ANNO LXXVI - N. 1 
GENNAIO - MARZO 2024 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe Fiengo 
- CONDIRETTORI: 
Maurizio Borgo, 
Stefano Varone. 

CONDIRETTORE: 
Gianni De Bellis 
per la cura del “Contenzioso tributario. Osservatorio”. 

COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Carlo 
Maria 
Pisana 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Stefano 
Maria 
Cerillo 
-Pierfrancesco 
La 
Spina 
Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Antonino 
Ripepi 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Ennio 
Antonio 
Apicella, 
Adele 
Berti 
Suman, 
Giuseppe 
Coccia, 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Massimo 
Di 
Benedetto, 
Emanuele 
Feola, 
Antonio 
Ferraioli, 
Andrea 
Ferri, 
Michele 
Gerardo, 
Domenico 
Maimone, 
Gaetana 
Natale, 
Giovanni 
Palatiello, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Stefano 
Emanuele 
Pizzorno, 
Marco 
Stigliano 
Messuti. 


E-mail 
Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


gianni.debellis@avvocaturastato.it 
maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
stefano.varone@avvocaturastato.it 


ABBONAMENTO 
ANNUO 
..............................................................................€ 40,00 
UN 
NUMERO 
.............................................................................................. € 12,00 


Per 
abbonamenti 
ed 
acquisti 
inviare 
copia 
della 
quietanza 
di 
versamento 
di 
bonifico 
bancario 
o 
postale 
a 
favore 
della 
Tesoreria 
dello 
Stato 
specificando 
codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
pregati 
di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


Comunicati dell’Avvocato Generale: 
Pensionamento Avv. Gianni De Bellis 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Pensionamento Avv. Gianni Cortigiani 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Pensionamento Avv. Guido Denicolò 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di 
presentazione 
della Relazione 
sull’attività della Giustizia Amministrativa 
per 
l’anno 
2024. 
Inaugurazione 
dell’Anno 
Giudiziario 
2025 
presso il Consiglio di Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’Anno Giudiziario 2025 del 
Tribunale 
Amministrativo 
Regionale del Lazio 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
Aggiunto 
in 
occasione 
della 
cerimonia di 
inaugurazione 
dell’Anno Giudiziario 2025 presso la Corte 
di appello di Roma 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Michele 
Gerardo, 
Un 
modello 
di 
museo 
diffuso: 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di Napoli 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Obbligo 
del 
versamento 
del 
contributo 
unificato 
all’atto 
dell’iscrizione 
a 
ruolo delle 
cause 
civili 
a decorrere 
dal 
1° 
gennaio 2025, Circolare 
A.G. 
del 14 gennaio 2025 prot. 31846 n. 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Modifiche 
al 
processo 
civile 
introdotte 
dal 
D.Lgs. 
31 
ottobre 
2024, 
n. 
164. 
Le 
novità 
di 
rilievo 
per 
l’attività 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
Circolare 


A.G. del 14 gennaio 2025 prot. 31876 n. 3 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Conferimento incarico di 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato, Avv. Paolo 
Gentili, Circolare 
A.G. del 30 gennaio 2025 prot. 71899 n. 15 
. . . . . . . . 

CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


Massimo 
Di 
Benedetto, 
La 
sentenza 
Cesarano. 
La 
CEDU 
si 
confronta 
con ipotesi 
specifiche 
sinora inesplorate 
e 
spiega come 
i 
principi 
Scoppola 
debbano trovare 
applicazione 
(Corte 
EDU, Sez. I, sent. 17 ottobre 
2024, ricorso n. 71250/16, causa 
Cesarano c. Italia). . . . . . . . . . . . . . . . 

Emanuele 
feola, 
La 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
si 
pronuncia 
sulla 
nozione 
di 
vittima 
e 
su 
quella 
di 
rimedio 
interno 
effettivo, 
nel 
caso 
di 
presunte 
violazioni 
del 
diritto alla privacy 
(Corte 
EDU, Sez. I, sent. 28 novembre 
2024, ricorso n. 25578/11, causa 
Casarini c. Italia) . . . . . . . . . 

CONTENZIOSO 
NAZIONALE 


Stefano 
Emanuele 
Pizzorno, 
La 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
del 
4 
ottobre 
2024 (causa C-406/22) sui 
Paesi 
sicuri 
con riferimento alle 
conseguenze 
sul contenzioso nazionale. I recenti arresti della Cassazione. . 

pag. 
1 
›› 
4 
›› 
7 
›› 
10 
›› 
14 
›› 
29 
›› 
30 
›› 
43 
›› 
45 
›› 
67 
›› 
83 



Enrico De 
Giovanni, Responsabilità civile 
dello Stato per 
illeciti 
penali 
di 
dipendenti 
pubblici. 
La 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Roma, 
Sezione 
seconda 
civile, 14 gennaio 2025 n. 594, fa chiarezza sulla sussistenza del 
“nesso di occasionalità necessaria” 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
116 
CONTENZIOSO 
TRIBUTARIO 
- OSSERVATORIO 
Istituenda 
sezione 
“Contenzioso 
tributario 
-Osservatorio” 
a 
cura 
del-
l’Avv. Gianni De Bellis, Presentazione del Direttore responsabile 
. . . . . ›› 
125 
Gianni 
De 
Bellis, La 
responsabilità dei 
soci 
verso il 
fisco a seguito della 
cancellazione 
della 
società 
dal 
registro 
delle 
imprese 
(Cass. 
civ., 
Sez. 
Un., 
sent. 12 febbraio 2025 n. 3625) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
126 
Giovanni 
Palatiello, 
In 
tema 
di 
IMU. 
I 
principi 
di 
diritto 
enunciati 
da 
Corte 
di 
Cassazione, ordinanza 11 gennaio 2025 n. 727 sulla legittimazione 
attiva e 
passiva nelle 
azioni 
reali 
con riguardo ai 
beni 
dello Stato 
(Cass., Sez. Trib., ord. 11 gennaio 2025 n. 727). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
152 
Antonio ferraioli, Appunti 
sul 
D.Lgs. n. 139/2024. Modifiche 
in materia 
di trust. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
168 
I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 
Domenico 
Maimone, 
Istituto 
della 
prenotazione 
a 
debito 
di 
cui 
all’art. 
158 del 
T.U. in materia di 
spese 
di 
giustizia: sulla esenzione 
dal 
pagamento 
del 
contributo 
unificato 
da 
parte 
della 
Regione 
Siciliana 
nei 
giudizi 
promossi innanzi alla Corte Suprema di Cassazione 
. . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
179 
Marco Stigliano Messuti, Adele 
Berti 
Suman, Interpretazione 
delle 
previsioni 
del 
nuovo 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(d.lgs. 
n. 
36/2023) 
in 
tema 
di 
cause 
di 
esclusione 
a 
fronte 
della 
novella 
introdotta 
dal 
d.lgs. 
n. 
150/2022 sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta 
. . . . . . . ›› 
187 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
Carlo Maria 
Pisana, Processi 
al 
gruppo Al 
Qaeda di 
Roma: la Jihad mediatica 
vista da dentro 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
199 
Andrea 
ferri, Gli 
uffici 
per 
i 
procedimenti 
disciplinari 
nelle 
amministrazioni 
pubbliche; una analisi giurisprudenziale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
211 
Giuseppe 
Coccia, 
Operazioni 
sotto 
copertura. 
Nuovi 
possibili 
orizzonti 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
›› 
233 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Ennio Antonio Apicella, Collegi 
consultivi 
tecnici: il 
correttivo al 
codice 
conferma l’applicabilità solo residuale delle linee guida M.I.T. del 2022 
›› 
243 
Gaetana 
Natale, 
La 
sanità 
in 
Italia. 
Il 
futuro 
delle 
competenze 
nell’era 
dell’Intelligenza Artificiale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
250 
Carlo 
Maria 
Pisana, 
Il 
versamento 
diretto 
dell’assegno 
periodico 
di 
mantenimento 
al 
figlio maggiorenne 
non economicamente 
autonomo: un diritto 
negato 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
261 



A ricordo 
dell’Avv. Raffaello Martelli 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
dell’Avv. Giovanna Maria Cuccia 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
dell’Avv. Giacomo Arena 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
dell’Avv. Maria Grazia Scalas 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 


(*)

COMUNICATO 
D LL’AVVOCATO 
G N RALE 


Oggi 
lascia 
il 
servizio, per raggiunti 
limiti 
di 
età, dopo oltre 
quarantadue 
anni 
di 
prestigiosa 
e 
significativa 
presenza, l’Avv. Gianni 
De 
Bellis, già 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato, che 
ha 
onorato l’Avvocatura 
e 
il 
Paese 
con la 
Sua 
altissima 
professionalità, 
con 
il 
Suo 
costante 
impegno 
e 
con 
le 
Sue 
elevate 
doti 
professionali 
e 
umane, riconosciute 
anche 
dalle 
Supreme 
Magistrature 
e 
tali 
da 
rappresentare 
un esempio e 
un punto di 
riferimento non solo per i 
più 
giovani. 


Al 
carissimo Gianni, indimenticabile 
Collega 
e 
Amico, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e 
del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, martedì 17 dicembre 2024 08:01. 



(*)

COMUNICATO 
D LL’AVVOCATO 
G N RALE 


In occasione 
del 
collocamento a 
riposo, dopo quarantasette 
anni 
di 
significativa 
presenza, 
dell’Avv. 
Gianni 
Cortigiani, 
già 
Avvocato 
Distrettuale 
di 
Firenze, 
desidero porgergli 
gli 
auguri 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Come 
Avvocato Distrettuale 
si 
è 
sempre 
impegnato per tenere 
alto il 
livello 
professionale 
e 
organizzativo 
della 
Sede, 
con 
la 
passione 
e 
l’impegno 
che 
hanno caratterizzato anche 
la 
Sua 
attività 
sia 
come 
componente 
del 
Comitato 
Consultivo, sia 
come 
componente 
del 
Consiglio degli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato, partecipando ai 
due 
Organi 
Collegiali 
con intelligenza 
ed 
equilibrio. 


Al 
caro Gianni, Collega 
e 
Amico che 
ha 
sempre 
svolto le 
Sue 
funzioni 
onorando l’Istituto con grande 
professionalità 
e 
con profonda 
dedizione, ogni 
saluto e augurio più sincero. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, sabato 18 gennaio 2025 08:11. 



(*)

COMUNICATO 
D LL’AVVOCATO 
G N RALE 


Oggi 
lascia 
il 
servizio, dopo oltre 
trentotto anni 
di 
significativa 
presenza, 
l’Avv. Guido Denicolò, in servizio alla Distrettuale di 
Trento. 


Al 
caro Collega 
e 
Amico che 
ha 
onorato l’Istituto con la 
Sua 
professionalità 
e 
la 
Sua 
dedizione, 
vanno 
i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più 
affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti gli 
Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, mercoledì 5 febbraio 2025 08:01. 



TemiisTiTuzionali
Cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2025 


Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente della Repubblica, 
Signora Prima Presidente, 
Signor Procuratore Generale, 
Autorità, Gentili Ospiti, 


prendo la 
parola 
in questa 
solenne 
Cerimonia 
per porgere 
il 
saluto del-
l’Istituto che ho l’alto onore e il privilegio di dirigere. 


2. 
La 
Prima 
Presidente 
ha 
illustrato 
i 
“lusinghieri”, 
“straordinari” 
risultati 
raggiunti 
dalla 
Suprema 
Corte 
nell’anno 
2024, 
frutto 
del 
grandissimo 
impegno 
profuso dai 
Magistrati 
e 
da 
tutto il 
Personale 
amministrativo, ai 
quali 
va 
il 
più 
vivo ringraziamento. 
3. 
Il 
considerevole 
volume 
di 
contenzioso 
che 
ha 
impegnato 
la 
Corte 
nelle 
materie 
che 
vedono 
coinvolta 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
trovato 
una 
parziale 
riduzione, sia 
grazie 
allo svolgimento di 
udienze 
tematiche, sia 
grazie 
all’individuazione 
di 
significative 
questioni 
da 
sottoporre 
alle 
Sezioni 
Unite 
al 
fine 
di determinare un indirizzo giurisprudenziale univoco. 
Risulta, 
infatti, 
confermata 
la 
riduzione 
del 
numero 
dei 
giudizi 
relativi 
alla 
protezione 
internazionale 
e 
alla 
espulsione 
di 
cittadini 
extracomunitari, 
passati dagli oltre 1200 nuovi ricorsi del 2022 agli attuali 580. 


4. 
L’efficace 
assolvimento del 
compito di 
difesa 
in giudizio delle 
Amministrazioni 
patrocinate 
dall’Avvocatura 
dello Stato dipende 
non solo, evidentemente, 
dalla 
collaborazione 
con queste 
ultime, ma 
anche 
e 
soprattutto dalla 
possibilità di affidarsi a indirizzi giurisprudenziali consolidati. 



Come 
la 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
n. 
5792/24 
che, 
in 
una 
rilevante 
causa 
in materia 
di 
beni 
culturali, ha 
delineato con chiarezza 
la 
differenza 
tra 
azione 
revocatoria 
e 
vizio di 
nullità 
della 
sentenza 
per difetto di 
motivazione. 


La 
funzione 
nomofilattica 
è, 
infatti, 
indispensabile 
anche 
per 
orientare 
l’agire 
amministrativo 
nell’esercizio 
delle 
funzioni 
consultive 
attribuite 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
così 
favorire 
la 
deflazione 
del 
contenzioso, 
ove 
quegli 
indirizzi rendano evidente la non utile perseguibilità della fase giudiziale. 


5. 
In questa 
prospettiva 
e 
nell’ottica 
della 
costante, leale 
collaborazione 
istituzionale 
con la 
Suprema 
Corte, l’utilizzo della 
decisione 
ai 
sensi 
dell’articolo 
380-bis 
c.p.c., che 
pur assolve 
compiutamente 
al 
suo scopo, potrebbe 
giovarsi 
di 
qualche 
affinamento per favorire 
l’immediatezza 
della 
decisione 
nel 
caso 
di 
questioni 
di 
particolare 
complessità, 
meritevoli 
di 
maggiore 
approfondimento 
in udienza 
pubblica, essendo, allo stato, comunque, necessaria 
la 
previa trattazione in camera di consiglio. 
6. 
La 
speditezza 
ed efficacia 
del 
giudizio si 
realizzano anche 
grazie 
alle 
ulteriori 
novità 
del 
processo civile 
telematico, in particolare, le 
nuove 
specifiche 
tecniche 
in vigore 
dal 
30 settembre 
2024 e 
quelle 
contenute 
nel 
D.lgs. 


n. 
164/24, 
ispirate 
al 
principio 
generale 
del 
definitivo 
superamento 
degli 
adempimenti 
analogici, come 
la 
nota di 
iscrizione 
a ruolo, e 
per la 
completa informatizzazione 
del 
processo 
civile 
con 
le 
modifiche 
alla 
disciplina 
del 
processo esecutivo. 

7. 
L’informatizzazione 
del 
processo deve, però, sempre 
coniugarsi 
con il 
principio 
di 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale, 
cui 
si 
raccorda 
quello 
di 
strumentalità 
delle 
forme 
processuali; 
in tal 
senso la 
pronuncia 
delle 
Sezioni 
Unite n. 6477/24 che l’ha ribadito anche in chiave sovranazionale. 
Come 
l’applicazione 
dell’intelligenza 
artificiale, 
pure 
in 
chiave 
deflattiva 
del 
contenzioso, non potrà 
prescindere 
dalla 
presenza 
e 
dal 
controllo umano 
per la tutela dei diritti. 


8. 
Nel 
quadro 
descritto, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato, 
che 
già 
da 
tempo 
è 
passata 
a 
una 
modalità 
di 
lavoro quasi 
interamente 
digitale, si 
è 
tempestivamente 
conformata 
alle 
novità 
introdotte, 
modificando 
i 
propri 
sistemi 
in 
funzione 
delle 
diverse 
realtà 
tecnico-informatiche; 
tanto che 
si 
è 
verificato un ulteriore 
incremento 
dei 
depositi 
telematici, 
innanzi 
alla 
Cassazione, 
passati 
dai 
13 
mila del 2023 ai 16 mila del 2024. 
9. 
Alcuni 
dati 
numerici 
sono indicativi 
della 
complessa 
attività 
e 
dell’impegno 
profuso dall’Avvocatura dello Stato. 
Nel 
2024 
i 
nuovi 
affari 
trattati 
sono 
stati 
oltre 
167mila, 
con 
un 
incremento 


di circa il 14 
% rispetto al 2023. 
Gli 
esiti 
dei 
giudizi, con particolare 
riferimento al 
rilevante 
contenzioso 



tributario, confermano una 
percentuale 
di 
successo nella 
media 
superiore 
al 
68 
%. 


10. 
Infine, 
dall’osservatorio 
privilegiato 
dell’Avvocatura 
che 
assiste 
la 
Repubblica 
Italiana 
in tutti 
i 
giudizi 
dinanzi 
alle 
giurisdizioni 
sovranazionali 
(Corte 
di 
giustizia 
e 
tribunale 
dell’Unione 
europea 
e 
Corte 
europea 
dei 
Diritti 
dell’Uomo) ricordo come 
sia 
efficacemente 
proseguito il 
dialogo tra 
la 
Corte 
di cassazione e la Corte di giustizia dell’Unione europea. 


Nel 
2024 
sono 
state 
proposte 
nove 
questioni 
di 
rinvio 
pregiudiziale, 
in 
aumento rispetto al 
2023, su diverse 
tematiche 
di 
rilevante 
interesse 
come 
parità 
di 
trattamento in materia 
di 
occupazione 
e 
di 
condizioni 
di 
lavoro, tutela 
dei consumatori e protezione dei marchi. 


In questo proficuo dialogo fra 
le 
Alte 
Corti 
va 
ricordata 
la 
recentissima 
ordinanza 
n. 34898/24, che 
-nel 
disporre 
una 
sospensione 
impropria 
in attesa 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
su una 
questione 
sollevata 
dal 
tribunale 
di 
Roma 
-ha 
formulato ampie 
riflessioni 
sul 
tema 
sottoposto 
al suo esame. 


11. 
Concludo 
questo 
mio 
intervento 
confermando 
che 
l’Avvocatura 
dello 
Stato e 
tutti 
i 
suoi 
Componenti 
continueranno a 
profondere 
il 
massimo impegno 
per essere sempre all’altezza delle rilevanti funzioni loro assegnate. 


Grazie per l’attenzione. 


Roma, 24 gennaio 2025 


Palazzo di Giustizia, Aula Magna 



Cerimonia 
di 
presenTazione 
della 
relazione 
sull’aTTiviTà 
della 
giusTizia 
amminisTraTiva 
per 
l’anno 
2024 
inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2025 
presso 
il 
Consiglio 
di 
sTaTo 


Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente della Repubblica, 

Autorità, Signor Presidente del Consiglio di Stato, 


Signor Presidente 
Aggiunto, 

Signor Segretario Generale, 


Signori Magistrati, 

Gentili Ospiti, 


sono 
onorata 
di 
prendere 
la 
parola 
in 
questa 
solenne 
Cerimonia 
per 
portare 


-come 
da 
tradizione 
-il 
saluto dell’Istituto che 
ho il 
privilegio di 
dirigere, nel 
segno 
della 
consolidata 
reciproca 
collaborazione 
istituzionale, 
della 
quale 
ringrazio 
Lei, 
Signor 
Presidente, 
e 
tutti 
i 
Magistrati 
e 
il 
Personale 
amministrativo. 

* 


La 
continua 
sinergia 
e 
il 
dialogo 
costruttivo 
fra 
tutti 
i 
protagonisti 
del 
processo 
amministrativo 
hanno 
contribuito, 
anche 
nell’anno 
appena 
trascorso, 
all’elaborazione 
di 
soluzioni 
condivise, che 
costituiscono presupposto essenziale 
per una sempre più efficiente amministrazione della giustizia. 


Con 
lo 
spirito 
collaborativo 
proprio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
pertanto, 
auspico si possa proseguire, insieme, in questo percorso virtuoso. 


* 


L’attività 
dell’Avvocatura 
dello Stato si 
svolge 
in misura 
rilevantissima 
dinanzi alla Magistratura amministrativa. 


Il 
dato numerico è 
un’espressione 
sintetica, ma 
efficace 
della 
rilevanza 
del lavoro svolto dall’Avvocatura dello Stato. 

Il 
numero 
di 
nuovi 
contenziosi 
che, 
per 
l’anno 
2024, 
la 
vedono 
coinvolta, 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
come 
appellante 
o 
come 
resistente, 
si 
attesta, 
infatti, 
su oltre 5.500 affari; mentre i depositi effettuati sono stati oltre 11.500. 


L’Avvocatura 
dello 
Stato, 
che, 
già 
da 
tempo, 
ha 
completato 
il 
processo 
di 
digitalizzazione 
e 
dematerializzazione 
degli 
atti, 
si 
è 
conformata 
a 
tutte 
le 
novità 
tecnico-informatiche 
imposte 
dal 
PAt, 
il 
processo 
amministrativo 
telematico. 


Proprio in connessione 
logica 
con esso -sulla 
quale 
si 
è 
già 
soffermato, 
peraltro, 
qualche 
attento 
commentatore 
-è 
opportuno 
riflettere 
sull’utilizzo 
dell’intelligenza 
artificiale 
nel 
processo 
in 
generale 
e 
in 
quello 
amministrativo 
in particolare, superando quella 
-forse 
troppo semplicistica 
-distinzione, in 
base 
alla 
quale 
il 
PAt 
avrebbe 
effetti 
essenzialmente 
sulla 
forma, 
mentre 
l’I.A. 
finirebbe per incidere sull’attività sostanziale del giudicare. 



Anche 
perché 
l’utilizzo 
del 
PAt 
riguarda 
proprio 
le 
modalità 
di 
esercizio 
dei 
diritti 
delle 
parti 
nel 
processo, 
ovvero 
i 
contenuti 
del 
processo, 
come 
si 
evince 
dall’ordinanza 
n. 
5/24 
dell’Adunanza 
Plenaria, 
in 
tema 
di 
accesso 
al 
fascicolo 
digitale, 
previa 
autorizzazione 
del 
giudice, 
per 
gli 
interventori 
volontari. 


Comprendere 
il 
cambiamento 
derivante 
dall’applicazione 
dell’I.A., 
come, 
ad esempio, l’applicazione 
del 
LLM 
-Large 
Language 
Model, il 
programma 
di 
I.A. per riconoscere 
e 
generare 
un testo, significa 
governarlo, ma 
sempre 
senza 
prescindere 
dal 
controllo umano, dalla 
tutela 
dei 
diritti, dalla 
sicurezza 
e 
dall’affidabilità 
dei 
dati, 
come 
da 
Lei 
ricordato, 
Signor 
Presidente, 
nella 
Sua 
relazione odierna (1). 

L’esperienza 
maturata 
dal 
2017 
con 
l’applicazione 
di 
modalità 
esclusivamente 
telematiche 
nel 
processo 
sarà, 
senz’altro, 
un 
ausilio 
prezioso, 
come 
i 
principi, nel 
frattempo, elaborati 
dalla 
giurisprudenza 
del 
Consiglio di 
Stato 
in tema di utilizzo degli algoritmi. 


* 


All’esame 
del 
dato 
numerico 
si 
accompagna 
la 
considerazione 
circa 
l’importanza 
e 
la 
centralità 
degli 
ambiti 
e 
delle 
materie 
che 
vedono 
impegnata 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
davanti 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
come 
quelle 
ambientali 
e 
urbanistiche, della 
concorrenza, della 
regolazione 
dei 
settori 
della 
comunicazione, 
delle 
controversie 
in materia 
di 
opere 
pubbliche. Segnalo, in particolare, 
il 
recentissimo 
decreto 
monocratico, 
ampiamente 
motivato, 
di 
sospensione 
della 
esecutività 
della 
sentenza 
in 
tema 
di 
“congelamento” 
di 
una 
risorsa, riconducibile 
ad un oligarca 
russo e, sempre, sullo stesso tema 
la 
sentenza 
n. 9330/24, nel 
solco di 
quell’indirizzo giurisprudenziale 
iniziato con la 
sentenza 
n. 
10187/23, 
menzionata 
nel 
mio 
intervento 
dello 
scorso 
anno; 
la 
sentenza 
n. 9614/24 in tema 
di 
raccolta 
e 
tutela 
dei 
dati 
personali, in relazione 
alla 
nozione 
di 
pratica 
commerciale 
ingannevole; 
e, 
infine, 
la 
sentenza 
n. 
6943/24 in tema 
di 
conservazione 
degli 
habitat 
naturali 
e 
degli 
habitat 
di 
specie 
alla luce della direttiva 92/43/Cee del Consiglio del 21 maggio 1992. 


* 


È 
continuato anche 
nel 
2024 l’impegno innanzi 
alle 
giurisdizioni 
sovranazionali, 
Corte 
di 
giustizia 
e 
tribunale 
della 
Ue 
e 
CeDU, 
essendo 
sempre 
sentita 
l’esigenza 
di 
confrontarsi 
con 
la 
normativa 
europea 
e 
la 
tutela 
uniforme 
dei 
diritti 
che 
da 
essa 
scaturisce, con riferimento ai 
principi 
dell’ordinamento 
europeo, di 
recente, autorevolmente 
definito come 
uno “spazio costituzionale 
comune” (2). 

(1) Si 
segnala 
il 
documento del 
30 settembre 
2024 del 
Segretariato Generale 
della 
Giustizia 
Amministrativa 
Servizio 
per 
l’informatica, 
in 
tema 
Intelligenza 
artificiale 
e 
Giustizia 
amministrativa, 
quanto 
a “strategie di impiego, metodologie e sicurezza”. 
(2) 
Dal 
Presidente 
della 
Corte 
costituzionale 
Giovanni 
Amoroso 
nel 
corso 
della 
conferenza 
stampa 
in occasione della Sua elezione (28 gennaio 2025) e nel corso della Sua prima intervista televisiva. 



In 
questo 
delicato 
compito 
le 
Sezioni 
giurisdizionali 
e 
consultive 
del 
Consiglio 
di 
Stato hanno continuato a 
svolgere 
un importante 
ruolo di 
indirizzo, 
essendo, peraltro, giudici di ultima istanza. 


Nel 
2024, i 
Giudici 
amministrativi 
hanno sollevato 34 domande 
pregiudiziali 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
(con 
un 
significativo 
aumento 
rispetto all’anno 2023), di 
cui 
21 provengono dal 
Consiglio di 
Stato e 
riguardano questioni 
di 
notevole 
interesse, in tema 
di 
tutela 
dei 
consumatori, 
procedimenti 
sanzionatori 
da 
parte 
delle 
autorità 
nazionali 
di 
regolazione, 
equipollenza 
dei 
titoli 
di 
studio, di 
sostegno alla 
produzione 
di 
energie 
rinnovabili, 
di 
affidamento di 
appalto ed effetti 
delle 
misure 
restrittive 
in considerazione 
delle 
azioni 
della 
Russia 
che 
destabilizzano la 
situazione 
in Ucraina, 
approfondimento della giurisprudenza già ricordata in materia. 

L’importanza 
del 
rinvio 
pregiudiziale, 
strumento 
di 
cooperazione 
“da 
giudice 
a 
giudice”, 
è 
stata 
costantemente 
sottolineata 
dalla 
stessa 
Corte 
di 
giustizia 
come “chiave di volta” del sistema giurisdizionale della Ue. 

Come 
già 
osservato, 
proprio 
nel 
meccanismo 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
l’Avvocatura 
dello Stato svolge 
un ruolo fondamentale 
in chiave 
di 
collaborazione 
istituzionale 
con il 
Consiglio di 
Stato, assicurando il 
circuito virtuoso 
attraverso 
la 
presenza 
(nella 
maggior 
parte 
dei 
casi) 
nei 
giudizi 
nazionali 
a 
quibus, 
rappresentando 
le 
ragioni 
del 
Governo 
italiano 
anche 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia, 
e, 
poi, 
raffigurandone 
esiti 
e 
conseguenze, 
alla 
ripresa 
del 
giudizio, 
dinnanzi al giudice nazionale. 

* 


Concludo 
questo 
mio 
intervento 
confermando 
che 
l’Avvocatura 
dello 
Stato e 
tutti 
i 
suoi 
Componenti 
continueranno a 
profondere 
il 
massimo impegno 
nello svolgimento delle importanti funzioni loro assegnate. 


Grazie per l’attenzione. 


Roma, 3 febbraio 2025 


Palazzo Spada 



Cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2025 
del 
Tribunale 
amminisTraTivo 
regionale 
del 
lazio 


Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente, 


Signori Magistrati, 

Autorità, Colleghi 
Avvocati, 

Gentili Ospiti, 


1. 
È 
con 
grande 
piacere 
che 
prendo 
la 
parola 
in 
questa 
Cerimonia 
per 
portare 
il saluto dell’Istituto che ho l’alto onore e il privilegio di dirigere. 


Questa 
partecipazione, 
della 
cui 
conferma 
-anche 
per 
quest’anno 
-ringrazio 
il 
Presidente 
Politi, 
ribadisce 
ancora 
una 
volta 
l’importanza 
dello 
spirito 
di 
collaborazione 
istituzionale 
che 
sussiste 
e 
deve 
esserci 
tra 
il 
Giudice 
amministrativo 
e 
gli 
Avvocati, 
che 
si 
traduce 
in 
una 
visione 
integrata 
della 
valutazione 
giuridica 
delle 
questioni, 
al 
fine 
dell’ottimizzazione 
dell’efficienza 
della 
giustizia. 


D’altronde, di 
questo dialogo costruttivo, Signor Presidente, Lei 
è 
stato 
sempre 
convinto assertore, perché, già, nel 
2018, nella 
relazione 
per l’inaugurazione 
dell’anno giudiziario del 
tar Brescia, da 
Lei 
autorevolmente 
presieduto, 
aveva 
sottolineato 
l’importanza 
della 
“…necessaria 
interlocuzione 
con tutti i 
protagonisti dell’ambiente-Giustizia”. 


Colgo l’occasione 
anche 
per rinnovare 
a 
Lei, Signor Presidente, a 
nome 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
mio 
personale, 
le 
più 
sincere 
congratulazioni 
per la 
prestigiosa 
nomina 
a 
Presidente 
del 
tar Lazio che 
rappresenta 
l’alto riconoscimento 
delle 
Sue 
elevatissime 
doti 
professionali 
e 
umane, testimoniate 
anche 
dall’attenzione 
con la 
quale, innovando “il 
rito” 
della 
presente 
Cerimonia, 
ha 
lasciato spazio alla 
voce 
dei 
neo-Referendari: 
i 
giovani 
Colleghi 
sono 
il futuro e la linfa vitale delle nostre Istituzioni. 


* 


2. 
Nella 
Sua 
Relazione, Signor Presidente, ha 
ricordato l’attività 
svolta 
e 
i 
risultati 
raggiunti 
nell’anno 
appena 
trascorso; 
che 
sono 
il 
frutto, 
ancora 
una 
volta, del 
grandissimo impegno profuso dai 
Magistrati 
e 
da 
tutto il 
Personale 
amministrativo, ai quali va, dunque, il più vivo ringraziamento. 
3. Come 
è 
stato più volte 
ricordato anche 
in occasione 
dei 
Convegni 
che, 
nel 
2021, hanno celebrato i 
50 anni 
dell’istituzione 
dei 
tribunali 
Amministrativi 
Regionali 
e 
del 
recente 
Convegno dell’ottobre 
2024 in occasione 
dei 
50 
anni 
di 
funzionamento 
dei 
tt.AA.RR., 
il 
tar 
del 
Lazio 
è 
un 
organo 
giudiziario 
che 
costituisce 
un 
unicum 
non 
solo 
nel 
panorama 
nazionale, 
ma 
anche 
in 
quello 
europeo. Peculiarità sottolineata nella Sua Relazione odierna. 



Quale 
giudice 
amministrativo di 
primo grado, infatti, concentra 
in sé 
le 
competenze 
di 
tar regionale 
e 
di 
tar centrale, in quanto decide 
sugli 
atti 
dei 
Ministri 
e 
del 
Governo, degli 
organi 
a 
rilevanza 
costituzionale, come 
il 
CSM, 
delle 
Autorità indipendenti. 


Il 
contenzioso che 
gli 
è 
riservato è, dunque, tanto numeroso quanto delicato, 
incidendo nei 
più rilevanti 
settori 
della 
vita 
economica 
del 
Paese, reso 
ancora 
più importante 
dall’attuale 
momento storico in cui 
anche 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
deve 
affrontare, nel 
perseguimento dell’interesse 
pubblico, 
sempre 
nuove 
sfide, 
dovendosi 
confrontare 
con 
il 
complesso 
e 
delicato 
quadro 
socio-politico internazionale. 


Si 
comprende, quindi, perché 
il 
tar Lazio sia 
stato definito il 
tribunale 
dell’economia (1), o anche il 
tar dei 
tar (2). 


Mi 
limito, poi, per evidenti 
ragioni 
di 
brevità 
a 
citare 
solo alcune, fra 
le 
tante, rilevanti 
sentenze 
rese 
dal 
tar Lazio nell’ultimo anno, nelle 
quali 
il 
denominatore 
comune 
è 
rappresentato da 
un’equilibrata 
valutazione 
e 
dal 
bilanciamento 
dei diversi interessi coinvolti nelle singole fattispecie. 

La 
sentenza 
n. 
1279/2024, 
che 
ha 
riconosciuto 
la 
legittimità 
dell’operato 
dell’Amministrazione, anche 
sotto il 
profilo del 
corretto bilanciamento tra 
le 
esigenze 
di 
approvvigionamento 
energetico 
nazionale 
e 
gli 
aspetti 
connessi 
alla tutela dell’ambiente e della salute, nonché della sicurezza delle persone. 


La 
sentenza 
n. 
6694/2024, 
che 
ha 
riaffermato 
importanti 
principi 
in 
tema 
di 
discrezionalità 
tecnica 
della 
commissione 
giudicatrice 
sulla 
valutazione 
delle offerte e l’attribuzione dei punteggi. 

Sul 
peculiare 
ruolo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
vanno, 
infine, 
menzionate 
le 
sentenze 
in 
tema 
di 
accesso 
ai 
pareri 
resi 
nell’attività 
consultiva 
dall’Istituto, 
che 
affermano importanti 
e 
decisivi 
principi 
per assicurare 
un equilibrato bilanciamento 
tra 
interessi 
privati 
ed effettività 
ed efficacia 
dell’attività 
professionale 
a 
tutela 
dell’interesse 
pubblico: 
tra 
le 
altre, la 
n. 8892/24, n. 18678/24 
e la 
recentissima n. 22271/24. 


4. 
L’evoluzione 
del 
quadro 
normativo 
interno 
è 
ormai 
sempre 
più 
influenzata 
e compenetrata con l’ordinamento eurounitario. 


Nel 
2024, i 
Giudici 
amministrativi 
hanno proposto 34 domande 
pregiudiziali 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
(con 
un 
significativo 
aumento 
rispetto all’anno 2023), di 
cui 
13 provengono dal 
tar del 
Lazio, che 
ha 


(1) 
Lei 
stesso, 
Signor 
Presidente, 
in 
una 
intervista 
resa 
in 
occasione 
della 
Sua 
nomina 
a 
Presidente 
del 
tar Brescia 
aveva 
sottolineato che 
“Il 
sistema economico ha come 
primo interfaccia l’esercizio del 
potere 
pubblico. 
Rispetto 
a 
questi 
protagonisti 
il 
Tar 
non 
svolge 
un 
ruolo 
di 
mediazione, 
non 
è 
un 
attore, 
ma 
deve 
guardare 
la 
legittimità 
degli 
atti, 
svolgere 
un 
ruolo 
arbitrale 
di 
controllo 
della 
correttezza 
delle 
parti 
”. Corriere di Brescia, “tar, il nuovo presidente: «Noi a tutela dei cittadini»”, 4 ottobre 2017. 

(2) Relazione 
per l’inaugurazione 
dell’anno giudiziario 2022 del 
Presidente 
del 
tar Lazio, Antonino 
Savo Amodio. 


proposto il 
rinvio pregiudiziale, pur non essendo giudice 
di 
ultima 
istanza 
a 
dimostrazione 
dell’importanza 
attribuita 
al 
proficuo 
dialogo 
tra 
le 
Corti 
ai 
fini 
di 
un sempre 
maggiore 
adeguamento dell’ordinamento interno alle 
regole 
comuni 
dell’Unione europea. 


Le 
questioni 
pregiudiziali 
sollevate 
sono 
di 
particolare 
rilievo; 
come 
i 
rinvii 
pregiudiziali 
che 
riguardano il 
sistema 
della 
giustizia 
sportiva, l’interpretazione; 
l’applicazione 
dell’art. 
2 
del 
Regolamento 
Ue 
n. 
269/2014 
del 
17 
marzo 2014, in tema 
di 
“…misure 
restrittive 
… 
integrità territoriale 
… 
sovranità 
e 
…‘indipendenza dell’Ucraina’ 
”; 
il 
riconoscimento dei 
titoli 
abilitativi 
conseguiti all’estero. 


* 


5. In tale 
complesso e 
delicato contenzioso il 
tar Lazio vede 
nell’Avvocatura 
dello Stato, quale 
difensore 
istituzionale 
delle 
pubbliche 
Amministrazioni, 
il principale interlocutore. 


Il 
dato numerico è 
un’espressione 
sintetica, ma 
efficace 
della 
rilevanza 
del 
lavoro svolto dall’Avvocatura 
dello Stato e 
ne 
costituisce 
evidente 
rappresentazione: 
nel 
2024 sono stati 
impiantati 
oltre 
12.000 
nuovi 
affari 
di 
competenza 
delle 
Sezioni 
romane 
del 
tar Lazio e 
sono stati 
effettuati 
oltre 
29.000 
depositi telematici. 

A 
tale 
riguardo 
auspico, 
per 
il 
futuro, 
una 
armonizzazione 
dei 
processi 
telematici 
di 
tutte 
le 
giurisdizioni, con l’approdo a 
sistemi, regole 
e 
strumenti, 
per 
quanto 
possibile, 
comuni 
o 
almeno 
uniformi; 
guardando 
con 
attenzione 
all’applicazione 
di 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale, 
nei 
quali 
siano 
indefettibili 
il controllo e la gestione umani. 


6. Concludo, ringraziando Lei, Signor Presidente, i 
Magistrati 
e 
il 
Personale 
amministrativo del 
tar Lazio e 
associandomi 
ai 
calorosi 
saluti 
e 
ai 
profondi 
ringraziamenti al Presidente Savo Amodio e al Presidente Riccio. 


Grazie per l’attenzione. 


Roma, 28 febbraio 2025 


Cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2025 
presso 
la 
CorTe 
di 
appello 
di 
roma 


Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Aggiunto 
Avv. Marco Corsini 


Signor Presidente, 

signor Procuratore Generale, 

signor Presidente della Corte Costituzionale, 


signor Rappresentante del Governo, 

Autorità tutte presenti: religiose, militari e civili, 

gentili ospiti. 


È 
davvero con vivo piacere 
che 
prendo la 
parola 
nella 
solenne 
cerimonia 
di 
inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2025 
presso 
la 
Corte 
d’Appello 
di 
Roma. 


Porgo il 
saluto dell’Istituto cui 
ho l’altissimo onore 
di 
appartenere, rivestendo 
una carica che - ahimè - rivela da sola l’anzianità di chi vi parla. 


Porto il 
saluto dell’Avvocato Generale 
dello Stato, di 
tutti 
gli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato, delle 
colleghe 
e 
dei 
colleghi 
che 
ogni 
giorno profondono 
i propri immani sforzi nella difesa dell’interesse pubblico. 


e 
porto il 
mio saluto personale, sincero e 
cordiale 
ai 
Magistrati 
e 
agli 
avvocati 
del 
libero foro, che 
io considero -tutti 
-colleghi 
in senso vero, perché 
tutti 
impegnati 
nei 
rispettivi 
ruoli 
nell’assolvere 
la 
missione 
di 
dare 
giustizia. 
tutti 
chiamati 
a 
recitare 
una 
parte 
ineliminabile 
nel 
rito del 
processo, collaborando 
(ecco perché 
dico “colleghi”) in modo che 
nessuno di 
noi 
potrebbe 
esistere 
se 
non esistessero nello stesso momento anche 
gli 
altri. Chi 
propone 
una 
tesi, chi ne sostiene l’antitesi e chi deve fare la sintesi. 


Nella 
sua 
approfondita 
ed ampia 
relazione 
il 
Presidente 
della 
Corte 
ha 
riferito 
in modo analitico sui 
risultati 
raggiunti 
dalla 
Corte 
nell’anno 2024 che, 
nonostante 
le 
difficoltà 
connesse 
alle 
riforme 
del 
“sistema 
giustizia” 
nei 
settori 
civile 
e 
penale, confermano l’encomiabile 
impegno di 
tutte 
le 
categorie 
coinvolte: 
magistrati, avvocati e personale amministrativo. 

Non posso che 
esprimere, a 
nome 
mio e 
dell’Istituto, il 
vivo apprezzamento 
e 
sentita 
gratitudine 
per il 
grandissimo impegno e 
l’alta 
professionalità 
dei 
Magistrati 
del 
Distretto 
nonché 
per 
la 
dedizione 
del 
personale 
amministrativo 
che 
vi 
opera 
in un contesto ove, come 
ricordato nella 
relazione 
del 
Presidente 
della 
Corte 
d’Appello 
dell’anno 
2024, 
“viene 
in 
gioco 
la 
credibilità 
della 
giurisdizione 
e 
la 
fiducia 
dei 
cittadini 
verso 
l’amministrazione 
della 
giustizia, 
verso una delle funzioni fondamentali dello Stato”. 


In linea 
con quanto già 
evidenziato nella 
cerimonia 
dello scorso anno, le 
recenti 
riforme 
del 
processo civile 
e 
del 
processo penale 
consolidano e 
prose



guono le 
innovazioni 
procedimentali 
ed organizzative 
introdotte 
nel 
periodo 
pandemico 
per 
contrastare 
gli 
effetti 
negativi 
sullo 
svolgimento 
dell’attività 
giudiziaria. 

Il 
progresso tecnologico e, in particolare, quello informatico, ha 
consentito 
di 
mutare 
rapidamente 
-ma 
sarebbe 
meglio dire, di 
migliorare 
il 
sistema 
processuale 
e 
giudiziario con il 
fine 
di 
realizzare 
una 
riduzione 
dei 
tempi 
di 
trattazione 
dei 
procedimenti 
civili 
e 
penali. La 
“rivoluzione 
digitale” 
-in ambito 
civile 
-è 
ormai 
in 
fase 
avanzata 
(tant’è 
che 
da 
un 
lato 
scompare 
dal 
codice 
di 
procedura 
ogni 
riferimento al 
processo cartaceo, implementando il 
riferimento 
ai 
concetti 
di 
fascicolo 
telematico 
e 
di 
duplicato 
informatico, 
e 
dall’altro 
viene 
esteso 
l’ambito 
delle 
note 
di 
trattazione 
scritta 
anche 
per 
l’udienza 
di 
discussione e la possibilità di ricorrere all’udienza da remoto). 


Per contro, in ambito penale, si 
devono gestire 
difficoltà 
maggiori 
di 
natura 
applicativa 
stante 
l’innegabile 
delicatezza 
degli 
interessi 
in gioco, difficoltà 
cui 
ha 
portato 
un 
certo 
beneficio 
il 
recente 
Decreto 
Ministeriale 
27 
dicembre 
2024, 
n. 
206, 
che 
introduce 
rilevanti 
novità 
in 
materia 
di 
tempi 
e 
modi del deposito telematico degli atti nel processo penale. 


L’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
2024 
ha 
patrocinato 
davanti 
alle 
diverse 
Sezioni 
civili 
e 
alla 
Sezione 
Lavoro della 
Corte 
d’Appello di 
Roma, oltre 
che 
in 
tutti i 
tribunali del distretto. 

La 
partecipazione 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
altresì 
rilevante, 
oltre 
che 
dinanzi 
alle 
Sezioni 
civili 
del 
Distretto, anche 
nell’ambito di 
diversi 
processi 
penali 
di 
impatto sociale 
e 
mediatico nei 
quali 
la 
difesa 
erariale 
affianca, 
quale 
parte 
civile, 
la 
Pubblica 
Accusa 
facendo 
valere 
le 
ragioni 
del-
l’amministrazione 
rappresentata. In altre 
e 
non poche 
occasioni 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
assunto 
la 
difesa 
delle 
Amministrazioni 
quale 
responsabile 
civile 


o del dipendente pubblico che può avvalersi del nostro patrocinio. 


I dati, come 
già 
anticipato ieri 
dall’Avvocato Generale 
dello Stato nel 
discorso 
all’inaugurazione 
dell’anno giudiziario in Cassazione, sono numericamente 
impressionanti. 


In tutta 
Italia 
gli 
affari 
consultivi 
e 
contenzioni 
di 
nuovo impianto superano 
i 160.000, con un incremento del 14% rispetto all’anno scorso. 


Solo presso l’Avvocatura 
Generale 
gli 
affari 
nuovi 
impiantati 
sono più di 
40.000, numero sostanzialmente in linea con l’anno precedente. 


Il 
dato 
nazionale 
però 
non 
costituisce 
una 
notizia 
incoraggiante 
perché 
qualche 
dubbio 
lo 
pone 
sull’effettivo 
successo 
dei 
tanti 
tentativi 
abbozzati 
dalle 
ripetute 
riforme 
nel 
senso 
della 
deflazione 
del 
contenzioso. 
e 
la 
dice 
lunga 
circa 
l’animo 
storicamente 
e 
incorreggibilmente 
causidico 
del 
nostro 
popolo. 


venendo alla 
Corte 
d’Appello di 
Roma, i 
nuovi 
giudizi 
radicati 
nel 
2024 
sono ben più di 
2000 relativamente 
alla 
giurisdizione 
civile, mentre 
150 sono 
quelli nella giurisdizione penale. 



Si 
è 
tuttavia 
confermato anche 
per l’anno appena 
trascorso (un piccolo 
indizio 
di 
ottimismo…) 
un 
aumento 
degli 
affari 
consultivi, 
segnale 
di 
una 
sempre 
rinnovata 
volontà 
delle 
Amministrazioni 
patrocinate 
di 
prevenire 
il 
contenzioso 
sia 
con 
soluzioni 
conciliative 
sia 
con 
il 
convincimento 
delle 
controparti 
delle 
buone 
ragioni 
dell’amministrazione 
con 
conseguente 
rinuncia 
all’azione giurisdizionale. 

tale 
attività 
tiene 
conto 
anche 
delle 
pronunce 
del 
giudice 
che 
consentono 
di 
indirizzare 
l’esercizio delle 
funzioni 
e 
delle 
attività 
svolte 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni da Noi patrocinate. 

L’Avvocatura 
dello Stato, anche 
nel 
corso del 
2024 e 
nell’ottica 
di 
una 
sempre 
maggiore 
interazione 
con 
le 
istituzioni 
giudiziarie 
ha 
manifestato 
il 
suo massimo impegno e 
la 
sua 
più ampia 
collaborazione 
in tutte 
le 
iniziative 
alle 
quali 
è 
stata 
chiamata, finalizzate 
a 
rendere 
più efficiente 
il 
sistema 
giudiziario 
italiano, rinnovando l’interesse 
per le 
nuove 
sfide 
che 
anche 
i 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale 
offrono 
a 
tutti 
gli 
operatori 
del 
sistema 
giustizia 
e 
che 
il 
Governo ha 
posto al 
centro dell’agenda 
del 
G7 sotto la 
presidenza 
italiana. 


Analoghe 
iniziative 
per una 
sempre 
maggiore 
implementazione 
della 
digitalizzazione 
del 
processo 
sono 
costantemente 
portate 
avanti 
con 
la 
magistratura 
amministrativa, 
contabile 
e 
tributaria 
con 
le 
quali 
prosegue 
la 
costante 
interlocuzione per risolvere sempre nuove emergenti problematiche. 

La 
digitalizzazione 
degli 
strumenti 
del 
sistema 
giudiziario, 
anche 
alla 
base 
delle 
ultime 
modifiche 
introdotte 
dal 
c.d. 
correttivo 
Cartabia 
è 
un 
obiettivo 
nel 
quale 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
crede 
in 
quanto 
fattore 
importante 
per 
la 
transizione 
digitale; 
una 
sfida 
delle 
Istituzioni 
e 
un obiettivo del 
PNRR ove 
è 
inserita 
tra 
le 
c.d. 
riforme 
orizzontali 
o 
di 
contesto, 
ossia 
innovazioni 
strutturali 
dell’ordinamento, tali 
da 
interessare, in modo trasversale, tutti 
i 
settori 
di 
intervento 
del Piano. 


tale 
è 
lo 
spirito 
che 
intendiamo 
mantenere 
vivo 
nell’Avvocatura 
dello 
Stato che 
certamente 
è 
parte 
processuale, ma 
una 
parte 
da 
sempre 
portatrice 
di 
una 
missione 
che 
non è 
di 
parte 
in senso stretto sul 
piano sostanziale 
per la 
semplice 
e 
decisiva 
ragione 
che 
lo 
Stato 
in 
causa 
è 
in 
diverse 
occasioni 
Stato/collettività. 


Il 
decalogo 
di 
Giuseppe 
Mantellini, 
fondatore 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
primo 
avvocato 
generale, 
ci 
ricorda 
sempre 
che 
gli 
avvocati 
dello 
Stato 
“Nel 
trattare 
gli 
affari 
erariali 
(che 
sono 
gli 
affari 
dei 
contribuenti) 
sono 
prima 
giudici che avvocati”. 


Nessun 
timore, 
non 
siamo 
aspiranti 
magistrati. 
“Giudici” 
nel 
rapporto 
con 
la 
parte 
perché 
primi 
percettori 
della 
legittimità 
dei 
suoi 
atti 
e 
primi 
consiglieri 
nell’indirizzarne l’azione. 


Ma 
quando dico “avvocati” 
dico avvocati 
fermi 
e 
decisi 
nella 
difesa, con 
la 
missione 
di 
tutelare 
una 
parte 
del 
processo con pienezza 
dei 
poteri. e 
con 



un’ambizione: 
far 
comprendere 
sempre 
di 
più 
che 
l’interesse 
pubblico 
che 
noi 
difendiamo 
non 
è 
solo 
l’interesse 
di 
una 
parte, 
di 
una 
controparte, 
ma 
deve 
coincidere 
con 
l’interesse 
generale, che 
è 
l’interesse 
di 
tutta la collettività. 


e 
quando dico “consiglieri” 
mi 
riferisco ad una 
funzione 
che 
non è 
utilitaristica, 
ma 
che 
è 
anch’essa 
ispirata 
al 
risultato della 
giustizia. Perché 
-parafrasando 
l’insegnamento di 
un mio maestro -l’obiettivo dello stato non è 
di 
pagare tanto o poco, ma di pagare il giusto. 


Signor 
Presidente, 
signor 
Procuratore 
Generale, 
colleghi 
Magistrati, 
sappiamo 
che 
l’anno 
che 
verrà 
sarà 
di 
forte 
impegno 
professionale 
e 
morale, 
nella 
consapevolezza 
del 
fatto 
che 
tutto 
il 
mondo 
giudiziario 
vivrà 
un’epoca 
storica 
assai delicata sotto il profilo dell’identità e della propria funzione. 


e per questo il mio - il nostro augurio - è di buon lavoro. 


Accompagnato da 
una 
raccomandazione, che 
è 
nello stesso tempo un auspicio: 
continuiamo nell’opera 
di 
riduzione 
della 
durata 
dei 
giudizi, oggi 
ancora 
troppo 
lunga. 
Perché 
il 
tempo 
impiegato 
per 
dare 
giustizia 
è 
arte 
essenziale della Giustizia stessa. 


Mi 
rivolgo tuttavia 
ad un ipotetico legislatore, quella 
figura 
dalla 
mitologica 
saggezza 
che 
dalle 
XII tavole 
ad oggi 
regola 
i 
nostri 
comportamenti. La 
riduzione 
della 
durata 
dei 
processi 
non può e 
non deve 
realizzarsi 
con l’inasprimento 
delle 
decadenze 
e 
delle 
preclusioni, 
perché 
un 
sistema 
basato 
su 
un’implacabile 
griglia 
di 
decadenze 
e 
preclusioni 
si 
traduce 
in un sistema 
di 
denegata giustizia. 


Concludo 
questo 
mio 
intervento 
certo 
di 
poter 
confermare 
a 
Lei 
Presidente 
e 
a 
tutti 
i 
presenti 
che 
l’Avvocatura 
dello Stato e 
tutti 
i 
suoi 
componenti 
faranno la 
loro parte 
con lo spirito di 
sempre 
-quello che 
attraversa i 
150 
anni 
della nostra storia 
-continuando a 
profondere 
il 
massimo impegno e 
collaborazione 
per essere 
all’altezza 
delle 
rilevanti 
funzioni 
loro assegnate, e 
per non deludere la fiducia che quotidianamente viene riposta in loro. 


Grazie per la pazienza con cui mi avete ascoltato. 

Roma, 25 gennaio 2025 



un modello di museo diffuso: 
l’avvocatura distrettuale dello stato di napoli 


Michele Gerardo* 


SOMMARIO: 1. Introduzione 
-2. Musei 
tradizionali, ecomusei, musei 
diffusi 
-3. Il 
sito, 
l’ubicazione 
degli 
uffici 
dell’Avvocatura Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
-4. Aspetti 
architettonici 
del 
Palazzo degli 
Uffici 
Finanziari 
e 
dell’Avvocatura dello Stato -5. La pinacoteca 
dell’Avvocatura Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
-6. Patrimonio librario dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
-7. Patrimonio librario (segue) 
Testi 
di 
precipuo interesse 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
(Relazioni 
periodiche 
dell’Avvocato 
Generale; 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato; 
Allegazioni 
dell’Avvocatura 
distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli) 
-8. 
Conclusioni. 


1. Introduzione. 


Nel 
presente 
scritto vi 
è 
la 
descrizione 
dell’ufficio dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
come 
ipotesi 
di 
museo diffuso, attesa 
la 
stretta 
connessione 
tra 
le 
caratteristiche 
dell’immobile, la 
sua 
destinazione, la 
pinacoteca 
(che 
costituisce 
sia 
arredo 
che 
bene 
culturale 
tematico 
avente 
ad 
oggetto 
la 
pittura 
napoletana 
dell’ottocento), il 
patrimonio librario (biblioteca 
storicizzata 
e 
biblioteca 
corrente) 
e 
il 
patrimonio 
archivistico. 
Il 
tutto 
unito 
alla 
fruizione 
del 
complesso -rectius: 
visite 
consentite 
in periodi 
prestabiliti 
-da 
parte del pubblico. 


Giusta 
l’art. 101, comma 
2, del 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio 
(D.L.vo 22 gennaio 2004, n. 42) “Si 
intende 
per: a) «museo», una struttura 
permanente 
che 
acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone 
beni 
culturali 
per 
finalità di 
educazione 
e 
di 
studio; b) «biblioteca», una struttura permanente 
che 
raccoglie, cataloga e 
conserva un insieme 
organizzato di 
libri, 
materiali 
e 
informazioni, 
comunque 
editi 
o 
pubblicati 
su 
qualunque 
supporto, 
e 
ne 
assicura la consultazione 
al 
fine 
di 
promuovere 
la lettura e 
lo studio; c) 
«archivio», 
una 
struttura 
permanente 
che 
raccoglie, 
inventaria 
e 
conserva 
documenti 
originali 
di 
interesse 
storico e 
ne 
assicura la consultazione 
per 
finalità 
di studio e di ricerca; 
[…]”. 


Il 
museo può abbracciare 
anche 
oggetti 
di 
biblioteche 
o archivi 
allorché 
questi 
acquisiscano 
la 
qualità 
di 
beni 
culturali, 
ossia 
cose 
mobili 
“che, 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
10 
e 
11, 
presentano 
interesse 
artistico, 
storico, 
archeologico, 
etnoantropologico, 
archivistico e 
bibliografico e 
le 
altre 
cose 
individuate 
dalla 
legge 
o in base 
alla legge 
quali 
testimonianze 
aventi 
valore 
di 
civiltà” 
(art. 2, 
comma 
2, D.L.vo n. 42/2004), come 
confermato dall’art. 10, comma 
4, lett. 
c), 
D.L.vo 
n. 
42/2004 
secondo 
cui 
sono 
comprese 
tra 
le 
cose 
ora 
indicate 
-ove 


(*) Avvocato dello Stato. 



appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
e 
a 
soggetti 
privati 
assimilati 
a 
quelli 
pubblici 
-“i 
manoscritti, 
gli 
autografi, 
i 
carteggi, 
gli 
incunaboli, 
nonché 
i 
libri, 
le 
stampe 
e 
le 
incisioni, con relative 
matrici, aventi 
carattere 
di 
rarità e 
di 
pregio”. 


2. Musei tradizionali, ecomusei, musei diffusi. 


Accanto ai 
musei 
tradizionali, si 
individuano altre 
tipologie 
di 
musei, tra 
cui gli ecomusei ed i musei diffusi. 


Il 
museo tradizionale 
si 
connota, in sintesi, per la 
triade 
<immobile, collezione, 
pubblico>, laddove 
l’ecomuseo si 
connota 
per la 
triade 
<territorio, 
patrimonio, comunità>. 

L’ecomuseo, 
infatti, 
si 
configura 
come 
una 
nuova 
forma 
di 
museo, 
un 
museo che 
esce 
da 
un luogo chiuso e 
si 
riappropria 
del 
territorio, con il 
quale 
reinstaura 
un legame. L’ecomuseo pone 
al 
centro la 
relazione 
che 
il 
territorio 
ha avuto, ha ed avrà con la sua comunità di appartenenza. 

Il 
museo diffuso, invece, pone 
al 
centro la 
relazione 
tra 
gli 
oggetti, i 
contesti 
e il territorio, che è allo stesso tempo contenuto e contenitore. 

L’intuizione 
di 
creare 
-nel 
contesto 
dell’ufficio 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
-un 
museo 
diffuso, 
si 
deve 
a 
Giuseppe 
Fiengo, 
Avvocato 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
nel 
2010-2013. 
All’esito 
dei 
lavori 
di 
ristrutturazione 
delle 
porzioni 
dell’edificio 
in 
uso 
all’Avvocatura, 
del 
restauro 
e 
della 
ricollocazione, 
con 
un 
nuovo 
criterio 
espositivo, 
di 
stampe, 
dipinti 
e 
arredi 
originari 
-attività 
che 
hanno 
trovato 
il 
loro 
epilogo 
con 
una 
mostra 
delle 
opere 
di 
Hans 
Hartung 
-si 
è 
reso 
accessibile 
l’edificio 
al 
pubblico 
con 
visite 
guidate. 
In 
tal 
modo 
si 
è 
creato 
-per 
usare 
le 
parole 
di 
Beppe 
Fiengo 
-“un 
museo 
diffuso 
che 
offra 
in 
simultanea, 
alla 
fruizione 
collettiva, 
la 
realtà 
di 
quadri 
[…] 
e 
di 
libri 
[…] 
sconosciuti 
e 
l’ospitalità 
di 
un 
ufficio 
pubblico, 
quello 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
che 
intende 
aprirsi 
alla 
città 
di 
Napoli”(1). 


3. Il 
sito, l’ubicazione 
degli 
uffici 
dell’Avvocatura Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli. 


Gli 
uffici 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
sono ubicati 
nel 
Palazzo degli 
Uffici 
Finanziari 
(c.d. P.U.F.) in Napoli 
alla 
via 
Diaz, n. 11. 
Il 
P.U.F. 
è 
localizzato 
nel 
centro 
storico 
napoletano, 
a 
ridosso 
del 
quartiere 
Carità, 
ed 
appartiene 
al 
tessuto 
urbanistico 
e 
architettonico 
oggetto 
dei 
vasti 
piani 
di 
recupero 
negli 
anni 
’30 
e 
’40 
del 
Novecento 
estesi 
su 
quella 
porzione 
di 
città 
che, dalla 
calata 
dei 
quartieri 
spagnoli 
seicenteschi, avrebbe 
fatto da 
cerniera 
con i 
quartieri 
della 
marina 
oggetto dell’ottocentesco Risanamento Na


(1) Così 
G. FIeNGo, Il 
deposito“aperto”dell’Ottocento napoletano, in Ottocento in Avvocatura 
dello Stato. Una mostra permanente, a cura di MARIASeReNA 
MoRMoNe, Arte’m, 2013, p. 4. 



poletano. tali 
piani 
di 
recupero portarono alla 
realizzazione 
di 
un comparto 
edilizio caratterizzato da 
uno stile 
architettonico unitario composto da 
immobili 
aventi 
i 
caratteri 
di 
imponenza 
e 
propaganda 
tipici 
dell’architettura 
del 
ventennio, 
pressocché 
tutti 
dotati 
di 
un 
rivestimento 
marmoreo 
chiaro 
su 
ordini 
giganti, 
come 
a 
determinare 
un 
forte 
richiamo 
all’architettura 
neoclassica 
e 
romana 
tardoimperiale 
cui 
si 
ispiravano 
i 
principali 
progettisti 
del 
periodo. 
Le 
strutture 
portanti 
furono 
realizzate 
per 
l’intero 
Rione 
Carità 
in 
calcestruzzo 
armato, secondo le 
tecnologie 
peculiari 
dell’epoca 
che 
risultavano essere, in 
ambito napoletano, di 
certo avveniristiche 
o, più consono alla 
temperie 
culturale 
dell’epoca, “futuriste”. 


Il 
Palazzo degli 
Uffici 
Finanziari 
si 
caratterizza 
per essere 
un edificio a 
doppio cortile 
interno, sul 
tracciato degli 
edifici 
a 
blocco tardo ottocenteschi 
a 
doppia 
chiostrina, 
esteso 
su 
una 
pianta 
che, 
vuoto 
per 
pieno, 
ha 
un 
ingombro 
di 
circa 
4400 
m2 
per 
otto 
livelli 
complessivi, 
oltre 
due 
entro 
terra. 
Le 
coperture 
sono 
piane 
e 
protette 
dalle 
infiltrazioni 
di 
acque 
meteoriche 
con 
guaina 
impermeabile. 
I 
prospetti 
esterni 
sono 
in 
larga 
parte 
ricoperti 
da 
mattoncini 
di 
rivestimento 
e 
marmi 
bianchi, 
mentre 
gli 
otto 
prospetti 
dei 
due 
cortili 
interni 
sono rifiniti a clinker, marmi bianchi o intonaco e pittura. 


La 
struttura 
portante 
è 
intelaiata 
in calcestruzzo armato. L’ingresso del-
l’edificio (lato anteriore, a 
sud) è 
su via 
Armando Diaz; 
gli 
altri 
confini 
del-
l’edificio 
sono 
i 
seguenti: 
via 
Fabio 
Filzi 
sul 
lato 
destro 
(ad 
est); 
via 
Guglielmo 
oberdan 
sul 
lato 
sinistro 
(ad 
ovest); 
via 
Cesare 
Battisti 
sul 
lato 
posteriore 
(a nord). 


La 
pianta 
è 
sub rettangolare, presentando due 
vaste 
aree 
scoperte 
interne 
e 
un’area 
semicircolare 
in 
capo 
al 
lato 
lungo 
via 
Battisti. 
I 
lati 
dell’edificio 
lungo 
via 
Filzi, 
via 
oberdan 
e 
via 
Diaz 
sono 
costituiti 
da 
blocchi 
di 
dimensioni 
in pianta 
pari 
a 
ca. 15 m 
x 55 m, quello lungo via 
Battisti 
da 
uno di 
ca. 8 m 
x 
30 m e da un blocco semicilindrico di diametro pari a ca. 35 m. 


Alle 
aree 
scoperte 
fanno capo tutti 
i 
vani 
scala 
presenti 
nell’edificio, i 
locali 
adibiti a deposito/box nonché gli archivi ai locali seminterrati. 


Le 
aree 
scoperte 
sono 
destinate 
a 
sosta 
temporanea 
per 
un 
numero 
limitato 
di autovetture. 


L’edificio 
presenta 
un’altezza 
massima 
rispetto 
al 
piano 
stradale 
di 
ca. 
38 
metri 
lungo via 
Diaz 
e 
via 
Filzi 
(ove 
è 
presente 
il 
maggior salto di 
quota 
del 
piano stradale) e 
un’altezza 
massima 
interrata 
di 
ca. 4 metri. Inoltre, il 
blocco 
lungo via 
Diaz 
si 
sviluppa 
su soltanto dieci 
degli 
undici 
piani 
totali 
dell’edificio 
(per un’altezza totale fuori terra di ca. 30 m). 


L’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
è 
ubicata 
al 
quinto piano 
ed in parte 
del 
quarto piano dell’edificio degli 
Uffici 
Finanziari 
sito a 
Napoli 
in via 
A. Diaz. La 
porzione 
dell’immobile 
di 
pertinenza 
dell’Avvocatura 
occupa 
un’area di circa m2 
4.400. 


I 
piani 
fuori 
terra 
dell’intero 
edificio 
sono 
dieci, 
per 
un’altezza 
in 
gronda 



superiore 
a 
24 
m. 
trattasi 
di 
edificio 
a 
pianta 
rettangolare, 
che 
si 
sviluppa 
intorno 
ad 
una 
corte 
interna 
divisa 
a 
sua 
volta 
da 
un 
corpo 
centrale 
che 
collega 
i 
fronti 
lungo 
via 
oberdan 
e 
via 
Filzi. 
Lungo 
via 
Battisti 
è 
presente 
una 
propaggine 
semicircolare 
che 
trova 
riscontro 
in 
una 
seconda 
propaggine 
semicircolare, 
di 
minore 
dimensione 
che 
si 
sviluppa 
lungo 
il 
fronte 
interno 
di 
via 
Diaz. 


I collegamenti 
verticali 
sono consentiti 
da 
otto scale 
ubicate 
in numero 
di 
quattro lungo il 
fronte 
di 
via 
Diaz, in numero di 
due 
agli 
angoli 
del 
fronte 
di 
via 
Battisti 
e 
in numero di 
due 
poste 
all’estremità 
del 
corpo di 
fabbrica 
che 
collega 
via 
oberdan 
e 
via 
Filzi. 
vi 
sono, 
poi, 
otto 
ascensori 
posti 
presso 
le 
predette 
scale. 


Gli 
uffici 
del 
quinto piano hanno superfici 
lorda 
di 
circa 
3.150 m2 . 
Gli 
uffici 
al 
quarto piano occupano la 
parte 
di 
edificio che 
si 
sviluppa 
intorno alla 
porzione 
di 
corte 
ubicata 
nel 
lato nord, per una 
superfice 
lorda 
di 
circa 
1.600 
m2. Inoltre, sono nelle 
disponibilità 
dell’Avvocatura 
dei 
locali, al 
pianterreno, 
destinati a deposito. 


I 
locali 
al 
quinto 
piano 
comprendono 
un 
ingresso 
presidiato 
dal 
lato 
Diaz, 
un’ampia 
sala 
riunioni 
a 
forma 
semicircolare 
posta 
presso 
l’ingresso, 
uffici 
per 
avvocati 
e 
dipendenti 
disimpegnati 
da 
un 
ampio 
corridoio 
centrale, 
sei 
sale 
destinate 
a 
biblioteca, 
un 
vasto 
salone 
destinato 
ad 
archivio, 
ove 
vengono 
eseguite 
attività 
di 
fotocopiatura, ubicato nella 
parte 
centrale 
del 
corpo semicircolare 
del fronte su via Battisti. 


I 
locali 
al 
quarto 
piano 
sono 
tutti 
destinati 
a 
uffici, 
occupano 
i 
fronti 
lungo 
via 
oberdan, via 
Battisti 
e 
via 
Filzi. La 
disposizione 
planimetrica 
ripropone 
quella del piano superiore. 


L’edificio 
è 
sottoposto 
a 
vincolo 
monumentale 
archeologico 
ai 
sensi 
della 
L. 1 giugno 1939 n. 1089. 


4. Aspetti 
architettonici 
del 
Palazzo degli 
Uffici 
Finanziari 
e 
dell’Avvocatura 
dello Stato. 


Progettato 
in 
occasione 
del 
concorso 
bandito 
ai 
primi 
del 
1933, 
realizzato 
a 
partire 
dal 
1935 
al 
posto 
della 
demolita 
chiesa 
di 
San 
tommaso 
d’Aquino 
e 
inaugurato 
due 
anni 
dopo, 
il 
palazzo 
degli 
Uffici 
Finanziari 
e 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è, 
probabilmente, 
l’opera 
più 
riuscita 
di 
Marcello 
Canino 
(2) 
all’interno 
di 
una 
nuova 
idea 
di 
città 
che 
agli 
inizi 
degli 
anni 
’30 
del 
secolo 
scorso 
si 
materializzò 
in 
luogo 
del 
preesistente 
rione 
Corsea. 
In 
esso 
sembra 
aver 
preso 
forma 
nel 
modo 
più 
convincente 
quella 
‘inattuale 


(2) 
Marcello 
Canino 
(ingegnere-architetto, 
1895-1970) 
ha 
rappresentato 
a 
Napoli 
una 
diversa 
modernità 
rispetto a 
quella 
dell’avanguardia 
razionalista. La 
sua 
strada, alla 
ricerca 
di 
“armonia e 
ordine” 
attraverso l’esaltazione 
del 
rapporto con la 
storia 
e 
con le 
tradizioni, e 
soprattutto con quel 
classicismo 
che 
permea 
la 
terra 
napoletana, ha 
prodotto significative 
architetture, palazzi 
e 
nuovi 
brani 
di 
città 
moderna 
come 
la 
Mostra 
d’oltremare 
che 
esprimono una 
lezione 
di 
qualità 
nella 
progettazione 
dei 
luoghi 
urbani di cui oggi si sente sia la mancanza sia la lontananza. 



modernità’ 
dell’architetto 
napoletano 
che, 
attraverso 
una 
mediazione 
tra 
classicismo 
e 
razionalismo 
d’ascendenza 
mitteleuropea, 
interpretava 
una 
via 
italiana 
al 
rinnovamento 
dell’architettura. 
volendo 
considerare 
quest’edificio 
come 
testimonianza 
del 
ruolo 
di 
chi 
opera 
sul 
territorio 
per 
interpretarne 
le 
vocazioni 
originarie 
e, 
al 
contempo, 
le 
istanze 
di 
cambiamento, 
potremmo 
ascriverlo 
a 
un’idea 
di 
storia 
intesa 
come 
processo 
continuo 
piuttosto 
che 
come 
una 
serie 
d’eventi 
di 
radicale 
rottura 
col 
passato 
e 
di 
rivoluzionaria 
ripresa 
per 
un 
diverso 
futuro. 


In quegli 
anni 
nella 
cultura 
architettonica 
nazionale 
si 
registrava 
una 
rottura 
tra 
gli 
architetti 
più giovani, fautori 
del 
rinnovamento ispirato dall’architettura 
razionalista, 
e 
gli 
uffici 
tecnici 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, 
attestati 
sui 
linguaggi 
accademici. Più concretamente, ai 
primi 
che 
aspiravano a 
nuovi 
incarichi 
si 
contrapponevano i 
gruppi 
professionali 
forti 
delle 
posizioni 
ormai 
consolidate. In tale 
quadro i 
concorsi, attraverso le 
prescrizioni 
contenute 
nei 
bandi 
e 
la 
selettività 
delle 
valutazioni, 
costituivano 
uno 
strumento 
di 
controllo 
e 
di 
unificazione 
dei 
linguaggi, che 
non avrebbero potuto rinunciare, in opere 
pubbliche 
importanti, a 
un adeguato livello di 
rappresentatività; 
ma, al 
tempo 
stesso, i 
concorsi 
erano un mezzo attraverso il 
quale 
il 
Sindacato fascista 
tentava 
di ridimensionare il potere degli uffici tecnici. 

In 
un 
quadro 
così 
complesso, 
il 
palazzo 
degli 
Uffici 
Finanziari, 
senz’altro 
debitore 
alla 
tradizione 
del 
classicismo e 
del 
barocco italiano, si 
distingue 
tuttavia 
per un’autonoma 
cifra 
espressiva, del 
tutto coerente 
con la 
statura 
e 
il 
ruolo svolto da Marcello Canino nel panorama napoletano e nazionale. 


Il 
bando del 
“concorso Nazionale 
per 
il 
palazzo degli 
uffici 
finanziari 
e 
della R. Avvocatura di 
Stato a Napoli”, per buona 
parte 
pubblicato su “Architettura” 
nel 
febbraio 
del 
1933, 
prescriveva 
un 
organismo 
a 
doppia 
corte 
interna, 
con struttura 
in cemento armato e 
forniva 
criteri 
per la 
scelta 
dei 
materiali 
di 
finitura. L’edificio di 
Canino ne 
rispettò in pieno le 
indicazioni. Su un lotto 
allungato e 
irregolare 
è 
impostato un fabbricato compatto, con i 
prospetti 
laterali 
lievemente 
ripiegati 
e, 
pertanto, 
di 
diversa 
lunghezza: 
l’uno, 
su 
via 
oberdan, 
convesso; 
l’altro, su via 
Filzi, concavo. tale 
differenza, tuttavia, non si 
percepisce 
in 
quanto 
i 
lunghi 
fronti, 
rivestiti 
di 
mattoni 
“romani” 
e 
ritmati 
dalle 
profonde 
finestre 
rettangolari, sono interrotti 
al 
centro dall’arretramento dei 
corpi 
scala, risultando così 
entrambi 
divisi 
in due 
tratti 
rettilinei 
con inclinazioni 
lievemente 
divergenti. La 
testata 
principale 
prospetta 
con l’ingresso su 
via 
Diaz; 
quella 
posteriore, su via 
Cesare 
Battisti, è 
caratterizzata 
dall’alto semicilindro 
destinato ad accogliere 
l’archivio che, attraverso l’intrinseca 
autonomia 
formale, 
risolve 
l’ambiguità 
dell’orientamento 
della 
testata, 
lievemente 
girata sul lato opposto rispetto a piazza Carità. 


Attorno ai 
due 
cortili 
interni, separati 
da 
un corpo-galleria, si 
svolgono 
ai 
piani 
inferiori 
le 
grandi 
sale 
per il 
pubblico; 
ai 
piani 
superiori, gli 
ambienti 
di 
lavoro, 
alcuni 
molto 
grandi. 
Complessivamente, 
trecentoquaranta 
stanze 



collegate 
da 
percorsi 
pubblici, privati 
e 
di 
rappresentanza. I sette 
livelli 
della 
costruzione 
sono 
collegati 
da 
dieci 
gruppi 
scale, 
di 
cui 
quattro, 
agli 
angoli 
dell’edificio, sono destinati 
agli 
impiegati; 
i 
due 
centrali, per i 
visitatori, servono 
la 
galleria; 
le 
scale 
a 
tre 
rampe 
ai 
lati 
dell’ingresso su via 
Diaz, con al 
centro il 
lungo tubo di 
vetro fluorescente 
e 
la 
calotta 
di 
chiusura 
in vetrocemento, 
sono destinate alla rappresentanza. 

Per quest’opera 
sono stati 
chiamati 
in causa 
vari 
protagonisti 
dell’architettura 
mitteleuropea 
della 
cui 
carica 
innovativa 
Canino era 
ben consapevole, 
dall’austriaco otto Wagner ai 
tedeschi 
della 
prima 
metà 
del 
Novecento, quali 
Peter Behrens, Paul 
Bonatz, o agli 
scandinavi 
Gunnar Asplund e 
Kay otto Fisker. 
La 
decisa 
originalità 
dell’edificio è 
legata 
ad alcune 
specifiche 
caratteristiche 
compositive, 
in 
varia 
misura 
ricorrenti 
nelle 
architetture 
di 
Marcello 
Canino, 
ma 
in 
nessun’altra 
tutte 
compresenti 
e 
felicemente 
integrate 
come 
nel 
palazzo dell’Avvocatura. 

Il 
primo 
carattere 
sta 
nell’accentuazione 
dimensionale 
e 
nel 
rilievo 
del 
portale 
d’ingresso 
inquadrato 
nell’altissima 
nicchia 
traforata 
in 
travertino 
e 
delle 
alte 
partiture 
vetrate 
dell’esedra 
semicircolare 
posteriore 
che, impostate 
l’una 
sull’altra 
in tre 
registri 
differenti, le 
conferiscono una 
sorta 
di 
dinamica 
rotatoria. Secondo le 
ricorrenti 
modalità 
compositive 
dell’epoca, questi 
elementi, 
‘fuori 
scala’ 
rispetto alla 
dimensione 
architettonica 
ad essi 
ordinariamente 
conferita, 
sono 
pienamente 
‘in 
scala’ 
dal 
punto 
di 
vista 
urbano: 
appartengono, 
cioè, 
più 
alla 
città 
che 
all’edificio, 
in 
piena 
coerenza 
con 
le 
esigenze 
di 
rappresentatività 
dettate 
dal 
carattere 
pubblico 
dell’opera, 
col 
risultato 
che 
le 
facciate 
di 
quest’ultima 
si 
trasformano in vere 
e 
proprie 
quinte 
urbane, 
pregne di valori figurativi assolutamente autonomi. 

La 
seconda 
caratteristica 
è 
costituita 
dal 
fatto 
che, 
lungi 
dall’essere 
episodi 
decorativi 
fini 
a 
sé 
stessi, 
la 
nicchia 
d’ingresso, 
l’esedra 
posteriore, 
gli 
stessi 
schermi 
delle 
scale 
sui 
lati 
sono 
intimamente 
legati 
al 
concatenarsi 
degli 
spazi 
retrostanti, 
interni 
ed 
esterni. 
Le 
aperture 
determinano, 
ogni 
volta 
secondo 
un 
diverso 
disegno, 
una 
qualità 
degli 
spazi 
interni 
tutta 
giocata 
sul 
contrasto 
tra 
la 
mutevolezza 
delle 
declinazioni 
luministiche 
in 
ogni 
ora 
del 
giorno 
e 
l’ineffabile 
fermezza 
dell’aria 
di 
marmo 
che 
spira 
tra 
i 
pavimenti 
e 
le 
pareti 
di 
spazi 
senza 
tempo. 
Nell’alternanza 
d’ambienti 
coperti 
e 
scoperti, 
uno 
degli 
aspetti 
più 
originali 
dell’opera 
è 
determinato 
dall’articolazione 
dei 
pieni 
e 
dei 
vuoti 
animati 
dalla 
perentoria 
qualità 
figurativa 
dei 
piloni, 
delle 
sfere, 
delle 
curve 
pareti 
vetrate, 
delle 
scale 
che, 
interpretando 
in 
modo 
essenziale 
le 
esigenze 
statiche 
o 
distributive, 
configurano 
la 
scena 
di 
una 
rappresentazione 
metafisica. 


Il 
terzo 
carattere 
sta 
nel 
senso 
tettonico 
che 
connota 
le 
figurazioni 
sui 
prospetti 
dell’edificio. 
La 
gigantesca 
esedra 
traforata 
su 
via 
Diaz; 
le 
grandi 
cornici 
con 
grigliati 
geometrici 
in 
travertino 
che 
schermano 
i 
corpi-scala 
laterali, 
il 
cui 
disegno 
è 
riportato 
sul 
selciato 
stradale 
dal 
lato 
di 
via 
oberdan 
come 



un’ombra 
proiettata; 
la 
monumentale 
esedra 
semicilindrica 
sul 
retro: 
queste 
animazioni 
astratte 
incidono il 
tessuto delle 
facciate 
erose 
dal 
ruvido chiaroscuro 
dei 
mattoni 
e, assieme 
all’ordinato seguire 
delle 
profonde 
finestre, qualificano 
il 
massiccio blocco edilizio. ognuna 
di 
queste 
‘figure’, pur nella 
sua 
autonomia, 
non 
è 
pura 
rappresentazione 
bidimensionale, 
essendo 
singolarmente 
dotata 
di 
un rilievo e 
di 
una 
profondità 
che 
l’arricchisce 
di 
una 
inedita 
spazialità 
e 
la 
trasforma 
da 
pura 
immagine 
in episodio architettonico dotato 
di peso e volumetria (3). 


5. La pinacoteca dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. 

Presso l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
sono allocati 
numerosi 
dipinti 
di 
pertinenza 
del 
Museo 
di 
Capodimonte 
e 
di 
Palazzo 
Reale 
già 
a 
varie 
riprese 
concessi 
in deposito temporaneo dal 
Ministero per i 
Beni 
e 
Attività 
Culturali fin dagli anni 
trenta del secolo ventesimo. 


A 
partire 
dall’Unità 
d’Italia 
per arredare 
le 
sedi 
di 
uffici 
pubblici 
e 
ministeriali 
non 
solo 
sul 
territorio 
nazionale, 
ma 
anche 
nelle 
ambasciate 
italiane 
all’estero, 
si 
è 
attinto 
a 
dipinti 
e 
arredi 
conservati 
nei 
magazzini 
dei 
musei 
statali. 
tra 
le 
amministrazioni 
statali 
ubicate 
a 
Napoli, analoghe 
concessioni 
di 
arredi 
e 
dipinti 
di 
musei 
statali 
si 
sono avute 
-tra 
l’altro -in favore 
della 
Prefettura 
di 
Napoli, 
degli 
uffici 
giudiziari 
del 
tribunale 
ubicati 
nella 
storica 
sede 
di Castelcapuano e delle Caserme. 


Quasi 
sempre 
le 
opere 
d’arte 
che 
avrebbero 
dovuto 
abbellire 
gli 
ambienti 
di 
rappresentanza 
degli 
enti 
pubblici 
-ma 
spesso anche 
gli 
uffici, nonché 
gli 
alloggi 
demaniali 
dei 
massimi 
responsabili 
-dovevano rispondere 
ad alcuni 
requisiti. oltre 
al 
carattere 
prevalentemente 
ornamentale 
i 
dipinti 
richiesti 
dovevano 
avere 
come 
soggetto 
preferito 
paesaggi, 
eventi 
storici 
e 
in 
qualche 
caso 
ritratti. 
Spesso 
nelle 
lettere 
di 
richiesta 
erano 
indicate 
addirittura 
le 
dimensioni 
e 
la 
preferenza 
per un formato con andamento orizzontale 
o verticale 
per meglio 
adattarle 
agli 
spazi 
previsti, con l’unica 
funzione 
quindi 
di 
arredamento, 
svilendone 
così 
il 
valore 
artistico nonché 
la 
storia 
delle 
provenienze 
e 
degli 
acquisti, 
caratteristiche 
queste 
significative 
del 
gusto 
dell’epoca 
di 
formazione 
della 
collezione 
di 
appartenenza. Per questi 
motivi 
molte 
opere 
d’arte 
sono rimaste 
a 
lungo poco note, se 
non del 
tutto ignote 
anche 
agli 
studiosi, poiché 
da 
lungo tempo affidate e spesso sprovviste di adeguata campagna fotografica. 


Rileggendo la 
cartella 
conservata 
nell’archivio della 
Soprintendenza 
per 
il 
Polo Museale 
di 
Napoli, dove 
sono custodite 
le 
pratiche 
relative 
ai 
depositi 
presso l’Avvocatura 
di 
Napoli, che 
va 
comunque 
integrata 
con l’analoga 
pratica 
esistente 
a 
Palazzo Reale 
(un tempo la 
Soprintendenza 
affidataria 
aveva 


(3) 
Quanto 
riportato 
-con 
riguardo 
agli 
aspetti 
architettonici 
-è 
stato 
desunto 
da 
U. 
CARUGHI, 
L’edificio degli 
Uffici 
Finanziari 
e 
dell’Avvocatura dello Stato di 
Marcello Canino, in Ottocento in Avvocatura 
dello Stato. Una mostra permanente, a cura di MARIASeReNA 
MoRMoNe, cit., pp. 9-17. 



sede 
lì), 
si 
può 
ricostruire 
la 
cronologia 
dei 
vari 
invii 
dagli 
anni 
trenta 
del 
ventesimo 
secolo 
fino 
ai 
nostri 
giorni, 
comprendendo 
così 
la 
storia 
e 
i 
criteri 
delle 
richieste, comuni 
a 
tutti 
i 
casi 
analoghi 
non solo a 
Napoli 
ma 
in tutta 
l’Italia. 
A 
tal 
proposito si 
ricorda 
una 
lettera 
“riservata personale” 
del 
30 novembre 
1938, 
indirizzata 
all’allora 
Soprintendente 
all’Arte 
Medioevale 
e 
Moderna 
Armando 
vené, 
nella 
quale 
l’avvocato 
dello 
Stato 
Mariano 
Rocco 
rivolgeva 
“viva 
preghiera 
di 
assegnare 
in 
deposito…una 
dozzina 
di 
quadri 
(possibilmente 
paesaggi 
o soggetti 
storici) e 
stampe 
all’Avvocatura di 
Napoli 
che 
da poco aveva 
trasferito gli 
uffici 
negli 
ampi 
e 
più adeguati 
locali 
del 
nuovo palazzo degli 
Uffici 
Finanziari”. 
La 
richiesta 
evidentemente 
era 
giustificata 
dalla 
volontà 
di 
conferire 
una 
sistemazione 
dignitosa 
alla 
nuova 
sede 
dell’Avvocatura 
“… 
la 
cui 
attività 
sovente 
viene 
esplicata 
a 
tutela 
del 
patrimonio 
storico-artisticoarcheologico 
dello 
Stato”. 
Si 
aggiungeva, 
inoltre, 
che 
almeno 
due 
quadri 
avrebbero dovuto misurare 
in larghezza 
circa 
due 
metri 
per essere 
collocati 
in 
una 
gran 
Sala 
di 
rappresentanza 
destinata 
alle 
riunioni. 
In 
questa 
occasione 
furono 
inviati 
i 
due 
grandi 
dipinti 
raffiguranti 
due 
zone 
della 
Villa 
Reale 
di 
Monza 
di 
Hermann David Salomon Corrodi 
(1844-1905) e 
la 
Veduta del 
lago 
di 
Agnano 
di 
Achille 
Carrillo (1818-1880), che 
si 
aggiunsero alle 
opere 
con 
soggetto storico come 
Alfonso di 
Aragona che 
fa dispensare 
il 
pane 
agli 
affamati 
di 
Giuseppe 
Mancinelli 
(1813-1875) 
e 
La 
comunione 
di 
santa 
Vittoria 
nelle 
catacombe 
di 
Federico Maldarelli 
(1826-1893) già 
inviate 
nel 
1929. Al 
1948 risale 
il 
deposito più cospicuo consistente 
in un nucleo di 
dipinti 
raffiguranti 
sempre paesaggi, episodi storici e alcuni ‘interni’. 


L’attuale 
sistemazione 
della 
pinacoteca 
presso l’Avvocatura 
consente 
di 
aggiungere 
un 
altro 
tassello 
alla 
ricostruzione 
della 
storia 
delle 
raccolte 
dei 
dipinti 
dell’ottocento 
di 
Capodimonte, 
recuperando 
così 
“alcune 
maglie 
sfuggite 
ad una trama” 
già 
delineata 
con il 
riordino dei 
nuclei 
originari 
in occasione 
della 
riapertura, 
nell’anno 
2012, 
della 
sezione 
permanente 
dell’ottocento 
di Capodimonte cui la pinacoteca presso l’Avvocatura si collega. 

Si 
tratta, 
quindi, 
di 
disporre 
definitivamente 
l’apertura 
al 
pubblico 
e 
agli 
studiosi 
di 
un 
nucleo 
di 
dipinti 
statali 
che 
finalmente 
vengono 
valorizzati, 
dopo 
un 
completo 
intervento 
conservativo 
reso 
possibile 
grazie 
al 
sostegno 
di 
alcuni 
illuminati 
sponsor 
che 
hanno 
affiancato 
nell’iniziativa 
l’Avvocatura 
napoletana. 


Dopo 
il 
completo 
riassetto 
degli 
uffici, 
che 
ha 
consentito 
il 
recupero 
della 
spazialità 
originaria 
al 
quarto 
e 
al 
quinto 
piano 
dell’edificio 
progettato 
da 
Marcello 
Canino, le 
opere 
d’arte 
sono state 
oggi 
completamente 
riallestite 
negli 
studi 
degli 
avvocati 
e 
nei 
corridoi 
più 
rappresentativi, 
corredate 
da 
un’adeguata 
illuminazione 
e 
da 
didascalie 
esplicative 
della 
data 
di 
deposito, degli 
autori, 
della 
tecnica 
e 
delle 
notizie 
inventariali 
che 
ne 
hanno 
ricostruito 
la 
provenienza 
nonché 
gli 
acquisti 
effettuati 
alle 
esposizioni 
delle 
Biennali 
Borboniche 
per i 
dipinti 
della 
prima 
metà 
dell’ottocento o alle 
esposizioni 
della 
Società 
Pro



motrice 
di 
Belle 
Arti 
di 
Napoli 
per quelli 
della 
seconda 
metà 
del 
secolo XIX, 
così 
da 
costituire 
una 
specie 
di 
deposito consultabile 
della 
sezione 
ottocento 
del Museo di Capodimonte (4). 


I 
dipinti, 
tutti 
a 
olio 
su 
tela, 
costituiscono 
una 
rilevante 
testimonianza 
della 
cultura 
figurativa 
a 
Napoli 
dai 
primi 
decenni 
dell’ottocento 
fino 
agli 
inizi 
del 
secolo 
scorso. 
Importanti 
sono 
anche 
le 
cornici 
dei 
quadri, 
tutte 
di 
manifattura 
ottocentesca, 
la 
maggior 
parte 
in 
legno 
modanato 
e 
decorato 
a 
pastiglia 
dorata. La pinacoteca è così composta: 


Vestibolo 
della 
chiesa 
dei 
Santi 
Severino 
e 
Sossio 
a 
Napoli 
con 
mausoleo 
(1867 ca.), di Domenico Battaglia (1842-1921) 


Veduta 
di 
Ponte 
Milvio 
al 
tramonto 
(1859 
ca.), 
di 
Consalvo 
Carelli 
(18181900) 


Interno di stalla 
(1859 ca.), di Consalvo Carelli (1818-1900) 


Interno di stalla con figure 
(1859 ca.), di Consalvo Carelli (1818-1900) 


Veduta del lago di 
Agnano 
(1860 ca.), di 
Achille Carrillo (1818-1880) 


Sala del 
pittore 
Tiepolo in palazzo Clerici 
a Milano 
(1866), di 
Paolo Catalano 
(1843-1890) 


Cristoforo 
Colombo 
dissuaso 
dalla 
moglie 
a 
partire 
(1864), 
di 
Arcangelo 
Ciampoli (1835-1902) 


L’eremitaggio di 
Sant’Eframo vecchio 
(1845 ca.) di 
Giovanni 
Cobianchi 
(notizie dal 1814 al 1847) 


Studio di paese 
(1859 ca.), di Nicola Coda (1820-1881) 


Veduta del 
bosco con daini 
nella Real 
Villa di 
Monza 
(1900 ca.), di 
Hermann 
David Salomon Corrodi (1844-1905) 


Veduta 
del 
laghetto 
con 
cigni 
nella 
Real 
Villa 
di 
Monza 
(1900 
ca.), 
di 
Hermann David Salomon Corrodi (1844-1905) 


Champigny/Rive de la mer 
(1880 ca.), di Federico Cortese (1829-1913) 


Giacomo 
di 
Thiene 
conquista 
la 
città 
di 
Rovereto 
(1859), 
di 
vincenzo 
Dattoli (1831-1899) 


In 
cortile. 
Contadinella 
assalita 
dalle 
oche 
(1880), 
di 
ettore 
De 
Maria 
Bergler (1850-1938) 


In riva al fiume 
(1887 ca.), di Giuseppe Fabozzi (1845-1934) 


Il 
coro 
della 
chiesa 
dei 
Cappuccini 
a 
Roma 
(1853), 
di 
orsola 
Faccioli 
Licata 
(1825-1906) 


Veduta 
di 
Napoli 
dalle 
Paludi 
(1837 
ca.), 
di 
Gioacchino 
Giusti 
(1815notizie 
fino al 1841) 


San Giovanni 
Evangelista in Patmos 
(secondo-terzo decennio del 
XvII 
secolo), di 
Antiveduto Gramatica (1569-1626) 


(4) 
Quanto 
riportato 
-con 
riguardo 
alla 
pinacoteca 
-è 
stato 
desunto 
da 
M. 
MoRMoNe, 
Dipinti 
svelati, 
in 
Ottocento 
in 
Avvocatura 
dello 
Stato. 
Una 
mostra 
permanente, 
a 
cura 
di 
MARIASeReNA 
MoRMoNe, 
cit., pp. 19-23. 



La 
forza 
data 
dalla 
Religione 
ad 
una 
donna 
(1859 
ca.), 
di 
Achille 
Guerra 
(1832-1903) 


Madonna incoronata 
(seconda 
metà 
del 
XvIII secolo), ignoto del 
XvIII 
secolo 


Marina 
con 
barcaccia 
a 
vela 
(prima 
metà 
del 
XIX 
secolo), 
ignoto 
del 
XIX secolo 


Bernini 
nel 
suo studio modella una scultura 
(1877), di 
Francesco Jacovacci 
(1838-1908) 


Ruderi 
del 
Teatro 
di 
Taormina 
(1864), 
di 
Alessandro 
La 
volpe 
(18201887) 


Veduta dell’Arno a Firenze 
(1863 ca.), di Filippo Liardo (1834-1917) 


La comunione 
di 
santa Vittoria nelle 
catacombe 
(1845 ca.), di 
Federico 
Maldarelli (1826-1893) 


Alfonso di 
Aragona durante 
l’assedio di 
Gaeta fa dispensare 
i 
pani 
agli 
affamati 
(1845 ca.), di Giuseppe Mancinelli (1813-1875) 


Famiglia di 
beduini 
nomadi 
in viaggio. Ricordo dell’Alto Egitto 
(1859), 
di 
vincenzo Marinelli (1820-1892) 


Sine 
sanguine 
effusione 
non 
fit 
remissio 
(1862 
ca.), 
di 
Angelo 
Maria 
Mazzia 
(1823-1891) 


San 
Pancrazio 
annuncia 
la 
persecuzione 
di 
Massimiano 
ad 
alcuni 
cristiani 
(1859), di emanuele Mollica (1820-1877) 

Il riposo in Egitto, di Salvatore Fergola (1796-1874) 


La 
lettura 
della 
lettera 
(metà 
XIX 
secolo), 
di 
Achille 
Mollica 
(1832-1885) 


Il cantastorie del molo 
(1884), di 
vincenzo Montefusco (1852-1912) 


Benvenuto Cellini 
nell’anticamera della duchessa d’Ètampes 
(1864), di 
Attilio Pagliara (notizie dal 1862 al 1888) 


Interno del Duomo di Milano 
(1863), di Giovanni Pessina (1836-1904) 


Lago di Lecco (1877 ca.), di Silvio Poma (1840-1932) 


Copia parziale 
dell’Ultima comunione 
di 
san Gerolamo di 
Domenichino 
(1827), di Gaetano Prota (prima metà del XIX secolo) 


La Tomba di 
Sergianni 
Caracciolo in san Giovanni 
a Carbonara 
(1892), 
di Ciro Punzo (1850-1923) 


Veduta 
di 
Piazza 
San 
Pietro 
a 
Roma 
dal 
colonnato 
del 
Bernini 
(18301840), 
di Domenico Semeraro (notizie prima metà del XIX secolo) 


Da Napoli a Miano 
(1890 ca.), di 
Alfonso Simonetti (1840-1892) 


Dopo il ballo 
(1876), di 
Attilio Simonetti (1843-1925) 


Napoli 
dal 
Parco di 
Capodimonte 
(1859), di 
Francesco Sorrentino (notizie 
metà del XIX secolo) 


Estate. Paesaggio 
(1890 ca.), di 
Amelia 
tessitore Gelanzè (1866-1933) 


Una 
canzone 
d’amore 
(1884 
ca.), 
di 
Francesco 
Saverio 
torcia 
(1840-1891) 


Paesaggio. 
La 
preghiera 
(1864), 
di 
Luigi 
torre 
(notizie 
a 
Napoli 
dal 
1862 
al 1877) 



Una interruzione piacevole 
(1877 ca.), di 
vincenzo volpe (1855-1829) 


Te es refugium meum 
(1881 ca.), vincenzo volpe (1855-1829). 


Multiforme 
è 
lo spaccato della 
pittura, prevalentemente 
napoletana 
(ma 
non 
solo) 
dell’800: 
pittori 
appartenenti 
alla 
Scuola 
di 
Posillipo 
(come 
Consalvo 
Carelli, 
Achille 
Carrillo, 
Alessandro 
La 
volpe, 
Amelia 
tessitore 
Gelanzè 
e 
Salvatore 
Fergola 
considerato 
uno 
degli 
esponenti 
più 
autorevoli 
della 
scuola) 
(5), paesaggisti 
e 
vedutisti 
(è 
il 
caso di 
Hermann David Salomon Corrodi, di 
Silvio Poma 
e 
di 
Francesco Saverio torcia), pittori 
di 
impronta 
accademica 
neoclassica 
(come 
Federico 
Maldarelli), 
esponenti 
della 
pittura 
liberty 
(ettore 
De 
Maria 
Bergler), artisti 
operanti 
nel 
campo della 
pittura 
storica 
(Francesco 
Jacovacci, Giuseppe 
Mancinelli 
ed emanuele 
Mollica) e 
anche 
un pittore 
di 
corte dei Borboni di Napoli (Giuseppe Mancinelli). 


La 
pinacoteca 
comprende 
anche 
qualche 
quadro 
estraneo 
all’800: 
è 
il 
caso 
dell’opera 
San Giovanni 
Evangelista in Patmos, di 
Antiveduto Gramatica 
artista 
che 
operò 
tra 
il 
‘500 
ed 
il 
‘600 
e 
che 
nel 
1592, 
per 
un 
breve 
periodo, 
ebbe 
nella sua bottega Michelangelo Merisi da Caravaggio. 


6. Patrimonio librario dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. 


La 
biblioteca 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
composta, 
quasi 
esclusivamente, 
di 
testi 
giuridici. I volumi 
che 
la 
compongono sono 20.000 ca. (tutti 
in 
buono stato di conservazione). 


La 
parte 
giuridica 
della 
biblioteca 
si 
compone 
di: 
manuali, monografie, 
trattati 
(6), collane, enciclopedie, raccolte 
di 
legislazione 
(7), riviste 
(8), com


(5) Per scuola 
di 
Posillipo si 
intende 
un gruppo di 
artisti 
-riuniti 
a 
Napoli, nel 
secondo decennio 
dell’ottocento, 
prima 
intorno 
ad 
Anton 
Sminck 
van 
Pitloo 
(1790-1837) 
e 
poi 
intorno 
a 
Giacinto 
Gigante 
(1806-1876) -i 
quali 
dipingevano le 
bellezze 
del 
paesaggio campano, spiagge 
incantate 
e 
ruderi 
carichi 
di 
suggestione, isole 
di 
leggenda 
e 
vesuvio fiammeggiante, ma 
anche 
case 
e 
strade, e 
mare 
e 
campagne 
e 
scene 
di 
vita 
popolare. 
Per 
una 
intoduzione: 
R. 
CAUSA, 
La 
scuola 
di 
Posillipo, 
in 
Civiltà 
dell’Ottocento. 
Cultura e società, electa Napoli, 1997, pp. 127-133. 


(6) tra 
i 
vari 
trattati: 
Trattato di 
diritto amministrativo 
a 
cura 
di 
S. CASSeSe; 
Trattato di 
diritto civile 
e 
commerciale 
già 
diretto 
da 
A. 
CICU 
e 
F. 
MeSSINeo, 
continuato 
da 
L. 
MeNGoNI, 
diretto 
da 
P. 
SCHLe-
SINGeR; 
Trattato 
di 
diritto 
civile 
diretto 
da 
G. 
GRoSSo 
e 
F. 
SANtoRo 
PASSAReLLI; 
Primo 
trattato 
completo 
di 
diritto amministrativo italiano 
diretto da 
v.e. oRLANDo; 
Trattato di 
diritto privato 
diretto da 
P. Re-
SCIGNo; 
Trattato di 
diritto amministrativo 
diretto da 
G. SANtANIeLLo; 
Trattato di 
diritto civile 
italiano 
sotto la 
direzione 
di 
F. vASSALLI; 
Trattato di 
diritto commerciale 
e 
di 
diritto pubblico dell’economia 
diretto 
da F. GALGANo. 


(7) tra 
cui: 
raccolte 
di 
legislazioni 
dal 
-ininterrottamente 
-1806 ad oggi 
relative 
a: 
Regno di 
Napoli, Regno delle 
due 
Sicilie; 
Regno d’Italia, Repubblica 
italiana 
(Bullettino delle 
leggi 
del 
Regno di 
Napoli; 
Collezione 
delle 
leggi 
e 
de’ 
decreti 
reali 
del 
Regno delle 
due 
Sicilie; 
Bollettino delle 
leggi 
del 
Regno 
delle 
due 
Sicilie; 
Gazzetta 
Ufficiale 
del 
Regno 
d’Italia; 
Atti 
governativi 
del 
Regno 
d’ 
Italia; 
Leggi 
e 
decreti 
del 
Regno 
d’ 
Italia; 
Raccolta 
delle 
leggi 
del 
Regno 
d’ 
Italia; 
Gazzetta 
Ufficiale 
della 
Repubblica 
Italiana; 
Leggi 
e 
decreti 
della 
Repubblica 
Italiana; 
Raccolta 
ufficiale 
degli 
atti 
normativi 
della 
Repubblica 
Italiana; Lex; Le leggi). 
(8) oltre 
duecento. Giurisprudenza Italiana, Foro italiano, Rivista del 
Diritto Commerciale 
sono 
presenti fin dal primo anno di pubblicazione. 



mentari 
(9), raccolte 
e 
repertori 
di 
legislazione 
e 
di 
giurisprudenza, formulari, 
raccolte 
di 
scritti 
in onore 
di 
giuristi. I testi 
afferiscono a 
tutte 
le 
materie 
del 
diritto; 
la 
parte 
prevalente 
riguarda 
il 
diritto 
amministrativo, 
il 
diritto 
tributario 
e finanziario, il diritto civile, il diritto processuale civile. 


Nella 
biblioteca 
vi 
sono 
le 
seguenti 
opere 
enciclopediche: 
a) 
Enciclopedia 
Giuridica 
Italiana, 
a 
cura 
di 
P.S. 
MANCINI 
ed 
e. 
PeSSINA, 
voll. 
I-XvI 
(44 
tomi), 
vallardi, 
1884-1937 
(10); 
b) 
Digesto 
italiano, 
diretto 
da 
L. 
LUCCHINI, 
voll. 
I-
XXIv, 
Utet, 
1884-1902 
(11); 
c) 
Nuovo 
Digesto 
italiano, 
a 
cura 
di 
M. 
D’AMe-
LIo 
con 
la 
collaborazione 
di 
A. 
AzARA, 
voll. 
I-XII 
(13 
tomi), 
Utet, 
1937-1940; 


d) 
Novissimo 
digesto 
italiano, 
diretto 
da 
A. 
AzARA 
e 
e. 
eULA, 
voll. 
I-XX 
(21 
tomi), 
Utet, 
1957-1975; 
e) 
Novissimo 
digesto 
italiano, 
diretto 
da 
A. 
AzARA 
e 


e. 
eULA, 
Appendice, 
voll. 
I-vII, 
Utet, 
1980-1987; 
f) 
Digesto 
delle 
Discipline 
privatistiche. 
Sezione 
civile, 
voll. 
I-XIX, 
Utet, 
1987-1999; 
g) 
Digesto 
delle 
Discipline 
privatistiche. 
Sezione 
commerciale, 
voll. 
I-XvI, 
Utet, 
1987-1999; 


h) 
Digesto 
delle 
Discipline 
Pubblicistiche, 
voll. 
I-Xv, 
Utet, 
1987-1999; 
i) 
Digesto 
delle 
Discipline 
Penalistiche, 
voll. 
I-Xv, 
Utet, 
1987-1999; 
l) 
Enciclopedia 
del 
diritto, 
voll. 
I-XLvI, 
Giuffré, 
1958-1993; 
m) 
Enciclopedia 
del 
diritto, 
Annali; 
n) 
Enciclopedia 
giuridica, 
voll. 
I-XXXII, 
Istituto 
della 
enciclopedia 
Italiana 
fondata 
da 
Giovanni 
treccani, 
Istituto 
Poligrafico 
e 
zecca 
dello 
Stato, 
1988-1994; 
o) 
Enciclopedia 
Forense, 
a 
cura 
di 
G. 
AzzARItI 
-e. 
BAttAGLINI 
F. 
SANtoRo 
PASSAReLLI, 
voll. 
I-vII, 
vallardi, 
1958-1962. 


Dei 
20.000 volumi 
costituenti 
il 
totale 
della 
biblioteca, circa 
2.000 testi 
sono 
libri 
del 
‘500, 
‘600 
e 
‘700, 
quasi 
tutti 
in 
lingua 
latina. 
Abbiamo 
opere 
sul 
diritto 
feudale 
(es. 
In 
usus 
feudorum 
di 
Andrea 
d’Isernia) 
(12), 
su 
pareri 
forensi 
(es. Theatrum 
veritatis 
et 
iustitiae 
del 
Cardinal 
De 
Luca) (13), sul 
diritto ro


(9) tra 
i 
vari 
commentari 
vi 
sono quelli 
del 
Codice 
civile 
curati 
da 
A. SCIALoJA 
e 
G. BRANCA 
ed 
altresì da P. SCHLeSINGeR. 
(10) 
enciclopedia 
giuridica 
italiana: 
esposizione 
ordinata 
e 
completa 
dello 
stato 
e 
degli 
ultimi 
progressi 
della 
scienza, della 
legislazione 
e 
della 
giurisprudenza 
del 
diritto civile, commerciale, penale, 
pubblico, giudiziario, costituzionale, amministrativo, internazionale, ecclesiastico, economico, con riscontri 
di 
storia 
del 
diritto, di 
diritto romano e 
di 
legislazione 
comparata 
per opera 
di 
una 
società 
di 
giureconsulti 
italiani, e 
sotto la 
direzione 
di 
PASQUALe 
StANISLAo 
MANCINI, vice 
direttore 
eRRICo 
PeSSINA. 
(11) 
enciclopedia 
metodica 
e 
alfabetica 
di 
legislazione 
dottrina 
e 
giurisprudenza 
compilata 
da 
distinti 
giureconsulti italiani sotto la direzione di LUIGI 
LUCCHINI. 
(12) Andrea 
d’Isernia 
(1230 ca. 
-1316), giurista 
Meridionale, acquistò gran fama, oltrecché 
con 
la 
sua 
lectura 
sulle 
Costituzioni 
federiciane, 
che 
integrava 
la 
glossa 
ordinaria 
di 
Marino 
da 
Caramanico, 
con un vasto commentario Super 
usibus 
feudorum, che 
dettò legge 
in materia 
e 
gli 
procurò il 
titolo di 
“Monarcha feudistarum”. Giurista 
di 
alta 
levatura, fu dominato sempre 
da 
un profondo senso della 
giustizia, 
che 
fece 
valere 
anche 
di 
fronte 
ai 
potenti, e 
ne 
fu vittima: 
secondo una 
tradizione 
che 
nessuno 
mai 
ha 
oppugnato, 
egli 
sarebbe 
stato 
proditoriamente 
ucciso 
per 
mano 
di 
un 
feudatario 
tedesco 
che 
aveva 
privato con una sua sentenza di una baronia illecitamente posseduta. 
(13) Cardinal 
Giovanni 
Battista 
De 
Luca 
(1614-1683). Grande 
avvocato. operò presso il 
Sacro 
regio consiglio e 
la 
Regia 
Camera 
della 
Sommaria 
(nel 
Regno di 
Napoli) ed altresì 
presso la 
Sacra 
Rota 
Romana. Dal 1658 fu avvocato a Roma del Re di Spagna. 
Autore 
del 
Theatrum 
veritatis 
et 
iustitiae, opera 
in 15 libri 
con la 
raccolta 
delle 
allegazioni 
e 
dei 
pareri 



mano 
nelle 
compilazioni 
dell’imperatore 
Giustiniano, 
raccolte 
di 
giurisprudenza 
dei 
tribunali 
dell’epoca 
(es. De 
Afflictis, Decisiones 
del 
Sacro Regio 
Consiglio napoletano), varie 
edizioni 
del 
Digesto (es. del 
vignali). tra 
i 
pochissimi 
testi 
in volgare 
abbiamo “Il 
dottor 
volgare, ovvero il 
compendio di 
tutta la legge 
civile, canonica, feudale 
e 
municipale” 
del 
citato Cardinal 
De 
Luca. 


I testi 
dell’800 sono 4.000 ca. con significativa 
presenza 
di 
testi 
in lingua 
francese 
(esegesi 
e 
commentari 
al 
Code 
Napoleon, testi 
di 
diritto amministrativo, 
ecc.). 

Il grosso dei testi è del ‘900. 

La 
parte 
marginale 
non giuridica 
ha 
ad oggetto testi 
di 
storia, sociologia, 
economia, dizionari, emeroteche. 


In chiusura 
si 
evidenzia 
che 
la 
Biblioteca 
dell’Avvocatura 
è 
una 
delle 
più 
importanti biblioteche giuridiche della città di Napoli. 


7. 
Patrimonio 
librario 
(segue) 
Testi 
di 
precipuo 
interesse 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
(relazioni 
periodiche 
dell’Avvocato 
Generale; 
Rassegna 
dell’Avvocatura 
dello Stato; Allegazioni dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli). 


va 
segnalata, infine, la 
presenza 
di 
testi 
di 
precipuo interesse 
dell’Avvocatura 
dello Stato. trattasi: 


a) 
delle 
Relazioni 
periodiche 
dell’Avvocato Generale 
erariale, poi 
dello 
Stato, sullo stato del 
contenzioso, con cadenza 
annuale 
e 
poi 
pluriennale. In 
specie: 
relazioni 
per l’anno 1878, 1879, 1880, 1881, 1882, 1883, per gli 
anni 
1884-1885, 1888-1899, 1899-1900, 1900-1901, 1901-1904, per l’anno 1907, 
1908, 
1909, 
1910, 
per 
gli 
anni 
1912-1925, 
1926-1929, 
1930-1941, 
1942-1950, 
1951-1955, 
1956-1960, 
1961-1965, 
1966-1970, 
1971-1975, 
1976-1980. 
Questi 
testi 
-ricognitivi 
dello stato del 
contenzioso delle 
amministrazioni 
statali 
erano 
molto 
apprezzati 
dai 
pratici 
e 
dagli 
studiosi 
della 
contabilità 
di 
Stato. 
Basti 
evidenziare 
che 
in 
un 
diffuso 
Manuale 
di 
contabilità 
di 
Stato 
(di 
Antonio 
Bennati), le 
relazioni 
quinquennali 
dell’Avvocatura 
erano la 
fonte 
principale 
di cognizione. 


La 
relazione 
per l’anno 1878 è 
redatta 
dal 
primo Avvocato Generale 
erariale, 
Giuseppe 
Mantellini 
(1816-1885). essa 
descrive 
il 
consultivo e 
il 
con-

forensi 
in materia 
di 
diritto civile, canonico, feudale 
e 
municipale. L’opera 
divenne 
una 
delle 
principali 
autorità del tardo 
ius commune 
e fu ristampata regolarmente fino alla metà del XvIII secolo. 
L’opera 
più 
importante 
di 
De 
Luca 
è 
il 
“Dottor 
volgare”, 
un 
compendio 
di 
tutta 
la 
legge 
civile, 
canonica, 
feudale 
e 
municipale 
in 
lingua 
italiana. 
L’opera, 
caratterizzata 
da 
maggior 
respiro 
teorico 
e 
maggiormente 
svincolata 
dalle 
esigenze 
della 
pratica 
legale 
rispetto al 
Theatrum, era 
indirizzata 
ai 
giuristi 
di 
medio livello, 
ai 
pubblici 
funzionari 
e 
ai 
tecnici 
dell’amministrazione. Il 
Dottor volgare 
è 
la 
prima 
trattazione 
sistematica 
del 
diritto 
in 
volgare 
e 
la 
base 
del 
lessico 
giuridico 
italiano. 
Molti 
termini 
giuridici 
usati 
ancor oggi 
sono attestati 
per la 
prima 
volta 
nell’opera 
di 
De 
Luca. L’uso del 
volgare 
al 
posto del 
tradizionale 
latino in una trattazione giuridica di alto livello fu molto innovativo per l’europa dell’epoca. 


tenzioso curato dalle 
otto Avvocature, una 
generale 
(quella 
di 
Roma) e 
sette 
erariali 
(quelle 
di 
Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, torino e 
vene-
zia). 
Nel 
descrivere 
il 
contenzioso 
dell’avvocatura 
erariale 
di 
Napoli 
si 
enuncia 


(p. 40): 
“I tratturi 
del 
Tavoliere, e 
le 
bonifiche, con le 
prestazioni 
feudali, e 
gli 
usi 
civici 
forniscono 
materia 
speciale 
al 
napoletano, 
e 
che 
vuol 
essere 
trattata 
da che 
ne 
abbia lunga pratica, e 
amore 
paziente”. Apag. 58 vi 
è 
il 
prospetto 
delle 
cause 
trattate; 
il 
maggior numero di 
cause 
iniziate 
nel 
1878 si 
è 
avuto 
a 
Napoli 
(con 
2475 
cause), 
seguita 
da 
Palermo 
(2469 
cause), 
Roma 
(1128 cause), Genova 
(726 cause), Milano (528 cause), Firenze 
(438 cause), 
torino (355 cause) e 
venezia 
(265 cause). A 
pp. 175 e 
ss. è 
riportato il 
Ruolo 
del 
personale 
delle 
Regie 
Avvocatura 
erariali. Il 
personale 
togato è 
composto, 
oltre 
all’Avvocato 
Generale 
erariale, 
da 
103 
unità 
e, 
in 
specie: 
7 
Regi 
Avvocati 
erariali, 
8 
Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali 
di 
I 
classe, 
9 
Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali 
di 
II classe, 11 Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali 
di 
III classe, 16 Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali 
di 
Iv 
classe, 13 Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali 
di 
v 
classe, 1 Regio Procuratore 
erariale 
di 
I classe, 4 Regi 
Procuratori 
erariali 
di 
II 
classe, 
2 
Regi 
Sostituti 
Procuratori 
erariali 
di 
I 
classe, 
8 
Regi 
Sostituti 
Procuratori 
erariali 
di 
II 
classe, 
4 
Regi 
Sostituti 
Procuratori 
erariali 
di 
III 
classe, 
20 Regi Sostituti Procuratori erariali di Iv classe; 


b) 
della 
Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, fin dal 
suo sorgere 
(1948) 
ad 
oggi. 
La 
Rassegna 
è 
uno 
strumento 
di 
ausilio 
dell’avvocato 
erariale 
in 
quanto riporta 
dati 
e 
notizie 
di 
interesse 
per lo svolgimento delle 
funzioni: 
comunicazioni 
(ad es. con riguardo ad un nuovo ente 
patrocinato ex 
art. 43 R.D. 
30 ottobre 
1933, n. 1611), circolari 
(ad es. per orientare 
gli 
operatori 
in occasione 
di 
una 
riforma 
del 
processo civile), pareri 
del 
Comitato Consultivo ex 
art. 
26 
L. 
3 
aprile 
1979, 
n. 
103, 
sentenze 
afferenti 
il 
contenzioso 
nazionale, 
comunitario ed internazionale, articoli di dottrina, recensioni; 
c) 
le 
Allegazioni 
dell’Avvocatura 
distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
con 
riguardo al 
periodo dal 
1880 al 
1890 (circa 
dieci 
volumi 
per ogni 
anno) ed al 
periodo dal 1949 al 1961 (circa un volume per ogni anno). 


Le 
allegazioni 
costituiscono 
una 
raccolta 
di 
atti 
processuali 
redatti 
dai 
difensori 
erariali. esse 
rivestono un notevolissimo interesse, costituendo prova 
della 
tipologia 
del 
contenzioso 
dell’epoca. 
Ad 
esempio 
il 
volume 
vII 
delle 
Allegazioni 
1880, della 
Regia 
Avvocatura 
erariale 
di 
Napoli 
ha 
ad oggetto: 
Diritto 
feudale, 
ordini 
cavallereschi, 
Demani, 
Usi 
civici, 
Sila 
e 
tavoliere, 
Servizi 
pubblici. 

Le 
Allegazioni 
ci 
ricordano 
gli 
organi 
giudiziari 
dell’epoca. 
Numerose 
cause 
relative 
al 
periodo 
dal 
1880 
al 
1890 
sono 
svolte 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
civile 
di 
Napoli, testimonianza 
della 
circostanza 
che 
fino al 
1923 


-anno in cui 
venne 
unificata 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
civile 
a 
Roma 
-vi 
erano 
le 
Corti 
di 
Cassazione 
regionali 
ubicate 
presso le 
ex capitali 
degli 
Stati 
preunitari 
(torino, Firenze, Roma, Napoli 
e 
Palermo). Giuseppe 
Mantellini, nella 



citata 
relazione 
(p. 10) evidenziava 
che 
“cinque 
Corti 
regolatrici, quante 
se 
ne 
hanno 
in 
Italia, 
sono 
un 
anacronismo 
che 
ha 
durato 
troppo, 
col 
non 
potersi 
a meno d’averne, come 
se 
ne 
hanno, tali 
effetti 
che 
non tornano a onore 
della 
istituzione e non edificano la giustizia”. 


Le 
Allegazioni 
riportano altresì 
nomi 
e 
qualità 
dei 
difensori 
erariali. Sfogliando 
il 
citato volume 
vII delle 
allegazioni 
del 
1880 troviamo, ad esempio, 
i 
nomi 
di 
Federico Criscuolo ed Antonio Cafaro, Regi 
Sostituti 
Avvocati 
erariali, 
e di enrico Loasses, Regio Avvocato erariale. 


Le 
Allegazioni 
costituiscono, per l’Avvocato dello Stato, una 
sorta 
di 
testimonianza 
del come eravamo. 


8. Conclusioni. 


L’ufficio 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
costituisce 
senz’altro 
un’ipotesi 
di 
museo 
diffuso. 
esso, 
infatti, 
pone 
al 
centro 
la 
relazione 
tra 
gli 
oggetti, 
i 
contesti 
e 
il 
territorio, 
che 
è 
allo 
stesso 
tempo 
contenuto 
e 
contenitore. 


In uno alla 
stretta 
connessione 
tra 
le 
caratteristiche 
dell’immobile, la 
sua 
destinazione, la 
pinacoteca, il 
patrimonio librario e 
il 
patrimonio archivistico, 
vi 
è 
l’apertura 
al 
pubblico 
degli 
uffici 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli, ogni 
venerdì 
in orari 
determinati 
(15,30-17,30), per consentirne 
la 
fruizione 
agli 
studiosi 
nonché 
ad un vasto pubblico. Ciò avviene 
a 
mezzo di 
visite 
guidate 
da 
esperti 
in storia 
dell’arte, con sorveglianza 
ad opera 
del 
personale 
dell’Avvocatura. 



Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CIrColAre 
n. 2/2025 


oggetto: 
obbligo del 
versamento del 
contributo unificato all’atto del-
l’iscrizione a ruolo delle cause civili a decorrere dal 1° gennaio 2025. 


Con 
la 
legge 
30 
dicembre 
2024 
n. 
207 
(legge 
di 
bilancio 
2025) 
sono 
state 
introdotte 
talune 
importanti 
modifiche 
in 
materia 
di 
versamento 
del 
contributo 
unificato nei 
processi 
civili, destinate 
ad avere 
una 
diretta 
incidenza, a 
decorrere 
dal 1° gennaio 2025, sull’iscrizione a ruolo delle cause. 


In particolare, l’art. 1, comma 
812, lett. a), n. 2), ha 
aggiunto all’art. 14 
del 
d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (tUSDG), dopo il 
terzo comma, il 
comma 
3.1, con il quale si prevede che: 


“Fermi 
i 
casi 
di 
esenzione 
previsti 
dalla legge, nei 
procedimenti 
civili 
la 
causa non può essere 
iscritta a ruolo se 
non è 
versato l’importo determinato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
13, 
comma 
1, 
lettera 
a), 
o 
il 
minor 
contributo 
dovuto 
per 
legge”. 


Considerato che 
l’importo del 
contributo unificato previsto dall’art. 13, 
comma 
1, lett. a) è 
pari 
a 
43 euro, la 
causa 
non potrà 
quindi 
essere 
iscritta 
a 
ruolo: 


a) 
ove 
non 
venga 
versato 
integralmente 
l’importo 
dovuto 
a 
titolo 
di 
contributo 
unificato 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
suo 
ammontare 
sia 
pari 
o 
inferiore 
a 
43 
euro; 
b) 
ove 
non 
sia 
versato 
almeno 
l’importo 
di 
euro 
43 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
l’ammontare del contributo unificato sia superiore a 43 euro. 


In ragione 
di 
quanto sopra, al 
fine 
di 
evitare 
ogni 
pregiudizio, sarà 
necessario, 
quindi, per tutte 
le 
cause 
civili 
introdotte 
in qualsiasi 
grado del 
giudizio 
a 
far data 
dal 
1° 
gennaio 2025, il 
preventivo versamento del 
contributo unificato, 
la 
cui 
ricevuta 
verrà 
depositata 
all’atto dell’iscrizione 
a 
ruolo in tutte 
le 
ipotesi 
in cui 
le 
Amministrazioni 
patrocinate 
non usufruiscano della 
prenotazione 
a 
debito del 
contributo unificato ai 
sensi 
di 
quanto previsto dagli 
artt. 3, 
comma 1, lett. q) e 11 del 
tUSDG. 


Si 
ritiene 
opportuno 
allegare 
la 
nota 
informativa 
30 
dicembre 
2024 
n. 
265462 del Ministero della Giustizia. 


L’AvvoCAto GeNeRALe 
Gabriella 
PALMIeRI SANDULLI 


(omissis) 



Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CIrColAre 
n. 3/2025 


oggetto: 
Modifiche 
al 
processo civile 
introdotte 
dal 
D.lgs. 31 ottobre 
2024, n. 164. le novità di rilievo per l’attività dell’Avvocatura dello Stato. 


INDICe 


1. Premessa 
2. Le modifiche al processo di cognizione di primo grado 
3. Il procedimento davanti al giudice di pace 
4. Le modifiche ai giudizi di impugnazione 
5. Le modifiche al rito del lavoro 
6. Le modifiche al rito unico in materia di persone, minorenni e famiglia (brevi cenni) 
7. Le modifiche alla disciplina del processo esecutivo e delle relative opposizioni 
8. Le modifiche alla disciplina dei procedimenti speciali del libro Iv del codice di rito 
9. Disposizioni in materia di giustizia digitale e di processo civile telematico 


9.1. La 
trattazione 
scritta 
in sostituzione 
dell’udienza 
e 
la 
comunicazione 
dei 
provvedimenti 
del Giudice 


9.2. Le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata 


9.3. Ulteriori disposizioni sul processo civile telematico 


10. Le principali modifiche agli “scadenzieri” presenti su NSI 


*** 


1. premessa 


Sulla 
G.U. 
n. 
264 
dell’11 
novembre 
2024 
è 
stato 
pubblicato 
il 
testo 
del 
D.Lgs. 
31 
ottobre 
2024, 
n. 
164, 
recante 
“Disposizioni 
integrative 
e 
correttive 
al 
decreto 
legislativo 
10 
ottobre 
2022, 
n. 
149, 
recante 
attuazione 
della 
legge 
26 
novembre 
2021, 
n. 
206, 
recante 
delega 
al 
Governo 
per 
l’efficienza 
del 
processo 
civile 
e 
per 
la 
revisione 
della 
disciplina 
degli 
strumenti 
di 
risoluzione 
alternativa 
delle 
controversie 
e 
misure 
urgenti 
di 
razionalizzazione 
dei 
procedimenti 
in 
materia 
di 
diritti 
delle 
persone 
e 
delle 
famiglie 
nonché 
in 
materia 
di 
esecuzione 
forzata”. 


Le 
disposizioni 
contenute 
nel 
decreto introducono modifiche 
al 
processo 
civile 
e 
trovano applicazione, ove 
non diversamente 
previsto, ai 
procedimenti 
introdotti 
successivamente 
al 
28 
febbraio 
2023 
(art. 
7, 
comma 
1, 
D.Lgs. 
n. 
164 del 2024). 


Si 
fornisce 
di 
seguito 
un 
quadro 
sintetico 
delle 
principali 
novità 
destinate 
ad incidere 
sull’attività 
dell’Avvocatura 
dello Stato, richiamando il 
contenuto 
delle precedenti circolari in tema n. 74/2022 e 14/2023. 


*** 


2. le modifiche al processo di cognizione di primo grado 


All’art. 
163 
c.p.c., 
tra 
le 
indicazioni 
che 
deve 
contenere 
l’atto 
di 
citazione, 
viene 
inserita 
quella 
relativa 
all’indirizzo PeC risultante 
da 
pubblici 
elenchi 
del 
convenuto, in quanto questo ormai 
equivale 
all’indicazione 
della 
sua 
residenza, 
domicilio o dimora. 



Il 
decreto interviene 
sull’art. 165 c.p.c., relativo alla 
costituzione 
dell’attore, 
eliminando 
la 
necessità 
di 
redigere 
e 
depositare 
la 
nota 
di 
iscrizione 
a 
ruolo, “in quanto atto non più necessario con l’avvento del 
processo telematico, 
nell’ambito 
del 
quale 
può 
essere 
sostituito 
dall’indicazione 
degli 
elementi 
identificativi 
del 
procedimento (quali 
le 
parti, l’oggetto, il 
valore) tramite 
la 
compilazione 
automatizzata 
di 
file.xml 
o 
di 
appositi 
campi, 
secondo 
quello 
che 
le 
regole 
tecniche 
e 
l’evoluzione 
tecnologica suggeriranno” 
(così 
la 
Relazione 
illustrativa). 


viene, 
poi, 
modificato 
l’art. 
168 
c.p.c., 
relativo 
all’iscrizione 
della 
causa 
a 
ruolo 
e 
al 
fascicolo 
d’ufficio. 
Il 
primo 
comma 
viene 
adeguato 
all’abolizione 
della 
nota 
di 
iscrizione 
a 
ruolo. 
Il 
secondo 
comma 
viene 
integralmente 
sostituito 
per 
renderlo 
coerente 
con 
il 
processo 
telematico: 
vengono 
espunti 
i 
richiami 
ai 
fascicoli 
e 
agli 
atti 
cartacei 
e 
viene 
disciplinato 
il 
contenuto 
del 
fascicolo 
informatico, 
nel 
senso 
che 
esso 
deve 
contenere 
l’atto 
di 
citazione, 
le 
ricevute 
di 
pagamento 
del 
contributo 
unificato, 
le 
comparse, 
le 
memorie, 
i 
verbali 
d’udienza, 
i 
provvedimenti 
del 
giudice, 
gli 
atti 
di 
istruzione 
e 
le 
sentenze 
pronunciate. 


vengono 
adeguate 
alla 
completa 
informatizzazione 
del 
processo 
anche 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 169 c.p.c. in tema 
di 
ritiro dei 
fascicoli 
di 
parte, nel 
senso che 
tale 
facoltà 
è 
relativa 
ai 
soli 
fascicoli 
cartacei 
che 
siano stati 
eventualmente 
depositati, nelle 
limitate 
ipotesi 
in cui 
ciò è 
ancora 
possibile 
(e, segnatamente, 
su 
ordine 
del 
giudice 
a 
fronte 
di 
particolari 
esigenze, 
ex 
art. 
196-quater 
disp. att. c.p.c.). 


Di 
particolare 
rilievo 
appaiono 
le 
modifiche 
apportate 
all’art. 
171-bis 
c.p.c., che viene integralmente riscritto. 


Il 
primo comma 
chiarisce 
che 
il 
compimento, da 
parte 
del 
giudice, delle 
verifiche 
preliminari 
circa 
la 
regolarità 
del 
contraddittorio 
deve 
avvenire, 
d’ufficio, 
entro i 
quindici 
giorni 
successivi 
alla 
scadenza 
del 
termine 
per la 
costituzione 
del convenuto. 


Il 
secondo comma 
prevede 
che 
quando, all’esito delle 
verifiche 
preliminari, 
il 
giudice 
rileva 
vizi 
degli 
atti 
introduttivi 
o della 
notifica 
dell’atto di 
citazione, 
oppure 
la 
necessità 
(o 
l’opportunità) 
di 
integrare 
il 
contraddittorio 
nei 
confronti 
di 
terzi, 
pronuncia 
uno 
dei 
provvedimenti 
specificamente 
previsti 
dalla 
norma 
e 
differisce 
l’udienza 
di 
prima 
comparizione 
al 
fine 
di 
concedere 
alle 
parti 
i 
termini 
necessari 
per 
provvedere 
agli 
adempimenti 
disposti 
(1). 
Ri


(1) In particolare, i 
provvedimenti 
sono quelli 
previsti 
dagli 
artt. 102, secondo comma 
(ordine 
di 
integrazione 
del 
contraddittorio 
nel 
caso 
di 
litisconsorte 
necessario 
pretermesso), 
107 
(chiamata 
del 
terzo per ordine 
del 
giudice), 164, secondo, terzo e 
quinto comma 
(nullità 
dell’atto di 
citazione), 167, 
secondo e 
terzo comma 
(nullità 
della 
comparsa 
di 
risposta), 182 (difetti 
di 
rappresentanza, assistenza, 
autorizzazione), 269, secondo comma 
(chiamata 
in causa 
del 
terzo da 
parte 
del 
convenuto), 271 (chiamata 
in causa 
del 
terzo ad opera 
del 
terzo), 291, primo comma 
(rinnovazione 
della 
notifica 
dell’atto introduttivo) 
e 
292, 
primo 
comma 
(notifiche 
al 
contumace). 
va 
aggiunto, 
altresì, 
il 
riferimento 
alla 
dichiarazione di contumacia di cui all’art. 171 c.p.c. 



spetto al 
“catalogo” 
previsto dall’originario art. 171-bis 
c.p.c., viene 
inserito 
il 
riferimento al 
novellato art. 271 c.p.c., allo scopo di 
chiarire 
che 
anche 
la 
chiamata 
di 
un ulteriore 
terzo da 
parte 
del 
terzo chiamato deve 
essere 
autorizzata 
dal 
giudice 
con le 
medesime 
modalità, anziché 
alla 
successiva 
udienza 
di 
prima 
comparizione. 
viene, 
inoltre, 
specificato 
che, 
a 
seguito 
dell’adozione 
di 
tali 
provvedimenti, il 
giudice 
dovrà 
procedere 
di 
nuovo alle 
verifiche 
preliminari, 
al 
fine 
di 
controllare 
se 
gli 
adempimenti 
sono 
stati 
eseguiti. 
Per 
queste 
ulteriori 
verifiche 
preliminari 
è 
previsto 
il 
termine 
di 
55 
giorni 
prima 
della 
nuova udienza di comparizione fissata con il decreto. 


Il 
terzo comma 
prevede 
che 
quando, all’esito delle 
verifiche 
preliminari 
(che 
siano quelle 
compiute 
per la 
prima 
volta 
o quelle 
reiterate 
a 
seguito del-
l’adozione 
dei 
provvedimenti 
previsti 
dal 
secondo comma), il 
giudice 
rileva 
che 
il 
contraddittorio 
è 
stato 
regolarmente 
instaurato 
e 
non 
è 
quindi 
necessario 
adottare 
alcuno 
dei 
provvedimenti 
di 
cui 
sopra, 
confermerà 
la 
data 
dell’udienza 
indicata 
in atto di 
citazione 
o la 
differirà 
per un massimo di 
45 giorni 
e 
darà 
avvio alla 
fase 
di 
trattazione 
preliminare 
del 
processo, indicando alle 
parti 
costituite 
le 
questioni 
rilevabili 
d’ufficio 
su 
cui 
ritiene 
di 
dover 
sollecitare 
il 
contraddittorio, 
ivi 
comprese 
quelle 
relative 
alla 
sussistenza 
della 
eventuale 
condizione 
di 
procedibilità; 
questioni 
che 
le 
parti 
affronteranno 
nelle 
memorie 
di cui all’art. 171-ter 
c.p.c. 


Al 
quarto comma, infine, si 
prevede 
l’anticipazione 
del 
momento in cui 
il 
giudice 
può disporre 
la 
conversione 
del 
rito ordinario in rito semplificato, 
qualora 
ne 
ricorrano i 
presupposti. Nell’originario impianto del 
D.Lgs. n. 149 
del 
2022, infatti, tale 
momento era 
collocato nella 
prima 
udienza 
di 
comparizione 
e 
si 
prevedeva 
che 
in 
quella 
sede 
il 
giudice, 
valutata 
la 
complessità 
della 
lite 
e 
sentite 
le 
parti, potesse 
disporre 
il 
mutamento del 
rito con ordinanza 
non 
impugnabile 
e 
quindi 
non 
revocabile 
(art. 
183-bis, 
ora 
abrogato). 
Il 
decreto 
correttivo ha 
anticipato il 
mutamento del 
rito alla 
fase 
delle 
verifiche 
preliminari, 
in modo da 
far sì 
che 
quando la 
causa 
appare 
di 
pronta 
soluzione 
il 
giudice 
possa 
senz’altro 
disporre 
il 
passaggio 
al 
rito 
semplificato, 
senza 
dover 
attendere 
il 
deposito delle 
memorie 
di 
cui 
all’art. 171-ter 
c.p.c. Nel 
disporre 
il 
mutamento 
del 
rito 
il 
giudice 
fissa, 
altresì, 
«il 
termine 
perentorio 
entro 
il 
quale 
le 
parti 
possono integrare 
gli 
atti 
introduttivi 
mediante 
deposito di 
memorie 
e 
documenti». 


Si 
prevede, 
infine, 
che 
tutti 
i 
provvedimenti 
di 
cui 
si 
è 
detto 
siano 
dati 
con decreto comunicato alle 
parti 
a 
cura 
della 
cancelleria 
e 
che 
i 
termini 
per 
le 
memorie 
integrative 
previste 
dall’art. 
171-ter 
inizino 
a 
decorrere 
solo 
quando 
è 
pronunciato 
il 
decreto 
previsto 
dal 
terzo 
comma. 
La 
modifica 
elimina 
ogni 
dubbio circa 
il 
fatto che 
in sede 
di 
verifiche 
preliminari 
il 
giudice 
deve, 
in 
ogni 
caso, 
emettere 
un 
provvedimento 
di 
conferma 
o 
differimento 
del-
l’udienza, anche 
se 
non adotta 
uno dei 
provvedimenti 
relativi 
alla 
corretta 
instaurazione 
del 
contraddittorio 
in 
precedenza 
descritti. 
Ciò 
in 
quanto, 
una 
volta 



scaduto il 
termine 
di 
15 giorni, le 
parti 
dovrebbero poter avere 
contezza 
del 
fatto che 
le 
verifiche 
preliminari 
sono state 
effettivamente 
svolte 
e 
che 
quindi 
il 
processo può procedere 
nelle 
sue 
fasi 
successive 
(il 
deposito delle 
memorie 
integrative e l’udienza di comparizione delle parti) (2). 


Il 
decreto 
correttivo 
modifica 
il 
quarto 
comma 
dell’art. 
183-ter 
c.p.c., 
che 
disciplina 
l’ordinanza 
di 
accoglimento della 
domanda 
che 
appare 
manifestamente 
fondata, aggiungendo la 
previsione 
secondo cui 
il 
provvedimento, che 
è 
provvisoriamente 
esecutivo, 
costituisce 
anche 
titolo 
per 
l’iscrizione 
dell’ipoteca 
giudiziale. 


viene 
poi 
modificato 
l’art. 
281-decies 
c.p.c., 
sostituendo 
il 
secondo 
comma 
e 
introducendo un terzo comma, al 
fine 
di 
chiarire 
alcuni 
dubbi 
circa 
l’ambito 
di 
applicazione 
del 
rito 
semplificato. 
Posto 
che 
il 
primo 
comma 
della 
disposizione 
prevede 
che 
tale 
rito 
si 
applica 
obbligatoriamente 
nella 
ricorrenza 
dei 
presupposti 
da 
esso indicati 
-sia 
che 
la 
cognizione 
spetti 
al 
tribunale 
in 
composizione 
collegiale 
sia 
nel 
caso in cui 
sia 
competente 
il 
giudice 
singolo 
-la 
modifica 
apportata 
al 
secondo 
comma 
è 
volta 
a 
chiarire 
che 
la 
causa 
quando è 
di 
competenza 
del 
tribunale 
in composizione 
monocratica 
può sempre 
essere 
introdotta 
nelle 
forme 
del 
rito 
semplificato, 
anche 
se 
non 
è 
di 
pronta 
soluzione 
ai 
sensi 
del 
primo comma. Il 
nuovo terzo comma, infine, chiarisce 
che 
il 
rito in questione 
si 
può applicare 
-quando ricorrano i 
presupposti 
di 
cui 
al 
primo 
o 
al 
secondo 
comma 
-anche 
alle 
cause 
di 
opposizione 
a 
precetto, 
agli 
atti 
esecutivi 
e 
a 
decreto 
ingiuntivo 
previste 
dagli 
artt. 
615, 
primo 
comma, 
617, 
primo comma, e 645 c.p.c. 


Sempre 
nell’ambito 
del 
rito 
semplificato, 
sono 
modificati 
il 
terzo 
e 
il 
quarto 
comma 
dell’art. 
281-duodecies 
c.p.c., 
che 
disciplina 
il 
procedimento 
dopo la 
costituzione 
del 
contraddittorio e 
la 
fissazione 
dell’udienza. In particolare, 
la 
novella 
prevede 
che 
all’udienza 
le 
parti 
possono proporre, oltre 
alle 
eccezioni, anche 
«le 
domande» che 
sono conseguenza 
della 
domanda 
riconvenzionale 
e 
delle 
eccezioni 
proposte 
dalle 
altre 
parti. Al 
quarto comma, poi, 
si 
prevede 
che 
il 
termine 
per la 
precisazione 
o modificazione 
delle 
domande 
ed 
eccezioni 
e 
per 
dedurre 
nuovi 
mezzi 
istruttori 
debba 
essere 
concesso 
dal 
giudice, su richiesta 
di 
parte, quando l’esigenza 
sorge 
dalle 
difese 
della 
controparte. 


(2) 
Le 
distorsioni 
che 
si 
sarebbero 
potute 
verificare 
sotto 
il 
previgente 
regime 
sono 
ben 
evidenziate 
nella 
relazione 
illustrativa: 
“In 
mancanza 
di 
un 
provvedimento 
espresso, 
infatti, 
le 
parti 
resterebbero 
sempre 
esposte 
al 
dubbio circa l’esito delle 
verifiche, non potendo sapere 
se 
queste 
sono state 
svolte 
con esito positivo o, al 
contrario, non sono state 
ancora effettuate 
dal 
giudice, e 
non sarebbero quindi 
messe 
in condizione 
di 
sapere 
se 
nel 
frattempo decorrono i 
termini 
per 
il 
deposito delle 
memorie 
di 
cui 
all’art. 171-ter. Esse 
sarebbero quindi 
verosimilmente 
indotte 
a depositare 
comunque 
le 
note, per 
non 
rischiare 
di 
incorrere 
in decadenze, con la conseguenza che 
una successiva -per 
quanto tardiva -pronuncia 
del 
decreto renderebbe 
inutile 
l’attività svolta e 
potrebbe 
vanificare 
eventuali 
strategie 
processuali 
articolate 
dalle 
difese: 
eventi, 
questi, 
che 
determinerebbero 
un 
inutile 
appesantimento 
del 
processo 
e maggiori oneri per le parti e i loro avvocati”. 



viene, infine, snellita 
la 
fase 
decisionale 
nei 
procedimenti 
con rito semplificato 
di 
competenza 
del 
tribunale 
in 
composizione 
collegiale: 
fermo 
restando 
il 
modulo 
decisorio 
a 
seguito 
di 
discussione 
orale, 
si 
prevede 
che 
questa 
avvenga 
davanti 
al 
solo istruttore, il 
quale 
poi 
riferirà 
al 
collegio in camera 
di 
consiglio, 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
debba 
essere 
necessariamente 
fissata 
una 
udienza 
collegiale. A 
garanzia 
delle 
parti, si 
prevede 
comunque 
che, qualora 
anche 
solo una 
di 
esse 
lo richieda, l’istruttore 
fisserà 
l’udienza 
di 
discussione 
davanti 
al 
collegio, 
secondo 
il 
procedimento 
disciplinato 
dall’art. 
275-bis 
c.p.c. 


3. il procedimento davanti al giudice di pace 


In relazione 
al 
procedimento davanti 
al 
giudice 
di 
pace, deve 
essere 
segnalata, 
oltre 
alla 
modifica 
dell’art. 318 c.p.c., che 
ha 
ampliato il 
contenuto 
del 
decreto con cui 
il 
giudice 
di 
pace 
fissa 
la 
prima 
udienza 
(prevedendo che 
questo debba 
contenere 
gli 
avvisi 
inerenti 
alle 
decadenze 
derivanti 
dalla 
violazione 
del 
termine 
per la 
costituzione 
in giudizio, alla 
necessità 
della 
difesa 
tecnica 
e 
alla 
possibilità 
di 
avvalersi 
del 
patrocinio a 
spese 
dello Stato), soprattutto 
la 
nuova 
formulazione 
dell’art. 319 c.p.c., il 
quale 
chiarisce 
che 
la 
causa 
si 
iscrive 
a 
ruolo depositando il 
ricorso o il 
verbale 
contenente 
la 
domanda 
orale, atti 
che 
dovranno poi 
essere 
notificati 
al 
convenuto unitamente 
al decreto di fissazione dell’udienza. 


Al 
secondo comma 
dell’art. 319 c.p.c., inoltre, vengono apportate 
le 
modifiche 
rese 
necessarie 
dal 
passaggio al 
processo telematico e 
al 
sistema 
delle 
comunicazioni 
e 
notificazioni 
elettroniche. Si 
prevede, perciò, analogamente 
all’intervento effettuato sull’art. 165 c.p.c. per il 
giudizio davanti 
al 
tribunale, 
che 
la 
parte 
che 
sta 
in giudizio personalmente 
possa 
indicare 
-anziché 
il 
proprio 
recapito 
“fisico” 
-il 
proprio 
indirizzo 
di 
PeC 
o 
il 
domicilio 
digitale 
eletto. 


Il 
novellato art. 321 c.p.c. prevede 
che 
il 
giudice 
di 
pace 
procede 
ai 
sensi 
dell’art. 281-sexies 
c.p.c., ma 
qualora 
decida 
di 
riservarsi 
di 
depositare 
la 
sentenza 
in un secondo momento dovrà 
farlo entro quindici 
giorni 
dalla 
discussione, 
anziché trenta come previsto per il giudizio davanti al tribunale. 


4. le modifiche ai giudizi di impugnazione 


Con 
riferimento 
al 
giudizio 
di 
appello, 
viene 
riscritto 
il 
primo 
comma 
del-
l’art. 
342 
c.p.c., 
che 
disciplina 
la 
forma 
dell’atto 
di 
appello, 
con 
modifiche 
che 
non 
innovano 
il 
contenuto 
della 
disposizione 
ma 
sono 
volte 
a 
chiarire 
che 
i 
canoni 
di 
chiarezza, 
sintesi 
e 
specificità 
non 
costituiscono 
di 
per 
sé 
requisiti 
di 
ammissibilità 
dell’appello 
e 
a 
specificare 
che 
ciascun 
motivo 
di 
appello, 
a 
pena 
di 
inammissibilità, 
deve 
essere 
relativo 
ad 
uno 
specifico 
capo 
della 
sentenza. 


La 
modifica 
del 
primo 
comma 
dell’art. 
343 
c.p.c. 
e 
dell’art. 
347 
c.p.c. 
contribuisce 
a 
chiarire 
che 
l’appellato si 
costituisce 
in giudizio almeno venti 
giorni 
prima 
dell’udienza 
e 
che, 
entro 
il 
medesimo 
termine, 
deve 
proporre 
l’appello incidentale. 



All’art. 350 c.p.c. sono aggiunti 
due 
ulteriori 
commi 
che 
hanno lo scopo 
di 
meglio definire 
l’ampiezza 
dei 
poteri 
dell’istruttore, quando nominato, e 
di 
individuare 
quali 
provvedimenti 
possono 
essere 
adottati 
da 
questo 
e 
quali 
sono 
necessariamente 
rimessi 
al 
collegio. L’intervento precisa 
che 
il 
giudice 
istruttore 
può 
adottare, 
oltre 
ai 
provvedimenti 
in 
cui 
è 
espressamente 
prevista 
la 
sua 
competenza 
(v. ad es. gli 
artt. 348, 350, 350-bis, 351, 352 c.p.c.), quelli 
di 
cui 
agli 
artt. 309 (mancata 
comparizione 
delle 
parti 
ad un’udienza 
successiva 
alla 
prima 
e 
cancellazione 
della 
causa 
dal 
ruolo) 
e 
355 
c.p.c. 
(sospensione 
del 
processo 
per 
la 
proposizione 
di 
querela 
di 
falso). 
viene, 
inoltre, 
previsto 
che 
l’estinzione 
del 
giudizio 
di 
appello 
sia 
dichiarata 
nello 
stesso 
modo 
in 
cui 
viene 
pronunciata 
l’improcedibilità 
ai 
sensi 
dell’art. 348 c.p.c.: 
se 
è 
stato nominato 
l’istruttore 
e 
l’evento si 
è 
verificato davanti 
a 
lui, con ordinanza 
reclamabile 
al collegio; altrimenti, dal collegio con sentenza. 


Il 
decreto interviene 
sul 
terzo comma 
dell’art. 351 c.p.c. al 
fine, anche 
in 
questo caso, di 
chiarire 
meglio i 
rapporti 
tra 
collegio e 
istruttore, questa 
volta 
per l’ipotesi 
in cui 
l’appellante 
chieda 
che 
la 
decisione 
sulla 
sospensione 
del-
l’efficacia 
esecutiva 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado 
sia 
adottata 
prima 
del-
l’udienza 
di 
comparizione. 
In 
particolare, 
il 
comma 
viene 
riscritto 
per 
chiarire 
che 
davanti 
alla 
corte 
d’appello 
l’udienza 
per 
la 
decisione 
sulla 
sospensiva 
sarà 
tenuta 
dall’istruttore, quando il 
presidente 
ha 
deciso di 
nominarlo, o davanti 
al 
collegio quando viceversa 
egli 
ha 
ritenuto, ai 
sensi 
dell’art. 349-bis 
c.p.c., di disporre la trattazione davanti al collegio. 


Con 
riferimento 
al 
giudizio 
di 
cassazione, 
viene 
novellato 
il 
quarto 
comma 
dell’art. 
371 
c.p.c. 
in 
tema 
di 
controricorso 
avverso 
il 
ricorso 
incidentale, 
prevedendosi 
che 
per 
resistere 
al 
ricorso 
incidentale 
può 
essere 
depositato 
un 
controricorso 
entro 
quaranta 
giorni 
dal 
deposito 
del 
ricorso 
incidentale 
stesso 
(e 
non 
già 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
di 
quaranta 
giorni 
per 
il 
deposito 
del 
ricorso 
incidentale), 
sicché 
il 
dies 
a 
quo 
per 
il 
deposito 
del 
controricorso 
avverso 
il 
ricorso 
incidentale 
non 
è 
più 
fisso 
ma 
mobile 
(variando 
a 
seconda 
della 
data 
di 
effettivo 
deposito 
del 
ricorso 
incidentale). 
tale 
previsione 
fa, 
dunque, 
gravare 
sul 
ricorrente 
principale 
l’onere 
di 
consultazione 
periodica 
del 
fascicolo 
telematico, 
onde 
acquisire 
contezza 
della 
data 
di 
effettivo 
deposito 
dell’eventuale 
ricorso 
incidentale, 
essendo 
questo 
-come 
detto 
-il 
momento 
da 
cui 
decorrere 
il 
termine 
di 
quaranta 
giorni 
per 
replicare 
al 
ricorso 
incidentale. 


5. le modifiche al rito del lavoro 


Per 
quanto 
concerne 
il 
rito 
del 
lavoro, 
le 
modifiche 
apportate 
sono 
dettate 
essenzialmente 
dall’intento di 
adeguare 
le 
disposizioni 
codicistiche 
alle 
innovazioni 
digitali, eliminando i 
riferimenti 
a 
incombenze 
non più attuali, quali 
il deposito analogico di copie degli atti o il deposito fisico in cancelleria. 


In 
particolare, 
nell’art. 
414 
c.p.c., 
disciplinante 
il 
contenuto 
del 
ricorso 
introduttivo, vengono eliminati 
i 
riferimenti 
al 
domicilio eletto dal 
ricorrente 



in 
favore 
delle 
comunicazioni 
e 
notificazioni 
tramite 
PeC 
presso 
il 
procuratore 
costituito 
e 
viene 
inserita 
la 
necessaria 
indicazione 
del 
codice 
fiscale 
delle 
parti 
e 
dei 
difensori, finalizzata 
al 
corretto funzionamento del 
sistema 
informatico 
sotteso al processo civile telematico. 


È 
stata, inoltre, introdotta, analogamente 
a 
quanto previsto nel 
novellato 
art. 
163 
c.p.c., 
l’indicazione 
dell’indirizzo 
PeC 
del 
convenuto 
risultante 
da 
pubblici elenchi, ove dovrà necessariamente notificarsi l’atto introduttivo. 


Per 
quanto 
si 
è 
poc’anzi 
detto, 
negli 
artt. 
415, 
420, 
420-bis, 
426, 
434, 
436 
e 
445-bis 
c.p.c. è 
espunto ogni 
riferimento ai 
depositi 
da 
effettuare 
in cancelleria, 
dovendo essere eseguiti telematicamente. 


Nell’art. 
416 
c.p.c., 
relativo 
alla 
costituzione 
del 
convenuto, 
vengono 
eliminati, 
per le 
ragioni 
sopra 
segnalate, il 
riferimento alla 
dichiarazione 
di 
residenza 
o 
elezione 
di 
domicilio 
nel 
comune 
ove 
ha 
sede 
il 
tribunale 
e 
il 
deposito 
della memoria in cancelleria. 


Al 
fine 
di 
agevolare 
gli 
adempimenti 
di 
cancelleria, l’art. 417 c.p.c. prevede 
ora 
che 
la 
parte 
che 
sta 
in giudizio personalmente 
possa 
indicare, oltre 
alla 
propria 
residenza 
o al 
proprio domicilio eletto, il 
proprio indirizzo PeC o 
il 
domicilio digitale 
eletto, affinché 
le 
comunicazioni 
e 
notificazioni 
possano 
essergli recapitate tramite questo. 


viene, 
infine, 
modificato 
l’art. 
434, 
comma 
1, 
c.p.c., 
relativo 
al 
contenuto 
dell’atto 
di 
appello 
nel 
rito 
del 
lavoro, 
sì 
da 
renderlo 
coerente 
con 
le 
suindicate 
modifiche apportate all’art. 342 c.p.c. 


6. le 
modifiche 
al 
rito unico in 
materia di 
persone, minorenni 
e 
famiglia 
(brevi cenni) 


Con riferimento al 
rito unificato in materia 
di 
stato delle 
persone, minori 
e 
famiglie 
introdotto con il 
D.Lgs. n. 149 del 
2022, le 
modifiche 
sono state 
dettate 
dalla 
duplice 
esigenza 
di 
chiarire 
i 
dubbi 
interpretativi 
emersi 
in sede 
di prima applicazione pratica e di prevenire pronunce di mero rito. 


Si 
è 
così 
precisato che 
vi 
sono ricomprese 
anche 
le 
controversie 
in tema 
di 
risarcimento 
del 
danno 
endofamiliare, 
mentre 
vi 
sono 
sottratti 
i 
procedimenti 
di scioglimento della comunione legale tra i coniugi. 


Si 
è, 
inoltre, 
ritenuto 
opportuno 
introdurre, 
nell’art. 
473-bis 
c.p.c., 
un 
meccanismo di 
mutamento del 
rito analogo a 
quello previsto dagli 
artt. 426 e 
427 c.p.c. e 4 D.Lgs. n. 150 del 2011. 


7. le 
modifiche 
alla disciplina del 
processo esecutivo e 
delle 
relative 
opposizioni 


Le 
modifiche 
relative 
alla 
disciplina 
del 
processo 
esecutivo 
si 
inseriscono 
nell’ottica della completa informatizzazione del processo. 


In tal 
senso, nell’art. 475 c.p.c. si 
è 
previsto che 
il 
titolo esecutivo possa 
essere 
rilasciato, 
oltre 
che 
in 
copia 
attestata 
conforme 
all’originale, 
anche 
come 



duplicato informatico e 
nell’art. 479 c.p.c. si 
è 
previsto che, ai 
fini 
della 
notifica 
del 
titolo 
esecutivo, 
la 
consegna 
del 
duplicato 
informatico 
di 
questo 
è 
equivalente alla consegna della copia attestata conforme all’originale. 


Quanto 
alla 
forma 
dell’atto 
di 
precetto, 
si 
è 
intervenuti 
sull’art. 
480 
c.p.c., 
prevedendosi 
che, nell’atto di 
precetto sottoscritto dalla 
parte 
personalmente, 
l’indicazione 
della 
residenza 
o l’elezione 
di 
domicilio nel 
comune 
in cui 
ha 
sede 
il 
giudice 
competente 
per l’esecuzione 
possano essere 
sostituite 
dall’indicazione 
di 
un 
indirizzo 
PeC 
o 
dall’elezione 
di 
un 
domicilio 
digitale 
speciale. 
In 
mancanza, 
le 
notificazioni 
continueranno 
ad 
essere 
effettuate 
presso 
la 
cancelleria, 
a 
meno che 
il 
destinatario non sia 
un soggetto per il 
quale 
la 
legge 
prevede 
l’obbligo 
di 
munirsi 
di 
un 
indirizzo 
PeC 
oppure 
abbia 
eletto 
domicilio 
digitale, giacché 
in questo caso si 
applicheranno le 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 
149-bis 
c.p.c. relative 
alla 
notifica 
effettuata 
mediante 
deposito nell’apposita 
area riservata sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia. 


Sempre 
in considerazione 
della 
compiuta 
digitalizzazione 
del 
processo, 
viene 
espunta 
dall’art. 
486 
c.p.c. 
la 
previsione 
secondo 
cui 
le 
domande 
e 
le 
istanze rivolte al giudice dell’esecuzione sono depositate in cancelleria. 


Al 
fine 
di 
semplificare 
e 
informatizzare 
le 
comunicazioni 
di 
cancelleria 
e 
le 
notificazioni, il 
nuovo art. 489 c.p.c. prevede 
che 
le 
notificazioni 
e 
comunicazioni 
ai 
creditori 
pignoranti 
e 
a 
quelli 
intervenuti 
siano effettuate, ai 
sensi 
dell’art. 170 c.p.c., presso il procuratore costituito. 


Per quanto riguarda, invece, i 
creditori 
che 
stanno in giudizio personalmente, 
si 
prevede 
che 
le 
comunicazioni 
e 
notificazioni 
rivolte 
a 
costoro debbano 
effettuarsi 
via 
PeC 
o, 
se 
non 
indicata, 
alla 
residenza 
dichiarata 
o 
al 
domicilio eletto nell’atto di 
precetto o nell’atto di 
intervento. In difetto di 
tali 
indicazioni, 
le 
notificazioni 
potranno 
essere 
eseguite 
mediante 
deposito 
in 
cancelleria, 
fatto salvo quanto previsto dall’art. 149-bis 
c.p.c. 


Quanto 
alla 
forma 
dell’atto 
di 
pignoramento, 
l’art. 
492 
c.p.c., 
in 
linea 
con 
il 
principio ispiratore 
del 
superamento degli 
adempimenti 
analogici 
in favore 
di 
quelli 
telematici, 
prevede 
che 
l’atto 
debba 
contenere 
l’invito 
al 
debitore 
(oltre 
che 
ad effettuare 
la 
dichiarazione 
di 
residenza 
o l’elezione 
di 
domicilio 
in uno dei 
comuni 
del 
circondario in cui 
ha 
sede 
il 
giudice 
competente) ad indicare 
un indirizzo PeC o un domicilio digitale 
presso i 
quali 
ricevere 
notificazioni 
e 
comunicazioni. 
In 
mancanza, 
comunicazioni 
e 
notificazioni 
saranno 
effettuate 
presso 
la 
cancelleria, 
fatta 
salva 
l’applicazione 
dell’art. 
149-bis 
c.p.c. 


Negli 
artt. 
492-bis, 
499, 
518, 
521-bis, 
524, 
543, 
557 
e 
582 
c.p.c. 
vengono 
introdotte 
modifiche 
di 
mero 
coordinamento, 
prevedendosi 
l’indicazione 
di 
un indirizzo PeC nell’atto di 
intervento sottoscritto dalla 
parte 
che 
sta 
in giudizio 
personalmente 
ed eliminando i 
riferimenti 
alla 
ormai 
(abrogata) nota 
di 
iscrizione a ruolo e al deposito degli atti in cancelleria. 


Con riferimento alla 
disciplina 
delle 
opposizioni 
esecutive, sono modificati 
gli 
artt. 616 e 
618 c.p.c., prevedendosi 
che 
quando il 
giudizio di 
merito 



sull’opposizione 
è 
introdotto 
nelle 
forme 
del 
rito 
ordinario 
di 
cognizione 
siano 
dimezzati 
anche 
i 
termini 
previsti 
dagli 
artt. 
165, 
166, 
171-bis 
e 
171-ter 
c.p.c., 
rispettivamente, per la 
costituzione 
dell’attore, quella 
del 
convenuto, le 
verifiche 
preliminari 
da 
parte 
del 
giudice 
e 
il 
deposito delle 
memorie 
integrative, 
in modo tale 
da 
consentire 
la 
più celere 
trattazione 
del 
processo e 
limitare 
i 
pregiudizi 
connessi 
alla 
pendenza 
dell’opposizione 
sul 
regolare 
andamento 
della procedura esecutiva. 


8. modifiche 
alla disciplina dei 
procedimenti 
speciali 
del 
libro iv 
del 
codice di rito 


Con riferimento alla 
prova 
scritta 
nel 
procedimento per decreto ingiuntivo, 
l’art. 634, comma 
2, c.p.c. è 
aggiornato alla 
luce 
dei 
mutamenti 
intervenuti 
negli 
ultimi 
anni, 
che 
hanno 
visto 
scomparire 
le 
scritture 
contabili 
cartacee 
(e 
con esse 
gli 
obblighi 
di 
bollatura 
e 
vidimazione), in favore 
di 
quelle 
tenute 
in formato elettronico. 


viene 
eliminata, infatti, la 
previsione 
che 
condizionava 
il 
valore 
probatorio 
delle 
scritture 
alla 
corretta 
esecuzione 
di 
tali 
adempimenti 
e 
le 
scritture 
contabili 
previste 
dalle 
leggi 
tributarie 
vengono 
totalmente 
equiparate 
a 
quelle 
previste 
dagli 
artt. 2214 e 
segg. c.c. «purché 
tenute, anche 
con strumenti 
informatici, 
con l’osservanza delle norme stabilite dalla legge». 


Si 
aggiunge 
un ulteriore 
periodo al 
secondo comma 
dell’art. 634 c.p.c., 
prevedendosi 
che 
costituiscono prova 
scritta 
idonea 
anche 
le 
fatture 
elettroniche 
trasmesse 
attraverso 
il 
Sistema 
di 
interscambio 
istituito 
dal 
Ministero 
dell’economia e delle finanze e gestito dall’Agenzia delle entrate. 


In 
linea 
con 
il 
principio 
ispiratore 
di 
aggiornamento 
del 
codice 
alle 
innovazioni 
di 
natura 
telematica, 
nell’art. 
638 
c.p.c., 
relativo 
alla 
forma 
della 
domanda, 
è 
stata 
introdotta 
la 
possibilità 
per 
il 
ricorrente 
che 
sta 
in 
giudizio 
personalmente 
di 
indicare 
un 
indirizzo 
PeC 
o 
eleggere 
un 
domicilio 
digitale 
speciale. 


Anche 
in questo caso si 
prevede 
che, in difetto di 
tali 
indicazioni, le 
notificazioni 
al 
ricorrente 
possano 
farsi 
mediante 
deposito 
in 
cancelleria 
(secondo 
quanto previsto dalle 
disposizioni 
già 
vigenti), ferma 
la 
prevalenza 
della 
disciplina 
in 
materia 
di 
notificazioni 
tramite 
PeC 
prevista 
dall’art. 
149-bis 
c.p.c. 
vengono eliminati, inoltre, i 
riferimenti, ormai 
superati, al 
deposito in cancelleria 
e al fascicolo cartaceo. 


Per 
quanto 
riguarda 
l’opposizione 
a 
decreto 
ingiuntivo, 
nell’art. 
645 
c.p.c. 
viene 
sostituito il 
riferimento all’atto di 
citazione 
con il 
più generico concetto 
di 
«atto introduttivo», considerato che 
l’opposizione 
può essere 
proposta 
con 
ricorso nel caso di rito semplificato o di rito del lavoro. 


Di 
rilievo la 
precisazione 
contenuta 
nel 
neo-introdotto comma 
terzo del-
l’art. 648 c.p.c. relativo alla 
concessione 
della 
provvisoria 
esecuzione 
in caso 
di 
opposizione 
a 
decreto 
ingiuntivo, 
prevedendosi 
(analogamente 
a 
quanto 
previsto dall’art. 351 c.p.c.) che: 



«Se 
ricorrono ragioni 
di 
urgenza specificamente 
indicate 
nell’istanza, la 
parte 
costituita può chiedere 
che 
la decisione 
sulla concessione 
della provvisoria 
esecuzione 
sia pronunciata prima dell’udienza di 
comparizione. Il 
giudice, 
sentite le parti, provvede con ordinanza non impugnabile». 


Nell’art. 
654, 
primo 
comma, 
c.p.c. 
è 
espunto 
il 
riferimento 
alla 
stesura 
del 
decreto 
che 
dichiara 
l’esecutorietà 
del 
decreto 
ingiuntivo 
in 
calce 
al 
decreto 
stesso. 


Quanto 
al 
procedimento 
di 
sfratto 
per 
morosità, 
l’intervento 
al 
primo 
comma 
dell’art. 
658 
c.p.c. 
ne 
ha 
esteso 
espressamente 
l’applicazione 
anche 
all’affitto di 
azienda 
e 
all’affitto a 
coltivatore 
diretto, al 
mezzadro e 
al 
colono, 
risolvendosi 
il 
preesistente 
dubbio 
interpretativo 
dovuto 
al 
fatto 
che 
solo 
l’art. 
657 c.p.c. sulla finita locazione conteneva i riferimenti a tali contratti. 


9. disposizioni 
in 
materia di 
giustizia digitale 
e 
di 
processo civile 
telematico 


tra 
le 
numerose 
modifiche 
in tema 
di 
giustizia 
digitale 
e 
processo civile 
telematico ai segnalano le seguenti. 


9.1. la trattazione 
scritta in 
sostituzione 
dell’udienza e 
la comunicazione 
dei provvedimenti del giudice 


Il 
decreto correttivo interviene 
anzitutto sulla 
disciplina 
della 
trattazione 
scritta 
in 
sostituzione 
dell’udienza, 
chiarendo 
la 
portata 
applicativa 
dell’art. 
127-ter 
c.p.c., nel 
senso che 
«L’udienza non può essere 
sostituita quando la 
presenza 
personale 
delle 
parti 
è 
prescritta 
dalla 
legge 
o 
disposta 
dal 
giudice» 
(ad esempio, nei casi previsti dagli artt. 117, 185 e 185-bis 
c.p.c.). 


In 
relazione 
alla 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
128 
c.p.c., 
secondo 
cui 
l’udienza 
in cui 
si 
discute 
la 
causa 
è 
pubblica 
a 
pena 
di 
nullità, viene 
prevista 
esplicitamente 
la 
possibilità 
della 
sua 
sostituzione 
con la 
trattazione 
scritta 
ai 
sensi dell’art. 127-ter, salvo che una delle parti si opponga. 


Il 
novellato comma 
2 dell’art. 127-ter 
c.p.c. dispone, quindi, che, in caso 
di 
opposizione 
proveniente 
anche 
da 
una 
sola 
delle 
parti, il 
giudice 
revoca 
il 
provvedimento 
e 
fissa 
l’udienza 
pubblica 
di 
trattazione 
della 
causa 
in 
presenza. 


Si 
ricorda 
che, invece, per le 
udienze 
diverse 
da 
quella 
in cui 
si 
discute 
la 
causa, il 
giudice 
è 
vincolato alla 
richiesta 
congiunta 
delle 
parti 
diretta 
sia 
a 
richiedere 
la 
trattazione 
scritta, 
sia 
ad 
opporsi 
alla 
stessa 
qualora 
il 
giudice 
l’abbia 
già disposta. 


Al 
dichiarato fine 
di 
risolvere 
l’inconciliabilità 
pratica 
della 
sostituzione 
ex 
art. 
127-ter 
c.p.c. 
dell’udienza 
di 
discussione, 
nei 
casi 
in 
cui 
questa 
richiede 
la 
lettura 
del 
dispositivo in udienza, con la 
possibilità 
delle 
parti 
di 
depositare 
note 
scritte 
fino al 
termine 
di 
quello stesso giorno (così 
la 
relazione 
illustrativa), 
è 
stato aggiunto un periodo all’ultimo comma 
dell’art. 127-ter 
c.p.c., in 



virtù 
del 
quale 
«Il 
provvedimento 
depositato 
entro 
il 
giorno 
successivo 
alla 
scadenza del termine si considera letto in udienza». 


L’art. 133 c.p.c. viene 
integralmente 
sostituito al 
fine 
di 
adeguare 
le 
disposizioni 
sulla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
e 
la 
sua 
comunicazione 
al 
processo 
telematico. 
Rimane 
comunque 
fermo 
il 
principio 
secondo 
cui 
la 
comunicazione 
della 
sentenza 
ad opera 
del 
cancelliere 
non è 
idonea 
a 
far decorrere 
il termine breve per impugnare previsto dall’art. 325 c.p.c. 


Il 
decreto interviene 
anche 
sull’art. 136 c.p.c., che 
disciplina 
le 
comunicazioni 
di 
cancelleria. 
In 
particolare, 
viene 
eliminata 
la 
previsione 
del 
“biglietto” 
e 
viene 
istituzionalizzata 
la 
sua 
trasmissione 
tramite 
posta 
elettronica 
certificata, con conseguente 
applicazione 
del 
regime 
delle 
notifiche 
a 
mezzo 
PeC 
alle 
comunicazioni 
telematiche. 
Ne 
discende 
la 
previsione 
per 
cui, 
quando la 
comunicazione 
non ha 
esito positivo per causa 
non imputabile 
al 
destinatario, 
si 
procede 
con 
la 
notifica 
tramite 
ufficiale 
giudiziario 
nelle 
forme 
tradizionali; 
diversamente, se 
la 
notifica 
non ha 
esito positivo per causa 
imputabile 
al 
destinatario, 
l’atto 
è 
inserito 
nel 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
gestito 
dal 
Ministero della 
Giustizia, come 
previsto dalle 
disposizioni 
che 
saranno di 
seguito 
illustrate 
per 
le 
notifiche 
a 
mezzo 
PeC 
dell’ufficiale 
giudiziario 
e 
quelle 
a 
cura 
dell’avvocato. Le 
concrete 
modalità 
per l’inserimento dell’atto 
nel 
portale 
sono 
quelle 
descritte 
nel 
novellato 
art. 
149-bis 
c.p.c., 
che 
costituisce 
la 
norma 
di 
riferimento sulle 
notifiche 
a 
mezzo PeC e 
sulle 
conseguenze 
del-
l’impossibilità 
di 
effettuare 
l’adempimento 
secondo 
tali 
modalità 
per 
causa 
imputabile al destinatario. 


9.2. le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata 


In 
primo 
luogo, 
si 
ricorda 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
3-ter 
della 
legge 
n. 
53/1994, «l’avvocato esegue 
la notificazione 
degli 
atti 
giudiziali 
in materia 
civile 
e 
degli 
atti 
stragiudiziali 
a mezzo di 
posta elettronica certificata o servizio 
elettronico di recapito certificato qualificato quando il destinatario: 


a) è 
un soggetto per 
il 
quale 
la legge 
prevede 
l’obbligo di 
munirsi 
di 
un 
domicilio digitale risultante dai pubblici elenchi; 
b) ha eletto domicilio digitale 
ai 
sensi 
dell’articolo 3-bis, comma 1-bis, 
del 
codice 
dell’amministrazione 
digitale, di 
cui 
al 
decreto legislativo 7 marzo 
2005, n. 82, iscritto nel 
pubblico elenco dei 
domicili 
digitali 
delle 
persone 
fisiche 
e 
degli 
altri 
enti 
di 
diritto privato non tenuti 
all’iscrizione 
in albi 
professionali 
o 
nel 
registro 
delle 
imprese 
ai 
sensi 
dell’articolo 
6-quater 
del 
medesimo decreto». 


Ciò posto, rilevanti 
appaiono le 
novità 
introdotte 
in tema 
di 
notificazione 
via 
PeC effettuata 
dall’Ufficiale 
giudiziario ai 
sensi 
del 
novellato art. 149-bis 


c.p.c. e 
dall’avvocato ai 
sensi 
della 
disposizione 
sopra 
richiamata, in particolare 
nell’ipotesi 
in 
cui 
tale 
notificazione 
non 
vada 
a 
buon 
fine 
per 
causa 
imputabile 
al 
destinatario. 
In 
tale 
ultima 
ipotesi, 
infatti, 
la 
nuova 
normativa 



prevede 
che 
essa 
sia 
eseguita 
mediante 
inserimento 
dell’atto 
da 
notificare 
nel 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
gestito 
dal 
Ministero 
della 
giustizia, 
unitamente 
ad 
una 
dichiarazione 
sulla 
sussistenza 
dei 
presupposti 
per 
l’inserimento, 
all’interno 
di 
un’area 
riservata 
collegata 
al 
codice 
fiscale 
del 
destinatario. 
La 
notificazione 
si 
ha 
per 
eseguita, 
per 
il 
destinatario, 
nel 
decimo 
giorno 
successivo 
a 
quello 
in 
cui 
è 
compiuto 
l’inserimento 
o, 
se 
anteriore, 
nella 
data 
in 
cui 
egli 
accede 
all’area 
riservata. 
Il 
portale 
è 
raggiungibile 
al 
seguente 
link 
https://pst.giustizia.it/PST/it/services.page, 
cliccando 
sulla 
card 
“Area 
riservata” 
accedendo 
con 
la 
CNS 
e 
cliccando 
poi 
sul 
servizio 
“Area 
WeB 
notifiche-
Portale 
perfezionamento 
notifiche” 
(3). 


Anche 
il 
primo comma 
dell’art. 330 c.p.c., che 
disciplina 
il 
luogo di 
notificazione 
dell’impugnazione, viene 
modificato allo scopo di 
adeguare 
le 
disposizioni 
alla 
generalizzazione 
del 
ricorso alla 
trasmissione 
elettronica 
degli 
atti. Inoltre, i 
riferimenti 
alla 
dichiarazione 
di 
residenza 
e 
all’elezione 
di 
domicilio 
vengono 
affiancati 
dall’indicazione 
dell’indirizzo 
PeC 
o 
del 
domicilio 
digitale. 


9.3. ulteriori disposizioni sul processo civile telematico 


Al 
fine 
di 
adeguare 
le 
disposizioni 
codicistiche 
al 
processo 
telematico, 
deve 
essere 
segnalata 
la 
modifica 
all’art. 250 c.p.c., relativo all’intimazione 
ai 
testimoni, 
prevedendosi 
che 
la 
citazione 
del 
teste 
possa 
essere 
effettuata 
anche 
tramite 
posta 
elettronica 
certificata 
all’indirizzo risultante 
da 
pubblici 
elenchi, 
dovendo 
il 
difensore 
che 
ha 
citato 
il 
testimone 
depositare 
nel 
fascicolo 
informatico 
copia 
dell’atto 
inviato 
e 
della 
ricevuta 
e 
dell’avviso 
di 
ricevimento 


o la ricevuta di avvenuta consegna del messaggio PeC. 


Analoghe 
disposizioni 
vengono 
dettate 
per 
quanto 
riguarda 
la 
testimonianza 
scritta 
di 
cui 
all’art. 257-bis 
c.p.c. In particolare, si 
prevede 
che 
il 
modello 
di 
testimonianza 
possa 
essere 
compilato 
anche 
come 
documento 
informatico sottoscritto digitalmente. Di 
conseguenza, si 
prevede 
che 
il 
documento 
venga 
trasmesso non più al 
cancelliere, bensì 
direttamente 
al 
difensore 
della 
parte 
che 
ha 
richiesto l’assunzione 
della 
prova, il 
quale 
provvederà 
a 
depositarlo 
nel fascicolo informatico. 


10. le principali modifiche agli “scadenzieri” presenti su nsi 


Per 
effetto 
delle 
modifiche 
sopra 
riportate, 
appare 
opportuna 
una 
modifica 
degli 
attuali 
“scadenzieri” 
presenti 
su 
NSI 
per 
quanto 
concerne, 
anzitutto, 


(3) Allo stato, il 
Ministero della 
Giustizia, per taluni 
limiti 
tecnologici 
in via 
di 
superamento, ha 
realizzato 
un 
sistema 
di 
accesso 
basato 
sul 
codice 
fiscale 
del 
singolo 
Avvocato 
e 
Procuratore 
dello 
Stato. 
Sono in corso le 
necessarie 
interlocuzioni 
con la 
DGSIA 
al 
fine 
di 
consentire 
ad Avvocati 
e 
Procuratori 
di 
accedere 
a 
tale 
area 
inserendo il 
codice 
fiscale 
dell’Avvocatura 
di 
appartenenza, anche 
al 
fine 
di 
consentire 
di verificare se la singola 
Avvocatura sia destinataria di notifiche non andate a buon fine. 



quelli 
relativi 
alla 
verifica 
del 
deposito 
del 
controricorso 
anche 
ai 
fini 
della 
eventuale proposizione di controricorso al ricorso incidentale. 


In particolare, considerato che 
il 
dies 
a quo 
per il 
deposito del 
controricorso 
avverso il 
ricorso incidentale 
non è 
più fisso ma 
mobile 
(variando, dunque, 
a seconda della data di effettivo deposito del ricorso incidentale): 


-viene 
introdotto un primo termine 
per la 
“prima verifica” 
del 
deposito 
del controricorso a 30 giorni dalla notifica del ricorso; 


- resta inalterato quello già esistente a 40 giorni; 
-viene 
introdotto 
un 
termine 
ulteriore, 
cautelativo, 
a 
60 
giorni 
per 
l’eventuale 
controricorso al ricorso incidentale. 


In considerazione 
del 
disposto dimezzamento dei 
termini 
nel 
caso di 
introduzione, 
nelle 
forme 
del 
rito ordinario, del 
giudizio di 
merito sulle 
opposizioni 
esecutive, 
sono 
stati 
istituiti 
appositi 
“scadenzieri” 
con 
termini 
dimezzati. 


Da 
ultimo, con l’occasione 
si 
è 
proceduto a 
rettificare 
su NSI i 
termini 
per la 
costituzione 
in giudizio del 
convenuto (o dell’appellato) nel 
rito del 
lavoro, 
non più considerati 
liberi, ma 
ordinari, vista 
la 
ormai 
consolidata 
giurisprudenza 
al riguardo (4). 


L’AvvoCAto GeNeRALe 
Gabriella 
PALMIeRI SANDULLI 


(4) Cass. 9224/2015, Cass. 23834/2023. 



Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CIrColAre 
n. 15/2025 


oggetto: 
Conferimento incarico di 
Vice 
Avvocato Generale 
dello Stato 
all’Avv. Paolo Gentili. Attribuzione della direzione della Sezione I bis. 


Con decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
in data 
16 gennaio 2025, registrato 
dalla 
Corte 
dei 
conti 
in data 
23 gennaio 2025, è 
stato conferito l’incarico 
di 
vice 
Avvocato Generale all’Avvocato Paolo Gentili. 


All’Avvocato Gentili è attribuita la direzione della Sezione I bis. 


L’AvvoCAto GeNeRALe 
Gabriella 
PALMIeRI SANDULLI 



ContEnzioSoComUnitarioEDintErnazionaLE
La sentenza Cesarano. La CEDU si confronta 
con ipotesi specifiche sinora inesplorate e spiega come 
i principi Scoppola debbano trovare applicazione 


Nota 
a 
Corte 
eDU, SezioNe 
i, SeNteNza 
17 ottobre 
2024, 
riCorSo 
N. 71250/16, CaUSa 
CeSaraNo 
C. italia 


Massimo Di Benedetto* 


La 
pronuncia 
che 
si 
annota 
opera 
una 
ragionevole 
e 
ragionata 
actio 
finium 
regundorum 
dei 
c.d. 
“fratelli 
minori” 
di 
Scoppola, 
precisando 
che 
il 
ricorrente 
del 
caso concreto non rileva 
come 
tale 
(e, pertanto, non può lamentare 
d’aver 
subito 
anche 
lui 
la 
violazione 
accertata 
nel 
leading 
case), 
atteso 
che 
la 
sua 
fattispecie 
non 
è 
pienamente 
sovrapponibile 
a 
quella 
sottoposta 
all’attenzione 
della Grande Camera nel citato, noto precedente. 


Volendo sforzarsi 
di 
compendiare 
il 
principio di 
diritto enucleabile 
dalla 
pronuncia 
che 
s’annota, 
potrebbe 
tanto 
sancirsi: 
“in 
applicazione 
del 
generale 
principio di 
retroattività in mitius, allorché 
si 
tratti 
di 
individuare 
la versione 
più 
favorevole 
di 
una 
norma 
sul 
trattamento 
sanzionatorio 
risultante 
dalla 
scelta, da parte 
dell’imputato, di 
un rito alternativo, occorre 
guardare, come 
dies 
a 
quo 
da 
considerare 
per 
l’esame 
delle 
versioni 
della 
norma, 
al 
momento 
in cui, in giudizio, l’imputato decide 
di 
usufruire 
del 
modello procedurale 
in 
questione (e non al precedente momento di commissione del fatto di reato). 

Pertanto, 
con 
specifico 
riguardo 
al 
rito 
abbreviato 
(comportante 
una 
riduzione 
di 
pena 
che, 
nel 
tempo, 
non 
è 
sempre 
stata 
la 
medesima, 
in 
particolar 
modo 
prevedendosi, 
prima, 
che 
per 
i 
delitti 
punibili 
con 
l’ergastolo 
il 
rito 
non 
fosse 
ammissibile; 
poi, 
che 
all’ergastolo 
venisse 
sostituita 
la 
reclusione 
per 
trenta 
anni; 
successivamente, 
che 
tale 
sostituzione 
operi 
solo 
a 
fronte 
di 
una 


(*) Avvocato dello Stato. 



condanna 
all’ergastolo 
senza 
isolamento, 
laddove 
la 
condanna 
all’ergastolo 
con 
isolamento 
viene 
commutata, 
per 
il 
rito, 
in 
ergastolo 
senza 
isolamento), 
non 
v’è 
alcuna 
violazione 
convenzionale 
allorché 
l’imputato, 
che 
ha 
commesso 
il 
fatto 
in 
un 
momento 
in 
cui 
neppure 
avrebbe 
potuto 
chiedere 
il 
rito 
abbreviato 
per 
tale 
fatto, 
venga 
condannato 
all’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno, 
in 
luogo 
dell’ergastolo 
con 
isolamento, 
se 
egli 
ha 
chiesto 
e 
ottenuto 
l’accesso 
al 
rito 
in 
un 
momento 
in 
cui 
tale 
era 
lo 
scenario 
sanzionatorio 
previsto 
dalla 
normativa 
in 
vigore 
(in 
quanto 
già 
da 
tempo 
era 
stato 
normativamente 
chiarito 
che 
la 
condanna 
-più 
mite 
-a 
trenta 
anni 
di 
reclusione 
sostituisce, 
come 
beneficio 
del 
rito, 
soltanto 
quella 
all’ergastolo 
senza 
isolamento)”. 


La 
pronuncia 
appare 
condivisibile, 
avendo 
operato 
un 
ragionato 
sforzo 
per portare 
a 
sintesi 
e 
declinare 
in relazione 
a 
ipotesi 
pratiche 
specifiche, con 
cui 
la 
CEDU 
non si 
era 
mai 
confrontata, peculiari 
principi 
generali 
più e 
più 
volte sanciti in astratto, ma mai portati a concreta applicazione. 

La 
sentenza 
Cesarano, 
infatti, 
conferma 
quanto 
sancito 
nel 
caso 
Scoppola 
circa 
l’operatività 
del 
principio di 
retroattività 
favorevole, e 
opportunamente 
chiarisce 
agli 
interpreti 
come, in concreto, il 
principio dovrà 
operare 
allorché 
la 
versione 
più favorevole 
della 
norma 
previsiva 
dello sconto di 
pena 
nel 
rito 
alternativo sopraggiunga 
al 
momento in cui 
l’imputato ha 
chiesto e 
ottenuto 
l’accesso al rito. 


E 
invero, nel 
caso Scoppola 
l’attenzione 
del 
Giudice 
convenzionale 
era 
essenzialmente 
focalizzata 
sulla 
risoluzione 
della 
questione 
del 
se 
tale 
norma, 
formalmente 
procedurale, potesse 
rilevare 
ai 
fini 
dell’applicazione 
dell’art. 7; 
risolvendo nell’affermativo la 
questione, la 
Corte 
EDU 
non veniva, tuttavia, 
chiamata 
all’individuazione, in concreto, dell’arco temporale 
da 
considerare 
al 
fine 
di 
saggiare 
il 
grado di 
severità 
delle 
varie 
norme, per l’assorbente 
ragione 
che, in quel 
caso (a 
differenza 
che 
nel 
caso che 
ne 
occupa) l’imputato 
aveva 
chiesto 
e 
ottenuto 
l’accesso 
al 
rito 
in 
un 
momento 
in 
cui 
la 
pena 
prevista 
era 
più 
lieve 
rispetto 
a 
quella 
a 
lui 
poi 
applicata 
in 
ragione 
di 
ius 
superveniens, 
successivo alla sua richiesta di accesso al rito. 


Quindi, nel 
caso Cesarano, per la 
prima 
volta, il 
Giudice 
convenzionale 
è 
chiamato 
a 
declinare 
le 
modalità 
di 
applicazione 
concreta 
del 
principio 
di 
retroattività 
favorevole 
con riguardo alla 
fattispecie 
fattuale 
(ben lontana 
da 
quella 
del 
caso Scoppola) dell’imputato che 
chiede 
il 
rito abbreviato non soltanto 
a 
fronte 
di 
fatti 
commessi 
quando neppure 
avrebbe 
potuto accedere 
al 
rito, 
ma 
in 
un 
momento 
in 
cui 
la 
versione 
astrattamente 
più 
favorevole 
(almeno 
in punto di 
sconto di 
pena) dell’istituto era 
già 
stata 
normativamente 
superata 
da molto tempo. 


Ciò posto, si 
ribadisce 
che 
opportunamente 
la 
Corte 
EDU 
segnala 
come 
al 
momento in cui 
ha 
commesso il 
fatto, il 
ricorrente 
neppure 
avrebbe 
potuto 
accedere 
al 
rito 
abbreviato; 
rilievo 
assai 
utile 
per 
mettere 
a 
fuoco 
la 
circostanza 
che, nel 
caso che 
ne 
occupa, non si 
pone 
alcun problema 
di 
irretroattività sfa



vorevole 
(principio, e 
costituzionale 
e 
convenzionale, che, come 
noto, a 
differenza 
di 
quello di 
retroattività favorevole, è 
assolutamente 
inderogabile 
e 
da 
rigorosamente 
interpretare, 
senza 
eccezioni 
di 
sorta, 
in 
senso 
di 
favore 
all’imputato); 
e 
principio che, in effetti, una 
qualche 
considerazione 
poteva 
richiedere 
in relazione 
al 
fatto storico di 
Scoppola 
(avendo questi 
chiesto e 
ottenuto 
l’abbreviato 
prima 
della 
sopravvenienza 
normativa 
che 
ha 
modificato 
in 
peius 
il trattamento sanzionatorio). 


Si 
pone 
la 
questione, ben diversa, della 
retroattività favorevole 
eventualmente 
non riconosciuta a vantaggio del reo. 


orbene, 
la 
specificità 
della 
situazione 
fattuale 
(assai 
diversa 
dal 
leading 
case 
Scoppola) 
ben 
spiega 
perché, 
allora, 
la 
Corte 
EDU 
ha 
ritenuto 
sussistente 
la 
violazione 
convenzionale, 
e 
quest’oggi 
no. 
Come 
lumeggiato 
nel 
§ 
81 
della 
pronuncia 
in 
esame, 
“… 
a 
differenza 
del 
ricorrente 
nella 
causa 
Scoppola 
(sopra 
citata), 
il 
quale 
richiese 
il 
giudizio 
abbreviato 
all’udienza 
preliminare 
immediatamente 
dopo 
l’emanazione 
della 
legge 
n. 
479 
del 
1999, 
nel 
caso 
di 
specie 
il 
ricorrente 
non 
si 
avvalse 
della 
possibilità 
di 
richiedere 
il 
giudizio 
abbreviato 
alla 
prima 
udienza 
successiva 
all’entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
n. 
479 
del 
1999, 
come 
avrebbe 
avuto 
diritto 
a 
fare 
in 
base 
alle 
disposizioni 
transitorie 
rilevanti. 
al 
contrario, 
scelse 
deliberatamente 
di 
presentare 
tale 
richiesta 
diversi 
anni 
dopo, 
dopo 
essere 
stato 
nuovamente 
rinviato 
a 
giudizio, 
il 
2 
ottobre 
2012 
(si 
veda 
§ 
14)…”. 


Si 
tratta 
di 
un 
approdo 
interpretativo 
logico, 
innanzitutto, 
se 
di 
per 
sé 
considerato. 
opportunamente, 
al 
riguardo, 
il 
Giudice 
convenzionale 
(cfr. 
§§ 
77-78) 
discorre 
di 
“accordo 
tra 
imputato 
e 
Stato”, 
e 
precisa 
che 
(v. 
§ 
79) 
“… 
è 
la 
pena 
applicabile 
al 
momento 
dell’accordo 
in 
questione 
che 
l’imputato 
sceglie 
di 
accettare; 
pertanto, 
è 
quella 
pena 
che 
deve 
essere 
confrontata 
con 
le 
pene 
successive 
previste 
dal 
legislatore 
nel 
contesto 
del 
giudizio 
abbreviato 
per 
identificare 
la 
legge 
più 
favorevole, 
mentre 
le 
pene 
applicabili 
nell’ambito 
del 
giudizio 
abbreviato 
prima 
che 
l’imputato 
abbia 
scelto 
di 
essere 
giudicato 
con 
tale 
procedimento 
rimangono 
inapplicabili 
alla 
sua 
situazione 
specifica 
”. 


In questa 
prospettiva, non può che 
stressarsi 
con forza 
che, se 
è 
vero che 
il 
principio 
di 
retroattività 
favorevole 
può 
applicarsi 
anche 
in 
relazione 
a 
norme 
diverse 
da 
quelle 
formalmente 
sostanziali 
che 
prevedono 
le 
cornici 
edittali 
(norme 
che 
concretano il 
terreno d’elezione 
dell’applicabilità 
del 
detto principio), 
è 
pur vero che, una 
volta 
ammessa 
la 
possibilità 
di 
considerare 
l’art. 
442 
c.p.p. 
ai 
fini 
della 
retroattività 
favorevole, 
deve 
pur 
sempre 
tenersi 
a 
mente 


-come 
il 
Giudice 
convenzionale 
condivisibilmente 
fa 
-che 
la 
possibilità 
di 
incisione 
sulla 
dosimetria 
della 
pena 
ad opera 
di 
tale 
norma 
richiede 
necessariamente 
un 
preventivo 
atto 
di 
volontà 
dell’imputato, 
che, 
appunto, 
dovrà 
scegliere, 
rispettando 
forme 
e 
modi 
del 
rito, 
di 
accedere 
al 
procedimento 
alternativo cui l’art. 442 c.p.p. è dedicato. 



Diversamente 
dalla 
norma 
penale 
incriminatrice, 
che 
è 
sempre 
e 
automaticamente 
il 
parametro normativo che 
il 
giudicante 
penale 
considera 
per accertare 
sia 
l’an 
della 
sussistenza 
del 
reato 
che 
il 
quantum 
della 
reazione 
sanzionatoria, l’art. 442 c.p.p. potrà 
incidere 
sulle 
sorti 
sanzionatorie 
dell’imputato 
unicamente 
nel 
caso in cui 
questi 
decida 
di 
accedere 
al 
rito abbreviato; 
ciò 
che 
rende 
ineccepibile 
il 
rilievo 
della 
Corte 
EDU 
secondo 
cui 
a 
doversi 
considerare 
“è 
la pena applicabile 
al 
momento dell’accordo in questione 
che 
l’imputato 
sceglie 
di 
accettare” 
nonché 
(giusta 
la 
giurisprudenza 
Scoppola, 
appunto confermata 
e 
opportunamente 
chiarita, dalla 
sentenza 
Cesarano, in 
relazione 
alla 
peculiare 
ipotesi 
di 
che 
trattasi) la 
pena 
prevista 
da 
disposizioni 
a quella successive. 


Ancora, il 
pregio della 
precisazione 
che 
la 
Corte 
EDU 
opera 
con la 
sentenza 
in esame 
si 
apprezza 
altresì 
se 
si 
prende 
in considerazione 
l’ipotesi 
interpretativa 
alternativa 
a 
quella 
prescelta 
dal 
Giudice 
convenzionale, id est 
la 
tesi 
opposta 
che 
avrebbe 
condotto, anche 
in questo caso, ad una 
pronuncia 
di 
accertamento di violazione. 


In questo senso, si 
osserva 
che 
sarebbe 
francamente 
irragionevole 
accettare 
uno scenario giuridico in cui 
un reo che 
commette 
un fatto di 
reato in un 
momento in cui 
neppure 
avrebbe 
potuto accedere 
ad un rito alternativo, e 
che 
vada 
ad attivare 
tale 
modulo processuale 
molti 
anni 
dopo, allorché 
tra 
le 
caratteristiche 
del 
rito v’è 
uno sconto di 
pena 
di 
un certo tipo, possa 
pretendere 
che, 
comunque 
per 
il 
resto 
applicandosi 
il 
modulo 
procedurale 
in 
vigore 
al 
momento 
della 
sua 
richiesta, 
tuttavia, 
in 
relazione 
alla 
specifica 
questione 
della 
dosimetria 
della 
pena 
per il 
caso di 
condanna, gli 
sia 
applicata 
la 
versione, ancora 
più 
favorevole, 
del 
rito 
abbreviato 
che 
(dopo 
la 
commissione 
del 
suo 
fatto) era per un periodo stata in vigore. 


nessuna 
ragione 
giuridica, 
ma 
neppure 
soltanto 
sostanziale, 
in 
effetti, 
avrebbe 
mai 
permesso 
di 
ratificare 
una 
siffatta 
proposta 
interpretativa, 
rilevato 
che: 


-al 
momento della 
commissione 
del 
fatto, neppure 
avrebbe 
potuto accedere 
al 
rito (con la 
conseguenza 
che 
già 
la 
possibilità 
di 
accedere 
al 
rito contratto, 
sia 
pure 
con la 
riduzione 
di 
pena 
non migliore 
tra 
quelle 
storicamente 
previste 
dall’ordinamento 
italiano, 
concreta 
una 
sopravvenienza 
favorevole 
in 
punto di trattamento sanzionatorio); 


-al 
momento 
in 
cui 
chiede 
di 
accedere 
al 
rito, 
tra 
le 
conseguenze 
pratiche 
del 
modulo 
procedurale 
che 
accetta 
(conseguenze 
che, 
è 
noto, 
certo 
non 
si 
esauriscono 
nella 
riduzione 
di 
pena 
-anche 
perché, 
vale 
ricordare, 
chi 
chiede 
il 
rito 
abbreviato 
non 
è 
necessariamente 
un 
colpevole, 
né 
necessariamente 
sarà 
condannato) 
v’era 
lo 
sconto 
di 
pena 
nella 
misura 
che 
gli 
è 
stato 
applicato. 
nessuna 
aspettativa 
o 
affidamento, 
pertanto, 
viene 
tradito 
neppure 
a 
voler 
considerare 
questo 
momento 
(oltre 
al 
tempus 
commissi 
delicti). 



Se, 
pertanto, 
la 
Corte 
EDU 
ha 
sancito, 
nel 
caso 
Scoppola, 
che 
il 
Legislatore 
domestico 
non 
può 
farsi 
scudo 
della 
qualificazione 
come 
norma 
di 
interpretazione 
autentica 
per 
retroattivamente 
incidere, 
in 
senso 
deteriore, 
sullo 
sconto 
di 
pena 
previsto 
dal 
rito 
abbreviato 
in 
relazione 
ai 
processi 
per 
cui, 
prima 
dell’approvazione 
della 
norma 
di 
interpretazione 
autentica, 
gli 
imputati 
avevano 
già 
chiesto 
e 
ottenuto 
l’accesso 
al 
rito, 
comprensibilmente 
il 
Giudice 
convenzionale 
ha, 
in 
senso 
eguale 
e 
contrario, 
precisato 
che 
nessuna 
violazione 
convenzionale 
sussiste 
se 
l’imputato 
ottiene 
lo 
sconto 
di 
pena 
previsto 
dalla 
norma 
in 
vigore 
al 
momento 
in 
cui 
egli 
chiede 
di 
poter 
accedere 
al 
rito 
(quand’anche 
una 
versione 
antecedente 
della 
norma 
sulla 
dosimetria 
della 
pena 
in 
punto 
di 
abbreviato 
prevedesse 
un 
trattamento 
di 
maggior 
favore). 


nell’un 
caso 
e 
nell’altro, 
del 
resto, 
la 
Corte 
EDU 
ha 
ragionato 
nello 
stesso 
modo, 
id 
come 
expressis 
verbis 
chiarito 
nella 
pronuncia 
in 
esame: 
il 
momento 
che 
segna 
il 
dies 
da 
considerare 
per intercettare 
la 
versione 
della 
norma 
più 
favorevole è quello dell’accordo tra imputato e Stato (cfr. §§ 77-79). 


Corte 
Europea dei 
Diritti 
dell’Uomo, Sezione 
i, sentenza 17 ottobre 
2024, ricorso n. 
71250/16 
(24 
novembre 
2016), 
causa 
Cesarano 
c. 
italia 
-Pres. 
Ivana 
Jelić; 
Giud. 
Alena 
Poláčková, 
Péter 
Paczolay, 
Gilberto 
Felici, 
Erik 
Wennerström, 
raffaele 
Sabato, 
Alain 
Chablais 
(*) 


Art. 7 • 
Pena 
più severa 
• 
rifiuto dei 
tribunali 
nazionali 
della 
richiesta 
del 
ricorrente 
per una 
riduzione 
della 
pena 
dall’ergastolo a 
trent’anni 
di 
reclusione, dopo che 
egli 
aveva 
scelto di 
essere 
giudicato con rito abbreviato • 
Valutazione 
non in abstracto, ma 
basata 
su circostanze 
specifiche 
del 
caso • 
Il 
ricorrente 
non ha 
diritto a 
una 
pena 
di 
trent’anni 
di 
reclusione, dato 
che 
il 
rito abbreviato è 
stato richiesto molto tempo dopo la 
modifica 
del 
quadro normativo in 
termini 
più 
severi, 
con 
quella 
pena 
sostituita 
dall’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno 
• 
Le 
scelte 
procedurali 
di 
un imputato e 
le 
successive 
condizioni 
di 
un accordo tra 
l’imputato e 
lo Stato 
sono fondamentali 
per quanto riguarda 
la 
pena 
applicabile 
• 
La 
durata 
della 
pena 
ridotta, da 
imporre 
in 
caso 
di 
condanna, 
deve 
essere 
chiaramente 
identificata 
dalla 
legge 
in 
vigore 
al 
momento 
dell’accordo • 
Identificazione 
della 
legge 
più favorevole 
tra 
tutte 
le 
leggi 
in vigore 
nel 
periodo tra 
la 
commissione 
del 
reato e 
la 
pronuncia 
della 
sentenza 
definitiva, strettamente 
legata 
all’accordo dei 
tribunali 
nazionali 
con la 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
essere 
giudicato con 
rito abbreviato • 
reati 
punibili 
con l’ergastolo con isolamento diurno ma 
il 
ricorrente, dopo 
il 
processo con rito abbreviato, condannato all’ergastolo senza 
isolamento diurno, pena 
più 
favorevole. 
Art. 
6 
§ 
1 
(penale) 
• 
Giusto 
processo 
• 
richiesta 
di 
rito 
abbreviato 
che 
costituisce 
una 
rinuncia 
inequivocabile 
a 
determinate 
garanzie 
procedurali 
in cambio di 
determinati 
vantaggi, com


(*) 
traduzione 
non 
ufficiale 
della sentenza a cura della Dott.ssa Edina Eszeny dell’Ufficio CEDU 
dell’avvocatura Generale dello Stato. 



preso 
l’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno 
• 
nessuna 
aspettativa 
legittima 
sulla 
base 
del 
quadro 
giuridico vigente 
al 
momento dell’irrogazione 
di 
un’altra 
sentenza 
• 
Imposta 
una 
pena 
prevedibile. 
redatta dalla Cancelleria. non vincola la Corte. 


IntroDUzIonE 


1. Il 
caso riguarda 
il 
rifiuto, da 
parte 
dei 
tribunali 
nazionali, della 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
ridurre 
la 
sua 
pena 
dall’ergastolo 
a 
trent’anni 
di 
reclusione 
sulla 
base, 
a 
suo 
avviso, 
dalla 
scelta 
di 
essere 
giudicato con rito abbreviato. A 
differenza 
del 
caso Scoppola c. italia (n. 2) 
([GC], 


n. 10249/03, 17 settembre 
2009), il 
ricorrente 
è 
stato ammesso a 
tale 
rito quando la 
legge 
da 
lui 
individuata 
come 
lex 
mitior 
(legge 
n. 
479 
del 
1999) 
non 
era 
più 
in 
vigore. 
Il 
ricorso 
solleva 
questioni relative all’articolo 7 e all’articolo 6 § 1 della convenzione. 

2. La 
questione 
sottoposta 
alla 
Corte 
è 
se, alla 
luce 
dei 
principi 
stabiliti 
in Scoppola 
(sopra 
citata), 
il 
periodo 
temporale 
da 
considerare 
per 
l’identificazione 
della 
legge 
più 
favorevole 
decorra 
in abstracto dal 
momento della 
commissione 
del 
reato fino alla 
condanna 
definitiva 


o se, nei 
casi 
di 
procedimenti 
semplificati 
-che 
dipendono da 
una 
richiesta 
dell’imputato -il 
termine temporale debba iniziare dal momento in cui tale richiesta è formulata. 


In FAtto 


3. 
Il 
ricorrente 
è 
nato 
nel 
1954 
ed 
è 
attualmente 
detenuto 
a 
vita 
a 
L’Aquila. 
È 
rappresentato 
dall’avvocato m. Vetrano, con studio a napoli. 


4. Il Governo è rappresentato dal loro agente, Avvocato dello Stato L. D’Ascia. 
5. I fatti oggetto della causa possono essere riassunti come segue. 


I. IL PrImo rInVIo 
A GIUDIzIo DEL rICorrEntE 


6. nel 
1995 il 
ricorrente 
è 
stato rinviato a 
giudizio insieme 
ad altri 
coimputati 
per accuse 
di 
omicidio di 
massa 
(strage) e 
omicidio, crimini 
commessi 
nel 
1983, che, all’epoca, erano 
punibili 
cumulativamente 
con una 
pena 
di 
ergastolo con isolamento diurno. Al 
momento del 
processo del 
ricorrente, gli 
imputati 
passibili 
di 
una 
condanna 
all’ergastolo non potevano essere 
giudicati 
con il 
rito abbreviato, un processo semplificato che 
comportava 
una 
riduzione 
della pena in caso di condanna. 
7. 
La 
legge 
n. 
479 
del 
16 
dicembre 
1999, 
entrata 
in 
vigore 
il 
2 
gennaio 
2000, 
ha 
reintrodotto 
per 
gli 
imputati 
passibili 
di 
ergastolo 
la 
possibilità 
di 
essere 
giudicati 
con 
rito 
abbreviato 
(per 
una 
cronologia 
delle 
disposizioni 
interne 
pertinenti, 
si 
veda 
ai 
paragrafi 
29-33). 
modificando 
l’articolo 
442 
§ 
2 
del 
Codice 
di 
procedura 
penale 
(“il 
CPP”), 
tale 
legge 
prevedeva 
che, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
reato 
commesso 
dall’imputato 
fosse 
punibile 
con 
l’ergastolo, 
la 
pena 
appropriata, 
in 
seguito 
a 
una 
condanna 
con 
rito 
abbreviato, 
sarebbe 
stata 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
(si 
veda 
§ 
30). 
8. In virtù dell’articolo 4-ter 
del 
decreto-legge 
n. 82 del 
7 aprile 
2000, modificato e 
convertito 
nella 
legge 
n. 144 del 
5 giugno 2000 (entrata 
in vigore 
l’8 giugno 2000), agli 
imputati 
passibili 
di 
ergastolo 
era 
consentito 
chiedere 
di 
essere 
giudicati 
con 
rito 
abbreviato 
all’udienza 
successiva, purché 
le 
udienze 
istruttorie 
fossero ancora 
in corso nel 
loro caso, sia 
in primo 
grado che in appello. 
9. Al 
momento dell’entrata 
in vigore 
di 
tale 
disposizione, il 
procedimento a 
carico del 
ricorrente 
era 
pendente 
in primo grado e 
le 
udienze 
istruttorie 
erano in corso. Pertanto, in quel 
momento, il 
ricorrente 
aveva 
la 
possibilità 
di 
chiedere 
di 
essere 
giudicato con rito abbreviato 
e, 
eventualmente, 
di 
ottenere 
una 
riduzione 
della 
pena 
dall’ergastolo 
a 
trent’anni 
di 
reclusione. 





tuttavia, non l’ha 
fatto. Dalla 
documentazione 
processuale 
risulta 
che 
alcuni 
dei 
suoi 
coimputati 
hanno richiesto e ottenuto il rito abbreviato. 


10. Il 
24 novembre 
2000 è 
entrato in vigore 
il 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000. L’articolo 
7(1) del 
decreto-legge 
stabiliva 
che 
il 
termine 
“ergastolo”, come 
riferito nella 
legge 
n. 479 
del 
1999, 
dovesse 
essere 
inteso 
come 
“ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno”. 
In 
altre 
parole, 
solo coloro soggetti 
a 
una 
pena 
dell’ergastolo senza 
isolamento diurno potevano per una 
riduzione 
della 
pena 
a 
trent’anni 
di 
reclusione, mentre 
coloro passibili 
di 
ergastolo con isolamento 
diurno, come 
il 
ricorrente, potevano attivarsi 
per chiedere, in caso di 
giudizio con rito 
abbreviato, solo una riduzione a ergastolo senza isolamento diurno. 
II. 
LA SEntEnzA DI PrImo GrADo DELLA CortE DI ASSISE DI nAPoLI 


11. Il 
25 ottobre 
2007 il 
ricorrente 
è 
stato condannato dalla 
Corte 
di 
Assise 
di 
napoli, a 
seguito 
di 
un processo con rito ordinario. La 
pena 
inflitta 
al 
ricorrente 
in quella 
fase 
del 
procedimento 
non è chiara dagli atti del caso. 
12. Il 
17 settembre 
2009, mentre 
il 
procedimento a 
carico del 
ricorrente 
era 
pendente 
in 
appello, la 
Corte, nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), ha 
concluso che 
l’Italia 
non aveva 
adempiuto al 
suo obbligo di 
concedere 
al 
ricorrente 
in quel 
caso -che 
aveva 
chiesto di 
essere 
giudicato con rito abbreviato mentre 
era 
in vigore 
la 
legge 
n. 479 del 
1999, ma 
era 
stato condannato 
all’ergastolo -il 
beneficio di 
una 
riduzione 
della 
sua 
pena 
a 
trent’anni 
di 
reclusione 
come 
prescritto 
da 
tale 
legge, 
in 
violazione 
dell’articolo 
7 
della 
Convenzione. 
La 
Corte 
ha 
inoltre 
concluso che 
l’articolo 6 § 1 della 
Convenzione 
era 
stato violato a 
causa 
della 
frustrazione 
dell’aspettativa 
legittima 
del 
ricorrente 
secondo 
cui 
trent’anni 
di 
reclusione 
erano 
la 
pena massima a cui era passibile. 
III. AnnULLAmEnto DELLA SEntEnzA E rInVIo DEL CASo 


13. Il 
19 febbraio 2010 la 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello di 
napoli 
ha 
annullato la 
condanna 
del 
ricorrente 
e 
ha 
rimesso gli 
atti 
al 
pubblico ministero di 
roma, che 
è 
stato ritenuto competente 
per la trattazione del caso. 
14. Il 
15 maggio 2012 il 
ricorrente 
è 
stato nuovamente 
rinviato a 
giudizio per le 
stesse 
accuse 
del 
1995. nell’udienza 
preliminare 
tenutasi 
il 
2 ottobre 
2012, ha 
chiesto di 
essere 
giudicato 
con rito abbreviato. 
15. 
Con 
l’obiettivo 
di 
incorporare 
nel 
sistema 
nazionale 
le 
conclusioni 
della 
Grande 
Camera 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), la 
Corte 
Costituzionale, con la 
sentenza 
n. 210 del 
3 
luglio 2013, ha 
dichiarato incostituzionale 
l’articolo 7(1) del 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000 
(per ulteriori dettagli, si veda § 35 et seq.). 
16. 
tuttavia, 
tale 
conclusione 
non 
ha 
influenzato 
la 
validità 
della 
disposizione 
nel 
caso 
del 
ricorrente. 
Infatti, 
la 
sostituzione 
della 
pena 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
con 
quella 
del-
l’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno 
è 
rimasta 
valida 
per 
i 
casi 
in 
cui 
il 
rito 
abbreviato 
era 
stato 
avviato 
a 
partire 
dal 
24 
novembre 
2000, 
ossia 
la 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
decreto-
legge 
n. 
341 
del 
2000. 
IV. LA SEntEnzA DI PrImo GrADo DEL GIUDICE DELL’UDIEnzA PrELImInArE DI romA 


17. 
Il 
26 
settembre 
2013, 
a 
seguito 
di 
un 
processo 
con 
rito 
abbreviato, 
il 
giudice 
del-
l’udienza 
preliminare 
di 
roma 
ha 
ritenuto il 
ricorrente 
colpevole 
come 
da 
imputazione 
e 
lo 
ha 
condannato 
all’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
7 
del 
Decreto-legge 


n. 341 del 
2000. Per quanto riguarda 
la 
pena 
inflitta 
al 
ricorrente, il 
giudice 
ha 
tenuto conto 
di 
alcune 
circostanze 
aggravanti 
(tra 
cui 
il 
numero di 
individui 
coinvolti 
nella 
commissione 
dei 
reati, le 
motivazioni 
spregevoli 
alla 
base 
della 
loro commissione 
e 
la 
presenza 
di 
premeditazione), 
dell’estrema 
gravità 
degli 
atti 
attribuibili 
al 
ricorrente 
e 
del 
fatto che 
questi 
aveva 



precedentemente 
partecipato 
in 
altri 
reati 
gravi, 
tra 
cui 
oltre 
quaranta 
omicidi, 
estorsioni, 
reati 
di stampo mafioso e reati connessi alle armi. 


18. riguardo alla 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
una 
riduzione 
della 
sua 
pena 
a 
trent’anni 
di 
reclusione 
alla 
luce 
della 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), il 
giudice 
dell’udienza 
preliminare 
ha 
dettagliato 
i 
principi 
espressi 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
a 
Sezioni 
Unite 
nella 
sentenza 
Giannone 
(si 
veda 
§ 43 et 
seq.) e 
ha 
osservato che 
la 
situazione 
del 
ricorrente 
non era 
comparabile 
a 
quella 
del 
ricorrente 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata) poiché 
non aveva 
né 
richiesto 
né 
ottenuto 
il 
giudizio 
con 
rito 
abbreviato 
mentre 
era 
in 
vigore 
la 
legge 
n. 
479 
del 
1999. Pertanto, il giudice ha respinto la richiesta del ricorrente. 
19. 
Infine, 
in 
merito 
alla 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
sollevare 
una 
questione 
di 
costituzionalità 
dell’articolo 7 del 
Decreto-legge 
n. 341 del 
2000, il 
giudice 
ha 
osservato che, con sentenza 
n. 
210 
del 
2013 
(si 
veda 
§ 
35), 
la 
Corte 
Costituzionale 
aveva 
dichiarato 
incostituzionale 
l’articolo 
7(1) del 
Decreto-legge 
n. 341 del 
2000, affermando che 
tale 
disposizione 
era 
pregiudizievole 
per i 
soggetti 
in situazioni 
identiche 
a 
quella 
del 
ricorrente 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata). 
tuttavia, 
la 
disposizione 
in 
questione 
non 
era 
applicabile 
al 
ricorrente 
nel 
caso 
in 
esame, 
poiché, 
a 
differenza 
del 
sig. 
Scoppola, 
non 
aveva 
ottenuto 
il 
giudizio 
con 
rito 
abbreviato 
mentre 
era in vigore la legge n. 479 del 1999. 


20. La sentenza è stata depositata presso la cancelleria il 6 dicembre 2013. 


V. 
LA SEntEnzA DELLA CortE DI ASSISE D’APPELLo DI romA 


21. Il 
ricorrente 
ha 
presentato un appello. Per quanto riguarda 
la 
pena 
inflitta, ha 
fatto nuovamente 
riferimento ai 
principi 
enunciati 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata) e 
ha 
chiesto 
una 
riduzione 
della 
sua 
pena 
a 
trent’anni 
di 
reclusione, che, egli 
ha 
sostenuto, rappresentava 
la 
pena 
più favorevole 
prevista 
tra 
tutte 
le 
leggi 
in vigore 
nel 
periodo tra 
la 
commissione 
dei 
reati e l’emissione della sentenza definitiva. 
22. Il 
ricorrente 
ha, inoltre, chiesto nuovamente 
di 
sollevare 
una 
questione 
relativa 
alla 
costituzionalità 
dell’articolo 7 del 
Decreto-legge 
n. 341 del 
2000. Egli 
ha 
sostenuto che 
la 
questione 
sottoposta 
alla 
Corte 
Costituzionale, che 
aveva 
dato luogo alla 
sua 
sentenza 
n. 210 del 
2013 (ossia, ercolano 
-si 
veda 
§ 35 et 
seq.) riguardava 
una 
situazione 
diversa 
dalla 
sua, in 
quanto, a 
differenza 
di 
quanto accaduto in quel 
caso, nel 
suo caso il 
procedimento di 
merito 
era ancora pendente. 
23. Il 
4 novembre 
2014 la 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello di 
roma 
ha 
confermato la 
condanna 
del 
ricorrente 
e 
ha 
respinto la 
sua 
richiesta 
di 
riduzione 
della 
pena. Avallando le 
argomentazioni 
del 
giudice 
per l’udienza 
preliminare, la 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello ha 
ribadito che 
la 
situazione 
del 
ricorrente 
differiva 
da 
quella 
del 
ricorrente 
nel 
caso 
Scoppola 
(sopra 
citata). 
richiamandosi, 
a 
sua 
volta, 
alla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
nel 
caso 
Giannone 
(si 
veda 
§ 
43 
et 
seq.), 
la 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello 
ha 
ritenuto 
che, 
nel 
caso 
del 
ricorrente, 
l’identificazione 
della 
pena 
applicabile 
fosse 
strettamente 
collegata 
al 
momento in cui 
egli 
aveva 
avuto accesso al rito abbreviato. 
24. In sintesi, era 
la 
data 
della 
richiesta 
di 
ammissione 
al 
rito abbreviato a 
determinare 
la 
sanzione applicabile in relazione al reato commesso. 
25. La 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello ha 
quindi 
concluso che, conformemente 
alla 
consolidata 
giurisprudenza 
interna 
(si 
veda 
§§ 41-42), i 
principi 
stabiliti 
nel 
caso Scoppola 
(sopra 
citata) 
non potevano essere applicati al caso in esame. 
26. 
Con 
riferimento 
alla 
questione 
di 
costituzionalità 
sollevata 
dal 
ricorrente, 
la 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello 
ha 
ritenuto 
che 
il 
fatto 
che, 
nel 
caso 
di 
ercolano, 
la 
pena 
dell’imputato 
fosse 
divenuta 
definitiva 
non 
avesse 
alcun 
impatto 
sulle 
conclusioni 
della 
Corte 
Costitu



zionale. 
In 
effetti, 
la 
natura 
sostanziale 
della 
riduzione 
della 
pena 
era 
strettamente 
collegata 
al 
tipo 
di 
procedimento 
seguito 
nel 
caso 
specifico. 
La 
Corte 
di 
Assise 
d’Appello 
ha 
ritenuto 
che 
la 
cosiddetta 
“legge 
di 
interpretazione 
autentica” 
(cioè, 
l’articolo 
7 
del 
decreto-legge 


n. 
341 
del 
2000) 
fosse 
stata 
già 
giudicata 
“insostenibile” 
dalla 
Corte 
Europea 
dei 
Diritti 
dell’Uomo 
(nel 
caso 
Scoppola, 
sopra 
citata) 
e 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
(nella 
sentenza 
n. 
210 
del 
2013), 
in 
quanto 
privava 
il 
potenziale 
beneficiario 
di 
una 
legittima 
aspettativa 
quando 
l’accesso 
al 
rito 
abbreviato 
fosse 
già 
avvenuto. 
tale 
tesi 
rimaneva 
valida 
indipendentemente 
dal 
fatto 
che 
il 
procedimento 
penale 
fosse 
definitivo 
(come 
nel 
caso 
ercolano) 


o 
pendente 
(come 
nel 
caso 
del 
ricorrente). 


VI. LA SEntEnzA DELLA CortE DI CASSAzIonE 


27. Con la 
sentenza 
n. 26519 del 
7 gennaio 2016, depositata 
presso la 
cancelleria 
il 
24 giugno 
2016, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
dichiarato inammissibile 
l’appello del 
ricorrente 
per motivi 
di 
diritto. Facendo affidamento sulla 
propria 
giurisprudenza 
(in particolare 
la 
sentenza 
n. 
34233 del 
19 aprile 
2012, nota 
come 
Giannone; 
si 
veda 
§ 43) e 
avallando le 
motivazioni 
dei 
giudici 
di 
grado inferiore, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
ribadito che, nel 
caso del 
ricorrente, non 
si 
poneva 
alcuna 
questione 
in merito all’applicazione 
della 
normativa 
successiva 
più favorevole, 
considerando che 
al 
momento in cui 
egli 
aveva 
ottenuto il 
giudizio con rito abbreviato, 
era 
in vigore 
il 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000. A 
tale 
riguardo, la 
circostanza 
sottolineata 
dal 
ricorrente 
che 
il 
procedimento nel 
suo caso era 
ancora 
pendente 
fosse 
irrilevante. Pertanto, il 
ricorrente 
non aveva 
diritto a 
una 
riduzione 
della 
pena 
poiché 
non aveva 
richiesto l’accesso 
al rito abbreviato secondo le disposizioni della legge n. 479 del 1999. 
28. Confermando la 
motivazione 
dei 
giudici 
di 
grado inferiore, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
altresì 
respinto 
la 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
sollevare 
questione 
di 
costituzionalità 
innanzi 
alla 
Corte Costituzionale. 


QUADro GIUrIDICo E PrASSI rILEVAntI 


I. QUADro GIUrIDICo nAzIonALE 


a. 
il rito abbreviato 


29. Il 
rito abbreviato è 
disciplinato dagli 
articoli 
438 e 
441-443 del 
Codice 
di 
Procedura 
Penale. 
Si 
basa 
sul 
presupposto 
che 
un 
caso 
possa 
essere 
deciso 
allo 
stato 
degli 
atti 
all’udienza 
preliminare. La 
richiesta 
di 
procedere 
con il 
rito abbreviato può essere 
presentata 
oralmente 


o per iscritto in qualsiasi 
momento prima 
che 
le 
parti 
abbiano formulato le 
loro conclusioni 
all’udienza 
preliminare. Se 
si 
segue 
il 
rito abbreviato, l’udienza 
si 
svolge 
in forma 
non pubblica 
e 
seguono 
le 
richieste, 
oralmente 
formulate, 
dalle 
parti; 
in 
linea 
di 
principio, 
esse 
devono 
fondare 
le 
loro argomentazioni 
sugli 
atti 
contenuti 
nel 
fascicolo del 
pubblico ministero, sebbene, 
in via 
eccezionale, possa 
essere 
ammessa 
la 
prova 
testimoniale. Se 
il 
giudice 
dichiara 
l’imputato colpevole, la pena inflitta è ridotta di un terzo (articolo 442 § 2). 


B. 
modifica dell’articolo 442 del CPP tramite la legge n. 479 del 16 dicembre 1999 


30. Con la 
legge 
n. 479 del 
16 dicembre 
1999, entrata 
in vigore 
il 
2 gennaio 2000, il 
Parlamento 
ha 
reintrodotto la 
possibilità, in precedenza 
negata 
(si 
veda 
§ 34), per un imputato 
passibile di ergastolo di optare per il rito abbreviato. L’articolo 30 prevede quanto segue: 


Articolo 30 
“All’articolo 442 del 
codice 
di 
procedura 
penale 
sono apportate 
le 
seguenti 
modificazioni: 
... 


(b) al 
comma 
2, dopo il 
primo periodo è 
aggiunto il 
seguente: 
“Alla 
pena 
dell’ergastolo è 
sostituita quella della reclusione di anni trenta”. 



C. 
Decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000 


31. Il 
decreto-legge 
n. 341 del 
24 novembre 
2000, entrato in vigore 
lo stesso giorno e 
convertito 
in 
legge 
n. 
4 
del 
19 
gennaio 
2001, 
intendeva 
fornire 
“l’interpretazione 
autentica” 
della 
seconda frase del paragrafo 2 dell’Articolo 442 del c.p.p. e aggiunse una terza frase. 
32. nella 
sezione 
intitolata 
“Interpretazione 
autentica 
dell’articolo 442, comma 
2, del 
codice 
di 
procedura 
penale 
e 
disposizioni 
in 
materia 
di 
giudizio 
abbreviato 
nei 
processi 
per 
reati 
puniti con l’ergastolo”, l’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 prevedeva: 


Articolo 7 
“1. nell’articolo 442, comma 
2, ultimo periodo, del 
codice 
di 
procedura 
penale, l’espressione 
“pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno. 


2. 
All’articolo 
442, 
comma 
2, 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
è 
aggiunto, 
in 
fine, 
il 
seguente 
periodo: 
“Alla 
pena 
dell’ergastolo con isolamento diurno, nei 
casi 
di 
concorso di 
reati 
e 
di 
reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”. 


33. Le 
parti 
rilevanti 
delle 
disposizioni 
del 
CPP 
che 
disciplinano il 
rito abbreviato, come 
modificato dalla 
Legge 
n. 479 del 
16 dicembre 
1999 e 
dal 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000, recitano 
come segue: 


Articolo 438 
“1. L’imputato può chiedere 
che 
il 
processo sia 
definito all’udienza 
preliminare 
allo stato 
degli atti ... 


2. 
La 
richiesta 
può 
essere 
proposta, 
oralmente 
o 
per 
iscritto, 
fino 
a 
che 
non 
siano 
formulate 
le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422. 
3. 
La 
volontà 
dell’imputato 
è 
espressa 
personalmente 
o 
per 
mezzo 
di 
procuratore 
speciale 
e 
la 
sottoscrizione 
è 
autenticata 
da 
un 
notaio, 
da 
altra 
persona 
autorizzata 
o 
dal 
difensore. 


4. 
Sulla 
richiesta 
il 
giudice 
provvede 
con 
ordinanza 
con 
la 
quale 
dispone 
il 
giudizio 
abbreviato. 


5. L’imputato ... può subordinare 
la 
richiesta 
ad una 
integrazione 
probatoria 
necessaria 
ai 
fini 
della 
decisione. Il 
giudice 
dispone 
il 
giudizio abbreviato se, tenuto conto degli 
atti 
già 
acquisiti 
ed utilizzabili, l’integrazione 
probatoria 
richiesta 
risulta 
necessaria 
ai 
fini 
della 
decisione 
e 
il 
giudizio 
abbreviato 
realizza 
comunque 
una 
economia 
processuale, 
in 
relazione 
all’istruzione 
dibattimentale. In tal 
caso il 
pubblico ministero può chiedere 
l’ammissione 
di 
prova contraria. ... 


...” 


Articolo 441 


“1. nel 
giudizio abbreviato si 
osservano, in quanto applicabili, le 
disposizioni 
previste 
per 
l’udienza 
preliminare, fatta 
eccezione 
per quelle 
di 
cui 
agli 
articoli 
422 e 
423 [disposizioni 
che 
regolano il 
potere 
del 
giudice 
di 
disporre 
d’ufficio la 
produzione 
di 
prove 
essenziali 
e 
la 
possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione]. 


... 


3. Il 
giudizio abbreviato si 
svolge 
in camera 
di 
consiglio; 
il 
giudice 
dispone 
che 
il 
giudizio 


si svolga in pubblica udienza quando ne fanno richiesta tutti gli imputati. 
... 


5. Quando il 
giudice 
ritiene 
di 
non poter decidere 
allo stato degli 
atti 
assume, anche 
d’ufficio, 
gli 
elementi 
necessari 
ai 
fini 
della 
decisione. resta 
salva 
in tale 
caso l’applicabilità 
del-
l’articolo 423. 
6. 
All’assunzione 
delle 
prove 
di 
cui 
al 
comma 
5 
del 
presente 
articolo 
e 
all’articolo 
438, 
comma 
5, si 
procede 
nelle 
firme 
previste 
dall’articolo 422, comma 
2, 3 e 
4 [questi 
paragrafi 



consentono alle 
parti 
di 
porre 
domande 
ai 
testimoni 
e 
ai 
periti 
tramite 
il 
tramite 
del 
giudice 
e 


concedono all’imputato il diritto di chiedere di essere interrogato]”. 


Articolo 442 


“1. 
terminata 
la 
discussione, 
il 
giudice 
provvede 
a 
norma 
degli 
articoli 
529 
e 
seguenti 
[queste 
disposizioni riguardano il proscioglimento, l’assoluzione e la condanna]. 


1 bis. Ai 
fini 
della 
deliberazione 
il 
giudice 
utilizza 
gli 
atti 
contenuti 
nel 
fascicolo [cui 
si 
fa 
riferimento] di 
cui 
all’articolo 416, comma 
2 [il 
fascicolo detenuto dall’ufficio del 
pubblico 
ministero sui 
passi 
compiuti 
nell’indagine 
preliminare], la 
documentazione 
di 
cui 
all’articolo 
419, 
comma 
3 
[relativi 
ai 
passi 
compiuti 
nell’indagine 
successivi 
alla 
citazione 
a 
giudizio 
del-
l’imputato] e le prove assunte nell’udienza. 


2. 
In 
caso 
di 
condanna, 
la 
pena 
che 
il 
giudice 
determina 
tenendo 
conto 
di 
tutte 
le 
circostanze 
è 
diminuita 
della 
metà 
se 
si 
procede 
per una 
contravvenzione 
e 
di 
un terzo se 
si 
procede 
per 
un 
delitto. 
[Alla 
pena 
dell’ergastolo 
è 
sostituita 
quella 
della 
reclusione 
di 
anni 
trenta. 
Alla 
pena dell’ergastolo con isolamento diurno... è sostituita quella dell’ergastolo. 


3. La sentenza è notificata all’imputato che non sia comparso. 
...” 
Articolo 443 
“1. L’imputato e 
il 
pubblico ministero non possono proporre 
appello contro le 
sentenze 
di 


proscioglimento. 
... 


3. Il 
pubblico ministero non può proporre 
appello contro le 
sentenze 
di 
condanna, salvo 
che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato. 


4. Il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall’articolo 599”. 


II. 
GIUrISPrUDEnzA nAzIonALE 


a. 
Giurisprudenza della Corte Costituzionale 


1. 
Sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 23 aprile 1991 


34. Con la 
sentenza 
n. 176 del 
23 aprile 
1991, la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
annullato le 
disposizioni 
del 
CPP 
in 
base 
alle 
quali 
il 
rito 
abbreviato 
era 
stato 
reso 
disponibile 
per 
le 
persone 
accusate 
di 
reati 
punibili 
con l’ergastolo. Ha 
rilevato, in particolare, che 
tali 
disposizioni 
avevano 
ecceduto i 
poteri 
che 
il 
Parlamento aveva 
delegato al 
Governo con l’intento di 
adottare 
il nuovo CPP. 


2. 
Sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 3 luglio 2013 


35. Su rinvio della 
Corte 
di 
Cassazione 
a 
Sezioni 
Unite 
nel 
caso n. 34472 del 
10 settembre 
2012 (noto come 
“ercolano 
”), la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
esaminato la 
questione 
della 
compatibilità 
dell’articolo 7 del 
Decreto-legge 
n. 341 del 
2000 (si 
veda 
§ 32) con la 
Costituzione 
Italiana 
e 
con la 
Convenzione, come 
interpretata 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), con 
particolare 
riguardo 
all’effetto 
retroattivo 
di 
tale 
disposizione 
nei 
casi 
in 
cui 
gli 
imputati 
avessero 
richiesto di 
essere 
giudicati 
con il 
rito abbreviato mentre 
era 
in vigore 
la 
legge 
n. 479 del 
1999, ma 
fossero stati 
condannati 
in una 
fase 
successiva, ossia 
dal 
pomeriggio del 
24 novembre 
2000, 
quando 
era 
entrato 
in 
vigore 
il 
decreto-legge 
n. 
341 
del 
2000, 
e 
avessero 
così 
subito 
la pena più grave prevista da tale decreto. 
36. La 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
è 
partita 
dal 
presupposto della 
corte 
remittente, 
secondo cui 
la 
questione 
di 
costituzionalità 
in esame 
riguardava 
casi 
identici 
a 
quello della 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), cioè 
casi 
in cui 
la 
richiesta 
di 
essere 
giudicati 
con il 
rito abbreviato 
fosse stata formulata mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999. 


37. Le parti pertinenti di tale sentenza recitano come segue: 



“9. nel merito, ... 


... La 
sentenza 
della 
Corte 
EDU, 17 settembre 
2009, Scoppola 
contro Italia 
ha 
affermato 
che 
l’art. 442, comma 
2, cod. proc. pen. costituisce 
«una 
disposizione 
di 
diritto penale 
materiale 
riguardante 
la 
severità 
della 
pena 
da 
infliggere 
in caso di 
condanna 
secondo il 
rito abbreviato
» 
e 
che 
l’art. 
7, 
comma 
1, 
del 
decreto-legge 
n. 
341 
del 
2000, 
nonostante 
la 
formulazione, 
non 
è 
in 
realtà 
una 
norma 
interpretativa, 
perché 
«l’art. 
442, 
comma 
2, 
cod. 
proc. 
pen. 
non 
presentava 
alcuna 
ambiguità 
particolare; 
esso 
indicava 
chiaramente 
che 
la 
pena 
dell’ergastolo era 
sostituita 
da 
quella 
della 
reclusione 
di 
anni 
trenta, e 
non faceva 
distinzioni 
tra 
la 
condanna 
all’ergastolo con o senza 
isolamento diurno». Inoltre, aggiunge 
la 
sentenza 
Scoppola, «il 
Governo non ha 
prodotto esempi 
di 
conflitti 
giurisprudenziali 
ai 
quali 
l’art. 442 
sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo». 


Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento interno. ... 


In sostanza, l’art. 7, comma 
1, del 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000, con il 
suo effetto retroattivo, 
ha 
determinato la 
condanna 
all’ergastolo di 
imputati 
ai 
quali 
era 
applicabile 
il 
precedente 
testo dell’art. 442, comma 
2, cod. proc. pen. e 
che 
in base 
a 
questo avrebbero dovuto 
essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione. 


La 
Corte 
EDU, 
con 
la 
sentenza 
Scoppola 
del 
17 
settembre 
2009, 
ha 
ritenuto, 
mutando 
il 
proprio 
precedente 
e 
consolidato 
orientamento, 
che 
«l’art. 
7, 
paragrafo 
1, 
della 
Convenzione 
non 
sancisce 
solo 
il 
principio 
della 
irretroattività 
delle 
leggi 
penali 
più 
severe, 
ma 
anche, 
e 
implicitamente, 
il 
principio 
della 
retroattività 
della 
legge 
penale 
meno 
severa», 
che 
si 
traduce 
«nella 
norma 
secondo 
cui, 
se 
la 
legge 
penale 
in 
vigore 
al 
momento 
della 
commissione 
del 
reato 
e 
le 
leggi 
penali 
posteriori 
adottate 
prima 
della 
pronuncia 
di 
una 
sentenza 
definitiva 
sono 
diverse, 
il 
giudice 
deve 
applicare 
quella 
le 
cui 
disposizioni 
sono 
più 
favorevoli 
all’imputato 
». 


Si 
tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della 
CEDU, di 
un principio analogo a 
quello 
contenuto 
nel 
quarto 
comma 
dell’art. 
2 
cod. 
pen., 
che 
dalla 
Corte 
di 
Strasburgo 
è 
stato 
elevato 
al rango di principio della Convenzione. 


Posto questo principio la 
Corte 
ha 
rilevato che 
«l’articolo 30 della 
legge 
n. 479 del 
1999 si 
traduce 
in 
una 
disposizione 
penale 
posteriore 
che 
prevede 
una 
pena 
meno 
severa» 
e 
che 
«l’articolo 
7 della Convenzione [...] imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente»”. 


38. Su tali 
basi, la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
ritenuto che 
la 
questione 
relativa 
alla 
costituzionalità 
dell’articolo 
7 
del 
decreto-legge 
n. 
341 
del 
2000 
in 
relazione 
all’articolo 
7 
della 
Convenzione 
fosse 
fondata 
e 
ha 
dichiarato che 
l’articolo 7(1) del 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000 
fosse 
incostituzionale 
in quanto, nonostante 
fosse 
qualificato come 
legge 
di 
“interpretazione 
autentica” 
(si 
veda 
§ 
32 
sopra), 
aveva 
ingiustamente 
determinato 
la 
sua 
applicazione 
retroattiva 
ai procedimenti in corso. 
39. Allo stesso tempo, la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
precisato che 
l’articolo 7(2) del 
decreto 
legge, che 
modifica 
l’articolo 442 § 2 del 
CPP, si 
limitava 
a 
stabilire 
le 
nuove 
norme 
relative 
al 
rito abbreviato per i 
reati 
punibili 
con l’ergastolo, da 
applicare 
“a 
regime” 
e 
quindi, nelle 
fattispecie 
successive 
alla 
sua 
entrata 
in vigore. Di 
conseguenza, l’opzione 
di 
un giudizio con 
rito abbreviato per imputati 
passibili 
di 
ergastolo (con o senza 
isolamento diurno) rimaneva 
aperta, ma con un diverso quadro sanzionatorio. 
40. 
Infine, 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
chiarito 
che 
la 
revisione 
dell’ordinanza 
di 
esecuzione 
fosse 
il 
procedimento 
appropriato 
per 
ottenere 
una 
riduzione 
della 
pena 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
condanna 
dell’imputato 
fosse 
divenuta 
definitiva. 
Ciò 
riguardava, 
in 
particolare, 
casi 
identici 
a 
quello 
di 
Scoppola 
(ibid.), 
ossia 
quelli 
in 
cui 
un 
ricorrente 
fosse 
stato 
giu



dicato 
con 
il 
rito 
abbreviato 
a 
seguito 
di 
una 
richiesta 
presentata 
mentre 
era 
in 
vigore 
la 


Legge 
n. 
479 
del 
1999. 


B. 
Giurisprudenza della Corte di Cassazione 


1. 
le sentenze della Corte di Cassazione successive alla sentenza Scoppola 


41. A 
seguito della 
sentenza 
della 
Corte 
nel 
caso Scoppola 
(sopra 
citata), molti 
condannati 
a 
pena 
dell’ergastolo hanno chiesto la 
revisione 
degli 
ordini 
di 
esecuzione, richiedendo che 
la 
loro pena 
fosse 
ridotta 
a 
trent’anni 
di 
reclusione. I tribunali 
nazionali, in qualità 
di 
giudici 
dell’esecuzione, 
hanno 
rigettato 
tali 
istanze; 
gli 
imputati 
hanno 
quindi 
proposto 
ricorso 
in 
punto di diritto. 
42. La 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
ripetutamente 
affermato che 
solo gli 
imputati 
che 
avevano 
optato per il 
giudizio con giudizio abbreviato tra 
il 
2 gennaio 2000 e 
il 
24 novembre 
2000 ossia, 
tra 
l’entrata 
in vigore 
della 
legge 
n. 479 del 
16 dicembre 
1999 e 
l’entrata 
in vigore 
del 
decreto-legge 
n. 
341 
del 
24 
novembre 
2000 
-avevano 
diritto 
alla 
riduzione 
della 
pena 
(si 
veda, inter 
alia, le 
sentenze 
n. 8689 del 
2 dicembre 
2011, n. 25227 del 
10 gennaio 2012, n. 
5134 dell’11 febbraio 2012 e n. 48329 del 13 novembre 2012). 


2. 
Sentenza a Sezioni 
Unite 
della Corte 
di 
Cassazione 
n. 34233 del 
19 aprile 
2012 (nota 
come 
“Giannone 
”) 


43. 
Con 
la 
sentenza 
n. 
34233, 
depositata 
presso 
la 
cancelleria 
il 
7 
settembre 
2012, 
le 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
hanno 
stabilito 
che 
i 
principi 
enunciati 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata) dovessero essere 
letti 
insieme 
alle 
norme 
procedurali 
che 
regolano il 
rito abbreviato. 
In tal 
senso, la 
data 
della 
presentazione 
della 
richiesta 
di 
giudizio con rito abbreviato è 
stata 
considerata 
l’elemento 
determinante, 
unitamente 
al 
tempus 
commissi 
delicti 
(cioè, 
il 
momento 
della 
commissione 
del 
reato), per stabilire 
quale 
legge 
fosse 
applicabile 
nella 
determinazione 
della pena rilevante. 
44. Secondo la 
Corte 
di 
Cassazione, la 
questione 
della 
successione 
delle 
leggi 
penali 
esaminata 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata) sorge 
esclusivamente 
nei 
casi 
in cui 
l’imputato 
abbia 
richiesto di 
essere 
giudicato con rito abbreviato secondo la 
lex 
mitior 
-vale 
a 
dire, tra 
il 
2 gennaio 2000 e 
il 
24 novembre 
2000 -acquisendo così 
il 
diritto alla 
pena 
più mite 
di 
trent’anni 
di reclusione. 
45. In particolare, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
affermato che, alla 
luce 
dell’articolo 7 della 
Convenzione, interpretato nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata), il 
principio di 
retroattività 
della 
lex 
mitior 
garantiva 
che 
la 
durata 
del 
procedimento non pregiudicasse 
l’imputato, che 
avrebbe 
potuto 
incorrere 
in 
una 
pena 
più 
severa 
rispetto 
a 
quella 
applicabile 
se 
il 
procedimento 
fosse 
terminato prima. La 
Corte 
ha 
quindi 
considerato che 
la 
legge 
applicabile 
più favorevole 
dovesse 
essere 
identificata 
in 
un 
periodo 
diverso 
da 
quello 
di 
riferimento 
nei 
processi 
condotti 
con rito ordinario. Infatti, mentre 
in quest’ultimo caso il 
periodo di 
riferimento andava 
dalla 
data 
della 
commissione 
del 
reato 
fino 
alla 
data 
della 
condanna 
definitiva, 
nei 
processi 
condotti 
con rito abbreviato la 
legge 
applicabile 
più favorevole 
doveva 
essere 
identificata 
nel 
periodo 
compreso tra 
la 
richiesta 
di 
giudizio con rito abbreviato e 
la 
data 
della 
condanna 
definitiva. 
Secondo la 
Corte 
di 
Cassazione, qualora 
la 
pena 
applicabile 
fosse 
stata 
riesaminata 
e 
ridotta 
a 
seguito della 
decisione 
dell’imputato di 
essere 
giudicato con rito abbreviato, non si 
poteva 
considerare 
solo il 
momento della 
commissione 
del 
reato, poiché 
l’identificazione 
della 
pena 
applicabile era strettamente legata all’accesso dell’imputato al rito abbreviato. 
46. In sintesi: 
“È 
tale 
richiesta 
[per il 
rito abbreviato], in definitiva, a 
cristallizzare, in relazione 
al 
reato 
o 
ai 
reati 
per 
i 
quali 
si 
procede, 
il 
trattamento 
sanzionatorio 
vigente 
al 
momento 
di essa”. 



47. La 
Corte 
ha 
concluso che, qualora 
un imputato, come 
nel 
caso in esame, avesse 
optato 
per il 
giudizio con rito abbreviato dopo l’entrata 
in vigore 
dell’articolo 7 del 
decreto-legge 
n. 
341 del 
2000 (che 
prevedeva 
che 
la 
pena 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
fosse 
sostituita 
dalla 
pena 
dell’ergastolo senza 
isolamento diurno), non vi 
sarebbe 
stata 
alcuna 
violazione 
del 
principio 
di 
retroattività 
della 
legge 
penale 
più favorevole, né 
sarebbe 
stata 
frustrata 
alcuna 
aspettativa 
legittima 
dell’imputato, poiché 
durante 
il 
periodo di 
riferimento (dalla 
richiesta 
di 
giudizio 
con rito abbreviato fino alla 
data 
della 
condanna 
definitiva) l’ordinamento giuridico non prevedeva 
la possibilità di essere condannati a trent’anni di reclusione. 


3. 
la sentenza delle 
Sezioni 
Unite 
della Corte 
di 
Cassazione 
n. 18821 del 
7 maggio 2014 
(nota come 
“Ercolano”) 


48. A 
seguito della 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 210 del 
2013 (si 
veda 
§ 35) e 
in 
conformità 
con la 
precedente 
sentenza 
Giannone 
(si 
veda 
§ 43), con la 
sentenza 
n. 18821 del 
7 maggio 2014, le 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
hanno stabilito che 
i 
giudici 
del-
l’esecuzione 
avevano l’obbligo di 
ridurre 
le 
pene 
dell’ergastolo inflitte 
a 
coloro che 
avevano 
optato per il 
rito abbreviato tra 
il 
2 gennaio e 
il 
24 novembre 
2000, indipendentemente 
dal 
fatto che fosse stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 


49. La motivazione della sentenza, per quanto rilevante, recita come segue: 


“5. ... La 
richiesta 
di 
giudizio abbreviato formulata 
nel 
vigore 
della 
così 
detta 
“legge 
intermedia”, 
L. n. 479 del 
1999, art. 30, comma 
1, lett. b), in relazione 
ai 
reati 
punibili 
con l’ergastolo 
individua, 
pertanto, 
il 
più 
mite 
trattamento 
sanzionatorio 
da 
applicare 
in 
caso 
di 
condanna, nulla 
rilevando che, nel 
momento in cui 
interviene 
la 
relativa 
decisione, il 
corrispondente 
quadro normativo risulta 
essere 
stato -medio tempore 
-modificato in senso più rigoroso.. 


... 


5.1 Conclusivamente, con riferimento al 
mutamento di 
disciplina 
della 
pena, la 
regola 
in 
esame 
opera 
nell’ipotesi 
in cui 
la 
fattispecie 
complessa 
a 
cui 
innanzi 
si 
faceva 
cenno risulti 
essere 
stata 
integrata 
in 
tutte 
le 
sue 
componenti 
durante 
la 
vigenza 
della 
lex 
mitior 
intermedia, 
vale 
a 
dire 
tra 
il 
2 
gennaio 
e 
il 
23 
novembre 
2000: 
in 
particolare, 
l’interessato 
deve 
avere 
chiesto, 
in tale 
arco temporale, l’accesso al 
rito semplificato, evento processuale 
-questo -che, 
come 
si 
è 
detto, 
cristallizza 
la 
pena 
meno 
severa 
in 
quel 
momento 
prevista, 
attribuendo 
al 
dato 
normativo 
di 
riferimento 
efficacia 
retroattiva 
rispetto 
alla 
data 
di 
consumazione 
del 
fatto-
reato (se 
risale 
ad epoca 
in cui 
l’accesso al 
rito non era 
consentito) e 
ultrattiva 
rispetto al 
superamento 
del citato dato normativo ad opera della legge successiva più severa. ...”. 


50. A 
seguito delle 
sentenze 
Giannone 
ed ercolano, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
mantenuto 
un 
orientamento 
costante 
nel 
rifiutare 
l’applicazione 
dei 
principi 
stabiliti 
nella 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata) a 
persone 
condannate 
all’ergastolo in procedimenti 
che 
non erano identici 
a 
quelli 
di 
quel 
caso, in quanto gli 
imputati 
non avevano chiesto di 
essere 
giudicati 
con il 
rito 
abbreviato previsto dalla 
legge 
n. 479 del 
1999 o, se 
lo avevano fatto, avevano successivamente 
ritirato la 
richiesta 
(si 
veda, inter 
alia, Corte 
di 
Cassazione, n. 15748 del 
21 gennaio 
2014, n. 34158 del 
1 agosto 2014, n. 7162 del 
21 dicembre 
2015, e 
n. 11916 del 
21 novembre 
2018). 


III. rACComAnDAzIonE DEL ConSIGLIo D’EUroPA 


51. 
La 
raccomandazione 
n. 
r 
(87) 
18 
del 
Comitato 
dei 
ministri 
agli 
Stati 
membri 
riguarda 
la 
semplificazione 
della 
giustizia 
penale. tale 
raccomandazione, che 
si 
riferisce 
al 
giudizio 
abbreviato e 
semplificato, è 
stata 
adottata 
dal 
Comitato dei 
ministri 
del 
Consiglio d’Europa 
il 17 settembre 1987. Le parti rilevanti recitano come segue: 



“Visto l’aumento del 
numero dei 
casi 
penali 
sottoposti 
ai 
tribunali, e 
in particolare 
quelli 
che comportano pene minori, nonché i problemi causati dalla durata delle procedure penali; 


Considerato 
che 
il 
ritardo 
nel 
trattare 
i 
crimini 
porta 
la 
giustizia 
penale 
in 
cattiva 
luce 
e 
compromette il corretto svolgimento dell’amministrazione della giustizia; 


Considerato che 
i 
ritardi 
nell’amministrazione 
della 
giustizia 
penale 
potrebbero essere 
rimediati 
non 
solo 
con 
l’assegnazione 
di 
risorse 
specifiche 
e 
il 
modo 
in 
cui 
tali 
risorse 
sono 
utilizzate, 
ma 
anche 
con 
una 
definizione 
più 
chiara 
delle 
priorità 
per 
la 
conduzione 
della 
politica 
criminale, sia sotto il profilo formale che sostanziale, attraverso: 


... 


- l’adozione delle seguenti misure per il trattamento dei reati minori e di massa: 


-i cosiddetti procedimenti abbreviati, 


-le 
soluzioni 
extragiudiziali 
da 
parte 
delle 
autorità 
competenti 
in 
materia 
penale 
e 
altre 
autorità 
intervenienti, come possibile alternativa all’azione penale, 


- le cosiddette procedure semplificate; 
- la semplificazione delle procedure giuridiche ordinarie; 
... 


III. Semplificazione delle procedure giuridiche ordinarie 


a. indagine giudiziaria preliminare e in sede di udienza di primo grado 


... 


4. 
Qualora 
vi 
sia 
un’indagine 
preliminare, 
questa 
deve 
essere 
svolta 
secondo 
una 
procedura 
che 
escluda 
tutte 
le 
formalità 
superflue 
e, 
in 
particolare, 
eviti 
la 
necessità 
di 
un’udienza 
formale 
dei testimoni nei casi in cui l’imputato non contesti i fatti. 


...”. 


In DIrItto 


I. AmmISSIBILItÀ 


52. La 
Corte 
osserva 
che 
il 
ricorso non è 
manifestamente 
infondato né 
inammissibile 
per 
altri 
motivi 
previsti 
dall’articolo 35 della 
Convenzione. Deve 
pertanto essere 
dichiarato ammissibile. 


II. mErIto 


a. 
La presunta violazione dell’articolo 7 della Convenzione 


53. Il 
ricorrente 
ha 
lamentato che, essendo stato condannato all’ergastolo, gli 
fosse 
stata 
inflitta 
una 
pena 
più severa 
di 
quella 
prescritta 
dalla 
legge 
che, tra 
tutte 
le 
leggi 
in vigore 
nel 
periodo intercorso tra 
la 
commissione 
del 
reato e 
l’emissione 
della 
sentenza 
definitiva, era 
la 
più favorevole a lui. 
54. Egli 
ha 
sostenuto, in particolare, che 
nel 
corso del 
procedimento penale 
a 
suo carico, i 
tribunali 
nazionali 
avevano “inventato un nuovo criterio”, comportante 
la 
necessità 
di 
aver 
richiesto il 
giudizio secondo il 
rito abbreviato durante 
il 
periodo in cui 
era 
in vigore 
la 
legge 


n. 
479 
del 
1999. 
Secondo 
il 
ricorrente, 
invece, 
ciò 
che 
contava 
per 
poter 
beneficiare 
della 
sanzione 
più favorevole 
era 
il 
fatto che 
i 
reati 
per i 
quali 
era 
giudicato si 
fossero verificati 
prima 
dell’entrata 
in vigore 
della 
legge 
più favorevole. Il 
ricorrente 
ha 
invocato l’articolo 7 della 
Convenzione, il quale dispone quanto segue: 


“1. nessuno può essere 
condannato per una 
azione 
o una 
omissione 
che, al 
momento in 
cui 
è 
stata 
commessa, 
non 
costituiva 
reato 
secondo 
il 
diritto 
interno 
o 
internazionale. 
Parimenti, 
non può essere 
inflitta 
una 
pena 
più grave 
di 
quella 
applicabile 
al 
momento in cui 
il 
reato è stato commesso. 



2. Il 
presente 
articolo non ostacolerà 
il 
giudizio e 
la 
condanna 
di 
una 
persona 
colpevole 
di 
una 
azione 
o 
di 
una 
omissione 
che, 
al 
momento 
in 
cui 
è 
stata 
commessa, 
costituiva 
un 
crimine 
secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. 


1. le osservazioni delle parti 


(a) Le osservazioni del ricorrente 


55. Il 
ricorrente 
ha 
fatto affidamento sulle 
conclusioni 
della 
Corte 
nella 
causa 
Scoppola c. 
italia (n. 2) 
[GC], n. 10249/03, § 113, 17 settembre 
2009, nel 
senso che 
l’articolo 442 § 2 del 
CPP 
costituiva 
una 
disposizione 
di 
diritto penale 
sostanziale 
riguardante 
la 
durata 
della 
pena 
da infliggere in caso di condanna a seguito di giudizio abbreviato. 
56. 
Il 
ricorrente 
ha 
sostenuto 
che, 
essendo 
stato 
giudicato 
con 
rito 
abbreviato, 
aveva 
diritto 
alla 
pena 
più mite 
prevista 
dalla 
legge 
per tale 
procedimento (vale 
a 
dire 
trent’anni 
di 
reclusione 
ai 
sensi 
dell’articolo 442 § 2 del 
CPP, come 
modificato dalla 
legge 
n. 479 del 
1999; 
si 
veda § 30). 
(b) Le osservazioni del Governo 


57. 
Il 
Governo 
ha 
sottolineato 
che 
la 
situazione 
del 
ricorrente 
differiva 
da 
quella 
esaminata 
nel 
caso 
Scoppola 
(sopra 
citata). 
A 
differenza 
del 
ricorrente 
in 
quel 
caso, 
il 
ricorrente 
nel 
caso 
presente 
aveva 
chiesto di 
essere 
giudicato con il 
rito abbreviato in un momento in cui 
la 
pena 
massima 
applicabile 
per i 
reati 
cumulativi 
previsti 
da 
tale 
procedimento era 
già 
stata 
modificata 
da 
trent’anni 
di 
reclusione 
all’ergastolo senza 
isolamento diurno. In tale 
contesto, il 
Governo 
ha 
osservato 
che, 
a 
differenza 
del 
ricorrente 
in 
Scoppola 
(ibid.), 
il 
ricorrente 
nel 
presente 
caso 
non 
era 
stato 
direttamente 
influenzato 
dall’applicazione 
retroattiva 
dell’articolo 
7 
del 
de-
creto-legge 
n. 341 del 
2000. Ha 
inoltre 
rilevato che, nel 
caso Scoppola 
(ibid.), la 
Corte 
aveva 
concluso che 
l’articolo 7 della 
Convenzione 
era 
stato violato nei 
confronti 
di 
quei 
convenuti 
che 
avevano fatto richiesta 
di 
giudizio con rito abbreviato prima 
del 
24 novembre 
2000, incluso 
il ricorrente in quel caso. 
58. 
Per 
quanto 
riguarda 
i 
principi 
applicabili 
alla 
successione 
delle 
leggi 
penali, 
il 
Governo 
ha 
sottolineato 
che 
occorre 
distinguere 
tra 
due 
tipi 
di 
disposizioni: 
quelle 
che 
regolano 
direttamente 
la 
pena 
applicabile 
per 
ciascun 
reato 
e 
quelle 
relative 
a 
procedure 
speciali 
(come 
il 
rito 
abbreviato), 
che 
potrebbero 
influire 
solo 
indirettamente 
sulla 
pena. 
nei 
casi 
riguardanti 
il 
secondo 
tipo 
di 
disposizione, 
l’imputato 
ha 
stipulato 
un 
accordo 
con 
lo 
Stato, 
come 
parte 
della 
sua 
strategia 
difensiva. 
Di 
conseguenza, 
la 
data 
in 
cui 
tale 
accordo 
era 
stato 
raggiunto 
è 
risultata 
determinante 
per 
stabilire 
la 
pena 
applicabile 
che 
l’imputato 
rischiava 
di 
incorrere, 
in 
conformità 
ai 
principi 
stabiliti 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
nella 
sentenza 
Giannone 
(si 
veda 
§ 
43). 
59. In sintesi, il 
periodo di 
tempo per individuare 
la 
disposizione 
più favorevole 
ai 
sensi 
della 
legge 
penale 
decorreva 
dalla 
data 
della 
richiesta 
di 
giudizio con rito abbreviato fino alla 
data della condanna. 
60. Pertanto, il 
Governo ha 
contestato che 
vi 
fosse 
stata 
un’applicazione 
retroattiva 
della 
legge penale a detrimento del ricorrente nel suo caso. 
2. 
Valutazione della Corte 
(a) Principi Generali 


61. La 
Corte 
ribadisce 
che 
la 
garanzia 
sancita 
dall’articolo 7, che 
costituisce 
un elemento 
essenziale 
dello 
Stato 
di 
diritto, 
occupa 
un 
posto 
di 
rilievo 
nel 
sistema 
di 
protezione 
della 
Convenzione, come 
sottolineato dal 
fatto che 
non è 
consentita 
alcuna 
deroga 
a 
tale 
garanzia 
ai 
sensi 
dell’Articolo 
15, 
nemmeno 
in 
tempo 
di 
guerra 
o 
altra 
emergenza 
pubblica 
che 
minacci 
la 
vita 
della 
nazione. tale 
garanzia 
deve 
essere 
interpretata 
e 
applicata, come 
emerge 
dal 
suo 





oggetto 
e 
scopo, 
in 
modo 
da 
fornire 
tutele 
efficaci 
contro 
procedimenti 
penali, 
condanne 
e 
punizioni 
arbitrarie 
(si 
veda 
Del 
río Prada c. Spagna 
[GC], n. 42750/09, § 77, CEDU 
2013; 
Vasiliauskas 
c. 
lituania 
[GC], 
n. 
35343/05, 
§ 
153, 
CEDU 
2015; 
e 
ilnseher 
c. 
Germania 
[GC], 
nn. 10211/12 e 27505/14, § 202, 4 dicembre 2018). 


62. La 
Corte 
ribadisce 
che 
l’articolo 7 della 
Convenzione 
non solo garantisce 
il 
principio 
della 
non 
retroattività 
delle 
leggi 
penali 
più 
severe, 
ma 
anche, 
implicitamente, 
il 
principio 
della 
retroattività 
della 
legge 
penale 
più 
favorevole. 
tale 
principio 
è 
incarnato 
dalla 
regola 
secondo cui, qualora 
vi 
siano differenze 
tra 
la 
legge 
penale 
in vigore 
al 
momento della 
commissione 
del 
reato e 
le 
leggi 
penali 
successive 
emanate 
prima 
che 
venga 
emessa 
una 
sentenza 
definitiva, i 
tribunali 
devono applicare 
la 
legge 
le 
cui 
disposizioni 
sono più favorevoli 
all’imputato 
(si 
veda 
Scoppola, sopra 
citata, § 109; 
Parere 
consultivo sulla tecnica del 
“rinvio generale” 
o “rinvio per 
definizione” 
nella definizione 
di 
un reato e 
sugli 
standard di 
confronto 
tra la legge 
penale 
in vigore 
al 
momento della commissione 
del 
reato e 
la legge 
penale 
modificata, 
[GC], 
richiesta 
n. 
P16-2019-001, 
Corte 
costituzionale 
armena, 
§ 
81, 
29 
maggio 
2020 
(“Parere 
consultivo 
P16-2019-001”); 
e 
Jidic 
c. 
romania, 
n. 
45776/16, 
§ 
80, 
18 
febbraio 
2020). 
Il 
principio 
di 
applicazione 
retroattiva 
della 
legge 
penale 
più 
favorevole 
si 
applica 
anche 
nel 
contesto di 
una 
modifica 
relativa 
alla 
definizione 
del 
reato (si 
veda 
Parmak 
e 
bakır 


c. turchia, nn. 22429/07 e 
25195/07, § 64, 3 dicembre 
2019, e 
Parere 
consultivo 
P16-2019001, 
sopra citata, § 82). 


63. 
non 
è 
compito 
della 
Corte 
esaminare 
in 
abstracto 
se 
la 
mancata 
applicazione 
retroattiva 
della 
nuova 
legge 
penale 
sia, 
di 
per 
sé, 
incompatibile 
con 
l’articolo 
7 
della 
Convenzione. 
Questa 
questione 
deve 
essere 
valutata 
caso 
per 
caso, 
tenendo 
in 
considerazione 
le 
circostanze 
specifiche 
di 
ciascun caso, in particolare 
se 
i 
tribunali 
nazionali 
abbiano applicato la 
legge 
le 
cui 
disposizioni 
sono 
più 
favorevoli 
all’imputato 
(si 
veda 
Maktouf 
e 
Damjanović 
c. 
bosnia 
ed 
erzegovina 
[GC], nn. 2312/08 e 
34179/08, § 65, CEDU 
2013, e 
Jidic, sopra 
citata, § 82). Ciò 
che 
è 
cruciale 
è 
stabilire 
se, a 
seguito di 
una 
valutazione 
concreta 
degli 
atti 
specifici, l’applicazione 
di 
una 
legge 
penale 
piuttosto che 
di 
un’altra 
abbia 
posto l’imputato in una 
situazione 
di 
svantaggio 
per 
quanto 
riguarda 
la 
pena 
inflitta 
(si 
veda 
Maktouf 
e 
Damjanović, 
sopra 
citata, 
§§ 69-70, e 
Jidic, sopra citata, § 85). 


(b) applicazione dei principi sopra indicati al caso di specie 


64. non è 
contestato che, nel 
caso in esame, i 
reati 
di 
cui 
l’imputato era 
accusato erano punibili 
cumulativamente 
con l’ergastolo e 
l’isolamento diurno e 
che, all’epoca 
in cui 
furono 
commessi, nel 
1983, il 
CPP 
non prevedeva 
la 
possibilità 
di 
un giudizio secondo il 
rito abbreviato 
(si veda § 6). 
65. Il 
ricorrente 
è 
stato rinviato a 
giudizio per la 
prima 
volta 
nel 
1995, momento in cui, 
alla 
luce 
della 
sentenza 
n. 
176 
del 
1991 
della 
Corte 
Costituzionale 
(si 
veda 
§ 
34), 
gli 
era 
ancora 
precluso il ricorso al giudizio abbreviato. 
66. Quando la 
legge 
n. 479 del 
1999 ha 
reintrodotto la 
possibilità 
per gli 
imputati 
punibili 
con l’ergastolo di 
optare 
per il 
giudizio abbreviato e, di 
conseguenza, di 
affrontare 
una 
pena 
massima 
di 
trent’anni 
di 
reclusione, 
il 
procedimento 
relativo 
al 
caso 
del 
ricorrente 
era 
pendente 
in primo grado. 
67. In conformità 
con le 
disposizioni 
transitorie 
contenute 
nell’articolo 4-ter 
del 
Decreto-
legge 
n. 82 del 
2000, entrato in vigore 
l’8 giugno 2000, era 
consentito agli 
imputati 
di 
richiedere 
il 
giudizio abbreviato alla 
prima 
udienza 
utile. tuttavia, il 
ricorrente 
non ha 
usufruito di 
tale possibilità (si veda §§ 8-9). 


68. 
La 
Corte 
osserva 
che 
la 
condanna 
in 
primo 
grado 
del 
ricorrente 
è 
stata 
annullata 



dalla 
Corte 
di 
Assise 
di 
Appello 
di 
napoli, 
la 
quale 
ha 
rimesso 
il 
caso 
al 
pubblico 
ministero 
per 
un 
nuovo 
rinvio 
a 
giudizio 
dinanzi 
al 
tribunale 
competente 
(si 
veda 
§ 
13). 
Il 
2 
ottobre 
2012, 
una 
volta 
nuovamente 
rinviato 
a 
giudizio, 
il 
ricorrente 
ha 
chiesto 
di 
essere 
giudicato 
con 
rito 
abbreviato 
(si 
veda 
§ 
14). 
Al 
ricorrente 
è 
stato 
concesso 
l’accesso 
a 
tale 
rito 
e, 
a 
seguito 
del 
giudizio, 
è 
stato 
condannato 
all’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno 
(si 
veda 
§ 
17). 


69. 
La 
Corte 
prende 
atto 
del 
fatto, 
sottolineato 
dal 
Governo 
e 
derivante 
dalle 
decisioni 
nazionali 
sul 
merito 
del 
caso, 
così 
come 
dalla 
giurisprudenza 
nazionale 
consolidata, 
che, 
a 
differenza 
del 
ricorrente 
nel 
caso 
Scoppola 
(sopra 
citata), 
il 
ricorrente 
nel 
caso 
in 
esame 
ha 
richiesto 
il 
giudizio 
abbreviato 
molto 
tempo 
dopo 
che 
il 
quadro 
normativo 
in 
materia 
di 
condanna 
nel 
giudizio 
abbreviato 
era 
stato 
modificato 
in 
termini 
più 
severi, 
poiché 
il 
termine 
massimo 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
era 
stato 
sostituito 
con 
l’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno 
dall’articolo 
7 
del 
Decreto-legge 
n. 
341 
del 
2000, 
entrato 
in 
vigore 
il 
24 
novembre 
2000. 
70. 
In 
questo 
contesto, 
la 
questione 
a 
cui 
la 
Corte 
deve 
rispondere 
è 
se, 
alla 
luce 
dei 
principi 
stabiliti 
nel 
caso 
Scoppola 
(sopra 
citata), 
il 
periodo 
di 
tempo 
entro 
il 
quale 
deve 
essere 
individuata 
la 
legge 
più 
favorevole 
debba 
decorrere 
in 
abstracto 
dalla 
commissione 
del 
reato 
fino 
alla 
condanna 
definitiva 
o 
se, 
quando 
si 
tratta 
di 
procedure 
semplificate 
-che 
dipendono 
da 
una 
richiesta 
dell’imputato 
-il 
periodo 
debba 
iniziare 
dal 
momento 
in 
cui 
tale 
richiesta 
è 
formulata. 
Infatti, 
è 
in 
quel 
momento 
che 
l’imputato 
acquisisce 
il 
diritto 
di 
beneficiare 
della 
riduzione 
di 
pena 
derivante 
dalla 
sua 
scelta 
di 
rinunciare 
a 
determinati 
diritti 
processuali. 
71. La 
Corte 
ribadisce 
sin dall’inizio che 
il 
principio di 
retroattività 
della 
legge 
penale 
più 
favorevole 
implica 
che, laddove 
vi 
siano differenze 
tra 
la 
legge 
penale 
vigente 
al 
momento 
della 
commissione 
del 
reato 
e 
le 
leggi 
penali 
successive 
emanate 
prima 
che 
venga 
emessa 
una 
sentenza 
definitiva, 
i 
tribunali 
devono 
applicare 
la 
legge 
le 
cui 
disposizioni 
sono 
più 
favorevoli 
all’imputato (si veda 
Scoppola, sopra citata, § 109). 
72. osserva 
inoltre 
che 
le 
parti 
non erano d’accordo sull’identificazione 
dell’articolo 442 
§ 2 del 
CPP, come 
modificato dalla 
legge 
n. 479 del 
1999, come 
legge 
penale 
più favorevole 
nel caso in questione. 
73. Infatti, il 
ricorrente, facendo affidamento sulla 
sentenza 
Scoppola 
(sopra 
citata, § 119), 
ha 
sostenuto 
che 
tale 
disposizione 
conteneva 
la 
pena 
più 
lieve 
prevista 
dalla 
legge 
nel 
contesto 
del 
giudizio abbreviato tra 
tutte 
le 
leggi 
emanate 
tra 
il 
momento della 
commissione 
dei 
suoi 
reati e l’emissione della sentenza definitiva. 
74. Al 
contrario, secondo il 
Governo e 
la 
giurisprudenza 
nazionale 
su cui 
esso si 
basava 
(nello specifico la 
sentenza 
Giannone 
delle 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione; 
si 
veda 
§ 
43), 
era 
la 
data 
della 
richiesta 
dell’imputato 
di 
essere 
giudicato 
con 
rito 
abbreviato 
a 
segnare 
l’inizio del 
periodo di 
tempo da 
prendere 
in considerazione 
per l’identificazione 
della 
legge 
che 
prescriveva 
la 
pena 
più lieve. Da 
questo punto di 
vista, quindi, la 
pena 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
prevista 
dalla 
legge 
n. 
479 
del 
1999 
sarebbe 
stata 
la 
pena 
più 
lieve 
solo 
se 
l’imputato 
avesse 
richiesto di 
essere 
giudicato con rito abbreviato quando le 
disposizioni 
di 
tale 
legge 
erano in vigore, cosa che il ricorrente non aveva fatto. 
75. La 
Corte 
ribadisce 
che 
il 
suo esame 
non comporta 
una 
valutazione 
in abstracto 
circa 
la 
questione 
se 
la 
mancata 
applicazione 
retroattiva 
della 
nuova 
legge 
penale 
sia, per se, incompatibile 
con l’articolo 7 della 
Convenzione, poiché 
tale 
esame 
deve 
essere 
effettuato tenendo 
conto 
delle 
circostanze 
specifiche 
di 
ciascun 
caso 
(si 
veda 
Jidic, 
sopra 
citata, 
§ 
85; 





Maktouf 
e 
Damjanović, sopra 
citata, § 65; 
e 
Mørck 
Jensen c. Danimarca, n. 60785/19, § 45, 
18 ottobre 2022). 


76. La 
Corte 
osserva 
inoltre 
che 
l’introduzione 
del 
giudizio abbreviato da 
parte 
del 
legislatore 
italiano 
mirava 
espressamente 
a 
semplificare 
e 
quindi 
accelerare 
i 
procedimenti 
penali, 
e 
che 
la 
raccomandazione 
n. 
r 
(87) 
18 
del 
Comitato 
dei 
ministri 
agli 
Stati 
membri 
sulla 
semplificazione 
della 
giustizia 
penale 
(si 
veda 
§ 51) sollecitava 
gli 
Stati 
membri, tenendo conto 
dei 
principi 
costituzionali 
e 
delle 
tradizioni 
giuridiche 
specifiche 
di 
ciascuno 
Stato, 
a 
introdurre 
procedure 
semplificate 
e 
sommarie 
(quest’ultime 
anche 
denominate 
“patteggiamento” 
-“plea 
bargaining” 
o “transazioni 
penali” 
-“transactions 
pénales”), con l’obiettivo specifico di 
affrontare 
i 
problemi 
posti 
dalla 
durata 
dei 
procedimenti 
penali 
(si 
veda 
Di 
Martino e 
Molinari 


c. italia, nn. 15931/15 e 16459/15, § 34, 25 marzo 2021). 


77. 
In 
tale 
contesto, 
la 
Corte 
non 
può 
trascurare 
il 
fatto 
che, 
come 
evidenziato 
nella 
prassi 
nazionale 
(si 
veda 
paragrafi 
43 
et 
seq.), 
nel 
contesto 
del 
giudizio 
abbreviato, 
gli 
aspetti 
sostanziali 
e 
procedurali 
sono 
strettamente 
interconnessi, 
in 
quanto 
il 
giudizio 
abbreviato 
consiste 
in 
un 
accordo 
tra 
l’imputato 
e 
lo 
Stato, 
in 
base 
al 
quale 
l’imputato 
rinuncia 
a 
una 
serie 
di 
garanzie 
procedurali 
in 
cambio 
di 
una 
riduzione 
fissa 
della 
pena 
(si 
veda 
Scoppola, 
sopra 
citata, 
§ 
143). 
78. 
La 
Corte 
ribadisce 
che, 
mentre 
l’articolo 
7 
della 
Convenzione 
garantisce 
che 
i 
reati 
e 
le 
relative 
pene 
siano 
chiaramente 
definiti 
dal 
diritto 
penale 
sostanziale, 
esso 
non 
stabilisce 
alcun 
requisito 
relativo 
alla 
procedura 
con 
cui 
tali 
reati 
devono 
essere 
indagati 
e 
portati 
a 
processo 
(si 
veda 
Khodorkovskiy 
e 
lebedev 
c. 
russia, 
nn. 
11082/06 
e 
13772/05, 
§ 
789, 
25 
luglio 
2013). 
La 
Corte 
ritiene 
che 
le 
scelte 
procedurali 
dell’imputato 
e 
i 
successivi 
termini 
di 
qualsiasi 
accordo 
tra 
l’imputato 
e 
lo 
Stato 
siano 
determinanti 
per 
quanto 
riguarda 
la 
pena 
applicabile, 
poiché 
la 
durata 
della 
pena 
ridotta 
che 
può 
essere 
inflitta 
in 
caso 
di 
condanna 
è 
chiaramente 
identificata 
dalla 
legge 
in 
vigore 
al 
momento 
dell’accordo 
a 
cui 
l’imputato 
aderisce. 
79. Infatti, è 
la 
pena 
applicabile 
al 
momento dell’accordo in questione 
che 
l’imputato sceglie 
di 
accettare; 
pertanto, è 
quella 
pena 
che 
deve 
essere 
confrontata 
con le 
pene 
successive 
previste 
dal 
legislatore 
nel 
contesto del 
giudizio abbreviato per identificare 
la 
legge 
più favorevole, 
mentre 
le 
pene 
applicabili 
nell’ambito del 
giudizio abbreviato prima 
che 
l’imputato 
abbia 
scelto di 
essere 
giudicato con tale 
procedimento rimangono inapplicabili 
alla 
sua 
situazione 
specifica. 
80. Di 
conseguenza, è 
in tale 
contesto che 
deve 
essere 
valutato se 
i 
tribunali 
nazionali 
si 
siano conformità 
all’obbligo di 
applicare, tra 
diverse 
leggi 
penali, quella 
le 
cui 
disposizioni 
sono le 
più favorevoli 
all’imputato (si 
veda 
Scoppola, sopra 
citata, § 108). Infatti, pur rimanendo 
valido il 
principio secondo cui, in presenza 
di 
differenze 
tra 
la 
legge 
penale 
in vigore 
al 
momento 
della 
commissione 
del 
reato 
e 
le 
leggi 
penali 
successive 
emanate 
prima 
della 
pronuncia 
di 
una 
sentenza 
definitiva, 
i 
tribunali 
devono 
applicare 
la 
legge 
le 
cui 
disposizioni 
sono 
più favorevoli 
all’imputato, si 
deve 
tenere 
debito conto del 
fatto che 
il 
legislatore 
può legittimamente 
subordinare 
l’applicazione 
di 
alcune 
o 
tutte 
le 
disposizioni 
successive 
di 
legge 
a 
eventi 
specifici, come 
-in particolare 
-una 
richiesta 
da 
parte 
dell’imputato e/o l’accordo del-
l’imputato, entro un termine 
stabilito, per essere 
giudicato con il 
rito abbreviato (si 
veda, mutatis 
mutandis, Di Martino e Molinari, citati sopra, §§ 34 et seq.). 
81. A 
questo proposito, la 
Corte 
osserva 
che, a 
differenza 
del 
ricorrente 
nella 
causa 
Scoppola 
(sopra 
citata), il 
quale 
richiese 
il 
giudizio abbreviato all’udienza 
preliminare 
immediatamente 
dopo l’emanazione 
della 
Legge 
n. 479 del 
1999, nel 
caso di 
specie 
il 
ricorrente 
non 
si 
avvalse 
della 
possibilità 
di 
richiedere 
il 
giudizio abbreviato alla 
prima 
udienza 
successiva 





all’entrata 
in vigore 
della 
legge 
n. 479 del 
1999, come 
avrebbe 
avuto diritto a 
fare 
in base 
alle 
disposizioni 
transitorie 
rilevanti. 
Al 
contrario, 
scelse 
deliberatamente 
di 
presentare 
tale 
richiesta 
diversi 
anni 
dopo, dopo essere 
stato nuovamente 
rinviato a 
giudizio, il 
2 ottobre 
2012 (si 
veda § 14). 


82. A 
quel 
momento, come 
ulteriormente 
confermato dalla 
Corte 
costituzionale 
(si 
veda 
sentenza 
n. 
210 
del 
2013, 
citata 
nel 
paragrafo 
39), 
l’articolo 
442 
§ 
2 
del 
CPP, 
come 
modificato 
dall’articolo 7 del 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000, prevedeva 
che, in caso di 
condanna 
nel 
rito 
abbreviato 
per 
reati 
punibili 
con 
l’ergastolo 
con 
isolamento 
diurno, 
la 
pena 
appropriata 
sarebbe 
stata 
l’ergastolo senza 
isolamento diurno. Pertanto, al 
momento in cui 
il 
ricorrente 
richiese 
il 
giudizio abbreviato, la 
pena 
della 
reclusione 
a 
trent’anni 
non era 
più una 
sanzione 
possibile 
per i reati di cui era accusato nel suo processo con tale rito. 
83. La 
Corte 
è 
consapevole 
delle 
seguenti 
considerazioni 
enunciate 
in Scoppola 
(sopra 
citata, 
§ 115, enfasi aggiunta): 


“... 
Considerato 
il 
fatto 
che, 
su 
richiesta 
del 
ricorrente, 
il 
GUP 
ha 
poi 
accettato 
di 
applicare 
il 
giudizio 
abbreviato 
..., 
la 
Corte 
ritiene 
che 
l’articolo 
30 
della 
legge 
n. 
479 
del 
1999 
si 
traduce 
in una 
disposizione 
penale 
posteriore 
che 
prevede 
una 
pena 
meno severa. L’articolo 7 della 
Convenzione, 
così 
come 
interpretato 
nella 
presente 
sentenza 
..., 
imponeva 
dunque 
di 
farne 
beneficiare il ricorrente”. 


Infatti, piuttosto che 
essere 
considerata 
in abstracto, l’identificazione 
della 
legge 
più favorevole 
tra 
tutte 
le 
leggi 
in vigore 
durante 
il 
periodo tra 
la 
commissione 
del 
reato e 
la 
pronuncia 
della 
sentenza 
definitiva 
(ibid., 
§ 
119) 
era 
strettamente 
legata, 
nel 
caso 
in 
esame, 
all’accordo del 
tribunale 
nazionale 
alla 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
essere 
giudicato con il 
rito 
abbreviato. 


84. 
La 
Corte 
osserva, 
inoltre, 
che 
la 
legge 
italiana 
offre 
all’imputato 
la 
possibilità 
di 
scegliere 
tra 
diverse 
procedure, 
alcune 
delle 
quali 
concedono 
un 
beneficio 
sotto 
forma 
di 
una 
riduzione 
della 
pena 
in 
cambio 
della 
rinuncia 
a 
determinate 
garanzie 
procedurali. 
Esistono 
diversi 
percorsi 
procedurali 
di 
questo 
tipo 
e 
relative 
pene 
a 
disposizione 
dell’imputato. 
occorre 
considerare 
il 
passaggio 
da 
un 
percorso 
all’altro, 
con 
la 
relativa 
riduzione 
delle 
pene, 
che 
dipende 
dalle 
scelte 
procedurali 
e 
difensive 
effettuate 
dall’imputato 
e 
gioca 
un 
ruolo 
(dalla 
commissione 
del 
reato 
alla 
condanna 
definitiva) 
nel 
determinare 
il 
momento 
di 
inizio 
del 
periodo 
di 
tempo 
entro 
cui 
identificare 
la 
pena 
più 
mite, 
fino 
alla 
pronuncia 
definitiva 
della 
causa. 
Pertanto, 
le 
pene 
astrattamente 
applicabili 
nel 
rito 
abbreviato 
prima 
che 
l’individuo 
faccia 
una 
scelta 
non 
devono 
essere 
considerate 
tra 
quelle 
rilevanti 
per 
l’identificazione 
della 
lex 
mitior 
in 
un 
caso 
dato, 
poiché 
non 
riguardano 
gli 
strumenti 
giuridici 
applicabili 
in 
concreto 
nella 
situazione 
dell’imputato. 
Una 
conclusione 
contraria 
minerebbe 
la 
logica 
sottesa 
all’offerta 
di 
un 
beneficio 
in 
cambio 
della 
rinuncia 
a 
garanzie 
procedurali, 
che 
è 
al 
centro 
della 
scelta 
del 
legislatore 
italiano 
di 
accelerare 
i 
procedimenti 
penali 
in 
tale 
maniera 
(si 
veda 
§§ 
51 
e 
76). 
85. 
nelle 
circostanze 
del 
caso 
in 
esame, 
è 
pertanto 
la 
data 
della 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
essere 
giudicato 
con 
il 
rito 
abbreviato 
che 
segna 
l’inizio 
del 
periodo 
di 
tempo 
da 
prendere 
in 
considerazione 
per 
l’identificazione 
della 
legge 
che 
prescrive 
la 
pena 
più 
mite. 
La 
Corte 
concorda, 
inoltre, 
con 
le 
argomentazioni 
del 
Governo, 
basate 
sulla 
giurisprudenza 
interna 
rilevante 
menzionata 
nelle 
decisioni 
sul 
merito 
del 
caso 
del 
ricorrente 
(si 
vedano 
le 
sentenze 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
Giannone 
ed 
ercolano 
citate 
ai 
§§ 
43-49 
e 
la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
210 
del 
2013, 
citata 
nei 
§§ 
35 
et 
seq.), 
secondo 
cui 
i 
fatti 
del 
caso 
in 
esame 
differiscono 
da 
quelli 
della 
causa 
Scoppola 
(sopra 
citata), 
in 
quanto 
il 
ricor





rente 
aveva 
richiesto, 
e 
gli 
era 
stato 
concesso, 
il 
giudizio 
con 
il 
rito 
abbreviato 
in 
un 
momento 
in 
cui 
la 
legge 
n. 
479 
del 
1999 
non 
era 
più 
in 
vigore 
e, 
in 
ogni 
caso, 
molto 
tempo 
dopo 
che 
il 
quadro 
normativo 
interno 
in 
materia 
di 
determinazione 
delle 
pene 
era 
stato 
modificato 
in 
termini 
più 
severi. 


86. A 
tale 
proposito, il 
ricorrente 
non ha 
fornito alcuna 
ragione 
che 
potesse 
giustificare 
la 
sua 
tardiva 
richiesta 
e 
la 
sua 
scelta 
di 
non presentare 
tale 
richiesta 
mentre 
la 
legge 
n. 479 del 
1999 era in vigore, pur essendogli possibile farlo (si vedano §§ 55-56). 
87. 
Considerando 
l’interazione 
tra 
gli 
aspetti 
sostanziali 
e 
procedurali 
nel 
contesto 
del 
rito 
abbreviato 
(si 
veda 
§ 
77), 
la 
Corte 
ritiene 
che, 
avendo 
scelto 
il 
rito 
abbreviato 
in 
un 
momento 
in 
cui 
le 
disposizioni 
della 
legge 
n. 
479 
del 
1999, 
che 
prevedevano 
una 
pena 
massima 
di 
trent’anni 
di 
reclusione, 
erano 
state 
sostituite 
da 
quelle 
dell’articolo 
7 
del 
decreto-legge 
n. 
341 
del 
2000, 
che 
prevedevano 
una 
pena 
massima 
di 
ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno, 
il 
ricorrente 
non 
avesse 
più 
diritto 
a 
una 
pena 
di 
trent’anni 
di 
reclusione. 
88. 
tenuto 
conto 
del 
fatto 
che, 
su 
richiesta 
del 
ricorrente, 
il 
giudice 
dell’udienza 
preliminare 
ha 
acconsentito 
all’applicazione 
del 
rito 
abbreviato, 
che 
non 
era 
disponibile 
al 
momento 
della 
commissione 
dei 
reati, la 
Corte 
ritiene 
che 
l’articolo 7 del 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000, in 
vigore 
al 
momento della 
richiesta 
del 
ricorrente 
di 
essere 
giudicato con il 
rito abbreviato, costituisca 
una disposizione penale successiva che prevede una pena più mite. 
89. Alla 
luce 
di 
quanto sopra, la 
Corte 
conclude 
che, avendo condannato il 
ricorrente 
all’ergastolo 
senza 
isolamento diurno ai 
sensi 
di 
tale 
disposizione, i 
tribunali 
interni 
hanno effettivamente 
applicato 
la 
pena 
più 
mite 
nel 
suo 
caso 
(si 
veda, 
mutatis 
mutandis, 
ruban 
c. 
Ucraina, n. 8927/11, § 46, 12 luglio 2016). 


90. ne consegue che non vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione. 


B. 
Presunta violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione 


91. La 
Corte 
ha 
sottoposto alle 
parti, d’ufficio, una 
questione 
ai 
sensi 
dell’articolo 6 § 1 
della 
Convenzione 
riguardante 
l’aspettativa 
del 
ricorrente 
di 
incorrere 
in una 
pena 
massima 
di 
trent’anni 
di 
reclusione 
a 
seguito del 
giudizio con il 
rito abbreviato. L’articolo 6 § 1 recita: 


“ogni 
persona 
ha 
diritto a 
che 
la 
sua 
causa 
sia 
esaminata 
equamente… da 
un tribunale 
… 
chiamato 
a 
pronunciarsi 
… 
sulla 
fondatezza 
di 
ogni 
accusa 
penale 
formulata 
nei 
suoi 
confronti”. 


1. le osservazioni delle parti 


92. Il ricorrente non ha presentato osservazioni in merito a tale questione. 


93. 
Il 
Governo 
ha 
osservato 
che 
il 
ricorrente 
non 
poteva 
nutrire 
alcuna 
legittima 
aspettativa 
di 
incorrere 
in una 
pena 
diversa 
dall’ergastolo, poiché 
aveva 
richiesto il 
rito abbreviato dopo 
l’emanazione 
della 
legge 
che 
prevedeva 
una 
pena 
più severa 
(cioè 
il 
decreto-legge 
n. 341 del 
2000). 


2. Valutazione della Corte 


94. 
La 
Corte 
ribadisce 
che, 
sebbene 
gli 
Stati 
contraenti 
non 
siano 
obbligati 
dalla 
Convenzione 
a 
prevedere 
procedure 
semplificate 
(si 
vedano 
Hany 
c. 
italia 
(dec.), 
n. 
17543/05, 
6 
novembre 
2007, 
e 
Morabito 
c. 
italia 
(dec.) 
n. 
21743/07, 
27 
aprile 
2010), 
laddove 
tali 
procedure 
esistano 
e 
siano 
state 
adottate, 
i 
principi 
di 
un 
equo 
processo 
richiedono 
che 
gli 
imputati 
non 
siano 
arbitrariamente 
privati 
dei 
vantaggi 
loro 
collegati 
(si 
veda 
Scoppola, 
sopra 
citata, 
§ 
139). 
95. 
nel 
caso 
di 
specie, 
è 
indiscusso 
che, 
richiedendo 
il 
rito 
abbreviato, 
il 
ricorrente, 
assistito 
da 
un avvocato di 
sua 
fiducia 
e 
quindi 
in grado di 
verificare 
le 
conseguenze 
di 
tale 
richiesta, 





abbia 
inequivocabilmente 
rinunciato 
al 
suo 
diritto 
all’udienza 
pubblica, 
a 
convocare 
testimoni, 
a produrre nuove prove e a controesaminare i testimoni dell’accusa (ibid.). 


96. La 
Corte 
osserva 
che 
tale 
rinuncia 
è 
stata 
fatta 
in cambio di 
determinati 
vantaggi, che, 
al 
momento della 
presentazione 
della 
richiesta 
del 
ricorrente, il 
2 ottobre 
2012, includevano 
la 
non 
imposizione 
dell’isolamento 
diurno 
con 
la 
pena 
dell’ergastolo 
in 
caso 
di 
condanna, 
come 
previsto 
dall’articolo 
442 
§ 
2 
del 
CPP 
come 
modificato 
dall’articolo 
7 
del 
decreto-legge 


n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000. 


97. 
Sulla 
base 
del 
quadro 
giuridico 
vigente 
al 
momento 
della 
richiesta 
della 
procedura 
semplificata, 
il 
ricorrente 
non poteva 
legittimamente 
aspettarsi 
di 
ricevere 
una 
pena 
diversa 
dal-
l’ergastolo 
senza 
isolamento 
diurno, 
in 
conseguenza 
della 
scelta 
procedurale 
da 
lui 
compiuta. 
98. Alla 
luce 
di 
quanto sopra, la 
Corte 
ritiene 
che 
l’imposizione 
di 
tale 
pena 
fosse 
prevedibile 
e, pertanto, non abbia 
violato il 
diritto del 
ricorrente 
a 
un equo processo. ne 
consegue 
che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. 


PEr QUEStI motIVI, LA CortE 


1. 
Dichiara, all’unanimità, il ricorso ammissibile; 


2. 
ritiene, 
con 
sei 
voti 
contro 
uno, 
che 
non 
vi 
è 
stata 
alcuna 
violazione 
dell’articolo 
7 
della 
Convenzione; 
3. 
ritiene, all’unanimità, che 
non vi 
è 
stata 
violazione 
dell’articolo 6 § 1 della 
Convenzione. 


redatto in inglese 
e 
notificato per iscritto il 
17 ottobre 
2024, ai 
sensi 
dell’articolo 77 §§ 2 
e 3 del regolamento della Corte. 



La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sulla 
nozione di vittima e su quella di rimedio interno effettivo, 
nel caso di presunte violazioni del diritto alla privacy 


Nota 
a 
Corte 
eDU, Sez. i, SeNt. 28 NoVeMbre 
2024, 
riCorSo 
N. 25578/11, CaUSa 
CaSariNi 
C. italia 


Emanuele Feola* 


Con la 
decisione 
in commento, la 
prima 
sezione 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo si 
è 
pronunciata 
su due 
questioni 
di 
rilievo: 
a) la 
nozione 
di 
“vittima”, necessaria 
per adire 
la 
Corte; 
e 
b) quella 
di 
rimedio interno “effettivo”, 
che 
gli 
interessati 
sono tenuti 
ad esperire 
prima 
di 
proporre 
un ricorso 
in sede 
sovranazionale, nel 
caso di 
presunte 
violazioni 
del 
diritto al 
corretto 
trattamento dei propri dati personali. 


Il 
caso trae 
origine 
da 
una 
fuga 
di 
dati 
contenuti 
nel 
“Servizio per 
le 
informazioni 
sul 
contribuente”, denominato -per brevità 
-“Serpico”, che 
raccoglie 
le 
informazioni 
provenienti 
dalle 
dichiarazioni 
e 
dalle 
denunce 
indirizzate agli uffici delle autorità finanziarie, aventi rilevanza a fini fiscali. 


nella 
specie, 
era 
accaduto 
che 
un 
funzionario 
pubblico 
aveva 
estratto 
dalla 
suddetta 
banca 
dati 
delle 
informazioni 
relative 
al 
ricorrente 
per cederle 
-successivamente 
-ad 
un 
giornalista, 
che 
lavorava 
per 
una 
nota 
rivista 
italiana. 
tale 
vicenda 
si 
concludeva, in sede 
nazionale, con una 
sentenza 
di 
patteggiamento 
e 
con una 
sanzione 
disciplinare 
nei 
confronti 
del 
suddetto funzionario 
pubblico; 
tuttavia, l’interessato riteneva 
non satisfattivi 
i 
suddetti 
esiti 
penali 
e 
disciplinari, dato che 
essi 
non avevano garantito -in concreto -il 
corretto 
trattamento dei 
propri 
dati 
personali 
contenuti 
nel 
servizio informativo denominato 
“Serpico” 
da 
parte 
dell’Amministrazione 
e 
di 
eventuali 
soggetti 
terzi. 


La 
Corte, dopo aver sussunto il 
caso entro l’ambito di 
applicazione 
ratione 
materiae 
dell’art. 8 CEDU, ha 
affrontato due 
problematiche, ossia: 
a) la 
possibilità 
di 
qualificare 
il 
ricorrente 
quale 
“vittima” 
di 
una 
violazione 
della 
CEDU; 
e 
b) 
quella 
relativa 
al 
previo 
esaurimento 
dei 
“rimedi 
interni” 
da 
parte 
del medesimo. 


In ordine 
alla 
prima 
questione, la 
Corte 
ha 
ribadito che 
l’art. 34 CEDU 
non 
introduce 
un’actio 
popularis; 
di 
conseguenza, 
i 
ricorrenti 
non 
possono 
lamentarsi 
di 
una 
disposizione 
di 
diritto interno, di 
una 
pratica 
nazionale 
o di 
un determinato provvedimento amministrativo semplicemente 
perché 
potrebbero 
porsi in contrasto con la Convenzione. 


In effetti, per presentare 
un ricorso alla 
CEDU, occorre 
rivestire 
in concreto 
lo status 
di 
“vittima”, che 
ricomprende 
soltanto le 
seguenti 
categorie 
di 


(*) Avvocato dello Stato. 



soggetti: 
a) le 
persone 
direttamente 
colpite 
dalla 
presunta 
violazione 
(“vittime 
dirette”); 
b) quelle 
indirettamente 
colpite 
(“vittime 
indirette”); 
e 
c) quelle 
potenzialmente 
colpite 
(“vittime 
potenziali”). In ogni 
caso, sia 
che 
la 
vittima 
sia 
diretta, 
indiretta 
o 
potenziale, 
deve 
sempre 
esistere 
uno 
specifico 
“legame” 
tra 
l’interessato e 
il 
danno che 
egli 
afferma 
di 
aver patito, a 
causa 
della 
presunta 
violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli. 


nel 
caso 
di 
specie, 
la 
Corte 
ha, 
quindi, 
escluso 
che 
l’interessato 
rivestisse 
lo status 
di 
“vittima” 
in merito all’utilizzo dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
di 
soggetti 
terzi, dato che 
-in relazione 
a 
tale 
circostanza 
-egli 
non aveva 
né 
allegato 
nè 
provato 
di 
aver 
subito 
un 
concreto 
pregiudizio 
della 
propria 
sfera 
personale, neppure di carattere meramente “potenziale”. 


Al 
contrario, la 
Corte 
ha 
ritenuto che 
egli 
potesse 
rivestire 
lo status 
formale 
di 
“vittima” 
con 
riguardo 
alle 
modalità 
di 
trattamento 
dei 
propri 
dati 
personali 
da parte dell’Amministrazione. 

tuttavia, 
in 
ordine 
a 
tale 
aspetto 
concernente 
la 
disciplina 
e 
i 
controlli 
sul 
corretto 
utilizzo 
della 
banca 
dati 
“Serpico”, 
la 
Corte 
ha 
escluso 
che 
egli 
avesse 
esperito tutti i rimedi previsti dal diritto interno. 


Il 
Governo 
italiano, 
in 
effetti, 
aveva 
sottolineato 
nelle 
proprie 
difese 
come 


-al 
fine 
di 
garantire 
la 
gestione 
corretta 
dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
del 
responsabile 
del 
trattamento -il 
ricorrente 
avesse 
a 
disposizione 
la 
procedura 
di 
reclamo prevista dal Codice della Privacy. 


La 
parte 
privata 
ha 
contestato 
la 
suddetta 
eccezione 
di 
inammissibilità 
del 
ricorso, ritenendo che 
il 
reclamo in questione 
non costituisse 
un rimedio 
interno “effettivo”, perché 
deciso da 
un’autorità 
amministrativa 
e 
non da 
un 
organo giurisdizionale, come invece imporrebbe la Convenzione. 


tuttavia, la 
Corte 
non ha 
condiviso tali 
argomentazioni, svolgendo una 
approfondita 
analisi 
circa 
la 
natura 
giuridica 
del 
Garante 
per la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
del 
procedimento, che 
si 
celebra 
davanti 
al 
medesimo in caso 
di reclamo relativo alle modalità di trattamento dei dati personali. 

A 
questo 
proposito, 
la 
Corte 
ha 
ribadito 
che 
la 
propria 
giurisprudenza 
non 
richiede 
che 
tutti 
i 
rimedi 
previsti 
dal 
diritto interno abbiano natura 
giurisdizionale 
(cfr., ad esempio, rotaru c. romania 
[GC], n. 28341/95, § 69, ECHr 
2000-V; 
Driza c. albania, n. 33771/02, § 116, 13 novembre 
2007; 
e 
abdilla 


c. Malta, n. 36199/15, § 69, 17 luglio 2018). 

Peraltro, 
nel 
caso 
in 
cui 
essi 
non 
abbiano 
tale 
natura, 
occorre 
valutare 
caso per caso se 
essi 
siano decisi 
da 
organismi 
autonomi 
e 
indipendenti 
(cfr. 
Khan c. regno Unito, n. 35394/97, §§ 44-47, ECHr 2000-V) e 
se 
siano assicurate 
all’interessato 
sufficienti 
garanzie 
di 
carattere 
procedurale 
(cfr. 
allanazarova 
c. russia, n. 46721/15, § 93, 14 febbraio 2017). 


nel 
valutare 
tali 
aspetti, la 
Corte 
è, dunque, giunta 
alla 
conclusione 
che 
il 
Garante 
della 
Privacy 
è 
“un 
organismo 
amministrativo 
indipendente, 
pienamente 
autonomo 
e 
con 
indipendenza 
nella 
decisione 
e 
valutazione 
del 



caso”. In effetti, i 
suoi 
membri 
sono nominati 
dal 
Parlamento proprio tra 
persone 
in 
grado 
di 
dimostrare 
la 
loro 
assoluta 
indipendenza 
da 
“pressioni 
esterne” e, in particolare, dagli organi del potere esecutivo. 


Per quanto riguarda 
poi 
le 
garanzie 
di 
carattere 
procedurale, la 
Corte 
ha 
osservato che, nei 
procedimenti 
davanti 
all’Autorità, è 
assicurato il 
pieno diritto 
al 
contraddittorio 
e 
che 
le 
decisioni 
del 
Garante 
hanno 
natura 
“vincolante” 
per il responsabile del trattamento. 


Del 
resto, 
se 
è 
vero 
che 
tali 
decisioni 
sono 
formalmente 
atti 
amministrativi, 
è 
altrettanto 
vero 
che 
le 
stesse 
sono 
impugnabili 
davanti 
all’autorità 
giudiziaria; 
circostanza 
che 
-nella 
specie 
-ha 
condotto 
la 
Corte 
a 
ritenere 
che 
il 
reclamo 
al 
Garante 
della 
Privacy 
costituisse 
senz’altro 
un 
rimedio 
di 
diritto 
interno 
“effettivo”; 
sicché, 
in 
caso 
di 
suo 
omesso 
esperimento, 
il 
ricorso 
non 
poteva 
che 
essere 
dichiarato 
inammissibile, 
ai 
sensi 
dell’art. 
35 
della 
Convenzione. 


Corte 
Europea dei 
Diritti 
dell’Uomo, Sezione 
i, sentenza 28 novembre 
2024, ricorso n. 
25578/11 (18 aprile 
2011), causa Casarini 
c. italia 
-Pres. 
marko Bošnjak; 
Giud. Péter Paczolay, 
Alena 
Poláčková, 
Erik 
Wennerström, 
raffaele 
Sabato, 
Lorraine 
Schembri 
orland, 
Davor Derenčinović 
(*) 


In FAtto 


1. Il 
ricorrente, il 
Sig. Luca 
Casarini, è 
un cittadino italiano, nato nel 
1967 e 
residente 
a 
marghera. Egli 
è 
stato rappresentato dinanzi 
alla 
Corte 
dalla 
Sig.ra 
A. mascia, avvocata 
esercitante 
a 
Verona. 
2. Il 
Governo italiano (“il 
Governo”) è 
stato rappresentato dal 
proprio Agente, il 
Sig. L. 
D’Ascia, Avvocato dello Stato. 


3. I fatti del caso possono essere riassunti come segue. 

4. 
Il 
Servizio 
per 
le 
informazioni 
sul 
contribuente 
(Serpico) 
è 
una 
banca 
dati 
dell’Anagrafe 
tributaria 
che, ai 
sensi 
dell’articolo 1 del 
Decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
n. 605 del 
29 settembre 
1973 (“Decreto n. 605/1973”), raccoglie 
dati 
e 
informazioni 
provenienti 
da 
dichiarazioni 
e 
denunce 
indirizzate 
agli 
uffici 
delle 
autorità 
finanziarie 
e 
dalle 
relative 
attività 
di 
accertamento, nonché 
dati 
e 
informazioni 
rilevanti 
ai 
fini 
fiscali 
(si 
veda 
ai 
paragrafi 
13 e 
20 infra). 
Secondo la 
documentazione 
presentata 
dal 
ricorrente 
e 
non contestata 
dal 
Governo, essa 
include 
informazioni 
relative 
a 
spese 
per gas, acqua, elettricità 
e 
telefono, interessi 
passivi 
su 
passività, contributi 
previdenziali, bonifici 
bancari, dati 
relativi 
alla 
registrazione 
di 
veicoli 
nel 
Pubblico registro Automobilistico, adesioni 
a 
club sportivi 
e 
spese 
di 
viaggio dei 
contribuenti, 
tra le altre. 


5. Il 
19 ottobre 
2010 il 
ricorrente, attivista 
politico e 
membro del 
movimento “no Global”, 
venne 
a 
sapere 
da 
un 
articolo 
di 
giornale 
che 
F.D., 
un 
ufficiale 
della 
Guardia 
di 
finanza, 
aveva 


(*) 
traduzione 
non 
ufficiale 
della sentenza a cura della Dott.ssa Edina Eszeny dell’Ufficio CEDU 
dell’avvocatura Generale dello Stato. 



estratto illecitamente 
informazioni 
a 
suo carico dall’Anagrafe 
tributaria, in particolare, dalla 
banca 
dati 
del 
Servizio per le 
informazioni 
sul 
contribuente, e 
le 
aveva 
trasmesse 
a 
G.A., un 
giornalista 
che 
lavorava 
per una 
nota 
rivista 
italiana. L’articolo riferiva 
inoltre 
che 
F.D. era 
accusato di 
aver avuto accesso ripetutamente 
alla 
banca 
dati 
per raccogliere 
informazioni 
su 
persone 
pubbliche 
su 
richiesta 
di 
G.A., 
il 
quale 
poi 
utilizzava 
tali 
informazioni 
per 
pubblicare 
articoli su di esse. 


6. Il 
21 gennaio 2011 il 
ricorrente 
ha 
presentato una 
denuncia 
penale 
contro F.D. e 
G.A. 
presso la Procura della repubblica di milano. 
7. nel 
frattempo, in risposta 
a 
denunce 
presentate 
dalla 
Guardia 
di 
finanza 
il 
23 febbraio, 
14 luglio e 
17 settembre 
2010, erano stati 
avviati 
procedimenti 
penali 
nei 
confronti 
di 
F.D. e 


G.A. 
per 
il 
sospetto 
di 
accesso 
illecito 
alla 
banca 
dati 
del 
Servizio 
per 
le 
informazioni 
sul 
contribuente. 
L’imputazione comprendeva trecentoventotto parti offese, tra cui il ricorrente. 


8. 
L’8 
marzo 
2011, 
al 
termine 
di 
un 
procedimento 
di 
patteggiamento, 
il 
giudice 
delle 
udienze 
preliminari 
di 
Brescia 
ha 
condannato F.D. e 
G.A. a 
pene 
sospese 
di 
due 
e 
un anno, rispettivamente. 


9. 
nella 
sentenza, 
il 
giudice 
delle 
udienze 
preliminari 
di 
Brescia 
ha 
affermato 
che, 
sebbene 


F.D. 
abbia 
avuto 
il 
diritto 
di 
accedere 
alla 
banca 
dati 
del 
Servizio 
per 
le 
informazioni 
sul 
contribuente 
in 
qualità 
di 
ufficiale 
militare 
in 
servizio 
nella 
sala 
operativa 
della 
Guardia 
di 
finanza, 
le 
indagini 
hanno 
rivelato 
che 
negli 
anni 
2008 
e 
2009 
egli 
ha 
effettuato 
1.372 
accessi 
alla 
banca 
dati 
senza 
alcuna 
giustificazione 
relativa 
all’adempimento 
dei 
suoi 
doveri. 
Gli 
accessi 
erano 
finalizzati 
ad 
acquisire 
illecitamente 
informazioni 
finanziarie 
su 
figure 
di 
rilievo 
dell’ordine 
giudiziario 
italiano 
e 
dei 
settori 
culturale, 
politico 
e 
istituzionale, 
e 
venivano 
eseguiti 
su 
richiesta 
di 
una 
persona 
non 
autorizzata, 
G.A., 
che 
utilizzava 
le 
informazioni 
per 
pubblicare 
articoli 
sulla 
rivista 
per 
cui 
lavorava 
e 
su 
altri 
giornali 
appartenenti 
allo 
stesso 
gruppo 
editoriale. 


10. nella 
sentenza 
è 
stato spiegato che 
l’accesso alla 
banca 
dati 
da 
parte 
del 
personale 
militare 
operante 
nelle 
sale 
operative 
è 
stato registrato su un apposito registro interno che 
annotava 
il 
nominativo 
della 
squadra 
e 
la 
localizzazione, 
il 
luogo 
e 
l’orario 
di 
ciascun 
accesso. 
L’analisi 
di 
tali 
dati 
ha 
mostrato 
che 
l’accesso 
illecito 
è 
stato 
effettuato 
utilizzando 
la 
password 
personale 
di 
F.D. e 
in un momento in cui 
egli 
era 
fisicamente 
presente 
nella 
sala 
operativa. 
L’11 febbraio 2010 il responsabile della sala operativa ha segnalato le attività illecite di F.D. 
11. 
La 
Guardia 
di 
finanza 
ha 
sottoposto 
F.D. 
a 
provvedimenti 
disciplinari. 
Il 
18 
ottobre 
2010 lo ha 
sospeso dal 
servizio a 
titolo precauzionale 
e 
il 
21 aprile 
2011 gli 
ha 
revocato il 
grado, ponendolo a disposizione di un altro servizio come soldato semplice. 
12. 
Il 
1° 
marzo 
2013, 
il 
giudice 
per 
le 
indagini 
preliminari 
di 
Brescia 
ha 
deciso 
di 
archiviare 
il 
procedimento penale 
successivamente 
avviato dal 
ricorrente, ritenendo che 
F.D. fosse 
già 
stato condannato per gli stessi fatti con la sentenza dell’8 marzo 2011. 


[…] 
IL rICorSo 


48. Il 
ricorrente 
ha 
lamentato che 
le 
autorità 
nazionali 
non avevano protetto i 
suoi 
dati 
personali, 
conservati 
nel 
database 
del 
Servizio 
Informazioni 
per 
i 
Contribuenti, 
da 
un 
uso 
improprio 
e 
un 
abuso, 
in 
violazione 
del 
suo 
diritto 
al 
rispetto 
della 
vita 
privata 
garantito 
dall’Articolo 
8 della Convenzione. 


In DIrItto 


Presunta violazione dell’articolo 8 della Convenzione 


49. Il 
ricorrente 
ha 
lamentato, ai 
sensi 
dell’Articolo 8 della 
Convenzione, le 
cui 
parti 
rilevanti 
recitano come segue: 



“1. ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata … 


2. non può esservi 
ingerenza 
di 
una 
autorità 
pubblica 
nell’esercizio di 
tale 
diritto a 
meno 
che 
tale 
ingerenza 
sia 
prevista 
dalla 
legge 
e 
costituisca 
una 
misura 
che, in una 
società 
democratica, 
è 
necessaria 
alla 
sicurezza 
nazionale, 
alla 
pubblica 
sicurezza, 
al 
benessere 
economico 
del 
paese, 
alla 
difesa 
dell’ordine 
e 
alla 
prevenzione 
dei 
reati, 
alla 
protezione 
della 
salute 
o 
della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. 


1. ambito del reclamo del ricorrente 


(a) Le osservazioni delle parti 


50. Il 
Governo ha 
dichiarato che 
il 
reclamo del 
ricorrente 
non riguardava 
l’accesso illecito 
effettuato da 
F.D. e 
G.A., ma 
piuttosto l’asserito mancato rispetto da 
parte 
dello Stato nell’offrire 
adeguate 
garanzie 
per prevenire 
l’abuso dei 
suoi 
dati 
personali. Inoltre, secondo il 
Governo, 
l’ambito 
del 
reclamo 
del 
ricorrente 
era 
limitato 
all’accesso 
e 
all’uso 
dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
e 
non da 
parte 
di 
terzi. Ha 
sostenuto che 
la 
decisione 
del 
Garante 
per la 
Protezione 
dei 
Dati 
Personali 
del 
18 settembre 
2008 (si 
veda 
il 
paragrafo 
35 
sopra) 
non 
si 
riferiva 
al 
sistema 
informatico 
gestito 
dalla 
Guardia 
di 
Finanza, 
ma 
all’accesso all’Anagrafe 
tributaria 
da 
parte 
di 
enti 
diversi 
dalla 
Guardia 
di 
Finanza. Pertanto, 
tale decisione era irrilevante per il caso in questione. 
51. 
Il 
ricorrente 
ha 
affermato 
che 
nel 
suo 
ricorso 
aveva 
lamentato 
il 
mancato 
intervento 
delle 
autorità 
nazionali 
per 
proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio 
Informativo dei 
Contribuenti, un database 
al 
quale 
numerosi 
enti 
-e 
non solo la 
Guardia 
di 
Finanza 
-avevano accesso. Si 
è 
basato sulle 
decisioni 
emesse 
dal 
Garante 
per la 
Protezione 
dei 
Dati 
Personali 
tra 
il 
2008 e 
il 
2011, che 
avevano evidenziato diverse 
carenze 
nelle 
norme 
relative all’accesso all’Anagrafe 
tributaria da parte di vari enti pubblici e privati. 
(b) Valutazione della Corte 


52. Dopo aver esaminato il 
materiale 
in suo possesso, la 
Corte 
osserva 
quanto segue. nel 
suo ricorso, il 
ricorrente 
ha 
dichiarato che, dopo aver letto un articolo di 
giornale, era 
venuto 
a 
conoscenza 
che 
i 
suoi 
dati 
personali 
archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio 
Informativo 
dei 
Contribuenti 
erano stati 
illecitamente 
consultati, negli 
anni 
2008 e 
2009, da 
un ufficiale 
della 
Guardia 
di 
finanza. 
Ha 
inoltre 
sottolineato 
che 
nello 
stesso 
articolo 
si 
riferiva 
che 
tale 
ufficiale 
aveva 
avuto 
accesso 
illecito 
al 
database 
centinaia 
di 
volte 
ed 
era 
riuscito 
a 
estrarre 
informazioni 
su una 
lunga 
lista 
di 
personaggi 
pubblici. Secondo il 
ricorrente, tali 
eventi 
dimostravano che 
le 
norme 
e 
il 
sistema 
di 
gestione 
in vigore 
all’epoca 
non offrivano garanzie 
adeguate 
contro 
l’abuso e 
l’uso illecito dei 
suoi 
dati 
personali 
e, pertanto, erano incompatibili 
con le 
garanzie 
previste 
dall’Articolo 8. La 
Corte 
ritiene 
dunque 
che 
il 
reclamo del 
ricorrente 
non riguardi 
l’accesso illecito effettuato da 
F.D. e 
G.A., ma 
il 
presunto mancato intervento dello Stato per 
prevenire 
l’abuso e 
l’uso illecito dei 
suoi 
dati 
personali 
archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio 
Informativo dei Contribuenti. 
53. Il 
modulo di 
ricorso contiene 
diversi 
elementi 
che 
indicano che 
il 
ricorrente 
intendeva 
lamentarsi 
dell’assenza 
di 
misure 
adeguate 
in relazione 
all’uso del 
database 
non solo da 
parte 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
ma 
anche 
da 
parte 
di 
altri 
enti 
che 
avevano 
accesso 
a 
esso 
per 
l’espletamento 
dei 
loro compiti 
istituzionali. nella 
descrizione 
dei 
fatti, il 
ricorrente 
ha 
affermato 
che, 
in 
base 
alle 
disposizioni 
nazionali 
in 
vigore 
all’epoca, 
il 
database 
del 
Servizio 
Informativo 
dei 
Contribuenti 
era 
accessibile, 
oltre 
che 
alla 
Guardia 
di 
Finanza, 
anche 
ad 
altre 
autorità 
fiscali 
e, 
in 
generale, 
a 
enti 
pubblici 
e 
privati 
quali 
autorità 
locali, 
istituti 
di 
previdenza 
sociale, 
autorità 
indipendenti, istituzioni 
giudiziarie, forze 
di 
polizia, camere 
di 
commercio e 
agenti 
di 
riscossione. Ha 
inoltre 
sostenuto che, in diverse 
decisioni 
emesse 
tra 
il 
2008 e 
il 
2011, il 





Garante 
per la 
Protezione 
dei 
Dati 
Personali 
aveva 
individuato numerose 
carenze 
nella 
sicurezza 
degli 
accessi 
all’Anagrafe 
tributaria 
e 
aveva 
ordinato alle 
autorità 
fiscali 
di 
adottare 
un 
insieme 
completo di 
misure 
tecnologiche 
e 
amministrative 
per migliorare 
la 
sicurezza 
degli 
accessi 
e 
rendere 
il 
trattamento dei 
dati 
conforme 
al 
quadro normativo nazionale 
pertinente. 
Il 
ricorrente 
ha 
sostenuto 
che, 
al 
momento 
della 
presentazione 
del 
ricorso, 
molte 
di 
queste 
misure 
non erano ancora 
state 
attuate, poiché 
i 
termini 
originariamente 
fissati 
dal 
Garante 
per 
la 
Protezione 
dei 
Dati 
Personali 
erano stati 
ripetutamente 
prorogati. Le 
suddette 
decisioni 
del 
Garante 
fornivano 
ulteriore 
prova 
della 
presunta 
violazione 
dell’Articolo 
8 
della 
Convenzione. 


54. Pertanto, contrariamente 
a 
quanto sostenuto dal 
Governo, la 
Corte 
ritiene 
che 
nel 
suo 
ricorso 
il 
ricorrente 
abbia 
espressamente 
indicato 
l’intenzione 
di 
lamentare 
il 
presunto 
mancato 
intervento dello Stato nel 
proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio 
Informativo 
dei 
Contribuenti 
da 
abusi 
e 
utilizzi 
impropri 
non 
solo 
in 
relazione 
alle 
attività 
della 
Guardia 
di 
Finanza, ma 
anche 
rispetto agli 
accessi 
al 
database 
effettuati 
da 
soggetti 
diversi 
dalla Guardia di Finanza. 


2. applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione e status di vittima del ricorrente 


[…] 


(a) applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione 


56. Per quanto riguarda 
la 
questione 
dell’applicabilità 
dell’Articolo 8 della 
Convenzione 
ai 
fatti 
del 
caso di 
specie, la 
Corte 
osserva 
che 
le 
informazioni 
archiviate 
nella 
banca 
dati 
del 
Servizio 
Informativo 
del 
Contribuente 
includevano 
il 
nome, 
il 
codice 
fiscale, 
la 
data 
di 
nascita 
e 
l’indirizzo di 
tutti 
i 
contribuenti, compreso il 
ricorrente, oltre 
a 
una 
vasta 
gamma 
di 
informazioni 
finanziarie 
rilevanti 
ai 
fini 
fiscali. Contenevano anche 
dettagli 
sul 
reddito e 
sul 
patrimonio 
netto 
dei 
contribuenti, 
oltre 
a 
eventuali 
procedimenti 
pendenti 
presso 
le 
autorità 
fiscali, 
tra 
le 
altre 
informazioni. 
Secondo 
le 
prove 
fornite 
dal 
ricorrente, 
tali 
informazioni 
includevano 
spese 
per gas, acqua, elettricità 
e 
telefono, spese 
per interessi 
su passività, contributi 
previdenziali, 
bonifici 
bancari, dati 
sull’immatricolazione 
dei 
veicoli 
al 
pubblico registro automobilistico, 
adesioni 
a 
club sportivi 
e 
spese 
di 
viaggio dei 
contribuenti, tra 
gli 
altri 
elementi 
(si 
veda il paragrafo 4 sopra). 
57. La 
Corte 
ritiene 
che 
almeno alcune 
delle 
informazioni 
contenute 
nella 
banca 
dati 
del 
Servizio 
Informativo 
del 
Contribuente, 
accessibili 
alla 
Guardia 
di 
Finanza 
e 
a 
un 
gran 
numero 
di 
altre 
entità, 
come 
il 
nome, 
la 
data 
di 
nascita 
e 
l’indirizzo 
del 
ricorrente, 
i 
dettagli 
sul 
reddito 
e 
sul 
patrimonio 
netto 
e 
i 
procedimenti 
pendenti 
con 
le 
autorità 
fiscali, 
riguardino 
chiaramente 
la 
vita 
privata 
del 
ricorrente 
(si 
veda, in relazione 
ai 
dati 
fiscali, Satakunnan Markkinapörssi 
oy 
e 
Satamedia oy 
c. Finlandia 
[GC], n. 931/13, § 138, 27 giugno 2017, e 
l.b. c. Ungheria 
[GC], 
n. 
36345/16, 
§ 
104, 
9 
marzo 
2023, 
e, 
in 
relazione 
alle 
informazioni 
finanziarie 
contenute 
nei 
documenti 
bancari, M.N. e 
altri 
c. San Marino, n. 28005/12, § 51, 7 luglio 2015). L’Articolo 
8 della Convenzione si applica pertanto ai fatti del caso di specie. 
(b) Status di vittima del ricorrente 


58. Per quanto riguarda 
la 
questione 
se 
il 
ricorrente 
possa 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
della 
violazione 
lamentata 
nel 
caso di 
specie, la 
Corte 
ritiene 
necessario sottolineare 
fin dal-
l’inizio che 
il 
presente 
caso si 
differenzia 
da 
quelli 
in cui 
la 
Corte 
ha 
riconosciuto che 
un ricorrente 
poteva 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
di 
una 
violazione 
dell’Articolo 8 a 
causa 
della 
mera 
esistenza 
di 
misure 
di 
sorveglianza 
segreta 
o di 
una 
legislazione 
che 
consentisse 
tali 
misure. 
In quei 
casi, la 
Corte 
ha 
ritenuto che, a 
determinate 
condizioni, la 
minaccia 
della 
sorveglianza 
potesse 
essere 
considerata 
di 
per 
sé 
una 
limitazione 
della 
libera 
comunicazione 
tramite 



i 
servizi 
postali 
e 
di 
telecomunicazione, costituendo così 
per tutti 
gli 
utenti 
o potenziali 
utenti 
un’interferenza 
diretta 
con 
il 
diritto 
garantito 
dall’Articolo 
8 
(si 
veda 
roman 
zakharov 
c. 
russia 
[GC], 
n. 
47143/06, 
§ 
171, 
CEDU 
2015; 
si 
veda 
anche 
Centrum 
för 
rättvisa 
c. 
Svezia 
[GC], 


n. 35252/08, § 167, 25 maggio 2021, e 
ekimdzhiev 
e 
altri 
c. bulgaria, n. 70078/12, § 262, 11 
gennaio 2022). 


59. 
Al 
contrario, 
nel 
caso 
in 
esame 
il 
ricorrente 
ha 
lamentato 
la 
mancata 
protezione 
da 
parte 
delle 
autorità 
nazionali 
dei 
suoi 
dati 
personali 
archiviati 
nella 
banca 
dati 
del 
Servizio Informativo 
del 
Contribuente 
contro abusi 
e 
usi 
impropri. La 
Corte 
deve 
pertanto valutare 
se 
il 
ricorrente 
possa rivendicare lo status di vittima della presunta violazione. 
60. A 
tale 
riguardo, la 
Corte 
ribadisce 
che 
l’Articolo 34 della 
Convenzione 
non prevede 
l’istituzione 
di 
un’actio popularis, il 
che 
significa 
che 
i 
ricorrenti 
non possono lamentarsi 
di 
una 
disposizione 
di 
diritto interno, di 
una 
pratica 
nazionale 
o di 
atti 
pubblici 
semplicemente 
perché 
sembrano contravvenire 
alla 
Convenzione 
(si 
veda 
Communauté 
genevoise 
d’action 
syndicale 
(CGaS) 
c. 
Svizzera 
[GC], 
n. 
21881/20, 
§ 
106, 
27 
novembre 
2023, 
e 
Centre 
for 
legal 
resources 
per 
conto 
di 
Valentin 
Câmpeanu 
c. 
romania 
[GC], 
n. 
47848/08, 
§ 
101, 
CEDU 
2014). Il 
compito della 
Corte 
non è 
normalmente 
quello di 
esaminare 
il 
diritto e 
la 
pratica 
rilevanti 
in abstracto, ma 
di 
determinare 
se 
il 
modo in cui 
sono stati 
applicati 
al 
ricorrente 
o 
hanno inciso su di 
lui 
abbia 
dato luogo a 
una 
violazione 
della 
Convenzione 
(si 
veda, tra 
molti 
altri, roman zakharov, sopra citata, § 164). 
61. Al 
fine 
di 
presentare 
un ricorso ai 
sensi 
dell’Articolo 34, una 
persona, organizzazione 
non 
governativa 
o 
gruppo 
di 
individui 
deve 
poter 
rivendicare 
lo 
status 
di 
“vittima” 
di 
una 
violazione 
dei 
diritti 
sanciti 
dalla 
Convenzione 
(si 
veda 
aksu 
c. 
turchia 
[GC], 
nn. 
4149/04 
e 
41029/04, § 50, CEDU 
2012, e 
Michaud c. Francia, n. 12323/11, § 51, CEDU 
2012). Generalmente, 
il 
termine 
“vittima” 
nell’Articolo 34 comprende 
le 
seguenti 
categorie: 
le 
persone 
direttamente 
colpite 
dalla 
presunta 
violazione 
(vittime 
dirette), quelle 
indirettamente 
colpite 
(vittime 
indirette) e 
quelle 
potenzialmente 
colpite 
(vittime 
potenziali) (si 
veda 
Verein Klima-
Seniorinnen 
Schweiz 
e 
altri 
c. 
Svizzera 
[GC], 
n. 
53600/20, 
§ 
463, 
9 
aprile 
2024). 
In 
ogni 
caso, 
sia 
che 
la 
vittima 
sia 
diretta, indiretta 
o potenziale, deve 
esistere 
un legame 
tra 
il 
ricorrente 
e 
il 
danno che 
egli 
afferma 
di 
aver subito a 
causa 
della 
presunta 
violazione 
(si 
veda 
akdeniz 
c. 
turchia 
(dec.), 
n. 
20877/10, 
§ 
21, 
11 
marzo 
2014, 
e 
Mansur 
Yalçın 
e 
altri 
c. 
turchia, 
n. 
21163/11, § 40 in fine, 16 settembre 2014). 
62. 
Per 
rientrare 
nella 
categoria 
delle 
vittime 
dirette, 
il 
ricorrente 
deve 
dimostrare 
di 
essere 
stato “direttamente 
colpito” 
dalla 
misura 
contestata 
(si 
veda 
lambert 
e 
altri 
c. Francia 
[GC], 


n. 
46043/14, 
§ 
89, 
CEDU 
2015 
(estratti)). 
Ciò 
implica 
che 
il 
ricorrente 
sia 
stato 
personalmente 
e 
concretamente 
colpito dalla 
presunta 
violazione 
della 
Convenzione, che 
è 
normalmente 
il 
risultato di 
una 
misura 
applicativa 
della 
legge 
rilevante, di 
una 
decisione 
presumibilmente 
in 
contrasto con la 
Convenzione 
o, in alcuni 
casi, di 
atti 
od omissioni 
delle 
autorità 
statali 
o di 
soggetti 
privati 
che 
avrebbero 
violato 
i 
diritti 
del 
ricorrente 
sanciti 
dalla 
Convenzione 
(si 
veda, 
ad esempio, aksu, sopra 
citata, § 51; 
si 
veda 
anche 
Karner 
c. austria, n. 40016/98, §§ 24-25, 
CEDU 
2003-IX, e 
berger-Krall 
e 
altri 
c. Slovenia, n. 14717/04, § 258, 12 giugno 2014). tuttavia, 
ciò 
non 
implica 
necessariamente 
che 
il 
ricorrente 
dovesse 
essere 
personalmente 
oggetto 
dell’atto od omissione 
contestata. È 
fondamentale 
che 
la 
condotta 
impugnata 
lo abbia 
colpito 
personalmente e direttamente (si veda, ad esempio, aksu, sopra citata, §§ 51-54). 


63. Due 
tipi 
di 
status 
di 
vittima 
potenziale 
possono essere 
individuati 
nella 
giurisprudenza 
(si 
veda 
Verein KlimaSeniorinnen Schweiz 
e 
altri, sopra 
citata, § 469). Il 
primo riguarda 
persone 
che 
affermano 
di 
essere 
attualmente 
colpite 
da 
una 
specifica 
misura 
legislativa 
generale. 





La 
Corte 
ha 
chiarito 
che 
può 
riconoscere 
l’esistenza 
dello 
status 
di 
vittima 
laddove 
i 
ricorrenti 
sostengano che 
una 
legge 
violi 
i 
loro diritti, anche 
in assenza 
di 
un atto individuale 
di 
applicazione, 
se 
appartengono a 
una 
categoria 
di 
persone 
che 
rischiano di 
essere 
colpite 
direttamente 
dalla 
legislazione 
o se 
sono costretti 
a 
modificare 
il 
loro comportamento o rischiano di 
essere 
perseguiti 
(ibid.; 
si 
veda 
anche 
tănase 
c. Moldova [GC], n. 7/08, § 104, CEDU 
2010, 
e 
M.a. e 
altri 
c. Francia 
(dec.), nn. 63664/19 e 
altri, § 34, 27 giugno 2023). Il 
secondo tipo 
riguarda 
persone 
che 
sostengono 
che 
potrebbero 
essere 
colpite 
in 
futuro. 
La 
Corte 
ha 
precisato 
che 
l’esercizio del 
diritto di 
ricorso individuale 
non può essere 
utilizzato per prevenire 
una 
potenziale 
violazione 
della 
Convenzione 
e 
che, in linea 
di 
principio, la 
Corte 
non può esaminare 
una 
violazione 
se 
non a 
posteriori, una 
volta 
che 
tale 
violazione 
si 
è 
verificata. Solo in 
circostanze 
altamente 
eccezionali 
un ricorrente 
può tuttavia 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
di 
una 
violazione 
della 
Convenzione 
a 
causa 
del 
rischio di 
una 
futura 
violazione. In generale, il 
test 
rilevante 
per esaminare 
l’esistenza 
di 
tale 
status 
di 
vittima 
richiede 
che 
il 
ricorrente 
fornisca 
prove 
ragionevoli 
e 
convincenti 
della 
probabilità 
che 
si 
verifichi 
una 
violazione 
che 
lo 
colpisca 
personalmente; 
meri 
sospetti 
o 
congetture 
non 
sono 
sufficienti 
a 
tal 
riguardo 
(si 
veda 
Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, sopra citata, § 470). 


64. Il 
termine 
“potenziale” 
si 
riferisce, in alcune 
circostanze, a 
vittime 
che 
sostengono di 
essere 
attualmente 
o di 
essere 
state 
in passato colpite 
dalla 
misura 
generale 
contestata 
e, in 
altre 
circostanze, 
a 
coloro 
che 
affermano 
che 
potrebbero 
essere 
colpiti 
da 
tale 
misura 
in 
futuro. 
In alcuni 
casi, queste 
due 
situazioni 
possono coesistere 
o non essere 
facilmente 
distinguibili, 
e 
i 
principi 
giurisprudenziali 
pertinenti 
possono 
essere 
applicati 
in 
modo 
intercambiabile 
(ibid., 
§ 471). 
65. Alla 
luce 
dei 
principi 
sopra 
ricordati 
e 
considerando l’ambito dei 
motivi 
di 
ricorso del 
ricorrente 
(si 
veda 
il 
paragrafo 54 sopra), la 
Corte 
ritiene 
di 
dover determinare 
se 
il 
ricorrente 
possa 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
della 
misura 
da 
lui 
contestata 
nel 
caso in esame, ossia 
l’omissione 
da 
parte 
delle 
autorità 
nazionali 
di 
proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
conservati 
nel 
database 
del 
Servizio Informativo dei 
Contribuenti 
da 
usi 
impropri 
e 
abusi 
da 
parte 
di 
(1) la 
Guardia di Finanza e (2) soggetti terzi che avevano accesso al database. 


(i) il 
motivo di 
ricorso relativo all’abuso e 
all’uso improprio dei 
dati 
personali 
del 
ricorrente 
da parte della Guardia di Finanza 


66. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
doglianza 
relativa 
all’omissione 
dello 
Stato 
nel 
proteggere 
i 
dati 
personali 
del 
ricorrente 
da 
usi 
impropri 
e 
abusi 
da 
parte 
della 
Guardia 
di 
Finanza, la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
ricorrente 
abbia 
dimostrato di 
essere 
stato personalmente 
e 
direttamente 
colpito 
dall’omissione contestata (si veda il paragrafo 62 sopra). 
67. In particolare, il 
ricorrente 
ha 
dimostrato di 
aver appreso da 
un articolo di 
giornale 
che 
F.D., un ufficiale 
della 
Guardia 
di 
Finanza, aveva 
estratto illegalmente 
informazioni 
che 
lo 
riguardavano dal 
database 
del 
Servizio Informativo dei 
Contribuenti 
(si 
veda 
il 
paragrafo 5 
sopra). 
Ha 
inoltre 
sostenuto 
che 
l’abuso 
dei 
suoi 
dati 
personali 
fosse 
stato 
facilitato 
dall’omissione 
dello Stato nell’adottare 
misure 
adeguate 
per prevenirlo (si 
veda 
il 
paragrafo 53 sopra). 
68. La 
Corte 
conclude 
pertanto che 
il 
ricorrente 
può rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
del-
l’omissione 
dello Stato nel 
proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
da 
usi 
impropri 
e 
abusi 
da 
parte 
della Guardia di Finanza. 


(ii) il 
motivo di 
ricorso relativo all’abuso e 
all’uso improprio dei 
dati 
personali 
del 
ricorrente 
da parte di terzi 


69. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
doglianza 
relativa 
all’omissione 
dello 
Stato 
nel 
proteggere 
i 
dati 
personali 
del 
ricorrente 
da 
usi 
impropri 
e 
abusi 
da 
parte 
di 
terzi 
con accesso al 
database, la 





Corte 
rileva 
che 
il 
ricorrente 
non 
ha 
sostenuto 
di 
essere 
stato 
vittima 
di 
tale 
misura. 
In 
sostanza, 
il 
ricorrente 
ha 
fatto affidamento sul 
fatto che, in quanto contribuente 
italiano, apparteneva 
a 
una 
categoria 
di 
persone 
i 
cui 
dati 
erano archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio Informativo dei 
Contribuenti 
ai 
sensi 
dell’Articolo 1 del 
Decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
n. 605/1973 
(si 
veda 
il 
paragrafo 13 sopra) e 
che, di 
conseguenza, era 
stato esposto al 
rischio di 
subire 
tale 
misura, 
alla 
luce 
del 
vasto 
accesso 
concesso 
a 
terzi 
al 
database 
e 
della 
protezione 
insufficiente 
offerta dal quadro giuridico nazionale. 


70. In tale 
contesto, la 
Corte 
deve 
esaminare 
se 
il 
ricorrente 
possa 
essere 
considerato una 
vittima 
potenziale 
della 
presunta 
violazione, nei 
due 
possibili 
significati 
riaffermati 
sopra, tenendo 
conto del 
fatto che 
queste 
diverse 
situazioni 
potrebbero non essere 
facilmente 
distinguibili 
e 
che 
i 
principi 
pertinenti 
si 
applicano 
in 
modo 
intercambiabile 
(si 
veda 
i 
paragrafi 
63-64 sopra). 
71. La 
Corte 
osserva 
innanzitutto che 
è 
indiscutibile 
che 
il 
caso in esame 
non riguarda 
una 
situazione 
in cui 
il 
ricorrente 
fosse 
tenuto a 
modificare 
il 
proprio comportamento o rischiare 
di 
essere 
perseguito. La 
sua 
situazione 
deve 
quindi 
essere 
distinta 
da 
quella 
di 
ricorrenti 
che 
si 
trovavano nel 
dilemma 
di 
rispettare 
la 
disposizione 
legale 
impugnata 
o, in caso contrario, 
esporsi 
a 
sanzioni 
(si 
veda 
Dudgeon c. regno Unito, 22 ottobre 
1981, §§ 40-41, Serie 
A 
n. 
45; 
Norris 
c. irlanda, 26 ottobre 
1988, § 29, Serie 
A 
n. 142; 
Michaud, sopra 
citata, § 92; 
e 


S.a.S. c. Francia 
[GC], n. 43835/11, § 57, CEDU 2014 (estratti)). 


72. Come 
già 
osservato, il 
caso in esame 
differisce 
anche 
da 
quelli 
in cui 
la 
Corte 
ha 
riconosciuto 
che 
un ricorrente 
potesse 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
di 
violazioni 
derivanti 
dalla 
mera 
esistenza 
di 
misure 
di 
sorveglianza 
segreta 
o 
dalla 
legislazione 
che 
le 
consentiva 
(si 
veda 
i paragrafi 58-59 sopra). 
73. 
La 
Corte 
deve 
quindi 
valutare 
se 
il 
ricorrente 
possa 
sostenere 
che 
potrebbe 
essere 
colpito 
dalla 
misura 
contestata 
in un momento futuro. Come 
osservato sopra, ciò richiede 
la 
valutazione 
se 
il 
ricorrente 
abbia 
fornito prove 
ragionevoli 
e 
convincenti 
della 
probabilità 
che 
una 
violazione che lo colpisca personalmente si verifichi (si veda il paragrafo 63 sopra). 
74. A 
tal 
riguardo, la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
semplice 
fatto di 
essere 
un contribuente 
italiano i 
cui 
dati 
personali 
sono archiviati 
nel 
database 
del 
Servizio Informativo dei 
Contribuenti 
non 
sia 
sufficiente 
per considerare 
che 
il 
ricorrente 
sia 
già 
stato esposto, o fosse 
potenzialmente 
a 
rischio di 
essere 
soggetto a, abusi 
e 
usi 
impropri 
dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
di 
terzi 
con 
accesso al database. 
75. A 
questo riguardo, la 
Corte 
rileva 
che, in diversi 
casi, ha 
sottolineato che 
non è 
sufficiente 
appartenere 
a 
una 
classe 
di 
persone 
che, 
in 
astratto, 
potrebbe 
essere 
colpita 
dalla 
misura 
impugnata; 
è 
altresì 
necessario fornire 
prove 
ragionevoli 
e 
convincenti 
della 
probabilità 
che 
si 
verifichi 
una 
violazione 
che 
colpisca 
direttamente 
il 
ricorrente. Ad esempio, nel 
caso Willis 


c. regno Unito 
(n. 36042/97, CEDU 
2002-IV), si 
è 
stabilito che 
il 
rischio per il 
ricorrente 
di 
vedersi 
negata 
una 
pensione 
di 
reversibilità 
per motivi 
di 
sesso in futuro è 
stato considerato 
ipotetico, poiché 
non era 
certo che 
il 
ricorrente 
avrebbe 
comunque 
soddisfatto le 
condizioni 
di 
legge 
per il 
pagamento del 
beneficio alla 
data 
in cui 
una 
donna 
nella 
sua 
stessa 
posizione 
ne 
sarebbe 
divenuta 
titolare. In Dimirtas 
e 
altri 
c. Grecia 
((dec.), nn. 59573/09 e 
65211/09, § 
31, 4 luglio 2017), la 
Corte 
ha 
ritenuto che 
il 
mero fatto di 
essere 
un cittadino greco idoneo a 
votare 
non fosse 
sufficiente 
per lamentare 
una 
legislazione 
nazionale 
che 
impediva 
la 
diffusione 
di sondaggi di opinione. 


Allo stesso modo, la 
Corte 
ha 
stabilito che, per essere 
vittima 
di 
una 
restrizione 
legale 
alle 
visite 
in 
carcere, 
un 
detenuto 
deve 
dimostrare 
di 
avere 
potenziali 
visitatori 
e 
di 
aver 
ottimizzato 



i 
propri 
diritti 
di 
visita 
fino a 
quel 
momento (si 
veda 
Chernenko e 
altri 
c. russia 
(dec.), n. 
4246/14, § 45, 5 febbraio 2019). nel 
caso Shortall 
e 
altri 
c. irlanda ((dec.), n. 50272/18, 19 
ottobre 
2021), la 
Corte 
ha 
concluso che, per lamentare 
la 
natura 
religiosa 
della 
dichiarazione 
prestata 
dal 
Presidente 
d’Irlanda 
all’atto della 
sua 
elezione 
e 
dai 
membri 
nominati 
del 
Consiglio 
di 
Stato, i 
ricorrenti 
avrebbero dovuto dimostrare, rispettivamente, di 
avere 
una 
reale 
intenzione 
di 
candidarsi 
alla 
carica 
di 
Presidente 
e 
di 
avere 
prospettive 
realistiche 
in tal 
senso 
(ibid., § 53), o che 
la 
loro nomina 
al 
Consiglio di 
Stato fosse 
una 
possibilità 
realistica 
(ibid., 
§ 
50). 
Più 
recentemente, 
in 
a.M. 
e 
altri 
c. 
Polonia 
((dec.), 
nn. 
4188/21 
e 
altri, 
§ 
86, 
16 
maggio 
2023), la 
Corte 
ha 
osservato che 
le 
ricorrenti, in quanto donne 
in età 
fertile 
in Polonia, potevano 
essere 
colpite 
dalla 
restrizione 
contestata 
all’accesso 
all’aborto 
terapeutico 
in 
caso 
di 
anomalie 
fetali, ma 
ha 
concluso che 
non avevano fornito prove 
convincenti 
del 
rischio reale 
di 
essere 
colpite 
dalla 
modifica 
legislativa 
impugnata 
(si 
veda 
anche 
K.b. e 
K.C. c. Polonia 
(dec.), nn. 1819/21 e 3639/21, § 63, 4 giugno 2024). 


76. Alla 
luce 
di 
quanto sopra, la 
Corte 
ribadisce 
ancora 
una 
volta 
che 
solo in circostanze 
altamente 
eccezionali 
un 
ricorrente 
può 
rivendicare 
lo 
status 
di 
vittima 
di 
una 
violazione 
della 
Convenzione 
per il 
rischio di 
una 
violazione 
futura 
(si 
veda 
a.M. e 
altri 
c. Polonia, sopra 
citata, 
§ 77, e 
K.b. e K.C. c. Polonia, sopra citata, § 58). 
77. nel 
caso in esame, il 
ricorrente 
non ha 
fornito alcuna 
prova 
in grado di 
dimostrare 
che, 
a 
causa 
della 
sua 
situazione 
personale, fosse 
esposto al 
rischio di 
abuso o uso improprio dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
di 
terzi 
con accesso al 
database. La 
Corte 
conclude 
quindi 
che 
il 
timore 
del 
ricorrente 
di 
essere 
soggetto 
a 
tale 
misura 
si 
basa 
su 
una 
mera 
ipotesi, 
troppo 
remota 
e 
astratta, per consentirgli 
di 
avanzare 
una 
rivendicazione 
fondata 
sullo status 
di 
“vittima” 
ai 
sensi dell’Articolo 34 della Convenzione. 
78. Pertanto, la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
ricorrente 
non possa 
rivendicare 
lo status 
di 
vittima 
di 
un’omissione 
dello Stato nel 
prevenire 
l’abuso e 
l’uso improprio dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
parte 
di 
terzi, 
in 
violazione 
dell’Articolo 
8, 
unicamente 
sulla 
base 
delle 
presunte 
insufficienze 
nel 
quadro giuridico applicabile 
o nella 
prassi 
delle 
autorità 
nazionali 
competenti 
per prevenirlo. 
79. Pertanto, questa 
parte 
del 
ricorso è 
incompatibile 
ratione 
personae 
con le 
disposizioni 
della 
Convenzione 
ai 
sensi 
dell’Articolo 35 § 3 (a) e 
deve 
essere 
respinta 
conformemente 
all’Articolo 
35 § 4. 
3. l’obiezione di non esaurimento dei rimedi da parte del Governo 


80. La 
Corte 
ha 
accettato che, per quanto riguarda 
il 
ricorso relativo all’omissione 
da 
parte 
dello Stato di 
proteggere 
i 
dati 
dell’applicante 
da 
abuso e 
all’uso improprio da 
parte 
della 
Polizia 
tributaria, 
l’applicante 
può 
rivendicare 
lo 
status 
di 
vittima 
(si 
veda 
il 
paragrafo 
68 
sopra). 
81. La 
Corte 
esaminerà 
quindi 
l’obiezione 
del 
Governo riguardante 
il 
non esaurimento dei 
rimedi interni relativamente a tale parte del ricorso. 
(a) Le osservazioni delle parti 


82. 
Il 
Governo 
ha 
sostenuto 
che 
il 
ricorrente 
non 
aveva 
esaurito 
correttamente 
i 
rimedi 
interni. 
La 
denuncia 
penale 
da 
lui 
presentata 
riguardava 
solo 
la 
condotta 
privata 
di 
F.D. 
e 


G.A. 
e, 
pertanto, 
non 
avrebbe 
potuto 
offrire 
un 
rimedio 
adeguato 
riguardo 
al 
presunto 
fallimento 
dello 
Stato 
nell’offrire 
le 
necessarie 
garanzie 
per 
prevenire 
l’abuso 
dei 
dati 
personali 
del 
ricorrente. 
Secondo 
il 
Governo, 
esistevano 
altri 
rimedi 
disponibili 
ed 
efficaci 
che 
il 
ricorrente 
avrebbe 
dovuto 
esaurire. 
In 
primo 
luogo, 
il 
ricorrente 
avrebbe 
potuto 
presentare 
una 
domanda 
di 
risarcimento 
danni 
contro 
la 
Guardia 
di 
Finanza 
ai 
sensi 
dell’articolo 
15 
del 
Decreto 
Legislativo 
n. 
196/2003 
(Codice 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali) 
e 
dell’ar



ticolo 
2050 
del 
Codice 
Civile. 
In 
secondo 
luogo, 
avrebbe 
potuto 
avvalersi 
della 
procedura 
di 
reclamo 
prevista 
dagli 
articoli 
141 
e 
143 
del 
Decreto 
Legislativo 
n. 
196/2003 
(Codice 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali). 
Usando 
questo 
rimedio, 
accompagnato 
eventualmente 
dal 
ricorso 
contro 
le 
decisioni 
dell’Autorità 
Garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
il 
ricorrente 
avrebbe 
potuto 
ottenere, 
secondo 
il 
Governo, 
l’adozione 
da 
parte 
dell’Autorità 
Garante 
delle 
misure 
necessarie 
per 
prevenire 
l’abuso 
dei 
suoi 
dati 
personali. 
In 
particolare, 
secondo 
il 
Governo, 
l’Autorità 
avrebbe 
potuto 
invitare 
il 
titolare 
del 
trattamento 
a 
bloccare 
l’accesso 
ai 
dati 
volontariamente; 
prescrivere 
al 
titolare 
del 
trattamento 
le 
misure 
appropriate 
o 
necessarie 
per 
conformarsi 
alle 
disposizioni 
nazionali 
pertinenti 
in 
materia 
di 
trattamento 
dei 
dati; 
oppure 
ordinare 
il 
blocco 
dell’accesso 
o 
vietare, 
in 
tutto 
o 
in 
parte, 
il 
trattamento 
dei 
dati 
rilevanti. 


83. 
Il 
ricorrente 
ha 
replicato 
che, 
presentando 
una 
denuncia 
contro 
F.D. 
e 
G.A., 
aveva 
esaurito 
un rimedio potenzialmente 
efficace 
per porre 
rimedio all’interferenza 
illecita 
con i 
suoi 
dati 
personali. 
Il 
fatto 
che 
il 
rimedio 
si 
fosse 
rivelato 
concretamente 
inefficace 
-a 
seguito 
della 
fine 
della 
procedura 
di 
patteggiamento e 
della 
successiva 
archiviazione 
del 
procedimento penale 
da 
lui 
avviato -non imponeva 
su di 
lui 
l’onere 
di 
utilizzare 
altri 
rimedi 
che 
avrebbero 
avuto sostanzialmente 
lo stesso obiettivo. Inoltre, i 
rimedi 
individuati 
dal 
Governo non sarebbero 
stati 
efficaci. Per quanto riguarda 
il 
rimedio compensativo generale, il 
ricorrente 
ha 
osservato 
che 
il 
Governo 
non 
aveva 
presentato 
giurisprudenza 
in 
cui 
i 
tribunali 
nazionali 
avessero 
ordinato il 
risarcimento in circostanze 
simili 
a 
quelle 
del 
caso in esame. Per quanto riguarda 
il 
rimedio amministrativo previsto dagli 
articoli 
141 e 
143 del 
Decreto Legislativo n. 
196/2003 
(Codice 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali), 
il 
ricorrente 
ha 
sottolineato 
che 
l’Autorità 
Garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
non 
è 
un’autorità 
giuridica. 
Il 
ricorrente 
ha 
inoltre 
osservato 
che 
l’esecuzione 
delle 
istruzioni 
dell’Autorità 
non 
è 
vincolante 
e 
che 
l’Autorità 
aveva 
già 
ordinato 
più 
volte 
di 
adottare 
misure 
operative 
concrete 
finalizzate 
a 
proteggere 
i 
dati 
archiviati 
nel 
sistema 
di 
informazioni 
fiscali 
contro l’abuso e 
l’abuso da 
parte 
di terzi, ma tali misure non erano state applicate. 


(b) La valutazione della Corte 


84. 
La 
Corte 
ribadisce 
che 
l’obbligo 
di 
esaurire 
i 
rimedi 
interni 
impone 
al 
ricorrente 
di 
fare 
un uso normale 
dei 
rimedi 
disponibili 
e 
sufficienti 
per le 
sue 
contestazioni 
relative 
alla 
Convenzione. 
L’esistenza 
dei 
rimedi 
in questione 
deve 
essere 
sufficientemente 
certa 
non solo in 
teoria, ma 
anche 
in pratica, altrimenti 
mancheranno dei 
requisiti 
di 
accessibilità 
ed efficacia 
necessari 
(si 
veda 
Vučković 
e 
altri 
c. Serbia 
(obiezione 
preliminare) [GC], n. 17153/11 e 
altri 
29, § 71, 25 marzo 2014, e 
Communauté 
genevoise 
d’action syndicale 
(CGAS), sopra 
citata, 
§ 
139). 
Per 
essere 
efficaci, 
i 
rimedi 
devono 
essere 
in 
grado 
di 
rimediare 
direttamente 
allo 
stato 
di 
fatto contestato e 
devono offrire 
ragionevoli 
prospettive 
di 
successo (ibid., con ulteriori 
riferimenti). 
85. tuttavia, non esiste 
l’obbligo di 
ricorrere 
a 
rimedi 
inadeguati 
o inefficaci 
(si 
veda 
Vučković 
e 
altri, sopra 
citata, § 73; 
Communauté 
genevoise 
d’action syndicale 
(CGAS), sopra 
citata, 
§ 
141). 
La 
questione 
di 
determinare 
se 
una 
procedura 
interna 
costituisca 
un 
rimedio 
efficace 
ai 
sensi 
dell’articolo 35 § 1, che 
deve 
essere 
esaurito dal 
ricorrente, dipende 
da 
una 
serie 
di 
fattori, in particolare 
dalla 
denuncia 
del 
ricorrente, dall’ambito degli 
obblighi 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
della 
specifica 
disposizione 
della 
Convenzione, 
dai 
rimedi 
disponibili 
nello 
Stato 
convenuto 
e 
dalle 
circostanze 
specifiche 
del 
caso 
(si 
veda 
inter 
alia, 
lopes 
de 
Sousa 
Fernandes 
c. Portogallo 
[GC], n. 56080/13, § 134, 19 dicembre 
2017, e 
ražnatović 
c. Montenegro, 
n. 14742/18, § 27, 2 settembre 
2021). Ciò significa 
che 
al 
ricorrente 
non è 
richiesto 





di 
presentare 
ricorsi 
a 
enti 
o istituzioni 
che 
non abbiano il 
potere 
o la 
competenza 
di 
offrire 
un rimedio efficace 
per la 
questione 
in oggetto ai 
sensi 
della 
Convenzione 
(si 
veda, mutatis 
mutandis, Mukhametov e altri c. russia, n. 53404/18 e altri 3, § 27, 14 dicembre 2021). 


86. La 
Corte 
ha, tuttavia, anche 
frequentemente 
sottolineato la 
necessità 
di 
applicare 
la 
regola 
dell’esaurimento con una 
certa 
flessibilità 
e 
senza 
formalismo eccessivo. Ha 
quindi 
riconosciuto 
che 
la 
regola 
dell’esaurimento 
non 
può 
essere 
applicata 
automaticamente; 
nel 
verificare 
se 
sia 
stata 
osservata, è 
essenziale 
tenere 
conto delle 
circostanze 
particolari 
di 
ciascun 
caso (si 
veda 
Communauté 
genevoise 
d’action syndicale 
(CGAS), sopra 
citata, § 140, 
con ulteriori riferimenti). 
87. Per quanto riguarda 
l’onere 
della 
prova, la 
Corte 
ribadisce 
che 
spetta 
al 
Governo che 
solleva 
l’obiezione 
di 
non esaurimento provare 
alla 
Corte 
che 
il 
rimedio fosse 
effettivo, disponibile 
in teoria 
e 
in pratica 
al 
momento rilevante. Una 
volta 
che 
questo onere 
è 
stato soddisfatto, 
spetta 
al 
ricorrente 
dimostrare 
che 
il 
rimedio 
proposto 
dal 
Governo 
è 
stato 
effettivamente 
esaurito, oppure 
che 
era 
per qualche 
motivo inadeguato e 
inefficace 
nelle 
specifiche 
circostanze 
del 
caso, o che 
esistevano circostanze 
speciali 
che 
lo esoneravano da 
tale 
requisito 
(si 
veda, 
inter 
alia, 
Vučković 
e 
altri, 
sopra 
citata, 
§ 
77, 
e 
Communauté 
genevoise 
d’action syndicale 
(CGAS), sopra citata, § 143). 
88. La 
Corte 
concorda 
con il 
Governo nel 
ritenere 
che 
la 
presentazione 
di 
una 
denuncia 
penale 
contro F.D. e 
G.A. (si 
veda 
il 
paragrafo 6 sopra) non fosse 
un rimedio che 
avrebbe 
potuto 
fornire 
ristoro 
rispetto 
alle 
contestazioni 
del 
ricorrente. 
Anche 
se 
il 
ricorrente 
fosse 
riuscito 
ad ottenere 
una 
compensazione 
dai 
responsabili 
dell’accesso illecito, ciò non avrebbe 
comportato 
alcun obbligo da 
parte 
delle 
autorità 
nazionali 
di 
agire 
per prevenire 
ulteriori 
abusi 
dei 
suoi 
dati 
personali. resta 
quindi 
da 
determinare 
se 
esistevano altri 
rimedi 
disponibili 
per 
il ricorrente che doveva esaurire prima di presentare ricorso alla Corte. 
89. Per quanto riguarda 
i 
rimedi 
specifici 
indicati 
dal 
Governo, la 
Corte 
osserva 
che 
il 
rimedio 
previsto dall’articolo 15 del 
Codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali 
(si 
veda 
il 
paragrafo 17 sopra) e 
dall’articolo 2050 del 
Codice 
Civile 
(si 
veda 
il 
paragrafo 18 sopra), 
il 
cui 
scopo è 
quello di 
concedere 
risarcimento, non può essere 
considerato adeguato rispetto 
alla 
denuncia 
del 
ricorrente. Il 
ricorrente 
ha 
lamentato una 
situazione 
continua 
di 
protezione 
inadeguata 
dei 
suoi 
dati 
personali 
conservati 
nella 
banca 
dati 
del 
Servizio di 
informazioni 
fiscali 
e 
il 
fallimento duraturo dello Stato nell’adottare 
provvedimenti 
per prevenire 
gli 
abusi 
nel 
contesto dell’accesso alla 
banca 
dati. ne 
consegue 
che 
tale 
rimedio non sarebbe 
stato in 
grado di affrontare direttamente gli aspetti rilevanti delle contestazioni del ricorrente. 
90. 
Inoltre, 
la 
Corte 
osserva 
che, 
secondo 
il 
Governo, 
il 
ricorrente 
avrebbe 
potuto 
presentare 
un 
reclamo 
all’Autorità 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
ai 
sensi 
dell’articolo 
143 
del 
Codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali 
(si 
veda 
il 
paragrafo 17 sopra), il 
quale 
prevedeva 
che 
l’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
potesse 
ordinare 
al 
titolare 
del 
trattamento dei 
dati 
di 
adottare 
misure 
appropriate 
per conformare 
il 
trattamento dei 
dati 
alle 
normative 
in vigore 
al 
fine 
di 
prevenire 
l’abuso 
e 
l’abuso 
dei 
dati 
personali. 
In 
particolare, 
il 
Governo 
ha 
sottolineato 
che 
l’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
avrebbe 
potuto ordinare 
al 
titolare 
del 
trattamento di 
bloccare 
volontariamente 
l’accesso ai 
dati, prescrivere 
le 
misure 
appropriate 
o necessarie 
per 
conformare 
il 
trattamento 
dei 
dati 
alle 
disposizioni 
applicabili 
o 
ordinare 
il 
blocco 
dell’accesso 


o proibire, in tutto o in parte, il 
trattamento di 
tali 
dati. Pertanto, il 
ricorrente 
avrebbe 
potuto 
chiedere 
all’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
di 
ordinare 
alle 
autorità 
nazionali 
di 
adottare 
le 
misure 
operative 
e 
tecnologiche 
necessarie 
per proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
da 
abusi 
e 
utilizzi impropri. 



91. Da 
parte 
sua, il 
ricorrente 
ha 
contestato in termini 
generali 
che 
l’Autorità 
per la 
prote


zione dei dati non fosse un organismo giuridico. 


92. A 
questo proposito, la 
Corte 
ribadisce 
che 
la 
sua 
giurisprudenza 
non richiede 
che 
tutte 
le 
istanze 
di 
un rimedio domestico siano di 
natura 
giudiziaria 
nel 
senso stretto del 
termine 
(si 
veda, 
inter 
alia, 
rotaru 
c. 
romania 
[GC], 
n. 
28341/95, 
§ 
69, 
ECHr 
2000-V; 
Driza 
c. 
albania, 


n. 
33771/02, 
§ 
116, 
13 
novembre 
2007; 
Centro 
per 
le 
risorse 
legali 
per 
conto 
di 
Valentin 
Câmpeanu, 
sopra 
citata, 
§ 
149; 
e 
abdilla 
c. 
Malta, 
n. 
36199/15, 
§ 
69, 
17 
luglio 
2018). 
tuttavia, 
i 
poteri 
e 
le 
garanzie 
procedurali 
che 
un’autorità 
possiede 
sono rilevanti 
per determinare 
se 
il 
rimedio 
che 
essa 
offre 
sia 
efficace 
(si 
veda 
Driza 
c. 
albania, 
n. 
33771/02, 
§ 
116, 
ECHr 
2007V 
(estratti); 
Vrioni 
e 
altri 
c. albania e 
italia, nn. 35720/04 e 
42832/06, § 83, 29 settembre 
2009; 
e 
tagayeva e 
altri 
c. russia, nn. 26562/07 e 
altri 
6, § 620, 13 aprile 
2017). nei 
casi 
di 
autorità 
non giudiziarie, la 
Corte 
valuta 
se 
queste 
siano indipendenti 
(si 
veda 
Khan c. regno 
Unito, 
n. 
35394/97, 
§§ 
44-47, 
ECHr 
2000-V) 
e 
se 
siano 
garantite 
al 
ricorrente 
sufficienti 
salvaguardie 
procedurali 
(si 
veda 
allanazarova c. russia, n. 46721/15, § 93, 14 febbraio 2017). 


93. La 
Corte 
osserva 
che 
l’articolo 153, § 1, del 
Codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali, nella 
versione 
in vigore 
al 
momento pertinente 
(si 
veda 
il 
paragrafo 17 sopra), prevedeva 
che 
l’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
fosse 
un organismo amministrativo indipendente, 
pienamente 
autonomo 
e 
con 
indipendenza 
nella 
decisione 
e 
nella 
valutazione. 
Il 
secondo 
paragrafo stabiliva 
che 
i 
suoi 
membri 
fossero nominati 
dal 
Parlamento tra 
persone 
in grado 
di 
dimostrare 
la 
loro 
indipendenza. 
tenendo 
conto 
delle 
modalità 
e 
delle 
condizioni 
di 
nomina 
dei 
suoi 
membri 
e 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
indicazione 
di 
una 
carenza 
di 
salvaguardie 
sufficienti 
e 
adeguate 
contro eventuali 
pressioni 
esterne, la 
Corte 
ritiene 
che 
non vi 
siano ragioni 
per dubitare 
dell’indipendenza 
dell’Autorità 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
rispetto 
a 
qualsiasi 
altro 
potere 


o autorità, e in particolare rispetto all’esecutivo. 


94. Per quanto riguarda 
le 
garanzie 
procedurali, i 
procedimenti 
davanti 
all’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
erano 
di 
natura 
contraddittoria, 
le 
persone 
potevano 
essere 
legalmente 
rappresentate 
e i procedimenti portavano all’adozione di decisioni vincolanti. 
95. È 
vero che 
le 
decisioni 
dell’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
erano formalmente 
di 
natura 
amministrativa 
e 
che 
l’Autorità 
manteneva 
discrezionalità 
su 
come 
esercitare 
le 
proprie 
funzioni e poteri. 
96. tuttavia, la 
Corte 
osserva 
che 
ai 
sensi 
dell’articolo 152 del 
Codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati, 
il 
ricorrente 
avrebbe 
potuto 
presentare 
ricorso 
contro 
la 
decisione 
dell’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
davanti 
alle 
autorità 
giuridiche 
competenti. Inoltre, qualsiasi 
decisione 
adottata 
in 
tale 
procedimento 
sarebbe 
stata 
soggetta 
a 
ricorso 
per 
motivi 
giuridici 
davanti 
alla 
Corte 
di 
Cassazione. Pertanto, la 
Corte 
ritiene 
che, tenendo conto degli 
argomenti 
delle 
parti, non vi 
siano ragioni 
per considerare 
che, nel 
caso in esame, una 
denuncia 
all’Autorità 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
per 
l’asserito 
fallimento 
delle 
autorità 
nazionali 
nell’adottare 
misure 
tecnologiche 
e 
operative 
volte 
a 
proteggere 
i 
suoi 
dati 
personali 
conservati 
nella 
banca 
dati 
del 
Servizio di 
informazioni 
fiscali 
contro abusi 
e 
utilizzi 
impropri, eventualmente 
accompagnata 
da 
un ricorso alle 
autorità 
giuridiche 
competenti, non avrebbe 
costituito un insieme 
di 
rimedi che avrebbe fornito al ricorrente almeno ragionevoli prospettive di successo. 
97. Alla 
luce 
di 
quanto sopra, non c’è 
dubbio che 
il 
rimedio consistente 
in una 
denuncia 
all’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati 
fosse 
disponibile 
in teoria, come 
chiaramente 
previsto 
dalla legge statutaria. 
98. Per quanto riguarda 
la 
disponibilità 
pratica 
del 
rimedio, la 
Corte 
ribadisce 
ancora 
una 
volta 
che 
spetta 
al 
Governo che 
invoca 
il 
non esaurimento del 
rimedio dimostrare 
alla 
Corte 





che 
il 
rimedio fosse 
effettivo, disponibile 
in teoria 
e 
in pratica 
al 
momento pertinente 
(si 
veda 
il paragrafo 87 sopra). 


99. 
A 
questo 
proposito, 
la 
Corte 
ha 
stabilito 
che 
la 
disponibilità 
di 
un 
rimedio 
che 
si 
dice 
esistente, 
compreso 
il 
suo 
ambito 
di 
applicazione, 
deve 
essere 
chiaramente 
stabilita 
e 
confermata 
o 
integrata 
dalla 
pratica 
o 
dalla 
giurisprudenza, 
che 
in 
linea 
di 
principio 
deve 
essere 
ben 
consolidata 
e 
risalire 
al 
periodo 
precedente 
alla 
presentazione 
della 
domanda 
(si 
veda 
Guðmundur 
Gunnarsson 
e 
Magnús 
Davíð 
Norðdahl 
c. 
islanda, 
nn. 
24159/22 
e 
25751/22, 
§ 
44, 
16 
aprile 
2024; 
e 
Guravska 
c. 
lettonia 
(dec.), 
n. 
41553/18, 
§ 
24, 
7 
luglio 
2020). 
tuttavia, 
la 
Corte 
ha 
anche 
stabilito 
che 
tale 
principio 
è 
soggetto 
a 
eccezioni 
che 
possono 
essere 
giustificate 
dalle 
circostanze 
particolari 
del 
caso 
(si 
veda 
Gherghina 
c. 
romania 
(dec.) 
[GC], 
n. 
42219/07, 
§ 
88, 
9 
luglio 
2015). 
Di 
conseguenza, 
la 
Corte 
ha 
ritenuto 
giustificata 
l’assenza 
di 
una 
giurisprudenza 
consolidata 
in 
casi 
riguardanti 
l’uso 
di 
un 
rimedio 
esistente 
rispetto 
a 
un 
ramo 
relativamente 
recente 
del 
diritto 
nazionale 
(ibid., 
§ 
100), 
e 
in 
casi 
riguardanti 
rimedi 
introdotti 
di 
recente 
che 
non 
erano 
stati 
in 
vigore 
abbastanza 
a 
lungo 
da 
essere 
testati 
davanti 
ai 
tribunali 
nazionali 
da 
parte 
degli 
individui 
interessati 
(si 
veda 
bistieva 
e 
altri 
c. 
Polonia, 
n. 
75157/14, 
§ 
62, 
10 
aprile 
2018; 
e 
Stella 
e 
altri 
c. 
italia 
(dec.), 
nn. 
49169/09 
e 
altri 
10, 
§ 
65, 
16 
settembre 
2014). 
In 
casi 
simili, 
la 
Corte 
ha 
sottolineato 
che 
in 
un 
sistema 
giuridico 
in 
cui 
i 
diritti 
fondamentali 
sono 
protetti 
dalla 
Costituzione 
e 
dalla 
legge, 
spetta 
all’individuo 
leso 
testare 
l’estensione 
di 
quella 
protezione 
e 
consentire 
ai 
tribunali 
nazionali 
di 
applicare 
tali 
diritti 
e, 
se 
del 
caso, 
svilupparli 
nell’esercizio 
del 
loro 
potere 
interpretativo. 
La 
Corte 
ha 
anche 
ritenuto 
che, 
se 
il 
ricorrente 
avesse 
avuto 
dubbi 
sull’efficacia 
del 
rimedio 
in 
questione, 
fosse 
suo 
compito 
dissipare 
tali 
dubbi 
presentando 
una 
denuncia 
all’organo 
competente 
(si 
veda 
Gherghina, 
sopra 
citata, 
§ 
101, 
e 
Fullani 
c. 
albania 
(dec.), 
n. 
4586/18, 
§ 
70, 
20 
settembre 
2022). 
100. In assenza 
di 
esempi 
di 
giurisprudenza 
nazionale 
che 
dimostrano l’efficacia 
e 
la 
disponibilità 
pratica 
di 
un rimedio, la 
Corte 
ha 
esaminato se, nel 
materiale 
presentato davanti 
ad essa, vi 
fossero altre 
indicazioni 
sulle 
prospettive 
di 
successo del 
rimedio in questione 
(si 
veda 
Ádám 
e 
altri 
c. romania, nn. 81114/17 e 
altri 
5, § 49, 13 ottobre 
2020), e 
se 
il 
Governo 
avesse 
fornito spiegazioni 
su eventuali 
ragioni 
strutturali 
che 
avrebbero indicato che, anche 
senza 
esempi 
specifici, il 
rimedio potesse 
essere 
stato effettivo (si 
veda 
Voynov 
c. russia, n. 
39747/10, § 45, 3 luglio 2018). 
101. nel 
caso di 
esame, la 
Corte 
osserva 
che 
il 
Governo non ha 
fornito esempi 
di 
giurisprudenza 
nazionale 
in merito alle 
specifiche 
lamentele 
sollevate 
dal 
ricorrente 
riguardo alla 
mancanza 
di 
adeguate 
garanzie 
per prevenire 
abusi 
e 
usi 
indebiti 
dei 
dati 
personali 
conservati 
nel database del Servizio di Informazioni Fiscali. 
102. tuttavia, non vi 
è 
nulla 
che 
indichi 
che 
il 
rimedio in questione 
sarebbe 
stato evidentemente 
inutile 
nel 
caso del 
ricorrente 
e, al 
contrario, il 
materiale 
presentato alla 
Corte 
suggerisce 
il 
contrario. 
In 
particolare, 
sia 
il 
ricorrente 
che 
il 
Governo 
hanno 
fornito 
alla 
Corte 
decisioni 
adottate 
dall’Autorità 
per la 
protezione 
dei 
dati, d’ufficio, in merito alla 
questione 
diversa 
ma 
correlata 
relativa 
alla 
mancanza 
di 
garanzie 
finalizzate 
a 
proteggere 
i 
dati 
conservati 
nel 
database 
del 
Servizio di 
Informazioni 
Fiscali 
da 
abusi 
e 
usi 
indebiti 
da 
parte 
di 
entità 
terze 
(si 
veda 
i 
paragrafi 
31-43 
sopra). 
In 
questo 
contesto, 
in 
cui 
il 
sistema 
giuridico 
nazionale 
prevede 
un 
organismo 
specifico 
con 
competenza 
generale 
nel 
campo 
della 
protezione 
dei 
dati, 
e 
che 
aveva 
inoltre 
già 
deciso 
su 
questioni 
simili, 
la 
Corte 
non 
vede 
alcun 
motivo 
per 
cui 
l’Autorità 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
avrebbe 
dovuto 
rifiutare, 
su 
reclamo 
del 
ricorrente, 
di 
occuparsi 
della 
questione 
riguardante 
le 
garanzie 
necessarie 
per 
proteggere 
i 
dati 
conservati 
nel 
database 
del 
Servizio di 
Informazioni 
Fiscali 
da 
abusi 
e 
usi 
indebiti 
da 
parte 
della 
Guardia 
di 
Finanza. 



103. 
Per 
quanto 
riguarda 
l’argomentazione 
del 
ricorrente 
secondo 
cui 
il 
rimedio 
in 
questione 
sarebbe 
stato in qualche 
modo inadeguato o inefficace 
poiché 
le 
decisioni 
precedentemente 
adottate 
dall’Autorità 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
non 
erano 
state 
eseguite 
(si 
veda 
il 
paragrafo 83 sopra), la 
Corte 
ritiene 
che 
meri 
ritardi 
nell’esecuzione 
delle 
decisioni 
di 
un’autorità 
nazionale, che 
non siano ripetuti 
e 
sistemici, siano insufficienti 
per suscitare 
dubbi 
sull’efficacia 
del 
rimedio 
in 
questione 
(si 
veda, 
mutatis 
mutandis, 
Simaldone 
c. 
italia, 
n. 
22644/03, §§ 81-84, 31 marzo 2009). 
104. 
In 
conclusione, 
la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
ricorrente 
non 
abbia 
fornito 
alle 
autorità 
nazionali 
l’opportunità 
che, in linea 
di 
principio, è 
destinata 
agli 
Stati 
contraenti 
dall’articolo 35 della 
Convenzione, ossia 
l’opportunità 
di 
prevenire 
o correggere 
le 
violazioni 
della 
Convenzione 
tramite 
il 
proprio sistema 
giuridico (si 
veda 
Gerghina, citato sopra, § 115, e 
Communauté 
genevoise 
d’action syndicale 
(CGAS), sopra citata, § 164). 
105. 
Alla 
luce 
di 
quanto 
sopra, 
la 
Corte 
accoglie 
l’obiezione 
del 
Governo. 
Di 
conseguenza, 
il 
ricorso del 
ricorrente 
riguardo alla 
presunta 
inadeguatezza 
delle 
autorità 
dello Stato convenuto 
nella 
protezione 
dei 
suoi 
dati 
personali 
da 
abusi 
e 
usi 
indebiti 
da 
parte 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
è 
dichiarato inammissibile 
per mancato esaurimento dei 
rimedi 
interni 
e 
deve 
essere 
respinto ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione. 


Per questi motivi, la Corte, all’unanimità, 
Dichiara 
il ricorso inammissibile. 
redatto in lingua inglese e notificato per iscritto il 28 novembre 2024. 


Ilse Freiwirth 
marko Bošnjak 
Cancelliere 
Presidente 



ContenzIosonAzIonALe
La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 (causa 
C-406/22) sui Paesi sicuri con riferimento alle conseguenze 
sul contenzioso nazionale. I recenti arresti della Cassazione 


Stefano Emanuele Pizzorno* 


La 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione, con sentenza 
del 
4 ottobre 
2024, si 
è 
pronunciata 
in via 
pregiudiziale 
su alcune 
questioni 
concernenti 
la 
nozione 
di 
Paese 
sicuro. 
Nell’articolo 
si 
analizza 
la 
decisione 
con 
riguardo 
ai 
riflessi 
della 
stessa 
sul 
contenzioso 
italiano, 
prendendo 
in 
considerazione 
le 
recenti 
pronunce 
della Suprema Corte. 


SOMMariO: 1. il 
caso -2. Le 
questioni 
-3. La rilevanza della nozione 
di 
Paese 
sicuro 


4. Le 
conseguenze 
della decisione 
nell’ordinamento italiano: 
a) La sindacabilità della designazione 
di 
un Paese 
come 
sicuro con riferimento alle 
eccezioni 
territoriali 
e 
personali. La 
sentenza 
34898/24 
del 
30 
dicembre 
2024 
della 
Cassazione; 
b) 
La 
sindacabilità 
della 
designazione 
di un Paese come sicuro con riferimento alla mancanza di democrazia. 


La 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dello scorso 4 ottobre 
(1), emessa 
in 
via 
pregiudiziale, 
ha 
trovato 
ampia 
eco 
non 
solo 
sui 
siti 
giuridici 
(2), 
ma 
anche 
sui media nazionali (3). 

Articolo già pubblicato in 
Giustamm 
il 9 ottobre 2025 (Rivista: n. 1 
-2025). 
Un 
ringraziamento alla Rivista Giustamm 
per 
avere 
gentilmente 
condiviso il 
presente 
articolo con 
questa Rassegna. 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) 
Corte 
Giust., 
4 
ottobre 
2024, 
causa 
C-406/22, 
Ministerstvo 
vnitra 
České 
republiky, 
Odbor 
azylové 
a migrační politiky, ECLI:EU:C:2024:841. 
(2) V. tra 
gli 
altri 
Sentenza del 
4 ottobre 
2024 della Grande 
sezione 
della Corte 
di 
Giustizia del-
l’Unione 
Europea (causa C‑406/22) 
in www.questionegiustizia.it, nota 
a 
cura 
della 
redazione; 
PALEo-
LoGo, 
La 
Corte 
di 
giustizia 
UE 
delimita 
la 
categoria 
dei 
“paesi 
di 
origine 
sicuri” 
(e 
ribadisce 
il 
controllo 



Essa 
merita 
qualche 
riflessione 
in ordine 
all’impatto della 
stessa 
nell’ordinamento 
giuridico italiano. 

1. il caso. 


Un cittadino moldavo proponeva 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
alle 
autorità 
della 
Repubblica 
ceca, 
affermando 
di 
aver 
assistito 
a 
un 
incidente 
automobilistico mortale, a 
seguito del 
quale 
avrebbe 
ricevuto delle 
minacce 
che 
lo avevano costretto a 
lasciare 
il 
Paese. Il 
Ministero dell’Interno, osservando 
che 
la 
Moldavia 
era 
considerata 
un Paese 
sicuro con l’eccezione 
della 
regione 
della 
transnistria, 
respingeva 
la 
domanda. 
La 
direttiva 
2013/32/Ue 
prevede 
infatti 
la 
categoria 
del 
Paese 
di 
origine 
sicuro, attribuendo agli 
Stati 
membri 
anche 
la 
facoltà 
di 
stabilire 
una 
lista 
di 
Paesi 
rientranti 
in 
tale 
tipologia 
ai 
fini 
dell’esame 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
(art. 37 par. 1), 
indicando una 
serie 
di 
parametri 
(art. 38), e 
prevedendo l’obbligo di 
riesaminare 
periodicamente 
la 
situazione 
(art. 37, 2). Lo Stato membro a 
cui 
la 
domanda 
di 
protezione 
viene 
rivolta, da 
un richiedente 
di 
un Paese 
considerato 
sicuro, 
può 
trattarla 
con 
una 
procedura 
accelerata 
e 
giudicarla 
manifestamente 
infondata 
a 
meno che 
il 
richiedente 
non esponga 
ragioni 
che 
facciano ritenere 
che 
in realtà 
il 
Paese 
non può essere 
considerato sicuro per via 
della 
sua 
situazione 
personale (artt. 32 e 36 della direttiva). 

2. Le questioni. 


La Corte veniva chiamata a pronunciarsi su tre questioni. 


La 
prima 
concerneva 
l’esercizio 
della 
facoltà 
che 
la 
Moldavia 
aveva 
esercitato, 
a 
seguito del 
conflitto in corso tra 
Russia 
e 
Ucraina, sulla 
base 
dell’art. 
15 della 
Convenzione 
Cedu che 
autorizza 
gli 
Stati 
firmatari, in caso di 
guerra 


o 
di 
altro 
pericolo 
pubblico 
che 
minacci 
la 
vita 
della 
nazione, 
ad 
adottare 
delle 
misure 
in deroga 
agli 
obblighi 
previsti 
dalla 
Convenzione. Il 
problema 
che 
si 
poneva 
era 
in particolare 
se 
un Paese 
designato come 
sicuro, qualora 
avesse 
esercitato 
la 
facoltà 
prevista 
dall’art. 
15 
Cedu, 
potesse 
ancora 
considerarsi 
tale. 


Al 
riguardo, la 
Corte, seguendo l’avviso dell’Avvocato generale, ha 
affermato 
che 
la 
circostanza 
di 
aver dichiarato di 
volersi 
avvalere 
della 
facoltà 
di 
deroga 
contemplata 
dall’art. 
15 
Cedu, 
di 
per 
sé 
non 
è 
sufficiente 
a 
escludere 
un Paese 
dalla 
categoria 
dei 
Paesi 
sicuri. Quello che 
conta 
è 
verificare 
se 
le 
misure 
concretamente 
prese 
in 
attuazione 
della 
deroga 
siano 
incompatibili 
con 
i 
criteri 
il 
cui 
rispetto 
consente 
a 
uno 
Stato 
membro 
di 
designare 
un 
Paese 
terzo 
come 
Paese 
sicuro. 
tali 
criteri 
sono 
indicati 
nell’allegato 
I 
della 
direttiva 
2013/32 (richiamato dall’art. 37, par. 1) (4). 

della 
giurisdizione 
sulle 
decisioni 
amministrative), 
www. 
a-df.org, 
4 
ottobre 
2024; 
GENtILUCCI, 
Sentenza 
della Corte di Giustizia UE: a rischio l’accordo con l’albania?, Diritto.it, 15 ottobre 2024. 


(3) V. ad esempio Corriere della Sera del 15 ottobre 2024. 



La 
seconda 
questione 
concerneva 
il 
problema 
se 
un Paese 
possa 
essere 
considerato 
sicuro 
con 
l’eccezione 
di 
una 
parte 
del 
suo 
territorio, 
come 
per 
l’appunto nel 
caso della 
Moldavia, designato Paese 
sicuro dalla 
Repubblica 
ceca con l’eccezione della 
transnistria. 

La 
risposta 
della 
Corte 
a 
tale 
quesito 
è 
negativa; 
la 
direttiva 
infatti 
utilizza 
nel 
già 
citato Allegato I i 
termini 
generalmente 
e 
costantemente 
che, secondo 
la 
Corte, indicherebbero che 
i 
criteri 
indicati 
debbano essere 
rispettati 
nell’insieme 
del 
territorio del 
Paese 
terzo; 
del 
resto mentre 
la 
direttiva 
2005/85/CE, 
all’art. 
30, 
prevedeva 
la 
possibilità 
di 
designare 
come 
sicura 
solo 
una 
parte 
del 
territorio 
di 
un 
Paese, 
questa 
facoltà 
non 
è 
stata 
riproposta 
nella 
successiva 
direttiva 
2013/32 che ha abrogato la precedente. 


Nel 
rispondere 
al 
terzo quesito, infine, la 
Corte 
ha 
affermato che 
nel 
caso 
in cui 
la 
designazione 
di 
un Paese 
come 
sicuro non appaia 
conforme 
ai 
criteri 
indicati 
nell’Allegato I della 
direttiva 
(come 
nel 
caso di 
specie 
in cui 
era 
stato 
indicato un Paese 
con l’eccezione 
di 
una 
parte 
del 
territorio), il 
giudice 
adito 
deve 
pronunciarsi 
d’ufficio su tale 
circostanza, anche 
se 
la 
questione 
non sia 
stata sollevata dal richiedente. 

3. La rilevanza della nozione di Paese sicuro. 


Con 
decreto-legge 
4 
ottobre 
2018, 
n. 
113, 
in 
attuazione 
della 
direttiva 
2013/32, 
è 
stato 
aggiunto 
al 
d.lgs. 
25/2008 
l’art. 
2 
bis 
che 
introduce 
la 
nozione 
di 
Paese 
di 
origine 
sicuro, ovverosia 
un Paese 
in cui, in caso di 
rientro, i 
richiedenti 
non corrono il 
rischio di 
subire 
danni 
gravi 
alla 
persona 
(condanna 
a 
morte, 
esecuzioni, 
torture, 
trattamenti 
inumani 
e 
degradanti, 
conflitti 
armati). 
Inoltre, 
era 
stabilito 
che 
con 
decreto 
del 
Ministro 
degli 
affari 
esteri 
e 
della 
cooperazione 
internazionale, di 
concerto con i 
Ministri 
dell’interno e 
della 
giustizia, 
fosse 
adottato 
l’elenco 
dei 
Paesi 
di 
origine 
(5) 
sicuri, 
la 
qual 
cosa 
è 


(4) 
L’art. 
37 
della 
direttiva 
(tramite 
il 
rinvio 
all’Allegato 
I), 
stabilisce 
“che 
un 
paese 
è 
considerato 
paese 
di 
origine 
sicuro se, sulla 
base 
dello status 
giuridico, dell’applicazione 
della 
legge 
all’interno di 
un sistema 
democratico e 
della 
situazione 
politica 
generale, si 
può dimostrare 
che 
non ci 
sono generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni 
quali 
definite 
nell’articolo 9 della 
direttiva 
2011/95/UE, né 
tortura 


o 
altre 
forme 
di 
pena 
o 
trattamento 
disumano 
o 
degradante, 
né 
pericolo 
a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in situazioni 
di 
conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare 
tale 
valutazione 
si 
tiene 
conto, 
tra 
l’altro, della 
misura 
in cui 
viene 
offerta 
protezione 
contro le 
persecuzioni 
ed i 
maltrattamenti 
mediante: 
a) 
le 
pertinenti 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
del 
paese 
ed 
il 
modo 
in 
cui 
sono 
applicate; 


b) il 
rispetto dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
stabiliti 
nella 
Convenzione 
europea 
per la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo e 
delle 
libertà 
fondamentali 
e/o nel 
Patto internazionale 
relativo ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
e/o 
nella 
Convenzione 
delle 
Nazioni 
Unite 
contro 
la 
tortura, 
in 
particolare 
i 
diritti 
ai 
quali 
non 
si 
può 
derogare 
a 
norma 
dell’articolo 15, paragrafo 2, di 
detta 
Convenzione 
europea; 
c) il 
rispetto del 
principio di 
«nonrefoulement
» conformemente 
alla 
convenzione 
di 
Ginevra; 
d) un sistema 
di 
ricorsi 
effettivi 
contro le 
violazioni di tali diritti e libertà”. 
(5) Per paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
deve 
intendersi 
il 
paese 
della 
sua 
cittadinanza 
al 
momento 
della 
presentazione 
della 
domanda, così 
Cass. civ. Sez. I, ordinanza 
1 marzo 2021, n. 5523 con riferimento 
all’espressione 
paese 
di 
origine 
di 
cui 
all’art. 14, lett. b) d.lgs. n. 251 del 
2007 in tema 
di 
protezione 
sussidiaria. 



avvenuta 
a 
partire 
dal 
decreto 
Interministeriale 
n. 
1202/606 
del 
4 
ottobre 
2019, 
successivamente 
aggiornato (da 
ultimo con d.m. 7 maggio 2024) (6). L’art. 2 
bis, comma 
2 d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 esattamente 
disponeva 
che 
“Uno 
Stato 
non 
appartenente 
all’Unione 
europea 
può 
essere 
considerato 
Paese 
di 
origine 
sicuro se, sulla 
base 
del 
suo ordinamento giuridico, dell’applicazione 
della 
legge 
all’interno 
di 
un 
sistema 
democratico 
e 
della 
situazione 
politica 
generale, si 
può dimostrare 
che, in via 
generale 
e 
costante, non sussistono atti 
di 
persecuzione 
quali 
definiti 
dall’articolo 
7 
del 
decreto 
legislativo 
19 
novembre 
2007, n. 251, né 
tortura 
o altre 
forme 
di 
pena 
o trattamento inumano o degradante, 
né 
pericolo 
a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in 
situazioni 
di 
conflitto armato interno o internazionale. La designazione 
di 
un Paese 
di 
origine 
sicuro può essere 
fatta con l’eccezione 
di 
parti 
del 
territorio o di 
categorie 
di persone”. 

Quest’ultima 
parte 
dell’art. 2 bis 
comma 
2 veniva 
modificata 
con il 
de-
creto-legge 
23 ottobre 
2024, n. 158 che 
eliminava 
dalle 
eccezioni 
relative 
alla 
presunzione 
di 
sicurezza 
del 
Paese 
designato come 
sicuro il 
riferimento alle 
parti 
del 
territorio, 
lasciando 
però 
il 
riferimento 
soggettivo 
alle 
categorie 
di 
persone. Allo stesso tempo lo stesso decreto-legge 
definiva 
l’elenco dei 
paesi 
di 
origine 
sicuri, che 
pertanto veniva 
affidato a 
un atto con forza 
di 
legge 
anziché 
a 
un decreto ministeriale 
(7). Il 
decreto-legge 
158 veniva 
poi 
abrogato 
dall’art. 1, comma 
2 della 
legge 
187 del 
2024, di 
conversione 
in legge 
del 
de-
creto-legge 
145 del 
2024 (8), che 
ha 
sostituito il 
comma 
1 dell’art. 2-bis 
del 
d.lgs. 25/2008 e 
inserito il 
comma 
4-bis 
che 
contiene 
disposizioni 
identiche 
a 
quelle del decreto-legge 158 del 2024. 


La 
designazione 
di 
un 
Paese 
come 
sicuro 
comporta 
diverse 
conseguenze. 

Così, se 
in generale 
la 
proposizione 
del 
ricorso avverso il 
provvedimento 
della 
Commissione 
per il 
riconoscimento della 
protezione 
internazionale 
sospende 
l’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento 
impugnato 
(art. 
35 
bis 
comma 
3 d.lgs. 25/2008), sono però previste 
alcune 
eccezioni, tra 
cui 
quella, per l’appunto, 
in cui 
il 
richiedente 
provenga 
da 
Paese 
ritenuto sicuro. Infatti 
l’art. 35 


(6) Sulla 
nozione 
di 
Paese 
d’origine 
sicuro v. FLAMINI, La protezione 
dei 
cittadini 
stranieri 
provenienti 
da c.d. Paesi 
sicuri 
in seguito alle 
modifiche 
introdotte 
dal 
d.l. n. 20 del 
2023, in www.questionegiustizia.
it, 
3 
luglio 
2023; 
PItEA, 
La 
nozione 
di 
«paese 
di 
origine 
sicuro» 
e 
il 
suo 
impatto 
sulle 
garanzie 
per 
i 
richiedenti 
protezione 
internazionale 
in italia, in rivista di 
diritto internazionale, n. 3/2019; 
VENtURI, 
il 
diritto d’asilo: un diritto “sofferente”. L’introduzione 
nell’ordinamento italiano del 
concetto di 
“paesi 
di 
origine 
sicuri” 
ad opera della L. 132/2018 di 
conversione 
del 
cd. «decreto sicurezza» (d.l. 
113/2018), in Dir., imm. e citt., n. 2/2019. 


(7) Il 
tribunale 
di 
Roma 
con decreto del 
2 novembre 
2024, disponibile 
in www.eurojusitalia.eu, 
seguito da 
altri 
successivi 
ha 
sollevato alla 
Corte 
di 
Giustizia 
questione 
pregiudiziale 
se 
il 
diritto del-
l’Unione 
osti 
a 
che 
il 
legislatore 
nazionale 
designi 
uno Stato terzo come 
Paese 
di 
origine 
sicuro procedendo 
a tale designazione con atto legislativo primario. 
(8) Recante 
disposizioni 
urgenti 
in materia 
di 
ingresso in Italia 
di 
lavoratori 
stranieri, di 
tutela 
e 
assistenza 
alle 
vittime 
di 
caporalato, di 
gestione 
dei 
flussi 
migratori 
e 
di 
protezione 
internazionale, nonché 
dei relativi procedimenti giurisdizionali. 



bis 
terzo comma 
prevede 
tra 
le 
eccezioni 
quella 
in cui 
il 
ricorso sia 
proposto 
avverso il 
provvedimento di 
rigetto per manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 32, comma 
1, lettera 
b-bis; 
l’art. 32, comma 
1 lettera 
b-bis 
fa 
riferimento 
al 
rigetto 
della 
domanda 
per 
manifesta 
infondatezza 
nei 
casi 
di 
cui 
all’articolo 28-ter; 
e 
l’articolo 28-ter, tra 
le 
varie 
ipotesi 
di 
rigetto della 
domanda 
per manifesta 
infondatezza, contempla 
(lett. b) quella 
in cui 
il 
richiedente 
provenga 
da 
un Paese 
designato di 
origine 
sicuro ai 
sensi 
dell’articolo 
2-bis. Attraverso questi 
rinvii 
normativi, si 
dispone 
pertanto che, qualora 
il 
richiedente 
provenga 
da 
Paese 
sicuro, la 
domanda 
si 
considera 
manifestamente 
infondata 
e 
non si 
applica 
la 
sospensione 
automatica 
dell’efficacia 
esecutiva 
del provvedimento di rigetto (9). 


Inoltre, la 
decisione 
della 
Commissione 
può essere 
assunta 
a 
seguito di 
una 
procedura 
c.d. accelerata; 
in tal 
caso è 
previsto che 
la 
Questura 
provveda 
senza 
ritardo 
alla 
trasmissione 
della 
documentazione 
necessaria 
alla 
Commissione 
territoriale 
che, entro sette 
giorni 
dalla 
data 
di 
ricezione 
della 
documentazione, 
provvede 
all’audizione 
e 
decide 
entro i 
successivi 
due 
giorni 
(art. 28 
bis, 
secondo 
comma, 
d.lgs. 
25/2008) 
(10). 
L’onere 
di 
motivazione 
gravante 
sull’amministrazione 
è 
attenuato, in quanto la 
decisione 
con cui 
è 
rigettata 
la 
domanda 
presentata 
dal 
richiedente 
è 
motivata 
dando atto esclusivamente 
che 
il 
richiedente 
non ha 
dimostrato la 
sussistenza 
di 
gravi 
motivi 
per ritenere 
non 
sicuro il 
Paese 
designato in relazione 
alla 
propria 
situazione 
particolare 
(art. 
9, comma 2 bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, art. 36 dir. 2013/32). 


I termini 
per la 
proposizione 
del 
ricorso sono ridotti 
alla 
metà 
(v. art. 35 
bis 
comma 2 bis 
del d.lgs. n. 25 del 2008). 


Un 
cittadino 
straniero 
proveniente 
da 
Paese 
sicuro 
può 
essere 
trattenuto 
durante 
lo 
svolgimento 
della 
procedura 
di 
frontiera 
di 
cui 
all’art. 
28 
bis 
d.lgs. 
25/2008 
(art. 
6 
bis 
d.lgs. 
142/2015) 
(11) 
e 
sulla 
domanda 
di 
protezione 
presen


(9) Cfr. art. 46 par. 6 e 
art. 31, par. 8, lett. b direttiva 
2013/32. Art. 46 par. 5 dir. 2013/32/UE: 
“Fatto salvo il 
paragrafo 6, gli 
Stati 
membri 
autorizzano i 
richiedenti 
a 
rimanere 
nel 
loro territorio fino 
alla 
scadenza 
del 
termine 
entro il 
quale 
possono esercitare 
il 
loro diritto a 
un ricorso effettivo oppure, 
se 
tale 
diritto è 
stato esercitato entro il 
termine 
previsto, in attesa 
dell’esito del 
ricorso”. L’art. 46 par. 6 
della 
direttiva 
2013/32/UE, indica 
tra 
le 
eccezioni, alla 
lettera 
a, la 
decisione 
“di 
ritenere 
una 
domanda 
manifestamente 
infondata 
conformemente 
all’articolo 32, paragrafo 2, o infondata 
dopo l’esame 
conformemente 
all’articolo 31, paragrafo 8, a 
eccezione 
dei 
casi 
in cui 
tali 
decisioni 
si 
basano sulle 
circostanze 
di 
cui 
all’articolo 
31, 
paragrafo 
8, 
lettera 
h)”. 
L’articolo 
31 
par. 
8 
fa 
riferimento 
alla 
lettera 
b 
all’ipotesi 
in cui 
“il 
richiedente 
proviene 
da 
un paese 
di 
origine 
sicuro a 
norma 
della 
presente 
direttiva”. 
(10) Nel 
caso di 
superamento dei 
termini, la 
Cassazione, con sentenza 
29 aprile 
2024 n. 11399, 
pronunciando in via 
pregiudiziale 
ai 
sensi 
dell’art. 365 bis 
c.p.c., ha 
ritenuto la 
non applicabilità 
del-
l’effetto sospensivo automatico dell’efficacia 
esecutiva 
della 
decisione 
di 
diniego della 
Commissione 
territoriale 
con 
sentenza, 
su 
cui, 
in 
termini 
critici, 
PIzzoRNo, 
il 
superamento 
dei 
termini 
della 
procedura 
accelerata e 
la deroga al 
principio della sospensione 
automatica dell’esecutività della decisione 
di 
rigetto 
della domanda di 
protezione 
internazionale 
per 
il 
richiedente 
proveniente 
da Paese 
sicuro. Considerazioni 
a 
margine 
di 
Cassazione, 
Sezioni 
Unite, 
29 
aprile 
2024 
n. 
11399, 
in 
rass. 
avv. 
Stato, 
3/2023, 
74-94. 



tata 
la 
Commissione 
decide 
entro 
sette 
giorni 
dalla 
presentazione 
della 
stessa 
(art. 
28 
bis, 
comma 
2 
bis, 
d.lgs. 
25/2008, 
introdotto 
dal 
decreto-Legge 
10 
marzo 
2023, 
n. 
20 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
L. 
5 
maggio 
2023, 
n. 
50). 


Infine, la 
provenienza 
da 
Paese 
sicuro è 
il 
presupposto per l’applicazione 
del 
Protocollo tra 
l’Italia 
e 
l’Albania 
che 
mette 
a 
disposizione 
delle 
autorità 
italiane 
alcune 
aree 
del 
territorio albanese 
in cui 
possono essere 
trattenuti 
i 
richiedenti 
asilo raccolti 
in acque 
extraterritoriali 
(art. 28 bis, comma 
2, lettera 
b bis 
del 
d.lvo n. 25/2008, in relazione 
all’art. 1, lettera 
d del 
Protocollo e 
agli 
artt. 3, commi 
2 e 
3, e 
4, comma 
1, del 
Protocollo ratificato con l. 21 febbraio 
2024 n. 14). 


4. Le conseguenze della decisione nell’ordinamento italiano. 


a) 
La 
sindacabilità 
della 
designazione 
di 
un 
Paese 
come 
sicuro 
con 
riferimento 
alle 
eccezioni 
territoriali 
e 
personali. La sentenza 34898/24 del 
30 dicembre 
2024 della Cassazione. 


Avendo 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ritenuto 
illegittima 
la 
designazione 
di 
un 
Paese 
come 
sicuro qualora 
non sia 
possibile 
considerarlo tale 
nella 
sua 
intera 
estensione 
territoriale, è 
possibile 
che 
analoga 
decisione 
venga 
assunta 
in relazione 
ai 
rinvii 
pregiudiziali 
disposti 
dal 
tribunale 
di 
Firenze 
con ordinanze 
del 
15 
maggio 
2024 
e 
del 
31 
maggio 
2024 
con 
cui 
è 
stata 
sottoposta 
alla 
Corte 
la 
questione 
se 
sia 
ammissibile 
secondo il 
diritto europeo la 
designazione 
di 
un 
Paese 
di 
origine 
come 
sicuro, 
escludendo 
però 
categorie 
di 
persone 
a 
rischio 
e, 
in 
via 
subordinata, 
se 
sia 
ammissibile 
individuare 
un 
Paese 
di 
origine 
sicuro, 
con esclusioni 
che 
per numero e 
tipologie 
sono di 
difficile 
accertamento (12). 
Al 
riguardo 
l’Allegato 
I 
della 
direttiva 
2013/32 
non 
contiene 
alcun 
riferimento 
a 
tale 
possibilità 
di 
esclusione, 
e 
la 
stessa 
direttiva 
2005/85, 
mentre 
consentiva 
agli 
Stati 
membri 
di 
prevedere 
l’eccezione 
di 
parti 
del 
territorio, 
anche 
con 


(11) Nell’ipotesi 
in cui 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
sia 
presentata 
direttamente 
alla 
frontiera 
o nelle 
zone 
di 
transito da 
un richiedente 
proveniente 
da 
un Paese 
designato di 
origine 
sicuro, 
è 
previsto il 
trattenimento durante 
lo svolgimento della 
procedura, che 
può essere 
disposto qualora 
il 
richiedente 
non consegni 
il 
passaporto o altro documento equipollente 
in corso di 
validità, ovvero non 
presti 
idonea 
garanzia 
finanziaria. 
Al 
riguardo 
la 
Suprema 
Corte 
(Cass., 
Sez. 
Unite, 
ord. 
8 
febbraio 
2024, 
n. 3563; 
Cass., Sez. Unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3562) ha 
proposto rinvio pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
per verificare 
la 
compatibilità 
della 
disposizione 
con gli 
artt. 8 e 
9 della 
direttiva 
2013/32/Ue 
per quanto concerneva 
la 
prestazione 
di 
una 
garanzia 
finanziaria 
il 
cui 
ammontare 
era 
stabilito 
in misura 
fissa. Peraltro, la 
disposizione 
è 
stata 
modificata 
dal 
d.l. 11 ottobre 
2024 n. 145 (disposizioni 
urgenti 
in materia 
di 
ingresso in Italia 
di 
lavoratori 
stranieri, di 
tutela 
e 
assistenza 
alle 
vittime 
di 
caporalato, di 
gestione 
dei 
flussi 
migratori 
e 
di 
protezione 
internazionale, nonché 
dei 
relativi 
procedimenti 
giurisdizionali). Sul 
trattenimento del 
richiedente 
asilo proveniente 
da 
Paese 
sicuro v. tAGLIENtI, 


Trattenimento 
migranti 
richiedenti 
protezione 
internazionale-procedura 
di 
frontiera-paesi 
di 
origine 
sicuri, in www.giustiziaamministrativa.it. 


(12) Su tali 
ordinanze 
v. SICCARdI, Paesi 
sicuri 
e 
categorie 
di 
persone 
“insicure”: un binomio 
possibile? il 
Tribunale 
di 
Firenze 
propone 
rinvio pregiudiziale 
alla Corte 
di 
giustizia UE, in www.giustiziainsieme.
it, 10 settembre 2024. 



l’introduzione 
di 
nuove 
disposizioni, non consentiva 
l’esclusione 
di 
categorie 
di 
persone, permettendo solo il 
mantenimento dell’eventuale 
normativa 
già 
in 
vigore 
al 
primo dicembre 
2005 che 
consentisse 
di 
designare 
un Paese 
o parte 
di esso sicuro per un gruppo determinato di persone (art. 30 parr. 1 e 3). 


Sarebbe 
stato possibile 
inoltre 
che 
alcuni 
tribunali, in considerazione 
del 
principio 
enunciato 
dalla 
Corte, 
ritenessero 
in 
contrasto 
con 
la 
direttiva 
2013/32 
la 
designazione 
effettuata 
nel 
decreto 
ministeriale 
di 
Paese 
sicuro 
con 
l’eccezione 
di 
categorie 
di 
persone, 
senza 
attendere 
l’ulteriore 
pronuncia 
della 
Corte 
stessa, così 
come 
già 
avvenuto con i 
decreti 
del 
tribunale 
di 
Roma 
che 
non 
hanno 
convalidato 
il 
trattenimento 
in 
Albania 
di 
richiedenti 
asilo 
disposto 
dal 
Questore 
di 
Roma 
sulla 
base 
del 
Protocollo 
tra 
il 
Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
per il 
rafforzamento della 
collaborazione 
in materia 
migratoria, ratificato 
con l. 21 febbraio 2024 n. 14 e 
che 
hanno suscitato un grande 
scalpore 
sui 
media 
nazionali 
(13). 
tale 
possibilità 
peraltro 
è 
venuta 
meno 
a 
seguito 
delle 
modifiche 
intervenute 
con 
il 
decreto-legge 
158/2024. 
Infatti, 
lo 
stesso 
decreto-legge 
da 
un 
lato 
contiene 
l’indicazione 
dei 
Paesi 
sicuri, 
non 
rinviando 
più 
al 
decreto 
ministeriale 
(14), 
dall’altro, 
ed 
è 
ciò 
che 
rileva, 
mentre 
il 
decreto 
ministeriale 
a 
sua 
volta 
faceva 
riferimento 
alle 
schede 
sul 
Paese 
di 
origine 
(15), che a loro volta prevedevano le eccezioni territoriali e personali, al momento, 
malgrado la 
possibilità 
residua 
di 
introdurre 
eccezioni 
soggettive 
sulla 
base 
del 
modificato 
art. 
2 
bis 
comma 
2 
d.lgs. 
25/2008, 
nulla 
è 
ora 
indicato. 
Pertanto, non è 
possibile 
contestare 
la 
designazione 
di 
un Paese 
come 
sicuro 
ricorrendo all’argomento per cui 
il 
diritto europeo impedirebbe 
la 
previsione 
di eccezioni, perché tali eccezioni non vi sono più. 

Ciò 
non 
esclude 
che 
in 
via 
di 
fatto 
possano 
essere 
individuate 
minoranze 
nei 
confronti 
delle 
quali 
non 
esista 
una 
situazione 
di 
sicurezza, 
con 
riferimento 
alle 
fonti 
consultabili 
ai 
sensi 
dell’art. 
37 
comma 
3 
della 
dir. 
2013/32 
(16). 


(13) 
tribunale 
di 
Roma, 
18 
ottobre 
2024, 
RG 
42251/2024 
e 
successivi. 
due 
decreti 
sono 
disponibili 
in 
www.questionegiustizia.it, 
con 
nota 
di 
NAtALE 
e 
FILICE, 
Nota 
ai 
provvedimenti 
di 
rigetto 
delle 
richieste 
di 
convalida 
dei 
trattenimenti 
disposti 
dalla 
Questura 
di 
roma 
ai 
sensi 
del 
Protocollo 
italia-albania, 
emessi 
dal 
Tribunale 
di 
roma, 
sezione 
specializzata 
nella 
protezione 
internazionale, 
il 
18 
ottobre 
2024. 


(14) 
Rispetto 
all’elenco 
contenuto 
nel 
decreto 
ministeriale 
del 
7 
maggio 
2024 
non 
sono 
più 
indicati 
la 
Colombia, il 
Camerun e 
la 
Nigeria 
per le 
problematiche 
connesse 
a 
parti 
del 
loro territorio. È 
stata 
peraltro mantenuta l’indicazione della Georgia su cui v. nota 28. 
(15) L’art. 1 2° 
comma 
del 
d.m. 7 maggio 2024 disponeva 
che 
“Nell’ambito dell’esame 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale, la 
situazione 
particolare 
del 
richiedente 
è 
valutata 
alla 
luce 
delle 
informazioni contenute nelle schede sul Paese di origine indicate nell’istruttoria di cui in premessa”. 
(16) 
Il 
tribunale 
di 
Roma 
con 
i 
decreti 
citati 
alla 
nota 
7 
ha 
sollevato 
anche 
questione 
pregiudiziale 
se 
il 
diritto 
dell’Unione 
osti 
a 
che 
il 
legislatore 
nazionale 
designi 
uno 
Stato 
terzo 
come 
Paese 
di 
origine 
sicuro 
senza 
rendere 
accessibili 
e 
verificabili 
le 
fonti 
adoperate 
per 
giustificare 
la 
designazione 
stessa 
e 
ulteriore 
questione 
pregiudiziale 
se 
il 
diritto 
dell’Unione 
debba 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che, 
nel 
corso 
di 
una 
procedura 
accelerata 
di 
frontiera 
da 
Paese 
di 
origine 
designato 
sicuro, 
il 
giudice 
possa 
utilizzare 
informazioni 
attingendole 
autonomamente 
dalle 
fonti 
di 
cui 
al 
paragrafo 
3 
dell’art. 
37 
della 
dir. 
2013/32. 



Così 
il 
tribunale 
di 
Catania 
(17), in un caso concernente 
la 
convalida 
del 
trattenimento di 
un richiedente 
asilo proveniente 
dall’Egitto ha 
disapplicato il 
decreto-legge 
158/24 alla 
luce 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia, non ritenendo 
necessario 
disporre 
alcun 
rinvio 
pregiudiziale. 
Il 
tribunale 
di 
Bologna 
ha 
invece, in una 
controversia 
concernente 
un provvedimento di 
diniego della 
protezione 
internazionale 
ad opera 
della 
competente 
Commissione, sollevato 
la 
questione 
pregiudiziale 
se 
il 
giudice 
possa 
disapplicare 
la 
normativa 
nazionale 
per aver indicato un Paese 
come 
sicuro malgrado l’esistenza 
generale 
di 
persecuzioni 
nei 
confronti 
di 
un 
gruppo 
specifico, 
accertate 
sulla 
base 
delle 
fonti (18). 


Nel 
chiedere 
la 
pronuncia 
in via 
pregiudiziale, il 
giudice 
bolognese 
ha 
richiamato, 
a 
sostegno della 
tesi 
della 
disapplicazione, anche 
un precedente 
del 
Consiglio di 
Stato francese 
(19). Peraltro, il 
Conseil 
d’État, nella 
pronuncia 
richiamata, ha 
ritenuto che 
il 
Senegal 
e 
il 
Ghana 
non potessero considerarsi 
Paese 
sicuri, per via 
di 
una 
legislazione 
criminale 
punitiva 
nei 
riguardi 
delle 
persone 
omosessuali, non per contrasto con il 
diritto europeo, ma 
per violazione 
della 
legislazione 
nazionale 
(20) che 
nel 
trasporre 
l’Allegato I della 
direttiva 
2013/32 
ha 
aggiunto 
un 
riferimento 
all’orientamento 
sessuale 
dei 
richiedenti 
asilo 
(21). 
Al 
contrario, 
il 
Conseil 
d’État 
si 
è 
espresso 
nel 
senso 
che 
la 
circostanza 
che 
esistano in un determinato Paese 
dei 
gruppi 
che 
per ragioni 
culturali, 
sociali, 
religiose 
possano 
subire 
atti 
di 
persecuzione, 
non 
è 
una 
ragione 
sufficiente 
per non considerare 
quello stesso Paese 
come 
sicuro, malgrado 
sia 
stato designato come 
tale. Infatti, osserva 
il 
Supremo consesso amministrativo 
francese, 
il 
richiedente 
asilo 
proveniente 
da 
Paese 
sicuro 
ha 
la 
possibilità 
di 
dedurre 
serie 
ragioni 
al 
fine 
di 
far 
ritenere 
che 
il 
Paese 
da 
cui 
proviene 
non 
può 
essere 
considerato 
sicuro 
in 
ragione 
della 
sua 
situazione 
personale 
e, inoltre, in caso di 
rigetto della 
domanda 
d’asilo, qualora 
abbia 
proposto 
ricorso contro la 
stessa, può chiedere 
la 
sospensione 
del 
provvedimento 
di allontanamento emesso nei suoi confronti (22). 

Quindi, la 
giurisprudenza 
del 
Conseil 
d’État, citata 
a 
sostegno dell’opinione 
del giudice remittente, sembra in realtà contraddirla. 


In definitiva, la 
soluzione 
più corretta 
appare 
quella 
per cui, se 
vi 
è 
la 
di


(17) tribunale di Catania decreto 4 novembre 2024 in www.sistemapenale.it. 
(18) tribunale di Bologna 25 ottobre 24 in www.eurojusitalia.eu. 


(19) Uk Supreme 
Court, R v Secretary of State 
for the 
Home 
department, 4 marzo 2015; 
Conseil 
d’État, 2ème - 7ème chambres réunies, 2 luglio 2021, n. 437141. 
(20) Loi 
n° 
2018-778 du 10 septembre 
2018 pour une 
immigration maîtrisée, un droit 
d’asile 
effectif 
et une intégration réussie. 


(21) 
Punto 
12 
della 
sentenza, 
che 
è 
disponibile 
in 
www.legifrance.gouv.fr/ceta/id/CETaTEXT000043754071. 


(22) 
Conseil 
d’État, 
2 
febbraio 
2024, 
n. 
491011, 
disponibile 
in 
www.legifrance.gouv.fr/ceta/. 
Vedi 
anche 
Conseil 
d'État 
-2ème 
et 
7ème 
chambres 
réunies, 
25 
avril 
2024, 
n. 
490225, 
disponibile 
in 
www.dalloz.
fr/documentation/Document?id=CE_LiEUViDE_2024-04-25_490225. 



mostrazione 
dell’appartenenza 
a 
un 
determinato 
gruppo 
sociale 
oggetto 
di 
persecuzioni, 
viene 
meno 
per 
il 
singolo 
individuo 
la 
presunzione 
di 
sicurezza, 
senza 
che 
per questo il 
Paese 
di 
origine 
debba 
cessare 
di 
essere 
considerato 
sicuro per la generalità dei suoi abitanti (23). 


Sulla 
questione 
dell’eventuale 
contrasto con il 
diritto dell’Unione 
della 
normativa 
nazionale 
contenente 
l’indicazione 
di 
eccezioni 
personali, 
è 
peraltro 
intervenuta 
la 
Suprema 
Corte 
con 
l’ordinanza 
n. 
34898/24 
del 
30 
dicembre 
2024, 
pronunciata 
sul 
ricorso 
proposto 
dal 
Ministero 
dell’Interno 
avverso 
i 
decreti del 
tribunale di Roma del 18 ottobre scorso. 

La 
Suprema 
Corte 
ha 
da 
un lato sospeso il 
giudizio, ritenendo opportuno 
attendere 
la 
decisione 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
sui 
rinvii 
pregiudiziali 
disposti 
dal 
tribunale 
di 
Firenze 
e 
da 
altre 
Corti 
(24); 
dall’altro ha 
espresso la 
propria 
opinione 
nel 
senso di 
ritenere 
che 
l’esistenza 
di 
eccezioni 
personali 
non sia 
in 
contrasto con la 
direttiva 
2013/32. Secondo la 
Corte, infatti, la 
direttiva 
non 
impone 
una 
nozione 
di 
paese 
di 
origine 
sicuro che 
non contempli 
alcuna 
situazione, 
secondo 
l’espressione 
della 
Cassazione, 
di 
insicurezza 
personale. 
La 
nozione 
di 
paese 
sicuro è 
invece 
compatibile, osserva 
la 
Corte, con eccezioni 
personali 
purché 
queste, 
accompagnate 
da 
persecuzioni 
generalizzate, 
non incidano sulla 
tenuta 
dello Stato di 
diritto. In tal 
senso disporrebbe 
anche 
il 
considerando 42 della 
direttiva 
2013/32 in cui 
si 
afferma 
che 
l’inclusione 
di 
un paese 
terzo in un elenco di 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
non può stabilire 
una 
garanzia 
assoluta 
di 
sicurezza 
per i 
cittadini 
di 
tale 
paese; 
tale 
considerando sarebbe 
incompatibile 
con 
un’interpretazione 
che 
dall’insicurezza 
di 
alcuni 
giunga all’insicurezza dell’intero paese. 

Infine, 
secondo 
la 
Corte, 
la 
circostanza 
che 
dal 
giugno 
2026 
entrerà 
in 
vi


(23) L’ordinanza 
del 
tribunale 
di 
Bologna 
contiene 
un 
riferimento 
alla 
Germania 
nazista, 
che 
è 
stato 
ripreso 
da 
tutti 
i 
mezzi 
di 
comunicazione 
e 
che 
ha 
suscitato 
molte 
polemiche, 
v. 
per 
tutti 
Il 
Sole24ore, 
il 
Tribunale 
di 
Bologna 
rinvia 
il 
dl 
“Paesi 
sicuri” 
alla 
Corte 
Ue: 
«anche 
Germania 
nazista 
paese 
sicuro?», 
www.ilsole24ore.com/art/il-tribunale-bologna-rinvia-dl-paesi-sicuri-corte-ueaGpUjCp?
refresh_ce=1. 
Secondo 
il 
tribunale 
se 
si 
dovesse 
ritenere 
sicuro 
un 
paese 
quando 
la 
sicurezza 
è 
garantita 
alla 
generalità 
della 
popolazione, 
la 
nozione 
giuridica 
di 
Paese 
di 
origine 
sicuro 
si 
potrebbe 
applicare 
a 
pressoché 
tutti 
i 
paesi 
del 
mondo, ivi 
compresa 
la 
Germania 
nazista. I paragoni 
storici 
sono 
sempre 
un 
terreno 
scivoloso 
e, 
per 
limitarci 
allo 
stesso 
periodo, 
rovesciando 
il 
ragionamento 
del 
tribunale, e 
avventurandoci 
sullo stesso accidentato terreno, si 
potrebbe 
dire 
che 
allora 
l’America 
di 
Roosevelt, la 
Nazione 
del 
New 
deal, l’arsenale 
delle 
democrazie, non avrebbe 
potuto essere 
considerata 
un Paese 
sicuro, vista 
la 
segregazione 
nei 
riguardi 
della 
popolazione 
di 
colore 
(solo nel 
1956 la 
Corte 
Suprema, a 
seguito del 
rifiuto di 
Rosa 
Banks 
di 
lasciare 
il 
posto, riservato ai 
bianchi, sul 
bus 
e 
della 
successiva 
azione 
di 
protesta 
guidata 
da 
Martin Luther King, dichiarò l’incostituzionalità 
della 
segregazione 
sugli 
autobus 
pubblici 
in Alabama. Risale 
al 
1964 il 
Civil 
Rights 
Act 
che 
dichiarò illegali 
le 
disparità 
di 
registrazione 
nelle 
elezioni 
e 
la 
segregazione 
razziale 
nelle 
scuole, 
sul 
posto 
di 
lavoro 
e 
nelle 
strutture pubbliche in generale). 
(24) In particolare, il 
tribunale 
di 
Bologna 
con decreto del 
25 ottobre 
2024, cit., il 
tribunale 
di 
Roma 
con 
decreti 
del 
2, 
5, 
11, 
novembre 
2024, 
il 
tribunale 
di 
Palermo 
con 
decreti 
del 
5 
novembre 
2024. 
I decreti 
possono essere 
letti 
su www.eurojusitalia.eu. 
La 
Suprema 
Corte 
fa 
anche 
riferimento al 
rinvio 
disposto dal 
tribunale amministrativo regionale di Berlino con ordinanza del 29 novembre 2024. 



gore 
il 
regolamento 2024/1348, che 
abroga 
la 
direttiva 
2013/32, e 
introduce 
nuovamente 
la 
possibilità 
di 
prevedere 
eccezioni 
per parti 
specifiche 
del 
territorio 
di 
uno Stato o per categorie 
di 
persone 
(art. 61, par. 2), costituisce 
un 
dato di 
cui 
si 
deve 
tener conto per evitare 
un’interpretazione 
dell’attuale 
normativa 
che 
si 
ponga 
in 
contrapposizione 
con 
la 
nuova. 
da 
osservare 
che 
invece 
le 
decisioni 
dei 
tribunali 
avevano 
utilizzato 
le 
previsioni 
del 
nuovo 
regolamento 
come 
argomento per sostenere 
che 
nell’attuale 
non vi 
è 
possibilità 
di 
eccezioni (25). 

In ogni 
caso la 
possibilità 
di 
prevedere 
nuovamente 
eccezioni 
per parti 
specifiche 
del 
territorio 
di 
uno 
Stato 
o 
per 
categorie 
di 
persone 
sembra 
una 
soluzione 
ragionevole. Con riferimento alle 
eccezioni 
territoriali, si 
può osservare 
che 
nella 
nostra 
giurisprudenza 
si 
è 
sempre 
presa 
in 
considerazione 
la 
provenienza 
da 
una 
specifica 
parte 
di 
territorio di 
un Paese, ai 
fini 
dell’accoglimento 
o 
del 
diniego 
della 
domanda 
di 
asilo 
(26), 
o 
come 
elemento 
da 
tenere 
in considerazione 
ai 
fini 
del 
riconoscimento o meno del 
diritto in passato alla 
protezione 
umanitaria 
e 
ora 
a 
quella 
speciale, in alcuni 
casi 
peraltro con valutazioni 
diverse 
pur 
in 
riferimento 
ad 
un’identica 
zona 
(27). 
Anche 
in 
relazione 
alla 
designazione 
di 
un Paese 
come 
sicuro, la 
Suprema 
Corte 
aveva 
affermato 
che 
l’inserimento 
del 
paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
nell’elenco 
dei 
cd. 
“paesi 
sicuri” 
non precludeva 
allo stesso la 
possibilità 
di 
dedurre 
la 
propria 
provenienza 
da 
una 
specifica 
area 
del 
paese 
stesso interessata 
da 
fenomeni 
di 
violenza 
ed insicurezza 
generalizzata 
che, ancorché 
territorialmente 
circoscritti, 
potevano 
essere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
concessione 
della 
protezione 
internazionale 
o umanitaria, né 
escludeva 
il 
dovere 
del 
giudice, in presenza 
di 
tale 
allegazione, 
di 
procedere 
all’accertamento in concreto della 
pericolosità 
di 
detta 
zona e della rilevanza di tali fenomeni (28). 


La 
stessa 
designazione 
operata 
dalla 
Repubblica 
ceca 
della 
Moldavia 
come 
Paese 
sicuro 
con 
l’eccezione 
della 
transnistria 
corrispondeva 
da 
parte 
delle 
autorità 
ceche 
a 
una 
logica 
di 
buon 
senso, 
visto 
che 
la 
transnistria 
è 
di 
fatto 
uno 
Stato 
indipendente 
su 
cui 
le 
autorità 
moldave 
non 
esercitano 
alcun 
potere, 
per 


(25) Così, ad esempio, secondo tribunale 
di 
Palermo 5 novembre 
2024, cit., la circostanza che 
il 
regolamento 2024/1348, nell’abrogare 
la direttiva 2013/32 con effetto dal 
giugno 2026, reintroduca la 
facoltà di 
dichiarare 
un paese 
sicuro con eccezioni 
non solo per 
determinate 
parti 
del 
territorio, ma 
anche 
per 
“categorie 
di 
persone 
chiaramente 
identificabili” 
costituisce 
conferma 
che 
il 
legislatore 
dell’Unione abbia inteso escludere questa possibilità nella vigente direttiva 2013/32. 

(26) Ad esempio, Corte 
d’Appello di 
Firenze, 13 ottobre 
2023, RG 
2236/21, che 
nega 
il 
riconoscimento 
della 
protezione 
internazionale 
perché 
il 
richiedente 
proveniva 
dal 
delta 
State, 
zona 
considerata 
sicura all’interno della Nigeria. 
(27) Ad esempio, tribunale 
di 
Napoli 
decreto 28 febbraio 2024 prende 
in considerazione 
la 
provenienza 
del 
richiedente 
dal 
delta 
State 
per 
concedere 
la 
protezione 
speciale 
di 
cui 
all’art. 
19 
d.lgs. 
286/1998, mentre 
tribunale 
di 
Firenze, 17 ottobre 
2024 Rg 238/24 nega 
la 
protezione 
speciale 
anche 
sulla base della medesima provenienza. 


(28) Cass. civ. Sez. II ordinanza. 16 settembre 2020, n. 19252. 



cui 
considerare 
la 
Moldavia 
come 
uno 
Stato 
unitario 
comprendente 
anche 
la 
transnistria 
costituisce, 
allo 
stato 
delle 
cose, 
una 
forzatura 
logica 
(29). 


Anche 
l’indicazione 
di 
categorie 
di 
persone, come 
eccezione 
alla 
natura 
sicura 
di 
un Paese, appare 
razionale, consentendo al 
richiedente 
di 
far valere 
la 
propria 
appartenenza 
alla 
categoria 
considerata, facendo venir meno la 
presunzione 
di 
sicurezza, senza 
la 
necessità 
di 
dover invocare 
gravi 
motivi 
inerenti 
alla 
propria 
situazione 
particolare, 
perché 
la 
valutazione 
è 
stata 
già 
compiuta dalla legge. 


b) 
La 
sindacabilità 
della 
designazione 
di 
un 
Paese 
come 
sicuro 
con 
riferimento 
alla mancanza di democrazia. 


La 
questione 
si 
pone 
in 
termini 
un 
po’ 
diversi 
in 
relazione 
all’affermata 
sindacabilità 
del 
decreto 
ministeriale, 
sostenuta 
da 
parte 
della 
giurisprudenza 
di 
merito 
(30), 
e 
confermata 
da 
ultimo 
dalla 
sentenza 
della 
Cassazione 
33398/2024 
del 
19 
dicembre 
2024 
(31), 
secondo 
cui 
l’autorità 
giurisdizionale, 
investita 
della 
richiesta 
di 
autorizzare 
la 
permanenza 
del 
ricorrente 
ai 
sensi 
dell’art. 
35-bis, 
comma 
4, 
d.lgs. 
25/2008, 
deve 
valutare 
la 
conformità 
dell’inserimento 
di 
un 
determinato 
Paese 
nella 
lista 
ai 
criteri 
indicati 
dalla 
normativa 
comunitaria; 
con 
il 
risultato, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
l’inserimento 
sia 
illegittimo, 
di 
non 
applicare 
la 
deroga 
al 
principio 
della 
sospensione 
automatica 
dell’esecutività. 


(29) Nella 
stessa 
situazione 
della 
Moldavia 
si 
trova 
anche 
la 
Georgia 
che 
non esercita 
alcuna 
autorità 
sui 
territori 
di 
fatto 
indipendenti 
dell’ossezia 
del 
Sud 
e 
dell’Abkhazia. 
Pertanto 
i 
giudici 
potrebbero 
sindacare, in applicazione 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
e 
fino all’entrata 
in vigore 
del 
nuovo 
Regolamento, la 
designazione 
della 
Georgia 
come 
Paese 
sicuro, qualora 
ritenessero quelle 
aree, pur so-
tratte alla sovranità georgiana, non sicure. 
(30) 
tribunale 
di 
Firenze, 
decreto 
del 
20 
settembre 
2023, 
RG 
9787/2023, 
in 
www.sistemapenale.it, 
con nota 
di 
v. dAtENA 
e 
VICINI, La procedura di 
designazione 
del 
“paese 
di 
origine 
sicuro” 
e 
i 
poteri 
di 
valutazione 
del 
giudice 
ordinario, 23 ottobre 
2023 decreto del 
25 ottobre 
2023, RG 
3773/2023; 
RG 
4988/2022; 
RG 
11464/2023 in relazione 
alla 
designazione 
della 
tunisia; 
contro, tribunale 
di 
Milano, 1 
dicembre 
2023, tribunale 
di 
Firenze 
11 gennaio 2024, tribunale 
di 
Milano 6 maggio 2024. In dottrina 


v. 
CUdIA, 
Sindacabilità 
e 
disapplicazione 
del 
decreto 
ministeriale 
di 
individuazione 
dei 
“paesi 
di 
origine 
sicuri” 
nel 
procedimento per 
il 
riconoscimento della protezione 
internazionale: osservazioni 
su una attività 
del 
giudice 
ordinario 
costituzionalmente 
necessaria, 
in 
Dir. 
imm. 
e 
citt., 
2/2024 
e 
dE 
SANtIS, 
Sulla 
disapplicazione 
dell’atto amministrativo da parte 
del 
giudice 
civile. il 
“caso” 
del 
c.d. Decreto Paesi 
sicuri, in Questione giustizia, 2/2024. 


(31) Resa 
a 
seguito di 
rinvio pregiudiziale 
ex art. 365 bis 
c.p.c. disposto dal 
tribunale 
di 
Roma, 
con ordinanza 
1 luglio 2024, sulla 
possibile 
disapplicazione 
da 
parte 
del 
giudice 
ordinario del 
decreto 
interministeriale 
per 
contrasto 
con 
la 
normativa 
nazionale 
e 
europea. 
Sul 
rapporto 
tra 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
Ue 
e 
rinvio ex art. 365 bis 
alla 
Cassazione 
v. CoMEttI, rinvio pregiudiziale 
in Cassazione 
e 
in 
Corte 
di 
giustizia 
e 
disapplicazione 
di 
un 
atto 
amministrativo 
contrario 
al 
diritto 
UE. 
il 
caso 
del 
d.m. 
paesi 
di 
origine 
sicura, www.europeanlitigation, 3/24, 8 ottobre 
2024. Sulla 
questione 
della 
disapplicazione 
del 
decreto ministeriale, v. 
CUdIA, Sindacabilità e 
disapplicazione 
del 
decreto ministeriale 
di 
individuazione 
dei 
“paesi 
di 
origine 
sicuri” 
nel 
procedimento 
per 
il 
riconoscimento 
della 
protezione 
internazionale: 
osservazioni 
su 
una 
attività 
del 
giudice 
ordinario 
costituzionalmente 
necessaria, 
in 
Dir. 
amm. e 
citt., 2/2024 e 
dE 
SANtIS, Sulla disapplicazione 
dell’atto amministrativo da parte 
del 
giudice 
civile. il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2/2024. 



In 
particolare 
alcune 
decisioni, 
in 
particolare 
i 
decreti 
del 
tribunale 
di 
Firenze 
(32) hanno ritenuto illegittima, per contrasto con la 
normativa 
europea, 
la 
designazione 
della 
tunisia 
come 
Paese 
sicuro, soffermandosi 
su taluni 
elementi 
(come 
ad esempio alcuni 
atti 
del 
Governo che 
attenterebbero all’indipendenza 
della 
magistratura, 
la 
percentuale 
bassa 
di 
elettori 
alle 
elezioni 
parlamentari 
del 
dicembre 
2022, la 
mutata 
composizione 
dell’organo di 
controllo 
sulle 
elezioni 
medesime, il 
rifiuto di 
ingresso nel 
Paese 
di 
una 
delegazione 
del 
parlamento 
europeo) 
che 
dimostrerebbero 
la 
mancanza 
di 
democraticità 
del 
Paese. Secondo i 
giudici 
in sostanza 
il 
giudizio di 
non democraticità 
dell’ordinamento giuridico di 
un Paese 
impedirebbe 
di 
considerarlo 
come 
sicuro in considerazione 
del 
riferimento contenuto nell’allegato I 
della 
direttiva 
2013/32 all’applicazione 
della legge 
all’interno di 
un sistema 
democratico. 


Questa 
opinione 
non 
sembra 
corretta, 
neppure 
alla 
luce 
della 
sentenza 
della Corte di Giustizia. 

La 
stessa 
Corte 
infatti, come 
sopra 
riportato, nel 
risolvere 
la 
prima 
questione 
pregiudiziale, 
se 
un 
Paese 
non 
possa 
essere 
considerato 
sicuro, 
malgrado 
sia 
stato indicato come 
tale, allorché 
si 
sia 
avvalso della 
facoltà 
di 
derogare 
agli 
obblighi 
imposti 
dalla 
Cedu, ha 
osservato che 
ciò non basta 
perché 
la 
designazione 
possa 
considerarsi 
non 
conforme 
ai 
criteri 
indicati 
nell’art. 
37 
della 
direttiva 
2013/32. 
Quello 
che 
conta, 
secondo 
la 
Corte, 
è 
verificare 
che 
non 
vengano prese 
delle 
misure 
che 
siano contrarie 
al 
divieto di 
trattamenti 
inumani 
e 
degradanti 
(richiamato 
dall’art. 
3 
della 
Cedu) 
o 
che 
possano 
ugualmente 
essere 
incompatibili 
con i 
criteri 
previsti 
dall’allegato i della direttiva 
2013/32 ai 
fini 
della designazione 
di 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
(punto 61). 


Questo 
è 
il 
parametro 
confermato 
dalla 
sentenza 
della 
Corte. 
I 
riferimenti 
sostanziali 
indicati 
nell’Allegato 
I 
sono 
la 
mancanza 
in 
via 
generale 
e 
costante 
di 
persecuzioni, 
tortura 
o 
altre 
forme 
di 
pena 
e 
trattamento 
inumano 
e 
pericolo 
causati 
da 
violenza 
indiscriminata 
in caso di 
conflitto armato. Le 
altre 
indicazioni 
elencate 
nel 
medesimo Allegato costituiscono indici 
al 
fine 
di 
valutare 
i 
riferimenti 
di 
cui 
sopra, come 
risulta 
anche 
da 
una 
semplice 
interpretazione 
letterale della disposizione. 

Pertanto, non è 
sufficiente 
accertare 
il 
mutamento della 
situazione 
di 
un 
Paese 
con 
la 
presenza 
di 
indici 
di 
mancanza 
di 
democrazia, 
per 
non 
considerare 
più un Paese 
come 
sicuro e 
ritenere 
che 
si 
sia 
violato l’obbligo di 
aggiornamento, 
ma 
occorre 
che 
in 
concreto 
quella 
mutata 
situazione 
si 
sia 
riflessa 
sulla 
situazione 
del 
ricorrente 
(art. 2 bis, comma 
5 (33) che 
riprende 
testualmente 


(32) Cit. V. anche 
tribunale di Catania 4 novembre 2024 cit. 


(33) Art. 2 bis 
comma 
5: 
Un Paese 
designato di 
origine 
sicuro ai 
sensi 
del 
presente 
articolo può 
essere 
considerato 
Paese 
di 
origine 
sicuro 
per 
il 
richiedente 
solo 
se 
questi 
ha 
la 
cittadinanza 
di 
quel 



l’art. 36 della 
direttiva 
2013/32/UE) o abbia 
determinato generalmente 
persecuzioni, 
tortura, 
trattamenti 
inumani 
e 
conflitto 
armato, 
come 
stabilito 
dall’Allegato 
I della direttiva. 

Così, ad esempio, se 
successivamente 
all’inserimento di 
un Paese 
nella 
lista 
di 
quelli 
considerati 
sicuri, sia 
scoppiato un conflitto armato interno o internazionale, 
che 
causi 
violenza 
indiscriminata, 
senza 
che 
il 
Governo 
abbia 
provveduto ad espungere 
il 
Paese 
dalla 
lista, il 
Giudice 
potrà 
ritenere 
il 
Paese 
medesimo non sicuro, perché 
si 
tratterebbe 
di 
una 
situazione 
in grado di 
riflettersi 
sul 
ricorrente 
e 
in 
ogni 
caso 
perché 
si 
tratterebbe 
di 
un 
elemento 
preso 
in considerazione dalla direttiva. 


Viceversa, un provvedimento di 
destituzione 
di 
alcuni 
giudici 
(34), per 
quanto 
possa 
essere 
ritenuto 
un 
attacco 
all’indipendenza 
della 
magistratura, 
può non incidere 
sulle 
tutele 
che 
quel 
Paese 
garantisce 
a 
quel 
singolo richiedente 
e 
potrebbe 
non 
avere 
alcun 
impatto 
nel 
determinare 
persecuzioni, 
torture 


o 
trattamenti 
inumani 
e 
degradanti. 
In 
ogni 
caso 
il 
Giudice 
dovrebbe 
motivare 
per quale 
ragione 
il 
rientro nel 
Paese 
di 
origine 
potrebbe 
pregiudicare 
il 
ricorrente 
a 
causa 
della 
presenza 
di 
indici 
che 
farebbero ritenere 
che 
sia 
stata 
compromessa 
l’indipendenza 
della 
magistratura 
locale 
dal 
potere 
politico, oppure 
in che 
modo la 
compromissione 
dell’indipendenza 
della 
magistratura 
determini 
le conseguenze di cui all’Allegato I. 


Questa 
soluzione 
consente 
di 
evitare 
che 
il 
Giudice 
si 
impegni 
in difficili 
valutazioni 
di 
ordine 
politico sulla 
mutata 
natura 
democratica 
di 
uno Stato. Il 
controllo dell’autorità 
giurisdizionale 
sul 
parametro della 
democraticità, pur 
presente 
nell’Allegato 
I 
con 
l’inciso 
all’interno 
di 
un 
sistema 
democratico, 
non può che 
essere 
di 
tipo debole, limitato a 
casi 
in cui 
non vi 
possa 
essere 
alcun 
dubbio 
sul 
cambio 
di 
regime. 
Questa 
soluzione 
appare 
del 
resto 
conforme 
a 
quanto 
affermato 
nei 
recenti 
arresti 
della 
Suprema 
Corte. 
Infatti, 
la 
sentenza 
33398/24, 
pur 
ammettendo 
la 
disapplicazione 
del 
decreto 
ministeriale 
contenente 
l’indicazione 
dei 
paesi 
sicuri, 
qualora 
la 
designazione 
non 
sia 
conforme 
ai 
criteri 
indicati 
dalla 
normativa 
europea 
e 
nazionale 
ha 
affermato che 
la 
violazione 
deve 
avere 
carattere 
manifesto. 
La 
sentenza 
34898/24 
a 
sua 
volta 
ha 
affermato che 
le 
eccezioni 
personali, in linea 
di 
principio compatibili 
con 
la 
nozione 
di 
paese 
di 
origine 
sicuro, non sono ammesse 
solo nel 
caso di 
persecuzioni 
estese, 
endemiche 
e 
costanti…perché, 
altrimenti, 
sarebbe 
gravemente 
pregiudicato 
il 
valore 
fondamentale 
della 
dignità 
e, 
con 
esso, 
la 
connotazione dello Stato di origine come Stato di diritto… 


In più occorre 
considerare 
che 
la 
nozione 
di 
Paese 
sicuro è 
prevista 
nel-

Paese 
o è 
un apolide 
che 
in precedenza 
soggiornava 
abitualmente 
in quel 
Paese 
e 
non ha 
invocato gravi 
motivi 
per ritenere 
che 
quel 
Paese 
non è 
sicuro per la 
situazione 
particolare 
in cui 
lo stesso richiedente 
si trova. 


(34) Vedi quanto riportato nell’ordinanza del 
tribunale di Firenze 20 settembre 2023 cit. 



l’ambito della 
protezione 
internazionale 
che 
ha 
lo scopo di 
proteggere 
l’individuo 
in senso lato dalle 
persecuzioni 
e 
non quello di 
garantirgli 
la 
possibilità 
di 
non vivere 
in uno Stato il 
cui 
regime 
non sia 
quello di 
una 
democrazia 
liberale 
così 
com’è 
intesa 
in 
occidente 
(35). 
Alla 
fine 
occorrerà 
infatti 
accertare 
se 
un individuo determinato in un determinato Paese, democratico o meno, è 
meritevole 
di 
protezione 
perché 
a 
rischio di 
persecuzione 
e 
gli 
istituti 
dovrebbero 
essere interpretati tenendo presente l’obiettivo finale. 


Peraltro, anche 
questa 
problematica, per quanto concerne 
il 
contenzioso 
nazionale, sarà, almeno parzialmente, superata 
dal 
regolamento 2024/1348. Il 
regolamento prevede 
infatti 
la 
designazione 
di 
Paesi 
di 
origine 
sicuri 
a 
livello 
dell’Unione, pur mantenendo la 
possibilità 
per gli 
Stati 
membri 
di 
designare 
Paesi 
sicuri 
a 
livello degli 
Stati, con il 
risultato che 
l’eventuale 
contenzioso 
sull’inserimento di 
Paesi 
nella 
lista 
dell’Ue 
dovrà 
essere 
risolto dalla 
Corte 
di 
Giustizia. 


Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea, 
Grande 
sezione, 
sentenza 
4 
ottobre 
2024 
in 
causa 
C-406/22 
-Pres. K. Lenaerts, rel. 
E. Regan -domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposta 
dal 
Krajský 
soud 
v 
Brně 
(Repubblica 
ceca) 
il 
20 
giugno 
2022 
-CV 
/ 
Ministerstvo 
vnitra 
České 
republiky, odbor azylové a migrační politiky. 

«Rinvio pregiudiziale 
-Politica 
d’asilo -Protezione 
internazionale 
-direttiva 
2013/32/UE 
Procedure 
comuni 
ai 
fini 
del 
riconoscimento e 
della 
revoca 
dello status 
di 
protezione 
internazionale 
-Articoli 
36 e 
37 -Nozione 
di 
“paese 
di 
origine 
sicuro” 
-designazione 
-Allegato I Criteri 
-Articolo 
46 
-diritto 
a 
un 
ricorso 
effettivo 
-Esame, 
da 
parte 
del 
giudice, 
della 
designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro» 


1 La 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
verte 
sull’interpretazione 
degli 
articoli 
36 e 
37, 


dell’articolo 46, paragrafo 3, e 
dell’allegato I della 
direttiva 
2013/32/UE 
del 
Parlamento 


europeo e 
del 
Consiglio, del 
26 giugno 2013, recante 
procedure 
comuni 
ai 
fini 
del 
rico


noscimento 
e 
della 
revoca 
dello 
status 
di 
protezione 
internazionale 
(GU 
2013, 
L 
180, 
pag. 


60), nonché 
dell’articolo 47 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
(in 


prosieguo: la «Carta»). 
2 tale 
domanda 
è 
stata 
presentata 
nell’ambito di 
una 
controversia 
tra 
CV 
e 
il 
Ministerstvo 


vnitra 
České 
republiky, odbor azylové 
a 
migrační 
politiky (Ministero dell’Interno della 


(35) 
Per 
democrazia 
liberale 
si 
intende 
un 
regime 
in 
cui 
sono 
presenti 
i 
caratteri 
della 
democrazia 
e 
del 
liberalismo. 
Infatti 
i 
due 
concetti 
sono 
distinti. 
La 
democrazia 
risponde 
alla 
domanda 
relativa 
«a 
chi 
deve 
appartenere 
il 
potere», 
mentre 
il 
liberalismo 
risponde 
alla 
domanda 
«come 
il 
potere 
deve 
essere 
esercitato». 
Vi 
possono essere 
Stati 
di 
diritto non democratici 
e 
Stati 
democratici 
non liberali; 
è 
anche 
avvenuto che 
Stati, passati 
dall’autocrazia 
al 
suffragio universale, cioè 
alla 
democrazia, siano divenuti, attraverso le 
misure 
prese 
dall’assemblea 
liberalmente 
eletta, meno liberali 
di 
quanto fossero in precedenza, v. zA-
KARIA, Democrazia senza libertà: in america e 
nel 
resto del 
mondo, Rizzoli, 2003; 
sulla 
distinzione 
tra 
democrazia e liberalismo v. SARtoRI, Democrazia: cosa è, Rizzoli, 1994. 



Repubblica 
ceca, dipartimento della 
Politica 
in materia 
di 
asilo e 
migrazione; 
in prosieguo: 
il 
«Ministero dell’Interno»), in merito al 
rigetto della 
sua 
domanda 
di 
protezione 
internazionale. 


Contesto normativo 


Diritto internazionale 


Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati 


3 Ai 
sensi 
dell’articolo 1, sezione 
A, punto 2, della 
Convenzione 
relativa 
allo status 
dei 
rifugiati, 
firmata 
a 
Ginevra 
il 
28 luglio 1951 [recueil 
des 
traités 
des 
Nations 
unies, vol. 
189, pag. 150, n. 2545 (1954)], entrata 
in vigore 
il 
22 aprile 
1954 e 
completata 
dal 
Protocollo 
relativo 
allo 
status 
dei 
rifugiati, 
concluso 
a 
New 
York 
il 
31 
gennaio 
1967 
ed 
entrato 
in vigore 
il 
4 ottobre 
1967, «[a]i 
fini 
della 
presente 
Convenzione, il 
termine 
“rifugiato” 
si 
applicherà 
a 
ogni 
persona 
che, (...) nel 
timore 
fondato di 
essere 
perseguitata 
per motivi 
di 
razza, religione, cittadinanza, appartenenza 
ad un determinato gruppo sociale 
o per le 
sue 
opinioni 
politiche, si 
trova 
fuori 
dallo Stato di 
cui 
ha 
la 
cittadinanza 
e 
non può o, a 
causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Stato; (...)». 
CEDU 


4 La 
Convenzione 
europea 
per la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo e 
delle 
libertà 
fondamentali, 
firmata 
a 
Roma 
il 
4 novembre 
1950 (in prosieguo: 
la 
«CEdU»), all’articolo 15, 
intitolato «deroga in caso di stato d’urgenza», così dispone: 


«1. 
In 
caso 
di 
guerra 
o 
in 
caso 
di 
altro 
pericolo 
pubblico 
che 
minacci 
la 
vita 
della 
nazione, 
ogni 
Alta 
Parte 
contraente 
può 
adottare 
delle 
misure 
in 
deroga 
agli 
obblighi 
previsti 
dalla 
presente 
Convenzione, 
nella 
stretta 
misura 
in 
cui 
la 
situazione 
lo 
richieda 
e 
a 
condizione 
che 
tali 
misure 
non 
siano 
in 
conflitto 
con 
gli 
altri 
obblighi 
derivanti 
dal 
diritto 
internazionale. 


2. La 
disposizione 
precedente 
non autorizza 
alcuna 
deroga 
all’articolo 2, salvo il 
caso di 
decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7. 
3. ogni 
Alta 
Parte 
contraente 
che 
eserciti 
tale 
diritto di 
deroga 
tiene 
informato nel 
modo 
più 
completo 
il 
Segretario 
generale 
del 
Consiglio 
d’Europa 
sulle 
misure 
prese 
e 
sui 
motivi 
che 
le 
hanno 
determinate. 
deve 
ugualmente 
informare 
il 
Segretario 
generale 
del 
Consiglio 
d’Europa 
della 
data 
in 
cui 
queste 
misure 
cessano 
d’essere 
in 
vigore 
e 
in 
cui 
le 
disposizioni 
della Convenzione riacquistano piena applicazione». 


Diritto dell’Unione 


Direttiva 2005/85/CE 


5 La 
direttiva 
2005/85/CE 
del 
Consiglio, del 
1º 
dicembre 
2005, recante 
norme 
minime 
per 
le 
procedure 
applicate 
negli 
Stati 
membri 
ai 
fini 
del 
riconoscimento e 
della 
revoca 
dello 
status 
di 
rifugiato 
(GU 
2005, 
L 
326, 
pag. 
13), 
è 
stata 
abrogata 
dalla 
direttiva 
2013/32. 
L’articolo 30 della 
direttiva 
2005/85, intitolato «designazione 
nazionale 
dei 
paesi 
terzi 
quali paesi di origine sicuri», così disponeva: 
«Fatto salvo l’articolo 29, gli 
Stati 
membri 
possono mantenere 
in vigore 
o introdurre 
una 
normativa 
che 
consenta, a 
norma 
dell’allegato II, di 
designare 
a 
livello nazionale 
paesi 
terzi 
diversi 
da 
quelli 
che 
figurano 
nell’elenco 
comune 
minimo 
quali 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
ai 
fini 
dell’esame 
delle 
domande 
di 
asilo. È 
anche 
possibile 
designare 
come 
sicura 
una 
parte 
di 
un paese, purché 
siano soddisfatte 
le 
condizioni 
di 
cui 
all’allegato II relativamente 
a tale parte». 


6 L’articolo 31 di 
quest’ultima 
direttiva 
intitolato «Concetto di 
paese 
terzo sicuro», al 
suo 
paragrafo 1 prevedeva quanto segue: 
«Un paese 
terzo designato paese 
di 
origine 
sicuro a 
norma 
dell’articolo 29 o dell’articolo 



30, previo esame 
individuale 
della 
domanda, può essere 
considerato paese 
di 
origine 
sicuro 
per un determinato richiedente asilo solo se: 


a) questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero 
b) 
è 
un 
apolide 
che 
in 
precedenza 
soggiornava 
abitualmente 
in 
quel 
paese, 
e 
non 
ha 
invocato 
gravi 
motivi 
per 
ritenere 
che 
quel 
paese 
non 
sia 
un 
paese 
di 
origine 
sicuro 
nelle 
circostanze 
specifiche 
in 
cui 
si 
trova 
il 
richiedente 
stesso 
e 
per 
quanto 
riguarda 
la 
sua 
qualifica 
di 
rifugiato 
a 
norma 
della 
direttiva 
2004/83/CE 
[del 
Consiglio, 
del 
29 
aprile 
2004, 
recante 
norme 
minime 
sull’attribuzione, 
a 
cittadini 
di 
paesi 
terzi 
o 
apolidi, 
della 
qualifica 
di 
rifugiato 
o 
di 
persona 
altrimenti 
bisognosa 
di 
protezione 
internazionale, 
nonché 
norme 
minime 
sul 
contenuto 
della 
protezione 
riconosciuta 
(GU 
2004, 
L 
304, 
pag. 
12)]». 


7 L’allegato II di 
detta 
direttiva, intitolato «designazione 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro ai 
fini 
dell’articolo 29 e 
dell’articolo 30, paragrafo 1», definiva 
i 
criteri 
che 
consentono di 
designare un paese terzo come paese di origine sicuro. 
Direttiva 2011/95/UE 


8 La 
direttiva 
2011/95/UE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
13 dicembre 
2011, 
recante 
norme 
sull’attribuzione, a 
cittadini 
di 
paesi 
terzi 
o apolidi, della 
qualifica 
di 
beneficiario 
di 
protezione 
internazionale, su uno status 
uniforme 
per i 
rifugiati 
o per le 
persone 
aventi 
titolo a 
beneficiare 
della 
protezione 
sussidiaria, nonché 
sul 
contenuto della 
protezione 
riconosciuta 
(GU 
2011, L 
337, pag. 9), all’articolo 9, rubricato «Atti 
di 
persecuzione
», così dispone: 


«1. Sono atti 
di 
persecuzione 
ai 
sensi 
dell’articolo 1 A 
della 
convenzione 
di 
Ginevra 
gli 
atti che: 


a) sono, per loro natura 
o frequenza, sufficientemente 
gravi 
da 
rappresentare 
una 
violazione 
grave 
dei 
diritti 
umani 
fondamentali, 
in 
particolare 
dei 
diritti 
per 
cui 
qualsiasi 
deroga 
è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEdU]; oppure 
b) 
costituiscono 
la 
somma 
di 
diverse 
misure, 
tra 
cui 
violazioni 
dei 
diritti 
umani, 
il 
cui 
impatto 
sia 
sufficientemente 
grave 
da 
esercitare 
sulla 
persona 
un effetto analogo a 
quello di 
cui alla lettera a). 


2. Gli 
atti 
di 
persecuzione 
che 
rientrano nella 
definizione 
di 
cui 
al 
paragrafo 1 possono, 
tra l’altro, assumere la forma di: 


a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; 
b) provvedimenti 
legislativi, amministrativi, di 
polizia 
e/o giudiziari, discriminatori 
per 
loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; 
c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; 
d) rifiuto di 
accesso ai 
mezzi 
di 
ricorso giuridici 
e 
conseguente 
sanzione 
sproporzionata 


o discriminatoria; 


e) 
azioni 
giudiziarie 
o 
sanzioni 
penali 
in 
conseguenza 
al 
rifiuto 
di 
prestare 
servizio 
militare 
in un conflitto, quando questo comporterebbe 
la 
commissione 
di 
crimini, reati 
o atti 
che 
rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2; 
f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia. 


3. In conformità 
dell’articolo 2, lettera 
d), i 
motivi 
di 
cui 
all’articolo 10 devono essere 
collegati 
agli 
atti 
di 
persecuzione 
quali 
definiti 
al 
paragrafo 1 del 
presente 
articolo o alla 
mancanza di protezione contro tali atti». 


Direttiva 2013/32 


9 I considerando 18 e 20 della direttiva 2013/32 così recitano: 
«(18) È 
nell’interesse 
sia 
degli 
Stati 
membri 
sia 
dei 
richiedenti 
protezione 
internazionale 



che 
sia 
presa 
una 
decisione 
quanto prima 
possibile 
in merito alle 
domande 
di 
protezione 
internazionale, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo. 
(...) 


(20) In circostanze 
ben definite 
per le 
quali 
una 
domanda 
potrebbe 
essere 
infondata 
o vi 
sono gravi 
preoccupazioni 
di 
sicurezza 
nazionale 
o di 
ordine 
pubblico, gli 
Stati 
membri 
dovrebbero poter accelerare 
la 
procedura 
di 
esame, introducendo in particolare 
termini 
più 
brevi, 
ma 
ragionevoli, 
in 
talune 
fasi 
procedurali, 
fatto 
salvo 
lo 
svolgimento 
di 
un 
esame 
adeguato 
e 
completo 
e 
un 
accesso 
effettivo 
del 
richiedente 
ai 
principi 
fondamentali 
e alle garanzie previsti dalla presente direttiva». 


10 
L’articolo 
31 
di 
tale 
direttiva, 
intitolato 
«Procedura 
di 
esame», 
al 
paragrafo 
8 
prevede 
quanto segue: 
«Gli 
Stati 
membri 
possono prevedere 
[, nel 
rispetto dei 
principi 
fondamentali 
e 
delle 
garanzie 
di 
cui 
al 
capo 
II,] 
che 
una 
procedura 
d’esame 
sia 
accelerata 
e/o 
svolta 
alla 
frontiera 


o in zone di transito a norma dell’articolo 43 se: 
(...) 


b) 
il 
richiedente 
proviene 
da 
un 
paese 
di 
origine 
sicuro 
a 
norma 
della 
presente 
direttiva; 
(...) 


(...)». 
11 L’articolo 32 di detta direttiva, intitolato «domande infondate», così prevede: 


«1. Fatto salvo l’articolo 27, gli 
Stati 
membri 
possono ritenere 
infondata 
una 
domanda 
solo se 
l’autorità 
accertante 
ha 
stabilito che 
al 
richiedente 
non è 
attribuibile 
la 
qualifica 
di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva [2011/95]. 


2. Nei 
casi 
di 
domande 
infondate 
cui 
si 
applichi 
una 
qualsiasi 
delle 
circostanze 
elencate 
nell’articolo 31, paragrafo 8, gli 
Stati 
membri 
possono altresì 
ritenere 
una 
domanda 
manifestamente 
infondata, se così definita dal diritto nazionale». 


12 
L’articolo 
36 
della 
direttiva 
2013/32, 
intitolato 
«Concetto 
di 
paese 
di 
origine 
sicuro», 
prevede 
quanto segue: 


«1. Un paese 
terzo designato paese 
di 
origine 
sicuro a 
norma 
della 
presente 
direttiva 
può 
essere 
considerato paese 
di 
origine 
sicuro per un determinato richiedente, previo esame 
individuale della domanda, solo se: 


a) questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero 
b) è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese, 
e 
non 
ha 
invocato 
gravi 
motivi 
per 
ritenere 
che 
quel 
paese 
non 
sia 
un 
paese 
di 
origine 
sicuro 
nelle 
circostanze 
specifiche 
in 
cui 
si 
trova 
il 
richiedente 
stesso 
e 
per 
quanto 
riguarda 
la 
sua 
qualifica 
di 
beneficiario 
di 
protezione 
internazionale 
a 
norma 
della 
direttiva 
[2011/95]. 


2. Gli 
Stati 
membri 
stabiliscono nel 
diritto nazionale 
ulteriori 
norme 
e 
modalità 
inerenti 
all’applicazione del concetto di paese di origine sicuro». 


13 
L’articolo 
37 
di 
tale 
direttiva, 
rubricato 
«designazione 
nazionale 
dei 
paesi 
terzi 
quali 
paesi di origine sicuri», prevede quanto segue: 


«1. Gli 
Stati 
membri 
possono mantenere 
in vigore 
o introdurre 
una 
normativa 
che 
consenta, 
a 
norma 
dell’allegato I, di 
designare 
a 
livello nazionale 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
ai 
fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. 


2. 
Gli 
Stati 
membri 
riesaminano 
periodicamente 
la 
situazione 
nei 
paesi 
terzi 
designati 
paesi di origine sicuri conformemente al presente articolo. 
3. La 
valutazione 
volta 
ad accertare 
che 
un paese 
è 
un paese 
di 
origine 
sicuro a 
norma 
del 
presente 
articolo si 
basa 
su una 
serie 
di 
fonti 
di 
informazioni, comprese 
in particolare 
le 





informazioni 
fornite 
da 
altri 
Stati 
membri, dall’[Ufficio europeo di 
sostegno per l’asilo 
(EASo)], 
dall’[Alto 
commissariato 
delle 
Nazioni 
Unite 
per 
i 
rifugiati 
(UNHCR)], 
dal 
Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti. 


4. Gli 
Stati 
membri 
notificano alla 
Commissione 
[europea] i 
paesi 
designati 
quali 
paesi 
di origine sicuri a norma del presente articolo». 


14 L’articolo 43 di 
detta 
direttiva, intitolato «Procedure 
di 
frontiera», al 
paragrafo 1 così 
dispone: 
«Gli 
Stati 
membri 
possono 
prevedere 
procedure, 
conformemente 
ai 
principi 
fondamentali 
e 
alle 
garanzie 
di 
cui 
al 
capo II, per decidere 
alla 
frontiera 
o nelle 
zone 
di 
transito dello 
Stato membro: 
(...) 


b) sul 
merito di 
una 
domanda 
nell’ambito di 
una 
procedura 
a 
norma 
dell’articolo 31, paragrafo 
8». 


15 L’articolo 46 della 
direttiva 
2013/32, intitolato «diritto a 
un ricorso effettivo», prevede 
quanto segue: 


«1. Gli 
Stati 
membri 
dispongono che 
il 
richiedente 
abbia 
diritto a 
un ricorso effettivo dinanzi 
a un giudice avverso i seguenti casi: 


a) la decisione sulla sua domanda di protezione internazionale, compresa la decisione: 
i) di 
ritenere 
la 
domanda 
infondata 
in relazione 
allo status 
di 
rifugiato e/o allo status 
di 
protezione sussidiaria; 
(...) 


iii) presa 
alla 
frontiera 
o nelle 
zone 
di 
transito di 
uno Stato membro a 
norma 
dell’articolo 
43, paragrafo 1; 
(...) 
3 Per conformarsi 
al 
paragrafo 1 gli 
Stati 
membri 
assicurano che 
un ricorso effettivo preveda 
l’esame 
completo 
ed 
ex 
nunc 
degli 
elementi 
di 
fatto 
e 
di 
diritto 
compreso, 
se 
del 
caso, 
l’esame 
delle 
esigenze 
di 
protezione 
internazionale 
ai 
sensi 
della 
[direttiva 
2011/95], 
quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado. 
(...) 


5. 
Fatto 
salvo 
il 
paragrafo 
6, 
gli 
Stati 
membri 
autorizzano 
i 
richiedenti 
a 
rimanere 
nel 
loro 
territorio fino alla 
scadenza 
del 
termine 
entro il 
quale 
possono esercitare 
il 
loro diritto a 
un ricorso effettivo oppure, se 
tale 
diritto è 
stato esercitato entro il 
termine 
previsto, in 
attesa dell’esito del ricorso. 
6. Qualora sia stata adottata una decisione: 


a) di 
ritenere 
una 
domanda 
manifestamente 
infondata 
conformemente 
all’articolo 32, paragrafo 
2, o infondata 
dopo l’esame 
conformemente 
all’articolo 31, paragrafo 8, a 
eccezione 
dei 
casi 
in 
cui 
tali 
decisioni 
si 
basano 
sulle 
circostanze 
di 
cui 
all’articolo 
31, 
paragrafo 8, lettera h); 
(...) 
un giudice 
è 
competente 
a 
decidere, su istanza 
del 
richiedente 
o d’ufficio, se 
autorizzare 


o 
meno 
la 
permanenza 
del 
richiedente 
nel 
territorio 
dello 
Stato 
membro, 
se 
tale 
decisione 
mira 
a 
far 
cessare 
il 
diritto 
del 
richiedente 
di 
rimanere 
nello 
Stato 
membro 
e, 
ove 
il 
diritto 
nazionale 
non preveda 
in simili 
casi 
il 
diritto di 
rimanere 
nello Stato membro in attesa 
dell’esito del ricorso. 
(...)». 


16 L’articolo 53 di detta direttiva, intitolato «Abrogazione», così recita: 



«La 
direttiva 
[2005/85] è 
abrogata 
per gli 
Stati 
membri 
vincolati 
dalla 
presente 
direttiva 
con effetto dal 21 luglio 2015, (...) 
I riferimenti 
alla 
direttiva 
abrogata 
si 
intendono fatti 
alla 
presente 
direttiva 
e 
vanno letti 
secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato III». 


17 
Ai 
sensi 
dell’allegato 
I 
di 
detta 
direttiva, 
intitolato 
«designazione 
dei 
paesi 
di 
origine 
sicuri ai fini dell’articolo 37, paragrafo 1»: 
«Un paese 
è 
considerato paese 
di 
origine 
sicuro se, sulla 
base 
dello status 
giuridico, del-
l’applicazione 
della 
legge 
all’interno 
di 
un 
sistema 
democratico 
e 
della 
situazione 
politica 
generale, si 
può dimostrare 
che 
non ci 
sono generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni 
quali 
definite 
nell’articolo 9 della 
direttiva 
[2011/95], né 
tortura 
o altre 
forme 
di 
pena 
o 
trattamento disumano o degradante, né 
pericolo a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in situazioni 
di conflitto armato interno o internazionale. 
Per effettuare 
tale 
valutazione 
si 
tiene 
conto, tra 
l’altro, della 
misura 
in cui 
viene 
offerta 
protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: 


a) le 
pertinenti 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
del 
paese 
ed il 
modo in cui 
sono 
applicate; 
b) il 
rispetto dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
stabiliti 
nella 
[CEdU] e/o nel 
Patto internazionale 
relativo ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
[adottato il 
16 dicembre 
1966 dall’Assemblea 
generale 
delle 
Nazioni 
Unite 
ed entrato in vigore 
il 
23 marzo 1976] e/o nella 
convenzione 
delle 
Nazioni 
Unite 
contro 
la 
tortura, 
in 
particolare 
i 
diritti 
ai 
quali 
non 
si 
può 
derogare 
a 
norma 
d dell’articolo 15, paragrafo 2, [della CEdU]; 
c) 
il 
rispetto 
del 
principio 
di 
“non-refoulement” 
conformemente 
alla 
convenzione 
di 
Ginevra; 
d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà». 


regolamento (UE) 2024/1348 


18 L’articolo 61 del 
regolamento (UE) 2024/1348 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, 
del 
14 maggio 2024, che 
stabilisce 
una 
procedura 
comune 
di 
protezione 
internazionale 
nell’Unione 
e 
abroga 
la 
direttiva 
2013/32/UE 
(GU 
L, 2024/1348), intitolato «Concetto 
di paese di origine sicuro», al paragrafo 2 così dispone: 
«La 
designazione 
di 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro a 
livello sia 
dell’Unione 
che 
nazionale 
può essere 
effettuata 
con eccezioni 
per determinate 
parti 
del 
suo territorio 


o categorie di persone chiaramente identificabili». 


19 
L’articolo 
78 
di 
tale 
regolamento, 
intitolato 
«Abrogazione», 
al 
paragrafo 
1 
enuncia 
quanto 
segue: 
«La 
direttiva 
[2013/32] è 
abrogata 
a 
decorrere 
dalla 
data 
di 
cui 
all’articolo 79, paragrafo 
2, fatto salvo l’articolo 79, paragrafo 3». 


20 L’articolo 79 di 
detto regolamento, intitolato «Entrata 
in vigore 
e 
applicazione», ai 
paragrafi 
2 e 3 prevede quanto segue: 


«2. Il presente regolamento si applica a decorrere dal 12 giugno 2026. 


3. Il 
presente 
regolamento si 
applica 
alla 
procedura 
di 
riconoscimento della 
protezione 
internazionale 
in 
relazione 
alle 
domande 
formalizzate 
a 
decorrere 
dal 
12 
giugno 
2026. 
Le 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
formalizzate 
prima 
di 
tale 
data 
sono 
disciplinate 
dalla 
direttiva 
[2013/32]. 
Il 
presente 
regolamento 
si 
applica 
alla 
procedura 
di 
revoca 
della 
protezione 
internazionale 
qualora 
l’esame 
per revocare 
la 
protezione 
internazionale 
sia 
iniziato a 
decorrere 
dal 
12 giugno 2026. Se 
l’esame 
per revocare 
la 
protezione 
internazionale 
è 
stato avviato prima 
del 
12 giugno 2026, la 
procedura 
di 
revoca 
della 
protezione 
internazionale è disciplinata dalla direttiva [2013/32]». 



Diritto ceco 


Legge sull’asilo 


21 L’articolo 2, paragrafo 1, lettere 
b) e 
k), dello zákon č. 325/1999 Sb., o azylu (legge 
n. 
325/1999, sull’asilo), nella 
versione 
applicabile 
alla 
controversia 
di 
cui 
al 
procedimento 
principale (in prosieguo: la «legge sull’asilo»), così dispone: 
«Ai fini della presente legge per 
(...) 


b) 
richiedente 
protezione 
internazionale 
si 
intende 
lo 
straniero 
che 
ha 
presentato 
nella 
Repubblica 
ceca 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
che 
non ha 
ancora 
dato luogo a 
una 
decisione 
definitiva. Uno straniero ha 
del 
pari 
lo status 
di 
richiedente 
protezione 
internazionale 
mentre 
decorre 
il 
termine 
fissato per proporre 
un ricorso di 
cui 
all’articolo 
32 
e 
per 
tutta 
la 
durata 
del 
procedimento 
giudiziario 
relativo 
al 
ricorso 
avverso 
la 
decisione 
del 
Ministero conformemente 
allo [zákon č. 150/2002 Sb., soudní 
řád správní 
(legge 
n. 
150/2002, 
codice 
di 
procedura 
amministrativa), 
nella 
versione 
applicabile 
alla 
controversia 
di 
cui 
al 
procedimento principale 
(in prosieguo: 
il 
“codice 
di 
procedura 
amministrativa”)] 
se 
detto 
ricorso 
ha 
effetto 
sospensivo, 
o 
fino 
a 
quando 
la 
corte 
regionale 
non 
emette 
una 
decisione 
che 
non riconosce 
l’effetto sospensivo, qualora 
lo straniero abbia 
chiesto 
di beneficiarne. (...) 
(...) 
k) paese 
di 
origine 
sicuro si 
intende 
lo Stato di 
cui 
lo straniero è 
cittadino o, nel 
caso di 
un apolide, lo Stato della sua ultima residenza permanente, 


1. 
nel 
quale 
non 
ci 
sono 
generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni, 
né 
tortura 
o 
altre 
forme 
di 
pena 
o trattamento disumano o degradante, né 
pericolo a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, 
2. che 
né 
i 
cittadini 
né 
gli 
apolidi 
abbandonano per i 
motivi 
di 
cui 
all’articolo 12 o all’articolo 
14a, 
3. che 
ha 
ratificato e 
rispetta 
i 
trattati 
internazionali 
in materia 
di 
diritti 
umani 
e 
libertà 
fondamentali, comprese le disposizioni concernenti i mezzi di ricorso effettivi, e 
4. 
che 
consente 
ad 
enti 
giuridici 
di 
monitorare 
la 
situazione 
per 
quanto 
concerne 
il 
rispetto 
dei diritti umani, 
(...)». 


22 L’articolo 3d di tale legge enuncia quanto segue: 


«1. 
Il 
richiedente 
protezione 
internazionale 
ha 
diritto 
di 
permanere 
nel 
territorio 
nazionale; 
(...) Il 
diritto di 
permanenza 
non dà 
diritto a 
un titolo di 
soggiorno ai 
sensi 
dello [zákon 
č. 
326/1999 
Sb., 
o 
pobytu 
cizinců 
na 
území 
České 
republiky 
a 
o 
změně 
některých 
zákonů 
(legge 
n. 326/1999, relativa 
al 
soggiorno di 
cittadini 
stranieri 
sul 
territorio della 
Repubblica 
ceca 
e 
recante 
modifica 
di 
altre 
leggi)]. Il 
Ministero ha 
il 
diritto di 
limitare 
il 
soggiorno 
nel 
territorio 
del 
richiedente 
protezione 
internazionale 
a 
solo 
una 
parte 
del 
territorio 


o 
al 
centro 
di 
accoglienza 
della 
zona 
di 
transito 
di 
un 
aeroporto 
internazionale 
se 
il 
richiedente 
non è autorizzato ad entrare nel territorio. 


2. Se 
il 
richiedente 
protezione 
internazionale 
non è 
una 
persona 
che 
ha 
reiterato una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale, non è 
possibile 
porre 
fine 
al 
suo soggiorno nel 
territorio 
sulla base di una decisione amministrativa o giudiziaria; (...)». 


23 L’articolo 16, paragrafi 2 e 3, della succitata legge è del seguente tenore: 


«2. È 
parimenti 
respinta 
in quanto manifestamente 
infondata 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
di 
un richiedente 
proveniente 
da 
uno Stato che 
la 
Repubblica 
ceca 
consi



dera 
paese 
di 
origine 
sicuro, a 
meno che 
egli 
non dimostri 
che, nel 
suo caso, tale 
Stato 
non può essere considerato tale. 


3. 
Se 
sussistono 
motivi 
per 
respingere 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
in 
quanto 
manifestamente 
infondata, 
non 
occorre 
esaminare 
se 
per 
il 
richiedente 
protezione 
internazionale 
ricorrano 
i 
motivi 
per 
la 
concessione 
dell’asilo 
previsti 
agli 
articoli 
13 
e 
14 
o 
di 
una 
protezione 
sussidiaria 
di 
cui 
all’articolo 
14b. 
Se 
sussistono 
motivi 
per 
respingere 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
in 
quanto 
manifestamente 
infondata 
ai 
sensi 
del 
paragrafo 
2, 
non 
occorre 
neppure 
esaminare 
se 
il 
richiedente 
protezione 
internazionale 
non 
menzioni 
circostanze 
che 
dimostrino 
che 
egli 
potrebbe 
essere 
esposto 
a 
persecuzione 
per 
i 
motivi 
di 
cui 
all’articolo 
12 
o 
che 
rischia 
di 
subire 
un 
danno 
grave 
ai 
sensi 
dell’articolo 
14a». 


24 Ai sensi dell’articolo 32, paragrafo 2, della legge sull’asilo: 
«La 
presentazione 
di 
un 
ricorso 
(...) 
ha 
effetto 
sospensivo, 
eccettuato 
(...) 
il 
ricorso 
contro 
una decisione emessa ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2 (...)». 


25 L’articolo 85b, paragrafo 1, di tale legge dispone quanto segue: 
«A 
seguito (...) di 
una 
decisione 
che 
respinge 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
in 
quanto 
manifestamente 
infondata, 
se 
tale 
decisione 
non 
è 
stata 
annullata 
da 
un 
giudice, 


o a 
seguito di 
una 
decisione 
di 
una 
corte 
regionale 
che 
non riconosce 
l’effetto sospensivo 
ove 
quest’ultimo sia 
stato richiesto, il 
Ministero emette 
d’ufficio nei 
confronti 
dello straniero 
un ordine 
di 
allontanamento valido al 
massimo un mese, se 
che 
non si 
procede 
secondo 
la 
[legge 
n. 326/1999, relativa 
al 
soggiorno di 
cittadini 
stranieri 
sul 
territorio della 
Repubblica ceca e recante modifica di altre leggi] (...)». 


26 L’articolo 86, paragrafo 4, di tale legge così prevede: 
«Il 
Ministero 
stabilisce 
con 
decreto 
l’elenco 
dei 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
(...). 
Esso 
riesamina 
almeno una volta all’anno gli elenchi dei paesi stabiliti mediante decreto». 


Decreto n. 328/2015 che 
attua la legge 
sull’asilo e 
la legge 
sulla protezione 
temporanea 
degli stranieri 


27 L’articolo 2, punto 15, della 
vyhláška 
č. 328/2015 Sb., kterou se 
provádí 
zákon o azylu a 
zákon o dočasné 
ochraně 
cizincă 
(decreto n. 328/2015, che 
attua 
la 
legge 
sull’asilo e 
la 
legge sulla protezione temporanea degli stranieri), così dispone: 
«La 
Repubblica 
ceca 
considera 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro (...) la 
Moldova, eccettuata 
la 
transnistria, (...)». 


Codice di procedura amministrativa 


28 L’articolo 75, paragrafo 2, del codice di procedura amministrativa così recita: 
«Il giudice esamina i punti contestati della decisione nei limiti dei motivi dedotti. (...)». 


29 L’articolo 76, paragrafo 1, di detto codice prevede quanto segue: 
«Il 
giudice 
annulla 
con sentenza, senza 
udienza, la 
decisione 
impugnata 
per vizi 
di 
procedura 


a) qualora 
un controllo sia 
impossibile 
a 
causa 
del 
carattere 
incomprensibile 
o della 
carenza 
di motivazione della decisione, 
b) perché 
i 
fatti 
su cui 
si 
è 
basata 
l’autorità 
amministrativa 
nell’adottare 
la 
decisione 
contestata 
non corrispondono al 
fascicolo o non hanno alcuna 
base 
in esso, o devono essere 
ampiamente o fondamentalmente integrati, 
c) per una 
violazione 
sostanziale 
delle 
disposizioni 
relative 
al 
procedimento dinanzi 
al-
l’autorità 
amministrativa, qualora 
essa 
rischi 
di 
sfociare 
in una 
decisione 
nel 
merito illegittima
». 


Procedimento principale e questioni pregiudiziali 



30 Il 
9 febbraio 2022 CV, cittadino moldavo, ha 
presentato nella 
Repubblica 
ceca 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale. Nell’ambito di 
tale 
domanda, egli 
ha 
indicato di 
essere 
stato testimone 
in Moldova, nel 
corso del 
2015, di 
un incidente 
nel 
corso del 
quale 
il 
conducente 
di 
un’autovettura 
avrebbe 
investito e 
ucciso un pedone, per poi 
prendere 
la 
fuga. La 
notte 
stessa 
dell’incidente, alcuni 
individui 
si 
sarebbero recati 
a 
casa 
di 
CV, lo 
avrebbero condotto in un bosco e lo avrebbero aggredito. 


31 dopo essere 
fuggito, CV 
si 
sarebbe 
nascosto presso amici, prima 
di 
tornare 
due 
giorni 
più tardi 
al 
suo domicilio e 
constatare 
che 
la 
sua 
casa 
era 
stata 
incendiata. Successivamente, 
sarebbe 
fuggito dalla 
Moldova 
e 
sarebbe 
entrato nel 
territorio ceco mediante 
un 
passaporto rumeno falso procuratogli 
da 
una 
conoscenza. Nel 
corso del 
2016 e 
del 
2019, 
CV 
sarebbe 
tornato in Moldova, cercando di 
fare 
in modo che 
non lo sapesse 
nessuno, 
ad eccezione dei suoi cugini. 


32 
A 
sostegno 
della 
sua 
domanda 
di 
protezione 
internazionale, 
CV 
ha 
fatto 
valere 
le 
minacce 
di 
cui 
è 
oggetto in Moldova 
da 
parte 
di 
individui 
che 
le 
autorità 
di 
polizia 
non sarebbero 
riuscite 
a 
identificare. Egli 
ha 
altresì 
dichiarato di 
non voler rientrare 
nella 
sua 
regione 
d’origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. 


33 Con decisione 
dell’8 marzo 2022 (in prosieguo: 
la 
«decisione 
di 
rigetto»), il 
Ministero 
dell’Interno ha 
respinto tale 
domanda 
in quanto manifestamente 
infondata, ai 
sensi 
del-
l’articolo 16, paragrafo 2, della 
legge 
sull’asilo, alla 
luce 
degli 
elementi 
da 
esso raccolti 
sulla 
situazione 
politica 
e 
di 
sicurezza 
in Moldova 
nonché 
sul 
rispetto dei 
diritti 
umani 
in 
tale 
paese 
terzo. In particolare, tale 
Ministero ha 
rilevato che, in forza 
dell’articolo 2 del 
decreto n. 328/2015, che 
attua 
la 
legge 
sull’asilo e 
la 
legge 
sulla 
protezione 
temporanea 
degli 
stranieri, 
la 
Repubblica 
ceca 
considera 
come 
un 
«paese 
di 
origine 
sicuro» 
la 
Repubblica 
di 
Moldova, eccettuata 
la 
transnistria, e 
che 
CV 
non era 
riuscito a 
dimostrare 
che ciò non varrebbe nel suo caso particolare. 


34 CV 
ha 
impugnato 
tale 
decisione 
dinanzi 
al 
Krajský 
soud 
v 
Brně 
(Corte 
regionale 
di 
Brno, 
Repubblica 
ceca), 
giudice 
del 
rinvio. 
dinanzi 
a 
tale 
giudice, 
ribadendo, 
in 
sostanza, 
gli 
elementi 
formulati 
a 
sostegno 
della 
sua 
domanda 
di 
protezione 
internazionale, 
egli 
fa 
valere 
che 
detto 
Ministero, 
mentre 
sarebbe 
stato 
tenuto 
a 
prendere 
in 
considerazione 
tutte 
le 
informazioni 
pertinenti 
e 
a 
valutare 
tale 
domanda 
in 
modo 
globale, 
avrebbe 
considerato 
come 
unico 
elemento 
determinante 
il 
fatto 
che 
CV 
sia 
originario 
della 
Repubblica 
di 
Moldova. 


35 
dinanzi 
a 
detto 
giudice, 
il 
Ministero 
dell’Interno 
precisa 
di 
non 
aver 
ignorato 
la 
situazione 
risultante 
dal 
conflitto derivante 
dall’invasione 
dell’Ucraina 
da 
parte 
della 
Federazione 
russa. 
tuttavia, 
alla 
data 
di 
adozione 
di 
detta 
decisione, 
nessuna 
relazione 
avrebbe 
indicato 
che 
tale 
conflitto si 
sarebbe 
esteso al 
di 
là 
dell’Ucraina, o che 
tale 
ministero dovesse, in 
qualche 
modo, 
rivedere 
il 
contenuto 
delle 
informazioni 
raccolte 
riguardo 
alla 
Repubblica 
di Moldova. 


36 
Lo 
stesso 
giudice 
indica, 
inoltre, 
che 
detto 
Ministero 
ha 
riconosciuto 
l’esistenza 
di 
lacune 
fondamentali 
quanto al 
rispetto del 
diritto in Moldova, in particolare 
in materia 
di 
giustizia, 
cosicché 
non può essere 
esclusa 
l’esistenza 
di 
casi 
di 
persecuzione, ai 
sensi 
dell’articolo 
9 della 
direttiva 
2011/95. Vi 
sarebbero, in particolare, rischi 
di 
azioni 
giudiziarie 
o 
di 
condanne 
penali 
sproporzionate 
o discriminatorie, che 
colpiscono in larga 
misura 
gli 
oppositori 
politici, i 
loro avvocati, i 
difensori 
dei 
diritti 
umani 
o gli 
attivisti 
della 
società 
civile. Il 
Ministero dell’Interno ha 
tuttavia 
ritenuto che 
CV 
non appartenesse 
ad alcuna 
di 
tali 
categorie. 
Inoltre, 
CV 
non 
avrebbe 
indicato 
di 
avere 
problemi 
con 
le 
istituzioni 
statali 
moldove. 



37 Il 
9 maggio 2022 il 
giudice 
del 
rinvio ha 
accolto la 
domanda 
di 
CV 
diretta 
a 
riconoscere 
un effetto sospensivo al 
suo ricorso avverso la 
decisione 
di 
rigetto, accogliendo il 
suo argomento 
secondo 
il 
quale 
l’accoglimento 
della 
sua 
domanda 
dopo 
aver 
lasciato 
il 
territorio 
ceco 
avrebbe 
solo 
un 
effetto 
formale, 
dal 
momento 
che, 
in 
Moldova, 
egli 
sarebbe 
esposto 
al 
rischio 
di 
subire 
gravi 
danni 
da 
parte 
degli 
individui 
che 
lo 
avevano 
aggredito 
in 
passato. 
tale 
giudice 
afferma, inoltre, di 
aver tenuto conto del 
fatto che 
il 
28 aprile 
2022 la 
Repubblica 
di 
Moldova 
aveva 
deciso, a 
causa 
dell’invasione 
dell’Ucraina 
da 
parte 
della 
Federazione 
russa, di 
prorogare 
l’esercizio del 
suo diritto di 
deroga 
agli 
obblighi 
derivanti 
dalla 
CEdU, in applicazione 
dell’articolo 15 di 
tale 
convenzione, diritto di 
cui 
essa 
si 
era 
avvalsa il 25 febbraio 2022, a causa della crisi energetica da essa attraversata. 


38 Poiché 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
di 
CV 
è 
stata 
respinta 
tenendo conto, in 
particolare, del 
fatto che 
la 
Repubblica 
ceca 
ha 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro la 
Repubblica 
di 
Moldova, eccettuata 
la 
transnistria, detto giudice 
del 
rinvio si 
interroga, 
anzitutto, sulla 
nozione 
di 
«paese 
di 
origine 
sicuro» e, in particolare, tenuto conto del-
l’articolo 37 della 
direttiva 
2013/32 e 
dell’allegato I di 
quest’ultima, sui 
criteri 
di 
designazione 
di un paese terzo come paese di origine sicuro. 


39 
da 
un 
lato, 
esso 
si 
chiede 
se 
un 
paese 
terzo 
cessi 
di 
poter 
essere 
designato 
come 
tale 
quando invoca il diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU. 


40 dall’altro lato, il 
giudice 
del 
rinvio si 
chiede 
se 
il 
diritto dell’Unione 
osti 
a 
che 
uno Stato 
membro designi 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro, eccettuate 
talune 
parti 
del 
suo territorio. A 
tal 
riguardo, esso indica 
che 
la 
facoltà 
di 
procedere 
a 
una 
designazione 
parziale 
di 
questo tipo, che 
era 
contenuta 
all’articolo 30 della 
direttiva 
2005/85, abrogata 
dalla 
direttiva 
2013/32, 
non 
è 
più 
prevista 
all’articolo 
37 
di 
quest’ultima 
direttiva. 
Inoltre, 
tale 
giudice 
ritiene 
che 
la 
nozione 
di 
«paese 
di 
origine 
sicuro» avrebbe 
lo scopo di 
semplificare 
la 
procedura 
di 
esame 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale, semplificazione 
che 
sarebbe 
giustificata 
solo 
per 
i 
paesi 
terzi 
per 
i 
quali 
è 
veramente 
poco 
probabile 
che 
ai 
loro 
cittadini 
debba 
essere 
concessa 
una 
protezione 
internazionale 
o 
una 
protezione 
sussidiaria. Ebbene, ciò si 
verificherebbe 
solo per i 
paesi 
terzi 
che 
soddisfano i 
criteri 
fissati 
dall’allegato I della direttiva 2013/32 su tutto il loro territorio. 


41 Nel 
caso in cui 
si 
dovesse 
ritenere 
che 
un paese 
terzo che 
ha 
esercitato il 
diritto di 
deroga 
previsto all’articolo 15 della 
CEdU 
non possa 
essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
o che 
una 
designazione 
del 
genere 
non possa 
escludere 
una 
parte 
del 
territorio del 
paese 
terzo 
considerato, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
si 
interroga, 
inoltre, 
sulla 
portata 
del 
controllo 
che 
gli 
compete 
esercitare 
al 
riguardo, 
in 
forza 
dell’articolo 
46, 
paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2013/32, disposizione 
che 
non è 
stata 
trasposta 
nel 
diritto ceco, ma 
che, a 
suo avviso, ha 
effetto diretto. 


42 
In 
particolare, 
tale 
giudice 
indica 
che 
le 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
presentate 
da 
cittadini 
di 
paesi 
terzi 
designati 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
possono 
essere, 
al 
pari 
della 
domanda 
su cui 
verte 
la 
controversia 
dinanzi 
ad esso pendente, assoggettate 
a 
un 
regime 
particolare 
di 
esame, che 
consenta, in forza 
delle 
disposizioni 
di 
tale 
direttiva, di 
trattare 
segnatamente 
tali 
domande 
con procedura 
accelerata 
e 
di 
dichiararle, se 
del 
caso, 
manifestamente 
infondate. 
detto 
giudice 
sottolinea 
altresì 
che, 
in 
tali 
circostanze, 
lo 
Stato 
membro 
in 
cui 
un 
richiedente 
protezione 
internazionale 
ha 
presentato 
una 
domanda 
siffatta 
può non autorizzare 
tale 
richiedente 
a 
permanere 
nel 
suo territorio in attesa 
dell’esito del 
suo ricorso avverso la decisione di rigetto di tale domanda. 


43 Lo stesso giudice 
si 
chiede, pertanto, se 
un giudice, quando è 
investito di 
un ricorso av



verso una 
decisione 
di 
rigetto di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale, adottata 
nel-
l’ambito di 
siffatto regime, sia 
tenuto -nell’ambito dell’esame 
completo ed ex 
nunc 
degli 
elementi 
di 
fatto e 
di 
diritto previsto all’articolo 46, paragrafo 3, della 
direttiva 
2013/32, 
letto alla 
luce 
dell’articolo 47 della 
Carta 
-a 
rilevare 
la 
violazione 
delle 
norme 
previste 
da 
tale 
direttiva 
ai 
fini 
della 
designazione 
di 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro, 
anche 
se 
tale 
violazione 
non 
è 
stata 
contestata 
dal 
richiedente 
che 
ha 
proposto 
tale 
ricorso. 


44 
In 
tale 
contesto, 
il 
Krajský 
soud 
v 
Brně 
(Corte 
regionale 
di 
Brno) 
ha 
deciso 
di 
sospendere 
il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: 
«1) 
Se 
il 
criterio 
per 
determinare 
i 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
ai 
sensi 
dell’articolo 
37, 
paragrafo 
1, della 
direttiva 
[2013/32], contenuto all’allegato I, lettera 
b), di 
tale 
direttiva 
-ossia 
che 
il 
paese 
in questione 
offra 
protezione 
contro le 
persecuzioni 
o i 
maltrattamenti 
attraverso 
il 
rispetto dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
sanciti 
dalla 
[CEdU], e 
in particolare 
di 
quei 
diritti 
inderogabili 
ai 
sensi 
dell’articolo 15, paragrafo 2, di 
tale 
Convenzione 
-debba 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
quando 
un 
paese 
deroga 
agli 
obblighi 
derivanti 
[da 
tale 
convenzione] 
in caso di 
stato d’urgenza 
ai 
sensi 
dell’articolo 15 di 
tale 
Convenzione, non soddisfa 
più 
le condizioni per essere designato come paese di origine sicuro. 


2) 
Se 
gli 
articoli 
36 
e 
37 
della 
direttiva 
[2013/32] 
debbano 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
essi 
ostano 
a 
che 
uno 
Stato 
membro 
designi 
un 
paese 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
solo 
in 
parte, 
con 
alcune 
eccezioni 
territoriali 
nei 
confronti 
delle 
quali 
non 
si 
applica 
la 
presunzione 
che 
quella 
parte 
del 
paese 
sia 
sicura 
per 
il 
richiedente, 
e, 
allorché 
uno 
Stato 
membro 
designa 
come 
sicuro 
un 
paese 
con 
tali 
eccezioni 
territoriali, 
il 
paese 
nel 
suo 
complesso 
non 
possa 
essere 
allora 
considerato 
un 
paese 
di 
origine 
sicuro 
ai 
fini 
della 
direttiva. 


3) In caso di 
risposta 
affermativa 
a 
una 
delle 
[prime] due 
questioni 
pregiudiziali 
(...), se 
l’articolo 46, paragrafo 3, [della 
direttiva 
2013/32], in combinato disposto con l’articolo 
47 della 
[Carta], debba 
essere 
interpretato nel 
senso che 
un giudice 
chiamato a 
decidere 
su un mezzo di 
impugnazione 
contro una 
decisione 
di 
manifesta 
infondatezza 
di 
una 
domanda 
ai 
sensi 
dell’articolo 32, paragrafo 2, [di 
tale 
direttiva], emessa 
nell’ambito di 
un 
procedimento 
ai 
sensi 
dell’articolo 
31, 
paragrafo 
8, 
lettera 
b), 
[della 
stessa] 
direttiva, 
deve 
tenere 
conto 
d’ufficio, 
anche 
in 
assenza 
di 
un’eccezione 
da 
parte 
del 
richiedente, 
del 
fatto 
che 
la 
designazione 
di 
un paese 
come 
sicuro per le 
ragioni 
indicate 
è 
contraria 
al 
diritto 
dell’Unione europea». 


sulle questioni pregiudiziali 


Sulla prima questione 


45 Con la 
sua 
prima 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
l’articolo 37 della 
direttiva 
2013/32, 
in 
combinato 
disposto 
con 
l’allegato 
I 
di 
quest’ultima, 
debba 
essere 
interpretato nel 
senso che 
un paese 
terzo cessa 
di 
soddisfare 
i 
criteri 
che 
gli 
consentono 
di 
essere 
designato 
paese 
di 
origine 
sicuro 
per 
il 
solo 
fatto 
che 
invoca 
il 
diritto 
di 
derogare 
agli obblighi previsti dalla CEdU, in applicazione dell’articolo 15 di tale Convenzione. 


46 
Come 
risulta 
dalle 
informazioni 
fornite 
da 
tale 
giudice, 
il 
ricorrente 
nel 
procedimento 
principale 
contesta 
al 
Ministero dell’Interno che, sebbene 
abbia 
esposto le 
minacce 
a 
cui 
è 
soggetto in Moldova 
e 
abbia 
indicato di 
non voler tornare 
nella 
sua 
regione 
d’origine 
a 
causa 
dell’invasione 
dell’Ucraina 
da 
parte 
della 
Federazione 
Russa, 
tale 
Ministero 
ha 
basato 
la 
decisione 
di 
respingimento unicamente 
sul 
fatto che 
è 
originario della 
Repubblica 
di 
Moldova 
e 
che 
la 
Repubblica 
Ceca 
ha 
designato tale 
paese 
terzo come 
paese 
d’origine 
sicuro, 
ad 
eccezione 
della 
transnistria. 
di 
conseguenza, 
detto 
giudice 
si 
interroga 
sull’incidenza 
che 
può avere 
su una 
siffatta 
designazione 
il 
fatto che 
la 
Repubblica 
di 
Mol



dova, il 
28 aprile 
2022, mentre 
era 
pendente 
dinanzi 
ad esso la 
controversia 
di 
cui 
al 
procedimento 
principale, abbia 
deciso di 
prorogare 
l’esercizio del 
suo diritto di 
deroga 
agli 
obblighi 
derivanti 
dalla 
CEdU, in applicazione 
dell’articolo 15 di 
quest’ultima, a 
causa 
dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. 


47 In via 
preliminare, occorre 
ricordare 
che 
gli 
articoli 
36 e 
37 della 
direttiva 
2013/32, riguardanti, 
rispettivamente, 
il 
concetto 
di 
paese 
di 
origine 
sicuro 
e 
la 
designazione, 
da 
parte 
degli 
Stati 
membri, 
di 
paesi 
terzi 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri, 
istituiscono 
un 
regime 
particolare 
di 
esame 
al 
quale 
gli 
Stati 
membri 
possono sottoporre 
le 
domande 
di 
protezione 
internazionale, 
regime 
che 
si 
basa 
su 
una 
forma 
di 
presunzione 
relativa 
di 
protezione 
sufficiente 
nel 
paese 
di 
origine, la 
quale 
può essere 
confutata 
dal 
richiedente 
se 
adduce 
motivi 
imperativi 
attinenti 
alla 
sua 
situazione 
particolare 
(v., in tal 
senso, sentenza 
del 
25 
luglio 2018, A, C‑404/17, EU:C:2018:588, punto 25). 


48 A 
titolo delle 
specificità 
di 
tale 
regime 
speciale 
di 
esame, gli 
Stati 
membri 
possono decidere, 
conformemente 
all’articolo 31, paragrafo 8, lettera 
b), di 
tale 
direttiva, da 
un lato, 
di 
accelerare 
la 
procedura 
d’esame 
e, dall’altro, di 
portarla 
alla 
frontiera 
o nelle 
zone 
di 
transito, conformemente all’articolo 43 di detta direttiva. 


49 Peraltro, quando una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale, presentata 
da 
un richiedente 
proveniente 
da 
un paese 
di 
origine 
sicuro, è 
stata 
giudicata 
infondata, in quanto, conformemente 
all’articolo 32, paragrafo 1, della 
direttiva 
2013/32, l’autorità 
accertante 
ha 
stabilito 
che 
il 
richiedente 
non soddisfa 
i 
requisiti 
previsti 
per poter ottenere 
la 
protezione 
internazionale 
a 
norma 
della 
direttiva 
2011/95, gli 
Stati 
membri 
possono altresì 
considerare, 
in forza 
di 
tale 
articolo 32, paragrafo 2, una 
domanda 
siffatta 
manifestamente 
infondata, 
se definita come tale nella legislazione nazionale. 


50 Inoltre, una 
delle 
conseguenze 
per l’interessato la 
cui 
domanda 
è 
respinta 
sulla 
base 
del-
l’applicazione 
del 
concetto di 
paese 
di 
origine 
sicuro è 
che, contrariamente 
a 
quanto previsto 
in caso di 
semplice 
rigetto, egli 
può non essere 
autorizzato a 
rimanere 
nel 
territorio 
dello Stato membro in cui 
è 
stata 
presentata 
tale 
domanda 
in attesa 
dell’esito del 
suo ricorso 
avverso 
la 
decisione 
di 
rigetto 
di 
detta 
domanda, 
come 
risulta 
dalle 
disposizioni 
dell’articolo 46, paragrafi 
5 e 
6, della 
direttiva 
2013/32 (v., in tal 
senso, sentenza 
del 
25 
luglio 2018, A, C‑404/17, EU:C:2018:588, punto 27). 


51 Fatte 
queste 
osservazioni 
preliminari, occorre 
rilevare 
che 
l’articolo 37 di 
tale 
direttiva 
riguarda, come 
indica 
il 
suo titolo, la 
designazione, da 
parte 
degli 
Stati 
membri, di 
paesi 
terzi 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri. 
In 
particolare, 
tale 
articolo 
37, 
paragrafo 
1, 
enuncia 
che 
gli 
Stati 
membri 
possono mantenere 
in vigore 
o introdurre 
una 
normativa 
che 
consenta, 
a 
norma 
dell’allegato I della 
stessa 
direttiva, di 
designare 
a 
livello nazionale 
paesi 
di 
origine 
sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. 


52 Il 
suddetto allegato I precisa, in particolare, che 
un paese 
è 
considerato paese 
di 
origine 
sicuro se, sulla 
base 
dello status 
giuridico, dell’applicazione 
della 
legge 
all’interno di 
un 
sistema 
democratico 
e 
della 
situazione 
politica 
generale, 
si 
può 
dimostrare 
che 
non 
ci 
sono 
generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni 
quali 
definite 
nell’articolo 
9 
della 
direttiva 
2011/95, né 
tortura 
o altre 
forme 
di 
pena 
o trattamento disumano o degradante, né 
pericolo a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in situazioni 
di 
conflitto armato interno o internazionale. 


53 A 
tal 
riguardo, detto allegato elenca 
gli 
elementi 
che 
possono essere 
presi 
in considerazione 
al 
fine 
di 
valutare, tra 
l’altro, in quale 
misura 
il 
paese 
terzo interessato offra 
protezione 
contro 
le 
persecuzioni 
e 
i 
maltrattamenti. 
tra 
tali 
elementi 
figura, 
al 
secondo 



comma, 
lettera 
b), 
del 
medesimo 
allegato, 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
stabiliti 
nella 
CEdU, in particolare 
i 
diritti 
ai 
quali 
non si 
può derogare 
a 
norma 
all’articolo 15, paragrafo 
2, di tale convenzione. 


54 
Sebbene 
tale 
articolo 
della 
CEdU 
preveda 
che, 
in 
caso 
di 
guerra 
o 
in 
caso 
di 
altro 
pericolo 
pubblico che 
minacci 
la 
vita 
della 
nazione, sia 
possibile 
adottare 
misure 
in deroga 
agli 
obblighi 
previsti 
da 
tale 
convenzione, l’esercizio di 
tale 
facoltà 
è 
accompagnato da 
certe 
garanzie. 


55 Ai 
sensi 
dell’articolo 15, paragrafo 1, della 
CEdU, infatti, detta 
facoltà 
deve, anzitutto, 
essere 
esercitata 
nella 
stretta 
misura 
in cui 
la 
situazione 
lo richieda 
e 
a 
condizione 
che 
le 
misure 
adottate 
non siano in contrasto con gli 
altri 
obblighi 
derivanti 
dal 
diritto internazionale. 
tale 
articolo 15, paragrafo 2, prevede, inoltre, che 
nessuna 
deroga 
possa 
riguardare 
l’articolo 2 della 
CEdU, relativo al 
diritto alla 
vita, salvo il 
caso di 
decesso causato 
da 
legittimi 
atti 
di 
guerra, né 
l’articolo 3 e 
l’articolo 4, paragrafo 1, di 
tale 
convenzione 
che 
sanciscono, 
rispettivamente, 
la 
proibizione 
della 
tortura 
e 
delle 
pene 
o 
trattamenti 
inumani 
o degradanti, nonché 
la 
proibizione 
di 
schiavitù, e 
neppure 
l’articolo 7 di 
detta 
Convenzione, che 
sancisce 
il 
principio nulla poena sine 
lege. Infine, come 
peraltro rilevato 
dal 
giudice 
del 
rinvio, le 
misure 
adottate 
in applicazione 
di 
detto articolo 15 restano 
soggette al controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo. 


56 Peraltro, come 
osservato, in sostanza, dall’avvocato generale 
al 
paragrafo 62 delle 
sue 
conclusioni, dal 
mero ricorso, da 
parte 
di 
un paese 
terzo, al 
diritto di 
deroga 
previsto all’articolo 
15 della 
CEdU 
non si 
può dedurre 
né 
che 
tale 
paese 
terzo abbia 
effettivamente 
adottato misure 
che 
hanno l’effetto di 
derogare 
agli 
obblighi 
previsti 
da 
tale 
convenzione 
né, eventualmente, quali siano la natura e la portata delle misure in deroga adottate. 


57 Ne 
consegue 
che 
non si 
può ritenere 
che 
un paese 
terzo cessi 
di 
soddisfare 
i 
criteri, menzionati 
al 
punto 52 della 
presente 
sentenza, che 
gli 
consentono di 
essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
37 
della 
direttiva 
2013/32, 
per 
il 
solo 
motivo 
che esso ha invocato il diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU. 


58 
Ciò 
premesso, 
come 
rilevato 
dall’avvocato 
generale 
al 
paragrafo 
85 
delle 
sue 
conclusioni, 
siffatto ricorso alla 
deroga 
deve 
indurre 
le 
autorità 
competenti 
dello Stato membro che 
ha 
designato 
il 
paese 
terzo 
interessato 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
a 
valutare 
se, 
alla 
luce 
delle 
condizioni 
di 
attuazione 
di 
tale 
diritto 
di 
deroga, 
occorra 
mantenere 
siffatta 
designazione 
ai 
fini 
dell’esame 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
presentate 
dai 
richiedenti 
provenienti da tale paese terzo. 


59 L’articolo 37, paragrafo 2, della 
direttiva 
2013/32 impone, infatti, agli 
Stati 
membri 
di 
riesaminare 
regolarmente 
la 
situazione 
nei 
paesi 
terzi 
designati 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri. 
Così 
facendo, il 
legislatore 
dell’Unione 
ha 
inteso imporre 
agli 
Stati 
membri 
di 
tener 
conto 
del 
fatto 
che 
le 
circostanze 
che 
consentono 
di 
presumere 
la 
sicurezza 
dei 
richiedenti 
protezione 
internazionale 
in 
un 
determinato 
paese 
d’origine 
sono, 
per 
loro 
natura, 
soggette 
a variazioni. 


60 di 
conseguenza, tale 
obbligo di 
esame 
regolare 
riguarda 
anche 
il 
verificarsi 
di 
eventi 
significativi, 
in quanto, per la 
loro importanza, essi 
possono incidere 
sulla 
capacità, per un 
paese 
terzo designato come 
paese 
sicuro, di 
continuare 
a 
soddisfare 
i 
criteri 
enunciati, a 
tal 
fine, all’allegato I di 
detta 
direttiva, e 
quindi 
di 
presumere 
che 
esso sia 
in grado di 
garantire 
la sicurezza dei richiedenti. 


61 Ebbene, il 
ricorso al 
diritto di 
deroga 
previsto all’articolo 15 della 
CEdU 
costituisce 
un 
evento 
del 
genere. 
Infatti, 
come 
osservato, 
in 
sostanza, 
dall’avvocato 
generale 
al 
paragrafo 



67 delle 
sue 
conclusioni, pur se 
misure 
contrarie 
a 
tale 
articolo 15, paragrafo 2, che 
derogano 
in particolare 
al 
divieto di 
pene 
o trattamenti 
inumani 
o degradanti 
sancito all’articolo 
3 di 
tale 
convenzione, ostano, per loro natura, alla 
designazione 
di 
un paese 
terzo 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro, non si 
può escludere 
che 
misure 
in deroga 
che 
incidono su 
diritti 
fondamentali 
diversi 
da 
quelli 
che 
l’articolo 15, paragrafo 2, esclude 
dall’ambito 
di 
applicazione 
di 
tale 
deroga 
possano essere 
altresì 
incompatibili 
con i 
criteri 
previsti 
all’allegato 
I 
della 
direttiva 
2013/32 
ai 
fini 
della 
designazione 
di 
un 
paese 
terzo 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro. Peraltro, un ricorso siffatto rivela, in ogni 
caso, un rischio rilevante 
di 
modifica 
significativa 
quanto al 
modo in cui 
sono applicate 
le 
norme 
in materia 
di 
diritti 
e di libertà nel paese terzo interessato. 


62 Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, occorre 
rispondere 
alla 
prima 
questione 
dichiarando 
che 
l’articolo 37 della 
direttiva 
2013/32, in combinato disposto con l’allegato 
I di 
quest’ultima, deve 
essere 
interpretato nel 
senso che 
un paese 
terzo non cessa 
di 
soddisfare 
i 
criteri 
che 
gli 
consentono di 
essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro per il 
solo motivo che 
si 
avvale 
del 
diritto di 
derogare 
agli 
obblighi 
previsti 
dalla 
CEdU, in applicazione 
dell’articolo 
15 
di 
tale 
convenzione, 
le 
autorità 
competenti 
dello 
Stato 
membro 
che 
ha 
proceduto a 
siffatta 
designazione 
devono tuttavia 
valutare 
se 
le 
condizioni 
di 
attuazione 
di tale diritto siano atte a mettere in discussione detta designazione. 
Sulla seconda questione 


63 Con la 
sua 
seconda 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
l’articolo 37 
della 
direttiva 
2013/32 debba 
essere 
interpretato nel 
senso che 
esso osta 
a 
che 
un paese 
terzo possa 
essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro, eccettuate 
talune 
parti 
del 
suo 
territorio. 


64 Infatti, poiché 
la 
Repubblica 
ceca 
ha 
designato la 
Repubblica 
di 
Moldova 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro, eccezion fatta 
per la 
transnistria, tale 
giudice 
esprime 
dubbi 
quanto alla 
conformità con tale direttiva di una siffatta designazione parziale. 


65 Secondo una 
costante 
giurisprudenza, nell’interpretare 
una 
disposizione 
del 
diritto del-
l’Unione, 
si 
deve 
tener 
conto 
non 
soltanto 
del 
tenore 
letterale 
di 
quest’ultima, 
bensì 
anche 
del 
suo contesto, degli 
obiettivi 
perseguiti 
dalla 
normativa 
di 
cui 
essa 
fa 
parte 
e, se 
del 
caso, della 
sua 
genesi 
(sentenza 
del 
14 maggio 2020, országos 
Idegenrendészeti 
Főigazgatóság 
dél-alföldi 
Regionális 
Igazgatóság, 
C‑924/19 
PPU 
e 
C‑925/19 
PPU, 
EU:C:2020:367, punto 113 e la giurisprudenza ivi citata). 


66 
Per 
quanto 
riguarda, 
in 
primo 
luogo, 
il 
tenore 
letterale 
dell’articolo 
37 
della 
direttiva 
2013/32, il 
quale, conformemente 
al 
suo titolo, riguarda 
la 
designazione, da 
parte 
di 
uno 
Stato membro, di 
paesi 
terzi 
quali 
paesi 
di 
origine 
sicuri, in esso si 
fa 
riferimento, a 
più 
riprese, ai 
termini 
«paese» e 
«paesi 
terzi» senza 
indicare 
che, ai 
fini 
di 
siffatta 
designazione, 
tali 
termini 
possano essere 
intesi 
come 
riguardanti 
solo una 
parte 
del 
territorio del 
paese terzo considerato. 


67 Per quanto riguarda, in secondo luogo, il 
contesto in cui 
si 
inserisce 
l’articolo 37 di 
tale 
direttiva, 
da 
tale 
articolo 
37 
risulta, 
anzitutto, 
che 
gli 
Stati 
membri 
possono 
designare 
paesi 
di 
origine 
sicuri, conformemente 
all’allegato I di 
detta 
direttiva. Ebbene, al 
pari 
del 
tenore 
letterale 
di 
detto 
articolo 
37, 
i 
criteri 
enunciati 
in 
tale 
allegato 
non 
forniscono 
alcuna 
indicazione 
che 
gli 
Stati 
membri 
possono designare 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro la 
sola 
parte del territorio del paese terzo considerato in cui sono soddisfatti tali criteri. 


68 Al 
contrario, ai 
sensi 
di 
detto allegato, la 
designazione 
di 
un paese 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro dipende, come 
ricordato al 
punto 52 della 
presente 
sentenza, dalla 
possibilità 
di 



dimostrare 
che 
non 
ci 
sono 
generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni 
quali 
definite 
nell’articolo 9 della 
direttiva 
2011/95, né 
tortura 
o altre 
forme 
di 
pena 
o trattamento disumano 
o degradante, né 
pericolo a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in situazioni 
di 
conflitto 
armato interno o internazionale. 


69 
Ebbene, 
come 
osservato 
dall’avvocato 
generale 
ai 
paragrafi 
92 
e 
93 
delle 
sue 
conclusioni, 
l’impiego dell’espressione 
«generalmente 
e 
costantemente», in assenza 
di 
qualsiasi 
riferimento 
a 
una 
parte 
del 
territorio 
del 
paese 
terzo 
considerato 
nell’allegato 
I 
della 
direttiva 
2013/32 o nell’articolo 37 di 
tale 
direttiva, tende 
a 
indicare 
che 
le 
condizioni 
previste 
in 
tale 
allegato devono essere 
rispettate 
in tutto il 
territorio del 
paese 
terzo considerato affinché 
quest’ultimo possa essere designato come paese di origine sicuro. 


70 
Inoltre, 
come 
esposto 
ai 
punti 
da 
47 
a 
50 
della 
presente 
sentenza, 
la 
designazione, 
da 
parte 
di 
uno Stato membro, di 
paesi 
terzi 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri 
consente 
di 
sottoporre 
le 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
dei 
richiedenti 
provenienti 
da 
tali 
paesi 
terzi a un regime particolare di esame avente carattere di deroga. 


71 
A 
tal 
riguardo, 
interpretare 
l’articolo 
37 
della 
direttiva 
2013/32 
nel 
senso 
che 
esso 
consente 
di 
designare 
paesi 
terzi 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri, eccezion fatta 
per talune 
parti 
del 
loro territorio, avrebbe 
l’effetto di 
estendere 
l’ambito di 
applicazione 
di 
tale 
regime 
speciale 
di 
esame. Poiché 
una 
siffatta 
interpretazione 
non trova 
alcun sostegno nel 
testo di 
detto articolo 37 né, più in generale, in tale 
direttiva, riconoscere 
una 
facoltà 
del 
genere 
violerebbe 
l’interpretazione 
restrittiva 
di 
cui 
devono 
essere 
oggetto 
le 
disposizioni 
aventi 
carattere 
di 
deroga 
[v., in tal 
senso, sentenze 
del 
5 marzo 2015, Commissione/Lussemburgo, 
C‑502/13, 
EU:C:2015:143, 
punto 
61, 
e 
dell’8 
febbraio 
2024, 
Bundesrepublik 
deutschland 
(Ammissibilità 
di 
una 
domanda 
reiterata), C‑216/22, EU:C:2024:122, punto 35 
e giurisprudenza ivi citata]. 


72 
In 
terzo 
luogo, 
l’interpretazione 
secondo 
cui 
l’articolo 
37 
della 
direttiva 
2013/32 
non 
consente 
agli 
Stati 
membri 
di 
designare 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro, eccettuate 
talune 
parti 
del 
suo territorio, è 
confermata 
dalla 
genesi 
di 
tale 
disposizione. A 
tal 
riguardo, occorre 
rilevare 
che, prima 
dell’entrata 
in vigore 
della 
direttiva 
2013/32, la 
facoltà 
di 
designare 
paesi 
terzi 
come 
paesi 
di 
origine 
sicuri, 
ai 
fini 
dell’esame 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale, era 
concessa 
agli 
Stati 
membri 
dalla 
direttiva 
2005/85, in 
particolare dall’articolo 30 di quest’ultima. 


73 tale 
articolo 30 prevedeva 
espressamente 
che 
gli 
Stati 
membri 
potessero designare 
come 
sicura 
anche 
una 
parte 
del 
territorio di 
un paese 
terzo se 
erano soddisfatte 
per quanto riguarda 
tale 
parte 
di 
territorio le 
condizioni 
previste 
all’allegato II della 
direttiva 
2005/85, 
le 
quali 
corrispondono, in sostanza, a 
quelle 
di 
cui 
all’allegato I della 
direttiva 
2013/32. 
Sebbene 
l’allegato II della 
direttiva 
2005/85 richiedesse, al 
pari 
dell’allegato I della 
direttiva 
2013/32, la 
prova 
che 
non ci 
sono «generalmente 
e 
costantemente» persecuzioni, 
dalla 
formulazione 
stessa 
di 
detto articolo 30 risultava 
che 
tale 
requisito si 
applicava, nel 
caso di 
una 
siffatta 
designazione 
parziale, solo alla 
parte 
di 
territorio designata 
come 
sicura. 


74 Conformemente 
all’articolo 53 della 
direttiva 
2013/32, quest’ultima 
ha 
abrogato la 
direttiva 
2005/85, 
il 
cui 
articolo 
30, 
come 
risulta 
dalla 
tavola 
di 
concordanza 
di 
cui 
all’allegato 
III della 
direttiva 
2013/32, è 
stato sostituito dall’articolo 37 di 
quest’ultima. Ebbene, in 
quest’ultimo articolo non compare 
più la 
facoltà 
di 
designare 
come 
sicuro una 
parte 
del 
territorio di un paese terzo. 


75 L’intenzione 
di 
sopprimere 
tale 
facoltà 
risulta 
dal 
testo stesso della 
modifica 
dell’articolo 



30, 
paragrafo 
1, 
della 
direttiva 
2005/85 
contenuta 
nella 
proposta 
della 
Commissione 
della 
direttiva 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio recante 
norme 
minime 
per le 
procedure 
applicate 
negli 
Stati 
membri 
ai 
fini 
del 
riconoscimento e 
della 
revoca 
della 
protezione 
internazionale 
[CoM 
(2009) 
554 
definitivo, 
pag. 
60], 
in 
cui 
tale 
facoltà, 
nella 
maggior 
parte 
delle 
versioni 
linguistiche, è 
stata 
esplicitamente 
espressamente 
barrata 
e, nelle 
altre 
versioni, 
eliminata. 


76 
Inoltre, 
una 
siffatta 
intenzione 
è 
confermata 
dalla 
spiegazione 
dettagliata 
di 
tale 
proposta 
[CoM 
(2009) 
554 
definitivo 
Annex, 
14959/09 
Add 
1, 
pag. 
15], 
che 
la 
Commissione 
aveva 
fornito al 
Consiglio dell’Unione 
europea, la 
quale 
menziona 
espressamente 
la 
volontà 
di 
sopprimere 
la 
facoltà, per gli 
Stati 
membri, di 
applicare 
il 
concetto di 
paese 
di 
origine 
sicuro a 
una 
parte 
di 
un paese 
terzo e 
la 
conseguenza 
che 
deriva 
da 
siffatta 
soppressione, 
vale 
a 
dire 
che 
sia 
ormai 
richiesto che 
le 
condizioni 
materiali 
di 
una 
designazione 
del 
genere 
dovessero 
essere 
soddisfatte 
per 
tutto 
il 
territorio 
del 
paese 
terzo 
considerato. 


77 In quarto e 
ultimo luogo, gli 
obiettivi 
perseguiti 
dalla 
direttiva 
2013/32 non ostano a 
una 
conseguenza 
del 
genere 
e, 
pertanto, 
all’interpretazione 
dell’articolo 
37 
di 
tale 
direttiva 
nel 
senso che 
quest’ultimo non consente 
agli 
Stati 
membri 
di 
designare 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro un paese 
terzo nel 
quale 
talune 
parti 
del 
suo territorio non soddisfano le 
condizioni 
sostanziali 
di 
una 
siffatta 
designazione, enunciate 
all’allegato I di 
detta 
direttiva. 


78 A 
tal 
riguardo, oltre 
al 
fatto che 
la 
direttiva 
2013/32 persegue 
l’obiettivo generale 
di 
istituire 
norme 
procedurali 
comuni, tale 
direttiva 
mira 
in particolare, come 
risulta, segnatamente, 
dal 
suo 
considerando 
18, 
a 
che 
le 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
siano 
trattate 
«quanto prima 
possibile 
(...), fatto salvo lo svolgimento di 
un esame 
adeguato e 
completo» (sentenza 
del 
25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 109). 


79 In tale 
prospettiva, il 
considerando 20 di 
detta 
direttiva 
enuncia, tra 
l’altro, che 
in circostanze 
ben definite 
per le 
quali 
una 
domanda 
potrebbe 
essere 
infondata, gli 
Stati 
membri 
dovrebbero poter accelerare 
la 
procedura 
di 
esame, introducendo in particolare 
termini 
più 
brevi, 
ma 
ragionevoli, 
in 
talune 
fasi 
procedurali, 
fatto 
salvo 
lo 
svolgimento 
di 
un 
esame 
adeguato 
e 
completo 
e 
un 
accesso 
effettivo 
del 
richiedente 
ai 
principi 
fondamentali 
e alle garanzie previsti dalla medesima direttiva. 


80 Come 
indicato ai 
punti 
da 
47 a 
50 della 
presente 
sentenza, uno Stato membro può sottoporre 
le 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
presentate 
dai 
richiedenti 
provenienti 
da 
un paese 
terzo, che 
tale 
Stato membro ha 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro, a 
un regime 
speciale 
di 
esame, 
il 
quale 
si 
basa 
su 
una 
forma 
di 
presunzione 
relativa 
di 
protezione 
sufficiente 
nel 
paese 
di 
origine, in forza 
del 
quale 
è 
possibile, in particolare, accelerare 
la 
procedura di esame di tali domande. 


81 Il 
legislatore 
dell’Unione, nei 
limiti 
in cui, come 
rilevato al 
punto 78 della 
presente 
sentenza, 
mira 
a 
garantire, con la 
direttiva 
2013/32, un esame 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
rapido ed esaustivo, è 
tenuto, nell’ambito dell’esercizio del 
potere 
discrezionale 
di 
cui 
dispone 
ai 
fini 
dell’istituzione 
delle 
procedure 
comuni 
di 
riconoscimento e 
di 
revoca 
della 
protezione 
internazionale, a 
bilanciare 
questi 
due 
obiettivi 
in sede 
di 
determinazione 
delle 
condizioni 
alle 
quali 
gli 
Stati 
membri 
possono 
designare 
un 
paese 
terzo 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro. 
Pertanto, 
il 
fatto 
che 
tale 
legislatore 
non 
abbia 
previsto, 
nell’ambito di 
tale 
direttiva, la 
facoltà 
per gli 
Stati 
membri 
di 
escludere 
una 
parte 
del 
territorio 
di 
un paese 
terzo ai 
fini 
di 
una 
designazione 
siffatta 
rispecchia 
tale 
bilanciamento 



e 
la 
sua 
scelta 
di 
privilegiare 
un esame 
esaustivo delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
presentate 
da 
richiedenti 
il 
cui 
paese 
d’origine 
non 
soddisfa, 
per 
tutto 
il 
suo 
territorio, 
le condizioni sostanziali di cui all’allegato I di detta direttiva. 


82 
Sebbene 
l’articolo 
61, 
paragrafo 
2, 
del 
regolamento 
2024/1348, 
il 
quale 
abroga 
la 
direttiva 
2013/32 con effetto dal 
12 giugno 2026, reintroduca 
detta 
facoltà, disponendo che 
la 
designazione 
di 
un paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro a 
livello sia 
dell’Unione 
che 
nazionale 
può essere 
effettuata 
con eccezioni 
per determinate 
parti 
del 
suo territorio, si 
tratta 
della 
prerogativa 
del 
legislatore 
dell’Unione 
di 
ritornare 
su tale 
scelta, procedendo 
a 
un nuovo bilanciamento, purché 
quest’ultimo rispetti 
le 
prescrizioni 
derivanti 
in particolare 
dalla 
Convenzione 
di 
Ginevra 
e 
dalla 
Carta. 
occorre, 
peraltro, 
constatare 
che 
il 
fatto 
che 
il 
regime 
giuridico 
introdotto 
a 
tal 
fine 
da 
tale 
regolamento 
si 
distingua 
da 
quello 
che 
era 
stato 
previsto 
dalla 
direttiva 
2005/85 
corrobora 
l’interpretazione 
secondo 
la 
quale 
il legislatore dell’Unione non ha previsto tale facoltà nella direttiva 2013/32. 


83 Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, occorre 
rispondere 
alla 
seconda 
questione 
dichiarando che 
l’articolo 37 della 
direttiva 
2013/32 deve 
essere 
interpretato nel 
senso 
che 
esso osta 
a 
che 
un paese 
terzo possa 
essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
allorché 
talune 
parti 
del 
suo territorio non soddisfano le 
condizioni 
sostanziali 
di 
siffatta 
designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva. 
Sulla terza questione 


84 Con la 
sua 
terza 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
l’articolo 46, paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2013/32, 
letto 
alla 
luce 
dell’articolo 
47 
della 
Carta, 
debba 
essere 
interpretato nel 
senso che 
un giudice, quando è 
investito di 
un ricorso avverso una 
decisione 
di 
rigetto di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
esaminata 
nell’ambito del 
regime 
speciale 
applicabile 
alle 
domande 
presentate 
dai 
richiedenti 
di 
paesi 
terzi 
designati, 
conformemente 
all’articolo 37 di 
tale 
direttiva, come 
paesi 
di 
origine 
sicuri, deve, nel-
l’ambito dell’esame 
completo ed ex 
nunc 
imposto dal 
suddetto articolo 46, paragrafo 3, 
rilevare 
una 
violazione 
delle 
condizioni 
sostanziali 
di 
siffatta 
designazione, enunciate 
all’allegato 
I di 
detta 
direttiva, anche 
se 
tale 
violazione 
non è 
espressamente 
invocata 
a 
sostegno 
di detto ricorso. 


85 Conformemente 
al 
suo titolo, l’articolo 46 della 
direttiva 
2013/32 riguarda 
il 
diritto a 
un 
ricorso effettivo dei 
richiedenti 
protezione 
internazionale. Al 
suo paragrafo 1, detto articolo 
46 
riconosce 
a 
tali 
richiedenti 
siffatto 
diritto 
a 
un 
ricorso 
effettivo 
dinanzi 
a 
un 
giudice 
avverso le 
decisioni 
relative 
alla 
loro domanda. Il 
paragrafo 3 di 
tale 
articolo 46 di 
detta 
direttiva 
definisce 
la 
portata 
di 
tale 
diritto, 
precisando 
che 
gli 
Stati 
membri 
vincolati 
dalla 
suddetta 
direttiva 
devono assicurare 
che 
il 
giudice 
dinanzi 
al 
quale 
è 
contestata 
la 
decisione 
relativa 
alla 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
proceda 
all’«esame 
completo 
ed 
ex 
nunc 
degli 
elementi 
di 
fatto e 
di 
diritto compreso, se 
del 
caso, l’esame 
delle 
esigenze 
di 
protezione 
internazionale 
ai 
sensi 
della 
direttiva 
[2011/95]» (v., in tal 
senso, sentenza 
del 
29 luglio 2019, torubarov, C‑556/17, EU:C:2019:626, punto 51 e 
giurisprudenza 
ivi 
citata). 


86 occorre, inoltre, ricordare 
che 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
risulta 
che 
le 
caratteristiche 
del 
ricorso previsto all’articolo 46 della 
direttiva 
2013/32 devono essere 
determinate 
conformemente 
all’articolo 
47 
della 
Carta, 
che 
costituisce 
una 
riaffermazione 
del 
principio 
della 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva. Ebbene, l’articolo 47 della 
Carta 
è 
sufficiente 
di 
per 
sé 
e 
non deve 
essere 
precisato mediante 
disposizioni 
del 
diritto dell’Unione 
o del 
diritto 
nazionale 
per conferire 
ai 
singoli 
un diritto invocabile 
in quanto tale. La 
conclusione 
non 



può, 
pertanto, 
essere 
diversa 
con 
riguardo 
all’articolo 
46, 
paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2013/32, letto alla 
luce 
dell’articolo 47 della 
Carta 
(v., in tal 
senso, sentenza 
del 
29 luglio 
2019, 
torubarov, 
C‑556/17, 
EU:C:2019:626, 
punti 
55 
e 
56, 
nonché 
giurisprudenza 
ivi 
citata). 


87 
In 
tale 
ottica, 
per 
quanto 
riguarda 
la 
portata 
del 
diritto 
a 
un 
ricorso 
effettivo, 
quale 
definita 
in tale 
articolo 46, paragrafo 3, la 
Corte 
ha 
dichiarato che 
l’espressione 
«assicurano che 
un ricorso effettivo preveda 
l’esame 
completo ed ex 
nunc 
degli 
elementi 
di 
fatto e 
di 
diritto
» deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
gli 
Stati 
membri 
sono tenuti, in forza 
di 
tale 
disposizione, ad adattare 
il 
loro diritto nazionale 
in modo che 
il 
trattamento dei 
ricorsi 
in 
questione 
comporti 
un esame, da 
parte 
del 
giudice, di 
tutti 
gli 
elementi 
di 
fatto e 
di 
diritto 
che 
gli 
consentano di 
procedere 
ad una 
valutazione 
aggiornata 
del 
caso di 
specie 
(v., in 
tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 110). 


88 A 
tale 
riguardo, la 
locuzione 
«ex 
nunc» mette 
in evidenza 
l’obbligo del 
giudice 
di 
procedere 
a 
una 
valutazione 
che 
tenga 
conto, 
se 
del 
caso, 
dei 
nuovi 
elementi 
intervenuti 
dopo 
l’adozione 
della 
decisione 
oggetto 
dell’impugnazione. 
Una 
valutazione 
di 
questo 
tipo 
consente, infatti, di 
esaminare 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
in maniera 
esaustiva, 
senza 
che 
sia 
necessario rinviare 
il 
fascicolo all’autorità 
accertante. Il 
potere, di 
cui 
dispone 
in 
tal 
modo 
il 
giudice, 
di 
prendere 
in 
considerazione 
nuovi 
elementi 
sui 
quali 
detta 
autorità 
non si 
è 
pronunciata 
rientra 
nella 
finalità 
della 
direttiva 
2013/32, quale 
ricordata 
al 
punto 
78 
della 
presente 
sentenza 
(sentenza 
del 
25 
luglio 
2018 
nella 
causa 
C‑585/16, Alheto, EU:C:2018:584, paragrafi 111 e 112). 


89 
Inoltre, 
l’aggettivo 
«completo» 
di 
cui 
all’articolo 
46, 
paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2013/32 
conferma 
che 
il 
giudice 
è 
tenuto a 
esaminare 
sia 
gli 
elementi 
di 
cui 
l’autorità 
accertante 
ha 
tenuto o avrebbe 
dovuto tenere 
conto sia 
quelli 
che 
sono intervenuti 
dopo l’adozione 
della 
decisione 
da 
parte 
della 
medesima 
(sentenza 
del 
25 
luglio 
2018 
nella 
causa 
C‑585/16, Alheto, EU:C:2018:584, paragrafo 113). 


90 Infine, l’espressione 
«se 
del 
caso», contenuta 
nella 
parte 
di 
frase 
«compreso, se 
del 
caso, 
l’esame 
delle 
esigenze 
di 
protezione 
internazionale 
ai 
sensi 
della 
direttiva 
[2011/95]», 
evidenzia 
il 
fatto che 
l’esame 
completo ed ex 
nunc 
incombente 
al 
giudice 
non deve 
necessariamente 
vertere 
sull’esame 
nel 
merito delle 
esigenze 
di 
protezione 
internazionale 
e 
che 
esso può dunque 
riguardare 
gli 
aspetti 
procedurali 
di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
(v., 
in 
tal 
senso, 
sentenza 
del 
25 
luglio 
2018, 
Alheto, 
C‑585/16, 
EU:C:2018:584, punto 115). 


91 
Ebbene, 
la 
designazione 
di 
un 
paese 
terzo 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
rientra 
in 
tali 
aspetti 
procedurali 
delle 
domande 
di 
protezione 
internazionale 
in quanto, alla 
luce 
delle 
considerazioni 
esposte 
ai 
punti 
da 
48 a 
50 della 
presente 
sentenza, siffatta 
designazione 
è 
atta 
a 
comportare 
ripercussioni 
sulla 
procedura 
di 
esame 
vertente 
su domande 
del 
genere. 


92 
Peraltro, 
come 
esposto 
al 
punto 
46 
della 
presente 
sentenza, 
il 
ricorrente 
nel 
procedimento 
principale 
contesta 
all’autorità 
che 
ha 
adottato 
la 
decisione 
di 
rigetto 
che, 
pur 
avendo 
egli 
esposto le 
minacce 
di 
cui 
è 
oggetto in Moldova 
e 
dichiarato di 
non voler rientrare 
nella 
sua 
regione 
di 
origine 
a 
causa 
dell’invasione 
dell’Ucraina 
da 
parte 
della 
Federazione 
russa, tale 
autorità 
ha 
fondato detta 
decisione 
unicamente 
sul 
fatto che 
egli 
è 
originario 
della 
Repubblica 
moldova 
e 
che 
la 
Repubblica 
ceca 
aveva 
designato 
tale 
paese 
terzo 
come 
paese di origine sicuro, eccettuata la 
transnistria. 


93 Pertanto, la 
designazione 
di 
tale 
paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro costituisce 
uno 



degli 
elementi 
del 
fascicolo portati 
a 
conoscenza 
del 
giudice 
del 
rinvio e 
di 
cui 
quest’ultimo 
è chiamato a conoscere nell’ambito del ricorso avverso detta decisione. 


94 
Si 
deve 
da 
ciò 
concludere 
che, 
in 
tali 
circostanze, 
anche 
se 
il 
ricorrente 
nel 
procedimento 
principale 
non ha 
espressamente 
invocato, in quanto tale, un’eventuale 
violazione 
delle 
norme 
previste 
dalla 
direttiva 
2013/32 
al 
fine 
di 
siffatta 
designazione 
per 
sottoporre 
la 
procedura 
di 
esame 
di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
di 
un richiedente 
proveniente 
da 
detto 
paese 
terzo 
al 
regime 
particolare 
che 
deriva 
dalla 
sua 
designazione 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro, tale 
eventuale 
violazione 
costituisce 
un elemento di 
diritto che 
il 
giudice 
del 
rinvio deve 
prendere 
in considerazione 
nell’ambito dell’esame 
completo ed 
ex nunc 
imposto dall’articolo 46, paragrafo 3, di tale direttiva. 


95 La 
decisione 
di 
rigetto di 
cui 
trattasi 
è, infatti, fondata 
esclusivamente 
sul 
fatto che 
il 
ricorrente 
nel 
procedimento principale 
è 
originario della 
Repubblica 
di 
Moldova 
e 
che 
tale 
paese 
terzo deve 
essere 
considerato un paese 
di 
origine 
sicuro. di 
conseguenza, si 
deve 
considerare 
che 
l’elemento 
decisivo 
di 
detta 
decisione 
di 
rigetto 
basata 
sulla 
designazione 
di 
detto paese 
terzo come 
paese 
di 
origine 
sicuro è 
necessariamente 
oggetto del 
ricorso 
proposto 
dal 
ricorrente 
nel 
procedimento 
principale 
contro 
la 
suddetta 
decisione. 
Pertanto, 
il 
giudice 
competente 
a 
statuire 
su tale 
ricorso deve 
esaminare, nell’ambito di 
quest’ultimo, 
la legittimità di siffatta designazione ai sensi di detto articolo 46, paragrafo 3. 


96 
Alla 
luce, 
in 
particolare, 
dei 
dubbi 
del 
giudice 
del 
rinvio 
al 
fine 
di 
dirimere 
la 
controversia 
dinanzi 
ad esso pendente, esposti 
ai 
punti 
da 
38 a 
40 della 
presente 
sentenza, la 
sua 
valutazione, 
nell’ambito di 
tale 
esame 
completo ed ex 
nunc 
e 
sulla 
base 
degli 
elementi 
del 
fascicolo, 
deve 
vertere, 
da 
un 
lato, 
sul 
ricorso 
all’articolo 
15 
della 
CEdU, 
se 
le 
autorità 
competenti 
a 
tal 
riguardo 
non 
sono 
state 
in 
grado 
di 
considerare 
la 
portata 
di 
siffatto 
evento 
significativo per quanto riguarda 
la 
capacità 
del 
paese 
terzo designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro di 
continuare 
a 
soddisfare 
i 
criteri 
previsti 
a 
tal 
fine 
dalla 
direttiva 
2013/32. 
dall’altro 
lato, 
tale 
valutazione 
deve 
riguardare 
una 
violazione 
della 
condizione, 
risultante 
dalle 
disposizioni 
di 
tale 
direttiva, 
secondo 
la 
quale 
la 
designazione 
di 
un 
paese 
terzo 
come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio. 


97 Peraltro, la 
Corte 
ha 
già 
precisato che, quando un cittadino di 
un paese 
terzo soddisfa 
le 
condizioni 
per 
il 
riconoscimento 
della 
protezione 
internazionale 
previste 
da 
tale 
direttiva, 
gli 
Stati 
membri 
sono tenuti, in linea 
di 
principio, ad accordare 
lo status 
richiesto, dato 
che 
tali 
Stati 
non dispongono di 
un potere 
discrezionale 
al 
riguardo (v., in tal 
senso, sentenza 
del 
29 
luglio 
2019, 
torubarov, 
C‑556/17, 
EU:C:2019:626, 
punto 
50 
e 
giurisprudenza 
ivi citata). 


98 
da 
tutte 
le 
considerazioni 
che 
precedono 
risulta 
che 
occorre 
rispondere 
alla 
terza 
questione 
dichiarando che 
l’articolo 46, paragrafo 3, della 
direttiva 
2013/32, letto alla 
luce 
dell’articolo 
47 
della 
Carta, 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che, 
quando 
un 
giudice 
è 
investito 
di 
un 
ricorso 
avverso 
una 
decisione 
di 
rigetto 
di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
esaminata 
nell’ambito 
del 
regime 
speciale 
applicabile 
alle 
domande 
presentate 
dai 
richiedenti 
provenienti 
da 
paesi 
terzi 
designati 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro, conformemente 
all’articolo 37 di 
tale 
direttiva, tale 
giudice, nell’ambito dell’esame 
completo ed ex 
nunc 
imposto dal 
suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve 
rilevare, sulla 
base 
degli 
elementi 
del 
fascicolo nonché 
di 
quelli 
portati 
a 
sua 
conoscenza 
nel 
corso del 
procedimento dinanzi 
ad esso, una 
violazione 
delle 
condizioni 
sostanziali 
di 
siffatta 
designazione, enunciate 
all’allegato 
I di 
detta 
direttiva, anche 
se 
tale 
violazione 
non è 
espressamente 
fatta 
valere 
a 
sostegno di tale ricorso. 



sulle spese 


99 Nei 
confronti 
delle 
parti 
nel 
procedimento principale 
la 
presente 
causa 
costituisce 
un incidente 
sollevato dinanzi 
al 
giudice 
nazionale, cui 
spetta 
quindi 
statuire 
sulle 
spese. Le 
spese 
sostenute 
da 
altri 
soggetti 
per presentare 
osservazioni 
alla 
Corte 
non possono dar 
luogo a rifusione. 


Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 


1) L’articolo 37, della direttiva 2013/32/Ue del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, 
del 
26 giugno 2013, recante 
procedure 
comuni 
ai 
fini 
del 
riconoscimento e 
della revoca 
dello status 
di 
protezione 
internazionale, in 
combinato disposto con 
l’allegato 
I della stessa direttiva, 
dev’essere interpretato nel senso che: 
un 
paese 
terzo 
non 
cessa 
di 
soddisfare 
i 
criteri 
che 
gli 
consentono 
di 
essere 
designato 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro per 
il 
solo motivo che 
si 
avvale 
del 
diritto di 
derogare 
agli 
obblighi 
previsti 
dalla Convenzione 
europea per 
la salvaguardia dei 
diritti 
del-
l’uomo e 
delle 
libertà fondamentali, firmata a Roma il 
4 novembre 
1950, in 
applicazione 
dell’articolo 
15 
di 
tale 
convenzione, 
le 
autorità 
competenti 
dello 
stato 
membro 
che 
ha proceduto a siffatta designazione 
devono tuttavia valutare 
se 
le 
condizioni 
di 
attuazione di tale diritto siano atte a mettere in discussione detta designazione. 


2) L’articolo 37 della direttiva 2013/32 
dev’essere interpretato nel senso che: 
esso osta a che 
un 
paese 
terzo possa essere 
designato come 
paese 
di 
origine 
sicuro 
allorché 
talune 
parti 
del 
suo 
territorio 
non 
soddisfano 
le 
condizioni 
sostanziali 
di 
siffatta 
designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva. 


3) L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce 
dell’articolo 47 
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 
dev’essere interpretato nel senso che: 
quando un 
giudice 
è 
investito di 
un 
ricorso avverso una decisione 
di 
rigetto di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
esaminata 
nell’ambito 
del 
regime 
speciale 
applicabile 
alle 
domande 
presentate 
dai 
richiedenti 
provenienti 
da 
paesi 
terzi 
designati 
come 
paese 
di 
origine 
sicuro, 
conformemente 
all’articolo 
37 
di 
tale 
direttiva, 
tale 
giudice, nell’ambito dell’esame 
completo ed 
ex nunc 
imposto dal 
suddetto articolo 
46, 
paragrafo 
3, 
deve 
rilevare, 
sulla 
base 
degli 
elementi 
del 
fascicolo 
nonché 
di 
quelli 
portati 
a sua conoscenza nel 
corso del 
procedimento dinanzi 
ad 
esso, una violazione 
delle 
condizioni 
sostanziali 
di 
siffatta designazione, enunciate 
all’allegato I 
di 
detta 
direttiva, anche 
se 
tale 
violazione 
non 
è 
espressamente 
fatta valere 
a sostegno di 
tale 
ricorso. 



Responsabilità civile dello stato per illeciti penali di 
dipendenti pubblici. La sentenza del 
tribunale di Roma, 
sezione seconda civile, 14 gennaio 2025 n. 594, fa chiarezza 
sulla sussistenza del “nesso di occasionalità necessaria” 


La 
sentenza 
del 
tribunale 
di 
Roma 
14 
gennaio 
2025 
n. 
594 
affronta 
il 
controverso 
tema 
dell’individuazione 
delle 
condizioni 
e 
dei 
presupposti 
per 
la 
configurabilità 
della 
responsabilità 
civile 
dello Stato a 
fronte 
di 
danni 
cagionati 
da condotte delittuose poste in essere da dipendenti pubblici. 

La 
pronunzia 
del 
tribunale 
di 
Roma, rileggendo la 
nota 
e 
discussa 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
n. 13246/2019 in tema 
di 
responsabilità 
dei 
padroni 
e 
i 
committenti 
per i 
danni 
arrecati 
dal 
fatto illecito dei 
loro domestici 
e 
commessi 
nell’esercizio 
delle 
incombenze 
a 
cui 
sono 
adibiti 
-ha 
fatto 
propria 
l’interpretazione 
dell’art. 2049 c.c. proposta 
dalla 
difesa 
erariale 
con particolare 
riguardo 
alla 
nozione 
del 
“nesso 
di 
occasionalità 
necessaria” 
chiarendo 
che 
tale 
presupposto deve 
essere 
rigorosamente 
inteso come 
sussistente 
solo “se 
la condotta illecita dannosa si 
innesta nel 
meccanismo dell’attività complessiva 
dell’ente, tale 
per 
cui 
l’espletamento delle 
mansioni 
inerenti 
al 
servizio 
prestato costituisce 
conditio sine 
qua 
non 
del 
fatto produttivo del 
danno, secondo 
il 
principio di 
causalità adeguata ed in base 
ad un giudizio controfattuale 
riferito al tempo della condotta”. 

Nel 
caso di 
specie 
“l’azione 
omicidiaria posta in essere 
…, sorretta da 
un 
fine 
strettamente 
personale 
ed 
egoistico, 
rappresenta 
uno 
sviluppo 
anomalo 
e 
imprevedibile 
in base 
ad un giudizio oggettivizzato di 
normalità statistica, 
tale da recidere il vincolo di occasionalità necessaria”. 


Enrico De Giovanni 
(*) 


tribunale 
di 
Roma, sezione 
seconda civile, sentenza 14 gennaio 2025 n. 594 
-Giud. A. 
Canonaco -M.A. e 
M.R. (avv.ti 
A. Fantaccione 
e 
F. Palumbo) c. Min. difesa 
-Comando Generale 
dell’Arma 
dei 
Carabinieri 
e 
Min. dell’Interno (avv. gen. Stato); 
C.R., S.C. e 
S.G., in 
qualità di eredi beneficiati di S.A. (avv.ti G. oranges e B. Scala). 


RAGIoNI dI FAtto E dI dIRItto dELLA dECISIoNE 
Con atto di 
citazione 
notificato alle 
Amministrazioni 
pubbliche 
con PEC del 
10 giugno 2022 
e 
alle 
altre 
parti 
a 
mezzo posta 
ex art. 149 c.p.c. in data 
16 giugno 2022, M.A. e 
M.R. convenivano 
in giudizio dinanzi 
a 
questo tribunale 
le 
parti 
indicate 
in epigrafe 
per far accertare 
la 
loro 
responsabilità 
nella 
produzione 
dell’evento 
morte 
del 
Maresciallo 
M.t., 
al 
fine 
di 
ottenere 
il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale da esse patito. 


(*) Vice 
Avvocato Generale. 



In particolare, gli 
odierni 
attori 
M.A. e 
M.R., rispettivamente 
fratello e 
sorella 
del 
deceduto 
M.t., 
ritenevano 
che 
la 
morte 
del 
proprio 
parente 
fosse 
stata 
causata 
dal 
comportamento 
omissivo 
dei 
superiori 
gerarchici 
di 
quest’ultimo, i 
quali, pur avendo conoscenza 
dal 
fatto che 
i 
rapporti 
tra 
il 
S. 
ed 
il 
M. 
si 
erano 
deteriorati 
in 
virtù 
dell’attività 
di 
indagine 
svolta 
dal 
secondo 
nei 
confronti 
del 
primo e 
delle 
relative 
annotazioni 
di 
servizio trasmesse, per via 
gerarchica, 
alle 
autorità 
giudiziarie 
ordinarie 
e 
militari, non ne 
avevano disposto il 
trasferimento ai 
sensi 
dell’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri. 
Parte 
attrice 
deduceva 
che 
M.t., 
maresciallo 
in 
servizio 
presso 
la 
stazione 
dei 
Carabinieri 
sita 
in 
-omissis-, 
nel 
marzo 
2012, 
aveva 
scoperto 
una 
serie 
di 
irregolarità 
riguardanti 
la 
contabilità 
dei 
buoni 
carburante 
della 
Stazione 
di 
-omissis-che 
avrebbero potuto implicare 
la 
responsabilità 
del 
Comandante 
della 
stessa, il 
luogotenente 
S.A. Pertanto, il 
M., dopo aver redatto diverse 
informative di servizio, le aveva sottoposte all’attenzione dei suoi superiori. Gli attori, 
poi, 
sostenevano 
che 
il 
Luogotenente 
S. 
era 
venuto 
in 
qualche 
modo 
a 
conoscenza 
dell’attività 
investigativa 
svolta 
nei 
suoi 
confronti 
e 
che 
tale 
circostanza 
era 
conosciuta 
anche 
dai 
suoi 
superiori 
gerarchici. Perciò, data 
la 
situazione 
di 
incompatibilità 
venutasi 
a 
creare, la 
linea 
di 
comando avrebbe 
dovuto procedere 
a 
trasferire 
uno dei 
due 
soggetti 
presso altra 
Stazione, ai 
sensi 
dell’art. 395 del 
regolamento interno dell’Arma 
dei 
Carabinieri, cosa 
che, invece, non 
avvenne. tale 
inerzia 
causava, secondo la 
prospettazione 
di 
parte 
attrice, la 
morte 
del 
M., il 
quale, in data 
21 giugno 2012 alle 
ore 
09.30 circa, veniva 
ucciso dal 
luogotenente 
S.A. con 
un colpo di 
pistola 
sparato con la 
pistola 
di 
ordinanza, mentre 
si 
trovava 
in servizio presso la 
Caserma 
dei 
Carabinieri 
sita 
in -omissis-. In virtù di 
ciò, gli 
attori 
chiedevano, ai 
sensi 
degli 
artt. 28 Cost., 2043 e 
2049 c.c., di 
dichiarare 
la 
responsabilità 
solidale 
o, in subordine, proporzionale 
di 
ciascuna 
delle 
parti 
convenute, con conseguente 
condanna 
al 
pagamento del 
risarcimento 
del 
danno 
derivante 
dalla 
perdita 
parentale, 
quantificato 
in 
€ 
153.308,03 
per 
ciascuno dei 
fratelli 
o nella 
minor somma 
ritenuta 
congrua 
sulla 
base 
delle 
tabelle 
applicate 
dal 
tribunale 
di 
Roma, oltre 
gli 
interessi 
legali 
dalla 
data 
del 
fatto illecito fino all’effettivo 
pagamento. In particolare, chiedevano l’accoglimento delle seguenti conclusioni: 
“iN Via PriNCiPaLE E NEL MEriTO, 
aCCErTarE E DiCHiararE: 


1) la responsabilità concorsuale 
e 
solidale 
o in subordine 
proporzionale, in ragione 
del 
concreto 
apporto causale 
di 
ciascuna delle 
parti, nella produzione 
dell’evento morte 
del 
M.llo 


M.T. per 
cui 
è 
causa e 
per 
le 
causali 
dedotte 
nella esposizione 
che 
precede, del 
defunto LGT 
S.a., e 
per 
esso dei 
suoi 
eredi 
ed aventi 
causa, e 
del 
Ministero della Difesa -Comando Generale 
dell’arma dei Carabinieri e/o del Ministero degli interni; 


2) la misura del danno da perdita parentale conseguentemente derivato agli odierni; 


PEr L’EFFETTO CONDaNNarE 


3) le 
parti 
convenute, in via solidale 
o proporzionale, in ragione 
del 
concreto ed accertato 
apporto causale 
di 
ciascuna, al 
pagamento in favore 
degli 
attori 
delle 
somme 
riconosciute 
come dovute a titolo di risarcimento del danno da perdita parentale subito; 


4) il 
tutto, in ogni 
caso, oltre 
interessi 
legali 
dalla data del 
fatto illecito all’effettivo soddisfo; 


iN OGNi CaSO 


5) con vittoria di 
spese 
e 
compensi, con distrazione, da porsi 
a carico delle 
parti 
resistenti, 
in via solidale, alternativa o esclusiva a carico degli eredi del Luogotenente S.”. 
In 
data 
10 
gennaio 
2023, 
si 
costituivano 
C.R., 
S.C. 
e 
S.G., 
per 
l’udienza 
di 
prima 
comparizione 
tenutasi 
in 
data 
11 
gennaio 
2023 
(così 
differita 
l’udienza 
indicata 
in 
citazione 
ai 
sensi 
dell’art. 
168 bis, quinto comma, c.p.c.). Nel 
costituirsi 
i 
predetti 
convenuti, tutti 
quali 
eredi 
con bene



ficio 
di 
inventario 
di 
S.A., 
chiedevano 
l’accoglimento 
delle 
seguenti 
conclusioni: 
“in 
via 
preliminare, 
rigettare 
le 
avverse 
domande 
per 
i 
motivi 
su esposti; in via subordinata, in caso di 
accoglimento 
delle 
domande 
giudiziali 
attoree, 
accertare 
e 
dichiarare 
la 
responsabilità 
ex 
art. 2049 c.c. del 
Ministero della Difesa e/o del 
Ministero dell’interno nella causazione 
del-
l’evento in danno del 
Mar.llo M.T. e, di 
conseguenza, condannare 
i 
Ministeri 
convenuti, in 
solido o per quanto di ragione, al risarcimento del danno in favore degli attori”. 
deducevano che 
gli 
attori 
non avevano provato l’effettivo pregiudizio subito per la 
morte 
del 
fratello, secondo le 
regole 
attinenti 
all’onere 
probatorio in materia 
di 
responsabilità 
extracontrattuale, 
limitandosi 
esclusivamente 
a 
rilevare 
il 
rapporto 
di 
parentela 
intercorrente 
con 
il 
deceduto, 
allegando, 
in 
subordine, 
la 
responsabilità 
“principale” 
dei 
Ministeri 
convenuti, 
essendosi 
la 
fattispecie 
delittuosa 
verificatasi 
tra 
due 
dipendenti 
dell’Arma, per motivazioni 
connesse allo svolgimento delle rispettive mansioni, nel luogo e nell’orario di lavoro. 
Il 
Ministero della 
difesa 
e 
quello dell’Interno si 
costituivano in data 
12 gennaio 2023, eccependo 
l’incompetenza 
territoriale 
del 
tribunale 
di 
Roma 
adito, ritendo competente, ai 
sensi 
dell’art. 
25 
c.p.c. 
il 
tribunale 
di 
Napoli. 
Infatti, 
secondo 
la 
prospettiva 
di 
parte 
convenuta, 
avendo ad oggetto l’odierna 
controversia 
un’obbligazione 
risarcitoria, ai 
fini 
della 
determinazione 
del 
giudice 
territorialmente 
competente, 
occorreva 
far 
riferimento 
al 
luogo 
in 
cui 
l’obbligazione 
è 
sorta, ossia 
al 
luogo in cui 
è 
avvenuto il 
fatto illecito o, in alternativa, al 
forum 
destinatae 
solutionis. 
di 
conseguenza, 
poiché 
i 
fatti 
di 
causa 
erano 
stati 
commessi 
nel 
Comune 
di 
-omissis-e 
gli 
attori 
risiedevano in provincia 
di 
-omissis-, la 
competenza 
apparterrebbe 
al 
tribunale 
di 
Napoli, 
quale 
giudice 
del 
luogo 
in 
cui 
ha 
sede 
l’ufficio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, nel 
cui 
distretto si 
trova 
il 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
secondo le 
norme 
ordinarie, 
ai 
sensi 
degli 
artt. 20 e 
25 c.p.c., nonché 
degli 
artt. 6 e 
7 del 
R.d. 30 ottobre 
1933, n. 1611. 
Nel 
merito, 
le 
Amministrazioni 
convenute 
chiedevano, 
in 
via 
principale, 
di 
rigettare 
la 
domanda 
poiché, nel 
caso di 
specie, non sussisteva 
“il 
nesso di 
occasionalità 
necessaria” 
tra 
le 
funzioni 
svolte 
dal 
dipendente 
pubblico ed il 
fatto illecito da 
lui 
commesso, elemento essenziale 
per il 
riconoscimento di 
una 
responsabilità 
ai 
sensi 
dell’art. 2049 c.c. e 
poiché, in ogni 
caso, parte 
attrice 
non aveva 
provato il 
danno effettivamente 
subito. Escludevano altresì 
la 
sussistenza 
di 
una 
responsabilità 
omissiva 
colposa 
diretta 
del 
Ministero ex art. 2043 c.c. per 
non aver impedito l’evento delittuoso (in particolare 
per non avere 
disposto il 
trasferimento 
ad 
altro 
reparto 
del 
maresciallo 
M. 
secondo 
le 
previsioni 
dell’art. 
395 
del 
regolamento 
interno 
dell’Arma 
dei 
Carabinieri), 
in 
quanto 
l’azione 
posta 
in 
essere 
dal 
luogotenente 
S. 
era 
del 
tutto 
imprevedibile, in ragione 
della 
modesta 
gravità 
del 
reato ipotizzato a 
suo carico e 
del 
fatto 
che 
quest’ultimo aveva, sostanzialmente, dimostrato, la 
sua 
estraneità 
ai 
fatti. In via 
subordinata, 
chiedevano, nel 
caso in cui 
fosse 
riconosciuta 
in capo alle 
Amministrazioni 
una 
responsabilità 
ex 
art. 
2049 
c.c., 
di 
qualificarla 
come 
obbligazione 
solidale 
diseguale, 
soggetta 
al 
regime 
della 
sussidiarietà 
con 
beneficio 
di 
preventiva 
escussione 
dell’obbligato 
principale. 
Chiedevano 
quindi 
nelle 
conclusioni: 
“in 
via 
pregiudiziale, 
in 
rito, 
dichiarare 
l’incompetenza 
territoriale 
del 
Tribunale 
adito essendo competente 
il 
Tribunale 
di 
Napoli 
-in via principale, 
ritenere 
e 
dichiarare 
non infondata per 
tutte 
le 
ragioni 
esposte 
in narrativa la domanda attorea 
conseguentemente rigettandola”. 
La 
causa, 
istruita 
mediante 
produzione 
documentale 
ed 
escussione 
dei 
testi 
ammessi, 
era 
trattenuta 
in decisione, all’udienza 
del 
18 settembre 
2024, previa 
concessione 
dei 
termini 
ex art. 
190 c.p.c. 
tanto esposto, in via 
pregiudiziale, deve 
essere 
esaminata 
la 
questione 
relativa 
all’eccezione 
di incompetenza territoriale sollevata dalla difesa erariale. 



A tal proposito, si osserva che l’eccezione, pure ammissibile, e tuttavia infondata. 


È 
noto che 
nelle 
controversie 
in cui 
sia 
parte 
una 
Amministrazione 
dello Stato, l’art. 25 c.p.c. 
prevede 
un criterio speciale 
di 
determinazione 
della 
competenza 
territoriale 
inderogabile 
ed 
esclusivo, verificabile 
anche 
d’ufficio dal 
Giudice 
e, quindi, a 
prescindere 
dalla 
tempestiva 
costituzione 
della 
parte 
convenuta 
(cfr. tra 
tante 
Cass. Sez. I , ordinanza 
n. 17880 del 
3 settembre 
2004). 
L’eccezione 
è 
infondata 
nel 
merito, poiché 
al 
fine 
di 
individuare 
a 
quale 
distretto appartenga 
la 
competenza 
ove 
sia 
convenuta 
un’amministrazione 
statale, ai 
sensi 
dell’art. 25 c.p.c., occorre 
fare 
riferimento 
alternativamente 
al 
giudice 
del 
luogo 
in 
cui 
è 
sorta 
o 
deve 
eseguirsi 
l’obbligazione. 
Infatti, la 
suddetta 
disposizione 
stabilisce 
che 
“per 
le 
cause 
nelle 
quali 
è 
parte 
un’amministrazione 
dello 
Stato 
è 
competente, 
a 
norma 
delle 
leggi 
speciali 
sulla 
rappresentanza 
e 
difesa 
dello Stato in giudizio e 
nei 
casi 
ivi 
previsti, il 
giudice 
del 
luogo dove 
ha sede 
l’ufficio del-
l’avvocatura dello Stato, nel 
cui 
distretto si 
trova il 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
secondo 
le 
norme 
ordinarie. Quando l’amministrazione 
è 
convenuta, tale 
distretto si 
determina con 
riguardo al 
giudice 
del 
luogo in cui 
è 
sorta o deve 
eseguirsi 
l’obbligazione 
o in cui 
si 
trova 
la cosa mobile 
o immobile 
oggetto della domanda”. Ne 
consegue 
che 
l’odierna 
controversia 
è 
stata 
correttamente 
incardinata 
davanti 
a 
questo Giudice, in quanto il 
Comune 
di 
-omissis-, 
luogo dove 
è 
avvenuto l’omicidio del 
maresciallo M. e, dunque, ove 
è 
sorta 
l’obbligazione 
risarcitoria 
vantata 
da 
parte 
attrice, pure 
se 
compreso nella 
provincia 
di 
Caserta, appartiene 
all’ambito di competenza del 
tribunale di Cassino. 
In relazione 
a 
ciò, il 
distretto cui 
fare 
riferimento è 
quello della 
Corte 
di 
Appello di 
Roma 
e 
poiché 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
sede 
in 
tale 
città, 
il 
tribunale 
competente 
è 
quello 
di 
Roma. 
Entrando, ora, nel 
merito della 
controversia, occorre 
rilevare 
che, sebbene 
i 
fatti 
di 
causa 
risultino 
non contestati, appare 
opportuno ripercorrerli 
al 
fine 
di 
valutare 
se 
sussiste, anzitutto, 
una responsabilità ex artt. 2043 o 2049 c.c. in capo alle amministrazioni convenute. 
A 
tal 
proposito, 
è 
emerso 
dagli 
atti 
che 
in 
data 
19 
marzo 
2012 
il 
maresciallo 
M. 
redigeva 
un’annotazione 
di 
servizio in cui 
documentava 
un’anomala 
tenuta 
della 
contabilità 
dei 
carburanti 
presso 
la 
Stazione 
dei 
carabinieri 
di 
-omissis-, 
evidenziando 
la 
possibilità 
che 
le 
schede 
carburante 
venissero scambiate 
con denaro contante, falsificando il 
numero di 
litri 
di 
carburante 
effettivamente 
erogati 
alle 
vetture. tale 
annotazione, trasmessa 
in data 
11 aprile 
2012 al 
proprio 
superiore 
Comandante 
della 
compagnia 
di 
-omissis-, 
il 
capitano 
M.M., 
veniva 
da 
quest’ultimo 
inoltrata all’autorità giudiziaria militare in data 12 aprile 2012. 
Inoltre, in data 
12 aprile 
2012 lo stesso M. procedeva 
a 
redigere 
un’altra 
annotazione 
di 
servizio 
con cui 
informava 
il 
M. dell’esistenza 
di 
alcuni 
fatti 
di 
rilevanza 
penale 
che 
coinvolgevano 
il 
titolare 
della 
locale 
clinica 
privata 
“-omissis-”, 
dott. 
d.L.G. 
che, 
conosciute 
dal 
luogotenente 
S., erano da 
quest’ultimo state 
sottaciute 
in cambio di 
favori 
e 
utilità 
non specificamente 
indicate. 
Il 
Sostituto Procuratore 
militare 
designato, letti 
gli 
atti, onde 
verificare 
se 
le 
irregolarità 
denunciate 
fossero 
costanti 
nel 
tempo 
ed 
ascrivibili 
a 
comportamenti 
dolosi 
di 
uno 
o 
più 
militari 
in servizio, disponeva 
che 
fossero effettuate 
ulteriori 
indagini, le 
quali, a 
far data 
dall’aprile 
del 2012, furono svolte direttamente dal cap. M. 
Successivamente, in data 
15 giugno 2012, quest’ultimo aveva 
un colloquio col 
S., avente 
ad 
oggetto la 
vicenda 
della 
contabilità 
dei 
carburanti, in seguito al 
quale 
egli 
redigeva 
una 
relazione 
di servizio giustificativa. 
Infine, in data 
21 giugno 2012, il 
luogotenente 
S.A., dapprima, sparava 
con la 
pistola 
di 
or



dinanza 
un colpo alla 
nuca 
del 
Maresciallo t.M., mentre 
questo era 
seduto alla 
propria 
scrivana, 
uccidendolo, e poi rivolgeva la stessa arma contro sé stesso, suicidandosi. 
orbene, 
così 
chiarito 
quanto 
accaduto, 
occorre 
valutare 
l’applicabilità 
al 
caso 
di 
specie 
dell’art. 
2049 c.c., per cui 
“i 
padroni 
e 
i 
committenti 
sono responsabili 
per 
i 
danni 
arrecati 
dal 
fatto 
illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. 
Si 
tratta, come 
ha 
avuto modo di 
mettere 
in luce 
la 
giurisprudenza 
più recente, di 
una 
forma 
di 
responsabilità 
oggettiva 
per 
fatto 
altrui, 
che 
prescinde 
da 
qualsiasi 
accertamento 
sulla 
culpa 
in vigilando 
o in eligendo 
del 
padrone/committente 
e 
che 
rappresenta 
l’applicazione 
del 
principio 
cuius 
commoda 
eius 
et 
incommoda, 
in 
forza 
del 
quale 
l’avvalimento, 
da 
parte 
di 
un 
soggetto, 
dell’attività 
di 
un altro per il 
perseguimento di 
propri 
fini, comporta 
l’attribuzione 
al 
primo di 
quella 
posta 
in essere 
dal 
secondo nell’ambito dei 
poteri 
conferitigli 
(cfr. ex 
multis 
Cass. Civ. 9 giugno 2016, n. 11816, Cass. ord. 12 ottobre 
2018, n. 25373, Cass. Civ. 14 febbraio 
2019 n. 4298). 
Per quanto riguarda, poi, specificamente, la 
responsabilità 
della 
P.A. ai 
sensi 
dell’art. 2049 
c.c., nel 
caso in cui 
la 
condotta 
dannosa 
del 
pubblico dipendente 
costituisca 
un reato, sono intervenute 
le 
S.U. che 
con sentenza 
n. 13246/2019 hanno chiarito che 
“lo Stato o l’ente 
pubblico 
risponde 
civilmente 
del 
danno 
cagionato 
a 
terzi 
dal 
fatto 
penalmente 
illecito 
del 
suo 
dipendente 
anche 
quando questi 
abbia approfittato delle 
proprie 
attribuzioni 
ed agito per 
finalità 
esclusivamente 
personali 
od egoistiche 
ed estranee 
a quelle 
della amministrazione 
di 
appartenenza, purché 
la sua condotta sia legata da un nesso di 
occasionalità necessaria con 
le 
funzioni 
o poteri 
che 
esercita o di 
cui 
è 
titolare, nel 
senso che 
la condotta illecita dannosa 


-e, quale 
sua conseguenza, il 
danno ingiusto a terzi 
-non sarebbe 
stato possibile, in applicazione 
del 
principio di 
causalità adeguata ed in base 
ad un giudizio controfattuale 
riferito 
al 
tempo della condotta, senza l’esercizio di 
quelle 
funzioni 
o poteri 
che, per 
quanto deviati 


o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”. 
Pertanto, secondo l’insegnamento della 
Suprema 
Corte, nella 
valutazione 
circa 
la 
sussistenza 
di 
una 
responsabilità 
ex 
art. 
2049 
c.c. 
in 
caso 
di 
comportamento 
penalmente 
rilevante, 
ritenuta 
l’irrilevanza 
del 
fatto che 
il 
pubblico dipendente 
abbia 
agito per finalità 
esclusivamente 
personali 
od 
egoistiche, 
si 
deve 
dare 
rilievo 
alla 
diversa 
circostanza 
della 
sussistenza 
di 
un 
“nesso 
di 
occasionalità 
necessaria” 
quale 
filo che 
lega 
la 
condotta 
causativa 
del 
danno e 
le 
funzioni 
esercitate dallo stesso. 
tale 
nesso deve 
ritenersi 
sussistente 
se 
la 
condotta 
illecita 
dannosa 
si 
innesta 
nel 
meccanismo 
dell’attività 
complessiva 
dell’ente, tale 
per cui 
l’espletamento delle 
mansioni 
inerenti 
al 
servizio 
prestato 
costituisce 
conditio 
sine 
qua 
non 
del 
fatto 
produttivo 
del 
danno, 
secondo 
il 
principio 
di 
causalità 
adeguata 
ed 
in 
base 
ad 
un 
giudizio 
controfattuale 
riferito 
al 
tempo 
della 
condotta. 
In altri 
termini, “il 
preponente 
è 
responsabile 
per 
le 
conseguenze 
identificate 
in base 
ad un 
giudizio oggettivizzato di 
normalità statistica, cioè 
riferita non alle 
peculiarità del 
caso, ma 
alle 
ipotesi 
in astratto definibili 
come 
di 
verificazione 
probabile” 
(cfr. Cass. S.U., sentenza 
16 maggio 2019 n. 13246). 
Invece, 
qualora 
il 
dipendente 
abbia 
agito 
per 
“un 
fine 
strettamente 
personale 
ed 
egoistico, 
sulla 
base 
di 
un 
comportamento 
non 
riconducibile 
all’esercizio 
delle 
mansioni, 
mancando 
ogni 
connessione 
causale 
fra mansione 
ed evento dannoso, dal 
momento che 
la sua condotta 
non è 
riconducibile 
nell’alveo di 
una prevedibilità statistica, allora il 
nesso causale 
è 
da reputare 
interrotto” 
(cfr. 
Cass. 
Civ., 
sent. 
10 
novembre 
2015, 
n. 
22956). 
Infatti, 
è 
necessario 
che 
“la 
condotta 
del 
preposto 
costituisca 
pur 
sempre 
il 
non 
imprevedibile 
sviluppo 
dello 
scor



retto 
esercizio 
delle 
mansioni, 
non 
potendo 
il 
preponente 
essere 
chiamato 
a 
rispondere 
di 
un’attività 
del 
preposto 
che 
non 
corrisponda, 
neppure 
quale 
degenerazione 
od 
eccesso, 
al 
normale 
sviluppo 
di 
sequenze 
di 
eventi 
connesse 
all’espletamento 
delle 
sue 
incombenze” 
(cfr. 
Cass. Civ. sent. n. 11816/2016, Cass. pen. Sez. VI, 4 giugno 2015, n. 44760, Cass. pen. Sez. 
VI, 27 marzo 2013, n. 26285). 
dunque, sulla 
base 
di 
quanto appena 
detto, si 
può concludere 
affermando che 
non sussiste 
alcuna 
responsabilità 
ex 
art. 2049 c.c. della 
P.A.: 
in primo luogo, qualora 
l’illecito non sia 
stato 
in alcun modo occasionato dalle 
funzioni 
espletate 
nell’ambito dell’amministrazione; 
in secondo 
luogo, 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
la 
condotta 
del 
dipendente 
pubblico, 
pur 
mantenendo 
un 
collegamento 
con 
l’esercizio, 
ancorché 
scorretto, 
delle 
funzioni 
espletate, 
ne 
costituisce 
uno 
sviluppo anomalo, in quanto imprevedibile ed eterogeneo. 
Chiarito ciò, deve 
escludersi, nel 
caso di 
specie, la 
configurabilità 
di 
una 
responsabilità 
dei 
Ministeri convenuti ai sensi dell’art. 2049 c.c. 
Infatti, 
applicando 
le 
linee 
direttrici 
elaborate 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
deve 
ritenersi 
che 
l’azione 
omicidiaria 
posta 
in essere 
dal 
S., sorretta 
da 
un fine 
strettamente 
personale 
ed 
egoistico, rappresenta 
uno sviluppo anomalo e 
imprevedibile 
in base 
ad un giudizio oggettivizzato 
di normalità statistica, tale da recidere il vincolo di occasionalità necessaria. 
Invero, il 
fatto illecito commesso non si 
può che 
ritenere 
estraneo al 
normale 
sviluppo di 
sequenze 
di 
eventi 
connessi 
all’espletamento delle 
funzioni 
svolte 
dal 
luogotenente, in quanto, 
valutate 
le 
ipotesi 
in astratto definibili 
come 
di 
verificazione 
probabile, tra 
di 
esse 
non può ricomprendersi 
l’omicidio di un commilitone. 
In 
conclusione, 
l’assenza 
di 
pregresse 
situazioni 
di 
animosità 
fisica 
o 
verbale 
tra 
i 
soggetti 
coinvolti, 
l’estemporaneità 
del 
comportamento 
del 
S. 
e 
l’assoluta 
antiteticità 
della 
sua 
condotta 
con le 
funzioni 
attribuite 
dall’ordinamento nazionale 
ad un appartenente 
all’Arma 
dei 
Carabinieri 
consentono di escludere 
in nuce 
l’esistenza del “nesso di occasionalità necessaria”. 
Va, parimenti, esclusa 
una 
responsabilità 
diretta 
delle 
amministrazioni 
coinvolte 
ex 
art. 2043 
c.c., non essendo configurabile 
una 
condotta 
omissiva 
negligente 
dei 
Ministeri 
convenuti 
in 
relazione 
all’omesso trasferimento di 
uno dei 
soggetti 
coinvolti 
secondo quanto previsto dal-
l’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri. 
Infatti, dall’espletata 
istruttoria 
è 
emerso che, sebbene 
la 
segnalazione 
circa 
la 
commissione 
dei 
presunti 
illeciti 
da 
parte 
del 
S. sia 
stata 
effettuata 
dal 
M., l’attività 
di 
indagine, a 
partire 
dall’aprile 
2012, è 
stata 
condotta 
direttamente 
dal 
capitano M. (cfr. deposizione 
dello stesso, 
verbale 
ud. 23 gennaio 2024, cap. 5), tanto è 
vero che 
è 
stato quest’ultimo a 
richiedere 
in data 
15 
giugno 
2012 
al 
S. 
una 
relazione 
in 
ordine 
alla 
presenza 
di 
eventuali 
anomalie 
nella 
gestione 
dei carbo-lubrificanti (cfr. deposizione dello stesso, verbale ud. 23 gennaio 2024, cap. 6). 
Inoltre, sulla 
base 
di 
quanto riferito da 
C.C. (cfr. dichiarazioni 
rese 
alla 
medesma 
udienza 
del 
23 gennaio 2024) , all’epoca 
dei 
fatti 
comandante 
del 
NoR della 
Compagnia 
di 
-omissis-, si 
evince 
che 
il 
M. 
pur 
essendo 
amareggiato 
di 
aver 
effettuato 
delle 
segnalazioni 
su 
dei 
colleghi, 
non 
aveva 
rappresentato 
alcun 
timore 
circa 
la 
propria 
incolumità 
né 
tantomeno 
ha 
riferito 
della 
sussistenza 
di 
situazioni 
di 
tensione 
o 
di 
litigiosità 
con 
tali 
soggetti, 
sintomatiche 
di 
un’incompatibilità sul luogo di lavoro idonea a giustificare il trasferimento di uno di loro. 
del 
resto, 
anche 
nella 
richiesta 
di 
archiviazione 
formulata 
dalla 
Procura 
Militare 
della 
Repubblica 
di 
Napoli 
(fr. doc. 4 del 
fascicolo di 
parte 
attrice 
p. 4), nel 
procedimento attivato al 
fine 
di 
ricostruire 
la 
vicenda 
che 
ha 
provocato la 
morte 
del 
luogotenente 
S. e 
del 
maresciallo 
M., è 
stata 
esclusa 
la 
sussistenza 
di 
qualsivoglia 
contributo causale 
da 
parte 
di 
terzi 
“anche 
alla luce 
della assoluta imprevedibilità dell’insano gesto e 
dell’assenza di 
ogni 
significativo 



elemento, 
caratteriale 
o 
circostanziale, 
in 
qualche 
modo 
“predittivo” 
di 
tale 
determinazione”. 
In 
tal 
senso 
si 
è 
peraltro 
pronunciato 
il 
tribunale 
ordinario 
di 
Napoli 
adito 
con 
analoga 
domanda 
risarcitoria 
dai 
prossimi 
congiunti 
del 
maresciallo 
M. 
(moglie, 
figlia 
e 
padre) 
che 
ha 
escluso 
la 
responsabilità 
del 
Ministero, 
ritenendo 
mancante 
sia 
la 
riconducibilità 
della 
condotta 
del 
reo 
all’alveo 
di 
una 
prevedibilità 
statistica, 
sia 
la 
sussistenza 
e 
la 
conoscenza 
da 
parte 
dei 
superiori 
gerarchici 
di 
una 
situazione 
di 
tensione 
tra 
i 
soggetti 
coinvolti 
nella 
drammatica 
vicenda 
che 
avrebbe 
potuto 
giustificarne 
il 
trasferimento 
(cfr. 
doc. 
1 
allegato 
dalla 
difesa 
erariale). 
Pertanto, 
respinta 
la 
domanda 
svolta 
nei 
confronti 
dei 
Ministeri 
convenuti, 
delle 
conseguenze 
civili 
risarcitorie 
del 
reato, pacificamente 
commesso da 
S.A., sono tenuti 
a 
risponderne 
i 
suoi 
eredi 
nei 
limiti 
dell’accettazione 
della 
eredità 
con beneficio di 
inventario ex 
art. 490 c.c., ovvero 
C.R., S.C. e S. G. (rispettivamente moglie e figli di S.A.). 
In relazione 
al 
danno da 
perdita 
parentale, quale 
forma 
di 
danno morale, si 
deve 
rilevare 
che 
esso 
si 
scinde 
in 
una 
duplice 
voce: 
l’aspetto 
interiore, 
inteso 
come 
sofferenza 
morale 
derivante 
dalla 
perdita, 
e 
quello 
esteriore, 
ossia 
il 
c.d. 
danno 
dinamico-relazionale. 
tale 
duplicità, 
come 
ha 
avuto 
modo 
di 
chiarire 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
comporta 
una 
distribuzione 
diversa 
del-
l’onere probatorio tra le parti circa l’esistenza del danno-conseguenza. 
Infatti, la 
presunzione 
iuris 
tantum 
di 
esistenza 
del 
pregiudizio, configurabile 
per i 
membri 
della 
famiglia 
nucleare 
“successiva” 
(coniuge 
e 
figli), 
si 
estende 
ai 
membri 
della 
famiglia 
“originaria” 
(genitori 
e 
fratelli); 
tale 
presunzione 
impone 
al 
terzo danneggiante 
l’onere 
di 
dimostrare 
che 
vittima 
e 
superstite 
fossero tra 
loro indifferenti 
o in odio, con conseguente 
insussistenza 
in 
concreto 
dell’aspetto 
interiore 
del 
danno 
risarcibile 
(c.d. 
sofferenza 
morale) 
derivante 
dalla 
perdita, ma 
non riguarda, invece, l’aspetto esteriore 
(c.d. danno dinamico-relazionale), 
sulla 
cui 
liquidazione 
incide 
la 
dimostrazione, da 
parte 
del 
danneggiato, dell’effettività, 
della 
consistenza 
e 
dell’intensità 
della 
relazione 
affettiva 
(cfr. Cass. Civ., ordinanza 


n. 5769 del 4 marzo 2024 e Cass. Civ., sentenza n. 22397 del 15 luglio 2022). 
dunque, secondo tale 
orientamento giurisprudenziale 
cui 
si 
ritiene 
di 
aderire, l’uccisione 
di 
una 
persona 
fa 
presumere 
da 
sola 
e 
salva 
prova 
contraria 
a 
carico del 
danneggiante, una 
conseguente 
sofferenza 
morale 
in capo ai 
prossimi 
congiunti 
della 
vittima; 
al 
contrario, la 
prova 
dell’esistenza 
di 
un 
danno 
dinamico-relazionale 
derivante 
dalla 
perdita 
di 
un 
congiunto 
grava 
integralmente 
sul 
superstite, che 
dovrà 
dimostrare 
l’intensità 
del 
vincolo familiare, un’eventuale 
situazione 
di 
convivenza 
ed ogni 
ulteriore 
circostanza 
utile 
a 
ricostruire 
la 
consistenza 
e 
l’intensità 
del 
loro rapporto (cfr. Cass. Civ., sent. 11 novembre 
2003, n. 16946; 
Cass. Civ., 
sent. 6 settembre 2012 n. 14931). 
Ebbene, 
l’istruttoria 
condotta 
ha 
provato 
la 
sussistenza, 
nella 
duplice 
veste 
poc’anzi 
descritta, 
del 
danno da 
perdita 
parentale 
patito da 
M.A. e 
M.R., essendo stato dimostrato il 
profondo 
dolore 
derivante 
dalla 
perdita 
del 
congiunto e 
l’intenso legame 
affettivo che 
legava 
gli 
attori 
e 
la 
vittima, caratterizzato da 
un’assidua 
frequentazione 
tra 
le 
famiglie 
e 
da 
un supporto reciproco 
nei momenti di difficoltà (cfr. deposizione di C.M., verbale ud. 18 settembre 2024). 
Al 
contrario, parte 
convenuta 
non ha 
fornito elementi 
tali 
da 
far dubitare 
dell’esistenza 
di 
un 
rapporto costante ed intenso tra i fratelli. 
Per quanto riguarda, poi, i 
parametri 
in base 
ai 
quali 
effettuare 
la 
liquidazione 
del 
danno non 
patrimoniale, al 
fine 
di 
garantire 
non solo un’adeguata 
valutazione 
delle 
circostanze 
del 
caso 
concreto, ma 
anche 
l’uniformità 
di 
giudizio in casi 
analoghi, il 
danno da 
perdita 
del 
rapporto 
parentale 
deve 
essere 
liquidato 
seguendo 
una 
tabella 
basata 
sul 
“sistema 
a 
punti”, 
che 
preveda, 
oltre 
all’adozione 
del 
criterio a 
punto, l’estrazione 
del 
valore 
medio del 
punto dai 
precedenti, 
la 
modularità 
e 
l’elencazione 
delle 
circostanze 
di 
fatto 
rilevanti, 
tra 
le 
quali, 
indefettibilmente, 



l’età 
della 
vittima, l’età 
del 
superstite, il 
grado di 
parentela 
e 
la 
convivenza, nonché 
l’indicazione 
dei 
relativi 
punteggi, con la 
possibilità 
di 
applicare 
sull’importo finale 
dei 
correttivi 
in 
ragione 
della 
particolarità 
della 
situazione, (cfr. Cass. Civ., ordinanza 
n. 26300 
del 
29 settembre 
2021; cfr. anche Cass. n. 10579/2021). 
Si 
ritiene 
opportuno fare 
riferimento alla 
vigente 
tabella 
adottata 
presso il 
tribunale 
di 
Roma 
(anno 
2023), 
risultando 
essa 
rispondente 
ai 
criteri 
di 
liquidazione 
indicati 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità, essendo presi 
in considerazione 
elementi, quali 
l’età 
della 
persona 
deceduta 
e 
del 
danneggiato, 
la 
presenza 
o 
meno 
del 
rapporto 
di 
convivenza, 
la 
composizione 
del 
restante 
nucleo familiare 
(come 
statuito dallo stesso dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
secondo cui 
il 
sistema 
romano 
è 
idoneo 
a 
consentire 
un’adeguata 
valutazione 
delle 
circostanze 
del 
caso 
concreto 
e, 
nello 
stesso 
tempo, 
a 
garantire 
l’uniformità 
di 
giudizio 
al 
cospetto 
di 
vicende 
analoghe, 
Cass. n. 26300/2021). 
Ciò 
detto, 
si 
reputa 
equo 
liquidare, 
a 
titolo 
di 
danno 
per 
la 
perdita 
del 
congiunto, 
l’importo 
di 
euro 
153.308,02, 
al 
valore 
attuale, 
in 
favore 
di 
ciascuno 
degli 
attori 
(fratelli 
gemelli 
nati 
il 
1 
giugno 
1976, 
cfr. 
certificazione 
anagrafica 
depositata 
in 
data 
1 
aprile 
2023) 
e 
dunque 
di 
anni 
36 
alla 
morte 
della 
vittima, 
avvenuta 
il 
21 
giugno 
2012. 
La 
somma 
è 
equitativamente 
calcolata 
moltiplicando 
il 
valore 
di 
€ 
11.356,15 
per 
n. 
13,5 
punti, 
di 
cui: 
n. 
7 
per 
il 
grado 
di 
parentela; 
n. 
3 
per 
l’età 
della 
vittima 
(anni 
42); 
n. 
3,5 
per 
l’età 
dei 
fratelli 
(anni 
36), 
in 
mancanza 
di 
convivenza. 
Sul 
totale 
delle 
somme 
sopra 
liquidate 
dovute 
quale 
sorte 
capitale 
sono, 
poi, 
dovuti 
gli 
interessi 
legali, intesi, a 
mente 
dei 
noti 
principi 
sanciti 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
con sent. n. 1712/95, 
come 
“lucro cessante 
”, computabili 
sul 
credito complessivamente 
liquidato, devalutato alla 
data 
del 
fatto (da 
farsi 
risalire 
al 
21 giugno 2012, giorno del 
decesso del 
congiunto) e 
via 
via 
rivalutato 
sino 
alla 
pubblicazione 
della 
presente 
sentenza. 
Sul 
totale 
delle 
somme 
così 
liquidate 
per sorte 
capitale 
e 
lucro cessante 
competono gli 
interessi 
legali, dalla 
data 
della 
presente 
decisione 
al saldo, ex art. 1282 c.c. 
deve 
precisarsi 
che 
ciascun erede 
(nei 
limiti 
del 
beneficio di 
inventario ex art. 490 c.c.), “è 
tenuto a soddisfare 
il 
debito ereditario esclusivamente 
“pro quota”, e 
cioè 
in ragione 
della 
quota attiva in cui 
succede, e, pertanto, non può essere 
condannato in solido con i 
coeredi 
al 
pagamento del debito stesso” (cfr. Cass. Sez. 3 - sentenza n. 23705 del 22 novembre 2016). 
Le 
spese 
di 
lite 
dovute 
dai 
convenuti 
soccombenti 
C.R., 
S.C. 
e 
S.G., 
seguono 
la 
soccombenza 
e 
sono liquidate 
come 
in dispositivo, nei 
limiti 
dei 
parametri 
di 
liquidazione 
di 
cui 
al 
d.m. n. 
55/2014, aggiornato ex d.m. n. 147/2022, tenuto conto del 
valore 
della 
domanda 
(in ragione 
del 
decisum) 
e 
dell’attività 
in 
concreto 
svolta, 
mentre 
si 
ritiene 
opportuno 
compensare 
le 
spese 
del 
giudizio nei 
rapporti 
con i 
Ministeri 
convenuti, in virtù delle 
gravi 
ed eccezionali 
ragioni 
legate 
alle 
particolari 
circostanze 
che 
hanno portato alla 
morte 
di 
t.M., le 
quali 
giustificano 
la 
suddetta 
compensazione, ai 
sensi 
dell’art. 92, comma 
2, c.p.c., come 
interpretato dopo la 
sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 19 aprile 2018. 


P.Q.M. 
Il 
tribunale 
di 
Roma, 
definitivamente 
pronunciando, 
ogni 
contraria 
istanza 
disattesa 
e 
reietta, 
così provvede: 


-rigetta 
la 
domanda 
svolta 
dagli 
attori 
nei 
confronti 
del 
Ministero della 
difesa 
e 
dell’Interno; 


-accoglie 
la 
domanda 
proposta 
dagli 
attori 
nei 
confronti 
dei 
convenuti 
C.R., S.C. e 
S.G., che 
condanna, 
pro 
quota 
(e 
fermi 
gli 
effetti 
di 
cui 
all’art. 
490 
c.c.), 
al 
pagamento, 
in 
favore 
di 


M.A. e 
M.R., della 
somma 
complessiva 
di 
€ 153.308,02, per ciascuno, oltre 
lucro cessante 
e 
interessi come in motivazione; 


- compensa le spese del giudizio tra gli attori e i Ministeri convenuti; 



-condanna, in solido, i 
convenuti 
C.R., S.C. e 
S.G. al 
pagamento, in favore 
dei 
procuratori 
degli 
attori, 
dichiaratisi 
antistatari, 
delle 
spese 
del 
giudizio 
liquidate 
in 
complessivi 
€ 
9.167,60 
per 
compensi 
professionali, 
oltre 
al 
rimborso 
delle 
spese 
versate 
per 
contributo 
unificato, 
spese generali, IVA e CPA come per legge. 
Roma, 14 gennaio 2025 


Sentenza redatta con la collaborazione del M.O.T. dott. Saverio Cirota. 



Contenziosotributarioosservatorio
Istituenda sezione “Contenzioso tributario - Osservatorio” 
a cura dell’Avv. Gianni De Bellis 
Presentazione del Direttore responsabile 


A 
partire 
da 
questo 
numero 
la 
rassegna 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
amplia 
e 
approfondisce 
il 
suo 
ambito 
operativo, 
introducendo 
stabilmente 
una 
speciale 
sezione della Rivista interamente dedicata al diritto tributario. 


Per 
l’occasione 
la 
rivista 
si 
avvale 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
onorario, Avv. Gianni De Bellis, nominato condirettore della Rassegna. 


L’Avv. 
De 
Bellis 
collocato 
a 
riposo 
“per 
raggiunti 
limiti 
di 
età, 
dopo 
oltre 
quarantadue 
anni 
di 
prestigiosa 
e 
significativa 
presenza, 
... 
già 
Vice 
Avvocato 
Generale 
dello Stato, ... 
ha onorato l’Avvocatura e 
il 
Paese 
con la Sua altissima 
professionalità, 
con 
il 
Suo 
costante 
impegno 
e 
con 
le 
Sue 
elevate 
doti 
professionali 
e 
umane, riconosciute 
anche 
dalle 
Supreme 
Magistrature 
e 
tali 
da rappresentare un esempio e un punto di riferimento ...” 
(*) 


Tra 
i 
colleghi 
è 
quello che 
del 
diritto fiscale 
ne 
sa 
di 
più, ma 
soprattutto 
è 
l’avvocato dello Stato che, meglio di 
altri, sapeva 
individuare 
i 
punti 
focali 
di 
una 
questione, individuando le 
fasi 
critiche 
del 
sistema 
tributario e 
le 
soluzioni 
possibili; in parole semplici la strada migliore da percorrere… 


Caro Gianni, grazie dell’aiuto che mi dai e buon lavoro. 


Giuseppe Fiengo 


(*) 
Comunicato dell’Avvocato Generale 
in occasione 
del 
pensionamento dell’Avv. De 
Bellis, martedì 
17 
dicembre 2024. 



La responsabilità dei soci verso il fisco a seguito della 
cancellazione della società dal registro delle imprese 


NotA 
A 
Corte 
di 
CASSAzioNe, SezioNi 
UNite, SeNteNzA 
12 FebbrAio 
2025, N. 3625 


Gianni De Bellis* 


SommARio: 1. Cenni 
sulla responsabilità dei 
soci 
rispetto al 
fisco -2. La sentenza n. 
3625/2025 delle 
Sezioni 
Unite 
-2.1 La posizione 
dei 
soci 
della società cancellata -2.2 Quali 
strumenti 
di 
accertamento 
nei 
confronti 
dei 
soci 
-2.3 
il 
rapporto 
tra 
l’art. 
36, 
comma 
3, 
d.P.r. 


n. 602/1973 e l’art. 2495 c.c. - 3. Conclusioni. 


1. Cenni sulla responsabilità dei soci rispetto al fisco. 

La 
responsabilità 
dei 
soci 
rispetto 
al 
fisco 
si 
manifesta 
principalmente 
nei 
seguenti casi: 


a) per le 
società di 
persone 
l’imposta 
sul 
reddito non grava 
sulla 
società 
(priva 
di 
personalità 
giuridica), bensì 
sui 
singoli 
soci, ai 
quali 
il 
reddito societario 
viene 
imputato “per trasparenza” 
ai 
fini 
iRPEF 
in misura 
proporzionale 
alla 
partecipazione 
(art. 5, comma 
1, del 
TUiR), mentre 
sulla 
società 
gravano 
sia 
l’iVA 
che 
l’iRAP. Nei 
casi 
di 
contenzioso, i 
complessi 
rapporti 
tra 
gli 
accertamenti 
societari 
e 
quelli 
dei 
singoli 
soci 
hanno trovato una 
razionale 
sistemazione 
nella 
storica 
sentenza 
n. 
14816/2008 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
resa 
a 
Sezioni 
Unite 
(con particolare 
riferimento al 
litisconsorzio necessario 
tra soci e società ed agli effetti dei giudicati parziali); 
b) per le 
società di 
capitali 
a 
ristretta 
base 
sociale 
-composta 
da 
un numero 
limitato di 
soci, spesso legati 
tra 
loro da 
vincoli 
di 
parentela 
o affinità 
i 
soci 
possono essere 
chiamati 
a 
rispondere 
per l’omessa 
dichiarazione 
di 
redditi 
di 
capitale 
nei 
casi 
di 
“utili 
in 
nero” 
realizzati 
dalla 
società, 
derivanti 
dalla 
omessa 
fatturazione 
di 
redditi 
imponibili 
non risultanti 
dai 
registri 
contabili. 
A 
differenza 
del 
caso precedente, in cui 
l’intero reddito societario (dichiarato 


o 
evaso) 
viene 
imputato 
ai 
soci, 
nel 
caso 
in 
esame 
assumono 
rilievo 
le 
sole 
ipotesi 
di 
evasione 
fiscale 
che 
danno luogo a 
utili 
occulti, non risultanti 
dalla 
contabilità. Non assume 
pertanto rilievo, ad esempio, una 
evasione 
d’imposta 
societaria 
derivante 
dalla 
non inerenza 
di 
alcuni 
costi 
dedotti. in questo caso 
l’evasione 
-che 
pure 
esiste 
-è 
imputabile 
alla 
sola 
società, ma 
non emergono 
utili 
non 
contabilizzati 
che 
possono 
presumersi 
incamerati 
dai 
soci. 
Per 
costante 
giurisprudenza 
infatti 
“è 
legittima la presunzione 
semplice 
di 
attribuzione 
ai 
soci 
partecipanti 
alla 
società 
degli 
eventuali 
utili 
extracontabili 
accertati, 
rimanendo 
salva 
la 
facoltà 
per 
il 
contribuente 
di 
offrire 
la 
prova 
contraria” 
(Cass. 
n. 
6745/2025). 
Relativamente 
al 
contenzioso 
avverso 
gli 
av


(*) Avvocato Generale dello Stato onorario, già 
Vice 
Avvocato Generale. 



visi 
di 
accertamento societari 
o verso i 
soci, la 
giurisprudenza 
esclude 
l’esistenza 
di 
un litisconsorzio necessario (Cass. n. 21649/2020), mentre 
ravvisa 
un 
rapporto 
di 
pregiudizialità 
tra 
la 
causa 
avente 
ad 
oggetto 
l’accertamento 
societario (fatto storico da 
cui 
è 
sorta 
l’obbligazione 
anche 
del 
socio) e 
quelle 
proposte 
dei 
singoli 
soci 
avverso gli 
avvisi 
di 
accertamento personali 
(Cass. 
n. 6707/2025); 


c) 
il 
socio 
può 
ancora 
dover 
rispondere 
nei 
confronti 
del 
fisco 
in 
forza 
dell’art. 
2495 
comma 
3 
c.c. 
(in 
tema 
di 
cancellazione 
della 
società 
dal 
registro 
delle 
imprese), 
in 
forza 
del 
quale 
“Ferma 
restando 
l’estinzione 
della 
società, 
dopo 
la 
cancellazione 
i 
creditori 
sociali 
non 
soddisfatti 
possono 
far 
valere 
i 
loro 
crediti 
nei 
confronti 
dei 
soci, 
fino 
alla 
concorrenza 
delle 
somme 
da 
questi 
riscosse 
in 
base 
al 
bilancio 
finale 
di 
liquidazione, 
e 
nei 
confronti 
dei 
liquidatori, 
se 
il 
mancato 
pagamento 
è 
dipeso 
da 
colpa 
di 
questi”. 
il 
socio 
si 
configura 
come 
successore 
nei 
debiti 
della 
società 
cancellata 
(ma 
anche 
nei 
crediti, 
con 
i 
limiti 
già 
indicati 
da 
SS.UU. 
n. 
6070/2013); 
in 
tali 
ipotesi 
si 
tratta 
non 
di 
una 
obbligazione 
tributaria 
del 
socio, 
bensì 
di 
una 
successione 
nel 
debito 
societario 
nei 
limiti 
previsti 
dall’art. 
2495 
c.c. 
e 
comunque 
in 
funzione 
del 
tipo 
di 
società; 


d) 
un’ultima 
ipotesi 
di 
responsabilità 
del 
socio 
è 
contenuta 
nell’art. 
36 
comma 3 del 
d.P.r. n. 602/1973, in forza 
del 
quale 
“i soci 
o associati, che 
hanno ricevuto nel 
corso degli 
ultimi 
due 
periodi 
d’imposta precedenti 
alla 
messa in liquidazione 
danaro o altri 
beni 
sociali 
in assegnazione 
dagli 
amministratori 
o hanno avuto in assegnazione 
beni 
sociali 
dai 
liquidatori 
durante 
il 
tempo 
della 
liquidazione, 
sono 
responsabili 
del 
pagamento 
delle 
imposte 
dovute 
dai 
soggetti 
di 
cui 
al 
primo comma nei 
limiti 
del 
valore 
dei 
beni 
stessi, 
salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile…”. 

Di 
questa 
responsabilità 
e 
di 
quella 
ex 
art. 
2495 
c.c. 
si 
è 
occupata 
la 
Corte 
di Cassazione nella sentenza n. 3625/2025. 


2. La sentenza n. 3625/2025 delle Sezioni Unite. 


2.1 La posizione dei soci della società cancellata. 


La 
prima 
questione 
esaminata 
dalla 
Suprema 
Corte 
è 
stata 
quella 
relativa 
alla 
posizione 
dei 
soci 
nei 
casi 
di 
cancellazione 
della 
società 
rispetto 
ai 
debiti 
fiscali. 
La 
Corte 
ha 
ritenuto 
di 
confermare 
la 
sua 
giurisprudenza 
pressoché 
costante 
(precisa 
la 
Corte 
che 
la 
richiesta 
di 
intervento 
delle 
SS.UU. 
derivava 
«non 
tanto 
da 
un 
conclamato 
contrasto 
di 
orientamenti 
quanto 
da 
talune 
incertezze 
insite 
nell’adattamento 
all’ambito 
tributario 
di 
un 
assetto 
ricostruttivo 
già 
consolidatosi 
in 
quello 
civilistico»), 
che 
si 
fondava 
su 
Cass. 
SS.UU. 
n. 
6070/2013, 
ribadendo 
che 
«a 
seguito 
dell’estinzione 
della 
società, 
il 
socio 
(ex-socio) 
è 
successore 
per 
il 
solo 
fatto 
di 
essere 
tale 
e 
non 
perché 
abbia 
ricevuto 
quote 
di 
liquidazione; 
ed 
il 
carattere 
universale 
della 
sua 
successione 
non 
è 
contraddetto 
dal 
fatto 
che 
egli 
risponda 
solo 
nei 
limiti 
di 
quanto 
percepito». 



Aggiunge 
poi 
la 
Corte 
che 
«nella fattispecie 
di 
responsabilità dei 
soci 
limitatamente 
responsabili 
per 
il 
debito 
tributario 
della 
società 
estintasi 
per 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, il 
presupposto dell’avvenuta riscossione 
di 
somme 
in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione, di 
cui 
al 
3° 
(già 2°) 
co. 
dell’art. 
2495 
cod. 
civ., 
integra, 
oltre 
alla 
misura 
massima 
dell’esposizione 
debitoria 
personale 
dei 
soci, 
una 
condizione 
dell’azione 
attinente 
all’interesse 
ad 
agire 
e 
non 
alla 
legittimazione 
ad 
causam 
dei 
soci 
stessi»; 
interesse 
ad 
agire 
che 
tuttavia 
può sussistere 
anche 
nei 
casi 
in cui 
il 
socio non abbia 
ricevuto 
somme 
in 
sede 
di 
bilancio 
finale 
di 
liquidazione: 
«l’interesse 
ad 
agire 
dell’Amministrazione 
finanziaria 
non 
è 
escluso 
per 
il 
solo 
fatto 
della 
mancata 
riscossione 
di 
somme 
in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione, potendo tale 
interesse 
radicarsi 
in altre 
evenienze, quali 
la sussistenza di 
beni 
e 
diritti 
che, 
per 
quanto 
non 
ricompresi 
in 
questo 
bilancio, 
si 
siano 
trasferiti 
ai 
soci, 
ovvero 
l’escussione di garanzie». 


Alla 
luce 
di 
tali 
principi 
la 
Corte 
ha 
escluso 
che 
nel 
giudizio 
in 
esame 
-in 
cui 
la 
società 
era 
stata 
cancellata 
dopo 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
-i 
soci 
(a 
cui 
l’Ufficio 
aveva 
notificato 
l’atto 
di 
appello) 
potessero 
contestare 
la 
loro 
legittimazione 
facendo 
valere 
il 
limite 
di 
responsabilità 
ex 
art. 
2495 
comma 
3 
c.c. 
Precisa 
la 
Corte 
che 
«nel 
giudizio 
già 
pendente 
nei 
confronti 
della 
società 
non 
potrà 
trovare 
ingresso 
-in 
particolare 
-la 
questione 
della 
avvenuta 
percezione 
di 
attività 
sociali 
o 
quote 
di 
liquidazione 
da 
parte 
dei 
soci, 
tema, 
come 
detto, 
estraneo 
alla 
legittimazione 
ed 
invece 
suscettibile 
di 
essere 
dedotto 
nel 
(diverso) 
giudizio 
che 
potrà 
originarsi 
a 
seguito 
della 
[eventuale: 
n.d.r.] 
notificazione 
ai 
soci 
stessi 
di 
autonomo 
e 
distinto 
atto 
impositivo 
ex 
art. 
36 
co. 
5° 
cit.». 


in altri 
termini, pur configurandosi 
verso i 
soci 
una 
successione 
ex art. 
110 
c.p.c. 
per 
effetto 
della 
cancellazione 
della 
società, 
il 
giudizio 
che 
prosegue 
deve 
limitarsi 
al 
suo 
oggetto 
originario, 
e 
cioè 
l’esistenza 
o 
meno 
dell’evasione 
da 
parte 
della 
società; 
non 
è 
quindi 
consentito 
in 
quella 
sede 
introdurre 
il 
tema 
della 
responsabilità 
personale 
del 
socio 
nel 
debito 
societario, 
tema 
che 
sarà 
oggetto dell’eventuale 
successivo contenzioso qualora 
l’Amministrazione 
finanziaria 
decida di agire direttamente nei confronti del socio. 

La 
Corte 
ha 
poi 
precisato che 
nella 
fattispecie 
non era 
applicabile 
l’art. 
28 comma 
4 del 
D.Lgs. n. 175/2014, in forza 
del 
quale 
“Ai 
soli 
fini 
della validità 
e 
dell’efficacia degli 
atti 
di 
liquidazione, accertamento, contenzioso e 
riscossione 
dei 
tributi 
e 
contributi, sanzioni 
e 
interessi, l’estinzione 
della società 
di 
cui 
all’articolo 2495 del 
codice 
civile 
ha effetto trascorsi 
cinque 
anni 
dalla richiesta di 
cancellazione 
del 
registro delle 
imprese”; 
ciò in quanto la 
cancellazione 
della 
società 
era 
avvenuta 
in data 
anteriore 
all’entrata 
in vigore 
della disposizione (non retroattiva). 

2.2 Quali strumenti di accertamento nei confronti dei soci. 


La 
seconda 
questione 
esaminata 
dalla 
Corte 
è 
stata 
quella 
relativa 
al 
tipo 



di 
strumento di 
cui 
può avvalersi 
l’Amministrazione 
finanziaria 
allorché 
-in 
caso di 
cancellazione 
della 
società 
-intenda 
agire 
nei 
confronti 
dei 
soci-successori 
in 
forza 
dell’art. 
2495 
c.c. 
in 
particolare 
se 
possa 
procedere 
direttamente 
alla 
iscrizione 
a 
ruolo 
del 
debito 
richiesto 
al 
socio, 
ovvero 
se 
sia 
necessario 
un 
avviso 
di 
accertamento. 
in 
effetti 
la 
Sezione 
tributaria 
della 
Corte 
aveva 
più 
volte 
affermato 
che 
«in 
tema 
di 
società 
di 
capitali, 
la 
disciplina 
dettata 
dall’art. 2495 c.c., comma 2, come 
modificato dal 
d.Lgs. n. 6 del 
2003, 
art. 4 nella parte 
in cui 
ricollega alla cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese 
l’estinzione 
immediata 
della 
società, 
implica 
che 
nei 
debiti 
sociali 
subentrano 
“ex 
lege” 
i 
soci, sicché 
il 
fisco, ove 
le 
proprie 
ragioni 
nei 
confronti 
dell’ente 
collettivo 
siano 
state 
definitivamente 
accertate 
(ad 
esempio, 
per 
mancata 
tempestiva impugnazione 
dell’atto impositivo, ovvero per 
intervenuta estinzione 
del 
relativo 
giudizio, 
o 
infine 
per 
intervenuto 
giudicato 
sostanziale) 
può procedere 
all’iscrizione 
a ruolo dei 
tributi 
non 
versati 
sia a nome 
della 
società estinta, sia a nome 
dei 
soci 
(pro quota, in 
relazione 
ai 
relativi 
titoli 
di 
partecipazione), e 
ciò ai 
sensi 
del 
d.P.r. n. 602 del 
1973, art. 12, comma 
3, e 
art. 14, lett. b), nonché 
azionare 
comunque 
il 
credito tributario nei 
confronti 
dei 
soci 
stessi, 
non 
occorrendo 
procedere 
all’emissione 
di 
autonomo 
avviso 
di 
accertamento, 
ai 
sensi 
dell’art. 
36, 
comma 
5, 
d.P.r. 
cit., 
relativo 
al 
diverso titolo di 
responsabilità di 
cui 
al 
precedente 
comma 3 (nel 
testo antecedente 
alla modifica apportata dal 
d.Lgs. n. 175 del 
2014, art. 28, comma 
5), 
di 
natura 
civilistica 
e 
sussidiaria» 
(Cass. 
31904/2021, 
seguita 
da 
Cass. 
34864/2023, 12999/2024 e 13051/2024). 

Le 
Sezioni 
Unite 
hanno optato per la 
diversa 
ipotesi, cioè 
per una 
scelta 
più garantista 
(disattendendo quindi 
la 
posizione 
della 
Sezione 
tributaria, di 
cui 
peraltro 
cita 
solo 
Cass. 
31904/2021), 
affermando 
come 
«non 
convinca 
l’orientamento, ben 
evincibile 
da Cass. n. 31904 del 
5 novembre 
2021, secondo 
cui, 
una 
volta 
resosi 
definitivo 
il 
titolo 
nei 
confronti 
della 
società 
(per 
mancata opposizione, estinzione 
del 
processo ovvero giudicato) il 
Fisco potrebbe 
senz’altro procedere 
“all’iscrizione 
a ruolo dei 
tributi 
non 
versati 
sia 
a nome 
della società estinta, sia a nome 
dei 
soci 
(pro quota, in 
relazione 
ai 
relativi 
titoli 
di 
partecipazione), e 
ciò ai 
sensi 
degli 
artt. 12, comma 3, e 
14, 
lett. b), del 
d.P.r. n. 602 del 
1973, nonché 
azionare 
comunque 
il 
credito tributario 
nei 
confronti 
dei 
soci 
stessi, non occorrendo procedere 
all’emissione 
di 
autonomo 
avviso 
di 
accertamento”, 
[…] 
in 
modo 
tale 
che 
i 
soci 
escussi 
potrebbero 
“con l’impugnazione 
della cartella di 
pagamento” 
così 
loro notificata 
lamentare 
l’inesistenza 
originaria 
o 
sopravvenuta 
del 
titolo 
formatosi 
nei 
confronti 
della società, oppure 
contestare 
il 
fondamento della propria responsabilità, 
dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione». 


Le 
Sezioni 
Unite 
dichiarano 
espressamente 
di 
non 
condividere 
tale 
orientamento, 
in quanto: 
«È 
vero che 
si 
tratta, quello notificato all’ex 
socio, di 
un 
atto 
di 
accertamento 
che 
già 
contiene 
l’indicazione 
di 
un 
credito 
non 
più 
con



testabile 
nella sua oggettività (1), ma l’esigenza che 
tale 
credito venga legittimamente 
imputato ad un soggetto pur 
sempre 
diverso (appunto l’ex 
socio) 
rispetto al 
contribuente 
che 
ad esso ha dato origine 
(la società) dimostra comunque 
la permanenza in 
esso di 
un 
sostrato prettamente 
pretensivo che 
si 
palesa per 
la prima volta, seppure 
limitatamente 
al 
risvolto soggettivo di 
responsabilità; 
non 
sarebbe 
dunque 
del 
tutto esatto ravvisare 
nella specie 
un 
accertamento senza imposizione, come tale surrogabile dalla cartella». 


Si 
tratta 
di 
una 
posizione 
condivisibile 
e 
(giustamente) 
garantista 
rispetto 
ai 
diritti 
del 
contribuente. 
L’Amministrazione 
finanziaria 
per 
agire 
verso 
il 
socio deve infatti dimostrare: 


-l’evasione 
fiscale 
della 
società 
(a 
tal 
fine 
dovrà 
allegare 
l’avviso societario 
o riportarne il contenuto); 


-la 
“successione” 
del 
socio ex art. 2495 c.c. nonché 
-per le 
società 
di 
capitali 
-la 
sua 
responsabilità 
nei 
limiti 
di 
quanto 
ricevuto 
sulla 
base 
del 
bilancio 
finale di liquidazione (2). 


Tali 
elementi 
di 
prova, essendo a 
carico dell’Ufficio finanziario rendono 
incompatibile 
l’utilizzo della 
cartella 
di 
pagamento, che 
potrebbe 
portare 
ad 
una 
inversione 
dell’onere 
della 
prova 
in 
capo 
al 
contribuente 
(il 
quale 
sarebbe 
tenuto a 
dimostrare 
di 
non aver riscosso somme 
in sede 
di 
bilancio finale 
di 
liquidazione) (3). L’utilizzo dell’avviso di 
accertamento, fornito di 
adeguata 
motivazione, 
appare 
dunque 
la 
scelta 
più 
corretta. 
D’altronde 
è 
bene 
ricordare 
che, ad esempio, nelle 
società 
di 
persone 
(a 
cui 
la 
giurisprudenza 
costante 
ha 
ritenuto estensibili, seppure 
con lievi 
differenze, i 
principi 
di 
cui 
all’art. 2495 
c.c.), i 
soci 
debitori 
solidali 
illimitatamente 
responsabili 
dei 
debiti 
societari, 
possono 
non 
coincidere 
con 
i 
soci 
“successori” 
ex 
art. 
2495 
c.c. 
i 
primi 
infatti, 
sono 
i 
soci 
che 
erano 
tali 
nei 
periodi 
d’imposta 
in 
cui 
è 
sorta 
l’obbligazione 
societaria 
(com’è 
noto, anche 
a 
tal 
fine 
rileva 
il 
momento genetico della 
nascita 
del 
debito, 
non 
quello 
successivo 
della 
notifica 
dell’avviso: 
Cass. 
n. 
13275/2020) (4). i secondi 
invece, sono gli 
ultimi 
soci 
che 
hanno deliberato 


(1) Anche 
se 
l’efficacia 
di 
un giudicato favorevole 
al 
fisco nei 
confronti 
della 
società 
cancellata 
è estensibile ai soci solo qualora gli stessi abbiano partecipato a tale giudizio. 
(2) Peraltro il 
bilancio finale 
ben può essere 
contestato dall’Amministrazione 
dimostrando che 
in 
realtà 
vi 
era 
stato un maggior riparto di 
utili 
occulti; 
in questi 
casi 
il 
socio può essere 
chiamato a 
rispondere 
sia 
per 
la 
propria 
iRPEF 
non 
dichiarata 
(ipotesi 
sub 
b) 
sopra 
esaminata), 
sia 
in 
qualità 
di 
successore 
per le imposte societarie dovute al fisco. E non si può di certo parlare di doppia imposizione. 


(3) 
in 
effetti, 
secondo 
Cass. 
n. 
31904/2021 
“con 
l’impugnazione 
della 
cartella 
di 
pagamento 
conseguentemente 
loro 
notificata, 
i 
soci 
-ferma 
la 
definitività 
dell’accertamento 
nei 
confronti 
della 
società 
e 
la 
sua 
incontestabilità 
nel 
merito 
-possono 
lamentare 
l’inesistenza 
originaria 
o 
sopravvenuta 
del 
titolo 
formatosi 
nei 
confronti 
della 
società, 
oppure 
contestare 
il 
fondamento 
della 
propria 
responsabilità, 
dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione”. 


(4) «i crediti 
tributari 
nascono “ex 
lege” 
con l’avveramento dei 
relativi 
presupposti, e 
non già 
per 
effetto dell’atto amministrativo di 
accertamento posto in essere 
dall’amministrazione 
finanziaria” 
(Cass. 13275/2020). 



lo 
scioglimento 
della 
società 
e 
che 
possono 
essere 
diversi 
da 
quelli 
del 
periodo 
d’imposta 
oggetto di 
evasione 
(5). La 
distinzione 
assume 
particolare 
rilievo 
in relazione 
agli 
oneri 
probatori 
in capo all’Ufficio finanziario, al 
quale 
non è 
consentito presumere 
una 
conoscenza 
dei 
“fatti 
storici” 
a 
base 
dell’evasione 
societaria 
in capo a 
un soggetto che 
all’epoca 
non era 
ancora 
socio (cfr. al 
riguardo 
Cass. n. 1281/2020). 

2.3 il rapporto tra l’art. 36, comma 3, d.P.r. n. 602/1973 e l’art. 2495 c.c. 


La 
terza 
questione 
esaminata 
dalle 
Sezioni 
Unite 
riguarda 
l’art. 
36 
comma 
3 
del 
d.P.R. 
n. 
602/1973. 
Al 
riguardo 
è 
interessante 
notare 
come 
la 
Corte 
tratti 
congiuntamente 
la 
responsabilità 
dei 
soci 
in 
base 
a 
tale 
disposizione 
e 
all’art. 2495 c.c., quasi 
che 
la 
prima 
costituisca 
la 
versione 
“tributaria” 
della 
seconda. Com’è 
noto, l’art. 36 è 
stato interpretato dalla 
stessa 
Suprema 
Corte 
come 
una 
ipotesi 
di 
responsabilità 
dei 
liquidatori 
o amministratori 
di 
natura 
civilistica: 
«Si 
tratta 
di 
responsabilità 
per 
fatto 
proprio 
ex 
lege 
(per 
gli 
organi, 
in base 
agli 
artt. 1176 e 
1218 c.c., e 
per 
i 
soci 
di 
natura sussidiaria), avente 
natura civilistica e 
non tributaria, non ponendo la norma alcuna successione 


o coobbligazione 
nei 
debiti 
tributari 
a carico di 
tali 
soggetti, nemmeno allorché 
la società sia cancellata dal 
registro delle 
imprese 
(Cass., n. 15377 del 
2020; Cass., n. 7327 del 
2012; Cass., n. 29969 del 
2019; Cass. n. 17020 del 
2019; Cass., sez. un., n. 2079 del 
1989). tale 
responsabilità non 
è 
di 
per 
sé 
equiparabile 
all’obbligazione 
derivante 
dalla 
responsabilità 
verso 
i 
creditori, 
ex art. 2394 c.c., ed ex art. 2495 c.c.» (Cass. n. 30481/2022). 


Più 
precisamente, 
in 
relazione 
alla 
responsabilità 
dei 
soci 
prevista 
nel 
comma 
3 dell’art. 36, la 
stessa 
giurisprudenza 
ha 
precisato che: 
«ove 
abbiano 
ricevuto nel 
corso degli 
ultimi 
due 
periodi 
di 
imposta, precedenti 
alla messa 
in liquidazione, danaro o altri 
beni 
sociali 
in assegnazione 
dagli 
amministratori 
o 
abbiano 
avuto 
in 
assegnazione 
beni 
sociali 
dei 
liquidatori 
durante 
il 
tempo della liquidazione, i 
soci 
sono responsabili 
del 
pagamento delle 
imposte 
dovute 
dai 
soggetti 
di 
cui 
al 
comma 1 
(liquidatori 
o amministratori) nei 
limiti 
del 
valore 
dei 
beni 
stessi, salve 
le 
maggiori 
responsabilità stabilite 
dal 
codice 
civile. È dunque 
consentito al 
fisco di 
agire 
in 
via “sussidiaria” nei 
confronti 
dei 
soci 
“pro 
quota” 
e 
tale 
responsabilità 
“è 
pur 
sempre 
dipendente 
da quella del 
liquidatore 
e 
dell’amministratore, nel 
senso che, per 
escutere 
i 
primi, 
è 
comunque 
necessario 
che 
sussistano 
anche 
i 
presupposti 
per 
la 
responsabilità 
dei 
secondi” 
(Cass. 
n. 
14570 
del 
2021)» 
(Cass. 
n. 
30481/2022; 
in senso analogo Cass. n. 21851/2024). 


Dunque 
la 
responsabilità 
dei 
soci 
ex 
art. 
36 
comma 
3 
si 
aggiunge 
a 
quella 
dei 
liquidatori 
ed amministratori 
prevista 
dai 
commi 
1 e 
2 (quella 
cioè 
di 
non 
aver ben pagato i 
debiti 
tributari 
in violazione 
delle 
regole 
sui 
privilegi), ma 


(5) Resta 
ferma 
tuttavia 
la 
responsabilità 
sussidiaria 
(ex art. 2291 c.c.) anche 
degli 
ultimi 
soci 
per 
tutte le obbligazioni societarie non adempiute. 


non può estendersi 
(nei 
termini 
declinati 
dallo stesso comma 
3) anche 
a 
qualsiasi 
credito fiscale 
in capo alla 
società 
cancellata. Per questi, infatti, opererà 
soltanto la successione ex art. 2495 comma 3 c.c. con i limiti ivi previsti. 


Le 
Sezioni 
Unite 
sembrano 
non 
aver 
tenuto 
conto 
della 
diversa 
natura 
della 
responsabilità 
dei 
soci 
ex art. 2495 c.c. ed ex art. 36 comma 
3 d.P.R. n. 
602/1973 
(tributaria-successoria 
la 
prima; 
civilistica 
la 
seconda). 
Pur 
affermando 
-a 
proposito della 
responsabilità 
ex art. 36 comma 
3 -che 
non si 
tratterebbe 
«né 
di 
una responsabilità ex 
lege 
per 
inadempimento o fatto illecito 
(diversamente 
quindi 
da quella, su base 
organica, che 
si 
è 
visto attingere 
i 
liquidatori 
e 
gli 
amministratori), né 
di 
una responsabilità di 
tipo successorio 
ex 
art. 2495 cod. civ.», 
aggiungono però subito dopo che 
«al 
pari 
di 
quest’ultima 
[ex art. 2495 c.c. n.d.r.] la responsabilità in 
esame 
ingenera in 
capo al 
socio l’obbligo di 
pagamento di 
un 
debito della società sul 
solo presupposto 
obiettivo, e 
nei 
limiti, della percezione 
di 
attività sociali 
in 
fase 
di 
liquidazione 
(o anche, con 
previsione 
ampliativa rispetto alla disciplina civilistica, 
nelle due annualità d’imposta antecedenti)»(6). 


Tale 
ultima 
affermazione, unita 
al 
mancato richiamo alla 
costante 
giurisprudenza 
secondo 
cui 
la 
responsabilità 
ex 
art. 
36 
comma 
3 
è 
tutta 
interna 
allo 
stesso 
articolo, 
fa 
sorgere 
il 
dubbio 
che 
le 
Sezioni 
Unite 
ritengano 
che 
la 
norma 
abbia 
una 
portata 
più ampia 
di 
quella 
fin qui 
ritenuta 
(«ingenera in capo al 
socio l’obbligo di 
pagamento di 
un debito della società sul 
solo presupposto 
obiettivo, 
e 
nei 
limiti, 
della 
percezione 
di 
attività 
sociali 
in 
fase 
di 
liquidazione
») 
(7). 

3. Conclusioni. 


Concludendo, 
la 
pronuncia 
della 
Suprema 
Corte 
appare 
di 
assoluto 
rilievo, 
poichè 
le 
Sezioni 
Unite 
non si 
sono limitate 
a 
ribadire 
i 
principi 
già 
affermati 
nella 
sentenza 
n. 
6070/2013 
in 
tema 
di 
successione 
dei 
soci 
alla 
società 
cancellata, 
ma 
hanno 
anche 
chiarito 
le 
modalità 
con 
cui 
l’Amministrazione 
finanziaria 
può 
agire 
nei 
confronti 
dei 
soci 
(escludendo 
la 
notifica 
diretta 
di 
una 
cartella), non ritenendo applicabile 
l’art. 477 c.p.c. che 
consente 
di 
avvalersi 
nei 
confronti 
degli 
eredi 
del 
titolo esecutivo ottenuto verso il 
de 
cuius; 
ciò in 
quanto 
non 
ritiene 
possibile 
una 
«meccanica 
trasposizione 
in 
materia 
dei 
principi 
e delle regole proprie della successione 
mortis causa». 


Proprio 
in 
applicazione 
di 
tale 
ultimo 
principio, 
è 
auspicabile 
il 
definitivo 
superamento di 
quella 
giurisprudenza 
secondo cui 
la 
cancellazione 
della 
so


(6) in effetti 
l’art. 36 comma 
3 ha 
una 
portata 
più ampia 
dell’art. 2495 c.c., in quanto prende 
a 
riferimento 
le 
somme 
e 
i 
beni 
ricevuti 
dai 
soci 
negli 
ultimi 
due 
anni 
precedenti 
la 
messa 
in liquidazione 
della società (nonché in tale fase), senza fare alcun riferimento al bilancio finale di liquidazione. 
(7) A 
meno che, l’apparente 
parallelo tra 
i 
due 
tipi 
di 
responsabilità 
non sia 
imputabile 
alla 
circostanza 
che 
l’art. 2495 c.c. prevede 
a 
sua 
volta, al 
comma 
3, una 
responsabilità 
dei 
soci 
anche 
per colpa 
dei liquidatori analoga a quella dell’art. 36 comma 1 del d.P.R. n. 602/1973. 



cietà, al 
pari 
del 
decesso della 
persona 
fisica, farebbe 
venir meno le 
sanzioni 
irrogate 
(Cass. 29112/2021; 
9368/2023; 
di 
recente 
però, di 
contrario avviso v. 
Cass. 32503/2024 e 
23341/2024) per il 
semplice 
motivo che 
la 
morte 
di 
una 
persona 
è 
un evento naturale 
(e 
ineluttabile), mentre 
lo scioglimento della 
società 
con 
la 
successiva 
cancellazione 
è 
il 
frutto 
di 
una 
scelta 
volontaria 
dei 
soci, della 
quale 
gli 
stessi 
verrebbero ad avvantaggiarsi 
con l’estinzione 
delle 
sanzioni. 
D’altro 
canto, 
se 
un 
parallelo 
si 
volesse 
comunque 
fare 
con 
l’istituto 
della 
successione 
mortis 
causa, la 
norma 
di 
riferimento dovrebbe 
semmai 
essere 
individuata 
nell’art. 
463 
c.c. 
in 
tema 
di 
indegnità 
a 
succedere, 
prevista 
per coloro che 
hanno volontariamente 
cagionato la 
morte 
del 
de 
cuius. 
Sulla 
base 
del 
medesimo 
principio 
non 
potrebbero 
avvantaggiarsi 
dell’abbuono 
delle 
sanzioni gli stessi soci che hanno deliberato la cancellazione della società. 


Cassazione 
civile, sezioni 
unite, sentenza (ud. 12 novembre 
2024) 12 febbraio 2025 n. 
3625 -Pres. P. D’Ascola, rel. G.m. Stalla 
-z.A., z.R., z.P. (avv. m. Francescon) c. Agenzia 
delle Entrate (avv. Stato G. De Bellis). 


Fatti rilevanti di causa 
§ 1.1. i fatti rilevanti di causa possono così riassumersi: 


• 
il 
12 
luglio 
2012 
l’Agenzia 
delle 
Entrate 
di 
Treviso 
notificava 
a 
Simpra 
Srl 
in 
liquidazione, 
società 
produttrice 
di 
marmitte 
e 
componenti 
per 
auto, 
avviso 
di 
accertamento 
per 
l’anno 
2006 
con 
il 
quale, 
stante 
la 
mancata 
presentazione 
del 
modello 
Unico 
2007 
per 
l’anno 
in 
questione, 
rideterminava 
induttivamente 
in 
Euro 
887.332,00 
il 
volume 
d’affari 
iva 
ed 
in 
Euro 
200.200,00 
il 
reddito ai 
fini 
ires 
ed irap, recuperando le 
maggiori 
imposte 
dovute 
con relative 
sanzioni; 
l’Ufficio procedeva 
alla 
ricostruzione 
del 
volume 
d’affari 
e 
dei 
redditi 
della 
società, ex artt. 
55 d.P.R. 633/72 e 
41 d.P.R. 600/73, prendendo a 
riferimento, per il 
primo, l’importo delle 
operazioni 
iva 
dichiarate 
dalla 
società 
con la 
comunicazione 
annuale 
e, per i 
secondi, l’applicazione 
a 
tale 
volume 
d’affari 
di 
una 
detrazione 
per costi 
d’impresa 
forfettariamente 
stabilita 
con riguardo a campione medio di società del settore; 
• 
la 
società 
impugnava 
l’avviso di 
accertamento avanti 
alla 
Commissione 
Tributaria 
Provinciale 
di 
Treviso 
la 
quale, 
con 
sentenza 
n. 
219/03/14 
del 
12 
marzo 
2014, 
accoglieva 
in 
parte 
il 
ricorso, ritenendo legittima 
la 
sola 
ripresa 
iva, che 
rideterminava 
in euro 24.921,40 con applicazione 
delle sanzioni al minimo di legge; 
•il 9 giugno 2014 la società veniva cancellata dal Registro delle imprese di 
Treviso; 


• 
il 
29 
ottobre 
2014 
l’Agenzia 
delle 
Entrate 
proponeva 
appello 
avverso 
questa 
sentenza 
evocando in giudizio, vista 
la 
cancellazione 
della 
società, i 
soci 
z.P., z.R. ed z.A.; 
affermava 
preliminarmente 
la 
responsabilità 
di 
costoro per il 
debito della 
società, ex artt. 2495, co, 2^, 
cod. civ. e 
36 co. 3^ 
d.P.R. 602/73, allegando a 
proprio interesse 
il 
fatto che, pur in presenza 
di 
un bilancio finale 
di 
liquidazione 
che, in quanto negativo, non aveva 
attribuito alcunchè 
ai 
soci, risultasse 
comunque 
in bilancio l’appostazione 
di 
un credito della 
società 
verso il 
Fisco 
per annualità pregresse, come tale suscettibile di compensazione con la pretesa qui dedotta; 
• 
si 
costituivano 
i 
soci 
i 
quali 
eccepivano 
preliminarmente 
che, 
a 
seguito 
della 
cancellazione 
della 
società, il 
giudizio -inizialmente 
radicato esclusivamente 
nei 
confronti 
di 
quest’ultima 



-non poteva 
proseguire 
e 
che, comunque, facevano difetto sia 
l’interesse 
ad agire 
in capo all’Agenzia 
delle 
Entrate 
(asseritamente 
basato su una 
compensazione 
nei 
confronti 
di 
un soggetto 
non 
più 
esistente), 
sia 
la 
loro 
legittimazione 
passiva, 
in 
quanto 
non 
destinatari 
di 
somme 


o beni in sede di liquidazione ex art. 2495 cod. civ.; 


• 
la 
Commissione 
Tributaria 
Regionale 
del 
Veneto, respinte 
le 
eccezioni 
preliminari, accoglieva 
l’appello 
e, 
in 
riforma 
della 
prima 
decisione, 
affermava 
la 
legittimità 
in 
toto 
dell’avviso 
così 
come 
notificato 
alla 
società 
osservando, 
per 
quanto 
qui 
di 
interesse, 
che: 
-l’Agenzia 
delle 
Entrate 
aveva 
correttamente 
chiamato in causa 
gli 
ex soci 
della 
società 
medio tempore 
cancellata 
posto che, per effetto del 
fenomeno di 
tipo successorio che 
si 
era 
così 
venuto a 
creare 
ex art. 110 cod. proc. civ. (come 
evincibile 
da 
Cass. SU 
n. 6070/2013) essi, anche 
se 
rimasti 
estranei 
al 
primo grado di 
giudizio, avevano acquisito la 
legittimazione 
sostanziale 
e 
processuale, 
attiva 
e 
passiva, 
senza 
che 
ciò 
determinasse 
una 
lesione 
dei 
loro 
diritti 
di 
difesa; 
-atteso 
che 
il 
giudizio verteva 
unicamente 
sull’avviso di 
accertamento notificato alla 
società 
per il 
2006, le 
ulteriori 
questioni 
che 
z.P., z.R. ed z.A. avevano sollevato circa 
i 
limiti 
della 
loro 
responsabilità 
diretta 
per il 
pagamento delle 
somme 
derivanti 
da 
detto avviso (in quanto non 
destinatari 
di 
beni 
in sede 
di 
liquidazione 
finale) non potevano avere 
ingresso, trattandosi 
di 
eccezioni 
che 
avrebbero 
potuto 
essere 
eventualmente 
dedotte 
in 
un 
diverso 
giudizio. 
z.P., 


z.R. ed z.A. hanno proposto ricorso avverso questa 
sentenza, di 
cui 
chiedono la 
cassazione 
sulla 
base 
di 
undici 
motivi 
ex art. 360 co. 1^ 
nn. 3, 4 e 
5 cod. proc. civ., i 
primi 
tre 
dei 
quali 
volti a censurare la su riportata ragione decisoria della Commissione 
Tributaria Regionale, e 
qui 
rilevanti: 
-con il 
primo motivo si 
afferma 
la 
nullità 
della 
sentenza 
e 
del 
procedimento per 
violazione 
degli 
artt. 100 cod. proc. civ. e 
1, comma 
2, del 
decreto legislativo n. 546/1992, in 
relazione 
all’art. 
360, 
comma 
primo, 
n. 
4, 
cod. 
proc. 
civ.: 
la 
Commissione 
Tributaria 
Regionale 
aveva 
erroneamente 
omesso di 
dichiarare 
l’inammissibilità, per carenza 
d’interesse 
ad agire 
dell’appello 
proposto 
dall’Agenzia 
direttamente 
nei 
confronti 
degli 
ex 
soci 
a 
seguito 
del-
l’estinzione 
della 
società, 
come 
reso 
evidente 
dal 
fatto 
che 
la 
compensazione 
tra 
il 
credito 
erariale 
verso la 
società 
(di 
cui 
si 
era 
chiesto l’accertamento definitivo in appello) ed il 
controcredito 
vantato 
da 
questa 
per 
rimborso 
iVA, 
non 
poteva 
più 
realizzarsi 
per 
l’inesistenza 
del 
soggetto giuridico (la 
società) titolare 
sia 
del 
credito da 
compensare 
sia 
dell’asserito debito 
dedotto in avviso; 
né 
il 
credito della 
società 
verso il 
Fisco si 
trasmetteva 
agli 
ex soci 
a 
seguito 
ed in conseguenza 
dell’estinzione 
della 
società 
stessa, dal 
momento che 
a 
costoro si 
trasferivano 
esclusivamente 
le 
sopravvenienze 
attive, 
ovvero 
i 
beni 
ed 
i 
crediti 
diversi 
dalle 
mere 
pretese 
non compresi 
nel 
bilancio di 
liquidazione 
della 
società 
estinta, laddove 
il 
credito di 
rimborso iva 
in questione 
risultava 
invece 
compreso nel 
bilancio di 
liquidazione; 
-con il 
secondo 
motivo 
di 
ricorso si 
deduce 
la 
nullità 
della 
sentenza 
e 
del 
procedimento per violazione 
degli 
artt. 110 cod. proc. civ. e 
1, comma 
2, del 
decreto legislativo n. 546/1992 (e 
dei 
presupposti 
artt. 
2495, 
comma 
2, 
cod. 
civ. 
e 
36, 
comma 
3, 
del 
d.P.R. 
n. 
602/1973) 
in 
relazione 
all’art. 
360, 
comma 
primo, 
n. 
4, 
cod. 
proc. 
civ.: 
la 
Commissione 
Tributaria 
Regionale 
aveva 
erroneamente 
omesso 
di 
dichiarare 
(eventualmente 
anche 
d’ufficio) 
l’inammissibilità 
dell’appello 
perché 
proposto dall’Agenzia 
direttamente 
nei 
confronti 
degli 
ex soci, senza 
aver contestualmente 
dimostrato anche 
la 
loro personale 
responsabilità 
in relazione 
ai 
debiti 
erariali 
già 
facenti 
capo alla 
società 
estinta 
per effetto e 
nei 
limiti 
della 
riscossione 
o assegnazione 
a 
loro 
favore 
delle 
somme 
o dei 
beni 
di 
cui 
agli 
artt. 2495, comma 
2, cod. civ. e 
36, comma 
3, del 


d.P.R. 
n. 
602/1973 
(ed, 
anzi, 
pur 
essendo 
stato 
in 
causa 
positivamente 
dimostrato 
il 
contrario); 
in quanto tempestivamente 
dedotta 
con le 
controdeduzioni 
d’appello, e 
quindi 
in occasione 
del 
loro 
primo 
atto 
difensivo, 
la 
questione, 
contrariamente 
a 
quanto 
affermato 
in 
sentenza, 



non poteva 
certamente 
essere 
considerata 
estranea 
al 
thema decidendum 
e 
proponibile 
solo 
in altra 
sede; 
-con il 
terzo motivo di 
ricorso si 
riformula 
la 
stessa 
doglianza 
del 
motivo che 
precede, ma 
sotto il 
profilo, ex art. 360 co. 1 n. 3) cod. proc. civ., della 
violazione 
o falsa 
applicazione 
degli 
artt. 2495, comma 
2, cod. civ. e 
36, comma 
3, del 
d.P.R. n. 602/1973; 
si 
osserva 
inoltre 
che 
la 
violazione 
di 
queste 
norme 
sostanziali 
integrava 
comunque 
anche 
un 
error 
in 
procedendo, 
laddove 
la 
loro 
esatta 
applicazione 
costituiva 
il 
presupposto 
per 
la 
corretta 
applicazione 
di 
una 
norma 
di 
rito (l’art. 110 cod. proc. civ.) che 
si 
assumeva 
violata 
proprio in 
conseguenza 
della 
violazione 
delle 
prime. L’Agenzia 
delle 
Entrate 
dichiarava 
di 
costituirsi 
al 
solo fine della eventuale discussione in udienza, ex art. 370, primo comma, cod. proc. civ. 

§ 1.2 
Assegnato il 
ricorso a 
decisione, interveniva 
l’ordinanza 
n. 7425 del 
14 marzo 2023 
con la 
quale 
la 
Sezione 
Tributaria 
rimetteva 
gli 
atti 
alla 
Prima 
Presidente 
per l’eventuale 
assegnazione 
alle 
Sezioni 
Unite 
della 
questione 
così 
individuata 
(par. 
12): 
“Le 
censure 
proposte 
con il 
primo, il 
secondo e 
il 
terzo motivo di 
ricorso, che 
assumono rilievo decisivo e 
assorbente, 
implicano l’esame 
della questione 
controversa, che 
è 
stata oggetto di 
contrasto nella 
giurisprudenza di 
questa Corte, se 
la condizione 
testualmente 
fissata dall’art. 2495 cod. civ., 
al 
fine 
di 
consentire 
ai 
creditori 
sociali 
di 
fare 
valere 
i 
loro 
crediti, 
dopo 
la 
cancellazione 
della società, nei 
confronti 
dei 
soci, si 
rifletta sul 
requisito dell’interesse 
ad agire 
in capo al-
l’Amministrazione 
finanziaria o sulla legittimazione 
passiva del 
socio medesimo ai 
fini 
della 
prosecuzione 
del 
processo 
originariamente 
instaurato 
contro 
la 
società 
e 
se 
la 
riconducibilità 
nell’ambito dell’una condizione 
dell’azione 
o dell’altra implichi 
conseguenze 
specifiche 
in 
tema di 
onere 
della prova. Ciò tenuto conto anche 
che 
il 
processo tributario è 
annoverabile 
tra 
quelli 
di 
«impugnazione-merito» 
e 
della 
affermata 
natura 
dinamica 
dell’interesse 
ad 
agire, 
che 
come 
tale 
può 
assumere 
una 
diversa 
configurazione, 
ma 
fino 
al 
momento 
della 
decisione 
”. 


osservano i giudici remittenti che: 


• 
dal 
1^ 
gennaio 2004 (data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
riforma 
del 
diritto societario di 
cui 
al 
D.Lgs. 
n. 
6/2003) 
la 
cancellazione 
della 
società 
dal 
registro 
delle 
imprese 
ha 
effetto 
costitutivo 
e 
ne 
comporta 
l’immediata 
estinzione, con superamento del 
pregresso indirizzo secondo cui 
l’estinzione 
presupponeva 
invece 
l’effettivo 
esaurimento 
di 
tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
facenti 
capo alla società (Cass., Sez. U., 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062); 
• 
successivamente 
alle 
sentenze 
appena 
citate, si 
è 
poi 
affermato (Cass., 16 maggio 2012, 


n. 
7676; 
Cass., 
16 
maggio 
2012, 
n. 
7679; 
Cass., 
16 
maggio 
2012, 
n. 
19453) 
che, 
in 
base 
all’art. 
2495 cit., nelle 
società 
di 
capitali 
la 
riscossione 
della 
quota 
in forza 
del 
bilancio finale 
di 
liquidazione 
non 
costituisce 
soltanto 
il 
limite 
di 
responsabilità 
del 
socio 
quanto 
al 
debito 
sociale, 
ma 
anche 
la 
condizione 
per la 
sua 
successione 
nel 
processo già 
instaurato contro la 
società; 
sicché 
il 
socio (diversamente 
dall’erede 
della 
persona 
fisica) non è 
di 
per sé 
successore 
universale 
della 
società, 
ma 
lo 
diviene, 
ex 
lege, 
se 
ed 
in 
quanto 
vi 
sia 
stata 
questa 
riscossione 
(nel 
qual 
caso 
egli 
risponde 
intra 
vires 
del 
debito 
sociale), 
con 
la 
conseguenza 
che 
quest’ultimo 
evento deve 
essere 
allegato e 
dimostrato quale 
presupposto della 
condizione 
dell’azione 
costituita 
dall’interesse 
ad agire, il 
quale 
“richiede 
non solo l’accertamento di 
una situazione 
giuridica, ma anche 
la prospettazione 
dell’esigenza di 
ottenere 
un risultato utile, giuridicamente 
apprezzabile, conseguente 
allo specifico intervento giurisdizionale 
richiesto, giacché 
il processo non può essere utilizzato in previsione di solo astratte esigenze”; 
• 
si 
è 
così 
giunti 
ai 
noti 
arresti 
del 
2013 (Cass. Sez. U 
nn. 6070-6071-6072) con i 
quali 
è 
stato chiarito che, a 
seguito della 
cancellazione 
ed estinzione 
della 
società 
in corso di 
causa 
(come 
nella 
specie), 
si 
determina 
un 
fenomeno 
di 
tipo 
successorio, 
in 
forza 
del 
quale 
i 
rapporti 
obbligatori 
facenti 
capo all’ente 
non si 
estinguono (cosa 
che 
sacrificherebbe 
ingiustamente 
i 



diritti 
dei 
creditori 
sociali), 
ma 
si 
trasferiscono 
ai 
soci, 
i 
quali 
ne 
rispondono 
nei 
limiti 
di 
quanto 
riscosso 
a 
seguito 
della 
liquidazione 
ovvero 
illimitatamente, 
a 
seconda 
del 
regime 
giuridico 
dei 
debiti 
sociali 
cui 
erano soggetti 
in vita 
la 
società; 
in modo tale 
che 
i 
soci 
successori 
della 
società 
subentrano, 
altresì, 
nella 
legittimazione 
processuale 
facente 
capo 
all’ente 
-la 
cui 
estinzione 
è 
in parte 
equiparabile 
alla 
morte 
della 
persona 
fisica, ai 
sensi 
dell’art. 110 cod. 
proc. civ. -in situazione 
di 
litisconsorzio necessario per ragioni 
processuali, ovverosia 
a 
prescindere 
dalla 
scindibilità 
o meno del 
rapporto sostanziale 
(Cass., Sez. U., 2013 cit.); 
inoltre, 
qualora 
all’estinzione 
della 
società, di 
persone 
o di 
capitali, conseguente 
alla 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, non corrisponda 
il 
venir meno di 
ogni 
rapporto giuridico facente 
capo alla 
società 
estinta, l’effetto successorio comporta 
che 
i 
diritti 
e 
i 
beni 
non compresi 
nel 
bilancio di 
liquidazione 
della 
società 
estinta 
si 
trasferiscano ai 
soci, in regime 
di 
contitolarità 


o comunione 
indivisa, con esclusione 
delle 
mere 
pretese, ancorché 
azionate 
o azionabili 
in 
giudizio, e 
dei 
crediti 
ancora 
incerti 
o illiquidi, la 
cui 
inclusione 
in detto bilancio avrebbe 
richiesto 
un’attività 
ulteriore 
(giudiziale 
o 
extragiudiziale) 
e 
il 
cui 
mancato 
espletamento 
da 
parte 
del 
liquidatore 
consente 
di 
ritenere 
che 
la 
società 
vi 
abbia 
rinunciato, a 
favore 
di 
una 
più rapida conclusione del procedimento estintivo; 


• 
sempre 
secondo le 
Sezioni 
Unite 
del 
2013, il 
socio successore 
non cessa 
di 
essere 
tale 
sol 
perché 
risponde 
intra vires, e 
se 
il 
suddetto limite 
di 
responsabilità 
dovesse 
rendere 
evidente 
l’inutilità 
per il 
creditore 
di 
far valere 
le 
proprie 
ragioni 
nei 
suoi 
confronti, ciò si 
rifletterebbe 
sul 
requisito dell’interesse 
ad agire 
e 
non sulla 
legittimazione 
passiva 
del 
socio medesimo, 
con l’ulteriore 
specificazione 
che 
in tal 
caso il 
creditore 
potrebbe 
avere 
comunque 
interesse 
all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie; 
• 
diversa 
è 
la 
posizione 
del 
liquidatore, il 
quale 
non succede 
alla 
società 
e 
può essere 
raggiunto, 
ex art. 2495 cit., da 
un’azione 
autonoma 
(di 
natura 
risarcitoria) da 
parte 
dei 
creditori 
sociali 
insoddisfatti 
qualora 
il 
mancato pagamento sia 
da 
lui 
dipeso (Cass., 30 luglio 2020, n. 
16362); 
• 
su 
queste 
premesse, 
si 
osserva 
ancora 
nell’ordinanza 
di 
rimessione, 
si 
sono 
poi 
sviluppate 
nella 
giurisprudenza 
linee 
interpretative 
non del 
tutto univoche 
e 
collimanti, nel 
senso che: 
a) 
per 
un 
primo 
e 
maggioritario 
indirizzo, 
costituente 
ormai 
“diritto 
vivente” 
(Cass., 
5 
novembre 
2021, n. 31904), il 
limite 
di 
responsabilità 
dei 
soci 
di 
cui 
all’art. 2495 cod. civ. non 
incide 
sulla 
loro legittimazione 
processuale 
ma 
appunto sull’interesse 
ad agire 
dei 
creditori 
sociali, interesse 
che, tuttavia, non è 
di 
per sé 
escluso dalla 
circostanza 
che 
i 
soci 
non abbiano 
partecipato 
utilmente 
alla 
ripartizione 
finale, 
potendo, 
ad 
esempio, 
sussistere 
beni 
e 
diritti 
che, 
sebbene 
non ricompresi 
nel 
bilancio di 
liquidazione 
della 
società 
estinta, si 
siano trasferiti 
ai 
soci; 
dunque, il 
creditore 
potrebbe 
avere 
interesse 
al 
mero accertamento del 
diritto, e 
l’eventuale 
insussistenza 
di 
attivo distribuito potrebbe 
incidere 
sulla 
esigibilità 
del 
credito in fase 
esecutiva 
(Cass. 
8 
marzo 
2017, 
n. 
5988; 
Cass., 
7 
aprile 
2017, 
n. 
9094; 
Cass., 
24 
gennaio 
2018, 
n. 
1713; 
Cass. 
19 
aprile 
2018, 
n. 
9672; 
Cass., 
5 
giugno 
2018, 
n. 
14446; 
Cass., 
16 
giugno 
2017, 
n. 
15035; 
Cass. 
16 
gennaio 
2019, 
n. 
897; 
Cass., 
18 
dicembre 
2019, 
n. 
33582; 
Cass., 
26 
giugno 
2020, 
n. 
12758; 
Cass., 
19 
novembre 
2020, 
n. 
26402; 
Cass., 
Sez. 
Un., 
15 
gennaio 
2021, 
n. 
619; 
Cass., 4 gennaio 2022, n. 2); 
pure 
in ambito tributario la 
possibilità 
di 
sopravvenienze 
attive, 


o anche 
semplicemente 
la 
possibile 
esistenza 
di 
beni 
e 
diritti 
non contemplati 
nel 
bilancio, 
non consentono di 
escludere 
l’interesse 
dell’Agenzia 
a 
procurarsi 
un titolo nei 
confronti 
dei 
soci, “in considerazione 
della natura dinamica dell’interesse 
ad agire, che 
rifugge 
da considerazioni 
statiche 
allo stato degli 
atti” 
(Cass., 7 aprile 
2017, n. 9094; 
Cass., 16 giugno 2017, 
n. 
15035); 
orientamento, 
questo, 
che 
è 
stato 
ribadito 
anche 
dalle 
stesse 
Sezioni 
Unite, 
sebbene 



in sede 
di 
regolamento di 
giurisdizione 
(15 gennaio 2021 n. 619 cit.), secondo le 
quali 
il 
fatto 
che 
“i 
soci 
abbiano goduto, o no, di 
un qualche 
riparto in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione 
non è 
dirimente 
(...) 
ai 
fini 
dell’esclusione 
dell’interesse 
ad agire 
del 
Fisco creditore”; 


b) in 
base 
ad 
un 
secondo orientamento, si 
afferma 
che 
è 
necessario provare 
l’effettiva 
percezione 
delle 
somme 
da 
parte 
dell’ex socio a 
titolo di 
legittimazione 
passiva, e 
questo onere 
incombe 
ex art. 2697 cod. civ. (trattandosi 
di 
elemento costitutivo della 
fattispecie 
di 
responsabilità) 
sul 
creditore 
che 
agisce 
(Cass. 26 giugno 2015, n. 13259; 
Cass., 23 novembre 
2016, 
n. 
23916; 
Cass. 
31 
gennaio 
2017, 
n. 
2444; 
Cass., 
22 
giugno 
2017, 
n. 
15474; 
Cass., 
4 
dicembre 
2019, n. 31933; 
Cass., 15 gennaio 2020, n. 521), il 
che 
deve 
valere 
anche 
per il 
Fisco (Cass. 
19732/ 
9005; 
Cass.11968/2012; 
Cass. 7676/2012; 
Cass. 23916/16); 
c) in 
base 
ad 
un 
terzo 
orientamento, si 
sostiene 
che 
nel 
caso di 
società 
di 
capitali 
l’accertamento della 
riscossione 
della 
quota 
di 
liquidazione 
si 
correla 
alla 
legittimazione 
ad causam 
del 
socio ai 
fini 
della 
prosecuzione 
del 
processo 
ai 
sensi 
dell’art. 
110 
cod. 
proc. 
civ. 
sicchè, 
in 
presenza 
di 
contestazione 
sul 
punto, 
questa 
circostanza 
va 
provata 
dal 
soggetto 
che 
si 
costituisce 
in 
giudizio 
nella 
qualità 
di 
successore 
universale 
della 
società 
estinta, dimostrazione 
da 
ritenersi 
ammissibile 
anche, 
per la 
prima 
volta, nel 
giudizio di 
cassazione, ai 
sensi 
dell’art. 372 cod. proc. civ., in quanto 
appunto diretta 
a 
comprovare, sotto il 
detto profilo, l’ammissibilità 
del 
ricorso (Cass., 5 novembre 
2021, 
n. 
31904; 
Cass. 
31 
gennaio 
2017, 
n. 
2444), 
così 
anche 
Cass., 
16 
novembre 
2020, n. 25869, secondo cui: 
“qualora l’estinzione 
della società a seguito di 
cancellazione 
dal 
registro 
delle 
imprese 
intervenga 
in 
pendenza 
di 
un 
giudizio 
che 
la 
veda 
parte, 
si 
determina 
un evento interruttivo, disciplinato dagli 
artt. 299 e 
ss. c.p.c., con eventuale 
prosecuzione 
o 
riassunzione 
ad opera o nei 
confronti 
dei 
soci, successori 
della società, ai 
sensi 
dell’art. 110 
c.p.c.; ove 
l’evento non sia stato fatto constare 
nei 
modi 
di 
legge 
o si 
sia verificato quando 
farlo 
constare 
in 
tali 
modi 
non 
sarebbe 
più 
stato 
possibile, 
l’impugnazione 
della 
sentenza, 
pronunciata nei 
riguardi 
della società, deve 
provenire 
o essere 
indirizzata, a pena d’inammissibilità, 
dai 
soci 
o 
nei 
confronti 
dei 
soci, 
purché 
dei 
presupposti 
della 
“legitimatio 
ad 
causam” 
sia da costoro fornita la prova”; 


• 
pur dopo le 
decisioni 
delle 
Sezioni 
Unite 
del 
2013, quindi, permarrebbero varie 
discrasie 
nella 
giurisprudenza: 
sia 
là 
dove 
si 
riconduce 
la 
condizione 
di 
cui 
all’art. 2495, co. 2^, cod. 


civ. nell’ambito ora 
dell’interesse 
ad agire 
(salvo poi 
prescinderne 
ritenendo che 
il 
creditore 
abbia 
comunque 
interesse 
anche 
in 
mancanza 
di 
una 
effettiva 
riscossione 
di 
somme 
sulla 
base 
del 
bilancio finale 
di 
liquidazione), ed ora 
della 
legittimazione 
processuale 
del 
socio, sia 
là 
dove 
si 
adottano sul 
punto criteri 
di 
ripartizione 
dell’onere 
probatorio del 
tutto opposti, a 
seconda 
che ci si muova nella prospettiva del creditore o del socio succeduto; 


• 
il 
tutto 
andrebbe 
poi 
specificato 
con 
riguardo 
al 
contesto 
tributario 
ed 
alle 
sue 
peculiarità, 
quanto a: 
-natura 
impugnatoria 
del 
giudizio, ex art. 19 D.Lgs. n. 546/92, e 
divieto di 
ampliamento 
del 
tema 
decisionale, apparentemente 
ostativo alla 
possibilità 
di 
sollevare 
l’eccezione 
del 
difetto di 
responsabilità 
del 
socio che 
sia 
succeduto in corso del 
giudizio (Cass., 19 aprile 
2018, n. 9672, in motivazione); 
-natura 
anche 
di 
merito del 
medesimo, fermo restando che 
l’art. 35, comma 
3, ultimo periodo, del 
D.Lgs. n. 546 del 
1992, come 
interpretato alla 
luce 
degli 
artt. 
111 
Cost., 
6 
CEDU 
e 
47 
CDFUE, 
“esclude 
la 
pronuncia 
di 
condanna 
indeterminata, 
rendendo necessario l’esame 
nel 
merito della pretesa, entro i 
limiti 
posti 
dalle 
domande 
di 
parte” 
(Cass., 25 novembre 
2022, n. 34723; 
Cass. 10 settembre 
2020, n. 18777); 
-caratteristiche 
formali 
ed amministrative 
dell’atto impositivo, che 
presuppone 
in ogni 
caso una 
iscrizione 
a 
ruolo 
nei 
confronti 
del 
socio, 
succeduto 
nel 
corso 
del 
processo, 
per 
le 
somme 
accertate 
nei 
confronti 
della 
società, e 
ciò sia 
che 
debba 
essere 
attivata 
la 
speciale 
procedura 
prevista 





dall’art. 36 del 
d.P.R. n. 602 del 
1976, sia 
che 
venga 
attivato il 
modulo di 
responsabilità 
ex 
art. 2495 cod. civ.; 
(Cass., 19 aprile 
2018, n. 9672, in motivazione); 
-al 
fatto che 
l’iscrizione 
a 
ruolo 
nei 
confronti 
del 
socio, 
e 
la 
stessa 
notifica 
della 
cartella 
di 
pagamento 
(che 
costituisce, 
ad 
un 
tempo, 
notifica 
del 
titolo 
esecutivo 
e 
del 
precetto: 
v. 
Cass. 
n. 
3021/2018; 
Cass. 
n. 
6526/2018; 
Cass., Sez. Un., n. 7822/2020), prescindono del 
tutto da 
ogni 
accertamento sulla 
avvenuta 
(o mancata) percezione 
degli 
utili, sicché 
la 
sede 
naturale 
in cui 
si 
possa 
procedere 
a 
questo 
accertamento 
deve 
giocoforza 
individuarsi 
nel 
processo 
tributario, 
il 
cui 
avvio 
è 
onere 
del 
socio, ex art. 19 D.Lgs. n. 546/1992; 
in modo tale, si 
è 
affermato, che 
spetta 
all’ex socio 
“dimostrare 
la propria assenza di 
responsabilità (ossia, il 
non essere 
tenuto, in concreto, a 
rispondere 
di 
quel 
debito sociale), per 
non aver 
percepito utili 
all’esito della liquidazione, 
anzitutto allegando la circostanza, e 
quindi 
offrendo la relativa prova. Né, del 
resto, su un 
piano più generale, può così 
configurarsi 
alcun vulnus 
al 
diritto di 
difesa del 
socio, ex 
art. 
24 Cost. infatti, con l’impugnazione 
della cartella, il 
socio -con riferimento a quel 
titolo tributario 
-contesta 
il 
diritto 
di 
procedere 
all’esecuzione 
preannunciatagli 
dal 
fisco, 
allo 
stesso 
modo in cui 
per 
gli 
altri 
debiti 
sociali 
egli 
può contestare 
la propria responsabilità mediante 
opposizione all’esecuzione” (Cass. n. 12714/2019; Cass., 5 novembre 2021, n. 31904); 


• 
sempre 
in 
ambito 
tributario, 
poi, 
si 
è 
stabilito, 
sia 
pure 
in 
tema 
di 
impugnazione 
del-
l’estratto di 
ruolo, che 
l’interesse 
ad agire 
è 
una 
condizione 
dell’azione 
avente 
natura 
«dinamica
» 
la 
quale, 
come 
tale, 
può 
assumere 
una 
diversa 
configurazione, 
anche 
per 
norma 
sopravvenuta, 
ma 
fino 
al 
momento 
della 
decisione 
(Cass., 
Sez. 
U., 
6 
settembre 
2022, 
n. 
26283), 
aggiungendosi 
poi 
che 
“l’accertamento 
dell’interesse 
ad 
agire, 
inteso 
quale 
esigenza 
di 
provocare 
l’intervento degli 
organi 
giurisdizionali 
per 
conseguire 
la tutela di 
un diritto o 
di 
una situazione 
giuridica, deve 
compiersi 
con riguardo all’utilità del 
provvedimento giudiziale 
richiesto 
rispetto 
alla 
lesione 
denunziata, 
prescindendo 
da 
ogni 
indagine 
sul 
merito 
della controversia e 
dal 
suo prevedibile 
esito” 
(Cass., Sez. U., 22 novembre 
2022, n. 34388). 


§ 1.3 
Assegnato dalla 
Prima 
Presidente 
alle 
Sezioni 
Unite, il 
ricorso è 
stato chiamato alla 
pubblica udienza odierna. 


il 
Procuratore 
Generale 
ha 
concluso 
per 
l’inammissibilità, 
introducendo 
essi 
questioni 
estranee 
al 
giudizio, 
dei 
primi 
tre 
motivi 
di 
ricorso 
(quelli 
qui 
di 
interesse) 
previa 
affermazione 
del 
seguente 
principio 
di 
diritto: 
“nel 
giudizio 
tributario, 
la 
successione 
dei 
soci 
limitatamente 
responsabili 
nella 
posizione 
processuale 
di 
una 
società 
estintasi 
nel 
corso 
del 
giudizio 
comporta 
che 
i 
soci 
non 
possano 
sollevare 
questioni 
inerenti 
alla 
loro 
successione 
nella 
posizione 
sostanziale 
e 
processuale 
della 
società 
estinta, 
né 
quelle 
che 
si 
riflettono 
sull’esistenza 
dell’interesse 
ad 
agire 
dell’amministrazione 
finanziaria 
nei 
loro 
confronti, 
in 
quanto 
estranee 
all’ambito 
della 
controversia, 
come 
delimitato 
dalla 
motivazione 
dell’atto 
impositivo 
notificato 
alla 
società 
e 
dalle 
ragioni 
del 
ricorso 
introduttivo 
della 
causa 
dalla 
società 
stessa 
formulato”. 


Sulle 
questioni 
di 
cui 
all’ordinanza 
di 
rimessione, 
il 
Procuratore 
Generale 
ha 
in 
particolare 
osservato che: 


• 
in ragione 
di 
quanto già 
stabilito dalle 
citate 
sentenze 
delle 
Sezioni 
Unite 
del 
2013, l’ex 
socio ha 
sempre 
e 
comunque 
legittimazione 
passiva, incidendo il 
requisito di 
cui 
al 
secondo 
comma 
dell’articolo 2495 del 
cod. civ. (percezione 
di 
somme 
sulla 
base 
del 
bilancio finale 
di 
liquidazione) 
sull’interesse 
ad 
agire 
del 
creditore, 
peraltro 
“non 
condizionato 
necessariamente 
dalla ricezione 
da parte 
del 
socio di 
somme 
all’esito del 
bilancio finale 
di 
liquidazione, presupposto 
che 
inerisce 
strettamente 
alla sussistenza ed al 
perimetro della responsabilità patrimoniale 
del 
socio 
medesimo, 
potendosi 
ravvisare 
un 
diverso 
interesse 
all’accertamento 
del 
credito, quale quello funzionale all’escussione di garanzie”; 



• 
come 
stabilito dalle 
Sezioni 
Unite 
medesime, il 
fenomeno successorio in questione 
determina 
sul 
piano processuale 
l’applicabilità 
degli 
artt. 299 segg. e 
110 cod. proc. civ. e, nel 
caso in cui 
l’evento estintivo non sia 
stato fatto constare 
ritualmente 
o si 
sia 
verificato in pendenza 
del 
termine 
per l’impugnazione 
di 
una 
sentenza, “il 
gravame 
deve 
promanare 
o esser 
indirizzato dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”; 
• 
pur 
in 
presenza 
di 
qualche 
pronuncia 
di 
segno 
contrario, 
l’indirizzo 
tracciato 
dalle 
Sezioni 
Unite 
del 
2013 
costituisce 
ormai 
‘diritto 
vivente’, 
generalmente 
seguito, 
in 
ordine 
al 
fatto 
che 
“il 
limite 
di 
responsabilità di 
cui 
all’art. 2495 c.c. attiene 
all’interesse 
ad agire 
del 
creditore 
e 
non già alla legittimazione 
processuale 
dei 
soci, con conseguente 
divaricazione 
tra la posizione 
giuridica 
soggettiva 
di 
debitore 
di 
questi 
ultimi, 
riconducibile 
al 
sol 
fatto 
che 
la 
società 
si 
sia estinta e 
si 
sia quindi 
verificato il 
fenomeno successorio sui 
generis 
di 
cui 
s’è 
detto, e 
la loro responsabilità patrimoniale, riscontrabile 
nei 
limiti 
di 
quanto previsto dall’art. 2495, 
secondo co.”; 
• 
sempre 
in considerazione 
di 
questo consolidato orientamento (e 
come 
anche 
osservato 
da 
Cass. 
SU 
n. 
619/21) 
l’assenza 
nel 
bilancio 
di 
liquidazione 
della 
società 
estinta 
di 
ripartizioni 
agli 
ex soci 
non esclude 
tuttavia 
“l’interesse 
dell’Agenzia a procurarsi 
un titolo nei 
confronti 
dei 
soci, in considerazione 
della natura dinamica dell’interesse 
ad agire, che 
rifugge 
da considerazioni 
statiche allo stato degli atti”; 
• 
su questo presupposto, e 
venendo con ciò al 
tema 
dell’onere 
della 
prova, occorre 
ritenere 
che 
“sul 
creditore 
gravi 
un onere 
di 
allegare 
e, in caso di 
contestazione 
da parte 
del 
preteso 
debitore, 
provare, 
non 
necessariamente 
solo 
la 
reale 
percezione 
delle 
somme 
conseguente 
alla ripartizione 
dell’attivo sociale 
successiva all’approvazione 
del 
bilancio finale 
di 
liquidazione, 
ma anche, alternativamente, alla luce 
della “dilatazione” 
operata dalla giurisprudenza 
del 
perimetro 
del 
concetto 
di 
interesse 
ad 
agire 
in 
fattispecie 
quali 
quella 
per 
cui 
causa, 
la necessità di 
accertare 
il 
credito nei 
confronti 
dei 
soci 
per 
ragioni 
diverse, quali 
quelle 
riconducibili 
alla possibile 
escussione 
di 
una garanzia o alla eventuale 
sopravvenienza di 
attivo, 
o 
ancora 
alla 
ipotizzabile 
non 
inclusione 
di 
beni 
o 
diritti 
nel 
bilancio 
finale 
di 
liquidazione”; 
• 
per regola 
generale, vertendosi 
appunto di 
interesse 
ad agire 
quale 
condizione 
di 
ammissibilità 
della 
domanda, questi 
presupposti 
sono oggetto “di 
un onere 
di 
allegazione 
o, in caso 
di contestazione, di dimostrazione, da parte del creditore”; 
• 
in sede 
di 
adattamento di 
questi 
principi 
al 
processo tributario nel 
quale 
gli 
ex soci 
succedano 
alla 
società 
estinta, le 
peculiarità 
date 
dalla 
natura 
impugnatoria 
e 
delimitata 
ai 
motivi 
di 
opposizione 
avverso l’atto impositivo tipica 
del 
giudizio, induce 
a 
rilevare 
che 
“i 
profili 
riconducibili 
all’interesse 
ad agire 
dell’amministrazione 
finanziaria nei 
confronti 
dei 
soci, e 
non più della società, sono estranei 
alla controversia, né 
possono essere 
introdotti 
ad integrazione 
della materia del 
contendere, sinanche 
fosse 
già intervenuta la distribuzione 
di 
utili 
ai 
soci; all’amministrazione 
finanziaria è 
infatti 
preclusa la possibilità di 
integrare 
o modificare 
la 
motivazione 
dell’avviso 
di 
accertamento 
nel 
corso 
del 
giudizio 
(Cass., 
n. 
2382/18) 
”; 
• 
ciò posto, il 
Fisco mantiene 
interesse 
al 
rigetto del 
ricorso contro l’atto impositivo notificato 
alla 
società 
poi 
dissoltasi, “al 
fine 
di 
ottenerne 
il 
consolidamento, necessario presupposto, 
quest’ultimo, di 
una successiva iscrizione 
a ruolo del 
credito erariale 
nei 
confronti 
del 
socio o, più correttamente, dell’emissione 
di 
un ulteriore 
avviso di 
accertamento, la cui 
motivazione 
dovrà inerire, inevitabilmente, anche 
alla sussistenza dei 
presupposti 
di 
cui 
all’art. 
2495, secondo comma c.c. o di cui all’art. 36, terzo comma del d.P.r. 602/73”; 


• 
quest’ultimo dato normativo, in particolare, depone 
nel 
senso che 
“sia la responsabilità 



dei 
soci 
ex 
art. 36, terzo comma, d.P.r. n. 602/73, sia quella ai 
sensi 
dell’art. 2495, secondo 
comma c.c., implicano quindi 
la necessità di 
un atto impositivo, distinto e 
successivo rispetto 
a 
quello 
emesso 
nei 
confronti 
della 
società 
estintasi, 
condizionatamente 
al 
fatto 
che 
la 
pretesa 
tributaria nei confronti della società si sia consolidata”. 


Motivi della decisione 


§ 2.1 
in base 
all’art. 2495 cod. civ. (originariamente 
nel 
suo 2^ 
co., poi 
divenuto 3 co. a 
seguito 
della 
modifica 
apportata 
dal 
D.L. 
n. 
76/2020 
conv. 
in 
legge 
n. 
120/20): 
“Ferma 
restando 
l’estinzione 
della 
società, 
dopo 
la 
cancellazione 
i 
creditori 
sociali 
non 
soddisfatti 
possono 
far 
valere 
i 
loro crediti 
nei 
confronti 
dei 
soci, fino alla concorrenza delle 
somme 
da questi 
riscosse 
in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione, e 
nei 
confronti 
dei 
liquidatori, se 
il 
mancato 
pagamento è 
dipeso da colpa di 
questi. La domanda, se 
proposta entro un anno dalla cancellazione, 
può essere notificata presso l’ultima sede della società”. 


La 
disposizione 
ricalca 
l’art. 2456 cod. civ. nella 
formulazione 
previgente 
alla 
riforma 
del 
diritto societario di 
cui 
al 
D.Lgs. n. 6/2003, collocandosi 
però in un contesto normativo del 
tutto nuovo, segnato dal 
definitivo superamento della 
risalente 
e 
consolidata 
tesi 
della 
permanenza 
in vita 
della 
società 
fino ad avvenuta 
definizione 
di 
ogni 
rapporto giuridico ad essa 
riferibile 
(c.d. 
liquidazione 
sostanziale), 
a 
favore 
della 
natura 
costitutiva, 
ad 
effetto 
immediato, 
dell’estinzione 
della 
società 
a 
seguito ed a 
causa 
della 
sua 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese 
(Cass. SSUU 
n. 4060/10); 
tanto che 
la 
vera 
innovazione 
dell’art. 2495 rispetto all’art. 
2456 
va 
appunto 
individuata 
nella 
precisazione 
iniziale, 
per 
cui 
la 
responsabilità 
dei 
soci 
dopo 
la 
cancellazione 
opera, adesso, ad estinzione 
sociale 
avvenuta: 
“Ferma 
restando l’estinzione 
della società (...)”. 


orbene, la 
materia 
in esame 
-nella 
sua 
disciplina 
codicistica 
-ha 
trovato un assetto interpretativo 
ed 
applicativo 
che 
giustamente 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
ed 
il 
Procuratore 
Generale 
definiscono del 
tutto assodato nei 
suoi 
fondamenti, ed anzi 
integrante 
(nella 
condivisione 
di 
larga 
parte 
della 
Dottrina 
e 
della 
giurisprudenza 
successiva) un vero e 
proprio diritto vivente 
che - lo si precisa subito - andrà qui ribadito e confermato. 


Si 
tratta, del 
resto, di 
una 
ricostruzione 
a 
tal 
punto nota 
che 
ne 
sarà 
sufficiente 
un richiamo 
essenziale 
mirato 
ai 
temi 
di 
causa, 
con 
riguardo 
agli 
effetti 
tanto 
sostanziali 
quanto 
processuali 
della 
cancellazione-estinzione 
della 
società, così 
come 
evincibili 
da 
Cass. SSUU, 12 marzo 
2013, nn. 6070, 6071 e 6072. 


Ciò nel 
senso che, sul 
piano sostanziale, qualora 
all’estinzione 
della 
società, di 
persone 
o 
di 
capitali, conseguente 
alla 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, non corrisponda 
il 
venir 
meno di 
ogni 
rapporto giuridico facente 
capo alla 
società 
estinta, “si 
determina un fenomeno 
di 
tipo successorio, in virtù del 
quale: a) l’obbligazione 
della società non si 
estingue, ciò che 
sacrificherebbe 
ingiustamente 
il 
diritto del 
creditore 
sociale, ma si 
trasferisce 
ai 
soci, i 
quali 
ne 
rispondono, nei 
limiti 
di 
quanto riscosso a seguito della liquidazione 
o illimitatamente, a 
seconda che, ‘pendente 
societate’, fossero limitatamente 
o illimitatamente 
responsabili 
per 
i 
debiti 
sociali; 
b) 
i 
diritti 
e 
i 
beni 
non 
compresi 
nel 
bilancio 
di 
liquidazione 
della 
società 
estinta 
si 
trasferiscono ai 
soci, in regime 
di 
contitolarità o comunione 
indivisa, con esclusione 
delle 
mere 
pretese, 
ancorché 
azionate 
o 
azionabili 
in 
giudizio, 
e 
dei 
crediti 
ancora 
incerti 
o 
illiquidi, 
la cui 
inclusione 
in detto bilancio avrebbe 
richiesto un’attività ulteriore 
(giudiziale 
o extragiudiziale), 
il 
cui 
mancato espletamento da parte 
del 
liquidatore 
consente 
di 
ritenere 
che 
la 
società vi 
abbia rinunciato, a favore 
di 
una più rapida conclusione 
del 
procedimento estintivo”. 
mentre, sul 
piano processuale, la 
cancellazione 
della 
società 
dal 
registro delle 
imprese, 



a 
partire 
dal 
momento in cui 
si 
verifica 
l’estinzione 
della 
società 
cancellata, priva 
la 
società 
stessa 
della 
capacità 
di 
stare 
in 
giudizio, 
in 
modo 
tale 
che 
qualora 
l’estinzione 
intervenga 
nella 
pendenza 
di 
un giudizio del 
quale 
la 
società 
è 
parte, “si 
determina un evento interruttivo, disciplinato 
dagli 
artt. 299 e 
ss. cod. proc. civ., con eventuale 
prosecuzione 
o riassunzione 
da 
parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.”. 


Dunque: 
-la 
cancellazione 
della 
società 
ha 
effetto 
costitutivo 
immediato 
ma 
non 
comporta 
l’estinzione, 
in 
danno 
dei 
creditori 
ed 
in 
violazione 
dell’art. 
24 
Cost., 
delle 
obbligazioni 
sociali; 


-gli 
ex soci 
rispondono (di 
un debito che 
non è 
nuovo, derivando esso non dalla 
liquidazione 
ma 
dal 
pregresso 
svolgimento 
dell’attività 
societaria 
in 
adempimento 
del 
contratto 
sociale, 
così 
mantenendo invariata 
la 
sua 
causa 
e 
la 
sua 
natura 
giuridica 
d’origine) quali 
successori, 
seppure 
intra vires 
ex 2495 co. 2 cod. civ. (ovvero illimitatamente, a 
seconda 
del 
regime 
di 
responsabilità 
attivo in pendenza 
del 
rapporto sociale); 
-i 
diritti 
e 
beni 
non compresi 
nel 
bilancio 
di 
liquidazione 
si 
trasferiscono ai 
soci 
in contitolarità 
ovvero comunione 
indivisa, con 
eccezione 
delle 
mere 
pretese 
o 
dei 
crediti 
non 
certi 
nè 
liquidi, 
per 
i 
quali 
la 
cancellazione 
fonda 
una 
presunzione 
di 
abbandono; 
-sul 
piano 
processuale, 
la 
cancellazione 
emersa 
in 
corso 
di 
giudizio 
(là 
dove, 
in 
caso 
di 
mancata 
dichiarazione 
o 
notificazione 
dell’evento 
estintivo 
deve 
operare 
il 
regime 
di 
stabilizzazione 
ed ultrattività 
del 
mandato come 
successivamente 
chiarito 
da 
Cass. 
SU 
n. 
15295/2014) 
non 
comporta 
la 
chiusura 
anticipata 
del 
processo 
per 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
e 
la 
necessità 
di 
un nuovo giudizio nei 
confronti 
del 
socio, bensì 
una 
causa 
di 
interruzione 
del 
processo ex artt. 299 segg. cod. proc. civ.; 
-ricorre 
in proposito l’art. 110 cod. proc. civ. (che 
richiama 
il 
venir meno della 
parte 
processuale 
non 
solo per morte 
ma 
anche 
per ‘altra causa’) e 
non l’art. 111 cod. proc. civ. (non essendoci 
trasferimento 
a titolo particolare di un determinato rapporto o diritto). 


Precisavano 
poi 
le 
Sezioni 
Unite 
che: 
“il 
successore 
che 
risponde 
solo 
intra 
vires 
dei 
debiti 
trasmessigli 
non cessa, per 
questo, di 
essere 
un successore; e 
se 
il 
suaccennato limite 
di 
responsabilità 
dovesse 
rendere 
evidente 
l’inutilità 
per 
il 
creditore 
di 
far 
valere 
le 
proprie 
ragioni 
nei 
confronti 
del 
socio, ciò si 
rifletterebbe 
sul 
requisito dell’interesse 
ad agire 
(ma si 
tenga 
presente 
che 
il 
creditore 
potrebbe 
avere 
comunque 
interesse 
all’accertamento del 
proprio diritto, 
ad 
esempio 
in 
funzione 
dell’escussione 
di 
garanzie) 
ma 
non 
sulla 
legittimazione 
passiva 
del socio medesimo 
”. 


Pertanto, quella 
di 
cui 
all’articolo 2495 secondo comma 
(percezione 
di 
somme 
di 
liquidazione 
nelle 
società 
di 
capitali) 
è 
condizione 
dell’azione 
inerente 
non 
alla 
legittimazione 
passiva 
(ad causam) bensì 
all’interesse 
ad agire, con la 
precisazione 
però che 
la 
mancata 
percezione 
di 
somme 
di 
per sé 
non esclude 
l’interesse 
ad agire 
del 
creditore 
sociale 
in vista, ad esempio, 
dell’escussione 
di 
garanzie 
o della 
sopravvenienza 
di 
beni 
destinati 
a 
confluire 
in un regime 
di 
contitolarità 
o 
comunione 
indivisa. 
E 
vertendosi 
appunto 
di 
condizione 
dell’azione, 
in 
caso 
di 
contestazione 
è 
il 
creditore 
sociale 
che 
agisce 
a 
dover provare 
tanto la 
veste 
di 
ex socio del 
convenuto quanto il presupposto di cui all’articolo 2495 secondo comma. 


§ 
2.2 
Come 
affermato 
dalla 
assolutamente 
prevalente 
giurisprudenza 
successiva 
-con 
orientamento 
che 
va 
qui 
ulteriormente 
ribadito 
-a 
seguito 
dell’estinzione 
della 
società, 
il 
socio 
(exsocio) 
è 
successore 
per 
il 
solo 
fatto 
di 
essere 
tale 
e 
non 
perché 
abbia 
ricevuto 
quote 
di 
liquidazione; 
ed il 
carattere 
universale 
della 
sua 
successione 
non è 
contraddetto dal 
fatto che 
egli risponda solo nei limiti di quanto percepito. 


Certo, 
non 
si 
tratta 
di 
estendere 
tout 
court 
alla 
fattispecie 
della 
successione 
alla 
società 
estinta 
i 
principi 
propri 
della 
successione 
alla 
persona 
fisica 
defunta, 
e 
già 
le 
Sezioni 
Unite 
del 
2013 
sentirono 
la 
necessità 
di 
concettualmente 
respingere, 
in 
materia, 
“improprie 
suggestioni 
antro



pomorfiche”. 
La 
radice 
della 
responsabilità 
dell’ex-socio 
nell’originario 
contratto 
sociale, 
la 
sussistenza 
iniziale 
e 
statutaria 
di 
un 
regime 
di 
responsabilità 
limitata 
(come 
nelle 
società 
di 
capitali), 
la 
volontarietà 
e 
discrezionalità 
dell’evento 
estintivo, 
rappresentano 
-tutte 
-emergenze 
tipiche 
del 
fenomeno 
societario, 
tali 
da 
giustificare 
l’adozione 
di 
un 
paradigma 
di 
tipo 
successorio 
ma, 
come 
osservato 
dalle 
Sezioni 
Unite, 
pur 
sempre 
‘sui 
generis’. 
in 
modo 
tale 
che, 
a 
tacer 
d’altro, 
mentre 
il 
successore 
della 
persona 
fisica 
può 
evitare 
di 
esporre 
il 
proprio 
personale 
patrimonio 
alla 
responsabilità 
per 
i 
debiti 
del 
de 
cujus 
non 
accettando 
l’eredità, 
ovvero 
accettandola 
con 
beneficio 
d’inventario, 
non 
altrettanto 
può 
fare 
l’ex-socio 
il 
quale 
risponderà 
in 
ogni 
caso 
appunto 
perché 
socio, 
sebbene 
nei 
limiti 
di 
quanto 
percepito 
nella 
liquidazione. 


E 
ciò si 
spiega 
con il 
fatto che 
la 
legittimazione 
dell’ex socio quale 
soggetto responsabile 
per 
i 
debiti 
societari 
residui 
discende 
appunto, 
se 
non 
proprio 
dall’adempimento, 
quantomeno 
in conseguenza 
del 
rapporto sociale 
al 
quale 
egli 
diede 
volontariamente 
corso, posto che: 
“il 
dissolversi 
della struttura organizzativa su cui 
riposa la soggettività giuridica dell’ente 
collettivo 
fa 
naturalmente 
emergere 
il 
sostrato 
personale 
che, 
in 
qualche 
misura, 
ne 
è 
comunque 
alla base 
e 
rende 
perciò del 
tutto plausibile 
la ricostruzione 
del 
fenomeno in termini 
successori 
” (SU cit.). 


Si 
condivide 
e 
riafferma, dunque, quanto osservato da 
Cass. n. 9672 del 
19 aprile 
2018 (in 
fattispecie 
tributaria, ma 
sulla 
base 
di 
considerazioni 
di 
valenza 
generale) la 
quale, dichiaratamente 
discostandosi 
da 
alcune 
pronunce 
di 
segno contrario (Cass., 23 novembre 
2016, n. 
23916; 
Cass., 26 giugno 2015, n. 13259; 
Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444) e 
ponendosi 
invece 
in linea 
con altre 
statuizioni 
più aderenti 
alle 
Sezioni 
Unite 
del 
2013 (tra 
cui 
Cass. 7 aprile 
2017, n. 9094; 
Cass. 16 giugno 2017, n. 15035) ha 
escluso che 
gli 
ex soci 
possano ritenersi 
subentrati 
nella 
posizione 
debitoria 
solo se 
abbiano riscosso quote 
di 
liquidazione 
e, inoltre, 
che 
l’accertamento 
di 
tale 
circostanza 
costituisca 
presupposto 
della 
assunzione, 
in 
capo 
al 
socio, della 
qualità 
di 
successore 
e, correlativamente, della 
sua 
legittimazione 
ad causam 
ai 
fini della prosecuzione del processo. 


Sempre 
nel 
solco 
tracciato 
nel 
2013, 
va 
poi 
qui 
ancora 
ribadito 
che 
il 
fatto 
consistente 
nella 
percezione 
di 
somme 
rinvenienti 
dal 
bilancio finale 
di 
liquidazione 
non funge 
soltanto da 
misura 
o tetto massimo dell’esposizione 
debitoria 
del 
socio (“fino alla 
concorrenza”, come 
si 
legge 
nell’art. 
2495 
cod. 
civ.), 
ma 
attiene, 
in 
effetti, 
anche 
ed 
in 
primo 
luogo 
ad 
una 
condizione 
dell’azione, come 
tale 
demandata 
alla 
prova 
della 
parte 
attrice: 
quella 
però non della 
legittimazione 
ma dell’interesse ad agire. 


Neppure 
la 
Dottrina 
ha 
mancato di 
porre 
in luce 
come 
attribuire 
la 
percezione 
di 
somme 
liquidatorie 
alla 
sfera 
della 
legittimazione 
dell’ex 
socio 
finirebbe 
anzi 
con 
contraddire 
lo 
stesso 
assunto di 
universalità 
della 
successione, atteso che 
il 
successore 
che 
sia 
tale 
solo se 
qualcosa 
effettivamente 
acquista 
è 
il 
successore 
a 
titolo particolare, non quello a 
titolo universale, il 
quale 
succede 
nel 
patrimonio dismesso quand’anche 
questo sia 
formato da 
soli 
debiti; 
e 
ciò 
indipendentemente 
dal 
fatto che 
la 
sua 
responsabilità 
patrimoniale 
possa 
poi 
farsi 
valere 
solo 
entro 
un 
determinato 
ammontare. 
il 
risultato 
è 
che 
l’ex 
socio 
è 
sempre 
successore 
della 
società 
estinta, in quanto tale e non in quanto percettore di somme. 


Si 
è 
detto come 
le 
Sezioni 
Unite 
abbiano tuttavia 
ricordato che 
il 
creditore 
potrebbe 
avere 
comunque 
interesse 
all’accertamento 
del 
proprio 
diritto 
nei 
confronti 
del 
socio 
pur 
in 
assenza 
di 
riparto di 
liquidazione 
a 
favore 
di 
questi, come 
nel 
caso, che 
le 
stesse 
Sezioni 
Unite 
hanno 
considerato, 
di 
escussione 
di 
garanzie 
di 
terzi, 
ovvero 
di 
diritti 
e 
beni 
che, 
per 
quanto 
non 
compresi 
nel 
bilancio di 
liquidazione 
della 
società 
estinta, siano ad esso attribuiti 
in regime 
di contitolarità o comunione indivisa. 



E 
questa 
impostazione 
ha 
trovato 
anch’essa 
plurime 
conferme 
successive 
(v. 
Cass. 
n. 
9094 
del 
7 aprile 
2017 cit.; 
Cass. n. 2 del 
4 gennaio 2022; 
Cass. n. 22692 del 
26 luglio 2023; 
Cass. 


n. 8633 del 
2 aprile 
2024 ed altre), in base 
alle 
quali 
il 
limite 
di 
responsabilità 
dei 
soci 
di 
cui 
all’art. 
2495 
cod. 
civ. 
non 
incide 
sulla 
loro 
legittimazione 
processuale 
ma, 
al 
più, 
sull’interesse 
ad 
agire 
dei 
creditori 
sociali: 
“interesse 
che, 
tuttavia, 
non 
è 
di 
per 
sé 
escluso 
dalla 
circostanza 
che 
i 
soci 
non abbiano partecipato utilmente 
alla ripartizione 
finale, potendo, ad esempio, 
sussistere 
beni 
e 
diritti 
che, sebbene 
non ricompresi 
nel 
bilancio di 
liquidazione 
della società 
estinta, si sono trasferiti ad essi”. 


Così 
Cass. 
n. 
15035 
del 
16 
giugno 
2017 
cit., 
secondo 
cui: 
“La 
possibilità 
di 
sopravvenienze 
attive 
o anche 
semplicemente 
la possibile 
esistenza di 
beni 
e 
diritti 
non contemplati 
nel 
bilancio 
non consentono, dunque, di 
escludere 
l’interesse 
dell’Agenzia a procurarsi 
un titolo 
nei 
confronti 
dei 
soci, in considerazione 
della natura dinamica dell’interesse 
ad agire, che 
rifugge 
da considerazioni 
statiche 
allo stato degli 
atti”; 
affermazione, quest’ultima, ripresa 
anche 
da 
Cass. SSUU 
n. 26283 del 
6 settembre 
2022 in tema 
di 
impugnazione 
di 
estratto di 
ruolo e 
già 
ribadita, in sede 
di 
riparto di 
giurisdizione, anche 
da 
Cass. SSUU 
n. 619 del 
15 
gennaio 2021. 


Le conclusioni sul punto appaiono dunque consolidate. 


§ 3.1 
il 
sistema 
fin qui 
delineato non è 
perfettamente 
trasponibile 
nell’ambito dell’accertamento 
della responsabilità per debiti di imposta. 


Talune 
deviazioni 
rispetto a 
quanto sin qui 
osservato sono necessitate 
dalla 
struttura 
stessa 
dell’obbligo 
tributario 
come 
riscontrabile 
in 
fattispecie 
tipiche, 
così 
nel 
caso 
delle 
imposte 
sui 
redditi 
nelle 
società 
personali, 
in 
cui 
non 
si 
pone 
tanto 
un 
problema 
di 
successione 
del 
socio alla 
società 
estinta, quanto di 
imputazione 
diretta 
ad esso, per trasparenza, dell’obbligo 
tributario (art. 5 d.P.R. 917/86); 
ma 
al 
di 
là 
di 
regimi 
particolari, il 
fulcro dell’autonomia 
del 
sistema 
tributario 
rispetto 
all’impianto 
codicistico 
si 
individua 
in 
via 
generale 
nell’art. 
36 


d.P.R. n. 602/73 (disciplina 
della 
riscossione 
delle 
imposte 
sul 
reddito, ma 
poi 
estesa 
anche 
all’iva 
ed alle 
altre 
imposte 
indirette), cosa 
di 
cui 
parvero del 
resto consapevoli 
già 
le 
Sezioni 
Unite 
del 
2013 allorquando richiamarono espressamente, esse 
stesse, la 
specialità, rispetto al 
ragionamento che andavano svolgendo, del settore tributario. 


Ebbene, 
l’art. 
36 
cit., 
intitolato 
alla 
responsabilità 
ed 
agli 
obblighi 
degli 
amministratori, 
dei 
liquidatori 
e 
dei 
soci, stabilisce 
che: 
“1. i liquidatori 
dei 
soggetti 
all’imposta sul 
reddito 
delle 
persone 
giuridiche 
che 
non adempiono all’obbligo di 
pagare, con le 
attività della liquidazione, 
le 
imposte 
dovute 
per 
il 
periodo della liquidazione 
medesima e 
per 
quelli 
anteriori 
rispondono 
in 
proprio 
del 
pagamento 
delle 
imposte 
se 
non 
provano 
di 
aver 
soddisfatto 
i 
crediti 
tributari 
anteriormente 
all’assegnazione 
di 
beni 
ai 
soci 
o 
associati, 
ovvero 
di 
avere 
soddisfatto 
crediti 
di 
ordine 
superiore 
a quelli 
tributari. tale 
responsabilità è 
commisurata all’importo 
dei 
crediti 
d’imposta che 
avrebbero trovato capienza in sede 
di 
graduazione 
dei 
crediti. 2. La 
disposizione 
contenuta 
nel 
precedente 
comma 
si 
applica 
agli 
amministratori 
in 
carica 
all’atto 
dello scioglimento della società o dell’ente 
se 
non si 
sia provveduto alla nomina dei 
liquidatori. 
3. i soci 
o associati, che 
hanno ricevuto nel 
corso degli 
ultimi 
due 
periodi 
di 
imposta 
precedenti 
alla messa in liquidazione 
danaro o altri 
beni 
sociali 
in assegnazione 
dagli 
amministratori 
o 
hanno 
avuto 
in 
assegnazione 
beni 
sociali 
dai 
liquidatori 
durante 
il 
tempo 
della 
liquidazione, 
sono 
responsabili 
del 
pagamento 
delle 
imposte 
dovute 
dai 
soggetti 
di 
cui 
al 
primo comma nei 
limiti 
del 
valore 
dei 
beni 
stessi, salvo le 
maggiori 
responsabilità stabilite 
dal 
codice 
civile. il 
valore 
del 
denaro e 
dei 
beni 
sociali 
ricevuti 
in assegnazione 
si 
presume 
proporzionalmente 
equivalente 
alla quota di 
capitale 
detenuta dal 
socio od associato, salva 



la prova contraria. 4. Le 
responsabilità previste 
dai 
commi 
precedenti 
sono estese 
agli 
amministratori 
che 
hanno 
compiuto 
nel 
corso 
degli 
ultimi 
due 
periodi 
di 
imposta 
precedenti 
alla 
messa 
in 
liquidazione 
operazioni 
di 
liquidazione 
ovvero 
hanno 
occultato 
attività 
sociali 
anche 
mediante 
omissioni 
nelle 
scritture 
contabili. 5. La responsabilità di 
cui 
ai 
commi 
precedenti 
è 
accertata dall’ufficio delle 
imposte 
con atto motivato da notificare 
ai 
sensi 
dell’art. 60 del 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 29 settembre 
1973, n. 600. 6. Avverso l’atto di 
accertamento 
è 
ammesso ricorso secondo le 
disposizioni 
relative 
al 
contenzioso tributario di 
cui 
al 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 26 ottobre 
1972, n. 636. Si 
applica il 
primo 
comma dell’articolo 39”. 


La norma delinea due diverse ipotesi di responsabilità per debiti di imposta della società. 


La 
prima 
(già 
prevista 
dall’art. 265 del 
previgente 
TU 
imposte 
Dirette 
di 
cui 
al 
d.P.R. n. 
645 del 
1958) concerne 
i 
liquidatori 
che 
non abbiano pagato le 
imposte 
del 
periodo della 
liquidazione 
o dei 
periodi 
antecedenti 
(salva 
la 
prova 
del 
pagamento, con le 
attività 
di 
liquidazione, 
di 
crediti 
di 
rango superiore), e 
gli 
amministratori 
(tanto quelli 
in carica 
al 
momento 
dello 
scioglimento 
della 
società, 
avvenuto 
senza 
nomina 
dei 
liquidatori, 
quanto 
quelli 
che 
abbiano 
compiuto, nel 
corso degli 
ultimi 
due 
periodi 
di 
imposta 
precedenti 
alla 
messa 
in liquidazione, 
operazioni 
di 
liquidazione 
ovvero abbiano occultato attività 
sociali). Questa 
Corte 
ha 
già 
avuto 
modo 
di 
evidenziare 
come 
la 
fattispecie 
si 
ponga 
al 
di 
fuori 
di 
qualsiasi 
fenomeno 
di 
successione, continuità 
o co-obbligazione 
con la 
società, vertendosi 
piuttosto di 
responsabilità 
ex 
lege, risarcitoria 
ed illimitata, per fatto proprio ex artt. 1176 e 
1218 cod. civ., con la 
conseguenza 
(v. Cass. n. 11968 del 
13 luglio 2012) che, estinta 
la 
società 
contribuente, il 
processo 
tributario nel 
quale 
questa 
risulti 
coinvolta 
non può proseguire 
ad opera 
o nei 
confronti 
dell’ex liquidatore 
o dell’ex amministratore. Si 
è 
poi 
aggiunto che 
il 
fatto per cui 
la 
responsabilità 
di 
questi 
organi 
debba 
essere 
accertata 
dall’Ufficio con atto motivato da 
notificarsi 
ai 
sensi 
del 
d.P.R. n. 600 del 
1973, art. 60, avverso il 
quale 
è 
ammesso ricorso secondo le 
disposizioni 
relative 
al 
contenzioso 
tributario 
(art. 
36 
cit., 
penult. 
e 
ult. 
co.) 
non 
esclude 
che 
il 
credito 
dell’Amministrazione 
finanziaria 
(soggetto 
all’ordinaria 
prescrizione 
decennale) 
abbia 
comunque 
natura 
non tributaria 
ma 
civilistica, con riguardo alla 
quale 
l’obbligazione 
d’imposta 
funge 
da 
mero 
presupposto 
della 
responsabilità 
stessa 
(Cass. 
SSUU 
n. 
2767 
del 
7 
giugno 
1989). 
Negli 
stessi 
termini 
si 
è 
pronunciata 
Cass. 
n. 
7676 
del 
16 
maggio 
2012, 
secondo 
la 
quale 
il 
liquidatore 
di 
una 
società 
estinta 
per cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese 
ben può 
essere 
destinatario 
di 
una 
autonoma 
azione 
risarcitoria, 
non 
già 
della 
pretesa 
attinente 
al 
debito 
sociale, ragion per cui 
“è 
inammissibile 
l’impugnazione 
proposta nei 
confronti 
del 
medesimo 
con riguardo alla sentenza relativa a quel 
debito, atteso che 
la posizione 
del 
liquidatore 
non 
è quella di successore processuale dell’ente estinto”. 


La 
seconda 
ipotesi 
di 
responsabilità 
prevista 
dall’art. 36 d.P.R. n. 602/73 (co. 3^) concerne 
invece 
proprio i 
soci 
della 
società 
estinta, così 
da 
evocare 
assai 
più da 
vicino la 
tematica 
di 
causa. La 
responsabilità 
concerne 
i 
debiti 
di 
imposta 
della 
società, colpisce 
i 
soci 
che 
abbiano 
ricevuto nel 
corso degli 
ultimi 
due 
periodi 
di 
imposta 
precedenti 
alla 
messa 
in liquidazione 
danaro o altri 
beni 
sociali 
ovvero abbiano avuto in assegnazione 
beni 
sociali 
dai 
liquidatori 
durante 
il 
tempo della 
liquidazione, e 
trova 
limite 
quantitativo nel 
valore 
dei 
beni 
loro assegnati. 
Pur non trattandosi 
né 
di 
una 
responsabilità 
ex 
lege 
per inadempimento o fatto illecito 
(diversamente 
quindi 
da 
quella, 
su 
base 
organica, 
che 
si 
è 
visto 
attingere 
i 
liquidatori 
e 
gli 
amministratori), né 
di 
una 
responsabilità 
di 
tipo successorio ex art. 2495 cod. civ., al 
pari 
di 
quest’ultima 
la 
responsabilità 
in esame 
ingenera 
in capo al 
socio l’obbligo di 
pagamento di 
un debito della 
società 
sul 
solo presupposto obiettivo, e 
nei 
limiti, della 
percezione 
di 
attività 



sociali 
in fase 
di 
liquidazione 
(o anche, con previsione 
ampliativa 
rispetto alla 
disciplina 
civilistica, 
nelle 
due 
annualità 
d’imposta 
antecedenti). Va 
inoltre 
considerato che 
lo stesso art. 
36, co. 3^ 
fa 
espressamente 
salve 
“le 
maggiori 
responsabilità stabilite 
dal 
codice 
civile”, con 
ciò 
implicitamente 
ma 
univocamente 
richiamandosi 
alla 
portata 
generale 
dell’attuale 
art. 
2495 
cod. civ., e 
che 
in entrambi 
i 
casi 
in cui 
il 
socio venga 
richiesto dal 
Fisco del 
pagamento delle 
imposte 
già 
gravanti 
sulla 
società 
cessata 
(“La 
responsabilità 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti 
(...)”) 
è 
necessaria 
la 
notificazione 
nei 
suoi 
confronti 
di 
avviso di 
accertamento, con possibilità 
di 
impugnazione, secondo le regole generali, ex artt. 19 e 21 D.Lgs. 546/92. 


§ 3.2. 
orbene, è 
proprio la 
necessità 
-in ogni 
caso in cui 
venga 
invocata, a 
titolo vuoi 
successorio 
vuoi 
sussidiario, la 
responsabilità 
dell’ex socio per il 
debito d’imposta 
della 
società 


-di 
attivazione 
nei 
suoi 
confronti 
di 
un autonomo ed originario procedimento amministrativo 
di 
accertamento (necessità, del 
resto, che 
non costituisce 
una 
stravaganza 
di 
sistema, discendendo 
piuttosto 
essa, 
de 
plano, 
dalla 
natura 
pubblicistica 
dell’obbligazione 
tributaria 
e 
dal 
carattere 
autoritativo del 
relativo accertamento) che 
impedisce 
il 
pieno e 
totale 
dispiegarsi 
di 
quella successione nel processo di cui danno conto le Sezioni Unite del 2013. 


Una 
volta 
escluso 
che, 
per 
effetto 
della 
cancellazione, 
si 
verifichi 
tanto 
l’estinzione 
(espropriativa) 
del 
debito 
sociale 
quanto 
l’estinzione 
del 
processo 
pendente, 
il 
ricorso 
alla 
soluzione 
successoria 
ex art. 110 cod. proc. civ. risponde 
a 
ragioni 
di 
economia 
processuale 
e 
di 
tutela 
del 
creditore 
sociale, 
così 
da 
risparmiargli 
la 
necessità 
“di 
dover 
riprendere 
il 
giudizio 
da 
capo 
con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare le prove già espletate” (SU cit.). 


ora, è 
vero che 
un’esigenza 
del 
tutto analoga 
si 
pone 
anche 
nel 
caso di 
cancellazione 
della 
società 
in pendenza 
del 
giudizio tributario, ipotesi 
nella 
quale 
parimenti 
può soccorrere 
tanto 
la 
disciplina 
dell’interruzione 
del 
processo 
per 
venir 
meno, 
per 
morte 
o 
altra 
causa, 
della 
parte 
contribuente 
ex 
art. 
40 
D.Lgs. 
546/92, 
quanto 
quella 
della 
sua 
prosecuzione 
da 
parte 
o 
nei 
confronti dei soci-successori ex art. 110 cod. proc. civ. 


Tuttavia, plurimi 
elementi 
escludono che 
in questa 
fase 
di 
prosecuzione 
si 
possano introdurre 
questioni 
diverse, oltre 
che 
dalla 
effettiva 
sussistenza 
del 
debito tributario della 
società, 
dalla 
legittimazione 
dei 
soci; 
quest’ultima 
a 
sua 
volta 
articolata 
soltanto 
intorno 
alla 
avvenuta 
cancellazione della società ed alla effettiva veste di soci dei soggetti subentrati. 


Quindi, 
nel 
giudizio 
già 
pendente 
nei 
confronti 
della 
società 
non 
potrà 
trovare 
ingresso 
-in 
particolare 
-la 
questione 
della 
avvenuta 
percezione 
di 
attività 
sociali 
o 
quote 
di 
liquidazione 
da 
parte 
dei 
soci, 
tema, 
come 
detto, 
estraneo 
alla 
legittimazione 
ed 
invece 
suscettibile 
di 
essere 
dedotto 
nel 
(diverso) 
giudizio 
che 
potrà 
originarsi 
a 
seguito 
della 
notificazione 
ai 
soci 
stessi 
di 
autonomo 
e 
distinto 
atto 
impositivo 
ex 
art. 
36 
co. 
5^ 
cit. 
(la 
cui 
motivazione 
dovrà 
evidentemente 
farsi 
carico 
di 
questo 
aspetto 
quale 
ragione 
giuridica 
e 
presupposto 
fattuale 
della 
pretesa 
così 
ad 
essi 
per 
la 
prima 
volta 
indirizzata). 
Per 
regola 
generale, 
oggi 
anche 
sancita 
dall’art. 
7 
co. 
5 
bis 
D.Lgs. 
546/92, 
è 
pertanto 
in 
questa 
sede 
che 
il 
Fisco 
-attore 
in 
senso 
sostanziale 
-dovrà 
allegare 
e 
provare 
la 
responsabilità 
dei 
soci 
nei 
limiti 
di 
quanto 
da 
costoro 
percepito. 


D’altra 
parte, già 
Cass. SSUU 
n. 619/21 cit. ha 
precisato che 
la 
controversia 
sorta 
dall’impugnazione 
di 
un avviso di 
accertamento notificato agli 
ex soci 
di 
una 
società 
cancellata 
dal 
registro delle 
imprese, con cui 
sia 
stata 
dedotta 
l’insussistenza, nel 
caso concreto, della 
responsabilità 
dei 
soci 
per i 
debiti 
tributari 
della 
società 
sul 
presupposto della 
mancata 
riscossione 
di 
somme 
in 
base 
al 
bilancio 
finale 
di 
liquidazione, 
ai 
sensi 
dell’art. 
2495 
c.c., 
è 
devoluta 
alla 
giurisdizione 
tributaria, atteso che 
un simile 
motivo di 
impugnazione 
ruota 
pur sempre 
“intorno 
alla 
postulata 
illegittimità 
o 
inesistenza 
della 
pretesa 
fiscale 
azionata 
dall’ufficio 



nei 
confronti 
dei 
soci 
della società estinta, che 
deve 
formare 
oggetto di 
esame 
da parte 
del 
giudice naturale di quel rapporto, costituito dal giudice tributario”. 


Una 
diversa 
soluzione, oltre 
a 
porsi 
in contrasto con il 
chiaro dettato dell’art. 36 d.P.R. n. 
602/73 che 
richiede 
in ogni 
caso l’instaurazione 
di 
un nuovo procedimento amministrativo di 
imposizione 
nei 
riguardi 
dei 
soci, verrebbe 
a 
collidere 
sia 
con la 
struttura 
(anche 
e 
principalmente) 
impugnatoria 
-non 
di 
mero 
accertamento 
-del 
processo 
tributario 
ex 
art. 
19 
e 
21 
D.Lgs. 546/92, sia 
con il, correlato, divieto di 
ampliarne 
il 
petitum 
e 
la 
causa petendi, come 
resi 
intangibili 
(salva 
l’ipotesi 
dei 
motivi 
aggiunti 
ex art. 24 D.Lgs. cit., peraltro giustificata 
dalla 
sola 
sopravvenienza 
documentale 
e 
comunque 
anch’essa 
vincolata 
alla 
specifica 
pretesa 
inizialmente 
dedotta 
in giudizio, e 
non ad altra) dal 
compendio costituito dall’atto impositivo 
e dalle ragioni di opposizione contro di esso inizialmente mosse. 


Né 
sarebbe 
utilmente 
invocabile 
la 
natura 
non esclusivamente 
impugnatoria 
del 
processo 
tributario, ma 
anche 
di 
definizione 
nel 
merito del 
rapporto dedotto. Sul 
punto, si 
è 
innumerevoli 
volte 
affermato che 
il 
processo tributario è 
annoverabile 
tra 
quelli 
di 
impugnazione-merito, 
in 
quanto 
diretto 
ad 
una 
decisione 
sostitutiva 
sia 
della 
dichiarazione 
resa 
dal 
contribuente, 
sia 
dell’accertamento 
dell’Ufficio, 
con 
la 
conseguenza 
che 
qualora 
il 
giudice 
tributario 
ritenga 
invalido 
l’avviso 
di 
accertamento 
per 
motivi 
non 
formali, 
ma 
di 
carattere 
sostanziale, 
non 
può 
limitarsi 
ad annullare 
l’atto impositivo, ma 
deve 
esaminare 
nel 
merito la 
pretesa 
tributaria 
e, 
operando 
una 
motivata 
valutazione 
sostitutiva, 
eventualmente 
ricondurla 
alla 
corretta 
misura, 
entro i 
limiti 
posti 
dalle 
domande 
di 
parte 
(v., tra 
le 
molte, Cass. 18 ottobre 
2024 n. 27098; 
Cass., 30 ottobre 
2018, n. 27574; 
Cass., 19 novembre 
2014, n. 24611; 
Cass., 21 novembre 
2013, n. 26157). 


E 
tuttavia, la 
delimitazione 
del 
tema 
decisionale 
e 
probatorio appunto in ragione 
delle 
domande 
di 
parte 
dà 
conto del 
fatto che 
la 
valutazione 
di 
merito sul 
rapporto, che 
pure 
compete 
al 
giudice 
tributario, non può spingersi 
oltre 
i 
presupposti 
dell’atto impugnato ed i 
motivi 
di 
opposizione contro di esso inizialmente proposti. 


Nel 
caso di 
specie 
non vi 
è 
dubbio che 
il 
giudizio di 
opposizione 
introdotto dalla 
società 
e 
proseguito dai 
o contro i 
soci 
che 
ad essa 
siano succeduti 
scaturisca 
da 
un atto impositivo e 
da 
correlati 
motivi 
di 
contestazione 
del 
tutto avulsi 
dalla 
tematica 
della 
responsabilità 
patrimoniale 
personale 
dei 
soci 
ex art. 2495 cod. civ. Ne 
deriva 
che 
l’oggetto del 
giudizio stesso, 
per quanto lo si 
voglia 
estendere 
al 
merito, non può traslare 
dal 
rapporto originario (debito 
della 
società) a 
quello sopravvenuto e 
mutato per effetto della 
cancellazione 
(debito dei 
soci 
nei limiti di quanto percepito), per quanto ad esso connesso o da esso derivato. 


Va 
dunque 
condiviso e 
qui 
ribadito il 
già 
affermato orientamento di 
legittimità 
(v. Cass. n. 
9672/18 cit.) in ordine 
al 
fatto che: 
-l’eccezione 
di 
difetto di 
responsabilità 
per mancato ricevimento 
di 
somme 
in sede 
di 
distribuzione 
non può essere 
introdotta 
nel 
giudizio relativo alla 
pretesa 
erariale 
nei 
confronti 
della 
società 
quale 
fatto impeditivo della 
pretesa 
avanzabile 
nei 
confronti 
del 
socio, tenuto conto delle 
caratteristiche 
formali 
ed amministrative 
dell’atto impositivo, 
nonché 
della 
natura 
impugnatoria 
del 
processo; 
-ciò vale 
sia 
che 
venga 
attivata 
la 
speciale 
procedura 
prevista 
dall’art. 
36 
d.P.R. 
n. 
602 
del 
1973 
sia, 
per 
evidenti 
ragioni 
di 
omogeneità 
e 
di 
compiutezza 
dell’accertamento tributario e 
comunque 
per l’indistinto richiamo 
di 
cui 
al 
co. 5 dell’art. 36 alle 
varie 
forme 
di 
responsabilità 
in questo contemplate, che 
venga 
attivato l’art. 2495, secondo comma, cod. civ. 


Le 
richiamate 
peculiarità 
del 
processo 
tributario, 
a 
loro 
volta 
radicate 
in 
quelle 
dell’obbligo 
tributario e 
del 
suo accertamento, sono ampiamente 
tali 
da 
giustificare 
una 
disciplina 
normativa, 
quella 
di 
cui 
all’art. 36, che 
appare 
per certi 
versi 
deteriore 
per il 
Fisco rispetto a 
quella 



applicabile 
al 
creditore, 
per 
così 
dire, 
di 
diritto 
comune, 
venendo 
alla 
fine 
solo 
ad 
esso 
imposto 
di 
far valere 
ex 
novo, e 
non già 
immediatamente 
e 
direttamente 
nel 
processo interrotto e 
riassunto, 
la responsabilità degli ex soci. 


E 
tuttavia, visto dal 
lato del 
contribuente, ciò appare 
conforme 
alla 
tutela 
accordatagli 
dal-
l’ordinamento 
in 
ragione 
delle 
già 
menzionate 
caratteristiche 
pubblicistiche 
ed 
autoritative 
proprie 
dell’obbligo 
tributario 
e 
della 
relativa 
fase 
dell’accertamento, 
non 
senza 
osservare 
come, ad ogni 
buon conto, la 
notificazione 
di 
un nuovo atto di 
imposizione 
all’ex socio (sia 
questo 
un 
avviso 
di 
accertamento 
ovvero 
anche 
un 
atto 
impo-esattivo 
ex 
art. 
29 
D.L. 
n. 
78/2010 
conv. 
legge 
122/10) 
non 
implica 
propriamente 
un 
‘ripartire 
da 
zero’, 
ben 
potendo 
l’Ufficio con esso spendere 
il 
giudicato di 
effettiva 
sussistenza 
del 
debito tributario della 
società 
estinta formatosi, nel contraddittorio con i soci, nel giudizio ad esso relativo. 


E 
tutto 
questo 
vale 
anche 
nell’ipotesi, 
come 
quella 
qui 
riscontrabile, 
in 
cui 
l’estinzione 
della 
società 
di 
capitali, all’esito della 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, intervenga 
in 
pendenza 
del 
termine 
per impugnare, nel 
qual 
caso l’impugnazione 
della 
sentenza 
(resa 
nei 
riguardi 
della 
società) deve 
rispettivamente 
provenire 
o essere 
indirizzata, a 
pena 
d’inammissibilità, 
dai 
soci 
o nei 
confronti 
dei 
soci 
succeduti 
alla 
società 
estinta, individuati 
come 
giusta 
parte 
dell’impugnazione 
stessa 
(Cass. 
n. 
9094/17 
cit; 
Cass. 
n. 
15035/17; 
n. 
14446/18; 
n. 
897/19). 


Piuttosto, va 
ancora 
osservato come 
non convinca 
l’orientamento, ben evincibile 
da 
Cass. 


n. 31904 del 
5 novembre 
2021, secondo cui, una 
volta 
resosi 
definitivo il 
titolo nei 
confronti 
della 
società 
(per 
mancata 
opposizione, 
estinzione 
del 
processo 
ovvero 
giudicato) 
il 
Fisco 
potrebbe 
senz’altro procedere 
“all’iscrizione 
a ruolo dei 
tributi 
non versati 
sia a nome 
della società 
estinta, sia a nome 
dei 
soci 
(pro quota, in relazione 
ai 
relativi 
titoli 
di 
partecipazione), 
e 
ciò 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
12, 
comma 
3, 
e 
14, 
lett. 
b), 
del 
d.P.r. 
n. 
602 
del 
1973, 
nonché 
azionare 
comunque 
il 
credito 
tributario 
nei 
confronti 
dei 
soci 
stessi, 
non 
occorrendo 
procedere 
al-
l’emissione 
di 
autonomo avviso di 
accertamento, ai 
sensi 
dell’art. 36, comma 5, d.P.r. cit., 
relativo 
al 
diverso 
titolo 
di 
responsabilità 
di 
cui 
al 
precedente 
comma 
3 
(nel 
testo 
antecedente 
alla 
modifica 
apportata 
dall’art. 
28, 
comma 
5, 
del 
d.Lgs. 
n. 
175 
del 
2014), 
di 
natura 
civilistica 
e 
sussidiaria”; 
in modo tale 
che 
i 
soci 
escussi 
potrebbero “con l’impugnazione 
della cartella 
di 
pagamento” 
così 
loro 
notificata 
lamentare 
l’inesistenza 
originaria 
o 
sopravvenuta 
del 
titolo 
formatosi 
nei 
confronti 
della 
società, oppure 
contestare 
il 
fondamento della 
propria 
responsabilità, 
dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione. 


Si 
tratta 
di 
soluzione 
che 
estende 
all’ambito di 
specie 
la 
regola 
generale 
di 
cui 
all’art. 477 
co. 1^ 
cod. proc. civ. sull’efficacia 
nei 
confronti 
degli 
eredi 
del 
titolo esecutivo formatosi 
nei 
confronti del defunto. 


Sennonché, ed a 
parte 
i 
già 
richiamati 
limiti 
della 
meccanica 
trasposizione 
in materia 
dei 
principi 
e 
delle 
regole 
proprie 
della 
successione 
mortis 
causa, va 
osservato come 
non sia 
qui 
in discussione 
né 
l’effettiva 
diversità 
delle 
due 
ipotesi 
di 
responsabilità 
degli 
ex soci 
di 
cui, 
rispettivamente, agli 
artt. 36 co. 3^ 
d.P.R. n. 602/73 e 
2495 cod. civ., né 
l’opponibilità 
agli 
ex 
soci 
della 
definitività 
dell’accertamento tributario maturatosi 
sul 
debito della 
società 
contribuente 
(tanto più se 
costoro divengano parte 
del 
relativo eventuale 
giudizio di 
opposizione, 
nel 
qual 
caso neppure 
sarebbe 
necessario invocare 
nei 
loro riguardi 
l’estensione 
soggettiva 
del 
giudicato 
quali 
‘eredi’ 
o 
‘aventi 
causa’ 
ex 
art. 
2909 
cod. 
civ.). 
Rilevano 
piuttosto, 
in 
segno 
contrario, sia 
il 
dato normativo di 
cui 
all’art. 36 co. 5^ 
cit. che 
mostra 
(peraltro, si 
è 
detto, in 
accordo con principi 
di 
ordine 
generale) di 
accomunare 
le 
due 
ipotesi 
di 
responsabilità 
nella 
necessità 
di 
notificazione 
all’ex socio di 
un nuovo e 
distinto atto di 
accertamento, sia 
la 
so



stanziale 
‘novità’, che 
certo forma 
materia 
a 
se 
stante 
di 
accertamento pur dopo l’iscrizione 
a 
ruolo del 
debito nei 
confronti 
della 
società, rappresentata 
dalla 
condizione 
dell’avvenuta 
percezione 
di 
quote 
o 
attività 
liquidatorie, 
sia 
-ancora 
-il 
fatto 
che 
quest’ultima 
condizione 
opera, 
oltre 
che 
come 
dimensione 
economica 
dell’esposizione 
personale, 
quale 
elemento 
costitutivo, 
non impeditivo, della 
fattispecie 
di 
loro responsabilità 
ex art. 2495 cod. civ., così 
da 
dover 
essere provata dal creditore-Fisco e non (la sua assenza) dall’ex socio in fase riscossiva. 


È 
vero 
che 
si 
tratta, 
quello 
notificato 
all’ex 
socio, 
di 
un 
atto 
di 
accertamento 
che 
già 
contiene 
l’indicazione 
di 
un credito non più contestabile 
nella 
sua 
oggettività, ma 
l’esigenza 
che 
tale 
credito 
venga 
legittimamente 
imputato 
ad 
un 
soggetto 
pur 
sempre 
diverso 
(appunto 
l’ex 
socio) 
rispetto al 
contribuente 
che 
ad esso ha 
dato origine 
(la 
società) dimostra 
comunque 
la 
permanenza 
in esso di 
un sostrato prettamente 
pretensivo che 
si 
palesa 
per la 
prima 
volta, seppure 
limitatamente 
al 
risvolto 
soggettivo 
di 
responsabilità; 
non 
sarebbe 
dunque 
del 
tutto 
esatto 
ravvisare 
nella specie un accertamento senza imposizione, come tale surrogabile dalla cartella. 


§ 3.3 
Certamente 
rilevante 
a 
fini 
ricostruttivi, ma 
non dirimente, pare 
poi 
il 
riferimento, 
pure 
contenuto 
nell’ordinanza 
di 
rimessione, 
all’art. 
28 
D.Lgs. 
n. 
175/14 
(Semplificazione 
fiscale 
e 
dichiarazione 
dei 
redditi 
precompilata), il 
cui 
co. 4^ 
stabilisce: 
(...) “Ai 
soli 
fini 
della 
validità 
e 
dell’efficacia 
degli 
atti 
di 
liquidazione, 
accertamento, 
contenzioso 
e 
riscossione 
dei 
tributi 
e 
contributi, sanzioni 
e 
interessi, l’estinzione 
della società di 
cui 
all’articolo 2495 del 
codice 
civile 
ha 
effetto 
trascorsi 
cinque 
anni 
dalla 
richiesta 
di 
cancellazione 
del 
registro 
delle imprese 
”. 


Questa 
previsione, da 
un lato, legittima 
espressamente, a 
sua 
volta, l’innesto in ambito tributario 
della 
disciplina 
codicistica 
generale 
di 
cui 
all’art. 2495 ma, dall’altro, ne 
opera 
una 
evidente 
forzatura 
instaurando 
una 
finzione 
legale 
di 
mantenimento 
in 
vita 
della 
società 
(evocatrice 
di 
quella 
posta 
dall’art. 
10 
legge 
fall.) 
seppure 
ai 
soli 
fini 
della 
definizione 
dei 
rapporti 
fiscali pendenti, in sede non solo amministrativa ma anche contenziosa. 


Essa 
è 
stata 
vagliata 
da 
questa 
Corte 
-ed 
anche 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
che 
ha 
affermato 
la 
sua 
legittimità 
ex artt. 3 e 
76 Cost.: 
sent. n. 142/20 -la 
quale 
ne 
ha 
rimarcato la 
natura 
sostanziale 
e 
non 
interpretativa, 
così 
da 
escluderne 
l’efficacia 
retroattiva, 
cioè 
la 
sua 
applicabilità 
nei 
confronti 
di 
società 
estintesi 
prima 
del 
13 
dicembre 
2014, 
data 
di 
sua 
entrata 
in 
vigore 
(nella 
specie 
la 
norma 
non è 
dunque 
applicabile, posto che 
tanto la 
cancellazione 
di 
Simpra 
Srl 
dal 
registro delle 
imprese, quanto la 
proposizione 
dell’appello dell’Agenzia 
delle 
Entrate 
sono antecedenti a questa data). 


La 
previsione 
deroga 
-nei 
soli 
riguardi 
delle 
posizioni 
debitorie 
indicate 
e 
delle 
relative 
Amministrazioni 
creditrici 
-al 
principio 
per 
cui 
la 
società 
cancellata 
dal 
registro 
delle 
imprese 
non può agire 
né 
essere 
convenuta 
in giudizio, in quanto priva 
della 
relativa 
capacità 
(Cass. 
9 ottobre 
2018, n. 24853; 
Cass. 19 dicembre 
2016, n. 26196); 
né, pertanto, può sussistere 
in 
questi 
casi 
la 
legittimazione 
dell’ex 
liquidatore 
a 
rappresentarla 
(Cass. 
11 
giugno 
2011, 
n. 
5637; Cass. 23 marzo 2016, n. 5736). 


Sul 
tema 
si 
riscontra 
un fermo indirizzo interpretativo, secondo cui 
la 
norma 
non si 
limita 
a 
prevedere 
una 
posticipazione 
degli 
effetti 
dell’estinzione 
al 
solo 
fine 
di 
consentire 
e 
facilitare 
all’Ufficio la 
notificazione 
dell’atto impositivo (altrimenti 
giuridicamente 
inesistente, se 
eseguita 
nei 
confronti 
di 
società 
già 
cancellata: 
Cass. n. 6743/15; 
n. 20961/21 ed altre), ma 
permette 
all’ex 
liquidatore 
di 
“conservare 
tutti 
i 
poteri 
di 
rappresentanza 
della 
società, 
sul 
piano 
sostanziale 
e 
processuale, nella misura in cui 
questi 
rispondano ai 
fini 
indicati 
dall’art. 28, 
comma 4, che, altrimenti 
opinando, non potrebbe 
operare”. Con la 
conseguenza 
che 
il 
liquidatore, 
oltre 
a 
ricevere 
le 
notifiche 
degli 
atti 
dagli 
enti 
creditori, può anche 
opporsi 
agli 
stessi 



e 
conferire 
mandato alle 
liti, dovendosi 
la 
dizione 
legislativa 
‘atti 
del 
contenzioso’ 
riferirsi 
in 
senso stretto e 
tecnico proprio agli 
atti 
del 
processo e 
della 
tutela 
giurisdizionale. Pertanto, 
nei 
casi 
in cui 
si 
renda 
applicabile 
l’art. 28 in esame, in deroga 
all’art. 2495 cod. civ.: 
“la società 
conserva la legittimazione 
attiva; il 
liquidatore 
è 
legittimato e 
gli 
ex 
soci 
devono considerarsi 
privi 
di 
legittimazione” 
(Cass. 
n. 
36892 
del 
16 
dicembre 
2022; 
nello 
stesso 
senso, 
Cass. n. 6743/15; n. 4536/20; n. 18310/23). 


ora, il 
richiamo all’art. 28, pur assunto nella 
sua 
portata 
anche 
sostanziale 
-volta 
ad attribuire 
all’ex liquidatore 
il 
potere 
di 
compiere 
ogni 
attività, appunto anche 
sostanziale, finalizzata 
e 
strumentale 
alla 
definizione 
della 
pendenza 
fiscale 
-non può tuttavia 
spingersi 
fino ad 
incidere 
sul 
regime 
della 
responsabilità 
patrimoniale 
del 
socio 
per 
il 
debito 
fiscale 
della 
società 
estinta. 


Non può non osservarsi, in proposito, come 
l’artificiosità 
della 
permanenza 
in vita 
di 
un 
ente 
collettivo 
che 
in 
realtà 
non 
esiste 
più 
ad 
ogni 
altro 
effetto 
se, 
da 
un 
lato, 
agevola 
l’Ufficio 
nella 
notificazione 
degli 
atti 
(facilitando 
il 
raggiungimento 
del 
soggetto 
debitore 
ed 
il 
rispetto 
dei 
termini 
di 
decadenza 
e 
prescrizione) affida, dall’altro, le 
sorti 
del 
vaglio giurisdizionale 
sul 
debito fiscale 
all’iniziativa 
ed alla 
solerzia 
di 
un soggetto tendenzialmente 
ad esso indifferente 
perché 
ormai 
per definizione 
privo -a 
liquidazione 
esaurita 
-di 
patrimonio, e 
come 
tale 
certamente 
fin 
dall’inizio 
inidoneo 
a 
soddisfare 
il 
credito, 
con 
ciò 
determinandosi, 
in 
pratica, 
una situazione di debito senza responsabilità. 


L’inopponibilità 
per legge 
al 
Fisco degli 
effetti 
della 
cancellazione 
societaria 
non è 
quindi 
in grado di 
risolvere 
le 
questioni 
di 
causa: 
non solo perché 
comunque 
temporanea 
(dovendo, 
allo scadere 
del 
quinquennio, riprendere 
pieno vigore 
la 
disciplina 
anche 
processuale 
come 
detto rinveniente 
dall’art. 2495 cod. civ.), ma 
anche 
e 
soprattutto perché 
intatta 
resta, per il 
creditore 
pubblico, l’esigenza 
di 
far valere, con l’avvio di 
nuovo e 
diverso procedimento amministrativo 
di 
accertamento ex art. 36 cit., la 
responsabilità 
patrimoniale 
degli 
ex soci 
nei 
limiti 
delle attività sociali da costoro riscosse. 


Per il che vale quanto poc’anzi argomentato. 


§ 4. 
Tirando le 
fila 
del 
discorso, a 
fronte 
dei 
dubbi 
sollevati 
dall’ordinanza 
di 
rimessione 
per 
vero ingenerati 
non tanto da 
un conclamato contrasto di 
orientamenti 
quanto da 
talune 
incertezze 
insite 
nell’adattamento all’ambito tributario di 
un assetto ricostruttivo già 
consolidatosi 
in quello civilistico - va stabilito che: 


• 
nella fattispecie 
di 
responsabilità dei 
soci 
limitatamente 
responsabili 
per 
il 
debito tributario 
della società estintasi 
per 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, il 
presupposto del-
l’avvenuta riscossione 
di 
somme 
in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione, di 
cui 
al 
3^ 
(già 
2^) co. dell’art. 2495 cod. civ., integra, oltre 
alla misura massima dell’esposizione 
debitoria 
personale 
dei 
soci, una condizione 
dell’azione 
attinente 
all’interesse 
ad agire 
e 
non alla legittimazione 
ad causam dei soci stessi; 
• 
questo presupposto, se 
contestato, deve 
conseguentemente 
essere 
provato dal 
Fisco che 
faccia 
valere, 
con 
la 
notificazione 
ai 
soci 
ex 
artt. 
36 
co. 
5^ 
d.P.r. 
n. 
602/73 
e 
60 
d.P.r. 
600/73 
di 
apposito avviso di 
accertamento, la responsabilità in questione, fermo restando che 
l’interesse 
ad agire 
dell’Amministrazione 
finanziaria non è 
escluso per 
il 
solo fatto della mancata 
riscossione 
di 
somme 
in 
base 
al 
bilancio 
finale 
di 
liquidazione, 
potendo 
tale 
interesse 
radicarsi 
in 
altre 
evenienze, 
quali 
la 
sussistenza 
di 
beni 
e 
diritti 
che, 
per 
quanto 
non 
ricompresi 
in 
questo bilancio, si siano trasferiti ai soci, ovvero l’escussione di garanzie; 
• 
la verifica del 
presupposto dell’avvenuta riscossione 
di 
somme 
in base 
al 
bilancio finale 
di 
liquidazione, concernendo un elemento che 
deve 
essere 
dedotto nella fase 
di 
accertamento 



da indirizzarsi 
direttamente 
nei 
confronti 
dei 
soci 
ex 
art. 36 co. 5^ 
d.P.r. n. 602/73, non può 
avere 
ingresso nel 
giudizio di 
impugnazione 
introdotto dalla società avverso l’avviso di 
accertamento 
ad essa originariamente 
notificato, quand’anche 
questo giudizio venga poi 
proseguito, 
a causa dell’estinzione 
della società per 
cancellazione 
dal 
registro delle 
imprese, da 


o nei confronti dei soci quali successori della società stessa. 


§ 5. 
Da 
quanto così 
affermato discende 
l’infondatezza 
dei 
primi 
tre 
motivi 
del 
ricorso per 
cassazione. 


La 
Commissione 
Tributaria 
Regionale, riformando la 
prima 
decisione, ha 
affermato che: 
correttamente 
l’Agenzia 
delle 
Entrate 
aveva 
chiamato 
in 
giudizio 
gli 
ex 
soci 
della 
società 
nelle 
more 
cancellata 
dal 
registro delle 
imprese 
e 
nei 
confronti 
della 
quale, soltanto, era 
stato 
emesso l’atto impositivo impugnato; 
-la 
qualità 
di 
parte 
assunta 
dai 
soci 
nel 
procedimento 
discendeva 
dal 
fenomeno di 
tipo successorio derivante 
dall’estinzione 
della 
società, con conseguente 
loro 
legittimazione 
attiva 
e 
passiva 
ex 
articolo 
110 
cod. 
proc. 
civ.; 
-tutte 
le 
questioni 
diverse 
dalle 
contestazioni 
mosse 
contro l’avviso di 
accertamento notificato a 
Simpra 
Srl 
liq. 
per l’anno 2006 (quali, segnatamente, il 
limite 
della 
responsabilità 
personale 
dei 
soci 
per le 
somme 
portate 
dall’avviso in esame) esulavano dalla 
materia 
del 
contendere, trattandosi 
di 
problematiche 
destinate 
ad essere 
eventualmente 
dedotte 
in un diverso procedimento amministrativo 
o giurisdizionale di accertamento, direttamente ad essi relativo. 


È 
quindi 
di 
tutta 
evidenza 
come 
si 
tratti 
di 
una 
decisione 
pienamente 
in 
linea 
con 
l’indirizzo 
tracciato, e non scalfita dalle doglianze mosse da z.A., z.R., z.P. 


Con 
il 
primo 
motivo 
di 
ricorso 
si 
lamenta, 
ex 
art. 
360 
co. 
1^ 
n. 
4) 
cod. 
proc. 
civ., 
il 
mancato 
rilievo del 
fatto che 
l’Agenzia 
del 
Territorio non avesse 
allegato (come 
rilevabile 
anche 
d’ufficio, 
e 
pure 
nel 
giudizio di 
legittimità) alcun valido profilo di 
interesse 
concreto ed attuale 
ad 
agire 
nei 
confronti 
dei 
soci 
ex 
art. 
100 
cod. 
proc. 
civ.; 
tale 
in 
particolare 
non 
essendo 
quello 
riferito 
all’asserita 
esistenza 
di 
un 
credito 
sociale 
per 
rimborso 
iva 
in 
ipotesi 
opponibile 
in 
compensazione 
al 
controcredito 
qui 
dedotto 
dall’Amministrazione. 
Credito 
sociale 
che 
farebbe 
capo ad un soggetto ormai 
estinto e 
che, ad ogni 
buon conto, non era 
stato pretermesso, ma 
debitamente inserito nel bilancio finale di liquidazione. 


Valgono 
per 
questa 
doglianza 
gli 
argomenti 
più 
volti 
spesi, 
nel 
senso 
che 
l’esistenza 
di 
utilità 
e 
residui 
liquidatori 
idonei 
ad 
integrare 
l’interesse 
ad 
agire 
del 
Fisco 
costituisce 
elemento 
della 
fattispecie 
di 
responsabilità 
dei 
soci 
e 
non 
della 
società, 
così 
da 
non 
poter 
aver 
ingresso, 
come 
esattamente 
argomentato 
dalla 
Commissione 
Tributaria 
Regionale, 
nel 
presente 
giudizio. 


il 
secondo ed il 
terzo motivo di 
ricorso -suscettibili 
di 
trattazione 
unitaria 
perché 
entrambi 
concernenti, 
ex 
art. 
360 
co. 
1^ 
nn. 
3) 
e 
4) 
cod. 
proc. 
civ., 
il 
mancato 
rilievo 
da 
parte 
della 
Commissione 
Tributaria 
Regionale 
della 
radicale 
inammissibilità 
dell’appello siccome 
dal-
l’Agenzia 
proposto 
nei 
confronti 
dei 
soci 
in 
difetto 
dei 
requisiti 
di 
legge 
(percezione 
di 
somme 
liquidatorie) -lamentano la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
delle 
medesime 
norme 
(artt. 110 
cod. proc. civ. e 
1, comma 
2, decreto legislativo n. 546/1992 con riferimento agli 
artt. 2495, 
comma 
2, cod. civ. e 
36, comma 
3, del 
d.P.R. n. 602/1973), considerate 
nei 
loro effetti, rispettivamente, 
processuali 
(secondo motivo, con affermazione 
di 
nullità 
della 
sentenza 
e 
dell’intero 
procedimento) e sostanziali (terzo motivo). 


Contrariamente 
a 
quanto 
sostenuto 
con 
le 
censure 
in 
esame, 
la 
decisione 
della 
Commissione 
Tributaria 
Regionale 
di 
ritenere 
correttamente 
instaurato l’appello nei 
confronti 
direttamente 
dei 
soci, pur non essendo essi 
parte 
del 
primo grado, risulta 
conforme 
a 
diritto, vertendosi 
di 
una 
fattispecie 
di 
tipo successorio ex art. 110 cod. proc. civ. nella 
quale 
i 
soci 
erano stati 
evo



cati 
in giudizio dall’Agenzia 
in quanto a 
ciò doppiamente 
legittimati 
-in un contesto di 
pacifica 
inapplicabilità, 
ratione 
temporis, dell’art. 28, co. 4^ 
D.Lgs.175/14 -sia 
ex art. 2495 2^ 
co. cod. civ. sia ex art. 36 co. 3^ d.P.R. n. 602/73. 


Quanto 
poi 
alla 
specifica 
contestazione 
per 
cui 
l’Agenzia 
appellante 
non 
aveva 
contestualmente 
dimostrato anche 
la 
personale 
responsabilità 
dei 
soci 
in relazione 
ai 
debiti 
erariali 
già 
facenti 
capo alla 
società 
estinta 
per effetto e 
nei 
limiti 
della 
riscossione 
o assegnazione 
a 
loro 
favore 
delle 
somme 
o dei 
beni, sarà 
sufficiente 
rinviare 
a 
quanto finora 
osservato in ordine 
al 
fatto 
che 
nel 
giudizio 
di 
appello 
in 
esame: 
-rilevava 
unicamente 
la 
legittimazione 
di 
z.A., 
z.R., 
z.P. 
quali 
soci 
di 
Simpra 
Srl 
estinta 
(circostanze 
fattuali, 
queste, 
incontestate); 
-non 
contava, 
per 
contro, 
la 
circostanza 
dell’effettiva 
percezione 
di 
somme 
dalla 
liquidazione, 
perché 
estranea 
tanto 
all’oggetto 
del 
contendere 
come 
definitivamente 
consolidato 
sulla 
base 
dell’atto 
impositivo 
e 
del 
ricorso 
originario 
(debito 
ires 
ed 
iva 
di 
Simpra 
Srl 
per 
l’anno 
2006), 
quanto alla 
legittimazione passiva 
dei soci che di Simpra Srl erano successori pur nell’eventuale 
difetto di 
qualsivoglia 
riscossione 
o riparto. Del 
resto, il 
fatto che 
z.A., z.R., z.P. siano 
tuttora 
ammessi, in diversa 
sede, a 
lamentare 
la 
mancata 
percezione 
di 
somme, se 
e 
quando 
verranno 
attinti 
da 
avviso 
di 
accertamento 
ad 
essi 
partitamente 
rivolto 
ex 
art. 
36 
co. 
5 
cit., 
esclude 
il 
maturare 
di 
qualsivoglia 
preclusione 
o menomazione 
del 
loro diritto di 
difesa, e 
ciò 
quand’anche 
essi 
nulla 
avessero eccepito, sul 
punto, nel 
presente 
procedimento, dedicato in 
via esclusiva all’accertamento del debito della società contribuente. 


Ne 
segue, in definitiva, il 
rigetto di 
questi 
primi 
tre 
motivi, con restituzione 
degli 
atti 
alla 
Sezione 
Tributaria 
per il 
vaglio delle 
ulteriori 
doglianze 
relative 
alla 
fondatezza 
dell’avviso, 
e per la liquidazione delle spese di lite tenuto conto anche della presente fase processuale. 


P.Q.m. 


La Corte 


- rigetta il primo, secondo e terzo motivo di ricorso; 


-restituisce 
gli 
atti 
alla 
Sezione 
Tributaria 
per la 
decisione 
sui 
restanti 
motivi 
e 
la 
liquidazione 
delle spese di lite. 



in tema di iMu. i principi di diritto enunciati 
da Corte di Cassazione, ordinanza 11 gennaio 2025 

n. 727 sulla legittimazione attiva e passiva 
nelle azioni reali con riguardo ai beni dello stato 


L’ordinanza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 
727 
del 
2025, 
in 
accoglimento 
del 
ricorso 
in 
materia 
di 
imU 
proposto 
dalla 
Difesa 
erariale, 
afferma 
importantissimi 
principi 
di 
diritto 
aventi 
un’evidente 
incidenza 
sulla 
questione 
della 
legittimazione 
attiva 
e 
passiva 
nelle 
azioni 
reali 
con 
riguardo 
ai 
beni 
dello 
Stato. 


in 
particolare 
la 
Cassazione 
ha 
affermato 
che 
la 
proprietà 
dei 
beni 
demaniali 
e 
del 
patrimonio 
(indisponile 
e 
disponibile) 
dello 
Stato 
rimane 
in 
capo 
al 
ministero 
della 
Economia 
e 
delle 
Finanze 
e 
che 
i 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
dello 
Stato 
non 
sono 
stati 
trasferiti 
all’Agenzia 
del 
Demanio 
in 
forza 
del 
d.lgs. 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300, 
il 
quale 
ha 
attribuito 
all’Agenzia 
la 
mera 
gestione 
(art. 
65). 


Questo 
il 
principio 
di 
diritto 
conclusivamente 
enunciato 
dalla 
Cassazione: 
«in tema di 
iMU 
(come 
anche 
di 
iCi), l’Agenzia del 
demanio non è 
soggetto 
passivo di 
imposta in relazione 
agli 
immobili 
compresi 
nel 
demanio e 
nel 
patrimonio 
(disponibile 
ed indisponibile) dello Stato, dei 
quali 
essa è 
mera affidataria 
dell’amministrazione 
e 
della valorizzazione 
ai 
sensi 
dell’art. 65 del 
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, per 
cui, non essendo titolare 
della proprietà o di 
altri 
diritti 
reali 
di 
godimento, né 
beneficiario di 
concessione 
amministrativa, 
sui 
predetti 
immobili, 
il 
gestore 
del 
patrimonio 
immobiliare 
pubblico 
non 
è 
ricompreso 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
elencati 
nell’art. 
9, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
14 
marzo 2011, n. 23 (così 
come 
nell’art. 3 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504, 
per 
l’iCi). Ciò non esclude, tuttavia, che 
l’Agenzia del 
demanio sia titolare 
di 
un 
autonomo 
patrimonio 
ai 
sensi 
dell’art. 
1 
del 
d.m. 
29 
luglio 
2005 
e, 
quindi, possa acquistare 
in proprio, a qualsiasi 
titolo, la proprietà di 
immobili
». 


Giovanni Palatiello (*) 


A.L. 5141/2021 - SEz. iii - Avv. G. Palatiello (**) 


Avvocatura 
Generale 
dello Stato 


Ecc.ma 
CoRTE SUPREmA Di CASSAzioNE 
SEzioNE 
TRiBUTARiA 
Adunanza camerale del 4 dicembre 2024 
(Rg. n. 24685/2023 - rel. Cons. Lo Sardo - n. 20 del ruolo) 


(*) 
Avvocato dello Stato. 


(**) 
si pubblica la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. prodotta dalla Difesa erariale. 



mEmoRiA EX 
ART. 380-BiS.1 C.P.C. 
per l’AGENziA DEL DEmANio 
con l’Avvocatura Generale dello Stato; 
contro 
-ricorrente-
Comune di 
Viterbo rappr. e dif. come in atti; 


-resistentein 
punto: 
cassazione 
della 
sentenza 
resa 
inter 
partes 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
Tributaria 
di 
ii 
grado del Lazio, Sez. 11^, n. 3091/23 pubblicata il 23 maggio 2023, mai notificata. 


§§§ 
Dato per noto il 
ricorso, al 
quale 
si 
fa 
integralmente 
rinvio, la 
Difesa 
erariale, in vista 
del-
l’adunanza 
camerale 
del 
4 dicembre 
2024, intende 
ulteriormente 
illustrare 
ed argomentare 
le 
tesi giuridiche sostenute con il primo motivo, anche in replica al controricorso del Comune. 
Con tale 
primo motivo del 
ricorso questa 
Avvocatura 
Generale 
ha 
dedotto, “l’insussistenza, 
in 
capo 
all’Agenzia 
del 
demanio, 
della 
soggettività 
passiva 
ai 
fini 
iMU 
” 
in 
relazione 
agli 
immobili statali oggetto dell’accertamento impugnato in prime cure, relativo ad imU 2015. 
Trattasi 
di 
motivo avente 
un’evidente 
rilevanza 
di 
massima, essendo numerosi 
i 
Comuni 
che 
sono soliti 
notificare 
gli 
avvisi 
imU 
per gli 
immobili 
dello Stato esclusivamente 
all’Agenzia 
del Demanio. 
Si 
è, al 
riguardo, evidenziato che 
l’Agenzia 
del 
Demanio è 
mero gestore 
ex art. 65 del 
D.lgs. 
300/1999 del patrimonio immobiliare di proprietà dello Stato. 
il 
gestore 
ex 
lege 
del 
patrimonio immobiliare 
dello Stato non è 
contemplato dalla 
legge 
(cfr. 
art. 
9, 
co. 
1, 
d.lgs. 
23/2011, 
le 
cui 
disposizioni 
sono 
state, 
peraltro, 
trasfuse 
nell’ 
art. 
1, 
comma 
743, L. 160/2019) nell’elencazione 
(da 
ritenersi 
tassativa) dei 
soggetti 
passivi 
dell’imU, la 
quale 
include 
esclusivamente 
il 
titolare 
di 
un diritto reale 
(la 
proprietà 
o un diritto reale 
limitato) 
nonché il concessionario di aree demaniali. 
A 
sostegno del 
motivo questa 
difesa 
erariale 
ha 
richiamato Cass. n. 
10655 del 
2019 in termini. 
La 
proprietà 
del 
patrimonio 
immobiliare 
dello 
Stato, 
nella 
sua 
interezza, 
permane 
in 
capo 
allo 
Stato 
medesimo, 
ed 
in 
rappresentanza 
di 
esso 
al 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, 
non 
rinvenendosi 
alcuna 
norma 
che 
ne 
abbia 
trasferito 
la 
titolarità 
in 
capo 
all’Agenzia 
del 
Demanio dopo la sua istituzione (1999) ed entrata in operatività (2001). 
L’Agenzia 
del 
Demanio 
(ente 
pubblico economico, soggetto alla 
disciplina 
di 
diritto privato, 
e 
distinto dal 
m.E.F.: 
cfr. artt. 61, comma 
1, 66, comma 
1, del 
d.lgs. 300/1999), non essendo 
il 
proprietario (né 
il 
titolare 
di 
altro diritto reale, e 
neppure 
formale 
concessionario) del 
compendio 
immobiliare 
dello 
Stato 
a 
cui 
si 
riferisce 
l’avviso 
di 
accertamento 
imU 
per 
cui 
è 
causa, 
ma 
mero gestore 
ex 
lege 
di 
esso, non può essere 
soggetto passivo di 
tale 
imposta, per legge 
individuato nel 
proprietario degli 
immobili 
de 
quibus 
e, dunque, nella 
fattispecie, nel 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
Finanze, 
a 
cui 
doveva 
essere 
rivolta 
la 
richiesta 
di 
pagamento, 
nel 
rispetto del 
termine 
quinquennale 
di 
decadenza stabilito dall’art. 1, comma 161, L. 
296/2006, 
nella 
specie 
irrimediabilmente 
spirato 
(trattandosi 
di 
avviso 
per 
iMu 
2015, 
notificato il 16 dicembre 2020). 
L’intestazione 
castale 
“demanio dello Stato” 
degli 
immobili 
oggetto di 
accertamento non è 
decisiva ai fini della soluzione della controversia. 
È 
vero che 
l’art. 5 del 
d.lgs. 504/1992 impone 
agli 
enti 
locali, ai 
fini 
dell’accertamento del-
l’imposta, di attenersi alle risultanze catastali. 
E 
tuttavia, è 
ius 
receptum 
che, in tema 
di 
iCi, le 
risultanze 
catastali 
hanno valore 
meramente 



indiziario in ordine 
alla 
sussistenza 
del 
presupposto impositivo, ossia 
la 
proprietà 
o titolarità 
di altro diritto reale sul bene (così Cass. 5316/2019). 
in tema 
di 
i.C.i., l’intestazione 
catastale 
di 
un immobile 
ad un determinato soggetto, pur se 
il 
catasto 
è 
preordinato 
a 
fini 
essenzialmente 
fiscali, 
fa 
sorgere 
una 
mera 
presunzione 
de 
facto, 
che ammette prova contraria (cfr. Cass. 26376/21, 16775/2017). 
orbene, come 
già 
esposto nel 
ricorso introduttivo, l’agenzia del 
Demanio è 
proprietaria 
esclusivamente 
di 
pochissimi 
beni 
immobili, 
ad 
essa 
conferiti 
dal 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
Finanze, in 
virtù 
del 
D.M. 29 luglio 2005, recante 
“Individuazione 
del 
patrimonio 
dell’Agenzia del 
Demanio”, e 
del 
successivo D.M. 17 luglio 2007 recante 
“individuazione 
di 
nuovi 
beni 
immobili 
da conferire 
in proprietà dell’Agenzia del 
demanio, ai 
sensi 
dell’articolo 
2, comma 1, del 
d.M. 29 luglio 2005, del 
Ministro dell’economia e 
delle 
finanze”, in attuazione 
dell’articolo 65, comma 2 bis, del d.lgs. 300/1999. 
tale 
circostanza 
-rimasta 
incontestata 
ex 
adverso 
e, dunque, pacifica 
in causa 
ex art. 115 


c.p.c. -è 
di 
per 
sé 
idonea a superare 
la 
mera 
valenza 
indiziaria 
dell’intestazione 
catastale 
dei 
beni 
oggetti 
dell’accertamento 
impugnato 
in 
prime 
cure, 
nel 
senso 
che 
a 
tale 
intestazione 
non 
corrisponde, evidentemente, la 
sussistenza, in capo all’Agenzia 
del 
Demanio, della 
titolarità 
del 
diritto di 
proprietà o di 
altro diritto reale, essendo tale 
Agenzia 
mero gestore 
ex lege 
delle u.i.u. per cui è causa. 
in altri 
termini, gli 
immobili 
oggetto di 
accertamento risultano catastalmente 
intestati 
al 
“Demanio 
dello Stato” 
soltanto 
in ragione 
del 
potere 
di 
gestione 
ex 
lege 
che 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
ha 
su 
tali 
beni, 
e 
non 
perché 
quest’ultima 
sia 
titolare, 
rispetto 
ad 
essi, 
di 
una 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
aventi 
carattere 
reale 
richieste 
dalla 
legge 
quale 
presupposto 
della soggettività tributaria passiva ai fini imU. 
Peraltro, l’intestazione 
castale 
“demanio dello Stato”, sulla 
quale 
insistono i 
secondi 
giudici, 
non è 
comunque 
decisiva 
ai 
fini 
della 
soluzione 
della 
controversia 
poiché 
essa 
di, per sé, non 
fa 
riferimento ad un soggetto giuridico 
o ad un ente 
(infatti 
l’Agenzia 
del 
Demanio, come 
è 
noto, è 
stata 
costituita 
solo nel 
1999 ed è 
operativa 
dal 
2001, quindi 
successivamente 
all’intestazione 
catastale), ma 
ad 
una categoria di 
beni, appartenenti 
allo stato (cfr. art. 1 r.D. 
1440/1923), 
di 
cui 
l’agenzia 
ha 
la 
mera 
gestione 
ex 
lege 
che, 
come 
si 
è 
visto, 
non 
è 
idonea 
a fondare la soggettività passiva ai fini iMu. 
Di 
qui 
la 
radicale 
nullità 
e/o 
illegittimità 
dell’avviso 
di 
accertamento 
impugnato 
in 
prime 
cure 
perché 
notificato ad un ente 
pubblico economico distinto dallo Stato (appunto l’Agenzia 
del 
Demanio), privo di 
soggettività 
passiva 
ai 
fini 
imU 
e, dunque, non legittimato alla 
ricezione 
dei relativi avvisi. 


§§§ 
Nel 
proprio controricorso il 
Comune 
di 
Viterbo, a 
confutazione 
del 
primo motivo del 
ricorso 
erariale, trascrive 
alcuni 
brani 
della 
motivazione 
di 
Cass. 7152/2018 
senza, tuttavia, citarla 


(v. pagine 6 e 7 del controricorso). 
Cass. 7152/2018 sembra 
aver aderito a 
quella 
dottrina 
della 
proprietà 
pubblica 
come 
“proprietà-
funzione”, secondo la 
quale 
il 
demanio ed il 
patrimonio indisponibile 
dello Stato non 
rientrerebbero nella 
nozione 
di 
proprietà, costituendo piuttosto una 
pubblica 
funzione 
(di 
cui 
la 
res 
sarebbe lo strumento). 
Addirittura, 
secondo 
Cass. 
7152/18, 
né 
il 
ministero 
dell’Economia, 
né 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
“sono… 
«proprietari» 
del 
bene 
nel 
senso 
in 
cui 
la 
formula 
è 
intesa 
dalla 
ricorrente, 
ed 
essa 
invano 
ricercherebbe 
un 
proprietario 
nel 
senso 
che 
tale 
espressione 
ha 
nei 
rapporti 
privati, 
giacché, semplicemente, un 
«proprietario», un 
dominus, in 
tal 
senso dei 
beni 
demaniali 
e 



patrimoniali 
indisponibili 
non 
v’è, giacché 
si 
tratta di 
beni 
che 
appartengono allo Stato, il 
quale 
non 
può che 
operare 
attraverso i 
suoi 
organi 
che, lungi 
dal 
vantare 
la proprietà dei 
beni, li amministrano per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali. 


Poiché, dunque, la 
proprietà 
pubblica 
non sarebbe 
un dominio in senso tecnico e 
privatistico, 
ma 
in 
essa 
prevale 
la 
destinazione 
a 
finalità 
pubbliche 
e, 
dunque, 
la 
dimensione 
“della 
gestione”, 
correttamente, secondo il 
Comune 
di 
Viterbo, l’avviso opposto in prime 
cure 
è 
stato 
notificato soltanto all’Agenzia 
del 
Demanio, alla 
quale, appunto, ai 
sensi 
dell’art. 65 d.lgs. 
300/1999, è stata attribuita l’amministrazione di beni immobili dello Stato. 
in 
effetti, 
aderendo 
-come 
ha 
fatto 
Cass. 
7152/2018 
-alla 
dottrina 
della 
proprietà 
immobiliare 
dello Stato quale 
“proprietà-funzione” 
-“a meno che 
non si 
tratti 
di 
patrimonio disponibile, 
nel 
qual 
caso la proprietà pubblica e 
privata non si 
differenziano, se 
non per 
la qualità soggettiva 
del 
proprietario” 
(così 
Cass. 7152/2018) -può sorgere 
il 
dubbio (che 
la 
corte 
territoriale 
e, prima 
ancora 
il 
Comune 
di 
Viterbo, ha 
trasformato in certezza) che 
l’art. 57, co. 1, 
d.lgs. 300/1999 (1) -nel 
prevedere 
il 
passaggio dal 
dipartimento del 
territorio del 
ministero 
delle 
Finanze 
all’Agenzia 
del 
Demanio 
“dei 
rapporti 
giuridici, 
dei 
poteri 
e 
delle 
competenze” 
relativi 
alla gestione 
delle 
funzioni 
già 
esercitate 
dal 
predetto dipartimento -abbia 
comportato 
il 
trasferimento all’Agenzia 
anche 
della 
“titolarità” 
di 
tutti 
i 
beni 
del 
demanio e 
del 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato, 
quali 
strumenti 
delle 
funzioni 
gestorie 
trasferite, 
anche 
ai 
fini 
dell’imU/TASi. 
Di 
talché, accedendo all’interpretazione 
di 
Cass. 7152/2018, riportata 
pedissequamente 
dal 
Comune 
di 
Viterbo, occorrerebbe 
riconoscere 
che 
gli 
avvisi 
ai 
fini 
imU 
andrebbero di 
regola 
notificati 
all’Agenzia 
del 
Demanio, in ragione 
della 
prevalenza 
del 
profilo “gestorio” 
all’interno 
della 
nozione 
della 
“proprietà-funzione”; 
in sostanza, in relazione 
alla 
proprietà 
pubblica, 
il 
profilo gestorio e 
quello della 
titolarità 
si 
confonderebbero, tanto che 
la 
seconda 
si 
identificherebbe 
nel 
primo, 
onde 
è 
al 
gestore, 
e 
non 
al 
titolare, 
che 
andrebbe 
notificato 
l’avviso 
ai fini imU. 


§§§ 
La 
Difesa 
dello 
Stato 
non 
condivide 
tali 
conclusioni, 
benché 
già 
affermate, 
ai 
fini 
delle 
azioni 
reali 
su beni 
dello Stato, da 
Cass. 7152/18 (alla 
quale 
si 
è 
allineato il 
Comune 
resistente, pur 
senza 
richiamare 
tale 
pronuncia 
di 
legittimità), e 
ne 
sollecita 
una 
rivisitazione, per lo meno ai 
fini che qui interessano, circoscritti all’imU/TASi. 
Per tale 
motivo si 
chiede 
a 
codesta 
Ecc.ma 
Corte 
-nella 
denegata 
e 
non creduta 
ipotesi 
che 
non 
si 
intendesse 
dare 
continuità 
ai 
principi 
già 
affermati, 
ai 
fini 
iCi/imU, 
da 
Cass. 
10655/2019 -di 
voler rinviare 
la 
causa 
alla 
pubblica 
udienza, anche 
ai 
fini 
dell’eventuale 
rimessione 
alle Sezioni Unite civili della questione posta con il primo motivo. 
Le 
ragioni 
che, ad avviso di 
questa 
Difesa 
Erariale, militano per una 
rimeditazione 
da 
parte 
di 
codesta 
Corte, 
eventualmente 
a 
Sezioni 
Unite, 
dei 
principi 
affermati 
dalla 
sentenza 
7152/18 
sono le seguenti. 


i. 
È 
ben noto a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
il 
principio, pacifico in seno alla 
giurisprudenza 


(1) L’art. 57, co. 1, D.lgs. 300/1999 prevede 
che: 
“Per 
la gestione 
delle 
funzioni 
esercitate 
dai 
dipartimenti 
delle 
entrate, delle 
dogane, del 
territorio e 
di 
quelle 
connesse 
svolte 
da altri 
uffici 
del 
ministero 
sono istituite 
l’agenzia delle 
entrate, l’agenzia delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli 
e 
l’agenzia del 
demanio, 
di 
seguito 
denominate 
agenzie 
fiscali. 
Alle 
agenzie 
fiscali 
sono 
trasferiti 
i 
relativi 
rapporti 
giuridici, 
poteri 
e 
competenze 
che 
vengono 
esercitate 
secondo 
la 
disciplina 
dell’organizzazione 
interna 
di ciascuna agenzia”. 



di 
legittimità, secondo cui, “a seguito del 
trasferimento alle 
Agenzie 
fiscali 
dei 
rapporti 
giuridici, 
dei 
poteri 
e 
delle 
competenze, in precedenza facenti 
capo al 
Ministero delle 
finanze, ai 
sensi 
del 
d.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, il 
Ministero non è 
più legittimato 
nei 
processi 
pendenti 
riguardanti 
i 
servizi 
attribuiti 
alle 
agenzie 
fiscali 
spettando sia la legittimazione 
ad causam, sia quella ad processum 
alle 
suddette 
agenzie, con conseguente 
inammissibilità 
della domanda azionata nei 
confronti 
del 
Ministero 
(cfr., tra 
le 
tante, Cass., Sez. 
V, 26 febbraio 2019, n. 5556, Cass., Sez. V, 15 marzo 2021, n. 7159; 
Cass., Sez. V, 29 maggio 
2020, n. 10240; 
Cass., Sez. Vi, 19 dicembre 
2019, n. 33809; 
Cass., Sez. V, 6 dicembre 
2017, 


n. 29183; 
Cass., Sez. V, 25 ottobre 
2006, n. 22889; 
Cass., Sez. V, 22 giugno 2021, n. 17858). 


i.1. 
Si 
ritiene, tuttavia, che 
tale 
orientamento giurisprudenziale 
non sia, di 
per sé, decisivo ai 
fini della soluzione della questione giuridica posta con il primo motivo di ricorso in quanto: 
i. 
risulta 
essere 
stato elaborato con esclusivo riferimento al 
contenzioso per i 
tributi 
erariali 
e, 
dunque, in relazione ai rapporti tra mEF ed Agenzia delle Entrate; 


ii. 
esso si 
giustifica 
per il 
fatto che 
all’agenzia delle 
entrate 
è 
riservata dall’art. 62, co. 2, 


(2) d.lgs. 300/1999 la gestione, in 
via esclusiva, del 
contenzioso tributario dello stato 
o 
relativo 
ad 
altri 
tributi, 
anche 
locali, 
affidati 
all’Agenzia 
delle 
Entrate 
in 
base 
ad 
apposite 
convenzioni 
stipulate 
con 
gli 
enti 
impositori 
o 
creditori; 
una 
norma 
analoga 
non 
si 
rinviene 
con 
riguardo all’agenzia del 
Demanio, per cui 
non è 
possibile 
affermare 
che 
quest’ultima 
sia 
legittimata 
in via 
esclusiva 
a 
ricevere 
gli 
avvisi 
per imU 
emessi 
dai 
Comuni 
(ed a 
curare 
il 
relativo contenzioso) in relazione 
al 
patrimonio immobiliare 
dello Stato, la 
cui 
proprietà, 
come 
si 
vedrà 
più nel 
dettaglio infra, continua 
ad essere 
ascrivibile 
allo Stato-persona, e 
per 
esso al ministero dell’Economia e delle Finanze. 


ii. Ciò posto, Cass. 7152/2018 non sembra 
aver tenuto nella 
debita 
considerazione 
il 
dettato 
della 
Costituzione 
la 
quale, all’articolo 42, comma 
1, come 
noto, prevede 
che 
“La proprietà 
è pubblica o privata. i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. 
La proprietà pubblica è, dunque, una 
species 
del 
genus 
unitario “proprietà”. 
L’utilizzo del 
verbo “appartenere” 
che, secondo Cass. 7152/2018 rimarcherebbe 
“la distinzione 
tra il 
diritto di 
proprietà nell’accezione 
accolta” 
dall’art. 832 c.c. “e 
la 
proprietà pubblica” 
non 
è 
affatto 
argomento 
decisivo 
nel 
senso 
voluto 
da 
tale 
pronuncia, 
e 
ciò 
per 
due 
ragioni. 
innanzitutto, 
come 
visto, 
il 
verbo 
appartenere 
è 
usato 
indifferentemente 
dalla 
Costituzione 
per i beni economici sia dei privati che dello Stato. 
in 
secondo 
luogo, 
come 
rilevato 
da 
autorevole 
dottrina, 
il 
termine 
“appartenenza” 
ricorre 
nelle 
fonti 
del 
diritto 
romano 
e 
serviva 
ad 
indicare 
sempre 
e 
soltanto 
il 
diritto 
di 
proprietà, 
del 
quale 
metteva 
in 
evidenza 
la 
condizione 
giuridica 
della 
res 
che 
ne 
costituiva 
l’oggetto: 
l’essere, 
cioè, questa, per così dire, riservata ad un determinato soggetto (ad eum pertinens). 
Ed 
anzi, 
nel 
codice 
civile 
italiano 
il 
riferimento 
al 
fenomeno 
della 
c.d. 
appartenenza 
di 
un 


(2) 
Ai 
sensi 
dell’art. 
62, 
co. 
2, 
d.lgs. 
300/1999 
“L’agenzia 
<<delle 
Entrate: 
n.d.r.>> 
è 
competente 
in 
particolare 
a svolgere 
i 
servizi 
relativi 
alla amministrazione, alla riscossione 
e 
al 
contenzioso dei 
tributi 
diretti 
e 
dell’imposta sul 
valore 
aggiunto, nonché 
di 
tutte 
le 
imposte, diritti 
o entrate 
erariali 
o 
locali, entrate 
anche 
di 
natura extratributaria, già di 
competenza del 
dipartimento delle 
entrate 
del 
ministero 
delle 
finanze 
o affidati 
alla sua gestione 
in base 
alla legge 
o ad apposite 
convenzioni 
stipulate 
con gli 
enti 
impositori 
o con gli 
enti 
creditori. Le 
funzioni 
e 
i 
compiti 
in materia di 
riscossione 
sono disciplinati 
dall’articolo 1 del 
decreto-legge 
22 ottobre 
2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 1° dicembre2016, n. 225”. 



bene 
ad un determinato soggetto è 
sempre 
indicativo del 
diritto di 
proprietà 
nel 
senso di 
cui 
all’art. 832 c.c. (cfr. artt. 822, 824, 826, 830, 879, 881, 897, 932, 934 e 
si 
veda 
anche, come 
detto, l’art. 42, co. 1, Cost.). 


ii.1. 
Peraltro, anche 
la 
giurisprudenza 
costituzionale, con riferimento al 
demanio marittimo 
(almeno in quello ricadente 
nelle 
regioni 
a 
statuto ordinario), discorre 
di 
“titolarità” 
del 
bene 
che 
spetta 
allo Stato, distinta 
dalla 
gestione, attribuita 
alle 
Regioni, e 
riconosce 
allo Stato le 
potestà 
di 
determinazione 
e 
riscossione 
del 
canone 
per 
la 
concessione 
di 
aree 
del 
demanio 
marittimo, poiché 
“tale 
potestà seguono la titolarità del 
bene 
e 
non quella della gestione… 
Le 
anzidette 
potestà costituiscono, infatti, espressione 
del 
potere 
di 
disporre 
(nei 
limiti 
in cui 
lo consente la natura demaniale) dei propri beni…” (sent. 73/2018 e sent. 46/2022). 
Anche 
il 
Giudice 
delle 
Leggi, dunque, inquadra 
il 
rapporto tra 
lo Stato ed il 
bene 
demaniale 
nello 
schema 
della 
potestà 
e 
riconosce 
allo 
Stato 
il 
potere 
di 
disporre 
del 
bene 
che 
è 
una 
tipica 
facoltà dominicale ex art. 832 c.c., anzi la più qualificante del dominio privato. 


ii.2. 
La 
posizione 
della 
Corte 
Costituzionale 
è 
in 
linea 
con 
il 
consolidato 
e 
maggioritario 
orientamento della 
giurisprudenza 
di 
legittimità, che 
Cass. 7152/18 e 
la 
corte 
regionale 
sembrano 
non aver considerato, secondo cui 
anche 
al 
demanio possono applicarsi 
le 
norme 
del 
diritto privato: 
ha 
affermato, ad esempio, Cass. Sez. i, 27 aprile 
1993, n. 4962 che: 
“la demanialità 
è 
una qualità della proprietà pubblica, e 
le 
norme 
civilistiche 
sulla proprietà si 
applicano, 
in quanto non siano derogate dalle leggi speciali che la riguardano (art. 823 c.c.)”. 
in precedenza, Cass. Sez. i, 11 marzo 1992, n. 2913 -nel 
censurare 
“il 
vizio di 
fondo” 
che 
inficiava 
la 
sentenza 
allora 
impugnata, 
ravvisato 
dalla 
Corte 
in 
quella 
occasione 
nel 
voler 
“configurare 
la “proprietà pubblica” come 
qualcosa di 
diverso, “quoad essentiam”, dal 
diritto 
di 
proprietà (“privata”)”- ebbe 
ad affermare 
che: 
“tale 
impostazione, benché 
talvolta sostenuta 
in giurisprudenza, non appare 
reggere 
ad un sereno vaglio critico: unico, infatti, come 
la dottrina ha rilevato, appare 
essere 
il 
concetto di 
proprietà, benché 
i 
rapporti 
relativi 
a determinati 
beni 
-per 
le 
peculiarità loro proprie 
-possano essere 
retti 
da una particolare 
normativa. 
È 
sempre, infatti, il 
codice 
civile 
a disciplinare 
(Libro iii, titolo i, Capo ii) nella più 
ampia categoria dei 
beni, i 
beni 
appartenenti 
allo Stato, che 
possono poi 
essere 
demaniali 
o 
non demaniali. e 
decisivo appare, in particolare 
al 
riguardo, il 
supporto normativo dell’art. 
823 c.c., il 
quale, in applicazione 
del 
principio della giurisdizione 
unica dell’A.G.o. in tema 
di 
diritti 
soggettivi, consente 
all’Amministrazione 
il 
ricorso alternativo alla potestà di 
autotutela 
ovvero 
alla 
tutela 
giurisdizionale 
per 
quanto 
concerne 
i 
beni 
demaniali 
(cfr. 
Cass., 
S.U. 
n. 2592 del 
1976), facultizzandola ad “avvalersi 
dei 
mezzi 
ordinari 
a difesa della proprietà e 
del possesso”. 


La connotazione 
alternativa pubblico-privato non 
discrimina, quindi, due 
categorie 
concettuali 
di proprietà, ma più propriamente due categorie giuridiche di beni. 


ed è 
significativo che 
l’individuazione 
della categoria dei 
“beni 
pubblici” 
sia operata dalla 
più accreditata dottrina in materia non già in base 
ad un criterio soggettivo (essendoci 
beni 
dello 
Stato 
e 
degli 
enti 
pubblici 
che 
non 
sono 
pubblici; 
e 
beni, 
per 
converso, 
dei 
privati, 
come 
quelli 
di 
interesse 
storico, artistico ecc., che 
tali 
vanno considerati) sebbene 
in base 
ad un 
criterio oggettivo. 
tale 
criterio è 
propriamente 
correlato alla peculiarità del 
regime 
giuridico, che, con varia 
modulazione, va dalla inalienabilità ed inusucapibilità dei 
beni 
demaniali 
al 
vincolo di 
destinazione 
(ed 
alla 
soggezione 
a 
poteri 
di 
polizia 
amministrativa 
ecc.) 
dei 
beni 
pubblici 
di 
appartenenza ai privati. 


Senza che 
mai 
tale 
pur 
accentuata specialità di 
regime 
(che, si 
ripete, può inerire 
anche 
a 



beni 
di 
privata appartenenza) possa, però, infrangere 
lo schema paradigmatico del 
diritto 
reale (di proprietà) su di essi esercitato. 


Consegue 
da ciò che 
l’errata supposizione 
di 
demanialità del 
bene, da parte 
della P.A., non 
può 
incidere 
sulla 
sua 
volontà 
di 
gestirlo 
“uti 
dominus”, 
ma 
si 
risolve 
in 
un 
errore 
sul 
regime 
giuridico della cosa posseduta, come 
tale 
irrilevante 
ai 
fini 
dell’usucapione…” 
<<enfasi 
aggiunta>>. 
Nel 
solco di 
Cass. 2913/1992 si 
colloca, ad esempio, anche 
Cass. Sez. ii, 23 novembre 
2001, 


n. 14917 nonché, anche 
di 
recente, Cass, civ. Sez. ii, 6 maggio 2014, n. 9682 che 
ribadisce, 
appunto, quanto segue: 
“(...) poiché 
la distinzione 
tra i 
beni 
pubblici 
ed i 
beni 
privati 
non discrimina 
due 
categorie 
concettuali 
di 
proprietà, 
ma 
soltanto 
due 
categorie 
giuridiche 
di 
beni, 
la prima delle 
quali 
presenta un peculiare 
regime 
giuridico (inalienabilità, inusucapibilità, 
vincolo di 
destinazione 
per 
i 
beni 
pubblici 
appartenenti 
a privati 
ecc.), la Pubblica Amministrazione 
può usucapire 
il 
bene 
privato del 
quale 
per 
oltre 
un ventennio, nella erronea convinzione 
che 
fosse 
demaniale, abbia disposto la concessione 
in uso a terzi, atteso che, mentre 
l’errata supposizione 
di 
demanialità del 
bene 
non incide 
sulla volontà della P.A. di 
gestirlo 
“uti 
dominus”, risolvendosi 
in un errore 
sul 
regime 
giuridico del 
bene 
irrilevante 
ai 
fini 
del-
l’usucapione, la concessione 
in uso a terzi 
costituisce 
uno dei 
modi 
di 
disposizione 
del 
bene 
e 
quindi 
di 
possesso dello stesso da parte 
dell’ente 
pubblico (Cass. 11 marzo 1992 n. 2913; 
Cass. 23 novembre 2001 n. 14917)”. 


ii.2.1. 
il 
patrimonio indisponibile 
è 
espressamente 
assoggettato alla 
disciplina 
del 
codice 
“in 
quanto non è 
diversamente 
disposto” 
(art. 828 c.c.) ed i 
beni 
del 
patrimonio disponibile 
sono 
senz’altro assoggettati alla normativa comune. 


ii.3. 
D’altro canto, quanto al 
demanio e 
al 
patrimonio indisponibile, il 
soddisfacimento degli 
interessi 
generali 
a 
cui 
essi 
sono preordinati 
viene 
perseguito dall’Amministrazione 
proprio 
esercitando sui beni quei poteri che identificano il contenuto della proprietà ex art. 832 c.c. 
All’Amministrazione, esattamente 
come 
il 
dominus 
privato, sono consentiti 
tutti 
i 
possibili 
modi 
di 
utilizzazione 
e 
disposizione 
dei 
beni, 
che 
non 
siano 
ovviamente 
esclusi 
o 
incompatibili 
con la destinazione a finalità pubbliche. 
Peraltro, l’Amministrazione 
può anche 
decidere 
in ordine 
alla 
destinazione 
dei 
beni 
del 
demanio 
e 
del 
patrimonio indisponibile 
in quanto, con l’osservanza 
delle 
prescritte 
procedure, 
può convertirli in patrimonio disponibile integralmente disciplinato dal diritto privato. 
Le 
facoltà 
e 
poteri 
che 
all’Amministrazione 
spettano in quanto proprietaria 
ex art. 832 c.c. 
dei 
beni 
del 
demanio 
e 
del 
patrimonio 
indisponibile 
rivestono 
indubitabilmente 
natura 
di 
diritti 
soggettivi, anche se beneficiari, in ultima analisi, degli stessi è la collettività. 
Alla 
luce 
di 
tutte 
le 
considerazioni 
che 
precedono deve, dunque, concludersi 
che 
la 
proprietà 
pubblica 
rientra 
nella 
unitaria 
nozione 
di 
proprietà 
ex art. 832 c.c., ed è 
riconducibile 
tuttora 
allo Stato-persona e, in rappresentanza di esso, al ministero dell’Economia e delle Finanze. 


iii. 
L’articolo 1, co. 1, del 
r.d. 2440/1923, recante 
“Nuove 
disposizioni 
sull’amministrazione 
del 
patrimonio e 
sulla contabilità generale 
dello Stato”, non sembra 
d’ostacolo a 
questa 
conclusione. 
Tale 
disposizione, 
benché 
emanata 
nella 
vigenza 
dello 
Statuto 
albertino, 
deve 
essere 
interpretata 
in 
conformità 
alla 
(sopravvenuta) 
Costituzione 
che, 
come 
detto, 
all’art. 
42, 
co. 
1, 
individua 
e tutela due tipologie di proprietà, privata e pubblica, quali 
species 
del medesimo genus. 
Pertanto, 
dal 
predetto 
art. 
1 
r.d. 
cit. 
-nella 
parte 
in 
cui 
affidava 
al 
ministero 
delle 
Finanze 
l’amministrazione 
dei 
“beni 
immobili 
dello Stato, tanto pubblici 
quanto posseduti 
a titolo di 
privata proprietà” 
-non può ricavarsi 
l’inesistenza 
della 
proprietà 
pubblica 
(ridotta 
ad una 



mera 
funzione 
gestoria 
di 
beni 
pubblici 
sostanzialmente 
“acefali”, come 
vorrebbe 
il 
Comune 
di 
Viterbo), trattandosi, semmai, di 
disposizione 
che 
dà 
per presupposta 
la 
titolarità 
della 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato in capo al 
ministero delle 
Finanze, oggi 
mEF, in quanto 
organo, competente 
ratione 
materiae, dello Stato-persona, e 
che, proprio per questa 
ragione, 
gli 
conferiva 
allora 
l’amministrazione 
e 
la 
cura 
di 
quei 
beni, 
le 
quali, 
dal 
2001, 
sono 
transitate 
in capo all’Agenzia 
del 
Demanio, rimanendo, però, la 
proprietà 
del 
patrimonio immobiliare 
dello 
Stato 
in 
capo 
al 
mEF, 
nella 
qualità 
di 
articolazione 
dello 
Stato-persona 
titolare 
dell’Erario 
pubblico. 


iii.1. 
Come 
già 
evidenziato, l’intestazione 
al 
“demanio dello Stato” 
dei 
beni 
per cui 
è 
causa, 
risalente 
al 
secolo 
scorso, 
non 
fa 
certo 
riferimento 
all’Agenzia 
del 
Demanio 
(che, 
come 
è 
noto, è 
stata 
costituita 
solo nel 
1999 ed è 
operativa 
dal 
2001, quindi 
successivamente 
all’intestazione 
catastale), ma 
ad 
una categoria di 
beni, appartenenti 
allo stato, nell’accezione 
di 
cui 
all’art. 832 c.c. (cfr. art. 1 r.D. 1440/ 
1923), di 
cui, oggi, l’agenzia ha la mera gestione 
ex lege. 


iv. Da 
tutto quanto esposto discende, dunque, che, contrariamente 
a 
quanto opinato da 
Cass. 
7152/18, 
il 
demanio 
e 
il 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
non 
costituiscono 
una 
“funzione” 


-transitata 
in capo all’Agenzia 
del 
Demanio in virtù della 
norma 
meramente 
organizzatoria 
di 
cui 
all’art. 57, co. 1, d.lgs. 300/1999 -ma 
sono oggetto del 
diritto soggettivo di 
proprietà 
pubblica 
la 
quale, pur con le 
note 
peculiarità 
di 
regime 
giuridico volte 
ad assicurare 
la 
destinazione 
della 
res 
a 
finalità 
di 
interesse 
pubblico, rientra, ex art. 42, co. 1, Cost., nella 
unitaria 
nozione 
di 
proprietà, 
ed 
è 
soggetta 
anch’essa, 
in 
linea 
di 
principio, 
alle 
norme 
di 
diritto 
privato; 
tale 
proprietà 
pubblica 
è 
tuttora 
riconducibile 
allo Stato-persona, e 
per esso al 
ministero del-
l’Economia 
e 
delle 
Finanze, non rinvenendosi 
alcuna 
norma 
che 
ne 
abbia 
espressamente 
trasferito 
la 
titolarità 
in capo all’Agenzia 
del 
Demanio, ente 
pubblico economico distinto dallo 
Stato, alla 
quale 
spetta 
esclusivamente 
l’amministrazione 
del 
patrimonio immobiliare 
dello 
Stato ex art. 65 d.lgs. 300/1999. 


iv.1. Le 
contrarie 
conclusioni 
a 
cui 
è 
pervenuta 
Cass. 7152/2018, non possono essere 
seguite 
anche 
perché 
sono foriere 
di 
conseguenze 
pratiche 
incongrue 
e 
paradossali, nonché 
di 
dubbia 
compatibilità con il sistema complessivo, anche costituzionale. 


iv.1.1. 
Ed invero, l’Agenzia 
del 
Demanio è 
un ente 
pubblico economico (v. artt. 61, comma 
1, 66, comma 
1, del 
d.lgs. 300/1999) regolato, salvo che 
non sia 
diversamente 
disposto dal 
predetto d.lgs., “dal 
codice 
civile 
e 
dalle 
altre 
leggi 
relative 
alle 
persone 
giuridiche 
private”. 
Le 
Sezioni 
Unite 
di 
codesta 
Ecc.ma 
Corte 
hanno da 
tempo chiarito che 
tra 
le 
Agenzie 
fiscali 
e 
lo 
Stato 
non 
vi 
è 
rapporto 
di 
immedesimazione 
organica, 
non 
essendo 
le 
agenzie 
enti-organo, 
ma 
persone 
giuridiche 
pubbliche 
esterne 
e 
distinte 
rispetto 
allo 
Stato 
(v. 
Cass. 
S.U. 
3116/2006 
e S.U. 3118/2006). 
Ciò vale, a fortiori, per l’Agenzia 
del 
Demanio che 
è, addirittura, un 
ente 
pubblico economico, 
disciplinato “dal 
codice 
civile 
e 
dalle 
altre 
leggi 
relative 
alle 
persone 
giuridiche 
private”. 
in mancanza 
di 
un rapporto di 
immedesimazione 
organica 
tra 
Stato e 
Agenzia 
del 
Demanio, 
viene 
a 
cadere 
il 
presupposto logico-giuridico su cui 
si 
fonda 
la 
teoria 
della 
“proprietà-funzione”, 
e 
cioè 
l’assunto, che 
si 
legge 
testualmente 
in Cass. 7152/18, secondo cui 
“lo Stato” 
<<opera: 
n.d.r.>>” 
attraverso i 
suoi 
organi 
che, lungi 
dal 
vantare 
la proprietà dei 
beni, li 
amministrano per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali”. 
ma, come 
si 
è 
visto, l’Agenzia 
del 
Demanio non è 
un organo dello Stato, per cui, a 
voler seguire 
Cass. 7152/18, il 
demanio e 
il 
patrimonio indisponibile 
dello Stato apparterrebbero ad 



un 
ente 
pubblico 
economico, 
distinto 
e 
separato 
dallo 
Stato, 
soggetto 
al 
“codice 
civile 
ed 
alle 
altre 
leggi 
relative 
alle 
persone 
giuridiche 
private”, e 
non legato allo Stato da 
alcun rapporto 
di 
immedesimazione 
organica; 
il 
che 
appare 
un esito paradossale, e 
comunque 
contraddittorio 
rispetto al 
postulato da 
cui 
Cass. 7152/18 ha 
preso le 
mosse 
(e 
cioè 
la 
circostanza 
che 
lo Stato possiederebbe il demanio e il patrimonio indisponibile attraverso i propri organi). 
Sotto altro profilo, imputare 
la 
titolarità 
degli 
immobili 
demaniali 
e 
del 
patrimonio indisponibile 
all’Agenzia 
del 
Demanio, ente 
pubblico economico distinto dallo Stato, è 
conclusione 
interpretativa 
di 
dubbia 
compatibilità 
con la 
Costituzione 
che, come 
si 
è 
visto, all’art. 42, co. 
1, Cost. -nel 
prevedere 
che 
i 
beni 
economici 
appartengono allo Stato -stabilisce 
un rapporto 
dominicale 
diretto tra 
lo Stato-persona 
ed i 
suoi 
beni, che 
osta 
ad una 
diversa 
interpretazione 
che, 
come 
quella 
qui 
in 
contestazione, 
riconduca 
l’appartenenza 
dei 
beni 
statali 
ad 
un 
ente 
pubblico 
economico 
diverso 
e 
distinto 
rispetto 
allo 
Stato, 
per 
giunta 
soggetto 
al 
“codice 
civile 
ed alle altre leggi relative alle persone giuridiche private”. 


iv.1.2. 
Gli 
assunti 
di 
Cass. 7152/18 danno, infine, luogo ad un’altra, forse 
più grave, incongruenza, 
anzi 
ad una 
vera 
e 
propria 
aporia 
di 
sistema: 
se, come 
pretenderebbe 
la 
pronuncia 
del 
2018, “la legittimazione 
ad causam” 
-con riguardo alle 
azioni 
reali 
e/o petitorie 
aventi 
ad oggetto beni 
dello Stato -“si 
radica” 
<<esclusivamente: 
n.d.r.>>> “in 
funzione 
della titolarità 
dei 
poteri 
gestori”, 
ne 
consegue 
che 
quando 
la 
causa 
abbia 
ad 
oggetto 
il 
demanio 
idrico, 
la 
legittimazione 
passiva 
dovrebbe 
essere 
riconosciuta 
in 
via 
esclusiva 
alle 
Regioni 
(alle 
quali, come 
noto, dal 
1998 è 
stata 
conferita 
la 
titolarità 
delle 
relative 
funzioni 
gestorie: 
cfr. art. 86 d.lgs. 112/1998), benché 
il 
bene 
appartenga 
pacificamente 
allo Stato (cfr. Corte 
Cost. sent. 73/2018 e sent. 46/2022). 
v. 
Quanto sostenuto nel 
paragrafo iV 
della 
presente 
memoria 
trova 
una 
ulteriore 
conferma 
nell’art. 
6, 
paragrafo 
3, 
punto 
secondo, 
del 
vigente 
regolamento 
di 
Amministrazione 
e 
di 
Contabilità 
dell’Agenzia 
del 
Demanio (in G.U. n. 309 del 
30 dicembre 
2021), nel 
quale 
si 
legge 
quanto segue: 
“Le 
strutture 
territoriali 
<<id est: 
le 
Direzioni 
Regionali 
dell’Agenzia 
del 
Demanio: 
n.d.r.>> hanno la piena titolarità della gestione 
del 
patrimonio assegnato e 
di 
proprietà 
dell’Agenzia, rappresentando la proprietà dei 
beni 
mobili 
e 
immobili 
dello Stato di 
competenza del 
Ministero dell’economia e 
delle 
finanze, curandone, in 
particolare, la gestione 
efficiente, l’amministrazione e la valorizzazione 
”. 


v.1. 
Tale 
disposizione 
regolamentare 
conferma, dunque, che 
l’Agenzia 
del 
Demanio -fatta 
eccezione 
per 
alcuni 
beni, 
costituenti 
il 
suo 
patrimonio 
immobiliare, 
ad 
essa 
conferito 
dal 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, in virtù del 
D.m. 29 luglio 2005, recante 
“individuazione 
del 
patrimonio 
dell’Agenzia 
del 
demanio”, 
e 
del 
successivo 
D.m. 
17 
luglio 
2007 
recante 
“individuazione 
di 
nuovi 
beni 
immobili 
da conferire 
in proprietà dell’Agenzia del 
demanio, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2, 
comma 
1, 
del 
d.M. 
29 
luglio 
2005, 
del 
Ministro 
dell’economia 
e 
delle 
finanze” 
(v. art. 3 dello Statuto -e 
l’ 
art. 65, co. 2 bis, d.lgs. 300/1999), -non è 
proprietaria 
del 
patrimonio immobiliare 
dello Stato, che 
è 
tuttora 
in capo al 
ministero dell’Economia 
e 
delle Finanze. 
La 
proprietà 
del 
patrimonio immobiliare 
dello Stato, nella 
sua 
interezza, permane, dunque 
in 
capo allo Stato-persona 
medesimo e, per esso, in capo al 
ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, 
mentre 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
“rappresenta… 
la 
proprietà 
dei 
beni 
mobili 
e 
immobili 
dello Stato di 
competenza del 
Ministero dell’economia e 
delle 
finanze”, ed in particolare, 
ne 
cura 
“la gestione 
efficiente, l’amministrazione 
e 
la valorizzazione” 
ai 
sensi 
dell’articolo 
6, paragrafo 3, punto secondo, del 
citato regolamento di 
amministrazione 
e 
contabilità 
del-
l’Agenzia del Demanio. 



vi. 
Ragioni 
di 
completezza 
(e 
prudenza) difensiva 
impongono a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
di 
soffermarsi 
su 
un’ultima 
questione 
giuridica, 
inerente 
alla 
corretta 
interpretazione 
della 
portata 
e 
degli 
effetti 
del 
citato articolo, paragrafo 3, punto secondo, del 
regolamento di 
amministrazione 
e contabilità dell’Agenzia del Demanio. 
Come 
si 
è 
visto, ai 
sensi 
dell’art. 6, paragrafo 3, punto secondo, del 
vigente 
regolamento di 
Amministrazione 
e 
di 
Contabilità 
dell’Agenzia 
del 
Demanio (in G.U. n. 309 del 
30 dicembre 
2021) “Le 
strutture 
territoriali 
<<id est: 
le 
Direzioni 
Regionali 
dell’Agenzia 
del 
Demanio: 
n.d.r.>> hanno la piena titolarità della gestione 
del 
patrimonio assegnato e 
di 
proprietà del-
l’Agenzia, 
rappresentando 
la 
proprietà 
dei 
beni 
mobili 
e 
immobili 
dello 
Stato 
di 
competenza 
del 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
finanze, 
curandone, 
in 
particolare, 
la 
gestione 
efficiente, 
l’amministrazione e la valorizzazione 
”. 
in relazione 
alla 
portata 
e 
all’effettivo significato di 
tale 
disposizione 
regolamentare, ritiene 
questa 
Avvocatura 
Generale 
di 
dover chiarire 
e 
precisare, onde 
evitare 
equivoci 
e 
fraintendimenti, 
che 
“la funzione 
di 
‘rappresentanza’ 
” 
della 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato di 
competenza 
del 
mEF, 
che 
l’art. 
6, 
paragrafo 
3, 
punto 
secondo, 
del 
vigente 
regolamento 
di 
amministrazione 
e 
contabilità 
assegna 
all’Agenzia 
del 
Demanio, non 
può de 
iure 
includere 
la ricezione degli avvisi di accertamento di fini imU e la gestione del relativo contenzioso. 
infatti, in base 
all’analisi 
della 
lettera 
della 
predetta 
disposizione 
regolamentare 
(che 
costituisce 
il 
primo 
ed 
assorbente 
criterio 
di 
interpretazione 
della 
norma, 
in 
ossequio 
al 
noto 
brocardo; 
“in claris 
non fit 
interpretatio”), tale 
funzione 
di 
rappresentanza 
della 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato di 
competenza 
del 
ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
è 
circoscritta 
alla 
“gestione 
efficiente, l’amministrazione 
e 
la valorizzazione”; 
e 
ciò in perfetta 
armonia 
e 
coerenza 
con l’art. 65, co. 1, del 
d.lgs. 300/1999, come 
modificato dall’art. 1, comma 
1, lett. 
i), n. 2, del 
D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173, in base 
al 
quale: 
“All’Agenzia del 
demanio è 
attribuita 
l’amministrazione 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato, con 
il 
compito di 
razionalizzarne 
e 
valorizzarne 
l’impiego, di 
sviluppare 
il 
sistema informativo 
sui 
beni 
del 
demanio e 
del 
patrimonio, 
utilizzando in ogni 
caso, nella valutazione 
dei 
beni 
a fini 
conoscitivi 
ed operativi, 
criteri 
di 
mercato, di 
gestire 
con criteri 
imprenditoriali 
i 
programmi 
di 
vendita, di 
provvista, 
anche 
mediante 
l’acquisizione 
sul 
mercato, di 
utilizzo e 
di 
manutenzione 
ordinaria e 
straordinaria 
di tali immobili 
”. 
Tale 
ultima 
disposizione 
di 
rango 
primario 
attribuisce, 
dunque, 
all’Agenzia 
del 
Demanio 
“l’amministrazione 
dei 
beni 
immobili 
dello 
Stato”, 
precisando 
che 
essa 
consiste 
e 
si 
esaurisce 
nei seguenti 
compiti: 


i. di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego; 


ii. di sviluppare il sistema informativo sui beni del demanio e del patrimonio 
[…]; 


iii. 
di 
gestire 
[…] i 
programmi 
di 
vendita, di 
provvista 
[…] 
di 
utilizzo e 
di 
manutenzione 
ordinaria 
e straordinaria di tali immobili 
”. 
Tra 
i 
compiti 
attribuiti 
dall’articolo 65, co. 1, all’Agenzia 
del 
Demanio non figura, dunque, 
quello 
di 
ricevere, 
per 
conto 
del 
mEF, 
gli 
avvisi 
imU 
emessi 
dai 
Comuni 
e 
di 
gestire 
il 
relativo 
contenzioso. 
Ne 
consegue 
che, con il 
citato articolo 65, comma 
1, il 
legislatore 
(delegato) non ha 
affatto 
inteso derogare, in relazione 
agli 
immobili 
dello Stato, alla 
disciplina 
normativa 
in materia 
di 
iCi (poi 
divenuta 
imU) la 
quale, già 
nel 
1999, prevedeva 
la 
regola 
secondo cui 
il 
soggetto 
passivo 
di 
imposta 
(e 
quindi 
il 
legittimo 
destinatario 
della 
pretesa 
impositiva) 
è 
il 
proprietario 
dell’unità 
immobiliare 
e 
non 
il 
gestore 
ex 
lege 
della 
stessa 
(v. 
l’art. 
3, 
co. 
1, 
del 
d.lgs. 
504/1992, 
nel testo in vigore al 31 dicembre 2000). 



L’articolo 
6, 
paragrafo 
3, 
punto 
secondo, 
del 
vigente 
regolamento 
di 
Amministrazione 
e 
di 
Contabilità 
dell’Agenzia 
del 
Demanio 
deve, 
ovviamente, 
essere 
interpretato 
in 
modo 
coerente 
con la disposizione normativa primaria dell’art. 65, co. 1, d.lgs. 300/1999. 
D’altro canto, il 
regolamento in discorso ha 
un’efficacia 
meramente 
interna 
(circoscritta 
alle 
strutture 
dell’Agenzia 
del 
Demanio) e 
non sembra 
idoneo a 
disciplinare 
i 
rapporti 
giuridici 
esterni 
(intersoggettivi) 
di 
imposta 
con 
gli 
enti 
locali, 
consentendo 
a 
questi 
ultimi 
di 
notificare 
gli avvisi imU all’Agenzia del Demanio per conto del mEF. 
Una 
diversa 
interpretazione 
del 
predetto articolo 6 (secondo cui 
“la funzione 
di 
“rappresentanza” 
della 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello 
Stato 
di 
competenza 
del 
mEF, 
spettante 
all’Agenzia 
del 
Demanio, legittimerebbe 
quest’ultima 
anche 
a 
ricevere, per conto del 
mEF, gli 
avvisi 
di 
accertamento di 
fini 
imU 
ed a 
gestire 
il 
relativo contenzioso) non può essere 
seguita 
perché 
esporrebbe 
la 
predetta 
disposizione 
dell’articolo 6 a 
seri 
dubbi 
di 
illegittimità 
per contrasto 
con fonti 
normative 
di 
rango primario, con la 
conseguente 
necessità 
di 
disapplicarla, 
anche 
ex officio iudicis, ex art. 5 della Legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E. 
Si 
consideri, 
al 
riguardo, 
che 
il 
regolamento 
di 
Amministrazione 
e 
di 
Contabilità 
dell’Agenzia 
del 
Demanio è 
annoverabile 
tra 
i 
regolamenti 
“di 
altre 
autorità” 
di 
cui 
all’articolo 3 , comma 
2, delle 
preleggi, che, nella 
gerarchia 
delle 
fonti 
(statali 
interne), si 
collocano sotto la 
legge 
(e 
fonti 
equiparate) 
e 
sotto 
i 
regolamenti 
del 
Governo, 
allo 
stesso 
livello 
dei 
regolamenti 
dei 
ministeri: 
trattasi, quindi, di una fonte regolamentare c.d. “di terzo grado”. 
Una 
fonte 
regolamentare 
siffatta 
non 
può 
derogare 
alla 
disciplina 
di 
rango 
primario 
in 
materia 
di 
imU 
la 
quale, come 
si 
è 
visto, attribuisce 
la 
soggettività 
passiva 
di 
imposta 
al 
titolare 
del 
“possesso” 
qualificato 
dal 
diritto 
di 
proprietà, 
quindi 
al 
proprietario, 
non 
includendo 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
il 
mero 
gestore 
dell’immobile 
(cfr., 
per 
l’anno 
di 
imposta 
2015, 
l’art. 
13, 
d.l. 
201/2011 e l’art. 9, co. 1, d.lgs. 23/2011). 
il 
regolamento di 
Amministrazione 
e 
di 
Contabilità 
dell’Agenzia 
del 
Demanio non è 
autorizzato 
da 
alcuna 
norma 
primaria 
a 
derogare 
ai 
criteri, di 
fonte 
legale, di 
selezione 
dei 
soggetti 
passivi 
dell’imU: 
in particolare, l’articolo 65, co. 1, del 
d.lgs. 300/1999, che 
va 
considerato 
la 
base 
normativa 
di 
rango primario di 
tale 
regolamento, non lo abilita 
affatto a 
disporre 
in 
materia 
di 
soggetti 
passivi 
ai 
fini 
iCi/imU 
e 
TASi; 
né 
esiste 
alcuna 
norma 
di 
rango primario 
che 
riservi 
all’Agenzia 
del 
Demanio la 
gestione, per conto del 
mEF, del 
contenzioso avente 
ad oggetto l’imU asseritamente dovuta in relazione al patrimonio immobiliare dello Stato. 
L’interpretazione 
che 
qui 
si 
contesta 
non sarebbe, in ultima 
analisi, compatibile 
con l’articolo 
23 della 
Costituzione 
che 
prevede 
la 
riserva 
relativa 
di 
legge 
in materia 
di 
prestazioni 
patrimoniali 
imposte (quali sono quelle tributarie). 
Ebbene, 
accedendo 
all’interpretazione 
qui 
avversata, 
si 
avrebbe 
un 
regolamento 
di 
terzo 
grado 
che, senza 
alcuna 
base 
normativa 
primaria, legittimerebbe 
l’Agenzia 
del 
Demanio a 
ricevere 
gli 
avvisi 
imU 
dei 
Comuni, per conto del 
mEF, e 
a 
gestire 
il 
relativo contenzioso, con violazione, 
indiretta, della riserva relativa di legge costituzionalmente prevista. 


vii. 
Alla 
luce 
di 
tutto quanto esposto, è 
necessario ritenere 
che, contrariamente 
a 
quanto opinato 
dalla 
corte 
regionale, lo Stato-persona, e 
per esso il 
mEF, rimane 
il 
centro di 
riferimento 
e 
di 
imputazione 
della 
proprietà 
pubblica 
dei 
beni 
demaniali 
e 
del 
patrimonio indisponibile 
(oltre 
che 
del 
patrimonio disponibile, ma 
di 
questo neanche 
Cass. 7152/18 pare 
dubitare), e 
rimane, dunque, il 
(necessario ed unico) destinatario degli 
avvisi 
ai 
fini 
imU 
emessi 
dai 
Comuni. 
in conclusione, si 
chiede 
che 
l’Ecc.ma 
Corte, in accoglimento del 
primo motivo (di 
portata 
assorbente rispetto agli altri), voglia affermare il seguente 



Principio di diritto: 


“il 
demanio 
e 
il 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
non 
costituiscono 
una 
“funzione”-transitata 
in capo all’Agenzia del 
demanio in virtù della norma meramente 
organizzatoria di 
cui 
all’art. 57, co. 1, d.lgs. 300/1999 -ma sono oggetto del 
diritto di 
proprietà pubblica la quale, 
pur 
con le 
note 
peculiarità di 
regime 
giuridico volte 
ad assicurare 
la destinazione 
della res 
a 
finalità di 
interesse 
pubblico, rientra, ex 
art. 42, co. 1, Cost., nella unitaria nozione 
di 
proprietà, 
ed è 
soggetta anch’essa, in linea di 
principio, alle 
norme 
di 
diritto privato; tale 
proprietà 
pubblica 
è 
tuttora 
riconducibile 
allo 
Stato-persona, 
e 
per 
esso 
al 
Ministero 
dell’economia e 
delle 
Finanze, non rinvenendosi 
alcuna norma che 
ne 
abbia espressamente 
trasferito la titolarità in capo all’Agenzia del 
demanio -ente 
pubblico economico distinto 
dallo Stato e 
non mero organo dello stesso -alla quale 
spetta esclusivamente 
l’amministrazione 
del 
patrimonio immobiliare 
dello Stato; con la conseguenza che 
gli 
avvisi 
ai 
fini 
IMU 
emessi 
dai 
Comuni 
in 
relazione 
agli 
immobili 
dello Stato devono essere 
notificati 
al 
Ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, 
in 
quanto 
tuttora 
centro 
di 
imputazione 
della 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato, e 
non 
all’Agenzia del 
Demanio che, in 
quanto mero gestore, 
dei 
predetti 
beni 
immobili 
è 
priva di 
soggettività tributaria passiva ai 
fini 
IMU 
e 
TASI; e 
ciò anche 
in considerazione 
del 
fatto che, a differenza di 
ciò che 
avviene 
per 
l’Agenzia delle 
entrate, il 
legislatore 
non ha riservato all’Agenzia del 
demanio la gestione 
del 
contenzioso 
(civile e tributario) avente ad oggetto il patrimonio immobiliare dello Stato”. 


§§§ 
Per il 
resto si 
richiama 
tutto quanto eccepito, dedotto ed argomentato negli 
altri 
motivi 
di 
ricorso, 
da intendersi qui integralmente riportati per economia di scrittura. 


§§§ 


P.T.m. 
Previo 
eventuale 
rinvio 
alla 
pubblica 
udienza, 
si 
confida 
nell’accoglimento 
del 
ricorso. 
Spese 
integralmente rifuse. 
Roma, 17 novembre 2024 


l’avvocato dello stato 
Giovanni Palatiello 


Cassazione, 
sezione 
tributaria, 
ordinanza 
11 
gennaio 
2025 
n. 
727 
-Pres. 
G.m. 
Stalla, 
rel. G. Lo Sardo -Agenzia 
del 
Demanio (avv. gen. Stato) c. Comune 
di 
Viterbo (avv. A. La-
rivera) 
avverso 
sentenza 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
del 
Lazio 
n. 
3091/11/2023. 


RiLEVATo CHE: 


1. 
L’Agenzia 
del 
Demanio 
ha 
proposto 
ricorso 
per 
la 
cassazione 
della 
sentenza 
depositata 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado 
del 
Lazio 
il 
23 
maggio 
2023, 
n. 
3091/11/2023, 
la 
quale, 
in 
controversia 
su 
impugnazione 
di 
avviso 
di 
accertamento 
n. 
20151524 del 
15 settembre 
2020 per l’omesso versamento dell’imU 
relativa 
all’anno 2015 
per 
l’importo 
complessivo 
di 
€ 
46.860,00, 
in 
relazione 
ad 
immobili 
ubicati 
in 
Viterbo 
e 
censiti 
in catasto con le 
particelle 
1000, 1027, 1028, 256, 496 e 
995 del 
folio 133, 71 sub 3 e 
71 sub. 
5 del 
folio 169, 162 sub. 2 e 
162 sub 3 del 
folio 171, 329 sub. 2 e 
329 sub. 3 del 
folio 181, i 





quali 
erano compresi 
nel 
demanio dello Stato, ha 
accolto parzialmente 
l’appello proposto dal 
Comune 
di 
Viterbo nei 
confronti 
della 
medesima 
avverso la 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
tributaria 
provinciale 
di 
Viterbo 
il 
9 
marzo 
2022, 
n. 
121/01/2022, 
con 
compensazione 
delle spese giudiziali. 


2. 
il 
giudice 
di 
appello 
ha 
parzialmente 
riformato 
la 
decisione 
di 
prime 
cure 
-che 
aveva 
accolto 
il 
ricorso originario del 
contribuente 
-nel 
senso di 
dichiarare 
la 
legittimità 
dell’avviso di 
accertamento 
nei 
limiti 
del 
50% con riguardo al 
fabbricato censito in catasto con la 
particella 
71 sub. 3 del 
folio 169, nonché 
per l’intero con riguardo ai 
terreni 
censiti 
in catasto con le 
particelle 
1000, 1027, 1028, 256, 496 e 
995 del 
folio 133, e 
di 
dichiarare 
la 
cessazione 
della 
materia del contendere per il resto. 
3. il Comune di 
Viterbo ha resistito con controricorso. 
4. Le parti hanno depositato memorie 
ex 
art. 380-bis.1 cod. proc. civ. 


CoNSiDERATo CHE: 


1. il ricorso è affidato a quattro motivi. 
2. Con il 
primo motivo, si 
denuncia 
violazione 
e/o falsa 
applicazione 
degli 
artt. 13 del 
d.l. 6 
dicembre 
2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
22 dicembre 
2011, n. 214, 
1 e 
3 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504, 9, comma 
1, del 
d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, 1, 
comma 
743, 
della 
legge 
27 
dicembre 
2019, 
n. 
160, 
2697 
cod. 
civ., 
65 
del 
d.lgs. 
30 
luglio 
1999, 


n. 300, 1 del 
r.d. 18 novembre 
1923, n. 2440, in relazione 
all’art. 360, primo comma, n. 3, 
cod. 
proc. 
civ., 
per 
essere 
stato 
erroneamente 
ritenuto 
dal 
giudice 
di 
secondo 
grado 
che 
l’Agenzia 
del Demanio fosse dotata di soggettività passiva ai fini dell’imU. 


2.1 il predetto motivo è fondato. 


2.2 
invero, 
è 
pacifico 
che 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
-fatta 
eccezione 
per 
alcuni 
beni, 
costituenti 
il 
suo 
patrimonio 
immobiliare, 
ad 
essa 
conferito 
dal 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, 
in virtù del 
d.m. 29 luglio 2005, recante 
“individuazione 
del 
patrimonio dell’Agenzia del 
demanio”, 
e 
del 
successivo 
d.m. 
17 
luglio 
2007, 
recante 
“individuazione 
di 
nuovi 
beni 
immobili 
da 
conferire 
in 
proprietà 
dell’Agenzia 
del 
demanio, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2, 
comma 
1, 
del 


d.M. 29 luglio 2005, del 
Ministro dell’economia e 
delle 
finanze” 
-non è 
proprietaria 
del 
patrimonio 
immobiliare 
dello 
Stato, 
né 
è 
titolare, 
in 
relazione 
allo 
stesso, 
di 
diritti 
reali, 
o 
di 
concessione 
amministrativa. La 
proprietà 
del 
patrimonio immobiliare 
dello Stato, nella 
sua 
interezza, 
permane 
in 
capo 
allo 
Stato 
medesimo 
e, 
in 
rappresentanza 
di 
esso, 
al 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, non rinvenendosi 
alcuna 
norma 
che 
ne 
abbia 
trasferito la 
titolarità 
in capo all’Agenzia del Demanio. 
Per cui, secondo la 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, in tema 
di 
iCi (ma 
con valenza 
anche 
per 
l’imU), 
l’Agenzia 
del 
Demanio, 
la 
quale, 
ai 
sensi 
dell’art. 
65 
del 
d.lgs. 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300, 
cura 
l’amministrazione 
degli 
immobili 
demaniali 
e 
patrimoniali 
dello Stato, non è 
soggetta 
ad imposta, non essendo ricompresa 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
elencati 
nell’art. 3 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504 (in termini: 
Cass., Sez. 5^, 5 febbraio 2019, n. 3275; 
Cass., Sez. 5^, 17 
aprile 2019, n. 10655; Cass., Sez. 5^, 17 febbraio 2021, n. 4138). 
Ciò, in quanto l’Agenzia 
del 
Demanio (che, rientrando tra 
le 
agenzie 
fiscali, è 
munita 
di 
personalità 
giuridica 
di 
diritto pubblico, ai 
sensi 
del 
combinato disposto degli 
artt. 57, comma 
1, 
e 
61, comma 
1, del 
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ed è 
distinta 
dal 
ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze) non è 
proprietaria 
(né 
titolare 
di 
altro diritto reale, e 
neppure 
formale 
concessionaria) 
degli 
immobili 
compresi 
nel 
demanio e 
nel 
patrimonio (disponibile 
o indisponibile) 
dello Stato, per cui 
essa 
non può essere 
il 
soggetto passivo dell’iCi e 
dell’imU, che 
per legge 



(artt. 
3, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
30 
novembre 
1992, 
n. 
504; 
9, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
14 
marzo 
2011, 


n. 
23) 
è 
individuato 
nel 
proprietario 
degli 
immobili 
(e, 
dunque, 
nella 
fattispecie, 
nel 
ministero 
dell’Economia e delle Finanze). 


2.3 
Ne 
discende 
che, 
a 
fronte 
dell’attribuzione 
primaria 
ex 
lege 
dell’«amministrazione 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato» (art. 65, comma 
1, del 
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300), non si 
può 
valorizzare, al 
fine 
di 
stabilire 
la 
soggettività 
passiva 
ai 
fini 
del 
pagamento dell’imU 
(come 
è 
stato, invece, fatto dalla 
sentenza 
impugnata), la 
circostanza 
che 
la 
convenzione 
stipulata 
tra 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
ed 
Agenzia 
del 
Demanio 
per 
il 
triennio 
2017/2019 
«risulta disciplinante 
la gestione 
del 
pagamento delle 
imposte, gravanti 
sui 
beni 
di 
proprietà 
dello 
Stato, 
comunque 
pagate 
dall’Agenzia 
del 
demanio, 
previa 
messa 
a 
disposizione 
dei 
fondi da parte del Ministero delle Finanze». 
Difatti, sancendo, ai 
fini 
della 
gestione 
delle 
imposte, che 
i 
servizi 
prestati 
consistono in: 
«a) 
determinazione 
degli 
importi 
a 
carico 
dell’Agenzia 
(anche 
attraverso 
la 
trasmissione 
agli 
enti 
di 
competenza dei 
dati 
rilevanti 
per 
il 
calcolo degli 
oneri 
fiscali); b) trasmissione 
alla 
struttura 
centrale 
delle 
informazioni 
relative 
ai 
tributi 
da 
corrispondere 
e 
la 
relativa 
richiesta 
di 
messa a disposizione 
delle 
necessarie 
risorse 
finanziarie; c) gestione 
del 
rapporto con il 
MeF 
da 
parte 
della 
struttura 
centrale 
per 
la 
disponibilità 
dei 
fondi; 
d) 
gestione 
dei 
pagamenti 
dei 
tributi; 
e) 
gestione 
del 
relativo 
contenzioso 
a 
supporto 
dell’Avvocatura», 
il 
punto 
1.5 
del-
l’allegato “A” 
(“dettaglio dei 
servizi 
resi”) alla 
citata 
convenzione 
(che 
è 
annessa 
in copia 
alla 
documentazione 
prodotta 
in via 
telematica 
nel 
fascicolo della 
ricorrente 
in sede 
di 
legittimità) 
conferma 
il 
ruolo meramente 
gestorio e 
strumentale 
dell’Agenzia 
del 
Demanio, che 
opera 
per 
conto 
e 
nell’interesse 
del 
ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
anche 
con 
riguardo 
all’adempimento degli 
obblighi 
tributari 
inerenti 
agli 
immobili 
demaniali 
o patrimoniali, 
non offrendo alcun appiglio all’opposta 
ricostruzione 
del 
trasferimento delle 
posizioni 
dominicali. 
3. Con il 
secondo motivo, in subordine, si 
denuncia 
violazione 
dell’art. 2909 cod. civ., in relazione 
all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non essere 
stata 
tenuta 
in conto 
dal 
giudice 
di 
secondo grado l’eccezione 
di 
giudicato esterno in relazione 
alla 
sentenza 
depositata 
dalla 
Commissione 
tributaria 
provinciale 
di 
Roma 
il 
17 gennaio 2020, n. 598/21/2020, 
che 
aveva 
annullato 
l’avviso 
di 
accertamento 
n. 
2013000865 
per 
l’imU 
relativa 
all’anno 
2013 
con riguardo al 
fabbricato censito in catasto con la 
particella 
71 sub. 3 del 
folio 169, sul 
presupposto 
che 
il 
tributo 
non 
era 
dovuto 
per 
carenza 
del 
possesso 
del 
predetto 
immobile 
in 
capo 
all’Agenzia del Demanio. 
Con il 
terzo motivo, in subordine, si 
denuncia 
violazione 
e/o falsa 
applicazione 
degli 
artt. 13 
del 
d.l. 
6 
dicembre 
2011, 
n. 
201, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
22 
dicembre 
2011, 


n. 214, 1 e 
2 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504, in relazione 
all’art. 360, primo comma, n. 
3, cod. proc. civ., per essere 
stato erroneamente 
ritenuto dal 
giudice 
di 
secondo grado che, a 
prescindere 
dalla 
formazione 
del 
giudicato esterno di 
cui 
al 
secondo motivo, l’Agenzia 
del 
Demanio non aveva 
il 
possesso del 
fabbricato censito in catasto con la 
particella 
71 sub. 3 
del folio 169, che era stato occupato sine titulo 
da altri enti. 
i predetti 
motivi 
sono unitariamente 
assorbiti 
dall’accoglimento del 
primo motivo, essendo 
stati 
proposti 
in via 
subordinata 
rispetto al 
primo motivo, per cui 
se 
ne 
rende 
superfluo ed ultroneo 
lo scrutinio. 


4. Con il 
quarto motivo, si 
denuncia 
violazione 
e/o falsa 
applicazione 
degli 
artt. 9, commi 
1 
e 
8, del 
d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, nel 
testo applicabile 
ratione 
temporis, 3 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504, 1, comma 
2, del 
r.d. 18 novembre 
1923, n. 2440, e 
1, comma 
759, lett. 



a, della 
legge 
27 dicembre 
2019, n. 160, per essere 
stato erroneamente 
ritenuto dal 
giudice 
di 
secondo grado che 
l’imU 
relativa 
all’anno 2015 era 
dovuta 
in relazione 
ai 
terreni 
censiti 
in 
catasto 
con 
le 
particelle 
1000, 
1027, 
1028, 
256, 
496 
e 
995 
del 
folio 
133, 
giacché 
l’edificazione 
sui 
medesimi 
della 
caserma 
del 
Comando 
Provinciale 
di 
Viterbo 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco 
non 
basta 
ad escluderne 
la 
debenza, a 
causa 
dell’intestazione 
catastale 
dei 
predetti 
immobili 
all’Agenzia 
del Demanio. 


4.1 il predetto motivo è inammissibile. 


4.2 Difatti, a 
fronte 
dell’accertamento in fatto dell’acquisto dei 
terreni 
a 
favore 
dell’Agenzia 
del 
Demanio per effetto di 
un provvedimento di 
espropriazione 
per pubblica 
utilità, sebbene 
sulla 
sola 
base 
delle 
risultanze 
catastali 
(che 
hanno valore 
meramente 
indiziario -da 
ultima: 
Cass., Sez. 2^, 6 novembre 
2023, n. 30823), il 
mezzo finisce 
col 
risolversi 
in una 
inammissibile 
pretesa 
alla 
revisione 
del 
merito ed alla 
rivalutazione 
delle 
risultanze 
probatorie 
al 
fine 
di 
rinnovare 
l’accertamento 
sull’appartenenza 
dei 
predetti 
immobili, 
che 
sono 
rigorosamente 
precluse al giudice di legittimità. 


4.3 D’altra 
parte, la 
circostanza 
che 
i 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
dello Stato non siano stati 
trasferiti 
all’Agenzia 
del 
Demanio in forza 
del 
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, non esclude 
che 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
possa 
acquistare 
in 
proprio, 
a 
qualsiasi 
titolo, 
la 
proprietà 
di 
immobili, 
essendo 
munita 
di 
autonomia 
patrimoniale 
ex 
art. 
61, 
comma 
2, 
del 
citato 
d.lgs. 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300, 
ed 
essendo, 
quindi, 
titolare 
di 
un 
separato 
patrimonio 
per 
il 
conseguimento 
delle 
finalità istituzionali 
ex 
art. 1 del d.m. 29 luglio 2005. 


4.4 in conclusione, anche 
al 
fine 
di 
rinsaldare 
e 
consolidare 
la 
precedente 
giurisprudenza, il 
collegio valuta 
l’opportunità 
di 
enunciare 
il 
seguente 
principio di 
diritto: 
«in 
tema di 
iMu 
(come 
anche 
di 
iCi), l’agenzia del 
Demanio non 
è 
soggetto passivo di 
imposta in 
relazione 
agli 
immobili 
compresi 
nel 
demanio 
e 
nel 
patrimonio 
(disponibile 
ed 
indisponibile) 
dello 
stato, 
dei 
quali 
essa 
è 
mera 
affidataria 
dell’amministrazione 
e 
della 
valorizzazione 
ai 
sensi 
dell’art. 65 del 
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, per 
cui, non 
essendo titolare 
della 
proprietà 
o 
di 
altri 
diritti 
reali 
di 
godimento, 
né 
beneficiario 
di 
concessione 
amministrativa, 
sui 
predetti 
immobili, il 
gestore 
del 
patrimonio immobiliare 
pubblico non 
è 
ricompreso 
tra i 
soggetti 
passivi 
elencati 
nell’art. 9, comma 1, del 
d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 
(così 
come 
nell’art. 3 del 
d.lgs. 30 novembre 
1992, n. 504, per 
l’iCi). Ciò non 
esclude, 
tuttavia, che 
l’agenzia del 
Demanio sia titolare 
di 
un 
autonomo patrimonio ai 
sensi 
del-
l’art. 1 del 
d.m. 29 luglio 2005 e, quindi, possa acquistare 
in 
proprio, a qualsiasi 
titolo, 
la proprietà di immobili». 
5. Alla 
stregua 
delle 
suesposte 
argomentazioni, dunque, valutandosi 
la 
fondatezza 
del 
primo 
motivo, l’assorbimento del 
secondo motivo e 
del 
terzo motivo, nonché 
l’inammissibilità 
del 
quarto motivo, il 
ricorso può trovare 
accoglimento entro tali 
limiti 
e 
la 
sentenza 
impugnata 
deve 
essere 
cassata 
in relazione 
al 
motivo accolto; 
non occorrendo ulteriori 
accertamenti 
in 
fatto, la 
causa 
può essere 
decisa 
nel 
merito, ai 
sensi 
dell’art. 384, primo comma, ultima 
parte, 
cod. proc. civ., con l’accoglimento parziale 
del 
ricorso originario del 
contribuente 
e 
l’annullamento 
dell’atto impositivo in relazione 
ai 
fabbricati 
ubicati 
in Viterbo e 
censiti 
in catasto 
con le 
particelle 
71 sub 3, e 
71 sub. 5 del 
folio 169, 162 sub. 2 e 
162 sub 3 del 
folio 171, 329 
sub. 2 e 329 sub. 3 del folio 181. 
6. La 
reciproca 
soccombenza 
giustifica 
la 
compensazione 
tra 
le 
parti 
delle 
spese 
dell’intero 
giudizio. 
invero, 
alla 
luce 
del 
principio 
enunciato 
di 
recente 
dalle 
Sezioni 
Unite 
di 
questa 
Corte, secondo cui, in tema 
di 
spese 
processuali, l’accoglimento in misura 
ridotta, anche 
sensibile, 
di 
una 
domanda 
articolata 
in 
un 
unico 
capo 
non 
dà 
luogo 
a 
reciproca 
soccombenza, 



configurabile 
esclusivamente 
in presenza 
di 
una 
pluralità 
di 
domande 
contrapposte 
formulate 
nel 
medesimo processo tra 
le 
stesse 
parti 
o in caso di 
parziale 
accoglimento di 
un’unica 
domanda 
articolata 
in più capi, e 
non consente 
quindi 
la 
condanna 
della 
parte 
vittoriosa 
al 
pagamento 
delle 
spese 
processuali 
in 
favore 
della 
parte 
soccombente, 
ma 
può 
giustificarne 
soltanto 
la 
compensazione 
totale 
o parziale, in presenza 
degli 
altri 
presupposti 
previsti 
dall’art. 92, secondo 
comma, cod. proc. civ. (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 
2022, n. 32061), si 
può ritenere 
che 
l’impugnazione 
dell’atto impositivo da 
parte 
del 
contribuente 
per una 
pluralità 
di 
immobili 
in 
relazione 
alla 
medesima 
imposta 
integri 
un’unica 
domanda 
articolata 
in 
una 
pluralità 
di 
capi 
(Cass., Sez. Trib., 24 aprile 
2024, n. 11072), rispetto alla 
quale 
il 
parziale 
accoglimento 
(anche 
all’esito della 
riforma 
della 
sentenza 
impugnata 
in favore 
dell’ente 
impositore) costituisce 
idonea giustificazione alla compensazione delle spese giudiziali. 


P.Q.m. 
La 
Corte 
accoglie 
il 
primo motivo, dichiara 
l’assorbimento del 
secondo motivo e 
del 
terzo 
motivo; 
dichiara 
l’inammissibilità 
del 
quarto 
motivo; 
cassa 
la 
sentenza 
impugnata 
in 
relazione 
al 
motivo 
accolto 
e, 
decidendo 
nel 
merito, 
accoglie 
parzialmente 
il 
ricorso 
originario 
con 
l’annullamento 
dell’atto impositivo nei 
limiti 
specificati 
in motivazione; 
compensa 
tra 
le 
parti 
le 
spese dell’intero giudizio. 
Così deciso a Roma nella camera di consiglio del 4 dicembre 2024. 



appunti sul D.lgs. n. 139/2024 
Modifiche in materia di trust 


Antonio Ferraioli* 


il 
decreto 
Legislativo 
18 
settembre 
2024, 
n. 
139 
introduce 
la 
possibilità 
per 
il 
disponente 
di 
un 
trust 
di 
optare 
la 
tassazione 
“in 
entrata” 
ai 
fini 
del-
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni. 
il 
dibattito 
circa 
l’identificazione 
dell’evento 
che 
dà 
luogo 
alla 
tassazione 
ai 
fini 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
relazione 
ai 
trust 
è 
stato 
da 
sempre 
fonte 
di 
divisioni 
in 
dottrina, 
giurisprudenza 
e 
prassi. 
Le 
novità 
normative 
introdotte 
dal 
decreto 
Legislativo 
18 
settembre 
2024, 
n. 
139 
segnano 
un 
importante 
punto 
di 
svolta 
sulla 
tematica. 


Questo lo status quaestionis 
prima del provvedimento. 


Con il 
Decreto Legge 
3 ottobre 
2006, n. 262, l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
è 
stata 
reintrodotta 
e 
la 
sua 
applicazione 
estesa 
anche 
agli 
“atti 
di 
trasferimento a 
titolo gratuito di 
beni 
e 
la 
costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione”, 
tra 
i 
quali, secondo l’interpretazione 
resa 
dall’Agenzia 
delle 
Entrate 
con la 
circolare 
del 
6 agosto 2007, n. 48/E, dovevano considerarsi 
ricompresi 
anche gli apporti in favore di trust. 


L’Agenzia 
ha 
ritenuto che 
il 
mero atto di 
istituzione 
del 
trust 
(senza 
apporto 
di 
beni) 
fosse 
da 
considerare 
soggetto 
alla 
sola 
imposta 
di 
registro 
in 
misura 
fissa 
e 
che 
l’atto di 
apporto dei 
beni 
in trust 
(atto dispositivo) fosse 
da 
considerarsi 
soggetto 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
(cosiddetta 
“tassazione 
in entrata”), con aliquote 
e 
franchigie 
variabili 
in base 
al 
rapporto 
di parentela (ove esistente) tra disponente e beneficiario del trust. 


Questa 
posizione 
dell’Agenzia 
ha 
dato origine 
ad un ius 
controversum, 
ovvero ad una ambivalente prospettazione di posizioni: 


1) 
La 
posizione 
dell’Agenzia, oggetto di 
critica 
in dottrina 
(la 
quale 
tendeva 
a 
considerare 
unico 
evento 
rilevante 
ai 
fini 
impositivi 
quello 
dell’effettivo 
trasferimento 
dei 
beni 
ai 
beneficiari 
del 
trust), 
ha 
generato 
un 
rilevante 
numero 
di contenziosi. 

2) 
in un primo momento la 
Suprema 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
accolto l’interpretazione 
dell’Agenzia, favorevole alla “tassazione in entrata”. 

3) 
Successivamente, 
a 
cominciare 
dal 
leading 
case 
Cass. 
30 
ottobre 
2020, 


n. 24154 la 
Suprema 
Corte 
si 
è 
pronunciata 
in senso opposto: 
“il 
presupposto 
dell’imposta 
rimane 
quello stabilito dall’art. 1 d.lgs. n. 346 cit. del 
reale 
trasferimento 
di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari”. 


(*) Dottore di ricerca in Diritto romano. 



4) 
Di 
conseguenza 
è 
mutata 
anche 
l’impostazione 
della 
prassi: 
l’Agenzia, 
con la 
circolare 
del 
20 ottobre 
2022, n. 34/E, ha 
rivisto la 
propria 
posizione, 
individuando quale 
momento impositivo il 
momento in cui 
si 
realizza 
l’effettivo 
trasferimento di 
ricchezza 
in favore 
dei 
beneficiari 
del 
trust 
(cosiddetta 
“tassazione 
in uscita”). in particolare: 
nell’ipotesi 
in cui 
i 
beneficiari 
individuati 
(o 
individuabili) 
siano 
titolari 
di 
diritti 
pieni 
ed 
esigibili, 
non 
subordinati 
alla 
discrezionalità 
del 
trustee 
o 
del 
disponente, 
tali, 
dunque, 
da 
consentire 
loro l’arricchimento al 
momento dell’istituzione 
del 
trust, allora 
il 
momento 
impositivo risulterebbe quello dell’apporto dei beni in trust. 

5) 
Dopo 
la 
circolare 
n. 
34/E 
del 
2022, 
è 
stata 
approvata 
la 
Legge 
9 
agosto 
2023, n. 111 recante, disposizioni 
per la 
razionalizzazione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
atte 
a 
modificare 
il 
Decreto legislativo del 
31 ottobre 
1990, 
n. 
346 
(Testo 
unico 
imposte 
di 
successione 
e 
donazione 
-TUSD), 
le 
quali 
sono state 
recepite 
dal 
Decreto 139/2024, pubblicato in Gazzetta 
Ufficiale 
il 2 ottobre 2024. 

6) 
Con 
il 
Decreto 
139/2024 
è 
stata 
prevista 
la 
facoltà 
per 
il 
disponente 
del 
trust 
di 
optare 
per la 
corresponsione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
occasione 
di 
ciascun 
apporto 
dei 
beni 
e 
dei 
diritti 
o, 
nel 
caso 
di 
trust 
testamentario, in occasione 
dell’apertura 
della 
successione. La 
base 
imponibile, 
le 
franchigie 
e 
le 
aliquote 
applicabili 
sono determinate 
con riferimento 
al 
valore 
complessivo dei 
beni 
e 
dei 
diritti 
e 
al 
rapporto tra 
disponente 
e 
beneficiario 
al 
momento dell’apporto o dell’apertura 
della 
successione. in particolare: 
nel 
caso 
in 
cui 
al 
momento 
dell’apporto, 
o 
dell’apertura 
della 
successione 
non sia 
possibile 
determinare 
chi 
siano i 
beneficiari, oppure 
questi 
non siano 
ancora 
individuati, 
l’imposta 
si 
calcola 
applicando 
l’aliquota 
più 
elevata, 
senza 
applicazione 
di 
franchigie. Qualora 
il 
disponente 
ovvero, in caso di 
trust 
testamentario, 
il 
trustee 
opti 
per 
la 
corresponsione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
“in entrata”, i 
successivi 
trasferimenti 
a 
favore 
dei 
beneficiari 
appartenenti 
alla 
medesima 
categoria 
per cui 
è 
stata 
corrisposta 
l’imposta 
in via 
anticipata non sono soggetti all’imposta. 

Le 
novità 
introdotte 
dal 
Decreto 139/2024 trovano applicazione 
con riferimento 
agli 
atti 
di 
trasferimento 
di 
beni 
in 
trust 
effettuati 
(e 
le 
successioni 
aperte) 
a 
partire 
dal 
1° 
gennaio 
2025, 
anche 
con 
riferimento 
ai 
trust 
già 
istituiti 
alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni. 

in base al 
ius novum: 


la 
possibilità 
di 
optare 
per l’anticipazione 
dell’imposta 
al 
momento del-
l’apporto 
dei 
beni 
in 
trust 
(anziché 
al 
momento 
del 
trasferimento 
ai 
beneficiari) 
comporta 
l’anticipazione 
della 
tassazione, consentendo di 
beneficiare 
dell’attuale 
quadro normativo in materia 
di 
imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
particolarmente 
favorevole 
in termini 
di 
aliquote, franchigie 
e 
criteri 
di 
determinazione 
della 
base 
imponibile; 
evitando 
che 
i 
successivi 
incrementi 
di 
valore 
del 
patrimonio 
trasferito 
in 
trust 
-dalla 
data 
dell’apporto 
dei 
beni 
in 
trust 
a 



quella 
del 
trasferimento ai 
beneficiari 
-siano soggetti 
a 
ulteriore 
tassazione 
ai 
fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. 


SoMMArio: 1. il 
mutamento della fiscalità del 
trust 
-2. La sintesi 
delle 
modifiche 
del 
d.lgs. 139/2024: la tassazione 
dei 
trust 
-3. L’opzione 
tassazione 
all’entrata e 
tassazione 
all’uscita 
- 4. in sintesi. 


1. il mutamento della fiscalità del trust. 


Nel 
riformato 
Testo 
Unico 
sulle 
Successioni 
e 
Donazioni 
(D.lgs. 
n. 
346/1990 -TUSD), una 
particolare 
attenzione 
è 
stata 
dedicata 
all’istituto del 
trust, 
cui 
sono 
dedicate 
diverse 
nuove 
disposizioni, 
in 
vigore 
dal 
1 
gennaio 
2025 (1). 


Per 
la 
prima 
volta, 
il 
TUSD 
menziona 
espressamente 
il 
trust, 
quale 
criterio 
di 
regolazione 
degli 
istituti 
di 
imposizione 
dei 
vincoli: 
le 
norme 
sono prioritariamente 
riferite ai trust, oltre che agli “altri 
vincoli di destinazione”. 

Con riferimento ai 
trust, il 
decreto delegato riformula 
il 
presupposto impositivo, 
specifica 
le 
regole 
di 
territorialità 
del 
tributo 
e, 
soprattutto, 
introduce 
l’art. 4-bis, cui 
è 
assegnato il 
compito di 
definire 
compiutamente 
i 
termini 
di 
rilevanza fiscale dell’istituto. 

il 
testo 
dell’art. 
4-bis 
recepisce 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
il 
suo 
leading 
case 
del 2020. 

il 
legislatore 
delegato 
ha 
dunque 
positivizzato 
un 
meccanismo 
impositivo 
detto di 
“tassazione 
in uscita”. Termina 
così 
il 
dibattito iniziato all’indomani 
del 
2006, sui 
presupposti 
di 
rilevanza 
impositiva 
del 
trust 
(cfr. CNN 
Notizie 
n. 202 del 31 ottobre 2024). 

Tra le novità: 


-la 
definizione 
concettuale 
di 
“oggetto 
del 
tributo” 
(2) 
dell’art. 
1 
TUSD, 
contestualmente 
abrogando 
le 
disposizioni 
dell’art. 
2, 
commi 
da 
47 
a 
52, 
D.L. 
n. 
262/2006 
(convertito 
in 
legge 
n. 
286/2006) 
l’imposta 
“si 
applica 
ai 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
per 
causa 
di 
morte, 
per 
donazione 
o 
a 
titolo 
gratuito, 
compresi 
i 
trasferimenti 
derivanti 
da 
trust 
e 
da 
altri 
vincoli 
di 
destinazione” 
(3). 


(1) L’art. 9, comma 
3, dispone 
che 
“Le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
decreto hanno effetto a partire 
dal 
1° 
gennaio 
2025 
e 
si 
applicano 
agli 
atti 
pubblici 
formati, 
agli 
atti 
giudiziari 
pubblicati 
o 
emanati, 
alle 
scritture 
private 
autenticate 
o presentate 
per 
la registrazione 
a partire 
da tale 
data, nonché 
alle 
successioni aperte e agli atti a titolo gratuito fatti a partire da tale data”. 
Su questi 
temi, si 
rinvia, anche 
per ulteriori 
riferimenti 
bibliografici 
e 
giurisprudenziali, a 
m. LUPoi 
-T. 
TASSANi, Commentario alla Circolare 
34/e, milano, 2023, passim; 
T. TASSANi, Le 
imposte 
indirette, in 
m. 
LUPoi 
(a 
cura 
di), 
i 
trust, 
il 
Foro 
italiano 
-Gli 
Speciali, 
milano, 
2023, 
133 
ss.; 
AA.VV., 
La 
disciplina 
fiscale 
dei 
trust, 
a 
cura 
di 
A. 
LomoNACo, 
Quaderni 
della 
rivista 
Studi 
e 
Materiali 
del 
CNN, 
Napoli, 
2023, 
passim. 


(2) rectius 
presupposto impositivo. 


(3) Si 
può dunque 
notare 
come 
i 
trust 
(e 
gli 
altri 
vincoli) non siano [più] assunti 
come 
fattispecie 
impositiva 
autonoma, bensì 
come 
una 
delle 
ipotesi 
attraverso cui 
si 
possono realizzare 
i 
trasferimenti 



-Ai 
trust 
ed agli 
“altri 
vincoli 
di 
destinazione” 
è 
dedicato il 
nuovo art. 4bis 
TUSD. 

il 
comma 
1 
dell’art. 
4-bis: 
i 
trust 
(e 
gli 
altri 
vincoli) 
“rilevano, 
ai 
fini 
del-
l’applicazione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
ove 
determinino 
arricchimenti 
gratuiti 
dei 
beneficiari”. 
La 
produzione 
dell’effetto 
di 
arricchimento 
gratuito 
determina 
il 
perimetro, 
della 
rilevanza 
fiscale: 
il 
tributo 
può 
essere 
applicato 
solo 
a 
quei 
trust 
che 
sono 
idonei 
a 
realizzare 
effetti 
di 
arricchimento 
gratuito 
a 
favore 
di 
soggetti 
terzi 
rispetto 
al 
disponente 
e 
solo 
se 
(e 
solo 
quando) 
tali 
effetti 
si 
producono 
(4). 
L’effetto 
di 
arricchimento 
gratuito 
deve 
inoltre 
essere 
reale, 
non 
solo 
virtuale. 
Se, 
dunque, 
nell’ambito 
di 
un 
trust 
gratuito/liberale, 
il 
trasferimento 
a 
favore 
dei 
beneficiari 
non 
si 
realizza 
in 
concreto, 
per 
ragioni 
fisiologiche 
o 
patologiche 
non 
importa, 
il 
tributo 
non 
potrà 
essere 
applicato 
(5). 


2. La sintesi delle modifiche del d.lgs. 139/2024: la tassazione dei trust. 


il 
D.lgs. 18 settembre 
2024 n. 139 (c.d. riforma 
fiscale) apporta 
rilevanti 
modifiche 
al 
D.lgs. 31 ottobre 
1990 n. 346 (TUSD), sancendo, per la 
prima 
volta 
espressamente, 
l’applicazione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
ai trust (6). 

inter 
vivos 
o mortis 
causa 
oggetto del 
tributo. La 
definizione 
legislativa 
è 
indubbiamente 
più corretta 
di 
quella 
precedente, che 
sembrava 
assegnare 
rilevanza 
alla 
costituzione 
del 
vincolo in sé, piuttosto che 
al 
trasferimento derivante 
dallo sviluppo della 
fattispecie 
negoziale 
del 
trust. Tanto che 
parte 
della 
giurisprudenza 
aveva 
addirittura 
teorizzato 
l’introduzione 
di 
un’autonoma 
imposta 
sul 
vincolo 
di 
destinazione. 


(4) il 
diritto tributario considera 
gli 
effetti 
piuttosto che 
la 
causa 
dei 
negozi 
giuridici: 
i 
trust 
sono 
considerati 
sia 
trust 
funzionalmente 
non 
liberali 
che, 
in 
talune 
circostanze, 
siano 
idonei 
a 
produrre 
effetti 
gratuiti 
da 
assoggettare 
a 
tassazione. È 
questo il 
caso del 
trust 
di 
garanzia 
in cui 
più disponenti 
hanno 
conferito quote 
di 
partecipazioni 
di 
una 
società 
in relazione 
al 
quale 
il 
trustee, venuto meno lo scopo 
del 
trust, proceda 
a 
restituire 
le 
quote 
ai 
disponenti 
in misura 
non proporzionale 
rispetto all’apporto iniziale, 
in modo da realizzare arricchimenti gratuiti a favore di taluni di tali soggetti. 
(5) 
Si 
pensi 
ai 
casi 
di 
retrocessione 
dei 
beni 
come 
conseguenza 
della 
revoca 
del 
trust 
(quando 
ammessa) 
o 
del 
venir 
meno 
dell’ultimo 
periodo 
del 
primo 
comma 
dell’art. 
4-bis, 
TUSD 
precisa 
che 
“resta 
ferma 
la 
disciplina” 
della 
legge 
n. 
112/2016, 
sul 
“Dopo 
di 
noi”. 
Si 
tratta 
di 
un 
inciso 
solo 
in 
parte 
superfluo. 
il 
regime 
fiscale 
del 
“Dopo 
di 
noi” 
era 
infatti 
improntato 
sul 
meccanismo 
della 
tassazione 
“in 
uscita” 
e 
non 
“in 
entrata”, 
secondo 
una 
prospettiva 
sistematica 
e 
non 
meramente 
agevolativa. 
Lo 
sviluppo 
giurisprudenziale 
e 
normativo 
ha 
confermato 
questa 
lettura, 
visto 
che 
gran 
parte 
delle 
previsioni 
(per 
le 
imposte 
sui 
trasferimenti) 
di 
questa 
legge 
esprimono 
la 
stessa 
filosofia 
impositiva 
accolta 
dall’art. 
4-bis, 
TUSD. 
Vi 
è 
però 
una 
disposizione, 
questa 
sì, 
puramente 
agevolativa 
della 
legge 
n. 
112/2016 
rispetto 
alla 
quale 
la 
precisazione 
dell’ultimo 
periodo 
del 
primo 
comma 
dell’art. 
4-bis, 
TUSD 
appare 
preziosa: 
quella 
che 
prevede 
la 
tassazione 
fissa 
(imposte 
di 
registro, 
ipotecaria 
e 
catastale) 
per 
gli 
acquisti 
onerosi 
effettuati 
dal 
trustee 
(art. 
6, 
comma 
6, 
legge 
112/2016). 
(6) 
Prima 
della 
riforma, 
la 
legge 
non 
disciplinava 
la 
tassazione 
indiretta 
dei 
trust. 
Era 
stata 
l’Agenzia 
delle 
Entrate, 
con 
le 
circolari 
n. 
48/E 
del 
6 
agosto 
2007 
e 
n. 
3/E 
del 
22 
gennaio 
2008 
ad 
affermare 
l’assoggettamento 
dei 
trust 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
equiparandoli 
ai 
vincoli 
di 
destinazione. 
L’Agenzia 
delle 
Entrate, con le 
circolari 
sopra 
richiamate, aveva 
affermato il 
principio della 
c.d. tassazione 
all’entrata, in base 
al 
quale 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in misura 
proporzionale 
è 
dovuta 
al momento dell’apporto dei beni in trust. 



L’art. 
4-bis 
TUSD, 
introdotto 
dal 
D.lgs. 
139/2024, 
al 
comma 
1, 
recepisce 
il 
principio della 
c.d. tassazione 
all’uscita. Ne 
consegue 
che, per espressa 
previsione 
di 
legge, l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in misura 
proporzionale 
è 
dovuta 
al 
momento 
del 
trasferimento 
dei 
beni 
ai 
beneficiari 
e 
non 
al 
momento dell’apporto dei beni in trust. 


L’imposta 
va 
determinata 
avendo 
riguardo 
al 
rapporto 
intercorrente 
tra 
disponente 
e 
beneficiario 
al 
momento 
del 
trasferimento, 
sia 
in 
riferimento 
alle 
franchigie sia in riferimento alle aliquote. 


La 
base 
imponibile 
deve 
essere 
determinata 
sulla 
base 
della 
normativa 
vigente 
al 
momento del 
trasferimento dei 
beni 
ai 
beneficiari. L’atto istitutivo 
del 
trust 
e 
gli 
atti 
di 
apporto di 
beni 
in trust, fiscalmente 
neutri, sono soggetti 
all’imposta 
di 
registro in misura 
fissa. Nel 
caso in cui 
l’atto di 
apporto abbia 
ad 
oggetto 
diritti 
reali 
immobiliari, 
anche 
l’imposta 
ipotecaria 
e 
catastale 
sono 
dovute in misura fissa. 


il 
trasferimento ai 
beneficiari 
deve 
essere 
denunciato ai 
sensi 
dell’art. 19 


d.P.R. 26 aprile 
1986 n. 131, entro trenta 
giorni. Vale 
la 
pena 
sottolineare 
che 
anche 
l’art. 19 TUiR è 
stato modificato dal 
D.lgs. 139/2024. A 
differenza 
di 
quanto previsto prima 
della 
riforma, il 
contribuente 
è 
tenuto ad autoliquidare 
l’imposta e a effettuarne il pagamento al momento della denuncia. 


3. L’opzione tassazione all’entrata e tassazione all’uscita. 


il 
legislatore 
offre 
una 
duplice 
opzione: 
all’art. 4-bis, comma 
1, TUSD, 
afferma 
il 
principio 
della 
c.d. 
tassazione 
all’uscita, 
dall’altro, 
al 
comma 
3, 
consente 
al 
disponente 
(oppure 
al 
trustee, in caso di 
trust 
testamentario) di 
optare 
per la 
c.d. tassazione 
all’entrata. il 
disponente 
o il 
trustee 
possono optare 
per 
la 
corresponsione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale 
al 
momento 
dell’apporto 
dei 
beni 
in 
trust 
e 
non 
al 
momento 
del 
trasferimento ai beneficiari. 


La 
c.d. tassazione 
all’entrata 
permette 
al 
disponente 
o al 
trustee 
di 
avere 
certezza sulla normativa fiscale applicabile al trust istituito. 

Vi sono però dei possibili punti di torsione: 


a) 
il 
trasferimento 
ai 
beneficiari, 
può 
intervenire 
molto 
tempo 
dopo 
rispetto 
all’apporto dei 
beni 
in trust 
e, nel 
lasso di 
tempo che 
intercorre 
tra 
l’apporto 
e 
il 
trasferimento, 
la 
normativa 
dettata 
in 
tema 
di 
tassazione 
indiretta 
dei 
trust potrebbe cambiare; 
b) nel 
caso in cui 
il 
disponente 
o il 
trustee 
optino per la 
c.d. tassazione 
all’entrata, ai 
sensi 
dell’art. 4-bis, comma 
3, TUSD, non si 
dà 
luogo al 
rimborso 
dell’imposta 
versata. Nel 
caso in cui 
il 
disponente 
o il 
trustee 
abbiano 


La 
Corte 
di 
Cassazione, contrastando la 
prassi 
applicativa 
dell’Agenzia 
delle 
Entrate, aveva 
in più occasioni 
affermato il 
principio della 
c.d. tassazione 
all’uscita, in base 
al 
quale 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. 



optato per la 
c.d. tassazione 
all’entrata, i 
trasferimenti 
a 
favore 
dei 
beneficiari 
appartenenti 
alla 
stessa 
categoria 
per cui 
è 
stata 
corrisposta 
l’imposta 
al 
momento 
dell’apporto dei beni in trust non sono soggetti all’imposta. 


L’imposizione 
all’uscita 
non opera 
nel 
caso in cui 
il 
beneficiario finale 
appartenga 
ad una 
categoria 
differente 
rispetto a 
quella 
per cui 
è 
stata 
corrisposta 
l’imposta 
anticipata. in tal 
caso, il 
trasferimento è 
soggetto all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale 
secondo 
il 
generale 
principio 
della c.d. tassazione all’uscita (7). 

il 
D.lgs. 139/2024 ha, infine, modificato l’art. 28, comma 
2, TUSD, includendo 
tra 
i 
soggetti 
tenuti 
alla 
presentazione 
della 
dichiarazione 
di 
successione 
anche 
i 
trustee, nel 
caso di 
trust 
testamentario. il 
termine 
di 
dodici 
mesi 
per la 
presentazione 
della 
dichiarazione 
di 
successione 
decorre, per i 
trustee, 
ai 
sensi 
dell’art. 
31 
TUSD, 
dalla 
data 
in 
cui 
gli 
stessi 
hanno 
avuto 
notizia 
legale 
della nomina. 


Prima 
della 
riforma, 
la 
legge 
non 
disciplinava 
la 
tassazione 
indiretta 
dei 
trust. 
Era 
stata 
l’Agenzia 
delle 
Entrate, 
con 
le 
circolari 
n. 
48/E 
del 
6 
agosto 
2007 
e 
n. 
3/E 
del 
22 
gennaio 
2008 
ad 
affermare 
l’assoggettamento 
dei 
trust 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
equiparandoli 
ai 
vincoli 
di 
destinazione. 


L’art. 1 TUSD 
e 
l’art. 56 TUSD, nella 
loro nuova 
formulazione, prevedono 
espressamente 
l’applicazione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
ai “…trasferimenti derivanti da trust…”. 


il 
comma 
2-bis 
dell’art. 2 TUSD 
e 
il 
comma 
1 dell’art. 4-bis 
TUSD 
definiscono 
il 
perimetro 
applicativo 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
dando rilevanza 
alla 
residenza 
del 
disponente 
al 
momento della 
separazione 
patrimoniale. 
Più 
precisamente, 
se 
il 
disponente 
è 
residente 
in 
italia 
al 
momento 
della 
separazione 
patrimoniale, 
l’imposta 
si 
applica 
a 
tutti 
i 
beni 
e 
diritti 
trasferiti 
ai 
beneficiari. Se 
il 
disponente 
non è 
residente 
in italia 
al 
momento 
della 
separazione 
patrimoniale, 
invece, 
l’imposta 
si 
applica 
ai 
soli 
beni 
e 
diritti 
esistenti nel territorio dello Stato italiano e trasferiti ai beneficiari. 


Ulteriore 
presupposto richiesto dall’art. 4-bis, comma 
1, TUSD 
perché 
si 
applichi 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
è 
che 
il 
trasferimento ai 
beneficiari 
determini 
un arricchimento gratuito per i 
beneficiari 
stessi. Restano, 
quindi, esclusi i trust di garanzia, i trust liquidatori e i trust di scopo (8). 

(7) 
La 
legge, 
però, 
nulla 
dispone 
sulla 
sorte 
dell’imposta 
versata 
al 
momento 
dell’apporto 
dei 
beni 
in trust. Sarebbe 
iniquo ritenere 
che 
l’imposta 
versata 
in via 
anticipata 
resti 
definitivamente 
acquisita 
allo Stato, senza 
tenerne 
conto ai 
fini 
del 
calcolo dell’imposta 
dovuta 
al 
momento del 
trasferimento dei 
beni ai beneficiari. 
L’Agenzia 
delle 
Entrate, con la 
circolare 
n. 34/E 
del 
20 ottobre 
2022, in relazione 
ai 
trust 
tassati 
all’entrata, 
aveva 
ritenuto 
che 
l’imposta 
già 
versata 
potesse 
essere 
detratta 
dall’imposta 
eventualmente 
dovuta 
all’uscita. Dunque, potrebbe 
ritenersi 
che 
il 
descritto meccanismo di 
imputazione 
sia 
applicabile 
anche 
all’imposta 
dovuta 
per 
i 
trasferimenti 
effettuati 
a 
favore 
di 
beneficiari 
appartenenti 
a 
categorie 
differenti 
rispetto a 
quella 
per cui 
è 
stata 
versata 
l’imposta 
anticipata, nel 
caso di 
opzione 
per il 
regime 
della 
c.d. 
tassazione all’entrata di cui all’art. 4-bis, comma 3, TUSD. 



4. in sintesi. 


L’Agenzia 
delle 
Entrate 
aveva 
affermato il 
principio della 
c.d. tassazione 
all’entrata, in base 
al 
quale 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in misura 
proporzionale è dovuta al momento dell’apporto dei beni in trust. 


La 
Corte 
di 
Cassazione, 
contrastando 
la 
prassi 
applicativa 
dell’Agenzia 
delle 
Entrate, 
aveva 
in 
più 
occasioni 
affermato 
il 
principio 
della 
c.d. 
tassazione 
all’uscita, 
in 
base 
al 
quale 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale 
è 
dovuta 
al 
momento 
del 
trasferimento 
dei 
beni 
ai 
beneficiari. 


L’apporto di 
beni 
in trust, secondo tale 
orientamento, non determinando 
di 
per sé 
alcun arricchimento gratuito per i 
beneficiari, è 
da 
considerarsi 
fiscalmente 
neutro 
e, 
quindi, 
soggetto 
all’imposta 
di 
registro 
in 
misura 
fissa. 
Nel 
caso 
in 
cui 
l’apporto 
abbia 
ad 
oggetto 
diritti 
reali 
immobiliari, 
anche 
l’imposta 
ipotecaria e catastale sono dovute in misura fissa. 


L’Agenzia 
delle 
Entrate 
aveva, 
poi, 
cambiato 
indirizzo 
e 
recepito 
l’orientamento 
della Suprema Corte con la circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022. 


L’art. 
4-bis 
TUSD, 
introdotto 
dal 
D.lgs. 
139/2024, 
al 
comma 
1, 
recepisce 
il 
principio della 
c.d. tassazione 
all’uscita. Ne 
consegue 
che, per espressa 
previsione 
di 
legge, l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in misura 
proporzionale 
è 
dovuta 
al 
momento 
del 
trasferimento 
dei 
beni 
ai 
beneficiari 
e 
non 
al 
momento dell’apporto dei beni in trust. 


L’imposta 
va 
determinata 
avendo 
riguardo 
al 
rapporto 
intercorrente 
tra 


(8) Nel 
tributo donativo, l’integrazione 
del 
presupposto impositivo richiede 
la 
sussistenza 
di 
un 
elemento “formale”. È, cioè, necessario che 
l’arricchimento derivi 
da 
un atto soggetto a 
registrazione 
(come 
è 
per la 
donazione: 
art. 55, TUSD) oppure 
che 
risulti 
da 
un atto per il 
quale 
vi 
sia 
obbligo di 
registrazione 
(art. 1, comma 4-bis, TUSD). 
Quando, invece, l’effetto gratuito deriva 
o risulta 
da 
un atto che 
non è 
soggetto a 
registrazione 
oppure 
da 
un comportamento materiale, la 
tassazione 
diviene 
possibile 
solo integrando una 
delle 
due 
ipotesi 
di 
cui 
all’art. 
56-bis, 
TUSD: 
la 
registrazione 
volontaria 
della 
liberalità 
oppure 
la 
dichiarazione 
resa 
dal 
contribuente nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento di altri tributi. 
Questo sistema 
di 
registrazione 
volontaria 
e 
di 
tassazione 
solo eventuale 
degli 
atti 
gratuiti 
atipici 
(o liberalità 
indirette) è 
stato confermato in sede 
di 
riforma 
(il 
riformulato art. 56-bis, TUSD 
non innova 
su 
questo 
aspetto) 
e 
continua, 
dunque, 
ad 
applicarsi 
alla 
generalità 
dei 
contribuenti. 
A 
questo 
però 
si 
affianca 
il 
nuovo 
obbligo 
di 
denuncia 
inserito 
dall’art. 
4-bis, 
TUSD, 
con 
riferimento 
ai 
beneficiari 
di 
trust 
ed 
altri vincoli di destinazione. 
Ai 
sensi 
del 
terzo periodo del 
primo comma 
dell’art. 4-bis, TUSD, il 
beneficiario ha 
l’obbligo di 
denunciare 
il 
“trasferimento” 
gratuito ottenuto dal 
trustee 
ai 
sensi 
dell’art. 19, d.P.R. 131/1986 (TUR), il 
cui termine (30 giorni) “decorre dal predetto atto di trasferimento”. 
Volendo 
tentare 
una 
prima 
ricostruzione 
sistematica, 
rileviamo 
che: 
se 
l’attribuzione 
si 
realizza 
attraverso 
di 
un atto soggetto a 
registrazione 
formato o ricevuto da 
un responsabile 
d’imposta 
(es. atto pubblico di 
trasferimento 
della 
proprietà 
di 
un 
immobile; 
scrittura 
privata 
autenticata 
con 
cui 
si 
attribuisce 
una 
somma 
di 
denaro 
con 
accettazione 
del 
beneficiario), 
l’applicazione 
del 
tributo 
avviene 
tramite 
l’ordinario 
meccanismo impositivo che 
prevede 
che 
la 
registrazione 
e 
la 
liquidazione 
del 
tributo sia 
ad opera 
del 
responsabile 
d’imposta 
medesimo (notaio). in questi 
casi, il 
beneficiario non deve 
procedere 
a 
nessuna 
ulteriore “denuncia”; cfr. CNN Notizie n. 202 del 31 ottobre 2024. 


disponente 
e 
beneficiario 
al 
momento 
del 
trasferimento, 
sia 
in 
riferimento 
alle 
franchigie sia in riferimento alle aliquote. 


Anche 
la 
base 
imponibile 
deve 
essere 
determinata 
sulla 
base 
della 
normativa 
vigente 
al 
momento 
del 
trasferimento 
dei 
beni 
ai 
beneficiari. 
L’atto 
istitutivo del 
trust 
e 
gli 
atti 
di 
apporto di 
beni 
in trust, fiscalmente 
neutri, sono 
soggetti 
all’imposta 
di 
registro 
in 
misura 
fissa. 
Nel 
caso 
in 
cui 
l’atto 
di 
apporto 
abbia 
ad 
oggetto 
diritti 
reali 
immobiliari, 
anche 
l’imposta 
ipotecaria 
e 
catastale 
sono dovute in misura fissa. 


Se 
quello 
sopra 
descritto 
è 
lo 
scenario 
cui 
assisteremo, 
resta 
ancora 
aperto 
il 
problema 
se 
la 
(obbligatoria) 
tassazione 
“all’entrata” 
prevista 
dalla 
citata 
Circolare 
34E/2022 
possa 
sopravvivere 
alla 
Riforma. 
È 
noto 
infatti 
che 
l’Agenzia 
delle 
Entrate 
la 
richiede 
nel 
caso in cui 
«i 
beneficiari 
individuati 
(o 
individuabili) siano titolari 
di 
diritti 
pieni 
ed esigibili, non subordinati 
alla 
discrezionalità 
del 
trustee 
o 
del 
disponente, 
tali 
da 
consentire 
loro 
l’arricchimento 
e 
l’ampliamento 
della 
propria 
sfera 
giuridico-patrimoniale 
già 
al 
momento dell’istituzione del trust». 


il 
trasferimento ai 
beneficiari 
deve 
essere 
denunciato ai 
sensi 
dell’art. 19 


d.P.R. 26 aprile 
1986 n. 131, entro trenta 
giorni. Vale 
la 
pena 
sottolineare 
che 
anche 
l’art. 19 TUiR è 
stato modificato dal 
D.lgs. 139/2024. A 
differenza 
di 
quanto previsto prima 
della 
riforma, il 
contribuente 
è 
tenuto ad autoliquidare 
l’imposta e a effettuarne il pagamento al momento della denuncia. 


Se, 
da 
un 
lato, 
il 
legislatore, 
all’art. 
4-bis, 
comma 
1, 
TUSD, 
afferma 
il 
principio 
della 
c.d. 
tassazione 
all’uscita, 
dall’altro, 
al 
comma 
3, 
consente 
al 
disponente 
(oppure 
al 
trustee, in caso di 
trust 
testamentario) di 
optare 
per la 


c.d. tassazione 
all’entrata. il 
disponente 
o il 
trustee 
possono optare 
per la 
corresponsione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale 
al 
momento dell’apporto dei 
beni 
in trust 
e 
non al 
momento del 
trasferimento 
ai 
beneficiari. in questo caso, ai 
fini 
della 
determinazione 
dell’imposta, si 
ha 
riguardo 
al 
rapporto 
intercorrente 
tra 
disponente 
e 
beneficiario 
al 
momento 
dell’apporto. Nel 
caso in cui 
non sia 
possibile 
determinare 
detto rapporto al 
momento dell’apporto dei 
beni 
in trust 
(come, ad esempio, nel 
caso di 
beneficiari 
determinabili), 
si 
applica 
l’aliquota 
più 
elevata, 
ovvero 
sia 
l’aliquota 
dell’8%, 
senza 
alcuna 
franchigia. 
Anche 
la 
base 
imponibile 
deve 
essere 
determinata 
sulla 
base 
della 
normativa 
vigente 
al 
momento dell’apporto dei 
beni 
in trust. 


La 
c.d. tassazione 
all’entrata 
permette 
al 
disponente 
o al 
trustee 
di 
avere 
certezza 
sulla 
normativa 
fiscale 
applicabile 
al 
trust 
istituito. il 
trasferimento 
ai 
beneficiari, 
infatti, 
può 
avere 
luogo 
anche 
dopo 
molto 
tempo 
rispetto 
all’apporto 
dei 
beni 
in trust 
e, nel 
lasso di 
tempo che 
intercorre 
tra 
l’apporto e 
il 
trasferimento, 
la 
normativa 
dettata 
in 
tema 
di 
tassazione 
indiretta 
dei 
trust 
potrebbe cambiare. 


Al 
contempo, bisogna 
tenere 
presente 
che, nel 
caso in cui 
il 
disponente 
o 



il 
trustee 
optino 
per 
la 
c.d. 
tassazione 
all’entrata, 
ai 
sensi 
dell’art. 
4-bis, 
comma 
3, TUSD, non si 
dà 
luogo al 
rimborso dell’imposta 
versata. Si 
può ben verificare 
il 
caso in cui 
l’imposta 
versata 
al 
momento dell’apporto dei 
beni 
in trust 
sia 
superiore 
rispetto a 
quella 
dovuta, se 
non si 
fosse 
optato per la 
c.d. tassazione 
all’entrata, al momento del trasferimento ai beneficiari. 


Nel 
caso in cui 
il 
disponente 
o il 
trustee 
abbiano optato per la 
c.d. tassazione 
all’entrata, 
i 
trasferimenti 
a 
favore 
dei 
beneficiari 
appartenenti 
alla 
stessa 
categoria 
per 
cui 
è 
stata 
corrisposta 
l’imposta 
al 
momento 
dell’apporto 
dei 
beni 
in trust 
non sono soggetti 
all’imposta. i trasferimenti 
non sono soggetti 
all’imposta 
anche 
se 
il 
beneficiario 
finale 
è 
diverso 
dal 
beneficiario 
individuato 
nell’atto 
istitutivo, 
purché 
il 
beneficiario 
finale 
appartenga 
alla 
stessa 
categoria 
del 
beneficiario individuato nell’atto istitutivo. Le 
categorie 
sono quelle 
individuate 
dagli 
artt. 7 e 
56 TUSD, ovvero sia 
il 
coniuge 
e 
i 
parenti 
in linea 
retta, 
i 
fratelli 
e 
le 
sorelle, i 
parenti 
fino al 
quarto grado, gli 
affini 
in linea 
retta 
e 
gli 
affini 
in linea 
collaterale 
fino al 
terzo grado, gli 
altri 
soggetti. Data 
la 
lettera 
dell’art. 4-bis, comma 
3, TUSD, a 
mente 
del 
quale 
detti 
trasferimenti 
“… non 
sono 
soggetti 
all’imposta…”, 
si 
può 
ritenere 
che 
l’imposta 
non 
sia 
dovuta 
anche 
nel 
caso in cui 
l’imposta 
corrisposta 
al 
momento dell’apporto dei 
beni 
in trust 
sia 
inferiore 
rispetto a 
quella 
dovuta, se 
non si 
fosse 
optato per la 
c.d. 
tassazione all’entrata, al momento del trasferimento ai beneficiari. 


Leggendo 
a 
contrario 
la 
disposizione 
al 
vaglio, 
si 
evince 
come 
il 
descritto 
meccanismo di 
sterilizzazione 
dell’imposizione 
all’uscita 
non operi 
nel 
caso 
in cui 
il 
beneficiario finale 
appartenga 
ad una 
categoria 
differente 
rispetto a 
quella 
per cui 
è 
stata 
corrisposta 
l’imposta 
anticipata. in tal 
caso, il 
trasferimento 
è 
soggetto all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in misura 
proporzionale 
secondo il generale principio della c.d. tassazione all’uscita (9). 

(9) il 
secondo periodo del 
primo comma 
precisa 
che 
l’imposta 
“si 
applica al 
momento del 
trasferimento 
dei beni e diritti a favore dei beneficiari”. 
La 
formulazione 
legislativa 
accoglie 
in 
questo 
modo 
l’impostazione 
teorica 
che 
considera 
il 
trasferimento 
al 
beneficiario come 
perfezionamento della 
fattispecie 
impositiva, cui 
consegue 
il 
sorgere 
(in capo al 
beneficiario) dell’obbligazione tributaria. 
in questo senso, il 
trust 
si 
presenta 
quale 
fattispecie 
unitaria 
e 
complessa, in grado di 
realizzare 
una 
attribuzione 
gratuita 
indiretta, che 
prende 
avvio con l’apporto del 
disponente 
(soggetto che 
si 
“impoverisce”) 
e 
termina 
con 
l’arricchimento 
del 
beneficiario 
(o 
con 
gli 
arricchimenti, 
che 
genereranno 
allora 
altrettante 
fattispecie 
impositive). A 
differenza 
di 
altri 
atti 
di 
liberalità, nel 
trust 
l’arricchimento non è 
“istantaneo” 
(ossia 
non coincide 
temporalmente, e 
anche 
qualitativamente, con l’impoverimento del 
disponente) 
ma 
è 
dato 
dal 
succedersi 
di 
diversi 
atti 
e 
fatti 
giuridici, 
in 
una 
logica 
di 
progressività, 
dovendosi 
dunque parlare di fattispecie a formazione progressiva. 
il 
sistema 
di 
imposizione 
ordinaria 
dei 
trust 
non conosce 
deroghe 
rispetto a 
tale 
regola 
impositiva, nel 
senso che 
in nessun caso (salvo il 
regime 
opzionale) la 
tassazione 
può essere 
affermata 
all’atto dell’apporto 
in trust 
piuttosto che 
dell’attribuzione. A 
meno che 
l’apporto medesimo non si 
presenti 
già 
quale 
attribuzione 
finale 
a 
favore 
dei 
beneficiari: 
è 
questa 
l’ipotesi 
(praticamente 
di 
scuola) 
dei 
trust 
nudi 
(bare 
trust 
o simple trust), in cui i beneficiari sono fin dall’inizio titolari di una posizione giuridica piena. 
L’applicazione 
del 
tributo “al 
momento” 
del 
trasferimento implica, tra 
l’altro, che 
la 
base 
imponibile 



La 
legge, 
però, 
nulla 
dispone 
sulla 
sorte 
dell’imposta 
versata 
al 
momento 
dell’apporto dei 
beni 
in trust. Sarebbe 
iniquo ritenere 
che 
l’imposta 
versata 
in 
via 
anticipata 
resti 
definitivamente 
acquisita 
allo Stato, senza 
tenerne 
conto ai 
fini 
del 
calcolo dell’imposta 
dovuta 
al 
momento del 
trasferimento dei 
beni 
ai 
beneficiari. 


L’Agenzia 
delle 
Entrate, con la 
circolare 
n. 34/E 
del 
20 ottobre 
2022, in 
relazione 
ai 
trust 
tassati 
all’entrata, aveva 
ritenuto che 
l’imposta 
già 
versata 
potesse 
essere 
detratta 
dall’imposta 
eventualmente 
dovuta 
all’uscita. 
Dunque, 
potrebbe 
ritenersi 
che 
il 
descritto meccanismo di 
imputazione 
sia 
applicabile 
anche 
all’imposta 
dovuta 
per i 
trasferimenti 
effettuati 
a 
favore 
di 
beneficiari 
appartenenti 
a 
categorie 
differenti 
rispetto 
a 
quella 
per 
cui 
è 
stata 
versata 
l’imposta 
anticipata, nel 
caso di 
opzione 
per il 
regime 
della 
c.d. tassazione 
all’entrata 
di 
cui 
all’art. 
4-bis, 
comma 
3, 
TUSD. 
Detti 
trasferimenti, 
quindi, 
dovrebbero 
essere 
soggetti 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale, ma detratta l’imposta versata in via anticipata. 


il 
D.lgs. 139/2024 ha, infine, modificato l’art. 28, comma 
2, TUSD, includendo 
tra 
i 
soggetti 
tenuti 
alla 
presentazione 
della 
dichiarazione 
di 
successione 
anche 
i 
trustee, nel 
caso di 
trust 
testamentario. il 
termine 
di 
dodici 
mesi 
per la 
presentazione 
della 
dichiarazione 
di 
successione 
decorre, per i 
trustee, 
ai 
sensi 
dell’art. 
31 
TUSD, 
dalla 
data 
in 
cui 
gli 
stessi 
hanno 
avuto 
notizia 
legale 
della nomina. 


debba 
essere 
determinata 
in base 
al 
valore, a 
quella 
data, dei 
beni 
e 
diritti 
attribuiti 
e 
che 
la 
disciplina 
legislativa 
applicabile 
sia 
quella 
in 
futuro 
vigente. 
Non 
si 
tratta, 
infatti, 
di 
un 
atto 
sottoposto 
a 
condizione 
sospensiva 
che, ai 
sensi 
dell’art. 27 TUR (richiamato dall’art. 58, comma 
2, TUSD), è 
regolato dalle 
disposizioni 
vigenti al momento della formazione dell’atto. 
Coerente 
con 
l’impostazione 
della 
rilevanza 
unitaria, 
ma 
progressiva, 
della 
fattispecie 
è 
poi 
la 
previsione 
del 
secondo comma 
dell’art. 4-bis, TUSD 
che 
esprime 
una 
regola 
ormai 
consolidata 
nel 
diritto vivente: 
le franchigie e le aliquote d’imposta si applicano “in base al rapporto tra disponente e beneficiario”. 
il 
riferimento al 
“trasferimento di 
beni 
e 
diritti” 
-da 
leggersi 
in modo armonico con la 
definizione 
del 
presupposto data 
dall’art. 1, comma 
1, TUSD 
-consente 
di 
affermare 
che 
non qualunque 
utilità 
o beneficio 
riconosciuti 
al 
beneficiario siano assoggettati 
ad imposta, ma 
solo quelle 
attribuzioni 
che 
determinano 
uno spostamento patrimoniale 
a 
suo favore, un incremento del 
suo patrimonio. Dovendo in ogni 
caso 
escludersi 
(art. 
1, 
comma 
4, 
TUSD) 
le 
attribuzioni 
di 
modico 
valore, 
quelle 
per 
mantenimento, 
educazione, malattia e le liberalità d’uso (ex 
artt. 742, 770 secondo comma, 783, c.c.). 
inoltre, 
il 
“trasferimento” 
deve 
essere 
inteso 
in 
senso 
giuridico, 
non 
materiale, 
venendo 
ad 
integrarsi 
con 
il 
sorgere 
della 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
in 
capo 
al 
beneficiario, 
diritto 
reale 
o 
diritto 
di 
credito, 
avente contenuto patrimoniale. 
Nella 
logica 
del 
tributo, l’attribuzione 
patrimoniale 
deve 
risolversi 
in un trasferimento di 
un cespite 
patrimoniale, 
nell’attribuzione 
di 
nuova 
ricchezza 
che 
affluisce 
nel 
patrimonio del 
beneficiario, restando 
invece 
irrilevanti 
quelle 
utilità, come 
i 
risparmi 
di 
spesa, ... ; 
si 
pensi 
anche 
al 
resettlement 
del 
trust 
in 
cui, a 
determinate 
condizioni, il 
patrimonio di 
un trust 
può essere 
segregato in un diverso trust 
senza 
generare 
arricchimento gratuito alcuno a 
favore 
di 
beneficiari; 
cfr. CNN 
Notizie 
n. 202 del 
31 ottobre 
2024). 
Si 
apre 
così 
una 
nuova 
fase: 
quella 
in cui 
gli 
operatori 
saranno chiamati 
a 
valutare 
e 
decidere 
la 
convenienza, 
in concreto, del 
modello di 
tassazione 
ordinario (in uscita) piuttosto che 
di 
quello opzionale 
(in 
entrata) . 


PARERIDELCOMITATOCONSULTIVO
Istituto della prenotazione a debito di cui all’art. 158 del 
T.U. 
in materia di spese di giustizia: sulla esenzione dal pagamento 
del contributo unificato da parte della Regione Siciliana nei 
giudizi promossi innanzi alla Corte Suprema di Cassazione 


Parere 
del 
12/12/2024-777626, al 5959/2024, 
Sez. aG, avv. domenico 
maimone 


Con 
la 
nota 
in 
riscontro 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
sottopone 
alle 
valutazioni 
della 
Scrivente 
la 
questione, ritenuta 
di 
massima 
perché 
destinata 
verosimilmente 
a 
riproporsi 
con 
potenziale 
notevole 
impatto 
sulla 
finanza 
pubblica, 
della 
esenzione 
della 
Regione 
Siciliana 
dall’obbligo di 
versare 
il 
contributo 
unificato nei 
giudizi 
in cui 
essa 
è 
parte 
e 
che 
si 
svolgono dinanzi 
alla 
Corte Suprema di Cassazione. 


In sintesi, è 
accaduto che 
con invito al 
pagamento del 
3 giugno 2023 la 
Regione 
sia 
stata 
richiesta 
da 
Equitalia 
Giustizia 
S.p.a., 
per 
conto 
del 
Ministero 
della 
Giustizia 
-Corte 
d’Appello di 
Palermo, di 
corrispondere 
l’importo del 
contributo 
unificato 
che 
la 
Cancelleria 
della 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, 
derogando 
ad una 
prassi 
di 
senso contrario, ha 
determinato di 
porre 
a 
suo carico 
sul 
presupposto che 
l’Ente 
territoriale, risultato soccombente 
nel 
giudizio definito 
con 
ordinanza 
della 
Suprema 
Corte 
n. 
27100 
del 
14 
settembre 
2022, 
non 
fruisca 
dell’istituto 
della 
prenotazione 
a 
debito 
di 
cui 
all’art. 
158 
d.P.R. 
30 
maggio 2002 n. 115 (TU in materia di spese di giustizia). 


Codesta 
Avvocatura 
ha 
espresso 
il 
proprio 
avviso 
sulla 
vicenda, 
ritenendo 
invece 
che 
alla 
Regione 
Siciliana 
spetti, quanto alla 
previsione 
di 
cui 
all’art. 
158 
d.P.R. 
115/02 
e 
con 
le 
precisazioni 
di 
cui 
si 
dirà, 
proprio 
il 
medesimo 
trattamento 
che 
la 
legge 
prevede 
per 
le 
Amministrazioni 
dello 
Stato, 
stante 
la 
norma 
di 
equiparazione 
di 
cui 
all’art. 1 della 
L.R. Sic. 22 marzo 1952 n. 6, recante 
Trattamento tributario degli 
organi 
della 
Regione 
Siciliana, secondo cui 
«agli 
effetti 
di 
qualsiasi 
imposta, tassa e 
diritto in genere, di 
spettanza della 



regione, 
stabiliti 
da 
leggi 
generali 
o 
speciali, 
la 
regione 
siciliana 
e 
gli 
organi 
ed amministrazioni 
da essa dipendenti 
fruiscono dello stesso trattamento stabilito 
per 
le 
amministrazioni 
dello Stato». Pertanto, avuto riguardo alla 
pacifica 
natura 
tributaria 
del 
contributo unificato (ex 
multis, Corte 
costituzionale, 
11 febbraio 2005 n. 73 e 
6 giugno 2012 n. 143; 
Cass. Sez. Un. 17 aprile 
2012 


n. 
5994 
e 
5 
maggio 
2011 
n. 
9840), 
l’art. 
1 
funge 
da 
norma 
che 
estende 
alla 
Regione 
Siciliana 
i 
benefici 
previsti 
per lo Stato (lo “stesso trattamento stabilito”) 
ai 
tributi 
erariali 
e 
a 
quelli 
ulteriori, 
istituiti 
e 
disciplinati 
con 
legge 
dello 
Stato (“qualsiasi 
imposta, tassa 
e 
diritto in genere”), il 
cui 
gettito è 
comunque 
destinato alla Regione medesima (“di spettanza”). 


Nel 
rendere 
la 
chiesta 
consultazione 
occorre 
muovere 
dall’inquadramento 
del contesto normativo di riferimento. 


Nel 
caso 
in 
esame 
viene 
in 
rilievo 
il 
meccanismo 
di 
cui 
agli 
artt. 
11 
e 
158 
d.P.R. 
115/2002 
mediante 
il 
quale 
si 
opera 
la 
sospensione 
della 
riscossione 
del 
tributo 
in 
vista 
del 
successivo 
annullamento 
della 
partita 
contabile, 
atteso 
che 
l’art. 
3, 
comma 
1, 
lett. 
s) 
del 
medesimo 
T.U. 
definisce 
la 
“prenotazione 
a 
debito” 
come 
“l’annotazione 
a 
futura 
memoria 
di 
una 
voce 
di 
spesa 
per 
la 
quale 
non 
vi 
è 
pagamento, 
ai 
fini 
di 
un 
eventuale 
successivo 
recupero 
”. 
Infatti, 
in 
caso 
di 
soccombenza 
in 
giudizio 
della 
Amministrazione 
ammessa 
al 
beneficio 
con 
condanna 
a 
rifondere 
le 
spese 
di 
lite 
alla 
controparte 
la 
voce 
di 
spesa 
viene 
annullata, 
mentre 
nel 
caso 
opposto 
la 
Cancelleria, 
che 
ha 
provveduto 
ad 
annotare 
la 
voce 
sul 
cd. 
foglio 
delle 
notizie, 
lo 
trasmette 
ai 
fini 
del 
successivo 
recupero 
ad 
opera 
della 
parte 
pubblica 
costituita 
in 
giudizio 
nei 
confronti 
della 
parte 
privata 
che 
sia 
risultata 
soccombente 
(art. 
280). 


Le 
prenotazioni 
sono quindi 
effettuate 
a 
fini 
meramente 
contabili 
e 
i 
relativi 
importi 
saranno recuperati 
solo in presenza 
del 
presupposto della 
condanna 
della 
parte 
privata; 
di 
contro, 
non 
si 
procederà 
ad 
alcun 
recupero 
nell’ipotesi 
di 
soccombenza 
della 
parte 
pubblica 
che 
beneficia 
della 
prenotazione 
a 
debito 
(cfr. 
Cass. 
sez. 
III, 
18 
aprile 
2000 
n. 
5028; 
sez. 
I, 
22 
aprile 
2002, 


n. 5859; sez. II, 11 settembre 2018, n. 22014). 


Il 
meccanismo 
sopra 
accennato 
si 
ricava 
dalla 
lettura 
dei 
commi 
1 
e 
3 
dell’art. 158, i 
quali 
prevedono che 
«1. nel 
processo in cui 
è 
parte 
l’amministrazione 
pubblica, 
sono 
prenotati 
a 
debito, 
se 
a 
carico 
dell’amministrazione: 


a) 
il 
contributo 
unificato 
nel 
processo 
civile, 
nel 
processo 
amministrativo 
e nel processo tributario; 
b) l’imposta di bollo nel processo contabile; 


c) l’imposta di 
registro ai 
sensi 
dell’articolo 59, comma 1, lettere 
a) e 
b), 
del 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 26 aprile 
1986, n. 131, nel 
processo 
civile e amministrativo; 
d) 
l’imposta 
ipotecaria 
e 
catastale 
ai 
sensi 
dell’articolo 
16, 
comma 
1, 
lettera e), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347; 



e) le 
spese 
forfettizzate 
per 
le 
notificazioni 
a richiesta d’ufficio nel 
processo 
civile. 


[…] 


3. 
le 
spese 
prenotate 
a 
debito 
[…] 
sono 
recuperate 
dall’amministrazione, 
insieme 
alle 
altre 
spese 
anticipate, in caso di 
condanna dell’altra parte 
alla 
rifusione delle spese in proprio favore». 


È 
appena 
il 
caso di 
considerare 
che, in caso di 
disposta 
compensazione 
delle 
spese 
di 
giudizio, 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
cassazione, 
con 
orientamento 
costante, ritiene 
che 
il 
contributo unificato vada 
recuperato a 
carico 
della 
controparte 
nella 
misura 
del 
50% del 
suo importo (1), mentre 
per l’Amministrazione 
prenotante a debito, l’articolo di credito viene annullato. 


La 
prenotazione 
a 
debito 
del 
contributo 
unificato 
nei 
giudizi 
civili, 
amministrativi, 
tributari 
(e 
dell’imposta 
di 
bollo 
in 
quelli 
contabili) 
si 
colloca 
poi 
in 
una 
più 
ampia 
cornice 
normativa 
di 
favore 
che 
comprende, 
nell’ambito 
del 
medesimo 
istituto, 
anche 
le 
imposte 
di 
bollo, 
ipotecarie 
e 
catastali 
e 
di 
registro 
per 
effetto, 
rispettivamente, 
dell’art. 
17 
del 
d.P.R. 
26 
ottobre 
1972 
n. 
642 
(Disciplina 
dell’Imposta 
di 
Bollo), 
dell’art. 
16 
del 
D.lgs. 
31 
ottobre 
1990 
n. 
347 
(T.U. 
delle 
disposizioni 
concernenti 
le 
imposte 
ipotecaria 
e 
catastale) 
e 
degli 
art. 
59 
del 
d.P.R. 
26 
aprile 
1986 
n. 
131 
(T.U. 
Imposta 
di 
Registro) 
e 
159 
d.P.R. 
115/2002 
(2). 


Come 
già 
ritenuto 
con 
parere 
del 
Comitato 
Consultivo 
prot. 
21530 
del 
14 
gennaio 
2020 
(a.l. 
51786/2018), 
menzionato 
anche 
nella 
richiesta 
di 
parere 
di 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, 
nei 
confronti 
delle 
Amministrazioni 
che 
possono 
giovarsi 
di 
tale 
meccanismo 
(ossia, 
le 
amministrazioni 
dello 
Stato 
e 
le 
altre 
amministrazioni 
pubbliche 
ammesse 
dalla 
legge 
alla 
prenotazione 
a 
debito 
di 
imposte 
o 
spese 
a 
suo 
carico, 
come 
definite 
dall’art. 
3 
comma 
1 
lett. 
q) 
del 
d.P.R. 
115/02 
e 
tra 
le 
quali 
deve 
ritenersi 
rientri 
a 
pieno 
titolo 
la 
Regione 
Siciliana 
in 
forza 
dell’art. 
1 
L.R. 
6/1952 
cit.) 
non 
sono 
posti 
esborsi 
effettivi, 
ma 
la 
semplice 
“prenotazione” 
della 
spesa 
che, 
al 
definitivo 
esito 
del 
giudizio, 
sarà 
annullata 
ovvero 
recuperata 
dall’Amministrazione 
parte 
in 
causa 
nei 
confronti 
della 
controparte 
secondo 
lo 
schema 
sopra 
descritto. 


Si 
osservi 
ancora 
che 
la 
circostanza 
che 
la 
prenotazione 
a 
debito non riguarda 
solo le 
Amministrazioni 
dello Stato ma 
anche 
soggetti 
formalmente 
o 
sostanzialmente 
differenti, 
cui 
la 
legge 
attribuisce 
le 
medesime 
prerogative, 
fa 
ritenere 
maggiormente 
condivisibile 
quella 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 


(1) Cfr. Cass. sez. v-vI, n. 29679/2017; in argomento anche sez. III, n. 38943/2021. 


(2) Art. 159: 
«nel 
caso di 
compensazione 
delle 
spese, se 
la registrazione 
è 
chiesta dall’amministrazione, 
l’imposta di 
registro della sentenza è 
prenotata a debito, per 
la metà, o per 
la quota di 
compensazione, 
ed 
è 
pagata 
per 
il 
rimanente 
dall’altra 
parte; 
se 
la 
registrazione 
è 
chiesta 
dalla 
parte 
diversa 
dall’amministrazione, 
nel 
proprio 
interesse 
o 
per 
uno 
degli 
usi 
previsti 
dalla 
legge, 
l’imposta 
di 
registro 
della sentenza è pagata per intero dalla stessa parte». 



più incline 
a 
ravvisare 
il 
fondamento dell’istituto della 
prenotazione 
a 
debito 
non 
tanto 
nel 
meccanismo 
estintivo 
della 
“confusione” 
bensì 
nel 
beneficio 
della “esenzione” (3). 


In sostanza 
si 
tratta 
di 
un sistema 
di 
evidenziazione 
solo contabile 
della 
spesa 
(prevista 
anche 
per 
l’imposta 
di 
registro 
degli 
atti 
giudiziari 
e 
per 
il 
bollo 
dovuto nei 
giudizi 
contabili), che 
esonera 
le 
amministrazioni 
beneficiarie 
dal 
pagamento dell’imposta 
dovuta 
all’atto della 
instaurazione 
di 
un giudizio civile, 
amministrativo o tributario. 


Soggiunge 
codesta 
Avvocatura 
che 
la 
peculiarità 
del 
regime 
di 
esenzione 
che 
caratterizza 
la 
prenotazione 
a 
debito prevista 
in favore 
della 
Regione 
Siciliana 
risieda nel concetto di “territorialità”. 


Come 
accennato, 
infatti, 
l’art. 
1 
della 
legge 
regionale 
n. 
6/1952 
riconnette 
l’equiparazione 
ai 
fini 
fiscali 
della 
Regione 
Siciliana 
(e 
degli 
organi 
e 
amministrazioni 
da 
essa 
dipendenti) allo Stato alla 
imprescindibile 
condizione 
che 
si 
tratti 
di 
imposte, 
tasse 
e 
diritti 
in 
genere 
“di 
spettanza” 
della 
Regione 
stessa. 
Di 
tal 
ché 
appare 
di 
centrale 
importanza 
nell’economia 
del 
ragionamento 
comprendere 
di quali tributi si tratti. 


Come 
correttamente 
riferito nella 
richiesta 
di 
parere, sul 
tema 
assume 
rilievo 
il 
principio generale 
di 
attribuzione 
alla 
Regione 
Siciliana 
dei 
tributi 
riscossi 
sul 
proprio territorio (siano essi 
istituiti 
dalla 
Regione 
stessa, siano essi 
quelli 
previsti 
con leggi 
dello Stato), sì 
come 
sancito con forza 
di 
legge 
costituzionale 
dagli 
artt. 
36 
e 
37 
dello 
Statuto 
di 
autonomia 
speciale 
(Regio 
Decreto 
Legislativo 15 maggio 1946 n. 455) (4). 


(3) 
Cfr. 
parere 
Co.Co. 
prot. 
21530 
del 
14 
gennaio 
2020 
cit. 
(cfr. 
note 
9, 
23 
e 
25) 
ove 
si 
dà 
conto 
dell’indirizzo 
delle 
SSUU, 
8 
maggio 
2014 
n. 
9938, 
nel 
senso 
di 
rinvenire 
il 
fondamento 
dell’istituto 
nella 
confusione, 
ma 
si 
conclude 
per 
la 
maggiore 
‘solidità’ 
dell’orientamento 
fatto 
proprio 
da 
Cass. 
1778/2016 
che, 
pur 
ribadendo 
il 
principio 
tradizionale 
che 
individua 
la 
ratio 
della 
prenotazione 
a 
debito 
nella 
“evidente 
ragione 
che 
lo 
Stato 
verrebbe 
ad 
essere 
al 
tempo 
stesso 
debitore 
e 
creditore 
di 
se 
stesso 
con 
la 
conseguenza 
che 
l’obbligazione 
non 
sorge”, 
poi 
di 
fatto 
spiega 
il 
meccanismo 
della 
prenotazione 
a 
debito 
in 
termini 
di 
“esenzione”, 
categoria 
giuridica 
di 
fatto 
ritenuta 
meglio 
idonea 
ad 
inquadrare 
il 
fenomeno 
in 
base 
al 
quale 
l’obbligazione 
tributaria 
(ri-)sorge 
qualora 
a 
soccombere 
sia 
la 
parte 
privata. 
Infatti, 
la 
Corte 
spiega 
che 
“si 
tratta… 
sostanzialmente 
di 
una 
esenzione 
fiscale, 
ma 
che 
vale 
esclusivamente 
nei 
confronti 
dell’amministrazione 
pubblica. 
21. 
difatti 
nella 
ipotesi 
cui 
la 
controparte 
è 
soccombente 
relativamente 
alle 
spese, 
la 
stessa 
è 
tenuta 
al 
pagamento 
in 
favore 
del-
l’erario 
delle 
spese 
prenotate 
a 
debito 
analogamente 
a 
quanto 
sarebbe 
avvenuto 
nei 
confronti 
di 
qualsiasi 
altra 
parte 
vittoriosa. 
22. 
l’istituto 
della 
prenotazione 
a 
debito… 
se 
per 
un 
verso 
esenta 
la 
pubblica 
amministrazione 
dal 
pagamento 
degli 
importi 
delle 
imposte 
e 
delle 
tasse 
-ivi 
compresi 
quelli 
afferenti 
al 
contributo 
unificato 
-che 
gravano 
sul 
processo, 
assolve, 
altresì, 
alla 
funzione, 
sotto 
il 
profilo 
amministrativo 
contabile, 
di 
evitare 
che 
di 
detta 
esenzione 
possa 
giovarsi 
la 
controparte 
in 
caso 
di 
soccombenza 
e 
di 
sua 
condanna 
alle 
spese”. 
Espressamente 
in termini 
di 
esenzione 
si 
esprime 
anche 
Cass. sez. trib., 27 dicembre 
2023 n. 36035 e, 
seppur in concorrenza con il meccanismo della confusione, Cass., sez. 5 civ., sent. n. 23879 del 2020. 


(4) R. D.lgs. 15 maggio 1946 n. 455 Recante 
approvazione 
dello statuto della regione 
Siciliana, 
pubblicato 
nella 
G.U. 
del 
Regno 
d’Italia 
n. 
133-3 
del 
10 
giugno 
1946 
e 
convertito 
in 
Legge 
costituzionale 
26 febbraio 1948 n. 2 (pubblicata 
nella 
GURI n. 58 del 
9 marzo 1948), come 
modificato dalle 
Leggi 
co



Il 
principio è 
declinato a 
livello di 
fonte 
di 
rango primario dall’art. 2 del 


d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (5) secondo cui, fatta 
eccezione 
per l’IRPEF 
e 
l’IvA, attribuite 
alla 
Regione 
in quota 
percentuale 
(comma 
1 lett. a 
e 
a-bis), 
«[…] spettano alla regione, oltre 
alle 
entrate 
tributarie 
da essa direttamente 
deliberate 
[…]: b) i 
dieci 
decimi 
di 
tutte 
le 
altre 
entrate 
tributarie 
erariali 
riscosse 
nell’ambito 
del 
suo 
territorio, 
dirette 
o 
indirette, 
comunque 
denominate, 
ad eccezione 
delle 
nuove 
entrate 
tributarie 
il 
cui 
gettito sia destinato con apposite 
leggi 
alla 
copertura 
di 
oneri 
diretti 
a 
soddisfare 
particolari 
finalità 
contingenti 
o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime». 


È 
dunque 
possibile 
per 
la 
legge 
statale 
prevedere 
diversamente, 
attribuendo 
in tutto o in parte 
allo Stato il 
gettito di 
determinati 
tributi 
riscossi 
sul 
territorio 
dell’Isola, 
ma 
ciò 
può 
legittimamente 
accadere 
soltanto 
ove 
ricorrano 
due 
condizioni 
indicate 
in modo concorrente 
dal 
ricordato art. 2: 
che 
si 
tratti 
di 
una 
entrata 
tributaria 
«nuova»; 
che 
il 
relativo gettito sia 
specificamente 
destinato 
dalla 
legge 
alla 
copertura 
di 
oneri 
diretti 
a 
soddisfare 
particolari 
finalità 
contingenti 
o continuative 
dello Stato specificate 
nelle 
leggi 
istitutive 
medesime. 
La 
lettura 
della 
disposizione 
in 
commento 
ha 
ricevuto 
l’avallo 
della 
Corte 
costituzionale 
(cfr. sent. n. 145 e 
207/2014; 
n. 42 e 
97/2013; 
nn. 135, 
143 e 241/2012). 


Al 
di 
là 
di 
possibili 
tassative 
deroghe, 
consentite 
unicamente 
ove 
concorrano 
le 
due 
suddette 
condizioni, 
la 
regola 
generale 
ricavabile 
dal 
sistema 
è 
dunque 
che 
le 
entrate 
tributarie 
erariali 
riscosse 
nell’ambito del 
territorio siciliano 
competano alla Regione. 


Non fa 
eccezione 
il 
contributo unificato, come 
precisato in alcune 
pronunce 
della 
Corte 
costituzionale, 
chiamata 
a 
verificare 
il 
rispetto 
delle 
cennate 
condizioni 
in presenza 
di 
norme 
statali 
che, in deroga 
al 
richiamato principio, 
avevano destinato per un periodo delimitato di 
tempo allo Stato una 
quota 
del 
gettito 
del 
contributo 
unificato 
riscosso 
sul 
territorio 
siciliano 
(cfr. 
sent. 
7 
luglio 
2015 n. 131, par. 5). 


In 
base 
ai 
superiori 
argomenti, 
spetta 
quindi 
alla 
Regione 
Siciliana, 
se 


stituzionali 
23 febbraio 1972 n. 1 (pubblicata 
nella 
GURI n. 63 del 
7 marzo 1972), 12 aprile 
1989 n. 3 
(pubblicata 
nella 
GURI n. 87 del 
14 aprile 
1989) e 
31 gennaio 2001 n. 2 (pubblicata 
nella 
GURI n. 26 
del 1° febbraio 2001). 
Art. 36: 
“al 
fabbisogno finanziario della regione 
si 
provvede 
con i 
redditi 
patrimoniali 
della regione 
a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. 
Sono 
però 
riservate 
allo 
Stato 
le 
imposte 
di 
produzione 
e 
le 
entrate 
dei 
monopoli 
dei 
tabacchi 
e 
del 
lotto”. 
Art. 37: 
“Per 
le 
imprese 
industriali 
e 
commerciali, che 
hanno la sede 
centrale 
fuori 
del 
territorio della 
regione, 
ma 
che 
in 
essa 
hanno 
stabilimenti 
ed 
impianti, 
nell’accertamento 
dei 
redditi 
viene 
determinata 
la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi. 
l’imposta relativa a detta quota compete 
alla regione 
ed è 
riscossa dagli 
organi 
di 
riscossione 
della 
medesima”. 


(5) Norme 
di 
attuazione 
dello Statuto della 
Regione 
siciliana 
in materia 
finanziaria 
(Pubblicato 
nella G.U. 18 settembre 1965, n. 235). 



non diversamente 
disposto da 
legge 
dello Stato, il 
gettito del 
contributo unificato 
riscosso sul 
proprio territorio; 
conseguentemente, rispetto a 
tale 
tributo, 
l’ente 
territoriale 
fruisce 
del 
medesimo trattamento stabilito per le 
Amministrazioni 
dello 
Stato 
in 
forza 
dell’art. 
1 
della 
L.R. 
n. 
6/1952, 
tra 
cui 
quello 
della 
prenotazione 
a 
debito 
ex 
art. 
158 
T.U. 
sulle 
spese 
di 
giustizia. 
L’esenzione 
di 
cui 
si 
discetta 
deve 
infatti 
ritenersi 
fruibile 
dalla 
Regione 
a 
condizione 
che 
la 
gestione 
dell’attività 
di 
riscossione 
del 
contributo unificato sia 
attribuita 
ad 
un ufficio operante 
presso un’Autorità 
giudiziaria 
sita 
sul 
territorio siciliano; 
sicché, di 
regola, l’Ente 
territoriale 
beneficia 
della 
prenotazione 
a 
debito laddove 
sia 
parte 
di 
un giudizio di 
merito instaurato innanzi 
ad un Ufficio giudiziario 
situato 
sul 
proprio 
territorio, 
il 
quale 
è 
altresì 
incaricato 
della 
riscossione 
del relativo contributo unificato. 


venendo 
così 
al 
caso 
sottoposto, 
al 
fine 
di 
stabilire 
se 
la 
prenotazione 
a 
debito 
dell’importo 
del 
contributo 
unificato, 
che 
in 
astratto 
dovrebbe 
gravare 
sulla 
parte 
pubblica 
del 
giudizio 
in 
Cassazione, 
si 
applichi 
anche 
alla 
Regione 
Siciliana, 
occorre 
accertare 
se 
si 
tratti 
di 
entrata 
fiscale 
di 
sua 
spettanza, 
perché 
solo 
in 
tal 
caso, 
in 
forza 
dell’art. 
1 
della 
L.R. 
n. 
6/1952, 
la 
Regione 
gode 
dello 
stesso 
trattamento 
dello 
Stato. 
occorre, 
pertanto, 
indagare 
ove 
lo 
stesso 
vada 
riscosso. 


Coglie 
nel 
segno, anche 
in tal 
caso, l’argomento speso nella 
richiesta 
di 
parere 
di 
codesta 
Avvocatura 
che 
correttamente 
individua 
la 
norma 
applicabile 
nell’art. 
208, 
comma 
1, 
d.P.R. 
115/2002, 
secondo 
cui: 
«1. 
Se 
non 
diversamente 
stabilito in modo espresso, ai 
fini 
delle 
norme 
che 
seguono e 
di 
quelle 
cui 
si 
rinvia, l’ufficio incaricato della gestione 
delle 
attività connesse 
alla riscossione 
è così individuato: 


a) 
per 
il 
processo 
civile, 
amministrativo 
e 
tributario 
è 
quello 
presso 
il 
magistrato, diverso dalla corte 
di 
cassazione, il 
cui 
provvedimento è 
passato 
in giudicato o presso il 
magistrato il 
cui 
provvedimento è 
divenuto definitivo; 


b) per il processo penale è quello presso il giudice dell’esecuzione; 
b-bis) 
in 
tutte 
le 
altre 
ipotesi 
è 
quello 
presso 
la 
corte 
d’appello 
di 
roma» 
(6). 
Dalla 
lettura 
della 
disposizione 
si 
ricava 
che, per i 
giudizi 
civili, ammini


strativi 
e 
tributari 
che 
si 
svolgono dinanzi 
alla 
Corte 
di 
cassazione, l’ufficio 
ausiliario 
del 
giudice 
di 
legittimità 
è 
espressamente 
esentato 
dall’attività 
di 
riscossione; 
attività 
che 
di 
conseguenza 
spetta 
svolgere 
agli 
uffici 
giudiziari 
territoriali 
in 
base 
ai 
criteri 
indicati 
dalla 
medesima 
disposizione: 
il 
giudice 
di 
merito che 
ha 
adottato la 
sentenza 
o l’ordinanza 
impugnate 
con esito sfavorevole 
in sede 
di 
legittimità 
(e 
dunque 
passate 
in giudicato) ovvero rese 
in sede 
di 
rinvio 
con 
determinazione 
non 
ulteriormente 
gravata 
nei 
termini 
ordinari 
di impugnazione (e dunque anch’esse 
divenute definitive). 


(6) La 
disposizione 
è 
stata 
così 
modificata 
dall’art. 1, comma 
625, lett. a), L. 30 dicembre 
2021, 


n. 234, a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 2022, con la 
soppressione 
-dopo la 
parola 
“amministrativo” 
e 
prima 
delle parole “e tributario” - del riferimento al processo contabile. 



In 
base 
agli 
esposti 
princìpi 
può 
concludersi 
che 
la 
Regione 
Siciliana 
deve 
ritenersi 
esentata, 
anche 
per 
il 
giudizio 
di 
legittimità, 
dall’obbligo 
di 
anticipare 


o di 
corrispondere 
l’importo del 
contributo unificato in astratto dovuto tutte 
le 
volte 
in cui 
il 
procedimento giurisdizionale 
-del 
quale 
quello di 
cassazione 
costituisce 
un grado -provenga 
da 
o dovrà 
proseguire 
in sede 
di 
rinvio presso 
un 
Ufficio 
giudiziario 
avente 
sede 
nel 
territorio 
siciliano 
(cioè 
in 
uno 
dei 
quattro 
Distretti 
in cui 
è 
ripartita 
la 
Sicilia: 
Palermo, Catania, Messina 
e 
Caltanissetta), 
ufficio 
il 
quale, 
in 
base 
alla 
disposizione 
richiamata 
in 
precedenza, 
deve 
altresì curare l’attività di esazione del contributo unificato. 


Le 
superiori 
conclusioni 
appaiono, 
peraltro, 
condivise 
anche 
dalla 
giurisprudenza 
largamente 
prevalente 
della 
Suprema 
Corte 
(cfr. 
ord., 
sez. 
II 
12 
luglio 
2018 
n. 
18511; 
sez. 
lav., 
28 
settembre 
2022, 
n. 
28271) 
che, 
ancorché 
episodicamente 
contrastate 
da 
una 
recente 
dissonante 
pronuncia 
(sez. 
III, 
ord. 
21 
febbraio 
2023, 
n. 
5386, 
il 
cui 
ragionamento 
appare, 
invero, 
irrimediabilmente 
minato 
dalla 
operata 
ma 
errata 
equiparazione 
della 
Regione 
Siciliana 
agli 
altri 
enti 
territoriali), 
sono 
state 
nuovamente 
ribadite 
in 
sede 
di 
legittimità 
con 
la 
sentenza 
Cass. 
civ., 
sez. 
I, 
21 
febbraio 
2024 
n. 
4639, 
la 
quale, 
nell’escludere 
a 
carico 
della 
Regione 
Siciliana 
l’applicazione 
della 
sanzione 
del 
pagamento 
del 
doppio 
contributo 
unificato 
in 
ipotesi 
di 
impugnazione 
respinta 
integralmente 
o 
dichiarata 
inammissibile 
o 
improcedibile 
(art. 
13, 
comma 
1-quater, 
d.P.R. 
115/2002), 
ha 
affermato 
che 
«Trattandosi 
di 
impugnazione 
proposta 
da 
un 
organo 
della 
regione 
Siciliana, 
che 
ai 
sensi 
dell’art. 
1 
della 
legge 
regionale 
22 
marzo 
1952, 


n. 
6 
fruisce 
dello 
stesso 
trattamento 
tributario 
previsto 
per 
le 
amministrazioni 
dello 
Stato, 
ivi 
compresa 
la 
prenotazione 
a 
debito 
del 
contributo 
unificato, 
prevista 
dallo 
art. 
158 
del 
d.P.r. 
30 
maggio 
2002, 
n. 
115, 
non 
trova 
applicazione 
nella 
specie 
l’art. 
13, 
comma 
1-quater 
del 
medesimo 
d.P.r.». 


Un’indiretta 
conferma 
della 
correttezza 
di 
tale 
conclusione 
può trarsi, altresì, 
dal 
provvedimento di 
rigetto adottato in data 
29 ottobre 
2020 dal 
Tribunale 
Superiore 
delle 
Acque 
Pubbliche 
(proc. 
113/2016 
R.G. 
regione 
Siciliana 
ed altri 
c/ 
comune 
di 
messina), trasmesso da 
codesta 
Avvocatura 
a 
supporto 
della 
richiesta 
di 
parere, con il 
quale, provvedendo su un’istanza 
di 
autotutela 
avanzata 
dalla 
Regione 
Siciliana 
per l’annullamento di 
un avviso emesso da 
Equitalia 
Giustizia 
S.p.a. 
in 
relazione 
all’omesso 
pagamento 
del 
contributo 
unificato, il 
TSAP 
l’ha 
rigettata 
proprio sul 
presupposto che 
il 
c.u. relativo al 
giudizio che 
si 
svolge 
innanzi 
a 
sé 
non viene 
riscosso nel 
territorio regionale, 
ma direttamente dal proprio Ufficio ausiliario operante in Roma. 


Atteso il 
carattere 
di 
massima 
della 
questione 
giuridica, essendo la 
stessa 
verosimilmente 
destinata 
a 
riproporsi 
nel 
tempo 
ed 
essendo 
altresì 
suscettibile 
di 
dar luogo a 
conflitto ai 
sensi 
dell’art. 1 del 
D.lgs. 2 marzo 1948 n. 142, di 
essa, con nota 
prot. 147284-7 del 
1 marzo 2024, sono stati 
preventivamente 
messi 
a 
conoscenza 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, il 
Ministero del-
l’Economia e delle Finanze e il Ministero della Giustizia. 



Il 
Dipartimento per gli 
Affari 
di 
Giustizia, con nota 
prot. 181016 del 
11 
settembre 2024, ha condiviso le medesime conclusioni adesso prospettate. 


L’esito della 
consultazione 
viene 
esteso, per opportuna 
conoscenza, agli 
Uffici 
in precedenza 
interessati 
nonché 
al 
Segretario Generale 
della 
Giustizia 
Amministrativa 
e 
al 
Dipartimento 
della 
Giustizia 
Tributaria 
del 
Ministero 
dell’Economia e delle Finanze. 


Il 
presente 
parere 
è 
stato sottoposto all’esame 
del 
Comitato Consultivo 
dell’Avvocatura 
dello Stato di 
cui 
all’art. 26 della 
legge 
3 aprile 
1979 n. 103, 
che si è espresso in conformità nella seduta dell’11 dicembre 2024. 


L’Avvocato Generale dello Stato 
Gabriella Palmieri Sandulli 



Interpretazione delle previsioni del nuovo Codice dei 
contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di 
esclusione a fronte della novella introdotta dal d.lgs. n. 
150/2022 sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta 


Parere 
del 
24/01/2025-55779, al 17349/2023, Sez. aG, 
avv. marco 
STiGliano 
meSSuTi, avv. adele 
BerTi 
Suman 


Con la 
nota 
in epigrafe, Consip S.p.A. ha 
chiesto a 
questa 
Avvocatura 
un 
parere 
in 
merito 
alla 
corretta 
interpretazione 
delle 
previsioni 
del 
nuovo 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(d.lgs. n. 36/2023) in tema 
di 
cause 
di 
esclusione 
dalle 
procedure 
di 
gara 
a 
fronte 
della 
novella 
introdotta 
dal 
decreto legislativo 10 
ottobre 
2022, 
n. 
150 
(c.d. 
riforma 
Cartabia) 
sull’istituto 
dell’applicazione 
della 
pena su richiesta. 


Nello 
specifico, 
il 
comma 
1-bis 
dell’articolo 
445 
c.p.p., 
così 
come 
novellato 
dall’articolo 25, comma 
1, lett. b) 
del 
d.lgs 
n. 150/2022 ha 
previsto che 
“se 
non sono applicate 
pene 
accessorie, non producono effetti 
le 
disposizioni 
di 
legge, diverse 
da quella penale, che 
equiparano la sentenza prevista dal-
l’art. 444 comma 2, c.p.p. alla sentenza di condanna”. 


La 
c.d. riforma 
Cartabia, nell’ottica 
di 
incentivare 
il 
ricorso all’applicazione 
della 
pena 
su richiesta 
per finalità 
deflattive 
della 
giustizia 
penale, ha 
dunque 
stabilito che, salvo il 
caso in cui 
sia 
il 
giudice 
penale, con la 
sentenza 
di 
patteggiarnento, 
a 
disporre 
una 
“pena 
accessoria”, 
la 
sentenza 
di 
patteggiamento 
in sede 
extra-penale 
non può essere 
equiparata 
ad una 
sentenza 
di 
condanna. In questo senso, recita 
infatti 
l’art. 445, comma 
1-bis, c.p.p., le 
disposizioni 
extra-penali “non producono effetti”. 


Come 
già 
affermato 
in 
precedenti 
consultazioni 
(cfr. 
CS 
9291/2023 
parere 
del 
27 
febbraio 
2023, 
n. 
153480 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
che 
la 
sentenza 
di 
patteggiamento 
determini 
a 
carico 
dell’imputato 
una 
situazione 
di 
incandidabilità 
ai 
sensi 
del 
d.lgs. 
235/2012, 
c.d. 
decreto 
Severino), 
dal 
tenore 
testuale 
della 
novellata 
disposizione 
si 
ricava 
che, 
salvo 
il 
caso 
di 
applicazione 
di 
pene 
accessorie, 
tutte 
quelle 
disposizioni 
legislative 
non 
qualificabili 
come 
penali, 
nelle 
quali 
la 
sentenza 
resa 
ex 
art. 
444 
c.p.p. 
è 
equiparata 
alla 
sentenza 
di 
condanna, 
non 
trovano 
più 
applicazione 
a 
far 
data 
dall’entrata 
in 
vigore 
della 
riforma 
Cartabia 
(30 
dicembre 
2022, 
ai 
sensi 
del 
D.L. 
n. 
162/2022). 


*** 


Con la 
nota 
a 
riscontro Consip S.p.A. si 
interroga 
in merito alle 
conseguenze 
che 
la 
predetta 
novella 
normativa 
ha 
sulle 
disposizioni 
del 
nuovo Codice 
dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di esclusione. 


Nello specifico, si chiede a questo G.U. di confermare che: 


1) 
la 
sentenza 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 



dell’articolo 444 c.p.p. per 
uno dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 94, comma 1, del 
d.lgs. n. 36/2023 non costituisce 
adeguato mezzo di 
prova ai 
fini 
dell’esclusione 
(non automatica) di 
cui 
all’articolo 98 comma 3, lett. g) del 
medesimo 
decreto legislativo; 


2) 
la 
sentenza 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 
dell’articolo 444 c.p.p. per 
uno dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 98, comma 3, lett. 


h) del 
d.lgs. n. 36/2023 non costituisce 
adeguato mezzo di 
prova ai 
fini 
del-
l’esclusione (non automatica) ivi prevista; 
3) 
la sentenza non irrevocabile 
di 
applicazione 
della pena su richiesta ai 
sensi 
dell’articolo 444 c.p.p. per 
uno dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 98, comma 
3, lett. h) del 
d.lgs. n. 36/2023 non costituisce 
adeguato mezzo di 
prova ai 
fini 
della esclusione (non automatica) ivi prevista”. 


Si 
richiede, 
inoltre, 
di 
fornire 
un 
parere 
circa 
l’interpretazione 
dell’articolo 
98, comma 
6, lett. g) 
del 
d.lgs. n. 36/2023 (che 
attribuisce 
valenza 
probatoria 
alla 
sentenza 
non 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
fini 
della 
causa 
di 
esclusione 
non automatica 
del 
c.d. grave 
illecito professionale) 
in combinato disposto con il novellato articolo 445 c.p.p. 


In 
particolare, 
“fermo 
restando 
che 
le 
disposizioni 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici non hanno natura di legge penale”, Consip domanda se: 


4) 
le 
sentenze 
di 
“patteggianiento” 
rilevanti 
ai 
sensi 
dell’articolo 
98, 
comma 6, lett. g) del 
d.lgs. n. 36/2023 siano solo quelle 
che 
prevedono pene 
accessorie 
e, 
in 
caso 
affermativo, 
se 
assume 
rilievo 
l’applicazione 
di 
qualsiasi 
pena 
accessoria 
ovvero 
soltanto 
l’applicazione 
della 
pena 
accessoria 
rilevante 
nel 
contesto 
della 
contrattualistica 
pubblica, 
ovverosia 
l’incapacità 
di 
contrattare 
con la Pubblica amministrazione; 


ovvero se 


5) 
nell’applicazione 
dell’articolo 
98, 
comma 
6, 
lett. 
g) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
-in 
quanto 
norma 
successiva 
e 
speciale 
che 
tiene 
conto 
delle 
sentenze 
di 
applicazione 
della pena su richiesta ai 
soli 
fini 
della valutazione 
discrezionale 
dell’illecito 
professionale 
nei 
limitati 
casi 
in 
cui 
venga 
contestato 
uno 
dei 
reati 
tassativamente 
elencati 
all’art. 94 comma 1 dello stesso decreto legislativo 
-deve 
essere 
privilegiata 
un’interpretazione 
letterale 
da 
cui 
consegue 
che 
le 
dette 
sentenze 
assumono rilievo anche 
ove 
non sia disposta l’applicazione 
di pene accessorie”. 


*** 


Con 
nota 
prot. 
405556/60 
del 
16 
giugno 
2023 
la 
Scrivente, 
dopo 
aver 
analizzato la 
disciplina 
introdotta 
dal 
nuovo Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
in 
materia 
di 
cause 
di 
esclusione, ha 
anzitutto evidenziato come, alla 
luce 
del 
tenore 
letterale 
della 
disposizione, la 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su richiesta 
ex art. 444 c.p.p. non rileva 
ai 
fini 
dell’esclusione 
c.d. automatica 
di 
cui 
all’articolo 
94, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023, 
in 
quanto 
la 
norma 
nel-
l’elencare 
i 
reati 
rilevanti 
ai 
fini 
dell’esclusione 
(automatica) 
richiama 
testual



mente, nella 
sua 
versione 
definitiva, le 
sole 
ipotesi 
di 
“sentenza definitiva o 
decreto 
penale 
di 
condanna 
divenuto 
irrevocabile”: 
a 
differenza 
della 
vecchia 
formulazione 
dell’art. 80, comma 
1, del 
d.lgs. n. 50/2016 (1), non è 
dunque 
più 
contemplata 
la 
sentenza 
di 
patteggiamento 
ex 
art. 
444 
del 
c.p.p 
come 
causa 
di esclusione automatica ex art. 94, comma 1, d.lgs. 36/2023. 


Ciò risulta 
peraltro confermato dalla 
recente 
giurisprudenza 
amministrativa 
(cfr. T.A.R. Lazio, II, 9 gennaio 2025, n. 401) (2). 


Per 
le 
medesime 
ragioni 
di 
ordine 
testuale, 
quanto 
ai 
quesiti 
indicati 
sub 


2) 
e 
3), 
si 
è 
ritenuto 
di 
concordate 
con 
l’interpretazione 
fornita 
da 
Consip 


S.p.A. 
nel 
senso 
che 
la 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ex 
art. 
444 
c.p.p. 
non 
rileva 
come 
mezzo 
di 
prova 
adeguato 
ai 
fini 
della 
esclusione 
non 
automatica 
di 
cui 
al 
combinato 
disposto 
dell’articolo 
95, 
comma 
1, 
lett. 
e) 
e 
dell’articolo 
98, 
comma 
3 
e 
comma 
6, 
lett. 
h) 
elencando 
quest’ultima 
disposizione, 
tra 
i 
mezzi 
di 
prova, 
“la 
sentenza 
di 
condanna 
definitiva, 
il 
decreto 
penale 
di 
condanna 
irrevocabile, 
la 
condanna 
non 
definitiva, 
i 
provvedimenti 
cautelari 
reali 
o 
personali, 
ove 
emessi 
dal 
giudice 
penale 
”, 
senza 
dunque 
fare 
riferimento 
alla 
sentenza 
emessa 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
444 
e 
ss. 
c.p.p. 
Sul 
punto, 
si 
è 
in 
particolare 
precisato 
che 
l’irrilevanza 
della 
sentenza 
di 
patteggiamento 
vale 
sia 
per 
la 
sentenza 
irrevocabile, 
sia 
per 
la 
sentenza 
non 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 
444 
c.p.p., 
in 
quanto 
il 
tenore 
letterale 
della 
disposizione 
(art. 
98, 
comma 
6, 
lett. 
h)) 
è 
chiaro 
nell’escludere 
qualsiasi 
tipologia 
di 
sentenza 
ex 
art. 
444 
c.p.p. 
per 
uno 
dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 
98, 
comma 
3, 
lett. 
h) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
tra 
i 
mezzi 
di 
prova 
rilevanti 
ai 
fini 
dell’esclusione 
(non 
automatica) 
ivi 
prevista. 


Le 
suddette 
conclusioni 
appaiono 
peraltro 
supportate 
dai 
lavori 
preparatori 
come 
descritti 
nella 
Relazione 
illustrativa, 
da 
cui 
risulta 
che, 
rispetto 
al 
testo 
approvato 
in 
via 
preliminare 
dal 
Consiglio 
dei 
ministri, 
nell’ultima 
versione 
sono 
stati 
espunti 
i 
riferimenti 
alla 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ex 
art. 
444 
c.p.p. 
nei 
sopra 
richiamati 
articoli 
in 
materia 
di 
cause 
di 
esclusione 
(art. 
94, 
comma 
1 
e 
art. 
98, 
comma 
6, 
lett. 
h) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023), 
proprio 
con 
il 
dichiarato 
intento 
di 
“coordinare 
lo 
schema 


(1) Secondo cui: 
“1. costituisce 
motivo di 
esclusione 
di 
un operatore 
economico dalla partecipazione 
a una procedura d’appalto o concessione, la condanna con sentenza definitiva o decreto penale 
di 
condanna divenuto irrevocabile 
o sentenza di 
applicazione 
della pena su richiesta ai 
sensi 
dell’articolo 
444 del codice di procedura penale, per uno dei seguenti reati: 
[...]”. 
(2) 
ove 
si 
è 
rilevato 
che 
“a 
differenza 
della 
vecchia 
formulazione 
dell’art. 
80 
del 
d.lgs. 
n. 
50/2016 
non è 
più prevista come 
causa automatica di 
esclusione, la sentenza di 
patteggiamento ex 
art. 444 del 


c.p.p. risulta, pertanto, del 
tutto priva di 
fondamento l’affermazione 
di 
parte 
del 
ricorrente 
in base 
alla 
quale 
la sentenza di 
patteggiamento subita dall’aggiudicataria sarebbe 
equiparata a una sentenza di 
condanna 
definitiva 
e, 
pertanto, 
causa 
di 
esclusione 
automatica 
dalla 
procedura 
di 
gara 
ai 
sensi 
dell’art. 
94 del d.lgs. n. 36/2023”. 



di 
decreto 
legislativo 
con 
le 
novità 
introdotte 
dal 
decreto 
legislativo 
10 
ottobre 
2022, 
n. 
150 
sugli 
effetti 
extra-penali 
delle 
sentenze 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
delle 
parti 
ai 
sensi 
dell’articolo 
444 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
” 
(3). 


Più problematica 
è 
invece 
la 
questione 
prospettata 
con i 
quesiti 
sub 1) 
e 
4)-5), in quanto l’articolo 98, comma 
6, lett. 
g) 
del 
d.lgs. n. 36/2023 espressamente 
attribuisce 
valenza 
probatoria 
ai 
fini 
della 
valutazione 
del 
grave 
illecito 
professionale 
alla 
sentenza 
non 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
per 
uno 
dei 
reati 
consumati 
o 
tentati 
di 
cui 
al 
comma 
1 
dell’articolo 


94. Ciò, tuttavia, potrebbe 
apparire 
non coerente 
con la 
nuova 
disciplina 
introdotta 
dalla 
c.d. riforma 
Cartabia 
al 
comma 
1-bis 
dell’articolo 445 c.p.p. in 
quanto 
si 
potrebbe 
ritenere 
che 
in 
questo 
modo 
si 
prospetti 
una 
sostanziale 
equiparazione 
della 
sentenza 
(non 
irrevocabile) 
ex 
articolo 
444 
c.p.p. 
alla 
sentenza 
di 
condanna 
(non 
definitiva) 
come 
mezzo 
di 
prova 
discrezionalmente 
valutabile 
dalla 
stazione 
appaltante 
al 
fine 
della 
verifica 
in 
merito 
alla 
idoneità 
e affidabilità dell’operatore economico concorrente. 


Consip 
S.p.a. 
pone 
dunque 
ai 
quesiti 
sub 
4) 
e 
5) 
la 
questione 
di 
verificare 
se, 
alla 
luce 
della 
nuova 
formulazione 
dell’articolo 
445 
c.p.p., 
novellato 
dalla 
c.d. 
riforma 
Cartabia, 
la 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta, 
possa 
rilevare 
come 
mezzo 
di 
prova 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
causa 
di 
esclusione 
(non 
automatica) 
del 
grave 
illecito 
professionale 
ai 
sensi 
dell’art. 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
solo 
nel 
caso 
in 
cui 
sia 
prevista 
l’applicazione 
di 
pene 
accessorie 
(e, 
in 
caso 
affermativo, 
se 
assume 
rilievo 
l’applicazione 
di 
qualsiasi 
pena 
accessoria 
ovvero 
soltanto 
l’applicazione 
della 
pena 
accessoria 
rilevante 
nel 
contesto 
della 
contrattualistica 
pubblica, 
ovverosia 
l’incapacità 
di 
contrattare 
con 
la 
Pubblica 
Amministrazione), 
ovvero 
debba 
essere 
privilegiata 
un’interpretazione 
letterale 
da 
cui 
consegue 
che 
la 
sentenza 
di 
patteggiamento 
assuma 
di 
per 
sé 
rilievo 
come 
mezzo 
di 
prova 
nella 
valutazione 
del 
grave 
illecito 
professionale, 
anche 
ove 
non 
sia 
disposta 
l’applicazione 
di 
pene 
accessorie. 


(3) 
Come 
si 
legge 
nella 
Relazione 
illustrativa 
di 
accompagnamento 
al 
nuovo 
Codice, 
con 
riferimento 
all’art. 
94, 
comma 
1 
“rispetto 
al 
testo 
approvato 
in 
via 
preliminare 
dal 
consiglio 
dei 
ministri 
in 
accoglimento 
dell’osservazione 
con 
la 
quale 
entrambe 
le 
commissioni 
parlamentari 
hanno 
chiesto 
al 
Governo 
di 
valutare 
l’opportunità 
di 
coordinare 
lo 
schema 
di 
decreto 
legislativo 
con 
le 
novità 
introdotte 
dal 
decreto 
legislativo 
10 
ottobre 
2022, 
n. 
150 
sugli 
effetti 
extra-penali 
delle 
sentenze 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
delle 
parti 
ai 
sensi 
dell’articolo 
444 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
all’alinea 
del 
comma 
1 
è 
stato 
soppresso 
il 
riferimento 
al 
citato 
articolo 
444 
del 
codice 
di 
procedura 
penale” 
[...] 
e 
con 
riferimento 
all’art. 
98, 
comma 
6, 
lett. 
h) 
“sono 
state 
apportate 
anche 
le 
necessarie 
modifiche 
alla 
lettera 
h) 
del 
comma 
7, 
finalizzate 
-per 
l’illecito 
professionale 
-ad 
eliminare 
il 
riferimento 
alla 
sentenza 
irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 
dell’articolo 
444 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
al 
decreto 
penale 
di 
condanna 
non 
irrevocabile 
oppure 
agli 
atti 
di 
cui 
gli 
articoli 
405 
407-bis, 
comma 
1 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
nonché 
al 
decreto 
che 
dispone 
il 
giudizio 
ai 
sensi 
dell’articolo 
429 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
come 
mezzi 
di 
prova 
di 
per 
sé 
sufficienti 
a 
concretare 
l’esclusione, 
mentre 
è 
rimasto 
il 
riferimento 
alla 
condanna, 
definitiva 
e 
non 
definitiva, 
e 
alle 
misure 
cautelari 
penali”. 



Nel 
precedente 
parere 
reso 
sulla 
questione 
si 
sono 
prospettate 
due 
diverse 
soluzioni interpretative. 


A. Una 
prima soluzione 
interpretativa 
è 
quella 
di 
ritenere, pur a 
fronte 
del 
tenore 
letterale 
dell’articolo 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g), 
del 
nuovo 
Codice 
che 
menziona 
espressamente 
le 
sentenze 
(non 
irrevocabili) 
di 
patteggiamento, 
che 
quest’ultime 
acquistino rilievo ai 
fini 
probatori 
solo qualora 
sia 
prevista 
l’applicazione 
di 
pene 
accessorie, 
a 
fronte 
della 
nuova 
disciplina 
dell’art. 
445, 
comma 
1-bis, c.p.p. Tale 
soluzione 
si 
traduce 
di 
fatto nel 
considerare 
il 
riferimento 
contenuto 
nell’art. 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
alla 
sentenza 
di 
patteggiamento ex art. 444 c.p.p. frutto di 
un “difetto di 
coordinamento” 
tra 
i 
due 
testi 
normativi 
(nuovo Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
e 
Codice 
di procedura penale come novellato dalla c.d. riforma Cartabia). 


B. 
Una 
seconda 
soluzione 
interpretativa 
parte 
dal 
presupposto 
che 
il 
mantenimento 
del 
riferimento 
alla 
sentenza 
di 
patteggiamento 
contenuta 
nel-
l’art. 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g) 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
rappresenti 
una 
precisa 
“scelta 
del 
legislatore”, 
alla 
luce 
della 
diversità 
delle 
fattispecie 
previste 
dalla 
lettera 
g) 
e 
dalla 
lettera 
h), 
contemplando 
il 
primo 
ipotesi 
di 
reato 
di 
maggior 
gravità 
e 
allarme 
sociale 
rispetto 
a 
quelli 
indicati 
nella 
lettera 
h), 
che 
non 
a 
caso 
di 
per 
sé 
rilevano 
anche 
ai 
fini 
della 
esclusione 
automatica 
ex 
art. 
94 
(comma 
1). 


Attesa 
la 
delicatezza 
della 
questione 
nonché 
le 
conseguenze 
derivanti 
dalle 
soluzioni 
prescelte 
in 
termini 
di 
possibile 
contenzioso, 
questo 
G.U., 
in 
conformità 
al 
parere 
espresso 
dal 
Comitato 
Consultivo 
nella 
seduta 
del 
5 
giugno 
2023, 
ha 
ritenuto 
opportuno, 
prima 
di 
assumere 
le 
proprie 
determinazioni 
conclusive 
in 
ordine 
alla 
corretta 
interpretazione 
del 
citato 
articolo 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g), 
del 
d.lgs. 
36/2023, 
acquisire 
preliminarmente 
l’eventuale 
avviso 
del 
Ministero 
delle 
Infrastrutture 
e 
dei 
Trasporti 
e 
del 
Ministero 
della 
Giustizia, 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e 
dell’Autorità 
Nazionale 
Anticorruzione. 


Sono pervenuti 
esclusivamente 
i 
contributi 
da 
parte 
dell’Autorità 
Nazionale 
Anticorruzione 
e 
dell’Ufficio 
Legislativo 
del 
Ministero 
delle 
Infrastrutture 
e dei 
Trasporti. 


*** 


Tanto premesso, esaminati 
i 
riscontri 
trasmessi, la 
Scrivente, anche 
alla 
luce 
del 
fatto 
che 
la 
previsione 
in 
esame 
non 
risulta 
essere 
stata 
oggetto 
di 
modifiche 
da 
parte 
del 
decreto 
“correttivo” 
del 
Codice 
dei 
Contratti 
Pubblici 
pubblicato 
sulla 
Gazzetta 
Ufficiale 
del 
31 
dicembre 
2024, 
ritiene 
di 
dover 
accogliere la seconda soluzione interpretativa sopra indicata. 


Anzitutto, 
deve 
rilevarsi 
come, 
dal 
punto 
di 
vista 
temporale, 
il 
nuovo 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
sia 
successivo 
all’entrata 
in 
vigore 
della 
c.d. 
riforma 
Cartabia 
e, 
quindi, 
non 
possa 
ravvisarsi 
una 
forma 
di 
c.d. 
abrogazione 
implicita, 
come 
avvenuto 
con 
riguardo 
alle 
disposizioni 
del 
c.d. 
de



creto 
Severino 
nella 
consultazione 
già 
richiamata 
nelle 
premesse 
del 
presente 
parere. 


In 
secondo 
luogo, 
la 
disciplina 
dei 
contratti 
pubblici 
rappresenta 
una 
normativa 
speciale 
che, 
di 
per 
sé, 
appare 
destinata 
comunque 
a 
prevalere 
rispetto 
ad 
una 
legge 
precedente 
e 
generale, 
in 
virtù 
dei 
noti 
principi 
di 
risoluzione 
delle 
antinomie 
tra 
norme 
“incompatibili” 
compendiati 
nei 
noti 
brocardi 
latini 
lex 
posterior 
derogat 
priori 
e 
lex 
specialis 
derogat 
legi 
generali. 
In 
questo 
senso, 
si 
potrebbe 
comunque 
ritenere 
che 
le 
norme 
del 
nuovo 
Codice 
rientrino 
nella 
clausola 
di 
salvaguardia 
prevista 
dall’art. 
445 
c.p.p. 
(4), 
trattandosi 
di 
disciplina 
speciale 
rispetto a 
quella 
che 
limita 
gli 
effetti 
extra-penali 
del 
patteggiamento. 


Inoltre, 
a 
favore 
della 
seconda 
interpretazione 
prospettata, 
convergono 


argomenti di carattere testuale, sistematico e teleologico. 


Si 
ritiene 
infatti 
determinante, 
ai 
fini 
della 
soluzione 
alla 
questione 
interpretativa 
de 
qua, 
la 
diversità 
delle 
fattispecie 
previste 
dall’art. 
98, 
comma 
3, 
lettera 
g) 
e 
dalla 
lettera 
h), 
cui 
il 
comma 
6 
rinvia. 
Solo 
con 
riguardo 
alla 
seconda, 
infatti, 
il 
legislatore 
ha 
ritenuto 
di 
espungere 
il 
riferimento 
alla 
sentenza 
di 
patteggiamento, 
motivato 
proprio 
dall’esigenza 
di 
coordinare 
la 
disposizione 
alla 
novità 
introdotta 
dalla 
c.d. 
riforma 
Cartabia 
(come 
risulta 
dalla 
Relazione 
illustrativa 
citata 
alla 
nota 
3), 
mentre 
tale 
richiamo 
è 
rimasto 
immutato 
nella 
lettera 
g). 


Invero, 
mentre 
l’art. 
98, 
comma 
3, 
lettera 
g) 
fa 
riferimento 
all’ipotesi 
di 
“g) 
contestata 
commissione 
da 
parte 
dell’operatore 
economico, 
ovvero 
dei 
soggetti 
di 
cui 
al 
comma 
3 
dell’articolo 
94 
di 
taluno 
dei 
reati 
consumati 


o 
tentati 
di 
cui 
al 
comma 
1 
del 
medesimo 
articolo 
94 
” 
ossia 
gli 
stessi 
reati 
che 
impongono 
l’esclusione 
automatica 
ai 
sensi 
dell’art. 
94, 
la 
lettera 
h) 
fa 
riferimento 
alla 
“h) 
contestata 
o 
accertata 
commissione, 
da 
parte 
dell’operatore 
economico 
oppure 
dei 
soggetti 
di 
cui 
al 
comma 
3 
dell’articolo 
94, 
di 
taluno 
dei 
seguenti 
reati 
consumati: 
1) 
abusivo 
esercizio 
di 
una 
professione, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
348 
del 
codice 
penale; 
2) 
bancarotta 
semplice, 
bancarotta 
fraudolenta, 
omessa 
dichiarazione 
di 
beni 
da 
comprendere 
nell’inventario 
fallimentare 
o 
ricorso 
abusivo 
al 
credito, 
di 
cui 
agli 
articoli 
216, 
217, 
218 
e 
220 
del 
regio 
decreto 
16 
marzo 
1942, 
n. 
267; 
3) 
i 
reati 
tributari 
ai 
sensi 
del 
decreto 
legislativo 
10 
marzo 
2000, 
n. 
74, 
i 
delitti 
societari 
di 
cui 
agli 
articoli 
2621 
e 
seguenti 
del 
codice 
civile 
o 
i 
delitti 
contro 
l’industria 
e 
il 
commercio 
di 
cui 
agli 
articoli 
da 
513 
a 
517 
del 
codice 
penale; 
4) 
i 
reati 
urbanistici 
di 
cui 
all’articolo 
44, 
comma 
1, 
lettere 
b) 
e 
c), 
del 
testo 
unico 
delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
in 
materia 
di 
edilizia, 
di 
cui 


(4) ove 
stabilisce 
che 
l’effetto di 
privare 
di 
efficacia 
“le 
disposizioni 
di 
leggi 
diverse 
da quelle 
penali 
che 
equiparano 
la 
sentenza 
prevista 
dall’articolo 
444, 
comma 
2, 
alla 
sentenza 
di 
condanna” 
vale 
“salvo quanto previsto [...] 
da diverse disposizioni di legge”. 



al 
decreto 
del 
Presidente 
della 
repubblica 
6 
giugno 
2001, 
n. 
380, 
con 
riferimento 
agli 
affidamenti 
aventi 
ad 
oggetto 
lavori 
o 
servizi 
di 
architettura 
e 
ingegneria; 
5) 
i 
reati 
previsti 
dal 
decreto 
legislativo 
8 
giugno 
2001, 
n. 
231”. 


Queste 
seconde 
ipotesi, 
in 
quanto 
di 
per 
sé 
fattispecie 
non 
idonee 
alla 
esclusione 
automatica 
ex art. 94 cit., appaiono “meno gravi” 
rispetto a 
quelle 
contemplate 
nella 
lettera 
g) 
e 
dunque 
tali 
da 
condurre 
a 
ritenere 
non 
sufficiente, 
quale 
mezzo di 
prova 
ai 
fini 
della 
valutazione 
del 
grave 
illecito professionale, 
la 
“sola” 
sentenza 
di 
patteggiamento ex art. 444 c.p.p. La 
lettera 
g) riguarda, 
infatti, ipotesi 
di 
reato di 
maggior gravità 
ed allarme 
sociale 
(es. riciclaggio, 
corruzione, 
turbativa 
d’asta 
e 
gli 
altri 
reati 
contro 
la 
Pubblica 
Amministrazione) 
rispetto quelli 
indicati 
nella 
lettera 
h), che 
-non a 
caso -di 
per 
sé 
rilevano 
anche 
ai 
fini 
della 
esclusione 
automatica 
ex art. 94, comma 
1, qualora 
siano accertati 
con sentenza 
di 
condanna 
definitiva 
o decreto penale 
di 
condanna 
divenuto irrevocabile. 


Peraltro, 
come 
già 
evidenziato 
nel 
precedente 
parere 
del 
16 
giugno 
2023, 
proprio dal 
fatto che 
nelle 
altre 
ipotesi 
in cui 
la 
sentenza 
ex art. 444 c.p.p. era 
espressamente 
menzionata 
(art. 94 e 
art. 98, co. 6, lett. h)) il 
legislatore 
ha 
ritenuto 
di 
espungere 
il 
riferimento nel 
dichiarato fine 
di 
coordinare 
il 
testo alla 


c.d. riforma 
Cartabia 
(cfr. relazione 
illustrativa 
citata 
nella 
nota 
3), si 
può dedurre, 
a contrario, che 
il 
permanere 
del 
richiamo alla 
sentenza 
di 
patteggiamento 
nell’art. 
98, 
comma 
6, 
lettera 
g) 
rappresenti 
una 
precisa 
scelta 
legislativa, alla 
luce 
della 
maggior gravità 
probatoria 
rappresentata 
dalla 
presenza 
di 
una 
sentenza 
di 
patteggiamento per reati 
che 
-se 
definitivamente 
accertati 
con sentenza 
di 
condanna 
-sono motivo di 
esclusione 
automatica 
ex 
art. 94, comma 1. 


È 
dunque 
ragionevole 
ritenere 
che 
in 
queste 
ipotesi 
il 
legislatore 
abbia 
voluto mantenere 
in capo alla 
stazione 
appaltante 
un certo margine 
di 
discrezionalità 
nel 
procedere 
all’esclusione, riconoscendo alla 
stessa 
il 
potere 
di 
valutare 
l’esistenza 
di 
una 
sentenza 
di 
patteggiamento, pronunciata 
in relazione 
ai 
reati 
di 
cui 
all’art. 94, comma 
1, del 
nuovo Codice, quandanche 
soggetta 
ancora 
ad 
impugnazione, 
quale 
prova 
della 
commissione 
da 
parte 
dell’offerente 
di 
un illecito professionale 
grave, tale 
da 
compromettere 
il 
rapporto fiduciario 
e comportare l’esclusione del medesimo dalla procedura di gara. 


Ciò 
peraltro, 
come 
anticipato, 
risulta 
confermato 
anche 
dal 
decreto 
“correttivo” 
del 
Codice 
dei 
Contratti 
Pubblici 
(d.lgs. 
n. 
209 
del 
31 
dicembre 
2024) 
che 
non 
è 
intervenuto 
sull’art. 
98, 
confermando 
dunque 
la 
voluntas 
legis 
di 
mantenere 
il 
riferimento 
alla 
sentenza 
di 
patteggiamento 
tra 
i 
mezzi 
di 
prova 
valutabili 
ai 
fini 
della 
sussistenza 
della 
causa 
di 
esclusione 
(non 
automatica) 
del 
grave 
illecito 
professionale 
rispetto 
alle 
fattispecie 
di 
reato 
contemplate 
nell’art. 
94, 
comma 
1. 


In questo modo, peraltro, la 
sentenza 
di 
patteggiamento non appare 
equiparata 
tout 
court 
ad una 
sentenza 
di 
condanna, rilevando quale 
mero “indice 



sintomatico” 
dell’esistenza 
di 
un 
illecito 
professionale 
grave, 
essendo 
comunque 
rimesso 
alla 
discrezionalità 
della 
stazione 
appaltante 
di 
valutare 
l’idoneità 
del 
fatto 
a 
compromettere 
l’affidabilità 
e 
l’integrità 
dell’operatore 
economico, 
come del resto prescritto dall’art. 98, comma 2 del nuovo Codice (5). 


Ne 
deriva 
che 
un 
operatore 
economico, 
il 
quale 
sia 
stato 
destinatario 
di 
una 
sentenza 
di 
patteggiamento, 
non 
potrà 
per 
ciò 
solo 
essere 
escluso 
dalla 
procedura 
di 
gara, 
essendo 
comunque 
necessario 
che 
la 
condotta 
sia 
valutata 
nella 
sua 
globalità 
dalla 
stazione 
appaltante, 
alla 
quale 
il 
legislatore 
riserva 
la 
individuazione 
del 
«punto 
di 
rottura 
dell’affidamento» 
nel 
futuro 
contraente 
(6). 


Tale 
lettura 
si 
pone 
in linea 
con la 
ratio 
della 
novità 
introdotta 
dalla 
c.d. 
riforma 
Cartabia 
che, 
nell’ottica 
di 
incentivare 
il 
ricorso 
all’applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
per 
finalità 
deflattive 
della 
giustizia 
penale, 
ha 
stabilito 
di 
“ridurre” 
gli 
effetti 
extra-penali 
della 
sentenza 
di 
patteggiamento 
senza 
tuttavia 
escluderli 
del 
tutto (cfr. art. 1, comma 
10, lett. a), n. 2 della 
legge 
delega 
27 
settembre 
2021, n. 134 che 
indica 
come 
criterio quello di 
«ridurre 
gli 
effetti 
extra-penali 
della 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
delle 
parti, 
prevedendo anche 
che 
questa non abbia efficacia di 
giudicato nel 
giudizio disciplinare 
e in altri casi») 
(7). 


La 
sentenza 
di 
applicazione 
della 
pena 
su richiesta 
delle 
parti 
ex art. 444 
e 
ss. 
del 
c.p.p, 
rileva, 
infatti, 
ai 
sensi 
dell’art. 
98, 
comma 
6, 
lett. 
g), 
unicamente 
quale 
“mezzo 
di 
prova 
adeguato” 
dell’avvenuta 
commissione 
da 
parte 
del


(5) 
Secondo 
giurisprudenza 
oramai 
costante, 
pronunciatasi 
anche 
nella 
vigenza 
del 
nuovo 
Codice, 
l’esclusione 
conseguente 
alla 
valutazione 
di 
inaffidabilità 
dell’operatore, 
dovuta 
alla 
commissione 
di 
gravi 
illeciti 
professionali, è 
una 
sanzione 
la 
cui 
operatività, lungi 
dall’essere 
rimessa 
a 
rigidi 
automatismi, 
è 
piuttosto 
legata 
alla 
valutazione 
discrezionale 
della 
S.A., 
poiché 
“è 
la 
stazione 
appaltante 
a 
fissare 
il 
punto di 
rottura dell’affidamento nel 
pregresso o futuro contraente 
perché 
è 
ad essa che 
è 
rimesso il 
potere 
di 
apprezzamento 
delle 
condotte 
dell’operatore 
economico 
che 
possono 
integrare 
un 
grave 
illecito 
professionale 
” 
(Cons. 
Stato, 
Sez. 
v, 
23 
febbraio 
2024, 
n. 
1804; 
cfr. 
altresì 
Cons. 
Stato, 
Sez. 
v, 
3 
gennaio 
2019, n. 72, che 
richiama 
sul 
tema 
Cass., SS.UU., 17 febbraio 2012, n. 2312), per cui 
“l’apprezzamento 
della ricorrenza del 
grave 
illecito professionale 
è 
connotato da un importante 
contenuto fiduciario, da 
intendersi 
nel 
senso che 
assume 
particolare 
rilevanza la condotta dell’operatore 
rispetto allo specifico 
contratto stipulando e 
alla posizione 
della singola stazione 
appaltante: “l’amministrazione, nell’esercizio 
dell’ampio 
potere 
tecnico-discrezionale 
attribuitole 
dal 
codice 
degli 
appalti 
pubblici, 
può 
utilizzare 
ogni 
elemento idoneo e 
mezzi 
adeguati 
a desumere 
l’affidabilità e 
l’integrità del 
concorrente, potendo 
evincere 
il 
compimento di 
gravi 
illeciti 
professionali 
da ogni 
vicenda pregressa, anche 
non tipizzata, 
dell’attività 
professionale 
dell’operatore 
economico 
di 
cui 
sia 
stata 
accertata 
la 
contrarietà 
ad 
un 
dovere 
posto 
in 
una 
norma 
civile, 
penale 
o 
amministrativa 
[...] 
secondo 
un 
giudizio 
espresso 
non 
in 
chiave 
sanzionatoria, 
ma piuttosio fiduciaria” 
(cons. Stato, Sez. v, 20 marzo 2023 n. 2807)” 
(Cons. Stato, Sez. v, 
4 dicembre 2023, n. 10448). 
(6) Cfr. Cons. Stato sez. v, 8 settembre 
2022, n. 7823: 
“nelle 
gare 
pubbliche 
il 
giudizio su gravi 
illeciti 
professionali 
è 
espressione 
di 
discrezionalità 
da 
parte 
dell’amministrazione, 
cui 
spetta 
apprezzare 
autonomamente 
le 
pregresse 
vicende 
professionali 
dell’operatore 
economico, perché 
essa sola può fissare 
il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente”. 
(7) Come 
riconosce 
la 
stessa 
Relazione 
illustrativa 
al 
decreto legislativo n. 150/2022, “la ricerca 
di 
maggior 
stimolo 
a 
patteggiare 
risulta 
[...] 
affidata 
al 
criterio 
in 
materia 
di 
confisca 
e 
pene 
accessorie 
[...] 
e al 
[...] 
criterio in materia di riduzione degli effetti extra-penali 
”. 



l’operatore 
economico 
di 
un 
illecito 
professionale 
grave 
(8), 
con 
la 
conseguenza 
che 
un 
provvedimento 
di 
tal 
genere 
non 
comporta 
di 
per 
sé 
l’esclusione, 
ma 
richiede 
l’attivazione 
del 
potere 
valutativo delle 
stazioni 
appaltanti, 
chiamate 
a 
verificare, caso per caso, l’effettiva 
incidenza 
dello stesso sull’integrità 
o sulla 
professionalità 
del 
concorrente, anche 
in considerazione 
della 
tipologia e dell’importo della prestazione richiesta (9). 


La 
configurazione 
della 
sentenza 
di 
patteggiamento ex art. 444 c.p.p. per 
i 
reati 
di 
particolare 
gravità 
elencati 
all’art. 98, comma 
3, lettera 
g) 
(mediante 
il 
rinvio 
a 
quelli 
rilevanti 
ai 
fini 
dell’esclusione 
automatica 
ex 
art. 
94) 
tra 
i 
“mezzi 
di 
prova” 
da 
cui 
desumere 
l’esistenza 
di 
un 
grave 
illecito 
professionale, 
non 
fa 
dunque 
venir 
meno 
il 
potere 
valutativo 
della 
stazione 
appaltante, 
la 


(8) Il 
grave 
illecito professionale 
è 
da 
considerarsi 
integrato, ai 
sensi 
dell’art. 98, comma 
2 del 
nuovo 
Codice, 
allorquando 
ricorrano 
le 
seguenti 
condizioni: 
(i) 
elementi 
sufficienti 
ad 
integrare 
il 
grave 
illecito 
professionale; 
(ii) 
idoneità 
del 
grave 
illecito 
professionale 
ad 
incidere 
sull’affidabilità 
e 
integrità 
dell’operatore; (iii) adeguati mezzi di prova di cui al comma 6. 


(9) 
Ed 
ora 
anche 
alla 
luce 
del 
generale 
Principio 
di 
fiducia, 
introdotto 
all’art. 
2 
del 
d.lgs. 
n. 
36/2023, 
con 
particolare 
riferimento 
al 
comma 
2, 
ove 
si 
dispone 
che 
“il 
principio 
della 
fiducia 
favorisce 
e 
valorizza l’iniziativa e 
l’autonomia decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici, con particolare 
riferimento 
alle 
valutazioni 
e 
alle 
scelte 
per 
l’acquisizione 
e 
l’esecuzione 
delle 
prestazioni 
secondo il 
principio del 
risultato”. Sul 
punto, vale 
richiamare 
quanto recentemente 
affermato dal 
T.A.R. Sardegna 
proprio in 
relazione 
al 
giudizio 
di 
affidabilità 
connesso 
a 
gravi 
illeciti 
professionali 
dell’operatore 
economico: 
“sotto il 
profilo semantico, il 
concetto stesso di 
‘affidabilità’si 
predica riguardo a qualcuno che 
sia meritevole 
di 
‘fiducia’ 
riflettendosi 
questo aspetto, perciò, sotto il 
profilo giuridico, nella lettura e 
interpretazione 
dell’art. 
98 
del 
codice 
alla 
luce 
del 
generale 
Principio 
della 
fiducia, 
innovativamente 
introdotto all’art. 2 del 
d.lgs. n. 36/2023, con particolare 
riferimento al 
comma 2, ove 
si 
dispone 
che 
“il 
principio 
della 
fiducia 
favorisce 
e 
valorizza 
l’iniziativa 
e 
l’autonomia 
decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici, 
con 
particolare 
riferimento 
alle 
valutazioni 
e 
alle 
scelte 
per 
l’acquisizione 
e 
l’esecuzione 
delle 
prestazioni 
secondo il 
principio del 
risultato”. e 
dunque, in coerenza con la funzione 
interpretativa del 
principio in parola, sancita dall’art. 4 del 
codice 
(“le 
disposizioni 
del 
codice 
si 
interpretano e 
si 
applicano 
in base 
ai 
principi 
di 
cui 
agli 
articoli 
1, 2 e 
3”), non può che 
concludersi 
che 
ne 
esca rafforzata 
l’autonomia decisionale 
dell’ente 
in relazione 
all’esercizio del 
potere 
di 
esclusione 
per 
inaffidabilità 
dell’operatore 
economico, che 
è 
profilo che 
impinge 
proprio e 
direttamente 
nel 
rapporto di 
fiducia che 
deve 
necessariamente 
intercorrere 
tra stazione 
appaltante 
e 
appaltatore. la discrezionalità dell’amministrazione 
sotto 
questo 
profilo 
è 
dunque 
particolarmente 
pregnante, 
ravvisandosi, 
come 
visto, 
comunque 
i 
limiti 
per 
essa, oltre 
che 
nei 
principi 
generali 
di 
logicità e 
congruità, nelle 
declinazioni 
specifiche 
di 
cui 
al 
citato art. 98, che 
circoscrivono le 
fattispecie 
rilevanti 
di 
illecito professionale, i 
mezzi 
di 
prova 
adeguati 
e 
gli 
oneri 
motivazionali, con richiamo agli 
elementi 
specifici, cui 
è 
tenuta l’amministrazione. 
l’interpretazione 
ora esposta individua perciò, rispetto all’esclusione 
per 
grave 
illecito professionale 
ex 
artt. 95 e 
98 del 
codice, il 
corretto punto di 
caduta tra “il 
nuovo principio-guida della fiducia, introdotto 
dall’art. 2 del 
d.lgs. n. 36/2023, [che] 
porta invece 
a valorizzare 
l’autonomia decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici 
e 
afferma 
una 
regola 
chiara: 
ogni 
stazione 
appaltante 
ha 
la 
responsabilità 
delle 
gare 
e 
deve 
svolgerle 
non solo rispettando la legalità formale, ma tenendo sempre 
presente 
che 
ogni 
gara è 
funzionale 
a realizzare 
un’opera pubblica (o ad acquisire 
servizi 
e 
forniture) nel 
modo più rispondente 
agli 
interessi 
della collettività. Trattasi 
quindi 
di 
un principio che 
amplia i 
poteri 
valutativi 
e 
la discrezionalità della p.a., in chiave 
di 
funzionalizzazione 
verso il 
miglior 
risultato possibile” 
e 
la 
circostanza 
per 
cui 
“tale 
‘fiducia’, 
tuttavia, 
non 
può 
tradursi 
nella 
legittimazione 
di 
scelte 
discrezionali 
che 
tradiscono 
l’interesse 
pubblico 
sotteso 
ad 
una 
gara, 
le 
quali, 
invece, 
dovrebbero 
in 
ogni 
caso 
tendere 
al 
suo 
miglior 
soddisfacimento” 
(cfr. 
T.a.r. 
Sicilia, 
catania, 
Sez. 
iii, 
12 
dicembre 
2023, 
n. 
3738)” 


(T.A.R. Sardegna, Sez. I, 11 marzo 2024, n. 204). 



quale, anche 
a 
fronte 
di 
una 
sentenza 
di 
patteggiamento per i 
reati 
gravi 
contemplati 
dall’art. 94 (comma 
1), sarà 
chiamata 
a 
svolgere 
le 
opportune 
verifiche 
in 
ordine 
all’incidenza 
della 
stessa 
sull’affidabilità 
dell’operatore 
economico, dandone conto in motivazione. 


Così 
valutato 
il 
ruolo 
della 
sentenza 
di 
patteggiamento 
come 
“indice 
sintomatico” 
utilizzabile 
dalla 
stazione 
appaltante 
ai 
fini 
della 
valutazione 
del 
grave 
illecito 
professionale, 
si 
ritiene 
che 
tale 
ragionamento 
debba 
valere 
sia 
per 
le 
sentenze 
non 
irrevocabili 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta, 
espressamente 
menzionate 
dall’art. 
98, 
comma 
3, 
lett. 
g), 
sia 
per 
le 
sentenze 
irrevocabili 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta, 
pur 
nel 
silenzio 
della 
norma 
sul 
punto. 


Ciò in quanto, come 
visto, proprio al 
fine 
di 
coordinamento con la 
c.d. 
riforma 
Cartabia, nella 
versione 
definitiva 
del 
Codice 
è 
stato espunto il 
riferimento 
alle 
sentenze 
irrevocabili 
di 
patteggiamento 
per i 
reati 
(gravi) di 
cui 
all’art. 
94, 
comma 
1, 
come 
causa 
di 
esclusione 
automatica 
ex 
art. 
94, 
con 
la 
conseguenza 
che, 
allo 
stato, 
non 
appare 
logico 
ritenere 
che 
la 
stessa 
non 
possa 
rilevare 
più nemmeno come 
mezzo di 
prova 
adeguato per la 
valutazione 
del 
grave 
illecito 
professionale, 
facendo 
comunque 
l’art. 
98, 
comma 
3, 
lett. 
g) 
espresso riferimento alla 
sentenza non irrevocabile 
di patteggiamento. 


A 
favore 
di 
tale 
soluzione, seppure 
non supportata 
dal 
criterio letterale, 
militano sia 
il 
criterio teleologico 
che 
quello sistematico, non essendo ragionevole 
ritenere 
che 
il 
legislatore 
abbia 
voluto 
mantenere 
il 
riferimento 
alla 
sentenza 
non 
irrevocabile 
di 
patteggiamento 
per 
uno 
dei 
reati 
contemplati 
dall’art. 94, comma 
1, tra 
i 
mezzi 
di 
prova 
adeguati 
ai 
fini 
della 
valutazione 
del 
grave 
illecito 
professionale 
ex 
art. 
98, 
comma 
3, 
lett. 
g) 
escludendo, 
invece, 
la 
medesima 
rilevanza 
alla 
sentenza 
irrevocabile 
di 
patteggiamento, anche 
in 
conformità al principio 
plus semper in se continet quod est minus. 


Si 
ritiene, dunque, che 
la 
locuzione 
“sentenze 
non 
irrevocabili 
di 
applicazione 
della pena su richiesta” 
di 
cui 
all’art. 98, comma 
3, lett. g), debba 
essere 
interpretata 
nel 
senso 
che 
costituisce 
“mezzo 
di 
prova” 
adeguato 
del 
grave 
illecito 
professionale 
(in 
presenza 
di 
tutti 
gli 
altri 
presupposti 
sostanziali 
richiesti 
dall’art. 98, comma 
2) non solo la 
sentenza 
patteggiata 
non irrevocabile, 
ma 
anche 
quella 
irrevocabile, 
che 
comunque, 
a 
fortiori, 
costituisce 
“mezzo 
di 
prova” 
idoneo 
a 
dimostrare 
la 
sussistenza 
di 
un 
illecito 
professionale 
grave. 


Resta 
inteso che 
la 
soluzione 
sopra 
prospettata, che 
supera 
il 
tenore 
letterale 
dell’art. 98, comma 
3, lett. g) 
sebbene 
la 
materia 
risulti 
ispirata 
al 
principio 
di 
tassatività 
(10), non può escludere 
contenziosi 
dall’esito, comunque, 
non del 
tutto prevedibile, anche 
alla 
luce 
del 
fatto che, come 
rilevato già 
nel 
precedente 
parere, la 
problematica 
sottoposta 
riguarda 
una 
materia, quella 
del 


(10) l’art. 95, comma 
1, lett. e), del 
nuovo Codice 
precisa 
che 
“all’articolo 98 sono indicati, in 
modo tassativo, i gravi illeciti professionali, nonché 
i mezzi adeguati a dimostrare i medesimi 
”. 



“grave 
illecito 
professionale” 
quale 
fattispecie 
escludente 
nel 
settore 
delle 
gare 
pubbliche, che 
ha 
già 
generato nel 
passato un vasto contenzioso, sfociato in 
decisioni non sempre lineari e coerenti tra loro. 


Quanto, 
infine, 
alla 
rilevanza 
delle 
pene 
accessorie, 
richiamate 
da 
Consip 
nei 
quesiti 
sub 4) 
e 
5), alla 
luce 
della 
interpretazione 
accolta 
dell’articolo 98, 
comma 
3 e 
6, lett. g), secondo cui 
la 
sentenza di 
patteggiamento 
-sia 
revocabile 
che 
irrevocabile 
-costituisce 
adeguato mezzo di 
prova 
ai 
fini 
dell’esclusione 
non 
automatica 
ivi 
prevista, 
si 
ritiene 
che 
esuli 
dal 
presente 
parere 
la 
diversa 
tematica 
relativa 
alla 
incidenza 
delle 
pene 
accessorie 
che 
vengono in 
rilievo 
nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
(quale, 
ad 
esempio, 
l’incapacità 
di 
contrattare 
con la p.a.) quali fattispecie 
di per sé 
escludenti. 


*** 


In conclusione, alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sopraesposte, la 
Scrivente 
ritiene 
di 
rispondere 
ai 
quesiti 
posti 
da 
codesta 
Società 
nei 
termini 
di 
seguito 
indicati: 


-la sentenza irrevocabile 
e 
non irrevocabile 
di 
applicazione 
della pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 
dell’articolo 
444 
c.p.p. 
non 
costituisce 
causa 
di 
esclusione 
automatica dalla procedura di 
gara ai 
sensi 
dell’art. 94, comma 1, del 
d.lgs. 
n. 36/2023; 


-in risposta 
ai 
quesiti 
sub 2) 
e 
3): 
la sentenza irrevocabile 
e 
non irrevocabile 
di 
applicazione 
della pena su richiesta ai 
sensi 
dell’articolo 444 c.p.p. 
per 
uno dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 98, comma 3, lett. h) 
del 
d.lgs. n. 36/2023 
non 
costituisce 
adeguato mezzo di 
prova ai 
fini 
dell’esclusione 
(non automatica) 
ivi prevista; 
-in risposta 
ai 
quesiti 
sub 1) 
e 
4-5): 
la sentenza irrevocabile 
e 
non irrevocabile 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
ai 
sensi 
dell’articolo 
444 


c.p.p. per 
uno dei 
reati 
di 
cui 
all’articolo 98, comma 3, lett. g) 
del 
d.lgs. n. 
36/2023 costituisce 
adeguato mezzo di 
prova ai 
fini 
dell’esclusione 
(non automatica) 
ivi prevista. 


Nei 
termini 
suindicati 
è 
il 
parere 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale 
che 
resta 
a 
disposizione 
per ogni 
approfondimento o chiarimento dovesse 
rendersi 
ulteriormente 
necessario. 


Il 
presente 
parere 
è 
stato sottoposto all’esame 
del 
Comitato Consultivo 
che, nella seduta del 15 gennaio 2025, si è espresso in conformità. 


l’avvocato Generale 
aggiunto 


Marco Corsini 



LegisLAzioneedAttuALità
Processi al gruppo Al Qaeda di Roma: 
la Jihad mediatica vista da dentro 


Carlo Maria Pisana* 

Breviter. 
La 
complessità 
degli 
scenari 
internazionali 
odierni 
impone 
di 
non 
abbandonare 
la 
riflessione 
sul 
terrorismo 
di 
matrice 
religiosa, 
che 
ben 
potrà 
riaccendersi 
al 
cessare 
delle 
fasi 
di 
guerra 
tradizionale 
in 
essere 
(1). 
Particolarmente 
esposto 
è 
il 
nostro 
Paese, 
sia 
per 
la 
posizione 
geografica 
di 
ponte 
tra 
l’Europa 
e 
il 
quadrante 
MENA 
(Middle 
East 
and North Africa), sia 
perché 
la 
sua 
capitale 
ospita 
la 
sede 
della 
Cristianità 
dove 
avrà 
inizio a 
giorni 
la 
celebrazione 
del Giubileo (2). 


Il 
caso della 
cellula 
romana 
di 
Al 
Qaeda, articolatosi 
in vari 
processi, appare 
concluso con l’udienza 
dell’11 ottobre 
2024 in Corte 
di 
Assise 
di 
appello 
di 
roma. Le 
indagini 
dei 
ros, confermate 
dagli 
esiti 
dei 
dibattimenti, hanno 
portato alla 
luce 
una 
mole 
di 
materiale, che 
consente 
di 
conoscere 
in dettaglio 


(*) Avvocato dello Stato. 


L’Autore, 
avvocato 
dello 
Stato 
presso 
l’Avvocatura 
Generale, 
ha 
rappresentato 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
in 
tutti 
i 
processi 
relativi 
alla 
cellula 
romana 
di 
Al 
Qaeda. 
Nell’ambito 
di 
tali 
processi 
l’Avvocatura 
si 
è 
fatta 
latrice 
della 
esigenza 
di 
promuovere 
un 
mutamento 
della 
giurisprudenza 
atto 
ad 
includere 
i 
fenomeni 
della 
Jihad 
mediatica 
e 
della 
correlata 
azione 
dei 
c.d. 
“lupi 
solitari” 
nella 
fattispecie 
incriminatrice 
del 
reato 
di 
associazione 
per 
delinquere 
con 
finalità 
di 
terrorismo 
di 
cui 
all’art. 
270 
bis 
c.p. 
L’Autore ha partecipato a diverse conferenze sul tema del terrorismo islamico. 


(1) “Osservando con un’ottica di 
lunga durata la storia del 
terrorismo jihadista, queste 
fasi 
di 
apparente 
eclissi 
sono invece 
momenti 
di 
importante 
attivismo riorganizzativo spesso anticipatrici 
di 
eventi 
preoccupanti 
e 
crescita del 
livello della minaccia”, on. Andrea 
Manciulli 
nel 
convegno “La 
protezione 
delle infrastrutture critiche nel contesto geopolitico attuale” presso ENI il 12 novembre 2024. 


(2) EuroPEAN 
uNIoN 
TErrorISM 
SITuATIoN 
ANd 
TrENd 
rEPorT 
2023 
riferisce 
che 
su 28 aggressioni 
ricondotte 
a 
terrorismo 
islamico 
avvenute 
nell’unione 
nel 
corso 
del 
2022, 
ben 
25 
hanno 
avuto 
luogo in Italia. 



le 
dinamiche 
interne 
alle 
strutture 
operanti 
nella 
Jihad 
mediatica 
e 
da 
cui 
emerge 
conferma 
del 
passaggio da 
una 
strategia 
imperniata 
su attentati 
spettacolari 
a un’altra focalizzata sulla spettacolarizzazione degli attentati. 

Abstract. 
The 
complexity of today’s 
international 
scenarios 
requires 
that 
the 
reflection on religiously motivated terrorism 
is 
not 
to be 
abandoned, as 
it 
could well reignite once the phases of war on the ground are completed. 

The 
case 
of 
the 
roman 
cell 
of 
Al 
Qaeda, 
consisting 
of 
several 
trials, 
was 
concluded 
with 
the 
hearing 
on 
11 
october 
2024 
in 
the 
Corte 
d’Assise 
d’Appello. 


Investigations 
by 
roS, 
corroborated 
by 
the 
results 
of 
the 
hearings, 
have 
brought 
to 
light 
an 
impressive 
amount 
of 
material, 
that 
confirms 
the 
transition 
from 
a 
strategy 
based 
on 
spectacular 
attacks 
to 
another 
focused 
on 
making 
the 
attacks 
spectacular. 
A 
key 
in 
this 
context, 
is 
the 
role 
of 
the 
so-called 
Media 
Jihad. 


SOmmAriO: 1. introduzione 
-2. L’innesco delle 
indagini 
-3. il 
sito “Ashaq al 
hur” 
-4. 
Cenni 
sulla ideologia di 
Al 
Qaeda e 
sulla Jiahd mediatica -5. Organizzazione 
centrale 
della 
Jiahd mediatica -6. ruolo della Jihad mediatica e 
azione 
dei 
“lupi 
solitari” 
-7. rapporto 
tra organizzazione 
periferica e 
centrale 
della Jihad mediatica: la storia degli 
“Amanti 
delle 
Vergini” - 8. Conclusioni. 


1. introduzione. 


Con 
l’udienza 
dell’11 
ottobre 
2024 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
Assise 
di 
appello 
di 
roma, 
sembra 
chiudersi 
la 
vicenda 
giudiziaria 
riguardante 
la 
c.d. 
cellula 
romana 
di 
Al 
Qaeda, 
articolatasi 
in 
vari 
processi 
(3). 
I 
fatti 
destano 
allarme 
perché 
riferiti 
ad 
un’organizzazione 
presente 
nella 
capitale 
italiana 
affiliata 
ad 
Al 
Qaeda, che, fra 
febbraio 2009 e 
aprile 
2015, ha 
operato a 
roma, aggregandosi 
intorno a 
un sito internet 
denominato i7ur (in Arabo Ashaq al 
hur, cioè 
“amanti 
delle 
vergini”), il 
quale 
ha 
diffuso materiale 
inneggiante 
al 
martirio, 
al 
terrorismo, istruzioni 
su funzionamento di 
armi 
e 
preparazione 
di 
ordigni, 
indirizzi strategici, giustificazioni ideologiche. 

2. L’innesco delle indagini. 


Nell’ambito di 
un’operazione 
di 
intelligence 
avviata 
in Italia 
nel 
2009 fu 


(3) L’indagine 
unitaria 
ha 
dato luogo a 
due 
processi 
a 
seguito delle 
scelte 
operate 
dagli 
imputati 
in sede 
di 
udienza 
preliminare. L’imputato X 
ha 
optato per il 
rito abbreviato, beneficiando così 
della 
riduzione 
di 
pena 
prevista. 
Nei 
suoi 
confronti 
sono 
state 
pronunciate 
la 
sentenza 
di 
condanna 
n. 
3662/2016 
del 
Tribunale 
di 
roma, la 
n. 51/2017 della 
I Corte 
di 
assise 
di 
appello di 
roma, la 
n. 51218/2018 della 
Corte 
di 
Cassazione 
VI sez., la 
n. 42/2018 della 
II Corte 
di 
assise 
di 
appello e 
infine 
la 
n. 7808/2020 
della 
II sez. della 
Corte 
di 
Cassazione, che 
ha 
confermato la 
condanna 
pur riducendo la 
pena 
a 
4 anni 
e 
8 mesi di reclusione. 
Gli 
imputati 
Y 
e 
Z 
sono stati 
giudicati 
con rito ordinario e 
ritenuti 
colpevoli 
con sentenza 
della 
Corte 
di 
Assise 
III sez. n. 3/2021, n. 10/2022 della 
III Corte 
di 
assise 
di 
appello, n. 29602/2023 della 
Corte 
di 
Cassazione 
sez. III e 
infine 
con le 
nn. 6/2024 e 
11 ottobre 
2024 (motivazione 
in corso di 
deposito) della 
II Corte di assise di appello. 



individuato 
un 
sito, 
tale 
Jarchive 
(una 
sorta 
di 
Youtube 
del 
terrorismo 
islamista, 
hanno 
spiegato 
gli 
investigatori 
assunti 
a 
deporre) 
situato 
su 
un 
server 
ad 
Arezzo appartenente a una nota società italiana di servizi informatici. 


L’amministratore 
del 
sito 
era 
un 
giovane 
proveniente 
dagli 
EAu, 
studente 
in 
Australia. 
La 
polizia 
federale 
australiana 
avviò 
intercettazioni, 
venendo 
così 
a 
sapere 
che 
lo studente 
prendeva 
direttive 
dal 
forum 
Al 
Falluja, considerato 
di 
sicura 
matrice 
Jihadista 
(4). Tra 
i 
frequentatori 
di 
Jarchive, tra 
i 
quali 
sono 
stati 
anche 
individuati 
gli 
autori 
di 
atti 
di 
terrorismo, 
compariva 
con 
58 
accessi 
nel 
giro di 
circa 
un anno identificati 
da 
altrettanti 
I.P. (Internet 
Protocol: 
sull’identificazione 
a 
mezzo di 
protocollo informatico IP), una 
linea 
telefonica 
intestata 
a 
un cittadino tunisino residente 
in provincia 
di 
roma. Gli 
orari 
di 
frequentazione 
e 
il 
profilo dei 
componenti 
della 
famiglia 
consentirono di 
ricondurre 
le 
frequentazioni 
al 
figlio poco più che 
ventenne, poi 
imputato dei 
gravi fatti in oggetto. 

Questi 
è 
infatti 
risultato essere 
l’amministratore 
del 
sito “Ashaq al 
hur”, 
gli 
“amanti 
delle 
vergini”, 
nome 
evocativo 
del 
premio 
delle 
72 
vergini 
spettanti 
al 
martire. In seguito, il 
sito fu collegato ad un’utenza 
relativa 
a 
un’abitazione 
sita 
in un altro paese 
del 
Lazio, dove 
si 
era 
trasferito il 
giovane 
tunisino, confermando 
quindi 
la 
riconducibilità 
a 
lui 
solo dell’attività. Mezzi 
di 
indagine 
tradizionale 
hanno dimostrato che 
egli 
vi 
viveva 
sostanzialmente 
isolato dal 
mondo. 
L’abitazione 
era 
frequentata 
da 
un’unica 
persona: 
un 
cittadino 
marocchino 
un po’ 
più vecchio di 
lui, poi 
condannato per il 
medesimo reato associativo 
con 
sentenza 
ormai 
passata 
in 
giudicato. 
Attraverso 
l’istallazione 
di 
un 
“agente 
remoto” 
si 
sono 
potuti 
conoscere 
i 
contenuti 
delle 
comunicazioni 
svolte da parte del reo attraverso il pc. 

Il 
giovane 
tunisino, 
così 
come 
gli 
altri 
partecipi 
dello 
staff 
direttivo 
del 
sito, 
agiva 
sotto 
vari 
nickname, 
o 
meglio 
kunyia, 
nomi 
di 
battaglia, 
e 
ad 
uno 
di 
questi 
era 
associata 
una 
scheda 
profilo 
che 
lo 
definiva 
fondatore 
del 
sito. 
Egli 
si 
rapportava 
nelle 
comunicazioni 
con 
rappresentanti 
delle 
organizzazioni 
facenti 
capo 
ad 
Al 
Qaeda, 
qualificandosi 
come 
capo 
della 
struttura 
e 
gli 
altri 
membri 
dello 
staff 
direttivo 
si 
rivolgevano 
a 
lui 
con 
l’appellativo 
di 
“emiro”. 


3. il sito “Ashaq al hur”. 


Il 
sito “Gli 
amanti 
delle 
vergini” 
si 
presentava 
ben strutturato. Suddiviso 
in sezioni 
dedicate 
ai 
più disparati 
argomenti 
da 
“la famiglia mussulmana”a 
“tecnologia 
e 
tecnica”, 
“apologetica”, 
“Sharia 
e 
giurisprudenza 
islamica”, 
“news”e“risposte 
alle 
eresie”. Tali 
sezioni 
erano moderate 
da 
un gruppo, di 


(4) 
Lo 
studente 
emiratino 
fu 
arrestato 
a 
dubai, 
ma 
l’intervento 
repressivo 
di 
quel 
paese 
è 
consistito 
nella 
sottoposizione 
a 
un programma 
di 
deradicalizzazione, indizio della 
differente 
sensibilità 
di 
altri 
Stati al fenomeno del terrorismo a matrice religiosa. 



cui 
sono state 
identificati 
quattro componenti 
con ruolo direttivo (tre 
imputati 
e 
poi 
condannati 
-chiamati 
nel 
testo che 
segue 
X, Y 
e 
Z 
-e 
uno apparentemente 
deceduto in combattimento in Siria). I frequentatori 
erano centinaia 
dislocati 
in Italia e in varie parti del mondo. 


Emblematico della 
svolta 
di 
strategia 
globale 
(dalla 
organizzazione 
degli 
attentati 
spettacolari 
alla 
spettacolarizzazione 
di 
attentati 
minori) 
è 
il 
fatto 
che 
i 
rei, gestori 
del 
sito, non hanno mai 
direttamente 
realizzato, né 
progettato un 
attentato, né 
intrapreso atti 
finalizzati 
alla 
realizzazione 
di 
attentati. Tale 
peculiarità 
pone, 
in 
astratto, 
il 
problema 
di 
discernere 
tra 
una, 
sia 
pur 
sgradevole, 
manifestazione 
del 
pensiero, consentita 
e 
tutelata 
dal 
nostro ordinamento ed 
una 
attività 
terroristica 
(5). Se 
infatti 
la 
reazione 
repressiva 
si 
lasciasse 
condurre 
dal 
terrore 
e 
divenisse 
indiscriminata, 
l’obiettivo 
delle 
organizzazioni 
terroristiche sarebbe conseguito 
ipso facto. 

Nel 
presente 
caso, 
l’attività 
espletata 
consisteva 
nella 
pubblicazione 
di 
materiale 
ideologico 
e 
apologetico. 
Il 
materiale 
pubblicato 
e 
le 
chat 
dirette 
dai 
moderatori 
sul 
sito vertevano anche 
su temi 
molto più concreti, quali 
l’individuazione 
di 
obiettivi 
strategici, ivi 
compresa 
una 
lista 
di 
persone, tra 
cui 
l’allora 
presidente 
di 
Telecom, manuali 
di 
preparazione 
di 
ordigni 
e 
uso di 
armi, 
tecniche 
di 
realizzazione 
di 
attentati, tra 
i 
quali 
si 
è 
rinvenuta 
anche 
la 
descrizione 
delle 
modalità 
poi 
utilizzate 
per 
l’attentato 
realizzato 
a 
Nizza 
alcuni 
anni 
dopo (Promenade 
des 
Anglais, 14 luglio 2016, si 
precisa 
che 
l’attentato fu rivendicato 
dall’Isis e non da 
Al Qaeda). 


Per cogliere 
appieno il 
significato di 
tali, già 
gravi, condotte 
è 
necessario 
fare 
alcuni 
cenni 
alla 
ideologia 
qaedista 
e 
al 
ruolo della 
Jihad mediatica 
al 
suo 
interno. 


4. Cenni sulla ideologia di 
Al Qaeda e sulla Jiahd mediatica. 


Sulla 
strategia 
della 
Jihad 
mediatica 
si 
richiama 
la 
ricostruzione 
contenuta 
nella 
prima 
sentenza 
di 
merito 
resa 
sulla 
vicenda 
(Tribunale 
di 
roma 
GuP 
ufficio 
II, 24 novembre 2016, n. 3662) (6). 


(5) Problema 
su cui 
si 
è 
soffermato l’intervento di 
Ciro Sbailò nel 
convegno “La protezione 
delle 
infrastrutture critiche nel contesto geopolitico attuale” presso ENI il 12 novembre 2024. 
La 
elaborazione 
giurisprudenziale 
volta 
a 
individuare 
gli 
elementi 
per 
operare 
tale 
discernimento 
è 
stata 
compiuta 
proprio 
in 
questi 
processi, 
per 
effetto 
anche 
del 
contributo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
costituita 
parte 
civile, 
e 
ha 
trovato 
la 
sua 
prima 
illustrazione 
nella 
motivazione 
della 
sentenza 
n. 
51218/2018 
della 
Corte di Cassazione 
VI sez. 
(6) Si 
precisa 
che 
la 
sentenza 
Tribunale 
di 
roma 
GuP 
ufficio II, 24 novembre 
2016, n. 3662 è 
stata 
confermata 
dalla 
Corte 
di 
appello 
di 
assise 
I 
n. 
51/17, 
a 
sua 
volta 
annullata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
VI, sent. 51218/18, soltanto per deficit 
di 
motivazione 
sul 
rapporto biunivoco tra 
il 
sito Ashaq al 
Hur e 
l’organizzazione 
internazionale 
Al 
Qaeda, 
motivazione 
poi 
fornita 
da 
Corte 
di 
appello 
di 
assise 
n. 
42/2018, annullata 
parzialmente 
da 
Cass. II, 7808/20, che 
ha 
soltanto ritoccato il 
trattamento sanzionatorio. 
resta 
quindi 
valida 
la 
ricostruzione 
del 
quadro storico della 
attività 
di 
Al 
Qaeda 
contenuta 
nella 
sentenza di prime cure (pagg. 12-18). 



In 
sintesi, 
la 
ideologia 
di 
Al 
Qaeda 
si 
connette 
sul 
piano 
religioso 
alla 
dottrina 
wahabita, un orientamento fondamentalista 
sul 
piano religioso e 
dei 
rapporti 
familiari 
e 
sociali 
nato 
in 
ambito 
sunnita, 
che 
fin 
dalla 
fine 
del 
XVIII 
sec. 
ha 
assunto 
una 
connotazione 
politica, 
essendo 
alla 
base 
del 
lento 
processo 
di 
formazione 
dello 
Stato 
saudita 
e 
sostegno 
della 
monarchia 
di 
tale 
paese 
(7). 
Come 
è 
noto, le 
origini 
di 
Al 
Qaeda 
sul 
piano organizzativo vanno ricercate 
nella 
lotta 
contro l’invasione 
sovietica 
dell’Afganistan. In tale 
ambito lo sviluppo 
in 
chiave 
antioccidentale 
si 
forma 
nel 
corso 
degli 
anni 
‘90 
quale 
reazione 
all’operazione 
“Enduring freedom” 
in territorio afgano (8). Tale 
evoluzione 
è 
sugellata: 


-sul 
campo, 
da 
alcuni 
attentati 
spettacolari 
a 
fine 
anni 
’90 
(alle 
ambasciate 
americane 
in 
Kenya 
e 
Tanzania 
nel 
1998, 
all’incrociatore 
statunitense 
uSS 
Cole 
nello Yemen nel 
2000) e, ovviamente, da 
quello alle 
Torri 
Gemelle 
del 
2001; 


-sul 
piano dottrinale, dal 
documento programmatico diffuso nel 
1998 da 
osama 
Bin Laden e 
Ayman Al 
Zawahiri 
“Dichiarazione 
del 
fronte 
islamico 
mondiale per la jihad contro gli ebrei e i crociati”. 

In 
tale 
documento, 
distaccandosi 
dalla 
dottrina 
tradizionale 
sunnita, 
si 
afferma 
la 
legittimità 
della 
aggressione 
di 
civili 
anche 
in 
aree 
non 
di 
guerra, 
nonché 
dell’azione 
violenta 
di 
ogni 
mussulmano, 
a 
prescindere 
dalla 
posizione 
assunta dal governo del paese di appartenenza: 


“Chiamiamo, 
se 
Dio 
lo 
permette, 
ogni 
musulmano 
credente 
e 
desideroso 
di 
essere 
ricompensato da Lui 
a ottemperare 
all’ordine 
di 
Dio di 
uccidere 
gli 
americani 
e 
saccheggiare 
i 
loro beni, ovunque 
si 
trovino e 
in ogni 
momento”. 

Il 
fondamento religioso di 
tale 
tesi 
viene 
individuato nel 
verso 60 della 
sura 
al-Anfal, che 
ordina 
ai 
musulmani 
di 
“prepararsi 
a incutere 
terrore 
nei 
nemici 
di 
Dio” 
(9), e 
riconoscerebbe 
come 
“martirio” 
il 
suicidio realizzato in 
esecuzione 
di 
attentati. 
Esso 
sarebbe 
infatti 
compiuto 
per 
la 
jihad, 
cioè 
nel-
l’ambito dello sforzo, dovuto da 
ogni 
musulmano, per rendere 
la 
realtà, prima 
individuale e poi sociale, conforme all’Islam. 


Nei 
primi 
anni 
di 
questo 
secolo 
si 
assiste 
ad 
una 
evoluzione 
della 
modalità 
operativa di 
Al Qaeda. 
dagli 
attentati 
organizzati 
a 
partire 
da 
territori 
islamici, sia 
diretti 
negli 


(7) Sull’influenza 
della 
dottrina 
radicale 
religiosa 
wahabita 
sulla 
formazione 
dello stato saudita: 
amb. EuGENIo 
d’AurIA 
“Veli 
d’Arabia. il 
regno saudita tra stereotipi 
e 
realtà”, ed. università 
Bocconi 
2015, cap. II. 
(8) Pag. 11 sent. Cass. II 7808/20 nel 
riportare 
il 
contenuto della 
motivazione 
della 
sent. n. 42/18 
del 6 marzo 2019 della Corte di assise di appello di roma quale giudice del rinvio. 


(9) 
Sura 
al-Anfal 
(Il 
bottino): 
“60. 
Preparate, 
contro 
di 
loro, 
tutte 
le 
forze 
che 
potrete 
[raccogliere] 
e 
i 
cavalli 
addestrati 
per 
terrorizzare 
il 
nemico di 
Allah e 
il 
vostro [28] 
e 
altri 
ancora che 
voi 
non conoscete, 
ma che 
Allah conosce 
[29]. Tutto quello che 
spenderete 
per 
la causa di 
Allah vi 
sarà restituito 
e non sarete danneggiati”, da 
sufi.it. 



stessi, sia 
in paesi 
occidentali, si 
passa 
alla 
dottrina 
strategica, oggi 
superata, 
delle 
c.d. 
“cellule 
dormienti”. 
Questa 
trova 
alimento 
nella 
radicalizzazione 
dei 
musulmani 
residenti 
in Europa, ed in primis 
i 
c.d. emigrati 
di 
seconda 
generazione, 
sino 
ad 
indurli 
ad 
abbracciare 
l’ideologia 
radicale 
e 
a 
fare 
ricorso 
alla 
violenza. 
Va 
sottolineato 
che 
tale 
modalità 
operativa 
escludeva 
un 
diretto 
contatto 
con la struttura centrale (c.d. jihad individuale o jihad senza leader). 

Sul 
campo, il 
culmine 
di 
questo modello organizzativo viene 
considerato 
la 
realizzazione 
degli 
attentati 
di 
Londra 
del 
7 luglio 2005 e 
della 
metropolitana 
di Madrid del 11 marzo 2004. 


Sul 
piano 
dottrinale, 
testimonia 
tale 
fase 
storica 
la 
diffusione 
di 
un 
articolo 
di 
Abu Abdullah Al 
Najdi, membro di 
Al-Qaeda 
in Arabia 
Saudita 
e 
responsabile 
della 
sezione 
mediatica 
dell’organizzazione: 
“molti 
giovani 
disoccupati 
ed 
oziosi 
sono 
stati 
motivati 
ad 
unirsi 
alla 
jihad 
da 
una 
foto 
o 
un 
video 
… 
Chiunque 
ascolti 
gli 
appelli 
di 
Osama Bin Laden sente 
nelle 
sue 
parole 
l’importanza 
dell’indottrinamento 
dei 
sostenitori 
della 
corrente 
jihadista 
... 
lo 
sceicco, penso, potrebbe 
dirigere 
i 
mujahidin attraverso dei 
messaggi 
segreti 
personali. Comunque, lui 
ha voluto che 
l’indottrinamento fosse 
pubblico perché 
la gente 
che 
aspetta i 
suoi 
appelli 
sui 
canali 
internet, possa fare 
propri 
i 
suoi obiettivi e seguirli”. 


Nella 
seconda 
metà 
del 
primo decennio del 
secolo, inizia 
una 
riflessione 
che 
porta 
ad 
un 
ulteriore 
mutamento 
strategico: 
il 
passaggio 
dalla 
strategia 
delle 
cellule 
dormienti 
a 
quella 
della 
Jiahd mediatica 
/ 
“lupi 
solitari”. Preme 
all’autore 
evidenziare 
che 
la 
strategia 
è 
unitaria. 
Non 
si 
deve 
immaginare 
come 
elementi 
distinti: 
da 
una 
parte 
una 
azione 
propagandistica, che 
-salvo commissione 
di 
specifici 
reati 
-possa 
considerarsi 
esercizio della 
libertà 
di 
manifestazione 
del 
pensiero, 
e 
dall’altra 
l’azione 
di 
invasati 
che 
commettono 
inconsulti 
gesti 
di 
violenza. La 
azione 
mediatica 
è 
funzionale 
alle 
azioni 
individuali 
violente. 
La 
sua 
funzione 
precipua 
è 
proprio 
quella 
di 
determinare, 
guidare e poi enfatizzare l’azione violenta individuale. 

Non 
è 
necessario 
ricostruire 
in 
via 
indiziaria 
il 
passaggio 
alla 
modalità 
organizzativa 
della 
Jihad 
mediatica: 
sono 
le 
stesse 
fonti 
di 
Al 
Qaeda 
a 
riferirlo. 


Viene 
considerato espressivo del 
punto di 
svolta 
il 
documento video del 
dicembre 
2006 del 
leader dell’organizzazione 
Ayman Al 
Zawahiri 
in cui 
afferma 
“chiedo 
ad 
Allah 
di 
fare 
degli 
uomini 
della 
jihad 
mediatica 
lo 
strumento 
della disseminazione 
del 
messaggio dell’islam 
al 
mondo intero”. Non si 
riferisce 
a 
un 
messaggio 
religioso, 
come 
fatto 
chiaro 
dalla 
diffusione 
di 
altri 
coevi 
testi di altri autori quali “44 modi per sostenere la Jihad”. 

In 
tale 
quadro 
assume 
rilievo 
storico 
la 
pubblicazione 
della 
rivista 
inspire 
in lingua 
inglese 
avvenuta 
tra 
il 
2010 e 
il 
2013 contenente 
non soltanto indottrinamento 
politico 
e 
religioso, 
ma 
elenchi 
di 
obiettivi 
e 
concrete 
istruzioni 
per 
la 
loro 
realizzazione. 
Alcuni 
numeri 
di 
tale 
rivista 
sono 
stati 
pubblicati 
anche 
sul 
sito di 
nostro interesse 
e 
il 
metodo di 
individuazione 
di 
persone 
oc



cidentali 
da 
uccidere 
proposto sul 
sito in parola 
è 
stato mutuato dalla 
predetta 
rivista. 


Nella 
strategia 
di 
Al 
Qaeda 
si 
passa 
quindi 
dalla 
costosa 
organizzazione 
di 
grandi 
attentati 
in proprio, a 
quella 
basata 
su cellule 
dormienti, e 
infine 
alla 
Jihad mediatica 
/ 
lupi 
solitari. La 
attività 
mediatica 
si 
pone 
in definitiva 
come 
catena 
di 
trasmissione 
indefettibile 
tra 
la 
testa 
dell’organizzazione 
e 
l’azione 
sul 
campo. In un convegno di 
qualche 
anno fa 
(10), che 
ha 
fatto il 
punto della 
situazione 
in 
materia, 
è 
stato 
posto 
in 
evidenza 
il 
passaggio 
storico, 
dovuto 
anche 
a 
cause 
di 
ordine 
economico, dalla 
produzione 
di 
attentati 
spettacolari 
alla spettacolarizzazione di attentati minori. 


5. Organizzazione centrale della Jiahd mediatica. 


I 
processi 
sulla 
cellula 
romana 
di 
Al 
Qaeda 
hanno 
fotografato 
l’imponente 
apparato organizzativo esistente 
nella 
prima 
metà 
dello scorso decennio a 
sostegno 
dei 
siti 
apparentemente 
innocui 
presenti 
in varie 
città 
dei 
paesi 
europei. 


Innanzitutto, occorre 
distinguere 
tra 
la 
produzione 
e 
la 
distribuzione 
dei 
materiali 
propagandistici 
o funzionali 
alla 
attività 
di 
Jihad mediatica. Le 
due 
funzioni sono affidate a organizzazioni diverse. 

La 
fase 
di 
produzione 
è 
svolta 
in house 
da 
Al 
Qaeda 
o dalle 
sue 
emanazioni 
regionali 
o organizzazioni 
alleate. Per Al 
Qaeda 
“internazionale” 
provvede 
la propria sezione mediatica, As-Sahab. 


Le 
quattro 
articolazioni 
regionali 
di 
Al 
Qaeda 
(AQAP 
per 
la 
penisola 
arabica; 
AQI 
per 
l’Iraq, 
poi 
denominata 
Stato 
Islamico 
dell’Iraq 
(11); 
AQuIM 
per 
i 
paesi 
del 
Maghreb; 
infine 
As-Shabaab 
somala) 
provvedono 
da 
sé 
alla 
produzione, così 
come 
i 
numerosi 
gruppi 
alleati 
sparsi 
per il 
mondo (Therik 
Taliban 
Pakistan; 
Partito 
Islamico 
del 
Turkestan 
che 
raggruppa 
gli 
ughuri 


(10) 
Struttura 
territoriale 
di 
formazione 
decentrata 
-Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, 
1-3 
marzo 
2017: 
“il 
terrorismo 
internazionale: 
strumenti 
di 
conoscenza 
e 
di 
contrasto”, 
registrazione 
su 
radio 
radicale, in particolare 
il 
mio intervento critico sull’utilità 
dei 
mezzi 
di 
prevenzione 
di 
tipo economico 
a fronte di un nuovo terrorismo “a buon mercato”. 
(11) Al 
Qaeda 
Iraq, pur avendo mantenuto il 
nome 
attribuitole 
da 
Al 
Zarqawi, ha 
avuto per brevissimo 
tempo un controllo di 
territorio a 
causa 
della 
opposizione 
degli 
altri 
movimenti 
armati 
sunniti 
all’epoca 
presenti 
in 
Iraq, 
che 
tentava 
forzatamente 
di 
unificare 
sotto 
la 
propria 
leadership. 
Lo 
Stato 
Islamico, ISIS 
o secondo l’acronimo in Arabo daesh, è 
invece 
entità 
del 
tutto diversa, sorta 
nel 
2013 
nell’ambito della 
guerra 
civile 
siriana, rispondente 
a 
finalità 
diverse 
e 
talvolta 
concorrenziali 
con quelle 
di 
Al 
Qaeda, sebbene 
l’origine 
sia 
fatta 
risalire 
alla 
formazione 
di 
Al 
Zarqawi. Secondo una 
semplificazione, 
efficace 
sul 
piano descrittivo, fatta 
da 
ugo Gaudino basandosi 
sui 
concetti 
de 
“La Teoria del 
partigiano” 
di 
Carl 
Shmitt, 
Al 
Qaeda 
risponderebbe 
alla 
nozione 
di 
“partigiani 
globali”, 
la 
seconda 
a 
quella 
di “partigiani territoriali”, “Terrore e territorio nel Jihadismo del XXi secolo”, Gnosis 
3/2021. 
Invero, la 
concorrenza 
tra 
le 
due 
organizzazioni 
si 
direbbe 
oggi 
attenuata. EuroPEAN 
uNIoN 
TErrorISM 
SITuATIoN 
ANd 
TrENd 
rEPorT 
2023 
riferisce 
che 
molti 
sequestri 
di 
materiale 
propagandistico compiuti 
nel 
corso del 
2022 hanno riscontrato la 
distribuzione 
da 
parte 
degli 
stessi 
soggetti 
di 
materiale 
prodotto 
da entrambe le organizzazioni. 



mussulmani 
in 
lotta 
contro 
la 
Cina 
laica; 
Movimento 
islamico 
dell’uzbekistan) 


(12)(13). Le 
produzioni 
delle 
articolazioni 
regionali 
e 
dei 
gruppi 
alleati 
sono 
sottoposte 
a 
validazione 
per garantirne 
la 
autenticità. Tale 
validazione 
si 
manifesta 
mediante la pubblicazione nei tre siti divulgativi. 


La distribuzione è articolata in due livelli. 


Al 
primo attendono le 
due 
organizzazioni 
GIMF, Global 
Islamic 
Media 
Front, e 
Al-Fajr Media 
Center, le 
quali 
sono munite 
della 
competenza 
tecnica 
per garantire 
la 
autenticità 
dei 
contenuti 
e 
la 
sicurezza 
delle 
comunicazioni 
a 
fronte 
della 
minaccia 
di 
inoculazione 
di 
virus 
informatici 
(14). I video distribuiti 
indicano in coda tali fonti. 

Al 
secondo livello si 
pongono i 
tre 
grandi 
siti 
divulgativi 
Jahidisti, As-
Shummukh, Al-Fidaa, As-Ansar, i 
quali 
provvedono a 
mettere 
a 
disposizione 
di 
soggetti 
accreditati 
il 
materiale 
pubblicato nei 
due 
siti 
maggiori, che 
ne 
garantiscono 
sicurezza 
e 
provenienza. A 
queste 
riserve 
attingono poi 
i 
numerosi 
siti sparsi nel mondo ripetendo e amplificandone i contenuti. 


Nel 
corso 
del 
processo 
con 
rito 
ordinario, 
svoltosi 
nei 
confronti 
di 
due 
dei 
rei, 
la 
deposizione 
di 
uno 
degli 
investigatori 
ha 
schematizzato 
l’attività 
predetta in quattro fasi: 


1. 
Filmato 
e 
registrazione 
in 
cui 
possono 
anche 
comparire 
personalmente 
i 
vertici 
o gli 
autori 
di 
attentati 
o l’esecuzione 
di 
atti 
di 
violenza, ed elaborazione, 
prevalentemente da parte della struttura denominata 
Al Fajr; 
2. distribuzione 
nei 
siti 
“ufficiali” 
da 
parte 
di 
Al 
Fajr o del 
GIMF 
(global 
islamic media front); 
3. Moltiplicazione, riproduzione 
in migliaia 
di 
esemplari 
da 
parte 
dei 
gestori 
di 
altri 
siti, che 
in quanto accreditati, accedono ai 
siti 
ufficiali 
e 
inseriscono 
il post nel proprio sito; 
4. Fruizione, in poche 
ore 
il 
documento viene 
visitato e 
inserito in profili 
facebook e youtube. 


6. ruolo della Jihad mediatica e azione dei “lupi solitari”. 


Il 
caso di 
Ashaq al 
hur non è 
isolato, ma 
si 
inserisce 
in una 
ampia 
strate


(12) 
Si 
tratta 
di 
sigle 
inserite 
nell’elenco 
degli 
individui 
ed 
enti 
riconducibili 
a 
Al 
Qaeda 
approvato 
dal 
Comitato istituito dalla 
risoluzione 
1267/99 dell’onu per il 
congelamento dei 
fondi 
dei 
Talebani, la 
cui competenza è stata poi estesa con ris. 1373/2001 ad Al Qaeda. 
(13) 
Sul 
sito 
della 
cellula 
romana 
su 
236 
documenti 
“postati” 
sul 
forum 
da 
gennaio 
2011 
a 
febbraio 
2013, ben 231 erano riconducibili 
ad Al 
Qaeda 
ed organizzazioni 
affiliate 
o alleate. Precisamente 
ben 
182 risultano prodotti 
dalle 
4 organizzazioni 
costituenti 
il 
nucleo di 
Al 
Qaeda. Gli 
altri 
documenti 
provengono 
da 
organizzazioni 
affiliate 
o alleate, tra 
cui 
Therik Taliban Pakistan, il 
partito islamico del 
Turkestan, 
Al 
Ansar-curda, Jabhat al Nusra, in cui militava uno degli organizzatori del sito. 
(14) 
Le 
risultanze 
del 
processo 
hanno 
consentito 
di 
conoscere 
il 
funzionamento 
pratico 
di 
tale 
meccanismo. Il 
giovane 
fondatore 
di 
Ashaq al 
ur era 
stato aspramente 
criticato e 
escluso dal 
GIMF 
a 
causa 
della 
imprudente 
condotta 
riguardo 
la 
sicurezza 
informatica 
e 
dovrà 
tribolare 
e 
ottenere 
raccomandazioni 
autorevoli per potersi nuovamente accreditare. 



gia. Molti 
commentatori 
hanno sottolineato il 
passaggio da 
“l’attentato spettacolo”, 
di 
cui 
è 
esempio insuperato quello alle 
Torri 
Gemelle, a 
“la spettacolarizzazione 
dell’attentato”, ossia 
alla 
promozione 
mediatica 
di 
attentati 
che 
non hanno in sé nulla di spettacolare. 

La 
ragione 
è 
semplice: 
i 
primi 
costano 
molto 
e 
richiedono 
una 
complessa 
organizzazione 
e 
l’intervento diretto alle 
associazioni 
terroristiche; 
i 
secondi 
costano pochissimo, non richiedono complessa 
organizzazione, sono “esternalizzati” 
a 
soggetti 
che 
possono anche 
non avere 
alcun contatto diretto con 
l’associazione. 


ora, 
i 
siti 
jihadisti 
costituiscono 
l’anello 
che 
si 
pone 
tra 
l’associazione 
internazionale 
e 
i 
singoli 
che 
prenderanno le 
iniziative. Il 
collegamento opera 
a 
monte e a valle dell’azione individuale. 


A monte possono distinguersi astrattamente tre livelli di intervento: 


-motivazionale, 
determinando 
la 
c.d. 
“radicalizzazione” 
di 
individui 
originari 
di 
paesi 
di 
religione 
islamica 
più 
fragili 
o 
meno 
inseriti 
nelle 
società 
europee, 
in cui vivono; 


-strategico, 
offrendo 
la 
visione 
complessiva 
della 
azione 
sul 
piano 
globale 
della organizzazione terroristica, a cui va a saldarsi il contributo individuale; 


-tattico, 
mettendo 
a 
disposizione 
precise 
informazioni 
esecutive, 
afferenti 
alla 
fabbricazione 
di 
ordigni, 
alle 
persone, 
eventi 
o 
strutture 
da 
prendere 
di 
mira, all’uso di mezzi comuni come armi improprie, ecc. 


A 
valle, si 
realizza 
l’obiettivo più importante 
della 
Jihad mediatica, che 
consiste 
nella 
spettacolarizzazione 
di 
attentati 
compiuti 
in 
qualunque 
parte 
del 
mondo. L’azione 
del 
singolo sito si 
unisce 
così 
a 
quella 
di 
siti 
consimili 
sparsi 
in altri paesi europei, amplificando la portata dei fatti commessi. 

Nel 
caso in esame 
i 
rei 
hanno dimostrato piena 
coscienza 
di 
svolgere 
tale 
ruolo di raccordo. 

Per 
quanto 
attiene 
all’azione 
a 
monte, 
uno 
di 
essi 
ebbe 
infatti 
a 
pubblicare 
un 
articolato 
scritto 
che 
contiene 
un 
paragrafo 
intitolato 
“raccomandazioni 
ai 
lupi 
solitari”, 
in 
cui 
elenca 
in 
nove 
punti 
gli 
essenziali 
consigli 
“per 
quelli 
che 
fanno jihad da soli”, un altro paragrafo è 
dedicato a 
“La Guerra sul 
terreno”, 
in cui 
si 
consiglia 
l’uso di 
silenziatori 
e 
di 
approfittare 
della 
libertà 
di 
movimento 
dei 
paesi 
democratici, 
dove 
si 
può 
incontrare 
e 
uccidere 
un 
giudice 
della 
corte suprema o un ministro mentre fa la spesa (15). 

Per 
quanto 
attiene 
alla 
azione 
a 
valle, 
il 
sito 
i7hur 
compie 
nel 
2012 
l’esaltazione 
dell’attentato di 
Tolosa 
ad opera 
di 
Mohammed Merah e 
di 
quello al 
periodico “Charlie Hebdo” di Parigi del 2015. 


I “lupi 
solitari” 
dunque 
sono tutt’altro che 
solitari, ma 
trovano alimento 
e 
appoggio nei 
gruppi 
formati 
intorno ai 
siti 
estremisti 
sparsi 
nei 
paesi 
occidentali 
e 
realizzano 
il 
proprio 
scopo 
di 
disseminazione 
del 
terrore 
proprio 
gra


(15) Post 23 marzo 2012 sul sito Ashaq al ur. 



zie 
all’azione 
di 
questi. 
Spingendoci 
a 
un 
paradosso: 
l’attentato 
potrebbe 
anche 
non essere compiuto, ciò che conta è diffonderne le immagini. 


7. 
rapporto 
tra 
organizzazione 
periferica 
e 
centrale 
della 
Jihad 
mediatica: 
la storia degli “Amanti delle Vergini”. 


un notevole 
contributo alla 
conoscenza 
dell’organizzazione 
viene 
dalla 
analisi 
dei 
rapporti 
tra 
i7hur e 
la 
articolata 
struttura 
centrale 
della 
diffusione 
mediatica. 
Tale 
conoscenza 
è 
essenziale 
in 
quanto 
l’applicazione 
degli 
schemi 
normativi 
non accompagnata 
dalla 
comprensione 
piena 
dei 
fatti 
può portare 
a 
risultati aberranti. 


La 
parabola 
del 
sito Ashaq al 
hur parte 
da 
un momento particolarmente 
critico. 
Nel 
2007 
il 
GIMF 
aveva 
distribuito 
“Arsar 
al 
Mujahidin”, 
un 
programma 
di 
cifratura 
e 
compressione 
di 
testi 
volto a 
realizzare 
l’obiettivo, perseguito 
in 
modo 
prioritario 
nella 
Jihad 
mediatica, 
della 
sicurezza 
delle 
comunicazioni 
(16). 
una 
copia 
di 
tale 
programma 
infettata 
da 
un 
trojan 
era 
stata 
rinvenuta 
sul 
sito 
romano 
a 
seguito 
dei 
controlli 
della 
organizzazione 
centrale 
predetta. 
dopo 
un 
contraddittorio 
con 
un 
membro 
del 
GIMF 
delegato 
a 
trattare 
l’affare, 
il 
sito 
pubblica 
il 
15 
dicembre 
2011 
un 
invito 
a 
non 
scaricare 
il programma da 
Ashaq al hur. Per il sito romano è una condanna a morte. 

Il 
suo 
leader, 
Y, 
si 
prodiga 
con 
molti 
altri 
messaggi, 
dichiarandosi 
affranto 
e 
giunge 
a 
fabbricare 
un 
falso 
video 
per 
dimostrare 
la 
propria 
innocenza, 
senza 
ottenere 
riscontro. È 
soltanto grazie 
alla 
“raccomandazione” 
che 
Y 
riesce 
a 
risalire 
la china (17). 

Si 
riscontrano scambi 
di 
corrispondenza 
con tale 
A.K., moderatore 
di 
Al 
Shumukh, 
uno 
dei 
grandi 
contenitori 
di 
divulgazione 
di 
Al 
Qaeda. 
Y 
si 
rivolge 
con 
toni 
confidenziali, 
seppure 
di 
rispetto, 
che 
indicano 
una 
conoscenza 
diretta 
pregressa. Infine, rampognato il 
giovane 
Y, A.K. intercede 
presso Abu Ayman 
(18), amministratore di 
Al Shumukh, e fa confermare la fiducia a 
Y. 


Tale 
accreditamento, 
tazkya, 
porta 
Ashaq 
al 
hur 
a 
un 
livello 
di 
inserimento 
ben superiore nella galassia dei siti di divulgazione. 


Molto 
rapidamente 
il 
sito 
vola. 
L’instancabile 
Y 
riesce 
a 
entrare 
in 
contatto 
con 
un 
noto 
predicatore 
marocchino, 
omar 
Al 
Haddouchi, 
già 
condannato 
nel 
suo 
paese 
per 
concorso 
morale 
nell’attentato 
di 
Casablanca 
del 
2003 
(19). 
Tale 
contatto 
è 
di 
particolare 
importanza 
in 
quanto 
in 
Al 
Qaeda, 
accanto 
a 
leader 
politici 
di 
grande 
statura, 
non 
hanno 
trovato 
posto 
leader 
religiosi 
di 
altrettanto 


(16) 
Arsar 
al 
Mujahidin 
forniva 
chiavi 
simmetriche 
(256 
bit) 
e 
asimmetriche 
(2048 
bit) 
di 
cifratura, 
nonché strumenti di compressione dei testi. 
(17) Si direbbe proprio che “tutto il mondo è paese”. 


(18) L’uomo a 
cui 
corrisponde 
il 
nome 
di 
battaglia 
Abu Ayman è 
un cittadino tunisino residente 
in Francia e ivi arrestato per terrorismo il 15 luglio 2012. 
(19) Il 
16 maggio 2003 dodici 
attentatori 
si 
fecero esplodere 
in vari 
punti 
della 
città, tra 
cui 
il 
ristorante 
italiano “Positano”, uccidendo 33 persone e ferendone oltre 100. 



peso. 
Tale 
carenza 
è 
percepita 
come 
grave 
dagli 
organizzatori 
di 
vario 
livello 
in 
quanto 
soltanto 
da 
studiosi 
di 
materia 
religiosa 
può 
provenire 
la 
necessaria 
giustificazione 
teologica 
di 
una 
dottrina, 
che 
si 
discosta 
dall’Islam 
ortodosso, 
specie 
sul 
piano 
della 
giustificazione 
della 
aggressione 
di 
civili 
e 
del 
contrasto 
ai 
governanti 
dei 
paesi 
mussulmani. 
L’importante 
contatto 
(nel 
sito 
giustificato 
in 
modo 
poco 
credibile) 
porta 
Y 
a 
creare 
una 
rubrica 
dedicata 
alla 
predicazione 
di 
Haddouchi, 
Al 
daraghem 
Studio, 
il 
cui 
link 
viene 
disseminato 
in 
altri 
siti 
divulgativi 
islamici, 
fornendo 
visibilità 
anche 
a 
i7hur. 
Il 
fatto 
attira 
l’attenzione 
dei 
grandi 
siti 
divulgativi 
Al 
Ansar 
e 
Al 
Shumukh, 
in 
cui 
dopo 
una 
trattativa 
viene 
inserito 
il 
materiale 
della 
rubrica 
Al 
daraghem, 
con 
il 
proprio 
marchio, 
contenente 
i 
video 
della 
predicazione. 
È 
il 
massimo 
successo 
di 
Y. 


da 
tale 
spaccato 
della 
vita 
interna 
della 
Jihad 
mediatica 
emerge 
un 
quadro 
diverso dalla 
percezione 
comune 
del 
fenomeno riscontrabile 
sulla 
stampa 
occidentale. 
Non abbiamo di 
fronte 
un monolite, ma 
una 
struttura 
centrale, articolata 
in 
produzione, 
autenticazione 
e 
diffusione. 
I 
tre 
siti 
divulgativi 
sono 
protetti 
da 
meccanismi 
di 
semplice 
accreditamento, Al 
Ansar, o di 
accreditamento 
unito a presentazione, gli altri due. 

A 
fronte 
di 
questa 
struttura 
centrale, vi 
è 
una 
galassia 
di 
piccoli 
siti 
in sostanziale 
concorrenza, 
non 
sempre 
gestiti 
da 
personale 
avveduto. 
Infatti, 
il 
protagonista 
Y 
incorre 
nell’errore 
di 
pubblicare 
un 
programma 
infetto, 
incappando 
nelle 
ire 
del 
GIMF. 
L’acquisizione 
della 
“fiducia”, 
tazkya, 
apre 
le 
porte 
all’accesso 
a 
livelli 
superiori 
di 
integrazione 
con 
la 
struttura 
centrale. 
Tale 
passaggio 
può determinarsi 
non per meriti 
particolari 
o superamento di 
prove 
di 
appartenenza, 
ma 
anche 
con una 
buona 
raccomandazione 
di 
un componente 
autorevole 
delle strutture centrali. 


Si 
tratta 
pertanto 
di 
strutture 
meno 
disciplinate 
delle 
organizzazioni 
eversive 
con cui 
il 
nostro ordinamento si 
è 
confrontato negli 
anni 
di 
piombo e 
pertanto 
meno 
difficilmente 
permeabili 
alla 
infiltrazione 
personale 
e 
informatica. 
Tali 
operazioni 
richiedono però una 
conoscenza 
puntuale 
e 
aggiornata 
delle 
strutture, dei 
loro meccanismi 
effettivi 
di 
funzionamento, dell’apparato ideologico 
e persino rituale. 


8. Conclusioni. 


Il 
quadro di 
insieme 
emerso dai 
processi 
afferenti 
al 
sito Ashaq al 
ur affiliato 
ad 
Al 
Qaeda 
pone 
in 
luce 
la 
strategia 
terroristica 
attuale 
nel 
secondo 
decennio 
del 
secolo. 
risulta 
imperniata 
sui 
due 
poli 
complementari 
della 
Jhiad 
mediatica 
e 
dei 
c.d. “lupi 
solitari”. L’azione 
di 
questi 
ultimi 
si 
innesta 
su una 
rete 
di 
appoggio costituita 
da 
siti 
internet, che 
lungi 
dall’esprimere 
semplicemente 
opinioni 
dissidenti 
rispetto 
alla 
politica 
e 
società 
odierne, 
agiscono 
a 
monte 
e 
a 
valle 
dell’atto violento. Forniscono prima 
motivazione 
ideologica, 
visione 
strategica 
e 
suggerimenti 
tattici 
per “chi 
vuol 
fare 
da solo”; 
poi 
amplificazione 
mediatica del fatto. 



Sono 
proprio 
tali 
siti, 
infatti, 
a 
contribuire 
ognuno 
per 
sua 
parte 
allo 
scopo 
comune 
della 
proliferazione 
del 
messaggio che 
attinge 
così 
lo scopo ultimo 
dell’operazione 
terroristica: 
ossia 
lo spargimento del 
terrore. La 
rappresentazione 
del 
terrore, quasi 
più importante 
dell’azione 
in sé, necessita 
di 
un “palcoscenico”, 
secondo 
alcuni 
commentatori 
costituito 
necessariamente 
dal 
Vecchio Continente (20). 


Ciò impone due considerazioni. 

In primo luogo, tali 
realtà 
non possono essere 
sottovalutate 
e 
rappresentate 
come 
meri 
siti 
di 
opinione, recanti 
la 
manifestazione 
di 
un’opinione 
politica 
diversa. In secondo luogo, soltanto la 
conoscenza 
delle 
strutture, dei 
loro 
meccanismi 
effettivi 
di 
funzionamento, dell’apparato ideologico può consentire 
il 
discernimento tra 
ciò che 
è 
manifestazione 
del 
pensiero, tutelato dal 
nostro 
ordinamento e, mi 
si 
perdoni 
l’enfasi, essenza 
della 
nostra 
Civiltà, e 
ciò 
che 
è 
articolazione 
di 
una 
associazione 
per 
delinquere 
con 
finalità 
di 
terrorismo 
operante su scala globale. 


(20) “il 
terrorismo, che 
dopo l’avvento del 
Jihad mediatico ha bisogno di 
un palcoscenico per 
funzionare 
al 
meglio, può trovare 
questa dimensione 
soltanto in Europa. Perché 
il 
Vecchio Continente 
è 
il 
luogo nel 
quale 
oggi 
passano tutte 
quelle 
contraddizioni, che 
contribuiscono ad amplificare 
le 
reazioni 
suscitate 
dalle 
dinamiche 
terroristiche” 
in “La minaccia jihadista nel 
mediterraneo allargato”, 
n. 3/2023 Gnosis. 



gli uffici per i procedimenti disciplinari nelle 
amministrazioni pubbliche; un’analisi giurisprudenziale 


Andrea Ferri* 


SOmmAriO: 1. introduzione 
-2. L’UPD 
nell’organizzazione 
dell’ente: conformazione 
e 
struttura -3. Le 
sanzioni 
applicate 
da altro organo diverso dall’UPD: nullità ed ipotesi 
giurisprudenziali 
- 4. Collegialità ed imparzialità. 

1. introduzione. 


L’articolo 55 bis 
come 
novellato d.lgs. 150/2009 -ha 
disposto al 
comma 
2 ed al 
successivo comma 
4 che 
la violazione 
dei 
termini 
stabiliti 
nel 
presente 
comma comporta, per 
l’amministrazione, la decadenza dall’azione 
disciplinare 
ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa. 

una 
successiva 
sostanziale 
novellazione 
della 
disciplina 
del 
procedimento 
disciplinare 
è 
stata 
prevista 
dal 
decreto 
legislativo 
25 
maggio 
2017, 


n. 
75 
che, 
abrogando 
il 
citato 
comma 
4, 
al 
comma 
9 
ter 
dell’articolo 
55 
bis 
ha 
disposto 
che 
la 
violazione 
dei 
termini 
e 
delle 
disposizioni 
sul 
procedimento 
disciplinare 
previste 
dagli 
articoli 
da 
55 
a 
55-quater, 
fatta 
salva 
l’eventuale 
responsabilità 
del 
dipendente 
cui 
essa 
sia 
imputabile, 
non 
determina 
la 
decadenza 
dall’azione 
disciplinare 
né 
l’invalidità 
degli 
atti 
e 
della 
sanzione 
irrogata, 
purché 
non 
risulti 
irrimediabilmente 
compromesso 
il 
diritto 
di 
difesa 
del 
dipendente, 
e 
le 
modalità 
di 
esercizio 
dell’azione 
disciplinare, 
anche 
in 
ragione 
della 
natura 
degli 
accertamenti 
svolti 
nel 
caso 
concreto, 
risultino 
comunque 
compatibili 
con 
il 
principio 
di 
tempestività. 
Fatto 
salvo 
quanto 
previsto 
dall’articolo 
55-quater, 
commi 
3-bis 
e 
3-ter, 
sono 
da 
considerarsi 
perentori 
il 
termine 
per 
la 
contestazione 
dell’addebito 
e 
il 
termine 
per 
la 
conclusione 
del 
procedimento. 


Allo 
scopo 
di 
definire 
la 
disciplina 
applicabile 
ai 
procedimenti 
disciplinari 
già 
iniziati 
o relativi 
ad illeciti 
comunque 
commessi 
prima 
dell’entrata 
in vigore 
della 
nuova 
disciplina 
il 
d.lgs. 75/2017 all’articolo 22 comma 
13 ha 
previsto 
una 
disposizione 
transitoria 
secondo 
la 
quale 
le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
Capo 
Vii 
si 
applicano 
agli 
illeciti 
disciplinari 
commessi 
successivamente 
alla 
data di entrata in vigore del presente decreto. 

Le 
due 
disposizioni 
succedutesi 
nel 
tempo 
(1) 
presentano 
un 
campo 
di 
applicazione 
parzialmente 
comune 
riferendosi 
entrambe 
ai 
termini 
del 
proce


(*) 
dirigente 
del 
Ministero 
dell’Istruzione, 
università 
e 
ricerca 
-ufficio 
scolastico 
regionale 
delle 
Marche. 
Preposto all’ufficio legale e responsabile dell’uPd regionale. 


(1) una 
informazione 
sui 
contenuti 
della 
riforma 
in PAoLuCCI, 
il 
procedimento disciplinare 
nel 
pubblico impiego. Aspetti 
procedimentali 
alla luce 
del 
d.lgs. n. 75 del 
2017 
in il 
lavoro nelle 
pubbliche 
amministrazioni, 
2018, fasc. 3, pagg. 127-155. 



dimento disciplinare, ma 
la 
novella 
del 
2017, riferendosi 
oltre 
che 
ai 
termini 
alle 
disposizioni 
relative 
ad 
esso, 
presenta 
un 
ambito 
di 
applicazione 
più 
vasto. 
Le 
predette 
disposizioni 
-contrapposte 
ai 
termini 
-riguardano gli 
aspetti 
relativi 
alla 
costituzione 
dell’ufficio 
procedimenti 
disciplinari, 
che 
l’articolo 
55 
bis 
comma 
vuole 
sia 
costituito all’interno di 
ciascuna 
amministrazione 
pubblica 
e 
le 
problematiche 
relative 
a 
profili 
di 
eventuale 
incompetenza 
dell’organo 
che abbia irrogato la sanzione in luogo dell’uPd. 

Viceversa 
i 
termini 
del 
procedimento 
oggetto 
della 
novellazione 
-a 
causa 
dell’espressa 
esclusione 
dal 
proprio 
ambito 
di 
applicazione 
del 
termine 
entro 
il 
quale 
il 
procedimento 
disciplinare 
va 
rispettivamente 
avviato 
e 
concluso 
la 
cui 
violazione 
determina 
insanabilmente 
la 
decadenza 
del 
procedimento 
(2) 
-sono 
i 
termini 
infraprocedimentali 
di 
esso, 
ossia 
la 
tardiva 
trasmissione 
al 
dirigente 
dell’uPd 
della 
segnalazione 
di 
fatti 
di 
rilievo 
disciplinare 
da 
parte 
del 
dirigente 
(ovvero 
del 
responsabile 
della 
struttura 
ove 
sprovvisto 
della 
qualifica 
dirigenziale) 
dell’ufficio 
cui 
appartiene 
il 
dipendente 
presuntamente 
autore 
dell’illecito, 
l’inosservanza 
del 
termine 
dilatorio 
per 
l’audizione 
del 
dipendente 
(con 
la 
possibile 
variante 
della 
mancata 
concessione 
della 
ulteriore 
dilazione 
richiesta 
dal 
dipendente 
o 
della 
concessione 
di 
una 
dilazione 
asseritamente 
ritenuta 
troppo 
breve), 
la 
mancata 
tempestiva 
riassunzione 
di 
un 
procedimento 
sospeso 
per 
la 
concomitante 
pendenza 
di 
un 
procedimento 
o 
di 
un 
processo 
penale 
ovvero 
la 
mancata 
tempestiva 
riattivazione 
del 
procedimento 
in 
caso 
di 
passaggio 
del 
dipendente 
incolpato 
dall’una 
all’altra 
amministrazione. 


Il 
modello 
di 
sanzione 
delineato 
dalle 
due 
discipline 
succedutesi 
è 
però 
profondamente 
diverso 
e 
pone 
differenti 
problemi 
al 
giudice 
ed 
al-
l’interprete. 


Il 
sistema 
delineato dal 
d.lgs. 150/2009 è 
pacificamente 
riconducibile 
a 
quello della 
nullità 
sebbene 
presenti 
elementi 
eclettici 
rispetto al 
modello comune 
di 
nullità 
-come 
la 
presenza 
di 
un 
breve 
termine 
per 
l’impugnazione 
della 
sanzione 
del 
licenziamento, 
la 
circostanza 
che 
essa 
possa 
essere 
sollevata 
dalla 
sola 
parte 
privata 
(comune 
invece 
alla 
disciplina 
della 
nullità 
è 
la 
rileva


(2) La 
ragione 
per la 
quale 
i 
termini 
iniziale 
e 
finale 
del 
procedimento disciplinare 
(contestazione 
e 
sanzione) se 
non osservati 
comportano la 
caducazione 
della 
sanzione 
deve 
ravvisarsi 
in una 
esigenza 
di 
certezza 
giuridica 
e 
nella 
volontà 
di 
accelerarne 
la 
definizione 
allo scopo di 
assicurare 
l’effettività 
del 
sistema 
delle 
sanzioni 
allo stesso tempo favorendo la 
difesa 
del 
dipendente. Sebbene, alla 
luce 
del-
l’obbligatorietà 
dell’attivazione 
del 
procedimento nel 
pubblico impiego, il 
decorrere 
del 
tempo non potrebbe 
comunque 
generare 
nel 
lavoratore 
la 
convinzione 
sulla 
volontà 
del 
legislatore 
di 
non perseguirlo 
ben 
potrebbe 
rendere 
difficoltosa 
la 
difesa 
del 
dipendente 
o 
consentire 
al 
datore 
di 
dilazionare 
la 
sanzione 
per 
punirla 
più 
severamente 
alla 
luce 
di 
successive 
violazioni. 
Sul 
punto 
MALIZIA, 
La 
variabilità 
empirica 
del 
concetto di 
immediatezza nella contestazione 
disciplinare 
in Argomenti 
di 
diritto del 
lavoro, 
2009, 
pagg. 592-597. Sul 
dies 
a quo 
per l’avvio del 
procedimento disciplinare 
MAZZANTI, 
La decorrenza dei 
termini 
del 
procedimento 
disciplinare 
nel 
pubblico 
impiego 
in 
il 
lavoro 
nella 
giurisprudenza, 
2019, 
fasc. 1, pagg. 67-73. 



bilità 
d’ufficio che 
va 
comunque 
correlato al 
rispetto della 
necessaria 
corrispondenza 
tra 
il 
chiesto ed il 
pronunciato, senza 
che 
il 
giudice 
possa 
rilevare 
di 
ufficio una 
ragione 
di 
nullità 
del 
licenziamento diversa 
da 
quella 
eccepita 
dalla parte) (3). 

Tratto 
costitutivo 
essenziale 
del 
sistema 
della 
nullità 
codicistica 
è 
che 
dalla 
constatata 
difformità 
della 
fattispecie 
concreta 
oggetto 
di 
esame 
dalla 
fattispecie 
tipica 
discende 
la 
nullità 
del 
negozio 
senza 
l’intermediazione 
di 
alcun sindacato giudiziale 
relativo al 
rilievo della 
accertata 
difformità 
sull’assetto 
negoziale; 
dall’individuata 
natura 
imperativa 
della 
norma 
violata 
discende 
un 
automatico 
ed 
indefettibile 
effetto 
caducatorio 
che 
assicura 
al 
massimo grado la tutela degli interessi riconosciuti rilevanti dalla norma. 


Il 
modello 
definito 
dalla 
novella 
del 
2017 
è 
invece 
sensibilmente 
diverso, 
dal 
momento che 
la 
caducazione 
della 
sanzione 
discende 
non dalla 
sola 
inosservanza 
dei 
termini 
o delle 
altre 
disposizioni 
in materia 
di 
procedimento disciplinare 
ma 
dall’accertamento che 
tali 
violazioni 
abbiano nel 
caso concreto 
irrimediabilmente 
compromesso 
il 
diritto 
di 
difesa 
del 
dipendente 
e 
che 
l’azione 
disciplinare 
nel 
suo complesso sia 
stata 
comunque 
compatibile 
con il 
principio di tempestività. 

Pertanto non è 
la 
violazione 
di 
legge 
di 
per sé 
stessa 
a 
determinare 
l’invalidità 
della 
sanzione 
disciplinare 
irrogata 
ma 
una 
valutazione 
delle 
circostanze 
di 
fatto 
del 
caso 
in 
esame 
dalla 
quale 
emerga 
l’avvenuta 
compromissione 
del 
diritto 
di 
difesa 
del 
dipendente: 
una 
medesima 
violazione 
di 
legge 
può condurre 
in un caso all’annullamento e 
nell’altro alla 
conservazione 
della 
sanzione 
a 
seconda 
di 
come 
le 
circostanze 
di 
fatto abbiano inciso, 
pregiudicandolo, sul diritto di difesa. 

Questa 
valutazione 
caso per caso degli 
effetti 
invalidanti 
sulla 
sanzione 
avvicina 
tale 
modello di 
sindacato giudiziale 
a 
quello proprio delle 
cosiddette 
nullità 
speciali 
e 
segnatamente 
delle 
clausole 
vessatorie 
di 
cui 
agli 
articoli 
33 
e 
seguenti 
del 
codice 
del 
consumo raccolto nel 
d.lgs. 206/2005 i 
cui 
tratti 
salienti 
sono il 
sindacato sul 
significativo squilibrio del 
contenuto del 
singolo 
contratto 
contenente 
clausole 
vessatorie 
ed 
il 
rilievo 
attribuito 
alla 
effettiva 
avvenuta contrattazione del contenuto negoziale (4). 

Quest’ultimo 
aspetto 
è 
estraneo 
alla 
materia 
del 
procedimento 
disciplinare 
che 
è 
un 
atto 
unilaterale 
recettizio, 
laddove 
il 
sindacato 
sull’equilibrio 
con


(3) Cassazione 
civile 
sez. lav., 5 aprile 
2019, n. 9675, la 
S.C. ha 
confermato la 
decisione 
che 
non 
aveva 
rilevato d’ufficio la 
violazione, dedotta 
tardivamente 
dalla 
parte, dell’art. 55 bis 
del 
d.lgs. n. 165 
del 
2001, 
nella 
parte 
in 
cui 
dispone 
che 
il 
procedimento 
disciplinare 
deve 
essere 
concluso 
entro 
il 
termine 
di 120 giorni dalla sua apertura. 


(4) In dottrina 
per una 
informazione 
sulla 
nullità 
in materia 
di 
clausole 
vessatorie 
si 
veda 
VALLE, 
L’inefficacia delle 
clausole 
vessatorie 
e 
le 
nullità a tutela della parte 
debole 
del 
contratto 
in Studium 
iuris, 
2005, 
n. 
11; 
eadem, 
L’inefficacia 
delle 
clausole 
vessatorie 
e 
il 
codice 
del 
consumo 
in 
Studium 
iuris, 
2006, n. 2. 



trattuale 
è 
interamente 
sovrapponibile 
alla 
verifica 
della 
non avvenuta 
significativa 
compressione del diritto di difesa del dipendente. 

Il 
sindacato 
sull’equilibrio 
contrattuale 
nell’ambito 
dei 
contratti 
con 
il 
consumatore 
è 
stato 
ricondotto 
-nonostante 
la 
non 
univoca 
interpretazione 
dell’espressione 
malgrado 
la 
buona 
fede 
(5) 
all’interno 
del 
codice 
del 
consumo 
nell’ambito della 
buona 
fede 
obiettiva 
(6) -come 
fonte 
di 
autonomi 
doveri 
che 
integrano 
il 
contenuto 
del 
negozio, 
espungendo 
le 
clausole 
ad 
essa 
contrarie 
ed integrandone 
il 
contenuto; 
la 
buona 
fede 
che 
impedisce 
la 
caducazione 
della 
sanzione, ove 
non risulti 
compromesso il 
diritto di 
difesa 
del 
dipendente, 
è 
da 
ricondurre 
a 
quella 
particolare 
forma 
di 
integrazione 
del 
contratto 
che 
impone 
alla 
controparte 
di 
accettare 
minime 
difformità 
della 
prestazione 
(in questo caso intesa 
come 
l’iter 
procedimentale 
che 
conduce 
alla 
sua 
irrogazione) 
entro 
il 
limite 
di 
un 
apprezzabile 
sacrificio 
da 
intendersi 
come 
una non significativa compressione del diritto di difesa (7). 

Nel 
caso in cui 
si 
tratti 
dell’inosservanza 
dei 
termini 
preprocedimentali 
ed 
endoprocedimentali 
la 
compressione 
del 
diritto 
di 
difesa 
può 
discendere 
da 
tale 
ritardo, ma 
la 
constatazione 
di 
esso esige 
una 
ulteriore 
indagine 
sul 
pregiudizio 
concretamente 
arrecato. In altri 
casi 
la 
compressione 
del 
diritto di 
difesa 
può essere 
indipendente 
dal 
rispetto dei 
termini 
procedimentali 
come 
nel 
caso in cui 
sia 
omessa 
l’audizione 
del 
dipendente 
che 
però abbia 
presentato 
una 
propria 
esaustiva 
memoria 
difensiva 
o nel 
caso in cui 
l’amministrazione 
non abbia 
dato corso al 
richiesto accesso agli 
atti 
ovvero ad ulteriori 
approfondimenti 
istruttori 
richiesti 
dal 
dipendente, 
laddove 
si 
dimostri 
che 
allo 
stato 
degli 
atti 
la 
sanzione 
era 
giustificata 
e 
che 
gli 
adempimenti 
istruttori 
richiesti 
non avrebbero inciso su tale dato. 


Nel 
presente 
scritto 
si 
cercherà 
di 
porre 
in 
evidenza 
come 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, pur nel 
vigore 
del 
precedente 
meccanismo della 
nullità 
civilistica 
aveva 
già 
fatto 
ricorso 
ad 
una 
valutazione 
caso 
per 
caso 
dell’effettiva 
incidenza 
della 
violazione 
facendo riferimento alla 
ratio 
delle 
disposizioni 
in 
esame 
e 
come 
la 
successiva 
novellazione 
dell’articolo 
55 
bis 
abbia 
legittimato 
un indirizzo giurisprudenziale già invalso. 

Con 
specifico 
riferimento 
alla 
violazione 
dei 
termini 
del 
procedimento 
in 


(5) 
Sull’interpretazione 
di 
tale 
espressione 
si 
veda 
CArINGELLA-BuFFoNI, 
manuale 
di 
diritto 
civile, 
edizioni dike, II ed., pagg. 851-852. 
(6) Per una 
definizione 
della 
buona 
fede 
oggettiva, del 
suo contenuto e 
delle 
sue 
molteplici 
applicazioni 
ibidem 
pagg. 727-733. 
(7) un precipitato dell’accresciuto potere 
di 
valutazione 
riconosciuto al 
giudice 
è 
costituito dalla 
novella 
dell’articolo 63 comma 
2 bis 
secondo la 
quale 
il 
giudice, qualora 
ravvisi 
un difetto di 
proporzionalità 
della 
sanzione 
inflitta 
dalla 
P.A. al 
proprio dipendente, può egli 
stesso sostituire, anche 
senza 
domanda 
di 
parte, la 
sanzione 
eccessiva 
con quella 
proporzionata 
(in melius 
e 
non in peius), convertendola 
in ossequio al 
principio di 
proporzionalità 
(in proposito TENorE, 
Le 
novità apportate 
al 
procedimento 
disciplinare 
dalla 
riforma 
madia 
(d.lgs. 
n. 
75 
del 
2017 
e 
n. 
118 
del 
2017) 
in 
Lavoro, 
Diritti, 
Europa, 2017, fasc. 1. 



epoca 
anteriore 
all’entrata 
in vigore 
del 
d.lgs. 75/2017, Cass. sez. lav. del 
22 
agosto 
201 
n. 
17245 
(8) 
aveva 
ritenuto 
che 
l’inosservanza 
del 
termine 
dilatorio 
di 
20 giorni 
dalla 
notifica 
della 
contestazione 
non determinasse 
ex 
se 
l’invalidità 
della 
sanzione 
ma 
solo 
nel 
caso 
il 
dipendente 
deduca 
e 
dimostri 
che 
il 
suo 
diritto di difesa è stato frustrato dalla contrazione del termine. 


Tale 
conclusione 
-in 
contrasto 
con 
il 
tenore 
letterale 
della 
norma 
illo 
tempore 
vigente 
-veniva 
fondata 
su di 
una 
interpretazione 
teleologica 
che 
individuava 
la 
funzione 
della 
norma 
nella 
sua 
strumentalità 
al 
diritto di 
difesa 
del 
dipendente 
riconoscendogli 
un 
tempo 
idoneo 
per 
articolare 
le 
sue 
difese 
e 
non 
in 
quella 
di 
assicurare 
la 
tempestiva 
conclusione 
del 
procedimento 
(per 
la 
quale 
operano il 
dies 
a quo 
ed il 
temine 
finale) derivandone 
la 
conseguenza 
che 
laddove 
lo scopo della 
norma 
non fosse 
stato frustrato non si 
poteva 
dichiararne 
l’invalidità 
(la 
prova 
della 
sua 
mancata 
lesione 
veniva 
ravvisata 
nella 
circostanza 
che 
il 
dipendente 
si 
era 
presentato “alla 
convocazione 
coll’ausilio del 
proprio 
difensore, 
non 
ha 
chiesto 
alcun 
rinvio, 
ma 
ha 
articolato 
compiutamente 
le 
proprie 
difese, incentrate 
su vizi 
formali 
e 
senza 
alcuna 
contestazione 
nel 
merito degli addebiti mossi”). 


2. L’UPD nell’organizzazione dell’ente: conformazione e struttura. 


Nella 
sentenza 
del 
25 luglio 2011 n. 16190 (9) un comune 
non aveva 
costituito 
l’uPd, inserendolo ex 
novo 
nell’organigramma, né 
aveva 
provveduto 
ad attribuirne 
le 
competenze 
ad altro preesistente 
organo, ed il 
relativo procedimento 
disciplinare, 
conclusosi 
con 
una 
sanzione 
espulsiva, 
era 
stato 
condotto 
dal 
sindaco, identificato 
per 
facta concludentia 
nell’uPd. La 
sezione 
lavoro 
della 
Cassazione 
riconosceva 
che 
l’ufficio non era 
stato costituito e 
pertanto 
riteneva 
la 
nullità 
del 
licenziamento 
intimato 
non 
potendosi 
individuare 
de 
plano 
l’uPd 
nel 
sindaco. 
una 
ulteriore 
autonoma 
ragione 
di 
illegittimità 
-non 
rilevata 
dalla 
Cassazione 
-era 
la 
natura 
di 
organo 
politico 
del 
sindaco, 
cui 
l’attribuzione 
di 
compiti 
di 
amministrazione 
attiva 
non 
era 
consentita, 
se 
non 
violando 
il 
fondamentale 
canone 
di 
riparto della 
competenza 
tra 
uffici 
politici 
ed 
uffici 
amministrativi 
rispettivamente 
dotati 
di 
funzioni 
di 
indirizzo, verifica 
e 
controllo e di attuazione di tali indirizzi. 


Anche 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
del 
4 
dicembre 
2015 
n. 
24731 
(10) 
resa 
nei 
confronti 
di 
un licenziamento irrogato da 
una 
Camera 
di 
commercio, industria 
artigianato 
che 
aveva 
identificato 
l’ufficio 
procedimenti 
disciplinari 
nella 
Giunta 
dell’ente 
dichiarava 
l’illegittimità 
del 
licenziamento irrogato per 
incompetenza 
dell’organo 
procedente. 
La 
giunta 
aveva 
radicato 
la 
propria 
competenza 
facendo leva 
sul 
fatto che 
la 
norma 
istitutiva 
attribuiva 
ad essa 
i 


(8) In italgiure web. 

(9) In italgiure web. Le sentenze citate nel presente articolo non sono apparse su rivista. 


(10) In itagiure web. 



provvedimenti 
riguardanti 
l’assunzione 
e 
la 
carriera 
del 
personale, 
da 
disporre 
su proposta 
del 
segretario generale; 
la 
Corte 
-facendo leva 
su di 
un rinvio recettizio 
contenuto nell’articolo 19 della 
legge 
29 dicembre 
1993, n. 580 alle 
disposizioni 
del 
d.lgs. 
29/1993 
che 
allora 
conteneva 
le 
norme 
sulla 
riforma 
del 
pubblico impiego che 
rendeva 
recessiva 
l’attribuzione 
delle 
competenze 
gestionali 
alla 
Giunta 
camerale 
-quindi 
finiva 
con l’identificare 
la 
giunta 
camerale 
in un organo di 
indirizzo politico cui 
venivano inibite 
funzioni 
di 
amministrazione 
attiva 
e 
quindi 
l’incompetenza 
all’irrogazione 
di 
sanzioni 
disciplinari. 


Nella 
sentenza 
del 
4 novembre 
2016 n. 22487 (11) la 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
si 
confrontava 
con 
un 
licenziamento 
adottato 
dall’ISFoL, 
che 
non 
aveva 
proceduto 
a 
dotarsi 
ex 
novo 
di 
un 
ufficio 
per 
i 
procedimenti 
disciplinari, 
né 
aveva 
formalmente 
individuato 
come 
tale 
altro 
preesistente 
ufficio 
del-
l’ente. Il 
procedimento disciplinare 
era 
stato condotto dal 
direttore 
generale 
dell’ente 
cui 
si 
contestava 
la 
competenza 
per assenza 
di 
una 
formale 
attribuzione 
in materia. La 
Cassazione 
riconosceva 
la 
competenza 
del 
direttore 
generale 
a 
fungere 
da 
uPd 
dal 
momento 
che 
ad 
esso 
venivano 
pacificamente 
riconosciute 
la 
potestà 
di 
gestione 
del 
personale 
mediante 
atti 
organizzativi 
ed 
amministrativi; 
i 
giudici 
riconoscevano 
come 
l’univoco 
riconoscimento 
del 
direttore 
come 
uPd, 
pur 
in 
mancanza 
di 
determinazioni 
dell’ente 
in 
tal 
senso, 
fosse agevolata dalla relativa scarsa complessità dell’ordinamento dell’ente. 

Cassazione 
sezione 
lavoro 19 agosto 2016 n. 17125 (12) si 
occupa 
del-
l’impugnativa 
di 
un 
licenziamento 
adottato 
dal 
direttore 
generale 
dell’Agenzia 
delle 
entrate 
che 
era 
stato formalmente 
indicato con delibera 
dell’ente 
a 
fungere 
da 
uPd. 
La 
contestazione 
del 
lavoratore 
consisteva 
nel 
fatto 
che 
attribuire 
al 
Capo 
della 
struttura, 
gerarchicamente 
sovraordinato 
a 
tutti 
gli 
altri 
uffici 
dirigenziali 
non ne 
avrebbe 
assicurato la 
necessaria 
terzietà; 
la 
Cassazione 
ne 
riconosceva 
la 
competenza 
non ravvisando alcun ostacolo nella 
natura 
monocratica 
ed apicale dell’organo. 


Nella 
sentenza 
della 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
4 
dicembre 
2013 
n. 
27128 


(13) di 
fronte 
ad una 
sanzione 
irrogata 
dal 
direttore 
generale 
di 
una 
ASur ne 
veniva 
riconosciuta 
la 
incompetenza 
sulla 
base 
di 
una 
distinzione 
tra 
la 
responsabilità 
dirigenziale 
e 
quella 
disciplinare 
rispettivamente 
da 
ascriversi 
al 
direttore 
generale 
ed al 
non ancora 
costituito uPd; 
in essa 
si 
legge 
che 
a 
tale 
riguardo 
va 
rilevato 
che 
la 
ratio 
sottesa 
al 
citato 
art. 
55, 
vada 
individuata 
nell’esigenza 
di 
assoggettare 
ai 
medesimi 
organi 
disciplinari 
l’esame 
della 
condotta di 
tutti 
coloro -e 
quindi 
anche 
dei 
dirigenti 
-cui 
vengono contestati 
addebiti 
che, 
in 
ragione 
della 
natura 
subordinata 
del 
loro 
rapporto 
lavorativo, 


(11) In itagiure web. 
(12) In itagiure web. 
(13) In itagiure web. 



configurano un inadempimento agli 
obblighi 
scaturenti 
da detti 
rapporti, con 
esclusione 
quindi 
di 
quelle 
condotte 
che 
necessitano invece 
di 
giudizi 
che 
richiedono 
differenti 
criteri 
valutativi 
per 
avere 
ad oggetto non la configurabilità 
della 
responsabilità 
disciplinare 
dei 
dirigenti 
ma 
la 
responsabilità 
scaturente 
da un esercizio dei 
loro poteri 
del 
tutto inadeguato rispetto alla rilevanza 
delle funzioni ad essi attribuite. 


La 
medesima 
fattispecie 
e 
le 
medesime 
conclusioni 
sono trattate 
e 
raggiunte 
nella sentenza del 17 giugno 2010 n. 14628 (14). 

Nella 
sentenza 
del 
24 
gennaio 
2017 
numero 
1753 
(15) si 
verteva 
su 
di 
una 
sanzione 
irrogata 
dalla 
commissione 
amministratrice 
di 
un Consorzio fitosanitario 
che 
era 
stata 
formalmente 
investita 
della 
competenza 
disciplinare 
e 
della 
quale 
veniva 
riconosciuta 
la 
natura 
di 
organo 
gestionale 
essendogli 
statutariamente 
affidate 
le 
competenze 
circa 
l’approvazione 
del 
bilancio, le 
delibere 
sulle 
spese 
di 
ordinaria 
e 
straordinaria 
amministrazione, 
sulla 
pianta 
organica 
e 
sugli 
inquadramenti 
del 
personale, 
sulle 
missioni 
dei 
dipendenti, 
sul 
conferimento 
degli 
incarichi 
di 
responsabilità. 
Mentre 
venivano 
riconosciute 
alla 
regione 
funzioni 
di 
indirizzo, vigilanza, controllo nonché 
l’esercizio 
della 
attività 
ispettiva. Sul 
piano dell’iter 
procedimentale 
da 
seguire 
non 
veniva 
attribuito 
rilievo 
in 
tema 
di 
imparzialità 
dell’organo 
alla 
circostanza 
che 
la 
sanzione 
disciplinare 
fosse 
da 
considerarsi 
illegittima 
perché 
inflitta 
dalla 
Commissione 
Amministratrice, 
della 
quale 
faceva 
parte 
anche 
il 
soggetto 
che 
aveva provveduto a denunciare 
i 
comportamenti 
tenuti 
dal 
dipendente 
in 
violazione 
dei 
doveri 
di 
ufficio. il 
principio di 
terzietà, sul 
quale 
riposa la necessaria 
previa individuazione 
dell’ufficio dei 
procedimenti, postula solo la 
distinzione 
sul 
piano organizzativo fra detto ufficio e 
la struttura nella quale 
opera il 
dipendente, sicché 
lo stesso non va confuso con la imparzialità del-
l’organo giudicante, che 
solo un soggetto terzo rispetto al 
lavoratore 
ed alla 
amministrazione potrebbe assicurare. 


un più lontano precedente 
-da 
individuarsi 
nella 
sentenza 
di 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
del 
5 
febbraio 
2004 
numero 
2168 
(16) 
sempre 
resa 
con 
riguardo 
al 
settore 
sanitario si 
riconosceva 
la 
nullità 
del 
recesso irrogato dall’ufficio di 
gestione 
del 
personale 
in luogo che 
dall’uPd 
dato che 
-sebbene 
l’ufficio del 
personale 
possa 
ritenersi 
un ufficio nel 
quale 
siano allocate 
anche 
le 
competenze 
disciplinari 
-nella 
concreta 
vicenda 
postasi 
all’attenzione 
della 
Corte 
così 
non era, con ciò confermandosi 
che 
l’omessa 
individuazione 
dell’uPd 
può 
essere 
sanata 
solo 
se 
le 
funzioni 
di 
esso 
sono 
univocamente 
e 
chiaramente 
allocate in altro preesistente ufficio. 


(14) In itagiure web. 
(15) In italgiure web. 


(16) In massimario di 
giustizia del 
lavoro, 
2004, fasc. 7, pag. 528 con nota 
di 
BArBIErI, 
Sulla 
competenza dell’ufficio procedimenti disciplinari a carico di dipendenti pubblici privatizzati. 



Conclusivamente 
deve 
affermarsi 
che 
l’uPd 
può 
non 
essere 
formalmente 
indicato 
in 
uno 
degli 
uffici 
preesistenti 
e 
che 
la 
mancanza 
di 
una 
previa 
individuazione 
di 
esso 
non 
si 
traduce 
ex 
se 
nell’incompetenza 
dell’organo 
procedente, 
purchè 
esso 
sia 
univocamente 
identificabile 
all’interno 
dell’amministrazione 
dell’ente 
quello 
titolare 
dell’esercizio 
dell’azione 
disciplinare 
e 
pertanto 
non 
vi 
sia 
margine 
alcuno 
di 
dubbio 
nella 
sua 
identificazione. 


3. Le 
sanzioni 
applicate 
da altro organo diverso dall’UPD: nullità ed ipotesi 
giurisprudenziali. 


occorre 
ora 
verificare 
gli 
effetti 
dell’adozione 
di 
una 
sanzione 
disciplinare 
da 
parte 
di 
un 
soggetto 
incompetente, 
comunque 
interno 
all’amministrazione. 


La 
sentenza 
16190/2011 (17) afferma 
che 
il 
concetto di 
legittimità sia di 
fatto 
riferibile 
ormai 
non 
solo 
all’atto 
amministrativo 
ma 
anche 
all’atto 
di 
autonomia 
privata 
intendendosi 
come 
tale 
l’atto 
-sia 
esso 
posto 
in 
essere 
da 
una 
pubblica autorità o da un soggetto privato -contra legem 
e 
quindi 
invalido e 
come 
tale 
inefficace 
nullo o annullabile, ritenendo tali 
sanzioni 
tutte 
fungibili 
ai fini della valutazione negativa dell’atto. 

In termini 
più tecnici 
24731 del 
4 dicembre 
2015 (18) afferma 
che 
il 
procedimento 
instaurato da un soggetto diverso al 
predetto ufficio è 
illegittimo e 
la 
sanzione 
è 
affetta 
da 
nullità 
risolvendosi 
in 
una 
violazione 
di 
norme 
di 
legge 
inderogabili 
sulla competenza; 
in termini 
letteralmente 
identici 
anche 
la 
sentenza 
7 
giugno 
2016 
n. 
11632 
(19). 
Più 
approfondita 
e 
perspicua 
nella 
sua 
sinteticità 
è 
la 
già 
citata 
sentenza 
del 
5 
febbraio 
2004 
n. 
2168 
(20) 
nella 
quale 
oltre 
all’ascrizione 
della 
sanzione 
alla 
nullità 
per violazione 
di 
norme 
imperative 
si 
legge 
che 
la 
norma 
determinatrice 
di 
competenza 
è 
espressione 
non 
solo di 
tecnica organizzativa ma anche 
di 
una esigenza di 
giustizia (o almeno 
di 
garanzia della giustizia degli 
atti 
da essa considerati) atteso che 
il 
legislatore 
ha stabilito che 
solo un determinato organo si 
trova nelle 
condizioni 
di 
poter 
rettamente 
iniziare 
o decidere 
in ordine 
ad un provvedimento disciplinare. 
In essa 
si 
enuclea 
la 
ratio 
di 
tutela 
del 
dipendente 
ad essere 
perseguito 
da 
un ufficio provvisto di 
una 
specifica 
competenza 
tecnica 
e 
diverso -per gli 
illeciti 
di 
maggiore 
gravità 
-dal 
superiore 
diretto. La 
norma 
pertanto è 
preordinata 
a 
definire 
il 
soggetto titolato a 
perseguire 
gli 
illeciti 
nello specifico interesse 
del 
dipendente 
e 
pertanto essa 
se 
violata 
non può dare 
origine 
che 
alla 
nullità. 


Autorevole 
dottrina 
(21) ha 
contestato la 
soluzione 
della 
nullità, richia


(17) italgiure web. 
(18) italgiure web. 
(19) italgiure web. 
(20) italgiure web. 


(21) TENorE, 
Studio sul 
procedimento disciplinare 
nel 
pubblico impiego. Dopo la legge 
anticorruzione 
e la riforma madia (L. 7 agosto 2015 n. 124), Giuffrè, 2017, pag. 278, sub nota 3. 


mandosi 
ad un orientamento giurisprudenziale 
nato nel 
campo del 
lavoro privato 
secondo il 
quale 
nel 
rapporto di 
lavoro alle 
dipendenze 
di 
una persona 
giuridica l’emanazione 
di 
un atto disciplinare 
da parte 
di 
un organo privo al 
riguardo 
del 
potere 
di 
rappresentanza 
non 
comporta 
la 
nullità 
dell’atto 
stesso, 
bensì 
la sua annullabilità che 
può essere 
fatta valere 
soltanto dallo stesso datore 
di 
lavoro 
che 
può 
anche 
ratificare 
l’atto 
ai 
sensi 
dell’articolo 
1399 
(Cass. 
sez. lav. del 
11 giugno 2004 n. 11193 (22) ed in terminis 
Cass. sez. lav. del 
23 
settembre 1998 n. 9533 (23)). 

Le 
ragioni 
dell’inapplicabilità 
di 
tale 
orientamento al 
rapporto di 
lavoro 
pubblico privatizzato consistono nel 
fatto che 
-diversamente 
dal 
rapporto di 
lavoro alle 
dipendenze 
di 
datori 
di 
lavoro privati 
nel 
quale 
l’organizzazione 
degli 
uffici 
dell’ente 
è 
priva 
di 
giuridica 
rilevanza, costituendo un mero fatto 
organizzatorio rimesso alla 
libera 
esplicazione 
del 
potere 
datoriale 
-nel 
rapporto 
di 
lavoro privatizzato la 
costituzione 
di 
un organo a 
competenza 
esclusiva 
è 
imposta 
dalla 
legge 
per una 
evidente 
ragione 
di 
tutela 
del 
dipendente. 
Alla 
fungibilità 
degli 
organi 
dell’impresa 
che 
possono procedere 
al 
licenziamento 
(la 
cui 
incompetenza 
rileva 
solo ai 
fini 
della 
corretta 
manifestazione 
di 
volontà 
dell’ente 
che 
risulterebbe 
viziata 
da 
un vizio affine 
a 
quello del 
contratto 
concluso 
dal 
rappresentante 
senza 
potere 
che 
diversamente 
da 
quello 
non impedisce 
l’attribuzione 
dell’atto alla 
persona 
giuridica, che 
può modificarlo 
ad opera 
dell’organo competente, ovvero farlo proprio attraverso la 
ratifica) 
corrisponde 
il 
carattere 
legislativamente 
predeterminato 
dell’organo 
che 
agisce 
nel 
pubblico impiego, che 
non può non ricondursi 
ad una 
esigenza 
di 
inderogabile tutela del lavoratore. 


Ancora, 
in 
materia 
di 
sanatoria 
della 
sanzione 
irrogata 
dall’organo 
incompetente 
in 
luogo 
dell’uPd, 
la 
medesima 
dottrina 
(24) 
richiama 
la 
sentenza 
della 
Cassazione 
sezione 
lavoro 7 giugno 2016 n. 21032 (25). In essa 
la 
sanzione 
adottata 
da 
un 
membro 
supplente 
era 
stata 
successivamente 
ratificata 
dall’organo 
competente. 
L’iter 
argomentativo 
della 
sentenza 
esordisce 
col 
dire 
che 
i 
procedimenti 
disciplinari 
contemplati 
dal 
d.lgs. n. 165 del 
2001, art. 55, 
non costituiscono procedimenti 
amministrativi 
essendo condotti 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni 
con i 
poteri 
propri 
del 
datore 
di 
lavoro privato (Cass., 
29 
marzo 
2005, 
n. 
6601), 
trova 
applicazione 
al 
caso 
in 
esame 
la 
disciplina 
dettata 
dall’art. 
1399 
c.c. 
-che 
prevede 
la 
possibilità 
di 
ratifica 
con 
effetto 
retroattivo, 
ma 
con 
salvezza 
dei 
diritti 
dei 
terzi, 
del 
contratto 
concluso 
da 
soggetto 
privo del 
potere 
di 
rappresentanza 
e 
con specifico riferimento alla 
perentorietà 
dei 
termini 
di 
avvio e 
di 
conclusione 
del 
procedimento disciplinare 


(22) In italgiure web. 


(23) ibidem. 
(24) TENorE, 
ibidem, pag. 285, sub nota 13. 


(25) In italgiure web 



afferma 
che 
non varrebbe 
in contrario opporre 
che 
tale 
efficacia retroattiva 
della ratifica non possa operare, una volta decorsi 
i 
termini 
perentori 
per 
la 
contestazione, 
anche 
se 
osservati 
mediante 
l’atto 
emesso 
dal 
falsus 
procurator. 
invero, il 
lavoratore 
non può considerarsi 
terzo, del 
quale, rispetto all’effetto 
retroattivo della ratifica, sono fatti 
salvi 
i 
diritti 
a norma dell’art. 1399, secondo 
comma, c.c., giacché 
egli 
non è 
un avente 
causa dal 
dominus 
di 
diritti 
incompatibili 
con quello su cui 
è 
destinata ad incidere 
la dichiarazione 
unilaterale 
datoriale, siccome 
titolare 
di 
una posizione 
soggettiva costituita con 
il 
dominus 
proprio in virtù del 
rapporto di 
lavoro subordinato (cfr.: Cass. n. 
1250 del 
1985 e 
n. 2824 del 
1990). il 
lavoratore 
incolpato non può pertanto 
pretendere 
di 
contrapporre 
alla ratifica del 
dominus 
il 
verificarsi 
di 
preclusioni 
o decadenze 
che 
presuppongono l’inefficacia dell’atto ratificato e 
che 
invece 
devono ritenersi 
non verificatesi 
proprio per 
effetto dell’operatività ex 
tunc 
dalla ratifica, per 
cui 
l’atto emesso dal 
soggetto privo del 
potere 
rappresentativo 
è divenuto efficace sin dal suo compimento. 


La 
critica 
a 
tale 
indirizzo 
può 
svolgersi 
su 
due 
punti 
fondamentali. 
Il 
primo di 
essi 
consiste 
nell’affermazione 
che 
l’atto adottato da 
organo incompetente 
è 
nullo e 
ciò ne 
impedisce 
la 
ratifica 
ex art. 1399 la 
quale 
suppone 
una 
quantomeno parziale 
esistenza 
giuridica 
dell’atto. Inoltre 
il 
considerare 
il 
lavoratore 
non 
come 
un 
terzo 
che 
ha 
acquisito 
diritti 
incompatibili 
rispetto 
a 
quello oggetto della 
ratifica 
(cosa 
che 
certamente 
il 
lavoratore 
non è) per negargli 
gli 
effetti 
della 
tutela 
ad essi 
riconosciuta, oltre 
a 
presupporre 
nell’atto 
un vizio diverso dalla 
nullità, dimentica 
che 
il 
lavoratore 
è 
destinatario di 
un 
provvedimento che 
è 
soggetto a 
limiti 
temporali 
(che 
certamente 
riguardano 
il 
suo 
avvio 
e 
la 
sua 
conclusione) 
presidiati 
dalla 
nullità 
-in 
tal 
caso 
per 
espressa 
disposizione 
di 
legge 
automatica 
ed insanabile 
che 
non possono essere 
fittiziamente 
superati 
dalla 
retroattività 
ex 
tunc 
della 
ratifica. Anche 
se 
si 
volesse 
per mera 
ipotesi 
astrarre 
dalla 
nullità 
dell’atto per incompetenza 
occorrerebbe 
comunque 
assimilare 
la 
posizione 
del 
lavoratore 
a 
quello dei 
terzi 
tutelati, dal 
momento che 
alla 
posizione 
di 
soggezione 
di 
costui 
dinnanzi 
al 
diritto 
potestativo 
di 
irrogare 
una 
sanzione 
che 
fa 
capo 
al 
datore 
di 
lavoro 
sono 
connaturate 
alcune 
forme 
di 
protezione 
consistenti 
nella 
perentorietà 
dei 
termini 
per 
l’avvio 
e 
la 
conclusione 
del 
procedimento 
e 
l’avvenuto 
decorso 
di 
essi 
al 
momento dell’esercizio della 
ratifica 
rappresenta 
un dato immodificabile 
a suo danno, determinando esso la nullità della sanzione. 

Prima 
di 
esaminare 
le 
sentenze 
che 
operano un sindacato sulla 
compromissione 
del 
diritto di 
difesa 
nel 
caso specifico è 
bene 
citare 
nuovamente 
la 
sentenza 
della 
Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro 
5 
febbraio 
2004, 
(ud. 
2 
dicembre 
2003, n. 2168 la 
quale 
così 
individua 
la 
ratio 
dell’istituzione 
dell’uPd 
in 
cui 
si 
concentrano 
…tutte 
le 
attribuzioni 
in 
materia 
disciplinare 
(incisivamente 
si 
è 
accennato di 
“sua monofunzionalità rispetto al 
resto dell’apparato amministrativo” 
) 
conservandosi 
sostanzialmente 
la 
peculiarità 
del 
“pubblico 



impiego” 
tradizionale 
(cd. terzietà della “commissione 
di 
disciplina” 
su cui, 
da ultimo, Cass. n. 12684/2000) -che 
si 
era fatta preferire 
per 
una maggiore 
garanzia 
di 
imparzialità 
rispetto 
al 
settore 
del 
“lavoro 
privato” 
che 
cumulava 
nel 
datore 
di 
lavoro le 
funzioni 
di 
“accusatore”, “istruttore” 
e 
“giudice 
sanzionante 
la pena privata” 
-in quanto anche 
se 
per 
l’u.c.p.d. non è 
possibile 
più parlare 
di 
posizione 
di 
“terzietà”, sicuramente 
la “specializzazione” 
di 
tale 
organo e 
in special 
modo il 
suo distacco rispetto al 
capo della struttura 
del 
dipendente 
incolpato (cioè, a chi 
è 
-sia pure 
“in posizione 
attiva” 
-implicato 
direttamente 
nella 
vicenda 
disciplinare) 
tendono 
significativamente 
all’“imparzialità” 
del 
momento 
disciplinare 
nel 
pubblico 
impiego 
privatizzato. 


La 
specializzazione 
dell’uPd 
e 
la 
conseguente 
verosimile 
ed auspicata 
maggiore 
preparazione tecnica di esso costituiscono il suo tratto distintivo. 

Meno condivisibile 
è 
la 
sentenza 
nella 
parte 
in cui 
individua 
una 
sostanziale 
continuità 
tra 
le 
commissioni 
disciplinari 
di 
cui 
al 
dPr 
1957 
n. 
3 
e 
l’odierno uPd 
dal 
momento che 
le 
prime 
avevano una 
composizione 
corporativa 
essendo composte 
da 
dipendenti 
appartenenti 
alla 
carriera 
direttiva 
che 
manifestavamo 
in 
seno 
ad 
esse 
un 
sostanziale 
potere 
decisorio 
mentre 
l’odierno 
titolare 
dell’uPd 
è 
un 
dirigente 
che 
non 
ha 
garanzie 
del 
proprio 
status 
che 
ne 
corroborino 
l’imparzialità 
a 
fronte 
di 
possibili 
indebite 
pressioni 
cui 
possa 
essere 
sottoposto (quali 
una 
predefinita 
durata 
del 
suo incarico che 
ecceda 
la 
consueta 
durata 
triennale 
degli 
incarichi 
dirigenziali 
e 
la 
garanzia 
ove 
non sia 
incorso in responsabilità 
disciplinare 
o dirigenziale 
-di 
essere 
assegnato 
alla 
scadenza 
ad 
un 
incarico 
almeno 
equivalente 
all’ultimo 
espletato); 
pure 
l’imparzialità 
-che 
certamente 
sussiste 
nel 
caso in cui 
l’uPd 
si 
attivi 
su 
segnalazione 
del 
capo dell’ufficio in cui 
il 
dipendente 
lavori 
o di 
altri 
assicurando 
la 
separazione 
soggettiva 
con l’autore 
della 
denuncia 
-viene 
meno laddove, 
come 
pure 
è 
certamente 
possibile, 
l’uPd 
si 
attivi 
motu 
proprio 
sulla 
base 
di 
una 
diretta 
conoscenza 
del 
fatto o per averne 
appreso dai 
mezzi 
di 
informazione 
(26). 

Con esclusivo riferimento alle 
sanzioni 
disciplinari 
meno gravi 
di 
competenza 
del 
capo della 
struttura 
cui 
è 
addetto il 
dipendente 
Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 31 marzo 2023, n. 9121 (27) ha 
sostenuto che 
pur 
in assenza 
di 
tale 
previsione 
nell’organigramma 
dell’ente, 
l’eventuale 
applicazione 
della 
sanzione 
da parte 
non del 
superiore 
diretto immediatamente 
preposto all’ufficio 
presso cui 
il 
dipendente 
presta servizio, ma di 
altro dirigente 
ancora superiore 
ma pur 
sempre 
nella medesima linea gerarchica propria del 
settore 
di 
appartenenza, non comporta alcuna nullità della sanzione 
irrogata, risol


(26) LuCCA, Autosegnalazione 
del 
responsabile 
dell’Ufficio dei 
procedimenti 
disciplinari 
di 
una 
condotta 
disciplinarmente 
rilevante 
all’UPD 
non 
comporta 
l’obbligo 
di 
astensione 
per 
l’assenza 
del 
conflitto di interessi 
in risorse umane nella pubblica amministrazione, 2019, fasc. 2, pagg. 31-40. 


(27) italgiure web. 



vendosi 
nell’intervento 
di 
un 
dirigente 
comunque 
di 
pertinenza 
del 
settore 
presso cui 
il 
servizio è 
prestato, ma in maggiore 
posizione 
di 
terzietà e 
quindi 
con 
una 
ancora 
maggior 
garanzia 
per 
il 
dipendente: 
in 
tal 
caso 
sulla 
constatata 
difformità 
dell’organo 
che 
ha 
irrogato 
la 
sanzione 
rispetto 
a 
quello 
individuato 
come 
competente 
dalla 
legge 
fa 
premio 
l’avvenuto 
rispetto 
della 
terzietà 
mentre 
non viene 
in questione 
il 
profilo della 
specializzazione 
dell’uPd 
non trattandosi 
nel caso de quo. 

un 
limitato 
spazio 
al 
concorso 
-non 
viziante 
-di 
altri 
soggetti 
nella 
formazione 
dell’atto 
disciplinare 
è 
quello 
di 
cui 
si 
parla 
nella 
citata 
sentenza 
del 
7 
giugno 
2016 
n. 
11632 
(28). 
In 
essa 
l’uPd 
di 
un 
comune 
aveva 
formulato 
una 
proposta 
di 
licenziamento 
alla 
giunta 
comunale, 
affinchè 
essa 
eventualmente 
lo 
condividesse 
e 
la 
giunta, 
condividendolo, 
aveva 
dato 
mandato 
al 
dirigente 
dell’uPd 
di 
procedere 
alla 
sua 
adozione 
e 
trasmissione 
al 
destinatario. 
In 
merito 
a 
tale 
peculiare 
articolazione 
concreta 
del 
procedimento 
disciplinare 
la 
Cassazione 
afferma 
che 
non 
ogni 
interferenza 
di 
organi 
esterni 
all’UPD 
è, 
infatti, 
giuridicamente 
rilevante, 
tale 
essendo 
solo 
quella 
che 
abbia 
determinato 
decisiva 
-nel 
senso 
di 
sostitutiva 
e 
non 
meramente 
additiva 
-compartecipazione 
del 
soggetto 
estraneo 
all’adozione 
del 
provvedimento, 
con 
conseguente 
inammissibile 
sostanziale 
trasferimento 
della 
competenza 
dall’organo 
competente 
ad 
un 
diverso 
organo, 
sicuramente 
non 
competente. 
In 
quanto 
le 
violazioni 
delle 
regole 
procedurali 
che 
non 
si 
risolvano 
anche 
nella 
violazione 
delle 
norme 
sulla 
“competenza”, 
per 
essere 
stato 
in 
concreto 
l’intero 
procedimento 
disciplinare, 
in 
tutte 
le 
fasi, 
gestito 
in 
autonomia 
dall’organo 
competente 
e 
per 
essere 
stati 
tutti 
gli 
atti 
previsti 
adottati 
da 
quest’ultimo, 
non 
determinano 
per 
ciò 
solo 
nullità 
del 
procedimento 
e 
della 
sanzione 
adottata. 


Solo nell’ipotesi 
in cui 
la 
volontà 
dell’organo incompetente 
si 
manifesti 
in termini 
adesivi 
a 
quella 
espressa 
dall’uPd 
e 
cronologicamente 
successiva 
ad 
essa, 
tale 
volontà 
è 
sostanzialmente 
irrilevante 
ai 
fini 
della 
formazione 
dell’atto (un caso sussumibile 
in questa 
fattispecie 
è 
quello in cui 
l’uPd 
avvii 
il 
procedimento con le 
contestazioni, esperisca 
le 
attività 
istruttorie 
e 
l’audizione 
dell’incolpato, rediga 
il 
provvedimento e 
lo trasmetta 
al 
direttore 
generale 
della 
direzione 
in 
cui 
l’incolpato 
presti 
servizio, 
che 
lo 
firmi 
senza 
apportarvi 
alcuna 
modifica 
e 
lo 
trasmetta 
tempestivamente 
all’incolpato). 
Laddove 
invece 
un 
soggetto 
diverso 
avvii 
il 
procedimento 
disciplinare 
con 
le 
contestazioni 
ovvero 
indichi 
o 
suggerisca 
all’uPd 
la 
sanzione 
irrogabile, 
l’iniziativa 
assunta 
da 
altro soggetto sostituisce 
o precede 
quella 
dell’uPd 
e 
cessa 
pertanto di 
essere 
meramente 
additiva, assumendo un ruolo integrativo 
che diviene inscindibile rispetto alla volontà da quest’ultimo espressa. 


Tale 
sentenza 
ratione 
temporis 
antecedente 
alla 
novella 
del 
d.lgs. 
75/2017 


(28) italgiure web. 



compie 
una 
valutazione 
dell’effetto 
che 
sulla 
sanzione 
ha 
prodotto 
l’intervento 
di 
un organo terzo, palesemente 
incompetente, riconoscendo che 
la 
sanzione 
era 
sostanzialmente 
riconducibile 
alla 
determinazione 
dell’uPd 
senza 
procedere 
all’invalidazione 
della 
sanzione 
per 
la 
constatata 
difformità 
dalla 
fattispecie 
tipica, 
che 
riconosce 
in 
esso 
l’unico 
soggetto 
competente, 
come 
la 
normativa vigente avrebbe imposto. 

In 
termini 
più 
generali 
Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 
15 
novembre 
2022, 
n. 
33619 
(29) 
ha 
affermato 
che 
per 
i 
procedimenti 
disciplinari 
instaurati 
in relazione 
ad illeciti 
commessi 
dopo l’entrata in vigore 
del 
d.lgs. n. 75 del 
2017, 
l’erronea 
individuazione 
dell’organo 
interno 
alla 
P.A. 
titolare 
del 
potere 
disciplinare, nonché 
il 
mancato rispetto delle 
regole 
di 
costituzione 
e 
funzionamento 
dello 
stesso, 
incidono 
sulla 
legittimità 
della 
sanzione, 
espulsiva 
o 
conservativa, solo quando emerga che 
l’ufficio non sia terzo e 
specializzato, 
con 
concreta 
compromissione 
delle 
garanzie 
difensive 
dell’incolpato, 
in 
quanto l’introduzione 
dei 
commi 
9 bis 
e 
9 ter 
nell’art. 55 bis 
del 
d.lgs. n. 165 
del 
2001 ha ristretto l’ambito di 
applicazione 
della nullità prevista dal 
primo 
comma dell’art. 55 del 
medesimo decreto, sicché 
il 
carattere 
imperativo della 
disciplina in esame 
non è 
più da sola idonea a determinare, ex 
art. 1418 c.c., 
la nullità della sanzione. 


In merito a 
tale 
sentenza 
si 
deve 
precisare 
come 
la 
circostanza 
che 
iter 
procedimentale 
ed irrogazione 
della 
sanzione 
siano stati 
svolti 
da 
un organo 
diverso dall’uPd 
fa 
venir meno in re 
ipsa 
il 
requisito della 
specializzazione 
in capo all’ufficio che 
di 
fatto ha 
agito dal 
momento che 
tale 
requisito appartiene 
per definizione 
al 
solo uPd 
ma 
che 
ciò non rileva 
ai 
fini 
della 
caducazione 
della sanzione ove non risulti la compromissione del diritto di difesa. 

Nel 
prosieguo la 
sentenza 
afferma 
che 
il 
principio di 
terzietà, sul 
quale 
riposa 
la 
necessaria 
previa 
individuazione 
dell’ufficio dei 
procedimenti, non 
può 
essere 
confuso 
con 
quello 
di 
imparzialità 
dell’organo 
giudicante, 
che 
solo 
un soggetto terzo rispetto al 
lavoratore 
ed alla 
amministrazione 
potrebbe 
assicurare, 
e 
postula unicamente 
la distinzione 
sul 
piano organizzativo fra detto 
ufficio e 
la struttura nella quale 
opera il 
dipendente…ciò perché 
quel 
principio 
«riflette 
l’obiettivo 
di 
garantire, 
in 
relazione 
alle 
sanzioni 
di 
maggiore 
gravità, che 
tutte 
le 
fasi 
del 
procedimento disciplinare 
vengano condotte 
da 
un soggetto terzo, così 
da attuare 
un “sufficiente 
distacco dalla struttura lavorativa 
alla 
quale 
è 
addetto 
il 
dipendente 
autore 
dell’infrazione” 
e 
l’esigenza 
“di 
evitare 
che 
la 
cognizione 
disciplinare 
avvenga 
nell’ambito” 
stesso 
del-
l’ufficio 
di 
appartenenza 
(Cass. 
n. 
20417/2019, 
fra 
altre), 
nel 
quale 
potrebbero 
non 
sussistere 
le 
indispensabili 
condizioni 
di 
serenità 
e 
imparzialità 
nell’esame 
dei 
fatti» 
concludendo 
che 
dai 
richiamati 
principi 
non 
si 
è 
discostato 
il 
giudice 
d’appello 
il 
quale 
ha 
rilevato 
che 
il 
direttore 
generale 
non 
era 
il 
superiore 
ge


(29) italgiure web. 



rarchico 
diretto 
… 
e 
non 
aveva 
lui 
originariamente 
rilevato 
la 
violazione 
commessa 
ed 
effettuato la relativa segnalazione. 
Pertanto la 
Corte 
ritiene 
che 
solo 
la 
concentrazione 
dell’azione 
disciplinare 
nelle 
mani 
del 
responsabile 
della 
struttura 
in cui 
il 
dipendente 
lavora 
determini 
in re 
ipsa, la 
necessità 
di 
accertamenti 
in 
punto 
di 
fatto 
sul 
concreto 
esercizio 
dell’azione 
disciplinare, 
la 
violazione 
della 
terzietà 
e 
la 
caducazione 
della 
sanzione. 
Ciò 
sebbene 
la 
legge 
come 
novellata 
-nel 
riferirsi 
alle 
disposizioni 
sul 
procedimento disciplinare 
e 
quindi 
anche 
ai 
profili 
dell’incompetenza 
dell’organo -non faccia 
eccezioni 
consentendo 
che 
a 
fronte 
di 
un’accertata 
incompetenza 
si 
proceda 
alla 
verifica 
dell’effettiva 
rilevante 
compromissione 
del 
diritto di 
difesa; 
nella 
realtà 
ben 
può 
darsi 
l’ipotesi 
che 
-a 
dispetto 
del 
fatto 
che 
sia 
stato 
il 
superiore 
gerarchico 
diretto del 
dipendente 
a 
curare 
l’iter, irrogando la 
sanzione 
-non sia 
stato recato 
pregiudizio alla 
difesa 
del 
dipendente 
ad esempio qualora 
i 
fatti 
siano acclarati 
e 
la 
sanzione 
nei 
fatti 
vincolata, 
(tanto 
più 
che 
in 
caso 
di 
eccessi 
nel 
quantum 
della 
sanzione 
il 
giudice 
può comunque 
far ricorso a 
rideterminare 
la sanzione rendendola proporzionata ai fatti). 


Tale 
ultima 
sentenza 
ha 
avuto un consistente 
seguito nell’ambito del 
riparto 
delle 
competenze 
disciplinari 
tra 
ufficio in cui 
presta 
servizio il 
dipendente 
ed 
uPd 
operato 
dal 
d.lgs. 
75/2017 
che 
ha 
nuovamente 
riservato 
al 
primo 
l’irrogazione 
del 
solo 
rimprovero 
verbale 
in 
luogo 
delle 
sanzioni 
conservative 
sino 
alla 
sospensione 
dal 
servizio 
per 
10 
giorni 
con 
l’unica 
espressa 
eccezione 
contenuta 
nell’articolo 55 bis 
comma 
9 quater 
secondo cui 
per 
il 
personale 
docente, educativo e 
amministrativo, tecnico e 
ausiliario (ATA) presso le 
istituzioni 
scolastiche 
ed educative 
statali 
l’irrogazione 
di 
sanzioni 
fino alla sospensione 
dal 
servizio con privazione 
della retribuzione 
per 
dieci 
giorni 
è 
di 
competenza del 
responsabile 
della struttura in possesso di 
qualifica dirigenziale. 
Con specifico riferimento al 
personale 
docente 
delle 
scuole 
statali 
(30) 
infatti 
la 
struttura 
delle 
sanzioni 
disciplinari 
-fatta 
salva 
dall’articolo 
72 
comma 
1 lett. b) del 
d.lgs. 150/2009 -prevede 
che 
dopo le 
sanzioni 
dell’avvertimento 
scritto 
e 
della 
censura 
vi 
sia 
quella 
della 
sospensione 
sino 
a 
30 
giorni; 
nel 
caso in cui 
il 
dirigente 
scolastico avesse 
irrogato una 
sanzione 
sospensiva 
sino a 
10 giorni 
si 
è 
ritenuto che 
fosse 
affetta 
da 
incompetenza 
dal 
momento che 
essa 
doveva 
potersi 
determinare 
ex 
ante 
ed univocamente 
sulla 
base 
del 
limite 
edittale 
dei 
trenta 
giorni 
e 
che 
ogni 
illecito 
disciplinare 
cui 
fosse 
astrattamente 
applicabile 
la 
sanzione 
della 
sospensione 
fosse 
di 
competenza 
non del dirigente scolastico ma dell’uPd. 

Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 11 luglio 2024, n. 19097 (31) ha 
previsto 
che 
l’attribuzione 
della competenza al 
dirigente 
della struttura cui 
appar


(30) 
ZIANI, 
il 
potere 
disciplinare 
nel 
pubblico 
impiego 
e 
la 
potestà 
sanzionatoria 
dei 
dirigenti 
scolastici 
in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 
2021, fasc. 3, pagg. 725-756. 


(31) italgiure web. 



tiene 
il 
dipendente 
o all’Ufficio per 
i 
procedimenti 
disciplinari, ai 
sensi 
del-
l’art. 55-bis 
del 
d.lgs. n. 165 del 
2001, si 
definisce 
esclusivamente 
sulla base 
delle 
sanzioni 
edittali 
massime 
stabilite 
per 
i 
fatti 
contestati, e 
non sulla base 
della misura che 
la P.A. possa prevedere 
di 
irrogare; la misura applicata in 
violazione 
delle 
predette 
regole 
di 
competenza interna è 
invalida qualora la 
sanzione 
sia 
irrogata 
dal 
dirigente 
e 
responsabile 
della 
struttura 
in 
luogo 
dell’U.P.D., 
per 
le 
minori 
garanzie 
di 
terzietà 
offerte 
al 
lavoratore, 
stante 
l’identificazione 
fra 
la 
figura 
di 
chi 
è 
preposto 
al 
dipendente 
e 
di 
chi 
lo 
giudica 
in sede amministrativa. 


Esattamente 
in terminis 
Cassazione 
sezione 
lavoro, 23 febbraio 2023, n. 
5607, Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 27 marzo 2023, n. 8656, Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 20 novembre 
2019, n. 30226, Cassazione 
civile 
sezione 
lavoro, 3 ottobre 2019, n. 28111. 

Alla 
luce 
di 
questo uniforme 
orientamento giurisprudenziale 
deve 
concludersi 
che, 
laddove 
sia 
il 
dirigente 
dell’ufficio 
cui 
il 
dipendente 
è 
addetto 
ad 
irrogare 
la 
sanzione 
ciò ne 
determini 
la 
caducazione 
perché 
in capo a 
costui 
mancano 
tanto 
la 
terzietà 
quando 
la 
specializzazione 
e 
la 
conseguente 
connessa 
competenza. resta 
comunque 
da 
rilevare 
come 
tale 
interpretazione 
consideri 
eo ipso 
viziata 
la 
sanzione 
irrogata 
dal 
capo del 
dipendente, senza 
procedere 


-come 
è 
certamente 
consentito dalla 
normativa 
vigente 
-ad un’analisi 
della 
compromissione in concreto delle garanzie del dipendente. 

Peraltro l’interpretazione 
giurisprudenziale 
invalsa 
porta 
ad un interpretatio 
abrogans 
della 
norma 
relativamente 
al 
personale 
docente 
in quanto per 
esso la 
competenza 
del 
dirigente 
scolastico per le 
sanzioni 
superiori 
alla 
censura 
non vi 
sarebbe 
mai, con la 
conseguente 
frustrazione 
dell’intento del 
legislatore 
del 
d.lgs. 
75/2017 
che 
intendeva 
chiaramente 
accrescere 
la 
competenza 
disciplinare 
del 
dirigente 
scolastico dettando una 
disposizione 
specifica 
per il 
personale 
della 
scuola 
(l’art. 
55 
bis 
comma 
9 
quater) 
mentre 
procedeva 
al-
l’abrogazione 
per 
il 
resto 
del 
pubblico 
impiego 
dell’articolo 
55 
bis, 
nella 
parte 
in cui 
accresceva 
la 
competenza 
dirigenziale 
alla 
sanzione 
della 
sospensione 
sino 
a 
10 
giorni, 
restringendola 
come 
era 
in 
origine 
al 
solo 
avvertimento 
scritto. 

4. Collegialità ed imparzialità. 


L’istituzione 
e 
l’infungibilità 
dell’organo 
ufficio 
per 
i 
procedimenti 
disciplinari 
discendono 
dalla 
sua 
specializzazione 
tecnica, 
nonchè 
dalla 
sua 
relativa 
estraneità 
alla 
vicenda 
disciplinare 
di 
cui 
è 
investito, 
il 
cui 
protagonista 
sul 
versante 
datoriale 
è 
rappresentato 
dal 
capo 
della 
struttura 
in 
cui 
il 
dipendente 
lavora. 
Ciò 
è 
evidente 
nella 
sentenza 
della 
Cassazione 
del 
9 
dicembre 
2015 
n. 
24828 
(32) 
ove 
si 
legge 
che 
deve 
essere 
inoltre 
precisato 


(32) italgiure web. 



che, 
se 
è 
vero 
che 
il 
citato 
art. 
55 
bis 
d.lgs. 
n. 
165 
del 
2001 
ha 
sottratto 
al 
responsabile 
della 
struttura 
presso 
la 
quale 
il 
dipendente 
presta 
l’attività 
lavorativa 
la 
competenza 
per 
i 
provvedimenti 
disciplinari 
che 
possono 
culminare 
con 
le 
sanzioni 
più 
gravi 
ed 
ha 
a 
tal 
fine 
imposto 
alle 
Amministrazioni 
pubbliche 
di 
creare 
un 
ufficio 
a 
ciò 
destinato 
che 
sia 
terzo 
e 
imparziale, 
è 
anche 
vero 
che, 
come 
esattamente 
rilevato 
nella 
sentenza 
impugnata, 
il 
Direttore 
regionale, 
soggetto 
apicale 
al 
quale 
afferiscono 
tutti 
gli 
uffici 
presenti 
nella 
Direzione 
regionale, 
non 
può 
identificarsi 
nel 
capo 
della 
struttura 
presso 
la 
quale 
lavora 
il 
dipendente 
sottoposto 
al 
procedimento 
disciplinare. 
L’identificazione 
dell’UPD 
con 
il 
Direttore 
regionale, 
garantisce, 
per 
la 
posizione 
di 
vertice 
di 
quest’ultimo, 
un 
sufficiente 
distacco 
dalla 
struttura 
lavorativa 
alla 
quale 
è 
addetto 
il 
dipendente 
sottoposto 
a 
procedimento 
disciplinare. 
Viene 
così 
rispettata 
l’esigenza 
di 
evitare 
che 
la 
cognizione 
disciplinare 
avvenga 
nell’ambito 
dell’ufficio 
di 
appartenenza 
del 
lavoratore, 
ossia 
in 
un 
luogo 
dove 
lo 
stesso 
dirigente 
dell’ufficio 
ha 
un 
coinvolgimento 
diretto 
con 
l’autore 
dell’infrazione 
disciplinare. 


Ancora, nella 
sentenza 
Cassazione 
n. 1753 del 
2017 (33) si 
legge 
che 
è 
poi 
da escludere 
che 
la sanzione 
disciplinare 
possa essere 
ritenuta illegittima 
perché 
inflitta dalla Commissione 
Amministratrice, della quale 
faceva parte 
anche 
il 
soggetto che 
aveva provveduto a denunciare 
i 
comportamenti 
tenuti 
… 
in violazione 
dei 
doveri 
di 
ufficio. il 
principio di 
terzietà, sul 
quale 
riposa 
la 
necessaria 
previa 
individuazione 
dell’ufficio 
dei 
procedimenti, 
postula 
solo 
la 
distinzione 
sul 
piano 
organizzativo 
fra 
detto 
ufficio 
e 
la 
struttura 
nella 
quale 
opera il 
dipendente, sicché 
lo stesso non va confuso con la imparzialità del-
l’organo giudicante, che 
solo un soggetto terzo rispetto al 
lavoratore 
ed alla 
amministrazione 
potrebbe 
assicurare. 
il 
giudizio 
disciplinare, 
infatti, 
sebbene 
connotato 
da 
plurime 
garanzie 
poste 
a 
difesa 
del 
dipendente, 
è 
comunque 
condotto 
dal 
datore 
di 
lavoro, 
ossia 
da 
una 
delle 
parti 
del 
rapporto 
che, 
in 
quanto 
tale, 
non 
può 
certo 
essere 
imparziale, 
nel 
senso 
di 
essere 
assolutamente 
estraneo 
alle 
due 
tesi 
che 
si 
pongono a confronto. Ne 
discende 
che 
qualora, come 
nella 
fattispecie, 
l’ufficio 
dei 
procedimenti 
disciplinari 
abbia 
composizione 
collegiale 
e 
sia distinto dalla struttura nella quale 
opera il 
dipendente 
sottoposto 
a procedimento, non fa venire 
meno la terzietà dell’organo, nei 
termini 
sopra 
specificati, 
la 
sola 
circostanza 
che 
lo 
stesso 
sia 
composto 
anche 
dal 
soggetto che ha effettuato la segnalazione. 


Con specifico riferimento alla 
costituzione 
di 
un uPd 
monocratico Cassazione19 
agosto 
2016 
n. 
17125 
(34) 
precisa 
che 
l’individuazione 
dell’Ufficio 
Procedimenti 
Disciplinari 
(UPD), 
in 
forma 
monocratica, 
nella 
persona 
del 
Direttore 
regionale 
della 
Direzione 
regionale 
nella 
quale 
è 
compreso 
l’ufficio 


(33) Cit. supra. 


(34) italgiure web. 



nel 
quale 
il 
dipendente 
presta 
servizio 
è 
una 
scelta 
assolutamente 
logica 
e 
coerente 
con i 
principi 
di 
buona amministrazione 
e 
di 
garanzia del 
diritto di 
difesa 
in 
quanto 
facilita, 
da 
un 
lato, 
l’espletamento 
dell’indagine 
disciplinare, 
e, 
dall’altro, 
il 
reperimento, 
anche 
da 
parte 
del 
lavoratore, 
degli 
eventuali 
elementi 
finalizzati 
a discolparsi 
ed ancora che 
l’identificazione 
dell’UPD 
con 
il 
Direttore 
regionale, garantisce, per 
la posizione 
di 
vertice 
di 
quest’ultimo, 
un 
sufficiente 
distacco 
dalla 
struttura 
lavorativa 
alla 
quale 
è 
addetto 
il 
dipendente 
sottoposto a procedimento disciplinare. Viene 
così 
rispettata l’esigenza 
di 
evitare 
che 
la 
cognizione 
disciplinare 
avvenga 
nell’ambito 
dell’ufficio 
di 
appartenenza del 
lavoratore, ossia in un luogo dove 
lo stesso dirigente 
del-
l’ufficio 
ha 
un 
coinvolgimento 
diretto 
con 
l’autore 
dell’infrazione 
disciplinare, 
per 
cui 
appaiono infondate 
le 
allegazioni 
del 
ricorrente 
in punto violazione 
del principio di terzietà dell’Ufficio disciplinare. 

Pure 
nella 
sentenza 
del 
24 
gennaio 
2017 
numero 
1753 
sul 
piano 
dell’ 
iter 
procedimentale 
da 
seguire 
non 
veniva 
attribuito 
rilievo 
in 
tema 
di 
imparzialità 
dell’organo alla 
circostanza 
che 
la 
sanzione 
disciplinare 
fosse 
da 
considerarsi 
illegittima 
perché 
inflitta dalla Commissione 
Amministratrice, della quale 
faceva 
parte 
anche 
il 
soggetto che 
aveva provveduto a denunciare 
i 
comportamenti 
tenuti 
… 
in violazione 
dei 
doveri 
di 
ufficio. il 
principio di 
terzietà, sul 
quale 
riposa 
la 
necessaria 
previa 
individuazione 
dell’ufficio 
dei 
procedimenti, 
postula solo la distinzione 
sul 
piano organizzativo fra detto ufficio e 
la struttura 
nella quale 
opera il 
dipendente, sicché 
lo stesso non va confuso con la 
imparzialità dell’organo giudicante, che 
solo un soggetto terzo rispetto al 
lavoratore 
ed alla amministrazione potrebbe assicurare. 


Venendo 
alla 
composizione 
di 
tali 
organi 
si 
è 
già 
detto 
che 
la 
costituzione 
di 
organismi 
collegiali 
ovvero 
monocratici 
è 
concretamente 
rimessa 
alle 
libere 
determinazioni 
datoriali, ferma 
restando l’unicità 
di 
esso e 
la 
concentrazione 
delle 
funzioni 
requirenti 
e 
giudicanti 
(dettaglio 
questo 
confermativo 
della 
non 
assimilabilità 
del 
procedimento 
disciplinare 
ad 
un 
microprocesso, 
completo 
di tutte le garanzie derivantegli dall’articolo 24 Cost.). 

In caso di 
costituzione 
di 
uPd 
plurisoggettivi 
si 
è 
posta 
la 
domanda 
se 
essi 
debbano essere 
considerati 
come 
collegi 
perfetti, che 
per operare 
esigono 
la 
presenza 
contemporanea 
di 
tutti 
i 
componenti 
ovvero collegi 
semplici 
che 
operano purchè vi sia il 
quorum 
strutturale e deliberativo. 


Interrogata 
in proposito la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
fornito delle 
risposte. 
Nella 
sentenza 
del 
26 aprile 
2016 n. 8245 (35) la 
sezione 
lavoro della 
Cassazione 
precisava 
che 
non vi 
era 
normativa 
nazionale 
ovvero statuizioni 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
che 
ne 
imponessero 
la 
strutturazione 
come 
collegio perfetto e 
che 
la 
variabilità 
numerica 
era 
anche 
un tratto caratterizzante 
di 
alcuni 
collegi 
giurisdizionali. 
L’assenza 
di 
una 
regola 
generale 
rendeva 


(35) italgiure web. 



necessario alla 
Corte 
individuare 
i 
tratti 
distintivi 
dei 
collegi 
perfetti, individuabili 
attraverso il 
fatto che 
si 
fosse 
contestualmente 
proceduto alla 
nomina 
dei 
supplenti 
(tanto allo scopo di 
assicurare 
la 
continuità 
dell’organo, anche 
in caso di 
assenza 
di 
alcuno dei 
membri 
titolari) nonché 
nella 
composizione 
con 
soggetti 
dotati 
di 
professionalità 
complementari 
così 
da 
rendere 
ogni 
figura 
infungibile 
rispetto all’altra. Precisava 
altresì 
che 
-anche 
laddove 
ci 
si 
fosse 
trovati 
davanti 
ad un collegio perfetto -la 
contestuale 
presenza 
di 
tutti 
i 
componenti 
avrebbe 
dovuto 
concernere 
solo 
le 
attività 
valutative 
e 
deliberative 
vere 
e 
proprie 
(rispetto 
alle 
quali 
sussiste 
l’esigenza 
che 
tutti 
i 
suoi 
componenti 
offrano il 
proprio contributo ai 
fini 
di 
una corretta formazione 
della volontà 
collegiale) e 
non anche 
quelle 
preparatorie, istruttorie 
o strumentali, verificabili 
a 
posteriori 
dall’intero 
consesso. 
Conseguentemente 
ne 
ricavava 
la 
conseguenza 
che 
un adempimento meramente 
istruttorio -perché 
di 
per sé 
stesso 
improduttivo di 
effetti 
-come 
l’audizione 
dell’incolpato poteva 
essere 
posto 
in essere 
anche 
da 
uno solo dei 
componenti; 
la 
Cassazione 
proseguiva 
affermando 
che 
non trattandosi 
di 
collegio perfetto una volta che 
sia stato regolarmente 
costituito, 
può 
legittimamente 
deliberare 
purché 
il 
numero 
dei 
componenti 
non scenda al 
di 
sotto del 
quorum, con la conseguenza che 
esso 
può funzionare 
anche 
con la sola presenza di 
due, sempre 
che 
la legge 
che 
ne 
disciplina il funzionamento non preveda diversamente. 


Con 
riferimento 
alla 
delegabilità 
di 
atti 
istruttori 
a 
soggetti 
non 
componenti 
l’uPd 
né 
assegnati 
ad 
esso, 
la 
di 
poco 
precedente 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
del 
9 
dicembre 
2015 
n. 
24828 
(36) 
aveva 
analogamente 
ritenuto 
come 
in 
materia 
di 
delega 
del 
procedimento 
ad 
altro 
dirigente 
dell’ufficio, 
deve 
osservarsi 
che, 
come 
correttamente 
rilevato 
dalla 
Corte 
territoriale, 
tale 
delega 
aveva 
ad 
oggetto 
unicamente 
una 
specifica 
attività 
istruttoria, 
costituita 
dall’audizione 
del 
dipendente 
e 
che 
era 
coerente 
con 
la 
natura 
della 
delega 
che, 
una 
volta 
esaurita 
l’attività 
delegata, 
l’esercizio 
dell’attività 
disciplinare 
ritorni 
al 
delegante, 
nella 
specie 
il 
Direttore 
regionale 
che 
pertanto, 
quale 
UPD 
aveva 
nelle 
proprie 
competenze 
quella 
di 
irrogare 
il 
provvedimento 
espulsivo. 


Nella 
sentenza 
27 settembre 
2015 n. 24157 (37) nella 
quale 
ci 
si 
trovava 
di 
fronte 
ad 
un 
organo 
collegiale 
pacificamente 
composto 
da 
tre 
membri 
si 
era 
verificata 
la 
condizione 
che 
tutto 
il 
procedimento 
disciplinare 
nei 
confronti 
dell’odierno controricorrente 
è 
stato avviato, istruito e 
concluso (con la relazione 
finale 
indirizzata 
al 
Commissario 
straordinario) 
da 
un 
solo 
componente 
dell’ufficio per 
i 
procedimenti 
disciplinari; 
la 
Cassazione 
afferma 
che 
a 
prescindere 
dalla 
natura 
di 
collegio 
perfetto 
o 
meno 
dell’organo 
procedente 
in 
nessun 
caso 
un 
collegio 
imperfetto 
può 
ridursi 
ad 
operare 
attraverso 
uno 
solo 


(36) ibidem. 


(37) itagiure web. 



dei 
propri 
membri, di 
fatto venendosi 
ad equiparare 
ad un organo monocratico, 
in 
violazione 
dell’ordinamento 
interno 
del 
Consorzio 
ricorrente 
che 
prevede 
pur 
sempre 
un 
organo 
collegiale 
per 
i 
procedimenti 
disciplinari, 
facendone discendere la nullità della sanzione irrogata. 

Anche 
la 
sentenza 
della 
cassazione 
sezione 
lavoro del 
16 aprile 
2018 n. 
9314 (38) -nella 
quale 
l’irrogazione 
della 
sanzione 
era 
avvenuta 
da 
parte 
di 
un uPd 
che 
non operava 
nel 
suo plenum 
-esclude 
sul 
punto la 
nullità 
della 
sanzione. La 
sentenza 
perviene 
a 
determinare 
la 
natura 
di 
collegio imperfetto 
dell’uPd 
dell’ente 
che 
era 
composto di 
4 componenti, fra 
cui 
il 
presidente. 
Le 
ragioni 
per individuare 
in esso un collegio imperfetto vengono fatte 
consistere 
nella 
circostanza 
che 
al 
voto del 
presidente 
non fosse 
attribuita 
maggior 
rilevanza 
in caso di 
parità 
numerica 
nella 
decisione 
(il 
che 
era 
indice 
del 
fatto 
che 
l’ente 
ben poteva 
operare 
e 
decidere 
con tre 
membri) nonchè 
nella 
circostanza 
che 
mancando il 
presidente 
non si 
perveniva 
alla 
sua 
sostituzione, ma 
uno dei 
membri 
ne 
assumeva 
le 
veci, il 
che 
significava 
che 
in tali 
circostanze 
il 
collegio era 
-secondo le 
sue 
stesse 
previsioni 
imperfetto in quanto funzionante 
con tre soli membri in luogo dei quattro che lo costituivano. 

Nella 
sentenza 
della 
Cassazione 
sezione 
lavoro del 
27 giugno 2019 numero 
17357 
(39) 
è 
interessante 
notare 
che 
a 
fronte 
di 
un 
uPd 
collegiale 
vi 
fosse 
stata 
l’adozione 
dell’atto 
di 
contestazione 
degli 
addebiti 
ad 
opera 
del 
solo 
presidente; 
a 
fronte 
di 
ciò 
la 
Corte 
nell’affermare 
che 
il 
plenum 
di 
un 
collegio 
perfetto opera soltanto nella fase decisoria e valutativa ascriveva l’adozione 
della 
contestazione 
degli 
addebiti 
ad opera 
di 
un solo componente 
agli 
atti 
meramente 
istruttori, affermando che 
essa non ha natura decisoria né 
è 
espressione 
di 
un 
potere 
discrezionale, 
in 
quanto 
nell’ambito 
dell’impiego 
pubblico contrattualizzato, a differenza dell’impiego privato, l’iniziativa disciplinare 
è doverosa. 


deve 
al 
contrario ritenersi 
che 
la 
contestazione 
degli 
addebiti 
-in quanto 
atto che 
avvia 
formalmente 
il 
provvedimento disciplinare 
determinandone 
il 
necessario svolgimento sino all’epilogo (il 
cui 
esito è 
alternativamente 
l’irrogazione 
della 
sanzione 
ovvero l’archiviazione) e 
la 
cui 
tardiva 
adozione 
comporta 
la 
decadenza 
dall’adozione 
del 
provvedimento o la 
nullità 
dello stesso 
se 
adottato -abbia 
contenuto decisorio in quanto la 
sua 
adozione 
implica 
che 
si 
sia 
formata 
la 
convinzione 
sull’esistenza 
di 
un illecito disciplinare 
ed esiga 
una 
determinazione 
volitiva 
comune 
e 
quindi 
se 
non sanata 
con la 
tempestiva 
adozione 
di 
un atto collegiale 
o di 
ratifica 
dell’operato di 
un singolo componente 
-debba 
comportare 
la 
nullità 
della 
sanzione 
irrogata, dal 
momento che 
è 
un 
solo 
componente 
a 
decidere 
l’avvio 
del 
procedimento 
con 
violazione 
della 
collegialità; 
né 
la 
successiva 
adozione 
collegiale 
di 
un 
provvedimento 
con


(38) italgiure web. 
(39) ibidem. 



forme 
alla 
contestazione 
adottata 
varrebbe 
a 
sanare 
il 
vulnus 
inferto alla 
collegialità 
perché 
non 
potrebbe 
sanare 
l’avvenuto 
decorso 
del 
termine 
perentorio 
per la contestazione. 

Al 
contrario 
la 
decisione 
della 
Corte 
è 
diversa 
dal 
momento 
che 
attrae 
nell’ambito 
della 
nullità 
per 
violazione 
di 
norme 
imperative 
sulla 
competenza 
solo 
le 
fattispecie 
in 
cui 
vi 
sia 
l’intervento 
decisivo 
di 
altro 
organo, 
ma 
non 
la 
violazione 
delle 
regole 
interne 
di 
funzionamento 
dell’uPd 
laddove 
sia 
questo 
e 
non 
altro 
organo 
ad 
intervenire. 
Testualmente 
la 
sentenza 
recita: 
occorre 
distinguere 
le 
regole 
legali 
sulla 
competenza 
da 
quelle 
regolamentari 
che 
disciplinano 
la 
costituzione 
e 
il 
funzionamento 
dell’organo 
collegiale 
secondo 
l’ordinamento 
interno 
di 
ciascuna 
Pubblica 
Amministrazione, 
perché 
il 
d.lgs. 
n. 
165/2001 
«non 
attribuisce 
natura 
imperativa 
“riflessa” 
al 
complesso 
delle 
regole 
procedimentali 
interne 
che 
regolano 
la 
costituzione 
e 
il 
funzionamento 
dell’UPD». 
Ciò 
perché 
l’interpretazione 
del-
l’art. 
55-bis, 
comma 
4, 
non 
può 
essere 
ispirata 
ad 
un 
eccessivo 
formalismo 
ma 
deve 
essere 
coerente 
con 
la 
sua 
ratio, 
che 
è 
quella 
di 
tutelare 
il 
diritto 
di 
difesa 
dei 
dipendenti 
pubblici, 
senza 
alcuna 
eccezione, 
anche 
per 
i 
casi 
più 
gravi 
di 
condotte 
penalmente 
rilevanti, 
tenendo, 
però, 
in 
considerazione 
i 
principi 
di 
cui 
agli 
artt. 
54, 
97 
e 
98 
Cost. 


La 
costituzione 
di 
un 
uPd 
come 
ufficio 
non 
dirigenziale 
ed 
il 
conseguente 
necessario 
affidamento 
ad 
un 
non 
dirigente 
costituiscono 
soluzione 
obbligata 
nei 
comuni 
privi 
di 
figure 
dirigenziali. 
L’articolo 
109 
comma 
2 
del 
d.lgs. 
267/2000 
decreto 
legislativo18 
agosto 
2000, 
n. 
267 
Testo 
unico 
delle 
leggi 
sull’ordinamento degli 
enti 
locali 
dispone 
che 
nei 
comuni 
privi 
di 
personale 
di 
qualifica dirigenziale 
le 
funzioni 
di 
cui 
all’articolo 107, commi 
2 e 
3, 
fatta 
salva 
l’applicazione 
dell’articolo 
97, 
comma 
4, 
lettera 
d), 
possono 
essere 
attribuite, a seguito di 
provvedimento motivato del 
sindaco, ai 
responsabili 
degli 
uffici 
o 
dei 
servizi, 
indipendentemente 
dalla 
loro 
qualifica 
funzionale, 
anche in deroga a ogni diversa disposizione. 


Tale 
eventualità 
anche 
laddove 
non 
sia 
imposta 
dalla 
carenza 
di 
figure 
dirigenziali 
trova 
riscontro nella 
sentenza 
della 
Cassazione 
sezione 
lavoro del 
3 
giugno 2004 numero 10600 (40) nella 
quale 
si 
rigetta 
l’argomentazione 
che 
riteneva 
l’uPd 
non 
legittimamente 
costituito 
per 
la 
presenza 
di 
due 
funzionari 
con qualifica 
inferiore 
a 
quella 
degli 
incolpati 
non essendo previsto da alcuna 
norma che 
di 
esso dovessero far 
parte 
soggetti 
aventi 
pari 
grado degli 
incolpati, 
né 
si 
trattava 
di 
requisito 
idoneo 
ad 
assicurare 
l’imparzialità 
dell’organo 
disciplinare 
(principio attinente 
all’amministrazione 
attiva e 
volto ad assicurare 
il 
pari 
comportamento di 
fronte 
a tutti 
i 
cittadini 
nella gestione 
del 
bene 
pubblico), 
mentre 
in 
sede 
disciplinare 
la 
garanzia 
di 
imparzialità 
è 
assicurata 
dall’affidamento della decisione 
sanzionatoria a un organismo diverso dal


(40) ibidem. 



l’ente 
datore 
di 
lavoro, 
e 
tale 
è 
l’U.P.D., 
struttura 
autonoma 
precostituita 
presso la provincia. 


In realtà 
la 
violazione 
delle 
norme 
interne 
di 
costituzione 
dell’organo va 
valutata 
-nella 
sua 
portata 
invalidante 
-nella 
concreta 
incidenza 
esplicata 
sulle 
esigenze 
di 
tutela. Nella 
sentenza 
di 
Cassazione 
sezione 
lavoro del 
25 ottobre 
2017 
n. 
25379 
(41) 
il 
lavoratore 
si 
doleva 
della 
non 
regolare 
costituzione 
dell’uPd 
rispetto alla 
previsione 
delle 
norme 
organizzative 
che 
ne 
avevano 
determinato la 
struttura 
dal 
momento che, a 
fronte 
di 
una 
previsione 
di 
un organo 
collegiale 
interamente 
composto 
da 
personale 
munito 
di 
laurea 
in 
materie 
giuridiche 
un 
componente 
tale 
requisito 
non 
possedeva 
essendo 
laureato 
in 
economia 
e 
commercio. La 
Cassazione 
respinge 
la 
censura 
osservando che 
la 
mancanza di 
uno dei 
requisiti 
richiesti 
per 
la nomina, riferito alla laurea in 
discipline 
giuridiche 
da 
parte 
di 
uno 
solo 
dei 
componenti 
dell’ufficio, 
non 
poteva 
risolversi 
in un vizio della costituzione 
dell’organo collegiale, in quanto 
il 
possesso del 
titolo di 
studio da parte 
degli 
altri 
componenti 
garantiva che 
l’organo 
collegiale 
agisse 
sulla 
base 
di 
quelle 
conoscenze 
giuridiche 
la 
cui 
rilevanza era stata rimarcata dall’appellante. 
Tale 
ultima 
decisione, seppur 
succintamente 
motivata, 
è 
corretta 
perché 
la 
sanzione 
risulta 
dagli 
atti 
di 
causa 
irrogata 
dall’intero collegio e 
pertanto la 
prova 
di 
resistenza 
-ossia 
la 
verifica 
del 
se, senza 
la 
partecipazione 
al 
voto del 
soggetto privo dei 
requisiti, si 
sarebbe 
comunque 
formata 
una 
maggioranza 
-dà 
esito positivo; 
comunque 
dal 
solo 
mancato 
possesso 
dei 
requisiti 
di 
qualificazione 
richiesti 
dalle 
disposizioni 
interne 
per far parte 
dell’uPd 
non potrebbe 
farsi 
discendere 
la 
rilevante 
compromissione 
del 
diritto di 
difesa 
richiesta 
per gli 
illeciti 
commessi 
prima 
del-
l’entrata in vigore del d.lgs. 75 del 2017. 

Con 
riferimento 
da 
ultimo 
alla 
delegabilità 
di 
atti 
istruttori 
a 
soggetti 
non 
componenti 
l’uPd 
né 
assegnati 
ad 
esso, 
Cassazione 
sezione 
lavoro 
del 
9 
dicembre 
2015 
n. 
24828 
(42) 
ha 
ritenuto 
come 
in 
materia 
di 
delega 
del 
procedimento 
ad 
altro 
dirigente 
dell’ufficio, 
deve 
osservarsi 
che, 
come 
correttamente 
rilevato 
dalla 
Corte 
territoriale, 
tale 
delega 
aveva 
ad 
oggetto 
unicamente 
una 
specifica 
attività 
istruttoria, 
costituita 
dall’audizione 
del 
dipendente 
e 
che 
era 
coerente 
con 
la 
natura 
della 
delega 
che, 
una 
volta 
esaurita 
l’attività 
delegata, 
l’esercizio 
dell’attività 
disciplinare 
ritorni 
al 
delegante, 
nella 
specie 
il 
Direttore 
regionale 
che 
pertanto, 
quale 
UPD 
aveva 
nelle 
proprie 
competenze 
quella 
di 
irrogare 
il 
provvedimento 
espulsivo. 


Conclusivamente 
deve 
ritenersi 
che 
laddove 
l’uPd 
venga 
costituito 
in 
forma 
collegiale 
l’invalidità 
della 
sanzione 
si 
produca 
laddove 
esso abbia 
nei 
fatti 
operato come 
organo monocratico ovvero con un numero di 
componenti 
inferiore 
al 
proprio quorum 
strutturale 
(ad esempio 2 in luogo dei 
5 in ipotesi 


(41) ibidem. 
(42) ibidem. 



previsti 
dalle 
norme 
istitutive), 
perché 
in 
questi 
casi 
viene 
meno 
la 
collegialità 
ovvero 
essa 
è 
irreversibilmente 
alterata 
con 
un’ovvia 
ripercussione 
sulla 
difesa 
del 
dipendente 
incolpato, 
dal 
momento 
che 
è 
evidente 
che 
la 
deliberazione 
avrebbe 
potuto assumere 
un diverso e 
più favorevole 
esito attraverso le 
dinamiche 
intrinseche 
alla 
collegialità, senza 
che 
per il 
mancato coinvolgimento 
degli 
altri 
membri 
possa 
procedersi 
alla 
cosiddetta 
prova 
di 
resistenza, accertandosi 
che 
se 
anche 
gli 
altri 
componenti 
si 
fossero pronunciati 
in favore 
del 
dipendente la sanzione sarebbe comunque stata adottata a maggioranza (43). 

(43) BENVISTo, Funzionamento degli 
organi 
collegiali 
in 
Enti 
pubblici, 
2004, fasc. 1, pagg. 22


24. 



operazioni sotto copertura 
nuovi possibili orizzonti 


Giuseppe Coccia* 


Sin da 
tempi 
remoti, alcune 
figure 
-quali 
gli 
“indices” 
ed i 
“delatores”creavano 
le 
condizioni 
idonee 
per porre 
in essere 
denunce 
all’Autorità 
o istigavano 
altri 
alla 
commissione 
di 
reati, da 
cui 
si 
dissociavano, per trarne 
benefici 
personali. 
A 
questi 
soggetti 
si 
fa 
risalire 
la 
genesi 
della 
figura 
dell’operatore 
sotto 
copertura 
e 
dell’agente 
provocatore, 
figure 
apparentemente 
simili 
ma 
connotate 
da 
profonde 
dissomiglianze 
di 
natura 
sostanziale, 
specie 
per 
la 
tutela 
dell’indagato. 
Partendo 
dall’analisi 
delle 
origini 
dell’istituto 
giuridico, 
il 
lavoro 
si 
prefigge 
di 
effettuare 
una 
ricostruzione 
storica 
dello 
stesso 
e 
dell’evoluzione 
normativa 
connessa, 
al 
fine 
di 
permetterne 
un 
inquadramento 
complessivo, 
anche 
con riferimento alla 
normativa 
anglosassone; 
procede 
successivamente 
all’analisi 
dei 
possibili 
nuovi 
orizzonti 
per le 
operazioni 
undercover, con particolare 
riferimento al 
contrasto dei 
reati 
a 
pregiudizio della 
Pubblica 
Amministrazione. 


SOmmAriO: 1. Premessa -2. inquadramento storico della figura -3. L’estensione 
delle 
operazioni 
sotto copertura e 
la Legge 
Spazzacorrotti 
del 
9 gennaio 2019 n. 3 -Bibliografia, 
sitografia et al. di riferimento. 


1. Premessa. 


Messico 
-u.S.A, 
1985: 
7 
febbraio 
del 
1985, 
“Kiki” 
Camarena, 
agente 
della 
d.E.A. -agenzia 
u.S.A. preposta 
al 
contrasto dei 
traffici 
di 
stupefacenti 


-veniva 
rapito e 
dopo indicibili 
sevizie 
e 
torture, brutalmente 
assassinato per 
mano dei 
capi 
dei 
cartelli 
della 
droga 
messicani. L’agente 
speciale 
durante 
la 
sua 
attività 
sotto copertura, svolta 
in gran parte 
in Messico quale 
impiegato 
dell’ambasciata 
statunitense, aveva 
permesso alla 
d.E.A. di 
sferrare 
colpi 
pesantissimi 
alle 
organizzazioni 
criminali 
presenti 
-spesso in guerra 
tra 
loro nei 
martoriati 
territori 
messicani. Camarena 
aveva 
intuito che 
le 
associazioni 
malavitose 
prosperavano nel 
Paese 
sudamericano a 
causa 
della 
dilagante 
corruzione 
(1), 
presente 
in 
tutti 
gli 
strati 
della 
società 
messicana; 
tra 
i 
ceti 
inferiori 
era 
diffusa 
la 
prassi 
del 
clientelismo 
mentre 
tra 
le 
classi 
sociali 
più 
agiate 
erano 


(*) ufficiale 
della 
Guardia 
di 
Finanza, attualmente 
in forza 
al 
Comando Generale 
della 
Guardia 
di 
Finanza; 
cultore 
in materia 
di 
antiriciclaggio e 
contrasto al 
finanziamento del 
terrorismo, della 
lotta 
alle 
forme 
di 
criminalità 
organizzata 
e 
studioso/conoscitore 
delle 
sempre 
più strette 
relazioni 
-a 
volte 
identificazione 
totale 
-tra 
colletti 
bianchi 
e 
criminalità 
organizzata; 
cultore 
delle 
tecniche 
di 
ingegneria 
sociale 
e forme di contrasto alla stessa. 


(1) https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. 



spesso presenti 
tracce 
di 
compromissione 
con i 
cartelli 
della 
droga. Politica, 
imprenditoria, apparati 
statali 
e 
polizia 
messicana 
erano intrecciati 
in un intricato 
- e apparentemente indistricabile - groviglio di legami e commistioni. 


* 


Italia, 
2012: 
lo 
chiamavano 
“Geppo” 
(2) 
ed 
alla 
sua 
morte, 
i 
colleghi 
del 
GICo 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
ed 
i 
magistrati 
con 
cui 
aveva 
lavorato 
per 
più 
di 
dieci 
anni, 
hanno 
voluto 
ricordare 
la 
figura 
del 
maresciallo 
Fabio 
Pedrotti, 
straordinario 
agente 
sotto 
copertura; 
alcune 
delle 
sue 
operazioni 
di 
infiltrazione 
hanno 
fatto 
scuola 
e 
sono 
ormai 
citate 
nei 
testi 
destinati 
ad 
addestrare 
gli 
agenti 
operativi 
di 
tutta 
Europa. 
Con 
lui, 
grazie 
al 
suo 
coraggio 
ed 
alla 
sua 
perizia, 
la 
Procura 
di 
Trieste 
ha 
potuto 
risolvere 
decine 
di 
operazioni 
antidroga 
all’estero 
e 
in 
Italia. 
Nel 
2002, 
per 
citarne 
una, 
aveva 
partecipato 
ad 
un’operazione 
riuscendo 
a 
intercettare 
25 
chili 
di 
eroina 
prelevati 
in 
Macedonia 
e 
ad 
arrestare 
i 
destinatari 
in 
Italia. 
Fabio 
Pedrotti 
era 
riuscito 
a 
infiltrarsi, 
assieme 
ad 
una 
poliziotta 
slovena, 
nell’organizzazione; 
aveva 
vissuto 
con 
i 
trafficanti 
per 
una 
settimana, 
ne 
aveva 
conquistato 
la 
fiducia 
tanto 
da 
riuscire 
a 
farsi 
affidare 
il 
trasporto, 
con 
un 
camper, 
della 
droga 
attraverso 
cinque 
Paesi 
-scortato 
da 
una 
staffetta 
dell’organizzazione 
malavitosa. 
Era 
entrato 
in 
Italia 
ed 
aveva 
proseguito 
fino 
a 
Firenze, 
meta 
finale 
del 
traffico. 
di 
operazioni 
come 
queste, 
“Geppo” 
ne 
aveva 
portate 
a 
termine 
decine, 
in 
Italia, 
nei 
Balcani 
e 
nei 
Paesi 
sudamericani. 


* 


Italia, 2022: 
Il 
Nucleo PEF 
Guardia 
di 
Finanza 
di 
Trieste, ha 
inferto un 
duro colpo al 
gruppo criminale 
colombiano “Clan del 
Golfo”, operante 
in più 
regioni 
d’Italia. Le 
evidenze 
probatorie 
sono state 
raccolte 
anche 
attraverso 
l’accorto impiego di 
agenti 
“sotto copertura”, che 
si 
sono infiltrati 
nell’organizzazione, 
simulando 
di 
gestire 
la 
parte 
logistica 
necessaria 
a 
permettere 
i 
traffici. La 
raccolta 
delle 
prove 
è 
stata 
resa 
possibile 
attraverso ben 19 “consegne 
controllate”, 
fra 
maggio 
2021 
e 
maggio 
2022, 
grazie 
alle 
quali 
sono 
stati 
individuati 
importanti 
mediatori 
nel 
sistema 
del 
narcotraffico mondiale 
ed un 
cospicuo 
numero 
di 
vettori 
che 
operavano 
sia 
in 
territorio 
nazionale 
che 
estero. 
Sono 
stati 
4.300 
i 
kg 
di 
cocaina 
sottoposta 
a 
sequestro 
(uno 
dei 
più 
grandi 
mai 
avvenuti 
in 
Europa) 
(3), 
che 
avrebbe 
permesso 
guadagni 
da 
capogiro 
una 
volta 
sul mercato al dettaglio. 


Il 
breve 
riferimento a 
persone, territori 
e 
tempi 
storici 
recenti 
diversi 
permette 
di 
comprendere 
l’importanza 
degli 
interventi 
realizzati 
attraverso la 
figura 
dell’agente 
sotto 
copertura, 
specie 
negli 
ultimi 
decenni 
ed 
in 
modo 


(2) https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2012/05/01/news/finanziere-morto-era-un-agentesotto-
copertura-1.4448520. 


(3) 
https://www.ilgazzettino.it/nordest/trieste/operazione_guardia_finanza_sequestro_cocaina_colombia_
narcotraffico_arresti-6737999.html?refresh_ce. 



particolare 
in riferimento alle 
operazioni 
antidroga, anche 
se, come 
si 
vedrà 
nel 
prosieguo 
della 
trattazione, 
l’istituto 
giuridico 
in 
argomento 
può 
essere 
efficacemente 
utilizzato 
per 
realizzare 
un 
proficuo 
contrasto 
di 
altri 
reati, 
da 
quelli 
più odiosi 
nei 
confronti 
della 
persona 
umana 
-quali 
quelli 
connessi 
alla 
pedofilia 
ed allo sfruttamento della 
prostituzione 
ad esempio -a 
quelli 
tipicamente 
finanziari 
-quali 
il 
riciclaggio ed il 
finanziamento al 
terrorismo, specie 
quello di 
natura 
islamica 
(4) -passando per molteplici 
altre 
ipotesi 
delittuose. 

2. inquadramento storico della figura. 


La 
figura 
giuridica 
dell’agente 
provocatore 
ha 
origini 
antiche. Secondo 
la 
dottrina 
tedesca 
è 
agente 
provocatore 
colui 
che 
determina 
altri 
a 
commettere 
un reato allo scopo di 
far sorprendere 
il 
“provocato” 
in stato di 
flagranza, di 
creare 
le 
condizioni 
per 
denunciarlo 
all’autorità 
oppure 
istiga 
qualcuno 
a 
commettere 
un 
delitto 
per 
vendetta, 
per 
avere 
profitto 
dalla 
punizione 
del 
soggetto 
determinato 
(5). 
Possiamo 
affermare, 
quasi 
con 
certezza, 
come 
tale 
figura 
possa, di 
fatto, essere 
originata 
dall’antica 
figura 
degli 
indices 
e 
dei 
delatores 


(6) presenti 
nell’antica 
roma. Tali 
soggetti, nel 
primo caso si 
dissociavano da 
un crimine 
che 
avevano contribuito a 
preparare 
e 
lo denunciavano, i 
secondi 
invece, non avendo fornito alcun apporto causale 
ad un’attività 
criminale, ne 
segnalavano 
i 
promotori 
alle 
autorità. 
Entrambe 
le 
figure 
ricevevano 
in 
cambio 
benefici 
(7). Tale 
“attività”, si 
è 
evoluta 
ed oggi 
constatiamo tre 
diversi 
metodologie 
di 
approccio, 
che 
porta 
all’enucleazione 
di 
tre 
differenti 
profili 
di 
agente 
provocatore 
e 
quindi 
la 
finta 
vittima, il 
finto acquirente 
e 
l’infiltrato; 
tutte 
accomunate 
dalla 
finalità 
di 
cogliere 
l’autore 
del 
delitto per cui 
si 
opera 
in flagranza di reato (8). 

Approfondiremo la 
figura 
dell’infiltrato. L’operatore 
di 
polizia 
che 
intervenga 
quale 
infiltrato 
ha 
lo 
scopo 
di 
insinuarsi 
in 
un’organizzazione 
criminale 
al 
fine 
di 
carpirne, in virtù della 
sua 
posizione 
di 
“spettatore 
favorito”, la 
sua 
struttura, la 
composizione 
soggettiva 
e 
gli 
scopi 
delittuosi 
che 
i 
compartecipi 
si prefiggono di conseguire. 


In 
campo 
operativo 
e 
per 
le 
esigenze 
connesse 
ad 
assicurare 
le 
scriminanti 
previste 
dalla 
vigente 
normativa 
penale 
assume 
particolare 
rilievo la 
netta 
di


(4) G. CoCCIA, il 
finanziamento al 
sedicente 
Stato islamico attraverso l’utilizzo dei 
servizi 
informali 
per 
il 
Trasferimento dei 
Valori. il 
caso “Hawala” 
ed il 
motivo della sua potenziale 
maggiore 
diffusione 
a seguito della sconfitta militare 
subita sul 
territorio dal 
Califfato, in rass. Avv. Stato, 2020, 
III, pp. 171-189. 
(5) C. dE 
MAGLIE, L’agente 
provocatore. Un’indagine 
dommatica e 
politico-criminale, Giuffrè, 
Milano, 1991. 


(6) 
49° 
Corso 
Superiore 
di 
Polizia 
Economico-Finanziaria 
-Ten. 
Col. 
Giuseppe 
di 
Noi, 
Ten. 
Col. 
Girolamo Franchetti. 
(7) 
M.F. 
PETrACCIA, 
indices 
e 
Delatores 
nell’antica 
roma, 
Edizioni 
universitarie 
di 
Lettere, 
Economia, 
diritto, Milano, 2014. 


(8) F.C. PALAZZo, Corso di diritto penale: parte generale, Giappichelli, Torino, 2021. 



stinzione 
tra 
la 
figura 
dell’agente 
provocatore 
e 
quella 
dell’infiltrato, 
ove 
è 
massima 
l’esperienza 
del 
Corpo. 
Nel 
fondare, 
infatti, 
l’affermazione 
di 
penale 
responsabilità 
degli 
imputati 
in relazione 
ai 
delitti 
di 
associazione 
mafiosa 
e 
commercio 
di 
materiali 
esplodenti 
-sulla 
scorta 
delle 
evidenze 
acquisite 
da 
un appartenente 
alla 
Guardia 
di 
Finanza 
che 
si 
era 
infiltrato nel 
gruppo criminale 
-i 
Giudici 
(9) della 
Massima 
Autorità 
Giudiziaria 
affermavano, già 
nel 
2008, 
la 
piena 
utilizzabilità 
di 
tali 
fonti 
di 
prova 
e 
la 
correlata 
liceità 
della 
condotta 
dell’agente, motivando come, in concreto, tale 
attività 
sotto copertura 
si 
era 
sostanziata 
nel 
mero controllo, osservazione 
e 
contenimento dell’azione 
illecita; 
fondamentalmente 
le 
attività 
in 
cui 
si 
sostanzia 
la 
condotta 
pratica 
dell’operatore di polizia infiltrato. 


Per 
converso, 
l’agente 
provocatore 
“è 
colui 
che, 
pur 
trovandosi 
nelle 
stesse 
condizioni 
dell’infiltrato, 
a 
differenza 
del 
primo 
pone 
in 
essere 
una 
condotta 
attiva, ossia di 
induzione, ideazione 
ed esecuzione 
di 
uno o più fatti 
penalmente 
illeciti 
che, senza il 
suo intervento determinante, non si 
sarebbero 
mai 
verificati 
nella realità ontologica” 
(10). Nel 
caso in cui 
la 
Corte 
Edu 
accerti 
che 
l’operazione 
sotto copertura 
sia 
sfociata 
in attività 
provocatoria 
(nel 


c.d. entrapment 
-intrappolamento -che 
ha portato poi 
alla commissione 
del 
reato), la 
Corte 
dichiara 
violato l’art. 6 CEdu 
sul 
diritto ad un equo processo 
ed inutilizzabili 
le 
prove 
ottenute 
attraverso la 
provocazione 
(11). La 
maggior 
parte 
dei 
casi 
giunti 
all’esame 
della 
Corte 
Edu 
riguarda 
il 
traffico di 
stupefacenti 
e 
proprio 
a 
tal 
proposito, 
la 
Corte 
ha 
dato 
un 
forte 
impulso 
a 
scindere 
nettamente le figure dell’agente sotto copertura e l’agente provocatore. 

3. L’estensione 
delle 
operazioni 
sotto copertura e 
la Legge 
Spazzacorrotti 
del 
9 gennaio 2019 n. 3. 


Le 
operazioni 
sotto 
copertura 
sono 
largamente 
utilizzate 
oltreoceano 
anche 
nel 
contrasto 
dei 
reati 
perpetrati 
ai 
danni 
della 
Pubblica 
Amministrazione. 
La 
Corte 
Suprema 
degli 
u.S.A. non ha 
espresso pareri 
in riferimento 
ma 
la 
giurisprudenza 
delle 
corti 
minori 
ha 
generalmente 
avvallato 
gli 
“integrity 
tests” 
(12) posti 
in essere 
dalla 
polizia 
e 
dalle 
agenzie 
governativi 
americane, 


(9) Corte di Cassazione, II Sezione penale, Sentenza 28 maggio 2008, n. 38488. 


(10) 49° 
Corso Superiore 
di 
Polizia 
Economico-Finanziaria 
-Ten. Col. Giuseppe 
di 
Noi, Ten. 
Col. Girolamo Franchetti. 


(11) 
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura-
ai-delitti-contro-la-pubblica-amministrazione-dalla-gi. 


(12) 
difesa 
del 
senatore 
Williams 
sulla 
presunta 
cospirazione 
anti-Kennedy 
(United 
States 
v. 
Williams); 
vd. P.M. VErroNE, The 
Abscam 
investigation: Use 
and Abuse 
of 
Entrapment 
and Due 
Process 
Defenses, in 25 B.C.L. rev., 1984, p. 351, 377: 
«Although the 
Williams 
court 
held that 
the 
accusations 
had no basis 
in reality, the 
possibility exists 
that 
an ABSCAM-type 
investigation could be 
focused upon 
a 
particular individual 
for reasons 
unrelated to the 
detection of criminal 
activity. Thus, the 
ramifications 
relate 
not 
only 
to 
personal 
vendettas 
but 
even 
to 
the 
balance 
of 
power 
between 
the 
branches 
of 
the 
federal 
government 
[note 
325: 
The 
FBI, 
as 
an 
arm 
of 
the 
executive 
branch, 
could 
potentially 
rout 
the 
legislative 



permettendo 
quindi 
il 
ricorso 
dell’istituto 
giuridico 
de 
quo, 
specie 
nei 
confronti 
dei c.d. “colletti bianchi” (in riferimento abstract di altro studio) (13). 


Il 
presupposto 
da 
cui 
muovono 
gli 
ordinamenti 
europei 
è 
opposto 
rispetto 
a 
quello 
del 
sistema 
giudiziario 
d’oltreoceano: 
le 
forze 
dell’ordine 
devono 
avere 
poteri 
limitati 
e 
stabiliti 
dalla 
legge 
e 
l’uso di 
tali 
poteri 
deve 
essere 
subordinato 
ad 
un 
costante 
controllo 
del 
giudice, 
allo 
scopo 
di 
garantire 
il 
rispetto 
della democrazia ed evitare eventuali abusi. 

In Italia 
l’art. 9 della 
legge 
146/2006 disciplina 
la 
materia 
e 
prevede 
una 
causa 
di 
giustificazione 
per l’agente 
che 
svolga 
l’attività 
sotto copertura, purché 
l’operazione rispetti i requisiti indicati dalla prescrizione. 


La 
norma 
in titolo, la 
c.d. Legge 
Spazzacorrotti, recante 
“misure 
per 
il 
contrasto dei 
reati 
contro la pubblica amministrazione 
... 
e 
in materia di 
trasparenza 
dei 
partiti 
e 
movimenti 
politici” 
si 
prefigge 
lo scopo di 
“potenziare 
l’attività 
di 
prevenzione, accertamento e 
repressione 
dei 
reati 
contro la 
Pubblica 
Amministrazione” 
(14)(15). La 
novella 
legislativa 
estende 
l’uso di 
uno 
strumento 
di 
indagine 
-precedentemente 
quasi 
completamente 
riservato 
ad 
acclarare 
reati 
tipicamente 
legati 
alla 
criminalità 
organizzata 
(16) 
ed 
allo 
sfruttamento 
sessuale 
dei 
minori 
(17) -che 
diventa 
pienamente 
utilizzabile 
per accertare 
i delitti contro la P.A. 


L’ampliamento 
del 
campo 
di 
intervento 
dell’istituto 
giuridico 
in 
rassegna 


branch by offering unwary Congressmen huge 
bribes 
in large 
numbers. Even if they did not 
accept, the 
resulting scandal would undoubtedly rock the government]». 


https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-ai


delitti-contro-la-. 

(13) https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. 


(14) http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. 


(15) 
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura-
ai-delitti-contro-la-pubblica-amministrazione-dalla-gi. 


(16) In particolare, le 
operazioni 
sotto copertura 
di 
cui 
all’art. 9 possono essere 
disposte 
per l’accertamento 
dei 
delitti 
commessi 
con finalità 
di 
terrorismo o eversione; 
della 
falsificazione 
(453 c.p.) e 
dell’alterazione 
(454 
c.p.) 
di 
monete; 
della 
spendita 
e 
introduzione 
nello 
Stato 
di 
monete 
falsificate 
(455 
c.p.); 
della 
contraffazione 
(460 
c.p.) 
e 
della 
fabbricazione 
o 
detenzione 
(461 
c.p.) 
di 
filigrane; 
della 
contraffazione, 
alterazione 
o 
uso 
di 
marchi 
o 
segni 
distintivi 
ovvero 
di 
brevetti, 
modelli 
e 
disegni 
(473 
c.p.); 
dell’introduzione 
nello 
Stato 
e 
commercio 
di 
prodotti 
con 
segni 
falsi 
(474 
c.p.); 
dell’estorsione 
(629 
c.p.); 
del 
sequestro 
di 
persona 
a 
scopo 
di 
estorsione 
(630 
c.p.); 
dell’usura 
(644 
c.p.); 
del 
riciclaggio 
(648bis); 
dell’impiego di 
denaro, beni 
o utilità 
di 
provenienza 
illecita 
(648-ter); 
dei 
delitti 
sessuali 
e 
per la 
tutela 
dei 
minori 
(libro II, titolo XII, capo III, sezione 
I, c.p.); 
dei 
delitti 
concernenti 
armi, munizioni, 
esplosivi; 
dei 
delitti 
previsti 
dall’articolo 
12, 
commi 
1, 
3, 
3-bis 
e 
3-ter 
del 
Tu 
immigrazione 
(d.lgs. 
286/1998); 
dei 
delitti 
previsti 
dal 
t.u. stup. (d.P.r. 309/1990); 
dei 
delitti 
di 
favoreggiamento e 
induzione 
alla prostituzione (art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75). 
(17) L’art. 14 l. 269/1998 disciplina 
le 
operazioni 
sotto copertura 
disposte 
al 
fine 
di 
acquisire 
elementi 
di 
prova 
in 
ordine 
ai 
delitti 
di 
prostituzione 
minorile 
(art. 
600-bis 
c.p., 
primo 
comma), 
pornografia 
minorile 
(art. 600-ter 
c.p., primo, secondo e 
terzo comma; 
è 
escluso il 
quarto comma 
[3]), iniziative 
turistiche 
volte 
allo sfruttamento della 
prostituzione 
minorile 
(il 
c.d. turismo sessuale 
minorile, art. 600quinquies 
c.p.). 
La 
procedura 
delineata 
per 
l’espletamento 
di 
tali 
operazioni 
è 
simile 
nella 
struttura 
all’art. 
9, 
ma 
con 
alcune 
differenze, 
tra 
le 
quali 
spicca 
il 
requisito 
dell’autorizzazione 
giudiziaria, 
in 
luogo della comunicazione al p.m. 



trova 
terreno fertile 
nel 
fatto che 
i 
delitti 
contro la 
P.A. sono caratterizzati 
dal-
l’essere 
particolarmente 
gravi, diffusi 
nella 
quotidianità 
e 
di 
non essere 
facilmente 
accertabili 
(18). La 
natura 
intrinsecamente 
concorsuale 
di 
tali 
reati 
ne 
rende rara la denuncia, l’emersione e la repressione. 

È, tuttavia, palese 
il 
rischio che 
le 
operazioni 
sotto copertura, svolte 
a 
tutela 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
possano 
trasformarsi 
-o 
venire 
alla 
luce 


-quali 
attività 
provocatorie; 
pericolo già 
in essere 
nelle 
attività 
di 
contrasto 
alla criminalità organizzata. 


i fenomeni 
corruttivi 
si 
consumano, infatti, in un contesto in cui 
tutte 
le 
persone 
che 
vi 
partecipano hanno «posizioni 
apparentemente 
irreprensibili; 
bisogna gradualmente 
svelarsi 
e 
far 
sì 
che 
l’interlocutore 
faccia altrettanto; 
è 
una serie 
d’abboccamenti, un gioco d’allusioni, nel 
quale 
può risultare 
difficile 
capire 
chi 
proponga e 
chi 
accetti, chi 
lanci 
l’esca e 
chi 
la morda» 
(19). 

I sospetti, infatti, nei 
confronti 
del 
corrotto o del 
corruttore 
-criteri 
che 
la 
Corte 
E.d.u. considera 
tra 
i 
fondamentali 
al 
fine 
di 
accertare 
l’eventuale 
attività 
provocatoria 
-sono particolarmente 
complessi 
da 
verificare, dato il 
contesto 
di 
riferimento 
molto 
burocratizzato, 
particolarmente 
disciplinato 
e 
caratterizzato da 
un’apparente 
situazione 
di 
costante 
rispetto delle 
regole 
del 
gioco. 


A 
tali 
argomentazioni 
si 
aggiunga, inoltre, che 
il 
contesto operativo di 
riferimento 
vede 
con una 
certa 
frequenza 
l’iterazione 
tra 
politici 
e 
pubblici 
amministratori, 
spesso 
di 
spessore, 
e 
quindi 
non 
è 
da 
sottacere 
la 
possibilità 
remota, 
a 
parere 
dello 
scrivente, 
attesa 
la 
professionalità 
degli 
operatori 
di 
polizia 
italiani 
ed in particolare 
dal 
Corpo, in prima 
linea 
nel 
settore 
-che 
le 
indagini 
possano essere oggetto di strumentalizzazione. 

ricordiamo, ancora, che 
nel 
caso di 
simulato acquisto di 
stupefacenti 
la 
normativa 
di 
riferimento è 
l’art. 73 d.P.r. n. 309/1990 che 
prevede 
il 
perfezionamento 
del 
reato non solo ove 
vi 
sia 
la 
cessione 
di 
sostanze 
psicotrope, 
ma 
anche 
semplicemente 
nella 
detenzione 
della 
sostanza 
ai 
fini 
di 
spaccio. 
L’analisi 
delle 
sentenze 
di 
condanna, a 
seguito di 
attività 
sotto copertura, permette 
di 
evincere 
che 
le 
stesse 
sanzionano principalmente 
condotte 
connesse 
alla 
detenzione 
di 
sostanza. Nel 
caso di 
attività 
delittuose 
perpetrate 
a 
pregiudizio 
della 
pubblica 
amministrazione, 
non 
è 
possibile 
rinvenire, 
a 
similitudine 
di 
quanto detto per la 
casistica 
inerente 
ai 
reati 
connessi 
agli 
stupefacenti, un 
antefatto 
analogo 
e 
paragonabile 
alla 
semplice 
detenzione 
per 
il 
successivo 
spaccio. 
diventa, 
dunque, 
difficile 
capire 
se 
il 
soggetto 
indagato 
avrebbe 
commesso 
comunque 
la 
condotta 
in 
caso 
di 
mancato 
intervento 
dell’operatore 
sotto 


(18) http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. 


(19) A. CAMoN, Disegno di 
legge 
spazzacorrotti 
e 
processo penale. Osservazioni 
a prima lettura, 
in 
Arch. 
Pen., 
2018, 
n. 
3, 
p. 
1; 
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delleoperazioni-
sotto-copertura-ai-delitti-contro-la-. 


copertura. La 
“corruttibilità”, non è 
infatti 
tangibile, non si 
può fisicamente 
riscontrare 
nelle 
disponibilità 
materiali 
di 
un 
soggetto 
-come 
può 
avvenire 
con le 
droghe 
-confermando quindi 
una 
condotta, di 
per sé 
già 
delittuosa, antecedente. 
La 
partecipazione 
corruttiva 
potrebbe 
innescarsi, nell’animo della 
persona 
indagata, 
solo 
successivamente 
all’eventuale 
approccio 
dell’operatore 
di polizia. 


Sostanzialmente 
il 
legislatore, 
in 
merito 
alle 
fattispecie 
permesse 
all’infiltrato 
che 
si 
finge 
funzionario 
pubblico 
corrotto, 
è 
stato 
generico, 
pensiamo 
alla 
condotta 
di 
ricevere 
denaro 
per 
commettere 
un 
reato, 
il 
comportamento 
potrebbe 
essere 
effettivamente 
autonomamente 
realizzato 
dall’agente 
e 
non 
si 
comprende 
perché 
-come 
vedremo 
invece 
per 
il 
simulato 
privato 
corruttore 
-nella 
norma 
non 
siano 
previste 
misure 
di 
contenimento, 
ad 
esempio 
citando 
l’accordo 
già 
concluso 
con 
altri 
soggetti. 
Considerando 
che 
l’ampiezza 
e 
la 
vaghezza 
del 
testo 
normativo 
ricomprende 
anche 
le 
condotte 
“prodromiche 
e 
strumentali” 
appare 
ben 
chiaro 
il 
punto 
di 
vista 
della 
dottrina, 
preoccupata 
di 
veder 
la 
scriminante 
applicabile 
a 
tutte 
le 
attività 
realizzate 
dall’agente 
in 
operazione. 


Nel 
caso 
del 
simulato 
privato 
corruttore, 
come 
sopra 
accennato, 
il 
dettato 
normativo 
ha 
preordinato 
condotte 
ben 
delineate, 
ad 
esempio 
la 
corresponsione 
di 
utilità 
«in 
esecuzione 
di 
un 
accordo 
illecito 
già 
concluso 
da 
altri», 
o 
la 
promessa 
o dazione 
di 
utilità «richiesti» o «sollecitati» da terzi, idonee 
a 
circoscrivere 
fattispecie 
ben definite 
e 
nettamente 
distinte 
rispetto alle 
ipotetiche 
condotte riconducibili a forme di istigazione. 

dovendo essere 
critici 
e 
obiettivi 
vi 
sono contesti 
in Italia 
ove 
la 
corruzione 
ed il 
clientelismo sono diffusi 
a 
diversi 
livelli, ove 
il 
pagamento di 
tangente 
viene 
vissuto quasi 
alla 
stregua 
di 
“contribuzione 
dovuta” 
alla 
Pubblica 
Amministrazione. 
Questa 
lettura 
parrebbe 
quasi 
voler 
punire 
i 
cittadini 
per 
essere 
accondiscendenti 
e 
abituati 
ormai 
ai 
comportamenti 
abusivi 
nella 
gestione 
del 
potere 
discrezionale 
proprio della 
Pubblica 
Amministrazione; 
infatti 
tale 
normativa 
è 
virtualmente 
applicabile 
anche 
alla 
“microcorruzione” 
quotidiana 
che 
il 
privato incontra 
nella 
sua 
vita, non solo quindi 
alle 
realtà 
di 
ampio respiro, 
che 
calcolano le 
tangenti 
quali 
“costi 
necessari”, da 
spalmare 
successivamente 
sui 
prezzi 
finali 
dei 
beni 
e 
servizi 
prodotti, 
al 
momento 
della 
loro 
rivendita al pubblico. 


La 
norma 
garantisce 
comunque, attraverso il 
dettato dell’art. 9, che 
le 
attività 
in 
incognito 
si 
vadano 
ad 
impiantare 
all’interno 
di 
un 
percorso 
criminale 
già 
autonomamente 
avviato, il 
fatto, ancora, che 
dette 
operazioni 
debbano essere 
disposte 
dagli 
organi 
di 
vertice 
delle 
Forze 
dell’ordine, autorizzate 
dal 
P.M., e 
concretamente 
realizzate 
da 
ufficiali 
di 
P.G. appartenenti 
a 
Strutture 
Specializzate 
fa 
ritenere 
poco plausibile 
l’“impianto” 
di 
un reato da 
parte 
del-
l’agente 
sotto copertura. Il 
requisito ulteriore, secondo cui 
le 
operazioni 
sotto 
copertura 
debbano 
essere 
disposte 
“al 
solo 
fine 
di 
acquisire 
elementi 
di 
prova” 



in ordine 
ai 
reati 
specificamente 
rubricati 
eleva 
l’istituto a 
mezzo ideale 
di 
ricerca 
della 
prova 
in 
esito 
a 
certe 
tipologie 
di 
reato 
particolarmente 
gravi 
e 
complesse da accertare (20). 

Le 
operazioni 
sotto copertura 
non potrebbero, dunque, essere 
utilizzate 
a 
fini 
meramente 
preventivi 
e 
dovrebbero 
svolgersi 
soltanto 
successivamente 
all’acquisizione 
di 
una 
notitia 
criminis, 
nell’ambito 
di 
un 
procedimento 
penale 
già 
instaurato 
(21). 
La 
stessa 
Corte 
Edu 
ritiene 
che 
uno 
dei 
criteri 
per 
stabilire 
se 
un’operazione 
sotto copertura 
abbia 
avuto risvolti 
provocatori 
o meno è 
la 
verifica 
circa 
la 
sussistenza 
di 
fondati 
sospetti 
precedenti 
all’operazione, nonché 
il controllo da parte dell’autorità giudiziaria (22). 


Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
enunciate 
non appare 
tuttavia 
pacifico che 
quanto 
disciplinato 
dalla 
legge 
“Spazzacorrotti” 
non 
ingeneri 
il 
rischio, 
almeno 
potenziale, 
di 
condotte 
provocatorie 
da 
parte 
delle 
Forze 
di 
Polizia. 
I lavori 
della 
relazione 
illustrativa 
alla 
norma, 
volti 
a 
sgombrare 
il 
campo 
dal 
pericolo 
che 
si 
possa 
cadere 
nella 
provocazione 
sembra 
non siano riusciti 
nell’intento. 


L’esperienza 
sul 
campo ha 
dimostrato come 
nonostante 
le 
condanne 
possibili 
nei 
confronti 
dell’agente 
provocatore, 
nell’ordinamento 
italiano 
non 
sono 
previste 
precetti 
che 
prevedano espressamente 
la 
non punibilità 
dei 
soggetti 
provocati da operatore sotto copertura. 

A 
livello 
unionale 
la 
CEdu 
ritiene 
violato 
l’art. 
6 
in 
caso 
di 
condanna 
per reato che non si sarebbe compiuto senza provocazione. 

L’evoluzione 
delle 
operazioni 
sotto copertura 
ai 
reati 
contro la 
pubblica 
amministrazione, 
settore 
molto 
particolare 
attese 
le 
specificità 
del 
contesto 
operativo, moltiplica 
le 
criticità 
ed i 
rischi. Mancando disposizioni 
legislative 
di 
riferimento 
specifiche, 
parte 
della 
dottrina 
propone 
l’introduzione 
di 
garanzie 
più efficaci, che 
potrebbero ritrovarsi 
in una 
ipotetica 
“causa 
di 
esclusione 
della 
punibilità 
per reo provocato” 
oppure 
nel 
“divieto probatorio per il 
mancato 
rispetto dei parametri stabiliti dalla legge”. 


(20) L. PAoLoNI, La controversa linea di 
confine 
tra attività sotto copertura e 
provocazione 
poliziesca. 
Spunti dalla giurisprudenza della Corte Edu, in 
Cass. Pen., 2016, fasc. 5, p. 1899, par. 2. 


(21) Vd. Circolare 
della 
direzione 
per i 
servizi 
antidroga 
del 
5 settembre 
1995; 
in dottrina 
C. TAorMINA, 
Polizia giudiziaria e 
operazioni 
“sotto copertura”, in riv. Pen., 2015, fasc. 11, p. 923; 
P. MoroSINI, 
Dall’acquisto 
simulato 
di 
droga 
all’attività 
sotto 
copertura. 
Questioni 
sostanziali 
e 
processuali, 
in 
Trattato manzini, AA.VV., 
Torino, 2009; 
L. PISTorELLI, intercettazioni 
preventive 
ad ampio raggio 
ma inutilizzabili 
nel 
procedimento penale, in Guida dir., 2001, 42, p. 89; 
contra 
P. duBoLINo 
-C. du-
BoLINo, Codice 
delle 
leggi 
penali 
speciali, Commento ad art. 9, l. 16 marzo 2006, n. 146, La Tribuna, 
2014, p. 768: 
«Speciali 
tecniche 
di 
investigazione 
preventiva 
[che] possono anche 
prescindere 
dall’esistenza 
di indagini preliminari relative ad uno specifico fatto...». 
La 
stessa 
giurisprudenza 
sembra 
consentire 
l’utilizzo dello strumento a 
fini 
preventivi, vd. Cass., sez. 
II, 28 maggio 2008, n. 38488: 
«In tutte 
le 
ipotesi 
legislative 
di 
attività 
sotto copertura 
si 
prescinde 
dal-
l’esistenza 
di 
un 
procedimento 
penale 
o 
di 
indagini 
preliminari 
su 
uno 
specifico 
fatto 
di 
reato, 
trattandosi 
di attività investigative a carattere preventivi». 


(22) 
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura-
ai-delitti-contro-la-. 



In carenza 
di 
disciplina 
specifica 
l’ideale 
sarebbe, come 
auspicato dalla 
dottrina, 
un 
approccio 
cauto 
e 
teso 
ad 
evitare 
che 
le 
operazioni 
sotto 
copertura 
in campo anticorruzione 
possano diventare 
mezzi 
di 
strumentalizzazione 
politica 
o, ancora, integrity Test. 

Per 
quanto 
riguarda 
le 
Forze 
di 
Polizia 
sarà 
fondamentale, 
in 
attesa 
di 
nuovi 
sviluppi 
normativi 
orientare 
gli 
agenti 
ad 
un’attività 
principalmente 
“inattiva”, non inerte 
si 
badi, all’unico scopo di 
garantire 
al 
Giudice 
la 
più efficace 
ricerca 
probatoria 
nell’ambito di 
indagini 
autorizzate, indirizzate 
e 
costantemente 
monitorate 
dall’Autorità 
Giudiziaria. 
Ciò 
a 
tutela 
di 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti, anche del soggetto indagato. 


Bibliografia, sitografia et al. 
di riferimento 


https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. 


https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2012/05/01/news/finanziere-morto-era-un-agente-sottocopertura-
1.4448520. 


https://www.ilgazzettino.it/nordest/trieste/operazione_guardia_finanza_sequestro_cocaina_colombia_na 
rcotraffico_arresti-6737999.html?refresh_ce. 


G. CoCCIA, il 
finanziamento al 
sedicente 
Stato islamico attraverso l’utilizzo dei 
servizi 
informali 
per 
il 
Trasferimento dei 
Valori. il 
caso “Hawala” 
ed il 
motivo della sua potenziale 
maggiore 
diffusione 
a seguito 
della sconfitta militare 
subita sul 
territorio dal 
Califfato, in rass. Avv. Stato, 2020, III, pp. 171189. 


C. 
dE 
MAGLIE, 
L’agente 
provocatore. 
Un’indagine 
dommatica 
e 
politico-criminale, 
Giuffrè, 
Milano, 
1991. 


49° 
Corso 
Superiore 
di 
Polizia 
Economico-Finanziaria 
-Ten. 
Col. 
Giuseppe 
di 
Noi, 
Ten. 
Col. 
Girolamo 
Franchetti. 


M.F. 
PETrACCIA, 
indices 
e 
Delatores 
nell’antica 
roma, 
Edizioni 
universitarie 
di 
Lettere, 
Economia, 
diritto, Milano, 2014. 


F.C. PALAZZo, Corso di diritto penale: parte generale, Giappichelli, Torino, 2021. 


Corte di Cassazione, II Sezione penale, Sentenza 28 maggio 2008, n. 38488. 


https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti-
contro-la- pubblica-amministrazione-dalla-gi. 


difesa 
del 
senatore 
Williams 
sulla 
presunta 
cospirazione 
anti-Kennedy (United States 
v. Williams); 
vd. 


P.M. VErroNE, The 
Abscam 
investigation: Use 
and Abuse 
of 
Entrapment 
and Due 
Process 
Defenses, in 
25 B.C.L. rev., 1984, p. 351, 377: «Although the 
Williams court held that the accusations had no basis 
in reality, the 
possibility exists 
that 
an ABSCAM-type 
investigation could be 
focused upon a 
particular 
individual 
for reasons 
unrelated to the 
detection of criminal 
activity. Thus, the 
ramifications 
relate 
not 
only to personal 
vendettas 
but 
even to the 
balance 
of power between the 
branches 
of the 
federal 
government 
[note 
325: 
The 
FBI, 
as 
an 
arm 
of 
the 
executive 
branch, 
could 
potentially 
rout 
the 
legislative 
branch by offering unwary Congressmen huge 
bribes 
in large 
numbers. Even if they did not 
accept, the resulting scandal would undoubtedly rock the government]». 


https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti-
contro-la-. 


https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. 


http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. 



https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti-
contro-la- pubblica-amministrazione-dalla-gi. 


Legge 
16 
marzo 
2006, 
n. 
146 
-ratifica 
ed 
esecuzione 
della 
Convenzione 
e 
dei 
Protocolli 
delle 
Nazioni 
Unite 
contro 
il 
crimine 
organizzato 
transnazionale, 
adottati 
dall’Assemblea 
generale 
il 
15 
novembre 
2000 
ed 
il 
31 
maggio 
2001. 
Esegesi 
articolo 
9 
e 
seguenti. 
In 
particolare, 
le 
operazioni 
sotto 
copertura 
di 
cui 
all’art. 
9 
possono 
essere 
disposte 
per 
l’accertamento 
dei 
delitti 
commessi 
con 
finalità 
di 
terrorismo 


o 
eversione; 
della 
falsificazione 
(453 
c.p.) 
e 
dell’alterazione 
(454 
c.p.) 
di 
monete; 
della 
spendita 
e 
introduzione 
nello 
Stato 
di 
monete 
falsificate 
(455 
c.p.); 
della 
contraffazione 
(460 
c.p.) 
e 
della 
fabbricazione 
o 
detenzione 
(461 
c.p.) 
di 
filigrane; 
della 
contraffazione, 
alterazione 
o 
uso 
di 
marchi 
o 
segni 
distintivi 
ovvero 
di 
brevetti, 
modelli 
e 
disegni 
(473 
c.p.); 
dell’introduzione 
nello 
Stato 
e 
commercio 
di 
prodotti 
con 
segni 
falsi 
(474 
c.p.); 
dell’estorsione 
(629 
c.p.); 
del 
sequestro 
di 
persona 
a 
scopo 
di 
estorsione 
(630 
c.p.); 
dell’usura 
(644 
c.p.); 
del 
riciclaggio 
(648-bis); 
dell’impiego 
di 
denaro, 
beni 
o 
utilità 
di 
provenienza 
illecita 
(648-ter); 
dei 
delitti 
sessuali 
e 
per 
la 
tutela 
dei 
minori 
(libro 
II, 
titolo 
XII, 
capo 
III, 
sezione 
I, 
c.p.); 
dei 
delitti 
concernenti 
armi, 
munizioni, 
esplosivi; 
dei 
delitti 
previsti 
dall’articolo 
12, 
commi 
1, 
3, 
3-bis 
e 
3-ter 
del 
Tu 
immigrazione 
(d.lgs. 
286/1998); 
dei 
delitti 
previsti 
dal 
t.u. 
stup. 


(d.P.r. 
309/1990); 
dei 
delitti 
di 
favoreggiamento 
e 
induzione 
alla 
prostituzione 
(art. 
3 
l. 
20 
febbraio 
1958, 
n. 
75). 


L’art. 
14 
l. 
269/1998 
disciplina 
le 
operazioni 
sotto 
copertura 
disposte 
al 
fine 
di 
acquisire 
elementi 
di 
prova 
in 
ordine 
ai 
delitti 
di 
prostituzione 
minorile 
(art. 
600-bis 
c.p., 
primo 
comma), 
pornografia 
minorile 
(art. 600 ter 
c.p., primo, secondo e 
terzo comma; 
è 
escluso il 
quarto comma 
[3]), iniziative 
turistiche 
volte 
allo 
sfruttamento 
della 
prostituzione 
minorile 
(il 
c.d. 
turismo 
sessuale 
minorile, 
art. 
600-quinquies 
c.p.). La 
procedura 
delineata 
per l’espletamento di 
tali 
operazioni 
è 
simile 
nella 
struttura 
all’art. 9, ma 
con alcune 
differenze, tra 
le 
quali 
spicca 
il 
requisito dell’autorizzazione 
giudiziaria, in luogo della 
comunicazione 
al p.m. 


http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. 


A. CAMoN, Disegno di 
legge 
spazzacorrotti 
e 
processo penale. Osservazioni 
a prima lettura, in Arch. 
Pen., 2018, n. 3, p. 1. 
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti-
contro-la-. 


https://www.iusinitinere.it/undercover-operations-lagente-sotto-copertura-e-lagente-provocatore22782#:~:
text=9%2C%20L.,gli%20atti%20di%20rispettiva%20competenza. 


L. 
PAoLoNI, 
La 
controversa 
linea 
di 
confine 
tra 
attività 
sotto 
copertura 
e 
provocazione 
poliziesca. 
Spunti 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Edu, 
in 
Cass. 
Pen., 
2016, 
fasc. 
5, 
p. 
1899, 
par. 
2. 


Vd. 
Circolare 
della 
direzione 
per 
i 
servizi 
antidroga 
del 
5 
settembre 
1995; 
in 
dottrina 
C. 
TAorMINA, 
Polizia 
giudiziaria e 
operazioni 
“sotto copertura”, in riv. Pen., 2015, fasc. 11, p. 923; 
P. MoroSINI, Dal-
l’acquisto simulato di 
droga all’attività sotto copertura. Questioni 
sostanziali 
e 
processuali, in 
Trattato 
manzini, AA.VV., 
Torino, 2009; 
L. PISTorELLI, intercettazioni 
preventive 
ad ampio raggio ma inutilizzabili 
nel 
procedimento 
penale, 
in 
Guida 
dir., 
2001, 
42, 
p. 
89; 
contra 
P. 
duBoLINo 
-C. 
duBoLINo, 
Codice 
delle 
leggi 
penali 
speciali, Commento ad art. 9, l. 16 marzo 2006, n. 146, La Tribuna, 2014, p. 768: 
«Speciali 
tecniche 
di 
investigazione 
preventiva 
[che] possono anche 
prescindere 
dall’esistenza 
di 
indagini 
preliminari relative ad uno specifico fatto...». 
La 
stessa 
giurisprudenza 
sembra 
consentire 
l’utilizzo dello strumento a 
fini 
preventivi, vd. Cass., sez. 
II, 28 maggio 2008, n. 38488: 
«In tutte 
le 
ipotesi 
legislative 
di 
attività 
sotto copertura 
si 
prescinde 
dal-
l’esistenza 
di 
un 
procedimento 
penale 
o 
di 
indagini 
preliminari 
su 
uno 
specifico 
fatto 
di 
reato, 
trattandosi 
di attività investigative a carattere preventivi». 


https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti-
contro-la-. 



CONTRIBUTIDIDOTTRINA
Collegi consultivi tecnici: il correttivo al codice conferma 
l’applicabilità solo residuale delle linee guida M.I.T. del 2022 


Ennio Antonio Apicella* 


SommarIo: 1. Le 
linee 
guida m.I.T. del 
2022: fonte 
normativa e 
ambito di 
intervento 


2. L’applicabilità solo parziale 
delle 
linee 
guida dopo l’entrata in vigore 
del 
codice 
del 
2023 


-3. L’ulteriore 
delimitazione 
operata dal 
correttivo del 
2024 -4. Il 
regime 
transitorio della 
disciplina sui collegi introdotta dal correttivo. 


1. Le linee guida m.I.T. del 2022: fonte normativa e ambito di intervento. 


Com’è 
noto, il 
nuovo codice 
dei 
contratti 
pubblici 
ha 
stabilizzato e 
rivitalizzato 
il 
collegio 
consultivo 
tecnico, 
individuandolo 
come 
rimedio 
generale 
per prevenire 
o consentire 
la 
rapida 
risoluzione 
delle 
controversie 
e 
delle 
dispute 
tecniche 
di 
ogni 
natura 
che 
possano insorgere 
nell’esecuzione 
dei 
contratti 
(art. 215 d.lgs. n. 36 del 2013: di seguito, codice). 


l’intervento correttivo di 
fine 
anno 2024 (d.lgs. n. 209 del 
2004: 
di 
seguito, 
correttivo) 
ha 
riportato 
l’istituto 
al 
suo 
originario 
ambito 
applicativo, 
costituito 
dagli 
appalti 
di 
lavori 
superiori 
alla 
soglia 
di 
rilevanza 
europea, 
dopo 
la 
scelta 
inizialmente 
operata 
dal 
codice 
di 
comprendervi 
anche 
lo 
svolgimento 
di servizi e forniture di importo pari o superiore a un milione di euro. 


Dopo le 
alterne 
vicende 
collegate 
alla 
sua 
istituzione, repentina 
soppressione 
e 
rinascita 
(1), il 
collegio consultivo tecnico aveva 
trovato una 
“defini


(*) Avvocato distrettuale dello Stato di Catanzaro. 


(1) Sull’altalenante 
evoluzione 
normativa 
dell’istituto v., tra 
gli 
altri, C. Volpe, Il 
collegio consultivo 
tecnico. Un istituto ancora dagli 
incerti 
confini, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020, § 2; 
F. FrAnCArio, Il 
collegio consultivo tecnico, organismo atipico di 
mediazione 
e 
di 
conciliazione 
in ambito 
pubblicistico, in www.giustiziainsieme, 2023, § 1; 
p. De 
BernArDiniS, Commento agli 
artt. 215219, 
in Codice dei contratti pubblici, a cura di GioVAGnoli 
e roVelli, Milano 2024, 1920 ss. 



tiva” 
-ma 
solo temporanea 
-sistemazione 
nell’art. 6 d.l. n. 76/2020 (conv. in 
legge n. 120/2022). 

infatti, secondo il 
comma 
1 dell’art. 6 cit., “fino al 
30 giugno 2023, per 
i 
lavori 
diretti 
alla realizzazione 
delle 
opere 
pubbliche 
di 
importo pari 
o superiore 
alle 
soglie 
di 
cui 
all’art. 
35 
del 
d.lgs. 
n. 
50 
del 
2016, 
è 
obbligatoria, 
presso ogni 
stazione 
appaltante, la costituzione 
di 
un collegio consultivo tecnico, 
prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque 
non oltre 
dieci 
giorni 
da 
tale 
data, con i 
compiti 
previsti 
dall’articolo 5, nonché 
di 
rapida risoluzione 
delle 
controversie 
o delle 
dispute 
tecniche 
di 
ogni 
natura suscettibili 
di 
insorgere 
nel 
corso dell’esecuzione 
del 
contratto stesso. Per 
i 
contratti 
la cui 
esecuzione 
sia già iniziata alla data di 
entrata in vigore 
del 
presente 
decreto, il 
collegio consultivo tecnico è 
nominato entro il 
termine 
di 
trenta giorni 
decorrenti 
dalla medesima data”. 

il 
comma 
8-bis 
del 
medesimo 
art. 
6 
d.l. 
n. 
76/2020 
disponeva 
che 
“… 
con 
provvedimento 
del 
ministro 
delle 
infrastrutture 
e 
della 
mobilità 
sostenibili, 
previo parere 
del 
Consiglio superiore 
dei 
lavori 
pubblici, sono approvate 
apposite 
linee 
guida volte 
a definire, nel 
rispetto di 
quanto stabilito dal 
presente 
articolo, i 
requisiti 
professionali 
e 
i 
casi 
di 
incompatibilità dei 
membri 
e 
del 
presidente 
del 
collegio 
consultivo 
tecnico, 
i 
criteri 
preferenziali 
per 
la 
loro 
scelta, i 
parametri 
per 
la determinazione 
dei 
compensi 
rapportati 
al 
valore 
e 
alla complessità dell’opera, nonché 
all’entità e 
alla durata dell’impegno richiesto 
ed al 
numero e 
alla qualità delle 
determinazioni 
assunte, le 
modalità 
di 
costituzione 
e 
funzionamento del 
collegio e 
il 
coordinamento con gli 
altri 
istituti consultivi, deflativi e contenziosi esistenti…”. 


la 
fonte 
primaria, dunque, attribuiva 
all’atto amministrativo un ambito 
di 
intervento molto ampio, che 
muove 
dai 
requisiti 
professionali, casi 
di 
incompatibilità 
e 
criteri 
preferenziali 
per la 
scelta 
dei 
componenti 
del 
collegio, 
include 
i 
parametri 
per 
la 
determinazione 
dei 
compensi 
(da 
commisurare 
al 
valore 
e 
complessità 
dell’opera, all’entità 
e 
alla 
durata 
dell’impegno richiesto 
ed al 
numero e 
qualità 
delle 
determinazioni 
assunte), e 
giunge 
fino alle 
modalità 
di 
costituzione 
e 
funzionamento del 
collegio ed al 
coordinamento con gli 
altri 
istituti 
consultivi, 
deflativi 
e 
contenziosi 
previsti 
dalla 
disciplina 
dell’esecuzione 
delle opere pubbliche. 


infatti, l’art. 1 D.M. 17 gennaio 2022 n. 12, prevede 
che 
“in attuazione 
di 
quanto previsto dall’art. 6 del 
d.l. 16 luglio 2020 n. 76, convertito, con modificazioni, 
dalla legge 
11 settembre 
2020 n. 120, sono adottate 
le 
linee 
guida 
per 
l’omogenea applicazione, da parte 
delle 
stazioni 
appaltanti, delle 
disposizioni 
in materia di collegio consultivo”. 


le 
linee 
guida 
disciplinano 
“la 
costituzione 
del 
collegio 
consultivo 
tecnico 
ai 
sensi 
dell’art. 6 del 
d.l. n. 76/2020” 
(§ 1.2.1) e 
richiamano ripetutamente 
lo 
stesso d.l. n. 76 in tema 
di 
obbligatorietà 
del 
collegio (§ 1.3.1), costituzione, 
durata 
dell’incarico 
e 
scelta 
dei 
componenti 
(§§ 
2.1, 
2.2 
e 
2.6.1), 
inosservanza 



dell’obbligo 
di 
costituzione 
(§ 
2.3), 
requisiti 
professionali 
e 
incompatibilità 
(§§ 
2.4.1 
e 
2.5), 
insediamento, 
funzioni 
e 
compiti 
dell’organismo 
(§ 
3), 
natura 
delle 
decisioni 
(§ 5.1), oneri 
di 
funzionamento (§ 7.2.4), monitoraggio delle 
attività (§ 8). 


le 
linee 
guida 
del 
2022 sono, dunque, dichiaratamente 
attuative 
dell’art. 
6 cit., il 
quale, tuttavia, prevede 
espressamente 
un termine 
finale 
di 
efficacia 
per 
le 
disposizioni 
ivi 
contenute, 
in 
quanto 
dispone 
la 
costituzione 
obbligatoria, 
presso ogni 
stazione 
appaltante, di 
un collegio consultivo tecnico per i 
lavori 
diretti 
alla 
realizzazione 
delle 
opere 
pubbliche 
sopra-soglia, 
“fino 
al 
30 
giugno 
2023”, 
venendo 
così 
a 
coordinarsi 
con 
l’efficacia 
generale 
attribuita 
alle 
norme 
del codice (1° luglio 2023). 

Solo limitatamente 
agli 
interventi 
finanziati, in tutto o in parte, con le 
risorse 
previste 
dal 
p.n.r.r. e 
dal 
p.n.C., le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 1, 2 
(ad esclusione 
del 
comma 
4), 5, 6 e 
8 del 
d.l. n. 76/2020 cit., “si 
applicano 
fino 
al 
30 
giugno 
2024, 
salvo 
che 
sia 
previsto 
un 
termine 
più 
lungo” 
(così, 
l’art. 14, comma 4, d.l. n. 13 del 2013, conv. in legge n. 41/2023) (2). 


ne 
consegue 
che, dal 
1° 
luglio 2023 (o dal 
1° 
luglio 2024, per gli 
interventi 
finanziati 
con risorse 
p.n.r.r. e 
p.n.C., non risultando ulteriori 
differimenti 
del 
termine 
di 
efficacia), le 
linee 
guida 
M.i.t. del 
2022 sono divenute 
ex 
se 
inapplicabili, 
essendo 
cessata 
l’efficacia 
della 
fonte 
normativa 
che 
ne 
aveva legittimato l’adozione. 

in 
virtù 
del 
richiamo 
operato 
dall’art. 
1, 
comma 
5, 
dell’allegato 
V.2 
al 
codice, 
il 
comma 
7-bis 
dell’art. 6 d.l. n. 76/2020 continuava 
a 
definire 
l’importo 
massimo dei compensi del collegio (3). 


2. L’applicabilità solo parziale 
delle 
linee 
guida dopo l’entrata in vigore 
del 
codice del 2023. 

il 
codice 
e 
l’allegato 
V.2 
hanno 
disciplinato 
ex 
novo 
il 
collegio 
consultivo 
tecnico, normando parte 
delle 
materie 
che, in precedenza, l’art. 6, comma 
8bis, 
del d.l. 76/2020 affidava all’atto amministrativo. 


in 
particolare, 
la 
fonte 
primaria 
regola 
direttamente 
l’ambito 
di 
intervento 
del 
collegio, la 
natura 
e 
gli 
effetti 
delle 
sue 
decisioni 
(artt. 215, 216 e 
217 del 
codice; 
art. 3 dell’allegato V.2); 
le 
modalità 
di 
costituzione 
e 
l’insediamento 
(artt. 1 e 
2 dell’allegato V.2); 
il 
procedimento per l’adozione 
delle 
decisioni 
(art. 3 dell’allegato V.2). 

in 
tutte 
queste 
materie, 
relative 
al 
funzionamento 
del 
collegio, 
risulta 


(2) 
Sulle 
difficoltà 
interpretative 
poste 
dall’infelice 
formulazione 
della 
norma, 
p. 
CArBone, 
Il 
tortuoso 
percorso 
per 
l’individuazione 
della 
disciplina 
regolante 
il 
collegio 
consultivo 
tecnico, 
in 
www.appaltiecontratti.
it. 


(3) 
la 
necessità 
di 
un 
rinvio 
espresso 
conferma 
l’inefficacia 
delle 
altre 
disposizioni 
dell’art. 
6 
cit. 



ormai 
inibito l’intervento dell’atto amministrativo, fatti 
salvi 
specifici 
rinvii 
contenuti in espressa previsione di legge. 


infatti, l’allegato V.2 al 
codice 
(art. 1, comma 
3) rinvia 
alle 
linee 
guida 
da 
adottare 
sempre 
con 
decreto 
del 
Ministro 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti 
su 
conforme 
parere 
del 
Consiglio 
superiore 
dei 
lavori 
pubblici 
-limitatamente 
alla 
fissazione 
dei 
requisiti 
professionali, casi 
di 
incompatibilità 
e 
criteri 
preferenziali 
per la 
scelta 
dei 
componenti 
del 
collegio, nonché 
dei 
parametri 
per 
la 
determinazione 
dei 
compensi 
(sempre 
da 
commisurare 
al 
valore 
e 
complessità 
dell’opera, all’entità 
e 
durata 
dell’impegno ed al 
numero e 
qualità 
delle 
determinazioni). 


Se 
le 
linee 
guida 
del 
2022 fossero state 
applicabili 
anche 
dopo la 
cessazione 
di 
efficacia 
dell’art. 6 d.l. n. 76/2020, il 
codice 
non avrebbe 
avuto necessità 
di 
effettuare 
un 
rinvio 
espresso, 
ma 
limitato 
ad 
alcune 
specifiche 
materie. 


Scompare 
il 
riferimento 
alle 
modalità 
di 
costituzione 
e 
funzionamento 
del 
collegio 
e 
viene 
espunta 
anche 
la 
precedente 
autorizzazione 
delle 
linee 
guida 
a 
provvedere 
in tema 
di 
coordinamento con gli 
istituti 
consultivi, deflativi 
e 
contenziosi 
esistenti 
(in particolare, l’accordo bonario), che 
sarà 
inevitabilmente 
affidato ai futuri orientamenti della giurisprudenza. 

nelle 
more 
dell’adozione 
del 
nuovo 
decreto 
ministeriale, 
continuano 
a 
trovare 
applicazione 
le 
linee 
guida 
M.i.t. del 
2022, secondo quando prevede 
l’art. 1, comma 
3, dell’allegato V.2, ma, deve 
ritenersi, nelle 
stesse 
e 
più limitate 
materie ivi indicate. 

e 
ciò per un duplice 
ordine 
di 
ragioni: 
le 
modalità 
di 
costituzione 
e 
di 
insediamento 
del 
collegio, 
la 
natura, 
gli 
effetti 
ed 
il 
procedimento 
per 
l’adozione 
delle 
decisioni 
-che 
costituiscono 
l’ambito 
principale 
di 
intervento 
delle 
linee 
guida 
del 
2022 
-, 
sono 
già 
direttamente 
normate 
dal 
codice 
e 
dall’allegato, 
circostanza 
che 
esclude 
l’intervento dell’atto amministrativo senza 
una 
espressa 
autorizzazione 
della 
fonte 
legislativa; 
l’allegato al 
codice 
ha 
ridotto, rispetto 
alle 
previsioni 
dell’art. 6, comma 
8-bis, d.l. n. 76/2020, le 
materie 
nelle 
quali 
le linee guida sono autorizzate a provvedere (4). 

residua 
il 
regime 
differenziato 
degli 
interventi 
imputati, 
in 
tutto 
o 
in 


(4) una 
volta 
cessata 
l’efficacia 
dell’art. 6 d.l. n. 76, dunque, il 
rinvio effettuato dall’allegato V.2 
al 
codice 
comportava 
l’applicabilità 
delle 
previsioni 
alle 
linee 
guida 
sui 
requisiti 
professionali 
(§ 2.4) e 
le incompatibilità dei componenti del collegio (§ 2.5). 
per quanto concerne 
i 
compensi 
del 
collegio, in vigenza 
del 
codice 
e 
prima 
del 
correttivo, trovavano 
applicazione 
il 
§ 7.2.1, lett 
a), primo e 
secondo periodo, e 
lett. b), il 
§ 7.2.4, il 
§ 7.4, il 
§ 7.5 e 
il 
§ 7.6.1, 
ma 
non tutte 
le 
altre 
previsioni 
che 
esulano dai 
“parametri 
per 
la determinazione 
dei 
compensi” 
(art. 1, 
comma 
3, dell’allegato), come 
ad es. quelle 
relative 
alle 
condizioni 
ed ai 
tempi 
per il 
pagamento della 
parte 
fissa 
e 
variabile, contenute 
nel 
§ 7.2.1, lett. a, terzo periodo, e 
nel 
§ 7.7.2. Di 
contrario avviso, il 
parere 
del 
Servizio 
supporto 
giuridico 
del 
Ministero 
infrastrutture 
e 
trasporti 
n. 
2680 
del 
18 
luglio 
2024, 
secondo il 
quale 
per il 
pagamento della 
parte 
fissa 
del 
compenso del 
collegio devono essere 
soddisfatte 
le condizioni previste dal § 7.2.1 delle linee guida (e del § 4.1.2 per gli appalti p.n.r.r. e p.n.C.). 



parte, a 
risorse 
del 
p.n.r.r. e 
del 
p.n.C. per questa 
tipologia 
di 
opere, come 
già 
rilevato, l’integrale 
applicabilità 
delle 
linee 
guida 
M.i.t. 2022 fino al 
30 
giugno 2024 consegue 
alla 
prorogata 
efficacia 
dell’art. 6 d.l. n. 76 ad opera 
dell’art. 14, comma 4, d.l. n. 13 del 2013 (legge n. 41/2023). 


3. L’ulteriore delimitazione operata dal correttivo del 2024. 


il 
recente 
correttivo 
di 
fine 
anno 
2024 
ha 
nuovamente 
delimitato 
l’oggetto 
delle linee guida, riducendone ulteriormente l’ambito di applicazione. 


obiettivo 
dell’intervento, 
esplicitato 
nella 
relazione 
illustrativa 
(5), 
è 
quello 
di 
rimediare 
alle 
incertezze 
operative 
emerse 
in 
ordine 
al 
perimetro 
dell’attività 
del 
collegio 
consultivo 
tecnico, 
nonché 
riguardo 
ai 
relativi 
presupposti 
di istituzione e attivazione ed alle modalità di funzionamento. 


il 
nuovo allegato V.2, che 
sostituisce 
integralmente 
quello originario, ha 
sostanzialmente 
normato 
tutte 
le 
materie 
precedentemente 
regolate 
dalle 
linee 
guida, 
recependo 
in 
fonte 
primaria 
una 
parte 
dei 
contenuti 
del 
D.M. 
n. 
12/2022, 
con le opportune modificazioni e integrazioni. 


infatti, l’art. 1, comma 
6, del 
vigente 
allegato V.2 così 
dispone: 
“Con apposite 
linee 
guida adottate 
con decreto del 
ministero delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti, previo parere 
conforme 
del 
Consiglio superiore 
dei 
lavori 
pubblici, 
sono 
definiti 
i 
parametri 
per 
la 
determinazione 
dei 
compensi 
e 
delle 
spese 
non 
aventi 
valore 
remunerativo 
che 
devono 
essere 
rapportati 
al 
valore 
del 
contratto 
e 
alla complessità dell’opera, nonché 
all’esito e 
alla durata dell’impegno 
richiesto 
e 
al 
numero 
e 
alla 
qualità 
delle 
determinazioni 
assunte, 
prevedendone 
l’erogazione 
secondo un principio di 
gradualità. Le 
medesime 
linee 
guida 
definiscono 
anche 
i 
parametri 
per 
la 
determinazione 
del 
compenso 
della segreteria tecnico amministrativa. Nelle 
more 
dell’adozione 
del 
decreto 
di 
cui 
al 
primo periodo, continuano ad applicarsi, per 
la parte 
relativa alla 
determinazione 
dei 
compensi, le 
linee 
guida approvate 
con decreto del 
ministro 
e 
delle 
infrastrutture 
e 
delle 
mobilità sostenibili 
17 gennaio 2022, pubblicato 
nella Gazzetta Ufficiale n. 55 del 7 marzo 2022”. 


Con 
l’entrata 
in 
vigore 
del 
correttivo, 
dunque, 
alle 
linee 
guida 
ministeriali 
è 
demandata 
la 
sola 
disciplina 
dei 
parametri 
per la 
determinazione 
del 
compenso 
e 
delle 
spese 
non remunerative 
del 
collegio e 
della 
segreteria, secondo 
i 
consueti 
criteri 
(valore 
del 
contratto e 
complessità 
dell’opera; 
esito e 
durata 
dell’impegno; 
numero e 
qualità 
delle 
determinazioni), dovendone 
prevedere 
l’erogazione secondo un canone di gradualità. 

Fino 
all’adozione 
del 
nuovo 
provvedimento 
ministeriale 
-questa 
volta 
per esplicita 
previsione 
di 
legge 
-, le 
linee 
guida 
M.i.t. del 
2022 continuano 
ad applicarsi, in via 
residuale, esclusivamente 
“per 
la parte 
relativa alla determinazione 
dei compensi”. 


(5) in www.sentenzeappalti.it. 



Di 
conseguenza, 
per 
tutte 
le 
materie 
che 
esulano 
dalla 
determinazione 
dei 
parametri 
per i 
compensi, le 
previsioni 
delle 
linee 
guida 
M.i.t. 2022 possono, 
al 
più, 
costituire 
una 
indicazione 
di 
massima 
-non 
cogente 
-in 
grado 
di 
orientare 
il 
collegio nell’esercizio delle 
proprie 
funzioni, ove 
non risultino in contrasto 
con le disposizioni ora contenute nel nuovo allegato V.2 al codice. 


4. Il regime transitorio della disciplina sui collegi introdotta dal correttivo. 


Anche 
l’intervento del 
correttivo è 
assistito da 
un regime 
transitorio relativo 
alla 
nuova 
disciplina 
del 
collegio 
consultivo 
tecnico, 
che 
persegue 
la 
dichiarata 
finalità 
(6) 
di 
evitare 
le 
consuete 
incertezze 
che 
caratterizzano 
la 
fase di avvio di ogni riforma legislativa particolarmente rilevante. 

Secondo 
l’art. 
224, 
comma 
1, 
del 
codice 
le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
da 
215 a 
219 si 
applicavano anche 
ai 
collegi 
già 
costituiti 
ed operanti 
alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
codice. non erano menzionate 
le 
disposizioni 
dell’allegato. 


il 
nuovo art. 225-bis, comma 
5, ora 
dispone 
che 
“le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
da 215 a 219 e 
all’allegato V.2, la cui 
entrata in vigore 
coincide 
con 
la 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
disposizione 
si 
applicano, 
in 
assenza di 
una espressa volontà contraria delle 
parti, anche 
ai 
collegi 
già costituiti 
ed operanti 
alla medesima data, ad eccezione 
di 
quelli 
relativi 
ai 
contratti 
di 
servizi 
e 
forniture 
già 
costituiti 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente disposizione”. 


pur apprezzando la 
meritoria 
intenzione 
del 
legislatore, il 
risultato non è 
brillante. la 
formulazione 
della 
nuova 
norma 
intertemporale 
presenta 
ambiguità 
e suscita interrogativi (7). 

Da 
un lato, sembra 
prefigurarsi 
un doppio regime 
di 
funzionamento dei 
collegi, 
che 
discende 
dalla 
necessità 
di 
distinguere 
le 
disposizioni 
del 
correttivo 
riproduttive/confermative 
di 
precetti 
già 
in vigore 
nel 
testo originario del 
codice 
e 
dell’allegato rispetto alle 
disposizioni 
di 
carattere 
innovativo, che 
trovano 
applicazione 
anche 
ai 
collegi 
già 
operanti 
qualora 
le 
parti 
non 
manifestino 
espressamente 
una 
volontà 
contraria. Ciò prefigura 
dubbi 
circa 
il 
tasso di 
novità, 
totale 
o parziale, delle 
nuove 
disposizioni, in quanto la 
relazione 
illustrativa 
al 
correttivo 
dichiara 
che 
l’allegato 
riproduce 
le 
linee 
guida 
M.i.t. 
del 
2022 (rectius, solo qualche 
previsione 
delle 
linee 
guida) (8), con le 
opportune 
modificazioni e integrazioni (9). 


(6) Cfr. la relazione illustrativa al correttivo, ibidem. 

(7) 
Di 
rischio 
paralisi 
dei 
collegi 
già 
operanti 
parla 
M. 
interDonAto, 
Collegio 
consultivo 
tecnico, 
tutte 
le 
novità 
del 
Correttivo: 
rischio 
paralisi 
nel 
passaggio 
di 
regole, 
in 
www.ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.
com. 


(8) Similmente, l’originario allegato V.2 era 
il 
risultato di 
una 
collazione 
di 
alcune 
disposizioni 
contenute 
nell’art. 6 d.l. n. 76/2020 e 
di 
altre 
trasfuse 
dalle 
linee 
guida 
M.i.t. del 
2022: 
così 
la 
relazione 
al codice, in www.giustizia-amministrativa.it. 



Dall’altro, 
risulta 
inedita 
la 
previsione 
che, 
a 
differenza 
dell’originario 
regime 
transitorio 
del 
codice 
(art. 
224, 
comma 
1, 
cit.), 
rimette 
alla 
volontà 
delle 
parti 
l’applicazione 
ai 
vecchi 
collegi 
della 
nuova 
disciplina 
del 
correttivo, 
consentendo l’opzione 
per l’ultrattività 
delle 
regole 
precedenti. in proposito, 
il 
legislatore 
non 
ha 
accolto 
l’indicazione 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
che 
aveva 
auspicato la 
soluzione 
opposta, che 
prevedesse 
l’applicazione 
delle 
nuove 
disposizioni 
solo a richiesta delle parti (10). 


la 
norma 
intertemporale 
non 
chiarisce 
se 
tale 
perpetuatio 
iuris 
(da 
riferirsi, 
ancora 
una 
volta, 
alle 
disposizioni 
di 
codice 
e 
allegato 
e 
non 
direttamente 
alle 
previsioni 
delle 
linee 
guida) 
richiede 
la 
volontà 
di 
entrambe 
le 
parti, 
o 
se 
l’opzione 
sia 
efficace 
anche 
in 
virtù 
della 
determinazione 
espressa 
di 
una 
di 
esse. 
neppure 
vengono 
indicate 
le 
modalità 
e 
i 
tempi 
nei 
quali 
l’opzione 
per 
l’applicazione 
della 
disciplina 
pregressa 
dovrebbe 
essere 
formulata. 


Si 
tratta, in ogni 
caso, di 
ulteriori 
complicazioni 
delle 
quali 
certo non si 
avvertiva la necessità. 


Da 
ultimo, 
si 
apprende 
dalla 
disciplina 
transitoria 
anche 
che 
i 
collegi 
consultivi 
tecnici 
relativi 
ai 
contratti 
di 
servizi 
e 
forniture 
già 
costituiti 
continueranno 
ad 
operare 
secondo 
la 
normativa 
pregressa, 
essendo 
espressamente 
esclusi dalla nuova disciplina introdotta dal correttivo. 


(9) Dal 
che 
si 
trae 
ulteriore 
conferma 
che 
le 
linee 
guida 
2022 sono divenute 
ex 
se 
inapplicabili 
con la cessazione di efficacia dell’art. 6 d.l. n. 76 cit. 
(10) Consiglio di 
Stato, Comm. spec., parere 
2 dicembre 
2024 n. 1463, § 61, in www.giustiziaamministrativa.
it. 



La sanità in Italia. Il futuro delle competenze 
nell’era dell’Intelligenza Artificiale 


Gaetana Natale* 


SommarIo: 
1. 
Introduzione 
-2. 
Le 
applicazioni 
dell’Intelligenza 
artificiale 
in 
ambito 
sanitario e 
biomedicale 
-3. Gli 
ostacoli 
alla piena integrazione 
dell’Ia 
nel 
sistema sanitario 


-4. rischi 
etici 
e 
nuove 
conoscenze 
-5. La responsabilità medica tra aI act 
e 
prospettive 
di 
riforma nazionali. 


1. Introduzione. 


la 
medicina 
ha 
fatto progressi 
significativi 
e 
rapidi 
negli 
ultimi 
decenni, 
soprattutto 
grazie 
agli 
avanzamenti 
scientifici 
e 
alle 
innovazioni 
tecnologiche, 
portando a 
un incremento dell’aspettativa 
di 
vita 
a 
livello nazionale 
e 
globale. 
tuttavia, le 
sfide 
che 
il 
settore 
sanitario affronta, e 
che 
sarà 
chiamato ad affrontare 
nel 
prossimo futuro, si 
mostrano sempre 
più complesse. Ciò è 
vero 
soprattutto volgendo lo sguardo al 
contesto italiano, dove 
la 
domanda 
di 
prestazioni 
sanitarie 
e 
di 
farmaci 
è 
in 
aumento, 
così 
come 
la 
spesa 
corrente, 
il 
tutto a 
fronte 
di 
una 
forza 
lavoro strutturalmente 
sottodimensionata 
rispetto al 
fabbisogno. il 
quadro che 
emerge 
da 
un recente 
report 
sullo “stato di 
salute” 
del 
Sistema 
Sanitario nazionale 
evidenzia, inoltre, differenze 
regionali 
particolarmente 
marcate, 
mentre 
le 
retribuzioni 
sono 
molto 
inferiori 
alla 
media 
oCSe. 
Altrettanto 
allarmante 
è 
il 
livello 
di 
medici 
e 
infermieri 
pro-capite, 
che 
risulta 
essere 
tra 
i 
più bassi 
d’europa. in particolare, a 
differenza 
del 
passato, 
la 
carenza 
di 
Medici 
di 
Medicina 
Generale 
non si 
arresta 
più alle 
sole 
aree 
remote 
del paese, ma interessa anche i grandi centri urbani (1). 


la 
prima 
parte 
del 
presente 
contributo sarà 
dedicata 
alla 
descrizione 
di 
alcuni 
casi 
di 
studio 
particolarmente 
esemplificativi 
delle 
potenzialità 
dell’intelligenza 
Artificiale 
(iA) applicata 
al 
campo sanitario e 
biomedicale, al 
fine 
di 
evidenziare 
come 
la 
piena 
integrazione 
di 
questo 
strumento 
multifunzionale 
nel 
Sistema 
Sanitario 
nazionale 
possa 
porre 
rimedio, 
almeno 
in 
parte, 
alle 
criticità 
segnalate. 
Da 
un 
lato, 
la 
capacità 
di 
analizzare 
grandi 
quantità 
di 
dati 
complessi 
e 
di 
fornire 
supporto 
decisionale 
rende 
l’iA 
una 
risorsa 
preziosa 
per 
migliorare 
l’efficienza 
operativa 
e 
per ridurre 
le 
attese 
diagnostiche, consentendo 
ai 
professionisti 
di 
dedicare 
più 
tempo 
all’assistenza 
diretta, 
con 
benefici 
finali 
per la 
salute 
dei 
pazienti. Dall’altro, l’iA 
ha 
il 
potenziale 
per favorire 
la 
ricerca sanitaria e lo sviluppo di nuovi farmaci. 


la 
seconda 
parte 
del 
contributo darà 
spazio ai 
sempre 
più frequenti 
mo


(*) Avvocato dello Stato e professore di Sistemi Giuridici Comparati. 

(1) 7° 
rapporto GiMBe 
sul 
Servizio Sanitario nazionale, presentato l’8 ottobre 
2024 presso la 
Sala Capitolare del Senato della repubblica. 



niti, 
provenienti 
da 
taluni 
esperti 
di 
iA 
e 
large 
language 
Models 
(llM), 
aventi 
ad oggetto gli 
ostacoli, di 
varia 
natura, che 
si 
frappongono alla 
piena 
integrazione 
di 
queste 
tecnologie 
nei 
sistemi 
sanitari, come 
la 
presenza 
d’infrastrutture 
digitali deboli e di standard tecnologici inadeguati. 


la 
terza 
parte, 
invece, 
s’interesserà 
ai 
rischi 
di 
tipo 
etico, 
determinati 
dalla 
delicata 
triangolazione 
algoritmo 
-operatore 
sanitario 
-paziente. 
infatti, 
un 
ruolo 
fondamentale 
per 
integrare 
i 
più 
recenti 
portati 
tecnici 
e 
tecnologici 
nell’attività 
medica 
è 
giocato 
proprio 
dalla 
capacità 
di 
adattamento 
degli 
stessi 
professionisti 
sanitari 
che 
saranno chiamati 
a 
rivestire 
nuovi 
ruoli 
e 
funzioni, 
ma 
soprattutto 
a 
trasporre 
nell’era 
dell’iA 
-quali 
“humans 
in 
the 
loop” 
-il 
principio di 
umanizzazione 
delle 
cure. A 
ciò, del 
resto, come 
si 
avrà 
modo di 
sottolineare, si 
correla 
strettamente 
e 
necessariamente 
la 
spinta 
ad una 
complessiva 
riprogrammazione 
delle 
competenze 
e 
dei 
curricula 
universitari 
in 
ambito sanitario. 


nella 
quarta 
sezione, 
incentrata 
sulle 
ricadute 
prettamente 
giuridiche 
del-
l’adozione 
dell’iA 
e 
degli 
llM, 
si 
offrirà 
un 
quadro 
delle 
più 
recenti 
iniziative 
legislative 
eurounitarie 
e 
nazionali 
volte 
ad 
adeguare 
il 
regime 
della 
responsabilità 
medica 
ad 
un 
contesto 
di 
crescente 
applicazione 
dei 
sistemi 
di 
iA. 


2. Le 
applicazioni 
dell’Intelligenza artificiale 
in ambito sanitario e 
biomedicale. 


Gli 
strumenti, quali 
software 
e 
applicazioni, che 
incorporano l’iA 
e 
che 
sono 
adoperati 
in 
campo 
sanitario 
e 
biomedicale 
sono 
numerosi 
e 
differenziati, 
coinvolgendo non solo diverse 
branche 
mediche, ma 
anche 
diversi 
aspetti 
del 
percorso di 
cura, assistenza 
ed erogazione 
del 
servizio. in primo luogo, vengono 
in 
rilievo 
le 
applicazioni 
cliniche 
dell’iA, 
specialmente 
in 
campo 
diagnostico, 
mediante 
sistemi 
algoritmici 
capaci 
di 
analizzare 
immagini 
per 
identificare 
patologie. Si 
tratta 
di 
una 
capacità 
trasversale 
alle 
aree 
di 
specializzazione 
medica, 
interessando 
l’uso 
di 
immagini 
per 
identificare 
e 
localizzare 
anomalie 
a 
livello cerebrovascolare, attraverso l’analisi 
dell’encefalogramma 
(2), così 
come 
nei 
feti, rilevabili 
dalle 
immagini 
delle 
ecografie 
ostetriche 
ultrasuono 
(3). 
Sempre 
grazie 
all’analisi 
automatizzata 
delle 
immagini 
ed 
al 
loro 
miglioramento, possono essere 
individuati 
glaucomi, retinopatie 
diabetiche 
e 
melanomi maligni (4). 

in campo radiologico sono stati 
sviluppati 
algoritmi 
in grado di 
individuare 
anomalie 
nelle 
radiografie 
toraciche 
(5). 
inoltre, 
attraverso 
la 
radiomica, 


(2) in ambito cardiologico, gli 
algoritmi 
sviluppati 
da 
Anumana 
e 
AliveCor sono impiegati 
per 
diagnosticare 
amiloidosi 
cardiaca 
e 
fibrillazioni 
atriali. per ulteriori 
esempi 
si 
rinvia 
a 
G. nAtAle 
e 
F. 
D’orAzio, La responsabilità medica alla prova dell’Ia, 
in rassegna avvocatura dello Stato, n. 1/2023. 


(3) American Medical 
Association (AMA), Future 
of 
Health: The 
Emerging Landscape 
of 
augmented 
Intelligence in Health Care, 2024. 


(4) Ibidem. 



una 
tecnica 
di 
processazione 
delle 
immagini 
che 
estrae 
informazioni 
di 
carattere 
quantitativo in relazione 
all’eterogeneità 
e 
alla 
forma 
di 
tessuti 
e 
lesioni, 
sono 
ricavabili 
informazioni 
utili 
per 
definire 
le 
strategie 
di 
trattamento, 
specie 
se 
combinate 
con grandi 
quantità 
di 
dati 
demografici, istologici, genomici 
o 
proteomici 
(6). Altri 
settori 
che 
beneficiano di 
un crescente 
sviluppo di 
algoritmi 
impiegati 
per la 
diagnostica 
attraverso immagini 
sono la 
nefrologia, per 
il 
monitoraggio 
delle 
patologie 
renali 
croniche, 
l’oncologia, 
grazie 
ad 
algoritmi 
applicati 
allo screening 
delle 
biopsie 
linfonodali 
(7), e 
l’epatologia, in particolare 
per 
la 
rilevazione 
automatizzata 
della 
steatosi 
epatica 
non 
alcolica 
(nAFlD), nonché 
per stimare 
la 
gravità 
e 
la 
prognosi 
dell’epatite 
virale 
cronica 
(8) e 
per la 
diagnosi 
di 
lesioni 
nel 
fegato (9). Anche 
la 
procreazione, specie 
quella 
medicalmente 
assistita, 
può 
incrementare 
le 
proprie 
chance 
di 
successo grazie 
all’iA: 
l’analisi 
dei 
dati 
consente 
di 
ottimizzare 
la 
selezione 
dell’embrione 
nella 
fecondazione 
in 
vitro, 
di 
personalizzare 
i 
trattamenti 
in 
base 
all’anamnesi 
materna 
ed ai 
parametri 
vitali 
del 
feto, oltre 
a 
predire 
casi 
di emorragia 
post-partum 
(10). 


ulteriori 
proficue 
applicazioni 
dell’iA 
in 
campo 
medico 
interessano 
la 
gestione 
dei 
pazienti 
nei 
pronto soccorso, supportando le 
decisioni 
degli 
operatori 
sanitari 
durante 
il 
triage, e 
il 
monitoraggio domiciliare 
degli 
anziani 
e 
dei 
malati 
cronici 
(11). Grazie 
a 
strumenti 
come 
software 
ed applicazioni 
per 
smartphone 
viene 
semplificata 
l’assistenza 
nell’assunzione 
regolare 
di 
farmaci, 
l’adattamento della 
dieta 
alle 
specificità 
del 
paziente 
e 
il 
pronto intervento in 
caso di 
cadute 
o eventi 
avversi. in tal 
modo si 
promuove 
una 
maggiore 
indipendenza 
e 
si 
semplificano 
le 
interazioni 
con 
il 
sistema 
sanitario 
(12). 
l’iA 
ha 
dimostrato, inoltre, di 
poter migliorare 
la 
qualità 
della 
vita 
di 
pazienti 
paralizzati, 
consentendo 
loro 
di 
comunicare 
grazie 
a 
interfacce 
cervello-spina 
dorsale o sistemi che traducono segnali cerebrali in parole (13). 


(5) Ad esempio, l’algoritmo DlAD, sviluppato nel 
2018 da 
ricercatori 
del 
Seoul 
national 
university 
Hospital, rileva 
anomalie 
nelle 
radiografie 
toraciche, come 
il 
cancro ai 
polmoni, v. J.G. nAM 
et 
al., 
Development 
and 
Validation 
of 
Deep 
Learning-based 
automatic 
Detection 
algorithm 
for 
malignant 
Pulmonary Nodules on Chest radiographs, in radiology, 2019, vol. 290, pp. 218 ss. 


(6) european parliamentary research Service, artificial 
intelligence 
in healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, 2022, p. 6 e bibliografia ivi citata. 


(7) 
il 
più 
noto 
tra 
gli 
algoritmi 
in 
grado 
di 
individuare 
tumori 
metastatici 
al 
seno 
analizzando 
biopsie 
linfonodali è lynA, sviluppato da Google iA nel 2018. 


(8) european parliamentary research Service, artificial 
intelligence 
in healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 9 e ss. 


(9) Ad esempio, nel 
2022 la 
FDA 
ha 
approvato l’algoritmo sviluppato da 
Arterys 
inc. in grado di 
diagnosticare 
lesioni 
nel 
fegato 
e 
nei 
polmoni. 
l’elenco 
degli 
aI/mL-enabled 
medical 
devices 
approvati 
dalla FDA ammontava, ad agosto 2024, a 950. 


(10) 
AMA, 
Future 
of 
Health: 
The 
Emerging 
Landscape 
of 
augmented 
Intelligence 
in 
Health 
Care, 
cit., p. 12. 
(11) 
european 
parliamentary 
research 
Service, 
artificial 
intelligence 
in 
healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 6 e ss. 


(12) ivi, p. 8. 



Da 
ultimo, grande 
rilievo assumono le 
applicazioni 
dell’iA 
per la 
tutela 
della 
salute 
mentale, un campo in cui 
diversi 
strumenti, sia 
software, sia 
chatbot 
che 
utilizzano modelli 
cognitivo-comportamentali 
per supportare 
pazienti 
con ansia 
e 
depressione 
(14), possono supportare 
la 
diagnosi 
e 
il 
trattamento 
di disturbi psichici e psicologici. 


oltre 
alle 
applicazioni 
in 
ambito 
clinico 
e 
assistenziale, 
l’iA 
è 
fondamentale 
per 
accelerare 
lo 
sviluppo 
di 
nuovi 
farmaci. 
le 
tecniche 
di 
apprendimento 
automatico, ossia 
il 
machine 
Learning 
(Ml), consentono di 
estrarre 
informazioni 
chimiche 
da 
ampi 
database 
di 
composti 
e 
di 
prevedere 
il 
comportamento 
di 
quelli 
di 
nuovo conio (15), così 
da 
favorire 
la 
progettazione 
di 
nuovi 
farmaci, 
migliorarne 
l’efficacia 
e 
supportare 
le 
valutazioni 
sulla 
sicurezza 
nella 
fase di sperimentazione (16). 


un 
altro 
importante 
utilizzo 
riguarda 
l’analisi 
delle 
interazioni 
tra 
farmaci 
(17): 
attraverso modelli 
di 
Ml 
ed algoritmi 
viene 
favorita 
una 
migliore 
comprensione 
delle 
diverse 
tipologie 
di 
farmaci 
e 
dei 
relativi 
risultati 
clinici, così 
come 
la 
valutazione 
dei 
composti, delle 
loro capacità 
biologiche 
e 
della 
loro 
tossicità, contribuendo a ridurre i tassi di abbandono dei farmaci (18). 


3. Gli ostacoli alla piena integrazione dell’Ia nel sistema sanitario. 


Ai 
vantaggi 
sopra 
evidenziati 
fanno 
da 
contraltare 
diverse 
classi 
di 
rischio 
associate 
all’impiego dell’iA 
in campo sanitario e 
biomedico. la 
letteratura 
suole 
suddividere 
i 
rischi 
in tre 
principali 
tipologie 
(19): 
i 
rischi 
clinici, quelli 


(13) i casi 
più noti 
riguardano le 
interfacce 
in grado di 
tradurre 
i 
segnali 
dell’attività 
cerebrale 
in 
parole 
ed espressioni, v. S. AMBroGio 
et 
al., an analog-aI chip for 
energy-efficient 
speech recognition 
and 
transcription, 
in 
Nature, 
24 
August 
2023, 
vol. 
620, 
pp. 
768 
ss. 
e 
H. 
lorACH 
et 
al., 
Walking 
naturally 
after spinal cord injury using a brain-spine interface, in Nature, 1 June 2023, vol. 618, pp. 126 ss. 
(14) tra 
i 
programmi 
che 
fanno uso dell’iA 
in psicologia 
si 
possono menzionare 
“Mser-Diagno”, 
che 
offre 
valutazioni 
diagnostiche 
basate 
su 
dati 
clinici. 
per 
quanto 
riguarda 
le 
chatbot, 
“eliza” 
e 
“Woebot” 
utilizzano 
modelli 
cognitivo-comportamentali 
per 
supportare 
pazienti 
con 
ansia 
e 
depressione. 
Woebot, ad esempio, analizza 
e 
classifica 
le 
emozioni 
per fornire 
un aiuto personalizzato. per approfondire 
si rinvia a G. nAtAle 
e F. D’orAzio, La responsabilità medica alla prova dell’Ia, cit. 
(15) in european parliamentary research Service, artificial 
intelligence 
in healthcare 
applications, 
risks, and ethical 
and societal 
impacts, cit., p. 11, vengono descritti 
i 
modelli 
esistenti 
basati 
su 
approcci 
QSAr 
(Quantitative 
Structure-activity 
relationship) 
che 
possono 
prevedere 
il 
comportamento 
di 
numerosi 
nuovi 
composti 
per diversi 
obiettivi 
biologici. tuttavia, le 
previsioni 
di 
tali 
modelli 
presentano 
alcune limitazioni evidenziate dalla letteratura in materia. 
(16) Ad esempio, un algoritmo di 
deep learning è 
stato addestrato per prevedere 
il 
potenziale 
antimicrobico 
di 
alcune 
molecole 
v. 
J.M. 
StokeS, 
et 
al., 
a 
Deep 
Learning 
approach 
to 
antibiotic 
Discovery 
in Cell, vol. 180, n. 4, 2020, pp. 688-702. 
(17) 
un’analisi 
condotta 
dai 
ricercatori 
della 
Vanderbilt 
university 
ha 
studiato, 
ad 
esempio, 
come 
ottimizzare 
la 
terapia 
di 
combinazione 
per 
il 
tumore 
del 
polmone 
non 
a 
piccole 
cellule 
e 
per 
il 
melanoma 
servendosi dell’algoritmo “MuSyC” (multi-dimensional synergy of combinations). 


(18) 
european 
parliamentary 
research 
Service, 
artificial 
intelligence 
in 
healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 11 e ss. 
(19) A. Muley 
et 
al., risk 
of 
aI in Healthcare: a 
Comprehensive 
Literature 
review and Study 
Framework 
in asian J. med. Health, vol. 21, n. 10, 2023, pp. 276-291. 



tecnici 
e, 
infine, 
i 
rischi 
etici, 
cui 
sarà 
dedicata 
la 
trattazione 
dei 
successivi 
paragrafi. 


nella 
prima 
categoria 
viene 
inquadrato 
il 
rischio 
di 
provocare 
danni 
ai 
pazienti. 
È 
stato 
rilevato 
che, 
pur 
a 
fronte 
di 
iA 
addestrate 
con 
un 
grande 
quantitativo 
di 
dati 
qualitativamente 
robusti, possono verificarsi 
errori 
determinati 
dal 
“rumore 
statistico”, 
dalla 
differenza 
nella 
distribuzione 
statistica 
nel 
dataset 
usato per l’addestramento e 
in quello impiegato “sul 
campo”, nonché 
quelli 
dovuti 
alla 
difficoltà 
degli 
algoritmi 
ad adattarsi 
ai 
cambiamenti 
del 
contesto 
in 
cui 
sono 
adoperati 
e 
che 
possono 
condurre 
a 
falsi 
positivi 
o 
negati 
(c.d. 
“misclassification”) 
(20). 


nella 
seconda 
categoria 
sono ricompresi 
sia 
i 
rischi 
da 
uso erroneo degli 
strumenti 
di 
iA 
(c.d. 
“misuse”), 
sia 
quelli 
derivanti 
da 
pregiudizi 
(c.d. 
“bias”), 
da 
fallimenti 
nell’infrastruttura 
di 
sicurezza 
o 
dall’opacità 
degli 
algoritmi 
(21). 
tra 
i 
fattori 
principali 
che 
possono condurre 
ad un uso scorretto dell’iA 
il 
più 
importante 
riguarda 
il 
mancato coinvolgimento degli 
operatori 
sanitari 
nella 
fase 
di 
progettazione 
ed implementazione, attività 
che 
spesso pertiene 
esclusivamente 
agli 
ingegneri 
informatici 
ed agli 
analisti 
dei 
dati. inoltre, la 
proliferazione 
di 
strumenti 
di 
iA, 
non 
accompagnata 
da 
un’alfabetizzazione 
adeguata 
dei 
professionisti 
e 
dei 
pazienti, può amplificare 
il 
rischio di 
un uso 
inconsapevole e inefficace (22). 

Altrettanto problematico è 
il 
rischio di 
algorithmic 
bias 
che 
si 
verifica 
in 
tutti 
quei 
casi 
in 
cui 
“l’applicazione 
di 
un 
algoritmo 
aggrava 
le 
disuguaglianze 
esistenti 
in termini 
di 
status 
socioeconomico, razza, origine 
etnica, religione, 
genere, disabilità o orientamento sessuale, amplificandole 
e 
incidendo negativamente 
sulle 
disuguaglianze 
nei 
sistemi 
sanitari” 
(23). le 
diseguaglianze 
sistemiche 
in 
danno 
di 
popolazioni 
e 
comunità 
storicamente 
discriminate 
o 
stigmatizzate 
determinano una 
loro sottorappresentazione 
o sovra-rappresentazione 
nei 
dati 
utilizzati 
per 
l’addestramento 
dei 
llM. 
in 
tal 
modo 
le 
disparità 
vengono incorporate 
e 
codificate 
negli 
strumenti 
basati 
sull’iA, compromettendone 
l’efficacia, 
diminuendone 
la 
capacità 
predittiva 
o 
producendo 
risultati 
erronei (24). 


ulteriore 
punto debole 
dell’iA, con annesso elevato livello di 
rischio in 
caso 
di 
applicazione 
nel 
contesto 
medico, 
attiene 
al 
noto 
deficit 
di 
trasparenza 
che 
ne 
caratterizza 
lo sviluppo e 
che 
incide 
negativamente 
sulla 
fiducia 
di 
pa


(20) Ibidem. 


(21) 
european 
parliamentary 
research 
Service, 
artificial 
intelligence 
in 
healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 15 e ss. 
(22) Ibidem. 


(23) t. pAnCH 
et 
al., artificial 
intelligence 
and algorithmic 
bias: implications 
for 
health systems 
in Journal of Global Health, vol. 9, n. 2, 2019, p. 1. 
(24) 
european 
parliamentary 
research 
Service, 
artificial 
intelligence 
in 
healthcare 
applications, 
risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 20 e ss. 



zienti, 
medici 
e 
sistemi 
sanitari. 
in 
letteratura 
la 
trasparenza 
si 
ritiene 
presente 
quando entrambi 
gli 
elementi 
della 
tracciabilità 
e 
della 
spiegabilità 
sono sodi-
sfatti 
(25). nel 
primo caso si 
richiede 
che 
l’intero ciclo vitale 
dell’algoritmo 
sia 
reso noto dal 
produttore. per spiegabilità 
s’intende, invece, alla 
capacità 
di 
dare 
conto delle 
decisioni 
e 
delle 
predizioni 
basate 
sull’iA. il 
GDpr garantisce 
il 
diritto 
a 
ottenere 
spiegazioni 
sui 
processi 
decisionali 
automatizzati, 
ma 
molti 
modelli 
restano “black 
box” 
difficili 
da 
penetrare 
per gli 
stessi 
“addetti 
ai 
lavori”. Ciò è 
ritenuto un ostacolo all’adozione 
clinica, in quanto i 
medici 
devono 
poter 
comprendere 
i 
principi 
alla 
base 
delle 
decisioni 
per 
integrare 
l’iA nella pratica (26). 


4. rischi etici e nuove conoscenze. 


Dopo aver succintamente 
passato in rassegna 
i 
benefici 
ed i 
rischi 
legati 
all’adozione 
di 
strumenti 
basati 
sull’iA 
in campo medico, è 
utile 
prendere 
in 
considerazione 
la 
prospettiva 
dei 
professionisti 
della 
sanità 
per vagliare 
sia 
la 
loro attitudine 
rispetto al 
fenomeno, sia 
per confrontarsi 
con le 
problematiche 
da 
loro 
riscontrate 
nell’integrazione 
dei 
portati 
tecnologi 
alla 
quotidianità 
medico-
ospedaliera. A 
tal 
proposito, suggestioni 
interessanti 
giungono da 
un recente 
studio commissionato dall’oCSe 
(27), che 
ha 
coinvolto le 
associazioni 
mediche 
aderenti 
alla 
World 
Medical 
Association 
per 
acquisire 
il 
punto 
di 
vista 
degli 
operatori 
sanitari 
sull’impatto dell’iA 
e 
dei 
servizi 
sanitari 
erogati 
a 
distanza. 
nonostante 
i 
risultati 
dell’indagine 
siano positivi, evidenziandosi 
un 
sostanziale 
ottimismo circa 
la 
prevalenza 
dei 
benefici 
sui 
rischi, gli 
operatori 
hanno 
espresso 
preoccupazioni 
sui 
profili 
etici 
delle 
applicazioni 
dell’iA, 
nonché 
timori 
in merito ad un incremento della 
propria 
responsabilità 
professionale 
per l’adozione di strumenti di iA. 


lo 
studio 
dell’oCSe 
in 
questione, 
nella 
sezione 
dedicata 
alle 
raccomandazioni, 
mette 
in 
luce 
la 
necessità 
di 
un 
coinvolgimento 
dei 
professionisti 
medici 
in 
tutte 
le 
fasi 
d’implementazione 
delle 
soluzioni 
basate 
sull’iA, 
così 
da 
garantire 
una 
sua 
integrazione 
efficace 
e 
rispettosa 
delle 
esigenze 
etiche 
e 
operative. 
Viene, 
inoltre, 
enfatizzata 
la 
necessità 
di 
creare 
nuove 
figure 
professionali 
trasversali 
e 
di 
avviare 
programmi 
di 
formazione 
continua 
per 
il 
personale 
attivo. 
Fondamentale, 
inoltre, 
è 
l’inclusione 
dello 
studio 
dell’iA 
nei 
curricula 
delle 
facoltà 
di 
ambito 
medico-sanitario 
per 
dotare 
i 
professionisti 
del 
futuro 
delle 
competenze 
necessarie 
ad 
affrontare 
le 
sfide 
che 
si 
affacciano 
all’orizzonte. 


importanti 
sono 
anche 
le 
considerazioni 
sui 
profili 
etici 
attinenti 
al 
nuovo 


(25) A. Muley 
et 
al., risk 
of 
aI in Healthcare: a 
Comprehensive 
Literature 
review and Study 
Framework, cit., pp. 282 e s. 
(26) Ibidem. 


(27) 
oCSe, 
artificial 
intelligence 
and 
the 
health 
workforce 
perspectives 
from 
medical 
associations 
on aI in health, oECD 
artificial Intelligence Papers, n. 28, novembre 2024. 



rapporto 
tra 
medico 
e 
paziente. 
Come 
sottolineato 
in 
un 
report 
dello 
“Steering 
Committee 
for 
Human 
rights 
in 
the 
fields 
of 
Biomedicine 
and 
Health” 
del 
Consiglio d’europa 
è 
urgente 
orientare 
l’innovazione 
tecnologica 
nel 
rispetto 
dei 
diritti 
e 
della 
dignità 
del 
paziente, 
considerando 
che 
la 
funzione 
sociale 
del 
medico gli 
richiede 
di 
rispondere 
ad una 
duplice 
istanza: 
“to cure 
and to 
care”, 
ossia 
curare 
il 
paziente 
e 
“prendersi 
cura” 
della 
persona. 
Secondo 
le 
conclusioni 
del 
Comitato, l’impatto dell’Ai sulla 
pratica 
medica 
dipende 
dal 
modello di 
utilizzo adottato. tuttavia, non viene 
escluso che 
l’adozione 
crescente 
dell’iA 
porti 
all’emergere 
di 
“buone 
pratiche” 
diffusamente 
accettate, 
consentendo un maggiore 
tempo di 
interazione 
diretta 
tra 
medico e 
paziente, 
grazie al supporto delle raccomandazioni automatizzate (28). 


proprio 
per 
garantire 
il 
ruolo 
di 
cura 
della 
persona 
e 
il 
rispetto 
dell’umanizzazione 
delle 
cure, 
la 
“Guidance 
on 
ethics 
and 
Governance 
of 
Ai 
for 
health” 
(29) 
della 
World 
Health 
organization 
ha 
fatto 
propria 
la 
proposta 
di 
includere 
nella 
fase 
di 
sviluppo 
dei 
llM 
tutti 
i 
fruitori 
e 
beneficiari 
delle 
applicazione 
cliniche 
e 
farmaceutiche, 
ossia 
gli 
stakeholders 
(operatori 
sanitari, 
pazienti, 
caregiver 
e 
popolazioni 
vulnerabili), 
introducendo 
degli 
“human 
oversight 
colleges” 
a 
cui 
parteciperebbero 
i 
rappresentanti 
delle 
menzionate 
categorie. 
Al 
fine 
di 
prevenire 
l’elusione 
del 
giudizio 
umano, 
foriero 
di 
deresponsabilizzazione 
morale 
e 
degradazione 
delle 
competenze, 
la 
proposta 
del 
WHo 
prevede 
che 
nel 
progettare 
e 
sviluppare 
i 
llM 
vadano 
prese 
in 
considerazione 
le 
istanze 
di 
inclusività 
e 
che 
siano 
incorporati 
nel 
design 
i 
valori 
e 
principi 
ricavabili 
dal 
consensus, 
dalle 
best 
practices, 
dagli 
standard 
etici 
e 
dall’evoluzione 
degli 
usi 
professionali. 
le 
raccomandazioni 
del 
WHo 
affermano 
di 
voler 
preservare, 
attraverso 
uno 
sviluppo 
degli 
llM 
assiologicamente 
orientato, 
la 
human 
oversight 
e 
l’autorità 
epistemica 
umana. 


5. La responsabilità medica tra aI act e prospettive di riforma nazionali. 


nell’aprile 
del 
2021 ha 
avuto inizio l’iter 
legislativo che 
ha 
portato al-
l’approvazione 
del 
regolamento (ue) 2024/1689 del 
parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
13 giugno 2024 che 
stabilisce 
regole 
armonizzate 
sull’intelligenza 
artificiale, 
meglio 
noto 
come 
Ai 
Act. 
il 
testo 
si 
compone 
di 
113 
articoli 
e 
tredici 
allegati 
ed è 
volto a 
definire 
regole 
comuni 
per lo sviluppo, l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in servizio e 
l’utilizzo dei 
sistemi 
di 
iA. poiché 
il 
regolamento 
si 
applica 
anche 
ai 
fornitori 
e 
ai 
deployer 
stabiliti 
in 
un 
paese 
terzo, “laddove 
l’output 
prodotto dal 
sistema di 
Ia 
sia utilizzato nell’Unione” 


(28) 
B. MittelStADt, The 
Impact 
of 
artificial 
Intelligence 
on The 
Doctor-Patient 
relationship, 
December 
2021 
(report 
commissioned 
by 
the 
Steering 
Committee 
for 
human 
rights 
in 
the 
fields 
of 
Biomedicine 
and health, Council of europe). 


(29) World Health organization, Ethics 
and governance 
of 
artificial 
intelligence 
for 
health. Guidance 
on large multi-modal models, 2024. 



(30), la 
sua 
portata 
spaziale 
ha 
una 
capacità 
trasformativa 
che 
va 
al 
di 
là 
dei 
confini 
dell’ue, facendo da 
innesco al 
c.d. “effetto Bruxelles” 
ed orientando 
gli sviluppatori stabiliti in paesi terzi verso gli standard ue. 


il 
regolamento è 
stato predisposto secondo un approccio basato sul 
rischio 
(c.d. 
“risk-based 
approach”) 
in 
virtù 
del 
quale 
la 
tipologia 
e 
il 
contenuto 
delle 
regole 
è 
proporzionato 
“all’intensità 
e 
alla 
portata 
dei 
rischi 
che 
possono 
essere 
generati 
dai 
sistemi 
di 
Ia” 
(31). 
tali 
rischi 
sono 
suddivisi 
in 
quattro 
categorie: 
1) unaceptable 
risk, 2) high risk, 3) limited risk 
e 
4) low and minimal 
risk. 
in base 
a 
questo criterio ordinatore, la 
regolamentazione 
è 
incentrata 
sui 
casi 
di 
c.d. alto rischio, sul 
divieto di 
utilizzazione 
di 
alcuni 
tipi 
di 
iA 
specificamente 
individuati 
per 
ragioni 
d’impatto 
negativo 
sui 
diritti 
e 
sulle 
libertà 
fondamentali 
protette 
dalla 
Carta 
di 
nizza 
e 
sull’individuazione 
di 
requisiti 
minimi di trasparenza applicabili in tutti i casi di impiego di sistemi di iA. 


l’art. 6, par. 1, considera 
ad alto rischio un sistema 
di 
iA 
che, congiuntamente, 
a) “è 
destinato a essere 
utilizzato come 
componente 
di 
sicurezza di 
un 
prodotto, o il 
sistema di 
Ia 
è 
esso stesso un prodotto, disciplinato dalla normativa 
di 
armonizzazione 
dell’Unione 
elencata nell’allegato I 
” 
e 
b) “il 
prodotto, 
il 
cui 
componente 
di 
sicurezza a norma della lettera a) è 
il 
sistema di 
Ia, o il 
sistema di 
Ia 
stesso in quanto prodotto, è 
soggetto a una valutazione 
della conformità da parte 
di 
terzi 
ai 
fini 
dell’immissione 
sul 
mercato o della 
messa in servizio di 
tale 
prodotto ai 
sensi 
della normativa di 
armonizzazione 
dell’Unione elencata nell’allegato I 
”. 


proprio in virtù del 
rinvio operato dall’Allegato i, punto n. 11, al 
regolamento 
(ue) 2017/745 sui 
dispositivi 
medici, che 
a 
sua 
volta 
prevede 
che 
gli 
stessi 
siano sottoposti 
ad una 
valutazione 
di 
conformità 
da 
parte 
di 
organismi 
terzi 
ai 
fini 
dell’immissione 
sul 
mercato 
o 
della 
messa 
in 
servizio, 
quando 
rientranti 
in 
una 
classe 
di 
rischio 
pari 
o 
superiore 
alla 
“ii 
a”, 
deve 
concludersi 
che, 
nella 
maggior parte 
dei 
casi, i 
dispositivi 
medici 
basati 
su sistemi 
di 
iA 
siano 
classificabili 
come 
ad “alto rischio”. Conseguentemente, tali 
dispositivi 
comportano 
l’applicazione 
di 
un cospicuo numero di 
disposizioni 
contenute 
nel-
l’Ai 
Act, 
quali 
ad 
esempio 
quelle 
sulla 
gestione 
del 
rischio 
(Art. 
9), 
qualità 
dei 
dati 
(Art. 10), documentazione 
tecnica 
e 
conservazione 
delle 
registrazioni 
(Artt. 
11 
e 
12), 
obblighi 
di 
trasparenza 
e 
doveri 
informativi, 
supervisione 
umana 
(Art. 14) e 
misure 
correttive 
in caso di 
non conformità 
(Art. 20), che 
si 
andranno 
a 
sommare 
agli 
obblighi 
previgenti 
di 
cui 
al 
regolamento 
2017/745 sui 
dispositivi 
medici. pertanto, quando l’Ai Act 
entrerà 
in vigore, 
gli 
ulteriori 
requisiti 
da 
questo imposti 
integreranno i 
criteri 
in base 
ai 
quali 
è 
operata la valutazione di conformità dei dispositivi medici. 


il 
regolamento sull’iA 
non contiene 
disposizioni 
in punto di 
responsabi


(30) regolamento (ue) 2024/1689, art. 2, par. 1, lett. c). 
(31) regolamento (ue) 2024/1689, Considerando n. 26. 



lità 
per danno causato da 
sistemi 
di 
iA, tuttavia, sempre 
a 
livello unionale, è 
stata 
elaborata 
una 
proposta 
di 
Direttiva 
vertente 
proprio sulla 
responsabilità 
extracontrattuale 
da 
intelligenza 
artificiale 
(32). 
il 
primario 
obiettivo 
della 
proposta 
è 
quello 
di 
garantire 
ai 
cittadini 
europei 
il 
diritto 
al 
risarcimento 
dei 
danni 
causati 
da 
sistemi 
di 
iA 
ad alto rischio e, nel 
perseguirlo, prevede 
delle 
agevolazioni 
finalizzate 
a 
identificare 
il 
centro d’imputazione 
del 
danno, nonché 
la prova dei fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria. 

A 
tal 
fine, l’art. 3, par. 1, attribuisce 
all’organo giurisdizionale 
il 
potere 
di 
ordinare 
la 
divulgazione 
di 
elementi 
di 
prova 
in 
relazione 
a 
specifici 
sistemi 
di 
iA 
ad alto rischio la 
cui 
operatività 
si 
presume 
abbia 
cagionato un danno. 
inoltre, il 
par. 5 del 
medesimo articolo introduce 
una 
presunzione 
di 
non conformità 
della 
condotta 
del 
convenuto all’obbligo di 
diligenza 
previsto in capo 
allo stesso. Si 
tratta 
di 
una 
presunzione 
relativa, pertanto confutabile 
dal 
convenuto, 
a 
scopo 
sanzionatorio, 
entrando 
in 
azione 
solo 
in 
caso 
d’inadempimento 
dell’obbligo 
di 
divulgazione 
o 
di 
conservazione 
degli 
elementi 
di 
prova. 
nella 
proposta 
in 
esame, 
la 
responsabilità 
è 
comunque 
attribuita 
a 
titolo 
di 
colpa, 
che 
si 
sostanzia 
nell’inosservanza 
del 
dovere 
di 
diligenza, 
così 
come 
configurato dall’insieme 
di 
obblighi 
prescritti 
del 
diritto eurounitario o nazionale. 


un’ulteriore 
agevolazione 
al 
soddisfacimento della 
pretesa 
risarcitoria 
è 
determinata 
dall’art. 4, par. 1, in virtù del 
quale 
il 
nesso causale 
tra 
la 
violazione 
della 
diligenza 
e 
l’output 
prodotto 
(o 
non 
prodotto) 
dal 
sistema 
di 
iA 
che 
ha 
cagionato un danno, si 
presume. Anche 
in questo caso trattasi 
di 
presunzione 
iuris 
tantum, reputata 
una 
soluzione 
tecnica 
in grado di 
superare 
le 
difficoltà 
in 
cui 
il 
danneggiato 
incorre 
nella 
dimostrazione 
della 
causalità 
e 
che, resta 
comunque 
proporzionata, applicandosi 
solo quando si 
può ritenere 
probabile 
che 
la 
colpa 
in 
questione 
abbia 
influenzato 
l’output 
non 
voluto. 
inoltre, 
nei 
sistemi 
di 
iA 
“ad 
alto 
rischio” 
la 
presunzione 
di 
causalità 
non 
si 
applica 
quando 
il 
convenuto 
dimostri 
che 
l’attore 
può 
ragionevolmente 
accedere 
a 
elementi 
di 
prova 
sufficienti 
per dimostrare 
il 
nesso causale, mentre 
nei 
sistemi 
di 
iA 
a 
rischio 
inferiore 
l’applicazione 
della 
presunzione 
è 
rimessa 
al 
prudente 
apprezzamento del giudice. 


A 
livello nazionale, l’applicazione 
dell’iA 
al 
campo medico ha 
portato la 
dottrina 
ad interrogarsi 
sulla 
tenuta 
dell’attuale 
configurazione 
del 
regime 
di 
responsabilità 
dell’operatore 
sanitario, 
della 
struttura 
ospedaliera 
e 
del 
produttore 
del 
sistema 
di 
iA 
difettoso. per quanto riguarda 
la 
responsabilità 
del-
l’operatore 
sanitario, 
si 
confrontano 
diversi 
orientamenti. 
Secondo 
il 
primo 


(32) proposta 
di 
Direttiva 
del 
parlamento europeo e 
del 
Consiglio sulla 
responsabilità 
extracontrattuale 
da 
intelligenza 
artificiale, CoM(2022) 496 final. nello stesso anno è 
stata 
avanzata 
anche 
la 
proposta 
di 
Direttiva 
del 
parlamento europeo e 
del 
Consiglio sulla 
responsabilità 
per danno da 
prodotti 
difettosi. per approfondire 
questi 
temi 
si 
rimanda 
a 
G. nAtAle 
e 
F. D’orAzio, La responsabilità medica 
alla prova dell’Ia, cit. 



l’iA 
è 
neutrale 
rispetto alla 
qualificazione 
della 
natura 
della 
prestazione 
sanitaria 
che, pertanto, in linea 
con l’impostazione 
tradizionale, resterebbe 
tra 
le 
species 
delle 
obbligazioni 
di 
mezzo. 
in 
caso 
d’inadempimento 
la 
responsabilità 
rimarrebbe 
attribuibile 
a 
titolo di 
colpa, da 
valutarsi 
secondo il 
canone 
della 
diligenza 
professionale 
ex 
art. 1176, co. 2, c.c. e 
secondo le 
linee 
guida 
e 
le 
buone 
pratiche 
clinico-assistenziali 
di 
cui 
all’art. 
5 
della 
legge 
n. 
24 
dell’8 
marzo 2017 (c.d. “legge Gelli-Bianco”) (33). 

Secondo taluna 
dottrina, inoltre, il 
semplice 
ricorso a 
sistemi 
di 
iA 
non 
sarebbe 
di 
per sé 
sufficiente 
a 
limitare 
la 
responsabilità 
ai 
soli 
casi 
di 
dolo o 
colpa 
grave, prevista 
dall’art. 2236 c.c. nelle 
ipotesi 
di 
prestazioni 
implicanti 
“problemi 
tecnici 
di 
speciale 
difficoltà”. 
Al 
contrario, 
la 
ricorrenza 
di 
tale 
presupposto 
andrebbe 
pur sempre 
effettivamente 
riscontrata 
nel 
caso concreto. il 
medico 
non 
risponderebbe 
del 
malfunzionamento 
di 
un 
sistema 
di 
iA, 
ma 
verrebbero 
ad esso imputati 
i 
soli 
danni 
causati 
da 
un suo negligente 
e 
scorretto 
utilizzo del 
sistema 
(34). Questa 
impostazione 
fa 
emergere 
in tutta 
la 
sua 
attualità 
la 
pressione 
a 
formare 
medici 
e 
operatori 
sanitari 
con competenze 
trasversali 
di 
alto 
livello 
e, 
al 
contempo, 
la 
necessità 
che 
gli 
stessi 
siano 
coinvolti 
nelle fasi d’implementazione dei sistemi di iA. 

un diverso orientamento ritiene 
invece 
applicabili 
analogicamente 
le 
disposizioni 
che 
dettano 
regimi 
speciali 
di 
responsabilità 
extracontrattuale. 
in 
particolare, tra 
le 
altre, sono state 
avanzate 
interpretazioni 
incentrate 
sulla 
responsabilità 
del 
precettore 
per le 
azioni 
dell’allievo, ex 
art. 2048, co. 2, c.c., 
sulla 
responsabilità 
del 
preponente, ex 
art. 2049 c.c., ovvero sulla 
responsabilità 
del 
proprietario 
di 
animale, 
ex 
art. 
2052 
c.c. 
(35). 
Secondo 
un’ulteriore 
suggestione 
dottrinaria 
(36), 
le 
indicazioni 
provenienti 
dall’algoritmo 
circa 
un 
trattamento sanitario integrerebbero linee 
guida 
mediche 
o buone 
pratiche 
assistenziale 
e, 
conseguentemente, 
il 
medico 
in 
grado 
di 
dimostrare 
di 
essersi 
attenuto alle 
stesse, non sarebbe 
condannabile 
o subirebbe 
la 
condanna 
ad un 
risarcimento del danno di minor ammontare. 


Da 
ultimo, 
si 
segnala 
che 
la 
Commissione 
d’ippolito 
-“Commissione 
per 
lo studio e 
l’approfondimento delle 
problematiche 
relative 
alla 
colpa 
professionale 
medica” 
-costituita 
con Decreto Ministeriale 
del 
28 marzo 2023, ha 
ultimato il 
testo base 
per la 
riforma 
della 
responsabilità 
dell’esercente 
attività 
sanitaria, modificando sia 
articoli 
del 
Codice 
penale, sia 
gli 
artt. 5 e 
7 della 


(33) 
M. 
FACCioli, 
Intelligenza 
artificiale 
e 
responsabilità 
sanitaria, 
in 
Nuova 
giurisprudenza 
civile commentata, 2023, n. 3, pp. 735 ss. 
(34) 
G. 
VotAno, 
Intelligenza 
artificiale 
in 
ambito 
sanitario: 
il 
problema 
della 
responsabilità 
civile, in Danno e 
responsabilità, 2022, n. 6, pp. 675 ss.; 
M. FACCioli, Intelligenza artificiale 
e 
responsabilità 
sanitaria, cit., p. 736. 


(35) 
Si 
v. 
la 
ricostruzione 
delle 
diverse 
prospettive 
operata 
da 
M. 
FACCioli, 
Intelligenza 
artificiale 
e responsabilità sanitaria, cit., p. 737. 


(36) 
A.G. 
GrASSo, 
Diagnosi 
algoritmica 
errata 
e 
responsabilità 
medica, 
in 
rivista 
di 
diritto 
civile, 
2023, n. 2, pp. 341 ss. 



legge 
Gelli-Bianco (37). in particolare, l’art. 5 vorrebbe 
aumentare 
l’autonomia 
professionale 
del 
medico prevedendo che 
accanto ai 
parametri 
di 
riferimento 
della 
condotta, 
quali 
le 
linee-guida 
e 
le 
buone 
pratiche, 
siano 
annoverate 
anche 
“altre 
scelte 
diagnostiche 
e 
terapeutiche 
adeguate 
alle 
specificità del 
caso concreto” 
(38). tuttavia, in base 
alla 
proposta, è 
soprattutto l’art. 7 a 
subire 
alterazioni. Si 
prevede 
in modo netto che 
la 
conformazione 
del 
medico ai 
riferiti 
parametri 
di 
condotta 
escluda 
la 
responsabilità 
civile 
sia 
per il 
medico 
che 
per 
la 
struttura 
sanitaria 
(comma 
3), 
mentre 
la 
dizione 
letterale 
porterebbe 
a 
ritenere 
che 
la 
condotta 
conforme 
incida 
solo sul 
quantum 
del 
risarcimento, 
presupponendo 
la 
responsabilità. 
il 
testo 
si 
propone, 
inoltre, 
di 
uniformare 
l’onere 
probatorio che 
regola 
l’affermazione 
della 
responsabilità 
in capo alla 
struttura 
sanitaria 
e 
al 
medico. 
infine, 
viene 
specificata 
l’applicabilità 
dell’art. 
2236 c.c., limitando la 
responsabilità 
del 
medico ai 
soli 
casi 
di 
dolo o colpa 
grave 
e 
prevedendo, altresì, specifiche 
ipotesi 
integranti 
“speciale 
difficoltà” 
e tipizzando i casi di responsabilità per colpa grave. 


(37) la 
relazione 
alla 
proposta 
di 
riforma 
è 
stata 
presentata 
in anteprima 
all’ordine 
dei 
Medici 
di 
Milano 
il 
25 
novembre 
2024 
ed 
è 
disponibile 
al 
https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1732296539.
pdf 
(ultimo accesso: 29 novembre 2024). 


(38) relazione alla proposta di riforma, p. 24. 



Il versamento diretto dell’assegno periodico 

di mantenimento al figlio maggiorenne non 


economicamente autonomo: un diritto negato 


Carlo Maria Pisana* 


Breviter: 
la 
norma 
di 
cui 
all’art. 155 quinquies 
c.c., trasfuso nel 
vigente 
art. 337 septies 
c.c., sebbene 
abbia 
compiuto 18 anni 
e 
sia 
pertanto maggiorenne, 
continua 
a 
essere 
tenuta 
sotto 
tutela 
dalla 
prevalente 
giurisprudenza, 
così 
come 
continuano a 
essere 
indebitamente 
tenuti 
sotto “tutela”, e 
talvolta 
sotto 
ricatto 
morale, 
i 
figli 
maggiorenni 
non 
economicamente 
autonomi 
di 
coppie 
separate 
o divorziate. il 
presente 
articolo analizza 
i 
vari 
aspetti 
pratici 
e 
teorici 
della 
applicazione 
della 
norma 
secondo l’orientamento tradizionale 
e 
secondo quello emergente, evidenziando infine 
lo scopo del 
legislatore, tale 
quale risultante dagli stessi lavori parlamentari. 


SommarIo: 1. Introduzione 
-2. La legittimazione 
processuale 
-3. La legittimazione 
sostanziale 
- 4. Il versamento a mani del figlio - 5. Lo scopo del legislatore - 6. Conclusione. 


1. Introduzione. 


la 
disposizione 
in esame 
è 
stata 
introdotta, come 
art. 155 quinquies 
c.c. 
dalla 
l. 54/06 sotto la 
XiV 
legislatura. Successivamente, senza 
mutamenti, è 
stata 
inserita 
nell’art. 337 septies 
a 
seguito della 
riforma 
complessiva 
della 
filiazione 
adottata con d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154. 


l’art. 337 septies 
comma 1 c.c. vigente così recita: 


“Disposizioni in favore dei figli maggiorenni 


Il 
giudice, valutate 
le 
circostanze, può disporre 
in favore 
dei 
figli 
maggiorenni 
non 
indipendenti 
economicamente 
il 
pagamento 
di 
un 
assegno 
periodico. 
Tale 
assegno, 
salvo 
diversa 
determinazione 
del 
giudice, 
è 
versato 
direttamente all’avente diritto”. 

il 
comma 
successivo estende 
le 
disposizioni 
previste 
in favore 
dei 
minorenni 
anche ai figli maggiorenni “portatori di handicap”. 


la 
norma 
non 
sembrerebbe 
richiedere 
alcuna 
interpretazione: 
nell’ambito 
dei 
giudizi 
di 
separazione, scioglimento, cessazione 
degli 
effetti 
civili, annullamento 
e 
nullità 
del 
matrimonio (ex 
art. 337 bis 
c.c.), il 
Giudice, quando ne 
ricorrono 
i 
presupposti, 
attribuisce 
al 
figlio 
maggiorenne 
non 
indipendente 
economicamente 
“il 
pagamento di 
un assegno periodico”, che, salvo diversa 
determinazione, deve 
essere 
versato al 
figlio stesso. la 
norma 
non introduce 
il 
diritto al 
mantenimento in favore 
del 
figlio maggiorenne 
non indipendente. 


(*) Avvocato dello Stato. 



tale 
diritto infatti 
preesisteva, essendo previsto già 
dall’art. 147 c.c., nonché 
dall’art. 30 della 
Costituzione. in assenza 
di 
tale 
disposizione, il 
figlio maggiorenne 
avrebbe 
potuto comunque 
adire 
le 
vie 
legali 
per ottenere 
il 
riconoscimento 
del 
suo 
diritto 
al 
mantenimento 
nei 
confronti 
del 
genitore 
che 
si 
fosse 
sottratto all’adempimento. essa 
ne 
ha 
voluto semplificare 
il 
conseguimento. 
la 
disposizione 
tutela 
infatti 
tale 
diritto, 
previo 
accertamento 
dell’indefettibile 
requisito 
dello 
stato 
di 
non 
indipendenza 
economica, 
nel 
delicato 
momento 
della 
crisi 
familiare. 
il 
novum 
apportato 
dalla 
norma 
consiste 
proprio 
nella 
possibilità 
per il 
Giudice 
di 
attribuire 
tale 
diritto al 
suo titolare, in assenza 
di 
domanda 
giudiziaria 
da 
parte 
di 
questi. inoltre, ha 
previsto che 
in particolari 
e 
motivate 
circostanze 
il 
pagamento dell’assegno periodico possa 
anche 
non 
avvenire 
a 
mani 
del 
figlio. Si 
pensi 
alle 
ipotesi 
di 
grave 
immaturità, talvolta 
causata 
proprio dalla 
conflittualità 
tra 
i 
genitori 
vissuta 
nella 
adolescenza, o 
di 
tossicodipendenza, o di 
condizionamento da 
parte 
del 
genitore 
convivente 


o di quello obbligato. 


nelle 
fattispecie 
non patologiche, il 
figlio ha 
diritto al 
“pagamento” 
del-
l’assegno, da 
compiersi 
a 
lui 
“direttamente”, con esclusione 
di 
mediazioni 
e 
forme 
di 
tutela, 
che 
si 
porrebbero 
in 
antitesi 
con 
la 
piena 
disponibilità 
dei 
propri 
diritti 
conseguita 
con la 
maggiore 
età, che 
determina 
il 
venire 
meno della 
rappresentanza 
legale 
dei 
genitori 
(ex 
art. 320 c.c.) e 
della 
“responsabilità 
genitoriale” 
(art. 316 c.c.) e del correlato obbligo di sottostarvi. 


nonostante 
l’evidenza 
della 
lettera 
della 
legge, 
un 
orientamento 
tradizionale 
di 
giurisprudenza, 
ancorato 
ad 
una 
visione 
astorica 
della 
famiglia, 
ha 
elaborato 
una 
ricostruzione, 
secondo 
cui 
sussisterebbe 
una 
legittimazione 
concorrente 
del 
figlio e 
del 
genitore 
convivente, il 
quale 
sarebbe 
titolare 
di 
un 
diritto iure 
proprio 
al 
versamento dell’assegno. il 
figlio potrebbe 
ottenere 
il 
pagamento 
diretto 
soltanto 
a 
seguito 
di 
espressa 
domanda, 
secondo 
taluni 
anche 
stragiudiziale, secondo altri 
addirittura 
giudiziaria, oppure 
nel 
caso di 
cessazione 
della 
coabitazione, 
non 
essendo 
a 
tale 
fine 
sufficiente 
neanche 
l’allontanamento 
dalla 
casa 
familiare 
per ragioni 
di 
studio (ipotesi 
dello studente 
in erasmus 
o fuori 
sede) e 
comunque 
previo intervento di 
un provvedimento 
giudiziario attributivo. 

2. La legittimazione processuale. 


la 
ricostruzione 
di 
diritto 
pretorio 
volta 
a 
ravvisare 
una 
legittimazione 
processuale 
concorrente 
alla 
domanda 
giudiziale 
di 
contributo 
al 
mantenimento 
sia 
in capo al 
figlio maggiorenne, sia 
del 
genitore 
convivente 
è 
priva 
di 
appiglio nella 
formulazione 
della 
norma. né 
potrebbe 
giustificarsi 
sulla 
considerazione 
che 
il 
figlio, 
seppur 
divenuto 
maggiorenne, 
potrebbe 
trovarsi 
nella 
impossibilità, sia 
per inesperienza 
sia 
per condizionamento morale, di 
pretendere 
il 
corretto 
adempimento 
dell’obbligazione 
di 
mantenimento 
nei 
confronti 
del 
genitore 
non convivente. la 
medesima 
situazione 
ben potrebbe 
ricorrere 



nei 
confronti 
del 
genitore 
convivente 
percettore 
dell’assegno in luogo del 
figlio, 
anzi 
le 
possibilità 
di 
condizionamento 
morale 
appaiono 
maggiori 
nel-
l’ambito della convivenza. 

oltre 
che 
sul 
piano pratico tale 
ricostruzione 
sconta 
altresì 
una 
difficoltà 
concettuale. la 
legittimazione 
concorrente 
dei 
due 
soggetti, figlio e 
genitore, 
finirebbe 
per derogare 
all’art. 75 c.p.c., relegando il 
figlio maggiorenne 
allo 
status 
di 
soggetto 
privo 
della 
capacità 
giuridica 
piena, 
che 
invece 
l’ordinamento 
gli 
riconosce. Ancor meno convincente 
è 
la 
tesi 
secondo cui 
il 
genitore 
agirebbe “iure proprio”, aggirando la regola processuale. 


3. La legittimazione sostanziale. 


l’elaborazione giurisprudenziale si è infatti spinta più in là. 


essa 
ha 
ipotizzato 
accanto 
al 
diritto 
processuale 
alla 
domanda 
del 
genitore 
convivente, anche 
un diritto sostanziale 
di 
questi 
a 
conseguire 
“iure 
proprio” 
il 
contributo 
in 
parola. 
l’orientamento 
tradizionale 
giunge 
e 
a 
porre 
sullo 
stesso 
piano 
il 
figlio 
maggiorenne 
non 
economicamente 
autosufficiente 
e 
il 
genitore 
con cui 
vive, «[…] Si 
tratta di 
due 
diritti 
autonomi, ancorché 
concorrenti, 
non già del 
medesimo diritto attribuito a più persone» (Cass. Civ. 
11 novembre 
2013, n. 25300). Secondo tale 
tesi, il 
diritto a 
ricevere 
a 
mani 
proprie 
il 
contributo 
per 
il 
mantenimento 
del 
figlio 
maggiorenne 
in 
capo 
al 
genitore 
convivente 
discenderebbe 
dagli 
artt. 147 e 
148 c.c., che 
obbligano in 
via 
generale 
l’altro 
genitore 
a 
concorrere 
all’onere 
di 
mantenimento 
della 
prole, ivi compresi quelli maggiorenni ma non autonomi. 

tale 
prassi 
è 
censurabile 
sia 
sotto il 
profilo teorico, sia 
sotto quello pratico. 


Sotto 
il 
primo, 
non 
si 
vede 
come 
un 
diritto 
che 
appartiene 
ad 
una 
persona, 
il 
figlio soggetto di 
diritto munito di 
piena 
capacità 
giuridica, possa 
divenire 
il 
diritto 
proprio 
di 
un’altra 
persona 
-il 
genitore 
convivente. 
l’incoerenza 
della 
ricostruzione 
ipotizzata, 
e 
incredibilmente 
seguita 
da 
parte 
della 
giurisprudenza, 
risalta 
nella 
sua 
pienezza 
se 
la 
si 
trasla 
al 
di 
fuori 
dell’ambito dei 
rapporti 
tra 
coniugi. 
Se 
un 
qualunque 
creditore 
volesse 
fare 
valere 
le 
proprie 
ragioni 
nei 
confronti 
del 
debitor 
debitoris, 
dovrebbe 
prima 
procurarsi 
un 
titolo 
nei 
confronti 
del 
primo e 
poi, nei 
limiti 
consentiti, procedere 
ex 
art. 543 c.p.c. 
ad espropriazione 
forzata 
presso terzi. né 
il 
richiamo agli 
artt. 147 e 
148 c.c. 
pare 
sufficiente 
a 
fondare 
la 
compressione 
della 
capacità 
giuridica 
del 
figlio 
maggiorenne, 
che 
è 
il 
solo 
titolare 
del 
diritto 
al 
proprio 
mantenimento 
nei 
confronti 
di entrambi i genitori fino alla autonomia economica. 

Sotto 
il 
profilo 
pratico, 
valgono 
le 
stesse 
considerazioni 
svolte 
in 
relazione 
al 
tema 
della 
legittimazione 
processuale. infatti, se 
il 
figlio maggiorenne 
per 
inesperienza 
o per condizionamento morale 
potrebbe 
non essere 
in grado di 
esercitare 
il 
suo diritto nei 
confronti 
del 
genitore 
non convivente 
e 
onerato all’assegno 
periodico, 
a 
fortiori 
lo 
sarebbe 
nei 
confronti 
del 
genitore 
con 
cui 



convive. Quest’ultimo, una 
volta 
percepito “iure 
proprio” 
l’assegno potrebbe 
destinarlo agli 
usi 
ritenuti 
più opportuni, non necessariamente 
rispondenti 
al-
l’interesse 
del 
figlio, vero destinatario del 
mantenimento. Si 
pensi 
all’ipotesi 
in 
cui 
sotto 
lo 
stesso 
tetto 
convivano 
figli 
di 
altre 
unioni, 
ovvero 
che 
il 
genitore 
ospiti 
in 
maniera 
più 
o 
meno 
continuativa 
un 
nuovo 
partner: 
nella 
migliore 
delle 
ipotesi 
l’assegno 
destinato 
al 
figlio 
confluirà 
nel 
budget 
della 
nuova 
convivenza, 
supplendo alle 
esigenze 
di 
tutti 
i 
conviventi. il 
figlio dovrebbe 
allora 
farsi 
latore 
di 
un’azione 
giudiziaria 
nei 
confronti 
del 
genitore, 
che 
dorme 
sotto 
lo stesso tetto dietro la 
porta 
accanto, per ottenere 
il 
diretto versamento del-
l’assegno 
per 
il 
suo 
mantenimento 
dall’altro. 
non 
sembra 
francamente 
un’ipotesi 
realistica. 

4. Il versamento a mani del figlio. 


Ancora 
più grave 
è 
la 
distorsione 
registrabile 
nella 
prassi 
giurisprudenziale 
in 
ordine 
al 
pagamento 
diretto 
al 
figlio 
maggiorenne 
da 
parte 
del 
genitore 
onerato. la questione si articola in due diversi temi: 


A 
-il 
diritto del 
figlio maggiorenne 
a 
percepire 
direttamente 
il 
contributo 
dell’altro genitore; 


B -il 
diritto del 
figlio, già 
destinatario di 
un assegno corrisposto al 
genitore 
convivente durante la minore età, una volta divenuto maggiorenne. 


Quanto al 
primo tema, l’opinione 
tradizionale, che 
continua 
ad avere 
seguito, 
trova 
espressione 
nella 
pronuncia 
sopra 
citata, secondo cui 
“giammai 
[…] potrebbe 
disporsi 
il 
versamento diretto in favore 
del 
figlio in mancanza 
della domanda del 
medesimo, cioè 
dell’avente 
diritto” 
(Cass. Civ. 11 novembre 
2013, 
n. 
25300). 
A 
fondamento 
della 
decisione 
il 
Collegio 
richiama 
i 
principi 
processuali 
in 
tema 
di 
domanda. 
Sulla 
stessa 
linea, 
ma 
aggravando 
l’apporto formalistico, si 
pone 
parte 
della 
giurisprudenza 
successiva, nel 
negare 
il 
versamento a 
mani 
del 
figlio, persino quando ne 
abbia 
fatto esplicita 
richiesta 
all’obbligato, ma 
non domanda 
giudiziale 
(“attribuzione 
della provvidenza 
direttamente 
a mani 
del 
figlio ne 
presuppone 
la domanda giudiziale 
e 
non viene 
meno perciò al 
principio della domanda giudiziale 
di 
cui 
all’art. 
99 
c.p.c.” 
Cass. 
Civ. 
ord. 
12 
novembre 
2021, 
n. 
34100). 
in 
definitiva, 
si 
è 
giunti 
al 
totale 
esproprio 
del 
diritto 
del 
figlio 
maggiorenne 
in 
favore 
del 
genitore 
convivente, 
subordinando la 
realizzazione 
del 
suo diritto a 
una 
azione 
giudiziaria 
autonoma, che 
egli 
non potrà 
in sostanza 
esercitare 
e 
per difetto di 
esperienza 
e 
per condizionamento morale, ma 
anche 
materiale, non disponendo il 
figlio 
neanche del necessario per mantenersi. 


Quanto al 
secondo, si 
assiste 
ad una 
sorta 
di 
prorogatio sine 
die 
del 
versamento 
a 
favore 
del 
genitore 
convivente 
durante 
la 
minore 
età 
del 
figlio, 
sprovvista di un vero e proprio apparato motivazionale. 

A 
fronte 
di 
una 
giurisprudenza 
stancamente 
ripetitiva, si 
stagliano le 
posizioni 
di parte della dottrina e alcune innovative pronunce. 


Autorevole 
dottrina, rifacendosi 
alla 
lettera 
e 
alla 
ratio 
ritiene 
che 
l’art. 
155 sexies 
c.c. impone 
che 
il 
diritto alla 
contribuzione 
fissato dal 
giudice 
durante 
la 
minore 
età 
del 
figlio cessi 
automaticamente 
quando questi 
raggiunga 
la 
maggiore 
età, dopo di 
che 
il 
giudice 
potrà 
sempre 
disporre, ex 
novo, in favore 
dello stesso figlio divenuto maggiorenne, un assegno periodico, qualora 
ricorrano i 
requisiti 
previsti 
da 
tale 
norma 
(M. FinoCCHiAro, assegno versato 
direttamente ai maggiorenni, in Guida dir., 2006, 11, 41-42) . 


un 
innovativo 
orientamento 
giurisprudenziale 
fa 
capo 
alla 
ordinanza 
Cass. civ., sez. i, 14 agosto 2020, n. 17183, la 
quale 
ha 
affermato, in maniera 
esplicita, che 
il 
dovere 
in capo ai 
genitori 
di 
mantenere 
i 
figli 
cessa 
istantaneamente 
al 
compimento del 
diciottesimo anno di 
età, salva 
la 
possibilità, per 
coloro che 
non abbiano raggiunto l’indipendenza 
economica 
in tale 
tempo, di 
proporre 
domanda 
giudiziale 
per 
vedersi 
riconoscere 
un 
(nuovo) 
diritto 
al 
mantenimento, 
prudentemente 
valutato 
dal 
giudice 
sia 
nell’an 
che 
nel 
quantum 
debeatur. Si riportano alcuni passi della motivazione: 


-«il 
dovere 
di 
mantenimento 
dei 
figli 
ha 
assunto 
connotati 
nuovi 
sin 
dalla 
riforma di 
cui 
alla legge 
8 febbraio 2006, n. 54, che 
con l’art. 155-quinquies 
c.c., ha dettato una disposizione ad hoc “in favore di figli maggiorenni”»; 


-pertanto 
«sussistono 
modalità 
diverse 
per 
l’adempimento 
del 
dovere 
di 
mantenimento 
verso 
il 
figlio, 
a 
seconda 
che 
questi 
sia 
un 
minore 
(art. 
337-ter) 
o 
un 
maggiorenne 
ma 
non 
indipendente 
economicamente 
(art. 
337-septies)» 
(par. 
4.1); 


-«Nella 
materia 
in 
esame, 
occorre 
[...] 
osservare 
come, 
alla 
stregua 
della 
lettera e 
della ratio dell’art. 33-septies 
c.c., comma 1, la legge 
si 
fondi 
sul-
l’assunto 
secondo 
cui 
l’obbligo 
in 
questione 
permane 
a 
carico 
dei 
genitori 
sino al 
momento in cui 
il 
figlio raggiunga la maggiore 
età, alla stregua del 
dovere 
di 
mantenere 
e 
del 
diritto 
di 
essere 
mantenuto, 
rispettivamente 
previsti 
dall’art. 147 c.c. 
[...] e 
art. 315-bis 
c.c., comma 1. [...] 
Così 
come 
il 
dovere 
di 
educare 
a tutte 
le 
esigenze 
della vita e 
di 
procurare 
un’istruzione 
ai 
figli 
-e, 
specularmente, 
di 
esigere 
la 
continuazione 
negli 
studi 
oltre 
quelli 
dell’obbligo 


-può ragionevolmente 
datarsi 
dalla nascita alla maggiore 
età del 
figlio, del 
pari 
il 
dovere 
di 
mantenere 
i 
figli 
permane 
sicuramente 
fino a quella età, ai 
sensi degli artt. 147 e 315-bis c.c.» (par. 4.3); 


-dal 
compimento della 
maggiore 
età 
«subentra la diversa disposizione 
“in 
favore 
dei 
figli 
maggiorenni”, 
di 
cui 
all’art. 
337-septies 
c.c., 
comma 
1, 
ogniqualvolta essi siano “non indipendenti economicamente”» (par. 4.4). 


Con il 
compimento del 
diciottesimo anno d’età, dunque, cessa 
il 
diritto 
al 
mantenimento che 
la 
legge 
riconosce 
a 
favore 
dei 
minorenni 
e 
subentra 
un 
regime 
normativo nuovo e 
diverso che, come 
si 
sta 
per chiarire, rifugge 
ogni 
automatismo. 
tale 
conclusione, 
trae 
alimento 
e 
a 
sua 
volta 
lumeggia 
il 
secondo 
periodo del 
comma 
1 dell’art. 337 
septies 
c.c., a 
tenore 
del 
quale 
l’assegno di 
mantenimento riconosciuto dal 
giudice 
è 
versato direttamente 
al 
figlio, salvo 
diversa disposizione. 



tale 
soluzione 
giurisprudenziale 
appare 
maggiormente 
conforme 
alla 
volontà 
del legislatore, quale emergente dai lavori parlamentari. 


5. Lo scopo del legislatore. 


l’applicazione 
della 
norma 
compiuta 
dalla 
giurisprudenza 
contrasta 
con 
la 
ratio 
dell’istituto desumibile 
dai 
lavori 
parlamentari 
relativi 
alla 
l. 54/06, 
che 
conteneva 
l’art. 
155 
quinquies 
c.c., 
trasfuso 
nella 
disposizione 
oggi 
vigente 
337 septies 
c.c. la 
norma 
nasce 
del 
tutto bipartisan. essa 
è 
inclusa 
nella 
proposta 
n. 4068 presentata 
il 
16 giugno 2003 dell’on. Mazzucca 
del 
pD, poi 
riunita 
alle 
altre. 
essa 
fu 
condivisa 
da 
esponenti 
di 
altre 
forze 
politiche, 
di 
cui 
sono 
espressione 
le 
parole 
del 
relatore 
on. 
tarditi 
di 
tutt’altro 
orientamento 
politico. 
infatti, 
la 
Commissione 
referente, 
poi 
seguita 
dal 
voto 
dell’assemblea, 
scelse 
tra 
due 
orientamenti: 
uno c.d. adultocentrico e 
uno volto a 
privilegiare 
la centralità dell’interesse del figlio. 

Così 
si 
espresse 
in 
assemblea 
il 
relatore, 
(Seduta 
n. 
600 
del 
10 
marzo 
2005): 
La discussione, sia in Commissione 
giustizia, sia nelle 
altre 
Commissioni 
interpellate 
in sede 
consultiva, ha abbondantemente 
chiarito che 
quanti 
rimproverano al 
progetto di 
riforma in esame 
di 
non pensare 
abbastanza ai 
figli, all’atto pratico vogliono effettuare 
sistematiche 
scelte 
che 
lo mettono in 
secondo piano: … 
è 
ancora così 
quando si 
vuole 
che 
l’assegno per 
il 
mantenimento 
del 
figlio 
maggiorenne 
sia 
versato 
sul 
conto 
corrente 
del 
genitore 
convivente, anziché esserne egli stesso … titolare”. 

Ancora 
più 
vigoroso 
l’intervento 
in 
replica 
nel 
dibattito 
assembleare 
dell’on. 
paniz: 
“ma 
il 
figlio 
è 
maggiorenne! 
L’elaborazione 
giurisprudenziale 
nel 
nostro paese 
si 
è 
orientata lungo due 
linee 
guida: da un lato si 
è 
individuata 
la legittimazione 
in capo al 
figlio maggiorenne, proprio in quanto tale, 
dall’altro lato si 
è 
ritenuto opportuno confermare 
una legittimazione 
attiva a 
favore 
del 
genitore 
del 
figlio pur 
maggiorenne. ma in questa conflittualità, in 
questo orientamento difforme 
si 
annida la possibilità di 
contrasti 
giurisprudenziali 
continui e di liti che, invece di cessare, aumentano. 


Noi, con questo provvedimento assumiamo una posizione 
precisa in favore 
del 
maggiorenne. E 
non può che 
essere 
così 
se 
pensiamo che 
il 
maggiorenne 
viene 
considerato 
titolare 
di 
un 
centro 
di 
interessi 
e 
di 
possibilità 
di 
intervento, in linea con la sua età al 
punto tale 
che 
egli 
può esercitare 
un fondamentale 
diritto 
come, 
ad 
esempio, 
quello 
di 
voto. 
E 
allora 
perché 
da 
un 
lato 
considerarlo titolare 
di 
diritti 
fondamentali 
e 
dall’altro ritenerlo incapace 
di 
gestire un peculio che gli serve per vivere? 


È 
ovvio che 
una presa di 
posizione, da questo punto di 
vista, era necessaria 
nel 
senso 
di 
eliminare, 
una 
volta 
per 
tutte, 
la 
possibilità 
di 
contrasti 
giurisprudenziali 
che 
avrebbero 
aggravato 
economicamente 
le 
stesse 
famiglie 
che 
si 
fossero trovate, in situazione 
di 
necessità, a dover 
ricorrere 
al 
giudice 
per ottenere l’assegno in oggetto”. 


il 
legislatore, 
in 
sostanza, 
perfettamente 
conscio 
della 
esistenza 
di 
due 
tesi, 
una 
incentrata 
sulla 
legittimazione 
del 
genitore 
convivente, 
l’altra 
su 
quella 
del 
figlio divenuto maggiorenne, ha 
compiuto la 
propria 
scelta: 
“Noi, 
con 
questo 
provvedimento 
assumiamo 
una 
posizione 
precisa 
in 
favore 
del 
maggiorenne”. 
la 
opzione 
conservatrice, che 
pone 
al 
centro di 
ogni 
tutela 
il 
genitore 
convivente, 
viene 
espressamente 
ripudiata 
in 
quanto 
foriera 
di 
ulteriori 
conflitti 
nel 
nucleo 
familiare, 
già 
ferito: 
“in 
questa 
conflittualità, 
in 
questo 
orientamento difforme 
si 
annida la possibilità di 
contrasti 
giurisprudenziali 
continui e di liti che, invece di cessare, aumentano”. 


6. Conclusione. 


in 
conclusione, 
a 
fronte 
di 
una 
chiara 
lettera 
della 
disposizione 
desumibile 
dal 
testo, nonché 
della 
ratio 
desumibile 
dai 
lavori 
parlamentari, ripudiando le 
interpretazioni 
alternative 
proposte 
dalla 
dottrina, 
la 
giurisprudenza 
prevalente 
si 
è 
adagiata 
su 
una 
interpretazione 
stancamente 
conservatrice 
del 
regime 
giuridico 
anteriore 
alla 
introduzione 
della 
norma, volto a 
valorizzare 
il 
ruolo del 
genitore 
convivente 
in 
chiave 
“adultocentrica”. 
tale 
opzione 
ermeneutica 
contrasta 
con i 
valori 
costituzionali 
di 
libertà 
individuale 
da 
riferirsi 
anche 
al 
giovane 
adulto, 
che 
esattamente 
come 
i 
soggetti 
più 
anziani 
ha 
diritto 
alle 
sue 
libertà 
civili 
e 
alla 
disponibilità 
dei 
suoi 
averi, tutelata 
peraltro anche 
in sede 
di CeDu, orami parte del diritto unionale che la ha recepita. 



A ricordo dell’Avv. Raffaello Martelli 


Con profondo dispiacere 
comunico che 
è 
venuto a mancare 
l’avv. Raffaello 
Martelli, Avvocato Generale dello Stato Onorario 
(*) 


Il Segretario Generale 
Avv. Maurizio Greco 


(*) E-mail Segreteria Generale, venerdì 31 gennaio 2025 18:09. 



A ricordo dell’Avv. Giovanna Maria Cuccia 


Con 
profondo 
dispiacere 
comunico 
che 
nella 
giornata 
di 
domenica 
2 
febbraio 
2025 è 
venuta a mancare 
l’avv. Giovanna Maria Cuccia, Avvocato Generale 
dello Stato Onorario 
(*) 


Il Segretario Generale 
Avv. Maurizio Greco 


(*) E-mail Segreteria Generale, lunedì 3 febbraio 2025 10:10. 



A ricordo dell’Avv. Giacomo Arena 


Con profondo dispiacere 
comunico che 
è 
venuto a mancare 
l’avv. Giacomo 
Arena, già Avvocato dello Stato ... 
(*) 


Il Segretario Generale 
Avv. Maurizio Greco 


(*) E-mail Segreteria Generale, venerdì 14 marzo 2025 10:33. 



A ricordo dell’Avv. Maria Grazia Scalas 


Nella giornata di 
ieri 
è 
mancata la collega ed amica Maria Grazia Scalas, 
già avvocato distrettuale dello Stato di Perugia. 


Noi 
tutti, 
avvocati 
e 
personale, 
la 
ricordiamo 
con 
profondo 
affetto 
e 


(*) 


stima 
... 


Francesca Morici 


(*) E-mail 
Avv. Francesca 
Morici, Avvocato Distrettuale 
dello Stato di 
Perugia, martedì 
18 marzo 2025 
09:12. 



Finito di stampare nel mese di marzo 2025 
Tipografia Gemmagraf 2007 S.r.l. 
Via 
Tor De’ Schiavi 227 - 00172 Roma