processo penale, differente valore alle ipotesi di assoluzione pronunciate a norma del primo comma rispetto a quelle pronunciate a norma del secondo comma, con orientamento consolidato fatto proprio anche dalle Sezioni unite (Cass. SS.uu. 26 gennaio 2011 n. 1768) (8). (7) Cfr., al riguardo, Cass. 3800/2025, nonché, successivamente, Cass. 4291/2025 e Cass. 4294/2025. (8) Con riferimento all’art. 652 c.p.p., ma anche rispetto agli artt. 651, 653 e 654 c.p.p., le Sezioni unite hanno affermato che «la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto». Tale principio è stato recepito anche dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui: «l’efficacia vin rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 La ricostruzione della situazione fattuale con estrema certezza si avrebbe, infatti, solamente nei casi in cui la pronuncia assolutoria sia stata resa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p. (prova positiva che superi ogni ragionevole dubbio) e non nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia stata resa ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. (prova mancante, insufficiente o carente). Dall’altro lato (9), si è ritenuto, invece, di potere estendere gli effetti dell’art. 21-bis D.Lgs. 74/2000 anche alle sentenze assolutorie pronunciate ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. in ragione della autonomia della nuova disciplina e della mancata esclusione espressa del secondo comma da parte del legislatore. In conclusione, considerata la non uniformità delle decisioni assunte e la rilevanza di ambito generale dei principi alle stesse sottese, la Corte ha ritenuto di rimettere gli atti alla Prima Presidente per le sue determinazioni in ordine alla eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni unite per questione di massima di particolare importanza sia in relazione al profilo della estensione anche al rapporto impositivo degli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, sia in ordine alla applicabilità della nuova disciplina alla ipotesi di assoluzione con la formula prevista dall’art. 530, comma 2, c.p.p. L’udienza risulta fissata davanti alle Sezioni unite civili per il prossimo 7 ottobre 2025. Corte di cassazione, Sezione tributaria, ordinanza 4 marzo 2025 n. 5714 -Pres. e. Cirillo, rel. G.P. Macagno -G.A.G.S. (avv. e. Pauletti), G.A.S. (avv. r. nicastro) c. Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato). FATTI DI CAuSA 1. Con gli avvisi d’accertamento e gli atti di contestazione impugnati nel presente giudizio l’Agenzia delle entrate imputava alle signore A.G.S.G. e A.S.G. i maggiori redditi percepiti nel territorio dello Stato italiano nel periodo compreso tra gli anni 2004 e 2010 e sanzionava l’omessa dichiarazione (mediante compilazione del quadro rW) di ingenti capitali mobiliari e immobiliari posseduti all’estero. L’operato dell’ufficio trovava fondamento nell’attività di controllo posta in essere dall’ufficio Centrale per il Contrasto agli Illeciti Fiscali Internazionali -u.C.I.F.I. e volto ad individuare l’effettivo domicilio fiscale delle contribuenti, che l’Amministrazione finanziaria affermava essere nel territorio italiano e non in St. Moritz (Svizzera), come formalmente risultante. 2. Le signore G. proponevano ricorso avverso gli atti impositivi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, che, previa riunione, li accoglieva. colante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p.» (Consiglio di Stato, Sez. 2, 2509/2014). (9) In tal senso, Cass. 23570/2024 e Cass. 23609/2024. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo 3. Quindi la Commissione tributaria regionale della Lombardia, in parziale accoglimento del- l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, con la sentenza n. 1685/2017, depositata in data 11 aprile 2017, rigettava i ricorsi introduttivi delle contribuenti, fatta salva l’applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni, condannando le appellate alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio. 4. Avverso la predetta sentenza le contribuenti hanno proposto separati ricorsi, sorretti da otto identici motivi e l’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso. 5. Le ricorrenti, in data 17 gennaio 2025, nel rispetto del termine di quindici giorni prima del- l’udienza prescritto dall’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000, hanno depositato, unitamente a memorie illustrative ex art. 378 c.p.c., la sentenza n. 14010/2015 del 23 dicembre 2015 del Tribunale di Milano, Sezione 2 Penale, pronunciata all’esito della fase dibattimentale, in copia conforme all’originale debitamente attestata, e divenuta irrevocabile in data 7 maggio 2016 per mancata impugnazione, come risulta dalla formula apposta a pagina 64 della stessa, che, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., ha assolto le ricorrenti dal reato di omessa dichiarazione dei redditi ad esse ascritto ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 per gli anni dal 2007 al 2010 perché il fatto non sussiste, e ha dichiarato di non dover procedere per gli anni dal 2004 al 2006 essendo il reato estintosi per intervenuta prescrizione. rAGIonI DeLLA DeCISIone 1. I motivi di ricorso 1.1. Con il primo comune motivo di ricorso le contribuenti denunciano, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e 36, comma 2, n. 4, del D.Lgs. 546/1992, per motivazione apparente, per avere la CTr valutato in maniera globale ed indistinta situazioni -e segnatamente l’effettiva residenza ai fini fiscali in Italia per numerose annualità d’imposta di due distinti soggetti -le sorelle A. ed A.G., che avevano vite familiari e lavorative diverse e che richiedevano, viceversa, necessariamente, un’analisi specifica ed autonoma. 1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e 36, comma 2, n. 4, del D.Lgs. 546/1992, per insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo in relazione a specifici punti della pronuncia impugnata. 1.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e 2, comma 2, del D.P.r. n. 917/1986, anche in relazione all’art. 43 c.c., in quanto la Commissione territoriale avrebbe omesso l’esame del quadro indiziario complessivo e dell’intero materiale probatorio versato agli atti dalle ricorrenti, non essendosi correttamente confrontata con la qualità indiziaria degli elementi forniti dall’ufficio e la idoneità delle “prove contrarie” o controprove offerte, che, come definitivamente statuito anche dal giudice penale investito della medesima vicenda, erano utili a privare di univocità e congruenza gli elementi forniti dall’ufficio, ed erano tali da sostenere che il centro principale degli interessi vitali delle ricorrenti andassero individuati in Svizzera. 1.4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione del combinato disposto degli artt. 2, commi 2 e 2-bis del D.P.r. n. 917/1986 e 43 c.c., per avere i giudici di seconde cure ritenuto le signore G. residenti ai fini fiscali in Italia, senza valutare, tuttavia, la volontà delle stesse di dimorare a Saint Moritz, in Svizzera e, dunque, senza tenere in considerazione gli elementi che legavano le ricorrenti al territorio rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 svizzero né la circostanza che la Svizzera fosse pacificamente riconosciuta dai terzi come il centro vitale degli interessi delle ricorrenti. 1.5. Con il quinto motivo di ricorso, proposto in via subordinata, si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., 12 del D.L. n. 78/2009 e degli art. 4 e 5 del D.L. n. 167/1990, deducendosi che i giudici di seconde cure avrebbero accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate sebbene le presunzioni di sussistenza di redditi sottratti a tassazione e di attività finanziarie detenute all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale trovassero il loro fondamento non già in fatti noti, bensì in fatti meramente presunti dalla medesima Agenzia delle entrate. 1.6. Con il sesto motivo di ricorso, anch’esso proposto in via subordinata, si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e 36, comma 2, n. 4, del D.Lgs. 546/1992, per insanabi1e contraddittorietà ed incomprensibilità della motivazione stante la presenza di argomentazioni tra loro contrastanti, con riguardo al capo della sentenza ove si afferma l’applicabilità dell’art. 12 del D.L n. 78/2009. 1.7. Con il settimo motivo di ricorso, anch’esso proposto in via subordinata, si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, del D.L. 78/2009, stante la natura di norma sostanziale e conseguentemente irretroattiva della stessa. 1.8. Con l’ottavo motivo di ricorso, anch’esso proposto in via subordinata, si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, per avere i giudici di seconde cure condannato al pagamento integrale delle spese esclusivamente le ricorrenti, nonostante la soccombenza parziale dell’Agenzia delle entrate in ordine alle pretese avanzale a titolo di sanzioni per la mancata applicazione del cumulo giuridico ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 546/1992. 2. L’oggetto della controversia. 2.1. La questione che si pone, con sicura rilevanza per il presente giudizio, quanto meno in relazione ai primi quattro motivi di ricorso, proposti in via principale, e in riferimento agli anni di imposta dal 2007 al 2010, è quella degli effetti nel processo tributario, anche di cassazione, della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa ad esito del dibattimento con la formula “perché il fatto non sussiste”, con l’ulteriore appendice, anch’essa rilevante nel caso di specie, della disciplina applicabile alla assoluzione con la formula prevista dal secondo comma dell’art. 530 del codice di procedura penale, il tutto alla luce della innovazione apportata dall’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore dal 29 giugno 2024, quindi trasposto nel- l’art. 119 del Testo unico della giustizia tributaria (D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175), vigente dal 1° gennaio 2026. 2.2. non vi è dubbio che i fatti posti alla base degli avvisi di accertamento e degli atti di contestazione impugnati siano gli stessi fatti oggetto dell’imputazione penale dalla quale le contribuenti sono state definitivamente assolte. Ad esito di ampia argomentazione, il Tribunale di Milano ha affermato che “In conclusione, gli elementi sopra indicati, utilizzati dall’Agenzia delle entrate e fatti propri dal PM nel presente giudizio, a sostegno della residenza effettiva italiana delle due imputate e, di conseguenza, del loro obbligo contributivo in relazione a tutti i redditi posseduti, indipendentemente dal luogo di produzione, risultano “contraddetti” e posti in dubbio da altri di segno contrario, provati dalla difesa che dimostrerebbero, invece, il legame e collegamento effettivo e reale delle due imputate con la Svizzera. ne consegue, quindi, che in tale situazione di “contrad ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo dittorietà della prova” tutti gli imputati vanno mandati assolti con la formula dubitativa “perché il fatto non sussiste” in relazione al reato loro contestato per quanto riguarda gli anni di imposta dal 2007 al 2010”. 3. Lo “stato dell’arte” prima dell’intervento normativo. Si rende opportuno, in premessa, ricostruire quello che era lo “stato dell’arte” prima dell’intervento normativo di cui si discute, con riguardo sia alla cornice normativa, sia all’intervento nomofilattico di questa Suprema Corte. 3.1. Dopo l’abbandono della c.d. pregiudiziale tributaria di cui all’art. 21, comma 4, legge 7 gennaio 1929, n. 4, l’art. 12 del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, aveva disposto la rilevanza nel processo tributario del giudicato penale, sia assolutorio sia di condanna, in riferimento ai medesimi fatti materiali. Tale sistema venne poi superato, sia a seguito della introduzione del nuovo codice di procedura penale, sia ad opera del D.Lgs. n. 74/2000, in vigenza del quale il tema del raccordo tra i due procedimenti è stato interpretato in termini di “doppio binario” e quindi di autonomia reciproca dei medesimi. 3.2. Sul punto questa Corte ha costantemente affermato, in tema di rapporti tra processo tributario e processo penale, che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720). 3.3. Si è precisato, infatti, che l’art. 654 c.p.p., che stabilisce l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile ed amministrativo nei confronti di coloro che abbiano partecipato al processo penale -norma operante, in base all’art. 207 disp. att. c.p.p., anche per i reati previsti da leggi speciali, ed avente, quindi, portata immediatamente modificativa dell’art. 12 del D.L. n. 429/1982, conv. dalla legge n. 516/1982, disposizione che regolava l’autorità del giudicato penale in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, poi espressamente abrogata dall’art. 25, lett. d), del D.Lgs. n. 74/2000 -, la sottopone alla duplice condizione che nel giudizio civile o amministrativo (e, quindi, anche in quello tributario) la soluzione dipenda dagli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudicato penale e che la legge civile non ponga limitazione alla prova “della posizione soggettiva controversa”. 3.4. Atteso che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992 (e, in precedenza, dall’art. 35, comma 4, del d.P.r. 26 ottobre 1972, n. 636), e trovano ingresso, con rilievo probatorio, in materia di determinazione del reddito d’impresa, anche presunzioni semplici (art. 39, comma 2, d.P.r. n. 600/1973), prive dei requisiti prescritti ai fini della formazione di siffatta prova tanto nel processo civile (art. 2729, comma 1, c.c.), quanto nel processo penale (art. 192, comma 2, c.p.p.), la conseguenza del mutato quadro normativo era che nessuna automatica autorità di cosa giudicata potesse più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Pertanto, il giudice tributario non poteva limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), doveva, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; Cass. 24 novembre 2017, n. 28174; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 27 febbraio 2013, n. 4924; Cass. 27 settembre 2011, n. 19786; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720; Cass. 24 maggio 2005, n. 10945). 3.5. Questa Corte, di conseguenza, ha precisato, quanto alla produzione della sentenza penale di assoluzione nel giudizio di cassazione in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della regula iuris alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. ne consegue l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735, di cui fanno applicazione, tra tante, Cass. 26 settembre 2017, n. 22376; Cass. 11 aprile 2024, n. 9900; Cass. 9 giugno 2023, n. 16413). 4. L’introduzione del nuovo art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000. Tale assetto, come si è anticipato in premessa, è stato innovato dall’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore dal 29 giugno 2024, (quindi trasposto nell’art. 119 del Testo unico della giustizia tributaria D. Lgs. 14 novembre 2024, n. 175), rubricato “efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”, il quale dispone: “1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. 2. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”. 5. L’efficacia intertemporale della nuova disposizione. 5.1. La prima questione che si è posta, in relazione alla efficacia intertemporale della nuova disposizione, è stata affrontata e risolta da questa Suprema Corte con esiti, in ultimo, pressoché unanimi, sì da costituire, allo stato, diritto vivente. 5.2. Si è infatti chiarito che “L’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato nel processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, è applicabile, quale ius superveniens, anche ai casi ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo in cui detta sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso)” (cfr. Cass. n. 30814/2024; Cass. n. 23570/2024, Cass. n. 21584/2024, Cass. n. 23609/2024; da ultimo, v. ancora Cass. n. 1021/2025). 5.3. Le disposizioni in esame appaiono infatti avere carattere processuale, incidendo sulla efficacia esterna nel processo tributario del giudicato penale (il primo comma) e sulle modalità di produzione nel giudizio di cassazione (il secondo comma). Come è noto, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono sostanziali le norme che consistono in regole di giudizio la cui applicazione ha una diretta ricaduta sulla decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4225; Cass. 2 aprile 2015, n. 6743; Cass. 17 luglio 018 n. 18912). 5.4. va ancora rilevato che questa Corte, in analogo snodo normativo, pronunciandosi sull’efficacia del sopravvenuto art. 654 c.p.p. rispetto alla previsione dell’art. 12, comma 1, del D.L. n. 429/1982, conv. dalla legge n. 516/1982, che prevedeva allora la efficacia vincolante del giudicato penale, ha osservato che “la norma attiene ai poteri doveri del giudice civile (od amministrativo) quando statuisce dopo il formarsi di giudicato penale, e, quindi, alla fase decisionale del relativo procedimento, di modo che deve trovare applicazione quando tale fase sia successiva alla sua entrata in vigore” (Cass. 5 luglio 1995, n. 7403). 5.5. Si osserva ancora che, in tema di disposizioni processuali, questa Corte ha affermato il principio che, in mancanza di una disposizione transitoria (circostanza che ricorre anche nella disciplina in esame), debba essere applicato il principio per il quale, nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 11 delle preleggi, la nuova norma disciplina non solo i processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore ma anche i singoli atti, ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima della sua entrata in vigore (così Cass. 3 aprile 2017, n. 8590; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27525; Cass. 12 settembre 2014, n. 19270). 6. Gli effetti del giudicato penale di assoluzione nel giudizio tributario. Analoga convergenza non è, al contrario, ravvisabile in merito agli effetti che genera, nel processo tributario, anche di cassazione, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione che risponda ai requisiti previsti all’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000, essendosi formati a tale riguardo due, non conciliabili, orientamenti, di cui: i) il primo riconosce l’efficacia del giudicato penale anche ai fini dell’accertamento del presupposto impositivo, e dunque ai fini del rapporto tra contribuente ed erario, ii) il secondo opera una lettura riduttiva della novella legislativa, che esplicherebbe i suoi effetti esclusivamente con riguardo alle sanzioni irrogate, mentre con riguardo all’imposta la sentenza penale, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, continuerebbe ad essere una possibile fonte di prova, autonomamente valutabile dal giudice tributario, esattamente come avveniva prima della recente riforma. 7. La prima tesi: l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 riguarda l’imposta, ossia la decisione del giudice tributario sulla sussistenza del presupposto impositivo. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 7.1. Secondo un primo orientamento (manifestato da questa Corte con le coeve decisioni Cass. n. 23570/2024 e Cass. n. 23609/2024, successivamente ribadito, inter alias, da Cass. 21584/2024, Cass. n. 30675/2024, Cass. n. 30814/2024 e, da ultimo, ancora da Cass. n. 936/2025 e n. 1021/2025) l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato nel processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, con una delle formule “di merito” previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso), comporta che debba ritenersi, anche con riferimento al giudizio tributario, che tali fatti non sussistano, così venendo meno il relativo presupposto impositivo delle riprese fiscali. 7.2. L’art. 21-bis cit., che non si accompagna alla previsione di una sospensione obbligatoria del processo tributario in pendenza di quello penale, impone di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio formatosi a seguito di giudizio dibattimentale, purché tale giudicato abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario e purché l’assoluzione sia avvenuta in base ad una delle due formule sopra indicate; l’efficacia del giudicato attiene quindi agli “stessi fatti materiali”, dovendosi ritenere che, quando si discute di efficacia della sentenza penale nel giudizio tributario non ci si riferisce al giudicato penale in sé e per sé, ma all’accertamento dei fatti contenuti nella relativa decisione. e quindi, ciò che interessa non è il valore extra-penale del dispositivo della sentenza, ma il valore extra-penale degli accertamenti di fatto che, presenti i requisiti prescritti dell’art. 21-bis cit., “fanno stato” nel giudizio tributario. e dunque, per l’orientamento richiamato risulta centrale la valorizzazione dell’univocità del- l’accertamento materiale del fatto. 7.3. Quanto osservato, in effetti, come è stato anche rilevato in dottrina, risponde all’obiettivo della riforma di attuare il principio di non contraddizione e di coerenza del sistema, innovando la struttura del c.d. doppio binario per armonizzarne la disciplina con i principi generali del- l’ordinamento, con primario riferimento all’art. 53, comma 1 della Costituzione che impone, quale requisito strutturale dell’obbligazione tributaria, l’effettività e realità del presupposto impositivo. Ciò non solo, pertanto, nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem, ma, appunto, anche per l’esigenza di attuare il principio di non contraddizione e di coerenza del sistema, con recupero della omogeneità della verità processuale sul fatto e in ultima istanza, scongiurando l’eventualità che, per effetto di un doppio binario processuale, ciò che non esiste dal punto di vista fenomenico in ambito penale, possa invece esserlo in ambito tributario, ciò, almeno, quando l’accertamento penale sia stato esito del giudizio dibattimentale, dotato di caratteristiche strutturali e di standard probatori più elevati di quelli del processo tributario. 7.4. Da quanto sinora osservato discende, quale necessario corollario, il superamento, con riguardo al processo tributario, delle limitazioni poste dall’art. 654 c.p.p., con riguardo ai differenti regimi probatori, alla estensione dell’efficacia, nei giudizi civili o amministrativi dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale. 7.5. Le tesi formulate nelle ora richiamate pronunce di questa Corte troverebbero conforto nella ratio legis desumibile dai principi e criteri direttivi predicati dall’art. 20, comma 1, della legge delega n. 111 del 2023, che, pur sotto il “cappello” unitario della rubrica che recita “revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale, con riferimento alle imposte sui redditi, all’IvA e agli altri tributi indiretti nonché ai tributi degli enti territoriali”, affida al Governo delegato due finalità distinte ed autonome: al comma 1, lett. a n. 1) quella ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo di “razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem” e, al comma 1, lett. a, n. 3) quella di “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i principi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi (...)”, sì che, se il primo criterio direttivo può ritenersi inteso alla regolazione coerente delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario, il secondo risulta, al contrario, diretto a regolare l’estensione al giudizio tributario del giudicato penale dibattimentale di assoluzione con formula di merito, nell’ipotesi di identità dei fatti materiali posti a fondamento della fattispecie criminosa e della ripresa fiscale. 7.6. La volontà del legislatore, così delineata, troverebbe inoltre conferma nella relazione illustrativa del decreto legislativo attuativo 14 giugno 2024, n. 87, ove, in particolare, si afferma che “l’obiettivo del citato articolo 20, comma 1, lettera a), numero 1), è quello di conseguire una maggiore integrazione tra sanzioni amministrative e penali, evitando forme di duplicazione non compatibili con il divieto di bis in idem”, laddove “l’articolo 20, comma 1, lettera a), numero 3) è finalizzato, invece, alla revisione dei rapporti tra processo penale e processo tributario”. 7.7. Da ultimo, pur nei limiti della natura compilativa di tali strumenti normativi, non sarebbe priva di rilievo, ai fini di una ricognizione pur postuma della voluntas legis, la circostanza dell’avvenuta trasposizione, con efficacia del 1° gennaio 2026, dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 119 del Testo unico della giustizia tributaria (D.Lgs. n. 175 del 2024), mentre l’art. 21 del medesimo D.Lgs. n. 74 è stato inserito all’art. 98 del Testo unico delle sanzioni tributarie amministrative e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1° gennaio 2026. 8. La seconda tesi: l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguarda l’imposta, ossia la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva. 8.1. Successivamente, a partire da Cass. n. 3800/2025 (conformi Cass. n. 4916/2025, Cass. n. 4921/2025, Cass. n. 4924/2025 e Cass. n. 4935/2025), è stato manifestato un difforme orientamento secondo il quale l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 si riferisce esclusivamente alle sanzioni tributarie e non all’accertamento dell’imposta, rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria continuerebbe ad assumere rilievo come mero elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio. 8.2. La diversa tesi si fonda su una lettura della novella, e degli atti preparatori, intesa a coglierne esclusivamente la finalità di razionalizzazione del sistema sanzionatorio penale e tributario vigente, mediante la loro integrazione, nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem. 8.3. L’introduzione dell’art. 21-bis cit., in un sistema ancora governato dal c.d. doppio binario, avrebbe pertanto la sola funzione di estendere anche alla fase di cognizione l’ambito di applicazione del principio di specialità tra disposizioni amministrative e penali, previsto dall’art. 19 del D.Lgs. n. 74/2000, il quale stabilisce che “Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 L’effetto della novella sarebbe, dunque, l’estensione al giudizio di cognizione -ed anche al giudizio di cassazione -della deducibilità della pronuncia penale di assoluzione per le formule “il fatto non sussiste” e “l'imputato non lo ha commesso”, sì che la relativa valutazione non sarebbe più limitata alla sola fase riscossiva. e dunque l’esigenza tutelata dal legislatore -ma già presente nelle originarie previsioni -sarebbe esclusivamente quella di trattare in termini unitari, per evitare criticità o incongruenze, gli esiti finali sanzionatori derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario. 8.4. Il rapporto di imposta che intercorre tra il contribuente e l’erario -incardinato tra dovere contributivo e capacità contributiva in funzione della giusta imposizione -secondo il richiamato orientamento, non partecipa pertanto, in quanto tale, al rapporto penale, che attiene, invece, all’aspetto sanzionatorio, per il quale si pone, differentemente, l’esigenza di una valutazione unitaria e contemperata del complessivo trattamento afflittivo. 8.5. Le decisioni menzionate fanno, inoltre, riferimento al dato -di sistema -della introduzione, con la novella, anche dell’art. 21-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 che ha regolato il -pur diverso -diverso versante del cumulo sanzionatorio nel caso di riconosciuta responsabilità, sì da evitare che il trattamento risulti eccessivamente gravoso, prevedendo che “il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”. 8.6. Ancora, sul piano strettamente letterale, viene posto in rilievo il dettato del comma 3 del- l’art. 21-bis cit., che prevede: “3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”. A tale riguardo si afferma che l’utilizzo della congiunzione “anche”, riferita alla persona fisica o alla società, nonché ai soci o associati si spiegherebbe soltanto in chiave sanzionatoria, poiché l’accertamento del tributo è naturalmente riferito al soggetto passivo, che è l’imprenditore individuale o la società, non certo alla persona che abbia agito per loro, né ai soci e agli associati, che rispondono ad altro titolo. 8.6.1. Per completezza, giova comunque, a tale proposito, rilevare che, secondo la ricostruzione operata dall’opposto orientamento, gli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione nei termini di cui all’art. 21-bis cit. si riverberano non solo sul rapporto impositivo, ma sul conseguente trattamento sanzionatorio, e quindi ben potrebbe giustificarsi, in tale ottica, il dato letterale evidenziato. 8.7. Infine, l’orientamento qui da ultimo richiamato sottolinea la neutralità del dato formale della avvenuta trasposizione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 119 del Testo unico della giustizia tributaria (D.Lgs. n. 175 del 2024), e della differente trasposizione dell’art. 21 del medesimo D.Lgs. n. 74 all’art. 98 del Testo unico delle sanzioni tributarie amministrative e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1° gennaio 2026. 9) La seconda questione: la rilevanza della sentenza penale pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. non vi è, inoltre, convergenza di orientamento in ordine alla rilevanza nel giudizio tributario delle sentenze penali di assoluzione pronunziate ex art. 530, secondo comma, c.p.p., questione ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo che assume specifica rilevanza in ordine alla fattispecie oggetto del ricorso qui in esame. 10. Il primo orientamento. 10.1. Si è formato, a tale riguardo, un orientamento inteso ad escluderne il rilievo ai fini della disciplina di cui all’art. 21-bis cit. in esame (a partire da Cass. n. 3800/2025, seguita da Cass. n. 4291/2025 e Cass. n. 4294/2025). È stato, in particolare, affermato, che, pur dovendosi considerare che nel giudizio penale la prova positiva dell’innocenza dell’imputato (art. 530, comma 1) e la prova negativa della sua responsabilità (art. 530, comma 2) hanno pari valore, la giurisprudenza civile, invece, nel- l’interpretare gli artt. 651-654 c.p.p., ha distinto le due situazioni, attribuendo differente valore alle ipotesi di assoluzione pronunciate a norma del primo comma rispetto a quelle pronunciate a norma del secondo comma, con orientamento consolidato da oltre trent’anni e che ha trovato il suo riconoscimento anche da parte delle Sezioni unite (v. Sez. u, n. 1768 del 26 gennaio 2011, che, con riguardo all’art. 652, ma anche rispetto agli artt. 651,653 e 654 c.p.p., ha affermato che “la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto”). Il principio, si osserva, è stato affermato anche dal giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez. 2, n. 2509 del 2014), secondo il quale “l’efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p.”. 10.2. La giustificazione logica e giuridica dell’orientamento che distingue la rilevanza ai fini civili tra i due commi viene altresì colta nel fatto che il fondamento sostanziale della scelta di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di assoluzione (per le formule assolutorie di insussistenza del fatto e per non aver commesso il fatto, qui in rilievo) deriva dal maggior approfondimento istruttorio che caratterizza il processo penale rispetto a quello civile (e tributario) e dalla possibilità, propria del processo penale, di ricostruire la situazione fattuale con estrema certezza. 10.3. Tale condizione (ossia la ricostruzione della situazione fattuale con estrema certezza) si avrebbe, tuttavia, solamente nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 1, c.p.p. (prova positiva che superi ogni ragionevole dubbio) e non nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 2, c.p.p. (prova mancante, insufficiente o carente). 11. Il secondo orientamento. 11.1. La tesi contraria, favorevole alla estensione degli effetti dell’art. 21-bis cit. anche alle sentenze di assoluzione con formula di merito pronunciate ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., è ravvisabile, seppure in forma inespressa, in Cass. n. 23570/2024 e Cass. n. 23609/2024. 11.2. Per completezza, a tale riguardo, può osservarsi che l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 sfugge al sistema degli artt. 651-654 c.p.p., ponendosi come regola autonoma e speciale, e dunque verrebbe meno anche il riferimento agli esiti della consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi al riguardo. Ciò vale, in primo luogo, in relazione ai presupposti di applicabilità, rilevandosi, ad esempio, che l’art. 21-bis cit., a differenza della disciplina dettata dall’art. 652 c.p.p., non equipara, quoad effectum, alla sentenza dibattimentale la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’articolo 442 c.p.p., anche se la parte civile abbia accettato il rito abbreviato. Ancora, e con maggior rilievo euristico, la disciplina dell’art. 21-bis cit. elude la clausola di compatibilità con le limitazioni alla prova imposte dalla “legge civile” predicata dall’art. 654 c.p.c. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 11.3. e dunque, in ragione della autonomia della nuova disciplina, potrebbe valorizzarsi l’elemento testuale della mancata esplicita esclusione, nell’art. 21-bis cit., dell’efficacia extra-penale della sentenza di assoluzione pronunciata ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p. osservandosi che la ratio della novella è dichiaratamente semplificatoria, di integrazione completa dei due sistemi, e tende ad uniformare gli esiti penali e tributari sui medesimi fatti accertati, potrebbe pertanto ritenersi che, se il legislatore avesse voluto escludere il secondo comma lo avrebbe fatto, così come ha escluso le assoluzioni a seguito di giudizi non dibattimentali. 11.4. Infine, sul versante prospettico del rispetto del principio del ne bis in idem, non appare peregrino osservare che anche il secondo comma dell’art. 530 c.p.p. esprime un accertamento, negativo, in merito alla insussistenza dei fatti materiali oggetto della imputazione, per come contestati, comuni ai fatti oggetto della pretesa tributaria. 12. Conclusioni. Il Collegio ritiene, in conclusione, che, considerati la non uniformità delle decisioni assunte e la rilevanza dei principi sottesi, di ambito generale, possano ricorrere i presupposti per una pronuncia delle Sezioni unite della Corte ai sensi dell’art. 374, secondo comma, c.p.c., in merito all’ambito di efficacia dall’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore dal 29 giugno 2024, quindi trasposto nel- l’art. 119 del Testo unico della giustizia tributaria (D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175), vigente dal 1° gennaio 2026, sia in relazione al profilo della estensione anche al rapporto impositivo degli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa ad esito del dibattimento con la formula “perché il fatto non sussiste”, sia in ordine alla applicabilità della nuova disciplina alla ipotesi di assoluzione con la formula prevista dal secondo comma dell’art. 530 del codice di procedura penale. È opportuno, pertanto, ai sensi del richiamato art. 374, secondo comma, c.p.c., rimettere gli atti alla Prima Presidente per le sue determinazioni in ordine alla eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite per questione di massima di particolare importanza. P.Q.M. rimette gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite. Così deciso in roma, il 5 febbraio 2025 ed il 28 febbraio 2025. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo il rapporto fra procedura di definizione agevolata (c.d. “rottamazione quater”) e i giudizi pendenti, ai sensi dell’art. 1, comma 236, legge 29 dicembre 2022, n. 197 Alberto Giovannini* Con l’ordinanza n. 5830 del 5 marzo 2025 la Sezione tributaria della Corte di cassazione ha ritenuto di rimettere la causa alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite (1) in ordine alla questione di massima di particolare importanza così formulata: «se, ove il contribuente abbia dichiarato di aderire alla definizione agevolata per i carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1 gennaio 2000 al 30 giugno 2022 (c.d. “rottamazione quater”), con la proposta di un piano di dilazione rateale del debito e l’assunzione dell’obbligo di rinunciare ai giudizi tributari pendenti, procedendo all’adempimento parziale del debito rateizzato dopo la comunicazione favorevole dell’agente della riscossione, l’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, imponga la sospensione dei giudizi tributari fino all’integrale soddisfacimento del debito rateizzato ovvero consenta, altrimenti, la definizione immediata dei giudizi tributari mediante la dichiarazione di estinzione oppure mediante la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi per carenza sopravvenuta di interesse». La previsione normativa della cui interpretazione si chiede di investire le Sezioni unite recita: «Nella dichiarazione di cui al comma 235 [diretta a «manifesta(re) al- l’agente della riscossione la sua volontà di procedere alla definizione» agevolata] il debitore indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi, che, dietro presentazione di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi dal giudice. l’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati; in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti». Le perplessità ermeneutiche investono, in particolare, il rapporto fra la procedura di definizione agevolata e il giudizio che abbia ad oggetto la pretesa impositiva oggetto della prima e, in particolare, come si coordinino la previsione della sospensione necessaria del giudizio e la rinuncia allo stesso formulata nella richiesta di adesione alla procedura, specie a fronte del secondo (*) Avvocato dello Stato. (1) L’udienza è stata fissata davanti alle Sezioni unite per il giorno 8 luglio 2025 (Ct. 26951/21, avv. Stato M.L. Cherubini). rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 alinea della disposizione che subordina l’estinzione del giudizio “all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati”. La questione si inscrive nell’ambito della procedura della c.d. “rottamazione quater” (con il termine “rottamazione” ci si riferisce, infatti, colloquialmente alla definizione agevolata dei carichi pendenti che siano già stati affidati dall’ente impositore all’Agente della riscossione), che consente ai contribuenti di definire i carichi affidati all’Agenzia delle entrate-riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022, pagando esclusivamente l’imposta principale, le spese per eventuali procedure esecutive e i diritti di notifica, con l’esonero, invece, dal pagamento di sanzioni, interessi e aggio. Si tratta di problematica sorta in questi termini solo in occasione della procedura di “rottamazione quater” e non, invece, per le precedenti “rottamazioni”. nella prima “rottamazione”, di cui al d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito con modificazioni dalla L. 1° dicembre 2016, n. 225 (art. 6), e nella successiva “rottamazione bis”, di cui al d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla L. 4 dicembre 2017, n. 172 (art. 1, che disciplina la procedura estendendo gli effetti temporali della precedente “rottamazione” e, quindi, rinviando alla stessa) era, infatti, previsto l’impegno del debitore a rinunciare al giudizio pendente sul medesimo carico oggetto di definizione agevolata, rinuncia che, secondo il giudice della legittimità, era di per sé sufficiente a comportare l’estinzione del giudizio, senza necessità che l’ufficio attestasse la regolarità del pagamento (cfr., da ultimo, Cass., 6 novembre 2024, n. 28602), pagamento che, però, laddove nelle more intervenuto, avrebbe consentito la declaratoria della cessazione della materia del contendere (cfr., Cass., 3 ottobre 2018, n. 24083). Con riferimento alla “rottamazione ter”, di cui all’art. 3, d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, la giurisprudenza, nonostante la formulazione della disposizione fosse del tutto identica a quella oggetto in esame (2), si era, invece, attestata uniformemente su una interpretazione che riteneva sufficiente, ai fini della declaratoria di estinzione del procedimento, il perfezionamento della procedura amministrativa di definizione agevolata e la documentazione dei soli pagamenti già effettuati (cfr., Cass., 24 luglio 2024, n. 20626). (2) Così recitava, infatti, l’art. 3, comma 6, d.l. 119/2018: «Nella dichiarazione di cui al comma 5 il debitore indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi, che, dietro presentazione di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi dal giudice. l’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati; in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti». ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo Con riferimento alla c.d. “rottamazione quater”, la necessità di rimessione della questione alle Sezioni unite è giustificata, nell’ordinanza qui in commento, dalla esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di tre diversi orientamenti che possono essere riassunti come segue. Secondo una prima impostazione ermeneutica, ispirata al criterio strettamente letterale, in caso di adesione del contribuente alla procedura di definizione agevolata di cui ai commi 235 ss. (c.d. “rottamazione quater”), il processo dovrebbe essere sospeso sino al pagamento di tutte le somme dovute, nel caso di rateizzazione. una volta che il contribuente documenti l’avvenuta estinzione del debito, il giudizio potrà essere estinto; in caso contrario, «su istanza di una delle parti» l’ordinanza di sospensione sarà revocata con conseguente prosecuzione del procedimento giurisdizionale. Se tale lettura ha certamente il pregio di rispettare il dato letterale della disposizione de qua, la stessa è criticata da una seconda linea interpretativa, definibile come “costituzionalmente orientata”, che ritiene non conforme al principio di ragionevole durata del processo (anche in ossequio all’obiettivo di riduzione del contenzioso tributario perseguito nell’ambito del P.n.r.r.) una tesi che opini per la sospensione del giudizio sino all’intero adempimento del proprio debito da parte del contribuente, cui sarebbe rimessa arbitrariamente la scelta di proseguire o meno il giudizio. Secondo questa impostazione, affinché il giudice possa dichiarare l’estinzione del giudizio sarebbe sufficiente la produzione da parte del contribuente della domanda di adesione e di documentazione attestante il pagamento delle rate scadute sino a tale momento, non occorrendo, quindi, attendere l’adempimento integrale del debito da parte del contribuente. Si pone nell’alveo di questa seconda interpretazione anche il terzo orientamento individuato dalla Corte nell’ordinanza di rimessione, che però, adottando una chiave di lettura “sistematica” della disposizione de qua, ritiene che, una volta che il contribuente abbia aderito alla procedura di definizione agevolata e abbia, quindi, rinunciato ai giudizi pendenti che riguardino i crediti oggetto della medesima procedura, il ricorso da questi proposto dovrebbe essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, non rendendosi così necessaria neanche la produzione della documentazione attestante i pagamenti effettuati. La medesima questione è stata, poi, rimessa anche dalla Sez. III della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 8383 del 30 marzo 2025, che ha integrato il quesito appena riportato, chiedendo altresì che sia chiarito: -se il principio che le Sezioni unite sono chiamate ad enunciare trovi applicazione anche per «crediti diversi da quelli tributari e, soprattutto, come nella specie, restitutori o risarcitori»; -se l’estinzione del debito ai sensi dell’art. 1, comma 236, l. 197/2022 comporti o meno l’estinzione anche dell’obbligazione del coobbligato non rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 aderente alla procedura di “rottamazione delle cartelle di pagamento”, come previsto dall’art. 1, comma 202, l. 197/2022, nel diverso caso della definizione agevolata delle controversie tributarie dell’Agenzia delle entrate. Corte di cassazione, Sezione tributaria, ordinanza 5 marzo 2025 n. 5830 -Pres. G.M. Stalla, rel. G. Lo Sardo -Protom Group S.p.A. (avv. T. elefante) c. Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato) (r.g. 19326/2021); upfront Advisory s.r.l. (avv. T. elefante) c. Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato) (r.g. 19335/2021). riLevato CHe: 1. La “Protom Group s.p.a.” (nel procedimento iscritto al n. 19326/2021 r.G.) e la “upfront advisory s.r.l.” (nel procedimento iscritto al n. 19335/2021 r.G.) hanno proposto separati ricorsi -entrambi sulla base di quattro motivi -per la cassazione, il primo, della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria regionale della Campania il 5 gennaio 2021, n. 100/20/2021 e, il secondo, della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria regionale della Campania il 5 gennaio 2021, n. 93/20/2021, che -in controversie aventi a comune oggetto l’impugnazione dell’avviso di liquidazione n. 18/IT/000346/000/P001 della maggiore imposta di registro, per un totale di € 93.185,25, in relazione ad una permuta con conguaglio (a mezzo di rogito notarile del 28 dicembre 2017) tra la “Protom Group s.p.a.” e la “upfront advisory s.r.l.” -hanno rigettato, rispettivamente, la prima, l’appello proposto dalla “Protom Group s.p.a.” nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza depositata dalla Commissione tributaria provinciale di napoli il 15 luglio 2019, n. 8603/22/2019, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali e, la seconda, l’appello proposto dalla “upfront advisory s.r.l.” nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza depositata dalla Commissione tributaria provinciale di napoli il 22 marzo 2019, n. 3619/35/2019, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. 2. Con le predette sentenze, la Commissione tributaria regionale ha confermato le decisioni di prime cure -che avevano respinto i ricorsi originari delle contribuenti -sul comune rilievo che l’operazione realizzata non integrasse una semplice permuta (con conguaglio) di rami aziendali tra la “Protom Group s.p.a.” e la “upfront advisory s.r.l.” con pattuizione di uno dei reciproci trasferimenti a favore della “taurus s.r.l.”, bensì la sequenza di una permuta di rami aziendali tra la “Protom Group s.p.a.” e la “upfront advisory s.r.l.” e di una compravendita di ramo aziendale tra la “Protom Group s.p.a.” e la “taurus s.r.l.”. 3. L’Agenzia delle entrate ha resistito con separati controricorsi. 4. A seguito dell’emanazione di cartella di pagamento n. 06820200044348834001 in dipendenza dell’avviso di liquidazione in contestazione, con istanze depositate il 12 gennaio 2024, la “Protom Group s.p.a.” e la “upfront advisory s.r.l.” hanno chiesto di rinviare le cause a nuovo ruolo, avendo la “upfront advisory s.r.l.” aderito alla definizione agevolata dei «carichi affidati agli agenti della riscossione nel periodo compreso dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022» (c.d. “rottamazione quater”), ai sensi dell’art. 1, commi 231 -252, della legge 23 dicembre 2022, n. 197 (*), ed avendo la stessa ottenuto dall’Agenzia delle entrate -riscossione (*) rectius “legge 29 dicembre 2022, n. 197” (n.d.r.). ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo la rateizzazione massima del debito tributario (per un totale di diciotto rate, di cui due già corrisposte), per cui, in forza di ordinanze interlocutorie, la trattazione delle cause è stata differita all’adunanza camerale del 17 settembre 2024. 5. Con istanze depositate il 4 settembre 2024, le ricorrenti hanno chiesto un ulteriore rinvio delle cause a nuovo ruolo in attesa del perfezionamento della definizione agevolata a favore della coobbligata solidale aderente (stante il pagamento di cinque rate), venendo a scadenza l’ultima rata del piano di dilazione il 30 novembre 2027. 6. Indi, con ulteriori ordinanze interlocutorie, il collegio ha rinviato le cause a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza, anche al fine di addivenire ad una composizione dei diversi orientamenti sorti all’interno della Sezione Tributaria in ordine alla possibilità di una chiusura anticipata dei suddetti procedimenti. 7. Con conclusioni scritte ribadite in udienza, il Procuratore Generale si è espresso per la dichiarazione di estinzione dei suddetti procedimenti. 8. nelle more, le ricorrenti hanno depositato la quietanza di pagamento della sesta rata del piano di rateizzazione. ConSiDerato CHe: 1. Preliminarmente, si deve disporre la riunione tra i procedimenti iscritti ai nn. 19326/2021 r.G. e 19335/2021 r.G. (segnatamente, del secondo al primo, in base alla precedenza di iscrizione a ruolo), avendo entrambi per oggetto l’impugnazione del medesimo avviso di liquidazione della maggiore imposta di registro sul contratto stipulato tra le ricorrenti (art. 273, primo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 29, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). va segnalato, altresì, che la scelta di fissare -con ordinanza interlocutoria -la trattazione in pubblica udienza della questione specificata in appresso è stata seguita anche da altra Sezione di questa Corte (v. Cass., Sez. 3^, 29 novembre 2024, n. 30705). 2. Ancora, pur in assenza di una previsione normativa ad hoc, si può ritenere, con un’interpretazione analogica (per l’identità di ratio legis: art. 12, secondo comma, disp. prel. cod. civ.) dell’art. 1, comma 202, della legge 23 dicembre 2022, n. 197 (riguardante la definizione agevolata delle controversie tributarie), che in caso di coobbligazione solidale e di presentazione della dichiarazione di adesione alla “rottamazione quater” da parte di uno solo dei coobbligati, i pagamenti effettuati ai fini della rottamazione delle cartelle di pagamento liberano anche gli altri coobbligati non aderenti, i quali vengono a beneficiare dell’estinzione del procedimento. 3. Ciò posto, la decisione sull’istanza di definizione agevolata impone al collegio di valutare l’esatta portata dell’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, a tenore del quale: «Nella dichiarazione di cui al comma 235 [diretta a «manifesta(re) all’agente della riscossione la sua volontà di procedere alla definizione» agevolata] il debitore indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi, che, dietro presentazione di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi dal giudice. l’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati; in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti». In particolare, l’attenzione deve essere concentrata sull’operatività della fattispecie contrassegnata dalla dichiarazione di adesione del contribuente, in cui è specificata la volontà di rateizzare il debito, è indicato il numero delle rate di cui ci si intende avvalere ed è manifestato rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 l’impegno a rinunciare ai giudizi pendenti riguardanti detti carichi, e dalla correlativa comunicazione dell’agente della riscossione, in cui è cristallizzato l’importo dovuto e sono fissate le scadenze delle singole rate. A tale riguardo, si deve tener conto della relazione redatta dall’ufficio del Massimario e del ruolo di questa Corte il 16 dicembre 2024, n. 87 (su sollecitazione pervenuta con nota trasmessa dal Presidente della Sezione Tributaria il 13 settembre 2024). 4. La succitata disposizione trova il suo antecedente nell’art. 3, comma 6, del d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136 (portante la definizione agevolata dei carichi affidati all’agente della riscossione dall’1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2017 -c.d. “rottamazione ter”), il quale pedissequamente stabiliva che: «Nella dichiarazione di cui al comma 5 il debitore indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi, che, dietro presentazione di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi dal giudice. l’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati; in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti». Diversamente, l’art. 6 del d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2016, n. 225 (portante la definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2016 -c.d. “prima rottamazione”), e l’art. 1 del d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172 (portante la definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1 gennaio al 30 settembre 2017 -c.d. “rottamazione bis”), non presentano disposizioni riferite espressamente all’estinzione del giudizio, per cui la giurisprudenza di legittimità ha affrontato prevalentemente la questione della natura giuridica della rinuncia del contribuente ai giudizi relativi ai carichi oggetto della procedura di definizione agevolata e della formula con cui definire il relativo giudizio. In proposito, dopo singoli arresti di diverso e vario tenore (Cass. Sez. 6^-5, 10 gennaio 2017, n. 5497; Cass., Sez. 5^, 20 gennaio 2017, n. 1507; Cass., Sez. 5^, 16 febbraio 2017, n. 4157), si è delineato un orientamento per il quale, a fronte della richiesta di cessazione della materia del contendere formulata dal contribuente che aveva aderito alla definizione agevolata, si è ritenuto che l’istanza dovesse essere «interpretata come rinuncia al ricorso», con effetto estintivo del processo ex art. 391 cod. proc. civ. (in termini: Cass., Sez. 5^, 27 aprile 2017, n. 10474; Cass. Sez. 6^-5, 3 ottobre 2018, n. 24083; Cass., Sez. Lav., 2 maggio 2019, n. 11540; Cass., Sez. 6^-5, 24 novembre 2020, n. 29293). Secondo tale indirizzo, il contribuente sarebbe titolare di un diritto potestativo che realizza un vero e proprio potere di conformazione, cioè di sostituire al regolamento della situazione sostanziale debitoria esistente ed eventualmente sub iudice, la nuova regolamentazione anche quantitativa del dovuto, imperniata sulle modalità di adempimento previste e da fissarsi dal- l’esattore e che una tale sostituzione non necessita dell’accettazione da parte dell’agente della riscossione essendo espressione di scelte di convenienza o comunque discrezionali: l’esattore ha, dunque, solo la possibilità di contestare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione della norma e dunque della ascrivibilità della dichiarazione alla previsione normativa, mentre al di fuori di queste ipotesi ha l’obbligo di dare corso alla richiesta del contribuente (Cass., Sez. 6^-5, 3 ottobre 2018, n. 24083). Siffatte argomentazioni, elaborate con riguardo alla prima rottamazione, sono state mutuate ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo in alcune decisioni riferite all’applicazione dell’art. 3, comma 6, del d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, nonostante tale ultimo impianto normativo presenti, come si è già evidenziato, analogamente a quello di cui alla legge 23 dicembre 2022, n. 197, l’elemento normativo innovativo di cui si è detto, ovvero delle disposizioni dedicate all’estinzione del giudizio. In particolare, si è ritenuto che il mancato pagamento integrale di quanto dovuto per la definizione agevolata non è ostativo alla dichiarazione di estinzione del giudizio, poiché in presenza della dichiarazione del debitore di avvalersi della definizione agevolata con impegno a rinunciare al giudizio, cui sia seguita la comunicazione dell’esattore ai sensi del comma 3 di tale norma, opera il meccanismo estintivo di cui si è sopra riferito ovvero il giudizio di cassazione viene dichiarato estinto, ex art. 391 cod. proc. civ., rispettivamente per rinuncia del debitore, qualora egli sia ricorrente, ovvero perché ricorre un caso di estinzione ex lege, qualora sia resistente o intimato (Cass., Sez. 5^, 6 dicembre 2023, n. 36431). Anche una successiva decisione, riguardante la presentazione di un’istanza ex art. 5 del d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, volta alla c.d. “rottamazione” per risorse proprie dell’unione europea, definibile però secondo la disciplina di cui all’art. 3 dello stesso decreto ovvero della c.d. “rottamazione ter”, nella quale si evidenzia che la fattispecie estintiva delineata dall’art. 3, comma 6, ha come elementi costitutivi, da un lato, la domanda di definizione agevolata del contribuente contenente l’impegno a rinunciare al giudizio e, dall’altro, l’accoglimento da parte dell’agente della riscossione della sua istanza, con individuazione delle somme da versare e delle (eventuali) rate in cui viene suddiviso il debito, configurandosi, dunque, una fattispecie di estinzione del giudizio ex lege (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). Con riguardo alla questione dell’eventuale necessità che il pagamento delle somme indicate nella comunicazione dell’agente della riscossione sia integrale ai fini dell’estinzione del giudizio, la Suprema Corte, tenuto conto della lettera della norma e delle varie fasi in cui si articola il procedimento, ha ritenuto che «il perfezionamento della definizione» si identifichi con l’accettazione da parte dell’amministrazione finanziaria dell’istanza del contribuente, corredata dall’impegno di quest’ultimo a rinunciare ai giudizi, attinendo il pagamento delle somme dovute al piano dell’adempimento dell’obbligo assunto con la dichiarazione, sicché l’eventuale mancato integrale pagamento non tocca la definizione agevolata che si è comunque perfezionata, quanto piuttosto i suoi soli effetti, determinando il potenziale avvio di nuove procedure riscossive (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). Quanto, poi, all’elemento della «produzione della documentazione attestante i pagamenti effettuati », la locuzione normativa farebbe riferimento non già al pagamento integrale del debito, quanto alla loro integralità rispetto al momento in cui viene fatta valere la fattispecie estintiva, «trattandosi di riscontro necessario perché la definizione agevolata sia, in quel momento, produttiva degli effetti processuali suoi propri, che restano distinti dall’effetto sostanziale dell’estinzione del debito, che, invece, richiede, ai sensi del successivo comma 14, l’integralità del pagamento» (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). A tale proposito, il menzionato arresto ha concluso che «occorre considerare che una lettura della norma di cui all’art. 3, comma 6, che richiedesse, ai fini dell’estinzione del giudizio, l’intero arco dei pagamenti concordati fra erario e contribuente finirebbe per immutare l’estinzione espressamente contenuta nel disposto normativo in una fattispecie implicita, e anomala, di “blocco” del giudizio stesso, al di fuori delle ipotesi di sospensione previste dal- l’ordinamento vigente. il processo verrebbe collocato in uno stato di peculiare quiescenza, destinato a protrarsi fino allo spirare del termine ultimo scandito da un piano di rateizzazione rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 concordato altrove, piano che, infine, si offrirebbe ad un accertamento banco judicis, non esplicitato dalla norma in esame e finalizzato ad appurare l’esecuzione completa e puntuale di tutti i versamenti pattuiti nel quadro della “rottamazione”. (...) in secondo luogo, l’interpretazione che postula la verifica dell’integralità del pagamento in sede giudiziale per accedere alla declaratoria di estinzione finisce per sovrapporre la fattispecie estintiva disegnata dall’art. 3, comma 6, cit. alla declaratoria di cessazione della materia del contendere, cui si assiste in caso di compiuto pagamento ed estinzione del debito» (Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20626). 5. medio tempore, è sopravvenuta la sentenza depositata dalla Corte Costituzionale il 28 novembre 2024, n. 189, la quale, tra l’altro, ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 198, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 111 Cost., sul rilevo conclusivo che «la declaratoria di estinzione del processo, che il comma 198 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 correla al deposito di copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, risulta frutto di una scelta non irragionevole nell’ottica di favorire l’immediata chiusura delle controversie tributarie pendenti e di incentivare i pagamenti non ancora eseguiti, e neppure comporta alcun effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa o lesione delle condizioni di parità delle parti nel processo». In particolare, tale decisione ha sottolineato che «la disciplina della definizione agevolata contenuta nei commi da 186 a 205 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 deve essere letta nell’ambito del più ampio contesto degli interventi di carattere strutturale attuativi degli impegni assunti nel P.N.r.r. e nel Piano nazionale degli investimenti complementari al P.N.r.r. e trova origine e giustificazione nella situazione critica dello stato del contenzioso tributario, risultante anche dalla relazione alla legge oggetto del presente giudizio», mettendo in risalto -in una prospettiva più ampia ed onnicomprensiva, destinata a coinvolgere anche la definizione agevolata dei carichi pendenti -che «(l)’evidente finalità principale di tale disciplina è, quindi, quella di conseguire rapidamente gli obiettivi di riduzione del numero dei giudizi tributari pendenti, in attuazione degli impegni assunti nel P.N.r.r. e nel Piano nazionale degli investimenti complementari al P.N.r.r.». 6. venendo all’esame del thema decidendum, il collegio è chiamato a stabilire, in caso di adesione del contribuente alla definizione agevolata per i carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1 gennaio 2000 al 30 giugno 2022, con piano di dilazione rateale e pagamento parziale del debito rateizzato, se e come il giudizio tributario (tanto in sede di legittimità, quanto in sede di merito) possa essere definito senza attendere l’esito conclusivo della rateizzazione concordata. Peraltro, l’importanza della risposta da dare al quesito è indirettamente evidenziata da un passo della relazione inaugurale della Prima Presidente della Corte Suprema di Cassazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2024, nell’Assemblea Generale del 24 gennaio 2025, che ha individuato (paragrafo 6) uno dei fattori ostativi alla decongestione del contenzioso tributario nel«la rateizzazione, nell’ambito delle procedure di c.d. rottamazione, del debito impositivo fino al 2028 con conseguente stato di quiescenza del processo, in contrasto con il principio di ragionevole durata applicabile anche al giudizio tributario». 7. In ordine all’esegesi dell’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, come si è già anticipato con le ordinanze interlocutorie del 7 ottobre 2024 nei procedimenti ora riuniti, si sono delineati orientamenti confliggenti in seno alla Sezione Tributaria di questa Corte. 7.1 Secondo un primo indirizzo (che è condiviso anche da altre Sezioni di questa Corte: Cass., ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo Sez. Lav., 8 agosto 2023, n. 24138; Cass., Sez. Lav., 7 agosto 2024, n. 22312; Cass., Sez. 2^, 16 luglio 2024, n. 19628), in apparente maggiore sintonia con il tenore letterale del dettato normativo (che prevede, da un lato, l’impegno a rinunciare ai giudizi pendenti aventi oggetto i carichi per i quali è intervenuta richiesta di definizione agevolata e, dall’altro, che l’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati), deve affermarsi che non sia possibile addivenire ad una dichiarazione di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere e che il giudizio va sospeso sino al 30 novembre 2027; per cui, nelle more del perfezionamento dell’adesione, la causa va rinviata a nuovo ruolo in attesa dell’esecuzione dei pagamenti previsti (in termini: Cass., Sez. Trib., 24 gennaio 2023, n. 2105; Cass., Sez. Trib., 21 agosto 2023, n. 24967; Cass., Sez. Trib., 4 ottobre 2023, nn. 27951 e 27954; Cass., Sez. Trib., 11 ottobre 2023, n. 28379; Cass., Sez. Trib., 19 febbraio 2024, nn. 4301, 4325 e 4301; Cass., Sez. Trib., 23 febbraio 2024, nn. 4839 e 4859; Cass., Sez. Trib., 21 marzo 2024, n. 7639; Cass., Sez. Trib., 25 marzo 2024, n. 8028; Cass., Sez. Trib., 7 maggio 2024, nn. 12325 e 12337; Cass., Sez. Trib., 20 maggio 2024, nn. 13980 e 13983; Cass., Sez. Trib., 21 maggio 2024, n. 14088; Cass., Sez. Trib., 12 giugno 2024, n. 16412; Cass., Sez. Trib., 30 giugno 2024, n. 16454; Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2024, n. 20649; Cass., Sez. Trib., 30 luglio 2024, n. 21405; Cass., Sez. Trib., 8 agosto 2024, n. 22397; Cass., Sez. Trib., 9 agosto 2024, n. 22658; Cass., Sez. Trib., 10 settembre 2024, n. 24274; Cass., Sez. Trib., 12 settembre 2024, n. 24479; Cass., Sez. Trib., 13 settembre 2024, n. 24585; Cass., Sez. Trib., 17 settembre 2024, n. 24933; Cass., Sez. Trib. 13 novembre 2024, n. 29343; Cass., Sez. Trib., 3 dicembre 2024, n. 30940). Siffatta conclusione sembrerebbe trovare conferma nella relazione illustrativa del disegno di legge, poi divenuto la legge 23 dicembre 2022, n. 197, che parafrasa le nuove norme e specifica che: «tali giudizi verranno sospesi dal giudice, fino al pagamento di quanto dovuto, dietro presentazione di copia della stessa dichiarazione. successivamente, il giudizio si estinguerà a seguito della produzione, a cura di una delle parti, della documentazione attestante i versamenti eseguiti per perfezionare la definizione. se invece le somme dovute non saranno integralmente pagate (e quindi, ai sensi del comma 14, la definizione non si perfezionerà), la sospensione del giudizio sarà revocata dal giudice su istanza di una delle predette parti». Secondo la relazione redatta in subiecta materia dall’ufficio del Massimario e del ruolo (paragrafo 5): «Pur non indugiando, all’evidenza, sul senso delle scelte lessicali compiute dal legislatore e soprattutto sulla loro possibile innovatività in rapporto con il testo delle precedenti rottamazioni, la citata relazione sembra affermare che le somme che il contribuente deve versare all’agente della riscossione siano funzionali all’effettivo perfezionamento della definizione agevolata e che, conseguentemente, il predetto pagamento degli importi dovuti non possa dirsi riferito al solo piano degli effetti della definizione agevolata». Analoghe conclusioni si possono trarre dal dossier della Camera dei Deputati e del Senato della repubblica sulla “legge di bilancio 2023” (dossier XIX^ Legislatura del 26 gennaio 2023). Anche in detto contributo, nella parte dedicata al commento all’art. 1, commi 1-368 (volume I°), infatti, pur non essendo presente una spiegazione esplicita delle norme in questione, si evidenzia che: «le disposizioni in commento chiariscono puntualmente le conseguenze della procedura di definizione agevolata sui giudizi pendenti. in particolare, tali giudizi sono sospesi dal giudice, fino al pagamento di quanto dovuto, dietro presentazione di copia della stessa dichiarazione. successivamente, il giudizio si estingue a seguito della produzione, a cura di una delle parti, della documentazione attestante i versamenti eseguiti per perfezionare la definizione. se, invece, le somme dovute non sono integralmente pagate, la rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 sospensione del giudizio viene revocata dal giudice su istanza di una delle predette parti» (pag. 304). ed anche la circolare emanata dall’Agenzia delle entrate il 27 gennaio 2023, n. 2/e (in materia di “legge 29 dicembre 2022, n. 197, (legge di bilancio 2023) -“tregua fiscale”), con riguardo alla c.d. “rottamazione quater” (paragrafo 9), si limita sostanzialmente a parafrasare il contenuto del comma 236 e, trattando il tema del mancato, tardivo o insufficiente versamento, superiore a cinque giorni, dell’unica rata ovvero di una di quelle in cui è stato dilazionato il pagamento delle somme dovute, specifica che si determina in questi casi «l’inefficacia della definizione». Dunque, dai lavori preparatori ed attuativi della legge 29 dicembre 2022, n. 197, non sembrano emergere utili spunti di carattere esegetico sul perfezionamento della definizione agevolata, che, invece, si ritrovano nella circolare emanata dall’Agenzia delle entrate l’8 marzo 2017, n. 2/e (in materia di “Definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2016 -art. 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193 -Chiarimenti”). In verità, pur riguardando la c.d. “prima rottamazione”, la quale, come si è detto, non conteneva disposizioni esplicite sull’estinzione dei giudizi tributari, tale documento ha precisato (paragrafo 4) che «la definizione agevolata si articola (...) in un procedimento che ha inizio con la presentazione all’agente della riscossione della dichiarazione del debitore con cui questi manifesta all’agente stesso la propria volontà di avvalersi della definizione agevolata e termina con il pagamento integrale e tempestivo di quanto dovuto». Di qui la conclusione che «la definizione si perfeziona non con la presentazione della dichiarazione o con il versamento della prima rata (in caso di opzione per il pagamento rateale), ma con il pagamento integrale e tempestivo delle somme dovute». Su tali premesse, l’ufficio del Massimario e del ruolo (paragrafo 5) ha manifestato la convinzione «che il legislatore (...) abbia sempre considerato il pagamento integrale delle somme dovute funzionale al perfezionamento della definizione agevolata e che, pertanto, in assenza di esso, non possa che essere vanificato l’effetto innescato con la presentazione da parte del contribuente della dichiarazione di avvalimento della definizione agevolata, riscontrata dalla comunicazione dell’agente della riscossione e con l’avvio dei pagamenti concordati (sospensione del giudizio, sospensione dei termini di prescrizione e decadenza per il recupero dei carichi oggetto di dichiarazione, divieto di iscrizione di nuovi fermi amministrativi e ipoteche e di avvio di nuove procedure esecutive o prosecuzione di quelle avviate) e destinato naturaliter a condurre all’estinzione del giudizio riguardante i carichi oggetto della definizione, con contestuale estinzione del debito erariale». né va sottovalutato che parte consistente della dottrina ritiene di optare per tale soluzione, sul presupposto che soltanto il puntuale e tempestivo versamento integrale dell’importo dovuto è condicio sine qua non per il perfezionamento della definizione agevolata, dovendosi intendere come comportamento concludente con il quale il contribuente manifesta la propria intenzione di rinunciare alla lite. 7.2 un secondo indirizzo, richiamandosi al principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), sulle premesse che il pagamento integrale non è presentato dalla norma quale requisito indispensabile per l’estinzione del giudizio, alla cui declaratoria sono sufficienti anche soltanto la domanda di adesione alla definizione agevolata e la documentazione di alcuni fra i pagamenti (quelli fino a quel momento effettuati), essendo gli altri importi, se del caso, procrastinati e diluiti nel tempo, e che neppure si può ritenere che il cronoprogramma pattuito dal contribuente con l’erario -che ha ad oggetto l’esecuzione ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo di un piano destinato a procrastinare i pagamenti nel tempo, rimodulando negozialmente tempi e modi di adempimento dell’obbligazione tributaria -possa riverberarsi nel processo vincolandone la dinamica in senso impeditivo all’estinzione, ha affermato il principio che, in tema di definizione agevolata dei carichi affidati all’agente della riscossione ex art. 1, commi 231 -252, della legge 23 dicembre 2022, n. 197 (c.d. “rottamazione-quater”), il comma 236 della norma delinea una fattispecie di estinzione del processo che non postula il pagamento del- l’intero ammontare dovuto in ragione del piano rateale concordato, presupponendo ex lege esclusivamente che si sia perfezionata la procedura amministrativa di rottamazione -in virtù della dichiarazione del contribuente di volersi avvalere della procedura, rinunciando ai giudizi in corso, seguita dalla comunicazione dell’agente della riscossione su numero, ammontare delle rate e relative scadenze -e che siano documentati in giudizio i soli pagamenti già effettuati con riferimento alla procedura di definizione prescelta (in termini: Cass., Sez. Trib., 30 agosto 2024, n. 23381; Cass., Sez. Trib., 11 settembre 2024, nn. 24428 e 24431; Cass., Sez. Trib., 26 settembre 2024, n. 27572; Cass., Sez. Trib., 13 dicembre 2024, n. 32376). Tale interpretazione si muove nel solco dell’orientamento formatosi nella giurisprudenza di questa Corte in relazione all’applicazione dell’art. 3, comma 6, del d.l. 23 ottobre 2018, n. 119 (c.d. “rottamazione ter ”) (menzionato al precedente punto 4), secondo cui è necessario distinguere la fase del perfezionamento della definizione agevolata dalla fase della sua efficacia: per effetto della dichiarazione di adesione, seguita dalla comunicazione formale del- l’agente della riscossione, la procedura di “rottamazione ” si perfeziona, rimanendo i pagamenti una mera appendice esecutiva di un procedimento concluso e definito. La locuzione normativa farebbe, dunque, riferimento non già al pagamento integrale del debito, ma alla integralità dei pagamenti rispetto al momento in cui viene fatta valere la fattispecie estintiva, trattandosi di riscontro necessario perché la definizione agevolata sia, in quel momento, produttiva degli effetti processuali suoi propri, che restano distinti dall’effetto sostanziale del- l’estinzione del debito, che, invece, richiede, ai sensi del comma 244 dell’art. 1 (e del comma 14 dell’art. 3) l’integralità del pagamento. Secondo la relazione redatta in subiecta materia dall’ufficio del Massimario e del ruolo (paragrafo 5): «Detto orientamento valorizza, (...) innanzitutto il dato rappresentato dal fatto che la rottamazione quater prevede, alla pari delle precedenti, il necessario preliminare incontro delle volontà delle due parti interessate e che tale elemento potrebbe indurre a sostenere che la rottamazione, essendo riconducibile alla generale categoria dell’accordo tra le parti, si perfezioni, alla pari di qualsivoglia altro accordo, con lo scambio delle manifestazioni di volontà dei soggetti interessati e dunque, nel caso di specie, quando l’agente della riscossione, verificata la ricorrenza dei presupposti per l’accesso alla definizione agevolata, ne dà comunicazione al contribuente». Peraltro, a favore di tale soluzione, si potrebbe sostenere che, quando il legislatore ha inteso identificare il momento perfezionativo della definizione agevolata e/o ancorarla al pagamento integrale degli importi dovuti, nel corpo della stessa legge 23 dicembre 2022, n. 197, lo ha fatto espressamente. Così, con riguardo alla definizione agevolata delle controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia delle entrate ovvero l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello innanzi alla Corte di cassazione, il comma 194 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2022, n. 197, specifica che: «la definizione agevolata si perfeziona con la presentazione della domanda di cui al comma 195 e con il pagamento degli importi dovuti ai sensi dei commi da 186 a 191 entro il 30 settembre 2023». rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 ed ancora, in alternativa alla definizione agevolata di cui ai commi da 186 a 204, il comma 213 prevede per le controversie tributarie pendenti, alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 2022, n. 197, innanzi alla Corte di cassazione, in cui è parte l’Agenzia delle entrate ed aventi ad oggetto atti impositivi, che il ricorrente «può rinunciare al ricorso principale o incidentale a seguito dell’intervenuta definizione transattiva con la controparte, perfezionatasi ai sensi del comma 215», comma che chiarisce che «(l)a definizione transattiva si perfeziona con la sottoscrizione e con il pagamento integrale delle somme dovute entro venti giorni dalla sottoscrizione dell’accordo intervenuto tra le parti». In proposito, l’ufficio del Massimario e del ruolo ha significativamente segnalato (paragrafo 5) che: «se è vero che nei casi da ultimo richiamati, si discute di definizione agevolata delle controversie pendenti dinanzi ai giudici tributari o alla Corte di cassazione o di definizione transattiva di tali controversie, e dunque di strumenti diversi rispetto alla definizione agevolata dei carichi affidati all’agente della riscossione, appare in ogni caso d’interesse il dato della scelta del legislatore di esplicitare in tali ipotesi la modalità con cui si perfeziona la definizione e la necessità del pagamento integrale degli importi dovuti a tali fini, scelta non compiuta nel caso della definizione agevolata che ci occupa, laddove il legislatore, come più volte evidenziato, ha utilizzato le equivoche espressioni “effettivo perfezionamento della definizione agevolata” e “documentazione attestante i pagamenti effettuati” e non già “integrali” ». Inoltre, «nessun danno verrebbe arrecato all’erario, poiché il comma 244 dell’art. 1 della l. n. 197 prevede che in caso di insufficiente, ritardato o omesso pagamento degli importi pattuiti, la definizione non produce effetti, riprendono a decorrere i termini di prescrizione e di decadenza per il recupero dei carichi oggetto della dichiarazione, gli eventuali versamenti effettuati sono acquisiti a titolo di acconto dell’importo complessivamente dovuto e l’agente della riscossione prosegue l’attività di recupero del debito residuo, previsioni che valgono, pertanto, a porre al riparo l’amministrazione finanziaria da dichiarazioni dei contribuenti non sostenute da una seria volontà di adempiere agli impegni assunti». Da ultimo, la tesi dell’estinzione anticipata del giudizio tributario rispetto all’esaurimento della rateizzazione concordata sarebbe più coerente con l’obiettivo indicato dal P.n.r.r. (paragrafo 2/A) di un celere smaltimento del contenzioso tributario attraverso «interventi (...) rivolti a ridurre il numero di ricorsi alla Cassazione, a farli decidere più speditamente, oltre che in modo adeguato». In tal senso, il citato documento dell’ufficio del Massimario e del ruolo (paragrafo 6) ha rimarcato che: «una tale opzione ermeneutica potrebbe valorizzare la duplice ratio della misura in parola che è, infatti, sì volta a favorire la riscossione dei tributi ma ha anche la natura di strumento deflattivo. ed invero, soprattutto la rottamazione quater, in modo più spiccato rispetto alle precedenti, in considerazione degli obiettivi del P.N.r.r. riguardanti il settore “giustizia”, ha lo scopo di ridurre il carico del contenzioso tributario, obiettivo che sarebbe inevitabilmente frustrato dalla necessità di mantenere quiescente un numero rilevante di giudizi, tramite la loro sospensione, in astratto, fino al 2028, in attesa dell’integrale pagamento delle somme dovute da parte dei contribuenti». 7.3 Secondo un terzo indirizzo (anche di recente condiviso da altre Sezioni di questa Corte: Cass., Sez. Lav., 28 settembre 2023, n. 27539; Cass., Sez. Lav., 8 gennaio 2024, n. 621; Cass., Sez. 2^, 6 novembre 2024, n. 28550; Cass., Sez. Lav., 4 dicembre 2024, n. 31001), nella fattispecie in disamina, si devono escludere tanto l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, che prevedendo la sospensione del giudizio «nelle more del pagamento delle somme dovute», presuppone l’integrale pagamento delle ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo rate dovute, quanto l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 390 cod. proc. civ., non essendo stata esplicitata alcuna rinunzia e non risultando neppure che il difensore sia munito di mandato speciale; l’istanza, però, rivela che è sostanzialmente venuto meno l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. in capo alla parte ricorrente, che, aderendo alla definizione agevolata, ha assunto comunque l’impegno a rinunziare ai giudizi pendenti, e ciò giustifica la pronuncia di inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse ad agire (in termini: Cass., Sez. Trib., 2 gennaio 2024, n. 46; Cass., Sez. Trib., 1 febbraio 2024, n. 3010; Cass., Sez. Trib., 26 febbraio 2024, n. 5011; Cass., Sez. Trib., 3 aprile 2024, n. 8784; Cass., Sez. Trib., 4 giugno 2024, n. 15587; Cass., Sez. Trib., 19 giugno 2024, n. 16951; Cass., Sez. Trib., 20 giugno 2024, n. 17125; Cass., Sez. Trib., 8 luglio 2024, nn. 18629 e 18658; Cass., Sez. Trib., 13 agosto 2014, n. 22821; Cass., Sez. Trib., 10 settembre 2024, n. 24333; Cass., Sez. Trib., 11 settembre 2024, n. 24423; Cass., Sez. Trib., 12 gennaio 2025, n. 780). Pur muovendo dall’implicita premessa che la formula decisoria dell’«estinzione del giudizio» tributario sia inscindibilmente collegata al completamento dei pagamenti rateizzati (in sintonia col testo letterale della norma richiamata), tale interpretazione perviene alla definizione anticipata della causa attraverso una soluzione alternativa di carattere strettamente processuale, che valorizza l’incidenza della mera adesione alla definizione agevolata sull’ulteriore sopravvivenza del giudizio tributario per la cessata conseguibilità di un’utilità residua dall’emanazione del provvedimento richiesto. 8. nessun contributo interpretativo pare, infine, derivare dal recente provvedimento legislativo di riammissione alla rateazione dei contribuenti già ammessi alla “rottamazione quater ” e poi da questa decaduti per inadempimento al 31 dicembre 2024 [art. 3-bis del d.l. 27 dicembre 2024, n. 202 (“Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”) convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2025, n. 15, in G.u., Serie Generale, 24 febbraio 2025, n. 45]. Si tratta, infatti, non di una nuova procedura di rottamazione, ma di un provvedimento di mera rimessione in termini (secondo le previgenti scadenze rateali) in continuità con la stessa procedura di “rottamazione quater ”, di cui mutua i medesimi caratteri fondamentali ed effetti estintivi sui processi pendenti, negli stessi dubitativi termini di cui si è dato conto. 9. Al fine di dare soluzione ad una questione di ordine processuale ed intersezionale di cui non può non evidenziarsi la particolare importanza, in relazione sia ai riflessi patrimoniali per i contribuenti, gli enti impositori e gli agenti della riscossione, sia alle ricadute deflattive sull’arretrato accumulato dalla giurisdizione in materia tributaria (sia di merito sia di legittimità), il collegio ritiene di dover rimettere la causa alla Prima Presidente della Corte Suprema di Cassazione affinché valuti la sua eventuale assegnazione alle Sezioni unite Civili, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, ultima parte, cod. proc. civ., in relazione al quesito: “Se, ove il contribuente abbia dichiarato di aderire alla definizione agevolata per i carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1 gennaio 2000 al 30 giugno 2022 (c.d. “rottamazione quater”), con la proposta di un piano di dilazione rateale del debito e l’assunzione dell’obbligo di rinunciare ai giudizi tributari pendenti, procedendo all’adempimento parziale del debito rateizzato dopo la comunicazione favorevole dell’agente della riscossione, l’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, imponga la sospensione dei giudizi tributari fino all’integrale soddisfacimento del debito rateizzato ovvero consenta, altrimenti, la definizione immediata dei giudizi tributari mediante la dichiarazione di estinzione oppure mediante la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi per carenza sopravvenuta di interesse ”. P.Q.M. La Corte dispone la riunione dei ricorsi nn. 19326/21 rg e 19335/21 rg e rimette le cause così rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 riunite alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite Civili in ordine alla questione di massima di particolare importanza di cui in motivazione. Così deciso a roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 25 febbraio 2025. Corte di cassazione, Sezione terza, ordinanza 30 marzo 2023 n. 8383 -Pres. F. De Stefano, rel. C. valle -b.Y., P.L.M.A. (avv. F.S. Prattichizzo) c. Intesa Sanpaolo S.p.A. (avv. P. Cantore) e banca del Mezzogiorno Mediocredito Centrale S.p.A. (avv. L. Martucci); Agenzia delle entrate riscossione. ConSiDerato CHe Y.b. e L.M.A.P., quali garanti della F.I. Petroli, finanziata dalla Medio Credito Centrale S.p.a., tramite banche private, ai sensi della legge n. 662 del 1996, sono stati escussi con procedura esattoriale a seguito dell’inadempimento della debitrice principale; proposta da essi opposizione all’esecuzione dinanzi al Tribunale di Foggia, questa, nel contraddittorio con MCC S.p.a. e ubI banca S.p.a., è stata in parte dichiarata inammissibile e in parte rigettata; la Corte d’appello di bari, nel ricostituito contraddittorio con MCC S.p.a. e banca ubI S.p.a., con sentenza n. 1325 del 14 settembre 2022, ha rigettato l’impugnazione; avverso la sentenza della Corte territoriale propongono ricorso per cassazione, con cinque motivi, Y.b. e L.M.A.P.; rispondono con separati controricorsi MCC S.p.a. e banca Intesa S.p.a.; il ricorso è stato trattato all’adunanza camerale del 25 novembre 2024 e, all’esito, è stato rimesso alla pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria n. 30705 del 29 novembre 2024; il ricorso è stato, quindi, chiamato all’udienza pubblica del 26 marzo 2025 per la quale: il Procuratore Generale ha presentato conclusioni scritte per l’estinzione del giudizio o, in subordine, per il rinvio a nuovo ruolo in attesa della pronuncia delle sezioni unite su questione rimessa da altra Sezione di questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 5830 del 5 marzo 2025; i ricorrenti e la banca Intesa S.p.a. e il Medio Credito Centrale banca del Mezzogiorno S.p.a. hanno depositato memoria; nella memoria difensiva depositata dalla difesa dei ricorrenti per l’adunanza del 25 novembre 2024 è stato dedotto -e provato con allegazione di documentazione apposita -che, con domanda presentata telematicamente in data 28 giugno 2023 prot. n. W-2023062808239992, L.M.A.P. ha aderito alla definizione agevolata c.d. rottamazione quater, come disciplinata dall’art. 1, commi da 231 a 252, della legge n. 197 del 23 dicembre 2022, in relazione alla cartella n. 04320160013629682001 oggetto della presente controversia; questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 30705 del 29 novembre 2024, deliberata all’esito dell’adunanza camerale del 25 novembre 2024, rimetteva il ricorso alla pubblica udienza, in ordine alla questione degli effetti dell’adesione alla procedura di definizione agevolata di cui all’art. 1, commi 231 e seguenti, della legge n. 197 del 2022 in quanto avente particolare rilevanza di diritto, anche alla stregua delle ordinanze di rimessione alla pubblica udienza già adottate da altra Sezione di questa Corte (per tutte: Cass. nn. 26437 e 26467 del 10 ottobre 2024, n. 27138 del 21 ottobre 2024, n. 27286 del 22 ottobre 2024); ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo la detta prospettazione dei ricorrenti è stata ribadita con la memoria per l’udienza pubblica; il Procuratore Generale ha ritenuto, nelle proprie conclusioni scritte, sussistenti i presupposti per la dichiarazione di estinzione con riferimento alla posizione di L.M.A.P.; la Medio Credito Centrale S.p.a. ha ribadito le conclusioni per il rigetto o l’inammissibilità del ricorso; la banca Intesa San Paolo S.p.a., anche quale incorporante ubS S.p.a. ha chiesto che nel caso di estinzione i ricorrenti siano condannati al pagamento delle spese di lite sulla base del criterio della soccombenza virtuale; nelle more della fissazione del ricorso in udienza pubblica altra sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 5830 del 5 marzo 2025, ha rimesso il ricorso n. r.G. 19326/2021, in materia tributaria, alla Prima Presidente in ordine alla questione del seguente tenore testuale: «se, ove il contribuente abbia dichiarato di aderire alla definizione agevolata per i carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1 gennaio 2000 al 30 giugno 2022 (c.d. “rottamazione quater”), con la proposta di un piano di dilazione rateale del debito e l’assunzione dell’obbligo di rinunciare ai giudizi tributari pendenti, procedendo all’adempimento parziale del debito rateizzato dopo la comunicazione favorevole dell’agente della riscossione, l’art. 1, comma 236, della legge 23 dicembre 2022, n. 197, imponga la sospensione dei giudizi tributari fino all’integrale soddisfacimento del debito rateizzato ovvero consenta, altrimenti, la definizione immediata dei giudizi tributari mediante la dichiarazione di estinzione oppure mediante la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi per carenza sopravvenuta di interesse »; la medesima questione è rilevante anche ai fini della definizione della posizione processuale del ricorrente P., che ha attivato il procedimento previsto dalla vista normativa, ove questa possa applicarsi anche ai crediti diversi da quelli tributari e, soprattutto, come nella specie, restitutori o risarcitori: punto sul quale pure vanno specificamente investite le Sezioni unite, onde evitare che la pronuncia già sollecitata dalla ricordata interlocutoria possa limitarsi ai crediti tributari, senza affrontare la tematica delle cartelle attivate per i crediti di natura diversa; nella richiamata ordinanza interlocutoria n. 5830 del 5 marzo 2025 si è, inoltre, alla pag. 2, affermato: «ancora, pur in assenza di una previsione normativa ad hoc, si può ritenere, con un’interpretazione analogica (per l’identità di ratio legis: art. 12, secondo comma, disp. prel. cod. civ.) dell’art. 1, comma 202, della legge 23 dicembre 2022, n. 197 (riguardante la definizione agevolata delle controversie tributarie), che in caso di coobbligazione solidale e di presentazione della dichiarazione di adesione alla “rottamazione quater” da parte di uno solo dei coobbligati, i pagamenti effettuati ai fini della rottamazione delle cartelle di pagamento liberano anche gli altri coobbligati non aderenti, i quali vengono a beneficiare dell’estinzione del procedimento»; la detta questione è posta, come sopra tratteggiata, ma non trasposta nella formulazione del quesito alle Sezioni unite ad opera della richiamata precedente ordinanza interlocutoria, anche nella presente controversia, nella quale, inoltre, si pone anche la questione della posizione dell’altra ricorrente, coobbligata solidale, nella specie Y.b., che, incontestatamente, non ha inteso addivenire alla definizione agevolata di cui alle più volte richiamate previsioni di legge, cosicché, qualora si dovesse addivenire alla soluzione dell’estinzione dell’obbligazione da parte del debitore principale o del coobbligato, la sua posizione, di fideiussore, potrebbe ancora ritenersi non definita; rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 la questione riveste, invero, notevole importanza, teorica e pratica, per l’ampiezza delle conseguenze sull’assetto, la durata e l’esito del contenzioso, seriale, per il concreto recupero dei crediti erariali non tributari: tanto da qualificarsi come questione di massima di particolare importanza; si ritiene, pertanto, che la causa debba essere trasmessa alla Prima Presidente, affinché valuti la rimessione alle Sezioni unite delle questioni delle conseguenze processuali dell’adesione del debitore alla c.d. rottamazione quater, come disciplinata dall’art. 1, commi da 231 a 252, della legge n. 197 del 23 dicembre 2022, nonché dell’estensione o meno della relativa disciplina ai crediti non tributari -e, nella specie, aventi ad oggetto il recupero di indebiti -e della posizione del coobbligato in via solidale col debitore principale -nella specie, quale fideiussore - che non abbia aderito alla definizione agevolata; p. q. m. rimette la causa alla Prima Presidente, affinché valuti la rimessione alle Sezioni unite. Così deciso in roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, Sezione III civile, in data 26 marzo 2025. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo L’inutilizzabilità dei documenti non prodotti nel procedimento tributario: disamina delle disposizioni di cui agli artt. 32 e 33 del d.P.r. 600/1973 Nota a Corte Di CassazioNe, sezioNe tributaria, orDiNaNza 5 aPrile 2025 N. 9001 Valentina Pilloni* sommario: 1. l’inutilizzabilità della documentazione tributaria non prodotta in sede procedimentale. Due fattispecie a confronto -2. l’ordinanza n. 9001/2025 della Corte di cassazione -2.1. i presupposti applicativi dell’inutilizzabilità prevista dall’art. 32 del d.P.r. 600/1973. Differenze e analogie con l’inutilizzabilità a seguito di accesso ispettivo -2.2 il regime giuridico dell’inutilizzabilità nel processo tributario. rapporti con l’inutilizzabilità penale. 1. l’inutilizzabilità della documentazione tributaria non prodotta in sede procedimentale. Due fattispecie a confronto. L’art. 32 del d.P.r. 600/1973, al quarto e quinto comma, stabilisce espressamente che: «4. le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. 5. le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma [ora quarto comma, n.d.r.] non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile». L’ambito di operatività di tale disposizione è esteso agli accertamenti compiuti in materia di imposta sul valore aggiunto dal penultimo comma del- l’art. 51 del d.P.r. 633/1972. A tale fattispecie si affianca quella ricavabile del combinato disposto di cui agli artt. 33, comma 1, d.P.r. 600/1973 e 52, comma 5 del d.P.r. 633/1972. Quest’ultima, in particolare, prevede testualmente che: «i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini del- l’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione». (*) Procuratore dello Stato. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 Tali disposizioni introducono nel sistema di accertamento delle pretese tributarie due ipotesi di inutilizzabilità della documentazione. In particolare, le fattispecie citate ricollegano il medesimo effetto preclusivo al ricorrere di presupposti diversi la cui declinazione è dal legislatore articolata sulla base del differente meccanismo accertativo impiegato dall’ufficio procedente. nell’ipotesi di accertamenti non implicanti l’accesso dei verificatori nella sede del contribuente, l’inutilizzabilità deriva dalla mancata trasmissione della documentazione richiesta dall’ufficio. In questo caso, pertanto, la norma attribuisce rilievo al contegno omissivo del destinatario dell’invito facendo da quest’ultimo discendere la preclusione probatoria prevista. L’inutilizzabilità potrà in tale ipotesi essere esclusa solo ove il ricorrente dimostri, già nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, di non aver potuto adempiere alle richieste dell’ufficio per causa a lui non imputabile. nel caso, invece, di accertamenti compiuti attraverso accesso ispettivo, l’inutilizzabilità è dalle disposizioni rilevanti ricollegata al rifiuto di esibizione serbato dal contribuente. Per espressa dizione normativa al rifiuto esplicito è equiparata la dichiarazione di non possedere la documentazione richiesta. Di tali fattispecie si è occupata la Corte di cassazione nella ordinanza 9001/2025. 2. l’ordinanza n. 9001/2025 della Corte di cassazione. Con tale pronuncia la Corte di cassazione, chiarito il discremen tra le due ipotesi di inutilizzabilità, ribadisce, con specifico riguardo all’omessa trasmissione della documentazione richiesta attraverso l’inoltro di questionari, quanto segue: «5.4. la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito, pertanto, che l’omessa o intempestiva risposta dei dati richiesti dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento fiscale comporta, ex art. 32, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, l’automatica inutilizzabilità, amministrativa e processuale, della documentazione prodotta tardivamente, in quanto la comminatoria è direttamente ed oggettivamente riferita alla sussistenza di tale condotta, non essendo richiesto alcun ulteriore meccanismo di attivazione di parte; al contrario, l’eventuale deroga all’inutilizzabilità, deve essere fatta valere dal contribuente con le modalità ivi previste entro il termine per il deposito dell’atto introduttivo di primo grado (Cass. 22 luglio 2020, n. 15600, Cass. 22 giugno 2018, n. 16548; Cass. 23 marzo 2016, n. 5734). Corollario dell’automatica inutilizzabilità della documentazione richiesta dai verificatori e non esibita dal contribuente è quindi l’operatività della conseguente preclusione processuale, anche a prescindere dalla proposizione, da parte dell’Ufficio, di una tempestiva eccezione. si è precisato, infatti, che, in tema di accertamento tributario, l’omessa o intempestiva esibizione da parte del contribuente di dati e documenti in sede amministrativa è sanzionata con ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo la preclusione processuale della loro allegazione e produzione in giudizio, che prevale anche rispetto all’art. 58, secondo comma, D.lgs. n. 546 del 1992, e che non può ritenersi sanata nemmeno ove l’amministrazione finanziaria non sollevi la relativa eccezione in sede di udienza di discussione della causa, atteso il carattere perentorio del termine di cui all’art. 32 d.P.r. n. 600 del 1973. Pertanto, l’omessa o intempestiva risposta è legittimamente sanzionata con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa e neppure trova applicazione l’art. 57 D.lgs. n. 546 del 1992, che non consente alle parti di proporre in appello (Cass. n. 1539 del 2024, Cass. n. 15600 del 2020 cit.,Cass. n. 16548 del 2018 cit.). È stato puntualizzato, però, che l’omessa esibizione, da parte del contribuente, dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, prevista dall’art. 32 d.P.r. n. 600 del 1973, solo in presenza dello specifico presupposto, la cui prova incombe sull’Amministrazione, costituito dall’invito specifico e puntuale all’esibizione, accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza; infatti, non può costituire rifiuto la mancata esibizione di qualcosa che non si è richiesto (Cass. n. 1539 del 2024 e Cass. 15600 del 2020, cit., Cass. 12 aprile 2017, n. 9487). Quanto alle caratteristiche del questionario, questa Corte ha ritenuto sufficientemente specifico un invito da cui emerga che la parte è stata espressamente invitata, con riferimento ai beni attinti dall’accertamento a depositare eventuale documentazione giustificativa di redditi esenti, assoggettati a ritenuta d’imposta, tassati con sistemi forfettari o disinvestimenti, smobilizzi, altre disponibilità anche provenienti da terzi ma messi a disposizione del contribuente così come previsto dall’art. 38 d.P.r. n. 600 del 1973 (Cass. n. 15600 del 2020, cit.)». La Corte, dunque, in linea di continuità con il proprio consolidato orientamento in materia, qualifica, in primo luogo, l’inutilizzabilità indagata come automatica giacché “la comminatoria è direttamente ed oggettivamente riferita alla sussistenza” del contegno omissivo del contribuente. Al contempo, stabilisce che tale preclusione può dirsi integrata solo ove il questionario trasmesso presenti un contenuto sufficientemente specifico in grado di consentire la qualificazione della condotta del contribuente in termini di contegno inadempiente anche alla luce del puntuale avvertimento fornito in merito alle conseguenze dell’inottemperanza. Da ultimo, la Corte -nel declinare le conseguenze dell’inadempimento e, parallelamente, il regime dell’inutilizzabilità -ricorda che costituisce corollario dell’automaticità di tale effetto preclusivo la sua produzione a prescindere dalla proposizione, da parte dell’ufficio, di una tempestiva eccezione con ciò che ne consegue circa la sottrazione di tali documenti alle regole probatorie previste in via generale dalle norme del processo tributario. rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 2.1. i presupposti applicativi dell’inutilizzabilità prevista dall’art. 32 del d.P.r. 600/1973. Differenze e analogie con l’inutilizzabilità a seguito di accesso ispettivo. Come suggerito dal medesimo iter argomentativo della pronuncia, una piena comprensione della fattispecie di inutilizzabilità contemplata dal già citato art. 32 passa per il raffronto tra quest’ultima e quella prevista dal successivo art. 33, letto in combinato disposto con l’art. 52, comma 5 del d.P.r. 633/1972. Muovendo dalla corretta individuazione del presupposto posto a fondamento dell’inutilizzabilità prevista in caso di accesso ispettivo è, infatti, possibile ricavare, quasi sulla base di una logica a contrario, quali connotati debba avere, invece, la condotta cui l’art. 32, comma 1 ricollega l’effetto ivi previsto. In quest’ordine di idee, occorre, dunque, ricordare, in aderenza con quanto affermato nella pronuncia in commento, che il proprium dell’inutilizzabilità conseguente all’accesso ispettivo è rappresentato dall’intenzionalità del rifiuto. In questi termini, significativo appare quanto statuito dalla Corte di cassazione nella pronuncia n. 16757 del 14 giugno 2021 per cui l’art. 33 «prevede chiaramente come elemento essenziale della condotta che origina la preclusione quello della intenzionalità di non consentire l’esame della documentazione». Tale preclusione può, dunque, dirsi sussistere solo al ricorrere di tre concorrenti elementi connotanti la dichiarazione resa dal contribuente nel corso del- l’accesso ovvero «la sua non veridicità o, più in generale, il suo strutturarsi quale sostanziale rifiuto di esibizione, evincibile anche da meri indizi; la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa; ed il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento» (Cass., 20731/2019). nessun rilievo può, né deve, invece, essere attribuito all’intenzionalità ove l’inutilizzabilità derivi da accertamenti eseguiti a distanza (ex art. 32). In tal caso, infatti, l’effetto preclusivo deriva, come già anticipato, dal mero contegno inadempiente imputabile al contribuente. Il diverso atteggiarsi della fattispecie costitutiva della preclusione si ripercuote, inoltre, sulla corretta ripartizione dell’onere probatorio nelle due ipotesi. Difatti «qualora l’omessa esibizione della documentazione consegua all’invio di una apposita comunicazione o di questionario da parte dell’amministrazione finanziaria, è il contribuente a essere onerato della prova che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile, mentre, nel caso in cui la richiesta sia stata effettuata nell’ambito di una attività di esame e controllo svolta dai verificatori in sede di accesso presso il contribuente o in luoghi a questi collegati, è l’amministrazione finanziaria a essere onerata della prova della sussistenza dei presupposti sostanziali che rendono illegittimo il rifiuto» (Cass., 31345/2023). La rilevanza dell’elemento dell’intenzionalità incide, al contempo, sulla ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo corretta delimitazione delle condotte legittimanti l’operatività della preclusione nelle due fattispecie. Difatti, mentre l’inutilizzabilità intenzionale impone di escludere, necessariamente, dall’ambito di operatività della norma ogni rifiuto proveniente da un soggetto diverso dal contribuente nei cui riguardi dovrà poi formarsi la preclusione, non altrettanto può dirsi, invece, in relazione all’inutilizzabilità ricollegata al mero contegno omissivo imputabile del destinatario del questionario. In questi termini, interessante appare quanto affermato dalla Corte di cassazione nella pronuncia n. 2847/2022, la quale -premesso l’obbligo del curatore, cui sia stata trasmessa la documentazione contabile della società debitrice, di rispondere al questionario inoltrato dal Fisco -fa derivare la preclusione probatoria contemplata dall’art. 32 in commento dal contegno tenuto da un soggetto diverso rispetto al titolare del rapporto di imposta cui l’accertamento si riferisce. D’altra parte, la semplice imputabilità del contegno inadempiente al contribuente consente, inoltre, di ricollegare l’inutilizzabilità prevista dall’art. 32 anche alle ipotesi in cui la richiesta di informazioni, pur non conosciuta dal suo destinatario, sia entrata nella sua sfera di conoscibilità a norma del- l’art. 1335 c.c. In un suo precedente, infatti, la Corte di cassazione ha chiarito che «deve escludersi che il giudice d’appello abbia violato la norma di cui all’art. 32, ultimo comma, del citato D.P.r., atteso che: (a) l’unico motivo addotto dalla contribuente a giustificazione dell’inottemperanza alla richiesta di invio di documenti avanzata dall’ufficio era quello di non avere avuto conoscenza dell’invito a tal fine notificatole ai sensi del comma 1, n. 3) del menzionato articolo, perché da essa mai ricevuto; (b) la presunzione legale di conoscenza sancita dall’art. 1335 c.c. può derivare anche dal perfezionamento della procedura notificatoria tramite il meccanismo della compiuta giacenza (cfr. Cass. n. 19232/2018, Cass. n. 23260/2017, Cass. n. 14256/2007)» (Cass., 26133/2024). Deve, dunque, ritenersi che l’inutilizzabilità dell’art. 32 del d.P.r. 600/1973 possa dirsi integrata -in maniera non dissimile da quanto accade, mutatis mutandis, nell’ambito della responsabilità da inadempimento prevista dall’art. 1218 c.c. -ogniqualvolta la causa che ha impedito di dar seguito alla trasmissione della documentazione richiesta sia imputabile al contribuente non rilevando, a tal fine, l’elemento soggettivo che accompagna il contegno omissivo ai fini del perfezionarsi dell’effetto preclusivo. Tali annotazioni consentono di ritenere non condivisile la tesi, pur rinvenibile in alcuni precedenti della Suprema Corte (si veda, in tal senso, da ultimo Cass., 20731/2019 emessa con specifico riguardo alle ipotesi di accesso ispettivo) per cui la compatibilità con gli artt. 24 e 53 Cost. della preclusione indagata riposerebbe, necessariamente, nella manifestazione di un contegno intenzionale non potendo dirsi a tal fine sufficiente «il mancato possesso im rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 putabile a negligenza o imperizia nella custodia e conservazione della documentazione contabile». occorre a tal proposito ricordare che la verifica in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 4 e 5, del d.P.r. 600/1973 è stata devoluta al sindacato della Corte costituzionale in almeno due occasioni. Ci si riferisce, in particolare, ai procedimenti incidentali definiti rispettivamente con l’ordinanza n. 181/2007 e con la sentenza n. 26/2015. Con la prima pronuncia, la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione deferitale, con riguardo all’art. 53 Cost., affermando espressamente che «la preclusione prevista dalla norma censurata, risolvendosi in un divieto di allegazione in giudizio dei dati e dei documenti non forniti dal contribuente in risposta all’invito dell’amministrazione finanziaria, opera sul piano esclusivamente processuale ed è perciò inidonea a menomare il principio di capacità contributiva». La seconda, invece, esitata nella declaratoria di inammissibilità della questione (per erronea individuazione della norma tacciata di sospetta incostituzionalità), ha, comunque, avuto modo di affermare, seppur con statuizione non espressa, che la preclusione processuale indagata può derivare, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, anche da un contegno omissivo meramente colposo del contribuente. Può, pertanto, ritenersi che la compatibilità costituzionale dell’inutilizzabilità contemplata dall’art. 32 in commento non poggi sulla volontarietà della condotta omissiva tenuta, bensì sull’accertata imputabile violazione del dovere collaborativo sorto a seguito della puntuale e specifica richiesta trasmessa dall’ufficio. Tale lettura appare, inoltre, coerente con l’obbligo di collaborazione previsto dall’art. 10, comma 1 (1), dello Statuto del contribuente inserendosi, a pieno titolo, nell’assetto relazionale da esso inaugurato. 2.2 il regime giuridico dell’inutilizzabilità nel processo tributario. rapporti con l’inutilizzabilità penale. Dalla trattazione che precede emerge, dunque, come entrambe le disposizioni esaminate contemplino, seppur al ricorrere di presupposti diversi, il medesimo effetto tipico ovvero l’inutilizzabilità, a favore del contribuente (e, pertanto, relativa-soggettiva), della documentazione puntualmente richiesta e non trasmessa a seguito dell’esplicito invito, in tal senso, da parte dell’ufficio. Deve, dunque, ritenersi che il minimo comune denominatore delle fattispecie indagate sia costituito dall’identità dell’effetto derivante dal perfezionamento degli elementi costitutivi declinati nelle due norme. La non assoggettabilità dei documenti inutilizzabili alle disposizioni con (1) L’art. 10, comma 1, della Legge 212/2000 dispone: “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo template dalla disciplina del processo tributario (sia sotto il profilo della deduzione dell’effetto in giudizio che in relazione alla inoperatività, nel caso di specie, delle ordinarie regole probatorie), non può essere, invero, fatta derivare dal particolare riparto dell’onere probatorio contemplato dall’art. 32 trattandosi invece di una conseguenza insita nell’inutilizzabilità in quanto tale. Le due ipotesi di decadenza sopra richiamate connotano lo statuto stesso dell’inutilizzabilità tributaria, dovendo queste essere ravvisate anche nelle ipotesi in cui (così come accade nei casi di accesso ispettivo), l’effetto preclusivo derivi da una fattispecie il cui accertamento richieda l’attivazione dell’ufficio al fine di fornire prova della condotta dalla quale deriva. D’altra parte, tali peculiarità paiono essere necessariamente correlate alla portata extra processuale della preclusione indagata. Difatti, come desumibile chiaramente dal tenore letterale delle disposizioni rilevanti, l’inutilizzabilità della documentazione favorevole al contribuente non opera, in via esclusiva, nell’eventuale giudizio tributario instaurato con l’impugnazione dell’atto impositivo, ricorrendo già nella fase procedimentale così da precludere, anche in quella sede (ad esempio in tema di accertamento per adesione), l’impiego dei documenti non tempestivamente trasmessi. I confini della fattispecie, esorbitanti dall’ambito esclusivamente processuale, non possono che rendere la stessa tendenzialmente insensibile alle dinamiche che, in via generale, governano la produzione di documentazione nel processo. Significativo, in questa prospettiva, appare quanto stabilito dal neo introdotto art. 10-quater, comma 1, lett. g) della legge n. 212/2000: la fattispecie di autotutela obbligatoria ivi contemplata, infatti, non trova applicazione nelle ipotesi in cui la produzione della documentazione attestante la natura indebita della pretesa veicolata nell’atto impositivo sia ormai preclusa dal perfezionarsi delle decadenze contemplate dalla legge. Tale disposizione attesta, ancora una volta, la portata onnicomprensiva dell’inutilizzabilità probatoria dando prova della non impiegabilità della documentazione per cui siano venute a perfezionarsi le decadenze previste dalla legge, neppure al fine di far sorgere il dovere di autotutela previsto, altrimenti, in via generale. Attraverso la previsione del concetto di inutilizzabilità nell’ambito del diritto tributario, il Legislatore ha inteso dunque, sulla falsariga di quanto accaduto con riguardo al processo penale attraverso il Codice del 1988 (2), in (2) Come è noto, invero, la sanzione dell’inutilizzabilità è stata introdotta dal Legislatore processual- penalistico del 1988 con il fine precipuo di individuare una causa di invalidità che, sottraendo alcune violazioni alla categoria della nullità e alle dinamiche che le sono proprie (in primis, i meccanismi della sanatoria e decadenza contemplati dalle pertinenti disposizioni processuali), rendesse non impiegabile, in via generale, il risultato probatorio acquisito in violazione dei divieti previsti dalla legge. Come precisato, infatti, anche di recente dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 219/2019 «la scelta del legislatore è stata quella di introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo in tal modo net rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 trodurre una causa di invalidità degli atti alternativa rispetto alla mera decadenza o nullità, la quale rendesse definitivamente non impiegabile il risultato probatorio acquisito ai fini dell’accertamento compiuto sottraendo la prova irregolare ad ogni forma di sanatoria o rimessione in termini (così si spiega l’inoperatività, nel caso di specie, del disposto di cui all’art. 58, comma 2, del D.Lgs. 546/1992 ratione temporis vigente ribadita dalla pronuncia in commento). Tale osservazione consente di ritenere che le norme contemplate dagli artt. 32 e 33 del d.P.r. 600/1973, e dalle disposizioni omologhe in materia di IvA, introducano ipotesi di inutilizzabilità tributaria che si affiancano alle inutilizzabilità processual-penalistiche ribadendo il doppio-binario già ravvisato, anche sul punto, dalla consolidata giurisprudenza dalla Suprema Corte in materia. A tal fine è interessante richiamare quanto affermato sul tema da Cass. 31243/2019 (conforme a numerose altre) a mente della quale «l’amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, ancorché acquisito illegittimamente secondo l’ordinamento processuale penale, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, stante la netta differenziazione tra processo penale e tributario, secondo un principio sancito non solo dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), ma anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale». Tuttavia su tale assetto ordinamentale potrebbe incidere quanto previsto dal nuovo art. 7-quinquies della legge 212/2000, secondo cui «non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5, o in violazione di legge». La norma sembrerebbe rendere non utilizzabile (questa volta a favore del contribuente, ma forse anche a suo carico), ai fini tributari, ogni prova acquisita in contrasto con la legge. L’ampliamento della categoria dell’inutilizzabilità sembra emergere dal confronto tra il testo finale della disposizione con la versione che figurava nello schema di decreto legislativo recato nell’atto del Governo del 30 novembre 2023 n. 97. La norma originariamente proposta, uniformandosi alla giurisprudenza poc’anzi richia tamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla eventuale violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto». ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo mata, prevedeva infatti che «non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini previsti dallo statuto del contribuente per l’esecuzione di verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria (di cui all’articolo 12, comma 5 della medesima legge n. 212 del 2000), o in violazione di libertà costituzionalmente riconosciute ». occorrerà, pertanto, comprendere quale interpretazione della disposizione offrirà la giurisprudenza al fine di verificare la persistenza, in materia, del doppio-binario sopra richiamato. Corte di cassazione, Sezione Quinta, ordinanza 5 aprile 2025 n. 9001 -Pres. L. napolitano, rel. r. Angarano -P.M. e C.L., nella dichiarata qualità di ex soci della Admen s.r.l. in liquidazione (avv. S. Chiessi) c. Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato). rilevato che: 1. In data 30 gennaio 2013 l’Agenzia delle entrate notificava alla Admen Pubblicità s.r.l. esercente l’attività di studi di promozione pubblicitaria -cancellata dal registro delle imprese in data 15 luglio 2014 -avviso di accertamento con il quale recuperava una maggiore Ires e una maggiore Irap. L’ufficio rilevava la mancata dichiarazione, con riferimento all’anno 2006, dei redditi derivanti dalla vendita di immobili ad uso ufficio avvenuta nelle date del 14 luglio 2006 e del 2 novembre 2006. Per l’effetto, con processo verbale di constatazione del 30 ottobre 2012, contestava l’omessa istituzione tenuta e conservazione delle scritture contabili, l’omessa presentazione della dichiarazione annuale delle imposte sui redditi per l’anno d’imposta 2006, la mancata dichiarazione di ricavi per euro 570.000,00. Di conseguenza accertava una maggiore Ires di euro 188.100,00 ed una maggiore Irap di euro 24.225,00. 2. L’atto impositivo veniva impugnato innanzi alla C.t.p. Di Milano dalla società in persona del liquidatore M.P. ed anche da quest’ultimo in proprio. 3. La C.t.p. rigettava il ricorso. 4. Avverso detta sentenza spiegavano appello sia la società che M.P. in proprio. Il giudizio, dichiarato interrotto all’udienza del 13 Aprile 2015 in ragione della cancellazione della società dal registro delle imprese, veniva successivamente riassunto da M.P. e L.C. quali ex soci della società ormai estinta. La C.t.r. rigettava l’appello. Avverso detta sentenza ricorrono entrambi i soci e l’Agenzia delle entrate resiste a mezzo controricorso. Considerato che: 1. I contribuenti propongono cinque motivi. 1.1. Con il primo motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione, dell’art. 43, comma 3 d.P.r. 29 settembre 1973 n. 600 e dell’art. 57, comma 3 d.P.r. 26 ottobre 1972 n. 633, così come modificati dall’art. 1, comma 132, legge 31 dicembre 2015 n. 207. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto applicabile per l’accerta rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 mento il c.d. termine raddoppiato, nonostante la mancata presentazione di denuncia di reato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. 1.2. Con il secondo motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione, dell’art. 43, comma 2, d.P.r. n. 600 del 1973 e dell’art. 57 comma 3, d.P.r. n. 633 del 1972. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto applicabile per l’accertamento il c.d. termine raddoppiato, senza accertare se sussistevano, almeno astrattamente, i presupposti per l’obbligo di presentazione di denuncia ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. per qualcuno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. 1.3. Con il terzo motivo denunciano violazione o falsa applicazione, ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. Censurano la sentenza nella parte in cui, ai fini dell’applicazione del termine raddoppiato, ha ritenuto provata la presentazione di denuncia da parte dell’Amministrazione, circostanza meramente dedotta ex adverso. 1.4. Con il quarto motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione, dell’art. 43, comma 3, d.P.r. n. 600 del 1973 e dell’art. 57, comma 3, d.P.r. n. 633 del 1972. Censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile il raddoppio dei termini anche all’accertamento relativo all’Irap. 1.5. Con il quinto motivo denunciano, ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e, comunque, ex art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 39, comma 2, d.P.r. n. 600 del 1973. Premesso che l’ufficio aveva fatto ricorso al metodo dell’accertamento induttivo puro in ragione della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, censurano la sentenza impugnata per aver omesso di esaminare un fatto decisivo, ovvero la possibilità di dedurre i costi sostenuti dalla società, non documentati in fase di accertamento, ma comunque provati in corso di causa. Censurano, altresì, la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sulla possibilità di documentare i costi sostenuti in sede contenziosa laddove non fosse stato possibile farlo in fase di accertamento in quanto non vi era stata da parte degli organi accertatori alcuna richiesta di produzione documentale. Precisano, in particolare, che gli organi accertatori non avevano mai espressamente richiesto l’esibizione delle fatture d’acquisto e gli altri costi documentati relativi ai ricavi corrispondenti alle due fatture dalle quali era scaturito l’accertamento. 2. I primi tre motivi vanno esaminati congiuntamente in quanto hanno ad oggetto la sussistenza dei presupposti per il c.d. raddoppio dei termini di accertamento. I motivi sono infondati, se pure la motivazione va corretta ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ. 2.1. In ordine alla disciplina applicabile alla fattispecie, va evidenziato che l’avviso di accertamento è stato notificato il 30 dicembre 2013. vigeva, pertanto, il regime transitorio di cui al d.lgs. n. 128 del 1015 che faceva salvi, quanto alla disciplina dei termini di accertamento, gli avvisi di accertamento già notificati alla data di sua entrata in vigore. Si applica, pertanto, l’art. 43, comma 3, d.P.r. n. 600 del 1973 e l’art. 57, comma 3, (commi inseriti dall’art. 37 commi 24, e 25 d.l. n. 223 del 2006, convertito con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, in vigore dal 4 luglio 2006) i quali prevedono che, in caso di violazione ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ. per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, i termini di cui ai commi precedenti (cioè, in caso di presentazione della dichiarazione, il termine del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, nonché, in caso di omessa presentazione della dichiarazione, il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata) sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione. 2.2. Il raddoppio dei termini -come detto previsto per l’Irpef dall’art. 43, comma 3, d.P.r. n. 600 del 1973 e per l’Iva dall’art. 57, comma 3, del d.P.r. n. 633 del 1972 -consegue, nel- l’assetto anteriore alle modifiche sopra citate, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. I termini, così detti, «raddoppiati» non si innestano su quelli ordinari, ma operano autonomamente allorché si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 (tra le tante Cass. 20 dicembre 2022, n. 37252, Cass. 3 maggio 2018, n. 10483, Cass. 16 dicembre 2016, n. 26037). In particolare, come chiarito dalla Corte costituzionale, i termini ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia (Corte cost. 25 luglio 2011, n. 247). In altri termini, ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perché essa soltanto connota obiettivamente, sin dal- l’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini in misura doppia. La dizione legislativa rende chiaro che il raddoppio è legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale e non dipende dal suo accertamento in concreto. L’istituto presuppone la sussistenza dell’obbligo di presentazione della denuncia penale, a prescindere dall’esito del procedimento e nonostante l’eventuale estinzione del reato per archiviazione, rilevando solo l’astratta configurabilità di un illecito penale, atteso il regime c.d. del doppio binario tra giudizio penale e procedimento tributario (Cass. 15 settembre 2022 n. 27250). nello stesso senso si è aggiunto che il raddoppio dei termini, rilevando unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, opera nonostante l’eventuale prescrizione del reato (Cass. 11 aprile 2017, n. 9322). 2.3. Questa Corte ha chiarito, altresì, che ciò non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine ordinario fissato dalla legge, dovendo, al contrario, essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. Tuttavia, si è osservato, in proposito che la ratio sottesa all’istituto del raddoppio dei termini, di natura essenzialmente procedimentale, è quella di dare all’ufficio un tempo maggiore per gli accertamenti nei casi più gravi in cui gli elementi emersi presentino rilievo penale; che la possibilità che, proprio ad esito di quegli accertamenti e del contraddittorio endoprocedimentale, le iniziali emergenze vengano ridimensionate e l’atto impositivo si fondi su elementi privi di rilievo penale non può certamente implicare, a posteriori, il venir meno dei presupposti di applicazione del termine più lungo, salvo che non emerga un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un tempo più ampio (Cass. 14 luglio 2023, n. 20409). 2.4. nella fattispecie in esame non è controverso che alla società fossero state contestate rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 violazioni astrattamente idonee ad integrate uno dei reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000. In ragione di ciò i termini per l’accertamento erano soggetti al c.d. raddoppio restando irrilevante che fosse stata o meno presentata la denuncia di reato. 2.5. La C.t.r. nell’escludere la decadenza dal potere impositivo, se pure ha fatto riferimento alla effettiva presentazione della denuncia, che il ricorrente invece assume non essere stata documentata, ha comunque deciso conformemente alla giurisprudenza di legittimità. 3. Il quarto motivo, relativo ai termini per l’accertamento dell’Irap, è fondato. 3.1. In primo luogo va rigettata l’eccezione di inammissibilità sollevata dal controricorrente sul presupposto che si tratti di motivo nuovo. Il contribuente sin dal primo grado di giudizio ha sostenuto che l’ufficio era decaduto dal potere accertativo per decorso dei termini. Il motivo, pertanto, veniva formulato con riferimento ad entrambe le imposte oggetto di recupero e, come tale andava scrutinato. 3.2. Il c.d. «raddoppio dei termini» per la notifica, a pena di decadenza degli avvisi di accertamento, previsto dall’art. 43 d.P.r. n. 600 del 1973 in caso di violazione che comporti obbligo di denuncia per reati tributari non può trovare applicazione per l’Irap, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (Cass. 3 maggio 2018, n. 10483). 3.3. La C.t.r., nel ritenere che all’intero accertamento si applicasse il termine raddoppiato non si è attenuta a questi principi. 4. Il quinto motivo è inammissibile nella parte in cui si lamenta, ai sensi dell’art. 360 primo, comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in quanto la censura incorre nella preclusione derivante dalla c.d. «doppia conforme». 4.1. nell’ipotesi di «doppia conforme», prevista dall’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione -per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) -deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; in senso conforme: Cass. Sez. u. 21 settembre 2018, n. 22430). nella specie, posto che il giudizio d’appello è iniziato nel 2014, la doglianza è inammissibile poiché le decisioni dei gradi di merito, entrambe di rigetto (c.d. doppia conforme), si fondano sulle medesime ragioni di fatto e, del resto, parte ricorrente non ha nemmeno sostenuto il contrario. La sentenza di secondo grado, infatti, non ha fatto altro che esplicitare, per altro in maniera congrua e logica, il percorso motivazionale seguito dalla sentenza di primo grado per giungere, dai maggiori compensi accertati, rispetto a quelli dichiarati alla determinazione del maggiore reddito. 5. Il motivo è fondato, invece, nella parte in cui prospetta una violazione di legge. 5.1. non è controverso tra le parti che l’accertamento è stato condotto con il metodo c.d. induttivo puro ex art. 39, comma 2, lett. d), d.P.r. n. 600 del 1973 stante l’omessa presentazione delle dichiarazione dei redditi. 5.2. Questa Corte ha chiarito che, in ossequio al principio di capacità contributiva -l’Amministrazione deve tener conto non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi (Corte cost. n. 225 del 2005). L’Amministrazione finanziaria, in ConTenzIoSo TrIbuTArIo -oSServATorIo sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, tanto che, qualora per alcuni proventi non sia possibile accertare i costi, questi possono essere determinati induttivamente, perché diversamente si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anziché quello netto, in contrasto con il parametro costituzionale della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.» (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26748). 5.3. Quanto, poi, alla documentazione prodotta in sede giudiziale -con riferimento alla quale il contribuente si duole del silenzio serbato dalla C.t.r. in sentenza e sulla cui utilizzabilità vi è contrasto tra le parti -viene in rilievo l’art. 32 d.P.r. n. 600 del 1973 (richiamato dall’art. 51 d.P.r. n. 633 del 1972 quanto all’iva) il quale prevede che «le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti del- l’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. Le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile». non è pertinente, invece, l’art. 33 d.P.r. n. 600 del 1973 (di identico tenore dell’art. 52 c. 5 d.P.r. n. 633 del 1972 in materia di iva) secondo il quale «i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione». Detta ultima disposizione prevede chiaramente come elemento essenziale della condotta che origina la preclusione quello della intenzionalità di non consentire l’esame della documentazione e, infatti, trova applicazione ai soli casi di ispezione, con ciò intendendo l’attività di esame e controllo svolta dai verificatori in sede di accesso presso il contribuente o in luoghi a questi collegati, al di fuori dell’ufficio, non nei casi in cui i documenti sono richiesti con l’invio di apposita comunicazione o questionario ma senza introduzione e stazionamento per quanto necessario di personale dell’Amministrazione presso il soggetto sottoposto a controllo (Cass. 14 luglio 2021 n. 16757). 5.4. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito, pertanto, che l’omessa o intempestiva risposta dei dati richiesti dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento fiscale comporta, ex art. 32, quarto comma, d.P.r. n. 600 del 1973, l’automatica inutilizzabilità, amministrativa e processuale, della documentazione prodotta tardivamente, in quanto la comminatoria è direttamente ed oggettivamente riferita alla sussistenza di tale condotta, non essendo richiesto alcun ulteriore meccanismo di attivazione di parte; al contrario, l’eventuale deroga all’inutilizzabilità, deve essere fatta valere dal contribuente con le modalità ivi previste entro il termine per il deposito dell’atto introduttivo di primo grado (Cass. 22 luglio 2020, n. 15600, Cass. 22 giugno 2018, n. 16548; Cass. 23 marzo 2016, n. 5734). Corollario dell’automatica inutilizzabilità della documentazione richiesta dai verificatori e non esibita dal contribuente è quindi l’operatività della conseguente preclusione processuale, anche a prescindere dalla proposizione, da parte dell’ufficio, di una tempestiva eccezione. Si è precisato, infatti, che, in tema di accertamento tributario, l’omessa o intempestiva esibizione da parte del con rASSeGnA AvvoCATurA DeLLo STATo -n. 2/2024 tribuente di dati e documenti in sede amministrativa è sanzionata con la preclusione processuale della loro allegazione e produzione in giudizio, che prevale anche rispetto all’art. 58, secondo comma, d.lgs. n. 546 del 1992, e che non può ritenersi sanata nemmeno ove l’Amministrazione finanziaria non sollevi la relativa eccezione in sede di udienza di discussione della causa, atteso il carattere perentorio del termine di cui all’art. 32 d.P.r. n. 600 del 1973. Pertanto, l’omessa o intempestiva risposta è legittimamente sanzionata con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa e neppure trova applicazione l’art. 57 d.lgs n. 546 del 1992, che non consente alle parti di proporre in appello (Cass. n. 1539 del 2024, Cass. n. 15600 del 2020 cit., Cass. n. 16548 del 2018 cit.). È stato puntualizzato, però, che l’omessa esibizione, da parte del contribuente, dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, prevista dall’art. 32 d.P.r. n. 600 del 1973, solo in presenza dello specifico presupposto, la cui prova incombe sull’Amministrazione, costituito dall’invito specifico e puntuale all’esibizione, accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza; infatti, non può costituire rifiuto la mancata esibizione di qualcosa che non si è richiesto (Cass. n. 1539 del 2024 e Cass. 15600 del 2020, cit., Cass. 12 aprile 2017, n. 9487). Quanto alle caratteristiche del questionario, questa Corte ha ritenuto sufficientemente specifico un invito da cui emerga che la parte è stata espressamente invitata, con riferimento ai beni attinti dall’accertamento a depositare eventuale documentazione giustificativa di redditi esenti, assoggettati a ritenuta d’imposta, tassati con sistemi forfettari o disinvestimenti, smobilizzi, altre disponibilità anche provenienti da terzi ma messi a disposizione del contribuente così come previsto dall’art. 38 d.P.r. n. 600 del 1973 (Cass. n. 15600 del 2020, cit.). 5.5. La C.t.r. non si è attenuta a questi principi, in quanto si è limitata a ritenere legittima la ricostruzione del reddito in via induttiva senza compiere alcuna verifica sui costi. Al contrario, avrebbe dovuto accertare, in primo luogo l’ammissibilità della produzione documentale alla luce di principi sopra esposti e, in ogni caso, se l’Amministrazione avesse ridotto il maggior reddito d’impresa accertato di una percentuale di costi, pure induttivamente determinata. 6. In conclusione, vanno accolti il quarto ed il quinto motivo di ricorso, quest’ultimo limitatamente alla violazione di legge, disattesi tutti gli altri; la sentenza impugnata va annullata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, che si atterrà ai principi esposti e si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, disattesi gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, la quale provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in roma, il 5 marzo 2025. PAReRideLComitAtoConSuLtivo Procedimento amministrativo di rimborso delle spese legali previsto e disciplinato dall’art. 32 della L. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge Reale”). Riguardo alla consulenza dell’Avvocatura dello Stato Parere del 20/03/2024-197102, al 1671/2024, Sez. V, aVV. enrico de GioVanni Codesta Amministrazione, nella nota in epigrafe, pone il quesito che così, in breve, si può riassumere. L’articolo 32 della L. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge reale”) prevede una fattispecie “speciale” in materia di rimborso delle spese legali, con il dichiarato obiettivo di offrire una “tutela rafforzata” agli operatori delle Forze di Polizia impiegati nell’espletamento dei compiti istituzionali di tutela del- l’ordine pubblico e della sicurezza collettiva; esso presenta la eadem ratio rispetto all’articolo 18 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 23 maggio 1997, n. 135 (disposizione di natura “generale”). L’Avvocatura dello Stato svolge una “funzione generale consultiva nei confronti delle amministrazioni pubbliche patrocinate”, anche, a fortiori, in tutti i casi -come, appunto, quelli relativi alla tutela legale dei dipendenti pubblici -in cui sia prevista un’erogazione di denaro pubblico con conseguente deminutio patrimonii dell’Erario; appare pertanto opportuno che siffatta funzione consultiva sia svolta con riferimento ad entrambe le fattispecie disciplinate dalle disposizioni citate. Di recente, tuttavia, viene segnalato che qualche Avvocatura distrettuale, interessata in sede di istruttoria procedimentale, ha reso, per fattispecie riconducibili all’articolo 32 della “legge reale” un parere di congruità nel quale ha affermato che “il tenore letterale del citato art. 32 -specie se confrontato a quello del citato art. 18 -sembra deporre nel senso che gravino sulla amministrazione di appartenenza tutte le spese di difesa sostenute dall’interessato, RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 senza un previo vaglio di congruità”. Viene inoltre segnalato che talune Organizzazioni sindacali della Polizia di Stato sostengono che, nelle situazioni testé riportate, le Amministrazioni debbano “autodeterminarsi”, a prescindere dal parere dell’Avvocatura dello Stato. Tanto rilevato viene chiesto alla Scrivente di esprimersi “in ordine all’esatta individuazione del corretto iter procedimentale da seguire, in quanto la prassi amministrativa si è basata sulla richiesta del parere di congruità alle competenti avvocature dello Stato anche in relazione alle fattispecie sussumibili nell’alveo dell’articolo 32 della legge n. 152 del 1975, in analogia a quanto previsto per quelle riconducibili all’articolo 18 del decreto legge n. 67 del 1997 ”. Tanto premesso si rileva quanto segue. Questo G.U., in continuità con il parere espresso in data 18 maggio 2021 nel CT 26963/20, e in ulteriore approfondimento del medesimo, ritiene quanto segue. Va premesso che il pregresso parere testé citato fu reso all’Arma dei carabinieri a riscontro di una richiesta di parere avente ad oggetto l’istruttoria da svolgere in merito alle richieste di anticipazione delle spese legali presentate ai sensi dell’art. 29 del Decreto del Presidente della Repubblica 15 aprile 2018, n. 39 di recepimento dell’accordo sindacale e del provvedimento di concertazione per il personale non dirigente delle forze di Polizia ad Ordinamento civile e militare “Triennio normativo ed economico 2016-2018 ”; siffatta disposizione prevede, fra l’altro, che agli: “2... ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere anticipata, a richiesta dell’interessato, compatibilmente con le disponibilità di bilancio dell’amministrazione di appartenenza, una somma che, anche in modo frazionato, non può superare complessivamente l’importo di euro 5.000,00 per le spese legali, salvo rivalsa se al termine del procedimento viene accertata la responsabilità del dipendente a titolo di dolo. 3. l’importo di cui al comma 2 può essere anticipato, anche al personale convenuto in giudizi per responsabilità civile ed amministrativa previsti dalle disposizioni di cui al comma 1, salvo rivalsa ai sensi delle medesime norme... 5. la richiesta di rimborso, fermi restando i limiti riconosciuti congrui dall’avvocatura dello Stato ai sensi dell’articolo 18 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 23 maggio 1997, n. 135, ha efficacia fino alla decisione dell’amministrazione ”. La Scrivente, in quella occasione così opinava: “la norma in esame non esplicita la procedura da seguire nella fase istruttoria: si ritiene, tuttavia, certamente possibile e molto opportuno applicare le regole procedurali ordinariamente seguite nei casi di cui all’art. 18 del d.l. 67/97 ”. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Richiamato il precedente, a cui con la presente nota si intende dare continuità e sviluppo argomentativo, venendo all’odierno quesito, riferito nello specifico all’art. 32 della c.d. “legge Reale”, si rileva quanto segue. Va innanzitutto condivisa l’analisi, puntualmente svolta da codesta Amministrazione, in merito all’eadem ratio dell’art. 32 della L. 152/75 (c.d. “legge Reale”) e dell’art. 18 del D.L. 67/97 (ratio che appare rinvenibile anche nel testé rammentato art. 29 del Decreto del Presidente della Repubblica 15 aprile 2018, n. 39): pur nel rapporto di specialità della prima norma citata (art. 32) rispetto alla successiva (art. 18), indubbiamente entrambe le disposizioni attuano, con riferimento al rimborso delle spese legali sopportate da pubblici dipendenti in relazione a giudizi connessi con l’espletamento del servizio, principi generali dell’ordinamento identificabili (come ripetutamente ritenuto dalla giurisprudenza sia civile che amministrativa) in quelli recati dal codice civile negli artt. 1703 e ss. (contratto di mandato), 2028 e ss. (negotiorum gestio), 2041-2042 (arricchimento ingiustificato). Le due disposizioni, dunque, ponendosi nel solco di un quadro normativo già consolidato, si presentano quali disposizioni sostanzialmente ricognitive del principio generale (riconducibile in via generale al divieto di locupletatio cum aliena iactura), secondo il quale chi agisce “diligentemente” nel perseguimento di interessi altrui -e in particolare dei fini pubblici -non deve sopportare le conseguenze svantaggiose o dannose che derivano a causa dell’attività svolta (cfr. ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1681, con ampi richiami giurisprudenziali; nonché pure CGA, sez. Consultiva, parere del 4 aprile 2006, n. 358/2006, che richiama i pareri del Consiglio di Stato, n. 1215/98 e n. 3218/2003; cfr. pure Cons. Stato, 14 aprile 2000, n. 2242; Cons. Stato, sent. 8079/2019). Finalità di entrambe le disposizioni appare peraltro, con ogni evidenza, anche quella di consentire al pubblico dipendente di svolgere le proprie funzioni senza il timore di dover sottostare a gravose conseguenze economiche e dunque di tenere indenni dalle spese legali i dipendenti pubblici che hanno tenuto un comportamento rispettoso degli obblighi su di essi gravanti in relazione alla prestazione del servizio (come peraltro chiarito dalla stessa relazione illustrativa al d.l. 67/97): in tal senso le due norme sembrano alla Scrivente riconducibili anche, in via generale, al principio di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. A ciò si aggiungano i corretti richiami di codesta Amministrazione al D.L. 45/05 (art. 3 bis) e al d.P.R. 39/18 (artt. 12 e 29). Tanto rilevato in via generale, va anche pienamente condivisa l’analisi, svolta nel quesito, che valorizza i principi esposti nella sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte n. 13681/15, ed in particolare l’esigenza di “bilanciare il diritto di difesa del dipendente della P.a. con il ragionevole contenimento della spesa pubblica per avvocati difensori privati ”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 nella rammentata sentenza le SS.UU. sottolineano infatti come si debba tenere “conto delle esigenze di finanza pubblica, che impongono di non far carico all’erario di oneri eccedenti quanto è necessario e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l’istituto del rimborso spese ” rispettando il “concetto di contemperamento dell’esigenza di salvaguardia della prudenza nell’erogazione della spesa pubblica e di protezione del dipendente infondatamente accusato, che è però ben spiegata dai riferimenti, che si rinvengono già nella pronuncia suddetta e nei precedenti giurisprudenziali noti, ai principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla costituzione”. Siffatto bilanciamento di contrapposti interessi deve (nel caso dell’art. 18 citato) o può (nel caso dell’art. 32 citato, salvo quanto più oltre si dirà circa l’ipotizzabile doverosità della consultazione con la Difesa Erariale) essere garantito dall’espressione di un parere dell’Avvocatura dello Stato, parere connotato da discrezionalità tecnica. Alla luce dei principi esposti si potrà fornire risposta al quesito posto nella nota che si riscontra. Come si è testé sottolineato il parere dell’Avvocatura dello Stato in tema di congruità del rimborso concedibile deve necessariamente essere acquisito, per espressa previsione di legge, laddove il rimborso (o l’anticipazione) delle spese legali sia richiesto ex art. 18 del d.l. 67/97: nel caso in cui il rimborso o l’anticipazione sia invece richiesto ex art. 32 l. 152/75 non è espressamente previsto, nella citata norma, un esplicito obbligo per l’Amministrazione di acquisizione del previo parere di congruità; va tuttavia osservato che il d.P.R. 15 marzo 2018, n. 39 (recante “recepimento dell’accordo sindacale e del provvedimento di concertazione per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare «Triennio normativo ed economico 2016-2018»), all’art. 12, nel fare riferimento al beneficio di cui all’art. 32 citato, specifica che “la richiesta di rimborso fermi restando i limiti riconosciuti congrui dall’avvocatura dello Stato ai sensi dell’articolo 18 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 23 maggio 1997, n. 135, ha efficacia fino alla decisione dell’amministrazione” (enfasi aggiunta); il successivo art. 29 presenta analoga previsione con richiamo ai “limiti riconosciuti congrui dall’avvocatura dello Stato ai sensi dell’articolo 18 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con legge 23 maggio 1997, n. 135”. A ciò si aggiunga quanto previsto dal D.L. 31 marzo 2005, n. 45 (“disposizioni urgenti per la funzionalità dell’amministrazione della pubblica sicurezza, delle Forze di polizia e del corpo nazionale dei vigili del fuoco”), ove, all’art. 3-bis (“adeguamento delle disposizioni in materia di tutela legale”) si legge che “1. Per le anticipazioni dovute al personale destinatario delle disposizioni di cui all’articolo 32 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO all’articolo 18 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, per le quali il parere dell’avvocatura dello Stato non sia pervenuto all’amministrazione competente entro il termine di quarantacinque giorni, la stessa amministrazione... può procedere, nel limite del 30 per cento della richiesta di anticipazione...”, previsione che dunque presuppone la richiesta del parere di congruità all’Avvocatura dello Stato sia nel caso in cui l’anticipazione sia richiesta ai sensi dell’art. 32 l. n. 152/1975 sia nell’ipotesi in cui l’anticipo sia domandato a mente dell’art. 18 d.l. n. 67/1997. Dunque, a legislazione vigente appare ragionevole ritenere che la previsione di cui all’art. 32 in esame sia integrata, sul piano sistematico e con riferimento al parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato, dai predetti d.P.R. n. 39/2018 e d.l. n. 45/2005; in ogni caso, anche a voler diversamente opinare circa la doverosità dell’acquisizione del parere, le citate disposizioni evidenziano come sia comunque altamente opportuno provvedere alla acquisizione dello stesso. Si tratta, peraltro, di strumento finalizzato alla segnalata esigenza di un corretto bilanciamento tra il diritto di difesa del dipendente e il contenimento della spesa pubblica; esigenza che può, ovviamente, essere soddisfatta attraverso la consultazione dell’Avvocatura dello Stato che, nell’esercizio della funzione consultiva in favore delle Amministrazioni patrocinate di cui al R.D. 1611/1933 (cfr. in particolare, gli artt. 13 e 47), potrà esprimere le proprie valutazioni. Va peraltro al riguardo sottolineato che neanche l’art. 18 del d.l. 67/97 prevede l’acquisizione necessaria del parere dell’Avvocatura dello Stato sulla effettiva debenza del rimborso (an); è previsto solo il parere obbligatorio e vincolante sull’entità (quantum) del rimborso (erogabile solo “nei limiti riconosciuti congrui dall’avvocatura dello Stato”). Tuttavia, nell’esercizio della generale funzione consultiva prevista dalla legge, l’Avvocatura rende sempre, ove interpellata ex art. 18 citato, anche le proprie valutazioni sull’an debeatur e la costante giurisprudenza conferma la piena legittimità di questa prassi. La stessa disposizione, poi, prevede che l’Avvocatura sia sentita anche in caso di anticipazione del rimborso delle spese: in questo caso la norma non specifica se il parere riguardi sia l’an che il quantum o solo quest’ultimo; resta il fatto che la prassi seguita dalle Amministrazioni e dall’Avvocatura è orientata al- l’espressione di pareri su entrambi i profili; peraltro, si tratta di un’applicazione della norma certamente più cautelativa per l’Amministrazione, e dunque sicuramente preferibile. Si conferma, pertanto, la linea valutativa già espressa dalla Scrivente con la citata consultazione del 18 maggio 2021, CT 26963/20; si ritiene dunque quanto meno molto opportuno -se non addirittura doveroso, alla luce di quanto RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 prima segnalato -applicare, anche nei procedimenti per richieste di anticipazione o rimborso ex art. 32 1. 152/1975, le regole procedurali ordinariamente seguite nei casi di cui all’art. 18 del D.L. 67/1997. Eventuali diverse valutazioni non risultano condivisibili, giacché la facoltà delle Amministrazioni patrocinate di ricorrere alla consulenza dell’Avvocatura dello Stato non appare in alcun modo compressa o limitata dal citato art. 32; è pertanto corretta, e da praticare per il futuro, la prassi di chiedere alla competente Avvocatura dello Stato la valutazione circa la congruità delle somme richieste (a titolo di anticipazione o di rimborso) anche nell’ipotesi di cui all’art. 32 1. 152/75. Sarà cura di questo G.U. informare le Avvocature distrettuali al fine di garantire una prassi unitaria nella trattazione delle relative richieste di parere. Sul presente parere si è espresso in senso conforme il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato nella seduta del giorno 27 febbraio 2024. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO dipinti murali. modalità di applicazione della tutela prevista dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, d.Lgs. 42/2004 Parere del 10/04/2024-245505/06/07/08, al 42771/2023, Sez. iV, aVV. Bruno deTTori Come noto a codeste Amministrazioni, l’Avvocatura dello Stato di milano ha chiesto a questa Avvocatura Generale un parere di massima (all. 1) in ordine alle modalità di applicazione della tutela prevista dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, D.Lgs. 42/2004, in particolare domandando se le fattispecie ivi individuate richiedano, o meno, l’accertamento dell’interesse culturale, e se lo stesso sia determinato, o meno, dalla mera appartenenza oggettiva dei beni alla tipologia descritta dal legislatore. Con la conseguenza, in caso di risposta affermativa, dell’automatico assoggettamento alla tutela ivi prevista, senza necessità di avviare alcun procedimento amministrativo. La fattispecie concreta concerne, come altrettanto noto, i murales realizzati presso i locali occupati dal Centro Sociale Leoncavallo a milano, in riferimento ai quali la Soprintendenza di milano ha ricordato -con nota prot. 0006005 del 9 maggio 2023 (all. 2), impugnata davanti al T.a.r. di milano dai proprietari dell’immobile occupato -che “i dipinti murali risultano sottoposti a tutela ope legis, ai sensi del combinato disposto degli artt. 11 e 50 del d.lgs. 42/2004 codice dei Beni culturali e del Paesaggio: essi non solo non possono essere deturpati o danneggiati, ma non possono essere staccati, e per estensione distrutti, senza l’autorizzazione della Soprintendenza”. All’atto della redazione delle difese davanti al T.a.r., l’Avvocatura dello Stato di milano ha manifestato le proprie perplessità (all. 3) in ordine a quanto sostenuto dalla Soprintendenza nella citata nota, ritenendo che nelle fattispecie individuate dall’art. 11 sia richiesto l’accertamento dell’interesse culturale. Ipotizza l’Avvocatura di milano che tali categorie di beni costituiscano una specie nell’ambito del più ampio genere delineato dall’art. 10; la peculiarità che le connota non risiederebbe nell’automatismo della tutela, bensì nella limitazione della tutela alle prescrizioni dettate dalle disposizioni cui ciascuna fattispecie rinvia e -per quanto concerne in particolare l’art. 11 co. 1, lett. a) che qui interessa -a quelle dell’art. 50 comma 1. Con la conseguenza che, nel caso sottoposto al giudizio del T.a.r. milano, la dichiarazione dell’assoggettamento dei murales alla tutela prevista dall’art. 50 comma 1 cit. presupporrebbe l’accertamento dell’effettiva appartenenza di essi alla categoria individuata dall’art. 11 comma 1 lett. a) e la verifica dell’interesse culturale nelle forme prescritte dall’art. 12, cui dev’essere assicurata la partecipazione dei soggetti interessati. *** Da qui la richiesta di un parere di massima a questa Avvocatura Generale, RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 ai fini della cui redazione hanno successivamente fatto conoscere il proprio avviso la DG ABAP e la Soprintendenza di milano. La DG ABAP (all. 4) ritiene che le tipologie di beni individuate dell’art. 11 sarebbero sottoposte a disposizioni di tutela speciali, applicabili ope legis, che costituirebbero un regime di tutela specifico e limitato rispetto al regime ordinario discendente dal provvedimento amministrativo di vincolo. Con riferimento agli affreschi, o graffiti, e in genere agli “altri elementi decorativi di edificio” di cui all’articolo 11, comma 1, lettera a) del Codice, il divieto di distacco o rimozione senza la previa autorizzazione ministeriale di cui all’art. 50, comma 1, si applicherebbe “ope legis” anche nel caso in cui tali elementi non siano stati sottoposti alla dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13. In considerazione della loro specialità, le disposizioni in parola non potrebbero essere interpretate estensivamente, sicché non vi rientrerebbe qualunque orpello realizzato su un edificio, avendo il legislatore voluto tutelare con la lettera a) -“cose” (gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli ed altri elementi decorativi di edifici ...) che, pur non oggetto di uno specifico provvedimento di tutela, rivestano un interesse “storico” e possiedano perciò il requisito di vetustà -risalenza ad oltre settanta anni richiesto in via ordinaria per la sottoposizione a tutela dei beni culturali. La Soprintendenza di milano (all. 5) sottolinea, in base a un’interpretazione letterale e sistematica, che l’art. 11, nell’elencare le diverse “tipologie di cose” oggetto di specifiche disposizioni di tutela, prevede espressamente per ciascuna, ove ritenuto necessario, diverse e ulteriori specificazioni, tra cui quella della vetustà dell’opera (v. lett. d), f) e h) dell’art. 11); pertanto, poiché, al contrario, alla lett. a), nulla è specificato dal legislatore, ipotizza che sarebbe in primis il tenore letterale del combinato disposto ex art. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1 ad imporre la tutela ope legis, senza la necessità che la “cosa” abbia una particolare vetustà. *** Così riassunti i termini della questione, sembra in primo luogo a questa Avvocatura che debba darsi prevalenza alla tesi dell’operatività ope legis della tutela speciale apprestata dall’art. 11, comma 1, lett. a), D.Lgs. 42/2004. E tanto, in primo luogo, si desume dall’aggiunta nella norma stessa, ad opera del D.Lgs. 62/2008, del comma 1 bis a mente del quale “Per le cose di cui al comma 1, resta ferma l’applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 12 e 13, qualora sussistano i presupposti e le condizioni stabiliti dall’articolo 10 ”. Tale specificazione, non presente nell’originaria formulazione della norma, non può -a parere di questa Avvocatura -che essere letta come una conferma del fatto che le “cose” indicate al comma 1 (e, per quel che in questa PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO sede interessa, gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli ed altri elementi decorativi di edifici ...) sono soggette alla tutela puntualmente individuata (che nel caso specifico è quella apprestata dall’art. 50, comma 1, del codice), che opera ope legis, in considerazione della mera appartenenza delle cose alla tipologia indicata dalla norma. In tale contesto, l’aggiunta del comma 1 bis non può quindi che leggersi con la voluntas legis di specificare che tale tutela -normativamente stabilita e per così dire “minima” -si possa ampliare, in caso di successiva dichiarazione di interesse culturale, con l’applicazione di tutte le misure protettive proprie dei beni culturali soggetti a vincolo. L’inequivocabile volontà del legislatore trova riscontro nella scelta di disporre, con il citato D.Lgs. 62/2008, che la tutela speciale abbia ad oggetto “cose” e non “beni” culturali, come si evince dalla modifica apportata alla rubrica e al frammento prescrittivo del comma 1 dell’art. 11, che recita: “Sono assoggettate alle disposizioni espressamente richiamate le seguenti tipologie di cose”, in luogo del previgente: “Fatta salva l’applicazione dell’articolo 10, qualora ne ricorrano presupposti e condizioni, sono beni culturali, in quanto oggetto di specifiche disposizioni del presente Titolo: ”. La tutela rispetto a condotte non autorizzate di distacco -a prescindere da uno specifico provvedimento di vincolo -delle “cose” indicate dal comma 1, lett. a), dell’art. 11 D.Lgs. 42/2004 trova del resto conferma letterale in un’altra previsione del codice dei beni culturali, ovverossia nell’art. 169 lett. b) a mente del quale è sanzionato penalmente “chiunque, senza l’autorizzazione del soprintendente, procede al distacco di affreschi, stemmi, graffiti, iscrizioni, tabernacoli ed altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista, anche se non ci sia stata la dichiarazione prevista dall’articolo 13 ”. né pare che siffatta interpretazione della norma possa porsi in contrasto con i principi espressi dalla L. 241/1990 e con la conseguente necessità che sia assicurata la partecipazione dei soggetti interessati e/o controinteressati al distacco. La tutela assicurata dall’art. 50, comma 1, D.Lgs. 42/2004 si sostanzia infatti in un provvisorio divieto di distacco, cui accede un procedimento amministrativo finalizato all’emissione, o al definitivo diniego, dell’autorizzazione al distacco stesso. Ed è in questa fase che trovano garanzia i diritti partecipativi di cui alla legge 241/90. Ad avviso della Scrivente, inoltre, la tutela speciale (ossia il divieto di distacco in assenza di autorizzazione) opera anche per i “murales”, siccome sussumibili nella categoria degli affreschi e comunque nell’ampia previsione “ed altri elementi decorativi di edifici esposti o non alla pubblica vista,” di cui alla lettera a) dell’art. 11. La stessa lettera a) dell’art. 11, poi, nulla prevede in ordine al requisito della vetustà, che la norma riferisce invece -alla lettera d) -“alle opere di pittura, di scultura, di grafica e qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 Di tal che, pur condividendo l’opportunità di un’interpretazione restrittiva della norma auspicata dalla DG ABAP, non pare convincente il riferimento dalla stessa DG ABAP ipotizzato -a una datazione risalente ad almeno settanta anni. Tale datazione appare infatti non coerente con la lettera della norma, in cui il legislatore ha inserito espressamente il limite di settanta anni per le sole cose di cui alla lettera d) dell’art. 11, e ha previsto altri limiti temporali per le cose di cui alle lettere f) (venticinque anni) e h) (cinquanta anni), mentre ha omesso ogni riferimento temporale a quelle di cui alla lettera a). *** Alla luce di tali considerazioni, la nota della Soprintendenza di milano impugnata innanzi al locale T.a.r. -limitandosi a rendere edotti i destinatari di quanto previsto dagli artt. 11, comma 1, lett. a) e 50, comma 1, D.Lgs. 42/2004 - appare carente di contenuto provvedimentale e quindi di portata precettiva. Sulla questione è stato sentito il Comitato consultivo dell’Avvocatura dello Stato che, nella seduta del 10 aprile 2024, si è espresso in conformità. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni: riguardo all’applicazione del c.d. “tetto retributivo” (art. 23-ter, comma 2, d.L. 6 dicembre 2011, n. 201; art. 1, comma 471, L. 27 dicembre 2013, n. 147 e s.m.i.) Parere del 26/07/2024-490345, al 18278/2024, Sez. i BiS, aVV. emanuele manzo Con la nota in epigrafe, codesta Amministrazione ha sottoposto alla Scrivente una richiesta di parere in merito all’applicabilità del limite retributivo di cui all’art. 23-ter, comma 2, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali o solo a coloro che, a qualsiasi titolo, siano chiamati a svolgere l’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate. La questione si è posta, in particolare, nel contesto di una procedura di affidamento di incarichi di lavoro autonomo, ai sensi dell’art. 7 comma 6 del D.lgs. 165/2001, per esperto nell’ambito di un Progetto PnRR. *** L’art. 23-ter, al comma 1, prevede l’applicazione del c.d. “tetto retributivo” a «chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo» (art. 23-ter, comma 1). Il successivo comma 2 dell’art. 23-ter stabilisce che «il personale di cui al comma 1 che è chiamato, conservando il trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza, all’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, anche in posizione di fuori ruolo o di aspettativa, presso ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti, non può ricevere, a titolo di retribuzione o di indennità per l’incarico ricoperto, o anche soltanto per il rimborso delle spese, più del 25 per cento dell’ammontare complessivo del trattamento economico percepito». Pertanto, da una lettura congiunta dei due commi si desume che il limite retributivo del 25% di cui al comma 2 dell’art. 23-ter, applicandosi al “personale di cui al comma 1”, ha da sempre trovato sicura applicazione a “chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni”, essendo perciò irrilevante la natura del rapporto di lavoro (se subordinato o RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 autonomo), purché tale personale sia chiamato a svolgere “funzioni direttive, dirigenziali o equiparate”. Il comma 471 della legge n. 147/2013 ha poi stabilito che «a decorrere dal 1° gennaio 2014 le disposizioni di cui all’articolo 23-ter del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo». Tale norma ha certamente esteso la portata soggettiva della limitazione retributiva sotto il profilo delle amministrazioni interessate: mentre l’art. 23ter, comma 2, cit. contemplava solo le «pubbliche amministrazioni statali» e il personale in regime di diritto pubblico, il comma 471 contempla ora anche i rapporti instaurati «con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni » di cui al d.lgs. n. 165/2001, senza più alcuna limitazione alle sole amministrazioni statali. La norma non ha invece esteso la tipologia di rapporti coinvolti (di lavoro autonomo o subordinato), in quanto il limite retributivo in esame, come detto, ha da sempre trovato applicazione a “chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni” (ovvero al personale di cui al comma 1 dell’art. 23-ter cit.). In tale contesto, il quesito si riduce allora nello stabilire se la locuzione “chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo” (comma 471) possa aver tacitamente abrogato la speciale condizione posta dal comma 2 dell’art. 23-ter, inerente “all’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate ”. Un simile esito interpretativo, ad avviso della Scrivente, non pare consentito, e ciò per almeno un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, non pare sostenibile che il comma 471 della legge n. 147/2013 abbia tacitamente abrogato l’altra condizione posta dal comma 2 dell’art. 23-ter, atteso che quest’ultima norma continua ad essere espressamente richiamata dal citato comma 471, ivi prevedendosi che: «le disposizioni di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici si applicano a chiunque...». La tecnica normativa adottata dal legislatore, di mero rinvio alle “disposizioni” di altro articolo, di cui evidentemente si presuppone la piena persistente applicabilità, induce a rite PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO nere che nella specie non sia ravvisabile un fenomeno di abrogazione tacita della condizione inerente “all’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate”. In secondo luogo, non pare che il riferimento onnicomprensivo alla generalità dei rapporti di lavoro autonomo o subordinato, concernente perciò il titolo costitutivo del rapporto, possa di per sé incidere, determinandone una abrogazione tacita (per asserita incompatibilità), su una disposizione che si occupa invece del diverso aspetto delle funzioni esercitate. Detto altrimenti, posto che le funzioni direttive, dirigenziali o equiparate potrebbero essere indifferentemente conferite con contratto di lavoro subordinato o autonomo e che l’art. 23-ter si applica -da sempre -a prescindere dalla tipologia di rapporto di lavoro, non pare sostenibile che la locuzione “nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo” possa aver abrogato la speciale condizione inerente alle funzioni concretamente esercitate. *** Ciò posto, dall’esame dell’avviso pubblico e della bozza di contratto trasmessa, non risulta che l’incarico da conferire implichi l’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, avendo infatti ad oggetto l’attività di progettazione e monitoraggio “senza vincolo di subordinazione, in piena autonomia, anche in relazione ai tempi ed ai luoghi di lavoro, con l’utilizzo di mezzi propri”. Al contempo, il compenso annuo previsto nell’avviso pubblico, pari ad € 50.000 lordi, nemmeno risulta equiparabile a quello spettante al personale che svolge propriamente funzioni direttive o dirigenziali. ne consegue che non pare pertinente il riferimento alla risalente Circolare n. 8 del 3 agosto 2012 della Presidenza del Consiglio dei ministri (anteriore all’entrata in vigore dello stesso comma 471 della legge n. 147/2013), laddove chiarisce l’applicabilità dei menzionati limiti retributivi a coloro che svolgono “le funzioni per le quali i regolamenti di organizzazione o di diretta collaborazione delle amministrazioni interessate prevedono responsabilità di direzione, coordinamento e gestionali, nonché quelle ad esse equiparate dal punto di vista retributivo”. Tenuto conto della rilevanza di massima della questione il parere viene esteso anche al Dipartimento della funzione pubblica. La questione è stata sottoposta all’esame del Comitato Consultivo del- l’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in senso conforme nella seduta del 25 luglio 2024. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 in merito ai presupposti giuridici delle azioni che Agenzia delle entrate-riscossione (AdeR) intende intraprendere nei confronti di quegli enti locali che negano il diritto ai rimborsi dei costi relativi ai permessi fruiti dai dipendenti AdeR per le cariche pubbliche ricoperte ex artt. 79 e 80, d.lgs. n. 267/2000 e art. 20, Legge regionale siciliana 23 dicembre 2000, n. 30 Parere del 26/07/2024-490357/58/59/60, al 9854/2024, Sez. i BiS, aVV. emanuele manzo I. I quesiti. Con la nota in epigrafe, codesta Agenzia ha sottoposto alla Scrivente la questione del diritto al rimborso dei costi relativi ai permessi fruiti dai propri dipendenti che abbiano assunto cariche pubbliche presso Enti locali ai sensi e per gli effetti degli artt. 79 e 80 D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.). In particolare, codesta Agenzia chiede di conoscere se sussistano i presupposti giuridici per agire, anche in via giudiziale, nei confronti degli Enti locali che negano il diritto di ADER al rimborso dei predetti costi. Inoltre, con riferimento agli Enti locali siciliani, si pone l’ulteriore questione dell’applicabilità dell’art. 20 Legge regionale siciliana 23 dicembre 2000, n. 30, che reca una disciplina del diritto al rimborso parzialmente difforme da quella statale. II. Il quadro normativo di riferimento. In attuazione dell’art. 51, comma 3, Cost., l’art. 77, comma 1, T.U.E.L. dispone che: “la repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nelle amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge”. Il successivo art. 79 TUEL prevede che: “1. 1 lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali, metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento. nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva. 2. (...). PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO 3. i lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, provinciali, metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capogruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata. il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro. 4. 1 componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle unioni di comuni, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali, e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, sindaci metropolitani, presidenti delle comunità montane, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti. 5. i lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato. 6. l’attività ed i tempi di espletamento del mandato per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell’ente”. Il diritto del datore di lavoro al rimborso dei costi relativi ai suddetti permessi fruiti dal dipendente che ricopra cariche pubbliche è previsto dall’art. 80 T.U.E.L., secondo cui: “le assenze dal servizio di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell’articolo 79 sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui all’articolo 79. l’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. il rimborso viene effettuato dall’ente entro trenta giorni dalla richiesta. le somme rimborsate sono esenti da imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 8, comma 35, della legge 11 marzo 1988, n. 67 ”. La norma è dunque chiara nel riconoscere il diritto al rimborso esclusivamente in favore dei datori di lavoro privati e degli enti pubblici economici. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 L’art. 20 Legge regionale siciliana 23 dicembre 2000, n. 30 reca infine una disciplina ad hoc per i Comuni siciliani: “1. i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali e delle unioni di comuni nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a duecentomila abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli. nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre l’una, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva. 2. i componenti delle commissioni consiliari previsti dai regolamenti e dagli statuti dei comuni hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare a ciascuna seduta. il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende un tempo massimo di due ore prima dell’orario di convocazione della seduta ed il tempo strettamente necessario per rientrare al posto di lavoro. 3. i lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, degli organi esecutivi delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali ovvero delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite e delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capigruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettivo durata. il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende un tempo massimo di due ore prima dell’orario di convocazione della riunione e un’ora dopo la fine della stessa. Per i militari di leva o richiamati o per coloro che svolgano il servizio sostitutivo si applica l’ultimo periodo dell’articolo 80 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. 4. i componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 36 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a trentamila abitanti. 5. a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge, gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati e da enti pubblici economici sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui ai commi precedenti. l’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto per retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. in nessun caso l’ammontare complessivo da rimbor PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO sare nell’ambito di un mese può superare l’importo pari ad un terzo o, limitatamente ai comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti, pari alla metà dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente di provincia. 6. i lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato”. III. Le contestazioni di alcuni Enti locali. Alcuni Comuni, a seguito delle richieste periodiche di rimborso dei costi ex art. 80 T.U.E.L. inviate tempo per tempo dalle ex società del Gruppo Equitalia e poi da ADER, si sono opposti al rimborso de quo sulla base dell’assunto che ADER vada annoverato tra le “amministrazioni pubbliche” e, per tale ragione, escluso dall’applicazione della citata norma. I Comuni hanno fondato il loro convincimento sul risalente parere del 16 novembre 2011, n. 706, con cui il Consiglio di Stato ha sostenuto che, ai fini qui in esame, si debbano considerare amministrazioni pubbliche: a. tutte quelle indicate dall’art. 1, comma 2 del D.lgs. 165/2001; b. gli enti e gli altri soggetti inseriti nel conto economico consolidato, individuati, ai sensi dell’art. l, comma 2 e 3, D.lgs n. 196/2009, dall’ISTAT; c. quelle società alle quali la legge attribuisce espressamente personalità giuridica di diritto pubblico. Rientrando ADER nell’elenco ISTAT ai sensi dell’art. 1, comma 2 e 3, D.lgs. n. 196/2009, sostengono alcuni Comuni (e la stessa Prefettura di Benevento), non sussisterebbero i presupposti per invocare il diritto al rimborso. Analogo discorso, secondo altri Comuni, varrebbe per la disciolta Riscossione Sicilia s.p.a., ferma restando, con riferimento al territorio siciliano, l’operatività della ulteriore limitazione del diritto al rimborso ai sensi dell’art. 20, comma 5, L.R. n. 30/2000. *** IV. La risposta ai quesiti. IV.1. Premessa. Come è noto, allo stato attuale non esiste una nozione univoca di pubblica amministrazione in senso soggettivo: i tradizionali criteri distintivi degli enti pubblici sono stati superati, lasciando spazio, sotto l’influsso dell’ordinamento eurounitario, ad un nuovo concetto di pubblica amministrazione c.d. «a geometrie variabili», che non solo prescinde da omologazioni rigide ma che soprattutto consente di tracciare il perimetro degli enti pubblici in maniera elastica, attraverso la valorizzazione dell’aspetto funzionale, cioè delle finalità perseguite. Secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 (sentenza 28 giugno 2016, n. 13), non deve dimenticarsi «la linea evolutiva che -a livello nazionale e comunitario -interessa la nozione stessa di “pubblica amministrazione”, quale nozione non univoca, ma da ricondurre, di volta in volta, a normative diverse e alle relative finalità (a titolo esemplificativo: d.lgs. n. 163 del 2006 cit. -c.d. codice degli appalti -in tema di procedure ad evidenza pubblica, a cui debbono attenersi diverse figure soggettive, sia pubbliche che private; legge 31 dicembre 2009, n. 196, art. 1, comma 1, in tema di amministrazioni che concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, in conformità al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella comunità ue -c.d. Sec 95 -; d.lgs. n. 33 del 14 marzo 2013, in tema di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni). nei vari contesti normativi (quelli sopra indicati caratterizzati, rispettivamente, dal controllo e dal finanziamento pubblico, nonché dal contrasto della illegalità nell’amministrazione) all’apparato -centrale e decentrato -dello Stato ed alle autonomie locali si aggiungono diverse tipologie di soggetti privati ... Si introduce in tal modo quella nozione funzionale di Stato, che è stata individuata dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla sentenza della corte di Giustizia del 20 settembre 1988 (causa 31/87 -Beentjes), che riconduceva a detta nozione personalità giuridiche distinte, ma dipendenti in modo sostanziale dai pubblici poteri, per il perseguimento di interessi che lo Stato stesso intende soddisfare direttamente, o nei confronti dei quali sceglie di mantenere un’influenza determinante». non essendo dunque riscontrabile una definizione univoca legislativa di pubblica amministrazione alla quale sia collegata l’operatività di un corpus omogeneo di regole e principi, sopperiscono le molteplici normative settoriali che definiscono il loro campo d’applicazione rispetto ad un novero di enti, talvolta indicati tassativamente. Trasferendo tali considerazioni alla questione qui in esame, si deve evidenziare che l’art. 80 T.U.E.L. non esclude il diritto al rimborso in favore della “pubblica amministrazione” genericamente intesa, ma individua in positivo i soggetti a cui tale rimborso spetta: privati datori di lavoro ed enti pubblici economici. ne consegue che la nozione di “pubblica amministrazione” che, a contrariis, è presupposta dal citato art. 80 T.U.E.L. (onde escludere il diritto al rimborso) deve essere perimetrata tenendo conto che dalla stessa esulano -per espressa previsione di legge -gli enti pubblici economici. Il che consente di individuare un preciso filo conduttore tra la definizione di pubblica amministrazione rilevante ai sensi del Testo Unico sul Pubblico Impiego (D.lgs n. 165/2001, di seguito T.U.P.I.) e quella presupposta dall’art. 80 T.U.E.L., nel senso che in entrambe non rientrano gli enti pubblici economici. Invero, così come il rapporto di lavoro alle dipendenze di un ente pubblico economico esula dal campo di applicazione del T.U.P.I. (si veda l’art. 1, PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO comma 2), alla stessa stregua esso è considerato dall’art. 80 T.U.E.L., che lo assimila infatti al rapporto di lavoro privato (riconoscendo perciò al datore di lavoro-ente pubblico economico il diritto al rimborso). IV.2. L’interpretazione letterale, sistematica e teleologica dell’art. 80 T. U.E.L. Come ha ben precisato la giurisprudenza contabile a far data dal 2013 (Sezione Regionale Lazio del n. 182/2013/PAR), “l’implicita esclusione della generalità degli enti pubblici istituzionali dal novero dei datori di lavoro aventi titolo al rimborso -ricavabile “a contrariis” dalla testuale attribuzione di tale diritto, oltreché ai soggetti privati, ai soli enti pubblici economici -va spiegata in ragione della collocazione originaria della norma in un contesto di principi e regole di finanza pubblica derivata, caratterizzata dalla totale neutralità di siffatte operazioni finanziarie per i bilanci dei singoli enti pubblici in esse coinvolti e per il pubblico erario in generale”, ma “appare certamente meno spiegabile nell’attuale contesto evolutivo dei rapporti finanziari fra Stato ed enti territoriali, che trova riferimento nelle innovazioni della costituzione economica, intesa a valorizzare l’autonomia e la responsabilizzazione di questi ultimi nella sana gestione di risorse proprie e nell’osservanza dei propri equilibri di bilancio, con l’introduzione di limiti e vincoli di contenimento di talune voci di spesa da garantire singolarmente”. In disparte ogni considerazione relativa all’opportunità di un intervento legislativo sul punto -pure sottolineata dalla giurisprudenza contabile richiamata -la ratio dell’art. 80 cit. è non solo quella di valorizzare l’identità (o fungibilità) tra “funzioni pubbliche” esercitate dai pubblici dipendenti che abbiano assunto cariche elettive in Enti locali e quelle che gli stessi avrebbero svolto presso i datori di lavoro pubblici, come si legge nel menzionato parere del Consiglio di Stato del 16 novembre 2011, n. 706; bensì anche quella di assicurare e preservare l’economicità della gestione che ispira l’attività di impresa (non solo dei datori di lavoro privati, ma) di ogni ente pubblico economico. Orbene, l’art. 1, co. 3 del D.L. n. 193/2016, convertito con modificazioni dalla Legge 1° dicembre 2016, n. 225, qualifica l’Agenzia delle entrate -Riscossione proprio come “ente pubblico economico”, dotato di autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione, e come tale, aggiunge il successivo co. 6, essa è sottoposta “alle disposizioni del codice civile e delle altre leggi relative alle persone giuridiche private”. Ad avviso di questa Avvocatura, il chiaro dato letterale sopra riportato impone di ritenere che ADER abbia sicuramente diritto al rimborso ex art. 80 T.U.E.L. in relazione a tutti i permessi fruiti da suoi dipendenti a decorrere dal 1° luglio 2017, ovvero a far data dall’istituzione del nuovo ente pubblico economico -ADER, dovendosi al riguardo de plano applicarsi l’art. 80 cit., che assimila ai datori di lavori privati gli “enti pubblici economici ”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 A fronte dell’inequivocabile tenore testuale della norma in esame, non pare infatti possibile invocare interpretazioni -fondate su una malintesa e non condivisibile lettura del richiamato parere del Consiglio di Stato, di cui si dirà meglio infra -dirette ad espungere, dal novero degli aventi diritto al rimborso, i datori di lavoro che abbiano la forma giuridica di enti pubblici economici sol perché inseriti, a tutt’altri fini, nell’elenco ISTAT di cui all’art. 1, comma 2 e 3, D.lgs. n. 196/2009. Posto che nel citato elenco ISTAT rientrano tutti gli “enti produttori di servizi tecnici e economici”, una simile interpretazione si tradurrebbe, infatti, in una non consentita interpretatio abrogans del disposto dell’art. 80 T.U.E.L., che, si ribadisce, seguendo la medesima logica del T.U.P.I., ha positivamente assimilato, ai fini qui in esame, i datori di lavori privati e gli “enti pubblici economici ”. *** Il dubbio interpretativo potrebbe astrattamente porsi, sulla scorta del citato parere del Consiglio di Stato, in relazione ai permessi fruiti anteriormente al 1° luglio 2017 dagli allora dipendenti delle società pubbliche del Gruppo Equitalia. In effetti, il citato parere si era occupato proprio della natura giuridica di talune società pubbliche (Poste Italiane s.p.a. e Trenitalia s.p.a.), concludendo nel senso che, ai sensi dell’art. 80, secondo periodo, T.U.E.L., non sarebbero rimborsabili gli oneri per permessi retribuiti dei dipendenti correlati a funzioni pubbliche, per tutte le società inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT e per quelle che hanno per legge personalità giuridica di diritto pubblico. Una simile conclusione, che nella sua generalizzazione non pare potersi oggi condividere, merita di essere precisata ed attualizzata, anche in considerazione dell’evoluzione normativa che si è da ultimo registrata in tema di società pubbliche, tenendo a mente che lo stesso parere del Consiglio di Stato ha fornito una soluzione calibrata sul caso di specie, auspicando comunque “un intervento chiarificatore del legislatore” ed una “iniziativa normativa generale sull’effettiva natura delle S.p.a. pubbliche”, che come è noto si sarebbe poi concretizzata nell’adozione del D.lgs. n. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica: di seguito T.U.S.P.). In primo luogo, se è vero che l’art. 80 T.U.E.L. non menziona espressamente le società pubbliche tra gli aventi diritto al rimborso, la circostanza che il legislatore abbia voluto riconoscere la spettanza del rimborso, non solo ai datori di lavoro privati, ma anche agli enti pubblici economici, dovrebbe indurre a ritenere, a fortiori, che tale rimborso spetti pure alle società pubbliche, le quali -costituendo di regola l’evoluzione formalmente privatistica degli originari enti pubblici economici -si atteggiano, applicando le categorie del T.U.P.I. e del T.U.S.P., a datori di lavoro privati. Ed infatti, al pari degli enti pubblici economici, le società pubbliche (che spesso, come detto, sono state costituite proprio per superare il modello organizzativo dell’ente pubblico eco PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO nomico) sono “imprese pubbliche” che svolgono attività di produzione di beni e/o servizi secondo criteri ispirati alla economicità della gestione, ma che -a differenza dell’ente pubblico economico -assumono anche la forma e la natura giuridica di soggetto privato (società per azioni). Come rammenta lo stesso parere del Consiglio di Stato, ai fini della nozione di rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, assume rilievo l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, che prevede analiticamente cosa si debba intendere per “amministrazione pubblica”, “escludendo gli enti pubblici economici (e a fortiori le società per azioni a capitale pubblico) ”. ma se così è, e perciò se il parametro di riferimento ai fini della soluzione della questione qui in esame è la nozione di “amministrazione pubblica” adottata in tema di pubblico impiego, non pare allora pertinente il richiamo al regime speciale posto dalla legge 31 dicembre 2009, n. 196, che, all’art. 1, comma 2, individua a tutt’altri fini le amministrazioni pubbliche alle quali si applicano le disposizioni in materia di finanza pubblica, le quali per l’appunto «concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale in coerenza con le procedure e i criteri stabiliti dall’unione europea» (comma 1). Ora, ad avviso della Scrivente, se la legge attribuisce il diritto al rimborso alle imprese pubbliche che assumono la forma di ente pubblico economico, ovvero a soggetti che a taluni fini pure sono ricondotti alla “pubblica amministrazione” (ad esempio, proprio nell’ambito del conto consolidato della pubblica amministrazione di cui al menzionato elenco ISTAT ex art. 1, commi 2 e 3, l. n. 196/2009 nonché ai fini della costituzione di società pubbliche: cfr. art. 2, comma 1, D.lgs. n. 175/2016), sarebbe del tutto irragionevole ritenere che tale diritto non spetti alla medesima impresa pubblica svolta -per di più anche nelle forme privatistiche. Deve allora ritenersi che i lavoratori dipendenti di società pubbliche rientrino a pieno titolo nella nozione di “dipendenti da privati” a cui allude l’art. 80 T.U.E.L. Una conferma può essere tratta dalla sopravvenuta disciplina in tema di società pubbliche contenuta nel T.U.S.P.: -l’art. 1, comma 3, prevede che “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”; -mentre l’art. 19 dispone che “Salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo i titolo ii. del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 IV.3. La giurisprudenza contabile e civile in materia. Alla luce di quanto sopra esposto, paiono corretti, ad avviso di questa Avvocatura, gli approdi della giurisprudenza contabile in materia, di cui dà conto anche codesta Agenzia. Segnatamente, la deliberazione n. 90/2022/Par della Corte dei Conti Sezione Regionale di Controllo per la Sardegna, in linea con l’orientamento espresso dalla Sezione Regionale Lombardia nella deliberazione n. 256/2017/PAR e dalla Sezione Regionale Piemonte nella deliberazione n. 55/2019/SRCPIE/PAR, “... condivide l’approdo ermeneutico giurisprudenziale in virtù del quale le società a partecipazione pubblica (anche cd. in house) -e dunque a fortiori anche “gli enti pubblici economici totalmente controllati dallo Stato” oggetto del presente quesito unitamente alle predette società -debbano essere comprese tra i soggetti aventi diritto al rimborso per i permessi retribuiti di cui all’art. 80 del Tuel, in modo da assicurare che i relativi oneri siano sopportati dall’ente che beneficia dell’esercizio delle funzioni pubbliche”. In particolare, merita condivisione: -il rilievo che “deve ritenersi decisiva a tal fine, a prescindere da ogni disquisizione generale sulla natura sostanziale di tali soggetti la qualificazione formale ossia la costituzione in forma societaria con connessa distinzione soggettiva tra società e soci così come la separazione dei rispettivi patrimoni (che esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate nel capitale sociale determini automaticamente l’acquisizione della natura pubblicistica delle disponibilità finanziarie della società)”; -il convincimento che, “di converso (...), per escludere l’applicazione dell’art. 80, in conformità alla ratio dianzi esposta ed alla luce dei vigenti principi costituzionali di finanza pubblica, non sembra assumere significato il possesso di requisiti, indicati da altre norme specifiche e ad altri fini, quali indici di assimilazione di talune società partecipate a pubbliche amministrazioni, come l’inclusione della società interessata nell’ambito del conto consolidato della pubblica amministrazione di cui all’art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 196/2009 (legge di contabilità pubblica), che non snatura le caratteristiche di autonomia organizzativa e finanziaria, ma rileva unicamente sul diverso piano dell’omogenea costruzione dei macro aggregati di finanza pubblica”; -l’osservazione che “l’orientamento sopra esposto trova conferma anche nel decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) che all’art. 1, comma 3, stabilisce che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”. L’orientamento della giurisprudenza contabile è stato inoltre condiviso (oltre che dalla giurisprudenza civile di merito menzionata da codesta Agenzia) anche dalla Corte di Cassazione (ord. 11 giugno 2020 n. 11265), la quale ha affermato che: PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO “i punti destinati a venire in rilievo sono saldamente espressi dal principio per il quale, con la previsione contenuta nell’art. 80 T.u.e.l., in ragione della quale sono a carico degli enti pubblici presso cui svolgono le proprie funzioni i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti “da privati o enti pubblici economici” si è voluto garantire lo svolgimento di funzioni pubbliche da parte di lavoratori dipendenti, senza che il relativo onere vada a ricadere sui datori di lavoro privati anzichè rimanere a carico delle risorse pubbliche e del bilancio dell’ente che beneficia di tali funzioni. l’indicata premessa è espressiva del generale principio civilistico del divieto di indebito arricchimento (art. 2041 c. c.) che vuole che il soggetto che si avvantaggi della prestazione sopporti gli oneri economici. l’ente locale presso il quale svolgono incarico elettivo i dipendenti di una società in house deve provvedere ai permessi retribuiti che sono stati fruiti dai primi in adempimento del munus pubblico e che restano così addossati, quali spese per il funzionamento degli organi politici, all’ente presso il quale il dipendente è chiamato a svolgere funzioni politiche. 7.2. converge al raggiungimento del risultato, insieme al richiamato principio civilistico dell’indebito arricchimento, il rilievo che deve essere accordato ai principi intesi a valorizzare autonomia e responsabilizzazione degli enti territoriali destinati a valere anche rispetto allo svolgimento dell’attività sociale, in regime di economicità, cui è tenuta la società in house, nell’assenza di obblighi di consolidamento dei propri conti con i bilanci degli enti fruitori delle prestazioni. 7.3. Vi è poi l’argomento delle forme adottate e quindi dell’intervenuta costituzione secondo il modello societario del soggetto prestatore del servizio in house a cui si accompagna la distinzione soggettiva tra società partecipata e socio pubblico e la separazione dei rispettivi patrimoni, con esclusione che la provenienza pubblica delle risorse impiegate nel capitale sociale comporti automaticamente l’acquisizione della natura pubblicistica delle disponibilità finanziarie della società. 7.4. Per converso, per escludere l’applicazione dell’art. 80, in conformità alla ratio dianzi esposta ed alla luce dei vigenti principi costituzionali di finanza pubblica non assume significato il possesso di requisiti, indicati da altre norme specifiche e ad altri fini, quali sono gli indici di assimilazione di talune società partecipate a pubbliche amministrazioni, come l’inclusione della società interessata nell’ambito del conto consolidato della pubblica amministrazione di cui alla l. n. 196 del 2009, art. 1, commi 2 e 3, (legge di contabilità pubblica), che non vale a snaturare le caratteristiche di autonomia organizzativa e finanziaria, ma, come osservato dai giudici amministrativi (vd. supra sub n. 7), rileva unicamente sul diverso piano dell’omogenea costruzione dei macro aggregati di finanza pubblica. 8. conclusivamente, per il cennato quadro di riferimento, gli oneri deri RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 vanti dalla fruizione, da parte dei dipendenti di società a partecipazione pubblica, dei permessi retribuiti previsti per l’esercizio di funzioni elettive presso un ente locale partecipante sono a carico di quest’ultimo e devono essere rimborsati alla società datrice di lavoro, nei termini e secondo le modalità di cui all’art. 80 T.U.E.L.”. *** ne consegue, ad avviso di questa Avvocatura, che ADER ha diritto al rimborso ex art. 80 T.U.E.L. dei costi relativi ai permessi fruiti dai suoi dipendenti che abbiano assunto cariche elettive in Enti locali, e ciò anche con riferimento ai periodi in cui l’attività di riscossione era svolta da società pubbliche appartenenti al Gruppo Equitalia. IV.4. Il diritto al rimborso nei confronti degli Enti locali siciliani. Analogo discorso, sia pure con le precisazioni che verranno di seguito svolte, deve valere altresì per i Comuni della Regione Sicilia. Le superiori considerazioni consentono anzitutto di ritenere che sussista il diritto di ADER al rimborso dei costi anche in relazione ai permessi fruiti dai dipendenti della disciolta Riscossione Sicilia S.p.A., non essendo pertinente il suo inserimento nel citato elenco ISTAT ed assumendo invece rilievo la circostanza che i rapporti di lavoro alle sue dipendenze fossero da considerare, ai fini qui in esame, rapporti di diritto privato. Le modalità di esercizio del diritto al rimborso nei confronti dei Comuni siciliani devono tuttavia confrontarsi con le specificità della legislazione regionale in materia, atteso che, come correttamente rileva codesta Agenzia: -l’art. 1, comma 2, T.U.E.L. dispone che: “le disposizioni del presente testo unico non si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano se incompatibili con le attribuzioni previste dagli statuti e dalle relative norme di attuazione”; -l’art. 14 dello Statuto della Regione Siciliana prevede che: “l’assemblea, nell’ambito della regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie: ... omissis... - o) regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative; ... omissis”. In materia, la L.R. Sicilia n. 30/2000 prevede, all’art. 15, comma 2, che: “2. il presente capo disciplina il regime delle aspettative, dei permessi e delle indennità degli amministratori degli enti locali. Per amministratori, ai soli fini del presente capo, si intendono i sindaci, i presidenti delle province, i consiglieri dei comuni e delle province, i componenti delle giunte comunali e provinciali, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i componenti degli organi delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali ed i componenti degli organi di decentramento”. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Tale previsione, che si riferisce non solo ai titolari di cariche elettive, ma, più in generale, ai titolari di cariche pubbliche, non pare assumere una portata soggettiva più ampia rispetto a quella di cui alla legge statale (anche l’art. 79 T.U.E.L., sopra trascritto, non è limito alle cariche elettive, comprendendo anche i componenti “delle giunte comunali, provinciali, metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali ...”). Tuttavia, il successivo art. 20, comma 5, L.R. Sicilia n. 30/2000 prevede che: “a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati e da enti pubblici economici sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui ai commi precedenti. l’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto per retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. in nessun caso l’ammontare complessivo da rimborsare nell’ambito di un mese può superare l’importo pari ad un terzo o, limitatamente ai comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti, pari alla metà dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente di provincia”. La norma regionale, destinata a prevalere su quella statale, prevede dunque una limitazione del diritto al rimborso (ad un terzo o alla meta dell’indennità). A prescindere da ogni considerazione sulla legittimità di una simile previsione, non pare revocabile in dubbio, in linea con la stessa prassi della Regione Siciliana (Circolare n. 2 del 1° febbraio 2018 dell’Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana e parere n. 1715/RE del 7 novembre 2017 dell’Ufficio Legislativo e Legale della Regione Siciliana), che i costi non rimborsabili debbano restare a carico del datore di lavoro: la norma prevede, infatti, che il datore di lavoro debba comunque corrispondere “retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore”, così riconoscendosi piena tutela al lavoratore che abbia assunto una carica pubblica a norma dell’art. 51, comma 3, Cost., mentre è il conseguente diritto al rimborso del datore di lavoro nei confronti dell’Ente locale che soffre di una limitazione quantitativa ex lege. V. Conclusioni. In conclusione, questa Avvocatura è dell’avviso che sussistano i presupposti giuridici per agire, in via stragiudiziale, nonché, all’occorrenza, anche in via giudiziale, nei confronti degli Enti locali che negano il diritto di ADER al rimborso, anche per il periodo antecedente al 1° luglio 2017, dei costi rela RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 tivi ai permessi fruiti dai propri dipendenti per le cariche pubbliche ricoperte ai sensi degli artt. 79 e 80 T.U.E.L., ferma restando la limitazione di cui all’art. 20, comma 5, della L.R. n. 30/2000 per le eventuali azioni di rimborso nei confronti degli Enti locali siciliani. *** Tenuto conto della rilevanza di massima della questione nonché dell’esistenza di prassi difformi sul territorio nazionale, il presente parere viene esteso, anche al fine di prevenire un non auspicabile contenzioso con gli Enti locali, al competente Dipartimento del ministero dell’Interno nonché al Dipartimento della funzione pubblica e alla Regione Siciliana. La questione è stata sottoposta all’esame del Comitato Consultivo del- l’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in senso conforme nella seduta del 25 luglio 2024. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO L’istituto della certificazione del credito ex art. 9, co. 3 bis, d.L. n. 185 del 2008, conv. in L. 2/2009: quesito sul dies a quo di decorrenza degli interessi moratori di cui al d.lgs. 231/2002 Parere del 15/10/2024-628301/02, al 23760/2024, Sez. iV, Proc. edoardo morena Con la presente, si riscontra la nota con la quale codesta Avvocatura Distrettuale ha trasmesso la richiesta di parere in merito all’individuazione del dies a quo di decorrenza degli interessi di cui al D.lgs. 231/2002 in caso di certificazione del credito. In particolare, si chiede se gli interessi moratori di cui al Decreto citato decorrano dalla data di scadenza delle singole fatture ovvero dalla data di pagamento indicata nella certificazione del credito. Ciò premesso, la risoluzione del quesito in oggetto postula necessariamente la ricostruzione, in termini di normativa e inquadramento giuridico, dell’istituto della certificazione del credito. * La certificazione del credito, disciplinata dal D.L. n. 185/2008 e dal D.L. n. 25/2013, consente, in via generale, una più agevole circolazione e attuazione del credito, anche nell’interesse dei terzi (cessionari, istituti bancari), vantato nei confronti della pubblica amministrazione. nello specifico, la descritta certificazione abilita il creditore: -da un lato, ad ottenere una qualificazione del credito come “certo, liquido ed esigibile”; -dall’altro lato, a ricevere una data certa, non superiore all’anno dalla data di richiesta, entro cui l’ente si impegna ad effettuare il pagamento del credito; -dall’altro lato ancora, ad avvalersi della possibilità, a valle della certificazione, di rivolgersi a istituti di credito specializzati nell’acquisto del credito, così da assicurare una immediata liquidità. Tali finalità e funzioni risultano espressamente individuate dal comma 3-bis dell’art. 9 del D.L. n. 185 del 2008, conv. dalla L. n. 2 del 2009, che così dispone: “Su istanza del creditore di somme dovute per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali, ((le pubbliche amministrazioni, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165)) certificano, nel rispetto delle disposizioni normative vigenti in materia di patto di stabilità interno, entro il termine di trenta giorni dalla data di ricezione dell’istanza, se il relativo credito sia certo, liquido ed esigibile, anche al fine di consentire al creditore la cessione pro soluto o pro solvendo a favore di banche o intermediari finanziari riconosciuti dalla legislazione vigente. Scaduto il predetto termine, su nuova istanza del credi RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 tore, è nominato un commissario ad acta, con oneri a carico dell’ente debitore. la nomina è effettuata dall’ufficio centrale del bilancio competente per le certificazioni di pertinenza delle amministrazioni statali centrali, degli enti pubblici non economici nazionali e delle agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300; dalla ragioneria territoriale dello Stato competente per territorio per le certificazioni di pertinenza delle altre amministrazioni. Ferma restando l’attivazione da parte del creditore dei poteri sostitutivi, il mancato rispetto dell’obbligo di certificazione o il diniego non motivato di certificazione, anche parziale, comporta a carico del dirigente responsabile l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 7 comma 2, del decreto legge 8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2013, n. 64. la pubblica amministrazione di cui al primo periodo che risulti inadempiente non può procedere ad assunzioni di personale o ricorrere all’indebitamento fino al permanere dell’inadempimento. la cessione dei crediti oggetto di certificazione avviene nel rispetto dell’articolo 117 del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. Ferma restando l’efficacia liberatoria dei pagamenti eseguiti dal debitore ceduto, si applicano gli articoli 5, comma 1, e 7, comma 1, della legge 21 febbraio 1991, n. 52. la certificazione deve indicare obbligatoriamente la data prevista di pagamento. le certificazioni già rilasciate senza data devono essere integrate a cura dell’amministrazione utilizzando la piattaforma elettronica di cui all’articolo 7, comma 1, del citato decreto-legge n. 35 del 2013 con l’apposizione della data prevista per il pagamento ”. * Al fine di addivenire a un corretto inquadramento sotto il profilo tecnico- giuridico dell’istituto in commento, preme evidenziarsi che, nella prospettiva accolta dalla giurisprudenza di merito più recente (cfr., tra le altre, Tribunale Frosinone, n. 50 del 10 gennaio 2023; Tribunale nocera Inferiore, sez. II, n. 482 del 12 marzo 2023), la predetta certificazione assume una qualificazione eminentemente privatistica. Più nello specifico, essa si atteggia alla stregua di peculiare ricognizione di pagamento (cfr., in questo senso, T.a.r. Sicilia Palermo, Sez. II, Sent., 7 febbraio 2023, n. 383, T.a.r. Sicilia, Sez. I, Sent., 12 dicembre 2023, n. 3706, il “Vademecum Breve guida alla certificazione dei crediti”, presente sul sito web del m.E.F., nonché l’art. 7, del D.L. 35/2013, rubricato esplicitamente “ricognizione dei debiti contratti dalle pubbliche amministrazioni”), mediante la quale l’ente, all’esito di determinate verifiche, riconosce, in virtù del rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti, l’esistenza della condizione debitoria nei confronti del fornitore. La qualificazione dell’istituto in esame quale atto ricognitivo del debito ne conforma, inevitabilmente, gli effetti. Difatti, aderendo a tale configurazione, la certificazione non costituisce PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo un effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale. Essa determina, ex art. 1988 c.c., un’astrazione meramente processuale della “causa debendi”, da cui deriva una semplice “relevatio ab onere probandi ” che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo meno ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento (cfr. Cass. civ. n. 20689/16). Le coordinate interpretative ora riassunte sembrano, quantomeno prima facie, ostare a una soluzione ermeneutica che individui la decorrenza degli interessi di cui al D.lgs. 231/2002 a partire dalla data di pagamento indicata nella certificazione, anziché dalla scadenza della singola fattura. Tale conclusione, del resto, trova conferma nel D.m. del 22 maggio 2012, in materia di “modalità di certificazione del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per somministrazione, forniture e appalti, da parte delle regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio Sanitario nazionale, di cui all’articolo 9, commi 3-bis e 3-ter del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 e successive modificazioni e integrazioni”, che, all’art. 1, comma 2, espressamente precisa che: “resta fermo che la certificazione non pregiudica il diritto del creditore agli interessi relativi ai crediti di cui al comma 1, in qualunque modo definiti, come regolati dalla normativa vigente o, ove possibile e indicato, dalle pattuizioni contrattuali tra le parti”. In questo senso, può richiamarsi, altresì, la delibera della Corte dei Conti Toscana, Sez. contr., n. 4/2013, ai sensi della quale: “Tale normativa (art. 4 del d.lgs. n. 231/2002) non confligge, così, con la disposizione di cui all’art. 9, comma 3 bis, del d.l. n. 185/2008, convertito dalla legge n. 2/2009 e successive modificazioni ed integrazioni, che disciplina, invece, l’iter del pagamento dei debiti pregressi delle pubbliche amministrazioni, consentendo al creditore di richiedere la certificazione del credito ai fini della cessione pro soluto o pro solvendo dello stesso, essendo il ricorso a tale facoltà volto a soddisfare, al fine di un adempimento seppur tardivo in ragione del ritardo del debitore quale circostanza impeditiva dell’estinzione del rapporto obbligatorio, i crediti vantati dai soggetti privati nei confronti delle amministrazioni debitrici. Pertanto le due norme si pongono su piani differenti, stante la diversa ratio, l’una prevedendo, nell’ambito delle transazioni commerciali, dei termini legali entro i quali il pagamento deve essere soddisfatto al fine di non incorrere nella corresponsione al creditore degli interessi di mora, e dunque RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 il rispetto temporale dei pagamenti entro termini certi da parte del debitore, l’altra conferendo la possibilità al creditore, su sua istanza, di ottenere la certificazione del credito ai fini della successiva cessione pro solvendo o pro soluto dello stesso, in costanza di debiti pregressi delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei creditori e, quindi presupponendosi anche l’evidente mancato rispetto della normativa recata dal d.lgs. n. 231/2002 e il conseguente ulteriore esborso per la P.a. di rilevanti interessi moratori generati dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione”. ne consegue che, nella prospettiva ora citata, la certificazione del credito postula, necessariamente, l’avvenuta scadenza del termine di pagamento del debito (cfr. anche “Vademecum Breve guida alla certificazione dei crediti”, pag. 3, nota a pié di pagina n. 2: “ai fini dell’ottenimento della certificazione, il credito è certo, liquido ed esigibile quando è riferito ad un’obbligazione perfezionata, correttamente registrata nelle scritture contabili dell’ente debitore e per la quale è scaduto il termine di pagamento. inoltre, non debbono sussistere fattori impeditivi del pagamento, come l’esistenza di contenziosi, eccezioni di inadempimento o condizioni sospensive”). Coerentemente a tale ricostruzione, “il sistema delineato dall’art. 9, co. 3bis d.l. n. 185/2008 (nonché del dm 25 giugno 2012) costituisce uno strumento ampliativo delle possibilità spettanti all’impresa in credito con la p.a per addivenire al recupero dello stesso e, come si evidenza, non impedisce all’impresa di ricorrere, in via principale, al rimedio giurisdizionale, né interferisce con la disciplina dei pagamenti ex d.lgs. n. 231/2002 (stante la diversità oggettiva di presupposti), non impedendo all’impresa (in alternativa alla certificazione) di agire in sede giurisdizionale e ciò anche per gli importi dovuti a titolo di interessi moratori o per il risarcimento dei danni” (T.a.r. Lazio, Sez. II, Sent., 13 gennaio 2023, n. 622). In sostanza, dall’autonomia tra le discipline in esame, operanti su piani distinti, non può che conseguire la decorrenza, automatica, degli interessi di mora a partire dalla scadenza delle singole fatture, in coerenza con quanto previsto dal D.lgs. 231/2002, che prescrive termini di pagamento predeterminati con una forte limitazione alla eventuale deroga pattizia (cfr., in particolare, art. 4, comma 4, del citato D.lgs.), non risultando ostativa a siffatta conclusione l’intervenuta certificazione del credito, che determina, invece, una (mera) astrazione c.d. processuale del rapporto. La conclusione ora descritta si correla, peraltro, alla funzione svolta dal- l’istituto della certificazione del credito, che mira a favorire lo smobilizzo dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della P.A., operando sinergicamente con la disciplina di derivazione euro-unitaria sui ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali, nell’ottica del buon funzionamento dell’economia nazionale. * PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Tantomeno risulta dirimente ai fini di una diversa conclusione al quesito oggetto del presente parere, la configurazione, in tesi, pubblicistica dell’istituto in esame quale espressione di un potere, ancorché vincolato, espletato dal- l’Amministrazione in virtù della posizione di “supremazia” che la stessa riveste nell’ordinamento quale soggetto istituzionalmente preposto alla tutela di interessi pubblicistici. Più nello specifico, secondo una certa impostazione, la certificazione del credito non rappresenterebbe una “(...) attività meramente ricognitiva di documentazione, di una manifestazione di scienza e conoscenza i cui presupposti, contenuti ed effetti siano integralmente predeterminati dalla legge, poiché sottesi all’emissione del provvedimento in questione sono i poteri di verifica dell’esistenza e regolarità dell’obbligazione, del mancato intervento di cause di estinzione del debito, di modo che la corrispondente posizione dei privati interessati non risulta essere di diritto, in quanto nell’esercizio di tale potestà amministrativa di carattere autoritativo l’amministrazione non agisce iure privatorum, e correlativamente, il privato non è titolare di un diritto soggettivo” (Cons. giust. amm. Sicilia, Sent., 13 settembre 2021, n. 802). Facendo applicazione di tali coordinate ermeneutiche, si è ritenuto che la certificazione del credito integrerebbe un “atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell’esercizio di poteri autoritativi e che non si esaurisce in una mera operazione contabile che culmina nella certificazione del credito, essendo, invece, dal punto di vista logico e semantico, espressione di un motivato giudizio critico” (T.a.r. Campania -Salerno, Sez. III, 22 dicembre 2023, n. 3033). Tale qualificazione risulterebbe, del resto, confermata dallo stesso art. 9, comma 3-bis, del D.L. 185/2008, laddove prevede, a fronte dell’inerzia del- l’Amministrazione sull’istanza di certificazione veicolata dal creditore, la nomina del Commissario ad acta ovvero la possibilità di esperire poteri sostitutivi. Sennonché, per un verso la ricostruzione pubblicistica dell’istituto, alla stregua di vero e proprio “provvedimento amministrativo”, risulta assai controversa nella stessa giurisprudenza amministrativa. A tal fine, può richiamarsi Cons. Stato n. 4188/2019, punto 3.3.2., per cui la certificazione del credito “non ha effetti costitutivi, ma meramente dichiarativi”, nonché T.a.r. Sicilia Palermo, Sez. II, Sent., 28 maggio 2021, n. 1765, per cui l’attività in esame “non è di tipo autoritativo ma meramente ricognitiva e certificativa (non costitutiva) di un debito da parte dell’amministrazione medesima”. Per altro verso e in ogni caso, siffatta configurazione non sembrerebbe comunque idonea a mutare la soluzione alla problematica oggetto del presente parere, non potendosi ricollegare a tale attività -e, correlativamente, al “provvedimento” di certificazione -un effetto preclusivo/demolitorio rispetto agli RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 interessi ex D.lgs. 231/2002 che risultano, invece, già maturati al momento dell’istanza. Tale ultima conclusione, del resto, non trova a suo favore concreti indici normativi, limitandosi il legislatore a specificare, all’art. 9, comma 3-bis, del D.L. n. 185 del 2008, conv. dalla L. n. 2 del 2009, che “(...) la certificazione deve indicare obbligatoriamente la data prevista di pagamento (...)”, senza che da ciò possa trarsi sic et simpliciter l’azzeramento degli interessi nel frattempo maturati. * Ciò considerato, questo G.U. ritiene di dover rimeditare il precedente avviso espresso in materia, alla luce di una complessiva ricognizione sistematica della normativa rilevante e del successivo attestarsi della giurisprudenza che ha qualificato la certificazione del credito quale (mera) ricognizione di debito, così da individuare il dies a quo di decorrenza degli interessi di cui al D.lgs. 231/2002 -non alla data di pagamento indicata nell’atto di certificazione, ma -a partire dalla scadenza di ciascuna singola fattura. La presente consultazione è stata resa sentito previamente il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che, nella seduta del 10 ottobre 2024, si è espresso in conformità. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Sentenza Corte costituzionale n. 185/2021. declaratoria di incostituzionalità della sanzione amministrativa di cui all’art. 7, co. 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 conv. in l. n. 189/2012. Quesiti sui limiti di retroattività Parere del 12/02/2025-108126/108127, al 43050/2021, Sez. iii, aVV. FranceSca SuBrani Con la nota in epigrafe, codesta Agenzia ha chiesto il parere dello scrivente G.U. riguardo ai limiti di retroattività della sentenza della Corte costituzionale in oggetto, la quale ha dichiarato incostituzionale la sanzione amministrativa di cui al sesto comma, secondo periodo, dell’art. 7 del d.l. n. 158/2012, conv. con modif. dalla L. n. 189/12. I quesiti posti riguardano, in particolare, la perdurante debenza della sanzione non ancora versata al tempo della dichiarazione di incostituzionalità, ma non impugnata dal destinatario; della sanzione impugnata, ma accertata come dovuta con sentenza passata in giudicato, o ancora versata solo parzialmente per effetto di rateizzazione. Con riguardo alla iscrizione a ruolo a seguito del mancato adempimento spontaneo, poi, codesta Agenzia chiede se essa possa considerarsi equivalente al pagamento spontaneo ai fini di una qualificazione come eseguita della sanzione, il che dovrebbe costituire un limite alla retroattività della dichiarazione di incostituzionalità. nella richiesta di parere si richiamano i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 68/2021, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 “in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida [sanzione amministrativa a connotazione punitiva], disposta con sentenza irrevocabile”. Codesta Agenzia pone un quesito circa l’applicabilità nel caso di specie dei principi in essa affermati. Si rileva anzitutto che la Corte costituzionale ha espressamente qualificato sostanzialmente penale la sanzione qui in esame. L’ampliamento del concetto di materia penale origina, è noto, dalla sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, engel e altri c. Paesi Bassi, con la quale la Corte ha indicato i criteri con cui determinare quali misure abbiano natura sostanzialmente penale: la qualificazione giuridica interna; la natura dell’illecito e la funzione del conseguente provvedimento previsto, che deve essere applicabile in modo generale e avere scopo preventivo e repressivo; la gravità della sanzione, non necessariamente privativa della libertà personale. Tali criteri, alternativi e non cumulativi, sono stati confermati e si sono consolidati nella giurisprudenza successiva della stessa Corte, e sono stati accolti nel diritto interno. “Superando precedenti decisioni di segno contrario”, si legge nella citata RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 sentenza n. 68 del 2021 della Corte costituzionale, “questa corte ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo -in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) -larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali: sia quello basato sull’art. 25 cost. -irretroattività della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2029), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2029 e n. 121 del 2028) -sia quello basato su altri parametri, e in particolare sull’art. 3 cost. -retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenza n. 112 del 2019). [...] il principio di legalità costituzionale della pena [...] è “più forte” di quello di retroattività in mitius, il quale, nel caso di successione di leggi modificative, incontra, di regola, in base alla normativa codicistica, il limite della definitività della pronuncia di condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen). alla luce del diritto vivente formatosi in sede di interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 -come si è visto (supra, punto 2.2. del considerato in diritto) tale limite non opera invece nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che rimoduli il trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza che la pena risulti conforme a costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio, è posto l’istituto del giudicato”. Con la sentenza n. 63 del 2019, invece, la Corte aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72/2015, in relazione agli artt. 3 e 117 comma 1 Cost. (quest’ultimo per rinvio all’art. 7 della CEDU), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche favorevoli apportate alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58/1998, “dato che la regola di derivazione penale deve ritenersi applicabile anche agli illeciti amministrativi aventi natura e funzione punitiva, salvo che vi sia la necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti tali da resistere al «vaglio positivo di ragionevolezza », al cui metro debbono essere valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius” (sulla necessità di un vaglio positivo di ragionevolezza v. Corte cost., sent. n. 394 del 2006). Quando poi l’inapplicabilità della sanzione sia conseguenza non di una abolitio criminis, ma di una pronuncia di illegittimità costituzionale, la massima retroattività favorevole deve a maggior ragione ritenersi. Il titolo della sanzione pecuniaria è infatti da considerare inesistente fin dall’origine, una volta eliminata dall’ordinamento la norma che la prevedeva. La norma incostituzionale viene infatti espunta dall’ordinamento perché affetta da invalidità originaria, appunto, per cui essa non è più applicabile dal giudice davanti al quale sia invocata. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Le sentenze di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, pur avendo efficacia retroattiva, non operano peraltro, per consolidato principio operante anche nella materia penale, con riferimento ai cosiddetti “rapporti esauriti” (cfr. Cass. pen., sez. IV, sent. 1 febbraio 2018, n. 12261), ossia quando la pena sia stata interamente eseguita (v. al riguardo S.U., sentenza Gatto, 14 ottobre 2014, tuttora punto di riferimento in materia). Al riguardo la S.C., con riguardo alle sanzioni pecuniarie penali, superando opposto orientamento (espresso da Cass. pen., 19 ottobre 2018, n. 20248), ha affermato la possibilità di pervenire alla rideterminazione in executivis della pena irrogata sulla base di una cornice edittale poi dichiarata incostituzionale, perché il mancato integrale adempimento della sanzione pecuniaria non permette di ravvisare esaurimento del rapporto (Cass. pen., 27 aprile 2020, n. 13072). Deve dedursene che, nel caso di integrale adempimento prima della declaratoria di incostituzionalità, il rapporto è invece da considerarsi esaurito ai sensi dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953. Pertanto, per effetto della dichiarazione di incostituzionalità della norma che la prevedeva, la sanzione irrogata da codesta Agenzia sembra alla Scrivente doversi considerare non dovuta in tutti i casi evidenziati nella richiesta di parere, con conseguente obbligo di restituzione delle somme già ricevute in pagamento. In applicazione dei principi in materia di ripetizione dell’indebito, tuttavia, troverà applicazione il termine di prescrizione ordinario decennale, decorrente dal momento del pagamento delle singole rate. Esaurito deve invece considerarsi il rapporto quando la sanzione pecuniaria sia stata interamente corrisposta, per cui in tal caso le somme riscosse non dovranno essere restituite. In conclusione: -chi non abbia ancora pagato è liberato, anche se vi è giudicato sulla debenza della sanzione o consolidamento del provvedimento per mancata impugnazione; -chi abbia solo parzialmente adempiuto ha diritto di chiedere la ripetizione dell’indebito nei limiti della prescrizione, perché il rapporto non può in tal caso dirsi esaurito; -chi abbia interamente adempiuto prima della declaratoria di incostituzionalità non ha diritto di chiedere la ripetizione dell’indebito, perché il rapporto è da considerarsi esaurito. Sulla questione è stato sentito il Comitato consultivo, che si è espresso in conformità nella seduta del 22 gennaio 2025. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 Avvocature c.d. interne delle Amministrazioni Pubbliche e del Parastato. interpretazione della disciplina di cui all’art. 1 co. 208 Legge Finanziaria 2006: quesito sulla liquidabilità degli oneri riflessi -contributivi e previdenziali a carico della parte soccombente di un giudizio Parere del 25/02/2025-140041, al 19762/2023, Sez. iii, aVV. SaBrina PuGlieSe Parere del 25/02/2025-140062/140064, al 31374/2023, Sez. iii, aVV. SaBrina PuGlieSe Con due autonome richieste di parere, il ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di milano chiedono allo scrivente Generale Ufficio di esprimersi sulla questione di massima relativa alla richiesta avanzata dall’Ente territoriale (nel primo caso Regione Umbria, nel secondo caso Città metropolitana di milano) di pagare, in aggiunta alle spese di lite liquidate in sentenza, i c.d. oneri riflessi. nello specifico, sia il ministero che l’Avvocatura Distrettuale rimettente riferiscono che in fase di pagamento la controparte ha precisato che, in sostituzione di ivA e CPA, vanno liquidati gli oneri riflessi, in quanto il difensore è “interno” all’avvocatura regionale e all’avvocatura comunale: evidenziano, tuttavia, un dubbio interpretativo circa la legittimità della suddetta richiesta, corroborato da un contrasto giurisprudenziale. Al fine di rispondere compiutamente al quesito posto occorre preliminarmente esaminare l’istituto degli oneri riflessi per poi passare agli orientamenti giurisprudenziali registratisi. Premessa. inquadramento della questione. Come noto, il regolamento delle spese di lite è disciplinato dall’art. 91 c.p.c., ai sensi del quale “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”: la ratio della norma, evidentemente di chiovendiana memoria, è quella di tenere indenne la parte vittoriosa da ogni spesa che ha subito in virtù della lite, ripristinando lo status quo ante. Gli oneri accessori cui normalmente si riferiscono le decisioni giudiziarie per i c.d. avvocati del libero foro sono gli accessori previsti per legge, quali IVA e CPA (Cassa Previdenza Avvocati) che, in quanto giustappunto accessori, si aggiungono al compenso delle spese di lite sostenute dalla parte vittoriosa e, pertanto, vengono liquidati a parte dal giudice. Alla disciplina generale, prevista per gli avvocati che esercitano la libera professione, è sopraggiunta, in tempi recenti, una disciplina settoriale che concerne esclusivamente le avvocature c.d. interne delle Amministrazioni Pubbliche e del Parastato (1), cristallizzata dalla legge del 23 dicembre 2005, n. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO 266 (finanziaria 2006) il cui art. 1 comma 208 afferma che “le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro”. Ebbene, proprio in ragione di tale novum normativo si è acceso un vivace dibattito interpretativo concernente la reale portata della norma poc’anzi riportata che ha condotto alla richiesta di parere che nella presente sede si riscontra. Si evidenzia sin d’ora che da attenta analisi delle pronunce registrate sulla questione sono emersi distinti profili, strettamente connessi tra loro: 1. l’esatta perimetrazione della locuzione “oneri riflessi” con riferimento all’inclusione, o meno, dell’IRAP; 2. se tale voce sia già inclusa, o meno, nella liquidazione delle spese da parte del giudice; 3. a chi spetti il pagamento degli “oneri riflessi” nel caso in cui questi vengano espressamente indicati autonomamente dal giudice in sede di regolamentazione delle spese di lite. 1. L’esatta perimetrazione. Profili definitori. Come già evidenziato, il problema degli oneri c.d. riflessi riguarda esclusivamente i lavoratori/avvocati delle c.d. avvocature interne ex art. 23 legge n. 247 del 2012 in quanto, essendo carente tanto l’attività imprenditoriale autonoma, quanto l’obbligatorietà dell’iscrizione all’albo ordinario forense, sul compenso liquidato in sentenza non devono calcolarsi né l’IVA né il CPA. In tal senso si è infatti espressa la giurisprudenza evidenziando, con riferimento all’InPS, che “con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del d.P.r. n. 633 del 1972, art. 1, l. n. 247 del 2012, art. 1, l. n. 247 del 2012, artt. 21 e 23, e l’omesso esame di fatti decisivi (1) Che, a seguito della riforma dell’ordinamento forense di cui alla legge n. 247 del 31 dicembre 2012, risultano unitariamente riconducibili nell’ambito di applicabilità dell’art. 23 della legge cit. (Avvocati degli enti pubblici) a mente del quale: “1. Fatti salvi i diritti acquisiti alla data di entrata in vigore della presente legge, gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all’albo. l’iscrizione nell’elenco è obbligatoria per compiere le prestazioni indicate nell’articolo 2. nel contratto di lavoro è garantita l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato. 2. Per l’iscrizione nell’elenco gli interessati presentano la deliberazione dell’ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell’ente stesso e l’appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità dell’ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell’elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale. 3. Gli avvocati iscritti nell’elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 per il giudizio poiché la corte territoriale avrebbe errato nel riconoscere agli avvocati dell’inPS, dipendenti di quest’ultimo ente, oltre ai compensi professionali, l’iVa e la cPa. la doglianza merita accoglimento, in quanto gli avvocati dell’inPS, sono dipendenti di quest’ultimo ente, con la conseguenza che la prestazione da loro resa in favore di detta P.A. non è assoggettata ad IVA ex D.P.R. n. 633 del 1972, non venendo in rilievo una cessione di beni od una prestazione di servizi nell’esercizio di una professione. inoltre, essi non sono iscritti all’albo ordinario degli avvocati, ma ad un albo speciale e quindi, non alla Cassa previdenziale degli Avvocati, ma ad una apposita gestione separata, al che consegue la non debenza della cPa” (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 6343/2023). Pertanto, posto che non debbano riconoscersi IVA e CPA, tuttavia, a carico del datore di lavoro/Ente pubblico, sussistono degli oneri aggiuntivi in virtù della peculiare posizione lavorativa subordinata. Tali oneri, che verranno meglio definiti nel prosieguo come oneri previdenziali e assistenziali, devono essere tenuti distinti tanto dalla posta retributiva “fissa” quanto dalla posta “variabile” costituita dagli onorari (o propine) in quanto “la corresponsione dei compensi professionali (cd. onorari) che, come è noto, non presentano i requisiti di stabilità, predeterminazione, fissità e continuità propri, invece, dello stipendio tabellare, vada effettuata al netto degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro” (Corte dei Conti, Sez. Reg. Controllo Emilia Romagna, Delibera n. 34/2007/par n. 4). 1.1 Gli oneri diretti e gli oneri riflessi. L’iRAP. Per l’esatta perimetrazione della locuzione “oneri riflessi” è di ausilio la giurisprudenza contabile che ha rimarcato la distinzione tra oneri fiscali, da un lato, e oneri previdenziali e assistenziali, dall’altro, chiarendo che i primi sarebbero “diretti” in quanto a carico dell’Amministrazione stessa in contrapposizione con i secondi “indiretti” e, quindi, “riflessi” (Corte dei Conti, Sezioni Riunite, deliberazione n. 33/COnT/2010). Dunque “l’espressione oneri riflessi, se da una parte ricomprende gli oneri previdenziali e assistenziali, dall’altra, non può estendersi all’IRAP ” (da ultimo Corte dei Conti, adunanza n. 2/SEZ.AUT/2023) in quanto “per detti soggetti, non si realizzano i presupposti per l’applicazione dell’iraP dato che tali soggetti sono privi di autonoma organizzazione... infatti, il presupposto impositivo dell’iraP si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura retributiva (agenzia delle entrate, risoluzione n. 123/e del 2 aprile 2008) bensì unicamente sul datore di lavoro ” PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO (Corte dei Conti, Sezioni Riunite, deliberazione n. 33 cit., ripresa anche ex multis da Cass. Civ., Sez. Lav., ordinanza n. 21398/2019 e da Cass. Civ., Sez. Lav., ordinanza n. 4681/2024). Del resto, l’espunzione dell’IRAP dagli oneri riflessi risulta altresì pacifica da un’analisi sistematica della medesima legge finanziaria per il 2006 in quanto “il legislatore fa espressamente riferimento all’iraP nei commi 181 (“comprensive degli oneri contributivi e dell’iraP), 185 (“comprensive degli oneri contributivi e dell’iraP) e 198 (“al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’iraP); diversamente, nel comma 208, oggetto della richiesta interpretativa, si fa riferimento esclusivamente agli “oneri riflessi” che, specie nel comma 198, sono distinti dagli oneri fiscali derivanti dall’iraP. il confronto tra le espressioni utilizzate dal legislatore nei commi citati (in particolare i commi 198 e 208) della stessa legge finanziaria n. 266 del 2005, secondo il princpio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit (corte conti, sez. reg. di controllo per il molise, n. 6/2009/Par), conduce ad escludere, in base al criterio testuale, che l’IRAP possa qualificarsi quale species degli oneri riflessi” (Corte dei Conti, Sezioni Riunite, deliberazione n. 33 cit.; nonché, altresì, Corte dei Conti, Sez. Reg. Controllo Emilia Romagna, Delibera n. 34 cit.). Ricostruito, quindi, il quadro generale emerge un primo punto fisso della disciplina, ossia che nella definizione di oneri riflessi non può mai includersi l’iRAP che per sua natura di “onere diretto”, ove ne ricorrano i presupposti, grava sempre ed esclusivamente sull’ente/datore di lavoro. 2. La liquidazione onnicomprensiva operata dal giudice. i profili interni. Quanto evidenziato, tuttavia, non è sufficiente a dirimere tutti i dubbi interpretativi poiché, come precedentemente osservato, il dibattito si è ulteriormente sviluppato con riferimento a un diverso profilo, ossia se i suddetti oneri riflessi (solo contributivi e previdenziali, senza oneri fiscali e IRAP) possano o meno considerarsi già inclusi nella liquidazione operata in sede di regolamentazione delle spese dal giudice. In altri termini, ci si è chiesti se il quantum liquidato in sede di sentenza sia già comprensivo degli “oneri riflessi” -dovendo, quindi, l’Ente/datore di lavoro operare una trattenuta prima di versare gli onorari -oppure se il quantum liquidato sia riferibile esclusivamente agli onorari dell’avvocato, ricadendo il peso degli oneri riflessi sull’Ente/datore di lavoro. 2.1 La sentenza n. 33 del 2009 della Corte Costituzionale. La prima posizione, concernente la possibilità che la liquidazione operata dal giudice in sede di regolamento delle spese sia onnicomprensiva tanto della retribuzione professionale degli avvocati/dipendenti quanto degli oneri riflessi, è stata sottoposta al vaglio della Consulta. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 Difatti, all’indomani dell’entrata in vigore della summenzionata norma contenuta nella finanziaria 2006 il giudice delle leggi è stato chiamato a pronunciarsi circa la lamentata violazione del principio di solidarietà ex artt. 2 e 3 Cost. nonché circa l’eventuale lesione della libertà di contrattazione collettiva ex art. 39 Cost. In particolare, secondo il giudice rimettente, l’art. 1 comma 208, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, “prevedendo che i compensi comunque corrisposti a personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche debbano considerarsi “al lordo” degli oneri contributivi a carico del datore di lavoro, violerebbe il principio di solidarietà di cui agli articoli 2 e 3 cost., in quanto l’intervento di contenimento della spesa pubblica operato dalla norma censurata colpirebbe, irragionevolmente, soltanto una ristretta cerchia di pubblici dipendenti”. Inoltre, “la norma censurata, per una conclamata esigenza di contenimento della spesa pubblica, ha introdotto una deroga all’art. 2115 del codice civile, che prevede, in via di principio, per l’imprenditore ed il prestatore di lavoro l’obbligo di contribuzione, in parti uguali, alle istituzioni di previdenza ed assistenza ” e, invece, secondo il giudice rimettente “avrebbe illegittimamente operato una trattenuta [...] con conseguente decurtazione del complessivo trattamento retributivo [...] altresì, in contrasto con l’art. 39 cost., comprimendo la sfera riservata alla contrattazione collettiva in materia di retribuzione. infatti, mentre il regolamento procede a mezzo di vari contratti collettivi che si succedono nel tempo, la norma censurata pone in contrasto con “specifiche previsioni contrattuali” e quindi con l’art. 39 cost. nel quale trova fondamento la generale autonomia collettiva”. Il giudice delle leggi, dopo aver rammentato “che tutti i legali dipendenti di enti pubblici non economici fruiscono, in aggiunta allo stipendio tabellare, di una quota di retribuzione quantificata sulla base della legge e delle tariffe professionali forensi” ha ritenuto non fondate tutte le questioni sollevate, precisando che “nel caso di specie, l’accollo contributivo posto ad integrale carico del lavoratore riguarda soltanto la parte relativa ai compensi professionali e non l’intera retribuzione complessiva. non ricorre alcuna violazione neppure dell’art. 3 cost. sotto entrambi i profili enunciati. con riferimento alla parità di trattamento, il personale dell’avvocatura interna delle pubbliche amministrazioni è il solo che percepisce i suddetti compensi, sicché manca un tertium comparationis su cui operare il raffronto con il trattamento economico riservato agli altri dpendenti dell[a medesima] amministrazione. né sussiste la manifesta irragionevolezza che si assume desunta dalla sotto- posizione alla medesima imposizione di compensi di diversa natura e funzione, perché -nell’ottica della traslazione degli oneri previdenziali -è del tutto irrilevante la derivazione di quei compensi dalla condanna di controparte alle spese del giudizio, piuttosto che dalla loro compensazione tra le parti. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 39 cost., si rileva che la norma censurata PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO non mira ad una riduzione del trattamento retributivo complessivo dell’avvocato dipendente previsto dalla contrattazione collettiva, ma disciplina piuttosto la distribuzione del carico contributivo tra ente pubblico-datore di lavoro e dipendente. e tale materia è estranea all’ambito dell’autonomia negoziale collettiva”. Dunque, riassumendo, la Corte Costituzionale ha ritenuto di salvare la norma evidenziando la legittimità costituzionale della traslazione del peso degli oneri riflessi sull’avvocato/dipendente -in luogo dell’Ente/datore di lavoro -in quanto tale trattenuta, andando a incidere solo sulla quota variabile (quale gli onorari), non lede la retribuzione fissa stipendiale. 2.2 La giurisprudenza della Corte di Cassazione. La questione è stata altresì posta all’attenzione della Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in molteplici occasioni sull’espressa domanda del ricorrente -quale il dipendente/avvocato interno -che, impugnando la liquidazione operata dall’Ente/datore di lavoro degli onorari di causa al “lordo degli oneri riflessi”, lamenta l’illegittimità della trattenuta. Ebbene, la Corte di Cassazione ha confermato l’assetto prospettato dalla Corte Costituzionale ritenendo che la trattenuta operata dall’Ente/datore di lavoro sia da considerarsi legittima proprio in virtù della natura accessoria degli onorari (quota variabile) rispetto alla retribuzione fissa stipendiale. Dunque, nel confermare la legittimità della liquidazione dei compensi al lordo degli onorari ha evidenziato che “la deroga al principio del concorso negli oneri contributivi è, nel caso di specie, limitata alle sole somme erogate per compensi professionali che, seppur aventi natura retributiva, assumono un aspetto accessorio dell’intera retribuzione. Peraltro, se non può negarsi che un diverso assetto, comunque si ripete selettivamente limitato ai soli compensi professionali, del riparto dell’onere contributivo incide necessariamente sul quantum della erogazione netta, va pur detto che la possibilità di operare tale deroga da parte della legge non lede la competenza della contrattazione collettiva perché l’intervento, come rilevato dalla corte costituzionale, riguarda il regime degli oneri contributivi che accedono alla prestazione e non la regolamentazione dell’emolumento in sé considerato” e, dunque, poiché “la nozione di “compensi professionali” da liquidare agli avvocati interni, contenuta nei ccnl e nei regolamenti interni, va riferita ai diritti ed onorari di avvocato liquidati dal giudice e la questione che forma oggetto del giudizio è se tali compensi devono considerarsi al lordo dei c.d. “oneri riflessi ” (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 16579/2017; conformi Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 16838/2017, Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 17356/2017 e, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., ord. n. 15489/2023). Dunque, fermo che “con l’entrata in vigore delle norme citate l’importo versato ai propri dipendenti è da considerarsi al lordo degli oneri riflessi [...] RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 È del tutto evidente che, con l’approvazione di tale legge, è stato (di fatto) ridotto il trattamento retributivo degli avvocati dipendenti degli enti pubblici; né la corte costituzionale, nella sententa n. 33 del 2009, ha affermato il contrario [...] la corte costituzionale afferma che non è stata influenzata la retribuzione lorda degli avvocati/dipendenti, poiché la diversa ripartizione degli oneri contributivi ha inciso sul netto percepito dagli stessi. La conseguenza dell’introduzione di tale norma di legge è che l’ente pubblico sopporta un costo minore nella propria difesa in giudizio, poiché gli oneri contributivi sono posti a carico dei dipendenti cui vengono distribuiti gli importi riconosciuti a titolo di rimborso delle spese di lite ” (Cass. Civ, Sez. II, ord. n. 7499/2023). In conclusione, per la giurisprudenza di legittimità, la trattenuta del- l’Ente/datore di lavoro degli “oneri riflessi” deve operarsi sull’ammontare lordo liquidato dal giudice: conseguentemente, a seguito dell’introduzione del- l’art. 1 comma 208 della legge finanziaria 2006, incidendo la suddetta trattenuta sugli onorari, il costo degli “oneri riflessi” è traslato dall’Ente/datore di lavoro sull’avvocato/dipendente, riducendo di fatto il trattamento economico globalmente inteso (fisso e variabile). 3. La liquidazione degli “oneri riflessi”. Conformemente a tale orientamento formatosi con riferimento al profilo prettamente interno del rapporto di lavoro che, quindi, riguarda esclusivamente il riparto datore/Ente e dipendente/avvocato, si sono registrate altresì pronunce che hanno preso espressamente posizione circa l’addebitabilità degli “oneri riflessi” a carico della controparte. 3.1 L’orientamento che, negando la liquidazione espressa degli oneri riflessi, non consente di porli a carico della parte soccombente. La pronuncia maggiormente esaustiva sul punto risulta essere Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 7499/2023, già precedentemente cit. sub § 2.2, che ha compiutamente evidenziato “Quanto alla richiesta di “Maggiorazione per oneri riflessi” formulata dalla Provincia di Verona nel controricorso [...] dall’intepretazione testuale delle predette norme emerge che esse agiscano esclusivamente nei rapporti interni tra datore di lavoro e avvocato/dipendente, anche perché ispirate a finalità di contenimento della spesa pubblica. infatti, mentre in precedenza gli importi da corrispondere agli avvocati dipendenti degli enti pubblici, sulla base delle previsioni del c.c.n.l. applicabile, erano pari alle spese di lite riconosciute a favore dell’ente ed era poi a carico del- l’amministrazione pubblica il pagamento della relativa contribuzione, con l’entrata in vigore delle norme citate l’importo versato ai propri dipendenti è da considerarsi al lordo degli oneri riflessi. È del tutto evidente che, con l’approvazione di tale legge è stato (di fatto) ridotto il trattamento retributivo PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO degli avvocati dipendenti degli enti pubblici: né la corte costituzionale, nella sentenra n. 33 del 2009, ha affermato il contrario [...] la corte costituzionale afferma che non è stata influenzata la retribuzione lorda degli avvocati/dipendenti, poiché la diversa ripatizione degli oneri contributivi ha inciso sul netto percepito dagli stessi. la conseguenza dell’introduzione di tale norma di legge è che l’ente pubblico sopporta un costo minore nella propria spesa in giudizio, poiché gli oneri contributivi sono posti a carico dei dipendenti cui vengono distribuiti gli importi riconosciuti a titolo di rimborso delle spese di lite. Trattandosi di somme che attengono al rapporto retributivo del difensore con il proprio ente di appartenenza, appare evidente che la pretesa di ottenere, a carico della controparte soccombente, il pagamento degli oneri riflessi risulti infondata”. Con motivazione più stringata, si registra altresì nel medesimo anno Cass. Civ., Sez. Lav., ord. n. 15489/2023 che afferma “in armonia con le conclusioni rassegnate nel controricorso non si provvede alla liquidazione di i.V.a. e c.p.a, in quanto il patrocinio del comune è stato esercitato da avvocati interni dell’ente (si confronti in fattispecie analoga, cass. n. 6346 del 2023). Le spese legali vengono quindi liquidate in misura già comprensiva di tutti gli oneri ivi compresi quelli cd. riflessi (cfr. in tal senso cass. n. 16579 del 2017, ma anche la successiva conforme cass. n. 31989 del 2018, entrambe in termini, sebbene riferite ad avvocati interni di enti del cd. parastato)”. 3.2 L’orientamento che, statuendo espressamente sugli oneri riflessi, consente di porli a carico della parte soccombente. Tuttavia, a tale orientamento, si contrappongono talune pronunce distoniche che, invece, liquidando espressamente nel dispositivo la voce “oneri riflessi” parrebbero addossare il suddetto costo a carico della parte soccombente: in tal modo, la liquidazione si sposterebbe da un piano finora squisitamente interno -relativo al rapporto lavorativo -a un piano esterno, di natura prettamente processuale. nello specifico, trattasi di T.a.r. Bologna, sent. n. 151/2016 secondo il quale “le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. A tale ultimo proposito, per completezza espositiva, merita un cenno la questione, discussa in pubblica udienza, circa la liquidabilità degli oneri riflessi a carico della parte saccombente, laddove risulti vittoriosa, come nel caso di specie, un’amministrazione pubblica difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale. il collegio ritiene che risponda a criteri di ragionevolezza equiparare gli avvocati dell’avvocatura pubblica a quelli del libero foro, per quanto riguarda l’attività da essi svolta in giudizio, fermi restando i rapporti interni tra l’avvocato pubblico e l’ente datore di lavoro. di conseguenza laddove, come nel caso di specie, risulti vittoriosa un’amministrazione pubblica difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale, la formula comu RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 nemente utilizzata nella parte dispositiva “oltre oneri accessori di legge” deve essere intesa nel senso che devono essere corrisposti, dalla parte soccombente, i cd. “oneri riflessi” nella misura di legge, in luogo del CAP e dell’IVA dovuti nella misura di legge all’avvocato del libero foro” (conforme altresì T.a.r. Piemonte, sentenza n. 1104/2017). Da ultimo, sempre nel medesimo tracciato interpretativo si segnalano le Sezioni Unite della Cassazione, n. 3592/2023 che -seppur emesse su profili non concernenti gli oneri riflessi, ma relativi esclusivamente a profili di giurisdizione -in sede di regolamento delle spese di lite hanno affermato espressamente “il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento, in favore del controricorrente Comune di Milano, delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo, con il riconoscimento degli invocati oneri riflessi in sostituzione di iva e cpa, essendo stato detto comune patrocinato dalla sua avvocatura interna”. La summenzionata pronuncia è stata, poi, acriticamente seguita anche dalla giurisprudenza amministrativa, tra cui Cons. St. sez. VII, sentenza n. 5754/2023, “le spese seguono la soccombenza. essendo il comune di napoli rappresentato e difeso in giudizio dagli avvocati dell’avvocatura comunale interna, vanno riconosciuti in favore dei difensori non solo i compensi professionali spettanti, ma, in sostituzione di iva e cpa, anche gli oneri riflessi, nella misura e sulle voci come per legge (cass. sez. unite civili -ordinanza 6 febbraio 2023 n. 3592)” (conforme, altresì, T.a.r. milano, sez. II, sentenza n. 1307/2023) nonché, ancor più di recente e sempre esclusivamente in sede di regolamento delle spese di lite, Cass. Civ. sez. II, ord. n. 29654/2024 “la corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del comune controricorrente, delle spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 2.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% ed oneri riflessi”. 4. La risposta al quesito posto. A parere della Scrivente occorre darsi continuità alla posizione espressa dalla Corte di Cassazione che ha confermato l’assetto delineato dalla Corte Costituzionale e, quindi, circa l’esclusiva dimensione interna degli oneri riflessi. Del resto, la pronuncia della Consulta ha evidenziato, sul piano sostanziale, che a seguito della novella normativa gli oneri riflessi non sono più a carico della parte che sta in giudizio (l’Ente) bensì di un suo dipendente (l’Avvocato dell’Ente), non sussistendo, quindi, i presupposti per considerare tale voce come una spesa subita dalla parte soccombente. Inoltre, mentre da un lato le pronunce che hanno dato seguito alla summenzionata statuizione della Consulta sono intervenute in giudizi direttamente concernenti la questione, le pronunce registrate di segno opposto si sono di PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO scostate da tali principi esclusivamente nella fase di regolamentazione delle spese di lite: conseguentemente, la liquidazione di tali oneri riflessi, è avvenuta incidenter senza che possano considerarsi affrontate e, quindi, superate le corpose argomentazioni di Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 7499/2023 (cfr. supra § 2.2 e 3.1). Inoltre, occorre altresì considerare la base normativa e la tipologia di spese delle quali trattasi. mentre, infatti, sussiste una espressa previsione che pone a carico della parte soccombente la ripetizione, per i c.d. avvocati del libero foro, di IVA e CPA, altrettanto non può dirsi per le avvocature c.d. interne. 4.1 L’ivA e i contributi previdenziali per il lavoratore autonomo. In particolare, gli avvocati liberi professionisti sono qualificabili, ai fini IVA, come eroganti una prestazione (professionale) di servizi nonché, a fini impositivi, come lavoratori autonomi. Dal ché, per l’IVA, l’art. 18 del d.P.R. n. 633/1972 stabilisce che “il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente ”: ne discende che l’addebito nei confronti dell’originario committente, quale la parte patrocinata in giudizio, trasla sul soggetto soccombente proprio in virtù di quanto statuito dal già citato art. 91 c.p.c. Specularmente, per quanto concerne la Cassa Previdenziale Avvocati, posto che ai sensi dell’art. 1 del Regolamento Unico della Previdenza Forense l’iscrizione alla Cassa è obbligatorio, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 2, comma 26, della legge 335/1995 (2) e ex art. 1, comma 212, della legge 662/1996 (3), ai fini previdenziali e assistenziali, il lavoratore auto (2) a decorrere dal 1 gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l’inPS, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’articolo 49 [che, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2, comma 4 del D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, il riferimento al presente articolo, deve intendersi l’attuale art. 53] del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al comma 2, lettera a), dell’articolo 49 del medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio di cui all’articolo 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426. Sono esclusi dall’obbligo i soggetti assegnatari di borse di studio, limitatamente alla relativa attività”. (3) “ai fini dell’obbligo previsto dall’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i soggetti titolari di redditi di lavoro autonomo di cui all’articolo 49, comma 1 [che, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2, comma 4 del D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, il riferimento al presente articolo, deve intendersi l’attuale art. 53], del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, hanno titolo ad addebitare ai committenti, con effetto dal 26 settembre 1996, in via definitiva, una percentuale nella misura del 4 per cento dei compensi lordi ”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 nomo ha il diritto di addebitarne ai committenti (e, dunque, anche in tal caso, per essi, alla parte soccombente) una percentuale sui compensi. 4.2 il lavoratore subordinato. Al contrario, il professionista delle c.d. avvocature interne è un lavoratore di tipo subordinato, sebbene con acclarate peculiarità. Pertanto, come ricordato dalla giustizia contabile in tema di IRAP (cfr. supra § 1.1), gli oneri riflessi in quanto qualificabili come oneri previdenziali e assistenziali spettano al datore di lavoro ex art. 2115 c.c. a mente del quale “Salvo diverse disposizioni della legge, l’imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza. l’imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali. È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all’assistenza”. La clausola di salvaguardia introduttiva dell’art. 2115 c.c., come confermato dalla menzionata Corte Costituzionale del 2009, ricomprende anche la previsione dell’art. 1 comma 208 della legge finanziaria 2006, nella parte in cui prevede -in deroga alla previsione delle “parti eguali” -una suddivisione del peso previdenziale e assistenziale in parti diverse, ossia a carico (integrale) dell’avvocato/lavoratore dipendente, incidendo sulla retribuzione “variabile” (gli onorari) e, dunque, non equamente ripartita (cfr. § 2.1). Tuttavia, tale diversa ripartizione concerne esclusivamente un profilo interno del rapporto lavorativo e, infatti, occorre rimembrare il dato normativo dal quale si è partiti nell’estensione del presente parere ossia che “le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrarioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro”. ne consegue che, se da un lato è ammissibile una suddivisione interna diversa -dalle “parti eguali” richiesta dall’art. 2115 c.c. -del carico assistenziale e previdenziale, dall’altro è da escludersi l’addebito di tali contributi su di un soggetto estraneo al rapporto lavorativo in assenza di una espressa previsione normativa come, invece, è possibile riscontrare nell’ipotesi di lavoratori autonomi (confronta supra § 4.1). 5. i rimedi esperibili nel caso concreto. Posto quanto sopra, occorre esaminare i rimedi esperibili nel caso concreto. 5.1 Generica condanna. nel caso in cui non vi sia una statuizione espressa relativa agli “oneri riflessi” bensì una generica indicazione di “rimborso spese generali ed ac PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO cessori di legge”, la richiesta dell’Ente dovrà essere disattesa, poiché non suffragata né da una base normativa né da una espressa statuizione del giudicante. Anzi, in sede di opposizione ex art. 615 c.p.c. si è registrata un’interessante pronuncia del Tribunale di Torino che, nel rigettare in sede esecutiva la richiesta del Comune di Torino al pagamento degli “oneri riflessi”, ha condiviso l’impostazione tanto della sentenza n. 33 del 2009 della Corte Costituzionale quanto dell’ordinanza n. 7499/2023 della Cassazione evidenziando, ulteriormente, che “la conseguenza dell’introduzione di tale norma di legge [quale l’art. 1 comma 208 della legge del 23 dicembre 2005, n. 266] è che l’ente pubblico sopporta un costo minore nella propria difesa in giudizio, poiché gli oneri contributivi sono posti a carico dei dipendenti cui vengono distribuiti gli importi riconosciuti a titolo di rimborso delle spese di lite. richiamando quanto sopra detto in merito alla finalità dell’articolo 91 c.p.c., appare evidente che la pretesa di ottenere, a carico della parte soccombente, il pagamento degli oneri riflessi è chiaramente infondata: infatti, se la condanna alla refusione delle spese di lite è fatta a favore della parte e non del suo difensore, non si vede come il comune di Torino possa chiedere [...] il pagamento di un importo che non è tenuto a versare alla propria avvocatura interna. Paradossalmente, il diritto alla maggiorazione delle spese di lite con riferimento agli oneri riflessi poteva essere vautato in epoca precedente all’entrata in vigore della legge 266/2005, in quanto era un onere che la parte sopportava per la propria difesa in giudizio; con la riforma operata da tale norma, non vi è ragione per gravare la parte soccombente alla rifusione di un onere che la parte vittoriosa non deve pagare” (Trib. Torino, sentenza n. 640/2021). Si menziona, tra l’altro, in tema di debenza delle spese processuali, la recente pronuncia del Consiglio di Stato che, con sentenza n. 9819 del 6 dicembre 2024, ha sottolineato “quanto alle spese processuali riconosciute in sentenza, deve ritenersi che esse siano dovute solo se e nella misura in cui sono previsti dalla legge, tanto che sono dovute anche se non menzionate specificamente in sentenza (cass. civ., sez. ii, n. 9385 del 2019, sez. lav., n. 3970 del 2018); di conseguenza, la previsione che figura nella impugnata sentenza deve essere ritenuta pleonastica, comunque non lesiva della posizione soggettiva della parte, in quanto accompagnata da una previsione (che può anche essere solo implicita) di conformità alla legge”. Trattasi, in concreto, del caso relativo alla Città metropolitana di milano di cui alla richiesta di parere formulata dall’Avvocatura Distrettuale di milano su richiesta dell’Agenzia delle Dogane e dei monopoli, Direzione Territoriale Lombardia. 5.2 espressa condanna. nel caso in cui, invece, vi sia una espressa condanna al pagamento anche degli “oneri riflessi”, calcolati in sostituzione di IVA e CPA come nella RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 giurisprudenza citata sub § 3.2, risulterebbe opportuno -a fortiori ove siano rinvenibili ulteriori profili di censura -impugnare la suddetta statuizione anche al fine di sottoporre (4) il contrasto giurisprudenziale al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione. Trattasi, in concreto, del caso relativo alla Regione Umbria sottoposto dal ministero dell’Economia e delle Finanze e, per il quale, è pendente il termine per il ricorso in Cassazione. Reso il parere nei termini espressi, si resta a disposizione. Le questioni oggetto del parere, considerati i profili di massima, sono state sottoposte all’esame del Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 22 gennaio 2025. (4) In questo caso espressamente, al contrario di quanto statuito da SS.UU. n. 3592/2023. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO 219 Rateizzazione del debito per RPt (ossia i dazi doganali da versare all’unione europea) concessa dall’Agente della riscossione. Rilievi della Corte dei Conti ue e della Commissione sul criterio adottato dall’italia in sede di ripartizione/imputazione delle somme a valere su tributi, interessi e spese amministrative Parere del 21/03/2025-205744-45, al 14858/2018, Sez. iii, aVV. GioVanni PalaTiello indice e sommario. i. L’originaria richiesta di parere di cui alla nota di codesta Agenzia prot. n. 39560/Ru del 5 aprile 2018 ..................................................................................... p. 2 ii. il parere interlocutorio di questa Avvocatura Generale di cui alla nota prot. 432069 del 28 giugno 2023 ....................................................................................... p. 4 iii. Le precisazioni fornite dai Servizi della Commissione europea con la nota Ares (2023)8084776 del 27 novembre 2023 ............................................................ p. 4 iv. La richiesta istruttoria di questa Avvocatura Generale di cui alla nota prot. 374732 del 5 giugno 2024 ......................................................................................... p. 6 v. il riscontro fornito da codesta Agenzia con nota prot. 682859/Ru del 12 novembre 2024 .............................................................................................................. p. 6 v.1. La nota dei Servizi della Commissione Ares (2024) 5737841 dell’8 agosto 2024, trasmessa successivamente alla nota del 12 novembre 2024 ...................... p. 7 v.2. Gli sviluppi successivi della vicenda sino al mese di febbraio 2025 ............. p. 8 vi. individuazione della questione giuridica posta ............................................... p. 8 vi.1. Analisi della questione giuridica posta .......................................................... p. 10 vii. L’articolo 9, paragrafo 2, della decisione del Consiglio n. 2020/2053/ue, euratom relativa al sistema delle risorse proprie dell’unione europea .................. p. 18 viii. Conclusioni ....................................................................................................... p. 19 i. L’originaria richiesta di parere di cui alla nota di codesta Agenzia prot. n. 39560/Ru del 5 aprile 2018. Con nota prot. n. 39560/RU in data 5 aprile 2018 codesta Agenzia ha sottoposto alle valutazioni di questa Avvocatura Generale una delicata e complessa questione inerente, in estrema sintesi, al criterio adottato dall’Italia in sede di ripartizione/imputazione delle somme a valere su tributi, interessi e spese amministrative, corrisposte dal debitore iscritto a ruolo, che abbia ottenuto, dall’agente della riscossione, la rateizzazione del proprio debito, costituito da dazi doganali -annoverabili tra le c.d. Risorse Proprie Tradizionali ex art. 2 comma 1, lett. a) della Decisione 14 dicembre 2020 n. 2020/2053/UE Euratom, relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea, da mettere a disposizione del bilancio dell’Unione -ed imposte nazionali (in genere, Iva all’importazione), destinate al bilancio nazionale. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 nella richiesta di parere si rappresenta che su tale questione “è in corso da tempo un serrato confronto con le istituzioni europee che potrebbe sfociare, a breve, (ove non risolto) in una procedura d’infrazione a carico dell’italia”. Tanto premesso, codesta Agenzia espone che l’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973 attribuisce ad Agenzia Entrate-Riscossione la facoltà di concedere al contribuente (ove quest’ultimo si trovi in una situazione di “obiettiva difficoltà”) il pagamento in modalità rateizzata delle somme iscritte a ruolo, fino ad un massimo di settantadue rate mensili; detta rateazione ha ad oggetto l’intero importo iscritto a ruolo che è costituito non solo dalle imposte accertate ma anche dagli interessi di mora maturati, nonché dai costi sostenuti dall’amministrazione per l’attività di accertamento/riscossione (istruttorie, notifica degli atti, ecc..); su tali somme gravano, inoltre, gli ulteriori interessi dovuti dai contribuenti in virtù della agevolazione ottenuta (la rateazione del debito). In base all’articolo 31 del citato d.P.R., gli importi rateizzati (che possono essere generati sia da tributi nazionali, sia -per quanto d’interesse in questa sede -da Risorse proprie tradizionali, ossia i dazi doganali da versare al- l’Unione europea), vengono suddivisi proporzionalmente tra tributi nazionali (in genere, IVA all’importazione), Risorse proprie tradizionali, interessi e oneri amministrativi vari: in sostanza, ogni rata comprende una quota proporzionale di ciascun cespite iscritto a ruolo. Al riguardo codesta Agenzia rappresenta che “la corte dei conti europea e la commissione ue contestano... detto criterio di ripartizione/imputazione del debito, ritenuto non conforme alle “disposizioni europee”, adducendo, in buona sostanza, le seguenti argomentazioni: a) la ripartizione e la rateazione in argomento dovrebbero assicurare prioritariamente il soddisfacimento del “capitale”, ossia la porzione “tributaria” delle somme dovute dal contribuente, anziché includere sin dall’inizio le sopra citate quote a valere su interessi e spese amministrative: secondo le istituzioni unionali, le rate dovrebbero essere esclusivamente costituite dal debito tributario (sia di fonte europea che nazionale) fino ad integrale restituzione dello stesso, e, solo in un secondo tempo, da interessi e costi amministrativi; in pratica, l’incidenza di dette ultime componenti sull’intero piano di rateazione (secondo il metodo attualmente in uso) comporterebbe, di fatto, una “riduzione” delle risorse proprie tradizionali dell’ue in occasione della riscossione di ogni singola rata, oltre che una indebita discriminazione tra tributi nazionali e dazi doganali. Per quanto riguarda i costi amministrativi, la loro remunerazione -affermano le autorità europee -è peraltro già assicurata, relativamente ai dazi, dalla ritenuta ad hoc del 20% prevista dall’art. 2, paragrafo 3, della decisione del consiglio ue del 26 maggio 2014 (sul “sistema delle risorse proprie dell’unione europea”, pubblicata in Guue/serie l 168 del 7 giugno 2014) applicata all’atto di ogni versamento delle rPT al PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO bilancio ue, conseguendone che l’erario europeo finisce, in definitiva, per scontare ben 2 volte gli oneri in questione. Codesta Agenzia espone, in particolare, che secondo le Istituzioni Europee, il criterio di riscossione delle RPT sino ad ora utilizzato dalle autorità nazionali si porrebbe in contrasto con quanto stabilito dal “Compendio” diramato dalla Commissione il 25 giugno 2013 in tema di “Procedura interna per la gestione dei casi di inesigibilità (write-off)” il quale, al punto 3.2, lettera c), specifica in particolare che “...ogni importo che sia stato recuperato ... deve essere ripartito proporzionalmente tra i due tipi di risorse (RPT e diritti nazionali), prima della detrazione delle spese di riscossione e degli interessi”. Su tali basi “le istituzioni europee hanno a più riprese chiesto all’italia ... di: 1) rettificare la contestata procedura in conformità alle poc’anzi riferite istruzioni europee: il che significherebbe intervenire, in primis, sul vigente impianto normativo di cui ai sopra richiamati artt. 19 e 31 del dPr n. 602/73; 2) effettuare una ricognizione a livello nazionale di tutti i casi trattati in base al contestato metodo di ripartizione, dal 2014 ad oggi; 3) mettere a disposizione dell’ue, senza indugio, tutte le connesse perdite di rPT sinora accumulate, onde interrompere l’ulteriore maturazione di interessi di mora”. Codesta Agenzia ha poi esposto le argomentazioni giuridiche sino ad ora utilizzate nelle interlocuzioni con le Istituzioni europee per difendere la posizione italiana. In conclusione codesta Agenzia “pur convenendo sul rilievo inerente i costi amministrativi (effettivamente già coperti dalla prevista ritenuta del 20%), non ritiene ammissibile la pretesa dell’u.e. di “differire”, nell’ambito della rateazione, il recupero degli interessi”. Tutto ciò rappresentato, viene chiesto se -ad avviso della Scrivente -“vi siano le condizioni giuridiche e fattuali per poter insistere sulla linea difensiva sinora osservata da questa agenzia (considerata la delicatezza dei profili messi in discussione dalla commissione europea, nonché l’onerosità e la complessità degli eventuali correttivi da porre in essere per ottemperare alle richieste dell’autorità di Bruxelles), anche a fronte dell’eventuale avvio di una procedura contenziosa nei confronti dell’italia, fino al possibile deferimento del caso dinnanzi alla corte di Giustizia, ovvero se sia più opportuno, se non necessario, recedere da ogni ulteriore forma di resistenza”. ii. il parere interlocutorio di questa Avvocatura Generale di cui alla nota prot. 432069 del 28 giugno 2023. In riscontro alla illustrata nota prot. n. 39560/RU in data 5 aprile 2018 di codesta Agenzia, questa Avvocatura Generale ha fornito un primo parere interlocutorio (di cui alla nota prot. 432069 del 28 giugno 2023) con il quale ha suggerito a codesta Agenzia di richiedere “alle istituzioni unionali, tramite rappresentanza Permanente, in relazione alla scheda di constatazioni preli RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 minari n. 1508 (che dovrebbe essere quella che ci occupa e che, al momento, sembrerebbe essere sospesa), la chiara e precisa indicazione della base giuridica eurounitaria (vincolante) per gli Stati Membri del criterio indicato dalla Commissione e comunque specifici chiarimenti sulle ragioni per le quali il criterio di rateizzazione utilizzato dalle autorità italiane comporterebbe una diminuzione delle rPT messe a disposizione dell’unione ”. iii. Le precisazioni fornite dai Servizi della Commissione europea con la nota Ares (2023) 8084776 del 27 novembre 2023. Con nota prot. 10640/RI del 6 maggio 2024 codesta Agenzia ha qui trasmesso “il parere fornito dai servizi della commissione con nota ares (2023)8084776 del 27 novembre 2023 ”, evidenziando che “nella sezione “scheda di constatazioni preliminari n. 1508” la direzione generale bilancio B4 ha individuato i principi di equivalenza e di effettività quali basi giuridiche per la richiesta di modifica della procedura di ripartizione e rateazione posta in essere dall’italia, sostanzialmente orientata ad ottenere il prioritario soddisfacimento del “capitale” dovuto a titolo di rPT ”. In particolare, nella nota Ares (2023) 8084776 del 27 novembre 2023, i servizi della Commissione, nel paragrafo rubricato “Scheda di constatazioni preliminari n. 1508”-Gli interessi sono detratti prima della suddivisione proporzionale fra dazi nazionali e risorse proprie tradizionali”, hanno esposto e dedotto quanto segue: “I servizi della Commissione avevano chiesto una modifica della procedura per renderla conforme al compendio, alla normativa sulle risorse proprie e all’articolo 325 TFue e avevano sottolineato che occorreva risolvere rapidamente ed efficacemente questa annosa questione. le autorità italiane erano state invitate a informare i servizi della commissione in merito alle misure correttive previste e alle (potenziali) tempistiche per l’attuazione delle stesse ed erano state avvertite del fatto che, in caso di disaccordo persistente, i servizi della commissione si sarebbero visti costretti a prendere in considerazione questo fascicolo ai fini dell’apertura di una procedura di infrazione a norma dell’articolo 258 TFue. le perdite pregresse di rPT avrebbero dovuto essere messe a disposizione senza ulteriore indugio, al fine di interrompere il cumulo degli interessi di mora. Le autorità italiane hanno invitato i servizi della commissione a fornire: -indicazione puntuale della base giuridica eurounitaria (vincolante) per gli Stati membri del criterio indicato dalla commissione per la rateizzazione delle somme riscosse dall’agente della riscossione; -chiara indicazione delle ragioni per le quali il criterio di rateizzazione attualmente utilizzato dalle autorità italiane comporterebbe una diminuzione delle rPT messe a disposizione dell’unione. I servizi della Commissione ringraziano le autorità italiane per aver sollevato tali questioni e informano le autorità italiane di quanto segue. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Gli Stati devono attenersi ai principi di equivalenza e di effettività, fermamente consolidati nella legislazione dell’ue dalla giurisprudenza della corte di giustizia (si vedano al riguardo le sentenze: del 18 marzo 2010 nelle cause riunite da c-317/08 a c-320/08, punto 49; del 27 giugno 2013, c-93/12, punti 35 e 36; e del 1° agosto 2022, c-242/22 PPu, punto 75). il principio di equivalenza implica che le norme nazionali applicabili alle risorse proprie tradizionali (rPT) non debbano essere meno favorevoli di quelle applicabili alle imposte nazionali. il principio di efficacia impone che le norme nazionali applicabili non rendano impossibile, o eccessivamente difficoltoso nella pratica, il recupero dei debiti a titolo delle rPT. ne consegue che le autorità italiane dovrebbero attribuire alle rPT gli importi recuperati coerentemente con tali principi. i debiti a titolo delle rPT dovrebbero essere rimborsati (almeno) proporzionalmente alla loro incidenza sui debiti a livello nazionale dovuti per imposte nazionali, e quindi il loro rimborso dovrebbe avere la priorità sui costi accessori addebitati al debitore, che costituiscono reddito nazionale. Tra i costi accessori rientrano, tra l’altro, gli interessi di mora (compresi quelli indicati all’articolo 114 cdu) e i costi o le sanzioni supplementari imposti al debitore. Tali costi accessori, in quanto reddito nazionale, non dovrebbero essere inclusi nel calcolo della quota delle rPT sugli importi versati, ossia non devono incidere negativamente sulla messa a disposizione parziale delle rPT fino a quando queste ultime non siano state messe a disposizione integralmente. i costi procedurali (ad esempio i costi di recupero) sostenuti per le rPT sono già coperti dalla percentuale di riscossione del 25 %, come previsto dall’articolo 9, paragrafo 2, della decisione n. 2020/2053 del consiglio. esempio: per una determinata importazione sono calcolate le seguenti obbligazioni (al lordo): dazi doganali 2.000 eur, accise 8.000 eur, spese di recupero ai sensi della normativa nazionale 1.000 eur e interessi di mora maturati 1.000 eur. Se sono recuperati 1.000 eur, le autorità italiane devono mettere a disposizione del bilancio dell’ue il 20 % dell’importo recuperato (al lordo: 200 eur), cioè la quota delle rPT dell’importo complessivo di imposte e dazi (10.000 eur). la stessa proporzione si applica fino a quando non è stato messo a disposizione del bilancio dell’ue il totale lordo di 2.000 eur, e solo successivamente possono essere soddisfatti i costi di recupero e gli interessi di mora nazionali. di conseguenza, i servizi della commissione chiedono una modifica della procedura per renderla conforme al ragionamento suesposto e sottolineano che occorre risolvere rapidamente ed efficacemente questa annosa questione. le autorità italiane sono nuovamente invitate a informare i servizi della commissione in merito alle misure correttive previste e alle (potenziali) tempistiche per l’attuazione delle stesse e sono avvertite del fatto che, in caso di disac RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 cordo persistente, i servizi della commissione si vedranno costretti a prendere in considerazione questo fascicolo ai fini dell’apertura di una procedura di infrazione a norma dell’articolo 258 TFue. le perdite pregresse di rPT dovrebbero essere messe a disposizione senza ulteriore indugio al fine di interrompere il cumulo degli interessi di mora. la scheda di constatazioni preliminari n. 1508 rimane in sospeso”. iv. La richiesta istruttoria di questa Avvocatura Generale di cui alla nota prot. 374732 del 5 giugno 2024. Questa Avvocatura Generale, preso atto della nota dei Servizi della Commissione Europea Ares (2023) 8084776 del 27 novembre 2023, con nota prot. 374732 del 5 giugno 2024, chiedeva a codesta Agenzia chiarimenti in merito ai criteri di imputazione, in base al diritto nazionale, degli importi rimborsati dal debitore iscritto a ruolo, nonché alle eventuali differenze di regime tra i criteri di imputazione utilizzati per il recupero delle RPT e delle imposte nazionali. La nota veniva inviata anche ad Agenzia delle Entrate -Riscossione affinché fornisse direttamente alla Scrivente il proprio contributo in relazione alle predette richieste di chiarimenti. v. il riscontro fornito da codesta Agenzia con nota prot. 682859/Ru del 12 novembre 2024. mentreAgenzia delle Entrate -Riscossione non ha fornito alcun riscontro, codesta Agenzia delle Dogane ha trasmesso alla Scrivente una articolata nota (prot. 682859/RU del 12 novembre 2024) nella quale, dopo aver illustrato la disciplina normativa nazionale della riscossione delle somme iscritte a ruolo da essa Agenzia a titolo di RPT e di imposte nazionali (IVA all’importazione), ha compiutamente descritto i criteri di imputazione delle somme rimborsate dal debitore iscritto a ruolo che abbia richiesto e ottenuto dall’Agente della riscossione la dilazione di pagamento con rateizzazione; ha puntualizzato che non esistono differenze di regime tra criteri di imputazione utilizzati nel recupero di RPT e di imposte nazionali; ha evidenziato che, dal 31 dicembre 2021, non viene più recuperata la quota “oneri di riscossione”, che è stata soppressa dalla Legge di bilancio per il 2022 (Legge n. 234/2021), ed infine, ha concluso che: “nella attuale modalità di riparto delle rate richiesto dal debitore”, la singola rata è composta, oltre che dalla quota afferente al capitale, anche dagli “interessi di mora ex art. 114 cdu e «dagli: n.d:r.» interessi di rateizzazione a copertura dell’agevolazione di pagamento concessa dall’agenzia entrate- riscossione, nonché «dalle: n.d.r.» eventuali spese esecutive e diritti di notifica dei documenti”. nelle nota prot. 682859/RU del 12 novembre 2024 codesta Agenzia ha richiamato la nota Ares (2024) 5737841 dei servizi della Commissione in data PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO 8 agosto 2024 nella quale sono stati ribaditi i principi di equivalenza ed effettività nel recupero delle RPT, e sono stati invocati nuovamente i contenuti di cui all’art. 325 TFUE, nonché la “normativa sulle risorse proprie”. v.1. La nota dei Servizi della Commissione Ares (2024) 5737841 dell’8 agosto 2024 trasmessa successivamente alla nota del 12 novembre 2024. In particolare nella predetta nota Ares (2024) 5737841 della Commissione in data 8 agosto 2024, successivamente trasmessa a questa Avvocatura Generale da codesta Agenzia, si legge nuovamente quanto segue: “Scheda di constatazioni preliminari n. 1508 -Gli interessi sono detratti prima della suddivisione proporzionale fra dazi nazionali e risorse proprie tradizionali. I servizi della Commissione avevano chiesto una modifica della procedura per renderla conforme al compendio, alla normativa sulle risorse proprie e all’articolo 325 TFue e avevano sottolineato la necessità di risolvere rapidamente ed efficacemente questa annosa questione. Gli Stati membri devono attenersi ai principi di equivalenza e di effettività, fermamente consolidati nella legislazione dell’ue dalla giurisprudenza della corte di giustizia (si vedano al riguardo le sentenze: del 18 marzo 2010 nelle cause riunite da c‑317/08 a c-320/08, punto 49; del 27 giugno 2013, c-93/12, punti 35 e 36; e del 1° agosto 2022, c-242/22 PPu, punto 75). il principio di equivalenza implica che le norme nazionali applicabili alle risorse proprie tradizionali (rPT) non debbano essere meno favorevoli di quelle applicabili alle imposte nazionali. il principio di efficacia impone che le norme nazionali applicabili non rendano impossibile, o eccessivamente difficoltoso nella pratica, il recupero dei debiti a titolo delle rPT. ne consegue che le autorità italiane dovrebbero attribuire alle rPT gli importi recuperati coerentemente con tali principi. i debiti a titolo delle rPT dovrebbero essere rimborsati (almeno) proporzionalmente alla loro incidenza sui debiti a livello nazionale dovuti per imposte nazionali, e quindi il loro rimborso dovrebbe avere la priorità sui costi accessori addebitati al debitore, che costituiscono reddito nazionale. Tra i costi accessori rientrano, tra l’altro, gli interessi di mora (compresi quelli indicati all’articolo 114 cdu) e i costi o le sanzioni supplementari, imposti al debitore. Tali costi accessori, in quanto reddito nazionale, non dovrebbero essere inclusi nel calcolo della quota delle rPT sugli importi versati, ossia non devono incidere negativamente sulla messa a disposizione parziale delle rPT fino a quando queste ultime non siano state messe a disposizione integralmente. i costi procedurali (ad esempio i costi di recupero) sostenuti per le rPT sono già coperti dalla percentuale di riscossione del 25 %, come previsto dall’articolo 9, paragrafo 2, della decisione n. 2020/2053 del consiglio. esempio: per una determinata importazione sono calcolate le seguenti obbligazioni (al lordo): dazi doganali 2.000 eur, accise 8.000 eur, spese di recupero ai RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 sensi della normativa nazionale 1.000 eur e interessi di mora maturati 1.000 eur. Se sono recuperati 1.000 eur, le autorità italiane devono mettere a disposizione del bilancio dell’ue il 20 % dell’importo recuperato (al lordo: 200 eur), cioè la quota delle rPT dell’importo complessivo di imposte e dazi (10.000 eur). la stessa proporzione si applica fino a quando non è stato messo a disposizione del bilancio dell’ue il totale lordo di 2.000 eur, e solo successivamente possono essere soddisfatti i costi di recupero e gli interessi di mora nazionali. di conseguenza, i servizi della commissione chiedono una modifica della procedura per renderla conforme al ragionamento suesposto e sottolineano che occorre risolvere rapidamente ed efficacemente questa annosa questione. le autorità italiane sono nuovamente invitate a informare i servizi della commissione in merito alle misure correttive previste e alle (potenziali) tempistiche per l’attuazione delle stesse e sono avvertite del fatto che, in caso di disaccordo persistente, i servizi della commissione si vedranno costretti a prendere in considerazione questo fascicolo ai fini dell’apertura di una procedura di infrazione a norma dell’articolo 258 TFue. le perdite pregresse di rPT dovrebbero essere messe a disposizione senza ulteriore indugio al fine di interrompere il cumulo degli interessi di mora...”. v.2. Gli sviluppi successivi della vicenda sino al mese di febbraio 2025. La Commissione Europea -D.G. for Budget, con nota AGOR-TOR/202412/ agenda-03 in data 12 novembre 2024 avente ad oggetto: “Guidelines on the commission’s assessment of write-off reports concerning traditional own resources (Tor). article 13 of council regulation no 609/2014 of 26 may 2014”, ha adottato un aggiornamento del “Compendio” diramato il 25 giugno 2013. In tale aggiornamento -d’ora in poi “nuovo Compendio”-, nel paragrafo 4.4.2.1. rubricato “amounts assigned to other debts of the operator” (cfr. pag. 45), la Commissione Europea ha riprodotto testualniente il contenuto della predetta nota Ares (2024) 5737841 in data 8 agosto 2024, riproponendo anche “l’esempio” ivi già contenuto. nell’audit della Corte dei Conti Europea in data 10 febbraio 2025 indirizzato alla Corte dei Conti italiana, alle pagine 6 e 7, sotto la rubrica “errata ripartizione dei pagamenti parziali tra rPT ed entrate nazionali”, viene nuovamente segnalato che: “i pagamenti parziali versati dai debitori erano ripartiti in modo non corretto tra rPT ed entrate nazionali. ciò ha inciso sugli importi delle entrate ue e sul tempo necessario perché questi fossero messi a disposizione del bilancio ue” (v. punto 7) e che “la prassi utilizzata in italia per ripartire i pagamenti parziali tra rPT ed entrate nazionali non segue gli orientamenti del compendio” (v. punto 13). PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO vi. individuazione della questione giuridica posta. Come emerge dall’esame delle note Ares in data 27 novembre 2023 ed in data dell’8 agosto 2024, e del nuovo Compendio della Commissione, nonché dell’audit in data 10 febbraio 2025 della Corte dei Conti Europea, tali Istituzioni, con specifico riferimento alle procedure nazionali di recupero dei debiti a titolo delle RPT, contestano i criteri di imputazione degli importi recuperati, applicati dalle autorità nazionali, assumendo, in sostanza, che le somme recuperate dovrebbero essere imputate innanzitutto al capitale dovuto dal debitore a titolo di RPT (eventualmente, ove nelle somme iscritte a ruolo fossero ricomprese anche imposte nazionali, ripartendo l’importo recuperato proporzionalmente tra RPT ed imposte nazionali); soltanto dopo l’integrale rimborso del debito per capitale, potrebbero essere soddisfatti i costi accessori addebitati al debitore (nei quali rientrerebbero gli interessi di mora, i costi di riscossione e le sanzioni supplementari), i quali “costi accessori” rappresenterebbero “reddito nazionale” e, pertanto, andrebbero necessariamente postergati rispetto al capitale dovuto a titolo di RPT. Per chiarire la propria posizione, i Servizi della Commissione, da ultimo nel nuovo Compendio, hanno fornito il seguente esempio: per una determinata importazione sono calcolate le seguenti obbligazioni (al lordo): dazi doganali 2.000 eur, accise 8.000 eur, spese di recupero ai sensi della normativa nazionale 1.000 eur e interessi di mora maturati 1.000 eur. Se sono recuperti 1.000 eur, le autorità italiane devono mettere a disposizione del bilancio dell’ue il 20% dell’importo recuperato (al lordo: 200 eur), cioé la quota delle rPT dell’importo complessivo di imposte e dazi (10.000 eur). la stessa proporzione si applica fino a quando non è stato messo a disposizione del bilancio dell’ue il totale lordo di 2.000 eur, e solo successivamente possono essere sodisfatti i costi di recupero e gli interessi di mora nazionali. Invece, in Italia, accade che, nel caso di somme iscritte a ruolo dall’Agenzia delle Dogane a titolo di dazi (rientranti nella catagoria delle RPT) e di IVA all’importazione (in genere associata all’obbligazione daziaria), ove il debitore iscritto ottenga la rateizzazione (che può giungere sino a 72 rate), le singole rate non vengono imputate, in via prioritaria, interamente al capitale sino alla integrale restituzione di esso, postergando “i costi accessori” e gli interessi di mora (costituenti anch’essi un’entrata nazionale), ma vengono ripartite -sin dalla prima rata e sino all’ultima, e dunque, per tutta la durata del piano di ammortamento -tra capitale per imposta, interessi di mora, interessi di rateizzazione a copertura della dilazione di pagamento concessa dall’Agenzia Entrate -Riscossione ed eventuali spese esecutive e diritti di notifica degli atti riscossione. nel piano di ammortamento in genere predisposto dalle autorità nazionali RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 la quota per capitale è crescente e la quota interessi decrescente, secondo il criterio “alla francese” che favorisce, inizialmente, il pagamento degli interessi. La procedura di rateizzazione applicata dalle autorità nazionali non sarebbe, dunque, conforme al criterio indicato dalla Commissione e dalla Corte dei Conti Europea, e comporterebbe una perdita di RPT per il bilancio del- l’Unione, o, comunque, un ritardo nella messa a disposizione delle RPT, produttivo di interessi di mora a carico della Repubblica italiana. Di conseguenza, i servizi della Commissione hanno chiesto una modifica della procedura nazionale per renderla conforme all’esempio suesposto. Codesta Agenzia ha, in sostanza, chiesto a questa Avvocatura Generale un parere in merito alla fondatezza (o meno) della richiesta della Commissione. vi.1. Analisi della questione giuridica posta. Occorre iniziare la disamina della questione posta partendo dall’esame della base giuridica sulla quale i servizi della Commissione hanno fondato la propria richiesta di modifica della procedura nazionale di riscossione delle RPT. I servizi della Commissione, in un primo momento, hanno fondato la loro richiesta sulle seguenti, asserite, basi giuridiche: -un “compendio” diramato dalla Commissione stessa il 25 giugno 2013 in tema di “Procedura interna per la gestione dei casi di inesigibilità (writeoff)”; - sulla “normativa sulle risorse proprie”, senza ulteriori specificazioni; -e sull’articolo 325 del TFUE. Tali asserite basi giuridiche sono state richiamate, anche di recente, dai Servizi della Commissione nella nota Ares (2024) 5737841 dell’8 agosto 2024 (v. pagina 2). nel predetto “Compendio”, nella versione aggiornata al 25 giugno 2013, al punto 3.2, lettera c), si afferma, in effetti, che “... ogni importo che sia stato recuperato ... deve essere ripartito proporzionalmente tra i due tipi di risorse” «RPT e diritti nazionali n.d.r.», prima della detrazione delle spese di riscossione e degli interessi. Gli Stati membri devono mettere a disposizione tali importi secondo le modalità sopra riferite ”. Sennonché, come già rilevato da questa Avvocatura Generale nella nota prot. 432069 del 28 giugno 2023, il predetto “compendio”- per stessa ammissione della Commissione -non ha, di per sé, natura di atto normativo vincolante per gli Stati membri: nella nota conclusiva di tale documento, che è stata qui trasmessa da codesta Agenzia in allegato alla nota prot. n. 39560/RU del 5 aprile 2018, si precisa, infatti, che il Compendio “costituisce un mero strumento di lavoro, da diffondere solo a scopo informativo”, e che “il solo facente PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO fede” per gli Stati membri è “il testo della legislazione applicabile pubblicato nella Gazzetta ufficiale della ue, interpretato dalla corte di Giustizia europea” . Tale precisazione si ritrova anche nel nuovo Compendio del 22 novembre 2024: infatti nel “1. Preamble”, alla fine di pagina 5, si legge, di nuovo, quanto segue: “moreover, it is reminded that only the text of the applicable legislation published in the official Journal of the eu and its interpretation given by the court of Justice of the european union (‘cJeu’) have legally binding character ”. Tale “compendio” -ed i suoi aggiornamenti -appare, dunque, assimilabile ad una mera “circolare interpretativa” e, come tale, non è vincolante per gli Stati membri ed è, di per sé, assolutamente inidoneo ad innovare l’ordinamento giuridico dell’U.E. con l’imposizione di nuovi obblighi in capo agli Stati membri. Quanto alla “normativa sulle risorse proprie”, la legislazione unionale vincolante nulla dispone, in realtà, in tema di criteri di imputazione delle somme rimborsate dal debitore dell’obbligazione daziaria, il quale abbia ottenuto dallo Stato membro la dilazione di pagamento con rateizzazione del debito. La materia risulta, infatti, riservata ai singoli Stati membri come si desume: -dalla decisione del Consiglio n. 2020/2053/UE, Euratom relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea (la quale, all’articolo 9, rubricato “riscossione delle risorse proprie e messa a disposizione della commissione”, al paragrafo 1, prevede, appunto, che: “Le risorse proprie di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a),(1) sono riscosse dagli Stati membri conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali. Se del caso, gli Stati membri adattano tali disposizioni per conformarsi alla normativa dell’unione”); -e, comunque, dalla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E, secondo cui “è compito dell’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, se non vi sono disposizioni comunitarie in materia, stabilire le modalità e le condizioni di riscossione degli oneri finanziari comunitari, purché dette modalità e condizioni non rendano il sistema di riscossione delle tasse e degli oneri comunitari meno efficace di quello relativo (1) L’articolo 2, paragrafo 1, lettera a) della predetta decisione prevede che: 1. costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell’unione le entrate provenienti: a) dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni dell’unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nel- l’ambito di applicazione del trattato, ormai scaduto, che istituisce la comunità europea del carbone e dell’acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero”. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 alle tasse ed agli oneri nazionali dello stesso tipo, né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’attuazione della normativa comunitaria” (cfr. la sentenza del 14 maggio 1996, The Queen, cause riunite C-153/94 e C-204/94, punto 66 e la giurisprudenza ivi citata). L’art. 325 del TFUE, pure richiamato dai servizi della Commissione, non pare pertinente rispetto alla questione in trattazione. Ed invero, secondo la costante giurisprudenza della C.G.U.E. “l’articolo 325, paragrafo 1, TFue, obbliga gli Stati membri a lottate contro la frode e le altre attività illegali lesive degli interessi finanziari dell’unione con misure dissuasive ed effettive” (cfr. Grande Sezione, sentenza del 24 luglio 2023, Statul român, C-107/23, punto 83 e la giurisprudenza ivi citata). nella specie, la Commissione contesta le modalità di imputazione, da parte della Repubblica italiana, delle somme rimborsate dai debitori nazionali a titolo di RPT, già iscritti a ruolo sulla base di un tempestivo accertamento dell’obbligazione doganale; il che implica che la Repubblica italiana ha puntualmente adempiuto gli obblighi su di essa incombenti in base al predetto articolo 325 TFUE, i quali si riferiscono, evidentemente, alla sola attività a monte dell’accertamento daziario. Risulta, invece, astrattamente pertinente il riferimento, che si legge in entrambe le note Ares della Commissione in data 27 novembre 2023 ed in data 8 agosto 2024, nonché nel nuovo Compendio (par. 4.4.2.1., pag. 45), ai principi di equivalenza e di effettività che, peraltro, vengono costantemente richiamati dalla Corte di Giustizia dell’U.E. in relazione alle materie, non oggetto di armonizzazione a livello comunitario, rispetto alle quali vige la regola generale dell’autonomia procedurale degli Stati membri (si vedano, tra le tante, la sentenza del 15 giugno 2023, eco advocacy clG, C-721/21, punto 21; sentenza del 7 giugno 2007, van der Weerd e a., da C-222/05 a C225/ 05, punto 28 e giurisprudenza ivi citata; la sentenza del 10 giugno 2021, BnP Paribas Personal Finance, da C-776/19 a C-782/19, punto 27; nonché la sentenza del 16 luglio 2020, caixabank e Banco Bilbao Vizcaya argentaria, C-224/19 e C-259/19, punto 83 e giurisprudenza ivi citata). Come si è visto, la Corte esige che tali principi di equivalenza e di effettività vengano rispettati dagli Stati membri anche nel disciplinare le “modalità e le condizioni di riscossione degli oneri finanziari comunitari”, (cfr. la citata sentenza del 14 maggio 1996, punto 66). Ebbene la Commissione afferma che “il principio di equivalenza implica che le norme nazionali applicabili alle risorse proprie tradizionali (rPT) non debbano essere meno favorevoli di quelle applicabili alle imposte nazionali. il principio di efficacia impone che le norme nazionali applicabili non rendano impossibile, o eccessivamente difficoltoso nella pratica, il recupero dei debiti a titolo delle rPT ”. Anche nel nuovo Compendio, si legge quanto segue: “The principle of PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO equivalence implies that national rules applicable to Tor should not be less favourable than those applicable to national taxes. The principle of effectiveness requires that applicable national rules do not render the recovery of Tor debts impossible or excessively difficult in practice” (par. 4.4.2.1., pag. 45). È, dunque, necessario verificare se la procedura di rateizzazione delle somme iscritte a ruolo a titolo di RPT, applicata dalle autorità nazionali, sia o meno conforme a tali principi. Quanto al principio di equivalenza, codesta Agenzia, nella nota prot. 682859/RU del 12 novembre 2024, nel fornire riscontro alla richiesta di chiarimenti formulata dalla Scrivente con la nota del 28 giugno 2023, ha espressamente e testualmente affermato che “non esistono differenze di regime tra criteri di imputazione utilizzati nel recupero di rPT e di imposte nazionali” (cfr. pagina 3, all’inizio). Stando, dunque, a quanto rappresentato da codesta Agenzia, nella materia de qua il principio di equivalenza deve ritenersi rispettato dalla Repubblica italiana. Quanto al principio di efficacia (o di effettività), la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E. lo ritiene violato da parte dello Stato membro quando e solo quando la disciplina nazionale renda “praticamente impossibile o eccessivamente difficile” l’attuazione della normativa comunitaria (si vedano al riguardo le sentenze, citate dalla stessa Commissione, del 18 marzo 2010 nelle cause riunite da C-317/08 a C-320/08, punto 48; del 27 giugno 2013, C-93/12, punto 36; e del 1° agosto 2022, C-242/22 PPU, punto 75; nonché anche la sentenza del 10 giugno 2021, BnP Paribas Personal Finance, da C-776/19 a C-782/19, punto 27 e giurisprudenza ivi citata; sentenza della Grande Sezione, del 15 aprile 2008, impact, C-268/06, punto 46). La questione si risolve, pertanto, nello stabilire se la procedura di rateizzazione delle somme iscritte a ruolo a titolo di RPT, applicata dalle autorità nazionali, renda “praticamente impossibile o eccessivamente difficile” il recupero e la messa a disposizione dei debiti a titolo delle RPT. Il principio di efficacia/effettività deve essere interpretato in modo coerente con il principio di attribuzione di cui all’articolo 5, paragrafo 2, TUE (ex articolo 5 del TCE), e secondo il canone di proporzionalità, principio generale dell’ordinamento comunitario, cioè in modo tale da evitare che la sua concreta applicazione ponga sostanzialmente nel nulla la sfera di autonomia procedurale che spetta agli Stati membri nelle materie non armonizzate. Occorre, pertanto, ritenere che, nel giudizio circa il rispetto del principio di efficacia (o di effettività), rilevino esclusivamente situazioni estreme, tali cioè da rendere “praticamente impossibile o eccessivamente difficile” l’attuazione della normativa comunitaria e l’esercizio dei diritti da essa riconosciuta, rientrando, invece, tutte le altre situazioni nella insindacabile sfera di autonomia procedurale degli Stati membri. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 vi.2. Orbene, dalla attenta disamina della pertinente disciplina nazionale, richiamata da codesta Agenzia nelle note prot. n. 39560/RU in data 5 aprile 2018 e prot. 682859/RU del 12 novembre 2024, risulta che, a seguito del- l’iscrizione a ruolo del credito per RPT, vengono posti a carico del debitore iscritto oneri/costi accessori per “spese esecutive” e per “notifica della cartella di pagamento e degli altri atti di riscossione” (art. 17 d.lgs. n. 112/1999). Dal 31 dicembre 2021, non viene più recuperata la quota “oneri di riscossione”, che è stata soppressa dalla Legge di bilancio per il 2022 (Legge n. 234/2021). Anche per i crediti daziari la cui gestione è affidata a codesta Agenzia, la dilazione di pagamento è disciplinata dall’art. 19 d.P.R. n. 602/1973, richiamato dall’art. 9, comma 3 sexies, del D.L. n. 16/12, convertito con modificazioni dalla Legge n. 44/12. Inoltre, sulle somme per le quali il pagamento è stato rateizzato si applicano interessi ulteriori, il cui ammontare è riscosso unitamente all’imposta alle scadenze stabilite (art. 21, co. 3, d.P.R. n. 602/1973). L’imputazione dei pagamenti è regolata dall’art. 31, co. 3, d.P.R. n. 602/1973. In base all’articolo 31, co. 3, del citato d.P.R. gli importi rateizzati (che possono essere generati sia da tributi nazionali, sia -per quanto d’interesse in questa sede -da Risorse proprie tradizionali, ossia i dazi doganali da versare all’Unione europea), vengono suddivisi proporzionalmente tra tributi nazionali (es. IVA), risorse proprie tradizionali, interessi e oneri amministrativi vari: in sostanza, ogni rata comprende una quota proporzionale di ciascun cespite iscritto a ruolo. Di talché -ha concluso codesta Agenzia nella nota prot. 682859/RU del 12 novembre 2024 -“nella attuale modalità di riparto delle rate richiesto dal debitore, la singola rata è composta, oltre che dalla quota afferente al capitale, anche dagli “interessi di mora ex art. 114 cdu e «dagli: n.d.r.» interessi di rateizzazione a copertura dell’agevolazione di pagamento concessa dal- l’agenzia entrate-riscossione, nonché «dalle: n.d.r.» eventuali spese esecutive e diritti di notifica dei documenti ”. (...) vi.3. Ciò posto, i servizi della Commissione non contestano la rateizzazione in sé, né il numero di rate in cui, secondo il diritto nazionale, può essere dilazionato il pagamento; al contempo gli stessi servizi della Commissione ammettono la possibilità che la quota capitale venga imputata proporzionalmente sia alle RPT, sia alle imposte nazionali, che è esattamente quanto praticato da ADER nel piano di rateizzazione qui fatto pervenire. La quota capitale, che come si è visto è crescente, include, oltre all’imposta IVA all’importazione, le RPT e gli interessi di mora ex art. 114 CDU. PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO Inoltre, all’interno di ogni singola rata, figura anche una quota, decrescente, di interessi di rateizzazione. Gli interessi di mora inclusi nella quota capitale hanno una specifica base giuridica unionale (art. 114, paragrafi 1 e 2, del Codice Doganale dell’Unione (c.d. CDU) di cui al Reg. 952/2013 che prevede che gli interessi di mora costituiscano una componente dell’obbligazione doganale (2)); anche gli interessi di rateizzazione (ai quali viene imputata una quota decrescente di ogni singola rata) hanno una base giuridica unionale, costituita dall’articolo 112, paragrafi 1 e 2, del CDU (3). ne consegue che ogni singola rata è imputata, per la quasi sua totalità, dalle autorità nazionali a componenti del debito iscritto a ruolo aventi una copertura giuridica unionale: (...) la quota capitale (comprensiva degli interessi di mora ex art. 114 CDU) e gli interessi di rateizzazione coprono, dunque, pressoché l’intera rata. Tanto si riscontra anche nelle rate successive alla prima. Gli interessi di mora e di rateizzazione costituiscono, in base agli articoli 112 e 114 CDU, componenti dell’obbligazione daziaria e, dalle predette disposizioni normative unionali o da altre (comunque non indicate dai Servizi della Commissione), non è dato ricavare in modo chiaro ed inequivoco la regola della postergazione, nel recupero coattivo dell’obbligazione daziaria, degli interessi predetti (costituenti entrate nazionali) rispetto al capitale per RPT di spettanza del bilancio unionale. È, del resto, significativo che i Servizi della Commissione, al fine di so (2) A norma dell’art. 114, paragrafi 1 e 2, del Codice Doganale dell’Unione di cui al Reg. 952/2013 “1. Sull’importo dei dazi all’importazione o all’esportazione è applicato un interesse di mora dalla data di scadenza del termine prescritto fino alla data del pagamento. Per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, il tasso di interesse di mora è pari al tasso di interesse pubblicato nella Gazzetta ufficiale del- l’unione europea, serie c, che la Banca centrale europea ha applicato alle sue operazioni di rifinanziamento principali il primo giorno del mese della scadenza, maggiorato di due punti percentuali. Per uno Stato membro la cui moneta non è l’euro, il tasso di interesse di mora è pari al tasso applicato il primo giorno del mese in questione dalla banca centrale nazionale per le sue operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di due punti percentuali, oppure, per uno Stato membro per il quale il tasso della banca centrale nazionale non è disponibile, il tasso più equivalente applicato il primo giorno del mese in questione sui mercati monetari dei singoli Stati membri, maggiorato di due punti percentuali. 2. Se l’obbligazione doganale è sorta sulla base dell’articolo 79 o dell’articolo 82, o se la notifica del- l’obbligazione doganale avviene in seguito a un controllo ex post, oltre all’importo dei dazi all’importazione o all’esportazione viene applicato un interesse di mora dalla data in cui è sorta l’obbligazione doganale fino alla data della notifica. il tasso dell’interesse di mora è fissato a norma del paragrafo 1 ”. (3) A norma dell’art. 112, paragrafi 1 e 2, del Codice Doganale dell’Unione di cui al Reg. 952/2013, “le autorità doganali possono concedere al debitore agevolazioni di pagamento diverse dalla dilazione di pagamento purché sia costituita una garanzia. 2. La concessione di agevolazioni a norma del paragrafo 1 comporta l’applicazione di un interesse di credito sull’importo dei dazi all’importazione o all’esportazione ” . RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 stenere e giustificare, tale asserita “postergazione”, invochino il generale principio di efficacia (o di effettività), che appunto postula l’assenza, nelle materie riservate all’autonomia procedurale degli Stati membri, di specifiche disposizioni unionali di armonizzazione. Sotto tali aspetti, dunque, i criteri di imputazione della singola rata recuperata, applicati dalle autorità nazionali, in quanto preordinati ad assicurare la riscossione (anche) di componenti accessorie dell’obbligazione daziaria (previste nel predetto Cdu di cui al Reg. n. 952/2013) e non espressamente “postergate”, rispetto al capitale, dal predetto CDU, non sembra possano dare luogo a responsabilità dello Stato per violazione del diritto unionale, in ossequio ai principi della certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento che fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea e, a tale titolo, essi devono essere rispettati anche dalle istituzioni dell’Unione, e non solo dagli Stati membri nell’esercizio dei poteri ad essi conferiti dagli atti normativi dell’Unione (cfr., tra le tante, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 30 aprile 2020, Hecta Viticol Srl, C184/ 19, punto 32, sentenza del 9 giugno 2016, Wolfgang und dr. Wilfried rey Grundstücksgemeinschaft, C-332/14, punto 49, sentenza del 29 aprile 2004, Gemeente leusden e Holin Groep, C-487/01, punto 57). vi.4. Sotto un diverso, e subordinato, profilo, si osserva che -nell’ambito del piano di ammortamento qui fatto pervenire, e che si ha ragione di ritenere sufficientemente rappresentativo della prassi nazionale -in ogni rata è inclusa una “quota capitale” la quale, come già rilevato, i. viene imputata alle RPT, per circa il 70,78 % del suo ammontare (cioè dell’ammontare della predetta “quota capitale”); ii. è crescente e, nel corso del piano di ammortamento, arriva a coprire il 100% della singola rata; di conseguenza aumentano progressivamente anche le somme imputate alle RPT. Siffatta modalità di imputazione delle somme recuperate non sembra obiettivamente tale da “rendere impossibile, o eccessivamente difficoltoso nella pratica, il recupero dei debiti a titolo delle rPT ”; di certo non lo rende assolutamente impossibile, come dimostra il fatto che le RPT vengono ordinariamente recuperate dalle autorità nazionali, anche in caso di rateazione del debito, e riversate al bilancio dell’Unione; ma neppure “eccessivamente difficoltoso”. Come già evidenziato in precedenza, la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E. ritiene violato il principio di efficacia/effettività soltanto nelle ipotesi in cui le prassi e le procedure nazionali -adottate dagli Stati membri nell’esercizio dell’autonomia procedurale ad essi spettante -rendano “eccessivamente difficoltosa” l’attuazione del diritto dell’Unione. Con il termine “eccessivamente”, sempre associato nelle sue pronunce PARERI DEL COmITATO COnSULTIVO all’aggettivo “difficoltoso” o “difficile”, la Corte di Giustizia mostra di ritenere rilevanti, ad evidente garanzia dell’autonomia procedurale degli Stati membri, soltanto le situazioni nelle quali sia provato che le prassi nazionali comportino, indirettamente, un impedimento particolarmente grave e serio rispetto all’obiettivo della puntuale attuazione della normativa comunitaria. Orbene, nella fattispecie, sulla base delle evidenze istruttorie attualmente a disposizione di questa Avvocatura Generale, non risulta che i criteri di imputazione applicati dalle autorità nazionali abbiano effettivamente comportato -al di là della mera dilatazione dei tempi dell’integrale recupero (delle RPT dovute dal debitore), poi comunque effettivamente avvenuto -la perdita definitiva di RPT, con una significativa ricorrenza statistica, che non si sarebbe con certezza verificata se fosse stato applicato, in fase di imputazione delle somme recuperate, il diverso criterio proposto dalle istituzioni unionali, tenuto anche conto di tutte le circostanze del caso concreto (come, ad esempio, la prestazione, da parte del debitore, di garanzie a corredo dell’istanza di rateizzazione). Per tutte le esposte ragioni, questa Avvocatura Generale ritiene che, allo stato, e salvo ulteriori e diverse emergenze istruttorie, vi siano le condizioni, giuridiche e fattuali, per poter insistere -nei rapporti con i servizi della Commissione - sulla linea difensiva sinora osservata da codesta Agenzia. vii. L’articolo 9, paragrafo 2, della decisione del Consiglio n. 2020/2053/ue, euratom relativa al sistema delle risorse proprie del- l’unione europea. nelle note Ares (2023) 8084776 del 27 novembre 2023, ed Ares (2024) 5737841 dell’8 agosto 2024, i servizi della Commissione rilevano che: “i costi procedurali (ad esempio i costi di recupero) sostenuti per le rPT sono già coperti dalla percentuale di riscossione del 25 %, come previsto dall’articolo 9, paragrafo 2, della decisione n. 2020/2053 del consiglio”. Tale rilievo è condivisibile. Ed invero, l’articolo 9, paragrafo 2, della decisione del Consiglio n. 2020/2053/UE, Euratom relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea prevede che: “gli Stati membri trattengono, a titolo di spese di riscossione, il 25 % degli importi di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a)”. La percentuale sopra menzionata, a parere della Scrivente, ha la funzione di ristoro dei costi sostenuti dalle Amministrazioni nazionali per l’attivazione e la gestione delle procedure di riscossione delle RPT. Pertanto tale percentuale, quando nel ruolo siano comprese RTP, copre le spese esecutive e di notifica della cartella di pagamento e di eventuali ulteriori atti di riscossione. La decisione è atto direttamente applicabile e vincolante per gli Stati membri ex art. 288 TFUE. RASSEGnA AVVOCATURA DELLO STATO -n. 2/2024 Per consolidata giurisprudenza nazionale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 17/2021, punti 32, 35 e 36) e comunitaria (cfr. sentenza 22 giugno 1989, Fratelli costanzo, C-103/88, punto 31; più di recente cfr. sentenza 19 novembre 2009, Filipiak, C-314/08, punto 82), in forza del principio di primazia del diritto comunitario, tutti gli organi dello Stato membro -quindi non soltanto i giudici, ma anche la pubblica amministrazione sono tenuti ad applicare le disposizioni UE self-executing, eventualmente disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi. nella specie, codesta Agenzia nella nota prot. 682859/RU del 12 novembre 2024 riferisce che i costi imputati al debitore a titolo di “oneri di riscossione” non sono più applicati per i crediti affidati all’Agente della riscossione a partire dal 1° gennaio 2022 in virtù della modifica dell’art. 17, comma 1 del Decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, apportata dalla Legge di bilancio per il 2022 (Legge n. 234/2021). (...) Pertanto, limitatamente alla procedura di riscossione delle RPt,i predetti costi accessori non potrebbero essere addebitati al debitore nelle singole rate e, ove ciò fosse avvenuto, le somme eventualmente già rimborsate dal debitore per “costi accessori” della tipologia sopra descritta (e cioè per “spese esecutive e diritti di notifica dei documenti”), ove richiesto dall’interessato nel termine ordinario di prescrizione, andrebbero restituite all’avente diritto od almeno imputate al capitale nel piano di ammortamento. viii. Conclusioni. Alla luce delle osservazioni che precedono questa Avvocatura Generale esprime, in conclusione, il parere che segue: i. allo stato, e salvo ulteriori e diverse emergenze istruttorie, vi sono le condizioni, giuridiche e fattuali, per poter insistere -nei rapporti con i servizi della Commissione -sulla linea difensiva sinora osservata da codesta Agenzia. ii. l’articolo 9, paragrafo 2, della decisione del Consiglio n. 2020/2053/UE, Euratom relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea -norma direttamente applicabile dagli Stati membri (e dai relativi organi nazionali, anche dell’apparato amministrativo) -osta, limitatamente alla procedura di riscossione delle RPT, alla possibilità di imporre al debitore iscritto a ruolo ulteriori “costi accessori” per “spese esecutive e diritti di notifica dei documenti”. §§§ Sulle questioni oggetto del presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 19 marzo 2025. LegIsLazIoneedattuaLItà L’auspicabile rafforzamento dei poteri e delle funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi quale passo ulteriore verso una maggiore trasparenza e partecipazione civica Fabio Ratto Trabucco (*) Sommario: 1. La trasparenza come impegnativa e sofferta conquista della pubblica amministrazione italiana -2. Le proposte di potenziamento della funzione giustiziale della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi -3. Per una riflessione sull’effettività del diritto di accesso e della sua tutela amministrativa. Il contributo analizza l’evoluzione dei poteri e delle funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi quale titolare della funzione giustiziale deflattiva a mezzo ricorso gerarchico improprio al fine di riesame dei dinieghi e dei differimenti all’accesso opposti dalle amministrazioni pubbliche diverse da quelle locali. Traguardando il testo primigenio della legge n. 241 del 1990 che non prevedeva tale competenza introdotta solo dalla legge n. 15 del 2005 si esaminano le proposte di potenziamento dell’assise variamente ipotizzate, dall’attribuzione di maggiori competenze decisionali all’ampliamento della nozione di accesso, dal rafforzamento dell’indipendenza all’implementazione di maggiori celerità, trasparenza e pubblicità nei procedimenti velocizzando l’iter decisionale. Inoltre, segnalata l’opportunità di un incremento del numero dei componenti tecnici dell’assise a scapito di quelli politici, risulterebbe utile imporre l’obbligatorietà del ricorso alla Commissione per l’accesso nonché l’onere per (*) Esperto in ambito giuspubblicistico italiano e comparato. Il presente contributo è stato pubblicato in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2025, 1, 217-237. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 le pubbliche amministrazioni d’impugnare le decisioni sfavorevoli in caso di persistente mancata ostensione dei documenti richiesti a prescindere dall’adozione di un provvedimento confermativo del diniego. Il complementare rafforzamento del raccordo con il Garante privacy e la Corte dei conti appare altresì utile onde responsabilizzare maggiormente la pubblica amministrazione in presenza di dinieghi del tutto grossolani ovvero palesemente contra legem, acclarati in sede giurisdizionale e perciò passibili di sanzione sotto forma di recupero del danno erariale. 1. La trasparenza come impegnativa e sofferta conquista della pubblica amministrazione italiana. Il nostro Paese ha conosciuto un progressivo, ineluttabile e radicale mutamento nella concezione dei rapporti fra trasparenza e segretezza del- l’attività amministrativa operato da varie leggi di riforma a partire dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso. Esso è stato preceduto -e seguito -da interventi legislativi di vario genere, tutti espressione di una concezione moderna di amministrazione al servizio dei cittadini, e quindi di una più matura ed avanzata consapevolezza dei rapporti fra utenti ed amministrazioni. Del resto, anche sulla base delle spinte provenienti dalla sede comunitaria e da una sorta di allomorfismo normativo generato da altre esperienze straniere (in particolare francia, Germania, svezia ed UsA), il nostro ordinamento aveva già conosciuto alcune precedenti esplicitazioni del principio di trasparenza, per quanto tutte riguardanti ambiti settoriali. in primis ricordiamo l’accesso agli atti ed alle informazioni degli enti locali, già disciplinato dalla legge n. 816 del 1985, prima, e dalla legge n. 142 del 1990, poi, ed attualmente dal d.lgs. n. 267 del 2000, al cui interno vanno distinte ulteriori due figure, a seconda che venga riconosciuto ai cittadini ovvero ai consiglieri locali. Prima ancora basti il riferimento alla legge urbanistica n. 765 del 1967 (ora d.P.R. n. 380 del 2001, quale Testo Unico edilizia, TUE), che riconosceva il diritto di visionare presso gli uffici comunali gli atti edilizi nonché la legge n. 833 del 1978 istitutiva del servizio sanitario nazionale a carattere universale che onerava le già Unità (oggi Aziende) sanitarie locali ad assicurare l’informazione sanitaria ed ambientale ai lavoratori esposti a rischio. In generale, quando si parla di trasparenza, si fa riferimento ad una locuzione di significato tanto ampio quanto evanescente, che richiama a sua volta i concetti di pubblicità ed accessibilità alle informazioni ed agli atti detenuti da un’istituzione, pubblica o privata che sia, operante nei vari settori della vita sociale, economica ed in generale pubblica (1). la trasparenza amministrativa è infatti astrazione di difficile perimetrazione, potendo riguardare il modo di (1) Cfr. AlfonsI, Trasparenza amministrativa. Un diritto in via di affermazione, napoli, 2018. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà essere e rappresentarsi del potere pubblico in senso soggettivo, ma anche le modalità di esercizio del potere pubblico in senso oggettivo. la trasparenza è ad un tempo sia una qualità tipica dell’agire amministrativo, sia parte integrante del principio costituzionale della buona amministrazione, ma é altresì un valore fondamentale per l’attuazione della vita democratica ed uno strumento di difesa della democrazia stessa. In definitiva, essa appare sempre più come elemento determinante dell’equilibrio tra le libertà ed i diritti degli amministrati (quali singoli individui e collettività di persone), da un lato, e poteri pubblici e poteri privati, dall’altro (2). nel particolare rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione, l’affermazione della trasparenza amministrativa non è certo stata una conquista facile ed immediata (3). l’Assemblea Costituente ha certamente avuto il pregio di redigere la Carta fondamentale italiana ma senza in alcun modo degnarsi di citare espressamente la trasparenza nella pubblica amministrazione. Del resto correva l’anno 1948 ed altre erano le esigenze dell’amministrazione che usciva dalla fascistizzazione e relative, non sempre fruttuose, epurazioni. Proprio questa appare la cartina di tornasole degli sforzi che questo prezioso ed ineludibile concetto ha dovuto affrontare onde finalmente imporsi nel nostro ordinamento giuridico. nelle legislazioni delle moderne democrazie occidentali il principio giuridico di trasparenza e la partecipazione della collettività alle decisioni del- l’autorità pubblica si sono affermati fin dalla seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, la funzione di controllo sull’operato della pubblica amministrazione risale alla tradizione giuridica scandinava e particolarmente del Regno di svezia con la legge sulla libertà di stampa del 1766. solo molto tempo dopo, tali principi hanno avuto riconoscimento negli UsA con il Freedom of information act (foA) del 1967 mentre in francia ed in Germania nel 1978. In Italia s’è invece affermata con estrema lentezza e solo con sedimenti nei decenni, tanto progressivi quanto sovente scoordinati fra loro. Infatti, nel Belpaese, come sappiamo, la trasparenza amministrativa s’è affacciata con estremo gravissimo e colpevole ritardo rispetto a molte altre nazioni occidentali. Basti richiamare in tema l’originario art. 15, d.P.R. n. 3 del 1957, in tema di pubblico impiego, che sanciva il ferreo segreto amministrativo (ovvero d’ufficio) quale regola generalizzata, vietando l’accesso agli atti dell’autorità pubblica qualora la diffusione dei documenti recasse un potenziale danno. Il segreto non aveva quindi carattere oggettivo, non essendo fondato sul tipo di documento oggetto d’interesse, ma sulle potenzialità di (2) Cfr. TERRACCIAno, La trasparenza amministrativa da valore funzionale alla democrazia partecipativa a mero (utile?) strumento di contrasto della corruzione, in amministrativ@mente, 2014, 1112, 1-10. (3) Cfr. oRofIno, Profili giuridici della trasparenza amministrativa, Bari, 2013, passim. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 danno secondo una valutazione ampiamente discrezionale compiuta dall’amministrazione. la difficoltà d’interpretare quando un atto determinasse un pregiudizio all’amministrazione si tramutava in concreto nell’esclusione della conoscibilità degli atti. Tale condizione aveva determinato estrema sfiducia nel corpo sociale impedendo alla collettività ogni forma di partecipazione e controllo. Il cittadino era lontano anni luce dai processi decisionali del potere pubblico che lo considerava alla stregua di un suddito, modello ancien régime, muovendosi unilateralmente in ambiti d’assoluta discrezionalità ed arbitrarietà. solo con la legge n. 241 del 1990, originata da un disegno di legge del Governo Goria ed approvata durante il seguente esecutivo Andreotti vI -che con l’art. 15 ha modificato proprio il citato art. 15, d.P.R. n. 3 del 1957 -il segreto amministrativo non è più la regola poiché è riconosciuto in linea di principio che «tutti i documenti amministrativi sono accessibili», ex art. 22, c. 3, ed è stato eliminato il collegamento fra segreto e potenzialità di danno del- l’accesso, escludendo ogni valutazione della pubblica amministrazione sul diritto di accesso, i cui limiti -soggettivi, oggettivi e funzionali -sono di natura eccezionale e previsti direttamente dalla legge. la riforma copernicana del 1990 costituisce un punto di svolta nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione perché la trasparenza costituisce un dovere generale dei pubblici poteri, cui corrisponde il diritto soggettivo dei cittadini di chiedere o ricevere le informazioni per esercitare il controllo democratico non solo dell’attività autoritativa e dei suoi risultati ma anche degli aspetti dell’organizzazione. si tratta di un nuovo paradigma per cui l’amministrazione non è più il “bruto” da temere e l’autorità cui contrapporsi, ma un alleato del cittadino al suo pieno servizio. Al modello d’amministrazione sovrana, culturalmente refrattaria a fornire ad una sorta di vassalli dei dati, documenti o informazioni, si sostituisce quello dell’amministrazione “democratica” al servizio dei cittadini, introducendo l’idea d’amministrazione in posizione paritaria nel rapporto con il cittadino, oggi considerato non più suddito bensì utente. si tratta di un passo in avanti verso la piena ed assoluta realizzazione del principio di trasparenza e dei suoi sottesi valori costituzionali, in primis lo stesso principio di democraticità, ex art. 1 Cost. (4). la trasparenza non è dunque uno strumento giuridico ottriato ma deriva (4) Cons. stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10. Cfr.: AGnolETTo, Le nuove linee interpretative per l’esercizio del diritto di accesso alla luce dell’ad. Plen. 2 aprile 2020, n. 10: uno sguardo oltre l’accesso agli atti di gara, in rivista giuridica di urbanistica, 2020, 4, 1007-1042; MolITERnI, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti pubblici, in Giornale di diritto amministrativo, 2020, 4, 505-519; GRIGnAnI, Commento ad una prima lettura della sentenza 2 aprile 2020, n. 10 del Consiglio di Stato sull’accesso agli atti nelle procedure ad evidenza pubblica, in il Foro amministrativo, 2020, 4, 748-763. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà da fondamentali esigenze dei cittadini per trasformare il modello d’amministrazione chiusa, tipica dei regimi totalitari, in modello d’amministrazione aperta al servizio pieno del cittadino. I mali, le inefficienze e l’atteggiamento ostile della pubblica amministrazione sono talmente noti da non dover essere rammentati. nella vita dello stato apparato, peraltro, alla tendenziale e sedimentata inefficienza s’accompagna una scarsa sensibilità verso la crisi del- l’amministrazione ed il tema, molto spesso, si risolve nel prendere atto che, seppur ci siano buone leggi amministrative, si rischia tuttavia la desuetudine o l’interpretazione riduttiva, essendo insufficienti le strutture, incongrua la disponibilità di risorse e poco avveduta la gestione degli uffici. nella vita quotidiana dei cittadini, invece, l’importanza della trasparenza amministrativa è d’immediata percezione. Una burocrazia oppressiva, con strutture elefantiache, procedure poco chiare e lunghi tempi di definizione delle pratiche, costituisce un fardello ineliminabile e rischia di divenire un asfissiante carico che, oltre a recare pregiudizi ingiusti, in termini di tempo e denaro, ad imprenditori e professionisti, allontana gli investitori esteri, poco attratti dall’inefficienza degli uffici pubblici italiani. Proprio a queste situazioni, che riguardano aspetti pratici della vita quotidiana, intende rimediare la trasparenza amministrativa, che assicura la più ampia conoscenza delle informazioni sia all’interno del circuito amministrativo (5), sia tra questo ed i cittadini, mediante l’obbligo di pubblicità imposto all’amministrazione, cioè di comunicare le informazioni da un’istituzione alla collettività (informazione attiva) ed il diritto d’accesso dei cittadini, cioè d’acquisizione di documenti su richiesta motivata dell’interessato (informazione passiva). Del resto, la consapevolezza della pubblica amministrazione di essere attenzionata e controllata attraverso la trasparenza determina effetti virtuosi, spingendo i pubblici poteri ad assicurare il diritto di difesa al cittadino sin dalla fase procedimentale, il principio di legalità ed imparzialità nonché l’efficienza, l’efficacia, e dunque in generale il buon andamento. Tali elementi non possono essere assenti in alcun settore dello scibile della pubblica amministrazione. Del resto, si ricordi che il famoso giudice della Corte suprema statunitense d’inizio novecento louis Dembitz Brandeis affermava che la luce del sole è il miglior disinfettante mentre la luce elettrica é il miglior poliziotto (6). Tuttavia, a fronte della notoria affermazione di principio contenuta nell’art. 1, c. 1, legge n. 241 del 1990, per cui l’attività amministrativa è retta, fra l’altro, dal criterio della trasparenza, non corrisponde in concreto un completo ed esau (5) Cfr. CoRRADo, Conoscere per partecipare. La strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, napoli, 2018. (6) Cfr. BRAnDEIs, What Publicity Can Do, in Harper’s Weekly, 1913, 58, 10, per cui: «sunlight is said to be the best disinfectant; electric light the most efficient policeman». RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 stivo diritto dei cittadini all’accesso alle informazioni delle pubbliche amministrazioni e della sua attività. Infatti, complice anche il mancato coordinamento dei diversi interventi legislativi sedimentati negli anni, s’è ingenerato un certo disordine fra le sette diverse figure di accesso attualmente previste (7). Dall’accesso agli atti ed alle informazioni degli enti locali, al cui interno si distinguono ulteriori due figure, a seconda che sia riconosciuto ai cittadini ovvero ai consiglieri comunali (artt. 10 e 43, c. 2, d.lgs. 267 del 2001) (8), all’accesso in materia ambientale, ex d.lgs. n. 195 del 2005, in attuazione della direttiva n. 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale (9); dall’accesso in materia di contratti pubblici, ex d.lgs. n. 50 del 2016, con oggetto circoscritto «agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte» (10), all’accesso procedimentale, ex art. 22 ss., legge n. 241 del 1990, all’accesso civico semplice, finalizzato ad ottenere la pubblicazione degli atti amministrativi e disciplinato dall’art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33 del 2013 nella sua versione originaria; ed infine l’accesso civico generalizzato, finalizzato anch’esso ad ottenere, come già l’accesso procedimentale, visione e copia di dati e documenti amministrativi, disciplinato dall’art. 5, c. 2, d.lgs. n. 33 cit., come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016, quale cd. terza generazione dell’accesso (11). A fronte d’un tal coacervo d’istituti per il diritto d’accesso ne consegue il pernicioso rischio che, ad onta dei plurimi interventi normativi, l’effettiva garanzia di trasparenza attraverso tale diritto di conoscibilità degli atti, anziché amplificarsi sia stata razionalizzata a mero esercizio di stile. le nette prese di posizione giurisprudenziale in materia di trasparenza quale principio generale d’imparzialità ed efficienza dell’amministrazione sin dalla fine degli anni novanta del secolo scorso (12), non appaiono di per sé sufficienti a fugare i dubbi di dispersione del prezioso nettare della trasparenza onde rendere la pubblica amministrazione un’autentica casa trasparente. (7) Cfr. ColAPIETRo, il complesso bilanciamento tra il principio di trasparenza e il diritto alla “privacy”: la disciplina delle diverse forme di accesso e degli obblighi di pubblicazione, in Federalismi.it, 2020, 14, 64-91 e fRAnCARIo, il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in ivi, 2019, 10, 2-3. (8) Cfr. MAnGAnARo, L’accesso agli atti e alle informazioni degli enti locali, in sAnDUllI (cur.), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1272 ss. (9) Cfr. ConTIERI, DI fIoRE, L’accesso alle informazioni ambientali, in sAnDUllI (cur.), Codice dell’azione amministrativa, cit., 1250 ss. e s. GRAssI, Procedimenti amministrativi e tutela dell’ambiente, in ivi, 1505 ss. (10) Cfr. MEzzACAPo, Commento all’art 53. accesso agli atti e riservatezza, in EsPosITo (cur.), Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, Assago, 2017, 648 ss. e DE nICTolIs, i nuovi appalti pubblici. appalti e concessioni dopo il d.lgs. 56/2017, Bologna, 2017, 1250 ss. (11) Cfr. ColAPIETRo, La terza generazione della trasparenza amministrativa. Dall’accesso documentale all’accesso generalizzato, passando per l’accesso civico, napoli, 2016. (12) T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 17 gennaio 2012, n. 24; Cons. stato, sez. Iv, 22 marzo 2007, n. 1384; Cons. stato, Ad. Plen., 4 febbraio 1997, n. 5. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà sovviene in aiuto all’utente solo il fatto che la distinzione fra i principi di trasparenza e d’accessibilità totale sia stata stemperata nel fatto che tutti gli istituti d’accesso costituiscono livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche, ex art. 117, c. 2, lett. m), Cost. Pertanto, dal diritto d’ottenere l’ostensione di specifici documenti si passa al più generale diritto d’informazione sull’organizzazione interna della pubblica amministrazione al fine di predisporre forme diffuse di controllo sociale sull’operato della pubblica amministrazione, spingendo quest’ultima al miglioramento delle performance dei servizi offerti al cittadino. Infatti, purtroppo, anziché una “Casa di vetro” di turatiana memoria per cui, salvo che sussista un ineluttabile primario interesse pubblico che impone un segreto, la casa dell’amministrazione dev’essere vitrea (13), la pubblica amministrazione appare piuttosto ancora come una sorta di “Casa delle Carte” ovvero un mare magnum telematico a volte ancora a metà del guado fra modalità cartacea e digitale. sussiste dunque l’impellente necessità d’implementare una decisa azione onde avviare definitivamente il cristallino accesso all’amministrazione da parte dei consociati con snellimenti, semplificazioni, efficientamenti e velocizzazioni. occorre muoversi sia con i privati interessati, sia internamente agli enti, ed anche con il prezioso supporto dell’Autorità nazionale Anticorruzione (AnAC) attraverso una collaborazione fattiva, fruttuosa e sinergica tra gli attori socio-economici e le istituzioni. Al fine di raggiungere tale obiettivo risulta però imprescindibile supportare finanziariamente sia l’informatizzazione dell’arcipelago della pubblica amministrazione, che la formazione del personale e degli utenti affinché questo iter sia vissuto positivamente come una vera e propria rivoluzione culturale tesa a migliorare la vita di chi opera all’interno degli enti ed a un tempo di chi fruisce la pubblica amministrazione. nel contesto dell’amministrazione pubblica, se la trasparenza è un principio fondamentale che consente ai cittadini di monitorare l’operato delle istituzioni e di garantire che le decisioni siano prese in modo corretto e responsabile, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi (CADA) costituita con un mero ruolo sussidiario sin dagli albori del testo primigenio contenuto all’art. 27, legge n. 241 del 1990, svolge ora un ruolo cruciale in materia di open government (14), fungendo anche da garante per (13) si richiamano le parole pronunciate da filippo Turati nel discorso alla Camera del 17 giugno 1908: «viene poi l’offesa al decoro della Amministrazione. Che cosa può essere questo decoro? […]. Per mantenere il decoro della Amministrazione, non bisogna non dir niente […]. Io dico che bisognerebbe intanto definire ossia limitare ciò che è segreto di ufficio. Dove un superiore, pubblico interesse non imponga un segreto momentaneo, la casa dell’Amministrazione dovrebb’essere di vetro». (14) Cfr. RATTo TRABUCCo, il ruolo degli attori a sostegno di e-government ed open data nel- l’amministrazione pubblica italiana: aGiD, CaDa e Difensore civico, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2024, 1, 209-2011. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 l’accesso agli atti ed ai documenti delle pubbliche amministrazioni in forza della novella operata con l’art. 18, legge n. 15 del 2005 e con l’attuazione regolamentare di cui all’art. 12, d.P.R. n. 184 del 2006. Inizialmente infatti l’azione svolta dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, peraltro discutibilmente inserita nell’ambito del Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA) della Presidenza del Consiglio dei ministri, risultava esclusivamente ricondotta all’attività conoscitiva, di vigilanza, di coordinamento nonché consultiva (15), nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni onde garantire i livelli essenziali delle prestazioni in tale ambito. Infatti, non s’obliteri il dirimente aspetto che l’accesso ai documenti è indicato, ex art. 22, c. 2, legge n. 241 del 1990, quale afferente ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione». A sua volta la giurisprudenza ha chiarito che la titolarità della ridetta funzione non è lesiva dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali che possono in ogni caso prevedere forme e livelli ulteriori di vigilanza e tutela onde assicurare il diritto di accesso in conformità ai principi costituzionali e legislativi (16). la posizione della Commissione incardinata nell’organo di vertice del potere esecutivo è stata peraltro pure aspramente criticata dalla dottrina in quanto antitetica alla posizione di neutralità imposta dal ruolo che la Commissione è chiamata a svolgere all’interno dell’amministrazione. Una funzione giustiziale propriamente detta, infatti, richiederebbe una netta separazione, in termini di organizzazione e di nomina, fra amministrazione attiva e quella deputata a risolvere i contenziosi insorti dall’azione pubblica. Tuttavia, apparentemente, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi è di per sé un organismo collegiale indipendente, che ha come compito principale quello di garantire l’accesso ai documenti amministrativi, favorendo la trasparenza nell’operato delle pubbliche amministrazioni. Come anticipato e meglio si vedrà nel prosieguo, la sua funzione primaria ha natura giustiziale e consiste, ex art. 25, c. 4, legge n. 241 del 1990, nell’esaminare e decidere sulle denegate ovvero differite istanze di accesso ai documenti (escluse le amministrazioni locali per le quali opera il Difensore Civico, ex art. 15, legge n. 340 del 2000) e quindi di risolvere in sede giustiziale amministrativa eventuali conflitti tra gli enti pubblici statali ed i richiedenti. la stessa nasce in Italia seguendo pedissequamente la falsariga di quanto avvenuto in francia con la Commission d’accès aux documents administratifs, creata oltralpe con poteri giustiziali deflattivi del contenzioso sin dall’art. 5, (15) Cfr. ARsì, La commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, in il Foro amministrativo, 1995, 11-12, 2893-2927. (16) Cons. stato, sez. I, 13 febbraio 2006, n. 3586/2005. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà legge 17 luglio 1978, n. 78-753, che ha affidato alla stessa il compito di «vegliare sul rispetto della libertà di accesso ai documenti amministrativi» onde prevenire il contenzioso. la francia è stata infatti tra i Paesi europei pionieri in materia di contenzioso extragiudiziale in materia di accesso, introducendo un’avanzata regolamentazione sulla trasparenza e non già solo per l’accesso ai documenti amministrativi, basti pensare alle coeve leggi del 6 gennaio 1978, n. 78-17, sull’informatica e relative libertà e del 3 gennaio 1979, n. 79-18, in materia di archivi pubblici. Peraltro, e significativamente, onde mantenere la normativa al passo con i tempi, al fine d’assicurare un accesso il più agevole possibile in conformità alla rapida evoluzione tecnologica, il legislatore francese è successivamente intervenuto con il Capitolo II della legge del 12 aprile 2000, n. 2000-321, in cui sono state armonizzate le differenti procedure previste nelle tre leggi sopra richiamate, uniformando alcuni regimi speciali ed ampliando la competenza della Commissione per l’accesso che per l’effetto ha visto rilanciato il proprio ruolo in materia di tutela giustiziale avanti al diniego all’accesso. Infatti, in caso di diniego all’accesso, espresso o tacito che sia, l’art. 2, c. 2 e 3, decreto del 28 giugno 1988, la Commissione deve essere obbligatoriamente adita entro due mesi ed in ogni caso anteriormente all’azione giurisdizionale per eccesso di potere teso ad impedire l’ostensione degli atti richiesti. Il mezzo principale d’intervento della Commissione francese è il parere che viene reso sulle istanze di soggetti cui è stato impedito l’accesso ad un documento amministrativo. si tratta dunque di un potere consultivo e non giurisdizionale ma l’attività dell’assise transalpina è cresciuta esponenzialmente negli anni con le richieste di parere che superano addirittura il miliardo annuale e -questo è il dato dirimente -oltre l’80% dei pareri ha avuto ottemperanza da parte delle pubbliche amministrazioni interessate. Per conseguenza è stato massimizzato l’effetto deflattivo sulla giustizia amministrativa transalpina che di fatto s’occupa solo dei casi più complessi e delicati in relazione anche alla tipologia dei dati personali di terzi contenuti nel documento oggetto d’accesso (17). nel caso italiano sappiamo che la funzione giustiziale è stata invece anzitutto discutibilmente frazionata fra la Commissione per l’accesso ed il Difensore Civico. Infatti, affidare la tutela amministrativa ad un organo centrale ed a più organi regionali e/o locali appare piuttosto contraddittorio in rapporto all’art. 22, c. 2, legge n. 241 del 1990, laddove l’accesso è inserito fra le materie rientranti nella competenza legislativa esclusiva statale e dunque s’intende assicurare l’uniforme applicazione del diritto di accesso su tutto il (17) Cfr. CAvAnA, La commissione d’accesso ai documenti amministrativi (CaDa) in Francia e l’introduzione nell’ordinamento italiano del ricorso extragiudiziale al Difensore civico, in Studium iuris, 2001, 9, 1119-1122. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 territorio nazionale, vincolando le Regioni e gli enti locali al rispetto dei principi di cui al Capo v della legge n. 241 del 1990. Di fatto, vista la presenza di quattro parlamentari ed il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, in un rapporto politici/tecnici di ben 5/11, si ravvede una ben maggiore connotazione politica della Commissione italiana rispetto a quella francese (18). Il legislatore italiano non ha quindi sapientemente pensato ad un organo a carattere strettamente para -giurisdizionale alla stregua delle Autorità amministrative indipendenti e ciò appare costituire un vulnus d’origine dell’assise. In particolare, la Commissione ha assunto con la novella operata dall’art. 18, legge n. 15 del 2005, il compito di riesaminare i dinieghi ovvero i differimenti opposti dalle amministrazioni pubbliche statali, centrali e periferiche, alle richieste di accesso ai documenti e di pronunciarsi con un provvedimento definitivo sulla legittimità dei relativi dinieghi ovvero differimenti. le decisioni della Commissione, pur non vincolanti per le amministrazioni, hanno tuttavia nel tempo assunto autorevolezza e prestigio nonché costituiscono un punto indiscutibile del percorso intrapreso per rendere effettivo il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Al riguardo non sfugge che il potere d’intervento giustiziale dell’assise perviene in Italia con grave ritardo rispetto all’esempio francese che data con quasi un trentennio d’anticipo. Infatti, solo con l’art. 15, legge n. 340 del 2000 s’inaugura il potere di riesame amministrativo del diniego in materia d’accesso ai documenti amministrativi da parte del Difensore Civico per le amministrazioni locali (19), ma occorrerà ancora un lustro affinché tale competenza sia assegnata anche alla già esistente Commissione per l’accesso per le restanti amministrazioni statali, centrali e periferiche (20). nei paragrafi che seguono s’intende quindi analizzare e valutare le misure che possano precipuamente mirare a potenziare i poteri e le funzioni di tale Commissione, onde rafforzare la tutela del diritto di accesso in sede amministrativa anteriormente al ricorso formale al Giudice amministrativo e per l’ef (18) Cfr. sAnDUllI, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, 5, 494-498. (19) Cfr. CAsTRonovo, Un nuovo compito per i Difensori Civici: verificare la legittimità del diniego di accesso ai documenti amministrativi, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2002, 7, 799-801. (20) In tema, senza pretesa d’esaustività, cfr.: RATTo TRABUCCo, il diritto di accesso documentale nel prisma della trasparenza della Pubblica amministrazione, lecce, 2022, 81-86; BAUsIlIo, il diritto di accesso ai documenti amministrativi: profili giurisprudenziali, vicalvi, 2016; ColAPIETRo, il diritto di accesso e la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi a vent’anni dalla legge n. 241 del 1990, napoli, 2012; nEsTA, il diritto di accesso ai documenti amministrativi: legge 241 del 1990, leggi n. 15 e n. 80 del 2005, D.P.r. n. 184 del 2006, Torino, 2006; oCChIEnA, i poteri della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi: in particolare, la funzione giustiziale ex L. n. 241/1990 e d.P.r. n. 184/2006, in Giustizia amministrativa, 2006, 6, 1242-1252; PAnozzo, La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, in Lo Stato Civile italiano, 2005, 8, 599-606 e 7, 516-523. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà fetto incrementare ancora la trasparenza della pubblica amministrazione in sede d’ostensione documentale a fronte di un sotteso interesse giuridicamente rilevante. 2. Le proposte di potenziamento della funzione giustiziale della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. In tempi recenti, l’esigenza di un maggiore rafforzamento delle funzioni della Commissione per l’accesso è emersa con crescente urgenza, in un contesto sociale e politico caratterizzato da una pressante richiesta di trasparenza da parte dei cittadini e dalla necessità di adeguamento alle direttive europee sedimentate nel tempo in materia di accesso ai documenti amministrativi. Infatti, non si dimentichi che numerosi sono gli indici normativi della rilevanza del diritto di accesso anche a livello sovranazionale e particolarmente europeo. sin dalla dichiarazione n. 17 allegata al Trattato sull’Unione europea del 1992, si rinvengono nel diritto comunitario espressioni dell’importanza del principio di trasparenza e del diritto di accesso che ne costituisce uno dei precipitati più rilevanti, come del resto la stessa Commissione per l’accesso ha avuto modo di rilevare nell’ambito di un ricorso nei confronti dell’ente universitario eurounitario (21). orbene, come noto nel dettaglio normativo italiano, l’art. 25, c. 4, legge n. 241 del 1990, prevede la facoltà per il soggetto a cui è stato opposto un diniego all’accesso, espresso o tacito, di «presentare ricorso al Tribunale amministrativo regionale» ma anche di chiedere il «riesame» della determinazione di diniego -ove si tratti di atti delle amministrazioni statali, centrali e periferiche -alla «Commissione per l’accesso» di cui al successivo art. 27, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, precisando, nel prosieguo, che «qualora il richiedente si sia rivolto […] alla Commissione, il termine di cui al comma 5», concernente la disciplina delle «controversie relative all’accesso ai documenti amministrativi […] decorre dalla data di ricevimento della comunicazione […] della Commissione». Indi, proprio in ragione delle peculiarità che connotano i rimedi esperibili avverso i dinieghi ovvero i differimenti all’accesso, la giurisprudenza ha più volte configurato l’istanza di riesame alla Commissione per l’accesso in termini di “ricorso gerarchico improprio” (22), connotato dall’assenza di un vincolo gerarchico tra amministrazione giudicante e amministrazione giudicata, e, comunque, affermato che, pur partendo dal presupposto che l’oggetto del giudizio in materia di accesso non può che essere identificato con (21) Decisione CADA, 29 maggio 2024, n. 25. (22) Cons. stato, sez. vI, 27 maggio 2003, n. 2938. Cfr. vETRò, Commento all’art. 25 commi 4, 5, 5-bis e 6, in PAolAnTonIo, PolICE, zITo (cur.), La Pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla L. n. 241/1990, riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2005, 751. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 la verifica circa la fondatezza o meno dell’istanza presentata all’amministrazione e, quindi, dall’accertamento diretto del diritto, il sindacato del Giudice non può prescindere ma, anzi, deve necessariamente prendere in considerazione anche le determinazioni assunte dalla Commissione per l’accesso (23). Infatti, le norme di legge e regolamentari che delineano il procedimento innanzi alla Commissione per l’accesso, configurano in modo chiaro un iter di tipo giustiziale, avendo la giurisprudenza osservato in particolare che: «il trasferimento in sede giurisdizionale di una controversia instaurata in sede gerarchica possa avvenire solo quando il procedimento giustiziale sia stato correttamente instaurato, ciò discendendo dalla necessità di evitare facili elusioni del termine decadenziale previsto per l’esercizio dell’azione innanzi al giudice. Tale principio è applicabile anche all’actio ad exhibendum in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza, la natura impugnatoria del relativo ricorso prescinde dalla natura della situazione giuridica soggettiva sottostante » (24). Una tale ricostruzione giuridica si presenta, del resto, come la più aderente al dettato normativo, il quale -consentendo la facoltà dell’interessato di adire in prima battuta il Giudice amministrativo ma anche di procedere, per contro, con un’istanza di «riesame», tra gli altri, alla Commissione per l’accesso, con piena salvezza del potere di adire, a seguito del non buon esito di quest’ultima, il Giudice amministrativo -impone di configurare un sistema di tutela articolato, il quale trova, peraltro, valida conferma proprio nell’art. 25, c. 4, legge n. 241 del 1990, nella parte in cui è statuita la decorrenza del termine di legge utile per proporre il ricorso avverso il diniego di accesso «dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell’esito della sua istanza alla Commissione». Preso così atto che l’istanza di riesame dei dinieghi dell’accesso costituisce una fase sì eventuale ma, comunque, non trascurabile una volta che il richiedente si sia avvalso di essa, tanto da incidere sulla decorrenza del termine perentorio previsto per l’azione giurisdizionale dall’art. 116 del Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. n. 104 del 2010, risulta, dunque, evidente che il richiedente -per ottenere tutela di fronte al Giudice amministrativo -non potrà ignorare la decisione negativa assunta dalla Commissione e, anzi, dovrà procedere giudizialmente anche nei confronti di quest’ultima. Quindi, ecco che l’azione, ex art. 116 cit., proposta dinanzi al Giudice amministrativo a seguito dell’istanza di riesame formulata alla Commissione per l’accesso, utile a incidere sulla decorrenza del termine di trenta giorni all’uopo previsto, non può non investire necessariamente anche la decisione resa (23) T.a.r. lazio, Roma, sez. II, 5 agosto 2011, n. 7015. (24) T.a.r. lazio, Roma, sez. I, 5 maggio 2008, n. 3675 e Cons. stato, Ad. Plen., 18 aprile 2006, n. 6. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà dalla menzionata Commissione e, dunque, il relativo giudizio non può ritenersi correttamente instaurato se non anche in virtù della chiamata in causa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, presso cui la Commissione de qua risulta istituita. non vi è -del resto -chi non veda come la mancata presa in considerazione o, comunque, l’assoluta trascuratezza da parte del ricorrente contro la decisione -comunque -negativa assunta dalla Commissione per l’accesso, ossia la proposizione dell’azione prevista dall’art. 116 cit., esclusivamente avverso il provvedimento di diniego originariamente opposto dall’amministrazione, con chiamata in causa unicamente di quest’ultima, si presti indefettibilmente a determinare non solo problemi in ordine al rispetto del termine decadenziale di legge (atteso che -in relazione a casi di tale genere -il termine de quo dovrebbe essere ragionevolmente computato a fare data dal- l’adozione del diniego e non -per contro -dalla data di ricevimento del riscontro della Commissione) ma anche in rapporto all’interesse alla decisione, stante il permanere di una decisione negativa sulla richiesta di accesso. In conclusione, se è vero che l’accesso costituisce sì un “diritto” teso al conseguimento di un bene della vita ma l’esperibilità dell’azione prevista per la tutela dello stesso in sede giurisdizionale risulta soggetta a un termine di legge decadenziale, non sono riscontrabili motivi per porre in discussione che, in tutti i casi in cui il richiedente si sia attivato presso la Commissione per l’accesso e non abbia trovato soddisfazione alla sua pretesa a causa del negativo pronunciamento di quest’ultima, la suddetta Commissione costituisca una parte “necessaria” del giudizio di seguito instaurato dinanzi al Giudice amministrativo. ossia una parte la cui mancata evocazione in giudizio non può che determinare l’inammissibilità dell’azione proposta, nel rispetto del principio del contraddittorio e, più in generale, del diritto di difesa (25). Chiarito quanto sopra in punto di non certo recessiva posizione della Commissione per l’accesso nel quadro della pedissequa eventuale tutela giurisdizionale in materia d’accesso, occorre passare all’esame di alcune auspicabili riforme al fine del rafforzamento dei poteri e delle funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi in sede giustiziale, le quali appaiono articolarsi su almeno quattro piani differenti. Anzitutto si tratta di attribuire maggiori competenze decisionali all’assise. Una delle novità più significative riguarda infatti l’ampliamento delle titolarità della Commissione. Risulterebbe opportuno che il collegio non solo possa pronunciarsi sui dinieghi o sui differimenti per l’accesso, ma anche su eventuali ritardi ingiustificati da parte delle amministrazioni nel fornire i documenti richiesti. In questo modo, la Commissione diventerebbe un vero e proprio organo di garanzia, in grado di vigilare sull’efficienza e sull’efficacia della (25) T.a.r. lazio, Roma, sez. I-bis, 15 novembre 2018, n. 11022. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 pubblica amministrazione. Al riguardo, richiamando il modello transalpino, sarebbe opportuno valutare l’attribuzione integrale della funzione giustiziale amministrativa in materia d’accesso alla sola Commissione superando per l’effetto la titolarità affidata ai Difensori Civici che peraltro sono organi la cui effettività decisionale appare in alcuni casi incerta e dunque a scapito dell’autorevolezza della determinazione stessa. si tratta infatti di un tipo d’alternative Dispute resolution (ADR) pubblicistica con svariati punti critici di un modello defensionale civico su cui si dovrebbe intervenire per assicurare una maggiore efficacia (26). In secondo luogo si tratterebbe di ampliare la nozione di accesso ai documenti amministrativi. se il diritto di accesso riguarda i documenti già esistenti, formati e detenuti dall’amministrazione, sarebbe opportuno discutere di un estensione dell’accesso anche a quelli in itinere che potrebbero essere creati in futuro ovvero a quelli che non sono formalmente classificati come “documenti” ma che, di fatto, contengono informazioni rilevanti per i cittadini. In terzo luogo sussiste l’esigenza di rafforzare l’indipendenza della Commissione per l’accesso. Al fine di garantire che l’assise possa operare senza influenze politiche o istituzionali, le proposte di modifica prevedono infatti anche il consolidamento della sua indipendenza. Questo implica una maggiore autonomia nell’organizzazione interna, nella gestione delle risorse e nella formulazione delle proprie decisioni. Anzitutto, al fine di una maggiore indipendenza dell’organo si ritiene che la Commissione dovrebbe essere configurata quale autorità amministrativa indipendente attraverso la designazione e/o elezione di componenti esclusivamente tecnici e non anche politici da parte di figure di garanzia quali i Presidenti delle Camere ovvero il Capo dello stato, al pari di quanto avviene per altre authorities come il Garante privacy. si potrebbe a tal fine preconizzare la creazione di un’Autorità Garante per l’accesso ai documenti amministrativi, con l’ipotetico acronimo di AGADA ovvero GADA. Al contrario potrebbe prevedersi l’elezione parlamentare con una maggioranza qualificata, il tutto previa pubblicazione di un bando al fine del successivo deposito di candidature da vagliare. Qualora la ridetta strada non risulti politicamente praticabile, quantomeno dovrebbe essere totalmente espunta la presenza dei cinque componenti politici ovvero il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri quale Presidente di diritto ed i quattro membri di designazione da parte dei due Presidenti parlamentari. Correlativamente andrebbe incrementata la presenza delle restanti quattro categorie di membri tec (26) Cfr. PosTERARo, L’amministrazione contenziosa: le “alternative Dispute resolution” (con particolare riguardo alla figura del difensore civico), in il processo, 2021, 2, 265-326. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà nici (magistrati, avvocati erariali, docenti universitari e dirigenti pubblici) nonché pure aumentando il numero degli esperti tecnici che al momento, nella misura massima di cinque unità, svolgono solo funzioni consultive dell’assise. Potrebbe inoltre essere opportuna la designazione di membri anche da parte dei Consigli nazionali forense, del notariato e dei Commercialisti, accanto alle già previste nomine tecniche, magistratuali e dell’Avvocatura di stato. la stessa presenza dei docenti universitari di ruolo in materie giuridico-amministrative potrebbe essere incrementata -quantomeno raddoppiata -al pari di quella dei dirigenti statali e degli enti pubblici che pure era stata inizialmente prevista con quattro membri per ciascuna categoria, ma è stata poi discutibilmente e rispettivamente ridotta ad una unità per i docenti nonché espunta del tutto per i dirigenti, prima dall’art. 18, legge n. 15 del 2005 e poi dall’art. 47bis, decreto legge n. 69 del 2013, convertito in legge n. 98 del 2013, in sede di misure semplificative dell’attività del collegio, i cui componenti sono stati per l’effetto drasticamente ridotti da sedici a dieci oltre il Presidente. Al contrario risulta quanto mai opportuno un incremento dei membri tecnici del collegio. occorre dunque ripensare puntualmente le scelte politiche di natura organizzativo-finanziario effettuate con le novelle operate nel 2005 e 2013, per l’effetto incrementando il numero di componenti tecnici dell’assise, a partire dagli accademici e dai dirigenti pubblici, eventualmente aggregando anche avvocati, commercialisti e notai, onde fronteggiare l’inevitabile progressiva lievitazione del contenzioso, vieppiù se fosse assegnata la competenza giustiziale anche per le amministrazioni locali espungendo per converso quella del Difensore Civico. le coeve previsioni inserite nel 2013 per cui la Commissione delibera a maggioranza dei presenti -in luogo della validità in presenza di sette membri come anteriormente previsto -ed il disposto per cui l’assenza dei componenti per tre sedute consecutive ne determina la decadenza, appaiono in ogni caso indispensabili allo scopo dell’efficientamento dei lavori del collegio evitando che l’assenteismo -particolarmente da parte dei quattro parlamentari inevitabilmente onerati anche dell’attività della Camera di appartenenza -determini impossibilità al proficuo svolgimento dei lavori. Parimenti in ordine alla novella semplificativa per cui i componenti magistratuali e dell’Avvocatura erariale possono essere nominati ovvero continuare ad esercitare l’incarico anche se in stato di quiescenza, di fatto acconsentendo che pure soggetti delle ridette istituzioni cessati dal servizio possano comunque svolgere l’incarico di riesame giustiziale per l’accesso. s’evita in tal modo la sottrazione di utili risorse umane alla sempre sostanziosa e pressante attività giudiziaria quotidiana con annessi carichi di lavoro delle tre magistrature e dell’Avvocatura erariale. In quarto luogo come obliterare la necessità di assicurare una ancor maggiore celerità, trasparenza e pubblicità nei procedimenti dell’assise velocizzando il suo iter decisionale, già peraltro oggetto da anni di completa RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 digitalizzazione degli atti dei singoli affari sottoposti all’esame. l’idea è quella di ridurre sotto trenta giorni i tempi di risposta alle istanze di riesame dei dinieghi all’accesso, creando una procedura più snella e trasparente, che consenta ai cittadini di ottenere e seco ricevere telematicamente il provvedimento decisorio in tempi rapidi, id est per esempio entro un arco d’alcune settimane. Peraltro, il principio di silenzio-rigetto previsto dalla norma in materia di riesame ed incoerente con la funzione stessa di trasparenza e di tutela del cittadino svolta dalla Commissione, risulta sovvertito nella prassi laddove l’organo esamina e decide ogni ricorso pervenuto, impedendo quindi la formazione del silenzio-rigetto. Inoltre, sarebbe opportuno che le decisioni della Commissione fossero rese pubbliche in maniera tempestiva ed accessibile a mezzo del relativo sito web, favorendo una maggiore fiducia nel processo decisionale. Parimenti dovrebbero essere pubblicati i provvedimenti di riesame oggetto d’impugnazione da parte delle amministrazioni statali, centrali e periferiche, ovvero degli accedenti ed i loro relativi esiti al Tribunale amministrativo regionale del lazio ed al Consiglio di stato, per ogni buon fine agli interessati onde avere un più completo ed esaustivo quadro sugli esiti dei casi esaminati. la sussistenza di dinieghi all’accesso del tutto infondati e pretestuosi, fondati su oziose se non assenti motivazioni, è stata peraltro più volte acclarata in sede giurisdizionale (27). A sua volta, la Commissione per l’accesso dovrebbe essere chiamata a collaborare in modo più stretto con altri organi di controllo e particolarmente con le autorità amministrative indipendenti (salva la pure auspicabile ipotesi sopra menzionata che la stessa sia riconfigurata quale authority), a partire dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e dalla Corte dei conti, onde garantire una supervisione congiunta circa questioni che coinvolgono trasparenza, privacy e buon andamento della pubblica amministrazione, anche al fine del perseguimento del danno erariale sotteso a dinieghi all’accesso del tutto grossolani. Ancora, occorre rammentare come la Commissione per l’accesso dovrebbe potersi esprimere in sede giustiziale anche avverso ai dinieghi espressi o taciti ovvero ai differimenti relativi all’accesso civico semplice e generaliz( 27) fra gli altri, si citano alcuni eloquenti casi con l’indicazione delle amministrazioni soccombenti e condannate alle spese: T.a.r. lazio, Roma, sez. III-bis, 27 ottobre 2020, n. 10972 e 3 giugno 2020, n. 5895, relative all’Ufficio scolastico Regionale per il lazio del Ministero dell’Istruzione, del- l’Università e della Ricerca; T.a.r. Toscana, sez. I, 10 febbraio 2017, n. 200, relativa all’Ufficio scolastico Regionale per la Toscana del citato dicastero; T.a.r. sicilia, Palermo, sez. I, 11 maggio 2012, n. 954, relativa all’Azienda sanitaria Provinciale di Caltanissetta; Cons. stato, sez. Iv, 10 aprile 2009, n. 2243, relativa al Comune di Dobbiaco; Cons. stato, sez. Iv, 21 agosto 2006, n. 4855, relativa al Comune di solofra; Cons. stato, sez. v, 4 maggio 2004, n. 2716, relativa al Comune di villasor; T.a.r. Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 29 gennaio 2004, n. 140, relativa al Comune di Castel Maggiore; T.a.r. sardegna, sez. I, 29 aprile 2003, n. 495, relativa al Comune di villasor in prime cure per la sopracitata sentenza d’appello. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà zato opposti dalle amministrazioni statali, centrali e periferiche, ex art. 5, c. 1 e 2, d.lgs. n. 33 del 2013, al pari di quanto è stato previsto all’art. 5, c. 8, d.lgs. cit., per il Difensore Civico nei confronti delle amministrazioni locali. Diversamente appare un’evidente ed ingiustificabile asimmetria che trascende nel- l’aporia e lede palesemente la posizione dell’accedente civico nei confronti delle amministrazioni statali, centrali e periferiche, il quale ai fini di tutela si vede quindi costretto ad adire necessariamente la via più onerosa via giurisdizionale avanti al competente Tribunale amministrativo regionale e se del caso in appello al Consiglio di stato. Infine, se non appare per nulla opportuna la previsione di una tassa per ottenere il riesame in materia di dinieghi o differimenti all’accesso da parte della Commissione, sarebbe in ogni caso necessario che la stessa potesse pronunciarsi anche sulla legittimità dei costi imposti agli accedenti dalle amministrazioni pubbliche. Infatti, in sede di tutela, la stessa assise ha avuto modo di affermare che, l’eventuale lamentata eccessività dei costi di accesso, esula dalla propria competenza, in quanto non inerente il riconoscimento del diritto di accesso ma le modalità organizzative poste in essere dall’amministrazione per l’esercizio del diritto stesso (28), di fatto così escludendo un suo sindacato in un ambito che difficilmente potrebbe giungere alla decisione del Giudice amministrativo, stante gli inevitabili correlati costi di giustizia. Peraltro, l’attuale completa gratuità e la facilità ed immediatezza di presentazione dei ricorsi alla Commissione per l’accesso, attraverso l’uso degli strumenti elettronici -in primis la posta elettronica certificata ora indispensabile per adire l’assise -, ha generato negli ultimi anni l’incremento esponenziale del numero dei gravami, anche con fenomeni di ricorrenti quasi seriali, ma questo non può trasformarsi in un pretesto per l’introduzione di costi di accesso ad una forma di tutela che in ogni caso permane di carattere amministrativo. Dunque, lo strumento di tutela giustiziale amministrativa offerto al cittadino con la Commissione per l’accesso non solo favorisce l’esercizio effettivo del diritto d’accesso nei confronti dell’amministrazione pubblica, ma, tenuto altresì presente il non trascurabile costo di un eventuale ricorso giurisdizionale, contribuisce anche ad una consistente riduzione del contenzioso avanti ai Tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di stato. In materia si consideri il non irrilevante dato per cui il numero di decisioni della Commissione per l’accesso oggetto di successiva impugnazione al Tribunale amministrativo regionale del lazio, sede di Roma, s’attesta ampiamente al di sotto del 2% circa. Per certo il cittadino dovrebbe essere ancora maggiormente incentivato ad adire la Commissione (ed il Difensore Civico) rispetto al tradizionale ricorso giurisdizionale non risultando sufficiente la gratuità e l’assenza dell’ob (28) Decisione CADA, 17 novembre 2016. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 bligo d’assistenza legale ovvero la possibilità d’invio del gravame per via telematica. Peraltro si consideri che, se le spese di giustizia per il ricorso giurisdizionale in materia d’accesso, ex art. 13, c. 6-bis, d.P.R. n. 115 del 2002, gravano per l’importo di euro trecento, l’obbligo d’assistenza legale non sussiste neppure avanti al Tribunale amministrativo regionale. Discutibilmente permane invece innanzi al Consiglio di stato, laddove l’art. 95, comma 6, del Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. n. 104 del 2010, ha circoscritto le ipotesi di difesa personale ai soli giudizi di primo grado, sancendo l’inapplicabilità alle impugnazioni dell’art. 23, c. 1, del ridetto Codice, in punto di esenzione dell’assistenza, di talché è necessario dinanzi al Consiglio di stato il ministero di un difensore all’uopo abilitato. si tratta di un’ingiustificata aporia in odore d’incostituzionalità che la giurisprudenza amministrativo ha pienamente legittimato in modo del tutto assertivo ed apparente (29), ritenendo tale esclusione per il solo grado di giudizio superiore circa la medesima materia di contenzioso in materia d’accesso, ex art. 116, del Codice del processo amministrativo, non lesiva del diritto di difesa costituzionalmente garantito (30), realizzando tuttavia per certo in tal modo la “gioia” dei patrocinatori iscritti all’albo delle giurisdizioni superiori. 3. Per una riflessione sull’effettività del diritto di accesso e della sua tutela amministrativa. Il potenziamento della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi rappresenta un passo importante verso una pubblica amministrazione più trasparente, accessibile e vicina ai cittadini. l’ampliamento delle sue competenze e la rafforzata indipendenza sono misure che rispondono ad una crescente domanda di accountability ovvero di responsabilità delle istituzioni nei confronti della società civile. si tratta infatti di uno strumento giustiziale che consente d’ottenere una tutela del tutto esente da costi per l’accedente, a nulla valendo che la stessa protezione non sia strettamente vincolante per la pubblica amministrazione. semmai, come già sopra preconizzato, il legislatore dovrebbe prevedere che sia la sola stessa pubblica amministrazione soccombente avanti alla Commissione per l’accesso -e non anche il privato di cui sia riconosciuta la legittimità dell’accesso -ad intraprendere la via giurisdizionale laddove non intenda ottemperare alla decisione sfavorevole dell’assise. Del resto, rispetto all’ordinamento francese, laddove il ricorso alla Commissione per l’accesso è obbligatorio prima del rimedio giurisdizionale alla Corte amministrativa, il legislatore nostrano ha previsto una tutela amministrativa barocca del tutto facoltativa e che dunque non condiziona in alcun (29) Cons. stato, sez. vI, 27 dicembre 2011, n. 6846; Cons. stato, sez. v, 19 ottobre 2011, n. 5623. (30) Cons. stato, sez. Iv, 12 luglio 2013, n. 3760; Cons. stato, sez. Iv, 28 febbraio 2012, n. 1162. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà modo il diritto d’agire avanti agli organi giurisdizionali amministrativi. l’accedente a cui sia stato denegato l’accesso è infatti del tutto libero di scegliere fra ricorrere alla Commissione amministrativa ovvero al Tribunale amministrativo regionale senza che la prima ipotesi abbia effetti preclusivi della seconda. A sua volta la previsione della sospensione dei termini per il ricorso giurisdizionale sino alla data di ricevimento della decisione della Commissione risponde all’esigenza di evitare i rischi d’illegittimità costituzionale derivanti dalla cd. alternatività fra ricorso amministrativo e giurisdizionale, la cui eventuale introduzione avrebbe dovuto garantire ai controinteressati all’accesso il diritto alla trasposizione e conseguente decisione in sede giurisdizionale del ricorso, parimenti a quanto avviene, ex art. 10, d.P.R. n. 1199 del 1971, per il ricorso straordinario al Capo dello stato. Permangono infatti delle debolezze intrinseche all’azione della Commissione per l’accesso che non assicura gli stessi requisiti del Giudice amministrativo e detiene poteri più labili del ridetto. se è infatti vero che, ex artt. 25, c. 4, legge n. 241 del 1990 ed art. 12, c. 9, d.P.R. n. 184 del 2006, la decisione dell’assise attiva un nuovo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione sull’istanza di accesso che, se intende negare ancora l’ostensione, può adottare entro trenta giorni dalla comunicazione della decisione un provvedimento motivato di conferma del diniego aprendo così per l’accedente la strada al ricorso giurisdizionale entro ulteriori trenta giorni. Tuttavia, l’anello debole della normativa in materia di tutela giustiziale della Commissione per l’accesso risiede nella non infrequente ipotesi in cui l’amministrazione non adotti il provvedimento confermativo del diniego posto che è formalmente previsto il silenzio assenso al fine dell’ostensione -, ma concretamente non consenta poi la visione o l’estrazione di copia dei documenti richiesti. Infatti, alcun potere coercitivo, neppure minimale, detiene la Commissione nel caso in cui l’amministrazione non intenda in alcun modo ostendere la documentazione richiesta e dunque mantenga un deprecabile comportamento omissivo (rectius, manifestamente ostruzionistico). la scelta del legislatore del 2005 di confermare quanto già previsto nel 2000 circa la “efficacia” della decisione del Difensore Civico appare del tutto criticabile laddove non s’assicura tutela al privato. Infatti, si badi che il silenzio accoglimento non è impugnabile per carenza d’interesse da parte dell’accedente ma nonostante ciò l’amministrazione ben può persistere nel suo atteggiamento di sostanziale diniego rifiutando l’accesso -anche solo implicitamente senza l’adozione d’alcun ulteriore provvedimento negativo -, pur a fronte della titolarità da parte dell’accedente di un inequivocabile titolo giuridico che fonda la sua pretesa d’accesso quale acclarato dalla Commissione (31). Appare evidente che in punto d’effettività della tutela in sede giustiziale (31) Cfr. fRACChIA, riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino, 2003. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 della Commissione per l’accesso (e del Difensore Civico) costituisce un grave vulnus il fatto che la decisione dell’assise non detenga necessariamente un carattere auto-applicativo. Infatti, a prescindere dalla presenza di un diniego espresso ovvero tacito, l’ostensione dei documenti amministrativi impone sempre l’adozione di atti e comportamenti amministrativi. Il legislatore avrebbe quindi dovuto attribuire alla Commissione per l’accesso (ed al Difensore Civico) adeguati strumenti coercitivi tesi ad imporre all’amministrazione l’esibizione dei documenti richiesti. si tratta di poteri che non essendo espressamente previsti dalla norma che si limita all’esercizio di un sindacato amministrativo sulla legittimità del diniego ovvero del differimento, non possono certo essere dedotti implicitamente attribuendo alla Commissione la titolarità a sostituirsi alla pubblica amministrazione che impedisce l’accesso documentale. Risulta dunque evidente la differenza d’effettività rispetto al ricorso giurisdizionale laddove l’art. 25, c. 6, legge n. 241 del 1990, prevede che «il Giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti». Appare perciò necessario comprendere quale tipologia di tutela possa attivare l’accedente al quale non sia riconosciuto l’accesso neppure dopo avere ottenuto una decisione favorevole che censura l’illegittimità del diniego ovvero del differimento opposto dalla pubblica amministrazione. orbene, contro il silenzio accoglimento non risulta esperibile l’azione di ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ex art. 117, del Codice del Processo Amministrativo (32), sia perché il rimedio è percorribile solo contro il silenzio-rifiuto ovvero inadempimento, sia in quanto a fronte di una decisione favorevole dovrebbe accertarsi la carenza dell’interesse ad agire in capo al ricorrente. Parimenti non appare percorribile neppure la via del giudizio in materia d’inesecuzione ovvero elusione della decisione amministrativa resa dalla Commissione per l’accesso (33), in quanto tale atto amministrativo é insuscettibile d’essere oggetto di un giudizio di ottemperanza e così, per esempio, la suprema Corte di cassazione ha escluso la possibilità di ricorrere in ottemperanza per ottenere l’esecuzione delle decisioni rese sul ricorso straordinario (34). l’unica via concretamente ed utilmente percorribile dall’accedente è il ricorso al Tribunale amministrativo regionale al fine d’ottenere una decisione dotata dell’esecutorietà tesa ad assicurare l’ostensione dei documenti richiesti. Compete infatti al Giudice amministrativo ordinare l’esibizione documentale e l’art. 25, c. 5, legge n. 241 del 1990, ammette il gravame non solo contro le «determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso», bensì anche «nei casi previsti (32) Cfr. AnDREIs, Commento all’art. 21, legge Tar. i riti speciali, in RoMAno, vIllATA (cur.), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2009, 749. (33) Cfr. CIRIllo, Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile, in il Consiglio di Stato, 2004, 7-8, 1681-1684. (34) Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà dal comma 4» dello stesso art. 25, cit., tra cui deve ritenersi rientrare il silenzio- assenso opposto dalla pubblica amministrazione dopo la decisione ad essa sfavorevole resa dalla Commissione per l’accesso (o dal Difensore Civico). Per quanto non sia espressamente previsto ma neppure tassativamente escluso dalla norma citata, dovrebbe potersi estendere in via analogica all’azione di ricorso anche il caso in cui l’ente pubblico non consenta la materiale ostensione del documento richiesto pur in assenza di un formale provvedimento confermativo di diniego. Tuttavia, permane fondamentale che le modifiche sopra esposte in punto d’effettività debbano essere accompagnate da adeguate risorse e supporto organizzativo per garantire che la Commissione possa adempiere efficacemente ai suoi nuovi compiti. solo con un adeguato rafforzamento delle sue capacità operative, infatti, la Commissione potrà rispondere in maniera tempestiva ed imparziale alle crescenti richieste di trasparenza e di partecipazione dei cittadini. Del resto, sin dal 2010 i componenti della Commissione operano a titolo onorario e completamente non retribuito, senza percepire alcun compenso, né rimborso per l’attività svolta. solo un organo collegiale indipendente formato da professionisti stimati e capaci ovvero più tecnici che politici, può creare un certo potere di persuasione ed influenza o quanto meno una capacità d’ascolto da parte della pubblica amministrazione sino al punto che la stragrande maggioranza delle sue decisioni venga accolta dall’ente pubblico di turno creando di fatto una maggiore snellezza procedimentale. si tratta di quanto avvenuto e tuttora avviene in francia laddove il ricorso alla Commissione non è una mera aggiunta facoltativa al ricorso giurisdizionale, bensì è del tutto obbligatorio prima di ricorrere alla Corte amministrativa e gli effetti di deflazione del relativo contenzioso sono stati notevoli e vistosi. In sintesi, rafforzare i poteri e le funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi per farle acquisire un’ancora maggiore autorevolezza, significa non solo migliorare la trasparenza dell’amministrazione pubblica, ma anche implementare la democrazia partecipativa, dando ai cittadini strumenti più efficaci per monitorare e influenzare le decisioni pubbliche (35). si tratta di un passo fondamentale verso una capacità amministrativa pubblica più aperta, semplificata e snella, nonché responsabile ed al servizio della collettività (36). non a caso, anche le letture ermeneutiche più ampie della giurisprudenza in materia di diritto di accesso, trovano la loro ragion d’essere proprio in questo (35) Cfr. fERRonI, il dibattito pubblico, la democrazia partecipativa e le semplificazioni: luci ed ombre, in CARAvAlE, CECCAnTI, fRosInA, PICIACChIA, zEI (cur.), Scritti in onore di Fulco Lanchester, I, napoli, 2022, 539-557. (36) Cfr. CAPoRossI, i Comuni e la sfida della sostenibilità: misurazione della capacità amministrativa pubblica, tra efficienza, trasparenza e anticorruzione, soveria Mannelli, 2021. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 generale mutato assetto (voluto anche dallo stesso legislatore), in cui è riconosciuta agli interessati la possibilità di conoscere appieno anche i percorsi attraverso cui si è formata la scelta decisionale dell’amministrazione in termini di ampliamento delle dinamiche partecipative e di tutela del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. la glasnost dell’amministrazione italiana -per dirla con il termine russo che sin dall’ottocento indicava la pubblicità delle decisioni giuridiche e poi in voga alla fine degli anni ottanta del secolo scorso per definire le riforme nel senso della trasparenza del socialismo “dal volto umano” -non lascia quindi spazio a plateali e grossolani dinieghi all’accesso, sistematicamente sconfessati dalla Commissione per l’accesso, dal Difensore Civico ovvero dal Giudice amministrativo (37). Rifiuti che sono spesso disposti da burocrati e “colletti bianchi” di stato sovente connotati da claudicante preparazione giuridica, in forza di dubbie elevazioni professionali ben lontane dal concetto meritocratico grazie a procedure ope legis o similari. ovvero in quanto soggetti generalmente arroccati su posizioni di ignobile supponenza ed alterigia, digiuni e profani, veri o presunti, della più elementare normativa e discendente granitica giurisprudenza ultraventennale in materia di accesso ai documenti amministrativi ed alla privacy. Trattasi di soggetti che impersonano pro tempore gli uffici quali si riscontrano a macchia di leopardo (fortunatamente non sempre, sia chiaro!) nell’arcipelago della pubblica amministrazione, a livello sia centrale che locale, in pubblici uffici utili o pleonastici che siano, spesso pure inutilmente sperperando risorse per l’acquisto di banche dati giuridiche o altri supporti d’aggiornamento ovvero organizzando attività di formazione non sempre adeguata. In forza di quanto sopra l’auspicio è che la Commissione per l’accesso possa spingersi oltre l’accertamento dell’illegittimità del diniego di accesso con l’esercizio di veri e propri poteri sanzionatori di natura pecuniaria, esattamente al pari di quanto avviene da parte delle Autorità amministrative indipendenti nei settori di rispettiva competenza. Il riferimento è alla previsione della facoltà d’irrogare sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti dei responsabili dei procedimenti d’accesso delle amministrazioni colpevoli di pretestuosi ed abnormi dinieghi all’accesso pacificamente contrari alla normativa e consolidata giurisprudenza. Il tutto con relativa discendente segnalazione di danno erariale alla competente Procura regionale della Corte dei conti, affinché siano così direttamente puniti i dipendenti pubblici responsabili di una grave violazione di diritto soggettivo del cittadino quale costituito dal (37) Cfr. RATTo TRABUCCo, i dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi: esperienze applicative nell’epoca della trasparenza, in rassegna avvocatura dello Stato, 2018, 3, 172-184 e ID., i dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi. Problematiche applicative nell’era della trasparenza a fronte del caso limite del tribunale militare di Verona, in Quaderni amministrativi, 2018, 2-3, 22-41. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà l’accesso ai documenti amministrativi. la violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché la sussistenza degli elementi, costitutivi della colpa, negligenza, imprudenza e imperizia, attestanti l’intollerabile superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore di turno, devono infatti essere necessariamente sanzionati in ambito contabile. Parimenti, l’illegittimo e pretestuoso diniego all’ostensione di documenti amministrativi dovrebbe normativamente essere configurato quale violazione dei doveri d’ufficio, al pari, per esempio, di quanto previsto dall’art. 76, d.P.R. n. 445 del 2000, recante il Testo unico in materia di documentazione amministrativa (TUDA), nel caso della mancata accettazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni o dell’atto di notorietà, basilare fondamento della semplificazione amministrativa nel senso di consentire al cittadino l’autodichiarazione in luogo della produzione dei certificati ovvero degli atti comprovanti fatti, stati e qualità personali a diretta conoscenza dell’interessato. Per conseguenza ne deriverebbe la pacifica responsabilità disciplinare del pubblico dipendente colpevole per l’inadempimento/violazione in punto di diritto di accesso a documenti amministrativi e quindi doverosamente sanzionabile dall’amministrazione di appartenenza quale grave violazione disciplinare passibile di sospensione dal servizio e dalla retribuzione, previo iter gestito dal- l’apposito Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD). né si obliterino le ricadute penalistiche dell’omessa ostensione in malafede laddove ci si limita in questa sede a rammentare che per giurisprudenza consolidata in tema di rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, ex art. 328 c.p., tale fattispecie delittuosa è ben configurabile anche in presenza di omissione e silenzio sulle richieste ostensive di documenti amministrativi, posto che la rilevanza penale del comportamento omissivo del pubblico ufficiale (o del- l’incaricato di pubblico servizio) non viene vanificata dalla previsione del rimedio amministrativo anche contro il semplice silenzio e conserva la sua autonomia rispetto a tale rimedio. l’effetto penale obbedisce all’esigenza di reprimere quei comportamenti del pubblico ufficiale che contravvengono al principio di correttezza e buon andamento dell’attività amministrativa; il rimedio amministrativo, invece, assicura la possibilità di dare forza ed effettiva attuazione al suo diritto di accesso ai documenti (38). Così, ai fini della integrazione del delitto di omissione di atti d’ufficio in sede di accesso, è irrilevante il formarsi del silenzio-rifiuto entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato. ne consegue che il silenzio-rifiuto deve considerarsi inadempimento e, quindi, come condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (39). Inoltre, più nel dettaglio, (38) Cass. pen., sez. v, 8 gennaio 1997, Capuano. (39) Ex multis: Cass. pen., sez. vI, 6 ottobre 2015, n. 42610; Cass. pen., sez. vI, 17 ottobre 2013, n. 45629, Proc. Gen. App. in proc. Giuffrida, rv. 257706; Cass. pen., sez. vI, 24 novembre 2009, n. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 per aversi omissione di atti di ufficio rilevante, ex art. 328, c. 2, c.p., in caso di richiesta di accesso a documenti amministrativi sono necessari la richiesta espressa dell’interessato, l’inerzia del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio obbligato a provvedere (di fatto il responsabile del procedimento d’accesso) che si sia protratta oltre trenta giorni dalla richiesta nonché un’ulteriore richiesta dell’interessato con valore di messa in mora e l’inutile decorso di altri trenta giorni da tale ultima istanza senza che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia provveduto o, quantomeno, risposto per esporre le ragioni del ritardo. Infatti, è granitico l’orientamento della suprema Corte di cassazione in tema di rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, ex art. 328 c.p., per cui la richiesta del privato, affinché sia rilevante, deve atteggiarsi come vera diffida (40) -non assumendo rilievo una mera segnalazione -, quale atto ontologicamente distinto dalla mera istanza dell’interessato volta ad ottenere l’adozione di un provvedimento amministrativo. Essa è dunque un atto necessario ed imprescindibile ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 328 c.p. nel caso dell’omissione di atti d’ufficio in sede di esercizio del diritto d’accesso a documenti amministrativi (41). Conclusivamente, l’ostensione dei documenti amministrativi deve quindi ritenersi l’assoluta regola mentre il diniego deve concepirsi come una mera eventuale rara eccezione, per cui il rigetto d’accesso dovrà essere sempre assistito da chiara, esauriente e convincente motivazione e non certo ridursi a mera dichiarazione “di stile” come invece ancora purtroppo avviene da parte d’inadeguati specifici pubblici dipendenti che si ergono così a secretare illegittimamente atti dell’amministrazione di appartenenza. Trattasi, a ben vedere, di dipendenti ignavi privi di quell’ordinaria intelligenza ed umanità per comprendere e soddisfare l’istanza d’accesso che la stessa giurisprudenza ha infatti qualificato anche come tesa al conseguimento di un autonomo bene della vita (42). la citata tipologia di personale pubblico dovrebbe quindi essere espulsa dall’amministrazione, previe sanzioni di natura disciplinare, penale e contabile. Corollario della predetta regola è che il silenzio serbato su istanze d’accesso è ipotesi ancor più eccezionale, da circoscrivere in ambiti limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte ovvero emulative e dunque im 7348, Di venere, rv. 246025; Cass. pen., sez. vI, 15 novembre 2005, n. 41225, P.M. in proc. Grassi ed altro, rv. 232765; Cass. pen., sez. vI, 6 aprile 2000, n. 5691, scorsone, rv. 217339. (40) Cass. pen., sez. vI, 27 settembre 2010, n. 40008, Iorio. (41) Trib. Pescara, 7 maggio 2008 e 20 febbraio 2001, P.f. (42) Ex plurimis: T.a.r. lazio, Roma, sez. III-quater, 10 febbraio 2023, n. 2297; T.a.r. Puglia, lecce, sez. II, 27 marzo 2020, n. 415; Cons. stato, sez. v, 27 giugno 2018, n. 3953; Cons. stato, sez. v, 18 ottobre 2017, n. 4813; Cons. stato, Ad. Plen., 24 aprile 2012, n. 7; Cons. stato, sez. vI, 9 marzo 2011, n. 1492; Cons. stato, sez. Iv, 3 agosto 2010, n. 5173; Cons. stato, sez. vI, 27 ottobre 2006, n. 6440. Cfr. RATTo TRABUCCo, i potenziali fruttuosi sviluppi della nozione del diritto di accesso quale teso al conseguimento di un autonomo bene della vita ai fini delle istanze ostensive delle associazione di consumatori, in Lexitalia.it, 29 giugno 2021. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà meritevoli di riscontro, anche in quanto potenzialmente trascendenti nell’abuso del diritto (43). ferma l’esigenza di contrastare derive elusive e opportunistiche nonché, in ultima analisi, vere e proprie forme di abusivo esercizio del diritto di accesso, si tratta di regole semplici e fondamentali, ispirate, secondo l’ormai noto insegnamento dei Giudici amministrativi, a valori fondanti di qualsiasi vera democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino e non di se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità in base alla quale il cittadino è suddito e non referente dell’azione amministrativa. Tuttavia, l’ignavia nel rispetto delle regole, elemento consolidato nel retroterra culturale italiano nonché mediterraneo, vieppiù a fronte di una certa impreparazione del personale della pubblica amministrazione -non di rado assunto anche “raschiando” i “fondi” delle graduatorie concorsuali, in alcuni casi pure datate -, impedisce troppo spesso di realizzare qualsivoglia intento punitivo nei confronti d’inefficienti burocrati del deep state che restano al loro posto, mentre gli infingardi ed ammalianti politici passano. Del resto, uno “stato profondo” può configurarsi anche in funzionari di carriera che di per sé non si muovono al fine di sovvertire questo o quel governo, bensì per sostenere i propri esclusivi interessi e prebende. l’intento di uno deep state può comprendere infatti non solo la continuità dello stato stesso ma anche la conservazione del rapporto di lavoro per i suoi membri ovvero adepti e discepoli nonché il perseguimento di complessivi obiettivi ideologici non necessariamente sostenuti dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Il risultato in materia di trasparenza è di fatto impedire all’accedente la conoscenza di documenti amministrativi, da cui la finalistica grave lesione del non avere contezza dei propri stessi diritti, come uno dei Padri Costituenti degli stati Uniti d’America, Benjamin Rush, ben già aveva annotato nel suo programma del 1786 per la creazione di scuole pubbliche in Pennsylvania e per sviluppare l’educazione in sinergia con il governo repubblicano del nuovo stato federato, con l’acuta affermazione per cui: «la libertà può esistere solo laddove c’è conoscenza. senza apprendimento, gli uomini non saprebbero quali sono i loro diritti» (44). Per tale motivo s’impone dunque l’imprescindibile rafforzamento (43) Cons. stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3 che richiama Cass. civ., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634. Cfr. fIn, Una coraggiosa pronuncia della corte di legittimità: l’onere delle spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale, in Corriere giuridico, 2011, 3, 371-383. Per un ancoraggio dell’abuso del processo, in correlazione agli artt. 24, 111 e 113, Cost., nonché ai principi del diritto europeo, si vedano gli artt. 88, 91, 94 e 96, c.p.c., e gli artt. 1, 2 e 26, c.p.a. In tema, cfr. fIoRDAlIsI, abuso del diritto altrui. Una figura formale di qualificazione giuridica, Torino, 2020 e vERsIGlIonI, abuso del diritto. Logica e Costituzione, Pisa, 2016. (44) Cfr. RUsh, Essays, Literary, moral and Philosophical, Philadelphia, 1798, 1, per cui: «freedom can exist only in the society of knowledge. without learning, men are incapable of knowing their rights and where learning is confined to a few people, liberty can be neither equal nor universal», ma si veda anche RUDolPh (cur.), Essays on Education in the Early republic, Cambridge, 1965, contenente saggi e scritti pubblicati tra il 1786 e il 1799 da Rush ed altri Padri Costituenti americani, che rappre RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 della trasparenza per via amministrativa attraverso il potenziamento del ruolo della Commissione per l’accesso (e del Difensore Civico a livello locale), perché riprendendo oriana fallaci «vi sono momenti nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre» (45). solo un’amministrazione del tutto aperta può sopperire ai pervasivi e serpeggianti caratteri della collusione e della connivenza, se non del nepotismo, che ancora aleggiano nel nostro Paese a detrimento di trasparenza e meritocrazia, anche a causa di una mancata regolamentazione delle attività di lobbying (46) e di una più stringente interpretazione dei concetti di astensione e ricusazione del Giudice amministrativo anche in materia di procedure concorsuali (47). ovvero utilizzando il più recente neologismo dell’“amichettismo” che sta ad indicare il fenomeno fondato sull’impiego di familiari ed amici, “amichetti” appunto, per gestire non già solo la res publica, ma anche tutto il corollario che le ruota intorno (48). Risulta infatti evidente che per tali abusivi (se non illegali) “andazzi” non risulta certo confacente e gradita la previsione di un efficace quadro ordinamentale focalizzato sulla trasparenza dell’amministrazione. la collusione fra gruppi, discepolanze ovvero conventicole di potere a fini di lesione del merito ovvero in generale del buon andamento della pubblica amministrazione aborrisce qualsivoglia esercizio penetrante del diritto d’accesso, men che meno se in tandem con un discendente, solerte e puntuale sistema efficiente di tutela avanti al diniego illegittimo o supposto tale. la tutela amministrativa avanti alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, gratuita per l’accedente ed autorevole per l’amministrazione, costituisce proprio tale ridetta estrinsecazione per la quale non può dunque che auspicarsi uno strenuo rafforzamento da parte del legislatore, purtroppo sovente ignavo in punto di massimizzazione della trasparenza amministrativa. sentano il primo tentativo formale di definire le responsabilità, capacità e prospettive dell’educazione americana nel periodo iniziale della storia repubblicana statunitense. (45) Cfr. fAllACI, La rabbia e l’orgoglio, Milano, 2001, 78. (46) Cfr. DonInI, regolamentare il lobbying per rafforzare la trasparenza, in Federalismi.it, 2024, 29, 1-32 e GIAvAzzI, MonGIllo, PETRIllo, Lobbying e traffico di influenze illecite: regolamentazione amministrativa e tutela penale, Torino, 2019. (47) Cons. Giust. Amm. Reg. sic., sez. giur., ord. 15 maggio 2023, n. 332. (48) Cfr. ABBATE, L’amichettismo, Milano, 2023, 5. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà L’erasmus italiano. una nuova opportunità di formazione per gli studenti universitari Paolo Sciascia* Sommario: 1. Premessa -2. Dal Programma Erasmus all’Erasmus plus -3. L’Erasmus plus nell’istruzione superiore -4. La mobilità degli studenti dell’istruzione superiore -5. L’Erasmus italiano: un’altra opportunità di mobilità e di formazione -6. il decreto del ministro dell’università e della ricerca n. 548 del 28 marzo 2024 -7. Esito della prima esperienza -8. il decreto del ministro dell’università e della ricerca n. 397 del 16 maggio 2025. 1. Premessa. la legge di bilancio per il 2024 (art. 1, commi 312, 313, 314 della legge 30 dicembre 2023 n. 213 recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026”) ha istituito nello stato di previsione del Ministero dell’università e della ricerca un nuovo fondo denominato “Fondo per l’Erasmus italiano”, deputato al finanziamento di borse di studio per gli studenti che desiderino effettuare una parte del percorso di studi in una università diversa da quella di iscrizione. Il programma di mobilità degli studenti tra atenei italiani era già stato introdotto con il decreto 6 giugno 2023, n. 96 “regolamento concernente modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270, del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca”, che ha inserito, all’art. 5 del decreto ministeriale 22 ottobre 2004 n. 270, un nuovo comma 5-bis, che contempla la possibilità dei regolamenti didattici di ateneo di disciplinare le modalità di acquisizione di parte dei crediti formativi universitari presso atenei italiani diversi da quello nel quale è iscritto lo studente, sulla base di convenzioni di mobilità stipulate tra le istituzioni interessate. Il citato decreto non prevedeva tuttavia un supporto economico per gli studenti in mobilità, inserito con la legge di bilancio per il 2024. Questo breve saggio illustra il percorso compiuto dagli uffici del Ministero dell’università e della ricerca e dal sistema universitario per disciplinare il funzionamento del fondo e intende tracciare un bilancio della sua prima applicazione, anche allo scopo di individuare le possibili strategie per valorizzare la nuova opportunità di formazione. Appare utile avviare l’analisi con un richiamo alle principali caratteristiche del Programma Erasmus e alla sua evoluzione, interrogandosi sulla pos (*) Dirigente del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 sibile applicazione di alcune soluzioni adottate in ambito Erasmus alla mobilità tra atenei italiani. 2. Dal Programma Erasmus al programma Erasmus plus. Come è noto il Programma Erasmus (acronimo di European community action Scheme for the mobility of University Students, denominazione che rende omaggio a Erasmo da Rotterdam, il grande umanista olandese che 500 anni fa viaggiò in tutta Europa per comprenderne le differenti culture) è un’iniziativa dell’Unione europea nata nel 1987 con l’obiettivo di promuovere la mobilità e la cooperazione internazionale tra le università europee e favorire l’integrazione e l’apprendimento interculturale. si tratta del più noto e longevo dei programmi finanziati dall’UE nell’ambito della mobilità tra Paesi comunitari. la mobilità in tema di istruzione e formazione è d’altra parte un aspetto essenziale della libera circolazione delle persone, uno dei principali obiettivi dell’azione dell’Unione europea nel campo dell’istruzione e della formazione. Il Programma Erasmus -oggi Erasmus plus come si dirà a breve -coinvolge 33 Paesi, tra cui i 27 stati membri dell’Unione europea oltre a Islanda, liechtenstein, norvegia, Macedonia del nord, serbia e Turchia. I Paesi terzi non associati al Programma possono prendere parte ad alcune azioni, secondo determinati criteri o condizioni. ogni anno, circa 800.000 studenti partecipano al Programma e oltre nove milioni di studenti ne hanno beneficiato dal suo inizio. nel percepito comune la parola Erasmus viene associata allo scambio culturale ed educativo all’estero durante il periodo universitario. Tuttavia, nel corso degli anni, il Programma si è progressivamente sviluppato, sia con riferimento alla tipologia di opportunità offerte, sia con riferimento all’ambito dei soggetti destinatari degli interventi, assumendo la denominazione Erasmus plus e trasformandosi in un programma di più ampi obiettivi che promuove la mobilità e la cooperazione nel campo dell’istruzione scolastica e superiore, della formazione professionale, dell’educazione degli adulti, degli operatori attivi nel settore del sostegno ai giovani e dello sport. Il Programma Erasmus plus è oggi costituito da tre “azioni chiave” (1): Azione chiave 1: mobilità individuale ai fini dell’apprendimento. Intende incoraggiare la mobilità degli studenti, del personale educativo, degli animatori giovanili, dei giovani e degli adulti. I finanziamenti sono rivolti alle organizzazioni, che possono prevedere di inviare studenti e personale in altri Paesi partecipanti o accogliere studenti e personale provenienti da altri Paesi. Possono anche organizzare attività didattiche, formative e di volontariato. (1) Tutte le informazioni aggiornate sullo sviluppo del Programma Erasmus Plus sono consultabili sul sito www.erasmusplus.it gestito dall’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (InDIRE). lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà Azione chiave 2: innovazione e buone pratiche. l’obiettivo principale dell’azione è lo sviluppo e l’implementazione di pratiche innovative e sperimentali nel settore dell’istruzione superiore, nell’ottica di un accrescimento delle capacità delle organizzazioni di collaborare a livello transnazionale. Azione chiave 3: sostegno alla riforma delle politiche. Punta ad accrescere la partecipazione dei giovani alla vita democratica, specie nell’ambito di dibattiti con i responsabili politici, nonché a sviluppare le conoscenze nel campo dell’istruzione, della formazione e della gioventù. Il Programma Erasmus plus è finanziato tramite risorse allocate annualmente attraverso il bilancio dell’Unione. Per il periodo 2021-2027 il budget complessivo di Erasmus plus è stato fissato a circa 28,4 miliardi di euro registrando un aumento quasi doppio rispetto al Programma 2014-2020, a dimostrazione dell’importanza crescente della mobilità e della cooperazione nell’istruzione e nella formazione a livello europeo. I finanziamenti possono essere integrati da contributi nazionali o regionali, a seconda delle politiche e delle priorità di ciascun Paese partecipante, o anche da risorse delle istituzioni educative e delle organizzazioni coinvolte. Il Programma è gestito dalla Commissione europea, DG EAC (Education and Culture) con l’assistenza delle Agenzie nazionali dei Paesi partecipanti. In Italia le Agenzie competenti sono: l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (InDIRE) che si occupa della gestione e dell’attuazione delle attività di Erasmus plus in Italia relative all’istruzione, supportando le istituzioni educative, le organizzazioni e i partecipanti nel processo di candidatura e nella realizzazione dei progetti; l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (InAPP) per il settore della formazione professionale e l’Agenzia italiana per la gioventù per il settore giovanile. 3. L’Erasmus plus nell’istruzione superiore. volendo analizzare Erasmus plus da punto di vista trasversale e circoscritto al settore dell’istruzione superiore, le azioni sono principalmente volte ad attivare cooperazioni internazionali e percorsi di alta formazione accademica, oltre, ovviamente, a sostenere la mobilità degli studenti, dei neolaureati e del personale docente e amministrativo, aspetto di cui si parlerà diffusamente più avanti. Per quanto riguarda le azioni riconducibili al capitolo della cooperazione internazionale, Erasmus plus sostiene le organizzazioni pubbliche e private con sede in uno dei Paesi partecipanti al Programma o in un Paese partner, nella creazione di “Partenariati per la cooperazione” la cui durata può andare dai 12 ai 36 mesi. I partenariati possono chiedere il finanziamento di progetti di cooperazione internazionale su temi individuati come prioritari a livello europeo e nazionale (2), che abbiano un impatto diretto RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 sul settore dell’istruzione superiore e sui suoi destinatari (studenti, docenti, ricercatori, staff accademico). nell’ambito dei partenariati per la cooperazione assumono particolare rilievo i partenariati tra le Università europee (EUn -European Universities Network) che rappresentano l’iniziativa chiave per il raggiungimento dello spazio europeo dell’istruzione superiore, una forma di cooperazione strategica tra gli istituti di istruzione superiore, le organizzazioni studentesche, le autorità governative e la Commissione europea, che ha come scopo principale quello di assicurare la massima comparabilità, compatibilità e coerenza tra i sistemi di educazione degli stati membri, per garantire la mobilità e reciproca riconoscibilità tra i percorsi formativi e costruire sistemi di istruzione e formazione più resilienti e inclusivi. I partenariati definiscono una strategia a lungo termine per raggiungere alti livelli di qualità nell’istruzione, nella ricerca e nell’innovazione, grazie a programmi di insegnamento in almeno due lingue straniere. Gli studenti possono scegliere i corsi più adatti ai loro percorsi formativi presso i diversi istituti partner delle alleanze, fino al conseguimento del titolo finale. Altro aspetto della cooperazione internazionale, nel quale la cooperazione accademica istituzionale è combinata con la mobilità individuale, sono i corsi di eccellenza organizzati da consorzi di università, costituiti da almeno tre Paesi europei, che rilasciano un titolo finale riconosciuto in tutti i Paesi che partecipano alla rete (Erasmus mundus). l’obiettivo è di incoraggiare lo sviluppo di programmi di studio transnazionali e integrati, capaci di attrarre studenti qualificati da ogni parte del mondo per rafforzare la capacità attrattiva e l’eccellenza dell’istruzione superiore europea. Infine, rimanendo al campo della cooperazione internazionale, merita un accenno il progetto di cooperazione transnazionale tra gli istituti di istruzione superiore che la Commissione europea sta portando avanti per la creazione di nuovo titolo di studio universalmente riconosciuto, rilasciato dopo aver conseguito i titoli di laurea, master o dottorato, erogati a livello nazionale. Questo progetto è sviluppato partendo dai risultati di sei progetti pilota Erasmus plus che hanno coinvolto più di 140 istituti di istruzione superiore di tutti i Paesi dell’UE e si avvale del sostegno che Erasmus plus garantisce ai progetti di percorsi di laurea europei che consentono ai Paesi dell’UE, insieme alle agenzie di accreditamento e garanzia della qualità, alle università, agli studenti, alle parti economiche e sociali, di orientarsi nel percorso verso una laurea europea (3). Per quanto riguarda invece la ricerca e la formazione accademica occorre far riferimento ai progetti Jean monnet per l’istruzione superiore, indirizzati (2) nella programmazione Erasmus plus 2021-2027, la progettazione internazionale è indirizzata ai macro-temi: inclusione e diversità; trasformazione digitale; sostenibilità ambientale; cittadinanza attiva. (3) https://education.ec.europa.eu/news/commission-presents-a-blueprint-for-a-european-degree. lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà a sostenere l’insegnamento e la ricerca nel campo degli studi sull’Unione europea in tutto il mondo, con particolare riferimento al processo di integrazione, ai valori europei e all’elaborazione delle politiche a livello nazionale e europeo. scopo dei progetti Jean monet è favorire il dialogo tra mondo accademico, ricercatori e responsabili politici, agendo anche come veicolo della diplomazia pubblica nei confronti di Paesi partner. 4. La mobilità degli studenti dell’istruzione superiore. Passando al capitolo della mobilità degli studenti, attraverso le diverse iniziative che compongono il Programma Erasmus plus, gli studenti ed i neolaureati possono, per un verso, migliorare le proprie possibilità di apprendimento e rafforzare il grado di occupabilità e il miglioramento delle prospettive di carriera; per altro verso migliorare la consapevolezza del progetto europeo e dei valori dell’UE oltre a migliorare le competenze linguistiche, sviluppare abilità interculturali e creare una rete di contatti internazionali (4). È interessato dai programmi di mobilità anche il personale docente e lo staff amministrativo il quale ha la possibilità di migliorare e potenziare i metodi di apprendimento e insegnamento e di diversificare e aggiornare le proprie competenze (5). Il Programma Erasmus plus offre la possibilità agli iscritti ad un istituto di istruzione superiore (6) di svolgere, fin dal primo anno di studi, un periodo di mobilità da tre a dodici mesi, partecipando alle lezioni e sostenendo gli esami in un altro istituto di un Paese che partecipa al Programma oppure anche effettuando ricerche per la tesi conclusiva per il conseguimento del titolo finale del corso frequentato (7). (4) secondo i dati che emergono dai questionari compilati da 44.527 studenti Erasmus nell’ambito della Call 2022, alla motivazione per svolgere un’esperienza di studio hanno contribuito, per oltre il 75,5% dei casi, la voglia di apprendere o migliorare l’uso di lingue straniere e sperimentare differenti curricula. Il 54,7% degli studenti ha ritenuto importante l’approccio con diverse pratiche di apprendimento e insegnamento. Riguardo alla crescita personale, una forte spinta a partecipare al Programma è stata data dal desiderio di vivere all’estero, incontrare nuove persone e sviluppare soft skills. In merito all’occupabilità, oltre il 50% degli studenti considera Erasmus un elemento importante per il curriculum, utile per accrescere le opportunità di lavoro all’estero, mentre il 34,3% pensa che sia un’esperienza utile ad aumentare le possibilità occupazionali in Italia. (5) nel 2024 il budget per la mobilità universitaria ha raggiunto 131,2 milioni di euro, con un incremento del 15,4% rispetto all’anno precedente. Tra istituti di istruzione superiore e consorzi, hanno ricevuto il finanziamento 298 istituzioni, a fronte delle 286 del 2023. le istituzioni finanziate hanno la facoltà di gestire in piena autonomia le 36.082 borse di mobilità assegnate, di cui 31.838 per studenti. (6) nel nostro ordinamento si definisce istituto di istruzione superiore qualsiasi tipo di istituto che, a prescindere dalle diverse possibili denominazioni, offre istruzione o formazione professionale di terzo livello o rilascia lauree o altre qualifiche riconosciute di terzo livello. (7) la mobilità per motivi di studio è basata sul sistema di riconoscimento e di trasferimento dei crediti (ECTs), uno strumento dello spazio Europeo dell’Istruzione superiore (EhEA) che rende più trasparenti gli studi ed i percorsi formativi, contribuendo in tal modo a migliorare la qualità dell’istruzione superiore. secondo le definizioni europee fornite nella ECTs Users’ Guide del 2015 (ECTs Key Features, 2015): “i crediti ECTS esprimono il carico di lavoro basato sui risultati di apprendimento de RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 la mobilità si svolge presso istituti di istruzione superiore che hanno ricevuto l’accreditamento rilasciato dalla Commissione europea (Erasmus Charter for Higher Education -EChE o Carta Erasmus per l’Istruzione superiore -CEIs) previa sottoscrizione di accordi inter istituzionali (8) tra gli istituti stessi e un contratto di apprendimento (o learning agreement) tra lo studente, l’organizzazione di invio e quella di accoglienza, che garantisce una pianificazione efficace del periodo di studio per far sì che lo studente interessato ottenga il riconoscimento delle attività svolte all’estero (9). Accanto alla mobilità per motivi di studio è anche contemplata, fin dal primo anno di corso, la mobilità per svolgere un periodo di tirocinio presso un istituto di istruzione superiore o presso una serie di organizzazioni pubbliche o private (organizzazioni di un Paese aderente al Programma attive nel mercato del lavoro o nei settori dell’istruzione, della formazione, della gioventù, della ricerca e innovazione; organizzazioni senza scopo di lucro, associazioni, onG; organismi per l’orientamento professionale). la mobilità per tirocinio è offerta anche ai “neolaureati” che dovranno rispondere al bando di ateneo durante l’ultimo anno di studio del percorso formativo intrapreso e prima di aver conseguito il titolo finale e dovranno svolgere il tirocinio entro un anno dalla laurea (10). Il tirocinio può assumere anche la forma di attività finiti. i risultati di apprendimento descrivono quanto gli studenti dovrebbero conoscere, comprendere ed essere in grado di fare dopo aver concluso con successo un processo di apprendimento. il carico di lavoro indica il tempo di cui gli studenti avranno prevedibilmente bisogno per svolgere tutte le attività di apprendimento (lezioni, seminari, esercitazioni, progetti, studio individuale, preparazione e svolgimento degli esami, ecc.) richieste per il raggiungimento dei risultati di apprendimento attesi”. Tutti i crediti acquisiti durante un periodo di studio all’estero devono essere trasferiti senza indugi e utilizzati per il conseguimento del titolo di studio perseguito, senza richiedere allo studente alcuna ulteriore attività o verifica di apprendimento. (8) Gli accordi interistituzionali regolano la mobilità degli studenti e del personale docente/amministrativo. Gli istituti firmatari si impegnano a rispettare i requisiti di qualità previsti dalla carta Erasmus per tutti gli aspetti organizzativi e gestionali della mobilità e concordano una serie di misure quantitative e qualitative per garantire la qualità e l’impatto positivo della mobilità. nel caso di mobilità con istituti dei Paesi partner che non sono titolari di accreditamento della Commissione europea, il rispetto dei requisiti di qualità è garantito mediante le prescrizioni dell’accordo interistituzionale con il quale gli istituti firmatari si impegnano a rispettare una serie di misure quantitative e qualitative. (9) Già nella programmazione Erasmus plus 2014/2020 era vigente la possibilità di svolgere periodi di mobilità da e verso Paesi extra europei, attraverso l’azione denominata international Credit mobility -ICM. Questa azione ha consentito accordi interuniversitari tra atenei di Paesi aderenti al Programma e Paesi partner permettendo la mobilità a studenti, docenti e staff. nell’ambito del settennio 2021-27, l’azione identificata come KA171 si riattiva a partire dal 2022 sotto la denominazione di Mobilità internazionale e coinvolge Paesi terzi non associati al programma. secondo l’ultimo report, la mobilità extra europea ha visto l’assegnazione di 4.916 borse di studio, con particolare attenzione ai Paesi dei Balcani occidentali e dell’Africa sub-sahariana. (10) la mobilità Erasmus plus riguarda anche il personale docente degli istituti di istruzione superiore per acquisire nuove abilità professionali e aggiornare le proprie competenze e confrontarsi con nuovi metodi di docenza. la durata di questa mobilità è da 2 a 5 giorni, a seconda dell’azione cui si prende parte, fino a un massimo di 2 mesi. È coinvolto anche il personale proveniente da impresa, invitato per attività di docenza o formazione presso un istituto di istruzione superiore per trasferire compe lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà di assistente didattico, nel caso di futuri insegnanti, e di assistente alla ricerca per studenti e dottorandi. Il periodo di mobilità per studio o tirocinio può riguardare anche i dottorandi: in questo caso la durata della mobilità ai fini di studio o di tirocinio va dai cinque ai trenta giorni o da due a dodici mesi. Tra le novità introdotte nel Programma Erasmus plus 2021-2027 c’è la possibilità, per qualsiasi studente in mobilità per studio o per tirocinio, di combinare un breve periodo di mobilità fisica (da cinque a trenta giorni) con attività di apprendimento e cooperazione online. si tratta dei cosiddetti Blended intensive Programme (BIP) a cui possono partecipare gruppi congiunti di studenti, di personale docente e di staff amministrativo provenienti da diversi Paesi e chiamati a collaborare su specifiche attività in modo collettivo e simultaneo. Dal punto di vista dei contenuti i Blended intensive Programme sono programmi già esistenti, che vengono rinnovati nelle modalità di erogazione, o programmi del tutto nuovi, pensati per lo sviluppo di curricula transnazionali e transdisciplinari o per lo sviluppo di metodi di docenza e di apprendimento innovativi, compresa la collaborazione online (11). non bisogna poi dimenticare gli investimenti che il Programma Erasmus plus sta compiendo su iniziative dirette a coinvolgere sempre di più le persone con disabilità o con difficoltà socioeconomiche e/o culturali, come ad esempio il riconoscimento dei costi reali nelle mobilità di apprendimento. 5. L’Erasmus italiano: un’altra opportunità di mobilità e di formazione. Come già accennato in premessa, con la legge di bilancio 2024 (art. 1, commi 312, 313, 314 della legge 30 dicembre 2023 n. 213 recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026 ”) è stato introdotto nel sistema universitario un nuovo canale di finanziamento destinato ad erogare borse di studio agli studenti che desiderino partecipare ad una mobilità tra università italiane. la norma di legge primaria prevede l’istituzione, nello stato di previsione del Ministero dell’università e della ricerca, del “Fondo per l’Erasmus italiano”: una dotazione di 3 milioni di euro per l’anno 2024 e di 7 milioni di euro per l’anno 2025, finalizzata “all’erogazione di borse di studio in favore degli studenti iscritti ai corsi di laurea o di laurea magistrale, che partecipano a programmi di mobilità sulla base di convenzioni stipulate ai sensi dell’articolo 5, comma 5-bis, del regolamento di cui al decreto del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270 ”. la norma tenze e know-how al personale e agli studenti, migliorare la cooperazione con gli istituti di istruzione superiore e contribuire allo sviluppo di programmi e metodi innovativi. (11) negli ultimi anni i Blended intensive Programme sono cresciuti del 15%. oggi si contano 442 programmi. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 prevede poi l’esenzione fiscale per detti contributi e dispone il rinvio ad un successivo decreto del Ministero dell’università e della ricerca, adottato previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, per tutta la disciplina attuativa, in particolare la definizione dell’ammontare degli importi erogabili per la singola borsa di studio, le modalità per la richiesta del beneficio e per l’erogazione delle borse, il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (IsEE) per l’accesso alla borsa di studio. le disposizioni sono presenti nel testo originario del disegno di legge di bilancio: la relazione illustrativa stabilisce che la finalità di tali disposizioni è quella di supportare la costruzione di percorsi di studio innovativi per gli studenti universitari, nonché di incentivare le università statali e non statali, legalmente riconosciute, a rafforzare l’integrazione e la complementarità tra le rispettive offerte formative. Grazie al progetto dell’Erasmus italiano -rileva ancora la relazione illustrativa -gli studenti universitari potranno liberamente associare più opzioni formative proposte nell’ateneo di iscrizione oppure disponibili in ogni altro ateneo italiano, secondo un piano di studi comprendente anche attività formative diverse da quelle previste dal regolamento didattico, purché coerenti con il corso di studi dell’anno accademico di immatricolazione. Come detto la legge di bilancio prevede un nuovo finanziamento a favore di un programma di mobilità che, a ben vedere, era stato già introdotto con il decreto 6 giugno 2023, n. 96 “regolamento concernente modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270, del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca”, che ha inserito, all’art. 5 del D.M. 270/2004, un nuovo comma 5-bis secondo cui i regolamenti didattici di ateneo disciplinano le modalità di acquisizione di parte dei crediti formativi universitari presso atenei italiani diversi da quello nel quale è iscritto lo studente, sulla base di convenzioni di mobilità stipulate tra le istituzioni interessate. Peraltro la disposizione del citato comma 5-bis del decreto 22 ottobre 2004, n. 270 va anche inquadrata nell’ambito delle altre novità introdotte dal decreto ministeriale n. 96 del 6 giugno 2023 con il quale, in attuazione della Riforma 1.5 “Riforma delle classi di laurea” della Missione 4, Componente 1, del PnRR, è stata introdotta la possibilità per gli studenti di presentare dei piani di studio individuali con insegnamenti anche diversi da quelli presenti nel regolamento didattico del corso di studi, purché coerenti con l’ordinamento didattico del corso stesso. si tratta di interventi tutti indirizzati a rafforzare l’interdisciplinarità e la flessibilità dell’offerta formativa universitaria per fronteggiare il disallineamento emergente tra offerta formativa e domanda occupazionale (12). (12) Il decreto n. 96 è a sua volta norma secondaria attuativa dell’articolo 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, recante “misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà 6. il decreto del ministro dell’università e della ricerca n. 548 del 28 marzo 2024. Il 28 marzo 2024 il Ministero dell’università e della ricerca ha adottato il primo decreto attuativo (n. 548) della disposizione contenuta nella legge di bilancio con il quale sono state effettuate alcune scelte decisive per l’applicazione dell’Erasmus italiano. volendo avviare l’analisi dagli aspetti che la legge espressamente indica come contenuti obbligatori del decreto, vanno citati: a) l’ammontare degli importi erogabili per singola borsa di studio; b) le modalità per la richiesta del beneficio e per l’erogazione delle borse di studio; c) il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (IsEE) per l’accesso alla borsa di studio. Quanto al primo punto, il decreto n. 548 prevede solo il valore massimo della borsa erogabile per singola mensilità, pari a 1000 euro, e rimette la fissazione dell’importo preciso alle università firmatarie delle convenzioni che dovranno assumere come criterio guida la stima forfettaria delle spese che lo studente è chiamato a sostenere per partecipare al programma di mobilità. si tratta di una scelta che il Ministero ha preferito rispetto all’indicazione di un importo fisso e che mira a creare una proporzionalità tra l’importo della borsa di studio e gli oneri a carico dello studente: a seconda della distanza tra le università firmatarie della convenzione la mobilità può infatti comportare spese anche molto differenti a carico dello studente. È poi prevista una preclusione all’assegnazione della borsa di studio per gli studenti che svolgano il periodo di mobilità in una università la cui sede didattica è collocata nello stesso comune di quella di provenienza. Al riguardo occorre considerare che non esiste nella norma primaria alcuna prescrizione in merito alla collocazione territoriale delle università partecipanti al programma di mobilità: in altre parole, potrebbero sottoscrivere un accordo per l’integrazione e la complementarità tra le rispettive offerte formative e la mobilità degli studenti anche atenei tra loro molto vicini, aventi sede nella medesima regione o anche nella medesima provincia, con conseguenti spese per la mobilità circoscritte o addirittura da presumere quasi inesistenti, laddove gli atenei abbiano sede nel medesimo comune. Peraltro, la scelta legislativa di ammettere la mobilità anche tra università vicine appare condivisibile considerata la circostanza che l’integrazione e la dei procedimenti di decisione e di controllo” come novellato, con l’aggiunta di due ulteriori periodi, da parte dell’articolo 14, comma 1, del decreto-legge 6 novembre 2021, n. 152, convertito con legge 29 dicembre 2021, n. 233. Tale novella ha dettato alcuni indirizzi al fine della determinazione dei criteri generali per la riforma degli ordinamenti degli studi dei corsi universitari, ponendo le basi per il rafforzamento della interdisciplinarità e l’inserimento di elementi di maggiore flessibilità nei corsi di studi. la novella si inserisce nell’ambito della realizzazione degli obiettivi del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, in particolare in relazione alla Missione 4, Componente 1, Riforma 1.5 (intitolata appunto “Riforma delle classi di laurea”). RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 complementarità tra le offerte formative di università appartenenti alla medesima regione potrebbe agevolare la creazione di professionalità specializzate per la realizzazione di specifici programmi di sviluppo regionale, supportati economicamente dalla regione medesima. Quanto alla fissazione del valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (IsEE) per l’accesso alla borsa di studio, il D.M. n. 548 ha recepito il valore di 36.000 euro, che rappresenta la soglia generalmente applicata dagli organismi del diritto allo studio per le iniziative in relazione alle quali emerge l’opportunità di allargare la platea dei destinatari. Quanto invece alle modalità di richiesta del beneficio e di erogazione delle borse è stata definita una procedura in due fasi: l’indizione da parte delle università di procedure selettive per l’individuazione degli studenti idonei per l’assegnazione della borsa e la successiva comunicazione al Ministero dell’entità dei fondi necessari per finanziare il numero complessivo di borse di studio, dato dalla somma del valore delle borse di studio che l’università intende erogare per ciascun corso di studio in relazione al quale è previsto un programma di mobilità. se le procedure di selezione degli studenti idonei sono interamente rimesse alle decisioni delle università (il decreto non indica i parametri per la formazione della graduatoria che sono fissati autonomamente dai responsabili di ciascun corso di studio), è viceversa rimessa agli uffici del Ministero la scelta sui criteri di riparto delle risorse, qualora l’ammontare complessivo delle richieste ecceda gli stanziamenti di bilancio e risulti necessaria una riduzione proporzionale di ciascuna richiesta. Il decreto prevede che il riparto avverrà “tenendo conto dell’incidenza del numero delle richieste dell’ateneo rispetto al numero complessivo delle richieste degli atenei”. Al riguardo sono stati ipotizzati due criteri diversi: a) assegnazione a ciascuna università di una percentuale del fondo pari all’incidenza percentuale del numero delle proprie richieste sul numero totale delle richieste medesime. Ipotizzando ad esempio un numero complessivo di borse richieste pari a 500 e tre università che richiedano, la prima 200 borse, la seconda 250 borse e la terza 50 borse, applicando questo criterio alla prima università verrebbe assegnato il 40% del fondo (200 borse pari al 40% di 500); alla seconda il 50%; alla terza il 10%; b) assegnazione a ciascuna università della quota percentuale del fondo capace di coprire la totalità degli importi delle richieste: se il fondo è di euro 3.000.000 e le richieste delle università sono pari a euro 3.500.000 allora vuol dire che il fondo copre l’85% delle richieste (3.000.000/3.500.000). A ciascuna università verrà assegnato un importo pari all’85% del valore complessivo delle proprie richieste. Tuttavia, in occasione della prima assegnazione di risorse, i suddetti criteri non hanno trovato applicazione in quanto l’ammontare complessivo delle ri lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà chieste è stato inferiore ai fondi a disposizione (euro 1.877.0700 rispetto a 3.000.000 disponibili). fin qui le disposizioni che si riferiscono ai contenuti obbligatori del decreto. Quanto invece alle restanti disposizioni, va segnalata la precisazione sull’ambito di applicazione del nuovo programma di mobilità (art. 2, comma 1) che può riguardare tutti i corsi di laurea, laurea magistrale e laurea a ciclo unico, erogati da atenei italiani statali e non statali legalmente riconosciuti, in modalità convenzionale o mista. È stato dunque escluso che il programma di mobilità possa riguardare i corsi erogati interamente a distanza. Il D.M. n. 548 ha poi individuato la sottoscrizione di una convenzione tra l’ateneo di provenienza e l’ateneo di destinazione, ai sensi dell’art. 5, comma 5bis, del decreto n. 270 del 2004, come primo adempimento necessario per accedere ai finanziamenti statali. Il decreto ha quindi indicato i contenuti obbligatori delle convenzioni che gli atenei sono stati chiamati a sottoscrivere, vale a dire: a) il numero massimo di studenti che ciascun ateneo è disponibile ad ospitare relativamente a ciascun corso di studio per il quale la convenzione prevede un programma di mobilità; b) i corsi di laurea, laurea magistrale e a ciclo unico coinvolti nel programma di mobilità; c) la durata del programma di mobilità (da 3 a 6 mesi) (13); d) l’importo della borsa di studio; e) il numero minimo di CfU relativi alle attività formative svolte -tra le quali rientra anche la preparazione della tesi di laurea -riconosciuti allo studente in considerazione del periodo di mobilità. la raccolta di tutte le convenzioni ha consentito al Ministero di individuare il grado di adesione delle università al nuovo programma di mobilità e, conseguentemente, di programmare le conseguenti decisioni sulla gestione delle risorse economiche. 7. Esito della prima esperienza. le università hanno comunicato al MUR i dati sul numero di studenti idonei all’assegnazione della borsa di studio e il conseguente ammontare dei fondi necessari il 4 ottobre 2024. Prima di questa data le medesime università erano state invitate a caricare sulla piattaforma predisposta da Cineca le convenzioni sottoscritte. Dai dati raccolti risulta che 44 università hanno aderito al programma di mobilità. le convenzioni registrate nella piattaforma sono complessivamente 761 di cui 496 riferite a percorsi di laurea magistrale; 157 a lauree triennali e 108 a percorsi di laurea a ciclo unico. (13) la durata del programma di mobilità non è stabilita dalla legge primaria che sul punto non opera alcun rinvio obbligatorio alle disposizioni attuative. Il Ministero ha ritenuto di fissare il suddetto termine minimo e massimo di durata del programma di mobilità per assicurare un riparto di risorse bilanciato tra le università. Il termine va riferito al singolo anno accademico: nulla osta, quindi, che uno studente possa svolgere più di un periodo di mobilità durante il corso di studi. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 Rispetto al dato sul numero di programmi di mobilità introdotti dalle università è emerso un dato di studenti assegnatari delle borse di studio piuttosto disallineato, indice del fatto che molti programmi di mobilità non hanno ricevuto adesione da parte degli studenti. Il numero complessivo delle borse di studio per le quali è stato richiesto il finanziamento è infatti pari a 468, un numero quindi significativamente minore rispetto alle 761 convenzioni e che inequivocabilmente dimostra come molti bandi siano andati deserti. Al riguardo va peraltro svolta un’ulteriore considerazione che tuttavia non contraddice la predetta conclusione: le 468 borse potrebbero non corrispondere al numero degli studenti che hanno effettivamente partecipato al programma di mobilità: tra i partecipanti potrebbero infatti essere compresi anche studenti con un IsEE superiore a 36.000 che non sono stati conteggiati tra i potenziali beneficiari della borsa di studio. In altri termini nei bandi delle università la soglia IsEE di 36.000 euro potrebbe essere stata prevista come preclusione alla sola assegnazione della borsa di studio e non alla partecipazione alla procedura selettiva per poter essere compresi nel programma di mobilità, pur non potendo usufruire della borsa. Come già detto le borse sono state tutte interamente finanziate dal Ministero in quanto l’importo complessivo dei fondi richiesti è risultato inferiore agli stanziamenti di bilancio. la ripartizione sulla base del criterio geografico mostra che le università del nord hanno ottenuto 124 borse, quelle del Centro 128 e quelle del sud 216. la durata media del periodo di mobilità è di 6 mesi e l’importo medio della borsa di studio è di 600 euro circa. Da una prima analisi dei dati, gli uffici del Ministero sono giunti alla conclusione che alcune delle possibili ragioni del circoscritto interesse mostrato dagli studenti rispetto al programma di mobilità potrebbero essere riconducibili a scelte organizzative che, per un verso, non hanno agevolato la conoscenza di questa nuova opportunità di formazione (l’entrata in vigore del D.M. n. 548 e la successione degli adempimenti della procedura amministrativa di erogazione dei fondi hanno determinato la pubblicazione dei bandi durante la pausa estiva), per altro verso potrebbero aver disincentivato l’adesione di studenti effettivamente motivati (la regola secondo la quale può presentare istanza per ottenere la borsa di studio lo studente regolarmente iscritto presso l’università di provenienza che dichiari un valore IsEE non superiore ad € 36.000,00 per l’anno precedente). Partendo da queste considerazioni è stata avviata una nuova istruttoria per la modifica del D.M. n. 548 con l’obiettivo di incoraggiare ed agevolare l’adesione degli studenti all’Erasmus italiano. 8. il decreto del ministro dell’università e della ricerca n. 397 del 16 maggio 2025. le principali novità introdotte dal D.M. n. 397 del 16 maggio 2025 che, lEGIslAzIonE ED ATTUAlITà con riferimento alle procedure dell’anno 2025, sostituisce il decreto n. 548 del 28 marzo 2024, sono di seguito sintetizzate. È stata rivista l’impostazione, che caratterizzava il D.M. n. 548, secondo la quale un atto del Ministero indica i contenuti delle convenzioni che le università sottoscrivono per definire il programma di mobilità. Trattandosi di un atto di natura negoziale sottoscritto tra atenei, la definizione del contenuto delle convenzioni è rimesso all’autonomia delle parti, seppure il decreto, in coerenza con gli obiettivi del D.M. n. 96 del 6 giugno 2023, si preoccupa di ricordare che tali convenzioni “sono finalizzate a supportare la costruzione di percorsi di studio innovativi che promuovano l’interdisciplinarietà e la flessibilità dell’offerta formativa, rafforzando l’integrazione e la complementarietà tra gli atenei”. Il D.M. n. 397 prevede che le università comunichino al Ministero alcuni dati che sono necessari per mantenere un monitoraggio costante e aggiornato su come viene recepito e sviluppato il programma di mobilità nel sistema universitario. Questo monitoraggio viene realizzato anche attraverso una profonda revisione della piattaforma informatica che lo scorso anno ha consentito di acquisire le convenzioni e gli altri elementi necessari per l’erogazione dei fondi. senza voler entrare in aspetti prettamente tecnici, la nuova piattaforma, organizzata in modo tale da dare evidenza delle specificità di applicazione del programma di mobilità al singolo corso di studi, raccoglierà i dati relativi a tutti i corsi di laurea, laurea magistrale e a ciclo unico coinvolti nel programma di mobilità e, per ciascun corso di studio, indicherà: 1. la durata in termini di mesi e giorni del programma di mobilità (da un minimo di 3 ad un massimo di 6 mesi); 2. l’importo della borsa di studio; 3. il numero minimo di CfU relativi alle attività formative svolte -tra le quali rientra anche la preparazione della tesi di laurea -che saranno riconosciuti allo studente in considerazione del periodo di mobilità; 4. il numero di studenti selezionati per ciascuna edizione del programma di mobilità; 5. il numero di studenti che hanno concluso il programma di mobilità; 6. l’importo dei fondi non utilizzati dall’ateneo per ciascuna edizione del programma. In questo modo, attraverso l’aggiornamento costante del sistema nel corso delle varie fasi della procedura, il Ministero potrà costantemente acquisire un quadro completo degli atenei che hanno aderito al programma e, per ciascun ateneo, l’elenco dei corsi di studio interessati e dei relativi studenti partecipanti. È stata anche eliminata la comunicazione del numero massimo studenti che l’ateneo può ospitare poiché si tratta di un aspetto che, seppur potrà essere indicato nelle convenzioni, non è utile ai fini della procedura in parola. RAssEGnA AvvoCATURA DEllo sTATo -n. 2/2024 Passando invece alle misure che sono state individuate per incoraggiare la partecipazione degli studenti al programma di mobilità, anche in considerazione delle maggiori risorse a disposizione per l’anno 2025, il Ministero è intervenuto su due aspetti. Per un verso è stato previsto un innalzamento del valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (IsEE) per l’accesso alla borsa di studio a € 50.000,00. Come già accennato è infatti probabile che nell’ambito degli studenti titolari di un IsEE superiore a 36.000 euro ve ne sia una significativa percentuale che è interessata al programma di mobilità e che tuttavia non ha presentato domanda, considerata la circostanza che l’università non avrebbe potuto comprenderli nella graduatoria dei potenziali assegnatari della borsa. l’innalzamento della soglia IsEE dovrebbe dunque consentire l’ampliamento della platea dei possibili beneficiari e, conseguentemente, aumentare il numero di borse. Il confronto del numero di partecipazioni tra la prima e le successive edizioni del programma di mobilità potrà dimostrare quale sia l’effettiva incidenza dell’innalzamento della soglia IsEE sulla partecipazione a questa iniziativa. Altre novità per agevolare la partecipazione degli studenti sono state introdotte nella procedura attraverso la quale le amministrazioni universitarie selezionano gli studenti e ricevono dal Ministero le risorse per il finanziamento delle borse di studio. Considerato che la durata massima del programma di mobilità è stata fissata in 6 mesi, la procedura di manifestazione di interesse e la successiva fase di erogazione delle risorse -tramite la modifica dell’art. 4, comma 1 e dell’art. 6, comma 1 -è stata articolata in un doppio ciclo di bandi, così da garantire la copertura dell’intero anno accademico. le università potranno effettuare una prima selezione nel mese di giugno, per gli studenti che svolgeranno il programma di mobilità nel primo semestre dell’anno accademico successivo e una seconda selezione nel mese di ottobre, diretta agli studenti che partiranno invece nel secondo semestre. Ulteriori azioni di valorizzazione potranno essere svolte sul piano della comunicazione e promozione, come avviene per il Programma Erasmus plus, eventualmente anche mutuando alcune delle scelte effettuate in quella sede. Appare utile in particolare che siano raccontate e approfondite le esperienze di mobilità degli studenti e sia dato risalto ai risultati degli scambi attraverso la testimonianza diretta dei partecipanti. Questo è un aspetto importante del lavoro che il Ministero e le università dovranno attuare attraverso vari canali, dal sito istituzionale, alla stampa, ai social, agli eventi in presenza, per la promozione e la valorizzazione del programma, con l’idea di dare ispirazione a nuovi partecipanti e di condividere output utili anche nelle sessioni di orientamento che gli atenei svolgono con gli studenti delle scuole superiori. RECENSIONI ROBERTO GAROFOLI, BERNARDO GIORGIO MATTARELLA (*), Governare le fragilità. Istituzioni, sicurezza nazionale, competitività. (Arnoldo MondAdori EditorE, 2025, pp. 372) - note sul libro Gli Autori suggeriscono quello che si dovrebbe fare per migliorare il sistema, senza occuparsi della Costituzione. Il metodo (non comune) è assai corretto: obbliga alla verifica paziente dei problemi e degli ostacoli; evita l’illusione semplicistica che cambiando la Carta risolviamo i nodi sollevati nel quotidiano dalle organizzazioni, che sono di mezzi e, soprattutto, di risorse umane. La dimostrazione è nel corso dello studio, che è ricognitivo di cosa si può fare per Governare le fragilità; ci dice quanto già di positivo si è fatto; ma per vero, nella sostanza, è assai critico sui punti cruciali. Numerose le riflessioni; ne prendo alcune, accentuando quanto già ritrovo nel testo. * Negli appalti pubblici è fondamentale la concentrazione degli acquisti, avviata ma poi arrestata per scarso impegno politico di fronte alla frammentazione delle stazioni appaltanti. Proprio questa mattina ho avuto un incontro con un piccolo comune la cui stazione appaltante si era servita, come di consueto, di esponenti e di consulenti esterni: non è semplice togliere al comune questa sua prerogativa, di scegliersi i fiduciari. * Per vincere l’evasione (tax gap) è certamente utile quanto si sta facendo, ma i punti cruciali restano: -drastica riduzione dell’uso del contante; -gli indici di spesa come presunzione per l’accertamento; -e, aggiungo, l’elimina(*) Roberto Garofoli, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. Bernardo Giorgio Mattarella, Professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di giurisprudenza della Luiss Guido Carli. RASSeGNA AvvoCAtuRA DeLLo StAto -N. 2/2024 zione delle leggi di condono, che non raramente arrivano a proteggere da accertamenti di elusioni d’imposta ormai giunti a conclusione, così impedendo la formazione di prassi che avviano alla corretta certezza dei comportamenti. * Ben descritto è lo stato confuso della legislazione. A mio avviso il punto focale è l’assenza di un procedimento legislativo decisamente accentrato. Il disegno di legge deve essere accentrato in unica sede governativa, sottoposto ad un parere di organo tecnico (es. Cons. Stato): mero parere, ma utile innanzitutto perché il testo deve esistere approvato e non come bozza; poi, perché va capito da un soggetto terzo, che può aiutare anche il pubblico a capire. Il Parlamento va assai rafforzato nella cognizione tecnica (non si può pretendere dal parlamentare la cognizione di ogni punto delle leggi); nella stesura finale ugualmente sottoposto a parere tecnico. Attualmente l’iniziativa del disegno di legge è talmente decentrata che non raramente cade nelle mani dei destinatari principali delle leggi, che finiscono con l’avere influenza sproporzionata (ciascuno, pubblico o privato, si fa la sua legge). Ancora: noi soffriamo di deleghe che spesso sono un vuoto rinvio alla decisione politica del Governo, anziché del Parlamento. Soffriamo anche di una normativa secondaria fuori controllo, finanche circolari delle agenzie pubbliche. * Interessante la ricognizione sullo stato delle università, ed il richiamo alle telematiche, sfuggite alle regole generali per insufficienza della legge che le ha previste, ora fonte di grave distorsione, ben spiegata. Condivido i problemi della ricerca; nelle materie giuridiche è grave il vuoto che si è creato. * Non serve moltiplicare le leggi di riforma della giustizia se non risolviamo problemi di base. Il numero davvero eccessivo degli avvocati abilitati al contenzioso (non è l’italiano litigioso, è il difensore che cerca il litigio); lo sforzo va concentrato sul tribunale, il maggiore impegnato per la qualità del processo; la Cass., come già sta avvenendo, solo garante dell’unità dell’ordinamento. In un sistema che funzioni la mediazione si ridimensiona, resta affidata alle parti: gli avvocati hanno il dovere di tentarla; e resta assorbita dalla conciliazione; così come oggi la vediamo, serve soltanto ad accrescere gli anni del contenzioso (e, forse, ad aggiungere un nuovo giudice, con costi inutili). La lettura è quanto mai opportuna per chi voglia avere un quadro d’insieme, pensato da chi ha esperienza profonda delle questioni. Anzi, fa riflettere sulle carenze della ricerca, che resta affidata alla buona volontà di singoli; alla disponibilità del loro tempo. Dobbiamo far rivivere centri istituzionali di ricerca di base ai quali sia affidato il lavoro continuo di informazione ed elaborazione (come era, ad es. la Scuola universitaria di Pavia per il tributario). La conoscenza degli addetti ai lavori si trasferisce ai cultori delle materie, per poi diffondersi verso il pubblico tramite la pubblicistica e la stampa, per divenire anche slogan, ma pensati, non intuiti; capaci di influenze positive. In questo ReCeNSIoNI 279 modo lo studio teorico si fa concreto. Non mi piace sentirmi dire: -studi la teoria che non serve, quello che serve è la situazione contingente che mi trovo ad affrontare, per la quale non trovo il caposaldo nella tua teoria. Gustavo Visentini (*) (*) Già Professore ordinario di Diritto commerciale presso l’università Luiss Guido Carli; Direttore scientifico della Fondazione Bruno visentini. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Alla carissima Amica Diana Ranucci, per la quale, da domani, inizia una nuova, importante fase di vita, vanno -da parte mia e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura -i più affettuosi auguri e ringraziamenti per avere unito sempre, nei trentacinque anni di servizio, al grande, proficuo impegno professionale l’orgoglio dell’appartenenza al nostro Istituto. Un forte abbraccio, Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, martedì 22 aprile 2025 08:33. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE In occasione del Suo collocamento a riposo, dopo quarantatré anni di significativa presenza, all’Avv. Antonio Livio Tarentini, Avvocato Distrettuale di Lecce, vanno i saluti più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Come Avvocato Distrettuale si è sempre impegnato per tenere alto il livello professionale e organizzativo delle Sedi in cui ha svolto tale incarico con passione, dedizione ed equilibrio, che hanno caratterizzato anche la Sua attività come Componente del Comitato Consultivo. Al caro Antonio, Collega e Amico che ha sempre svolto le Sue funzioni onorando l’Istituto con la Sua grande professionalità, ogni augurio più sincero. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, sabato 26 aprile 2025 08:01. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE All’Avv. Federico Vigoriti, che oggi, dopo quarantatré anni, lascia il servizio, vanno i saluti e gli auguri più cari miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, sabato 10 maggio 2025 08:00. Finito di stampare nel mese di giugno 2025 Tipografia Gemmagraf 2007 S.r.l. Via Tor De’ Schiavi 227 - 00172 Roma