ANNO LXXV - N. 3 
LUGLIO - SETTEMBRE 2023 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe Fiengo 
- CONDIRETTORI: 
Maurizio Borgo, 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Carlo 
Maria 
Pisana 
Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Stefano 
Maria 
Cerillo 
-Pierfrancesco 
La 
Spina 
Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Antonino 
Ripepi 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Michele 
Gerardo, 
Paolo 
Giangrosso, 
Augusto 


M. 
Lazzè, 
Emanuele 
Manzo, 
Gaetana 
Natale, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Stefano 
Emanuele 
Pizzorno, 
Antonio 
Trimboli. 
E-mail 
Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
stefano.varone@avvocaturastato.it 


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ANNUO 
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NUMERO 
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Stato 
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codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
pregati 
di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


Comunicato 
dell’Avvocato 
Generale, 
Pensionamento 
Avvocato 
Generale 
Aggiunto Leonello Mariani 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Commiato dell’Avvocato Generale 
Aggiunto, Avv. Leonello Mariani 
. . . 

Comunicato 
dell’Avvocato 
Generale, 
nomina 
Avvocato 
Generale 
Aggiunto, 
Avv. Marco Corsini 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

TEMI 
ISTITUZIONALI 


D.P.C.M. 
6 
maggio 
2024 
recante 
“Autorizzazione 
all’Avvocatura 
dello 
Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa della “Società Acque 
del 
Sud 
S.p.A” 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i 
collegi 
arbitrali, le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali”, Circolare 
A.G. 
del 14 giugno 2024 prot. 397067, n. 34 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Nuovo Protocollo d’intesa sottoscritto il 
25 giugno 2024 con l’ADER 
Agenzia 
delle 
Entrate-Riscossione, 
Circolare 
A.G. 
dell’1 
luglio 
2024 
prot. 
431148 n. 39. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Negoziazione 
assistita 
ex 
D.L. 
n. 
132/2014 
(convertito 
con 
Legge 
n. 
162/2014) 
e 
Assistenza 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
Circolare 
A.G. 
del 
23 luglio 2024 prot. 482762 n. 40 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

CONTENZIOSO 
NAZIONALE 


Antonio Trimboli, Rimborso ex 
art. 18 D.L. 67/1997 in caso di 
archiviazione 
per 
intervenuta 
prescrizione 
e 
interrogativi 
posti 
dalla 
sentenza 
41/2024 della Corte Costituzionale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Wally ferrante, Benefici 
ai 
superstiti 
della vittima della criminalità organizzata. 
La Corte 
Costituzionale 
con sentenza 4 luglio 2024 n. 122 dichiara 
illegittima la presunzione 
assoluta del 
“parente 
o affine 
entro il 
quarto grado”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Emanuele 
Manzo, La censurabililtà in Cassazione 
del 
c.d. travisamento 
della prova: la pronuncia delle Sezioni Unite 5 marzo 2024 n. 5792 . . . 

Stefano Emanuele 
Pizzorno, Il 
superamento dei 
termini 
della procedura 
accelerata 
e 
la 
deroga 
al 
principio 
della 
sospensione 
automatica 
del-
l’esecutività 
della 
decisione 
di 
rigetto 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
per 
il 
richiedente 
proveniente 
da Paese 
sicuro. Considerazioni 
a margine di Cassazione, Sezioni Unite, 29 aprile 2024 n. 11399 
. . . . . . 

Wally ferrante, 
Scioglimento di 
consiglio comunale 
per 
infiltrazioni 
mafiose 
ed incandidabilità degli 
amministratori 
locali 
ex 
art. 143, comma 
11 T.U.E.L. 
(Cass. civ., Sez. I, ord. 22 maggio 2024 n. 14356) 
. . . . . . . . 

Antonino 
Ripepi, 
La 
Corte 
di 
Cassazione 
si 
esprime 
sullo 
scorrimento 
delle 
graduatorie 
delle 
progressioni 
verticali 
(Cass., 
Sez. 
lav., 
ord. 
28 
maggio 2024, n. 14919) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Wally 
ferrante, 
Termine 
per 
l’aggiornamento 
della 
interdittiva 
antimafia 
(Cons. St., Sez. III, sent. 8 marzo 2024 n. 2260; 
Cons. St., Sez. III, sent. 
7 marzo 2023 n. 2213) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

pag. 
1 
›› 
2 
›› 
11 
›› 
19 
›› 
36 
›› 
50 
›› 
74 
›› 
95 
›› 
100 
›› 
108 



LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 


Gaetana 
Natale, Augusto M. Lazzè, AI Act, il 
regolamento europeo sull’intelligenza 
artificiale: punti di forza e punti di debolezza 
. . . . . . . . . . pag. 
123 


Gaetana 
Natale, 
Perché 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
detto 
no 
alla 
Tabella 
Unica 
nazionale 
in 
materia 
di 
risarcimento 
del 
danno 
non 
patrimoniale? 
.................................................. 
›› 
140 


Paolo Giangrosso, Evoluzione 
delle 
regole 
sulla concorrenza negli 
ordinamenti 
giuridici maggiormente rappresentativi 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
155 


CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 


Michele 
Gerardo, I beni 
pubblici. Tipologia e 
discipina. Cenni 
ai 
beni 
di 
interesse 
pubblico, con particolare 
riguardo ai 
beni 
collettivi 
(demanio 
civico ed immobili con uso civico) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
193 


Gaetana 
Natale, Il 
rapporto bilaterale 
Stato 
-Chiesa nell’ottica comune 
della difesa della persona umana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
243 


Antonino 
Ripepi, 
Il 
principio 
della 
fiducia 
nel 
nuovo 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
247 


Comunicato 
dell’Avvocato 
Generale, 
Pensionamento 
Avvocato 
Andrea 
Michele Caridi 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 


(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Oggi 
lascia 
il 
servizio, 
dopo 
oltre 
quarantatré 
anni 
di 
prestigiosa 
presenza, 
l’Avvocato Generale 
Aggiunto Leonello Mariani. 


Al 
Collega 
e 
Amico che 
ha 
onorato l’Avvocatura 
e 
il 
Paese 
con la 
Sua 
altissima 
professionalità, con il 
Suo costante 
impegno e 
con le 
Sue 
elevate 
doti 
professionali 
e 
umane, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, sabato 1 giugno 2024 08:05. 



Commiato dell’Avvocato Generale 
Aggiunto 
Avv. Leonello Mariani 


Non senza un velo di 
commozione, al 
termine 
di 
una carriera che 
si 
è 
dipanata per 
più 
di 43 anni tra Avvocature Distrettuali e 
Avvocatura Generale, domani lascerò il servizio. 


È 
stata un’esperienza lunga e 
ricca di 
soddisfazioni 
professionali 
e 
personali, che 
mi 
ha 
consentito 
di 
percorrere 
l’intero 
cursus 
honorum 
dell’avvocato 
dello 
Stato; 
ma 
che 
ha 
preteso 
un 
alto 
tributo 
di 
tempo 
e 
di 
energie, 
compensato 
però 
dalla 
consapevolezza 
di 
avere 
svolto un’attività al 
servizio delle 
Istituzioni 
che 
ha pochi 
eguali 
per 
ricchezza e 
varietà di 
contenuti. 


La mia vita professionale 
è 
stata interamente 
dedicata ad un Istituto la cui 
peculiare 
struttura ed articolazione 
territoriale, così 
diversa pur 
nella sua unità, ne 
costituisce 
il 
vero 
punto di 
forza: e 
considero pertanto una vera fortuna aver 
avuto la possibilità di 
svolgere 
il 
servizio in entrambe 
le 
facce 
del 
“pianeta” 
Avvocatura maturando così 
un patrimonio di 
conoscenze 
e 
di 
esperienze 
ampio e 
variegato, di 
valore 
inestimabile 
nell’ottica di 
una formazione 
professionale completa. 


Concludo la mia carriera con la coscienza di 
aver 
profuso tutto il 
mio impegno nell’interesse 
esclusivo dell’Istituto cercando sempre, per 
quanto era nelle 
mie 
capacità, di 
conformarmi 
a 
quel 
decalogo 
di 
mantelliniana 
memoria 
che, 
tratteggiando 
la 
figura 
ideale 
dell’avvocato dello Stato, dovrebbe 
tuttora rappresentare, a mio avviso, fonte 
di 
ispirazione 
e 
modello 
per 
tutti 
noi: 
massima 
collaborazione 
con 
le 
Amministrazioni 
patrocinate, 
ma 
piena 
autonomia ed indipendenza di giudizio. 


Se 
vi 
sono riuscito, è 
anche 
merito, prima di 
tutto, di 
coloro che 
mi 
sono stati 
maestri 
e 
dai 
quali 
ho appreso il 
mestiere 
dell’avvocato e 
lo stile 
dell’Avvocato dello Stato; e, poi, dei 
tanti, giovani 
e 
meno giovani, che 
nel 
corso degli 
anni 
hanno lavorato e 
collaborato con me. 


Da tutti 
ho imparato e 
a tutti 
sono grato per 
l’amicizia, la considerazione 
e 
la stima 
della quale mi hanno onorato: di tutti conserverò un ricordo indelebile. 


Un particolare 
ringraziamento va infine 
al 
personale 
amministrativo, il 
quale, anche 
in tempi 
difficili, non mi 
ha mai 
fatto mancare 
la sua qualificata collaborazione, sempre 
preziosa 
ed indispensabile per il puntuale ed efficace svolgimento dei nostri compiti. 


A tutti auguro la migliore fortuna. 


Leonello Mariani 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Con decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
dell’11 giugno 2024 l’Avvocato 
Marco Corsini è stato nominato Avvocato Generale 
Aggiunto. 


Al 
caro ed illustre 
Collega 
e 
Amico vivissime 
congratulazioni 
e 
i 
più fervidi 
auguri. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, giovedì 13 giugno 2024 15:02. 



TEMIISTITUZIONALI
Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 34/2024 


oggetto: 
D.P.C.M. 6 maggio 2024 recante 
“autorizzazione 
all’avvocatura 
dello 
Stato 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
della 
“Società 
acque 
del 
Sud S.p.a.” nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità giudiziarie, 
i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali”. 


Si 
comunica 
che 
con D.P.C.M. del 
6 maggio u.s., che 
si 
allega 
in copia 
e 
che 
è 
in fase 
di 
pubblicazione 
in Gazzetta 
Ufficiale, l’Avvocatura 
dello Stato 
è 
stata 
autorizzata 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
della 
“Società 
Acque 
del 
Sud 
S.p.A.” 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali. 


L’AVVOCATO GENERALE 
Gabriella 
PALMIERI SANDULLI 


(omissis) 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 39/2024 


oggetto: 
nuovo Protocollo d’intesa sottoscritto il 
25 giugno 2024 con 
l’aDer - agenzia delle entrate-riscossione. 


Il 
25 giugno 2024 è 
stato sottoscritto -dall’Avvocato Generale 
e 
dal 
Direttore 
di 
ADER -un nuovo Protocollo d’intesa, che 
si 
allega, diretto a 
disciplinare 
le 
modalità 
operative 
dello 
svolgimento 
del 
patrocinio 
da 
parte 
dell’Avvocatura dello Stato. 


Nel 
Protocollo -che 
sostituisce 
il 
precedente 
sottoscritto il 
24 settembre 
2020 -sono state 
individuate 
le 
controversie 
per le 
quali 
l’assistenza 
e 
la 
rappresentanza 
in 
giudizio 
verrà 
resa 
dall’Avvocatura, 
mentre 
per 
il 
restante 
contenzioso 
ADER 
potrà 
stare 
in 
giudizio 
tramite 
propri 
dipendenti 
(ove 
consentito) ovvero con l’assistenza di avvocati del libero foro. 


Si evidenziano in particolare i seguenti punti. 

Decorrenza del nuovo Protocollo 


L’applicazione 
del 
nuovo 
Protocollo 
decorre 
dal 
1° 
luglio 
2024 
anche 
per 
le cause già pendenti e non ancora oggetto di affidamento. 


Controversie affidate all’avvocatura 


In particolare, sono affidate all’Avvocatura: 


1) 
tutte le cause davanti al Giudice 
Amministrativo; 
2) 
tutte le cause davanti alla Corte di cassazione; 
3) 
tutto il 
contenzioso civile 
non afferente 
la 
riscossione 
(ad es. cause 
di 
locazione, di 
appalti 
ecc.) ad esclusione 
delle 
cause 
promosse 
dall’Ente 
medesimo 
per il 
recupero di 
propri 
crediti 
diversi 
da 
quelli 
iscritti 
a 
ruolo dagli 
Enti impositori; 
4) 
il contenzioso afferente l’attività di riscossione, nei soli casi di: 
a) 
azioni 
esclusivamente 
risarcitorie 
(con 
esclusione 
di 
quelle 
radicate 
innanzi 
al Giudice di Pace anche in fase di appello); 
b) 
azioni 
revocatorie 
e 
di 
simulazione, 
sequestri 
conservativi 
e 
querele 
di 
falso (con esclusione 
-per queste 
ultime 
-di 
quelle 
sorte 
in giudizi 
innanzi 
al 
Giudice di Pace); 
c) 
altre 
liti 
innanzi 
al 
Tribunale 
Civile 
(ivi 
comprese 
le 
opposizioni 
al-
l’esecuzione 
e 
agli 
atti 
esecutivi) 
e 
alla 
Corte 
di 
Appello 
Civile, 
limitatamente 
alle 
ipotesi 
in 
cui 
sia 
parte 
-non 
come 
terzo 
pignorato 
-anche 
l’Agenzia 
delle 
Entrate. 
Trattasi 
di 
una 
modifica 
del 
precedente 
Protocollo; 
ne 
consegue 
che 
dal 
1° 
luglio 
2024 
anche 
le 
cause 
in 
cui 
sia 
parte 
in 
giudizio 
un 
Ente 
difeso 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
diverso 
dall’Agenzia 
delle 
Entrate, 
dovranno 
essere 
gestite 
autonomamente 
dall’Ente 
(o 
direttamente 
ove 
previsto 
-ovvero 
avvalendosi 
di 
avvocati 
del 
libero 
foro). 
Ovviamente 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


per 
le 
cause 
pendenti 
già 
difese 
dall’Avvocatura, 
nulla 
osta 
alla 
prosecuzione 
del 
patrocinio. 


Procedimenti penali e cause di lavoro 


Alla 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
procedimenti 
penali 
ed al 
patrocinio 
nelle 
cause 
di 
lavoro 
dei 
dipendenti 
dell’Ente, 
l’Avvocatura 
procederà 
di 
norma 
solo su richiesta 
di 
ADER (restando salva, ovviamente, la 
possibilità 
di declinarne il patrocinio). 


Controversie rilevanti 


Al 
punto 3.6 del 
Protocollo si 
precisa 
che, in ogni 
caso, “L’Avvocatura, 
sentito l’Ente, assicura il 
patrocinio nelle 
controversie 
in cui 
vengono in rilievo 
questioni 
di 
massima o particolarmente 
rilevanti 
in considerazione 
del 
valore economico o dei principi di diritto in discussione”. 


Cause per le quali l’avvocatura non assume il patrocinio 


Al 
punto 
3.7 
del 
Protocollo 
si 
precisa 
che 
“In 
tutti 
i 
casi 
in 
cui 
la 
presente 
Convenzione 
non 
preveda 
il 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
oppure 
nei 
casi 
di 
indisponibilità della stessa Avvocatura ad assumerlo, l’Ente 
può 
avvalersi 
ed 
essere 
rappresentato 
da 
avvocati 
del 
libero 
foro, 
ovvero 
-ove 
consentito -da propri 
dipendenti 
delegati 
che 
possono stare 
in giudizio personalmente. 
In 
tali 
casi, 
non 
si 
applica 
la 
disposizione 
dell’articolo 
43, 
quarto 
comma, del testo unico di cui al regio decreto n. 1611 del 1933 
”. 


* * * 


Si 
ricorda 
che, 
in 
particolari 
situazioni 
di 
difficoltà 
nella 
gestione 
del 
contenzioso 
di 
ADER (che 
in base 
al 
Protocollo sarebbe 
di 
spettanza 
dell’Avvocatura), 
è 
comunque 
possibile 
declinare 
il 
patrocinio consentendo all’Ente 
di 
avvalersi di avvocati del libero foro. 


Si 
richiama 
al 
riguardo 
l’art. 
4-novies 
del 
D.L. 
n. 
34/2019 
(convertito 
nella legge n. 58/2019) in forza del quale: 


«Il 
comma 
8 
dell’articolo 
1 
del 
decreto-legge 
22 
ottobre 
2016, 
n. 
193, 
convertito, con modificazioni, dalla legge 
1° 
dicembre 
2016, n. 225, si 
interpreta 
nel 
senso che 
la disposizione 
dell’articolo 43, quarto comma, del 
testo 
unico di 
cui 
al 
regio decreto 30 ottobre 
1933, n. 1611, si 
applica esclusivamente 
nei 
casi 
in cui 
l’Agenzia delle 
entrate-Riscossione, per 
la propria rappresentanza 
e 
difesa in giudizio, intende 
non avvalersi 
dell’Avvocatura dello 
Stato nei 
giudizi 
a quest’ultima riservati 
su base 
convenzionale; 
la medesima 
disposizione 
non si 
applica nei 
casi 
di 
indisponibilità della stessa Avvocatura 
dello Stato ad assumere il patrocinio». 


Ovviamente 
la 
declinatoria 
dovrà 
essere 
tempestivamente 
comunicata 
all’ADER onde evitare pregiudizi nell’attività difensiva. 


Si 
ricorda, infine, che 
le 
sentenze 
o ordinanze 
(anche 
cautelari) emesse 
nei 
confronti 
di 
ADER vanno comunicate 
con la 
massima 
tempestività 
al 
fine 
di 
evitare 
azioni 
risarcitorie 
da 
parte 
dei 
contribuenti 
per l’illegittima 
prosecuzione 
di azioni esecutive a loro danno. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


Per quanto riguarda 
la 
gestione 
del 
contenzioso si 
richiamano in particolare 
le 
precedenti 
Circolari 
nn. 
36/2017, 
41/2017 
e 
21/2023, 
reperibili 
sulla 
Intranet 
(Documentazione 
-ADER -ex Equitalia) insieme 
ad altre 
istruzioni 
di carattere generale. 


Il 
Protocollo 
è 
pubblicato 
per 
estratto 
sul 
sito 
Internet 
dell’Avvocatura 
dello Stato e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione. 


L’AVVOCATO GENERALE 
Gabriella 
PALMIERI SANDULLI 


PROTOCOLLO D’INTESA 
TRA 
AVVOCATURA DELLO STATO E 
AGENzIA DELLE 
ENTRATE-RISCOSSIONE 


Premesso: 


• 
che 
ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
8, del 
Decreto Legge 
22 ottobre 
2016 n. 193, convertito con 
modificazioni 
dalla 
Legge 
n. 225 del 
1° 
dicembre 
2016, l’Agenzia 
delle 
Entrate-Riscossione 
(di 
seguito denominata 
anche 
solo “Ente”) è 
autorizzata 
“ad avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
43 
del 
testo 
unico 
delle 
leggi 
e 
delle 
norme 
giuridiche 
sulla 
rappresentanza 
e 
difesa 
in 
giudizio 
dello 
Stato 
e 
sull’ordinamento 
dell’Avvocatura 
dello Stato, di 
cui 
al 
regio decreto 30 ottobre 
1933, n. 1611, fatte 
salve 
le 
ipotesi 
di 
conflitto e 
comunque 
su base 
convenzionale. Lo stesso ente 
può altresì 
avvalersi, sulla 
base 
di 
specifici 
criteri 
definiti 
negli 
atti 
di 
carattere 
generale 
deliberati 
ai 
sensi 
del 
comma 
5 del 
presente 
articolo, di 
avvocati 
del 
libero foro, nel 
rispetto delle 
previsioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
4 e 
17 del 
decreto legislativo 18 aprile 
2016, n. 50, ovvero può avvalersi 
ed essere 
rappresentato, davanti 
al 
tribunale 
e 
al 
giudice 
di 
pace, da propri 
dipendenti 
delegati, che 
possono stare 
in giudizio personalmente; in ogni 
caso, ove 
vengano in rilievo questioni 
di 
massima o aventi 
notevoli 
riflessi 
economici, l’Avvocatura dello Stato, sentito l’ente, può 
assumere 
direttamente 
la 
trattazione 
della 
causa. 
Per 
il 
patrocinio 
davanti 
alle 
commissioni 
tributarie 
continua ad applicarsi 
l’articolo 11, comma 2, del 
decreto legislativo 31 dicembre 
1992, n. 546 
”; 
• 
che 
ai 
sensi 
dell’art. 4-novies 
del 
Decreto-legge 
30 aprile 
2019, n. 34, convertito con modificazioni 
dalla 
legge 
28 giugno 2019, n. 58: 
“1. Il 
comma 8 dell’articolo 1 del 
decreto-
legge 
22 
ottobre 
2016, 
n. 
193, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
1° 
dicembre 
2016 
n. 
225, 
si 
interpreta 
nel 
senso 
che 
la 
disposizione 
dell’articolo 
43, 
quarto 
comma, 
del 
testo 
unico di 
cui 
al 
regio decreto 30 ottobre 
1933, n. 1611, si 
applica esclusivamente 
nei 
casi 
in cui 
l’Agenzia delle 
entrate-Riscossione, per 
la propria rappresentanza e 
difesa in giudizio, 
intende 
non 
avvalersi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nei 
giudizi 
a 
quest’ultima 
riservati 
su base 
convenzionale; la medesima disposizione 
non si 
applica nei 
casi 
di 
indisponibilità 
della stessa Avvocatura dello Stato ad assumere il patrocinnio 
”; 
• 
che 
è 
opportuno, 
apportare 
alcune 
modifiche 
al 
Protocollo 
d’intesa 
sottoscritto 
tra 
le 
parti 
in 
data 
24 
settembre 
2020, 
per 
disciplinare, 
sulla 
base 
della 
distinzione 
dei 
ruoli 
e 
delle 
competenze 
e 
del 
riconoscimento 
delle 
rispettive 
responsabilità, 
le 
modalità 
di 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


cooperazione 
tra 
l’Ente 
e 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
(di 
seguito 
denominata 
anche 
solo 
“Avvocatura”), 
al 
fine 
di 
assicurare 
nel 
modo 
migliore 
la 
piena 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
coinvolti, 
prevedendo 
anche 
forme 
snelle 
e 
semplificate 
di 
relazione, 
tali 
da 
rafforzare 
l’efficienza 
e 
l’efficacia 
dell’azione 
amministrativa 
e 
l’ottimale 
funzionalità 
delle 
strutture; 


• 
che 
le 
parti, ponderate 
le 
rispettive 
esigenze 
organizzative, anche 
in considerazione 
del-
l’organico e 
dei 
carichi 
di 
lavoro rappresentati 
dall’Avvocatura 
dello Stato, hanno di 
comune 
accordo 
rideterminato 
le 
tipologie 
di 
controversie 
da 
affidare 
al 
patrocinio 
dell’Avvocatura, indicate all’articolo 3; 
tra l’Avvocato Generale dello Stato, Avv. Gabriella Palmieri Sandulli, 
e 
l’Avvocato Ernesto Maria Ruffini, Direttore di 
Agenzia delle entrate-Riscossione, 
si conviene quanto segue. 


1. 
PREMESSE 
1.1 Le premesse sono parti integranti dell’accordo. 
1.2 Il 
presente 
protocollo sostituisce 
quello sottoscritto in data 
24 settembre 
2020 e 
si 
applica 
a decorrere dal 1° luglio 2024 fino alla data del successivo protocollo d’intesa. 
2. 
ATTIVITÀ CONSULTIVA 
2.1 Allo scopo di 
razionalizzare 
l’attività 
consultiva, l’Ente, tramite 
le 
competenti 
Direzioni 
Centrali, provvede 
a 
coordinare 
la 
proposizione 
di 
quesiti 
e 
richieste 
di 
pareri 
che 
involgono 
questioni 
interpretative 
di 
carattere 
generale 
o di 
particolare 
rilevanza, evitando l’inoltro di 
specifiche richieste tramite proprie strutture territoriali. 
2.2 Considerato che 
l’efficacia 
dell’attività 
consultiva 
è 
direttamente 
correlata 
alla 
sua 
tempestività, 
l’Avvocatura 
provvede 
a 
rendere 
i 
pareri 
richiesti 
nei 
termini 
imposti 
dai 
procedimenti 
amministrativi 
o, in mancanza, entro 60 giorni 
dalla 
richiesta, segnalando i 
casi 
in cui 
ciò non sia possibile. 
2.3 
L’Ente 
informa 
l’Avvocatura 
dei 
principali 
orientamenti 
dallo 
stesso 
assunti, 
in 
particolare 
in ordine 
all’interpretazione 
di 
normativa 
di 
prima 
applicazione, al 
fine 
di 
acquisire 
eventuali 
suggerimenti 
e/o pareri, nella 
prospettiva 
dei 
riflessi 
sulla 
gestione 
del 
relativo contenzioso, 
potenziale o in atto. 
2.4 L’Avvocatura, su richiesta 
dell’Ente, esprime 
parere 
sugli 
atti 
di 
transazione 
redatti 
dalle 
strutture 
centrali 
o 
regionali 
interessate 
e, 
all’occorrenza 
e 
nei 
limiti 
della 
propria 
disponibilità, 
assicura l’assistenza nel luogo ove si svolge l’attività transattiva. 
3. 
ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA IN GIUDIZIO 
3.1 
Disposizioni generali 
3.1.1 
Al 
fine 
di 
consentire 
all’Avvocatura 
il 
regolare 
svolgimento 
delle 
proprie 
funzioni, 
l’Ente, attraverso le 
proprie 
Direzioni 
centrali 
o regionali 
competenti, provvede 
ad investire 
l’Avvocatura 
delle 
richieste 
di 
patrocinio con il 
più ampio margine 
possibile 
rispetto alle 
scadenze, 
fornendo tutti 
gli 
opportuni 
elementi 
istruttori. In sede 
di 
richiesta 
verrà 
precisato il 
nominativo 
del 
funzionario 
dell’Ente 
incaricato 
dell’istruttoria, 
con 
le 
modalità 
per 
la 
sua 
immediata 
reperibilità 
(telefono e 
posta 
elettronica); 
analogamente 
l’Avvocatura 
provvederà 
a 
segnalare 
il 
nominativo dell’avvocato incaricato ed i 
relativi 
recapiti. L’Ente 
e 
l’Avvocatura 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


si 
impegnano a 
fornire 
e 
ad aggiornare 
annualmente 
i 
recapiti 
di 
posta 
elettronica 
e 
telefonici 
degli uffici e degli 
Avvocati, qualora non siano reperibili nei rispettivi siti internet. 


3.1.2 
Nelle 
controversie 
in 
cui 
oltre 
all’Ente 
è 
presente 
una 
delle 
Amministrazioni 
patrocinate 
dall’Avvocatura 
dello Stato, la 
richiesta 
di 
patrocinio inviata 
all’Avvocatura 
viene 
trasmessa 
per conoscenza anche all’Amministrazione suddetta. 
3.1.3 Qualora 
l’Avvocatura 
ritenga 
opportuno assumere 
il 
patrocinio dell’Ente 
pur in mancanza 
di 
una 
richiesta 
di 
questi 
in tal 
senso, provvede 
a 
darne 
tempestiva 
comunicazione 
al-
l’Ente 
per la 
formalizzazione 
dell’incarico, adottando nel 
contempo le 
iniziative 
processuali 
necessarie ad evitare pregiudizi. 
3.1.4 Al 
fine 
di 
assicurare 
nel 
modo più sollecito ed efficace 
lo svolgimento delle 
rispettive 
attività 
istituzionali, l’Ente 
garantisce 
all’Avvocatura 
l’accesso ai 
dati 
relativi 
ai 
fascicoli 
di 
causa delle controversie pendenti presso l’Autorità Giudiziaria, in cui è parte. 
3.1.5 L’Ente 
e 
l’Avvocatura 
si 
impegnano allo scambio delle 
informazioni, dei 
documenti 
e 
degli 
atti 
processuali 
necessari 
per 
lo 
svolgimento 
delle 
rispettive 
attività 
secondo 
le 
modalità 
individuate 
ai 
punti 
successivi. Nelle 
more 
dell’avvio della 
cooperazione 
informatica, la 
corrispondenza 
verrà inviata di norma tramite posta elettronica certificata. 
3.1.6 
Ove 
l’Avvocatura 
ritenga 
di 
non 
convenire, 
per 
singole 
controversie, 
sulle 
richieste 
avanzate 
dall’Ente, provvede, se 
del 
caso previa 
acquisizione 
di 
elementi 
istruttori, a 
darne 
tempestiva 
e 
motivata 
comunicazione 
alla 
struttura 
richiedente, 
al 
fine 
di 
pervenire 
ad 
una 
definitiva 
determinazione. Le 
divergenze 
che 
insorgono tra 
l’Avvocatura 
e 
l’Ente, circa 
l’instaurazione 
di 
un 
giudizio 
o 
la 
resistenza 
nel 
medesimo, 
sono 
risolte 
dal 
Direttore 
ai 
sensi 
dell’art. 12, secondo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103. 
3.1.7 Qualora 
gli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio o di 
un grado di 
giudizio e 
qualunque 
altro atto 
o 
documento 
vengano 
notificati 
all’Ente 
esclusivamente 
presso 
una 
sede 
dell’Avvocatura, 
non 
ancora 
investita 
della 
difesa, 
sono 
dalla 
stessa 
inviati 
senza 
indugio 
alla 
competente 
struttura 
dell’Ente. 
3.1.8 L’Avvocatura 
provvede 
a 
informare 
la 
competente 
struttura 
dell’Ente 
dei 
significativi 
sviluppi 
delle 
controversie 
dalla 
stessa 
curate 
assicurando, laddove 
l’Ente 
ne 
faccia 
motivata 
richiesta, il 
tempestivo invio degli 
atti 
difensivi 
propri 
(in formato editabile 
onde 
agevolarne 
l’utilizzo in casi 
analoghi) e 
delle 
controparti, dando comunque 
pronta 
comunicazione 
del-
l’esito del 
giudizio con la 
trasmissione 
di 
copia 
della 
decisione. Ove 
si 
tratti 
di 
pronuncia 
sfavorevole 
all’Ente 
suscettibile 
di 
gravame, 
l’Avvocatura 
formula 
il 
proprio 
parere 
in 
ordine 
all’impugnabilità 
della 
decisione, di 
norma 
contestualmente 
all’inoltro della 
stessa 
all’Ente. 
Le 
pronunce 
e 
le 
altre 
comunicazioni 
che 
investano questioni 
di 
carattere 
generale 
sono dal-
l’Avvocatura segnalate alla competente Direzione centrale dell’Ente. 
3.1.9 
Per 
le 
notificazioni 
degli 
atti, 
l’Avvocatura 
può 
avvalersi 
della 
collaborazione 
dell’Ente 
anche 
ai 
sensi 
dell’art. 
10 
della 
Legge 
n. 
383 
del 
18 
ottobre 
2001, 
in 
materia 
di 
modalità 
di 
sottoscrizione 
di 
atti 
giudiziari 
trasmessi 
a 
distanza. 
Ai 
fini 
della 
notifica, 
l’Avvocatura 
fa 
pervenire 
l’atto 
entro 
tre 
giorni 
lavorativi 
liberi 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
di 
impugnazione; 
si 
considera 
non 
lavorativo 
anche 
il 
sabato. 
La 
struttura 
dell’Ente, 
subito 
dopo 
la 
notifica, 
invia 
l’atto 
all’Avvocatura, 
tramite 
modalità 
che 
ne 
assicurino 
comunque 
il 
tempestivo 
ricevimento. 
3.1.10 
Per 
le 
cause 
che 
si 
svolgono 
davanti 
ad 
autorità 
giudiziaria 
avente 
sede 
diversa 
da 
quella 
della 
competente 
Avvocatura, 
quest’ultima 
può 
avvalersi, 
per 
le 
funzioni 
procuratorie, 
di 
dipendenti 
dell’Ente 
ai 
sensi 
dell’art. 
2 
del 
R.D. 
n. 
1611 
del 
1933. 
Nelle 
ipotesi 
in 
cui 
non 
sia 
possibile 
avvalersi 
di 
dipendenti 
dell’Ente, 
le 
funzioni 
procuratorie 
possono 
essere 
delegate 
ad 
avvocati 
del 
libero 
foro 
che 
verranno 
dallo 
stesso 
Ente 
indicati 
su 
richiesta 
dell’Avvocatura. 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


3.1.11 L’Avvocatura 
segnala 
tempestivamente 
all’Ente 
i 
casi 
in cui 
non ritiene 
di 
assumere 
il 
patrocinio. 
3.1.12 A 
richiesta 
del 
Direttore 
dell’Ente, l’Avvocatura 
può assumere, ai 
sensi 
dell’art. 44 del 
R.D. n. 1611 del 
1933, la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
di 
dipendenti 
dell’Ente 
nei 
giudizi 
civili 
e penali che li interessano per fatti e cause di servizio. 
3.2 
Giudizi davanti al Giudice 
Amministrativo. 
3.2.1 
L’Avvocatura 
assume 
il 
patrocinio 
dell’Ente 
nelle 
controversie 
davanti 
al 
T.A.R. 
e 
al 
Consiglio di Stato. 
3.2.2 Nei 
giudizi 
in materia 
di 
appalti, le 
comunicazioni 
tra 
l’Ente 
e 
l’Avvocatura 
si 
svolgono 
con modalità 
e 
tempi 
adeguati 
alla 
rilevanza 
del 
contenzioso e 
alla 
brevità 
dei 
termini 
processuali 
previsti dalla particolare disciplina. 
3.3 
Contenzioso afferente all’attività di Riscossione 
L’Avvocatura assume il patrocinio dell’Ente nei seguenti casi: 


-azioni 
esclusivamente 
risarcitorie 
(con esclusione 
di 
quelle 
radicate 
innanzi 
al 
Giudice 
di 
Pace anche in fase di appello); 
-azioni 
revocatorie 
e 
di 
simulazione, 
sequestri 
conservativi 
e 
querele 
di 
falso 
(con 
esclusione 
-per 
queste 
ultime 
-di 
quelle 
sorte 
in 
giudizi 
innanzi 
al 
Giudice 
di 
Pace); 
-altre 
liti 
(ivi 
comprese 
le 
opposizioni 
all’esecuzione 
e 
agli 
atti 
esecutivi) 
innanzi 
al 
Tribunale 
Civile 
e 
alla 
Corte 
di 
Appello 
Civile, 
limitatamente 
alle 
ipotesi 
in 
cui 
sia 
parte 
-non 
come 
terzo pignorato 
- anche l’Agenzia delle Entrate; 
- liti innanzi alla Corte di Cassazione. 
3.4 
Contenzioso non afferente all’attività di riscossione 
3.4.1 L’Avvocatura 
assume 
il 
patrocinio dell’Ente 
in tutte 
le 
controversie 
civili 
non afferenti 
alla 
riscossione, ad esclusione 
delle 
cause 
promosse 
dall’Ente 
medesimo per il 
recupero di 
propri crediti diversi da quelli iscritti a ruolo dagli Enti impositori. 
3.4.2 
L’Ente 
può 
richiedere 
il 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
nei 
procedimenti 
penali 
anche 
al 
fine 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile, 
che 
dovrà 
essere 
autorizzata 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
allorché 
debba 
essere 
effettuata, 
a 
norma 
dell’art. 
49, 
comma 
1, 
del 
D.P.R. 
n. 
602/1973, a tutela di crediti dello Stato. 
L’Ente 
può 
altresì 
richiedere 
l’assistenza 
dell’Avvocatura 
nella 
predisposizione 
delle 
denunce 
più rilevanti. 
Gli 
atti 
dei 
procedimenti 
penali, irritualmerite 
comunicati 
o notificati 
esclusivamente 
presso 
l’Avvocatura, sono trasmessi alla Direzione competente. 
L’Avvocatura 
informa 
l’Ente 
in ordine 
agli 
sviluppi 
dei 
procedimenti 
penali 
nei 
quali 
si 
è 
costituita 
parte civile. 
3.4.3 L’Ente 
può richiedere 
il 
patrocinio dell’Avvocatura 
nelle 
controversie 
in materia 
di 
lavoro 
di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c. e agli arti. 441-bis 
e ss. c.p.c. 
3.5 
Gestione dei ricorsi per Cassazione 
3.5.1 Le 
richieste 
di 
ricorso per Cassazione 
devono pervenire 
all’Avvocatura, nelle 
cause 
cui 
la 
stessa 
non ha 
già 
assunto la 
difesa, dalla 
competente 
Direzione 
regionale, ove 
possibile, 
entro: 
a) trenta giorni dalla notifica della sentenza; 
b) quattro mesi dalla data di deposito della sentenza non notificata; 
c) 
quindici 
giorni 
dalla 
comunicazione 
nei 
casi 
di 
opposizione 
allo 
stato 
passivo 
ai 
sensi 
della 
Legge Fallimentare. 
Ai 
predetti 
termini 
si 
aggiungono la 
eventuale 
sospensione 
feriale 
di 
cui 
all’art. 1 della 
legge 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


n. 742 del 
1969 e 
s.m.i., nonché 
altre 
eventuali 
proroghe 
o sospensioni 
dei 
termini, ove 
applicabili. 
Le 
richieste 
di 
ricorso 
per 
Cassazione 
sono 
corredate 
dalla 
documentazione 
necessaria 
per 
consentire 
all’Avvocatura 
la 
compiuta 
delibazione 
delle 
stesse. A 
tale 
fine 
la 
documentazione 
di 
supporto relativa 
al 
ricorso deve 
comprendere, nel 
caso di 
società, visure 
camerali 
aggiornate, 
nonché, per le 
ipotesi 
di 
avvenuta 
cancellazione, l’elenco dei 
soci 
e 
il 
bilancio di 
liquidazione 
con allegato il 
piano di 
riparto. Resta 
inteso che 
eventuali 
variazioni 
successive 
alla 
data dei documenti allegati alla richiesta saranno accertate dall’Avvocatura. 
3.5.2 
La 
richiesta 
di 
ricorso 
per 
Cassazione 
con 
allegati 
copia 
degli 
scritti 
difensivi 
dell’Ente 
e 
della 
controparte, 
dei 
documenti 
prodotti 
in 
giudizio 
dalle 
parti 
e 
delle 
sentenze, 
è 
trasmessa 
all’indirizzo 
PEC 
della 
competente 
Sezione 
dell’Avvocatura. 
Qualora 
la 
richiesta 
di 
ricorso 
venga 
eccezionalmente 
trasmessa 
all’Avvocatura 
oltre 
i 
termini 
di 
cui 
al 
punto 
precedente 
-ed 
in 
ogni 
caso 
nell’ipotesi 
di 
cui 
alla 
lettera 
c) 
-, 
la 
stessa 
è 
inviata 
anche 
all’indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
ordinaria 
della 
Sezione 
competente, 
del 
Responsabile 
e 
del 
Coordinatore 
di 
sezione. 
3.5.3 L’Avvocatura salvo casi particolari, provvede direttamente alla notifica del ricorso. 
3.5.4 L’Avvocatura, nei 
casi 
in cui 
non condivida 
la 
richiesta 
di 
ricorso per Cassazione, dà 
tempestiva 
comunicazione 
via 
PEC del 
proprio motivato parere 
negativo alla 
Direzione 
regionale 
competente, se 
del 
caso, dandone 
anticipazione 
telefonica 
ai 
recapiti 
indicati 
nella 
richiesta 
di 
ricorso. In ogni 
caso, tale 
parere 
è 
inviato, salvo obiettive 
circostanze 
impedienti, 
almeno dieci giorni prima della scadenza del termine di impugnazione. 
3.5.5 La 
Direzione 
regionale 
competente, qualora 
non condivida 
il 
parere 
negativo dell’Avvocatura, 
invia 
tempestivamente 
la 
reitera 
della 
richiesta 
di 
ricorso, con puntuali 
repliche 
al 
predetto 
parere, 
alla 
Direzione 
centrale 
competente 
tramite 
posta 
elettronica 
e, 
per 
conoscenza, 
all’Avvocatura 
sia 
per 
PEC 
sia 
per 
posta 
elettronica 
ordinaria 
all’indirizzo 
della 
sezione 
competente 
sull’affare, del 
Responsabile 
di 
sezione 
e 
dell’Avvocato incaricato. Il 
messaggio di 
posta 
elettronica 
ordinaria 
contiene 
la 
precisazione 
che 
lo stesso invio è 
stato già 
effettuato 
via PEC. 
3.5.6 
La 
Direzione 
centrale 
competente 
comunica 
tempestivamente, 
con 
le 
medesime 
modalità 
previste 
al 
punto 
precedente, 
all’Avvocatura 
e, 
per 
conoscenza, 
alla 
Direzione 
regionale 
il 
proprio parere in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti della reitera. 
3.5.7 Qualora 
l’Avvocatura 
non condivida 
la 
reitera 
cui 
abbia 
aderito la 
Direzione 
centrale 
competente 
comunica 
con la 
necessaria 
urgenza 
il 
proprio definitivo parere 
alla 
predetta 
Direzione 
centrale e alla Direzione regionale, mediante posta elettronica. 
3.5.8 Nel 
caso in cui 
la 
Direzione 
competente 
non condivida 
il 
parere 
dell’Avvocatura, per la 
risoluzione della divergenza si applica il secondo periodo del punto 3.1.6. 
3.5.9 In mancanza 
di 
formale 
e 
tempestiva 
conferma 
del 
parere 
negativo espresso dall’Avvocatura, 
quest’ultima 
provvede, 
in 
modo 
da 
evitare 
decadenze, 
alla 
proposizione 
del 
ricorso 
per Cassazione, salva eventuale successiva rinuncia. 
3.5.10 L’Avvocatura 
si 
può avvalere 
della 
collaborazione 
delle 
strutture 
dell’Ente 
per la 
richiesta 
di eventuale ulteriore documentazione necessaria per gestione della pratica. 
3.5.11 Le 
richieste 
di 
cui 
al 
punto precedente, dopo gli 
adempimenti 
di 
rito, sono immediatamente 
restituite 
all’Avvocatura, attraverso modalità 
di 
trasmissione 
che 
ne 
assicurino il 
tempestivo 
ricevimento. 
3.5.12 Nel 
caso di 
notifica 
del 
ricorso per cassazione 
presso l’Ente, quest’ultimo, nelle 
cause 
in cui 
l’Avvocatura 
non ha 
già 
assunto la 
difesa, invia 
entro venti 
giorni 
all’Avvocatura 
generale 
mediante 
posta 
elettronica 
certificata 
il 
ricorso completo di 
relata 
di 
notifica, unitamente 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


alla 
documentazione 
utile 
per la 
predisposizione 
del 
controricorso e 
per l’eventuale 
ricorso 
incidentale, 
con 
copia 
di 
tutti 
gli 
atti 
di 
causa 
(atto 
impugnato, 
ricorso, 
controdeduzioni 
e 
ogni 
altro atto o documento depositato). 
La 
richiesta 
di 
controricorso e 
dell’eventuale 
ricorso incidentale, con i 
relativi 
allegati, è 
inviata 
con le modalità di cui al punto 3.5.2. 


3.5.13 L’Avvocatura, qualora 
ritenga 
che 
non sia 
opportuna 
la 
proposizione 
del 
ricorso incidentale, 
dà 
tempestiva 
comunicazione 
del 
proprio 
motivato 
parere 
negativo 
alla 
Direzione 
regionale, 
se del caso dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati in richiesta. 
3.5.14 La 
Direzione 
regionale, qualora 
non condivida 
il 
parere 
negativo, formula 
tempestivamente 
le 
proprie 
osservazioni 
alla 
Direzione 
centrale 
competente. 
Per 
la 
risoluzione 
della 
eventuale divergenza si applicano, in quanto compatibili, i punti da 3.5.5 a 3.5.9. 
3.5.15 La 
Direzione 
centrale 
competente 
può segnalare 
i 
giudizi 
in Cassazione 
relativi 
a 
una 
questione 
controversa 
caratterizzata 
da 
ampia 
diffusione 
o comunque 
di 
particolare 
rilevanza 
per il 
principio di 
diritto in contestazione, affinché 
l’Avvocatura 
solleciti 
alla 
Corte 
di 
Cassazione 
la 
discussione 
della 
causa, facendo presente 
il 
significativo effetto deflattivo che 
può 
conseguire dal tempestivo consolidarsi, sul punto, dell’orientamento della stessa Corte. 
3.5.16 Qualora 
l’Ente 
intenda 
annullare 
in tutto o in parte 
l’atto oggetto del 
giudizio in Cassazione, 
ne 
informa 
preventivamente 
l’Avvocatura, salvo che 
si 
tratti 
di 
casi 
disciplinati 
da 
direttive 
contenenti 
indicazioni 
sulla 
rinuncia 
alla 
prosecuzione 
dei 
giudizi. Resta 
inteso che 
il 
provvedimento 
di 
annullamento 
va 
comunque 
tempestivamente 
comunicato 
all’Avvocatura 
per i conseguenti adempimenti processuali. 
3.5.17 L’Avvocatura, qualora 
ravvisi 
che 
in un giudizio pendente 
la 
posizione 
dell’Ente 
è 
in 
contrasto con la 
consolidata 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione, procede 
-d’accordo 
con la 
Direzione 
regionale 
competente 
-all’abbandono della 
lite. In tali 
casi 
spetta 
all’Avvocatura, 
senza 
preventiva 
comunicazione 
alla 
Direzione 
regionale, verificare 
la 
possibilità 
di 
addivenire 
ad un preventivo accordo con la 
controparte 
sulle 
spese 
di 
giudizio. Nell’impossibilità 
di 
tale 
accordo, la 
Direzione 
regionale 
evidenzia 
all’Avvocatura 
gli 
eventuali 
elementi 
da sottoporre al giudice che possano giustificare la compensazione delle spese. 
3.5.18 Con riferimento ai 
ricorsi 
in Cassazione 
relativi 
a 
contenziosi 
non di 
competenza 
delle 
Direzioni 
regionali, le 
disposizioni 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti 
troveranno applicazione 
con 
la 
precisazione 
che 
le 
interlocuzioni 
tra 
l’Avvocatura 
e 
l’Ente 
avverranno esclusivamente 
per 
il tramite delle Direzioni centrali competenti dell’Ente stesso. 
3.6 
Controversie rilevanti. 
L’Avvocatura, 
sentito 
l’Ente, 
assicura 
il 
patrocinio 
nelle 
controversie 
in 
cui 
vengano 
in 
rilievo 
questioni 
di 
massima 
o particolarmente 
rilevanti 
in considerazione 
del 
valore 
economico o 
dei principi di diritto in discussione. 


3.7 
Cause per le quali l’Avvocatura dello Stato non assume il patrocinio 
In 
tutti 
i 
casi 
in 
cui 
la 
presente 
Convenzione 
non 
preveda 
il 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
oppure 
nei 
casi 
di 
indisponibilità 
della 
stessa Avvocatura 
ad 
assumerlo, 
l’Ente 
può 
avvalersi 
ed 
essere 
rappresentato 
da 
avvocati 
del 
libero 
foro, 
ovvero 
-ove 
consentito 
-da 
propri 
dipendenti 
delegati 
che 
possono 
stare 
in 
giudizio 
personalmente. 
In 
tali 
casi, 
non 
si 
applica 
la 
disposizione 
dell’articolo 
43, 
quarto 
comma, 
del 
testo 
unico 
di 
cui 
al 
R.D. 
n. 
1611 
del 
1933. 


3.8 
Recupero spese di giudizio 
L’Avvocatura, ai 
sensi 
dell’art. 21 del 
R.D. n. 1611 del 
1933, provvede 
al 
diretto recupero nei 
confronti 
delle 
controparti 
delle 
spese 
di 
giudizio, poste 
a 
loro carico per effetto di 
sentenza, 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


ordinanza, rinuncia 
o transazione. L’Ente 
invia 
all’Avvocatura 
copia 
autentica 
della 
sentenza 
che conclude con esito favorevole il giudizio in sede di rinvio dopo la fase di cassazione. 


4. 
NOTIFICA DEGLI 
ATTI 
L’Avvocatura 
presta 
la 
propria 
collaborazione 
all’Ente 
per le 
notificazioni 
degli 
atti 
diversi 
da quelli processuali, ove questo non possa provvedervi direttamente. 


5. 
INCONTRI PERIODICI 
Per l’esame 
dell’evoluzione 
del 
contenzioso concernente 
le 
più diffuse 
e 
rilevanti 
questioni 
controverse, 
al 
fine 
di 
definire 
congiuntamente 
e 
uniformemente 
le 
linee 
di 
condotta 
delle 
controversie 
in 
corso 
e 
l’interesse 
alla 
prosecuzione 
delle 
stesse, 
sono 
fissati 
incontri 
semestrali 
tra l’Avvocatura Generale e le competenti Direzioni Centrali dell’Ente. 
Analoghi 
incontri 
si 
potranno svolgere 
tra 
le 
Direzioni 
regionali 
dell’Ente 
e 
le 
Avvocature 
distrettuali. 


6. 
COOPERAZIONE INFORMATICA 
6.1 Al 
fine 
di 
favorire 
l’interoperabilità 
e 
la 
cooperazione 
fra 
i 
sistemi 
informativi, l’Avvocatura 
e 
l’Ente 
s’impegnano a 
porre 
in essere 
le 
attività 
necessarie 
per la 
realizzazione 
di 
strumenti 
attraverso i 
quali 
potranno scambiarsi 
in via 
automatica 
e 
nella 
massima 
sicurezza 
le 
informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento delle rispettive attività. 
6.2 La cooperazione informatica verrà disciplinata da specifico accordo. 
7. 
DISPOSIZIONE FINALE 
L’Avvocatura 
e 
l’Ente 
si 
impegnano a 
segnalare 
reciprocamente 
le 
difficoltà 
operative 
eventualmente 
insorte 
nella 
gestione 
dei 
rapporti 
oggetto 
del 
presente 
protocollo, 
allo 
scopo 
di 
provvedere, nello spirito di 
una 
piena 
collaborazione, al 
superamento delle 
stesse 
ed eventualmente 
alla modifica delle modalità di cooperazione. 


Roma, data delle firme 


L’Avvocato Generale dello Stato 
Il 
Direttore 
di 
Agenzia 
delle 
entrate-Riscossione 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 
Avv. Ernesto Maria Ruffini 
(firmato digitalmente) 
(firmato digitalmente) 
Documento firmato da: 
ERNESTO 
PALMIERI GABRIELLA 
MARIA 
25.06.2024 13:36:53 UTC 
RUFFINI 
25.06.2024 
11:07:18 
GMT+00:00 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 40/2024 


oggetto: 
negoziazione 
assistita 
ex 
D.l. 
n. 
132/2014 
(convertito 
con 
legge n. 162/2014) e 
assistenza dell’avvocatura dello Stato. 


Il 
caso 
non 
infrequente 
della 
ricezione 
sia 
di 
“inviti 
a 
concludere 
una 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita” 
provenienti 
dalle 
controparti, 
sia 
di 
richieste 
di 
assistenza 
da 
parte 
delle 
Amministrazioni, 
fa 
sorgere 
la 
questione 
dell’applicabilità 
anche 
alle 
Amministrazioni 
difese 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
dell’obbligo 
di 
assistenza 
tecnica 
in 
sede 
di 
negoziazione 
assistita, 
posto 
dall’art. 2, commi 1 e 1-bis, del D.L. n. 132/2014. 


Occorre 
al 
riguardo 
chiarire 
se 
il 
patrocinio 
erariale, 
in 
tutte 
le 
sue 
forme, 
estenda 
la 
propria 
obbligatorietà 
anche 
a 
una 
fase 
precontenziosa 
della 
controversia, 
in cui 
tuttavia 
è 
la 
legge 
a 
prevedere 
l’obbligo dell’assistenza 
legale 
delle parti. 


§ 1 -La negoziazione assistita: diversità rispetto alla mediazione 


In 
via 
di 
premessa, 
si 
osserva 
che 
non 
è 
possibile 
applicare 
alla 
negoziazione 
assistita 
le 
soluzioni 
interpretative 
emerse 
con 
riferimento 
al 
diverso 
istituto 
della 
mediazione 
obbligatoria, 
prevista 
dall’art. 
5 
del 
D.Lgs. 
n. 
28/2010 
(e 
su 
cui 
cfr. 
Circolare 
AGS 
n. 
41/2012). 
La 
diversità 
di 
disciplina 
dei 
due 
istituti, 
proprio 
con 
riguardo 
alla 
questione 
della 
difesa 
tecnica 
delle 
parti, 
suggerisce 
soluzioni 
differenziate, 
anche 
nel 
caso 
in 
cui 
sia 
parte 
un’Amministrazione 
patrocinata 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato. 


Sia 
la 
negoziazione 
assistita 
sia 
la 
mediazione 
obbligatoria 
sono istituti 
deflaffivi 
del 
contenzioso con funzione 
di 
filtro all’introduzione 
delle 
controversie 
giudiziarie. Similmente 
alla 
mediazione, là 
dove 
obbligatoria, l’art. 3 
del 
D.L. n. 132/2014 pone 
alle 
parti 
l’onere, a 
pena 
di 
improcedibilità 
della 
domanda, di 
provare 
a 
definire 
la 
lite 
mediante 
una 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita, 
qualora 
intendano 
introdurre 
una 
domanda 
giudiziale 
in 
alcune 
materie, preventivamente individuate dal legislatore. 


Il 
preventivo esperimento del 
tentativo di 
negoziazione 
assistita 
è 
condizione 
di 
procedibilità 
per le 
seguenti 
liti: 
a) risarcimento del 
danno da 
circolazione 
di 
veicoli 
o 
natanti; 
b) 
condanna 
al 
pagamento 
di 
somme 
di 
denaro 
inferiori a euro cinquantamila. 


Dunque, il 
meccanismo di 
funzionamento di 
entrambi 
i 
filtri 
deflattivi 
è 
eguale: 
l’esperimento 
della 
procedura 
è 
condizione 
di 
procedibilità 
in 
casi 
predeterminati 
dal 
legislatore; 
la 
mancata 
partecipazione 
della 
parte 
alla 
procedura 
comporta delle possibili conseguenze in sede contenziosa. 


Tuttavia, 
la 
negoziazione 
assistita 
differisce 
dalla 
mediazione 
obbligatoria 
per 
un 
punto 
cruciale, 
ovvero 
la 
presenza 
obbligatoria 
degli 
avvocati 
delle 
parti. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


Con 
riguardo 
alla 
mediazione 
obbligatoria 
la 
questione 
è 
controversa, 
dal 
momento che 
la 
novella 
di 
cui 
al 
D.L. n. 69/2013 ha 
introdotto un anodino riferimento 
alla 
necessità 
dell’assistenza 
tecnica 
delle 
parti, 
seppur 
contraddetto 
dal 
diverso disposto dell’art. 12, d.lgs. 28/2010, che 
configura 
tale 
assistenza 
come facoltativa. 


Viceversa, nel 
caso della 
negoziazione 
assistita, non vi 
sono dubbi 
circa 
la 
volontà 
del 
legislatore 
di 
imporne 
la 
presenza, 
dato 
che 
questo 
è 
il 
proprium 
dell’istituto. 


§ 2 -Le norme di rilievo 


La 
soluzione 
della 
questione 
interpretativa 
dell’obbligatorietà 
della 
difesa 
tecnica 
anche 
per gli 
enti 
che 
fruiscono del 
patrocinio erariale 
discende 
dalle 
disposizioni del testo normativo. 


La 
norma 
cardine 
di 
riferimento è 
l’art. 2 del 
D.L. n. 132/2014, il 
quale 
al comma 1 stabilisce che: 


“La convenzione 
di 
negoziazione 
assistita da avvocati 
è 
un accordo mediante 
il 
quale 
le 
parti 
convengono di 
cooperare 
in buona fede 
e 
con lealtà 
per 
risolvere 
in 
via 
amichevole 
la 
controversia 
tramite 
l’assistenza 
di 
avvocati 
iscritti 
all’albo 
anche 
ai 
sensi 
dell’articolo 
6 
del 
decreto 
legislativo 
2 
febbraio 
2001, n. 96 
”. 


Con 
specifico 
riferimento 
agli 
enti 
pubblici, 
l’art. 
2 
del 
D.L. 
n. 
132/2014, 
al comma 1-bis, dispone che: 


“È 
fatto obbligo per 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
di 
cui 
all’articolo 1, 
comma 2, del 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di 
affidare 
la convenzione 
di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente”. 


Ebbene, il 
citato art. 2, comma 
1, non può che 
riguardare 
le 
parti 
private, 
che 
instaurano un rapporto di 
mandato col 
proprio difensore, che 
esercita 
la 
professione 
di 
avvocato attraverso l’iscrizione 
all’Albo degli 
avvocati 
di 
cui 
all’art. 15, comma 1, lett. a), della Legge n. 247/2012. 


Viceversa, con riguardo alle 
Amministrazioni 
pubbliche, il 
citato art. 2, 
comma 
1-bis, prevede 
che 
queste 
affidino obbligatoriamente 
la 
convenzione 
“alla propria avvocatura, ove presente”. 


Ora, 
l’ambito 
di 
applicazione 
di 
tale 
norma 
è 
chiaro, 
con 
riferimento 
a 
quelle 
Amministrazioni 
pubbliche 
dotate 
di 
un proprio ufficio legale 
interno, 
costituito da 
dipendenti 
pubblici 
che 
siano anche 
avvocati 
iscritti 
alla 
sezione 
speciale 
dell’Albo 
degli 
avvocati, 
ai 
sensi 
dell’art. 
15, 
co. 
1, 
lett. 
b), 
L. 
247/2012. Si 
fa 
riferimento ad alcuni 
enti 
pubblici 
territoriali 
locali, dotati 
di 
proprie 
avvocature 
interne, nonché 
a 
enti 
pubblici 
statali 
quali 
gli 
Enti 
previdenziali, 
che 
non fruiscono del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato e 
sono 
dotati di una “propria avvocatura”, intesa come ufficio interno. 


Viceversa, 
sorge 
la 
questione 
se 
anche 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
costituisca 
“propria avvocatura”, limitatamente 
alle 
Amministrazioni 
che 
fruiscono del 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


suo patrocinio, obbligatorio o autorizzato. Ci 
si 
chiede, dunque, se 
la 
partecipazione 
alla 
negoziazione 
dello Stato e 
degli 
altri 
enti 
che 
fruiscono della 
difesa 
erariale ricada o meno nella previsione di cui all’art. 2, co. 1-bis. 


Orbene, 
seppure 
sia 
ardua, 
in 
base 
al 
dato 
letterale 
della 
norma 
in 
esame, 
l’assimilazione 
del 
patrocinio 
degli 
avvocati 
dipendenti 
degli 
enti 
pubblici 
a 
quello 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
(che 
viceversa 
eroga 
una 
difesa 
caratterizzata 
dalla 
impersonalità 
attraverso 
personale 
togato 
non 
iscritto 
all’Albo 
degli 
avvocati, 
neppure 
in 
una 
sezione 
speciale), 
ritenere 
tuttavia 
che 
tale 
formulazione 
sia 
ragione 
sufficiente 
per 
escludere 
in 
radice 
ogni 
assistenza 
legale 
nella 
negoziazione 
alle 
Amministrazioni 
patrocinate 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
pare 
una 
soluzione 
distonica 
e 
non 
conforme 
alla 
ratio 
legis, 
che, 
ai 
limitati 
fini 
dell’assistenza 
in 
sede 
di 
negoziazione 
assistita, 
ha 
invece 
espressamente 
voluto 
assimilare 
le 
due 
fattispecie. 
Infatti, 
tale 
argomento 
porterebbe 
a 
ritenere 
che 
le 
Amministrazioni 
che 
fruiscono 
del 
patrocinio 
erariale 
sarebbero 
escluse 
sia 
dalla 
previsione 
del 
comma 
1, 
che 
fa 
riferimento 
agli 
“avvocati 
iscritti 
all’albo”, 
sia 
da 
quella 
del 
comma 
1-bis, 
là 
dove 
interpretata 
come 
contenente 
un 
esclusivo 
riferimento 
agli 
avvocati 
dipendenti 
degli 
enti 
pubblici, 
iscritti 
nella 
sezione 
speciale 
dell’Albo 
degli 
avvocati. 


Tale 
interpretazione 
restrittiva 
dell’art. 2, comma 
1-bis, presta 
il 
fianco a 
diverse obiezioni. Infatti, è necessario considerare che: 


a) 
il 
D.L. 
n. 
132/2014 
ha 
inteso 
introdurre 
un 
nuovo 
istituto, 
la 
cui 
peculiarità 
è 
proprio 
la 
presenza 
obbligatoria 
dei 
difensori 
delle 
parti: 
se 
la 
legge 
avesse 
voluto 
esentare 
una 
platea 
di 
soggetti, 
peraltro 
numerosa, 
dal-
l’obbligo 
di 
assistenza 
legale 
in 
sede 
di 
negoziazione 
lo 
avrebbe 
dovuto 
disporre 
expressis 
verbis; 
b) 
l’art. 
2, 
comma 
1-bis, 
nell’estendere 
l’obbligo 
di 
assistenza 
legale 
anche 
ai 
soggetti 
pubblici, fa 
espresso riferimento alle 
“amministrazioni 
pubbliche 
di 
cui 
all’art. 1, co. 2 del 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, 
tra 
cui 
rientrano anche 
lo Stato e 
gli 
altri 
enti 
pubblici 
che 
fruiscono del 
patrocinio 
dell’Avvocatura dello Stato; 
c) 
se 
anche 
la 
norma 
generale 
(art. 1 del 
R.D. n. 1611/1933) àncora 
il 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello Stato alla 
pendenza 
di 
un giudizio, i 
commi 
1 
e 
1-bis 
dell’art. 2 del 
D.L. n. 132/2014 sono norme 
speciali, che 
impongono 
l’assistenza 
tecnica 
delle 
parti, 
non 
solo 
pubbliche, 
in 
una 
fase 
precontenziosa; 
d) 
l’esclusione 
delle 
Amministrazioni 
che 
fruiscono 
del 
patrocinio 
del-
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
dall’obbligo 
di 
assistenza 
legale 
sarebbe 
una 
soluzione 
viziata 
da 
irragionevolezza, perché 
creerebbe 
una 
diversità 
di 
disciplina 
priva di alcuna evidente 
ratio. 
Accanto 
a 
tali 
norme 
è 
importante 
considerare 
anche 
gli 
artt. 
4-bis 
e 
5 
del 
D.L. n. 132/2014. 
L’art. 4-bis, rubricato “acquisizione 
di 
dichiarazioni”, prevede 
la 
possi



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


bilità 
che, 
in 
sede 
di 
negoziazione, 
l’avvocato 
di 
una 
pare 
inviti 
terzi 
a 
rendere 
delle 
dichiarazioni 
pseudo-testimoniali 
“in presenza degli 
avvocati 
che 
assistono 
le altre parti” (comma 1). 


I commi 4, 5 e 6 proseguono stabilendo che: 


“4. 
Le 
domande 
rivolte 
all’informatore 
e 
le 
dichiarazioni 
da 
lui 
rese 
sono 
verbalizzate 
in un documento, redatto dagli 
avvocati, che 
contiene 
l’indicazione 
del 
luogo 
e 
della 
data 
in 
cui 
sono 
acquisite 
le 
dichiarazioni, 
le 
generalità 
dell’informatore 
e 
degli 
avvocati 
e 
l’attestazione 
che 
sono stati 
rivolti 
gli 
avvertimenti 
di cui al comma 2. 


5. Il 
documento di 
cui 
al 
comma 4, previa integrale 
lettura, è 
sottoscritto 
dall’informatore 
e 
dagli 
avvocati. All’informatore 
e 
a ciascuna delle 
parti 
ne 
è consegnato un originale. 
6. Il 
documento di 
cui 
al 
comma 4, sottoscritto ai 
sensi 
del 
comma 5, fa 
piena 
prova 
di 
quanto 
gli 
avvocati 
attestano 
essere 
avvenuto 
in 
loro 
presenza. 
Può 
essere 
prodotto 
nel 
giudizio 
tra 
le 
parti 
della 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita 
ed 
è 
valutato 
dal 
giudice 
ai 
sensi 
dell’articolo 
116, 
primo 
comma, 
del 
codice 
di 
procedura civile. Il 
giudice 
può sempre 
disporre 
che 
l’informatore 
sia escusso come testimone”. 
Inoltre, l’art. 5 del 
D.L. n. 132/2014, ai 
commi 
1, 1-bis 
e 
2, prevede 
che: 


“1. 
L’accordo 
che 
compone 
la 
controversia, 
sottoscritto 
dalle 
parti 
e 
dagli 
avvocati 
che 
le 
assistono, costituisce 
titolo esecutivo e 
per 
l’iscrizione 
di 
ipoteca 
giudiziale. 


1-bis. L’accordo che 
compone 
la controversia contiene 
l’indicazione 
del 
relativo valore. 


2. Gli 
avvocati 
certificano l’autografia delle 
firme 
e 
la conformità del-
l’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico”. 
Ebbene, 
anche 
alla 
luce 
di 
tali 
disposizioni, 
pare 
irragionevole 
ritenere 
che 
le 
Amministrazioni 
patrocinate 
dall’Avvocatura 
dello Stato possano sottoscrivere 
la 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita 
ed 
eventualmente 
compiere 
le 
delicate 
attività 
di 
cui 
alle 
disposizioni 
citate 
senza 
alcuna 
assistenza 
legale. 
Ciò 
sarebbe 
ancor 
più 
distonico 
se 
si 
aggiunge 
che, 
al 
contrario, 
la 
controparte 
è viceversa assistita da un proprio legale. 


D’altro canto, l’Avvocatura 
dello Stato non può trascurare 
la 
recente 
tendenza 
del 
legislatore 
a 
favorire, per quanto possibile, la 
definizione 
delle 
liti 
attraverso il 
ricorso a 
procedure 
alternative 
alla 
giurisdizione. In mancanza 
di 
una 
norma 
specifica 
che 
esenti 
dalla 
negoziazione 
assistita 
la 
Difesa 
Erariale, 
rischia 
di 
essere 
anacronistico 
affermare 
in 
linea 
generale 
e 
astratta 
l’estraneità 
di tale procedura ai compiti dell’Avvocatura. 


§ 
3 -Indirizzo applicativo: necessità di 
bilanciare 
la negoziazione 
assistita 
con la posizione istituzionale dell’Avvocatura dello Stato 


La 
concreta 
applicazione 
dell’istituto 
all’Amministrazione 
deve 
tenere 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


conto delle 
peculiarità, di 
funzioni 
e 
di 
organizzazione, dell’Avvocatura 
dello 
Stato e del suo rapporto con le 
Amministrazioni assistite. 


In 
via 
di 
premessa, 
si 
osserva 
che 
il 
rapporto 
di 
assistenza 
tra 
avvocati 
del 
libero foro e 
parti 
private, anche 
nella 
procedura 
di 
negoziazione 
assistita, 
ha 
fonte 
in un atto contrattuale, con cui 
la 
parte 
sceglie 
liberamente 
il 
professionista 
cui 
affidare 
la 
propria 
assistenza. 
Viceversa, 
il 
rapporto 
che 
lega 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
all’Amministrazione 
difesa 
ha 
fonte 
nella 
legge 
ed 
è 
caratterizzato dalla esclusività. 


Il 
ruolo dell’Avvocatura 
dello Stato nella 
procedura 
di 
negoziazione 
assistita, 
ove 
la 
stessa 
sia 
obbligatoria, non ricade 
d’altra 
parte 
nell’ambito del-
l’art. 1 del 
R.D. n. 1611/1933, non trattandosi 
di 
patrocinio in giudizio, ma 
in 
quello 
dell’art. 
13 
del 
medesimo 
R.D. 
n. 
1611/1933, 
potendosi 
più 
propriamente 
qualificare 
come 
attività 
consultiva 
per 
la 
“tutela 
legale 
dei 
diritti 
e 
degli interessi dello Stato”. 


§ 
3.1 - La volontà transattiva deve provenire dall’Amministrazione 


Questo 
Organo 
Legale 
è 
ben 
consapevole 
del 
fatto 
che, 
nella 
maggioranza 
dei 
casi, il 
tentativo di 
comporre 
la 
lite 
con la 
negoziazione 
assistita 
non sortisce 
gli 
effetti 
deflattivi 
sperati 
dal 
legislatore: 
solo nella 
minor parte 
dei 
casi 
l’invito a 
stipulare 
una 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita 
è 
effettivamente 
sorretto 
da 
una 
genuina 
volontà 
transattiva 
della 
parte, 
cui 
corrisponde 
una 
eguale volontà dell’altra. 


Ebbene, con riguardo alla 
posizione 
della 
parte 
pubblica, l’impulso per 
la 
partecipazione 
fattiva 
alla 
negoziazione 
assistita 
non 
può 
che 
provenire 
dalla 
stessa 
Amministrazione 
patrocinata. L’Avvocatura 
dello Stato limiterà 
il 
proprio 
compito all’assistenza 
legale 
nella 
stipula 
della 
convenzione 
e 
della 
transazione 
conclusiva, 
in 
caso 
di 
effettiva 
sussistenza 
della 
volontà 
transattiva 
dell’Amministrazione. 
Solo 
l’Amministrazione, 
in 
quanto 
parte 
il 
cui 
interesse 
è 
coinvolto 
dalla 
potenziale 
controversia, 
dispone 
infatti 
degli 
elementi 
di 
fatto 
indispensabili 
per 
formare 
una 
volontà 
transattiva 
e 
formulare 
una 
conseguente 
proposta alla controparte. 


Nel 
concreto, 
ciò 
significa 
che 
la 
mera 
ricezione 
dell’invito 
a 
stipulare 
una 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita 
non onera 
l’Avvocatura 
dello Stato 
di riscontrarlo, né di partecipare alla procedura. 


Al 
medesimo 
modo, 
là 
dove 
l’Amministrazione 
patrocinata 
esprima 
la 
mera 
volontà 
di 
resistere 
alla 
pretesa 
del 
privato di 
cui 
disconosce 
la 
fondatezza, 
l’invito a 
stipulare 
la 
convenzione 
non onera 
l’Avvocatura 
dello Stato 
di 
alcun 
incombente, 
perché 
difetta 
a 
monte 
l’ubi 
consistam 
della 
negoziazione, 
ossia 
la 
volontà 
transattiva, che 
è 
necessariamente 
rimessa 
all’Amministrazione 
patrocinata. 


Tale 
accorta 
applicazione 
dell’istituto 
consentirà 
una 
selezione 
delle 
procedure 
di 
negoziazione 
assistita 
cui 
partecipare, così 
da 
limitare 
l’assistenza 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


dell’Avvocatura 
a 
quelle 
negoziazioni 
soltanto 
che 
possano 
sortire 
un 
reale 
effetto 
deflattivo del contenzioso. 


Solo nei 
casi 
in cui 
sussista 
effettivamente 
la 
volontà 
dell’Amministrazione 
di 
addivenire 
a 
una 
soluzione 
concordata, la 
presenza 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
non 
può 
ragionevolmente 
non 
ritenersi 
necessaria 
per 
la 
stipula 
della 
convenzione 
e 
della 
transazione, 
come 
previsto 
dall’art. 
2, 
comma 
1-bis, 
del D.L. n. 132/2014. 


Da ultimo, va tenuto presente che l’art. 3, R.D. 1611/1933 prevede che: 


“Innanzi 
alle 
preture 
ed 
agli 
uffici 
di 
conciliazione 
le 
Amministrazioni 
dello Stato possono, intesa l’Avvocatura dello Stato, essere 
rappresentate 
dai 
propri funzionari che siano per tali riconosciuti”. 


Dunque, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
può 
valutare, 
caso 
per 
caso, 
di 
delegare 
la 
rappresentanza 
nell’ambito 
della 
negoziazione 
assistita 
direttamente 
all’Amministrazione. 


A 
tale 
ultimo 
proposito, 
si 
sottolinea 
che 
la 
facoltà 
di 
delega 
di 
cui 
all’art. 
3 
citato 
consente 
di 
affidare 
all’Amministrazione 
numerosi 
incombenti 
nel-
l’ambito della 
procedura 
di 
negoziazione 
assistita, fatta 
eccezione 
per quelli 
che 
necessariamente 
richiedono 
la 
presenza 
di 
un 
difensore, 
ossia 
-quantomeno 
-la 
stipula 
della 
convenzione 
di 
negoziazione 
assistita, e 
la 
stipula 
del-
l’accordo che 
compone 
la 
controversia, destinato a 
costituire 
titolo esecutivo. 
In relazione 
a 
tale 
ultimo snodo, tra 
l’altro, la 
partecipazione 
necessaria 
del-
l’Avvocatura 
risulta 
vieppiù 
necessaria 
in 
quanto 
può 
tenere 
luogo 
dell’attività 
prevista 
dall’art. 13 del 
R.D. n. 1611/1933 in relazione 
alle 
transazioni 
di 
cui 
siano parti le 
Amministrazioni patrocinate. 


In 
via 
più 
strettamente 
operativa, 
pertanto, 
andranno 
osservate 
le 
seguenti 
indicazioni, 
comunque 
da 
valutare 
ed 
adattare 
alle 
peculiarità 
dei 
casi 
concreti: 


a) qualora 
venga 
notificato all’Avvocatura 
un invito di 
una 
controparte 
ad una 
procedura 
di 
negoziazione 
assistita, essa 
verrà 
sollecitamente 
inoltrata 
all’Amministrazione 
competente, 
con 
espressa 
richiesta 
di 
fornire 
indicazioni 
sulla 
volontà 
della 
stessa 
di 
accedere 
alla 
procedura, significando altresì 
che, 
in caso negativo, spetterà 
alla 
stessa 
Amministrazione 
declinare 
l’invito della 
controparte, 
motivandola 
appropriatamente 
per 
non 
incorrere 
nelle 
conseguenze 
di cui all’art. 4 del D.L. n. 132/2014; 
b) 
qualora 
l’invito 
sia 
stato 
inoltrato 
direttamente 
all’Amministrazione 
competente, 
e 
questa 
richieda 
l’assistenza 
dell’Avvocatura, 
occorrerà 
parimenti 
che 
l’Amministrazione 
fornisca 
indicazioni 
sulla 
volontà 
della 
stessa 
di 
accedere 
alla 
procedura, 
significando 
altresì 
che, 
in 
caso 
negativo, 
spetterà 
alla 
stessa 
declinare 
l’invito della 
controparte, motivandola 
appropriatamente 
per non incorrere nelle conseguenze di cui all’art. 4 del D.L. n. 132/2014; 
c) 
qualora, nei 
casi 
di 
cui 
alle 
precedenti 
lett. a) e 
b), l’Amministrazione 
competente 
manifesti 
l’intenzione 
di 
accedere 
alla 
procedura 
di 
negoziazione 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


assistita, 
e 
ferma 
restando 
la 
necessaria 
presenza 
dell’Avvocatura 
per 
le 
attività 
non 
delegabili 
ai 
sensi 
dell’art. 
3 
del 
R.D. 
n. 
1611/1933, 
unitamente 
ad 
un 
rappresentante 
dell’Amministrazione 
idoneamente 
legittimato, 
l’Avvocatura 
concorderà 
con l’Amministrazione 
stessa 
le 
attività 
di 
supporto da 
accordare 
al 
fine 
della 
definizione 
dei 
contenuti 
sostanziali 
dell’accordo, 
in 
contraddittorio 
con la controparte ed il proprio legale. 


§ 
3.2 -La procedura di 
negoziazione 
assistita deve 
essere 
curata dal 
medesimo 
difensore 
che 
sarà chiamato a difendere 
la causa nella fase 
giurisdizionale 


Inoltre, è 
necessario considerare 
quelle 
ipotesi 
in cui 
l’Amministrazione, 
pur 
fruendo 
del 
patrocinio 
erariale, 
può 
affidare 
ad 
avvocati 
del 
libero 
foro 
alcune 
controversie. 


A 
tale 
ultimo proposito, è 
possibile 
riprendere 
le 
considerazioni 
già 
formulate 
da 
questo 
Generale 
Ufficio 
in 
punto 
di 
negoziazione 
assistita 
nel 
parere 


n. 146998 del 25 marzo 2015 (AL 45465/2014). 
In 
tale 
occasione 
si 
è 
affermato 
il 
principio, 
cui 
può 
essere 
data 
continuità, 
che, per le 
Amministrazioni 
con cui 
sia 
in vigore 
un’apposita 
convenzione 
relativa 
al 
patrocinio in giudizio, è 
necessario che 
l’attività 
di 
difesa 
in sede 
di 
negoziazione 
assistita 
sia 
svolta 
“nel 
rispetto 
delle 
stesse 
e 
degli 
stessi 
principi 
che 
regolano il 
patrocinio legale 
dell’Ente 
nel 
suo complesso”. Dunque, “occorre 
ritenere 
che 
la negoziazione 
assistita deve 
essere 
curata, in via di 
principio, 
dallo stesso difensore 
che 
sarà poi 
chiamato a difendere 
la causa nella 
fase giurisdizionale”. 


Pertanto, là 
dove 
apposite 
convenzioni 
o prassi 
amministrative 
consolidate 
consentano ad alcune 
Amministrazioni 
di 
affidare 
ad avvocati 
del 
libero 
foro 
alcune 
cause 
attive 
e 
passive, 
in 
ragione 
delle 
loro 
caratteristiche, 
sarà 
possibile 
trattare 
al 
medesimo 
modo 
le 
simmetriche 
procedure 
di 
negoziazione 
assistita, in quanto queste 
ultime 
costituiscono “una fase 
preliminare 
dell’iter 
contenzioso, così da potersi considerare parte dell’intera controversia”. 


§ 3.3 - Liti attive: negoziazione assistita facoltativa 


Viceversa, per quanto riguarda 
le 
liti 
attive 
è 
opportuno distinguere 
i 
casi 
in cui 
la 
negoziazione 
assistita 
sia 
obbligatoria, da 
quelli 
in cui 
il 
tentativo di 
negoziazione sia rimesso alla libera scelta delle parti. 


In 
tale 
ultima 
ipotesi, 
ossia 
quando 
il 
previo 
tentativo 
di 
negoziazione 
non costituisce 
condizione 
di 
procedibilità 
della 
domanda, è 
opportuno sconsigliare 
all’Amministrazione 
di 
promuovere 
una 
procedura 
di 
negoziazione 
facoltativa 
attraverso 
l’Avvocatura 
dello 
Stato. 
In 
tali 
fattispecie, 
è 
infatti 
possibile 
raggiungere 
il 
medesimo risultato attraverso i 
contatti 
tradizionalmente 
praticati tra l’Amministrazione e i legali delle controparti. 


Viceversa, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
dovrà 
necessariamente 
avviare 
la 
pro



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2023 


cedura 
di 
negoziazione 
assistita 
nei 
casi 
in cui 
la 
stessa 
dovrebbe 
agire 
in giudizio 
nelle 
ipotesi 
di 
cui 
all’art. 
3 
del 
D.L. 
n. 
132/2014. 
Infatti, 
in 
caso 
contrario 
la 
domanda 
giudiziale 
sarebbe 
improcedibile. Va 
al 
riguardo rammentato che 
l’attuale 
testo dell’art. 163, comma 
3, n. 3-bis), c.p.c. prevede, fra 
i 
contenuti 
della 
citazione, “l’indicazione, nei 
casi 
in cui 
la domanda è 
soggetta a condizione 
di 
procedibilità, dell’assolvimento degli 
oneri 
previsti 
per 
il 
suo superamento”. 


Non 
pare 
percorribile 
una 
soluzione 
interpretativa 
che 
distingua 
le 
ipotesi 
delle 
liti 
attive 
da 
quelle 
passive, 
con 
riguardo 
alla 
necessarietà 
della 
presenza 
dell’Avvocatura 
dello Stato: 
l’invito alla 
negoziazione 
assistita 
è 
infatti 
inoltrato 
dalla parte “tramite il suo avvocato”. 


Per 
prevenire 
contestazioni 
in 
punto 
di 
procedibilità, 
è 
necessario 
che 
l’invito 
sia 
sottoscritto 
direttamente 
dalla 
parte 
(nella 
persona 
di 
un 
rappresentante 
dell’Amministrazione 
idoneamente 
legittimato), e 
solo dopo che 
sia 
decorso il 
termine 
di 
trenta 
giorni, senza 
che 
la 
controparte 
abbia 
manifestato 
l’intenzione 
di 
accedere 
alla 
procedura 
di 
negoziazione 
assistita, 
sarà 
possibile 
esercitare 
l’azione 
giudiziale, richiamando nell’atto il 
verificarsi 
della 
condizione 
di procedibilità. 


Ad ogni 
modo, anche 
a 
tale 
scopo l’Avvocatura 
dello Stato si 
potrà 
avvalere 
della 
facoltà 
di 
delega 
della 
rappresentanza 
all’Amministrazione 
assistita 
ai 
sensi 
dell’art. 
3 
del 
R.D. 
n. 
1611/1933, 
seppure 
coi 
limiti 
già 
evidenziati. 


L’AVVOCATO GENERALE 
Gabriella 
PALMIERI SANDULLI 



ContenziosonazionaLe
Rimborso ex art. 18 D.L. 67/1997 in caso di decreto di 


archiviazione per intervenuta prescrizione e interrogativi 


posti dalla sentenza 41/2024 della Corte costituzionale 


La 
sentenza 
41 del 
2024 della 
Corte 
costituzionale 
mi 
ha 
suscitato più di 
un 
dubbio, 
laddove 
legittima 
una 
lettura 
della 
normativa 
codicistica 
che 
si 
traduce 
sostanzialmente 
in una 
compressione 
delle 
garanzie 
e 
dei 
diritti 
dell’indagato, 
fra cui quello di rinunciare alla prescrizione. 


Mettendo però da 
parte 
eventuali 
osservazioni 
critiche 
su questo aspetto, 
credo che 
questa 
sentenza 
possa 
stimolare 
qualche 
riflessione 
circa 
possibili 
sue 
refluenze 
in 
tema 
di 
valutazione 
del 
primo 
dei 
requisiti 
richiesti 
per 
il 
rimborso 
ex 
art. 18 D.L. 67/1997 (provvedimento che 
escluda 
nel 
merito la 
responsabilità), 
laddove 
il 
procedimento penale 
sia 
stato definito con decreto di 
archiviazione 
per 
intervenuta 
prescrizione 
del 
reato 
e 
sempre 
che 
sia 
stata 
svolta attività difensiva (es. memorie 
ex 
art. 367, interrogatorio; etc.). 


Il 
tema 
posto alla 
Corte 
era 
se 
il 
diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
-al 
fine 
di 
vedere 
accertata 
nel 
merito l’infondatezza 
delle 
accuse 
-potesse 
riconoscersi 
anche all’indagato oltre che all’imputato. 


In 
particolare, 
l’incidente 
di 
costituzionalità 
era 
diretto 
ad 
ottenere 
una 
pronuncia 
additiva 
all’art. 
411, 
co. 
I 
bis 
c.p.p., 
ritenuto 
in 
contrasto 
con 
gli 
artt. 3, 24 e 
11 Cost., nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che 
in caso di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per 
prescrizione 
non 
sia 
dato 
avviso 
della 
richiesta 
all’indagato, 
così da metterlo in condizione di poter rinunciare alla prescrizione. 


La 
questione 
è 
stata 
licenziata 
negativamente 
dal 
Giudice 
delle 
leggi, il 
quale 
ha 
ritenuto tale 
diritto confinato all’imputato e 
al 
solo indagato sottoposto 
a custodia cautelare. 


Tale 
negazione 
-spiega 
la 
Corte 
argomentando 
dall’art. 
335 
bis 
c.p.p. 
(par. 3.7 e 
4 del 
considerato in diritto) -riposa 
sull’assunto secondo cui 
tanto 
l’iscrizione 
nel 
registro 335 c.p.p., 
quanto la 
richiesta 
e 
la 
successiva 
archi



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


viazione 
sono atti 
neutri 
da 
cui 
non può derivare 
alcuna 
conseguenza 
pregiudizievole 
per l’interessato, mancando nel caso una accusa in senso tecnico. 


Inoltre, maturato il 
termine 
di 
prescrizione, non è 
consentita 
alcuna 
incursione 
nel 
merito circa 
la 
fondatezza 
della 
notitia criminis, stante 
la 
disposizione 
di nuovo conio di cui all’art. 115 bis 
c.p.p. 


Ebbene, stando così 
le 
cose, credo sia 
legittimo interrogarsi 
su quale 
sia 
ora 
il 
valore 
da 
riconoscere 
in sede 
di 
rimborso ad un decreto di 
archiviazione 
per intervenuta prescrizione. 


La 
domanda 
si 
impone 
necessariamente 
visto 
che 
un 
tale 
decreto 
-pur 
continuando 
a 
non 
tradursi 
in 
una 
definizione 
nel 
merito 
degli 
addebiti 
mossi 
presenta 
sì 
un 
valore 
neutro, 
il 
quale 
però 
deve 
precludere 
una 
qualunque 
conseguenza 
pregiudizievole 
(non 
solo 
alla 
sua 
reputazione) 
per 
l’interessato, 
cui 
non 
può 
nemmeno 
più 
rimproverarsi 
di 
essere 
rimasto 
inerte 
non 
rinunciando 
alla 
prescrizione. 


Orbene, nulla 
credo possa 
dirsi 
cambiato nel 
caso in cui 
il 
decreto di 
archiviazione 
per intervenuta 
prescrizione 
entri 
comunque 
nel 
merito della 
vicenda 
escludendo 
in 
via 
incidentale 
profili 
di 
responsabilità, 
trattandosi 
di 
ipotesi non esclusa dal dettato normativo (art. 115 bis 
c.p.p.). 


In un tale 
caso, l’accertamento sebbene 
incidentale 
deve 
ritenersi 
sufficiente 
a 
ritenere 
integrato 
il 
requisito 
richiesto 
dall’art. 
18, 
non 
potendo 
richiedersi 
come 
condizione 
necessaria 
una 
espressa 
pronuncia 
nel 
merito, magari 
invocando il disposto dell’art. 129, co. II c.p.p. 


Qualora, 
infatti, 
la 
definizione 
del 
procedimento 
avvenga 
prima 
dell’esercizio 
dell’azione 
penale 
non trova 
applicazione 
il 
disposto dell’art. 129, co. II 
c.p.p., 
stante 
il 
tenore 
letterale 
della 
norma 
che 
richiama 
solo 
il 
provvedimento 
avente 
veste 
di 
“sentenza” 
(ex multis: sez. Vi, sent. n. 45001 del 
26 ottobre 
2005, Mastrangelo). 


Viceversa, 
mi 
chiedo 
come 
ci 
si 
debba 
comportare 
laddove 
invece 
il 
decreto 
di 
archiviazione 
prenda 
semplicemente 
atto 
della 
intervenuta 
prescrizione. 


Il 
dubbio 
si 
pone 
in 
ragione 
del 
fatto 
che 
non 
sarà 
più 
possibile 
motivare, 
sostenendo 
la 
mancata 
opzione 
per 
la 
rinuncia 
alla 
prescrizione 
da 
parte 
del 
richiedente 
il 
rimborso, 
visto 
che 
un 
tale 
diritto 
non 
è 
riconosciuto 
all’indagato. 


A 
ciò 
si 
aggiunga 
l’affermazione 
fatta 
dalla 
stessa 
Corte 
costituzionale, 
ossia 
che 
un 
tale 
provvedimento 
non 
possa 
recare 
pregiudizio 
a 
chi 
lo 
subisce. 


Stando 
così 
le 
cose, 
ci 
si 
può 
ancora 
soffermare 
sul 
solo 
dato 
formale 
rappresentato 
dall’assenza 
di 
un 
provvedimento 
che 
escluda 
nel 
merito 
la 
responsabilità 
del 
richiedente 
oppure, 
al 
contrario, 
visto 
che 
la 
Corte 
-par. 
3.8. 
ultimo 
cpv -evidenzia 
come 
gli 
elementi 
raccolti 
dal 
P.M. in un indagine 
sfociata 
in 
una 
archiviazione 
debbono 
essere 
sempre 
oggetto 
di 
attenta 
rivalutazione 
nell’ambito di 
eventuali 
diversi 
procedimenti 
(civili; 
penali; 
amministrativi; 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


contabili; 
disciplinari), 
sarebbe 
possibile 
per 
noi 
effettuare 
una 
valutazione 
nel 
merito, 
motivando 
circa 
la 
presenza 
o 
l’assenza 
di 
elementi 
che 
avrebbero 
permesso 
al giudice di escludere in via incidentale profili di responsabilità? 


Antonio Trimboli* 


Corte 
costituzionale, sentenza 11 marzo 2024 n. 41 
-Pres. A.A. Barbera, Red. F. Viganò Giudizio 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 411, comma 
1-bis, del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
promosso 
dal 
Tribunale 
ordinario 
di 
Lecce, 
sezione 
seconda 
penale, 
sul 
reclamo 
proposto 
da D.A.r. S., con ordinanza del 21 novembre 2022. 


Ritenuto in fatto 


1.– Con ordinanza 
del 
21 novembre 
2022, il 
Tribunale 
ordinario di 
Lecce, sezione 
seconda 
penale, ha 
sollevato, in riferimento agli 
artt. 3, 24, secondo comma, e 
111, commi 
secondo 
e 
terzo, della 
Costituzione, questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 411, comma 
1-bis, del 
codice 
di 
procedura 
penale, «nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che, anche 
in caso di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per estinzione 
del 
reato per intervenuta 
prescrizione, il 
pubblico ministero 
debba 
darne 
avviso 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
e 
alla 
persona 
offesa, 
estendendo a 
tale 
ipotesi 
la 
medesima 
disciplina 
prevista 
per il 
caso di 
archiviazione 
disposta 
per 
particolare 
tenuità 
del 
fatto, 
anche 
sotto 
il 
profilo 
della 
nullità 
del 
decreto 
di 
archiviazione 
emesso 
in 
mancanza 
del 
predetto 
avviso 
e 
della 
sua 
reclamabilità 
dinanzi 
al 
Tribunale 
in 
composizione 
monocratica». 


1.1.– Innanzi 
al 
rimettente 
pende 
reclamo, proposto ai 
sensi 
dell’art. 410-bis 
cod. proc. 
pen. nell’interesse 
di 
D.A.r. S., avverso il 
decreto con il 
quale 
il 
Giudice 
per le 
indagini 
preliminari 
del 
Tribunale 
di 
Lecce 
ha 
disposto l’archiviazione 
del 
procedimento penale 
aperto 
nei 
suoi 
confronti, 
richiamando 
e 
condividendo 
le 
motivazioni 
contenute 
nella 
corrispondente 
richiesta formulata dal pubblico ministero procedente. 


Dall’ordinanza 
di 
rimessione 
e 
dai 
numerosi 
documenti 
prodotti 
dalla 
parte 
nel 
procedimento 
innanzi 
a 
questa 
Corte 
si 
evince 
che 
D.A.r. S. è 
un magistrato attinto da 
indagini 
avviate 
dalla 
Procura 
della 
repubblica 
di 
Lecce 
in seguito alle 
dichiarazioni 
di 
un imprenditore, 
che 
lo aveva 
accusato di 
avere 
percepito rilevanti 
somme 
di 
denaro in cambio della 
risoluzione, 
in termini 
favorevoli 
allo stesso imprenditore 
e 
alla 
sua 
famiglia, di 
una 
serie 
di 
controversie 
con l’Agenzia 
delle 
entrate 
pendenti 
innanzi 
alla 
commissione 
tributaria 
di 
cui 
il magistrato era, all’epoca, componente. 


Avendo appreso da 
notizie 
di 
stampa 
delle 
accuse 
rivolte 
nei 
propri 
confronti 
dall’imprenditore, 
il magistrato denunciava quest’ultimo per calunnia. 


Il 
28 settembre 
2021 il 
pubblico ministero procedente 
nei 
confronti 
del 
magistrato richiedeva 
al 
GIP 
del 
Tribunale 
di 
Lecce 
l’archiviazione 
del 
relativo procedimento penale. In 
particolare, nella 
richiesta 
di 
archiviazione 
si 
affermava 
che 
una 
parte 
delle 
accuse 
concernessero 
fatti 
qualificabili 
come 
corruzioni 
in 
atti 
giudiziari, 
che 
sarebbero 
stati 
commessi 
negli 


(*) Avvocato dello Stato e 
Dottore 
di 
ricerca 
in Diritto Pubblico -indirizzo Penale 
e 
Procedura 
Penale 
presso l’università di roma 
Tor Vergata. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


anni 
2010 e 
2011. La 
ricostruzione 
dell’imprenditore 
sarebbe 
stata 
suffragata 
da 
«molteplici 
elementi 
di 
riscontro 
documentali», 
puntualmente 
elencati 
nella 
richiesta 
di 
archiviazione; 
ma 
l’avvenuto decorso del 
termine 
di 
prescrizione 
avrebbe 
escluso «la 
possibilità 
di 
giungere 
ad 
una 
archiviazione 
con 
una 
formula 
diversa 
che 
attinga 
il 
merito 
della 
vicenda». 
La 
restante 
parte 
delle 
accuse 
riguardavano invece 
fatti 
-qualificabili 
come 
traffico di 
influenze 
illecite 
e 
collocati, 
secondo 
la 
ricostruzione 
dell’imprenditore, 
nel 
2016 
-rispetto 
ai 
quali, 
pur 
a 
fronte 
della 
ritenuta 
attendibilità 
dell’accusatore, sarebbero mancati 
«riscontri 
oggettivi 
individualizzanti
» 
ai 
sensi 
dell’art. 
192 
cod. 
proc. 
pen., 
con 
conseguente 
impossibilità 
di 
sostenere 
l’accusa 
in giudizio rispetto ad essi. 


Il 
29 settembre 
2021 il 
GIP 
aveva 
emesso decreto di 
archiviazione 
«per le 
ragioni 
analiticamente 
esposte 
dal 
p.m. nella 
sua 
richiesta, ritenute 
corrette 
in fatto e 
in diritto e, perciò, 
pienamente condivise» dallo stesso GIP. 


Conformemente 
alla 
disciplina 
processuale 
vigente, né 
la 
richiesta 
di 
archiviazione, né 
il successivo decreto di archiviazione venivano comunicati all’indagato. 


Il 
27 
ottobre 
2021 
a 
quest’ultimo 
era 
stato 
invece 
notificato, 
nella 
sua 
qualità 
di 
persona 
offesa 
nel 
relativo 
procedimento 
per 
calunnia 
nei 
confronti 
dell’imprenditore 
che 
lo 
aveva 
accusato 
di 
corruzione 
in atti 
giudiziari, l’avviso della 
richiesta 
di 
archiviazione 
formulata 
dal 
pubblico ministero. Da 
quella 
richiesta 
il 
magistrato aveva 
appreso della 
parallela 
richiesta 
di 
archiviazione che concerneva la propria posizione. 


Il 
magistrato, a 
questo punto, formulava 
al 
pubblico ministero e 
al 
GIP 
dichiarazione 
di 
rinuncia 
alla 
prescrizione 
per tutti 
i 
reati 
ipotizzati 
nei 
propri 
confronti, chiedendo altresì 
che 
non fosse 
emesso il 
decreto di 
archiviazione; 
ma 
il 
2 novembre 
2021 il 
pubblico ministero gli 
comunicava 
il 
non luogo a 
provvedere 
sulla 
sua 
istanza, dal 
momento che 
il 
GIP 
aveva 
ormai 
disposto l’archiviazione, con il menzionato provvedimento del 29 settembre 2021. 


Il 
9 novembre 
2021 il 
magistrato, a 
mezzo del 
proprio difensore, proponeva 
reclamo al 
Tribunale, 
ai 
sensi 
dell’art. 
410-bis 
cod. 
proc. 
pen., 
avverso 
il 
decreto 
di 
archiviazione 
emesso 
nei 
propri 
confronti, assumendone 
l’illegittimità 
per violazione 
del 
principio del 
contraddittorio. 
In 
particolare, 
il 
magistrato 
si 
doleva 
di 
non 
essere 
mai 
stato 
posto 
in 
condizione 
di 
esercitare 
il 
proprio 
diritto 
a 
rinunziare 
alla 
prescrizione, 
e 
dunque 
a 
esercitare 
il 
proprio 
«“diritto 
al 
processo” 
e, quindi, alla 
prova, nell’ambito dell’inalienabile 
diritto alla 
difesa, sancito dal-
l’art. 24 Cost., in sintonia, peraltro con la 
presunzione 
di 
innocenza, di 
cui 
all’art. 27, comma 
2, della 
stessa 
Carta 
costituzionale, ed all’art. 6, par. 2, CEDu»; 
diritto che, a 
suo avviso, dovrebbe 
essere 
esercitabile 
in ogni 
stato e 
grado del 
giudizio. E 
ciò anche 
in relazione 
al 
suo 
concreto interesse 
a 
essere 
giudicato nel 
merito in ordine 
alle 
accuse 
rivoltegli, suscettibili 
di 
produrre 
grave 
nocumento alla 
sua 
sfera 
professionale 
e 
lavorativa. In conclusione, il 
reclamante 
chiedeva 
l’annullamento parziale 
del 
decreto di 
archiviazione, limitatamente 
alla 
statuizione 
relativa 
all’intervenuta 
prescrizione, 
con 
riferimento 
in 
particolare 
agli 
episodi 
qualificati come corruzione in atti giudiziari. 


1.2.– Il 
giudice 
del 
reclamo, rimettente 
nel 
procedimento incidentale 
innanzi 
a 
questa 
Corte, 
ritiene 
che 
il 
rimedio 
di 
cui 
all’art. 
410-bis 
cod. 
proc. 
pen. 
sia 
effettivamente 
funzionale 
alla 
tutela 
del 
diritto al 
contraddittorio, ma 
-contrariamente 
a 
quanto assunto dal 
reclamante 
-sottolinea 
come 
il 
legislatore 
lo 
abbia 
circoscritto 
alle 
nullità 
ivi 
tassativamente 
indicate, 
che 
attengono all’osservanza 
di 
specifici 
obblighi 
stabiliti 
da 
altre 
disposizioni 
contigue; 
ciò 
che 
escluderebbe 
ogni 
possibilità 
di 
interpretazione 
costituzionalmente 
orientata 
della 
disposizione. 
Il 
rimedio non sarebbe, pertanto, utilizzabile 
per sanzionare 
la 
violazione 
di 
un onere 
informativo non previsto da alcuna norma del codice. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 
23 


Tuttavia, 
proprio 
la 
mancata 
previsione 
di 
tale 
onere 
informativo 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
in caso di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per intervenuta 
prescrizione 
del 
reato pretermetterebbe, 
ad 
avviso 
del 
giudice 
a 
quo, 
il 
diritto 
dell’indagato 
a 
rinunciare 
alla 
causa 
estintiva, 
e pertanto violerebbe: 


-l’art. 3 Cost., «creando evidente 
disparità 
di 
trattamento rispetto a 
chi 
ben può agevolmente 
avvalersi 
del 
diritto di 
rinuncia 
alla 
prescrizione 
soltanto perché 
la 
maturazione 
della 
causa 
estintiva 
casualmente 
coincide 
con una 
diversa 
fase 
processuale», nonché 
rispetto alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
nei 
cui 
confronti 
venga 
richiesta 
l’archiviazione 
del 
procedimento 
per particolare 
tenuità 
del 
fatto, che 
deve 
essere 
invece 
avvisata 
della 
richiesta 
di 
archiviazione; 
-l’art. 
24, 
secondo 
comma, 
Cost., 
«in 
quanto 
la 
rinuncia 
o 
meno 
alla 
prescrizione 
rientra 
in una 
precisa 
scelta 
processuale 
dell’indagato/imputato formulabile 
in ogni 
stato e 
grado del 
processo ed esplicativa 
del 
proprio inviolabile 
diritto di 
difesa 
inteso come 
diritto al 
giudizio 
e con esso a quello alla prova»; 


-l’art. 
111, 
commi 
secondo 
e 
terzo, 
Cost., 
«attesa 
l’elusione 
del 
contraddittorio 
con 
l’indagato 
necessario ad assicurargli 
la 
piena 
facoltà 
di 
esercitare 
i 
suoi 
diritti, tra 
cui 
quello alla 
rinuncia alla prescrizione». 


Il 
rimettente 
richiama 
in proposito la 
sentenza 
n. 111 del 
2022 di 
questa 
Corte, nonché 
recenti 
pronunce 
della 
Corte 
di 
cassazione 
(sezione 
prima 
penale, sentenza 
3 ottobre 
2019-4 
febbraio 
2020, 
n. 
4671; 
sezione 
terza 
penale, 
sentenza 
30 
gennaio-25 
maggio 
2020, 
n. 
15758), 
a 
sostegno della 
tesi 
secondo cui 
il 
principio di 
ragionevole 
durata 
del 
processo non potrebbe 
mai 
andare 
a 
discapito dei 
principi 
costituzionali 
di 
ragionevolezza, di 
inviolabilità 
del 
diritto 
di 
difesa 
e 
del 
contraddittorio 
come 
elemento 
costitutivo 
del 
giusto 
processo: 
principi 
-questi 
ultimi 
-dei 
quali 
il 
diritto a 
rinunziare 
alla 
prescrizione 
sarebbe 
a 
sua 
volta 
componente 
essenziale. 
Conseguentemente, «la 
pronuncia 
di 
un decreto di 
archiviazione 
de 
plano 
dichiarativo 
dell’estinzione 
del 
reato 
per 
intervenuta 
prescrizione 
senza 
che 
sia 
previsto 
alcun 
preventivo onere 
informativo dell’indagato sulla 
determinazione 
conclusiva 
assunta 
dal 
Pubblico 
Ministero e, conseguentemente, alcuna 
sanzione 
per la 
mancata 
interlocuzione» eliderebbe 
«in radice 
ogni 
possibilità 
per l’indagato di 
attivare 
il 
proprio diritto a 
una 
verifica 
di 
merito […] sebbene 
la 
legge 
sancisca 
la 
rinunciabilità 
alla 
prescrizione 
in ogni 
stato e 
grado 
del giudizio». 


Dopo 
aver 
rammentato 
che 
la 
rinunciabilità 
della 
prescrizione 
è 
stata 
introdotta 
dalla 
sentenza 
n. 275 del 
1990 di 
questa 
Corte, il 
rimettente 
sottolinea 
che 
«una 
facoltà 
è 
realmente 
tale 
soltanto se 
si 
pone 
il 
suo titolare 
nell’effettiva 
condizione 
di 
esercitarla», ciò che 
non avverrebbe 
ove 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
non venga 
informata 
della 
richiesta 
di 
archiviazione 
per intervenuta prescrizione formulata nei propri confronti. 


un 
onere 
informativo 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
è 
peraltro 
già 
previsto 
prosegue 
il 
rimettente 
-dall’art. 
411, 
comma 
1-bis, 
cod. 
proc. 
pen. 
nell’ipotesi 
in 
cui 
l’archiviazione 
sia richiesta per particolare tenuità del fatto; ipotesi che costituirebbe «un preciso 
punto 
di 
riferimento, 
già 
presente 
nel 
sistema 
legislativo, 
in 
grado 
di 
orientare 
l’intervento 
della 
Corte 
costituzionale 
verso 
una 
soluzione 
non 
arbitraria», 
secondo 
i 
principi 
ripetutamente 
espressi 
da 
questa 
Corte 
in 
merito 
ai 
limiti 
del 
proprio 
sindacato 
(sono 
citate 
le 
sentenze 
n. 
185 
e 
n. 
63 
del 
2021, 
n. 
252 
e 
n. 
224 
del 
2020, 
n. 
99 
e 
n. 
40 
del 
2019, 


n. 
233 
e 
n. 
222 
del 
2018, 
n. 
236 
del 
2016). 
nel 
caso 
in 
esame, 
«la 
soluzione 
normativa 
che 
appare 
più 
adeguata 
e 
congeniale 
con 
il 
sistema 
vigente» 
sarebbe 
per 
l’appunto 
«l’estensione 
della 
disciplina 
già 
stabilita 
dal 
legislatore 
per 
il 
caso 
di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per 
par

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


ticolare 
tenuità 
del 
fatto 
anche 
all’ipotesi 
di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per 
intervenuta 
prescrizione 
del 
reato». 


Ove 
questa 
Corte 
accogliesse 
tale 
soluzione, conclude 
il 
rimettente, il 
richiamo all’art. 
411, comma 
1-bis, cod. proc. pen. «consentirebbe 
di 
configurare 
anche 
in caso di 
mancanza 
del 
predetto avviso un’ipotesi 
di 
nullità 
del 
decreto di 
archiviazione 
eccepibile 
con lo strumento 
del reclamo dinanzi al 
Tribunale in composizione monocratica». 


2.– 
È 
intervenuto 
in 
giudizio 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato, 
chiedendo 
che 
le 
questioni 
siano 
dichiarate 
non 
fondate. 


L’interveniente 
sottolinea 
anzitutto la 
diversità 
della 
posizione 
dell’imputato già 
tratto 
a 
giudizio 
rispetto 
a 
quella 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
in 
un 
procedimento 
nell’ambito 
del 
quale 
venga 
richiesta 
l’archiviazione 
per 
intervenuta 
prescrizione; 
diversità 
dalla 
quale 
discenderebbe 
la 
non 
fondatezza 
della 
doglianza 
di 
violazione 
dell’art. 
3 
Cost. 
per 
effetto 
della 
mancata 
previsione 
di 
un onere 
informativo, nei 
confronti 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, 
relativo alla richiesta medesima. 


né 
sarebbe 
ipotizzabile 
una 
violazione 
degli 
artt. 24, secondo comma, e 
111, secondo 
comma, Cost., dal 
momento che 
la 
mancata 
informazione 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
non pregiudicherebbe 
alcun suo interesse 
giuridicamente 
rilevante. In effetti, un pregiudizio 
sarebbe 
configurabile 
soltanto 
«nell’ipotesi 
in 
cui 
l’indagato 
deduca 
uno 
specifico 
interesse 
ad impugnare 
un decreto di 
archiviazione 
fondato sull’intervenuta 
prescrizione 
del 
reato, come 
nell’ipotesi 
in cui 
lo stesso, dopo aver trascorso un periodo di 
sottoposizione 
a 
custodia 
cautelare 
in carcere 
fosse 
interessato a 
far valere 
l’ingiustizia 
della 
detenzione 
preventiva 
inflittagli 
per ottenere 
un indennizzo». «[I]n tale 
ipotesi» tuttavia 
-prosegue 
l’interveniente 
-«già 
la 
normativa 
vigente 
anteriormente 
all’introduzione 
nell’ordinamento 
dell’art. 
410 
bis 
c.p.p., 
consentiva 
all’indagato 
di 
impugnare 
col 
mezzo 
di 
impugnazione 
allora 
previsto 
(ricorso per cassazione) il 
decreto di 
archiviazione 
emesso per prescrizione 
del 
reato al 
fine 
di 
consentirgli 
di 
esercitare 
il 
diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione» (è 
citata 
Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
sesta 
penale, sentenza 
24 aprile 
-8 giugno 2018, n. 26289). A 
seguito poi 
del-
l’introduzione 
dell’art. 410-bis 
cod. proc. pen., il 
mezzo di 
impugnazione 
che 
permetterebbe 
di 
far 
valere 
tale 
diritto 
sarebbe 
costituito 
dal 
reclamo 
proponibile 
innanzi 
al 
tribunale 
in 
composizione 
monocratica. 


3.– 
Il 
reclamante 
nel 
giudizio 
a 
quo 
si 
è 
costituito 
in 
giudizio, 
chiedendo 
l’accoglimento 
delle 
prospettate 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale, ripercorrendo adesivamente 
le 
argomentazioni 
svolte 
nell’ordinanza 
di 
rimessione 
e 
illustrando 
le 
ragioni 
per 
le 
quali 
egli 
avrebbe 
interesse 
a 
una 
pronuncia 
sul 
merito delle 
accuse 
rivoltegli 
dal 
denunciante. In particolare, i 
fatti 
a 
lui 
contestati 
sarebbero «di 
natura 
particolarmente 
esecrabile 
ed odiosa 
per un magistrato 
del 
suo rango e 
frutto di 
dichiarazioni 
false 
e 
calunniose», rispetto ai 
quali 
egli 
avrebbe 
un chiaro interesse 
ad affrontare 
il 
giudizio per essere 
prosciolto nel 
merito. E 
ciò anche 
in 
relazione 
ai 
pregiudizi 
da 
lui 
già 
subiti 
in 
conseguenza 
delle 
accuse 
rivoltegli, 
per 
le 
quali 
egli 
avrebbe 
già 
subito un procedimento disciplinare 
che 
-pur ormai 
archiviato -avrebbe 
«conservato 
l’“ombra” 
della 
prescrizione, tanto da 
essere 
già 
stata 
strumentalizzata 
in sede 
di 
valutazione 
finalizzata 
alla 
assegnazione 
dell’incarico direttivo» al 
quale 
lo stesso reclamante 
aspirava. 


In 
prossimità 
dell’udienza, 
la 
parte 
ha 
depositato 
memoria 
illustrativa, 
in 
cui 
confuta 
gli 
argomenti 
dell’Avvocatura 
generale 
dello Stato, osservando in particolare 
come 
il 
diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
durante 
il 
procedimento non possa 
dipendere 
dalla 
casuale 
circo



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


stanza 
che 
l’interessato 
venga 
o 
meno 
a 
conoscenza 
dello 
stesso. 
Piuttosto, 
ogni 
cittadino 
sottoposto 
a 
indagini 
dovrebbe 
«essere 
portato a 
conoscenza 
del 
loro esito, anche 
nel 
caso di 
archiviazione 
per intervenuta 
prescrizione 
proprio per evitare 
la 
causa 
di 
proscioglimento (di 
rito) ed accedere 
alla 
formula 
di 
archiviazione 
che 
escluda, nel 
merito, la 
sussistenza 
dei 
fatti 
ascritti 
o 
la 
loro 
configurabilità 
come 
reato». 
non 
potrebbe, 
infatti, 
affermarsi 
«che 
solo 
l’imputato 
subisce 
pregiudizi 
per 
il 
fatto 
di 
essere 
sottoposto 
a 
processo: 
al 
contrario, 
nella 
grande 
maggioranza 
dei 
casi, è 
proprio la 
fase 
delle 
indagini 
preliminari 
a 
lasciare 
“una 
macchia” 
indelebile 
sulla 
persona 
dell’indagato», 
che 
egli 
non 
potrebbe 
neppure 
tentare 
di 
eliminare, 
«non 
sussistendo alcun obbligo di 
notifica 
della 
richiesta 
di 
archiviazione 
per prescrizione 
nei 
suoi 
confronti ed essendo quindi a lui impedito di rinunciare alla prescrizione». 


D’altra 
parte 
-prosegue 
il 
reclamante 
nel 
giudizio a quo 
-il 
pregiudizio da 
lui 
subito 
sarebbe 
dimostrato 
dall’utilizzazione 
del 
provvedimento 
di 
archiviazione 
da 
parte 
della 
Quinta 
commissione 
del 
Consiglio 
superiore 
della 
magistratura, 
in 
sede 
di 
audizione 
conseguente 
alla 
sua 
domanda 
di 
conferimento di 
un incarico direttivo, come 
risulta 
dai 
relativi 
verbali 
e 
dalla 
delibera 
conclusiva 
allegati 
alla 
memoria 
illustrativa. In tale 
delibera, osserva 
la 
parte, 
si 
legge 
d’altronde 
che 
le 
argomentazioni 
dell’interessato non sarebbero idonee 
«in modo incontrovertibile
», allo stato, ad «attenuare 
la 
gravità 
del 
quadro probatorio quale 
risulta 
dalla 
menzionata 
richiesta 
di 
archiviazione 
(condivisa 
dal 
GIP)»; 
tanto che 
la 
Quinta 
commissione 
si 
sarebbe 
determinata 
a 
soprassedere 
dalla 
valutazione 
di 
tale 
quadro probatorio solo in conseguenza 
del 
reclamo 
al 
Tribunale 
di 
Lecce 
proposto 
dallo 
stesso 
interessato 
avverso 
il 
decreto 
di archiviazione. 


Considerato in diritto 


1.– 
Con 
l’ordinanza 
indicata 
in 
epigrafe, 
il 
Tribunale 
ordinario 
di 
Lecce, 
sezione 
seconda 
penale, ha 
sollevato, in riferimento agli 
artt. 3, 24, secondo comma, e 
111, commi 
secondo e 
terzo, 
Cost., 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
411, 
comma 
1-bis, 
cod. 
proc. 
pen., 
«nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che, anche 
in caso di 
richiesta 
di 
archiviazione 
per estinzione 
del 
reato per intervenuta 
prescrizione, il 
pubblico ministero debba 
darne 
avviso alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
e 
alla 
persona 
offesa, 
estendendo 
a 
tale 
ipotesi 
la 
medesima 
disciplina 
prevista 
per il 
caso di 
archiviazione 
disposta 
per particolare 
tenuità 
del 
fatto, anche 
sotto il 
profilo della 
nullità 
del 
decreto di 
archiviazione 
emesso in mancanza 
del 
predetto avviso e 
della sua reclamabilità dinanzi al 
Tribunale in composizione monocratica». 


Dal 
tenore 
complessivo 
dell’ordinanza 
di 
rimessione 
si 
evince 
che 
il 
giudice 
a 
quo 
aspira 
a 
una 
pronuncia 
additiva, con la 
quale 
questa 
Corte 
estenda 
l’obbligo -già 
ora 
previsto dalla 
disposizione 
censurata 
-di 
avvisare 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
della 
richiesta 
di 
archiviazione 
per 
particolare 
tenuità 
del 
fatto, 
anche 
alla 
diversa 
ipotesi 
in 
cui 
tale 
archiviazione 
sia 
fondata 
sull’intervenuta 
prescrizione 
del 
reato. 
L’avviso 
sarebbe, 
nell’ottica 
del 
rimettente, 
essenziale 
per assicurare 
all’indagato la 
possibilità 
di 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
prima 
che 
il 
procedimento 
sia 
concluso, 
e 
di 
ottenere 
così 
una 
pronuncia 
sul 
merito 
degli 
addebiti 
oggetto 
del procedimento stesso. 


La 
mancata 
previsione 
di 
tale 
obbligo informativo determinerebbe, secondo il 
giudice 
a quo, un vulnus 
al 
principio di 
eguaglianza 
di 
cui 
all’art. 3 Cost., creando una 
irragionevole 
disparità 
di 
trattamento tra 
l’imputato -che 
ha 
sempre 
la 
possibilità 
di 
esercitare 
il 
proprio diritto 
di 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
-e 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, la 
quale 
potrebbe 
essere 
rimasta 
del 
tutto ignara 
sia 
delle 
indagini 
stesse, sia 
della 
determinazione 
del 
pubblico 
ministero di 
chiedere 
l’archiviazione 
del 
procedimento per intervenuta 
prescrizione; 
e 
creerebbe 
una 
ulteriore 
disparità 
di 
trattamento rispetto alla 
situazione 
dell’indagato nei 
cui 
con



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


fronti 
venga 
richiesta 
l’archiviazione 
del 
procedimento 
per 
particolare 
tenuità 
del 
fatto, 
la 
quale deve essere avvisata della richiesta di archiviazione. 


La 
disciplina 
vigente 
risulterebbe 
altresì 
incompatibile 
con l’art. 24, secondo comma, 
Cost., non assicurando che 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
sia 
posta 
in condizione 
di 
rinunciare 
alla 
prescrizione, e 
dunque 
di 
esercitare 
una 
facoltà 
che 
questa 
Corte, nella 
sentenza 


n. 275 del 1990, ha considerato come parte integrante del diritto di difesa. 
Infine, sarebbe 
vulnerato il 
principio del 
contraddittorio di 
cui 
all’art. 111, commi 
secondo 
e 
terzo, Cost., dal 
momento che 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
non sarebbe 
posta 
in grado di 
esercitare 
il 
proprio diritto a 
provare 
la 
falsità 
degli 
addebiti 
oggetto del 
procedimento 
penale. 


2.– L’Avvocatura 
generale 
dello Stato non solleva 
alcuna 
eccezione 
di 
inammissibilità. 


In effetti 
le 
questioni, ampiamente 
argomentate 
sotto il 
profilo della 
non manifesta 
infondatezza, 
sono altresì rilevanti per la definizione del giudizio 
a quo. 


Il 
rimettente 
è 
investito 
di 
un 
reclamo 
presentato, 
ai 
sensi 
dell’art. 
410-bis 
cod. 
proc. 
pen., da 
una 
persona 
destinataria 
di 
un decreto di 
archiviazione 
per prescrizione 
pronunciato 
dal 
GIP, senza 
che 
le 
fosse 
mai 
stato dato avviso della 
relativa 
richiesta 
da 
parte 
del 
pubblico 
ministero. 


Il 
giudice 
a quo 
rileva 
che 
l’art. 410-bis 
cod. proc. pen. prevede, al 
comma 
1, un elenco 
tassativo 
di 
cause 
di 
nullità 
del 
decreto 
di 
archiviazione, 
che 
comprende 
l’omissione 
degli 
avvisi 
della 
richiesta 
di 
archiviazione 
prescritti 
dalla 
legge, tra 
cui 
in particolare 
l’avviso alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, 
previsto 
dal 
censurato 
art. 
411, 
comma 
1-bis, 
cod. 
proc. 
pen., 
nell’ipotesi 
in cui 
il 
pubblico ministero ritenga 
che 
il 
reato sia 
di 
particolare 
tenuità. nessun 
avviso 
è 
però 
previsto 
nel 
caso 
in 
cui 
l’archiviazione 
sia 
richiesta 
per 
intervenuta 
prescrizione 
del 
reato. 
Conseguentemente, 
il 
reclamo 
dovrebbe 
essere 
rigettato, 
non 
ricorrendo 
alcuna 
causa di nullità del decreto di archiviazione. 


Laddove, invece, questa 
Corte 
ritenesse 
costituzionalmente 
illegittima 
la 
mancata 
previsione 
-da 
parte 
dello stesso art. 411, comma 
1-bis, cod. proc. pen. -di 
un obbligo di 
avviso 
anche 
in questa 
ipotesi, l’omissione 
di 
tale 
avviso determinerebbe 
una 
violazione 
dello stesso 
art. 411, comma 
1-bis, cod. proc. pen., sicché 
-nel 
caso concreto -il 
decreto di 
archiviazione 
pronunciato 
dal 
GIP 
dovrebbe 
essere 
dichiarato 
nullo 
ai 
sensi 
dell’art. 
410-bis, 
comma 
1, 
cod. 
proc. pen. Ciò comporterebbe 
-in base 
al 
successivo comma 
4 del 
medesimo articolo -l’accoglimento 
del 
reclamo e 
la 
restituzione 
degli 
atti 
al 
GIP. Esito, questo, che 
consentirebbe 
all’interessato 
-nella 
prospettiva 
del 
rimettente 
-di 
esercitare 
in tempo utile 
il 
proprio diritto di 
rinunciare alla prescrizione. 


3.– nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di seguito precisati. 


3.1.– Perno della 
prospettazione 
del 
giudice 
a quo, rispetto a 
tutti 
e 
tre 
i 
parametri 
costituzionali 
evocati, 
è 
l’assunto 
secondo 
il 
quale 
non 
solo 
l’imputato, 
ma 
anche 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
sarebbe 
titolare 
di 
un diritto, di 
rango costituzionale, a 
rinunciare 
alla 
prescrizione, e 
a 
ottenere 
un giudizio sul 
merito dei 
fatti 
che 
hanno formato oggetto delle 
indagini. 
Tale 
diritto discenderebbe 
dal 
diritto di 
difesa 
(art. 24, secondo comma, Cost.), nella 
sua 
declinazione 
più specifica 
del 
diritto al 
contraddittorio (art. 111, commi 
secondo e 
terzo, 
Cost.), che 
garantirebbe 
alla 
persona 
sottoposta 
a 
indagini 
di 
poter sempre 
ottenere 
una 
«verifica 
di merito» sulla 
notitia criminis 
che ha dato luogo alle indagini preliminari. 


Questo assunto, solo apparentemente ovvio, merita un attento esame. 
3.2.– La 
sentenza 
n. 275 del 
1990 -superando il 
proprio precedente 
rappresentato dalla 
sentenza 
n. 202 del 
1971 -ha 
dichiarato l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 157, cod. pen., 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


nella 
parte 
in cui 
non prevedeva 
che 
la 
prescrizione 
del 
reato potesse 
essere 
rinunciata 
dal-
l’imputato. A 
tale 
conclusione 
questa 
Corte 
è 
pervenuta 
valorizzando il 
diritto di 
difesa 
del-
l’imputato, 
«inteso 
come 
diritto 
al 
giudizio 
e 
con 
esso 
a 
quello 
alla 
prova» 
(punto 
3 
del 
Considerato in diritto), sulla 
base 
in sostanza 
delle 
argomentazioni 
già 
svolte 
dalla 
sentenza 


n. 175 del 1971, con la quale si era affermata la rinunciabilità dell’amnistia. 
In quest’ultima 
sentenza 
si 
era 
in particolare 
sottolineato che 
«la 
rinunzia 
all’amnistia 
costituisce 
esplicazione 
del 
diritto 
di 
difesa, 
sembrando 
chiaro 
discendere 
da 
tale 
affermazione 
come 
in quest’ultimo sia 
da 
considerare 
inclusa 
non solo la 
pretesa 
al 
regolare 
svolgimento 
di 
un giudizio che 
consenta 
libertà 
di 
dedurre 
ogni 
prova 
a 
discolpa 
e 
garantisca 
piena 
esplicazione 
del 
contraddittorio, ma 
anche 
quella 
di 
ottenere 
il 
riconoscimento della 
completa 
innocenza, 
da 
considerare 
il 
bene 
della 
vita 
costituente 
l’ultimo 
e 
vero 
oggetto 
della 
difesa, 
rispetto 
al 
quale 
le 
altre 
pretese 
al 
giusto 
procedimento 
assumono 
funzione 
strumentale» 
(punto 8 del 
Considerato in diritto). 


Va 
peraltro sottolineato come 
tanto la 
sentenza 
n. 175 del 
1971 in materia 
di 
amnistia, 
quanto la 
sentenza 
n. 275 del 
1990 relativa 
alla 
prescrizione, siano state 
pronunciate 
in riferimento 
a 
processi 
penali 
già 
instaurati; 
e 
come 
la 
ratio 
decidendi 
di 
entrambe 
queste 
sentenze 
sia ritagliata proprio su questa ipotesi. 


Particolarmente 
eloquente, in proposito, la 
motivazione 
della 
sentenza 
n. 175 del 
1971, 
in 
cui 
si 
sottolinea 
che, 
con 
l’obbligo 
per 
il 
giudice 
di 
dichiarare 
l’estinzione 
del 
reato 
«in 
tutti 
i 
giudizi 
in corso al 
momento del 
sopravvenire 
di 
un procedimento di 
amnistia», viene 
«compromessa 
irreparabilmente 
la 
soddisfazione 
dell’interesse 
ad 
ottenere 
una 
sentenza 
di 
merito, vincolando invece 
l’imputato a 
soggiacere 
ad una 
pronuncia 
di 
proscioglimento, la 
quale, appunto perché 
non scende 
ad accertare 
e 
neppure 
solo a 
delibare 
la 
fondatezza 
del-
l’accusa 
[…] 
non 
conferisce 
alcuna 
certezza 
circa 
l’effettiva 
estraneità 
dell’imputato 
all’accusa 
contro 
di 
lui 
promossa, 
e 
quindi 
lascia 
senza 
protezione 
il 
diritto 
alla 
piena 
integrità 
dell’onore 
e 
della 
reputazione». E 
ancora, alla 
riga 
seguente, il 
riferimento è 
alla 
«rilevanza 
costituzionalmente 
protetta 
dell’interesse 
di 
chi 
sia 
perseguito penalmente 
ad ottenere 
non già 
solo una 
qualsiasi 
sentenza 
che 
lo sottragga 
alla 
irrogazione 
di 
una 
pena, ma 
precisamente 
quella 
sentenza 
che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza». 


«[G]iudizi 
in corso», «accusa 
contro di 
lui 
promossa», «perseguito penalmente»: 
tutte 
le 
espressioni 
utilizzate 
in 
questa 
densa 
motivazione 
richiamano 
la 
situazione 
di 
un 
«imputato» 
che 
sia 
già 
stato formalmente 
accusato di 
un reato in un giudizio. non già 
quella 
di 
chi 
sia 
meramente sottoposto a indagini in seguito a una 
notitia criminis 
che lo riguardi. 


La 
stessa 
sentenza 
n. 275 del 
1990, pur se 
motivata 
in termini 
assai 
più sintetici, allude 
chiaramente 
alla 
medesima 
situazione 
processuale, 
allorché 
afferma, 
nel 
capoverso 
conclusivo 
della 
motivazione, che 
«in presenza 
della 
rinuncia 
alla 
estinzione, il 
giudice 
non potrà 
dare 
ad essa 
immediata 
applicazione 
perché 
il 
reato non è 
estinto, e 
dovrà, perciò, dare 
ingresso 
alle 
prove 
richieste 
e 
pronunciarsi 
sulla 
imputazione». Il 
riferimento è, anche 
qui, ad un giudizio 
già 
incardinato: 
l’unico contesto, d’altronde, in cui 
un «giudice» sia 
tenuto a 
«dare 
ingresso 
alle prove richieste» dall’imputato a proprio discarico. 


3.3.– recependo il 
dispositivo della 
sentenza 
n. 275 del 
1990, il 
legislatore 
del 
2005, 
nel 
riscrivere 
l’art. 157 del 
codice 
penale, ha 
espressamente 
precisato al 
settimo comma 
che 
«[l]a prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato». 


Ancora 
una 
volta, il 
riferimento testuale 
è 
qui 
soltanto all’imputato, e 
dunque 
a 
colui 
nei 
cui 
confronti 
è 
stata 
esercitata 
l’azione 
penale 
ai 
sensi 
dell’art. 60, comma 
1, cod. proc. 
pen. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Ciò 
non 
escluderebbe, 
in 
verità, 
la 
possibilità 
di 
estendere 
in 
via 
ermeneutica 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
il 
diritto 
di 
rinunciare 
alla 
prescrizione. 
In 
effetti, 
l’art. 
61 
cod. 
proc. 
pen. 
dispone 
in 
via 
generale 
che 
«[i] 
diritti 
e 
le 
garanzie 
dell’imputato 
si 
estendono 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
preliminari» 
(comma 
1), 
e 
che 
«[a]lla 
stessa 
persona 
si 
estende 
ogni 
altra 
disposizione 
relativa 
all’imputato, 
salvo 
che 
sia 
diversamente 
stabilito» 
(comma 
2). 
Tuttavia, 
l’applicabilità 
di 
questa 
regola 
generale 
-dettata 
con 
riferimento 
allo 
specifico 
contesto 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
-non 
può 
essere 
considerata 
automaticamente 
e 
necessariamente 
trasferibile 
a 
una 
regola 
dettata 
dal 
codice 
penale 
con 
riferimento 
alla 
prescrizione: 
istituto 
di 
cui 
è 
pacifica, 
nella 
stessa 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, 
la 
natura 
sostanziale 
anziché 
processuale 
(ex 
multis, 
sentenze 
n. 
140 
del 
2021, 
punto 
12 
del 
Considerato 
in 
diritto; 
n. 
278 
del 
2020, 
punto 
9 
del 
Considerato 
in 
diritto; 
n. 
115 
del 
2018, 
punto 
10 
del 
Considerato 
in 
diritto). 


né 
può 
essere 
considerato 
decisivo, 
contrariamente 
a 
quanto 
sostenuto 
nelle 
proprie 
memorie 
e 
poi 
in udienza 
dalla 
difesa 
della 
parte, l’uso dell’avverbio «sempre» da 
parte 
dell’art. 
157, settimo comma, cod. pen. L’espressione 
è 
qui 
riferita 
a 
chi 
sia 
già 
«imputato» ai 
sensi 
dell’art. 
60 
cod. 
proc. 
pen.: 
il 
quale 
potrà 
pertanto 
-nell’intero 
arco 
di 
tempo 
che 
va 
dall’esercizio 
dell’azione 
penale 
sino al 
momento in cui 
il 
provvedimento che 
lo riguarda 
divenga 
irrevocabile 
-rinunciare 
alla 
prescrizione. 
Purché, 
però, 
abbia 
già 
assunto 
la 
qualifica 
di 
imputato. 


Il dato normativo non è, dunque, conclusivo in un senso o nell’altro. 


3.4.– Quanto alla 
giurisprudenza 
penale, il 
quadro è 
-se 
possibile 
-ancora 
più sfocato. 


una 
ormai 
remota 
sentenza, intervenuta 
all’indomani 
dell’entrata 
in vigore 
del 
vigente 
codice 
di 
procedura 
penale, ha 
negato che 
la 
persona 
sottoposta 
a 
indagini 
abbia 
il 
diritto di 
rinunciare 
all’amnistia 
(Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
quinta 
penale, 
sentenza 
12 
dicembre 
1991-4 febbraio 1992, n. 2314), in tal 
modo confinando il 
principio espresso dalla 
sentenza 


n. 175 del 1971 di questa Corte alla posizione del solo imputato. 
Sulla 
stessa 
scia 
si 
è 
mossa, in materia 
di 
rinuncia 
alla 
prescrizione, una 
pronuncia 
che 
ha 
giudicato non fondato un ricorso avverso un decreto di 
archiviazione 
per prescrizione, in 
cui 
l’interessato si 
doleva 
-esattamente 
come 
nel 
caso oggetto del 
giudizio a quo 
-di 
non essere 
stato posto in grado di 
rinunciarvi 
durante 
le 
indagini 
preliminari 
(Corte 
di 
cassazione, 
sezione sesta penale, ordinanza 26 ottobre 
-7 dicembre 2005, n. 45001). 


una 
più recente 
decisione 
ha 
invece 
ritenuto ammissibile 
e 
fondato un ricorso contro 
un decreto di 
archiviazione 
per prescrizione 
relativo a 
un imputato che 
vi 
aveva 
già 
espressamente 
rinunciato 
durante 
le 
indagini 
(Cass., 
n. 
26289 
del 
2018): 
il 
che 
logicamente 
presuppone 
l’implicito riconoscimento della 
possibilità, anche 
per la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, di 
rinunciarvi 
-nel 
caso allora 
in esame, allo scopo di 
conservare 
il 
diritto alla 
riparazione 
per 
ingiusta 
detenzione 
conseguente 
alla 
custodia 
cautelare 
subita. Diritto che 
una 
costante 
giurisprudenza 
nega 
in larga 
misura, in caso di 
estinzione 
del 
reato per prescrizione, a 
chi 
abbia 
subito un periodo di 
custodia 
(sul 
punto, Corte 
di 
cassazione, sezione 
terza 
penale, sentenza 
9 ottobre 
2014-20 gennaio 2015, n. 2451; 
sezione 
quarta 
penale, sentenza 
15 ottobre 
-4 novembre 
2013, n. 44492). 


una 
pronuncia 
di 
poco successiva, infine, ha 
negato che 
una 
persona 
già 
sottoposta 
a 
indagini 
avesse 
un «interesse 
concreto all’instaurazione 
del 
contraddittorio» relativamente 
a 
un decreto di 
archiviazione 
per prescrizione 
emesso de 
plano 
dal 
GIP, senza 
che 
la 
persona 
medesima 
-che 
peraltro in quel 
caso non aveva 
subito alcuna 
custodia 
cautelare, né 
aveva 
allegato 
alcun 
altro 
pregiudizio 
discendente 
dalle 
indagini 
-avesse 
avuto 
la 
possibilità 
di 
rinunciare 
alla 
prescrizione. 
Infatti, 
osserva 
la 
sentenza, 
il 
decreto 
di 
archiviazione 
è 
«atto 
concepito 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


dal 
legislatore 
come 
anteriore 
all’esercizio 
dell’azione 
penale, 
correlato 
alla 
insussistenza 
degli 
estremi 
per esercitarla, che 
in nessun modo può pregiudicare 
gli 
interessi 
della 
persona 
indicata 
come 
responsabile 
nella 
notizia 
di 
reato, o l’interesse 
della 
pubblica 
accusa 
a 
riaprire 
le 
indagini» 
(Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
sesta 
penale, 
sentenza 
23 
ottobre 
-15 
novembre 
2019, 
n. 
46491; 
in 
precedenza, 
nello 
stesso 
senso, 
sezione 
terza 
penale, 
sentenza 
17 
novembre 
2015-12 
gennaio 
2016, 
n. 
818, 
e 
sezione 
prima 
penale, 
sentenza 
23 
febbraio-18 
marzo 
1999, 
n. 1560). 


La 
giurisprudenza 
penale 
di 
legittimità 
non 
pare, 
dunque, 
avere 
ancora 
affrontato 
quanto 
meno 
ex 
professo 
-la 
questione, 
centrale 
ai 
fini 
dell’odierno 
giudizio 
di 
legittimità 
costituzionale, 
se 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
debba 
essere 
riconosciuto in via 
generale 
-e 
dunque, 
a 
prescindere 
dal 
caso 
specifico 
in 
cui 
sia 
stata 
destinataria 
di 
una 
misura 
cautelare 


-quel 
medesimo diritto di 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
che 
è 
pacificamente 
riconosciuto all’imputato, 
a valle dell’esercizio dell’azione penale. 
3.5.– Questa 
Corte 
è 
pertanto chiamata, per la 
prima 
volta, a 
valutare 
se 
i 
parametri 
costituzionali 
evocati 
dal 
rimettente 
-e 
cioè 
il 
diritto alla 
difesa 
in giudizio e 
al 
contraddittorio, 
oltre 
che 
l’eguaglianza 
di 
trattamento 
tra 
imputato 
e 
indagato 
-impongano 
di 
estendere 
anche 
a quest’ultimo il diritto già riconosciuto all’imputato dalla sentenza n. 275 del 1990. 


3.6.– 
In 
proposito, 
va 
anzitutto 
ribadito 
come 
la 
ratio 
essenziale 
delle 
pronunce 
di 
questa 
Corte con le quali si è riconosciuto all’imputato il diritto costituzionale di rinunciare all’amnistia 
e 
alla 
prescrizione 
riposi 
sulla 
necessità 
di 
consentire 
all’imputato 
medesimo 
di 
tutelare 
il 
proprio onore 
e 
la 
propria 
reputazione 
contro il 
pregiudizio rappresentato da 
un’accusa 
formalizzata 
nei 
suoi 
confronti. L’imputato deve, in tal 
caso, essere 
posto in condizione 
di 
difendersi 
in 
giudizio 
contro 
l’accusa, 
e 
in 
particolare 
di 
esercitare 
il 
proprio 
diritto 
di 
«difendersi 
provando» (sentenza 
n. 318 del 
1992, punto 5 del 
Considerato in diritto, nonché, ex 
multis, 
sentenza 
n. 
260 
del 
2020, 
punto 
7.6. 
del 
Considerato 
in 
diritto), 
ossia 
di 
addurre 
prove 
in 
giudizio 
a proprio discarico, oltre che di contestare le prove poste a fondamento dell’accusa. 


non pare, tuttavia, a 
questa 
Corte 
che 
tale 
diritto debba 
in ogni 
caso estendersi 
anche 
alla fase precedente all’esercizio dell’azione penale. 


3.7.– In effetti, la 
mera 
iscrizione 
nel 
registro delle 
notizie 
di 
reato che 
consegue 
all’acquisizione 
di 
una 
notitia 
criminis 
non 
implica 
ancora 
che 
il 
pubblico 
ministero 
abbia 
effettuato 
alcun vaglio, per quanto provvisorio, sulla 
sua 
fondatezza: 
tant’è 
vero che 
l’art. 335-bis 
cod. 
proc. pen. esclude 
oggi 
espressamente 
qualsiasi 
effetto pregiudizievole 
di 
natura 
civile 
o amministrativa 
per l’interessato in ragione 
di 
tale 
iscrizione, la 
quale 
è 
un atto dovuto una 
volta 
che 
il 
pubblico 
ministero 
abbia 
ricevuto 
una 
notizia 
di 
reato 
attribuita 
a 
una 
persona 
specifica. 
Più 
in 
generale, 
l’iscrizione 
nel 
registro 
è 
-e 
deve 
essere 
considerata 
-atto 
“neutro”, 
dal 
quale 
sarebbe 
affatto indebito far discendere 
effetti 
lesivi 
della 
reputazione 
dell’interessato, e 
che 
comunque non può in alcun modo essere equiparato ad una “accusa” nei suoi confronti. 


Parallelamente, il 
provvedimento di 
archiviazione, con cui 
il 
GIP 
si 
limita 
a 
disporre 
la 
chiusura 
delle 
indagini 
preliminari 
conformemente 
alla 
richiesta 
del 
pubblico ministero, costituisce 
nella 
sostanza 
null’altro che 
un contrarius 
actus 
rispetto a 
quello -l’iscrizione 
nel 
registro 
delle 
notizie 
di 
reato 
-che 
determina 
l’apertura 
delle 
indagini 
preliminari. 
Se 
“neutro” 
è 
il 
provvedimento iniziale, altrettanto “neutro” 
non può che 
essere 
il 
provvedimento conclusivo. 
Ad ogni effetto giuridico. 


3.8.– naturalmente, questa 
Corte 
è 
ben conscia 
della 
gravità 
dei 
danni 
che 
possono essere 
provocati 
alla 
reputazione 
delle 
persone 
-e, a 
cascata, alla 
loro vita 
familiare, sociale, 
professionale 
-a 
seguito 
della 
indebita 
propalazione, 
in 
particolare 
tramite 
la 
stampa, 
internet 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


ei 
social 
media, della 
mera 
notizia 
dell’apertura 
di 
procedimenti 
penali 
nei 
loro confronti, 
così 
come 
di 
eventuali 
provvedimenti 
di 
archiviazione 
che 
diano comunque 
conto degli 
elementi 
a 
carico raccolti 
durante 
le 
indagini, pur concludendo poi 
nel 
senso della 
impossibilità 
di 
esercitare 
l’azione 
penale, 
per 
intervenuta 
prescrizione 
o 
per 
altra 
delle 
ragioni 
indicate 
dagli artt. 408 e 411 cod. proc. pen. 


Tuttavia, fermo restando quanto si 
dirà 
in ordine 
al 
carattere 
del 
tutto indebito dei 
provvedimenti 
di 
archiviazione 
per 
prescrizione 
che 
esprimano 
valutazioni 
sulla 
colpevolezza 
della 
persona 
già 
sottoposta 
alle 
indagini 
(infra, punto 4.1.), il 
tema 
qui 
in discussione 
è 
se 
i 
rimedi 
per 
la 
tutela 
della 
reputazione 
dell’interessato 
debbano, 
per 
necessità 
costituzionale, 
comprendere 
anche 
la 
rinuncia 
alla 
prescrizione, allo scopo di 
ottenere 
una 
pronuncia 
liberatoria 
sul 
merito della 
notitia criminis. 


Al 
riguardo, va 
sottolineato come 
l’interessato disponga 
anzitutto dei 
mezzi 
ordinari 
a 
difesa 
della 
propria 
reputazione 
-a 
cominciare 
dalla 
denuncia 
e/o querela 
per calunnia 
e 
diffamazione 
aggravata, sino all’azione 
aquiliana 
-contro qualsiasi 
privato che 
lo abbia 
ingiustamente 
accusato di 
avere 
commesso un reato, nonché 
contro ogni 
indebita 
utilizzazione, da 
parte 
dei 
media, 
degli 
elementi 
di 
indagine 
e 
dello 
stesso 
provvedimento 
di 
archiviazione, 
così da presentare di fatto la persona come colpevole. 


Inoltre, 
un 
elementare 
principio 
di 
civiltà 
giuridica 
impone 
che 
tutti 
gli 
elementi 
raccolti 
dal 
pubblico 
ministero 
in 
un’indagine 
sfociata 
in 
un 
provvedimento 
di 
archiviazione 
debbano 
sempre 
essere 
oggetto di 
attenta 
rivalutazione 
nell’ambito di 
eventuali 
diversi 
procedimenti 
(civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere 
in 
seguito 
utilizzati, 
dovendosi 
in 
particolare 
assicurare 
all’interessato 
le 
più 
ampie 
possibilità 
di 
contraddittorio, secondo le 
regole 
procedimentali 
o processuali 
vigenti 
nel 
settore 
ordina-
mentale 
coinvolto. E 
ciò tenendo sempre 
conto che 
durante 
le 
indagini 
preliminari 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
ha 
possibilità 
assai 
limitate 
per esercitare 
un reale 
contraddittorio rispetto 
all’attività 
di 
ricerca 
della 
prova 
del 
pubblico ministero e 
ai 
suoi 
risultati 
(riassunti 
o 
meno 
che 
siano 
in 
un 
provvedimento 
di 
archiviazione), 
i 
quali 
dunque 
non 
potranno 
sic 
et 
simpliciter 
essere 
utilizzati 
in 
diversi 
procedimenti 
senza 
che 
l’interessato 
possa 
efficacemente 
contestarli, anche mediante la presentazione di prove contrarie. 


3.9.– Tutto ciò posto, questa 
Corte 
non ritiene 
debba 
riconoscersi 
in via 
generale 
alla 
persona 
sottoposta 
a 
indagini 
la 
titolarità 
di 
un diritto costituzionale 
ad un accertamento negativo 
su qualsiasi 
notitia criminis 
che 
la 
riguardi, da 
realizzare 
già 
nello specifico contesto 
del 
giudizio penale. un diritto, insomma, che 
implichi 
la 
possibilità 
di 
“difendersi 
provando” 
contro accuse mai formalizzate dal pubblico ministero. 


Ove 
si 
intendesse 
ravvisare 
un 
tale 
diritto, 
occorrerebbe 
infatti 
chiarire 
in 
quale 
sede 
processuale, 
e 
innanzi 
a 
quale 
autorità 
giudiziaria, 
esso 
sarebbe 
destinato 
ad 
essere 
esercitato. 


Le 
indagini 
preliminari, 
all’evidenza, 
non 
sono 
strutturate 
dal 
legislatore 
come 
luogo 
idoneo per esercitare 
un tale 
diritto alla 
prova. La 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
può, certo, 
compiere 
indagini 
difensive 
attraverso il 
proprio avvocato; 
ma 
non ha 
alcun mezzo per obbligare 
il pubblico ministero ad assumere prove a proprio discarico. 


Il 
diritto alla 
prova 
può, invece, fisiologicamente 
esercitarsi 
nell’ambito del 
processo, 
in cui 
si 
dispiegano tutti 
i 
diritti 
e 
le 
garanzie 
difensive 
riconosciute 
all’imputato dal 
codice 
di 
procedura 
penale, e 
prima 
ancora 
dalla 
Costituzione. Ma 
l’imputato, ancora 
una 
volta, non 
ha 
alcun mezzo per obbligare 
il 
pubblico ministero, e 
poi 
lo stesso GIP, a 
provocare 
l’instaurazione 
di un processo, al solo fine di poter dimostrare l’infondatezza della 
notitia criminis. 


Ed invero -pur nell’ambito di 
un sistema 
processuale 
in cui, per vincolo costituzionale, 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


il 
pubblico 
ministero 
ha 
l’obbligo 
di 
esercitare 
l’azione 
penale 
-la 
sussistenza 
dei 
presupposti 
di 
legge 
per il 
suo esercizio, nel 
singolo caso concreto, resta 
affidata 
dalla 
legge 
vigente 
alla 
prudente 
valutazione 
dello stesso pubblico ministero, sotto il 
controllo del 
GIP, ed eventualmente 
del 
giudice 
dell’udienza 
preliminare. 
In 
particolare, 
l’art. 
408, 
comma 
1, 
cod. 
proc. 
pen., 
impone 
al 
pubblico 
ministero 
di 
valutare 
se 
gli 
elementi 
acquisiti 
nel 
corso 
delle 
indagini 
preliminari 
consentano di 
«formulare 
una 
ragionevole 
previsione 
di 
condanna 
o di 
applicazione 
di 
una 
misura 
di 
sicurezza 
diversa 
dalla 
confisca»; 
e 
di 
richiedere 
al 
GIP 
l’archiviazione 
del procedimento nell’ipotesi in cui egli ritenga di escludere tale ragionevole previsione. 


La 
ratio 
della 
disposizione 
-che 
enuncia 
oggi 
uno 
standard 
più 
selettivo 
rispetto 
a 
quello, 
in vigore 
sino al 
2022, imperniato sulla 
mera 
sussistenza 
di 
«elementi 
idonei 
a 
sostenere 
l’accusa 
in giudizio» -sottende 
la 
consapevolezza, da 
parte 
del 
legislatore, che 
il 
processo penale 
è 
una 
risorsa 
scarsa, che 
implica 
costi 
ingenti 
a 
carico di 
tutte 
le 
persone 
coinvolte, in termini 
materiali 
ed “esistenziali” 
(sentenza 
n. 149 del 
2022, punto 5.1.1. del 
Considerato in diritto), 
oltre 
che 
oneri 
economici 
importanti 
per 
l’intera 
collettività. 
una 
risorsa, 
dunque, 
da 
utilizzare 
con parsimonia, e 
che 
il 
legislatore 
ha 
inteso, non certo irragionevolmente, sottrarre 
alla 
disponibilità 
tanto della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, quanto della 
stessa 
persona 
offesa 
-la 
quale 
può 
soltanto 
opporsi 
innanzi 
al 
GIP 
alla 
richiesta 
di 
archiviazione 
del 
pubblico 
ministero 
(art. 410 cod. proc. pen.), ma non determinare essa stessa l’esercizio dell’azione penale. 


3.10.– Le 
considerazioni 
che 
precedono conducono a 
escludere 
che 
dai 
parametri 
costituzionali 
evocati 
dal 
giudice 
rimettente 
discenda, in via 
generale, il 
diritto della 
persona 
sottoposta 
alle indagini a rinunciare alla prescrizione. 


Se, infatti, il 
diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
deriva 
dal 
diritto di 
“difendersi 
provando”, 
secondo quanto affermato in sostanza 
dalla 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
poc’anzi 
richiamata, 
il 
suo 
riconoscimento 
già 
durante 
le 
indagini 
preliminari 
dovrebbe 
idealmente 
accompagnarsi 
al 
riconoscimento di 
un potere 
dispositivo della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
di 
provocare 
l’instaurazione 
di 
un 
processo, 
in 
cui 
quel 
diritto 
possa 
essere 
utilmente 
esercitato. 
Potere 
-però -che 
il 
sistema 
processuale 
vigente 
non le 
riconosce, e 
che 
non le 
sarebbe 
riconosciuto 
nemmeno laddove 
le 
odierne 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
fossero accolte, 
posto 
che 
al 
pubblico 
ministero 
e 
poi 
al 
GIP 
residuerebbe 
sempre 
la 
possibilità, 
rispettivamente, 
di 
chiedere 
l’archiviazione 
e 
di 
archiviare 
il 
procedimento, ritenendo non ragionevolmente 
prevedibile 
una 
sentenza 
di 
condanna 
sulla 
base 
degli 
elementi 
acquisiti 
nel 
corso 
delle 
indagini. 


né 
può ritenersi 
sussistente 
alcun vulnus 
all’art. 3 Cost. in conseguenza 
del 
differente 
trattamento della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
rispetto all’imputato, quanto al 
diritto di 
rinunciare 
alla 
prescrizione. La 
differenza 
di 
trattamento si 
giustifica 
proprio considerando la 
loro 
differente 
situazione: 
la 
prima 
attinta 
da 
una 
mera 
notitia 
criminis, 
atto 
“neutro” 
dal 
quale 
non 
deve 
-per 
esplicita 
indicazione 
normativa 
-derivare 
alcuna 
conseguenza 
pregiudizievole; 
il 
secondo accusato invece 
formalmente 
della 
commissione 
di 
un reato da 
parte 
del 
pubblico 
ministero, 
attraverso 
un 
atto 
di 
esercizio 
dell’azione 
penale 
che 
è 
funzionale 
all’instaurazione 
di 
un giudizio, nel 
quale 
i 
suoi 
diritti 
difensivi 
garantiti 
dalla 
Costituzione 
e 
dal 
codice 
di 
rito 
potranno pienamente dispiegarsi. 


né, infine, sussiste 
una 
irragionevole 
disparità 
di 
trattamento tra 
l’ipotesi 
in cui 
l’archiviazione 
è 
richiesta 
per prescrizione 
ovvero per particolare 
tenuità 
del 
fatto. In quest’ultimo 
caso, infatti, l’interessato potrebbe 
essere 
soggetto a 
un provvedimento di 
archiviazione 
a 
valenza 
«soltanto 
parzialmente 
liberatoria, 
con 
la 
quale 
si 
dà 
pur 
sempre 
atto 
dell’avvenuta 
commissione 
di 
un fatto di 
reato, ancorché 
in concreto non punibile 
per la 
particolare 
esiguità 
del 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


danno 
o 
del 
pericolo 
cagionato» 
(sentenza 
n. 
116 
del 
2023); 
provvedimento 
che, 
peraltro, 
sarà 
iscrivibile 
nel 
casellario giudiziale. E 
ciò a 
differenza 
di 
quanto accade 
nel 
caso di 
archiviazione 
per 
prescrizione: 
provvedimento 
“neutro”, 
che 
-come 
meglio 
si 
dirà 
(infra, 
punto 
4.1.). 


-deve 
limitarsi 
a 
dare 
atto dell’avvenuto decorso del 
tempo necessario a 
prescrivere, senza 
esprimere alcuna valutazione sulla effettiva commissione del fatto di reato. 
3.11.– In definitiva, il 
diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione, che 
questa 
Corte 
ha 
riconosciuto 
nella 
sentenza 
n. 275 del 
1990, deve 
essere 
rettamente 
inteso come 
diritto a 
difendersi 
“nel 
giudizio” 
contro un’accusa 
già 
formulata 
dal 
pubblico ministero, al 
fine 
di 
vedere 
riconosciuta 
nel 
merito l’infondatezza 
di 
tale 
accusa; 
ma 
non implica 
anche 
che 
si 
debba 
derivare 
dai 
principi 
costituzionali 
un 
generale 
diritto 
“al 
giudizio”, 
ossia 
un 
diritto 
a 
che 
sia 
instaurato 
un 
processo 
nel 
quale 
l’interessato 
sia 
posto 
in 
condizioni 
di 
dimostrare 
l’infondatezza 
di 
qualsiasi 
notitia criminis 
che lo riguarda. 


Da 
ciò 
deriva, 
altresì, 
l’insussistenza 
di 
un 
vincolo 
costituzionale, 
al 
cui 
riconoscimento 
mirano le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
ora 
all’esame, nel 
senso della 
necessaria 
previsione 
di 
un obbligo, a 
carico del 
pubblico ministero, di 
avvisare 
la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
della 
richiesta 
di 
archiviazione 
per 
prescrizione 
formulata 
nei 
suoi 
confronti: 
obbligo 
che 
il 
rimettente 
fa 
discendere, per l’appunto, dall’assunto di 
un diritto dell’indagato a 
rinunciare 
alla prescrizione medesima. 


3.12.– La 
conclusione 
ora 
raggiunta 
appare 
in linea 
con la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, che 
-in particolare 
-ha 
in un’occasione 
negato che 
fosse 
stato 
violato il 
diritto di 
accesso a 
un tribunale 
stabilito dall’art. 6, paragrafo 1, CEDu 
in conseguenza 
dell’impossibilità, per un deputato turco, di 
rinunciare 
all’immunità 
di 
cui 
godeva 
in 
quanto parlamentare 
e 
di 
ottenere 
un giudizio sul 
merito delle 
accuse 
formulate 
nei 
suoi 
confronti 
(Corte 
EDu, 
grande 
camera, 
sentenza 
3 
dicembre 
2009, 
Kart 
contro 
Turchia); 
e 
in 
un’altra 
occasione 
ha 
escluso, 
richiamando 
quel 
precedente, 
la 
violazione 
del 
diritto 
alla 
presunzione 
di 
innocenza 
di 
cui 
all’art. 6, paragrafo 2, CEDu, in un caso in cui 
il 
ricorrente, 
tra 
l’altro, si 
doleva 
dell’impossibilità 
di 
ottenere 
un giudizio sul 
merito della 
propria 
responsabilità 
penale, 
a 
fronte 
di 
un 
provvedimento 
di 
archiviazione 
delle 
indagini 
per 
amnistia 
(Corte EDu, sentenza 17 gennaio 2017, Béres e altri contro ungheria). 


In entrambe 
le 
occasioni, la 
Corte 
ha 
sottolineato che 
«il 
diritto di 
ottenere 
un giudizio 
in merito a 
un’accusa 
penale 
non è 
assoluto, in particolare 
quando non si 
è 
verificato alcun 
effetto 
dannoso 
fondamentale 
e 
irreversibile 
in 
capo 
alle 
parti» 
(Kart 
contro 
Turchia, 
paragrafo 
113; Béres e altri contro ungheria, paragrafo 33). 


3.13.– L’inesistenza 
di 
un generale 
diritto costituzionale 
dell’interessato a 
un accertamento 
negativo sulla 
(mera) notitia criminis 
non esclude, infine, che 
un diritto a 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
possa 
invece 
essere 
riconosciuto a 
chi 
sia 
stato in concreto attinto, durante 
le 
indagini 
preliminari, 
da 
misure 
limitative 
dei 
propri 
diritti 
fondamentali, 
subendo 
così 
con 
le 
parole 
della 
Corte 
EDu 
-un 
pregiudizio 
rilevante 
per 
effetto 
dell’uso 
di 
poteri 
coercitivi 
da 
parte 
dell’autorità 
giudiziaria; 
e 
ciò sulla 
base 
di 
una 
(pur provvisoria) valutazione 
di 
fondatezza 
della 
notitia criminis 
medesima, da 
parte 
del 
pubblico ministero e 
dello stesso GIP, 
secondo 
i 
diversi 
standard 
richiesti 
per 
l’adozione 
di 
tali 
misure. 
In 
effetti, 
come 
poc’anzi 
rammentato (supra, 3.4.), la 
giurisprudenza 
penale 
ha 
riconosciuto tale 
diritto a 
chi 
abbia 
subito 
un periodo di 
custodia 
cautelare, e 
abbia 
pertanto un concreto interesse 
a 
rinunciare 
alla 
prescrizione. 


Anche 
rispetto alle 
specifiche 
ipotesi 
in parola, peraltro, l’introduzione 
di 
un obbligo di 
avviso 
relativo 
alle 
richieste 
di 
archiviazione 
per 
prescrizione 
formulate 
dal 
pubblico 
ministero 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


non 
risulterebbe 
indispensabile 
rispetto 
alla 
finalità 
di 
permettere 
all’interessato 
di 
rinunciarvi, 
avendo 
egli 
necessariamente 
avuto 
conoscenza 
delle 
indagini 
nel 
momento 
stesso 
in 
cui 
è 
stato attinto dalla misura coercitiva. 


4.– 
La 
sostenibilità 
costituzionale 
della 
conclusione 
che 
nega, 
in 
linea 
di 
principio, 
l’esistenza 
di 
un 
diritto 
costituzionale 
a 
rinunciare 
alla 
prescrizione 
in 
capo 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
riposa 
sull’assunto 
secondo 
cui 
né 
dalla 
mera 
iscrizione 
nel 
registro 
delle 
notizie 
di 
reato, né 
dal 
provvedimento di 
archiviazione, debba 
essere 
fatta 
discendere 
alcuna 
conseguenza 
giuridica pregiudizievole per l’interessato (supra, punto 3.7.). 


Il 
caso concreto oggetto del 
giudizio a quo 
è, però, emblematico di 
una 
specifica 
patologia, 
rappresentata 
da 
una 
richiesta 
di 
archiviazione 
per prescrizione, le 
cui 
argomentazioni 
sono integralmente 
fatte 
proprie 
dal 
GIP, nella 
quale 
si 
indugia 
-prima 
della 
constatazione 
del 
decorso del 
termine 
prescrizionale 
dal 
momento di 
commissione 
del 
fatto descritto dalla 
notitia criminis 
- in apprezzamenti sulla fondatezza della 
notitia criminis 
stessa. 


Simili 
provvedimenti 
sono gravemente 
lesivi 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
interessata; 
e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali. 


4.1.– richieste 
o decreti 
di 
archiviazione 
che, anziché 
limitarsi 
a 
ricostruire 
il 
fatto nei 
termini 
strettamente 
necessari 
a 
verificare 
l’avvenuto 
decorso 
del 
termine 
di 
prescrizione, 
esprimano giudizi 
sulla 
colpevolezza 
dell’interessato, violano in maniera 
eclatante 
-oltre 
che 
la 
presunzione 
di 
non colpevolezza 
di 
cui 
all’art. 27, secondo comma, Cost. -il 
suo diritto di 
difesa, inteso anche 
quale 
diritto di 
“difendersi 
provando”: 
diritto che 
è 
in radice 
negato dal-
l’affermazione, da 
parte 
del 
pubblico ministero o del 
GIP, del 
carattere 
veritiero, o comunque 
affidabile, degli 
elementi 
acquisiti 
nel 
corso di 
un’indagine, senza 
che 
sia 
assicurata 
all’indagato 
-che 
potrebbe 
anzi 
essere 
rimasto del 
tutto ignaro dell’indagine 
-alcuna 
effettiva 
possibilità 
di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario. 


Provvedimenti 
siffatti 
risultano, 
d’altra 
parte, 
indebiti 
anche 
a 
fronte 
della 
considerazione 
che, una 
volta 
riscontrato l’avvenuto decorso del 
termine 
di 
prescrizione, gli 
stessi 
poteri 
di 
indagine 
e 
di 
valutazione 
del 
pubblico 
ministero 
sui 
fatti 
oggetto 
della 
notitia 
criminis 
vengono 
meno, non operando nella 
fase 
delle 
indagini 
preliminari 
né 
per il 
pubblico ministero, né 
per 
il 
GIP, l’obbligo di 
apprezzare 
-con priorità 
logica 
rispetto alla 
verifica 
delle 
cause 
estintive 
del 
reato -l’evidenza 
dell’innocenza 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, come 
accade 
invece 
nell’ambito del 
giudizio, ai 
sensi 
dell’art. 129, comma 
2, cod. proc. pen. (Corte 
di 
cassazione, 
ordinanza 
n. 
45001 
del 
2005; 
sezione 
sesta 
penale, 
sentenza 
19 
ottobre-16 
novembre 
1990, n. 2702). 


Infine, 
richieste 
o 
decreti 
di 
archiviazione 
così 
motivati 
perdono, 
per 
ciò 
solo, 
il 
carattere 
di 
“neutralità” 
che 
li 
dovrebbe 
caratterizzare, e 
sono in concreto suscettibili 
di 
produrre 
-ove 
per qualsiasi 
ragione 
arrivino a 
conoscenza 
dei 
terzi, come 
spesso accade 
-gravi 
pregiudizi 
alla 
reputazione, nonché 
alla 
vita 
privata, familiare, sociale 
e 
professionale, delle 
persone 
interessate. 
Ciò che, in ipotesi, potrebbe 
dare 
altresì 
luogo a 
responsabilità 
civile 
e 
disciplinare 
dello stesso magistrato, laddove 
ricorrano i 
presupposti 
rispettivamente 
previsti 
dalla 
legge 
13 aprile 
1988, n. 117 (risarcimento dei 
danni 
cagionati 
nell’esercizio delle 
funzioni 
giudiziarie 
e 
responsabilità 
civile 
dei 
magistrati) e 
dal 
decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 
(Disciplina 
degli 
illeciti 
disciplinari 
dei 
magistrati, delle 
relative 
sanzioni 
e 
della 
procedura 
per 
la 
loro 
applicabilità, 
nonché 
modifica 
della 
disciplina 
in 
tema 
di 
incompatibilità, 
dispensa 
dal 
servizio 
e 
trasferimento 
di 
ufficio 
dei 
magistrati, 
a 
norma 
dell’articolo 
1, 
comma 
1, 
lettera 
f), della legge 25 luglio 2005, n. 150). 


4.2.– Del 
possibile 
rimedio contro simili 
provvedimenti 
si 
è 
ampiamente 
discusso tra 
le 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


parti 
in sede 
di 
udienza, anche 
sulla 
scorta 
dei 
quesiti 
loro preventivamente 
posti 
ai 
sensi 
del-
l’art. 10, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. 


Al 
riguardo, 
occorre 
anzitutto 
sottolineare 
il 
rilievo 
oggi 
assunto 
sul 
tema 
dalla 
direttiva 
(uE) 2016/343 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
9 marzo 2016, sul 
rafforzamento 
di 
alcuni 
aspetti 
della 
presunzione 
di 
innocenza 
e 
del 
diritto 
di 
presenziare 
al 
processo 
nei 
procedimenti 
penali. 
L’art. 
4, 
paragrafo 
1, 
di 
tale 
direttiva 
prevede 
che 
«[g]li 
Stati 
membri 
adottano le 
misure 
necessarie 
per garantire 
che, fino a 
quando la 
colpevolezza 
di 
un indagato 


o 
imputato 
non 
sia 
stata 
legalmente 
provata, 
[…] 
le 
decisioni 
giudiziarie 
diverse 
da 
quelle 
sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». 
Al 
paragrafo 
2 
dello 
stesso 
art. 
4, 
la 
direttiva 
dispone 
inoltre 
che 
«[g]li 
Stati 
membri 
provvedono 
affinché 
siano 
predisposte 
le 
misure 
appropriate 
in 
caso 
di 
violazione 
dell’obbligo 
stabilito al 
paragrafo 1 del 
presente 
articolo di 
non presentare 
gli 
indagati 
o imputati 
come 
colpevoli, 
in 
conformità 
con 
la 
presente 
direttiva, 
in 
particolare 
con 
l’articolo 
10». 
Tale 
ultima 
disposizione 
prevede, a 
sua 
volta, il 
dovere 
a 
carico degli 
Stati 
membri 
di 
assicurare 
che 
«gli 
indagati 
e 
imputati 
dispongano di 
un ricorso effettivo in caso di 
violazione 
dei 
diritti 
conferiti 
dalla presente direttiva». 


nel 
trasporre 
la 
direttiva 
nell’ordinamento 
italiano, 
il 
decreto 
legislativo 
8 
novembre 
2021, n. 188, recante 
«Disposizioni 
per il 
compiuto adeguamento della 
normativa 
nazionale 
alle 
disposizioni 
della 
direttiva 
(uE) 2016/343 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
9 
marzo 2016, sul 
rafforzamento di 
alcuni 
aspetti 
della 
presunzione 
di 
innocenza 
e 
del 
diritto 
di 
presenziare 
al 
processo nei 
procedimenti 
penali», ha 
introdotto nel 
codice 
di 
procedura 
penale 
un nuovo art. 115-bis. Tale 
disposizione 
prevede 
un rimedio ad hoc 
per il 
caso in cui 
la 
persona 
sottoposta 
a 
indagini 
o l’imputato sia 
indicata 
quale 
colpevole 
in «provvedimenti 
diversi 
da 
quelli 
volti 
alla 
decisione 
in merito alla 
responsabilità 
penale 
dell’imputato», come, 
per l’appunto, la 
richiesta 
o il 
decreto di 
archiviazione 
per prescrizione, in cui 
l’autorità 
giudiziaria 
(salve 
talune 
specialissime 
ipotesi 
in cui 
debba 
contestualmente 
applicare 
un provvedimento 
di 
confisca 
obbligatoria: 
sul 
punto, 
sentenza 
n. 
172 
del 
2023) 
è 
semplicemente 
tenuta 
a 
prendere 
atto 
dell’avvenuto 
decorso 
del 
tempo 
e 
disporre, 
conseguentemente, 
l’archiviazione 
del procedimento penale. 


4.3.– 
Peraltro, 
anche 
prima 
dell’introduzione 
di 
tale 
rimedio 
-verosimilmente 
inapplicabile, 
ratione 
temporis, 
nel 
giudizio 
a 
quo 
-il 
combinato 
disposto 
degli 
artt. 
4 
e 
10 
della 
direttiva 
2016/343/uE, 
il 
cui 
termine 
di 
recepimento 
era 
fissato 
al 
1° 
aprile 
2018, 
già 
conferiva 
alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
un 
diritto, 
immediatamente 
azionabile, 
a 
un 
rimedio 
effettivo. 


una 
risalente 
sentenza 
di 
legittimità 
aveva, del 
resto, già 
ritenuto affetto da 
abnormità 
un 
decreto 
di 
prescrizione 
per 
amnistia 
in 
cui 
il 
GIP 
si 
era 
diffuso 
sulla 
qualificazione 
giuridica 
del 
fatto 
e 
sulla 
sussistenza 
del 
delitto 
oggetto 
della 
notitia 
criminis 
(Cass., 
n. 
1560 
del 
1999). 


Tale 
qualificazione 
potrebbe 
in 
ipotesi 
attagliarsi 
anche 
al 
caso, 
strutturalmente 
identico, 
in cui 
un decreto di 
archiviazione 
per prescrizione 
contenga 
nella 
sostanza 
una 
valutazione 
di 
colpevolezza 
della 
persona 
sottoposta 
a 
indagini, 
che 
il 
vigente 
sistema 
processuale 
considera 
invece come contenuto tipico di una sentenza di condanna. 


Provvedimenti 
siffatti 
evidenziano, a 
ben guardare, una 
vera 
e 
propria 
deviazione 
del 
provvedimento 
rispetto 
allo 
scopo 
tipico 
dell’atto, 
nel 
senso 
-più 
in 
particolare 
-di 
«esercizio 
di 
un 
potere 
previsto 
dall’ordinamento, 
ma 
in 
una 
situazione 
processuale 
radicalmente 
diversa 
da 
quella 
configurata 
dalla 
legge», e 
perciò di 
«carenza 
di 
potere 
in concreto» (Corte 
di 
cassazione, 
sezioni 
unite 
penali, sentenza 
26 marzo-22 giugno 2009, n. 25957, nonché, più di 
recente, 
ex 
multis, 
sezione 
terza 
penale, 
sentenza 
23 
novembre 
2020-8 
gennaio 
2021, 
n. 
418), 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


con un effetto di 
grave 
vulnus 
ai 
diritti 
costituzionali 
dell’interessato (per recenti 
ipotesi 
in 
cui 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
ritenuto 
affetto 
da 
abnormità 
il 
decreto 
di 
archiviazione, 
anche 
in ragione 
della 
lesione 
del 
diritto di 
difesa 
dell’interessato, si 
vedano Corte 
di 
cassazione, 
sezione 
quinta 
penale, sentenza 
28 settembre 
-3 dicembre 
2021, n. 44926; 
sezione 
seconda 
penale, sentenza 
20 aprile-3 maggio 2021, n. 16779; 
sezioni 
unite 
penali, sentenze 
22 
marzo-24 settembre 2018, n. 40984 e 28 novembre 2013-30 gennaio 2014, n. 4319). 


4.4.– Se, comunque, l’individuazione 
del 
rimedio appropriato in queste 
ipotesi 
resta 
riservata 
alla 
valutazione 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità, questa 
Corte 
non può non sottolineare 
che 
un 
adeguato 
soddisfacimento 
delle 
esigenze 
costituzionali 
di 
tutela 
del 
diritto 
di 
difesa 
e 
del 
diritto 
al 
contraddittorio 
relativamente 
a 
decreti 
di 
archiviazione 
per 
prescrizione, 
i 
quali 
indebitamente 
abbiano 
espresso 
valutazioni 
sulla 
colpevolezza 
della 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, è 
componente 
essenziale 
della 
sostenibilità 
costituzionale 
del 
delicato bilanciamento 
tra opposti interessi cristallizzato nel vigente ordinamento processuale. 


In altre 
parole, il 
mancato riconoscimento alla 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
di 
un diritto 
a 
provocare 
un accertamento negativo della 
notitia criminis 
nell’ambito di 
un giudizio 
penale 
non è 
costituzionalmente 
illegittimo soltanto in quanto l’ordinamento sia 
in grado per 
altra 
via 
-di 
assicurare 
un 
rimedio 
effettivo 
contro 
ogni 
eventuale 
violazione, 
da 
parte 
dall’autorità 
giudiziaria, del 
diritto fondamentale 
della 
persona 
medesima 
a 
non essere 
presentata 
come colpevole senza avere potuto difendersi e presentare prove a proprio discarico. 


E 
tale 
rimedio 
non 
potrebbe 
comunque 
essere 
subordinato 
alla 
rinuncia 
alla 
prescrizione 
da 
parte 
dell’interessato, nei 
limiti 
in cui 
tale 
diritto sia 
in concreto esercitabile. In effetti, la 
persona 
sottoposta 
alle 
indagini, se 
non ha 
in via 
generale 
il 
diritto di 
rinunciarvi, ha 
invece 
il 
pieno diritto di 
avvalersi 
della 
prescrizione, che 
è 
posta 
a 
tutela 
anche 
del 
suo soggettivo 
interesse 
a 
essere 
lasciata 
in 
pace 
dalla 
pretesa 
punitiva 
statale, 
rimasta 
inattiva 
per 
un 
rilevante 
lasso di 
tempo dalla 
commissione 
del 
fatto a 
lei 
attribuito, senza 
che 
tale 
legittima 
scelta 
di 
avvalersi 
della 
prescrizione 
comporti, 
per 
l’interessato, 
la 
perdita 
del 
suo 
diritto 
fondamentale 
a 
non 
essere 
pubblicamente 
additato 
come 
colpevole 
in 
assenza 
di 
un 
accertamento 
giudiziale. 


5.– A 
queste 
essenziali 
condizioni, le 
questioni 
sollevate 
debbono essere 
dichiarate 
non 
fondate. 
PEr QuESTI MOTIVI 
LA COrTE COSTITuzIOnALE 


dichiara 
non fondate, nei 
sensi 
di 
cui 
in motivazione, le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 411, comma 
1-bis, del 
codice 
di 
procedura 
penale, sollevate, in riferimento 
agli 
artt. 3, 24, secondo comma, e 
111, commi 
secondo e 
terzo, della 
Costituzione, dal 
Tribunale 
ordinario di Lecce, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. 


Così 
deciso in roma, nella 
sede 
della 
Corte 
costituzionale, Palazzo della 
Consulta, il 
24 gennaio 2024. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Benefici ai superstiti della vittima della criminalità 
organizzata. La Corte Costituzionale con sentenza 4 luglio 
2024 n. 122 dichiara illegittima la presunzione assoluta 
del “parente o affine entro il quarto grado” 


La 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
del 
4 
luglio 
2024, 
n. 
122 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’articolo 
2 
quinquies, 
comma 
1, 
lett. 
a) 
del 
D.L. 
2 
ottobre 
2008, 
n. 
151, 
convertito 
dalla 
L. 
28 
novembre 
2008, 
n. 
186, 
la 
cui 
rubrica 
recita 
“Limiti 
alla 
concessione 
dei 
benefici 
di 
legge 
ai 
superstiti 
della 
vittima 
della 
criminalità 
organizzata” 
a 
mente 
della 
quale 
“i 
benefici 
previsti 
per 
i 
superstiti 
sono 
concessi 
a 
condizione 
che 
a) 
il 
beneficiario 
non 
risulti 
coniuge, 
convivente, 
parente 
o 
affine 
entro 
il 
quarto 
grado 
di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in 
corso 
un 
procedimento 
per 
l’applicazione 
o 
sia 
applicata 
una 
misura 
di 
prevenzione 
di 
cui 
alla 
legge 
31 
maggio 
1965, 
n. 
575, 
e 
successive 
modificazioni, 
ovvero 
di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in 
corso 
un 
procedimento 
penale 
per 
uno 
dei 
delitti 
di 
cui 
all’articolo 
51, 
comma 
3-bis, 
del 
codice 
di 
procedura 
penale”, 
limitatamente 
alle 
parole 
“parente 
o 
affine 
entro 
il 
quarto 
grado”. 


La 
presunzione 
iuris 
et 
de 
iure 
ostativa 
alla 
concessione 
del 
beneficio 
resta 
quindi 
solo 
per 
il 
coniuge 
e 
per 
il 
convivente, 
ferma 
restando 
la 
necessaria 
sussistenza 
dell’altro 
requisito 
che 
“b) 
il 
beneficiario 
risulti 
essere 
del 
tutto 
estraneo 
ad 
ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali, 
ovvero 
risulti, 
al 
tempo 
dell’evento, 
già 
dissociato 
dagli 
ambienti 
e 
dai 
rapporti 
delinquenziali 
cui 
partecipava”. 


La 
Corte 
costituzionale 
ha 
ritenuto 
che 
“La 
condizione 
ostativa, 
nella 
sua 
assolutezza, pregiudica 
proprio coloro che 
si 
siano dissociati 
dal 
contesto familiare 
e, per tale 
scelta 
di 
vita, abbiano sperimentato l’isolamento e 
perdite 
dolorose. 
Così 
strutturata, 
la 
presunzione 
assoluta 
si 
configura 
come 
uno 
stigma 
per 
l’appartenenza 
a 
un 
determinato 
nucleo 
familiare, 
anche 
quando 
non se ne condividano valori e stili di vita”. 


Wally Ferrante 
(*) 


Ct. 41966/2023 - Avv. Ferrante 


AVVOCATurA GEnErALE DELLO STATO 
ECC.MA COrTE COSTITuzIOnALE 
r.O. 159/2023 
ATTO DI InTErVEnTO 
(**) 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
(C.F. 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
80188230587) 
rappresentato 
e 
difeso 
ex 
lege 
dall'Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
80224030587), 
presso 
i 
cui 
uffici 
in 
roma, 
alla 
Via 
dei 
Portoghesi 
12, 
domicilia 
ope 
legis 


(*) 
Avvocato dello Stato. 


(**) 
Si pubblica l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


(per 
il 
ricevimento 
degli 
atti, 
FAX 
06/96514000 
e 
PEC 
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) 


nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale 


promosso dalla 
Corte 
d’Appello di 
napoli, con ordinanza 
del 
16 novembre 
2023 n. cronol. 
3723/2023 (in G.u. 20 dicembre 
2023, n. 51) nel 
giudizio proposto da 
F.V. e 
A.L. con ricorso 
n. r.G. 5488/18 


avente ad oggetto 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 2 quinquies, comma 
1, lett. a) del 
D.L. 2 ottobre 
2008, n. 151, convertito dalla 
L. 28 novembre 
2008, n. 186, recante 
“misure 
urgenti 
in 
materia di 
prevenzione 
e 
accertamento di 
reati, di 
contrasto alla criminalità organizzata e 
all’immigrazione 
clandestina” 
come 
modificato dall’art. 2, comma 
21, L. 15 luglio 2009, n. 
94 recante 
“disposizioni 
in materia di 
sicurezza pubblica” 
per contrasto con gli 
articoli 
3 e 
24 
Cost. 


** ** ** 


Con ordinanza 
depositata 
il 
16 novembre 
2023, pubblicata 
nella 
Gazzetta 
ufficiale 
il 
20 
dicembre 
2023, la 
Corte 
d’Appello di 
napoli 
ha 
sollevato questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 2 quinquies, comma 
1, lett. a) del 
D.L. 2 ottobre 
2008, n. 151, convertito dalla 


L. 
28 
novembre 
2008, 
n. 
186, 
la 
cui 
rubrica 
recita 
“limiti 
alla 
concessione 
dei 
benefici 
di 
legge 
ai 
superstiti 
della vittima della criminalità organizzata” 
come 
modificato dall’art. 2, comma 
21, L. 15 luglio 2009, n. 94 -in base 
al 
quale 
“all’articolo 2-quinquies, comma 1, lettera a), 
del 
decreto-legge 
2 
ottobre 
2008, 
n. 
151, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
28 
novembre 
2008, n. 186, le 
parole: «affine 
o convivente» sono sostituite 
dalle 
seguenti: «convivente, 
parente 
o 
affine 
entro 
il 
quarto 
grado» 
” 
-per 
violazione 
dell’art. 
3 
Cost., 
ed 
in 
particolare 
del 
principio 
di 
uguaglianza 
e 
di 
ragionevolezza, 
e 
dell’art. 
24 
Cost., 
per 
la 
lesione 
del 
diritto di 
difesa, nella 
parte 
in cui 
prevede 
una 
presunzione 
iuris 
et 
de 
iure 
di 
vicinanza 
alla 
criminalità 
organizzata, 
associata 
al 
mero 
rapporto 
di 
parentela 
o 
affinità 
quale 
causa 
ostativa 
alla 
fruizione 
dei 
benefici 
di 
cui 
alla 
legge 
20 dicembre 
1990, n. 302 recante 
“norme 
a 
favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata”. 
** ** ** 


I fatti oggetto del giudizio a quo 


La 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
è 
stata 
sollevata 
dalla 
Corte 
d’Appello di 
napoli 
nell’ambito di 
un giudizio promosso da 
G.V. e 
A.L. (e, successivamente 
al 
decesso del 
primo, 
riassunto 
da 
F.V. 
e 
A.L.) 
per 
il 
conseguimento 
dei 
benefici 
previsti 
dalla 
legge 
n. 
302/1990 
e 
successive 
modifiche 
ed 
integrazioni, 
in 
qualità 
di 
genitori 
superstiti 
di 
G.V., 
uccisa 
dalla 
camorra 
a 
Secondigliano 
in 
data 
20 
novembre 
2004 
con 
numerosi 
colpi 
d’arma 
da 
fuoco. 


Con sentenza 
emessa 
in data 
28 dicembre 
2008 dalla 
Corte 
d’Assise 
di 
napoli 
era 
stato 
condannato 
quale 
mandante 
dell’omicidio 
in 
questione 
il 
Sig. 
C. 
di 
L. 
capo 
dell’omonimo 
clan. 


Dal 
rapporto 
del 
23 
aprile 
2009 
della 
Questura 
di 
napoli 
risultava 
che 
all’epoca 
dei 
fatti 
la 
famiglia 
della 
vittima 
era 
estranea 
a 
contesti 
camorristici 
che 
potessero essere 
stati 
la 
causa 
scatenante o avere inciso sulla commissione del delitto. 


Il 
Ministero dell’Interno chiedeva 
quindi 
alla 
Prefettura 
di 
napoli 
di 
accertare 
la 
sussistenza, 
in 
capo 
agli 
istanti, 
dei 
requisiti 
soggettivi 
di 
cui 
all’art. 
2 
quinquies 
della 
legge 
n. 
186/2008 
modificato 
dall’art. 
2 
comma 
21 
della 
legge 
n. 
94/2009 
-non 
ancora 
vigente 
al 
tempo 
della 
istanza 
che 
prescrive, 
ulteriori 
condizioni 
per 
la 
concessione 
dei 
benefici 
di 
legge 
ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata. 


Dal 
rapporto del 
Comando Provinciale 
dei 
Carabinieri 
del 
14 dicembre 
2009 emerge



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


vano a 
carico del 
Sig. M.V. precedenti 
penali 
per emissione 
di 
assegni 
a 
vuoto nonchè 
la 
sottoposizione 
alla 
misura 
di 
prevenzione 
del 
foglio di 
via 
obbligatorio a 
seguito di 
varie 
segnalazioni 
da 
parte 
del 
personale 
dei 
Carabinieri 
del 
predetto quale 
soggetto dedito ad effettuare 
truffe 
in danno di 
anziani. Peraltro da 
successivi 
riscontri 
emergeva 
anche 
che 
il 
Sig. M.V. si 
trovava in compagnia di un soggetto pregiudicato per lo stesso reato. 


Da 
un 
successivo 
rapporto 
del 
medesimo 
Comando 
dei 
Carabinieri 
del 
19 
febbraio 
2010 
risultava, poi, che 
il 
cugino di 
M.V., il 
Sig. G.V., era 
stato destinatario della 
misura 
di 
prevenzione 
della 
sorveglianza 
speciale 
con obbligo di 
soggiorno per anni 
3 inflittagli 
dal 
Tribunale 
di napoli in data 21 dicembre 1996. 


La 
Prefettura 
di 
napoli, inoltre, con nota 
del 
23 gennaio 2012, sulla 
base 
del 
rapporto 
del 
Comando Provinciale 
dei 
Carabinieri 
del 
12 gennaio 2012 confermava 
l’avvenuta 
donazione, 
già 
riferita 
da 
articoli 
di 
stampa, della 
somma 
di 
euro trecentomila 
da 
parte 
di 
Cosimo 
Di Lauro ai familiari di M.V. quale risarcimento per la morte della figlia. 


nella 
medesima 
nota 
il 
Prefetto di 
napoli 
affermava 
che 
non sussistevano i 
presupposti 
prescritti dalla normativa vigente per la concessione dei benefici richiesti. 


Pertanto, 
con 
provvedimento 
n. 
37/2009 
emesso 
in 
data 
11 
agosto 
2014, 
veniva 
rigettata 
la 
istanza 
di 
concessione 
dei 
benefici 
previsti 
dalla 
legge 
n. 302/1990 e 
successive 
modifiche 
ed 
integrazioni 
per 
mancanza 
dei 
presupposti 
previsti 
dalla 
normativa 
di 
cui 
all’art. 
2 
quinquies 
del 
D.L. n. 151/2008 convertito dalla 
legge 
n. 186/2008 come 
modificato dall’art. 2, comma 
21 della legge n. 94/2009. 


I 
Sigg.ri 
M.V. 
e 
A.L., 
proponevano 
quindi 
il 
giudizio 
innanzi 
al 
Tribunale 
di 
napoli 
volto al conseguimento dei benefici previsti dalla legge n. 302/1990. 


Il 
Tribunale, con sentenza 
n. 7937 del 
17 settembre 
2018, respingeva 
la 
domanda, ritenendo 
che 
il 
rapporto di 
parentela 
ed affinità 
entro il 
quarto grado tra 
gli 
attori 
e 
persona 
destinataria 
di 
misura 
di 
prevenzione, a 
prescindere 
dalla 
risalenza 
della 
misura 
e 
dalla 
prova 
della 
frequentazione 
con i 
beneficiari, facesse 
venire 
meno il 
presupposto della 
estraneità 
ad 
ambienti e rapporti delinquenziali dei beneficiari. 


Avverso tale sentenza F.V. e 
A.L. proponevano appello. 


Il 
Ministero dell’Interno si 
costituiva 
in giudizio ribadendo che 
il 
rigetto della 
domanda 
si 
fondava 
non solo sul 
rapporto di 
parentela 
con soggetto destinatario di 
misura 
di 
prevenzione 
ma 
anche 
su 
altri 
elementi 
a 
carico 
di 
M.V. 
che 
lo 
facevano 
ritenere 
non 
del 
tutto 
estraneo 
ad ambienti e rapporti delinquenziali. 


** ** ** 
La 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
è 
inammissibile 
e 
comunque 
infondata 
per i 
seguenti 
MOTIVI 


1. Sulla rilevanza 
La 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
investe 
la 
previsione 
di 
cui 
all’articolo 
2 
quinquies, 
comma 
1, 
lett. 
a) 
del 
D.L. 
2 
ottobre 
2008, 
n. 
151, 
convertito 
dalla 
L. 
28 
novembre 
2008, 


n. 186, come 
modificato dall’art. 2, comma 
21, L. 15 luglio 2009, n. 94, la 
cui 
rubrica 
recita 
“Limiti 
alla concessione 
dei 
benefici 
di 
legge 
ai 
superstiti 
della vittima della criminalità organizzata” 
a mente della quale: 
1. Ferme 
le 
condizioni 
stabilite 
dall’articolo 4 della legge 
20 ottobre 
1990, n. 302, e 
successive modificazioni, i benefici previsti per i superstiti sono concessi a condizione che: 
a) il 
beneficiario non risulti 
coniuge, convivente, parente 
o affine 
entro il 
quarto grado 
di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in 
corso 
un 
procedimento 
per 
l’applicazione 
o 
sia 
applicata 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


una misura di 
prevenzione 
di 
cui 
alla legge 
31 maggio 1965, n. 575, e 
successive 
modificazioni, 
ovvero di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in corso un procedimento penale 
per 
uno dei 
delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale; 


b) il 
beneficiario risulti 
essere 
del 
tutto estraneo ad ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali, 
ovvero 
risulti, 
al 
tempo 
dell’evento, 
già 
dissociato 
dagli 
ambienti 
e 
dai 
rapporti 
delinquenziali 
cui partecipava. 
2. Il 
sopravvenuto mutamento delle 
condizioni 
previste 
dagli 
articoli 
1 e 
4 della legge 
20 ottobre 
1990, n. 302, e 
successive 
modificazioni, comporta l’interruzione 
delle 
erogazioni 
disposte e la ripetizione integrale delle somme già corrisposte. 
La 
citata 
disposizione 
richiama 
la 
legge 
20 
ottobre 
1990, 
n. 
302 
recante 
“norme 
a 
favore 
delle 
vittime 
del 
terrorismo e 
della criminalità organizzata”, il 
cui 
art. 1, con rubrica 
“casi 
di 
elargizione”, ai commi 1 e 2, prevede che: 


“1. A 
chiunque 
subisca un’invalidità permanente, per 
effetto di 
ferite 
o lesioni 
riportate 
in conseguenza dello svolgersi 
nel 
territorio dello Stato di 
atti 
di 
terrorismo o di 
eversione 
dell’ordine 
democratico, a condizione 
che 
il 
soggetto leso non abbia concorso alla commissione 
degli 
atti 
medesimi 
ovvero di 
reati 
a questi 
connessi 
ai 
sensi 
dell’articolo 12 del 
codice 
di 
procedura penale, è 
corrisposta una elargizione 
fino a euro 200.000, in proporzione 
alla 
percentuale 
di 
invalidità riscontrata, con riferimento alla capacità lavorativa, in ragione 
di 
euro 2.000 per ogni punto percentuale. 


2. 
L’elargizione 
di 
cui 
al 
comma 
1 
è 
altresì 
corrisposta 
a 
chiunque 
subisca 
un’invalidità 
permanente, 
per 
effetto 
di 
ferite 
o 
lesioni 
riportate 
in 
conseguenza 
dello 
svolgersi 
nel 
territorio 
dello Stato di 
fatti 
delittuosi 
commessi 
per 
il 
perseguimento delle 
finalità delle 
associazioni 
di cui all’articolo 416-bis del codice penale, a condizione che: 
a) 
il 
soggetto 
leso 
non 
abbia 
concorso 
alla 
commissione 
del 
fatto 
delittuoso 
lesivo 
ovvero 
di 
reati 
che 
con il 
medesimo siano connessi 
ai 
sensi 
dell’articolo 12 del 
codice 
di 
procedura 
penale; 
b) 
il 
soggetto 
leso 
risulti 
essere, 
del 
tutto 
estraneo 
ad 
ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali, 
salvo 
che 
si 
dimostri 
l’accidentalità 
del 
suo 
coinvolgimento 
passivo 
nell’azione 
criminosa 
lesiva, 
ovvero risulti 
che 
il 
medesimo, al 
tempo dell’evento, si 
era già dissociato o comunque 
estraniato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava”. 
Il successivo art. 4, la cui rubrica recita “elargizione ai superstiti”, dispone che: 


“1. Ai 
componenti 
la famiglia di 
colui 
che 
perda la vita per 
effetto di 
ferite 
o lesioni 
riportate 
in conseguenza dello svolgersi 
delle 
azioni 
od operazioni 
di 
cui 
all’articolo 1 è 
corrisposta 
una 
elargizione 
complessiva, 
anche 
in 
caso 
di 
concorso 
di 
più 
soggetti, 
di 
euro 
200.000, secondo l’ordine 
fissato dall’articolo 6 della legge 
13 agosto 1980, n. 466, come 
sostituito dall’art. 2 della legge 4 dicembre 1981, n. 720. 


2. L’elargizione 
di 
cui 
al 
comma 1 è 
corrisposta altresì 
a soggetti 
non parenti 
né 
affini, 
né 
legati 
da rapporto di 
coniugio, che 
risultino conviventi 
a carico della persona deceduta 
negli 
ultimi 
tre 
anni 
precedenti 
l’evento ed ai 
conviventi 
more 
uxorio; detti 
soggetti 
sono all’uopo 
posti, 
nell’ordine 
stabilito 
dal 
citato 
articolo 
6 
della 
legge 
13 
agosto 
1980, 
n. 
466, 
dopo i fratelli e le sorelle conviventi a carico”. 
La 
norma 
censurata 
prevede 
limiti 
alla 
concessione 
dei 
benefici 
previsti 
dalla 
legge 
20 
ottobre 
1990, n. 302 nei 
confronti 
dei 
superstiti 
della 
vittima 
di 
criminalità 
organizzata, condizionando 
le 
provvidenze 
economiche 
da 
concedere 
a 
determinati 
presupposti 
soggettivi, 
ossia 
che 
il 
beneficiario non risulti 
in rapporto di 
coniugio, convivenza, parentela 
o affinità 
entro il 
quarto grado con soggetti 
nei 
cui 
confronti 
sia 
in corso un procedimento per l’appli



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


cazione, o sia 
applicata, una 
misura 
di 
prevenzione 
di 
cui 
alla 
legge 
31 maggio 1965, n. 575, 
(caso ricorrente 
nel 
caso di 
specie) ovvero di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
sia 
in corso un procedimento 
penale 
per uno dei 
delitti 
di 
criminalità 
organizzata 
di 
cui 
all’articolo 51, comma 
3bis, 
del codice di procedura penale. 


La 
ratio 
della 
norma 
sospettata 
di 
incostituzionalità 
-che 
contempla 
una 
presunzione 
iuris 
et 
de 
iure 
di 
vicinanza 
ai 
contesti 
della 
criminalità 
organizzata, 
associata 
al 
mero 
legame 
di 
parentela 
o affinità 
-è 
quella 
di 
escludere 
anche 
il 
più lontano rischio che 
i 
benefici 
economici 
possano andare in favore degli stessi ambienti criminali. 


Secondo 
l’ordinanza 
di 
rimessione, 
la 
legittimità 
di 
tale 
rigida 
presunzione 
andrebbe 
valutata 
alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, la 
quale 
ha 
più volte 
affermato 
-principalmente 
in materia 
tributaria 
e 
di 
sanzioni 
amministrative 
(C. Cost., sentenze 
358/1994 e 
114/2005) -che 
le 
presunzioni 
assolute, specie 
quando limitano un diritto fondamentale 
della 
persona 
o un diritto di 
natura 
patrimoniale, violano il 
principio di 
uguaglianza 
se 
arbitrarie 
e 
irrazionali, cioè 
se 
non rispondono a 
dati 
di 
esperienza 
generalizzati, riassunti 
nella nota formula dell’id quod plerumque accidit. 


Ad avviso del 
giudice 
rimettente 
sarebbe, dunque, lecito dubitare 
della 
legittimità 
costituzionale 
della 
norma 
in commento, atteso che, in base 
ai 
dati 
di 
comune 
esperienza, non 
potrebbe 
che 
escludersi 
la 
validità 
di 
siffatta 
presunzione, 
non 
essendo 
impossibile 
che 
soggetti 
aventi 
rapporti 
di 
parentela 
o affinità 
con appartenenti 
all’ambiente 
criminale 
siano estranei 
ad esso. Anzi, tale 
presunzione, non ammettendo prova 
contraria, risulterebbe 
tanto più irragionevole 
in 
quanto 
andrebbe 
a 
danneggiare 
i 
soggetti 
più 
meritevoli, 
cioè 
coloro 
che, 
pur 
avendo 
legami 
familiari 
con 
appartenenti 
alle 
organizzazioni 
criminali, 
se 
ne 
siano 
discostati. 
Si 
verrebbe 
dunque 
a 
creare 
un vulnus 
rispetto al 
parametro di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 
3 Cost., oltre 
ad una 
compromissione 
del 
diritto di 
difesa 
(art. 24 Cost.) per coloro che 
siano 
intenzionati a dimostrare in concreto la propria estraneità agli ambienti criminali. 


Ciò premesso, si 
ritiene 
che 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
sia 
inammissibile 
per difetto di rilevanza per la decisione del giudizio 
a quo. 


Il 
Tribunale 
di 
napoli, infatti, ha 
ritenuto assorbente, ai 
fini 
del 
rigetto della 
domanda, 
l’insussistenza 
di 
uno dei 
due 
requisiti 
previsti 
dal 
più volte 
citato art. 2 quinquies, comma 
1 
ed in particolare 
quello di 
cui 
alla 
lettera 
a) relativo all’assenza 
di 
rapporto di 
parentela, convivenza, 
coniugio o affinità 
entro il 
quarto grave 
con soggetto gravato da 
misure 
di 
prevenzione 
o da procedimenti penali per uno dei gravi reati di cui all’art. 51, comma 3 bis 
c.p.p. 


Il 
provvedimento di 
rigetto dell’istanza 
era 
invece 
fondato sulla 
non ricorrenza 
di 
entrambi 
i 
requisiti 
di 
cui 
al 
citato art. 2 quinquies, comma 
1 e 
quindi 
anche 
di 
quello di 
cui 
alla 
lettera b) della non totale estraneità del beneficiario ad ambienti e rapporti delinquenziali. 


nel 
giudizio 
di 
secondo 
grado, 
infatti, 
l’amministrazione 
ha 
proposto 
appello 
incidentale 
condizionato all’accoglimento dell’appello principale, evidenziando che 
il 
rigetto della 
domanda 
si 
fondava 
anche 
sull’insussistenza 
del 
requisito 
della 
estraneità 
del 
beneficiario 
ad 
ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali, 
comprovato 
anche 
in 
considerazione 
di 
ulteriori 
circostanze, 
oltre 
al 
rapporto di 
parentela 
con il 
cugino destinatario di 
misura 
di 
prevenzione, tutte 
fatte rilevare nel provvedimento reiettivo. 


Infatti, 
nella 
premessa 
del 
provvedimento, 
sulla 
base 
delle 
informazioni 
investigative, 
era 
stato 
anche 
evidenziato 
che 
lo 
stesso 
Sig. 
M.V. 
aveva 
dei 
precedenti 
penali 
per 
emissione 
di 
assegni 
a 
vuoto 
con 
segnalazione 
alla 
banca 
dati 
FF.PP., 
nonché 
era 
stato 
sottoposto 
in 
data 
4 
settembre 
2006 
alla 
misura 
di 
prevenzione 
del 
foglio 
di 
via 
obbligatorio 
dal 
comune 
di 
(...) 
a 
seguito 
di 
varie 
segnalazioni 
da 
parte 
del 
personale 
della 
stazione 
dei 
Ca



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


rabinieri 
della 
predetta 
località, 
che 
lo 
indicavano 
figurare 
tra 
persone 
sospette, 
dedite 
ad 
effettuare 
truffe 
in 
danno 
di 
anziani, 
oltre 
che 
in 
compagnia 
di 
soggetto 
pregiudicato 
per 
tale 
reato. 


Altro 
aspetto 
posto 
in 
rilievo 
nel 
procedimento 
e 
nel 
provvedimento 
reiettivo, 
è 
costituito 
dall’accettazione 
da 
parte 
dei 
genitori 
della 
vittima 
della 
somma 
di 
euro 300.000, loro consegnata 
a 
titolo definito “risarcitorio” 
brevi 
manu 
da 
C. Di 
L., condannato quale 
mandante 
del-
l’omicidio 
della 
loro 
figlia, 
alla 
luce 
del 
fatto 
che 
i 
predetti, 
dichiaratisi 
soddisfatti 
di 
tale 
somma, non si 
sono più costituiti 
parte 
civile 
nell’ambito del 
procedimento penale 
(anche 
se 
il 
giudice 
remittente 
dà 
atto che 
tale 
somma 
risulta 
essere 
stata 
inizialmente 
rifiutata 
e 
poi 
accettata 
solo in seguito alla 
costituzione 
di 
parte 
civile 
e 
l’accertamento della 
provenienza 
non 
illecita della stessa). 


Pertanto, il 
presupposto che 
il 
beneficiario risulti 
essere 
non del 
tutto estraneo ad ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali 
è 
stato dedotto non solo facendo riferimento al 
rapporto di 
parentela 
tra 
M.V. 
e 
il 
cugino 
ma 
anche 
in 
considerazione 
delle 
altre 
evenienze 
facenti 
capo 
direttamente alle persone dei beneficiari. 


La 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevata 
non appare 
quindi 
dirimente 
per la 
decisione 
del 
giudizio 
a 
quo 
atteso 
che 
il 
rigetto 
della 
domanda 
è 
avvenuto 
non 
solo 
sulla 
base 
di 
una 
presunzione 
legislativa 
iuris 
et 
de 
iure 
ma 
anche 
all’esito di 
una 
ponderata 
valutazione 
di 
tutte 
le 
circostanze 
che 
depongono per la 
non totale 
estraneità 
dei 
beneficiari 
ad 
ambienti e rapporti delinquenziali. 


La 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
è 
pertanto 
inammissibile 
per 
difetto 
di 
rilevanza. 


2. Sulla non manifesta infondatezza 
La questione di legittimità costituzionale è comunque manifestamente infondata. 


La 
norma 
di 
cui 
all’art. 
2-quinquies, 
comma 
l, 
lett. 
a) 
del 
d.l. 
n. 
151/2008, 
che 
è 
orientata 
a 
finalità 
di 
ordine 
pubblico, 
risulta 
applicata, 
per 
costante 
giurisprudenza, 
in 
base 
ad 
una 
stretta 
interpretazione, 
in 
quanto 
il 
mero 
dato 
oggettivo 
del 
rapporto 
di 
coniugio, 
di 
convivenza, 
di 
parentela 
o 
di 
affinità 
costituisce 
un 
insuperabile 
ostacolo 
alla 
concessione 
delle 
provvidenze 
economiche, a 
nulla 
rilevando l’eventuale 
frequentazione 
o meno, in concreto, 
con il parente o l’affine appartenente a un sodalizio criminale. 


Trattasi, in altri 
termini, di 
una 
presunzione 
assoluta 
ma 
non irragionevole, in quanto 
espressione 
dell’esercizio della 
discrezionalità 
legislativa 
nel 
configurare 
dei 
parametri 
particolarmente 
rigidi 
per l’erogazione 
di 
benefici 
economici 
a 
favore 
dei 
superstiti 
delle 
vittime 
della criminalità organizzata. 


Come 
affermato dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
(sez. lavoro, sent. n. 31136/2019, pubblicata 
il 
28 
novembre 
2019 
“sarebbe 
contrario 
ai 
principi 
fondamentali 
della 
Costituzione 
-a 
partire 
da quello di 
razionalità-equità di 
cui 
all’art. 3 Cost., e 
sarebbe 
del 
tutto inconcepibile 
in uno 
Stato 
di 
diritto 
manifestare 
solidarietà, 
con 
l’elargizione 
di 
speciali 
provvidenze 
assistenziali, 
nei 
confronti 
di 
soggetti 
non del 
tutto estranei 
agli 
ambienti 
delinquenziali 
[...]. 
Tale 
conclusione, 
del 
resto, risulta implicitamente 
confermata anche 
dal 
sopravvenuto D.L. 151/2008, 
art. 2-quinquies 
lett. a), 
[...] 
che 
ha previsto, per 
i 
legami 
di 
parentela o familiari, una presunzione 
assoluta 
di 
non 
estraneità 
all’ambiente 
criminale, 
muovendo 
quindi 
dal 
presupposto 
della sicura inclusione 
di 
tali 
soggetti 
fra i 
destinatari 
della legge, con un’ottica ancor 
più 
rigoristica [...]. 
Tali 
ultime 
innovazioni 
[legislative] 
sono da configurare 
come 
significative 
manifestazioni 
dell’intento -dimostrato dal 
legislatore 
fin dall’originaria versione 
della L. n 
302 cit. -secondo cui 
sia per 
le 
vittime, sia per 
i 
loro familiari 
e 
superstiti 
(come 
individuati), 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


va considerata in modo rigoroso la necessaria presenza della condizione 
di 
totale 
estraneità 
alla criminalità organizzata”. 

L’estraneità 
agli 
ambienti 
della 
criminalità 
organizzata 
deve 
assumere 
il 
necessario carattere 
della 
“inequivocabilità”, 
per 
cui 
risulta 
legittima 
una 
presunzione 
assoluta 
di 
vicinanza 
ai 
predetti 
contesti 
in caso di 
rapporti 
di 
parentela 
o affinità 
con soggetti 
gravati 
da 
misure 
di 
prevenzione o da procedimenti penali per gravi reati. 


Il 
legislatore, dunque, valorizzando ex 
se, il 
rapporto di 
parentela 
o di 
affinità 
con un 
appartenente 
alla 
criminalità 
organizzata, ha 
inteso, da 
un lato, scongiurare 
il 
pericolo che, 
attraverso l’erogazione 
di 
denaro pubblico in favore 
di 
soggetti 
inseriti 
in nuclei 
familiari 
a 
rischio di 
infiltrazioni 
mafiose 
si 
potesse, anche 
indirettamente, finanziare 
la 
criminalità 
organizzata 
e, 
dall’altro, 
garantire 
che 
le 
misure 
solidaristiche 
previste 
dalla 
legge 
302/1990 
vengano disposte 
e 
riservate 
soltanto in favore 
di 
vittime 
“realmente” 
innocenti 
della 
criminalità, 
risultate totalmente estranee ad ambienti malavitosi. 


La 
sussistenza 
di 
parenti 
e 
affini 
controindicati 
ai 
sensi 
della 
norma 
oggetto della 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
impone 
doverosamente 
di 
considerare 
che 
all’interno del 
contesto familiare 
possano sorgere 
legami 
di 
cointeressenza, solidarietà, copertura 
o, quanto 
meno, di 
soggezione 
o tolleranza. Occorre, infatti, tener conto del 
fatto che 
la 
complessa 
organizzazione 
della 
mafia 
si 
caratterizza 
per 
una 
struttura 
che 
si 
fonda 
e 
si 
articola 
sovente 
proprio sulla 
istituzione 
“famiglia”, sicché 
non è 
irragionevole 
presumere 
che 
la 
presenza 
all’interno 
di 
una 
famiglia 
di 
un parente 
o di 
un affine 
prevenuto o nei 
cui 
confronti 
è 
in corso 
uno dei 
procedimenti 
per i 
reati 
gravi 
previsti 
dall’art. 51, comma 
3-bis 
c.p.p., possa 
determinare 
l’influenza 
e 
il 
condizionamento 
dell’associazione 
anche 
sugli 
altri 
membri 
della 
famiglia, 
pur 
in 
assenza 
di 
una 
loro 
volontà 
in 
tal 
senso 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
sentenza 
n. 
1743/2016). 

Per tali 
motivi, più volte 
la 
giurisprudenza 
di 
merito ha 
reputato non fondata 
la 
prospettata 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
2-quinquies, 
per 
asserita 
violazione 
del 
parametro di 
ragionevolezza 
di 
cui 
all’art. 3 Cost.: 
in tal 
senso, C.G.A., regione 
Siciliana, 
sentenza 
n. 
385/2014 
(all.1), 
Tribunale 
di 
Mantova, 
sentenza 
n. 
108/2017 
del 
23 
maggio 
2017 
(all.2), 
Corte 
di 
Appello 
di 
Salerno, 
sentenza 
n. 
1070/2018 
(all. 
3), 
Corte 
di 
Appello 
di 
reggio 
Calabria, sentenza n. 318/2022 (all. 4). 


In particolare, il 
CGArS, nella 
citata 
sentenza 
n. 385/2014, nel 
dichiarare 
manifestamente 
infondata 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
di 
cui 
all’art. 2 quinquies 
censurato 
in 
questa 
sede, 
ha 
osservato 
che 
“la 
disposizione 
della 
quale 
si 
eccepisce 
la 
incostituzionalità, 
in realtà 
non appare 
diversa, per le 
finalità 
perseguite, dall’insieme 
di 
norme 
speciali 
che 
definiscono 
l’ordinamento delle 
misure 
di 
prevenzione 
e 
di 
repressione 
dell’attività 
mafiosa, e 
della 
sua 
specifica 
caratura 
criminale 
collegata 
al 
contesto familiare 
attraverso cui 
si 
esercita. 
E 
perciò dichiara 
di 
voler escludere 
da 
benefici, tipicamente 
previsti 
per i 
familiari 
di 
vittime 
innocenti 
della 
mafia, 
certi 
soggetti, 
in 
quanto 
componenti 
(come 
“conviventi, 
parenti 
o 
affini 
entro il 
quarto grado”) per così 
dire 
naturali 
di 
‘famiglie’ 
altrimenti 
marcate 
dalla 
presenza 
di 
soggetti 
mafiosi, il 
cui 
contesto di 
vita 
potrebbe 
perciò essere 
ulteriormente 
rafforzato in termini 
patrimoniali e criminali dalla fruizione dei benefici in oggetto”. 


Analogamente, il 
Tribunale 
di 
Mantova, nella 
citata 
sentenza 
n. 108/2017, nel 
ritenere 
conforme 
ai 
parametri 
costituzionali 
il 
più volte 
citato art. 2 quinquies, ha 
precisato che 
“il 
trattamento differenziato appare 
ragionevole 
alla 
luce 
della 
ratio 
delle 
norme 
che 
è 
quella 
di 
evitare 
che, mediante 
l’uso di 
normativa 
sorta 
al 
fine 
di 
combattere 
il 
fenomeno mafioso, si 
possa 
poi 
giungere 
in qualche 
modo a 
poterlo favorire 
…. né 
appare 
irragionevole 
che 
il 
legislatore, 
dopo avere 
scelto di 
intervenire 
con provvidenze 
di 
carattere 
economico in favore 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


di 
particolari 
soggetti 
svantaggiati 
perché 
superstiti 
di 
vittime 
di 
atti 
violenti, detti 
una 
disciplina 
molto rigorosa 
dei 
requisiti 
soggettivi 
al 
fine 
di 
evitare 
anche 
il 
solo pericolo che 
le 
proprie 
elargizioni 
possano, 
come 
già 
detto, 
paradossalmente 
andare 
ad 
alimentare 
le 
risorse 
proprio 
della 
criminalità 
organizzata, 
che 
lo 
Stato, 
anche 
con 
iniziative 
come 
queste, 
intendere 
combattere”. 


Anche 
la 
Corte 
d’appello 
di 
Salerno, 
nella 
citata 
sentenza 
n. 
1070/2018, 
ha 
ritenuto 
manifestamente 
infondati 
i 
dubbi 
di 
costituzionalità 
in 
relazione 
all’art. 
2 
quinquies 
in 
questione, 
affermando che 
“la 
ratio 
della 
norma 
appare 
chiaramente 
volta 
ad escludere 
che 
soggetti 
appartenenti 
alla 
criminalità 
possano avvantaggiarsi, anche 
se 
solo indirettamente, della 
provvidenza 
economica 
riconosciuta 
alla 
vittima 
incolpevole 
di 
delitto 
di 
stampo 
mafioso, 
dovendosi 
coniugare 
le 
varie 
ipotesi 
di 
esclusione 
con 
la 
rigida 
disposizione 
relativa 
ai 
requisiti 
soggettivi 
per accedere 
all’elargizione 
speciale. L’ampliamento delle 
cause 
di 
esclusione 
dai 
benefici 
completa 
le 
misure 
di 
contrasto 
alla 
criminalità 
organizzata 
introdotte 
con 
d.l. 
151/2008, convertito nella legge 186/2008, e trova in esse la sua ragion d’essere”. 


Infine, la 
Corte 
di 
Appello di 
reggio Calabria, con la 
citata 
sentenza 
n. 318/2022, ha 
chiarito, sempre 
in ordine 
al 
censurato art. 2 quinquies, che 
“il 
legislatore, cui 
compete 
in ultima 
analisi, una 
scelta 
discrezionale 
che 
obbedisce 
a 
criteri 
di 
politica 
legislativa, è 
tenuto ad 
osservare 
il 
principio 
di 
uguaglianza 
che 
comporta, 
comunque, 
che 
situazioni 
dissimili 
vadano 
regolate 
diversamente 
e 
senza 
dubbio spetta 
al 
legislatore 
diversificare 
fra 
soggetti 
del 
tutto 
estranei 
ad ambienti 
delinquenziali 
e 
soggetti 
che 
viceversa, siano necessariamente 
o presumibilmente 
contigui 
ad 
essi, 
definendo, 
in 
relazione 
alle 
due 
categorie, 
un 
diverso 
(e 
coerente 
con la 
ratio legis) trattamento normativo”. 


La 
scelta 
legislativa 
appare 
quindi 
coerente 
e 
non irragionevole 
considerato che 
la 
ratio 
della 
norma 
in questione 
è 
quella 
di 
contemperare 
l’interesse 
pubblico ad individuare, salvaguardare 
e 
indennizzare 
le 
vittime 
innocenti 
di 
atti 
di 
criminalità 
organizzata 
di 
tipo mafioso, 
escludendo al 
contempo anche 
il 
più remoto rischio che 
i 
benefici 
economici 
possano essere 
veicolati 
a 
favore 
dei 
medesimi 
sodalizi 
criminali. 
Tale 
finalità 
sarebbe 
in 
evidenza 
vanificata 
se 
non 
si 
evitasse 
che 
dette 
elargizioni 
pervengano 
a 
favore 
delle 
stesse 
organizzazioni 
responsabili 
di simili fatti criminosi. 


Per tutto quanto sopra 
dedotto e 
considerato, il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, 
come 
in epigrafe 
rappresentato, difeso e 
domiciliato, e 
con riserva 
di 
eventuali 
ulteriori 
illustrazioni, 


COnCLuDE 


chiedendo 
che 
l’Ecc.ma 
Corte 
Costituzionale 
dichiari 
inammissibile 
e 
comunque 
infondata 
la questione di legittimità costituzionale sollevata. 


(...) 


roma, 9 gennaio 2024 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Corte 
Costituzionale, 
sentenza 
4 
luglio 
2024 
n. 
122 
-Pres. 
A.A. 
Barbera, 
Red. 
G. 
Pitruzzella 


-Giudizio di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 2-quinquies, comma 
1, lettera 
a), del 
decreto-
legge 
2 
ottobre 
2008, 
n. 
151 
(Misure 
urgenti 
in 
materia 
di 
prevenzione 
e 
accertamento 
di 
reati, 
di 
contrasto alla 
criminalità 
organizzata 
e 
all’immigrazione 
clandestina), inserito dalla 
legge 
di 
conversione 
28 novembre 
2008, n. 186, e 
modificato dall’art. 2, comma 
21, della 
legge 
15 
luglio 
2009, 
n. 
94 
(Disposizioni 
in 
materia 
di 
sicurezza 
pubblica), 
promosso 
dalla 
Corte 
d’appello 
di 
napoli, nel 
procedimento instaurato da 
F.V. e 
A.L. contro il 
Ministero dell’interno, 
ufficio territoriale del Governo di napoli, con ordinanza del 16 novembre 2023. 
Ritenuto in fatto 


1.– Con ordinanza 
del 
16 novembre 
2023 (r.o. n. 159 del 
2023), la 
Corte 
d’appello di 
napoli 
ha 
sollevato, 
in 
riferimento 
agli 
artt. 
3 
e 
24 
della 
Costituzione, 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 2-quinquies, comma 
1, lettera 
a), del 
decreto-legge 
2 ottobre 
2008, n. 
151 (Misure 
urgenti 
in materia 
di 
prevenzione 
e 
accertamento di 
reati, di 
contrasto alla 
criminalità 
organizzata 
e 
all’immigrazione 
clandestina), inserito dalla 
legge 
di 
conversione 
28 novembre 
2008, 
n. 
186, 
e 
successivamente 
modificato 
dall’art. 
2, 
comma 
21, 
della 
legge 
15 
luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). 


1.1.– La 
disposizione 
censurata 
nega 
i 
benefici 
previsti 
per i 
superstiti 
delle 
vittime 
del 
terrorismo e 
della 
criminalità 
organizzata 
a 
chi 
sia 
«parente 
o affine 
entro il 
quarto grado di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in corso un procedimento per l’applicazione 
o sia 
applicata 
una 
misura 
di 
prevenzione 
di 
cui 
alla 
legge 
31 maggio 1965, n. 575, e 
successive 
modificazioni, 
ovvero di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in corso un procedimento penale 
per uno dei 
delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale». 


La 
Corte 
d’appello 
di 
napoli 
afferma 
di 
dover 
applicare 
tale 
previsione, 
in 
considerazione 
del 
rapporto 
di 
parentela 
di 
una 
parte 
con 
un 
soggetto 
colpito 
dalla 
misura 
di 
prevenzione 
della sorveglianza speciale. 


1.2.– Ad avviso della 
Corte 
rimettente, la 
preclusione, che 
condurrebbe 
al 
rigetto della 
domanda, sarebbe irragionevole. 


Essa 
poggerebbe 
su 
una 
massima 
d’esperienza 
che 
potrebbe 
essere 
agevolmente 
contraddetta 
e, per altro verso, rischierebbe 
di 
pregiudicare 
proprio coloro che 
coraggiosamente 
si 
siano dissociati dalle famiglie d’origine e per questo abbiano perso un congiunto. 


La 
finalità 
di 
evitare 
che 
le 
risorse 
pubbliche 
siano distolte 
a 
vantaggio di 
persone 
legate 
alla 
criminalità 
organizzata 
sarebbe 
già 
soddisfatta 
con il 
requisito dell’estraneità 
a 
tali 
ambienti. 


Il 
giudice 
a 
quo 
prospetta 
il 
contrasto 
con 
l’art. 
3 
Cost. 
anche 
in 
riferimento 
alla 
violazione 
del principio di eguaglianza. 


La 
«rigida 
previsione» dettata 
dalla 
legge, peraltro applicabile 
solo ai 
superstiti 
e 
non al 
«soggetto 
direttamente 
danneggiato», 
implicherebbe 
«una 
vera 
e 
propria 
discriminazione 
fondata 
esclusivamente sull’origine familiare». 


nel 
precludere 
ogni 
prova 
contraria, la 
disposizione 
censurata 
lederebbe, infine, il 
diritto 
di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. 


2.– 
È 
intervenuto 
in 
giudizio 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
rappresentato 
e 
difeso dall’Avvocatura 
generale 
dello Stato, e 
ha 
chiesto di 
dichiarare 
le 
questioni 
inammissibili 
o, comunque, non fondate. 


2.1.– 
In 
linea 
preliminare, 
le 
questioni 
sollevate 
dalla 
Corte 
d’appello 
di 
napoli 
sarebbero 
inammissibili per difetto di rilevanza. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Il 
diniego delle 
provvidenze 
non sarebbe 
giustificato soltanto dalla 
«presunzione 
iuris 
et 
de 
iure 
di 
vicinanza 
ai 
contesti 
della 
criminalità 
organizzata», 
ma 
anche 
da 
molteplici 
elementi, 
che confermerebbero in concreto tale vicinanza. 


2.2.– nel merito, le censure del rimettente sarebbero prive di fondamento. 


La 
disciplina 
sottoposta 
al 
vaglio di 
questa 
Corte 
si 
prefiggerebbe 
di 
impedire 
che 
i 
sodalizi 
criminali 
lucrino 
i 
benefici 
economici 
concessi 
dallo 
Stato, 
in 
virtù 
dei 
«legami 
di 
cointeressenza, 
solidarietà, 
copertura 
o, 
quanto 
meno, 
di 
soggezione 
o 
tolleranza» 
che 
si 
instaurano 
nel contesto familiare. 


La 
scelta 
discrezionale 
del 
legislatore 
si 
tradurrebbe, pertanto, in una 
presunzione 
«assoluta 
ma non irragionevole». 


Considerato in diritto 


1.– 
Con 
l’ordinanza 
indicata 
in 
epigrafe 
(r.o. 
n. 
159 
del 
2023), 
la 
Corte 
d’appello 
di 
napoli 
dubita 
della 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
2-quinquies, 
comma 
1, 
lettera 
a), 
del 
d.l. 
n. 
151 
del 2008, come convertito, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. 


1.1.– L’originaria 
formulazione, inserita 
dalla 
legge 
di 
conversione 
28 novembre 
2008, 


n. 186, escludeva 
i 
benefici 
previsti 
per i 
superstiti 
delle 
vittime 
del 
terrorismo e 
della 
criminalità 
soltanto 
per 
chi 
fosse 
«coniuge, 
affine 
o 
convivente» 
dei 
soggetti 
che 
si 
trovavano 
nelle 
peculiari 
condizioni 
definite 
dalla 
legge. nessuna 
esclusione 
era 
prevista 
in rapporto ai 
parenti. 
In seguito alle 
innovazioni 
apportate 
dall’art. 2, comma 
21, della 
legge 
n. 94 del 
2009, 
tale 
disposizione 
oggi 
nega 
i 
benefici 
elargiti 
ai 
superstiti 
delle 
vittime 
della 
criminalità 
organizzata 
non soltanto al 
coniuge 
o al 
convivente, ma 
anche 
a 
chi 
sia 
«parente 
o affine 
entro il 
quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione 


o sia 
applicata 
una 
misura 
di 
prevenzione 
di 
cui 
alla 
legge 
31 maggio 1965, n. 575, e 
successive 
modificazioni, 
ovvero 
di 
soggetti 
nei 
cui 
confronti 
risulti 
in 
corso 
un 
procedimento 
penale 
per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale». 
Sull’esclusione, applicabile a parenti e affini, si incentrano le censure del rimettente. 


1.2.– La 
condizione 
ostativa, estesa 
a 
un’ampia 
platea 
di 
parenti 
e 
affini, a 
prescindere 
dal 
rapporto 
di 
frequentazione, 
si 
porrebbe 
in 
contrasto 
con 
l’art. 
3 
Cost., 
sotto 
un 
duplice 
profilo. 


La 
Corte 
rimettente 
denuncia, in primo luogo, la 
violazione 
del 
principio di 
ragionevolezza. 


La 
disposizione 
censurata 
si 
fonderebbe 
su 
una 
massima 
d’esperienza 
fallace, 
che 
potrebbe 
essere 
«sconfessata 
dalla 
realtà», in quanto non è 
«affatto impossibile, né 
tantomeno 
difficile, 
nella 
realtà, 
che 
soggetti 
che 
abbiano 
rapporti 
di 
parentela 
o 
affinità 
anche 
stretta 
con appartenenti all’ambiente criminale siano estranei ad esso». 


Così 
congegnata, 
la 
preclusione 
finirebbe 
«per 
danneggiare, 
senza 
ragione 
alcuna, 
proprio 
i 
soggetti 
più meritevoli, cioè 
coloro che, pur avendo legami 
familiari 
con appartenenti 
alle 
organizzazioni 
criminali, se 
ne 
siano discostati 
e 
che 
magari 
proprio per tale 
ragione 
abbiano 
subito la perdita di un loro caro». 


né 
l’esclusione 
indiscriminata 
prevista 
dalla 
disposizione 
censurata 
sarebbe 
giustificata 
dall’esigenza 
di 
impedire 
che 
delle 
risorse 
dello Stato profitti 
la 
criminalità 
organizzata. Tale 
esigenza 
sarebbe 
già 
soddisfatta 
dal 
requisito 
dell’assoluta 
estraneità 
agli 
ambienti 
delinquenziali. 


La 
presunzione 
assoluta 
sarebbe 
lesiva, inoltre, del 
principio di 
eguaglianza, in quanto 
determinerebbe 
«una 
vera 
e 
propria 
discriminazione 
fondata 
esclusivamente 
sull’origine 
fa



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


miliare» e 
riserverebbe 
ai 
parenti 
della 
vittima 
un trattamento deteriore 
rispetto al 
«soggetto 
direttamente 
danneggiato», 
viceversa 
escluso 
dall’àmbito 
applicativo 
della 
«rigida 
previsione» 
di cui si discute. 


Il 
giudice 
a quo 
ravvisa, infine, la 
violazione 
dell’art. 24 Cost. e, a 
tale 
riguardo, sostiene 
che 
la 
presunzione 
assoluta, nel 
negare 
ingresso alla 
prova 
contraria, comprometta 
il 
diritto 
di difesa. 


2.– La 
difesa 
dello Stato ha 
eccepito l’inammissibilità 
delle 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale, 
in quanto carenti di rilevanza. 


L’eccezione non è fondata. 


2.1.– Anche 
nella 
prospettiva 
di 
un più diffuso accesso al 
sindacato di 
costituzionalità, la 
rilevanza 
postula 
l’applicabilità 
della 
disposizione 
censurata 
nel 
giudizio principale 
e 
non si 
identifica 
nell’utilità 
concreta 
che 
una 
pronuncia 
di 
accoglimento 
può 
apportare 
alle 
parti 
(fra 
le molte, sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del 
Considerato in diritto). 


È 
necessario e 
sufficiente 
che 
la 
disposizione 
sospettata 
di 
illegittimità 
costituzionale 
incida 
sul 
percorso 
argomentativo 
che 
il 
rimettente 
è 
chiamato 
a 
compiere, 
quand’anche 
il 
tenore 
della 
decisione 
non muti 
(di 
recente, sentenza 
n. 25 del 
2024, punto 2.2. del 
Considerato in 
diritto). 


La 
valutazione 
di 
tali 
presupposti 
è 
demandata 
al 
giudice 
a quo e 
si 
sottrae 
al 
sindacato 
di questa Corte, ove sia suffragata da una motivazione non implausibile. 


2.2.– 
Il 
rimettente 
ha 
evidenziato 
che 
assume 
priorità 
logica 
l’esame 
della 
condizione 
ostativa 
assoluta, per la 
sua 
portata 
dirimente 
e 
per la 
sua 
attinenza 
alla 
ragione 
più liquida 
di 
decisione. 


In questo percorso argomentativo, lineare 
e 
coerente, solo la 
declaratoria 
di 
illegittimità 
costituzionale 
della 
previsione 
censurata 
imporrebbe 
quell’accertamento 
in 
concreto 
che, 
nella 
delibazione 
compiuta 
dai 
giudici 
d’appello, implica 
una 
più articolata 
indagine, in mancanza 
di elementi decisivi, idonei 
prima facie 
a giustificare il diniego delle provvidenze. 


Al 
vaglio compiuto dal 
giudice 
a quo 
l’eccezione 
dell’Avvocatura 
generale 
dello Stato 
contrappone 
un 
diverso 
inquadramento 
dei 
dati 
probatori 
acquisiti, 
che 
esula 
dal 
sindacato 
devoluto a 
questa 
Corte 
e 
non vale 
a 
connotare 
come 
implausibile 
il 
ragionamento svolto in 
ordine alla rilevanza. 


3.– Le questioni sono fondate. 


4.– Il 
legislatore, con la 
legge 
20 ottobre 
1990, n. 302 (norme 
a 
favore 
delle 
vittime 
del 
terrorismo e 
della 
criminalità 
organizzata), ha 
riconosciuto un’elargizione, oggi 
determinata 
nell’ammontare 
complessivo di 
euro 200.000,00 (art. 4), ai 
superstiti 
di 
chi 
perda 
la 
vita 
per 
effetto 
di 
ferite 
o 
lesioni 
riportate 
in 
conseguenza 
dello 
svolgersi 
di 
atti 
di 
terrorismo 
o 
di 
eversione 
dell’ordine 
democratico o di 
fatti 
delittuosi 
commessi 
per il 
perseguimento delle 
finalità 
delle 
associazioni 
mafiose. L’importo è 
stato così 
ridefinito, per gli 
eventi 
successivi 
al 
primo 
gennaio 
2003, 
dall’art. 
2, 
comma 
1, 
del 
decreto-legge 
28 
novembre 
2003, 
n. 
337 
(Disposizioni 
urgenti 
in favore 
delle 
vittime 
militari 
e 
civili 
di 
attentati 
terroristici 
all’estero), 
convertito, con modificazioni, nella legge 24 dicembre 2003, n. 369. 


Di 
tali 
provvidenze 
beneficiano i 
«componenti 
la 
famiglia» (art. 4, comma 
1, della 
legge 


n. 302 del 
1990) e, dopo i 
fratelli 
e 
le 
sorelle 
conviventi 
a 
carico, i 
«soggetti 
non parenti 
né 
affini, né 
legati 
da 
rapporto di 
coniugio, che 
risultino conviventi 
a 
carico della 
persona 
deceduta 
negli 
ultimi 
tre 
anni 
precedenti 
l’evento» e 
i 
«conviventi 
more 
uxorio» (art. 4, comma 
2, 
della legge n. 302 del 1990). 
Il 
coniuge 
di 
cittadinanza 
italiana 
o il 
convivente 
more 
uxorio 
e 
i 
parenti 
a 
carico entro il 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


secondo grado di 
cittadinanza 
italiana 
possono optare 
per un assegno vitalizio personale, non 
reversibile, di 
ammontare 
diversamente 
graduato in ragione 
del 
numero dei 
beneficiari 
(art. 
5 della legge n. 302 del 1990). 


5.– Le 
elargizioni 
e 
l’assegno vitalizio attuano la 
solidarietà 
della 
repubblica 
per le 
persone 
colpite negli affetti più cari da episodi di mafia o terrorismo. 


La 
finalità 
solidaristica 
che 
permea 
tali 
provvidenze 
è 
avvalorata 
dai 
criteri 
di 
attribuzione, 
svincolati 
«dalle 
condizioni 
economiche 
e 
dall’età 
del 
soggetto leso o dei 
soggetti 
beneficiari 
e 
dal 
diritto al 
risarcimento del 
danno agli 
stessi 
spettante 
nei 
confronti 
dei 
responsabili 
dei 
fatti delittuosi» (art. 10, comma 1, della legge n. 302 del 1990). 


6.– Spetta 
alla 
discrezionalità 
del 
legislatore 
il 
compito di 
individuare 
criteri 
selettivi 
appropriati, 
al 
fine 
di 
salvaguardare 
un impiego oculato delle 
risorse 
pubbliche, nel 
rispetto dei 
principi 
di 
eguaglianza 
e 
di 
ragionevolezza, pietra 
angolare 
di 
quel 
patto tra 
lo Stato e 
i 
cittadini 
che le misure di sostegno intervengono a rinsaldare. 


La 
connotazione 
solidaristica 
delle 
prestazioni, pur se 
estranee 
alla 
garanzia 
delle 
condizioni 
minime 
di 
sussistenza, 
impone 
scelte 
rispettose 
della 
parità 
di 
trattamento 
e 
coerenti 
con 
la 
ratio 
ispiratrice della disciplina di favore prevista dalla legge. 


nella 
delimitazione 
della 
platea 
dei 
beneficiari, il 
legislatore 
ben può enucleare 
presunzioni 
assolute 
di 
indegnità, purché 
siano corroborate 
da 
massime 
d’esperienza 
plausibili 
e 
rispecchino 
l’id quod plerumque accidit. 


7.– Da tali criteri si discosta, per molteplici ragioni, la disposizione censurata. 


8.– La 
disciplina 
dettata 
dal 
d.l. n. 151 del 
2008, come 
convertito, si 
prefigge 
di 
evitare 
che 
le 
limitate 
risorse 
dello Stato siano sviate 
dal 
sostegno delle 
vittime 
della 
mafia 
e 
del 
terrorismo 
e 
avvantaggino, per vie 
indirette, le 
stesse 
associazioni 
criminali 
che 
intendono contrastare. 


La 
scelta 
legislativa 
di 
prescrivere 
le 
verifiche 
più 
approfondite 
nell’attribuzione 
delle 
provvidenze 
si 
correla, 
dunque, 
a 
una 
finalità 
legittima 
e 
trae 
origine 
dalla 
considerazione 
che, 
nei 
circuiti 
criminali 
e 
nelle 
famiglie 
che 
attorno 
ad 
essi 
gravitano, 
sono 
capillari 
i 
legami 
di mutuo sostegno, di connivenza o di tacita condivisione. 


9.– La finalità, pur legittima, è perseguita, tuttavia, con mezzi sproporzionati. 


La sproporzione si apprezza sotto un duplice versante. 


10.– Anzitutto, la legge già prescrive requisiti tassativi e stringenti di meritevolezza. 


L’art. 1, comma 
2, lettera 
b), della 
legge 
n. 302 del 
1990 sancisce 
il 
presupposto della 
totale 
estraneità della vittima diretta agli ambienti criminali. 


L’art. 9-bis 
della 
legge 
n. 302 del 
1990, introdotto dall’art. 1, comma 
259, della 
legge 
23 
dicembre 
1996, n. 662 (Misure 
di 
razionalizzazione 
della 
finanza 
pubblica), puntualizza 
che 
le 
condizioni 
di 
estraneità 
alla 
commissione 
degli 
atti 
terroristici 
o criminali 
e 
agli 
ambienti 
delinquenziali 
«sono richieste, per la 
concessione 
dei 
benefici 
previsti 
dalla 
presente 
legge, 
nei confronti di tutti i soggetti destinatari» e, dunque, non soltanto delle vittime dirette. 


Al 
fine 
di 
fugare 
ogni 
dubbio e 
di 
scongiurare 
il 
rischio di 
interpretazioni 
elusive, il 
legislatore, 
con l’art. 2-quinquies, comma 
1, lettera 
b), del 
d.l. n. 151 del 
2008, come 
convertito, 
dopo aver introdotto la 
disposizione 
censurata 
nel 
presente 
giudizio, ha 
scelto di 
subordinare 
il 
riconoscimento 
delle 
provvidenze 
ai 
superstiti 
alla 
condizione 
che 
«il 
beneficiario 
risulti 
essere 
del 
tutto estraneo ad ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali, ovvero risulti, al 
tempo del-
l’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava». 


È 
dunque 
immanente 
al 
sistema 
la 
necessità 
di 
una 
verifica 
rigorosa 
della 
radicale 
estraneità 
al 
contesto criminale. L’estraneità, peraltro, non si 
esaurisce 
nella 
mera 
condizione 
di 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


incensurato o, in negativo, nella 
mancanza 
di 
affiliazione 
alle 
consorterie 
criminali, ma 
postula, 
in positivo e 
in senso più pregnante, la 
prova 
di 
una 
condotta 
di 
vita 
antitetica 
al 
codice 
di comportamento delle organizzazioni malavitose. 


Su chi 
rivendica 
elargizioni 
o assegni 
vitalizi, grava 
l’onere 
di 
dimostrare 
in modo persuasivo 
l’estraneità, che 
assurge 
a 
elemento costitutivo del 
diritto, e 
la 
carenza 
di 
una 
prova 
adeguata ridonda a danno di chi reclama le provvidenze. 


L’assetto delineato dalla 
legge 
è 
già 
presidiato da 
accorgimenti 
e 
da 
cautele, che 
convergono 
nella 
necessità 
di 
una 
disamina 
accurata 
e 
conducono, ove 
permangano dubbi, al 
rigetto 
delle domande per difetto di prova dei presupposti normativi. 


L’esigenza 
di 
indirizzare 
la 
solidarietà 
dello Stato verso le 
persone 
meritevoli 
è 
già 
assicurata 
in 
modo 
efficace 
dalla 
prescrizione 
di 
una 
penetrante 
verifica 
giudiziale 
delle 
condizioni 
tipizzate dalla legge e dal rigoroso onere probatorio imposto al beneficiario. 


11.– 
In 
secondo 
luogo, 
si 
deve 
rilevare 
che 
la 
presunzione 
è 
viziata 
da 
un’irragionevolezza 
intrinseca. 


11.1.– La 
legge 
conferisce 
rilievo a 
rapporti 
di 
parentela 
e 
di 
affinità 
fino al 
quarto grado, 
che 
includono una 
vasta 
categoria 
di 
persone 
e 
si 
caratterizzano per una 
diversa, talvolta 
più 
tenue, intensità del vincolo familiare. 


Anche 
da 
un 
punto 
di 
vista 
oggettivo, 
la 
presunzione 
assoluta 
censurata 
contempla 
requisiti 
di 
particolare 
ampiezza: 
è 
sufficiente 
che 
il 
parente 
o l’affine 
entro il 
quarto grado sia 
sottoposto 
a 
un 
procedimento 
per 
l’applicazione 
di 
una 
misura 
di 
prevenzione 
o 
che 
a 
tale 
misura 
sia 
già 
in concreto assoggettato o che, in alternativa, sia 
coinvolto in un procedimento penale 
per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale. 


Tale 
catalogo, 
che 
si 
è 
arricchito 
nel 
volgere 
degli 
anni, 
annovera 
fattispecie 
incriminatrici 
contraddistinte 
da 
un 
disvalore 
eterogeneo 
e 
disancorate 
da 
un 
comune 
riferimento 
al 
contesto 
della criminalità terroristica o mafiosa. 


11.2.– La 
latitudine 
del 
meccanismo presuntivo consente, pertanto, di 
ipotizzare 
in modo 
agevole 
che, 
al 
rapporto 
di 
parentela 
o 
di 
affinità 
fino 
al 
quarto 
grado, 
possa 
non 
corrispondere 
alcuna contiguità al circuito criminale. 


nel 
tempo presente, anche 
i 
vincoli 
familiari 
si 
allentano e 
non è 
infrequente 
che 
si 
diradino 
i 
rapporti 
di 
prossimità 
che 
possono dare 
consistenza, anche 
in una 
cerchia 
più estesa 
di 
parenti e affini, alla presunzione assoluta sottoposta al vaglio di questa Corte. 


11.3.– A 
tale 
profilo di 
irragionevolezza, che 
smentisce 
la 
rispondenza 
della 
presunzione 
a 
un solido fondamento empirico, si 
associa 
un ulteriore 
elemento di 
palese 
contraddittorietà. 


La 
condizione 
ostativa, nella 
sua 
assolutezza, pregiudica 
proprio coloro che 
si 
siano dissociati 
dal 
contesto 
familiare 
e, 
per 
tale 
scelta 
di 
vita, 
abbiano 
sperimentato 
l’isolamento 
e 
perdite dolorose. 


Così 
strutturata, 
la 
presunzione 
assoluta 
si 
configura 
come 
uno 
stigma 
per 
l’appartenenza 
a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita. 


12.– La 
presunzione 
assoluta 
vìola 
anche 
il 
diritto di 
agire 
e 
difendersi 
in giudizio (art. 
24 Cost.), impedendo di 
dimostrare 
al 
soggetto interessato, con tutte 
le 
garanzie 
del 
giusto 
processo, di meritare appieno i benefici che lo Stato accorda. 


È 
la 
dialettica 
del 
processo, con il 
dispiegarsi 
del 
contraddittorio, che 
consente 
di 
ricostruire 
in maniera 
completa 
la 
storia 
personale 
e 
familiare 
delle 
parti 
e 
di 
delineare, al 
di 
là 
di 
rigidi e penalizzanti meccanismi presuntivi, la specificità di ogni vicenda. 


In un giudizio che 
coinvolge 
le 
vite 
dei 
singoli 
e 
gli 
stessi 
valori 
fondamentali 
della 
convivenza 
civile, emerge 
nitida 
la 
necessità 
di 
un accertamento esaustivo, che 
dissipi 
le 
ombre 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


e 
le 
incertezze 
e 
restituisca 
alla 
collettività 
un quadro circostanziato, senza 
imbrigliare 
nella 
rigidità delle presunzioni assolute la ricchezza, multiforme e contraddittoria, del reale. 


13.– Sarà 
il 
ponderato apprezzamento del 
giudice 
a 
riscontrare, con il 
metro esigente 
che 
la 
normativa 
impone, la 
meritevolezza 
di 
chi 
richiede 
i 
benefici, alla 
stregua 
delle 
condizioni 
fissate, in termini 
generali, dall’art. 2-quinquies, comma 
1, lettera 
b), del 
d.l. n. 151 del 
2008, 
come convertito. 


nell’apprezzamento in concreto che 
il 
giudice 
è 
chiamato a 
compiere, i 
vincoli 
di 
parentela 
o di 
affinità 
richiedono un vaglio ancor più incisivo sull’assenza 
di 
ogni 
contatto con ambienti 
delinquenziali, 
sulla 
scelta 
di 
recidere 
i 
legami 
con 
la 
famiglia 
di 
appartenenza, 
su 
quell’estraneità 
che 
presuppone, in termini 
più netti 
e 
radicali, una 
condotta 
di 
vita 
incompatibile 
con le logiche e le gerarchie di valori invalse nel mondo criminale. 


14.– In conclusione, si 
deve 
dichiarare 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 2-quinquies, 
comma 
1, lettera 
a), del 
d.l. n. 151 del 
2008, come 
convertito, nel 
testo modificato dall’art. 2, 
comma 
21, 
della 
legge 
n. 
94 
del 
2009, 
limitatamente 
alle 
parole 
«parente 
o 
affine 
entro 
il 
quadro 
grado». 


PEr QuESTI MOTIVI 


LA COrTE COSTITuzIOnALE 


dichiara 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 2-quinquies, comma 
1, lettera 
a), del 
de-
creto-legge 
2 ottobre 
2008, n. 151 (Misure 
urgenti 
in materia 
di 
prevenzione 
e 
accertamento 
di 
reati, 
di 
contrasto 
alla 
criminalità 
organizzata 
e 
all’immigrazione 
clandestina), 
inserito 
dalla 
legge 
di 
conversione 
28 
novembre 
2008, 
n. 
186, 
e 
successivamente 
modificato 
dall’art. 
2, 
comma 
21, della 
legge 
15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni 
in materia 
di 
sicurezza 
pubblica), 
limitatamente alle parole «parente o affine entro il quarto grado». 


Così 
deciso in roma, nella 
sede 
della 
Corte 
costituzionale, Palazzo della 
Consulta, il 
21 
maggio 2024. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


La censurabilità in Cassazione 
del c.d. travisamento della prova: la pronuncia 
delle sezioni Unite 5 marzo 2024 n. 5792 


“Il 
travisamento del 
contenuto oggettivo della prova, il 
quale 
ricorre 
in caso di 
svista concernente 
il 
fatto probatorio in sé, e 
non di 
verifica logica della riconducibilità dell’informazione 
probatoria al 
fatto probatorio, trova il 
suo istituzionale 
rimedio nell’impugnazione 
per 
revocazione 
per 
errore 
di 
fatto, in concorso dei 
presupposti 
richiesti 
dall’articolo 395, n. 4, 
c.p.c., mentre, ove 
il 
fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul 
quale 
la sentenza 
ebbe 
a pronunciare, e 
cioè 
se 
il 
travisamento rifletta la lettura del 
fatto probatorio prospettata 
da una delle 
parti, il 
vizio va fatto valere, in concorso dei 
presupposti 
di 
legge, ai 
sensi 
dell’articolo 360, nn. 4 e 
5, c.p.c., a seconda si 
tratti 
di 
fatto processuale 
o sostanziale” 


« 
1. 
Con la 
presente 
memoria 
(*), in vista 
dell’udienza 
pubblica 
del 
7 novembre 
2023, 
la 
scrivente 
difesa 
erariale 
intende 
prendere 
posizione 
sulla 
questione 
di 
massima 
di 
particolare 
rilevanza, 
oggetto 
di 
rimessione 
a 
codeste 
Sezioni 
unite, concernente 
la 
censurabilità 
con il 
ricorso per cassazione 
del 
vizio di c.d. «travisamento della prova». 
Come 
è 
noto, la 
predetta 
questione 
è 
stata 
rimessa 
con ordinanza interlocutoria 
del 
29 marzo 2023, n. 8895 
resa 
nel 
presente 
giudizio nonché 
con 
la 
coeva 
ordinanza 
interlocutoria 
del 
27 
aprile 
2023, 
n. 
11111 
resa 
nell’ambito 
della 
controversia 
n.r.g. 
28604/2020, 
per 
cui 
è 
fissata 
la 
medesima 
udienza 
pubblica del 7 novembre 2023. 


Le 
due 
ordinanze 
interlocutorie 
palesano 
il 
contrasto 
giurisprudenziale 
che il massimo consesso di codesta Suprema Corte è chiamato a comporre. 


nella 
visione 
tradizionale 
-condivisa 
dall’ordinanza 
n. 
8895/23 
sulla 
scia 
di 
numerosi 
precedenti 
-è 
escluso 
che 
il 
vizio 
di 
travisamento 
della 
prova 
possa 
ricondursi 
ad alcuna 
delle 
censure 
tipizzate 
del 
ricorso per cassazione, 
ritenendosi 
l’errore 
percettivo 
nel 
processo 
civile 
censurabile 
unicamente 
nella 
sede 
ed entro i 
limiti 
del 
giudizio per revocazione; 
ed ostandovi 
la 
combinata 
circostanza 
secondo cui: 
a) il 
vizio di 
motivazione 
risulta 
ormai 
circoscritto 
ai 
soli 
errori 
omissivi 
sul 
fatto 
(e 
qui 
si 
discute, 
invece, 
di 
un 
errore 
consumato 
«per commissione»); 
e 
b) anche 
il 
vizio sul 
procedimento, per il 
tramite 
della 
violazione 
all’art. 
115 
c.p.c., 
sarebbe 
incongruo, 
stante 
che 
tale 
norma, 
nel 
sancire 
il 
principio secondo il 
quale 
il 
giudice 
deve 
decidere 
secundum 
iuxta 
alligata et 
probata, potrà 
dirsi 
violato solo quando il 
giudice 
di 
merito abbia 
posto 
a 
base 
della 
decisione 
prove 
effettivamente 
non 
dedotte 
dalle 
parti 
(e 
non invece 
dedotte, ma 
«travisate») o disposte 
d’ufficio al 
di 
fuori 
dei 
limiti 
legali. 

(*) 
Memoria prodotta dalla Avvocatura generale 
dello Stato nel 
giudizio iscritto al 
n. 17679 del 
2020, 
(AL 27459/2020, avv. Stato Emanuele Manzo). 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Al 
contrario, 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
del 
27 
aprile 
2023, 
n. 
11111, 
sulla 
scorta 
di 
precedenti 
pronunce 
(numericamente 
minori, 
ma 
non 
certo 
sporadiche 
a 
partire, 
almeno, 
dal 
2017), 
contrasta 
tale 
lettura 
e 
individua 
proprio 
nell’art. 
115 
c.p.c. 
la 
norma 
la 
cui 
violazione 
è 
legittimamente 
riconducibile 
(anche) 
alla 
fattispecie 
di 
travisamento 
della 
prova, 
muovendo 
dal 
presupposto 
che 
tale 
vizio, 
sulla 
falsariga 
di 
quanto 
ritenuto 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
penalistica, 
risolvendosi 
in 
un 
errore 
che 
cade 
sul 
significante, 
e 
non 
sul 
significato 
della 
prova, 
si 
traduce 
nell’utilizzo 
di 
una 
prova 
sempre 
«inesistente». 


In entrambe 
le 
ordinanze, a 
fronte 
delle 
contrapposte 
ricostruzioni 
sistematiche, 
non manca, peraltro, l’esplicitazione 
delle 
ragioni 
di 
valore 
addotte 
a 
sostegno delle 
rispettive 
visioni: 
da 
un lato (nell’ordinanza 
n. 8895/23), il 
bisogno 
di 
preservare 
la 
«Corte 
di 
legittimità 
dal 
rischio 
(...) 
di 
scivolare 
verso 
una 
inconsapevole 
trasformazione 
in 
un 
tribunale 
di 
terza 
istanza»; 
dall’altro 
(nell’ordinanza 
n. 
11111/23), 
l’estremo 
«valore 
della 
giustizia 
della 
decisione» 
(«valore 
primario del 
processo») ed il 
bisogno di 
non lasciar privo di 
rimedi 
un errore 
«percettivo» sol 
perché 
il 
fatto su cui 
esso cade 
sia 
stato oggetto di 
contestazione 
fra 
le 
parti, 
non 
potendo 
perciò 
essere 
ricondotto 
alla 
fattispecie 
di errore revocatorio ex 
art. 395, n. 4, c.p.c. 


Detto 
altrimenti, 
la 
questione 
all’esame 
di 
codeste 
Sezioni 
unite 
è 
destinata 
ad 
incidere 
sul 
ruolo 
e 
la 
funzione 
che 
l’ordinamento 
assegna 
alla 
Corte 
di 
Cassazione, 
trattandosi 
di 
individuare, 
alla 
luce 
dei 
principi 
costituzionali 
e 
sovranazionali, 
quel 
corretto 
punto 
di 
equilibrio 
tra 
“la 
salvaguardia 
rigorosa 
dei 
limiti 
propri 
del 
giudizio 
di 
cassazione 
e 
l’ansia 
di 
giustizia 
del 
caso 
concreto 
che 
sovente 
spinge 
il 
giudice 
di 
legittimità 
a 
volersi 
far 
carico 
anche 
degli 
aspetti 
fattuali 
delle 
vicende 
delle 
quali 
gli 
capita 
di 
doversi 
occupare”, 
ansia 
che 
tuttavia 
-come 
già 
autorevolmente 
sostenuto 
-“non 
va 
rimossa, 
perché 
essa 
resta 
essenziale 
alla 
professionalità 
di 
ogni 
giudice, 
in 
qualsiasi 
grado 
e 
funzione, 
se 
egli 
vuole 
evitare 
di 
trasformarsi 
col 
tempo 
in 
un 
burocrate 
della 
legge” 
(così 
r. 
rOrDOrF, 
Fatto 
e 
diritto 
nel 
giudizio 
di 
cassazione, 
in 
M. 
ACIErnO, 
P. 
CurzIO, 
A. 
GIuSTI 
(a 
cura 
di), 
La 
Cassazione 
civile, 
Bari 
2020, 
69). 


*** 


2. 
Ciò 
premesso, 
ad 
avviso 
di 
questa 
difesa 
la 
tesi 
giuridicamente 
corretta 
e 
conforme 
ai 
principi 
costituzionali 
(artt. 
24 
e 
111 
Cost.) 
e 
sovranazionali 
(art. 6 CEDu) è 
quella 
prospettata 
nell’ordinanza n. 11111/23, dovendosi 
ritenere 
censurabile, 
ai 
sensi 
dell’art. 
360 
n. 
4 
c.p.c., 
per 
violazione 
dell’art. 
115 
c.p.c., 
l’errore 
di 
percezione 
che 
sia 
caduto 
sul 
contenuto 
oggettivo 
della 
prova, 
qualora 
investa 
una 
circostanza 
che 
abbia 
formato oggetto di 
discussione 
tra 
le parti ed abbia carattere di 
decisività. 
Soluzione 
che, 
come 
sin 
da 
subito 
giova 
evidenziare, 
è 
condivisa 
dalla 
pressoché 
unanime 
dottrina 
processual-civilistica 
(cfr. I. Pagni, Travisamento 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


della 
prova, 
difetto 
di 
motivazione 
ed 
errore 
revocatorio, 
in 
Riv. 
Dir. 
Proc., 
2023, 2, 564, a 
cui 
è 
largamente 
ispirata 
la 
stessa 
ordinanza 
n. 11111/23; 
nonché 
V. CAPASSO, Sul 
travisamento della prova nel 
processo civile, in Riv. Dir. 
Proc., 
2023, 
3, 
1253; 
sebbene 
in 
una 
prospettiva 
maggiormente 
problematica, 
di 
maggior 
forza 
persuasiva 
dell’ordinanza 
n. 
11111/23 
discorre 
anche 
G. 
rAITI, 
Il 
travisamento 
della 
prova 
nel 
processo 
civile 
e 
la 
sua 
controversa 
censurabilità 
in cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2023, 3, 1211). 


Ciò per le ragioni che di seguito si esporranno. 


3. 
non 
pare 
anzitutto 
condivisibile 
quanto 
affermato 
dall’ordinanza 
n. 
8895/23, 
laddove 
si 
invoca 
l’impossibilità 
di 
distinguere 
(prendendo 
in 
prestito 
una 
dicotomia 
diffusa 
nella 
giurisprudenza 
penale) fra 
errore 
sul 
significante 
ed errore 
sul 
significato ossia 
fra 
travisamento «della 
prova» e 
travisamento 
«del 
fatto», quale 
criterio discretivo fra 
errore 
percettivo e 
valutativo, al 
fine 
di 
escludere 
che 
l’errore 
percettivo 
possa 
trovare 
ingresso 
quale 
censura 
in 
sede di legittimità. 
In 
disparte 
ogni 
considerazione 
sulla 
irriducibile 
diversità 
del 
processo 
penale 
e 
di 
quello civile 
(su cui 
v. infra), la 
giurisprudenza 
penale 
esclude 
il 
sindacato di 
legittimità 
sul 
travisamento del 
fatto mentre 
ammette 
quello sul 
travisamento della 
prova, individuando l’indice 
differenziale 
tra 
le 
due 
fattispecie 
patologiche 
nella 
circostanza 
che 
solo la 
seconda 
non richiede 
una 
rivalutazione 
del 
compendio 
probatorio, 
ma 
si 
limita 
a 
prendere 
atto 
di 
una 
indiscutibile 
difformità 
tra 
decisione, 
esistenza 
delle 
prove 
e 
risultato 
di 
prova. 
Inoltre, 
il 
travisamento 
della 
prova, 
nell’accezione 
invalsa 
nella 
giurisprudenza 
penale 
e 
condivisa 
dalla 
dottrina 
processual-penalistica, è 
tutt’altro che 
circoscritto 
(come 
invece 
rileva 
l’ordinanza 
n. 
8895/23) 
e 
si 
articola 
a 
propria 
volta 
in tre figure patologiche: 


a) 
la 
mancata 
valutazione 
di 
una 
prova 
decisiva 
(c.d. 
travisamento 
per 
omissione, su cui cfr. Cass. penale sez. VI, 5 febbraio 2020, n. 8610); 
b) l’utilizzazione 
di 
una 
prova 
sulla 
base 
di 
un’erronea 
ricostruzione 
del 
relativo 
“significante” 
(c.d. 
travisamento 
delle 
risultanze 
probatorie, 
su 
cui 
cfr. Cass. penale sez. I, 16 maggio 2022, n. 32278); 
c) 
l’utilizzazione 
di 
una 
prova 
non 
acquisita 
al 
processo 
(c.d. 
travisamento 
per invenzione, sui cui cfr. Cass. penale sez. V, 7 maggio 2021, n. 265219). 
Trasferendo 
tali 
considerazioni 
al 
processo 
civile, 
può 
dunque 
ritenersi 
che 
ammettere 
il 
vizio 
di 
travisamento 
del 
fatto 
equivarrebbe 
ad 
attribuire 
al 
giudice 
di 
legittimità 
il 
compito 
(non 
consentito) 
di 
esaminare 
più 
atti 
per 
interpretarli 
e 
coordinarli 
tra 
loro 
con 
un’operazione 
di 
ricostruzione 
logica 
e 
argomentativa, 
che 
tipicamente 
appartiene 
al 
merito 
del 
giudizio 
-fatto 
salvo 
il 
caso 
in 
cui 
tale 
vizio 
si 
traduca 
in 
una 
motivazione 
manifestamente 
illogica 
che 
faccia 
venir 
meno 
il 
minimo 
costituzionale 
di 
motivazione 
(come 
è 
noto 
sindacabile 
per 
violazione 
dell’art. 
111, 
comma 
6, 
Cost., 
degli 
artt. 
132 
c.p.c., 
comma 
1, 
n. 
4, 
e 
118 
disp. 
att. 
c.p.c., 
ex 
art. 
360 
n. 
4, 
c.p.c.); 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


al 
contrario, 
il 
travisamento 
della 
prova 
non 
implica 
(come 
si 
osserva 
in 
dottrina) 
un’attività 
di 
armonizzazione 
delle 
prove 
ovvero 
di 
ricostruzione 
dei 
fatti, 
ma 
impone 
al 
giudice 
una 
operazione 
quasi 
meccanica 
di 
raffronto 
tra 
testi. 
Il 
travisamento 
della 
prova 
integra, 
analogamente 
all’ipotesi 
in 
cui 
il 
giudice 
abbia 
posto 
a 
fondamento 
della 
decisione 
una 
prova 
inesistente, 
una 
violazione 
dell’art. 
115 
c.p.c., 
denunciabile 
ex 
art. 
360, 
n. 
4, 
come 
motivo 
di 
nullità 
della 
sentenza. 
Come 
osservano 
al 
riguardo 
i 
processual-penalisti, 
con 
riferimento 
alla 
prova 
travisata 
o 
alla 
prova 
ignorata 
“non 
c’è 
bisogno 
di 
impantanarsi 
nel 
fatto, 
perché 
si 
tratta 
di 
specifiche 
informazioni 
probatorie 
accertabili 
ictu 
oculi” 
(F.M. 
IACOVIELLO, 
Il 
giudizio 
di 
cassazione, 
in 


G. 
SPAnGhEr 
(diretto 
da), 
Trattato 
di 
procedura 
penale, 
V, 
Impugnazioni, 
Torino 
2010, 
697). 
4. In ogni 
caso, anche 
a 
voler ritenere 
che 
il 
travisamento «del 
fatto» e 
quello 
«della 
prova» 
introducano 
una 
distinzione 
errata 
-per 
come 
afferma 
l’ordinanza 
n. 8895/23 -è 
comunque 
ben nota 
al 
diritto positivo (e 
alla 
giurisprudenza) 
la 
distinzione 
qui 
cruciale 
fra 
errore 
di 
«valutazione» ed errore 
di 
«percezione» 
della 
prova. 
Ebbene, 
l’orientamento 
che 
condivide 
la 
distinzione 
tra 
errore 
sul 
significante 
ed errore 
sul 
significato non crea 
affatto un tertium 
genus 
di 
errore, come 
ritiene 
l’ordinanza 
n. 8895/23, tendendo, piuttosto, ad 
includere 
il 
travisamento della 
prova 
fra 
gli 
errori 
percettivi, per concludere 
che 
un siffatto errore 
non può restare 
indenne 
da 
censura 
sol 
perché 
vertente 
su fatto controverso. 
Partendo 
proprio 
da 
questo 
dato 
l’ordinanza 
n. 
11111/23 
fornisce 
una 
condivisibile, 
puntuale 
e 
rigorosa 
definizione 
dell’errore 
percettivo 
sindacabile 
in 
sede 
di 
legittimità. Secondo questa 
lettura, il 
travisamento della 
prova 
censurabile 
in cassazione, ai 
sensi 
dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione 
dell’art. 
115 c.p.c., postula: 


a) 
che 
l’errore 
del 
giudice 
di 
merito 
cada 
non 
sulla 
valutazione 
della 
prova 
(demostrandum), ma 
sulla 
ricognizione 
del 
contenuto oggettivo 
della 
medesima 
(demostratum), 
con 
conseguente 
assoluta 
impossibilità 
logica 
di 
ricavare, 
dagli 
elementi 
acquisiti 
al 
giudizio, i 
contenuti 
informativi 
che 
da 
essi 
il 
giudice 
di merito ha ritenuto di poter trarre; 
b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione 
nel giudizio; 
c) 
che 
l’errore 
sia 
decisivo, 
in 
quanto 
la 
motivazione 
sarebbe 
stata 
diversa 
se 
fosse 
stata 
correttamente 
fondata 
sui 
contenuti 
informativi 
oggettivamente 
risultanti 
dal 
materiale 
probatorio ed inequivocamente 
difformi 
da 
quelli 
erroneamente 
desunti dal giudice di merito; 
d) che 
il 
giudizio sulla 
diversità 
della 
decisione 
sia 
espresso non già 
in 
termini di mera probabilità, ma di assoluta certezza. 
È 
del 
tutto 
ragionevole 
predicare 
l’equivalenza 
fra 
un 
errore 
così 
definito 
con quello revocatorio, sì 
da 
doversene 
ricavare 
un distinto spazio di 
censurabilità, 
non 
potendosi 
ritenere 
che 
un 
così 
grave 
errore 
possa 
essere 
tout 
court 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


assimilato a 
quelli 
valutativi, e 
perciò sottratto a 
qualsiasi 
censura 
in sede 
di 
legittimità alla luce del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. 


Del 
resto, l’ordinanza 
n. 8895/23, a 
parte 
l’argomento della 
non configurabilità 
di 
un terzo genere 
di 
errore 
oltre 
quelli 
«valutativi» o «percettivi» (argomento, 
come 
detto, non pertinente), non sembra 
apportare 
ragioni 
effettive 
che 
esplichino il 
perché 
un errore 
percettivo non possa 
legittimamente 
concepirsi 
oltre i limiti di quanto descritto nell’art. 395, n. 4, c.p.c. 

Gli 
argomenti 
portati 
dall’ordinanza 
n. 8895/23 si 
risolvono, infatti, nel 
richiamo alla 
pregressa 
giurisprudenza 
sulla 
questione 
(su entrambe 
le 
posizioni 
in campo) e 
nel 
ribadimento del 
dato sistematico, astrattamente 
considerato, 
dell’incensurabilità 
in 
cassazione 
dell’errore 
valutativo 
(al 
quale 
si 
ritiene 
debba 
ricondursi 
ogni 
altro 
errore 
che 
non 
sia 
quello 
revocatorio 
ex 
art. 
395, n. 4). Per poi 
specificare 
di 
non poter piegare 
a 
tale 
funzione 
la 
censura 
del 
vizio «sul 
procedimento» (ex 
art. 360, n. 4) per violazione 
dell’art. 115, il 
quale 
sarebbe 
circoscritto alla 
sola 
eccezionale 
evenienza 
in cui 
l’errore 
sul 
fatto sia 
generato dall’aver il 
giudice 
compiuto l’inferenza 
istruttoria 
con riferimento 
ad un mezzo di 
prova 
non dedotto dalle 
parti 
(o disposte 
d’ufficio 
al 
di 
fuori 
dei 
limiti 
legali), consumando così 
un’illegittimità 
che, secondo la 
categorizzazione 
propria 
alla 
dottrina 
processual-penalistica, 
potrebbe 
definirsi 
del travisamento della prova «per invenzione». 


L’ordinanza 
n. 8895/23 svaluta 
invece 
del 
tutto il 
discorso, che 
pare 
invece 
decisivo, intorno alla 
condizione 
di 
non pacificità 
fra 
le 
parti 
della 
forza 
rappresentativa 
della 
prova 
sul 
fatto preteso oggetto d’errore, limitandosi 
ad 
argomentare 
in 
ordine 
all’arbitrarietà 
della 
distinzione 
fra 
travisamento 
del 
«fatto» e 
travisamento della 
«prova» ed a 
ricondurre 
unicamente 
alla 
revocazione 
la 
censura 
per errore 
«percettivo», sottratta 
dunque 
a 
qualsivoglia 
censura 
di legittimità, indipendentemente dalla gravità dell’errore. 


Diversamente, l’ordinanza 
n. 11111/23 si 
fa 
carico di 
esporre 
le 
ragioni 
ritenute 
capaci 
di 
giustificare 
la 
doverosità 
del 
riconoscimento di 
una 
censura 
di travisamento della prova «oltre» l’angusto spazio del rimedio revocatorio. 


un 
simile 
travisamento 
integra 
del 
resto 
un 
fraintendimento 
equivalente 
a 
quello 
revocatorio, 
poiché 
parimenti 
generato 
da 
una 
disfunzione 
percettiva, 
sicché 
già 
sotto 
tale 
profilo 
appare 
doveroso 
riconoscerne 
una 
sindacabilità. 
Il 
travisamento 
della 
prova 
su 
fatto 
contestato 
esprime 
infatti 
un 
disvalore 
grave 
quanto 
quello 
sul 
fatto 
non 
contestato 
e 
merita 
perciò 
un 
adeguato 
ed 
analogo 
spazio 
di 
censurabilità, 
per 
quanto 
«altrove» 
che 
in 
seno 
alla 
revocazione. 


non pare 
allora 
ragionevole 
ritenere 
che 
l’espressa 
affermazione 
o negazione 
di 
un fatto avulso dalla 
realtà 
processuale 
-di 
per sé 
sempre 
frutto di 
un 
giudizio, ancorché 
palesemente 
errato, sul 
demonstratum 
-possa 
considerarsi 
diversamente 
in base 
al 
solo dato formale 
della 
intervenuta, o meno, discussione 
delle parti. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


nell’ordinanza 
n. 8895/23 la 
distinzione 
tra 
demonstratum 
e 
demonstradum 
è 
come 
detto 
contestata; 
eppure, 
il 
distinguo 
appare 
riproporre 
esattamente 
-con riferimento alla 
valutazione 
della 
prova 
-quello già 
assunto da 
Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747 onde 
distinguere 
ciò che 
è 
attività 
interpretativa 
della 
legge 
(non 
suscettibile 
di 
dar 
luogo 
a 
responsabilità 
civile 
del 
giudice) e 
ciò che 
è 
pura 
e 
semplice 
invenzione 
della 
norma, i.e. 
la 
distinzione 
tra significante e significato. 


né, 
ove 
discussione 
vi 
sia 
stata, 
alla 
censurabilità 
dell’errore 
in 
cassazione 
potrebbe 
opporsi, 
come 
vorrebbe 
l’ordinanza 
n. 
8895/23, 
l’argomento 
dell’insindacabilità 
del 
giudizio 
di 
fatto 
operato 
dal 
giudice 
di 
merito: 
perché, 
come 
noto, 
ove 
di 
error 
in 
procedendo 
si 
tratti, 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
da 
sempre 
riconosce 
il 
potere 
di 
accedere 
direttamente 
agli 
atti 
e 
di 
sovrapporre 
la 
propria 
interpretazione 
a 
quella 
(eventualmente) 
fornita 
dal 
giudice 
di 
merito. 


5. 
Condivisibilmente 
l’ordinanza 
n. 
11111/2023, 
dopo 
aver 
svolto 
un’analisi 
storica 
sul 
vizio 
di 
motivazione, 
prestatosi, 
fino 
al 
2012, 
ad 
accogliere 
tale 
genere 
di 
errori, 
e 
poi, 
come 
noto, 
divenuto 
inidoneo 
a 
contenerlo, 
prende 
atto 
che 
un esito interpretativo che, in ipotesi, escludesse 
la 
censura 
a 
mente 
del 
n. 
4, «finirebbe 
(...) per 
consolidare 
un’inemendabile 
forma di 
patente 
illegittimità 
della decisione, in contrasto con il 
principio dell’effettività della tutela, 
qualora essa si 
fondi 
sulla ricognizione 
obbiettiva del 
contenuto della prova 
che 
conduca 
ad 
una 
conclusione 
irredimibilmente 
contraddetta, 
in 
modo 
tanto 
inequivoco 
quanto 
decisivo, 
dalla 
prova 
travisata, 
sui 
cui 
le 
parti 
hanno 
avuto 
modo di discutere». 
Gli 
artt. 24 e 
111 Cost., come 
chiarito dalla 
sentenza 
della 
Corte 
cost. 5 
maggio 
2021, 
n. 
89, 
impongono 
di 
ritenere 
passibili 
di 
revocazione 
ex 
art. 
395, 
n. 
4 
tutti 
i 
provvedimenti 
decisori, 
ancorché 
non 
«sentenze» 
in 
senso 
formale, 
quale 
espressione 
del 
canone 
del 
giusto processo: 
ciò in quanto la 
possibilità 
di 
emendare 
dall’errore 
percettivo 
il 
provvedimento 
giurisdizionale 
rappresenta 
l’irrinunciabile 
presidio 
dell’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale. 


Si 
noti 
che, 
quando 
il 
fatto 
abbia 
costituito 
un 
punto 
controverso 
nel 
corso 
del 
giudizio nel 
quale 
il 
giudice 
ebbe 
a 
pronunciarsi, il 
relativo vizio non può 
pacificamente 
essere 
fatto 
valere 
come 
motivo 
di 
revocazione; 
tuttavia, 
la 
giurisprudenza 
di 
codesta 
Corte, prima 
della 
modifica 
dell’art. 360, n. 5 c.p.c., 
era 
altrettanto pacifica 
nel 
ritenere 
che 
in tal 
caso il 
vizio dovesse 
poter essere 
fatto 
valere 
nel 
giudizio 
di 
cassazione, 
come 
vizio 
di 
motivazione. 
Sicché 
non 
vi era spazio alcuno per potenziali vuoti di tutela. 


non 
pare 
allora 
condivisibile 
la 
conclusione 
cui 
giunge 
l’ordinanza 
n. 
8895/23, secondo cui 
nella 
vigenza 
del 
n. 5 anteriore 
al 
2012 il 
travisamento 
poteva 
dar luogo a 
ricorso per cassazione 
come 
vizio di 
motivazione 
mentre 
oggi 
tale 
possibilità 
sarebbe 
irrimediabilmente 
preclusa 
(dato 
che 
il 
travisamento 
non può formare 
oggetto di 
una 
omissione): 
anche 
in questo caso, in



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


fatti, deve 
operare 
il 
principio, affermato dalla 
giurisprudenza 
costituzionale, 
secondo 
cui 
la 
possibilità 
di 
emendare 
dall’errore 
percettivo 
il 
provvedimento 
giurisdizionale è presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale. 


In tal 
senso depone, come 
correttamente 
rileva 
l’ordinanza 
n. 11111/23, 
anche 
un’interpretazione 
convenzionalmente 
orientata 
(art. 
6 
CEDu) 
posto 
che, 
applicando 
i 
canoni 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDu, 
concludere 
per l’incensurabilità 
in Cassazione 
del 
travisamento della 
prova 
potrebbe 
costituire 
un’ipotesi 
di 
«inammissibilità 
non 
espressamente 
prevista 
dalla 
legge», «non prevedibile 
con certezza ex 
ante», né 
risultante 
da 
un orientamento 
consolidato, 
e, 
per 
tali 
ragioni, 
dunque, 
«irrispettosa 
di 
tutti 
i 
parametri 
dettati 
dalla 
Corte 
di 
Strasburgo 
in 
tema 
di 
limitazione 
del 
diritto 
di 
impugnazione
» 
(Corte 
EDu, 
sez. 
I, 
15 
settembre 
2016, 
Trevisanato 
c. 
Italia, 
in 
causa 
n. 32610/07, §§ 42-44, ove 
ulteriori 
ed ampi 
riferimenti 
ai 
precedenti 
conformi; 
nonché 
soprattutto 
sentenza 
del 
28 
ottobre 
2021, 
in 
causa 
n. 
55064/11, 
Succi 
c. 
Italia). 
una 
simile 
interpretazione, 
in 
definitiva, 
rischierebbe 
di 
integrare 
una 
interferenza 
non proporzionata 
e 
di 
pregiudicare 
la 
sostanza 
stessa 
del 
«diritto» 
del 
ricorrente 
«a 
un 
tribunale», 
con 
conseguente 
rischio di 
condanna 
dello Stato per violazione 
dell’art. 6 CEDu, atteso “le 
restrizioni 
dell’accesso 
alle 
corti 
di 
cassazione 
non 
possono 
limitare, 
attraverso 
un’interpretazione 
troppo formalistica, il 
diritto di 
accesso a un tribunale 
in 
modo tale 
o a tal 
punto che 
il 
diritto sia leso nella sua stessa sostanza”(Succi 


c. 
Italia, 
sopra 
citata, 
§ 
81, 
Zubac 
c. 
Croazia, 
n. 
40160/12, 
§ 
98, 
5 
aprile 
2018, 
Vermeersch c. Belgio, 49652/10, § 79, 16 febbraio 2021, Efstratiou e 
altri 
c. 
Grecia, 
n. 
53221/14, 
§ 
43, 
19 
novembre 
2020, 
Trevisanato, 
sopra 
citata, 
§ 
38). 
Del 
resto, 
come 
ancora 
correttamente 
rileva 
l’ordinanza 
n. 
11111/23, 
ogni 
diversa 
soluzione 
si 
rivelerebbe 
pure 
asistematica, 
risultando 
del 
tutto 
irragionevole 
un sistema 
che, da 
un lato, non offra 
tutela 
alcuna 
in ogni 
caso in cui 
il 
giudice 
abbia 
travisato 
la 
prova, 
e 
che 
tuttavia, 
dall’altro, 
consenta 
(paradossalmente) 
la 
condanna 
dello 
Stato 
per 
responsabilità 
del 
magistrato 
ai 
sensi 
della 
legge 
13 aprile 
1988 n. 117, laddove 
questi 
abbia 
emesso provvedimenti 
giudiziari 
in base 
a 
quello stesso travisamento (posto che 
a 
mente 
del 
relativo 
art. 2 comma 
3, costituisce 
colpa 
grave 
addirittura 
il 
travisamento del 
fatto, 
oltre che delle prove) (1). 


(1) Come 
efficacemente 
evidenziato in dottrina, «il 
sistema giurisdizionale 
civile 
entra in cortocircuito: 
da 
un 
lato, 
si 
sbarra 
l’accesso 
al 
controllo 
logico 
di 
congruità, 
coerenza 
e 
completezza 
del 
giudizio di 
fatto in sede 
di 
legittimità con i 
più varii 
espedienti 
(il 
riscritto n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nella 
lettura subito offerta dalle 
Sezioni 
unite 
nel 
2014; la «doppia conforme» ex 
art. 348-ter, ultimi 
commi, 
c.p.c.; gli 
stringenti 
requisiti 
di 
cui 
al 
n. 4 dell’art. 395 c.p.c. per 
ammettere 
la revocazione 
per 
errore 
di 
fatto); 
dall’altro 
lato, 
si 
presta 
il 
fianco 
ad 
azioni 
risarcitorie 
contro 
lo 
Stato-giudice 
per 
travisamento 
dei 
fatti 
o delle 
prove 
o per 
errore 
pseudorevocatorio. L’ordinamento consente 
di 
esperire 
ex 
post 
e 
in 
via risarcitoria contro lo Stato quel 
rimedio in forma specifica che 
nega in sede 
impugnatoria». Ciò 
che, 
da 
un 
lato, 
induce 
a 
domandarsi 
«[q]ual 
mai 
vantaggio 
si 
ottenga 
nel 
far 
questo» 
(A. 
TEDOLDI, 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


6. Giova 
da 
ultimo evidenziare 
che 
non pare 
nemmeno condivisibile 
la 
suggestione 
ipotizzata 
dall’ordinanza 
n. 8895/23, secondo cui, riconoscendo 
un sindacato di 
legittimità 
sul 
travisamento della 
prova 
a 
mezzo dell’art. 115 
c.p.c., quanto meno nei 
casi 
di 
c.d. doppia 
conforme 
“si 
finirebbe 
paradossalmente 
per 
ammettere, innanzi 
alle 
Sezioni 
civili 
di 
questa Corte, un controllo 
sul 
giudizio di 
fatto e 
sulle 
prove 
perfino più ampio di 
quanto non sia ammissibile 
in sede penale” (così l’ordinanza n. 8895/23). 
In 
primo 
luogo, 
ogni 
confronto 
tra 
i 
due 
sistemi 
processuali 
non 
pare 
utilmente 
predicabile. 
nel 
processo 
penale, 
in 
cui 
è 
deducibile 
in 
Cassazione 
il 
vizio 
di 
motivazione 
(ai 
sensi 
dell’art. 
606 
lett. 
e) 
c.p.p. 
per 
“mancanza, 
contraddittorietà 


o 
manifesta 
illogicità 
della 
motivazione”) 
ed 
è 
specularmente 
ignoto 
il 
rimedio 
delle 
revocazione 
per 
errore 
di 
fatto, 
la 
c.d. 
“doppia 
conforme” 
preclusiva 
alla 
sindacabilità 
in 
Cassazione 
del 
vizio 
di 
travisamento 
della 
prova, 
codificata 
all’art. 
608, 
comma 
1-bis, 
c.p.p., 
riguarda 
anzitutto 
le 
sentenze 
di 
proscioglimento 
ed 
assolve 
ad 
una 
funzione 
ben 
precisa 
nella 
prospettiva 
della 
presunzione 
di 
non 
colpevolezza. 
Le 
ragioni 
che 
hanno 
indotto 
il 
legislatore 
a 
vietare 
un 
nuovo 
esame 
in 
Cassazione 
delle 
prove 
e 
delle 
argomentazioni 
che 
hanno 
convinto 
i 
giudici 
del 
merito 
ad 
escludere 
la 
responsabilità 
del-
l’imputato, 
nel 
caso 
in 
cui 
siano 
pronunciate 
due 
sentenze 
di 
proscioglimento 
di 
merito, 
possono 
ricondursi 
al 
principio 
per 
cui 
“non 
appare 
neanche 
in 
astratto 
potersi 
dubitare 
dell’esistenza 
di 
un 
ragionevole 
dubbio 
circa 
la 
colpevolezza 
dell’imputato 
(verrebbe 
da 
dire 
che 
si 
sia 
raggiunta 
una 
ragionevole 
certezza 
circa 
l’innocenza 
dello 
stesso)” 
(così 
M.M. 
MOnACO, 
Riforma 
Orlando: 
Come 
cambia 
il 
giudizio 
di 
Cassazione, 
modifiche 
al 
Codice 
penale, 
Codice 
di 
procedura 
penale, 
e 
Ordinamento 
penitenziario, 
(a 
cura 
di 
G. 
SPAn-
GhEr), 
2017, 
284). 
Per il 
resto, con riferimento alle 
sentenze 
penali 
di 
condanna, la 
preclusione 
da 
“doppia 
conforme” 
è 
desunta 
dalla 
giurisprudenza 
in ragione 
del 
limite 
del 
“devolutum”, 
sicché 
il 
vizio 
di 
travisamento 
della 
prova 
è 
sempre 
deducibile 
non 
solo 
nell’ipotesi 
in 
cui 
il 
giudice 
di 
appello, 
per 
rispondere 
alle 
critiche 
contenute 
nei 
motivi 
di 
gravame, abbia 
richiamato dati 
probatori 
non 
esaminati 
dal 
primo giudice, ma 
anche 
“quando entrambi 
i 
giudici 
del 
merito 
siano incorsi 
nel 
medesimo travisamento delle 
risultanze 
probatorie” 
(cfr., ex 
multis, Cass. pen. 3 dicembre 
2020, n. 35963; 
Cass. pen. 15 giugno 2017, n. 
33772; 
Cass. pen. 18 novembre 
2016, n. 7896; 
Cass. pen. 13 novembre 
2013, 
n. 5615). 


Profili 
processuali 
della responsabilità civile 
del 
giudice. II -La legge 
117/1988: praticamente 
disapplicata, 
farisaicamente 
novellata, in Giusto proc. civ. 
2019, 1010 s.) e, dall’altro, a 
far sorgere 
possibili 
dubbi 
di 
legittimità 
costituzionale 
del 
sistema, 
che 
così 
finirebbe 
per 
sottrarsi 
al 
generale 
«dovere 
di 
coerenza» che 
grava 
in primis 
sul 
legislatore 
(F. AuLETTA, Uno stress 
test 
per 
la revocazione, ivi 
2020, 
90 s.). 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Pertanto, nel 
processo penale 
il 
travisamento non è 
escluso ex 
se 
dalla 
ricorrenza 
di 
una 
doppia 
conforme, come 
parrebbe 
suggerire 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
n. 
8895/23. 
Il 
ricorrente, 
infatti, 
può 
liberarsi 
della 
«preclusione» 
dimostrando 
o 
che 
l’argomento 
probatorio 
travisato 
sia 
stato 
per 
la 
prima 
volta 
introdotto come 
oggetto di 
valutazione 
della 
motivazione 
d’appello o -in alternativa 
-che 
entrambi 
i 
giudici 
del 
merito siano incorsi 
nel 
medesimo travisamento. 
Assolto l’onere 
(come 
non appare 
difficile 
fare 
anche 
nel 
secondo 
caso, 
essendo 
presupposto 
del 
travisamento 
la 
circostanza 
che 
lo 
stesso 
emerga 
ictu oculi), il 
dato oggettivo della 
disfunzione 
di 
percezione 
rende 
possibile 
il 
sindacato in sede di legittimità. 


nel 
processo 
civile, 
in 
cui 
peraltro 
la 
preclusione 
da 
doppia 
conforme 
ex 
art. 
360, 
comma 
4, 
c.p.c. 
riguarda 
il 
solo 
motivo 
di 
cui 
al 
n. 
5 
dell’art. 
360 
c.p.c., 
che 
qui 
non 
viene 
in 
rilievo 
per 
essere 
il 
vizio 
di 
cui 
si 
discorre 
un 
tipico 
error 
in 
procedendo 
deducibile 
ai 
sensi 
del 
n. 
4 
c.p.c., 
appare 
improprio 
postulare 
il 
rischio 
di 
un 
più 
penetrante 
controllo 
del 
giudizio 
in 
fatto 
da 
parte 
delle 
Sezioni 
civili 
della 
S.C. 
stante 
l’oggettiva 
diversità 
dei 
due 
sistemi 
processuali. 


In ogni 
caso, anche 
nel 
processo civile, in ragione 
del 
principio tantum 
devolutum 
quantum 
appellatum, il 
vizio di 
travisamento della 
prova, nei 
casi 
di 
c.d. doppia 
conforme, sarà 
in concreto deducibile 
in sede 
di 
legittimità 
soltanto 
laddove: 


-il 
primo 
giudice 
sia 
incorso 
nel 
travisamento 
delle 
risultanze 
probatorie 
e 
la 
questione 
abbia 
formato 
oggetto 
di 
specifico 
motivo 
di 
gravame, 
rigettato 
dal 
giudice 
di 
appello, 
il 
quale 
sia 
a 
sua 
volta 
caduto 
nel 
medesimo 
errore 
percettivo; 


-il 
solo giudice 
di 
appello sia 
incappato nel 
vizio di 
travisamento delle 
prove, 
o 
perché 
ha 
fondato 
la 
sua 
decisione 
su 
informazioni 
probatorie 
non 
esaminate 
dal 
primo giudice 
o perché 
abbia 
aggiunto argomenti 
ulteriori 
e 
decisivi, 
sui 
quali 
si 
sia 
tuttavia 
consumato l’errore 
di 
percezione, per rafforzare 
o precisare 
la 
statuizione 
già 
assunta 
dal 
primo giudice 
(in tale 
evenienza, secondo 
la 
giurisprudenza, si 
configura 
comunque 
una 
“doppia 
conforme”: 
cfr. 
Cass. 9 marzo 2022, n. 7724). 
7. Alla 
luce 
di 
tutte 
le 
superiori 
considerazioni, si 
chiede 
a 
codeste 
S.u. 
di 
affermare 
il 
principio di 
diritto per cui 
“deve 
ritenersi 
consentita, in applicazione 
delle 
norme 
di 
cui 
all’art. 
115 
e 
360 
n. 
4 
c.p.c., 
la 
facoltà 
di 
denunciare 
la errata percezione 
(e 
la conseguente 
utilizzazione), da parte 
del 
giudice 
di 
merito, 
di 
prove 
inesistenti, 
ovvero 
di 
prove 
non 
solo 
riferite 
a 
fonti 
mai 
dedotte 
in 
giudizio 
dalle 
parti 
(un 
testimone 
mai 
addotto 
o 
escusso; 
un 
documento 
mai 
depositato agli 
atti), ma altresì 
a prove 
che, pur 
riferendosi 
a fatti/fonti 
appartenenti 
al 
processo (uno specifico documento ritualmente 
depositato, un 
testimone 
regolarmente escusso), si sostanziano nella elaborazione 
di contenuti 
informativi 
non riconducibili 
in alcun modo a dette 
fonti, neppure 
in via 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


indiretta o mediata, ossia di 
informazioni 
probatorie 
delle 
quali 
risulti 
preclusa 
alcuna connessione 
logico-significativa con le 
fonti 
o i 
mezzi 
di 
prova 
cui 
il 
giudice 
ha 
viceversa 
inteso 
riferirle, 
sempre 
che 
tali 
prove 
abbiano, 
specularmente 
interpretate, 
il 
carattere 
della 
decisività 
” 
(così 
l’ordinanza 
n. 
11111/23, par. 6.1.1.). 


*** 


(omissis) 


roma, 24 ottobre 2023 


Emanuele Manzo 


Avvocato dello Stato 
» 


Cassazione 
civile, 
sez. 
Unite, 
sentenza 
(ud. 
7 
novembre 
2023) 
5 
marzo 
2024 
n. 
5792 
-
Pres. B. Virgilio, Rel. M. Di Marzio (*) 


(omissis) 


9. 
-Le 
Sezioni 
unite 
sono 
chiamate 
a 
dirimere 
il 
conflitto 
insorto 
nella 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
se 
possa 
dedursi 
in sede 
di 
legittimità, per il 
tramite 
del 
numero 4 dell’articolo 360 
c.p.c., 
la 
violazione 
dell’articolo 
115 
c.p.c. 
determinata 
dall’essere 
il 
giudice 
di 
merito 
incorso 
nel c.d. «travisamento della prova». 
9.1. -L’ampia 
esposizione 
della 
tesi 
sostenuta 
nell’ordinanza 
n. 11111 impone 
di 
elaborarne 
un contenuto riepilogo, il quale può riassumersi in ciò, che occorrerebbe distinguere il travisamento 
del 
fatto in cui 
sia 
caduto il 
giudice 
di 
merito, riconducibile 
all’area 
di 
applicazione 
dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., in concorso delle 
condizioni 
ivi 
previste, dal 
travisamento della 
prova, che 
ricorrerebbe 
nel 
caso in cui 
il 
giudice 
di 
merito abbia 
formato il 
proprio convincimento 
avvalendosi 
di 
una 
«informazione 
probatoria» frutto di 
«errore 
di 
percezione 
del 
contenuto 
oggettivo 
della 
prova», 
e 
cioè 
abbia 
adottato 
una 
decisione 
viziata 
da 
un 
errore 
collocato 
non già 
sul 
versante 
della 
valutazione 
della 
prova, sottratto al 
giudizio di 
legittimità, bensì 
su 
quello 
percettivo: 
il 
travisamento, 
secondo 
la 
tesi 
prospettata, 
cadrebbe 
cioè 
sul 
«significante» 
e non sul «significato» della prova, e avrebbe portata percettiva e non valutativa. 
In questo caso, secondo l’ordinanza, il 
c.d. «travisamento della prova 
» sarebbe 
denunciabile 
per cassazione 
ai 
sensi 
dell’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione 
dell’articolo 115 c.p.c., disposizione 
che, nell’imporre 
al 
giudice 
di 
porre 
a 
fondamento della 
decisione 
le 
prove 
offerte 
dalle 
parti, consentirebbe 
di 
censurare 
anche 
le 
decisioni 
basate 
su «informazioni 
probatorie 
che 
non 
esistevano 
nel 
processo», 
alle 
ulteriori 
seguenti 
condizioni: 
i) 
il 
contenuto 
informativo 
abbia 
formato oggetto di 
discussione 
nel 
giudizio; 
ii) l’errore 
abbia 
carattere 
decisivo, e 
cioè 
tale 
da 
aver condotto ad un esito diverso da 
quello che, in termini 
di 
certezza, sarebbe 
stato 
raggiunto in assenza del travisamento. 
9.2. -La 
questione 
del 
travisamento della 
prova 
è 
stata 
rimessa 
dalla 
Prima 
Presidente 
alle 
(*) 
Si 
pubblica 
la 
sentenza 
Cass. Sez. un. del 
5 marzo 2024 n. 5792 (ord. rimessione 
Cass. 11111/2023, 
Al 
40696/2013, 
avv. 
Spina) 
la 
cui 
motivazione 
è 
integralmente 
richiamata 
da 
Cass. 
Sez. 
un. 
dell’11 
aprile 2024 n. 9790 al paragrafo 10.1 (ord. rimessione Cass. 8895/2023, Al 27459/2020, avv. Manzo). 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Sezioni 
unite 
anche 
a 
seguito dell’ordinanza 
interlocutoria 
29 marzo 2023, n. 8895, nel 
giudizio 
iscritto al n. 17679 del 2020, pure esso discusso all’udienza odierna. 
L’ordinanza 
ricorda 
che 
nel 
vigore 
del 
codice 
di 
rito, 
maggiormente 
dopo 
la 
novella 
del 
1950, 
ed ancora 
dopo quella 
del 
2012, la 
giurisprudenza 
della 
Corte, negata 
per decenni 
ogni 
autonomia 
concettuale 
del 
travisamento della 
prova 
rispetto al 
travisamento del 
fatto, ha 
costantemente 
escluso che 
quest’ultimo potesse 
essere 
denunciato nel 
giudizio di 
cassazione, salvo 
non si 
fosse 
tradotto, ante 
novella 
del 
2012, in difetto di 
motivazione 
su un punto decisivo 
della controversia, vizio motivazionale invece non più spendibile dopo quest’ultima. 


10. - Il contrasto va composto svolgendo un ragionamento che si snoda come segue. 
Il 
travisamento della 
prova 
è 
stato sempre 
considerato estraneo ai 
motivi 
spendibili 
con il 
ricorso 
per cassazione 
(Par. 10.1., 10.2., 10.3.); 
esso, che 
si 
assume 
essere 
un mero «errore 
di 
percezione 
del 
contenuto oggettivo della prova» (Par. 10.4.), tale, per come 
prospettato, non 
è, giacché 
ricomprende 
in sé 
sia 
il 
momento dell’errore 
percettivo del 
dato probatorio, sia 
il 
momento dell’errore, collocato sul 
piano dell’inferenza 
logica, nell’identificazione 
del 
contenuto 
informativo desumibile 
dal 
dato probatorio (Par. 10.5.); 
così 
esposta, la 
tesi 
che 
ammette 
il 
ricorso 
per 
cassazione 
per 
travisamento 
della 
prova 
si 
risolve 
nel 
rovesciamento 
della 
scelta 
legislativa 
inscritta 
nella 
novella 
del 
n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., così 
da 
pervenire 
ad 
un risultato interpretativo che 
renderebbe 
l’accesso al 
ricorso per cassazione 
ancor più ampio 
di 
quanto non fosse 
prima 
del 
2012 (Par. 10.6., 10.7., 10.8., 10.9., 10.10); 
la 
preoccupazione 
di 
neutralizzare 
il 
rischio 
che, 
in 
assenza 
della 
ricorribilità 
per 
travisamento 
della 
prova, 
possa 
cristallizzarsi 
«un’inemendabile 
forma 
di 
patente 
illegittimità 
della 
decisione» 
è 
insussistente 
(Par. 10.11); 
resta 
fermo che 
l’errore 
revocatorio ricorre 
soltanto in caso di 
svista 
del 
giudice 
nella 
consultazione 
degli 
atti 
del 
processo (Par. 10.12.), svista 
che 
può avere 
ad oggetto fatti 
sostanziali 
e 
processuali 
quale 
l’avvenuto 
deposito 
di 
documenti 
(Par. 
10.13.); 
il 
fatto 
supposto 
esistente 
o 
inesistente, 
che 
non 
deve 
aver 
costituito 
un 
punto 
controverso 
sul 
quale 
il 
revocando 
provvedimento 
si 
è 
pronunciato, 
è 
il 
fatto 
probatorio 
(Par. 
10.14.); 
ove 
accada 
che 
l’errore 
percettivo sul 
fatto probatorio non possa 
essere 
intercettato mediante 
la 
revocazione, perché 
controverso ed oggetto di 
pronuncia, esso costituisce 
motivo di 
ricorso ai 
sensi 
dei 
nn. 4 e 
5 
dell’articolo 360 c.p.c.; 
argomenti 
nel 
senso dell’ammissibilità 
del 
sindacato in Cassazione 
del 
travisamento della 
prova 
non possono trarsi 
dalla 
legge 
sulla 
responsabilità 
civile 
dei 
magistrati. 
10.1. -un punto fermo da 
considerare 
è 
che 
il 
tema 
del 
travisamento della 
prova, e 
la 
distinzione 
di esso dal travisamento del fatto, ha origini assai remote, sicché la sua emersione non 
può 
essere 
collocata 
nel 
2006, 
con 
la 
sentenza 
n. 
12362, 
come 
potrebbe 
desumersi 
dalla 
lettura 
dall’ordinanza n. 11111, che quest’ultima sentenza richiama. 
A 
dimostrazione 
di 
tale 
affermazione 
basterà 
per ragioni 
di 
sintesi 
trascrivere 
un breve 
passo 
di 
dottrina: 
quale 
cenno 
alla 
storia 
del 
concetto, 
e 
non 
già 
quale 
citazione 
interdetta 
dal 
dettato 
dell’articolo 118 delle 
disposizioni 
di 
attuazione 
del 
c.p.c. Tralasciando i 
codici 
preunitari, si 
legge 
negli 
«Elementi 
di 
diritto giudiziario civile 
italiano» del 
1878, autore 
il 
Mattirolo, secondo 
una 
diffusa 
opinione 
maggiore 
processualcivilista 
del 
suo tempo, fintanto che 
non sopraggiunsero 
il 
Mortara 
ed 
il 
Chiovenda: 
«Poniamo: 
la 
questione 
di 
fatto 
volge 
sopra 
un 
contratto o sopra un testamento: se 
questo contratto o testamento presentasse 
qualche 
oscurità 
o 
doppiezza 
si 
riconosce 
generalmente 
che 
l’interpretazione 
fattane 
dal 
giudice 
del 
merito 
non 
andrebbe 
soggetta 
a 
censura 
di 
Cassazione. 
Parimente, 
se 
la 
sentenza 
del 
giudice 
del 
merito peccasse 
per 
falso supposto, vale 
a dire 
fosse 
il 
risultato di 
un errore 
evidente 
e 
involontario 
dei 
giudici 
... egli 
è 
certo che 
tale 
sentenza andrebbe 
soggetta a revocazione, non a 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


cassazione. Ma nulla di 
tutto ciò: il 
contratto o il 
testamento non presenta alcuna oscurità od 
ambiguità; d’altro canto i 
giudici 
del 
merito non ommisero di 
esaminare 
e 
di 
apprezzare 
le 
singole 
clausole 
del 
contratto o del 
testamento, ma incorsero in un falso giudizio sul 
fatto; 
vale 
a dire, col 
pretesto di 
interpretare 
ciò che 
non ha bisogno di 
interpretazione, di 
spiegare 
ciò che 
è 
chiaro e 
manifesto, alterarono il 
significato naturale 
delle 
parti, snaturarono il 
carattere 
che 
apertamente 
presenta il 
contratto o il 
testamento, ed, al 
concetto, che 
sorge 
come 
una 
verità 
evidente, 
intuitiva 
dal 
complesso 
dell’atto, 
ne 
sostituirono 
arbitrariamente 
un 
altro 
diverso. In questo caso si 
verifica ciò che 
i 
Subalpini 
chiamarono travisamento, i 
Napoletani 
snaturamento del 
fatto, ed i 
Siciliani, con voce 
più generica, eccesso di 
potere. Si 
domanda: 
potrà un tale vizio aprire la via alla cassazione ed essere riparato dalla Corte suprema?». 
I 
fautori 
dell’ammissibilità 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
-rammentava 
il 
Mattirolo 
-muovevano 
dall’equiparazione 
della 
violazione 
di 
legge 
alla 
violazione 
del 
contratto 
o 
del 
testamento, 
sulla 
base 
dell’allora 
vigente 
articolo 1123 c.c., che 
attribuiva 
al 
contratto forza 
di 
legge, ed 
osservavano, sintetizzava 
ancora 
lo stesso autore: 
«Non è 
forse 
alla Cassazione 
che 
spetta il 
compito 
di 
impedire 
qualsiasi 
abuso, 
qualunque 
eccesso 
di 
potere 
per 
parte 
delle 
autorità 
giudiziarie 
inferiori?». Nihil 
sub sole 
novi, si 
direbbe 
allora 
nell’appurare 
che, oggi, l’ordinanza 
n. 11111 giustifica 
l’esigenza 
di 
ammettere 
la 
sindacabilità 
per cassazione 
del 
travisamento 
della 
prova, 
centocinquant’anni 
dopo, 
con 
un 
analogo 
richiamo 
al 
«valore 
della 
giustizia della decisione» da intendersi quale «valore primario del processo». 
Ora, non interessa 
tanto ricordare 
che, in seguito, il 
Calamandrei 
bollerà 
severamente 
l’equiparazione 
alla 
legge 
del 
testamento e 
del 
contratto quale 
«meschino artificio», quanto constatare 
che, pur ammettendo la 
denunciabilità 
per cassazione 
del 
travisamento di 
testamento 
e 
contratto, finanche 
la 
stessa 
largheggiante 
giurisprudenza 
del 
tempo negava 
invece 
fermamente 
ogni 
possibilità 
di 
far valere 
il 
travisamento della 
prova: 
«Il 
travisamento di 
fatto non 
può mai 
essere 
proposto come 
mezzo di 
cassazione, quando, anziché 
cadere 
su un atto contrattuale 
abbia ad oggetto gli 
atti 
del 
giudizio ed ispecie 
le 
prove 
in causa formate» (Cass. 
Torino 16 dicembre 1879, tra le molte). 
Il 
Mattirolo, per parte 
sua, stigmatizzata 
la 
contraddittorietà 
dell’orientamento che 
precede, 
laddove 
concepiva 
il 
travisamento di 
contratto e 
testamento, ma 
non delle 
prove 
-«Ma adunque, 
in alcuni 
casi, la Corte 
suprema constata l’errore 
evidente 
di 
fatto, e 
lo ripara; in altri, 
essa si 
dichiara incompetente, incapace 
a ripararlo!» -, si 
schierò, tra 
gli 
altri, contro l’ammissibilità, 
in generale, del 
ricorso per cassazione 
per travisamento, sottolineando, anzitutto, 
la 
fallacia 
dell’opinione 
secondo cui 
potrebbero darsi 
atti 
i 
quali 
parlino inconfutabilmente 
da 
soli: 
«Dato che 
la revisione, per 
parte 
della Cassazione, di 
un giudizio interpretativo erroneo 
dei 
tribunali 
ordinari 
dipende 
(come 
statuisce 
la 
dottrina 
del 
travisamento) 
dalla 
maggiore 
o minore 
chiarezza letterale 
del 
contratto o del 
testamento erroneamente 
interpretato, 
si 
apre 
naturalmente 
la via alle 
incertezze 
ed all’arbitrio, ben sapendosi 
da chicchessia che 
ciò che 
per 
uno è 
chiaro ed evidente, ad altri 
appare 
dubbio ed oscuro». Il 
che 
è 
poi 
quanto 
ribadito decenni 
dopo da 
Salvatore 
Satta, secondo il 
quale 
«il 
travisamento poggiava su un 
presupposto arbitrario, e 
cioè 
che 
esistano cose 
chiare, o che 
esista un fatto distinto dal 
giudizio 
di 
fatto, cioè 
fuori 
dalla sola interpretazione 
giuridicamente 
rilevante, quella del 
giudice
», ed infine, come 
si 
vedrà, con implicita 
citazione 
dal 
Satta, dall’ordinanza 
n. 8895 del 
2023. 
Sicché, 
in 
breve, 
prevalse 
l’orientamento 
seguito 
dalla 
Cassazione 
di 
roma, 
secondo 
cui: 
«Non possono formar 
subbietto del 
ricorso in Cassazione 
i 
gravami 
fondati: a) sopra il 
travisamento 
delle 
clausole 
di 
un contratto; b) sopra un errore 
che 
si 
pretende 
incorso nel 
de



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


durre 
presunzioni 
dalle 
risultanze 
di 
una 
prova 
testimoniale, 
e 
da 
fatti 
stabiliti 
dagli 
atti 
della 
causa» (Cass. roma 18 ottobre 1877, tra le altre). 
Andando avanti 
di 
un qualche 
decennio, difatti, la 
Cassazione 
del 
regno, pressappoco un secolo 
fa, a 
fronte 
della 
denuncia 
di 
un vizio consistente 
nell’avere 
il 
giudice 
di 
merito male 
inteso 
le 
obiettive 
risultanze 
di 
un accertamento tecnico, osservò -tra 
gli 
innumerevoli 
esempi 
che 
potrebbero 
offrirsi 
nello 
stesso 
senso 
-che 
«in 
queste 
proposizioni 
la 
ricorrente 
riscontra 
pria 
di 
tutto 
il 
travisamento 
del 
fatto. 
Sostiene 
cioè 
essersi 
affermato 
dal 
perito, 
che 
la 
broncopolmonite 
del 
Grillo non ebbe 
causa dalla continua aspirazione 
del 
pulviscolo del 
carbone, 
come 
dalla Corte 
s’è 
ritenuto, ma dal 
brusco raffreddamento per 
il 
passaggio dall’elevata 
temperatura, che 
s’irradia dai 
forni, al 
gelido ambiente 
esterno... Ma la ... censura non può 
dal 
Supremo 
Collegio 
essere 
attesa, 
trattandosi 
della 
valutazione 
delle 
risultanze 
della 
perizia, 
compiuta dai 
giudici 
di 
merito, che 
non può essere 
sottoposta a controllo in questa sede. Il 
Supremo Collegio verrebbe 
a trasformarsi 
in giudice 
di 
terza istanza ...» (Cass. 3 novembre 
1926). Il 
che 
è 
poi 
esattamente 
quanto ancor oggi 
paventa 
l’ordinanza 
n. 8895, laddove 
pone 
in 
evidenza 
l’esigenza 
di 
salvaguardare 
la 
«Corte 
di 
legittimità 
dal 
rischio 
... 
di 
scivolare 
verso una inconsapevole trasformazione in un tribunale di terza istanza». 
I pochi 
richiamati 
riferimenti 
non hanno, naturalmente, la 
pretesa, che 
del 
resto non sarebbe 
decisiva, di 
offrire 
una 
ricostruzione 
dettagliata 
degli 
indirizzi 
seguiti 
nel 
remoto arco temporale 
considerato, 
ma 
di 
mostrare 
che 
il 
tema 
del 
c.d. 
travisamento 
della 
prova 
ha 
radici 
antiche, 
e 
che 
la 
soluzione 
qui 
prescelta 
si 
pone 
in continuità 
con una 
inveterata 
tradizione: 
il 
tema 
del 
travisamento ha 
una 
storia 
secolare, e 
sotto forma 
di 
travisamento della 
prova 
non ha 
mai, in 
nessuna 
occasione, salvo nelle 
non molte 
decisioni 
recenti 
a 
seguito delle 
quali 
l’ordinanza 


n. 11111 ha 
rimesso la 
questione 
alle 
Sezioni 
unite, varcato la 
soglia 
dell’ammissibilità 
nel 
giudizio di 
legittimità, finanche 
nell’ottica 
di 
quella 
giurisprudenza 
che, illo tempore, al 
travisamento 
un qualche spazio applicativo pur riconosceva. 
10.2. - Veniamo all’oggi. 
La 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, 
in 
continuità 
con 
l’orientamento 
ricordato, 
è 
rimasta 
ferma 
per 
decenni 
nell’escludere 
che 
il 
travisamento 
costituisca 
vizio 
di 
legittimità 
tale 
da 
giustificare 
il 
ricorso per cassazione, salvo -si 
diceva 
prima 
della 
novella 
dell’articolo 360, n. 5, del 
2012 
-il 
controllo 
motivazionale. 
E 
cioè: 
«In 
sede 
di 
legittimità 
è 
precluso 
non 
solo 
il 
riesame 
delle 
prove 
la cui 
valutazione 
sia stata fatta in modo difforme 
da quella prospettata dal 
ricorrente, 
ma 
altresì 
l’accertamento 
di 
un 
eventuale 
travisamento 
delle 
prove 
stesse, 
essendo 
il 
controllo 
possibile 
solo se 
tale 
vizio logico si 
traduca in una insufficienza di 
motivazione» (Cass. 16 
maggio 1968, n. 1536). 
Si 
consideri, 
a 
titolo 
di 
esempio 
estremo, 
che 
non 
è 
stata 
giudicata 
ammissibile 
neppure 
la 
censura 
volta 
a 
dimostrare 
che 
il 
giudice 
di 
merito avesse 
errato nel 
reputare 
pacifica 
una 
circostanza 
rilevante 
ai 
fini 
del 
giudizio: 
le 
Sezioni 
unite 
hanno difatti 
al 
riguardo fatto propria 
la 
«massima, costantemente 
ripetuta da questa Corte 
Suprema, che 
l’aver 
dato per 
pacifico 
un 
fatto, 
che 
si 
pretende 
contestato, 
non 
può 
costituire 
materia 
di 
ricorso 
per 
cassazione, 
anche 
se 
l’apprezzamento del 
giudice 
sia frutto di 
travisamento, soccorrendo in tal 
caso il 
rimedio 
della revocazione» (Cass., Sez. un., 30 maggio 1966, n. 1412). Affermazione, questa, 
in seguito più volte 
ribadita 
(Cass. 18 luglio 1966, n. 1947; 
Cass. 14 gennaio 1967, n. 143; 
Cass. 31 gennaio 1967, n. 288; 
Cass. 30 marzo 1967, n. 696; 
Cass. 6 giugno 1967, n. 1244; 
Cass. 
24 
gennaio 
1968, 
n. 
197; 
Cass. 
3 
maggio 
1968, 
n. 
1376; 
Cass. 
14 
ottobre 
1968, 
n. 
3272; 
Cass. 29 gennaio 1969, n. 252). 
E 
sulla 
scia 
si 
è 
ripetuto 
anche 
di 
recente 
che 
l’apprezzamento 
del 
giudice 
del 
merito, 
che 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


abbia 
ritenuto 
pacifica 
e 
non 
contestata 
una 
circostanza 
di 
causa, 
qualora 
sia 
fondato 
sulla 
mera 
assunzione 
acritica 
di 
un fatto, può configurare 
un travisamento, denunciabile 
solo con 
istanza 
di 
revocazione, ai 
sensi 
dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre 
è 
sindacabile 
in sede 
di 
legittimità, sotto il 
profilo del 
vizio di 
motivazione, ai 
sensi 
dell’articolo 360, comma 
1, n. 5, 
c.p.c., 
ove 
si 
ricolleghi 
ad 
una 
valutazione 
ed 
interpretazione 
degli 
atti 
del 
processo 
e 
del 
comportamento 
processuale 
delle 
parti 
(Cass. 
14 
novembre 
2012, 
n. 
19921; 
Cass. 
14 
marzo 
2016, 


n. 4893; 
con la 
precisazione 
che 
non interessa 
qui 
approfondire, per il 
discorso che 
si 
va 
facendo, 
se 
tale 
indirizzo sia 
ancora 
attuale, con specifico riguardo al 
problema 
della 
verifica 
della non contestazione, dopo Cass., Sez. un., 22 maggio 2012, n. 8078). 
Prendendo, 
ancora 
ad 
esempio, 
un 
caso 
riconducibile 
al 
c.d. 
travisamento 
per 
omissione, 
questa 
Corte 
ha 
giudicato 
la 
denuncia 
del 
vizio 
«inammissibile 
sia 
che 
lo 
si 
configuri 
come 
errore 
revocatorio, sia come 
vizio di 
motivazione 
su punto decisivo della controversia. Occorre 
premettere, 
secondo il 
costante 
orientamento di 
questa Corte, che 
il 
vizio di 
motivazione 
su un 
punto decisivo, denunziabile 
per 
cassazione 
ai 
sensi 
dell’art. 360 n. 5 c.p.c., postula che 
il 
giudice 
di 
merito abbia formulato un apprezzamento, nel 
senso che 
questi, percepito un fatto 
di 
causa negli 
esatti 
termini 
materiali 
in cui 
è 
stato prospettato dalla parte, abbia omesso di 
valutarlo di 
modo che 
l’omissione 
si 
risolve 
in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza 
del 
fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in maniera insufficiente 
o illogica. Invece 
se 
l’omessa valutazione 
dipende 
da una falsa percezione 
della realtà, nel 
senso che 
il 
giudice 
ritiene 
per 
una svista, obiettivamente 
ed immediatamente 
rilevabile, inesistente 
un fatto o un 
documento, la cui 
esistenza risulti 
incontestabilmente 
accertata dagli 
stessi 
atti 
di 
causa, è 
configurabile 
un 
errore 
di 
fatto, 
deducibile 
esclusivamente 
con 
impugnazione 
per 
revocazione 
ai 
sensi 
dell’art. 
395 
n. 
4 
c.p.c. 
Quest’ultimo 
sembra 
il 
caso 
di 
specie...» 
(Cass. 
27 
luglio 
2005, n. 15672). 
In breve, se 
il 
travisamento è 
frutto di 
un errore 
di 
percezione, soccorre 
la 
revocazione, se 
il 
travisamento è 
frutto di 
un errore 
di 
giudizio, esso rileva 
quale 
vizio motivazionale, ante 
novella 
del 
2012, donde 
il 
principio, formulato nel 
vigore 
del 
testo dell’articolo 360 c.p.c. del-
l’epoca, secondo cui 
il 
travisamento dei 
fatti 
non può «costituire 
motivo di 
censura in sede 
di 
legittimità 
se 
non 
si 
risolve 
in 
omessa, 
deficiente 
e 
contraddittoria 
motivazione 
su 
di 
un 
punto 
decisivo della controversia 
» (Cass. 5 luglio 1971, n. 2093). 
10.3. -Eccettuata 
l’ordinanza 
n. 11111, ed alcuni 
altri 
precedenti, siamo dunque 
dinanzi 
ad 
un granitico, come 
si 
usa 
dire 
in questi 
casi, orientamento che 
esclude 
l’ammissibilità 
del 
ricorso 
per cassazione civile per travisamento della prova. 
naturalmente 
il 
radicamento 
di 
un 
orientamento 
giurisprudenziale 
nella 
tradizione 
non 
esclude 
che 
possa 
essere 
prima 
o poi 
rivisitato: 
ma, certo, è 
lecito attendersi 
che 
un simile 
mutamento 
di 
rotta, 
tale 
da 
condurre 
all’accantonamento 
di 
un 
indirizzo 
rimasto 
fermo 
per 
così 
tanto 
tempo, abbia 
una 
qualche 
consistente 
giustificazione, giustificazione 
che 
viceversa 
come 
si 
dirà manca. 
nondimeno, occorre 
essere 
realisticamente 
consapevoli, ad oggi, che 
la 
tensione 
tra 
la 
giurisprudenza 
largamente 
dominante, che 
esclude 
la 
denunciabilità 
per cassazione 
del 
c.d. travisamento 
della 
prova, 
e 
l’opinione 
dissenziente 
manifestata 
nell’ordinanza 
n. 
11111, 
ha 
un 
fondamento che 
riflette 
un diverso modo di 
intendere 
il 
giudizio di 
cassazione 
e 
l’ambito del 
sindacato di legittimità. 
10.4. 
-Secondo 
l’ordinanza 
n. 
8895, 
in 
adesione 
all’orientamento 
tradizionale, 
delle 
due 
l’una: 
o il 
c.d. travisamento della 
prova 
è 
il 
prodotto di 
un errore 
percettivo del 
giudice, ed allora 
il 
rimedio è 
la 
revocazione, o è 
il 
prodotto di 
un errore 
valutativo, ed allora 
non v’è 
rimedio (né 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


in sede 
di 
revocazione 
né) in sede 
di 
legittimità. Viceversa, secondo l’ordinanza 
n. 11111 il 


c.d. travisamento della 
prova 
andrebbe 
a 
collocarsi 
in uno spazio logico che 
non è 
né 
quello 
dell’errore 
percettivo destinato ad essere 
intercettato dalla 
revocazione, nella 
delimitazione 
dell’ambito 
di 
applicabilità 
di 
questa 
che 
l’ordinanza 
stessa 
accoglie, 
né 
quello 
dell’errore 
valutativo sottratto al 
giudizio di 
legittimità: 
si 
ipotizza 
trattarsi 
di 
un errore 
percettivo -un 
«errore 
di 
percezione 
del 
contenuto oggettivo della prova» -denunciabile 
in Cassazione 
ai 
sensi 
dell’articolo 115 c.p.c., per il 
tramite 
dell’articolo 360, n. 4, c.p.c., giacché 
il 
giudice 
incorrerebbe 
in violazione 
della 
norma 
sulla 
disponibilità 
delle 
prove 
(non solo nei 
casi 
espressamente 
contemplati 
dalla 
disposizione, 
ma 
anche) 
quando 
pone 
a 
fondamento 
della 
decisione 
non 
«prove 
proposte 
dalle 
parti», 
ma 
prove 
che 
nel 
processo 
non 
hanno 
riscontro, 
non 
esistono 
affatto. Si 
tratterebbe 
insomma, dice 
l’ordinanza 
n. 11111, assumendo di 
mutuare 
l’affermazione 
dal 
settore 
penale, di 
un «errore 
revocatorio che 
però consente 
il 
ricorso al 
giudice 
di 
legittimità»: 
un errore 
revocatorio che 
non ricadrebbe 
entro l’ambito di 
applicazione 
dell’articolo 
395, n. 4, c.p.c., bensì 
dell’articolo 360, n. 4, in relazione 
all’articolo 115 dello stesso 
codice. 
10.5. - Di cosa parliamo quando parliamo di travisamento della prova? 
In adesione 
all’orientamento patrocinato dall’ordinanza 
n. 11111, si 
è 
prospettato in dottrina 
l’esempio 
del 
giudice 
che, 
dinanzi 
ad 
una 
fotografia 
che 
ritrae 
un’automobile, 
affermi 
che 
essa 
riproduce 
invece 
un 
fiume. 
Ora, 
se 
il 
problema 
che 
abbiamo 
dinanzi 
dovesse 
davvero 
porsi 
solo e 
soltanto nel 
caso in cui 
il 
giudice, osservando la 
fotografia 
di 
un’automobile, o volendo 
utilizzare 
un paio di 
ulteriori 
paradossali 
esempi 
extragiuridici 
facili 
a 
riconoscere 
di 
un lupo, o di 
una 
donna, vi 
intravvedesse 
rispettivamente 
un fiume, una 
persona 
anziana 
od 
un 
cappello, 
la 
cosa 
non 
desterebbe 
grande 
interesse 
per 
la 
giurisprudenza, 
semmai 
a 
scelta 
per 
l’oculista 
o 
lo 
psichiatra, 
dal 
momento 
che 
simili 
«travisamenti» 
sono 
in 
realtà 
sconosciuti 
ai repertori. 
Più 
convenzionali 
sono 
gli 
esempi 
di 
«errore 
di 
percezione 
del 
contenuto 
oggettivo 
della 
prova» 
che 
si 
rinvengono 
nell’ordinanza 
n. 
11111: 
il 
c.d. 
travisamento 
per 
invenzione, 
nei 
casi 
della 
decisione 
fondata 
su 
una 
testimonianza 
non 
mai 
raccolta 
o 
su 
un 
documento 
non 
mai 
prodotto, 
ed 
il 
c.d. 
travisamento 
delle 
risultanze 
probatorie 
in 
senso 
proprio, 
nel 
caso 
di 
dati 
probatori 
effettivamente 
acquisiti 
al 
processo, 
che 
il 
giudice 
legga 
malamente. 
Bisogna 
aggiungere 
che, 
nella 
tassonomia 
del 
travisamento 
della 
prova, 
elaborata 
con 
maggiore 
approfondimento 
dalla 
Cassazione 
penale, 
viene 
generalmente 
considerata 
una 
terza 
ipotesi: 
oltre 
a 
quello 
appena 
indicato 
come 
travisamento 
delle 
risultanze 
probatorie 
in 
senso 
proprio, 
ed 
al 
travisamento 
per 
invenzione, 
la 
mancata 
valutazione 
di 
una 
prova 
decisiva, 
c.d. 
travisamento 
per 
omissione 
(p. 
es. 
Cass. 
pen. 
8 
luglio 
2022, 
n. 
26455). 
Qui, 
non 
solo 
in 
considerazione 
del 
concreto 
atteggiarsi 
della 
controversia 
esaminata 
dall’ordinanza 
n. 
11111, 
ma 
anche 
perché 
le 
altre 
due 
figure 
di 
travisamento 
della 
prova 
non 
destano 
soverchie 
difficoltà 
di 
disciplina, 
occorre 
soffermarsi 
sul 
travisamento 
della 
prova 
in 
senso 
proprio. 
A 
tal 
riguardo 
l’aporia 
su 
cui 
si 
fonda 
la 
tesi 
sostenuta 
dall’ordinanza 
n. 
11111 
è 
palese. 
Essa 
discorre 
infatti 
di 
«informazione 
probatoria» scaturita 
da 
un «errore 
di 
percezione 
del 
contenuto 
oggettivo 
della 
prova», 
ma 
anche 
di 
dato 
probatorio 
dal 
quale 
il 
giudice 
abbia 
tratto 
informazioni 
probatorie 
«che 
non si 
lasciano in alcun modo ricondurre 
... 
alla fonte»: 
ora, il 
punto è 
che 
si 
tratta 
di 
casi 
diversi, giacché 
da 
un lato vi 
è 
quello, tradizionale, del 
deficit 
di 
comprensione sensoriale del giudice, dall’altro lato il deficit «nell’elaborazione di contenuti 
informativi 
che 
non si 
lasciano in alcun modo ricondurre, neppure 
in via indiretta o mediata, 
alla fonte alla quale il giudice di merito ha viceversa inteso riferirle». 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


L’ordinanza 
discorre 
ad entrambi 
i 
riguardi 
di 
deformazione, alterazione, fraintendimento del 
contenuto oggettivo della 
prova, a 
voler intendere 
che 
la 
rilevazione 
del 
travisamento della 
prova 
in senso proprio richiederebbe 
in ogni 
caso un’attività 
di 
semplice 
constatazione 
del 
diremmo 
-tangibile, palpabile 
disallineamento tra 
ciò che 
la 
prova 
dice 
e 
ciò che 
il 
giudice 
vi 
ha 
letto. Ma, così 
costruita, la 
nozione 
di 
travisamento della 
prova 
in senso proprio manifesta 
invece 
una 
natura 
ancipite, giacché 
agglomera 
in sé 
due 
distinti 
momenti 
cognitivi, collocati 
su 
piani 
giuridicamente 
diversi, 
quello 
della 
percezione 
e 
quello 
della 
valutazione: 
e 
cioè, 
nell’ambito dell’attività 
ricognitiva 
«del 
contenuto oggettivo della prova», la 
tesi 
estensiva 
fa 
sì 
confluire 
il 
momento 
identificativo 
del 
significante 
dell’elemento 
di 
prova, 
ma 
vi 
fa 
confluire 
parimenti 
il 
momento volto a 
stabilire 
quali 
informazioni 
siano ricavabili 
da 
una 
data 
fonte, ed in base 
a 
quale 
percorso logico-argomentativo: 
il 
che 
è 
del 
resto riconosciuto dal-
l’ordinanza 
n. 11111, laddove 
essa 
afferma, come 
si 
è 
visto, che 
il 
travisamento della 
prova 
ricorrerebbe 
a 
fronte 
della 
«assoluta impossibilità logica di 
ricavare, dagli 
elementi 
acquisiti 
al 
giudizio, 
i 
contenuti 
informativi 
che 
da 
essi 
il 
giudice 
di 
merito 
ha 
ritenuto 
di 
poter 
trarre». 
Il 
travisamento della 
prova, insomma, si 
dilata 
ben al 
di 
là 
della 
semplice 
percezione 
del 
significante: 
esso 
non 
consta 
soltanto 
dell’errore 
nella 
mera 
percezione 
del 
dato 
probatorio 
fermo nella 
sua 
oggettività, ma 
si 
estende 
all’individuazione, per via 
di 
inferenza 
logica, del 
contenuto informativo che dal significante si stima potersi desumere. 
Questo 
è, 
al 
fondo, 
il 
proprium 
dell’indirizzo: 
intendere 
come 
errore 
revocatorio 
anche 
il 
fraintendimento 
in ordine 
al 
contenuto informativo ricavabile 
dal 
dato probatorio, il 
che 
suscita 
il 
quesito se 
il 
qualificare 
un simile 
errore 
come 
percettivo abbia 
un fondamento sistematico. 
Ora, 
se 
si 
dovesse 
ragionare 
dal 
punto 
di 
vista 
dell’epistemologia 
o 
delle 
neuroscienze, 
la 
stessa distinzione tra un momento percettivo ed uno valutativo nella formazione di una falsa 
rappresentazione 
della 
realtà 
potrebbe 
entrare 
in crisi, basterebbe 
citare 
il 
celebre 
motto secondo 
cui 
«non esistono fatti 
ma solo interpretazioni»: 
ma 
qui 
occorre 
stare 
semplicemente 
al 
dato normativo, che 
distingue 
con nettezza 
tra 
percezione 
e 
valutazione, ed identifica 
l’errore 
percettivo, 
come 
si 
tornerà 
a 
dire 
tra 
breve, 
in 
nient’altro 
che 
in 
una 
mera 
svista 
rilevabile 


ictu oculi. 


Ebbene, 
a 
fronte 
di 
simile 
costruzione, 
le 
Sezioni 
unite 
giudicano 
tuttora 
risolutiva 
l’obiezione 
contenuta 
nell’ordinanza 
n. 8895, la 
quale, come 
si 
è 
visto, non è 
altro che 
la 
riproposizione 
di 
un argomento la 
cui 
forza 
è 
testimoniata 
dall’impiego fattone 
nel 
corso del 
tempo, senza 
che 
esso argomento sia 
andato incontro a 
confutazioni 
tali 
da 
inficiarne 
il 
valore: 
intanto l’individuazione 
del 
contenuto informativo ricavabile 
dal 
dato probatorio potrebbe 
dirsi 
riconducibile 
ad 
un 
approccio 
semplicemente 
percettivo, 
e 
non 
valutativo, 
in 
quanto 
potessero 
concepirsi 
«prove 
chiare», prove 
riguardo alle 
quali 
-potrebbe 
dirsi 
-neppure 
sia 
predicabile 
alcuna 
cesura 
tra 
significante 
e 
significato; 
è 
al 
prezzo di 
simile 
contraddizione 
in termini 
che 
si 
pretenderebbe 
di 
dare 
ingresso, nel 
processo, al 
«fatto» distinto dal 
giudizio di 
fatto, al 
di 
fuori 
cioè 
della 
sola 
interpretazione 
giuridicamente 
rilevante 
delle 
prove 
volta 
ad individuare 
quali siano i contenuti informativi che la prova veicola. 
un esempio liberamente 
concepito adattando un episodio di 
cronaca 
di 
molti 
anni 
addietro 
dovrebbe 
essere 
utile: 
immaginiamo che, in una 
causa 
di 
risarcimento del 
danno da 
diffamazione, 
il 
giudice 
di 
merito abbia 
a 
disposizione, tra 
l’altro materiale 
probatorio da 
governare, 
un’intercettazione 
telefonica 
di 
un banchiere, il 
preteso danneggiante, che 
il 
giudice 
ascolta, 
riconoscendovi 
l’affermazione, riferita 
al 
danneggiato, che 
quello «mi 
ha sbancato», il 
che 
potrebbe 
confermare 
la 
tesi 
del 
danneggiato 
il 
quale 
sostiene 
di 
essere 
stato 
diffamato 
dal 
banchiere 
con l’accusa 
di 
aver ricevuto da 
lui 
dei 
denari; 
se 
in realtà 
il 
banchiere 
non ha 
detto 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


«mi 
ha sbancato», ma 
«mi 
ha sbiancato», siamo dinanzi 
ad un errore 
percettivo; 
se, invece, 
il 
giudice 
ha 
bene 
inteso la 
frase 
effettivamente 
pronunciata 
dal 
banchiere, e 
da 
ciò traendo 
argomento dal 
valore 
polisemico del 
verbo sbancare, ha 
tratto l’informazione 
probatoria 
che 
il 
danneggiato, col 
suo trattore, ha 
eseguito un’opera 
di 
sbancamento di 
un terreno del 
banchiere, 
e 
cioè 
di 
scavo 
con 
asportazione 
di 
terra 
e 
roccia, 
non 
siamo 
ad 
un 
errore 
di 
percezione, 
ma di valutazione, per quanto strampalata. 
Ed 
in 
effetti, 
se 
si 
guarda 
al 
caso 
esaminato 
dall’ordinanza 
n. 
11111, 
la 
natura 
ancipite, 
bifronte 
del 
travisamento della 
prova 
appare 
in tutta 
la 
sua 
evidenza: 
essa 
ha 
sollevato il 
problema 
in 
un caso in cui 
il 
giudice 
di 
merito, nell’ambito del 
complessivo governo del 
materiale 
istruttorio, 
aveva 
motivatamente 
ritenuto 
che 
due 
dichiarazioni 
provenienti 
dalla 
Galleria 
nazionale 
d’Arte 
Moderna 
e 
Contemporanea 
di 
roma 
non avessero natura 
confessoria. E 
cioè 
il 
travisamento 
della 
prova, ciò che 
in linea 
di 
principio si 
dice 
consistere 
in un «errore 
di 
percezione
», 
si 
pretende 
nella 
pratica 
rimanga 
integrato 
dall’avere 
il 
giudice 
di 
merito 
posto 
a 
sostegno della 
decisione, come 
meglio si 
vedrà 
più avanti, un dato probatorio che, pur sottoposto 
dal giudice di merito ad una penetrante motivata disamina critica, il collegio di legittimità 
ha opinato dovesse leggersi diversamente. 


10.6. -una 
volta 
constatato che 
l’ordinanza 
n. 11111 intende 
la 
verifica 
del 
«contenuto oggettivo 
della prova» in un senso dilatato, comprensivo così 
di 
un momento percettivo, come 
di 
un successivo approccio valutativo volto ad individuare 
i 
contenuti 
informativi 
che 
il 
dato 
probatorio 
univocamente 
fornirebbe, 
occorre 
guardare 
al 
tema 
in 
esame 
avendo 
realistica 
consapevolezza 
del 
vero 
bersaglio 
che 
l’accoglimento 
della 
tesi 
sostenuta 
dall’ordinanza 
finirebbe 
per 
abbattere: 
bersaglio 
che 
appare 
essere 
costituito 
dall’assetto 
del 
giudizio 
di 
legittimità 
scaturente 
dalla 
riformulazione 
del 
n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. all’esito della 
riforma 
del 
2012, 
nella 
complessiva 
lettura 
datane 
da 
una 
decisione 
che, a 
ragione, costituisce 
da 
anni 
un punto 
fermo nella giurisprudenza di queste Sezioni unite, Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053. 
Che 
questa 
sia 
in effetti 
la 
posta 
in gioco è 
del 
resto riconosciuto dalla 
stessa 
ordinanza, laddove 
ammette 
che 
la 
questione 
del 
travisamento della 
prova 
si 
sarebbe 
«posta in tutta la sua 
complessità 
... 
a 
seguito 
delle 
già 
ricordate 
modifiche 
del 
2012 
apportate 
alla 
previsione 
concernente 
il 
difetto di 
motivazione: di 
qui, la scarsa rilevanza, anche 
sul 
piano teorico, delle 
numerose decisioni, rese in subiecta materia, in epoca precedente a tale data». 
Secondo l’ordinanza, dunque, non vi 
sarebbe 
ragione 
di 
attribuire 
peso all’osservazione 
che 
il 
travisamento 
della 
prova 
non 
sia 
mai 
stato 
ammesso 
per 
decenni, 
quando 
l’articolo 
360 
c.p.c. consentiva 
di 
denunciare 
la 
generica 
insufficienza 
della 
motivazione, ed anzi 
sarebbe 
proprio la 
soppressione 
di 
un così 
esteso controllo motivazionale 
a 
rendere 
ammissibile, nonché 
costituzionalmente 
e 
convenzionalmente 
necessitato, 
nell’ottica 
dell’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale, il sindacato del travisamento della prova nel giudizio di cassazione. 
10.7. -non corrisponde 
però al 
vero che 
il 
problema 
si 
sia 
posto dopo il 
2012, e 
non prima, 
perché 
necessitato dalla 
riforma 
che 
ha 
modificato il 
n. 5 dell’articolo 360 c.p.c.: 
non solo il 
travisamento 
della 
prova 
non 
era 
ammesso 
anteriormente 
alla 
novella 
del 
1950, 
quando 
il 
testo 
del 
n. 
5 
dell’articolo 
360 
c.p.c. 
era 
quasi 
identico 
all’attuale, 
ma 
l’articolo 
517 
c.p.c. 
previgente, 
nel 
vigore 
del 
quale 
il 
travisamento della 
prova, come 
si 
è 
detto in precedenza, non 
aveva 
cittadinanza, non prevedeva 
alcun controllo motivazionale, che 
era 
fatto rientrare 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
nella 
previsione 
di 
nullità 
«a norma dell’articolo 361», i.e. 
per 
l’omissione 
dei 
«motivi 
in 
fatto 
ed 
in 
diritto», 
omissione 
intesa 
quale 
vizio 
formale, 
ossia 
come 
error 
in procedendo, che, stando al 
dato normativo, non consentiva 
alla 
Corte 
il 
sindacato 
sul 
contenuto della 
motivazione 
esistente, ma 
claudicante: 
come 
è 
stato rilevato dal 
Ca

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


lamandrei, si 
trattava 
di 
un controllo sul 
difetto formale 
di 
motivazione 
(per carenza 
grafica 
dei 
motivi), 
più 
che 
di 
un 
vaglio 
su 
una 
motivazione 
insufficiente 
o 
contraddittoria. 
Il 
che 
non 
vuol 
dire 
che 
anche 
allora, all’occasione, la 
Corte 
non potesse 
indugiare 
ad un uso disinvolto 
del 
difetto di 
motivazione, secondo la 
mordace 
osservazione 
del 
Mortara 
(che 
fu Primo Presidente 
della 
Corte 
di 
cassazione 
di 
roma), a 
mo’ 
di 
espediente 
con cui 
essa 
Corte, «(quando 
non si 
debba dire 
invece 
il 
relatore 
del 
ricorso), mette 
in pace 
la propria coscienza coi 
dubbi 
che accoglie intorno alla giustizia o alla perfetta legalità della decisione». 


10.8. 
-Posto, 
dunque, 
che 
il 
vigente 
dato 
normativo 
non 
è 
espressione 
di 
una 
innovazione 
non meditata 
o improvvisata, l’auspicio a 
neutralizzare 
la 
portata 
della 
riforma 
del 
2012, con 
la 
riduzione 
del 
controllo 
motivazionale 
che 
essa 
ha 
comportato, 
attraverso 
l’introduzione 
della 
sindacabilità 
per 
cassazione 
del 
travisamento 
della 
prova, 
va 
disatteso, 
prima 
di 
ogni 
altra 
considerazione, 
poiché 
si 
risolve 
nel 
palesato 
intento, 
confliggente 
con 
la 
stessa 
funzione 
istituzionale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
di 
assicurare 
l’esatta 
osservanza 
e 
l’uniforme 
interpretazione 
della 
legge, ed al 
precetto costituzionale 
che 
vuole 
il 
giudice 
sottoposto soltanto alla 
legge, ma 
a 
quella 
certamente 
sottoposto, di 
ribaltare 
l’assetto che 
il 
legislatore 
ha 
inteso dare 
al giudizio di legittimità. 
10.9. -Lo scopo perseguito con la 
riformulazione 
avutasi 
nel 
2012 del 
n. 5 dell’articolo 360 
c.p.c. è 
ben noto: 
la 
sostituzione 
della 
«omessa, insufficiente 
o contraddittoria motivazione 
circa 
un 
punto 
decisivo 
della 
controversia 
prospettato 
dalle 
parti 
o 
rilevabile 
d’ufficio» 
-formula 
che, osservano le 
Sezioni 
unite, attribuiva 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
un potere 
assoluto 
su 
qualunque 
decisione 
di 
merito, 
attesa 
l’insuperabile 
indeterminatezza 
della 
nozione 
di 
motivazione 
insufficiente, 
con 
il 
conseguente 
incremento 
del 
rischio 
di 
randomizzazione 
del 
giudizio 
-con 
l’«omesso 
esame 
circa 
un 
fatto 
decisivo 
per 
il 
giudizio 
che 
è 
stato 
oggetto 
di 
discussione 
tra 
le 
parti» 
è 
stata 
dettata 
dall’intento 
di 
indebolire 
l’assedio 
dei 
ricorsi 
alla 
Corte 
di 
cassazione, com’è 
testimoniato già 
dall’osservazione 
che 
la 
novella 
del 
2012 è 
contenuta 
in un decreto-legge diretto all’adozione di «Misure urgenti per la crescita del Paese». 
Il nuovo assetto derivante dalla novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. è stato poi esaminato 
ed organicamente 
ricomposto nella 
nota 
Cass., Sez. un., 7 aprile 
2014, n. 8053, nell’attento 
rispetto del quadro costituzionale. 
Con tale 
pronuncia 
le 
Sezioni 
unite 
hanno chiarito che 
la 
riforma 
ha 
introdotto nell’ordinamento, 
nel 
n. 
5 
dell’articolo 
360 
c.p.c., 
un 
vizio 
specifico 
denunciabile 
per 
cassazione, 
relativo 
all’omesso esame 
di 
un fatto storico, principale 
o secondario, la 
cui 
esistenza 
risulti 
dal 
testo 
della 
sentenza 
o dagli 
atti 
processuali, che 
abbia 
costituito oggetto di 
discussione 
tra 
le 
parti 
e 
abbia 
carattere 
decisivo, vale 
a 
dire 
che, se 
esaminato, avrebbe 
determinato un esito diverso 
della 
controversia. 
Si 
tratta 
di 
un 
vizio 
normalmente 
extratestuale 
(giacché 
è 
possibile 
ma 
non 
certo probabile 
che 
il 
giudice 
di 
merito riferisca 
di 
un fatto storico controverso e 
decisivo, ma 
poi ometta di esaminarlo ai fini della decisione). 
La 
riformulazione 
del 
n. 
5 
ha 
poi 
determinato 
il 
rifluire 
nel 
n. 
4 
dell’articolo 
360 
c.p.c., 
per 
il 
tramite 
delle 
norme 
che 
impongono 
al 
giudice 
l’obbligo 
di 
motivazione, 
del 
vizio 
motivazionale 
nella 
quadruplice 
(o 
forse 
meglio 
duplice, 
giacché 
le 
prime 
due 
ipotesi 
attengono 
all’esistenza 
della 
motivazione, 
le 
altre 
due 
alla 
sua 
tenuta 
logica) 
nota 
declinazione 
che 
le 
Sezioni 
unite 
ne 
hanno 
dato: 
la 
«mancanza 
assoluta 
di 
motivi 
sotto 
l’aspetto 
materiale 
e 
grafico» 
e 
la 
«motivazione 
apparente»; 
il 
«contrasto 
irriducibile 
tra 
affermazioni 
inconciliabili» 
e 
la 
«motivazione 
perplessa 
ed 
obiettivamente 
incomprensibile». 
In 
questo 
caso 
-occorre 
evidenziare 
per 
quanto 
si 
dirà 
più 
avanti 
-il 
vizio 
è 
testuale, 
come 
lo 
era 
in 
precedenza 
il 
vizio 
motivazionale 
regolato 
dal 
previgente 
n. 
5 
dell’articolo 
360 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


c.p.c. 
(la 
cosa 
è 
scontata, 
solo 
a 
titolo 
di 
esempio 
si 
cita 
tra 
le 
tante 
Cass., 
Sez. 
un., 
11 
giugno 
1998, 
n. 
5802). 
Qui, allora, una 
ovvia 
sottolineatura: 
la 
novella 
non ha 
soppresso il 
controllo motivazionale, 
ma 
lo ha 
semplicemente 
circoscritto entro più ristretti 
e 
delineati 
limiti, con un coefficiente 
di 
tassatività 
maggiore 
rispetto al 
passato, ed in particolare 
al 
concetto lasco e 
sfuggente 
di 
motivazione 
genericamente 
insufficiente, 
limiti 
che, 
può 
aggiungersi, 
sono 
i 
medesimi 
che 
da 
sempre 
presiedono 
al 
controllo 
motivazionale 
del 
lodo 
arbitrale 
(Cass. 
S.u., 
n. 
24785/2008; 
Cass. n. 11301/2009; 
Cass. n. 28218/2013; 
Cass. n. 16077/2021), che 
pure 
non è 
pronunciato 
da 
un giudice 
professionale, e 
contro i 
quali, per la 
verità, non sembra 
si 
siano mai 
levate 
vibrate 
proteste, senza 
dire 
che 
la 
Cassazione 
ha 
stabilmente 
applicato i 
medesimi 
limiti 
al 
ricorso 
straordinario di 
cui 
all’articolo 111 della 
Costituzione 
(tra 
le 
tantissime 
Cass., Sez. un., 
16 maggio 1992, n. 5888), fintanto che 
il 
legislatore 
non è 
intervenuto sulla 
materia 
introducendo 
nell’articolo 360 c.p.c. l’odierno ultimo comma. 
Ora, 
immediatamente 
dopo 
la 
novella 
del 
2012 
una 
larga 
parte 
della 
dottrina, 
che 
si 
può 
supporre 
abbia 
influenzato 
anche 
l’indirizzo 
giurisprudenziale 
che 
ammette 
il 
sindacato 
del 
travisamento 
della 
prova, 
ha 
adottato 
a 
commento 
di 
essa 
toni 
che, 
a 
fini 
semplicemente 
di 
sintesi, 
potrebbero 
definirsi 
cupamente 
millenaristi, 
perché 
-si 
è 
in 
buona 
sostanza 
sostenuto 
-l’improvvido 
legislatore, 
attento 
soltanto 
al 
fare 
presto, 
avrebbe 
reso 
il 
giudizio 
di 
cassazione 
radicalmente 
monco 
del 
controllo 
motivazionale, 
e 
una 
Cassazione 
che 
non 
può 
controllare 
la 
motivazione 
delle 
sentenze 
dei 
giudici 
di 
merito 
non 
è 
una 
Cassazione. 
Taluno 
si 
è 
interrogato 
sul 
se 
un 
così 
marcato 
restringimento 
delle 
maglie 
del 
controllo 
sulla 
motivazione 
potesse 
reggere 
nel 
tempo 
o, 
piuttosto, 
non 
finisse 
con 
il 
riaprire 
nuovi 
spazi 
di 
sindacato 
attraverso 
altri 
motivi 
di 
ricorso 
per 
cassazione: 
ed 
in 
effetti 
questa 
tensione, 
come 
si 
è 
detto, 
c’è 
e 
permarrà. 
Ma, 
a 
distanza 
di 
oltre 
dieci 
anni 
dalla 
riforma, 
e 
dopo 
che 
le 
Sezioni 
unite 
hanno 
definito 
l’ambito 
del 
controllo 
motivazionale 
nei 
termini 
anzidetti, 
occorrerebbe 
ormai 
arrendersi 
ad 
ammettere 
che 
la 
lettura 
della 
riforma 
poc’anzi 
descritta 
come 
millenarista 
non 
aveva 
fondamento, 
che 
il 
mondo 
(quello 
racchiuso 
negli 
articoli 
360 
e 
seguenti 
c.p.c.) 
non 
si 
è 
dissolto 
in 
cenere, 
che 
la 
notizia 
della 
morte 
del 
giudizio 
di 
cassazione 
si 
è 
rivelata 
fortemente 
esagerata, 
ed 
il 
controllo 
motivazionale, 
come 
si 
diceva, 
è 
stato 
soltanto 
circoscritto 
entro 
limiti 
non 
giugulatori, 
com’è 
testimoniato 
del 
resto 
dal 
larghissimo 
impiego, 
nella 
pratica, 
del 
motivo 
formulato 
in 
relazione 
all’articolo 
132, 
n. 
4, 
c.p.c. 
10.10. -Il 
vizio di 
travisamento della 
prova 
può essere 
talora 
rilevato alla 
lettura 
della 
sentenza, 
ma 
è 
evidentemente 
per lo più un vizio extratestuale, ed è 
per questo che 
l’articolo 606 
c.p.p., 
dopo 
la 
riforma 
del 
2006, 
consente 
di 
ricorrere 
per 
cassazione 
per 
«mancanza, 
contraddittorietà 
o 
manifesta 
illogicità 
della 
motivazione, 
quando 
il 
vizio 
risulta 
dal 
testo 
del 
provvedimento impugnato ovvero da altri 
atti 
del 
processo specificamente 
indicati 
nei 
motivi 
di 
gravame». E 
cioè, per verificare, tornando all’esempio richiamato, che 
la 
fotografia 
posta 
a 
fondamento della 
decisione 
impugnata 
per cassazione 
ritrae 
un’automobile 
e 
non un fiume, 
il giudice di legittimità deve esaminare la fotografia. 
Se 
si 
ammettesse 
la 
ricorribilità 
per cassazione 
in caso di 
travisamento della 
prova, inteso nel 
senso bifronte 
di 
cui 
si 
è 
detto, rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre 
il 
significato 
che 
ad 
esso 
è 
riconosciuto 
(si 
tratta 
di 
indirizzo 
scontato, 
sicché 
basterà 
citare 
Cass., 
Sez. 
un., 
30 settembre 
2020, n. 20867), il 
giudizio di 
cassazione 
obbiettivamente 
scivolerebbe 
verso 
un 
terzo 
grado 
destinato 
a 
svolgersi 
non 
sulla 
decisione 
impugnata, 
ma 
sull’intero 
compendio 
delle 
«carte» 
processuali, 
sicché 
la 
latitudine 
del 
giudizio 
di 
legittimità 
neppure 
ripristinerebbe 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


l’assetto ante 
riforma 
del 
2012, ma 
lo espanderebbe 
assai 
di 
più, consentendo appunto l’ingresso 
a 
censure 
concernenti 
il 
menzionato vizio extratestuale. Insomma, per dirla 
con chiarezza, 
la 
ricorribilità 
per cassazione 
per travisamento della 
prova 
assegnerebbe 
alla 
Corte 
di 
cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito. 
un 
simile 
ampliamento 
del 
controllo 
di 
legittimità, 
per 
di 
più 
diverrebbe 
ancor 
più 
esteso 
di 
quello 
ammesso 
nel 
giudizio 
di 
cassazione 
in 
sede 
penale, 
ove 
il 
travisamento 
della 
prova 
deve 
necessariamente 
inalvearsi 
nel 
ricorso 
per 
cassazione, 
dal 
momento 
che 
il 
giudizio 
penale 
non 
conosce 
il 
rimedio 
della 
revocazione. 
Così, 
difatti, 
Cass. 
pen. 
8 
luglio 
2022, 
n. 
26455, 
dopo 
aver 
ricordato 
che 
il 
vizio 
di 
travisamento 
della 
prova 
chiama 
in 
causa 
«le 
ipotesi 
di 
infedeltà 
della 
motivazione 
rispetto 
al 
processo 
e, 
dunque, 
le 
distorsioni 
del 
patrimonio 
conoscitivo 
valorizzato 
dalla 
motivazione 
rispetto 
a 
quello 
effettivamente 
acquisito 
nel 
giudizio», 
soggiunge 
che 
tale 
vizio 
«vede 
circoscritta 
la 
cognizione 
del 
giudice 
di 
legittimità 
alla 
verifica 
dell’esatta 
trasposizione 
nel 
ragionamento 
del 
giudice 
di 
merito 
del 
dato 
probatorio, 
rilevante 
e 
decisivo, 
per 
evidenziarne 
l’eventuale, 
incontrovertibile 
e 
pacifica 
distorsione, 
in 
termini 
quasi 
di 
“fotografia”, 
neutra 
e 
a-valutativa, 
del 
“significante”, 
ma 
non 
del 
“significato”, 
atteso 
il 
persistente 
divieto 
di 
rilettura 
e 
di 
re-interpretazione 
nel 
merito 
dell’elemento 
di 
prova». 


10.11. 
-Al 
fondo 
dell’ordinanza 
n. 
11111 
vi 
è 
una 
preoccupazione, 
che 
essa 
esplicita 
nel 
dire 
che, 
a 
negare 
la 
sindacabilità 
col 
ricorso 
per 
cassazione 
del 
travisamento 
della 
prova, 
si 
finirebbe 
per 
secondare 
il 
consolidarsi 
di 
«un’inemendabile 
forma 
di 
patente 
illegittimità 
della 
decisione, 
in 
contrasto 
con 
il 
principio 
dell’effettività 
della 
tutela, 
qualora 
essa 
si 
fondi 
sulla 
ricognizione 
obbiettiva 
del 
contenuto 
della 
prova 
che 
conduca 
ad 
una 
conclusione 
irredimibilmente 
contraddetta, 
in 
modo 
tanto 
inequivoco 
quanto 
decisivo, 
dalla 
prova 
travisata, 
su 
cui 
le 
parti 
hanno 
avuto 
modo 
di 
discutere». 
Ad una 
simile 
preoccupazione 
le 
Sezioni 
unite 
riconoscono il 
massimo rilievo: 
ma 
il 
fatto è 
che 
il 
rischio dell’inemendabilità 
del 
travisamento della 
prova, nei 
termini 
prospettati, è 
dal-
l’ordinamento già neutralizzato. 
E 
cioè 
un travisamento della 
prova, nel 
suo «contenuto oggettivo», non denunciabile 
per revocazione, 
che 
occorrerebbe 
spendere 
nel 
giudizio di 
legittimità, non esiste: 
il 
travisamento 
della 
prova 
in senso proprio, come 
si 
è 
detto, è 
difatti 
un travisamento bifronte, al 
quale 
possono 
ricondursi 
sia 
il 
momento percettivo del 
dato probatorio nella 
sua 
oggettività, sia 
il 
momento 
dell’individuazione 
delle 
informazioni 
probatorie 
che 
dal 
dato probatorio, considerato 
nella sua oggettività, possono per inferenza logica desumersi. 
Ebbene, per un verso, il 
momento percettivo del 
dato probatorio nella 
sua 
oggettività 
è 
per 
sua 
natura 
destinato ad essere 
controllato attraverso lo strumento della 
revocazione; 
per altro 
verso il 
momento dell’individuazione 
delle 
informazioni 
probatorie 
che 
dal 
dato probatorio 
possono desumersi 
è, come 
è 
sempre 
stato, affare 
del 
giudice 
di 
merito, ed è 
per questo sottratto 
al 
giudizio di 
legittimità, a 
condizione, beninteso, non dissimilmente 
dal 
passato, che 
il 
giudice 
di 
merito 
si 
sia 
in 
proposito 
speso 
in 
una 
motivazione 
eccedente 
la 
soglia 
del 
«minimo 
costituzionale». 
In questo secondo caso non v’è 
il 
rischio del 
consolidarsi 
di 
«un’inemendabile 
forma di 
patente 
illegittimità della decisione», giacché, una 
volta 
che 
il 
giudice 
di 
merito abbia 
fondato 
la 
propria 
decisione 
su un dato probatorio preso in considerazione 
nella 
sua 
oggettività, pena 
la 
rettifica 
dell’errore 
a 
mezzo della 
revocazione, ed abbia 
adottato la 
propria 
decisione 
sulla 
base 
di 
informazioni 
probatorie 
desunte 
dal 
dato probatorio, il 
tutto sostenuto da 
una 
motivazione 
rispettosa 
dell’esigenza 
costituzionale 
di 
motivazione, si 
è 
dinanzi 
ad una 
statuizione 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


fondata 
su 
basi 
razionali 
idonee 
a 
renderla 
accettabile. 
non 
residua 
allora 
nient’altro 
che 
l’eventualità 
che 
la 
Corte 
di 
cassazione 
sia 
di 
opinione 
diversa 
dal 
giudice 
di 
merito «intorno 
alla 
giustizia 
o 
alla 
perfetta 
legalità 
della 
decisione», 
per 
riprendere 
la 
citazione 
fatta 
poc’anzi, 
ma questa è un’eventualità che al diritto vigente non interessa. 


10.12. -Il 
controllo dell’attività 
del 
giudice 
di 
merito, nel 
momento percettivo del 
dato probatorio 
nella sua oggettività è, come si diceva, affidato alla revocazione. 
Secondo l’articolo 395, n. 4, c.p.c.: 
«Le 
sentenze 
pronunciate 
in grado d’appello o in unico 
grado possono essere 
impugnate 
per 
revocazione: ... se 
la sentenza è 
l’effetto di 
un errore 
di 
fatto risultante 
dagli 
atti 
o documenti 
della causa. Vi 
è 
questo errore 
quando la decisione 
è 
fondata 
sulla 
supposizione 
di 
un 
fatto 
la 
cui 
verità 
è 
incontrastabilmente 
esclusa, 
oppure 
quando è 
supposta l’inesistenza di 
un fatto la cui 
verità è 
positivamente 
stabilita, e 
tanto nel-
l’uno 
quanto 
nell’altro 
caso 
se 
il 
fatto 
non 
costituì 
un 
punto 
controverso 
sul 
quale 
la 
sentenza 
ebbe a pronunciare». 
La 
chiave 
di 
volta 
della 
disposizione 
è 
il 
sostantivo «supposizione», riferita 
ad «un fatto». Il 
giudice 
di 
merito, ma 
dall’introduzione 
dell’articolo 391 bis 
c.p.c. anche 
la 
Corte 
di 
cassazione, 
non conosce 
del 
fatto, non giudica 
sul 
fatto, lo suppone, e 
lo suppone 
contro una 
cartesiana 
evidenza 
bidirezionale, 
trattandosi 
di 
un 
fatto 
che 
è 
incontrastabilmente 
escluso 
o 
positivamente 
stabilito. La 
falsa 
supposizione 
non è 
frutto di 
una 
scelta 
deliberata, ragionata, 
è 
una 
falsa 
rappresentazione 
della 
realtà 
da 
ascrivere 
ad 
un 
abbaglio 
dei 
sensi, 
a 
disattenzione, 
distrazione, in buona 
sostanza 
ad una 
svista, la 
quale 
ricorre 
-si 
è 
autorevolmente 
osservato 
con formula 
tanto poco curiale 
quanto appropriata 
a 
fotografare 
ciò che 
in concreto accade 
nell’operare 
del 
giudice 
-quando il 
giudice 
prende 
«fischi 
per 
fiaschi 
e 
... verità per 
buggerate
». In breve, una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo. 
Si 
tratta, in particolare, di 
una 
svista 
non dissimile 
da 
quella 
in cui 
il 
giudice 
incorre 
in caso 
di 
errore 
materiale 
emendabile 
ai 
sensi 
dell’articolo 287 c.p.c., ma 
con la 
differenza 
che 
l’errore 
materiale 
è 
un 
errore 
esclusivamente 
testuale 
(meglio, 
quasi 
esclusivamente: 
v. 
Cass., 
Sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037, per il 
caso di 
omessa 
distrazione 
delle 
spese), riscontrabile 
come 
si 
suol 
dire 
ictu 
oculi, 
e 
che, 
come 
tale, 
è 
suscettibile 
di 
essere 
corretto 
con 
una 
procedura 
di 
natura 
sostanzialmente 
amministrativa, quale 
quella 
di 
cui 
al 
citato articolo 287, proprio 
perché, trattandosi 
di 
errore 
testuale 
auto-evidente, la 
sua 
correzione 
non necessita 
di 
intervenire 
sulla 
ratio 
decidendi 
che 
sostiene 
la 
decisione 
affetta 
da 
errore, 
ricostruendo 
quale 
essa 
ratio decidendi 
sia. 
Viceversa, 
l’errore 
revocatorio 
è 
un 
errore 
non 
testuale, 
che 
si 
rivela 
attraverso 
la 
messa 
a 
confronto di 
due 
divergenti 
rappresentazioni 
dello stesso oggetto, da 
un lato quella 
risultante 
dalla 
decisione 
del 
giudice, 
dall’altro 
quella, 
contrastante, 
tale 
da 
smentire 
la 
rappresentazione 
offerta dal giudice, che emerge univocamente dagli atti e documenti acquisiti al processo. 
È 
per questo che 
l’errore 
revocatorio (quando non possa 
essere 
fatto valere 
con l’appello) ha 
da 
essere 
intercettato attraverso la 
revocazione, perché 
dal 
compito istituzionale 
della 
Cassazione 
deriva 
che 
essa, 
estranea 
al 
giudizio 
di 
fatto, 
debba 
ricevere 
questo 
giudizio 
già 
formato: 
e 
se 
il 
giudice 
di 
appello sia 
incorso in una 
svista, è 
a 
lui 
che 
spetta 
di 
porvi 
rimedio, a 
mezzo 
della 
revocazione 
per errore 
di 
fatto, al 
fine 
di 
eventualmente 
consegnare 
al 
giudice 
di 
legittimità 
un fatto già definitivamente ricostruito nella sua oggettività. 
Infine, l’errore 
materiale, come 
quello revocatorio, è 
un errore 
commissivo, tant’è, quanto a 
quest’ultimo, che 
esso non ricorre 
in caso di 
semplice 
omesso esame 
di 
un fatto, sostanziale 
o processuale che sia (Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110). 
10.13. 
-La 
revocazione 
per 
il 
motivo 
in 
esame 
è 
ammessa 
dalla 
giurisprudenza 
di 
questa 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Corte 
rispetto 
a 
qualsiasi 
fatto, 
sia 
sostanziale 
che 
processuale 
(v. 
p. 
es. 
per 
quest’ultima 
ipotesi 
i 
casi 
esaminati 
da 
Cass. 
18 
luglio 
2008, 
n. 
19924, 
e 
Cass. 
14 
novembre 
2016, 
n. 
23173), 
sempre 
che, ovviamente, tra 
la 
svista 
concernente 
il 
fatto e 
la 
statuizione 
adottata 
intercorra 
un 
nesso di 
necessità 
logica 
e 
giuridica 
tale 
da 
determinare, in ipotesi 
di 
percezione 
corretta, una 
decisione diversa (p. es. Cass., Sez. un., 23 gennaio 2009, n. 1666). 
In particolare, è 
fermo l’orientamento secondo cui 
è 
suscettibile 
di 
revocazione 
la 
decisione 
adottata 
sulla 
base 
dell’affermazione, dovuta 
a 
mera 
svista, dell’inesistenza 
in atti 
di 
un determinato 
documento, che 
risulti 
invece 
ritualmente 
prodotto (la 
più remota 
che 
sembra 
rinvenirsi 
al 
CED 
della 
Corte 
di 
cassazione 
è 
Cass. 4 ottobre 
1971, n. 2697, secondo cui: 
«Se 
la 
parte 
assume 
che 
il 
giudice 
abbia errato nel 
ritenere 
non prodotto in giudizio il 
documento 
decisivo, può far 
valere 
tale 
preteso errore 
soltanto in sede 
di 
revocazione, ai 
sensi 
dell’articolo 
395, n. 4, c.p.c., sempre 
che 
ne 
ricorrano le 
condizioni»; 
la 
più recente 
Cass. 20 marzo 
2023, n. 7973). 


10.14. -Il 
fatto supposto esistente 
o inesistente 
non deve 
aver costituito un punto controverso 
sul 
quale 
il 
revocando provvedimento si 
è 
pronunciato. È 
quindi 
esclusa 
la 
rilevanza 
dell’errore, 
che 
per ciò stesso cessa 
di 
essere 
un errore 
revocatorio ed assume 
i 
caratteri 
dell’errore 
di 
giudizio, quando sul 
fatto il 
giudice 
si 
sia 
pronunciato, giacché 
l’errore 
percettivo è 
intrinsecamente 
incompatibile 
con il 
giudizio. Come 
si 
è 
già 
detto, la 
distinzione 
tra 
momento percettivo 
e 
momento 
valutativo 
non 
potrebbe 
essere 
intaccata 
neppure 
da 
considerazioni 
provenienti 
dalle 
neuroscienze 
o 
dall’epistemologia, 
giacché 
ciò 
che 
rileva 
è 
la 
logica 
del 
processo 
giurisdizionale, per la 
quale 
se 
c’è 
controversia 
c’è 
giudizio, e 
se 
c’è 
giudizio non c’è 
errore percettivo. 
Qui 
occorre 
una 
breve 
ulteriore 
precisazione. L’ordinanza 
n. 11111, infatti, ricorda 
che 
la 
revocazione 
non può essere 
impiegata 
quando il 
fatto abbia 
costituito un punto controverso sul 
quale 
il 
giudice 
ebbe 
a 
pronunciarsi: 
in questa 
ipotesi, si 
sostiene, il 
rischio del 
consolidarsi 
di 
«un’inemendabile 
forma 
di 
patente 
illegittimità 
della 
decisione» 
era 
scongiurato, 
prima 
della 
novella 
del 
n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., attraverso la 
possibilità 
della 
denuncia 
del 
vizio 
motivazionale: 
sicché 
-questa 
la 
conseguenza 
tratta 
dalla 
premessa 
-dopo la 
novella 
occorrerebbe 
ammettere 
la 
denuncia 
per cassazione 
del 
vizio di 
travisamento della 
prova, dal 
momento 
che 
la 
possibilità 
di 
emendare 
il 
provvedimento giurisdizionale 
dall’errore 
percettivo 
rappresenta, 
com’è 
indubbio, 
un 
irrinunciabile 
presidio 
dell’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
(basterà rammentare Corte cost. 5 maggio 2021, n. 89). 
Con 
riguardo 
all’errore 
revocatorio 
che 
sia 
effettivamente 
tale 
-quale 
non 
è 
quello 
concernente 
l’informazione 
probatoria 
ritraibile 
per via 
logica 
dal 
dato probatorio acquisito al 
giudizio occorre 
sottolineare 
che 
il 
carattere 
controverso del 
fatto «sul 
quale 
la sentenza ebbe 
a pronunciare
» attiene 
non ai 
fatti 
da 
provare 
cui 
si 
riferisce 
l’articolo 2697 c.c., ma 
al 
fatto probatorio 
rilevante 
per 
i 
fini 
del 
giudizio: 
la 
svista 
del 
giudice 
cade 
sulla 
c.d. 
percezione 
semplice 
o percezione 
oggettuale, documento, foto, dichiarazione, indizio, e 
così 
via. nel 
caso della 
fotografia, che 
ritrae 
un autoveicolo, prodotta 
in giudizio a 
dimostrazione 
dei 
danni 
da 
esso 
subiti, fotografia 
in cui 
il 
giudice 
ravvisa 
invece 
un fiume, il 
carattere 
controverso del 
fatto 
sul 
quale 
la 
sentenza 
ebbe 
a 
pronunciare 
intanto sussiste, in quanto, a 
fronte 
della 
produzione 
della 
fotografia 
da 
parte 
del 
preteso danneggiato, l’altra 
parte 
neghi 
trattarsi 
della 
fotografia 
di 
un autoveicolo e 
sostenga 
trattarsi, appunto, della 
raffigurazione 
di 
un corso d’acqua. Solo 
in questo caso, ove 
il 
giudice 
affermi 
trattarsi 
della 
fotografia 
di 
un fiume, «la sentenza ebbe 
a 
pronunciare» 
sul 
fatto 
probatorio 
controverso. 
Se, 
viceversa, 
la 
controparte 
osserva 
ad 
esempio 
che 
la 
fotografia 
è 
priva 
di 
valore 
probatorio 
perché 
rappresenta 
un 
veicolo 
diverso 
da 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


quello danneggiato, o non è 
chiara, o da 
essa 
il 
veicolo risulta 
essere 
in perfetto stato, ed il 
giudice, 
collocandosi 
al 
di 
fuori 
del 
dibattito 
processuale, 
nega 
alla 
fotografia 
valore 
probatorio 
perché 
rappresenta 
un fiume, ciò non esclude 
la 
svista, che 
anzi 
rimane 
tal 
quale. Insomma, 
il 
fatto (probatorio) costituisce 
un punto controverso sul 
quale 
il 
giudice 
di 
merito pronuncia 
quando il suo giudizio riflette la prospettazione, in proposito, di una delle parti. 
È 
chiaro, 
allora, 
che 
il 
problema 
posto 
dall’ordinanza 
n. 
11111 
appare 
essere, 
realisticamente, 
un 
problema 
alquanto 
marginale: 
l’errore 
materiale 
è 
una 
svista 
del 
giudice 
nella 
consultazione 
degli 
atti 
del 
processo, 
ed 
una 
svista 
è, 
nel 
linguaggio 
comune, 
un 
errore, 
non 
grave, 
soprattutto 
in uno scritto, dovuto più che 
altro a 
disattenzione; 
etimologicamente 
la 
svista 
è 
difatti 
un errore 
che 
si 
commette 
per non avere 
visto bene; 
ora, ove 
il 
fatto probatorio sia 
controverso, 
nel 
senso dianzi 
indicato, e 
cioè 
qualora 
le 
parti 
abbiano mobilitato l’attenzione 
del 
giudice 
sul 
fatto 
probatorio, 
oggetto 
di 
contrapposte 
letture, 
appare 
almeno 
improbabile 
che 
una 
svista 
abbia a verificarsi. 


10.15. -Ma, ammettiamo che 
accada 
l’imponderabile, che 
tra 
le 
parti 
si 
svolga 
un surreale 
dibattito sul 
quesito se 
una 
fotografia, che 
palesemente 
rappresenta 
un’autovettura, non rappresenti 
invece 
un fiume, e 
che 
il 
giudice, prendendo atto del 
dibattito, affermi 
che 
l’autovettura 
rappresenta proprio un fiume. 
In questo caso non vi 
è 
spazio per la 
revocazione, secondo quanto stabilisce 
l’articolo 395, n. 
4, c.p.c. (v. p. es. Cass. 15 dicembre 
2011, n. 27094). E 
bisogna 
allora 
interrogarsi 
sul 
come 
il 
consolidamento di 
tale 
«inemendabile 
forma di 
patente 
illegittimità della decisione» debba 
essere contrastato. 
ritengono le 
Sezioni 
unite 
che 
in una 
simile 
ipotesi 
nulla 
osti 
alla 
formulazione 
del 
motivo 
di 
cui, a 
seconda 
dei 
casi, ai 
nn. 4 e 
5, dell’articolo 360 c.p.c., sussistendone 
di 
volta 
in volta 
i 
necessari 
presupposti, 
che 
qui 
è 
superfluo 
ricapitolare. 
Il 
punto 
è 
che, 
nella 
patologica 
ipotesi 
considerata, 
il 
giudice 
ha 
pur 
sempre 
supposto 
un 
fatto 
la 
cui 
verità 
è 
incontrastabilmente 
esclusa, oppure 
l’inesistenza 
di 
un fatto la 
cui 
verità 
è 
positivamente 
stabilita: 
il 
fatto posto a 
sostegno 
della 
decisione, 
quantunque 
il 
giudice 
abbia 
deciso, 
non 
esiste 
nei 
termini 
in 
cui 
egli 
lo ha 
recepito; 
si 
tratta, diremmo, di 
un non-fatto, un fatto la 
cui 
considerazione, nella 
sua 
effettiva 
oggettività, è stata in fin dei conti omessa. 
Sicché, 
l’affermazione 
secondo 
cui, 
se 
l’errore 
è 
frutto 
di 
un’omessa 
percezione 
del 
fatto, 
essa 
è 
censurabile 
ex 
articolo 
360, 
n. 
5, 
c.p.c., 
se 
si 
riferisca 
a 
fatti 
sostanziali, 
ovvero 
ex 
articolo 
360, 
n. 
4, 
c.p.c., 
ove 
si 
tratti 
di 
omesso 
esame 
di 
fatti 
processuali 
(v. 
in 
tali 
termini 
le 
già 
richiamate 
Cass., 
26 
maggio 
2021, 
n. 
14610; 
Cass. 
21 
luglio 
2010, 
n. 
17110), 
va 
estesa 
al 
caso 
in 
cui 
il 
giudice 
di 
merito 
abbia 
supposto 
un 
non-fatto, 
un 
fatto 
la 
cui 
verità 
è 
incontrastabilmente 
esclusa, 
oppure 
l’inesistenza 
di 
un 
fatto 
la 
cui 
verità 
è 
positivamente 
stabilita, 
con 
la 
finale 
precisazione 
che 
un 
simile 
errore, 
che 
si 
è 
detto 
essere 
commissivo, 
è 
pur 
sempre 
omissivo 
dall’angolo 
visuale 
del 
risultato 
che 
determina 
nel 
giudizio. 
Pare 
residuare 
soltanto 
l’ipotesi 
che 
l’errore 
revocatorio 
sia 
commesso 
dal 
giudice 
di 
primo 
grado, 
il 
soccombente 
lo 
denunci 
con 
l’appello 
ed 
il 
giudice 
d’appello 
rigetti 
l’impugnazione: 
anche 
in 
questo 
caso, 
a 
fronte 
della 
supposizione 
di 
un 
non-fatto, 
l’applicazione 
della 
regola 
appena 
riassunta 
non 
è 
esclusa 
dall’operatività 
dell’articolo 
360, 
quarto 
comma, 
c.p.c., 
che 
richiede 
pur 
sempre 
un’effettiva 
cognizione 
in 
fatto, 
che 
nella 
specie, 
per 
le 
ragioni 
testé 
evidenziate, 
manca. 
10.16. -Argomenti 
nel 
senso dell’ammissibilità 
del 
sindacato in Cassazione 
del 
travisamento 
della 
prova, 
va 
da 
ultimo 
ricordato, 
non 
possono 
essere 
desunti 
neppure 
dall’articolo 
2, 
commi 
2 e 
3, della 
legge 
13 aprile 
1988, n. 117, sulla 
considerazione 
che 
sarebbe 
paradossale 
che 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


l’ordinamento giuridico concepisca 
rimedi 
risarcitori 
dell’errore 
commesso dal 
magistrato e 
non rimedi volti a neutralizzarlo, impedendo a monte che si esso si consolidi. 
Quest’argomento, 
pur 
autorevolmente 
sostenuto, 
è 
suggestivo, 
ma 
privo 
di 
fondamento. 
Il 
citato 
articolo 
2, 
laddove 
si 
riferisce 
al 
travisamento 
del 
fatto 
e 
della 
prova, 
è 
da 
ritenere 
riguardi 
infatti 
il 
giudizio penale, nel 
quale, difettando il 
rimedio della 
revocazione, operano travisamento 
del 
fatto e 
della 
prova, denunciabili 
in Cassazione 
secondo l’articolo 606, lett. e, c.p.p. 
D’altro canto, per quanto attiene 
al 
settore 
civile, l’errore 
di 
fatto su circostanza 
controversa 
continua 
ad 
essere 
considerato 
nell’articolo 
2 
errore 
percettivo 
e 
non 
cattiva 
valutazione 
della 
prova, 
perché 
il 
«fatti 
salvi» 
di 
cui 
al 
comma 
2 
non 
va 
inteso 
come 
deroga 
alla 
esclusione 
dall’ambito di 
applicabilità 
della 
valutazione 
del 
fatto e 
della 
prova, con la 
conseguenza 
che 
il 
comma 
3 
rinvierebbe 
pur 
sempre 
ad 
attività 
valutativa, 
ma 
come 
esclusione 
dall’ambito 
delle 
valutazioni 
di 
fatto e 
prova 
della 
fattispecie 
prevista 
dal 
comma 
3. Se 
così 
non fosse 
dovrebbe 
ritenersi 
che 
l’errore 
revocatorio di 
cui 
all’articolo 395, n. 4, c.p.c. sia 
compreso nella 
fattispecie 
del 
comma 
3, quale 
valutazione 
e 
non percezione, il 
che 
non può essere 
perché 
in 
assenza 
di 
controversia 
non può esserci 
giudizio: 
il 
«fatti 
salvi» significa 
allora 
che 
intanto la 
fattispecie 
del 
comma 
3 comprende 
ipotesi 
di 
responsabilità 
civile, in quanto non si 
tratti 
di 
attività 
di 
giudizio, e 
che 
la 
disposizione 
contempla 
ipotesi 
che 
il 
codice 
processuale 
tradizionalmente 
intendeva 
quali 
giudizi, 
in 
quanto 
errori 
su 
circostanze 
controverse, 
non 
intercettate 
dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., ma 
che 
ora 
vengono equiparati 
ad errori 
percettivi. In fin dei 
conti, l’articolo 2 si 
riferisce, per quanto qui 
interessa, all’errore 
revocatorio su fatto controverso, 
e 
qui 
il 
controllo 
volto 
ad 
impedire 
il 
consolidamento 
dell’errore 
ricorre 
nei 
termini 
già 
illustrati, mentre 
l’errore 
revocatorio su fatto incontroverso è 
fuori 
dalla 
portata 
della 
disposizione, 
giacché 
l’ordinamento si 
contraddirebbe 
se 
lo riconducesse 
simultaneamente 
agli 
ambiti di applicabilità degli articoli 395, n. 4, c.p.c. e 2 della citata legge. 


10.17. -La 
disamina 
del 
contrasto si 
conclude 
con l’affermazione 
del 
seguente 
principio di 
diritto: 
«Il 
travisamento del 
contenuto oggettivo della 
prova, il 
quale 
ricorre 
in caso di 
svista 
concernente 
il 
fatto probatorio in sé, e 
non di 
verifica 
logica 
della 
riconducibilità 
dell’informazione 
probatoria 
al 
fatto probatorio, trova 
il 
suo istituzionale 
rimedio nell’impugnazione 
per revocazione 
per errore 
di 
fatto, in concorso dei 
presupposti 
richiesti 
dall’articolo 395, n. 
4, 
c.p.c., 
mentre, 
ove 
il 
fatto 
probatorio 
abbia 
costituito 
un 
punto 
controverso 
sul 
quale 
la 
sentenza 
ebbe 
a 
pronunciare, e 
cioè 
se 
il 
travisamento rifletta 
la 
lettura 
del 
fatto probatorio prospettata 
da 
una 
delle 
parti, 
il 
vizio 
va 
fatto 
valere, 
in 
concorso 
dei 
presupposti 
di 
legge, 
ai 
sensi 
dell’articolo 360, nn. 4 e 
5, c.p.c., a 
seconda 
si 
tratti 
di 
fatto processuale 
o sostanziale». 
(omissis) 
Così 
deciso 
in 
roma, 
nella 
camera 
di 
consiglio 
delle 
Sezioni 
unite 
civili, 
il 
7 
novembre 
2023. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


il superamento dei termini della procedura accelerata 
e la deroga al principio della sospensione automatica 
dell’esecutività della decisione di rigetto della domanda 
di protezione internazionale per il richiedente proveniente 
da Paese sicuro. Considerazioni a margine di 
Cassazione, sezioni Unite, 29 aprile 2024 n. 11399 


Stefano Emanuele Pizzorno* 


SOMMARIO: 
1. 
Il 
ricorso 
in 
via 
pregiudiziale 
-2. 
La 
questione 
di 
merito 
-2.1. 
La 
nozione 
di Paese sicuro - 2.2. La procedura accelerata - 3. Conclusioni. 


recentemente 
la 
Suprema 
Corte 
si 
è 
pronunciata 
a 
Sezioni 
unite 
sulla 
questione 
se 
in caso di 
impugnazione 
del 
provvedimento emesso dalle 
Commissioni 
per 
il 
riconoscimento 
della 
protezione 
internazionale 
a 
seguito 
di 
procedura 
accelerata 
(art. 28 
bis 
d.lgs. 25/2008) nei 
casi 
di 
soggetto proveniente 
da 
Paese 
sicuro, la 
violazione 
delle 
regole 
procedurali 
di 
quest’ultima 
determini 
il 
ripristino della 
regola 
generale 
secondo cui, ex 
art. 35 bis 
terzo comma 
d.lgs. 25/2008, l’impugnazione 
dà 
luogo a 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento 
stesso. 


1. Il ricorso in via pregiudiziale. 
La 
sentenza 
è 
interessante 
anche 
sul 
piano della 
procedura 
civile 
perché 
è 
emessa 
in applicazione 
del 
nuovo art. 363 bis 
c.p.c., introdotto dalla 
riforma 
Cartabia, che 
consente 
al 
giudice 
di 
merito di 
sottoporre 
direttamente 
alla 
Suprema 
Corte, in via 
pregiudiziale, una 
questione 
di 
diritto. Il 
procedimento si 
conclude 
con 
l’enunciazione 
del 
principio 
di 
diritto 
da 
parte 
della 
Corte, 
espressamente 
previsto come 
vincolante 
nel 
giudizio nell’ambito del 
quale 
è 
stata 
rimessa 
la 
questione. 
Qualora, 
poi, 
tale 
giudizio 
si 
estingua, 
l’ultimo 
comma 
dell’articolo in esame 
estende 
il 
vincolo del 
principio di 
diritto enunciato 
dalla 
Corte 
anche 
al 
nuovo processo instaurato tra 
le 
stesse 
parti, con la 
riproposizione della medesima domanda (1). 


La 
rimessione 
alla 
Corte 
non 
era 
scontata 
perché 
essa 
presuppone 
la 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) Da 
osservare 
la 
differenza 
tra 
l’istituto italiano e 
quello francese 
della 
saisine 
pour 
avis 
(art. 
L. 441-1 del 
codice 
di 
organizzazione 
giudiziaria 
francese). Il 
principio di 
diritto enunciato dalla 
Corte 
Suprema 
italiana, ai 
sensi 
dell’art. 363 bis 
c.p.c., vincola 
la 
decisione 
del 
giudice 
di 
merito, che 
ha 
sollevato 
la 
questione, e 
tutti 
i 
giudici 
che 
interverranno nel 
medesimo procedimento. nell’ordinamento 
francese 
la 
Corte 
di 
cassazione 
esprime 
invece 
semplicemente 
un parere 
sulla 
questione 
sollevata, non 
vincolante 
per 
il 
giudice 
di 
merito. 
Sul 
punto 
v. 
MArInELLI, 
La 
saisine 
pour 
avis 
de 
la 
Cour 
de 
Cassation 
e 
il 
nuovo 
rinvio 
pregiudiziale 
ex 
art. 
363-bis 
c.p.c.: 
divagazioni 
su 
norme 
giuridiche 
e 
norme 
culturali, 
in Riv. Dir. Proc., 2024, 1, 67. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 
75 


concorrenza 
di 
tre 
condizioni 
(2); 
oltre 
a 
potersi 
porre 
in 
una 
pluralità 
di 
giudizi 
e 
dar 
luogo 
a 
difficoltà 
interpretative, 
la 
risoluzione 
della 
questione, 
infatti, 
deve 
anche 
essere 
necessaria 
per 
la 
definizione 
anche 
parziale 
del 
giudizio, 
e 
nel 
caso 
specifico 
si 
trattava 
del 
ritenere 
applicabile 
una 
misura 
cautelare. 


La 
Suprema 
Corte 
a 
questo proposito ammette 
che 
il 
rinvio di 
cui 
all’art. 
363 bis 
possa 
riguardare 
anche 
questioni 
che 
sorgano nei 
procedimenti 
cautelari, 
facendo 
ricorso 
in 
primo 
luogo 
ad 
un 
argomento 
di 
carattere 
generale, 
quale 
lo 
scopo 
dell’istituto, 
individuato 
nella 
necessità 
di 
espansione 
della 
funzione 
nomofilattica 
della 
Cassazione 
al 
fine 
di 
deflazionare 
il 
contenzioso. In 
questo senso siamo in presenza 
di 
uno strumento di 
nomofilachia 
preventiva, 
ben più incisivo dell’istituto previsto dall’art. 363 c.p.c. (introdotto dal 
d.lgs. 
40/2006) 
che 
consente 
sia 
al 
Procuratore 
generale 
presso 
la 
Corte 
di 
cassazione 
di 
chiedere, 
quando 
il 
ricorso 
non 
sia 
stato 
proposto 
o 
non 
sia 
proponibile, 
che 
la 
Corte 
enunci 
nell’interesse 
della 
legge 
il 
principio di 
diritto al 
quale 
il 
giudice 
di 
merito 
avrebbe 
dovuto 
attenersi, 
sia 
alla 
Corte 
di 
pronunciare 
d’ufficio 
il 
principio di 
diritto, quando il 
ricorso sia 
dichiarato inammissibile, allorché 
la 
questione 
sia 
ritenuta 
di 
particolare 
importanza 
(3). 
Con 
la 
sentenza 
n. 
28727/23 
la 
Cassazione 
al 
riguardo 
ha 
affermato 
che 
la 
finalità 
del 
nuovo 
istituto 
è 
prettamente 
deflativa 
e 
viene 
perseguita 
attraverso 
l’enunciazione 
di 
un 
principio 
di 
diritto, 
che 
può 
costituire 
un 
precedente 
in 
una 
serie 
di 
giudizi, 
accomunati 
dalla difficoltà interpretativa di 
una disposizione 
nuova o sulla 
quale 
non si 
è 
ancora formato un univoco orientamento giurisprudenziale. Si 
è 
rilevato in dottrina che 
il 
nuovo istituto tende 
a realizzare 
una sorta di 
nomofilachia 
preventiva, allo scopo di 
pervenire 
ad indirizzi 
giurisprudenziali 
uniformi, 
considerato 
che 
la 
prevedibilità 
della 
decisione 
oggi 
deve 
essere 
considerata come 
un “valore”, che 
si 
riflette 
sulla certezza del 
diritto, sulla 
tutela dei 
cittadini 
che 
vi 
fanno affidamento e 
sulla effettività del 
principio di 
uguaglianza, 
che 
impone 
uniforme 
trattamento, 
anche 
giurisdizionale, 
di 
fronte a casi simili 
(4). 


(2) L’art. 363 bis 
c.p.c. primo comma, introdotto dal 
d.lgs. 10 ottobre 
2022, n. 149, dispone: 
Il 
giudice 
di 
merito può disporre 
con ordinanza, sentite 
le 
parti 
costituite, il 
rinvio pregiudiziale 
degli 
atti 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
per 
la 
risoluzione 
di 
una 
questione 
esclusivamente 
di 
diritto, 
quando 
concorrono 
le seguenti condizioni: 
1) la 
questione 
è 
necessaria 
alla 
definizione 
anche 
parziale 
del 
giudizio e 
non è 
stata 
ancora 
risolta 
dalla 
Corte di cassazione; 
2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 
3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi. 
(3) 
Su 
cui 
v. 
per 
tutti 
CAPPOnI, 
La 
Corte 
di 
cassazione 
e 
la 
«nomofilachia» 
(a 
proposito 
dell’art. 
363 
c.p.c.), 
in 
Judicium, 
6 
aprile 
2020, 
https://www.judicium.it/la-corte-di-cassazione-e-lanomofilachia-
art-363-c-p-c/. 
Sul 
rapporto 
tra 
principio 
di 
diritto 
nell’interesse 
della 
legge 
e 
rinvio 
pregiudiziale, 
v. 
TurrInI, 
Rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
principio 
di 
diritto 
nell’interesse 
della 
legge, 
in 
Riv. 
Dir. 
Proc., 
2023, 
4, 
1609. 
Sull’istituto 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
v. 
CAPASSO, 
Il 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
e 
il 
«vincolo» 
di 
troppo, 
in 
Riv. 
trim. 
dir. 
e 
proc. 
civ., 
2022, 
587 
ss. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


In 
secondo 
luogo, 
la 
Suprema 
Corte 
espone 
argomenti 
concernenti 
la 
specificità 
del 
giudizio sul 
riconoscimento della 
protezione 
internazionale, in 
cui 
la 
mancata 
sospensione 
del 
provvedimento, potrebbe 
determinare 
l’allontanamento 
del 
ricorrente 
dal 
territorio nazionale 
e 
il 
ritorno nel 
Paese 
di 
origine, 
impedendo, 
secondo 
la 
disposizione 
dell’art. 
2 
del 
d.lgs. 
251/2007, 
l’accoglimento 
della 
domanda. 
Pertanto, 
in 
tal 
caso 
la 
decisione 
cautelare 
avrebbe rilevanza anche sulla definizione del giudizio. 

2. La questione di merito. 
Come 
principio 
generale 
la 
proposizione 
del 
ricorso 
avverso 
il 
provvedimento 
della 
Commissione 
per 
il 
riconoscimento 
della 
protezione 
internazionale 
sospende 
l’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento 
impugnato 
(art. 
35 
bis 
comma 
3 
d.lgs 
25/2008). 
Sono 
previste 
alcune 
eccezioni, 
tra 
cui 
quella 
in 
cui 
il 
richiedente 
provenga 
da 
Paese 
ritenuto 
sicuro. 
Infatti 
l’art. 
35 
bis 
terzo 
comma 
prevede 
tra 
le 
eccezioni 
quella 
in 
cui 
il 
ricorso 
sia 
proposto 
avverso 
il 
provvedimento 
di 
rigetto 
per 
manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 
32, 
comma 
1, 
lettera 
b-bis; 
l’art. 
32, 
comma 
1 
lettera 
b-bis 
fa 
riferimento 
al 
rigetto 
della 
domanda 
per 
manifesta 
infondatezza 
nei 
casi 
di 
cui 
all’articolo 
28-ter; 
e 
l’articolo 
28-ter, 
tra 
le 
varie 
ipotesi 
di 
rigetto 
della 
domanda 
per 
manifesta 
infondatezza, 
contempla 
(lett. 
b) 
quella 
in 
cui 
il 
richiedente 
provenga 
da 
un 
Paese 
designato 
di 
origine 
sicuro 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2-bis. 
Attraverso 
questi 
rinvii 
normativi, 
si 
dispone 
pertanto 
che, 
qualora 
il 
richiedente 
provenga 
da 
Paese 
sicuro, 
la 
domanda 
si 
considera 
manifestamente 
infondata 
e 
non 
si 
applica 
la 
sospensione 
automatica 
del-
l’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento 
di 
rigetto. 


La 
normativa 
interna 
rispecchia 
quella 
comunitaria. 
Infatti, 
come 
ricordato 
dalla 
Suprema 
Corte, 
in 
base 
alla 
Direttiva 
2013/32/uE 
(cd. 
direttiva 
procedure), 
il 
richiedente 
la 
protezione 
internazionale, 
in 
caso 
di 
rigetto 
della 
domanda, 
ha 
diritto 
a 
rimanere 
nel 
territorio 
dello 
Stato 
membro 
in 
cui 
ha 
fatto 
la 
richiesta 
fino 
alla 
scadenza 
del 
termine 
per 
proporre 
ricorso 
o, 
in 
caso 
in 
cui 
il 
ricorso 
sia 
stato 
proposto, 
fino 
all’esito 
dello 
stesso 
(art. 
46 
par. 
5 
della 
Direttiva) 
(5). 
Sono 
previste 
(art. 
46 
par. 
6) 
alcune 
eccezioni 
al 
principio 
tra 
cui, 
per 
l’appunto, 
attraverso 
il 
richiamo 
delle 
ipotesi 
di 
cui 
all’art. 
31 
par. 
8 
(in 
cui 
è 
ammessa 
la 
procedura 
accelerata), 
quella 
della 
provenienza 
del 
richiedente 
da 
un 
Paese 
ritenuto 
sicuro 
(art. 
31, 
par. 
8, 
lett. 
b) 
(6). 


(4) Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 
2023, n. 28727. In questo senso anche 
Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 
2024, n. 11688. 
(5) Art. 46 par. 5 Dir. 2013/32/uE: 
“Fatto salvo il 
paragrafo 6, gli 
Stati 
membri 
autorizzano i 
richiedenti 
a 
rimanere 
nel 
loro territorio fino alla 
scadenza 
del 
termine 
entro il 
quale 
possono esercitare 
il 
loro diritto a 
un ricorso effettivo oppure, se 
tale 
diritto è 
stato esercitato entro il 
termine 
previsto, in 
attesa dell’esito del ricorso”. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


2.1. La nozione di Paese sicuro. 
È 
la 
stessa 
direttiva 
2013/32/uE 
ad aver introdotto la 
nozione 
di 
Paese 
sicuro, attribuendo agli 
Stati 
membri 
anche 
la 
facoltà 
di 
stabilire 
una 
lista 
di 
paesi 
di 
origine 
(7) sicuri 
ai 
fini 
dell’esame 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
(art. 37 par. 1), indicando una 
serie 
di 
parametri 
(art. 38), e 
prevedendo 
l’obbligo 
di 
riesaminare 
periodicamente 
la 
situazione 
(art. 
37, 
2). 
Con 
decreto-legge 
4 
ottobre 
2018, 
n. 
113, 
in 
attuazione 
di 
queste 
disposizioni, 
è 
stato aggiunto al 
d.lgs. 25/2008 l’art. 2 bis 
che 
introduce 
la 
nozione 
di 
Paese 
di 
origine 
sicuro, ovvero un Paese 
in cui, in caso di 
rientro, i 
richiedenti 
non 
corrono il 
rischio di 
subire 
danni 
gravi 
alla 
persona 
(condanna 
a 
morte, esecuzioni, 
torture, 
trattamenti 
inumani 
e 
degradanti, 
conflitti 
armati) 
(8). 
Inoltre, 
è 
stabilito che 
con decreto del 
Ministro degli 
affari 
esteri 
e 
della 
cooperazione 
internazionale, 
di 
concerto 
con 
i 
Ministri 
dell’interno 
e 
della 
giustizia, 
sia 
adottato 
l’elenco dei 
Paesi 
di 
origine 
sicuri, la 
qual 
cosa 
è 
avvenuta 
a 
partire 
dal 
Decreto 
Interministeriale 
n. 
1202/606 
del 
4 
ottobre 
2019, 
successivamente 
aggiornato 
(9). 

nell’ipotesi 
in 
cui 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
sia 
presentata 
direttamente 
alla 
frontiera 
o 
nelle 
zone 
di 
transito 
da 
un 
richiedente 
proveniente 
da 
un 
Paese 
designato 
di 
origine 
sicuro, 
è 
anche 
previsto 
il 
trattenimento 
durante 
lo 
svolgimento 
della 
procedura 
(10), 
che 
può 
essere 
disposto 
qualora 
il 
richiedente 
non 
consegni 
il 
passaporto 
o 
altro 
documento 
equipollente 
in 
corso 
di 
validità, 
ovvero 
non 
presti 
idonea 
garanzia 
finanziaria, 
il 
cui 
importo 
e 
le 
cui 
modalità 
di 
prestazione 
sono 
stati 
individuati 
con 
decreto 
del 
Ministero 
dell’interno 
del 
14 
settembre 
2023, 
di 
concerto 


(6) L’art. 46 par. 6 della 
Direttiva 
2013/32/uE, indica 
tra 
le 
eccezioni, alla 
lettera 
a, la 
decisione 
“di 
ritenere 
una 
domanda 
manifestamente 
infondata 
conformemente 
all’articolo 32, paragrafo 2, o infondata 
dopo 
l’esame 
conformemente 
all’articolo 
31, 
paragrafo 
8, 
a 
eccezione 
dei 
casi 
in 
cui 
tali 
decisioni 
si 
basano sulle 
circostanze 
di 
cui 
all’articolo 31, paragrafo 8, lettera 
h)”. L’articolo 31 par. 8 fa 
riferimento 
alla 
lettera 
b all’ipotesi 
in cui 
“il 
richiedente 
proviene 
da 
un paese 
di 
origine 
sicuro a 
norma 
della 
presente direttiva”. 
(7) Per paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
deve 
intendersi 
il 
paese 
della 
sua 
cittadinanza 
al 
momento 
della 
presentazione 
della 
domanda, così 
Cass. civ. Sez. I, ord. 1 marzo 2021, n. 5523 con riferimento al-
l’espressione 
paese 
di 
origine 
di 
cui 
all’art. 14, lett. b) d.lgs. n. 251 del 
2007 in tema 
di 
protezione 
sussidiaria. 
(8) Art. 2 bis, comma 
2 d.lgs. 28 gennaio 2008: 
“uno Stato non appartenente 
all’unione 
europea 
può essere 
considerato Paese 
di 
origine 
sicuro se, sulla 
base 
del 
suo ordinamento giuridico, dell’applicazione 
della 
legge 
all’interno di 
un sistema 
democratico e 
della 
situazione 
politica 
generale, si 
può dimostrare 
che, in via 
generale 
e 
costante, non sussistono atti 
di 
persecuzione 
quali 
definiti 
dall’articolo 
7 del 
decreto legislativo 19 novembre 
2007, n. 251, né 
tortura 
o altre 
forme 
di 
pena 
o trattamento inumano 
o 
degradante, 
né 
pericolo 
a 
causa 
di 
violenza 
indiscriminata 
in 
situazioni 
di 
conflitto 
armato 
interno 
o internazionale. La 
designazione 
di 
un Paese 
di 
origine 
sicuro può essere 
fatta 
con l’eccezione 
di 
parti 
del territorio o di categorie di persone”. 
(9) Al momento con D.M. 17 marzo 2023. 
(10) Art. 6 bis 
del 
d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, introdotto dall’art. 7-bis, comma 
2, lett. b), D.L. 
10 marzo 2023, n. 20, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 maggio 2023, n. 50. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


con 
i 
Ministeri 
della 
giustizia 
e 
dell’economia 
e 
delle 
finanze. 
Su 
questo 
punto 
la 
Suprema 
Corte 
(11) 
ha 
proposto 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
per 
verificare 
la 
compatibilità 
della 
disposizione 
con 
gli 
artt. 
8 
e 
9 
della 
direttiva 
2013/32/uE 
(12). 


un problema, a 
cui 
accenna 
la 
sentenza 
della 
Cassazione 
che 
qui 
si 
commenta, 
riguarda 
la 
contestabilità 
della 
natura 
sicura 
del 
Paese 
di 
provenienza, 
malgrado l’inserimento dello stesso nell’elenco ministeriale. Così 
nella 
giurisprudenza 
di 
merito 
si 
è 
sostenuta 
la 
disapplicabilità 
del 
D.M. 
17 
marzo 
2023, 
contenente 
l’aggiornamento della 
lista 
dei 
paesi 
sicuri 
poiché 
non conforme 
ai 
criteri 
legislativi 
indicati 
nella 
direttiva 
2013/32/uE 
(13), 
con 
la 
conseguenza 
di 
non applicare 
l’effetto sospensivo automatico dell’efficacia 
esecutiva 
della 
decisione 
di 
diniego 
della 
Commissione 
Territoriale 
previsto 
dall’art. 
35 del d.lgs. 25/2008. 


Da 
osservare 
che 
la 
normativa 
comunitaria 
e 
la 
legislazione 
interna 
ammettono 
la 
possibilità 
di 
contestare 
la 
natura 
sicura 
del 
Paese; 
infatti 
è 
previsto 
che 
Un Paese 
designato di 
origine 
sicuro ai 
sensi 
del 
presente 
articolo può 
essere 
considerato Paese 
di 
origine 
sicuro per 
il 
richiedente 
solo se 
questi 
ha 
la cittadinanza di 
quel 
Paese 
o è 
un apolide 
che 
in precedenza soggiornava 
abitualmente 
in quel 
Paese 
e 
non ha invocato gravi 
motivi 
per 
ritenere 
che 
quel 
Paese 
non 
è 
sicuro per 
la situazione 
particolare 
in 
cui 
lo stesso richiedente 
si 
trova 
(art. 
2 
bis, 
comma 
5 
che 
riprende 
testualmente 
l’art. 
36 
della 
direttiva 
2013/32/uE). La 
giurisprudenza 
citata 
ha 
invece 
ritenuto di 
contestare 
la 
natura 
sicura 
del 
Paese 
di 
origine, 
disapplicando 
il 
D.M. 
che 
conteneva 
l’indicazione 
del 
Paese 
medesimo, 
in 
particolare 
la 
Tunisia, 
ritenendo 
non 
corretto 
l’inserimento o il 
mantenimento nella 
lista 
per violazione 
dei 
criteri 
indicati 


(11) Cass. Sez. unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3563; 
Cass. Sez. unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 
3562. 
(12) In particolare 
“se 
gli 
articoli 
8 e 
9 della 
direttiva 
2013/33/uE 
del 
Parlamento Europeo e 
del 
Consiglio, del 
26 giugno 2013, recante 
norme 
relative 
all’accoglienza 
dei 
richiedenti 
protezione 
internazionale, 
tenuto conto altresì 
dei 
fini 
desumibili 
dai 
suoi 
considerando 15 e 
20, ostino a 
una 
normativa 
di 
diritto interno che 
contempli, quale 
misura 
alternativa 
al 
trattenimento del 
richiedente 
(il 
quale 
non 
abbia 
consegnato 
il 
passaporto 
o 
altro 
documento 
equipollente), 
la 
prestazione 
di 
una 
garanzia 
finanziaria 
il 
cui 
ammontare 
è 
stabilito 
in 
misura 
fissa 
(nell’importo 
in 
unica 
soluzione 
determinato 
per 
l’anno 
2023 
in Euro 4.938,00, da 
versare 
individualmente, mediante 
fideiussione 
bancaria 
o polizza 
fideiussoria 
assicurativa) 
anziché 
in misura 
variabile, senza 
consentire 
alcun adattamento dell’importo alla 
situazione 
individuale 
del 
richiedente, né 
la 
possibilità 
di 
costituire 
la 
garanzia 
stessa 
mediante 
intervento di 
terzi, 
sia 
pure 
nell’ambito 
di 
forme 
di 
solidarietà 
familiare, 
così 
imponendo 
modalità 
suscettibili 
di 
ostacolare 
la 
fruizione 
della 
misura 
alternativa 
da 
parte 
di 
chi 
non 
disponga 
di 
risorse 
adeguate, 
nonché 
precludendo 
la 
adozione 
di 
una 
decisione 
motivata 
che 
esamini 
e 
valuti 
caso per caso la 
ragionevolezza 
e 
la 
proporzionalità 
di 
una 
siffatta 
misura 
in 
relazione 
alla 
situazione 
del 
richiedente 
medesimo”. 
Tribunale 
Catania, 
sent., 8 ottobre 
2023 si 
è 
espresso nel 
senso di 
ritenere 
incompatibile 
l’art. 6 bis 
con l’articolo 8 della 
direttiva 2013/33. 
(13) Tribunale 
di 
Firenze 
20 settembre 
2023, in www.sistemapenale.it, con nota 
di 
v. DATEnA 
e 
VICInI, La procedura di 
designazione 
del 
“paese 
di 
origine 
sicuro” 
e 
i 
poteri 
di 
valutazione 
del 
giudice 
ordinario, 23 ottobre 2023. Tribunale di Firenze, 25 ottobre 2023. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


nella 
direttiva 
dell’unione, 
in 
particolare 
prendendo 
in 
considerazione 
elementi 
(ad esempio atti 
del 
Governo che 
attenterebbero all’indipendenza 
della 
magistratura, 
o 
la 
percentuale 
bassa 
di 
elettori 
alle 
elezioni 
parlamentari), 
che, 
ad avviso dei 
giudicanti, avrebbero mutato la 
natura 
del 
sistema 
politico, rendendo 
la 
Tunisia 
uno Stato non democratico. Pertanto, compiendo una 
valutazione 
in astratto e 
generale, senza 
riferimento alla 
specifica 
situazione 
del 
ricorrente. 


Tale valutazione, compiuta in astratto, non sembra, in realtà, legittima. 

La 
norma 
di 
riferimento, richiamata 
anche 
dalla 
giurisprudenza 
che 
qui 
si 
contesta, 
appare 
l’art. 
37 
della 
direttiva 
(tramite 
il 
rinvio 
all’Allegato 
I), 
che 
stabilisce 
che 
un 
paese 
è 
considerato 
paese 
di 
origine 
sicuro 
se, 
sulla 
base 
dello status 
giuridico, dell’applicazione 
della legge 
all’interno di 
un sistema 
democratico e 
della situazione 
politica generale, si 
può dimostrare 
che 
non 
ci 
sono 
generalmente 
e 
costantemente 
persecuzioni 
quali 
definite 
nell’articolo 
9 della direttiva 2011/95/UE, né 
tortura o altre 
forme 
di 
pena o trattamento 
disumano o degradante, né 
pericolo a causa di 
violenza indiscriminata in situazioni 
di 
conflitto armato interno o internazionale. Per 
effettuare 
tale 
valutazione 
si 
tiene 
conto, tra l’altro, della misura in cui 
viene 
offerta protezione 
contro le 
persecuzioni 
ed i 
maltrattamenti 
mediante: a) le 
pertinenti 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
del 
paese 
ed il 
modo in cui 
sono applicate; 


b) il 
rispetto dei 
diritti 
e 
delle 
libertà stabiliti 
nella Convenzione 
europea per 
la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo 
e 
delle 
libertà 
fondamentali 
e/o 
nel 
Patto 
internazionale 
relativo 
ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
e/o 
nella 
Convenzione 
delle 
Nazioni 
Unite 
contro la tortura, in particolare 
i 
diritti 
ai 
quali 
non si 
può derogare 
a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di 
detta Convenzione 
europea; 
c) il 
rispetto del 
principio di 
«non-refoulement» conformemente 
alla convenzione 
di 
Ginevra; d) un sistema di 
ricorsi 
effettivi 
contro le 
violazioni 
di 
tali 
diritti e libertà. 
L’art. 
2 
bis 
secondo 
comma 
del 
d.lgs. 
25/2008 
riproduce 
testualmente 
questa disposizione. 

Tale 
norma, 
tanto 
più 
se 
letta 
in 
combinazione 
con 
l’art. 
36 
della 
direttiva, 
non 
può 
essere 
interpretata 
nel 
senso 
che 
il 
Giudice 
interno 
abbia 
la 
possibilità 
di 
sindacare 
la 
mancanza 
di 
democraticità 
di 
un Paese, al 
fine 
di 
non ritenerlo 
più “sicuro”, senza 
alcun riferimento alla 
situazione 
specifica 
del 
ricorrente 
in quel 
giudizio. Il 
Giudice 
non può né 
prendere 
in considerazione 
un’astratta 
situazione 
di 
non 
democraticità 
e 
neppure 
una 
situazione 
di 
non 
democraticità 
che 
si 
possa 
riflettere 
in 
modo 
potenziale 
sulla 
situazione 
di 
alcuni 
richiedenti, 
ma 
deve 
necessariamente 
verificare 
se 
quegli 
elementi 
da 
cui 
ritiene 
di 
ricavare 
la 
non democraticità 
dell’ordinamento statuale 
pregiudichino la 
posizione 
del 
ricorrente nel procedimento sottoposto al suo giudizio. 


Così, 
ad 
esempio, 
se 
successivamente 
all’inserimento 
di 
un 
Paese 
nella 
lista 
di 
quelli 
considerati 
sicuri, 
sia 
scoppiato 
un 
conflitto 
armato 
interno 
o 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


internazionale, 
che 
causi 
violenza 
indiscriminata, 
senza 
che 
il 
Governo 
abbia 
provveduto 
ad 
espungere 
il 
Paese 
dalla 
lista, 
il 
Giudice 
potrà 
ritenere 
il 
Paese 
medesimo 
non 
sicuro, 
perché 
si 
tratterebbe 
di 
una 
situazione 
in 
grado 
di 
riflettersi 
sul 
ricorrente. 
Allo 
stesso 
modo, 
l’inserimento 
del 
paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
nell’elenco 
dei 
cd. 
“paesi 
sicuri” 
non 
preclude 
allo 
stesso 
la 
possibilità 
di 
dedurre 
la 
propria 
provenienza 
da 
una 
specifica 
area 
del 
paese 
stesso 
interessata 
a 
fenomeni 
di 
violenza 
ed 
insicurezza 
generalizzata 
che, 
ancorché 
territorialmente 
circoscritti, 
possono 
essere 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
concessione 
della 
protezione 
internazionale 
o 
umanitaria, 
né 
esclude 
il 
dovere 
del 
giudice, 
in 
presenza 
di 
tale 
allegazione, 
di 
procedere 
all’accertamento 
in 
concreto 
della 
pericolosità 
di 
detta 
zona 
e 
sulla 
rilevanza 
dei 
predetti 
fenomeni 
(14). 


Viceversa, un provvedimento di 
destituzione 
di 
alcuni 
giudici 
(15), per 
quanto 
possa 
costituire 
un 
attacco 
all’indipendenza 
della 
magistratura, 
può 
non incidere 
sulle 
tutele 
che 
quel 
Paese 
garantisce 
a 
quel 
singolo richiedente. 
In 
ogni 
caso 
il 
Giudice 
dovrebbe 
motivare 
per 
quale 
ragione 
il 
rientro 
nel 
Paese 
di 
origine 
potrebbe 
pregiudicare 
il 
ricorrente 
a 
causa 
della 
presenza 
di 
indici 
che 
farebbero ritenere 
che 
sia 
stata 
compromessa 
l’indipendenza 
della 
magistratura 
locale dal potere politico. 


Del 
resto, 
questa 
soluzione 
è 
conforme 
alla 
stessa 
natura 
del 
sindacato 
del 
Giudice 
ordinario 
sull’atto 
amministrativo 
generale, 
rispetto 
al 
quale 
il 


G.O. ha 
un potere 
di 
disapplicazione 
in relazione 
al 
caso specifico e 
non di 
annullamento. 
In ogni 
caso la 
Suprema 
Corte 
ha 
affermato che 
l’inserimento del 
paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
nell’elenco 
dei 
paesi 
sicuri 
comporta 
la 
conseguenza 
di 
far gravare 
sul 
ricorrente 
un onere 
di 
allegazione 
rinforzata 
in ordine 
alle 
ragioni 
per 
le 
quali 
invece 
il 
paese 
non 
può 
considerarsi 
sicuro 
(Cass. 
civ. 
Sez. 
I, 
ordinanza 
27 
ottobre 
2023, 
n. 
29823) 
(16). 
ha 
anche 
precisato 
che 
tale 
onere 
di 
allegazione 
rinforzata 
non 
trova 
applicazione 
per 
le 
domande 
presentate 
anteriormente 
all’entrata in vigore del D.M. 4 ottobre 2019 (17). 


(14) Così Cass. civ. Sez. II, ord. 16 settembre 2020, n. 19252. 
(15) Vedi quanto riportato nell’ordinanza del 
Tribunale di Firenze 20 settembre 2023 cit. 
(16) nella 
decisione 
la 
Cassazione, confermando l’ordinanza 
del 
Tribunale 
che 
aveva 
respinto il 
ricorso, 
osserva 
che 
In 
tale 
direzione 
il 
Tribunale 
evidenzia 
che 
il 
richiedente 
avrebbe 
dovuto 
dimostrare 
l’impossibilità di 
rivolgersi 
alle 
autorità del 
suo Paese 
per 
avere 
protezione, laddove 
l’allegata scheda 
redatta 
dal 
Ministero 
degli 
Esteri 
dà 
conto 
dell’esistenza 
di 
un 
sistema 
giudiziario 
funzionante. 
Sarebbe 
quindi 
stato onere 
del 
ricorrente 
quello di 
spiegare 
e 
dimostrare 
le 
ragioni 
per 
le 
quali, nel 
suo caso 
specifico, tale 
tutela non poteva esserle 
offerta. Sull’onere 
di 
allegazione 
rinforzato v. anche 
Cass., n. 
25311 del 11 novembre 2020. 
(17) 
Cass. 
civ. 
Sez. 
I, 
ord. 
27 
settembre 
2023, 
n. 
27439; 
Cass. 
civ. 
Sez. 
I, 
sent. 
11 
novembre 
2020, 
n. 25311. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 
81 


2.2. La procedura accelerata. 
nell’ipotesi 
in cui 
il 
richiedente 
provenga 
da 
Paese 
sicuro, come 
anche 
in generale 
nei 
casi 
di 
domanda 
manifestamente 
infondata 
e 
allorché 
il 
richiedente 
sia 
trattenuto presso strutture 
o centri 
di 
accoglienza, oppure 
abbia 
presentato 
la 
richiesta, 
dopo 
essere 
stato 
fermato 
in 
condizioni 
di 
soggiorno 
irregolare, al 
solo scopo di 
ritardare 
o impedire 
l’esecuzione 
di 
un provvedimento 
di 
espulsione 
o respingimento, è 
previsto il 
ricorso alla 
procedura 
accelerata 
nella 
valutazione 
della 
domanda. In queste 
ipotesi, è 
previsto che 
la 
Questura 
provveda 
senza 
ritardo alla 
trasmissione 
della 
documentazione 
necessaria 
alla 
Commissione 
territoriale 
che, entro sette 
giorni 
dalla 
data 
di 
ricezione 
della 
documentazione, 
provvede 
all’audizione 
e 
decide 
entro 
i 
successivi due giorni (art. 28 bis, secondo comma, d.lgs. 25/2008). 

La 
questione 
affrontata 
dalla 
Suprema 
Corte, 
nella 
decisione 
in 
commento, 
è 
proprio 
questa: 
al 
di 
là 
della 
questione 
della 
sindacabilità 
della 
natura 
sicura 
del 
Paese, qualora 
non vengano rispettati 
i 
termini 
indicati, cioè 
se 
la 
Commissione 
non provveda 
all’audizione 
entro sette 
giorni 
dal 
momento in 
cui 
ha 
ricevuto la 
documentazione, oppure 
non decida 
entro i 
successive 
due, 
vale 
sempre 
la 
deroga 
al 
principio 
della 
sospensione 
automatica 
della 
decisione 
negativa 
in caso di 
ricorso giurisdizionale 
avverso la 
medesima? 
Secondo la 
Cassazione 
la 
risposta 
è 
negativa 
per una 
semplice 
ragione: 
la 
procedura 
accelerata 
presuppone 
che 
la 
domanda 
sia 
di 
facile 
risoluzione 
e 
il 
superamento 
dei 
termini 
dimostrerebbe 
il 
contrario, 
richiedendosi 
un’istruttoria 
più 
complessa. 
L’immediata 
esecutività 
della 
decisione 
della 
Commissione 
è 
del 
resto, 
secondo la 
Corte, collegata 
all’esigenza 
di 
condurre 
a 
termine 
la 
procedura 
in 
termini 
brevissimi; 
quindi, una 
volta 
che 
ciò non sia 
possibile, non avrebbe 
senso derogare al principio della sospensione automatica. 

Ad 
avviso 
di 
chi 
scrive, 
la 
posizione 
della 
Suprema 
Corte 
appare 
non 
corretta 
per un eccesso di 
rigidità. non è 
sempre 
vero, infatti, che 
la 
causa 
del 
superamento 
dei 
termini 
stabiliti 
per la 
procedura 
accelerata 
sia 
la 
necessità 
di 
un’istruttoria 
più complessa. Le 
ragioni 
possono essere 
diverse 
e 
nella 
pratica 
più facilmente 
riconducibili 
ad un eccessivo carico di 
lavoro rispetto alle 
risorse 
disponibili 
o, anche 
a 
contingenti 
problemi 
organizzativi 
(ad esempio la 
difficoltà 
di 
trovare 
un interprete, come 
avvenuto nel 
caso oggetto della 
pronuncia). 


Sembra 
opportuna, pertanto, una 
soluzione 
più flessibile 
in cui 
il 
superamento 
dei 
termini 
della 
procedura 
accelerata 
possa 
costituire 
un indizio della 
necessità 
dello 
svolgimento 
di 
un’attività 
istruttoria 
non 
compatibile 
con 
i 
termini 
della 
procedura 
accelerata 
stessa, dovendo però il 
Giudice 
in ogni 
caso 
accertare 
in concreto le 
cause 
di 
quel 
superamento. Se 
infatti 
esse 
fossero dovute 
a 
circostanze 
del 
tutto eterogenee 
rispetto alla 
necessità 
di 
accertamenti 
più approfonditi, non avrebbe 
senso trarne 
la 
conseguenza 
del 
ritorno al 
principio 
della 
sospensione 
automatica 
in caso di 
ricorso contro la 
decisione 
della 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Commissione. 
Tanto 
più 
in 
considerazione 
della 
circostanza 
che 
il 
superamento 
dei 
termini 
non 
danneggia 
in 
alcun 
modo 
il 
richiedente, 
che 
può 
invece 
essere 
danneggiato dall’adozione 
in sé 
della 
procedura 
accelerata 
quando non 
ne 
ricorrano i 
presupposti. È 
su tali 
presupposti, pertanto, che 
può ricadere 
il 
sindacato del 
Giudice, senza 
che 
possano essere 
tratte 
conseguenze 
automatiche 
dal semplice superamento dei termini. 


In definitiva, quello che 
dovrebbe 
contare 
è 
esclusivamente 
l’esistenza 
o 
meno dei 
presupposti 
sostanziali, previsti 
per l’adozione 
della 
procedura 
accelerata, 
potendo la 
stessa 
necessità 
di 
attività 
istruttoria 
che 
comporti 
il 
superamento 
dei 
termini, essere 
irrilevante. Infatti, se 
ad esempio il 
richiedente 
mettesse 
in dubbio la 
natura 
sicura 
del 
Paese 
di 
provenienza, sostenendo che 
l’area 
da 
cui 
proviene 
non sia 
tale, e 
la 
Commissione 
a 
tal 
fine 
spendesse 
attività 
per 
verificare 
la 
veridicità 
di 
tali 
affermazioni, 
per 
poi 
concludere 
in 
senso negativo, resterebbe 
in piedi 
il 
presupposto della 
provenienza 
da 
Paese 
sicuro (art. 28 ter 
lett. b), e 
si 
giustificherebbero le 
conseguenze, tra 
cui 
l’immediata 
esecutività 
della 
decisione 
della 
Commissione 
anche 
in presenza 
di 
ricorso. Viceversa, se 
l’ulteriore 
attività 
faccia 
dubitare 
dell’esistenza 
del 
presupposto 
della 
manifesta 
infondatezza 
sulla 
cui 
base 
sia 
stata 
adottata 
la 
domanda, 
in 
relazione 
a 
dichiarazioni 
considerate 
palesemente 
incoerenti 
e 
contraddittorie 
(art. 28 
ter, lett. c), il 
Giudice 
potrà 
(ma 
questo a 
prescindere 
dal 
superamento o meno dei 
termini), valutate 
quelle 
dichiarazioni 
come 
non 
palesemente 
incoerenti 
e 
contraddittorie, ritenere 
illegittima 
l’adozione 
della 
procedura accelerata. 


Del 
resto 
l’art. 
35 
bis 
terzo 
comma 
del 
d.lgs. 
25/2008, 
nello 
stabilire 
quando 
si 
applichi 
la 
deroga 
al 
principio 
dell’automatica 
sospensione 
del 
provvedimento 
della 
Commissione 
a 
seguito 
del 
ricorso, 
richiama 
(attraverso 
il 
rinvio all’art. 32, comma 
1 lettera 
b-bis) espressamente 
l’ipotesi 
in cui 
il 
ricorso 
sia 
proposto avverso il 
provvedimento di 
rigetto per manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
dell’articolo 
32, 
comma 
1, 
lettera 
b-bis, 
ovvero 
i 
casi 
di 
cui 
all’articolo 
28-ter, 
facendo 
quindi 
riferimento 
ai 
presupposti 
sostanziali. 
Si 
può 
aggiungere 
anche 
che 
lo 
stesso 
art. 
28 
bis 
nello 
stabilire 
che 
i 
termini 
della 
procedura 
accelerata 
possano essere 
superati 
ove 
necessario per assicurare 
un 
esame 
adeguato 
e 
completo 
della 
domanda, 
non 
contempla 
alcun 
ritorno 
al 
principio della 
sospensione 
automatica, restando ferma 
l’esecutività 
della 
decisione 
di rigetto. 

In definitiva 
la 
deroga 
al 
principio della 
sospensione 
automatica 
è 
collegata 
alla 
sussistenza 
o meno dei 
presupposti 
indicati 
che 
giustificano l’adozione 
della 
procedura 
accelerata, 
non 
al 
superamento 
dei 
termini 
della 
medesima, che di per sé non danneggia in alcun modo il richiedente. 

Occorre 
notare 
che 
la 
questione 
presenta 
più di 
un punto di 
contatto con 
l’altra 
problematica, affrontata 
più frequentemente 
in giurisprudenza, concernente 
la 
legittimità 
della 
proroga 
del 
trattenimento 
del 
richiedente 
asilo, 
di



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


sposta 
malgrado 
il 
superamento 
dei 
termini 
della 
procedura 
accelerata. 
Infatti, 
allorché 
un 
cittadino 
straniero 
sia 
trattenuto 
ai 
sensi 
dell’art. 
6 
del 
d.lgs. 
142/2015, 
il 
comma 
6 
della 
stessa 
disposizione 
normativa 
stabilisce 
che 
il 
trattenimento 
o la 
proroga 
del 
trattenimento non possano protrarsi 
oltre 
il 
tempo 
strettamente 
necessario all’esame 
della 
domanda 
ai 
sensi 
dell’articolo 28-bis, 
commi 1 e 2, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. 

Ebbene 
la 
giurisprudenza 
si 
è 
espressa 
nel 
ritenere 
che 
il 
superamento 
dei 
termini 
della 
procedura 
accelerata 
non 
impedisce 
la 
proroga 
del 
trattenimento, 
che 
può 
essere 
disposto 
nei 
limiti 
indicati 
dal 
comma 
5 
dell’art. 
6 
d.lgs. 
142/2015, 
ovvero 
nel 
termine 
stabilito 
dal 
decreto 
di 
convalida 
per 
un 
massimo 
di 
sessanta 
giorni 
per 
consentire 
l’espletamento 
della 
domanda, 
fermo 
restando 
che 
una 
volta 
definito 
il 
procedimento 
amministrativo, 
il 
trattenimento 
in 
ogni 
caso decade 
(18). I termini 
di 
cui 
all’art. 28 bis 
del 
d.lgs. 25/2008 sono stati 
infatti 
ritenuti 
da 
questa 
giurisprudenza, 
non 
presa 
in 
considerazione 
dalle 
Sezioni 
unite nella sentenza qui in commento, non perentori (19). 


E 
questo malgrado si 
tratti 
di 
un’ipotesi 
in cui, a 
differenza 
della 
prima 
questione, la soluzione adottata incide sulla libertà personale dell’individuo. 

3. Conclusioni. 
In definitiva 
la 
decisione 
delle 
Sezioni 
unite, assunta 
a 
seguito del 
rinvio 
pregiudiziale 
ex 
art. 363 
bis 
c.p.c., vincolante, ai 
sensi 
dell’ultimo comma 
del 
medesimo art. 363 bis 
c.p.c, nel 
procedimento nell’ambito del 
quale 
è 
stata 
rimessa 
la 
questione 
(20), non appare 
convincente. Da 
un lato infatti 
non fa 
minimamente 
cenno 
al 
dibattito 
sulla 
perentorietà 
dei 
termini 
della 
procedura 
accelerata 
sviluppatosi 
in relazione 
alla 
legittimità 
della 
proroga 
del 
trattenimento 
ex 
art. 
6 
d.lgs. 
142/15; 
dall’altro, 
erra 
nel 
collegare, 
a 
seguito 
di 
ricorso, 
la 
deroga 
al 
principio della 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento di 
rigetto 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
al 
mero 
superamento 
di 
quei 
termini, 
che 
considera 
evidentemente 
perentori, 
anziché 
all’accertamento 
dell’effettiva 
sussistenza 
dei 
presupposti 
previsti 
per l’adozione 
della 
procedura 
accelerata. 


(18) Così Cass. Sez. I, ord. 24 aprile 2024 n. 11158. 
(19) Cass. Sez. I, ord. 24 aprile 
2024 n. 11158, cit.; 
Cass. civ. Sez. I, ord. 30 marzo 2023, n. 9042; 
Cass. Sez. I, 1 giugno 2022, n. 18834; 
Cass. Sez. I, 3 febbraio 2021, n. 2548. È 
vero però che 
con ordinanza 
interlocutoria 
del 
9 
febbraio 
2024, 
n. 
3656, 
la 
Cassazione 
ha 
rinviato 
alla 
pubblica 
udienza 
la 
trattazione 
di 
un 
ricorso 
ai 
fini 
dell’approfondimento 
della 
questione 
riguardante 
la 
perentorietà 
dei 
termini; 
peraltro un eventuale 
ripensamento come 
risulta 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, sarebbe 
motivato in relazione 
a 
ragioni 
concernenti 
esclusivamente 
il 
trattenimento, 
con 
le 
sue 
ripercussioni 
dirette 
sulla 
libertà 
fisica della persona. 
(20) Vedi quanto indicato nella nota 2. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Cassazione 
civile, 
sezioni 
Unite, 
sentenza 
29 
aprile 
2024 
n. 
11399 
-Pres. 
P. 
D’Ascola, 
Rel. 


M.M. Leone 
-A.A. (avv. F. roppo) c. Commissione 
territoriale 
per il 
riconoscimento della 
protezione 
internazione 
di 
Bologna, 
Sez. 
Forlì-Cesena; 
Ministero 
dell’Interno 
(avv. 
gen. 
Stato). 
FATTI DI CAuSA 


1) 
-Con 
l’ordinanza 
in 
esame 
il 
tribunale 
di 
Bologna 
ha 
sollevato 
rinvio 
pregiudiziale 
ai 
sensi 
dell’art. 363 bis 
c.p.c. con riferimento all’istanza 
proposta 
da 
A.A. ai 
sensi 
dell’art. 35 bis, 
quarto 
comma 
del 
D.lvo 
n. 
25/2008, 
diretta 
alla 
sospensione 
della 
decisione 
adottata 
dalla 
Commissione 
Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. 
La 
Commissione 
aveva 
rigettato 
il 
ricorso 
per 
manifesta 
infondatezza, 
ai 
sensi 
dell’art. 
28 
ter 
primo 
comma 
lett. 
b) 
D.Lvo 
n. 
25/2008, 
trattandosi 
di 
richiedente 
proveniente 
da 
Paese 
sicuro. 
Il 
ricorrente, impugnando la 
decisione 
dinanzi 
al 
tribunale 
bolognese, aveva 
eccepito che 
il 
provvedimento 
impugnato 
doveva 
ritenersi 
automaticamente 
sospeso 
attesa 
la 
irregolarità 
della 
procedura 
accelerata 
adottata 
dalla 
Commissione, 
procedura 
espressamente 
prevista 
dall’art. 28 bis 
del 
predetto decreto legislativo. In particolare, evidenziava 
il 
superamento dei 
tempi 
previsti 
dalla 
norma 
invocata 
per la 
audizione 
del 
richiedente 
e 
l’emissione 
del 
provvedimento. 
1.a) -Il 
tribunale 
bolognese, oltre 
alla 
irregolarità 
temporale 
denunciata 
e 
ritenuta 
pacificamente 
verificatasi, rilevava 
ulteriormente, quale 
vizio della 
procedura 
accelerata, la 
mancata 
emissione 
e 
tempestiva 
comunicazione 
del 
provvedimento del 
Presidente 
della 
Commissione 
territoriale. 
2) -In tale 
contesto il 
tribunale, richiamate 
le 
norme 
applicabili 
al 
caso in esame, interpretate 
con differenti 
indirizzi 
tra 
i 
giudici 
del 
merito, riteneva 
sussistenti 
i 
presupposti 
per adire 
il 
Giudice 
di 
legittimità, 
in 
sede 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
per 
porre 
il 
seguente 
quesito: 
“se, 
in 
caso 
di 
soggetto proveniente 
da 
paese 
di 
origine 
sicuro, il 
provvedimento di 
rigetto per manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
dell’art. 
28 
ter, 
D.Lvo 
n. 
25/2008 
emesso 
dalla 
Commissione 
Territoriale 
per il 
riconoscimento della 
Protezione 
Internazionale 
senza 
previa 
adozione 
di 
una 
regolare 
procedura 
accelerata 
di 
cui 
agli 
artt. 28 e 
28 bis 
D.Lvo. n. 25/2008, determinata 
con provvedimento 
del 
presidente 
in 
seguito 
a 
esame 
preliminare, 
tempestivamente 
comunicato 
dalla 
Commissione 
al 
richiedente 
asilo, e 
con rispetto dei 
termini 
prescritti 
dall’art. 28 bis 
D.Lvo. 
n. 25/2008, dia 
luogo o meno a 
sospensione 
automatica 
ai 
sensi 
dell’art. 35 bis, terzo comma 
D.Lvo n. 25/2008”. 
3) -L’ordinanza, preliminarmente 
interrogandosi 
sull’ambito di 
operatività 
del 
rinvio pregiudiziale, 
riteneva 
ammissibile 
tale 
istituto anche 
nelle 
ipotesi 
in cui 
la questione 
giuridica pregiudizialmente 
posta 
possa 
essere 
dirimente 
ai 
fini 
dell’adozione 
di 
una 
decisione 
interlocutoria che 
non incida in via diretta sulla questione 
di 
merito, pur se 
lo strumento processuale 
in questione 
sia 
previsto dall’art. 363 bis 
c.p.c. solo qualora 
la questione 
posta sia 
necessaria alla definizione anche parziale del giudizio. 
Valutava 
positivamente 
tale 
possibilità 
per plurime 
ragioni, tra 
le 
quali 
il 
riferimento letterale 
alla 
necessità 
della 
questione 
rispetto 
alla 
definizione 
del 
giudizio 
e 
non 
alla 
“decisione” 
e 
dunque 
a 
modalità 
definitorie, anche 
stragiudiziali 
o conciliative, per le 
quali 
poteva 
risultare 
incisiva la determinazione interlocutoria in punto di rito, quale quella in esame. 
Il 
tribunale 
riteneva 
inoltre 
determinante 
la 
decisione 
sulla 
sospensione 
anche 
rispetto al 
giudizio 
di 
merito, 
posto 
che 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
non 
ha 
possibilità 
di 
essere 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


accolta 
(art. 2 D.lvo n. 251/2007) se, con accertamento ex 
nunc 
al 
momento della 
decisione, 
il 
richiedente 
risulti 
tornato nel 
paese 
di 
origine, cosa 
che 
accadrebbe 
in ipotesi 
di 
mancata 
sospensione del provvedimento amministrativo. 


4) -L’ordinanza 
riteneva 
quindi 
ammissibile 
il 
nuovo strumento anche 
al 
fine 
di 
accertare 
se 
la 
sospensione 
del 
provvedimento 
amministrativo 
emesso 
dalla 
Commissione 
territoriale 
consegua 
automaticamente 
in 
caso 
di 
vizio 
nella 
procedura 
accelerata, 
poichè 
la 
presenza 
di 
difetti 
procedurali 
determina 
il 
ripristino della 
trattazione 
in sede 
ordinaria, con la 
conseguente 
operatività 
del 
principio stabilito dall’art. 35 bis 
D.lvo n. 25/2008, secondo cui 
“La 
proposizione 
del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato” . 
5) -Quanto al 
merito della 
questione, il 
tribunale 
evidenziava 
la 
disciplina 
applicabile 
nel 
richiamato 
art. 35 bis 
terzo comma 
del 
D.lvo n. 25/2008 secondo cui, per quel 
che 
qui 
rileva, 
“La 
proposizione 
del 
ricorso 
sospende 
l’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento 
impugnato, 
tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto 
(......) 
c) avverso il 
provvedimento di 
rigetto per 
manifesta infondatezza ai 
sensi 
dell’articolo 32, 
comma 1, lettera b-bis); 
d) 
avverso 
il 
provvedimento 
adottato 
nei 
confronti 
dei 
soggetti 
di 
cui 
all’articolo 
28-bis, 
comma 2, lettere 
b), b-bis), c) ed e); d-bis) avverso il 
provvedimento relativo alla domanda 
di cui all’articolo 28-bis, comma 1, lettera b). 
richiamava, 
altresì, 
la 
disciplina 
dell’art. 
28 
bis 
di 
cui 
al 
medesimo 
decreto 
legislativo, 
relativo 
alla 
procedura 
accelerata, 
applicata, 
nel 
provvedimento 
di 
manifesta 
infondatezza 
adottato 
dalla 
Commissione 
territoriale, trattandosi 
di 
richiedente 
proveniente 
da 
un Paese 
designato 
di origine sicura. 


5.a) 
-Il 
tribunale 
evidenziava 
inoltre 
come 
la 
disposizione, 
richiamata 
dalla 
lettera 
d) 
dell’art. 
35-bis, 
ossia 
l’articolo 
28-bis, 
comma 
2, 
lettere 
c), 
titolata 
“Procedure 
accelerate” 
prevede 
che 
si 
applichi 
tale 
procedura 
al 
“richiedente 
proveniente 
da 
un Paese 
designato di 
origine 
sicuro, 
ai 
sensi 
dell’articolo 2-bis”. Come 
rilevato dall’ordinanza 
di 
remissione, “le 
lettere 
c) e 
d) 
dell’art. 
35-bis 
richiamano, 
curiosamente, 
la 
medesima 
fattispecie 
della 
provenienza 
da 
paese di origine sicuro”. 
5.b) -Quanto alla 
proceduta 
accelerata, il 
tribunale 
sottolineava 
che 
la 
direttiva 
europea 
non 
contiene 
una 
definizione 
di 
“procedura 
accelerata”, 
né 
una 
definizione 
è 
altrimenti 
rinvenibile 
a livello internazionale. 
Al 
riguardo 
l’art. 
28, 
comma 
1, 
dispone 
che 
“Il 
presidente 
della 
Commissione 
territoriale, 
previo esame 
preliminare 
delle 
domande, determina 
i 
casi 
di 
trattazione 
prioritaria, secondo 
i 
criteri 
enumerati 
al 
comma 
2, e 
quelli 
per i 
quali 
applicare 
la 
procedura 
accelerata, a 
sensi 
dell’articolo 
28-bis. 
La 
Commissione 
territoriale 
informa 
tempestivamente 
il 
richiedente 
delle 
determinazioni procedurali assunte ai sensi del periodo precedente”. 
L’art. 28-bis 
(titolato “Procedure 
accelerate”), al 
comma 
2, prevede 
che 
“La 
Questura 
provvede 
senza 
ritardo alla 
trasmissione 
della 
documentazione 
necessaria 
alla 
Commissione 
territoriale 
che, 
entro 
sette 
giorni 
dalla 
data 
di 
ricezione 
della 
documentazione, 
provvede 
all’audizione 
e 
decide 
entro i 
successivi 
due 
giorni 
nei 
seguenti 
casi: 
(...) c) richiedente 
proveniente 
da 
un Paese 
designato di 
origine 
sicura, ai 
sensi 
dell’articolo 2-bis; 
d) domanda 
manifestamente 
infondata, ai sensi dell’articolo 28-ter; (...)”. 
La 
disciplina 
della 
procedura 
accelerata, 
sopra 
indicata, 
si 
limita, 
dunque, 
ad 
una 
fase 
di 
avvio 
e alla previsione di termini brevi. 
6) -ricostruito il 
quadro normativo di 
riferimento, il 
giudice 
del 
rinvio rilevava 
che 
in ordine 
alla 
questione 
rimessa 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
ex 
art. 
363-bis 
c.p.c. 
la 
giurisprudenza 
di 
merito 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


delle 
sezioni 
specializzate 
era 
sostanzialmente 
divisa, essendo rinvenibili 
tre 
diversi 
orientamenti 
così sintetizzabili: 


6.1) -secondo un primo indirizzo, il 
mancato rispetto dei 
requisiti 
previsti 
per la 
procedura 
accelerata 
(da 
seguire, per quanto attiene 
alla 
questione 
in esame, in caso di 
ricorrente 
proveniente 
da 
paese 
di 
origine 
sicura) 
preclude 
la 
possibilità 
che 
della 
stessa 
si 
producano 
gli 
effetti, con la 
conseguenza 
che, per quel 
che 
rileva 
in questa 
sede, non vi 
sia 
alcuna 
deroga 
alla 
regola 
della 
sospensione 
automatica 
conseguente 
alla 
proposizione 
del 
ricorso avverso il 
provvedimento di rigetto; 
6.2) -un secondo indirizzo, muovendo dal 
rilievo che 
il 
decreto legge 
n. 113 del 
2018, introducendo 
l’art. 28-ter, ha 
previsto una 
categoria 
di 
manifesta 
infondatezza 
sganciata 
dall’adozione 
di 
una 
preventiva 
procedura 
accelerata, afferma 
che 
l’adozione 
o meno della 
procedura 
accelerata 
avrebbe 
effetto 
esclusivamente 
ai 
fini 
del 
dimezzamento 
del 
termine 
per 
impugnare, 
ma 
sarebbe 
indifferente 
ai 
fini 
della 
sospensione 
automatica, potendo la 
Commissione 
territoriale 
adottare 
un provvedimento di 
rigetto per manifesta 
infondatezza 
anche 
all’esito di 
una 
procedura ordinaria; 
6.3) -secondo un terzo orientamento, infine, solo per le 
persone 
provenienti 
da 
paesi 
sicuri 
nei 
confronti 
dei 
quali 
sia 
stata 
adottata 
una 
decisione 
di 
rigetto per manifesta 
infondatezza 
(e 
non, invece, per tutte 
le 
altre 
ipotesi 
di 
manifesta 
infondatezza), la 
sospensione 
automatica 
potrebbe 
essere 
derogata 
in 
presenza 
di 
una 
corretta 
procedura 
accelerata 
(integrata 
dalla 
tempestiva 
comunicazione 
del 
Presidente 
della 
Commissione 
e 
dal 
successivo 
rispetto 
dei 
termini 
di legge previsti). 
L’esistenza 
di 
plurimi 
orientamenti 
sostanziava 
l’ulteriore 
requisito 
della 
“difficoltà” 
interpretativa 
posto dall’art. 363 bis 
c.p.c. tra 
le 
condizioni 
per l’utilizzo dello strumento processuale 
del 
rinvio 
pregiudiziale, 
accertata 
l’esigenza 
della 
determinazione 
sulla 
questione 
ai 
fini 
della definizione della questione, nonché il suo riflesso su una molteplicità di giudizi. 
In 
tal 
modo 
ritenuti 
soddisfatti 
i 
requisiti 
richiesti 
dall’art. 
363 
bis 
c.p.c., 
il 
tribunale 
di 
Bologna 
proponeva il rinvio pregiudiziale oggi in esame. 
7) -La 
Prima 
Presidente, con decreto del 
24 luglio 2023, dichiarava 
ammissibile 
la 
questione 
disponendone 
l’assegnazione 
alle 
Sezioni 
unite 
civili 
per l’enunciazione 
del 
principio di 
diritto. 
8) -L’ufficio della 
Procura 
generale 
depositava 
memoria 
scritta 
concludendo per l’affermazione 
del 
seguente 
principio: 
-previa ammissibilità del 
rimedio processuale, la corretta adozione 
della procedura accelerata costituisce 
la base 
procedurale 
per 
ogni 
caso di 
manifesta 
infondatezza 
(e 
di 
inammissibilità) 
come 
può 
desumersi 
dalla 
collocazione 
unitaria 
delle 
norme di riferimento e dagli appositi richiami testuali; 
-la mancata e 
regolare 
applicazione 
delle 
esigenze 
organizzative 
e 
di 
programmazione 
che 
caratterizzano la procedura accelerata (ivi 
inclusa la mancata adozione, da parte 
del 
Presidente 
della 
Commissione 
Territoriale, 
del 
provvedimento 
di 
avvio 
e 
la 
mancata 
comunicazione 
dei 
relativi 
provvedimenti) 
consente 
di 
escludere 
la 
regolare 
applicazione 
della 
procedura 
accelerata e 
la deroga alla sospensione 
automatica del 
provvedimento di 
rigetto, con la conseguente 
prosecuzione della procedura nei termini ordinari. 
L’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato, 
costituitasi 
nel 
giudizio 
di 
merito 
in 
difesa 
della 
Commissione 
Territoriale 
per 
il 
riconoscimento 
della 
Protezione 
Internazionale 
e 
per 
il 
Ministero 
dell’Interno, depositava memoria. 
La causa è stata trattata alla pubblica udienza del 30 gennaio 2024. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


rAGIOnI DELLA DECISIOnE 


9) -È 
preliminare 
valutare 
la 
ammissibilità 
del 
rinvio pregiudiziale, previsto dall’art. 363 bis 
c.p.c., nel caso in esame. 
Con l’ordinanza 
in esame 
si 
sottopone 
alla 
Corte 
la 
questione 
pregiudiziale 
avente 
ad oggetto 
la 
sospensione 
(automatica) 
del 
provvedimento 
amministrativo 
di 
rigetto 
per 
manifesta 
infondatezza 
della 
richiesta 
di 
protezione 
internazionale 
emesso in seguito alla 
procedura 
c.d. 
accelerata 
prevista 
dall’art. 28 bis 
del 
D.Lgs. n. 25/2008, in caso di 
irregolarità 
del 
procedimento. 
Si 
tratta 
quindi 
di 
valutare 
se 
il 
rinvio pregiudiziale 
sia 
ammissibile 
anche 
rispetto a 
provvedimenti 
lato sensu 
cautelari, quali 
la 
sospensione, che 
non siano di 
immediata 
utilità 
per la 
decisione di merito della controversia (nel caso specifico la richiesta di protezione). 
10) -Devono indagarsi 
prioritariamente 
le 
finalità 
del 
nuovo istituto che, non casualmente, 
mira 
a 
rimettere 
al 
Giudice 
di 
legittimità 
non specifici 
provvedimenti 
(come 
ordinariamente 
-salve 
talune 
eccezionali 
previsioni 
di 
cui 
si 
dirà 
-è 
previsto 
per 
la 
ricorribilità 
in 
cassazione), 
ma 
“questioni” 
necessarie 
per definire, anche 
parzialmente, il 
giudizio. L’utilizzo del 
termine 
“questione” 
apre 
alla 
possibilità 
di 
includere 
nel 
nuovo 
strumento 
processuale 
dubbi 
interpretativi 
anche 
rispetto a 
fasi 
processuali, quali 
quelle 
cautelari, che, pur non sfociando in decisioni 
e 
provvedimenti 
immediatamente 
ricorribili 
in 
cassazione, 
siano 
caratterizzati 
da 
problematiche 
incidenti 
direttamente 
sulla 
decisione 
di 
merito, anche 
suscettibili 
di 
un interesse 
generalizzato rispetto a pluralità di controversie. 
10.a) -Tale 
ambito applicativo dell’istituto è 
riscontrabile 
nella 
necessità 
di 
espandere 
la 
funzione 
nomofilattica 
della 
Corte 
di 
legittimità 
anche 
in chiave 
deflattiva 
del 
contenzioso, perseguita 
attraverso l’enunciazione 
di 
un principio di 
diritto che 
possa 
valere 
quale 
precedente 
in una serie di giudizi. 
L’individuazione 
di 
una 
“questione” 
caratterizzata 
dagli 
elementi 
indicati 
dall’art. 
363 
bis 
c.p.c., può essere, pertanto, oggetto di 
rinvio pregiudiziale 
in ogni 
fase, anche 
interlocutoria, 
del processo. 
12) -nel 
nostro ordinamento una 
similare 
funzione 
di 
“nomofilachia 
preventiva” 
è 
riscontrabile 
nell’art. 
420 
bis 
c.p.c. 
e 
nell’art. 
64 
del 
D.Lgs. 
n. 
165/2001. 
Entrambe 
le 
disposizioni, 
proprie 
del 
processo del 
lavoro, sono dirette 
alla 
anticipata 
soluzione 
di 
questioni 
attinenti 
all’efficacia, 
alla 
validità 
o 
all’interpretazione 
delle 
clausole 
di 
un 
contratto 
o 
accordo 
collettivo 
nazionale, con l’impugnazione 
diretta 
della 
decisione 
del 
giudice 
del 
primo grado, sul 
punto 
interpretativo, 
dinanzi 
al 
Giudice 
di 
legittimità. 
Le 
disposizioni 
richiamate 
contengono 
invero 
“la 
prescrizione 
di 
un 
circuito 
virtuoso 
per 
accelerare 
la 
formazione 
della 
giurisprudenza 
sulle 
norme 
dei 
contratti 
e 
accordi 
collettivi 
nazionali 
di 
lavoro e 
quindi 
per 
promuovere 
una 
nomofilachia anticipata e 
più rapida (un vincolo parimenti 
di 
tipo processuale 
per 
l’attività 
interpretativa 
del 
giudice 
è 
previsto 
ora 
dal 
cit. 
art. 
374 
c.p.c., 
comma 
3). 
Sotto 
questo 
aspetto 
la 
pronuncia 
che 
la 
Corte 
è 
chiamata 
a 
rendere 
ha 
una 
portata 
che, 
seppur 
in 
misura 
limitata, 
è 
idonea altresì 
a trascendere 
il 
caso di 
specie 
nel 
senso che 
ha una qualche 
incidenza anche 
in altri 
giudizi 
che 
pongono la medesima questione 
interpretativa della normativa collettiva 
di livello nazionale” (Cass. Sez u. n. 20075/2010). 
12.a) -Di 
recente 
queste 
Sezioni 
unite 
(n. 34851/2023) hanno poi 
evidenziato che 
il 
rinvio 
pregiudiziale 
“rappresenta un’opportunità offerta al 
giudice 
di 
merito per 
rivolgersi 
all’organo 
giurisdizionale 
che, 
nell’attuale 
sistema, 
garantisce 
l’unità 
e 
l’uniforme 
interpretazione 
del 
diritto (...) e 
costituisce 
espressione 
di 
un nuovo bilanciamento tra i 
poteri 
riconosciuti 
alla 
giurisdizione 
di 
merito 
e 
di 
legittimità, 
nell’ambito 
del 
quale 
alla 
compressione 
del 
potere 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


decisorio cui 
il 
giudice 
di 
merito decide 
di 
sottostare 
nell’esercizio delle 
prerogative 
che 
la 
legge 
gli 
attribuisce 
fa 
riscontro 
una 
forte 
espansione 
del 
ruolo 
d’impulso 
allo 
stesso 
spettante 
come 
parte 
del 
sistema giustizia nel 
suo complesso, inteso non più solo come 
funzione 
dello 
Stato diretta all’attuazione 
del 
diritto nel 
caso concreto, ma come 
servizio pubblico in cui 
le 
risorse 
destinate 
alla 
soluzione 
della 
singola 
controversia 
contribuiscono 
al 
soddisfacimento 
di 
un più ampio compendio di 
esigenze 
individuali”. ha 
aggiunto che 
“tale 
meccanismo si 
pone 
in 
linea 
con 
l’esigenza 
del 
giusto 
processo, 
affidando 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
il 
compito 
di 
decidere 
la questione 
ad essa sottoposta con pronunce 
rese 
in pubblica udienza, sia a sezioni 
unite 
che 
a sezione 
semplice, con la requisitoria scritta del 
Procuratore 
generale, per 
ciò stesso dotate 
di 
una valenza nomofilattica al 
più elevato livello e 
tali 
da renderle, se 
non 
vincolanti 
per 
altri 
giudizi, 
sicuramente 
dotate 
di 
un 
particolare 
grado 
di 
persuasività, 
proprio 
perché orientate a garantire la certezza e la prevedibilità del diritto”. 


13) -nel 
caso in esame, peraltro, non soltanto il 
tema 
posto in sede 
di 
rinvio, quale 
la 
automaticità 
o meno della 
sospensione 
in caso di 
irregolarità 
del 
procedimento accelerato è 
questione 
che 
può 
riguardare 
una 
pluralità 
di 
altri 
giudizi, 
ma 
è 
anche 
tema 
che 
è 
in 
stretta 
correlazione 
con 
il 
giudizio 
di 
merito 
relativo 
alla 
valutazione 
della 
protezione 
internazionale 
richiesta. Invero la 
decisione 
interlocutoria 
sulla 
sospensione, con la 
possibilità 
di 
allontanamento 
necessitato del 
richiedente 
asilo nel 
corso del 
giudizio (per carenza 
del 
titolo di 
soggiorno), 
impedirebbe 
l’accoglimento 
della 
richiesta 
protezione, 
ove 
se 
ne 
accertino 
le 
condizioni, qualora 
risulti, al 
momento della 
decisione 
di 
merito, che 
il 
richiedente 
sia 
già 
ritornato, 
anche 
contro la 
sua 
volontà, nel 
suo paese 
(l’art. 2 D.Lvo n. 251/2007 prevede 
che: 
si 
intende 
per 
rifugiato ... cittadino straniero il 
quale, per 
il 
timore 
fondato di 
essere 
perseguitato 
per 
motivi 
di 
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo 
sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza). 


14) -La 
presenza 
sul 
territorio assume 
dunque 
connotato di 
necessità 
al 
fine 
dell’eventuale 
accoglimento dell’istanza 
di 
protezione 
e 
in tal 
modo si 
evidenzia 
il 
rilievo che 
la 
decisione 
interlocutoria 
e 
lato sensu cautelare 
sulla 
sospensione 
del 
provvedimento amministrativo di 
rigetto assume anche rispetto al giudizio di merito. 
15) 
-In 
tale 
contesto, 
relativo 
a 
diritti 
soggettivi 
meritevoli 
di 
tutela, 
il 
vaglio 
in 
sede 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
non può che 
essere 
affermato anche 
rispetto a 
questioni 
trattate 
in sede 
interlocutoria, 
non dirette, tecnicamente, a 
definire 
la 
causa 
di 
merito e 
non contenute 
in provvedimenti 
impugnabili 
in sede 
di 
legittimità, ma 
che 
siano comunque 
destinate 
ad incidere 
sulle 
posizioni delle parti nel processo e, in definitiva, sul processo stesso e sul suo esito. 
16) -Si 
sostiene 
che 
occorrerebbe, ai 
fini 
dell’applicabilità 
dell’istituto, che 
il 
giudice 
sia 
investito 
di un giudizio di merito. 
L’assunto 
non 
è 
condivisibile 
sia 
perché 
risulterebbe 
pertinente 
solo 
all’ipotesi 
di 
procedimento 
cautelare 
ante 
causam, sia 
e 
soprattutto perché 
l’espressione 
della 
norma 
non evoca 
il 
giudice 
che 
deve 
decidere 
il 
merito, ma 
il 
giudice 
“di” 
merito. L’espressione 
implica, specie 
se 
si 
tiene 
conto che 
l’istituto ha 
vocazione 
a 
consentire 
l’esercizio del 
potere 
nomofilattico 
della 
Corte 
di 
cassazione, la 
posizione 
ordinamentale 
del 
giudice 
che 
esercita 
il 
potere 
di 
rimessione 
rispetto al 
giudice 
di 
legittimità, sicché 
è 
idonea 
a 
comprendere 
anche 
il 
giudice 
di 
merito che è investito del potere cautelare. 
16.b) -È 
parimenti 
suggestivo, ma 
non convincente, l’argomento che 
è 
stato enunciato nel 
senso di 
una 
ontologica 
incompatibilità 
del 
nuovo istituto con l’urgenza 
tipica 
della 
giurisdizione 
cautelare. 
La 
rimessione, 
si 
è 
detto, 
impone 
la 
sospensione 
del 
giudizio 
ed 
essa 
contraddirebbe 
la 
logica 
stessa 
di 
quella 
giurisdizione. 
Deve 
in 
proposito 
evidenziarsi 
che 
la 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


norma 
dell’art. 363-bis, nel 
disporre 
la 
sospensione 
del 
procedimento con la 
stessa 
ordinanza 
di 
rimessione, 
prevede 
che 
sia 
“salvo 
il 
compimento 
degli 
atti 
urgenti 
e 
delle 
attività 
istruttorie 
non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”. 
Ebbene, il 
riferimento alle 
attività 
istruttorie 
nonché 
agli 
atti 
urgenti 
che 
non abbiano interazioni 
con la 
questione 
sottoposta 
al 
rinvio pregiudiziale, implica 
che 
comunque 
“l’urgenza” 
definitoria 
di 
una 
controversia 
sia 
stata 
considerata 
dal 
legislatore 
come 
non ostativa 
all’utilizzo 
dell’istituto 
e 
che 
possa 
aver 
rilievo 
anche 
al 
momento 
in 
cui 
il 
giudice 
di 
merito 
rimette 
la questione. 


16.c) -Tanto induce 
allora 
a 
non escludere 
la 
possibilità 
che, nel 
rimettere 
la 
questione 
alla 
Corte 
il 
giudice 
di 
merito investito della 
cautela 
possa, all’atto stesso della 
rimessione, concedere 
la 
misura 
cautelare 
temporanea, 
idonea 
ad 
evitare 
il 
verificarsi 
del 
pregiudizio, 
in 
attesa 
della decisione della Corte. 
17) - In conclusione, deve essere affermato il seguente principio di diritto: 
Il 
rinvio pregiudiziale 
di 
cui 
all’art. 363 bis 
c.p.c., in presenza 
di 
tutte 
le 
condizioni 
previste 
dalla 
disposizione, 
può 
riguardare 
questioni 
di 
diritto 
che 
sorgano 
anche 
nei 
procedimenti 
cautelari 
ante 
o in corso di causa. 
18) - Va esaminata ora la specifica questione posta dal tribunale di Bologna. 
Giova 
rammentare 
che 
A.A. 
proponeva 
istanza 
ai 
sensi 
dell’art. 
35 
bis, 
quarto 
comma 
del 
D.Lvo n. 25/2008, diretta 
alla 
sospensione 
della 
decisione 
adottata 
dalla 
Commissione 
Territoriale 
per il riconoscimento della protezione internazionale. 
La 
Commissione 
aveva 
rigettato il 
ricorso per manifesta 
infondatezza, ai 
sensi 
dell’art. 28 ter 
primo comma 
lett. b) D.Lvo n. 25/2008, trattandosi 
di 
richiedente 
proveniente 
da 
paese 
sicuro. 
Il 
ricorrente, 
aveva 
eccepito 
che 
il 
provvedimento 
impugnato 
doveva 
ritenersi 
automaticamente 
sospeso attesa 
la 
irregolarità 
della 
procedura 
accelerata 
adottata 
dalla 
Commissione, 
procedura 
espressamente 
prevista 
dall’art. 28 bis 
del 
predetto decreto legislativo. In particolare, 
aveva 
evidenziato il 
superamento dei 
tempi 
(domanda 
del 
23 febbraio 2023 -audizione 
fissata 
per il 
31 marzo 2023, non tenuta 
per mancata 
presentazione 
-provvedimento 4 aprile) 
previsti 
dalla 
norma 
invocata 
per 
la 
audizione 
del 
richiedente 
e 
l’emissione 
del 
provvedimento. 
19) -Il 
tribunale, avvalendosi 
dell’art. 363 bis 
c.p.c., poneva 
il 
quesito se 
in caso di 
ricorso 
giurisdizionale 
avente 
ad 
oggetto 
provvedimento 
di 
manifesta 
infondatezza 
emesso 
dalla 
Commissione 
Territoriale 
per 
il 
riconoscimento 
della 
Protezione 
Internazionale 
nei 
confronti 
di 
soggetto proveniente 
dal 
Paese 
sicuro, vi 
sia 
o meno deroga 
al 
principio (imposto dalla 
Direttiva 
Europea 
n. 2013/32, salvo casi 
tassativi), di 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento 
impugnato, anche 
quando la 
Commissione 
territoriale 
non abbia 
applicato una 
corretta 
procedura 
accelerata. 
20) 
-A 
sostegno 
del 
dubbio 
interpretativo 
l’ordinanza 
di 
rinvio 
esponeva 
tre 
differenti 
opzioni 
registratesi negli uffici di merito: 
20.1) -il 
primo indirizzo, valorizza 
la 
rigorosa 
conformità 
alla 
Direttiva 
Europea 
che 
impone 
la 
regola 
della 
c.d. 
sospensione 
automatica, 
salvo 
casi 
eccezionali 
e 
tassativi 
(art. 
46, 
paragrafi 
5 e 6). 
Si 
afferma 
che 
la 
procedura 
accelerata 
vale 
per tutte 
le 
ipotesi 
di 
manifesta 
infondatezza 
(e 
di 
inammissibilità) e 
la 
sua 
mancata 
adozione 
conduce, in caso di 
proposizione 
di 
ricorso giurisdizionale, 
alla sospensione automatica del procedimento amministrativo. 
In 
altri 
termini, 
la 
deroga 
alla 
sospensione 
automatica 
in 
caso 
di 
ricorso 
giurisdizionale 
è 
con

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


sentita 
soltanto se 
la 
domanda 
è 
stata 
dichiarata 
infondata 
all’esito di 
una 
regolare 
adozione 
della procedura accelerata. 


20.2) -Il 
secondo indirizzo interpretativo valorizza 
quanto disposto dall’art. 32, paragrafo 2 
della 
Direttiva, che 
autorizza 
gli 
Stati 
membri 
ad introdurre 
una 
categoria 
di 
manifesta 
infondatezza 
nei 
casi 
di 
domande 
infondate 
cui 
si 
applichi 
una 
qualsiasi 
delle 
circostanze 
elencate 
nell’art. 31, paragrafo 8. 
La 
norma 
(l’art. 
32, 
paragrafo 
2) 
viene 
richiamata 
anche 
dall’art. 
46 
paragrafo 
6 
della 
Direttiva 
tra le ipotesi di deroga al principio della sospensione automatica. 
Si 
afferma, di 
conseguenza, che 
la 
manifesta 
infondatezza, sulla 
base 
delle 
citate 
norme 
internazionali, 
può essere 
pronunciata 
dalla 
commissione 
territoriale 
senza 
essere 
necessariamente 
agganciata 
ad 
una 
preventiva 
procedura 
accelerata: 
il 
legislatore 
italiano, 
con 
l’introduzione 
dell’art. 28 ter (“domande 
manifestamente 
infondate”), forse 
anche 
inconsapevolmente, 
a 
dire 
di 
questo indirizzo interpretativo, avrebbe 
recepito l’art. 31, paragrafo 8 
della Direttiva e le norme ad essa correlate. 
L’art. 
28 
ter 
regola 
i 
casi 
di 
manifesta 
infondatezza 
ma 
non 
chiarisce 
se 
debba 
essere 
applicata 
la 
procedura 
accelerata 
regolata 
dagli 
artt. 
28 
e 
28 
bis 
a 
differenza 
di 
quanto 
accadeva 
nel 
testo anteriore alla riforma del 2018. 
Da 
ciò si 
deduce 
che 
la 
Commissione 
territoriale 
possa 
adottare 
una 
decisione 
di 
manifesta 
infondatezza 
indipendentemente 
dall’applicazione 
di 
una 
procedura 
accelerata 
ed 
anche 
in 
tal 
caso la decisione sarebbe comunque immediatamente esecutiva. 
20.3) 
-Il 
terzo 
indirizzo 
afferma 
che 
la 
procedura 
accelerata 
è 
imposta 
dalla 
legge 
italiana 
non per tutti 
i 
casi 
di 
manifesta 
infondatezza, ma 
soltanto per l’ipotesi 
in cui 
sia 
dichiarata 
per richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri. 
Secondo 
questa 
impostazione, 
non 
in 
tutti 
i 
casi 
di 
manifesta 
infondatezza 
ma 
per 
i 
soli 
soggetti 
provenienti 
da 
paese 
sicuro, la 
sospensione 
automatica 
potrebbe 
essere 
derogata 
e 
soltanto in 
presenza di una corretta procedura accelerata. 
In 
conclusione, 
rispetto 
agli 
effetti 
della 
deroga 
alla 
procedura 
accelerata, 
per 
il 
primo 
indirizzo 
la 
deroga 
comporta 
sempre 
la 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento 
amministrativo; 
per 
il 
terzo 
indirizzo 
la 
deroga 
della 
procedura 
accelerata 
comporta 
la 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento 
solo 
per 
i 
provenienti 
da 
paesi 
sicuri; 
mentre 
per 
il 
secondo 
indirizzo 
la 
deroga 
produce 
effetto per il 
dimezzamento del 
termine 
per impugnare 
ma 
non ai 
fini 
della 
sospensione, 
perché 
la 
categoria 
della 
manifesta 
infondatezza 
sarebbe 
comunque 
immediatamente 
esecutiva. 
21) -La 
Direttiva 
2013/32/uE 
pone 
un principio generale 
secondo cui 
la 
proposizione 
del 
ricorso 
giurisdizionale 
sospende 
sempre 
in modo automatico l’esecuzione 
del 
provvedimento 
impugnato, salvo che in casi tassativi. 
L’art. 46 della 
Direttiva 
prevede 
infatti 
che 
fatto salvo il 
paragrafo 6, gli 
Stati 
membri 
autorizzano 
i 
richiedenti 
a 
rimanere 
nel 
loro 
territorio 
fino 
alla 
scadenza 
del 
termine 
entro 
il 
quale 
possono 
esercitare 
il 
loro 
diritto 
a 
un 
ricorso 
effettivo 
oppure, 
se 
tale 
diritto 
è 
stato 
esercitato 
entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. 
21.a) -Per quel 
che 
qui 
interessa, fra 
le 
ipotesi 
di 
deroga 
al 
principio richiamate 
dal 
paragrafo 
6 (con richiami 
alle 
ipotesi 
degli 
artt. 31 e 
32) vi 
è 
la 
provenienza 
del 
richiedente 
da 
paesi 
ritenuti 
sicuri. 
21.b) 
-La 
normativa 
interna 
applicabile 
ratione 
temporis 
al 
caso 
in 
esame 
(D.Lvo 
n. 
25/2008) 
dispone 
all’art. 35 bis 
terzo comma 
che 
La proposizione 
del 
ricorso sospende 
l’efficacia esecutiva 
del 
provvedimento 
impugnato, 
tranne 
che 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
ricorso 
viene 
proposto.... 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


c) avverso il 
provvedimento di 
rigetto per 
manifesta infondatezza ai 
sensi 
dell’articolo 32, 
comma 1, lettera b-bis). 
22) -risulta 
chiara, anche 
nella 
normativa 
interna, la 
presenza 
di 
un principio generale 
di 
sospensione 
dell’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento qualora 
lo stesso sia 
impugnato con ricorso 
giurisdizionale. Anche 
in tale 
ambito interno sono espressamente 
disciplinate 
le 
ipotesi 
di 
deroga 
a 
detto principio e 
tra 
esse, per quanto qui 
in rilievo, l’ipotesi 
di 
impugnazione 
del 
provvedimento 
di 
rigetto 
per 
manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
dell’articolo 
32, 
comma 
1, 
lettera 
b-bis. Quest’ultima 
disposizione 
fa 
riferimento all’ipotesi 
di 
rigetto della 
domanda 
per manifesta 
infondatezza 
nei 
casi 
di 
cui 
all’articolo 
28-ter, 
cioè 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
richiedente 
proviene 
da 
un Paese 
designato di 
origine 
sicuro ai 
sensi 
dell’articolo 2-bis. A 
tale 
ricostruzione 
va 
infine 
aggiunto quanto disposto dall’art. 28 bis 
con riguardo alla 
c.d. procedura 
accelerata 
che 
riguarda 
tra 
le 
altre 
ipotesi, quella 
relativa 
al 
richiedente 
proveniente 
da 
paese 
ritenuto sicuro. 
23) -La 
ricostruzione 
normativa, pur articolata 
nell’intreccio delle 
fonti, individua 
dunque 
un principio generale 
di 
sospensione 
del 
provvedimento amministrativo con talune 
deroghe 
tra 
cui, quella 
del 
richiedente 
proveniente 
da 
paese 
sicuro per il 
quale 
è 
stata 
adottata 
dalla 
Commissione una procedura accelerata. 
Occorre 
valutare 
se 
l’irregolarità 
della 
procedura 
accelerata 
produce 
il 
venir 
meno 
della 
deroga 
al 
principio 
ed 
il 
riespandersi 
della 
sospensione 
del 
provvedimento. 
Taluni 
passaggi 
argomentativi 
risultano necessari per svolgere una analisi adeguata della questione posta. 
24) -Il principio di sospensione automatica. 
Il 
principio di 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento della 
Commissione 
è 
espressione 
del principio di effettività della tutela. 
Si 
tratta 
di 
un principio generale 
dell’ordinamento unionale 
che 
trova 
positive 
affermazioni 
negli 
artt. 6 e 
13 CEDu, nell’art. 47 della 
carta 
dei 
Diritti 
fondamentali 
uE 
e, con riferimento 
alla materia della protezione internazionale, nell’art. 46 della Direttiva 2013/32/uE. 
Il 
principio si 
traduce, in concreto, nel 
diritto di 
difesa, di 
parità 
delle 
armi 
processuali, di 
ricorso 
al 
giudice, nel 
diritto complessivo ad un giusto processo. nel 
caso in esame 
si 
traduce, 
specificamente, 
nel 
diritto 
ad 
essere 
presente 
nel 
processo 
allorchè, 
in 
caso 
non 
fosse 
operativa 
la 
sospensione 
del 
provvedimento 
emesso 
dall’Organo 
amministrativo, 
il 
richiedente 
sarebbe 
a 
rischio di 
un allontanamento in quanto non più titolato a 
restare 
nel 
Paese, con effetti 
preclusivi 
sul 
suo diritto di 
difesa 
e, come 
visto, addirittura 
sulla 
possibilità 
di 
giungere 
ad una 
decisione di merito eventualmente a lui favorevole. 
25) -La procedura accelerata, finalità e coerenza interna dei casi di deroga. 
ulteriore 
tassello 
della 
questione 
posta 
su 
cui 
occorre 
soffermarsi 
è 
dato 
dalle 
modalità 
di 
funzionamento della 
procedura 
accelerata, dalle 
ragioni 
interne 
alla 
scelta 
di 
adozione 
della 
stessa 
e, quindi, dalla 
ratio 
che 
fa 
conseguire 
alla 
adozione 
di 
essa 
la 
deroga 
al 
principio di 
sospensione del provvedimento della Commissione territoriale. 
L’art. 28 bis 
D.Lvo n. 25/2008 sancisce 
che 
la 
Commissione 
territoriale, ricevuta 
dalla 
Questura 
la 
necessaria 
documentazione, entro sette 
giorni 
dalla 
data 
di 
ricezione 
della 
documentazione, 
provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni. 
Si 
tratta, all’evidenza, di 
una 
procedura 
focalizzata 
esclusivamente 
su termini 
di 
rapida 
audizione 
del richiedente e di pressoché contestuale decisione. 
Le 
ragioni 
della 
adozione 
di 
siffatta 
rapidità 
sono espresse 
dalla 
stessa 
disposizione 
allorché 
individua 
i 
casi 
in cui 
sia 
possibile 
adottare 
rapidità 
procedimentale 
nelle 
ipotesi 
in cui 
o il 
richiedente 
sia 
trattenuto 
presso 
strutture 
o 
centri 
di 
accoglienza, 
o 
sia 
inammissibile 
la 
richiesta 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


o, ancora, sia 
manifestamente 
infondata 
e, comunque, il 
richiedente 
provenga 
da 
paesi 
sicuri. 


26) -Il 
tratto che 
accomuna 
le 
ipotesi 
indicate 
dall’art. 28 bis, nella 
sua 
formulazione 
che 
ratione 
temporis 
interessa, (deve 
sottolinearsi 
che 
nel 
corso del 
tempo la 
disciplina 
della 
procedura 
accelerata 
ha 
subito 
diversi 
interventi 
e 
modifiche 
legislative) 
sembra 
essere 
la 
immediata 
acquisizione 
dei 
dati 
e 
documenti 
necessari 
alla 
valutazione 
e 
la 
conseguente 
possibilità 
di 
una rapida decisione. 
27) -Tali 
caratteristiche 
sembrerebbero poi 
particolarmente 
rinvenibili 
nella 
fattispecie 
della 
provenienza 
da 
paese 
sicuro trattandosi 
di 
condizione 
accertabile 
con facilità 
attraverso il 
richiamo 
all’elenco dei paesi sicuri approvato con decreto ministeriale. 
La 
possibilità 
di 
annoverare 
il 
paese 
di 
origine 
del 
richiedente 
tra 
i 
paesi 
sicuri 
dovrebbe 
rendere 
immediatamente 
decidibile 
la 
richiesta 
e 
dunque 
adottabile 
la 
procedura 
accelerata 
con 
il rispetto dei termini ivi previsti. 
28) -nel 
caso in esame, secondo il 
giudice 
rimettente, pur essendo tali 
le 
ragioni 
della 
scelta 
della 
procedura 
adottata 
perché 
ritenuto sicuro il 
paese 
di 
origine, non si 
è 
provveduto nel 
rispetto 
dei 
termini 
di 
cui 
all’art. 28 bis. Tale 
“sforamento” 
è 
stato giustificato dalla 
Commissione 
con la 
difficoltà 
di 
reperire 
un interprete 
per l’audizione. Il 
tribunale 
bolognese 
ha 
poi 
rilevato una 
ulteriore 
irregolarità 
nella 
procedura 
per la 
mancata 
adozione 
e 
comunicazione 
del provvedimento di avvio. 
29) -Tornando a 
ragionare 
sulle 
condizioni 
che 
legittimano la 
procedura 
accelerata 
e 
consentono, 
quale 
conseguenza, 
la 
deroga 
al 
principio 
di 
sospensione 
del 
provvedimento 
della 
Commissione 
territoriale, 
deve 
affermarsi 
che 
proprio 
la 
qualità 
di 
principio 
generale 
della 
sospensione 
non 
può 
che 
richiedere 
stretta 
osservanza 
della 
possibilità 
di 
azione 
delle 
deroghe. 
non 
risulta 
infatti 
compatibile 
con 
l’impianto 
del 
sistema 
e 
con 
il 
rapporto 
tra 
principi 
generali 
e 
deroghe 
agli 
stessi, la 
possibilità 
di 
ampliare 
il 
funzionamento di 
queste 
ultime 
tollerando il 
superamento dei 
termini 
indicati 
per ragioni 
che, evidentemente, dimostrano la 
necessità 
di 
accertamenti e attività non compatibili con la ristrettezza dei tempi dati. 
30) -Pur non potendo compiutamente 
affrontare 
in questa 
sede 
le 
problematiche 
inerenti, da 
un lato la 
possibilità 
che 
il 
richiedente 
contesti 
la 
natura 
“sicura” 
del 
paese 
di 
origine 
e, dal-
l’altro la 
possibilità 
che 
il 
giudice 
debba, anche 
in ragione 
del 
dovere 
di 
cooperazione 
istruttoria, 
comunque 
valutare 
detta 
natura 
anche 
in 
presenza 
di 
inserimento 
del 
paese 
negli 
elenchi 
contenuti 
nei 
decreti 
ministeriali 
a 
ciò destinati 
(si 
tratta, peraltro, di 
decreti 
necessitanti 
continuo 
aggiornamento), di 
esse 
(delle 
problematiche) occorre 
tener conto allorché 
si 
debba 
valutare 
se 
una 
esorbitanza 
dei 
tempi 
necessari 
alla 
valutazione 
possa 
ancora 
far 
ritenere 
accelerata la procedura e derogato il principio di sospensione del provvedimento. 
31) -La 
ratio 
comune 
alle 
ipotesi 
contenute 
nell’art. 28 bis, ovvero la 
immediata 
presenza 
o 
acquisibilità 
degli 
elementi 
da 
valutare, e 
la 
stretta 
connessione 
tra 
ristrettezza 
dei 
tempi, decisione 
e 
deroga 
al 
principio 
della 
sospensione, 
evidenzia 
la 
necessitata 
coesistenza 
dei 
tre 
fattori 
e, 
dunque, 
il 
venir 
meno 
dell’intero 
impianto 
in 
caso 
del 
venir 
meno 
di 
uno 
di 
essi 
(tempi dati). 
La 
presenza 
di 
variabili 
nell’accertamento in tempi 
ristretti 
(si 
è 
detto sulla 
contestazione 
e 
sull’accertamento circa 
la 
natura 
di 
paese 
sicuro ma 
le 
difficoltà 
possono essere 
di 
varia 
tipologia) 
non 
può 
che 
evidenziare 
che, 
qualora 
si 
verifichi 
un 
prolungamento 
temporale 
che 
faccia 
superare 
i 
tempi 
previsti 
dalla 
disposizione, si 
versa 
in una 
differente 
ipotesi 
procedi-
mentale, evidentemente 
necessaria 
per gli 
approfondimenti 
richiesti, con conseguenze 
anche 
sulla necessaria sospensione del provvedimento. 
32) -Quanto alla 
scelta 
legislativa 
di 
reiterare 
nel 
disposto dell’art. 35 bis 
D.lvo n. 25/2008 il 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


richiamo alla 
provenienza 
da 
paesi 
sicuri 
sia 
perché 
ragione 
di 
manifesta 
infondatezza 
della 
domanda 
che 
di 
adozione 
della 
procedura 
accelerata, si 
osserva 
che 
evidentemente, al 
di 
là 
di 
costituire 
una 
duplicazione 
(come 
indicato dall’ordinanza 
di 
rinvio), tale 
circostanza 
può essere 
significativa 
del 
fatto che 
soltanto se 
detta 
provenienza 
sia 
immediatamente 
accertabile 
come 
effettivamente 
sussistente 
possa 
determinare 
l’adozione 
della 
procedura 
accelerata 
per 
manifesta 
infondatezza, mentre, in caso contrario, ove 
la 
circostanza 
sia 
contestata 
dal 
richiedente 
ovvero richieda 
comunque 
un accertamento ulteriore, essa 
possa 
essere 
oggetto di 
una 
ordinaria 
procedura 
che 
esiterà, eventualmente, nel 
rigetto della 
domanda, qualora 
siano accertate 
le ragioni della infondatezza (non più manifesta) di quest’ultima. 


33) -Deve 
essere 
quindi 
ritenuto che, al 
fine 
di 
poter ritenere 
derogato il 
principio generale 
di 
sospensione 
del 
provvedimento della 
Commissione, principio, ricordiamolo, posto a 
presidio 
della 
effettività 
delle 
tutele 
riconosciute 
per 
la 
protezione 
internazionale, 
deve 
essere 
stata 
svolta 
e 
rigorosamente 
osservata 
la 
procedura 
accelerata, con i 
termini 
suoi 
propri 
nei 
casi, espressamente 
previsti, di 
manifesta 
infondatezza 
(o inammissibilità). Qualora 
la 
procedura 
non venga 
osservata 
(anche 
se 
originariamente 
adottata) e 
dunque 
la 
ragione 
da 
valutare 
non sia 
così 
“manifesta”, occorrendo accertamenti 
o comunque 
tempi 
di 
maggior durata, il 
procedimento assumerà 
la 
veste 
ordinaria 
con il 
ripristino di 
tutti 
gli 
effetti, compresa 
la 
sospensione 
del 
provvedimento della 
Commissione 
territoriale 
(in termini 
Cass. n. 6745/2021; 
Cass. n. 30515/2023). 
34) -non valevole 
a 
contrastare 
dette 
conclusioni 
è 
l’argomento da 
ultimo proposto dall’Avvocatura 
Generale 
dello Stato circa 
la 
esistenza 
di 
una 
tutela 
comunque 
azionabile 
da 
parte 
del 
richiedente 
in 
caso 
di 
immediata 
esecutività 
del 
provvedimento 
amministrativo, 
come 
sancito 
dal comma 4 dell’art. 35 bis. 
Tale 
norma 
stabilisce 
che 
“Nei 
casi 
previsti 
dal 
comma 
3, 
lettere 
a), 
b), 
c) 
e 
d), 
l’efficacia 
esecutiva 
del 
provvedimento 
impugnato 
può 
essere 
sospesa, 
quando 
ricorrono 
gravi 
e 
circostanziate 
ragioni 
e 
assunte, 
ove 
occorra, 
sommarie 
informazioni, 
con 
decreto 
motivato, 
pronunciato 
entro 
cinque 
giorni 
dalla 
presentazione 
dell’istanza 
di 
sospensione 
e 
senza 
la 
preventiva convocazione della controparte. 
Lo strumento impugnatorio di 
cui 
alla 
disposizione, seppur connotato da 
celerità 
di 
tempi 
e 
di 
modalità 
accertative, presuppone 
comunque 
un onere 
allegatorio e 
probatorio in capo al 
richiedente 
circa 
le 
gravi 
e 
circostanziate 
ragioni 
e 
si 
pone 
certamente 
su 
un 
piano 
di 
valutazione 
estraneo 
alla 
diretta 
operatività 
del 
principio 
di 
effettività 
della 
tutela 
che 
opera 
con 
la 
sospensione 
automatica. 
Le 
ragioni 
sopra 
evidenziate 
circa 
il 
necessario legame 
tra 
tempi 
di 
decisione 
accelerata 
e 
deroga 
al 
principio generale 
di 
sospensione, quale 
espressione 
del 
bilanciamento tra 
posizioni 
soggettive 
richiedenti 
tutela 
e 
interesse 
pubblico ad un rapido accertamento della 
effettività 
dei 
diritti 
vantati, deve 
far escludere 
che 
si 
ponga 
sullo stesso piano processuale 
e 
sostanziale 
la 
sospensione 
automatica 
e 
la 
sospensione 
che 
consegua 
ad 
un 
procedimento 
di 
accertamento 
giudiziale 
con oneri 
per la 
parte 
richiedente. L’obiezione 
posta 
non coglie 
dunque 
nel 
segno. 


36) -In conclusione, la 
questione 
sollevata 
dall’ordinanza 
di 
rimessione 
va 
risolta 
attraverso 
l’enunciazione del principio di diritto riportato nel dispositivo. 
Al giudice del merito la determinazione delle spese del presente giudizio. 
P.Q.M. 
La 
Corte 
a 
Sezioni 
unite, visto l’art. 363 bis 
c.p.c., con riguardo al 
rinvio pregiudiziale 
di 
cui 
all’ordinanza 
in 
esame, 
enuncia 
il 
seguente 
principio: 
“in 
caso 
di 
ricorso 
giurisdizionale 
avente 
ad 
oggetto 
il 
provvedimento 
di 
manifesta 
infondatezza 
emesso 
dalla 
Commissione 
Territoriale 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


per 
il 
riconoscimento 
della 
Protezione 
Internazionale 
nei 
confronti 
di 
soggetto 
proveniente 
da 
Paese 
sicuro, 
vi 
è 
deroga 
al 
principio 
generale 
di 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento 
impugnato solo nel 
caso in cui 
la 
commissione 
territoriale 
abbia 
applicato una 
corretta 
procedura 
accelerata, utilizzabile 
quando ricorra 
ipotesi 
di 
manifesta 
infondatezza 
della 
richiesta 
protezione. 
In ipotesi 
contraria, quando la 
procedura 
accelerata 
non sia 
stata 
rispettata 
nelle 
sue 
articolazioni 
procedimentali, si 
determina 
il 
ripristino della 
procedura 
ordinaria 
ed il 
riespandersi 
del 
principio generale 
di 
sospensione 
automatica 
del 
provvedimento della 
Commissione 
territoriale”. 
Dispone 
la 
restituzione 
degli 
atti 
al 
tribunale 
di 
Bologna 
che 
dovrà 
provvedere 
anche 
sulle 
spese del presente giudizio. 
Così deciso il roma il 30 gennaio 2024. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


scioglimento di consiglio comunale per infiltrazioni 
mafiose e incandidabilità degli amministratori 
locali ex art. 143, comma 11, t.U.e.L. 


CASSAZIONE, SEZIONE 
I CIVILE, ORDINANZA 
22 MAGGIO 
2024 N. 14356 


L’ordinanza 
della 
Corte 
di 
cassazione 
del 
22 maggio 2024, n. 14356 ha 
accolto il 
ricorso per cassazione 
del 
Ministero dell’Interno volto ad ottenere 
la 
dichiarazione 
di 
incandidabilità 
del 
sindaco 
e 
di 
due 
assessori 
di 
un 
comune 
sciolto 
ex 
art. 
143 
TuEL 
per 
infiltrazioni 
mafiose 
affermando 
che 
“l’elemento 
soggettivo 
dell’amministratore 
consiste 
anche 
solo 
nel 
non 
essere 
riuscito 
a 
contrastare 
efficacemente 
le 
ingerenze 
e 
pressioni 
delle 
organizzazioni 
criminali 
operanti 
nel 
territorio, mentre 
l’elemento oggettivo richiede 
la 
verifica 
di 
una 
condotta 
inefficiente, disattenta 
ed opaca 
che 
si 
sia 
riflessa 
sulla 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica”. La 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
censurato la 
statuizione 
della 
Corte 
d’Appello secondo la 
quale 
quanto emerso dai 
dati 
acquisiti 
non provava 
“la 
volontà” 
degli 
amministratori 
locali 
di 
privilegiare 
soggetti 
legati 
alla 
locale 
associazione 
mafiosa. non è 
stato quindi 
ritenuto necessario 
un comportamento intenzionale 
ma 
meramente 
colposo. Conclude 
la 
Corte 
di 
cassazione: 
“ne 
discende 
che 
-contrariamente 
all’assunto della 
Corte 
territoriale 
-l’accertamento del 
venir meno, anche 
solo colposo, da 
parte 
dell’amministratore 
locale 
agli 
obblighi 
di 
vigilanza 
riconnessi 
alla 
sua 
carica 
è 
di 
per 
sé 
sufficiente 
a 
integrare 
i 
presupposti 
per l’applicazione 
della 
misura 
interdittiva 
prevista 
dall’art. 143, comma 
11, del 
d.lgs. n. 267/2000, così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dall’art. 
2, 
comma 
30, 
della 
legge 
n. 
94/2009, proprio perché 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
è 
quella 
di 
evitare 
il 
rischio che 
quanti 
abbiano cagionato il 
grave 
dissesto dell’amministrazione 
comunale 
possano aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 
o simili 
a 
quelle 
rivestite 
e, 
in 
tal 
modo, 
potenzialmente 
perpetuare 
l’ingerenza 
inquinante 
nella 
vita delle amministrazioni democratiche locali (Cass. n. 2749/2021)”. 


Wally Ferrante* 


Cassazione 
civile, sezione 
i, ordinanza 22 maggio 2024 n. 14356 
-Pres. A. Valitutti, Rel. 


C. 
Parise 
-Ministero 
dell’Interno 
(avv. 
gen. 
Stato) 
c. 
omissis 
(avv. 
M. 
Federico); 
contro 
omissis, 
omissis, omissis. 
FATTI DI CAuSA 


1. Con nota 
dell’8 agosto 2018, il 
Ministero dell’Interno trasmetteva 
al 
Tribunale 
di 
(...), per 
le 
finalità 
di 
cui 
all’art. 143, comma 
11, del 
d.lgs. n. 267/2000, il 
Decreto del 
Presidente 
della 
repubblica, 
emesso 
in 
data 
29 
giugno 
2018, 
di 
scioglimento 
per 
infiltrazioni 
mafiose 
del 
Con(*) 
Avvocato dello Stato. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


siglio 
comunale 
di 
(...), 
unitamente 
alla 
relazione 
del 
Ministro 
dell’Interno 
del 
27 
giugno 
2018. 


2. Con decreto dell’11 giugno 2020, il 
Tribunale 
rigettava 
il 
ricorso proposto dal 
Ministero 
dell’Interno, diretto ad ottenere 
la 
misura 
interdittiva 
dell’incandidabilità 
di 
cui 
all’art. 143, 
comma 
11, del 
d.lgs. n. 267/2000 nei 
confronti 
di 
omissis 
di 
omissis 
e 
di 
omissis, mentre 
dichiarava 
l’incandidabilità di 
omissis. 
3. Avverso il 
predetto decreto proponeva 
reclamo il 
Ministero dell’Interno, chiedendo fosse 
dichiarata 
l’incandidabilità 
di 
omissis, omissis 
e 
omissis. I reclamati, costituitisi 
in giudizio, 
chiedevano il rigetto dell’impugnazione. 
4. Con decreto n. 339 del 
4 dicembre 
2020, la 
Corte 
di 
Appello di 
(...) respingeva 
il 
ricorso e 
confermava 
il 
decreto emesso dal 
Tribunale, ritenendo che 
quanto emerso dai 
dati 
acquisiti 
non provasse 
la 
volontà 
degli 
amministratori 
locali 
di 
privilegiare 
soggetti 
legati 
alla 
locale 
associazione 
mafiosa. In particolare, la 
Corte 
di 
Appello di 
(...) rilevava 
che: 
a) con specifico 
riferimento 
alla 
posizione 
del 
omissis, 
in 
qualità 
di 
sindaco, 
e 
del 
omissis 
in 
qualità 
di 
assessore 
alle 
politiche 
sociali, la 
relazione 
prefettizia 
aveva 
evidenziato l’assenza 
di 
un criterio oggettivo 
e 
predeterminato per l’erogazione 
dei 
contributi, concessi 
con modalità 
sostanzialmente 
arbitrarie 
anche 
dopo l’istituzione, nel 
2016, di 
un’apposita 
Commissione 
Tecnica 
per la 
valutazione 
delle 
relative 
istanze 
e, 
tenuto 
conto 
delle 
risultanze 
processuali, 
detti 
fatti 
dovevano 
ritenersi 
accertati; 
quanto a 
omissis, assessore 
alla 
pubblica 
istruzione, attività 
produttive 
e 
sport, non poteva 
desumersi 
alcuna 
forma 
di 
condizionamento soltanto dalla 
circostanza 
che 
i 
controlli, 
nell’ambito 
del 
settore 
delle 
attività 
produttive, 
erano 
effettuati 
da 
parte 
di 
un 
agente 
della 
Polizia 
Municipale, imputato, fra 
l’altro, del 
reato di 
cui 
all’art. 416 bis 
c.p.; 
b) il 
Tribunale 
aveva 
esaminato 
puntualmente 
gli 
elementi 
acquisiti 
sia 
in 
seguito 
all’indagine 
di 
polizia 
giudiziaria 
denominata 
(...), in cui 
erano state 
effettuate 
diverse 
intercettazioni 
telefoniche 
ed 
ambientali 
e 
assunte 
sommarie 
informazioni 
testimoniali, sia 
in seguito all’indagine 
amministrativa 
svolta 
da 
un’apposita 
commissione 
prefettizia; 
c) nello specifico le 
erogazioni 
assistenziali 
erano 
state 
concesse 
con 
frequenza 
mensile 
e 
quasi 
sempre 
agli 
stessi 
soggetti, 
nonostante 
il 
regolamento 
comunale 
ne 
prevedesse 
la 
concessione 
una 
tantum 
durante 
l’anno, 
e 
molti 
dei 
beneficiari 
risultavano collegati 
con la 
criminalità 
organizzata 
ed in loro favore 
erano stati 
erogati 
contributi, nell’arco temporale 
dal 
2011 al 
2017, per un importo complessivo 
di 
euro 87.990,40, corrispondente 
al 
67% delle 
risorse 
disponibili; 
d) inoltre 
numerose 
richieste 
di 
contributi 
erano state 
compilate 
con l’indicazione 
soltanto del 
nominativo del 
richiedente 
e 
senza 
alcuna 
attestazione 
sul 
reddito, mentre 
le 
elargizioni 
di 
maggiore 
entità 
risultavano 
effettuate 
in 
favore 
di 
soggetti 
legati 
alla 
locale 
associazione 
mafiosa; 
e) 
nonostante 
l’accertamento di 
queste 
circostanze 
avesse 
determinato lo scioglimento del 
consiglio comunale, 
sulla 
base 
dei 
dati 
acquisiti 
non era 
emerso alcun collegamento, indiretto, dei 
reclamati 
con 
esponenti 
della 
criminalità 
organizzata; 
collegamento 
che 
invece 
era 
stato 
provato 
per 
omissis, consigliere 
ed assessore 
(dal 
2011 al 
2016) alle 
politiche 
sociali 
del 
Comune 
di 
(...), 
di 
cui 
era 
stata 
dichiarata 
l’incandidabilità 
dal 
Tribunale; 
f) il 
condizionamento richiesto dal-
l’art. 143, comma 
11, del 
D.Lgs. n. 267/2000 richiedeva 
un’azione 
commissiva 
o omissiva 
dell’amministratore 
volontariamente 
diretta 
a 
favorire 
la 
criminalità 
organizzata 
di 
tipo mafioso, 
non 
essendo 
sufficienti 
ad 
integrare 
una 
forma 
di 
condizionamento 
condotte 
meramente 
colpose, 
determinate 
da 
negligenza 
o 
incapacità 
dell’amministratore 
nell’esercizio 
del 
potere-
dovere 
di 
vigilanza 
e 
controllo sull’attività 
dell’ente 
comunale, mentre 
nella 
specie 
dai 
dati 
acquisiti 
emergeva 
certamente 
un uso distorto della 
macchina 
amministrativa 
e 
la 
mancanza 
di 
adeguati 
controlli, ma 
non era 
affatto provato che 
i 
comportamenti 
dei 
reclamati 
fossero 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


stati 
posti 
in essere 
-piuttosto che, semplicemente, con l’intenzione 
di 
avvantaggiare 
i 
propri 
elettori 
-con la 
volontà 
di 
privilegiare 
soggetti 
legati 
alla 
locale 
associazione 
mafiosa; 
l’esistenza 
di 
una 
corsia 
preferenziale 
per 
questi 
soggetti 
era, 
invece, 
certamente 
attribuibile, 
sulla 
base 
delle 
risultanze 
processuali, alla 
presenza 
del 
omissis 
nel 
consiglio e 
nella 
giunta 
comunale, 
ma 
alcun elemento “concreto, univoco e 
rilevante” 
era 
emerso nei 
confronti 
dei 
reclamati, 
tanto 
più 
tenendo 
conto, 
da 
un 
lato, 
che 
i 
contributi 
erano 
stati 
erogati 
comunque 
in 
favore 
di 
soggetti 
in possesso dei 
requisiti 
di 
legge, dall’altro, che 
non vi 
era 
prova 
che 
i 
reclamati 
fossero a conoscenza dei rapporti del 
omissis 
con la criminalità organizzata. 


5. Avverso questo decreto, il 
Ministero dell’Interno ha 
proposto ricorso per cassazione, articolato 
in un unico motivo di 
ricorso e 
resistito con controricorso da 
omissis. Sono rimasti 
intimati 
omissis, omissis 
e 
omissis. 
6. 
Il 
ricorso 
è 
stato 
fissato 
per 
l’adunanza 
in 
camera 
di 
consiglio 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
375, 
ultimo 
comma, e 380 bis 
1, cod. proc. civ. 
rAGIOnI DELLA DECISIOnE 


1. Con l’unico motivo del 
ricorso, il 
Ministero ricorrente 
denuncia 
“la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’art. 143, comma 
11 del 
d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in relazione 
all’art. 360, 
comma 
1, 
n. 
3 
c.p.c. 
Il 
ricorrente 
lamenta 
che 
la 
Corte 
di 
Appello 
abbia 
erroneamente 
ritenuto 
necessaria, 
al 
fine 
di 
dichiarare 
l’incandidabilità 
degli 
odierni 
resistenti, 
una 
responsabilità 
dolosa 
in 
relazione 
all’infiltrazione 
della 
criminalità 
organizzata 
nell’amministrazione 
del 
Comune 
di (...). 
Il 
ricorrente 
afferma 
che, ai 
sensi 
del 
citato art. 143, comma 
11, la 
misura 
interdittiva 
in questione 
non 
richiede 
che 
la 
condotta 
dell’amministratore 
integri 
gli 
estremi 
di 
un 
reato, 
essendo 
sufficiente 
che 
emerga 
una 
possibile 
soggezione 
degli 
amministratori 
locali 
alla 
criminalità 
organizzata. Ai 
fini 
dello scioglimento del 
consiglio comunale 
e 
della 
declaratoria 
di 
incandidabilità 
non 
sono, 
pertanto, 
necessarie 
circostanze 
che 
denotino 
il 
volontario 
concorso 
degli 
amministratori 
nei 
fatti 
in cui 
si 
concretizzano l’infiltrazione 
e 
il 
condizionamento mafioso, 
risultando sufficiente 
che 
a 
tale 
fenomeno i 
titolari 
degli 
organi 
dell’ente 
non siano stati 
in 
grado 
di 
opporsi 
efficacemente 
in 
presenza 
di 
sintomatiche 
disfunzioni 
dell’agire 
del 
Comune 
delle 
quali 
si 
siano 
giovati 
gli 
interessi 
della 
consorteria 
criminale 
organizzata, 
circostanze 
emerse 
nei 
fatti 
in 
causa 
e 
riconosciute, 
a 
dire 
del 
ricorrente, 
anche 
dai 
giudici 
di 
secondo 
grado. La Corte di 
Appello, ad avviso del Ministero, è incorsa nella violazione del citato art. 
143, comma 
11, escludendo l’idoneità 
di 
un addebito colposo per fondare 
la 
dichiarazione 
di 
incandidabilità 
e 
pretendendo 
un 
livello 
di 
intenzionalità 
ed 
intraneità 
dell’amministratore 
con la consorteria criminale che nessuna norma pretende. 
2. Il motivo è fondato. 
2.1. Secondo l’orientamento di 
questa 
Corte 
che 
il 
Collegio intende 
qui 
ribadire, l’accertamento 
della 
incandidabilità 
degli 
amministratori, ai 
sensi 
dell’art. 143, comma 
11, del 
TuEL 
di 
cui 
al 
d.lgs. n. 267/2000, attiene 
alle 
condotte 
che 
hanno dato causa 
allo scioglimento del-
l’organo consiliare, non alla 
valutazione 
del 
provvedimento amministrativo di 
scioglimento 
dell’organo, che 
quelle 
hanno pure 
generato, ed è 
disposto, ai 
sensi 
del 
precedente 
comma 
3, 
del 
menzionato art. 143 TuEL, con d.P.r. (“su proposta 
del 
Ministro dell’interno, previa 
deliberazione 
del 
Consiglio dei 
ministri 
entro tre 
mesi 
dalla 
trasmissione 
della 
relazione 
di 
cui 
al 
comma 
3, ed è 
immediatamente 
trasmesso alle 
Camere”). In sostanza, la 
valutazione 
della 
legittimità 
del 
provvedimento 
Presidenziale 
fuoriesce 
dal 
thema 
decidendum, 
costituendo 
l’atto un mero presupposto dell’indagine, svolta 
in sede 
amministrativa, che 
ha 
ad oggetto, 
invero, 
la 
responsabilità 
degli 
amministratori 
dell’ente 
locale 
con 
riferimento 
alle 
loro 
condotte 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


(omissive 
o commissive) che 
hanno dato causa 
allo scioglimento dell’organo consiliare 
o ne 
siano state 
una 
concausa 
(Cass. 3024/2019; 
Cass. S.u. 1747/2015; 
Cass. 19407/2017), e 
tale 
misura non è in contrasto con la Costituzione, attesa la sua temporaneità. 
Per 
quel 
che 
più 
ora 
interessa, 
va 
rimarcato 
che 
l’elemento 
soggettivo 
dell’amministratore 
consiste 
anche 
solo 
nel 
non 
essere 
riuscito 
a 
contrastare 
efficacemente 
le 
ingerenze 
e 
pressioni 
delle 
organizzazioni 
criminali 
operanti 
nel 
territorio, mentre 
l’elemento oggettivo richiede 
la 
verifica 
di 
una 
condotta 
inefficiente, 
disattenta 
ed 
opaca 
che 
si 
sia 
riflessa 
sulla 
cattiva 
gestione 
della cosa pubblica. 


2.2. nel 
caso di 
specie, la 
Corte 
d’appello, pur correttamente 
premettendo l’assenza 
di 
ogni 
automatismo 
tra 
scioglimento 
del 
singolo 
consiglio 
comunale 
e 
declaratoria 
di 
incandidabilità 
degli 
amministratori, 
non 
si 
è 
attenuta 
agli 
altri 
principi 
sopra 
ricordati. 
In 
particolare, 
la 
Corte 
di 
merito ha 
accertato con certezza 
“un uso distorto della 
macchina 
amministrativa 
e 
la 
mancanza 
di 
adeguati 
controlli” 
(pag. 
7 
della 
sentenza 
impugnata), 
vale 
a 
dire 
l’esistenza 
di 
un’oggettiva 
situazione 
di 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica, tale 
da 
rendere 
possibili 
ingerenze 
esterne 
nel 
suo ambito e 
un concreto asservimento dell’amministrazione 
alle 
pressioni 
inquinanti 
delle 
associazioni 
criminali 
operanti 
sul 
territorio. A 
fronte 
di 
un tale 
accertamento, la 
Corte 
territoriale 
ha 
di 
seguito erroneamente 
valorizzato il 
fatto che 
non fosse 
“emerso alcun 
collegamento, diretto o indiretto, dei 
reclamati 
con esponenti 
della 
criminalità 
organizzata” 
ed 
ha 
affermato, 
altrettanto 
erroneamente, 
che 
non 
fosse 
rilevante, 
ai 
fini 
dell’incandidabilità, 
la 
“condotta 
colposamente 
omissiva 
dei 
reclamati 
che 
avrebbe 
consentito il 
condizionamento 
dell’azione amministrativa da parte dell’associazione mafiosa”. 
Come 
già 
affermato da 
questa 
Corte, rispetto alla 
figura 
apicale 
dell’amministrazione 
comunale 
costituita 
dal 
sindaco o alla 
figura 
del 
vice 
sindaco, al 
di 
là 
della 
mancanza 
di 
frequentazioni 
e 
rapporti 
con esponenti 
della 
Criminalità 
organizzata 
locale 
o di 
agevolazioni 
dirette 
della 
stessa, 
occorre 
comunque 
estendere 
l’indagine 
alla 
condotta 
da 
questi 
tenuta 
nell’ambito 
amministrazione 
municipale 
al 
fine 
di 
acclarare 
rapporto eventualmente 
dato (con azioni 
od 
omissioni) nel 
provocare 
la 
situazione 
che 
aveva 
condotto allo scioglimento dell’organo assembleare 
(Cass. 
2749/2021; 
Cass. 
31550/2023). 
nello 
svolgimento 
di 
questa 
indagine 
si 
deve 
considerare 
che 
il 
sindaco ed il 
vice 
sindaco sono chiamati 
ad esercitare, nelle 
rispettive 
specifiche competenze, il potere/dovere: 
di 
vigilare 
e 
sovrintendere 
al 
funzionamento dei 
servizi 
e 
degli 
uffici 
e 
all’esecuzione 
degli 
atti, ai 
sensi 
dell’art. 50, comma 
2, TuEL; 
di 
indirizzare 
e 
controllare 
l’operato dei 
soggetti 
a 
cui 
era 
affidato il 
compito di 
dare 
attuazione 
alle 
scelte 
deliberate 
dall’amministrazione, ex 
art. 
107, 
comma 
1, 
TuEL; 
più 
in 
generale, 
di 
sovrintendere 
alla 
vigilanza 
su 
tutto 
quanto 
possa 
interessare 
la 
sicurezza 
e 
l’ordine 
pubblico, 
a 
mente 
dell’art. 
54, 
comma 
1, 
lett. 
c), 
TuEL. La 
trasgressione 
di 
questi 
doveri 
di 
vigilanza, all’evidenza, non solo è 
capace 
di 
determinare 
una 
situazione 
di 
cattiva 
gestione 
dell’amministrazione 
comunale, ma 
rende 
possibili 
ed 
agevola 
ingerenze 
al 
suo 
interno 
delle 
associazioni 
criminali, 
finendo 
per 
creare 
le 
condizioni per un asservimento dell’amministrazione municipale agli interessi malavitosi. 
ne 
discende 
che 
-contrariamente 
all’assunto 
della 
Corte 
territoriale 
-l’accertamento 
del 
venir 
meno, anche 
solo colposo, da 
parte 
dell’amministratore 
locale 
agli 
obblighi 
di 
vigilanza 
riconnessi 
alla 
sua 
carica 
è 
di 
per 
sé 
sufficiente 
a 
integrare 
i 
presupposti 
per 
l’applicazione 
della 
misura 
interdittiva 
prevista 
dall’art. 143, comma 
11, del 
d.lgs. n. 267/2000, così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dall’art. 2, comma 
30, della 
legge 
n. 94/2009, proprio perché 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
è 
quella 
di 
evitare 
il 
rischio che 
quanti 
abbiano cagionato il 
grave 
dissesto dell’amministrazione 
comunale 
possano aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


o 
simili 
a 
quelle 
rivestite 
e, 
in 
tal 
modo, 
potenzialmente 
perpetuare 
l’ingerenza 
inquinante 
nella vita delle amministrazioni democratiche locali (Cass. n. 2749/2021). 
In 
altre 
parole, 
la 
Corte 
d’appello 
ha 
effettuato 
una 
valutazione 
atomistica 
(Cass. 
25380/2023) 
e 
soprattutto, 
pur 
avendo 
sicuramente 
accertato 
un 
uso 
distorto 
della 
macchina 
amministrativa 
e 
l’assenza 
di 
adeguati 
controlli, 
ha 
preteso 
la 
prova 
di 
un 
collegamento 
diretto 
e 
indiretto 
con 
le 
associazioni 
mafiose 
e 
della 
volontà 
di 
favorire 
il 
sodalizio criminale, mentre 
la 
dichiarazione 
di 
incandidabilità 
prevista 
dall’art. 143, comma 
11, d.lgs. n. 267 del 
2000 non richiede 
che 
la 
condotta 
dell’amministratore 
dell’ente 
locale 
integri 
gli 
estremi 
del 
reato di 
partecipazione 
ad associazione 
mafiosa 
o di 
concorso esterno alla 
stessa, essendo sufficiente 
che 
egli, 
da 
un punto di 
vista 
soggettivo, non sia 
riuscito a 
contrastare 
efficacemente 
ingerenze 
e 
pressioni 
delle 
organizzazioni 
criminali 
operanti 
nel 
territorio 
e 
da 
un 
punto 
di 
vista 
oggettivo, 
abbia 
tenuto una 
condotta 
inefficiente, disattenta 
ed opaca 
che 
si 
sia 
riflessa 
sulla 
cattiva 
gestione 
della cosa pubblica (Cass. 8056/2022; Cass. 31550/2023 citata). 
Va 
aggiunto 
che, 
come 
pure 
già 
affermato 
da 
questa 
Corte 
e 
per 
quanto 
rileva, 
specificamente, 
anche 
per le 
posizioni 
di 
omissis, assessore 
alle 
politiche 
sociali 
per circa 
un anno (dal 
2016 
al 
2017) e 
omissis, assessore 
alla 
pubblica 
istruzione, attività 
produttive 
e 
sport, oltre 
che 
per 
quella 
del 
sindaco 
omissis, 
incorre 
nella 
sanzione 
di 
incandidabilità 
di 
cui 
all’art. 
143, 
comma 
11, del 
d.lgs. n. 267 del 
2000, il 
singolo amministratore 
che, pur non essendo direttamente 
responsabile 
delle 
condotte 
che 
hanno 
dato 
causa 
allo 
scioglimento 
dell’ente, 
indipendentemente 
dalle 
attribuzioni 
dell’organo 
di 
cui 
faceva 
parte, abbia 
comunque 
concorso 
a 
determinare 
quell’effetto, fornendo un contributo alla 
condotta, commissiva 
od omissiva, degli 
altri 
amministratori 
cui 
competeva 
rispettivamente 
di 
assumere 
o non assumere 
determinazioni 
rilevanti 
a 
tal 
fine 
(Cass. 
24566/2022), 
sicché 
l’indagine 
di 
merito 
dovrà 
svolgersi 
anche 
in 
relazione ai suddetti profili. 
3. In conclusione, il 
ricorso va 
accolto, va 
cassato il 
decreto impugnato e 
la 
causa 
va 
rinviata 
alla 
Corte 
dappello 
di 
(...), 
in 
diversa 
composizione, 
che 
dovrà 
procedere 
al 
riesame 
del 
merito 
alla 
luce 
dei 
suesposti 
principi 
e 
anche 
decidere 
in 
ordine 
alle 
spese 
del 
giudizio 
di 
legittimità. 
Va 
disposto 
che, 
in 
caso 
di 
diffusione 
della 
presente 
ordinanza, 
siano 
omesse 
le 
generalità 
delle 
parti 
e 
dei 
soggetti 
in essa 
menzionati, a 
norma 
del 
d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52. 
P.Q.M 
La 
Corte 
accoglie 
il 
ricorso; 
cassa 
il 
decreto impugnato; 
rinvia 
la 
causa 
alla 
Corte 
di 
appello 
di 
(...), in diversa 
composizione, a 
cui 
demanda 
di 
provvedere 
anche 
sulle 
spese 
del 
giudizio 
di legittimità. 
Così deciso in roma, il 14 marzo 2024. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


La Corte di Cassazione si esprime sullo scorrimento 
delle graduatorie delle progressioni verticali 


NOTA 
A 
CASSAZIONE, SEZIONE 
LAVORO, ORDINANZA 
28 MAGGIO 
2024, N. 14919 


Antonino Ripepi* 

La 
pronuncia 
in 
commento 
interviene 
su 
una 
fattispecie 
concreta 
di 
grande rilevanza, che ha generato un contenzioso esteso a tutta la penisola. 


I dipendenti 
del 
MIBACT, infatti, avevano agito in giudizio riferendo di 
avere 
partecipato 
ai 
corsi-concorsi 
per 
titoli 
ed 
esami 
per 
i 
passaggi 
interni 
dalla 
Area 
B alla 
Area 
C, ai 
sensi 
dell’art. 15, comma 
1, lett. a), CCnL 
Comparti 
Ministeri 
1998-2001 e 
di 
essere 
risultati 
tutti 
idonei 
nelle 
graduatorie 
a 
fronte 
del 
numero di 
posti 
utili 
a 
bando autorizzati, e 
cioè 
460 unità 
rispetto 
alle 920 programmate. 


Avevano dedotto l’inadempimento del 
MIBACT, in quanto quest’ultimo 
non aveva 
proceduto allo scorrimento delle 
graduatorie 
alla 
luce 
sia 
dell’entrata 
in vigore 
dell’art. 62, comma 
1, d.lgs. 27 ottobre 
2009, n. 150, sia 
del 
diniego 
di 
autorizzazione 
da 
parte 
degli 
organi 
di 
controllo 
alla 
copertura 
dei 
restanti 460 posti banditi. 


Le 
disposizioni 
di 
riferimento, 
da 
cui 
la 
presente 
analisi 
intende 
muovere, 
sono gli artt. 24 e 62 d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. 


Infatti, l’art. 24 (“Progressioni 
di 
carriera”), comma 
1, cit. dispone: 
«Ai 
sensi 
dell’articolo 52, comma 1-bis, del 
decreto legislativo n. 165 del 
2001, 
come 
introdotto 
dall’articolo 
62 
del 
presente 
decreto, 
le 
amministrazioni 
pubbliche, 
a decorrere 
dal 
1° 
gennaio 2010, coprono i 
posti 
disponibili 
nella dotazione 
organica attraverso concorsi 
pubblici, con riserva non superiore 
al 
cinquanta per 
cento a favore 
del 
personale 
interno, nel 
rispetto delle 
disposizioni 
vigenti in materia di assunzioni». 


A 
sua 
volta, l’art. 62, comma 
1, cit. chiarisce 
ulteriormente 
che 
«Le 
progressioni 
fra le 
aree 
avvengono tramite 
concorso pubblico, ferma restando la 
possibilità 
per 
l’amministrazione 
di 
destinare 
al 
personale 
interno, 
in 
possesso 
dei 
titoli 
di 
studio richiesti 
per 
l’accesso dall’esterno, una riserva di 
posti 
comunque 
non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso». 


Alla 
luce 
dell’impianto 
normativo 
sopravvenuto, 
ogni 
Amministrazione, 
a 
partire 
dal 
2010, 
per 
la 
progressione 
dei 
propri 
dipendenti 
tra 
le 
aree 
di 
inquadramento, 
è 
impossibilitata 
ad 
attingere 
da 
graduatorie 
di 
procedure 
selettive 
interne, 
che 
siano 
state 
approvate 
prima 
o 
dopo 
l’entrata 
in 
vigore 
del 
d.lgs. 
27 
ottobre 
2009, 
n. 
150, 
pena 
l’illegittimità 
dell’azione 
amministrativa 
per 
violazione 
di 
legge 
(Cons. 
Stato, 
Sez. 
IV, 
27 
febbraio 
2018, 
n. 
1188; 


(*) Procuratore dello Stato, referente Distrettuale della “rassegna 
Avvocatura dello Stato”. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Corte 
conti, 
Sez. 
contr. 
Sicilia, 
30 
settembre 
2015, 
n. 
265; 
Corte 
cost. 
n. 
90/2012). 


In sintesi, il 
d.lgs. cit. ha 
definitivamente 
abolito la 
possibilità 
di 
ricorso 
alle 
selezioni 
interne 
per la 
progressione 
verticale 
ed ha 
introdotto (ex 
artt. 24 
e 
62 d.lgs. 27 ottobre 
2009, n. 150), a 
partire 
dal 
1° 
gennaio 2010, l’obbligo 
della 
copertura 
integrale 
dei 
posti 
disponibili 
tramite 
concorso pubblico, prevedendo 
la 
sola 
facoltà 
di 
riservarne 
fino al 
50% al 
personale 
interno dotato 
dei requisiti richiesti dal bando. 

né 
si 
potrebbe 
affermare 
che 
le 
citate 
disposizioni 
del 
d.lgs. cit. abbiano 
trovato 
indebita 
applicazione 
retroattiva, 
in 
quanto 
gli 
artt. 
24 
e 
62 
cit., 
pur 
non in vigore 
al 
momento dell’indizione 
della 
selezione 
interna, erano pienamente 
in vigore al momento dell’approvazione delle graduatorie. 


Invero, 
nella 
fattispecie 
in 
esame 
non 
era 
in 
contestazione 
il 
diritto 
dei 
vincitori 
all’assunzione, 
bensì 
il 
diverso 
interesse 
degli 
idonei 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria, sicché 
la 
legge 
applicabile 
è 
quella 
vigente 
al 
momento in 
cui 
è 
sorta 
l’esigenza 
di 
copertura 
dei 
posti 
(Cons. Stato, Sez. IV, 27 febbraio 
2018, n. 1188). 


D’altronde, 
con 
la 
Circolare 
n. 
5/2013, 
il 
Dipartimento 
della 
Funzione 
Pubblica 
ha 
chiarito che 
«il 
fatto che 
la lettera b) del 
comma 3 dell’articolo 4 
del 
d.l. 101/2013 richiami 
le 
“proprie 
graduatorie 
vigenti 
e 
approvate 
a partire 
dal 
1° 
gennaio 2007” 
senza precisare, come 
invece 
fa la lettera a) della 
stessa 
disposizione 
che 
le 
graduatorie 
siano 
quelle 
“di 
concorsi 
pubblici’, 
non 
è 
dirimente 
rispetto 
alla 
possibilità 
di 
scorrere 
graduatorie 
relative 
a 
progressioni 
verticali 
bandite 
sulla base 
della disciplina normativa previgente 
al 
decreto 
legislativo 27 ottobre 
2009, n. 150, ai 
fini 
dell’assunzione 
dei 
candidati 
idonei. Una lettura sistematica impone 
il 
richiamo all’articolo 52, comma 1bis, 
del 
d.lgs. 
165/2001, 
così 
come 
modificato 
ed 
integrato 
dall’articolo 
62 
del 
d.lgs. 150/2009 … 
Dunque, resta fermo il 
principio che, per 
effetto del 
richiamato 
articolo 24, comma 1, del 
d.lgs. 150/2009, l’utilizzo delle 
graduatorie 
relative 
ai 
passaggi 
di 
area banditi 
anteriormente 
al 
1° 
gennaio 2010, 
in 
applicazione 
della 
previgente 
disciplina 
normativa, 
è 
consentito 
al 
solo 
fine 
di 
assumere 
i 
candidati 
vincitori 
e 
non anche 
gli 
idonei 
della procedura selettiva. 
Peraltro, 
per 
l’individuazione 
dell’ambito 
oggettivo 
di 
applicazione 
della 
norma del 
predetto comma 3, lettera b) può essere, altresì, indicativa la disposizione 
contenuta 
nel 
comma 
4 
dello 
stesso 
articolo 
4 
del 
d.l. 
101/2013 
che 
proroga 
‘l’efficacia 
delle 
graduatorie 
dei 
concorsi 
pubblici 
per 
assunzioni 
a tempo indeterminato’ 
con evidente 
esclusione 
delle 
graduatorie 
relative 
a 
concorsi non pubblici». 


Secondo 
una 
prospettazione 
condivisa 
dalla 
sentenza 
in 
analisi, 
deve 
dunque 
-trovare 
applicazione 
la 
normativa 
vigente 
nel 
momento in cui 
si 
pretende 
di 
realizzare 
lo scorrimento medesimo (così 
Cass., Sez. un., 2 ottobre 
2012, 
n. 
16728); 
con 
la 
conseguenza 
che, 
una 
volta 
che 
l’Amministrazione 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


abbia 
assunto 
la 
decisione 
di 
coprire 
il 
posto 
attingendo 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria, 
tale 
decisione 
risulta 
equiparabile, 
nella 
sostanza, 
all’espletamento 
di tutte le fasi di una procedura concorsuale. 


Pertanto, con la 
delibera 
di 
procedere 
allo scorrimento si 
riattiva 
l’intera 
sequenza 
concorsuale, ma, inevitabilmente, occorre 
considerare 
i 
requisiti 
di 
validità 
vigenti 
al 
momento 
della 
determinazione 
assunta 
dall’amministrazione. 


ne 
discende 
che 
lo 
ius 
superveniens, 
costituito 
dalle 
limitazioni 
introdotte 
con il 
d.lgs. 27 ottobre 
2009, n. 150, ai 
concorsi 
riservati 
al 
personale 
interno, 
risulta 
preclusivo dell’asserito diritto vantato dai 
dipendenti 
allo scorrimento 
della graduatoria. 


Inoltre, 
la 
Suprema 
Corte 
richiama 
anche 
quel 
condivisibile 
orientamento 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
secondo 
il 
quale 
«dopo 
il 
1° 
gennaio 
2010, non sono più previste 
le 
progressioni 
verticali 
riservate 
agli 
interni 
e 
quindi 
non 
è 
più 
consentito 
nemmeno 
lo 
scorrimento 
delle 
graduatorie 
relative 
a 
procedure 
per 
progressioni 
verticali 
interamente 
riservate 
ai 
dipendenti, 
con 
la conseguenza che 
tali 
graduatorie 
sono escluse 
dall’ambito di 
applicazione 
delle 
norme 
che 
nel 
tempo hanno disposto la proroga legale 
dell’efficacia e 
che, 
dal 
1° 
gennaio 
2010, 
dall’inserimento 
come 
idonei 
in 
tali 
graduatorie 
non può più discendere 
alcuna legittima aspettativa» (Cons. Stato, 16 agosto 
2021, n. 5884). 


Pertanto, 
anche 
nella 
giurisprudenza 
civile 
di 
legittimità 
risulta 
ormai 
scolpito il 
principio secondo cui 
il 
potere 
di 
scorrimento della 
graduatoria 
riguarda 
esclusivamente 
i 
pubblici 
concorsi 
e 
non le 
selezioni 
riservate, come 
i 
concorsi 
interni. Il 
principio della 
preferenza 
per lo scorrimento della 
graduatoria 
non può applicarsi 
al 
caso in cui 
la 
graduatoria 
degli 
idonei 
non sia 
stata 
approvata 
all’esito 
del 
concorso 
pubblico, 
ma 
di 
una 
selezione 
interna; 
infatti, 
la 
disomogeneità 
tra 
i 
due 
termini 
di 
comparazione 
(progressione 
verticale 
in 
base 
a 
procedura 
interna 
e 
pubblico concorso) non permette 
di 
derogare 
alla 
regola 
del 
concorso pubblico, così 
impedendo il 
ricorso alla 
facoltà 
di 
scorrimento. 


Inoltre, 
giova 
ribadire 
che, 
nel 
pubblico 
impiego 
contrattualizzato, 
anche 
ai 
fini 
della 
selezione 
interna 
per l’accesso a 
posti 
superiori 
vacanti, la 
scelta 
dell’amministrazione 
di 
utilizzare 
le 
graduatorie 
degli 
idonei 
per scorrimento 
non 
costituisce 
un 
diritto 
soggettivo 
degli 
stessi, 
ma 
postula 
sempre 
l’esercizio 
prioritario di 
una 
discrezionalità 
della 
P.A. nel 
coprire 
il 
posto o la 
posizione 
disponibile, ove 
un obbligo in tal 
senso non sia 
contemplato dalla 
contrattazione 
collettiva o dal bando (Cass., 16 gennaio 2024, n. 1674). 


risulta 
dato ormai 
acquisito che 
l’oggettiva 
disponibilità 
e 
la 
vacanza 
di 
posti 
in 
organico 
non 
generino 
automaticamente 
un 
diritto 
soggettivo 
pieno 
all’assunzione 
mediante 
scorrimento della 
graduatoria 
degli 
idonei 
di 
un pubblico 
concorso. 


COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


L’Amministrazione 
non 
è, 
infatti, 
tenuta 
alla 
copertura 
incondizionata 
dei 
posti 
vacanti 
o 
disponibili, 
dovendo 
assumere 
una 
decisione 
organizzativa 
complessa, 
nell’ambito 
della 
quale 
vengono 
considerati 
anche 
eventuali 
limiti 
normativi 
alle 
assunzioni, alla 
disponibilità 
di 
bilancio, alle 
scelte 
programmatiche 
compiute 
dagli 
organi 
di 
indirizzo e 
a 
tutti 
gli 
altri 
elementi 
di 
fatto e 
di diritto rilevanti nella situazione concreta. 

Anche 
il 
Consiglio di 
Stato (Sez. III, 27 novembre 
2017, n. 5559) ha 
affermato 
che, non avendo l’Amministrazione 
il 
dovere 
di 
attingere 
dalla 
graduatoria 
precedentemente 
stilata 
per 
coprire 
i 
posti 
vacanti, 
di 
riflesso 
l’idoneo 
non vincitore 
di 
un concorso pubblico non 
vanta 
una 
posizione 
di 
diritto, ma 
di 
mera 
aspettativa 
all’assunzione, 
«atteso 
che 
l’Amministrazione 
conserva 
un’ampia 
discrezionalità 
ed 
ha 
una 
semplice 
facoltà, 
e 
non 
un 
obbligo, 
di 
procedere 
allo scorrimento della graduatoria, potendo ritenere 
non prioritaria 
la 
copertura 
del 
posto 
o, 
del 
pari, 
ravvisare 
ragioni 
nel 
senso 
dell’espletamento 
di 
un nuovo concorso, ovvero della soppressione 
della posizione 
in organico. 
Detta discrezionalità appare 
scevra di 
connotati 
di 
natura tecnica, il 
che 
non 
consente 
di 
restringere 
sulla 
base 
di 
parametri 
tecnici 
lo 
spettro 
delle 
variabili 
che 
possono motivarla o dei 
limiti 
entro i 
quali 
la stessa può essere 
esercitata». 


Pertanto, 
la 
pronuncia 
in 
commento 
perviene 
alla 
conclusione 
secondo 
cui 
la 
posizione 
giuridica 
dei 
controricorrenti 
non 
poteva 
ritenersi 
definita 
quale 
diritto quesito allorché 
era 
entrato in vigore 
il 
d.lgs. 27 ottobre 
2009, n. 
150, 
dal 
momento 
che, 
all’epoca, 
mancava 
l’autorizzazione 
ad 
attuare 
l’assunzione 
(quale 
necessario presupposto di 
essa) e 
la 
graduatoria 
non era 
stata 
ancora 
approvata, 
«cosicché 
lo 
ius 
superveniens 
non 
ha 
modificato 
la 
posizione 
giuridica di 
coloro che 
si 
erano posizionati 
oltre 
le 
posizioni 
già autorizzate, 
poiché 
gli 
stessi 
non 
avevano 
ancora 
maturato 
alcun 
diritto 
soggettivo». 


Peraltro, 
va 
sottolineato 
che 
anche 
il 
diritto 
del 
candidato 
vincitore 
ad 
assumere 
l’inquadramento 
previsto 
dal 
bando 
di 
concorso 
è 
subordinato 
alla 
permanenza, 
al 
momento 
dell’adozione 
del 
provvedimento 
di 
nomina, 
dell’assetto 
organizzativo degli 
uffici 
in forza 
del 
quale 
il 
bando è 
stato emesso, «sicché, 
nel 
caso in cui 
detto assetto sia mutato a causa dello ius 
superveniens, l’amministrazione 
ha il 
potere-dovere 
di 
bloccare 
i 
provvedimenti 
dai 
quali 
possano 
derivare 
nuove 
assunzioni 
che 
non 
corrispondano 
più 
alle 
oggettive 
necessità 
di 
incremento 
del 
personale, 
quali 
valutate 
prima 
della 
modifica 
del 
quadro normativo, in base all’art. 97 Cost.». 


ne 
consegue 
l’accoglimento del 
ricorso e 
il 
rigetto della 
domanda 
proposta 
in primo grado dai controricorrenti. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Corte 
di 
Cassazione, sezione 
Lavoro, ordinanza 28 maggio 2024 n. 14919 -Pres. A. Di 
Paoloantonio, 
Rel. 
F. 
rolfi 
-Ministero 
Beni 
Attività 
Culturali 
Turismo 
(avv. 
gen. 
Stato) 
c. 
omissis 
ed altri (avv.ti G. Torcicollo, M. Clemente); nonché contro omissis, omissis. 


rITEnuTO In FATTO 


1. 
Con 
sentenza 
n. 
460/2019, 
pubblicata 
il 
28 
maggio 
2019, 
la 
Corte 
d’appello 
di 
Bologna, 
nella 
regolare 
costituzione 
degli 
appellati 
omissis 
ed altri, omissis, omissis, ha 
respinto il 
gravame 
proposto dal 
Ministero dei 
Beni 
e 
delle 
Attività 
Culturali 
e 
del 
Turismo (di 
seguito MIBACT) 
avverso la 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Bologna 
n. 705/2018, la 
quale 
aveva 
accolto la 
domanda 
dei 
lavoratori, 
volta 
ad 
ottenere 
l’inquadramento 
nella 
Area 
III, 
posizione 
economica 
F1, nel rispettivo profilo professionale. 
2. I dipendenti 
del 
MIBACT, infatti, avevano adito il 
Tribunale 
di 
Bologna, riferendo di 
avere 
partecipato ai 
corsi-concorsi 
per titoli 
ed esami 
per i 
passaggi 
interni 
dalla 
Area 
B alla 
Area 
C, ai 
sensi 
dell’art. 15, comma 
1, lett. a), CCnL 
Comparti 
Ministeri 
1998-2001 e 
di 
essere 
risultati 
tutti 
idonei 
nelle 
graduatorie 
a 
fronte 
del 
numero 
di 
posti 
utili 
a 
bando 
autorizzati, 
e cioè 460 unità rispetto alle 920 programmate. 
Avevano dedotto l’inadempimento del 
MIBACT, in quanto quest’ultimo non aveva 
proceduto 
allo 
scorrimento 
delle 
graduatorie 
alla 
luce 
sia 
dell’entrata 
in 
vigore 
dell’art. 
62, 
comma 
1, D.Lgs. n. 150/2009 sia 
del 
diniego di 
autorizzazione 
da 
parte 
degli 
organi 
di 
controllo alla 
copertura dei restanti 460 posti banditi. 


3. La Corte d’appello, nel decidere il gravame, ha: 
-disatteso il 
gravame 
con il 
quale 
veniva 
nuovamente 
eccepito il 
difetto di 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario, rilevando che 
nella 
specie 
non era 
contestato l’esercizio del 
potere 
amministrativo 
o la 
scelta 
operata 
dall’Amministrazione 
in merito alle 
modalità 
di 
copertura 
dei 
posti né il bando di concorso o il diritto all’assunzione; 
-osservato, 
quanto 
al 
secondo 
motivo 
di 
gravame, 
che 
l’art. 
24, 
comma 
1, 
D.Lgs. 
n. 
150/2009, nell’imporre 
il 
ricorso ai 
concorsi 
secondo quanto previsto dall’art. 52, comma 
1bis, 
D.Lgs. n. 165/2001 (introdotto dall’art. 62 dello stesso D.Lgs. n. 150/2009) non poteva 
incidere 
sulla 
fattispecie 
concreta 
in quanto la 
decisione 
di 
procedere 
alla 
copertura 
dei 
posti 
disponibili 
mediante 
scorrimento era 
stata 
assunta 
dal 
MIBACT 
prima 
dell’entrata 
in vigore 
della 
disposizione 
in 
questione, 
essendo 
avvenuta 
già 
in 
base 
ai 
bandi 
ed 
agli 
accordi 
del 
2007. 


ha 
quindi 
concluso 
la 
Corte 
territoriale 
che 
la 
procedura 
selettiva 
doveva 
ritenersi 
soggetta 
alla 
disciplina 
anteriore 
al 
D.Lgs. n. 150/2009, irrilevante 
essendo la 
circostanza 
che 
le 
graduatorie 
fossero state approvate dopo l’entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 150/2009. 


4. Per la 
cassazione 
della 
sentenza 
della 
Corte 
d’appello di 
Bologna 
ricorre 
il 
Ministero 
dei Beni e delle 
Attività Culturali e del 
Turismo. 
resistono con controricorso omissis, ed altri. 
Sono rimasti intimati 
omissis, omissis. 


5. La 
trattazione 
del 
ricorso è 
stata 
fissata 
in camera 
di 
consiglio, a 
norma 
degli 
artt. 375, 
secondo comma, e 380-bis 
1, c.p.c. 
COnSIDErATO In DIrITTO 


1. Il ricorso è affidato a due motivi. 
1.1. Con il 
primo motivo il 
ricorso deduce, in relazione 
all’art. 360, n. 3, c.p.c., la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’art. 
2697 
c.c., 
nonché 
degli 
artt. 
416, 
terzo 
comma, 
e 
115 
c.p.c. 
Argomenta, in particolare, il 
ricorso che 
la 
Corte 
territoriale 
avrebbe 
erroneamente 
ritenuto 
provate 
circostanze 
in relazione 
alle 
quali 
invece 
gli 
originari 
ricorrenti 
non avrebbero 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


assolto l’onere 
della 
prova, “non potendosi 
considerare 
sufficienti 
alla prova del 
diritto sole 
supposte 
mancate 
contestazioni, da parte 
del 
Ministero resistente, su circostanze 
che, oltre 
a 
non 
essere 
da 
sole 
sufficienti 
a 
provare 
la 
spettanza 
del 
diritto 
controverso, 
non 
era 
necessario 
che il Ministero contestasse”. 


1.2. Con il 
secondo motivo il 
ricorso deduce, in relazione 
all’art. 360, n. 3, c.p.c., la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 24 e 
62, D.Lgs. n. 150/2009; 
27, comma 
1, n. 7, Legge 
n. 93/1983; 35, D.Lgs. n. 165/2001; 1, commi 342 e 362, Legge n. 145/2018. 
Deduce, in sintesi, il 
ricorso che 
la 
Corte 
territoriale 
avrebbe 
errato nell’affermare 
che 
le 
nuove 
previsioni 
introdotte 
dal 
D.Lgs. n. 150/2009 non avevano comportato l’impossibilità, 
a 
decorrere 
dal 
10 gennaio 2010, di 
coprire 
posti 
ulteriori 
rispetto a 
quelli 
già 
autorizzati 
nel-
l’ambito di 
procedure 
concorsuali 
interne 
per il 
passaggio di 
area 
già 
avviate, attraverso l’utilizzo 
dello “scorrimento” delle graduatorie redatte a seguito delle procedure medesime. 


Argomenta, invece, che, per effetto del 
nuovo intervento normativo, dette 
procedure 
dovevano 
ritenersi 
non più conformi 
alla 
disciplina 
di 
legge, con conseguente 
preclusione 
alla 
possibilità 
di 
coprire 
posti 
ulteriori 
-rispetto a 
quelli 
per i 
quali 
erano già 
state 
avviate 
le 
procedure 
secondo la 
previgente 
disciplina 
-attraverso lo scorrimento di 
graduatorie 
formate 
a 
seguito di procedura selettiva interna e non attraverso concorso pubblico esterno. 


2. Il 
secondo motivo, che 
va 
esaminato con priorità 
in quanto logicamente 
e 
giuridicamente 
preliminare, è 
fondato, in quanto la 
pronuncia 
impugnata 
non è 
conforme 
ai 
principi 
di 
diritto 
enunciati 
da 
plurime 
decisioni 
di 
questa 
Corte, 
cui 
si 
rinvia, 
ai 
sensi 
dell’art. 
118 
disp. 
att. 
proc. 
civ. 
anche 
per 
la 
completa 
ricostruzione 
della 
vicenda 
(in 
particolare, 
fra 
molte, 
Cass. Sez. L, 16 gennaio 2024, n. 1674). 
In questa 
sede 
giova 
ribadire 
che, nel 
pubblico impiego contrattualizzato, anche 
ai 
fini 
della 
selezione 
interna 
per l’accesso a 
posti 
superiori 
vacanti, la 
scelta 
dell’amministrazione 
di 
utilizzare 
le 
graduatorie 
degli 
idonei 
“per 
scorrimento” 
non 
costituisce 
un 
diritto 
soggettivo 
degli 
stessi, ma 
postula 
sempre 
l’esercizio prioritario di 
una 
discrezionalità 
della 
P.A. nel 
coprire 
il 
posto o la 
posizione 
disponibile, ove 
un obbligo in tal 
senso non sia 
contemplato dalla 
contrattazione 
collettiva 
o dal 
bando (così, Cass. Sez. L, n. 1674 del 
2024, cit., che 
richiama 
“i 
principi, 
consolidati 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte, 
ben 
riassunti 
nella 
motivazione 
di 
Cass. n. 19006 del 2010” e successive pronunce conformi pure ivi indicate). 


ne 
consegue 
che 
la 
posizione 
giuridica 
degli 
odierni 
controricorrenti 
ed intimati 
non poteva 
ritenersi 
definita 
quale 
diritto quesito allorché 
era 
entrato in vigore 
il 
decreto legislativo 


n. 
150 
del 
2009, 
dal 
momento 
che 
all’epoca 
mancava 
l’autorizzazione 
ad 
attuare 
l’assunzione 
(quale 
necessario 
presupposto 
di 
essa) 
e 
la 
graduatoria 
non 
era 
stata 
ancora 
approvata; 
cosicché 
lo 
ius 
superveniens 
non 
ha 
modificato 
la 
posizione 
giuridica 
di 
coloro 
che 
si 
erano 
posizionati 
oltre 
le 
posizioni 
già 
autorizzate, poiché 
gli 
stessi 
non avevano ancora 
maturato alcun diritto 
soggettivo (in tal senso, Cass. Sez. L, n. 1674 del 2024 cit.). 
Peraltro, va 
sottolineato che 
anche 
il 
diritto del 
candidato vincitore 
ad assumere 
l’inquadramento 
previsto 
dal 
bando 
di 
concorso 
è 
subordinato 
alla 
permanenza, 
al 
momento 
del-
l’adozione 
del 
provvedimento di 
nomina, dell’assetto organizzativo degli 
uffici 
in forza 
del 
quale 
il 
bando è 
stato emesso, sicché, nel 
caso in cui 
detto assetto sia 
mutato a 
causa 
dello ius 
superveniens, 
l’amministrazione 
ha 
il 
potere-dovere 
di 
bloccare 
i 
provvedimenti 
dai 
quali 
possano derivare 
nuove 
assunzioni 
che 
non corrispondano più alle 
oggettive 
necessità 
di 
incremento 
del 
personale, quali 
valutate 
prima 
della 
modifica 
del 
quadro normativo, in base 
all’art. 
97 Cost. (così ancora Cass. Sez. L, n. 1674 del 2024 cit. e precedenti ivi richiamati). 


A 
maggior 
ragione 
questi 
principi 
valgono 
in 
tema 
di 
scorrimento, 
perché 
è 
la 
natura 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


stessa 
di 
quest’ultimo che 
porta 
a 
ritenere 
applicabile 
la 
normativa 
vigente 
nel 
momento in 
cui 
si 
pretende 
di 
realizzare 
lo scorrimento medesimo (così 
Cass. Sez. u, 2 ottobre 
2012, n. 
16728); 
con la 
conseguenza 
che, una 
volta 
che 
l’amministrazione 
abbia 
assunto la 
decisione 
di 
coprire 
il 
posto attingendo allo scorrimento della 
graduatoria, tale 
decisione 
risulta 
equiparabile, 
nella 
sostanza, 
all’espletamento 
di 
tutte 
le 
fasi 
di 
una 
procedura 
concorsuale, 
con 
identificazione 
degli 
ulteriori 
vincitori, ancorché 
mediante 
l’utilizzazione 
dell’intera 
sequenza 
di 
atti 
apertasi 
con 
il 
bando 
originario, 
recante 
la 
c.d. 
lex 
specialis 
del 
concorso, 
e 
conclusasi 
con 
l’approvazione 
della 
graduatoria, 
che 
individua 
i 
soggetti 
da 
assumere 
(così, 
ancora, 
Cass. 
Sez. u. n. 16728 del 2012, cit.). 


Pertanto, con la 
delibera 
di 
procedere 
allo scorrimento si 
riattiva 
l’intera 
sequenza 
concorsuale, 
ma, inevitabilmente, occorre 
considerare 
i 
requisiti 
di 
validità 
vigenti 
al 
momento 
della determinazione assunta dall’amministrazione. 


In 
consequenzialità 
logico-giuridica 
con 
le 
precedenti 
considerazioni, 
occorre 
qui 
chiarire 
che 
lo ius 
superveniens, costituito dalle 
limitazioni 
introdotte 
con il 
D.Lgs. n. 150 del 
2009 
ai 
concorsi 
riservati 
al 
personale 
interno, risulta 
preclusivo dell’asserito diritto vantato dai 
dipendenti 
allo scorrimento della graduatoria. 


Infatti, giova 
richiamare 
l’art. 24 del 
D.Lgs. n. 150 del 
2009, nella 
versione 
applicabile 
ratione 
temporis, prima 
delle 
modifiche 
apportate 
con il 
D.Lgs. n. 74 del 
2017: 
“Ai 
sensi 
del-
l’articolo 52, comma 
1-bis, del 
decreto legislativo n. 165 del 
2001, come 
introdotto dall’articolo 
62 del 
presente 
decreto, le 
amministrazioni 
pubbliche, a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 2010, 
coprono i 
posti 
disponibili 
nella 
dotazione 
organica 
attraverso concorsi 
pubblici, con riserva 
non superiore 
al 
cinquanta 
per cento a 
favore 
del 
personale 
interno, nel 
rispetto delle 
disposizioni 
vigenti in materia di assunzioni”. 


La 
disposizione 
esclude 
la 
legittimità 
del 
ricorso all’assunzione 
attingendo a 
graduatorie 
di 
concorsi 
riservati 
ad interni 
banditi 
anteriormente 
al 
2010 proprio perché 
la 
normativa 
sopravvenuta 
è 
intesa 
a 
limitare 
le 
possibilità 
di 
coprire 
i 
posti 
disponibili 
con 
personale 
interno, 
recependo le 
sollecitazioni 
provenienti 
dalla 
Corte 
costituzionale 
in ordine 
alla 
piena 
attuazione 
del 
principio di 
cui 
all’art. 97 Cost. (in particolare, già 
con le 
sentenze 
nn. 333 del 
1993 
e 313 del 1994). 


In tal 
senso, come 
già 
ritenuto da 
questa 
Corte 
(Cass. Sez. L, 17 maggio 2024, n. 13757), 
è 
condivisibile 
il 
consolidato orientamento espresso in proposito dal 
giudice 
amministrativo, 
che, 
in 
ragione 
della 
normativa 
sopravvenuta 
(secondo 
cui 
la 
progressione 
dei 
pubblici 
dipendenti 
tra 
le 
aree 
può avvenire 
solo in base 
ad un concorso pubblico, con riserva 
di 
posti 
al 
personale 
interno 
fino 
al 
massimo 
del 
50% 
di 
quelli 
messi 
a 
disposizione), 
ha 
ritenuto 
che 
“dopo il 
1° 
gennaio 2010, non sono più previste 
le 
progressioni 
verticali 
riservate 
agli 
interni 
e 
quindi 
non è 
più consentito nemmeno lo scorrimento delle 
graduatorie 
relative 
a 
procedure 
per 
progressioni 
verticali 
interamente 
riservate 
ai 
dipendenti, 
con 
la 
conseguenza 
che 
tali 
graduatorie 
sono escluse 
dall’ambito di 
applicazione 
delle 
norme 
che 
nel 
tempo hanno disposto 
la 
proroga 
legale 
dell’efficacia 
e 
che, dal 
1° 
gennaio 2010, dall’inserimento come 
idonei 
in 
tali 
graduatorie 
non 
può 
più 
discendere 
alcuna 
legittima 
aspettativa” 
(così 
Cons. 
St. 
16 
agosto 
2021, 
n. 
5884 
e 
precedenti 
conformi 
ivi 
richiamati), 
giungendo 
a 
configurare 
un 
“divieto” 
per 
le 
amministrazioni 
di 
coprire 
i 
posti 
a 
suo tempo sottoposti 
a 
procedura 
riservata 
(così, Cons. 
St. 25 giugno 2018, n. 3897). 


Tale 
approdo 
ermeneutico 
risulta 
ulteriormente 
avvalorato 
dalla 
considerazione 
che 
il 
D.Lgs. n. 150 del 
2009 non ha 
previsto uno specifico regime 
transitorio che 
valesse 
a 
salvaguardare 
le 
graduatorie 
dei 
concorsi 
interni 
avviati 
antecedentemente 
all’entrata 
in 
vigore 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


della 
riforma, sicché, anche 
sotto questo profilo, l’interpretazione 
adottata 
nella 
sentenza 
impugnata 
non può essere ricevuta. 


Pertanto, poiché 
è 
pacifico che 
la 
selezione 
per la 
quale 
gli 
odierni 
controricorrenti 
ed intimati 
hanno invocato lo scorrimento non consentiva 
la 
partecipazione 
di 
candidati 
esterni, 
occorre 
concludere 
per la 
fondatezza 
del 
motivo di 
gravame, con conseguente 
assorbimento 
della prima censura. 


3. 
Pertanto, 
in 
accoglimento 
del 
ricorso, 
la 
sentenza 
impugnata 
deve 
essere 
cassata 
e, 
non 
essendo 
necessari 
ulteriori 
accertamenti 
di 
fatto, 
la 
causa 
va 
decisa 
nel 
merito 
ai 
sensi 
dell’art. 
384, 
secondo 
comma, 
cod. 
proc. 
civ. 
con 
il 
rigetto 
della 
domanda 
proposta 
in 
primo 
grado 
dai 
controricorrenti ed intimati. 
4. Quanto alle 
spese 
processuali, le 
stesse 
possono essere 
compensate 
limitatamente 
ai 
gradi 
di 
merito, attesa 
la 
novità 
della 
questione 
rispetto all’epoca 
di 
tali 
giudizi, mentre, in 
applicazione 
della 
regola 
della 
soccombenza, quanto al 
presente 
giudizio va 
disposta 
la 
condanna 
dei 
controricorrenti 
ed intimati 
in solido, ai 
sensi 
dell’art. 97 cod. proc. civ., stante 
la 
comunanza 
di 
interessi, desunta 
dalla 
identità 
delle 
questioni 
sollevate 
e 
dibattute 
(così 
Cass. 
Sez. 3, 17 ottobre 2016, n. 20916), al pagamento delle spese, liquidate come da dispositivo. 
P.Q.M. 


La Corte: 


accoglie 
il 
ricorso, 
cassa 
la 
sentenza 
impugnata 
e, 
decidendo 
nel 
merito, 
rigetta 
le 
domande 
proposte in primo grado dagli odierni controricorrenti ed intimati; 


compensa integralmente fra le parti le spese dei gradi di merito; 


condanna 
i 
controricorrenti 
e 
gli 
intimati 
in solido al 
pagamento, in favore 
del 
ricorrente, 


delle 
spese 
del 
giudizio di 
legittimità, che 
liquida 
in Euro 7.000,00 per compensi, oltre 
alle 
spese prenotate a debito. 
Così deciso in roma, nell’adunanza camerale in data 10 maggio 2024. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


termine per l’aggiornamento dell’interdittiva antimafia 


CONSIGLIO 
DI 
STATO, SEZIONE 
TERZA, SENTENZA 
8 MARZO 
2024 N. 2260; 
CONSIGLIO 
DI 
STATO, SEZIONE 
TERZA, SENTENZA 
7 MARZO 
2024 N. 2213 


Con 
sentenza 
dell’8 
marzo 
2024, 
n. 
2260, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
respinto 
l’appello 
proposto 
dal 
Ministero 
dell’Interno 
per 
tentare 
di 
contrastare 
l’orientamento 
del 
T.a.r. Campania 
in tema 
di 
condanna 
alle 
spese 
di 
lite 
in caso di 
silenzio per effetto del 
superamento del 
termine 
di 
trenta 
giorni 
(invero non 
previsto) per l’aggiornamento delle 
informative 
antimafia 
ex 
art. 91, comma 
5 D.Lgs. 159/2011. 


Il 
Consiglio di 
Stato -pur riconoscendo che 
spetta 
al 
legislatore 
valutare 
la 
congruità 
dei 
termini 
procedimentali 
introdotti 
in via 
normativa 
e 
al 
potere 
esecutivo, a 
tanto facoltizzato dalla 
legge, la 
necessità 
o l’opportunità 
di 
allungare 
quei 
termini 
con le 
modalità 
e 
nei 
limiti 
di 
cui 
all’art. 2, commi 
3, 4 e 
5 della 
legge 
n. 241 del 
1990 ovvero di 
adottare 
le 
misure 
organizzative 
possibili 
per 
alleviare 
il 
peso 
degli 
uffici 
amministrativi 
preposti 
-ha 
applicato 
analogicamente 
il 
termine 
“base” 
fissato dall’art. 92, comma 
2 del 
codice 
antimafia, 
estensibile 
di 
ulteriori 
45 
giorni 
in 
caso 
di 
verifiche 
“di 
particolare 
complessità”, benché 
avesse 
premesso come 
l’obbligo di 
concludere 
i 
procedimenti 
amministrativi, fondamentale 
in un sistema 
amministrativo moderno, 
“non 
possa 
ritenersi 
sganciato 
dall’altrettanto 
fondamentale 
predeterminazione 
in via legale o regolamentare del relativo termine finale”. 


La 
sentenza 
pare, 
peraltro, 
in 
distonia 
con 
altra 
coeva 
sentenza 
della 
stessa 
sezione 
III del 
Consiglio di 
Stato del 
7 marzo 2024, n. 2213, (emessa 
in relazione 
ad un consorzio i 
cui 
soci 
erano imputati 
nell’ambito del 
processo c.d. 
mafia 
capitale) secondo la 
quale 
“il 
termine 
per 
l’aggiornamento non può ritenersi 
perentorio, in quanto la maggiore 
durata dell’istruttoria può derivare 
da molte e complesse ragioni”. 


Sarebbe 
utile 
una 
pronuncia 
sul 
punto 
dell’Adunanza 
Plenaria 
o 
un 
intervento 
normativo chiarificatore. 


Wally Ferrante* 


Consiglio di 
stato, sezione 
terza, sentenza 8 marzo 2023 n. 2260 -Pres. G. Ferrari, Est. 


P.L. Tomaiuoli - Min. Interno (avv. gen. Stato) c. omissis 
(n.c.). 
FATTO e DIrITTO 
1.- Il 
Ministero dell’interno ha 
proposto appello avverso la 
sentenza 
in epigrafe 
meglio indicata, 
con cui 
il 
T.a.r. Campania 
ha 
accolto il 
ricorso dell’odierna 
appellata 
volto all’accertamento 
del 
silenzio-inadempimento dell’Amministrazione 
sulla 
sua 
istanza 
di 
aggiornamento 


(*) Avvocato dello Stato. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


della 
informativa 
antimafia 
in precedenza 
adottata 
nei 
suoi 
confronti 
e 
alla 
conseguente 
condanna 
dell’Amministrazione a provvedere. 
1.1.- Il 
giudice 
di 
prima 
istanza 
ha, in primo luogo, ritenuto sussistente 
l’obbligo di 
provvedere, 
in forza 
dell’art. 91, comma 
5, ultimo periodo, del 
decreto legislativo 6 settembre 
2011, 


n. 
159 
(Codice 
delle 
leggi 
antimafia 
e 
delle 
misure 
di 
prevenzione, 
nonché 
nuove 
disposizioni 
in 
materia 
di 
documentazione 
antimafia, 
a 
norma 
degli 
articoli 
1 
e 
2 
della 
legge 
13 
agosto 
2010, 
n. 
136), 
ai 
sensi 
del 
quale 
il 
Prefetto, 
«anche 
sulla 
documentata 
richiesta 
dell’interessato, 
aggiorna 
l’esito dell’informazione 
al 
venir meno delle 
circostanze 
rilevanti 
ai 
fini 
dell’accertamento 
dei tentativi di infiltrazione mafiosa». 
In 
secondo 
luogo, 
il 
T.a.r. 
Campania 
ha 
ritenuto 
applicabile 
al 
procedimento 
in 
esame, 
«in 
mancanza 
di 
specifiche 
statuizioni 
normative», il 
«termine 
generale 
suppletivo» di 
30 giorni 
di 
cui 
all’art. 2, comma 
2, della 
legge 
7 agosto 1990, n. 241 (nuove 
norme 
in materia 
di 
procedimento 
amministrativo 
e 
di 
diritto 
di 
accesso 
ai 
documenti 
amministrativi), 
termine, 
questo, 
ampiamente decorso al momento della proposizione della domanda giudiziale. 
Secondo 
il 
primo 
giudice, 
peraltro, 
sarebbe 
stato 
superato 
anche 
«il 
termine 
di 
maggior 
favore» 
di 45 giorni di cui all’art. 92, comma 2, del citato codice antimafia, dettato per il rilascio «in 
via 
ordinaria» 
dell’informativa 
antimafia 
e 
in 
tesi 
applicabile 
analogicamente 
anche 
all’ipotesi 
del 
suo aggiornamento, fermo restando che 
l’attuale 
comma 
2-bis 
dell’art. 92 (per come 
sostituito 
dall’art. 48, comma 
1, lettera 
a, n. 2, del 
decreto legge 
6 novembre 
2021, n. 152, recante 
«Disposizioni 
urgenti 
per 
l’attuazione 
del 
Piano 
nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(Pnrr) 
e 
per la 
prevenzione 
delle 
infiltrazioni 
mafiose», convertito con modificazioni 
nella 
legge 
29 
dicembre 
2021, n. 233) stabilisce 
che 
la 
Prefettura 
di 
regola 
comunica 
i 
motivi 
ostativi 
all’accoglimento 
dell’istanza, con assegnazione 
di 
un termine 
non superiore 
a 
20 giorni 
per presentare 
osservazioni, 
disponendo 
che 
la 
comunicazione 
«sospende, 
con 
decorrenza 
dalla 
relativa data di invio, il termine di cui all’articolo 92, comma 2». 
nel 
caso 
di 
specie, 
dunque, 
stante 
l’ampio 
superamento 
dei 
termini 
sopra 
riferiti, 
il 
T.a.r. 
Campania 
ha 
accolto il 
ricorso, assegnando all’Amministrazione 
resistente 
90 giorni 
per provvedere 
e condannandola alle spese di lite. 
1.2.- Il 
Ministero appellante 
deduce, in primo luogo, la 
persistenza 
del 
suo interesse 
al 
gravame, 
anche 
a 
seguito dell’intervenuto aggiornamento dell’informativa 
che 
ha 
confermato la 
sussistenza 
del 
pericolo di 
infiltrazione 
mafiosa, quanto meno in ragione 
della 
condanna 
alle 
spese disposta in primo grado. 
nel 
merito, secondo l’appellante, la 
sentenza 
impugnata 
sarebbe 
errata 
poiché 
per il 
procedimento 
di 
aggiornamento delle 
informative 
antimafia 
la 
legge 
non prevedrebbe 
alcun termine 
finale. 
Afferma 
poi 
l’Avvocatura 
dello Stato che, «se 
si 
volessero applicare 
i 
termini 
ipotizzati 
dal 
T.a.r. 
Campania», 
«verrebbe 
meno 
quel 
margine 
temporale 
indispensabile 
per 
far 
svolgere 
alle 
Forze 
dell’Ordine 
le 
necessarie 
indagini, caratterizzate 
dallo spessore 
qualitativo necessario 
per 
il 
buon 
esito 
della 
relativa 
istruttoria», 
«stante 
la 
complessità 
e 
i 
tempi 
delle 
procedure 
istruttorie afferenti alla materia antimafia». 
Sottolinea 
al 
riguardo l’appellante 
che 
«la 
Prefettura 
non può addivenire 
ad alcuna 
determinazione, 
se 
non dopo aver acquisito compiutamente 
tutti 
gli 
elementi 
di 
informazione 
e 
valutazione 
da 
parte 
degli 
organi 
accertatori, 
cui 
deve 
aggiungersi, 
in 
casi 
analoghi 
a 
quello 
odierno, l’esame 
conclusivo, da 
effettuarsi 
nell’ambito dell’organismo interforze 
(GIA) istituito 
presso la Prefettura» medesima. 
Ancora, secondo il 
Ministero dell’interno, non si 
applicherebbe 
la 
legge 
n. 241 del 
1990, «in 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


quanto la 
normativa 
antimafia 
si 
configura 
come 
lex 
specialis, con proprie 
procedure 
e 
termini/
scadenze 
precipue», 
come 
sarebbe 
dimostrato 
dall’art. 
20, 
comma 
4, 
della 
medesima 
legge, secondo cui, «le 
disposizioni 
del 
presente 
articolo non si 
applicano agli 
atti 
o procedimenti 
riguardanti […] la pubblica sicurezza». 
L’appellante, 
infine, 
censura 
la 
statuizione 
relativa 
alla 
condanna 
alle 
spese, 
poiché 
«il 
protrarsi 
dei 
tempi 
istruttori 
non è 
dovuto a 
noncuranza 
o abbandono delle 
istruttorie 
medesime, né 
al 
fatto che 
si 
ritenga 
che 
il 
procedimento stesso non debba 
concludersi 
con un provvedimento 
espresso». 
2.- La 
parte 
appellata, regolarmente 
raggiunta 
dalla 
notifica 
dell’atto di 
gravame, non si 
è 
costituita. 
3.- Alla camera di consiglio del 29 febbraio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 
4.- Deve 
convenirsi, in via 
pregiudiziale, con l’appellante 
in ordine 
alla 
permanenza 
del 
suo 
interesse 
alla 
coltivazione 
del 
gravame 
anche 
in seguito alla 
sopravvenuta 
adozione 
del 
provvedimento 
di 
aggiornamento dell’informativa 
antimafia, e 
ciò non solo per la 
contestazione 
anche 
del 
capo relativo alle 
spese, che, come 
si 
dirà 
appresso, può essere 
oggetto di 
censura 
solo unitamente 
alle 
statuizioni 
di 
merito, ma 
anche 
e 
soprattutto perché 
l’appello dell’Amministrazione 
è 
finalizzato all’affermazione 
non già 
della 
insussistenza 
dell’obbligo di 
provvedere 
ma dell’inesistenza di un termine di conclusione del relativo procedimento. 
5.-nel 
merito, l’appello è 
infondato, ma 
la 
sentenza 
di 
primo grado deve 
essere 
integrata 
e 
parzialmente corretta con le seguenti considerazioni. 
6.- Deve 
escludersi, in primo luogo, che 
nell’attuale 
sistema 
normativo, l’obbligo di 
concludere 
i 
procedimenti 
amministrativi 
positivizzato dall’art. 2, comma 
1, della 
legge 
n. 241 del 
1990 
(«[o]ve 
il 
procedimento 
consegua 
obbligatoriamente 
ad 
un’istanza, 
ovvero 
debba 
essere 
iniziato 
d’ufficio, 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
hanno 
il 
dovere 
di 
concluderlo 
mediante 
l’adozione 
di 
un provvedimento espresso) e 
fondamentale 
in un sistema 
amministrativo moderno 
retto 
dai 
criteri 
di 
economicità, 
di 
efficacia, 
di 
imparzialità, 
di 
pubblicità 
e 
di 
trasparenza, 
oltre 
che 
ispirato al 
rispetto dei 
principi 
di 
collaborazione 
e 
buona 
fede 
reciproca 
tra 
amministrazione 
e 
cittadini, 
possa 
ritenersi 
sganciato 
dall’altrettanto 
fondamentale 
predeterminazione 
in 
via 
legale 
o regolamentare 
del 
relativo termine 
finale, come 
reso palese, del 
resto, dal 
tenore 
dell’art. 2, comma 
2, della 
medesima 
legge, in forza 
del 
quale, «[n]ei 
casi 
in cui 
disposizioni 
di 
legge 
ovvero i 
provvedimenti 
di 
cui 
ai 
commi 
3, 4 e 
5 non prevedono un termine 
diverso, 
i 
procedimenti 
amministrativi 
di 
competenza 
delle 
amministrazioni 
statali 
e 
degli 
enti 
pubblici 
nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni». 
A 
fronte, come 
nel 
caso di 
specie, della 
innegabile 
specificità 
e 
sensibilità 
di 
particolari 
interessi 
pubblici 
e 
privati 
coinvolti 
in alcuni 
procedimenti 
amministrativi 
e 
della 
evidente 
complessità 
della 
relativa 
istruttoria, il 
sistema 
positivo, dunque, consente 
non la 
pretermissione 
di 
un termine 
di 
conclusione 
del 
procedimento, che 
finirebbe 
per porre 
nel 
nulla 
la 
stessa 
obbligatorietà 
del 
provvedere, ma 
la 
sua 
individuazione, volta 
per volta, ad opera 
del 
legislatore 
in sede 
di 
regolamentazione 
della 
specifica 
attività 
amministrativa 
di 
settore, ovvero in via 
regolamentare 
con le 
modalità 
prefissate 
dalla 
stesso art. 2, commi 
3, 4 e 
5 della 
legge 
n. 241 
del 1990. 
Ciò posto in generale, è 
vero che 
l’art. 91, comma 
5, del 
codice 
antimafia, nell’occuparsi 
del-
l’aggiornamento 
dell’informativa 
antimafia 
non 
indica 
espressamente 
il 
termine 
di 
conclusione 
del 
procedimento, ma 
ciò, alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sopra 
svolte, non consente 
affatto di 
inferirne la sua assenza. 
Piuttosto, prima 
di 
ricorrere 
al 
termine 
residuale 
di 
trenta 
giorni 
cui 
all’art. 2, comma 
2, legge 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


n. 241 del 
1990 -stante 
la 
comunanza 
della 
sottesa 
ratio di 
rinvenire 
un adeguato punto di 
equilibrio tra 
i 
delicati 
e 
contrapposti 
interessi 
in gioco nella 
materia 
in esame 
-può e 
deve 
farsi 
applicazione, in via 
analogica, del 
termine 
per il 
procedimento “base” 
fissato dall’art. 
92, comma 
2, del 
codice 
antimafia 
in 30 giorni, estensibile 
di 
ulteriori 
45, in caso di 
verifiche 
«di particolare complessità». 
una 
volta 
ritenuto applicabile 
tale 
termine, deve 
poi 
considerarsi 
che 
-in seguito all’introduzione 
del 
contraddittorio 
procedimentale 
nel 
corpo 
dell’art. 
92, 
comma 
2-bis, 
del 
citato 
codice 
-il 
medesimo 
termine, 
proprio 
ai 
sensi 
del 
menzionato 
comma 
2-bis, 
può 
restare 
sospeso 
fino 
a 
60 
giorni, 
ove 
il 
prefetto 
comunichi 
gli 
elementi 
sintomatici 
del 
tentativo 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
all’impresa, 
assegnandole 
20 
giorni 
per 
presentare 
osservazioni 
scritte, 
eventualmente 
corredate da documenti, nonché per richiedere l’audizione. 
7.- La 
sezione 
non ignora 
né 
la 
delicatezza 
della 
materia 
che 
vede 
contrapposti 
il 
basilare 
interesse 
pubblico al 
non inquinamento criminale 
dei 
circuiti 
economici 
e 
sociali 
e 
i 
diritti 
costituzionali 
allo 
svolgimento 
dell’attività 
di 
impresa 
e 
al 
lavoro, 
né 
le 
innegabili 
difficoltà 
operative, 
specie 
di 
alcune 
amministrazioni 
periferiche, 
dovute 
alla 
forte 
compenetrazione 
del 
fenomeno 
mafioso 
in 
alcune 
realtà 
territoriali 
del 
Paese 
e 
alla 
limitatezza 
delle 
risorse 
umane ed economiche a disposizione delle amministrazioni medesime. 
Tali 
considerazioni, 
tuttavia, 
non 
possono 
portare 
allo 
stravolgimento 
dei 
principi 
cardine 
dell’attività 
amministrativa, ancor più quando essa 
fronteggia 
e 
si 
misura 
con diritti 
di 
rilevanza 
costituzionale. 
Spetta 
piuttosto al 
legislatore 
valutare 
la 
perdurante 
congruità 
dei 
termini 
procedimentali 
introdotti 
in via 
normativa 
e 
al 
potere 
esecutivo, a 
tanto facoltizzato dalla 
legge, la 
necessità 
o 
l’opportunità 
di 
allungare 
quei 
termini 
con le 
modalità 
e 
nei 
limiti 
di 
cui 
all’art. 2, commi 
3, 
4 e 
5, della 
legge 
n. 241 del 
1990, ovvero di 
adottare 
le 
misure 
organizzative 
possibili 
per alleviare 
il peso degli uffici amministrativi preposti. 
8.- Infondata, infine, come 
accennato al 
punto 4, è 
la 
doglianza 
volta 
a 
censurare 
la 
condanna 
alle 
spese, che, in quanto espressiva 
della 
discrezionalità 
di 
cui 
il 
giudice 
dispone 
in ogni 
fase 
del 
processo, può essere 
modificata 
in appello solo se 
è 
modificata 
la 
decisione 
principale 
e 
non è 
sindacabile, salvo manifesta 
abnormità 
(tra 
le 
tante, Consiglio di 
Stato, sezione 
terza, 
sentenza 
4 aprile 
2024, n. 173, sezione 
quinta, sentenza 
28 luglio 2023, n. 7398, e 
sezione 
quarta, sentenza 13 aprile 2017, n. 1752). 
9.- nulla per le spese, stante la non costituzione della parte appellata. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
sede 
giurisdizionale, 
sezione 
terza, 
definitivamente 
pronunciando 
sul-
l’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
nulla per le spese. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 
Sussistendo 
i 
presupposti 
di 
cui 
all’art. 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 
giugno 
2003, n. 196 (Codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali), e 
dell’art. 9, paragrafo 1, 
del 
regolamento (uE) 2016/679 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, 
relativo alla 
protezione 
delle 
persone 
fisiche 
con riguardo al 
trattamento dei 
dati 
personali, 
nonché 
alla 
libera 
circolazione 
di 
tali 
dati 
e 
che 
abroga 
la 
direttiva 
95/46/CE 
(regolamento 
generale 
sulla 
protezione 
dei 
dati), a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda alla segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità della parte appellata. 
Così deciso in roma, nella camera di consiglio del 29 febbraio 2024. 



rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Consiglio di 
stato, sezione 
terza, sentenza 7 marzo 2024 n. 2213 
-Pres. M.L. Torsello, 
Est. S. Santoleri 
-omissis 
(avv. M. Perrone) c. ufficio Territoriale 
del 
Governo roma, Ministero 
dell’Interno, 
Anac 
-Autorità 
nazionale 
Anticorruzione, 
ufficio 
Territoriale 
del 
Governo 


- Prefettura di roma (avv. gen. Stato). 
FATTO e DIrITTO 
1. -Il 
omissis, odierno appellante, è 
un consorzio costituito ai 
sensi 
della 
L. n. 381/1991 per 
l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nella stragrande maggioranza disabili. 
1.1 -Con provvedimento prot. n. omissis 
è 
stato colpito da 
interdittiva 
antimafia, in ragione 
della 
presenza 
nel 
omissis 
consortile 
di 
omissis, soggetto che 
nell’ambito dell’indagine 
nota 
come 
“Mafia 
Capitale” 
era 
stato destinatario di 
una 
ordinanza 
di 
custodia 
cautelare, emessa 
dal 
Tribunale 
Penale 
di 
roma, in relazione 
al 
reato di 
associazione 
di 
stampo mafioso ed altri 
reati collegati, aggravati dall’avere agito al fine di agevolare la predetta associazione. 
Il 
provvedimento si 
fondava 
sulle 
informazioni 
acquisite 
dagli 
organi 
di 
polizia 
in relazione 
al 
procedimento 
penale 
pendente 
presso 
il 
Tribunale 
di 
roma 
n.r.G. 
omissis, 
ed 
in 
particolare 
sulle 
informazioni 
acquisite 
dalla 
ordinanza 
cautelare 
n. omissis 
GIP 
Tribunale 
di 
roma 
ufficio 
VI, con cui 
erano state 
disposte 
misure 
cautelari 
personali 
e 
reali 
(anche) nei 
confronti 
di 
omissis: 
-per il 
reato di 
associazione 
mafiosa 
di 
cui 
all’art. 416 bis, commi 
1, 2, 4, 6, 8 c.p. per avere 
fatto parte 
di 
una 
associazione 
di 
stampo mafioso di 
cui 
è 
capo e 
organizzatore 
omissis, operante 
su roma 
e 
nel 
Lazio, che 
si 
avvale 
della 
forza 
di 
intimidazione 
derivante 
dal 
vincolo 
associativo e 
della 
condizione 
di 
assoggettamento e 
di 
omertà 
che 
ne 
deriva 
per commettere 
delitti 
di 
estorsione, di 
usura, di 
riciclaggio, di 
corruzione 
di 
pubblici 
ufficiali 
e 
per acquisire 
in modo diretto o indiretto la 
gestione 
e 
il 
controllo di 
attività 
economiche, di 
concessioni, 
autorizzazioni, appalti 
e 
servizi 
pubblici, con le 
aggravanti 
di 
essere 
l’associazione 
armata 
e 
dell’avere 
finanziato le 
attività 
economiche 
controllate 
con i 
proventi 
di 
delitti; 
il 
sig. omissis 
viene 
indicato quale 
punto di 
collegamento tra 
l’organizzazione 
e 
le 
istituzioni 
politiche, al 
fine 
di 
creare 
flussi 
finanziari 
illeciti 
e 
di 
contribuire 
alle 
operazioni 
corruttive 
e 
di 
alterazione 
delle gare pubbliche; 
-per i 
reati 
di 
cui 
agli 
artt. 353, 318, 319 e 
321 c.p., 12 quinquies 
L. 356/92 tutti 
con l’aggravante 
di 
cui 
all’art. 7 del 
D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. nella 
L. 12 luglio 1991 n. 203, 
per aver agito al 
fine 
di 
agevolare 
l’associazione 
di 
tipo mafioso indicata 
al 
capo 1) dell’ordinanza 
di custodia cautelare. 
In 
tale 
ordinanza 
il 
sig. 
omissis 
viene 
indicato 
quale 
“organo 
apicale” 
di 
una 
delle 
diverse 
articolazioni 
di 
mafia 
capitale, 
“Titolare 
di 
ruoli 
di 
gestione 
e 
controllo 
nelle 
cooperative 
che 
costituiscono 
lo 
strumento 
imprenditoriale 
attraverso 
cui 
viene 
realizzata 
l’attività 
del 
sodalizio 
nel 
settore 
economico, 
con 
precipuo 
riguardo 
ai 
rapporti 
con 
la 
pubblica 
amministrazione”. 
nell’ordinanza 
cautelare 
si 
afferma 
che 
le 
indagini 
svolte 
che 
hanno portato all’adozione 
del-
l’ordinanza 
di 
applicazione 
di 
misure 
cautelari 
“hanno consentito di 
acquisire 
gravi 
indizi 
di 
colpevolezza in ordine 
all’esistenza di 
una organizzazione 
criminale 
che 
siede 
a pieno titolo 
al 
tavolo 
di 
altre 
e 
più 
note 
consorterie 
criminali, 
condizionandone 
l’attività 
sul 
territorio 
romano, 
che 
ha piena consapevolezza di 
sé 
e 
del 
suo ruolo nella gestione 
degli 
affari 
illeciti 
della capitale”. 
Il 
sig. 
omissis 
era 
qualificato 
come 
consigliere 
del 
Consorzio 
omissis 
e 
quale 
“organo 
apicale” 
di una delle diverse articolazioni di “Mafia capitale”. 
Il 
Consorzio omissis, appresa 
la 
notizia 
del 
coinvolgimento di 
omissis 
nei 
fatti 
di 
cui 
ai 
pro

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


cedimenti 
penali, 
aveva 
immediatamente 
provveduto 
all’esclusione 
delle 
cooperative 
omissis 
e 
l’Assemblea 
dei 
soci, in data 
17 dicembre 
2012, aveva 
nominato il 
nuovo Consiglio di 
Amministrazione. 


2. -L’informazione 
interdittiva 
antimafia 
del 
17 dicembre 
2014 è 
stata 
impugnata 
dal 
Consorzio 
omissis 
con 
ricorso 
proposto 
dinanzi 
al 
T.a.r. 
Lazio, 
deducendo, 
in 
estrema 
sintesi, 
plurime 
censure 
con 
le 
quali 
aveva 
dedotto 
la 
carenza 
dei 
presupposti 
per 
l’adozione 
del 
provvedimento di 
interdizione 
antimafia 
anche 
alla 
luce 
dell’estromissione 
delle 
due 
cooperative 
coinvolte 
nelle 
indagini; 
il 
difetto 
di 
istruttoria 
e 
di 
motivazione 
ed 
il 
vizio 
di 
violazione 
di 
legge 
per aver esteso al 
consorzio le 
vicende 
che 
avevano colpito singole 
società 
non tenendo 
conto 
che, 
a 
mezzo 
di 
pronte 
misure 
espulsive, 
si 
era 
determinato 
volontariamente 
l’allontanamento 
delle 
imprese 
in 
pericolo 
di 
condizionamento 
malavitoso; 
l’inesistenza 
di 
provvedimenti 
di 
condanna 
anche 
non definitiva 
per reati 
strumentali 
all’attività 
delle 
organizzazioni 
criminali, 
non 
essendo 
sussistente 
alcun 
tentativo 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
all’interno 
del Consorzio omissis. 
2.1 -In data 
13 marzo 2015 il 
Prefetto di 
roma 
aveva 
adottato il 
provvedimento di 
straordinaria 
e 
temporanea 
gestione 
del 
Consorzio, 
ex 
art. 
32, 
comma 
1, 
lett. 
b) 
e 
comma 
10, 
d.l. 
90/2014, 
per 
garantire 
la 
prosecuzione 
delle 
prestazioni 
previste 
dal 
contratto 
con 
l’Asl 
roma 
C, dopo avere 
dato atto della 
emissione 
di 
una 
seconda 
informazione 
antimafia 
con provvedimento 
n. omissis 
del 16 febbraio 2015. 
Il 
Prefetto di 
roma 
ha 
nominato amministratore 
per la 
straordinaria 
e 
temporanea 
gestione 
il 
Dott. omissis 
il 
quale 
ha 
preso in carico il 
contratto d’appalto in essere 
con l’InAIL 
e 
quello 
con la 
ASL roma C. 
2.2 -Il 
Consorzio omissis, pertanto, ha 
proposto il 
primo atto per motivi 
aggiunti 
con il 
quale 
ha 
impugnato l’informazione 
antimafia 
prot. n. omissis 
del 
16 febbraio 2015 emessa 
dal 
Prefetto 
di roma ed il decreto di commissariamento. 
Inoltre, al 
fine 
di 
interporre 
la 
massima 
assoluta 
cesura 
tra 
tali 
elementi 
e 
qualsivoglia 
pur remoto 
rischio di 
contaminazione, il 
Consorzio omissis 
aveva 
provveduto (cfr. delibera 
9 dicembre 
2015) a rinnovare radicalmente la stessa organizzazione di 
governance 
con: 
- le dimissioni del Presidente 
omissis; 
- le dimissioni di tutti gli altri quattro consiglieri; 
-la 
costituzione 
di 
nuovo organo di 
gestione 
composto anche 
in drastica 
riduzione 
a 
tre 
componenti 
nelle persone di 
omissis; 
- la costituzione di nuovo organo di controllo (collegio sindacale) con professionisti esterni. 
2.3 -Tuttavia, nonostante 
tali 
modifiche, il 
Prefetto, con informativa 
prot. n. 309861 del 
30 
settembre 
2016, aveva 
negato l’aggiornamento in senso liberatorio sul 
presupposto che 
vi 
sarebbero 
stati 
comunque 
elementi 
di 
continuità 
rispetto 
alla 
governance 
in 
carica 
all’epoca 
della 
prima 
interdittiva; 
secondo il 
Prefetto, sarebbe 
stato persistente 
il 
rischio di 
condizionamento 
da parte dell’organizzazione “Mafia Capitale”. 
2.4 -Il 
Consorzio omissis 
ha 
impugnato, con i 
secondi 
motivi 
aggiunti, l’informazione 
antimafia 
prot. n. omissis, emessa dal Prefetto di roma. 
2.5 -Medio tempore, la 
vicenda 
della 
presunta 
associazione 
di 
stampo mafioso denominata 
Mafia 
Capitale 
è 
stata 
oggetto della 
sentenza 
del 
Tribunale 
Penale 
di 
roma, Sez. X^ 
Collegiale, 
n. omissis 
(depositata 
il 
16 ottobre 
2017) che 
ha 
escluso l’esistenza 
di 
un sodalizio criminale 
di stampo mafioso. 
2.6 
-La 
statuizione 
del 
Tribunale 
Penale 
di 
roma 
è 
stata 
confermata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
con la sentenza n. 1525 emanata il 21 ottobre 2019 dalla Sezione 
VI Penale. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


2.7 
-All’esito 
della 
pubblicazione 
del 
dispositivo 
della 
richiamata 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
il 
Consorzio omissis, con nota 
dell’11 novembre 
2019, ha 
provveduto a 
chiedere 
alla Prefettura di disporre la revoca e/o comunque l’aggiornamento dell’interdittiva. 
non 
avendo 
ricevuto 
alcun 
riscontro, 
in 
data 
30 
luglio 
2020, 
dopo 
il 
deposito 
delle 
motivazioni 
della 
richiamata 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
avvenuto 
il 
12 
giugno 
2020, 
il 
Consorzio 
omissis 
ha 
invitato nuovamente 
la 
Prefettura 
a 
provvedere 
alla 
revoca 
dell’interdittiva 
e 
comunque 
al suo aggiornamento. 
Con nota 
del 
30 aprile 
2021, depositata 
in giudizio in pari 
data, la 
Prefettura 
di 
roma 
ha 
annunciato 
che 
la 
posizione 
del 
Consorzio omissis 
sarebbe 
stata 
oggetto di 
una 
“istruttoria” 
con 
le 
forze 
di 
Polizia, 
procedimento 
dal 
quale 
sarebbe 
poi 
scaturito 
il 
nuovo 
provvedimento 
concernente 
la posizione dell’appellante. 
In ragione 
di 
ciò, il 
Consorzio omissis, con nota 
del 
6 maggio 2021, ha 
diffidato la 
Prefettura 
a 
concludere 
la 
“istruttoria” 
entro un termine 
di 
giorni 
7 preannunciando che, in assenza 
di 
riscontro, avrebbe 
provveduto ad impugnare 
il 
silenzio serbato sino ad oggi 
dalla 
P.A. sulle 
plurime istanze di riesame della deducente (11 novembre 2019 e 30 luglio 2020). 
neanche quest’ultima istanza ha ricevuto alcun riscontro. 
2.8 -Il 
17 maggio 2021 il 
Consorzio omissis 
ha 
depositato un terzo atto recante 
motivi 
aggiunti, 
con cui 
ha 
impugnato il 
silenzio serbato dall’Amministrazione 
intimata 
a 
seguito ed 
in 
relazione 
alle 
diffide 
del 
30 
luglio 
2020 
e 
del 
6 
maggio 
2021 
per 
il 
mancato 
aggiornamento 
dell’interdittiva 
antimafia 
posta 
a 
carico del 
ricorrente 
e 
per la 
declaratoria 
di 
illegittimità 
dei 
provvedimenti, ex art. 32, comma 7, del d.l. 90/2014, di data ed estremi non noti. 
2.8.1 -Con provvedimento del 
5 ottobre 
2021, la 
Prefettura 
di 
roma 
ha 
comunicato al 
Consorzio 
omissis 
che 
“Con 
riferimento 
all’istanza 
presentata 
in 
data 
11 
novembre 
2019, 
ai 
sensi 
dell’art. 91, comma 5, del 
D.Lgs 
n. 159/2011, si 
comunica che 
il 
procedimento di 
aggiornamento 
delle informazioni antimafia si è concluso con esito favorevole”. 
nel 
corso dell’udienza 
del 
5 ottobre 
2021 il 
Consorzio omissis 
ha 
chiesto che 
la 
Prefettura 
depositasse 
in 
giudizio 
gli 
atti 
della 
nuova 
istruttoria 
espletata 
dall’ufficio 
Territoriale 
del 
Governo, e ciò al fine di comprendere le ragioni poste a base del nuovo provvedimento. 
Invero, la 
predetta 
comunicazione 
formulata 
dalla 
Prefettura 
faceva 
chiaramente 
riferimento 
all’espletamento 
di 
un 
procedimento 
di 
rivalutazione 
che 
sicuramente 
si 
basava 
su 
di 
una 
serie 
concatenata 
di 
atti 
la 
cui 
conoscenza 
era 
necessaria 
per 
comprendere 
le 
ragioni 
che 
hanno 
condotto l’ufficio territoriale del Governo a rivalutare la posizione del Consorzio omissis. 
2.8.2 -Alla 
camera 
di 
consiglio del 
22 marzo 2022, il 
T.a.r. ha 
accolto l’istanza 
ex art. 116 
c.p.a. formulata 
dal 
Consorzio omissis 
e, con ordinanza 
n. omissis, ha 
imposto alla 
Prefettura 
di 
produrre 
in giudizio gli 
atti 
relativi 
alla 
istruttoria 
da 
cui 
è 
scaturito l’aggiornamento del-
l’interdittiva a carico del consorzio concludente. 
L’Avvocatura 
erariale, in data 
19 aprile 
2022, ha 
depositato gli 
atti 
del 
procedimento di 
rivalutazione 
della 
posizione 
del 
Consorzio 
omissis 
che 
ha 
poi 
condotto 
all’aggiornamento 
in 
senso liberatorio dell’interdittiva. 
2.9 
-Il 
4 
luglio 
2022 
il 
Consorzio 
omissis 
ha 
depositato 
un’ulteriore 
impugnazione 
contenente 
il 
quarto ricorso per motivi 
aggiunti 
avverso gli 
atti 
già 
impugnati, lamentando il 
ritardo con 
il 
quale 
la 
Prefettura 
aveva 
provveduto ad aggiornare 
la 
posizione 
della 
ricorrente 
all’esito 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 
1525, 
emanata 
il 
21 
ottobre 
2019, 
che 
aveva 
escluso la 
sussistenza 
di 
un sodalizio criminale 
ed il 
conseguente 
rischio di 
infiltrazione 
mafiosa. 
Con tale 
mezzo ha 
sostenuto che 
l’obbligo di 
aggiornamento in capo alla 
Prefettura 
si 
impo

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 
115 


neva 
già 
a 
seguito 
della 
emanazione 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado 
del 
processo 
Mafia 
Capitale 
(sentenza del 
Tribunale di roma n. omissis). 
In definitiva 
il 
Consorzio omissis, nonostante 
l’intervenuta 
liberatoria, ha 
insistito in giudizio 
affinché 
il 
T.a.r. annullasse 
l’originaria 
interdittiva 
e 
le 
successive 
informazioni 
interdittive 
in quanto illegittime. 


3. -Con la 
sentenza 
(n. omissis) il 
T.a.r. Lazio ha 
respinto il 
ricorso ed i 
successivi 
motivi 
aggiunti. 
4. -Avverso tale 
pronuncia 
il 
Consorzio omissis 
ha 
proposto appello, chiedendone 
la 
riforma. 
4.1 
-Si 
sono 
costituiti 
in 
giudizio 
il 
Ministero 
dell’Interno, 
l’u.T.G. 
Prefettura 
di 
roma 
e 
l’AnAC, chiedendo il rigetto dell’impugnativa. 
4.2 -Con memoria 
depositata 
il 
21 dicembre 
2023, le 
Amministrazioni 
appellate 
hanno replicato 
alle doglianze proposte chiedendone il rigetto. 
4.3 -Con memoria 
di 
replica, depositata 
il 
4 gennaio 24, l’appellante 
ha 
controdedotto alle 
tesi difensive delle appellate. 
5. - All’udienza pubblica del 25 gennaio 2024 l’appello è stato trattenuto in decisione. 
6. - L’appello è infondato e va, dunque, respinto. 
Prima 
di 
articolare 
le 
doglianze, 
l’appellante 
ha 
delineato 
sinteticamente 
l’oggetto 
del 
presente 
contenzioso: 
i 
provvedimenti 
interdittivi 
antimafia 
si 
fondano 
sulle 
ordinanze 
di 
custodia 
cautelare 
dell’indagine 
denominata 
“Mafia 
Capitale” 
e 
su una 
rappresentazione, a 
detta 
dell’appellante, 
inveritiera 
degli 
elementi 
probatori, la 
cui 
inconsistenza 
sarebbe 
stata 
stigmatizzata 
dalla Corte di Cassazione, i cui fatti avrebbero acquisito la stabilità della cosa giudicata. 
L’appellante 
ha 
quindi 
sottolineato come 
il 
nucleo centrale 
della 
controversia 
si 
riferisce 
alla 
asserita 
erroneità 
della 
decisione 
del 
T.a.r. 
che 
avrebbe 
valutato 
la 
legittimità 
dei 
provvedimenti 
impugnati 
alla 
luce 
delle 
circostanze 
di 
fatto risultanti 
dalle 
ordinanze 
di 
custodia 
cautelare 
del 
2014 e 
del 
2015, senza 
tener conto che 
“le 
pronunce 
del 
Tribunale 
di 
Roma e 
della Corte 
di 
Cassazione 
hanno eliso dalla realtà giuridica la sussistenza del 
sodalizio criminale 
denominato 
Mafia 
Capitale, 
evidenziando 
non 
solo 
che 
lo 
stesso 
non 
è 
mai 
esistito 
ma 
che 
neppure 
fossero percepibili all’esterno i connotati tipici del metodo mafioso”. 
L’appellante 
ha 
rilevato, 
infatti, 
che 
“ipotizzare 
l’esistenza 
di 
un 
condizionamento 
mafioso 
in 
assenza 
del 
sodalizio 
criminale 
mafioso 
costituisce 
un 
ossimoro 
giuridico”: 
a 
differenza 
dei 
casi 
in 
cui 
il 
soggetto 
ritenuto 
colluso 
con 
la 
mafia 
venga 
in 
seguito 
scagionato 
in 
sede 
penale 
(potendosi 
correttamente 
ritenere 
che 
tale 
fatto 
costituisca 
una 
circostanza 
sopravvenuta 
valutabile 
in 
sede 
di 
aggiornamento 
dell’interdittiva), 
nel 
caso 
di 
specie, 
a 
seguito 
delle 
decisioni 
del 
giudice 
penale, 
è 
stato 
acclarato 
che 
non 
è 
mai 
esistita 
l’organizzazione 
di 
stampo 
mafioso 
denominata 
“Mafia 
Capitale”, 
il 
che 
comporta 
l’inesistenza, 
ab 
origine, 
del 
rischio 
di 
infiltrazione. 
Per tale 
ragione 
il 
Consorzio omissis, pur avendo ottenuto nel 
2021 la 
liberatoria 
antimafia, 
ha 
insistito nel 
chiedere 
l’annullamento anche 
dell’originaria 
informazione 
interdittiva 
antimafia 
risalente al 2014. 
Tale 
prospettazione 
non è 
stata 
accolta 
dal 
T.a.r. che, invece, ha 
valutato gli 
esiti 
del 
processo 
penale 
come 
fatti 
sopravvenuti, 
ancorando 
il 
giudizio 
di 
legittimità 
ai 
dati 
esistenti 
al 
momento 
dell’adozione 
dei 
provvedimenti 
di 
prevenzione 
antimafia 
(ordinanze 
di 
custodia 
cautelare), 
ritenendo sulla 
base 
di 
tali 
dati, la 
sussistenza 
di 
un sodalizio criminale 
di 
stampo mafioso al 
quale 
avrebbe 
aderito omissis. 
Quest’ultimo, secondo il 
T.a.r., sarebbe 
stato, infatti, il 
veicolo 
del 
tentativo 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
a 
carico 
del 
Consorzio 
appellante, 
sia 
perché 
componente 
dell’organo di amministrazione sia perché al vertice di due cooperative consorziate. 
Il 
T.a.r., infatti, avrebbe 
ritenuto irrilevanti 
le 
risultanze 
emerse 
dalle 
decisioni 
del 
Tribunale 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


di 
roma 
e 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
che 
avrebbero escluso l’aggravante 
mafiosa 
ritenendo 
applicabile il principio del 
tempus regit actum. 


7. -Con i 
profili 
Ia), Ib), Ic) e 
Id) dell’unico motivo di 
appello, l’appellante 
ha 
più volte 
ribadito 
tale 
prospettazione, 
sottolineando 
che 
i 
provvedimenti 
di 
interdizione 
antimafia 
si 
fondano 
sulla 
mera 
lettura 
delle 
ordinanze 
di 
custodia 
cautelare 
relative 
all’indagine 
denominata 
“Mondo di 
mezzo” 
poi 
disattese 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione; 
l’appellante 
ha 
dedotto che 
il 
Prefetto 
e 
gli 
organi 
che 
si 
sono 
occupati 
dell’istruttoria 
non 
avrebbero 
effettuato 
un 
approfondito 
e 
compiuto esame 
di 
tali 
circostanze, sottolineando che 
le 
pronunce 
del 
Tribunale 
di 
roma 
e 
della 
Corte 
di 
Cassazione, “si 
sono espresse 
sul 
medesimo quadro fattuale, probatorio e 
giuridico 
emergente 
dagli 
atti 
di 
indagine 
dai 
quali 
erano stati 
tratti 
gli 
elementi 
confluiti 
nelle 
ordinanze 
di 
custodia 
cautelare 
pedissequamente 
richiamate, 
senza 
ulteriori 
verifiche, 
da 
parte 
del Prefetto”. 
L’appellante 
ha 
quindi 
dedotto che 
all’interno dell’ordinamento deve 
essere 
assicurata 
la 
non 
contraddittorietà 
degli 
accertamenti 
giurisdizionali 
emessi 
da 
organi 
diversi: 
ha 
quindi 
richiamato 
l’art. 654 c.p.p. che 
disciplina 
l’efficacia 
della 
sentenza 
penale 
di 
condanna 
o di 
assoluzione 
nei giudizi civili o amministrativi. 
Il 
Consorzio ha 
quindi 
aggiunto che 
l’originaria 
interdittiva 
sarebbe 
stata 
emessa 
in difetto di 
presupposti, in quanto l’unico elemento sul 
quale 
si 
fondava 
era 
costituito dalla 
rappresentazione 
dei 
fatti 
fornita 
dall’indagine 
“Mafia 
Capitale”; 
tale 
rappresentazione 
si 
è 
rivelata 
fallace, 
con la 
conseguenza 
che 
l’inesistenza 
del 
sodalizio criminale 
di 
stampo mafioso rende 
inconfigurabile 
il tentativo di infiltrazione mafiosa a carico del Consorzio omissis. 
La 
motivazione 
del 
provvedimento interdittivo sarebbe, quindi, secondo l’appellante, meramente 
apparente. 
Il 
Consorzio ha 
quindi 
precisato che 
già 
con il 
provvedimento di 
archiviazione 
del 
6 febbraio 
2017 ben 143 degli 
indagati 
del 
processo erano stati 
estromessi 
dallo stesso; 
con la 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
roma 
n. omissis 
era 
stata 
esclusa 
l’esistenza 
dell’associazione 
a 
delinquere 
di 
stampo 
mafioso 
denominata 
“Mafia 
Capitale”, 
escludendo, 
ab 
origine, 
l’esistenza 
di 
un’organizzazione 
criminale operante con metodi mafiosi e intimidatori. 
L’appellante 
ha 
quindi 
ribadito 
che 
l’accertamento 
dei 
fatti 
ha 
efficacia 
di 
giudicato 
e, 
quindi, 
non può non tenersene 
conto, soprattutto se 
lo stesso travolge 
le 
affermazioni 
della 
Procura 
poste 
dal 
Prefetto a 
base 
dell’interdittiva; 
ha 
insistito quindi 
nel 
ritenere 
che 
il 
T.a.r. avrebbe 
errato nel qualificare tali fatti come “successivi”. 
A 
detta 
del 
Consorzio omissis, già 
dopo la 
sentenza 
n. omissis 
del 
Tribunale 
di 
roma 
doveva 
ritenersi 
chiaro che 
non poteva 
sussistere 
il 
tentativo di 
infiltrazione 
mafiosa 
a 
carico dello 
stesso Consorzio; 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
Sez. VI, n. 1525 del 
22 ottobre 
2019, 
depositata 
in 
cancelleria 
in 
data 
12 
giugno 
2020 
con 
il 
n. 
omissis, 
ha 
confermato 
in 
toto 
l’analisi 
compiuta 
dal 
Tribunale 
Penale 
di 
roma, non avendo ravvisato alcun potere 
di 
intimidazione 
o 
qualunque 
utilizzo 
del 
metodo 
mafioso 
nell’acquisizione 
degli 
appalti, 
né 
la 
sua 
percepibilità 
all’esterno; 
da 
ciò deriva 
l’insussistenza 
dei 
presupposti 
per l’adozione 
dell’informazione 
interdittiva antimafia a carico del Consorzio omissis. 
L’appellante 
ha 
quindi 
aggiunto 
che, 
ad 
eccezione 
della 
presenza 
di 
omissis 
nel 
C.d.A 
del 
Consorzio, nessun rilievo sarebbe stato addebitato all’appellante la cui condotta imprenditoriale 
sarebbe 
risultata 
priva 
di 
mende; 
nessuna 
delle 
cooperative 
diverse 
da 
quelle 
riferibili 
al 
omissis 
sarebbe rimasta coinvolta nell’indagine Mafia Capitale. 
7.1 
-Il 
successivo 
profilo 
I.e) 
dell’unico 
motivo 
si 
riferisce 
ai 
provvedimenti 
di 
aggiornamento 
dell’interdittiva. 
L’appellante 
ha 
censurato 
la 
statuizione 
del 
T.a.r. 
con 
la 
quale 
è 
stata 
respinta 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


la 
sua 
prospettazione 
secondo cui 
la 
Prefettura 
avrebbe 
dovuto avviare 
il 
procedimento di 
aggiornamento 
fin 
dalla 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
roma, 
Sez. 
X 
Collegiale 
n. 
omissis 
(depositata 
il 
16 ottobre 
2017), tenuto anche 
conto dei 
provvedimenti 
di 
archiviazione; 
ha 
aggiunto che 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Appello sarebbe 
stata 
irrilevante 
e, comunque, il 
Prefetto avrebbe 
dovuto procedere 
immediatamente 
all’aggiornamento dell’interdittiva 
dopo la 
sentenza 
della 
Corte di Cassazione n. 1525 del 21 ottobre 2019. 
L’appellante 
ha, pertanto, censurato la 
decisione 
del 
T.a.r. che 
ha 
ritenuto insussistente 
l’obbligo 
di 
procedere 
dopo 
la 
pubblicazione 
del 
solo 
dispositivo, 
rilevando 
che 
già 
da 
esso 
si 
poteva 
evincere l’insussistenza del reato ex art. 416-bis c.p. a carico di 
omissis. 
Il 
Consorzio ha 
quindi 
lamentato che 
il 
procedimento di 
aggiornamento sarebbe 
stato avviato 
con 
estremo 
ritardo 
e 
solo 
dopo 
che 
la 
Prefettura 
era 
stata 
compulsata 
con 
diffide 
e 
con 
i 
motivi aggiunti di ricorso. 
Il 
Consorzio 
omissis 
ha 
dedotto 
che 
il 
procedimento 
avrebbe 
avuto 
inizio 
solo 
nel 
mese 
di 
giugno 
2021, 
a 
distanza 
di 
oltre 
un 
anno 
dal 
deposito 
delle 
motivazioni 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
solo 
dopo 
la 
proposizione 
dei 
motivi 
aggiunti 
dinanzi 
al 
T.a.r.; 
il 
procedimento 
si 
è 
concluso 
quattro 
mesi 
più 
tardi 
con 
il 
provvedimento 
liberatorio 
del 
5 
ottobre 
2021 
che, 
peraltro, 
si 
è 
limitato 
alla 
mera 
presa 
d’atto 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione. 
L’appellante 
ha 
pertanto lamentato la 
tardività 
con la 
quale 
la 
Prefettura 
ha 
avviato il 
procedimento 
di 
aggiornamento, 
ricordando 
che 
la 
Corte 
Costituzionale, 
nella 
sentenza 
n. 
57/2020, 
ha 
ricordato 
la 
necessità 
che 
la 
Prefettura 
provveda 
ad 
una 
rivalutazione 
aggiornata 
del 
quadro 
istruttorio 
sul 
presupposto 
che 
questo 
non 
può 
conservare 
piena 
e 
immutata 
concludenza 
oltre 
il 
limite 
temporale 
di 
12 mesi: 
in questo caso si 
trattava 
di 
un’interdittiva 
risalente 
nel 
tempo, 
tenuto conto che 
il 
dispositivo della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
era 
stato depositato 
ben due anni prima. 


7.2 -In definitiva, l’appellante 
ha 
concluso chiedendo l’annullamento sia 
del 
primo provvedimento 
di 
interdizione 
che 
di 
quelli 
adottati 
successivamente, 
lamentando 
il 
mancato 
aggiornamento 
della 
interdittiva 
a 
far 
data 
dalla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
roma, 
Sez. X 
Collegiale, n. omissis 
e, in subordine, da 
quella 
della 
Corte 
di 
Cassazione; 
ha 
chiesto 
infine 
la 
riforma 
del 
capo della 
sentenza 
che 
ha 
posto a 
carico del 
Consorzio omissis 
le 
spese 
di lite, quantificate in € 4.000,00. 
8. 
-La 
prospettazione 
dell’appellante 
non 
può 
essere 
accolta: 
innanzitutto 
la 
sentenza 
del 
T.a.r. 
è 
pienamente 
condivisibile 
là 
dove 
ha 
ritenuto 
sussistenti, 
in 
base 
al 
principio 
del 
tempus 
regit 
actum, i 
presupposti 
per l’adozione 
dell’originario provvedimento di 
interdizione 
antimafia 
del 
1 dicembre 
2014, e 
dei 
successi 
provvedimenti 
di 
conferma 
del 
rischio di 
infiltrazione 
mafiosa del 16 febbraio 2015 e del 30 settembre 2016. 
8.1 
-La 
prima 
informativa, 
confermata 
in 
occasione 
delle 
istanze 
di 
aggiornamento 
presentate, 
è 
stata 
adottata 
a 
seguito 
dell’adozione 
della 
misura 
cautelare 
della 
custodia 
in 
carcere 
di 
omissis, 
con 
ordinanza 
cautelare 
n. 
omissis, 
per 
il 
reato 
di 
associazione 
di 
tipo 
mafioso 
di 
cui 
all’art. 
416 bis 
commi 
1, 2, 4, 6, 8 c.p., per avere 
fatto parte 
di 
una 
associazione 
di 
stampo mafioso 
di 
cui 
era 
capo e 
organizzatore 
omissis 
nonché 
per vari 
altri 
reati 
connotati 
dall’aggravante 
di 
avere agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso. 
Omissis 
rivestiva 
nel 
Consorzio 
la 
carica 
di 
consigliere 
ed 
era 
riconosciuto 
nell’ordinanza 
cautelare 
del 
Tribunale 
di 
roma 
“organo apicale” 
di 
una 
delle 
diverse 
articolazioni 
di 
mafia 
capitale: 
“Titolare 
di 
ruoli 
di 
gestione 
e 
controllo nelle 
cooperative 
che 
costituiscono lo strumento 
imprenditoriale 
attraverso cui 
viene 
realizzata 
l’attività 
del 
sodalizio nel 
settore 
economico, 
con precipuo riguardo ai rapporti con la pubblica amministrazione”. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


Alla 
luce 
delle 
modalità 
con cui 
operava 
il 
sodalizio criminale 
in oggetto e 
del 
livello di 
coinvolgimento 
del 
consigliere 
del 
Consorzio nello stesso, la 
Prefettura 
ha 
ritenuto sussistente 
il 
rischio di infiltrazione. 


8.2 
-Per 
quanto 
concerne 
i 
provvedimenti 
di 
conferma 
dell’interdittiva, 
correttamente 
il 
T.a.r. 
ha 
ritenuto che 
“Al 
di 
là dei 
movimenti 
tra un organo e 
l’altro e 
tra gli 
organi 
del 
Consorzio 
e 
di 
quelli 
delle 
singole 
cooperative 
consorziate, la contiguità -ove 
non la continuità -tra i 
componenti 
degli 
organi 
di 
governo del 
Consorzio e 
le 
figure 
coinvolte 
nell’inchiesta di 
cui 
si 
tratta, se 
anche 
non costituiscono prove 
piene 
del 
condizionamento, ne 
integrano la probabilità, 
secondo il 
principio del 
“più probabile 
che 
non” 
che 
si 
applica alle 
informative 
antimafia, 
attesa la loro natura preventiva”. 
Il 
T.a.r. ha 
ritenuto che 
“non sembra potersi 
revocare 
in dubbio che 
il 
Consorzio ha di 
fatto 
mantenuto una continuità con la precedente 
governance 
ovvero non ha proceduto ad un rinnovo 
radicale dei propri amministratori e revisori. 
Per 
altro verso concorre 
ad integrare 
il 
quadro indiziario il 
ruolo avuto per 
anni 
da omissis, 
secondo la ricostruzione 
che 
della sua figura si 
trae 
dall’ordinanza di 
custodia in carcere, la 
tipologia e 
le 
modalità operative 
dell’associazione 
mafiosa di 
cui 
il 
omissis 
gestiva proprio 
quelle 
attività che 
avevano nel 
controllo delle 
cooperative 
lo strumento elettivo per 
il 
conseguimento 
delle finalità illecite. 
In 
questo 
contesto 
non 
sembra 
risolutivo, 
al 
fine 
di 
mettere 
in 
dubbio 
la 
non 
illogicità 
del 
quadro indiziario, l’avere 
eliminato dalle 
cariche 
sociali 
coloro che 
sono risultati 
coinvolti 
nell’indagine 
penale 
con 
omissis, 
o 
l’avere 
ridotto 
il 
numero 
dei 
componenti 
del 
nuovo 
organo 
di 
gestione 
se 
nel 
suo ambito ricorrono gli 
stessi 
amministratori 
che 
hanno operato a fianco 
degli amministratori dimessi”. 
Le conclusioni del 
T.a.r. sono condivise dal Collegio. 
8.3 
-Quanto 
al 
nucleo 
centrale 
dell’appello, 
la 
Sezione 
non 
ritiene 
di 
doversi 
discostare 
dai 
principi 
affermati 
(in 
relazione 
ad 
analoghe 
censure) 
con 
la 
propria 
sentenza 
n. 
8269 
del 
12 
settembre 
2023 
in 
merito 
all’appello 
rG 
3844/2022, 
proposto 
dalla 
Cooperativa 
di 
Lavoro 
omissis. 
Tale 
controversia 
si 
riferisce 
all’impugnazione 
della 
sentenza 
del 
T.a.r. Lazio n. 759/2022 relativa 
all’interdittiva 
antimafia 
emessa 
dal 
Prefetto di 
roma 
nei 
confronti 
di 
tali 
società 
in relazione 
al 
ritenuto rischio di 
condizionamento delle 
suddette 
imprese 
a 
seguito delle 
vicende 
giudiziarie 
legate 
all’inchiesta 
“Mafia 
Capitale” 
attraverso il 
richiamo alle 
due 
ordinanze 
del 
GIP presso il 
Tribunale di roma del 28 novembre 2014 e del 29 maggio 2015. 
In risposta 
alla 
prospettazione 
dell’appellante, secondo cui 
il 
contesto di 
riferimento non sarebbe 
stato idoneo a 
supportare 
l’affermazione 
di 
un rischio infiltrativo, tenuto conto che 
non 
ha 
avuto 
riguardo 
ad 
una 
criminalità 
organizzata 
di 
tipo 
mafioso, 
come 
si 
è 
poi 
accertato 
negli 
sviluppi del medesimo procedimento penale, questa Sezione ha ritenuto che: 
“Per 
consolidata giurisprudenza di 
questo Consiglio di 
Stato, che 
ha trovato un autorevole 
avallo da parte 
della Corte 
costituzionale, gli 
elementi 
di 
fatto valorizzati 
dal 
provvedimento 
prefettizio devono essere 
valutati 
non atomisticamente, ma in chiave 
unitaria, secondo il 
canone 
inferenziale 
-che 
è 
alla base 
della teoria della prova indiziaria -quae 
singula non prosunt, 
collecta iuvant, al 
fine 
di 
valutare 
l’esistenza o meno di 
un pericolo di 
una permeabilità 
dell’impresa 
dell’appellante 
a 
possibili 
tentativi 
di 
infiltrazione 
da 
parte 
della 
criminalità 
organizzata, 
“secondo 
la 
valutazione 
di 
tipo 
induttivo 
che 
la 
norma 
attributiva 
rimette 
al 
potere 
cautelare 
dell’amministrazione, il 
cui 
esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza 
di 
questa Sezione 
(ex 
multis, Consiglio di 
Stato, sez. III, sentenza n. 759/2019)” 
(così da ultimo le sentenze n. 4837/2020 e n. 4951/2020). 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Come 
ha chiarito la sentenza n. 6105/2019, “Ciò che 
connota la regola probatoria del 
‘più 
probabile 
che 
non’ 
non è 
un diverso procedimento logico, (…..), ma la (minore) forza dimostrativa 
dell’inferenza logica”. 
Il 
princìpio 
è 
stato 
ribadito 
dalla 
Corte 
costituzionale, 
nella 
sentenza 
n. 
57 
del 
2020: 
“Deriva 
dalla natura stessa dell’informazione 
antimafia che 
essa risulti 
fondata su elementi 
fattuali 
più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari”. 
Ciò posto, nel 
caso di 
specie 
di 
fronte 
al 
rischio di 
infiltrazione 
desumibile 
(non già da una 
mera attività di 
indagine, ma) dall’adozione 
di 
un provvedimento applicativo di 
una misura 
cautelare 
personale 
coercitiva 
(che 
implica 
la 
delibazione 
della 
sussistenza 
del 
c.d. 
fumus 
commissi 
delicti: art: 273 cod. proc. pen.), e 
segnatamente 
dagli 
elementi 
nella stessa riportati, 
il 
Prefetto ha correttamente 
esercitato il 
potere 
in questione, non essendo illogico né 
irragionevole 
desumere, a quella fase 
e 
sulla base 
degli 
elementi 
non implausibili 
indicati 
dal 
giudice 
della cautela penale, che 
il 
contesto criminale 
in esso descritto (e 
conseguentemente 
qualificato) potesse 
esercitare 
un tentativo di 
infiltrazione 
(anche 
in tesi 
meramente 
soggiacente) 
delle realtà economiche ed imprenditoriali considerate”. 


8.4 - Quanto alla tesi dell’appellante, secondo cui le pronunce del 
Tribunale di roma e della 
Corte 
di 
Cassazione 
non potrebbero considerarsi 
“elementi 
successivi” 
-poiché 
le 
predette 
pronunce 
si 
sono 
espresse 
sul 
medesimo 
quadro 
fattuale, 
probatorio 
e 
giuridico 
emergente 
dagli 
atti 
di 
indagine, dai 
quali 
erano stati 
tratti 
gli 
elementi 
confluiti 
nelle 
ordinanze 
di 
custodia 
cautelare 
pedissequamente 
richiamate, senza 
ulteriori 
verifiche, da 
parte 
del 
Prefetto questa 
Sezione ha ritenuto che: 
“L’argomento 
di 
censura 
è 
infondato 
per 
almeno 
un 
duplice 
ordine 
di 
ragioni. 
Esso, 
in 
primo 
luogo, poggia su di 
una inesatta rappresentazione 
del 
regime 
della prova nel 
procedimento 
penale: 
posto 
che 
il 
provvedimento 
cautelare 
esige 
unicamente 
la 
dimostrazione 
-ad 
un 
livello 
di 
cognizione 
sommaria -di 
gravi 
indizi 
di 
colpevolezza, mentre 
le 
sentenze 
che 
pronunciano 
sulla penale 
responsabilità dell’imputato devono fondarsi, in sede 
di 
cognizione 
piena, sulla 
prova vera e propria (diretta, od indiretta) della commissione del fatto. 
Già la stessa enunciazione 
della censura sconta dunque 
il 
vizio di 
ritenere 
che 
le 
sentenze 
assolutorie 
siano 
state 
rese 
“sul 
medesimo 
quadro 
fattuale, 
probatorio 
e 
giuridico 
emergente 
dagli atti di indagine”. 
In 
secondo 
luogo, 
giova 
rammentare 
che 
la 
legittimità 
dell’informativa 
antimafia 
interdittiva, 
al 
pari 
di 
ogni 
altro 
provvedimento 
amministrativo, 
va 
scrutinata 
sulla 
base 
dello 
stato 
di 
fatto e 
di 
diritto sussistente 
al 
momento della sua adozione, alla stregua del 
principio tempus 
regit actum. 
Il 
sopraggiungere 
di 
una sentenza penale 
assolutoria che 
operi 
-come 
ricordato, sulla base 
di 
diversi 
e 
più intensi 
poteri 
di 
valutazione 
probatoria -una ricostruzione 
difforme 
rispetto 
ad una precedente 
ordinanza di 
custodia cautelare, non può non essere 
qualificata come 
un 
fatto nuovo e 
successivo, a nulla rilevando in contrario la circostanza che 
abbia ad oggetto 
- in fasi e tempi diversi del medesimo procedimento penale - le stesse imputazioni. 
La 
censura 
in 
esame 
esige, 
contro 
l’evidenza 
del 
parametro 
normativo, 
che 
a 
seguito 
del-
l’adozione 
dell’ordinanza di 
custodia cautelare 
il 
potere 
prefettizio nella fattispecie 
dovesse 
essere 
esercitato, con i 
tempi 
della prevenzione 
e 
della cautela, con lo stesso margine 
di 
approfondimento 
probatorio 
e 
valutativo 
dei 
provvedimenti 
adottati, 
a 
distanza 
di 
anni, 
dal 
giudice 
penale nel giudizio di merito. 
Laddove 
invece 
non 
solo 
tale 
esercizio 
era 
pienamente 
legittimo 
sulla 
base 
degli 
elementi 
raccolti a quella data e a quella fase 
[…]”. 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


8.5 -In merito alla 
analoga 
doglianza 
relativa 
al 
principio generale 
relativo alla 
non contraddittorietà 
degli accertamenti giurisdizionali, questa Sezione ha ritenuto che: 
“Anche 
questo 
profilo 
di 
censura 
è 
manifestamente 
infondato, 
perché 
trascura 
che 
il 
processo 
penale 
sul 
reato associativo, ed il 
giudizio amministrativo sulla legittimità dell’esercizio del 
potere interdittivo, hanno oggetti diversi, e sono regolati da parametri normativi diversi. 
Quand’anche 
essi 
abbiano in comune 
una piattaforma fattuale, la stessa può costituire 
legittimo 
presupposto 
del 
potere 
prefettizio 
-che, 
giova 
evidentemente 
ricordarlo, 
presuppone 
unicamente 
una non illogica e 
non implausibile 
valutazione 
inferenziale 
di 
tali 
fatti 
-anche 
se 
successivamente 
il 
giudice 
penale 
dovesse 
ritenerla inidonea a fondare 
un’affermazione 
di 
penale responsabilità. 
Non si 
tratta pertanto di 
riferirsi, semplicisticamente, a “verità diverse”: ma di 
considerare 
la 
disciplina 
normativa 
del 
potere 
di 
valutazione 
del 
fatto 
nei 
differenti 
contesti 
ordinamentali 
in cui viene in rilievo, per finalità diverse, il medesimo fatto”. 
8.6 -Anche 
nella 
precedente 
controversia 
era 
stata 
sollevata 
la 
medesima 
questione, relativa 
alla 
particolarità 
della 
vicenda 
nella 
quale 
era 
venuto meno -per effetto delle 
sentenze 
penali 
-il 
presupposto dell’esistenza 
del 
sodalizio di 
stampo mafioso, circostanza 
ben differente 
dai 
casi 
in cui 
si 
verifica 
l’assoluzione 
del 
soggetto “alfa” 
dal 
reato di 
associazione 
a 
delinquere 
di 
stampo mafioso, pur essendo indiscussa 
l’esistenza 
di 
tale 
sodalizio; 
nella 
sentenza 
sopra 
richiamata 
questa 
Sezione 
ha 
ritenuto che: 
“Le 
appellanti 
lamentano che 
il 
T.a.r. non avrebbe 
colto la censura d’illegittimità dell’interdittiva per 
difetto del 
suo presupposto (presupposto 
che, seguendo questo argomentare, sarebbe 
da rinvenire 
nel 
definitivo accertamento giurisdizionale 
penale dell’esistenza di una associazione per delinquere di tipo mafioso) […]. 
Il 
fatto che 
le 
successive 
sentenze 
del 
giudice 
penale 
abbiano smentito l’esistenza di 
un sodalizio 
qualificabile 
-secondo il 
parametro penalistico e 
processualpenalistico -nello schema 
dell’art. 416-bis 
cod. pen., non implica affatto che 
il 
provvedimento interdittivo che 
-sulla 
base 
degli 
accertamenti 
del 
giudice 
della cautela penale 
-abbia desunto un pericolo di 
infiltrazione 
del 
medesimo sodalizio in determinate 
attività economiche 
sia illegittimo ab origine 
(neppure 
per 
difetto di 
istruttoria e 
di 
motivazione, come 
affermato a pag. 25 del 
ricorso in 
appello), 
in 
ragione 
della 
(successiva) 
diversa 
qualificazione 
ritenuta 
nei 
successivi 
stadi 
del 
processo penale (è sufficiente rinviare a quanto affermato, sul punto, ai punti precedenti)”. 
8.7 -A 
tali 
condivisibili 
considerazioni 
occorre 
aggiungere 
che 
neppure 
il 
richiamo all’art. 
654 
c.p.p. 
risulta 
convincente, 
atteso 
che, 
ai 
sensi 
di 
tale 
disposizione, 
l’efficacia 
del 
giudicato 
penale 
nei 
giudizi 
civili 
e 
amministrativi 
diversi 
da 
quelli 
di 
danno, è 
limitata 
al 
solo accertamento 
dei 
fatti, 
ma 
non 
già 
quanto 
alla 
loro 
qualificazione, 
evidentemente 
operata 
ai 
soli 
effetti 
della 
sussistenza 
del 
reato imputato, rispetto alla 
quale 
il 
giudice 
amministrativo non è 
condizionato 
dalla 
pronuncia 
penale 
resa 
sugli 
stessi 
fatti 
materiali 
(cfr. 
Cons. 
Stato 
sez. 
IV, 
7 
gennaio 2021, n.169; 
Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 
2010 n. 8705; 
Cons. Stato, Sez. V, 31 
gennaio 2006 n. 357). 
In definitiva tutte le doglianze proposte con i profili Ia), Ib), Ic), Id) vanno respinte. 
9. -Vanno quindi 
esaminati 
i 
profili 
di 
doglianza 
relativi 
alla 
asserita 
tardività 
con la 
quale 
la 
Prefettura 
ha 
provveduto 
a 
riesaminare 
l’interdittiva 
antimafia, 
alla 
luce 
degli 
esiti 
del 
processo 
penale adottando il provvedimento liberatorio. 
9.1 - La prospettazione dell’appellante non può essere condivisa. 
La 
tesi 
dell’appellante 
secondo 
cui 
si 
sarebbe 
dovuto 
provvedere 
al 
riesame 
dell’interdittiva 
a 
seguito 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado 
del 
20 
luglio 
2017, 
tenuto 
anche 
conto 
dell’archiviazione 
per 
insufficienza 
degli 
elementi 
probatori 
raccolti 
dalla 
Procura 
per 
sostenere 
l’accusa 
in 
giu

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


dizio, 
non 
può 
accogliersi: 
correttamente 
il 
T.a.r. 
ha 
ritenuto 
che 
“la 
Corte 
d’Appello 
nel 
2018 
ha 
ritenuto 
l’esistenza 
di 
un’unica 
associazione 
ed 
ha 
riconosciuto 
ad 
essa 
il 
carattere 
mafioso, 
ripristinando 
l’aggravante 
e 
confermando 
il 
quadro 
indiziario 
di 
cui 
alle 
informative”. 
Ne 
consegue 
che 
va 
escluso 
un 
obbligo 
di 
aggiornamento 
della 
Prefettura 
fin 
dal 
2017, 
atteso 
che, 
con 
la 
sentenza 
della 
Corte 
d’Appello 
dell’11 
settembre 
2018, 
l’ipotesi 
accusatoria 
della 
sussistenza di una associazione di stampo mafioso trovava ancora conferma in giudizio”. 


9.2 -Quanto all’archiviazione 
del 
6 febbraio 2017, era 
stata 
disposta 
per insufficienza 
di 
elementi 
probatori 
in sede 
giurisdizionale 
e 
come 
tale 
non poteva 
assumere 
una 
valutazione 
determinante. 
Solo con la sentenza 
della 
Cassazione 
pronunciata 
nel 2019, ma depositata 
nel giugno 2020, 
dalle 
condanne 
a 
carico degli 
imputati 
è 
sparita 
definitivamente 
l’aggravante 
mafiosa 
di 
cui 
al 
416 bis 
c.p., con la 
riqualificazione 
dei 
reati 
ai 
sensi 
dell’art. 416 c.p., ed il 
parziale 
annullamento 
con rinvio per i vertici della associazione per delinquere. 
Correttamente 
la 
parte 
appellata 
ha 
dedotto 
che 
la 
conferma 
della 
responsabilità 
degli 
imputati 
per 
buona 
parte 
dei 
reati 
per 
i 
quali 
erano 
stati 
condannati 
in 
primo 
grado 
e 
l’accertata 
esistenza 
di 
due 
associazioni 
impegnate 
in una 
fitta 
rete 
di 
attività 
illegali, nonché 
la 
base 
soggettiva 
della 
esclusione 
della 
aggravante 
mafiosa 
(secondo la 
ricostruzione 
dei 
fatti 
da 
parte 
dei 
giudici 
di 
merito, gli 
autori 
dei 
reati 
non avrebbero utilizzato modalità 
tali 
da 
fare 
ritenere 
alle 
vittime 
che 
operassero per una 
associazione 
mafiosa 
-v. p. 328 della 
sentenza 
della 
Cassazione) 
giustificava 
la 
necessità 
di 
una 
approfondita 
verifica 
della 
insussistenza 
di 
tentativi 
di 
infiltrazione 
mafiosa, anche 
a 
seguito della 
riforma 
della 
condanna 
operata 
dal 
giudice 
di 
legittimità, 
previa lettura della motivazione della decisione. 
9.3 -La 
sentenza 
della 
Cassazione, peraltro, non è 
stata 
di 
assoluzione, ma 
di 
riqualificazione 
delle 
condotte 
che 
vedono “imprenditori 
che 
hanno accettato la logica spartitoria professata 
da omissis 
e 
dai 
suoi 
sodali, basata, però, non sull’intimidazione, bensì 
sugli 
accordi 
corruttivi” 
(così p. 326 sentenza 
omissis). 
ritiene, 
pertanto, 
il 
Collegio 
che 
non 
sussista 
un 
colpevole 
ritardo 
da 
parte 
dell’Amministrazione 
nel 
rilascio 
del 
provvedimento 
liberatorio: 
innanzitutto 
secondo 
la 
giurisprudenza 
di 
questa 
Sezione 
(sentenza 
n. 
2410/2015) 
il 
termine 
per 
l’aggiornamento 
non 
può 
ritenersi 
perentorio, 
in 
quanto 
la 
maggiore 
durata 
dell’istruttoria 
può 
derivare 
da 
molte 
e 
complesse 
ragioni. 
Come 
ha 
precisato il 
T.a.r. “L’avvio dell’attività di 
acquisizione 
di 
informazioni 
ai 
sensi 
del-
l’art. 91 d.lgs. 159/2011 risulta avviata all’indomani 
della presentazione 
della richiesta di 
parte 
ricorrente, 
il 
19 
novembre 
2019 
(vedi 
verbale 
del 
Gruppo 
Ispettivo 
dell’8 
settembre 
2021), e 
ciò è 
testimoniato dalle 
note 
del 
28 dicembre 
2019, del 
28 febbraio 2020 con le 
più 
puntuali 
richieste 
di 
approfondimento 
rinvenibili 
nei 
verbali 
del 
3 
giugno 
2021 
e 
del 
1° 
luglio 
2021 della riunione del Gruppo Ispettivo Antimafia, 29 luglio 2021”. 
Quindi, il 
procedimento ha 
avuto inizio subito dopo la 
presentazione 
dell’istanza 
di 
aggiornamento 
da 
parte 
del 
Consorzio omissis; 
nel 
corso del 
procedimento sono stati 
acquisiti 
tutti 
gli 
elementi 
informativi 
necessari; 
nel 
frattempo è 
stata 
depositata 
la 
motivazione 
della 
sentenza 
della Corte di Cassazione. 
Come 
ha 
rappresentato l’amministrazione 
nella 
propria 
memoria, il 
Gruppo Ispettivo Antimafia, 
costituito presso la 
Prefettura 
di 
roma, nel 
corso della 
riunione 
dell’8 settembre 
2021, 
ha 
ritenuto che, in ragione 
degli 
attuali 
elementi 
informativi 
acquisiti 
anche 
sulla 
governance 
della 
società 
ed alla 
luce 
della 
suddetta 
nuova 
circostanza 
data 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 18125 del 
21 ottobre 
2019, le 
cui 
motivazioni 
sono state 
depositate 
in data 
12 
giugno 
2020, 
si 
potessero 
considerare 
venute 
meno 
quelle 
ragioni 
di 
sicurezza 
e 
di 
ordine 

rASSEGnA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -n. 3/2023 


pubblico 
in 
precedenza 
ritenute 
prevalenti 
sull’iniziativa 
e 
sulla 
libertà 
di 
impresa 
della 
società 
interessata 
e, conseguentemente, si 
potesse 
accogliere 
in senso favorevole 
la 
nuova 
istanza 
di 
riesame della posizione antimafia della società medesima. 


9.4 -ne 
consegue 
che, solo al 
termine 
dell’istruttoria, la 
Prefettura 
ha 
potuto rilasciare 
la 
liberatoria 
antimafia; 
pertanto anche 
il 
profilo di 
doglianza 
relativo alla 
asserita 
tardività 
del-
l’adozione di tale provvedimento non può essere condiviso. 
Quindi, va 
respinta 
la 
domanda 
relativa 
alla 
declaratoria 
di 
illegittimità 
di 
tutti 
gli 
atti 
adottati 
dopo 
il 
mancato 
aggiornamento 
a 
partire 
dalla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
del 
Tribunale 
Penale 
di roma n. omissis 
o, a tutto voler concedere, da quella della Corte di Cassazione. 
10. 
-Infine, 
quanto 
alla 
censura 
relativa 
alla 
condanna 
alle 
spese 
non 
si 
appalesa 
fondata 
tenuto conto che il giudice di primo grado si è attenuto al principio di soccombenza. 
11. -Quanto alle 
spese 
del 
presente 
grado, ritiene 
il 
Collegio che 
ricorrano i 
presupposti 
per 
la 
loro compensazione 
tra 
le 
parti 
tenuto conto della 
peculiarità 
della 
vicenda 
sottesa 
al 
presente 
contenzioso. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), definitivamente 
pronunciando 
sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
Spese del grado di appello compensate tra le parti. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 
ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196, e 
dell’articolo 10 del 
regolamento (uE) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all’oscuramento 
delle 
generalità 
nonché 
di 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare tutti i soggetti indicati nella sentenza. 
Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024. 


LegIsLAzIoneedAttuALItà
AI 
Act, il regolamento europeo sull’intelligenza 
artificiale: punti di forza e punti di debolezza 


Gaetana Natale* 
Augusto M. Lazzè** 


L’Europa 
è 
ormai 
giunta 
a 
definire 
un regolamento sull’intelligenza 
artificiale 
approvato dal 
Parlamento Europeo in data 
13 marzo 2024. Ma 
che 
tipo 
di 
regolazione 
introduce: 
funzionale 
o strutturale, generica 
o per settori 
omogenei? 
A 
quali 
modelli 
culturali 
si 
ispirano le 
regole 
in esso introdotte? 
Possiamo 
parlare 
di 
eteroregolazione, 
co-regolazione 
o 
di 
self-regulation 
temperata 
da 
una 
compliance 
volontaria 
cd. Ai 
Pact? 
Introduce 
principles 
o 
model-rules 
o regole 
operative? 
Prevede 
solo obblighi 
o anche 
diritti 
tutelati 
da 
un 
efficace 
enforcement? 
È 
formalmente 
un 
regolamento, 
ma 
nella 
sostanza 
una 
direttiva 
per 
le 
clausole 
generali 
in 
esso 
contenute? 
È 
un 
regolamento 
sulle 
cd. certificazioni? 
rappresenta 
un valido compromesso tra 
l’esigenza 
di 
non 
bloccare 
lo sviluppo tecnologico e 
nel 
contempo tutelare 
il 
cd. human in the 
loop 
ex 
art. 22 del 
GDPr? 
È 
una 
regolazione 
future 
proof 
? 
È 
volta 
alla 
realizzazione 
di 
un’armonizzazione 
o a 
creare 
una 
base 
di 
diritto uniforme? 
Come 
sono 
regolati 
i 
cd. 
“sistemi 
fondazionali” 
o 
i 
cd. 
“sistemi 
fondativi”? 
Il 
cd. 
FrIA, ossia 
il 
Fundamental 
Right 
Impact 
Assessment 
of 
Generative 
Artificial 
Intelligence 
può superare 
quella 
che 
Natalino Irti 
(1) definiva 
atopia ed anomia? 
Il 
nuovo regolamento definisce 
un nuovo concetto di 
accountability 
diverso 
da 
quello 
che 
abbiamo 
imparato 
a 
definire 
dal 
GDPr, 
nel 
senso 
che 
segue un approccio top-down 
e non bottom up 
(2)? 


(*) Avvocato dello Stato e Professore di Sistemi Giuridici Comparati. 
(**) Dottore in Giurisprudenza. 


(1) N. IrtI, Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Proviamo 
a 
fare 
un’analisi 
critica 
delle 
principali 
norme 
in 
esso 
contenute 
per poter tracciare 
le 
coordinate 
di 
tale 
nuovo orizzonte 
di 
senso, cd. Wertbegriff 
dell’Intelligenza 
Artificiale 
che 
già 
permea 
e 
conforma 
silenziosamente 
le nostre vite. 

Compiendo 
un’opera 
di 
normogenesi, 
così 
come 
richiesta 
da 
Betti 
(3), 
non si 
può non affermare 
che 
i 
principi 
sono espressione 
di 
valori 
(4): 
tra 
i 
valori 
e 
le 
regole 
il 
ponte 
sono 
i 
principi, 
intesi 
come 
metanorme 
(5) 
con 
funzione 
normogenetica 
(6) 
e 
normopoietica. 
Per 
Bobbio 
(7) 
i 
principi 
hanno 
4 
funzioni: 
interpretativa, integrativa, di 
direttiva 
e 
limitativa. Per Josef Esser (8) è 
importante 
la 
precomprensione 
e 
la 
scelta 
del 
metodo nel 
processo di 
individuazione 
del 
diritto. Seguendo tale 
metodologia 
proviamo ad entrare 
nel 
core 
di 
questa 
nuova 
regolazione, 
confrontandola 
poi 
con 
quella 
degli 
altri 
Paesi, 
ossia 
degli Stati Uniti e della Cina. 

Il 
testo 
si 
compone 
di 
113 
articoli 
e 
tredici 
allegati 
(cd. 
tecnica 
degli 
annessi 
con 
una 
periodica 
revisione 
quinquennale). 
Il 
regolamento 
(che, 
in 
quanto 
tale, 
sarà 
effettivo 
senza 
bisogno 
che 
le 
singole 
nazioni 
lo 
recepiscano) 
è 
impostato 
su 
un’architettura 
di 
rischi, 
cd. 
Risk 
Assessment 
suddivisi 
in 
quattro 
categorie: 
1) 
unaceptable 
risk, 
2) 
high 
risk, 
3) 
limited 
risk 
e 
4) 
low 
and 
minimal 
risk: 
inaccettabili, 
alti, 
limitati, 
minimi. 
Maggiore 
è 
il 
ri


(2) 
Sul 
punto 
è 
stato 
sostenuto 
che, 
mentre 
il 
GDPr 
introduce 
un 
principio 
di 
accountability 
inteso 
nel 
senso di 
responsabilizzare 
gli 
operatori 
coinvolti 
nel 
trattamento dei 
dati 
personali, attribuendo agli 
stessi 
un 
ruolo 
decisivo 
nella 
valutazione 
del 
rischio 
(e 
realizzando 
così 
un 
sistema 
decentralizzato), 
l’AI Act 
introduce 
invece 
una 
classificazione 
dei 
sistemi 
di 
IA 
in base 
all’entità 
dei 
rischi 
(il 
cd. risckbased 
approach) connessi 
alla 
loro operatività. Un simile 
quadro è 
definito direttamente 
dal 
nuovo regolamento, 
garantendo così 
una 
valutazione 
del 
rischio centralizzata 
(appunto per questo l’approccio si 
definisce 
“top-down”) 
e 
con 
la 
notoria 
forza 
cogente 
e 
immediatamente 
applicabile 
del 
regolamento 
(articolo 
288 tFUE). Così, G. rEStA, Cosa c’è 
di 
“europeo” 
nella Proposta di 
Regolamento UE 
sull’intelligenza 
artificiale?, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica 
(II), fasc. 2, 2022, pp. 323-342. 
(3) E. BEttI, Interpretazione 
della legge 
e 
degli 
atti 
giuridici 
(Teoria generale 
e 
dogmatica), II 
ed., a 
cura 
di 
G. CrIFò, Milano, 1971, pp. 112 e 
ss., ove 
l’Autore 
definisce 
la 
nomogenesi 
come 
il 
« (… 
) 
modo 
come 
in 
origine 
la 
norma 
fu 
pensata 
e 
come 
i 
tipi 
di 
interessi 
in 
giuoco 
furono 
valutati 
e 
coordinati 
(…)». 
(4) 
C. 
SChMItt, 
La 
tirannia 
dei 
valori, 
III 
ed., 
presentazione 
a 
cura 
di 
G. 
ACCAME, 
Pellicani, 
roma, 
1996. 
(5) 
Infatti, 
il 
termine 
“principio” 
è 
stato 
definito 
come 
«(…) 
il 
pensiero, 
l’idea 
germinale, 
il 
criterio 
di 
valutazione, di 
cui 
la 
norma 
costituisce 
la 
messa 
in opera, calata 
in una 
specifica 
formulazione. Esso 
fa 
riscontro al 
problema 
pratico risolto dalla 
norma: 
ne 
ispira 
la 
ratio iuris 
sotto l’aspetto teleologico, in 
quanto 
ne 
fornisce 
il 
criterio 
di 
soluzione», 
così 
E. 
BEttI, 
Interpretazione 
della 
legge 
e 
degli 
atti 
giuridici 
(Teoria generale e dogmatica), cit., p. 312. 
(6) Circa 
la 
funzione 
normogenetica 
dei 
principi, v. F. MoDUGNo, Principi 
generali 
dell’ordinamento, 
in 
Enciclopedia 
giuridica, 
vol. 
XXIV, 
1991, 
pp. 
4, 
8 
e 
ss.; 
J. 
rAz, 
Legal 
Principles 
and 
the 
Limits 
of 
Law, 81 Yale 
Journal 
Law 
823 (1972), p. 841; 
S. BArtoLE, Principi 
generali 
del 
diritto (diritto costituzionale), 
in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, 494, 1986, pp. 515 e 531. 
(7) 
N. 
BoBBIo, 
Studi 
per 
una 
teoria 
generale 
del 
diritto, 
edizione 
a 
cura 
di 
t. 
GrECo, 
Giappichelli, 
torino, 2012. 
(8) J. ESSEr, Precomprensione 
e 
scelta del 
metodo nel 
processo di 
individuazione 
del 
diritto, traduzione 
a cura di S. PIAttI, G. zACCArIA, 
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1983. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


schio 
(9), 
maggiori 
le 
responsabilità 
e 
i 
paletti 
per 
chi 
sviluppa 
o 
adopera 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale, 
fino 
alle 
applicazioni 
considerate 
troppo 
pericolose 
per 
essere 
autorizzate. 


Gli 
unici 
casi 
che 
non ricadono sotto l’ombrello dell’AI Act 
sono le 
tecnologie 
adoperate per scopi militari (10) e per quelli di ricerca (11). 

Procediamo a 
considerare 
quattro macroaree, ossia: 
1) gli 
usi 
proibiti; 
2) 
le 
intelligenze 
artificiali 
ad alto rischio; 
3) i 
sistemi 
di 
AI per uso generale 
e 


4) il sistema degli uffici, innovazioni e controllo. 
Gli usi proibiti. 


L’AI 
Act 
mette 
subito 
in 
chiaro 
quali 
sono 
gli 
impieghi 
vietati. 
Sono 
elencati 
all’articolo 5 (12). tra 
questi 
vi 
sono sistemi 
che 
sfruttano tecnologie 
su


(9) La 
cui 
nozione 
è 
fornita 
dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 2 dell’AI Act 
come 
«(…) la 
combinazione 
della 
probabilità 
del 
verificarsi 
di 
un danno e 
la 
gravità 
del 
danno stesso». Bisogna 
inoltre 
notare 
come 
la 
definizione 
del 
livello di 
rischio sia 
operata 
in relazione 
all’ambito di 
applicazione 
del 
sistema 
di 
IA. Ciò è 
dovuto al 
fatto che 
il 
rischio stesso è 
parametrato in base 
all’impatto non sui 
valori 
di 
mercato, 
bensì 
sui 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione. 
Così, 
G. 
rEStA, 
Cosa 
c’è 
di 
“europeo” 
nella 
Proposta 
di Regolamento UE sull’intelligenza artificiale?, cit., p. 339. 
(10) Così 
come 
risulta 
già 
dal 
Considerando 24 
dell’AI Act. Nell’ambito di 
quest’ultimo, il 
legislatore 
europeo ha 
in primo luogo escluso dall’ambito applicativo del 
regolamento i 
sistemi 
di 
IA 
sviluppati, 
immessi 
sul 
mercato, 
messi 
in 
servizio 
o 
utilizzati 
con 
scopo 
militare, 
di 
difesa 
o 
sicurezza 
nazionale, salvo poi 
precisare 
che 
ove 
temporaneamente 
o permanentemente 
quei 
sistemi 
fossero adoperati 
per 
scopi 
differenti, 
sarebbero 
destinatari 
della 
disciplina 
dell’AI 
Act. 
Da 
ciò 
deriva 
il 
conseguente 
obbligo in capo al 
soggetto che 
utilizza 
il 
sistema 
di 
garantire 
idonea 
compliance 
ai 
requisiti 
richiesti 
dalla normativa europea. 
(11) Il 
Considerando 25 
precisa, infatti, che 
l’AI Act 
«(…) dovrebbe 
sostenere 
l’innovazione, rispettare 
la 
libertà 
della 
scienza 
e 
non dovrebbe 
pregiudicare 
le 
attività 
di 
ricerca 
e 
sviluppo. È 
pertanto 
necessario 
escludere 
dal 
suo 
ambito 
di 
applicazione 
i 
sistemi 
e 
i 
modelli 
di 
IA 
specificamente 
sviluppati 
e 
messi 
in servizio al 
solo scopo di 
ricerca 
e 
sviluppo scientifici. È 
inoltre 
necessario garantire 
che 
il 
regolamento 
non incida 
altrimenti 
sulle 
attività 
scientifiche 
di 
ricerca 
e 
sviluppo relative 
ai 
sistemi 
o modelli 
di IA prima dell’immissione sul mercato o della messa in servizio (…)». 
(12) Il 
cui 
paragrafo 1 dispone 
quanto segue: 
«Sono vietate 
le 
pratiche 
di 
IA 
seguenti: 
a) l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in servizio o l’uso di 
un sistema 
di 
IA 
che 
utilizza 
tecniche 
subliminali 
che 
agiscono senza 
che 
una 
persona 
ne 
sia 
consapevole 
o tecniche 
volutamente 
manipolative 
o ingannevoli 
aventi 
lo scopo o l’effetto di 
distorcere 
materialmente 
il 
comportamento di 
una 
persona 
o di 
un gruppo 
di 
persone, pregiudicando in modo considerevole 
la 
sua 
capacità 
di 
prendere 
una 
decisione 
informata, 
inducendo pertanto una 
persona 
a 
prendere 
una 
decisione 
che 
non avrebbe 
altrimenti 
preso, in un modo 
che 
provochi 
o possa 
provocare 
a 
tale 
persona, a 
un’altra 
persona 
o a 
un gruppo di 
persone 
un danno significativo; 
b) l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in servizio o l’uso di 
un sistema 
di 
IA 
che 
sfrutta 
le 
vulnerabilità 
di 
una 
persona 
o di 
uno specifico gruppo di 
persone, dovute 
all’età, alla 
disabilità 
o a 
una 
specifica 
situazione 
sociale 
o economica, con l’obiettivo o l’effetto di 
distorcere 
materialmente 
il 
comportamento 
di 
tale 
persona 
o di 
una 
persona 
che 
appartiene 
a 
tale 
gruppo in un modo che 
provochi 
o 
possa 
ragionevolmente 
provocare 
a 
tale 
persona 
o a 
un’altra 
persona 
un danno significativo; 
c) l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in servizio o l’uso di 
sistemi 
di 
IA 
ai 
fini 
della 
valutazione 
o della 
classificazione 
delle 
persone 
fisiche 
o di 
gruppi 
di 
persone 
per un determinato periodo di 
tempo sulla 
base 
del 
loro 
comportamento 
sociale 
o 
di 
caratteristiche 
personali 
o 
della 
personalità 
note, 
inferite 
o 
previste, 
in cui 
il 
punteggio sociale 
così 
ottenuto comporti 
il 
verificarsi 
di 
uno o di 
entrambi 
i 
seguenti 
scenari: 
i) 
un 
trattamento 
pregiudizievole 
o 
sfavorevole 
di 
determinate 
persone 
fisiche 
o 
di 
interi 
gruppi 
di 
persone 
in contesti 
sociali 
che 
non sono collegati 
ai 
contesti 
in cui 
i 
dati 
sono stati 
originariamente 
generati 
o 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


bliminali 
per manipolare 
i 
comportamenti 
di 
una 
persona; 
quelli 
che 
abusano 
di 
persone 
vulnerabili 
e 
fragili; 
la 
categorizzazione 
biometrica 
che 
fa 
riferimento 
a 
dati 
personali 
sensibili, come 
il 
credo religioso, l’orientamento politico 
o sessuale; 
la 
pesca 
a 
strascico (il 
cd. web scraping) da 
internet 
di 
volti, 
come 
fece 
anni 
fa 
la 
contestata 
startup Clearview 
AI; 
il 
riconoscimento delle 
emozioni 
sul 
posto 
di 
lavoro 
o 
a 
scuola; 
i 
sistemi 
di 
punteggio 
o 
social 
scoring. 
Il 
testo vieta 
anche 
la 
polizia 
predittiva, ossia 
la 
tecnica 
investigativa 
che 
utilizza 
informazioni 
come 
tratti 
della 
personalità, nazionalità, situazione 
familiare 
o economica, per stabilire la probabilità di commissione di un reato. 


tuttavia, sono previste 
alcune 
eccezioni. Per esempio, il 
divieto di 
categorizzazione 
biometrica 
non vieta 
l’etichettatura 
o il 
filtro di 
dataset 
biometrici, 
legalmente 
acquisiti, 
per 
scopi 
di 
polizia. 
E 
sono 
ammessi 
sistemi 
di 
analisi 
del 
rischio che 
non facciano profilazione 
di 
individui, come 
quelli 
per 
smascherare 
transazioni 
sospette 
o 
per 
tracciare 
le 
rotte 
del 
narcotraffico, 
sulla 
base dello storico accumulato nei database. 


E 
poi 
c'è 
il 
paragrafo h (13), uno dei 
più combattuti 
nelle 
negoziazioni 


raccolti; 
ii) un trattamento pregiudizievole 
o sfavorevole 
di 
determinate 
persone 
fisiche 
o di 
gruppi 
di 
persone 
che 
sia 
ingiustificato 
o 
sproporzionato 
rispetto 
al 
loro 
comportamento 
sociale 
o 
alla 
sua 
gravità; 


d) l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in servizio per tale 
finalità 
specifica 
o l’uso di 
un sistema 
di 
IA 
per 
effettuare 
valutazioni 
del 
rischio 
relative 
a 
persone 
fisiche 
al 
fine 
di 
valutare 
o 
prevedere 
la 
probabilità 
che 
una 
persona 
fisica 
commetta 
un 
reato, 
unicamente 
sulla 
base 
della 
profilazione 
di 
una 
persona 
fisica 
o 
della 
valutazione 
dei 
tratti 
e 
delle 
caratteristiche 
della 
personalità; 
tale 
divieto 
non 
si 
applica 
ai 
sistemi 
di 
IA 
utilizzati 
a 
sostegno della 
valutazione 
umana 
del 
coinvolgimento di 
una 
persona 
in un’attività 
criminosa, 
che 
si 
basa 
già 
su fatti 
oggettivi 
e 
verificabili 
direttamente 
connessi 
a 
un’attività 
criminosa; 
e) 
l’immissione 
sul 
mercato, 
la 
messa 
in 
servizio 
per 
tale 
finalità 
specifica 
o 
l’uso 
di 
sistemi 
di 
IA 
che 
creano o ampliano le 
banche 
dati 
di 
riconoscimento facciale 
mediante 
scraping 
non mirato di 
immagini 
facciali 
da 
internet 
o da 
filmati 
di 
telecamere 
a 
circuito chiuso; 
f) l’immissione 
sul 
mercato, la 
messa 
in 
servizio per tale 
finalità 
specifica 
o l’uso di 
sistemi 
di 
IA 
per inferire 
le 
emozioni 
di 
una 
persona 
fisica 
nell’ambito del 
luogo di 
lavoro e 
degli 
istituti 
di 
istruzione, tranne 
laddove 
l’uso del 
sistema 
di 
IA 
sia 
destinato a 
essere 
messo in funzione 
o immesso sul 
mercato per motivi 
medici 
o di 
sicurezza; 
g) l’immissione 
sul 
mercato, 
la 
messa 
in 
servizio 
per 
tale 
finalità 
specifica 
o 
l’uso 
di 
sistemi 
di 
categorizzazione 
biometrica 
che 
classificano 
individualmente 
le 
persone 
fisiche 
sulla 
base 
dei 
loro 
dati 
biometrici 
per 
trarre 
deduzioni 
o inferenze 
in merito a 
razza, opinioni 
politiche, appartenenza 
sindacale, convinzioni 
religiose 
o filosofiche, vita 
sessuale 
o orientamento sessuale; 
tale 
divieto non riguarda 
l’etichettatura 
o 
il 
filtraggio 
di 
set 
di 
dati 
biometrici 
acquisiti 
legalmente, 
come 
le 
immagini, 
sulla 
base 
di 
dati 
biometrici 
o della categorizzazione di dati biometrici nel settore delle attività di contrasto; h) (...)». 
(13) «(…) h) l’uso di 
sistemi 
di 
identificazione 
biometrica 
remota 
“in tempo reale” 
in spazi 
accessibili 
al 
pubblico 
a 
fini 
di 
attività 
di 
contrasto, 
a 
meno 
che 
e 
nella 
misura 
in 
cui 
tale 
uso 
sia 
strettamente 
necessario per uno dei 
seguenti 
obiettivi: 
i) la 
ricerca 
mirata 
di 
specifiche 
vittime 
di 
sottrazione, tratta 
di 
esseri 
umani 
o sfruttamento sessuale 
di 
esseri 
umani, nonché 
la 
ricerca 
di 
persone 
scomparse; 
ii) la 
prevenzione 
di 
una 
minaccia 
specifica, sostanziale 
e 
imminente 
per la 
vita 
o l’incolumità 
fisica 
delle 
persone 
fisiche 
o di 
una 
minaccia 
reale 
e 
attuale 
o reale 
e 
prevedibile 
di 
un attacco terroristico; 
iii) la 
localizzazione 
o l’identificazione 
di 
una 
persona 
sospettata 
di 
aver commesso un reato, ai 
fini 
dello svolgimento 
di 
un’indagine 
penale, 
dell’esercizio 
di 
un’azione 
penale 
o 
dell’esecuzione 
di 
una 
sanzione 
penale 
per 
i 
reati 
di 
cui 
all’allegato 
II, 
punibile 
nello 
Stato 
membro 
interessato 
con 
una 
pena 
o 
una 
misura 
di 
sicurezza 
privativa 
della 
libertà 
della 
durata 
massima 
di 
almeno quattro anni. La 
lettera 
h) del 
primo 
comma 
lascia 
impregiudicato l’articolo 9 del 
regolamento (UE) 2016/679 per quanto riguarda 
il 
trattamento 
dei dati biometrici a fini diversi dall’attività di contrasto». 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


tra 
Consiglio e 
Parlamento. Perché 
riguarda 
l’impiego di 
sistemi 
di 
riconoscimento 
facciale 
e 
biometrico 
in 
tempo 
reale. 
Applicazione 
proibita, 
perché, 
come 
si 
legge 
nelle 
premesse, può portare 
“a risultati 
marcati 
da pregiudizi 
e 
provocare 
effetti 
discriminatori”, 
salvo 
in 
tre 
“situazioni 
ampiamente 
elencante 
e 
ben definite”, nelle 
quali 
il 
ricorso al 
riconoscimento facciale 
“è 
necessario 
per 
raggiungere 
un 
sostanziale 
pubblico 
interesse, 
la 
cui 
importanza 
supera i 
rischi”. E 
i 
tre 
casi 
sono quelli 
annunciati 
a 
dicembre: 
la 
ricerca 
di 
vittime 
di 
reati 
e 
di 
persone 
scomparse; 
minacce 
certe 
alla 
vita 
o 
alla 
sicurezza 
fisica 
delle 
persone 
o di 
attacco terroristico; 
localizzazione 
e 
identificazione 
dei 
presunti 
autori 
di 
una 
lista 
di 
16 
reati 
contenuti 
nell’allegato 
II 
(14). 
L’elenco 
comprende: 
terrorismo; 
traffico 
di 
esseri 
umani; 
abusi 
sessuali 
su 
minori 
e 
pedopornografia; 
traffico di 
droghe 
e 
sostanze 
psicotrope; 
traffico illecito 
di 
armi, munizioni 
ed esplosivi; 
omicidio o gravi 
feriti; 
traffico di 
organi; 
traffico 
di 
materiale 
radioattivo 
e 
nucleare; 
sequestro 
di 
persona 
e 
ostaggi; 
crimini 
sotto la 
giurisdizione 
della 
Corte 
penale 
internazionale; 
dirottamento di 
aerei 
e 
navi; 
stupri; 
crimini 
ambientali; 
rapine 
organizzate 
e 
armate; 
sabotaggio; 
partecipazione 
a 
una 
organizzazione 
criminale 
coinvolta 
in uno o più crimini 
tra quelli elencati. 


Il 
riconoscimento biometrico da 
remoto in tempo reale 
deve 
essere 
utilizzato 
“solo per 
confermare 
l’identità” 
della 
persona 
che 
è 
stata 
individuata 
come 
target, dopo aver bilanciato il 
rischio che 
si 
corre 
senza 
fare 
ricorso a 
questa 
tecnologia 
rispetto 
ai 
risultati 
consentiti 
dal 
suo 
impiego 
e 
per 
lo 
stretto 
necessario, “nello spazio e 
nel 
tempo”. Per adottare 
questi 
strumenti, le 
forze 
di 
polizia 
devono 
prima 
fare 
un 
controllo 
sugli 
impatti 
sui 
diritti 
fondamentali 
dei 
cittadini 
e 
avere 
il 
placet 
di 
un 
giudice 
o 
di 
un 
ente 
indipendente. 
L’AI 
Act, 
tuttavia, garantisce 
una 
procedura 
d’urgenza. In questo caso si 
può attivare 
la 
sorveglianza 
biometrica 
e 
ci 
sono 24 ore 
di 
tempo per richiedere 
l’autorizzazione. 
Se 
manca 
tale 
autorizzazione, 
l’uso 
del 
riconoscimento 
facciale 
va 
bloccato 
immediatamente e tutti i dati devono essere cancellati. 

I garanti 
nazionali 
dei 
dati 
personali 
e 
del 
mercato devono spedire 
ogni 
anno 
alla 
Commissione 
un 
rapporto 
sull’uso 
dei 
sistemi 
di 
riconoscimento 
biometrico 
in tempo reale, così 
come 
di 
eventuali 
usi 
proibiti. Ad ogni 
modo, gli 
Stati 
dell’Unione 
possono 
adottare 
leggi 
nazionali 
per 
ampliare 
il 
raggio 


(14) Il 
quale, sotto la 
rubrica 
“Elenco di 
reati 
di 
cui 
all’articolo 5, paragrafo 1, lettera 
e), punto 
iii)”, precisa 
che 
i 
reati 
richiamati 
dall’articolo menzionato nella 
rubrica 
sono da 
intendersi 
i 
seguenti: 
«terrorismo, 
tratta 
di 
esseri 
umani, 
sfruttamento 
sessuale 
di 
minori 
e 
pornografia 
minorile, 
traffico 
illecito 
di 
stupefacenti 
o sostanze 
psicotrope, traffico illecito di 
armi, munizioni 
ed esplosivi, omicidio volontario, 
lesioni 
gravi, traffico illecito di 
organi 
e 
tessuti 
umani, traffico illecito di 
materie 
nucleari 
e 
radioattive, 
sequestro, detenzione 
illegale 
e 
presa 
di 
ostaggi, reati 
che 
rientrano nella 
competenza 
della 
Corte 
penale 
internazionale, illecita 
cattura 
di 
aeromobile 
o nave, violenza 
sessuale, reato ambientale, rapina 
organizzata 
o a 
mano armata, sabotaggio, partecipazione 
ad un’organizzazione 
criminale 
coinvolta 
in 
uno o più dei reati elencati sopra». 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


d’azione 
della 
sorveglianza 
biometrica, nel 
rispetto dei 
paletti 
fissati 
dall’AI 
Act. Le 
stesse 
regole 
si 
applicano anche 
per il 
riconoscimento facciale 
usato 
ex 
post. In questo caso la 
finestra 
per ottenere 
l’autorizzazione 
in casi 
di 
urgenza 
è di 48 ore. 


Le intelligenze artificiali ad alto rischio. 


Sotto i 
sistemi 
vietati, si 
collocano quelli 
ad alto rischio, che 
pongono un 
significativo rischio per la 
salute, la 
sicurezza 
o i 
diritti 
fondamentali 
dei 
cittadini. 
A 
questa 
categoria 
è 
espressamente 
dedicato il 
titolo III dell’AI Act, il 
quale 
si 
apre 
con l’articolo 6. Questa 
disposizione 
è 
preordinata, nei 
paragrafi 
1 e 
2, all’individuazione 
dei 
sistemi 
classificabili 
come 
IA 
“ad alto rischio” 
(15). Vi 
rientrano sistemi 
di 
identificazione 
e 
categorizzazione 
biometrica 
o 
per il 
riconoscimento delle 
emozioni; 
applicativi 
di 
sicurezza 
di 
infrastrutture 
critiche; 
software 
educativi 
o di 
formazione, per valutare 
i 
risultati 
di 
studio, 
per assegnare 
corsi 
o per controllare 
gli 
studenti 
durante 
gli 
esami. E 
poi 
vi 
sono gli 
algoritmi 
usati 
sul 
lavoro, per valutare 
curriculum 
o distribuire 
compiti 
e 
impieghi; 
quelli 
adoperati 
dalla 
pubblica 
amministrazione 
o da 
enti 
privati 
per 
distribuire 
sussidi, 
per 
classificare 
richieste 
di 
emergenza, 
per 
smascherare 
frodi 
finanziarie 
o per stabilire 
il 
grado di 
rischio quando si 
sottoscrive 
un’assicurazione. 

Qui 
occorre 
fare 
il 
bilanciamento tra 
tecne 
ed episteme, affinché 
l’algoritmo 
“if 
this, 
then 
that” 
non 
si 
trasformi 
nel 
binomio 
servo-padrone 
di 
cui 
parla hegel nella 
Fenomenologia dello Spirito. 


Infine 
ricadono in questa 
categoria 
gli 
algoritmi 
usati 
dalle 
forze 
dell’ordine, 
dal 
potere 
giudiziario 
e 
dalle 
autorità 
di 
frontiera 
per 
valutare 
rischi, 
scoprire 
flussi 
di 
immigrazione 
illegale 
o stabilire 
pericoli 
sanitari, impedendo a 
una 
persona 
di 
varcare 
i 
confini 
dell’Unione. Se 
però l’algoritmo serve 
solo 


(15) «1. A 
prescindere 
dal 
fatto che 
sia 
immesso sul 
mercato o messo in servizio in modo indipendente 
rispetto ai 
prodotti 
di 
cui 
alle 
lettere 
a) e 
b), un sistema 
di 
IA 
è 
considerato ad alto rischio se 
sono soddisfatte 
entrambe 
le 
condizioni 
seguenti: 
a) il 
sistema 
di 
IA 
è 
destinato a 
essere 
utilizzato come 
componente 
di 
sicurezza 
di 
un prodotto, o il 
sistema 
di 
IA 
è 
esso stesso un prodotto, disciplinato dalla 
normativa 
di 
armonizzazione 
dell’Unione 
elencata 
nell’allegato I; 
b) il 
prodotto, il 
cui 
componente 
di 
sicurezza 
a 
norma 
della 
lettera 
a) 
è 
il 
sistema 
di 
IA, 
o 
il 
sistema 
di 
IA 
stesso 
in 
quanto 
prodotto, 
è 
soggetto 
a 
una 
valutazione 
della 
conformità 
da 
parte 
di 
terzi 
ai 
fini 
dell’immissione 
sul 
mercato o della 
messa 
in 
servizio di 
tale 
prodotto ai 
sensi 
della 
normativa 
di 
armonizzazione 
dell’Unione 
elencata 
nell’allegato 
I. 2. oltre 
ai 
sistemi 
di 
IA 
ad alto rischio di 
cui 
al 
paragrafo 1, sono considerati 
ad alto rischio i 
sistemi 
di 
IA 
di 
cui 
all’allegato III». Dunque, mentre 
il 
primo paragrafo pone 
due 
condizioni 
(rinviando all’Allegato 
I ove 
sono riportate 
normative 
europee 
di 
armonizzazione) al 
verificarsi 
delle 
quali 
il 
sistema 
di 
IA 
è 
da 
ritenersi 
ad 
alto 
rischio, 
il 
secondo 
paragrafo 
contiene 
una 
clausola 
residuale. 
Infatti, 
dall’analisi 
dell’Allegato 
III 
(cui 
rimanda 
l’articolo 
6, 
paragrafo 
2) 
si 
evince 
la 
decisione 
del 
legislatore 
comunitario 
di 
applicare 
ai 
sistemi 
di 
IA 
la 
disciplina 
prevista 
per i 
sistemi 
ad alto rischio in base 
all’ambito applicativo 
dello specifico sistema. La 
ratio 
di 
una 
simile 
posizione 
si 
coglie 
in considerazione 
del 
fatto che 
è 
proprio il 
contesto di 
utilizzazione 
di 
una 
determinata 
tecnologia 
di 
IA 
a 
definire 
il 
grado di 
impatto 
potenzialmente pregiudizievole sui diritti fondamentali. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


per svolgere 
una 
procedura 
limitata, per migliorare 
i 
risultati 
già 
ottenuti 
da 
un essere 
umano, per identificare 
deviazioni 
dagli 
usuali 
processi 
decisionali 


o 
per 
svolgere 
lavori 
preparatori 
di 
controllo, 
allora 
non 
può 
essere 
considerato 
ad alto rischio. 
Entro 
18 
mesi 
dall’entrata 
in 
vigore 
del 
regolamento, 
la 
Commissione 
fornirà 
linee 
guida 
per 
applicare 
in 
pratica 
le 
norme 
sui 
sistemi 
ad 
alto 
rischio. 
Così 
come 
modificare 
la 
lista 
degli 
algoritmi 
che 
ricadono 
sotto 
questa 
categoria. 
Per 
farlo 
occorre 
stabilire 
gli 
scopi 
della 
tecnologia, 
l’estensione 
d’uso 
e 
di 
autonomia 
decisionale, 
natura 
e 
quantità 
di 
dati 
processati, 
abusi 
su 
gruppi 
di 
persone, 
così 
come 
la 
possibilità 
di 
correggere 
un 
errore 
o 
i 
benefici 
ottenuti. 
Un 
database 
conterrà 
l’elenco 
aggiornato 
dei 
sistemi 
ad 
alto 
rischio 
usati 
in 
Europa. 


Sarà 
ad 
esempio 
ad 
alto 
rischio 
il 
nuovo 
sistema 
Life2vec 
di 
cui 
si 
sta 
parlando 
in 
questi 
ultimi 
giorni 
per 
predire 
e 
forse 
ritardare 
la 
morte? 
Come 
è 
noto 
i 
ricercatori 
di 
Copenaghen 
e 
della 
Northeastern 
University 
di 
Boston 
hanno 
sviluppato 
un 
algoritmo 
definito 
appunto 
Life2vec, 
utilizzando 
una 
vasta 
quantità 
di 
dati 
provenienti 
dall’anagrafe 
nazionale 
danese. Questi 
dati 
comprendono 
dettagli 
come 
istruzione, lavoro, stato di 
salute 
e 
altro ancora, trasformando 
ogni 
evento della 
vita 
in “parole” 
per l’algoritmo. Il 
risultato? 
Una 
previsione 
della 
mortalità 
prematura, con un’incredibile 
precisione 
del 
79%, 
superando di gran lunga altri modelli predittivi. 


Sarà 
da 
considerare 
ad alto rischio il 
sistema 
algoritmico definito RAG, 
ossia 
il 
Retrieval 
Augmented 
Generation, 
un 
sistema 
che 
può 
portare 
ChatGPt 
ad 
un 
livello 
superiore, 
permettendo 
agli 
algoritmi 
di 
“attingere” 
informazioni 
da 
fonti 
esterne, quasi 
se 
potessero consultare 
in tempo reale 
un’enciclopedia 


o un database 
esterni per fornire risposte sempre più dettagliate? 
Di 
fronte 
a 
tale 
tecnologia 
siamo 
oltre 
il 
test 
di 
turing 
e 
la 
legge 
di 
Moore 
e 
oltre 
quello 
che 
ha 
immaginato 
Geoffrey 
hinton, 
padre 
dell’AI, 
psicologo 
cognitivo 
ed 
informatico 
che 
ha 
lasciato 
il 
suo 
ruolo 
in 
Google 
per 
poter 
parlare 
liberamente 
dei 
rischi 
dell’AI. 
Si 
ricorda 
che 
l’impatto 
di 
hinton 
su 
AI 
è 
dovuto, 
soprattutto, 
al 
suo 
lavoro 
sulle 
cd. 
backpropagation 
o 
retropropagazione, 
la 
base 
del 
deep 
learning 
(16): 
una 
tecnica 
di 
apprendimento 
che 
aiuta 
le 
reti 
neurali 
a 
migliorare 
le 
loro 
previsioni 
attraverso 
il 
sistema 
neurale 
convoluzionale. 


(16) Espressione 
coniata 
da 
A.L. SAMUEL, Some 
studies 
in Machine 
Learning using the 
game 
of 
Checkers, 3 IBM 
Journal 
of research and Development 
210 (1959), la 
quale 
indica 
«(…) un campo di 
ricerca 
appartenente 
alla 
famiglia 
del 
machine 
learning 
(omissis) 
e 
dell’intelligenza 
artificiale 
(omissis), 
finalizzato 
alla 
creazione 
di 
un 
algoritmo 
di 
apprendimento 
capace 
di 
risolvere 
problemi 
complessi 
sulla 
base 
di 
informazioni 
catalogate 
e 
rielaborate 
in 
un 
ordine 
consequenziale 
di 
nozioni. 
Mediante 
l’impiego 
di 
calcoli 
matematici 
e 
informatici, definiti 
“reti 
neurali 
artificiali”, l’apprendimento profondo, che 
può 
seguire 
diversi 
modelli, si 
basa 
sulla 
raccolta, analisi 
e 
selezione 
di 
diversi 
dati 
al 
fine 
di 
raggiungere 
una 
determinata 
conclusione, 
al 
pari 
di 
quanto 
accade 
all’interno 
di 
un 
cervello 
biologico 
quando 
si 
debba 
trovare 
una 
soluzione 
ad 
un 
problema. 
Come 
un 
cervello 
umano, 
il 
deep 
learning, 
inoltre, 
sviluppa 
nuovi 
processi 
di 
apprendimento e 
ragionamento utilizzando e 
combinando in modo nuovo le 
maggiori 
informazioni acquisite», L. torChIA, Lo stato digitale, il Mulino, Bologna, 2023, p. 186. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Chi 
sviluppa 
sistemi 
di 
AI 
ad 
alto 
rischio 
è 
tenuto 
a 
stabilire 
sistemi 
di 
controllo, 
gestire 
in 
modo 
trasparente 
i 
dati 
(17), 
chiarendo 
l’origine 
delle 
informazioni 
usate 
e 
mantenendole 
aggiornate, 
e 
registrare 
in 
automatico 
i 
log, 
da 
conservare 
per 
tutta 
la 
vita 
commerciale 
dell’algoritmo 
(18), 
per 
poter 
risalire 
a 
eventuali 
situazioni 
di 
rischio 
e 
indagare 
sulle 
origini 
(compiendo 
il 
cd. 
reverse 
engineering). 
Sono 
centrali 
i 
concetti 
di 
security 
(19), 
safety 
(20), 
transparency 
(21) 
e 
explanibility 
(22). 
Inoltre 
devono 
essere 
forniti 
i 
documenti 
tecnici 
(da 
conservare 
per 
10 
anni) 
(23), 
in 
versione 
light 
per 
startup 
e 
piccole 
e 
medie 
imprese. 
Gli 
sviluppatori 
di 
sistemi 
ad 
alto 
rischio 
dovranno 
comunicare 
il 
livello 
di 
accuratezza 
dell’AI, 
compresa 
una 
serie 
di 
metriche 
stabilita 
dalla 
Commissione, 
robustezza 
e 
sicurezza 
informatica 
(24). 
Il 
tutto 
sotto 
il 
controllo 
di 
un 
essere 
umano, 
il 
quale, 
in 
caso 
di 
pericolo 
imminente, 
può 
bloccare 
l’intelligenza 
artificiale 
attraverso 
un 
“bottone 
di 
stop 
o 
una 
procedura 
simile, 
che 
consente 
al 
sistema 
di 
bloccarsi 
in 
modo 


(17) È 
infatti 
imposto ai 
fornitori 
di 
sistemi 
di 
IA 
ad alto rischio di 
porre 
in essere 
un “sistema 
di 
gestione 
della 
qualità” 
(ex 
articolo 
17, 
AI 
Act) 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
conformità 
al 
regolamento. 
oggetto 
di 
questo sistema 
di 
gestione 
sono anche 
gli 
aspetti 
concernenti 
i 
dati, a 
norma 
del 
paragrafo 1, lettera 
f 
dello 
stesso 
articolo 
17. 
La 
menzionata 
disposizione 
sancisce 
infatti 
quanto 
segue: 
«I 
fornitori 
di 
sistemi 
di 
IA 
ad alto rischio istituiscono un sistema 
di 
gestione 
della 
qualità 
che 
garantisce 
la 
conformità 
al 
presente 
regolamento. tale 
sistema 
è 
documentato in modo sistematico e 
ordinato sotto forma 
di 
politiche, 
procedure 
e 
istruzioni 
scritte 
e 
comprende 
almeno i 
seguenti 
aspetti: 
(…) f) i 
sistemi 
e 
le 
procedure 
per 
la 
gestione 
dei 
dati, compresa 
l’acquisizione, la 
raccolta, l’analisi, l’etichettatura, l’archiviazione, la 
filtrazione, 
l’estrazione, l’aggregazione, la 
conservazione 
dei 
dati 
e 
qualsiasi 
altra 
operazione 
riguardante 
i 
dati 
effettuata 
prima 
e 
ai 
fini 
dell’immissione 
sul 
mercato o della 
messa 
in servizio di 
sistemi 
di 
IA 
ad 
alto rischio; (…)». 
(18) ex 
articolo 12, paragrafo 1 del regolamento in questione. 
(19) L’articolo 15 al 
paragrafo 1 sancisce 
infatti 
che 
i 
sistemi 
ad alto rischio devono essere 
sviluppati 
in modo tale da presentare un idoneo grado di accuratezza, robustezza e cibersicurezza. 
(20) 
A 
tal 
fine, 
è 
previsto 
dall’articolo 
14 
che 
sia 
garantita 
la 
supervisione 
umana 
sull’attività 
svolta 
dai 
sistemi 
ad 
alto 
rischio. 
Il 
paragrafo 
2 
dello 
stesso 
articolo 
prevede 
che 
«[l]a 
sorveglianza 
umana 
mira 
a 
prevenire 
o ridurre 
al 
minimo i 
rischi 
per la 
salute, la 
sicurezza 
o i 
diritti 
fondamentali 
che 
possono 
emergere 
quando 
un 
sistema 
di 
IA 
ad 
alto 
rischio 
è 
utilizzato 
conformemente 
alla 
sua 
finalità 
prevista 
o in condizioni 
di 
uso improprio ragionevolmente 
prevedibile, in particolare 
qualora 
tali 
rischi 
persistano nonostante l’applicazione di altri requisiti di cui alla presente sezione». 
(21) In specifico riferimento alla 
categoria 
dei 
sistemi 
di 
IA 
ad alto rischio, l’articolo 13 postula 
la 
necessità 
di 
progettazione 
e 
sviluppo degli 
stessi 
in modo trasparente, essendo questa 
una 
condizione 
necessaria 
e 
indefettibile 
affinché 
gli 
utenti 
possano 
fare 
degli 
output 
prodotti 
dai 
sistemi 
un 
utilizzo 
consapevole. Dunque, il 
paragrafo 2 dello stesso articolo prevede 
che 
«[i] sistemi 
di 
IA 
ad alto rischio 
sono accompagnati 
da 
istruzioni 
per l’uso in un formato digitale 
o non digitale 
appropriato, che 
comprendono 
informazioni 
concise, complete, corrette 
e 
chiare 
che 
siano pertinenti, accessibili 
e 
comprensibili 
per 
i 
deployer», 
demandando 
al 
seguente 
paragrafo 
3 
l’individuazione 
del 
contenuto 
minimo 
delle 
istruzioni per l’uso. 
(22) Elemento funzionale 
alla 
trasparenza, come 
evidenziato dal 
Considerando 27 
nella 
parte 
in 
cui 
enuncia 
che 
«(…) [c]on “trasparenza” 
si 
intende 
che 
i 
sistemi 
di 
IA 
sono sviluppati 
e 
utilizzati 
in 
modo da 
consentire 
un’adeguata 
tracciabilità 
e 
spiegabilità, rendendo gli 
esseri 
umani 
consapevoli 
del 
fatto 
di 
comunicare 
o 
interagire 
con 
un 
sistema 
di 
IA 
e 
informando 
debitamente 
i 
deployer 
delle 
capacità 
e dei limiti di tale sistema di IA e le persone interessate dei loro diritti (…)». 
(23) A norma dell’articolo 18 dell’AI Act. 
(24) A norma del paragrafo 2 dell’articolo 15. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


sicuro” 
(25). 
Gli 
sviluppatori 
sono 
tenuti 
a 
istituire 
un 
sistema 
di 
verifica 
della 
qualità, 
a 
sottoporsi 
alle 
analisi 
di 
conformità, 
applicare 
il 
marchio 
CE, 
che 
identifica 
un 
prodotto 
autorizzato 
nell’Unione, 
comunicare 
eventuali 
incidenti 
alle 
autorità. 
Anche 
importatori 
o 
distributori 
sono 
tenuti 
a 
conservare 
i 
documenti 
sulla 
sicurezza 
dell’AI 
che 
hanno 
venduto. 
E 
a 
sottoporsi 
a 
più 
controlli, 
se 
modificano 
l’algoritmo 
al 
punto 
da 
farlo 
ricadere 
nella 
categoria 
ad 
alto 
rischio. 
È 
previsto 
anche 
un 
sistema 
di 
monitoraggio 
dopo 
l’immissione 
di 
un 
sistema 
sul 
mercato, 
dal 
quale 
sono 
escluse 
le 
forze 
dell’ordine. 


Primo problema: 
accanto a 
norme 
cd. prudenziali 
volte 
a 
definire 
il 
cd. 
pre-emptive 
remedy 
(rimedio preventivo ed ingiunzione 
dinamica) le 
certificazioni 
sono rimesse 
alle 
stesse 
società 
di 
sviluppatori. Siamo sicuri 
che 
in tal 
modo i 
soprarichaimati 
concetti 
di 
safety 
e 
security 
saranno salvaguardati 
o 
prevarranno le 
logiche 
del 
profitto? 
Per ora 
possiamo solo dire 
ai 
posteri 
l’ardua 
sentenza 
se 
è 
vero 
che 
dovrà 
prevalere 
la 
cd. 
“teoria 
della 
competenza 
specifica 
del 
rischio” 
in 
una 
logica 
Gaussiana 
e 
nella 
logica 
dell’insegnamento 
di 
Lessig (26) della 
Nuova 
Scuola 
di 
Chicago che 
vede 
una 
distinzione 
tra 
diritto, 
norme 
eterogiuridiche, mercato e 
architettura. In tale 
quadro problematica 
sarà 
la 
definizione 
del 
dato 
sintetico 
secondo 
la 
metodologia 
GANS 
(Generative 
Adversarial Network). 


I sistemi di 
AI per uso generale. 


Il 
testo regola 
i 
sistemi 
di 
AI per uso generale 
(i 
cd. general 
purpose 
AI 
models, 
o 
modelli 
GPAI) 
(27), 
in 
grado 
di 
svolgere 
compiti 
diversi 
(come 
creare 
un testo o un’immagine) (28) e 
allenati 
attraverso un’enorme 
mole 
di 
dati 
(i 
cd. 
Big 
Data) 
(29) 
non 
categorizzati, 
come 
GPt-4, 
alla 
base 
del 
potente 


(25) Articolo 14, paragrafo 4, lettera e). 
(26) L. LESSIG, The New Chicago School, 27 the Journal of Legal Studies 661 (1998). 
(27) Nozione 
di 
modello GPAI che 
è 
definita 
dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 63 come 
«(…) 
un 
modello 
di 
IA, 
anche 
laddove 
tale 
modello 
di 
IA 
sia 
addestrato 
con 
grandi 
quantità 
di 
dati 
utilizzando 
l’autosupervisione 
su larga 
scala, che 
sia 
caratterizzato da 
una 
generalità 
significativa 
e 
sia 
in grado di 
svolgere 
con competenza 
un’ampia 
gamma 
di 
compiti 
distinti, indipendentemente 
dalle 
modalità 
con 
cui 
il 
modello è 
immesso sul 
mercato, e 
che 
può essere 
integrato in una 
varietà 
di 
sistemi 
o applicazioni 
a 
valle, ad eccezione 
dei 
modelli 
di 
IA 
utilizzati 
per attività 
di 
ricerca, sviluppo o prototipazione 
prima 
di essere immessi sul mercato». 
(28) La 
cd. Intelligenza 
Artificiale 
Generativa 
o, nella 
denominazione 
anglosassone, Generative 
Artificial Intelligence. 
(29) Espressione 
che 
indica 
una 
particolare 
confluenza 
di 
volume, 
velocità 
e 
varietà 
di 
informazioni, 
così 
P. 
zIkoPoULoS, 
Harness 
the 
Power 
of 
Big 
Data: 
The 
IBM 
Big 
Data 
Platform, 
McGraw 
hill 
Professional, 
2012, 
p. 
61. 
In 
relazione 
al 
rapporto 
tra 
IA 
e 
big 
data, 
è 
stato 
sostenuto 
che 
maggiore 
è 
la 
velocità, 
l’ampiezza 
e 
la 
varietà 
dei 
dati 
immessi 
nel 
sistema, 
maggiore 
saranno 
le 
capacità 
e 
la 
qualità 
del 
sistema. 
In 
tal 
senso, 
A. 
GUADAMUz, 
A 
Scanner 
Darkly: 
Copyright 
Liability 
and 
Exceptions 
in 
Artificial 
Intelligence 
inputs 
and 
outputs, 
2 
GrUr 
International 
(di 
prossima 
pubblicazione, 
2024), 
disponibile 
su 
SSrN: 
https://ssrn.com/abstract=4371204 
o 
http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4371204, 
p. 
3. 
Questa 
conclusione 
è 
confermata 
dal 
fatto 
che 
all’impiego 
di 
una 
più 
vasta 
scala 
di 
dati 
corrisponde 
una 
riduzione 
della 
cd. 
“loss 
function” 
(la 
funzione 
di 
perdita), 
la 
quale 
determina 
l’entità 
di 
errore 
del 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


chatbot 
ChatGPt, 
o 
LaMDA, 
dietro 
Google 
Bard. 
Gli 
sviluppatori 
devono 
assicurarsi 
che 
i 
contenuti 
siano 
marcati 
in 
un 
sistema 
leggibile 
da 
una 
macchina 
e 
siano riconoscibili 
come 
generati 
da 
un’AI (30). Un utente 
deve 
sapere 
se 
sta 
interagendo 
con 
un 
chatbot. 
E 
i 
contenuti 
deepfake 
devono 
essere 
etichettati 
come 
tali 
(attraverso sistemi 
come 
il 
watermarking, la 
filigrana 
digitale 
applicata 
a 
foto o video) (31). Previsioni 
che, tuttavia, non è 
detto siano sufficienti 
a 
impedire 
la 
diffusione 
di 
fake 
news 
(32). 
Unica 
eccezione: 
l’impiego 
di 
questi 
sistemi per perseguire reati. 


modello 
di 
IA 
(così 
J. 
DrEXL, 
r.M. 
hILtY, 
F. 
BENEkE, 
L. 
DESAUNEttES, 
M. 
FINCk, 
J. 
GLoBoCNIk, 
B. 
GoNzALEz 
otEro, 
J. 
hoFFMANN, 
L. 
hoLLANDEr, 
D. 
kIM, 
h. 
rIChtEr, 
S. 
SChEUErEr, 
P.r. 
SLowINSkI, 


J. 
thoNEMANN 
(gruppo 
di 
ricerca 
per 
la 
regolazione 
dell’economia 
digitale 
del 
Max 
Plank 
Institute 
for 
Innovation 
and 
Competition), 
Technical 
Aspects 
of 
Artificial 
Intelligence: 
An 
Understanding 
from 
an 
Intellectual 
Property 
Law 
Perspective, 
versione 
1.0, 
2019, 
disponibile 
su 
https://ssrn.com/abstract=
3465577, 
p. 
7). 
(30) 
La 
scelta 
del 
sistema 
del 
cd. 
watermarking 
è 
stata 
condivisa 
anche 
da 
Cina 
e 
USA. 
Con 
particolare 
riferimento 
alla 
Cina, 
è 
stato 
precisato 
che 
sono 
previste 
tre 
forme 
di 
watermark: 
esplicito, 
implicito 
e 
per 
apposizione 
di 
metadati. 
Il 
primo 
consiste 
nell’indicazione 
della 
provenienza 
macchinica 
del 
contenuto 
in 
un 
formato 
leggibile 
agli 
esseri 
umani. 
Il 
secondo 
si 
realizza 
tramite 
l’apposizione 
di 
“etichette” 
impercettibili 
all’occhio 
umano, 
sulle 
quali 
risulti 
quantomeno 
il 
nome 
del 
provider 
del 
sistema 
di 
IA 
utilizzato 
per 
produrre 
il 
contenuto. 
L’ultimo 
tipo 
di 
watermark 
è 
imposto 
solo 
nei 
casi 
in 
cui 
il 
contenuto 
sia 
salvato 
in 
forma 
di 
file. 
In 
tal 
senso, 
v. 
P. 
hENDErSoN, 
Should 
the 
United 
States 
or 
the 
European 
Union 
follow 
China 
lead 
and 
require 
watermarks 
for 
generative 
AI?, 
in 
Georgetown 
Journal 
of 
International 
Affairs, 
24 
maggio 
2023, 
disponibile 
presso 
https://gjia.georgetown.edu/2023/05/24/shouldthe-
united-states-or-the-european-union-follow-chinas-lead-and-require-watermarks-for-generative-ai/. 
(31) Una 
simile 
previsione 
trova 
giustificazione 
nel 
Considerando 133, il 
quale 
enuncia 
quanto 
segue: 
«[d]iversi 
sistemi 
di 
IA 
possono generare 
grandi 
quantità 
di 
contenuti 
sintetici, che 
per gli 
esseri 
umani 
è 
divenuto 
sempre 
più 
difficile 
distinguere 
dai 
contenuti 
autentici 
e 
generati 
da 
esseri 
umani. 
L’ampia 
disponibilità 
e 
l’aumento delle 
capacità 
di 
tali 
sistemi 
hanno un impatto significativo sull’integrità 
e 
sulla 
fiducia 
nell’ecosistema 
dell’informazione, 
aumentando 
i 
nuovi 
rischi 
di 
cattiva 
informazione 
e 
manipolazione 
su vasta 
scala, frode, impersonificazione 
e 
inganno dei 
consumatori. Alla 
luce 
di 
tali 
impatti, della 
rapida 
evoluzione 
tecnologica 
e 
della 
necessità 
di 
nuovi 
metodi 
e 
tecniche 
per risalire 
al-
l’origine 
delle 
informazioni, 
è 
opportuno 
imporre 
ai 
fornitori 
di 
tali 
sistemi 
di 
integrare 
soluzioni 
tecniche 
che 
consentano 
agli 
output 
di 
essere 
marcati 
in 
un 
formato 
leggibile 
meccanicamente 
e 
di 
essere 
rilevabili 
come 
generati 
o 
manipolati 
da 
un 
sistema 
di 
IA 
e 
non 
da 
esseri 
umani. 
tali 
tecniche 
e 
metodi 
dovrebbero 
essere 
sufficientemente 
affidabili, 
interoperabili, 
efficaci 
e 
solidi 
nella 
misura 
in 
cui 
ciò 
sia 
tecnicamente 
possibile, 
tenendo 
conto 
delle 
tecniche 
disponibili 
o 
di 
una 
combinazione 
di 
tali 
tecniche, 
quali 
filigrane, 
identificazioni 
di 
metadati, 
metodi 
crittografici 
per 
dimostrare 
la 
provenienza 
e 
l’autenticità 
dei 
contenuti, 
metodi 
di 
registrazione, impronte 
digitali 
o altre 
tecniche, a 
seconda 
dei 
casi. Nell’attuare 
tale 
obbligo, 
i 
fornitori 
dovrebbero tenere 
conto anche 
delle 
specificità 
e 
dei 
limiti 
dei 
diversi 
tipi 
di 
contenuti 
e 
dei 
pertinenti 
sviluppi 
tecnologici 
e 
di 
mercato nel 
settore, come 
rispecchia 
lo stato dell’arte 
generalmente 
riconosciuto. tali 
tecniche 
e 
metodi 
possono essere 
attuati 
a 
livello di 
sistema 
o a 
livello di 
modello, 
compresi 
i 
modelli 
di 
IA 
per finalità 
generali 
che 
generano contenuti, facilitando in tal 
modo l’adempimento 
di 
tale 
obbligo da 
parte 
del 
fornitore 
a 
valle 
del 
sistema 
di 
IA. Per continuare 
a 
essere 
proporzionato, 
è 
opportuno 
prevedere 
che 
tale 
obbligo 
di 
marcatura 
non 
debba 
riguardare 
i 
sistemi 
di 
IA 
che 
svolgono principalmente 
una 
funzione 
di 
assistenza 
per l’editing standard 
o i 
sistemi 
di 
IA 
che 
non modificano 
in modo sostanziale i dati di 
input 
forniti dal 
deployer 
o la rispettiva semantica». 
(32) 
Circa 
i 
limiti 
presentati 
dal 
sistema 
di 
watermarking, 
sono 
stati 
evidenziati 
i 
seguenti 
profili 
problematici: 
il 
fatto 
che 
l’implementazione 
tecnica 
di 
queste 
filigrane 
sia 
rimessa 
integralmente 
a 
carico 
dei 
fornitori 
dei 
sistemi 
di 
IA 
generativa, 
dovendo 
dunque 
affrontare 
questi 
ultimi 
le 
difficoltà 
esecutive 
(tra 
le 
quali 
rientra 
il 
dato 
per 
il 
quale 
l’apposizione 
di 
un 
watermark 
tramite 
una 
determinata 
tecnologia 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


Il 
regolamento 
fissa 
una 
soglia 
per 
identificare 
i 
sistemi 
ad 
alto 
impatto, 
che 
hanno 
maggiori 
effetti 
sulla 
popolazione 
e 
perciò 
devono 
rispettare 
obblighi 
più 
stringenti. 
L’articolo 
51 
dell’AI 
Act, 
sotto 
la 
rubrica 
“Classificazione 
del 
modelli 
di 
IA 
per 
finalità 
generali 
come 
modelli 
per 
finalità 
generali 
con 
rischio 
sistemico”, 
definisce 
al 
paragrafo 
1 
i 
criteri 
di 
qualificazione 
dei 
modelli 
di 
IA 
con 
scopi 
generali 
portatori 
di 
rischio 
sistemico 
(33), 
nelle 
lettere 
a) 
e 
b). 
La 
lettera 
a) 
fa 
riferimento 
all’elevata 
capacità 
di 
impatto 
valutata 
in 
base 
a 
strumenti 
tecnici 
adeguati 
e 
a 
indicatori 
e 
parametri 
di 
riferimento 
(34). 
La 
lettera 
b) 
riconosce 
alla 
Commissione 
il 
potere 
di 
adottare 
una 
decisione, 
ex 
officio 
o 
su 
qualificata 
segnalazione 
dello 
Scientific 
Panel, 
con 
la 
quale 
assoggetta 
uno 
specifico 
modello 
alla 
relativa 
disciplina 
poiché 
si 
ritiene 
che 
abbia 
capacità 
o 
un 
impatto 
equiparabile 
a 
quello 
di 
cui 
alla 
lettera 
a) 
(35). 


Il 
successivo 
paragrafo 
2 
prevede 
invece 
una 
presunzione 
di 
classificazione 
come 
general 
purpose 
AI 
model 
with 
systemic 
risk 
ove 
il 
modello 
raggiunga 
o 
superi 
una 
determinata 
soglia 
ivi 
fissata. 
Il 
valore, 
come 
dichiarato 
a 
dicembre, 
è 
un 
potere 
di 
calcolo 
pari 
a 
10^25 
FLoPs 
(floating 
point 
operations 
per 
second, 
un’unità 
di 
misura 
della 
capacità 
computazionale) 
(36). 
Al 
momento, 
solo 
GPt-4 
di 
openAI, 
Gemini 
di 
Google 
e 
qualche 
modello 
cinese 
rispetterebbero 
questa 
caratteristica. 
Ma 
dovranno 
essere 
gli 
sviluppatori 
a 
comunicarlo 
alla 
Commissione, 
che 
per 
adesso 
non 
si 
esprime 
sui 
modelli 
già 
nei 
radar 
dell’AI 
Act 
e 
potrà 
intervenire 
se 
viene 
a 
sapere 
che 
un 
sistema 
ad 
alto 
impatto 
non 
si 
è 
dichiarato 
tale. 
Da 
Bruxelles 
fanno 
sapere 


possa 
rendere 
il 
marchio 
non 
leggibile 
tramite 
un 
altro 
sistema); 
la 
sussistenza 
di 
una 
percentuale 
di 
errore 
nel 
rilevamento 
del 
marchio 
apposto 
(determinando 
dunque 
la 
possibilità 
di 
falsi 
positivi 
nel 
processo 
di 
controllo 
circa 
l’origine 
macchinica 
del 
contenuto); 
dubbi 
circa 
la 
robustezza 
di 
questo 
sistema, 
dovuti 
alla 
possibilità 
di 
una 
manipolazione, 
alterazione 
o 
rimozione 
dei 
marchi 
apposti 
tramite 
il 
watermarking. 
In 
tal 
senso, 
PArLAMENto 
EUroPEo, 
Generative 
AI 
and 
watermarking, 
del 
13 
dicembre 
2023, 
https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2023/757583/EPRS_BRI(2023)757583_EN.pdf, 
p. 
3. 


(33) 
La 
nozione 
di 
“rischio 
sistemico” 
è 
definita 
invece 
dall’articolo 
3, 
paragrafo 
1, 
punto 
65 
come 
un 
rischio 
«(…) 
specifico 
per 
le 
capacità 
di 
impatto 
elevato 
dei 
modelli 
di 
IA 
per 
finalità 
generali, 
avente 
un impatto significativo sul 
mercato dell’Unione 
a 
causa 
della 
sua 
portata 
o di 
effetti 
negativi 
effettivi 
o 
ragionevolmente 
prevedibili 
sulla 
salute 
pubblica, 
la 
sicurezza, 
i 
diritti 
fondamentali 
o 
la 
società 
nel suo complesso, che può propagarsi su larga scala lungo l’intera catena del valore; (…)». 
(34) «1. Un modello di 
IA 
per finalità 
generali 
è 
classificato come 
modello di 
IA 
per finalità 
generali 
con 
rischio 
sistemico 
se 
soddisfa 
uno 
dei 
seguenti 
requisiti: 
a) 
presenta 
capacità 
di 
impatto 
elevato 
valutate 
sulla 
base 
di 
strumenti 
tecnici 
e 
metodologie 
adeguati, compresi 
indicatori 
e 
parametri 
di 
riferimento; 
(…)». 
(35) «(…) b) sulla 
base 
di 
una 
decisione 
della 
Commissione, ex 
officio 
o a 
seguito di 
una 
segnalazione 
qualificata 
del 
gruppo di 
esperti 
scientifici, presenta 
capacità 
o un impatto equivalenti 
a 
quelli 
di cui alla lettera a), tenendo conto dei criteri di cui all’allegato XIII». 
(36) «2. Si 
presume 
che 
un modello di 
IA 
per finalità 
generali 
abbia 
capacità 
di 
impatto elevato a 
norma 
del 
paragrafo 1, lettera 
a), quando l’importo cumulativo del 
calcolo utilizzato per il 
suo addestramento 
misurato in FLoP è superiore a 10^25». 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


che 
la 
soglia 
potrà 
essere 
modificata 
in 
futuro, 
per 
meglio 
rispondere 
alle 
evoluzioni 
di 
mercato 
(37). 


Le 
AI 
ad 
alto 
impatto 
dovranno 
applicare 
ex 
ante 
delle 
regole 
su 
sicurezza 
informatica, 
trasparenza 
dei 
processi 
di 
addestramento 
e 
condivisione 
della 
documentazione 
tecnica 
prima 
di 
arrivare 
sul 
mercato (38). Al 
di 
sotto si 
collocano 
tutti 
gli 
altri 
foundational 
models. 
tra 
cui 
le 
due 
startup made 
in Europe: 
la 
francese 
Mistral 
e 
la 
tedesca 
Aleph 
Alpha. 
In 
questo 
caso 
l’AI 
Act 
scatta 
quando 
gli 
sviluppatori 
commercializzano 
i 
propri 
prodotti. 
E 
sono 
esclusi 
i 
modelli 
offerti 
con licenza 
open source 
a 
norma 
del 
Considerando 
104, a 
meno che 
non siano qualificabili 
come 
modelli 
GPAI portatori 
di 
rischi 
sistemici. 


Il sistema degli uffici, innovazioni e controllo. 


L’AI 
Act 
delega 
una 
serie 
di 
controlli 
alle 
autorità 
locali, 
che 
entro 
due 
anni 
dall’entrata 
in 
vigore 
dovranno 
istituire 
almeno 
una 
sandbox 
regolatoria 
(o 
spazio 
di 
sperimentazione 
normativa 
per 
l’IA) 
(39) 
a 
livello 
nazionale 
(40). 
ossia 
uno 
schema 
che 
consente 
di 
effettuare 
test 
in 
sicurezza, 
in 
deroga 
alla 
legge, 
per 
non 
soffocare 
l’innovazione 
a 
causa 
dei 
troppi 
obblighi 
da 
rispettare 
e 
sostenere 
l’addestramento 
di 
algoritmi, 
anche 
con 
test 
condotti 
nel 
mondo 
reale. 


La 
Commissione 
si 
doterà 
di 
un Consiglio dell’AI, dove 
siede 
un esponente 
per ogni 
Stato dell’Unione. Il 
Garante 
europeo dei 
dati 
personali 
è 
invi


(37) Infatti, il 
paragrafo 3 dell’articolo 51 prevede 
che 
la 
Commissione 
possa 
adottare 
«(…) atti 
delegati 
a 
norma 
dell’articolo 97 per modificare 
le 
soglie 
di 
cui 
ai 
paragrafi 
2 e 
3, nonché 
per integrare 
parametri 
di 
riferimento e 
indicatori 
alla 
luce 
degli 
sviluppi 
tecnologici 
in evoluzione, quali 
miglioramenti 
algoritmici 
o 
una 
maggiore 
efficienza 
dell’hardware, 
ove 
necessario, 
affinché 
tali 
soglie 
riflettano 
lo stato dell’arte». 
(38) 
A 
norma 
dell’articolo 
55, 
paragrafo 
1 
il 
quale 
dispone 
ulteriori 
obblighi, 
oltre 
a 
quelli 
previsti 
dal 
precedente 
articolo 
53 
per 
tutti 
i 
modelli 
GPAI. 
Inoltre, 
il 
paragrafo 
2 
dello 
stesso 
articolo 
55 
prevede 
la 
possibilità, 
riconosciuta 
ai 
provider 
dei 
modelli 
GPAI 
portatori 
di 
rischio 
sistemico, 
di 
fare 
affidamento 
su codici 
di 
condotta 
(rimandando al 
seguente 
articolo 56), adeguandosi 
ai 
quali 
si 
può dimostrare 
la 
compliance 
alla disciplina in questione. 
(39) Definita 
dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 55 come 
«(…) un quadro controllato istituito da 
un’autorità 
competente 
che 
offre 
ai 
fornitori 
o potenziali 
fornitori 
di 
sistemi 
di 
IA 
la 
possibilità 
di 
sviluppare, 
addestrare, convalidare 
e 
provare, se 
del 
caso in condizioni 
reali, un sistema 
di 
IA 
innovativo, 
conformemente 
a 
un piano dello spazio di 
sperimentazione 
per un periodo di 
tempo limitato sotto supervisione 
regolamentare». 
(40) Infatti, il 
Capo VI dell’AI Act 
(intitolato “Misure 
a 
sostegno dell’innovazione”) si 
apre 
con 
l’articolo 57 il 
quale, sotto la 
rubrica 
“Spazi 
di 
sperimentazione 
normativa 
per l’IA” 
sancisce 
quanto 
segue: 
«1. Gli 
Stati 
membri 
provvedono affinché 
le 
loro autorità 
competenti 
istituiscano almeno uno 
spazio 
di 
sperimentazione 
normativa 
per 
l’IA 
a 
livello 
nazionale, 
che 
sia 
operativo 
entro 
... 
[24 
mesi 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
presente 
regolamento]. 
tale 
spazio 
di 
sperimentazione 
può 
essere 
inoltre 
istituito congiuntamente 
con le 
autorità 
competenti 
di 
uno o più Stati 
membri. La 
Commissione 
può 
fornire 
assistenza 
tecnica, 
consulenza 
e 
strumenti 
per 
l’istituzione 
e 
il 
funzionamento 
degli 
spazi 
di 
sperimentazione 
normativa 
per l’IA. L’obbligo di 
cui 
al 
primo comma 
può essere 
soddisfatto anche 
partecipando 
a 
uno spazio di 
sperimentazione 
esistente 
nella 
misura 
in cui 
tale 
partecipazione 
fornisca 
un 
livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti». 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


tato 
come 
osservatore, 
così 
come 
l’Ufficio 
dell’AI 
collocato 
sotto 
la 
Direzione 
generale 
Connect. Il 
Consiglio sarà 
strutturato in due 
sotto-gruppi, uno dedicato 
alla 
sorveglianza 
del 
mercato 
e 
uno 
alle 
notifiche 
delle 
autorità, 
e 
assisterà 
la 
Commissione 
nell’implementazione 
del 
regolamento, nell’identificazione 
di 
tendenze 
tecnologiche 
da 
monitorare 
e 
nella 
modifica 
delle 
norme. A 
sua 
volta 
il 
Consiglio 
dell’AI 
sarà 
affiancato 
da 
un 
forum 
di 
consulenti 
tecnici, 
mentre 
la 
Commissione 
potrà 
avvalersi 
di 
un comitato indipendente 
di 
scienziati 
ed esperti, sulla 
falsariga 
del 
gruppo di 
tecnici 
del 
clima 
che 
aiuta 
l’onu 
nella regia delle politiche ambientali. 


L’AI Act 
stabilisce 
le 
modalità 
per segnalare 
un incidente 
occorso a 
un 
sistema 
ad 
alto 
rischio, 
entro 
due 
giorni 
da 
quando 
avviene 
o 
se 
ne 
ha 
contezza. 
La 
violazione 
degli 
obblighi 
di 
compliance 
posti 
dall’AI 
Act 
determinerà 
l’applicazione 
di 
sanzioni 
pecuniarie. L’articolo 99 del 
regolamento, sotto la 
rubrica 
“Sanzioni”, 
prevede 
al 
primo 
paragrafo 
che 
gli 
Stati 
membri 
dispongano 
un quadro normativo sanzionatorio che 
miri 
a 
realizzare 
un 
enforcement 
della 
disciplina 
dell’AI Act 
(41). Chi 
non si 
adegua 
all’AI Act 
rischia 
multe 
fino a 
35 milioni 
di 
euro o al 
7% del 
fatturato globale 
nel 
caso degli 
usi 
proibiti 
(ex 
articolo 
99, 
paragrafo 
3). 
Se 
a 
finire 
sotto 
la 
scure 
sono 
i 
sistemi 
ad 
alto 
rischio 


o quelli 
di 
uso generale, si 
arriva 
fino a 
un massimo di 
15 milioni 
o del 
3% 
del 
fatturato 
globale 
in 
caso 
di 
mancata 
ottemperanza 
alle 
regole 
(a 
norma 
dell’articolo 99, paragrafo 4). Altrimenti, se 
si 
contestano informazioni 
scorrette, 
la 
sanzione 
raggiunge 
un tetto di 
7,5 milioni 
di 
euro o dell’1% del 
fatturato 
globale 
(secondo 
quanto 
disposto 
dall’articolo 
99, 
paragrafo 
5). 
L’articolo 
99, al 
paragrafo 6 precisa 
inoltre 
che, nel 
caso in cui 
ad essere 
assoggettate 
a 
sanzione 
siano 
piccole 
o 
medie 
imprese 
o 
start-up, 
il 
valore 
da 
prendere 
in 
considerazione 
ai 
fini 
dell’irrogazione 
sia 
quello più basso tra 
i 
due 
indicati 
per ciascuna delle tre fasce appena richiamate (42). 
Questa 
disciplina 
riuscirà 
a 
dimostrarsi 
a 
prova 
di 
futuro? 
L’approccio 
regolatorio 
europeo 
sarà 
idoneo 
a 
far 
fronte 
ai 
futuri 
sviluppi, 
ovvero 
manca 
qualcosa, a 
questo fine, in tale 
regolamento? 
L’Europa 
rischia 
di 
diventare 
un 


(41) 
«1. 
Nel 
rispetto 
dei 
termini 
e 
delle 
condizioni 
di 
cui 
al 
presente 
regolamento, 
gli 
Stati 
membri 
stabiliscono 
le 
regole 
relative 
alle 
sanzioni 
e 
alle 
altre 
misure 
di 
esecuzione, 
che 
possono 
includere 
anche 
avvertimenti 
e 
misure 
non 
pecuniarie, 
applicabili 
in 
caso 
di 
violazione 
del 
presente 
regolamento 
da 
parte 
degli 
operatori, e 
adottano tutte 
le 
misure 
necessarie 
per garantirne 
un’attuazione 
corretta 
ed efficace, 
tenendo conto degli 
orientamenti 
emanati 
dalla 
Commissione 
a 
norma 
dell’articolo 96. Le 
sanzioni 
previste 
sono effettive, proporzionate 
e 
dissuasive. Esse 
tengono conto degli 
interessi 
delle 
PMI, comprese 
le 
start-up, e della loro sostenibilità economica». 
(42) «6. Nel 
caso delle 
PMI, comprese 
le 
start-up, ciascuna 
sanzione 
pecuniaria 
di 
cui 
al 
presente 
articolo 
è 
pari 
al 
massimo 
alle 
percentuali 
o 
all’importo 
di 
cui 
ai 
paragrafi 
3, 
4 
e 
5, 
se 
inferiore». 
Si 
tratta 
evidentemente 
di 
una 
previsione 
tesa 
a 
non 
impattare 
in 
misura 
sproporzionata 
su 
aziende 
che 
stanno cercando di 
farsi 
strada 
nel 
settore 
in questione, al 
fine 
di 
non minarne 
eccessivamente 
la 
concorrenza. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


gigante 
regolatorio 
e 
un 
nano 
tecnologico? 
La 
tecnica 
da 
seguire, 
forse, 
era 
quella del 
Foresight 
oltre alla prevista 
sandbox? 


Ebbene, nel 
panorama 
globale 
contemporaneo, in cui 
il 
progresso tecnologico 
avanza 
con 
una 
velocità 
sempre 
crescente, 
la 
“fluidità” 
e 
la 
“dinamicità” 
dell’innovazione 
prendono 
in 
contropiede 
il 
diritto 
(43). 
Gli 
operatori 
giuridici 
sono 
infatti 
abituati 
oramai 
a 
ragionare 
secondo 
approcci 
reattivi 
all’insorgere 
di 
problematiche 
che 
via 
via 
si 
pongono. tuttavia, questo tipo di 
metodologia 
può 
oggi 
comportare 
rischi 
di 
inefficienza 
del 
loro 
intervento 
(44). 
Il 
Foresight 
si 
presenta 
dunque 
come 
uno strumento di 
primaria 
importanza 
nel 
ragionamento 
su cui 
si 
fondano le 
decisioni 
di 
politica 
legislativa, essendo una 
disciplina 
che 
propone 
l’adozione 
di 
un 
approccio 
proattivo 
teso 
a 
prevedere 
la 
maggiore 
varietà 
possibile 
di 
scenari 
futuri, in modo tale 
da 
comprendere 
anticipatamente 
come 
farvi 
fronte 
(45). 
Questo 
metodo, 
implicando 
la 
proiezione 
del 
maggior numero possibile 
di 
accadimenti 
ipotetici 
futuri, è 
divenuto una 
tecnica 
sempre 
più 
multidisciplinare, 
in 
particolar 
modo 
dalla 
fine 
dello 
scorso 
secolo 
(46). 
Queste 
considerazioni 
preliminari 
sono 
già 
utili 
per 
riflettere 
circa 
l’opportunità, 
sfortunatamente 
persa 
dal 
legislatore 
sovranazionale, 
di 
adottare 
il 
foresight 
come metodo regolatorio in ambito di IA. 

(43) In specifico riferimento all’IA, si 
pensi 
alle 
numerose 
richieste 
di 
sospendere 
l’attività 
di 
ricerca 
e 
di 
sviluppo dei 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale 
avanzate 
lo scorso anno (in particolare 
quelle 
di 
Samuel 
Altman, Elon Musk o del 
Future 
of Life 
Institute). Si 
tratta 
di 
tre 
posizioni 
accomunate 
dalla 
paura 
della 
rapidità 
dell’evoluzione 
tecnologica 
che 
caratterizza 
la 
cd. “quarta 
rivoluzione 
industriale”. 
(44) 
A. 
CAtALEtA, 
S. 
LEUCCI, 
G. 
rIzzo, 
G. 
VACAGIo, 
Privacy, 
anticipiamo 
il 
futuro: 
un 
nuovo 
approccio 
è 
necessario, 
Agenda 
Digitale, 
20 
settembre 
2023, 
disponibile 
su 
https://www.agendadigitale.
eu/sicurezza/privacy/i-futuri-della-privacy-perche-serve-un-approccio-anticipante-alle-nuovetecnologie/. 
(45) ibidem, ove 
viene 
inoltre 
precisato che 
il 
Foresight 
è 
una 
tecnica 
che 
«(…) non usa 
il 
futuro 
come 
obiettivo da 
raggiugere, ma 
piuttosto come 
un costrutto “usa 
e 
getta”, il 
cui 
solo scopo è 
di 
far accedere 
ad una 
comprensione 
più ampia 
delle 
decisioni 
che 
sono importanti 
nel 
presente». Nello stesso 
articolo viene 
inoltre 
accennata 
l’origine 
del 
metodo del 
Foresight. Si 
tratta 
di 
un approccio, un metodo 
ideato e 
sviluppato a 
partire 
dalla 
metà 
dello scorso secolo. La 
principale 
motivazione 
che 
comportò la 
nascita 
di 
questo modo di 
osservare 
all’avvenire 
fu la 
necessità 
di 
mantenere 
la 
pace. In quest’ottica, si 
percepì 
che 
“progettazione” 
e 
“pianificazione” 
sono metodi 
«(…) utili, ma 
limitati 
di 
pensare 
al 
futuro, 
perché 
mirano a 
conoscere 
un singolo futuro». Si 
avvertì 
dunque 
il 
bisogno di 
pensare 
al 
futuro come 
insieme 
di 
pluralità 
di 
possibili 
scenari, i 
quali 
non devono essere 
conosciuti, bensì 
usati 
in ottica 
pro-
attiva, di 
anticipazione 
nell’adozione 
delle 
decisioni 
strategiche 
nel 
presente. In questa 
prospettiva 
assume 
dunque 
rilevanza 
primaria 
l’individuazione 
delle 
esigenze 
future, in tal 
senso v. D. MIEtzNEr, G. 
rEGEr, 
Advantages 
and 
Disadvantages 
of 
Scenario 
Approaches 
for 
Strategic 
Foresight, 
1 
International 
Journal 
Technology 
Intelligence 
and Planning 220 (2005), disponibile 
su SSRN: https://ssrn.com/abstract=
1736110, p. 235. 
(46) A. CAtALEtA, S. LEUCCI, G. rIzzo, G. VACAGIo, 
Privacy, anticipiamo il 
futuro: un nuovo approccio 
è 
necessario, 
cit., 
ove 
si 
sottolinea 
che 
il 
foresight 
ha 
finito 
per 
inglobare 
elementi 
di 
sociologia, 
psicologia, economia 
e 
scienze 
ambientali. Una 
simile 
evoluzione 
della 
disciplina 
del 
foresight 
è 
giustificata, 
secondo i 
richiamati 
Autori, dal 
fatto che 
le 
sfide 
cui 
ci 
si 
trova 
oggi 
a 
dover far fronte 
(quali, 
ad esempio, il 
cambiamento climatico, le 
disuguaglianze 
sociali 
ed economiche 
e 
l’innovazione 
tecnologica) 
pongono 
l’esigenza 
di 
adottare 
un 
approccio 
interdisciplinare, 
essendo 
divenuto 
oramai 
obsoleto 
qualsiasi 
tentativo 
di 
intervento 
fondato 
di 
ragionamenti 
e 
valutazioni 
effettuate 
a 
compartimenti 
stagni. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


tuttavia, la 
consapevolezza, da 
un lato, dei 
limiti 
propri 
dei 
“canonici” 
approcci 
regolatori 
e, dall’altro, dei 
vantaggi 
che 
il 
foresight 
può comportare, 
ha 
raggiunto 
alcune 
Istituzioni, 
le 
quali 
hanno 
già 
iniziato 
a 
riconoscere 
a 
questa 
disciplina 
il 
rilievo che 
merita. Si 
intende 
fare 
specifico riferimento a 
tre 
autorità, 
due 
nazionali 
e 
una 
sovranazionale: 
la 
Commission 
Nationale 
de 
l’Informatique 
et 
des 
Libertès 
(o CNIL, autorità 
nazionale 
francese), la 
Information 
Commissioner’s 
Office 
(o 
ICo, 
autorità 
inglese) 
e 
l’European 
Data 
Protection 
Supervisor 
(o 
EDPS, 
autorità 
europea) 
(47). 
Ciò 
che 
accomuna 
questi 
soggetti 
è 
l’adozione 
del 
Foresight 
come 
metodo 
di 
osservare 
al 
futuro, 
per 
comprendere 
quali 
siano 
le 
migliori 
strategie 
regolatorie 
da 
attuare 
nel 
presente. 


La 
centralità 
del 
Foresight 
è 
stata 
evidenziata 
dall’EDPS, il 
quale 
ha 
sostenuto 
la 
centralità 
di 
questo metodo in base 
ad alcune 
constatazioni 
in relazione 
al 
contesto 
normativo 
europeo: 
in 
primo 
luogo 
il 
regolamento 
(UE) 
2018/1725 (48) richiede 
espressamente 
che 
l’EDPS 
monitori 
gli 
sviluppi 
pertinenti 
all’impatto sui 
dati 
personali, con specifico riferimento alle 
nuove 
tecnologie 
dell’informazione 
e 
della 
comunicazione 
(49); 
inoltre, 
il 
monitoraggio 
della 
tecnologia 
e 
il 
Foresight 
sono palesemente 
collegati 
al 
ruolo di 
autorità 
di 
controllo svolta 
dallo stesso EDPS 
(50). Lo stesso EDPS 
ha 
precisato che 
lo scopo strategico che 
persegue 
è 
quello di 
anticipare 
il 
più possibile 
i 
futuri 
sviluppi 
del 
progresso 
tecnologico, 
e 
a 
tal 
fine 
il 
Foresight 
rappresenta 
uno 
strumento 
assolutamente 
indispensabile 
(51). 
L’ICo 
ha 
dichiarato 
l’intenzione 
di 
adottare 
il 
metodo del 
Foresight 
in relazione 
a 
65 tecnologie 
emergenti, selezionate 
sulla 
base 
di 
un coefficiente 
di 
priorità 
che 
esprima 
una 
classificazione 
delle 
stesse 
in base 
a 
“probability”, “scale”, e 
“associated harms 
and 
benefits” 
in 
riferimento 
alla 
normativa 
sulla 
privacy 
(52). 
La 
CNIL 
ha 
istituito 
al 
proprio 
interno 
un 
apposito 
comitato 
(il 
cd. 
Foresight 
Committee), 
composto 


(47) ibidem. 
(48) regolamento (UE) 2018/1725 del 
Parlamento Europeo e 
del 
Consiglio del 
23 ottobre 
2018 
sulla 
tutela 
delle 
persone 
fisiche 
in relazione 
al 
trattamento dei 
dati 
personali 
da 
parte 
delle 
istituzioni, 
degli 
organi 
e 
degli 
organismi 
dell’Unione 
e 
sulla 
libera 
circolazione 
di 
tali 
dati, e 
che 
abroga 
il 
regolamento 
(CE) n. 45/2001 e la Decisione n. 1247/2002/CE. 
(49) 
X. 
LArEo, 
Continous 
improvement 
process, 
in 
European 
Data 
Protection 
Supervisor, 
techsonar 
2023-2024 
report, 
novembre 
2023, 
su 
https://www.edps.europa.eu/data-protection/ourwork/
publications/reports/2023-12-04-techsonar-report-2023-2024_en, p. 1. 
(50) 
ibidem. 
(51) 
«The 
aim 
is 
to 
anticipate 
as 
far 
as 
possible 
future 
technology 
trends 
and 
the 
privacy 
and 
data protection challenges posed by new technologies», ibidem. 
(52) 
INForMAtIoN 
CoMMISSIoNEr’S 
oFFICE, 
Helping 
people 
understand 
how 
new 
technologies 
interact 
with the 
UK’s 
data protection framework. Tech Horizon Report, dicembre 
2022, disponibile 
su 
https://ico.org.uk/media/about-the-ico/documents/4023338/ico-future-tech-report-20221214.pdf, 
p. 
9. 
È 
stato sostenuto che, nel 
documento appena 
richiamato, «(…) l’ICo 
ha 
dato forma 
ad alcuni 
scenari 
futuri 
nel 
mondo di 
alcune 
tecnologie 
particolarmente 
invasive 
per analizzarne 
meglio le 
evoluzioni 
e 
gli 
impatti 
sulla 
protezione 
dei 
dati», così 
A. CAtALEtA, S. LEUCCI, G. rIzzo, G. VACAGIo, Privacy, anticipiamo 
il futuro: un nuovo approccio è necessario, cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


di 
21 esperti 
con profili 
differenti 
al 
fine 
di 
implementare 
e 
arricchire 
il 
dibattito 
circa 
l’etica 
digitale 
(53). La 
giustificazione 
a 
fondamento della 
costituzione 
di 
un simile 
organo è 
stata 
individuata 
nella 
necessità 
di 
mostrare 
una 
maggiore 
apertura 
ad 
un 
lavoro 
coordinato 
con 
il 
mondo 
dell’innovazione 
tecnologica 
(54). 


L’utilità 
del 
foresight 
in relazione 
alle 
nuove 
tecnologie 
si 
coglie 
dunque 
se 
si 
prova 
a 
riflettere 
sulla 
considerazione 
per 
la 
quale 
la 
proiezione 
e 
la 
comprensione 
dei 
possibili 
scenari 
futuri 
sono 
fattori 
imprescindibili, 
qualora 
si 
volessero 
individuare 
le 
modalità 
migliori 
per 
perseguire 
gli 
scopi 
che 
ci 
si 
prefigge. 
Una 
simile 
conclusione 
è 
da 
ritenersi 
senz’altro 
applicabile 
anche 
all’intelligenza 
artificiale 
(55). 
Infatti, 
è 
stato 
sottolineato 
che, 
nella 
seppur 
inesorabile 
impossibilità 
di 
prevedere 
con 
certezza 
come 
la 
tecnologia 
si 
evolverà, 
resta 
ferma 
comunque 
la 
possibilità 
di 
informarsi 
sin da 
ora, al 
fine 
di 
prepararsi 
ed 
essere 
pronti 
ai 
possibili 
sviluppi 
futuri 
(56). 
A 
parere 
di 
chi 
scrive, un simile 
atteggiamento dovrebbe 
ritenersi 
doveroso nell’ambito della 
regolamentazione 
dell’IA, 
quantomeno 
in 
considerazione 
dei 
possibili 
risvolti 
che una simile tecnologia potrà avere (57). 

In conclusione, si 
può sin da 
ora 
affermare 
che 
il 
legislatore 
sovranazionale, 
accanto alla 
previsione 
di 
principi 
etici 
(58) e 
delle 
cd. regulatory 
sandboxes, 
avrebbe 
dovuto 
attuare 
con 
maggiore 
sicurezza 
un 
approccio 
teso 
alla 
previsione 
e 
all’anticipazione 
(caratteristiche 
proprie 
del 
foresight) degli 
scenari 
futuri 
di 
medio e 
lungo periodo, onde 
evitare 
di 
adottare 
una 
regolamentazione 
che rischia di presentarsi già nel breve termine obsoleta. 

(53) CoMMISSIoN 
NAtIoNALE 
DE 
L’INForMAtIQUE 
Et 
DES 
LIBErtÈS, Data footprint 
and freedoms. 
Exploring the 
overlaps 
between data protection freedoms 
and the 
environment, IP 
reports 
Innovation 
and 
Foresight 
n. 
9, 
giugno 
2023, 
disponibile 
su 
https://linc.cnil.fr/sites/linc/files/202309/
cnil_ip9_data_footprint_and_freedoms.pdf, p. 65. 
(54) 
ibidem. 
(55) È 
stato infatti 
precisato che 
«[t]he 
rapidly 
evolving technological 
landscape 
requires 
us 
to 
anticipate 
new technological 
challenges, to be 
able 
to influence 
their 
evolution and use. A 
clear 
signal 
in this 
direction is 
the 
increasing pace 
of 
deployment 
of 
artificial 
intelligence 
in everyday 
life 
and ma-
chine 
learning applications, which requires 
a more 
proactive 
and anticipatory 
attitude 
towards 
an appropriate 
and effective 
governance 
of 
technology. (…) 
the 
need to become 
proactive 
in our 
relationship 
with technology 
has 
become 
increasingly 
compelling and has 
led us 
to start 
our 
foresight 
journey», w. 
wIEwIòrowSkI, 
Readiness 
and 
adaptability 
in 
an 
evolving 
technology 
landscape, 
in 
EUroPEAN 
DAtA 
ProtECtIoN 
SUPErVISor, Techsonar 2023-2024 Report, cit. 
(56) 
ibidem, 
ove 
si 
sottolinea 
inoltre 
che 
il 
metodo 
di 
foresight 
adottato 
dall’EDPS 
si 
coniuga 
con 
un 
approccio 
“risk-based” 
(lo 
stesso 
adottato 
dall’AI 
Act), 
rivolgendo 
maggiori 
attenzioni 
alle 
tecnologie 
che impattano maggiormente sui diritti di 
privacy 
e di protezione dei dati degli individui. 
(57) Si 
pensi 
al 
grado di 
autonomia 
con il 
quale 
i 
contemporanei 
sistemi 
di 
IA 
sono capaci 
di 
operare 
e 
migliorarsi 
in continuazione, attraverso le 
tecniche 
di 
deep learning. Una 
simile 
autosufficienza 
nello sviluppo delle 
macchine 
comporta 
il 
rischio che 
il 
loro controllo possa 
sfuggire 
all’essere 
umano, 
determinando 
la 
possibilità 
che 
si 
verifichino 
scenari 
potenzialmente 
pregiudizievoli 
nei 
riguardi 
dei 
diritti 
fondamentali. 
(58) 
tra 
i 
quali 
rientrano 
affidabilità, 
trasparenza, 
robustezza, 
cybersecurity, 
data 
governance, 
privacy 
e 
accountability. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


In tutta 
questa 
situazione 
resta 
comunque 
aperta 
(e 
auspicabile) la 
possibilità 
che 
le 
autorità 
costituite 
a 
livello europeo dal 
regolamento e 
quelle 
nazionali 
che 
dovranno essere 
autonomamente 
formate 
dai 
singoli 
Stati 
membri 
vadano 
“in 
controtendenza”, 
se 
così 
si 
può 
dire, 
rispetto 
all’AI 
Act 
sotto 
questo 
punto 
di 
vista, 
seguendo 
l’esempio 
dell’EDPS 
(il 
quale, 
come 
si 
è 
avuto 
modo 
di 
dare 
atto, ha 
già 
riconosciuto l’essenzialità 
di 
adottare 
un approccio di 
foresight 
non solo in relazione 
alla 
tutela 
dei 
dati 
personali, bensì 
anche 
in riferimento 
all’intelligenza 
artificiale). 
L’auspicio 
che 
si 
verifichi 
un 
simile 
sviluppo risulta 
ancor più plausibile 
ove 
si 
consideri 
l’obiettivo principe 
che 
si 
intende 
perseguire 
attraverso 
la 
regolamentazione 
dell’intelligenza 
artificiale: 
il 
mantenimento della 
centralità 
dell’essere 
umano, della 
sua 
dignità 
e 
della 
sua 
libertà 
di 
autodeterminazione. 
È 
assolutamente 
cruciale, 
in 
questo 
preciso 
momento 
storico, 
porre 
delle 
limitazioni, 
degli 
argini 
allo 
sviluppo 
tecnologico, 
senza 
però 
frenarlo. 
occorre 
indirizzarlo 
verso 
un 
ideale 
di 
“umanesimo 
tecnologico” 
(59), 
nel 
quale 
sia 
ben 
chiaro 
il 
ruolo 
della 
macchina 
come 
strumento 
posto 
a 
servizio 
dell’essere 
umano, 
senza 
sostituirsi 
a 
quest’ultimo 
(60). 
Considerando 
anche 
i 
molteplici 
campi 
di 
applicazione 
dell’intelligenza 
artificiale, 
il 
foresight, 
tramite 
la 
sua 
interdisciplinarità, 
risulta 
a 
maggior ragione 
una 
strada 
più che 
valida 
da 
seguire 
nel 
tentativo di 
regolamentare 
adeguatamente 
il 
fenomeno 
in 
questione 
già 
da 
oggi, 
nell’ottica 
di 
ciò che sarà. 

(59) Così 
come 
proposto in E. BAttELLI, Necessità di 
un umanesimo tecnologico, in Diritto di 
Famiglia e delle Persone, 3, 1096, 2022. 
(60) E. BAttELLI, Necessità di un umanesimo tecnologico, cit., pp. 1107 e ss. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Perché il Consiglio di stato ha detto no 

alla tabella unica nazionale in materia 

di risarcimento del danno non patrimoniale? 


Gaetana Natale* 


Perché 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
bloccato lo schema 
di 
d.P.r approvato il 
16 
gennaio 
2024 
che 
detta 
il 
“Regolamento 
recante 
la 
tabella 
unica 
del 
valore 
pecuniario da attribuire 
a ogni 
singolo punto di 
invalidità tra dieci 
e 
cento 
punti, 
comprensivo 
dei 
coefficienti 
di 
variazione 
corrispondenti 
all’età 
del 
soggetto 
leso” 
(1). 
Qual’era 
l’intenzione 
del 
legislatore 
e 
in 
cosa 
ha 
sbagliato 
visto che si attendeva da anni tale 
tabella unica nazionale? 


Il 
legislatore 
ha 
cercato 
una 
maggiore 
certezza 
di 
uniformità 
di 
trattamento 
tra 
i 
vari 
Uffici 
Giudiziari 
del 
nostro 
Paese 
a 
sicuro 
vantaggio 
degli 
operatori 
del 
settore 
(inclusi 
gli 
stessi 
assicuratori) e 
soprattutto delle 
vittime 
danneggiate 
che 
hanno bisogno di 
un riferimento unico (e 
non più le 
varie 
tabelle 
in uso nei 
singoli 
tribunali) per la 
quantificazione 
dei 
danni 
di 
cui 
chiedono 
il 
risarcimento. 
Il 
danneggiato 
ha 
diritto 
allo 
stesso 
risarcimento 
del 
danno non patrimoniale 
sia 
che 
proponga 
un’azione 
risarcitoria 
presso un tribunale 
civile 
del 
Nord Italia 
sia 
che 
proponga 
la 
stessa 
azione 
innanzi 
ad un 
tribunale del Sud. 


La 
tabella 
Unica, 
in 
particolare, 
è 
lo 
strumento 
per 
superare 
il 
sistema 
binario che 
attualmente 
opera 
tra 
le 
tabelle 
del 
tribunale 
di 
Milano e 
quelle 
del 
tribunale 
di 
roma 
strumenti 
cui, di 
fatto, gli 
stessi 
Giudici 
si 
sono visti 
costretti 
a 
ricorrere 
a 
causa 
del 
vuoto regolamentare 
oggi 
finalmente 
in via 
di 
definitivo superamento. 


La 
tabella 
Unica 
riguarda 
le 
lesioni 
di 
non lieve 
entità 
(macrolesioni 
dal 
10% al 
100% di 
invalidità) conseguenti 
alla 
circolazione 
dei 
veicoli 
a 
motore 
e 
dei 
natanti, nonché 
conseguenti 
all’attività 
dell’esercente 
la 
professione 
sanitaria 
e della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata (2). 


A tal fine sono adottate: 


a) le 
tavole 
contenenti 
i 
coefficienti 
moltiplicatori 
e 
demoltiplicatori 
del 
punto per il calcolo del danno biologico (3) e del danno morale (4); 
(*) Avvocato dello Stato e Professore di Sistemi Giuridici Comparati. 
Un ringraziamento alla Dott.ssa Sara Cardarelli per la redazione delle note. 


(1) Ai 
sensi 
dell’art. 138, I, D.Lgs. 7 settembre 
2005, n. 209 “Codice 
delle 
assicurazioni 
private”. 
(2) 
Si 
consideri 
che 
così 
come 
in 
caso 
di 
responsabilità 
civile 
derivante 
dalla 
circolazione 
stradale, 
anche 
in 
materia 
di 
responsabilità 
civile 
derivante 
dall’esercizio 
delle 
professioni 
sanitarie 
è 
prevista 
sia 
l’azione 
diretta 
del 
soggetto danneggiato nei 
confronti 
dell’impresa 
di 
assicurazione 
che 
presta 
la 
copertura 
assicurativa 
per la 
responsabilità 
civile 
dell’esercente 
la 
professione 
sanitaria, sia 
il 
litisconsorzio 
necessario 
tra 
compagnia 
assicurativa 
ed 
esercente 
la 
professione 
sanitaria 
nel 
giudizio 
promosso 
dal soggetto danneggiato nei confronti della compagnia. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


b) 
la 
tabella 
unica 
nazionale 
del 
valore 
pecuniario 
da 
attribuire 
a 
ogni 
singolo 
punto 
di 
invalidità, 
comprensivo 
dei 
coefficienti 
di 
variazione 
corrispondenti 
all’età del soggetto leso; 
c) 
la 
tabella 
unica 
nazionale 
del 
valore 
pecuniario 
da 
attribuire 
a 
ogni 
singolo 
punto 
di 
invalidità, 
comprensivo 
dei 
coefficienti 
di 
variazione 
corrispondenti 
all’età 
del 
soggetto 
leso, 
incrementato 
del 
danno 
morale 
nei 
valori 
minimo, medio e massimo (5). 
La 
tabella 
unica 
nazionale 
stabilisce 
così 
un valore 
pecuniario univoco 
che 
si 
attribuisce 
a 
ogni 
singolo punto di 
invalidità 
(danno biologico), compreso 
tra 
dieci 
e 
cento punti, salvo poi 
ad essere 
integrata 
al 
fine 
del 
risarcimento 
del danno morale. 

Detta 
tabella 
tiene 
conto 
di 
tre 
specifici 
aspetti, 
indispensabili 
per 
stabilire 
il 
valore 
pecuniario del 
risarcimento al 
danneggiato: 
il 
danno biologico permanente, 
il 
danno morale 
(sofferenza 
psicologica 
interiore) e 
il 
danno biologico 
temporaneo (inabilità temporanea). 


In altre 
parole, nel 
dare 
attuazione 
all’art. 138 cit. si 
realizza 
un sistema 
a 
“punto” 
variabile 
per il 
quale 
il 
“punto” 
aumenta 
di 
valore 
più che 
proporzionalmente 
rispetto 
a 
lesioni 
sempre 
più 
gravi 
e, 
al 
contempo, 
va 
a 
decrescere 
con l’età della vittima, e cioè a dire con l’aumentare dell’età della vittima. 

È 
poi 
possibile 
il 
calcolo, 
a 
parte, 
del 
danno 
morale, 
fermo 
restando 
il 
principio 
della 
domanda 
e 
l’assolvimento 
degli 
obblighi 
di 
allegazione 
e 
prova 
in capo all’istante 
danneggiato (6) (si 
ha 
oggi 
un coefficiente 
moltiplicatore 
ad hoc 
per il danno morale). 


Il 
sistema 
così 
brevemente 
descritto 
dovrà 
essere 
necessariamente 
aggior


(3) Per danno biologico si 
intende 
la 
lesione 
temporanea 
o permanente 
all’integrità 
psico-fisica 
della 
persona, che 
esplica 
un’incidenza 
negativa 
sulle 
attività 
quotidiane 
e 
sugli 
aspetti 
dinamico-relazionali 
della 
vita 
del 
danneggiato, 
indipendentemente 
da 
eventuali 
ripercussioni 
sulla 
sua 
capacità 
di 
produrre 
reddito. Le 
lesioni 
nelle 
quali 
si 
concretizza 
il 
danno biologico possono distinguersi 
in macro-
lesioni 
e 
in lesioni 
di 
lieve 
entità, a 
seconda 
che 
i 
postumi 
da 
lesioni 
siano o meno superiori 
al 
9 per 
cento, come si evince dall’art. 139, c. 1, lett. a), D.Lgs. n. 209/2005. 
(4) 
trattasi 
dell’aspetto 
interiore 
del 
danno 
sofferto 
(c.d. 
danno 
morale, 
sub 
specie 
del 
dolore, 
della 
vergogna, 
della 
disistima 
di 
sè, 
della 
paura, 
della 
disperazione). 
Le 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
con 
la 
sentenza 
n. 
26792/2008, 
hanno 
stabilito 
che 
il 
ristoro 
del 
danno 
morale 
compete: 
a) 
quando 
il 
fatto 
illecito 
sia 
astrattamente 
configurabile 
come 
reato, 
potendo, 
in 
questo 
caso, 
essere 
oggetto 
di 
risarcimento 
qualsiasi 
danno 
non 
patrimoniale 
scaturente 
dalla 
lesione 
di 
qualsiasi 
interesse 
della 
persona 
tutelato 
dall’ordinamento, 
indipendentemente 
da 
una 
sua 
rilevanza 
costituzionale; 
b) 
quando 
sia 
la 
legge 
stessa 
a 
prevedere 
espressamente 
il 
ristoro 
del 
danno, 
limitatamente 
ai 
soli 
interessi 
della 
persona 
che 
il 
Legislatore 
ha 
inteso 
tutelare 
attraverso 
la 
norma 
attributiva 
del 
diritto; 
c) 
quando 
il 
fatto 
illecito 
abbia 
leso 
in 
modo 
grave 
diritti 
inviolabili 
della 
persona, 
come 
tali 
oggetto 
di 
tutela 
costituzionale 
e 
non 
predeterminati, 
dovendo, 
volta 
a 
volta, 
essere 
allegati 
dalla 
parte 
e 
valutati 
caso 
per 
caso 
dal 
Giudice. 
(5) Ai sensi dell’art. 138, II, lett. e), D.Lgs. n. 209/2005. 
(6) Il 
danno, invero, non è 
in re 
ipsa 
riconducibile 
all’evento lesivo dell’interesse 
protetto, ma 
è 
sempre 
un danno conseguenza, che, come 
tale, deve 
essere 
in concreto provato, in termini 
di 
nesso di 
causalità giuridica, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


nato 
e 
a 
tanto 
si 
provvederà 
con 
decreto 
del 
Ministro 
delle 
imprese 
e 
del 
made 
in Italy, sentito l’IVASS. 

tali 
nobili 
intenzioni 
del 
legislatore 
si 
sono, 
però, 
scontrate 
con 
un 
errore 
metodologico che 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
correttamente 
e 
puntualmente 
rilevato. 


Infatti, in data 
20 febbraio 2024 con parere 
n. 164/2024 la 
Sezione 
Consultiva 
per 
gli 
Atti 
Normativi 
del 
Supremo 
Consesso 
Consultivo 
ha 
svolto 
una 
serie 
di 
osservazioni 
ostative 
all’approvazione 
dello 
schema 
di 
decreto 
del 
Ministero 
delle 
imprese 
e 
del 
made 
in Italy. Per quali 
ragioni 
tale 
schema 
di 
decreto 
non ha 
ricevuto il 
placet 
del 
Consiglio di 
Stato? 
Ciò è 
avvenuto sia 
per 
motivi 
procedimentali 
che 
sostanziali. Sotto il 
profilo procedimentale 
il 
Consiglio 
di 
Stato ha 
rilevato che 
(si 
riporta 
una 
parte 
integrale 
del 
parere) “l’intelligibilità 
dell’intervento 
in 
esame 
risulta 
compromessa, 
in 
assenza 
di 
supporto documentale 
integrativo, dal 
tratto meramente 
formale 
ed inarticolato 
del 
concerto 
espresso 
dal 
Ministero 
della 
Giustizia. 
Si 
impongono, 
sul 
punto, una considerazione 
di 
carattere 
generale 
ed una di 
carattere 
specifico 
e 
contestuale. Sotto il 
primo profilo, la Sezione 
ha, ancora da ultimo, reitera-
mente 
ribadito (cfr., per 
tutti, i 
pareri 
n. 53 del 
22 gennaio 2024 e 
n. 131 del 
30 gennaio 2024) che, negli 
“atti 
di 
concerto”, la valutazione 
dei 
Ministeri 
(competenti 
per 
legge) 
veicola 
ed 
esprime 
-in 
ordine 
alla 
proposta 
normativa 
elaborata, 
in 
via 
preliminare, 
dall’autorità 
concertante 
-una 
adesione 
sostanziale 
(di 
vero e 
proprio “accordo tra le 
amministrazioni 
statali 
coinvolte” 
fa 
espressa parola, in termini 
generali, l’articolo 17-bis 
comma 2 della legge 
n. 
241 
del 
1990), 
conseguente 
al 
concreto 
apprezzamento 
degli 
interessi 
pubblici 
a 
confronto 
(anche, 
secondo 
i 
casi, 
di 
ordine 
organizzativo 
ed 
infrastrutturale), 
che 
abilita del 
resto alla formulazione 
di 
eventuali 
suggerimenti 
e 
alla elaborazione 
di 
proposte 
di 
modifica 
o 
di 
integrazione: 
sicchè, 
non 
a 
caso, 
nel 
conflitto, 
è 
prevista 
la 
composizione 
in 
sede 
di 
Consiglio 
dei 
ministri 
(cfr. 
articolo 
5, comma 2, lettera c-bis) legge 
23 agosto 1988 n. 400, nonché 
articolo 17bis, 
comma 
2 
l. 
241/1990). 
Con 
ciò, 
pur 
con 
l’elevato 
tasso 
di 
politicità 
e 
l’ampia 
discrezionalità 
che 
connota 
l’attività 
di 
concertazione 
a 
livello 
ministeriale, 
la 
sua 
manifestazione, 
ancorchè 
non 
integri 
un 
atto 
unitario 
e 
formalmente 
complesso, 
ma 
si 
atteggi 
a 
mero 
modulo 
procedimentale, 
realizza 
(cioè, deve 
realizzare) una effettiva compartecipazione 
alla elaborazione 
del 
provvedimento 
o 
dell’atto, 
per 
la 
quale 
l’autorità 
concertata 
esprime 
sulla 
proposta elaborata dall’autorità concertante 
una sostanziale 
valutazione 
di 
compatibilità con gli 
interessi 
di 
cui 
è 
portatrice, con ciò realizzandosi 
una 
forma di 
“concorso nel 
volere”(enfasi 
aggiunta) che 
è, ad un 
tempo, sostanziale 
codeterminazione 
del 
voluto. Del 
resto, di 
là dalla formale 
attribuzione 
-con 
la 
facoltà 
di 
elaborare 
la 
proposta 
-dell’iniziativa 
procedimentale, 
il 
regolamento 
approvato 
in 
via 
concertata 
assume 
i 
tratti, 
quanto 
meno 
sostanziali, 
del 
decreto interministeriale 
(cfr. articolo 17, comma 3 legge 
n. 400 del 



LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


1988), 
onde 
il 
concerto 
costituisce 
l’atto 
con 
cui 
il 
Ministero 
concertante 
(lungi 
dal 
limitarsi 
ad esplicitare 
l’assenza di 
ragioni 
meramente 
ostative) si 
rende 
positivamente 
partecipe 
dell’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne 
la responsabilità. Ne 
discende 
che 
la preventiva partecipazione 
istituzionale 
dei 
Ministri 
competenti 
ratione 
materiae 
non può essere 
surrogata da 
un 
mero, 
inarticolato 
e 
secco 
nulla-osta, 
con 
il 
quale 
il 
Ministro 
(o 
addirittura 
una 
mera 
struttura 
ministeriale, 
all’uopo 
eventualmente 
ed 
informalmente 
delegata) 
escluda, con formula essenzialmente 
negativa e 
sostanzialmente 
abdicativa, 
e 
senza 
fornirne 
neppure 
sintetico 
conto, 
la 
sussistenza 
di 
ragioni 
(eventualmente) preclusive 
alla decisione 
dell’autorità procedente”. In altre 
parole, il 
Consiglio di 
Stato con tale 
parere 
ha 
sostanzialmente 
rilevato che 
il 
Ministero 
della 
Giustizia 
non 
ha 
partecipato 
in 
modo 
sostanziale 
alla 
redazione 
dello 
schema 
di 
decreto, 
non 
ha 
realizzato 
il 
“concorso 
nel 
volere”. 
Ma 
perché 
il 
contributo 
del 
Ministero 
della 
Giustizia 
doveva 
essere 
sostanziale 
e 
non 
formale? 
È 
presto detto: 
il 
Consiglio di 
Stato precisa 
che 
“il 
coinvolgimento del 
Ministro della giustizia appare 
correlato alla necessaria ed impegnativa verifica, 
in chiave 
retrospettiva, della complessiva coerenza dell’intervento con 
gli 
orientamenti 
maturati 
dalla giurisprudenza “consolidata” 
in punto di 
risarcimento 
del 
danno non patrimoniale 
e, in chiave 
prospettica, dell’impatto 
della regolazione 
sulla attività giurisdizionale 
sulle 
modalità di 
liquidazione 
dei danni”. 


Il 
Consiglio di 
Stato ha 
dato, comunque, atto nel 
parere 
che 
l’Amministrazione 
ha provveduto a: 


a) 
Alla preliminare 
predefinizione 
del 
valore 
economico del 
“punto 
base” (destinato all’aggiornamento periodico con 
cadenza annuale, mediante 
decreto ministeriale, per 
tener 
conto dell’effetto inflattivo: cfr. articolo 
138, comma 5), corrispondente al valore minimo della percentuale 
di 
invalidità 
(9 
punti) 
che 
si 
è 
scelto 
di 
equiparare 
-per 
ragioni 
di 
coerenza 
e 
di 
continuità -al 
valore 
del 
punto base 
positivamente 
definito (all’articolo 
139) per le cd. microlesioni, attualmente pari ad euro 939.78; 
b) 
Alla elaborazione 
di 
sistema di 
“moltiplicatori 
biologici”, di 
“demoltiplicatori 
demografici” 
e 
di 
“moltiplicatori 
per 
danno 
morale” 
(questi 
ultimi 
in 
misura alternativa minima, media e 
massima, per 
tenere 
conto 
delle esigenze di personalizzazione contestualizzate). 
Il 
Consiglio 
di 
Stato 
rileva, 
però, 
che 
in 
tale 
attività 
istruttoria 
vi 
è 
una 
surrettizia 
inversione 
metodologica 
e 
che 
il 
limite 
è 
rappresentato 
dal 
fatto 
che 
è 
stata 
recepita 
acriticamente 
la 
relazione 
tecnica 
dell’IVASS, 
incentrata 
su 
dati 
temporalmente 
risalenti, 
omettendo 
una 
puntuale 
descrizione 
della 
situazione 
attuale, 
aggiornata 
con 
gli 
ultimi 
dati 
disponibili 
relativamente 
alla 
consistenza 
numerica 
ed 
alla 
distribuzione 
frequenziale 
dei 
sinistri 
registrati 
ed 
alla 
relativa 
dinamica 
apprezzata 
in 
un 
congruo 
e 
significativo 
lasso 
temporale, 
sia 
nell’ambito 
della 
circolazione 
stradale 
che 
nel 
contesto 
sanitario 
e 
socio-sanitario. 



rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Inoltre, -quanto al 
compiuto e 
circostanziato apprezzamento della 
concreta 
incidenza, 
sul 
piano 
delle 
tecniche, 
delle 
modalità 
e 
degli 
esiti 
risarcitori, 
della 
formalizzazione 
di 
una 
tabella 
unica, con valore 
normativo, destinata 
a 
soppiantare 
programmaticamente 
la 
valorizzazione, validata 
dalla 
giurisprudenza, 
delle 
tabelle 
elaborate 
dalla 
prassi 
degli 
uffici 
giudiziari 
-l’analisi 
trascura 
il 
complessivo confronto comparativo con lo status 
quo, sia 
in termini 
assoluti 
sia 
in termini 
relativi, in relazione 
ai 
diversi 
gradi 
di 
invalidità, in tal 
modo non offrendo elementi 
per scongiurare 
il 
rischio di 
regressione 
dei 
risarcimenti. 
Nella 
prospettiva 
solidaristica 
della 
sentenza 
n. 
235/2014 
della 
Corte 
Costituzionale 
la 
necessità 
di 
razionalizzare 
i 
costi 
gravanti 
sul 
sistema 
assicurativo -che 
asseconda, per un verso, le 
aspettative 
di 
certezza, calcolabilità 
e 
prevedibilità 
degli 
operatori 
economici 
e 
dovrebbe 
contribuire 
a 
disincentivare, 
in prospettiva 
predittiva, il 
contenzioso e 
a 
favorire 
la 
definizione 
stragiudiziale 
delle 
pratiche 
di 
liquidazione 
-non va 
intesa 
quale 
ragione 
di 
deminutio 
della 
pienezza, effettività 
ed adeguatezza 
della 
tutela 
che 
va 
riconosciuta 
alle vittime di eventi dannosi. 


Il 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
ha, 
dunque, 
sollecitato 
energicamente 
un 
rinnovo 
dell’istruttoria 
per 
un’attenta 
analisi 
di 
contesto 
volta 
ad 
aggiornare 
i 
dati 
sottostanti 
alla 
articolata 
elaborazione 
tabellare, 
esplicitando 
i 
termini 
di 
un 
confronto 
comparativo 
puntuale 
e 
circostanziato 
con 
i 
parametri 
tabellari 
attualmente 
utilizzati 
nelle 
varie 
sedi 
giudiziarie 
e 
validati 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
illustrando 
le 
opzioni 
di 
standardizzazione 
ed 
uniformazione 
perseguite. 


Al 
di 
là 
delle 
osservazioni 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
occorre, 
però, 
chiedersi 
se 
è 
possibile 
realizzare 
una 
tabella 
Unica 
nazionale 
volta 
a 
superare 
il 
cd. 
isolamento cognitivo dei 
ctu, il 
cd. “imponderabile 
noto”, il 
cd. “Hindsight 
bias,o 
outcome 
bias 
”. 
In 
altri 
termini 
si 
può 
realizzare 
una 
tabella 
Unica 
Nazionale 
senza 
un bareme 
unico? 
Si 
può superare 
una 
concezione 
geriniana 
soprattutto 
per 
il 
cd. 
danno 
biologico 
differenziale 
incrementativo? 
Il 
D.M. 
10 
luglio 2000 di 
rango normativo di 
secondo grado rimane 
fondamentale 
per la 
valutazione 
della 
percentuale 
di 
invalidità 
dall’1 al 
9%: 
la 
sua 
violazione 
può 
certamente 
configurarsi 
nei 
ricorsi 
per cassazione 
come 
violazione 
di 
legge, 
cosi 
come 
si 
può 
invocare 
la 
violazione 
di 
legge 
ex 
art. 
360 
comma 
1 
n. 
3 
c.p.c. 
per 
la 
mancata 
applicazione 
della 
tabella 
da 
intendersi 
dopo 
la 
sentenza 
Amatucci 
come 
parametro paranormativo. Per i 
danni 
superiori 
al 
9% (e 
non per 
gli 
incidenti 
stradali) vi 
sono vari 
bareme 
che 
possono portare 
a 
risultati 
completamenti 
differenti 
per 
la 
stessa 
patologia. 
In 
caso, 
ad 
esempio, 
di 
paraplegia 
la 
Guida 
del 
Prof. Flavio Buzzi 
di 
Pavia, Società 
italiana 
di 
medicina 
legale, 
individua 
una 
percentuale 
di 
invalidità 
tra 
il 
41% e 
il 
65%; 
la 
Guida 
del 
prof. 
Bargogna l’80%; quella di ronchi Mastroroberto Genovesi il 60%. 


La 
Cassazione 
con la 
sentenza 
del 
5 maggio 2021 n. 11724 ha 
cercato di 
chiarire 
il 
concetto di 
bareme: 
deve 
essere 
scelto dal 
giudice 
e 
deve 
essere 
indicato 
nel 
quesito, deve 
essere 
unico per tutti 
i 
casi, deve 
essere 
scientifica



LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


mente 
condiviso ed aggiornato secondo la 
cd. Daubert 
trilogy. I principi 
che 
devono essere 
presi 
in considerazione 
in tema 
di 
risarcimento sono: 
la 
sostenibilità, 
l’adeguatezza, 
l’effettività, 
la 
pienezza, 
intangibilità, 
certezza, 
equità, 
uguaglianza 
e 
prevedibilità. 
La 
tabella 
Unica 
Nazionale, 
in 
attesa 
della 
richiesta 
rinnovata 
attività 
istruttoria 
auspicata 
dal 
Consiglio 
di 
Stato, 
non 
può 
in 
ogni 
caso concepirsi 
come 
sistema 
rigido, ma 
come 
base 
normativa 
per l’applicazione 
della 
cd. “equità 
circostanziata” 
che 
tenga 
sempre 
conto del 
caso 
concreto per una reale personalizzazione del danno risarcibile. 

Certo molto tempo è 
trascorso dalla 
nota 
sentenza 
n. 184/1986 con cui 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
richiesto 
una 
lettura 
costituzionalmente 
orientata 
degli 
artt. 2043 c.c. e 
2059 c.c. e 
molta 
giurisprudenza 
ha 
elaborato il 
concetto di 
danno biologico come 
danno dinamico-relazionale 
e 
il 
danno morale 
soggettivo 
da 
allegare 
e 
provare 
(7). Il 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato precisa 
che 
la 
tabella 
Unica 
Nazionale 
deve 
tener conto di 
tutta 
la 
giurisprudenza 
nazionale 
e 
non 
solo 
delle 
tabelle 
di 
Milano. 
Si 
ricorda 
che 
la 
Cassazione 
ha 
riconosciuto 
maggiore 
attendibilità 
alle 
tabelle 
di 
roma 
per la 
liquidazione 
del 
danno parentale 
(8). tali 
tabelle 
sono state 
redatte 
grazie 
al 
lavoro dei 
giudici 
Parziale 
e 
Cisterna 
che 
hanno 
definito 
un 
aumento 
del 
valore 
del 
punto 
del 
15,8%, 
chiarendo 
il 
concetto di 
curva 
di 
accrescimento del 
punto tabellare: 
il 
punto è 
una 
funzione 
crescente 
del 
risarcimento 
più 
che 
proporzionale. 
Cosa 
significa 
questo? 
Significa 
che 
si 
inserisce 
un cd. “meccanismo incrementale”. Le 
tabelle 
di 
Milano determinano, però, una 
curva 
di 
accrescimento all’inverso: 
i 
danni 
sino al 
30% hanno un meccanismo di 
crescita 
maggiore 
rispetto a 
quelli 
del 
50%. 
Nella 
tabella 
Unica 
Nazionale 
approntata 
vi 
è 
una 
curva 
di 
accrescimento 
che, 
però, 
non 
ha 
funzione 
progressiva, 
ma 
regressiva, 
ma 
è 
illogico 
prevedere un aumento più che proporzionale con una curva di accrescimento 
inverso. Paradossalmente, più è 
grave 
il 
danno, minore 
è 
il 
risarcimento. Se 
tale 
meccanismo volto a 
limitare 
la 
spesa 
pubblica 
e 
la 
sua 
incidenza 
sul 
PIL 
può valere 
per le 
strutture 
pubbliche, non può certo valere 
per le 
strutture 
private. 
ricordiamo 
che 
il 
sistema 
di 
responsabilità 
da 
circolazione 
stradale 
si 
applica 
anche 
ai 
natanti, alle 
grosse 
imbarcazioni 
che 
certo sono indici 
rivelatori 
di 
stati 
patrimoniali 
non esigui. È 
da 
escludere 
che 
la 
tabella 
Unica 
Nazionale 
preveda 
in 
via 
automatica 
la 
liquidazione 
del 
danno 
morale 
che 
va 


(7) Si 
fa 
riferimento, in particolare, a: 
tribunale 
di 
Milano, sentenza 
18 gennaio 1971 c.d. “Gennarino”; 
tribunale 
di 
Genova, sentenza 
15 dicembre 
1975; 
Corte 
Cost. sentenza 
n. 184/86; 
Corte 
Cost. 
sentenza 
n. 
372/94; 
Cassazione 
pen. 
Sez. 
Unite 
sentenza 
n. 
30328/2002; 
Corte 
Cost. 
sentenza 
n. 
233/2003; 
Cassazione 
civ. 
Sez. 
Unite 
nn. 
26972/2008 
e 
26975/2008; 
Cassazione 
Sez. 
Unite 
n. 
3677/2009; 
Cassazione 
pen. 
sentenza 
n. 
12408/2011; 
Cassazione 
civ. 
sentenze 
nn. 
28988/2019 
e 
28989/2019; 
Cassazione 
civ., sez. III, ordinanza 
n. 15733 del 
17 maggio 2022; 
Cassazione 
civ., sez. III, 
ordinanza n. 19922 del 12 luglio 2023; Cassazione civ., sez. III, ordinanza n. 7892 del 22 marzo 2024. 
(8) 
Ex 
plurimis, 
Cassazione 
civ. 
sez. 
III, 
sentenza 
n. 
10579/2021, 
Cassazione 
civ. 
sentenza 
n. 
26300/2021; Cassazione civ. sez. III, sentenza n. 33005/2021. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


allegato e 
provato con approfondite 
istruttorie. orbene, le 
tabelle 
quale 
parametro 
paranormativo hanno una 
funzione 
retrospettica 
(guardano, cioè, a 
ciò 
che 
è 
avvenuto 
in 
passato) 
e 
una 
funzione 
prospettica, 
svolgendo 
una 
funzione 
predittiva. Ma 
è 
necessario che 
poggino su solide 
basi 
scientifiche, tenendo 
presente 
che 
non esistono danni 
uguali 
anche 
se 
le 
lesioni 
sono uguali: 
deve 
sempre 
prevalere, in base 
alla 
valutazione 
equitativa 
del 
giudice 
ex 
art. 1226 
c.c., 
la 
cd. 
“personalizzazione 
del 
danno”, 
evitando 
troppi 
rigidi 
automatismi 
risarcitori. 
ricordiamo 
che 
la 
Legge 
Gelli 
Bianco, 
pur 
considerando 
che 
le 
aziende 
sanitarie 
sono in autoritenzione, richiama 
l’art. 590 sexies 
c.p. e 
l’art. 
133 c.p., ossia 
l’intensità 
del 
dolo e 
il 
grado della 
colpa, prendendo in considerazione 
anche 
il 
danno morale 
soggettivo. Proprio per tale 
motivo lo scorso 
13 aprile 
2024 la 
Società 
Italiana 
di 
Medicina 
Legale, società 
scientifica 
riconosciuta 
dal 
Ministero, 
ha 
approvato 
delle 
Linee 
Guida 
con 
circa 
250 
voci 
volte 
a 
definire 
da 
un punto di 
vista 
clinico le 
percentuali 
di 
danno risarcibile. 
È 
un 
primo 
passo 
per 
la 
definizione 
di 
un 
bareme 
unico, 
perché 
il 
risarcimento 
del 
danno 
in 
una 
logica 
compensativa 
della 
responsabilità 
civile 
secondo 
il 
cd. 
“teorema 
dell’indifferenza” 
è 
sinonimo di 
equità 
e 
di 
giustizia 
sociale 
(9). Si 
ricorderà 
che 
il 
danno biologico è 
la 
lesione 
temporanea 
o permanente 
all’integrità 
psico-fisica 
della 
persona, suscettibile 
di 
accertamento medico/legale 
che 
esplica 
un’incidenza 
negativa 
sull’attività 
quotidiana 
e 
sugli 
aspetti 
dinamico 
relazionali 
della 
vita 
del 
danneggiato, indipendentemente 
da 
eventuali 
ripercussioni 
sulle 
sue 
capacità 
di 
produrre 
reddito (10). Gli 
elementi 
costitutivi 
del 
danno biologico (secondo la 
Cassazione, tra 
le 
tante 
vedi 
concetto di 
“vulnerabilità”, sentenza n. 26118/21) (11) sono: 


a) 
Fondamento medico-legale cd. evidence-based; 
b) 
Disfunzionalità 
(non basta 
la 
lesione 
di 
un diritto, occorre 
un pregiudizio 
anche se solo temporaneo); 
(9) 
r. PArDoLESI, (2018) Danno non patrimoniale, uno e 
bino, nell’ottica della Cassazione, una 
e 
Terza, in “La nuova giurisprudenza civile 
commentata”; 
U. GENoVESE, A. StEFFANo, M. roDoLFI, S. 
DEL 
SorDo, C. LoMBArDo, F. MArtINI, A. MAzzUCChELLI 
(2019), Guida alla liquidazione 
economica 
del 
danno alla persona in R.C., Maggioli; 
r. PArDoLESI, S. roBErto 
(2021), Le 
nuove 
tabelle 
milanesi 
e 
il 
fascino 
discreto 
della 
para-normatività, 
in 
“Danno 
e 
responsabilità”; 
r. 
PArDoLESI, 
S. 
roBErto 
(2021), Il 
danno da perdita del 
rapporto parentale: giudice 
(-legislatore?) in fuga da Milano, in “Foro 
Italiano”; 
r. 
PArDoLESI, 
Sofferenza 
morale 
e 
contorsioni 
tabellari 
in 
“Danno 
e 
responsabilità”; 
G. 
CAS-
SANo 
(2021), 
Il 
danno alla persona, Giuffrè; 
A. BIANChI, G. CoMANDé, M. FrANzoNI, M. GroNDoNA, 
P.G. MoNAtErI, r. PArDoLESI, G. PoNzANELLI, r. SIMoNE, F. zAPPAtorE 
(2021), Danno alla persona e 
parametri 
di 
liquidazione, wolters 
kluwer; 
P. MINICANGELI, La liquidazione 
del 
danno alla persona: 
persistenti 
incertezze 
ed immutabili 
esigenze 
in Diritto di 
Famiglia e 
delle 
Persone 
(II), fasc. 3, 1 settembre 
2022; 
E. 
CoLLEttI, 
Tabelle 
di 
Milano: 
l’evoluzione 
paranormativa 
dei 
criteri 
risarcitori 
tra 
adeguamenti 
e nuove prospettive 
in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 4, 1 aprile 2023. 
(10) G. ALPA, Il 
danno biologico. Percorso di 
un’idea (1987); 
G. PoNzANELLI 
(2004), Il 
“nuovo” 
danno non patrimoniale, CEDAM; 
E. NAVArrEtA 
(2010), Il 
danno non patrimoniale. Principi, regole 
e 
tabelle 
per 
la 
liquidazione, 
Giuffrè; 
G. 
ALPA 
(2019), 
Le 
persone 
e 
la 
famiglia. 
Le 
persone 
fisiche 
e 
i 
diritti della personalità, UtEt; G. PASCALE 
(2020), I danni non patrimoniali, Maggioli. 
(11) Cassazione civ., sez. III, sentenza n. 26118 del 27 settembre 2021. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


c) 
onnicomprensività 
senza 
duplicazioni 
di 
voci 
di 
danno 
che 
hanno 
una 
valenza spesso solo descrittiva; 
d) 
Arredittualità; 
e) 
Accertamento 
degli 
elementi 
costitutivi 
ex 
art. 
2043 
c.c. 
(fatto 
illecito, 
dolo o colpa 
e 
nesso di 
causalità 
secondo il 
principio della 
causalità 
adeguata, 
cd. “più probabile che non”). 
La 
massima 
tutela 
delle 
vittime 
imposto dalle 
norme 
costituzionali 
artt. 
2, 
3 
e 
32 
Cost., 
impone 
il 
cd. 
“zelo 
solerte 
nella 
conduzione 
dell’istruttoria”: 
ma 
come 
si 
deve 
procedere 
in 
caso 
di 
lesioni 
concorrenti, 
coesistenti 
e 
concorrenti 
con 
doppie 
o 
triple 
percentuali 
di 
invalidità? 
La 
Cassazione, 
in 
occasione 
della 
nota 
pronuncia 
n. 28986/19 relativa 
alla 
valutazione 
e 
liquidazione 
del c.d. danno biologico differenziale (12), ha chiarito che: 


A. occorre stabilire il grado complessivo di IP; 
B. 
Stabilire 
il 
grado 
ipotetico 
di 
IP 
che, 
comunque, 
la 
vittima 
avrebbe 
potuto 
patire anche in assenza dell’illecito; 
C. Sottrarre B ad A. 
Delle 
patologie 
pregresse 
si 
deve 
tener 
conto 
nella 
liquidazione 
del 
danno. 
occorre 
precisare 
ed 
è 
questo 
un 
punto 
di 
cui 
la 
tabella 
Unica 
nazionale 
dovrà 
tener 
conto 
che 
la 
differenza 
in 
sede 
di 
liquidazione 
del 
danno 
deve 
essere 
svolta 
sui 
“soldi”, 
non 
“sulle 
percentuali 
di 
invalidità”. 
Il 
risarcimento 
dei 
danni 
deve 
riportare 
i 
costi 
sulla 
cd. “curva 
di 
indifferenza”: 
la 
sostenibilità 
si 
realizza con criteri: 


1) 
oggettivi; 
2) 
Prevedibili; 
3) 
Comprensibili. 
Il 
risarcimento 
è 
un 
problema 
di 
“bilanciamento”: 
occorre 
considerare 
che 
risarcimenti 
elevati 
fanno 
aumentare 
i 
premi 
assicurativi 
con 
ricadute 
sulla 
fiscalità 
generale 
e 
con maggiori 
azioni 
di 
surroga 
da 
parte 
degli 
assicuratori. 
Ma 
occorre, 
anche, 
individuare 
con 
balance 
and 
wisdom 
una 
metodologia 
chiara 
che 
eviti 
“rigidità” 
ed automatismi 
risarcitori 
nella 
prospettiva 
costituzionale 
di tutela della persona 
ex 
artt. 2 e 32 Cost. 


Consiglio di 
stato, sezione 
Consultiva per 
gli 
Atti 
normativi, Parere 
20 febbraio 2024 


n. 164 -Pres. L. Barra Caracciolo, Est. G. Grasso. 
1.- Con nota 
prot. n. 2308 del 
31 gennaio 2024, il 
capo dell’ufficio legislativo del 
Ministero 
delle 
imprese 
e 
del 
made 
in Italy 
ha 
trasmesso, ai 
fini 
della 
acquisizione 
del 
prescritto parere, 
lo schema 
di 
decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
avente 
ad oggetto il 
“regolamento re


(12) Cassazione 
civ. sez. III, sentenza 
n. 28986 del 
11 novembre 
2019. In tema 
di 
valutazione 
e 
liquidazione 
del 
c.d. danno biologico differenziale 
si 
veda 
anche 
Cassazione 
civ., sez. III, sentenza 
n. 
26851 del 19 settembre 2023. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


cante 
la tabella unica del 
valore 
pecuniario da attribuire 
a ogni 
singolo punto di 
invalidità 
tra dieci 
e 
cento punti, comprensivo dei 
coefficienti 
di 
variazione 
corrispondenti 
all’età del 
soggetto leso, ai 
sensi 
dell’articolo 138, comma 1, lettera b), del 
codice 
delle 
assicurazioni 
private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209”. 
A corredo della richiesta, sono stati trasmessi: 


a) 
la 
“relazione 
illustrativa”, predisposta 
dalla 
Direzione 
generale 
consumatori 
e 
mercato e 
munita 
del 
visto 
del 
Ministro 
e 
della 
pedissequa 
richiesta 
di 
parere 
ex 
articolo 
36 
r.d. 
21 
aprile 
1942, n. 444; 
b) 
il 
testo dello schema 
di 
decreto, validato e 
‘bollinato’ 
dal 
ragioniere 
generale 
dello Stato, 
unitamente alle “tavole” ed alle “tabelle” 
che integrano l’apparato degli allegati; 
c) 
la 
relazione 
di 
“analisi 
dell’impatto della regolamentazione” 
(AIr), accompagnata 
dalla 
relativa 
“valutazione” 
espressa 
dal 
“Nucleo di 
valutazione” 
(NUVIr), con nota 
prot. VII/23 
del 18 dicembre 2023; 
d) 
la “analisi tecnico-normativa”, redatta in guisa informale; 
e) 
la 
“relazione 
tecnico-finanziaria”, con pedissequa 
e 
positiva 
verifica 
della 
ragioneria 
generale 
dello Stato, ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
dell’articolo 17, comma 
3, della 
legge 
31 dicembre 
2009, n. 196; 
f) la 
nota 
prot. n. 269418 in data 
22 novembre 
2023, con la 
quale 
l’Istituto per la 
vigilanza 
sulle 
assicurazioni 
(IVASS) ha 
espresso il 
proprio “parere 
favorevole” 
sul 
testo normativo e 
delle allegate tabelle, “nel presupposto del recepimento delle modifiche 
[...] 
elencate”; 
g) la 
nota 
prot. n. 12671 del 
13 dicembre 
2023, con la 
quale 
il 
capo dell’ufficio legislativo del 
Ministero della 
giustizia 
ha 
formalizzato, d’ordine 
del 
Ministro, il 
“concerto” 
sul 
testo trasmesso, 
condizionato 
all’inserimento, 
in 
allegato 
al 
regolamento, 
delle 
tabelle 
“del 
danno 
biologico”
e“del 
danno biologico comprensivo del 
danno morale, con aumento minimo, medio 
e massimo”; 
h) 
la 
attestazione, a 
cura 
del 
Segretario, della 
avvenuta 
approvazione, in esame 
preliminare, 
dello schema di regolamento nella riunione del Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2024; 
i) 
gli 
esiti, per quanto di 
ritenuto interesse, delle 
“consultazioni” 
con i 
“soggetti 
interessati”, 
e 
segnatamente: 
i1) 
le 
“osservazioni” 
formulate, in data 
28 gennaio 2021, dalla 
Associazione 
nazionale 
fra 
le 
imprese 
assicuratrici 
(ANIA); 
i2) 
le 
“osservazioni”(sine 
data, ma 
post 
nota 
prot. n. 10074 del 
13 gennaio 2021) del 
Consiglio nazionale 
dei 
consumatori 
e 
degli 
utenti; 
i3) 
le 
“prime 
valutazioni” 
(s.d.) 
della 
Associazione 
italiana 
ospedalità 
privata 
(A.I.o.P.); 
i4) 
le 
“osservazioni” 
(s.d.) 
del 
Gruppo 
UNIPoL; 
i5) 
le 
“osservazioni 
critiche”, 
in 
data 
21 
gennaio 
2021, della 
Associazione 
italiana 
familiari 
e 
vittime 
della 
strada 
(AIFVS), della 
Unione 
nazionale 
avvocati 
responsabilità 
civile 
e 
assicurativa 
(UNArCA) e 
del 
referente 
italiano della 
Pan European Organisation of Personal Injury Lawyers 
(PEoPIL); 
j) 
una “nota tecnica” dell’IVASS. 
2.-osserva, in premessa, la 
Sezione 
che 
lo schema 
di 
decreto in esame 
è 
destinato a 
dare 
attuazione 
dell’articolo 138, comma 
1 del 
decreto legislativo 7 settembre 
2005, n. 209 (Codice 
delle 
assicurazioni 
private), 
il 
quale 
-nella 
formulazione 
risultante 
dalle 
modifiche 
introdotte 
dapprima 
con 
l’articolo 
1, 
comma 
17 
della 
legge 
4 
agosto 
2017, 
n. 
124 
e, 
quindi, 
con 
l’articolo 
3-ter, comma 
1, lettera 
a) 
del 
decreto-legge 
30 dicembre 
2021, n. 228, convertito, con modificazioni, 
dalla 
legge 
25 febbraio 2022, n. 15 -prevede, relativamente 
alla 
valutazione 
e 
liquidazione 
del 
“danno non patrimoniale 
per 
lesioni 
di 
non lieve 
entità”, la 
predisposizione 
di “specifiche tabelle uniche per tutto il territorio della Repubblica”. 
In particolare 
-a 
fronte 
della 
originaria 
previsione 
di 
una 
“tabella unica” 
avente 
ad oggetto 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


sia 
l’individuazione 
delle 
“menomazioni 
all’integrità psico-fisica comprese 
tra dieci 
e 
cento 
punti”, sia 
del 
“valore 
pecuniario da attribuire 
a ogni 
singolo punto di 
invalidità” 
-l’attuale 
norma 
primaria 
prefigura 
l’approvazione, con distinti 
e 
separati 
decreti, di 
una 
tabella 
preordinata 
alla 
determinazione 
(sotto il 
profilo medico-legale) della 
percentuale 
di 
invalidità 
correlata 
alle 
lesioni 
di 
maggiore 
entità 
e 
di 
una 
tabella 
destinata 
a 
definire 
(sotto 
il 
profilo 
economico-assicurativo) i 
parametri 
per la 
relativa 
quantificazione 
(avuto riguardo al 
valore, 
espresso in termini 
pecuniari, da 
attribuire 
a 
ciascun punto di 
invalidità, tenendo conto della 
“età del soggetto leso”). 
Mentre 
il 
primo decreto, allo stato non approvato, è 
affidato alla 
proposta 
del 
Ministro della 
salute, 
di 
concerto 
con 
il 
Ministero 
delle 
imprese 
e 
del 
made 
in 
Italy, 
con 
il 
Ministro 
del 
lavoro 
e 
delle 
politiche 
sociali 
e 
del 
Ministro 
della 
giustizia, 
il 
secondo 
-che 
costituisce 
oggetto 
della 
presente 
richiesta 
di 
parere 
-è 
adottato su proposta 
del 
Ministro delle 
imprese 
e 
del 
made 
in 
Italy, di concerto con il Ministro della giustizia, sentito l’IVASS. 
In forza 
dell’articolo 7, comma 
4 della 
legge 
8 marzo 2017, n. 24 (recante 
“Disposizioni 
in 
materia di 
sicurezza delle 
cure 
e 
della persona assistita, nonché 
in materia di 
responsabilità 
professionale 
degli 
esercenti 
la professione 
sanitaria”), le 
tabelle 
in questione 
sono destinate 
a 
fungere 
da 
base 
anche 
per la 
liquidazione 
del 
danno conseguente 
all’attività 
delle 
strutture 
sanitarie 
o socio-sanitarie 
o dei 
professionisti 
del 
settore, al 
qual 
fine 
la 
regolamentazione 
attuativa 
è chiamata a “tener conto” delle afferenti fattispecie. 
2.1.- Il 
termine 
per l’adozione 
del 
decreto -normativamente 
scolpito al 
1° 
maggio 2022 -è 
ampiamente elasso. Non si tratta, peraltro, di ancoraggio temporale perentorio. 
Sul 
punto -ancorché 
non appaia 
lecito richiamare, relativamente 
ai 
regolamenti 
ministeriali 
di 
cui 
all’articolo 
17, 
comma 
3 
della 
legge 
n. 
400 
del 
1988 
(che 
postulano, 
come 
tali, 
un 
espresso 
conferimento 
del 
potere, 
che 
normalmente 
incorpora 
un 
vincolo 
di 
ordine 
temporale) 
l’argomento 
diffusamente 
valorizzato 
dalla 
giurisprudenza, 
che 
fa 
leva 
sul 
carattere 
“generale” 
della 
potestà 
regolamentare 
del 
Governo, la 
quale 
può per ciò fare 
a 
meno di 
una 
esplicita 
integrazione 
normativa 
sub 
specie 
temporis 
della 
disposizione 
di 
rango 
primario 
(cfr., 
tra 
le 
molte, Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3687) -deve 
tenersi, comunque, per fermo che 
un termine 
cogente 
per l’esercizio di 
potestà 
normativa 
è 
espressamente 
previsto, nel 
nostro 
ordinamento, solo per l’emanazione 
dei 
decreti 
legislativi 
delegati 
(ex 
articolo 76 Cost. e, in 
attuazione, ex 
articolo 14 legge n. 400 del 1988). 
2.2.- La 
complessiva 
finalità 
dell’intervento -che 
ne 
marca, ad un tempo, l’orizzonte 
assiologico 
e 
ne 
prefigura 
ed indirizza, anche 
in una 
rilevante 
prospettiva 
di 
ordine 
metodologico, 
le 
concrete 
modalità 
attuative 
-è 
individuata 
dalla 
legge 
nel 
duplice 
obiettivo: 
a) 
di 
“garantire 
il 
diritto 
delle 
vittime 
[…] 
a 
un 
pieno 
risarcimento 
del 
danno 
non 
patrimoniale 
effettivamente 
subito”; 
b) 
di 
“razionalizzare 
i 
costi 
gravanti 
sul 
sistema 
assicurativo 
e 
sui 
consumatori” 
(articolo 
138, comma 1). 
Ancorché 
concorrenti 
-e 
tali 
da 
prefigurare 
un necessario e 
ragionevole 
bilanciamento 
-tali 
obiettivi non si collocano, tuttavia, sul medesimo piano. 
Direttiva 
primaria 
-per la 
quale 
opera, in chiave 
dichiaratamente 
garantistica, l’esplicita 
ed 
impegnativa 
valorizzazione 
positiva 
di 
un 
canone 
di 
pienezza 
e 
di 
effettività 
remediale 
-è 
quella 
che 
sollecita, 
in 
prospettiva 
essenzialmente 
vittimologica 
e 
solidaristica, 
la 
elaborazione 
di 
una 
criteriologia 
risarcitoria 
formulata 
in termini 
di 
tendenziale 
adeguatezza 
delle 
poste 
di 
danno, destinate 
a 
compensare, in via 
necessariamente 
equitativa, la 
compromissione 
della 
“integrità psico-fisica della persona”, nella 
sua 
attitudine 
ad incidere 
negativamente 
“sulle 
attività quotidiane 
e 
sugli 
aspetti 
dinamico-relazionali 
della vita del 
danneggiato”, non di



rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


sgiunta 
dalla 
valorizzazione, essenzialmente 
soggettiva 
ed idiosincratica, di 
un concorrente 
“danno morale”. 
Sul 
piano operativo, ai 
fini 
della 
declinazione 
delle 
valutazioni 
tecnico-discrezionali 
rimesse 
all’autorità 
governativa, la 
priorità della 
direttiva 
è 
tradotta 
nell’obbligo -che 
precede 
e, con 
ciò, 
conforma 
l’indicazione 
prospettica 
degli 
specifici 
“principi 
e 
criteri” 
per 
l’esercizio 
della 
delega 
-di 
“tenere 
conto”, 
nella 
elaborazione 
e 
formalizzazione 
dei 
dati 
parametrici, 
dei 
“criteri 
di 
valutazione 
del 
danno non patrimoniale 
ritenuti 
congrui 
dalla consolidata giurisprudenza 
di legittimità” (comma 2). 
Il 
richiamo all’acquis 
giurisprudenziale 
mira, con ogni 
evidenza, a 
salvaguardare, negli 
intendimenti 
del 
legislatore, la 
garanzia 
di 
effettività e 
congruenza 
del 
risarcimento del 
danno 
anche 
nel 
quadro delle 
tabelle 
“ministeriali” 
di 
nuovo conio e 
a 
scongiurare, in prospettiva 
programmatica, valutazioni 
al 
ribasso 
rispetto agli 
assetti 
remediali 
da 
riguardarsi 
quali 
tendenzialmente 
consolidati. In questo senso, le 
plausibili 
esigenze 
di 
uniformità, omogeneità 
e 
certezza 
nella 
liquidazione 
dei 
danni 
non 
patrimoniali 
(che 
obbediscono 
ad 
un 
canone 
di 
uguaglianza 
tra 
situazioni 
comparabili 
ed agevolano una 
definizione 
stragiudiziale 
delle 
controversie) 
non possono andare 
a 
scapito della 
adeguatezza 
del 
ristoro riconosciuto alle 
vittime 
di incidenti o di 
malpractice 
sanitaria. 
A 
fronte 
di 
ciò, si 
atteggia 
a 
direttiva 
secondaria -che 
trova 
giustificazione 
nella 
esigenza, di 
rilievo sociale 
e 
di 
interesse 
generale, di 
favorire 
la 
calcolabilità 
e 
la 
prevedibilità 
dei 
costi 
transattivi 
a 
carico delle 
imprese 
assicurative 
-quella 
intesa 
alla 
salvaguardia 
della 
complessiva 
sostenibilità 
sistemica, 
al 
fine 
di 
scongiurare 
il 
rischio 
degli 
automatismi 
traslativi 
in 
danno della 
collettività 
dei 
consumatori 
e 
degli 
utenti, attraverso l’incremento dei 
premi 
contrattuali. 
Solo nella 
illustrata 
prospettiva, che 
mette 
in correlazione 
la 
primaria 
esigenza 
di 
tutela dei 
diritti 
con 
gli 
equilibri 
del 
mercato 
assicurativo, 
può 
acquisire 
specifica 
coerenza 
-anche 
avuto riguardo alla 
ambientazione 
dei 
criteri 
di 
liquidazione 
del 
danno non patrimoniale 
nel 
contesto settoriale 
del 
codice 
delle 
assicurazioni 
private, peraltro destinato a 
coprire, per la 
illustrata 
opzione 
positiva, l’articolato ambito della 
responsabilità 
professionale 
sanitaria 
-la 
programmatica 
rimessione, in via 
propositiva, dell’approntamento delle 
tabelle 
al 
Ministero 
delle 
imprese 
e 
del 
made 
in Italy, con il 
supporto tecnico-consultivo dell’Istituto di 
vigilanza, 
ma 
anche 
con il 
qualificato 
e 
necessario 
apporto codecisionale 
del 
Ministero della 
giustizia, 
in via di concerto. 
2.3.-Sotto 
questo 
profilo 
-di 
ordine 
procedimentale, 
ma 
di 
incidenza 
sostanziale 
-il 
Collegio 
non può esimersi 
dal 
rilevare 
che 
l’intellegibilità 
dell’intervento normativo in esame 
risulta 
compromessa, in assenza 
di 
supporto documentale 
integrativo, dal 
tratto meramente 
formale 
ed inarticolato (fatta 
eccezione 
della 
richiesta, di 
rilievo del 
tutto secondario, di 
collocazione 
delle tabelle in apposito allegato) del concerto espresso dal Ministro della giustizia. 
Si 
impongono, 
sul 
punto, 
una 
considerazione 
di 
carattere 
generale 
ed 
una 
di 
carattere 
specifico 
e contestuale. 
Sotto 
il 
primo 
profilo, 
la 
Sezione 
ha, 
ancora 
da 
ultimo, 
reiteratamente 
ribadito 
(cfr., 
per 
tutti, 
i 
pareri 
n. 
53 
del 
22 
gennaio 
2024 
e 
n. 
131 
del 
30 
gennaio 
2024) 
che, 
negli 
“atti 
di 
concerto”, 
la 
valutazione 
dei 
Ministeri 
(competenti 
per 
legge) 
veicola 
ed 
esprime 
-in 
ordine 
alla 
proposta 
normativa 
elaborata, 
in 
via 
preliminare, 
dall’autorità 
concertante 
-una 
adesione 
sostanziale 
(di 
vero 
e 
proprio 
“accordo 
tra 
le 
amministrazioni 
statali 
coinvolte” 
fa 
espressa 
parola, 
in 
termini 
generali, 
l’articolo 
17-bis, 
comma 
2 
della 
legge 
n. 
241 
del 
1990), 
conseguente 
al 
concreto 
apprezzamento 
degli 
interessi 
pubblici 
a 
confronto 
(anche, 
secondo 
i 
casi, 
di 
ordine 
organiz



LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


zativo 
ed 
infrastrutturale), 
che 
abilita 
del 
resto 
alla 
formulazione 
di 
eventuali 
suggerimenti 
e 
alla 
elaborazione 
di 
proposte 
di 
modifica 
o 
di 
integrazione: 
sicché 
non 
a 
caso, 
nel 
conflitto, 
è 
prevista 
la 
composizione 
in 
sede 
di 
Consiglio 
dei 
ministri 
(cfr. 
articolo 
5, 
comma 
2 
lettera 
c-
bis) 
legge 
23 
agosto 
1988, 
n. 
400, 
nonché 
articolo 
17-bis, 
comma 
2 
l. 
n. 
241/1990 
cit.). 
Con ciò, pur con l’elevato tasso di 
politicità 
e 
l’ampia 
discrezionalità 
che 
connota 
l’attività 
di 
concertazione 
a 
livello ministeriale, la 
sua 
manifestazione, ancorché 
non integri 
un atto unitario 
e 
formalmente 
complesso, ma 
si 
atteggi 
a 
mero modulo procedimentale, realizza 
(cioè: 
deve 
realizzare) una 
effettiva compartecipazione 
alla 
elaborazione 
del 
provvedimento o del-
l’atto, per la 
quale 
l’autorità 
concertata 
esprime 
sulla 
proposta 
elaborata 
dall’autorità 
concertante 
una 
sostanziale 
valutazione 
di 
compatibilità 
con gli 
interessi 
di 
cui 
è 
portatrice, con ciò 
realizzandosi 
una 
forma 
di 
concorso nel 
volere 
che 
è, ad un tempo, sostanziale 
codeterminazione 
del voluto. 
Del 
resto, di 
là 
dalla 
formale 
attribuzione 
-con la 
facoltà 
di 
elaborare 
la 
proposta 
-dell’iniziativa 
procedimentale, 
il 
regolamento 
approvato 
in 
via 
concertata 
assume 
i 
tratti, 
quanto 
meno 
sostanziali, 
del 
decreto 
interministeriale 
(cfr. 
articolo 
17, 
comma 
3 
legge 
n. 
400 
del 
1988), onde 
il 
concerto costituisce 
l’atto con cui 
il 
Ministro concertante 
(lungi 
dal 
limitarsi 
ad esplicitare 
l’assenza 
di 
ragioni 
meramente 
ostative) si 
rende 
positivamente 
partecipe 
del-
l’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne la responsabilità. 
Ne 
discende 
che 
la 
preventiva 
partecipazione 
istituzionale 
dei 
Ministri 
competenti 
ratione 
materiae 
non può essere 
surrogata 
da 
un mero, inarticolato e 
“secco” 
nulla-osta, con il 
quale 
il 
Ministro 
(o 
addirittura 
una 
mera 
struttura 
ministeriale, 
all’uopo 
eventualmente 
ed 
informalmente 
delegata) escluda, con formula 
essenzialmente 
negativa 
e 
sostanzialmente 
abdicativa, 
e 
senza 
fornirne 
neppur sintetico conto, la 
sussistenza 
di 
ragioni 
(eventualmente) preclusive 
alla decisione della autorità procedente. 
E 
benché 
rientri, 
realisticamente, 
nell’ordine 
del 
possibile 
che 
l’autorità 
interpellata 
nulla 
abbia 
da 
osservare 
sullo 
schema 
di 
atto, 
è 
bene 
rimarcare 
che 
si 
tratta 
pur 
sempre 
di 
un 
caso 
limite, 
che 
non 
può 
valere 
a 
ridurre 
né 
il 
concerto, 
né 
la 
previa 
audizione 
-svilendone 
importanza, 
senso 
e 
funzione 
-a 
mera 
formula 
di 
stile, 
ridotta 
a 
vacuo 
adempimento 
procedimentale. 
tale 
conclusione 
non è 
smentita, ma 
semmai 
corroborata, dalla 
sancita 
operatività 
del 
meccanismo 
semplificativo 
del 
silenzio-assenso 
introdotto, 
per 
garantire 
anche 
sul 
piano 
organizzativo 
ed infrastrutturale 
la 
celerità 
dell’azione 
amministrativa, dall’articolo 17-bis, comma 
2 della legge n. 241 cit. 
Per un verso, infatti, la 
disposizione 
conferma 
l’obbligo, gravante 
sulla 
autorità 
concertata, 
di 
dare 
espresso, formale 
e 
motivato 
riscontro (arg. ex 
articoli 
2 e 
3 della 
legge 
n. 241 cit.) 
alla 
proposta 
dell’autorità 
concertata 
(sì 
che 
il 
valore 
legale 
di 
tacito 
assenso 
è 
posto 
a 
presidio 
di 
una 
inerzia 
ingiustificata, che 
si 
colloca 
in un quadro di 
patologia 
dell’azione 
amministrativa); 
per altro verso, il 
preciso e 
sintomatico riguardo alla 
figura 
codecisionale 
dell’accordo 
(e 
alla 
eventualità 
di 
interventi 
di 
modifica rimessi, nel 
mancato confronto interministeriale, 
al 
Presidente 
del 
Consiglio) testimonia 
a 
favore 
del 
necessario impegno argomentativo e 
giustificativo. 
2.4.-Se 
tali 
considerazioni 
valgono 
in 
termini 
generali, 
con 
specifico 
riferimento 
allo 
schema 
di 
decreto in esame, si 
deve 
ripetere 
che 
il 
coinvolgimento del 
Ministro della 
giustizia 
appare 
correlato alla 
necessaria 
ed impegnativa 
verifica, in chiave 
retrospettiva, della 
complessiva 
coerenza 
dell’intervento con gli 
orientamenti 
maturati 
dalla 
giurisprudenza 
“consolidata” 
in 
punto di 
risarcimento del 
danno non patrimoniale 
e, in chiave 
prospettica, dell’impatto della 
regolazione sulla attività giurisdizionale e sulle modalità di liquidazione dei danni. 



rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Un 
compito 
reso 
vieppiù 
necessario 
e 
qualificante 
dal 
fatto 
che, 
nella 
sua 
essenza, 
l’ordito 
normativo 
si 
limita, 
nei 
quattro 
articoli 
di 
cui 
si 
compone, 
a 
richiamare, 
al 
fine 
di 
conferir 
loro rilievo regolamentare, le 
tavole 
e 
le 
tabelle 
collocate 
in allegato, con le 
prefigurate 
modalità 
di 
aggiornamento (articolo 1); 
a 
fissare 
il 
valore 
del 
primo punto di 
invalidità 
(articolo 
2); 
ad individuare 
il 
criterio di 
liquidazione 
del 
danno biologico temporaneo (articolo 3) e 
a 
sancire l’invarianza finanziaria dell’intervento (articolo 4). 
In definitiva, già 
sotto questo primo profilo, l’erogazione 
del 
parere 
deve 
essere 
sospesa, in 
attesa di una adeguata rinnovazione dell’attività di concertazione interministeriale. 
3.- Ciò detto, l’articolo 138, comma 
2 della 
legge 
n. 209 del 
2005 fissa 
specifici 
criteri, principi 
e 
regole 
destinate 
ad 
orientare 
l’attività 
di 
elaborazione 
dei 
dati 
e 
di 
predisposizione 
della 
tabella. restano sullo sfondo di 
tale 
operazione 
-in quanto ne 
costituiscono, sotto distinto rispetto, 
un 
postulato 
-sia 
la 
nozione 
di 
danno 
non 
patrimoniale 
(avuto 
riguardo 
alla 
distinzione 
tra 
danno 
biologico 
e 
danno 
morale, 
che 
recepisce 
la 
consolidata 
elaborazione 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
cassazione), sia 
il 
parametro di 
riferimento medico-legale, espresso 
in termini di percentuale riconosciuta di invalidità. 
Si prevede, in dettaglio: 


a) 
l’adozione 
del 
“sistema del 
punto variabile 
in funzione 
dell’età e 
del 
grado di 
invalidità” 
(comma 
2, lettera 
b), tale 
che 
il 
“valore 
economico del 
punto” 
risulti 
funzione 
(“crescente”) 
della percentuale di invalidità e funzione (“decrescente”) dell’età del danneggiato; 
b) 
la 
prospettica 
incidenza 
“più che 
proporzionale” 
di 
ogni 
“aumento percentuale” 
della 
invalidità 
riconosciuta 
(nel 
senso che 
ad un aumento del 
punto di 
invalidità, in termini 
medico-
legali, debba 
corrispondere 
un incremento più che 
proporzionale 
del 
corrispondente 
valore 
economico attribuito); 
c) 
una 
correlazione 
inversa 
tra 
l’età 
della 
vittima 
ed il 
valore 
economico del 
punto variabile, 
determinato 
sulla 
base 
“delle 
tavole 
di 
mortalità 
elaborate 
dall’ISTAT, 
al 
tasso 
di 
rivalutazione 
pari all’interesse legale”; 
d) 
una 
modalità 
di 
“personalizzazione 
complessiva 
della 
liquidazione” 
-per 
tenere 
conto 
della 
“componente 
del 
danno 
morale” 
-mediante 
incremento 
“in 
via 
percentuale 
e 
progressiva 
per 
punto”. 
3.1.- In tale 
quadro, l’Amministrazione 
ha 
provveduto, come 
evidenziato dalla 
relazione 
illustrativa: 
a) 
alla 
preliminare 
predefinizione 
del 
valore 
economico del 
“punto base” 
(destinato all’aggiornamento 
periodico con cadenza 
annuale, mediante 
decreto ministeriale, per tener conto 
dell’effetto 
inflattivo: 
cfr. 
articolo 
138, 
comma 
5), 
corrispondente 
al 
valore 
minimo 
della 
percentuale 
di 
invalidità 
(9 
punti), 
che 
si 
è 
scelto 
di 
equiparare 
-per 
argomentate 
ragioni 
di 
“coerenza” 
e 
di 
“continuità” 
-al 
valore 
del 
punto base 
positivamente 
definito (all’articolo 139) 
per le c.d. microlesioni, attualmente pari ad € 939.78; 
b) 
alla 
elaborazione 
di 
un 
sistema 
di 
“moltiplicatori 
biologici”, 
di 
“demoltiplicatori 
demografici”, 
e 
di 
“moltiplicatori 
per 
danno morale” 
(questi 
ultimi 
in misura 
alternativa 
minima, 
media e massima, per tenere conto delle esigenze di personalizzazione contestualizzate). 
A 
tal 
fine, 
si 
è 
proceduto 
-“nel 
rispetto 
delle 
caratteristiche 
del 
mercato 
assicurativo, 
nonché 
dei 
vincoli 
di 
legge, 
in 
modo 
da 
garantire 
la 
congruità 
del 
valore 
con 
quanto 
previsto 
per 
le 
microlesioni, 
evitando 
effetti 
di 
maggior 
onere 
per 
il 
mercato 
assicurativo 
e 
per 
i 
consumatori 
danneggiati” 
-ad 
una 
strumentale 
“rilevazione 
dei 
dati 
di 
mercato”, 
operata 
con 
il 
“supporto 
tecnico” 
dell’Istituto 
di 
vigilanza, 
che 
ha 
valorizzato, 
quale 
ultimo 
dato 
disponibile, 
il 
“costo 
economico 
sopportato 
dal 
settore” 
nell’anno 
2018, 
utilizzato 
“per 
la 
validazione 
del 
modello 
definito”. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


La 
relazione 
tecnica 
assume, senza 
peraltro fornirne 
puntuale 
riscontro documentale, che 
il 
contributo 
sia 
stato 
aggiornato 
(“a 
dicembre 
2020 
” 
e 
-di 
seguito 
-a 
“ottobre 
2022”) 
per 
tener 
conto dei 
dati 
aggregati 
disponibili 
“per 
il 
biennio 2021-2022”, e 
successivamente 
integrato 
“con dati più recenti” (in particolare, con riguardo alle “tabelle di mortalità ISTAT”). 
In 
pratica, 
la 
determinazione 
del 
fattore 
di 
moltiplicazione 
progressivamente 
correlato 
alla 
percentuale 
di 
invalidità 
ha 
preso 
le 
mosse 
(prescindendo 
dal 
decremento 
correlato 
all’età 
della 
vittima, per il 
quale 
è 
stata 
separatamente 
ed autonomamente 
elaborata 
una 
tabella 
di 
coefficienti 
demoltiplicatori) dalla 
programmatica 
imposizione 
del 
vincolo 
che 
l’ammontare 
complessivo dei 
risarcimenti 
corrispondesse 
all’importo tale 
pagabile 
(per il 
solo danno biologico) 
secondo 
le 
c.d. 
tabelle 
milanesi, 
per 
tutti 
i 
gradi 
di 
invalidità 
(ammontante, 
nella 
stima 
effettuata nel 2020, ad € 34.991.252,69). 
3.2.-osserva 
il 
Collegio 
che 
la 
complessiva 
razionalità 
dell’operazione 
algoritmica 
implementata 
-di 
per 
sé 
non 
arbitraria 
ed 
anzi 
tecnicamente 
necessitata 
-appare, 
per 
un 
verso, 
concretamente 
compromessa, e 
resa 
non compiutamente 
intellegibile, da 
un approntamento non 
adeguato e 
non aggiornato dei 
dati 
aggregati 
di 
riferimento e, per altro verso, inficiata 
da 
una 
surrettizia inversione metodologica, rispetto alle direttive scolpite dalla base normativa. 
3.2.1.- Sotto il 
primo profilo, l’analisi 
di 
impatto della 
regolazione 
-nella 
vicenda 
in esame 
particolarmente 
impegnativa 
e 
qualificante, rappresentando l’unico luogo idoneo ad evidenziare, 
esplicitare 
e 
riassumere 
la 
logica, i 
criteri, le 
operazioni 
e 
gli 
esiti 
della 
elaborazione 
della 
matrice 
tabellare 
-si 
limita 
a 
richiamare 
le 
risultanze 
della 
nota 
tecnica 
dell’IVASS, incentrata 
su dati 
temporalmente 
risalenti, omettendo una 
puntuale 
descrizione 
della 
situazione 
attuale, aggiornata 
con gli 
ultimi 
dati 
disponibili 
relativamente 
alla 
consistenza numerica 
ed 
alla 
distribuzione 
frequenziale 
dei 
sinistri 
(o degli 
eventi 
dannosi) registrati 
ed alla 
relativa 
dinamica 
apprezzata 
in un congruo e 
significativo lasso temporale, sia 
nell’ambito della 
circolazione 
stradale che nel contesto sanitario e socio-sanitario. 
Inoltre 
-quanto 
al 
compiuto 
e 
circostanziato 
apprezzamento 
della 
concreta 
incidenza, 
sul 
piano 
delle 
tecniche, 
delle 
modalità 
e 
degli 
esiti 
risarcitori, 
della 
formalizzazione 
di 
una 
tabella 
unica, con valore 
normativo, destinata 
a 
soppiantare 
programmaticamente 
la 
valorizzazione, 
validata 
dalla 
giurisprudenza, 
delle 
tabelle 
elaborate 
dalla 
prassi 
degli 
uffici 
giudiziari 
-l’analisi 
trascura 
il 
complessivo confronto comparativo con lo status 
quo, sia 
in termini 
assoluti, 
sia 
in termini 
relativi, in relazione 
ai 
diversi 
gradi 
di 
invalidità, in tal 
modo non offrendo elementi 
per scongiurare il rischio di 
regressione 
dei risarcimenti. 
A 
tal 
fine, una 
adeguata 
disaggregazione 
dei 
dati 
disponibili 
dovrebbe 
tenere 
conto non solo 
della 
curva statistica 
dei punti di invalidità riconosciuti nell’arco temporale rappresentativo, 
ma 
anche 
della 
misura 
degli 
incrementi 
percentuali 
in funzione 
di 
differenziazione 
equitativa 
e di quantificazione idiosincratica del danno morale. 
Inoltre, appare 
necessario tenere 
in debito conto gli 
aggiornamenti 
nelle 
more 
approntati, sia 
alla 
luce 
della 
evoluzione 
della 
giurisprudenza, sia 
in ragione 
degli 
adeguamenti 
imposti 
dal 
fenomeno inflattivo, ai 
riferimenti 
tabellari 
utilizzati 
dagli 
uffici 
giudiziari 
sia 
milanesi 
che 
romani, 
con 
adeguata 
giustificazione 
dei 
relativi 
scostamenti 
e 
delle 
valorizzate 
opzioni 
di 
uniformazione. 
3.2.2.-Sotto 
il 
secondo 
profilo, 
la 
sostenibilità 
degli 
impatti 
economici 
sul 
sistema 
assicurativo 
non 
può 
essere 
acquisita 
e 
valorizzata 
quale 
vincolo 
ex 
ante 
(ovvero 
limite 
rigido 
e 
predefinito) 
per 
una 
diluita 
scansione 
parametrica 
dei 
potenziali 
esiti 
remediali, 
in 
funzione 
di 
generalizzato 
ed ingiustificato temperamento 
o, perfino, di 
misurata 
e 
programmatica 
riduzione 
della 
tutela 
delle vittime. 



rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Alla 
luce 
del 
bilanciamento 
sollecitato, nei 
termini 
di 
cui 
si 
è 
detto supra, dalle 
direttive 
evidenziate 
dalla 
norma 
primaria 
(imposte, 
del 
resto, 
dal 
quadro 
costituzionale), 
solo 
un 
eventuale 
e 
dimostrato esito di 
squilibrio macro-economico 
sulla 
complessiva 
redditività 
delle 
imprese 
di settore potrebbe legittimare, nella prospettiva 
solidaristica 
evocata dalla Corte costituzionale 
(cfr. la 
sentenza 
n. 235/2014, peraltro riferita 
alle 
lesioni 
c.d. micropermanenti), una 
opzione 
sostanzialmente 
calmierante. Ma 
una 
tale 
dimostrazione 
non emerge 
dai 
dati 
allegati, 
né 
è 
coonestata 
da 
un 
apprezzamento 
critico 
della 
redditività 
aggregata 
delle 
imprese 
di 
settore, 
per 
le 
quali 
-anche, 
e 
si 
pure 
non 
esclusivamente, 
in 
ragione 
delle 
recenti 
dinamiche 
inflattive 


- consta, all’incontro, di significativi incrementi dei profili tariffari. 
Merita, 
con 
ciò, 
di 
essere 
nuovamente 
rimarcato 
che 
la 
direttiva 
di 
razionalizzazione 
dei 
costi 
gravanti 
sul 
sistema 
assicurativo -che 
asseconda, per un verso, le 
aspettative 
di 
certezza, calcolabilità 
e 
prevedibilità 
degli 
operatori 
economici 
e 
dovrebbe 
contribuire 
a 
disincentivare, 
in 
prospettiva 
predittiva, 
il 
contenzioso 
e 
a 
favorire 
la 
definizione 
stragiudiziale 
delle 
pratiche 
di 
liquidazione 
-non va 
intesa 
quale 
ragione 
di 
deminutio 
della 
pienezza, effettività 
ed adeguatezza 
della tutela che va riconosciuta alle vittime di eventi dannosi. 
4.-Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
esposte, 
l’espressione 
del 
parere 
deve 
essere 
necessariamente 
sospesa, in guisa 
da 
consentire 
all’Amministrazione 
richiedente 
di 
riattivare 
(anche 
a 
mezzo 
di 
apposito 
confronto 
pubblico 
con 
i 
soggetti 
a 
vario 
titolo 
rappresentativi) 
l’analisi 
di 
contesto 
ed 
aggiornare 
(con 
il 
necessario 
supporto 
tecnico 
ed 
istruttorio) 
i 
dati 
sottostanti 
alla 
articolata 
elaborazione 
tabellare, esplicitando i 
termini 
di 
un confronto comparativo puntuale 
e 
circostanziato 
con i 
parametri 
tabellari 
attualmente 
utilizzati 
nelle 
varie 
sedi 
giudiziarie 
e 
validati 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ed 
illustrando 
le 
opzioni 
di 
standardizzazione 
ed 
uniformazione 
perseguite. 
P.Q.M. 
sospende, nei sensi e per i fini di cui in motivazione, l’espressione del parere. 



LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


evoluzione delle regole sulla concorrenza negli 
ordinamenti giuridici maggiormente rappresentativi 


Paolo Giangrosso* 


SOMMARIO: 
1. 
I 
cartelli 
industriali 
e 
le 
restrizioni 
della 
concorrenza 
-2. 
Le 
diverse 
realtà 
economiche 
e 
di 
mercato nella prima metà del 
novecento -3. Trattato di 
Roma del 
1957 e 
successiva configurazione 
del 
mercato europeo -4. Normative 
antitrust 
e 
gli 
indirizzi 
della 
politica europea -5. Regole 
sulla concorrenza nell’ordinamento giapponese 
-6. Diritto antitrust 
in altre esperienze giuridiche. 


1. I cartelli industriali e le restrizioni della concorrenza. 
Un 
“cartello” 
è 
un 
gruppo 
di 
attori 
di 
mercato 
indipendenti 
che 
si 
uniscono 
per 
accrescere 
i 
propri 
guadagni 
e, 
soprattutto, 
per 
ottenere 
una 
posizione 
dominante 
all’interno 
del 
mercato. 
Quindi, 
un 
cartello 
è 
una 
sorta 
di 
organizzazione 
creata 
dai 
produttori 
allo 
scopo 
di 
ridurre 
al 
minimo 
la 
concorrenza 
e 
aumentare 
i 
prezzi 
creando 
carenze, 
spesso 
artificialmente, 
attraverso 
bassi 
limiti 
produttivi, 
di 
scorte 
e 
di 
quote 
di 
commercializzazione. 
Che 
siano 
orizzontali 
o 
verticali, 
i 
cartelli 
sono 
per 
loro 
stessa 
natura 
instabili 
a 
causa 
del 
forte 
“desiderio” 
di 
disertare 
e 
ridurre 
i 
prezzi 
per 
tutti 
i 
suoi 
membri. 
Con 
gli 
sviluppi 
tecnologici 
e 
con 
l’introduzione 
di 
prodotti 
sostitutivi 
è 
possibile 
ridurre 
il 
potere 
di 
determinazione 
dei 
prezzi 
di 
un 
cartello, 
portando 
al 
collasso 
della 
cooperazione 
necessaria 
per 
perpetuare 
il 
cartello. 
Questi, 
sovente, 
sono 
gruppi 
all’interno 
dello 
stesso 
settore 
e 
costituiscono, 
in 
pratica, 
un’alleanza 
di 
concorrenti. 
Queste 
tecniche 
sono 
state 
vietate 
dalla 
maggior 
parte 
degli 
Stati 
in 
quanto 
comportamento 
lesivo 
della 
concorrenza. 
L’attività 
di 
un 
cartello 
consiste, 
dunque, 
nella 
fissazione 
dei 
prezzi, 
nella 
manipolazione 
delle 
offerte 
e 
anche 
nei 
tagli 
alla 
produzione 
ed 
il 
concetto 
economico 
che 
li 
esamina 
è 
noto 
come 
“teoria 
dei 
cartelli” 
(1). 
Essi 
hanno 
diverse 
strutture 
e 
ruoli 
che, 
idealmente, 
possono 
consentire 
alle 
imprese 
di 
navigare 
e, 
soprattutto, 
di 
regolare 
l’instabilità 
di 
mercato 
ottenendo, 
contemporaneamente, 
profitti 
collusivi 
all’interno 
del 
settore 
in 
cui 
operano. 


Un’analisi 
di 
centinaia 
di 
studi 
economi 
e 
di 
sentenze 
giudiziarie 
delle 
autorità 
antitrust 
di 
tutto 
il 
mondo 
ha 
evidenziato 
come 
l’aumento 
medio 
dei 
prezzi 
raggiunto 
dai 
cartelli 
negli 
ultimi 
due 
secoli 
sia 
stato 
di 
circa 
il 
23%. 
Essi, 
spesso, 
si 
impegnano 
nel 
fissare 
prezzi 
a 
livello 
mondiale 
e 
quando 
un 
accordo 
in 
tal 
senso 
è 
sancito 
da 
un 
trattato 
salvaguardato 
dalla 
sovranità 
nazionale 
è 
più 
difficile 
muovere 
accuse 
antitrust. 
Poiché 
questi 


(*) Dottore in relazioni internazionali. 
Un ringraziamento all’avv. Stato Mario Antonio Scino per l’invio dello studio a questa 
Rassegna. 


(1) F. SABrY, Cartello, Un Miliardo Di Ben Informato Editore, 2024. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


incidono 
sulle 
posizioni 
di 
mercato 
sono 
soggetti 
al 
diritto 
della 
concorrenza, 
il 
quale 
è 
amministrato 
dalle 
autorità 
governative 
di 
regolamentazione 
della 
concorrenza 
(2). 


La 
valutazione 
da 
fare, ai 
sensi 
dell’art. 101 tFUE, è 
se 
un accordo tra 
imprese 
che 
potrebbe 
pregiudicare 
gli 
scambi 
tra 
Stati 
membri 
abbia 
o meno 
un 
oggetto 
anticoncorrenziale 
oppure 
effetti 
restrittivi 
sulla 
concorrenza, 
siano 
essi 
potenziali 
o effettivi. Va, inoltre, determinato quali 
siano i 
benefeci 
per la 
concorrenza 
prodotti 
dall’accordo in questione 
e 
valutare 
se 
gli 
effetti 
favorevoli 
superano 
quelli 
restrittivi. 
La 
valutazione 
comparata 
degli 
effetti 
restrittivi 
e 
di 
quelli 
favorevoli 
per 
la 
concorrenza 
è 
condotta 
esclusivamente 
all’interno 
dell’ambito dell’art. 101.3, mentre 
ai 
sensi 
dell’art. 101.2, ossia 
nel 
caso gli 
effetti 
favorevoli 
non 
prevalgano 
sulla 
restrizione 
della 
concorrenza, 
l’accordo 
sarà nullo in maniera automatica. 


Secondo 
quanto 
disposto 
dall’art. 
81, 
n. 
1, 
CE 
l’Unione 
si 
prefigge 
in 
linea 
generale 
di 
muoversi 
contro 
l’impedimento, 
la 
restrizione 
o 
la 
distorsione 
della 
concorrenza 
all’interno 
del 
mercato 
comune. 
Fra 
gli 
esempi 
presenti 
nell’art. 81, n. 1, lett. a) 
e 
lett. e) 
non sono presenti 
alcun tipo di 
restrizioni 
consistenti 
nel 
vietare 
pratiche 
commerciali 
anticoncorrenziali 
con effetti 
diretti 
sul 
consumatore. 
Invece, 
lo 
stesso 
articolo 
è 
parte 
integrante 
di 
un 
sistema 
volto a 
garantire 
che 
la 
concorrenza 
non venga 
falsata 
nel 
mercato interno, e 
non 
è 
soltanto 
destinato 
a 
tutelare 
gli 
interessi 
in 
via 
immediata 
dei 
singoli 
concorrenti 
e 
dei 
consumatori 
ma, 
piuttosto, 
la 
struttura 
del 
mercato 
e, 
quindi, 
la 
concorrenza 
in quanto tale. Così, indirettamente, è 
tutelato lo stesso consumatore 
giacché 
se 
la 
concorrenza 
(in quanto tale) subisce 
un pregiudizio gli 
svantaggi 
maggiori 
da 
temere 
sono 
a 
danno 
del 
consumatore. 
Una 
pratica 
concordata, 
dunque, non punta 
ad uno scopo anticoncorrenziale 
soltanto se 
è 
idonea 
ad 
esplicare 
direttamente 
effetti 
sia 
sui 
consumatori 
che 
sui 
prezzi 
che 
questi 
devono pagare. Uno scopo anticoncorrenziale 
va, invece, già 
assunto 
se 
la 
pratica 
concordata 
è 
idonea 
ad 
impedire, 
restringere 
o 
quanto 
meno 
a 
falsare 
la 
concorrenza 
all’interno 
del 
mercato 
comune. 
In 
questo 
modo 
essa 
può, 
in 
ogni 
caso, 
determinare 
indirettamente 
anche 
effetti 
negativi 
sui 
consumatori. 
restringere 
il 
divieto 
sancito 
dall’art. 
81 
soltanto 
alle 
pratiche 
che 
possono 
influenzare 
direttamente 
i 
prezzi 
al 
dettaglio 
priverebbe, 
infatti, 
questa 
stessa 
disposizione 
della 
sua 
importanza 
centrale 
nel 
mercato interno e 
di 
gran parte 
della sua efficacia. 


Inoltre, riguardo allo scambio di 
informazioni 
tra 
concorrenti 
vanno ricordati 
i 
criteri 
del 
coordinamento 
e 
della 
collaborazione 
che 
costituiscono 
una 
pratica 
concordata, i 
quali 
vanno visti 
alla 
luce 
della 
concezione 
inerente 
alla 
normativa 
del 
trattato 
sulla 
materia 
concorrenziale, 
secondo 
cui 
ogni 
operatore 
economico 
deve 
determinare 
autonomamente 
la 
propria 
condotta 
da 
se


(2) F. SABrY, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


guire 
all’interno del 
mercato comune. Questa 
esigenza 
di 
autonomia 
se, da 
un 
lato, non esclude 
il 
diritto degli 
operatori 
economici 
di 
reagire 
in maniera 
intelligente 
al 
comportamento, noto o presunto, dei 
loro concorrenti, dall’altro 
vieta 
rigidamente 
che 
fra 
gli 
stessi 
vi 
siano contatti, in maniera 
diretta 
o indiretta, 
che 
possano 
influenzare 
il 
comportamento 
sul 
mercato 
di 
un 
concorrente 
attuale 
o potenziale 
oppure 
che 
rivelino allo stesso il 
comportamento che 
si 
intende 
tenere 
sul 
mercato, qualora 
questi 
contatti 
abbiano il 
fine, o determinino 
l’effetto, 
di 
realizzare 
condizioni 
concorrenziali 
diverse 
da 
quelle 
normali 
nello stesso mercato, tenuto conto anche 
della 
natura 
dei 
prodotti 
e 
delle 
prestazioni 
fornite 
oltre 
che 
dell’importanza, del 
numero delle 
imprese 
e 
del 
volume 
di questo mercato (3). 

La 
Corte 
ha 
dichiarato 
come, 
all’interno 
di 
un 
mercato 
oligopolistico 
fortemente 
concentrato, 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
possa 
permettere 
alle 
imprese 
di 
conoscere 
le 
posizioni 
presenti 
sul 
mercato, la 
strategia 
dei 
concorrenti 
e, 
quindi, alterare 
in maniera 
importante 
la 
concorrenza 
fra 
gli 
operatori 
economici. 
Lo 
scambio 
di 
informazioni 
tra 
concorrenti, 
quindi, 
può 
essere 
contrario 
alle 
regole 
concorrenziali 
quando 
riduce 
o 
annulli 
il 
grado 
di 
incertezza 
riguardo 
al 
funzionamento del 
mercato in questione, determinando restrizioni 
della concorrenza tra le imprese. 


Dunque, attinente 
alla 
possibilità 
di 
considerare 
che 
una 
pratica 
concordata 
possegga 
uno scopo anticoncorrenziale, anche 
se 
priva 
di 
collegamenti 
diretti 
con i 
prezzi 
al 
dettaglio, va 
evidenziato come 
l’art. 81 CE 
non induca 
a 
ritenere 
che 
siano vietate 
soltanto quelle 
pratiche 
concordate 
che 
determinino 
conseguenze 
dirette 
sul 
prezzo 
pagato 
dai 
consumatori 
finali. 
Per 
contro, 
la 
lett. 
a) 
dello 
stesso 
articolo 
mette 
in 
evidenza 
come 
una 
pratica 
concordata 
possa 
avere 
un fine 
anticoncorrenziale 
quando fissi, direttamente 
o indirettamente, 
i 
prezzi 
d’acquisto 
o 
di 
vendita 
o 
anche 
altre 
condizioni 
di 
transazione. 
Ad ogni 
modo, l’art. 81 CE, come 
del 
resto altre 
regole 
enunciate 
dal 
trattato 
in 
materia 
di 
concorrenza, 
non 
tutela 
solamente 
gli 
interessi 
immediati 
dei 
singoli 
(concorrenti 
o consumatori) ma 
anche 
la 
struttura 
del 
mercato stesso e, 
conseguentemente, la concorrenza in quanto tale. 

La 
giurisprudenza 
comunitaria, nell’ambito valutativo del 
carattere 
anticoncorrenziale 
di 
un accordo, ha 
fatto sovente 
riferimento al 
tenore 
delle 
sue 
disposizioni, 
degli 
obiettivi 
che 
lo 
stesso 
intendeva 
perseguire 
oltre 
che 
al 
contesto 
economico e 
giuridico in cui 
l’accordo stesso si 
collocava. Va 
chiarito, 
inoltre, 
che, 
anche 
se 
le 
intenzioni 
delle 
parti 
non 
sono 
un 
elemento 
necessario 
a 
determinare 
la 
natura 
restrittiva 
di 
un accordo, la 
Commissione 
o i 
giudici 
comunitari 
possono 
comunque 
tenerne 
conto. 
Infatti, 
la 
Corte 
più 
volte 
ha 
avuto modo di 
chiarire 
che, in linea 
di 
principio, accordi 
che 
intendono impedire 
o limitare un commercio limitano ed impediscono la concorrenza (4). 


(3) P. MANzINI, Casi e materiali di diritto antitrust europeo, torino, Giappichelli, 2021. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Addentrandoci 
più a 
fondo in una 
valutazione 
del 
fenomeno dei 
cartelli 
industriali, e 
alla 
nascita 
del 
diritto statale 
dei 
cartelli 
oltre 
che 
del 
passaggio 
successivo al 
diritto comunitario di 
tutela 
della 
concorrenza, si 
possono evidenziare 
le 
cause 
e 
i 
motivi 
della 
nascita 
della 
CEE 
e 
del 
processo di 
integrazione 
europea avvenuto nel XX secolo. 


La 
CEE 
non è 
stata 
un’organizzazione 
istituita 
per facilitare 
la 
concentrazione 
del 
capitale 
né 
tantomeno 
per 
aprire 
i 
mercati 
interni 
degli 
Stati 
membri 
ma 
fu conseguenza 
della 
necessità 
impellente 
di 
disciplinare 
il 
fenomeno 
economico dopo la 
Seconda 
Guerra 
mondiale, a 
partire 
dal 
trattato Ceca 
per 
i settori del carbone e dell’acciaio. 


La 
nascita 
della 
Comunità 
Economica 
Europea 
derivò 
dalla 
crisi 
della 
forma 
di 
Stato nel 
nostro Continente, laddove 
per “Stato” 
si 
intende 
quell’ordinamento 
generale 
in grado di 
disciplinare 
ogni 
fenomeno socioeconomico. 
La 
dimensione 
dell’industria 
europea, infatti, e 
con essa 
i 
cartelli 
industriali, 
avevano, 
in 
sostanza, 
escluso 
che 
lo 
Stato 
potesse 
svolgere 
integralmente 
questa 
funzione. 


Nonostante 
profonde 
trasformazioni 
dell’iniziale 
CEE 
avvenute 
durante 
cinquant’anni 
di 
integrazione 
non 
è 
stata 
cancellata 
la 
radice 
economica 
di 
questo processo, così come avvenne nella seconda metà del Novecento (5). 


La 
situazione 
di 
uguaglianza 
tra 
gli 
Stati 
membri 
riconosciuta 
dal 
trattato 
Costituzionale 
Europeo all’art. 5 è, infatti, conseguenza 
del 
processo di 
integrazione 
europea 
che, a 
sua 
volta, è 
figlia 
della 
creazione 
di 
un mercato comune 
al 
cui 
interno 
le 
imprese 
possono 
svolgere 
la 
propria 
azione 
senza 
essere 
discriminate 
per via 
della 
loro nazionalità. Il 
principio essenziale 
dell’uguaglianza 
delle 
imprese 
nel 
mercato non poteva 
prescindere, necessariamente, 
che 
a 
monte 
il 
trattato 
di 
roma 
fosse 
fondato 
sull’uguaglianza 
dei 
Singoli 
Stati 
membri 
all’interno 
della 
stessa 
Comunità. 
Questa 
uguaglianza 
non 
è 
stata 
riconosciuta 
sotto 
altre 
forme 
di 
unione 
territoriale 
europea 
che 
non 
fosse 
fondata 
sul 
riconoscimento 
e 
sulla 
regolamentazione 
dell’iniziativa 
economica 
privata. 

Il 
principio 
di 
uguaglianza 
su 
citato 
deriva 
dalla 
regola 
basilare 
dell’esercizio 
del 
diritto di 
iniziativa 
economica 
in un sistema 
di 
concorrenza 
non falsato, 
e 
ha 
avuto 
in 
seguito 
delle 
conseguenze 
e 
ha 
determinato 
degli 
effetti 
per 
tutti 
i 
cittadini 
appartenenti 
agli 
Stati 
membri 
della 
Comunità. In origine, infatti, 
il 
principio di 
uguaglianza 
tra 
imprese 
di 
differenti 
Stati 
ha 
consentito la 
trasformazione 
del 
principio 
di 
uguaglianza 
tra 
tutti 
i 
cittadini 
di 
differenti 
Stati, e 
non più soltanto tra 
le 
imprese, fino al 
raggiungimento dell’istituzione 
della 
Cittadinanza 
europea, status 
per cui 
i 
cittadini 
di 
differenti 
Stati 
membri 


(4) P. MANzINI, op. cit. 
(5) L.F. PACE, Diritto europeo della concorrenza. Divieti 
antitrust, controllo delle 
concentrazioni 
e procedimenti applicativi, CEDAM, 2007. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


godono degli 
stessi 
diritti 
e 
sono soggetti 
agli 
stessi 
doveri, ai 
sensi 
dell’art. 
10 Cost. eu. 


In 
breve, 
quindi, 
il 
processo 
di 
unificazione 
europea 
si 
fonda, 
ancora 
oggi, 
sulla 
capacità 
dei 
privati 
di 
esercitare 
il 
proprio 
diritto 
di 
iniziativa 
economica. 
Il 
futuro dell’Unione 
Europea, il 
suo successo o il 
suo insuccesso, dipenderà 
da 
come 
l’Unione 
Europea 
disciplinerà 
tale 
diritto, 
oltre 
che 
dalla 
capacità 
del 
sistema 
economico europeo di 
essere 
in concorrenza 
con altri 
e 
nuovi 
mercati 
comuni all’interno del vastissimo mercato globale (6). 


2. Le 
diverse 
realtà economiche 
e 
di 
mercato nella prima metà del 
novecento. 
Agli 
inizi 
del 
secolo 
scorso 
l’economia 
mondiale 
fu 
attraversata 
da 
trasformazioni 
di 
rilievo, 
dovute 
a 
nuove 
invenzioni, 
scoperte, 
tecnologie 
oltre 
che 
a 
modelli 
di 
impresa, 
flussi 
commerciali 
e 
abitudini 
di 
consumo 
che 
si 
erano 
evolute 
parallelamente 
e 
avevano 
dato 
vita 
ad 
un 
nuovo 
tipo 
di 
capitalismo. 
La 
velocità 
e 
la 
spregiudicatezza 
di 
questa 
trasformazione 
fu 
sbalorditiva. 
L’acciaio 
sostituì 
il 
ferro, 
l’elettricità 
il 
gas, 
il 
telefono 
soppiantò 
il 
telegrafo, 
per 
tacere 
della 
nascita 
del 
cinema 
e 
dei 
tabloid. 
L’impennata 
data 
dalla 
produzione 
industriale 
permise 
la 
creazione 
di 
edifici 
spettacolari 
fatti 
in 
acciaio 
e 
che 
iniziarono 
a 
riempire 
le 
grandi 
città 
del 
mondo. 
Quello 
che 
preoccupava 
i 
capitani 
di 
industria 
era 
la 
relazione 
fra 
le 
grandi 
imprese 
e 
le 
forze 
di 
mercato. 
Per 
loro, 
dove 
possibile, 
le 
forze 
di 
mercato 
andavano 
abolite. 


James 
Logan, 
capo 
della 
US 
Envelope 
Company 
affermò, 
nel 
1901, 
che 
la 
concorrenza 
era 
una 
guerra 
industriale 
e, 
in 
particolare, 
una 
concorrenza 
rozza 
senza 
restrizioni 
significava 
morte 
per 
alcune 
delle 
parti 
in 
causa 
e 
danni 
per 
la 
collettività. 
Va 
detto 
che 
Logan, 
all’epoca, 
godeva 
di 
un 
predominio 
quasi 
assoluto 
sul 
mercato 
americano. 
Anche 
theodore 
Vail, 
figura 
importante 
della 
Bell 
Telephone 
mise 
in 
guardia 
sul 
pericolo 
che 
una 
concorrenza 
aggressiva 
e 
senza 
controlli 
poteva 
determinare, 
direttamente 
o 
indirettamente, 
sui 
cittadini. 


La 
concorrenza 
in 
quegli 
anni 
creava 
il 
caos 
produttivo 
e 
deprimeva 
i 
prezzi 
al 
punto 
che 
diventava 
quasi 
impossibile 
trarre 
profitti 
da 
una 
nuova 
tecnologia. Le soluzioni, come abbiamo visto, furono tre: 


- monopolio; 
- manipolazione dei prezzi; 
- mercati protetti. 
Per raggiungere 
questi 
scopi 
si 
utilizzarono fusioni, favorite 
da 
nuove 
e 
aggressive 
banche 
d’affari, cartelli 
e 
cointeressenze 
per fissare 
i 
prezzi 
e 
restrizioni 
governative sulle merci importate. 


Negli 
Stati 
Uniti 
la 
United States 
Steel 
Corporation, creata 
nel 
1901, sta


(6) L.F. PACE, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


bilì 
quasi 
immediatamente 
un controllo sul 
60% del 
mercato; 
la 
Standard Oil, 
possedeva 
il 
90% 
delle 
capacità 
di 
raffinazione 
e 
usò 
il 
suo 
potere 
con 
tale 
spietatezza 
da 
costringere 
le 
compagnie 
ferroviarie 
a 
trasportare 
petrolio praticamente 
in 
perdita. 
La 
Bell 
Telephone, 
che 
aveva 
avuto 
il 
monopolio 
assoluto 
nel 
campo 
delle 
telecomunicazioni 
già 
nell’ottocento, 
lo 
riconquistò 
nel 
1909 
quando 
J.P. 
Morgan 
si 
alleò 
con 
Vail 
per 
rilevare 
tutti 
i 
concorrenti 
del 
settore. 


Sul 
Vecchio 
Continente 
la 
Germania 
vide 
raddoppiare 
nel 
primo 
decennio 
del 
Novecento 
il 
numero 
dei 
cartelli 
nati 
per 
manipolare 
i 
prezzi, 
anche 
grazie 
al 
potere 
politico che 
li 
sosteneva. Soltanto il 
Consorzio del 
carbone 
della 
renania-
westfalia 
includeva 
settantasette 
aziende, godeva 
di 
ampio potere 
nella 
determinazione 
dei 
prezzi 
e 
controllava 
quasi 
totalmente 
il 
mercato 
energetico 
della 
regione. Nel 
1915 il 
settore 
elettrico della 
Germania 
aveva 
due 
colossi 
predominanti 
così 
come 
soli 
due 
operatori 
avevano 
il 
monopolio 
dell’industria 
chimica, mineraria e navale. 


Al 
fine 
di 
creare 
e 
agevolare 
questi 
colossi 
l’intera 
finanza 
mondiale 
venne 
riorganizzata. Negli 
Stati 
Uniti, in Gran Bretagna 
ed in Francia 
il 
mercato 
azionario e 
le 
banche 
d’affari 
trainarono l’intero processo, specialmente 
in 
Germania, 
dove 
il 
capitalismo 
industriale 
venne 
creato 
con 
“protezioni” 
dall’alto, sotto il controllo e con la compiacenza di governi autoritari (7). 


Soprattutto gli 
Stati 
dell’Europa 
centrale, quindi, non limitarono né 
tantomeno 
eliminarono 
i 
consorzi 
industriali 
e 
i 
cartelli 
ma 
si 
adoperarono 
per 
provare 
a 
controllarli. L’intervento statale 
diretto nell’economia 
e 
il 
controllo 
delle 
aggregazioni 
industriali 
furono importanti, infatti, per stabilizzare 
i 
cicli 
economici, 
impedendo 
guerre 
di 
prezzo 
onerose, 
abusi 
di 
potere 
delle 
imprese 
e 
vincoli 
e 
asservimenti 
del 
potere 
politico su quello economico. Gli 
accordi 
restrittivi 
della 
concorrenza 
vennero visti 
come 
leciti 
perché 
esprimevano il 
principio 
di 
libertà 
di 
contrattazione 
e 
quello 
di 
iniziativa 
economica. 
Per 
questo, 
a 
volte, vennero addirittura 
tutelati 
dalla 
legge, come 
fatto dall’art. 2596 
del 
Codice 
civile 
italiano. La 
crisi 
economica 
e 
la 
Prima 
guerra 
mondiale 
non 
scosse 
questo 
stato 
di 
cose 
e 
i 
cartelli 
non 
vennero 
osteggiati 
praticamente 
mai, 
ma 
in 
alcuni 
casi 
soltanto 
sottoposti 
ad 
una 
regolamentazione 
più 
“attenta”. 
La 
Germania 
rese 
addirittura 
obbligatoria 
la 
partecipazione 
a 
cartelli 
in alcuni settori ritenuti “sensibili” o particolarmente di rilievo (8). 

Antenato dell’Unione 
Europea 
fu, paradossalmente, proprio un accordo 
di 
cartello, 
quello 
internazionale 
dell’acciaio 
creato 
nel 
1926 
da 
Germania, 
Francia, Belgio e 
Lussemburgo, tutti 
paesi 
che 
venticinque 
anni 
dopo costituiranno, 
poi, 
la 
Comunità 
europea 
del 
carbone 
e 
dell’acciaio, 
con 
Italia 
ed 
olanda. 
Le 
quote 
di 
produzione, 
esportazione 
e 
importazione 
fissate 
all’interno 
di 
questo accordo internazionale, per ciascun partecipante, servivano a 
stabi


(7) P. MASoN, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Feltrinelli, 2016. 
(8) F. GhEzzI, G. oLIVIErI, 
Diritto antitrust, Giappichelli, 2023. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


lizzare 
i 
mercati 
interni 
in cui 
operavano cartelli 
nazionali. Da 
questo accordo 
venne 
fuori 
un sistema 
globale 
di 
controllo del 
settore 
siderurgico, nel 
1933, 
che 
col 
tempo incluse 
anche 
gli 
Stati 
Uniti. Il 
cartello dell’acciaio fu un progetto 
di 
cooperazione 
internazionale 
che 
aveva 
il 
fine 
di 
favorire 
la 
pace 
e 
scongiurare 
ogni 
tipo 
di 
crisi 
economica, 
giacché 
il 
settore 
dell’acciaio 
non 
soltanto 
era 
molto 
strategico 
per 
la 
produzione 
bellica 
ma 
per 
gli 
approvvigionamenti 
di 
materie 
prime 
come 
il 
carbone 
dipendeva 
da 
aree 
di 
confine 
contese 
tra 
Francia 
e 
Germania. In quest’ottica 
i 
due 
Paesi 
gestirono in quegli 
anni 
le 
risorse 
di 
quelle 
zone 
secondo una 
logica 
di 
cooperazione 
e 
grazie 
a 
patti di non belligeranza. 


L’idea 
del 
cartello come 
portatore 
di 
prosperità 
e 
pace 
venne 
definitivamente 
a 
cadere 
con il 
regime 
nazista 
il 
quale, dal 
1933, fece 
di 
cartelli 
e 
monopoli 
strumenti 
principali 
per 
convogliare 
l’economia 
a 
supporto 
dello 
sforzo 
bellico, 
attribuendo 
a 
questo 
scopo 
al 
ministro 
dell’economia 
il 
potere, 
nel 
1938, 
di 
imporre 
a 
interi 
settori 
industriali 
la 
formazione 
obbligatoria 
di 
cartelli 
totalizzanti. Per capire 
la 
portata 
del 
processo innescato dal 
regime 
nazista, il 
gigantesco cartello chimico-farmaceutico 
IG 
Farben 
costruì 
uno stabilimento 
ad 
Auschwitz 
nel 
1941 
agevolando, 
in 
questo 
modo, 
attivamente 
i 
terribili 
atti 
di sterminio che vi avvennero (9). 


Con 
la 
minaccia 
della 
Seconda 
guerra 
il 
livello 
di 
dirigismo 
pubblico 
sull’economia 
aumentò ulteriormente, in quanto i 
regimi 
totalitari 
ritenevano 
che 
coordinare 
direttamente 
le 
imprese 
fosse 
la 
soluzione 
migliore 
per incrementare 
la 
produzione 
in 
vista 
dell’imminente 
conflitto 
mentre, 
per 
contro, 
gli 
Stati 
avversi 
alla 
Germania 
e 
all’Italia 
provarono a 
creare 
poli 
industriali 
per 
fronteggiare 
quelli 
nemici, in primis 
quelli 
nazisti 
che 
godevano dello strapotere 
dei cartelli tedeschi (10). 


Alla 
fine 
della 
Seconda 
Guerra 
la 
necessità 
di 
ricostruire 
una 
società 
europea 
che 
si 
discostasse 
dal 
suo recente 
passato portò ad una 
maggiore 
ostilità 
nei 
confronti 
dei 
cartelli. Inoltre, con la 
conclusione 
della 
guerra, gli 
Alleati 
imposero 
agli 
sconfitti 
di 
adottare 
norme 
antimonopolistiche, 
tant’è 
che 
in 
Germania 
la 
prima 
normativa 
da 
questo 
punto 
di 
vista 
fu 
emanata 
su 
pressione 
del 
Generale 
Clay che 
deteneva 
poteri 
straordinari 
in tal 
senso. Questa 
linea 
politica 
aveva 
l’intento, soprattutto, di 
evitare 
la 
formazione, nuovamente, di 
uno strapotere 
economico come 
quello che 
negli 
anni 
trenta 
si 
era 
dimostrato 
un 
potente 
mezzo 
per 
approvvigionamenti 
bellici 
ma 
aveva 
anche 
il 
fine 
di 
promuovere 
in 
Europa, 
così 
come 
avvenuto 
negli 
Stati 
Uniti, 
uno 
sviluppo 
economico democratico. I frutti 
si 
raccolsero a 
partire 
dal 
1947 dopo che 
gli 
Stati 
Maggiori 
Alleati 
ridussero la 
Germania 
ad un livello di 
mero sostentamento. 
Percorso simile 
gli 
Stati 
Uniti 
lo imposero in Giappone 
allo scopo di 


(9) M. BErEttA, M. D’oStUNI, 
Il diritto della concorrenza in Italia, Giappichelli, 2024. 
(10) Ibidem. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


contenere 
la 
forza 
degli 
“zaibatsu”, 
i 
cartelli 
plurisettoriali 
che 
erano 
stati 
fondamentali 
per la creazione della forza bellica giapponese (11). 


3. Trattato di 
Roma del 
1957 e 
successiva configurazione 
del 
mercato europeo. 
Con 
le 
politiche 
di 
ricostruzione 
europea 
avviate 
dal 
1945 
in 
avanti 
anche 
in Europa 
nacque, di 
fatto, il 
moderno diritto della 
concorrenza 
che 
trovava 
il 
suo fondamento negli 
articoli 
65-67 del 
trattato CECA 
del 
18 aprile 
1951 in 
materia 
di 
accordi 
e 
concentrazioni, fino ad arrivare 
al 
trattato che 
istituì 
la 
Comunità 
Europea 
(tCE), sottoscritto a 
roma 
nel 
1957, e 
che 
prevedeva, tra 
gli 
obiettivi 
della 
stessa, la 
creazione 
di 
un regime 
che 
garantisse 
una 
concorrenza 
leale e non falsata nel mercato interno (art. 3.1, lett. g, 
tCE). 

Il 
diritto 
antitrust, 
così 
come 
sancito 
dagli 
artt. 
85 
e 
86 
tCE, 
era 
uno 
strumento 
volto a 
realizzare 
gli 
obiettivi 
fondamentali 
per cui 
era 
nata 
la 
Comunità, 
ossia 
l’occupazione, il 
miglioramento della 
vita, la 
coesione 
sociale 
ed 
economica, 
la 
solidarietà 
tra 
gli 
Stati 
membri 
e 
la 
creazione 
di 
un 
mercato 
unico. In questo senso, il 
trattato di 
roma 
aveva 
accolto un’interpretazione 
del 
concetto di 
concorrenza 
come 
mezzo per la 
protezione 
delle 
attività 
economiche 
dall’insorgenza 
di 
poteri 
economici 
pervasivi 
e, 
soprattutto, 
per 
la 
tutela dei mercati ancora fragili dopo il Secondo conflitto mondiale. 


L’analisi 
congiunta 
del 
quadro programmatico che, inizialmente, fu tracciato 
dal 
trattato 
di 
roma, 
oltre 
che 
degli 
obiettivi 
politici 
perseguiti 
dalla 
Commissione 
Europea 
e 
delle 
interpretazioni 
adottate 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia, 
ha 
dimostrato 
che 
il 
concetto 
di 
concorrenza 
e 
le 
modalità 
con 
cui 
promuovere 
e realizzare la stessa hanno subito un’evoluzione costante e progressiva. 


La 
Corte 
di 
Giustizia 
confermerà, col 
tempo, la 
funzione 
svolta 
dalla 
disciplina 
in 
tema 
di 
concorrenza, 
ritenuta 
indispensabile 
alla 
realizzazione 
degli 
obiettivi economici, sociali e politici della Comunità (12). 

Nel 
caso Walt 
Wilhem 
(13) i 
giudici 
hanno riconosciuto come 
il 
trattato, 
oltre 
a 
puntare 
all’eliminazione 
degli 
ostacoli 
alla 
circolazione 
libera 
delle 
merci 
nel 
mercato 
comune 
e 
alla 
salvaguardia 
dell’unità 
dello 
stesso, 
permette 
alle 
autorità 
comunitarie 
di 
svolgere 
un’azione 
positiva, 
anche 
se 
indiretta, 
allo scopo di 
promuovere 
lo sviluppo armonico delle 
attività 
economiche 
nel 
complesso 
comunitario, 
in 
conformità 
al 
suo 
stesso 
art. 
2. 
Inoltre, 
nel 
caso 
Continental 
Can 
(14), la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
ribadito anche 
che 
l’effettività 
del 
regime 
di concorrenza 
come 
contemplata dal 
trattato è fortemente legata 
al 
complesso 
generale 
degli 
obiettivi 
perseguiti 
dalla 
Comunità. 
Infine, 
nel 


(11) F. GhEzzI, G. oLIVIErI, op. cit. 
(12) S. LAMArCA, 
La disciplina dei 
cartelli 
nel 
diritto antitrust 
europeo ed italiano. Una guida 
teorico-pratica, Giappichelli, 2017. 
(13) CGUE, 13 febbraio 1969, C-14/68 Walt Wilhem et alia c. Bundeskartellamt. 
(14) CGUE, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can c. Commissione. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


caso 
Metro 
(15) 
sempre 
la 
Corte 
si 
è 
pronunciata 
sugli 
obiettivi 
che 
gli 
articoli 
3 ed 81 del 
tCE 
(oggi 
art. 101 tFUE) intendevano perseguire 
all’interno del-
l’ambito comunitario, richiamando il 
concetto americano di 
concorrenza 
efficace 
(workable 
competition), 
definito 
come 
quell’attività 
concorrenziale 
sufficiente 
al 
rispetto delle 
esigenze 
primarie 
e 
delle 
finalità 
del 
trattato, in 
particolar modo riguardo la 
creazione 
di 
un mercato unico in grado di 
offrire 
le stesse condizioni di un mercato interno. 


Il 
trattato prevedeva 
numerosi 
obiettivi 
di 
crescita 
e 
di 
sviluppo che 
sovente 
non erano conciliabili 
tra 
loro e, per questo, hanno necessitato un’adeguata 
azione 
politica 
di 
direzione 
e 
coordinamento. 
A 
tale 
scopo, 
la 
Commissione 
inizialmente 
ha 
goduto 
di 
larghi 
poteri 
e 
di 
discrezionalità 
ampia 
nel 
determinare 
gli 
indirizzi 
e 
le 
priorità 
in tema 
d’agenda 
politica 
sulla 
concorrenza. 
La 
stessa 
ha 
perseguito, forse 
indebitamente, fini 
di 
politica 
industriale 
ed 
economica 
che 
avrebbero 
dovuto 
rimanere 
invece 
estranei 
ad 
una 
politica dell’antitrust 
(16). 


Il 
regolamento 
europeo 
n. 
17 
del 
1962 
ha 
attribuito 
alla 
Commissione 
competenza 
esclusiva 
nel 
concedere 
esenzione 
individuale 
alle 
imprese 
che 
avevano 
dimostrato 
di 
soddisfare 
i 
requisiti 
contemplati 
dall’art. 
81.3 
tCE 
(oggi 
art. 101.3 tFUE), affidando in questo modo alla 
discrezionalità 
dell’organo 
comunitario uno strumento di 
politica 
economica 
con il 
quale 
la 
Comunità 
ha 
potuto, 
in 
specifiche 
occasioni, 
modulare 
la 
tutela 
accordata 
nell’ambito 
della concorrenza. 


Successivamente 
al 
trattato di 
roma, nell’ambito della 
politica 
europea 
in 
tema 
di 
concorrenza, 
ha 
assunto 
importanza 
rilevante 
l’integrazione 
dei 
mercati 
nazionali 
e 
la 
realizzazione 
del 
mercato interno. A 
riguardo, la 
commistione 
tra 
politica 
concorrenziale 
e 
realizzazione 
del 
mercato 
comune 
fu 
dovuta 
al 
fatto che 
non si 
era 
in presenza 
di 
un ordinamento politico compiuto 
come 
quello vigente 
negli 
Stati 
Uniti, ma 
piuttosto all’interno di 
un’area 
caratterizzata 
dalla 
presenza 
di 
diversi 
Stati 
sovrani, 
al 
cui 
interno 
la 
circolazione 
libera 
di 
beni, servizi 
e 
persone 
era 
ostacolata 
da 
barriere 
di 
natura 
legislativa 
oltre che fiscale e commerciale. 

Ciò 
premesso, 
si 
comprende 
come 
la 
Commissione, 
immediatamente 
dopo l’entrata 
in vigore 
del 
trattato, abbia 
utilizzato le 
norme 
antitrust 
in maniera 
estensiva 
soprattutto per colpire 
le 
intese 
suscettibili 
di 
contribuire 
alla 
compartimentazione 
dei 
mercati 
nazionali 
ostacolando la 
circolazione 
e 
l’importazione 
di 
prodotti 
da 
uno Stato membro ad un altro. Un esempio è 
il 
caso 
di 
accordi 
distributivi 
esclusivi 
aventi 
lo scopo di 
creare 
aree 
in cui 
vigeva 
as


(15) CGUE, 21 settembre 
1999, C-67/96, Albany 
International 
BV 
c. Stichting Bedriifspensioenfonds 
Textielindustrie. 
(16) S. LAMArCA, 
La disciplina dei 
cartelli 
nel 
diritto antitrust 
europeo ed italiano. Una guida 
teorico-pratica, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


soluta 
protezione 
territoriale 
a 
vantaggio dei 
distributori 
per mezzo di 
meccanismi 
che 
vietassero 
ad 
ogni 
operatore, 
coinvolto 
anche 
in 
via 
indiretta, 
di 
esportare i prodotti fuori dalla propria zona (17). 


Nonostante 
il 
primo 
caso 
di 
applicazione 
della 
normativa 
in 
tema 
di 
intese 
sia 
relativo ad un cartello orizzontale 
che 
aveva 
ad oggetto il 
mantenimento 
di 
prezzi 
molto elevati, l’investigazione 
e 
la 
repressione 
da 
parte 
della 
Commissione 
a 
lungo si 
è 
concentrata 
esclusivamente 
sulle 
intese 
verticali 
o sugli 
effetti da questi determinati sul mercato interno (18). 

Questa 
linea 
è 
stata 
sostenuta 
dalla 
Corte 
in 
diverse 
sentenze, 
con 
le 
quali 
essa 
ha 
ribadito 
lo 
stretto 
legame 
tra 
l’applicazione 
delle 
regole 
di 
concorrenza 
e 
l’abolizione 
delle 
barriere 
al 
commercio 
degli 
Stati 
della 
Comunità 
(19). 
Nel 
caso 
Grundig 
(20), 
in 
particolar 
modo, 
la 
Commissione 
sanzionò 
sia 
l’accordo 
di 
esclusiva 
tra 
un operatore 
francese 
e 
un distributore 
tedesco avente 
il 
fine 
di 
ripartire 
in 
maniera 
artificiosa 
due 
mercati 
contigui 
vietando 
rigorosamente, 
sia 
al 
distributore 
che 
a 
qualunque 
altro terzo cui 
il 
distributore 
avesse 
rivenduto, 
di 
esportare 
nuovamente 
il 
prodotto al 
di 
fuori 
della 
zona 
esclusiva, che 
lo stesso obbligo imposto dal 
produttore 
a 
tutti 
i 
distributori, diretti 
e 
non, che 
operavano in altri 
territori 
nazionali. Acconsentendo ad accordi 
che 
determinavano 
l’effetto di 
conferire 
una 
protezione 
territoriale 
assoluta 
a 
ciascun distributore, 
avrebbe 
comportato 
l’elevazione 
di 
barriere 
impenetrabili 
alla 
circolazione 
delle 
merci 
tra 
Stati 
membri, creando un pregiudizio enorme 
per 
lo 
sviluppo 
del 
nascente 
mercato 
interno. 
Per 
questo, 
i 
cittadini 
europei 
avrebbero 
notato 
prezzi 
e 
condizioni 
profondamente 
diverse 
tra 
i 
diversi 
Stati, 
senza 
poter trarre 
beneficio dalle 
opportunità 
di 
scelta 
presenti 
su un mercato in cui 
le merci, invece, potevano circolare in assoluta libertà. 


Ci 
volle 
del 
tempo prima 
che 
avvenisse 
un cambiamento degli 
indirizzi 
programmatici 
della 
Commissione 
atti 
all’affermazione 
della 
tutela 
della 
concorrenza 
come 
obiettivo 
da 
perseguire 
in 
quanto 
valore 
autonomo. 
tra 
i 
fattori 
che 
hanno determinato un cambio di 
prospettiva 
va 
citata 
la 
vasta 
e 
crescente 
diffusione 
dei 
cartelli 
in 
settori 
determinanti 
per 
l’economia 
comunitaria 
come, 
ad 
esempio, 
il 
settore 
dei 
prodotti 
chimici, 
farmaceutici 
ed 
industriali, 
e 
la 
formazione 
di 
ampie 
aree 
all’interno 
della 
Comunità 
in 
cui 
erano 
sorte 
condizioni 
di 
offerta 
determinate 
su 
base 
collusiva. 
Di 
fronte 
a 
ciò 
la 
Commissione 
spostò 
lentamente 
il 
suo raggio d’azione 
dalla 
protezione 
del 
mercato interno alla 
repressione 
dei 
cartelli, 
mostrando 
di 
essere 
in 
grado 
di 
reagire 
velocemente 
alle 
nuove 
forme 
di 
concertazione 
che, 
complice 
lo 
sviluppo 
tecnologico 
all’in


(17) S. LAMArCA, op. cit. 
(18) Commissione, 16 luglio 1969, 69/240/CEE, Intesa internazionale della chinina. 
(19) 
Cfr. 
CGUE, 
3 
luglio 
1974, 
C-192/73, 
Van 
Zuylen 
c. 
Hag, 
e 
CGUE, 
22 
giugno 
1976, 
C-119/75, 
Terrapin c. Terranova. 
(20) CGUE, 13 luglio 1966, Cause 
riunite 
C-56/64 e 
C-58/64, Consten and Grundig c. Commissione. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


terno 
dei 
mercati, 
stavano 
iniziando 
a 
diffondersi. 
Decisioni 
adottate 
negli 
anni 
ottanta 
contribuirono 
a 
comporre 
la 
giurisprudenza 
prevalente 
tutt’oggi 
in 
tema 
di 
definizione 
e 
di 
individuazione 
della 
pratica 
concordata 
sui 
mercati 
oligopolistici (21). 


La 
Commissione, 
di 
fatto, 
ha 
recepito 
nel 
corso 
degli 
ultimi 
vent’anni 
dello scorso secolo l’approccio diritto/economia 
sempre 
più diffuso nello studio 
del 
diritto della 
concorrenza, attuando un processo di 
revisione 
dei 
suoi 
tradizionali 
orientamenti 
nel 
modo 
di 
concepire 
e 
di 
attuare 
la 
politica 
antitrust. 
riconoscendo la 
rilevanza 
dal 
punto di 
vista 
economico delle 
restrizioni 
della 
concorrenza 
e 
dell’utilità 
della 
teoria 
economia 
sia 
nella 
disamina 
dei 
temi 
generali 
che 
nella 
soluzione 
di 
casi 
specifici, la 
Commissione 
ha 
costituito, all’interno 
della 
Direzione 
generale 
della 
concorrenza, 
un 
apposito 
servizio 
permanente 
di 
consulenza 
nell’ambito 
economico 
(CEt) 
composto 
da 
una 
trentina 
di 
economisti 
altamente 
qualificati, guidati 
da 
un Chief 
economist 
dal 
mandato triennale (22). 


L’esigenza, 
inoltre, 
di 
concentrare 
le 
risorse 
della 
Commissione, 
assieme 
a 
quelle 
delle 
Autorità 
nazionali, 
sull’esame 
delle 
restrizioni 
orizzontali 
più 
gravi 
ha 
condotto 
alla 
nascita 
di 
tutta 
una 
serie 
di 
riforme, 
le 
quali 
avevano 
per 
oggetto, 
da 
una 
parte, 
la 
razionalizzazione 
dell’analisi 
sugli 
impatti 
effettivi 
degli 
accordi 
verticali 
sul 
mercato 
e 
la 
semplificazione 
dei 
meccanismi 
di 
esenzione 
individuale, 
passando 
da 
un 
sistema 
di 
proibizione 
soggetto 
a 
deroga 
specifica 
a 
quello 
dell’eccezione 
direttamente 
applicabile, 
e, 
dall’altra, 
la 
decentralizzazione 
del 
controllo 
antitrust 
che, 
di 
fatto, 
demandò 
alle 
Autorità 
nazionali 
anche 
l’applicazione 
delle 
norme 
antitrust 
europee 
e 
stabilì 
regole 
per 
la 
ripartizione 
delle 
competenze 
tra 
le 
stesse, 
e 
tra 
queste 
e 
la 
Commissione 
Europea. 


riguardo 
al 
primo 
aspetto, 
la 
Commissione 
emanò 
nel 
1999 
un 
nuovo 
regolamento 
(23) 
di 
esenzione 
per 
categoria 
delle 
intese 
verticali 
che 
rese 
più 
efficiente 
e 
contemporaneamente 
più 
semplice 
il 
controllo 
di 
quest’ultime 
grazie 
all’individuazione 
di 
una 
soglia 
presuntiva 
di 
potere 
di 
mercato, 
sotto 
la 
quale 
si 
poteva 
presumere 
che 
l’accordo 
non 
determinasse 
restrizioni 
concorrenziali. 


In merito al 
secondo aspetto, invece, nello stesso anno la 
pubblicazione 
del 
Libro Bianco avviò il 
processo di 
modernizzazione 
delle 
regole 
di 
applicazione 
dell’art. 101 tFUE. Parliamo di 
un documento programmatico con il 
quale 
la 
Commissione 
evidenziò la 
propria 
intenzione 
di 
riformare 
il 
sistema 
di 
applicazione 
centralizzato 
che 
fino 
a 
quel 
momento 
si 
basava 
sulla 
sua 
esclusiva competenza. 


(21) S. LAMArCA, 
op. cit. 
(22) 
A. 
PAPPALArDo, 
Il 
diritto 
della 
concorrenza 
dell’Unione 
Europea. 
Profili 
sostanziali, 
Milano, 
Utet Giuridica, 2018. 
(23) regolamento CE n. 2790/1999. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Quando entrò in vigore, poi, il 
regolamento CE 
n. 1/2003 avente 
ad oggetto 
l’applicazione 
delle 
regole 
di 
concorrenza 
di 
cui 
agli 
artt. 
81 
e 
82 
del 
trattato, si 
compì 
la 
fase 
di 
creazione 
del 
mercato unico. Da 
quel 
momento fu 
possibile, 
per 
il 
legislatore 
europeo, 
togliere 
alla 
Commissione 
la 
potestà 
esclusiva 
nell’applicare 
l’esenzione 
individuale 
ai 
sensi 
dell’art. 
81.3 
tCE 
(oggi 
art. 101.3 tFUE), liberando quelle 
risorse 
da 
deputare 
all’esame 
delle 
tantissime 
notifiche individuali in favore della nuova priorità nella lotta ai cartelli. 


In questo modo si 
consolidò l’applicazione 
dell’art. 101 tFUE 
da 
parte 
delle 
Autorità 
nazionali 
che 
videro allargate 
le 
loro competenze 
all’interno di 
un 
network 
europeo 
fortemente 
istituzionalizzato, 
l’European 
Competition 
Network 
(o 
ECN) 
al 
cui 
interno 
vennero 
disciplinate 
le 
gerarchie 
tra 
Commissione 
ed 
Autorità 
nazionali, 
e 
tra 
le 
stesse 
Autorità 
nazionali 
che 
componevano 
la 
rete, 
con 
regole 
basate 
su 
criteri 
di 
stretta 
collaborazione, 
solidarietà 
e 
parità. 
Queste 
evoluzioni 
così 
delineate 
hanno determinato un quadro nuovo all’interno 
del 
quale 
la 
tutela 
della 
concorrenza 
e 
la 
difesa 
delle 
regole 
del 
mercato 
interno venivano bilanciate in maniera equa (24). 


Consolidati 
gli 
obiettivi 
che 
il 
trattato 
prevedeva 
ab 
origine, 
la 
Commissione 
e 
le 
Autorità 
nazionali 
hanno 
potuto 
concentrarsi, 
dunque, 
sul 
proteggere 
il 
benessere 
dei 
consumatori, 
diventato 
così 
l’obiettivo 
centrale 
dell’attività 
di 
enforcement 
da 
ottenere 
per 
mezzo 
della 
salvaguardia 
dei 
processi 
concorrenziali 
e 
rafforzando 
la 
posizione 
degli 
utenti 
sul 
mercato 
interno. 
Un 
obiettivo, 
questo, 
che 
presuppone, 
da 
una 
parte, 
che 
venga 
adottato 
un 
modello 
che 
a 
sua 
volta 
persegua 
ugualmente 
l’efficienza 
allocativa 
e 
la 
massimizzazione 
della 
ricchezza 
complessiva 
dell’intero 
sistema 
e, 
dall’altro, 
che 
si 
realizzi 
piena 
efficienza 
distributiva, 
impedendo 
effetti 
di 
trasferimento 
di 
risorse 
dai 
consumatori 
alle 
imprese 
che 
praticano 
condizioni 
d’offerta 
diverse 
da 
quelle 
concorrenziali. 


In 
questo 
senso, 
il 
motivo 
per 
cui 
l’azione 
dell’Unione 
Europea 
si 
sia 
concentrata 
sul 
reprimere 
le 
intese 
orizzontali 
più gravi 
va 
cercato nel 
fatto che 
i 
cartelli 
orizzontali 
non portano beneficio alcuno, fermo restando che 
creano 
distorsioni 
gravi 
nell’allocazione 
e 
nella 
distribuzione 
delle 
risorse 
creando 
illecitamente 
aggregazione 
di 
potere 
economico sui 
mercati 
senza 
portare, per 
contro, alcuna 
utilità 
in termini 
di 
efficienza. Nella 
lotta 
alle 
intese 
orizzontali 
da 
parte 
della 
Commissione 
vi 
è 
soprattutto la 
necessità 
di 
proteggere 
i 
diritti 
dei 
consumatori 
in 
quanto 
risorsa 
primaria 
della 
politica 
concorrenziale, 
la 
quale 
può realizzarsi 
solamente 
attraverso una 
politica 
effettiva 
di 
deterrenza 
nei riguardi delle intese orizzontali. 


L’azione 
della 
Commissione 
risponde 
anche 
all’esigenza 
di 
distinguere 
tra 
le 
restrizioni 
più gravi 
che 
vanno perseguite 
sistematicamente 
e 
altri 
tipi 
di 
accordo 
con 
effetti 
potenzialmente 
restrittivi 
ma 
dalla 
valenza 
antigiuridica 
più lieve, i 
quali 
possono assumere 
rilevanza 
soltanto in virtù dei 
loro effetti, 


(24) S. LAMArCA, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


tenendo conto della 
posizione 
e 
delle 
quote 
in possesso delle 
parti 
sui 
mercati 
di riferimento. 


Gli 
orientamenti 
sopracitati 
sono stati 
recepiti 
anche 
in giurisprudenza, 
come 
nel 
caso GlaxoSmithKline 
(25), dove 
venne 
valutato l’effetto di 
un accordo 
in virtù delle 
possibili 
ripercussioni 
sul 
benessere 
del 
consumatore, verificando 
concretamente 
le 
possibili 
conseguenze 
negative 
che 
si 
sarebbero 
avute 
per l’utenza 
finale 
se 
tale 
accordo fosse 
stato attuato. Nella 
sentenza 
relativa 
i 
Giudici 
hanno 
esplicitamente 
dichiarato 
che 
la 
finalità 
dell’art. 
81 
tCE 
è 
quella 
di 
impedire 
che 
certe 
imprese 
attuino 
una 
restrizione 
della 
concorrenza 
tra 
loro o nei 
rapporti 
con altri, riducendo conseguentemente 
il 
benessere 
del 
consumatore finale dei prodotti. 


La 
lotta 
ai 
cartelli, con queste 
nuove 
ed articolate 
forme, ha 
ottenuto risultati 
importantissimi 
sia 
dal 
punto di 
vista 
dell’accertamento che 
da 
quello 
sanzionatorio delle 
pratiche 
vietate. Infatti, le 
maggiori 
competenze 
sia 
ispettive 
che 
sanzionatorie 
date 
alla 
Commissione 
e 
l’aumento della 
cooperazione 
con le 
Autorità 
nazionali 
competenti, previste 
entrambe 
dal 
regolamento n. 
1/2003, hanno permesso di 
adottare 
un numero sempre 
maggiore 
di 
decisioni 
in tema 
di 
intese, confermate 
sovente 
dai 
giudici 
europei, e 
un notevole 
aumento 
delle sanzioni comminate alle imprese partecipanti (26). 


Importantissima 
per capire 
l’ambito evolutivo degli 
strumenti 
giuridici 
e 
delle 
competenze 
affidate 
dalla 
Corte 
alle 
autorità 
nazionali 
nella 
lotta 
ai 
cartelli 
è 
stata 
la 
Sentenza 
CIF 
(27) che 
ha 
stabilito, a 
carico delle 
autorità 
nazionali, 
l’obbligo 
di 
disapplicare 
le 
normative 
nazionali 
che 
imponevano 
o 
favorivano comportamenti 
di 
imprese 
contrastanti 
con l’art. 101 tFUE 
o che 
ne 
avevano 
legittimato 
o 
addirittura 
rafforzato 
gli 
effetti. 
Nello 
specifico 
la 
Corte 
ha 
stabilito come, dinanzi 
a 
comportamenti 
in contrasto con l’art. 81 n. 
2 tCE 
imposti 
da 
una 
normativa 
nazionale 
che 
ne 
ha 
legittimato o rafforzato 
gli 
effetti, riguardo specificamente 
alla 
determinazione 
dei 
prezzi 
e 
alla 
divisione 
del 
mercato, un’autorità 
nazionale 
alla 
quale 
è 
stato dato il 
compito di 
vigilare 
sul 
rispetto dell’art. 81 tCE 
ha 
il 
dovere 
e 
l’obbligo di 
non applicare 
la normativa nazionale. 


Dal 
punto 
di 
vista 
sanzionatorio 
questo 
risultato 
è 
stato 
ottenuto 
anche 
per mezzo dell’adozione 
di 
apposite 
Linee 
Guida 
della 
Commissione, le 
quali 
hanno 
introdotto 
severe 
modalità 
di 
quantificazione 
delle 
sanzioni 
che, 
non 
soltanto 
hanno 
preso 
in 
considerazione 
il 
fatturato 
dell’impresa, 
ma 
hanno 
contemplato ulteriori 
criteri 
in virtù dei 
quali 
si 
sono innalzate 
sensibilmente 
le sanzioni comminate. 


(25) 
tribunale, 
27 
settembre 
2006, 
t-168/01, 
GlaxoSmithKline 
Services 
Unlimited 
c. 
Commissione. 
(26) S. LAMArCA, op. cit. 
(27) CGUE, 9 settembre 2003, C-198/01, Consorzi Industrie Fiammiferi. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


La 
disciplina 
antitrust 
in 
tema 
di 
intese 
è 
stata 
inoltre 
oggetto 
di 
tantissime 
innovazioni 
che 
avevano in comune 
la 
diffusione 
di 
strumenti 
alternativi 
all’obiettivo 
tradizionale 
di 
repressione 
delle 
pratiche 
vietate 
per mezzo di 
sanzioni 
pecuniarie. oltre 
al 
solito esercizio dei 
poteri 
di 
indagine 
e 
dei 
poteri 
di 
sanzione 
sono 
state 
aggiunte 
nuove 
misure 
aventi 
il 
fine 
di 
individuare 
e 
di 
combattere 
i 
cartelli, riducendo, allo stesso tempo, a 
vantaggio delle 
imprese 
aderenti 
le 
sanzioni 
naturalmente 
applicabili, fino alla 
loro totale 
esclusione. 
Questi 
nuovi 
mezzi 
permetteranno alle 
Autorità 
antitrust 
di 
ottenere 
la 
rimozione 
rapida 
delle 
violazioni, 
a 
vantaggio 
degli 
interessi 
dei 
consumatori, 
e 
un 
ingente 
risparmio delle 
risorse 
amministrative 
grazie 
ad una 
più rapida 
chiusura 
dei 
procedimenti 
permettendo 
allo 
stesso 
tempo 
di 
superare 
le 
asimmetrie 
informative 
che 
le 
Autorità 
hanno spesso incontrato nelle 
loro attività 
investigative 
relative ai cartelli (28). 


4. Normative antitrust e gli indirizzi della politica europea. 
Con l’entrata 
in vigore 
del 
trattato di 
Lisbona 
del 
1° 
dicembre 
2009, su 
iniziativa 
soprattutto francese, il 
fine 
della 
concorrenza 
non falsata 
non è 
più 
tra 
gli 
obiettivi 
fondamentali 
dell’Europa. In particolar modo, l’art. 3 tFUE 
dopo Lisbona 
ha 
stabilito come, ora, l’Unione 
Europea 
debba 
prodigarsi 
al-
l’instaurazione 
di 
un mercato interno, adoperandosi 
per uno sviluppo sostenibile 
dell’Europa 
che 
si 
basi 
su una 
crescita 
economica 
equilibrata 
e 
su prezzi 
stabili 
oltre 
che 
su un’economia 
sociale 
di 
mercato altamente 
competitiva 
che 
punti 
all’occupazione, al 
progresso sociale, alla 
tutela 
e 
al 
miglioramento del-
l’ambiente, promuovendo il progresso scientifico e tecnologico. 


In aggiunta 
a 
questo, il 
Protocollo n. 27 allegato al 
tUE 
e 
al 
tFUE 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
51 
tUE 
va 
considerato 
parte 
degli 
stessi 
trattati, 
precisa 
come 
il 
mercato interno si 
fondi 
su un sistema 
che 
assicura 
la 
concorrenza 
leale 
e 
non falsata. Non è 
stata 
fatta 
alcuna 
modifica, se 
non nella 
numerazione 
dei 
nuovi 
artt. 
101 
e 
102 
tFUE, 
alle 
norme 
riguardanti 
i 
divieti 
di 
intesa 
e 
di 
abuso 
di posizione dominante. 


Il 
significato 
e 
le 
conseguenze 
del 
cambiamento 
in 
merito 
alla 
tutela 
della 
concorrenza 
e 
delle 
politiche 
antitrust 
europee 
è 
stato ritenuto, per alcuni, irrilevante 
mentre 
altri 
lo 
hanno 
considerato 
il 
risultato 
di 
quel 
filone 
di 
pensiero 
che 
ha 
enfatizzato 
la 
dimensione 
semplicemente 
funzionale 
della 
concorrenza 
soltanto se 
e 
in quanto idonea 
a 
permettere 
il 
raggiungimento di 
una 
serie 
di 
obiettivi 
superiori, 
quali 
la 
crescita 
economica, 
il 
progresso 
sociale, 
l’ambiente, 
la 
coesione 
economica 
e 
sociale, 
l’occupazione. 
L’applicazione 
della 
disciplina 
antitrust 
deve 
tener conto di 
questi 
obiettivi 
ultimi 
e 
gerarchicamente 
sovraordinati 
che il 
trattato di Lisbona ha enunciato. 

Le 
politiche 
di 
concorrenza 
comunitarie 
sono 
state, 
e 
lo 
sono 
ancora, 
sep


(28) S. LAMArCA, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


pur in maniera 
più lieve, influenzate 
dall’obiettivo di 
integrare 
le 
varie 
realtà 
nazionali 
all’interno di 
un mercato comune 
unico. Le 
unità 
sono intervenute, 
quindi, 
con 
particolare 
veemenza 
nei 
riguardi 
delle 
intese 
e 
degli 
accordi 
aventi 
lo scopo di 
erigere 
barriere 
o di 
ostacolare 
le 
transazioni 
commerciali 
tra 
gli 
Stati 
membri. 
Un’importante 
sentenza 
(29) 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
del-
l’Unione 
Europea 
in materia 
di 
intese 
ha 
affermato che 
un accordo tra 
produttore 
e 
distributore 
avente 
il 
fine 
di 
ristabilire 
le 
barriere 
nazionali 
nel 
commercio tra 
Stati 
membri 
può impedire 
il 
perseguimento dell’obiettivo del 
trattato, che 
è 
quello di 
realizzare 
l’integrazione 
dei 
mercati 
nazionali 
attraverso 
la 
creazione 
di 
un unico mercato. Sono per la 
Corte, dunque, comportamenti 
diretti 
a 
compartimentare 
i 
mercati 
secondo 
le 
frontiere 
nazionali 
quegli 
accordi 
che 
hanno lo scopo di 
vietare 
o di 
limitare 
le 
esportazioni 
parallele 
o 
quegli accordi che limitano la concorrenza. 

La 
Commissione 
europea 
ha 
anche 
sanzionato 
pesantemente 
l’impresa 
di 
abbigliamento Guess 
per aver attuato un sistema 
di 
geoblocking 
delle 
vendite 
sul 
web 
che 
impediva 
ai 
distributori 
di 
vendere 
i 
prodotti 
della 
stessa 
azienda 
fuori 
dal 
territorio 
assegnato 
(30). 
Altre 
decisioni 
e 
sentenze, 
in 
tal 
senso, 
hanno 
tenuto 
conto 
o 
sono 
state 
condizionate 
dagli 
obiettivi 
primari 
menzionati dai trattati europei. 

Da 
questo 
punto 
di 
vista 
è 
emblematica 
la 
decisione 
Ford/Volkswagen 


(31) con cui 
la 
Commissione 
ha 
consentito l’intesa 
che, invece, l’autorità 
antitrust 
tedesca 
voleva 
vietare, 
riguardo 
ad 
una 
joint 
venture 
creata 
in 
vista 
della 
produzione 
di 
una 
monovolume 
di 
ultima 
generazione. 
L’autorità 
tedesca 
considerava 
questo accordo pesantemente 
negativo dal 
punto di 
vista 
concorrenziale, 
giacché 
avrebbe 
eliminato 
la 
concorrenza 
nella 
produzione 
di 
monovolume 
tra 
due 
delle 
principali 
imprese 
automobilistiche 
sul 
mercato 
(32). 
La 
Commissione 
ha, 
invece, 
autorizzato 
l’accordo 
in 
via 
eccezionale 
per 
un 
insieme 
di 
valutazioni 
concorrenziale 
ma 
anche 
perché 
il 
progetto 
costituiva 
il 
più grande 
investimento singolo estero mai 
avvenuto in Portogallo, avente 
la 
possibilità 
di 
creare 
direttamente 
fino a 
cinquemila 
posti 
di 
lavoro e, indirettamente, 
fino a 
diecimila 
attraverso importanti 
investimenti 
nell’industria 
delle 
forniture. 
Questo 
progetto, 
dunque, 
contribuiva 
allo 
sviluppo 
armonioso 
della 
Comunità 
europea 
oltre 
che 
ridurre 
le 
disparità 
regionali, 
due 
degli 
obiettivi 
fondamentali 
del 
trattato, di 
fatto promuovendo anche 
l’integrazione 
europea 
di 
mercato vincolando ancor più il 
Portogallo alla 
Comunità 
attraverso 
una delle sue industrie principali. 
(29) CGUE, C-501/06 P, C-513/06 P, C-515/06 P 
e 
C-519/06 P, GlaxoSmithKline, in Racc. 2009, 
I-9291. 
(30) Commissione, 17 dicembre 2018, Guess. 
(31) Commissione, 23 dicembre 1992, Ford/Volkswagen, in GUCE L 020 del 28 gennaio 1993. 
(32) 
L.F. 
PACE, 
Diritto 
Europeo 
della 
concorrenza. 
Divieti 
antitrust, 
controllo 
delle 
concentrazioni 
e procedimenti applicativi, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Questi 
esempi 
dimostrano come 
la 
politica 
concorrenziale 
comunitaria, 
pur essendo in linea 
con il 
principio di 
salvaguardia 
del 
benessere 
economico 
generale, 
ha 
perseguito 
anche 
ulteriori 
obiettivi 
oppure 
che, 
con 
questi, 
si 
è 
dovuta 
confrontare. 
Va 
detto 
anche 
che, 
col 
tempo, 
è 
stato 
codificato 
e 
limitato 
il 
modo 
con 
cui 
tener 
conto 
di 
questi 
ulteriori 
obiettivi. 
Negli 
orientamenti 
più 
recenti, 
infatti, 
gli 
obiettivi 
perseguiti 
da 
altre 
disposizioni 
del 
trattato 
possono 
essere 
considerati 
esclusivamente 
se 
possono 
rientrare 
nelle 
quattro 
condizioni 
ex 
art. 
101 
e, 
quindi, 
solo 
se 
determinano 
miglioramenti 
per 
l’offerta 
e 
benefici 
per i consumatori. 


Aldilà 
della 
gamma 
di 
obiettivi 
da 
perseguire, 
la 
politica 
comunitaria 
di 
concorrenza 
non 
aveva 
avuto, 
fino 
a 
pochi 
anni 
fa, 
la 
considerazione 
e 
l’impatto 
avuto 
invece 
da 
quella 
statunitense. 
La 
politica 
delle 
autorità 
antitrust 
europee 
era 
molto 
rigida, 
non 
molto 
attenta 
all’analisi 
economica 
ed 
eccessivamente 
subordinata 
agli 
obiettivi 
integrazionistici. 
Le 
poche 
decisioni 
assunte, 
infatti, 
tendevano 
soprattutto 
a 
condannare 
quelle 
intese 
che 
erano 
dirette 
a 
creare 
quelle 
barriere 
commerciali 
che 
le 
politiche 
di 
integrazione 
e 
di 
liberalizzazione 
attuate 
dalle 
autorità 
comunitarie 
avevano 
abbattuto. 
Inoltre, 
ancor 
più 
rare 
erano 
state 
le 
decisioni 
sanzionatorie, 
in 
maniera 
efficace 
e 
decisiva, 
dei 
cartelli 
e 
di 
altre 
pratiche 
pesantemente 
lesive 
dalla 
concorrenza 
(33). 


Con il 
nuovo Millennio, obiettivi, priorità, metodi 
di 
valutazione 
e 
grado 
di 
efficacia 
della 
politica 
europea 
sulla 
concorrenza 
sono cambiati 
profondamente. 
In 
particolare, 
la 
cosiddetta 
“modernizzazione” 
delle 
regole 
di 
concorrenza 
a 
livello comunitario, e 
che 
ha 
portato all’emanazione 
del 
reg. CE 
n. 
1/2003, disciplinante 
le 
procedure 
applicative 
riguardanti 
i 
divieti 
di 
intesa 
e 
l’abuso di 
posizione 
dominante, ha 
determinato una 
rivoluzione, di 
fatto, del 
diritto 
europeo 
della 
concorrenza 
delineato, 
sinteticamente, 
dai 
seguenti 
punti: 


-abbandono progressivo di 
approccio formale 
a 
vantaggio di 
uno più sostanziale 
e 
attento alle 
conseguenze 
economiche 
delle 
condotte 
oggetto di 
valutazione; 
-passaggio, nell’ambito delle 
intese, da 
un sistema 
di 
controllo generale 
ex 
ante, incentrato in particolare 
sulla 
Commissione 
europea, ad uno ex 
post 
in cui 
la 
Commissione, le 
autorità 
ed i 
giudici 
nazionali 
intervengono solo, e 
soltanto, in caso di sospetto di concorrenza ristretta; 
-focalizzazione, 
dal 
punto 
di 
vista 
delle 
politiche 
concorrenziali, 
sulla 
lotta 
alle 
condotte 
restrittive 
più 
dannose 
(cartelli, 
abusi 
di 
posizione 
dominante 
ecc.), aiutata 
dalla 
liberalizzazione 
delle 
risorse 
dovute 
all’abbandono 
dei controlli 
ex ante 
di cui sopra; 


-efficacia 
maggiore 
dell’applicazione 
della 
normativa 
comunitaria 
per 
mezzo 
di 
un 
coinvolgimento 
a 
pieno 
titolo 
di 
giudici 
e 
di 
autorità 
nazionali 


(33) L.F. PACE, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


nell’applicazione 
delle 
disposizioni 
in materia 
di 
intese 
e 
abusi 
come 
stabilite 
dal 
trattato; 


-rimodulazione 
dei 
poteri 
e 
degli 
strumenti 
di 
intervento e 
decisionali 
al 
fine 
di 
assicurare 
provvedimenti 
maggiormente 
incisivi 
oltre 
che 
spazi 
di 
intervento 
maggiore 
allo 
scopo 
di 
superare 
ostacoli 
strutturali 
al 
buon 
andamento 
dei mercati. 
riguardo 
al 
diritto 
europeo 
della 
concorrenza, 
i 
principali 
divieti 
sono 
presenti oggi in un pugno di disposizioni dal contenuto generale. 

Le norme europee 
antitrust 
con contenuto sostanziale sono previste da: 


-il 
trattato 
sul 
Funzionamento 
dell’Unione 
Europea, 
ai 
cui 
artt. 
101 
e 


102 vieta, rispettivamente, le 
intese 
restringenti 
la 
concorrenza 
e 
gli 
abusi 
di 
posizione dominante; 


-il 
reg. CE 
n. 139/2004, che 
ha 
preso il 
posto del 
reg. CEE 
n. 406 del 
1989, per il controllo delle operazioni di concentrazione di imprese (34). 
Questo 
corpus 
normativo 
è 
molto 
più 
simile 
a 
quello 
vigente 
negli 
Stati 
Uniti 
e, 
anche 
in 
virtù 
del 
processo 
di 
modernizzazione 
e 
della 
similitudine 
dei 
corpi 
normativi, 
a 
questo 
si 
è 
unita 
un’elevata 
convergenza 
nei 
modi 
e 
nei 
principi 
di 
applicazione 
dei 
precetti 
antitrust. 
Le 
autorità 
europee 
continuano 
ad 
essere 
scettiche 
sulle 
virtù 
in 
grado 
di 
redimere 
i 
mercati 
e 
sulle 
condotte 
delle 
grandi 
imprese 
ma, 
generalmente, 
condividono 
i 
principi 
di 
base. 


Inoltre, oltre 
ai 
tre 
tradizionali 
pilastri 
concorrenziali 
del 
divieto di 
intese 
restrittive, 
del 
divieto 
di 
abuso 
di 
posizione 
dominante 
e 
del 
controllo 
delle 
concentrazioni, il 
sistema 
comunitario ha 
previsto ulteriori 
disposizioni 
antitrust 
dal 
forte 
peso 
politico 
oltre 
che 
pratico. 
In 
particolar 
modo, 
l’art. 
106 
tFUE 
ha 
previsto che 
gli 
Stati 
membri 
non possono emanare 
né 
tantomeno 
mantenere, 
nei 
riguardi 
delle 
imprese 
pubbliche 
e 
di 
quelle 
imprese 
a 
cui 
sono 
stati 
riconosciuti 
diritti 
speciali 
o 
esclusivi, 
nessuna 
misura 
contraria 
alle 
norme 
del 
trattato. 
Niente 
vieta 
che 
uno 
Stato 
richieda 
ad 
un’impresa, 
pubblica 


o privata, di 
perseguire 
una 
missione 
di 
interesse 
economico generale, come 
può essere, ad esempio, la 
creazione 
di 
una 
rete 
telefonica 
o la 
produzione 
di 
energia, questa 
impresa, tuttavia, non è 
sottratta, per questo, dal 
rispettare 
le 
normative 
a 
tutela 
della 
concorrenza 
a 
meno che 
l’applicazione 
delle 
disposizioni 
antitrust 
contrasti 
esplicitamente 
con 
il 
perseguimento 
di 
questa 
specifica 
missione 
pubblica 
(35). Su questa 
stessa 
falsa 
riga 
anti 
protezionistica 
l’art. 
107 tFUE 
ha 
stabilito come, in linea 
di 
principio, siano incompatibili 
con il 
mercato comune, quando incidono sugli 
scambi 
tra 
gli 
Stati 
membri, gli 
aiuti 
statali 
che 
favoriscono 
alcune 
imprese 
o 
alcuni 
settori 
produttivi 
nazionali, 
falsando o minacciando di 
farlo, di 
fatto, la 
concorrenza 
nel 
mercato comune. 
(34) L.F. PACE, op. cit. 
(35) Ibidem. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


I 
trattati 
europei, 
da 
Lisbona 
in 
avanti, 
si 
sono 
prefissati, 
dunque, 
finalità 
non 
tanto 
economiche 
quanto 
sociali, 
per 
via 
del 
fatto 
che 
fra 
la 
generalità 
delle 
norme 
dei 
trattati 
e 
quelle, più specifiche, relative 
alla 
tutela 
concorrenziale 
sia 
emersa 
una 
tensione 
via 
via 
sempre 
più 
ampia 
culminata, 
verso 
la 
fine 
del 
secolo scorso, nell’esigenza 
(che 
la 
Commissione 
Europea 
ha 
subito 
abbracciato) 
di 
accrescere 
il 
ruolo 
dell’economia 
nella 
valutazione 
delle 
restrizioni 
della concorrenza. 


Se 
dalle 
disposizioni 
di 
principio del 
tUE 
passiamo a 
quelle 
relative 
alle 
politiche 
dell’Unione, 
come 
disciplinate 
nella 
parte 
terza 
del 
tFUE, 
incontriamo 
la 
“regole 
di 
concorrenza” 
nel 
Capo 
I, 
titolo 
VII, 
suddivise 
a 
loro 
volta in due sezioni: 


-La 
prima, 
rubricata 
“Regole 
applicabili 
alle 
imprese”, 
dagli 
artt. 
101 
al 
106; 


- La seconda, “Aiuti concessi dagli Stati”, dall’art. 107 all’art. 109. 
Importanti, 
in 
particolare, 
sono 
gli 
articoli 
101 
e 
102, 
laddove 
il 
primo 
disciplina 
le 
intese 
restrittive 
della 
concorrenza 
ovvero 
gli 
accordi 
e 
le 
pratiche 
concordate 
tra 
imprese 
oltre 
che 
le 
decisioni 
di 
associazioni 
di 
imprese, e 
il 
secondo regolamenta, invece, lo sfruttamento abusivo ad opera 
di 
una 
o più 
imprese 
e 
la 
loro eventuale 
posizione 
dominante 
all’interno del 
mercato. Va 
citato anche 
l’art. 106, il 
quale 
tratta 
dei 
rapporti 
speciali 
fra 
lo Stato e 
alcune 
categorie 
di 
imprese. tutta 
la 
seconda 
sezione 
disciplina, infine, gli 
aiuti 
che 
gli Stati concedono ad alcune imprese o ad alcune produzioni (36). 


Gli 
aiuti 
di 
Stato sono consentiti 
a 
specifiche 
condizioni. Quando, cioè, 
si 
può 
dimostrare 
che 
essi 
perseguono 
obiettivi 
non 
contrastanti 
con 
quelli 
stabiliti 
dai 
trattati 
europei 
(protezione 
ambientale, tutela 
occupazionale, ecc.). 
In 
linea 
generale 
questi 
aiuti 
vanno 
comunicati 
preventivamente 
alla 
Commissione 
e 
devono risultare 
proporzionali 
e 
strettamente 
necessari 
nell’ottica 
di 
correzione 
di 
un 
fallimento 
di 
mercato. 
In 
caso 
contrario, 
quando 
attuati 
senza 
notifica 
preventiva 
o 
quando 
distorcono 
il 
corretto 
funzionamento 
dei 
mercati, 
celati 
dietro finalità 
protezionistiche 
o di 
salvaguardia 
nazionale, sono considerati 
illeciti 
e, 
per 
questo, 
combattuti 
pesantemente 
dalle 
autorità 
europee. 
Questo 
aspetto 
è 
molto 
importante 
nell’ambito 
delle 
politiche 
antitrust 
del-
l’Unione 
Europea, tenendo conto che 
sono tantissime 
le 
aree 
in cui 
si 
sovrappongono 
la disciplina delle intese e quelle delle concentrazioni (37). 


Da 
quanto fin qui 
esposto è 
evidente 
come, al 
pari 
di 
altri 
atti 
delle 
istituzioni 
dell’UE 
anche 
la 
normativa 
e 
le 
decisioni 
del 
Consiglio e 
della 
Commissione 
in 
materia 
antitrust 
siano 
soggette 
al 
controllo 
della 
Corte 
di 
Giustizia. Questo è 
il 
motivo per cui, nel 
corso degli 
ultimi 
anni, migliaia 
e 
migliaia 
di 
imprese 
hanno chiesto a 
questa 
Corte 
l’annullamento di 
decisioni 
adottate 
dalla 
Commissione 
nei 
loro riguardi, la 
maggior parte 
accompagnate 


(36) A. PAPPALArDo, op. cit. 
(37) L.F. PACE, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


da 
pesantissime 
sanzioni 
pecuniarie. Da 
quando, poi, esiste 
il 
tribunale 
Europeo 
il 
contenzioso si 
è 
allargato a 
macchia 
d’olio, anche 
perché 
possono impugnare 
le 
decisioni 
della 
Commissione 
oltre 
ai 
destinatari 
di 
queste 
anche 
terzi 
e 
gli 
Stati 
membri. 
L’istituzione 
del 
tribunale 
ha 
profondamente 
cambiato 
il 
controllo dal 
punto di 
vista 
giurisdizionale 
da 
parte 
dell’Unione 
Europea, in 
quanto 
esso 
è 
l’unico 
giudice 
sia 
dei 
fatti 
che 
del 
diritto 
e 
contro 
le 
sue 
sentenze 
il 
ricorso alla 
Corte 
di 
Giustizia 
è 
ammissibile 
solo su punti 
di 
diritto. Il 
fondamento 
giuridico di 
questo aspetto, che 
costituisce 
la 
larghissima 
parte 
del 
contenzioso, è 
l’art. 263 tFUE 
ma 
vanno ricordate 
altre 
due 
disposizioni 
presenti 
nello stesso trattato, l’art. 267 e 
l’art. 265, laddove 
il 
primo attiene 
alle 
pronunce 
della 
Corte 
su rinvio a 
titolo pregiudiziale 
ad opera 
dei 
giudici 
degli 
Stati membri, ed il secondo ai ricorsi per carenza. 


Le 
fonti 
primarie 
del 
diritto 
della 
concorrenza 
applicabile 
alle 
imprese 
sono 
l’art. 
3 
tUE 
e 
il 
protocollo 
n. 
27 
che 
enunciano 
i 
principi 
di 
base, 
mentre 
gli artt. 101-106 sono provvisti di efficacia diretta. 

Fonti, 
invece, 
secondarie 
sono 
i 
regolamenti 
del 
Consiglio 
e 
i 
regolamenti 
della 
Commissione, 
quest’ultimi 
adottati 
su 
delega 
del 
Consiglio 
stesso, 
oltre 
che 
le 
direttive 
e 
le 
decisioni 
della 
Commissione, 
attuative 
delle 
disposizioni 
del 
tFUE 
e 
degli 
atti 
normativi 
secondari. 
regolamenti 
del 
Consiglio 
da 
menzionare 
con 
particolare 
attenzione 
sono 
il 
n. 
1/2003, 
attinente 
all’applicazione 
delle 
regole 
concorrenziali 
contenute 
all’interno 
degli 
articoli 
101 
e 
102, 
i 
regolamenti 
che 
hanno 
dotato 
la 
Commissione 
del 
potere 
di 
adottare, 
a 
sua 
volta, 
regolamenti 
di 
esenzione 
di 
categorie 
di 
intese 
dal 
divieto 
ai 
sensi 
dell’art. 
101, 
il 
regolamento 
n. 
139/2004 
relativo 
al 
controllo 
delle 
concentrazioni 
fra 
imprese. 


Importanti 
fonti 
secondarie, inoltre, sono l’Accordo sullo Spazio Economico 
Europeo (Accordo SEE) che 
regola 
i 
rapporti 
fra 
l’Unione 
e 
i 
tre 
Stati 
appartenenti 
all’EFtA 
(Associazione 
europea 
di 
libero 
scambio) 
ossia 
l’Islanda, 
il 
Liechtenstein e 
la 
Norvegia 
(ad eccezione 
della 
Svizzera 
che, seppur 
membro dell’EFtA, non ha 
ratificato tale 
accordo). Va 
detto che 
gli 
artt. 53 e 
54 
dell’Accordo 
SEE 
sono 
pressoché 
identici 
agli 
articoli 
101 
e 
102 
tFUE 
mentre l’art. 57 corrisponde al su citato regolamento n. 139/2004 (38). 


Di 
fatto, 
inoltre, 
altra 
fonte 
molto 
importante 
del 
diritto 
della 
concorrenza 
è 
la 
Giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
e 
del 
tribunale, anche 
se 
formalmente 
il 
diritto dell’Unione 
Europea 
non attribuisce 
valore 
assoluto ai 
precedenti 
giurisprudenziali. 
In 
pratica 
riveste 
enorme 
rilievo 
la 
prassi 
della 
Commissione, 
costituita 
in 
primo 
luogo 
dalle 
decisioni 
applicative 
delle 
disposizioni 
del 
tFUE. 
Nonostante 
la 
loro 
efficacia 
si 
limiti 
ai 
casi 
singoli 
queste 
decisioni 
rappresentano precedenti 
suscettibili 
di 
guidare 
in maniera 
utile 
le 
imprese 
nella 
conclusione 
di 
accordi 
e, in via 
generale, di 
determinare 
i 
loro 
comportamenti all’interno del mercato. 

(38) A. PAPPALArDo, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Da 
questo punto di 
vista 
importanti 
indicazioni 
possono essere 
desunte 
anche 
dalle 
numerose 
comunicazioni 
che 
la 
Commissione 
ha 
pubblicato allo 
scopo di 
far conoscere 
gli 
orientamenti 
che 
l’hanno ispirata 
(o la 
ispireranno) 
nel 
trattare 
determinate 
pratiche 
restrittive, 
a 
delimitare 
le 
competenze 
europee 
oppure 
nell’interpretare 
specifiche 
nozioni. 
Anche 
se 
non 
vincolanti 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico, sia 
per le 
imprese 
che 
per le 
autorità, giudiziarie 
o antitrust, 
degli 
Stati 
membri, le 
comunicazioni, conosciute 
anche 
come 
“orientamenti” 


o “Linee 
direttrici”, hanno assunto col 
tempo un peso molto rilevante, addirittura 
non inferiore a quello delle direttive e dei regolamenti. 
In 
ultimo, 
occorre 
ricordare 
anche 
le 
risposte 
della 
Commissione 
alle 
interrogazioni 
parlamentari 
europee 
ma, 
soprattutto, 
le 
“relazioni 
annuali” 
sulla 
politica 
della 
concorrenza 
con 
cui 
la 
Commissione, 
riassumendo 
gli 
eventi 
più 
significativi 
dell’anno, 
fornisce 
sovente 
indicazioni 
sugli 
orientamenti 
che 
essa 
stessa 
ha 
adottato 
o 
che 
intende 
seguire, 
sia 
nell’interpretazione 
di 
specifiche 
disposizioni 
che 
nel 
trattare 
determinate 
pratiche 
restrittive 
della 
concorrenza 
(39). 


In 
ultima 
sintesi 
il 
diritto 
antitrust 
dell’Unione 
Europea 
contiene 
le 
disposizioni 
seguenti: 
-l’art. 
101.1 
vieta 
tutte 
le 
intese, 
viste 
come 
quelle 
forme 
di 
cooperazione 


o 
di 
collusione 
fra 
due 
o 
più 
imprese 
restrittive 
della 
concorrenza, 
mentre 
l’art. 
101.2 ne 
prevede 
la 
nullità 
e, infine, il 
101.3 stabilisce 
le 
condizioni 
per cui 
un’intesa vietata è invece esente dal divieto; 
-l’art. 102 attiene 
allo sfruttamento abusivo, da 
parte 
di 
una 
o di 
più imprese, 
della 
posizione 
dominante 
da 
essa/esse 
detenuta/e 
nel 
mercato interno 
o in una sua parte sostanziale; 
-l’art. 
106.1 
vieta 
agli 
Stati 
membri 
di 
adottare, 
in 
rapporto 
ad 
alcune 
categorie 
di 
imprese, dipendenti 
in vario modo dallo Stato o comunque 
soggette 
ad 
esso, 
misure 
contrarie 
al 
trattato 
e 
alle 
disposizioni 
contenute 
negli 
articoli 
del 
punto precedente. Il 
comma 
2 dello stesso articolo prevede, invece, una 
deroga 
limitata 
alle 
disposizioni 
del 
trattato a 
favore 
di 
alcune 
imprese, collegate 
o dipendenti dallo Stato; 


-il 
reg. 
n. 
139/2004 
attribuisce 
alla 
Commissione 
il 
controllo 
preventivo 
di 
concentrazioni 
di 
imprese 
che 
presentano 
la 
cosiddetta 
“dimensione 
europea”, 
consentendole, 
a 
determinate 
condizioni, 
di 
vietarne 
la 
realizzazione 
(40). 


Un approfondimento a 
parte, nell’ambito della 
modernizzazione 
dell’applicazione 
degli 
artt. 
101 
e 
102, 
merita 
il 
regolamento 
n. 
1/2003 
del 
Consiglio 
del 
16 
dicembre 
2002 
che, 
di 
fatto, 
ha 
abrogato 
il 
regolamento 
n. 
17/1962 
che 
è 
stato per oltre 
quarant’anni 
pietra 
miliare 
della 
disciplina 
europea 
sulle 


(39) A. PAPPALArDo, op. cit. 
(40) A. PAPPALArDo, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


intese 
e 
sugli 
abusi 
di 
posizione 
dominante. Prima 
di 
addentrarci 
nell’approfondimento 
della 
portata 
della 
riforma 
è 
opportuno riassumere 
brevemente 
i 
principi 
che 
hanno 
ispirato 
il 
regolamento 
del 
1962 
e 
le 
sue 
disposizioni 
principali. 


Innanzitutto, le 
intese 
che 
corrispondevano alle 
condizioni 
di 
cui 
all’art. 


101.1 erano soggette 
ad un regime 
di 
divieto con riserva 
di 
esenzione 
per cui, 
l’inapplicabilità 
del 
divieto (in pratica 
l’esenzione) prevista 
dal 
comma 
3 non 
determinava 
alcun effetto fino a 
quando l’autorità 
competente, nel 
momento 
in cui 
accertava 
la 
realizzazione 
delle 
condizioni 
richieste 
a 
tale 
scopo, si 
pronunciava 
a 
riguardo. La 
Commissione 
era 
l’unica 
autorità 
competente 
a 
tale 
scopo e 
a 
rilasciare, oppure 
a 
rifiutare, la 
dichiarazione 
di 
inapplicabilità. Per 
la 
maggior 
parte 
delle 
intese, 
o 
comunque 
di 
quelle 
considerate 
più 
restrittive, 
la 
dichiarazione 
di 
inapplicabilità 
poteva 
essere 
rilasciata, aldilà 
del 
fatto se 
rispondevano o meno alle 
condizioni 
ex 
art. 101.3, a 
condizione 
solo che 
fossero 
state 
comunicate 
preventivamente 
alla 
Commissione, in conformità 
alla 
regola 
procedurale 
dell’onere 
di 
notificazione. Corollario della 
notificazione 
era 
costituita 
dall’immunità 
dalle 
sanzioni 
pecuniare 
per 
la 
quale, 
alle 
imprese 
che, consapevoli 
dell’applicabilità 
dell’art. 101.1 alle 
loro intese 
ma 
incerte 
sulla 
conformità 
a 
quelle 
ex 
art. 101.3, la 
notificavano e 
non potevano essere 
sanzionate 
ai 
sensi 
del 
regolamento 
n. 
17 
in 
caso 
di 
violazione 
dell’art. 
101.1. 
Infine, le 
autorità 
degli 
Stati 
membri 
erano competenti 
nell’applicazione 
del-
l’art. 101.1 e 
dell’art. 102 ma 
fin quando la 
Commissione 
non iniziava 
procedure 
ai sensi degli artt. 2, 3 o 6. 
Il 
regolamento n. 1 del 
2003 ha 
innovato il 
tutto in maniera 
importante, 
sopprimendo tutte 
le 
disposizioni 
di 
cui 
sopra, fatta 
eccezione 
per quella 
sulla 
competenza 
degli 
Stati 
membri 
nell’applicazione 
degli 
artt. 101 e 
102, che 
è 
stata 
invece 
modificata 
inserendo nuove 
regole 
sui 
rapporti 
fra 
le 
regole 
concorrenziali 
dell’Unione 
Europea 
e 
quelle 
vigenti 
nei 
singoli 
Stati, 
e 
sulle 
competenze 
della 
Commissione 
e 
delle 
autorità 
nazionali, giudiziarie 
e 
antitrust, 
nell’applicazione 
degli 
articoli 
101 e 
102 creando, in ultimo, una 
rete 
di 
cooperazione 
fra la Commissione e le autorità nazionali 
antitrust 
(41). 


Per 
concludere 
l’excursus 
degli 
orientamenti 
di 
politica 
europea 
della 
concorrenza 
non può non essere 
citata 
la 
recente 
attenzione 
nei 
riguardi 
delle 
potenziali 
barriere 
al 
mercato unico costituite 
da 
alcuni 
accordi, di 
tipo verticale, 
nell’ambito 
del 
commercio 
elettronico 
(e-commerce). 
Questi 
accordi 
hanno preoccupato, e 
tuttora 
preoccupano, la 
Commissione 
non soltanto perché 
possono 
presentare 
delle 
restrizioni 
della 
concorrenza 
ma 
anche 
perché 
alcune 
clausole 
al 
loro interno possono essere 
da 
ostacolo alla 
libera 
circolazione 
di 
servizi 
e 
di 
beni 
all’interno 
dell’Unione. 
La 
Commissione 
e 
le 
Autorità 
nazionali, in tal 
senso, hanno aperto numerosissime 
indagini 
riguardanti 
ac


(41) A. PAPPALArDo, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


cordi 
tra 
produttori 
e 
distributori 
i 
quali 
si 
avvalgono del 
web come 
canale 
per 
rivendere 
beni 
e 
servizi. tali 
accordi 
possono avere 
ad oggetto non soltanto 
contenuti 
digitali 
come 
e-books, 
film, 
videogiochi, 
programmi 
televisivi 
ed 
eventi 
sportivi, ma 
anche 
veri 
e 
propri 
beni 
di 
consumo fisico (pensiamo all’abbigliamento, 
alle 
calzature 
ecc.) 
commercializzati 
attraverso 
Internet 
o 
altri 
tipi 
di 
servizi, 
come 
le 
prenotazioni 
di 
viaggi, 
biglietti 
aerei, 
soggiorni 
alberghieri 
effettuati 
online. 


Alcune 
delle 
clausole 
dall’enorme 
potenziale 
restrittivo contenute 
negli 
accordi 
verticali 
di 
rivendita 
sui 
quali 
le 
Autorità 
si 
sono concentrate 
possono 
essere brevemente riassunte nel seguente elenco: 


- divieto assoluto di vendere 
online; 
-limitazioni, nei 
riguardi 
del 
distributore, di 
vendita 
attraverso canali 
o 
siti 
e-commerce; 
-restrizioni 
imposte, sempre 
al 
distributore, sulla 
possibilità 
di 
rivendite 
a 
utilizzatori 
finali 
situati 
in 
territori 
diversi 
dal 
luogo 
in 
cui 
il 
distributore 
opera (attuate anche per mezzo di veri e propri “geo blocchi”); 
-clausole 
che 
impongono prezzi 
di 
rivendita 
differenti 
a 
seconda 
del 
canale 
(fisico 
o 
online) 
usato 
per 
la 
rivendita 
oppure, 
nell’ambito 
dell’e-commerce, 
della piattaforma 
web 
utilizzata; 
-clausole 
che 
prevedono l’obbligo in capo al 
fornitore 
di 
beni 
o servizi 
di 
garantire 
a 
favore 
delle 
maggiori 
piattaforme 
il 
prezzo 
migliore 
di 
rivendita 
online 
(42). 
L’importanza 
che 
la 
Commissione 
ha 
dato 
al 
vasto 
settore 
dell’e-commerce 
è 
testimoniata 
dall’indagine 
di 
settore 
avviata 
nel 
2015 
che 
ha 
coinvolto 
circa 
duemilacinquecento 
operatori 
e 
che 
si 
è 
conclusa 
con 
una 
relazione 
finale 
nel 
maggio 
2017. 
In 
questa 
indagine 
la 
Commissione 
ha 
assunto 
posizioni 
molto dettagliate 
sulla 
valutazione 
concorrenziale 
di 
accordi 
specifici 
e 
verticali 
nel 
settore 
del 
commercio elettronico, andando in questo modo a 
perseguire 
il 
proprio 
intento 
di 
orientare 
e 
uniformare 
la 
prassi 
delle 
Autorità 
nazionali, fornendo un quadro giuridico più chiaro per gli 
operatori 
e, infine, 
indirizzare le revisioni future del regolamento di esenzione (43). 


5. Regole sulla concorrenza nell’ordinamento giapponese. 
Le 
diverse 
culture 
della 
concorrenza 
riflettono 
i 
diversi 
valori 
culturali, 
per 
questo 
per 
comprendere 
una 
cultura 
dell’antitrust 
occorre 
analizzare 
i 
valori 
su 
cui 
la 
società 
corrispondente 
si 
fonda, 
un’analisi 
che 
deve 
essere 
transculturale 
e 
rappresentare, 
soprattutto, 
un 
valido 
strumento 
di 
lavoro 
in 
grado 
di 
confrontare 
le 
culture 
nazionali 
al 
fine 
di 
verificarne 
l’impatto 
sulle 
politiche 
antitrust. 
A 
questo 
fine 
gli 
psicologi 
hanno 
costruito 
una 
cornice 
di 
ri


(42) S. LAMArCA, op. cit. 
(43) S. LAMArCA, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


ferimento 
dei 
valori 
della 
collettività 
su 
base 
statistica, 
da 
un 
lato, 
e 
su 
scala 
globale 
dall’altro, 
conosciuta 
con 
il 
nome 
di 
“Dimensione 
del 
Valore 
Culturale”. 
Questo 
studio 
fornisce 
un 
quadro 
nel 
quale 
disegnare 
le 
politiche 
della 
concorrenza 
allo 
scopo 
di 
comparare 
le 
politiche 
della 
concorrenza 
e 
le 
diverse 
culture 
nazionali 
su 
scala 
globale. 
All’interno 
di 
questo 
quadro 
si 
può 
trovare 
l’opposizione 
individualismo/collettivismo 
che 
rispecchia, 
ad 
esempio, 
la 
contrapposizione 
tra 
cultura 
statunitense 
e 
quella 
giapponese 
(44). 


Agli 
inizi 
del 
secolo 
scorso 
in 
Giappone 
l’intera 
economia 
era 
dominata 
da 
pochissimi 
“zaibatsu”, 
società 
commerciali 
che 
si 
erano 
evolute 
in 
veri 
e 
propri 
imperi 
industriali 
ad 
integrazione 
verticale 
che 
operavano 
intorno 
all’industria 
mineraria, 
navale, 
siderurgica 
e 
degli 
armamenti, 
protetti 
dall’intera 
istituzione 
bancaria. 
Il 
termine 
“zaibatsu” 
indicava 
quei 
grandi 
gruppi 
finanziari, 
commerciali 
ed 
industriali, 
originariamente 
a 
controllo 
familiare 
composti 
da 
un 
certo 
numero di 
persone, che 
hanno contribuito in maniera 
decisiva 
allo sviluppo 
dell’economia 
del 
Giappone 
dal 
periodo 
“Meiji” 
(verso 
la 
fine 
dell’ottocento) 
fino 
alla 
Seconda 
Guerra 
mondiale. 
tra 
i 
più 
importanti 
gruppi 
vanno 
ricordati 
Mitsui, 
Mitsubishi, 
Sumitomo 
e 
Yasuda. 
Gli 
interessi 
economici 
legati 
a 
queste 
associazioni 
giocarono 
un 
ruolo 
fondamentale 
nella 
politica 
espansionistica 
giapponese 
della 
dirigenza 
Meiji 
e, 
successivamente, 
dell’imperialismo 
delle 
epoche 
“Taisho”e“Showa” 
(dal 
1912 
fino 
alla 
fine 
del 
conflitto 
mondiale 
del 
1945), 
ma 
soprattutto nella 
modernizzazione 
industriale 
ed economica 
anche 
della 
Corea, 
che 
è 
stata 
del 
Giappone 
nel 
1910, 
e 
della 
Manciuria, 
controllata 
dal 
governo 
giapponese 
dal 
1930 
fino 
alla 
fine 
del 
conflitto 
mondiale 
(45). 


Il 
concetto 
di 
impresa, 
in 
Giappone, 
a 
differenza 
di 
quello 
occidentale, 
nacque 
e 
si 
sviluppò 
all’interno 
di 
un 
sistema 
economico 
fortemente 
caratterizzato 
dalla 
volontà 
di 
produrre 
ricchezza 
attraverso 
dinamiche 
di 
crescita 
e 
di 
potenziamento 
del 
mercato 
interno, 
ispirato 
ad 
una 
sorta 
di 
protezionismo 
nazionale 
che 
va 
oltre 
ogni 
vincolo 
e 
legame 
esterno. 
realizzare 
un 
progetto 
così 
autarchico 
è 
stato 
possibile, 
principalmente, 
per 
via 
del 
sostegno 
che 
proprio 
lo 
Stato 
ha 
dato 
e 
riservato, 
quasi 
esclusivamente, 
a 
tale 
modello 
di 
sviluppo 
in 
modo 
da 
condizionare 
anche 
il 
percorso 
evolutivo 
delle 
diverse 
realtà 
aziendali. 


Gli 
assetti 
di 
quest’ultime, fortemente 
caratterizzate 
da 
una 
struttura 
ad 
alta 
concentrazione 
sono passati, nel 
corso degli 
anni 
e 
per via 
dello sviluppo 
dei 
mercati 
finanziari 
uniti 
alla 
totale 
assenza 
di 
leggi 
antitrust, dal 
settore 
industriale 
formato 
da 
grandi 
famiglie 
di 
mercanti 
a 
quello 
finanziario. 
In 
questo 
passaggio si 
sono determinate 
diverse 
filosofie 
di 
fondo dovute, a 
loro volta, 
a diverse necessità che dipendevano dalla natura dell’attività svolta. 


(44) E. PErUzzo, Concorrenza e 
contesto: il 
Giappone 
e 
la teoria dell’adattamento selettivo, 10 
febbraio 2011, in www.diritto.it 
(45) “Zaibatsu”. Dizionario di Economia e Finanza 
(2012), in www.treccani.it/enciclopedia. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Gli 
“zaibatsu” 
avevano 
risorse 
finanziare 
da 
investire 
in 
aziende 
di 
dominio 
e 
guida 
all’interno 
del 
mercato 
locale. 
Questi 
gruppi 
di 
imprese, 
diverse 
e 
allo 
stesso 
tempo 
collegate 
tra 
loro 
da 
rapporti 
di 
reciproche 
partecipazioni, 
dal 
punto 
di 
vista 
strutturale 
evidenziarono 
una 
debolezza 
finanziaria 
nel 
breve 
termine 
anche 
se 
la 
gestione 
di 
queste 
difficoltà, 
almeno 
inizialmente, 
non 
risultarono 
particolarmente 
problematiche 
giacché 
il 
sistema 
bancario 
giapponese, 
rappresentato 
spesso 
da 
esponenti 
della 
stessa 
famiglia 
proprietaria 
di 
impresa, 
era 
parte 
integrante 
del 
capitale 
di 
proprietà 
aziendale 
e 
dettava, 
quindi, 
le 
proprie 
politiche 
gestionali 
allo 
scopo 
di 
sostenere 
il 
tessuto 
produttivo 
dell’impresa. 


In 
questa 
fase, 
inoltre, 
non 
vi 
erano 
ancora 
problemi 
di 
governo 
societario, 
di 
gestione 
di 
conflitti 
attinenti 
alla 
separazione 
tra 
proprietà 
e 
controllo ma, 
al 
contrario, 
si 
evidenziò 
un 
forte 
spirito 
di 
coalizione 
tra 
esponenti 
di 
una 
stessa 
impresa 
o di 
imprese 
differenti 
spesso organizzate 
in veri 
e 
propri 
cartelli, 
uniti tra loro da interessi comuni. 


Nell’obiettivo 
di 
ogni 
realtà 
aziendale 
convogliavano 
e 
si 
realizzavano 
gli 
interessi 
di 
una 
proprietà 
indivisa, protetta 
nelle 
sue 
scelte 
e 
nella 
realizzazione 
dei 
propri 
obiettivi 
istituzionali 
da 
un mercato in cui 
era 
talmente 
forte 
la presenza di cartelli e di accordi collusivi da agevolarne l’equilibrio (46). 


Prima 
della 
Seconda 
Guerra 
mondiale, 
inoltre, 
il 
Giappone 
non 
disponeva 
di 
alcuna 
normativa 
in 
materia 
di 
diritto 
della 
concorrenza 
fino 
a 
quando, 
cioè, 
intorno 
al 
1940, 
gli 
Stati 
Uniti 
tentarono 
di 
esportare 
le 
loro 
tradizioni. 
La 
legge 
giapponese 
contro i 
monopoli 
ha 
diversi 
tratti 
comuni 
con lo Sherman 
Act, con alcune differenze, però, in tema di accordi verticali. 


Il 
Giappone 
può 
essere 
considerato 
una 
società 
collettivista 
all’interno 
della 
quale 
gli 
individui 
sono integrati 
fin dalla 
nascita 
in gruppi 
coesi 
che 
li 
proteggono per tutta 
la 
vita 
in cambio di 
lealtà. In questo tipo di 
società 
è 
fondamentale 
che 
ognuno 
rispetti 
il 
compito 
affidatogli, 
sia 
nel 
gruppo 
sociale 
che 
nell’istituzione 
cui 
è 
stato assegnato. Questo perché 
ogni 
individuo è 
una 
frazione 
individuale 
di 
un 
gruppo 
organico, 
caratteristica 
che 
deriva 
dall’etica 
confuciana 
che, 
a 
partire 
dal 
VII 
secolo 
si 
fuse 
e 
si 
adattò 
alla 
cultura 
autoctona 
fortemente 
legata 
alla 
trazione 
scintoista. 
L’ideologia 
confuciana, 
però, 
assunse 
una 
rilevanza 
tale 
da 
abbracciare 
in poco tempo l’intera 
vita 
sociale 
assieme 
alle istituzioni del Paese. 


L’orientamento 
di 
un 
gruppo 
enfatizza, 
a 
sua 
volta, 
il 
concetto 
di 
armonia 
sociale 
e 
di 
consenso, 
producendo 
un’avversione 
molto 
forte 
nei 
confronti 
della 
concorrenza 
e 
dei 
meccanismi 
di 
mercato, 
in 
quanto 
suscettibili 
di 
creare 
instabilità. Questo, unito alla 
propensione 
verso lo statalismo, determinò una 
serie 
di 
norme 
coerenti 
con l’intervento dello Stato nell’economia 
e 
col 
disinteresse 
per la 
politica 
concorrenziale. La 
storia 
industriale 
del 
Giappone 
è 
ca


(46) 
F. 
FortUNA, 
Corporate 
e 
governance. 
Soggetti, 
modelli 
e 
sistemi, 
Milano, 
Franco 
Angeli 
Editore, 2002. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


ratterizzata, 
infatti, 
dalla 
concentrazione, 
dal 
coordinamento 
con 
l’attività 
economica 
e 
dalla 
collusione, all’interno di 
un sistema 
basato sul 
principio della 
politica 
industriale 
in 
cui 
è 
significativo 
l’intervento 
governativo, 
tratto 
comune 
a molti altri Paesi del sud-est dell’Asia. 


La 
politica 
antitrust 
in 
Giappone 
è 
stata 
oggetto 
di 
vicende 
interne 
iniziate 
dall’introduzione 
della 
prima 
legge 
in 
tema 
di 
diritto 
della 
concorrenza, 
nel 
1947, 
fino 
ai 
giorni 
nostri. 
Quando 
venne 
emanata 
la 
legge 
contro 
i 
monopoli, 
durante 
il 
Secondo dopoguerra, il 
rapporto tra 
le 
società 
che 
operavano all’interno 
del 
mercato economico era 
improntato ad una 
cooperazione 
armoniosa. 
tale 
legge, come 
accennato, fu imposta 
dall’occupazione 
americana, giacché 
gli 
Stati 
Uniti, 
in 
quanto 
vincitori 
del 
conflitto, 
imposero 
la 
politica 
da 
seguire 
e 
i 
giapponesi 
non 
poterono 
far 
altro 
che 
piegarsi. 
Gli 
standard 
statunitensi 
vennero adottati 
a 
prescindere 
dalla 
compatibilità 
con le 
norme 
locali 
in termini 
di 
percezione, legittimazione 
e 
complementarità. Dal 
punto di 
vista 
percettivo, 
in 
particolar 
modo, 
vi 
furono 
molte 
discussioni 
riguardo 
alla 
nuova 
norma 
contro i 
monopoli. Da 
una 
parte 
vi 
fu chi 
affermò che 
i 
negoziatori 
del 
governo 
giapponese 
comprendevano 
perfettamente 
il 
contenuto 
di 
questa 
normativa 
ma, allo stesso tempo, molti 
dei 
termini 
in essa 
contenuti, come 
“interesse 
pubblico” 
e 
“concorrenza” 
non 
erano 
molto 
chiari 
alla 
maggior 
parte 
della 
platea 
che 
vi 
si 
doveva 
adeguare. hideaki 
kobazashi, funzionario giapponese 
della 
“Japanese 
Fair 
Trade 
Commission” 
(JFtC), 
l’autorità 
garante 
per la 
concorrenza, affermò, infatti, che, quando vide 
la 
luce 
la 
nuova 
legge 
a 
tutela 
della 
concorrenza 
essa 
era 
praticamente 
sconosciuta 
a 
politici, 
funzionari 
governativi 
e 
soprattutto al 
pubblico. Per contro, secondo altri 
la 
politica 
antitrust 
aveva 
il 
semplice 
scopo di 
indebolire 
il 
Giappone 
per asservirlo ancora 
di 
più agli 
Stati 
Uniti. In quest’ottica, dunque, andava 
letta 
la 
mancata 
adozione 
di politiche che favorissero la piena libertà di mercato (47). 


Il 
modello industriale 
degli 
“zaibatsu”, in questa 
fase, fu costretto a 
lasciare 
il 
passo 
alla 
guida 
dello 
sviluppo 
economico 
del 
Paese 
ai 
“keiretsu”, 
grandi 
gruppi 
industriali 
che 
misero in atto un’attività 
molto più diversificata. 
tra 
i 
nomi 
più noti 
vanno ricordati 
Hitachi, Matsushita, Nippon Steel, Toyota, 
Nissan, Toshiba 
e 
Sony. 


Questo passaggio e 
questa 
trasformazione 
dell’assetto istituzionale 
delle 
imprese 
avvennero 
grazie 
anche 
al 
tentativo 
di 
importare 
nell’economia 
interna 
del 
Giappone 
elementi 
caratteristici 
dei 
sistemi 
economici 
e 
aziendali 
occidentali ma, soprattutto, grazie all’intervento dello Stato (48). 


La 
legge 
giapponese 
contro 
i 
monopoli, 
imposta 
dalle 
forze 
occupanti, 
rappresentò lo specchio del 
potere 
economico, degli 
interessi 
e 
dei 
valori 
di 
quest’ultime. Quando entrò in vigore 
l’unica 
preoccupazione 
per i 
politici 
e 


(47) E. PErUzzo, op. cit. 
(48) F. FortUNA, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


gli 
economisti 
giapponesi 
era 
la 
ripresa 
economica 
del 
Paese. 
L’esperienza 
maturata 
prima 
della 
Seconda 
Guerra 
mondiale 
si 
caratterizzava 
per 
un 
rapido 
sviluppo 
grazie 
ad 
una 
guida 
amministrativa 
incentrata 
sulla 
cooperazione, 
anche 
se 
questa 
passava 
per 
una 
palese 
cartellizzazione 
tra 
aziende 
concorrenti. 
I politici 
giapponesi 
ritennero che 
questa 
fosse 
l’unica 
linea 
perseguibile 
per 
avviarsi 
alla 
ricostruzione 
del 
Paese, falcidiato dalla 
guerra. In quest’ottica 
la 
legge 
contro 
i 
monopoli 
venne 
vista 
come 
illogica 
da 
molti 
e 
subito 
emendata, 
appena avuta l’opportunità, anche per ritornare ai valori e alle priorità locali. 

La 
conclusione 
ufficiale 
dell’occupazione 
americana, 
nei 
primi 
anni 
Cinquanta 
del 
secolo 
scorso, 
determinò 
un 
cambiamento 
fondamentale 
nei 
rapporti 
tra 
gli 
stessi 
Stati 
Uniti 
ed 
il 
Giappone, 
consentendo, 
di 
fatto, 
alle 
élite 
locali 
di 
poter 
emanare 
proprie 
norme 
regolamentari. 
Infatti, 
fu 
considerato 
fondamentale 
riformare 
l’intera 
normativa 
relativa 
ai 
cartelli 
in 
quanto 
ritenuta 
un 
ostacolo 
alla 
ricostruzione 
del 
Paese 
e 
al 
raggiungimento 
di 
nuovi 
tassi 
di 
crescita 
dell’economia. 
Al 
fine 
di 
eliminare 
l’eccesso 
di 
concorrenza, 
dunque, 
venne 
abrogata 
l’illegalità 
oggettiva 
dei 
cartelli 
e 
vennero 
introdotte 
tutta 
una 
serie 
di 
deroghe 
ed 
esenzioni, 
sia 
implicite 
che 
esplicite, 
concentrate 
in 
settori 
economici 
a 
bassa 
produttività, 
caratterizzati 
da 
piccole 
e 
medie 
imprese. 
Va 
notato 
come 
la 
concessione 
di 
esenzioni 
riflettessero 
il 
processo 
di 
cambiamento 
in 
atto. 
Infatti, 
si 
aveva 
il 
timore 
in 
quella 
fase 
che 
il 
venir 
meno 
delle 
intese 
orizzontali 
avrebbe 
prodotto 
aggiustamenti 
strutturali 
che, 
però, 
rischiavano 
di 
minare 
l’armonia 
e 
la 
stabilità 
sociale. 
In 
questo 
periodo, 
infine, 
il 
modus 
operandi 
della 
JFtC 
si 
indirizzò 
verso 
una 
limitazione 
della 
tutela 
(49). 


In seguito, verso gli 
inizi 
degli 
anni 
Settanta, lo stato di 
adattamento selettivo 
delle 
norme 
antitrust 
cominciò a 
subire 
un’alterazione, a 
causa 
delle 
tantissime 
forze 
in gioco. Innanzitutto, l’inflazione 
prodotta 
dalla 
crisi 
petrolifera 
aveva 
causato un rallentamento della 
crescita 
economica 
del 
Paese 
e 
la 
diffusione 
dei 
cartelli 
venne 
considerata 
come 
una 
conseguenza 
e, allo stesso 
tempo, una 
causa 
della 
recessione 
determinando, quindi, l’effetto di 
delegittimare 
le 
norme 
regolamentari 
locali 
che 
promuovevano 
accordi 
orizzontali. 
L’attività 
della 
JFtC, 
quindi, 
si 
intensificò 
raggiungendo 
il 
suo 
apice 
nel 
1973 
ma 
l’azione 
antitrust 
da 
essa 
attuata 
non fu molto apprezzata 
dalle 
forze 
economiche 
in causa. Nel 
1974, per intenderci, la 
JFtC iniziò un’azione 
penale 
contro un cartello del 
settore 
petrolifero ma 
la 
Corte 
Suprema 
stabilì, invece, 
che 
un accordo restrittivo della 
concorrenza, autorizzato da 
direttive 
o da 
incarichi 
governativi, può trovare 
giustificazione 
anche 
in assenza 
di 
esenzioni 
legislative. Questa 
sentenza 
non definì 
l’importantissima 
questione 
della 
legalità 
della 
guida 
amministrativa 
sui 
cartelli 
ma 
la 
legislazione, per contro, si 
allineò molto presto all’ostilità pubblica e diffusa nei riguardi dei cartelli. 


(49) E. PErUzzo, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


Nel 
1977 
la 
legge 
contro 
i 
monopoli 
fu 
emendata 
allo 
scopo 
di 
permettere 
di 
imporre 
una 
soprattassa 
amministrativa 
nei 
riguardi 
delle 
aziende 
interesse. 
Contemporaneamente, la 
JFtC ridusse 
notevolmente 
il 
numero di 
esenzioni 
esplicite. Con questa 
inversione 
di 
tendenza 
del 
fenomeno la 
spinta 
inflazionaria 
rallentò di 
molto. L’economia 
tornò, di 
fatto, a 
crescere 
parallelamente 
alla diminuzione delle disposizioni 
antitrust. 


Con gli 
inizi 
degli 
anni 
ottanta, però, si 
è 
assistito ad una 
forte 
erosione 
delle 
aspettative 
nei 
riguardi 
del 
modello 
regolamentare 
burocratico 
e, 
soprattutto, 
dell’incoraggiamento 
del 
modello 
competitivo. 
Questo 
perché, 
da 
un 
lato, 
la 
“bolla 
economica” 
scoppiò 
proprio 
a 
causa 
della 
guida 
amministrativa. 
Dall’altro, 
a 
causa 
del 
deficit 
commerciale 
statunitense 
nei 
confronti 
del 
Giappone, 
le 
pratiche 
anticoncorrenziale 
di 
questi 
ostacolarono le 
esportazioni. In 
questo scenario, agli 
inizi 
degli 
anni 
Novanta 
i 
rapporti 
tra 
Giappone 
e 
Stati 
Uniti 
tornarono ad essere 
molto tesi, fino a 
che 
i 
due 
Stati 
non sottoscrissero 
un importante 
accordo commerciale, l’“Iniziativa per 
gli 
Impedimenti 
Strutturali” 
(IIS), 
che 
testimoniò, 
di 
fatto, 
come 
fosse 
cambiato 
il 
rapporto 
di 
forza 
tra 
i 
due 
Paesi 
e 
rappresentando, 
allo 
stesso 
tempo, 
un 
momento 
di 
svolta 
nella 
politica 
antitrust 
giapponese. 
Il 
Giappone, 
infatti, 
al 
fine 
di 
evitare 
rappresaglie 
protezionistiche 
fece 
concessioni 
alla 
pressione 
estera 
in alcune 
aree 
di 
interesse, 
nonostante 
subisse 
anche 
altrettante 
pressioni 
in alcune 
questioni 
di 
politica 
antitrust 
(50). 
L’IIS 
prevedeva 
l’incremento 
delle 
sanzioni 
ai 
cartelli 
oltre 
che 
la 
riduzione 
del 
numero di 
deroghe 
e 
di 
esenzioni 
agli 
stessi, intensificando 
le 
azioni 
di 
tutela 
in 
linea 
con 
l’attività 
che 
la 
JFtC 
intendeva 
attuare 
fin dagli 
inizi 
del 
secolo. L’accordo con gli 
Stati 
Uniti 
ebbe, dunque, il 
merito 
di consolidare la politica concorrenziale giapponese per circa quindici anni. 


Nell’aprile 
del 
2005, infatti, la 
legge 
contro i 
monopoli 
fu ancora 
emendata 
con 
l’innalzamento 
delle 
sanzioni 
assieme 
all’introduzione 
di 
un 
programma 
di 
clemenza, avente 
il 
fine 
di 
incoraggiare 
la 
denuncia 
da 
parte 
dei 
componenti 
il 
cartello. 
Questo 
programma, 
però, 
ha 
sollevato 
diversi 
dubbi 
dal 
punto di 
vista 
valoriale, in quanto il 
concetto di 
trattamento favorevole 
a 
vantaggio del 
denunciato non fu ben visto da 
tutti, giacché 
un programma 
di 
clemenza, all’interno di 
una 
società, come 
quella 
Giapponese, che 
da 
sempre 
incoraggia 
invece 
l’armoniosa 
cooperazione, è 
stato visto dall’opinione 
pubblica 
come 
un controsenso oltre 
che 
contrario al 
concetto di 
etica 
economica. 


La 
cultura 
dell’armonizzazione 
ha 
dominato 
la 
comunità 
economica 
in 
Giappone 
per 
tutti 
gli 
anni 
Sessanta 
e 
Settanta, 
periodo 
che 
la 
JFtC 
aveva 
chiamato “gli 
anni 
bui 
della 
legge 
contro i 
monopoli”. Durante 
il 
periodo di 
crescita 
economica, infatti, venne 
data 
priorità 
a 
considerazioni 
di 
politica 
industriale 
rispetto alla 
politica 
concorrenziale, poiché 
la 
comunità 
economica 
giapponese 
attribuì 
il 
proprio successo economico di 
quegli 
anni 
alla 
politica 


(50) E. PErUzzo, op. cit. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


del 
Ministero 
dell’Industria 
e 
del 
Commercio 
Internazionale 
giapponese 
(MItI) e 
alle 
relazioni 
governative, non lasciando alcun margine 
per l’attuazione 
di vere politiche 
antitrust 
(51). 


oggi 
la 
realtà 
economica 
è 
cambiata 
radicalmente 
anche 
perché 
il 
commercio 
mondiale 
si 
muove 
su larga 
scala 
e 
le 
economie 
più importanti 
sono 
improntate 
sul 
concetto di 
efficienza 
in quanto fondamentale 
per la 
crescita. 
Infatti, efficienza 
e 
stabilità 
sociale 
sono in rapporto inverso, poiché 
quando 
cresce 
la 
prima, diminuisce 
la 
seconda. Quest’incertezza 
ha, da 
sempre, costituito 
uno 
degli 
ostacoli 
maggiori 
all’accoglimento 
della 
politica 
antitrust 
sul 
modello 
occidentale 
all’interno 
del 
sistema 
giapponese. 
Da 
una 
parte 
è 
stata 
determinante 
una 
politica 
che 
ha 
sempre 
inseguito l’efficienza 
del 
mercato, 
e 
dall’altra 
l’attenzione 
del 
sistema 
giapponese 
verso 
la 
stabilità 
è 
ancora 
oggi 
una 
costante 
evidente 
in 
moltissimi 
aspetti 
della 
vita 
commerciale 
del 
Paese, 
come 
dimostrato 
dalla 
diffusione 
dell’impegno 
a 
vita, 
dall’instaurazione 
di 
relazioni 
durevoli 
con acquirenti 
e 
fornitori, la 
frequenza 
delle 
partecipazioni 
incrociate tra colossi aziendali e le caratteristiche del sistema bancario. 


Per 
trovare 
il 
giusto 
equilibrio 
tra 
questi 
due 
aspetti 
la 
JFtC 
sta 
provando 
a 
realizzare 
un ulteriore 
step 
in avanti 
nella 
politica 
antitrust, anche 
se 
questo 
ancora 
suscita 
malumore 
e 
frizioni 
nel 
mondo degli 
affari. La 
cultura 
dell’armonizzazione 
che 
per secoli 
ha 
dominato l’economia 
giapponese 
ha 
dovuto 
combattere 
per superare 
lo shock 
culturale 
scatenato dall’approccio verso una 
cultura 
(e 
una 
politica) della 
concorrenza. ogni 
cultura 
nuova 
necessità 
di 
un 
periodo per affermarsi 
e 
il 
Giappone, inteso come 
comunità 
economica, è 
ancora 
nel vivo di questo mutamento. 


6. Diritto antitrust in altre esperienze giuridiche. 
Nell’ordinamento italiano il 
diritto antitrust 
fu introdotto nel 
1990, con 
enorme 
ritardo rispetto a 
quanto previsto dal 
trattato di 
roma 
nel 
1957 e 
in 
confronto ad altri 
Paesi 
europei. tale 
ritardo può trovare 
spiegazioni 
sia 
dal 
punto di 
vista 
politico che 
istituzionale 
e 
culturale, tutti 
aspetti 
che 
hanno favorito 
l’atteggiamento ostile 
del 
nostro paese 
verso un riassetto del 
mercato, 
dell’iniziativa 
economica 
privata 
e 
della 
concorrenza. 
Infatti, 
dopo 
il 
Secondo 
conflitto mondiale 
nel 
nostro Paese 
si 
è 
assistito ad un sempre 
più aggressivo 
intervento 
statale 
nell’economia 
nazionale 
attraverso 
imprese 
pubbliche 
e 
partecipazioni 
dirette 
dello Stato, dando vita 
a 
posizioni 
dominanti 
e 
comportamenti 
monopolistici 
nei 
mercati 
in 
cui 
operavano, 
sotto 
il 
controllo 
e 
l’influenza costante del potere politico. 


All’inizio, l’atteggiamento dei 
partiti 
ispirati 
dal 
socialismo e 
dal 
comunismo 
era 
naturalmente 
ostile 
all’introduzione 
di 
un 
libero 
mercato. 
Col 
tempo, 
però, 
questa 
ostilità 
si 
attenuò 
pian 
piano, 
propendendo 
verso 
uno 
sviluppo 


(51) E. PErUzzo, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


programmato dell’economia 
basata, però, sull’autoregolamentazione 
propria 
del 
mercato 
stesso. 
I 
cattolici, 
invece, 
avevano 
due 
visioni 
contrapposte 
in 
merito. 
Da 
un lato vi 
era 
la 
corrente 
guidata 
da 
Luigi 
Sturzo che 
credeva 
fortemente 
nella 
possibilità 
di 
una 
convivenza 
tra 
obiettivi 
di 
solidarietà 
e 
dinamiche 
di 
mercato, 
dall’altro 
quella 
legata 
al 
pensiero 
di 
Giuseppe 
Dossetti, 
convinto che 
solo un importante 
intervento pubblico che 
regolasse 
e 
controllasse 
il 
mercato 
poteva 
permettere 
l’attuazione 
di 
appropriate 
politiche 
sociali. 
L’influenza 
del 
pensiero liberale 
in Italia 
fu meno influente 
che 
in Gran Bretagna 
o in Germania; 
quindi, nel 
nostro Paese 
ebbe 
vita 
facile 
l’idea 
che 
solo 
l’intervento pubblico nell’economia 
nazionale 
potesse 
attuare 
miglioramenti 
importanti del benessere collettivo. 


Questi 
orientamenti 
politici 
e 
culturali 
erano già 
presenti 
nella 
Carta 
costituzionale. 
Infatti, nell’art. 41 della 
Costituzione 
troviamo una 
disposizione 
a 
tutela 
della 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
dando 
l’idea 
che 
i 
nostri 
padri 
costituenti 
propendessero verso il 
liberismo economico, anche 
se 
proseguendo 
attentamente 
la 
lettura 
del 
su citato articolo esso, in realtà, parla 
di 
tutela 
condizionata 
all’utilità 
sociale, 
prevedendo 
anche 
la 
possibilità 
di 
essere 
programmata 
e 
controllata 
(dallo 
Stato). 
In 
questo 
contesto, 
dunque, 
era 
quasi 
impossibile 
affermare 
l’esigenza 
di 
una 
normativa 
a 
tutela 
della 
concorrenza, 
visto 
che 
quest’ultima 
era 
vista 
più 
come 
un 
ostacolo 
all’iniziativa 
economica 
privata che come risultato di una libera interazione delle imprese. 


A 
far pendere 
la 
bilancia 
verso l’attuazione 
di 
una 
legislazione 
che 
tutelasse 
sia 
il 
buon 
andamento 
del 
mercato 
che 
la 
libera 
concorrenza 
tra 
operatori 
economici 
fu, intorno agli 
anni 
ottanta, la 
necessità 
sempre 
più impellente 
di 
integrare 
l’economia 
italiana 
a 
quella 
della 
Comunità 
europea, 
adeguando 
i 
cardini 
istituzionali 
nostrani 
alle 
linee 
guida 
della 
Comunità, 
limitando 
ad 
esempio 
l’intervento 
statale 
nell’economia, 
uno 
dei 
cardini 
per 
lo 
sviluppo 
del 
mercato unico europeo. Ecco, dunque, che 
il 
Parlamento italiano approvò, il 
10 ottobre 
1990, la 
legge 
n. 287, “Norme 
per 
la tutela della concorrenza e 
del 
mercato” 
la 
quale 
ha 
istituito 
anche 
l’Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del Mercato, avente tre missioni da perseguire: 


-l’applicazione 
di 
regole 
nazionali 
antitrust 
che 
vietassero intese 
restrittive 
della concorrenza e l’abuso di posizione dominante; 
-il 
controllo 
preventivo 
delle 
operazioni 
di 
concentrazione, 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
queste 
determinassero una 
riduzione 
importante 
e 
duratura 
della 
concorrenza 
all’interno dei relativi mercati; 


-promuovere 
la 
concorrenza, 
segnalando 
al 
Parlamento, 
al 
Governo 
e 
alle 
Amministrazioni 
interessate 
i 
casi 
in cui 
le 
regole 
vigenti 
e/o quelle 
in via 
di 
attuazione 
potessero comportare 
distorsioni 
non giustificate 
da 
esigenze 
di 
interesse generale all’interno del mercato. 


Su 
questa 
linea 
politica 
ha 
fortemente 
inciso 
la 
crisi 
politica 
registrata 
proprio agli 
inizi 
degli 
anni 
Novanta 
con la 
nota 
vicenda 
“tangentopoli” 
che 



rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


ha 
determinato 
uno 
strappo, 
insanabile 
per 
anni, 
nel 
rapporto 
di 
fiducia 
tra 
istituzioni 
e 
popolo. In questo senso, si 
è 
sentita 
molto la 
necessità 
di 
scindere 
le 
dinamiche 
di 
mercato 
dall’ingerenza 
totale 
dello 
Stato, 
visto 
agli 
occhi 
di 
tutti 
incapace 
di 
gestire 
le 
forti 
innovazioni 
che 
avevano migliorato tutti 
gli 
altri 
Stati europei (52). 


La 
politica 
in 
tema 
di 
diritto 
antitrust 
della 
Comunità 
europea 
e 
dei 
suoi 
partner 
commerciali 
è 
fortemente 
basata 
sulla 
cooperazione 
regionale. 
In 
tal 
senso, 
va 
sottolineato 
l’impegno 
degli 
Stati 
dell’Unione 
ad 
esportare 
il 
modello 
di 
concorrenza 
del 
trattato 
CE 
nelle 
norme 
sulla 
concorrenza 
dello 
SEE 
e 
degli 
Accordi 
europei 
oltre 
che 
il 
modello 
elaborato 
di 
cooperazione 
adottato 
all’interno 
dello 
stesso 
SEE, 
il 
quale 
ha 
comportato 
libero 
scambio 
di 
informazioni 
tra 
l’organo 
di 
Sorveglianza 
dell’EFtA 
e 
la 
Commissione 
Europea 
nell’ambito 
di 
controversie 
che 
interessano 
entrambi 
questi 
organismi. 
In 
virtù 
di 
ciò, 
ognuno 
di 
essi 
può esprimere 
opinioni 
su procedimenti 
condotti 
dall’altro. A 
questo 
scopo 
un 
Protocollo 
allegato 
all’Accordo 
ha 
previsto 
deroghe 
ben 
specifiche 
agli 
abituali 
criteri 
della 
riservatezza 
dell’informazione 
nei 
casi 
antitrust. 


Con 
l’ingresso 
nell’Unione 
Europea 
di 
Austria, 
Svezia 
e 
Finlandia 
si 
è 
notevolmente 
ristretta 
la 
portata, dal 
punto di 
vista 
pratico, di 
queste 
disposizioni 
anche 
se 
esse 
non sono state 
private 
del 
loro valore 
come 
modello per 
futuri accordi di cooperazione. 


riguardo 
ai 
Paesi 
dell’Europa 
centro-orientale 
la 
cooperazione 
è 
sancita 
ai 
sensi 
delle 
norme 
attuative 
degli 
Accordi 
europei. 
La 
Commissione 
assieme 
alle 
autorità 
antitrust 
nazionali 
dei 
singoli 
paesi 
attuano 
programmi 
di 
azioni 
congiunte 
che 
hanno 
il 
fine 
di 
creare 
sistemi 
di 
scambio 
di 
informazioni 
reciproche. 
Le 
autorità 
competenti 
in 
materia 
di 
antitrust 
si 
impegnano 
a 
comunicare 
tra 
loro 
in 
maniera 
vicendevole 
i 
casi 
di 
cui 
si 
stanno 
occupando 
e 
che 
interessano 
anche 
l’altra 
autorità 
e 
ognuna 
di 
esse 
si 
impegna, 
allo 
stesso 
tempo, 
a 
tener 
conto 
delle 
osservazioni 
dell’altra 
e 
alla 
possibilità 
di 
incontrarsi 
per 
discutere 
e 
trovare 
eventualmente 
una 
soluzione 
conveniente 
ad 
entrambi. 
A 
questo 
sistema 
di 
reciproco 
scambio 
di 
informazioni 
sono 
previste 
anche 
eccezioni, 
naturalmente. 
Soprattutto 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
divulgazione 
sia 
vietata 
per 
legge 
o 
sia 
incompatibile 
con 
i 
rispettivi 
interessi 
delle 
autorità 
in 
causa 
(53). 


In russia 
verso la 
fine 
degli 
anni 
Novanta 
del 
secolo scorso l’abolizione 
dei 
monopoli 
di 
stato 
e 
la 
conseguente 
creazione 
di 
un 
mercato 
concorrenziale 
sono 
state 
accompagnate 
da 
una 
forte 
crisi 
economica. 
La 
dinamica 
dei 
prezzi, 
l’inflazione, 
i 
mancati 
pagamenti 
ed 
il 
crollo 
produttivo 
hanno 
costituito 
lo 
scenario in base 
al 
quale 
la 
russia 
ha 
perseguito negli 
ultimi 
anni 
una 
politica 
antitrust. 
Questo, 
però, 
ha 
comportato 
limitazioni 
importanti, 
in 
quanto 
è 
stato 


(52) A. CAtrICALà, A. LALLI, L’antitrust in Italia. Il nuovo ordinamento, Giuffrè Editore, 2010. 
(53) C.D. EhLErMANN, Il dibattito sulla sussidiarietà nel diritto della concorrenza, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


impossibile 
garantire 
una 
sana 
concorrenza 
nell’immediato 
all’interno 
di 
un’economia 
zoppicante. Il 
Comitato antitrust 
russo si 
è 
venuto a 
trovare 
in 
una 
situazione 
alquanto complessa 
innanzitutto perché 
i 
ministeri 
e 
i 
dipartimenti 
hanno accolto con sospetto una 
struttura 
dagli 
ampi 
poteri 
nei 
riguardi 
di 
monopoli 
industriali 
e 
dipartimentali. 
Gli 
ambienti 
imprenditoriali, 
poi, 
hanno assunto un atteggiamento a 
dir poco indifferente 
verso la 
legislazione 
antitrust, preoccupati 
soltanto dell’accumulo di 
capitali 
senza 
tener in alcun 
conto 
l’attuazione 
di 
metodi 
“civili” 
da 
seguire 
operando 
sul 
mercato, 
sia 
quello dei beni che quello finanziario. 


Con 
lo 
sviluppo 
del 
federalismo 
le 
repubbliche, 
le 
regioni 
e 
i 
territori 
della 
Federazione 
russa 
nel 
passato 
sono 
stati 
sottoposti 
a 
riforme 
economiche 
ottenendo 
un’indipendenza 
economica 
di 
rilievo. 
In 
questo 
contesto 
i 
casi 
di 
restrizione 
della 
concorrenza 
da 
parte 
del 
potere 
pubblico 
sono 
raddoppiati. 
Il 
sistema 
delle 
licenze 
globali 
concesse 
alle 
imprese 
dalle 
autorità 
statali 
ha 
innalzato 
ancor 
più 
le 
già 
elevate 
barriere 
amministrative 
che 
ostacolavano 
le 
imprese 
private. 
Nonostante 
l’adozione 
di 
una 
normativa 
sulla 
concessione 
delle 
licenze 
per 
attività 
di 
determinato 
tipo, 
avente 
il 
fine 
di 
semplificare 
il 
procedimento 
per 
il 
rilascio 
delle 
stesse 
licenze, 
in 
molte 
regioni 
tuttora 
è 
in 
corso 
il 
ripristino 
del 
sistema 
delle 
licenze 
globali 
e 
di 
regolamentazione 
delle 
imprese 
private. 
La 
mancanza 
di 
una 
base 
legislativa 
e 
di 
un 
sistema 
inerente 
agli 
atti 
legittimi 
federali 
hanno 
causato 
nelle 
province 
russe 
il 
dilagare 
di 
attività 
spontanee 
per 
la 
concessione 
di 
licenze 
dal 
carattere 
prettamente 
burocratico 
e 
fiscale. 


Con la 
conclusione 
della 
fase 
della 
privatizzazione 
e 
la 
creazione 
di 
un 
mercato 
azionario 
le 
operazioni 
su 
titoli 
azionari 
si 
sono 
diffuse 
talmente 
tanto 
da 
rendere 
necessario 
l’ampliamento 
delle 
funzioni 
del 
Comitato 
antitrust, 
precisando giuridicamente, inoltre, le 
norme 
di 
controllo al 
fine 
di 
evitare 
la 
monopolizzazione 
dell’economia. Il 
tutto, va 
sottolineato, tenendo conto del-
l’esperienza 
globale 
nel 
campo 
del 
controllo 
delle 
concentrazioni, 
obiettivo 
prioritario della politica 
antitrust 
russa dal 1995 in avanti (54). 


La 
legge 
cardine 
sulla 
concorrenza 
in russia 
è 
la 
n. 135-Fz 
del 
26 luglio 
2006. 
Va 
detto, 
però, 
che 
il 
concetto 
di 
concorrenza 
sleale 
in 
questa 
normativa 
è 
molto più ristretto rispetto alla 
nozione 
prevalente 
negli 
ordinamenti 
occidentali. 
ogni 
atto di 
concorrenza 
sleale, come 
definito dalla 
legge 
russa, costituisce 
un 
illecito 
amministrativo 
soggetto 
all’accertamento 
dell’Autorità 
Federale 
Antimonopolio. Il 
procedimento amministrativo è 
il 
mezzo più utilizzato 
e 
più 
efficace 
per 
la 
tutela 
della 
concorrenza 
sleale 
ma 
determina, 
come 
conseguenza, che 
dovrà 
attendersi 
prima 
l’accertamento dell’illecito da 
parte 
dell’autorità 
antitrust 
per agire, poi, in giudizio al 
fine 
di 
ottenere 
il 
risarcimento 
dei danni determinati da un atto di concorrenza sleale (55). 


(54) E.M. FoX, Accesso ai 
mercati, antitrust 
e 
sistema economico mondiale: in cammino verso 
misure antitrust connesse agli scambi commerciali. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


Nel 
Continente 
Americano, 
invece, 
i 
problemi 
relativi 
al 
diritto 
della 
concorrenza 
sono affrontati 
dall’Accordo per il 
libero scambio del 
Nord America 
(il 
NAFtA), 
il 
quale 
contiene 
numerose 
norme 
che 
esortano 
ogni 
paese 
membro 
a 
cooperare 
con gli 
altri 
su questioni 
attinenti 
all’applicazione 
delle 
leggi 
sulla 
concorrenza 
oltre 
ad obbligare 
sia 
le 
imprese 
statali 
che 
quelle 
private, 
in posizione 
di 
monopolio, a 
non servirsi 
del 
potere 
dato dalla 
loro posizione 
nel 
mercato per attuare 
pratiche 
concorrenziali 
scorrette 
in mercati 
non monopolistici 
fuori 
dal 
proprio paese. Il 
NAFtA 
ha 
istituito anche 
un comitato 
allo scopo di 
esaminare 
la 
connessione 
tra 
politiche 
commerciali 
e 
politiche 
concorrenziali, con l’obiettivo di 
gettare 
basi 
per un futuro coordinamento di 
queste politiche tra Stati Uniti, Canada e Messico (56). 


oltre 
a 
questi 
impegni 
a 
livello continentale, sono state 
adottate 
diverse 
iniziative 
bilaterali. 
Ad 
esempio, 
Stati 
Uniti 
e 
Giappone 
stanno 
esaminando 
insieme 
questioni 
legate 
alla 
concorrenza, in riferimento in particolare 
al 
sistema 
giapponese 
del 
“keiretsu” 
nell’ambito 
dell’Iniziativa 
relativa 
agli 
impedimenti 
strutturali. Con tokyo anche 
la 
Commissione 
Europea 
ha 
avviato 
una 
politica 
di 
cooperazione 
in 
tema 
di 
diritto 
antitrust, 
organizzando 
incontri 
bilaterali 
informali 
nei 
quali 
esaminare 
argomenti 
di 
interesse 
comune 
e 
scambiarsi 
opinioni. 
Modalità 
di 
cooperazione 
dello 
stesso 
tipo 
la 
Commissione 
ha 
avviato anche con Australia, Nuova zelanda e Canada. 


Con 
quest’ultimo 
Stato, 
in 
particolare 
con 
il 
“Canadian 
Bureau 
of 
Competition 
Policy”, 
all’interno 
del 
“Mutual 
Legal 
Assistance 
Treaty” 
(MLAt) 
stipulato 
tra 
Stati 
Uniti 
e 
Canada 
inizialmente 
sulla 
materia 
penale, 
il 
governo 
di 
washington 
ha 
ottenuto 
risultati 
importantissimi 
su 
due 
casi 
di 
cartelli 
internazionali 
per 
la 
determinazione 
dei 
prezzi, 
che 
coinvolgevano 
imprese 
sia 
statunitensi 
che 
canadesi 
e 
creavano 
ripercussioni 
negative 
sui 
consumatori 
di 
entrambi 
i 
Paesi. 
Stati 
Uniti 
e 
Canada 
non 
hanno 
attuato 
una 
semplice 
cooperazione 
ma 
un 
vero 
e 
proprio 
coordinamento 
delle 
attività 
applicative 
tra 
i 
due 
rispettivi 
organismi 
preposti 
alla 
concorrenza. 
oltre 
al 
MLAt 
i 
governi 
dei 
due 
paesi 
nordamericani 
hanno 
stipulato 
anche 
un 
accordo 
che 
riguardava 
l’applicazione 
delle 
rispettive 
leggi 
sulle 
pratiche 
commerciali 
ingannevoli 
(57). 


In Cina, la 
legge 
antimonopolio è 
stata 
promulgata 
il 
30 agosto 2007 ma 
l’ultima 
revisione 
è 
entrata 
in vigore 
il 
1° 
agosto 2022. Questa 
legge, contenente 
ben 
70 
articoli, 
punta 
a 
prevenire 
e, 
soprattutto 
a 
reprime 
comportamenti 
monopolistici 
tutelando 
la 
concorrenza 
leale 
del 
mercato. 
Essa 
si 
applica 
anche 
a 
comportamenti 
fuori 
dalla 
Cina 
che 
mirano a 
eliminare 
o, comunque, a 
li


(55) C. MArtINEttI, M. GIorCELLI, Russia: la nuova Corte 
Specializzata delle 
Proprietà Industriale, 
6 febbraio 2013 in www.mglobale.promositalia.camcom.it 
(56) C.D. EhLErMANN, 
op. cit. 
(57) C.D. EhLErMANN, op. cit. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


mitare 
la 
concorrenza 
nel 
mercato 
interno. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
56 
di 
questa 
legge, 
gli 
organizzatori 
o i 
facilitatori 
di 
accordi 
di 
monopolio sono sottoposti 
alle 
disposizioni 
sulle 
sanzioni 
contro gli 
operatori 
e, per questo, si 
assumono le 
responsabilità 
legali 
del 
caso. Nel 
caso in cui 
l’impresa 
tenga 
un comportamento 
monopolistico, determinando un danno verso altri, il 
danneggiato può 
costituirsi 
parte 
civile. 
Se, 
per 
contro, 
un’impresa 
tiene 
un 
comportamento 
monopolistico 
causando 
un 
danno 
all’interesse 
pubblico, 
la 
procura 
del 
popolo, 
a 
livello 
comunale 
o 
superiore, 
può 
intentare 
causa 
civile 
di 
pubblico 
interesse 
davanti al 
tribunale del Popolo (58). 


La 
legge 
su 
citata 
ha 
istituito 
anche 
la 
Commissione 
antimonopolio 
avente 
la 
funzione 
di 
organizzazione, coordinamento e 
guida 
del 
lavoro contro i 
monopoli, 
mentre 
le 
autorità 
antitrust 
che 
hanno 
l’incarico 
di 
far 
applicare 
la 
legge 
comprendono 
il 
MoFCoM, 
la 
NDrC 
e 
la 
SAIC. 
La 
compresenza 
di 
ben tre 
autorità 
antitrust 
ha 
generato non poche 
problematiche 
di 
sovrapposizione 
nello scegliere, in particolare, quali 
fra 
queste 
dovesse 
farsi 
carico di 
un 
caso. La 
legge, inoltre, ha 
stabilito anche 
le 
modalità 
di 
indagine 
riguardo ad 
un’azienda 
sospettata 
di 
aver 
attuato 
comportamenti 
atti 
a 
danneggiare 
la 
concorrenza 
nei 
mercati 
e 
le 
conseguenze 
che 
scaturiscono dall’accertamento di 
tale violazione. 

Lo State 
Administration for 
Market 
Regulation 
(SAMr) è 
responsabile, 
a 
tutti 
i 
livelli, di 
indagare 
ed imporre 
sanzioni 
agli 
operatori 
resisi 
rei 
di 
atti 
di 
concorrenza 
sleale. 
Coloro 
che 
hanno 
subito 
violazione 
dei 
propri 
diritti 
possono anche 
intentare 
una 
causa 
contro tali 
operatori. Il 
governo cinese 
può 
recarsi 
presso 
l’ufficio 
di 
questi 
ultimi 
per 
effettuare 
indagini, 
informarsi 
sugli 
interessati, controllare 
i 
documenti, sequestrare 
proprietà 
e/o conti 
bancari 
e 
se 
l’atto che 
ha 
violato il 
diritto altrui 
costituisce 
reato può anche 
essere 
perseguito 
penalmente. 


L’applicazione 
della 
legge 
antimonopolio 
cinese 
è 
di 
competenza 
del-
l’Amministrazione 
statale 
per 
la 
regolamentazione 
del 
mercato. 
Il 
“Quotidiano 
del 
Popolo”, di 
recente, ha 
scritto come, tra 
il 
2008 ed il 
2018, questa 
legge 
abbia generato oltre undici miliardi di rMB di sanzione. 


Il 
24 
giugno 
2022, 
come 
accennato, 
la 
Cina 
ha 
ulteriormente 
revisionato 
la 
propria 
normativa 
antitrust. 
Questa 
modifica, 
oltre 
ad 
essere 
il 
primo 
emendamento 
da 
quando 
esiste 
la 
legge, 
ha 
fornito 
un 
importante 
chiarimento 
normativo 
sulle 
operazioni, 
soprattutto, 
dei 
giganti 
della 
tecnologia 
sul 
loro 
esponenziale 
aumento 
di 
potere 
sul 
mercato 
del 
Paese. 
Infatti, 
siccome 
l’economia 
digitale 
rappresenta 
un 
importante 
motore 
nello 
sviluppo 
cinese, 
la 
nuova 
legge 
antimonopolio 
ha 
prestato 
attenzione 
alle 
politiche 
preventive 
delle 
pratiche 
anticoncorrenziali 
da 
parte 
dei 
colossi 
digitali. 
La 


(58) S. hUANG, Legge 
anti-monopolio della Cina 
(2022), 16 novembre 
2022 in www.it.chinajusticeobserver.
com 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


vecchia 
legge, 
in 
vigore 
per 
circa 
un 
decennio, 
non 
era 
stata 
pensata 
per 
fronteggiare 
l’evoluzione 
dei 
giganti 
di 
questo 
settore 
e, 
per 
questo 
motivo, 
presentava 
importanti 
lacune. 
Allo 
scopo 
di 
tutelare 
la 
concorrenza 
e 
gli 
stessi 
consumatori 
su 
dati, 
algoritmi 
e 
tecnologie 
all’interno 
di 
piattaforme 
digitali, 
c’è 
stato 
bisogno 
di 
creare 
regole 
distinte 
e 
ben 
chiare 
per 
prevenire 
comportamenti 
scorretti 
da 
parte 
delle 
società 
dominanti 
nel 
settore. 
Negli 
ultimi 
anni, 
infatti, 
l’autorità 
antitrust 
cinese 
ha 
svolto 
numerosissime 
indagini 
sulle 
operazioni 
delle 
grandi 
piattaforme 
nazionali. 
Sono 
stati 
sanzionate 
“Alibaba”, 
azienda 
multinazionale 
cinese 
specializzata 
in 
e-commerce 
e 
servizi 
internet, 
per 
aver 
attuato 
accordi 
di 
esclusiva 
con 
i 
commercianti, 
tencent 
(fornitore 
di 
servizi 
per 
l’intrattenimento, 
mass 
media, 
telefonia 
e 
per 
aver 
sviluppato 
“Wechat”, 
app 
di 
messaggistica 
e 
social 
network) 
per 
non 
aver 
segnalato 
alcune 
sue 
transazioni, 
e 
“Meituan” 
(piattaforma 
cinese 
per 
acquisto 
di 
prodotti 
di 
consumo 
e 
di 
vendita 
al 
dettaglio) 
per 
aver 
sfruttato 
dati 
e 
algoritmi 
dei 
commercianti. 


Il 
nuovo 
emendamento 
non 
revisiona, 
però, 
completamente 
la 
normativa 
in 
materia 
antitrust 
ma 
si 
va 
ad 
aggiungere 
agli 
standard 
già 
esistenti 
per 
la 
determinazione 
del 
dominio 
o 
dell’abuso 
di 
posizione 
dominante 
sul 
mercato, 
recando 
disposizioni 
mirate 
alle 
azioni 
intraprese 
dalle 
aziende 
digitali. 
In 
particolare, 
la 
nuova 
legge 
prevede 
dei 
principi 
generali 
che 
vietano 
alle 
società 
di 
utilizzare 
dati, 
algoritmi, 
tecnologia 
e 
vantaggi 
di 
capitale 
e 
regola 
queste 
piattaforme 
nell’intraprendere 
comportamenti 
anticoncorrenziali, 
indipendentemente 
se 
tali 
imprese 
possano 
essere 
definite 
o 
meno 
dominanti 
nel 
mercato. 
A 
tal 
proposito, 
in 
realtà, 
la 
legge 
specifica 
come 
una 
società 
può 
essere 
definita 
“dominante” 
quando 
ha 
abusato 
della 
sua 
posizione 
sul 
mercato 
allo 
scopo 
di 
danneggiare 
la 
concorrenza 
utilizzando 
dati, 
tecnologia 
e 
algoritmi. 


Questo 
recente 
emendamento 
della 
legge 
antitrust 
cinese 
ha 
determinato 
anche 
che 
il 
controllo 
sulle 
attività 
delle 
grandi 
piattaforme 
digitali 
sia 
stato 
implementato 
stabilmente, 
vietando 
sempre 
l’uso 
della 
tecnologia 
per 
attuare 
comportamenti 
monopolistici. 
Questa 
modifica 
ha 
gettato 
le 
basi 
per 
un 
sano 
regime 
concorrenziale, 
i 
cui 
principi 
dovranno 
essere 
applicati, 
però, 
in 
maniera 
equa 
tra 
le 
diverse 
imprese, 
sia 
interne 
che 
estere, 
sui 
controlli 
delle 
fusioni 
societarie 
e 
sulle 
problematiche 
di 
condotta 
aziendale, 
integrandosi 
con 
altre 
regolamentazioni 
emanate 
dall’Autorità 
competente 
in 
materia, 
il 
SAMr 
(59). 


Ai 
sensi 
della 
legge 
cinese 
le 
autorità 
di 
regolamentazione 
antimonopolio 
hanno il 
potere 
di 
indagare 
e 
valutare 
lo stato generale 
della 
concorrenza 
all’interno 
del 
mercato e 
rilasciare 
rapporti 
di 
valutazione, e 
le 
agenzie 
ammi


(59) 
C. 
D’ANDrEA, 
La 
nuova 
era 
dell’antitrust 
in 
Cina, 
22 
agosto 
2022 
in 
www.panorama.it/economia. 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


nistrative 
hanno il 
compito di 
condurre 
una 
revisione 
della 
concorrenza 
leale 
al 
fine 
di 
valutare 
l’impatto 
sulla 
concorrenza 
e 
prevenire 
qualsiasi 
tipo 
di 
preclusione 
o di 
restrizione 
della 
concorrenza 
nello sviluppo delle 
loro politiche. 
Gi 
uffici 
preposti 
a 
tale 
controllo, le 
riunioni 
congiunte 
del 
governo a 
tutti 
i 
livelli 
e 
le 
autorità 
decisionali 
possono 
anche 
avvalersi 
di 
istituzioni 
di 
terze 
parti 
per 
valutare 
l’attuazione 
del 
sistema 
di 
controllo 
della 
concorrenza 
leale, 
le 
politiche 
e 
le 
misure 
pertinenti 
di 
controllo 
della 
concorrenza 
leale 
nelle 
varie 
regioni 
o 
dipartimenti, 
preparando 
anche 
rapporti 
valutativi 
per 
agevolare 
i vari dipartimenti governativi nelle loro decisioni finali (60). 


Il 
10 marzo dello scorso anno il 
SAMr ha 
emesso “Disposizioni 
sul 
divieto 
di 
atti 
di 
eliminazione 
o restrizione 
della 
concorrenza 
mediante 
abuso di 
poter amministrativo” 
le 
quali, in particolare, hanno sancito come 
le 
autorità 
amministrative 
e 
le 
organizzazioni 
autorizzate 
alla 
gestione 
della 
cosa 
pubblica 
non 
possano, 
direttamente 
o 
velatamente, 
impedire 
a 
chiunque 
di 
commerciare, 
acquistare 
o utilizzare 
beni 
o servizi 
forniti 
dai 
loro operatori 
designati 
attuando, 
di 
fatto, 
un 
abuso 
del 
proprio 
potere 
amministrativo. 
Nel 
caso 
le 
forze 
antimonopolio 
ritengano 
che 
vi 
siano 
atti 
di 
eliminazione 
o 
di 
restrizione 
della 
concorrenza 
a 
seguito di 
abuso di 
potere 
amministrativo, esse 
possono 
segnalare 
i 
casi 
in 
questione 
all’autorità 
competente 
di 
livello 
superiore. 
Se 
nel 
corso 
delle 
indagini 
l’entità 
sotto 
esame 
ha 
proattivamente 
adottato 
misure 
che 
pongano fine 
agli 
atti 
pertinenti 
ad eliminare 
la 
relativa 
restrizione 
della 
concorrenza, l’autorità può chiudere le indagini (61). 


In questa 
fase 
di 
liberalizzazione 
economica 
anche 
l’India 
ha 
rimosso i 
controlli 
economici 
e 
ha 
aperto la 
sua 
economia. Il 
governo indiano, riconoscendo 
l’era 
della 
liberalizzazione, 
della 
privatizzazione 
e 
della 
globalizzazione, 
ha 
provato 
ad 
aumentare 
la 
produttività 
della 
propria 
economia 
affrontando la concorrenza, sia nazionale che internazionale. 


Dal 
2008 sono stati 
ben centoundici 
i 
Paesi 
che 
hanno promulgato leggi 
sulla 
concorrenza. 
Nell’ambito 
dell’istituzione 
della 
Comunità 
economica 
dell’Associazione 
delle 
Nazioni 
del 
Sud-Est 
Asiatico 
(ASEAN) 
gli 
Stati 
membri 
si sono impegnati a promulgare leggi e politiche sulla concorrenza (62). 

In Australia 
nel 
2017 l’Australian Taxation Office, allo scopo di 
aiutare 
le 
piccole 
imprese 
nell’adempimento 
degli 
obblighi 
fiscali, 
ha 
attuato 
una 
campagna 
per proteggere 
le 
imprese 
oneste 
dalla 
concorrenza 
sleale, partendo da 
quelle 
che 
evadono 
innanzitutto 
il 
fisco. 
Nel 
settembre 
del 
2023 
l’Australia 
ha 
approvato anche 
una 
legge 
a 
sostegno della 
concorrenza 
nella 
liquidazione 


(60) 
Y. 
YIN, 
La 
Cina 
stabilisce 
la 
valutazione 
di 
terze 
parti 
nella 
revisione 
della 
concorrenza 
leale, 25 luglio 2023 in www.it.chinajusticeobserver.com. 
(61) Y. YIN, La Cina regola i 
monopoli 
causati 
dall’abuso del 
potere 
amministrativo, 31 maggio 
2023 in www.it.chinajusticeobserver.com. 
(62) F. SABrY, Diritto della concorrenza. Padroneggiare 
il 
diritto della concorrenza, orientarsi 
nei mercati, responsabilizzare i consumatori, Un Miliardo di Ben Informato Editore, 2024. 

rASSEGNA 
AVVoCAtUrA 
DELLo 
StAto -N. 3/2023 


compensazione 
post-negoziazione 
per 
i 
mercati 
finanziari 
allo 
scopo 
di 
sfidare 
il 
monopolio 
detenuto 
da 
ASX 
ltd., 
piattaforma 
di 
trading, 
per 
aprire 
l’ingresso 
nel 
mercato di 
altri 
operatori. Questa 
riforma 
ha 
consentito alla 
Reserve 
Bank 
of 
Australia 
e 
all’Australian 
Securities 
and 
Investiments 
Commission 
ulteriori 
e 
maggiori 
poteri 
per definire 
gli 
standard operativi 
allo scopo di 
intervenire 
anche sulle controversie riguardo ai prezzi (63). 


Le 
esigenze 
particolari 
dei 
Paesi 
in 
via 
di 
sviluppo 
hanno, 
invece, 
evidenziato 
come 
per questi 
la 
convergenza 
con i 
paesi 
sviluppati 
e 
le 
loro politiche 
sia 
una 
questione 
tutt’altro che 
chiusa. Molti 
dubitano, in questo senso, 
che 
la 
libera 
concorrenza 
sia 
la 
migliore 
soluzione 
per promuovere 
la 
crescita 
economica 
in questi 
Paesi 
e 
portarli 
ad un livello più alto di 
sviluppo e, per 
questo, credono che 
la 
non regolamentazione 
sia 
preferibile 
ad una 
specifica 
regolamentazione 
in 
quanto 
vedono 
la 
retorica 
sul 
libero 
mercato 
e 
gli 
obiettivi 
della 
ricchezza 
aggregata 
e 
del 
benessere 
sociale 
inappropriati 
a 
questo contesto. 
Leggi 
antitrust 
sono viste 
come 
strumento di 
sfruttamento da 
parte 
dei 
paesi 
sviluppati, per via 
della 
tendenza 
delle 
politiche 
di 
libero mercato a 
favorire 
chi è già in una posizione predominante. 

L’esito di 
uno dei 
meeting 
del 
“Forum 
Globale 
per la 
Concorrenza” 
dell’ 
“Organization for 
Economic 
Cooperation and Development” 
(oECD) ha 
risaltato 
ancor più questa 
riluttanza, giacché 
l’assemblea, composta 
da 
funzionari 
provenienti 
da 
più 
di 
trenta 
paesi 
in 
via 
di 
sviluppo, 
nonostante 
l’unanimità 
nell’individuare 
come 
obiettivo primario della 
politica 
della 
concorrenza 
il 
benessere 
ultimo 
dei 
consumatori, 
ha 
mostrato 
anche 
pareri 
di 
Paesi, come 
il 
Sud Africa, che 
hanno esplicitamente 
incorporato nelle 
proprie 
normative 
obiettivi 
non concorrenziali 
mentre 
altri 
Stati, più velatamente, li 
hanno perseguiti in fase di tutela. 


Per 
creare 
un 
mercato 
solido 
c’è 
bisogno 
di 
politiche 
governative 
che 
non 
siano carenti 
e 
di 
funzionari 
non corrotti, tutti 
elementi 
determinanti 
nell’introduzione 
di 
una 
politica 
antitrust 
agli 
stadi 
iniziali, 
in 
quanto 
possono 
essere 
ostacolo 
addirittura 
maggiore 
delle 
intese 
restrittive 
della 
concorrenza. 
Infatti, 
tutti 
i 
paesi 
industrializzati 
hanno adottato norme 
a 
tutela 
della 
concorrenza 
solo 
quando 
erano 
già 
in 
uno 
stadio 
avanzato 
del 
loro 
sviluppo 
economico, 
mentre 
per decenni 
(se 
non secoli) garantire 
efficienza 
e 
concorrenza 
non era 
stato per loro una priorità. 


Secondo alcune 
teorie 
economiche, i 
Paesi 
in via 
di 
sviluppo avrebbero 
più da 
imparare 
non dai 
governi 
di 
oggi 
bensì 
dai 
Paesi 
del 
secolo dell’industrializzazione, 
in 
quanto 
in 
quell’epoca 
i 
cartelli 
erano 
legali, 
o 
dalle 
esperienze 
degli 
anni 
del 
capitalismo 
(dal 
1950 
fino 
ai 
primi 
anni 
Settanta) 
quando 
si 
perseguivano obiettivi 
non economici. Questa 
tesi 
trova 
sostegno in tantis


(63) L’Australia approva una legge 
per 
incoraggiare 
la concorrenza per 
l’operatore 
del 
mercato 
principale 
ASX, 6 settembre 2023 in 
www.it.marketscreener.com 

LEGISLAzIoNE 
ED 
AttUALItà 


simi 
esempi 
di 
Paesi 
che 
hanno visto recentemente 
una 
forte 
crescita 
economica 
interna 
senza 
dotarsi, 
per 
questo 
scopo, 
di 
una 
normativa 
antitrust. 
Si 
pensi 
al 
miracolo 
asiatico, 
dove 
le 
autorità 
garanti 
della 
concorrenza 
in 
Corea, 
taiwan, 
thailandia 
e 
Indonesia 
ostacolano 
una 
sana 
competizione 
legalizzando 
cartelli o fissando il prezzo con interventi governativi diretti (64). 

(64) E. PErUzzo, Paesi 
in via di 
sviluppo e 
concorrenza. Proposte 
per 
un accordo multilaterale, 
5 maggio 2010 in www.filodiritto.com. 

ConTrIbuTIdIdoTTrIna
I beni pubblici. Tipologia e disciplina. Cenni ai beni 


di interesse pubblico, con particolare riguardo ai beni 


collettivi (demanio civico ed immobili con uso civico) 


Michele Gerardo* 


Sommario: 
1. 
Nozione 
soggettiva 
ed 
oggettiva 
di 
beni 
pubblici. 
Problematica 
della 
riconducibilità 
della 
titolarità 
dei 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili 
al 
diritto 
di 
proprietà 
in 
senso 
civilistico 
-2. 
Beni 
del 
patrimonio 
disponibile. 
in 
specie 
i 
beni 
vacanti 
ex 
art. 
827 
c.c. 
anche 
in 
conseguenza 
di 
rinuncia 
del 
titolare. 
Eventuali 
peculiarità 
nella 
disciplina: 
requisiti 
per 
l’acquisto 
e 
per 
l’alienazione 
dei 
beni; 
concorsualità 
nella 
concessione 
del 
godimento 
a 
terzi 
-3. 
Beni 
oggettivamente 
pubblici 
(demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili) 
-4. 
Demanio 
necessario: 
demanio 
marittimo, 
idrico 
e 
militare 
-5. 
Demanio 
accidentale: 
demanio 
stradale, 
autostradale, 
ferroviario, 
aeronautico, 
acquedottistico, 
culturale, 
cimiteri 
e 
mercati. 
-6. 
Diritti 
demaniali 
su 
beni 
altrui: 
diritti 
reali 
demaniali 
su 
beni 
altrui 
(diritti 
di 
superficie; 
servitù 
prediali 
pubbliche) 
e 
diritti 
di 
uso 
pubblico 
(c.d. 
servitù 
di 
uso 
pubblico, 
tra 
cui 
quelle 
sulle 
strade 
vicinali). 
Distinzione 
dalle 
limitazioni 
di 
diritto 
pubblico 
alla 
proprietà 
-7. 
Beni 
patrimoniali 
indisponibili: 
c.d. 
“demanio 
forestale”; 
miniere, 
cave 
e 
torbiere; 
cose 
d’interesse 
storico, 
archeologico, 
paletnologico, 
paleontologico 
e 
artistico, 
da chiunque 
e 
in qualunque 
modo ritrovate 
nel 
sottosuolo; beni 
costituenti 
la dotazione 
della 
Presidenza 
della 
repubblica; 
caserme, 
armamenti, 
aeroplani 
e 
navi 
da 
guerra; 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
di 
tutti 
gli 
enti 
pubblici, 
territoriali 
e 
non 
territoriali, 
con 
i 
loro 
arredi, 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio; 
fauna 
selvatica; 
aree, 
espropriate 
dal 
Comune, 
comprese 
nel 
piano 
di 
zona 
per 
l’edilizia 
economica 
e 
popolare; 
aree 
oggetto 
di 
retrocessione 
acquisite 
dal 
Comune 
mediante 
l’esercizio 
del 
diritto 
di 
prelazione 
-8. 
regime 
giuridico 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici: 
inalienabilità 
dei 
beni 
demaniali 
e 
rispetto 
della 
destinazione 
dei 
beni 
patrimoniali 
indisponibili 
-9. 
Peculiarità 
della 
disciplina 
urbanistica 
ed 
edilizia 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici 
-10. 
regime 
giuridico 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici: 
disciplina 
tributaria 
-11. 
Beni 
oggettivamente 
pubblici 
e 
limitazioni 
a 
terzi 
nei 


(*) Avvocato dello Stato. 



rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


rapporti 
di 
vicinato 
-12. 
Gestione 
dei 
beni 
pubblici 
-13. 
Utilizzazione 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici. 
Uso 
diretto. 
Uso 
indiretto 
(generale 
o 
particolare) 
-14. 
Tutela 
giurisdizionale 
ed 
amministrativa 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici 
-15. 
Vicende 
della 
qualità 
di 
bene 
pubblico: 
acquisto, 
modificazione 
ed 
estinzione 
della 
qualità 
di 
bene 
pubblico 
-16. 
Valorizzazione 
e 
dismissione 
dei 
beni 
appartenenti 
agli 
enti 
pubblici 
-17. 
aspetti 
generali 
dei 
beni 
di 
interesse 
pubblico 
-18. 
Beni 
collettivi. 
Demanio 
civico 
ed 
immobili 
con 
uso 
civico. 
regime 
giuridico. 


1. 
Nozione 
soggettiva 
ed 
oggettiva 
di 
beni 
pubblici. 
Problematica 
della 
riconducibilità 
della 
titolarità 
dei 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili 
al 
diritto 
di proprietà in senso civilistico. 
Sono beni 
pubblici, da 
un punto di 
vista 
soggettivo, i 
beni 
economici 
rectius: 
i 
diritti 
sui 
beni 
-nella 
titolarità 
di 
un 
ente 
pubblico 
(proprietà 
pubblica, 
secondo l’art. 42, comma 
1, Cost.). Vengono in rilievo beni 
demaniali, patrimoniali 
indisponibili e patrimoniali disponibili. 


Sono 
beni 
pubblici, 
da 
un 
punto 
di 
vista 
oggettivo, 
i 
beni 
economici 
rectius: 
i 
diritti 
sui 
beni 
-sottoposti 
ad 
un 
regime 
speciale 
rispetto 
alla 
disciplina 
di 
diritto 
comune. 
Vengono 
in 
rilievo 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili. 
Trattasi 
di 
beni, 
nella 
titolarità 
dell’ente, 
strumentali 
rispetto 
all’esercizio 
dei 
compiti 
affidatigli, 
ossia 
destinati 
ad 
una 
funzione 
o 
servizio 
pubblico 
(1). 


È 
discusso 
se 
la 
titolarità 
dei 
beni 
pubblici 
in 
senso 
oggettivo 
sia 
riconducibile 
al 
diritto 
di 
proprietà 
in 
senso 
civilistico 
ex 
art. 
832 
c.c. 
(secondo 
cui 
la 
proprietà 
consiste 
nel 
diritto 
di 
godere 
e 
disporre 
in 
modo 
pieno 
ed 
esclusivo) 
oppure 
costituisca 
una 
situazione 
soggettiva 
sui 
generis. 
Ad 
una 
tesi 
che 
accoglie 
la 
prima 
alternativa 
se 
ne 
contrappone 
altra 
secondo 
cui 
un 
proprietario, 
un 
dominus 
dei 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili 
non 
v’è, 
giacché 
si 
tratta 
di 
beni 
che 
appartengono 
allo 
Stato 
(o 
altro 
ente 
pubblico) 
che, 
lungi 
dal 
vantare 
la 
proprietà 
dei 
beni, 
li 
amministra 
per 
il 
raggiungimento 
dei 
propri 
scopi 
istituzionali 
(2). 
Per 
quest’ultima 
tesi, 
il 
tratto 
caratterizzante 
della 
nozione 
di 
proprietà 
pubblica 
sta 
non 
tanto 
nel 
contenuto 
del 
diritto 
dominicale, 
quanto, 
nell’elemento 
finalistico, 
ossia 
nella 
destinazione 
del 
bene 
al 
soddisfacimento 
di 
interessi 
pubblici. 
All’uopo 
si 
rileva 
che, 
con 
riguardo 
ai 
beni 
pubblici, 
le 
norme 
del 
codice 
civile 
non 
impiegano 
il 
vocabolo 
“proprietà”, 
cui 
corrisponde 
la 
nozione 
accolta 
dal 
citato 
art. 
832 
c.c., 
bensì 
il 
verbo 
“appartenere” 
(artt. 
822 
e 
824 
c.c.), 
ovvero 
espressioni 
ancor 
più 
generiche 
-“fanno 
parte” 
(art. 
826, 
comma 
2, 
c.c.) 
la 
cui 
valenza 
tecnica 
di 
gran 
lunga 
più 
sfumata 
rimarca 
la 
distinzione 
tra 
il 


(1) 
Per 
un 
quadro 
generale: 
A.M. 
SAndulli, 
voce 
Beni 
pubblici, 
in 
Enc. 
Dir., 
vol. 
V, 
Giuffré, 
1959, 
pp. 277-300; 
V. Cerulli 
irelli, voce 
Beni 
pubblici, in Digesto Disc. Pubbl., vol. ii, uTeT, 1987, pp. 
273-303; n. CenTofAnTi, i beni pubblici. Tutela amministrativa e giurisdizionale, Giuffré, 2007. 
(2) in tal senso Cass., 22 marzo 2018, n. 7152. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


diritto 
di 
proprietà 
nell’accezione 
accolta 
dalla 
citata 
norma 
e 
la 
proprietà 
pubblica 
(3). 


2. 
Beni 
del 
patrimonio 
disponibile. 
in 
specie 
i 
beni 
vacanti 
ex 
art. 
827 
c.c. 
anche 
in conseguenza di 
rinuncia del 
titolare. Eventuali 
peculiarità nella disciplina: 
requisiti 
per 
l’acquisto e 
per 
l’alienazione 
dei 
beni; concorsualità 
nella concessione del godimento a terzi. 
i beni 
del 
patrimonio disponibile 
appartenenti 
ad un ente 
pubblico sono 
sottoposti 
alla 
disciplina 
di 
diritto 
comune 
(4); 
sicché 
sono 
prescrittibili 
ed 
usucapibili 
da 
parte 
dei 
terzi 
secondo le 
norme 
del 
codice 
civile 
(tale 
regola 
era 
espressamente 
sancita 
dall’art. 2114 c.c. del 
1865: 
“Lo Stato pei 
suoi 
beni 
patrimoniali 
e 
tutti 
i 
corpi 
morali 
sono soggetti 
alla prescrizione 
e 
possono 
opporla 
ai 
privati”). 
Vengono 
in 
rilievo: 
terreni, 
costruzioni, 
altri 
immobili 
descritti 
nell’art. 
812 
c.c. 
(5) 
e 
beni 
mobili 
diversi 
dal 
demanio 
e 
dal 
patrimonio 
indisponibile, ossia 
beni 
non destinati 
ad una 
funzione 
o ad un servizio pubblico. 
il 
danaro è 
il 
classico bene 
disponibile, a 
meno che 
la 
legge 
o un provvedimento 
amministrativo 
non 
lo 
destini 
specificamente 
al 
soddisfacimento 
di un interesse pubblico. 


in virtù dell’art. 827 c.c. “i beni 
immobili 
che 
non sono in proprietà di 
alcuno 
spettano 
al 
patrimonio 
dello 
Stato” 
(6). 
l’acquisto 
è 
a 
titolo 
originario. 
la 
fattispecie 
è 
diversa 
dall’acquisto 
dell’immobile, 
compreso 
nell’eredità, 
ex 
art. 
586 
c.c. 
secondo 
cui 
“in 
mancanza 
di 
altri 
successibili, 
l’eredità 
è 
devoluta 


(3) Ancora 
in questo senso Cass., n. 7152/2018 cit. che 
così 
argomenta: 
“Tanto premesso, e 
certo 
senza che 
occorra cimentarsi 
con la nozione 
di 
bene 
pubblico nel 
suo complesso (tema su cui 
può richiamarsi 
Cass., 
Sez. 
Un., 
14 
febbraio 
2011, 
n. 
3665, 
la 
quale 
ha 
declinato 
in 
una 
prospettiva 
di 
massima 
estensione 
la 
nozione 
‘funzionale’di 
bene 
pubblico 
anche 
qui 
rilevante), 
è 
sufficiente 
ora 
osservare 
che, 
rimanendo 
alle 
categorie 
regolate 
dal 
codice 
civile, 
il 
regime 
dei 
beni 
demaniali 
e 
di 
quelli 
patrimoniali 
indisponibili, 
laddove 
ne 
è 
sancita 
l’inusucapibilità, 
l’inalienabilità 
e 
l’inespropriabilità, 
pone 
l’accento 
sul 
carattere 
pubblico dei 
beni 
non tanto in dipendenza della loro titolarità, quanto per 
la natura dei 
poteri 
ad 
essi 
attinenti 
per 
i 
fini 
della 
realizzazione 
del 
pubblico 
interesse: 
sicchè 
si 
discorre 
in 
proposito 
in dottrina, e 
come 
si 
è 
accennato in giurisprudenza, di 
proprietà-funzione, riguardo alla quale, lungi 
dal 
prevalere 
il 
profilo dell’assolutezza del 
diritto, emerge 
semmai 
la doverosità della gestione 
mirata 
al soddisfacimento dell’interesse menzionato”. 
(4) Tanto è 
riconosciuto dall’art. 828, comma 
1, c.c. per il 
quale 
“i beni 
che 
costituiscono il 
patrimonio 
dello 
Stato, 
delle 
province 
e 
dei 
comuni 
sono 
soggetti 
alle 
regole 
particolari 
che 
li 
concernono 
e, in quanto non è 
diversamente 
disposto, alle 
regole 
del 
presente 
codice”. regola 
analoga 
è 
disposta 
dall’art. 830, comma 1, c.c. con riguardo agli enti pubblici non territoriali. 
(5) “Sono beni 
immobili 
il 
suolo, le 
sorgenti 
e 
i 
corsi 
d’acqua, gli 
alberi, gli 
edifici 
e 
le 
altre 
costruzioni, 
anche 
se 
unite 
al 
suolo a scopo transitorio, e 
in genere 
tutto ciò che 
naturalmente 
o artificialmente 
è 
incorporato 
al 
suolo. 
Sono 
reputati 
immobili 
i 
mulini, 
i 
bagni 
e 
gli 
altri 
edifici 
galleggianti 
quando 
sono 
saldamente 
assicurati 
alla 
riva 
o 
all’alveo 
e 
sono 
destinati 
ad 
esserlo 
in 
modo 
permanente 
per la loro utilizzazione. Sono mobili tutti gli altri beni”. 
(6) in alcune regioni a statuto speciale è la regione l’ente titolare dell’immobile vacante. Tanto 
è 
previsto per il 
Trentino-Alto Adige 
(art. 58, ultimo comma, dello Statuto speciale), per la 
Sicilia 
(art. 
34 dello statuto della 
regione 
siciliana), per la 
Sardegna 
(art. 14, ultimo comma, dello Statuto speciale 
per la Sardegna). 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


allo 
Stato”. 
in 
quest’ultima 
evenienza 
l’attribuzione 
allo 
Stato 
avviene 
a 
titolo 
derivativo, iure successionis 
(7). 


la 
vacanza 
nella 
titolarità 
può 
essere 
anche 
la 
conseguenza 
della 
rinuncia 
al 
diritto di 
proprietà 
-fattispecie 
ammissibile 
argomentando da 
una 
serie 
di 
indici 
normativi 
tratti, in particolare, dagli 
artt. 827, 1118, comma 
2 (a 
contrario), 
1350 n. 5 e 
2643 n. 5 c.c. -salva 
la 
illiceità 
della 
causa 
concreta 
della 
rinuncia 
(8). 
la 
rinuncia 
de 
qua 
è 
un 
negozio 
giuridico 
unilaterale, 
a 
contenuto 
patrimoniale, 
non 
recettizio, 
con 
il 
quale 
un 
soggetto, 
il 
rinunciante, 
nell’esercizio 
di 
una 
facoltà, 
produce 
in 
via 
diretta 
e 
immediata, 
come 
effetto 
negoziale 
correlato alla 
dichiarazione, l’effetto dismissivo, abdicativo di 
una 
situazione 
giuridica 
di 
cui 
è 
titolare, rectius 
esclude 
un diritto dal 
suo patrimonio, senza 
che 
ciò 
comporti 
trasferimento 
del 
diritto 
in 
capo 
ad 
altro 
soggetto. 
Gli 
ulteriori 
effetti 
che 
possono anche 
incidere 
sui 
terzi, sono solo conseguenze 
riflesse, 
indirette 
e 
mediate 
del 
negozio rinunziativo, non direttamente 
ricollegabili 
all’intento 
negoziale 
e 
non correlate 
al 
contenuto causale 
dell’atto; 
la 
rinuncia 
abdicativa 
si 
differenzia 
dalla 
rinuncia 
c.d. traslativa 
per la 
mancanza 
del 
carattere 
traslativo-derivativo dell’acquisto in capo al 
terzo e 
per la 
mancanza 
di 
natura 
contrattuale, con la 
conseguenza 
che 
l’effetto in capo al 
terzo si 
produce 
ipso iure, a 
prescindere 
dalla 
volontà 
del 
rinunciante, quale 
mero effetto 
di 
legge, senza 
che 
per il 
suo perfezionamento sia 
richiesto, pertanto, l’intervento 
o l’espressa 
accettazione 
del 
terzo né 
che 
lo stesso debba 
esserne 
notiziato. 
dall’atto 
di 
rinuncia, 
nel 
caso 
di 
specie, 
consegue, 
come 
effetto 
automatico ex 
lege 
in virtù del 
disposto di 
cui 
all’art. 827 c.c., l’acquisto a 
titolo 
originario dell’immobile 
in capo allo Stato, senza 
che 
quest’ultimo possa 
rifiutare 
l’acquisto, 
perché 
il 
nostro 
ordinamento 
non 
tollera 
l’esistenza 
di 
beni 


(7) Conf. Cass., 11 marzo 1995, n. 2862 secondo cui 
il 
disposto dell’art. 586 c.c., ove 
è 
previsto 
l’acquisto dell’eredità 
da 
parte 
dello Stato in caso di 
assenza 
di 
successibili, configura 
un’ipotesi 
di 
acquisto 
“iure 
successionis” 
a 
titolo derivativo; 
con la 
precisazione 
che 
detta 
norma 
non è 
una 
specificazione 
del 
fenomeno 
di 
acquisto 
a 
titolo 
originario 
contemplato 
all’art. 
827 
c.c. 
in 
materia 
di 
beni 
immobili vacanti ma configura una fattispecie di natura diversa. 
(8) Ex 
plurimis: 
T.a.r. lombardia, Milano, 18 dicembre 
2020, n. 2553, il 
quale 
rileva 
che 
-nella 
situazione 
concreta 
-le 
rinunce 
potrebbero essere 
viziate 
da 
nullità: 
“Nella fattispecie, la circostanza 
che 
gli 
atti 
di 
rinuncia, come 
evidenziato nella ricostruzione 
in fatto, siano stati 
posti 
in essere 
dai 
proprietari 
dell’edificio pericolante 
soltanto dopo che 
il 
Comune 
aveva notificato loro un’ordinanza contingibile 
e 
urgente, con la quale 
si 
ordinava la messa in sicurezza dello stabile, costituisce 
un elemento 
grave, preciso e 
concordante 
ex 
se 
sufficiente 
a desumere 
che 
i 
negozi 
abdicativi 
in questione 
hanno 
una causa concreta illecita, consistente 
nell’elusione 
degli 
obblighi 
di 
ripristino dell’immobile 
in condizioni 
di 
sicurezza, già gravanti 
sui 
proprietari, con il 
contestuale 
acquisto (equivalente 
ad un sostanziale 
trasferimento) degli 
stessi 
in capo allo Stato -e 
dunque 
in capo alla collettività intera -in virtù 
dell’effetto acquisitivo automatico di 
cui 
all’art. 827 c.c., che 
necessariamente 
consegue 
alle 
rinunce. 
i 
negozi 
di 
rinuncia 
abdicativa 
posti 
in 
essere 
dai 
proprietari 
dell’immobile 
devono 
quindi 
ritenersi 
nulli 
sotto 
il 
profilo 
causale, 
perché 
si 
pongono 
in 
contrasto 
con 
le 
esigenze 
solidaristiche 
connesse 
alla 
funzione 
sociale 
della proprietà di 
cui 
all’art. 42 Cost. e 
con l’obbligo del 
rispetto della sicurezza dei 
consociati, costituenti altrettanti limiti alle prerogative dominicali ai sensi dell’art. 832 c.c.”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


immobili 
vacanti 
(come 
del 
resto confermato, in materia 
successoria, dall’art. 
586 c.c., a 
tenore 
del 
quale 
“in mancanza di 
altri 
successibili, l’eredità è 
devoluta 
allo Stato. L’acquisto si 
opera di 
diritto senza bisogno di 
accettazione 
e 
non può farsi 
luogo a rinunzia”). Va 
rilevato che 
la 
questione 
della 
rinuncia 
al diritto di proprietà è dibattuto in dottrina e giurisprudenza. 


la 
qualità 
di 
ente 
pubblico può condizionare 
la 
dinamica 
delle 
vicende 
del 
bene, rispetto al 
bene 
appartenente 
ad un privato. Si 
citano i 
più rilevanti. 


- L’acquisto può essere sottoposto a particolari requisiti. 
Ad es., nelle 
operazioni 
di 
acquisto di 
immobili 
-da 
parte 
delle 
amm.ni 
inserite 
nel 
conto 
economico 
consolidato 
della 
P.A. 
come 
individuate 
dal-
l’iSTAT 
ai 
sensi 
del 
comma 
3 
dell’art. 
1 
l. 
31 
dicembre 
2009 
n. 
196, 
con 
l’esclusione 
degli 
enti 
previdenziali 
-giusta 
l’art. 12, commi 
1 bis 
e1 ter 
d.l. 
6 luglio 2011, n. 98, conv. l. 15 luglio 2011, n. 111, è 
necessaria: 
a) 
la 
dichiarazione 
di 
indispensabilità 
ed 
indilazionabilità 
attestata 
dal 
responsabile 
del 
procedimento; 
b) 
ed 
altresì 
la 
dichiarazione 
della 
congruità 
del 
prezzo 
attestata 
dall’Agenzia del demanio. 


inoltre 
le 
operazioni 
di 
acquisto 
-ed 
altresì 
di 
vendita 
-di 
immobili, 
effettuate 
sia 
in 
forma 
diretta 
sia 
indiretta, 
da 
parte 
delle 
amm.ni 
inserite 
nel 
conto 
economico 
consolidato 
della 
P.A. 
come 
individuate 
dall’iSTAT 
ai 
sensi 
del 
comma 
3 
dell’art. 
1 
l. 
n. 
196/2009, 
con 
l’esclusione 
degli 
enti 
territoriali, 
degli 
enti 
previdenziali 
e 
degli 
enti 
del 
servizio 
sanitario 
nazionale, 
nonché 
del 
Ministero 
degli 
affari 
esteri 
con 
riferimento 
ai 
beni 
immobili 
ubicati 
all’estero, 
sono 
subordinate 
alla 
verifica 
del 
rispetto 
dei 
saldi 
strutturali 
di 
finanza 
pubblica 
da 
attuarsi 
con 
decreto 
di 
natura 
non 
regolamentare 
del 
Ministro 
dell’economia 
e 
delle 
finanze 
(art. 
12, 
comma 
1, 
d.l. 
n. 
98/2011 
cit.). 


-Procedimentalizzazione 
della 
concessione 
del 
godimento 
e 
disciplina 
tipica del rapporto. 


la 
concessione 
del 
godimento del 
bene 
a 
terzi 
non è 
libera, ma 
va 
fatta 
su base concorsuale attivata d’ufficio o a istanza degli interessati. 

Gli 
strumenti 
utilizzabili 
sono 
quelli 
di 
diritto 
comune, 
sia 
contratti 
ad 
efficacia 
reale 
(es.: 
contratto 
costitutivo 
del 
diritto 
usufrutto 
o 
d’uso), 
sia 
contratti 
ad 
efficacia 
obbligatoria 
(es.: 
contratto 
di 
locazione 
o 
di 
affitto 
o 
di 
comodato). 


nel 
caso in cui 
vi 
sia 
la 
concessione 
del 
godimento a 
titolo gratuito, la 
qualità 
di 
ente 
pubblico 
del 
concedente 
comporta 
che 
la 
detta 
concessione 
deve 
essere 
funzionale 
alla 
soddisfazione 
dell’interesse 
pubblico 
in 
attribuzione 
all’ente. Tanto è 
confermato dal 
Codice 
dei 
contratti 
(d.l.vo 31 marzo 2023) 
che 
all’art. 8, comma 
1, dispone 
“Nel 
perseguire 
le 
proprie 
finalità istituzionali 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
sono 
dotate 
di 
autonomia 
contrattuale 
e 
possono concludere 
qualsiasi 
contratto, anche 
gratuito, salvi 
i 
divieti 
espressamente 
previsti 
dal 
codice 
e 
da altre 
disposizioni 
di 
legge”. Ad es. per incen



rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


tivare 
il 
settore 
florovivaistico, tenuto conto dell’indotto in termini 
di 
nuove 
assunzioni 
ed aumenti 
di 
produzione, la 
regione 
concede 
gratuitamente 
una 
area 
sulla 
quale 
allocare 
una 
area 
mercatale 
degli 
operatori 
del 
settore 
(contratto 
di comodato con onere; usufrutto o uso gratuito con onere). 


Per 
i 
beni 
immobili 
appartenenti 
allo 
Stato 
la 
disciplina 
concernente 
i 
criteri 
e 
le 
modalità 
di 
locazione 
dei 
beni 
immobili 
-oltrecché 
della 
concessione 
in uso ove 
vengano in rilievo beni 
pubblici 
-è 
contenuta 
nel 
regolamento di 
cui 
al 
d.P.r. 13 settembre 
2005, n. 296. il 
detto regolamento disciplina 
le 
concessioni 
e 
locazioni 
a 
canone 
ordinario (procedimento; 
stipulazione 
degli 
atti 
di 
concessione 
e 
del 
contratto 
di 
locazione; 
condizioni 
delle 
concessioni 
e 
delle 
locazioni; 
decadenza 
e 
revoca 
della 
concessione; 
risoluzione 
e 
recesso della 
locazione; 
oneri 
dei 
lavori 
di 
manutenzione; 
effetti 
della 
cessazione 
della 
concessione 
e 
della 
locazione 
con 
la 
statuizione 
che 
le 
addizioni 
o 
le 
migliorie 
apportate 
all’immobile 
sono 
di 
diritto 
acquisite 
gratuitamente 
alla 
proprietà 
dello Stato), le 
concessioni 
e 
locazioni 
a 
titolo gratuito e 
a 
canone 
agevolato 
ed altresì 
le 
concessioni 
e 
locazioni 
di 
beni 
immobili 
adibiti 
a 
luoghi 
di 
culto, 
con relative 
pertinenze, di 
beni 
immobili 
costituenti 
abbazie, certose 
e 
monasteri, 
nonché 
di 
beni 
immobili 
a 
favore 
di 
istituzioni 
di 
assistenza 
e 
beneficenza 
ed enti religiosi. 


- L’alienazione di immobili deve essere autorizzata con legge. 
Tanto è 
affermato dall’art. 21, comma 
1, r.d. n. 2440/1923 (9) con riguardo 
allo 
Stato, 
ma 
il 
principio 
è 
applicabile, 
a 
fortiori, 
per 
tutti 
gli 
enti 
pubblici. 
Si 
pone 
il 
problema 
della 
specificità 
di 
tale 
autorizzazione 
per legge 
(se 
deve 
individuare 
l’immobile, le 
categorie, i 
presupposti). nelle 
varie 
leggi 
in 
materia 
-in special 
modo le 
periodiche 
leggi 
di 
bilancio -l’autorizzazione 
è 
prevista 
in 
modo 
generale, 
per 
categorie 
al 
ricorrere 
di 
determinati 
presupposti 
(ad es.: immobili non necessari come uffici dell’ente). 


3. Beni oggettivamente pubblici (demaniali e patrimoniali indisponibili). 
i 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili 
costituiscono 
i 
beni 
oggettivamente 
pubblici. 
essi 
sono 
sottoposti 
ad 
un 
regime 
speciale, 
rispetto 
ai 
beni 
di 
diritto 
comune. 
Tale 
regime 
è 
giustificato 
dalla 
circostanza 
che 
i 
detti 
beni 
sono 
-a 
seconda 
dei 
casi 
-necessari, 
strumentali 
o 
utili 
allo 
svolgimento 
delle 
funzioni 
pubbliche 
o 
del 
servizio 
pubblico 
dei 
quali 
l’ente 
è 
attributario. 
Tenendo 
conto 
della 
globalità 
delle 
fonti, 
a 
partire 
da 
quelle 
costituzionali 
(artt. 
2; 
9, 
commi 
2 
e 
3; 
42, 
comma 
1, 
Cost.), 
i 
beni 
pubblici 
dovrebbero 
essere 
funzionali 
al 
perseguimento 
e 
al 
soddisfacimento 
degli 
interessi 
della 
collettività, 
alla 
tutela 
dei 
diritti 
inviolabili 
della 
personalità 
umana. 
Tanto 


(9) 
“L’alienazione 
degli 
immobili 
dello 
Stato, 
quando 
non 
sia 
regolata, 
per 
determinate 
categorie 
di 
beni, da leggi 
speciali, deve 
essere 
autorizzata, caso per 
caso, con particolari 
provvedimenti 
legislativi”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


dovrebbe 
orientare 
il 
legislatore 
ordinario 
nel 
perimetrare 
l’ambito 
dei 
beni 
qualificabili 
come 
pubblici. 


la 
distinzione 
tra 
beni 
demaniali 
e 
patrimoniali 
indisponibili, 
nell’attuale 
codice 
civile, è 
su basi 
formali: 
i 
beni 
demaniali 
e 
i 
beni 
patrimoniali 
indisponibili 
sono quelli 
riconducibili 
alla 
rispettiva 
categoria 
disegnata 
dal 
legislatore. 
demaniale 
dovrebbe 
essere 
il 
bene 
dove 
massimo 
è 
il 
rapporto 
di 
strumentalità 
rispetto 
alla 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
in 
attribuzione 
al-
l’amm.ne. Patrimoniale 
indisponibile 
dovrebbe 
essere 
il 
bene 
sempre 
funzionale 
alla 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici, ma 
non al 
massimo grado come 
per il 
bene 
demaniale. 
Tale 
diversa 
intensità 
di 
destinazione 
comporta 
-pur 
nella 
specialità 
di 
disciplina 
per ambedue 
le 
categorie 
-una 
tutela 
più intensa 
dei 
beni demaniali rispetto a quelli indisponibili. 


la 
distinzione 
delineata 
nell’attuale 
codice 
civile 
tra 
beni 
demaniali 
e 
beni 
indisponibili, tuttavia, non sempre 
rispetta 
la 
diversa 
intensità 
di 
destinazione: 
la 
segmentazione 
dei 
beni 
culturali 
in 
demaniali 
(immobili 
riconosciuti 
di 
interesse 
storico, archeologico e 
artistico a 
norma 
delle 
leggi 
in materia; 
le 
raccolte 
dei 
musei, delle 
pinacoteche, degli 
archivi, delle 
biblioteche) e 
patrimoniali 
indisponibili 
(le 
cose 
d’interesse 
storico, 
archeologico, 
paletnologico, 
paleontologico e 
artistico, da 
chiunque 
e 
in qualunque 
modo ritrovate 
nel 
sottosuolo) 
è 
arbitraria, 
atteso 
che 
la 
densità 
di 
destinazione 
è 
unica. 
Analogamente 
è 
arbitrario 
ritenere 
che 
le 
foreste 
(patrimonio 
indisponibile) 
siano 
meno 
rilevanti 
degli 
aerodromi 
(demanio). egualmente 
è 
arbitrario il 
distinguo tra 
strade, 
autostrade, 
strade 
ferrate, 
acquedotti 
di 
enti 
territoriali 
(demanio) 
e 
rete 
telefonica 
di 
proprietà 
pubblica 
(patrimonio indisponibile): 
in ambedue 
i 
casi 
viene 
in rilievo il 
genere 
unitario della 
rete 
funzionale 
allo svolgimento di 
un 
pubblico servizio. 


Per quanto detto, il 
legislatore 
ordinario dovrebbe 
rivisitare 
la 
normativa 
in 
materia 
delineando 
la 
figura 
dei 
beni 
comuni, 
con 
identità 
di 
disciplina. 
Andrebbero 
configurati 
come 
beni 
comuni, 
tutti 
quei 
beni 
che 
-a 
prescindere 
dall’appartenenza 
pubblica 
o privata 
-sono funzionali 
al 
perseguimento e 
al 
soddisfacimento degli 
interessi 
della 
collettività, alla 
tutela 
dei 
diritti 
inviolabili 
della 
personalità 
umana. la 
categoria 
dei 
beni 
comuni 
determinerebbe 
il 
superamento 
dell’attuale 
distinzione 
tra 
i 
beni 
pubblici 
e 
i 
beni 
di 
interesse 
pubblico. 


4. Demanio necessario: demanio marittimo, idrico e militare. 
i beni 
demaniali 
sono indicati 
nell’art. 822 c.c. e 
vengono distinti 
in beni 
appartenenti 
al 
demanio 
necessario 
e 
in 
beni 
appartenenti 
al 
demanio 
accidentale 
(10). Trattasi 
di 
beni 
appartenenti 
ad enti 
territoriali. nella 
Costituzione 
è 


(10) Per un quadro generale: 
G. inGroSSo, voce 
Demanio (diritto moderno), in Noviss. Digesto, 
vol. V, uTeT, 1960, pp. 427-438. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


previsto -all’art. 119, comma 
6 -che 
“i Comuni, le 
Province, le 
Città metropolitane 
e 
le 
regioni 
hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i 
principi 
generali determinati dalla legge dello Stato”. 


la 
demanialità 
del 
bene, con il 
suo peculiare 
regime, si 
estende 
a 
situazioni 
complementari, quali 
a) 
le 
pertinenze 
(ex 
art. 817 c.c.: 
le 
cose, mobili 
o 
immobili, 
destinate 
in 
modo 
durevole 
a 
servizio 
o 
ad 
ornamento 
di 
un’altra 
cosa); 
b) 
le 
servitù prediali 
costituite 
a 
vantaggio di 
beni 
demaniali 
e 
gravanti 
su fondi 
privati 
(art. 825 c.c.); 
c) i 
frutti, nel 
caso in cui 
la 
cosa 
madre 
sia 
un 
bene demaniale e fino alla loro separazione (art. 817, comma 2, c.c.). 


Giusta 
il 
primo 
comma 
dell’art. 
822 
c.c.: 
“appartengono 
allo 
Stato 
e 
fanno 
parte 
del 
demanio 
pubblico 
il 
lido 
del 
mare, 
la 
spiaggia, 
le 
rade 
e 
i 
porti; i 
fiumi, i 
torrenti, i 
laghi 
e 
le 
altre 
acque 
definite 
pubbliche 
dalle 
leggi 
in 
materia; 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
nazionale”. 
Vengono 
in 
rilievo 
i 
beni 
appartenenti al c.d. demanio necessario. 


oltre 
che 
lo Stato, anche 
gli 
altri 
enti 
territoriali 
possono essere 
titolari 
di 
beni 
riconducibili 
alla 
tipologia 
del 
demanio 
necessario. 
Tanto 
in 
applicazione 
delle 
regole 
sul 
c.d. federalismo demaniale 
ex 
d.l.vo 28 maggio 2010, n. 85 
(11), 
oppure 
in 
considerazione 
della 
speciale 
autonomia 
di 
alcune 
regioni 
(12). 
inoltre, 
l’art. 
11, 
comma 
2, 
l. 
16 
maggio 
1970, 
n. 
281 
trasferisce 
alle 
regioni i porti lacuali. 


i beni 
riconducibili 
alla 
tipologia 
del 
demanio necessario sono solo immobili 
e non possono che appartenere allo Stato o ad altro ente territoriale. 


-Demanio marittimo. 
l’art. 
28 
c. 
nav. 
precisa 
che 
fanno 
parte 
del 
demanio 
marittimo 
“a. 
il 
lido, 
la 
spiaggia, 
i 
porti, 
le 
rade; 
b. 
le 
lagune, 
le 
foci 
dei 
fiumi 
che 
sboccano 
in 
mare, i 
bacini 
di 
acqua salsa o salmastra che 
almeno durante 
una parte 
del-
l’anno comunicano liberamente 
col 
mare; c. i 
canali 
utilizzabili 
ad uso pubblico 
marittimo”. 
Allo 
stesso 
regime 
sono 
sottoposte 
le 
pertinenze 
-quali 
porti, 


(11) Vi 
è 
la 
disciplina 
del 
procedimento in virtù del 
quale 
beni 
statali 
possono essere 
attribuiti 
a 
titolo 
non 
oneroso 
dallo 
Stato 
a 
Comuni, 
Province, 
Città 
metropolitane 
e 
regioni. 
Tale 
vicenda 
riguarda 
anche 
beni 
appartenenti 
al 
demanio necessario (quale 
il 
demanio marittimo e 
il 
demanio idrico), al 
demanio 
accidentale 
(quale 
in demanio aeroportuale) e 
al 
patrimonio indisponibile 
(quali 
le 
miniere) con 
le caratteristiche e i requisiti previsti negli arrt. 3 e 5 del decreto. 
(12) Per la 
regione 
Sicilia 
l’art. 32 r.d.l.vo 15 maggio 1946, n. 455 (Statuto della 
regione 
siciliana) 
dispone: 
“i beni 
di 
demanio dello Stato, comprese 
le 
acque 
pubbliche 
esistenti 
nella regione, 
sono assegnati 
alla regione, eccetto quelli 
che 
interessano la difesa dello Stato o servizi 
di 
carattere 
nazionale”. 
Per 
la 
regione 
Sardegna 
l’art. 
14, 
comma 
1, 
l. 
Cost. 
26 
febbraio 
1948, 
n. 
3 
(Statuto 
speciale 
per la 
Sardegna) dispone: 
“La regione, nell’ambito del 
suo territorio, succede 
nei 
beni 
e 
diritti 
patrimoniali 
dello Stato di 
natura immobiliare 
e 
in quelli 
demaniali, escluso il 
demanio marittimo”. Per la 
regione 
Valle 
d’Aosta, l’art. 5 l. Cost. 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale 
per la 
Valle 
d’Aosta) dispone: 
“i beni 
del 
demanio dello Stato situati 
nel 
territorio della regione, eccettuati 
quelli 
che 
interessano 
la 
difesa 
dello 
Stato 
o 
servizi 
di 
carattere 
nazionale, 
sono 
trasferiti 
al 
demanio 
della 
regione. 
Sono 
altresì trasferiti al demanio della regione le acque pubbliche in uso di irrigazione e potabile”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


moli, darsene, banchine, fari, dighe, semafori 
ed altre 
opere 
poste 
al 
servizio 
della 
navigazione 
-in 
ordine 
alle 
quali 
l’art. 
29 
c. 
nav. 
enuncia: 
“Le 
costruzioni 
e 
le 
altre 
opere 
appartenenti 
allo 
Stato, 
che 
esistono 
entro 
i 
limiti 
del 
demanio 
marittimo e 
del 
mare 
territoriale, sono considerate 
come 
pertinenze 
del 
demanio 
stesso”; 
il 
concetto di 
pertinenza 
del 
demanio marittimo è 
più ampio di 
quello che 
si esprime 
nell’art. 817 c.c. attesa la irrilevanza della 
destinazione 
del bene pertinenziale al servizio o all’ornamento di quello principale (13). 


il 
lido del 
mare 
è 
quella 
porzione 
di 
terraferma 
a 
contatto diretto con le 
acque 
del 
mare 
da 
cui 
resta 
normalmente 
coperta 
per le 
ordinarie 
mareggiate, 
con esclusione 
dei 
momenti 
di 
tempesta 
(14). nella 
nozione 
di 
lido così 
determinata, 
peraltro, possono rientrare 
diverse 
categorie 
di 
beni, come 
i 
tratti 
di 
costa 
elevati 
o a 
picco sul 
mare, le 
scogliere, gli 
scogli 
ed i 
promontori 
che 
si 
presentino immediatamente 
a 
contatto col 
mare 
e 
siano appunto raggiunti 
dalle 
ordinarie 
mareggiate 
invernali 
(arg. 
ex 
art. 55 c. nav., che 
assoggetta 
ad 
autorizzazione 
la 
realizzazione 
di 
opere 
entro una 
fascia 
di 
rispetto dal 
demanio 
marittimo e “… dal ciglio dei terreni elevati sul mare 
...”) (15). 


la 
spiaggia, 
ivi 
compreso 
l’arenile, 
comprende 
quei 
tratti 
di 
terra 
prossimi 
al 
mare, 
che 
siano 
sottoposti 
alle 
mareggiate 
straordinarie 
(16); 
vengono 
in 
rilievo 
quei 
tratti 
di 
terra, sabbiosi 
o ghiaiosi 
o di 
altra 
natura, che 
dal 
lido del 
mare 
si 
estendono 
verso 
la 
terraferma, 
con 
estensione 
variabile 
a 
seconda 
dell’andamento 
delle 
mareggiate 
anche 
straordinarie. 
della 
spiaggia 
fanno 
parte 
altresì, costituendone 
una 
particolare 
tipologia 
morfologica, le 
dune 
costiere, 
vale 
a 
dire 
quegli 
accumuli 
sabbiosi 
originati 
dal 
vento 
e 
dai 
moti 
ondosi 
delle 
correnti 
marine, 
che 
sono 
interessate 
da 
costanti 
interazioni 
con 
la 
spiaggia 
antistante, attraverso continui 
apporti 
ovvero prelevamenti 
di 
sabbia, sì 
da 
costituire 
altresì 
la 
principale 
difesa 
naturale 
contro i 
fenomeni 
di 
erosione. in 
ragione 
di 
tali 
processi 
simbiotici 
naturali, il 
sistema 
dunale 
non è 
quindi 
naturalisticamente 
e giuridicamente distinguibile dal concetto di spiaggia (17). 


l’arenile 
è 
quel 
tratto di 
terraferma 
che 
risulti 
relitto dal 
naturale 
ritirarsi 
delle 
acque, 
restando 
potenzialmente 
idoneo 
ai 
pubblici 
usi 
del 
mare 
(18). 
Vengono 
in rilievo quei 
tratti 
di 
terra 
già 
alluviati 
ma 
non più bagnati 
dalle 
acque 
del 
mare 
neppure 
in 
occasione 
delle 
straordinarie 
mareggiate, 
che 
risultano 
pertanto relitti 
dal 
naturale 
ritirarsi 
delle 
acque, restando tuttavia 
idonei, per 


(13) Sui 
beni 
del 
demanio marittimo: 
A. lefebre 
d’oVidio, G. PeSCATore, l. Tullio, manuale 
di diritto della navigazione, X edizione, Giuffré, 2004, pp. 98-102. 
(14) Conf. Cass. 1 aprile 2015, n. 6619. 
(15) Per tale 
precisazione: 
Tribunale 
di 
Cagliari, Sezione 
ii civile, sentenza 
27 giugno 2017 n. 
2097, in rass. avv. Stato, 2018, 4, p. 93. 
(16) Conf. Cass. n. 6619/2015 cit. 
(17) Per tale 
precisazione: 
Tribunale 
di 
Cagliari, Sezione 
ii civile, sentenza 
n. 2097/2017 cit., in 
rass. avv. Stato, 2018, 4, p. 94. 
(18) Conf. Cass. 6 maggio 1980, n. 2995. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


la 
loro contiguità 
alla 
spiaggia 
ancora 
interessata 
dai 
cicli 
delle 
maree, ai 
pubblici 
usi del mare anche se in via soltanto potenziale. 


i 
porti 
sono 
tratti 
di 
costa, 
comprese 
le 
apposite 
strutture 
artificiali, 
nonché 
le 
zone 
di 
mare 
che, per la 
loro particolare 
conformazione, offrono riparo alle 
navi e ne agevolano l’approdo (19). 


le 
rade 
sono estensioni 
di 
mare, al 
di 
là 
dei 
porti, che, anche 
senza 
costituire 
necessariamente un seno naturale, servono all’ancoraggio delle navi. 


le 
lagune 
sono gli 
specchi 
d’acqua 
in immediata 
vicinanza 
del 
mare, talora 
con questo costantemente 
comunicanti 
(lagune 
vive), altre 
volte 
separate 
e stagnanti (lagune morte). 


i 
bacini 
di 
acqua 
salsa 
sono 
pozze 
di 
fango 
ribollente 
per 
emissione 
di 
metano dalle 
rocce 
del 
sottosuolo, mentre 
i 
bacini 
di 
acqua 
salmastra 
contengono 
sali 
marini 
in concentrazione 
inferiore 
a 
quella 
del 
mare. È 
necessario, 
per la 
qualificazione 
demaniale, che 
tali 
bacini 
comunichino liberamente 
col 
mare 
almeno durante 
una 
parte 
dell’anno. Vi 
rientrano le 
valli 
da 
pesca 
della 
laguna 
veneta 
“le 
quali 
consistono 
in 
bacini 
di 
acqua 
salsa 
o 
salmastra 
(stagni 
e/o paludi), inframmezzati 
da barene 
e 
terre 
emerse, con presenza di 
canali, 
posti fra il mare e la terraferma, e ricompresi nella laguna di Venezia” (20). 


non rientra 
nel 
demanio marittimo il 
mare 
territoriale 
(definito nell’art. 
2 c. nav.) (21), il 
quale 
va 
considerato come 
res 
communis 
omnium 
(22). esso 
è 
quella 
porzione 
di 
mare 
adiacente 
alla 
costa 
degli 
Stati 
su cui, per diritto internazionale, 
lo Stato esercita 
la 
propria 
sovranità 
in modo del 
tutto analogo 
alla terraferma. 


-Demanio idrico. 
la 
definizione 
codicistica 
-“i 
fiumi, i 
torrenti, i 
laghi 
e 
le 
altre 
acque 
de(
19) 
Giusta 
l’art. 
4, 
comma 
1, 
l. 
28 
gennaio 
1994, 
n. 
84 
“i 
porti 
marittimi 
nazionali 
sono 
ripartiti 
nelle 
seguenti 
categorie 
e 
classi: a) categoria i: porti, o specifiche 
aree 
portuali, finalizzati 
alla difesa 
militare 
e 
alla sicurezza dello Stato; b) categoria ii, classe 
i: porti, o specifiche 
aree 
portuali, di 
rilevanza 
economica 
internazionale; 
c) 
categoria 
ii, 
classe 
ii: 
porti, 
o 
specifiche 
aree 
portuali, 
di 
rilevanza 
economica 
nazionale; 
d) 
categoria 
ii, 
classe 
iii; 
porti, 
o 
specifiche 
aree 
portuali, 
di 
rilevanza 
economica 
regionale e interregionale”. 
(20) Così 
Cass. S.u., 18 febbraio 2011, n. 3937, precisante 
altresì 
che 
“le 
valli 
da pesca configurano 
uno dei 
casi 
in cui 
i 
principi 
combinati 
dello sviluppo della persona, della tutela del 
paesaggio e 
della funzione 
sociale 
della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine 
ad una concezione 
di 
bene 
pubblico, 
inteso 
in 
senso 
non 
solo 
di 
oggetto 
di 
diritto 
reale 
spettante 
allo 
Stato, 
ma 
quale 
strumento 
finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali”. 
(21) 
il 
cui 
primo 
comma 
statuisce: 
“Sono 
soggetti 
alla 
sovranità 
dello 
Stato 
i 
golfi, 
i 
seni 
e 
le 
baie, le 
cui 
coste 
fanno parte 
del 
territorio della repubblica, quando la distanza fra i 
punti 
estremi 
del-
l’apertura del 
golfo, del 
seno o della baia non supera le 
ventiquattro miglia marine. Se 
tale 
distanza è 
superiore 
a ventiquattro miglia marine, è 
soggetta alla sovranità dello Stato la porzione 
del 
golfo, del 
seno o della baia compresa entro la linea retta tirata tra i 
due 
punti 
più foranei 
distanti 
tra loro ventiquattro 
miglia marine”. Giusta 
l’art. 1 l. 7 aprile 
1930, n. 538 “il 
«miglio marino internazionale», pari 
a metri 1852”. 
(22) Così 
A.M. SAndulli, manuale 
di 
diritto amministrativo, vol. ii, XV 
edizione, Jovene, 1989, 
p. 767. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


finite 
pubbliche 
dalle 
leggi 
in materia” 
-rimandava 
alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
r.d. 11 dicembre 
1933, n. 1775 (Testo unico delle 
disposizioni 
di 
legge 
sulle 
acque 
e 
impianti 
elettrici) 
secondo 
cui 
“Sono 
pubbliche 
tutte 
le 
acque 
sorgenti, fluenti 
e 
lacuali, anche 
se 
artificialmente 
estratte 
dal 
sottosuolo, sistemate 
o 
incrementate, 
le 
quali, 
considerate 
sia 
isolatamente 
per 
la 
loro 
portata 
o 
per 
l’ampiezza 
del 
rispettivo 
bacino 
imbrifero, 
sia 
in 
relazione 
al 
sistema 
idrografico 
al 
quale 
appartengono, 
abbiano 
od 
acquistino 
attitudine 
ad 
usi 
di 
pubblico generale 
interesse” 
(art. 1, comma 
1; 
articolo poi 
abrogato dall’art. 
2, comma 
1, d.P.r. 18 febbraio 1999, n. 238). Tale 
disciplina 
ammetteva 
che 
acque 
interne 
-ad es. un piccolo lago, come 
il 
lago lucrino (23) -potessero 
appartenere 
a 
privati, ove 
non avessero attitudine 
ad usi 
di 
pubblico generale 
interesse. la 
circostanza 
che 
l’acqua 
è 
un bene 
prezioso e 
risorsa 
limitata 
ha 
condotto 
il 
legislatore 
negli 
anni 
’90 
del 
secolo 
scorso 
(art. 
1 
l. 
5 
gennaio 
1994, n. 36: 
c.d. legge 
Galli) a 
pubblicizzare 
tutte 
le 
acque 
interne, a 
prescindere 
dalla 
loro 
importanza, 
pubblicizzazione 
confermata 
anche 
nell’attuale 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 
144, 
comma 
1, 
d.l.vo 
ambiente, 
a 
tenor 
del 
quale: 
“Tutte 
le 
acque 
superficiali 
e 
sotterranee, 
ancorché 
non 
estratte 
dal 
sottosuolo, 
appartengono al 
demanio dello Stato”. inoltre, giusta 
l’art. 945 c.c. “Le 
isole 
e 
unioni 
di 
terra che 
si 
formano nel 
letto dei 
fiumi 
o torrenti 
appartengono al 
demanio pubblico”. 


la 
demanialità 
idrica 
comprende 
anche 
l’alveo dei 
fiumi, torrenti, rivi, 
colatoi 
e 
i 
bacini 
invasi 
da 
laghi, 
oltre 
ai 
rami 
o 
canali 
benché 
asciutti 
in 
alcuni 
periodi 
dell’anno (24). fanno altresì 
parte 
del 
demanio fluviale 
le 
opere 
pertinenziali 
di quelle demaniali (25). 


la 
demanialità 
dell’acqua 
e 
quella 
dell’acquedotto sono tra 
loro indipendenti. 
difatti 
-giusta 
l’art. 822, comma 
2, c.c. -gli 
acquedotti, i 
canali 
e 
gli 
altri 
rivi 
e 
laghi 
artificiali 
di 
proprietà 
statale 
destinati 
a 
convogliare 
acque 
a 
fine 
di 
utilizzazione 
rivestono carattere 
demaniale 
(demanio accidentale) indipendentemente 
dal fatto che convoglino acque pubbliche. 


- Demanio militare. 
Vengono in rilievo le 
opere, manufatti 
realizzati 
dall’uomo, destinate 
in 
modo permanente, diretto ed attuale 
alla 
difesa 
nazionale, quali 
le 
fortezze, le 
installazioni 
missilistiche, le 
linee 
fortificate 
e 
trincerate, le 
cose 
destinate 
al 


(23) 
del 
quale, 
in 
conseguenza 
della 
legge 
Galli 
è 
stata 
accertata 
dal 
giudice 
delle 
acque 
la 
qualità 
di demanio idrico, confermata dal giudice di legittimità: Cass. S.u. 17 settembre 2015 n. 18215. 
(24) Cass. S.u. 13 giugno 2017 n. 14645 precisa 
che 
gli 
alvei 
dei 
fiumi 
e 
dei 
torrenti, costituiti 
da 
quei 
tratti 
di 
terreno sui 
quali 
l’acqua 
scorre 
fino al 
limite 
delle 
piene 
normali, rientrano nell’ambito 
del 
demanio 
idrico, 
per 
cui 
le 
sponde 
o 
rive 
interne 
-ossia 
quelle 
zone 
soggette 
ad 
essere 
sommerse 
dalle 
piene 
ordinarie 
-sono 
comprese 
nel 
concetto 
di 
alveo, 
e 
costituiscono 
quindi 
beni 
demaniali, 
a 
differenza 
delle 
sponde 
e 
rive 
esterne 
che, essendo soggette 
alle 
sole 
piene 
straordinarie, appartengono, 
invece, ai 
proprietari 
dei 
fondi 
rivieraschi, e 
sulle 
quali 
può pertanto insistere 
un manufatto occupato da 
persone. in senso analogo Cass. S.u. 18 luglio 2019 n. 19366. 
(25) Conf. Cass. S.u. n. 19366 /2019 cit.; Cass. S.u. 18 dicembre 1998, n. 12701. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


servizio delle 
comunicazioni 
militari 
(strade, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.). 
in quanto non rientranti 
nella 
definizione 
legale 
non hanno la 
qualità 
di 
demanio 
militare: 
a) 
le 
difese 
naturali; 
b) 
i 
beni 
mobili 
destinati 
alla 
difesa 
nazionale; 
c) le 
opere 
destinate 
in modo indiretto alla 
difesa 
nazionale, quali 
le 
caserme, le 
polveriere, gli 
ospedali 
militari, i 
depositi 
e 
le 
officine, costituenti 
patrimonio indisponibile 
dello Stato. Tanto è 
confermato nell’art. 231 d.l.vo 
n. 66/2010 (26). 


5. 
Demanio 
accidentale: 
demanio 
stradale, 
autostradale, 
ferroviario, 
aeronautico, 
acquedottistico, culturale, cimiteri e mercati. 
Giusta 
il 
secondo comma 
dell’art. 822 c.c.: 
“Fanno parimenti 
parte 
del 
demanio 
pubblico, 
se 
appartengono 
allo 
Stato, 
le 
strade, 
le 
autostrade 
e 
le 
strade 
ferrate; gli 
aerodromi; gli 
acquedotti; gli 
immobili 
riconosciuti 
d’interesse 
storico, archeologico e 
artistico a norma delle 
leggi 
in materia; le 
raccolte 
dei 
musei, delle 
pinacoteche, degli 
archivi, delle 
biblioteche; e 
infine 
gli 
altri 
beni 
che 
sono 
dalla 
legge 
assoggettati 
al 
regime 
proprio 
del 
demanio 
pubblico” 
Vengono in rilievo i beni appartenenti al c.d. demanio accidentale. 


oltre 
che 
lo Stato, anche 
gli 
altri 
enti 
territoriali 
possono essere 
titolari 
di 
beni 
riconducibili 
alla 
tipologia 
del 
demanio accidentale. Trattasi 
di 
beni 
immobili 
e 
di 
particolari 
universalità 
di 
beni 
mobili 
(raccolte 
dei 
musei, delle 
pinacoteche, 
degli archivi, delle biblioteche). 


Per 
le 
regioni 
a 
statuto 
ordinario 
vi 
è 
la 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
11, 
comma 
1, l. n. 281/1970 secondo cui 
i 
beni 
della 
specie 
di 
quelli 
indicati 
dal-
l’art. 
822, 
comma 
2, 
c.c., 
se 
appartengono 
alle 
regioni 
per 
acquisizione 
a 
qualsiasi 
titolo, 
costituiscono 
il 
demanio 
regionale 
e 
sono 
soggetti 
al 
regime 
previsto dallo stesso codice 
per i 
beni 
del 
demanio pubblico. il 
comma 
3 del-
l’articolo citato trasferisce 
alle 
regioni, se 
appartenenti 
allo Stato, gli 
acquedotti 
di interesse regionale. 


Per le 
regioni 
a 
statuto speciale 
vi 
sono puntuali 
disposizioni 
nei 
relativi 
statuti (27). 


Per le 
Province 
ed i 
Comuni 
vi 
è 
la 
previsione 
dell’art. 824 c.c. secondo 


(26) 
“1. 
appartengono 
al 
demanio 
militare 
del 
ministero 
della 
difesa 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
nazionale. 2. Gli 
aeroporti 
militari 
fanno parte 
del 
demanio militare 
aeronautico. 
[…]. 
4. Fatta salva 
l’applicazione 
dell’articolo 147, comma 1, del 
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante 
il 
codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio, 
rientrano 
tra 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
nazionale 
e 
sono 
considerati 
infrastrutture 
militari, 
a 
ogni 
effetto, 
tutti 
gli 
alloggi 
di 
servizio 
per 
il 
personale 
militare 
realizzati 
su aree 
ubicate 
all’interno di 
basi, impianti, installazioni 
militari 
o posti 
al 
loro diretto e 
funzionale 
servizio”. 
(27) 
Art. 
57 
l. 
Cost. 
26 
febbraio 
1948, 
n. 
5 
(Statuto 
speciale 
per 
il 
Trentino-Alto 
Adige): 
“Le 
strade, le autostrade, le strade ferrate e gli acquedotti che abbiano interesse esclusivamente regionale 
e 
che 
saranno determinati 
nelle 
norme 
di 
attuazione 
del 
presente 
Statuto costituiscono il 
demanio regionale”. 
Per la 
regione 
Sicilia 
si 
richiama 
l’art. 32 dello Statuto sopracitato. Per la 
regione 
Sardegna 
si richiama l’art. 14, comma 1, dello Statuto sopracitato. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


cui 
“i 
beni 
della 
specie 
di 
quelli 
indicati 
dal 
secondo 
comma 
dell’articolo 
822, 
se 
appartengono 
alle 
province 
o 
ai 
comuni, 
sono 
soggetti 
al 
regime 
del 
demanio 
pubblico. allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati comunali”. 


i 
beni 
riconducibili 
alla 
tipologia 
del 
demanio 
accidentale 
possono 
appartenere 
a 
qualsivoglia 
soggetto, 
pubblico 
o 
privato. 
Tuttavia 
se 
appartengono 
allo Stato -o ad un ente 
territoriale 
-hanno la 
qualità 
di 
bene 
demaniale, con 
applicazione del relativo regime. 


- Demanio stradale. 
È 
costituito dalle 
strade 
destinate 
al 
pubblico traffico e 
dalle 
loro pertinenze 
(quali 
alberi, aiuole, paracarri, aree 
di 
servizio, ponti, viadotti, gallerie, 
sottopassaggi, ecc.) appartenenti 
ad enti 
territoriali. la 
strada 
è, come 
nel 
linguaggio 
comune, quella 
striscia 
di 
terreno più o meno lunga 
e 
di 
sezione 
sensibilmente 
costante, 
attrezzata 
per 
il 
transito 
di 
persone 
e 
di 
veicoli 
sia 
nei 
centri 
abitati 
sia 
fuori 
di 
questi 
(28). 
nella 
geografia 
economica 
e 
in 
cartografia 
il 
nome 
è 
limitato alle 
vie 
di 
comunicazione 
artificiali, riservandosi 
a 
quelle 
naturali 
il 
nome 
di 
piste, sentieri, tratturi, ecc.; 
nell’ambito giuridico non vi 
è 
la detta limitazione e tutte le dette vie integrano strade. 


la 
distinzione 
in strade 
“statali”, “regionali”, “provinciali”, “comunali” 
è 
regolata 
nell’art. 2, commi 
5, 6 e 
7, d.l.vo n. 285/1992. A 
tale 
stregua, in 
sintesi, sono statali 
(o nazionali), le 
grandi 
direttrici 
del 
traffico nazionale 
e 
le 
più importanti 
di 
quelle 
che 
collegano fra 
di 
loro i 
capoluoghi 
di 
regione 
ovvero 
i 
capoluoghi 
di 
Provincia 
situati 
in 
regioni 
diverse; 
sono 
strade 
regionali 
quelle 
che 
allacciano i 
capoluoghi 
di 
Provincia 
della 
stessa 
regione 
tra 
loro o 
con il 
capoluogo di 
regione 
ovvero allacciano i 
capoluoghi 
di 
Provincia 
o i 
Comuni 
con la 
rete 
statale 
se 
ciò sia 
particolarmente 
rilevante 
per ragioni 
di 
carattere 
industriale, commerciale, agricolo, turistico e 
climatico; 
sono strade 
provinciali 
quelle 
che 
allacciano 
al 
capoluogo 
di 
Provincia 
capoluoghi 
dei 
singoli 
Comuni 
della 
rispettiva 
Provincia 
o 
più 
capoluoghi 
di 
Comuni 
tra 
loro 
ovvero 
quando 
allacciano 
alla 
rete 
statale 
o 
regionale 
i 
capoluoghi 
di 
Comune, 
se 
ciò sia 
particolarmente 
rilevante 
per ragioni 
di 
carattere 
industriale, commerciale, 
agricolo, turistico e 
climatico; 
sono strade 
comunali 
quelle 
che 
allacciano 
al 
Comune 
le 
frazioni 
o altre 
località 
che 
abbiano importanza 
per il 
Comune stesso e quelle interne degli abitati. 


il 
Ministero 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti 
procede 
alla 
classificazione 
delle 
strade 
statali, 
sentiti 
il 
Consiglio 
superiore 
dei 
lavori 
pubblici, 
il 
Consiglio 
di 
amministrazione 
dell’Azienda 
nazionale 
autonoma 
per 
le 
strade 
statali 


(28) Ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
norme 
del 
Codice 
della 
strada 
“si 
definisce 
‘strada’ 
l’area ad 
uso 
pubblico 
destinata 
alla 
circolazione 
dei 
pedoni, 
dei 
veicoli 
e 
degli 
animali” 
(art. 
2, 
comma 
1, 
d.l.vo 
30 aprile 1992, n. 285). 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


(AnAS 
s.p.a.), le 
regioni 
interessate, nei 
casi 
e 
con le 
modalità 
indicate 
dal 
regolamento. le 
regioni 
procedono, sentiti 
gli 
enti 
locali, alle 
classificazioni 
delle 
rimanenti 
strade. le 
strade 
così 
classificate 
sono iscritte 
nell’Archivio 
nazionale delle strade (art. 2, comma 8, d.l.vo n. 285/1992). 


Quando le 
strade 
non corrispondono più all’uso e 
alle 
tipologie 
di 
collegamento 
previste 
sono 
declassificate 
dal 
Ministero 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti 
e 
dalle 
regioni, secondo le 
rispettive 
competenze, acquisiti 
i 
pareri 
indicati 
nel 
citato comma 
8 dell’art. 2 (art. 2, comma 
9, d.l.vo n. 285/1992). 


le 
strade 
vicinali 
non rientrano nel 
demanio stradale, costituendo beni 
di 
interesse 
pubblico. Tuttavia, ai 
fini 
del 
codice 
della 
strada, le 
strade 
vicinali 
sono assimilate alle strade comunali (art. 2, comma 6, d.l.vo n. 285/1992). 


- Demanio autostradale. 
È 
costituito dalle 
strade 
a 
traffico selezionato e 
dalle 
loro pertinenze 
appartenenti 
ad 
enti 
territoriali. 
l’autostrada 
per 
il 
Codice 
della 
Strada 
è 
una 
“strada extraurbana o urbana a carreggiate 
indipendenti 
o separate 
da spartitraffico 
invalicabile, ciascuna con almeno due 
corsie 
di 
marcia, eventuale 
banchina pavimentata a sinistra e 
corsia di 
emergenza o banchina pavimentata 
a destra, priva di 
intersezioni 
a raso e 
di 
accessi 
privati, dotata di 
recinzione 
e 
di 
sistemi 
di 
assistenza 
all’utente 
lungo 
l’intero 
tracciato, 
riservata 
alla circolazione 
di 
talune 
categorie 
di 
veicoli 
a motore 
e 
contraddistinta da 
appositi 
segnali 
di 
inizio e 
fine. Deve 
essere 
attrezzata con apposite 
aree 
di 
servizio ed aree 
di 
parcheggio, entrambe 
con accessi 
dotati 
di 
corsie 
di 
decelerazione 
e di accelerazione” (art. 2, comma 3). 


la 
rete 
autostradale 
e 
stradale 
nazionale 
-in 
applicazione 
dell’art. 
7, 
comma 
1 bis, d.l. 8 luglio 2002, n. 138, conv. l. 8 agosto 2002, n. 178 -è 
stata 
trasferita 
dallo Stato all’AnAS 
società 
per azioni, ossia 
ad un soggetto 
di 
diritto privato (ancorché 
appartenente 
allo Stato che 
ne 
è 
l’azionista), con 
la 
precisazione 
che 
“il 
trasferimento 
non 
modifica 
il 
regime 
giuridico, 
previsto 
dagli 
articoli 
823 e 
829, primo comma, del 
codice 
civile, dei 
beni 
demaniali 
trasferiti”. il 
citato comma 
1 bis 
è 
stato poi 
abrogato dall’art. 6 ter, 
comma 
1, 
lett. a), d.l. 30 settembre 
2005, n. 203, conv. l. 2 dicembre 
2005, n. 248. All’attualità 
deve 
ritenersi 
che 
la 
titolarità 
della 
rete 
autostradale 
e 
stradale 
nazionale, 
in conseguenza 
della 
abrogazione 
del 
citato comma 
1 bis 
è 
ritornata 
in capo allo Stato (29). 


- Demanio ferroviario. 
fanno parte 
del 
demanio ferroviario le 
strade 
ferrate 
con tutte 
le 
opere 
e 
pertinenze 
(stazioni, 
impianti, 
viadotti, 
ponti, 
gallerie, 
impianti 
di 
servizio, 
ecc.). i beni 
appartenenti 
al 
demanio ferroviario statale 
hanno mutato regime 


(29) Contra 
f.G. SCoCA 
(a 
cura 
di), Diritto amministrativo, iii edizione, Giappichelli, 2014, p. 
525 per il 
quale 
sembrerebbero implicitamente 
fermi 
sia 
la 
proprietà, in capo all’Anas 
s.p.a., della 
rete 
autostradale e stradale nazionale, sia il regime demaniale di questi stessi beni. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


giuridico in conseguenza 
della 
privatizzazione 
del 
soggetto gestore 
del 
servizio. 
l’art. 
15, 
commi 
1 
e 
2, 
l. 
17 
maggio 
1985, 
n. 
210 
-relativa 
alla 
istituzione 
dell’ente 
“ferrovie 
dello Stato” 
(30) -dispone 
che 
“1. i beni 
mobili 
ed immobili, 
trasferiti 
all’ente 
o comunque 
acquisiti 
nell’esercizio di 
attività di 
cui 
all’articolo 
2 della presente 
legge, costituiscono patrimonio giuridicamente 
ed 
amministrativamente 
distinto 
dai 
restanti 
beni 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
e 
di 
essi 
l’ente 
ha piena disponibilità secondo il 
regime 
civilistico della proprietà 
privata, salvi 
i 
limiti 
su di 
essi 
gravanti 
per 
le 
esigenze 
della difesa nazionale. 
2. 
i 
beni 
destinati 
a 
pubblico 
servizio 
non 
possono 
essere 
sottratti 
alla 
loro 
destinazione 
senza 
il 
consenso 
dell’ente”; 
in 
tal 
modo 
si 
è 
operata 
una 
sdemanializzazione 
ex lege 
delle strade ferrate (31). 


- Demanio aeronautico. 
ne 
fanno 
parte 
gli 
aeroporti 
civili 
(quelli 
militari, 
ovviamente, 
fanno 
parte 
del 
demanio necessario, come 
riconosciuto dall’art. 692, comma 
2, c. nav. secondo 
cui: 
“Gli 
aeroporti 
militari 
fanno parte 
del 
demanio militare 
aeronautico”), 
i 
campi 
di 
volo e 
i 
campi 
di 
fortuna 
destinati 
al 
traffico civile, purché 
di 
appartenenza 
degli 
enti 
territoriali. il 
carattere 
di 
demanialità 
si 
estende 
a 
tutte 
le 
pertinenze, quali 
impianti 
e 
costruzioni 
al 
servizio della 
navigazione 
aerea, 
compresa 
l’area 
di 
sedime 
necessaria 
allo 
svolgimento 
di 
attività 
comunque 
connesse, anche 
in via 
indiretta, alla 
gestione 
dell’aeroporto e 
all’attività 
del 
volo (32). Con riguardo al 
demanio aeronautico statale, l’art. 692 c. 
nav. statuisce: 
“1. Fanno parte 
del 
demanio aeronautico civile 
statale: a) gli 
aeroporti 
civili 
appartenenti 
allo 
Stato; 
b) 
ogni 
costruzione 
o 
impianto 
appartenente 
allo Stato strumentalmente 
destinato al 
servizio della navigazione 
aerea. 
2. 
Gli 
aeroporti 
militari 
fanno 
parte 
del 
demanio 
militare 
aeronautico”. 


- Demanio acquedottistico. 
l’acquedotto 
è 
il 
complesso 
degli 
impianti 
di 
attingimento, 
di 
trattamento, 
di 
trasporto 
e 
di 
distribuzione 
di 
acque 
sotterranee 
o 
superficiali. 
nella 
nozione 
di 
acquedotti 
sono 
compresi 
anche 
i 
canali 
e 
gli 
invasi 
artificiali 
per 
la 
conduzione 
e 
raccolta 
delle 
acque, 
che 
a 
differenza 
dei 
primi 
(in


(30) Avente 
natura 
di 
ente 
pubblico economico, poi 
trasformato in società 
per azioni. nella 
proprietà 
e 
gestione 
della 
rete 
ferroviaria 
alla 
società 
ferrovie 
dello Stato s.p.a. -tenuto conto del 
principio 
comunitario della 
separazione 
della 
proprietà 
e 
della 
gestione 
delle 
reti 
dalla 
erogazione 
dei 
relativi 
servizi 
-è 
subentrata 
poi 
la 
società 
rete 
ferroviaria 
italiana 
s.p.a. -r.f.i. All’attualità 
la 
disciplina 
della 
materia 
è 
contenuta 
nel 
d.l.vo 15 luglio 2015, n. 112 recante 
“attuazione 
della direttiva 2012/34/UE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
21 novembre 
2012, che 
istituisce 
uno spazio ferroviario 
europeo unico”. 
(31) 
Conf. 
Cass. 
S.u., 
27 
febbraio 
2006, 
n. 
4269; 
Cass., 
7 
febbraio 
2013, 
n. 
2961 
secondo 
cui 
il 
mutamento 
del 
regime 
giuridico 
di 
beni 
già 
appartenenti 
al 
demanio 
ferroviario, 
ai 
sensi 
dell’art. 
15 
l. 
n. 
210/1985, 
ha 
reso 
gli 
stessi 
oggetto 
di 
una 
locazione 
privatistica, 
in 
luogo 
dell’iniziale 
concessione 
amministrativa 
che 
ne 
prevedeva 
il 
godimento 
dietro 
pagamento 
di 
un 
corrispettivo. 
Analogamente, 
in 
dottrina 
V. 
CAPuTi 
JAMbrenGhi, 
voce 
Uso 
pubblico 
(diritto 
di), 
in 
Digesto 
Disc. 
Pubbl., 
vol. 
XV, 
uTeT, 
1999, 
p. 
607. 
(32) Conf. su queste: 
T.a.r. Veneto, 31 agosto 1995, n. 1153. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


tesi 
in 
senso 
tecnico) 
consistono 
in 
condutture 
scoperte 
(33). 
Giusta 
l’art. 
143, 
comma 
1, 
d.l.vo 
ambiente 
“Gli 
acquedotti, 
le 
fognature, 
gli 
impianti 
di 
depurazione 
e 
le 
altre 
infrastrutture 
idriche 
di 
proprietà 
pubblica, 
fino 
al 
punto 
di 
consegna 
e/o 
misurazione, 
fanno 
parte 
del 
demanio 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
822 
e 
seguenti 
del 
codice 
civile 
e 
sono 
inalienabili 
se 
non 
nei 
modi 
e 
nei 
limiti 
stabiliti 
dalla 
legge”. 
in 
virtù 
dell’art. 
11, 
comma 
3, 
l. 
n. 
281/1970 
sono 
stati 
trasferiti 
al 
demanio 
regionale 
gli 
acquedotti 
statali 
interessanti 
il 
territorio 
di 
una 
sola 
regione. 


non 
è 
necessario 
alla 
demanialità 
che 
il 
bene 
sia 
situato 
solo 
nel 
territorio 
dell’ente 
proprietario: 
è 
possibile 
che 
l’acquedotto 
attraversi 
il 
territorio 
di 
enti 
diversi 
da 
quello 
di 
appartenenza. 
Gli 
acquedotti 
rivestono 
il 
carattere 
della 
demanialità 
indipendentemente 
dal 
fatto 
che 
convoglino 
acque 
pubbliche. 
All’evidenza, gli 
acquedotti 
realizzati 
da 
enti 
pubblici 
diversi 
da 
quelli 
territoriali 
hanno i caratteri dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile. 


- Demanio culturale. 
ossia 
“gli 
immobili 
riconosciuti 
d’interesse 
storico, archeologico e 
artistico 
a norma delle 
leggi 
in materia” 
comprensivo anche 
di 
peculiari 
universalità 
di 
cose 
costituite 
dalle 
“raccolte 
dei 
musei, 
delle 
pinacoteche, 
degli 
archivi, delle biblioteche”. 

la 
disciplina 
dei 
beni 
culturali 
è 
dettagliata 
nel 
d.l.vo 22 gennaio 2004, 


n. 42, contenente 
il 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio, ove 
si 
precisa 
che 
beni 
culturali 
sono “le 
cose 
immobili 
e 
mobili 
che, ai 
sensi 
degli 
articoli 
10 (34) e 
11, presentano interesse 
artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, 
archivistico e 
bibliografico e 
le 
altre 
cose 
individuate 
dalla legge 
o 
in base 
alla legge 
quali 
testimonianze 
aventi 
valore 
di 
civiltà” 
(art. 2, comma 
(33) 
V. 
Cerulli 
irelli, 
S. 
Pelillo, 
voce 
acquedotti 
e 
canali 
pubblici, 
in 
Enc. 
Giur. 
Vol. 
i, 
Giuffré, 
1988, p. 1, ove 
anche 
il 
rilievo che 
l’art. 12, comma 
1, l. 27 dicembre 
1977, n. 984 ha 
così 
disposto: 
“i 
canali 
demaniali 
di 
irrigazione 
tuttora amministrati 
dal 
ministero delle 
finanze 
sono trasferiti 
alle 
regioni 
e 
sottoposti 
alla 
disciplina 
prevista 
per 
le 
altre 
opere 
pubbliche 
di 
irrigazione 
d’interesse 
regionale 
ed interregionale”. 
(34) 
Che, 
tra 
l’altro, 
indica 
le 
cose 
immobili 
e 
mobili, 
appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
e 
a 
soggetti 
privati 
assimilati 
a 
quelli 
pubblici 
che 
presentano interesse 
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico 
(art. 10, comma 
1, del 
Codice), purché 
l’autore 
dell’opera 
non sia 
vivente 
o la 
loro esecuzione 
risalga 
ad oltre 
settanta 
anni 
(art. 10, comma 
5, del 
Codice). Giusta 
l’art. 10, comma 
4, del 
Codice 
sono 
comprese 
tra 
le 
cose 
ora 
indicate: 
“a) 
le 
cose 
che 
interessano 
la 
paleontologia, 
la 
preistoria 
e 
le 
primitive 
civiltà; b) le 
cose 
di 
interesse 
numismatico che, in rapporto all’epoca, alle 
tecniche 
e 
ai 
materiali 
di 
produzione, nonché 
al 
contesto di 
riferimento, abbiano carattere 
di 
rarità o di 
pregio; c) i 
manoscritti, 
gli 
autografi, 
i 
carteggi, 
gli 
incunaboli, 
nonché 
i 
libri, 
le 
stampe 
e 
le 
incisioni, 
con 
relative 
matrici, 
aventi 
carattere 
di 
rarità e 
di 
pregio; d) le 
carte 
geografiche 
e 
gli 
spartiti 
musicali 
aventi 
carattere 
di 
rarità 
e 
di 
pregio; 
e) 
le 
fotografie, 
con 
relativi 
negativi 
e 
matrici, 
le 
pellicole 
cinematografiche 
ed 
i 
supporti 
audiovisivi 
in genere, aventi 
carattere 
di 
rarità e 
di 
pregio; f) le 
ville, i 
parchi 
e 
i 
giardini 
che 
abbiano 
interesse 
artistico 
o 
storico; 
g) 
le 
pubbliche 
piazze, 
vie, 
strade 
e 
altri 
spazi 
aperti 
urbani 
di 
interesse 
artistico o storico; h) i 
siti 
minerari 
di 
interesse 
storico od etnoantropologico; i) le 
navi 
e 
i 
galleggianti 
aventi 
interesse 
artistico, storico od etnoantropologico; l) le 
architetture 
rurali 
aventi 
interesse 
storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


2, d.l.vo n. 42/2004), appartenenti 
a 
qualsiasi 
soggetto, pubblico o privato. 
Giusta 
l’art. 53, comma 
1, del 
Codice, i 
beni 
culturali 
appartenenti 
allo Stato, 
alle 
regioni 
e 
agli 
altri 
enti 
pubblici 
territoriali 
costituiscono il 
demanio culturale 
ove 
rientrino 
nelle 
tipologie 
indicate 
all’articolo 
822 
c.c., 
ossia: 
immobili 
riconosciuti 
d’interesse 
storico, archeologico e 
artistico a 
norma 
delle 
leggi 
in 
materia; 
le 
raccolte 
dei 
musei, delle 
pinacoteche, degli 
archivi, delle 
biblioteche. 
All’evidenza 
il 
demanio culturale 
costituisce 
una 
parte 
dei 
beni 
culturali 
appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
ed assimilati. difatti: 
a) da 
un punto di 
vista 
oggettivo 
il 
demanio 
culturale 
comprende 
le 
cose 
immobili 
descritte 
all’art.10, 
comma 
1, del 
Codice 
(ad eccezione 
di 
quelle 
di 
interesse 
etnoantropologico) 
e 
le 
universalità 
di 
cose 
mobili 
descritte 
all’art. 10, comma 
2, del 
Codice; 
non 
comprende 
le 
cose 
mobili 
descritte 
all’art. 10, comma 
1, del 
Codice; 
b) da 
un 
punto 
di 
vista 
soggettivo 
il 
demanio 
culturale 
comprende 
i 
beni 
innanzi 
indicati 
appartenenti agli enti territoriali. 

- Demanio comunale specifico: cimiteri e mercati. 
nei 
cimiteri 
devono essere 
ricevuti 
quando non venga 
richiesta 
altra 
destinazione: 
“a) i 
cadaveri 
delle 
persone 
morte 
nel 
territorio del 
comune, qualunque 
ne 
fosse 
in vita la residenza; b) i 
cadaveri 
delle 
persone 
morte 
fuori 
del 
comune, 
ma 
aventi 
in 
esso, 
in 
vita, 
la 
residenza; 
c) 
i 
cadaveri 
delle 
persone 
non 
residenti 
in 
vita 
nel 
comune 
e 
morte 
fuori 
di 
esso, 
ma 
aventi 
diritto 
al 
seppellimento 
in una sepoltura privata esistente 
nel 
cimitero del 
comune 
stesso; 


d) i 
nati 
morti 
ed i 
prodotti 
del 
concepimento […]; 
e) i 
resti 
mortali 
delle 
persone 
sopra elencate” 
(art. 50 d.P.r. 10 settembre 
1990, n. 285, regolamento 
di polizia mortuaria). 
il 
Comune 
può istituire 
usi 
particolari 
dei 
suoli 
cimiteriali, consentendo 
la 
sepoltura 
privata 
nei 
cimiteri 
a 
mezzo 
della 
concessione 
cimiteriale. 
Trattasi 
di 
concessione 
traslativa, in quanto con essa 
il 
Comune 
non fa 
che 
trasferire 
al 
privato una 
parte 
delle 
facoltà 
e 
dei 
poteri 
relativi 
al 
bene 
che 
istituzionalmente 
le 
spettano (35). Giusta 
l’art. 90, commi 
1 e 
2, d.P.r. n. 285/1990 “1. il 
comune 
può concedere 
a privati 
e 
ad enti 
l’uso di 
aree 
per 
la costruzione 
di 
sepolture 
a sistema di 
tumulazione 
individuale, per 
famiglie 
e 
collettività. 2. 
Nelle 
aree 
avute 
in 
concessione, 
i 
privati 
e 
gli 
enti 
possono 
impiantare, 
in 
luogo 
di 
sepolture 
a 
sistema 
di 
tumulazione, 
campi 
di 
inumazione 
per 
famiglie 
e 
collettività, purché 
tali 
campi 
siano dotati 
ciascuna di 
adeguato ossario”. 
le 
concessioni 
sono a 
tempo determinato e 
di 
durata 
non superiore 
a 
99 anni, 
salvo rinnovo (art. 92, comma 
1, d.P.r. n. 285/1990). il 
diritto del 
concessionario 
sull’area 
cimiteriale 
è 
un diritto reale 
limitato e, in specie, di 
superficie. 


(35) 
Conf. 
S. 
roSA, 
voce 
Cimitero. 
a) 
Diritto 
amministrativo, 
in 
Enc. 
Dir., 
Giuffré, 
vol. 
Vi, 
1960, 
p. 995. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


6. Diritti 
demaniali 
su beni 
altrui: diritti 
reali 
demaniali 
su beni 
altrui 
(diritti 
di 
superficie; servitù prediali 
pubbliche) e 
diritti 
di 
uso pubblico (c.d. servitù 
di 
uso pubblico, tra cui 
quelle 
sulle 
strade 
vicinali). Distinzione 
dalle 
limitazioni 
di diritto pubblico alla proprietà. 
l’art. 
825 
c.c. 
dispone 
che 
sono 
parimenti 
soggetti 
al 
regime 
del 
demanio 
pubblico, 
i 
diritti 
reali 
che 
spettano 
allo 
Stato, 
alle 
Province 
e 
ai 
Comuni 
-rectius: 
agli 
enti 
territoriali, 
atteso 
che 
l’art. 
11, 
comma 
2, 
l. 
n. 
281/1970 
estende 
tale 
disposizione 
anche 
alle 
regioni 
-su 
beni 
appartenenti 
ad 
altri 
soggetti, 
quando 
i 
diritti 
stessi 
sono 
costituiti 
per 
l’utilità 
di 
alcuno 
dei 
beni 
indicati 
dagli 
articoli 
artt. 822 e 
824 c.c. o per il 
conseguimento di 
fini 
di 
pubblico interesse 
corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi. 


- Diritti reali demaniali su beni altrui. 
nel 
primo 
caso 
descritto 
dalla 
norma 
(ossia 
diritti 
reali 
costituiti 
per 
l’utilità 
di alcuno dei beni demaniali) vengono in rilievo 

a) i 
diritti 
di 
superficie 
in base 
ai 
quali 
siano state 
realizzate 
opere 
rientranti 
nella categoria dei beni demaniali ai sensi dell’art. 822 c.c. 
b) ed altresì 
le 
servitù prediali 
(c.d. servitù prediali 
pubbliche) (36) nelle 
quali 
il 
fondo 
dominante 
è 
un 
bene 
demaniale 
e 
fondo 
servente 
un 
bene 
privato 
o 
altro 
bene 
pubblico. 
Sono 
tali, 
ad 
es. 
la 
servitù 
di 
scarico 
che 
grava 
sui 
terreni 
limitrofi 
ai 
laghi, al 
fine 
di 
consentire 
il 
deflusso delle 
acque 
in eccedenza 
oppure 
la 
servitù di 
elettrodotto per la 
quale 
“ogni 
proprietario è 
tenuto a dar 
passaggio per 
i 
suoi 
fondi 
alle 
condutture 
elettriche 
aeree 
o sotterranee 
che 
esegua 
chi 
ne 
abbia 
ottenuto 
permanentemente 
o 
temporaneamente 
l’autorizzazione 
dall’autorità competente” (art. 119 T.u. acque) (37). 
l’imposizione 
del 
vincolo prediale 
avviene, di 
solito, mediante 
l’emanazione 
di 
un provvedimento amministrativo; 
tanto nei 
casi 
specialmente 
determinati 
dalla 
legge 
ex 
art. 1032, comma 
1, c.c. (ossia 
nei 
casi 
in cui 
la 
legge 
prevede 
tipicamente 
un provvedimento costitutivo della 
servitù) oppure 
-in 
via 
generale 
e 
residuale 
-con un provvedimento amministrativo di 
espropriazione 
per 
pubblica 
utilità 
ex 
art. 
1 
d.P.r. 
8 
giugno 
2001, 
n. 
327 
(T.u. 
in 
materia 
di 
espropriazione 
per pubblica 
utilità) atteso che 
l’atto di 
imposizione 
autori


(36) 
Sulle 
quali 
V. 
Cerulli 
irelli, 
voce 
Servitù. 
d) 
Diritto 
pubblico, 
in 
Enc. 
Dir., 
vol. 
Xlii, 
Giuffré, 
1990, pp. 332-342; 
A. AnGiuli, voce 
Servitù pubbliche, in Digesto Disc. Pubblic., vol. XiV, uTeT, 
1999, pp. 56-64; 
A. PubuSA, voce 
Servitù pubbliche, in Enc. Giur., vol. XXViii, Giuffré, 1992, pp. 19; 
e 
C. ferrAri, voce 
Servitù prediali 
pubbliche, in Noviss. Digesto, vol. Xlii, uTeT, 1970, pp. 167188; 
questi 
due 
ultimi 
Autori 
rilevano 
che 
-per 
uniformità 
di 
disciplina, 
attesa 
la 
comune 
pubblica 
destinazione 
-l’art. 825 c.c. deve 
essere 
interpretato estensivamente 
ed applicato non solo ai 
beni 
demaniali, 
ma anche al patrimonio indisponibile (p. 2 il primo, pp. 175-177 il secondo). 
(37) la 
cui 
natura 
giuridica, invero, è 
discussa, negandosi 
da 
alcuni 
natura 
di 
servitù per la 
insussistenza 
di 
un fondo dominante, da 
individuarsi 
-invece 
per chi 
ne 
ammette 
la 
detta 
natura 
-nello stabilimento 
di 
produzione 
e 
distribuzione 
dell’energia 
elettrica. Per il 
dibattito: 
A. PubuSA, voce 
Servitù 
pubbliche, cit., pp. 5-6. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


tativa 
di 
servitù 
pubbliche 
è 
un 
provvedimento 
ablatorio 
da 
ascrivere 
al 
gruppo 
delle 
espropriazioni, 
la 
cui 
adozione 
fa 
sorgere 
in 
capo 
al 
proprietario 
del 
fondo 
servente 
un diritto all’indennità. Ciò sul 
rilievo che 
se 
si 
ammette 
la 
soppressione 
di 
una 
servitù esistente 
-e 
tanto è 
ammesso dall’art. 1 cit. che 
prevede 
l’espropriazione 
di 
diritti 
relativi 
ad immobili 
per l’esecuzione 
di 
opere 
pubbliche 
o 
di 
pubblica 
utilità 
-non 
si 
vede 
perché 
non 
si 
possa 
interpretare 
la 
norma 
in modo da 
farvi 
rientrare 
anche 
il 
caso di 
costituzione 
di 
una 
servitù, 
ipotesi 
che 
attua, pur se 
solo parzialmente, il 
prelievo di 
una 
utilità 
dal 
fondo 
servente 
(38). 
Tanto 
è 
confermato 
dall’art. 
44, 
comma 
1, 
T.u. 
espropr. 
secondo 
cui 
“è 
dovuta una indennità al 
proprietario del 
fondo che, dalla esecuzione 
dell’opera pubblica o di 
pubblica utilità, sia gravato da una servitù o subisca 
una permanente 
diminuzione 
di 
valore 
per 
la perdita o la ridotta possibilità 
di esercizio del diritto di proprietà”. 

importanti 
servitù 
costituite 
con 
atto 
della 
P.A. 
sono 
le 
c.d. 
servitù 
militari 
(artt. 
320-332 
d.l.vo 
15 
marzo 
2010, 
n. 
66, 
Codice 
dell’ordinamento 
militare). 
i 
fondi 
limitrofi 
alle 
opere 
ed 
installazioni 
permanenti 
e 
semipermanenti 
destinate 
alla 
difesa 
militare 
possono 
subire 
una 
serie 
di 
limitazioni 
imposte 
con 
provvedimenti 
della 
P.A.; 
tanto 
per 
la 
durata 
massima 
di 
cinque 
anni 
-salva 
la 
possibilità 
di 
conferma, 
ogni 
cinque 
anni 
per 
analogo 
periodo, 
ove 
venga 
accertato 
che 
esse 
sono 
ancora 
necessarie 
per 
le 
esigenze 
della 
difesa 
nazionale 
-e 
nella 
misura 
direttamente 
e 
strettamente 
necessaria 
per 
il 
tipo 
di 
opere 
o 
di 
installazioni 
di 
difesa 
(art. 
320). 
le 
limitazioni 
possono 
consistere, 
tra 
l’altro, 
nel 
divieto 
di 
fare 
elevazioni 
di 
terra 
o 
di 
altro 
materiale, 
costruire 
condotte 
o 
canali 
sopraelevati, 
impiantare 
condotte 
o 
depositi 
di 
gas 
o 
liquidi 
infiammabili, 
scavare 
fossi 
o 
canali 
di 
profondità 
superiore 
a 
50 
cm., 
installare 
macchinari 
o 
apparati 
elettrici 
e 
centri 
trasmittenti, 
aprire 
strade, 
fabbricare 
muri 
o 
edifici, 
sopraelevare 
muri 
o 
edifici 
esistenti 
(art. 
321). 
Adottato 
il 
decreto 
impositivo 
della 
servitù, 
ai 
proprietari 
degli 
immobili 
assoggettati 
alle 
limitazioni 
spetta 
un 
indennizzo 
annuo 
(art. 
325). 
Trattasi 
-come 
si 
evince 
dalla 
minuziosa 
normativa 
-di 
vere 
e 
proprie 
servitù 
e 
non 
di 
limiti 
legali 
alla 
proprietà. 


in 
alternativa 
all’imposizione 
autoritativa, 
la 
servitù 
può 
essere 
costituita 
convenzionalmente, ossia 
mediante 
la 
stipula 
di 
un contratto ad oggetto pubblico 
ex 
art. 
11 
l. 
proc. 
la 
costituzione 
della 
servitù 
in 
esame 
può 
aversi 
anche 
mediante 
usucapione 
o 
l’immemoriale 
(39). 
Alcune 
fattispecie 
di 
servitù 
sono 


(38) Per tali 
rilievi: 
C. ferrAri, voce 
Servitù prediali 
pubbliche, cit., pp. 184-185. Conf. altresì 
V. Cerulli 
irelli, voce 
Servitù. d) Diritto pubblico, cit., pp. 337-338 e 
A. PubuSA, voce 
Servitù pubbliche, 
cit., pp. 6-7. 
(39) l’immemoriale 
è 
un istituto per il 
quale 
il 
possesso che 
dura 
da 
tanto tempo (vetustas) da 
essersi 
smarrito il 
ricordo del 
suo nascere 
determina 
una 
presunzione 
di 
esistenza 
di 
un titolo corrispondente 
al 
diritto (per tale 
definizione, ex 
plurimis: 
Cass., 25 maggio 1992, n. 6231). Tale 
istituto è 
stato 
abolito nei 
rapporti 
privatistici 
ex 
art. 630, comma 
2, c.c. del 
1865, ma 
permane 
nei 
rapporti 
di 
diritto 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


fissate 
dalla 
legge, 
come 
ad 
es. 
la 
servitù 
di 
via 
alzaia 
o 
marciapiede 
che 
grava 
sui 
beni 
laterali 
ai 
fiumi 
navigabili 
(art. 52 r.d. 11 luglio 1913, n. 959) (40). 
deve 
tuttavia 
ritenersi 
che 
nel 
caso di 
servitù legali 
non si 
è 
in presenza 
tecnicamente 
di 
servitù, 
ma 
di 
limitazioni 
legali 
nel 
godimento 
della 
cosa 
prodotte 
dalla 
vicinanza 
della 
cosa 
stessa 
al 
bene 
demaniale 
indicato 
dalla 
legge. 
ossia: 
si 
è 
nell’ambito delle 
limitazioni 
legali 
alla 
proprietà 
ricondotte 
dal 
codice 
civile 
ai rapporti di vicinato (41). 


Modi 
di 
estinzione 
della 
servitù 
prediale 
pubblica 
sono 
la 
cessazione 
della 
demanialità 
del 
fondo dominante, un atto amministrativo che 
prenda 
atto del 
venir 
meno 
degli 
interessi 
pubblici 
per 
il 
cui 
soddisfacimento 
la 
servitù 
è 
sorta 
(ad es. la 
revoca), l’abrogazione 
delle 
leggi 
istitutive 
di 
servitù pubbliche, la 
confusione, 
le 
previsioni 
estintive 
contenute 
nel 
titolo 
convenzionale 
della 
servitù 
(ad es. scadenza del termine) (42). 


la 
disposizione 
dell’art. 825 c.c. ha 
una 
virtù espansiva: 
anche 
la 
servitù 
va qualificata bene demaniale, con il conseguenziale regime. 


- Diritti di uso pubblico. 
nel 
secondo caso descritto dalla 
norma 
(ossia 
diritti 
reali 
costituiti 
per il 
conseguimento di 
fini 
di 
pubblico interesse 
corrispondenti 
a 
quelli 
a 
cui 
servono 
i 
beni 
demaniali) vengono in rilievo le 
c.d. servitù di 
uso pubblico (o diritti 
di 
uso 
pubblico) 
(43), 
a 
vantaggio 
di 
una 
collettività 
indeterminata 
di 
persone. 


pubblico. 
Conf. 
ex 
plurimis 
Cass. 
18 
giugno 
1976, 
n. 
2289 
e 
Cass. 
14 
gennaio 
2019, 
n. 
587; 
quest’ultima 
precisa: 
l’istituto dell’immemorabile, non più applicabile 
ai 
rapporti 
privatistici 
in quanto abrogato dal 
codice 
civile 
del 
1865 
e 
non 
richiamato 
in 
vigore 
dall’attuale 
codice 
civile, 
è 
invece 
operante 
nei 
rapporti 
di 
diritto pubblico e 
in particolare 
in quelli 
che 
hanno a 
oggetto beni 
demaniali; 
esso, a 
differenza 
dello 
usucapione, non è 
un modo di 
acquisto del 
diritto, ma 
costituisce 
una 
presunzione 
di 
legittimità 
del 
possesso 
attuale, fondata 
sulla 
“vetustas”, e 
cioè 
sul 
decorso di 
un tempo talmente 
lungo che 
si 
sia 
perduta 
memoria 
dell’inizio di 
una 
determinata 
situazione 
di 
fatto, senza 
che 
ci 
sia 
memoria 
del 
contrario, di 
modo che 
la 
presunzione 
di 
corrispondenza 
dello stato di 
diritto allo stato di 
fatto implica 
che 
rispetto a 
quest’ultimo 
si 
presuma 
esistente 
il 
titolo 
legittimo 
e 
che, 
conseguentemente, 
possa 
ritenersi 
la 
legittimità 
dell’esercizio di 
diritti 
il 
cui 
acquisto non sarebbe 
attualmente 
possibile 
da 
parte 
di 
coloro che 
li 
esercitano. 
Perché 
possa 
ritenersi 
realizzata 
la 
prova 
di 
siffatta 
situazione, essa 
deve 
provenire 
da 
soggetti 
appartenenti 
ad 
almeno 
due 
generazioni, 
vale 
a 
dire 
non 
solo 
dagli 
ultracinquantenni 
della 
generazione 
attuale ma anche, secondo il loro ricordo, dai rispettivi genitori. 


(40) 
“i 
beni 
laterali 
ai 
fiumi 
navigabili 
sono 
soggetti 
alla 
servitù 
della 
via 
alzata, 
detta 
anche 
d’attiraglio o di 
marciapiede. Dove 
la larghezza di 
questa non è 
determinata da regolamenti 
e 
consuetudini 
vigenti, si 
intenderà stabilita a metri 
5. Essa insieme 
alla sponda fino al 
fiume 
dovrà dai 
proprietari 
essere 
lasciata libera da ogni 
ingombro od ostacolo al 
passaggio d’uomini 
e 
di 
bestie 
da tiro. 
[...].” 
Sulla 
servitù di 
via 
alzaia: 
A. ColASurdo, voce 
alzaia, in Enc. Dir., Giuffré, vol. ii, 1958, pp. 114-116, 
anche 
per la 
illustrazione 
della 
diversa 
tesi 
secondo cui 
l’alzaia 
è 
una 
semplice 
limitazione 
del 
diritto di 
proprietà, imposta per i fini della navigazione. 
(41) in tal senso anche 
V. Cerulli 
irelli, voce 
Servitù. d) Diritto pubblico, cit., pp. 335-336. 
(42) Su tali 
modi 
A. PubuSA, voce 
Servitù pubbliche, cit., pp. 7-8; 
A. AnGiuli, voce 
Servitù pubbliche, 
cit., p. 61. 
(43) 
Sui 
quali 
C. 
ferrAri, 
voce 
Uso 
pubblico 
(diritto 
di), 
in 
Noviss. 
Digesto, 
vol. 
XX, 
uTeT, 
1975, pp. 270-275; 
V. CAPuTi 
JAMbrenGhi, voce 
Uso pubblico (diritto di), cit., pp. 602-611. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Trattasi 
di 
diritti 
reali 
di 
godimento, 
dei 
quali 
è 
titolare 
l’ente 
pubblico 
territoriale, 
incidenti 
su 
immobili 
di 
proprietà 
privata. 
la 
loro 
tutela, 
nei 
confronti 
del 
titolare 
del 
bene 
inciso 
il 
quale 
contesti 
l’esistenza 
della 
servitù, 
spetta 
all’ente 
territoriale 
titolare 
del 
diritto 
di 
uso 
pubblico 
e 
-si 
ritiene 
anche 
al 
singolo 
componente 
della 
collettività 
quale 
attore 
popolare 
sostitutivo; 
invece, 
nel 
caso 
che 
al 
singolo 
componente 
della 
collettività 
venga 
impedito 
il 
libero 
godimento 
del 
diritto, 
la 
possibilità 
di 
agire 
in 
giudizio 
spetta 
al 
detto 
componente, 
venendo 
in 
rilievo 
un 
diritto 
di 
libertà 
di 
godimento 
della 
c.d. 
servitù 
di 
uso 
pubblico 
del 
quale 
è 
titolare 
(44). 
esclusa 
l’ipotesi 
di 
costituzione 
ex 
lege, 
cause 
di 
costituzione 
di 
tali 
diritti 
possono 
essere: 
a) 
atto 
amministrativo 
di 
ordine 
espropriativo 
o 
ablatorio; 
b) 
atto 
negoziale 
tra 
ente 
pubblico 
e 
proprietario 
dei 
beni 
incisi 
(ricorrente 
è 
il 
negozio 
di 
liberalità, 
donazione 
o 
testamento); 
c) 
usucapione 
da 
parte 
di 
una 
collettività 
indifferenziata 
di 
soggetti 
e 
imputata 
nel 
proprio 
effetto 
acquisitivo 
all’amm.ne 
pubblica 
a 
ciò 
competente 
(come 
ad 
es. 
accade 
per 
l’ipotesi 
dell’usucapione 
dell’uso 
pubblico 
su 
di 
una 
strada 
privata); 
d) 
immemoriale; 
e) 
dicatio 
ad 
patriam 
ossia 
con 
il 
comportamento 
del 
proprietario 
che, 
seppure 
non 
intenzionalmente 
diretto 
a 
dar 
vita 
al 
diritto 
di 
uso 
pubblico, 
mette 
volontariamente, 
con 
carattere 
di 
continuità 
e 
dunque 
senza 
precarietà 
o 
spirito 
di 
tolleranza, 
un 
proprio 
bene 
a 
disposizione 
di 
una 
collettività 
determinata 
e 
ristretta 
ovvero 
indeterminata, 
assoggettandolo 
al 
correlativo 
uso, 
al 
fine 
di 
soddisfare 
un’esigenza 
comune 
ai 
membri 
di 
tale 
collettività 
uti 
cives, 
indipendentemente 
dai 
motivi 
per 
i 
quali 
tale 
comportamento 
venga 
tenuto, 
dalla 
sua 
spontaneità 
e 
dallo 
spirito 
che 
lo 
anima 
(la 
fattispecie 
configura 
un 
fatto 
giuridico 
e 
non 
un 
negozio 
giuridico) 
(45). 


Come 
nella 
servitù pubblica, anche 
nel 
caso della 
servitù di 
uso pubblico 
la 
situazione 
soggettiva 
va 
qualificata 
bene 
demaniale, con il 
conseguenziale 
regime. 
il 
fondamentale 
elemento 
distintivo 
tra 
servitù 
prediali 
pubbliche 
e 
diritti 
di 
uso pubblico risiede 
nell’assenza, nei 
secondi, di 
un rapporto funzionale 
tra 
i 
fondi. i diritti 
di 
uso pubblico sussistono infatti 
in questa 
evenienza 
a 
favore 
delle 
collettività 
non già 
per l’utilità 
di 
un bene 
demaniale, bensì 
in 
quanto 
ogni 
membro 
della 
collettività 
medesima 
può 
legittimamente 
fruire 
del 


(44) Per tali rilievi: C. ferrAri, voce 
Uso pubblico (diritto di), cit., pp. 272-273. 
(45) Sulle 
modalità 
dell’atto negoziale, della 
usucapione 
e 
della 
dicatio ad patriam, ricognitiva-
mente: 
Cons. Stato, 12 maggio 2020, n. 2999. in dottrina: 
A.M. SAndulli, manuale 
di 
diritto amministrativo, 
vol. ii, cit., pp. 813-814 il 
quale 
rileva 
che 
rientrano nella 
categoria 
dei 
diritti 
di 
uso pubblico 
anche 
il 
diritto di 
visita 
pubblica 
agli 
immobili 
privati 
di 
interesse 
storico, archeologico, artistico e 
paesistico, 
nonché 
i 
diritti 
di 
visita, 
di 
visione 
e 
di 
consultazione 
che 
gli 
amministrati 
siano 
ammessi 
ad 
esercitare 
nei 
musei, nelle 
pinacoteche, negli 
archivi, nelle 
biblioteche 
o nei 
confronti 
di 
singole 
opere 
d’arte 
o di 
singoli 
documenti 
di 
proprietà 
privata; 
tali 
diritti 
vengono per lo più costituiti 
mediante 
un 
provvedimento della 
P.A. o una 
dicatio ad patriam; 
possono agire 
in giudizio per far valere 
i 
diritti 
in 
questione, oltre 
all’ente 
pubblico, anche 
-uti 
singuli 
-i 
soggetti 
ammessi 
a 
fruire 
del 
diritto civico di 
cui trattasi. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


bene 
asservito nei 
limiti 
del 
relativo vincolo al 
pubblico interesse, realizzato 
mediante 
la 
costituzione 
di 
un 
diritto 
reale 
parziale, 
non 
obliterante 
la 
proprietà 
privata, ma 
che 
ne 
funzionalizza 
il 
contenuto al 
pubblico interesse, coerentemente 
all’art. 42 Cost. e 
come 
conseguente 
obbligo contemplabile 
dall’ordinamento 
giuridico 
nel 
contesto 
del 
c.d. 
“statuto 
della 
proprietà 
privata”, 
ai 
sensi degli artt. 832 e ss. c.c. (46). 


Tra 
i 
casi 
più 
rilevanti 
di 
diritti 
di 
uso 
pubblico, 
abbiamo 
quello 
sulle 
strade 
vicinali, 
ossia 
della 
servitù 
di 
passaggio 
su 
strada 
privata, 
regolata 
dalla 
l. 
20 
marzo 
1865, 
n. 
2248, 
All. 
f 
(artt. 
1, 
51-54 
e 
84), 
e 
dal 
d.l.vo 
luogotenenziale 
1 
settembre 
1918, 
n. 
1446 
(disciplinante 
la 
facoltà 
agli 
utenti 
delle 
strade 
vicinali 
di 
costituirsi 
in 
Consorzio 
per 
la 
manutenzione 
e 
la 
ricostruzione 
di 
esse). 


i 
diritti 
demaniali 
su 
beni 
altrui, 
in 
ambedue 
le 
tipologie, 
vanno 
distinti 
dalle 
limitazioni 
di 
diritto 
pubblico 
alla 
proprietà. 
i 
diritti 
demaniali 
su 
beni 
altrui 
comportano 
sacrifici 
alla 
proprietà 
aliena, 
hanno 
la 
consistenza 
di 
diritti 
reali 
con 
diritto 
all’indennizzo 
(salva 
previsione 
in 
deroga) 
in 
capo 
al 
soggetto 
inciso. 
le 
limitazioni 
di 
diritto 
pubblico 
alla 
proprietà, 
invece, 
afferiscono 
alla 
conformazione 
del 
bene 
stabilita 
da 
norme 
imperative 
e, 
di 
conseguenza, 
non 
fanno 
germinare 
diritti 
reali 
e 
correlativi 
diritti 
all’indennizzo 
nei 
soggetti 
coinvolti. 


7. Beni 
patrimoniali 
indisponibili: c.d. “demanio forestale”; miniere, cave 
e 
torbiere; 
cose 
d’interesse 
storico, 
archeologico, 
paletnologico, 
paleontologico 
e 
artistico, 
da 
chiunque 
e 
in 
qualunque 
modo 
ritrovate 
nel 
sottosuolo; 
beni 
costituenti 
la 
dotazione 
della 
Presidenza 
della 
repubblica; 
caserme, 
armamenti, 
aeroplani 
e 
navi 
da guerra; edifici 
destinati 
a sede 
di 
uffici 
di 
tutti 
gli 
enti 
pubblici, territoriali 
e 
non territoriali, con i 
loro arredi, e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio; 
fauna 
selvatica; 
aree, 
espropriate 
dal 
Comune, 
comprese 
nel 
piano di 
zona per 
l’edilizia economica e 
popolare; aree 
oggetto 
di 
retrocessione 
acquisite 
dal 
Comune 
mediante 
l’esercizio 
del 
diritto 
di prelazione. 
il 
codice 
civile 
prevede 
che 
determinati 
beni 
ove 
appartenenti 
ad 
un 
qualsivoglia 
ente 
pubblico o ad uno specifico ente 
pubblico vanno qualificati 
beni 
pubblici, e 
in specie 
come 
beni 
del 
patrimonio indisponibile 
(47). Come 
per il 
demanio 
accidentale, 
tali 
beni 
potrebbero 
anche 
appartenere 
a 
privati, 
ed 
in 
questo caso valgono le 
regole 
del 
diritto comune. Ma 
ove 
appartenenti 
ad un 
ente 
pubblico, muta 
il 
regime 
giuridico. le 
disposizioni 
rilevanti 
sono gli 
artt. 
826 e 830 c.c.: 


(46) in tali termini: Cons. Stato, n. 2999/2020 cit. 
(47) Per un quadro generale: 
G. inGroSSo, voce 
Patrimonio dello Stato e 
degli 
enti 
pubblici, in 
Noviss. Digesto, vol. Xiii, uTeT, 1965, pp. 665-676. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


“2. Fanno parte 
del 
patrimonio indisponibile 
dello Stato le 
foreste 
che 
a 
norma delle 
leggi 
in materia costituiscono il 
demanio forestale 
dello Stato, le 
miniere, 
le 
cave 
e 
torbiere 
quando 
la 
disponibilità 
ne 
è 
sottratta 
al 
proprietario 
del 
fondo, le 
cose 
d’interesse 
storico, archeologico, paletnologico, paleontologico 
e 
artistico, da chiunque 
e 
in qualunque 
modo ritrovate 
nel 
sottosuolo, 
i 
beni 
costituenti 
la dotazione 
della Presidenza della repubblica, le 
caserme, 
gli 
armamenti, gli 
aeromobili 
militari 
e 
le 
navi 
da guerra. 3. Fanno parte 
del 
patrimonio indisponibile 
dello Stato o, rispettivamente, delle 
province 
e 
dei 
comuni, 
secondo 
la 
loro 
appartenenza, 
gli 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
pubblici, 
con i 
loro arredi, e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a un pubblico servizio” 
(art. 
826, commi 2 e 3, c.c.). 


“ai 
beni 
di 
tali 
enti 
[enti 
pubblici 
non territoriali] che 
sono destinati 
a un 
pubblico servizio si 
applica la disposizione 
del 
secondo comma dell’articolo 
828” (art. 830, comma 2, c.c.). 


l’art. 11, comma 
5, l. n. 281/1970 dispone 
poi: 
“Sono trasferite 
alle 
regioni 
e 
fanno 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
regionale 
le 
foreste, 
che 
a 
norma 
delle 
leggi 
vigenti 
appartengono 
allo 
Stato, 
le 
cave 
e 
le 
torbiere, 
quando la disponibilità ne 
è 
sottratta al 
proprietario del 
fondo, le 
acque 
minerali 
e 
termali. Gli 
edifici 
con i 
loro arredi 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
ad uffici 
e 
servizi 
pubblici 
di 
spettanza 
regionale 
saranno 
trasferiti 
ed 
entreranno 
a 
far 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
delle 
regioni 
con 
i 
provvedimenti 
legislativi 
di cui al successivo articolo 17” (48). 


Anche 
la 
fauna 
selvatica 
rientra 
ex 
art. 1, comma 
1, l. 11 febbraio 1992, 


n. 157 nel 
patrimonio indisponibile 
dello Stato. Coerentemente 
“L’attività venatoria 
si 
svolge 
per 
una concessione 
che 
lo Stato rilascia ai 
cittadini 
che 
la 
(48) 
Per 
la 
regione 
Trentino-Alto 
Adige 
è 
disposto: 
“Le 
foreste 
di 
proprietà 
dello 
Stato 
nella 
regione, 
le 
miniere, 
le 
cave 
e 
torbiere, 
quando 
la 
disponibilità 
ne 
è 
sottratta 
al 
proprietario 
del 
fondo, 
gli 
edifici 
destinati 
a 
sedi 
di 
uffici 
pubblici 
regionali 
con 
i 
loro 
arredi, 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio 
regionale 
costituiscono 
il 
patrimonio 
indisponibile 
della 
regione” 
(art. 
58, 
comma 
1, 
dello 
Statuto). 
Per 
la 
regione 
Sicilia 
è 
disposto: 
“Fanno 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
della 
regione: 
le 
foreste, 
che 
a 
norma 
delle 
leggi 
in 
materia 
costituiscono 
oggi 
il 
demanio 
forestale 
dello 
Stato 
nella 
regione; 
le 
miniere, 
le 
cave 
e 
torbiere, 
quando 
la 
disponibilità 
ne 
è 
sottratta 
al 
proprietario 
del 
fondo; 
le 
cose 
d’interesse 
storico, 
archeologico, 
paletnologico, 
paleontologico 
ed 
artistico, 
da 
chiunque 
ed 
in 
qualunque 
modo 
ritrovate 
nel 
sottosuolo 
regionale; 
gli 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
pubblici 
della 
regione 
coi 
loro 
arredi 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio 
della 
regione” 
(art. 
33, 
comma 
2, 
dello 
Statuto). 
Per 
la 
regione 
Valle 
d’Aosta 
è 
disposto: 
“Fanno 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
della 
regione: 
le 
foreste 
che, 
a 
norma 
delle 
leggi 
vigenti, 
appartengono 
allo 
Stato; 
le 
cave, 
quando 
la 
disponibilità 
ne 
è 
sottratta 
al 
proprietario 
del 
fondo; 
gli 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
pubblici 
della 
regione 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio 
della 
regione” 
(art. 
6, 
comma 
2, 
dello 
Statuto). 
Per 
la 
regione 
friuli-Venezia 
Giulia 
è 
disposto: 
“Sono 
trasferiti 
alla 
regione 
e 
vanno 
a 
far 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
i 
seguenti 
beni 
dello 
Stato: 
1) 
le 
foreste; 
2) 
le 
miniere 
e 
le 
acque 
minerali 
e 
termali; 
3) 
le 
cave 
e 
torbiere, 
quando 
la 
disponibilità 
è 
sottratta 
al 
proprietario 
del 
fondo” 
(art. 
55 
dello 
Statuto). 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


richiedano e 
che 
posseggano i 
requisiti 
previsti 
dalla presente 
legge” 
(art. 12, 
comma 
1, 
l. 
n. 
157/1992); 
si 
dispone 
inoltre 
che 
“La 
fauna 
selvatica 
abbattuta 
durante 
l’esercizio 
venatorio 
nel 
rispetto 
delle 
disposizioni 
della 
presente 
legge 
appartiene 
a 
colui 
che 
l’ha 
cacciata” 
(art. 
12, 
comma 
6, 
l. 
n. 
157/1992). 


inoltre 
hanno 
natura 
di 
patrimonio 
comunale 
indisponibile 
le 
aree, 
espropriate 
dal 
Comune, comprese 
nel 
piano di 
zona 
per l’edilizia 
economica 
e 
popolare 
(art. 35, commi 
2 e 
3, l. 22 ottobre 
1971, n. 865). hanno tale 
natura 
altresì 
le 
aree 
oggetto di 
retrocessione 
acquisite 
dal 
Comune 
mediante 
l’esercizio 
del diritto di prelazione 
ex 
art. 48, comma 3, T.u. espropr. 


Circa la tipologia dei beni, si formulano le seguenti annotazioni. 


- c.d. “demanio forestale”. 
Comprende 
le 
foreste 
descritte 
nell’art. 106 r.d. 30 dicembre 
1923, n. 
3267 
e, 
ora, 
nella 
titolarità 
delle 
regioni. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
107 
r.d. 
n. 
3267/1923 
“i 
boschi 
e 
terreni 
che 
vengono 
comunque 
a 
formare 
parte 
del 
Demanio 
forestale 
di 
Stato 
sono 
inalienabili 
e 
devono 
essere 
coltivati 
ed 
utilizzati 
secondo un regolare 
piano economico” 
(49). Con il 
d.l.vo 3 aprile 
2018, n. 
34 è stato adottato il 
Testo unico in materia di foreste e filiere forestali. 


- miniere. 
Sono regolate 
dal 
r.d. 29 luglio 1927, n. 1443. la 
loro titolarità 
spetta 
allo Stato. il 
godimento a 
terzi 
può essere 
conferito, per i 
principi, solo con 
atto amministrativo di concessione. 


- Cave e torbiere. 
Costituiscono 
patrimonio 
indisponibile 
-ora 
nella 
titolarità 
delle 
regioni 
ex 
art. 
11, 
comma 
5, 
l. 
n. 
281/1970 
(50) 
-allorché 
la 
loro 
disponibilità 
è 
sottratta, 
con 
atto 
di 
avocazione, 
al 
proprietario 
del 
fondo. 
diversamente 
sono 
lasciate 
nella 
disponibilità 
del 
proprietario 
del 
suolo, 
con 
la 
conseguenza 
che 
il 
loro 
sfruttamento 
può 
essere 
ceduto 
da 
questi 
con 
contratti 
di 
diritto 
privato 
(51). 
Tanto 
è 
disposto 
dall’art. 
45 
r.d. 
n. 
1443/1927 
secondo 
cui 
“1. 
Le 
cave 
e 
le 
torbiere 
sono 
lasciate 
in 
disponibilità 
del 
proprietario 
del 
suolo. 
2. 
Quando 
il 
proprietario 
non 
intraprenda 
la 
coltivazione 
della 
cava 
o 
torbiera 
o 
non 
dia 
ad 
essa 
sufficiente 
sviluppo, 
l’ingegnere 
capo 
del 
Distretto 
minerario 
può 
prefiggere 
un 
termine 
per 
l’inizio, 
la 
ripresa 
o 
la 
intensificazione 
dei 
lavori. 
Tra


(49) 
la 
stessa 
legge 
prevede 
tuttavia 
“la 
facoltà” 
(art. 
119) 
“di 
promuovere” 
l’alienazione 
di 
terreni 
“che, per 
la loro natura, ubicazione 
e 
limitata estensione, non corrispondano ai 
fini 
previsti 
dall’art. 
108 od a quelli 
di 
utilità pubblica, di 
cui 
al 
titolo i del 
presente 
decreto, o non siano suscettivi 
d’importanti 
trasformazioni 
agrarie”, ovvero di 
piccoli 
appezzamenti 
“la cui 
cessione 
si 
riconosca necessaria 
per 
soddisfare 
esigenze 
locali 
di 
abitazione 
o di 
industria, sempre 
che 
tali 
alienazioni 
non riescano di 
pregiudizio alla foresta”. 
(50) Con d.P.r. 14 gennaio 1972, n. 2 è 
stato disposto il 
trasferimento alle 
regioni 
a 
statuto ordinario 
delle 
funzioni 
amministrative 
statali 
in materia 
di 
acque 
minerali 
e 
termali, di 
cave 
e 
torbiere 
e 
di artigianato e del relativo personale. 
(51) Conf. Cass., S.u., 24 novembre 1989, n. 5070. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


scorso 
infruttuosamente 
il 
termine 
prefisso, 
l’ingegnere 
capo 
del 
Distretto 
minerario 
può 
dare 
la 
concessione 
della 
cava 
e 
della 
torbiera 
in 
conformità 
delle 
norme 
contenute 
nel 
titolo 
ii 
del 
presente 
decreto, 
in 
quanto 
applicabili. 
[…]. 


4. 
al 
proprietario 
è 
corrisposto 
il 
valore 
degli 
impianti, 
dei 
lavori 
utilizzabili 
e 
del 
materiale 
estratto 
disponibile 
presso 
la 
cava 
o 
la 
torbiera. 
[…]”. 
All’evidenza, 
con 
l’atto 
di 
avocazione 
vi 
è 
il 
trasferimento 
coattivo 
di 
cave 
e 
torbiere 
a 
favore 
delle 
regioni 
in 
caso 
di 
insufficiente 
sfruttamento 
da 
parte 
del 
proprietario. 
l’atto 
ha, 
quindi, 
un 
carattere 
sanzionatorio 
atteso 
che 
si 
fonda 
sul 
presupposto 
che 
un 
bene 
socialmente 
utile 
debba 
essere 
adeguatamente 
utilizzato 
dal 
suo 
titolare. 
Ciò 
spiega 
la 
mancata 
previsione 
dell’indennizzo, 
ma 
solo 
un 
mero 
corrispettivo 
per 
il 
valore 
degli 
impianti, 
dei 
lavori 
utilizzabili 
e 
del 
materiale 
estratto 
disponibile 
presso 
la 
cava 
o 
la 
torbiera. 
-Cose 
d’interesse 
storico, archeologico, paletnologico, paleontologico 
e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo. 
Trattasi 
di 
cose 
diverse 
dalle 
demaniali, appartenenti 
agli 
enti 
territoriali. 
hanno tale 
qualità 
i 
beni 
mobili 
descritti 
nell’art. 10, comma 
1, del 
Codice 
ritrovati 
nel sottosuolo, come confermato dall’art. 91, comma 1, del Codice. 


- Caserme, armamenti, aeroplani e navi da guerra. 
Tutti 
i 
beni 
destinati, in modo diretto o indiretto, alla 
difesa 
militare 
appartengono 
esclusivamente 
allo 
Stato; 
i 
più 
importanti 
fanno 
parte 
del 
demanio 
pubblico, 
gli 
altri 
del 
patrimonio 
indisponibile. 
Tanto 
è 
confermato 
nell’art. 
232 d.l.vo n. 66/2010 (52). 


-Edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
di 
tutti 
gli 
enti 
pubblici, 
territoriali 
e 
non 
territoriali, 
con 
i 
loro 
arredi, 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio. 


Molto importante 
è 
l’ultima 
tipologia 
-quella 
degli 
altri 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio: 
la 
categoria 
è 
aperta, 
essendo 
sufficiente 
il 
vincolo 
di 
destinazione 
specifico 
ad 
un 
pubblico 
servizio 
non 
economico 
(es.: 
scuola, 
sanità, 
servizi 
sociali) od economico. A 
tale 
stregua, gli 
impianti 
sportivi 
di 
proprietà 
comunale 
(ad 
es., 
piscina 
comunale) 
appartengono 
al 
patrimonio 
indisponibile 
del 
Comune 
essendo destinati 
al 
soddisfacimento dell’interesse 
della collettività allo svolgimento delle attività sportive (53). 


(52) “Fanno parte 
del 
patrimonio indisponibile 
del 
ministero della difesa, se 
a esso assegnati 
in 
uso, 
le 
caserme, 
gli 
armamenti, 
gli 
aeromobili 
militari 
e 
le 
navi 
da 
guerra 
e 
comunque 
militari, 
gli 
edifici 
destinati 
a sede 
di 
pubblici 
uffici 
con i 
loro arredi 
e 
gli 
altri 
beni 
destinati 
a un pubblico servizio 
della Difesa”. 
(53) Conf. Cass., S.u., 20 aprile 
2015 n. 7959, la 
quale 
enuncia 
il 
corollario che 
qualora 
tali 
beni 
siano dati 
in concessione 
a 
privati, restano devolute 
al 
G.A. le 
controversie 
sul 
rapporto concessorio, 
inclusa 
quella 
sull’inadempimento degli 
obblighi 
concessori 
e 
la 
decadenza 
del 
concessionario. Analogamente: 
Cons. Stato, 27 febbraio 2018, n. 1172, con la 
precisazione 
che 
la 
gestione 
di 
tali 
impianti 
può 
essere 
effettuata 
dall’amministrazione 
competente 
in 
forma 
diretta 
oppure 
indiretta, 
mediante 
affidamento 
a 
terzi 
individuati 
con procedura 
selettiva. Ancora: 
Cons. Stato, 13 febbraio 2023, n. 1517: 
l’impianto 
sportivo rientra 
nella 
previsione 
ex 
art. 826, comma 
3 (nel 
caso di 
specie: 
beni 
di 
proprietà 
dei 
Comuni 
destinati 
a 
un pubblico servizio) e, dunque, è 
assoggettato al 
regime 
dei 
beni 
patrimoniali 
indi

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


necessario, affinché 
una 
cosa 
abbia 
la 
qualifica 
di 
“bene 
destinato a 
un 
pubblico servizio”, e 
quindi 
di 
bene 
pubblico, è 
-oltre 
alla 
manifestazione 
di 
volontà, dell’ente 
titolare 
del 
diritto reale 
pubblico, di 
destinare 
quel 
determinato 
bene 
ad un pubblico servizio -anche 
la 
effettiva 
ed attuale 
destinazione 
del bene al pubblico servizio (54). 

diversamente 
dai 
beni 
indisponibili 
descritti 
in precedenza 
(i 
quali 
sono 
pubblici 
se 
appartengono 
ad 
enti 
territoriali), 
i 
beni 
destinati 
a 
un 
pubblico 
servizio, 
compresi 
gli 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
uffici 
con i 
loro arredi, sono pubblici 
(art. 830, comma 
2, c.c.) se 
appartengono a 
qualsivoglia 
ente 
pubblico, 
territoriale o non territoriale, quali ad es. gli enti di previdenza. 


8. regime 
giuridico dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici: inalienabilità dei 
beni 
demaniali e rispetto della destinazione dei beni patrimoniali indisponibili. 
l’inalienabilità 
è 
il 
tratto 
caratterizzante 
i 
beni 
demaniali. 
Tanto 
viene 
enunciato dall’art. 823, comma 
1, c.c. secondo cui 
“i beni 
che 
fanno parte 
del 
demanio pubblico sono inalienabili 
e 
non possono formare 
oggetto di 
diritti 
a favore 
di 
terzi, se 
non nei 
modi 
e 
nei 
limiti 
stabiliti 
dalle 
leggi 
che 
li 
riguardano”. 
l’inalienabilità 
è 
assoluta 
con riguardo ai 
beni 
del 
demanio necessario 
ed ai 
beni 
del 
demanio accidentale 
indissolubilmente 
legati 
a 
un determinato 
ente 
territoriale 
(es. 
piazze 
dei 
centri 
urbani). 
l’inalienabilità 
è 
invece 
relativa 
quando, in base 
alla 
legge 
è 
possibile 
il 
trasferimento del 
bene 
da 
un ente 
territoriale 
ad altro ente 
territoriale, come 
previsto nel 
codice 
della 
strada 
con la 
riclassificazione delle strade. 

Peculiare 
è 
la 
disciplina 
del 
demanio culturale: 
i 
beni 
del 
demanio culturale 
-e 
quindi 
appartenenti 
allo Stato, alle 
regioni 
e 
agli 
enti 
locali 
-secondo 
la 
disciplina 
di 
diritto comune 
prevista 
nel 
Codice 
Civile 
dovrebbero essere 
tutti 
inalienabili. il 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
(artt. 54-55) mantiene 
il 
regime 
della 
inalienabilità 
per una 
parte 
di 
tali 
beni 
(una 
parte 
degli 
immobili, ossia 
solo gli 
immobili 
e 
le 
aree 
di 
interesse 
archeologico, e 
le 
universalità); 
per la 
restante 
parte 
(la 
parte 
residuale 
degli 
immobili, 
ossia 
gli 
immobili 
riconosciuti 
di 
interesse 
storico 
e 
artistico) 
è 
possibile 
l’alienazione, 
ma 
questa 
deve 
essere 
autorizzata dall’amm.ne. 


Corollari 
della 
inalienabilità 
sono 
i 
seguenti: 
a) 
indisponibilità. 
non 
si 
può 
disporre 
del 
bene 
o 
di 
singole 
sue 
porzioni. 
il 
bene 
non 
può 
essere 
oggetto 
di 
atti 
di 
alienazione 
o costitutivi 
di 
diritti 
a 
carattere 
reale 
(di 
godimento o di 
garanzia) o personale 
di 
godimento a 
favore 
di 
terzi. Venendo in rilievo una 


sponibili, i 
quali 
non possono essere 
sottratti 
alla 
loro destinazione, sussistendo un vincolo funzionale 
all’impiego in favore 
della 
collettività; 
necessario corollario è 
che 
la 
conduzione 
degli 
impianti 
rientra 
nella concessione di servizi, e non già nella concessione di beni. 


(54) Conf. Cass. S.u., 23 giugno 1993, n. 6950; 
Cass., 13 marzo 2007, n. 5867; 
Cass. 22 giugno 
2004, n. 11608. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


norma 
imperativa, quale 
è 
l’art. 823 c.c., ed altresì 
una 
qualità 
giuridica 
essenziale 
del 
bene, un negozio avente 
ad oggetto l’alienazione 
del 
bene 
è 
nullo 
ex 
art. 1418, comma 
1 (“il 
contratto è 
nullo quando è 
contrario a norme 
imperative”) 
e 
comma 
2 (“mancanza nell’oggetto dei 
requisiti 
stabiliti 
dall’articolo 
1346”, tra 
cui 
la 
possibilità 
giuridica) c.c. Va 
precisato che 
per alcune 
categorie 
di 
beni 
pubblici 
-come 
per i 
beni 
culturali, per quanto si 
illustrerà 
nella 
sedes 
materiae 
-leggi 
speciali 
consentono, con apposito procedimento 
amministrativo 
di 
autorizzazione, 
la 
alienazione; 
b) 
imprescrittibilità 
(art. 
2934, 
comma 
2, 
c.c.: 
“Non 
sono 
soggetti 
alla 
prescrizione 
i 
diritti 
indisponibili 
e 
gli 
altri 
diritti 
indicati 
dalla 
legge”); 
c) 
non 
usucapibilità 
(artt. 
2934, 
comma 
2, richiamato dall’art.1165 c.c. (55), in uno all’art. 1145 c.c. (56)); 
d) sottrazione 
del 
bene 
alla 
garanzia 
patrimoniale 
dei 
creditori 
dell’ente 
di 
appartenenza. 
il 
bene 
o 
singole 
sue 
porzioni 
non 
può 
essere 
assoggettato 
ad 
esecuzione 
sulla 
base 
di 
un titolo ex 
art. 474 c.p.c. (espropriazione 
forzata 
o 
esecuzione 
in 
forma 
specifica) 
e, 
quindi, 
neanche 
a 
sequestro. 
di 
conseguenza 
è 
inammissibile 
la 
costituzione 
di 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
(pegno ed ipoteca), 
come 
è 
confermato dall’art. 2810 c.c. secondo cui 
“Sono capaci 
d’ipoteca: 1) 
i 
beni 
immobili 
che 
sono in commercio con le 
loro pertinenze”; 
e) 
non espropriabilità 
per pubblica utilità (57). 

i beni 
demaniali 
possono formare 
oggetto di 
diritti 
a 
favore 
di 
terzi 
solo 
nei 
modi 
e 
nei 
limiti 
stabiliti 
dalle 
leggi 
che 
li 
riguardano, ossia 
a 
mezzo di 
concessione. Solo l’autorità 
cui 
è 
rimessa 
la 
cura 
di 
beni 
può costituire 
diritti 
alieni 
sugli 
stessi; 
essa 
soltanto 
è 
infatti 
in 
grado 
di 
apprezzare 
se 
ed 
entro 
quali 
limiti 
sia 
possibile 
derogare 
alla 
regola 
per cui 
i 
beni 
stessi 
debbono restare 
nella disponibilità della P.A. 


il 
tratto 
caratterizzante 
dei 
beni 
appartenenti 
al 
patrimonio 
indisponibile 
è 
il 
rispetto 
della 
loro 
destinazione. 
Tanto 
viene 
enunciato 
dall’art. 
828, 
comma 
2, 
c.c. 
secondo 
cui 
“i 
beni 
che 
fanno 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
non 
possono 
essere 
sottratti 
alla 
loro 
destinazione, 
se 
non 
nei 
modi 
stabiliti 
dalle 
leggi 
che 
li 
riguardano”. 
Specifiche 
disposizioni 
potrebbero 


(55) “Le 
disposizioni 
generali 
sulla prescrizione, quelle 
relative 
alle 
cause 
di 
sospensione 
e 
d’interruzione 
e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione”. 
(56) “il 
possesso delle 
cose 
di 
cui 
non si 
può acquistare 
la proprietà è 
senza effetto. Tuttavia nei 
rapporti 
tra privati 
è 
concessa l’azione 
di 
spoglio rispetto ai 
beni 
appartenenti 
al 
pubblico demanio e 
ai 
beni 
delle 
province 
e 
dei 
comuni 
soggetti 
al 
regime 
proprio del 
demanio pubblico. Se 
trattasi 
di 
esercizio 
di 
facoltà, le 
quali 
possono formare 
oggetto di 
concessione 
da parte 
della pubblica amministrazione, 
è 
data altresì 
l’azione 
di 
manutenzione”. il 
citato art. 1145 c.c. chiaramente 
enuncia 
che 
-con 
riguardo alle 
cose 
di 
cui 
non si 
può acquistare 
la 
proprietà, tra 
cui 
i 
beni 
demaniali 
-il 
possesso è 
senza 
effetto, sicché 
non può fondare 
il 
presupposto per l’esercizio delle 
azioni 
possessorie; 
solo nei 
rapporti 
tra 
privati 
(non 
quindi 
nei 
rapporti 
con 
la 
P.A. 
titolare 
del 
bene), 
a 
date 
condizioni, 
è 
esercitabile 
l’azione 
di spoglio o l’azione di manutenzione. 
(57) Art. 4, comma 
1, d.P.r. n. 327/2001: 
“i beni 
appartenenti 
al 
demanio pubblico non possono 
essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione”. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


stabilire 
la 
inalienabilità 
del 
bene. 
Tanto 
è 
disposto 
per 
le 
foreste, 
costituenti 


il 
c.d. 
demanio 
forestale, 
dall’art. 
107 
r.d. 
n. 
3267/1923 
statuente 
la 
inalienabilità. 
in 
ogni 
altra 
circostanza 
il 
bene 
-se 
viene 
conservata 
la 
sua 
destinazione 
-è 
alienabile. 
ove 
non 
possa 
essere 
conservata 
la 
destinazione, 
il 
bene 
-in 
via 
implicita 
-non 
è 
alienabile; 
in 
questi 
casi 
la 
inalienabilità 
costituisce 
la 
necessaria 
conseguenza 
dei 
caratteri 
del 
bene 
e 
delle 
funzioni 
cui 
esso 
assolve; 
così 
è 
per 
i 
beni 
appartenenti 
alle 
forze 
armate, 
la 
cui 
alienazione 
comporta 
sempre 
e 
necessariamente 
il 
venir 
meno 
della 
loro 
destinazione 
e 
resta, 
pertanto, 
automaticamente 
esclusa 
(58); 
così 
è 
altresì 
per 
le 
miniere, 
le 
quali, 
giusta 
la 
disciplina 
di 
cui 
al 
r.d. 
n. 
1443/1927, 
non 
possono 
appartenere 
che 
allo 
Stato, 
nonché 
le 
cave 
e 
torbiere 
che 
l’art. 
45 
r.d, 
cit. 
assimila 
al 
regime 
delle 
miniere 
(59). 
il 
bene 
appartenente 
al 
patrimonio indisponibile 
-attesa 
la 
destinazione 
pubblicistica 
-è 
altresì 
imprescrittibile 
e 
non 
può 
essere 
acquistato 
da 
altri 
per 
usucapione 
(arg. 
ex 
art. 1145 c.c.; 
artt. 1 e 
2 r.d. 18 novembre 
1923 n. 2440; 
art. 9, comma 1, r.d. 23 maggio 1924 n. 827). 


l’atto 
che 
determini 
un 
mutamento 
della 
destinazione 
è 
invalido 
in 
quanto 
in contrasto con norme 
imperative: 
annullabile 
ex 
art. 21 octies, comma 
1, l. 
7 agosto 1990 n. 241 se 
trattasi 
di 
provvedimento amministrativo e 
nullo ex 
art. 
1418, 
comma 
1, 
c.c. 
se 
trattasi 
di 
negozio. 
Tuttavia, 
ove 
in 
violazione 
della 
legge, un terzo acquisisca 
il 
possesso del 
bene, facendo cessare 
di 
fatto la 
destinazione 
pubblica 
ed in assenza 
di 
reazione 
di 
tutela 
dell’ente 
pubblico, sarà 
possibile 
l’acquisto 
per 
usucapione 
(sussistendo 
i 
requisiti 
del 
possesso 
ad 
usucapionem); 
tanto sempre 
che 
il 
bene 
non sia, in via 
espressa 
o in via 
implicita, 
inalienabile. 


l’acquisto di 
un bene 
mobile 
indisponibile 
ex 
art. 1153 c.c. (con il 
possesso 
vale 
titolo) 
è 
difficile 
da 
configurarsi, 
tenuto 
conto 
dei 
requisiti 
del 
titolo 
astrattamente idoneo all’acquisto del diritto e della buona fede (60). 


l’art. 
9, 
comma 
1, 
r.d. 
n. 
827/1924 
è 
coerente 
con 
la 
disciplina 
descritta: 
“Si 
considerano non disponibili 
quei 
beni 
che 
per 
la loro destinazione 
ad un 
servizio 
pubblico 
o, 
governativo 
ovvero 
per 
disposizioni 
di 
legge 
non 
possono 
essere alienati o comunque tolti dal patrimonio dello Stato”. 


inammissibile 
è 
l’esecuzione 
forzata 
nei 
confronti 
dei 
beni 
pubblici 
indisponibili 
ostandovi 
l’art. 
828, 
comma 
2, 
c.c., 
come 
confermato 
dall’art. 
514 
n. 
5 
c.p.c. 
per 
il 
quale 
non 
si 
possono 
pignorare 
“le 
armi 
e 
gli 
oggetti 
che 
il 
debitore 
ha 
l’obbligo 
di 
conservare 
per 
l’adempimento 
di 
un 
pubblico 
servizio”. 


A 
date 
condizioni 
fissate 
dalla 
legge, può anche 
venire 
meno la 
specifica 


(58) Per questo rilievo: 
G. inGroSSo, voce 
Patrimonio dello Stato e 
degli 
enti 
pubblici, cit., p. 
669. 
(59) Conf. A.M. SAndulli, voce 
Beni 
pubblici, cit., p. 292 e 
C. ferrAri, voce 
Servitù prediali 
pubbliche, cit., p. 176, nota 4. 
(60) Così G. inGroSSo, voce 
Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, cit., p. 669. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


destinazione 
del 
bene. Ciò è 
previsto, in tema 
di 
espropriazione 
per pubblica 
utilità, dall’art. 4, comma 
2, d.P.r. n. 327/2001 secondo cui: 
“i beni 
appartenenti 
al 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
e 
degli 
altri 
enti 
pubblici 
possono 
essere 
espropriati 
per 
perseguire 
un interesse 
pubblico di 
rilievo superiore 
a 
quello soddisfatto con la precedente destinazione”. 


9. Peculiarità della disciplina urbanistica ed edilizia dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici. 
le 
cose 
immobili 
delle 
categorie 
riservate 
(demanio 
marittimo, 
acque 
pubbliche, beni 
minerari) sono in via 
di 
principio sottratte 
alla 
disciplina 
urbanistica, 
sia 
con riguardo alla 
necessità 
della 
adozione 
del 
titolo abilitativo 
alla 
edificazione, sia 
con riguardo ai 
vincoli 
della 
pianificazione 
(61). infatti, 
le 
discipline 
di 
specie 
relative 
a 
tali 
cose 
prevedono che 
il 
governo delle 
trasformazioni 
strutturali 
delle 
stesse 
nella 
loro globalità 
è 
riservato all’autorità 
preposta 
alla 
loro amministrazione. Vi 
è 
un procedimento amministrativo di 
controllo della 
conformità 
urbanistica 
di 
dette 
opere 
regolata 
con il 
d.P.r. 18 
aprile 
1994, n. 383. Ai 
sensi 
dell’art. 2 del 
detto d.P.r. per le 
opere 
pubbliche 
da 
eseguirsi 
da 
amministrazioni 
statali 
o comunque 
insistenti 
su aree 
del 
demanio 
statale 
e 
per le 
opere 
pubbliche 
di 
interesse 
statale, da 
realizzarsi 
dagli 
enti 
istituzionalmente 
competenti 
“l’accertamento della conformità alle 
prescrizioni 
delle 
norme 
e 
dei 
piani 
urbanistici 
ed edilizi, salvo che 
per 
le 
opere 
destinate 
alla difesa militare, è 
fatto dallo Stato di 
intesa con la regione 
interessata”. 
È 
consentita 
altresì 
la 
localizzazione 
delle 
opere 
di 
interesse 
statale 
in 
difformità 
agli 
strumenti 
urbanistici: 
giusta 
l’art. 
3 
del 
d.P.r. 
citato 
“Qualora 
l’accertamento di 
conformità di 
cui 
all’articolo 2 del 
presente 
regolamento, 
dia esito negativo, oppure 
l’intesa tra lo Stato e 
la regione 
interessata non si 
perfezioni 
entro 
il 
termine 
stabilito, 
viene 
convocata 
una 
conferenza 
di 
servizi 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
da 14 a 14-quinquies 
della legge 
7 agosto 1990, n. 241. 
alla 
conferenza 
di 
servizi 
partecipano 
la 
regione 
e, 
previa 
deliberazione 
degli 
organi 
rappresentativi, il 
comune 
o i 
comuni 
interessati, nonché 
le 
altre 
amministrazioni 
dello Stato e 
gli 
enti 
comunque 
tenuti 
ad adottare 
atti 
di 
intesa, 


o a rilasciare 
pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta, previsti 
dalle 
leggi statali e regionali”. 
Ciò 
non 
di 
meno, 
la 
normazione 
urbanistica, 
contenente 
prescrizioni 
circa 
la 
realizzazione 
delle 
trasformazioni 
immobiliari 
(di 
fonte 
legislativa, regolamentare, 
di 
piano 
regolatore) 
circa 
le 
distanze, 
le 
altezze, 
il 
rapporto 
dei 
singoli 
interventi 
con le 
opere 
di 
urbanizzazione, ecc., si 
applica 
anche 
alle 
trasformazioni 
delle 
cose 
immobili 
comprese 
in 
categorie 
riservate, 
sempre 
che 
siano 
ad esse applicabili per omogeneità di contenuto. 


(61) Su tali aspetti: 
V. Cerulli 
irelli, voce 
Beni pubblici, cit., p. 301. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


Anche 
gli 
altri 
beni 
a 
destinazione 
pubblica 
sono 
da 
ritenere 
in 
via 
di 
principio 
sottratti 
alla 
pianificazione 
urbanistica. 
All’evidenza, 
la 
regola 
circa 
la 
non 
sottraibilità 
di 
detti 
beni 
alla 
destinazione 
deroga 
a 
tutto 
il 
diritto 
dei 
beni 
(non 
solo 
al 
diritto 
civile); 
e 
perciò 
i 
poteri 
nei 
quali 
si 
esprime 
la 
pianificazione 
urbanistica 
non 
possono 
estendere 
la 
loro 
efficacia 
ai 
beni 
a 
destinazione 
pubblica: 
questi, 
insomma, 
non 
possono 
in 
concreto 
essere 
sottratti 
alla 
loro 
destinazione 
per 
effetto 
degli 
atti 
di 
pianificazione 
territoriale 
(62). 
Per 
il 
resto 
le 
cose 
immobili 
non 
rientranti 
nelle 
categorie 
riservate, 
ancorché 
aventi 
una 
destinazione 
pubblica, 
devono 
essere 
munite 
del 
titolo 
edilizio 
(63). 


10. regime giuridico dei beni oggettivamente pubblici: disciplina tributaria. 
i beni 
pubblici 
-demanio ed indisponibili 
-ove 
non produttivi 
di 
reddito, 
non sono soggetti ad imposte (64). 


Giusta 
l’art. 73, comma 
1, d.P.r. 22 dicembre 
1986, n. 917 (T.u. delle 
imposte 
sui 
redditi) sono soggetti 
all’imposta 
sul 
reddito delle 
società: 
“b) gli 
enti 
pubblici 
e 
privati 
diversi 
dalle 
società, nonché 
i 
trust, residenti 
nel 
territorio 
dello Stato, che 
hanno per 
oggetto esclusivo o principale 
l’esercizio di 
attività commerciali; c) gli 
enti 
pubblici 
e 
privati 
diversi 
dalle 
società, i 
trust 
che 
non hanno per 
oggetto esclusivo o principale 
l’esercizio di 
attività commerciale 
nonché 
gli 
organismi 
di 
investimento collettivo del 
risparmio, residenti 
nel 
territorio dello Stato; d) le 
società e 
gli 
enti 
di 
ogni 
tipo, compresi 
i 
trust, 
con 
o 
senza 
personalità 
giuridica, 
non 
residenti 
nel 
territorio 
dello 
Stato”. Giusta 
l’art. 74 d.P.r. n. 917/1986 “1. Gli 
organi 
e 
le 
amministrazioni 
dello 
Stato, 
compresi 
quelli 
ad 
ordinamento 
autonomo, 
anche 
se 
dotati 
di 
personalità 
giuridica, i 
comuni, le 
unioni 
di 
comuni, i 
consorzi 
tra enti 
locali, le 
associazioni 
e 
gli 
enti 
gestori 
di 
demanio collettivo, le 
comunità montane, le 
province 
e 
le 
regioni 
non 
sono 
soggetti 
all’imposta. 
2. 
Non 
costituiscono 
esercizio 
dell’attività 
commerciale: 
a) 
l’esercizio 
di 
funzioni 
statali 
da 
parte 
di 
enti 
pubblici; b) l’esercizio di 
attività previdenziali, assistenziali 
e 
sanitarie 
da 
parte 
di 
enti 
pubblici 
istituiti 
esclusivamente 
a 
tal 
fine, 
comprese 
le 
aziende 
sanitarie 
locali 
nonché 
l’esercizio di 
attività previdenziali 
e 
assistenziali 
da 
parte di enti privati di previdenza obbligatoria”. 


in 
sintesi: 
l’imposta 
sul 
reddito 
si 
applica 
anche 
agli 
enti 
pubblici 
(ivi 
compreso lo Stato) ove 
essi 
esercitino una 
attività 
commerciale. Ciò indipen


(62) 
Conf. 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
27 
maggio 
1983, 
n. 
13 
secondo 
cui 
è 
illegittima 
l’approvazione 
da 
parte 
della 
regione 
di 
uno strumento urbanistico che 
muta 
la 
destinazione 
di 
un bene 
appartenente 
al patrimonio indisponibile dello Stato, senza previa intesa fra le due amministrazioni. 
(63) Così, con riguardo agli 
acquedotti, V. Cerulli 
irelli, S. Pelillo, voce 
acquedotti 
e 
canali 
pubblici, 
cit., p. 6. 
(64) 
Così 
A.M. 
SAndulli, 
voce 
Beni 
pubblici, 
cit., 
p. 
299. 
Conf. 
art. 
18, 
comma 
3, 
lett. 
a), 
r.d. 
8 
ottobre 
1931, 
n. 
1572. 
G. 
inGroSSo, 
voce 
Patrimonio 
dello 
Stato 
e 
degli 
enti 
pubblici, 
cit., 
pp. 
669-670. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


dentemente 
dalla 
natura 
del 
bene 
utilizzato. Se 
lo Stato esercita 
una 
miniera 
(bene 
riservato) è 
certamente 
soggetto all’imposta. Se 
possiede 
immobili 
urbani, 
è 
soggetto all’imposta 
se 
li 
utilizza 
concedendoli 
in locazione 
a 
privati 
e 
non vi 
è 
soggetto se 
li 
utilizza 
come 
sede 
dei 
propri 
uffici 
(come 
bene 
a 
destinazione 
pubblica). 

Sono 
esenti 
dall’iMu 
(imposta 
municipale 
propria), 
attualmente 
regolata 
dall’art. 1, commi 
da 
739 a 
783, l. 27 dicembre 
2019, n. 160, “gli 
immobili 
posseduti 
dallo Stato, dai 
comuni, nonché 
gli 
immobili 
posseduti, nel 
proprio 
territorio, 
dalle 
regioni, 
dalle 
province, 
dalle 
comunità 
montane, 
dai 
consorzi 
fra detti 
enti, dagli 
enti 
del 
Servizio sanitario nazionale, destinati 
esclusivamente 
ai compiti istituzionali” (art. 1, comma 759, lett. a, l. n. 160/2019). 


11. Beni 
oggettivamente 
pubblici 
e 
limitazioni 
a terzi 
nei 
rapporti 
di 
vicinato. 
un’altra 
peculiarità 
inerente 
il 
regime 
dei 
beni 
pubblici 
-e 
specificamente 
di 
quelli 
immobili 
-è 
costituita 
dalle 
limitazioni 
che 
la 
loro prossimità 
spesso 
comporta 
per le 
proprietà 
limitrofe. Si 
cita, ad es., la 
sottrazione 
al 
diritto potestativo 
del 
vicino di 
costruire 
in aderenza 
all’edificio demaniale 
(art. 879, 
comma 1, c.c.) (65). 


12. Gestione dei beni pubblici. 
i 
beni 
pubblici 
di 
norma 
sono 
gestiti 
direttamente 
dall’ente 
pubblico 
competente. 
i beni 
immobili 
dello Stato (oltre 
che 
pubblici 
anche 
quelli 
posseduti 
a 
titolo di 
privata 
proprietà) “sono amministrati 
a cura del 
ministero delle 
finanze, 
salve 
le 
eccezioni 
stabilite 
da leggi 
speciali” 
(art. 1, comma 
1, r.d. n. 
2440/1923). il 
Ministero delle 
finanze 
era 
il 
soggetto al 
quale 
si 
collegava, 
per ragioni 
organizzative 
-attesa 
la 
natura 
dello Stato di 
amministrazione 
disaggregata 
(persona 
giuridica 
complessa 
composta 
da 
un coacervo di 
soggetti 
di 
diritto, quali 
sono i 
Ministeri 
e 
le 
amministrazioni 
statali 
autonome) -l’appartenenza 
dei 
beni. All’attualità, nella 
materia 
si 
è 
avuta 
una 
successione 
ex 
lege 
delle 
competenze 
in favore 
dell’Agenzia 
del 
demanio ex 
art. 65 d.l.vo 


n. 300/1999 (66). in deroga 
alla 
competenza 
generale 
attribuita 
in materia 
all’Agenzia 
del 
demanio “i beni 
immobili 
assegnati 
ad un servizio governativo 
s’intendono concessi 
in uso gratuito al 
ministero da cui 
il 
servizio dipende 
e 
sono da esso amministrati. Tosto che 
cessi 
tale 
uso passano all’amministra(
65) “alla comunione 
forzosa non sono soggetti 
gli 
edifici 
appartenenti 
al 
demanio pubblico e 
quelli 
soggetti 
allo stesso regime, né 
gli 
edifici 
che 
sono riconosciuti 
di 
interesse 
storico, archeologico 
o artistico, a norma delle 
leggi 
in materia. il 
vicino non può neppure 
usare 
della facoltà concessa dal-
l’articolo 877”. 
(66) Conf. Cass., 8 febbraio 2012, n. 1797 secondo cui 
nel 
subingresso ex 
lege 
dell’Agenzia 
del 
demanio 
al 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
finanze 
si 
è 
realizzato 
“un 
fenomeno 
di 
successione 
a 
titolo 
particolare 
nella 
titolarità 
del 
bene” 
(in 
un’azione 
di 
acquisto 
per 
usucapione). 
nello 
stesso 
senso 
Cass., 
22 marzo 2018, n. 7152 (causa involgente l’actio negatoria). 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


zione 
delle 
finanze” 
(art. 
1, 
comma 
2, 
r.d. 
n. 
2440/1923). 
in 
virtù 
di 
quest’ultima 
disposizione 
il 
Ministero assegnatario dell’immobile 
in uso governativo 
amministra, gestisce 
e 
tutela 
i 
beni 
immobili 
patrimoniali 
(67). l’Agenzia 
del 
demanio può tornare 
ad esercitare 
i 
propri 
poteri 
di 
amministrazione 
ed autotutela 
solo 
quando 
cessi 
l’uso 
gratuito 
che 
forma 
oggetto 
della 
concessione 
per una 
delle 
cause 
che 
comportano il 
venir meno del 
provvedimento concessorio; 
la 
concessione 
gratuita, 
finchè 
perdura, 
preclude 
all’Agenzia 
di 
ingerirsi 
nell’uso del 
bene 
demaniale 
affidato a 
terzi; 
solo ove 
vi 
sia 
contestazione 
del 
diritto di 
proprietà 
dei 
beni 
pubblici 
concessi 
in uso governativo, legittimata 
ad 
agire 
è 
l’Agenzia 
del 
demanio, 
in 
quanto 
attributaria 
della 
proprietà 
dei 
beni 
pubblici 
(68). Sia 
per gli 
immobili 
che 
per i 
mobili 
dello Stato sono previsti 
degli 
speciali 
inventari 
(art. 2, r.d. n. 2440/1923). Quando i 
beni 
pubblici, 
come 
di 
norma, sono gestiti 
direttamente 
dall’ente 
pubblico competente 
viene 
in 
rilievo 
l’ente 
titolare, 
ma 
in 
dati 
casi 
-ove 
sia 
separata 
la 
titolarità 
dalla gestione - viene in rilievo l’ente gestore. 


Casi 
di 
scissione 
della 
titolarità 
dalla 
gestione 
si 
hanno, 
ad 
es. 
e 
per 
citare 
i 
casi 
più 
rilevanti, 
nel 
demanio 
marittimo 
ed 
idrico. 
Per 
il 
demanio 
marittimo 
viene 
in 
rilievo 
l’art. 
59, 
comma 
1, 
d.P.r. 
24 
luglio 
1977, 
n. 
616 
secondo 
cui 
sono 
delegate 
alle 
regioni 
le 
funzioni 
amministrative 
sul 
demanio 
marittimo 
quando 
la 
utilizzazione 
prevista 
abbia 
finalità 
turistiche 
e 
ricreative 
ed 
altresì 
l’art. 
105 
d.l.vo 
n. 
112/1998 
che 
ha 
completato 
il 
conferimento 
delle 
funzioni 
alle 
regioni 
sul 
demanio 
marittimo 
salve 
le 
ipotesi 
escluse 
di 
cui 
alla 
lettera 
l) 
del 
comma 
2. 
Per 
il 
demanio 
idrico 
tanto 
è 
disposto 
dall’art. 
86 
d.l.vo 
n. 
112/1998 
secondo 
cui 
“1. 
alla 
gestione 
dei 
beni 
del 
demanio 
idrico 
provvedono 
le 
regioni 
e 
gli 
enti 
locali 
competenti 
per 
territorio. 
2. 
i 
proventi 
dei 
canoni 
ricavati 
dalla 
utilizzazione 
del 
demanio 
idrico 
sono 
introitati 
dalla 
regione”. 


la 
gestione 
della 
regione, da 
un punto di 
vista 
civilistico, configura 
un 
possesso utile 
di 
detti 
beni 
del 
demanio, specie 
idrico, ovvero la 
titolarità 
di 
un diritto reale, attesa 
l’ampiezza 
dei 
poteri 
e 
delle 
facoltà 
attribuiti 
appunto 
alle 
regioni 
dalla 
legge 
(in tema 
di 
demanio idrico; 
artt. 86 e 
89 del 
d.l.vo n. 
112/1998) con riguardo a 
tali 
beni, sostanziantesi 
in quelli 
propri 
di 
un usufruttuario 
ex lege. 


i 
beni 
pubblici 
possono 
essere 
gestiti 
indirettamente 
dall’ente 
pubblico 
competente, 
con 
l’adozione 
di 
un 
atto 
attributivo 
della 
gestione 
a 
terzi. 
lo 


(67) Conf. Cass., 7 dicembre 
2000, n. 15546; 
T.a.r. Campania 
napoli, 24 gennaio 2007, n. 660; 
T.a.r. lazio roma, 10 maggio 2006, n. 3432; 
T.a.r. Marche, 28 maggio1999, n. 649 e 
T.a.r. lazio, 10 
febbraio 1987, n. 287 (queste 
tre 
ultime 
sentenze 
precisano che 
il 
Ministero il 
quale 
abbia 
in uso un immobile 
appartenente 
al 
patrimonio dello Stato assegnatogli 
dall’amministrazione 
delle 
finanze 
è 
legittimato 
ad agire 
in via 
di 
autotutela 
per riottenere 
la 
disponibilità 
dell’immobile 
o reprimere 
eventuali 
turbative al godimento del bene). 
(68) Conf. Cass., n. 15546/2000 cit. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


strumento non può essere 
-per quanto detto in ordine 
alla 
indisponibilità 
dei 
beni 
demaniali 
e 
all’immutabilità 
della 
funzione 
dei 
beni 
patrimoniali 
indisponibili 
-il 
negozio giuridico di 
diritto privato, ma 
il 
provvedimento amministrativo 
o l’accordo sostitutivo di 
provvedimento ex 
art. 11 l. n. 241/1990. 
il provvedimento è la concessione amministrativa. 

Come 
innanzi 
evidenziato 
la 
disciplina 
concernente 
i 
criteri 
e 
le 
modalità 
di 
concessione 
della 
gestione 
e 
dell’uso dei 
beni 
immobili 
appartenenti 
allo 
Stato 
è 
contenuta 
nel 
regolamento 
di 
cui 
al 
d.P.r. 
n. 
296/2005. 
numerose 
sono 
le 
disposizioni 
speciali 
dettate 
solo per alcuni 
tipi 
di 
beni 
demaniali, come 
ad 
esempio l’art. 35 d.l. 30 dicembre 
2019, n. 162, conv. l. 28 febbraio 2020, 


n. 8, recante disposizioni in materia di concessioni autostradali (69). 
13. Utilizzazione 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici. Uso diretto. Uso indiretto 
(generale o particolare). 
i beni 
pubblici 
possono essere 
utilizzati 
sia 
dagli 
enti 
proprietari 
(utilizzazione 
diretta), sia 
da 
altri 
soggetti 
dell’ordinamento, ancorché 
privati 
(utilizzazione 
indiretta, che può essere generale o particolare). 


- Uso diretto. 
l’uso diretto può essere 
coessenziale 
alla 
cura 
degli 
interessi 
pubblici 
in 
attribuzione. Vi 
è 
una 
riserva 
in favore 
dell’utilizzazione 
amministrativa, con 
preclusione 
all’uso generale. È 
il 
caso questo, ad es., del 
demanio militare 
o 
degli 
edifici 
del 
demanio culturale 
utilizzati 
come 
sede 
di 
pubblici 
uffici. nel 
caso in cui 
sia 
consentito anche 
l’uso ad estranei 
si 
parla 
di 
uso promiscuo. È 
il caso delle strade militari (demanio militare) aperte all’uso pubblico. 


- Uso indiretto. 
ove 
non 
ricorra 
il 
caso 
della 
utilizzazione 
diretta, 
i 
beni 
pubblici 
possono 
formare 
oggetto di 
diritti 
a 
favore 
di 
terzi 
ed essere 
da 
questi 
usati, nei 
modi 
e 
nei 
limiti 
stabiliti 
dalle 
leggi 
che 
li 
riguardano. l’utilizzazione 
indiretta 
può 
essere generale o particolare. 


- Uso indiretto generale. 
(69) “1. in caso di 
revoca, di 
decadenza o di 
risoluzione 
di 
concessioni 
di 
strade 
o di 
autostrade, 
ivi 
incluse 
quelle 
sottoposte 
a pedaggio, nelle 
more 
dello svolgimento delle 
procedure 
di 
gara per 
l’affidamento 
a nuovo concessionario, per 
il 
tempo strettamente 
necessario alla sua individuazione, aNaS 
S.p.a., in attuazione 
dell’articolo 36, comma 3, del 
decreto-legge 
6 luglio 2011, n. 98, convertito, con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
15 
luglio 
2011, 
n. 
111, 
può 
assumere 
la 
gestione 
delle 
medesime, 
nonché 
svolgere 
le 
attività di 
manutenzione 
ordinaria e 
straordinaria e 
quelle 
di 
investimento finalizzate 
alla loro 
riqualificazione 
o adeguamento. Sono fatte 
salve 
le 
eventuali 
disposizioni 
convenzionali 
che 
escludano 
il 
riconoscimento 
di 
indennizzi 
in 
caso 
di 
estinzione 
anticipata 
del 
rapporto 
concessorio, 
ed 
è 
fatta 
salva 
la possibilità per 
aNaS S.p.a., ai 
fini 
dello svolgimento delle 
attività di 
cui 
al 
primo periodo, di 
acquistare 
gli 
eventuali 
progetti 
elaborati 
dal 
concessionario previo pagamento di 
un corrispettivo determinato 
avendo 
riguardo 
ai 
soli 
costi 
di 
progettazione 
e 
ai 
diritti 
sulle 
opere 
dell’ingegno 
di 
cui 
all’articolo 
2578 
del 
codice 
civile. 
[…]. 
L’efficacia 
del 
provvedimento 
di 
revoca, 
decadenza 
o 
risoluzione 
della 
concessione 
non 
è 
sottoposta 
alla 
condizione 
del 
pagamento 
da 
parte 
dell’amministrazione 
concedente 
delle somme previste dal citato articolo 176, comma 4, lettera a)”. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


nell’uso 
generale, 
potenzialmente, 
tutti 
i 
componenti 
della 
collettività, 
uti cives, possono usare il bene per ricavarne la tipica 
utilitas. 


la 
latitudine 
dell’uso 
generale 
coincide 
-tendenzialmente 
-con 
la 
demanialità 
marittima, 
con 
quella 
idrica, 
con 
quella 
stradale 
e 
autostradale, 
infine 
con 
la 
demanialità 
culturale 
per 
i 
suoi 
aspetti 
prevalenti. 
l’uso 
generale 
non 
costituisce 
-tuttavia 
-un 
dato 
ontologico 
del 
bene, 
ma 
è 
il 
frutto 
delle 
scelte 
della 
P.A. 
attributaria 
degli 
interessi 
rilevanti. 
il 
lido 
e 
la 
spiaggia 
non 
hanno 
quale 
utilizzazione 
unica 
e 
vincolata 
la 
destinazione 
all’uso 
generale; 
la 
P.A. 
può 
decidere 
di 
utilizzarla 
per 
esigenze 
militari 
(uso 
diretto), 
oppure 
può 
darla 
in 
concessione 
(uso 
indiretto 
particolare) 
per 
uso 
balneare 
o 
per 
la 
realizzazione 
di 
un 
“marina” 
(porto 
turistico 
attrezzato 
per 
il 
soggiorno 
degli 
utenti) 
(70). 


Vi 
è 
un 
diritto 
soggettivo 
all’uso, 
al 
godimento 
del 
bene; 
il 
pubblico 
potere 
può però intervenire 
a 
limitare 
l’uso per particolari 
ragioni 
di 
interesse 
pubblico 
ed allora 
germina 
altresì 
un interesse 
legittimo (71). la 
dottrina 
prevalente, 
invece, 
ritiene 
che 
i 
consociati 
vantino 
interessi 
semplici 
(c.d. 
“diritti 
civici”), ossia 
interessi 
non qualificati 
e 
non, quindi, diritti 
soggettivi 
o interessi 
legittimi. Ciò in quanto: 
“da un lato, non sussiste 
un obbligo giuridico 
dell’amministrazione 
di 
assicurare 
ai 
singoli 
il 
godimento 
dei 
beni; 
e, 
dall’altro, 
il 
dovere 
a essa imposto dell’ordinamento di 
curare 
la gestione 
dei 
beni 
non è 
giuridicamente 
correlato -sia pure 
in modo indiretto -con gli 
interessi 
dei 
singoli, sicché 
questi 
possano dirsi 
occasionalmente 
protetti 
dalla norma 
che quel dovere impone” (72). 


l’uso 
generale 
è 
consentito 
direttamente 
dalla 
legge 
(rectius: 
dalla 
conformazione 
normativa 
dei 
beni 
pubblici); 
esso 
può 
richiedere 
all’usuario 
secondo 
le 
previsioni 
normative 
-il 
pagamento 
di 
una 
somma 
(prezzo 
o 
tassa) 
o 
il 
rilascio 
di 
un 
titolo 
(biglietto, 
permesso, 
ecc.) 
oppure 
un’autorizzazione 
dall’ente 
pubblico 
(es. 
scarico 
nelle 
acque 
pubbliche); 
questi 
requisiti 
non 
comportano 
una 
limitazione 
al 
diritto 
all’uso 
potenzialmente 


(70) 
Si 
rileva 
in 
dottrina 
che 
“Con 
un 
suo 
noto 
parere 
[C. 
St. 
sez. 
ii, 
14 
dicembre 
1976, 
n. 
1144], 
sinora 
non 
contraddetto 
da 
pronunce 
successive, 
il 
Consiglio 
[di 
Stato] 
ha 
ritenuto 
anzitutto 
che 
la 
«soddisfazione 
di 
interessi 
collettivi 
di 
genere 
diverso 
dal 
materiale 
godimento 
del 
bene» 
rientra 
nelle 
finalità 
che 
la 
pubblica 
amministrazione 
può 
legittimamente 
proporsi 
in 
sede 
di 
gestione 
della 
proprietà 
pubblica. 
Se, 
anzi, 
il 
pubblico 
uso 
«scaturisce 
direttamente 
ed 
originariamente 
dalla 
demanialità 
del 
bene, 
non 
esaurisce 
l’attitudine 
di 
questo 
ad 
essere 
destinato 
ad 
altri 
fini 
di 
utilità 
generale 
e 
spetta 
all’amministrazione... 
contemperare 
gli 
interessi 
volta 
a 
volta 
emergenti 
con 
una 
discrezionalità 
che, 
essendo 
manifestamente 
tipica 
di 
una 
potestà 
amministrativa, 
né 
può 
essere 
usurpata 
da 
organi 
cui 
è 
attribuito 
l’esercizio 
di 
diverse 
funzioni, 
né 
può 
essere 
da 
costoro 
conculcata 
ovvero 
repressa»”. 
Così: 
V. 
CAPuTi 
iAMbrenGhi, 
voce 
Beni 
pubblici 
(uso 
dei), 
in 
Digesto 
Disc. 
Pubblic., 
vol. 
ii, 
1987, 
uTeT, 
p. 
310. 
(71) Conf. G. inGroSSo, voce 
Demanio (diritto moderno), cit., p. 431 secondo cui 
gli 
usi 
generali 
sono diritti 
pubblici 
subiettivi, garantiti 
dalla 
Costituzione 
e 
derivano dal 
diritto di 
libertà 
civile 
(artt. 
16 e 41 Cost.). 
(72) Così 
A.M. SAndulli, voce 
Beni 
pubblici, cit., pp. 287-288. Analogamente, ex 
plurimis: 
e. 
CASeTTA, manuale di diritto amministrativo, XVi edizione, Giuffré, 2014, p. 222. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


indifferenziato 
da 
parte 
della 
collettività, 
ma 
sono 
in 
funzione 
del 
miglior 
uso 
generale 
(73). 


nel 
demanio marittimo, quisque 
de 
populo, può usare 
la 
spiaggia 
c.d. libera 
(cioè 
non 
attribuita 
in 
concessione) 
a 
fine 
di 
balneazione 
(74). 
l’uso 
resta 
generale 
anche 
ove 
vi 
siano limiti 
di 
capienza 
fisica 
-distanziamento per ragioni 
di 
igiene 
e 
sanità 
-atteso che 
ciò è 
funzionale 
a 
garantirne 
un uso potenzialmente 
generale a tutti. 


nel 
demanio idrico “La navigazione 
nei 
fiumi, laghi 
e 
canali 
naturali 
è 
libera” 
(così 
art. 17, comma 
1, r.d. 11 luglio 1913, n. 959), sicché 
può essere 
esercitata da chiunque. 


nel 
demanio autostradale 
(sia 
nel 
caso di 
gestione 
diretta 
ad opera 
del-
l’ente 
competente, che 
nel 
caso di 
concessione) quisque 
de 
populo, può usare 
l’autostrada 
al 
fine 
della 
circolazione 
motorizzata. l’uso resta 
generale 
anche 
ove 
vi 
sia 
il 
pagamento di 
un biglietto (c.d. pedaggio autostradale) del 
quale 
è discussa la natura giuridica (75). 


nel 
demanio culturale 
quisque 
de 
populo, può visitare 
un museo. l’uso 
resta 
generale 
anche 
ove 
vi 
sia 
il 
pagamento di 
un biglietto o dei 
contingentamenti 
al fine della corretta fruizione da parte di tutti. 


- Uso indiretto particolare. 
nell’uso 
particolare 
solo 
alcuni 
componenti 
della 
collettività, 
uti 
singuli, 
possono 
usare 
il 
bene 
per 
ricavarne 
la 
tipica 
utilitas. 
il 
titolo 
dell’uso 
può 
essere 
direttamente 
la 
legge. 
in 
casi 
particolari 
il 
titolo 
può 
essere 
costituito 
dall’usucapione: 
è 
il 
caso 
dell’acquisto, 
da 
parte 
di 
terzi, 
di 
diritti 
reali 
diversi 
dalla 
proprietà 
(ad 
es. 
diritti 
di 
servitù) 
con 
il 
possesso 
sempre 
che 
si 
tratti 
di 
diritti 
non 
incompatibili 
con 
la 
conservazione 
del 
bene 
alla 
sua 
destinazione 
(76). 
il 
caso 
normale, 
tuttavia, 
è 
che 
il 
titolo 
è 
costituito 
dal 
provvedimento 
amministrativo, 
sub 
specie 
di 
concessione; 
la 
scelta 
del 
concessionario, 
in 
quest’ultima 
evenienza, 
deve 
avvenire 
tramite 
procedure 
concorsuali 
(77). 


(73) Conf. A.M. SAndulli, manuale 
di 
diritto amministrativo, vol. ii, cit., p. 783 e 
pp. 786-787. 
(74) T.a.r. Puglia 
lecce, 5 maggio 2005, n. 2654 osserva 
che 
“il 
contenuto del 
diritto soggettivo 
di 
godere 
del 
bene 
marittimo si 
esplica nel 
diritto ad accedere 
liberamente 
alla spiaggia, senza imposizione 
di 
oneri 
economici, nel 
diritto di 
potersi 
posizionare 
ovunque, senza preclusioni, di 
godere 
del-
l’habitat 
marino 
e 
nel 
diritto 
a 
non 
utilizzare 
strutture 
offerte 
da 
terzi, 
che 
intendono 
ritrarre 
utilità 
economiche 
dall’offerta dei 
vari 
servizi. Siffatto diritto spetta ai 
componenti 
della collettività, non solo 
come uti cives, ma addirittura come uti homines”. 
(75) il 
rapporto di 
utenza 
autostradale 
viene 
a 
volte 
qualificato di 
natura 
privatistica 
(sicché 
il 
pedaggio 
avrebbe 
natura 
di 
corrispettivo contrattuale) e 
a 
volte 
qualificato di 
natura 
pubblicistica 
(sicché 
il 
pedaggio avrebbe 
natura 
di 
tassa); 
sulla 
problematica: 
l. oruSA, voce 
Pedaggio (diritto vigente), in 
Noviss. Digesto, vol. Xii, uTeT, 1965, pp. 759-761. Per la 
tesi 
privatistica: 
A.M. SAndulli, voce 
autostrada, 
in Enc. Dir., vol. iV, 1959, Giuffré, pp. 527-528. 
(76) Così 
A.M. SAndulli, voce 
Beni pubblici, cit., p. 293. 
(77) Conf. ex 
plurimis 
Cons. Stato, 31 maggio 2011, n. 3250, la 
quale 
precisa 
che 
la 
mancanza 
di 
una 
procedura 
competitiva 
circa 
l’assegnazione 
di 
un bene 
pubblico suscettibile 
di 
sfruttamento econo

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


nel 
demanio marittimo l’utilizzo dell’area 
per l’esercizio di 
un cantiere 
navale 
esclude 
che 
altri 
possano egualmente 
utilizzare 
la 
stessa 
area. nel 
patrimonio 
minerario 
l’utilizzo 
della 
miniera 
da 
parte 
del 
concessionario 
esclude 
chiunque altro da quell’uso. 


14. 
Tutela 
giurisdizionale 
ed 
amministrativa 
dei 
beni 
oggettivamente 
pubblici. 
l’art. 
823, 
comma 
2, 
c.c. 
-con 
riguardo 
al 
demanio 
pubblico 
-enuncia: 
“Spetta 
all’autorità 
amministrativa 
la 
tutela 
dei 
beni 
che 
fanno 
parte 
del 
demanio 
pubblico. 
Essa 
ha 
facoltà 
sia 
di 
procedere 
in 
via 
amministrativa, 
sia 
di 
valersi 
dei 
mezzi 
ordinari 
a 
difesa 
della 
proprietà 
e 
del 
possesso 
regolati 
dal 
presente 
codice”. 


la 
disposizione 
è 
dettata 
per 
i 
beni 
demaniali, 
ma 
il 
pacifico 
orientamento 
giurisprudenziale 
è 
nel 
senso di 
applicarla 
anche 
con riguardo ai 
beni 
del 
patrimonio 
indisponibile (78). 


la 
P.A. può ricorrere, rivolgendosi 
all’A.G.o., ai 
mezzi 
ordinari 
a 
difesa 
della 
proprietà 
e 
del 
possesso. ossia 
alle 
azioni 
a 
difesa 
della 
proprietà 
(artt. 
948-951 c.c.: 
rivendicazione; 
negatoria; 
di 
regolamento di 
confini; 
per apposizione 
di 
termini) 
e 
a 
difesa 
delle 
servitù 
(art. 
1079 
c.c.) 
ed 
alle 
azioni 
a 
difesa 
del 
possesso (artt. 1168-1170 c.c.: 
di 
reintegrazione 
e 
di 
manutenzione; 
artt. 
1171-1172 c.c.: 
denunzia 
di 
nuova 
opera 
e 
di 
danno temuto). Ciò costituisce 
estrinsecazione della capacità di diritto comune degli enti pubblici (79). 


la 
P.A. può altresì 
procedere 
in via 
amministrativa, ossia 
in autotutela, 
liberando -con propri 
uomini 
e 
mezzi 
-il 
bene 
pubblico dall’occupatore 
abusivo, 
dopo il provvedimento, ineseguito, intimante il rilascio del bene. 


la 
dottrina 
prevalente 
ritiene 
che 
la 
disposizione 
di 
cui 
al 
comma 
2 del-
l’art. 
823 
c.c. 
sul 
potere 
di 
autotutela 
-per 
la 
sua 
formulazione 
generica, 
la 
quale 
non individua 
il 
contenuto del 
potere 
di 
autotutela 
ed i 
soggetti 
titolari 


-sia 
solo ricognitiva 
di 
un potere 
specificamente 
disciplinato in disposizioni 
ad hoc 
(80) e 
che 
non sussisterebbe, sulla 
sola 
base 
dell’art. 823 c.c., un gemico, 
introduce 
una 
barriera 
all’ingresso 
al 
mercato, 
determinando 
una 
lesione 
alla 
parità 
di 
trattamento, 
al 
principio 
di 
non 
discriminazione 
ed 
alla 
trasparenza 
tra 
gli 
operatori 
economici, 
in 
violazione 
dei 
principi comunitari di concorrenza e di libertà di stabilimento. 


(78) Ex plurimis: Cons. Stato, 1 ottobre 1999, n. 1224; 
T.a.r. Campania, 5 gennaio 2007 n. 67. 
(79) Ex 
plurimis: 
V. Cerulli 
irelli, Lineamenti 
del 
diritto amministrativo, Vi edizione, Giappichelli, 
2017, p. 244. 
(80) disposizione 
ad hoc 
è 
ad esempio, in tema 
di 
demanio marittimo, l’art. 54 c. n. secondo cui 
“Qualora 
siano 
abusivamente 
occupate 
zone 
del 
demanio 
marittimo 
o 
vi 
siano 
eseguite 
innovazioni 
non 
autorizzate, il 
capo del 
compartimento ingiunge 
al 
contravventore 
di 
rimettere 
le 
cose 
in pristino entro 
il 
termine 
a tal 
fine 
stabilito e, in caso di 
mancata esecuzione 
dell’ordine, provvede 
d’ufficio, a spese 
dell’interessato”. Altra 
disposizione 
ad hoc 
è 
l’art. 378, commi 
1 e 
2, l. 20 marzo 1865, n. 2248 legge 
sui 
lavori 
pubblici 
(All. f): 
“1. Per 
le 
contravvenzioni 
alla presente 
legge, che 
alterano lo stato delle 
cose, è 
riservato al 
prefetto l’ordinare 
la riduzione 
al 
primitivo stato, dopo di 
aver 
riconosciuta la regolarità 
delle 
denuncie, e 
sentito l’ufficio del 
Genio civile. Nei 
casi 
di 
urgenza il 
medesimo fa eseguire 
immediatamente 
di 
ufficio i 
lavori 
per 
il 
ripristino. 2. Sentito poi 
il 
trasgressore 
per 
mezzo dell’autorità 
locale, il 
prefetto provvede 
al 
rimborso a di 
lui 
carico delle 
spese 
degli 
atti 
e 
della esecuzione 
di 
ufficio, 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


nerale 
potere 
di 
autotutela 
della 
P.A. 
(81). 
Tesi, 
questa, 
che 
sarebbe 
confermata 
dal disposto dell’art. 21 
ter, comma 1, l. n. 241/1990 (82). 


l’orientamento prevalente 
in giurisprudenza 
-condivisibile 
-è 
diverso: 
la 
disposizione 
in 
esame 
è 
direttamente 
precettiva, 
venendo 
in 
rilievo 
un 
caso, 
in materia 
di 
tutela 
dei 
beni 
pubblici, stabilito dalla 
legge 
e, quindi, rispettoso 
del principio di legalità (83). 


Per la 
riscossione 
dei 
crediti 
-certi, liquidi 
ed esigibili 
-collegati 
con il 
godimento 
da 
parte 
di 
terzi 
di 
beni 
pubblici, 
la 
P.A. 
può 
ricorrere 
alla 
adozione 
della 
ingiunzione 
fiscale, strumento di 
autotutela 
regolato dal 
r.d. 14 aprile 
1910 n. 639, e 
confermato dal 
comma 
2 dell’art. 21 ter 
l. n. 241/1990. Autotutela 
consentita 
anche 
nell’ipotesi 
che 
il 
credito germini 
dal 
godimento sine 
titulo 
da 
parte 
di 
terzi 
di 
beni 
pubblici, in virtù dell’art. 1, comma 
274, l. 30 
dicembre 
2004, 
n. 
311 
secondo 
cui 
“relativamente 
alle 
somme 
non 
corrisposte 
all’erario 
per 
l’utilizzo, 
a 
qualsiasi 
titolo, 
di 
immobili 
di 
proprietà 
dello 
Stato, 
decorsi 
novanta 
giorni 
dalla 
notificazione, 
da 
parte 
dell’agenzia 
del 
demanio 
ovvero degli 
enti 
gestori, della seconda richiesta di 
pagamento delle 
somme 
dovute, anche 
a titolo di 
occupazione 
di 
fatto, si 
procede 
alla loro riscossione 
mediante ruolo, con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali”. 

15. Vicende 
della qualità di 
bene 
pubblico: acquisto, modificazione 
ed estinzione 
della qualità di bene pubblico. 
-acquisto della qualità di bene pubblico. 
una 
cosa 
ha 
la 
qualità 
di 
bene 
pubblico 
allorché 
abbia, 
oggettivamente, 
i 
caratteri 
delineati 
dalla 
legge. 
la 
legge 
può 
richiedere 
che 
la 
cosa 
abbia 
determinati 
aspetti 
fisici 
e/o 
naturali. 
Può 
richiedere 
altresì 
che, 
in 
aggiunta 


rendendone 
esecutoria la nota, e 
facendone 
riscuotere 
l’importo nelle 
forme 
e 
coi 
privilegi 
delle 
pubbliche 
imposte”. 
Ancora 
art. 
30, 
commi 
2 
e 
3, 
d.l.vo 
n. 
285/1992: 
“2. 
Salvi 
i 
provvedimenti 
che 
nei 
casi 
contingibili 
ed 
urgenti 
possono 
essere 
adottati 
dal 
sindaco 
a 
tutela 
della 
pubblica 
incolumità, 
il 
prefetto 
sentito l’ente 
proprietario o concessionario, può ordinare 
la demolizione 
o il 
consolidamento a spese 
dello stesso proprietario dei 
fabbricati 
e 
dei 
muri 
che 
minacciano rovina se 
il 
proprietario, nonostante 
la diffida, non abbia provveduto a compiere 
le 
opere 
necessarie. 3. in caso di 
inadempienza nel 
termine 
fissato, l’autorità competente 
ai 
sensi 
del 
comma 2 provvede 
d’ufficio alla demolizione 
o al 
consolidamento, 
addebitando le spese al proprietario”. 


(81) 
Ex 
plurimis: 
e. CASeTTA, manuale 
di 
diritto amministrativo, cit., p. 209 e 
M. oliVi, voce 
Beni 
pubblici, in il 
Diritto, Enciclopedia Giuridica del 
Sole 
24 ore, Corriere 
della Sera il 
Sole 
24 ore, 
vol. 2, 2007, p. 506. 
(82) “Nei 
casi 
e 
con le 
modalità stabiliti 
dalla legge, le 
pubbliche 
amministrazioni 
possono imporre 
coattivamente 
l’adempimento 
degli 
obblighi 
nei 
loro 
confronti. 
il 
provvedimento 
costitutivo 
di 
obblighi 
indica il 
termine 
e 
le 
modalità dell’esecuzione 
da parte 
del 
soggetto obbligato. Qualora l’interessato 
non 
ottemperi, 
le 
pubbliche 
amministrazioni, 
previa 
diffida, 
possono 
provvedere 
all’esecuzione 
coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge”. 
(83) Conf. Cons. Stato, 20 aprile 
2000, n. 2428, secondo cui 
il 
potere 
ex 
art. 823, comma 
2, c.c. 
“in base 
ad un orientamento della giurisprudenza della Sezione 
(cfr. 19 dicembre 
1988, n. 1073) ha un 
ambito 
di 
applicazione 
generale, 
costituendo 
ipotesi 
autonoma, 
rispetto 
alle 
singole 
disposizioni 
di 
legge, che prevedono particolari procedimenti a tutela dei beni demaniali”. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


agli 
elementi 
naturali, 
la 
cosa 
sia 
altresì 
destinata, 
in 
modo 
effettivo 
ed 
attuale, 
ad 
una 
specifica 
funzione 
o 
ad 
uno 
specifico 
servizio. 
la 
qualificazione 
di 
bene 
pubblico 
ad 
opera 
dell’amm.ne 
mediante 
un 
proprio 
atto, 
mediante 
l’inserimento 
in 
un 
elenco 
ha 
un 
carattere 
meramente 
dichiarativo 
e 
non 
costitutivo. 


Sicché, nel 
caso in cui 
un bene 
assuma 
i 
connotati 
di 
lido, spiaggia, ecc. 
esso -in modo automatico -appartiene 
al 
demanio marittimo, indipendentemente 
da 
un atto costitutivo della 
P.A. o da 
opere 
pubbliche 
sullo stesso realizzate, 
mentre 
il 
preesistente 
diritto 
di 
proprietà 
privata 
subisce 
una 
corrispondente 
contrazione, fino, se 
necessario, alla 
totale 
eliminazione, sussistendo, 
ormai, quei 
caratteri 
che, secondo l’ordinamento giuridico vigente, 
precludono che 
il 
bene 
possa 
formare 
oggetto di 
proprietà 
privata 
(84). Allo 
stesso modo, l’appartenenza 
dei 
laghi 
al 
demanio pubblico prescinde 
dall’inserimento 
nell’elenco 
delle 
acque 
pubbliche, 
data 
la 
natura 
dichiarativa 
del 
relativo 
provvedimento, 
essendo 
sufficiente, 
per 
l’attribuzione 
della 
demanialità, 
l’accertamento in uno specchio d’acqua 
dei 
caratteri 
idrografici 
di 
un lago e 
non di 
uno stagno (85). Analogamente 
l’iscrizione 
delle 
strade 
negli 
appositi 
elenchi 
riveste 
natura 
dichiarativa, sicché 
è 
irrilevante 
la 
mancata 
inclusione 
nell’elenco 
delle 
strade 
comunali, 
se 
viene 
provata 
l’appartenenza 
della 
stessa 
all’ente pubblico territoriale (86). 


Per 
le 
cose 
d’interesse 
culturale 
aventi 
i 
requisiti 
fattuali 
di 
cui 
all’art. 
10, 
comma 
1, 
Codice 
beni 
culturali 
che 
siano 
opera 
di 
autore 
non 
più 
vivente 


o 
la 
cui 
esecuzione 
risalga 
ad 
oltre 
settanta 
anni, 
vi 
è 
una 
presunzione 
legale 
relativa 
del 
possesso 
della 
qualità 
di 
bene 
culturale. 
Presunzione 
superabile 
all’esito 
della 
verifica 
(con 
esito 
negativo) 
dell’interesse 
culturale 
ex 
art. 
12 
del 
detto 
Codice. 
Trattasi 
di 
procedimento, 
attivabile 
d’ufficio 
o 
su 
richiesta 
formulata 
dai 
soggetti 
cui 
le 
cose 
appartengono, 
all’esito 
del 
quale 
il 
Ministero 
della 
cultura 
adotta 
-entro 
novanta 
giorni 
dal 
ricevimento 
della 
richiesta 
-un 
provvedimento, 
espressione 
di 
discrezionalità 
tecnica, 
di 
verifica 
con 
esito 
positivo 
oppure 
con 
esito 
negativo 
circa 
l’accertamento 
dell’interesse 
artistico, 
storico, 
archeologico 
o 
etnoantropologico. 
Qualora 
sia 
stato 
riscontrato 
l’interesse 
culturale 
il 
relativo 
provvedimento 
è 
trascritto 
nei 
modi 
previsti 
dall’art. 
15, 
comma 
2, 
del 
detto 
Codice, 
ed 
i 
beni 
restano 
definitivamente 
sottoposti 
alle 
disposizioni 
di 
tutela; 
qualora 
non 
sia 
stato 
riscontrato 
il 
detto 
interesse, 
si 
dispone 
l’esclusione 
dall’applicazione 
delle 
disposizioni 
di 
tutela 
e, 
ove 
vengano 
in 
rilievo 
cose 
appartenenti 
al 
demanio 
pubblico, 
i 
risultati 
vengono 
trasmessi 
ai 
competenti 
uffici 
affinché 
ne 
dispongano 
la 
sdemanializzazione 
(87). 
(84) Conf. Cass. 1 aprile 2015, n. 6619. 
(85) Conf. Cass. S.u. 30 aprile 2008, n. 10876. 
(86) Conf. Cons. Stato, 8 ottobre 2013, n. 4952. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


- modificazione della qualità di bene pubblico. 
un bene 
pubblico può perdere 
i 
connotati 
di 
un dato tipo ed acquistare 
quelli di un tipo diverso. Ad es. viene costruita una strada su di una spiaggia. 


- Estinzione della qualità di bene pubblico. 
Simmetricamente 
all’acquisto 
della 
qualità 
di 
bene 
pubblico, 
la 
perdita 
dei 
caratteri 
del 
bene 
pubblico delineati 
dalla 
legge 
determina 
la 
cessazione 
della 
qualità 
di 
bene 
pubblico. 
l’atto 
dell’amm.ne 
che 
attesti 
la 
cessazione 
della 
qualità 
(c.d. sdemanializzazione) ha 
un rilievo puramente 
dichiarativo. 
Tanto è 
confermato dall’art. 829 c.c. (88). rileva, quindi, anche 
la 
sdemanializzazione 
tacita. 
A 
tale 
stregua, 
la 
sdemanializzazione 
d’una 
strada 
può 
anche 
verificarsi 
senza 
l’adempimento 
delle 
formalità 
previste 
dalla 
legge 
in 
materia, 
ma 
occorre 
che 
essa 
risulti 
da 
atti 
univoci, concludenti 
e 
positivi 
della 
P.A., 
incompatibili 
con 
la 
volontà 
di 
conservare 
la 
destinazione 
del 
bene 
all’uso 
pubblico. né 
il 
disuso da 
tempo immemorabile 
o l’inerzia 
dell’ente 
proprietario 
possono 
essere 
invocati 
come 
elementi 
indiziari 
dell’intenzione 
di 
far 
cessare 
la 
destinazione, 
anche 
potenziale, 
del 
bene 
demaniale 
all’uso 
pubblico, 
poiché 
è 
pur 
sempre 
necessario 
che 
tali 
elementi 
indiziari 
siano 
accompagnati 
da 
fatti 
concludenti 
e 
da 
circostanze 
così 
significative 
da 
rendere 
impossibile 
formulare 
altra 
ipotesi 
se 
non quella 
che 
la 
P.A. abbia 
definitivamente 
rinunziato 
al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo (89). 


Tuttavia 
in due 
specifici 
casi, ossia 
per il 
demanio marittimo e 
per quello 
idrico, la 
mera 
perdita 
delle 
caratteristiche 
naturali 
rilevanti 
della 
demanialità 
non è 
sufficiente 
a 
determinare 
la 
perdita 
della 
qualità 
di 
demanio in quanto è 
richiesto 
un 
provvedimento 
espresso 
che 
attesti 
ciò. 
Sicché 
il 
ripascimento 
definitivo 
della 
spiaggia 
o 
l’essiccamento 
del 
fiume 
non 
determina 
la 
cessazione 
della 
qualità, rispettivamente, di 
demanio marittimo ed idrico. Tanto per la 
rilevanza 
dei 
beni 
in gioco in correlazione 
alla 
circostanza 
che 
la 
cosa 
potrebbe 
riacquistare i connotati della demanialità. 

Per 
il 
demanio 
marittimo 
tanto 
è 
statuito 
dall’art. 
35 
c. 
nav. 
secondo 
cui 
“Le 
zone 
demaniali 
che 
dal 
capo 
del 
compartimento 
non 
siano 
ritenute 
uti


(87) Per le 
cose 
aventi 
i 
requisiti 
fattuali 
di 
cui 
all’art. 10, comma 
2, Codice 
dei 
beni 
culturali 
appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
-ossia: 
a) 
le 
raccolte 
di 
musei, 
pinacoteche, 
gallerie 
e 
altri 
luoghi 
espositivi; 
b) gli 
archivi 
e 
i 
singoli 
documenti; 
c) le 
raccolte 
librarie 
delle 
biblioteche 
-vi 
è 
una 
presunzione 
legale 
assoluta 
del 
possesso della 
qualità 
di 
bene 
culturale: 
non è 
prevista 
la 
verifica 
dell’interesse 
culturale 
ex 
art. 12 del Codice (che potrebbe anche condurre alla esclusione dell’interesse culturale). 
(88) “il 
passaggio dei 
beni 
dal 
demanio pubblico al 
patrimonio dello Stato dev’essere 
dichiarato 
dall’autorità 
amministrativa. 
Dell’atto 
deve 
essere 
dato 
annunzio 
nella 
Gazzetta 
Ufficiale 
della 
repubblica. 
Per 
quanto 
riguarda 
i 
beni 
delle 
province 
e 
dei 
comuni, 
il 
provvedimento 
che 
dichiara 
il 
passaggio 
al 
patrimonio deve 
essere 
pubblicato nei 
modi 
stabiliti 
per 
i 
regolamenti 
comunali 
e 
provinciali”. disposizione 
analoga 
è 
fissata 
dall’art. 5 r.d. n .827/1924 secondo cui 
“i beni 
del 
pubblico demanio che 
cessano dalla loro destinazione all’uso pubblico passano al patrimonio dello Stato”. 
(89) Conf. Cass., 3 giugno 2008, n. 14666; 
Cass. 30 agosto 2004, n. 17387; 
Cass. 12 aprile 
1996, 
n. 3451. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


lizzabili 
per 
pubblici 
usi 
del 
mare 
sono 
escluse 
dal 
demanio 
marittimo 
con 
decreto 
del 
ministro 
per 
le 
comunicazioni 
di 
concerto 
con 
quello 
per 
le 
finanze” 
All’evidenza, 
la 
c.d. 
sdemanializzazione 
non 
può 
verificarsi 
tacitamente, 
ma 
richiede 
un 
espresso 
e 
formale 
provvedimento 
dell’autorità 
amministrativa, 
di 
carattere 
costitutivo 
(90). 
Pertanto, 
in 
difetto 
di 
tale 
provvedimento, 
l’arenile, 
ad 
es., 
non 
perde 
la 
propria 
qualità 
di 
bene 
demaniale, 
con 
la 
conseguenza 
che 
il 
possesso 
del 
medesimo 
da 
parte 
del 
privato 
è 
improduttivo 
di 
effetti 
nei 
rapporti 
con 
l’amm.ne 
(art. 
1145, 
comma 
1, 
c.c.), 
e, 
in 
particolare, 
è 
inidoneo 
all’acquisto 
della 
proprietà 
per 
usucapione. 
diversa 
dalla 
sdemanializzazione 
è 
la 
delimitazione 
di 
zone 
del 
demanio 
marittimo 
ex 
art. 
32 
c. 
nav. 
la 
quale 
tendendo 
a 
rendere 
evidente 
la 
demarcazione 
fra 
tale 
demanio 
e 
le 
proprietà 
private 
finitime, 
si 
presenta 
quale 
proiezione 
specifica 
della 
normale 
azione 
di 
regolamento 
di 
confini 
di 
cui 
all’art. 
950 
c.c., 
e 
si 
conclude 
con 
un 
atto 
di 
delimitazione, 
il 
quale 
ha 
una 
funzione 
di 
mero 
accertamento, 
in 
sede 
amministrativa, 
dei 
confini 
del 
demanio 
marittimo 
rispetto 
alle 
proprietà 
dei 
privati, 
senza 
l’esercizio 
di 
un 
potere 
discrezionale 
della 
P.A.; 
ne 
consegue 
che 
il 
privato, 
il 
quale 
contesti 
l’accertata 
demanialità 
del 
bene, 
può 
invocare 
la 
tutela 
della 
propria 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
dinanzi 
al 
giudice 
ordinario, 
abilitato 
alla 
disapplicazione 
dell’atto 
amministrativo, 
se 
od 
in 
quanto 
illegittimo 
(91). 


Per 
il 
demanio 
idrico 
la 
regola 
della 
sdemanializzazione 
espressa 
con 
portata 
costitutiva 
è 
fissata 
dall’art. 
947, 
comma 
3, 
c.c. 
secondo 
cui 
“in 
ogni 
caso 
è esclusa la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico”. 


Cessata 
la 
qualità 
di 
bene 
pubblico, questo resta 
nella 
titolarità 
della 
P.A. 
a titolo di patrimonio disponibile. 


16. Valorizzazione e dismissione dei beni appartenenti agli enti pubblici. 
lo Stato e 
gli 
altri 
enti 
pubblici 
hanno un immenso patrimonio immobiliare, 
sia 
con la 
qualità 
di 
bene 
pubblico che 
di 
patrimonio disponibile. essi 
per 
incapacità, inesatta 
ricognizione 
del 
patrimonio, carenza 
di 
personale, carenza 
di 
risorse 
finanziarie 
-non sono in grado di 
gestire 
in modo efficiente 
il 
loro patrimonio con una 
adeguata 
manutenzione 
ordinaria 
e 
straordinaria 
o se 
il 
bene 
non è 
necessario alle 
pubbliche 
funzioni 
-mediante 
concessione 
in 
godimento o alienazione. non di 
rado accade 
che 
un ente 
-specie 
quelli 
territoriali, 
a 
partire 
dallo Stato -ha 
propri 
immobili 
inutilizzati 
o concessi 
in godimento 
a 
terzi 
e, per cattiva 
amministrazione, prende 
in godimento beni 
di 
terzi pagando un canone per allocare propri uffici. 


Ciclicamente 
vengono 
adottate 
leggi 
per 
la 
valorizzazione 
ed 
alienazione 


(90) Conf. Cass., 19 febbraio 2019, n. 4839; 
Cass., 18 ottobre 
2016, n. 21018; 
Cass. 11 maggio 
2009, n. 10817. 
(91) in tal senso, Cass. 10817/2009 cit. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


(previa 
sdemanializzazione, 
se 
pubblico) 
del 
patrimonio 
immobiliare 
pubblico 
(92), ma l’esito è fallimentare. 


17. aspetti generali dei beni di interesse pubblico. 
Accanto ai 
beni 
pubblici 
abbiamo i 
beni 
di 
interesse 
pubblico. Trattasi 
di 
beni 
appartenenti 
a 
privati, con un regime, fondamentalmente, di 
diritto comune. 
Tuttavia 
il 
bene 
riveste 
importanza 
non solo per il 
titolare, ma 
anche 
nell’interesse 
pubblico, 
atteso 
che 
assolve 
ad 
una 
finalità 
di 
pubblico 
interesse 
essendo 
anche 
funzionale 
al 
perseguimento 
e 
al 
soddisfacimento 
degli 
interessi 
della 
collettività, in attuazione 
dei 
principi 
costituzionali 
(artt. 2; 
9, commi 
2 
e 3; 42, comma 1, Cost.). 


Sicché, 
per 
tale 
ragione, 
vi 
possono 
essere 
peculiari 
limiti 
(93) 
ed 
obblighi 


(94) 
con 
speciali 
poteri, 
di 
norma 
conformativi, 
in 
capo 
alla 
P.A. 
il 
tutto, 
quindi, nelle 
coordinate 
del 
diritto comune 
per le 
quali 
“il 
proprietario ha diritto 
di 
godere 
e 
disporre 
delle 
cose 
in modo pieno ed esclusivo, entro i 
limiti 
e 
con 
l’osservanza 
degli 
obblighi 
stabiliti 
dall’ordinamento 
giuridico” 
(art. 
832 c.c.). Peculiari 
limiti 
ed obblighi 
alla 
proprietà 
privata 
-rectius: 
in regime 
di 
diritto 
privato 
appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
o 
privati 
-delineati 
dalla 
legge 
“allo 
scopo 
di 
assicurarne 
la 
funzione 
sociale” 
(art. 
42, 
comma 
2, 
Cost.). 
Vuol 
dirsi 
che 
la 
legge 
tiene 
conto 
degli 
interessi 
ultraindividuali 
collegati 
alla 
situazione dominicale. 
Salvatore 
Pugliatti, 
nel 
secondo 
dopoguerra 
del 
secolo 
passato, 
evidenziò 
che 
non vi 
è 
“la proprietà”, ma 
vi 
sono “le 
proprietà”: 
il 
regime 
proprietario 
dei 
beni 
non è 
fisso ed invariabile, ma 
mutabile 
in base 
a 
date 
circostanze 
ritenute 
rilevanti: 
una 
cosa 
è 
la 
proprietà 
urbana, altra 
quella 
rurale; 
una 
cosa 
è 
un bene produttivo, altra un bene improduttivo, ecc. (95). 

(92) d.l. 25 settembre 
2001, n. 351, conv. l. 23 novembre 
2001, n. 410 avente 
ad oggetto “Disposizioni 
urgenti 
in materia di 
privatizzazione 
e 
valorizzazione 
del 
patrimonio immobiliare 
pubblico e 
di 
sviluppo 
dei 
fondi 
comuni 
di 
investimento 
immobiliare”; 
d.l. 
15 
aprile 
2002, 
n. 
63, 
conv. 
l. 
15 
giugno 
2002, n. 112 relativo, tra 
l’altro, alla 
cartolarizzazione 
degli 
immobili 
e 
alla 
valorizzazione 
del 
patrimonio; 
art. 58 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. l. 6 agosto 2008, n. 133 relativo alla 
ricognizione 
e 
valorizzazione 
del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali. 
(93) 
i 
limiti 
implicano 
una 
impossibilità 
giuridica, 
hanno 
un 
contenuto 
negativo. 
delineano 
il 
confine 
del 
contenuto 
del 
diritto 
sulla 
cosa, 
toccano 
le 
facoltà 
di 
godimento 
e 
di 
disposizione 
del 
soggetto. 
Con il 
limite 
viene 
definito il 
contenuto del 
diritto di 
proprietà. il 
limite 
nella 
vicenda 
ora 
esaminata 
è, 
all’evidenza, di 
diritto pubblico, ossia 
ha 
per oggetto immediato la 
tutela 
di 
un interesse 
pubblico (così: 
S. 
PuGliATTi, 
Strumenti 
tecnico-giuridici 
per 
la 
tutela 
dell’interesse 
pubblico 
nella 
proprietà, 
in 
La 
proprietà 
nel nuovo diritto, Giuffré, 1954, p. 114). 
(94) Gli 
obblighi 
implicano una 
obbligazione 
giuridica 
collegata 
alla 
situazione 
dominicale. Si 
tratterà 
di 
prestazioni 
di 
fare, poiché 
gli 
obblighi 
di 
dare 
hanno generalmente 
il 
carattere 
di 
tributi: 
così 
S. 
PuGliATTi, 
Strumenti 
tecnico-giuridici 
per 
la 
tutela 
dell’interesse 
pubblico 
nella 
proprietà, 
in 
La 
proprietà 
nel nuovo diritto, cit., p. 117. 
(95) S. PuGliATTi, La proprietà e 
le 
proprietà (con particolare 
riguardo alla proprietà terriera), 
in La proprietà nel nuovo diritto, cit., pp. 145-309. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


l’interesse 
ultraindividuale 
collegato 
alla 
situazione 
dominicale 
può 
germinare 
in 
base 
a 
specifiche 
circostanze 
rilevanti. 
Può 
venire 
in 
rilievo, 
quale 
circostanza 
discriminante: 
a) 
il 
tempo. 
una 
stessa 
cosa 
-ad 
es., 
una 
automobile, 
un 
libro, 
una 
vanga, 
un 
edificio 
-può 
avere 
regimi 
giuridici 
diversi 
a 
seconda 
del 
tempo 
trascorso 
dalla 
sua 
creazione. 
una 
auto 
d’epoca 
non 
è 
liberamente 
trasferibile 
ed 
utilizzabile 
alla 
stessa 
stregua 
di 
una 
auto 
nuova; 
b) 
la 
allocazione 
spaziale. 
la 
vicinanza 
ad 
un 
ospedale, 
può 
limitare 
le 
possibili 
coltivazioni 
di 
un 
dato 
fondo; 
c) 
la 
quantità. 
la 
rarefazione 
di 
una 
cosa 
comporta, 
di 
solito, 
un 
restringimento 
della 
sua 
circolazione 
giuridica 
fino, 
in 
casi 
limite, 
alla 
eliminazione 
della 
sua 
commercialità. 
Ciò 
è 
accaduto 
per 
le 
acque 
interne 
non 
aventi 
attitudine 
ad 
un 
pubblico 
generale 
interesse: 
tali 
acque 
erano 
commerciabili 
nel 
secolo 
scorso, 
poi 
la 
riduzione 
della 
quantità 
delle 
acque 
ha 
condotto, 
nel 
1994 
con 
la 
legge 
Galli, 
alla 
incommerciabilità 
di 
tutte 
le 
acque 
interne, 
conseguenza 
della 
demanializzazione 
delle 
stesse; 
d) 
la 
qualità 
dell’artefice. 
un 
documento 
(es. 
tema 
scolastico) 
redatto 
da 
francesco 
de 
Santis 
ha 
un 
regime 
giuridico 
diverso 
da 
analogo 
documento 
redatto 
nello 
stesso 
contesto 
da 
un 
compagno 
di 
scuola, 
non 
altrettanto 
importante, 
del 
de 
Santis. 


limiti 
alle 
facoltà 
dominicali 
si 
hanno con le 
norme 
sulle 
distanze 
tra 
costruzioni 
e 
standard urbanistici 
(l’interesse 
ultraindividuale 
è 
l’igiene 
e 
sanità 
degli 
abitati), sui 
boschi 
e 
terreni 
montani 
(lo scopo perseguito è 
l’equilibrio 
idrogeologico) (96), sull’accesso ai 
fondi 
-a 
date 
condizione 
-per l’esercizio 
della 
caccia 
(art. 842, commi 
1 e 
2, c.c.), con le 
norme 
limitative 
delle 
facoltà 
di disporre dei beni culturali e paesaggistici. 


obblighi 
collegati 
alla 
situazione 
dominicale 
sono gli 
oneri 
reali 
e 
quelli 
conseguenti 
alla 
vicinanza 
ad un bene 
pubblico. di 
quest’ultimo tipo sono le 
ipotesi 
di 
cui 
all’art. 60 (97) e 
75, comma 
1 (98), della 
l. 20 marzo 1865, n. 
2248 
(All. 
f) 
ed 
altresì 
le 
c.d. 
fasce 
di 
rispetto 
limitanti 
la 
libera 
attività 
edilizia 
(la 
quale 
viene 
vietata 
o 
sottoposta 
a 
speciale 
autorizzazione) 
in 
considerazione 
di 
un 
fine 
di 
superiore 
interesse 
pubblico, 
in 
determinate 
località, 
o 
ad 
aree 
prossime 
o circostanti 
a 
luoghi 
o ad opere 
di 
pubblico interesse. Vengono in 
rilievo 
limitazioni 
legali 
al 
diritto 
di 
proprietà 
riguardanti 
tutti 
i 
beni 
che 
si 
trovino 
in 
determinate 
condizioni 
previste 
dalla 
legge. 
non 
costituiscono, 
per


(96) il 
vincolo idrogeologico comporta 
notevoli 
restrizioni 
per i 
terreni 
interessati, imposte 
dalla 
necessità 
di 
impedire 
il 
dilavamento dei 
terreni 
e 
per migliorare 
il 
regime 
delle 
acque. l’art. 7 r.d. n. 
3267/1923 stabilisce 
che 
“Per 
i 
terreni 
vincolati 
la trasformazione 
dei 
boschi 
in altre 
qualità di 
coltura 
e 
la trasformazione 
di 
terreni 
saldi 
in terreni 
soggetti 
a periodica lavorazione 
sono subordinate 
ad autorizzazione 
del 
Comitato forestale 
[ora 
regione] e 
alle 
modalità da esso prescritte, caso per 
caso, allo 
scopo di prevenire i danni”. 
(97) “Debbono i 
proprietari 
mantenere 
le 
ripe 
dei 
fondi 
laterali 
alla strada in istato tale 
da impedire 
lo scoscendimento del terreno ad ingombro dei fossi e del piano viabile”. 
(98) 
“i 
proprietari 
sono 
obbligati 
a 
tener 
regolate 
le 
siepi 
vive, 
in 
modo 
da 
non 
restringere 
o 
danneggiare 
la strada, e a far tagliare i rami delle piante che si protendono oltre il ciglio stradale”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


tanto, una 
forma 
di 
espropriazione 
del 
diritto di 
costruire. Tra 
le 
altre 
citiamo 
le 
fasce 
di 
rispetto 
a) 
delle 
strade 
pubbliche 
e 
delle 
autostrade 
(artt. 
16-18 
d.l.vo 
30 
aprile 
1992 
n. 
285; 
b) 
delle 
ferrovie 
(artt. 
36-63 
d.P.r. 
11 
luglio 
1980, n. 753); 
c) 
del 
demanio marittimo (artt. 55 (99), 76-78 c. nav.); 
d) 
delle 
acque 
pubbliche 
(artt. 96-97 r.d. 25 luglio 1904, n. 523); 
e) 
degli 
aeroporti 
(artt. 
707 
c. 
nav.); 
f) 
dei 
cimiteri 
ex 
art. 
338 
r.d. 
27 
luglio 
1934, 
n. 
1265 
(100) 
con 
i 
connessi 
vincoli 
di 
inedificabilità 
(101); 
g) 
degli 
elettrodotti 
(art. 
4, 
comma 1, lett. h, l. 22 febbraio 2001, n. 36) (102). 


i più rilevanti 
beni 
di 
interesse 
pubblico sono: 
beni 
componenti 
il 
patrimonio 
culturale 
(beni 
culturali 
e 
paesaggistici); 
le 
reti 
strumentali 
al 
servizio 
pubblico; 
i 
beni 
collettivi 
(demanio 
civico 
ed 
immobili 
con 
uso 
civico); 
le 
aree 
naturali 
protette 
(l. 
6 
dicembre 
1991 
n. 
394); 
gli 
alloggi 
popolari 
ed 
economici 
di 
proprietà 
delle 
cooperative 
edilizie 
a 
contributo statale; 
le 
strade 
vicinali; 
gli 
aerodromi 
e 
gli 
altri 
impianti 
aeronautici 
privati. 
Sono 
tali 
anche 
i 
beni 
privati 
oggetto 
di 
servitù 
pubbliche 
o 
di 
diritti 
di 
uso 
pubblico 
ex 
art. 
825 
c.c. 
esaminati 
nel 
precedente 
paragrafo 6. Sono tali 
altresì 
i 
bene 
immobili 
connotati 
sotto 
il 
profilo 
ambientale 
secondo 
la 
specifica 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice dell’ambiente (d.l.vo 3 aprile 2006, n. 152). 


18. Beni 
collettivi. Demanio civico ed immobili 
con uso civico. regime 
giuridico. 
Tra 
i 
più 
rilevanti 
beni 
di 
interesse 
pubblico 
abbiamo 
i 
beni 
collettivi 
(demanio 
civico ed immobili 
con uso civico). i beni 
collettivi 
sono beni 
appartenenti 
a 
soggetti 
pubblici 
o 
privati 
(individualmente 
o 
in 
comunione) 
con 
destinazione 
agro-silvo-pastorale 
in favore 
di 
una 
determinata 
collettività; 
la 
destinazione 
può specificarsi 
con la 
titolarità, da 
parte 
della 
collettività, di 
un 


(99) il 
cui 
primo comma 
stabilisce: 
“La esecuzione 
di 
nuove 
opere 
entro una zona di 
trenta metri 
dal 
demanio marittimo o dal 
ciglio dei 
terreni 
elevati 
sul 
mare 
è 
sottoposta all’autorizzazione 
del 
capo 
del compartimento”. 
(100) “i cimiteri 
devono essere 
collocati 
alla distanza di 
almeno 200 metri 
dal 
centro abitato. È 
vietato 
costruire 
intorno 
ai 
cimiteri 
nuovi 
edifici 
entro 
il 
raggio 
di 
200 
metri 
dal 
perimetro 
dell’impianto 
cimiteriale, 
quale 
risultante 
dagli 
strumenti 
urbanistici 
vigenti 
nel 
comune 
o, 
in 
difetto 
di 
essi, 
comunque 
quale 
esistente 
in fatto, salve 
le 
deroghe 
ed eccezioni 
previste 
dalla legge. […] all’interno della zona 
di 
rispetto per 
gli 
edifici 
esistenti 
sono consentiti 
interventi 
di 
recupero ovvero interventi 
funzionali 
all’utilizzo 
dell’edificio 
stesso, 
tra 
cui 
l’ampliamento 
nella 
percentuale 
massima 
del 
10 
per 
cento 
e 
i 
cambi 
di 
destinazione 
d’uso, oltre 
a quelli 
previsti 
dalle 
lettere 
a), b), c) e 
d) del 
primo comma dell’articolo 31 
della legge 5 agosto 1978, n. 457”. 
(101) 
Cons. 
Stato, 
3 
marzo 
2022, 
n. 
1513: 
il 
vincolo 
cimiteriale 
(d’indole 
conformativa) 
determina 
un 
regime 
di 
inedificabilità 
legale, 
integrando 
una 
limitazione 
legale 
della 
proprietà 
a 
carattere 
assoluto, 
direttamente 
incidente 
sul 
valore 
del 
bene, 
tale 
da 
configurare 
in 
maniera 
obbiettiva 
e 
rispetto 
alla 
totalità 
dei 
soggetti 
il 
regime 
di 
appartenenza 
di 
una 
pluralità 
indifferenziata 
di 
immobili 
che 
si 
trovino in un 
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con il perimetro dell’area cimiteriale. 
(102) 
Sulle 
fasce 
di 
rispetto: 
G.C. 
MenGoli, 
manuale 
di 
diritto 
urbanistico, 
Vii 
edizione, 
Giuffré, 
2014, pp. 555-589. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


diritto 
d’uso 
funzionalizzato 
alla 
soddisfazione 
di 
un 
interesse 
pubblico 
(in 
questa evenienza abbiamo il diritto di uso civico). 


una 
disciplina 
di 
sintesi 
è 
contenuta 
nella 
l. 20 novembre 
2017, n. 168 
recante 
“Norme 
in materia di 
domini 
collettivi” 
(103). il 
genus 
“bene 
collettivo” 
(la 
cui 
tipologia 
è 
descritta 
nell’art. 3 l. n. 168/2017) comprende, quali 
species, 
il 
patrimonio 
antico 
dell’ente 
collettivo, 
detto 
anche 
patrimonio 
civico 


o demanio civico, ed i beni immobili sui quali insistono diritti di uso civico. 
-Patrimonio antico dell’ente 
collettivo, detto anche 
patrimonio civico o 
demanio civico. 
Comprende 
i 
beni 
di 
cui 
al 
citato 
art. 
3, 
comma 
1, 
lettere 
a), 
b), 
c), 
e) 
e 


f) 
(104), 
ossia: 
“a) 
le 
terre 
di 
originaria 
proprietà 
collettiva 
della 
generalità 
degli 
abitanti 
del 
territorio 
di 
un 
comune 
o 
di 
una 
frazione, 
imputate 
o 
possedute 
da 
comuni, 
frazioni 
od 
associazioni 
agrarie 
comunque 
denominate 
(105); 
b) 
le 
terre, 
con 
le 
costruzioni 
di 
pertinenza, 
assegnate 
in 
proprietà 
collettiva 
agli 
abitanti 
di 
un 
comune 
o 
di 
una 
frazione, 
a 
seguito 
della 
liquidazione 
dei 
diritti 
di 
uso 
civico 
e 
di 
qualsiasi 
altro 
diritto 
di 
promiscuo 
godimento 
esercitato 
su 
terre 
di 
soggetti 
pubblici 
e 
privati; 
c) 
le 
terre 
derivanti: 
da 
scioglimento 
delle 
promiscuità 
di 
cui 
all’articolo 
8 
della 
legge 
16 
giugno 
1927, 
n. 
1766 
(106); 
da 
conciliazioni 
nelle 
materie 
regolate 
dalla 
predetta 
legge 
n. 
1766 
del 
1927; 
dallo 
scioglimento 
di 
associazioni 
agrarie; 
dall’acquisto 
di 
terre 
ai 
sensi 
dell’articolo 
22 
della 
medesima 
legge 
n. 
1766 
(103) Sulla 
materia: 
r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile 
della proprietà. La l. 20 novembre 
2017, n. 168, in materia di 
domini 
collettivi, in Nuove 
Leggi 
Civ. Comm., 2018, 5, pp. 1067 e 
ss., per il 
quale 
la 
nuova 
definizione 
legale 
di 
dominio collettivo individua 
un terzo ordinamento civile 
della 
proprietà, 
intendendo il 
bene 
come 
di 
proprietà 
originariamente 
riservata 
ex 
art. 43 Cost. alla 
popolazione 
residente, 
con 
numerose 
conseguenze 
sulla 
sua 
amministrazione 
come 
parte 
del 
territorio 
e 
sulla 
sua 
gestione come bene patrimoniale. 
(104) i beni 
di 
cui 
alla 
lettera 
f) -“i 
corpi 
idrici 
sui 
quali 
i 
residenti 
del 
comune 
o della frazione 
esercitano 
usi 
civici” 
-vengono 
qualificati 
patrimonio 
antico 
dell’ente 
collettivo. 
Gli 
stessi, 
tuttavia, 
per 
i loro connotati, vanno qualificati come usi civici. 
(105) Si 
rileva 
da 
r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile 
della proprietà. La l. 20 novembre 
2017, n. 168, in materia di 
domini 
collettivi, cit., che 
questa 
categoria 
di 
beni 
di 
demanio civico è 
data 
dalle 
terre 
continuamente 
aperte 
al 
godimento di 
una 
generalità 
di 
utenti 
e 
sulle 
quali 
non si 
è 
mai 
costituita, 
per questo, una proprietà privata. Questa è l’ipotesi più frequente. 
(106) “Le 
comunioni 
generali 
per 
servitù reciproche, qualora esistano, e 
tutte 
le 
comunioni 
particolari 
nelle 
quali 
non siano demani 
comunali, salvo il 
caso di 
cui 
all’ultimo comma del 
presente 
articolo, 
saranno sciolte 
senza compenso. Le 
comunioni 
generali 
per 
condominio, e 
le 
particolari, sia per 
condominio 
sia 
per 
servitù, 
fra 
Comuni, 
fra 
Comuni 
e 
frazioni, 
o 
fra 
due 
frazioni 
anche 
dello 
stesso 
Comune, si 
scioglieranno con l’attribuzione 
a ciascun Comune 
o a ciascuna frazione 
di 
una parte 
delle 
terre 
in 
piena 
proprietà, 
corrispondente 
in 
valore 
all’entità 
ed 
estensione 
dei 
reciproci 
diritti 
sulle 
terre, 
tenuto conto della popolazione, del 
numero degli 
animali 
mandati 
a pascolare, e 
dei 
bisogni 
di 
ciascun 
Comune 
e 
di 
ciascuna 
frazione. 
Si 
considerano 
comunioni 
generali 
quelle 
costituite 
sugli 
interi 
territori 
delle 
comunità partecipanti; si 
considerano particolari 
quelle 
che 
comprendono solo una parte 
di 
detti 
territori. 
in 
considerazione 
dei 
bisogni 
dell’economia 
locale 
potranno 
essere 
conservate 
le 
promiscuità 
esistenti 
nel 
qual 
caso ne 
sarà fatto rapporto motivato al 
ministero dell’economia nazionale, che 
provvederà”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


del 
1927 
(107) 
e 
dell’articolo 
9 
della 
legge 
3 
dicembre 
1971, 
n. 
1102 
(108); 
da 
operazioni 
e 
provvedimenti 
di 
liquidazione 
o 
da 
estinzione 
di 
usi 
civici; 
da 
permuta 
o 
da 
donazione; 
e) 
le 
terre 
collettive 
comunque 
denominate, 
appartenenti 
a 
famiglie 
discendenti 
dagli 
antichi 
originari 
del 
luogo, 
nonché 
le 
terre 
collettive 
disciplinate 
dagli 
articoli 
34 
della 
legge 
25 
luglio 
1952, 
n. 
991 
(109), 
10 
e 
11 
della 
legge 
3 
dicembre 
1971, 
n. 
1102 
(110), 
e 
3 
della 
legge 
31 
gennaio 
1994, 
n. 
97 
(111)”. 


(107) “Qualora l’estensione 
delle 
terre 
da ripartire 
non sia sufficiente 
per 
soddisfare 
tutte 
le 
domande 
delle 
famiglie 
che 
vi 
hanno diritto, si 
potrà provvedere 
all’assegnazione 
mediante 
sorteggio fra 
le 
famiglie 
indicate 
nel 
primo comma dell’art. 13. allo scopo di 
aumentare 
la massa da dividere 
fra gli 
aventi 
diritto, è 
tuttavia consentito tanto ai 
Comuni 
quanto alle 
associazioni 
degli 
utenti 
di 
avvantaggiarsi 
delle 
disposizioni 
del 
decreto-legge 
Luogotenenziale 
14 
luglio 
1918, 
n. 
1142, 
diretto 
ad 
agevolare 
l’acquisto 
di 
nuovi 
terreni. 
La 
stessa 
facoltà 
è 
data 
ai 
Comuni 
ed 
alle 
associazioni 
per 
affrancare 
i 
canoni 
enfiteuci 
che 
gravano le 
terre 
da ripartire. Qualora occorra pagare 
quote 
di 
ammortamento per 
debiti 
incontrati 
dal 
Comune 
per 
l’acquisto delle 
terre, si 
applicherà la disposizione 
del 
capoverso del-
l’art. 20 limitatamente alla parte che viene ripartita”. 
(108) 
“oltre 
alle 
regioni, 
le 
Comunità 
montane 
e 
i 
comuni 
sono 
autorizzati 
ad 
acquistare 
o 
a 
prendere 
in affitto per 
un periodo non inferiore 
ad anni 
20 terreni 
compresi 
nei 
rispettivi 
territori 
montani 
non 
più 
utilizzati 
a 
coltura 
agraria 
o 
nudi 
o 
cespugliati 
o 
anche 
parzialmente 
boscati 
per 
destinarli 
alla 
formazione 
di 
boschi, 
prati, 
pascoli 
o 
riserve 
naturali. 
Quando 
sia 
necessario 
per 
la 
difesa 
del 
suolo e 
per 
la protezione 
dell’ambiente 
naturale 
in conformità agli 
scopi 
di 
cui 
al 
precedente 
comma, 
le 
regioni, le 
Comunità montane 
e 
i 
comuni 
possono, in mancanza di 
accordo per 
l’acquisto ai 
valori 
correnti, procedere 
anche 
ad espropriare 
i 
terreni 
sopraindicati 
e 
quelli 
di 
cui 
al 
primo comma dell’articolo 
29 della legge 
27 ottobre 
1966, n. 910, con le 
modalità di 
cui 
agli 
articoli 
112, 113, 114 e 
115 del 
regio decreto 30 dicembre 
1923, n. 3267. ai 
beni 
acquistati 
o espropriati 
si 
applica l’articolo 107 del 
regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267 […].” 
(109) 
“Nessuna 
innovazione 
è 
operata 
in 
fatto 
di 
comunioni 
familiari 
vigenti 
nei 
territori 
montani 
nell’esercizio 
dell’attività 
agro-silvo-pastorale; 
dette 
comunioni 
continuano 
a 
godere 
e 
ad 
amministrare 
i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore”. 
(110) 
Art. 
10: 
“Per 
il 
godimento, 
l’amministrazione 
e 
l’organizzazione 
dei 
beni 
agro-silvopastorali 
appresi 
per 
laudo, le 
comunioni 
familiari 
montane 
(anche 
associate 
tra loro e 
con altri 
enti) 
sono 
disciplinate 
dai 
rispettivi 
statuti 
e 
consuetudini. 
rientrano 
tra 
le 
comunioni 
familiari, 
che 
non 
sono 
quindi 
soggette 
alla disciplina degli 
usi 
civici, le 
regole 
ampezzane 
di 
Cortina d’ampezzo, quelle 
del 
Comelico, le 
società di 
antichi 
originari 
della Lombardia, le 
servitù della Val 
Canale. La pubblicità di 
statuti, bilanci, nomine 
di 
rappresentanti 
legali 
è 
disciplinata da apposito regolamento emanato dalla 
regione. L’atto relativo all’acquisto e 
alla perdita dello stato di 
membro delle 
comunioni, disciplinato 
dallo statuto, è 
registrato a tassa fissa senza altre 
imposte”. Art. 11: 
“il 
patrimonio antico delle 
comunioni 
è 
trascritto o intavolato nei 
libri 
fondiari 
come 
inalienabile, indivisibile 
e 
vincolato alle 
attività 
agro-silvo-pastorali 
e 
connesse. Quei 
beni 
che 
previa autorizzazione 
regionale 
venissero destinati 
ad 
attività turistica dovranno essere 
sostituiti 
in modo da conservare 
al 
patrimonio comune 
la primitiva 
consistenza forestale. Solo i 
beni 
acquistati 
dalle 
comunioni 
dopo il 
1952 possono formare 
oggetto di 
libera 
contrattazione; 
per 
tutti 
gli 
altri 
la 
legge 
regionale 
determinerà 
limiti, 
condizioni, 
controlli 
intesi 
a consentire 
la concessione 
temporanea di 
usi 
diversi 
dai 
forestali, che 
dovranno comunque 
essere 
autorizzati 
anche dall’autorità forestale della regione”. 
(111) “al 
fine 
di 
valorizzare 
le 
potenzialità dei 
beni 
agro-silvo-pastorali 
in proprietà collettiva 
indivisibile 
ed inusucapibile, sia sotto il 
profilo produttivo, sia sotto quello della tutela ambientale, le 
regioni 
provvedono 
al 
riordino 
della 
disciplina 
delle 
organizzazioni 
montane, 
anche 
unite 
in 
comunanze, 
comunque 
denominate, ivi 
comprese 
le 
comunioni 
familiari 
montane 
di 
cui 
all’articolo 10 della legge 
3 dicembre 
1971, n. 1102, le 
regole 
cadorine 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 3 maggio 1948, n. 1104, e 
le 
associazioni 
di 
cui 
alla legge 
4 agosto 1894, n. 397, sulla base 
dei 
seguenti 
principi: a) alle 
organizza

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


Vengono 
in 
rilievo 
beni 
appartenenti 
a 
soggetti 
di 
diritto 
in 
comunione 
ex 
art. 1100 c.c. (gli 
abitanti 
di 
un comune 
o di 
una 
frazione; 
gli 
appartenenti 
a 
famiglie 
discendenti 
dagli 
antichi 
originari 
del 
luogo). Viene 
in rilievo una 
proprietà 
collettiva 
(comunanza 
(112), partecipanza), “ossia di 
quella forma 
di 
proprietà fondiaria che 
non è 
riferibile 
a un singolo o a un ente 
pubblico, 
ma a una collettività di 
persone, le 
quali 
hanno il 
pari 
diritto di 
trarre 
utilità 
dalla cosa e di escluderne i terzi” (113). 


l’uso 
e 
il 
godimento 
da 
parte 
dei 
cives 
grava 
su 
terre 
appartenenti 
alla 
collettività 
(“iura in re 
propria”), a 
cui 
competono tutte 
le 
utilità 
che 
da 
tali 
beni 
si 
possono 
trarre. 
in 
siffatte 
fattispecie, 
in 
cui 
i 
beni 
costituenti 
il 
demanio 
civico 
sono 
specificamente 
destinati 
all’uso 
da 
parte 
dei 
consociati, 
l’esercizio 
del 
potere 
di 
godimento del 
civis 
rappresenta 
l’estrinsecazione 
del 
peculiare 
rapporto 
di 
appartenenza 
intercorrente 
fra 
la 
comunità 
e 
la 
terra, 
caratterizzato 
dalla 
presenza 
di 
un vincolo di 
destinazione 
dei 
beni 
civici 
a 
favore 
dei 
consociati. 
i diritti 
di 
uso civico “in re 
propria” 
sono facoltà 
costituenti 
estrinsecazione 
di 
una 
proprietà 
collettiva, 
in 
cui 
la 
titolarità 
sostanziale 
dei 
beni 
appartiene 
alla 
collettività, ancorché 
nelle 
intestazioni 
catastali 
i 
terreni 
risultino 
di 
titolarità 
dei 
Comuni 
in 
quanto 
enti 
esponenziali 
delle 
collettività 
locali 
interessate. le 
facoltà 
e 
i 
diritti 
di 
cui 
godono i 
componenti 
della 
collettività 
sono di 
mero godimento promiscuo, mai 
di 
disposizione. il 
titolare 
del 
diritto 
di 
uso 
civico, 
infatti, 
non 
ha 
la 
legittimazione 
a 
disporre 
di 
tale 
diritto: 
non 
può 
trasmetterlo 
né 
inter 
vivos 
né 
mortis 
causa. 
né 
tale 
diritto 
può 
prescriversi 
per non uso: 
esso, infatti, potrà 
cessare 
soltanto con la 
perdita 
della 
qualità 
di 
civis. 
il 
demanio 
civico, 
dunque, 
lungi 
dal 
rappresentare 
l’oggetto 
di 
un 
diritto 
di 
proprietà 
individuale 
dell’ente 
pubblico che 
ne 
assume 
l’intestazione, rappresenta 
l’oggetto 
di 
una 
proprietà 
collettiva, 
di 
cui 
è 
titolare 
la 
comunità. 


zioni 
predette 
è 
conferita 
la 
personalità 
giuridica 
di 
diritto 
privato, 
secondo 
modalità 
stabilite 
con 
legge 
regionale, previa verifica della sussistenza dei 
presupposti 
in ordine 
ai 
nuclei 
familiari 
ed agli 
utenti 
aventi 
diritto ed ai 
beni 
oggetto della gestione 
comunitaria; b) ferma restando la autonomia statutaria 
delle 
organizzazioni, 
che 
determinano 
con 
proprie 
disposizioni 
i 
criteri 
oggettivi 
di 
appartenenza 
e 
sono 
rette 
anche 
da 
antiche 
laudi 
e 
consuetudini, 
le 
regioni, 
sentite 
le 
organizzazioni 
interessate, 
disciplinano 
con proprie 
disposizioni 
legislative 
i 
profili 
relativi 
ai 
seguenti 
punti: 1) le 
condizioni 
per 
poter 
autorizzare 
una destinazione, caso per 
caso, di 
beni 
comuni 
ad attività diverse 
da quelle 
agro-silvo-pastorali, 
assicurando 
comunque 
al 
patrimonio 
antico 
la 
primitiva 
consistenza 
agro-silvo-pastorale 
compreso 
l’eventuale 
maggior 
valore 
che 
ne 
derivasse 
dalla 
diversa 
destinazione 
dei 
beni; 
[…]; 
3) 
forme 
specifiche 
di 
pubblicità dei 
patrimoni 
collettivi 
vincolati, con annotazioni 
nel 
registro dei 
beni 
immobili, nonché 
degli 
elenchi 
e 
delle 
deliberazioni 
concernenti 
i 
nuclei 
familiari 
e 
gli 
utenti 
aventi 
diritto, 
ferme 
restando 
le forme di controllo e di garanzie interne a tali organizzazioni, singole o associate; 
[…]”. 


(112) 
le 
comunanze, 
titolari 
della 
proprietà 
collettiva, 
potevano 
anche 
avere, 
secondo 
le 
evenienze, 
la 
soggettività 
giuridica; 
su 
tale 
aspetto: 
S. 
PuGliATTi, 
La 
proprietà 
e 
le 
proprietà 
(con 
particolare 
riguardo alla proprietà terriera), in La proprietà nel 
nuovo diritto, cit., pp. 215-220. ora, alla 
luce 
del-
l’art. 1, comma 2, l. n. 168/2017 hanno, ope legis, personalità giuridica di diritto privato. 
(113) Così 
r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile 
della proprietà. La l. 20 novembre 
2017, n. 
168, in materia di domini collettivi, 
cit. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Sotto il 
profilo della 
qualificazione 
giuridica, il 
demanio civico integra 
un peculiare 
schema 
di 
appartenenza 
-riassumibile, appunto, nella 
locuzione 
proprietà 
collettiva 
-strutturata 
come 
una 
comunione 
atipica, 
in 
cui 
peraltro 
difetta 
la 
ripartizione 
in quote, sul 
modello della 
comunione 
a 
mani 
riunite, di 
diritto 
germanico (114). 

- Beni immobili sui quali insistono diritti di uso civico. 
Comprende 
i 
beni 
di 
cui 
al 
citato 
art. 
3, 
comma 
1, 
lettere 
d) 
e 
f), 
ossia: 
“d) 
le 
terre 
di 
proprietà 
di 
soggetti 
pubblici 
o 
privati, 
sulle 
quali 
i 
residenti 
del 
comune 
o 
della 
frazione 
esercitano 
usi 
civici 
non 
ancora 
liquidati”. 
Sono 
i 
casi 
in 
cui 
i 
residenti 
hanno 
il 
diritto 
di 
raccogliere 
la 
legna 
nel 
bosco 
o 
la 
frutta 
in 
un 
frutteto 
(c.d. 
legnatico, 
fruttatico, 
ecc); 
“f) 
i 
corpi 
idrici 
sui 
quali 
i 
residenti 
del 
comune 
o 
della 
frazione 
esercitano 
usi 
civici”. 
Sono 
i 
casi 
in 
cui 
i 
residenti 
hanno 
il 
diritto 
di 
pescare 
su 
un 
dato 
braccio 
di 
mare 
(c.d. 
pescatico). 
i 
diritti 
di 
uso 
civico, 
come 
è 
noto, 
erano 
sconosciuti 
al 
diritto 
romano, 
con 
un 
regime 
di 
proprietà 
su 
base 
essenzialmente 
individualistica. 
Sorsero 
nel 
medio 
evo, 
con 
l’economia 
feudale 
e, 
quindi, 
con 
l’intreccio 
delle 
situazioni 
dominicali: 
il 
feudatario, 
laico 
od 
ecclesiastico, 
era 
titolare 
del 
latifondo 
ed 
accadeva 
che 
-per 
concessione 
o 
tolleranza 
del 
signore 
o 
per 
usurpazione 
-una 
data 
comunità 
(gli 
abitanti 
di 
una 
frazione 
latistante 
un 
bosco 
o 
un 
lago, 
un’intero 
borgo 
vicino 
ad 
un 
frutteto) 
usava 
in 
un 
certo 
modo 
il 
terreno 
(ad 
es. 
vi 
passeggiava) 
o 
ne 
ricavava 
dati 
frutti 
appropriandosene. 
Con 
il 
tempo 
la 
situazione 
di 
fatto 
è 
divenuta 
una 
situazione 
di 
diritto, 
con 
la 
germinazione 
di 
un 
diritto 
reale 
di 
godimento 
(usi 
civici) 
spettante 
alla 
detta 
collettività 
indifferenziata, 
avente 
ad 
oggetto 
il 
godimento 
di 
specifiche 
utilità 
in 
perpetuo. 
la 
figura 
di 
diritto 
reale 
alla 
quale 
è 
riconducibile 
l’uso 
civico 
è 
il 
diritto 
di 
uso 
ex 
artt. 
1021-1026 
c.c., 
con 
elementi 
di 
specialità 
tra 
cui 
la 
perpetuità 
e 
l’uso 
specifico 
a 
fronte 
-rispettivamente 
-della 
temporaneità 
(artt. 
979 
e 
1026 
c.c.) 
e 
dell’uso 
generale 
(art. 
1021 
c.c.) 
del 
tipico 
diritto 
reale 
di 
uso. 


i 
diritti 
di 
uso 
civico 
sono 
diritti 
spettanti 
ad 
una 
intera 
comunità 
(di 
solito 
comunale) 
e 
ne 
sono 
indeterminati 
i 
soggetti 
singoli, 
sicché 
la 
titolarità 
del 
diritto 
dipende 
dall’accertamento dell’appartenenza 
del 
singolo a 
quella 
comunità; 
i 
soggetti 
singoli 
hanno diritto all’uso e 
al 
godimento dei 
beni 
uti 
cives; 
l’interesse che sta alla base della tutela di tali diritti è extraindividuale (115). 


Con la 
rivoluzione 
francese, con il 
trionfo della 
borghesia 
si 
ebbe 
la 
restaurazione 
della 
pienezza 
ed 
esclusività 
del 
diritto 
di 
proprietà 
individuale 
(116), 
sicché 
divennero 
intollerabili 
le 
promiscuità, 
i 
diritti 
collettivi 
insistenti 


(114) 
Su 
tali 
aspetti: 
S. 
orrù, 
voce 
Usi 
civici 
(i 
agg.), 
Digesto 
delle 
Discipline 
Privatistiche/Civile, 
2018. 
(115) S. PuGliATTi, La proprietà e 
le 
proprietà (con particolare 
riguardo alla proprietà terriera), 
in La proprietà nel nuovo diritto, cit., pp. 214-215. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


sul 
diritto di 
proprietà 
fondiaria. Si 
avviò, anche 
in italia, sulla 
scia 
delle 
riforme 
napoleoniche, 
la 
c.d. 
liquidazione 
degli 
usi 
civici, 
ossia 
la 
divisione 
delle 
proprietà 
sulle 
quali 
esistevano usi 
civici, con la 
germinazione 
di 
proprietà 
esclusive 
ripartite 
-in date 
proporzioni 
-tra 
il 
proprietario del 
latifondo 
e 
la 
comunità 
che 
su di 
esso vantava 
diritti 
di 
uso. Ad es., nel 
sud italia, nel 
decennio francese 
(1806-1815) si 
ebbe 
una 
sistematica 
legislazione 
di 
abolizione 
della 
feudalità, 
divisione 
dei 
demani 
ed 
abolizione 
degli 
usi 
civici 
(117). 
Tale 
procedimento fu lento e 
complesso, tant’è 
che 
ancora 
negli 
anni 
’20 del 
secolo 
scorso 
si 
dovette 
dare 
ad 
esso 
impulso 
con 
l’adozione 
della 
l. 
16 
giugno 
1927, 
n. 
1766, 
prevedente 
la 
figura 
di 
commissari 
per 
la 
liquidazione 
degli 
usi 


civici. Procedimento, allo stato non ancora 
definito (118), sicché 
gli 
usi 
civici 
sussistono, 
importanti, 
nell’attuale 
ordinamento 
giuridico. 
Anzi 
la 
legislazione 
recente 
punta 
alla 
loro valorizzazione, quali 
strumenti 
di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della persona 
ex 
art. 2 Cost. (119). 
- regime giuridico. 
i beni 
collettivi 
sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili 
e 
con destinazione 
perpetua 
agro-silvo-pastorale 
(art. 
3, 
comma 
3, 
l. 
n. 
168/2017), 
salva 
la 
alienabilità 
delle 
terre 
di 
proprietà 
di 
privati, sulle 
quali 
i 
residenti 
del 
Comune 
o della 
frazione 
esercitano usi 
civici 
non ancora 
liquidati 
(120). il 
detto 
regime 
è 
conseguenziale 
alla 
peculiare 
funzione 
dei 
beni 
collettivi, 
ossia 
al 
vincolo di 
destinazione 
degli 
stessi 
alla 
fruizione 
collettiva, in un’ottica 
volta 
al 
soddisfacimento 
di 
fondamentali 
interessi 
della 
collettività. 
l’art. 
3, 
comma 
5, l. n. 168/2017 prescrive 
che 
“L’utilizzazione 
del 
demanio civico avviene 
in 
conformità alla sua destinazione 
e 
secondo le 
regole 
d’uso stabilite 
dal 
dominio 
collettivo”; 
con 
tale 
precetto 
vi 
è 
il 
rimando 
alla 
disciplina 
di 
dettaglio 
contenuta 
nella l. n. 1766/1927. 

l’art. 
1 
l. 
n. 
168/2017 
enuncia: 
“1. 
[…] 
la 
repubblica 
riconosce 
i 
do


(116) il 
codice 
civile 
del 
1865 -diretto discendente 
del 
Codice 
napoleone 
del 
1804 -enunciava 
che 
“La proprietà è 
il 
diritto di 
godere 
e 
disporre 
delle 
cose 
nella maniera più assoluta” 
(art. 436 c.c.). 
(117) Sulla quale: r. feolA, Dall’illuminismo alla restaurazione, Jovene, 1982, pp. 307-326. 
(118) Giusta 
l’art. 3, comma 
6, l. 168/2017, con l’imposizione 
del 
vincolo paesaggistico sulle 
zone 
gravate 
da 
usi 
civici 
di 
cui 
all’art. 142, comma 
1, lett. h), del 
codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio 
(d.l.vo 
n. 
42/2004), 
l’ordinamento 
giuridico 
garantisce 
l’interesse 
della 
collettività 
generale 
alla 
conservazione 
degli 
usi 
civici 
per contribuire 
alla 
salvaguardia 
dell’ambiente 
e 
del 
paesaggio. Tale 
vincolo 
è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici. 
(119) Si 
rileva 
che 
la 
legge 
n. 168/2017 “individua nella proprietà collettiva una situazione 
da 
preservare 
per 
il 
futuro, non più un anacronismo da liquidare, per 
come 
era per 
la legge 
che 
disciplina 
ancora la materia, la l. 16 giugno 1927 n. 1766, che 
non viene 
tuttavia abrogata” 
(così 
r. VolAnTe, 
Un terzo ordinamento civile 
della proprietà. La l. 20 novembre 
2017, n. 168, in materia di 
domini 
collettivi, 
cit.). 
(120) l’eccezione 
scaturisce 
dalla 
sentenza 
n. 119 del 
15 giugno 2023, n. 119 della 
Corte 
costituzionale, 
che 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
del 
citato 
comma 
3, 
nella 
parte 
in 
cui, 
riferendosi 
ai 
beni 
indicati 
dall’art. 3, comma 
1, non esclude 
dal 
regime 
della 
inalienabilità 
le 
terre 
di 
proprietà 
di 
privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


mini 
collettivi, 
comunque 
denominati, 
come 
ordinamento 
giuridico 
primario 
delle 
comunità 
originarie: 
a) 
soggetto 
alla 
Costituzione; 
b) 
dotato 
di 
capacità 
di 
autonormazione, 
sia 
per 
l’amministrazione 
soggettiva 
e 
oggettiva, 
sia 
per 
l’amministrazione 
vincolata 
e 
discrezionale; 
c) 
dotato 
di 
capacità 
di 
gestione 
del 
patrimonio 
naturale, 
economico 
e 
culturale, 
che 
fa 
capo 
alla 
base 
territoriale 
della 
proprietà 
collettiva, 
considerato 
come 
comproprietà 
inter-generazionale; 
d) 
caratterizzato 
dall’esistenza 
di 
una 
collettività 
i 
cui 
membri 
hanno 
in 
proprietà 
terreni 
ed 
insieme 
esercitano 
più 
o 
meno 
estesi 
diritti 
di 
godimento, 
individualmente 
o 
collettivamente, 
su 
terreni 
che 
il 
comune 
amministra 
o 
la 
comunità 
da 
esso 
distinta 
ha 
in 
proprietà 
pubblica 
o 
collettiva. 
2. 
Gli 
enti 
esponenziali 
delle 
collettività 
titolari 
dei 
diritti 
di 
uso 
civico 
e 
della 
proprietà 
collettiva 
hanno 
personalità 
giuridica 
di 
diritto 
privato 
ed 
autonomia 
statutaria”. 


l’art. 
2, 
comma 
4, 
l. 
n. 
168/2017 
statuisce: 
“i 
beni 
di 
proprietà 
collettiva 
e 
i 
beni 
gravati 
da 
diritti 
di 
uso 
civico 
sono 
amministrati 
dagli 
enti 
esponenziali 
delle 
collettività 
titolari. 
in 
mancanza 
di 
tali 
enti 
i 
predetti 
beni 
sono 
gestiti 
dai 
comuni 
con 
amministrazione 
separata. 
resta 
nella 
facoltà 
delle 
popolazioni 
interessate 
costituire 
i 
comitati 
per 
l’amministrazione 
separata 
dei 
beni 
di 
uso 
civico 
frazionali, 
ai 
sensi 
della 
legge 
17 
aprile 
1957, 
n. 
278” 
(121). 


il 
diritto dei 
cittadini 
componenti 
la 
comunità 
di 
riferimento sulle 
terre 
di 
collettivo godimento si 
caratterizza 
per: 
a) 
avere 
normalmente, e 
non eccezionalmente, 
ad 
oggetto 
utilità 
del 
fondo 
consistenti 
in 
uno 
sfruttamento 
di 
esso; 
b) 
essere 
riservato 
ai 
componenti 
della 
comunità, 
salvo 
diversa 
decisione 
dell’ente collettivo (art. 2, comma 3, l. 168/2017). 


le 
regioni 
e 
le 
Province 
autonome 
di 
Trento 
e 
di 
bolzano 
possono 
autorizzare 
trasferimenti 
di 
diritti 
di 
uso 
civico 
e 
permute 
aventi 
a 
oggetto 
terreni 
a 
uso 
civico 
appartenenti 
al 
demanio 
civico 
in 
caso 
di 
accertata 
e 
irreversibile 
trasformazione, 
a 
date 
condizioni 
secondo 
la 
disciplina 
contenuta 
nei 
commi 
8 
bis,8 
ter,8 
quater, 
dell’art. 
3 
l. 
n. 
168/2017; 
destinatari 
del 
trasferimento 
o 
della 
permuta 
sono 
terreni 
di 
superficie 
e 
valore 
ambientale 
equivalenti 
che 
appartengono 
al 
patrimonio 
disponibile 
dei 
Comuni, 
delle 
regioni 
e 
delle 
Province 
autonome 
di 
Trento 
e 
di 
bolzano 
i 
quali, 
conseguentemente, 
acquistano 
le 
qualità 
demaniali 
e 
paesaggistiche. 
i 
terreni 
dai 
quali 
sono 
trasferiti 
i 
diritti 
di 
uso 
sono 
sdemanializzati 
e 
su 
di 
essi 
è 
mantenuto 
il 
vincolo 
paesaggistico. 


(121) 
l’art. 
1 
della 
legge 
n. 
278/1957 
dispone 
che 
“all’amministrazione 
separata 
dei 
beni 
di 
proprietà 
collettiva della generalità dei 
cittadini 
abitanti 
nel 
territorio frazionale 
provvede 
un Comitato di 
cinque 
membri 
eletti, nel 
proprio seno, dalla generalità dei 
cittadini 
residenti 
nella frazione 
ed iscritti 
nelle liste elettorali. il Comitato dura in carica quattro anni”. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


- in specie: peculiarità del regime giuridico degli usi civici. 
le 
zone 
gravate 
da 
usi 
civici 
sono ex 
lege 
sottoposte 
a 
vincolo paesaggistico 
in virtù dell’art. 142, comma 
1, lettera 
h), d.l.vo n. 42/2004 in funzione 
dell’interesse 
“della 
collettività 
generale 
alla 
conservazione 
degli 
usi 
civici 
per 
contribuire 
alla salvaguardia dell’ambiente 
e 
del 
paesaggio. Tale 
vincolo 
è 
mantenuto 
sulle 
terre 
anche 
in 
caso 
di 
liquidazione 
degli 
usi 
civici” 
(così 
art. 3, comma 6, l. n. 168/2017). 


inoltre, 
i 
beni 
gravati 
da 
uso 
civico 
“non 
possono 
essere 
espropriati 
o 
asserviti 
coattivamente 
se 
non viene 
pronunciato il 
mutamento di 
destinazione 
d’uso, 
fatte 
salve 
le 
ipotesi 
in 
cui 
l’opera 
pubblica 
o 
di 
pubblica 
utilità 
sia 
compatibile 
con 
l’esercizio 
dell’uso 
civico” 
(art. 
4, 
comma 
1 
bis, 
T.u. 
espropr.) 
(122). l’art. 4, commi 
1 ter 
e1 quater, T.u. espropr. chiarisce: 
“1 ter. Fermo 
restando 
il 
rispetto 
della 
normativa 
paesaggistica, 
si 
intendono 
di 
norma 
compatibili 
con 
l’esercizio 
dell’uso 
civico 
gli 
elettrodotti 
di 
cui 
all’articolo 
52quinquies, 
comma 1, fatta salva la possibilità che 
la regione, o un comune 
da 
essa 
delegato, 
possa 
esprimere 
caso 
per 
caso 
una 
diversa 
valutazione, 
con 
congrua motivazione, nell’ambito del 
procedimento autorizzativo per 
l’adozione 
del 
provvedimento che 
dichiara la pubblica utilità dell’infrastruttura. 1 
quater. 
Fermo 
restando 
il 
rispetto 
della 
normativa 
paesaggistica, 
si 
intendono 
sempre 
compatibili 
con l’esercizio dell’uso civico le 
ricostruzioni 
di 
elettrodotti 
aerei 
o interrati, già esistenti, di 
cui 
all’articolo 52-quinquies, comma 
1, che 
si 
rendano necessarie 
per 
ragioni 
di 
obsolescenza, purché 
siano realizzate 
con 
le 
migliori 
tecnologie 
esistenti 
e 
siano 
effettuate 
sul 
medesimo 
tracciato 
della linea già esistente o nelle sue immediate adiacenze”. 


(122) in coerenza 
a 
tale 
precetto Cass. S.u., 10 maggio 2023, n. 12570 enuncia 
che 
“i 
diritti 
di 
uso civico gravanti 
su beni 
collettivi 
non possono essere 
posti 
nel 
nulla (ovvero considerati 
implicitamente 
estinti) per 
effetto di 
un decreto di 
espropriazione 
per 
pubblica utilità, poichè 
la loro natura giuridica 
assimilabile 
a 
quella 
demaniale 
lo 
impedisce, 
essendo, 
perciò, 
necessario, 
per 
l’attuazione 
di 
una 
siffatta 
forma 
di 
espropriazione, 
un 
formale 
provvedimento 
di 
sdemanializzazione, 
la 
cui 
mancanza 
rende 
invalido il 
citato decreto espropriativo che 
implichi 
l’estinzione 
di 
eventuali 
usi 
civici 
di 
questo 
tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Il rapporto bilaterale Stato 
-Chiesa nell’ottica 
comune della difesa della persona umana 


Gaetana Natale* 


“Non 
possiamo 
non 
dirci 
Cristiani” 
scriveva 
benedetto 
Croce 
e 
certamente 
tale 
frase 
incide 
sulla 
nostra 
formazione 
culturale, ponendo alla 
base 
il 


c.d. 
“rapporto 
di 
bilateralità 
necessaria 
tra 
Stato 
e 
Chiesa” 
ex 
art. 
7 
della 
nostra 
Costituzione. Tale articolo recita espressamente: 
“Lo Stato e 
la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel 
proprio ordine, indipendenti 
e sovrani. 
i loro rapporti 
sono regolati 
dai 
Patti 
Lateranensi. Le 
modificazioni 
dei 
Patti, accettate 
dalle 
due 
parti, non richiedono procedimento di 
revisione 
costituzionale”. 


Si 
ricorda 
che 
i 
Patti 
lateralensi 
furono 
sottoscritti 
in 
roma 
l’11 
febbraio 
1929 
(l. 
27 
maggio 
1929 
n. 
8109) 
ed 
entrarono 
in 
vigore 
il 
7 
giugno 
1929. 
furono 
in 
seguito 
modificati 
da 
un 
ulteriore 
Accordo 
tra 
Santa 
Sede 
e 
repubblica 
italiana 
con 
Protocollo 
Addizionale 
entrambi 
firmati 
a 
roma 
il 
18 
febbraio 
1984 (l. 25 marzo 1985 n. 121) c.d. Accordi 
di 
Villa 
Madama. ulteriori 
Protocolli 
hanno riguardato le 
norme 
per la 
disciplina 
della 
materia 
degli 
enti 
e 
beni 
ecclesiastici 
(l. 20 maggio 1985 n. 206) e 
per il 
sostentamento del 
clero 
cattolico in servizio nelle diocesi (l. 20 maggio 1985 n. 222). 


occorre 
riflettere 
sulla 
scelta 
operata 
dai 
nostri 
padri 
costituenti 
(Giuseppe 
dossetti, enrico de 
nicola, Alcide 
de 
Gasperi): 
la 
scelta 
fu di 
non costituzionalizzare 
le 
norme 
dei 
Patti 
lateralensi 
che 
restano norme 
ordinarie, 
ossia 
norme 
“non di 
produzione, ma sulla produzione”, ma 
di 
costituzionalizzare 
il 
“principio concordatario” 
(sentenza 
Corte 
Costituzionale 
n. 30/1971) 
nel 
rispetto della 
“teoria 
della 
pluralità 
degli 
ordinamenti 
giuridici” 
di 
Santi 
romano. Per la 
modifica 
di 
tali 
Patti 
non è 
prevista, infatti, la 
procedura 
aggravata 
di 
cui 
all’art. 138 Cost. e 
l’intesa 
Stato-Chiesa 
presenta 
delle 
caratteristiche 
del 
tutto 
autonome 
rispetto 
alle 
intese 
tra 
Stato-regioni, 
in 
quanto 
siamo in presenza di due Stati autonomi e sovrani. 

Se 
da 
una 
parte 
lo 
Stato 
italiano 
ha 
modificato 
nel 
corso 
degli 
anni 
la 
propria 
Costituzione 
(ad 
esempio, 
la 
modifica 
del 
titolo 
V 
della 
Costituzione, 
modifica 
dell’art. 9 cost. e 
la 
riforma 
in itinere 
del 
regionalismo differenziato), 
vi 
è 
da 
chiedersi 
come 
la 
Chiesa 
abbia 
nel 
corso di 
questi 
anni 
modificato la 
propria 
Costituzione 
Apostolica 
e 
se 
da 
questa 
modifica 
risultano 
mutati 
anche 
i rapporti con lo Stato italiano. 

(*) 
Avvocato 
dello 
Stato 
e 
Professore 
di 
Sistemi 
Giuridici 
Comparati; 
Membro 
dell’Associazione 
Giuristi 
Cattolici e Presidente dal 2019 al 2021 della Commissione Stato-Confessioni religiose. 


rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


ebbene 
la 
nuova 
Costituzione 
Apostolica 
del 
marzo 
2022 
entrata 
in 
vigore 
nel 
giugno 2022 voluta 
da 
Papa 
francesco “Praedicate 
Evangelium” 
realizza 
una 
vera 
e 
propria 
rivoluzione 
all’interno 
della 
Chiesa: 
“siamo 
in 
presenza 
non di 
un’epoca di 
cambiamento, ma di 
un cambiamento d’epoca”, volendo 
citare testualmente le parole dell’attuale Pontefice. 

Qual 
è 
la 
novità 
più 
significativa 
di 
tale 
nuova 
Costituzione 
Apostolica? 
Tale 
Costituzione 
fa 
assumere 
alla 
Curia 
romana 
uno 
spirito 
più 
missionario, 
pastorale, 
determinando 
una 
modifica 
significativa 
anche 
delle 
strutture 
e 
dell’organizzazione 
della 
Chiesa 
(vedi 
opera 
del 
prof. 
Sergio 
Aumenta 
dal 
titolo 
“La 
curia 
romana 
secondo 
Praedicate 
Evangelium”, 
2023). 
Tale 
Costituzione, 
formata 
da 
250 
articoli, 
costituisce 
il 
diaframma 
tra 
il 
Papa 
e 
il 
territorio, 
eliminando 
la 
natura 
strettamente 
tecnica 
della 
Curia 
che 
non 
è 
più 
solo 
al 
servizio 
del 
governo 
centrale 
della 
Chiesa 
universale, 
ma 
è 
anche 
al 
servizio 
in 
maniera 
orizzontale 
delle 
conferenze 
episcopali, 
del 
territorio, 
dei 
parroci 
e 
delle 
parrocchie 
anche 
periferiche 
in 
un’ottica 
place 
based. 


Tale 
principio 
sembra 
molto 
simile 
ai 
concetti 
laici 
di 
“sussidiarietà” 
e 
di 
“prossimità”. 
Papa 
francesco 
ha 
introdotto 
16 
dicasteri 
di 
cui 
quello 
più 
importante 
dedicato 
alla 
c.d. 
“evangelizzazione” 
è 
da 
lui 
stesso 
presieduto. 
la 
novità 
più 
significativa 
è 
che 
tali 
dicasteri 
possono 
essere 
presieduti 
da 
laici, 
in 
quanto 
Papa 
Francesco 
ritiene 
che 
i 
laici 
possano 
costituire 
una 
spinta 
riformatrice 
ed 
innovatrice 
della 
Chiesa. 
Ad 
esempio 
il 
dicastero 
per 
la 
Comunicazione 
è 
presieduta 
da 
un 
giornalista 
Paolo 
ruffini. 
Certo 
la 
collocazione 
dei 
laici 
in 
posizione 
di 
direzione 
all’interno 
della 
Chiesa 
pone 
delicati 
questioni 
in 
merito 
al 
diritto 
canonico 
che 
riconosce 
tali 
posizioni 
solo 
a 
chi 
è 
titolare 
del 
c.d. 
“potere 
ordinato”. 
non 
solo, 
ma 
il 
Papa 
sta 
ponendo 
sempre 
più 
al 
centro 
la 
figura 
femminile, 
avendo, 
ad 
esempio, 
nominato 
per 
la 
prima 
volta 
come 
Segretario 
Generale 
Suor 
raffaella 
Petrini. 


Al 
centro di 
tale 
Costituzione 
vi 
è 
l’elemento centrale 
della 
“sinodalità” 
che 
richiede 
un dialogo continuo tra 
curia, conferenze 
episcopali, parrocchie 
e 
cooperazione 
tra 
i 
vari 
dicasteri. Anzi, ponendo la 
Curia 
al 
servizio anche 
delle 
periferie, il 
Papa 
ha 
posto come 
centrale 
anche 
la 
totale 
trasparenza 
in 
campo economico e 
finanziario, avendo creato un dicastero per l’economia 
con efficienti uffici di controllo. 

Si 
colgono 
in 
tale 
nuova 
Costituzione 
che 
richiederà 
appositi 
regolamenti, 
dei 
principi 
che 
sono 
fondamentali 
anche 
per 
l’attività 
dello 
Stato 
italiano: 
i 
concetti 
di 
trasparenza, 
correttezza, 
piani 
di 
anticorruzione, 
di 
explainability 
(Right 
to 
explaination, 
ossia 
diritto 
alla 
spiegazione), 
accountability 
che 
sembrano 
costituire 
un 
filo 
comune 
tra 
i 
due 
ordinamenti. 
Vi 
è 
una 
condivisione 
di 
valori 
tra 
Stato 
italiano 
e 
Chiesa 
Cattolica 
che 
poggia 
su 
un 
terreno 
comune: 
la 
tutela 
della 
persona 
umana, 
della 
sua 
dignità, 



ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


della 
sua 
centralità, 
della 
solidarietà 
e 
dell’inclusione: 
declinate 
per 
il 
primo 
nel 
rispetto 
della 
laicità 
dello 
Stato 
e 
della 
pluralità 
delle 
confessioni 
religiose 
e 
per 
il 
secondo 
nella 
valorizzazione 
dello 
spirito 
evangelico. 
basti 
pensare 
alle 
posizioni 
convergenti 
in 
materia 
di 
intelligenza 
Artificiale, 
argomento 
che 
vede 
per 
entrambi 
gli 
ordinamenti 
lo 
sviluppo 
di 
un 
pensiero 
antropocentrico 
strutturato 
su 
una 
forte 
“Etica 
dell’algoritmo”. 
Si 
pensi 
alla 
figura 
autorevole 
del 
prof. 
benanti 
che 
presiede 
la 
Commissione 
per 
l’Ai 
in 
materia 
di 
editoria 
e 
comunicazioni 
o 
agli 
acuti 
interventi 
del 
Sottosegretario 
Parolin 
in 
molti 
eventi 
e 
convegni, 
da 
ultimo 
quello 
tenutosi 
il 
giorno 
12 
marzo 
2024 
con 
il 
dipartimento 
per 
la 
transizione 
digitale 
e 
Agid 
dal 
titolo 
“L’intelligenza 
artificiale 
per 
l’italia”. 


Questo 
dialogo 
continuo 
tra 
Stato 
e 
Chiesa 
rappresenta 
oggi 
il 
prisma 
valoriale 
attraverso 
cui 
capire 
la 
“complessità” 
della 
post-modernità 
in 
un 
periodo 
caratterizzato 
da 
grandi 
trasformazioni 
e 
tensioni 
che 
impongono 
una 
“rivalutazione cognitiva” della realtà e dei processi evolutivi in corso. 

la 
valenza 
culturale 
della 
tradizione 
cristiana 
e 
l’onda 
riformatrice 
di 
Papa 
francesco (si 
pensi 
al 
dibattito intorno alla 
Fiducia Supplicans) si 
impongono 
oggi 
all’attenzione 
anche 
del 
giurista 
laico 
che 
non 
può 
non 
coglierne 
la 
funzione 
di 
mediazione 
tra 
trasformazioni 
sociali, economiche, tecnologiche, 
politiche 
ed 
esigenze 
di 
tutela 
della 
persona 
umana. 
Si 
pensi 
anche 
al 
ruolo internazionale 
della 
Chiesa 
svolto nell’ambito degli 
attuali 
conflitti 
in 
corso, 
o 
ancora 
alla 
tutela 
dell’ambiente 
e 
degli 
ecosistemi 
posta 
in 
essere 
con 
l’enciclica 
papale 
“Laudato 
si”in 
totale 
assonanza 
ontologica 
con 
il 
New 
Green Deal. 


benedetto Croce 
nel 
suo breve 
saggio “Perché 
non possiamo non dirci 
cristiani” 
scritto nel 
1942 sosteneva 
che 
il 
Cristianesimo ha 
compiuto una 
rivoluzione 
“che 
operò nel 
centro dell’anima, nella coscienza morale, e 
conferendo 
risalto 
all’intimo 
e 
al 
proprio 
di 
tale 
coscienza, 
quasi 
parve 
che 
le 
acquistasse 
una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che 
fino allora era 
mancata all’umanità e 
che 
per 
merito di 
quella rivoluzione 
non può non dirsi 
cristiana”. Per benedetto Croce 
e 
il 
suo neohegelismo, storicismo la 
storia 
è 
pensiero ed azione, per cui 
“ogni 
genuina conoscenza è 
conoscenza storica”. 
non è 
un caso che 
tale 
intellettuale 
venisse 
definito “il 
Papa laico” 
agli 
inizi 
del 
‘900, quasi 
a 
voler indicare 
questa 
crasi 
concettuale 
e 
valoriale 
tra 
cultura 
laica e cultura cattolica. 

nelle 
facoltà 
di 
giurisprudenza 
italiane 
ed europee 
restano fermi 
gli 
insegnamenti 
del 
diritto 
ecclesiastico 
e 
del 
diritto 
canonico. 
d’altronde 
nello 
Stato 
italiano 
la 
facoltà 
di 
legge 
è 
da 
sempre 
denominata 
“iurisprudentia”, 
dalla 
parola 
latina 
“prudens” 
che 
significa 
“esperto del 
diritto”. la 
Chiesa 
ci 
offre 
degli 
strumenti 
interpretativi 
di 
valenza 
culturale 
e 
per chi 
ha 
fede 
anche 
di 
valenza 
spirituale: 
il 
termine 
religione 
deriva 
dal 
latino “religio”, verbo religere 
che significa legare, ossia legarsi a principi e/o valori. 


rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


ognuno di 
noi 
in base 
alla 
propria 
formazione 
può secondo il 
suo “libero 
arbitrio” 
decidere 
se 
ispirarsi 
ai 
principi 
e 
ai 
valori 
spirituali 
della 
Chiesa 
Cattolica, 
ma 
è 
innegabile 
la 
sua 
importanza 
culturale 
e 
storica 
per l’italia 
e 
per 
l’intera europa. 


ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Il principio della fiducia nel nuovo 
Codice dei contratti pubblici 


Antonino Ripepi* 


Sommario: 1. Premessa -2. La fiducia nella teoria generale 
del 
diritto -3. il 
principio 
della 
fiducia 
nell’ordinamento 
positivo 
-4. 
il 
problema 
(o 
l’opportunità) 
della 
discrezionalità 
-5. 
il 
principio 
della 
fiducia 
nella 
giurisprudenza 
-5.1. 
La 
giurisprudenza 
consolidata 
in 
materia 
di 
offerte 
anomale 
e 
il 
perimetro 
del 
sindacato 
del 
G.a. 
-5.2. 
il 
principio 
della 
fiducia 
e 
l’art. 
2 
D.Lgs. 
31 
marzo 
2023, 
n. 
36. 
-5.3. 
Principio 
della 
fiducia 
e 
sindacato 
giurisdizionale 
a confronto sul 
terreno della valutazione 
di 
anomalia dell’offerta. T.a.r. Sicilia-Catania, sez. 
iii, 7 febbraio 2024, n. 478 - 6. Conclusioni. 


1. Premessa. 
Come 
noto, 
il 
d.lgs. 
n. 
36/2023 
si 
contraddistingue, 
rispetto 
al 
precedente 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici, per una 
nuova 
impostazione 
normativa: 
la 
disciplina 
di 
dettaglio è 
preceduta 
da 
una 
Parte 
i (“dei 
principi”), contrassegnata 
da 
un Titolo i (“i principi 
generali”) il 
cui 
contenuto presenta 
molteplici 
profili 
di 
rilevanza: 
guida 
per 
l’interprete 
a 
fronte 
di 
casi 
dubbi 
(1), 
funzione 
integrativa 
a 
fronte 
di 
lacune 
normative 
involontarie, 
espressione 
dei 
valori di fondo che permeano la materia. 


Particolare 
interesse 
ha 
destato l’innovativo principio della 
fiducia, cui 
è 
dedicato questo contributo. 


2. La fiducia nella teoria generale del diritto. 
“Quando 
il 
diritto 
interviene 
è 
perché 
ormai 
la 
fiducia 
è 
diventata 
rischio 
insopportabile 
e, 
quindi, 
bisogna 
abbassare 
la 
soglia 
della 
gratificazione 
e 
innalzare 
quella 
della 
delusione” 
(2). 
È 
l’efficace 
sintesi 
della 
tradizionale 
impostazione 
secondo 
la 
quale 
il 
diritto 
si 
lega 
indissolubilmente 
a 
un’idea 
di 
sospetto 
e 
sfiducia: 
«è 
perché 
non 
abbiamo 
fiducia 
che 
“contrattiamo” 
e 
che 
rientriamo 
nella 
logica 
simmetrica 
del 
rapporto 
creditore-
debitore» 
(3). 
essa 
è 
stata 
individuata 
con 
la 
locuzione 
“machiavellismo 
giuridico”, 
in 
quanto 
l’autore 
del 
Principe 
aveva 
individuato 
un 
preciso 
legame 
tra 
concezione 
dell’uomo 
e 
natura 
della 
legge: 
“è 
necessario 
a 
chi 
dispone 
una 
republica, 
ed 
ordina 
leggi 
in 
quella, 
presupporre 
tutti 
gli 
uomini 
rei, 
e 
che 
li 
abbiano 
sempre 
a 
usare 
la 
malignità 
dello 
animo 
loro, 
qualunque 


(*) Procuratore 
dello Stato -Avvocatura 
distrettuale 
di 
reggio Calabria, referente 
distrettuale 
per la 
“rassegna dell’Avvocatura dello Stato”. 


(1) Tutt’altro che infrequenti nella complessa materia dei contratti pubblici. 
(2) e. reSTA, Le regole della fiducia, laterza, 2009, p. 8. 
(3) 
M. MArzAno, avere fiducia, Mondadori, 2012, p. 9. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


volta 
ne 
abbiano 
libera 
occasione 
… 
Gli 
uomini 
non 
operorono 
mai 
nulla 
bene 
se 
non 
per 
necessità” 
(4). 
la 
concezione 
negativa 
dell’essere 
umano è 
molto vicina 
a 
quella 
di 
un filosofo pur diversissimo come 
Thomas 
hobbes, 
il 
quale 
aveva 
negato l’idea 
dell’uomo naturalmente 
portato ad associarsi 
sin 
dalla 
nascita 
per 
affermare, 
invece, 
la 
dipendenza 
dei 
legami 
umani 
dalla 
convenienza 
e dalla costrizione (5). 


È 
un 
paradigma 
che 
ritroviamo 
anche 
nella 
scienza 
economica, 
ove 
la 
nascita 
dell’homo oeconomicus 
è 
legata 
alla 
convinzione 
che 
i 
consociati, laddove 
ne 
abbiano possibilità, “tendono ad agire 
da 
furfanti 
o imbroglioni” 
(6), 
sebbene 
non 
manchino 
impostazioni 
in 
senso 
contrario, 
secondo 
cui 
l’idea 
che 
l’uomo sia 
individualista 
in senso assoluto e 
privo di 
scrupoli 
non ha 
fondamento 
nella scienza antropologica e psicologica. 


Anche 
sul 
piano 
sociologico, 
nell’ambito 
di 
una 
ricerca 
attinente 
alle 
basi 
morali 
di 
una 
società 
arretrata, banfield aveva 
individuato il 
modello del 
familismo 
amorale, 
nell’ambito 
del 
quale 
si 
sarebbe 
agito 
in 
violazione 
della 
legge 
ogni 
qualvolta 
non vi 
fosse 
ragione 
di 
temere 
una 
punizione 
(7). lo studio 
concerneva 
classi 
sociali 
e 
zone 
geografiche 
ben definite 
(i 
contadini 
meridionali; 
l’indagine 
è 
ambientata 
in 
un 
paesino 
immaginario), 
ma 
è 
stato 
successivamente 
generalizzato e 
posto alla 
base 
di 
un paradigma 
sfiduciario 
capace 
di 
spiegare 
tutte 
le 
relazioni 
umane. Anche 
in questo settore, tuttavia, 
si 
è 
osservato che 
l’immagine 
di 
un’italia 
affetta 
dalla 
sindrome 
particolarista 
non è nient’altro che uno stereotipo (8). 


in tale 
quadro, di 
recente, un filosofo del 
diritto ha 
proposto di 
superare 
il 
paradigma 
secondo il 
quale, quando agiamo secondo norme 
giuridiche, lo 
facciamo pensando agli 
altri 
come 
nostri 
nemici, ciò che 
è 
frutto di 
una 
“percezione 
distorta” 
(9). infatti, l’obbligo derivante 
da 
una 
norma 
o da 
un contratto 
non 
può 
prescindere 
dal 
riconoscimento 
delle 
reciproche 
aspettative, 
che 
è 
momento essenziale 
della 
dinamica 
giuridica 
e 
si 
pone 
in rapporto di 
essenziale 
circolarità con la fiducia (10). 


in tale 
concezione, mettere 
innanzi 
la 
minaccia 
della 
sanzione 
vuole 
dire 
avvelenare 
la 
relazione, soffocando sul 
nascere 
la 
fiducia 
(11). d’altronde, il 


(4) 
n. 
MAChiAVelli, 
Discorsi 
sopra 
la 
prima 
deca 
di 
Tito 
Livio, 
i, 
3, 
in 
Niccolò 
machiavelli. 
Tutte 
le opere, a cura di M. MArTelli, Sansoni, 1971, p. 282. 
(5) T. hobbeS, De 
Cive, i, 2, trad. it. Elementi 
filosofici 
sul 
cittadino, a 
cura 
di 
n. bobbio, utet, 
1948, p. 73. 
(6) b.S. frey, Non solo per 
denaro. Le 
motivazioni 
disinteressate 
dell’agire 
economico 
(1997), 
Mondadori, 2005, p. 49. 
(7) e.C. bAnfield, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, 2010, p. 101. 
(8) l. SCiollA, italiani. Stereotipi di casa nostra, il Mulino, 1997. 
(9) T. GreCo, La legge della fiducia. alle radici del diritto, laterza, 2021, p. 60. 
(10) 
b. 
PASTore, 
Pluralismo, 
fiducia, 
solidarietà. 
Questioni 
di 
filosofia 
del 
diritto, 
Carocci, 
2007, 
p. 11. 
(11) n. luhMAnn, La fiducia, il Mulino, 2002, p. 55. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


diritto positivo conosce 
clausole 
generali 
quali 
la 
buona 
fede, che 
si 
fondano 
su 
doveri 
di 
cooperazione 
(12), 
sulla 
necessaria 
valutazione 
della 
posizione 
altrui 
e, in definitiva, sulla 
fiducia, nonché 
principi 
costituzionali, quali 
la 
solidarietà 
ex 
art. 2 Cost., che 
secondo una 
consistente 
corrente 
dottrinale 
e 
giurisprudenziale 
costituisce il fondamento ultimo della buona fede (13). 


Proseguendo l’esame 
del 
modo di 
concretizzarsi 
della 
fiducia 
nelle 
varie 
entità 
giuridiche, 
si 
è 
recentemente 
evidenziato 
come 
“le 
regole 
implicano 
certamente 
un livello piuttosto ridotto di 
fiducia 
sia 
nei 
confronti 
dei 
consociati, 
sia 
nei 
confronti 
dei 
funzionari 
e 
degli 
apparati 
burocratici, sia 
di 
coloro che 
sono chiamati ad intervenire in caso di disobbedienza alle norme” (14). 

la 
normazione 
per principi, invece, implica 
un maggiore 
intervento del-
l’interprete, 
chiamato 
a 
concretizzare 
il 
precetto 
e, 
conseguentemente, 
una 
maggiore 
fiducia 
nei 
confronti 
degli 
apparati 
burocratici 
e 
degli 
esecutori 
in 
generale, che 
devono modulare 
la 
portata 
del 
principio a 
seconda 
della 
situazione 
concreta che si palesa all’attenzione di chi deve applicarlo (15). 


infatti, i 
sistemi 
di 
regolamentazione 
troppo severi 
e 
restrittivi, oltre 
a 
restringere 
“gli 
spazi 
nei 
quali 
può operare 
e 
manifestare 
i 
suoi 
effetti 
positivi 
la 
fiducia 
interpersonale” 
(16), rischiano di 
produrre 
una 
limitazione 
dell’autodeterminazione 
da 
cui 
deriva 
la 
deresponsabilizzazione 
degli 
individui, esprimibile 
nell’adagio “non sono io, sono le regole!” (17). 


in 
definitiva, 
“alle 
regole 
si 
ubbidisce”, 
mentre 
“ai 
principi 
si 
aderisce” 
(18). 


3. il principio della fiducia nell’ordinamento positivo. 
e 
proprio 
le 
sembianze 
di 
un 
principio 
ha 
acquisito 
la 
fiducia 
nell’ambito 
dei contratti pubblici. 


Come 
noto, 
il 
d.lgs. 
n. 
36/2023, 
attuativo 
della 
delega 
al 
Governo 
in 
materia 
di 
contratti 
pubblici 
ex 
art. 1 l. n. 78/2022 e 
recante 
il 
“nuovo codice 
dei 
contratti”, si 
apre 
con una 
Parte 
i del 
libro i dedicata 
ai 
principi, di 
cui 
viene 
codificata 
la 
forza 
ordinante, secondo una 
scelta 
che 
non ha 
precedenti 
in materia 
di contratti pubblici (19). 


(12) 
f. 
PoGGi, 
La 
buona 
fede 
e 
il 
principio 
di 
cooperazione. 
Una 
proposta 
interpretativa, 
in 
rivista 
critica di diritto privato, n. 2/2012, pp. 241-268. 
(13) basti 
citare 
le 
note 
ordinanze 
della 
Corte 
costituzionale 
24 ottobre 
2013, n. 238 e 
2 aprile 
2014, n. 77. Con riferimento alla 
giurisprudenza 
di 
legittimità, si 
rinvia 
a 
Cass. Sez. un., 4 novembre 
2019, n. 28314, ove 
si 
legge 
che 
“l’affidamento, che 
costituisce 
il 
nucleo costitutivo della 
nozione 
di 
buona fede, ha un sicuro ancoraggio costituzionale nell’art. 2 Cost.”. 
(14) 
T. GreCo, op. cit., p. 116. 
(15) ivi, p. 118. 
(16) 
V. 
PelliGrA, 
i 
paradossi 
della 
fiducia. 
Scelte 
razionali 
e 
dinamiche 
interpersonali, 
il 
Mulino, 
2007, p. 88. 
(17) T. GreCo, op. cit., p. 126. 
(18) G. zAGrebelSky, Diritto allo specchio, einaudi, 2018, p. 233. 
(19) A. Cioffi, Prima lettura del 
nuovo Codice 
dei 
contratti 
e 
dei 
suoi 
tre 
principi 
fondamentali, 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


Tra 
questi 
annoveriamo il 
principio della 
fiducia, che 
ha 
portata 
bidirezionale, 
concernendo 
sia 
la 
P.A. 
che 
il 
cittadino, 
in 
quanto 
“ad 
un’amministrazione 
trasparente 
e 
corretta 
deve 
rapportarsi 
un 
cittadino 
-nella 
specie, 
un 
operatore 
economico 
-altrettanto 
trasparente 
e 
corretto” 
(20), 
e 
prevede 
quale 
termine 
di 
riferimento l’“azione 
legittima, trasparente 
e 
corretta 
dell’amministrazione, 
dei 
suoi 
funzionari 
e 
degli 
operatori 
economici” 
(art. 2, c. 1, d.lgs. 
n. 36/2023). 


il 
principio 
in 
esame, 
che 
non 
ha 
valenza 
esclusivamente 
e 
semplicemente 
declamatoria, come 
rivela 
il 
comma 
4 dell’art. 2 in tema 
di 
copertura 
assicurativa 
dei 
dipendenti 
e 
formazione 
degli 
stessi, è 
animato da 
una 
filosofia 
di 
fondo descritta 
in modo illuminante 
dalla 
relazione 
di 
accompagnamento: 
si 
tratta 
di 
“un segno di 
svolta 
rispetto alla 
logica 
fondata 
sulla 
sfiducia 
(se 
non 
sul 
“sospetto”) per l’azione 
dei 
pubblici 
funzionari, che 
si 
è 
sviluppata 
negli 
ultimi 
anni 
[…] 
e 
che 
si 
è 
caratterizzata 
da 
un 
lato 
per 
una 
normazione 
di 
estremo dettaglio, che 
mortificava 
l’esercizio della 
discrezionalità, dall’altro 
per il 
crescente 
rischio di 
avvio automatico di 
procedure 
di 
accertamento di 
responsabilità 
amministrative, civili, contabili 
e 
penali 
che 
potevano alla 
fine 
rivelarsi 
prive 
di 
effettivo fondamento” 
(21), le 
quali 
hanno generato «“paura 
della 
firma” 
e 
“burocrazia 
difensiva”», 
a 
loro 
volta 
“fonte 
di 
inefficienza 
e 
immobilismo 
e, quindi, un ostacolo al 
rilancio economico, che 
richiede, al 
contrario, 
una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente” (22). 


Si 
tratta 
del 
fenomeno 
precedentemente 
descritto, 
cui 
il 
nuovo 
Codice 
vorrebbe 
porre 
rimedio dando, “sin dalle 
sue 
disposizioni 
di 
principio, il 
segnale 
di 
un cambiamento profondo, che 
-fermo restando ovviamente 
il 
perseguimento 
convinto 
di 
ogni 
forma 
di 
irregolarità 
-miri 
a 
valorizzare 
lo 
spirito 
di 
iniziativa 
e 
la 
discrezionalità 
degli 
amministratori 
pubblici, 
introducendo 
una 
“rete 
di 
protezione” 
rispetto all’alto rischio che 
accompagna 
il 
loro operato” 
(23). 


Si 
tratta 
di 
un 
vero 
e 
proprio 
cambio 
di 
paradigma 
culturale, 
ancor 
prima 
che 
giuridico-normativo, 
che 
aveva 
già 
manifestato 
un 
punto 
di 
emersione 
con 
il 
d.l. n. 76/2020, teso a 
limitare 
i 
confini 
della 
responsabilità 
(penale 
ed era


2023, 
disponibile 
in 
https://www.apertacontrada.it/2023/01/16/prima-lettura-del-nuovo-codice-deicontratti-
e-dei-suoi-tre-principi-fondamentali/. 


(20) f. SAiTTA, i principi 
generali 
del 
nuovo Codice 
dei 
contratti 
pubblici, 2023, disponibile 
in 
https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/2799-i-principi-generali-del-nuovocodice-
dei-contratti-pubblici. 
(21) 
relazione 
agli 
articoli 
e 
agli 
allegati 
dello 
Schema 
definitivo 
di 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
in 
attuazione 
dell’articolo 
1 
della 
legge 
21 
giugno 
2022, 
n. 
78, 
recante 
“Delega 
al 
Governo 
in 
materia 
di 
contratti 
pubblici”, 
disponibile 
in 
https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/
20142/17550825/3_CoDiCE+CoNTraTTi+rELaZioNE.pdf/d3223534-d548-1fdc-4be4e9632c641eb8?
t=1670933091420, 
p. 
14. 
(22) ibidem. 
(23) ivi, p. 15. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


riale) 
dei 
dipendenti 
pubblici, 
concepita 
quale 
fattore 
alla 
base 
di 
rallentamenti 
e 
inerzie 
nello 
svolgimento 
dell’attività 
amministrativa, 
non 
ammissibili 
in 
un’epoca 
in 
cui 
il 
Paese 
si 
avviava 
a 
superare 
i 
danni 
cagionati 
dalla 
pandemia 
attraverso l’utilizzo dei 
fondi 
collegati 
al 
Pnrr. in tale 
contesto, e 
in disparte 
l’intervento sull’art. 323 c.p., il 
legislatore 
ha 
ritenuto opportuno contenere 
in 
via 
transitoria 
la 
responsabilità 
per 
colpa 
grave 
alla 
sola 
ipotesi 
omissiva, 
quale 
stimolo all’azione 
e 
all’adozione 
di 
decisioni 
necessarie 
per evitare 
la 
paralisi 
burocratica. 


È 
fuor di 
dubbio che 
tale 
intervento normativo abbia 
attirato numerose 
critiche, 
incentrate 
sull’indebita 
equiparazione 
della 
condotta 
gravemente 
colposa 
(ma 
non sanzionabile) al 
comportamento rispettoso del 
dovere 
costituzionale 
di 
adempiere 
le 
funzioni 
pubbliche 
con 
disciplina 
e 
onore 
e 
pienamente 
conforme 
agli 
obblighi 
di 
servizio (24), sul 
rischio di 
deresponsabilizzazione 
della 
dirigenza 
pubblica 
(25), sulla 
implicita 
legittimazione 
di 
un ampio catalogo 
di 
fattispecie 
gravemente 
lesive 
dell’integrità 
patrimoniale 
pubblica 
ex 
artt. 81 e 
97 Cost. (26), sull’impatto negativo dell’attenuazione 
dei 
controlli 
giurisdizionali 
contabili 
sulle 
strategie 
di 
prevenzione 
della 
corruzione, 
dovuto 
alla 
creazione 
di 
ampie 
aree 
di 
deresponsabilizzazione 
e 
di 
impunità 
nell’ipotesi 
di utilizzo improprio degli aiuti comunitari (27). 


Tuttavia, è 
altrettanto certo che 
il 
concetto di 
lotta 
alla 
“burocrazia 
difensiva” 
sia 
riemerso, a 
distanza 
di 
quasi 
tre 
anni, nella 
ratio 
dell’art. 2 d.lgs. n. 
36/2023 
e 
sia 
stato 
espressamente 
citato 
dalla 
relazione 
di 
accompagnamento 
al 
nuovo codice 
dei 
contratti 
(28), simbolo di 
un chiaro (e 
perdurante) intento 
del 
legislatore 
che, in quanto frutto del 
recepimento di 
istanze 
sociali 
ben definite, 
non può essere 
tout court 
ignorato dall’interprete. 


4. il problema (o l’opportunità) della discrezionalità. 
Tali 
considerazioni 
inducono ad affermare 
che 
il 
legislatore 
abbia 
inteso 
segnare 
il 
punto di 
emersione 
di 
un radicale 
cambio di 
paradigma: 
il 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
non è 
più il 
presidio dell’anticorruzione 
e 
del 
sospetto 


(24) l. CArbone, Una responsabilità erariale 
transitoriamente 
“spuntata”. riflessioni 
a prima 
lettura dopo il 
d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. “decreto semplificazioni”), in federalismi.it, n. 30/2020, 
p. 10. 
(25) 
M. 
GerArdo, 
i 
quattro 
pilastri 
governativi 
per 
l’utilizzo 
efficiente 
del 
recovery 
Fund: 
scelta 
di 
“buoni” 
progetti, semplificazione 
delle 
procedure, reperimento di 
adeguate 
professionalità, limitazione 
delle 
responsabilità gestorie. analisi 
e 
rilievi, in rassegna avvocatura dello Stato, n. 4/2020, p. 
233. 
(26) d. iMMordino, responsabilità erariale 
e 
“buona amministrazione” 
nell’evoluzione 
dell’interesse 
pubblico, in 
rivista Corte dei conti, n. 3/2022, p. 75. 
(27) f. Albo, Limitazione 
della responsabilità amministrativa e 
anticorruzione: il 
PNrr 
è 
adeguatamente 
protetto?, 
2021, 
disponibile 
in 
https://dirittoeconti.it/limitazione-della-responsabilitaamministrativa-
e-anticorruzione-il-pnrr-e-adeguatamente-protetto/. 
(28) V. nota 27. 

rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


nei 
confronti 
del 
pubblico dipendente, ma 
è 
il 
corpus 
normativo che 
regolamenta 
le 
procedure 
di 
evidenza 
pubblica 
avendo costante 
riguardo alle 
stelle 
polari del risultato, dell’accesso al mercato e, soprattutto, della fiducia. 


Queste 
coordinate 
ermeneutiche, 
come 
si 
è 
cercato 
di 
argomentare 
recentemente 
in 
altre 
sedi 
(29), 
potrebbero 
costituire 
il 
sostrato 
di 
fondo 
da 
cui 
muovere 
per reinterpretare anche il sistema dell’anticorruzione. 


infatti, in quella 
sede 
si 
è 
detto come, in base 
alle 
formalizzazioni 
matematiche 
del 
fenomeno 
corruttivo, 
la 
discrezionalità 
compaia 
-almeno 
secondo 
le 
acquisizioni 
dominanti 
-tra 
i 
fattori 
che 
lo alimentano, in quanto consente 
al 
decisore 
pubblico di 
fruire 
di 
una 
possibilità 
di 
scelta 
tra 
più soluzioni 
consentite 
nella 
quale 
potrebbero allignare 
deviazioni 
dal 
perseguimento dell’interesse 
pubblico. 
di 
conseguenza, 
all’atto 
della 
mappatura 
dei 
processi 
si 
consiglia 
di 
porre 
particolare 
attenzione 
ai 
settori 
in cui 
sussistono tali 
possibilità 
di 
manovra, con particolare 
riferimento al 
settore 
della 
contrattualistica 
pubblica. 


Tali 
acquisizioni 
sono 
frutto 
di 
una 
precisa 
evoluzione 
storica. 
le 
vicende 
di 
Tangentopoli 
dimostrarono 
l’inadeguatezza 
dell’assetto 
normativo 
allora 
vigente 
e 
suggerirono l’irrigidimento del 
sistema, con preferenza 
per l’azzeramento 
della 
discrezionalità 
dei 
funzionari 
pubblici 
e 
il 
ricorso alla 
gara 
per 
esigenze 
di 
trasparenza, unitamente 
alla 
diffusione 
del 
criterio di 
aggiudicazione 
del 
prezzo 
più 
basso, 
che 
avrebbe 
reso 
meccanicistiche 
le 
procedure 
nella 
misura 
in cui 
il 
privato si 
limitava 
a 
indicare 
il 
corrispettivo in denaro, 
“la 
sola 
cosa 
rimasta 
in bianco dello schema 
adottato dalla 
pubblica 
amministrazione” 
. 


il 
d.lgs. n. 163/2006 confermò questa 
tendenza 
alla 
iper-regolamentazione, 
ma 
fu accusato di 
rigidità 
e 
di 
sostanziale 
inidoneità 
a 
combattere 
il 
fenomeno 
corruttivo; 
inoltre, andò consolidandosi 
la 
consapevolezza 
del 
fatto 
che 
a 
poco serve 
limitare 
la 
discrezionalità 
dei 
funzionari 
se 
il 
quadro normativo 
è 
denso e 
incerto, aperto a 
diverse 
possibili 
interpretazioni, nell’ambito 
di 
una 
complessità 
che 
rende 
difficile 
distinguere 
condotte 
in 
buona 
fede 
o 
meno, con il 
rischio di 
eccessiva 
pressione 
sugli 
operatori 
pubblici 
e 
conseguente 
paralisi dell’azione amministrativa. 


il 
d.lgs. n. 50/2016 avrebbe 
dovuto risolvere 
questo problema 
di 
“bulimia 
e 
incertezza 
legislativa, ponendo ex 
ante 
le 
regole 
certe 
(perché 
prodotte 
dell’autorità 
di 
regolazione 
e 
validate 
dal 
Consiglio 
di 
Stato), 
tramite 
linee 
guida 
prontamente 
aggiornate 
e 
aggiornabili 
a 
fronte 
di 
eventuali 
modifiche 
legislative 
sopravvenute”. 
nonostante 
gli 
aspetti 
indubbiamente 
positivi, 
quali 
l’istituzione 
della 
banca 
dati 
nazionale 
dei 
Contratti 
pubblici, ne 
è 
risultato 


(29) Sia 
consentito il 
richiamo ad A. riPePi, anticorruzione 
e 
fiducia: un binomio possibile 
(?), 
in 
rivista 
ratio 
iuris, 
2024, 
disponibile 
in 
https://www.ratioiuris.it/anticorruzione-e-fiducia-unbinomio-
possibile/. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


un complesso normativo in cui 
la 
parola 
“corruzione” 
era 
reiterata 
numerose 
volte, 
senza 
trascurare 
l’impressione 
generalizzata 
di 
una 
certa 
sfiducia 
nei 
confronti 
delle 
stazioni 
appaltanti 
e 
l’eccessiva 
preoccupazione 
di 
evitare 
reati 
piuttosto che 
garantire 
il 
buon funzionamento del 
mercato dei 
contratti 
pubblici. 


d’altronde, 
lo 
stesso 
legislatore 
sembra 
aver 
manifestato 
insofferenza 
nei 
confronti 
del 
soffocamento dell’iniziativa 
dei 
dipendenti 
preposti 
all’aggiudicazione 
delle 
gare, 
come 
dimostra 
l’imporsi 
di 
modelli 
alternativi, 
quali 
il 
“contromodello 
Genova” 
, 
il 
decreto 
“sblocca-cantieri” 
e, 
da 
ultimo, 
l’avvento 
del 
Pnrr, 
in 
cui 
si 
avverte 
l’esigenza 
di 
realizzare 
le 
opere 
pubbliche 
nel 
minor tempo possibile 
al 
fine 
di 
rendicontare 
in sede 
europea, come 
dimostra 


-prima 
ancora 
dell’entrata 
in vigore 
del 
nuovo codice 
dei 
contratti 
-l’impostazione 
del 
d.l. 
n. 
77/2021, 
recante 
“un 
binario 
parallelo 
per 
gli 
investimenti 
che riguardano il Pnrr”. 
l’affresco 
storico 
rapidamente 
tratteggiato 
dimostra 
come 
l’eccessiva 
enfatizzazione 
della 
“lotta 
alla 
discrezionalità”, nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
così 
come 
in 
qualsiasi 
altro 
ambito 
dell’azione 
amministrativa, 
possa 
condurre 
a 
conseguenze 
paradossali, pervenendo a 
una 
visione 
razionalistica 
e 
meccanicistica 
della 
pubblica 
amministrazione 
che, 
con 
l’eliminazione 
dell’elemento 
personale 
come 
fattore 
di 
insicurezza, riesce 
a 
concepirsi 
in modo ideale. Si 
tratta 
dell’estremizzazione 
di 
quell’impostazione 
di 
base 
secondo cui 
“il 
civil 
servant 
è 
intrinsecamente 
visto come 
un potenziale 
corrotto, a 
cui 
va 
messa 
una stretta briglia con finalità contenitive e preventive”. 


Tuttavia, tale 
filosofia 
di 
fondo appare 
controproducente, in quanto mortifica 
l’iniziativa 
del 
pubblico dipendente, in netto contrasto con il 
principio 
della 
fiducia 
che, come 
anticipato, è 
oggi 
desumibile 
da 
una 
norma 
cogente 
di 
legge, senza 
trascurare 
l’ulteriore 
conseguenza 
negativa 
dell’incremento dei 
costi 
di 
transazione 
e 
controllo (maggiori 
tempi 
per le 
decisioni, rigidità 
operative, 
più personale coinvolto). 

d’altronde, è 
lo stesso legislatore 
a 
fare 
riferimento all’iniziativa 
e 
autonomia 
decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici 
(art. 2, c. 2, d.lgs. n. 36/2023) e 
la 
relazione 
di 
accompagnamento afferma 
che 
“il 
nuovo codice 
vuole 
dare, sin 
dalle 
sue 
disposizioni 
di 
principio, 
il 
segnale 
di 
un 
cambiamento 
profondo, 
che 
-fermo restando ovviamente 
il 
perseguimento convinto di 
ogni 
forma 
di 
irregolarità 
-miri 
a 
valorizzare 
lo spirito di 
iniziativa 
e 
la 
discrezionalità 
degli 
amministratori pubblici”. 

la 
discrezionalità, 
infatti, 
è 
il 
nucleo 
essenziale 
del 
potere 
amministrativo, 
implicante 
la 
ponderazione 
di 
interessi 
primari 
e 
secondari, pubblici 
e 
privati, 
che 
è 
il 
proprium 
della 
funzione 
amministrativa. 
un 
sistema 
anticorruzione 
che 
voglia 
dirsi 
rivisitato nelle 
fondamenta 
e 
adeguato alla 
nuova 
visione 
legislativa, 
più che 
irreggimentare 
i 
procedimenti 
e 
i 
processi 
sino a 
soffocare 
qualsiasi 
spiraglio di 
discrezionalità, dovrebbe 
focalizzarsi 
sull’adeguatezza 



rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


della 
motivazione, presupposto, fondamento, baricentro ed essenza 
stessa 
del 
legittimo esercizio del 
potere 
amministrativo nonché 
presidio di 
legalità 
sostanziale 
insostituibile. 

Solo 
la 
motivazione, 
a 
prescindere 
dal 
singolo 
e 
atomistico 
adempimento 
procedimentale, 
può 
dare 
evidenza 
delle 
scelte 
compiute 
e 
delle 
ragioni 
di 
fatto 
e 
di 
diritto 
che 
le 
sorreggono, 
così 
consentendo 
la 
comprensibilità 
del 
provvedimento, 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
e 
il 
controllo 
diffuso 
da 
parte 
della 
collettività. Tale 
rivoluzione 
culturale 
condurrebbe 
a 
superare 
quello che 
autorevole 
dottrina 
definisce 
“declino 
della 
decisione 
motivata” 
e 
che 
incide 
negativamente 
sulla 
legittimazione 
dei 
pubblici 
poteri 
(che 
un 
sistema 
anticorruzione 
virtuoso 
dovrebbe 
aiutare 
a 
recuperare, 
più 
che 
ad 
annullare 
del tutto). 


5. il principio della fiducia nella giurisprudenza. 
occorre, conclusivamente, dare 
atto dei 
più recenti 
interventi 
della 
giurisprudenza 
in punto di 
applicazione 
concreta 
dell’innovativo principio della 
fiducia. 


in quest’ottica, di 
grande 
interesse 
risulta 
T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 
7 
febbraio 
2024, 
n. 
478, 
recentissima 
pronuncia 
che 
rivela 
l’impatto 
del 
nuovo 
principio della 
fiducia 
sul 
sindacato del 
Giudice 
Amministrativo sulla 
discrezionalità 
tecnica 
della 
stazione 
appaltante 
in 
tema 
di 
anomalia 
dell’offerta 
(30). 


5.1. 
La 
giurisprudenza 
consolidata 
in 
materia 
di 
offerte 
anomale 
e 
il 
perimetro 
del sindacato del G.a. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
110, 
comma 
1, 
d.lgs. 
31 
marzo 
2023, 
n. 
36, 
“Le 
stazioni 
appaltanti 
valutano la congruità, la serietà, la sostenibilità e 
la realizzabilità 
della 
migliore 
offerta, 
che 
in 
base 
a 
elementi 
specifici, 
inclusi 
i 
costi 
dichiarati 
ai 
sensi 
dell’articolo 108, comma 9, appaia anormalmente 
bassa. il 
bando o 
l’avviso 
indicano 
gli 
elementi 
specifici 
ai 
fini 
della 
valutazione”. 
i 
commi 
successivi 
prevedono, nell’ambito del 
subprocedimento di 
valutazione 
dell’anomalia 
delle 
offerte, l’attivazione 
di 
un contraddittorio endoprocedimentale 
tra 
la 
stazione 
appaltante 
e 
le 
imprese 
interessate, 
e 
disciplinano 
le 
circostanze 
che 
possono 
essere 
addotte 
a 
fondamento 
del 
prezzo 
o 
dei 
costi 
proposti 
(comma 
3) e 
i 
profili 
in relazione 
ai 
quali 
“non sono ammesse 
giustificazioni” 
(comma 4) per esigenze di tutela dei lavoratori. 


l’illustrazione 
del 
quadro 
normativo 
non 
sarebbe 
completa 
senza 
la 
menzione 
dell’art. 54 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, il 
quale 
stabilisce, al 
comma 
1, 
che 
“Nel 
caso 
di 
aggiudicazione, 
con 
il 
criterio 
del 
prezzo 
più 
basso, 
di 


(30) Per una 
disamina 
più approfondita 
della 
pronuncia, sia 
consentito il 
richiamo ad A. riPePi, 
Principio della fiducia ed estensione 
del 
sindacato giurisdizionale 
del 
giudice 
amministrativo, in Giurisprudenza 
italiana, 4/2024, in corso di pubblicazione. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


contratti 
di 
appalto di 
lavori 
o servizi 
di 
importo inferiore 
alle 
soglie 
di 
rilevanza 
europea che 
non presentano un interesse 
transfrontaliero certo, le 
stazioni 
appaltanti, 
in 
deroga 
a 
quanto 
previsto 
dall’articolo 
110, 
prevedono 
negli 
atti 
di 
gara l’esclusione 
automatica delle 
offerte 
che 
risultano anomale, qualora 
il 
numero delle 
offerte 
ammesse 
sia pari 
o superiore 
a cinque. il 
primo 
periodo 
non 
si 
applica 
agli 
affidamenti 
di 
cui 
all’articolo 
50, 
comma 
1, 
lettere 


a) e 
b). in ogni 
caso le 
stazioni 
appaltanti 
possono valutare 
la congruità di 
ogni 
altra 
offerta 
che, 
in 
base 
ad 
elementi 
specifici, 
appaia 
anormalmente 
bassa”. 
il 
meccanismo dell’esclusione 
automatica 
viene, tuttavia, meno con riferimento 
alle 
forme 
di 
affidamento 
di 
cui 
all’art. 
50, 
comma 
1, 
lett. 
a) 
e 
b), 
d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, prevedendo che 
le 
stazioni 
appaltanti 
possano 
comunque 
valutare 
la 
congruità 
di 
ogni 
altra 
offerta 
che, in base 
ad elementi 
specifici, 
appaia 
anormalmente 
bassa. 
Viene, 
così, 
confermata 
la 
disciplina 
già 
recata 
dall’art. 97, comma 
6, d.lgs. 18 aprile 
2016, n. 50, in tema 
di 
“verifica 
facoltativa” della congruità dell’offerta. 


Già 
prima 
dell’entrata 
in vigore 
del 
nuovo Codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
si 
era 
consolidato 
un 
indirizzo 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
in 
virtù 
del 
quale, dal 
momento che 
la 
stazione 
appaltante 
esercita 
discrezionalità 
tecnica 
nel 
vagliare 
l’anomalia 
delle 
offerte 
presentate 
e 
nel 
valutare 
le 
eventuali 
osservazioni 
delle 
imprese 
interessate, il 
sindacato del 
G.A. sulla 
medesima 
sarebbe 
stato 
senz’altro 
possibile, 
purché 
limitato 
a 
profili 
di 
manifesta 
illogicità, 
incongruità 
e 
irragionevolezza 
(Cons. St., sez. V, 29 novembre 
2021, n. 7951), 
ferma 
restando 
l’impossibilità 
di 
operare 
un’analitica 
verifica 
delle 
singole 
voci 
dell’offerta 
(Consiglio di 
Giustizia amministrativa per 
la regione 
Siciliana, 
16 gennaio 2024, n. 5). 


la 
valutazione 
di 
anomalia 
dell’offerta 
costituisce, 
infatti, 
espressione 
della 
discrezionalità 
tecnica, di 
cui 
l’Amministrazione 
è 
titolare 
per il 
conseguimento 
e 
la 
cura 
dell’interesse 
pubblico ad essa 
affidato dalla 
legge; 
detta 
valutazione 
è 
di 
norma 
sottratta 
al 
sindacato di 
legittimità 
del 
G.A., salvo che 
non 
sia 
manifestamente 
inficiata 
da 
illogicità, 
arbitrarietà, 
irragionevolezza, 
irrazionalità 
o 
travisamento 
dei 
fatti 
(Cons. 
St., 
sez. 
V, 
1° 
giugno 
2021, 
n. 
4209). 


5.2. il principio della fiducia e l’art. 2 D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36. 
Con 
un 
approccio 
innovativo 
e 
radicalmente 
diverso 
rispetto 
all’impostazione 
di 
fondo del 
d.lgs. 18 aprile 
2016, n. 50, il 
nuovo Codice 
dei 
contratti 
pubblici, come 
già 
detto, prevede 
che 
“L’attribuzione 
e 
l’esercizio del 
potere 
nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
si 
fonda sul 
principio della reciproca fiducia 
nell’azione 
legittima, 
trasparente 
e 
corretta 
dell’amministrazione, 
dei 
suoi 
funzionari 
e 
degli 
operatori 
economici. 2. il 
principio della fiducia favorisce 
e 
valorizza l’iniziativa e 
l’autonomia decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici, con 



rASSeGnA 
AVVoCATurA 
dello 
STATo -n. 3/2023 


particolare 
riferimento 
alle 
valutazioni 
e 
alle 
scelte 
per 
l’acquisizione 
e 
l’esecuzione 
delle prestazioni secondo il principio del risultato”. 


il 
principio della 
fiducia, tuttavia, dev’essere 
rettamente 
inteso: 
esso intende 
esprimere 
un incoraggiamento di 
fondo per il 
pubblico dipendente 
che 
è 
costantemente 
chiamato 
ad 
affrontare 
problemi 
di 
particolare 
complessità 
avvalendosi 
dello strumento della 
discrezionalità 
amministrativa, ma 
non costituisce 
fonte 
di 
deresponsabilizzazione 
del 
decisore 
pubblico 
e, 
per 
altro 
verso, 
non 
può 
erodere 
i 
margini 
del 
sindacato 
giurisdizionale 
sulle 
scelte 
amministrative. 


5.3. 
Principio 
della 
fiducia 
e 
sindacato 
giurisdizionale 
a 
confronto 
sul 
terreno 
della 
valutazione 
di 
anomalia 
dell’offerta. 
T.a.r. 
Sicilia-Catania, 
sez. 
iii, 
7 
febbraio 2024, n. 478. 
Sulla 
questione 
è 
intervenuto, di 
recente, T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 7 
febbraio 
2024, 
n. 
478, 
affermando 
che 
il 
principio 
della 
fiducia 
non 
può 
essere 
invocato 
al 
(preteso) 
fine 
di 
limitare 
il 
sindacato 
del 
G.A. 
sulla 
discrezionalità 
tecnica 
che 
la 
stazione 
appaltante 
esercita 
in 
sede 
di 
valutazione 
dell’anomalia 
dell’offerta, purché 
lo stesso, conformemente 
ai 
principi 
generali, sia 
limitato 
a profili di manifesta illogicità, incongruità e irragionevolezza. 

A 
fronte 
di 
una 
fattispecie 
concreta 
in cui 
la 
stazione 
appaltante 
ha 
effettuato 
valutazioni 
scarsamente 
verosimili 
in 
punto 
di 
congruità 
dell’offerta 
presentata 
da 
alcune 
tra 
le 
imprese 
concorrenti, il 
T.a.r. Sicilia-Catania 
non può 
esimersi 
dal 
rilevare 
come 
l’esercizio della 
discrezionalità 
tecnica 
risulti, nel 
caso di 
specie, inficiato da 
irragionevolezza 
e 
illogicità 
manifesta 
e 
contrario 
al 
principio 
di 
buon 
andamento 
di 
cui 
all’art. 
97 
Cost., 
con 
la 
conseguenza 
del 
necessario intervento caducatorio dell’Autorità giurisdizionale. 

infatti, è 
indubbio che 
il 
principio di 
fiducia 
sia 
stato introdotto, all’art. 2 
d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con il 
preciso fine 
di 
valorizzare 
l’autonomia 
decisionale 
dei 
funzionari 
pubblici, 
con 
particolare 
riferimento 
alle 
valutazioni 
e 
alle 
scelte 
per 
l’acquisizione 
e 
l’esecuzione 
delle 
prestazioni 
oggetto 
di 
gara, 
come 
già 
evidenziato nel 
paragrafo precedente. Tale 
principio, dunque, è 
animato 
dalla 
funzione 
di 
ampliare 
e 
incoraggiare 
i 
poteri 
valutativi 
e 
la 
discrezionalità 
della 
stazione 
appaltante, 
in 
chiave 
di 
funzionalizzazione 
verso 
il 
miglior risultato possibile. 


Tuttavia, 
la 
latitudine 
applicativa 
del 
principio 
non 
può 
essere 
estesa 
sino 
a 
pretendere 
che 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
receda 
a 
fronte 
di 
ipotesi 
concrete 
in cui 
il 
potere 
amministrativo viene 
esercitato, come 
nel 
caso in commento, 
in modo assolutamente 
arbitrario e 
illogico. A 
tale 
conclusione 
si 
giunge 
non 
solo ribadendo i 
tradizionali 
principi 
in materia 
di 
sindacato del 
G.A. sulla 
discrezionalità 
tecnica 
della 
stazione 
appaltante, 
bensì 
valorizzando, 
in 
ottica 
sistematica, 
anche 
il 
principio 
del 
risultato, 
di 
cui 
all’art. 
1 
d.lgs. 
31 
marzo 
2023, n. 36. 



ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


infatti, considerato che 
le 
stazioni 
appaltanti, ai 
sensi 
dell’articolo da 
ultimo 
citato, “perseguono il 
risultato dell’affidamento del 
contratto e 
della 
sua 
esecuzione 
con 
la 
massima 
tempestività 
e 
il 
migliore 
rapporto 
possibile 
tra 
qualità 
e 
prezzo, 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
di 
legalità, 
trasparenza 
e 
concorrenza”, 
laddove 
ciò non accada 
a 
causa 
di 
valutazioni 
illogiche 
e 
antieconomiche, 
non 
può 
invocarsi 
il 
principio 
della 
fiducia 
al 
preteso 
fine 
di 
legittimare 
ex 
post 
scelte 
discrezionali 
che 
tradiscono l’interesse 
pubblico sotteso ad una 
gara, le 
quali, invece, dovrebbero in ogni 
caso tendere 
al 
suo miglior soddisfacimento. 


in 
definitiva, 
la 
sentenza 
in 
esame 
consente 
di 
comprendere 
come 
il 
principio 
della 
fiducia, seguendo un monito già 
esplicitato nella 
“relazione 
agli 
articoli 
e 
agli 
allegati” 
del 
d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, debba 
essere 
sicuramente 
valorizzato, ma anche rettamente inteso. 


6. Conclusioni. 
la 
panoramica 
offerta 
in questo breve 
scritto rispecchia 
un quadro variegato 
e sicuramente suscettibile di interessanti sviluppi. 

Attraverso 
l’art. 
2 
del 
“nuovo 
Codice”, 
il 
legislatore 
ha 
inteso 
esplicitare 
una 
nuova 
e 
diversa 
filosofia 
di 
fondo del 
sistema 
della 
contrattualistica 
pubblica, 
che 
potrebbe 
innervare, 
in 
chiave 
assolutamente 
innovativa, 
anche 
l’apparato 
normativo preventivo dell’anticorruzione. 

Tuttavia, il 
principio della 
fiducia 
non può spingersi 
sino a 
erodere 
i 
tradizionali 
margini 
di 
sindacato del 
Giudice 
Amministrativo sui 
provvedimenti 
emanati 
dalle 
stazioni 
appaltanti, soprattutto laddove 
affetti 
da 
illogicità 
o incongruità 
e, in generale, da 
vizi 
dell’azione 
amministrativa 
rispetto ai 
quali 
il 
principio in esame non può certamente avere alcuna efficacia “sanante”. 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Oggi 
lascia 
il 
servizio, 
dopo 
oltre 
trentasette 
anni 
di 
significativa 
presenza, 
l’Avv. Andrea 
Michele 
Caridi 
in servizio presso l’Avvocatura 
Distrettuale 
di Milano. 


Al 
caro Collega 
e 
Amico che 
ha 
onorato l’Istituto con la 
Sua 
professionalità 
e 
con la 
Sua 
dedizione 
alla 
cura 
degli 
interessi 
del 
Paese, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato 
e del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) 
E-mail Segreteria Particolare, lunedì 1 luglio 2024 08:00. 



Finito di stampare nel mese di settembre 2024 
Stabilimenti 
Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 
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