ANNO LXXIV - N. 1 
GENNAIO - MARZO 2022 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Massimo 
Di 
Benedetto, 
Verdiana 
Fedeli, 
Michele 
Gerardo, 
Ilia 
Massarelli, 
Daniela 
Migali, 
Gaetana 
Natale, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Giancarlo 
Pampanelli, 
Davide 
Giovanni 
Pintus, 
Valeria 
Romano, 
Emanuela 
Rosanò, 
Giorgio 
Santini, 
Marco 
Stigliano 
Messuti, 
Isabella 
Vitiello. 


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Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
danilodelgaizo@avvocaturastato.it 
stefanovarone@avvocaturastato.it 


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IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
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causale 
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ove 
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spedizione, 
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I 
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della 
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eventuali 
variazioni 
di 
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AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


TEMI 
ISTITUZIONALI 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Rimborso 
ai 
dipendenti 
delle 
spese 
legali 
di 
difesa 
ai 
sensi 
dell’art. 
18 
D.L. 
n. 
67/1997, 
conv. 
in 
L. 
135/1997. 
Parere 
di 
massima 
pag. 
1 
Atti 
di 
intimazione 
per 
finita locazione 
notificati 
da Investire 
SGR 
e 
altri 
locatori 
nei 
confronti 
dell’Agenzia del 
Demanio, in relazione 
a immobili 
conferiti 
nei 
fondi 
di 
cui 
all’articolo 
4 
del 
D.L. 
25 
settembre 
2001, 
n. 
351, 
conv. con mod. in L. 23 novembre 
2001, n. 410, assegnati 
a varie 
amministrazioni 
usuarie. 
Direttive 
per 
la 
gestione 
degli 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi, Circolare 
A.G. 16 settembre 2022 n. 57 
. . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
14 
Protocollo 
d’intesa 
tra 
la 
Fondazione 
Arena 
di 
Verona 
e 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di Venezia, Circolare 
A.G. 4 ottobre 2022 n. 61. . . ›› 
19 
Nuova 
denominazione 
delle 
Commissioni 
Tributarie 
in 
“Corti 
di 
giustizia 
tributaria”, disposta dall’art. 4 della legge 
31 agosto 2022, n. 130, recante 
“Disposizioni 
in 
materia 
di 
giustizia 
e 
di 
processo 
tributario”, 
Circolare 
A.G. 12 ottobre 2022 n. 63 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
23 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
Emanuela 
Rosanò, 
Tutela 
dei 
consumatori 
e 
giudicato 
implicito: 
è 
incompatibile 
con il 
diritto U.E. una normativa nazionale 
che 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
un sindacato sulla vessatorietà delle 
clausole 
di 
un 
contratto in relazione 
al 
quale 
è 
stato emesso un decreto ingiuntivo passato 
in giudicato (C. giust. Ue, Grande 
Sezione, sent. 17 maggio 2022, 
C-693/9 e C-831/19). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
25 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Giancarlo 
Pampanelli, 
La 
Sezione 
lavoro 
della 
Cassazione 
inaugura il 
nuovo status 
di 
vittima del 
dovere 
(Cass., Sez. lav., sent. 30 
maggio 2022 n. 17440). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
45 
Wally 
ferrante, 
Benefici 
a 
favore 
delle 
vittime 
dei 
reati 
di 
stampo 
mafioso 
(Cons. St., Sez. III, sent. 14 febbraio 2022 n. 1072) 
. . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
56 
I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 
Ilia 
Massarelli, 
Annullamento 
d’ufficio, 
da 
parte 
del 
Prefetto, 
degli 
atti 
posti in essere dal Sindaco in materia anagrafica 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
63 
Massimo 
Di 
Benedetto, 
Cessione 
di 
credito 
di 
P.A. 
e 
modalità 
applicative 
dell’art. 48 bis d.P.R. 602/1973 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
73 
Valeria 
Romano, 
Eventi 
sismici 
del 
6 
aprile 
2009. 
Sussumibilità 
delle 
elargizioni 
in 
favore 
della 
CRI 
nella 
categoria 
del 
“negozio 
giuridico 
modale” 
ex art. 4, comma 1, lett. d), D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. . . . ›› 
92 
Davide 
Giovanni 
Pintus, Contratti 
pubblici: perdita dei 
requisiti 
di 
una 
consorziata esecutrice di un consorzio tra imprese artigiane 
. . . . . . . . . ›› 
108 



Giorgio Santini, Attuale 
vigenza dell’art. 123 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 
3 
alla 
procedura 
di 
esonero 
di 
un 
direttore 
generale 
preposto 
ad 
un 
ufficio 
dell’amministrazione penitenziaria 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Marco Stigliano Messuti, Adele 
Berti 
Suman, Applicazione 
dell’imposta 
municipale 
unica 
(c.d. 
I.M.U.) 
sugli 
alloggi 
di 
servizio 
in 
uso 
al 
personale 
militare 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 


Verdiana fedeli, L’anticorruzione nella gestione del territorio. . . . . . . . 

Gaetana 
Natale, 
Come 
cambierà 
la 
sanità 
dopo 
il 
Covid: 
le 
linee 
evolutive 
future del sistema sanitario nazionale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Daniela 
Migali, Tecnologia e 
diritto: gli 
effetti 
collaterali 
dei 
tabulati 
telefonici 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 


Michele 
Gerardo, 
L’incidenza 
della 
gestione 
della 
pandemia 
e 
delle 
conseguenze 
della 
guerra 
in 
Ucraina 
sui 
contratti 
di appalto pubblico in corso di esecuzione 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Gaetana 
Natale, 
Metaverso: 
necessità 
di 
un 
diritto 
reale 
per 
un 
mondo 
virtuale. Gli aspetti giuridici rilevanti del Metaverso 
. . . . . . . . . . . . . . . 

Gaetana 
Natale, 
La 
cybersicurezza 
nazionale: 
la 
nuova 
frontiera 
della 
difesa 
dello Stato 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Isabella 
Vitiello, Il governo delle spese nel processo tributario 
. . . . . . . 

pag. 
127 
›› 
138 
›› 
151 
›› 
175 
›› 
196 
›› 
215 
›› 
237 
›› 
252 
›› 
260 


TemiisTiTuzionaLi
Rimborso ai dipendenti delle spese legali di difesa 
ai sensi dell’art. 18 D.L. n. 67/1997, conv. in L. 135/1997. 
Parere di massima 
(*) 


Con 
la 
nota 
che 
si 
riscontra 
l'Avvocatura 
distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Caltanissetta 
segnala 
varie 
questioni 
generali 
in 
tema 
di 
rimborso 
ai 
dipendenti 
delle 
spese 
legali 
di 
difesa, 
in 
particolare 
svolgendo 
talune 
considerazioni 
sulle 
due 
circolari 
(Circolare 
n. 
11/2021 
in 
materia 
di 
rimborso 
spese 
di 
difesa 
in 
esito 
a 
giudizi 
di 
responsabilità 
dinanzi 
alla 
Corte 
dei 
Conti; 
Circolare 
n. 
26/2021 
-pareri 
in 
materia 
di 
rimborso 
delle 
spese 
di 
difesa 
dei 
dipendenti) 
a 
suo 
tempo 
emesse 
dall'Avvocato 
Generale 
Aggiunto; 
al 
riguardo 
si 
rappresenta, 
separatamente 
per 
ciascuna 
circolare, 
quanto 
segue, 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo, 
premettendo, 
innanzi 
tutto, 
per 
chiarezza 
espositiva 
e 
comodità 
di 
consultazione 
il 
contenuto 
dell'art. 
18, 
comma 
1, 
del 
d.l. 
n. 
67/1997: 
"Le 
spese 
legali 
relative 
a 
giudizi 
per 
responsabilità 
civile, 
penale 
e 
amministrativa 
promossi 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in 
conseguenza 
di 
fatti 
ed 
atti 
connessi 
con 
l'espletamento 
del 
servizio 
o 
con 
l'assolvimento 
di 
obblighi 
istituzionali 
e 
conclusi 
con 
sentenza 
o 
provvedimento 
che 
escluda 
la 
loro 
responsabilità, 
sono 
rimborsate 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall'Avvocatura 
dello 
Stato. 
Le 
amministrazioni 
interessate, 
sentita 
l'Avvocatura 
dello 
Stato, 
possono 
concedere 
anticipazioni 
del 
rimborso, 
salva 
la 
ripetizione 
nel 
caso 
di 
sentenza 
definitiva 
che 
accerti 
la 
responsabilità". 


Circolare n. 11/2021 


La 
circolare 
interpreta 
l'art. 
10-bis, 
comma 
10, 
della 
legge 
n. 
248 
del 
2005 
di 
conversione, con modificazioni, del 
decreto legge 
n. 203 del 
2005 secondo 


(*) 
Parere 
reso in 
data 30 agosto 2022 con 
prot. 536844, AL 
45627/21, V.A.G. Enrico 
DE 
GioVAnni, 
concernente 
quesiti 
sulle 
circolari 
n. 11/21 e 
n. 26/21, pubblicate 
rispettivamente 
in 
rass., 2020, iii, 
pp. 12-13 e rass., 2020, iV, pp. 8-12. 



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


il quale: "Le disposizioni dell'articolo 3, comma 2 bis, del decreto legge 23 
ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 
1996, n. 639, e dell'articolo 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, 


n. 
67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, si 
interpretano nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel 
merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità 
di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione 
delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti 
spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità 
dell'Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate 
all'amministrazione di appartenenza". 
La 
circolare, 
dopo 
aver 
riepilogato 
l'orientamento 
assunto 
dall'Avvocatura 
dello Stato in esito alla sentenza n. 19195/13 dalla Corte di cassazione e 
al disposto 
dell'art. 31 del D.Lgs. n. 174 del 2016, conclude che in virtù della sentenza 
n. 189/2020 della Corte costituzionale esso vada modificato nel senso 
che, anche nel caso in cui la Corte dei Conti abbia pronunciato sulle spese del 
giudizio contabile, sia consentita -nel rispetto dei requisiti fissati dall'art. 18, 
comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, 
dalla legge 23 maggio 1997, n. 135 -l'autonoma valutazione e liquidazione, 
a 
fini 
di 
rimborso 
al 
dipendente, 
delle 
spese 
di 
difesa 
nei 
giudizi 
per 
responsabilità contabile-amministrativa dinanzi alla Corte dei Conti. 


Al riguardo il Distrettuale Ufficio svolge le seguenti osservazioni. 


La richiesta di parere richiama ampiamente il parere del Comitato Consultivo 
n. 
13436 
del 
13 
gennaio 
2016 
sull'art. 
10-bis 
comma 
10 
D.L. 
248/2005 
in tema di giudizio davanti alla Corte dei Conti, ed esamina poi "le parti rilevanti 
della 
sentenza 
(della 
Corte 
costituzionale 
n.d.r.) 
al 
fine 
di 
verificarne 
l'impatto sulle posizioni precedentemente assunte dall'Istituto". 


Alla luce degli estratti della sentenza riportati nel quesito l'Avvocatura di 
Caltanissetta sottolinea: 


-che deve essere distinto il rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità 
contabile 
da 
quello 
che 
si 
instaura 
fra 
l'incolpato, 
poi 
assolto 
o 
prosciolto, 
e 
1'amministrazione 
di 
appartenenza, 
relativamente 
al 
rimborso 
delle spese per la difesa poiché tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione; 


-che 
la 
questione 
affrontata 
dal 
giudice 
delle 
leggi 
nella 
sentenza 
n. 
189/2020 attiene in realtà alla rimborsabilità di spese legali sostenute 
in una 
fase antecedente al giudizio contabile vero e proprio concluso con sentenza 
del Giudice, e presuppone quindi una fattispecie nella quale il giudice contabile 
non si è pronunciato sulle spese del giudizio. 


Dunque, prosegue il quesito "la circolare estrapola ... un passaggio motivazionale 
e lo applica a una fattispecie -giudizio contabile definito con sentenza 
-non 
ricompreso 
nell'oggetto 
del 
giudizio 
di 
costituzionalità" 
e 
anzi 



temI 
IStItUzIonALI 


"l'orientamento 
precedentemente 
espresso 
dal 
Comitato 
Consultivo 
sembra 
coerente 
con 
l'art. 
31 
del 
Codice 
di 
giustizia 
Contabile 
e 
con 
i 
principi 
generali 
sul 
giudicato... il 
giudice 
contabile 
-ai 
sensi 
dell'art. 10 bis, comma 10, della 
legge 
n. 248 del 
2005 cit. e 
dell'art. 31 c.g.c. -con la sentenza che 
chiude 
il 
processo, 
condanna 
il 
soccombente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
a 
favore 
dell'altra 
parte 
e 
ne 
liquida 
l'ammontare 
... 
Il 
giudicato, 
sulle 
spese 
del 
giudizio, 
vincola 
il 
dipendente 
e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza ai 
sensi 
dell'art. 2909 c.c. 
in 
quanto 
la 
materia 
rientra 
pienamente 
nei 
limiti 
oggettivi 
e 
soggettivi 
del 
giudicato". 


Inoltre, 
"il 
procuratore 
contabile 
non 
solo 
riveste 
il 
ruolo 
di 
pubblico 
ministero, 
ma 
è 
anche 
il 
rappresentante 
processuale 
dell'amministrazione", 
e 
"L'Amministrazione 
non 
sembrerebbe 
quindi 
potersi 
sostituire 
al 
giudice 
contabile 
nella 
valutazione 
delle 
spese 
legali 
rimborsabili 
riconoscendo 
al 
dipendente 
somme 
diverse 
o ulteriori 
rispetto a quelle 
liquidate 
in sentenza (Cass. 
Civ., Sez. lavoro, Sent., 19 agosto 2013, n. 19195... 
La decisione 
della Corte 
dei 
Conti, ove 
non satisfattiva può essere 
impugnata, ma se 
passata in giudicato, 
non può che essere eseguita". 


Per valutare 
la 
fondatezza 
e 
condivisibilità 
di 
siffatte 
osservazioni 
giova 
trascrivere 
i 
passi 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
che 
risultano particolarmente 
significativi per la presente indagine: 


"-Nella specie, con l'art. 18, comma 1, della legge 
prov. Trento n. 3 del 
1999, è 
stata prevista la possibilità di 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per 
attività 
difensive 
svolte 
sia nelle 
fasi 
preliminari 
di 
giudizi 
civili, penali 
e 
contabili, 
sia 
nei 
procedimenti 
conclusi 
con 
l'archiviazione. 
Tale 
intervento 
attiene 
non al 
rapporto di 
impiego -e 
quindi 
alla competenza statale 
in materia di 
«ordinamento civile» -bensì 
al 
rapporto di 
servizio e 
si 
inserisce 
nel 
quadro 
di 
un complessivo apparato normativo volto a evitare 
che 
il 
pubblico dipendente 
possa 
subire 
condizionamenti 
in 
ragione 
delle 
conseguenze 
economiche 
di 
un 
procedimento 
giudiziario, 
anche 
laddove 
esso 
si 
concluda 
senza 
l'accertamento 
di responsabilità. 


5.4.1. -Si 
tratta, invero, di 
finalità coerenti 
con la ratio della disciplina 
statale 
che 
-già 
con 
l'art. 
1, 
comma 
1, 
della 
legge 
14 
gennaio 
1994, 
n. 
20 
(Disposizioni 
in materia di 
giurisdizione 
e 
controllo della Corte 
dei 
conti) -ha 
delimitato 
la 
responsabilità 
dei 
soggetti 
sottoposti 
alla 
giurisdizione 
della 
Corte 
dei 
conti 
in 
materia 
di 
contabilità 
pubblica 
ai 
fatti 
e 
alle 
omissioni 
commessi 
con dolo o con colpa grave. In questo modo, il 
legislatore 
statale 
ha inteso 
«predisporre, 
nei 
confronti 
degli 
amministratori 
e 
dei 
dipendenti 
pubblici, 
un 
assetto 
normativo 
in 
cui 
il 
timore 
delle 
responsabilità 
non 
esponga 
all'eventualità 
di 
rallentamenti 
ed inerzie 
nello svolgimento dell'attività amministrativa 
[...] 
determinando quanto del 
rischio dell'attività debba restare 
a carico 
dell'apparato e 
quanto a carico del 
dipendente, nella ricerca di 
un punto di 
equilibrio tale 
da rendere, per 
dipendenti 
ed amministratori 
pubblici, la pro

rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


spettiva 
della 
responsabilità 
ragione 
di 
stimolo, 
e 
non 
di 
disincentivo 
[...]» 
(sentenza n. 371 del 1998). 

Risulta 
ispirato 
alla 
medesima 
ratio 
anche 
l'art. 
18, 
comma 
1, 
del 
decreto 
legge 
25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni 
urgenti 
per 
favorire 
l'occupazione), 
secondo cui 
«[l]e 
spese 
legali 
relative 
a giudizi 
per 
responsabilità civile, penale 
e 
amministrativa, 
promossi 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in conseguenza di 
fatti 
ed atti 
connessi 
con l'espletamento del 
servizio 


o con l'assolvimento di 
obblighi 
istituzionali 
e 
conclusi 
con sentenza o provvedimento 
che 
escluda la loro responsabilità, sono rimborsate 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall'Avvocatura 
dello 
Stato [...]». 
Nella stessa direzione 
si 
pone 
l'interpretazione 
autentica di 
quest'ultima 
disposizione, 
indicata 
dall'art. 
10-bis, 
comma 
10, 
del 
decreto-legge 
30 
settembre 
2005, 
n. 
203 
(Misure 
di 
contrasto 
all'evasione 
fiscale 
e 
disposizioni 
urgenti 
in 
materia 
tributaria 
e 
finanziaria), 
convertito 
in 
legge 
2 
dicembre 
2005, n. 248. Con espresso riferimento al 
giudizio contabile, esso, al 
comma 
10, stabilisce 
che 
l'art. 18, comma 1, del 
d.l. n. 67 del 
1997 si 
interpreta nel 
senso che 
«il 
giudice 
contabile, in caso di 
proscioglimento nel 
merito, e 
con 
la sentenza che 
definisce 
il 
giudizio, ai 
sensi 
e 
con le 
modalità di 
cui 
all'articolo 
91 
del 
codice 
di 
procedura 
civile, 
non 
può 
disporre 
la 
compensazione 
delle 
spese 
del 
giudizio e 
liquida l'ammontare 
degli 
onorari 
e 
diritti 
spettanti 
alla difesa del prosciolto.. [...]» 


... 
-La 
realizzazione 
delle 
finalità 
sopra 
evidenziate 
può 
avvenire 
attraverso 
il 
riconoscimento 
del 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
nell'ambito 
del 
giudizio 
di 
accertamento 
della 
responsabilità, 
ma 
ciò 
non 
esclude 
che 
le 
stesse 
possano 
essere 
perseguite 
anche 
mediante 
l'estensione 
del 
rimborso 
a 
oneri 
economici 
affrontati 
in 
fasi 
procedimentali 
distinte 
dal 
giudizio, 
ovvero 
in 
giudizi 
definiti 
per 
questioni 
preliminari 
o 
pregiudiziali. 
È 
quanto 
prevede 
la 
disposizione 
censurata, 
che 
riconosce 
il 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
dai 
dipendenti 
provinciali 
per 
la 
difesa 
«nelle 
fasi 
preliminari 
di 
giudizi 
civili, 
penali 
e 
contabili», 
nonché 
«nei 
casi 
in 
cui 
è 
stata 
disposta 
l'archiviazione». 


... 
-Infine, 
non 
è 
fondata 
neppure 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevata in riferimento all'art. 103, secondo comma, Cost. 

La 
disciplina 
provinciale 
in 
esame 
non 
interferisce 
con 
la 
competenza 
della 
Corte 
dei 
conti 
in 
ordine 
all'accertamento 
dell'an 
della 
liquidazione 
delle 
spese 
nell'ambito del 
giudizio contabile 
e 
del 
successivo rimborso al 
dipendente. 
Essa, 
come 
si 
è 
detto, 
si 
limita, 
infatti, 
a 
regolare 
alcuni 
aspetti 
del 
rapporto 
di 
servizio fra l'amministrazione 
provinciale 
e 
il 
dipendente 
coinvolto 
in un procedimento concluso senza accertamento di responsabilità. 


Al 
riguardo 
va 
rilevato 
che 
-ferma 
restando 
la 
regolamentazione 
da 
parte 
del 
giudice 
contabile 
delle 
spese 
del 
relativo 
giudizio 
-deve 
essere 
dìstinto 
il 



temI 
IStItUzIonALI 


rapporto 
che 
ha 
per 
oggetto 
il 
giudizio 
di 
responsabilità 
contabile 
da 
quello 
che 
si 
instaura 
fra 
l'incolpato, 
poi 
assolto 
o 
prosciolto, 
e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza, 
relativamente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
per 
la 
difesa. 
Sia 
la 
giurisprudenza 
ordinaria, 
sia 
quella 
amministrativa, 
infatti, 
hanno 
riconosciuto 
che 
tra 
i 
due 
rapporti 
non 
vi 
sono 
elementi 
di 
connessione, 
in 
ragione 
della 
diversità 
del 
loro 
oggetto 
(Consiglio 
di 
Stato, 
sezione 
III, 
sentenza 
28 
luglio 
2017, 
n. 
3779; 
nello 
stesso 
senso, 
Corte 
di 
cassazione, 
sezioni 
unite 
civili, 
sentenze 
14 
marzo 
2011, 
n. 
5918, 
24 
marzo 
2010, 
n. 
6996, 
e 
12 
novembre 
2003, 
n. 
17014)". 


Proprio 
questo 
ultimo 
passaggio 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
("tra i 
due 
rapporti 
non vi 
sono elementi 
di 
connessione, in ragione 
della diversità 
del 
loro 
oggetto") 
era 
stato 
valorizzato 
dalla 
circolare, 
giungendo, 
quindi, alla 
conclusione 
della 
rimborsabilità 
delle 
spese 
legali 
ex 
art. 18 citato 
indipendentemente 
dall'importo liquidato dal 
Giudice 
contabile 
(salva 
la 
detrazione 
di quanto versato a tale titolo). 


Si 
osserva 
al 
riguardo 
che 
se 
è 
vero 
che 
"la 
questione 
affrontata 
dal 
giudice 
delle 
leggi 
attiene 
in 
realtà 
alla 
rimborsabilità 
di 
spese 
legali 
sostenute 
in 
una 
fase 
antecedente 
al 
giudizio 
contabile 
vero 
e 
proprio 
concluso 
con 
sentenza 
del 
Giudice", 
è 
pur 
vero 
che 
la 
sentenza 
si 
è 
comunque 
occupata 
del 
più 
generale 
problema 
della 
rimborsabilità 
delle 
spese 
legali 
sostenute 
dal 
pubblico 
dipendente, 
affermando 
una 
serie 
di 
principi 
(il 
legislatore 
statale 
ha 
inteso 
predisporre, 
nei 
confronti 
degli 
amministratori 
e 
dei 
dipendenti 
pubblici, 
un 
assetto 
normativo 
in 
cui 
il 
timore 
delle 
responsabilità 
non 
esponga 
all'eventualità 
di 
rallentamenti 
ed 
inerzie 
nello 
svolgimento 
dell'attività 
amministrativa 
[...] 
determinando 
quanto 
del 
rischio 
dell'attività 
debba 
restare 
a 
carico 
dell'apparato 
e 
quanto 
a 
carico 
del 
dipendente, 
nella 
ricerca 
di 
un 
punto 
di 
equilibrio 
tale 
da 
rendere, 
per 
dipendenti 
ed 
amministratori 
pubblici, 
la 
prospettiva 
della 
responsabilità 
ragione 
di 
stimolo, 
e 
non 
di 
disincentivo... 
La 
realizzazione 
delle 
finalità 
sopra 
evidenziate 
può 
avvenire 
attraverso 
il 
riconoscimento 
del 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
nell'ambito 
del 
giudizio 
di 
accertamento 
della 
responsabilità, 
ma 
ciò 
non 
esclude 
che 
le 
stesse 
possano 
essere 
perseguite 
anche 
mediante 
l'estensione 
del 
rimborso 
a 
oneri 
economici 
affrontati 
in 
fasi 
procedimentali 
distinte 
dal 
giudizio... 
ferma 
restando 
la 
regolamentazione 
da 
parte 
del 
giudice 
contabile 
delle 
spese 
del 
relativo 
giudizio 
-deve 
essere 
distinto 
il 
rapporto 
che 
ha 
per 
oggetto 
il 
giudizio 
di 
responsabilità 
contabile 
da 
quello 
che 
si 
instaura 
fra 
l'incolpato, 
poi 
assolto 
o 
prosciolto, 
e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza, 
relativamente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
per 
la 
difesa... 
tra 
i 
due 
rapporti 
non 
vi 
sono 
elementi 
di 
connessione, 
in 
ragione 
della 
diversità 
del 
loro 
oggetto), 
che, 
letti 
nel 
loro 
necessario 
coordinamento, 
confermano 
la 
rimborsabilità 
delle 
spese 
legali 
ex 
art. 
18 
citato 
indipendentemente 
dall'importo 
liquidato 
dal 
Giudice 
contabile, 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
restino 
a 
carico 
del 
dipendente 
(qualora 
abbia 
rettamente 
e 
legittimamente 
agito) 



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


oneri 
economici 
che 
alterino 
il 
"punto 
di 
equilibrio 
tale 
da 
rendere, 
per 
dipendenti 
ed 
amministratori 
pubblici, 
la 
prospettiva 
della 
responsabilità 
ragione 
di 
stimolo, 
e 
non 
di 
disincentivo". 


In particolare, proprio l'accento posto dalla 
Corte 
costituzionale 
sulla 
distinzione 
tra 
il 
rapporto che 
ha 
per oggetto il 
giudizio di 
responsabilità 
contabile 
da 
quello 
che 
si 
instaura 
fra 
l'incolpato, 
poi 
assolto 
o 
prosciolto, 
e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza 
relativamente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
risulta 
decisivo 
nel 
senso 
di 
svincolare 
la 
determinazione 
dell'importo 
congruo 
e 
rimborsabile 
dalla statuizione sulle spese resa dal Giudice contabile. 


Analogo 
accento 
era 
stato 
posto 
sulla 
differenza 
tra 
i 
due 
rapporti 
dal 
Consiglio di 
Stato, nella 
sentenza 
n. 3779/17 (1), richiamata 
dalla 
Corte 
costituzionale, 
ove 
perentoriamente 
si 
afferma: 
"il 
rimborso delle 
spese 
sopportate 
dal 
dipendente 
prosciolto 
in 
sede 
di 
giudizio 
contabile, 
dovuto 
dall'Amministrazione 
di 
appartenenza, 
va 
necessariamente 
determinato 
autonomamente 
da quest'ultima, sulla base 
di 
un parere 
di 
congruità dell'Avvocatura 
erariale, 
non 
solo 
qualora 
la 
sentenza 
della 
Corte 
dei 
Conti 
non 
contiene 
alcuna statuizione 
sul 
punto, ma anche 
in presenza di 
una liquidazione 
effettuata dal 
giudice 
contabile, fermo restando che 
la somma liquidata 
dal predetto giudice va naturalmente assorbita nell'importo complessivo". 


(1) CDS 
sent. 3779/17: 
" 
... ritiene 
il 
Collegio che 
non si 
possa 
condividere 
l'assunto dell'Amministrazione 
appellante 
della 
riserva 
esclusiva 
in capo al 
giudice 
contabile 
del 
potere 
di 
determinare 
le 
spese 
legali 
da 
rimborsare 
al 
dipendente 
assolto all'esito del 
giudizio contabile. Se 
è 
vero che 
l’art. 10bis, 
comma 
10, del 
D.L. 30 settembre 
2005, n. 203, convertito, con modificazioni, nella 
L. 2 dicembre 
2005, 
n. 
248, 
statuisce 
che 
"il 
giudice 
contabile, 
in 
caso 
di 
proscioglimento 
nel 
merito, 
e 
con 
la 
sentenza 
che 
definisce 
il 
giudizio, ai 
sensi 
e 
con le 
modalità 
di 
cui 
all'articolo 91 del 
codice 
di 
procedura 
civile, 
non può disporre 
la 
compensazione 
delle 
spese 
del 
giudizio e 
liquida 
l'ammontare 
degli 
onorari 
e 
diritti 
spettanti 
alla 
difesa 
del 
prosciolto", nella 
risoluzione 
della 
questione 
giuridica 
sub iudice 
si 
deve 
infatti 
comunque 
tenere 
conto del 
principio di 
diritto enunciato dalle 
SS.UU., nella 
sentenza 
14 marzo 2011, 
n. 5.918, per cui: 
"il 
rapporto, che 
si 
instaura 
fra 
l'incolpato, poi 
assolto, e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza, 
nulla 
ha 
a 
che 
vedere 
con quello che 
ha 
per oggetto il 
giudizio di 
responsabilità 
contabile. Il 
primo, infatti, si 
riferisce 
al 
rimborso delle 
spese 
sopportate 
dall'incolpato, poi, assolto e 
si 
costituisce 
tra 
l'interessato e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza. A 
questo rapporto è 
estraneo quello relativo al 
giudizio 
di 
responsabilità 
contabile. 
tra 
i 
due 
rapporti 
non 
vi 
sono 
elementi 
di 
connessione, 
in 
ragione 
della 
diversità 
del 
loro oggetto (così, Cass. SS.UU. 12 novembre 
2003, n. 17.014)". In altre 
parole, mentre 
nel 
giudizio 
contabile 
la 
regolamentazione 
delle 
spese 
spetta 
appunto 
al 
giudice 
contabile, 
la 
statuizione 
sulle 
spese 
relative 
al 
rapporto sostanziale 
che 
intercorre 
fra 
amministrazione 
di 
appartenenza 
e 
dipendente 
-e 
sulla 
base 
del 
quale 
l'Amministrazione 
è 
onerata 
ex lege 
del 
suo rimborso in favore 
del 
dipendente 
prosciolto 
-esula 
dalla 
giurisdizione 
contabile, 
con 
la 
conseguenza 
che 
va 
affermata 
indubbiamente 
la 
piena 
autonomia 
dei 
due 
rapporti. Il 
predetto rapporto sostanziale 
trova 
la 
sua 
fonte 
di 
disciplina 
normativa 
principalmente 
nell'articolo 18, comma 
1, del 
decreto-legge 
25 marzo 1997, n. 67, convertito, 
con modificazioni, dalla 
legge 
23 maggio 1997, n. 135, il 
quale 
prevede 
che 
"le 
spese 
legali 
relative 
a 
giudizi 
per responsabilità 
civile, penale 
e 
amministrativa, promossi 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in conseguenza 
di 
fatti 
ed atti 
connessi 
con l'espletamento del 
servizio o con l'assolvimento 
di 
obblighi 
istituzionali 
e 
conclusi 
con 
sentenza 
o 
provvedimento 
che 
escluda 
la 
loro 
responsabilità, 
sono 
rimborsate 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall'Avvocatura 
dello Stato" 
e, in particolare, quanto al 
giudizio contabile, nell'articolo 3, comma 
2-bis 
del 
D.L. 23 ottobre 
1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
20 dicembre 
1996, n. 639, 

temI 
IStItUzIonALI 


Le 
considerazioni 
svolte 
dall'Avvocatura 
Distrettuale 
volte 
a 
valorizzare 
l'affermazione 
di 
cui 
alla 
pregressa 
sentenza 
Cass. Civ., Sez. lavoro, Sent. 19 
agosto 2013, n. 19195 (2), il 
cui 
contenuto non sarebbe 
stato adeguatamente 
confutato, non colgono nel segno. 


secondo il 
quale: 
"In caso di 
definitivo proscioglimento ai 
sensi 
di 
quanto previsto dal 
comma 
1 dell'articolo 
1 
della 
legge 
14 
gennaio 
1994, 
n. 
20, 
come 
modificato 
dal 
comma 
1 
del 
presente 
articolo, 
le 
spese 
legali 
sostenute 
dai 
soggetti 
sottoposti 
al 
giudizio 
della 
Corte 
dei 
conti 
sono 
rimborsate 
dall'amministrazione 
di 
appartenenza". 
ebbene, 
appare 
evidente 
che 
la 
finalità 
dei 
due 
dettati 
normativi 
appena 
citati 
sia 
proprio quella 
di 
tenere 
indenne 
a 
tutti 
gli 
effetti 
il 
pubblico dipendente 
dalle 
spese 
legali 
sopportate 
in relazione 
a 
giudizi 
conclusisi 
con sentenza 
di 
esclusione 
di 
responsabilità; 
in altre 
parole, la 
normativa 
de 
qua 
va 
letta 
nel 
senso che 
va 
garantita 
senz'altro l'effettività 
del 
diritto al 
rimborso, con la 
ineludibile 
conseguenza 
che 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento 
nel 
merito 
costituisce 
necessariamente 
mero 
presupposto di 
un credito che 
è 
attribuito dalla 
legge 
e 
che 
il 
giudice 
contabile, per i 
giudizi 
di 
sua 
competenza, 
è 
sì 
deputato 
a 
quantificare, 
ma 
salva 
comunque 
la 
definitiva 
determinazione 
del 
suo 
ammontare 
da 
compiere, su parere 
dell'Avvocatura 
dello Stato, con provvedimento dell'Amministrazione 
di 
appartenenza. 
Diversamente 
opinando, 
si 
ammetterebbe, 
infatti, 
che 
il 
diritto 
al 
rimborso 
delle 
spese 
sopportate 
che, come 
già 
detto, trova 
la 
sua 
origine 
nell'autonomo rapporto di 
natura 
sostanziale 
intercorrente 
tra 
Amministrazione 
e 
dipendente, possa 
essere 
irrimediabilmente 
e, eventualmente, anche 
ingiustificatamente 
condizionato 
e 
compromesso 
dalle 
statuizioni 
del 
giudice 
contabile, 
come 
per 
esempio 
attraverso 
la 
liquidazione 
di 
un importo meramente 
simbolico e 
comunque 
inferiore 
rispetto all'effettivo esborso 
congruamente 
determinato (come 
apparentemente 
successo, nella 
specie, all'esito del 
secondo grado di 
giudizio 
innanzi 
alla 
Corte 
dei 
Conti) 
o 
addirittura 
l'eventuale 
compensazione 
delle 
spese 
(come 
avvenuto 
nel 
caso di 
specie, con la 
sentenza 
di 
primo grado del 
giudice 
contabile), il 
che 
sarebbe 
senz'altro incompatibile 
con 
il 
principio 
della 
necessaria 
effettività 
del 
rimborso 
sopra 
affermato, 
considerato 
altresì 
il 
dovere 
dell'assistito al 
pagamento delle 
spese 
legali 
in favore 
del 
proprio difensore 
in base 
alla 
tariffa 
forense. Conseguentemente, il 
rimborso delle 
spese 
sopportate 
dal 
dipendente 
prosciolto in sede 
di 
giudizio 
contabile, dovuto dall'Amministrazione 
di 
appartenenza, va 
necessariamente 
determinato autonomamente 
da 
quest'ultima, sulla 
base 
di 
un parere 
di 
congruità 
dell'Avvocatura 
erariale, non solo qualora 
la 
sentenza 
della 
Corte 
dei 
conti 
non contiene 
alcuna 
statuizione 
sul 
punto, ma 
anche 
in presenza 
di 
una 
liquidazione 
effettuata 
dal 
giudice 
contabile, 
fermo 
restando 
che 
la 
somma 
liquidata 
dal 
predetto 
giudice 
va 
naturalmente 
assorbita 
nell'importo 
complessivo. 
Come 
già 
affermato 
dal 
primo 
giudice, 
detto 
parere 
che, quindi, non ha 
la 
mera 
funzione 
"di 
riscontro formale, sul 
piano amministrativo, della 
conformità 
della 
richiesta 
di 
rimborso rispetto alla 
misura 
liquidata 
in sentenza", come 
sostenuto dall'appellante, 
deve 
tenere 
conto 
delle 
necessità 
difensive 
dell'assistito 
in 
relazione 
alle 
accuse 
che 
gli 
sono 
state 
mosse 
ed 
ai 
rischi 
del 
giudizio 
e 
deve 
riguardare 
la 
conformità 
della 
parcella 
presentata 
dal 
difensore 
alla 
tariffa 
professionale 
ed ai 
criteri 
di 
fissazione 
del 
compenso ivi 
previsti. Sulla 
scorta 
di 
tale 
parere, spetta 
poi 
all'Amministrazione 
rimborsare 
l'importo dovuto, ovviamente, previa 
dimostrazione 
dell'effettivo pagamento 
della 
relativa 
somma 
al 
difensore, da 
parte 
del 
dipendente, in ossequio al 
principio dell'effettività 
del 
rimborso 
di 
cui 
si 
è 
già 
detto 
ed 
al 
fine 
di 
evitare 
qualsivoglia 
forma 
di 
possibile 
locupletazione 
in capo al beneficiario. 


(2) Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 19 agosto 2013, n. 19195, " 
... la 
coesistenza 
di 
una 
sorta 
di 
doppio 
binario sarebbe 
stata 
ancora 
ipotizzabile 
se 
il 
D.L. n. 203 del 
2005, art. 10 bis, comma 
10 si 
fosse 
limitato a 
sancire 
tout 
court 
l'obbligo di 
pronuncia 
sulle 
spese 
da 
parte 
del 
giudice 
contabile 
in caso di 
proscioglimento nel 
merito" 
mentre 
" 
... il 
dichiarato intento di 
interpretare 
sia 
il 
D.L. n. 543 del 
1996, 
cit. art. 3, comma 
2 bis 
sia 
il 
D.L. n. 67 del 
1997, cit. art. 18, comma 
1, (originariamente 
riguardanti 
il 
rimborso extragiudiziale) indubbiamente 
milita 
per una 
ridefinizione 
del 
sistema 
ad esclusivo appannaggio 
della 
sede 
giudiziale 
e 
per la 
competenza 
funzionale 
(anche 
a 
fini 
di 
contenimento della 
spesa) 
del 
solo giudice 
contabile 
(che 
emette 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento nel 
merito) in ordine 
alla 
liquidazione 
delle 
spese, con esclusione 
di 
ogni 
possibilità 
di 
loro quantificazione 
a 
pie 
di 
lista 
(e 
su ciò v., ancora, 
Cass. 
S.U. 
n. 
8455/08: 
si 
noti 
che 
in 
quel 
caso 
non 
era 
stata 
emessa 
pronuncia 
sulle 
spese 
del 
giudizio contabile da parte della Corte dei conti)". 

rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


La 
Cassazione 
nella 
citata 
decisione 
19 
agosto 
2013, 
n. 
19195 
riferendosi 
al 
D.L. n. 203 del 
2005, art. 10-bis, comma 
10, vi 
legge 
una 
"ridefinizione 
del 
sistema ad esclusivo appannaggio della sede 
giudiziale 
e 
per 
la competenza 
funzionale 
(anche 
a 
fini 
di 
contenimento 
della 
spesa) 
del 
solo 
giudice 
contabile 
(che 
emette 
la sentenza di 
proscioglimento nel 
merito) in ordine 
alla liquidazione 
delle 
spese, con esclusione 
di 
ogni 
possibilità di 
loro quantificazione 
a 
piè 
di 
lista": 
ora, fermo restando che 
il 
rimborso ex 
art. 18 non avviene 
a 
piè 
di 
lista, ma 
in base 
a 
valutazioni 
di 
congruità 
dell'Avvocatura 
dello Stato, appare 
evidente 
che 
la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
e 
la 
giurisprudenza 
ivi 
citata 
sono proprio da 
intendersi 
come 
superamento della 
tesi 
suesposta, 
che 
viene 
completamente 
accantonata 
poiché 
l'affermazione 
secondo 
cui 
vi 
sarebbe 
"competenza funzionale 
del 
solo giudice 
contabile" 
è 
assolutamente 
incompatibile 
con 
la 
tesi 
della 
distinzione 
affermata 
dalla 
Corte 
costituzionale 
(e 
dal 
Consiglio di 
Stato) tra 
il 
"rapporto che 
ha per 
oggetto il 
giudizio di 
responsabilità 
contabile 
da quello che 
si 
instaura fra l'incolpato, poi 
assolto o 
prosciolto, 
e 
l'amministrazione 
di 
appartenenza, 
relativamente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
per 
la difesa"; 
questo secondo rapporto sfugge, ovviamente, alla 
competenza del giudice contabile ponendosi su un piano diverso. 


Conseguenza 
della 
suesposta 
distinzione 
tra 
i 
due 
rapporti 
è 
che 
la 
pronuncia 
del 
giudice 
contabile 
sulle 
spese 
legali 
non è 
ostativa 
o preclusiva 
rispetto 
al 
rimborso ex 
art. 18 citato (ferma 
restando la 
detraibilità 
dalla 
somma 
congruita 
di 
quanto statuito dalla 
Corte 
dei 
conti); 
con il 
corollario della 
indipendenza 
del 
secondo rapporto dal 
primo, nel 
senso che 
ai 
fini 
della 
concessione 
o 
meno 
del 
rimborso 
ai 
sensi 
dell'art. 
18 
dovranno 
necessariamente 
sussistere 
tutti 
i 
presupposti 
di 
legge, che 
dovranno essere 
specificamente 
valutati 
caso 
per 
caso 
in 
sede 
di 
parere 
di 
congruità 
(cfr. 
ancora 
sentenza 
n. 
3779/17 
del 
Cons. 
di 
Stato: 
"il 
rimborso... 
dovuto 
dall'Amministrazione 
di 
appartenenza, 
va 
necessariamente 
determinato 
autonomamente 
da 
quest'ultima, 
sulla 
base 
di 
un 
parere 
di 
congruità 
dell'Avvocatura 
erariale..."), 
potendo 
anche 
ipotizzarsi 
il 
caso 
in 
cui, 
pur 
sussistendo 
una 
statuizione 
del 
Giudice 
contabile 
che 
liquida 
l'ammontare 
degli 
onorari 
e 
diritti 
spettanti 
alla 
difesa 
del 
prosciolto, tuttavia 
possa 
negarsi 
l'ulteriore 
rimborso ex 
art. 18 in esame 
in difetto dagli specifici presupposti di legge previsti da quest'ultima norma. 


Infine, 
è 
opportuno 
segnalare 
che, 
alla 
luce 
degli 
arresti 
giurisprudenziali 
sopra 
ricordati, 
vi 
è 
il 
rischio 
che 
eventuali 
contenziosi 
aventi 
ad 
oggetto 
il 
denegato 
rimborso 
ex 
art. 
18 
citato 
delle 
spese 
legali 
relativi 
a 
giudizi 
contabili 
possano 
avere 
esito 
negativo 
per 
l'Amministrazione, 
esponendola 
al 
rischio 
di 
condanne 
alle 
spese 
di 
lite; 
dunque 
eventuali 
pareri 
negativi 
del-
l'Avvocatura 
avrebbero 
probabili, 
ancorché 
indiretti, 
effetti 
negativi 
per 
gli 
interessi 
erariali. 


La 
circolare 
n. 
11/21 
merita, 
quindi, 
di 
essere 
confermata, 
anche 
sulla 
base delle suesposte argomentazioni. 



temI 
IStItUzIonALI 


Circolare n. 26/2021 


Il 
quesito dell'Avvocatura 
di 
Caltanissetta 
si 
appunta, poi, sulla 
Circolare 


n. 26/2021, così 
argomentando: 
"La seconda delle 
due 
circolari 
in oggetto si 
pone, sempre 
nella materia di 
cui 
all'art. 18 d.l. n. 67/1997, l'obiettivo di 
affrontare 
"le 
principali 
problematiche 
derivanti 
dalla 
disposizione 
costituendo 
documento di 
base 
per 
la predisposizione 
e 
redazione 
dei 
pareri 
nella medesima 
materia"; vengono segnalate in particolare le seguenti "criticità". 
"Viene 
anzitutto 
affermato 
che 
una 
parte 
della 
dottrina 
e 
della 
giurisprudenza 
aggiungono, ai 
due 
presupposti 
del 
diritto del 
dipendente 
al 
rimborso 
costituiti 
dalla connessione 
con l'espletamento del 
servizio e 
dall'esclusione 
di 
responsabilità, 
una 
terza 
condizione, 
consistente 
nell'assenza 
di 
conflitto 
di 
interesse 
con l'Amministrazione. L'esistenza di 
tale 
terzo presupposto è 
affermata 
da giurisprudenza consolidata e quantomeno prevalente". 


tuttavia 
"a pag. 4 si 
afferma in particolare: "si 
deve 
escludere 
che 
la valutazione 
in ordine 
alla ricorrenza -foss’anche 
eventuale 
-di 
rilievi 
disciplinari 
contenuta 
nella 
sentenza 
o 
nel 
provvedimento 
di 
esclusione 
di 
responsabilità 
possa 
incidere 
sul 
parere 
ex 
art. 
18 
spettando 
quella 
valutazione 
in via esclusiva all'amministrazione"; 
affermazione 
in contrasto con la 
circostanza 
che 
"l'affermazione 
in 
sentenza 
dell'esistenza 
di 
profili 
di 
responsabilità 
disciplinare 
del 
dipendente, è 
ritenuta nelle 
consultazioni 
rese 
in questo Distretto 
circostanza rilevante 
ai 
fini 
dell'accertamento del 
presupposto dell'assenza 
del 
conflitto 
di 
interessi... 
L'accertamento 
incidentale 
da 
parte 
del 
giudice 
penale 
della violazione 
di 
doveri 
di 
servizio sembrerebbe 
rilevare 
infatti, 
ai 
fini 
della valutazione 
dell'istanza di 
rimborso, nell'ambito di 
un procedimento 
amministrativo del tutto autonomo da quello disciplinare". 


Si 
ritiene 
al 
riguardo che 
l'affermazione 
contenuta 
nella 
circolare 
debba 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
laddove 
l'Amministrazione 
esprima 
una 
valuzione 
sulla 
rilevanza 
disciplinare 
della 
condotta 
del 
dipendente 
difforme 
da 
quella 
di 
cui 
alla 
decisione 
che 
ha 
escluso 
la 
responsabilità 
del 
dipendente, 
essa 
debba 
prevalere, al 
momento della 
valutazione 
sulla 
sussistenza 
dei 
presupposti 
per la 
rimborsabilità 
delle 
spese, su quella 
del 
giudice, poiché 
indubbiamente 
essa 
spetta, appunto, all'Amministrazione, ma 
ciò non significa 
che, 
in assenza 
di 
diversi 
giudizi 
dell'Amministrazione 
di 
appartenenza, le 
considerazioni 
della 
decisione 
giurisdizionale 
sul 
potenziale 
rilievo 
disciplinare 
della 
condotta 
non possano essere 
tenute 
presenti 
nella 
misura 
in cui 
contribuiscono 
a 
descrivere 
e 
definire 
la 
condotta 
del 
dipendente, 
come 
accertata 
processualmente, e 
la 
sua 
riconducibilità, o meno, al 
concetto di 
connessione 
con l'espletamento del servizio e assenza di conflitto di interessi con la P.A. 


Dunque, la 
valutazione 
in ordine 
alla 
ricorrenza 
di 
profili 
di 
rilievo disciplinare 
contenuta 
nella 
sentenza 
o nel 
provvedimento di 
esclusione 
di 
responsabilità 
non 
potrà 
risultare 
vincolante 
in 
sede 
di 
espressione 
del 
parere, 
ma 
dovrà 
comunque 
essere 
tenuta 
presente 
insieme 
a 
tutti 
gli 
altri 
elementi 
sinto



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


matici 
della 
connessione, o meno, della 
condotta 
all'espletamento del 
servizio 
e della presenza di un eventuale conflitto di interessi con l'Amministrazione. 


*** 


osserva 
ancora 
l'Avvocatura 
distrettuale 
che 
"Sempre 
a pag. 4 si 
fa una 
distinzione 
tra pronunce 
in rito che 
escludono in radice 
la punibilità dei 
fatti 
e 
che 
darebbero diritto al 
rimborso, e 
pronunce 
in rito che 
non escludono la 
responsabilità". 


In tali 
situazioni, prosegue 
il 
quesito, "questa Avvocatura ha sempre 
sostenuto 
che 
la liquidazione 
del 
rimborso può, anche 
con riferimento a questa 
tipologia di 
decisioni, essere 
esclusa in tutte 
le 
fattispecie 
in cui 
emerga" 
un 
conflitto di interessi. 


Si 
ritiene, 
al 
riguardo, 
che 
le 
due 
questioni 
attengano 
a 
profili 
diversi, 
ovvero 
da 
un lato a 
quello relativo alla 
corretta 
interpretazione 
delle 
pronunce 
in 
rito con riferimento all'esclusione 
della 
responsabilità, e 
dall'altro a 
quello relativo 
al 
conflitto 
di 
interessi 
e 
alla 
connessione 
con 
l'espletamento 
del 
servizio 


o con l'assolvimento degli 
obblighi 
istituzionali: 
requisiti 
che, come 
pacifico 
e affermato dalla stessa circolare, devono coesistere. 
Dunque, anche 
in caso di 
pronuncia 
in rito occorre 
verificare 
la 
riconducibilità 
della 
condotta 
del 
dipendente 
al 
corretto espletamento del 
servizio o 
assolvimento degli 
obblighi 
istituzionali 
e 
all'assenza 
di 
conflitto di 
interessi. 


*** 


Ancora 
la 
richiesta 
di 
parere 
osserva 
che 
a 
"pag. 
7, 
in 
materia 
di 
criteri 
per 
effettuare 
l'esame 
di 
congruità, 
si 
afferma 
che 
"la 
regola 
generale 
è 
che 
la 
congruità 
si 
debba 
attenere 
all'applicazione 
dei 
medi 
tariffari 
salva 
ovviamente 
la 
valutazione 
del 
caso 
specifico 
in 
relazione 
alla 
tipologia 
del 
giudizio, 
alla 
natura 
del 
suo 
oggetto 
e 
a 
tutti 
gli 
altri 
criteri 
analiticamente 
indicati 
nei 
DM 
succedutisi 
nel 
tempo". 
L'affermazione 
del 
principio 
per 
cui 
la 
liquidazione 
debba 
avvenire 
secondo 
i 
medi 
tariffari 
sembrerebbe 
idonea 
a 
generare 
l'onere 
di 
una 
specifica 
motivazione 
delle 
liquidazioni 
al 
disotto 
dei 
valori 
medi". 


non 
si 
ritiene, 
al 
riguardo, 
che 
la 
predetta 
indicazione 
determini 
un 
peculiare 
obbligo 
motivazionale 
del 
parere 
per 
autolimitazione; 
trattasi 
di 
indicazione 
generica 
e 
di 
massima 
(peraltro 
conforme 
alla 
stessa 
tecnica 
redazionale 
delle 
vigenti 
tariffe), 
che 
si 
limita 
suggerire 
un 
criterio 
di 
riferimento 
che 
possa 
ispirare, 
in 
modo 
omogeneo 
per 
tutti 
gli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello 
Stato, 
una 
valutazione 
equa 
e 
di 
buon 
senso 
che 
possa 
correttamente 
rispondere 
alle 
più 
recenti 
indicazioni 
della 
Corte 
di 
cassazione 
(Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, 
SS.UU. 
Civili, 
sent. 
n. 
13861/15: 
"Le 
censure 
proposte 
dal 
ricorrente 
trascurano 
il 
rilievo 
che 
inevitabilmente 
assume 
il 
dovere 
del 
legislatore 
di 
tener 
conto 
delle 
esigenze 
di 
finanza 
pubblica, 
che 
impongono 
di 
non 
far 
carico 
all'erario 
di 
oneri 
eccedenti 
quanto 
è 
necessario, 
e 
al 
contempo 
sufficiente, 
per 
soddisfare 
gli 
interessi 
generali 
e 
i 
doveri 
giuridici 
che 
presidiano 
l'istituto 
del 
rimborso 
spese. 
... 
Nel 
formulare 
il 
parere, 
l'avvocatura 
non 
può 
avere 
quale 



temI 
IStItUzIonALI 


riferimento 
esclusivo 
né, 
come 
vorrebbe 
il 
ricorso, 
l'interesse 
del 
dipendente 
a 
risultare 
sempre 
e 
in 
ogni 
caso 
indenne 
da 
ogni 
costo 
difensivo, 
né 
quello 
dell'amministrazione 
a 
minimizzare 
la 
spesa, 
poiché 
il 
parere 
deve 
essere 
reso 
in 
termini 
di 
congruità. 
Esso 
è 
soggetto 
al 
vaglio 
del 
giudice 
per 
il 
necessario 
controllo 
del 
rispetto 
dei 
principi 
di 
affidamento, 
ragionevolezza 
e 
tutela 
effettiva 
dei 
diritti 
riconosciuti 
dalla 
Costituzione, 
come 
è 
stato 
già 
chiarito 
da 
Cass. 
S.L., 
n. 
1418/07. 
Ciò 
significa 
ovviamente 
che 
è 
lo 
stesso 
parere 
a 
doversi 
ispirare 
a 
questi 
criteri 
nel 
valutare 
sia 
le 
necessità 
difensive 
del 
funzionario, 
in 
relazione 
alle 
accuse 
che 
gli 
erano 
state 
mosse 
ed 
ai 
presupposti, 
alla 
rilevanza 
e 
all'andamento 
del 
giudizio 
penale, 
sia 
la 
conformità 
della 
parcella 
presentata 
dal 
difensore 
alla 
tariffa 
professionale 
o 
ai 
compensi 
contemplati 
secondo 
i 
vigenti 
parametri. 
La 
discrezionalità 
tecnica 
dell'avvocatura 
va 
indubbiamente 
intesa 
nel 
senso 
di 
dover 
considerare 
ogni 
elemento 
rilevante.... 
È 
questa 
l'occasione 
per 
chiarire 
e 
precisare 
che 
il 
riferimento, 
contenuto 
nella 
citata 
sentenza 
della 
sezione 
lavoro, 
al 
limite 
di 
quanto 
"strettamente 
necessario" 
non 
va 
inteso 
pedissequamente, 
soprattutto 
dopo 
il 
venir 
meno 
del 
"sistema" 
delle 
tariffe 
forensi, 
nel 
senso 
cioè 
di 
ritenere 
legittima 
solo 
l'applicazione 
dei 
minimi 
tariffari. 
L'espressione 
"strettamente 
necessario" 
traduce 
male, 
e 
rischia 
di 
tradire, 
il 
concetto 
di 
contemperamento 
dell'esigenza 
di 
salvaguardia 
della 
prudenza 
nell'erogazione 
della 
spesa 
pubblica 
e 
di 
protezione 
del 
dipendente 
infondatamente 
accusato, 
che 
è 
però 
ben 
spiegata 
dai 
riferimenti, 
che 
si 
rinvengono 
già 
nella 
pronuncia 
suddetta 
e 
nei 
precedenti 
giurisprudenziali 
noti, 
ai 
principi 
di 
affidamento, 
ragionevolezza 
e 
tutela 
effettiva 
dei 
diritti 
riconosciuti 
dalla 
Costituzione"). 


A 
questi 
criteri, chiaramente 
definiti 
dalle 
SS.UU. della 
Corte 
di 
cassazione, 
va 
dunque 
ispirata 
la 
valutazione 
di 
congruità 
e 
in tal 
senso va 
inteso il 
richiamo, 
si 
ribadisce 
meramente 
orientativo 
e 
di 
massima, 
ai 
valori 
medi 
contenuto 
nella circolare in esame. 


*** 


Ancora 
osserva 
l'Avvocatura 
di 
Caltanissetta 
che 
"ingiustificata rispetto 
a quanto affermato nella "circolare" 
stessa è 
l'affermazione 
che, nel 
caso di 
nomina di 
due 
difensori, il 
dipendente 
abbia diritto al 
rimborso delle 
spese 
per 
entrambi... 
Anche 
in questo caso la circolare 
sembrerebbe 
onerare 
l'Avvocatura 
dello Stato di motivare il rimborso ad un solo avvocato". 


Si 
ritiene, 
al 
riguardo, 
che 
quanto 
si 
legge 
nella 
circolare 
vada 
interpretato 
nel 
senso che 
laddove 
le 
norme 
di 
rito consentono di 
fare 
ricorso a 
due 
difensori 
non possa 
essere 
negato il 
rimborso a 
uno dei 
due 
solo in considerazione 
dell'intervenuta 
assistenza 
di 
altro legale; 
il 
che, ovviamente, non implica 
la 
circostanza 
che 
possano venir disapplicati 
i 
criteri 
di 
generale 
valutazione 
di 
congruità 
testé 
ricordati 
con richiamo della 
sentenza 
della 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, 
SS.UU. 
Civili, 
n. 
13861/15, 
che 
devono 
comunque 
essere 
seguiti. 


In 
altri 
termini 
ciò 
che 
rileva 
non 
è 
la 
circostanza 
che 
si 
liquidino 
due 
par



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


celle, bensì 
il 
fatto che 
la 
somma 
complessivamente 
concessa 
per il 
rimborso 
risulti 
congrua 
rispetto alle 
effettive 
necessità 
defensionali 
del 
dipendente, da 
valutare, appunto, tenendo "conto delle 
esigenze 
di 
finanza pubblica, che 
impongono 
di 
non far 
carico all'erario di 
oneri 
eccedenti 
quanto è 
necessario e 
al 
contempo 
sufficiente, 
per 
soddisfare 
gli 
interessi 
generali 
e 
i 
doveri 
giuridici 
che 
presidiano l'istituto del 
rimborso spese" 
rispettando il 
"concetto di 
contemperamento 
dell'esigenza 
di 
salvaguardia 
della 
prudenza 
nell'erogazione 
della spesa pubblica e 
di 
protezione 
del 
dipendente 
infondatamente 
accusato, 
che 
è 
però 
ben 
spiegata 
dai 
riferimenti, 
che 
si 
rinvengono 
già 
nella 
pronuncia 
suddetta 
e 
nei 
precedenti 
giurisprudenziali 
noti, 
ai 
principi 
di 
affidamento, 
ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione". 


Il 
che, 
ovviamente, 
implica 
la 
necessità 
di 
valutare 
se 
la 
complessità 
e 
durata 
del 
giudizio richiedessero effettivamente 
l'impegno professionale 
del 
doppio 
difensore 
o 
se, 
semplicemente, 
l'impegno 
di 
ordinaria 
rilevanza 
sia 
stato ripartito fra 
i 
due 
difensori, con ovvie 
conseguenze 
sull'entità 
degli 
importi 
da ritenere congrui per ciascuno di essi. 


*** 


va, infine, segnalato che 
nel 
corso dell'esame 
dei 
quesiti 
oggetto del 
presente 
parere 
il 
Comitato Consultivo ha 
ritenuto di 
approfondire 
una 
tematica 
non esposta 
nella 
richiesta 
di 
parere, ma 
ad essa 
connessa, ritenendo espressamente, 
quindi, di 
ampliare 
la 
discussione 
e 
la 
conseguente 
espressione 
del 
parere 
anche 
ai 
temi 
della 
presenza 
del 
conflitto di 
interessi 
tra 
dipendente 
e 


P.A. quale 
elemento ostativo al 
rimborso e 
della 
valutazione 
ex 
ante 
o ex 
post 
della 
condotta 
oggetto 
del 
giudizio, 
in 
particolare 
ai 
fini 
della 
valutazione 
della 
connessione 
di 
fatti 
ed 
atti 
con 
l'espletamento 
del 
servizio 
o 
con 
l'assolvimento 
di obblighi istituzionali. 
Sul 
primo tema 
va 
affermato che 
la 
presenza 
di 
un conflitto di 
interessi 
esclude 
in 
radice 
la 
rimborsabilità 
delle 
spese 
legali 
ex 
art. 
18 
in 
esame: 
in 
altri 
termini, 
pur 
se 
siffatto 
requisito 
non 
è 
indicato 
expressis 
verbis 
nella 
norma 
citata, 
tuttavia 
esso 
costituisce 
ovvia 
estrinsecazione 
del 
concetto 
di 
connessione 
dell'atto 
o 
fatto 
con 
l'espletamento 
del 
servizio 
o 
con 
l'assolvimento 
di 
obblighi 
istituzionali, 
connessione 
da 
intendersi 
non 
nel 
senso 
di 
una 
mera 
occasionalità 
(come 
precisato 
più 
volte 
dalla 
giurisprudenza), 
ma 
nel 
senso di 
un corretto orientamento finalistico del 
fatto o atto al 
perseguimento 
dei 
fini 
propri 
dell'Amministrazione, 
con 
l'evidente 
corollario 
della 
non 
riconducibilità 
nell'alveo 
della 
previsione 
dell'art. 
18 
delle 
condotte 
che 
perseguono 
finalità 
contrarie 
o 
anche 
semplicemente 
estranee 
ai 
fini 
della 
P.A.(si 
veda 
Consiglio 
di 
Stato, 
sentenza 
n. 
6554/2020: 
"non 
è 
quindi 
sufficiente 
che 
la 
condotta posta in essere sia avvenuta"in occasione 
del 
servizio", ma è 
necessario 
che essa fosse finalizzata all'espletamento dello stesso"). 


Il 
fatto o atto, tuttavia, va 
preso in considerazione 
ex 
post, cioè, alla 
luce 
della 
statuizione 
definitiva 
che 
ha 
concluso il 
giudizio, stabilendo l'assenza 
di 



temI 
IStItUzIonALI 


responsabilità 
del 
dipendente, restando irrilevante 
la 
ricostruzione, fattuale 
e 
giuridica, 
contenuta 
nell'atto 
che 
ha 
generato 
il 
giudizio 
(capo 
di 
imputazione, 
atto di 
citazione 
ecc.), giacché 
la 
norma 
in parola 
fa 
chiaro ed esclusivo riferimento 
ai 
giudizi 
"conclusi 
con 
sentenza 
o 
provvedimento 
che 
escluda 
la 
loro 
responsabilità" 
e, dunque, riconduce 
la 
valutazione 
dell'atto o fatto esclusivamente 
ed inequivocabilmente 
alla 
statuizione 
definitiva 
sia 
sul 
piano della 
ricostruzione 
fattuale che della loro qualificazione giuridica. 


È, 
peraltro, 
evidente 
che 
solo 
la 
verità 
fattuale 
come 
processualmente 
accertata 
in via 
definitiva 
può consentire 
una 
valutazione 
che 
consenta 
di 
raggiungere 
la 
finalità 
propria 
dell'art. 
18 
come 
definita 
dalla 
stessa 
relazione 
illustrativa 
al 
d.l. in esame: 
se 
si 
accerta 
giudizialmente 
in via 
definitiva 
che 
"il 
funzionario è 
stato onesto" 
negare 
il 
rimborso sulla 
base 
di 
una 
semplice 
prospettazione 
accusatoria 
rivelatasi 
infondata 
sarebbe 
conclusione 
irragionevole 
e iniqua, violatrice della 
ratio legis. 


Sul 
presente 
parere 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura 
dello Stato che si è espresso in conformità nella seduta del 19 luglio 2022. 


L'AvvoCAto GenerALe DeLLo StAto 
GABrIeLLA PALmIerI SAnDULLI 


IL 
vICe 
AvvoCAto GenerALe 
eStenSore 
enrICo De GIovAnnI 



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


circoLArE 
n. 57/2022 


oggetto: 
Atti 
di 
intimazione 
per 
finita locazione 
notificati 
da investire 
SGr e 
altri 
locatori 
nei 
confronti 
dell’Agenzia del 
Demanio, in 
relazione 
a 
immobili 
conferiti 
nei 
fondi 
di 
cui 
all’articolo 4 del 
D.L. 25 settembre 
2001, 


n. 
351, 
conv. 
con 
mod. 
in 
L. 
23 
novembre 
2001, 
n. 
410, 
assegnati 
a 
varie 
amministrazioni 
usuarie. Direttive 
per 
la gestione 
degli 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi. 
1. il quadro normativo di riferimento. 
L’art. 
4 
del 
decreto-legge 
25 
settembre 
2001, 
n. 
351, 
recante 
disposizioni 
urgenti 
in materia 
di 
privatizzazione 
e 
valorizzazione 
del 
patrimonio immobiliare 
pubblico e 
di 
sviluppo dei 
fondi 
comuni 
di 
investimento immobiliare, 
convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
23 novembre 
2001, n. 410, ha 
autorizzato 
il 
ministero dell’economia 
e 
delle 
finanze 
a 
promuovere 
la 
costituzione 
di 
uno o più fondi 
comuni 
di 
investimento immobiliare 
a 
cui 
conferire 
beni 
immobili 
-ad 
uso 
diverso 
da 
quello 
residenziale 
-di 
proprietà 
dello 
Stato, 
dell’Amministrazione 
Autonoma 
dei 
monopoli 
di 
Stato (oggi 
Agenzia 
delle 
Dogane e dei monopoli) e degli enti pubblici non territoriali. 


Con detto D.L. si 
è 
avviato, dunque, il 
processo di 
dismissione 
e 
conseguente 
privatizzazione dei beni immobili statali. 
Con i 
successivi 
Decreti 
del 
9 giugno 2004 e 
del 
20 ottobre 
2004 sono 
stati costituiti due fondi di investimento: 


-il 
Fondo immobili 
Pubblici 
(FiP), gestito dalla 
società 
di 
gestione 
del 
fondo 
investire 
immobiliare 
sGR 
s.p.a., 
cui 
sono 
stati 
conferiti 
n. 
396 
beni 
immobiliari; 
-il 
Fondo 
Patrimonio 
uno 
(FP1 
o 
FPu), 
gestito 
dalla 
società 
di 
gestione 
BnL 
Fondi 
Immobiliari 
SGr 
p.a., 
oggi 
BnP 
Paribas 
Real 
estate 
sGR 
p.a., 
cui 
sono stati 
conferiti 
n. 66 immobili, di 
cui 
n. 34 appartenenti 
al 
c.d. Pool 
A 
(assunti 
in locazione 
dall’Agenzia 
del 
Demanio) e 
n. 32 appartenenti 
al 
c.d. 
Pool B (non assunti in locazione dall’Agenzia del Demanio). 


Secondo quanto disposto dall’art. 4 del 
D.L. 351/2001, contestualmente 
al 
conferimento 
degli 
immobili 
nei 
fondi 
è 
stata 
prevista 
la 
stipula 
di 
contratti 
di 
locazione 
intercorrenti 
tra 
la 
locatrice 
(società 
di 
gestione 
del 
fondo) e 
la 
conduttrice 
(Agenzia 
del 
Demanio) 
con 
cessione 
in 
uso, 
da 
parte 
di 
quest’ultima, 
ad altre 
amministrazioni 
pubbliche. In detti 
contratti 
si 
è 
altresì 
previsto 
che 
alla 
locatrice 
originaria 
potesse 
succedere, 
nella 
stessa 
posizione 
negoziale, 
altro avente causa, a seguito di cessione della proprietà dell’immobile. 


2. 
i 
contratti 
di 
locazione 
e 
gli 
atti 
di 
intimazione 
per 
finita 
locazione. 
L’Agenzia 
del 
Demanio 
ha 
stipulato 
con 
ciascuna 
delle 
società 
di 
gestione 
dei 
fondi, FIP 
e 
FP1, rispettivamente 
in data 
29 dicembre 
2004 e 
30 dicembre 



temI 
IStItUzIonALI 


2005, 
due 
contratti 
di 
locazione, 
ognuno 
dei 
quali 
concerne 
il 
complesso 
degli 
immobili conferiti al singolo fondo. 


Il 
loro 
contenuto 
è 
stato 
integralmente 
previsto 
dal 
Decreto 
operazione 
del 
15 
dicembre 
2004, 
pubblicato 
in 
G.U. 
n. 
303 
del 
28 
dicembre 
2004 
S.o., 
che 
ne 
ha 
disciplinato, 
oltre 
alle 
clausole 
e 
i 
profili 
relativi 
all’eventuale 
responsabilità 
contrattuale, 
anche 
la 
durata 
di 
anni 
nove 
rinnovabile 
per 
ulteriori 
nove 
anni. 


Il 
collegato 
disciplinare 
di 
assegnazione 
ha 
invece 
regolato 
l’aspetto 
concernente 
l’uso degli immobili da parte delle 
Amministrazioni utilizzatrici. 


Successivamente 
al 
primo 
rinnovo 
automatico, 
tra 
l’Agenzia 
del 
Demanio 
e 
le 
società 
di 
gestione 
sono 
intercorse 
molteplici 
trattative 
finalizzate 
alla 
stipula 
di 
nuovi 
contratti 
di 
locazione, le 
quali, tuttavia, non hanno finora 
avuto 
esito positivo. 


Pertanto, in vista 
della 
definitiva 
scadenza 
del 
primo contratto, relativo 
agli 
immobili 
conferiti 
nel 
fondo FIP, prevista 
per il 
28 dicembre 
2022, i 
locatori 
-in prevalenza 
la 
Investire 
Immobiliare 
SGr S.p.A. -hanno avviato le 
diverse 
procedure 
ex 
art. 
657 
c.p.c., 
notificando 
gli 
atti 
di 
intimazione 
per 
finita 
locazione presso le singole sedi dell’Avvocatura dello Stato. 


tale 
procedimento 
che, 
come 
noto, 
è 
disciplinato 
dagli 
artt. 
657 
e 
ss. 
c.p.c., consente 
al 
locatore 
-ancor prima 
dell’intervenuta 
scadenza 
del 
contratto 
-di 
ottenere 
dal 
giudice 
adito l’ordinanza 
di 
convalida, ossia 
una 
“condanna 
in futuro” da eseguire alla cessazione degli effetti contrattuali. 


Il 
conduttore, entro l’udienza 
di 
citazione 
e 
convalida, ove 
spieghi 
opposizione 
fondata 
su 
prova 
scritta, 
può 
ottenere 
la 
reiezione 
della 
convalida 
con 
conseguente 
conclusione 
della 
fase 
sommaria 
e 
prosecuzione 
del 
giudizio 
secondo il 
rito ordinario, quale 
quello locatizio, che 
ai 
sensi 
dell’art. 447-bis 


c.p.c. 
segue la disciplina del 
rito del lavoro. 
***** 


tenuto conto della 
rilevanza 
e 
della 
diffusione 
nazionale 
del 
contenzioso 
in 
atto, 
nonché 
della 
sua 
interferenza 
con 
la 
trattativa 
negoziale 
di 
competenza 
della 
Direzione 
Centrale 
dell’Agenzia 
del 
demanio 
ai 
sensi 
dell’art. 
4, 
comma 
2-sexies, del 
D.L. n. 351/2001, e 
altresì 
della 
circostanza 
che 
alcune 
amministrazioni 
usuarie, titolari 
di 
situazioni 
giuridiche 
particolari, consistenti 
nella 
facoltà 
di 
autonoma 
gestione 
dei 
relativi 
contratti, hanno formulato richieste 
di 
parere 
connesse 
alle 
vicende 
in esame, si 
ritiene 
opportuno, con la 
presente 
circolare, 
fornire 
direttive 
per 
la 
trattazione 
dei 
relativi 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi, al 
fine 
di 
assicurare 
l’uniformità 
e 
l’omogeneità 
della 
difesa 
del-
l’amministrazione in giudizio e della consulenza alla stessa. 


3. Le questioni giuridiche sottese alla difesa. 
Con 
la 
prima 
opposizione 
spiegata 
dinanzi 
al 
tribunale 
di 
roma, 
si 
è 
fatta 
valere 
l’inammissibilità 
e 
l’infondatezza 
dell’intimazione, in quanto in contrasto 
con le 
previsioni 
dell’art. 4 del 
D.L. n. 351/2001, così 
come 
introdotto 
e, successivamente, modificato dall’art. 69 del 
decreto-legge 
14 agosto 2020, 



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


n. 
104, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
13 
ottobre 
2020, 
n. 
126, 
nonché 
dall'art. 
10, 
comma 
2-bis, 
lett. 
a), 
n. 
2), 
del 
decreto-legge 
30 
dicembre 
2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
25 febbraio 2022, n. 
15 nell’ambito delle 
misure 
atte 
a 
fronteggiare 
l’emergenza 
sanitaria 
da 
diffusione 
del virus SArS-Cov-2. 
La 
suddetta 
norma, nel 
testo attualmente 
vigente 
prevede 
che 
“... in caso 
di 
mancata sottoscrizione 
dei 
contratti 
di 
cui 
al 
comma 2-sexies 
e 
di 
permanenza 
delle 
amministrazioni 
utilizzatrici 
in mancanza di 
alternative 
negli 
immobili 
per 
i 
quali 
si 
verifichi 
ogni 
ipotesi 
di 
scioglimento o cessazione 
degli 
effetti 
dei 
contratti 
di 
locazione 
previsti 
dal 
comma 
2-ter, 
è 
dovuta 
un'indennità 
di 
occupazione 
precaria pari 
al 
canone 
pro tempore 
vigente, senza applicazione 
di 
alcuna penale, onere 
o maggiorazione 
fatto salvo l'eventuale 
risarcimento 
del 
danno 
ulteriore 
provato 
dal 
locatore. 
Le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
comma si 
inseriscono automaticamente 
nei 
predetti 
contratti 
di 
locazione 
in 
corso, 
ai 
sensi 
dell'articolo 
1339 
del 
codice 
civile, 
anche 
in 
deroga 
ad ogni 
eventuale 
diversa pattuizione 
esistente 
e 
hanno efficacia per 
un periodo 
massimo 
di 
quarantotto 
mesi 
a 
decorrere 
dallo 
scioglimento 
o 
dalla 
cessazione 
predetti”. 


Si 
potrebbe 
interpretare 
il 
dettato normativo nel 
senso che 
la 
legge 
attribuisce 
alle 
amministrazioni 
un 
diritto 
potestativo 
di 
permanere 
negli 
immobili, 
anche 
dopo la 
scadenza 
del 
contratto di 
locazione, in forza 
di 
una 
situazione 
di 
fatto espressamente 
qualificata 
come 
occupazione 
precaria, purché 
vi 
sia 
la 
comprovata 
mancanza 
di 
soluzioni 
allocative 
alternative. Inoltre, è 
rilevante 
evidenziare 
che 
la 
vincolatività 
di 
tale 
disposizione 
è 
sancita 
a 
livello contrattuale 
dall’automatico inserimento ai sensi dell’art. 1339 codice civile. 


Pertanto, 
a 
fini 
difensivi, 
si 
è 
fatta 
valere 
la 
legittimità 
della 
possibile 
permanenza 
dell’Amministrazione 
negli 
immobili, in forza 
di 
una 
situazione 
di 
fatto, qual 
è 
l’occupazione 
precaria, normativamente 
prevista, vincolante 
per 
le 
parti 
ai 
sensi 
della 
citata 
norma 
del 
codice 
civile, ma 
subordinata 
alla 
mancanza 
di alternative allocative per le amministrazioni usuarie. 


Si 
è 
quindi 
sottolineato 
che 
la 
condanna 
in 
futuro, 
tipica 
delle 
intimazioni 
ex 
art. 657 c.p.c., non è 
concedibile 
in tale 
contesto normativo, in quanto l’ulteriore 
circostanza 
fattuale 
della 
mancanza 
di 
alternative 
utili 
è 
accertabile 
solo ed esclusivamente 
alla 
scadenza 
stessa 
del 
contratto, ben potendo le 
Amministrazioni 
utilizzatrici, 
mediante 
soluzioni 
allocative 
alternative, 
evitare 
d’incorrere nell’occupazione precaria. 


La 
norma 
speciale 
del 
D.L. n. 351/2001, attualmente 
vigente, inoltre, ha 
disciplinato puntualmente 
anche 
gli 
aspetti 
economici 
derivanti 
da 
tale 
peculiare 
occupazione, 
quali 
l’indennizzo 
da 
corrispondere 
“pari 
al 
canone 
pro 
tempore 
vigente, 
senza 
applicazione 
di 
alcuna 
penale, 
onere 
o 
maggiorazione” 
nonché “l’eventuale risarcimento del 
danno ulteriore provato 
dal locatore”. 


Sotto tale 
ultimo aspetto, dunque, potrà 
considerarsi 
risarcibile 
-sempre 



temI 
IStItUzIonALI 


ove 
corroborato da 
prova 
-il 
danno ulteriore 
alla 
mera 
permanenza 
nell’immobile, 
per 
la 
quale, 
invece, 
dovrà 
corrispondersi 
un 
indennizzo, 
a 
riprova 
della legittimità dell’occupazione. 


In proposito, nell’ipotesi 
che 
il 
locatore 
adduca 
la 
circostanza 
di 
avere 
la 
possibilità 
di 
stipulare 
nuovi 
contratti 
di 
locazione 
con terzi, magari 
a 
condizioni 
contrattuali 
più 
favorevoli 
di 
quelle 
in 
essere 
con 
l’Agenzia 
del 
Demanio, 
la 
richiesta 
di 
risarcimento 
del 
danno 
ulteriore 
da 
perdita 
di 
chance 
contrattuali 
alternative, per un verso, potrebbe 
essere 
avversata, qualora 
si 
riuscisse 
a 
dimostrare 
la 
pretestuosità 
delle 
trattative, condotte 
col 
terzo pur in presenza 
di 
una 
normativa 
che 
consente 
all’amministrazione 
un’occupazione 
precaria 
di 
durata 
non 
insignificante 
e, 
per 
altro 
verso, 
potrebbe 
essere 
contrastata, 
nel 
suo 
ammontare 
liquidabile 
come 
voce 
di 
danno 
ulteriore, 
per 
l’astrattezza 
della 
chance, le 
cui 
probabilità 
di 
verificazione 
sono scarse, per effetto della 
situazione 
del 
mercato immobiliare 
nel 
periodo pandemico, di 
cui 
la 
normativa 
ha 
tenuto conto. 


tanto 
premesso, 
al 
fine 
di 
rendere 
omogenea 
e 
coerente 
la 
tutela 
dell’Amministrazione 
in giudizio anche 
nelle 
altre 
cause 
pendenti, si 
raccomanda 
di 
spiegare 
tempestiva 
opposizione 
avverso gli 
atti 
di 
intimazione 
di 
licenza 
per 
finita 
locazione, insistendo per l’inammissibilità 
delle 
procedure 
poste 
in essere, 
in virtù del 
summenzionato art. 4 D.L. 351/2001. In aggiunta, al 
fine 
di 
fornire 
prova 
scritta 
per l’opposizione, volta 
ad evitare 
l’immediata 
convalida 
da 
parte 
del 
giudice, s’invita 
a 
sollecitare 
l’Agenzia 
del 
Demanio e 
le 
singole 
amministrazioni 
utilizzatrici 
a 
trasmettere 
ogni 
documento 
utile, 
comprovante 
la 
concreta 
(anche 
ove 
infruttuosa) ricerca 
di 
immobili 
alternativi, tale 
da 
giustificare 
la permanenza precaria negli immobili locati. 


Allo scopo di 
rendere 
nota 
l’attività 
difensiva 
già 
svolta 
nella 
“causa 
pilota” 
pendente 
dinanzi 
al 
tribunale 
di 
roma, si 
allega 
la 
comparsa 
di 
risposta 
depositata 
in tale 
giudizio, alla 
quale 
le 
Avvocature 
Distrettuali 
potranno ispirarsi 
nella redazione degli atti difensivi di competenza. 


Le 
Avvocature 
Distrettuali 
sono 
invitate, 
comunque, 
a 
tenere 
tempestivamente 
informata 
l’Avvocatura 
Generale 
(Sezione 
III 
-sezione3@mailcert.avvocaturastato.
it) 
sugli 
sviluppi 
del 
contenzioso 
locale 
e 
delle 
decisioni 
sostanziali 
assunte 
dall’autorità 
giudiziaria. 


Del 
pari, 
i 
vice 
Avvocati 
Generali 
e 
gli 
Avvocati 
Distrettuali 
sono 
invitati 
a 
coordinare 
l’attività 
consultiva 
inerente 
alle 
locazioni 
in oggetto con la 
Sezione 
III dell’Avvocatura 
Generale 
(vag.3sezione@avvocaturastato.it), in relazione 
ad 
eventuali 
pareri 
che 
singole 
Amministrazioni 
assegnatarie 
dell’immobile 
o articolazioni 
dell’Agenzia 
del 
Demanio inoltrino all’Istituto 
per chiedere 
suggerimenti 
in ordine 
alle 
iniziative 
da 
prendere 
in relazione 
ai 
contratti di locazione in scadenza. 


Infine, in considerazione 
della 
natura 
unitaria 
del 
rapporto di 
locazione 
degli 
immobili 
conferiti 
in 
ognuno 
dei 
due 
predetti 
fondi, 
nonché 
dell’analogia 



rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


tra 
i 
due 
contratti 
di 
locazione, l’Agenzia 
del 
Demanio ha 
rappresentato, per 
le 
vie 
brevi, l’esigenza 
che 
a 
livello locale 
non si 
proceda 
a 
mediazione 
e 
negoziazione 
assistita 
alcuna 
o a 
trattative 
stragiudiziali, se 
esse 
non siano state 
strettamente 
coordinate 
con le 
attività 
svolte 
dalle 
competenti 
Direzioni 
Centrali 
dell’Agenzia 
a 
livello 
nazionale. 
Di 
conseguenza, 
anche 
le 
Avvocature 
Distrettuali 
vorranno 
segnalare 
con 
tempestività 
alla 
Sezione 
III 
dell’Avvocatura 
Generale 
ogni 
iniziativa 
di 
mediazione, negoziazione 
assistita 
o transazione 
stragiudiziale 
di 
cui 
il 
contenzioso 
in 
sede 
locale 
dovesse 
costituire 
occasione. 


L'AvvoCAto GenerALe 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


(omissis) 



temI 
IStItUzIonALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


circoLArE 
n. 61/2022 


oggetto: 
Protocollo 
d’intesa 
tra 
la 
Fondazione 
Arena 
di 
Verona 
e 
l’Avvocatura 
Distrettuale dello Stato di Venezia. 


Si 
comunica 
che 
con protocollo d'intesa 
sottoscritto in data 
29 settembre 
2022 
tra 
l'Avvocatura 
Distrettuale 
di 
venezia 
e 
la 
Fondazione 
Arena 
di 
verona, 
che 
si 
acclude 
alla 
presente, sono state 
definite 
le 
modalità 
di 
esplicazione 
del 
patrocinio dell'Avvocatura dello Stato in favore della Fondazione stessa. 


L'AvvoCAto GenerALe 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


PRoToCoLLo Di inTesa 


tra 


FonDazione aRena Di 
VeRona 


rappresentata dal dottor Luca migliore, su delega del Sovrintendente, giusta procura 
notaio mattia marino, repertorio n. 2812 del 23 settembre 2022, qui allegata 
e 


aVVoCaTuRa DisTReTTuaLe DeLLo sTaTo Di 
Venezia 


rappresentata dall'Avvocato distrettuale dello Stato, Avv. Stefano maria Cerillo a ciò 
autorizzato dall'Avvocato Generale con nota 10 settembre 2022 n. 560500 
PremeSSo 


a) 
che 
la 
Fondazione 
Arena 
di 
verona, 
(di 
seguito 
denominata 
solo 
"Fondazione") 
ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
4, del 
D.L. n. 345/2000, convertito in Legge 
n. 6/2001, e 
dell'art. 43 r.D. 
30 
ottobre 
1933 
n. 
1611 
può 
avvalersi 
della 
consulenza 
e 
del 
patrocinio 
legale 
dell'Avvocatura 
dello Stato (di 
seguito denominata 
solo "Avvocatura"), e 
che 
detto patrocinio è 
stato in anni 
risalenti 
già 
saltuariamente 
prestato 
con 
reciproca 
soddisfazione 
delle 
parti 
firmatarie 
del 
presente 
protocollo; 
b) che, a 
tal 
riguardo, ai 
sensi 
dell'art. 43, comma 
4, r.D. n. 1611/1933, è 
stata 
già 
ritenuta 
l'ammissibilità 
e 
legittimità 
(già 
espressa, riguardo alle 
Fondazioni 
lirico-sinfoniche, che 
dal 
Comitato Consultivo dell'Avvocatura 
Generale 
dello Stato nel 
parere 
19 luglio 2012 e 
nel 
parere 
26 giugno 2015) dell'utilizzo dello strumento convenzionale, per poter disciplinare 
concordemente 
non 
solo 
le 
modalità 
di 
prestazione 
del 
predetto 
patrocinio, 
ma 
anche 
eventualmente 
anche 
i 
casi 
in cui, la 
stessa 
fondazione, previa 
apposita 
e 
motivata 
delibera 
del 
Consiglio 
di 
Indirizzo, 
nel 
caso 
anche 
accompagnata 
da 
determina 
del 
Sovrintendente, 
possa 
prevedere, in limitata 
deroga 
al 
carattere 
generale 
ed esclusivo del 
patrocinio dell'Avvocatura, 
che, in ragione 
della 
peculiarità, della 
loro natura, del 
loro numero e 
della 
loro frequenza, 
alcune controversie possano essere affidate ad avvocati del libero foro; 
c) che 
lo strumento convenzionale 
appare 
anche 
il 
più idoneo, anche 
in ragione 
del 
rilevante 
carico di 
lavoro che 
grava 
in via 
generale 
sull'Avvocatura 
dello Stato e 
della 
necessità 
di 
far 

rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


fronte 
ai 
molteplici 
e 
contestuali 
incombenti 
processuali 
dinanzi 
a 
tutte 
le 
Autorità 
Giurisdizionali, 
in 
sede 
civile, 
penale 
e 
amministrativa, 
ad 
assicurare 
una 
più 
organica 
definizione 
delle modalità di collaborazione in ambito legale tra i due soggetti; 
tutto quanto fin qui 
premesso, che 
costituisce 
parte 
integrante 
anche 
della 
parte 
dispositiva 
del 
presente 
atto, tra 
la 
Fondazione 
Arena 
di 
verona 
e 
l'Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
venezia si conviene quanto segue: 


a) attività Consultiva 
1) La 
Fondazione 
può ricorrere 
ai 
sensi 
dell'art. 47 del 
r.D. 1611/1933 all'attività 
consultiva 
dell' 
Avvocatura 
in merito a 
questioni 
giuridiche 
particolari 
o interpretative 
di 
carattere 
generale 
relative 
ad 
ogni 
ambito 
della 
propria 
attività 
istituzionale 
ovvero 
anche 
in 
relazione 
a 
vertenze 
potenziali 
o 
già 
in 
atto, 
precisando 
nella 
richiesta 
anche 
il 
relativo 
grado 
di 
urgenza 
della 
consultazione 
e 
correlando la 
stessa 
della 
necessaria 
documentazione 
atta 
ad evidenziare 
la 
fattispecie oggetto del quesito. 
2) Considerato che 
l'efficacia 
dell'attività 
consultiva 
è 
direttamente 
correlata 
alla 
tempestiva 
acquisizione 
dei 
chiesti 
pareri, l'Avvocatura 
si 
impegna 
a 
rendere 
la 
richiesta 
consultazione 
con tempestività 
e, comunque, nel 
rispetto dei 
termini 
eventualmente 
indicati 
come 
imposti 
dai vari procedimenti amministrativi in relazione ai quali la consulenza è richiesta. 
B) assistenza e rappresentanza in giudizio 
1) L'Avvocatura 
ai 
sensi 
dell'art. 43, comma 
1, del 
r.D. 1611/1933 fornisce 
il 
proprio patrocinio 
in tutte 
le 
fasi 
di 
merito dei 
contenziosi 
davanti 
al 
Giudice 
ordinario, anche 
in sede 
esecutiva, 
al 
fine 
di 
assicurare, 
nel 
modo 
migliore, 
la 
piena 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
di 
competenza 
della 
Fondazione, con esclusione 
dei 
casi 
in cui 
nella 
vertenza 
vi 
sia 
un conflitto 
di 
interessi 
con Amministrazioni 
dello Stato soggette 
al 
patrocinio obbligatorio ex art. 1 del 
r.D. 1611/1933. L'eventuale 
fase 
di 
giudizio in sede 
di 
legittimità 
sarà 
assicurata 
dall'Avvocatura 
Generale 
dello Stato ex art. 9, 1 e 
2 comma, della 
legge 
103/1079. L'Avvocatura 
ha 
facoltà 
di 
delegare 
legali 
esterni 
esercenti 
nel 
circondario 
ove 
si 
svolge 
il 
giudizio 
per 
la 
rappresentanza 
della 
Fondazione 
nei 
giudizi 
fuori 
della 
sede 
degli 
Uffici 
della 
stessa 
con 
oneri 
a carico dell'ente patrocinato ai sensi dell'art. 2, comma 1, del r.D. 1611/1933 cit. 
Ai 
sensi 
di 
quanto disposto dall'art. 9, commi 
1 e 
2, della 
legge 
9 aprile 
1973 n. 103 l'Avvocatura 
Distrettuale 
curerà 
la 
trattazione 
delle 
controversie 
avanti 
le 
Autorità 
giudiziarie 
civili, 
penali ed amministrative ed ai collegi arbitrali aventi sede nel distretto di competenza. 
In applicazione 
della 
norma 
succitata 
l'Avvocatura 
Generale 
dello Stato provvederà 
alla 
rappresentanza 
e 
difesa 
della 
Fondazione 
nei 
giudizi 
avanti 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
il 
Consiglio 
di 
Stato e 
le 
altre 
Autorità 
giurisdizionali 
ed i 
collegi 
arbitrali 
aventi 
sede 
in roma 
oltre 
che 
nei procedimenti innanzi ai collegi internazionali o comunitari. 
2) Previo parere 
positivo del 
Comitato Consultivo dell'Avvocatura 
Generale 
su richiesta 
del-
l'Avvocato Distrettuale, ex art. 9 comma 
3 della 
predetta 
legge 
n. 103/1979, la 
trattazione 
del 
ricorso per Cassazione 
e 
davanti 
al 
Consiglio di 
Stato può essere 
anche 
affidata 
all'avvocato 
dello Stato in servizio nella 
sede 
distrettuale 
che 
ha 
seguito la 
causa 
in primo grado e, in tale 
ipotesi, 
le 
spese 
di 
missione 
del 
predetto 
per 
la 
trattazione 
delle 
cause 
davanti 
alle 
magistrature 
superiori sono a carico dell'ente patrocinato. 
3) 
ove 
un 
atto 
introduttivo 
del 
giudizio 
venga 
notificato 
direttamente 
alla 
Fondazione, 
la 
stessa 
provvede 
ad interessare 
l'Avvocatura 
con la 
massima 
sollecitudine, anche 
nell'ipotesi 
in cui 
non sia 
ancora 
in grado di 
fornire 
una 
completa 
informazione 
e 
documentazione 
in merito 
alla 
vertenza 
per cui 
è 
causa. tale 
completa 
e 
documentata 
relazione 
sui 
fatti 
oggetto di 
causa 
e 
sulle 
questioni 
diritto 
controverse, 
quale 
necessario 
supporto 
per 
l'efficace 
difesa 
delle 

temI 
IStItUzIonALI 


ragioni 
della 
stessa 
Fondazione, dovrà 
essere 
comunque 
rimessa 
all'Avvocatura 
nel 
più breve 
tempo possibile 
e 
comunque 
non oltre 
i 
dieci 
giorni 
precedenti 
la 
scadenza 
del 
primo termine 
processuale. 


4) Al 
fine 
di 
rendere 
praticabile, operativamente, un percorso di 
immediata 
e 
diretta 
comunicazione, 
anche 
informale, in sede 
di 
richiesta 
verrà 
precisato il 
nominativo del 
funzionario 
responsabile 
del 
procedimento, con le 
modalità 
per la 
sua 
immediata 
reperibiìità 
(telefono, 
fax, e-mail); 
analogamente 
l’Avvocatura 
provvederà 
a 
segnalare 
alla 
struttura 
richiedente 
il 
nominativo dell'Avvocato incaricato dell'affare 
e 
le 
suindicate 
modalità 
di 
immediata 
reperibilità. 
Qualora 
gli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio, o di 
un grado di 
giudizio, vengano notificati 
all’Avvocatura, sono da 
quest'ultima 
prontamente 
inviati 
alla 
Fondazione 
con ogni 
relativa 
occorrenda richiesta istruttoria. 
5) 
L'Avvocatura 
provvede 
a 
tenere 
informata 
la 
Fondazione 
dei 
significativi 
sviluppi 
delle 
controversie 
in 
corso 
dalla 
stessa 
curate, 
anche 
con 
l'eventuale 
invio 
di 
ogni 
atto 
o 
documento 
proprio 
o 
delle 
controparti 
che 
venga 
ritenuto 
necessario 
sottoporre 
all'esame 
dello 
stesso 
ente 
patrocinato, 
dando 
comunque 
pronta 
comunicazione 
dell'esito 
del 
giudizio 
con 
la 
trasmissione 
di 
copia 
della 
decisione, in particolare 
se 
notificata. ove 
si 
tratti 
di 
pronuncia 
sfavorevole 
per 
la 
Fondazione 
suscettibile 
di 
gravame, 
l'Avvocatura 
renderà 
tempestivamente 
il 
proprio 
parere 
in ordine alle possibilità di utile impugnabilità della medesima. 
6) A 
richiesta 
della 
Fondazione, l'Avvocatura 
può assumere, ai 
sensi 
dell'art. 44 del 
rD. n. 
1611/1933, 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
di 
dipendenti 
della 
stessa 
Fondazione 
nei 
giudizi 
civili 
e 
penali 
che 
li 
interessano per fatti 
e 
cause 
di 
servizio. In tal 
caso la 
richiesta 
del 
dipendente 
dovrà 
essere 
inviata 
all'Avvocato 
Generale 
direttamente 
o 
per 
il 
tramite 
dell’Avvocatura 
Distrettuale, unitamente 
ad una 
propria 
determinazione 
nella 
quale 
venga 
esclusa, nella 
posi-
zone 
del 
dipendente, 
l'esistenza 
di 
ogni 
profilo 
di 
conflitto 
di 
interesse 
con 
le 
stesso 
ente 
nella 
specifica vertenza. 
7) 
L'Avvocatura, 
in 
applicazione 
dell'articolo 
21 
terzo 
comma, 
del 
r.D. 
1611/1933, 
provvede 
al 
diretto 
recupero 
nei 
confronti 
delle 
controparti 
delle 
competenze 
ed 
onorari 
di 
giudizio, 
posti 
a 
loro carico per effetto di 
sentenza, ordinanza, rinuncia 
o transazione 
ai 
fini 
dell'acquisizione 
al bilancio dello Stato per le finalità ivi prescritte. 
8) Il 
patrocinio della 
Fondazione, compatibilmente 
con le 
esigenze 
di 
servzio, sarà 
prevalentemente 
affidato a 
due 
avvocati 
dello Stato in servizio che 
verranno indicati 
dall’Avvocato 
Distrettuale 
con successiva 
nota; 
i 
suddetti 
avvocati 
assicureranno l’espletamento di 
tutti 
gli 
incombenti 
necessari 
ed 
opportuni 
in 
sede 
contenziosa 
e 
consultiva 
e 
potranno 
essere 
contattati 
anche per le vie brevi presso i recapiti che gli stessi forniranno. 
9) restano escluse 
dal 
patrocinio ex lege 
dell'Avvocatura 
le 
controversie 
di 
natura 
tributaria 
instaurate, o da 
instaurare, dinanzi 
alle 
Commissioni 
tributarie 
provinciali 
e 
regionali 
nelle 
quali 
siano ravvisabili 
conflitti 
anche 
virtuali 
di 
interessi 
fra 
le 
posizioni 
della 
Fondazione 
e 
gli 
Uffici 
Finanziari 
tutelati 
e 
rappresentati 
ex 
officio 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato; 
per 
tali 
controversie 
la 
Fondazione 
si 
riserva 
di 
individuare, sulla 
base 
di 
un rapporto fiduciario, avvocati 
del 
libero foro cui 
affidare 
la 
rappresentanza 
processuale 
e 
l'assistenza 
necessaria 
alla 
difesa dei propri interessi. 
10) Le 
parti 
concordano altresì 
che, in casi 
speciali, previa 
apposita 
e 
motivata 
delibera 
del 
Consiglio 
di 
Indirizzo, 
nel 
caso 
anche 
accompagnata 
da 
determina 
del 
Sovrintendente, 
possano 
essere 
affidate 
ad avvocati 
del 
libero foro particolari 
cause 
promosse 
o da 
promuovere, nei 
vari 
gradi 
di 
giudizio, 
in 
materia 
giuslavoristica, 
contributiva 
e 
previdenziale, 
penale 
ed 
in 
altri 
ambiti 
del 
diritto civile 
non compresi 
nei 
punti 
precedenti, con esclusione 
di 
quelle 
di 

rASSeGnA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2022 


notevole 
rilevanza 
generale 
ed aventi 
considerevoli 
riflessi 
sugli 
assetti 
organizzativi 
e 
finanziari 
della 
Fondazione 
(che 
saranno 
individuate 
dalle 
parti 
d'intesa 
fra 
loro, 
anche 
in 
occasione 
degli 
incontri 
di 
cui 
al 
successivo 
punto 
12. 
Per 
le 
controversie 
nelle 
materie 
indicate 
nel 
punto 10 la 
Fondazione 
si 
riserva 
di 
individuare, secondo l'intuitus 
personae 
e 
su base 
fiduciaria, 
avvocati 
del 
libero foro cui 
affidare 
la 
rappresentanza 
processuale 
e 
l'assistenza 
necessaria 
alla 
difesa 
dei 
propri 
interessi, 
anche 
nelle 
fasi 
di 
precontenzioso, 
di 
negoziazione 
assistita e conciliative previste dalla legge nelle rispettive materie. 


11) 
restano 
escluse 
dalla 
deroga 
al 
patrocinio 
dell'Avvocatura, 
di 
cui 
al 
punto 
precedente 
10), 
tutte 
le 
controversie 
nelle 
restanti 
materie, con riferimento in via 
esemplificativa 
e 
non esaustiva: 
societario, tributario, commerciale, questioni 
di 
competenza 
delle 
Corti 
Internazionali 
salvo 
diverso 
accordo 
fra 
la 
Fondazione 
e 
l'Avvocatura. 
La 
stessa 
disciplina 
sul 
patrocinio 
troverà 
applicazione 
anche 
nelle 
fasi 
di 
precontenzioso, 
di 
negoziazione 
assistita 
e 
conciliative 
previste 
dalla 
legge 
nelle 
rispettive 
materie 
precisandosi 
che 
in tale 
fase 
l’Avvocatura 
eserciterà 
attività 
prevalentemente 
consultiva 
in merito alla 
possibilità 
di 
conciliazione 
della 
lite 
in 
tali ambiti. 
12) L'Avvocatura 
e 
la 
Fondazione 
si 
impegnano a 
segnalare 
reciprocamente 
tutte 
le 
difficoltà 
operative eventualmente insorte nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo. 
Allo scopo di 
provvedere 
-nello spirito della 
migliore 
collaborazione 
-al 
superamento delle 
stesse, saranno anche 
concordate 
riunioni 
periodiche 
e, comunque, ogni 
qual 
volta 
se 
ne 
presenti 
la 
necessità, 
al 
fine 
di 
affrontare 
per 
le 
vie 
brevi 
le 
problematiche 
connesse 
e 
conseguenti 
alla 
corretta 
gestione 
dell'attività 
amministrativa 
della 
Fondazione 
e 
del 
contenzioso in atto o 
in formazione. 
13) Il 
presente 
protocollo ha 
durata 
illimitata 
e 
potrà 
essere 
in ogni 
momento modificato e 
integrato 
d'intesa 
fra 
le 
parti; 
potrà 
essere 
risolto da 
entrambe 
le 
parti, con le 
conseguenze 
di 
legge, con preavviso formale di tre mesi o per intervenuta diversa disciplina normativa. 
venezia, 29 settembre 2022 


Avvocatura dello Stato 
L'Avvocato Distrettuale dello Stato 
Avv. Stefano maria Cerillo 


Fondazione 
Arena di 
verona 
per il Sovrintendente 
Luca migliore 



temI 
IStItUzIonALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


circoLArE 
n. 63/2022 


oggetto: 
nuova 
denominazione 
delle 
commissioni 
Tributarie 
in 
"corti 
di 
giustizia 
tributaria", 
disposta 
dall'art. 
4 
della 
legge 
31 
agosto 
2022, 
n. 
130, recante "Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario". 


Sulla 
G.U. del 
1° 
settembre 
2022, n. 204, è 
stata 
pubblicata 
la 
legge 
31 
agosto 
2022, 
n. 
130, 
recante 
"Disposizioni 
in 
materia 
di 
giustizia 
e 
di 
processo 
tributario", entrata in vigore il 16 settembre 2022. 


L'art. 4 della 
legge 
("Disposizioni 
in materia di 
processo tributario") ha 
introdotto una 
serie 
di 
modifiche 
al 
D.Lgs. 31 dicembre 
1992 n. 546. In particolare 
il 
comma 
1 dell'art. 4 ha 
disposto che 
"Al 
decreto legislativo 31 dicembre 
1992, n. 546, sono apportate le seguenti modificazioni: 


a) 
le 
parole: «commissione 
tributaria provinciale», «commissioni 
tributarie 
provinciali», «commissione 
tributaria regionale», «commissioni 
tributarie 
regionali», 
«commissione 
tributaria» 
e 
«commissioni 
tributarie», 
ovunque 
ricorrono, sono sostituite 
rispettivamente 
dalle 
seguenti: 
«corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
primo 
grado», 
«corti 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
primo 
grado», «corte 
di 
giustizia tributaria di 
secondo grado», «corti 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
secondo 
grado», 
«corte 
di 
giustizia 
tributaria 
di 
primo 
e 
secondo 
grado» e «corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado»; [..]". 


ne 
consegue 
che, 
a 
partire 
dal 
16 
settembre 
2022 
(data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della legge n. 130/2022): 


1) 
tutti 
i 
giudizi 
proposti 
e 
tutti 
gli 
atti 
da 
depositare 
davanti 
alle 
(ex) 
Commissioni 
tributarie, dovranno essere 
diretti 
alla 
competente 
"corte 
di 
giustizia 
tributaria" (di primo o secondo grado); 
2) 
conseguentemente 
anche 
le 
istanze 
ex art. 369 c.p.c. da 
allegare 
ai 
ricorsi 
per cassazione 
dovranno essere 
dirette 
sempre 
alle 
nuove 
"corti 
di 
giustizia 
tributaria"; 
3) 
nei 
ricorsi 
per 
cassazione 
dovrà 
invece 
essere 
indicata 
la 
denominazione 
del giudice come risultante dalla sentenza da impugnare. 
Per 
effetto 
della 
riforma 
è 
venuta 
meno 
la 
diversità 
di 
denominazione 
delle 
commissioni 
tributarie 
di 
trento e 
Bolzano (già 
Commissioni 
tributarie 
di 
primo e 
secondo grado), ora 
denominate 
-al 
pari 
delle 
altre 
-Corti 
di 
giustizia 
tributaria di primo e secondo grado. 


La 
geografia 
delle 
nuove 
corti 
di 
giustizia 
tributarie 
è 
consultabile 
sul 
sito 
del ministero dell'economia e delle Finanze al seguente indirizzo: 


https://www.giustiziatributaria.gov.it/gt/it/web/guest/motore-diricerca-
per-le-sedi-delle-cc.tt. 


L'AvvoCAto GenerALe 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 



ConTEnziosoComUniTarioEdinTErnazionalE
Tutela dei consumatori e giudicato implicito: è incompatibile 
con il diritto U.E. una normativa nazionale che preclude 
al giudice dell’esecuzione un sindacato sulla vessatorietà 
delle clausole di un contratto in relazione al quale è stato 
emesso un decreto ingiuntivo passato in giudicato 

Nota 
a 
Corte 
di 
giustizia 
dell’uNioNe 
europea, graNde 
sezioNe, 
seNteNza 
17 maggio 
2022, C-693/19 e 
C-831/19 


Emanuela Rosanò* 


Con 
la 
recente 
sentenza 
del 
17 
maggio 
2022 
(cause 
riunite 
C-693/19 
e 
C831/
19) 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea, 
Grande 
Sezione, 
si 
è 
pronunciata 
sulla 
compatibilità 
con 
il 
diritto 
euro-unitario 
della 
normativa 
italiana, 
come 
applicata 
da 
consolidata 
giurisprudenza 
-anche 
di 
legittimità 
-, 
che 
preclude 
al 
giudice 
dell'esecuzione 
di 
effettuare 
un 
sindacato 
sulla 
vessatorietà 
delle 
clausole 
di 
un 
contratto 
in 
relazione 
al 
quale 
è 
stato 
emesso 
un 
decreto 
ingiuntivo 
non 
opposto 
e 
che 
preclude 
allo 
stesso 
giudice, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
consumatore 
manifesti 
la 
volontà 
di 
volersi 
avvalere 
dell'abusività 
della 
clausola 
contenuta 
nel 
contratto 
in 
forza 
del 
quale 
è 
stato 
formato 
il 
titolo 
esecutivo, 
di 
superare 
gli 
effetti 
del 
giudicato 
implicito. 
Le 
questioni 
pregiudiziali 
sono 
state 
rimesse 
dal 
Tribunale 
di 
Milano, 
con 
due 
distinte 
ordinanze, 
nell’ambito 
di 
controversie 
relative 
a 
procedimenti 
di 
esecuzione 
azionati 
in 
forza 
di 
titoli 
esecutivi 
(decreti 
ingiuntivi) 
che 
avevano 
acquistato 
autorità 
di 
cosa 
giudicata, 
in 
mancanza 
di 
tempestiva 
opposizione 
da 
parte 
del 
debitore 
esecutato. 


l’oggetto dei 
procedimenti 
principali, i 
fatti 
rilevanti 
e 
i 
quesiti 
pregiudiziali. 


Nella 
causa 
C-693/19 il 
rinvio pregiudiziale 
è 
stato sollevato nell’ambito 


(*) Avvocato e 
specialista 
giuridico legale 
finanziario presso la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, 
già praticante presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


di 
un 
procedimento 
di 
esecuzione 
forzata 
diretto 
ad 
ottenere 
il 
recupero 
dei 
crediti 
risultanti 
da 
alcuni 
contratti 
di 
finanziamento. 
Tale 
procedimento 
è 
stato 
azionato sulla 
base 
di 
un decreto ingiuntivo divenuto esecutivo, non avendo il 
debitore 
proposto 
opposizione 
avverso 
il 
medesimo. 
Il 
giudice 
dell’esecuzione, 
in sede 
di 
assegnazione 
delle 
somme 
oggetto di 
espropriazione, ritenuto che 
la 
clausola 
relativa 
alla 
quantificazione 
del 
tasso 
di 
interesse 
moratorio 
potesse 
presentare 
carattere 
abusivo, ha 
disposto la 
produzione, da 
parte 
della 
creditrice 
procedente, dei 
contratti 
sulla 
base 
dei 
quali 
era 
stato emesso il 
decreto 
ingiuntivo 
non 
opposto 
e 
ha 
invitato 
il 
debitore 
a 
comparire 
alla 
successiva 
udienza 
e 
a 
manifestare 
la 
propria 
volontà 
di 
avvalersi 
del 
carattere 
abusivo 
di tale clausola. 


Anche 
nella 
causa 
C-831/19 
l’azione 
esecutiva 
è 
stata 
promossa 
in 
forza 
di 
un 
decreto 
ingiuntivo 
non 
opposto 
e, 
quindi, 
divenuto 
esecutivo 
emesso 
a 
favore 
del 
creditore 
procedente 
nei 
confronti 
del 
debitore 
principale 
e 
di 
quattro 
fideiussori. 
Il 
giudice 
dell’esecuzione 
-alla 
luce 
di 
un 
mutamento 
di 
giurisprudenza 
intervenuto 
dopo 
l’instaurazione 
della 
procedura 
espropriativa 
(tale 
per 
cui 
il 
fideiussore, 
al 
verificarsi 
di 
certe 
condizioni, 
può 
essere 
qualificato 
come 
consumatore, 
con 
estensione 
quindi 
al 
primo 
di 
tutte 
le 
garanzie 
previste 
per 
quest’ultimo) 
-ha 
rilevato 
la 
possibile 
qualificabilità 
come 
consumatore 
di 
uno 
dei 
fideiussori 
che 
ha, 
per 
l’effetto, 
dichiarato 
di 
volere 
eccepire 
la 
vessatorietà 
di 
alcune 
clausole 
contenute 
nei 
contratti 
di 
fideiussione. 
Occorre 
in 
proposito 
rilevare 
che, 
al 
tempo 
dell’emissione 
del 
decreto 
ingiuntivo, 
non 
era 
prevista 
la 
possibilità 
per 
il 
fideiussore 
di 
eccepire 
la 
vessatorietà 
delle 
clausole 
del 
contratto 
stipulato 
con 
il 
professionista 
in 
quanto, 
per 
giurisprudenza 
costante, 
sia 
europea 
che 
nazionale, 
il 
fideiussore 
non 
era 
qualificabile 
come 
consumatore. 
Essendo 
mutato 
il 
diritto 
vivente 
dopo 
l’instaurazione 
della 
procedura 
di 
espropriazione, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
si 
chiede 
se 
tale 
situazione 
abbia 
compromesso 
il 
principio 
di 
effettività 
e, 
pertanto, 
sia 
superabile 
il 
limite 
del 
giudicato 
ormai 
formatosi 
sul 
decreto 
ingiuntivo 
per 
mancata 
opposizione. 
Il 
giudice 
a 
quo 
si 
chiede 
inoltre 
se 
le 
regole 
nazionali 
sul 
giudicato 
implicito 
siano 
compatibili 
con 
il 
diritto 
dell’Unione 
allorchè 
la 
decisione 
passata 
in 
giudicato 
(implicito) 
sia 
manifestamente 
in 
contrasto 
con 
il 
diritto 
ad 
un 
rimedio 
effettivo. 


Di seguito, le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di Giustizia: 


Causa C-693/19:“se 
ed a quali 
condizioni 
gli 
artt. 6 e 
7 della direttiva 
93/13/Cee 
e 
l’art. 
47 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea 
ostino ad un ordinamento nazionale, come 
quello delineato, che 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
effettuare 
un sindacato intrinseco di 
un titolo esecutivo 
giudiziale 
passato 
in 
giudicato 
e 
che 
preclude 
allo 
stesso 
giudice, 
in 
caso di 
manifestazione 
di 
volontà del 
consumatore 
di 
volersi 
avvalere 
della 
abusività della clausola contenuta nel 
contratto in forza del 
quale 
e 
stato formato 
il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito”. 


Causa 
C-831/19: 
“A) 
se 
ed 
a 
quali 
condizioni 
il 
combinato 
disposto 
degli 



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


artt. 6 e 
7 della direttiva 93/13/Cee 
e 
dell’art. 47 della Carta dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea 
osti 
ad 
un 
ordinamento 
nazionale, 
come 
quello 
delineato, che 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
effettuare 
un sindacato 
intrinseco di 
un titolo esecutivo giudiziale 
passato in giudicato, allorquando 
il 
consumatore, 
avuta 
consapevolezza 
del 
proprio 
status 
(consapevolezza 
precedentemente 
preclusa 
dal 
diritto 
vivente), 
richieda 
di 
effettuare 
un 
simile 
sindacato. 
B) 
se 
ed 
a 
quali 
condizioni 
il 
combinato 
disposto 
degli 
artt. 
6 
e 
7 
della 
direttiva 
93/13/Cee 
e 
dell’art. 
47 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
del-
l’unione 
europea osti 
ad un ordinamento come 
quello nazionale 
che, a fronte 
di 
un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di 
una clausola contrattuale, 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione, chiamato a decidere 
su un’opposizione 
all’esecuzione 
proposta 
dal 
consumatore, 
di 
rilevare 
una 
simile 
vessatorietà e 
se 
una simile 
preclusione 
possa ritenersi 
esistente 
anche 
ove, 
in relazione 
al 
diritto vivente 
vigente 
al 
momento della formazione 
del 
giudicato, 
la valutazione 
della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non 
qualifìcabilità del fideiussore come consumatore”. 


Con 
decisione 
del 
23 
febbraio 
2021, 
le 
cause 
sono 
state 
rinviate 
dinanzi 
alla 
Grande 
Sezione 
e 
riunite 
ai 
fini 
della 
fase 
orale 
del 
procedimento 
e 
della 
sentenza. 


il 
giudicato nell’interpretazione 
della giurisprudenza nazionale 
e 
i 
motivi 
dei 
rinvii pregiudiziali. 

Secondo 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
assolutamente 
maggioritaria 
l’autorità 
del 
giudicato spiega 
i 
suoi 
effetti 
anche 
in riferimento al 
decreto ingiuntivo 
di 
condanna 
al 
pagamento di 
una 
somma 
di 
denaro, il 
quale, ove 
non sia 
proposta 
opposizione, 
acquista 
efficacia 
di 
giudicato 
non 
solo 
in 
ordine 
al 
credito 
azionato, ma 
anche 
in relazione 
al 
titolo posto a 
fondamento dello stesso, 
precludendo in tal 
modo ogni 
ulteriore 
esame 
delle 
ragioni 
addotte 
a 
giustificazione 
della 
relativa 
domanda 
(1). risulta 
quindi 
accolto, con riferimento al 
decreto ingiuntivo non opposto, il 
principio -di 
creazione 
giurisprudenziale 
del 
c.d. “giudicato implicito”, fondato sull’argomento logico per il 
quale 
se 
il 
giudice 
si 
è 
pronunciato su una 
determinata 
questione 
ha, evidentemente, risolto 
in senso non ostativo tutte 
le 
altre 
questioni 
da 
considerare 
preliminari 
rispetto a 
quella 
esplicitamente 
decisa 
(2). Così 
precisata 
la 
portata 
del 
giudicato 
conseguente 
alla 
mancata 
tempestiva 
proposizione 
di 
opposizione 
al 
decreto 
ingiuntivo, 
si 
osserva 
come, 
una 
volta 
conseguito 
il 
titolo 
esecutivo 
giudiziale, il 
creditore, previa 
notifica 
dell’atto di 
precetto può, notificando il 
pignoramento, 
instaurare 
un 
procedimento 
di 
espropriazione 
forzata; 
proce


(1) 
Cass., 
28 
novembre 
2017, 
n. 
28318, 
che 
richiama 
anche 
le 
conformi 
decisioni 
Cass. 
28 
agosto 
2009, n. 18791 e 
Cass. 6 settembre 
2007, n. 18725; 
nello stesso senso, tra 
le 
altre, Cass. 24 settembre 
2018, n. 22465, Cass. 26 giugno 2015, n. 13207. 
(2) Cfr. tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


dimento 
disciplinato 
sulla 
base 
di 
regole 
generali 
(contenute 
nel 
titolo 
II, 
capo 
I del 
libro III del 
codice 
di 
procedura 
civile) e 
di 
regole 
specifiche 
relative 
al 
particolare 
bene 
oggetto del 
pignoramento. Mediante 
l’espropriazione 
presso 
terzi 
(disciplinata 
a 
partire 
dall’art. 
543 
c.p.c.), 
in 
particolare, 
il 
creditore, 
sulla 
base 
di 
un titolo esecutivo, sottopone 
ad espropriazione 
forzata 
(mediante 
notifica 
del 
pignoramento), i 
crediti 
del 
proprio debitore 
nei 
confronti 
di 
terzi. 
Con riferimento ai 
poteri 
esercitabili 
d’ufficio dal 
giudice 
dell’esecuzione 
occorre 
rilevare 
come, secondo quanto costantemente 
affermato dalla 
Suprema 
Corte, 
l’esistenza 
di 
un 
valido 
titolo 
esecutivo 
costituisca 
condizione 
del-
l’azione 
esecutiva 
(3); 
il 
titolo esecutivo deve 
pertanto permanere 
per l’intera 
durata 
dell’espropriazione, destinata 
altrimenti 
a 
divenire 
improcedibile 
(4). 
In 
conseguenza 
del 
principio 
espresso 
dal 
brocardo 
“nulla 
executio 
sine 
titolo” 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
è 
quindi 
titolare 
del 
potere-dovere 
di 
verificare 
l’esistenza 
del 
titolo 
esecutivo 
all’inizio 
e 
per 
l’intera 
durata 
del 
processo 
esecutivo, 
dovendo, ove 
tale 
titolo difetti, arrestare 
il 
processo (5). Il 
potere 
officioso del 
giudice 
dell’esecuzione 
è 
tuttavia 
limitato alla 
sola 
esistenza 
del 
titolo esecutivo 
e 
non può estendersi 
anche 
al 
contenuto intrinseco dello stesso, sì 
da 
invalidarne 
l’efficacia 
in 
base 
ad 
eccezioni 
che 
possano 
e 
debbano 
essere 
dedotte 
nel 
giudizio di 
cognizione 
(in caso di 
decreto ingiuntivo, mediante 
proposizione 
dell’opposizione allo stesso decreto). 


Nelle 
due 
controversie 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
si 
domanda 
se 
l’articolo 
6, 
paragrafo 
1 
(6), 
e 
l’articolo 
7, 
paragrafo 
1 
(7), 
della 
direttiva 
93/13 
debbano 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
ostano 
a 
una 
normativa 
nazionale 
la 
quale 
prevede 
che, qualora 
un decreto ingiuntivo emesso da 
un giudice 
su domanda 
di 
un creditore 
non sia 
stato oggetto di 
opposizione 
proposta 
dal 
debitore, il 
giudice 
dell’esecuzione 
non possa 
-per il 
motivo che 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
di 
tale 
decreto ingiuntivo copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
contratto che 
ne 
è 
alla 
base, escludendo qualsiasi 
esame 
della 
loro validità 


-successivamente 
controllare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo di 
tali 
clausole. In 
altri 
termini, il 
giudice 
del 
rinvio si 
chiede 
se 
il 
diritto ad una 
tutela 
effettiva 
derivante 
dagli 
artt. 
6 
e 
7 
della 
direttiva 
93/13/CEE 
letti 
in 
combinato 
disposto 
(3) Cfr. tra le tante, Cass., S.U., 28 novembre 2012, n. 21110. 
(4) 
Cfr. 
tra 
le 
tante, 
Cass., 
S.U., 
28 
novembre 
2012, 
n. 
21110, 
Cass. 
6 
agosto 
2002, 
n. 
11769, 
Cass. 
24 maggio 2002, n. 7631. 
(5) Cfr. tra 
le 
tante, Cass. 16 aprile 
2013, n. 9161, Cass. 28 luglio 2011, n. 16541, Cass. 6 agosto 
2002, n. 11769. 
(6) Direttiva 
93/13/CEE, art. 6, par. 1 “gli 
stati 
membri 
prevedono che 
le 
clausole 
abusive 
contenute 
in un contratto stipulato fra un consumatore 
ed un professionista non vincolano il 
consumatore, 
alle 
condizioni 
stabilite 
dalle 
loro legislazioni 
nazionali, e 
che 
il 
contratto resti 
vincolante 
per 
le 
parti 
secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive”. 
(7) Direttiva 
93/13/CEE, art. 7, par. 1 “gli 
stati 
membri, nell'interesse 
dei 
consumatori 
e 
dei 
concorrenti 
professionali, provvedono a fornire 
mezzi 
adeguati 
ed efficaci 
per 
far 
cessare 
l'inserzione 
di 
clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”. 

CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


con l’art. 47 (8) della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
consenta 
al 
consumatore 
di 
contestare, mediante 
un’opposizione 
all’esecuzione, 
il 
contenuto intrinseco di 
una 
decisione 
giudiziale 
che, pur non avendo esplicitamente 
statuito sulla 
natura 
vessatoria 
delle 
clausole 
contenute 
in un contratto, 
sia 
ormai 
passata 
in 
giudicato. 
Nella 
causa 
C-831/19 
il 
giudice 
del 
rinvio 
si 
chiede 
altresì 
se, nella 
situazione 
in concreto ricorrente, il 
diritto vigente 
al 
momento della 
formazione 
del 
titolo giudiziale 
(che 
non consentiva 
di 
qualificare 
il 
fideiussore 
come 
consumatore) 
e 
che 
sia 
-nel 
frattempo 
-mutato 
dopo 
l’instaurazione 
della 
procedura 
di 
espropriazione, 
possa 
costituire 
un 
elemento 
idoneo a 
rendere 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’esercizio dei 
diritti 
al 
consumatore 
attribuiti 
dalla 
disciplina 
nazionale 
di 
recepimento della 
direttiva 
93/13/CEE. 


Secondo il 
Tribunale 
di 
Milano l’esercizio di 
poteri 
officiosi 
del 
giudice, 
lungi 
dall’essere 
espressione 
di 
una 
mancata 
imparzialità 
dello stesso, può ritenersi 
indice 
di 
una 
visione 
del 
giudicante 
non limitata 
a 
quella 
di 
arbitro di 
una 
controversia 
tra 
le 
parti, 
ma 
di 
rappresentante 
dell’interesse 
generale 
della 
società. Peraltro, oltre 
che 
in relazione 
all’evocato profilo di 
imparzialità, il 
giudice 
del 
rinvio, pone 
a 
fondamento della 
propria 
domanda 
(anche) il 
sopra 
citato art. 47 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, sul 
presupposto 
che 
a 
tale 
norma 
è 
stato attribuito rilievo nella 
prospettiva 
dell’“efficacia 
dei 
diritti 
che 
i 
soggetti 
dell’ordinamento 
traggono 
dalla 
direttiva 
93/13 contro l’uso di 
clausole 
abusive” 
(9) ed in considerazione 
del 
segnalato 
limite, per il 
giudice 
dell’esecuzione, di 
compiere 
un sindacato intrinseco sul 
titolo giudiziale. 


la giurisprudenza della Corte 
di 
giustizia sui 
doveri 
del 
giudice 
in materia 
di tutela del consumatore e sulla superabilità del giudicato. 


Sin 
dalla 
sentenza 
27 
giugno 
2000, 
cause 
riunite 
da 
C-240/98 
a 
C-244/98, 
oceano grupo editorial 
e 
salvat 
editores, la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
affermato 
che 
“il 
sistema di 
tutela istituito dalla direttiva è 
fondato sull’idea che 
il 
consumatore 
si 
trovi 
in una situazione 
di 
inferiorità rispetto al 
professionista per 
quanto riguarda sia il 
potere 
nelle 
trattative 
sia il 
grado di 
informazione, situazione 
che 
lo induce 
ad aderire 
alle 
condizioni 
predisposte 
dal 
professioni


(8) Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
Europea, art. 47 (“diritto a un ricorso effettivo e 
a 
un 
giudice 
imparziale”) 
“ogni 
individuo 
i 
cui 
diritti 
e 
le 
cui 
libertà 
garantiti 
dal 
diritto 
dell’unione 
siano stati 
violati 
ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi 
a un giudice, nel 
rispetto delle 
condizioni 
previste 
nel 
presente 
articolo. ogni 
individuo ha diritto a che 
la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente 
ed entro un termine 
ragionevole 
da un giudice 
indipendente 
e 
imparziale, precostituito per 
legge. ogni 
individuo ha la facoltà di 
farsi 
consigliare, difendere 
e 
rappresentare. a 
coloro che 
non dispongono 
di 
mezzi 
sufficienti 
è 
concesso il 
patrocinio a spese 
dello stato qualora ciò sia necessario per 
assicurare un accesso effettivo alla giustizia”. 
(9) 
Corte 
di 
giustizia, 
17 
luglio 
2014, 
C-169/14, 
Juan 
Carlos 
sanchez 
mordilo, 
maria 
del 
Carmen 
abril garcla, p. 35 e giurisprudenza ivi citata. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


sta, 
senza 
poter 
incidere 
sul 
contenuto 
delle 
stesse” 
(10) 
e 
che 
"l’obiettivo 
perseguito 
dall’art. 
6 
della 
direttiva, 
che 
obbliga 
gli 
stati 
membri 
a 
prevedere 
che 
le 
clausole 
abusive 
non 
vincolino 
i 
consumatori, 
non 
potrebbe 
essere 
conseguito 
se 
questi 
ultimi 
fossero 
tenuti 
a 
eccepire 
essi 
stessi 
l’illiceità 
di 
tali 
clausole. in controversie 
di 
valore 
spesso limitato, gli 
onorari 
dei 
legali 
possono 
essere 
superiori 
agli 
interessi 
in gioco, il 
che 
può dissuadere 
il 
consumatore 
dall'opporsi 
all’applicazione 
di 
una 
clausola 
abusiva. 
sebbene 
in 
controversie 
del 
genere 
le 
norme 
processuali 
di 
molti 
stati 
membri 
consentano 
ai 
singoli 
di 
difendersi 
da soli, esiste 
un rischio non trascurabile 
che, soprattutto 
per 
ignoranza, 
il 
consumatore 
non 
faccia 
valere 
l’illiceità 
della 
clausola 
oppostagli. Ne 
discende 
che 
una tutela effettiva del 
consumatore 
può essere 
ottenuta solo se 
il 
giudice 
nazionale 
ha facoltà di 
valutare 
d’ufficio tale 
clausola”. 
Quella 
che, nella 
citata 
sentenza 
del 
2000, era, per il 
giudice, una 
mera 
facoltà 
è 
divenuta, con la 
sentenza 
della 
Corte 
del 
4 giugno 2009, C-243/08, 
pannon gsm zrt, un vero e 
proprio dovere 
di 
esame 
officioso della 
abusività 
della 
clausola 
a 
partire 
dal 
momento 
in 
cui 
il 
giudice 
disponga 
“degli 
elementi 
di 
diritto e 
di 
fatto necessari 
a tal 
fine” 
(e 
ferma 
la 
necessità 
di 
acquisire 
la 
manifestazione 
di 
volontà 
del 
consumatore 
di 
avvalersi 
della 
natura 
abusiva 
e 
non 
vincolante 
della 
clausola). 
La 
rilevanza 
dell’interesse 
alla 
base 
della 
tutela 
assicurata 
dalla 
direttiva 
93/13/CEE 
al 
consumatore 
è 
stata 
del 
resto ulteriormente 
e 
ripetutamente 
confermata 
anche 
da 
quelle 
decisioni 
con 
le 
quali 
la 
Corte, 
ha 
assimilato 
l’art. 
6 
della 
direttiva 
93/13/CEE 
alle 
norme 
nazionali 
d’ordine pubblico (11). 


La 
consapevolezza 
dello stretto rapporto esistente 
tra 
effettività 
delle 
disposizioni 
a 
tutela 
del 
consumatore 
ed 
idoneità 
delle 
procedure 
atte 
a 
prevenire 


-dissuadendole 
-eventuali 
violazioni 
ha 
comportato un progressivo ampliamento 
dell’attivismo 
giudiziale 
dalla 
Corte, 
delineato 
nella 
consapevolezza 
che 
la 
disuguaglianza 
esistente 
tra 
consumatore 
e 
professionista 
può 
essere 
riequilibrata 
solo grazie 
a 
un intervento positivo da 
parte 
di 
soggetti 
estranei 
al 
rapporto contrattuale. In questo senso si 
collocano quelle 
decisioni 
che, in 
applicazione 
ora 
del 
principio dell’equivalenza, ora 
del 
principio di 
effettività 
della 
tutela, 
hanno 
attribuito 
al 
giudice 
nazionale 
poteri 
istruttori 
officiosi 
(12) 
e 
quelle 
decisioni 
che, 
a 
determinate 
condizioni, 
hanno 
previsto 
la 
superabilità 
del giudicato. 
(10) In termini, tra 
le 
tante, Corte 
di 
giustizia, 14 giugno 2012, C-618/10, Banco espahol 
de 
Credito 
sa, Corte 
di 
giustizia, 6 ottobre 
2009, C-40/08, asturcom, Corte 
di 
giustizia, 26 ottobre 
2006, C168/
05, mostaza Claro. 
(11) 
Tra 
le 
tante, 
Corte 
di 
giustizia, 
21 
dicembre 
2016, 
cause 
riunite 
C-154/15, 
C-307/15 
e 
C308/
15, 
Francisco 
gutierrez 
Naranjo, 
Corte 
di 
giustizia, 
30 
maggio 
2013, 
C-488/11, 
dirk 
Frederik 
asbeek Brusse, Katarina de man garabito, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, asturcom. 
(12) Corte 
di 
giustizia, 4 giugno 2015, C-497/13, Froukje 
Faber; 
Corte 
di 
giustizia, 9 novembre 
2010, C-137/08, VB penziigyi lizing. 

CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


In 
particolare, 
con 
la 
sentenza 
26 
gennaio 
2017, 
C-421/14, 
Banco 
primus 
sa, 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
affermato 
che 
“in 
presenza 
di 
una 
o 
di 
più 
clausole 
contrattuali 
la 
cui 
eventuale 
abusività 
non 
sia 
stata 
ancora 
esaminata 
nel-
l’ambito di 
un precedente 
controllo giurisdizionale 
del 
contratto controverso 
terminato con una decisione 
munita di 
autorità di 
cosa giudicata, la direttiva 
93/13 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso 
che 
il 
giudice 
nazionale, 
regolarmente 
adito dal 
consumatore 
mediante 
un’opposizione 
incidentale, è 
tenuto a valutare, 
su 
istanza 
delle 
parti 
o 
d’ufficio 
qualora 
disponga 
degli 
elementi 
di 
diritto 
e 
di 
fatto necessari 
a tal 
fine, l’eventuale 
abusività di 
tali 
clausole”. Ove 
risultasse 
precluso 
un 
simile 
controllo, 
infatti, 
la 
tutela 
del 
consumatore 
sarebbe 
“incompleta 
ed 
insufficiente 
e 
costituirebbe 
un 
mezzo 
inadeguato 
ed 
inefficace 
per 
far 
cessare 
l’utilizzo di 
questo tipo di 
clausole, contrariamente 
a quanto 
disposto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13” (punto 52). 


la sentenza della Corte di giustizia dell’unione europea. 


La 
Corte 
di 
Giustizia 
(Grande 
Sezione), pronunciandosi 
sulle 
questioni 
ad essa rimesse dal 
Tribunale di Milano ha così statuito: 


“L’articolo 
6, 
paragrafo 
1, 
e 
l’articolo 
7, 
paragrafo 
1, 
della 
direttiva 
93/13/CEE 
del 
Consiglio, 
del 
5 
aprile 
1993, 
concernente 
le 
clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 
con 
i 
consumatori, 
devono 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
ostano 
a 
una 
normativa 
nazionale 
la 
quale 
prevede 
che, 
qualora 
un 
decreto 
ingiuntivo 
emesso 
da 
un 
giudice 
su 
domanda 
di 
un 
creditore 
non 
sia 
stato 
oggetto 
di 
opposizione 
proposta 
dal 
debitore, 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
possa 
-per 
il 
motivo 
che 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
di 
tale 
decreto 
ingiuntivo 
copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
contratto 
che 
ne 
è 
alla 
base, 
escludendo 
qualsiasi 
esame 
della 
loro 
validità 
-successivamente 
controllare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
di 
tali 
clausole. 
La 
circostanza 
che, 
alla 
data 
in 
cui 
il 
decreto 
ingiuntivo 
è 
divenuto 
definitivo, 
il 
debitore 
ignorava 
di 
poter 
essere 
qualificato 
come 
«consumatore» 
ai 
sensi 
di 
tale 
direttiva 
è 
irrilevante 
a 
tale 
riguardo”. 


Osserva, in particolare, la 
Corte 
che 
il 
sistema 
di 
tutela 
istituito con la 
direttiva 
93/13 si 
fonda 
sull’idea 
che 
il 
consumatore 
si 
trovi 
in una 
posizione 
di 
inferiorità 
nei 
confronti 
del 
professionista 
per 
quanto 
riguarda 
sia 
il 
potere 
negoziale 
sia 
il 
livello di 
informazione. A 
tale 
riguardo, la 
CGUE 
ha 
già 
-con 
giurisprudenza 
consolidata 
-dichiarato 
che 
il 
giudice 
nazionale 
è 
tenuto 
a 
esaminare 
d’ufficio 
il 
carattere 
abusivo 
di 
una 
clausola 
contrattuale 
che 
ricade 
nell’ambito di 
applicazione 
della 
direttiva 
93/13 e, in tal 
modo, a 
ovviare 
allo 
squilibrio che 
esiste 
tra 
il 
consumatore 
e 
il 
professionista, laddove 
disponga 
degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine (13). 


(13) Cfr. Corte 
di 
Giustizia, 14 marzo 2013, aziz, C-415/11, punto 46 e 
giurisprudenza 
ivi 
citata; 
Corte 
di 
Giustizia, 21 dicembre 
2016, gutiérrez 
Naranjo e 
a., C-154/15, C-307/15 e 
C-308/15, punto 
58, e Corte di Giustizia, 26 gennaio 2017, Banco primus, C-421/14, punto 43. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


Prosegue 
la 
sentenza, 
rilevando 
come 
il 
diritto 
dell’Unione 
non 
armonizzi 
le 
procedure 
applicabili 
all’esame 
del 
carattere 
asseritamente 
abusivo di 
una 
clausola 
contrattuale 
che, 
quindi, 
rientrano 
nell’ordinamento 
giuridico 
interno 
degli 
Stati 
membri 
in forza 
del 
principio dell’autonomia 
processuale 
di 
questi 
ultimi, 
a 
condizione, 
tuttavia, 
che 
esse 
non 
siano 
meno 
favorevoli 
di 
quelle 
che 
disciplinano situazioni 
analoghe 
assoggettate 
al 
diritto interno (principio 
di 
equivalenza) 
e 
che 
non 
rendano 
in 
pratica 
impossibile 
o 
eccessivamente 
difficile 
l’esercizio dei 
diritti 
conferiti 
dal 
diritto dell’Unione 
(principio di 
effettività) 
(14). 


In particolare, ad avviso della 
Corte 
“in assenza di 
un controllo efficace 
del 
carattere 
potenzialmente 
abusivo delle 
clausole 
del 
contratto di 
cui 
trattasi, 
il 
rispetto dei 
diritti 
conferiti 
dalla direttiva 93/13 non può essere 
garantito 
(15)” (punto 62). 


Orbene, in relazione 
alle 
questioni 
sottoposte 
al 
suo esame, la 
Corte 
premette 
che 
la 
normativa 
nazionale 
prevede 
che, nell’ambito del 
procedimento 
di 
esecuzione 
dei 
decreti 
ingiuntivi 
non 
opposti, 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
può 
esercitare 
un 
controllo 
nel 
merito 
del 
decreto 
ingiuntivo 
né 
controllare, 
d’ufficio 
o 
su 
domanda 
del 
consumatore, 
il 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
del 
contratto alla 
base 
di 
tale 
decreto ingiuntivo, per via 
dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
implicita 
acquisita 
da 
quest’ultimo. 
Ad 
avviso 
della 
Corte 
“una 
normativa 
nazionale 
secondo la quale 
un esame 
d’ufficio del 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
contrattuali 
si 
considera 
avvenuto 
e 
coperto 
dall’autorità 
di 
cosa giudicata anche 
in assenza di 
qualsiasi 
motivazione 
in tal 
senso contenuta 
in un atto quale 
un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e 
dell’importanza 
dell’interesse 
pubblico 
sotteso 
alla 
tutela 
che 
la 
direttiva 
93/13 conferisce 
ai 
consumatori, privare 
del 
suo contenuto l’obbligo incombente 
al 
giudice 
nazionale 
di 
procedere 
a un esame 
d’ufficio dell’eventuale 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
contrattuali”. 
Ne 
consegue, 
aggiunge 
la 
Corte 
che 
“in un caso del 
genere, l’esigenza di 
una tutela giurisdizionale 
effettiva 
impone 
che 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
possa 
valutare, 
anche 
per 
la 
prima 
volta, 
l’eventuale 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
del 
contratto alla base 
di 
un decreto 
ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il 
quale il debitore non ha proposto opposizione” (punti 65 e 66). 


In merito, infine, alla 
questione 
(sollevata 
dal 
Tribunale 
di 
Milano nella 
causa 
C-831/19) 
relativa 
alla 
rilevanza 
-ai 
fini 
del 
potere 
del 
giudice 
di 
rilevare 
d’ufficio 
il 
carattere 
abusivo 
della 
clausola 
contrattuale 
-della 
circostanza 
che, 
alla 
data 
in cui 
il 
decreto ingiuntivo è 
divenuto definitivo, il 
debitore 
ignorava 


(14) 
v., 
in 
particolare, 
sentenza 
del 
26 
giugno 
2019, 
addiko 
Bank, 
C-407/18, 
EU:C:2019:537, 
punti 45 e 46. 
(15) Corte 
di 
Giustizia, 4 giugno 2020, Kancelaria medius, C-495/19, punto 35 e 
giurisprudenza 
ivi citata. 

CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


di 
poter essere 
qualificato come 
consumatore, la 
Corte 
conclude 
affermando 
che 
“ 
(…) 
il 
fatto 
che 
il 
debitore 
ignorava, 
al 
momento 
in 
cui 
questa 
precedente 
decisione 
giurisdizionale 
è 
divenuta definitiva, il 
proprio status 
di 
consumatore, 
ai 
sensi 
della direttiva 93/13, è 
irrilevante, poiché, il 
giudice 
nazionale 
è 
tenuto a valutare 
d’ufficio il 
carattere 
abusivo di 
una clausola contrattuale 
rientrante nell’ambito di applicazione di tale direttiva” (punto 67). 


Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea, 
Grande 
sezione, 
sentenza 
17 
maggio 
2022, 
cause 
riunite 
C-693/19 e 
C-831/19 -pres. K. Lenaerts, rel. S. rodin -SPv 
Project 
1503 Srl 
e 
Dobank 
SpA 
c. 
YB 
(C-693/19) 
e 
Banco 
di 
Desio 
e 
della 
Brianza 
SpA 
ed 
a. 
c. 
YX 
e 
zW 
(C831/
19) 
-Domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposte 
dal 
Tribunale 
di 
Milano, 
con 
ordinanze 
del 
10 agosto 2019 e 
del 
31 ottobre 
2019, pervenute 
in cancelleria 
rispettivamente 
il 13 settembre 2019 e il 14 novembre 2019. 


«rinvio pregiudiziale 
-Direttiva 
93/13/CEE 
-Clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 
con i 
consumatori 
-Principio di 
equivalenza 
-Principio di 
effettività 
-Procedimenti 
d’ingiunzione 
di 
pagamento e 
di 
espropriazione 
presso terzi 
-Autorità 
di 
cosa 
giudicata 
che 
copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
titolo esecutivo -Potere 
del 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
esaminare d’ufficio l’eventuale carattere abusivo di una clausola» 


1 Le 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
vertono sull’interpretazione 
degli 
articoli 
6 e 
7 
della 
direttiva 
93/13/CEE 
del 
Consiglio, 
del 
5 
aprile 
1993, 
concernente 
le 
clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 
con i 
consumatori 
(GU 
1993, L 
95, pag. 29), e 
dell’articolo 47 della 
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 


2 Tali 
domande 
sono 
state 
presentate 
nell’ambito 
di 
controversie 
che 
vedono 
contrapposti, 
da 
un 
lato, 
la 
SPv 
Project 
1503 
Srl 
(in 
prosieguo: 
la 
«SPv») 
e 
la 
Dobank 
SpA, 
in 
quanto 
mandataria 
dell’Unicredit 
SpA, 
a 
YB 
e, 
dall’altro, 
Banco 
di 
Desio 
e 
della 
Brianza 
SpA 
(in 
prosieguo: 
«BDB») 
e 
altri 
istituti 
di 
credito 
a 
YX 
e 
zW, 
in 
merito 
a 
procedimenti 
di 
esecuzione 
forzata 
basati 
su 
titoli 
esecutivi 
che 
hanno 
acquisito 
autorità 
di 
cosa 
giudicata. 


Contesto normativo 


Diritto dell’Unione 


3 
Il 
ventiquattresimo 
considerando 
della 
direttiva 
93/13 
stabilisce 
che 
«le 
autorità 
giudiziarie 
e 
gli 
organi 
amministrativi 
degli 
Stati 
membri 
devono disporre 
dei 
mezzi 
adeguati 
ed efficaci 
per far cessare 
l’inserzione 
delle 
clausole 
abusive 
contenute 
nei 
contratti 
stipulati 
con i consumatori». 


4 L’articolo 2, lettera b), di tale direttiva così dispone: 
«Ai fini della presente direttiva si intende per: 
(…) 
“consumatore”: 
qualsiasi 
persona 
fisica 
che, 
nei 
contratti 
oggetto 
della 
presente 
direttiva, 
agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale; 
(…)». 


5 L’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva prevede quanto segue: 
«Gli 
Stati 
membri 
prevedono che 
le 
clausole 
abusive 
contenute 
in un contratto stipulato 
fra 
un consumatore 
ed un professionista 
non vincolano il 
consumatore, alle 
condizioni 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


stabilite 
dalle 
loro legislazioni 
nazionali, e 
che 
il 
contratto resti 
vincolante 
per le 
parti 
secondo 
i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». 


6 Ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della medesima direttiva: 
«Gli 
Stati 
membri, nell’interesse 
dei 
consumatori 
e 
dei 
concorrenti 
professionali, provvedono 
a 
fornire 
mezzi 
adeguati 
ed 
efficaci 
per 
far 
cessare 
l’inserzione 
di 
clausole 
abusive 
nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori». 


Diritto italiano 


7 
Il 
decreto 
legislativo 
del 
6 
settembre 
2005, 
n. 
206 
-Codice 
del 
consumo, 
a 
norma 
dell’articolo 
7 
della 
legge 
29 
luglio 
2003, 
n. 
229 
(supplemento 
ordinario 
alla 
GUrI 
n. 
235 
dell’8 
ottobre 
2005), 
che 
ha 
recepito 
la 
direttiva 
93/13, 
all’articolo 
33, 
paragrafi 
1 
e 
2, 
così 
dispone: 


«1. 
Nel 
contratto 
concluso 
tra 
il 
consumatore 
ed 
il 
professionista 
si 
considerano 
vessatorie 
le 
clausole 
che, malgrado la 
buona 
fede, determinano a 
carico del 
consumatore 
un significativo 
squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. 
2. 
Si 
presumono 
vessatorie 
fino 
a 
prova 
contraria 
le 
clausole 
che 
hanno 
per 
oggetto, 
o 
per effetto, di: 
(...) 
f) imporre 
al 
consumatore, in caso di 
inadempimento o di 
ritardo nell’adempimento, il 
pagamento di 
una 
somma 
di 
denaro a 
titolo di 
risarcimento, clausola 
penale 
o altro titolo 
equivalente d’importo manifestamente eccessivo; 
(…)». 
8 L’articolo 36, paragrafi 1 e 3, di tale decreto legislativo prevede quanto segue: 


«1. Le 
clausole 
considerate 
vessatorie 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
33 e 
34 sono nulle 
mentre 
il 
contratto rimane valido per il resto. 
(...) 
3. La 
nullità 
opera 
soltanto a 
vantaggio del 
consumatore 
e 
può essere 
rilevata 
d’ufficio 
dal giudice». 
9 Il 
codice 
di 
procedura 
civile, nella 
versione 
applicabile 
alle 
controversie 
principali, all’articolo 
633, relativo alle condizioni di ammissibilità, così recita: 
«Su 
domanda 
di 
chi 
è 
creditore 
di 
una 
somma 
liquida 
di 
danaro 
o 
di 
una 
determinata 
quantità 
di 
cose 
fungibili, 
o 
di 
chi 
ha 
diritto 
alla 
consegna 
di 
una 
cosa 
mobile 
determinata, 
il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 


1) se del diritto fatto valere si dà prova scritta; 
(...)». 
10 L’articolo 640 di tale codice stabilisce quanto segue: 
«Il 
giudice, 
se 
ritiene 
insufficientemente 
giustificata 
la 
domanda, 
dispone 
che 
il 
cancelliere 
ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere alla prova. 
Se 
il 
ricorrente 
non risponde 
all’invito o non ritira 
il 
ricorso oppure 
se 
la 
domanda 
non è 
accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato. 
Tale decreto non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in via ordinaria». 


11 
L’articolo 
641 
di 
detto 
codice 
prevede 
che, 
in 
caso 
di 
accoglimento 
della 
domanda, 
il 
giudice 
ingiunga 
all’altra 
parte 
di 
pagare 
la 
somma 
di 
denaro e 
lo informi 
della 
possibilità 
di 
presentare opposizione entro il termine di 40 giorni. 


12 L’articolo 647 del 
codice 
di 
procedura 
civile, nella 
versione 
applicabile 
alle 
controversie 
principali, 
intitolato 
«Esecutorietà 
per 
mancata 
opposizione 
o 
per 
mancata 
attività 
del-
l’opponente», così recita: 
«Se 
non è 
stata 
fatta 
opposizione 
nel 
termine 
stabilito, oppure 
l’opponente 
non si 
è 
costi



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


tuito, il 
giudice 
che 
ha 
pronunciato il 
decreto, su istanza 
anche 
verbale 
del 
ricorrente, lo 
dichiara esecutivo. (...) 
Quando 
il 
decreto 
è 
stato 
dichiarato 
esecutivo 
a 
norma 
del 
presente 
articolo, 
l’opposizione 
non 
può 
essere 
più 
proposta 
né 
proseguita, 
salvo 
il 
disposto 
dell’articolo 
650, 
e 
la 
cauzione 
eventualmente prestata è liberata». 


13 Ai sensi dell’articolo 650 di tale codice, relativo all’opposizione tardiva: 
«L’intimato può fare 
opposizione 
anche 
dopo scaduto il 
termine 
fissato nel 
decreto, se 
prova 
di 
non averne 
avuta 
tempestiva 
conoscenza 
per irregolarità 
della 
notificazione 
o 
per caso fortuito o forza maggiore. 
(...) 
L’opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione». 


14 L’articolo 2909 del codice civile, relativo alla cosa giudicata, così dispone: 
«L’accertamento contenuto nella 
sentenza 
passata 
in giudicato fa 
stato a 
ogni 
effetto tra 
le parti, i loro eredi o aventi causa». 


15 Il 
giudice 
del 
rinvio riferisce 
che, secondo la 
giurisprudenza 
maggioritaria 
della 
Corte 
suprema 
di 
cassazione 
(Italia), 
il 
decreto 
ingiuntivo 
di 
condanna 
al 
pagamento 
di 
una 
somma 
di 
denaro che 
non sia 
stato oggetto di 
opposizione 
acquista 
autorità 
di 
cosa 
giudicata 
non solo in ordine 
al 
credito azionato, ma 
anche 
in relazione 
al 
titolo posto a 
fondamento 
dello stesso, precludendo in tal 
modo ogni 
ulteriore 
esame 
delle 
ragioni 
addotte 
a 
giustificazione 
della 
relativa 
domanda. Tale 
giurisprudenza 
ha 
portato ad applicare 
al 
decreto ingiuntivo non opposto il 
principio del 
«giudicato implicito», secondo il 
quale 
si 
ritiene 
che 
il 
giudice 
che 
si 
è 
pronunciato su una 
determinata 
questione 
abbia 
necessariamente 
risolto tutte le altre questioni preliminari. 
Procedimenti principali e questioni pregiudiziali 
Causa C‑693/19 


16 La 
SPv 
e 
altri 
creditori 
hanno instaurato dinanzi 
al 
giudice 
del 
rinvio un procedimento 
di 
esecuzione 
forzata 
finalizzato a 
ottenere 
il 
recupero dei 
crediti 
risultanti 
da 
contratti 
di 
finanziamento stipulati 
con YB. Tale 
procedimento è 
basato su un decreto ingiuntivo divenuto 
definitivo, non avendo YB proposto opposizione avverso il medesimo. 


17 I contratti 
di 
finanziamento in questione 
prevedevano, in caso di 
ritardo del 
debitore 
nel-
l’esecuzione 
dei 
suoi 
obblighi, 
l’applicazione 
di 
una 
clausola 
penale 
e 
di 
un 
interesse 
moratorio. 


18 In udienza, il 
giudice 
dell’esecuzione, ritenendo che 
la 
clausola 
relativa 
al 
calcolo degli 
interessi 
moratori 
potesse 
presentare 
carattere 
abusivo, ha 
ordinato alla 
SPv 
di 
produrre 
i 
contratti 
sulla 
base 
dei 
quali 
era 
stato emesso il 
decreto ingiuntivo e 
ha 
invitato YB a 
comparire 
alla 
successiva 
udienza 
e 
a 
manifestare 
la 
propria 
volontà 
di 
avvalersi 
del 
carattere 
abusivo di tale clausola. 


19 
All’udienza 
successiva, 
YB 
ha 
dichiarato 
di 
volersi 
avvalere 
del 
carattere 
abusivo 
di 
detta 
clausola. Di 
conseguenza, il 
giudice 
dell’esecuzione, basandosi 
sulla 
sentenza 
del 
9 novembre 
2010, vB Pénzügyi 
Lízing (C‑137/08, EU:C:2010:659), ha 
ritenuto di 
essere 
legittimato 
a 
valutare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
della 
clausola 
e 
ha 
fissato 
una 
nuova 
udienza. Con una 
sua 
memoria, la 
SPv 
ha 
sostenuto che 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
del 
decreto 
ingiuntivo 
ostava 
a 
qualsiasi 
esame 
delle 
clausole 
dei 
contratti 
sulla 
base 
dei 
quali 
era stato emesso il medesimo decreto. 


20 Il 
giudice 
del 
rinvio precisa 
che 
un creditore, una 
volta 
conseguito un titolo esecutivo, 
può sottoporre 
a 
un procedimento di 
espropriazione 
i 
crediti 
che 
il 
proprio debitore 
vanta 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


nei 
confronti 
di 
terzi. Esso afferma 
che 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
è 
tenuto ad assicurarsi 
dell’esistenza 
di 
un 
titolo 
esecutivo 
valido 
per 
l’intera 
durata 
del 
procedimento 
esecutivo. 
Il 
potere 
di 
tale 
giudice 
sarebbe 
quindi 
limitato al 
mero controllo dell’esistenza 
del 
titolo 
esecutivo e 
non potrebbe 
estendersi 
al 
controllo del 
«contenuto intrinseco» dello stesso. 
Un simile 
controllo del 
titolo giudiziale 
sarebbe 
precluso anche 
in caso di 
opposizione 
all’esecuzione proposta dal debitore. 


21 
Il 
giudice 
del 
rinvio, 
richiamando 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
relativa 
ai 
doveri 
del 
giudice 
nazionale 
in materia 
di 
tutela 
dei 
consumatori 
e 
quella 
relativa 
alla 
superabilità, in 
determinate 
circostanze, 
del 
giudicato, 
si 
interroga 
sull’eventuale 
carattere 
abusivo, 
nella 
controversia 
dinanzi 
ad 
esso 
pendente, 
della 
clausola 
relativa 
al 
calcolo 
degli 
interessi 
moratori 
e 
della 
clausola 
penale 
contenuta 
nei 
contratti 
di 
cui 
al 
procedimento 
principale. 


22 Esso precisa 
al 
riguardo che 
il 
giudice 
che 
ha 
emesso il 
decreto ingiuntivo in questione 
non si 
è 
pronunciato sull’eventuale 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
succitate 
e 
che, per 
effetto della 
mancata 
opposizione 
da 
parte 
di 
YB, il 
decreto ingiuntivo ha 
acquisito autorità 
di 
cosa 
giudicata. 
Inoltre, 
in 
forza 
del 
principio 
del 
«giudicato 
implicito», 
tutte 
le 
clausole 
contenute 
nei 
contratti 
di 
finanziamento di 
cui 
al 
procedimento principale, comprese 
le 
due 
clausole 
di 
cui 
trattasi, 
sarebbero 
considerate 
come 
già 
esaminate 
da 
tale 
giudice 
e ricomprese in tale forma di giudicato. 


23 
Ne 
conseguirebbe 
che 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
può 
valutare 
il 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
di 
un contratto, non solo per via 
del 
fatto che 
esso non può controllare 
il 
contenuto del 
decreto ingiuntivo emesso sulla 
base 
di 
quest’ultimo, ma 
anche 
perché 
tale 
decreto ingiuntivo, ove 
il 
debitore 
non abbia 
proposto opposizione 
avverso il 
medesimo, 
ha 
acquisito autorità 
di 
cosa 
giudicata. Secondo il 
giudice 
del 
rinvio, l’assenza 
di 
esame 
espresso del 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
nell’ambito di 
un procedimento comporta 
una tutela incompleta e insufficiente del consumatore. 


24 Ciò considerato, il 
Tribunale 
di 
Milano (Italia) ha 
deciso di 
sospendere 
il 
procedimento 
e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: 
«Se 
ed 
a 
quali 
condizioni 
gli 
articoli 
6 
e 
7 
della 
direttiva 
[93/13] 
e 
l’articolo 
47 
della 
[Carta] ostino ad un ordinamento nazionale, come 
quello delineato, che 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
effettuare 
un sindacato intrinseco di 
un titolo esecutivo giudiziale 
passato in giudicato e 
che 
preclude 
allo stesso giudice, in caso di 
manifestazione 
di 
volontà 
del 
consumatore 
di 
volersi 
avvalere 
della 
abusività 
della 
clausola 
contenuta 
nel 
contratto 
in 
forza 
del 
quale 
è 
stato 
formato 
il 
titolo 
esecutivo, 
di 
superare 
gli 
effetti 
del 
giudicato implicito». 
Causa C‑831/19 


25 Nel 
2005, BDB ha 
stipulato con YX 
e 
zW 
contratti 
di 
fideiussione 
al 
fine 
di 
garantire 
i 
debiti di una società. 


26 BDB ha 
instaurato dinanzi 
al 
giudice 
del 
rinvio un procedimento di 
espropriazione 
immobiliare 
sui 
beni 
di 
proprietà 
di 
YX 
e 
zW. 
Tale 
procedimento, 
nel 
quale 
sono 
intervenuti 
altri 
creditori, è 
basato su decreti 
ingiuntivi 
emessi 
nel 
2012 e 
nel 
2013 da 
un giudice 
in 
favore 
di 
BDB e 
di 
tali 
altri 
creditori 
nei 
confronti 
di 
una 
società, la 
debitrice 
principale, 
e 
quattro fideiussori, tra 
cui 
YX 
e 
zW. Tali 
decreti 
ingiuntivi, non essendo stati 
opposti, 
sono passati in giudicato. 


27 
Nel 
corso 
del 
procedimento 
di 
espropriazione 
immobiliare, 
zW 
si 
è 
avvalsa 
del 
proprio 
status 
di 
consumatore 
per 
poter 
invocare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
contenute 
nei 
contratti 
di 
fideiussione 
sulla 
base 
dei 
quali 
sono 
stati 
emessi 
i 
decreti 
ingiuntivi. 



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


28 
BDB 
e 
gli 
altri 
istituti 
di 
credito 
intervenuti 
nel 
procedimento 
di 
espropriazione 
immobiliare 
sostengono 
che 
zW 
non 
può 
avvalersi 
di 
tale 
status, 
in 
considerazione 
della 
sua 
qualità 
di 
socia 
della 
società 
debitrice 
principale 
e 
del 
vincolo 
coniugale 
esistente 
con 
YX, 
legale 
rappresentante 
di 
tale 
società. 
Essi 
sostengono 
inoltre 
che, 
indipendentemente 
dal 
riconoscimento 
di 
detto 
status, 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
può 
esercitare 
un 
sindacato 
su 
un 
titolo 
esecutivo 
formalmente 
corretto 
e 
definitivo, 
quale 
un 
decreto 
ingiuntivo 
non 
opposto. 


29 
Il 
giudice 
del 
rinvio 
ritiene 
che, 
nella 
controversia 
dinanzi 
ad 
esso 
pendente, 
zW 
sia 
qualificabile 
come 
consumatore, per il 
motivo che 
la 
medesima, alla 
data 
in cui 
ha 
stipulato 
i 
contratti 
di 
fideiussione 
di 
cui 
al 
procedimento principale, in primo luogo, non aveva 
acquistato la sua integrale 
partecipazione 
nel capitale sociale della società debitrice, che 
ammonta 
al 
22%, in secondo luogo, non risultava 
provato che 
avesse 
percepito utili 
in 
relazione 
alle 
quote 
detenute 
e, infine, in terzo luogo, era 
appurato che, dal 
1976, era 
titolare 
di 
un rapporto di 
lavoro dipendente 
con un’altra 
società 
e 
che, di 
conseguenza, al 
momento della 
conclusione 
dei 
contratti 
di 
fideiussione, non aveva 
alcun collegamento 
di natura funzionale con la debitrice principale. 


30 Quanto alla 
facoltà 
per un consumatore 
di 
invocare 
il 
carattere 
abusivo di 
clausole 
di 
un 
contratto sulla 
base 
del 
quale 
è 
stato emesso un decreto ingiuntivo, tale 
giudice 
illustra 
le 
regole 
nazionali 
relative 
ai 
procedimenti 
esecutivi 
e 
precisa 
che, 
in 
caso 
di 
espropriazione 
immobiliare, 
il 
creditore, 
sulla 
base 
di 
un 
titolo 
esecutivo, 
sottopone 
a 
espropriazione 
forzata 
il 
diritto reale 
su un bene 
immobile 
appartenente 
al 
suo debitore. Esso riferisce 
che, 
in 
forza 
dei 
poteri 
esercitabili 
dal 
giudice 
dell’esecuzione 
al 
momento 
dell’attuazione 
del 
procedimento 
di 
espropriazione, 
quest’ultimo 
non 
controlla, 
come 
risulta 
dal 
punto 
20 
della presente sentenza, il «contenuto intrinseco» del titolo esecutivo. 


31 Esso precisa 
altresì 
che, nel 
diritto nazionale, la 
proposizione 
di 
un’opposizione 
all’esecuzione 
non 
richiede 
particolari 
forme 
e 
può 
essere 
effettuata 
anche 
oralmente 
all’udienza 
dinanzi 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
oppure 
mediante 
deposito, 
in 
tale 
udienza, 
di 
una 
comparsa 
di risposta. 


32 
Il 
giudice 
del 
rinvio, 
richiamando 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
che 
disciplina 
l’autonomia 
processuale 
degli 
Stati 
membri 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
piena 
effettività 
del 
diritto 
sostanziale 
dell’Unione, quella 
sui 
doveri 
del 
giudice 
nazionale 
in materia 
di 
tutela 
dei 
consumatori 
e 
quella 
relativa 
alla 
superabilità, in determinate 
circostanze, del 
giudicato, si 
interroga 
sull’eventuale 
carattere 
abusivo, nella 
controversia 
dinanzi 
ad esso pendente, delle 
clausole 
contenute 
nei 
contratti 
di 
fideiussione 
di 
cui 
al 
procedimento principale 
stipulati 
tra 
zW 
e 
BDB 
nonché 
tra 
zW 
e 
gli 
altri 
creditori, 
sulla 
base 
dei 
quali 
sono 
stati 
emessi 
decreti 
ingiuntivi. 


33 A 
tale 
riguardo, il 
giudice 
del 
rinvio afferma 
che, secondo i 
creditori, l’impossibilità 
di 
invocare 
in tale 
fase, a 
causa 
della 
mancata 
opposizione 
da 
parte 
di 
zW, il 
carattere 
abusivo 
di 
tali 
clausole 
risulterebbe 
anche 
dalla 
sentenza 
del 
6 ottobre 
2009, Asturcom 
Telecomunicaciones 
(C‑40/08, EU:C:2009:615). 


34 Il 
giudice 
del 
rinvio sottolinea 
tuttavia 
che, a 
differenza 
del 
consumatore 
nella 
causa 
che 
ha 
dato 
origine 
alla 
sentenza 
del 
6 
ottobre 
2009, 
Asturcom 
Telecomunicaciones 
(C‑40/08, 
EU:C:2009:615), 
zW, 
nella 
controversia 
di 
cui 
al 
procedimento 
principale, 
ha 
manifestato 
la 
propria 
volontà 
di 
avvalersi 
del 
carattere 
abusivo 
di 
talune 
clausole 
e 
ha 
così 
posto 
fine 
all’inerzia manifestata fino alla formazione del giudicato implicito sui titoli esecutivi. 


35 Tale 
giudice 
rileva 
altresì 
che, alla 
data 
dell’emissione 
dei 
decreti 
ingiuntivi 
di 
cui 
al 
procedimento 
principale, la 
Corte 
non aveva 
fissato i 
parametri 
alla 
stregua 
dei 
quali 
il 
fide



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


iussore 
garante 
di 
una 
persona 
giuridica 
può essere 
qualificato come 
consumatore, parametri 
che 
sono 
stati 
fissati 
successivamente 
dalle 
ordinanze 
del 
19 
novembre 
2015, 
Tarcău 
(C‑74/15, 
EU:C:2015:772), 
e 
del 
14 
settembre 
2016, 
Dumitraș 
(C‑534/15, 
EU:C:2016:700). Di 
conseguenza, lo stesso giudice 
ritiene 
che 
zW 
non abbia 
potuto decidere 
con piena 
cognizione 
di 
causa 
se 
fosse 
opportuno invocare, nell’ambito di 
un’opposizione 
ai 
decreti 
ingiuntivi, il 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
contenute 
nei 
contratti 
conclusi con professionisti, in quanto ignorava il proprio status di consumatore. 


36 Pertanto, il 
giudice 
del 
rinvio si 
chiede 
se 
l’assenza 
di 
certezza 
quanto alla 
possibilità 
di 
qualificare 
un fideiussore 
come 
consumatore 
alla 
data 
in cui 
sono stati 
emessi 
i 
titoli 
esecutivi 
di 
cui 
trattasi 
possa 
rendere 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’esercizio dei 
diritti 
conferiti 
ai 
consumatori 
dalla 
normativa 
nazionale 
di 
recepimento della 
direttiva 
93/13. 


37 Esso 
precisa 
altresì 
che, 
in 
forza 
dei 
principi 
processuali 
nazionali, 
in 
caso 
di 
mancata 
opposizione 
da 
parte 
del 
consumatore, 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
di 
un 
decreto 
ingiuntivo 
copre 
il 
carattere 
non 
abusivo 
delle 
clausole 
del 
contratto 
di 
fideiussione, 
e 
ciò 
anche 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
esame 
espresso, 
da 
parte 
del 
giudice 
che 
ha 
emesso 
tale 
decreto 
ingiuntivo, 
del 
carattere 
abusivo 
di 
tali 
clausole. 
Ne 
discenderebbe, 
da 
un 
lato, 
l’impossibilità 
di 
far 
valere 
il 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
contrattuali 
nel 
corso 
del 
giudizio 
di 
merito 
e, 
dall’altro, 
l’inammissibilità 
dell’opposizione 
all’esecuzione 
ove 
questa 
sia 
fondata 
su 
motivi 
che 
la 
parte 
avrebbe 
dovuto 
dedurre 
in 
sede 
di 
formazione 
del 
titolo 
esecutivo. 


38 A 
tale 
riguardo, il 
giudice 
del 
rinvio rileva 
che, al 
punto 49 della 
sentenza 
del 
26 gennaio 
2017, Banco Primus 
(C‑421/14, EU:C:2017:60), la 
Corte 
ha 
dichiarato che 
la 
direttiva 
93/13 non osta 
a 
una 
norma 
nazionale 
che 
vieta 
al 
giudice 
nazionale 
di 
riesaminare 
d’ufficio 
il 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
di 
un 
contratto 
concluso 
con 
un 
professionista, 
quando 
è 
già 
stato 
statuito 
sulla 
legittimità 
delle 
clausole 
del 
contratto 
nel 
loro 
complesso 
alla 
luce 
di 
tale 
direttiva 
con una 
decisione 
munita 
di 
autorità 
di 
cosa 
giudicata. Esso aggiunge 
che 
la 
Corte 
ha 
altresì 
ritenuto, 
in 
tale 
sentenza, 
che, 
qualora 
l’eventuale 
abusività 
di 
clausole 
contrattuali 
non sia 
ancora 
stata 
esaminata 
nell’ambito di 
un precedente 
controllo 
giurisdizionale 
del 
contratto controverso conclusosi 
con una 
decisione 
munita 
di 
autorità 
di 
cosa 
giudicata, o qualora 
solo alcune 
di 
esse 
siano state 
oggetto di 
un simile 
controllo, il 
giudice 
nazionale 
sia 
nondimeno tenuto a 
valutare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
delle clausole in questione. 


39 Il 
giudice 
del 
rinvio rileva 
altresì 
che 
la 
Corte, con la 
medesima 
sentenza, ha 
stabilito le 
condizioni 
alle 
quali 
può essere 
opposto il 
giudicato esplicito al 
fine 
di 
vietare 
al 
giudice 
nazionale 
di 
procedere 
al 
controllo del 
carattere 
abusivo di 
clausole 
contrattuali. D’altra 
parte, esso ritiene 
che 
la 
Corte 
non abbia 
ancora 
avuto occasione 
di 
esaminare 
la 
compatibilità 
del 
principio del 
«giudicato implicito» con gli 
articoli 
6 e 
7 della 
direttiva 
93/13 
e con l’articolo 47 della Carta. 


40 Ciò considerato, il 
Tribunale 
di 
Milano ha 
deciso di 
sospendere 
il 
procedimento e 
di 
sottoporre 
alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: 
«1) 
Se 
ed 
a 
quali 
condizioni 
il 
combinato 
disposto 
degli 
articoli 
6 
e 
7 
della 
direttiva 
[93/13] 
e 
dell’articolo 
47 
della 
[Carta] 
osti 
ad 
un 
ordinamento 
nazionale, 
come 
quello 
delineato, 
che 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
effettuare 
un sindacato intrinseco di 
un 
titolo 
esecutivo 
giudiziale 
passato 
in 
giudicato, 
allorquando 
il 
consumatore, 
avuta 
consapevolezza 
del 
proprio status 
(consapevolezza 
precedentemente 
preclusa 
dal 
diritto vivente), 
richieda di effettuare un simile sindacato. 



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


2) Se 
ed a 
quali 
condizioni 
il 
combinato disposto degli 
articoli 
6 e 
7 della 
direttiva 
[93/13] 
e 
dell’articolo 
47 
della 
[Carta] 
osti 
ad 
un 
ordinamento 
come 
quello 
nazionale 
che, 
a 
fronte 
di 
un 
giudicato 
implicito 
sulla 
mancata 
vessatorietà 
di 
una 
clausola 
contrattuale, 
preclude 
al 
giudice 
dell’esecuzione, 
chiamato 
a 
decidere 
su 
un’opposizione 
all’esecuzione 
proposta 
dal 
consumatore, di 
rilevare 
una 
simile 
vessatorietà 
e 
se 
una 
simile 
preclusione 
possa 
ritenersi 
esistente 
anche 
ove, in relazione 
al 
diritto vivente 
vigente 
al 
momento della 
formazione 
del 
giudicato, la 
valutazione 
della 
vessatorietà 
della 
clausola 
era 
preclusa 
dalla 
non qualificabilità del fideiussore come consumatore». 
41 
Con 
decisione 
del 
presidente 
della 
Corte 
del 
23 
febbraio 
2021, 
le 
cause 
C‑693/19 
e 
C‑831/19 sono state riunite ai fini della fase orale e della sentenza. 
sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C-831/19 


42 BDB eccepisce 
l’irricevibilità 
della 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
argomentando 
che 
zW 
non 
sarebbe 
un 
consumatore 
e 
che, 
di 
conseguenza, 
la 
direttiva 
93/13 
non 
sarebbe 
applicabile nei suoi confronti. 


43 
A 
tale 
riguardo 
occorre 
ricordare 
che, 
in 
forza 
di 
una 
costante 
giurisprudenza, 
nell’ambito 
del 
procedimento di 
cui 
all’articolo 267 TFUE, basato sulla 
netta 
separazione 
delle 
funzioni 
tra 
i 
giudici 
nazionali 
e 
la 
Corte, il 
giudice 
nazionale 
è 
l’unico competente 
ad esaminare 
e 
valutare 
i 
fatti 
del 
procedimento principale 
nonché 
a 
interpretare 
e 
a 
applicare 
il 
diritto nazionale. Parimenti 
spetta 
esclusivamente 
al 
giudice 
nazionale, investito della 
controversia 
e 
che 
deve 
assumere 
la 
responsabilità 
dell’emananda 
decisione 
giurisdizionale, 
valutare, 
alla 
luce 
delle 
particolari 
circostanze 
della 
controversia, 
sia 
la 
necessità 
sia 
la 
rilevanza 
delle 
questioni 
che 
sottopone 
alla 
Corte. Di 
conseguenza, se 
le 
questioni 
sollevate 
riguardano 
l’interpretazione 
del 
diritto 
dell’Unione, 
la 
Corte, 
in 
via 
di 
principio, 
è 
tenuta 
a 
pronunciarsi 
(sentenza 
del 
14 
giugno 
2012, 
Banco 
Español 
de 
Crédito, 
C‑618/10, EU:C:2012:349, punto 76 e giurisprudenza ivi citata). 


44 Il 
rigetto, da 
parte 
della 
Corte, di 
una 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposta 
da 
un 
giudice 
nazionale 
è 
quindi 
possibile 
soltanto qualora 
appaia 
in modo manifesto che 
l’interpretazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
richiesta 
non 
ha 
alcun 
rapporto 
con 
la 
realtà 
effettiva 


o 
l’oggetto 
della 
causa 
principale, 
qualora 
la 
questione 
sia 
di 
tipo 
ipotetico 
o, 
ancora, 
qualora 
la 
Corte 
non disponga 
degli 
elementi 
in fatto e 
in diritto necessari 
per rispondere 
in 
modo 
utile 
alle 
questioni 
che 
le 
sono 
sottoposte 
(sentenza 
del 
14 
giugno 
2012, 
Banco 
Español de Crédito, C‑618/10, EU:C:2012:349, punto 77 e giurisprudenza ivi citata). 
45 Così non è nella presente causa. 


46 Dall’ordinanza 
di 
rinvio e 
dal 
fascicolo di 
cui 
dispone 
la 
Corte 
risulta 
infatti 
che, a 
differenza 
del 
coniuge 
YX, zW 
deve 
essere 
qualificata 
come 
consumatore, poiché, alla 
data 
di 
conclusione 
dei 
contratti 
di 
fideiussione 
con BDB e 
gli 
altri 
creditori, zW 
agiva 
al 
di 
fuori 
dell’ambito 
della 
sua 
attività 
professionale 
e 
non 
intratteneva 
legami 
funzionali 
con 
la 
società 
di 
cui 
trattasi, 
debitrice 
principale. 
Secondo 
il 
giudice 
del 
rinvio, 
zW, 
dal 
1976, 
era 
titolare 
di 
un rapporto di 
lavoro con un’altra 
società 
e 
non aveva 
alcun collegamento 
di 
natura 
funzionale 
con la 
società 
di 
cui 
trattasi. Il 
giudice 
del 
rinvio ha 
rilevato, a 
tal 
fine, che, tenuto conto dei 
documenti 
prodotti 
da 
zW 
nel 
corso del 
procedimento esecutivo, 
zW 
ha 
acquisito una 
partecipazione 
del 
22% nel 
capitale 
sociale 
di 
quest’ultima 
il 
31 
gennaio 
2013, 
mentre 
i 
contratti 
di 
fideiussione 
tra 
zW 
e 
i 
creditori 
sono 
stati 
tutti 
conclusi 
prima 
di 
tale 
data, e 
che 
il 
decreto ingiuntivo ottenuto da 
BDB è 
a 
sua 
volta 
anteriore 
all’acquisizione di tali quote da parte di zW. 


47 
Orbene, 
come 
rilevato 
dall’avvocato 
generale 
al 
paragrafo 
51 
delle 
conclusioni, 
dalla 
sen



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


tenza 
del 
30 
maggio 
2013, 
Asbeek 
Brusse 
e 
de 
Man 
Garabito 
(C‑488/11, 
EU:C:2013:341, 
punto 29), risulta 
che 
la 
direttiva 
93/13 si 
applica 
a 
«qualsiasi 
contratto» stipulato tra 
un 
professionista 
e 
un consumatore, atteso che 
l’articolo 2, lettera 
b), di 
tale 
direttiva 
definisce 
un consumatore 
come 
qualsiasi 
persona 
fisica 
che, nei 
contratti 
oggetto di 
detta 
direttiva, 
agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale. 


48 Di 
conseguenza, poiché 
zW 
non ha 
concluso il 
contratto di 
fideiussione 
in questione 
nel-
l’ambito della 
sua 
attività 
professionale, tale 
contratto deve 
essere 
considerato concluso 
tra 
un professionista 
e 
un consumatore 
e 
rientra 
quindi 
nell’ambito di 
applicazione 
della 
direttiva 93/13. 


49 La domanda di pronuncia pregiudiziale deve pertanto considerarsi ricevibile. 


sulle questioni pregiudiziali 


50 Con le 
questioni 
pregiudiziali 
sollevate 
nella 
causa 
C‑693/19 e 
nella 
causa 
C‑831/19, che 
è 
opportuno esaminare 
congiuntamente, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
l’articolo 
6, paragrafo 1, e 
l’articolo 7, paragrafo 1, della 
direttiva 
93/13 debbano essere 
interpretati 
nel 
senso che 
ostano a 
una 
normativa 
nazionale 
la 
quale 
prevede 
che, qualora 
un decreto ingiuntivo emesso da 
un giudice 
su domanda 
di 
un creditore 
non sia 
stato oggetto 
di 
opposizione 
proposta 
dal 
debitore, il 
giudice 
dell’esecuzione 
non possa 
-per il 
motivo che 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
di 
tale 
decreto ingiuntivo copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
contratto che 
ne 
è 
alla 
base, escludendo qualsiasi 
esame 
della 
loro validità 
-successivamente 
controllare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo di 
tali 
clausole. 
Nella 
causa 
C‑831/19, esso chiede 
altresì 
se 
la 
circostanza 
che, alla 
data 
in cui 
il 
decreto 
ingiuntivo 
è 
divenuto 
definitivo, 
il 
debitore 
ignorava 
di 
poter 
essere 
qualificato 
come 
«consumatore» ai sensi di tale direttiva abbia una qualsivoglia rilevanza al riguardo. 


51 Secondo una 
giurisprudenza 
costante 
della 
Corte, il 
sistema 
di 
tutela 
istituito con la 
direttiva 
93/13 si 
fonda 
sull’idea 
che 
il 
consumatore 
si 
trova 
in una 
posizione 
di 
inferiorità 
nei 
confronti 
del 
professionista 
per quanto riguarda 
sia 
il 
potere 
negoziale 
sia 
il 
livello di 
informazione 
(v., in particolare, sentenza 
del 
26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, 
EU:C:2017:60, punto 40 e giurisprudenza ivi citata). 


52 Alla 
luce 
di 
una 
tale 
situazione 
di 
inferiorità, l’articolo 6, paragrafo 1, di 
detta 
direttiva 
prevede 
che 
le 
clausole 
abusive 
non 
vincolino 
i 
consumatori. 
Si 
tratta 
di 
una 
disposizione 
imperativa 
tesa 
a 
sostituire 
all’equilibrio 
formale 
fra 
i 
diritti 
e 
gli 
obblighi 
delle 
parti 
contraenti 
determinato 
dal 
contratto, 
un 
equilibrio 
reale, 
finalizzato 
a 
ristabilire 
l’uguaglianza 
tra 
tali 
parti 
(v., 
in 
particolare, 
sentenze 
del 
21 
dicembre 
2016, 
Gutiérrez 
Naranjo 
e 
a., 
C‑154/15, C‑307/15 e 
C‑308/15, EU:C:2016:980, punti 
53 e 
55, e 
del 
26 gennaio 2017, 
Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 41). 


53 A 
tale 
riguardo, dalla 
giurisprudenza 
costante 
della 
Corte 
risulta 
che 
il 
giudice 
nazionale 
è 
tenuto a 
esaminare 
d’ufficio il 
carattere 
abusivo di 
una 
clausola 
contrattuale 
che 
ricade 
nell’ambito di 
applicazione 
della 
direttiva 
93/13 e, in tal 
modo, a 
ovviare 
allo squilibrio 
che 
esiste 
tra 
il 
consumatore 
e 
il 
professionista, 
laddove 
disponga 
degli 
elementi 
di 
diritto 
e 
di 
fatto 
necessari 
a 
tal 
fine 
(sentenze 
del 
14 
marzo 
2013, 
Aziz, 
C‑415/11, 
EU:C:2013:164, punto 46 e 
giurisprudenza 
ivi 
citata; 
del 
21 dicembre 
2016, Gutiérrez 
Naranjo 
e 
a., 
C‑154/15, 
C‑307/15 
e 
C‑308/15, 
EU:C:2016:980, 
punto 
58, 
e 
del 
26 
gennaio 
2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 43). 


54 Inoltre, la 
direttiva 
93/13 impone 
agli 
Stati 
membri, come 
risulta 
dal 
combinato disposto 
del 
suo articolo 7, paragrafo 1 e 
del 
suo ventiquattresimo considerando, di 
fornire 
mezzi 
adeguati 
ed efficaci 
per far cessare 
l’inserzione 
di 
clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


tra 
un 
professionista 
e 
i 
consumatori 
(sentenza 
del 
26 
giugno 
2019, 
Addiko 
Bank, 
C‑407/18, EU:C:2019:537, punto 44 e giurisprudenza ivi citata). 


55 Se 
è 
vero che 
la 
Corte 
ha 
pertanto già 
inquadrato, in più occasioni 
e 
tenendo conto dei 
requisiti 
di 
cui 
all’articolo 
6, 
paragrafo 
1, 
e 
dell’articolo 
7, 
paragrafo 
1, 
della 
direttiva 
93/13, 
il 
modo in cui 
il 
giudice 
nazionale 
deve 
assicurare 
la 
tutela 
dei 
diritti 
che 
i 
consumatori 
traggono dalla 
direttiva 
in parola, ciò non toglie 
che, in linea 
di 
principio, il 
diritto del-
l’Unione 
non 
armonizza 
le 
procedure 
applicabili 
all’esame 
del 
carattere 
asseritamente 
abusivo di 
una 
clausola 
contrattuale, e 
che 
tali 
procedure 
rientrano dunque 
nell’ordinamento 
giuridico interno degli 
Stati 
membri, in forza 
del 
principio dell’autonomia 
processuale 
di 
questi 
ultimi, 
a 
condizione, 
tuttavia, 
che 
esse 
non 
siano 
meno 
favorevoli 
di 
quelle 
che 
disciplinano situazioni 
analoghe 
assoggettate 
al 
diritto interno (principio di 
equivalenza) 
e 
che 
non rendano in pratica 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’esercizio dei 
diritti 
conferiti 
dal 
diritto 
dell’Unione 
(principio 
di 
effettività) 
(v., 
in 
particolare, 
sentenza 
del 
26 giugno 2019, Addiko Bank, C‑407/18, EU:C:2019:537, punti 
45 e 
46 nonché 
giurisprudenza 
ivi citata). 


56 Ciò premesso, si 
deve 
stabilire 
se 
tali 
disposizioni 
richiedano che 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
controlli 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
di 
clausole 
contrattuali 
a 
dispetto 
delle 
norme 
processuali 
nazionali 
che 
attuano il 
principio dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
in relazione 
a una decisione giudiziaria che non contiene espressamente alcun esame su tale punto. 


57 A 
tale 
riguardo, occorre 
ricordare 
l’importanza 
che 
il 
principio dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
riveste 
sia 
nell’ordinamento giuridico dell’Unione 
sia 
negli 
ordinamenti 
giuridici 
nazionali. La 
Corte 
ha, infatti, già 
avuto occasione 
di 
precisare 
che, al 
fine 
di 
garantire 
sia 
la 
stabilità 
del 
diritto e 
dei 
rapporti 
giuridici 
sia 
una 
buona 
amministrazione 
della 
giustizia, 
è 
importante 
che 
le 
decisioni 
giurisdizionali 
divenute 
definitive 
dopo 
l’esaurimento 
delle 
vie 
di 
ricorso disponibili 
o dopo la 
scadenza 
dei 
termini 
previsti 
per tali 
ricorsi 
non 
possano più essere 
rimesse 
in discussione 
(v., in particolare, sentenze 
del 
6 ottobre 
2009, 
Asturcom 
Telecomunicaciones, 
C‑40/08, 
EU:C:2009:615, 
punti 
35 
e 
36, 
e 
del 
26 
gennaio 
2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 46). 


58 
La 
Corte 
ha 
altresì 
riconosciuto 
che 
la 
tutela 
del 
consumatore 
non 
è 
assoluta. 
In 
particolare, 
essa 
ha 
ritenuto che 
il 
diritto dell’Unione 
non imponga 
a 
un giudice 
nazionale 
di 
disapplicare 
le 
norme 
processuali 
interne 
che 
attribuiscono autorità 
di 
cosa 
giudicata 
a 
una 
decisione, 
anche 
quando 
ciò 
permetterebbe 
di 
porre 
rimedio 
a 
una 
violazione 
di 
una 
disposizione, 
di 
qualsiasi 
natura 
essa 
sia, 
contenuta 
nella 
direttiva 
93/13 
(v., 
in 
particolare, 
sentenze 
del 
6 
ottobre 
2009, 
Asturcom 
Telecomunicaciones, 
C‑40/08, 
EU:C:2009:615, 
punto 
37, 
e 
del 
21 
dicembre 
2016, 
Gutiérrez 
Naranjo 
e 
a., 
C‑154/15, 
C‑307/15 
e 
C‑308/15, 
EU:C:2016:980, 
punto 
68), 
fatto 
salvo 
tuttavia, 
conformemente 
alla 
giurisprudenza 
richiamata 
al 
punto 55 della 
presente 
sentenza, il 
rispetto dei 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività. 


59 Per quanto attiene 
al 
principio di 
equivalenza, si 
deve 
rilevare 
che 
la 
Corte 
non dispone 
di 
alcun elemento tale 
da 
far sorgere 
dubbi 
quanto alla 
conformità 
della 
normativa 
nazionale 
di 
cui 
al 
procedimento principale 
a 
tale 
principio. Come 
osserva 
il 
governo italiano, 
risulta 
che 
il 
diritto nazionale 
non consente 
al 
giudice 
dell’esecuzione 
di 
riesaminare 
un 
decreto ingiuntivo avente 
autorità 
di 
cosa 
giudicata, anche 
in presenza 
di 
un’eventuale 
violazione delle norme nazionali di ordine pubblico. 


60 Per quanto riguarda 
il 
principio di 
effettività, la 
Corte 
ha 
dichiarato che 
ogni 
caso in cui 
sorge 
la 
questione 
se 
una 
norma 
di 
procedura 
nazionale 
renda 
impossibile 
o eccessiva



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2022 


mente 
difficile 
l’applicazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
deve 
essere 
esaminato 
tenendo 
conto 
del 
ruolo di 
detta 
norma 
nell’insieme 
del 
procedimento, del 
suo svolgimento e 
delle 
sue 
peculiarità, 
nonché, 
se 
del 
caso, 
dei 
principi 
che 
sono 
alla 
base 
del 
sistema 
giurisdizionale 
nazionale, quali 
la 
tutela 
dei 
diritti 
della 
difesa, il 
principio della 
certezza 
del 
diritto e 
il 
regolare 
svolgimento del 
procedimento (sentenza 
del 
22 aprile 
2021, Profi 
Credit 
Slovakia, 
C‑485/19, 
EU:C:2021:313, 
punto 
53). 
La 
Corte 
ha 
ritenuto 
che 
il 
rispetto 
del 
principio 
di 
effettività 
non può tuttavia 
supplire 
integralmente 
alla 
completa 
passività 
del 
consumatore 
interessato 
(sentenza 
del 
1° 
ottobre 
2015, 
ErSTE 
Bank 
Hungary, 
C‑32/14, 
EU:C:2015:637, punto 62). 


61 Inoltre, la 
Corte 
ha 
precisato che 
l’obbligo per gli 
Stati 
membri 
di 
garantire 
l’effettività 
dei 
diritti 
spettanti 
ai 
singoli 
in forza 
del 
diritto dell’Unione 
implica, segnatamente 
per i 
diritti 
derivanti 
dalla 
direttiva 
93/13, un’esigenza 
di 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva, riaffermata 
all’articolo 7, paragrafo 1, di 
tale 
direttiva 
e 
sancita 
altresì 
all’articolo 47 della 
Carta, che 
si 
applica, tra 
l’altro, alla 
definizione 
delle 
modalità 
procedurali 
relative 
alle 
azioni 
giudiziarie 
fondate 
su 
tali 
diritti 
(v., 
in 
tal 
senso, 
sentenza 
del 
10 
giugno 
2021, 
BNP 
Paribas 
Personal 
Finance 
SA, da 
C‑776/19 a 
C‑782/19, EU:C:2021:470, punto 29 e 
giurisprudenza 
ivi citata). 


62 
A 
tal 
proposito, 
la 
Corte 
ha 
dichiarato 
che, 
in 
assenza 
di 
un 
controllo 
efficace 
del 
carattere 
potenzialmente 
abusivo 
delle 
clausole 
del 
contratto 
di 
cui 
trattasi, 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
conferiti 
dalla 
direttiva 
93/13 
non 
può 
essere 
garantito 
(sentenza 
del 
4 
giugno 
2020, 
Kancelaria 
Medius, C‑495/19, EU:C:2020:431, punto 35 e giurisprudenza ivi citata). 


63 Ne 
consegue 
che 
le 
condizioni 
stabilite 
dalle 
legislazioni 
nazionali, alle 
quali 
si 
riferisce 
l’articolo 6, paragrafo 1, della 
direttiva 
93/13, non possono pregiudicare 
la 
sostanza 
del 
diritto spettante 
ai 
consumatori 
in forza 
di 
tale 
disposizione, come 
interpretata 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
richiamata, in particolare, al 
punto 53 della 
presente 
sentenza, di 
non 
essere 
vincolati 
da 
una 
clausola 
reputata 
abusiva 
(sentenze 
del 
21 
dicembre 
2016, 
Gutiérrez 
Naranjo e 
a., C‑154/15, C‑307/15 e 
C‑308/15, EU:C:2016:980, punto 71, e 
del 
26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 51). 


64 Nei 
procedimenti 
principali, la 
normativa 
nazionale 
prevede 
che, nell’ambito del 
procedimento 
di 
esecuzione 
dei 
decreti 
ingiuntivi 
non opposti, il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
possa 
esercitare 
un controllo nel 
merito del 
decreto ingiuntivo né 
controllare, d’ufficio o 
su domanda 
del 
consumatore, il 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
del 
contratto alla 
base 
di 
tale 
decreto ingiuntivo, per via 
dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
implicita 
acquisita 
da 
quest’ultimo. 


65 
Orbene, 
una 
normativa 
nazionale 
secondo 
la 
quale 
un 
esame 
d’ufficio 
del 
carattere 
abusivo 
delle 
clausole 
contrattuali 
si 
considera 
avvenuto e 
coperto dall’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
anche 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
motivazione 
in 
tal 
senso 
contenuta 
in 
un 
atto 
quale 
un 
decreto 
ingiuntivo 
può, 
tenuto 
conto 
della 
natura 
e 
dell’importanza 
dell’interesse 
pubblico 
sotteso 
alla 
tutela 
che 
la 
direttiva 
93/13 
conferisce 
ai 
consumatori, 
privare 
del 
suo 
contenuto 
l’obbligo 
incombente 
al 
giudice 
nazionale 
di 
procedere 
a 
un esame 
d’ufficio dell’eventuale 
carattere abusivo delle clausole contrattuali. 


66 Ne 
consegue 
che, in un caso del 
genere, l’esigenza 
di 
una 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva 
impone 
che 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
possa 
valutare, 
anche 
per 
la 
prima 
volta, 
l’eventuale 
carattere 
abusivo delle 
clausole 
del 
contratto alla 
base 
di 
un decreto ingiuntivo emesso 
da 
un giudice 
su domanda 
di 
un creditore 
e 
contro il 
quale 
il 
debitore 
non ha 
proposto 
opposizione. 



CONTENzIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAzIONALE 


67 Come 
rilevato dall’avvocato generale 
ai 
paragrafi 
56 e 
57 delle 
conclusioni, il 
fatto che 
il 
debitore 
ignorava, al 
momento in cui 
questa 
precedente 
decisione 
giurisdizionale 
è 
divenuta 
definitiva, il 
proprio status 
di 
consumatore, ai 
sensi 
della 
direttiva 
93/13, è 
irrilevante, 
poiché, come 
ricordato al 
punto 53 della 
presente 
sentenza, il 
giudice 
nazionale 
è 
tenuto a 
valutare 
d’ufficio il 
carattere 
abusivo di 
una 
clausola 
contrattuale 
rientrante 
nel-
l’ambito di applicazione di tale direttiva. 


68 Da 
quanto precede 
risulta 
che 
occorre 
rispondere 
alle 
questioni 
pregiudiziali 
poste 
nelle 
cause 
C‑693/19 e 
C‑831/19 dichiarando che 
l’articolo 6, paragrafo 1, e 
l’articolo 7, paragrafo 
1, della 
direttiva 
93/13 devono essere 
interpretati 
nel 
senso che 
ostano a 
una 
normativa 
nazionale 
la 
quale 
prevede 
che, 
qualora 
un 
decreto 
ingiuntivo 
emesso 
da 
un 
giudice 
su domanda 
di 
un creditore 
non sia 
stato oggetto di 
opposizione 
proposta 
dal 
debitore, il 
giudice 
dell’esecuzione 
non possa 
‑per il 
motivo che 
l’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
di 
tale 
decreto ingiuntivo copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
contratto che 
ne 
è 
alla 
base, 
escludendo 
qualsiasi 
esame 
della 
loro 
validità 
‑successivamente 
controllare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo 
di 
tali 
clausole. 
La 
circostanza 
che, 
alla 
data 
in 
cui 
il 
decreto 
ingiuntivo 
è 
divenuto 
definitivo, 
il 
debitore 
ignorava 
di 
poter 
essere 
qualificato 
come 
«consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo. 
sulle spese 


69 Nei 
confronti 
delle 
parti 
nel 
procedimento principale 
la 
presente 
causa 
costituisce 
un incidente 
sollevato dinanzi 
al 
giudice 
nazionale, cui 
spetta 
quindi 
statuire 
sulle 
spese. Le 
spese 
sostenute 
da 
altri 
soggetti 
per presentare 
osservazioni 
alla 
Corte 
non possono dar 
luogo a rifusione. 


Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 


l’articolo 6, paragrafo 1, e 
l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del 
Consiglio, del 
5 aprile 
1993, concernente 
le 
clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 
con 
i 
consumatori, devono essere 
interpretati 
nel 
senso che 
ostano a una normativa 
nazionale 
la quale 
prevede 
che, qualora un 
decreto ingiuntivo emesso da un 
giudice 
su 
domanda di 
un 
creditore 
non 
sia stato oggetto di 
opposizione 
proposta dal 
debitore, 
il 
giudice 
dell’esecuzione 
non 
possa ‑per 
il 
motivo che 
l’autorità di 
cosa giudicata 
di 
tale 
decreto 
ingiuntivo 
copre 
implicitamente 
la 
validità 
delle 
clausole 
del 
contratto che 
ne 
è 
alla base, escludendo qualsiasi 
esame 
della loro validità ‑successivamente 
controllare 
l’eventuale 
carattere 
abusivo di 
tali 
clausole. la circostanza 
che, alla data in 
cui 
il 
decreto ingiuntivo è 
divenuto definitivo, il 
debitore 
ignorava 
di 
poter 
essere 
qualificato 
come 
«consumatore» 
ai 
sensi 
di 
tale 
direttiva 
è 
irrilevante 
a tale riguardo. 



ContenzioSonazionaLe
La Sezione lavoro della Cassazione 
inaugura il nuovo status 
di vittima del dovere 


Nota 
a 
Corte 
di 
CassazioNe, sezioNe 
lavoro, seNteNza 
del 
30 maggio 
2022 N. 17440 


“ogni 
qualvolta il 
legislatore 
individua una particolare 
categoria di 
soggetti 
come 
destinataria 
di 
prestazioni 
pubbliche 
con finalità di 
protezione 
e 
perequazione 
sociale 
costituzionalmente 
garantite, la situazione 
giuridica dei 
beneficiari 
può e 
deve 
essere 
ricostruita in 
termini di status”. 


“la 
disciplina 
delle 
provvidenze 
dettate 
per 
le 
vittime 
del 
dovere 
rientra 
nell’art. 
38 
della 
Costituzione 
e 
può 
legittimamente 
considerarsi 
come 
una 
delle 
possibili 
‘figure 
speciali 
di 
sicurezza 
sociale’, 
la 
cui 
ratio 
va 
individuata 
nell’apprestare 
peculiari 
ed 
ulteriori 
forme 
di 
assistenza 
per 
coloro 
che 
siano 
rimasti 
vittima 
dell’adempimento 
di 
un 
dovere 
svolto 
nell’interesse 
della 
collettività, 
che 
li 
abbia 
esposti 
ad 
uno 
speciale 
pericolo 
e 
all’assunzione 
di 
rischi 
qualificati”. 


“Non si 
possono non ravvisare 
nella situazione 
giuridica istituita dal 
legislatore 
tutti 
i 
presupposti 
dello status, valendo la categoria di 
‘vittima del 
dovere’ 
a differenziare 
una particolare 
categoria di 
soggetti 
al 
fine 
di 
apprestare 
loro un insieme 
di 
benefici 
previsti 
dalla 
legge e riepilogati dall’art. 4, d.P.r. n. 243/2006”. 


“la domanda dell’interessato deve 
considerarsi 
pur 
sempre 
condicio sine 
qua non per 
il 
riconoscimento della condizione 
di 
‘vittima del 
dovere’, non potendo attribuirsi 
alla disposizione 
regolamentare 
di 
cui 
all’art. 3, d.P.r. n. 243/2006 (che 
statuisce 
che 
‘in mancanza di 
domanda 
si 
può 
procedere 
d’ufficio’) 
alcuna 
valenza derogatoria 
ad 
un 
principio 
che, 
per 
gli 
status 
activae 
processualis, ha valenza di 
diritto di 
libertà costituzionalmente 
garantito”. 


1-Con 
la 
sentenza 
in 
rassegna, 
n. 
17440/22 
depositata 
in 
data 
30 
maggio 
2022, la 
Suprema 
Corte 
-Sezione 
lavoro ha 
sancito che 
quello di 
“vittima 
del 
dovere” 
è 
uno 
status 
in 
senso 
tecnico-giuridico, 
con 
imprescrittibilità 
del 
diritto 
al relativo riconoscimento. 


La 
pronuncia 
è 
di 
particolare 
rilievo, 
in 
quanto 
dà 
ingresso 
ad 
un 
possibile 
moltiplicarsi 
di 
domande 
volte 
in 
tal 
senso 
e 
di 
contenziosi 
giudiziari 
a 
distanze 



rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


temporali 
amplissime 
ed ultradecennali 
dagli 
eventi 
di 
riferimento, con conseguenti 
oneri economici per l’Erario. 


Ovviamente, la 
valutazione 
del 
“peso” 
economico per lo Stato non costituisce 
in sé 
una 
chiave 
di 
lettura 
interpretativa 
delle 
disposizioni 
normative; 
nondimeno, però, l’ermeneutica 
deve 
comunque 
sempre 
tenere 
in conto che 
le 
conclusioni 
cui 
perviene 
debbono essere 
in linea 
con l’“intenzione 
del 
legislatore”, 
regola 
questa 
come 
noto 
imposta 
dalla 
disposizione 
generale 
dell’art. 
12, comma 1, delle Disp. prel. al cod. civ. 


Ebbene, 
la 
decisione 
assunta 
dalla 
Sezione 
lavoro 
appare 
destare 
perplessità 
in punto di diritto. 


L’Avvocatura 
Generale 
dello Stato, nel 
ricorso proposto, aveva 
anzitutto 
dedotto che 
le 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
ascrivibili 
in capo a 
coloro che 
si 
trovano 
nelle 
condizioni 
di 
legge 
previste 
dall’art. 
1, 
commi 
563 
e 
564, 
della 


L. n. 266/2005 non sono qualificabili in termini di 
status. 
Lo 
status, 
concetto 
giuridico 
derivante 
dal 
diritto 
romano, 
si 
traduce 
in 
una 
sintesi 
di 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
facenti 
capo 
ad 
un 
soggetto 
individuato 
in 
ragione 
della 
posizione 
occupata 
nell’ambito 
di 
una 
specifica 
collettività, 
sia 
essa 
quella 
territoriale 
(status 
di 
cittadino), 
quella 
familiare 
(status 
di 
figlio 
o 
di 
coniuge) 
o 
ancora 
quella 
associativa 
(status 
di 
socio 
o 
di 
associato). 


Nel 
caso di 
specie, le 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
attribuite 
dall’art. 
1, commi 
563 e 
564, L. n. 266/05 prescindono del 
tutto dall’appartenenza 
del 
singolo 
ad 
una 
data 
collettività, 
riferendosi 
esclusivamente 
a 
taluni 
presupposti 
fattuali, tipici 
del 
riconoscimento di 
situazioni 
giuridiche 
attive 
qualificabili 
non 
come 
status 
ma 
come 
diritti 
di 
credito 
ed 
a 
prestazione, 
per 
propria 
natura 
soggette 
al 
regime 
prescrizionale 
di 
diritto comune 
in assenza 
di 
una 
diversa 
previsione normativa, 


Invero, 
alla 
figura 
della 
vittima 
del 
dovere 
è 
ricondotto 
uno 
status 
in 
senso 
atecnico al 
solo fine 
di 
definire 
unitariamente 
il 
fascio di 
norme 
di 
tutela 
e 
di 
benefici 
accordati 
ai 
soggetti 
che 
vengono 
ad 
essere 
riconosciuti 
come 
tali, 
prescindendo 
dalla 
collocazione 
del 
singolo 
nell’ambito 
di 
una 
data 
collettività 
(costituente il “proprium” dello status). 


Come 
già 
sancito 
dalla 
giurisprudenza 
(cfr. 
Corte 
d’appello 
di 
Genova 
Sez. 
lavoro, 
sentenza 
n. 
427/18) 
la 
locuzione 
“status” 
è 
usata 
in 
senso 
atecnico, 
“solo al 
fine 
di 
ricondurre 
ad una definizione 
unitaria l’insieme 
dei 
benefici 
accordati 
ai 
soggetti 
in 
questione, 
laddove 
la 
nozione 
di 
status 
è 
riferita 
a 
elementi 
inalienabili 
della 
persona 
che 
trovano 
diretto 
riconoscimento 
nella 
Costituzione 
esprimendo 
appunto 
la 
tutela 
che 
deve 
essere 
immancabilmente 
accordata agli 
interessi 
essenziali 
della persona, in quanto valore 
fondamentale 
dell’ordinamento”. 


Era 
stato altresì 
evidenziato dall’Avvocatura 
erariale 
che, d’altronde, lo 
status 
comporta 
l’indefettibile 
conseguenza 
di 
dar vita 
a 
prerogative 
e 
doveri, 
per cui 
è 
evidente 
che 
chi 
è 
titolare 
della 
predetta 
situazione 
giuridica 
sogget



CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


tiva 
attrae 
a 
sé, nell’ambito di 
una 
comunità 
organizzata, un complesso di 
diritti 
e 
di 
doveri 
che 
l’attribuzione 
della 
qualità 
di 
vittima 
del 
dovere, 
di 
contro, 
non conferisce. 


Lo 
status, 
infatti, 
è 
una 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
che 
esprime 
la 
posizione 
di 
un soggetto nei 
confronti 
di 
altri 
soggetti 
nell’ambito della 
collettività 
organizzata. 
Esso 
è 
una 
situazione 
soggettiva 
autonoma, 
tutelata 
in 
quanto 
tale. È 
pero anche 
fonte 
di 
altre 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
attive 
e 
passive, 
in particolare diritti e obblighi. 


L’esame 
delle 
norme 
contenute 
nell’art. 1, commi 
563 e 
564, della 
legge 


n. 
266/2005 
non 
permette 
di 
affermare 
che 
per 
il 
militare 
cui 
viene 
riconosciuta 
la 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
sussista 
una 
posizione 
differenziata 
e 
discendano 
diritti 
ed obblighi; 
anzi, lo stesso diviene 
beneficiario di 
una 
complessa 
e 
corposa 
attribuzione 
di 
benefici 
che 
digradano 
in 
senso 
unilaterale 
dallo 
Stato 
alla 
vittima, 
per 
la 
natura 
assistenziale 
degli 
emolumenti 
stessi, 
senza 
che 
qualsiasi 
altra 
prestazione 
venga 
pretesa 
in senso inverso nei 
confronti 
della vittima in termini di obblighi o doveri. 
Aggiungasi, 
poi, 
che 
l’imprescrittibilità 
degli 
status 
risulta 
dubbia, 
atteso 
che 
non 
esiste 
alcuna 
norma 
o 
principio 
che, 
al 
di 
fuori 
dei 
casi 
specificamente 
regolati 
e 
che 
rispondono 
ad 
esigenze 
d’interesse 
superiore 
vagliate 
“a 
monte” 
dal 
legislatore, stabilisca 
in generale 
l’imprescrittibilità 
del 
riconoscimento di 
un qualsiasi 
status. 


2 -La decisione 
de qua 
ha disatteso le predette argomentazioni. 


La 
Corte 
ha 
proceduto (pag. 5 e 
seguenti 
della 
sentenza) ad un excursus 
sul concetto di 
status. 


Si 
legge 
nella 
pronuncia 
tra 
l’altro che 
“lo status 
civitatis 
è 
stato progressivamente 
costruito come 
“status 
activus 
processualis”, avente 
ad oggetto il 
potere 
di 
avvalersi 
dei 
procedimenti 
amministrativi 
previsti 
dalla 
legge 
per 
assicurarsi 
le 
prestazioni 
sociali 
volte 
a 
garantire 
la 
protezione 
e 
la 
perequazione 
della 
categoria 
cui 
si 
appartiene 
e 
rendere 
così 
effettiva 
la 
libertà 
astrattamente 
assicurata dal principio di eguaglianza formale” (pag. 7). 


Al 
termine 
di 
tale 
excursus 
l’Organo 
giudicante 
approda 
ad 
una 
totalmente 
nuova 
e 
giurisprudenziale 
definizione 
della 
figura 
di 
status, 
quale 
quella 
di 
“una 
categoria 
di 
soggetti 
destinataria 
di 
prestazioni 
pubbliche 
con 
finalità 
di protezione e perequazione sociale costituzionalmente garantite” (pag. 9). 


In 
merito, 
deve 
rilevarsi 
che 
detta 
definizione 
non 
trova 
un 
adeguato 
supporto 
normativo. 


D’altro canto, la 
definizione 
risulta 
a 
ben vedere 
generica 
e 
suscettibile 
di 
dilatazioni 
indebite, ad esempio in materia 
assistenziale, descrivendo una 
fattispecie sostanzialmente “aperta” e di perimetro sfumato. 


Così, ogni 
volta 
che 
al 
riconoscimento di 
una 
determinata 
qualifica 
personale 
venisse 
ricondotto 
un 
complesso 
di 
diritti 
assistenziali 
e 
“sociali” 
si 
sa



rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


rebbe 
perciò di 
fronte 
ad uno status 
e 
diritti 
imprescrittibili, senza 
necessità 
di 
espressa 
previsione 
normativa 
ed 
in 
discordanza 
con 
la 
regola 
generale 
per 
cui tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estintiva? 


3 -Ancora, la 
Sezione 
lavoro giunge 
a 
connettere 
la 
normativa 
sulle 
vittime 
del 
dovere 
ad una 
sorta 
di 
tutela 
necessaria 
prevista 
a 
livello costituzionale 
ed attratta 
nell’ambito della 
“sicurezza 
sociale”, che 
integrerebbe 
nella 
fattispecie la sopra delineata nuova definizione di 
status. 


Anche 
tale 
esito non risulta 
pienamente 
convincente 
e 
sembra 
voler giustificare 
la 
sussunzione 
del 
coacervo di 
provvidenze 
assistenziali 
in questione 
nel novero degli 
status. 


L’Organo legale 
erariale 
aveva 
evidenziato in merito la 
circostanza 
che 
la 
tutela 
di 
che 
trattasi 
non è 
esclusiva, ma 
aggiuntiva 
rispetto ad altre 
tutele 
(causa di servizio ecc.). 


È 
poi 
tutela 
che 
non rientra 
nel 
comma 
1 dell’art. 38 della 
Costituzione 
(che 
attribuisce 
protezione 
necessitata 
ai 
c.d. diritti 
primari 
dei 
cittadini), ma 
nel 
comma 
2 dell’art. 38, per cui 
opera 
una 
modulazione 
d’intervento rimessa 
al 
legislatore, senza 
che 
le 
disposizioni 
sulle 
vittime 
del 
dovere 
possano configurare 
diritti 
direttamente 
garantiti 
dalla 
Costituzione 
e 
che 
diano luogo ad 
uno status 
in senso tecnico-giuridico. 


La 
normativa 
sulle 
vittime 
del 
dovere, infatti, non concerne 
cittadini 
inabili 
al 
lavoro 
e 
sprovvisti 
dei 
mezzi 
necessari 
per 
vivere, 
cui 
invece 
si 
riferisce 
il comma 1 dell’art. 38 della Carta. 


tanto che, significativamente, la 
tutela 
delle 
vittime 
del 
dovere 
è 
emersa 
soltanto a 
lunga 
distanza 
di 
tempo dal 
vigore 
della 
Costituzione 
(legge 
n. 266 
del 
2005) ed al 
termine 
di 
sedimentazione 
ed ampliamento di 
previsioni 
sorte 
in favore delle sole vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. 


Alla 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
conseguono 
dunque 
benefici 
aggiuntivi 
rispetto ad altre 
tutele, che 
non hanno natura 
“previdenziale” 
e 
“pensionistica”, 
ma come noto meramente assistenziale. 


Pertanto, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
aveva 
sottolineato 
che 
in 
materia 
è 
fuor 
di 
luogo 
richiamare 
regole 
del 
diritto 
previdenziale 
e, 
come 
pure 
osservato 
in 
giurisprudenza, 
non 
si 
rende 
applicabile 
alla 
fattispecie 
il 
peculiare 
principio 
sancito 
dalla 
Suprema 
Corte 
per 
il 
quale 
il 
diritto 
a 
pensione 
è 
“garantito 
dalla 
Costituzione 
e 
imprescrittibile 
perché 
volto 
a 
soddisfare 
primarie 
esigenze 
di 
vita”. 


Inoltre, la 
stessa 
imprescrittibilità 
del 
diritto a 
pensione 
non è 
il 
frutto di 
una 
statuizione 
o di 
un principio pretorio, quanto oggetto di 
una 
previsione 
di 
legge (art. 5 d.P.r. n. 1092/1973), che nella fattispecie assolutamente difetta. 


L’art. 5 cit. prevede 
espressamente, infatti, che 
“il 
diritto al 
trattamento 
di quiescenza, diretto e di riversibilità, non si perde per prescrizione …”. 


I diritti 
di 
cui 
al 
secondo comma 
dell’art. 38 appaiono assoggettati, diversamente 
dall’ipotesi 
del 
comma 
1, al 
regime 
di 
prescrittibilità, come 
pre



CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


visto 
analogamente 
per 
altri 
istituti 
giuridici, 
quali 
le 
prestazioni 
INAIL 
e 
l’indennizzo 
contemplato dalla legge n. 210/1992. 


vi 
è 
che, 
nell’ambito 
dei 
benefici 
per 
gli 
infortuni 
sul 
lavoro, 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(Cass. 
n. 
10035/2001) 
ha 
ritenuto 
manifestamente 
infondata 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale, 
in 
riferimento 
agli 
artt. 
3 
e 
38 
Cost., 
dell’art. 
112 
del 
d.P.r. 
n. 
1124 
del 
1965, 
nella 
parte 
in 
cui 
prevede 
la 
prescrizione 
triennale 
del 
diritto 
alla 
rendita 
INAIL 
per 
malattia 
professionale, 
anziché 
del 
diritto 
ai 
singoli 
ratei, 
come 
invece 
accade 
per 
le 
pensioni 
INPS. 


Come 
già 
precisato 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
nella 
sentenza 
n. 
297/1999, 
le 
disposizioni 
non si 
pongono in contrasto con i 
parametri 
costituzionali, ben 
potendo 
essere 
disciplinati 
in 
modo 
differente 
due 
sistemi 
di 
tutela 
diversi, 
con 
finalità 
differenziate, 
rinvenibili 
una 
in 
una 
logica 
di 
tipo 
assistenziale, 
l’altra in una di tipo pienamente solidaristico. 


In 
argomento, 
può 
essere 
richiamata 
anche 
la 
normativa 
in 
tema 
d’indennizzo 
per i 
danneggiati 
da 
complicanze 
irreversibili 
a 
seguito di 
vaccinazioni 
obbligatorie, di cui alla legge n. 210/1992 cit. 


In 
detta 
materia 
assistenziale, 
che 
pure 
presenta, 
in 
punto 
di 
principio, 
profili 
di 
analogia 
con 
quella 
di 
tutela 
delle 
vittime 
del 
dovere, 
la 
Suprema 
Corte 
(cfr. sent. n. 10215 del 
2014 che 
ha 
confermato precedente 
pronuncia 
n. 
6500 
del 
2003) 
ha 
ritenuto 
pienamente 
operante 
il 
limite 
della 
prescrizione 
ordinaria 
decennale per l’esercizio del diritto. 


4-L’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
aveva 
dipoi 
espressamente 
fatto 
richiamo 
alla 
sentenza 
n. 
106 
del 
2008 
della 
Corte 
Costituzionale, 
inerente 
fattispecie 
in 
cui 
veniva 
in 
gioco 
il 
trattamento 
pensionistico 
(di 
guerra) 
di 
soggetti 
divenuti 
invalidi 
e 
dunque 
una 
tutela, 
di 
natura 
prettamente 
assistenziale, 
che 
appare 
parallela 
ed 
analoga 
a 
quella 
relativa 
alle 
vittime 
del 
dovere, 
sentenza 
della 
Consulta 
che 
aveva 
escluso 
l’esistenza 
di 
uno 
status 
e 
l’imprescrittibilità. 


Da 
tale 
pronuncia, 
tuttavia, 
la 
Cassazione 
si 
è 
discostata 
con 
la 
decisione 
in 
questione, 
adducendo 
-il 
che 
appare 
tautologico 
-che 
circa 
la 
fattispecie 
delle 
vittime 
del 
dovere 
deve 
invece 
applicarsi 
l’art. 
2934, 
comma 
2, 
del 
cod. 
civ. 


Nel 
ricorso 
era 
stato 
altresì 
sostenuto 
che 
il 
diritto 
al 
riconoscimento 
della 
qualifica 
di 
vittima 
del 
dovere 
non è 
indisponibile, atteso che 
diritti 
indisponibili 
sono 
quelli 
volti 
a 
tutelare 
fondamentali 
valori 
umani 
e 
sociali 
e 
che 
soddisfano 
il 
loro 
titolare, 
ma 
la 
cui 
protezione 
corrisponde 
anche 
all’interesse 
generale 
della 
collettività 
(ad esempio i 
diritti 
della 
personalità 
e 
quelli 
in ambito 
familiare). 


La 
Corte 
ha 
invece 
ritenuto che 
lo status 
di 
vittima 
del 
dovere 
rientri 
tra 
i 
diritti 
indisponibili 
ex 
art. 
2934, 
comma 
2, 
cod. 
civ., 
singolarmente 
ribadendo 
più 
volte, 
peraltro, 
che 
“la 
domanda 
dell’interessato 
deve 
considerarsi 
pur 
sempre 
‘condicio sine 
qua non’per 
il 
riconoscimento della condizione 
di 
‘vittima 
del dovere’ 
”. 



rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


5 -Infine, last 
but 
not 
least, la 
Corte 
non ha 
tenuto conto della 
copiosa 
giurisprudenza, anche 
di 
II grado, che 
era 
stata 
ampiamente 
richiamata 
dal-
l’Avvocatura 
erariale, in particolare 
sottolineando come 
l’orientamento senz’altro 
favorevole 
alla 
prescrittibilità 
in 
materia 
fosse 
ormai 
da 
considerarsi 
“diritto vivente” 
e 
dunque 
elemento rilevante 
di 
cui 
tenere 
conto nella 
soluzione 
ermeneutica 
da 
adottarsi, 
come 
insegnano 
le 
stesse 
pronunzie 
della 
Corte 
Costituzionale che al diritto vivente fanno espresso riferimento. 


Giancarlo Pampanelli* 


Corte 
di 
Cassazione, 
Sezione 
Lavoro, 
sentenza 
30 
maggio 
2022 
n. 
17440 
-Pres. 
u. 
Berrino, 
rel. L. Cavallaro - Ministero della Difesa (avv. gen. Stato) c. B.M.t. (avv. A. Bava). 


FAttI DI CAuSA 
Con sentenza 
depositata 
il 
9 gennaio 2020, la 
Corte 
d'appello dell'Aquila 
ha 
confermato, per 
quanto rileva 
in questa 
sede, la 
pronuncia 
di 
primo grado che 
aveva 
accolto la 
domanda 
di 


B.M.t. volta 
a 
conseguire 
i 
benefici 
assistenziali 
spettanti 
alle 
vittime 
del 
dovere, nei 
limiti 
della prescrizione decennale a far data dalla domanda del 13 novembre 2017. 
La 
Corte 
in particolare 
ha 
ritenuto che 
la 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere, di 
cui 
alla 
L. n. 
266 del 
2005, art. 1, commi 
563-564, costituisse 
uno status 
e 
fosse 
come 
tale 
imprescrittibile, 
salva 
la 
prescrizione 
dei 
ratei 
delle 
prestazioni 
assistenziali 
previste 
dalla 
legge, 
di 
talchè, 
pur 
avendo 
l'istante 
presentato 
la 
domanda 
a 
distanza 
di 
oltre 
dieci 
anni 
dall'entrata 
in 
vigore 
della 
L. n. 266 del 
2005, cit., per una 
patologia 
contratta 
per causa 
di 
servizio nel 
corso di 
una 
missione 
compiuta 
nel 
1964, non poteva 
negarsi 
il 
suo diritto ad essere 
iscritto nell'elenco di 
cui 
al 
D.P.r. n. 243 del 
2006, art. 3, comma 
3, e 
a 
percepire 
le 
prestazioni 
assistenziali 
nei 
limiti 
della prescrizione decennale. 
Avverso 
tali 
statuizioni 
il 
Ministero 
della 
Difesa 
ha 
ricorso 
per 
cassazione, 
deducendo 
due 
motivi 
di 
censura. B.M.t. ha 
resistito con controricorso. Entrambe 
le 
parti 
hanno depositato 
memoria. 
rAGIONI DELLA DECISIONE 
Con il 
primo motivo di 
censura, il 
Ministero ricorrente 
denuncia 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell'art. 2934 c.c., commi 
1 e 
2, e 
2946 c.c. per avere 
la 
Corte 
di 
merito ritenuto che 
la 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
costituisse 
uno status 
e 
conseguentemente 
fosse 
imprescrittibile, 
salva 
nondimeno la 
prescrizione 
dei 
ratei 
delle 
singole 
prestazioni 
assistenziali 
ad essa 
correlate: 
ad 
avviso 
della 
parte 
ricorrente, 
infatti, 
il 
termine 
"status" 
talora 
adoperato 
nella 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
per descrivere 
la 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
sarebbe 
da 
intendersi 
in 
senso 
atecnico, 
ossia 
come 
insieme 
di 
posizioni 
di 
vantaggio 
accordate 
ad 
un 
soggetto, senza 
in nulla 
correlarsi 
alla 
posizione 
che 
quel 
soggetto riveste 
nella 
collettività, 
ciò che 
invece 
costituisce 
il 
proprium 
della 
nozione, di 
derivazione 
romanistica, di 
"status", 
di 
talchè, 
essendo 
stata 
nella 
specie 
la 
domanda 
per 
accedere 
ai 
benefici 
presentata 
dopo 
dieci 


(*) Avvocato dello Stato. 



CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


anni 
dall'entrata 
in vigore 
della 
L. n. 266 del 
2005, nessun diritto sarebbe 
sopravvissuto all'intervenuta 
prescrizione. 
Con 
il 
secondo 
motivo, 
il 
Ministero 
ricorrente 
lamenta 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
del 


D.P.r. n. 243 del 
2006, art. 3, commi 
1-2, per avere 
la 
Corte 
territoriale 
ritenuto che 
l'imprescrittibilità 
della 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
discenderebbe 
dalla 
previsione 
della 
disposizione 
cit., 
che 
abilita 
l'amministrazione 
a 
riconoscerla 
d'ufficio 
anche 
in 
assenza 
di 
domanda 
dell'interessato: 
nell'opinione 
di 
parte 
ricorrente, 
infatti, 
resterebbe 
pur 
fermo 
che, 
in 
mancanza 
di 
tale 
riconoscimento officioso, nessuna 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
sfuggirebbe 
al 
compiersi 
della prescrizione. 
I motivi 
possono essere 
trattati 
congiuntamente, in considerazione 
della 
loro intima 
connessione, 
e sono infondati. 
va 
premesso 
che 
la 
Corte 
territoriale 
ha 
argomentato 
la 
conclusione 
secondo 
cui 
la 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
sarebbe 
equiparabile 
ad uno status 
muovendo da 
un'espressa 
affermazione 
in tal 
senso già 
affiorata 
in numerose 
pronunce 
di 
questa 
Corte 
di 
legittimità 
(ad es. in 
Cass. n. 26012 del 2018 e, più recentemente, in Cass. n. 28696 del 2020). 
È 
nondimeno vero che, come 
rimarcato da 
parte 
ricorrente 
(da 
ultimo nella 
memoria 
dep. ex 
art. 
378 
c.p.c.), 
questa 
Corte 
non 
ha 
ancora 
specificamente 
affrontato 
la 
questione 
concernente 
la 
possibilità 
di 
intendere 
la 
qualifica 
di 
vittima 
del 
dovere 
in termini 
di 
"status" 
in senso tecnico-
giuridico, 
ossia 
-secondo 
la 
risalente 
definizione 
di 
Cass. 
n. 
3727 
del 
1986 
-come 
qualità 
o 
di 
situazione 
soggettiva 
a 
cui 
si 
ricollegano 
sia 
diritti 
(assoluti, 
inalienabili 
e 
imprescrittibili) 
che 
doveri, e 
il 
cui 
acquisto è 
indipendente 
dalla 
volontà 
del 
soggetto che 
ne 
è 
titolare, trovando 
piuttosto la 
sua 
origine 
nella 
sua 
appartenenza 
ad una 
determinata 
collettività: 
e 
anzi, 
ad avviso di 
parte 
ricorrente, tale 
possibilità 
sarebbe 
nel 
caso di 
specie 
da 
escludersi, dal 
momento 
che, diversamente 
argomentando, basterebbe 
l'attribuzione 
ad un soggetto di 
benefici 
di 
carattere 
assistenziale 
per 
inferirne 
l'attribuzione 
di 
uno 
status 
e, 
correlativamente, 
di 
diritti 
imprescrittibili, 
con 
una 
conseguente 
irragionevole 
dilatazione 
del 
concetto 
giuridico 
di 
status 
che 
non solo non sarebbe 
fondata 
su alcuna 
disposizione 
di 
legge, ma 
per di 
più si 
porrebbe 
in contrasto con la 
regola 
generale 
secondo cui 
tutti 
i 
diritti 
sono assoggettati 
a 
prescrizione 
estintiva. 
Ciò 
posto, 
deve 
anzitutto 
ricordarsi 
che 
la 
nozione 
tradizionale 
di 
"status", 
che 
la 
dottrina 
classica 
intendeva 
in senso "comunitario", ossia 
quale 
modo per definire 
la 
posizione 
della 
persona 
umana 
rispetto 
ad 
una 
data 
collettività 
di 
riferimento 
in 
funzione 
della 
sua 
condizione 
di 
libertà 
personale, 
cittadinanza 
e 
appartenenza 
a 
un 
certo 
gruppo 
familiare 
(donde 
la 
classica 
tripartizione 
della 
categoria 
in 
status 
libertatis, 
status 
civitatis 
e 
status 
familiae), 
è 
andata 
progressivamente 
declinando in età 
moderna, allorchè 
l'emersione 
del 
principio di 
eguaglianza 
formale, tipico del 
pensiero giuridico liberale 
e 
dell'organizzazione 
economica 
e 
sociale 
del 
modo di 
produzione 
capitalistico, ha 
sottoposto a 
revisione 
critica 
ogni 
forma 
di 
distinzione 
tra 
le 
persone 
che 
riposasse 
su 
leggi 
e 
convenzioni 
sociali, 
anzichè 
sulla 
natura 
e 
sulla 
ragione. 
va 
però 
parimenti 
ricordato 
che 
tale 
revisione 
critica 
(che 
la 
dottrina 
inglese 
ha 
efficacemente 
riassunto nel 
passaggio dallo "status" 
al 
"contratto", al 
fine 
di 
rimarcare 
che 
nessun vincolo 
giuridico 
può 
modernamente 
giustificarsi 
in 
assenza 
di 
una 
manifestazione 
di 
volontà 
del 
soggetto 
che 
vi 
è 
astretto) 
ha 
scontato 
a 
sua 
volta, 
in 
età 
contemporanea, 
il 
progressivo 
affacciarsi 
della 
consapevolezza 
che 
l'opzione 
di 
politica 
legislativa 
di 
astrarre 
dalle 
differenze 
di 
condizione 
delle 
persone 
non 
è 
di 
per 
sè 
la 
più 
idonea 
ad 
assicurarne 
in 
concreto 
l'eguaglianza, 
sussistendo 
nella 
società 
dominata 
dal 
modo 
di 
produzione 
capitalistico 
rilevanti 
"ostacoli 
di 
ordine 
economico e 
sociale, che, limitando di 
fatto la 
libertà 
e 
l'eguaglianza 
dei 
cittadini, im

rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


pediscono 
il 
pieno 
sviluppo 
della 
persona 
umana 
e 
l'effettiva 
partecipazione 
di 
tutti 
i 
lavoratori 
all'organizzazione 
politica, economica 
e 
sociale 
del 
Paese": 
come 
mirabilmente 
afferma 
l'art. 
3 Cost., comma 2. 
Proprio per ciò, parallelamente 
all'assunzione 
da 
parte 
dei 
pubblici 
poteri 
del 
compito di 
"rimuovere" 
tali 
ostacoli 
di 
fatto, ha 
ricevuto nuova 
legittimazione 
la 
scelta 
politica 
di 
assumere 
gruppi 
e 
categorie 
di 
persone 
come 
punti 
di 
riferimento di 
normative 
speciali, allo scopo di 
farne 
oggetto di 
protezione 
e 
perequazione 
rispetto al 
resto della 
collettività. Ed è 
proprio in 
relazione 
a 
tali 
obiettivi 
di 
eguaglianza 
sostanziale 
che 
la 
dottrina 
è 
tornata 
a 
rivolgere 
la 
sua 
attenzione 
al 
concetto di 
"status", rinvenendovi 
schemi 
utili 
per l'interpretazione 
e 
la 
qualificazione 
degli 
strumenti 
giuridici 
apprestati 
per l'attuazione 
degli 
obiettivi 
protettivi 
e 
perequativi 
fatti propri dalle politiche pubbliche. 
In 
questa 
nuova 
prospettiva, 
la 
nozione 
di 
status 
che 
maggiormente 
ha 
acquistato 
rilievo 
è 
quella 
di 
status 
civitatis, 
declinata 
specialmente 
come 
insieme 
di 
pretese 
a 
prestazioni 
positive 
da 
parte 
dei 
pubblici 
poteri 
che 
possono 
essere 
attribuite 
anche 
a 
chi 
si 
trovi 
temporaneamente 
soggetto alla 
sovranità 
pubblica: 
e 
in specie 
al 
riconoscimento di 
prestazioni 
sociali 
collegate 
a particolari condizioni e qualità dei richiedenti. 
Per tale 
via, lo status 
civitatis 
è 
stato progressivamente 
costruito come 
"status 
activus 
processualis", 
avente 
ad oggetto il 
potere 
di 
avvalersi 
dei 
procedimenti 
amministrativi 
previsti 
dalla 
legge 
per assicurarsi 
le 
prestazioni 
sociali 
volte 
a 
garantire 
la 
protezione 
e 
la 
perequazione 
della 
categoria 
cui 
si 
appartiene 
e 
rendere 
così 
effettiva 
la 
libertà 
astrattamente 
assicurata 
dal 
principio di 
eguaglianza 
formale; 
per converso, la 
libertà 
di 
scelta 
della 
persona, che 
costituisce 
l'acquisizione 
più 
rilevante 
della 
modernità 
giuridica, 
è 
stata 
preservata 
subordinando 
l'attribuzione 
delle 
prestazioni 
ad 
una 
specifica 
domanda 
dell'interessato, 
allo 
scopo 
di 
fugare 
la 
possibilità 
che 
l'attribuzione 
d'ufficio di 
certe 
prestazioni 
valesse 
ad imprimere 
autoritativamente 
al beneficiario una qualità soggettivamente percepita come uno stigma sociale. 
Dell'evoluzione 
che 
dianzi 
s'è 
sommariamente 
tracciata 
è 
stata 
testimone 
la 
stessa 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
di 
legittimità. Essa, infatti, ha 
per un verso (e 
correttamente) negato la 
qualificazione 
di 
status 
all'insieme 
di 
pretese, immunità, facoltà 
e 
poteri 
che 
caratterizzano la 
situazione 
giuridica 
del 
singolo all'interno di 
un dato rapporto contrattuale, riconoscendo che 
in 
tali 
ambiti 
la 
nozione 
non 
ha 
valore 
tecnico-giuridico 
(così 
ad 
es. 
già 
Cass. 
n. 
4732 
del 
1976, a 
proposito del 
c.d. status 
di 
lavoratore 
subordinato), ma 
al 
contempo -superando la 
più restrittiva 
concezione 
di 
Cass. n. 3727 del 
1986, cit. -ha 
affermato che, in seguito allo 
sviluppo della 
tutela 
legislativa 
e 
amministrativa 
delle 
categorie 
di 
cittadini 
più deboli, deve 
ormai 
accogliersi 
una 
più ampia 
nozione 
di 
status, inteso come 
"posizione 
soggettiva, sintesi 
di 
un insieme 
normativo applicabile 
ad una 
determinata 
persona 
e 
rilevante 
per il 
diritto in 
maniera 
non precaria 
nè 
discontinua 
[...], che 
secondo l'apprezzamento comune 
distingue 
un 
soggetto dagli 
altri" 
(così 
Cass. S.u. n. 483 del 
2000, in motivazione); 
ed è 
nella 
medesima 
ottica 
che 
si 
è 
ritenuto che 
il 
principio generale 
della 
previa 
proposizione 
della 
domanda 
amministrativa, 
quale 
condizione 
per l'accesso ad una 
data 
prestazione 
previdenziale 
o assistenziale, 
costituisca 
testimonianza 
della 
"evoluzione 
che 
le 
politiche 
sociali 
hanno 
impresso 
all'antica 
nozione 
di 
status 
civitatis" 
(così 
Cass. n. 5318 del 
2016, in motivazione) e 
si 
è 
logicamente 
giustificato, 
riconducendolo 
alla 
nozione 
di 
status 
di 
"pensionato", 
il 
principio 
di 
imprescrittibilità 
del 
diritto 
alle 
prestazioni 
previdenziali 
o 
assistenziali 
garantite 
dall'art. 
38 
Cost., limitando la 
prescrittibilità 
(e/o l'assoggettabilità 
a 
decadenza) per i 
singoli 
ratei, periodicamente 
risorgenti 
in 
quanto 
oggetto 
di 
un'obbligazione 
pubblica 
di 
durata 
(così 
già 
Cass. 


n. 2243 del 
1988; 
più recentemente, Cass. S.u. n. 10955 del 
2002). Non senza 
precisare 
che 

CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


la 
presentazione 
della 
domanda 
amministrativa, che 
è 
condizione 
di 
proponibilità 
dell'azione 
giudiziaria, condiziona 
lo stesso sorgere 
del 
diritto del 
privato da 
tutelare 
eventualmente 
davanti 
all'autorità 
giudiziaria, diritto che 
non può ritenersi 
sorto (unitamente 
allo speculare 
obbligo 
dell'ente 
previdenziale) 
anteriormente 
al 
perfezionamento 
della 
fattispecie 
a 
formazione 
progressiva 
che 
nella 
presentazione 
della 
domanda 
all'ente 
previdenziale 
trova 
appunto il 
suo 
incipit 
(cfr. in tal senso Cass. n. 732 del 2007; Cass. n. 5318 del 2016, cit.). 
D'altra 
parte, 
riconoscere 
che, 
ogni 
qualvolta 
il 
legislatore 
individua 
una 
particolare 
categoria 
di 
soggetti 
come 
destinataria 
di 
prestazioni 
pubbliche 
con 
finalità 
di 
protezione 
e 
perequazione 
sociale 
costituzionalmente 
garantite, la 
situazione 
giuridica 
dei 
beneficiari 
può e 
deve 
essere 
ricostruita 
in termini 
di 
status, non equivale 
di 
per sè 
a 
privare 
il 
legislatore 
stesso della 
possibilità 
di 
differenziare 
il 
relativo trattamento giuridico (nei 
limiti, s'intende, in cui 
tale 
differenziazione 
non 
debordi 
nell'irrazionalità 
manifesta), 
ma 
vale 
piuttosto 
a 
individuare 
un 
canone 
ermeneutico alla 
cui 
stregua 
ricostruire 
la 
disciplina 
applicabile 
alla 
fattispecie: 
a 
cominciare 
appunto dall'indisponibilità 
o meno delle 
situazioni 
giuridiche 
che 
ne 
formano oggetto 
e 
alla 
consequenziale 
applicazione 
del 
principio secondo cui 
tra 
i 
diritti 
indisponibili, 
che 
ai 
sensi 
dell'art. 2934 c.c., comma 
2, non sono soggetti 
a 
prescrizione, vanno ricompresi 
i 
cosiddetti 
iura status, cioè 
i 
diritti 
relativi 
allo stato e 
alla 
capacità 
delle 
persone 
(così 
già 
Cass. n. 2386 del 1962, seguita da innumerevoli successive conformi). 
È 
alla 
stregua 
di 
tali 
coordinate 
che 
va 
dunque 
affrontata 
la 
questione 
se 
la 
categoria 
di 
"vittima 
del 
dovere" 
tipizzata 
dalla 
L. n. 266 del 
2005, art. 1, commi 
563-564, costituisca 
uno status 
e 
sia 
come 
tale 
imprescrittibile, 
salva 
la 
prescrizione 
dei 
ratei 
delle 
prestazioni 
assistenziali 
previste 
dalla legge. 
va 
anzitutto ricordato, al 
riguardo, che, interpretando le 
disposizioni 
citate, le 
Sezioni 
unite 
di 
questa 
Corte 
hanno già 
chiarito che 
esse 
istituiscono "un diritto di 
natura 
prevalentemente 
assistenziale 
volto a 
prestare 
un ausilio a 
chi 
abbia 
subito un'infermità 
o la 
perdita 
di 
una 
persona 
cara 
a 
causa 
della 
prestazione 
di 
un servizio in favore 
di 
amministrazioni 
pubbliche 
da 
cui 
siano derivati 
particolari 
rischi", il 
quale 
"non rientra 
nello spettro di 
diritti 
e 
doveri 
che 
integrano il 
rapporto di 
lavoro subordinato dei 
dipendenti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche", 
ma 
"si 
colloca 
fuori 
e 
va 
al 
di 
là 
di 
tale 
rapporto, 
contrattualizzato 
o 
meno 
che 
esso 
sia, 
potendo 
riguardare 
anche 
soggetti 
che 
con l'amministrazione 
non abbiano un rapporto di 
lavoro subordinato 
ma 
abbiano 
in 
qualsiasi 
modo 
svolto 
un 
servizio" 
(così 
Cass. 
S.u. 
n. 
23300 
del 
2016, in motivazione, testualmente ripresa da Cass. S.u. n. 22753 del 2018). 
Si 
tratta 
quindi 
di 
provvidenze 
che 
trovano causa 
nella 
morte 
o nell'infermità 
permanente 
che 
abbia 
attinto 
quanti, 
anche 
indipendentemente 
da 
un 
rapporto 
d'impiego 
con 
una 
pubblica 
amministrazione, 
abbiano prestato un servizio a 
beneficio della 
collettività 
da 
cui 
siano derivati 
e 
concretizzati 
in loro danno particolari 
rischi: 
e 
dunque, come 
può senz'altro aggiungersi 
in 
relazione 
alle 
fattispecie 
espressamente 
tipizzate 
dalla 
lettera 
dei 
commi 
563 e 
564 dell’art. 
1, l. n. 266 del 
2005, di 
un servizio che 
a 
sua 
volta 
costituisce 
adempimento di 
un dovere 
nel-
l'interesse della collettività (art. 2 Cost.). 
Diversamente 
da 
quanto 
sostenuto 
dal 
Ministero 
ricorrente, 
inoltre, 
non 
può 
essere 
dubbio 
che 
le 
provvidenze 
in esame 
rientrino nell'ambito della 
tutela 
di 
cui 
all'art. 38 Cost.: 
la 
disposizione 
costituzionale 
ult. cit., nel 
riferirsi 
all'idea 
di 
"sicurezza 
sociale" 
e 
nell'ipotizzare 
soltanto 
due 
modelli 
tipici 
della 
medesima, 
uno 
dei 
quali 
fondato 
unicamente 
sul 
principio 
di 
solidarietà 
(comma 
1) e 
l'altro suscettibile 
di 
essere 
realizzato mediante 
strumenti 
mutualistico-
assicurativi 
(comma 
2), "non esclude 
tuttavia, e 
tantomeno impedisce, che 
il 
legislatore 
ordinario 
delinei 
figure 
speciali 
nel 
pieno 
rispetto 
dei 
principi 
costituzionalmente 
accolti" 



rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


(così, 
testualmente, 
Corte 
Cost. 
n. 
31 
del 
1986). 
E 
se 
è 
vero 
che 
la 
disciplina 
delle 
provvidenze 
dettate 
per le 
vittime 
del 
dovere 
può legittimamente 
considerarsi 
come 
una 
delle 
possibili 
"figure 
speciali 
di 
sicurezza 
sociale", la 
cui 
ratio 
va 
individuata 
nell'apprestare 
peculiari 
ed ulteriori 
forme 
di 
assistenza 
per 
coloro 
che 
siano 
rimasti 
vittima 
dell'adempimento 
di 
un 
dovere 
svolto 
nell'interesse 
della 
collettività, 
che 
li 
abbia 
esposti 
ad 
uno 
speciale 
pericolo 
e 
all'assunzione 
di 
rischi 
qualificati 
rispetto 
a 
quelli 
in 
cui 
può 
incorrere 
la 
restante 
platea 
dei 
dipendenti 
pubblici 
o degli 
incaricati 
di 
un pubblico servizio (così 
Cass. n. 29204 del 
2021), non si 
possono 
non ravvisare 
nella 
situazione 
giuridica 
istituita 
dal 
legislatore 
tutti 
i 
presupposti 
dello 
status, 
nello 
specifico 
senso 
di 
cui 
dianzi 
s'è 
detto: 
valendo 
la 
categoria 
di 
"vittima 
del 
dovere" 
a 
differenziare 
una 
particolare 
categoria 
di 
soggetti 
al 
fine 
di 
apprestare 
loro un insieme 
di 
benefici previsti dalla legge e riepilogati dal D.P.r. n. 243 del 2006, art. 4. 
vale 
la 
pena 
di 
rimarcare 
che, 
nel 
sistema 
così 
delineato, 
la 
domanda 
dell'interessato 
deve 
considerarsi 
pur sempre 
condicio sine 
qua non 
per il 
riconoscimento della 
condizione 
di 
"vittima 
del 
dovere", non potendo attribuirsi 
alla 
disposizione 
regolamentare 
di 
cui 
al 
D.P.r. n. 
243 del 
2006, art. 3 (che 
statuisce 
che 
"in mancanza 
di 
domanda 
si 
può procedere 
d'ufficio") 
alcuna 
valenza 
derogatoria 
ad 
un 
principio 
che, 
per 
gli 
status 
activae 
processualis, 
ha 
valenza, 
come 
dianzi 
s'è 
visto, 
di 
diritto 
di 
libertà 
costituzionalmente 
garantito: 
e 
sotto 
tale 
profilo, 
anzi, va 
senz'altro corretta 
la 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in cui 
ha 
tratto dalla 
previsione 
regolamentare 
testè 
cit. argomenti 
per suffragare 
la 
conclusione 
circa 
l'imprescrittibilità 
della 
pretesa, che 
viceversa 
discende 
ex 
se 
dalla 
riconosciuta 
natura 
di 
status 
della 
condizione 
di 
vittima 
del 
dovere 
e 
non 
già 
da 
una 
inesistente 
facoltà 
dell'amministrazione 
di 
attribuirla 
d'ufficio. 
resta 
per 
contro 
ferma 
la 
conclusione 
dei 
giudici 
di 
merito 
secondo 
cui 
l'imprescrittibilità 
dell'azione 
volta 
all'accertamento dello status 
di 
vittima 
del 
dovere 
non si 
estende 
ai 
benefici 
economici 
che 
in 
tale 
status 
trovano 
il 
loro 
presupposto, 
come 
nella 
specie 
il 
diritto 
all'assegno 
mensile 
vitalizio 
L. 
n. 
407 
del 
2008, 
ex 
art. 
2, 
e 
all'assegno 
mensile 
vitalizio 
L. 
n. 
206 
del 
2004, 
ex 
art. 
5, 
comma 
3, 
i 
quali 
-unitamente 
al 
diritto 
all'assistenza 
psicologica 
a 
carico 
dello 
Stato, all'esenzione 
dalla 
partecipazione 
alla 
spesa 
sanitaria 
e 
all'erogazione 
a 
carico del 
Servizio 
sanitario nazionale 
dei 
medicinali 
attualmente 
classificati 
in classe 
"C", L. n. 206 del 
2004, ex artt. 6 e 
9 -sono stati 
riconosciuti 
nel 
caso di 
specie 
all'odierno controricorrente 
nei 
limiti 
prescrizionali; 
ed 
è 
appena 
il 
caso 
di 
soggiungere 
che, 
diversamente 
da 
quanto 
sostenuto 
dal 
Ministero ricorrente, contrari 
argomenti 
non possono farsi 
discendere 
da 
Corte 
Cost. n. 
106 del 2008, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale 
del 
D.P.r. n. 915 del 
1978, art. 99, comma 
2, nella 
parte 
in cui 
prevede 
un termine 
quinquennale 
di 
prescrizione 
per il 
trattamento pensionistico di 
guerra 
limitatamente 
al 
caso 
in cui 
l'invalidità 
o la 
morte 
derivino da 
lesioni 
d'arma 
da 
fuoco di 
origine 
bellica 
o da 
esplosione 
di 
un ordigno bellico provocata 
da 
un minorenne: 
è 
sufficiente 
al 
riguardo considerare 
che, 
mentre 
in 
quel 
caso 
si 
trattava 
di 
giudicare 
della 
legittimità 
costituzionale 
di 
una 
peculiare 
disciplina 
della 
prescrizione 
di 
uno speciale 
trattamento pensionistico, qui 
si 
tratta 
di 
individuare, 
in assenza 
di 
una 
specifica 
disposizione 
di 
legge, quale 
sia 
la 
generale 
disciplina 
della 
prescrizione 
delle 
provvidenze 
in 
questione 
e, 
in 
specie, 
se 
ed 
in 
che 
termini 
essa 
vada 
ripetuta 
dalla norma generale dell'art. 2934 c.c., comma 2. 
Il 
ricorso, pertanto, va 
rigettato, provvedendosi 
come 
da 
dispositivo sulle 
spese 
del 
giudizio 
di 
legittimità, che 
seguono la 
soccombenza 
e 
si 
distraggono in favore 
del 
difensore 
delle 
parti 
controricorrenti, dichiaratosi antistatario. 
Non potendo trovare 
applicazione 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
dello Stato il 
D.P.r. n. 



CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


115 del 
2002, art. 13, comma 
1-quater, nel 
testo introdotto dalla 
L. n. 228 del 
2012, art. 1, 
comma 
17, essendo le 
medesime 
esentate, mediante 
il 
meccanismo della 
prenotazione 
a 
debito, 
dal 
pagamento 
delle 
imposte 
e 
tasse 
che 
gravano 
sul 
processo 
(cfr. 
Cass. 
n. 
1778 
del 
2016), non v'ha luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato. 

P.Q.M. 
La 
Corte 
rigetta 
il 
ricorso e 
condanna 
le, parti 
ricorrenti 
alla 
rifusione 
delle 
spese 
del 
giudizio 
di 
legittimità, 
che 
si 
liquidano 
in 
Euro 
3.200,00, 
di 
cui 
Euro 
3.000,00 
per 
compensi, 
oltre 
spese 
generali 
in misura 
pari 
al 
15% e 
accessori 
di 
legge, e 
si 
distraggono in favore 
del 
difensore 
di parte controricorrente, dichiaratosi antistatario. 
Così deciso in roma, nella camera di consiglio, il 2 febbraio 2022. 


rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Benefici a favore delle vittime dei reati di stampo mafioso 


CoNsiglio 
di 
stato, sezioNe 
terza, seNteNza 
14 febbraio 
2022 N. 1072 


La 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
n. 
1072 
del 
2022, 
previo 
rigetto 
del 
primo 
motivo 
dell’Amministrazione 
appellante 
con 
il 
quale 
si 
ribadiva 
il 
difetto 
di 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
(come 
affermato 
sia 
dalla 
precedente 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
-sentt. 
5818/2009; 
1338/2006 
-che 
della 
Corte 
di 
cassazione 
-sentt. 
SS.uu. 
26626/2007; 
21927/2008; 
23300/2016; 
7761/2017), 
ha 
accolto 
il 
secondo 
motivo 
attinente 
alla 
insussistenza 
del 
requisito 
della 
“totale 
estraneità 
ad 
ambienti 
e 
a 
rapporti 
delinquenziali”. 


Sotto 
il 
primo 
profilo, 
il 
Consiglio 
ha 
affermato 
che 
“L'accertamento 
circa 
la 
sussistenza 
del 
presupposto di 
cui 
all’art. 1 comma 
2 legge 
n. 302/1990 si 
traduce 
in una 
delicata 
attività 
valutativa 
di 
contenuto ampiamente 
discrezionale, 
innervata 
da 
interessi 
di 
rilevanza 
pubblicistica 
e 
sindacabile 
nei 
(noti) 
limiti 
delle 
figure 
sintomatiche 
dell'eccesso 
di 
potere 
(in 
particolare: 
manifesta 
illogicità, 
irragionevolezza, 
disparità 
di 
trattamento): 
per 
l’insieme 
di 
tali 
connotati, 
tale 
tipologia 
di 
contenzioso 
non 
può 
che 
logicamente 
accedere 
alla 
cognizione 
del giudice deputato allo scrutinio del potere amministrativo”. 


Quanto al 
secondo profilo e 
alla 
portata 
della 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
1, comma 
2, lettera 
b) legge 
n. 302 del 
1990, il 
Consiglio di 
Stato ha 
chiarito 
che 
la 
sua 
più 
condivisibile 
interpretazione 
“impone 
di 
escludere 
l’attribuzione 
del 
beneficio 
anche 
in 
presenza 
di 
un 
ragionevole 
dubbio 
ovvero 
di 
un 
sospetto 
della 
non totale 
estraneità 
del 
soggetto leso agli 
ambienti 
delinquenziali, ed a 
rapporti 
con 
tali 
ambienti” 
atteso 
che 
“trattandosi 
di 
benefici 
da 
accordare 
piuttosto 
che 
di 
sanzioni 
da 
comminare 
-e 
per di 
più per fatti 
e 
persone 
per i 
quali 
la 
vischiosità 
del 
fenomeno 
mafioso 
ha 
modo 
di 
manifestarsi 
in 
tutte 
le 
sue 
molteplici 
valenze 
-il 
principio 
"in 
dubio 
pro 
reo" 
non 
ha 
motivo 
di 
sussistere, 
dovendo piuttosto operare, per il 
miglior conseguimento delle 
particolati 
finalità 
riparatorie/premiali 
cui 
tende 
la 
norma, l'opposto principio per il 
quale 
il dubbio giustifica la mancata attribuzione”. 


Wally Ferrante 
* 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
terza, sentenza 14 febbraio 2022 n. 1072 
-Pres. G. veltri, est. 


G. 
Pescatore 
-Ministero 
dell'Interno 
(avv. 
gen. 
dello 
Stato) 
c. 
OMISSIS 
(avv. 
Giuseppe 
Mazzotta). 
FAttO e DIrIttO 


1. Nel 
giudizio di 
primo grado celebrato innanzi 
al 
tar Calabria 
e 
conclusosi 
con la 
sentenza 
qui 
appellata, gli 
odierni 
appellati 
hanno chiesto l’annullamento del 
decreto ministeriale 
del 
(*) Avvocato dello Stato. 



CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


11 ottobre 
2013 recante 
il 
rigetto dell’istanza 
da 
loro avanzata 
per la 
concessione 
dei 
benefici 
previsti dalla legge n. 302/1990. 


2. 
respinta 
l’eccezione 
di 
difetto 
di 
giurisdizione 
sollevata 
dall’amministrazione, 
il 
tar 
ha 
accolto il 
ricorso e 
annullato il 
provvedimento impugnato, con salvezza 
delle 
successive 
determinazioni 
dell’amministrazione in sede di riesercizio del potere. 
3. 
A 
parti 
rovesciate, 
i 
temi 
del 
contendere 
già 
svolti 
in 
primo 
grado 
si 
ripropongono 
in 
questa 
sede, 
per 
il 
tramite 
dei 
due 
motivi 
di 
impugnazione 
svolti 
dal 
Ministero 
in 
punto 
giurisdizione 
e sussistenza dei presupposti del beneficio di legge. 
4. A 
seguito della 
rinuncia 
all’istanza 
cautelare, la 
causa 
è 
stata 
posta 
in decisione 
all’udienza 
pubblica del 10 febbraio 2022. 
5. 
Nella 
sentenza 
impugnata 
il 
giudice 
di 
prime 
cure, 
pur 
ammettendo 
“l’esistenza 
di 
un 
orientamento 
giurisprudenziale 
incline 
a 
riconoscere, 
per 
le 
controversie 
de 
quibus, 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario” 
(pag. 5 della 
sentenza 
impugnata), ha 
affermato la 
propria 
cognizione 
in materia, ritenendo sussistente, nel 
caso di 
specie, una 
posizione 
soggettiva 
di 
interesse 
legittimo. 
5.1. 
L’Amministrazione 
appellante 
reputa, 
al 
contrario, 
che 
la 
giurisdizione 
in 
tema 
di 
controversie 
relative 
al 
riconoscimento 
delle 
speciali 
elargizioni 
previste 
dalle 
leggi 
in 
favore 
di 
varie 
categorie 
di 
soggetti 
legislativamente 
individuati 
(vittime 
del 
dovere, 
vittime 
del 
terrorismo 
e 
della 
criminalità 
organizzata) 
rientri 
nella 
competenza 
del 
giudice 
ordinario, 
“in 
quanto 
la 
posizione 
soggettiva 
degli 
aspiranti 
beneficiari 
si 
configura 
quale 
vero 
e 
proprio 
diritto 
soggettivo, 
essendo 
la 
P.a. 
priva 
di 
ogni 
potere 
discrezionale 
sia 
con 
riguardo 
ai 
presupposti 
dell'erogabilità, 
circoscritti 
alla 
qualificazione 
dell'evento 
come 
riconducibile 
ad 
uno 
di 
quelli 
tipici, 
sia 
con 
riferimento 
all'entità 
della 
somma 
da 
erogare, 
prefissata 
dalla 
legge”. 
5.2. Il motivo non può essere accolto. 
L'accertamento 
circa 
la 
sussistenza 
del 
presupposto 
di 
cui 
all’art. 
1 
comma 
2 
legge 
n. 
302/1990 
si 
traduce 
in una 
delicata 
attività 
valutativa 
di 
contenuto ampiamente 
discrezionale, innervata 
da 
interessi 
di 
rilevanza 
pubblicistica 
e 
sindacabile 
nei 
(noti) limiti 
delle 
figure 
sintomatiche 
dell'eccesso di 
potere 
(in particolare: 
manifesta 
illogicità, irragionevolezza, disparità 
di 
trattamento): 
per 
l’insieme 
di 
tali 
connotati, 
tale 
tipologia 
di 
contenzioso 
non 
può 
che 
logicamente 
accedere 
alla 
cognizione 
del 
giudice 
deputato allo scrutinio del 
potere 
amministrativo (Cons. 
Stato, sez. III, n. 1349/2020). 
5.3. La 
prospettata 
alternativa 
del 
carattere 
vincolato del 
potere 
non varrebbe 
comunque 
ad 
alterare l’attribuzione della giurisdizione. 
Questa 
Sezione 
ha 
di 
recente 
osservato -con la 
pronuncia 
n. 6371/2020, alle 
cui 
più ampie 
argomentazioni 
si 
rimanda 
-che 
il 
vincolo, 
o 
detto 
altrimenti, 
l’assenza 
di 
discrezionalità 
amministrativa, 
non 
riduce 
il 
potere 
ad 
un’obbligazione 
civilistica, 
poiché 
l’amministrazione 
esercita 
in 
questi 
casi 
una 
funzione 
di 
verifica, 
controllo, 
accertamento 
tecnico 
dei 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge, 
quale 
soggetto 
incaricato 
della 
cura 
di 
interessi 
pubblici 
generali, 
esulanti 
dalla mera sfera patrimoniale. 
Il 
potere, 
dunque, 
rimane 
espressione 
di 
“supremazia”, 
o 
in 
termini 
più 
moderni 
di 
“funzione”, 
anche se l’an 
e il 
quomodo 
del suo esercizio sono predeterminati dalla legge. 
Ciò 
che 
muta 
in 
conseguenza 
del 
vincolo 
è 
piuttosto 
la 
modalità 
di 
tutela 
nel 
senso 
che, 
quando 
l’intermediazione 
è 
prevista 
dalla 
legge 
secondo 
uno 
schema 
rigidamente 
predeterminato, 
tale 
da 
non lasciare 
margini 
di 
scelta 
all’amministrazione 
al 
ricorrere 
dei 
richiesti 
presupposti, la 
tutela 
della 
situazione 
giuridica 
comporta 
un giudizio sulla 
spettanza 
che 
può sfociare, contestualmente 
all’annullamento 
del 
provvedimento 
illegittimo, 
nella 
condanna 
dell’ammini

rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


strazione 
all’emanazione 
dell’atto dovuto (art. 34 lett. c. e 
31 comma 
3 c.p.a.), secondo una 
schema 
per il 
quale 
è 
soltanto il 
cattivo esercizio del 
potere 
(secondo l’accertamento che 
ne 
fa 
il 
giudice 
amministrativo) 
a 
generare 
l’obbligazione 
di 
facere 
pubblicistico, 
e 
non 
già 
il 
potere vincolato ad essere esso stesso configurabile come un’obbligazione. 
Del 
resto, che 
il 
vincolo al 
potere 
non muti 
i 
termini 
del 
riparto di 
giurisdizione 
emerge 
chiaramente 
dalle 
numerose 
disposizioni 
del 
codice 
del 
processo 
amministrativo 
o 
della 
legge 
generale 
sul 
procedimento 
amministrativo 
che 
dedicano 
all’area 
vincolata 
dell’azione 
amministrativa 
norme 
ad hoc, funzionali 
al 
principio di 
satisfattività 
e 
pienezza 
delle 
tutela 
dell’interesse 
sostanziale, destinate 
a 
trovare 
applicazione 
proprio nell’alveo della 
giurisdizione 
amministrativa. 
Oltre 
all’azione 
di 
adempimento, 
sopra 
cennata, 
si 
pensi 
all’azione 
tesa 
a 
contrastare 
l’inerzia 
della 
pubblica 
amministrazione, ex art. 31 comma 
3, ovvero, sul 
versante 
opposto, 
alle 
norme 
che, 
esaltando 
la 
componente 
sostanziale 
e 
soggettiva 
dell’interesse 
legittimo (il 
cd. “bene 
della 
vita”) inibiscono il 
potere 
giudiziale 
di 
annullamento del 
giudice 
amministrativo in ordine 
a 
provvedimenti 
adottati 
in violazione 
di 
norme 
sul 
procedimento o 
sulla 
forma 
degli 
atti 
qualora, “per 
la natura vincolata del 
provvedimento, sia palese 
che 
il 
suo contenuto dispositivo non avrebbe 
potuto essere 
diverso da quello in concreto adottato” 


(v. Cons. Stato, sez. III, n. 6371/2020). 
5.4. Nel 
caso in esame, le 
disposizioni 
di 
interesse 
delineano un potere 
amministrativo il 
cui 
esercizio 
-anche 
ove 
voglia 
definirsi 
vincolato, 
sussumendo, 
in 
ipotesi, 
le 
valutazioni 
ivi 
contemplate 
nell’area 
della 
complessità 
del 
“fatto”, piuttosto che 
in quella 
della 
discrezionalità 
propriamente 
detta 
-intermedia 
la 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
del 
cittadino che 
aspira 
ad 
ottenere 
il 
beneficio 
economico, 
al 
fine 
di 
verificare 
il 
ricorrere 
di 
alcune 
specifiche 
condizioni 
prese 
in considerazione 
dalla 
legge 
a 
tutela 
dell’interesse 
pubblico al 
corretto utilizzo delle 
risorse e al buon andamento dell’amministrazione. 
6. Per accedere 
al 
merito della 
controversia 
(oggetto del 
secondo motivo di 
appello), occorre 
riepilogare i fatti all’origine del contenzioso. 
6.1. I sig.ri 
OMISSIS, sono rispettivamente 
coniuge 
e 
figli 
del 
sig. OMISSIS 
deceduto a 
seguito 
di un evento criminoso verificatosi in reggio Calabria il 31 marzo 1987. 
Il 
beneficio del 
quale 
chiedono di 
poter essere 
destinatari 
è 
previsto dalla 
legge 
n. 302/1990 
in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. 
6.2. 
L’art. 
1, 
comma 
2, 
della 
legge 
n. 
302 
subordina 
il 
riconoscimento 
economico 
alla 
duplice 
condizione 
che 
“a) il 
soggetto leso non abbia concorso alla commissione 
del 
fatto delittuoso 
lesivo …” e “b) risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali …”. 
6.3. L’atto di 
diniego qui 
controverso mette 
in discussione 
propria 
questa 
seconda 
condizione 
e 
lo fa 
traendo argomenti 
dalla 
relazione 
del 
17 dicembre 
2007 della 
Prefettura 
di 
reggio Calabria, 
la 
quale 
a 
sua 
volta 
richiama 
il 
parere 
contrario espresso dal 
Prefetto nel 
2007, confermato 
con note del 9 aprile del 2009 e del 2 maggio 2013. 
Altra 
fonte 
conoscitiva 
è 
costituita 
dalla 
sentenza 
n. 
... 
emessa 
sull’episodio 
delittuoso 
dal 
G.u.P. 
presso 
il 
tribunale 
di 
reggio 
Calabria 
e 
recante 
la 
condanna 
di 
tale 
M.B., 
quale 
autore 
materiale e responsabile in concorso dell’omicidio di OMISSIS. 
Alla 
stregua 
di 
tali 
risultanze 
l’amministrazione 
ha 
inquadrato il 
delitto in parola 
nell’ambito 
della 
faida 
mafiosa 
sviluppatasi 
tra 
la 
famiglia 
r. e 
quella 
L.G.; 
ma 
ha 
al 
contempo ritenuto 
che 
gli 
elementi 
che 
connotano la 
vicenda, pur facendo emergere 
la 
matrice 
mafiosa 
richiesta 
dall’art. 1, comma 
2 della 
legge 
n. 302/1990, non dimostrino in modo sufficiente 
l’estraneità 
dello 
stesso 
OMISSIS 
agli 
ambienti 
e 
ai 
rapporti 
delinquenziali, 
come 
richiesta 
dalla 
suindicata 
norma alla lett. b). 

CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


6.4. Gli 
elementi 
messi 
a 
frutto di 
questa 
conclusione 
e 
ritraibili 
dalla 
sentenza 
di 
condanna 
del 2012, evidenziano in particolare che: 
-la 
vittima, sino ad alcuni 
mesi 
prima 
dell’omicidio, aveva 
lavorato come 
cuoco presso il 
ristorante 
di 
proprietà 
della 
famiglia 
r. e 
gestito dal 
defunto r.D., ben noto per le 
numerose 
vicende 
giudiziarie 
che 
lo avevano visto implicato in procedimenti 
per il 
reato di 
cui 
all’art. 
416-bis c.p.; 
-il 
rapporto di 
lavoro era 
durato solo tre 
mesi, fino a 
quando i 
r. erano stati 
tratti 
in arresto; 
ma 
la 
cessazione 
del 
rapporto non aveva 
incrinato i 
rapporti 
di 
amicizia 
del 
OMISSIS 
con la 
famiglia 
r. 
a 
favore 
della 
quale, 
anche 
dopo 
la 
chiusura 
del 
ristorante, 
il 
primo 
si 
era 
prodigato 
per reperire un pizzaiolo da destinare all’avvio del nuovo locale della famiglia; 
-probabilmente 
OMISSIS 
(stando 
alle 
dichiarazioni 
rese 
dalla 
moglie 
e 
riportate 
in 
sentenza) 
aveva 
anche 
fatto visita 
a 
r.D., allorché 
questi 
si 
trovava 
detenuto agli 
arresti 
domiciliari, ed 
in ogni caso aveva partecipato ai funerali di r.A., ucciso nel luglio 1986; 
-B.G., 
legato 
alla 
famiglia 
mafiosa 
dei 
L.G., 
ha 
inoltre 
riferito 
come, 
subito 
dopo 
avere 
subito 
un attentato alla vita, il OMISSIS si fosse recato a fargli visita; 
-dalle 
dichiarazioni 
di 
M. è 
emerso inoltre 
che 
la 
decisione 
omicidiaria 
scaturì, su assenso 
concorde 
di 
molti 
affiliati 
al 
clan, 
dalla 
convinzione 
che 
OMISSIS 
fosse 
parte 
del 
clan 
r., 
ovvero 
“uno del gruppo dei r.” o un loro “basista” (v. pag. 65 della sentenza 2012); 
-la 
stessa 
motivazione 
resa 
dal 
giudice 
penale 
avvalora 
la 
causale 
dell’omicidio come 
“quasi 
fortuita” 
(pag. 
76), 
ovvero 
come 
originata 
da 
una 
volontà 
di 
eliminare 
“tutti 
i 
potenziali 
nemici 
del 
gruppo, anche 
quelli 
solo sospettati, nella mente 
degli 
autori, di 
essere 
potenzialmente 
vicini 
al 
gruppo rivale 
(come 
nel 
caso omissis), al 
solo fine 
di 
epurare 
in via preventiva le 
potenziali 
“spie”” 
(pag. 77). La 
tesi 
trova 
parziale 
conferma 
nelle 
dichiarazioni 
rese 
da 
altro 
collaboratore 
di 
giustizia, tale 
L.G.u. (“non abbiamo mai 
capito perché 
sia stato ucciso dal 
momento che 
non svolgeva una militanza attiva in nostro favore” 
-v. pag. 64 sentenza 
2012). 
Nella 
pronuncia 
penale 
si 
legge 
ancora: 
“anche 
la 
causale 
degli 
omicidi, 
nel 
caso 
del 
omissis 
quasi 
fortuita, che 
imponeva nella terribile 
atmosfera della guerra di 
mafia l’onere 
per 
qualsivoglia 
soggetto ‘vicino’ 
(anche 
in senso lato) ad uno dei 
due 
gruppi 
di 
assumere 
una posizione 
netta, al 
punto che 
anche 
il 
solo accettare 
il 
sostegno economico degli 
avversari 
(nel 
caso del 
P.) o l’attitudine 
a ‘bazzicare’ 
per 
motivi 
professionali, di 
lavoro, di 
parentela in ... 
(nel 
caso 
del 
omissis), 
essendo 
etichettabile, 
agli 
occhi 
dei 
terzi, 
come 
personaggio 
prossimo 
agli 
odiati 
rivali 
i 
r., sono state 
incredibilmente 
condizioni 
sufficienti 
a costituire 
un rischio 
inaccettabile, che gli stessi hanno pagato con la vita” (pag. 76); 
-nel 
motivare 
le 
determinazioni 
in punto di 
applicazione 
del 
beneficio della 
continuazione 
tra 
i 
tre 
episodi 
delittuosi 
oggetto d’accertamento, il 
giudice 
penale 
rimarca, infine, come 
le 
scelte 
omicidiarie 
fossero da 
intendersi 
come 
“frutto di 
un sopravvenuto ed unitario clima di 
terrore 
e 
di 
propositi 
di 
reciproca 
eliminazione 
delle 
‘presunte’file 
altrui 
o 
punitive 
di 
infedeltà 
interne” (pag. 78). 
7. 
Il 
tar 
reggio 
Calabria, 
come 
detto, 
ha 
accolto 
il 
ricorso, 
ritenendo 
fondate 
le 
doglianze 
con 
le 
quali 
i 
ricorrenti 
avevano 
denunciato 
il 
difetto 
di 
motivazione 
e 
di 
istruttoria 
in 
relazione 
alla 
sussistenza 
del 
requisito 
della 
completa 
estraneità 
della 
vittima 
ad 
ambienti 
e 
rapporti 
delinquenziali. 
7.1. Secondo la 
pronuncia 
di 
primo grado, vi 
sarebbe 
“una insanabile 
contraddizione 
tra la 
delibazione 
negativa compiuta sull’anzidetto presupposto e 
le 
risultanze 
processuali 
che 
non 
sembrano invero in alcun modo sorreggerla”. 
Nel 
corso 
del 
processo 
penale 
si 
sarebbe 
infatti 
appurato 
che 
la 
vittima, 
non 
affiliata 
a 
nessuna 

rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


delle 
due 
cosche 
rivali, 
era 
sospettata 
di 
appartenere 
a 
quella 
dei 
r. 
sulla 
base 
di 
elementi 
di 
scarsa 
consistenza 
e 
poi 
definitivamente 
sconfessati, 
quali, 
“da 
un 
lato 
.. 
la 
frequentazione 
pressoché 
quotidiana 
del 
omissis 
nel 
quartiere 
di 
..., 
notoriamente 
ritenuto 
di 
pertinenza 
della 
famiglia 
r.; 
dall’altro 
lato, 
.. 
l’attività 
lavorativa 
di 
cuoco 
svolta 
fino 
a 
qualche 
mese 
prima 
del 
delitto 
presso 
uno 
dei 
locali 
appartenenti 
alla 
anzidetta 
famiglia”. 
Il 
tar 
ha 
poi 
osservato 
che 
“quanto 
all’elemento 
principale 
della 
postulata 
vicinanza 
alla 
famiglia 
r., 
il 
collaboratore 
l., 
appartenente 
alla 
medesima 
cosca, 
affermava 
testualmente 
(in 
sede 
di 
interrogatorio 
reso 
ai 
pubblici 
ministeri 
il 
cui 
verbale 
veniva 
acquisito 
al 
fascicolo 
del 
giudizio 
abbreviato) 
di 
non 
aver 
mai 
capito 
le 
ragioni 
dell’omicidio 
del 
omissis, 
non 
svolgendo 
egli 
“una 
militanza 
attiva 
a 
nostro 
favore”. 
evidente 
il 
significato 
attribuibile 
a 
tale 
dichiarazione, 
gravitando 
egli 
nei 
ranghi 
della 
medesima 
consorteria 
mafiosa 
ed 
essendo 
quindi 
certamente 
a 
conoscenza 
del 
relativo 
organigramma 
e 
dei 
ruoli 
rivestiti 
da 
ciascuno 
affiliato. 
Né 
le 
dichiarazioni 
dell’altro 
collaboratore, 
l.U.g., 
appartenente 
al 
clan 
rivale 
-al 
di 
là 
della 
relativa 
omessa 
considerazione 
nel 
provvedimento 
-sembrano 
porsi 
in 
contraddizione 
con 
quelle 
del 
m., 
avendo 
egli 
riferito 
che 
la 
decisione 
dell’uccisione 
del 
omissis 
era 
stata 
assunta 
dai 
vertici 
della 
cosca 
nel 
convincimento 
che 
lo 
stesso 
facesse 
parte 
della 
famiglia 
r., 
desunto 
dal 
fatto 
che 
spesso 
frequentasse 
... 
e 
che 
lavorasse 
alle 
loro 
dipendenze; 
con 
ciò 
ipotizzandosi 
che 
potesse 
essere 
un 
‘basista’, 
cioè 
un 
soggetto 
delegato 
a 
comunicare 
ai 
propri 
sodali 
i 
loro 
spostamenti. 
stante 
l’assenza 
di 
ulteriori 
e 
più 
specifici 
dettagli 
sulla 
ritenuta 
intraneità 
della 
vittima 
alla 
cosca 
r., 
ne 
risulta 
confermata 
l’idea 
che 
la 
scelta 
della 
relativa 
eliminazione 
fosse 
da 
ricondurre 
alla 
precisa 
volontà 
di 
neutralizzare 
tutti 
i 
potenziali 
componenti 
della 
consorteria 
rivale, 
anche 
quelli 
di 
incerta 
collocazione 
e 
per 
ciò 
ritenuti, 
a 
maggior 
ragione, 
particolarmente 
pericolosi. 
d’altro 
canto, 
nella 
sentenza, 
proprio 
alla 
luce 
delle 
dichiarazioni 
rese 
dai 
collaboratori, 
viene 
evidenziata 
.. 
l’accidentalità 
della 
morte 
del 
omissis… 
Quanto poi 
al 
dato della frequentazione 
da parte 
della vittima del 
quartiere 
di 
... nella stessa 
sentenza se 
ne 
riconduce 
la ragione 
a motivi 
di 
carattere 
personale, ivi 
svolgendo attività lavorativa 
come parrucchiera la moglie, odierna ricorrente”. 
Conclude 
il 
tar che 
“di 
tali 
circostanze 
-così 
come, analogamente, delle 
dichiarazioni 
rese 
nel 
corso 
delle 
indagini 
preliminari 
dalla 
moglie 
della 
vittima, 
la 
quale 
aveva 
riferito 
dei 
buoni 
rapporti 
tra il 
marito e 
la famiglia r. e 
della partecipazione 
dello stesso al 
funerale 
di 
uno dei 
familiari 
-non v’è 
alcuna traccia nella motivazione 
del 
provvedimento impugnato, 
che 
per 
ciò solo deve 
ritenersi 
perentoriamente 
carente 
nell’enunciazione 
delle 
ragioni 
poste 
a fondamento della dedotta insussistenza del 
presupposto di 
cui 
alla lett. b) del 
co. 2 dell’art. 
1 della legge n. 302/1990”. 


7.2. Opposta 
è 
la 
lettura 
degli 
atti 
proposta 
dal 
Ministero appellante 
e 
tutta 
atteggiata 
su una 
interpretazione 
restrittiva 
della 
condizione 
-imposta 
dall’art. 1, comma 
2, lett. b) della 
legge 
320/1990 - della totale estraneità della vittima ad ambienti e rapporti delinquenziali. 
7.3. L’impostazione dell’atto di appello è condivisibile. 
7.4. 
va 
innanzitutto 
chiarito 
che 
il 
provvedimento 
di 
diniego 
non 
merita 
censure 
sotto 
il 
profilo 
del 
“difetto 
di 
istruttoria” 
ovvero 
del 
suo 
“laconico 
contenuto 
esplicativo” 
(p. 
9 
e 
10 
sentenza 
appellata), 
poiché 
l’obbligo 
della 
motivazione 
può 
ritenersi 
assolto 
anche 
per 
relationem 
quando 
le 
ragioni 
dell’agire 
amministrativo 
possono 
agevolmente 
ricavarsi, 
oltre 
che 
dall’atto 
conclusivo 
dell’iter 
procedimentale, 
dalla 
lettura 
degli 
atti 
afferenti 
alle 
diverse 
fasi 
nelle 
quali 
questo si 
articola. Al 
contempo, “non è 
necessario che 
eventuali 
responsabilità della vittima 

CONtENzIOSO 
NAzIONALE 


trovino 
sostegno 
in 
decisioni 
dell’autorità 
giurisdizionale 
passate 
in 
giudicato, 
ma 
è 
sufficiente 
che 
da 
precedenti 
attività 
investigative 
e 
da 
atti 
in 
possesso 
dell’amministrazione 
emergano 
rapporti 
di 
contiguità 
e/o 
frequentazione 
idonei 
ad 
inficiare 
la 
condizione 
di 
totale 
estraneità 
ad 
ambienti 
con 
propensione 
ad 
attività 
delittuose” 
(Cons. 
Stato, 
sez. 
I, 
n. 
3263/2003). 
Nel 
caso 
di 
specie, 
le 
motivazioni 
espresse 
dal 
Ministero 
nell’atto 
di 
diniego 
fanno 
riferimento 
ad un ampio corredo istruttorio, certamente 
noto e 
accessibile 
alla 
parte, del 
quale 
è 
stata 
resa 
una 
lettura 
sinteticamente 
compendiata 
in 
formule 
esplicative 
succinte, 
ma 
meglio 
decrittabili 
proprio alla luce dei rimandi ai dati fattuali lì rinvenibili. 
L’ampia 
e 
analitica 
disamina 
dei 
singoli 
profili 
effettuata 
nel 
corso 
del 
giudizio 
di 
primo 
grado 
rende 
conferma 
del 
carattere 
“ellittico” 
o “contratto” 
(ma 
certamente 
non assente) della 
motivazione 
del 
provvedimento 
ministeriale, 
non 
a 
caso 
sviscerata 
attraverso 
l’analisi 
dei 
plurimi 
elementi sostanziali in essa implicati. 


7.5. venendo alla 
portata 
della 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 1, comma 
2, lettera 
b) legge 
n. 302 
del 
1990, 
la 
sua 
più 
condivisibile 
interpretazione, 
avallata 
dalla 
giurisprudenza 
anche 
di 
questa 
Sezione, 
impone 
di 
escludere 
l’attribuzione 
del 
beneficio 
“anche 
in 
presenza 
di 
un 
ragionevole 
dubbio ovvero di 
un sospetto della non totale 
estraneità del 
soggetto leso agli 
ambienti 
delinquenziali, 
ed a rapporti 
con tali 
ambienti” 
(Cons. Stato, sez. III, n. 1349/2020; 
id. sez. vI, 
n. 2756/2007 e n. 7954/2006). 
7.6. Nel 
caso di 
specie, agli 
atti 
del 
procedimento emergono svariati 
elementi 
sulla 
base 
dei 
quali 
l’amministrazione 
ha 
motivatamente 
ritenuto 
di 
non 
poter 
sciogliere 
definitivamente 
ogni 
margine 
di 
riserva 
sull’effettivo posizionamento del 
OMISSIS, ovvero sulla 
natura 
dei 
suoi 
rapporti 
con la 
famiglia 
r.: 
detti 
tratti 
di 
residuale 
ambiguità 
si 
pongono in rapporto di 
distonia 
con la 
sua 
prospettata, assoluta 
e 
inequivocabile 
estraneità 
agli 
ambienti 
criminali 
in 
cui è maturato l’omicidio. 
Come 
esposto, occorre 
infatti 
che 
detta 
condizione 
negativa 
di 
estraneità 
al 
contesto mafioso 
presenti 
i 
caratteri 
della 
assoluta 
'totalità', dovendosi 
perciò escludere 
che 
possano rientrarsi 
quei 
casi 
nei 
quali 
è 
possibile 
coltivare 
dubbi 
sulla 
effettiva 
e, 
appunto, 
radicale 
estraneità 
della 
vittima, dubbi 
che 
ben possono manifestarsi 
anche 
alla 
stregua 
di 
fatti 
indiziari 
come 
quelli assunti nel caso di specie dall’amministrazione. 
7.7. La 
difficile 
collocazione 
del 
OMISSIS 
in un area 
di 
netta 
estraneità 
o, all’opposto, di 
appartenenza, 
connivenza 
o prossimità 
ad uno dei 
due 
clan in lotta 
si 
evince, oltre 
che 
dalle 
circostanze 
attestanti 
il 
rapporto di 
lavoro alle 
dipendenze 
dei 
r., l’incarico fiduciario da 
questi 
assegnatogli 
(per 
il 
reperimento 
di 
un 
nuovo 
pizzaiolo) 
e 
la 
frequentazione 
amicale 
intrattenuta 
con 
esponenti 
della 
famiglia 
(la 
visita 
a 
r.D. 
e 
nella 
partecipazione 
ai 
funerali 
di 
r.A.), 
anche 
nelle 
motivazioni 
che 
hanno indotto il 
clan avversario ad individuarlo come 
nemico e 
potenziale 
alleato 
del 
gruppo 
antagonista; 
prospettiva 
argomentativa, 
questa, 
tutt’altro 
che 
smentita 
dalla 
pronuncia 
penale, sia 
nella 
parte 
in cui 
riporta 
le 
dichiarazioni 
di 
M. e 
la 
convinzione 
da 
questi 
espressa 
che 
OMISSIS 
fosse 
parte 
del 
clan r., ovvero “uno del 
gruppo dei 
r.” 
o un 
loro “basista” 
(sentenza 
2012, pag. 65); 
sia 
nei 
passaggi 
in cui 
avvalora 
la 
causale 
dell’omicidio 
come 
“quasi 
fortuita” 
(ma 
non pienamente 
fortuita), ovvero come 
originata 
da 
una 
volontà 
di 
eliminare 
“tutti 
i 
potenziali 
nemici 
del 
gruppo, 
anche 
quelli 
solo 
sospettati, 
nella 
mente 
degli 
autori, 
di 
essere 
potenzialmente 
vicini 
al 
gruppo 
rivale 
(come 
nel 
caso 
omissis), 
al solo fine di epurare in via preventiva le potenziali “spie”” (pag. 77). 
tutte 
queste 
espressioni 
enfatizzano il 
carattere 
di 
“potenziale” 
o “sospetta” 
prossimità 
o vicinanza 
dell’uomo ad uno dei 
clan rivali, ma 
non dissolvono affatto la 
consistenza 
di 
questi 

rASSEGNA 
AvvOCAturA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


“sospetti”, ribadendo significativamente 
come 
le 
scelte 
omicidiarie 
fossero maturate 
nel 
contesto 
“di 
un 
sopravvenuto 
ed 
unitario 
clima 
di 
terrore 
e 
di 
propositi 
di 
reciproca 
eliminazione 
delle ‘presunte’ file altrui o punitive di infedeltà interne” (pag. 78). 


7.8. 
Non 
appare 
decisiva 
neppure 
la 
dichiarazione 
resa 
dal 
collaboratore 
L. 
“non 
abbiamo 
mai 
capito perché 
sia stato ucciso dal 
momento che 
non svolgeva una militanza attiva in nostro 
favore” 
(v. pag. 64 sentenza 
2012): 
si 
tratta 
infatti 
di 
affermazione 
niente 
affatto scevra 
da 
ambiguità 
e 
che, 
se 
esclude 
la 
militanza 
attiva, 
non 
disconosce 
forme 
minori 
di 
connivenza 
o di 
fiancheggiamento, finendo così 
per aderire 
appieno allo schema 
della 
strategia 
criminale 
descritta 
dal 
giudice 
penale 
come 
intesa 
a 
“neutralizzare 
tutti 
i 
potenziali 
componenti 
della 
consorteria rivale, anche 
quelli 
di 
incerta collocazione 
e 
per 
ciò ritenuti, a maggior 
ragione, 
particolarmente pericolosi”. 
Il 
ruolo e 
il 
posizionamento del 
OMISSIS 
paiono situarsi 
in quest’area 
grigia 
di 
sospette 
affiliazioni 
e 
contiguità, 
non 
meglio 
definibili 
ma, 
proprio 
per 
tale 
ragione, 
non 
compatibili 
con 
il 
rigore 
della 
totale 
estraneità 
ad ambienti 
malavitosi 
che 
il 
legislatore 
esige 
per dare 
corso ai 
benefici in argomento. 
8. A 
fronte 
delle 
descritte 
emergenze, è 
opinione 
del 
Collegio che 
la 
determinazione 
amministrativa 
impugnata 
in primo grado si 
sottragga 
ai 
rilievi 
denunciati, atteso che 
la 
concreta 
declinazione 
e 
ponderazione 
della 
condizione 
negativa 
richiesta 
dalla 
legge 
risulta 
essere 
avvenuta 
in osservanza 
delle 
indicazioni 
interpretative 
fornite 
dalla 
giurisprudenza 
e, quindi, 
in termini 
giustamente 
rigorosi, giustificati, in punto di 
diritto e 
di 
politica 
del 
diritto, proprio 
perché, trattandosi 
di 
benefici 
da 
accordare 
piuttosto che 
di 
sanzioni 
da 
comminare 
-e 
per di 
più 
per 
fatti 
e 
persone 
per 
i 
quali 
la 
vischiosità 
del 
fenomeno 
mafioso 
ha 
modo 
di 
manifestarsi 
in 
tutte 
le 
sue 
molteplici 
valenze 
-“il 
principio 
"in 
dubio 
pro 
reo" 
non 
ha 
motivo 
di 
sussistere, 
dovendo 
piuttosto 
operare, 
per 
il 
miglior 
conseguimento 
delle 
particolati 
finalità 
riparatorie/premiali 
cui 
tende 
la norma, l'opposto principio per 
il 
quale 
il 
dubbio giustifica 
la 
mancata 
attribuzione...” 
(cfr. 
CGArS, 
n. 
385/2014. 
Nello 
stesso 
senso 
CGArS 
n. 
584/2012 
e 
tAr Sicilia, Sez. I, n. 988/2013). 
9. L’appello va quindi accolto in relazione al secondo motivo di appello. 
Ne 
consegue, 
in 
riforma 
della 
pronunciata 
impugnata, 
la 
reiezione 
del 
ricorso 
di 
primo 
grado. 
10. 
La 
natura 
delle 
questioni 
trattate 
e 
degli 
interessi 
in 
esse 
implicati 
giustificano 
la 
compensazione 
delle spese di lite relative ad entrambi i gradi di giudizio. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come 
in epigrafe 
proposto, lo accoglie 
e, per l’effetto, in riforma 
della 
sentenza 
impugnata, respinge il ricorso di primo grado. 
Compensa le spese di lite dei due gradi di giudizio. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196 (e 
degli 
articoli 
5 e 
6 del 
regolamento (uE) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016), a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. 
Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022. 



PAreridelComitAtoConSultivo
Annullamento d’ufficio, da parte del Prefetto, degli atti 
posti in essere dal Sindaco in materia anagrafica 


Parere 
del 
26/02/2020-118563/118564, al 38197/2019, 
avv. IlIa 
MassarellI 


Con 
la 
nota 
che 
si 
riscontra 
si 
richiede 
di 
fornire 
parere 
in 
merito 
alla 
possibilità 
di 
configurare 
in 
capo 
al 
Prefetto 
un 
potere 
di 
annullamento 
d'ufficio 
degli 
atti 
posti 
in 
essere 
dal 
Sindaco 
nella 
qualità 
di 
ufficiale 
di 
anagrafe 
e, 
quindi, 
in 
qualità 
di 
ufficiale 
di 
governo 
-, 
al 
fine 
di 
arginare 
le 
condotte 
di 
Sindaci 
che, 
in 
violazione 
della 
nuova 
normativa 
in 
materia 
di 
iscrizione 
anagrafica 
dei 
richiedenti 
asilo, 
provvedono 
alle 
suddette 
iscrizioni 
nei 
Comuni 
di 
propria 
competenza, 
pur 
in 
assenza 
dei 
nuovi 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge. 


Giova, 
preliminarmente, 
segnalare 
che 
proprio 
con 
riguardo 
all'art. 
13, 
comma 
1, 
lett. 
a, 
n. 
2, 
del 
d.l. 
113/2018 
-recante 
la 
nuova 
normativa 
di 
cui 
si 
discute 
secondo 
la 
quale 
il 
permesso 
di 
soggiorno 
per 
richiesta 
di 
asilo 
non 
costituisce 
più 
titolo 
per 
l'iscrizione 
all'anagrafe 
della 
popolazione 
residente 
-è 
stata 
di 
recente 
sollevata 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dal 
Tribunale 
di 
Ancona 
(ordinanza 
r.g.n. 
3081/2019) 
con 
riferimento 
agli 
artt. 
2, 
3 
e 
117 
Cost.: 
le 
prossime 
determinazioni 
della 
Consulta 
contribuiranno 
senza 
dubbio 
ad 
orientare, 
in 
un 
senso 
o 
nell'altro, 
l'attività 
dei 
Sindaci 
nella 
materia 
in 
esame 
(*). 


Allo stato degli 
atti, quanto, comunque, alla 
più ampia 
questione 
che 
investe 
i 
rapporti 
tra 
il 
Sindaco, quale 
ufficiale 
di 
governo, ed il 
Prefetto ed alla 
connessa 
configurabilità, in particolare 
nel 
settore 
dell’"ordinamento anagrafico", 
di 
un potere 
di 
annullamento degli 
atti 
del 
primo in capo al 
secondo, 1a 
Scrivente 
ritiene 
di 
poter fornire 
un "indirizzo di 
massima" 
cui 
l'Amministra


(*) 
La Corte 
Costituzionale 
con 
sentenza depositata il 
31 luglio 2020 n. 186 ha dichiarato 
l’incostituzionalità dell’art. 13 d.l. 113/2018, interpretato nel 
senso di 
vietare 
l’iscrizione 
anagrafica dei richiedenti asilo. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


zione 
potrà 
senz'altro 
tenersi 
nella 
gestione 
della 
criticità 
in 
oggetto, 
ferma 
restando, 
tuttavia, 
l'oggettiva 
difficoltà 
di 
pervenire 
ad 
una 
risposta 
univoca 
anche 
a 
fronte 
delle 
perduranti 
incertezze 
sul 
punto 
della 
dottrina 
e 
della 
stessa 
giurisprudenza, incertezze 
che 
rendono auspicabile 
un intervento normativo 
in materia. 


1. 
Come 
noto, in materia 
tanto di 
stato civile 
quanto di 
anagrafe, il 
Sindaco 
agisce 
quale 
Ufficiale 
di 
Governo e, quindi, non già 
come 
organo di 
vertice 
e 
legale 
rappresentante 
dell'Amministrazione 
comunale, 
bensì 
come 
organo periferico dell'Amministrazione Statale. 
La 
tenuta 
dei 
registri 
di 
stato civile 
e 
di 
popolazione 
è, infatti, materia 
di 
competenza 
statale, 
rispetto 
alla 
quale 
il 
Sindaco 
esercita 
le 
sue 
funzioni 
come 
ufficiale 
di 
Governo 
e 
nell'esercizio 
delle 
stesse 
deve 
attenersi 
alle 
istruzioni 
impartite 
dal 
ministero 
dell'interno 
(art. 
54, 
commi 
3 
e 
12, 
d.lgs. 
n. 
267/2000 "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali"). 


Sussiste, pertanto, certamente 
-per 
stessa previsione 
normativa 
-una 
"relazione 
interorganica" 
di 
subordinazione 
tra 
il 
Sindaco, 
laddove 
agisca 
quale 
Ufficiale 
di 
Governo, 
ed 
il 
Ministero 
dell'Interno, 
che 
assoggetta 
il 
primo 
ai 
poteri 
di 
direttiva 
e 
di 
vigilanza 
del 
secondo al 
fine 
di 
garantire 
l'uniformità 
di 
indirizzo nell'interpretazione 
ed applicazione 
della 
normativa 
in materia 
di 
anagrafe su tutto il territorio nazionale. 


È 
quanto emerge, infatti, chiaramente 
anche 
dall'analisi 
del 
quadro normativo 
vigente in materia di anagrafe: 


-Il 
Ministero 
dell'Interno 
e 
l'Istituto 
nazionale 
di 
statistica 
esercitano 
l'alta 
vigilanza 
sulla 
regolare 
tenuta 
delle 
anagrafi 
per mezzo dei 
propri 
funzionari 
ed ispettori 
(art. 54, D.P.R. n. 223/1989); 
nessuna 
annotazione 
sugli 
atti 
anagrafici, 
in 
aggiunta 
a 
quelle 
previste 
dalla 
legge 
in 
materia 
di 
"ordinamento 
anagrafico" 
(n. 1228/1954) e 
dal 
regolamento di 
esecuzione 
di 
cui 
al 
precitato 
D.P.R., 
può 
essere 
disposta 
senza 
l'autorizzazione 
del 
Ministero 
dell'interno 
d'intesa con il suddetto Istituto (art. 12, L. 1228/1954); 


-La 
medesima 
attività 
di 
vigilanza 
è 
effettuata 
anche 
dal 
Prefetto 
il 
quale 
"vigila 
affinché 
gli 
adempimenti 
anagrafici, 
topografici, 
ecografici 
e 
di 
carattere 
statistico dei 
comuni 
siano effettuati 
in conformità alle 
norme" 
del 
regolamento 
anagrafico: 
la 
vigilanza 
viene 
esercitata 
a 
mezzo 
di 
ispezioni 
effettuate, 
almeno 
una 
volta 
all'anno 
in 
tutti 
i 
comuni, 
ed 
il 
cui 
esito 
deve 
essere 
comunicato all'Istituto nazionale di statistica (art. 52, D.P.R. cit.); 


-Spetta, 
inoltre, 
al 
Prefetto 
risolvere 
le 
vertenze 
che 
sorgono 
tra 
gli 
uffici 
anagrafici 
(art. 
19 
bis, 
D.P.R. 
cit.), 
approvare 
ogni 
delega 
o 
revoca 
che 
il 
Sindaco 
intenda 
fare 
delle 
proprie 
funzioni 
di 
ufficiale 
d’anagrafe 
al 
segretario 
comunale 


o 
ad 
altri 
impiegati 
del 
Comune 
(art. 
3, 
L. 
1228/1954 
e 
art. 
2, 
D.P.R. 
cit.), 
nonché 
intervenire 
con 
proprio 
provvedimento 
nel 
caso 
di 
inerzia 
del 
sindaco 
nell'esercizio 
delle 
funzioni 
allo 
stesso 
spettanti 
(art. 
54, 
comma 
11, 
d.lgs. 
n. 
267/2000); 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


-L'art. 36 del 
d.p.r. dispone, infine, che 
avverso il 
rifiuto opposto dall'ufficiale 
di 
anagrafe 
al 
rilascio dei 
certificati 
anagrafici 
nonché 
in caso di 
errori 
contenuti 
in essi, gli 
interessati 
possono proporre 
ricorso al 
prefetto: 
è, dunque, 
espressamente 
prevista 
la 
possibilità 
di 
ricorso 
gerarchico 
al 
Prefetto 
avverso gli atti emessi dal Sindaco quale ufficiale d'anagrafe. 
orbene, la 
sussistenza 
di 
un tale 
rapporto di 
sovraordinazione 
tra 
il 
Sindaco, 
quale 
ufficiale 
di 
Governo, ed il 
Ministero dell'interno è, a 
ben vedere, 
anche 
univocamente 
riconosciuta 
ed 
affermata 
dalla 
stessa 
giurisprudenza 
amministrativa. 


Il 
Consiglio di 
Stato ha, infatti, in più occasioni 
preso atto che 
dall'esistenza 
di 
così 
incisivi 
poteri 
di 
indirizzo, vigilanza 
e 
sostitutivi 
in capo al 
Ministero 
dell'Interno, 
ed 
al 
Prefetto, 
nei 
confronti 
del 
Sindaco 
in 
tutte 
le 
materie 
in cui 
lo stesso agisce 
quale 
organo periferico dell'Amministrazione 
statale, 
non 
possa 
non 
desumersi 
«una 
posizione 
generale 
di 
sovraordinazione 
del 
Prefetto, rispetto al sindaco» (Cons. St., n. 5047/2016). 

Si è, in particolare, affermato che: 


«Nel 
nostro 
ordinamento 
l'esercizio 
di 
alcune 
funzioni 
di 
competenza 
statale 
è 
stato affidato al 
sindaco, che 
le 
esercita non come 
vertice 
dell'ente 
locale, 
ma 
nella 
diversa 
qualità 
di 
ufficiale 
di 
governo 
(...). 
Il 
particolare 
modello organizzativo in esame 
implica che 
la titolarità della funzione 
resta 
intestata all'amministrazione 
centrale 
(e, segnatamente, al 
Ministero dell'interno) 
e 
che 
il 
sindaco la esercita solo quale 
organo delegato dalla legge. Un 
ulteriore 
corollario della titolarità statale 
della funzione 
attinente 
alla tenuta 
dei 
registri 
di 
stato civile 
è 
che 
il 
sindaco resta soggetto, nell'esercizio delle 
pertinenti 
funzioni, 
alle 
istruzioni 
impartite 
dal 
Ministero 
dell'interno, 
alle 
quali 
è 
tenuto a conformarsi 
(art. 54, comma 12, d.lgs. 18 ottobre 
2000, n. 
267 cit. e art. 9, comma 1, d.P.r. 3 novembre 2000, n. 396 cit.). 


la 
potestà 
di 
sovraordinazione 
dell'amministrazione 
centrale 
sull'organo 
per 
legge 
delegato all'esercizio di 
una sua funzione 
si 
esplica, poi, per 
mezzo 
dell'assegnazione 
al 
Prefetto, che 
esercita istituzionalmente 
l'autorità del 
Ministero 
dell'interno sul 
territorio, dei 
poteri 
di 
vigilanza sulla tenuta degli 
atti 
dello stato civile 
(art. 9, comma 2, d.P.r. 3 novembre 
2000, n. 396 cit.) e 
di 
sostituzione 
al 
sindaco, in caso di 
sua inerzia nell'esercizio di 
taluni 
compiti 
(art. 54, comma 11, d.lgs. 18 ottobre 2000, n. 267 cit.). 


si 
tratta, 
come 
si 
vede, 
di 
un 
sistema 
coerente 
e 
coordinato 
di 
disposizioni 
che 
configurano 
la 
relazione 
interorganica 
in 
questione 
come 
di 
subordinazione 
del 
Sindaco 
al 
Ministero 
dell'interno, 
per 
esso, 
al 
Prefetto, 
e 
che 
assoggettano, 
quindi, 
il 
primo 
ai 
poteri 
di 
direttiva 
e 
di 
vigilanza 
del 
secondo 
(Cass. 
ss.UU., 
13 
ottobre 
2009, 
n. 
21658; 
Cass. 
Civ., 
sez. 
I, 
14 
febbraio 
2000, 
n. 
1599). 


Tale 
soggezione 
risulta, 
in 
particolare, 
il 
più 
logico 
corollario 
della 
titolarità 
della 
funzione 
in 
capo 
al 
Ministero 
dell'interno 
e 
della 
mera 
assegnazione 
al 
sindaco, 
quale 
ufficiale 
di 
governo, 
dei 
compiti 
attinenti 
al 
suo 
esercizio. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Il 
vincolo 
di 
subordinazione 
del 
Sindaco 
al 
Ministero 
dell'interno 
obbedisce, 
inoltre, 
all'esigenza 
di 
assicurare 
l'uniformità 
di 
indirizzo 
nella 
tenuta 
dei 
registri 
dello 
stato 
civile 
su 
tutto 
il 
territorio 
nazionale 
e 
che 
resterebbe 
vanificata 
se 
ogni 
Sindaco 
potesse 
decidere 
autonomamente 
sulle 
regole 
generali 
di 
amministrazione 
della 
funzione 
o, 
peggio, 
se 
potesse 
disattendere, 
senza 
meccanismi 
correttivi 
interni 
all'apparato 
amministrativo, 
le 
istruzioni 
ministeriali 
impartite 
al 
riguardo» 
(Cons. 
St., 
nn. 
4897/2015; 
4899/2015). 


2. 
Ma 
all'univoco riconoscimento da 
parte 
della 
giurisprudenza 
dell'esistenza 
dei 
suddetti 
poteri 
di 
direttiva 
e 
vigilanza, e 
di 
un conseguente 
"e 
presupposto" 
rapporto di 
subordinazione 
al 
Prefetto del 
Sindaco quale 
ufficiale 
di 
Governo, 
non 
è, 
tuttavia, 
seguito 
un 
altrettanto 
pacifico 
orientamento 
quanto, 
in 
particolare, 
alla 
possibilità 
di 
farvi 
discendere 
un 
potere 
del 
Prefetto 
di annullamento degli atti illegittimi del Sindaco. 
La 
quasi 
totalità 
delle 
pronunce 
sul 
punto 
si 
sono 
espresse, 
invero, 
in 
materia 
di 
ordinamento dello stato civile, con riferimento al 
quale 
sussistono, a 
ben vedere, forti 
analogie 
con la 
materia 
che 
ci 
occupa 
ma 
anche, certamente, 
alcune 
rilevanti 
differenze, 
che 
verranno 
nel 
proseguo 
illustrate 
proprio 
in 
quanto, ad avviso della 
Scrivente, dirimenti 
nella 
formulazione 
del 
richiesto 
indirizzo 
di 
massima 
in 
materia, 
specificamente, 
di 
"ordinamento 
anagrafico". 


La 
giurisprudenza 
amministrativa 
è, dunque, divisa 
quanto alla 
configurabilità 
o meno di 
un potere 
di 
annullamento del 
Prefetto in materia 
di 
stato 
civile: 


• 
La 
parte 
della 
giurisprudenza 
che 
ne 
ha 
ammesso 
la 
configurabilità 
ha 
ritenuto 
che 
la 
potestà 
in 
questione 
debba 
intendersi 
compresa, 
ancorché 
implicitamente, 
nelle 
funzioni 
di 
direzione, 
sostituzione 
e 
vigilanza 
espressamente 
attribuite 
dalla 
legge 
al 
Prefetto 
(cfr. 
Cons. 
St., 
sent. 
n. 
4897/2015; 
4899/2015). 
In particolare, «in ossequio ai 
criteri 
ermeneutici 
sistematico e 
teleologico
», 
le 
disposizioni 
che 
attribuiscono 
siffatti 
poteri 
«devono 
necessariamente 
intendersi 
come 
comprensive 
anche 
del 
potere 
di 
annullamento 
gerarchico 
d'ufficio 
da 
parte 
del 
Prefetto 
degli 
atti 
illegittimi 
adottati 
dal 
sindaco, 
nella 
qualità 
di 
ufficiale 
di 
governo, 
senza 
il 
quale 
peraltro, 
il 
loro 
scopo 
evidente, 
agevolmente 
identificabile 
nell'attribuzione 
al 
Prefetto 
di 
tutti 
i 
poteri 
idonei 
ad 
assicurare 
la 
corretta 
gestione 
della 
funzione 
in 
questione, 
resterebbe 
vanificato. a 
ben vedere, infatti, se 
si 
negasse 
al 
Prefetto la potestà in 
questione, la sua posizione 
di 
sovraordinazione 
rispetto al 
sindaco (allorché 
agisce 
come 
ufficiale 
di 
governo), in quanto chiaramente 
funzionale 
a garantire 
l'osservanza delle 
direttive 
impartite 
dal 
Ministro dell'interno ai 
sindaci 
e, 
in 
definitiva, 
ad 
impedire 
disfunzioni 
o 
irregolarità 
nell'amministrazione 
dei 
registri 
di 
stato civile, rimarrebbe 
inammissibilmente 
sprovvista di 
contenuti 
adeguati al raggiungimento di quel fine». 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Alla 
medesima 
conclusione 
era 
già 
giunta 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
anche 
in 
materia 
di 
sicurezza 
pubblica, 
altra 
funzione 
amministrata 
dal 
Sindaco 
quale 
ufficiale 
di 
governo 
(Cons. 
St., 
sez. 
v, 
19 
giugno 
2008, 
n. 
3076) 
e 
ciò 
sempre 
in 
esito 
«ad 
una 
coerente 
ricostruzione 
della 
natura 
e 
delle 
finalità 
della 
relazione 
interorganica 
in 
questione 
ed 
alla 
conseguente 
valorizzazione 
dell'esigenza 
di 
assicurare 
la 
correttezza 
e 
l'uniformità 
dell'amministrazione 
dei 
compiti 
statali 
delegati 
dalla 
legge 
al 
sindaco». 


Con specifico riguardo sempre 
alla 
materia 
dell'ordinamento di 
stato civile, 
la 
giurisprudenza 
si 
è 
preoccupata 
anche 
di 
valutare 
la 
compatibilità 
di 
tale 
affermazione 
-secondo cui 
il 
potere 
di 
annullamento del 
Prefetto debba, 
dunque, intendersi 
implicitamente 
compreso e 
desumibile 
dai 
poteri 
di 
direzione, 
sostituzione e vigilanza - con: 


a) 
da 
un 
lato, 
il 
disposto 
dell'art. 
21 
nonies, 
l. 
241/1990, 
a 
mente 
che 
quale 
"il 
provvedimento 
amministrativo 
illegittimo... 
può 
essere 
annullato 
d'ufficio... 
dall 
'organo che 
lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge"; 
b) 
dall'altro, 
le 
disposizioni 
in 
materia 
di 
stato 
civile 
che 
assegnano 
al 
giudice 
ordinario 
il 
potere 
di 
controllo, 
rettificazione 
e 
cancellazione 
degli 
atti 
dello stato civile (art. 95 D.P.R. n. 396/2000 e art. 453 c.c.). 
a) Quanto al 
primo profilo, si 
è 
affermato che, oltre 
a 
non essere 
comunque 
necessario invocare 
il 
suddetto art. 21 nonies 
a 
fondamento del 
potere 
di 
cui 
si 
discute 
«potendosi 
risolvere 
favorevolmente 
il 
problema della sua esistenza 
in 
esito 
all'analisi 
interpretativa 
che 
precede», 
non 
potrebbe 
in 
ogni 
caso ritenersi 
preclusiva 
neppure 
l'osservazione 
del 
difetto di 
una 
espressa 
disposizione 
legislativa 
che 
preveda 
il 
potere 
del 
Prefetto di 
annullare 
d'ufficio 
gli 
atti 
dello stato civile 
illegittimamente 
adottati 
dal 
Sindaco, posto che 
«se 
si 
accedesse 
all'opzione 
ermeneutica per 
cui 
la norma citata esige, per 
la sua 
applicazione, l'esplicita attribuzione 
legislativa del 
potere 
di 
annullare 
in autotutela 
gli 
atti 
adottati 
da 
un 
altro 
organo, 
la 
stessa 
risulterebbe 
priva 
di 
qualunque 
senso in quanto inutilmente 
ripetitiva di 
una potestà già assegnata da 
un'altra norma». 
La 
disposizione 
di 
cui 
all'art. 21 nonies 
deve, viceversa, essere 
letta 
ed 
applicata 
nel 
senso che 
«è 
ammesso l'annullamento d'ufficio di 
un atto illegittimo 
da 
parte 
di 
un 
organo 
diverso 
da 
quello 
che 
lo 
ha 
emanato 
in 
tutte 
le 
ipotesi 
in 
cui 
una disposizione 
legislativa attribuisce 
al 
primo una potestà 
di 
controllo e, in 
generale 
di 
sovraordinazione 
gerarchica che 
implica univocamente 
anche l'esercizio di poteri di autotutela». 


b) 
Quanto, 
poi, 
all'esistenza 
di 
disposizioni 
in 
materia 
di 
ordinamento 
dello stato civile 
che 
attribuiscono all'autorità 
giurisdizionale 
il 
controllo e 
la 
rettificazione 
degli 
atti 
emanati 
dal 
Sindaco nell'esercizio di 
tale 
funzione, la 
giurisprudenza 
in esame 
ha 
ritenuto che, sebbene 
le 
disposizioni 
in discorso 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


«in effetti, paiono (a una prima lettura) devolvere 
in via esclusiva al 
giudice 
ordinario i 
poteri 
di 
cognizione 
e 
di 
correzione 
degli 
atti 
dello stato civile», 
occorre, tuttavia, tenere conto: 


• 
da 
un lato, che 
il 
relativo apparato regolatorio postula, in ogni 
caso, per 
la 
sua 
applicazione, «l'esistenza di 
atti 
astrattamente 
idonei 
a costituire 
o a 
modificare 
lo 
stato 
delle 
persone, 
tanto 
da 
imporre 
un 
controllo 
giurisdizionale 
sulla 
loro 
corretta 
formazione», 
sicché 
resterebbero 
comunque 
esclusi 
dal 
suo 
ambito applicativo atti 
radicalmente 
inefficaci 
o comunque 
inidonei 
a 
costituire 
lo stato delle 
persone, rispetto ai 
quali 
«l'esigenza del 
controllo giurisdizionale 
si 
rivelerebbe 
del 
tutto 
recessiva 
(se 
non 
inesistente)..., 
dovendosi, 
quindi, 
ricercare, 
per 
la 
loro 
correzione, 
soluzioni 
e 
meccanismi 
anche 
diversi 
dalla verifica giudiziaria»; 
• 
dall'altro, che 
in ogni 
caso l'art. 453 c.c., «per 
la sua univoca formulazione 
testuale, 
deve 
intendersi 
limitato 
all'affidamento 
al 
giudice 
ordinario 
dei 
soli 
poteri 
di 
annotazione 
e 
non 
può, 
di 
conseguenza, 
ritenersi 
ostativo 
all'esercizio 
dei 
(diversi) poteri 
di 
eliminazione 
dell'atto da parte 
dell'autorità 
amministrativa 
titolare 
della 
funzione 
di 
tenuta 
dei 
registri 
dello 
stato 
civile». 
Sulla 
scorta 
del 
complesso delle 
argomentazioni 
fin qui 
riportate, la 
giurisprudenza 
in 
esame 
ha, 
dunque, 
concluso 
per 
la 
possibilità, 
ed 
opportunità, 
di 
ritenere 
la 
potestà 
del 
Prefetto 
di 
annullare 
d'ufficio 
gli 
atti 
del 
Sindaco, 
quale 
ufficiale 
di 
stato civile, certamente 
compresa, seppur 
implicitamente, 
nei 
poteri 
di 
direzione, 
sostituzione 
e 
vigilanza 
espressamente 
attribuiti 
dalla 
legge 
al 
Prefetto, osservando che 
a 
tale 
conclusione 
non osta 
alcuna 
specifica 
disposizione 
tanto 
di 
carattere 
generale 
quanto 
specificamente 
disciplipante 
l'ordinamento di stato civile. 


A 
fianco, 
e 
successivamente, 
all'orientamento 
fin 
qui 
illustrato, 
altra 
parte 
della 
giurisprudenza 
ha, 
al 
contrario, 
negato 
la 
possibilità 
di 
desumere 
il 
potere 
di 
merito di 
cui 
si 
discute 
sulla 
scorta 
di 
diverse, ed opposte, argomentazioni 
(cfr. Cons. St., sent. n. 5047/2016). 


È 
stato, in particolare, affermato che, ferma 
la 
possibilità 
di 
configurare 
una 
posizione 
generale 
di 
sovraordinazione 
del 
Prefetto 
rispetto 
al 
Sindaco 
quale 
Ufficiale 
di 
governo -alla 
luce 
dell'indiscutibile 
esistenza 
di 
pregnanti 
poteri 
di 
indirizzo 
e 
vigilanza 
del 
primo 
sull'attività 
del 
secondo 
-, 
da 
tale 
configurazione 
non sarebbe 
comunque 
ammesso desumere 
un potere 
di 
annullamento 
d'ufficio in capo al Prefetto e ciò per un plurimo ordine di ragioni. 

a) In primo luogo, dall'art. 21 nonies, l. 241/1990 cit., si 
desumerebbero 
due fondamentali principi: 
• 
quello 
secondo 
cui 
il 
potere 
di 
annullamento 
in 
sede 
di 
autotutela 
da 
parte 
di 
"un altro organo" 
deve 
essere 
espressamente 
previsto dalla 
legge; 
occorrerebbe 
dunque, necessariamente, un'espressa 
norma, di 
rango legislativo 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


o regolamentare, che 
attribuisca 
al 
Prefetto il 
relativo potere 
con specifico riguardo 
agli atti del Sindaco in materia di stato civile; 
• 
nonché, un «principio di 
simmetria per 
il 
quale, nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge, 
un 
"altro 
organo" 
può 
emanare 
un 
atto 
di 
annullamento, 
solo 
se 
ciò 
sia 
consentito alla autorità emanante» (in sede, cioè, di autotutela). 
L'impossibilità 
di 
configurare 
un potere 
di 
annullamento in capo al 
Prefetto 
discenderebbe 
quindi, 
secondo 
la 
giurisprudenza 
in 
discorso, 
proprio 
dal-
l'esame 
delle 
norme 
in materia 
di 
stato civile 
nel 
loro complesso, dalle 
quali 
si 
desumerebbe: 
da 
un lato, l'assoluta 
mancanza 
di 
una 
disposizione 
espressa 
che 
attribuisca 
siffatto potere 
al 
Prefetto e, dall'altro, che 
il 
potere 
di 
annullamento 
in 
autotutela 
non 
è 
stato 
attribuito 
neppure 
alla 
stessa 
autorità 
emanante, 
non essendo consentito neppure 
allo stesso Sindaco di 
modificare 
o annullare 
gli atti da lui emessi quale ufficiale di stato civile. 


Si 
dovrebbe, 
pertanto, 
concludere 
nel 
senso 
che 
«in 
materia 
di 
ordinamento 
dello stato civile, se 
proprio si 
intende 
ravvisare 
un rapporto di 
sovra-
ordinazione 
gerarchica 
tra 
Prefetto 
e 
sindaco, 
si 
deve 
dare 
comunque 
rilevanza 
al 
principio 
di 
legalità 
e 
cioè 
alle 
complessive 
disposizioni 
sopra 
riportate»: 
l'ordinamento dello stato civile 
«prevede 
specifiche 
regole, divergenti 
da quelle 
di 
carattere 
generale 
previste 
dall'art. 54 del 
d.lgs. 267 del 
2000»; 
va 
considerato 
«‘settoriale, 
speciale 
e 
completo’ 
e 
non 
prevede 
alcuna 
disposizione 
attributiva del 
potere 
di 
disporre 
l'annullamento di 
un atto trascritto, 
né 
in sede 
di 
autotutela da parte 
dell'organo che 
lo ha emesso, né 
da 
parte di un altro organo (che sia il Ministro dell'Interno o il Prefetto)». 


b) Poste 
siffatte 
affermazioni, la 
giurisprudenza 
in esame 
ritiene, in secondo 
luogo, 
che 
un 
potere 
di 
annullamento 
in 
capo 
al 
Prefetto 
non 
possa 
neppure 
desumersi 
implicitamente 
dalla 
posizione 
di 
sovraordinazione 
dello 
stesso 
rispetto al Sindaco e ciò in quanto: 
• 
da 
un lato, «la sezione 
neppure 
ritiene 
che 
si 
possa ravvisare 
un rapporto 
di 
gerarchia "in senso tecnico e 
tradizionale" 
tra il 
Prefetto ed il 
sindaco, 
quale 
ufficiale 
di 
stato 
civile 
(in 
termini, 
Cons. 
stato, 
sez. 
III, 
26 
ottobre 
2016, 
n. 
4478, 
sopra 
citata). 
Qualora 
vi 
fosse 
effettivamente 
un 
tale 
rapporto 
di 
gerarchia, 
si 
dovrebbe 
di 
conseguenza 
ammettere 
che, 
avverso 
tali 
atti 
emessi 
dal 
Sindaco quale 
ufficiale 
di 
stato civile, l’interessato potrebbe 
proporre 
al 
Prefetto un 
ricorso gerarchico (da considerare 
quale 
istituto coessenziale 
al rapporto di gerarchia)». 
• 
dall'altro, 
il 
riconoscimento 
della 
possibilità 
di 
proporre 
ricorso 
gerarchico 
al 
Prefetto 
o 
dell'esistenza 
in 
capo 
a 
quest'ultimo 
di 
un 
potere 
di 
annullamento 
d'ufficio 
degli 
atti 
del 
Sindaco, 
«si 
porrebbe 
in 
palese 
contraddizione 
con 
le 
articolate 
disposizioni 
del 
codice 
civile 
e 
del 
d.P.r. 
n. 
396 
del 
2000, 
le 
quali 
(salvi 
i 
casi 
di 
correzione 
degli 
"errori 
materiali 
di 
scrittura": 
art. 
98, 
comma 
1, 
del 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


medesimo 
d.P.r) 
riservano 
alla 
autorità 
giudiziaria 
ordinaria 
la 
cognizione 
delle 
controversie 
e 
comunque 
non 
consentono 
agli 
organi 
del 
Ministero 
del-
l'interno 
di 
incidere 
sugli 
effetti 
prodotti 
dagli 
atti 
degli 
ufficiali 
di 
stato 
civile». 


Residuerebbe, tuttavia, sempre 
a 
mente 
dell'orientamento giurisprudenziale 
in 
esame, 
il 
potere 
di 
annullamento 
straordinario 
di 
cui 
all'art. 
2, 
comma 3, lett. p) della legge 
400/1988, che, «quale 
chiave 
di 
volta del 
sistema
» 
attribuisce 
al 
Governo 
nella 
sua 
collegialità 
-proprio 
la 
potestà 
di 
«disporre 
l'annullamento 
straordinario, 
a 
tutela 
dell'unità 
dell'ordinamento 
degli 
atti 
amministrativi 
illegittimi, 
previo 
parere 
del 
Consiglio 
di 
stato» 
(tranne 
gli 
atti 
delle 
Regioni 
e 
delle 
Province 
autonome) e 
«dunque, ove 
ne 
sussistano i 
presupposti, anche 
degli 
atti 
formalmente 
amministrativi, emessi 
dal 
sindaco 
quale ufficiale dello stato civile». 


In materia, dunque, «rilevano l'art. 2, comma 3, della l. 23 agosto 1988, 


n. 400, per 
il 
quale 
"sono sottoposti 
alla deliberazione 
del 
Consiglio dei 
Ministri... 
p) 
le 
determinazioni 
concernenti 
l'annullamento 
straordinario, 
a 
tutela 
dell'unità dell'ordinamento, degli 
atti 
amministrativi 
illegittimi, previo parere 
del 
Consiglio di 
stato" 
nonché 
l'art. 138, comma 1, del 
testo unico sugli 
enti 
locali 
18 
agosto 
2000, 
n. 
267, 
per 
il 
quale 
"In 
applicazione 
dell'articolo 
2, 
comma 3, lettera p), della l. 23 agosto 1988, n. 400, il 
Governo, a tutela del-
l'unità 
dell'ordinamento, 
con 
d.P.r., 
previa 
deliberazione 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
su 
proposta 
del 
Ministro 
dell'interno, 
ha 
facoltà, 
in 
qualunque 
tempo, 
di 
annullare, 
d'ufficio 
o 
su 
denunzia, 
sentito 
il 
Consiglio 
di 
stato, 
gli 
atti 
degli 
enti locali viziati da illegittimità". 
Tali 
disposizioni 
(nelle 
quali 
è 
stato 
trasfuso 
l'art. 
6 
del 
t.u. 
n. 
383 
del 
1934, 
a 
sua 
volta 
riproduttivo, 
con 
modificazioni, 
dell'art. 
164 
del 
regolamento 
del 
12 
febbraio 
1911, 
n. 
297, 
dell'art. 
117 
del 
regolamento 
del 
10 
giugno 
1889 
e 
dell'art. 7 del 
regolamento applicativo dell'allegato a 
della l. n. 2248 del 
1865) devono intendersi 
senz'altro richiamate 
dal 
sopra citato art. 21 nonies 
della l. n. 241 del 1990. 


Nel 
rispetto 
del 
procedimento 
ivi 
previsto, 
esse 
-quale 
chiave 
di 
volta 
del 
sistema 
-hanno 
attribuito 
al 
Governo 
della 
repubblica 
nella 
sua 
collegialità, 
e 
non al 
Ministro dell'Interno o al 
Prefetto, il 
potere 
di 
disporre 
"l'annullamento 
straordinario, a tutela dell'unità dell'ordinamento, degli 
atti 
amministrativi 
illegittimi" 
(tranne 
gli 
atti 
delle 
regioni 
e 
delle 
Province 
autonome, 
come 
statuito 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
21 
aprile 
1989, 
n. 
229), e 
dunque, ove 
ne 
sussistano i 
presupposti, anche 
degli 
atti 
formalmente 
amministrativi, emessi dal sindaco quale ufficiale dello stato civile». 


In sostanza, secondo la 
giurisprudenza 
in esame, in 
materia di 
ordinamento 
di 
stato civile 
potrebbe, senz'altro, farsi 
ricorso al 
potere 
di 
annullamento 
del 
Governo, 
nella 
sua 
collegialità, 
dell'atto 
illegittimo 
di 
cui 
al 
precitato 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


all'art. 2, comma 
3, lett. p) della 
legge 
n. 400/1988, ma 
non sarebbe, al 
contrario, 
ammessa 
la 
configurabilità 
di 
uno 
specifico 
potere 
di 
annullamento 
d'ufficio 
in 
capo 
al 
Prefetto. 
L'impossibilità 
di 
ammettere 
un 
siffatto 
potere 
discenderebbe, dunque, oltre 
che 
dalla 
mancanza 
di 
una 
previsione 
espressa 
in tal senso, soprattutto da due ordini di ragioni: 


• 
l'insussistenza 
di 
un 
rapporto 
di 
gerarchia 
in 
senso 
tecnico 
tra 
il 
Prefetto 
ed il 
Sindaco in tale 
materia, insussistenza 
che 
si 
desumerebbe 
dalla 
mancata 
previsione 
in materia 
di 
ordinamento di 
stato civile 
della 
proponibilità 
di 
ricorso 
gerarchico al Prefetto avverso gli atti del Sindaco; 
• 
la 
presenza 
di 
specifiche 
disposizioni 
in 
materia 
che 
riservano 
all'autorità 
giudiziaria 
il 
controllo 
e 
la 
rettificazione 
degli 
atti 
dello 
stato 
civile 
(art. 
95 
D.P.R. n. 396/2000 e art. 453 c.c.). 
3. orbene, proprio dalle 
argomentazioni 
addotte 
dalla 
giurisprudenza 
da 
ultimo citata 
a 
sostegno dell'impossibilità 
di 
ammettere 
un potere 
di 
annullamento 
in capo al 
Prefetto in materia 
di 
ordinamento di 
stato civile, è 
possibile 
desumere, 
invece, 
l'ammissibilità 
del 
potere 
in 
discorso 
nel 
diverso 
settore 
dell’"ordinamento anagrafico" 
che viene in rilievo ai nostri fini. 


A 
ben vedere, infatti, quegli 
elementi, presenti 
in materia 
di 
stato civile, 
che 
varrebbero a 
costituire 
ostacolo al 
riconoscimento di 
un potere 
di 
annullamento 
in 
capo 
al 
Prefetto, 
non 
si 
rinvengono 
in 
materia 
di 
anagrafe, 
nella 
quale al contrario: 


• 
deve 
ritenersi 
sussistente 
un rapporto di 
gerarchia 
in senso tecnico tra 
il 
Prefetto ed il 
Sindaco e 
ciò in quanto nella 
materia 
de 
qua 
è, invece, espressamente 
prevista, 
all'art. 
36, 
D.P.R. 
223/1989, 
la 
possibilità 
di 
proporre 
ricorso 
gerarchico 
al 
Prefetto 
avverso 
gli 
atti 
emessi 
dal 
Sindaco 
quale 
ufficiale 
d'anagrafe: 
il 
ricorso gerarchico è 
infatti, anche 
per espresa 
ammissione 
della 
giurisprudenza 
da 
ultimo citata, «da considerare 
quale 
istituto coessenziale 
al 
rapporto di gerarchia» (Cons. St., n. 5047/2016); 
• 
e 
non 
sussiste 
alcuna 
analoga 
riserva 
in 
capo 
all'autorità 
giudiziaria 
dei 
poteri 
di 
controllo, cancellazione 
o rettificazione 
degli 
atti 
di 
anagrafe. Al 
contrario, 
laddove 
in 
materia 
di 
stato 
civile 
è 
espressamente 
previsto 
che 
"nessuna 
annotazione 
può 
essere 
fatta 
sopra 
un 
atto 
già 
iscritto 
nei 
registri 
se 
non 
è 
disposta per 
legge 
ovvero non è 
ordinata dall'autorità giudiziaria" 
(art. 453 
c.c.), 
in 
materia 
di 
anagrafe 
l'art. 
12, 
della 
l. 
n. 
1228/54, 
dispone 
diversamente 
che 
"nessuna annotazione 
sugli 
atti 
anagrafici, in aggiunta a quelle 
previste 
dalla presente 
legge 
e 
dal 
regolamento, può essere 
disposta senza autorizzazione 
del 
Ministero dell'Interno d’intesa con l'istituto centrale 
di 
statistica": 
trattasi, dunque, di 
un sistema 
in cui 
operano regole 
del 
tutto differenti 
da 
quelle 
operanti 
in 
materia di 
stato civile 
e 
nel 
quale, oltre 
a 
non ravvisarsi 
alcuna 
riserva 
giurisdizionale, anche 
i 
poteri 
di 
controllo, vigilanza 
e 
sostituzione 
in capo al Ministero ed al Prefetto appaiono ancor più pregnanti. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Tutte 
le 
considerazioni 
in diritto fin qui 
illustrate, specie 
quali 
emergono 
dalla 
riportata 
giurisprudenza 
sul 
punto, 
unitamente 
ai 
principi 
generali 
che 
governano i 
rapporti 
tra 
le 
Amministrazioni 
(in senso lato) ed alla 
riscontrata 
mancanza 
di 
una 
giurisprudenza 
che 
si 
sia 
espressa 
con 
specifico 
riguardo 
all’"ordinamento anagrafico", consentono alla 
Scrivente 
di 
poter concludere 
per 
l'ammissibilità, 
nel 
settore 
in 
esame, 
di 
un 
potere 
d'annullamento 
d'ufficio 
in 
capo al 
Prefetto degli 
atti 
illegittimi 
adottati 
dal 
Sindaco quale 
ufficiale 
d'anagrafe, 
proprio 
quale 
istituto 
da 
considerarsi 
coessenziale 
al 
rapporto 
di 
gerarchia 
-dunque 
ravvisabile 
nella 
materia 
che 
ci 
occupa 
in 
virtù delle 
argomentazioni 
sopra 
esposte 
-, al 
pari 
di 
quello del 
ricorso gerarchico 
appunto 
espressamente 
previsto 
dalle 
norme 
disciplinanti 
l’"ordinamento 
anagrafico". 


Il 
riconoscimento di 
siffatto potere 
nella 
materia 
de 
qua 
non si 
pone, peraltro, 
in 
contraddizione 
con 
disposizioni 
che, 
diversamente 
da 
quanto 
avviene 
nell'ordinamento 
di 
stato 
civile, 
«riservano 
alla 
autorità 
giudiziaria 
ordinaria 
la cognizione 
delle 
controversie 
e 
comunque 
non consentono agli 
organi 
del 
Ministero dell'interno di 
incidere 
sugli 
effetti 
prodotti 
dagli 
atti» del 
Sindaco 
quale ufficiale d'anagrafe. 


Fermo restando l'auspicabile 
intervento normativo chiarificatorio anche 
in materia 
di 
stato civile, allo stato degli 
atti 
merita 
segnalare 
che 
a 
fronte 
del-
l'ancora 
aperto 
dibattito 
e 
del 
perdurante 
contrasto 
giurisprudenziale 
circa 
i 
temi 
oggetto del 
presente 
parere, non è 
dato, purtroppo, escludere 
che 
in sede 
di 
eventuale 
ricorso 
avverso 
un 
atto 
di 
annullamento 
del 
Prefetto 
eventualmente 
adottato intervenga 
una 
pronuncia 
sfavorevole 
dell'autorità 
giudiziaria 
che non ritenga di accedere alla ricostruzione fin qui operata. 


Residuerrebbe, pertanto, anche 
nel 
settore 
dell'ordinamento anagrafico, 
il 
potere 
d'annullamento governativo di 
cui 
al 
citato all'art. 2, comma 
3, lett. 


p) 
della 
legge 
n. 
400/1988, 
cui 
fa 
riferimento 
la 
giurisprudenza 
da 
ultimo 
citata 
e 
da 
intendersi 
senz'altro 
richiamato 
dall'art. 
21 
nonies 
della 
L. 
n. 
210 
del 
1990. 
Siffatto rimedio, infatti, in quanto riconducibile 
al 
Governo nella 
sua 
interezza, 
è 
rimesso 
alla 
sua 
valutazione 
e 
discrezionalità 
politica 
e 
consentirebbe 
di 
perseguire 
quell'unità 
dell'ordinamento e 
quell’uniformità 
di 
indirizzo nel-
l'interpretazione 
ed 
applicazione 
della 
normativa 
in 
materia 
di 
anagrafe 
senza, 
tuttavia, 
andar 
incontro 
ai 
suddetti 
esiti 
incerti 
in 
sede 
giurisdizionale 
connessi 
alla 
ritenuta 
ammissibilità 
o meno, da 
parte 
del 
giudice 
eventualmente 
adito, 
della 
ricostruzione 
fin 
qui 
fornita 
dalla 
Scrivente 
circa 
la 
configurabilità, 
nella 
materia 
in esame, di 
un rapporto di 
gerarchia 
in senso tecnico tra 
il 
Prefetto e 
il Sindaco quale ufficiale d'anagrafe. 


Il 
presente 
parere 
è 
passato all'esame 
del 
Comitato Consultivo nella 
riunione 
del 6 dicembre 2019, che si è espresso in conformità. 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Cessione di credito e modalità applicative 
dell’art. 48 bis d.P.r. 602/1973 


Parere 
del 
05/07/2021-414774, al 18051/2020, 
ProC. MassIMo 
dI 
BeNedeTTo 


i) Il quesito. 
Con riferimento alla 
pratica 
in oggetto, codesto Dicastero ha 
sottoposto 
alla 
Scrivente 
la 
questione 
di 
diritto 
compendiabile 
come 
segue: 
"se, 
sussistendo 
un rapporto civilistico di 
locazione 
di 
immobile 
in cui 
il 
Ministero riveste 
la 
qualità 
di 
conduttore/locatario, 
in 
caso 
di 
cessione 
dei 
crediti 
derivanti 
dal 
predetto rapporto dal 
locatore 
(cedente) a terzo soggetto (cessionario), 
cessione 
accettata dal 
Ministero (ceduto), la verifica di 
cui 
all'art. 
48bis 
dPr 
n. 602 del 
1973 (in relazione 
ai 
periodi 
successivi 
alla data della 
cessione) 
debba 
essere 
effettuata 
nei 
confronti 
del 
locatore/cedente 
oppure 
del terzo/cessionario". 


Si 
premette 
che 
il 
quesito intreccia 
varie 
caratteristiche 
di 
diversi 
istituti 
e 
norme 
(in 
via 
segnata, 
del 
negozio 
di 
cessione 
del 
credito, 
del 
precetto 
di 
cui 
all'art. 
48bis 
cit., 
dei 
canoni 
ermeneutici 
cui 
l’interprete 
deve 
affidarsi 
nel-
l'esegesi 
della 
legge), che 
debbono, pertanto, sia 
pure 
soltanto limitatamente 
ai profili di interesse in questa sede, essere presi in considerazione. 


Ancora 
in premessa, si 
segnala 
che 
il 
parere 
viene 
richiesto in relazione 
al 
pagamento dell’indennità 
ex 
art. 1591 c.c., e 
non dei 
canoni 
di 
locazione; 
ciò che 
pone, a 
livello di 
coerenza 
logica, la 
pregiudiziale 
questione 
della 
riconducibilità 
della 
prefata 
indennità 
nel 
perimetro dell'oggetto della 
cessione 
stipulata dalle parti. 


In 
questa 
prospettiva, 
si 
osserva 
che 
la 
lettura 
combinata 
delle 
premesse 
e 
degli 
artt. 
1 
e 
2 
del 
contratto 
di 
cessione 
permette 
di 
ritenere 
che 
il 
credito 
da 
indennità 
ex 
art. 
1591 
c.c. 
è 
stato 
interessato 
dal 
negozio 
di 
cessione, 
in 
quanto 
le 
prefate 
premesse 
(che, 
mercé 
l’art. 
1 
del 
contratto 
in 
esame, 
"costituiscono 
parte 
integrante 
e 
sostanziale 
del 
Contratto") 
esplicitano 
chiaramente 
la 
volontà 
del 
cedente 
di 
cedere 
"tutti 
i 
diritti 
e 
i 
crediti 
presenti 
e 
futuri 
relativi 
ai 
canoni 
di 
locazione 
... 
nonché 
tutti 
i 
diritti 
e 
i 
crediti 
strumentali 
e 
connessi, 
inclusi 
i 
crediti 
derivanti 
dall'eventuale 
inadempimento 
afferente 
al 
Contratto...". 


In questo senso, vale 
altresì 
evidenziare 
che, ad avviso della 
tesi 
giurisprudenziale 
in atto dominante 
(cfr., inter 
alia, Cass. civ., nn. 9549 del 
2010 
e 
9977 del 
2011), il 
credito da 
indennità 
ex 
art. 1591 c.c. si 
innesta 
su una 
responsabilità 
di 
tipo contrattuale, eziologicamente 
riconducibile 
all'inadempimento, 
da 
parte 
del 
locatario, dell'obbligo (in capo a 
lui 
incombente 
ai 
sensi 
dell'art. 1590 c.c.) di 
restituire 
la 
cosa 
oggetto del 
negozio di 
locazione; 
e 
che, 
in ogni 
caso, pare 
trattarsi 
di 
un credito qualificabile 
come 
connesso 
al 
contratto 
di locazione. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


La 
conclusione 
della 
riconducibilità 
del 
credito 
ex 
art. 
1591 
c.c. 
all'oggetto 
della 
cessione, del 
resto, pare 
confermata 
altresì 
dalla 
circostanza 
che 
non 
risulta 
sussistere 
contestazione 
tra 
le 
parti 
contrattuali 
circa 
il 
soggetto titolare 
del 
diritto di 
credito di 
cui 
all'art. 1591 c.c. (soggetto concordemente 
individuato 
dalle citate parti contrattuali nel cessionario). 


Conseguentemente, questa 
Avvocatura 
ritiene 
che 
anche 
il 
credito indennitario 
in esame 
possa 
ritenersi, nel 
caso di 
specie, rientrare 
nell'oggetto della 
cessione. 


***** 


ii) Cenni sui profili di interesse degli istituti di rilievo. 
Ciò posto, si osserva quanto segue. 


Principiando 
dal 
contratto 
di 
cessione 
del 
credito, 
il 
cui 
sostrato 
normativo 
principale 
è 
concretato dagli 
artt. 1260 ss. c.c., si 
rammenta 
che 
esso è 
un negozio 
bilaterale, 
non 
trilaterale; 
ad 
esso 
è 
e 
rimane 
estraneo 
il 
debitore 
ceduto, 
anche 
nei 
casi 
in cui 
questi 
abbia 
accettato la 
cessione. L'accettazione, infatti, 
non 
rende 
il 
ceduto 
parte 
contrattuale 
(1), 
il 
negozio 
intercorrendo 
soltanto 
tra 
creditore 
cedente 
e 
(nuovo creditore) cessionario; 
per converso, essa 
si 
limita 
a 
segnare 
il 
momento oltre 
il 
quale 
il 
ceduto paga male 
se 
adempie 
nei 
confronti 
del 
cedente, 
similmente 
a 
quanto 
avviene 
nei 
casi 
di 
notificazione 
al 
debitore 
ceduto del contratto di cessione. 


Trattasi 
di 
contratto consensuale 
ad effetti 
(immediatamente 
o differita-
mente 
(2)) 
reali; 
perfezionata 
la 
cessione, 
il 
cessionario, 
che 
pure 
rimane 
estraneo 
al 
rapporto 
giuridico 
da 
cui 
è 
sorto 
il 
credito 
ceduto, 
di 
quest'ultimo 
diviene 
effettivo titolare, potendo anche 
tutelarsi 
giudizialmente 
con le 
azioni 
che 
proprio 
tale 
credito 
mirino 
a 
garantire. 
Pertanto, 
se 
il 
credito 
ceduto 
-come 
nel 
caso di 
specie 
-deriva 
da 
un contratto, il 
cessionario potrà 
senz'altro agire 
in giudizio per ottenere 
il 
pagamento, ma 
non potrà 
esperire 
azioni 
relative 
al 
negozio sottostante, di 
tale 
credito fonte, in quanto egli 
rimane 
ad esso estraneo; 
non potrà, ad esempio, agire 
per l'annullamento o per la 
risoluzione 
del 
prefato negozio. 


La 
cessione 
del 
credito 
è 
contratto 
ricondotto 
dall'impostazione 
interpretativa 
in atto dominante, e 
in dottrina 
e 
in giurisprudenza, tra 
i 
negozi 
a 
c.d. 
causa variabile 
e 
a 
c.d. schema neutro 
(3); 
infatti, è 
istituto che 
i 
paciscenti 


(1) 
Precipitato 
applicativo 
giuridicamente 
riconducibile, 
come 
effetto, 
al 
diverso 
istituto 
della 
cessione 
di contratto. 
(2) La 
cessione 
di 
crediti 
futuri, infatti, ad avviso di 
un orientamento giurisprudenziale, produce 
effetti 
meramente 
obbligatori 
sino al 
momento in cui, venendo ad esistenza 
il 
credito, il 
suo passaggio 
nella titolarità giuridica del cessionario concreterà un effetto reale. 
(3) Cfr., inter 
alia, la 
recente 
Cass. civ., I, n. 10092 del 
2000, secondo cui 
"Innumerevoli 
sono, 
del 
resto, i 
precedenti 
di 
questa Corte 
nei 
... è 
stato appunto evidenziato come 
la cessione 
di 
credito sia 
un 
negozio 
a 
causa 
variabile, 
potendo 
essere 
stipulata 
anche 
a 
fine 
di 
garanzia, 
oltre 
che 
di 
pagamento, 
sicchè 
l'effettiva funzione 
solutoria della cessione 
pro solvendo di 
un credito va accertata in concreto, 
in base 
al 
contesto oggettivo e 
soggettivo della cessione 
stessa, piuttosto che 
del 
successivo pagamento 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


possono impiegare 
per raggiungere 
diversi 
scopi 
pratici 
(tra 
gli 
altri, si 
pensi 
alla 
cessione 
di 
credito 
con 
causa 
donativa, 
o 
alla 
cessione 
di 
credito 
effettuata 
per 
estinguere 
un 
precedente 
debito 
del 
cedente 
nei 
confronti 
del 
cessionario). 


Quanto 
all'oggetto 
della 
cessione, 
è 
ormai 
ius 
receptum 
la 
giurisprudenza 
nomofilattica 
secondo cui 
anche 
un credito futuro può essere 
ceduto, purché 
esista, all'atto della 
cessione, il 
rapporto giuridico da 
cui 
il 
ridetto credito originerà 
(4). 


Qualora, poi, il 
debitore 
ceduto sia 
una 
pubblica 
amministrazione, il 
sostrato 
normativo 
di 
riferimento 
si 
arricchisce 
di 
ulteriori 
disposizioni 
(tra 
le 
altre, cfr. art. 9 l. n. 2248 del 
1865, allegato e; 
art. 70, co. 3, R.D. n. 2440 del 
1923; 
art. 117, cc. 2 e 
3, d.lgs. n. 163 del 
2006; 
art. 106, co. 13, d.lgs. n. 50 
del 
2016). Per quanto di 
specifico interesse 
in questa 
sede, si 
precisa 
che 
l'art. 


9 
1. 
n. 
2248 
del 
1865, 
all. 
e, 
recita 
"sul 
prezzo 
dei 
contratti 
in 
corso 
non 
potrà 
avere 
effetto alcun sequestro, né 
convenirsi 
cessione, se 
non vi 
aderisca l'amministrazione 
interessata", con precetto confermato dall'art. 70 R.D. n. 2240 
del 
1923, 
con 
specifico 
riguardo 
ai 
crediti 
da 
somministrazioni, 
fornitura 
e 
appalti 
(5). 
Il 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
poi, 
dà 
ulteriore 
conforto 
a 
tale 
regula 
iuris, tuttavia 
prevedendo un meccanismo applicativo basato su una 
logica 
simile 
al 
silenzio-assenso (onerata 
essendo la 
p.a. di 
espressamente 
rifiutare 
la 
cessione 
in un dies 
predeterminato dalla 
legge); 
cfr., in tal 
senso, art. 106, co. 
13, del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016. 


Di 
recente, 
inoltre, 
in 
relazione 
a 
taluni 
crediti 
commerciali 
"certi, 
liquidi 
ed esigibili, vantati 
nei 
confronti 
degli 
enti 
del 
ssN in conseguenza di 
accordi 


del 
credito 
ceduto 
(Cass. 
23261/2014, 
12736/2011, 
17683/2009, 
1617/2009, 
17590/2005, 
1595512005), 
sottolineandosi 
altresì 
che, nella cessione 
pro solvendo di 
un credito in luogo di 
adempimento, l'estinzione 
dell'obbligazione 
originaria si 
verifica solo con la riscossione 
del 
credito verso il 
debitore 
ceduto 
(Cass. 
9141/2007)"; 
similmente 
si 
orienta 
la 
giurisdizione 
contabile, 
ad 
avviso 
della 
quale 
"...va, 
a 
questo 
punto, considerato che 
la cessione 
del 
credito non è 
un tipo contrattuale 
a sé 
stante, ma è 
inquadrabile 
tra i 
negozi 
a causa variabile, nel 
senso che 
al 
pari 
di 
tutti 
gli 
atti 
traslativi, può rientrare 
di 
volta in 
volta 
nell'uno 
o 
nell'altro 
tipo 
contrattuale 
(vendita, 
donazione, 
contratto 
solutorio, 
negozio 
di 
garanzia 
e 
via dicendo), a seconda del 
titolo e 
della causa che 
lo giustifica ..." 
v. Corte 
dei 
Conti 
Basilicata 
Sez. 
contr., Delib., n. 40 del 14 settembre 2016. 


(4) 
Cfr., 
ex 
plurimis, 
Cass 
civ., 
I, 
n. 
31986 
del 
2018, 
secondo 
cui 
"... 
la 
cessione 
dei 
crediti 
futuri, 
ivi 
compresi 
quelli 
aventi 
causa 
risarcitoria, 
non 
ha 
natura 
meramente 
obbligatoria 
e 
vi 
si 
può 
procedere 
-quando nel 
negozio dispositivo sia individuata la fonte, oppure 
la stessa sia determinata o determinabile 
-senza che 
rilevi 
la probabilità della venuta in essere 
del 
credito ceduto, non esistendo una norma 
che 
vieta 
la 
disponibilità 
dei 
diritti 
futuri 
perché 
meramente 
eventuali, 
con 
la 
conseguenza 
che 
la 
venuta 
in essere 
del 
credito futuro integra un requisito di 
efficacia della cessione, ma non della sua validità..."; 
interpretazione confermata, di recente, anche da Cass. civ., vI-III, n. 8869 del 2021. 
(5) 
Al 
riguardo, 
la 
giurisprudenza 
nomofilattica 
è 
orientata 
nel 
ritenere 
che 
"... 
la 
cessione 
del 
credito 
vantato 
nei 
confronti 
della 
Pubblica 
amministrazione 
per 
i 
contratti 
di 
Fornitura, 
servizi 
ed 
ogni 
contratto di 
durata, deve 
essere 
notificata all'amministrazione 
ceduta ed è 
efficace 
nei 
suoi 
confronti 
solo 
a 
seguito 
dell'accettazione, 
sempre 
che 
il 
contratto 
da 
cui 
deriva 
il 
credito 
sia 
incorso 
di 
esecuzione"; 
cfr. Cass. civ., III, n. 2541 del 2007. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


contrattuali 
stipulati 
ai 
sensi 
dell'articolo 8-quinquies 
del 
decreto legislativo 
30 dicembre 
1992, n. 502, ove 
non certificati 
mediante 
la piattaforma elettronica 
di 
cui 
all'articolo 7 del 
decreto-legge 
8 aprile 
2013, n. 35", il 
d.l. n. 34 
del 
2020 
(c.d. 
decreto 
rilancio) 
ha 
previsto 
un 
meccanismo 
uguale 
e 
contrario 
a 
quello delineato dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, sancendo che 
l'omesso riscontro 
da parte della p.a., debitrice ceduta, vale rifiuto di cessione. 


Dal 
canto suo, l'art. 48bis 
dPr 
n. 602 del 
1973 
sancisce 
che 
"... 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
... 
prima 
di 
effettuare, 
a 
qualunque 
titolo, 
il 
pagamento 
di 
un 
importo 
superiore 
a 
cinquemila 
euro, 
verificano, 
anche 
in 
via 
telematica, 
se 
il 
beneficiario 
è 
inadempiente 
all'obbligo 
di 
versamento 
derivante 
dalla 
notifica 
di 
una 
o 
più 
cartelle 
di 
pagamento 
per 
un 
ammontare 
complessivo 
pari 
almeno 
a 
tale 
importo 
e, 
in 
caso 
affermativo, 
non 
procedono 
al 
pagamento 
e segnalano la circostanza all'agente della riscossione 
...". 


Trattasi 
di 
norma 
ispirata 
ad 
una 
chiara 
e 
autoevidente 
ratio 
difensiva 
delle 
pubbliche 
finanze 
(protettrice, 
pertanto 
di 
un 
interesse 
di 
rilievo 
costituzionale; 
cfr. 
art. 
81 
Cost.), 
tesa 
ad 
evitare 
il 
rischio 
di 
dispersione 
di 
pubblici 
danari, 
nel 
solco 
di 
una 
prospettiva 
lato 
sensu 
di 
garanzia 
del 
titolare 
del 
diritto 
di 
credito; 
prospettiva 
che 
permea 
diversi 
istituti 
dell'ordinamento, 
e 
che, 
una 
per 
tutte, 
rievoca 
la 
logica 
sottesa 
alla 
compensazione 
(ove 
pure, 
infatti, 
può 
rinvenirsi 
una 
funzione 
lato 
sensu 
garantistica, 
atteso 
che 
l'eccipiente 
la 
compensazione 
evita 
di 
esporsi 
al 
rischio 
di 
pagare 
il 
proprio 
debito 
-altrui 
credito 
-e 
poi 
non 
riuscire, 
per 
qualsiasi 
ragione, 
ad 
ottenere 
il 
pagamento 
del 
proprio 
credito 
-altrui 
debito 
-). 


Premessi 
tali 
brevi 
cenni 
sui 
tratti 
essenziali 
dell'art. 48bis 
cit. e 
del 
negozio 
di 
cessione 
del 
credito, occorre 
ora 
portare 
a 
sintesi 
i 
due 
istituti 
per affrontare 
e 
risolvere 
la 
questione 
di 
diritto sottoposta 
da 
codesto Dicastero con 
la 
propria 
richiesta 
di 
parere, 
sopra 
compendiata 
nell'interrogativo 
che, 
per 
comodità 
di 
consultazione, qui 
si 
ritrascrive 
"se, sussistendo un rapporto civilistico 
di 
locazione 
di 
immobile 
in 
cui 
il 
Ministero 
riveste 
la 
qualità 
di 
conduttore/locatario, 
in 
caso 
di 
cessione 
dei 
crediti 
derivanti 
dal 
predetto 
rapporto 
dal 
locatore 
(cedente 
del 
credito) a terzo soggetto (cessionario del 
credito), 
cessione 
accettata 
dal 
Ministero 
(ceduto), 
la 
verifica 
di 
cui 
all'art. 
48bis 
dPr 
n. 602 del 
1973 (in relazione 
ai 
periodi 
successivi 
alla data della cessione) 
debba essere 
effettuata nei 
confronti 
del 
locatore/cedente 
oppure 
del 
terzo/cessionario". 


Riformulata 
in termini 
più generici, la 
quaestio iuris 
per cui 
è 
parere 
involge 
le 
modalità 
applicative 
dell'art. 
48bis 
cit. 
allorché 
l'Amministrazione 
debba 
pagare 
un credito che 
è 
stato oggetto di 
precedente 
negozio di 
cessione 
di 
crediti 
(crediti 
futuri, 
nel 
caso 
di 
specie, 
in 
quanto 
il 
diritto 
creditorio, 
certo, 
liquido ed esigibile 
al 
momento del 
pagamento, non esisteva 
al 
momento del 
contratto di 
cessione. Ma, si 
precisa 
sin d'ora, la 
natura 
presente 
o futura 
del 
credito ceduto non sembra rilevare ai fini di nostro interesse). 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


***** 


iii) Proposte 
interpretative, possibili 
soluzioni 
del 
quesito e 
loro argomenti 
di sostegno. 
Il 
concerto 
tra 
l'art. 
48bis 
cit. 
e 
la 
disciplina 
dedicata 
alla 
cessione 
del 
credito 
consegna all'interprete i seguenti, alternativi percorsi interpretativi. 


A)Una 
prima 
proposta 
esegetica 
conduce 
a 
ritenere 
che 
la 
verifica 
ai 
sensi 
dell'art. 
48bis 
cit. 
debba 
effettuarsi, 
sempre 
e 
comunque, 
prima 
del 
pagamento, 
nei 
confronti 
del 
solo 
cessionario, 
il 
quale 
è 
l'unico 
soggetto 
effettivamente 
destinatario del pagamento da parte dell'Amministrazione. 


A 
conforto 
della 
tesi 
in 
esame, 
milita 
l'argomento 
letterale 
in 
relazione 
all'interpretazione 
del 
plurimenzionato 
art. 
48bis 
cit., 
norma 
che 
richiede 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
soggetto beneficiario del 
pagamento, figura 
che, in 
ipotesi 
di 
pagamento di 
credito ceduto, coincide 
col 
cessionario, e 
non col 
cedente 
(il 
quale, privandosi 
della 
titolarità 
del 
credito, perde 
anche 
la 
giuridica 
possibilità di ricevere il pagamento). 


B) 
Affidandosi 
ad opposta 
ermeneusi, potrebbe 
argomentarsi 
che 
la 
verifica 
ex 
art. 
48bis 
cit. 
vada 
sempre 
e 
comunque 
effettuata, 
prima 
del 
pagamento, 
(oltre 
che 
nei 
confronti 
del 
cessionario, effettivo beneficiario del 
pagamento) 
anche 
nei 
confronti 
del 
cedente 
(6), 
il 
quale 
è 
e 
rimane, 
anche 
dopo 
la 
cessione, 
l'unica 
controparte 
contrattuale 
del 
negozio concluso con l'Amministrazione 
(che, per converso, nessun rapporto contrattuale ha col cessionario). 
La 
proposta 
interpretativa 
in esame 
risulta 
da 
una 
lettura 
dell'art. 48bis 
cit. 
affidata 
al 
criterio 
ermeneutico 
teleologico, 
attento 
alla 
finalità 
della 
norma. 
In questa 
prospettiva, dovrebbe 
escludersi 
che 
il 
paciscente 
privato che 
ha 
titolo 
a 
ricevere 
il 
pagamento di 
una 
somma 
di 
danaro dalla 
p.a. in forza 
di 
un 
contratto 
tra 
loro 
stipulato 
possa 
sottrarsi 
alla 
verifica 
ex 
art. 
48bis 
cit. 
(verifica 
che, 
all'atto 
della 
stipula 
del 
negozio, 
la 
p.a. 
sapeva 
sarebbe 
stata 
effettuata 
nei 
suoi 
confronti) disponendo del 
credito con un contratto (quale 
la 
cessione 
di 
credito) di cui la p.a. parte non 
è. 


In buona 
sostanza, l'attività 
verificatoria 
che 
la 
p.a. è 
chiamata 
a 
svolgere 
ai 
sensi 
del 
pluricitato 
art. 
48bis 
cit. 
non 
potrebbe 
essere 
soggettivamente 
orientata 
dalla 
stipula 
di 
negozi 
di 
diritto comune 
tra 
soggetti 
privati, senza 
neppure 
il 
coinvolgimento 
dell'Amministrazione 
che 
del 
contratto 
da 
cui 
sorge 


(6) In questa 
prospettiva 
interpretativa 
pareva 
essersi 
collocata 
anche 
l'Amministrazione 
Finanziaria 
con circolare 
n. 22 del 
22 luglio 2008 che 
(pur senza 
considerare 
la 
specificità 
del 
caso in cui 
la 
cessione 
abbia 
ad oggetto crediti 
futuri) così 
si 
esprimeva 
"...si 
ritiene 
che 
la verifica prevista dall'art. 
48-bis 
vada 
effettuata 
esclusivamente 
nei 
confronti 
del 
creditore 
originario 
(cedente), 
a 
prescindere 
dalla circostanza che 
la cessione 
del 
credito sia avvenuta con o senza il 
consenso del 
soggetto pubblico 
debitore 
(ceduto). In altri 
termini, si 
è 
dell'avviso che 
nei 
confronti 
del 
soggetto cui 
è 
stato trasferito il 
diritto di 
credito (cessionario) -subentrato nel 
rapporto con la Pubblica amministrazione 
in virtù di 
un 
contratto stipulato tra privati 
al 
quale 
la stessa è 
rimasta estranea -non sussistano i 
presupposti 
per 
procedere alla verifica disciplinata dal regolamento ...". 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


il 
credito da 
pagare 
è 
parte; 
sarebbe 
irragionevole, in altre 
parole, ammettere 
che 
la 
p.a. 
debba 
svolgere 
un'attività 
autoritativa, 
e 
non 
paritetica, 
id 
est 
il 
controllo 
ex 
art. 48bis 
cit., e 
che, tuttavia, il 
soggetto da 
controllare 
possa 
essere, 
nei 
fatti, 
selezionato 
da 
privati. 
In 
definitiva, 
"evidenti 
ragioni 
anti-elusive 
escludono che 
la verifica de 
qua possa essere 
effettuata solamente 
nei 
confronti 
del cessionario" (7). 


Potrebbe 
sostenersi, 
poi, 
come 
la 
tesi 
in 
esame 
ben 
si 
concili 
col 
principio 
di 
diritto, ormai 
ius 
receptum 
nell'esegesi 
nomofilattica 
della 
Corte 
Suprema, 
secondo cui 
"In tema di 
cessione 
di 
credito, il 
debitore 
ceduto è 
legittimato 
ad opporre 
al 
cessionario tutte 
le 
eccezioni 
che 
avrebbe 
potuto sollevare 
nei 
confronti dell'originario creditore...." (Cass. civ., III, n. 8373 del 2009). 


C) 
La 
tesi 
appena 
esposta 
potrebbe 
declinarsi 
in modo leggermente 
differente. 
In 
particolare, 
va 
considerato 
che 
le 
stesse 
pronunce 
di 
legittimità 
che 
sanciscono 
il 
principio 
poc'anzi 
ricordato 
(id 
est 
il 
principio 
secondo 
cui 
il 
cessionario 
può 
vedersi 
opposte 
dal 
ceduto 
le 
eccezioni 
che 
questi 
avrebbe 
potuto 
opporre 
al 
cedente) ne 
limitano e 
modulano al 
contempo gli 
effetti 
nel 
tempo, 
precisando che 
"qualora dopo 
la cessione 
intervengano fatti 
incidenti 
sull'entità, 
esigibilità ed estinzione 
del 
credito, la loro efficacia deve 
essere 
valutata 
in relazione 
alla nuova situazione 
soggettiva stabilitasi 
in dipendenza del 
già 
perfezionato 
trasferimento 
del 
diritto. 
Pertanto, 
perfezionatasi 
la 
cessione 
con 
il 
semplice 
consenso, 
la 
risoluzione 
consensuale 
del 
contratto 
dal 
quale 
traeva 
origine 
il 
credito 
ceduto, 
convenuta 
tra 
l'originario 
creditore 
cedente 
ed 
il 
debitore 
ceduto, 
non 
è 
opponibile 
al 
cessionario 
in 
quanto, 
una 
volta 
realizzato 
il 
trasferimento 
del 
diritto, 
il 
cedente 
ne 
perde 
la 
relativa 
disponibilità, 
e 
non 
può validamente 
negoziarlo in danno del 
cessionario, per 
il 
disposto dell'art. 
1256 
cod. 
civ. 
-la 
cui 
"ratio" 
ha 
portata 
generale 
pur 
regolando 
la 
norma 
stessa fattispecie 
particolari 
-, mentre 
il 
debitore 
ceduto, a conoscenza della 
cessione, non può ignorare tale circostanza". 
orbene, 
applicando 
tali 
coordinate 
ermeneutiche 
alla 
quaestio 
iuris 
al-
l'esame 
della 
Scrivente 
potrebbe 
sostenersi 
che, 
al 
momento 
dell'adempimento, 
l'Amministrazione 
possa 
rifiutare 
il 
pagamento 
al 
cessionario 
a) 
nel 
caso 
in 
cui 
la 
verifica 
di 
quest'ultimo abbia 
avuto esito negativo; 
b) nel 
caso in cui 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
cedente 
abbia 
avuto 
esito 
negativo, 
limitatamente 
ad 
esposizioni 
debitorie 
che 
preesistevano 
la 
notifica 
della 
cessione. 
Per 
converso, 
allorché 
la 
verifica 
del 
cedente 
abbia 
restituito 
esito 
negativo 
in 
ragione 
di 
circostanze 
successive 
a 
tale 
evento, ciò non dovrebbe 
essere 
giuridico ostacolo 
al pagamento nei confronti del cessionario. 


Se 
il 
principio 
civilistico, 
infatti, 
è 
che 
il 
ceduto 
non 
possa 
opporre 
al 
ces


(7) Così 
è 
scritto nella 
circolare 
MeF 
n. 29 del 
giorno 8 ottobre 
2009, ove, in realtà, l'Amministrazione 
suggerisce di aderire alla proposta interpretativa qui rubricata 
C). 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


sionario eccezioni 
relative 
a 
fatti 
modificativi 
del 
credito successivi 
alla 
cessione 
(recte: 
alla 
sua 
notifica 
o accettazione), allora 
non potrebbe 
legittimarsi 
il 
mancato pagamento al 
cessionario per una 
inadempienza 
ex 
art. 48bis 
cit. 
maturata dopo 
il negozio di cessione. 


d) 
Una 
quarta 
soluzione, mediana 
e, in un certo senso, di 
compromesso, 
è 
stata 
prospettata 
dal 
Ministero 
delle 
Finanze 
con 
circolare 
n. 
13 
del 
21 
marzo 
2018, secondo cui 
"... nell'ipotesi 
di 
cessione 
del 
credito, quanto all'applicazione 
dell'articolo 48-bis 
del 
d.P.r. n. 602/1973, possono fondamentalmente 
verificarsi le seguenti situazioni: 
a) 
il 
cedente 
presta 
il 
proprio 
assenso, 
secondo 
il 
procedimento 
descritto 
nella 
circolare 
n. 
29/rGs 
del 
2009, 
a 
far 
effettuare 
immediatamente 
la 
verifica 
di 
inadempienza a proprio carico da parte 
dell'amministrazione 
ceduta che, 
conseguentemente, darà notizia dei 
relativi 
esiti 
al 
cessionario. soltanto nel 
caso, poi, che 
l'esito risulti 
di 
"non inadempimento" 
l'amministrazione 
provvederà 
ad effettuare, al 
momento del 
pagamento, una seconda verifica esclusivamente 
nei confronti del cessionario; 
b) 
il 
cedente, al 
contrario, non presta il 
proprio assenso a far 
effettuare 
la 
verifica 
prevista 
dall'articolo 
48-bis, 
con 
l'effetto 
che, 
a 
prescindere 
dal-
l'accettazione 
anche 
tacita dell'amministrazione 
ceduta, quest'ultima sarà tenuta 
a effettuare 
la verifica de 
qua nei 
confronti 
del 
solo cedente, originario 
creditore, all'atto del 
pagamento a favore 
del 
cessionario, da ritenere, peraltro, 
consapevole 
del 
rischio 
che 
il 
cedente 
possa 
risultare, 
infine, 
inadempiente 
agli obblighi di versamento di cartelle di pagamento. 
È 
appena il 
caso di 
soggiungere 
che 
nell'evenienza prospettata alla lettera 
b), si 
reputa opportuno, oltre 
ad essere 
maggiormente 
trasparente, che 
l'amministrazione 
ceduta si 
adoperi 
per 
non prestare 
il 
proprio consenso alla 
cessione del credito, anche per scongiurare possibili contestazioni 
...". 


In buona 
sostanza, ad avviso dell'impostazione 
ermeneutica 
in esame, il 
creditore 
cedente 
non può sottrarsi 
alla 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit., ma 
è 
a 
lui 
rimessa 
la 
scelta 
del 
quando subirla: 
se 
all'atto della 
cessione 
(nel 
qual 
caso, se 
la 
verifica 
ha 
esito 
positivo, 
restituendo 
un 
"non 
inadempimento", 
al 
momento 
del 
pagamento la 
verifica 
andrà 
fatta 
soltanto nei 
confronti 
del 
cessionario), 
oppure 
successivamente, 
id 
est 
al 
momento 
del 
pagamento 
(al 
cessionario, 
nuovo titolare del diritto di credito). 


***** 


iv) Osservazioni 
critiche 
e 
profili 
di 
debolezza delle 
suesposte 
proposte 
interpretative. 
La 
Scrivente 
Avvocatura, che 
pure 
non s'esimerà 
dal 
prendere 
posizione, 
in 
diritto, 
circa 
la 
prospettiva 
interpretativa 
che 
ritiene 
preferibile, 
premette 
che 
la 
questione 
in esame 
è 
di 
particolare 
complessità 
e 
delicatezza, in quanto 
ciascuna delle possibili interpretazioni presenta taluni profili di criticità. 


In particolare, l'adesione 
alla 
tesi 
compendiata 
sub A) 
(la verifica va ef



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


fettuata unicamente 
nei 
confronti 
del 
cessionario) rischierebbe 
di 
porgere 
il 
fianco a 
strategie, da 
parte 
dei 
privati, elusive 
del 
disposto imperativo di 
cui 
all'art. 48bis 
cit., in quanto la 
parte 
contrattuale 
che 
sa 
di 
non poter ricevere 
il 
pagamento, 
non 
essendo 
nelle 
condizioni 
di 
positivamente 
superare 
la 
verifica 
di 
cui 
all'art. 
48bis 
cit., 
potrebbe 
aggirare 
il 
problema 
semplicemente 
cedendo, 
magari 
anche 
a 
titolo 
gratuito, 
il 
credito 
relativo 
a 
quel 
contratto 
ad 
un 
diverso 
soggetto 
(col 
quale, 
in 
ipotesi, 
potrebbe 
essere 
in 
accordo 
perché 
il 
pagamento, 
una 
volta 
ottenuto dall'Amministrazione, gli 
sia 
girato). In due 
parole, l'adesione 
alla 
tesi 
A) 
lascia 
residuare 
rischi 
di 
aggiramento 
della 
norma 
imperativa 
da 
parte 
del 
privato 
il 
quale, 
di 
per 
sé, 
non 
potrebbe 
ottenere 
il 
pagamento, 
versando in condizioni 
debitorie 
ritenute 
a 
tanto ostative 
dal 
plurimenzionato 
art. 48bis cit. 


A 
livello di 
diritto, poi, può opporsi 
alla 
tesi 
A) 
che 
essa 
dimentica 
che, 
come 
regola 
generale, 
il 
debitore 
ceduto 
è 
legittimato 
ad 
opporre 
al 
cessionario 
le 
eccezioni 
che 
avrebbe 
potuto sollevare 
nei 
confronti 
dell'originario creditore; 
pertanto, 
almeno 
con 
riguardo 
alle 
inadempienze 
del 
cedente 
verificatesi 
prima 
della 
cessione, è 
difficile 
sostenere, in diritto, che 
la 
p.a. non avrebbe 
la 
possibilità 
di 
opporre 
al 
cessionario l'esito negativo della 
verifica 
ex 
48bis 
cit. 
sul cedente. 


e 
tuttavia, l'adesione 
alla 
tesi 
sopra 
compendiata 
sub B) (la verifica andrebbe 
effettuata, al 
momento del 
pagamento, anche 
sul 
cedente, non solo sul 
cessionario) implicherebbe, come 
precipitato applicativo concreto, una 
forte 
limitazione 
all'utilità 
(e, per estensione, con ogni 
probabilità, all'utilizzo nella 
prassi 
ad 
opera 
dei 
privati) 
della 
cessione 
dei 
crediti 
(in 
particolare, 
futuri) 
che 
involgano, come debitore ceduto, l'Amministrazione. 


Infatti, nella 
consapevolezza 
che 
il 
credito ottenuto a 
mezzo di 
cessione 
potrebbe 
non 
essere 
pagato 
se, 
al 
momento 
del 
pagamento 
(che, 
in 
caso 
di 
crediti 
futuri, 
potrebbe 
temporalmente 
collocarsi 
ad 
una 
distanza 
non 
indifferente 
dal 
dies 
della 
cessione), 
il 
cedente 
non 
dovesse 
superare 
la 
verifica 
ex 
art. 
48bis 
cit., è 
ragionevole 
ritenere 
che 
il 
(potenziale) cessionario di 
credito futuro nei 
confronti 
della 
p.a. riterrà 
non conveniente 
percorrere 
la 
strada 
del 
negozio di 
cessione, spingendo il 
(potenziale) cedente 
a 
trovare 
differenti 
soluzioni 
per 
soddisfare il suo credito. 


In 
questo 
senso, 
non 
può 
non 
rilevarsi 
che 
l'esposto 
precipitato 
applicativo 
dell'adesione 
alla 
tesi 
sub 
B), 
oltre 
a 
mal 
conciliarsi 
col 
principio 
generale, 
che 
vuole 
libera 
la 
cedibilità 
dei 
crediti, 
salve 
espresse 
eccezioni 
di 
legge 
(che, 
siccome 
derogatorie 
ad una 
regola, sono di 
stretta 
interpretazione), avrebbe, 
con 
ogni 
probabilità, 
implicazioni 
pratiche 
negative 
dal 
punto 
di 
vista 
dei 
traffici 
giuridici: 
i 
crediti 
futuri 
nei 
confronti 
delle 
Amministrazioni, se 
anche 
pur 
sempre 
formalmente 
cedibili, lo sarebbero, con ogni 
probabilità, molto raramente, 
con 
danno 
-tra 
l'altro 
-della 
posizione 
del 
cedente 
che, 
pur 
non 
avendo 
debiti 
di 
sorta 
con il 
pubblico, né 
al 
momento della 
cessione 
né 
successiva



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


mente, tuttavia 
sarebbe 
concretamente 
svantaggiato dall'aggravata 
difficoltà 


nel disporre negozialmente con terzi dei propri crediti futuri. 


Questa 
proposta 
interpretativa, poi, sconta 
la 
frizione 
con la 
littera legis. 


Infatti, il 
più volte 
citato art. 48bis 
richiede 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
beneficiario del 
pagamento; 
siccome 
è 
innegabile 
che 
tale 
qualifica 
sia 
soggettivamente 
agganciabile 
al 
cessionario (unico titolare 
effettivo del 
credito, 
una 
volta 
perfezionatasi 
la 
cessione), 
sfuggirebbe 
il 
sostrato 
normativo 
in 
forza 
del quale giustificare la seconda cessione. 


Passando 
alla 
tesi 
C), 
essa 
potrebbe 
criticarsi 
perché 
valorizza 
la 
ratio 
della 
norma 
imperativa 
in esame 
(id est 
la 
finalità 
di 
garantire 
le 
pubbliche 
finanze) 
in 
misura 
minore 
e 
con 
intensità 
inferiore 
rispetto 
alla 
poc'anzi 
esposta 
tesi 
B). Invia 
segnata, l'adesione 
all'opzione 
C) 
porgerebbe 
il 
fianco al 
rischio 
che 
la 
p.a. debba 
pagare 
il 
cessionario (non inadempiente), anche 
se, al 
momento 
del 
pagamento, 
il 
cedente 
ha 
maturato 
esposizioni 
debitorie 
nei 
confronti 
della 
p.a.; 
e 
tuttavia, in contrappunto a 
quanto delineato nello scenario 
B), 
nella 
tesi 
in 
esame 
la 
verifica 
negativa 
del 
cedente 
potrebbe 
opporsi 
al 
cessionario 
unicamente 
se 
riferita 
a 
inadempienze 
verificatesi 
prima 
del 
negozio 
di 
cessione, 
mentre 
le 
inadempienze 
ad 
esso 
successive 
(e, 
comunque, 
successive 
alla notifica/accettazione della cessione) non potrebbero rilevare. 


Simile 
critica 
potrebbe 
muoversi 
alla 
proposta 
veicolata 
dalla 
circolare 
del 
MeF 
13 del 
21 marzo 2018, non potendo escludersi 
che, successivamente 
alla 
verifica 
effettuata 
al 
momento 
della 
cessione 
del 
credito 
futuro, 
il 
cedente 
maturi una esposizione debitoria nei confronti della p.a. 


La 
tesi 
d), 
poi, 
potrebbe 
apparire 
disancorata 
da 
un 
dedicato 
sostrato 
normativo 
che 
giustifichi 
perché 
andrebbero 
effettuate 
due 
verifiche, 
e 
perché 
una 
di 
queste 
andrebbe 
effettuata 
al 
momento della 
cessione 
(quella 
al 
cedente) e 
l'altra al momento del pagamento (quella al cessionario). 


***** 


v) Risoluzione del quesito. 
Tanto 
doverosamente 
premesso, 
approcciandosi 
a 
tirare 
le 
fila 
del 
discorso 
e 
tentando di 
districarsi 
tra 
la 
tempesta 
di 
argomenti 
sopra 
esposti, occorre 
subito mettere 
a fuoco quella che 
parrebbe 
essere 
l'unica certezza: 
la 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit. va 
sicuramente 
effettuata 
nei 
confronti 
del 
cessionario, 
prima 
di 
ciascun 
pagamento. 
Tanto 
non 
è 
revocabile 
in 
dubbio, 
in 
questa 
prospettiva 
militando 
il 
chiaro 
disposto 
della 
richiamata 
disposizione, 
che 
orienta 
soggettivamente 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
beneficiario 
del 
pagamento, 
soggetto che sicuramente può identificarsi nel cessionario. 


Il 
quesito, 
quindi, 
è 
se, 
in 
aggiunta 
a 
tale 
verifica, 
l'Amministrazione 
debba 
procedere 
anche 
alla 
verifica 
nei 
confronti 
del 
cedente; 
se 
sì, in quale 
momento. 


v.i) 
Procedendo 
per 
gradi, 
prendendo 
le 
mosse 
dai 
profili 
su 
cui 
vi 
è 
maggior certezza, può affermarsi 
che 
la soluzione 
prospettata dal 
meF 
con 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


la propria circolare 
n. 13 del 
21 marzo 2018 
(tesi 
D.), se 
non imposta 
dal 
diritto positivo, è comunque ad esso conforme. 


Infatti, nei 
casi 
in cui 
l'Amministrazione, in deroga 
al 
principio generale 
secondo cui 
la 
cessione 
può prescindere 
dal 
consenso del 
ceduto, ha 
per legge 
il 
potere 
di 
non 
accettare 
la 
ridetta 
cessione, 
così 
rendendola 
inefficace 
nei 
propri 
confronti, 
ben 
può 
la 
p.a., 
nell'esercizio 
della 
propria 
discrezionalità 
amministrativa 
(la 
legge 
non indicando analiticamente 
i 
casi 
di 
legittima 
non 
accettazione 
della 
cessione), 
procedere 
ad 
una 
verifica 
ex 
art. 
48bis 
cit. 
sul 
cedente 
prima di accettare. 


In 
questa 
prospettiva, 
in 
altri 
termini, 
la 
prima 
verifica 
(quella 
sul 
cedente) 
non sarebbe 
imposta 
dalla 
norma 
(che, per converso, in caso di 
accettazione 
della 
cessione, 
richiede 
verificarsi 
la 
situazione 
del 
cessionario 
al 
momento 
del 
pagamento), 
ma 
sarebbe 
il 
risultato 
di 
un 
controllo 
che 
l'Amministrazione, 
nel 
discrezionalmente 
determinarsi 
circa 
l'opportunità 
o meno di 
accettare 
la 
cessione, compie. 


Condivisibile, 
poi, 
è 
l’indicazione 
di 
massima, 
contenuta 
nella 
medesima 
circolare, 
di 
non 
accettare 
la 
cessione 
fuori 
dal 
caso 
in 
cui 
il 
cedente, 
sottoposto 
a immediata verifica 
ex 
art. 48bis cit., risulti non inadempiente. 


v.ii) 
residua, 
tuttavia, 
il 
dubbio, 
in 
diritto, 
di 
cosa 
imponga 
la 
norma; 
il 
dubbio, in altri 
termini, di 
quale 
verifica 
l'art. 48bis 
cit. imponga 
in caso di 
cessione 
di 
crediti 
futuri, a 
prescindere 
dalle 
(pur condivisibili 
e 
auspicabili) 
scelte 
e 
valutazioni 
che 
l'Amministrazione, nell'esercizio della 
propria 
discrezionalità 
amministrativa, vorrà 
compiere 
al 
momento di 
decidere 
se 
rifiutare 
la cessione notificatale. 
L'interpretazione 
puramente 
letterale 
della 
norma, che 
fa 
menzione 
unicamente 
del 
beneficiario del 
pagamento, potrebbe 
portare 
a 
ritenere 
che 
tutto 
ciò che 
la legge 
richiede 
è 
la 
verifica 
sul 
cessionario al 
momento del 
pagamento; 
per 
converso, 
un'esegesi 
massimamente 
affidata 
al 
canone 
teleologico, 
che 
valorizzi 
ogni 
oltre 
misura 
la 
ratio legis 
sottesa 
all'art. 48bis 
cit. (evidentemente 
teso alla 
maggior tutela 
delle 
pubbliche 
finanze), spingerebbe 
ad affermare 
la 
necessità 
di 
una 
verifica 
anche 
sul 
cedente 
al 
momento 
del 
pagamento. 


ora, sforzandosi 
di 
portare 
a 
sintesi 
le 
due 
opposte 
prospettive 
ermeneutiche, 
occorre 
rilevare 
che, se 
è 
arduo individuare 
il 
limite 
oltre 
il 
quale 
l'interpretazione 
teleologica 
si 
risolverebbe 
in una 
inammissibile 
operazione 
di 
nomopoiesi 
irrispettosa 
del 
dato normativo, è 
invece 
sicuro che 
la 
ratio legis 
non 
può 
essere 
completamente 
trascurata; 
ciò 
che 
porta 
a 
ritenere 
che, 
almeno 
con 
riguardo 
ai 
casi 
in 
cui 
vi 
siano 
situazioni 
di 
inadempienza 
del 
cedente 
maturate 
prima 
della 
cessione 
del 
credito (recte: 
della 
sua 
accettazione/notificazione), 
l'Amministrazione 
dovrà 
rifiutare 
il 
pagamento 
al 
cessionario 
sul 
rilievo dell'esito negativo della verifica del cedente. 


In altre 
parole, una 
verifica 
anche 
sul 
cedente 
è 
imprescindibile, al 
mo



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


mento del 
pagamento al 
cessionario, perché 
argomentando a contrario 
si 
tirerebbe 
la 
volata 
al 
verificarsi 
di 
scenari 
come 
quello 
che 
segue: 
un 
soggetto 
stipula, 
nella 
qualità 
di 
locatore, un contratto di 
locazione 
con la 
p.a. (locataria) 
in un momento in cui 
ha 
esposizioni 
debitorie 
nei 
confronti 
della 
p.a. (e, pertanto, 
non supererebbe 
la 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit.); 
tale 
soggetto cede 
il 
credito, 
magari 
anche 
a 
titolo 
gratuito, 
ad 
un 
compiacente 
terzo, 
il 
quale 
incasserà 
i 
danari 
(che, 
materialmente, 
il 
locatore 
non 
avrebbe 
potuto 
incassare), 
per 
poi 
girarli al paciscente privato. 


ora, per quanto estremo, l'esempio in parola 
è 
uno dei 
possibili 
scenari 
che 
potrebbero 
concretamente 
verificarsi 
aderendo 
alla 
tesi 
per 
cui 
la 
verifica, 
in caso di 
cessione 
di 
crediti, va 
effettuata 
unicamente 
nei 
confronti 
del 
cessionario. 
e 
tuttavia, 
una 
norma 
imperativa 
che 
fissa 
un 
divieto, 
peraltro 
a 
tutela 
di 
un interesse 
di 
estrazione 
costituzionale 
(com'è 
la 
solidità 
delle 
pubbliche 
finanze; 
cfr. 
art. 
81 
della 
Carta 
fondamentale), 
deve 
essere 
interpreta 
nel 
senso 
che 
essa 
non 
può 
essere 
elusa, 
nella 
sua 
sostanza, 
da 
convenienti 
scelte 
opportunistiche 
dei privati. 


ne 
consegue 
che 
può affermarsi, sempre 
procedendo per 
gradi, che 
la p.a. deve 
effettuare 
una verifica, al 
momento del 
pagamento al 
cessionario, 
anche 
nei 
confronti 
del 
cedente, ed 
evitare 
di 
adempiere 
allorché 
la 
verifica 
sul 
cedente 
restituisca 
risultato 
negativo 
per 
inadempienze 
maturatesiprima 
della cessione (recte: della sua accettazione/notifica). 


Tale 
ermeneusi, 
se 
potrebbe 
apparire 
un 
poco 
distonica 
con 
la 
littera 
legis 
dell'art. 
48bis 
cit. 
(che 
parrebbe 
richiedere 
la 
verifica 
unicamente 
nei 
confronti 
del 
beneficiario 
del 
pagamento), 
è 
invece 
pienamente 
compatibile 
coi 
principi 
generali, 
già 
cennati, 
in 
tema 
di 
cessione 
del 
credito; 
e, 
in 
via 
segnata, 
col 
principio 
secondo cui 
il 
debitore 
ceduto è 
legittimato ad opporre 
al 
cessionario le 
eccezioni 
che 
avrebbe 
potuto sollevare 
nei 
confronti 
dell'originario creditore 
(e 
senz'altro 
deve 
considerarsi 
tale 
un'eccezione 
relativa 
ad 
un 
fatto 
verificatosi 
prima della notifica/accettazione della cessione). 


Trattasi, poi, di 
interpretazione 
che 
potrebbe 
considerarsi 
costituzionalmente 
orientata, 
siccome 
tesa 
a 
dare 
soddisfazione 
e 
piena 
sostanza, 
come 
anticipato, 
ad un interesse 
di 
estrazione 
superprimario, la 
salus 
delle 
pubbliche 
finanze potendosi agganciare all'art. 81 della Carta fondamentale. 


In chiusura 
sul 
punto, è 
appena 
il 
caso di 
segnalare 
che, qualora 
l'Amministrazione 
siasi 
conformata 
alla 
circolare 
di 
cui 
sopra, e 
abbia, quindi, effettuato 
una 
verifica 
nei 
confronti 
del 
cedente 
prima 
di 
accettare 
la 
cessione, 
non 
occorrerebbe 
effettuare 
nuovamente 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
cedente 
all'atto 
del 
pagamento al 
cessionario, in quanto la 
p.a. avrebbe 
già 
accertato che 
il 
ridetto cedente 
non aveva, anteriormente 
alla 
cessione, esposizioni 
debitorie. 


v.iii) Questo posto, occorre 
ora, sempre 
procedendo per 
gradi, chiedersi 
se: 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


a) 
in caso di 
accettazione 
della 
cessione 
da 
parte 
della 
p.a., questa 
debba 
comunque 
effettuare 
la 
verifica 
anche 
sul 
cedente, 
al 
momento 
del 
pagamento 
al 
cessionario, e 
rifiutarsi 
di 
adempiere 
in caso di 
esito negativo della 
verifica 
con riguardo ad inadempienze verificatesi 
prima 
della cessione. 
b) 
in ogni 
caso, sia 
consentito, de 
iure 
condito, sostenere 
che 
la 
verifica 
negativa 
del 
cedente 
possa 
bloccare 
il 
pagamento 
al 
cessionario 
anche 
per 
inadempienze 
successive 
alla notifica della cessione. 
Al primo interrogativo occorre dare risposta affermativa. 


Se 
è 
vero, infatti, che 
un'interpretazione 
analogica 
dell'art. 1248 c.c. (8) 
potrebbe 
portare 
a 
sostenere 
il 
contrario, argomentando nel 
senso che, come 
il 
ceduto che 
ha 
accettato la 
cessione 
non può opporre 
al 
cessionario la 
compensazione 
di 
un 
controcredito 
che 
vantava 
verso 
il 
cedente, 
anche 
se 
anteriore 
alla 
cessione, così 
la 
p.a. che 
ha 
accettato la 
cessione 
non può poi 
rifiutare 
il 
pagamento al 
cessionario per una 
esposizione 
debitoria 
del 
cedente 
anteriore 
alla 
cessione, ritiene 
la 
Scrivente 
Avvocatura 
che 
non debba 
dimenticarsi 
che 
è 
la 
legge 
dello 
Stato, 
e 
non 
l'agere 
amministrativo, 
a 
richiedere 
la 
verifica 
e 
ad 
ancorare 
al 
suo eventuale 
esito negativo l'effetto ostativo del 
pagamento. 


Conseguentemente, 
allorché 
si 
ritenga 
-come, 
s'è 
scritto 
poco 
sopra, 
parrebbe 
doversi 
ritenere 
-che 
l'intreccio tra 
l'art. 48bis 
cit. e 
i 
principi 
civilistici 
in tema 
di 
cessione 
del 
credito porta 
ad affermare 
che, al 
momento del 
pagamento 
al 
cessionario, la 
p.a. debba 
verificare 
anche 
la 
posizione 
del 
cedente, 
rifiutando il 
pagamento nel 
caso emergano esposizioni 
debitorie 
del 
privato 
anteriori 
alla 
cessione 
(tale 
circostanza 
potendosi 
sussumere 
nel 
concetto di 
eccezione 
che 
il 
ceduto avrebbe 
potuto opporre 
al 
cedente, e 
non relativa a 
fatto successivo al 
negozio cessorio), tanto dovrà 
accadere 
anche 
nel 
caso in 
cui 
l'Amministrazione 
abbia 
semplicemente 
accettato 
la 
cessione, 
perché 
sfugge 
ai 
poteri 
della 
p.a. quello di 
derogare 
ad un precetto legale 
fissato da 
una norma imperativa, sia anche 
in senso favorevole 
al privato. 


In due 
parole: 
siccome 
è 
la 
legge 
dello Stato (in via 
segnata, l'art. 48bis 
cit.) che 
blocca 
il 
pagamento al 
cessionario nei 
casi 
in cui 
il 
cedente 
aveva, 
già 
da 
prima 
della 
cessione, esposizioni 
debitorie 
ostative, non può ritenersi 
che 
un comportamento del 
soggetto pubblico (qualsiasi 
esso sia, fosse 
anche 
l'accettazione 
della 
cessione) 
possa 
mettere 
in 
non 
cale 
il 
divieto 
legale, 
perché 
l'Amministrazione 
non può impedire 
la 
produzione 
di 
un effetto giuridico fissato 
da 
una 
norma 
di 
ordine 
pubblico che 
fissa 
un divieto a 
tutela 
di 
un interesse 
costituzionale; 
perché, giova 
ribadirlo, la 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit. non è 


(8) norma 
a 
tenore 
della 
quale 
"1. Il 
debitore, se 
ha accettato puramente 
e 
semplicemente 
la cessione 
che 
il 
creditore 
ha fatta delle 
sue 
ragioni 
a un terzo, non può opporre 
al 
cessionario la compensazione 
che 
avrebbe 
potuto opporre 
al 
cedente. 2. la cessione 
non accettata dal 
debitore, ma a questo 
notificata, impedisce la compensazione dei crediti sorti posteriormente alla notificazione". 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


adempimento 
teso 
a 
tutelare 
l'Amministrazione 
intesa 
quale 
soggetto 
di 
diritto 
comune 
in 
un 
rapporto 
paritetico 
con 
il 
privato, 
per 
converso 
mirando 
alla 
protezione 
di 
un pubblico interesse 
stricto sensu 
inteso. La 
p.a., quindi, non 
può disporre 
dell'effetto ostativo di 
cui 
all'art. 48bis 
cit., non rientrando nei 
poteri 
del 
soggetto pubblico quello di 
limitare 
la 
cogenza 
delle 
norme 
imperative 
fissanti specifici divieti. 


Completezza 
espositiva 
impone 
di 
osservare 
che, a 
livello civilistico, e 
con uno sguardo volto ai 
rapporti 
tra 
i 
privati 
(cedente 
e 
cessionario), questo 
scenario mostra 
un profilo di 
criticità: 
il 
cessionario, effettivo titolare 
del 
credito, 
non verrà 
pagato, e 
si 
apre 
la 
possibilità 
(cui 
la 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit. 
è 
prodromica) che 
l'ADeR aggredisca 
il 
credito ceduto (che, nei 
rapporti 
tra 
i 
privati 
cedente 
e 
cessionario, è 
ormai 
credito del 
secondo) per dare 
soddisfazione 
ad un differente credito della p.a. nei confronti del cedente. 


In altre 
e 
più semplici 
parole, l'Amministrazione 
rifiuta 
il 
pagamento al 
cessionario 
(titolare 
del 
diritto 
di 
credito) 
perché 
1'ADeR 
possa 
eventualmente 
aggredirlo al 
fine 
di 
coprire 
dei 
debiti 
del 
cedente 
(che 
del 
credito non è 
più 
titolare) nei confronti della p.a. 


ora, 
mentre 
nei 
confronti 
della 
p.a. 
può 
sostenersi 
che 
l'esito 
della 
verifica 
negativa 
nei 
termini 
suesposti 
concreti 
una 
causa 
di 
inefficacia legale 
del 
negozio 
di 
cessione 
nei 
confronti 
della 
p.a. (anche 
se 
previamente 
accettata, s'è 
detto), la 
posizione 
del 
cessionario potrà 
trovare 
tutela, nei 
confronti 
del 
cedente, 
sulla 
base 
dei 
noti 
meccanismi 
di 
diritto civile 
predisposti 
in tema 
di 
garanzia 
del 
cessionario (artt. 1266-67 c.c.) e, più in generale, in tema 
di 
responsabilità 
contrattuale. 


Da 
ultimo, 
residua 
l'interrogativo 
poc'anzi 
compendiato 
sub 
b), 
ovverosia 
se 
sia 
consentito, de 
iure 
condito, sostenere 
che 
una 
verifica 
negativa 
del 
cedente 
possa 
bloccare 
il 
pagamento al 
cessionario anche 
per inadempienze 
del 
cedente successive 
alla notifica/accettazione della cessione. 


Trattasi del profilo di maggior difficoltà. 


A 
sostegno di 
una 
soluzione 
positiva, milita 
senz'altro la 
già 
richiamata 
ratio 
legis, 
tesa 
alla 
valorizzazione, 
a 
tutto 
tondo 
e 
a 
spettro 
pieno, 
del 
pubblico 
interesse, peraltro di 
rilievo costituzionale, alla 
tutela 
della 
pubblica 
finanza. 
In questa 
prospettiva, sarebbe 
senz'altro opzione 
di 
maggior tutela 
per il 
pubblico 
interesse 
quella 
di 
poter 
evitare 
il 
pagamento 
al 
cessionario 
anche 
nei 
casi 
in 
cui 
il 
cedente 
abbia 
maturato 
un'esposizione 
debitoria 
successivamente 
alla notifica/accettazione del negozio di cessione. 


nel 
medesimo 
senso, 
può 
pure 
osservarsi 
come, 
altrimenti 
argomentando, 
si 
porgerebbe 
il 
fianco al 
rischio del 
verificarsi 
di 
scenari 
come 
il 
seguente: 
stipulato con la 
p.a. un contratto di 
durata 
(come, del 
resto, accaduto nel 
caso 
per cui 
è 
parere), il 
paciscente-creditore 
cedente 
non ha 
esposizioni 
debitorie 
al 
momento 
della 
notifica/accettazione 
della 
cessione, 
ma 
le 
matura 
immediatamente 
dopo 
e 
le 
conserva 
per 
tutta 
la 
durata 
del 
contratto 
(che 
può 
estendersi 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


anche 
per molti 
anni). In questo caso, se 
non si 
fornisce 
risposta 
positiva 
all'interrogativo, 
la 
pubblica 
amministrazione 
sarebbe 
tenuta 
a 
pagare 
al 
cessionario 
i 
crediti 
che 
di 
volta 
in 
volta, 
anno 
dopo 
anno, 
sorgeranno 
da 
quel 
contratto, 
anche 
se 
la 
parte 
contrattuale 
privata 
ha, 
da 
parte 
sua, 
consistenti 
debiti. 


A 
conforto della 
soluzione 
in esame, potrebbe 
poi 
argomentarsi, nel 
tentativo 
di 
irrobustire 
la 
copertura 
giuridica 
della 
tesi, che 
il 
principio secondo 
cui, in tema 
di 
cessione 
del 
credito, il 
cessionario può vedersi 
opposte 
dal 
ceduto 
le 
eccezioni 
che 
questi 
avrebbe 
potuto opporre 
al 
cedente, ma 
non se 
relative 
a 
fatti 
modificativi 
del 
credito 
successivi 
alla 
cessione/notifica 
dell'accettazione, dovrebbe 
declinarsi 
in modo differenziato allorché 
oggetto 
della 
cessione 
sia 
un 
credito 
futuro; 
dovrebbe, 
cioè, 
intendersi 
che, 
se 
il 
credito 
ceduto è 
un credito futuro, potrebbero opporsi 
al 
cessionario anche 
eccezioni 
fondate 
su fatti 
modificativi 
del 
credito successivi 
alla 
notifica/accettazione 
della 
cessione, 
tuttavia 
anteriori 
alla 
produzione 
dell'effetto 
traslativo 
del 
contratto 
(che, nel 
caso di 
cessione 
di 
credito futuro, si 
produce 
unicamente 
se 
e 
quando il credito viene ad esistenza). 


nella 
medesima 
prospettiva, potrebbe 
sostenersi 
che 
il 
beneficiario del 
pagamento 
di 
cui 
fa 
menzione 
l'art. 48bis 
cit. per individuare 
il 
soggetto destinatario 
della 
verifica 
sia 
concetto che 
ricomprenda 
non soltanto il 
cessionario, 
ma 
altresì 
il 
cedente, che 
del 
credito ha, nella 
sostanza, beneficiato 
nel 
senso di averne potuto disporre, rendendolo oggetto di cessione. 


Per converso, a 
sostegno di 
una 
risposta 
negativa 
(id est 
a 
sostegno della 
tesi 
secondo cui, accettata 
la 
cessione, la 
p.a. ceduta 
non può opporre 
al 
cessionario 
una 
verifica 
negativa 
ex 
art. 48bis 
cit. sul 
cedente 
che 
sia 
fondata 
su 
inadempienze 
successive 
all'accettazione) 
milita 
la 
giurisprudenza 
nomofilattica 
secondo 
cui, 
in 
tema 
di 
cessione 
del 
credito, 
il 
cessionario 
non 
può 
vedersi 
opposte 
dal 
ceduto eccezioni 
fondate 
su fatti 
modificativi 
del 
credito verificatisi 
dopo l'accettazione/notificazione della cessione. 


Possono 
richiamarsi 
altresì, 
a 
conforto 
dell'opzione 
in 
esame, 
la 
necessità 
di 
non discostarsi 
immotivatamente 
dalla 
littera legis, da 
cui 
sempre 
l'interprete 
deve 
prendere 
le 
mosse 
nell'operazione 
esegetica; 
nel 
senso 
che, 
siccome 
l'art. 
48bis 
cit. 
chiede 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
beneficiario 
del 
pagamento, 
solo una 
ragione 
in diritto che 
sia 
robusta 
legittima 
un'ermeneusi 
per la 
quale 
la 
verifica 
si 
impone 
anche 
nei 
confronti 
di 
un 
altro 
soggetto; 
ragione 
che, 
con 
riguardo all'inadempienza 
anteriore 
all'accettazione 
della 
cessione, potrebbe 
rinvenirsi 
nell'equiparabilità 
di 
tale 
verifica 
ad un'eccezione 
che, relativa 
ad 
un fatto anteriore 
all'accettazione, poteva 
senz'altro opporsi 
anche 
al 
cedente, 
da 
parte 
del 
ceduto, mentre, con riguardo ad esposizioni 
debitoree 
maturate 
successivamente 
all'accettazione, risulta 
sprovvista 
di 
qualsivoglia 
copertura 
a livello normativo. 


Infatti, 
la 
proposta 
interpretativa 
poc'anzi 
cennata 
(ricomprendere 
nel 
con



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


cetto di 
beneficiario del 
pagamento 
non soltanto il 
cessionario, ma 
altresì 
il 
cedente), per quanto maggiormente 
sensibile 
allo spirito della 
legge 
condensato 
nell'art. 48bis 
cit., non pare 
conciliabile 
col 
concetto di 
interpretazione, 
attività 
che 
presuppone 
pur sempre 
una 
connessione 
col 
dato letterale 
fornito 
dalla 
disposizione 
che 
s'interpreta. 
Quindi, 
può 
sostenersi 
che 
qualsiasi 
attività 
interpretativa, quand'anche 
ispirata 
al 
criterio teleologico e 
tesa 
a 
dare 
risalto 
all'effettiva 
ratio 
legis, 
deve 
arrestarsi 
innanzi 
ad 
un 
dato 
letterale 
che 
non 
permetta 
di 
raggiungere 
taluni 
approdi 
interpretativi, quand'anche 
questi 
siano, 
in tesi, più sensibili alla ridetta 
ratio legis. 


La 
riconduzione 
del 
cedente 
al 
concetto 
di 
beneficiario 
del 
pagamento 
passerebbe 
necessariamente 
per una 
operazione 
di 
tipo analogico. e 
tuttavia, 
è 
noto 
che 
lo 
strumento 
dell'analogia 
trova 
il 
suo 
limite 
nell'eccezionalità 
della 
norma 
(art. 14 disp. prel. cod. civ.); 
e 
l'art. 48bis 
cit., limitando la 
possibilità 
del 
creditore 
di 
ottenere 
il 
pagamento 
per 
un 
credito 
certo, 
liquido 
ed 
esigibile 
(sancito, 
in 
via 
generale, 
dall'art. 
1183 
c.c.), 
sembra 
potersi 
considerare 
norma 
eccezionale. L'analogia, pertanto, non parrebbe strada percorribile. 


Ciò 
posto, 
è 
opinione 
della 
Scrivente 
Avvocatura 
che 
la 
soluzione 
del-
l'interrogativo 
sub 
b) 
passi 
per 
la 
corretta 
classificazione 
tipologica, 
in 
punto 
di 
strumentario 
rimediale, 
del 
rifiuto, 
da 
parte 
della 
p.a., 
di 
pagare 
il cessionario per una verifica negativa sul cedente. 


in 
particolare, 
la 
già 
cennata 
pronuncia 
della 
Corte 
Suprema, 
sezione 
terza, n. 8373 del 
2009, ha 
sancito che 
"In tema di 
cessione 
di 
credito, il 
debitore 
ceduto 
è 
legittimato 
ad 
opporre 
al 
cessionario 
tutte 
le 
eccezioni 
che 
avrebbe 
potuto sollevare 
nei 
confronti 
dell'originario creditore, ma, qualora 
dopo la cessione 
intervengano fatti 
incidenti 
sull'entità, esigibilità ed estinzione 
del 
credito, 
la 
loro 
efficacia 
deve 
essere 
valutata 
in 
relazione 
alla 
nuova 
situazione 
soggettiva stabilitasi 
in dipendenza del 
già perfezionato trasferimento 
del diritto. Pertanto, perfezionatasi la cessione, il debitore ceduto: 


-può opporre 
al 
cessionario le 
eccezioni 
concernenti 
l'esistenza e 
le 
validità 
del 
negozio 
da 
cui 
deriva 
il 
credito 
ceduto 
e 
le 
eccezioni 
riguardanti 
l'esatto adempimento del negozio; 
-mentre 
le 
eccezioni 
relative 
ai 
fatti 
estintivi 
o modificativi 
del 
credito 
ceduto sono opponibili 
al 
cessionario solo se 
anteriori 
alla notizia della cessione 
comunicata al debitore ceduto e non se successivi. 
Ne 
consegue 
che 
il 
successivo riconoscimento da parte 
del 
cedente 
della 
riduzione 
dell'importo del 
credito originario non può essere 
opposto dal 
debitore 
al cessionario". 


occorre, 
pertanto, 
sussumere 
il 
rifiuto, 
da 
parte 
della 
p.a., 
di 
pagare 
al 
cessionario 
per 
un 
esito 
negativo 
della 
verifica 
sul 
cedente 
in 
una 
delle 
due 
categorie 
delineate 
dalla 
giurisprudenza 
in 
esame; 
tale 
operazione 
implicherà, 
di riflesso, la risoluzione della questione in un senso o nell'altro. 


In via 
segnata, se 
si 
considera 
il 
rifiuto di 
cui 
sopra 
come 
eccezione 
rela



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


tiva 
al 
titolo del 
credito oppure 
quale 
eccezione 
relativa 
l'esatto adempimento 
della 
controprestazione 
per cui 
il 
credito è 
nato, deve 
concludersi 
che 
anche 
esposizioni 
debitoree 
sorte 
successivamente 
alla 
notifica/accettazione 
della 
cessione 
siano suscettive 
di 
bloccare 
il 
pagamento a 
favore 
del 
cessionario; 
in 
questa 
prospettiva, pertanto, al 
momento del 
pagamento al 
cessionario, la 
p.a. 
dovrebbe 
verificare 
anche 
la 
posizione 
del 
cedente, rifiutando il 
pagamento al 
cessionario in ogni caso 
di inadempienza del cedente. 


Per converso, riconducendo il 
rifiuto in esame 
alla 
categoria 
delle 
"eccezioni 
relative 
a fatti 
estintivi 
o modificativi 
del 
credito ceduto", dovrebbe 
concludersi 
che 
non sia 
al 
cessionario opponibile 
la 
verifica 
negativa 
sul 
cedente 
che 
sia 
basata 
su esposizioni 
debitoree 
successive 
all'accettazione/notifica 
del 
negozio di cessione. 


Il 
punctum 
dolens, pertanto, è 
ricondurre 
il 
rifiuto, da 
parte 
della 
p.a., di 
pagare 
al 
cessionario per un esito negativo della 
verifica 
sul 
cedente 
nell'una 


o nell'altra categoria di eccezioni. 
orbene, 
questo 
organo 
Legale 
osserva 
che 
tale 
rifiuto, 
di 
per 
sé 
non 
ascrivibile 
ad alcuna 
delle 
due 
categorie, essendo l'effetto giuridico di 
una 
norma 
imperativa, 
sembra, 
operando 
in 
via 
analogica, 
più 
correttamente 
qualificabile 
come 
eccezione 
relativa 
ad un fatto estintivo/modificativo del 
credito ceduto. 


non 
pare 
possibile, 
infatti, 
neppure 
in 
via 
interpretativa 
e 
ragionando 
per 
analogia, 
considerare 
tale 
rifiuto 
come 
un'eccezione 
relativa 
al 
titolo 
o 
all'adempimento 
del 
contratto 
(peraltro 
solo 
eventuale; 
perché, 
com'è 
noto, 
possono 
cedersi 
anche 
crediti 
non 
di 
fonte 
contrattuale); 
la 
pubblica 
amministrazione 
che 
rifiuta 
il 
pagamento 
a 
fronte 
di 
una 
verifica 
ex 
art. 
48bis 
cit. 
negativa 
non 
lo 
fa 
per 
un 
qualcosa 
che 
attiene 
al 
rapporto 
obbligatorio/titolo 
da 
cui 
sorge 
il 
credito, 
ma 
perché 
sussiste 
un 
fatto 
(estraneo 
a 
quel 
rapporto 
obbligatorio, 
contrattuale 


o 
meno 
che 
sia) 
cui 
la 
legge 
riconduce 
un'efficacia 
ostativa 
dell'adempimento 
solutorio. 
Ciò 
che, 
del 
resto, 
è 
confermato 
anche 
dal 
caso 
concreto 
per 
cui 
è 
parere, 
in 
cui 
l'eventuale 
rifiuto 
del 
pagamento 
non 
si 
giustificherebbe 
in 
ragione 
di 
inadempienze 
da 
parte 
del 
locatore 
a 
obblighi 
in 
capo 
a 
lui 
incombenti 
per 
contratto, 
e 
neppure 
per 
vizi, 
genetici 
o 
sopravvenuti, 
del 
titolo; 
per 
converso, 
sarebbe 
il 
frutto 
dell'effetto 
giuridico 
che 
la 
legge 
attribuisce 
ad 
una 
circostanza 
estranea 
al 
rapporto 
obbligatorio 
da 
cui 
sorge 
il 
credito 
(la 
debenza 
di 
danari 
verso 
l'Amministrazione). 
Per queste 
ragioni, sembra 
più corretto ricondurre 
il 
rifiuto in esame 
alla 
categoria 
delle 
"eccezioni 
relative 
a 
fatti 
estintivi 
o 
modificativi 
del 
credito 
ceduto". 
Di 
riflesso, deve 
concludersi 
che, de 
iure 
condito, l'Amministrazione 
deve 
sì 
svolgere 
la 
verifica 
ex 
art. 48bis 
cit., prima 
di 
pagare 
il 
cessionario, 
anche 
nei 
confronti 
del 
cedente, 
ma 
può 
rifiutare 
il 
pagamento 
soltanto 
se 
l'esposizione 
debitorea 
è 
maturata 
prima 
della 
notifica/accettazione 
del 
negozio 
cessorio; 
ciò 
che 
si 
conclude 
in 
sintonia 
con 
l'esegesi 
nomofilattica 
relativa 
a 
tutte 
le 
eccezioni 
che 
si 
fondano su fatti 
modificativi 
del 
diritto di 
credito 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


oggetto 
di 
cessione, 
che 
sono 
opponibili 
al 
cessionario 
soltanto 
se 
anteriori 
alla notifica/accettazione della cessione. 


Le 
condivisibili 
ragioni 
di 
maggior tutela 
delle 
pubbliche 
finanze 
e 
l'interpretazione 
teleologica 
che 
su di 
esse 
si 
innesta 
partendo dalla 
ratio legis, 
più 
volte 
richiamate 
in 
questo 
breve 
scritto, 
se 
consentono 
di 
interpretare 
il 
quadro 
normativo 
in 
esame 
nei 
sensi 
suesposti, 
permettendo, 
superando 
la 
mera 
littera legis, di 
verificare 
anche 
la 
posizione 
del 
cedente, e 
non solo del 
cessionario, 
al 
momento 
del 
pagamento, 
tuttavia 
non 
possono 
spingersi 
al 
punto 
di 
portare 
a 
sancire 
un 
principio 
di 
diritto 
che 
sia 
totalmente 
disancorato 
non soltanto dal 
diritto positivo, ma 
anche 
dalle 
coordinate 
ermeneutiche 
regolatrici 
dell'istituto della cessione del credito. 


Ciò che non toglie, vale precisare, che: 


-a 
prescindere 
dall'anteriorità 
o meno del 
sorgere 
dei 
debiti, da 
parte 
del 
cedente, 
rispetto 
alla 
notifica 
della 
cessione, 
il 
negozio 
di 
cessione 
potrà 
essere 
dalla 
p.a. 
impugnato 
perché 
sia 
dichiarato 
nullo 
allorché, 
in 
concreto, 
sia 
stato 
posto 
in 
essere 
con 
l'unica 
finalità 
di 
eludere 
il 
disposto 
della 
norma 
imperativa 
per cui 
è 
parere. È 
noto, infatti, che 
il 
concerto tra 
gli 
artt. 1325, 1343 e 
1344 
c.c. 
(regolatori 
degli 
istituti 
della 
causa 
in 
concreto 
(9), 
della 
sua 
illiceità 
e 
del 
negozio in frode 
alla legge) permette 
di 
giungere 
alla 
declaratoria 
di 
nullità 
di 
un contratto allorché 
questo sia 
stato posto in essere 
con la 
precipua 
finalità 
di 
eludere 
l'applicazione 
di 
una 
norma 
imperativa, come 
senz'altro l'art. 48bis 
cit. deve considerarsi; 
-all'atto 
della 
valutazione 
circa 
l'accettazione 
o 
meno 
della 
notificata 
cessione, 
l'Amministrazione/debitrice 
ceduta, quando la 
legge 
si 
limita 
ad assegnarle 
la 
possibilità 
di 
rifiutare 
la 
cessione, 
senza 
precisare 
i 
casi 
in 
cui 
il 
rifiuto 
è 
legittimo, ben può prendere 
in considerazione 
anche 
la 
durata 
del 
contratto 
ai 
fini 
della 
propria 
determinazione 
circa 
l'accettazione 
o il 
rifiuto della 
cessione. 
In altre 
parole, nel 
decidere 
se 
accettare 
o meno la 
cessione, l'Amministrazione 
considererà, 
come 
elemento 
da 
bilanciare 
con 
altri 
nell'esercizio 
della 
propria 
discrezionalità, anche 
la 
durata 
del 
contratto fonte 
dei 
crediti 
ceduti; 
una 
durata 
estesa 
potrebbe, apprezzate 
le 
specificità 
del 
caso concreto e 
comunque 
ferma 
l'insindacabilità 
del 
merito amministrativo, spingere 
la 
p.a. ceduta 
ad 
un 
approccio 
cautelativo, 
ossia 
a 
ritenere 
non 
opportuna 
e 
non 
conforme 
al 
pubblico 
interesse 
l'accettazione 
della 
cessione, 
la 
quale, 
alla 
luce 
di 
quanto 
sopra 
esposto 
in 
punto 
di 
verifiche 
ex 
art. 
48bis 
cit., 
se 
accettata, 
precluderebbe 
alla 
pubblica 
amministrazione 
la 
possibilità 
di 
rifiutare 
il 
pagamento 
al 
cessionario in caso di 
verifica 
negativa 
sul 
cedente 
che 
dipenda 
da 
esposizioni debitorie all'accettazione successive. 


v.iv) 
Quanto 
sopra 
scritto 
vale 
anche 
quando 
ceduto 
sia 
un 
credito 
futuro 
(9) normativamente 
agganciabile, in via 
segnata, all'art. 1325 c.c. che, nel 
compendiare 
gli 
elementi 
essenziali del contratto, fa menzione, tra gli altri, della 
causa. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


(ipotesi 
in cui, com'è 
noto, il 
contratto ha 
effetto meramente 
obbligatori 
sino 
al momento in cui il credito futuro verrà ad esistenza). 


Infatti, 
mancando 
qualsivoglia 
aggancio 
normativo 
che 
tanto 
liceizzi, 
non 
sembra 
possibile 
affidarsi 
a 
proposte 
interpretative, pur rispondenti 
al 
canone 
del 
buon senso e 
della 
ragionevolezza, che 
distinguano (nei 
sensi 
che 
qui 
potrebbero 
interessare), quanto alle 
eccezioni 
utilmente 
opponibili 
dal 
ceduto al 
cessionario a 
fronte 
di 
accettazione 
del 
negozio cessorio, tra 
cessioni 
relative 
a crediti presenti e cessioni relative a crediti futuri. 


***** 


vi) Principi di diritto. 
In conclusione, questo organo Legale, comunque 
ribadendo che 
la 
specificità 
della 
questione 
rende 
auspicabile 
una 
dedicata 
presa 
di 
posizione 
da 
parte 
del 
Legislatore, 
che 
semplifichi 
il 
quadro 
giuridico 
depurandolo 
dalle 
incertezze 
dovute 
alle 
possibili 
proposte 
interpretative 
allo 
stato 
innestabili 
sul 
complicato sostrato normativo di 
riferimento, rende 
il 
richiesto parere 
nei 
termini che seguono: 


«In tema di 
cessione 
di 
credito, presente 
o futuro che 
sia, nei 
casi 
in cui 
l'amministrazione assume la veste di debitore ceduto: 


a) 
la 
verifica 
ai 
sensi 
dell'art. 
48bis 
cit. 
va 
sempre 
effettuata 
nei 
confronti 
del cessionario, prima del pagamento; 
b) 
la verifica ai 
sensi 
dell'art. 48bis 
cit. va sempre 
effettuata anche 
nei 
confronti 
del 
cedente, prima del 
pagamento; essa sarà ostativa dell'adempimento 
nei 
confronti 
del 
cessionario allorché 
restituisca esito negativo in ragione 
di 
esposizioni 
debitorie 
maturate 
prima 
dell'accettazione/notifica alla 
p.a.; 
c) 
per 
tali 
ragioni, 
la 
proposta 
interpretativa 
veicolata 
dalla 
circolare 
del 
MeF 
n. 13 del 
21 marzo 2018, sebbene 
non imposta dal 
diritto positivo, è 
comunque 
ad esso conforme, e 
si 
considera con favore 
in termini 
di 
opportunità, 
specie 
laddove, 
in 
via 
cautelativa 
e 
a 
tutela 
del 
pubblico 
interesse, 
esorta 
le 
amministrazioni 
a non accettare 
le 
cessioni 
di 
credito in mancanza di 
una 
immediata e positiva verifica ex art. 48bis cit. sul cedente; 
d) 
l'amministrazione 
non può rifiutare 
il 
pagamento al 
cessionario, che 
restituisca una verifica ex 
art. 48bis 
cit. positiva, a fronte 
di 
una verifica negativa 
nei 
confronti 
del 
cedente 
per 
esposizioni 
debitorie 
sorte 
successivamente 
alla accettazione/notifica della cessione; 
e) 
allorché 
la 
cessione 
di 
credito 
sia 
stata 
stipulata 
dai 
privati 
con 
l'unica 
e 
condivisa finalità di 
eludere 
l'applicazione 
dell'art. 48bis 
cit., che 
è 
norma 
imperativa, il 
negozio sarà nullo ex 
comb. disp. artt. 1325, 1343, 1344 c.c. e, 
come 
tale, 
potrà 
essere 
dichiarato 
su 
domanda 
di 
qualsiasi 
soggetto 
che 
a 
tanto abbia un interesse; anche, pertanto, dall'amministrazione 
debitrice-ceduta; 
f) all'atto della valutazione 
circa l'accettazione 
o meno di 
una cessione 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


di 
credito (nei 
casi 
in cui 
la legge 
consenta tale 
valutazione 
alla p.a.), l'amministrazione 
valuterà la rispondenza o meno al 
pubblico interesse 
dell'eventuale 
accettazione 
apprezzando 
tutte 
le 
specificità 
del 
caso 
concreto, 
compresi, 
tra 
l'altro, 
la 
durata 
del 
contratto 
fonte 
dei 
ceduti 
crediti, 
l'ammontare 
e 
la 
natura di 
questi 
ultimi, il 
profilo del 
cedente 
e 
la sussistenza di 
sue 
eventuali, 
precedenti inadempienze ex art. 48bis cit.». 


***** 


Ciò posto, poiché 
nel 
caso di 
specie 
il 
cedente 
ha 
prestato il 
proprio consenso 
a 
tempestivamente 
subire 
la 
verifica 
all'atto della 
cessione 
del 
credito, 
e 
tale 
verifica 
s'è 
risolta 
positivamente, è 
corretto in diritto affermare 
che 
le 
successive 
verifiche, 
all'atto 
del 
pagamento, 
dovranno 
essere 
rivolte 
unicamente 
nei 
confronti 
del 
cessionario. e 
invero, avendo codesto Dicastero correttamente 
provveduto alla 
verifica 
a 
carico del 
cedente, prima 
di 
accettare 
la 
cessione, 
in 
conformità 
a 
quanto 
proposto 
dalla 
circolare 
MeF 
n. 
13 
del 
21 
marzo 2018, potrà 
ora 
svolgere 
la 
verifica 
unicamente 
nei 
confronti 
del 
cessionario. 


Del che è parere. 
***** 


Il 
presente 
parere 
è 
stato sottoposto all'esame 
del 
Comitato Consultivo di 
questa 
Avvocatura 
che, nella 
seduta 
del 
30 giugno 2021, si 
è 
espresso in conformità. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


eventi sismici del 6 aprile 2009. Sussumibilità 
delle elargizioni in favore della Cri nella categoria 
del “negozio giuridico modale” ex art. 4, comma 1, 
lett. d), d.lgs. 28 settembre 2012, n. 178 


Parere 
del 
26/07/2021-456553, al 16723/2021, 
ProC. valerIa 
roMaNo 


1. Il quesito. 
Con 
la 
nota 
emarginata 
l'ente 
in 
indirizzo 
ha 
chiesto 
alla 
Scrivente 
di 
esprimersi 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
di 
adottare 
provvedimenti 
di 
trasferimento 
in favore 
dell'Associazione 
Croce 
Rossa 
Italiana 
aventi 
ad oggetto i 
moduli 
abitativi 
provvisori 
(M.A.P) e 
le 
strutture 
ad uso civico ed ambulatoriale 
nonché 
le 
piastre 
sulle 
quali 
i 
moduli 
non residenziali 
poggiano, costruiti 
in esecuzione 
ad una 
convenzione 
stipulata 
in data 
19 gennaio 2010 tra 
la 
C.R.I., il 
Commissario delegato per gli 
eventi 
sismici 
del 
6 aprile 
2009, il 
Comune 
di 
L'Aquila 
ed il 
Provveditorato per le 
opere 
Pubbliche 
per il 
Lazio, l'Abruzzo 
e la Sardegna. 


Più nel 
dettaglio, dalla 
documentazione 
trasmessa 
emerge 
che 
i 
soggetti 
innanzi 
indicati, al 
fine 
di 
consentire 
la 
sollecita 
sistemazione 
delle 
persone 
fisiche 
residenti 
o 
stabilmente 
dimoranti 
in 
abitazioni 
distrutte 
o 
dichiarate 
non 
agibili 
a 
causa 
del 
sisma 
del 
6 
aprile 
2009, 
concludevano 
un 
accordo 
avente 
ad oggetto la 
progettazione 
e 
la 
realizzazione 
-nella 
frazione 
di 
San 
Gregorio 
del 
Comune 
di 
L'Aquila 
-di 
moduli 
destinati 
ad 
uso 
abitativo 


(M.A.P) e 
di 
strutture 
destinate 
ad uso sociale 
come 
ambulatorio e 
centro civico 
nonché 
la 
realizzazione 
delle 
connesse 
opere 
di 
urbanizzazione 
attraverso 
l'impiego del 
contributo finanziario pari 
ad euro 1.967.000,00 all'uopo messo 
a 
diposizione 
dalla 
Croce 
Rossa 
Italiana 
e 
proveniente 
da 
numerosi 
contributi 
di 
natura 
non corrispettiva 
disposti 
in favore 
della 
C.R.I. nel 
periodo immediatamente 
successivo al 
sisma 
e 
destinati 
a 
sostenere 
interventi 
volti 
al 
superamento 
dell'emergenza nei territori colpiti dagli eventi del 6 aprile 2009. 
nel 
formulare 
la 
nota 
che 
si 
riscontra 
l'ente 
in indirizzo riferisce 
altresì 
che 
l'assetto 
degli 
interessi 
regolato 
dalla 
predetta 
convenzione 
prevedeva 
una 
disciplina 
differenziata 
per 
i 
moduli 
da 
adibirsi 
ad 
uso 
abitativo 
(M.A.P) 
e 
quelli 
da 
assegnare 
ad uso sociale. Per i 
primi 
la 
Croce 
Rossa 
Italiana 
-impegnandosi 
a 
contribuire 
alla 
relativa 
costruzione 
attraverso l'impiego delle 
risorse 
finanziarie 
provenienti 
dalle 
elargizioni 
ricevute 
-conveniva 
con 
le 
altre 
parti 
che 
la 
relativa 
edificazione 
e 
messa 
in 
opera 
fosse 
eseguita 
a 
cura 
del 
Commissario delegato per gli 
eventi 
sismici. In base 
all'accordo intercorso la 


C.R.I. si 
riservava, poi, la 
proprietà 
"temporanea" 
di 
dette 
unità 
abitative 
contestualmente 
pattuendo che 
l'attività 
gestoria 
finalizzata 
all'assegnazione 
dei 
moduli 
residenziali 
in favore 
degli 
aventi 
diritto fosse 
demandata 
al 
Comune 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


di 
L'Aquila 
nella 
qualità 
di 
soggetto deputato all'individuazione 
dei 
criteri 
e 
dei 
requisiti 
sulla 
scorta 
dei 
quali 
provvedere 
alla 
selezione 
delle 
categorie 
beneficiarie. 
Con riguardo ai 
moduli 
ad uso ambulatoriale 
e 
civico, la 
C.R.I. si 
impegnava, 
parimenti, 
a 
contribuire 
finanziariamente 
alla 
costruzione 
delle 
basi 
di 
appoggio delle 
strutture 
da 
eseguirsi 
ad opera 
del 
Provveditorato per 
le 
opere 
Pubbliche 
per il 
Lazio riservandosi 
la 
successiva 
costruzione 
attraverso 
ditte all'uopo selezionate. 


2. La tesi interpretativa dell'Amministrazione. 
nel 
formulare 
il 
quesito 
che 
si 
riscontra, 
l'Amministrazione 
in 
indirizzo 
mostra 
di 
ritenere 
che 
sia 
i 
moduli 
provvisori 
ad 
uso 
abitativo 
sia 
i 
due 
moduli 
adibiti 
ad 
ambulatorio 
e 
centro 
civico, 
costruiti 
secondo 
il 
regolamento 
predisposto 
con 
la 
convenzione 
innanzi 
indicata, 
debbano 
essere 
trasferiti 
all'Associazione 
della 
Croce 
Rossa 
Italiana 
ex 
art. 
4, 
comma 
1, 
lett. 
d) 
del 
D.Lgs. 
28 
settembre 
2012, 
n. 
178 
a 
mente 
del 
quale: 
"Il 
Commissario 
e 
successivamente 
il 
Presidente 
nazionale 
(...) 
trasferiscono 
all'associazione, 
a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 
2016, 
i 
beni 
pervenuti 
alla 
CrI 
attraverso 
negozi 
giuridici 
modali”. 


Siffatta 
tesi 
appare 
argomentata 
sul 
rilievo 
per 
cui 
i 
predetti 
moduli, 
qualificati 
dall'Amministrazione 
in 
indirizzo 
come 
beni 
mobili 
(1), 
debbano 
ritenersi 
come 
provenienti 
da 
donazioni 
modali 
essendo 
stata 
la 
relativa 
costruzione 
finanziata 
attraverso 
l'impiego 
di 
provviste 
derivanti 
da 
elargizioni 
di 
natura 
non 
corrispettiva 
specificatamente 
destinate 
allo 
scopo 
di 
fronteggiare 
l'emergenza 
post-sismica. 
Tanto 
si 
ricava, 
in 
particolare, 
da 
quanto 
riferito 
a 
pagina 
2 
della 
nota 
che 
si 
riscontra 
ove 
si 
fa 
riferimento 
a 
"fondi 
raccolti 
dalla 
Croce 
rossa 
Italiana 
sia 
in 
ambito 
nazionale 
che 
in 
ambito 
internazionale 
col 
vincolo 
di 
destinazione 
specifica 
(modale) 
all'assistenta 
della 
popolazione 
terremotata 
dell’abruzzo" 
e 
da 
quanto 
esplicitato 
a 
pagina 
5 
della 
medesima 
missiva 
nella 
quale 
si 
ribadisce 
che 
la 
costruzione 
dei 
M.A.P. 
avveniva 
con 
il 
sostegno 
economico 
della 
C.R.I. 
che 
dette 
opere 
"finanziava 
con 
un 
importo 
complessivo 
di 
euro 
1.967.000,00 
proveniente 
da 
donazioni 
con 
vincolo 
modale". 


Secondo 
-quindi 
-la 
tesi 
interpretativa 
della 
quale 
si 
chiede 
conferma 
con 
la 
nota 
emarginata 
-sussisterebbero, 
"a 
monte", 
una 
pluralità 
di 
donazioni 
modali 
eseguite 
in 
favore 
dell'ente 
pubblico 
nell'immediatezza 
degli 
eventi 
sismici 
ed un atto "a 
valle" 
-identificato con la 
convenzione 
del 
19 gennaio 
2010 
-, 
di 
natura 
adempitiva 
del 
modus 
apposto 
alle 
predette 
donazioni. 
In 
altri 
termini, 
secondo 
codesta 
Amministrazione, 
la 
ritenuta 
natura 
modale 
delle 
elargizioni 
pervenute 
alla 
C.R.I. 
si 
sarebbe 
trasmessa 
ai 
beni 
realizzati 
con 
l'impiego 
di 
dette 
somme 
sicché 
si 
conclude 
nel 
senso 
che 
i 
beni 
finanziati 
con 
l'impiego 
delle 
elargizioni 
modali 
possono 
dirsi 
pervenuti 
-seppure 
in 
"via 
mediata" 
-da 
negozi 
giuridici 
modali 
e 
-quindi 
-rientrano nell'ambito applicativo 
dell'art. 4, comma 1, lett. d) 
del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. 


(1) Sulla qualificazione di detti moduli, invece, come beni immobili v. infra 
§ 6. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


3. Inquadramento sistematico ed orientamenti 
dottrinali 
sul 
tema oggetto 
del quesito. 
Al 
fine 
di 
verificare 
la 
fondatezza, sotto il 
profilo giuridico, della 
impostazione 
interpretativa 
elaborata 
da 
codesta 
Amministrazione, 
la 
Scrivente 
considera 
opportuno 
anteporre 
alcune 
notazioni 
di 
ordine 
generale 
che 
si 
ritengono 
strumentali 
al 
corretto 
inquadramento 
giuridico 
della 
situazione 
di 
fatto 
sottesa 
al quesito formulato dall'ente. 


3.1. Il 
fenomeno del 
crowdfunding 
ovvero il 
dono "massivo" 
di 
scopo 
sollecitato al 
pubblico e 
la relativa sussumibilità nelle 
categorie 
tradizionali 
del 
codice 
civile 
con 
particolare 
riferimento alla qualificabilità come 
donazione 
modale (art. 793 cod. civ.). 
Come 
anticipato, 
l'Amministrazione 
argomenta 
la 
propria 
tesi 
interpretativa 
sottolineando 
che 
i 
beni 
da 
trasferire 
ex 
art. 
4, 
comma 
1, 
lett. 
d) 
del 
D.Lgs. 28 settembre 
2012, n. 178 sono stati 
costruiti 
attraverso l'impiego di 
"fondi 
raccolti 
dalla Croce 
rossa Italiana sia in ambito nazionale 
che 
in ambito 
internazionale" e "provenienti da donazioni modali". 


Tale 
assunto 
merita, 
ad 
avviso 
della 
Scrivente, 
una 
preliminare 
riflessione. 
Il 
fenomeno 
del 
donare 
è, 
come 
noto, 
concepito 
dal 
codice 
civile 
come 
un 
atto 
isolato tra 
soggetti 
tra 
i 
quali 
sussiste 
un pregresso rapporto (quantomeno) di 
conoscenza 
entro il 
quale 
matura 
uno spirito di 
liberalità 
che 
sorregge 
una 
volontà 
di 
arricchire 
senza 
corrispettivo, 
adeguatamente 
ponderata, 
assistita 
dalla 
forma 
scritta 
e 
rivolta 
ad una 
parte 
identificata 
tanto che 
anche 
in giurisprudenza 
si 
rinvengono comunemente 
affermazioni 
che 
qualificano la 
donazione 
come 
"atto per 
eccellenza compiuto 
intuitu personae" 
(2). La 
liberalità 
donativa 
tipizzata 
nel 
codice 
civile 
-sulla 
quale 
codesta 
Amministrazione 
concentra 
la 
propria 
ricostruzione 
interpretativa 
-non sembra 
tuttavia, prima facie, perfettamente 
collimante 
con 
le 
riferite 
caratteristiche 
del 
caso 
in 
esame 
in 
cui 
vengono in rilievo, invece, una 
pluralità 
aggregata 
di 
micro-elargizioni 
provenienti 
da 
una 
sollecitazione 
al 
pubblico 
a 
donare 
in 
cui 
i 
contributi 
dei 
singoli 
risultano essere 
una 
frazione 
di 
una 
maggior somma 
nel 
suo complesso funzionalizzata 
alla 
realizzazione 
di 
un determinato scopo fissato dall'ente 
pubblico 
accipiens 
ed individuabile 
nel 
soddisfacimento delle 
esigenze 
abitative, 
sociali e sanitarie di soggetti terzi. 


Sulla 
scorta 
di 
tali 
premesse 
empiriche 
può quindi 
dirsi, in via 
di 
prima 
approssimazione, che 
la 
fattispecie 
in esame 
rientra 
nel 
fenomeno sociale 
ed 
economico 
(prima 
ancora 
che 
giuridico) 
qualificato 
dalla 
dottrina 
(3) 
come 
crowdfunding 
e 
consistente, 
in 
estrema 
sintesi, 
nella 
raccolta 
di 
contributi 
provenienti 
da 
una 
massa 
indifferenziata 
di 
soggetti 
(crowd) volta 
ad attribuire 
a 


(2) Tribunale Brescia Sez. II, Sent., 05/06/2019. 
(3) RenDA, donation-based crowdfunding, 
raccolte 
fondi 
oblative 
e 
donazioni 
di 
scopo, Giuffrè 
2020. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


un soggetto organizzatore 
(fundraiser) pubblico o privato un patrimonio strumentale 
alla 
realizzazione 
di 
un determinato scopo cui 
la 
raccolta 
fondi 
è 
preordinata 
(4). 
A 
ben 
guardare, 
si 
tratta, 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico, 
di 
una 
manifestazione 
del 
più ampio fenomeno, già 
conosciuto in materia 
consumeristica, 
della 
c.d. 
spersonalizzazione 
della 
contrattazione 
che 
ha 
posto 
-e 
pone 
altresì 
nel 
caso di 
specie 
-in capo all'interprete 
il 
compito di 
verificare 
l'adeguatezza 
sussuntiva 
degli 
schemi 
classici 
del 
diritto civile 
quali, nel 
caso in 
esame, 
quello 
della 
donazione 
modale. 
ed, 
infatti, 
le 
donazioni 
tramite 
crowdfunding 
c.d. di 
scopo presentano caratteristiche 
peculiari 
rispetto al 
fenomeno 
donativo 
concepito 
dal 
codice 
del 
1942 
poiché 
lo 
spirito 
di 
liberalità 
nel 
"dono 
di 
massa" 
è 
sollecitato da 
meccanismi 
pubblicitari, si 
sostanzia 
nella 
condivisione 
di 
un 
programma 
altrui 
più 
che 
in 
uno 
spirito 
di 
liberalità 
autonomamente 
sorto 
nell’animus 
del 
disponente 
e 
si 
perfeziona, 
talvolta 
anche 
in 
forma 
anonima, attraverso l'adesione 
a 
condizioni 
generali 
predefinite 
dal 
raccoglitore 
dei 
fondi 
limitandosi 
il 
disponente 
all'attività 
erogativa 
in 
senso 
stretto 
attraverso 
versamenti 
su 
coordinate 
bancarie 
indicate 
dal 
fundraiser 
ovvero, 
come 
avvenuto 
nella 
raccolta 
fondi 
a 
seguito 
della 
calamità 
naturale 
del 
6 
aprile 
2009, attraverso l'invio di 
SMS 
a 
numeri 
telefonici 
altresì 
dedicati 
ed 
individuati dall'ente-raccoglitore. 


Tanto premesso in punto di 
descrizione 
empirica 
della 
fattispecie 
sottesa 
al 
presente 
parere, si 
pone 
il 
problema 
-in punto di 
diritto -di 
qualificare 
giuridicamente 
la 
natura 
dei 
contributi 
non 
corrispettivi 
della 
massa 
per 
scopi 
determinati 
tanto 
al 
fine 
di 
verificarne, 
nel 
caso 
in 
esame, 
la 
rispondenza 
allo 
schema 
-suggerito dall'ente 
in indirizzo -della 
donazione 
modale 
(art. 793 
cod. civ.). 


ebbene, al 
sistema 
del 
codice 
civile 
non è 
ignoto il 
dare 
senza 
corrispettivo 
tra 
soggetti 
estranei, 
tra 
i 
quali 
non 
intercorre 
-come 
invece 
avviene 
nella 
donazione 
-un pregresso rapporto né 
è 
sconosciuta 
la 
circostanza 
che 
l'elargizione 
non corrispettiva 
del 
singolo sia 
una 
frazione 
di 
una 
somma 
maggiore 
destinata 
all'attuazione 
di 
uno 
scopo. 
Dette 
caratteristiche 
sono, 
infatti, 
proprie 
della 
sottoscrizione 
da 
parte 
del 
pubblico del 
programma 
di 
un comitato promotore 
che 
sollecita 
una 
raccolta 
di 
fondi 
per devolverli 
ad uno scopo annunciato 
(art. 
41 
cod. 
civ.) 
di 
beneficenza, 
di 
soccorso 
o 
per 
la 
promozione 
di 
opere pubbliche (art. 39 cod. civ). 


Il 
surriferito 
paradigma 
normativo, 
tuttavia, 
non 
sembra 
collimare, 
già 
ad 
un primo esame, al 
caso di 
specie 
in ragione 
del 
difetto, nella 
fattispecie 
og


(4) Le 
donazioni 
contestualmente 
"di 
massa" 
e 
"di 
scopo" 
si 
differenziano dal 
fenomeno delle 
liberalità 
genericamente 
incrementative 
del 
patrimonio di 
enti 
c.d. del 
Terzo settore 
la 
cui 
definizione 
legislativa 
è 
rinvenibile 
nell'art. 
7, 
comma 
1, 
del 
Decreto 
legislativo 
3 
luglio 
2017, 
n. 
117 
a 
mente 
del 
quale 
"Per 
raccolta fondi 
si 
intende 
il 
complesso delle 
attività ed iniziative 
poste 
in essere 
da un ente 
del 
Terzo settore 
al 
fine 
di 
finanziare 
le 
proprie 
attività di 
interesse 
generale, anche 
attraverso la richiesta 
a terzi di lasciti, donazioni e contributi di natura non corrispettiva". 

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AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


getto del 
presente 
parere, del 
presupposto soggettivo del 
fenomeno oblativo 
come 
conosciuto 
dal 
codice 
civile 
ossia 
la 
qualifica 
di 
comitato 
in 
capo 
al 
raccoglitore 
di 
fondi. 
Detto 
requisito 
soggettivo 
è 
infatti 
ictu 
oculi 
carente 
nel 
caso in esame 
in cui 
l'attività 
di 
promozione 
è 
stata 
posta 
in essere 
dall'allora 
Associazione 
Croce 
Rossa 
Italiana 
nella 
qualità 
di 
ente 
associativo dotato di 
personalità 
giuridica 
di 
diritto 
pubblico 
al 
tempo 
regolato 
dal 
DPCM 
6 
maggio 
2005 n. 97 recante 
Approvazione 
del 
nuovo Statuto dell'Associazione 
italiana 
della 
Croce 
Rossa. In altri 
termini, il 
modello legale 
della 
destinazione 
a 
determinati 
scopi 
di 
fondi 
erogati 
senza 
corrispettivo da 
una 
massa 
di 
soggetti 
accomunati 
dalla 
condivisione 
di 
un programma 
aperto alla 
sottoscrizione 
ha 
come 
presupposto, carente 
nel 
caso di 
specie, che 
il 
raccoglitore 
di 
fondi 
rivesta 
la 
qualifica 
soggettiva 
di 
ente 
di 
diritto privato a 
scopo non lucrativo ed in 
particolare 
di 
comitato 
con 
la 
conseguenza 
che 
risulta 
precluso, 
nonostante 
talune 
innegabili 
affinità 
di 
funzionamento, 
l'inquadramento 
giuridico 
delle 
elargizioni 
pervenute alla C.R.I. nel dettato degli artt. 39 e ss. cod. civ. 


Senonché 
il 
problema 
qualificatorio sorge 
perché 
il 
codice 
civile 
non regola 
una 
raccolta 
di 
fondi 
che 
non sia 
compiuta 
da 
un comitato. Sulla 
scorta 
di 
tale 
rilievo, procedendo nel 
tentativo di 
sistemazione 
categoriale 
dalla 
fattispecie 
sottesa 
al 
presente 
parere, 
occorre 
allora 
interrogarsi 
-attesa 
la 
riferita 
funzionalizazione 
della 
raccolta 
delle 
somme 
devolute 
alla 
C.R.I. ad uno specifico 
scopo -sulla 
riconducibilità 
delle 
elargizioni 
di 
scopo alla 
figura 
della 
donazione 
sub 
modo 
quale 
fattispecie 
giuridica 
connotata 
proprio, 
in 
via 
di 
primissima 
approssimazione, 
dalla 
peculiarità 
per 
cui 
il 
vincolo 
di 
scopo 
viene 
dal 
disponente 
fatto confluire 
-senza 
incidere 
sulla 
causa 
liberale 
del 
negozio 


- entro la clausola accessoria modale. 
A 
tal 
fine 
si 
ritiene 
-per chiarezza 
espositiva 
-di 
dover delineare, seppur 
brevemente, i 
tratti 
distintivi 
la 
nozione 
codicistica 
di 
donazione 
modale 
(art. 
793 cod. civ.) premettendo altresì 
taluni 
essenziali 
cenni 
di 
teoria 
generale 
del 
negozio 
giuridico 
che 
si 
reputano 
strettamente 
funzionali 
alla 
soluzione 
del 
quesito posto. 


3.2 La nozione 
giuridica di 
modus 
e 
le 
caratteristiche 
codicistiche 
della 
donazione modale (art. 793 cod. civ.). Cenni. 
Come 
noto, la 
dottrina 
tradizionale 
ha 
distinto gli 
elementi 
del 
negozio 
giuridico in elementi 
essenziali, naturali 
ed accidentali. nella 
categoria 
degli 
elementi 
accidentali, 
del 
pari 
tradizionalmente, 
sono 
stati 
individuati 
tre 
figure: 
il 
termine, la 
condizione 
ed il 
modus. In questa 
tricotomia 
il 
modus 
presenta 
profili 
di 
eterogeneità 
rispetto alle 
altre 
due 
figure 
perché 
il 
modus 
-a 
differenza 
del 
termine 
e 
della 
condizione 
-non attiene, strictu sensu, all'efficacia 
del 
negozio, nel 
senso di 
sospenderla 
o di 
risolverla 
automaticamente 
ma 
si 
connota 
per 
il 
fatto 
di 
far 
sorgere 
un'obbligazione 
in 
senso 
tecnico 
ex 
art. 
1173 
cod. civ. in capo al 
beneficiario consistente, in estrema 
sintesi, in un obbligo 
di 
dare, 
fare, 
non 
fare 
una 
determinata 
attività 
in 
favore 
del 
disponente 
ovvero 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 
97 


di 
un terzo con la 
conseguenza 
di 
produrre 
un effetto limitativo 
del 
beneficio 
disposto con il negozio cui la clausola modale accede. 


In 
altri 
termini, 
come 
messo 
in 
luce 
da 
autorevole 
dottrina 
(5), 
il 
modus 
è 
la 
"misura 
della 
liberalità 
o 
del 
lascito" 
che 
si 
sostanzia, 
sul 
piano 
economico, 
in 
una 
limitazione 
del 
beneficio 
oggetto 
del 
negozio 
sicché 
è 
ricorrente 
nella 
produzione 
pretoria 
e 
dottrinaria 
sul 
tema 
l'affermazione 
per 
cui 
nel 
negozio 
modale 
-con 
la 
clausola 
impositiva 
dell'onere 
-non 
si 
mira 
ad 
uno 
scambio 
sinallagmatico 
tra 
ciò 
che 
è 
donato 
o 
trasmesso 
mortis 
causa 
e 
la 
prestazione 
di 
dare, 
fare 
o 
non 
fare 
poiché 
il 
disponente, 
nell'apporre 
una 
clausola 
modale 
ad 
un 
negozio 
attributivo 
di 
una 
posta 
attiva 
in 
favore 
dell'avente 
causa, 
non 
mira 
all'ottenimento 
di 
una 
"prestazione 
di 
ritorno", 
ma 
vuole 
beneficiare 
il 
destinatario 
contestualmente 
restringendo 
gli 
effetti 
sul 
piano 
economico 
dell'atto 
che 
resta 
sorretto 
da 
uno 
spirito 
di 
liberalità 
e 
non 
da 
una 
logica 
di 
corrispettività 
tra 
il 
beneficio 
e 
la 
prestazione 
oggetto 
della 
clausola 
accessoria. 


In proposito -per completezza 
-si 
ricorda 
che 
la 
Scrivente 
ha 
già 
avuto 
modo 
di 
evidenziare 
(6) 
che 
"l'onere 
si 
traduce 
in 
una 
limitazione 
del 
beneficio 
concesso dal 
dante 
causa mediante 
l'imposizione 
di 
una prestazione 
accessoria 
a carico dell'avente 
causa, che 
se 
non risulta equiparabile 
alla controprestazione 
propria 
dei 
contratti 
a 
titolo 
oneroso 
-non 
mutando 
il 
negozio 
causa, 
che 
rimane 
quindi 
liberale 
-è 
comunque 
idonea a determinare 
una diminuzione 
di 
valore 
del 
lascito, incidendo sull'ammontare 
del 
trasferimento patrimoniale 
(cfr. Cass. civ. sez. III, 07-04-2015, n. 6925 e 
Cass. civ., 06-12-1984, 


n. 6414). l'elemento caratterizzante 
l'onere, pertanto, è 
la sua accessorietà 
rispetto alla disposizione 
principale 
con cui 
si 
effettua il 
trasferimento patrimoniale: 
attraverso l'apposzione 
del 
modus, il 
dante 
causa limita 
la disposizione 
principale 
nella 
sua 
portata 
espansiva, 
gravando 
il 
beneficiario 
di 
prestazioni 
accessorie, 
che 
questi 
dovrà 
eseguire 
al 
fine 
di 
realizzare 
il 
proprio 
interesse alla conservazione del bene trasferito". 
3.3 La problematica configurabilità dell'arricchimento ex art. 769 cod. 
civ. in presenza di modus c.d. assorbente. 
Ciò 
premesso 
in 
termini 
definitori 
generali, 
come 
noto, 
l'apponibilità 
del-
l'elemento accessorio dell'onere 
è 
espressamente 
prevista, nel 
dettato codici-
stico, 
in 
relazione 
alle 
disposizioni 
testamentarie 
sub 
modo 
(artt. 
647 
-648 
cod. 
civ.) 
ed 
in 
relazione 
alla 
donazione 
modale 
(art. 
793 
cod. 
civ.). 
In 
tale 
quadro positivo l'apponibilità 
dell'elemento accessorio dell'onere 
al 
contratto 
di 
donazione 
ha 
tradizionalmente 
sollecitato 
i 
maggiori 
dubbi 
interpretativi 
attesa 
la 
difficoltà 
di 
ricondurre 
allo 
schema 
tipico 
della 
donazione 
-connotato 
dall'elemento 
caratterizzante 
dell'arricchimento 
del 
donatario 
-le 
ipotesi 
di 


(5) SAnToRo-PASSAReLLI, dottrine generali del diritto civile, 
9° ed., napoli 1966 pag. 240. 
(6) Parere 
su eredità, Donazioni 
e 
Lasciti. eredità 
Morandini. Affare 
CT 
6746/17 -Sez. v 
Avv. 
De Luca in riscontro alle 
vostre note del 27.1.17, n. 3472 e nota del 16.6.2017, n. 1963. 

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DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


elargizioni 
gravate, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, 
da 
modus 
"assorbente" 
l'intero 
valore del 
donatum. 


Muovendo dal 
requisito dell'arricchimento del 
beneficiario come 
il 
proprium 
del 
contratto di 
donazione, si 
è 
posto -infatti 
-il 
problema 
della 
qualificabilità 
in 
termini 
di 
donazione 
modale 
dei 
casi 
in 
cui 
sul 
soggetto 
gratificato 
da 
un'attribuzione 
patrimoniale 
non gravi 
semplicemente 
un'obbligazione 
di 
dare, 
di 
fare 
o 
di 
non 
fare, 
secondo 
la 
struttura 
tipica 
del 
modus 
e, 
dunque, 
non 
si 
crei 
puramente 
una 
accessoria 
limitazione 
in senso economico della 
liberalità, 
ma 
si 
istituisca 
un obbligo il 
cui 
contenuto consiste 
nella 
totale 
destinazione 
o dedicazione 
dell'oggetto della 
liberalità 
al 
perseguimento dello scopo 
voluto dal disponente. 


Ciò 
è 
esattamente 
accaduto 
nel 
caso 
che 
forma 
oggetto 
del 
presente 
parere 
in cui 
vengono in rilievo una 
pluralità 
di 
seriali 
trasferimenti 
di 
denaro non in 
virtù 
della 
volontà 
dei 
donanti 
di 
arricchire 
l'ente 
pubblico 
beneficiario, 
ma 
allo 
scopo 
di 
permettere 
all'ente 
accipiens 
di 
perseguire 
ed 
attuare 
i 
fini 
di 
pubblica 
utilità 
condivisi 
dai 
donanti. Pare 
alla 
Scrivente, in altri 
termini, che 
la 
riconducibilità 
delle 
elargizioni 
ricevute 
dalla 
C.R.I. allo schema 
della 
donazione 
in generale 
e 
della 
donazione 
modale 
in particolare 
presenti 
profili 
di 
problematicità 
atteso 
che 
potrebbe 
argomentarsi 
che 
i 
numerosi 
danti 
causa 
delle 
micro-elargizioni 
di 
massa 
successivamente 
aggregate 
ed impiegate 
per 
la 
realizzazione 
dei 
MAP 
e 
delle 
strutture 
non abitative 
non abbiano avuto di 
mira 
la 
realizzazione 
di 
una 
liberalità 
in favore 
dell'ente 
pubblico volendone 
limitare 
economicamente 
il 
beneficio attraverso l'imposizione 
di 
un onere 
secondo 
lo schema 
tipico della 
donazione 
modale 
(art. 793 cod. civ.), ma 
piuttosto 
abbiano 
perseguito 
l'intento 
di 
contribuire, 
in 
forma 
collettiva, 
alla 
costituzione 
di 
un 
patrimonio 
strumentale 
per 
la 
realizzazione 
di 
condivisi 
fini 
di pubblica utilità legati all'emergenza abitativa e sociale post-sismica. 


Alla 
stregua 
delle 
suesposte 
considerazioni, occorre 
-quindi 
-verificare 
se la 
corretta 
qualificazione 
giuridica 
da 
attribuire 
alla 
fattispecie 
oggetto del 
presente 
parere 
sia 
quella, suggerita 
dall'Amministrazione 
in indirizzo, della 
donazione 
modale 
tenuto 
conto 
che 
-come 
da 
tradizionale 
insegnamento 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
-ai 
fini 
della 
qualificazione 
giuridica 
di 
una 
operazione 
negoziale 
hanno 
primario 
rilievo 
-tra 
i 
canoni 
di 
ermeneutica 
contrattuale 
-il 
contenuto sostanziale 
dell'assetto degli 
interessi 
voluto dalle 
parti 
e 
l'intento dalle 
stesse 
realmente 
perseguito (inter 
alia, Cass. civ., 14 gennaio 
1983, n. 287). 


Tanto chiarito, a 
questo punto dell'analisi 
la 
questione 
in punto di 
diritto 
che 
sembra 
venire 
in rilievo può essere 
così 
compendiata: 
se 
in ipotesi 
in cui 
il 
modus 
assorba 
l'intero valore 
del 
donatum 
il 
quale 
sia 
stato devoluto al 
soggetto 
beneficiario al 
fine 
di 
dotare 
quest'ultimo di 
un patrimonio strumentale 
da 
impiegare 
per 
l'intero 
allo 
scopo 
voluto 
dal 
donante 
possa 
ritenersi 
integrato 
lo schema 
di 
cui 
all'art. 793 cod. civ. ovvero se, al 
contrario, nel 
caso di 
un 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


onere 
che 
"svuota" 
economicamente 
il 
beneficio 
patrimoniale 
ricevuto 
dal-
l'accipiens 
-non 
potendosi 
configurare 
un 
arricchimento 
del 
beneficiario 
-sia, 
in ultima 
analisi, preclusa 
la 
sussumibilità 
dell'operazione 
nello schema 
codi-
cistico della donazione modale. 


Muovendo 
dal 
dato 
positivo, 
pare 
alla 
Scrivente 
che 
nel 
caso 
di 
onere 
che 
eguaglia 
l'intero 
valore 
dei 
beni 
donati 
si 
tratta, 
in 
definitiva, 
di 
coordinare 
l'art. 
769 
cod. 
civ. 
che 
definisce 
la 
donazione 
come 
"il 
contratto 
col 
quale, 
per 
spirito 
di 
liberalità 
una 
parte 
arricchisce 
l'altra...." 
e 
l'art. 
793, 
comma 
2, 
cod. 


civ. a 
norma 
del 
quale 
l'onere 
deve 
essere 
adempiuto nei 
limiti 
del 
valore 
dei 
beni 
donati. La 
seconda 
disposizione 
pare, infatti, prima facie 
contraddire 
la 
prima: 
l'art. 769 cod. civ. menziona 
l'arricchimento come 
effetto tipico della 
donazione 
mentre 
l'art. 
793, 
secondo 
comma, 
cod. 
civ. 
pare 
ammettere 
che 
l'onere 
possa 
eguagliare 
-e 
addirittura 
superare 
-l'intero 
arricchimento 
del 
donatario 
senza 
che 
questo faccia 
venir meno la 
qualificazione 
in termini 
di 
donazione. 
La 
questione, sebbene 
non venuta 
di 
frequente 
all'attenzione 
della 
giurisprudenza, 
è 
stata 
oggetto di 
un certo dibattito in dottrina. Alcuni 
autori 
(7) 
hanno teso a 
conciliare 
il 
dettato dell'art. 769 cod. civ. e 
dell'art. 793, comma 
2, cod. civ. sottolineando come 
l'onere 
-anche 
quando assorbe 
il 
donatum 
non 
escluderebbe 
la 
sussistenza 
di 
un arricchimento del 
beneficiario‑onerato. 
Da 
siffatto angolo prospettico, più in particolare, all'arricchimento dell'accipiens 
(comunque 
configurabile 
benché 
transitorio) conseguirebbe 
un successivo 
impoverimento in esecuzione 
all'onere 
posto dal 
tradens. 
La 
tesi 
è 
stata 
criticata 
sulla 
scorta 
del 
noto brocardo per cui 
"non est 
versum 
si 
non durat 
versum" 
ed in base 
al 
quale 
non c'è 
-dunque 
-arricchimento se 
il 
vantaggio 
non perdura, sottolineandosi 
come 
lo schema 
della 
donazione 
pur non richiedendo 
una 
durevolezza 
-sotto il 
profilo temporale 
-dell'arricchimento, purtuttavia 
esige 
l'effettività 
del 
vantaggio 
non 
potendosi 
ritenere 
integrato 
lo 
schema 
tipico della 
donazione 
nell'ipotesi 
di 
arricchimenti 
obbligatoriamente 
seguiti da impoverimenti di pari valore. 


Un 
secondo 
orientamento 
dottrinale 
(8) 
ha 
invece 
ritenuto 
che 
poiché 
nel-
l'art. 769 si 
legge 
che 
"per 
spirito di 
liberalità, una parte 
arricchisce 
l'altra" 
l'arricchimento non verrebbe 
configurato dal 
Legislatore 
come 
un effetto giuridico 
della 
donazione 
(il 
che 
porterebbe 
l'art. 769 cod. civ. in contrasto con 
l'art. 793 comma 
2) venendo, invece, in rilievo in senso soggettivo come 
l'intenzione 
del 
donante 
a 
prescindere 
dalla 
produzione 
di 
una 
effettiva 
e 
durevole 
lucupletatio 
del 
donatario. Secondo detta 
esegesi, l'interprete 
per poter quali


(7) Per una 
ricostruzione 
sul 
tema 
oPPo, adempimento e 
liberalità, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 
66. 
(8) CARnevALI, la donazione, in Trattato di 
diritto civile 
da 
P. ReSCIGno, vol. 6, tomo 1, Torino 
1997, pag. 518. 

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DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


ficare 
un 
dato 
negozio 
come 
donazione 
sarebbe 
chiamato 
ad 
accertare, 
sul 
piano soggettivo, l'intento del 
disponente 
di 
arricchire 
il 
donatario per spirito 
di 
liberalità 
tanto anche 
sulla 
scorta 
del 
dato che 
sembrerebbe 
ricavarsi 
dalla 
Relazione 
al 
codice 
(n. 372) nella 
parte 
in cui 
qualifica 
lo spirito di 
liberalità 
come 
la 
"coscienza di 
conferire 
ad altri 
un vantaggio senza esservi 
costretti 
(nullo 
iure 
cogente)". 
Si 
conclude, 
pertanto, 
nel 
senso 
che 
ben 
potrebbe 
l'onere 
arrivare 
ad assorbire, per 
cause 
accidentali 
e 
sopravvenute, l'intero arricchimento 
del 
beneficiario 
senza 
pregiudicare 
la 
qualificazione 
(iniziale) 
in 
termini 
di donazione modale dell'operazione. 


esclusa, 
per 
contrasto 
con 
il 
dato 
letterale 
codicistico, 
la 
percorribilità 
della 
prima 
criticata 
tesi 
interpretativa 
per 
cui 
l'arricchimento 
sarebbe 
tale 
anche 
quando gravato da 
un obbligo in capo al 
beneficiario di 
impoverirsi 
per 
l'intero, ove 
si 
acceda 
alla 
seconda 
impostazione 
interpretativa, la 
qualificazione 
dell'operazione 
in termini 
di 
donazione 
modale 
resterebbe 
-nel 
caso in 
esame 
-inevitabilmente 
preclusa 
perché, 
nel 
caso 
oggetto 
del 
presente 
parere, 
i 
disponenti 
non 
sembra 
abbiano 
teso, 
ab 
initio, 
al 
fine 
ultimo 
dell'arricchimento 
dell'ente 
pubblico donatario, ma 
hanno -al 
contrario -perseguito sin 
dall'origine 
uno 
scopo 
diverso 
concependo 
il 
trasferimento 
di 
risorse 
alla 
Croce 
Rossa 
come 
il 
mezzo per raggiungere 
uno scopo ulteriore 
rimesso all'attività 
dell'accipiens. 


Altra 
parte 
della 
dottrina, 
ritenendo 
che 
l'art. 
793, 
comma 
2, 
cod. 
civ. 
non 
possa 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
la 
norma 
sia 
stata 
dettata 
esclusivamente 
per il 
caso 
in cui 
l'assorbimento del 
valore 
sia 
intervenuto per cause 
sopravvenute 
alla 
stipula, ha 
sostenuto che 
la 
circostanza 
che 
il 
valore 
del 
modo 
possa 
ab origine 
sopravanzare 
quella 
del 
donatum 
non precluderebbe 
la 
qualificazione 
del 
negozio 
come 
donazione 
modale 
non 
essendo 
il 
contratto 
di 
cui 
all'art. 793 cod. civ. una 
species 
del 
contratto di 
donazione 
connotato da 
tutti 
gli 
elementi 
di 
cui 
all'art. 769 cod. civ. -ivi 
compreso l'arricchimento del 
donatario -più l'elemento specializzante 
della 
clausola 
accessoria 
dell'onere, 
ma 
un contratto tipico a 
sé 
stante 
in cui 
l'arricchimento del 
donatario è 
un effetto 
naturale, 
ma 
non 
tipico 
del 
contratto. 
Alla 
tesi 
in 
parola, 
secondo 
la 
quale 
la 
donazione 
modale 
è 
un contratto a 
sé 
stante 
diverso dalla 
donazione, si 
è 
tuttavia 
fondatamente 
obiettato che 
il 
Legislatore 
codicistico ha 
inteso la 
donazione 
modale 
come 
una 
donazione 
ed il 
modus 
come 
un elemento accidentale: 
se, 
infatti, 
il 
modus 
assurgesse 
a 
causa 
di 
un 
autonomo 
contratto 
di 
donazione 
modale 
non si 
comprenderebbe 
perché 
il 
modo illecito o impossibile 
si 
consideri 
-nella 
sistematica 
del 
codice 
-come 
non 
apposto 
(art. 
794 
cod. 
civ.) 
e 
non 
provochi, 
invece, 
la 
nullità 
del 
contratto 
per 
illiceità 
della 
causa 
(artt. 1343 cod. civ., 1418 cod. civ.). nella 
medesima 
ottica 
si 
sottolinea 
che 
la 
stessa 
risolubilità 
della 
donazione 
modale 
per 
inadempimento 
del 
modus 
nel 
solo caso in cui 
questa 
sia 
stata 
espressamente 
pattuita 
(art. 793, comma 
4, 
cod. 
civ.) 
non 
può 
non 
accreditare 
la 
natura 
accidentale 
del 
modus 
e, 
per 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


l'effetto, 
la 
non 
sostenibilità 
della 
tesi 
della 
donazione 
modale 
come 
autonomo 
schema 
negoziale 
tipico 
non 
richiedente 
il 
requisito 
dell'arricchimento 
del 
beneficiario. 


3.4. 
La 
donazione 
fiduciaria 
quale 
alternativa 
qualificatoria 
rispetto 
allo schema tipico della donazione modale. 
I 
sostenitori 
della 
tesi 
dell'inconciliabilità 
tra 
l'intento 
donativo 
ed 
il 
modus 
che 
abbia 
ab initio 
carattere 
assorbente 
hanno sussunto le 
ipotesi 
di 
totale 
preordinazione 
delle 
somme 
donate 
all'arricchimento 
di 
terzi 
tale 
da 
"svuotare" 
economicamente 
il 
beneficio 
patrimoniale 
del 
donatario 
nella 
figura 
della 
donazione 
fiduciaria 
(9). In tale 
prospettiva 
si 
è 
-invero -sottolineato che, se 
con la 
donazione 
modale 
il 
donante 
intende 
arricchire 
il 
donatario e 
soltanto 
in 
via 
ulteriore 
ed 
accidentale 
il 
terzo 
(beneficiario 
della 
clausola 
modale), 
con 
la 
donazione 
fiduciaria 
il 
donante 
intende, in via 
principale 
ed ab initio, arricchire 
il 
terzo trasferendo all'accipiens 
le 
necessarie 
provviste 
che, in base 
al 
pactum fiduciae, saranno destinate all'arricchimento del beneficiario. 


Senonché 
neppure 
la 
qualificazione 
in 
termini 
di 
donazione 
fiduciaria 
appare 
alla 
Scrivente 
del 
tutto 
calzante 
rispetto 
alle 
peculiarità 
del 
caso 
di 
specie. 
ed 
invero 
la 
figura 
della 
donazione 
fiduciaria 
ricorre 
quando 
il 
donatario 
assume 
-fiduciae 
causa 
-l'obbligo 
di 
trasferire 
quanto 
ha 
ricevuto 
dal 
tradens, 
ovvero 
una 
parte 
di 
ciò 
che 
ha 
ricevuto, 
ad 
un 
terzo 
indicato 
dal 
donante 
nel 
patto 
fiduciario 
collegato 
alla 
donazione. 
Difetta, 
ad 
avviso 
della 
Scrivente, 
nell'ambito 
delle 
donazioni 
di 
massa 
funzionalizzate 
ad 
uno 
scopo 
e 
spersonalizzate 
il 
proprium 
della 
donazione 
fiduciaria 
individuabile 
nel 
rapporto, 
appunto 
fiduciario, 
tra 
il 
donante 
e 
il 
donatario 
che 
fa 
del 
pactum 
fiduciae 
una 
negoziazione 
isolata 
e 
chiusa 
tra 
donante 
e 
donatario 
che 
mal 
si 
confà 
alla 
natura 
seriale, 
aggregata 
e 
per 
adesione 
delle 
elargizioni 
pervenute 
alla 
C.R.I. 


A 
ciò 
si 
aggiunga 
che 
-come 
puntualmente 
evidenziato 
in 
giurisprudenza 
-"con 
la 
donazione 
fiduciaria 
in 
ambito 
civilistico, 
il 
donante, 
nelle 
condizioni 
date, 
generalmente 
persegue 
lo 
scopo 
(e 
solo 
lo 
scopo) 
di 
arricchire 
il 
terzo 
effettivo 
donatario" 
Cass. 
civ. 
Sez. 
v, 
Sent., 
(ud. 
02/12/2015) 
18-12-2015, 
n. 
25478. 
ed, 
invero, 
nello 
schema 
della 
donazione 
fiduciaria 
il 
donante 
vuole 
esclusivamente 
beneficiare 
il 
terzo 
nella 
cui 
sfera 
giuridica 
mira 
a 
produrre 
l'effetto 
dell'arricchimento 
personale 
attraverso 
uno 
schema 
che 
potrebbe 
essere 
riassunto 
nella 
locuzione 
"donare 
per 
far 
avere 
ad 
altri" 
ovvero 
nella 
formula 
"donazione 
devolutiva" 
in 
cui 
il 
disponente 
dona 
ad 
un 
terzo 
determinato 
(10) 


(9) 
Per 
una 
disamina 
della 
differenza 
tra 
donazione 
modale 
e 
donazione 
fiduciaria 
si 
veda 
PA-
LAzzo, 
donazione 
modale 
e 
donazione 
fiduciaria 
in 
Comm. 
schlesinger, 
art. 
793 
cc., 
Milano, 
2000, 
pag. 405. 
(10) 
non 
viene 
in 
rilievo 
quindi 
il 
divieto 
di 
mandato 
a 
donare 
di 
cui 
all'art. 
778 
cod. 
civ.: 
"È 
nullo il 
mandato con cui 
si 
attribuisce 
ad altri 
la facoltà di 
designare 
la persona del 
donatario o di 
determinare 
l'oggetto della donazione". 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


tramite 
l'intermediazione 
del 
beneficiario 
che 
si 
interpone 
tra 
il 
donante 
e 
l'effettivo 
destinatario 
dell'arricchimento 
come 
mero 
titolare 
di 
un 
"patrimonio 
di 
transito" 
delle 
provviste 
ad 
altri 
destinate 
senza 
che 
residui 
alcuna 
utilità 
in 
capo 
all'interposto. 


nel 
caso 
di 
specie, 
invece, 
non 
vengono 
in 
rilievo 
donazioni 
meramente 
devolutive 
in 
cui 
il 
destinatario 
ultimo 
dell'arricchimento 
è 
direttamente 
scelto 
dal 
disponente 
che 
si 
avvale 
di 
un 
soggetto 
interposto 
nella 
qualità 
di 
nudus 
minister 
con 
l'intento 
di 
"donare 
per 
far 
avere 
ad 
altri", 
ma 
un 
"donare 
destinando" 
in 
cui 
all'accipiens 
primario 
non 
viene 
richiesto 
di 
fungere 
da 
mero 
titolare 
di 
un 
"patrimonio 
di 
transito" 
delle 
provviste, 
ma 
di 
porre 
in 
essere 
una 
serie 
di 
attività 
-il 
cui 
compimento 
sarebbe 
precluso 
ai 
singoli 
danti 
causa 
anche 
in 
ragione 
della 
modicità 
dei 
singoli 
versamenti 
-volte 
al 
perseguimento 
di 
un 
determinato 
scopo 
consistente 
nell'impiego 
della 
somma 
aggregata 
in 
attività 
giuridica 
e 
materiale 
destinata 
ad 
attuare 
un 
determinato 
scopo. 


Lo schema 
della 
donazione 
fiduciaria 
non appare 
poi 
appagante 
neppure 
sotto un terzo profilo: 
nel 
caso in esame 
le 
micro-elargizioni 
non sono state 
rivolte 
all'arricchimento 
di 
terzi 
determinati 
dai 
danti 
causa 
perché 
i 
disponenti 
sono stati 
mossi 
-più che 
dall'intento, proprio della 
donazione 
fiduciaria, di 
produrre 
una 
lucupletatio 
personale 
in favore 
di 
terzi 
determinati 
-da 
quello 
che 
la 
dottrina 
definisce 
"spirito di 
solidarietà" 
e, cioè, un intento di 
più generale 
portata 
non propriamente 
funzionale 
a 
produrre 
singoli 
arricchimenti 
individuali 
in 
favore 
di 
terzi 
determinati, 
ma 
tendente 
alla 
realizzazione 
-anche 
attraverso l'assegnazione 
di 
benefici 
a 
terzi 
-di 
interessi 
superindividuali 
di 
pubblica 
utilità. Più in particolare, nel 
caso in esame 
tale 
funziona1izzazione 
delle 
elargizioni 
pare 
alla 
Scrivente 
comprovato 
dalla 
spendita 
delle 
provviste 
non solo per l'impiego per la 
realizzazione 
di 
M.A.P. abitativi, effettivamente 
deputati 
alla 
fruizione 
individuale, 
ma 
anche 
per 
la 
predisposizione 
di 
strutture 
ad uso civico a 
fruizione 
indifferenziata 
e 
con finalità 
sociali 
ed aggregative 
la 
cui 
installazione 
è 
sintomatica 
dell'intento perseguito dalle 
parti 
non solo 
di 
fornire 
una 
sistemazione 
in favore 
delle 
persone 
fisiche 
residenti 
o stabilmente 
dimoranti 
in 
abitazioni 
distrutte 
o 
dichiarate 
non 
agibili 
a 
causa 
del 
sisma 
del 
6 aprile 
2009, ma 
anche 
della 
volontà 
di 
perseguire 
l'interesse 
impersonale 
e 
super-individuale 
da 
individuarsi 
nella 
necessità 
di 
riconnettere 
il 
tessuto sociale 
ed evitare, sul 
lungo termine, la 
desertificazione 
demografica 
delle aree colpite dal sisma. 


La 
distinzione 
tra 
"liberalità 
donativa"e"liberalità 
solidale" 
-innanzi 
messa 
in rilievo con riguardo al 
caso in esame 
-non è 
frutto della 
sola 
elaborazione 
dottrinale 
(11). Il 
distinguo emerge, infatti, anche 
sul 
piano positivo: 


(11) MoRozzo 
DeLLA 
RoCCA, Gratuità liberalità e 
solidarietà Contributo allo studio della prestazione 
non onerosa, Giuffrè, 1998. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


si 
pensi, 
ad 
esempio, 
al 
dettato 
dell'art. 
64 
della 
Legge 
Fallimentare 
(12) 
(R.D. 
16 marzo 1942, n. 267) che 
riserva 
agli 
atti 
compiuti 
per scopi 
di 
solidarietà 
una 
disciplina 
revocatoria 
meno severa 
rispetto a 
quella 
degli 
altri 
atti 
a 
titolo 
gratuito posti in essere per spirito di liberalità. 


Sicché 
-per 
le 
ragioni 
innanzi 
svolte 
-neppure 
lo 
schema 
della 
donazione 
fiduciaria 
pare 
poter 
costituire 
la 
veste 
giuridica 
dell'operazione 
descritta 
nella 
nota che si riscontra. 


4. 
Soluzione 
del 
quesito 
formulato. 
Sussumibilità 
delle 
elargizioni 
in 
favore 
della 
CRI 
nella 
più 
generale 
categoria 
del 
“negozio 
giuridico 
modale" 
ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. 
escluso 
tanto 
il 
paradigma 
della 
donazione 
fiduciaria 
quanto 
quello 
della 
donazione 
modale 
diretta 
occorre 
verificare 
-cionondimeno 
-la 
riconducibilità 
della 
fattispecie 
in esame 
all'art. 4, comma 
1, lett. 
d) 
del 
D.Lgs. 28 settembre 
2012, n. 178 a 
mente 
del 
quale: 
"Il 
Commissario e 
successivamente 
il 
Presidente 
nazionale 
(...) 
trasferiscono 
all'associazione, 
a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 
2016, 
i 
beni 
pervenuti 
alla 
CrI 
attraverso 
negozi 
giuridici 
modali". 
La 
norma 


-infatti 
-subordina 
il 
trasferimento alla 
provenienza 
dei 
beni 
da 
"negozi 
giuridici 
modali" 
e 
non alla 
provenienza 
dalla 
più ristretta 
categoria 
delle 
donazione 
modale 
di 
dubbia 
configurabilità 
nel 
caso 
di 
specie 
in 
ragione 
della 
difficolta 
-come 
visto -di 
riscontrare 
il 
requisito dell'arricchimento dell'onerato 
in presenza di un modus 
c.d. assorbente il valore del 
donatum. 
Sul 
punto si 
rileva 
che, mentre 
una 
parte 
della 
dottrina 
ha 
ritenuto che 
la 
circostanza 
che 
il 
Legislatore 
abbia 
disciplinato esclusivamente 
la 
donazione 
modale 
e 
l'atto di 
ultima 
volontà 
modale 
sia 
sintomo della 
volontà 
di 
circoscrivere 
a 
questi 
negozi 
l'ammissibilità 
della 
figura 
in 
esame 
(13), 
secondo 
altra 
impostazione 
(14), 
anche 
in 
virtù 
del 
generale 
principio 
di 
autonomia 
negoziale 
riconosciuto alle 
parti 
dall'ordinamento ex 
art. 1322 cod. civ., non vi 
sarebbe 
alcun 
ostacolo 
all'estensione 
del 
modus 
ai 
negozi 
in 
generale, 
sennonché 
la 
struttura 
obbligatoria 
dello stesso ne 
impedisce 
l'apposizione 
ai 
negozi 
a 
titolo 
oneroso, 
nei 
quali, 
poiché 
le 
parti 
si 
obbligano 
ad 
effettuare 
reciproche 
prestazioni, la 
previsione 
di 
un obbligo ulteriore 
non potrebbe 
che 
costituire 
una controprestazione (15). 


Lo spazio che 
residua 
è, dunque, quello del 
negozio non sinallagmatico 
liberale 
o 
gratuito: 
è 
ormai 
affermazione 
tralatizia 
quella 
secondo 
la 
quale 


(12) 
Si 
riporta, 
per 
comodità, 
il 
testo 
della 
disposizione: 
"sono 
privi 
di 
effetto 
rispetto 
ai 
creditori, 
se 
compiuti 
dal 
fallito nei 
due 
anni 
anteriori 
alla dichiaraone 
di 
fallimento, gli 
atti 
a titolo gratuito, 
esclusi 
i 
regali 
d'uso 
egli 
atti 
compiuti 
in 
adempimento 
di 
un 
dovere 
morale 
o 
a 
scopo 
di 
pubblica 
utilità, 
in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante". 
(13) MeSSIneo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 350. 
(14) MARInI, Il 
modus 
come 
elemento accidentale 
del 
negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1976, 
pag. 176. 
(15) vInDIGnI, voce 
«Modo (diritto civile)», in Nuovissimo dig. it., X, Utet, Torino, 1957, pagg. 
827 ss. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


l'onere 
può essere 
apposto, oltre 
che 
al 
testamento, al 
legato e 
alla 
donazione, 
a 
tutti 
i 
negozi 
non onerosi. La 
Suprema 
Corte 
ha 
in questo senso affermato 
che 
"è 
in 
via 
generale, 
è 
da 
ritenere 
ammissibile 
l'inserimento 
del 
modus 
come 
elemento 
accessorio 
di 
un 
negozio 
atipico 
di 
liberalità, 
atteso 
che 
le 
specifiche 
disposizioni 
codicistiche 
in 
cui 
esso 
è 
disciplinato 
(artt. 
648, 
793), 
rappresentano 
applicazioni 
-e 
tuttavia fonti 
normative 
utilizzabili 
per 
la regolamentatzione 
di 
casi 
analoghi 
-che 
non esauriscano la possibile 
gamma negoziale 
in 
cui 
può estrinsecarsi 
l'autonomia privata negli 
atti 
di 
liberalità, attesa l'attitudine 
del 
modus 
a 
modificare, 
ampliandolo, 
il 
singolo 
schema 
negoziale, 
consentendo 
la realizzazione 
di 
singole 
e 
specifiche 
finalità estranee 
alla causa" 
(Cassazione Civile, Sez. I, 11 giugno 2004, n. 11096). 


Tanto premesso la 
Scrivente, avendo vagliato con esito negativo la 
qualificazione 
dei 
contributi 
pervenuti 
alla 
C.R.I. in termini 
di 
donazioni 
modali 
non 
essendo 
ravvisabile 
un 
arricchimento 
né 
inteso 
-in 
senso 
oggettivo 
ed 
economico 
-come 
saldo 
positivo 
definitivo 
nel 
patrimonio 
del 
beneficiario 
né 
inteso -in senso soggettivo -come 
intenzione 
del 
disponente 
di 
arricchire 
il 
beneficiario non essendo 1'ente 
pubblico accipiens 
il 
destinatario ultimo del 
moto 
solidaristico 
sotteso 
alle 
elargizioni 
aggregate 
della 
massa, 
ritiene 
di 
potersi 
esprimere 
in termini 
positivi 
in ordine 
alla 
qualificabilità 
di 
dette 
elargizioni 
della 
massa 
come 
negozi 
giuridici 
modali 
ex 
art. 4, comma 
1, lett. d) 
del 
D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. 


Trattasi 
-ad 
avviso 
della 
Scrivente 
-di 
negozi 
di 
liberalità 
solidale 
seriali 
"di 
dotazione" 
in 
quanto 
attributivi 
di 
poste 
attive 
anche 
di 
modico 
valore 
perfezionatisi 
per adesione 
e 
sub modo perché 
-al 
di 
fuori 
di 
una 
logica 
di 
corrispettività 
e 
quindi 
senza 
l'attesa 
di 
una 
controprestazione 
-impongono 
all'accipiens 
-non già 
di 
trasferire 
la 
somma 
a 
terzi 
come 
nella 
donazione 
fiduciaria, 
ma 
di 
amministrare 
le 
somme 
raccolte 
e 
consumare, 
attraverso 
la 
propria 
attività 
organizzativa 
e 
gestoria, il 
denaro erogato dai 
danti 
causa 
in 
funzione 
di 
vantaggio di 
soggetti 
terzi 
coniugando detto impiego positivo del 
denaro con il contestuale perseguimento di interessi superindividuali. 


Procedendo 
per 
progressive 
approssimazioni, 
potrebbe 
dirsi 
allora 
che 
sono 
venuti 
in 
rilievo 
atti 
di 
attribuzione 
standardizzati 
e 
parcellizzati 
nei 
quali 
i 
disponenti, anche 
in ragione 
della 
esiguità 
delle 
somme 
singolarmente 
elargite, 
si 
disinteressano -di 
regola 
-della 
diretta 
e 
concreta 
gestione 
dell'attribuzione 
individualmente 
posta 
in 
essere 
che 
delegano 
al 
soggetto 
accipiens 
collegando 
all'atto 
di 
dotazione 
un 
mandato 
ad 
amministrare 
la 
somma, 
ma 
sono tuttavia 
titolari 
dell'interesse 
-che 
è 
oggetto della 
clausola 
modale 
accessoria 
-a 
che 
la 
somma 
aggregata 
sia 
impiegata 
per lo scopo indicato dal 
fundraiser 
e dagli stessi fatto proprio con l'adesione alla raccolta fondi. 


Può 
quindi 
ravvisarsi, 
sforzandosi 
di 
conferire 
alla 
fattispecie 
una 
qualifica 
giuridica 
il 
più 
possibile 
aderente 
alle 
ravvisate 
caratteristiche 
del 
caso 
di 
specie, 
la 
presenza 
di 
una 
serie 
di 
micro-elargizioni 
liberali 
collegate 
ad 
un 
man



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


dato 
ad 
amministrare 
la 
somma 
elargita, 
mentre 
il 
modus 
consiste 
nella 
destinazione 
del 
patrimonio 
aggregato 
alla 
funzione 
solidaristica. 
Sicché 
-potrebbe 
dirsi 
-in 
forma 
sintetica 
-che 
la 
causa 
liberale 
ha 
ad 
oggetto 
la 
singola 
posta 
elargita 
e 
da 
amministrare, 
mentre 
il 
modus 
la 
somma 
aggregata 
ed 
il 
perseguimento 
di 
uno 
scopo 
il 
cui 
conseguimento 
sarebbe 
precluso 
nella 
dimensione 
del 
singolo. 
In 
tale 
sistemazione, 
il 
modus 
si 
configura 
come 
una 
disposizione 
accessoria 
che 
assegna 
rilevanza 
giuridica 
al 
motivo 
mediante 
la 
sua 
esternazione 
e 
che 
non 
muta 
tuttavia 
la 
natura 
di 
negozio 
di 
liberalità 
solidale, 
attributivo 
e 
gestorio 
cui 
accede, 
poiché 
rimane 
esterno 
ad 
esso 
e, 
quindi, 
non 
interagisce 
sulla 
sua 
causa 
inserendo 
un 
elemento 
di 
corrispettività. 


La 
configurazione 
in 
detti 
termini 
dell'operazione 
consente 
di 
ammettere 
l'onere 
anche 
quando, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, 
il 
relativo 
adempimento 
comporti 
l'assorbimento 
totale 
dell'entità 
economica 
dell'oggetto 
del 
negozio, 
atteso 
che, 
a 
differenza 
da 
quanto 
espressamente 
previsto 
per 
la 
donazione, 
nel 
negozio 
liberale 
non 
donativo, 
la 
funzione 
economico-sociale 
è 
l'attribuzione 
di 
diritti 
particolari 
e 
non 
anche 
il 
definitivo 
accrescimento 
patrimoniale 
del 
beneficiario. 


Una 
volta 
affermata 
-in 
base 
alle 
suesposte 
considerazioni 
-la 
natura 
modale 
delle 
elargizioni 
diffuse 
o della 
massa 
aventi 
ad oggetto le 
somme 
di 
denaro 
impiegate 
per 
la 
costruzione 
dei 
M.A.P. 
e 
delle 
strutture 
ad 
uso 
ambulatoriale 
e 
civico, occorre 
ulteriormente 
domandarsi 
-al 
fine 
di 
fornire 
una 
risposta 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
di 
adottare 
provvedimenti 
di 
trasferimento 
in 
favore 
dell' 
Associazione 
della 
Croce 
Rossa 
Italiana 
aventi 
ad 
oggetto 
detti 
beni 
-se 
gli 
stessi 
possano dirsi 
ex 
art. 4, comma 
1, lett. d) 
del 
D.Lgs. 28 
settembre 
2012, n. 178 come 
"beni pervenuti 
alla CrI attraverso negozi giuridici 
modali". 


5. Sui 
Map e 
sulle 
strutture 
ad uso civico ed ambulatoriale 
come 
"beni 
provenienti da negozi giuridici modali". 
Secondo le 
conclusioni 
tratte 
nel 
paragrafo precedente, in forza 
del 
ravvisato 
modus 
accessorio 
apposto 
ai 
negozi 
liberali 
dalla 
massa, 
l'accipiens 


C.R.I. è 
risultata 
obbligata 
non semplicemente 
a 
trasferire 
la 
somma 
raccolta 
ai 
terzi, ma 
a 
gestire 
ed impiegare 
le 
provviste 
aggregate 
al 
fine 
di 
conseguire 
scopi 
sociali 
non perseguibili 
e 
non conseguibili 
nella 
dimensione 
monistica 
dei singoli contributi modali. 
Si 
è 
altresì 
detto 
nel 
tratteggiare 
le 
caratteristiche 
essenziali 
del 
modus 
quale 
elemento accessorio del 
negozio giuridico (16) che 
-con l'apposizione 
della 
clausola 
modale 
al 
negozio 
di 
disposizione 
-i 
danti 
causa 
pongono 
in 
essere 
uno di 
quegli 
atti 
che, ex 
art. 1173 c.c., sono idonei 
a 
produrre 
un'obbligazione 
in conformità 
dell'ordinamento giuridico. Da 
tali 
premesse 
conse


(16) v. supra 
§ 4. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


gue 
che 
la 
convenzione 
stipulata 
in data 
19 gennaio 2010 possa 
essere 
concepita 
come 
un atto posto in essere 
solvendi 
causa 
rispetto all'obbligo imposto 
con l'onere 
di 
talché 
i 
beni 
che 
sono stati 
acquistati 
possono ritenersi 
-guardando 
all'intera 
operazione 
negoziale 
-come 
provenienti 
da 
negozi 
giuridici 
modali. 


A 
supporto di 
tale 
conclusione 
si 
evidenzia, sul 
piano letterale, come 
il 
Legislatore, nel 
formulare 
l'art. 4, comma 
1, lett. d) 
del 
D.Lgs. 28 settembre 
2012, n. 178, abbia 
impiegato l'ampia 
locuzione 
"beni 
provenienti 
da negozi 
giuridici 
modali" 
dando con ciò rilevanza 
non a 
ciò che 
"fuoriesce" 
dal 
patrimonio 
del 
dante 
causa 
del 
negozio 
modale, 
ma 
a 
ciò 
che 
transita 
nel 
patrimonio 
dell'avente 
causa 
in esito all'operazione 
negoziale 
sub modo 
sicchè 
si 
ritiene 
di 
poter 
affermare 
l'applicabilità, 
in 
riferimento 
a 
detti 
beni, 
dell'art. 
4, 
comma 
1, lett. d) 
del 
D.Lgs. 28 settembre 
2012, n. 178 sussistendo, pertanto, i 
presupposti 
normativi 
per esprimere 
parere 
favorevole 
al 
relativo trasferimento 
in favore dell'Associazione Italiana della Croce Rossa. 


6. Sulla qualificabilità dei M.A.P. come beni immobili. 
Ai 
fini 
dell'adozione 
degli 
atti 
di 
trasferimento e 
della 
relativa 
stesura 
da 
parte 
dell'Amministrazione 
in indirizzo si 
specifica 
che 
i 
M.A.P. e 
le 
strutture 
non residenziali 
devono essere 
considerati 
beni 
immobili, rientrando -ad avviso 
della 
Scrivente 
-tra 
le 
"altre 
costruzioni, anche 
se 
unite 
a suolo a scopo 
transitorio" secondo il disposto dell'art. 812 c.c., comma 2. 


Al 
riguardo 
va 
sottolineato 
come 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
abbia 
chiarito 
che 
costituisce 
bene 
immobile 
qualsiasi 
costruzione, 
di 
qualunque 
materiale 
formata, che 
sia 
incorporata 
o materialmente 
congiunta 
al 
suolo, anche 
se 
a 
scopo transitorio (Cass. n. 679/1968); 
che 
deve 
considerarsi 
costruzione 
qualsiasi 
manufatto 
non 
completamente 
interrato 
che 
abbia 
i 
caratteri 
della 
solidità, 
stabilità 
e 
immobilizzazione 
al 
suolo, anche 
mediante 
appoggio, incorporazione 
o 
collegamento 
fisso 
a 
corpo 
di 
fabbrica 
preesistente 
o 
contestualmente 
realizzato, 
e 
ciò 
indipendentemente 
dal 
livello 
di 
posa 
e 
di 
elevazione 
dell'opera, dai 
caratteri 
del 
suo sviluppo volumetrico esterno, dal-
l'uniformità 
o continuità 
della 
massa, dal 
materiale 
impiegato per la 
sua 
realizzazione 
e 
dalla 
sua 
funzione 
o destinazione 
(Cass. n. 20574/2007); 
che, ai 
fini 
delle 
norme 
codicistiche 
sulla 
proprietà, la 
nozione 
di 
costruzione 
non è 
limitata 
a 
realizzazioni 
di 
tipo 
strettamente 
edile, 
ma 
si 
estende 
ad 
un 
qualsiasi 
manufatto, avente 
caratteristiche 
di 
consistenza 
e 
stabilità, per le 
quali 
non rileva 
la 
qualità 
del 
materiale 
adoperato 
(Cass. 
n. 
4679/2009, 
pag. 
6); 
che 
la 
nozione 
di 
"costruzione" 
comprende 
qualsiasi 
opera, 
non 
completamente 
interrata, 
avente 
i 
caratteri 
della 
solidità 
ed 
immobilizzazione 
rispetto 
al 
suolo 
(Cass. 
n. 
22127/2009 
che 
ha 
ritenuto 
che 
integrasse 
la 
nozione 
di 
"costruzione" 
una 
baracca 
di 
zinco 
costituita 
solo 
da 
pilastri 
sorreggenti 
lamiere, 
priva 
di 
mura perimetrali ma dotata di copertura). 


Da 
ultimo 
le 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
hanno 
affermato 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


che 
"un bene 
è 
immobile, in senso giuridico, in quanto gli 
interessi 
che 
esso 
soddisfa sono determinati 
proprio dalla sua staticità, nel 
senso che 
esso assolve 
a determinate 
esigenze 
in quanto insiste 
su un certo luogo". Alla 
luce 
di 
tale 
insegnamento 
non 
può 
che 
ricavarsi 
la 
natura 
di 
bene 
immobile 
dei 
M.A.P. 
e 
delle 
strutture 
non residenziali 
che 
indubbiamente 
assolvano alla 
loro funzione 
economico-sociale 
in 
ragione 
della 
relativa 
staticità 
sicché 
-prima 
di 
emettere 
agli 
atti 
di 
trasferimento -l'Amministrazione 
procederà 
alle 
propedeutiche 
indagini 
catastali 
per 
verificare 
che 
detti 
beni 
siano 
effettivamente 
prevenuti 
alla 
CRI e 
che 
la 
stessa 
non abbia 
medio tempore 
dismesso la 
"proprietà 
temporanea" 
in favore 
del 
Comune 
di 
L'Aquila 
come 
pure 
previsto dal-
l'art. 3 della convenzione stipulata in data 19 gennaio 2010. 


Il 
presente 
parere 
si 
indirizza 
-per 
opportuna 
conoscenza 
-all'Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato de 
L'Aquila 
che 
-in relazione 
a 
dette 
unità 
abitative 
e 
strutture 
ad uso civico -si 
è 
espressa 
-con parete 
del 
17 luglio 2019 (17) -nel 
senso 
di 
ritenere 
che 
"la 
proprietà 
sulle 
stesse 
pare 
sussistere, 
tuttora, 
in 
capo 
alla Croce rossa Italiana". 


Trattandosi 
di 
questione 
di 
massima 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
consultivo 
dell'Avvocatura 
dello Stato che 
si 
è 
espresso in conformità 
nella 
seduta 
del 
22 
luglio 2021. 


(17) CT 2065/2018 Avv. Pardo nota prot. 22716. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Contratti pubblici: perdita dei requisiti di una consorziata 
esecutrice di un consorzio tra imprese artigiane(*) 


Parere 
del 
27/10/2021-616705, al 29439/2021, 
avv. davIde 
GIovaNNI 
PINTUs 


In riscontro alla 
nota 
indicata 
in epigrafe, recante 
la 
richiesta 
di 
parere 
in 
oggetto, si osserva quanto segue. 


Quesiti. 


Codesta 
società 
riferisce 
di 
avere 
indetto una 
gara 
-suddivisa 
in 9 lotti 
geografici 
-per 
l'affidamento 
dei 
servizi 
integrati, 
gestionali 
e 
operativi, 
da 
eseguirsi 
negli 
istituti 
e 
luoghi 
di 
cultura 
individuati 
dall'art. 
101 
del 
d.lgs. 
42/2004 -ID 
1561, di 
cui 
al 
bando di 
gara 
pubblicato sulla 
G.U.U.e. n. S149 
del 5 agosto 2015 e sulla G.U.R.I. n. 91 in pari data. 


In 
occasione 
della 
verifica 
dei 
requisiti, 
ex 
art. 
38 
del 
d.lgs. 
163/2006 
(applicabile 
ratione 
temporis), sarebbe 
emersa 
un'irregolarità 
contributiva 
grave 
definitivamente 
accertata 
nei 
confronti 
di 
una 
consorziata 
designata 
esecutrice 
di 
un 
consorzio 
tra 
imprese 
artigiane, 
costituito 
ai 
sensi 
della 
legge 
quadro 
443/1985, 
a 
sua 
volta 
mandatario 
di 
un 
R.T.I., 
posizionatosi 
al 
primo 
posto 
nella 
graduatoria 
provvisoria 
di 
merito di 
uno dei 
lotti. Codesta 
stazione 
appaltante, 
inoltre, evidenzia 
che 
la 
consorziata 
in questione 
non apporterebbe 
requisiti speciali per la partecipazione all'iniziativa. 


In questo contesto, codesta società chiede: 


-se 
sia 
condivisibile 
la 
scelta 
di 
seguire, 
in 
una 
gara 
bandita 
nella 
vigenza 
del 
d.lgs. 
163/2006, 
l'orientamento 
giurisprudenziale 
[indicato 
al 
punto 
A 
della 
nota 
che 
si 
riscontra, cui 
si 
farà 
riferimento nel 
prosieguo] e 
pertanto di 
non 
escludere 
il 
consorzio 
tra 
imprese 
artigiane 
(come 
del 
resto 
avverrebbe 
in 
caso 
di 
consorzio tra 
società 
cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro) a 
fronte 
della 
perdita 
di 
un requisito soggettivo (nel 
caso di 
specie, l'irregolarità 
contributiva 
di 
cui 
all'art. 
38, 
comma 
1, 
lett. 
i), 
riscontrata 
nei 
confronti 
di 
una 
consorziata 
esecutrice 
designata, che 
non apportava 
requisiti 
economici 
e 
tecnici, ma 
di 
consentire 
l'estromissione 
di 
quest'ultima 
(o la 
sua 
sostituzione 
nel 
caso apportasse 
requisiti speciali di partecipazione); 


-se 
tale 
scelta 
sia 
ragionevole 
e 
perseguibile 
anche 
in caso di 
fattispecie 
analoghe 
che 
si 
dovessero 
presentare 
in 
iniziative 
bandite 
nella 
vigenza 
del 
d.lgs. 50/2016. 
Disciplina applicabile. 


Per la 
disamina 
dei 
quesiti 
sottoposti 
all'attenzione 
della 
Scrivente 
è 
necessario 
premettere quanto segue. 


(*) 
Si 
pubblica 
in 
calce 
al 
parere 
la 
sentenza 
del 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
25 
gennaio 
2022, 
n. 
2 
(n.d.r.). 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


1) 
I consorzi 
tra 
imprese 
artigiane 
sono previsti 
dall'art. 6 della legge 
8 
agosto 1985, n. 443 
(1). 
2) 
La 
pertinente 
disciplina 
settoriale, 
all'art. 
34 
del 
d.lgs. 
12 
aprile 
2006, 
n. 163, prevede, per quanto di odierno interesse, che: 
"1. sono ammessi 
a partecipare 
alle 
procedure 
di 
affidamento dei 
contratti 
pubblici i seguenti soggetti, salvo i limiti espressamente indicati: 


[...] 


b) i 
consorzi 
fra società cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro costituiti 
a 
norma della legge 
25 giugno 1909, n. 422 e 
del 
decreto legislativo del 
Capo 
provvisorio 
dello 
stato 
14 
dicembre 
1947, 
n. 
1577, 
e 
successive 
modificazioni, 
e 
i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; 
c) 
i 
consorzi 
stabili, 
costituiti 
anche 
in 
forma 
di 
società 
consortili 
ai 
sensi 
dell'articolo 
2615-ter 
del 
codice 
civile, 
tra 
imprenditori 
individuali, 
anche 
artigiani, 
società 
commerciali, 
società 
cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro, 
secondo 
le disposizioni di cui all'articolo 36; 
[...]". 
Disciplina 
analoga 
è 
contenuta 
nel 
vigente 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
di cui al 
d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il cui 
art. 45 prevede che: 
"1. sono ammessi 
a partecipare 
alle 
procedure 
di 
affidamento dei 
contratti 
pubblici 
gli 
operatori 
economici 
di 
cui 
all'articolo 3, comma 1, lettera 


p) 
[...] 
2. 
rientrano 
nella 
definizione 
di 
operatori 
economici 
i 
seguenti 
soggetti: 
[...] 


b) 
i 
consorzi 
fra società cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro costituiti 
a 
norma della legge 
25 giugno 1909, n. 422, e 
del 
decreto legislativo del 
Capo 
(1) Art. 6 della legge 8 agosto 1985, n. 443: 
"I consorzi 
e 
le 
società consortili, anche 
in forma di 
cooperativa, costituiti 
tra imprese 
artigiane 
sono 
iscritti in separata sezione dell'albo di cui al precedente articolo 5. 
ai 
consorzi 
ed alle 
società consortili, anche 
in forma di 
cooperativa, iscritti 
nella separata sezione 
del-
l'albo 
sono 
estese 
le 
agevolazioni 
previste 
per 
le 
imprese 
artigiane, 
purché 
le 
stesse 
siano 
esclusivamente 
riservate 
alla gestione 
degli 
organismi 
sopra citati 
e 
purché, cumulandosi 
eventualmente 
con analoghi 
interventi 
previsti 
da leggi 
statali 
finalizzati 
al 
sostegno dell'attività consortile, non si 
superino globalmente 
i limiti previsti dalle stesse leggi statali. 
In conformità agli 
indirizzi 
della programmazione 
regionale, le 
regioni 
possono disporre 
agevolazioni 
in favore 
di 
consorzi 
e 
società consortili, anche 
in forma di 
cooperativa, cui 
partecipino, oltre 
che 
imprese 
artigiane, anche 
imprese 
industriali 
di 
minori 
dimensioni 
così 
come 
definite 
dal 
CIPI purché 
in 
numero non superiore 
ad un terzo, nonché 
enti 
pubblici 
ed enti 
privati 
di 
ricerca e 
di 
assistenza finanziaria 
e 
tecnica, e 
sempre 
che 
le 
imprese 
artigiane 
detengano la maggioranza negli 
organi 
deliberanti. 
le 
imprese 
artigiane, 
anche 
di 
diverso 
settore 
di 
attività, 
possono 
stipulare 
contratti 
associativi 
a 
termine 
per 
il 
compimento in comune 
di 
opere 
o per 
la prestazione 
di 
servizi, usufruendo, limitatamente 
allo 
svolgimento 
di 
tali 
attività, 
delle 
agevolazioni 
previste 
dalle 
leggi 
in 
vigore. 
alla 
stipulazione 
dei 
contratti 
associativi 
possono 
partecipare 
imprese 
industriali 
di 
minori 
dimensioni 
in 
numero 
non 
superiore 
a 
quello indicato nel terzo comma del presente articolo. 
ai 
fini 
assicurativi 
e 
previdenziali 
i 
titolari 
d'impresa artigiana associati 
nelle 
forme 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti, hanno titolo all'iscrizione 
negli 
elenchi 
di 
cui 
alla legge 
4 luglio 2959, n. 463, e 
successive 
modificazioni ed integrazioni". 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


provvisorio 
dello 
stato 
14 
dicembre 
1947, 
n. 
1577, 
e 
successive 
modificazioni, 
e i 
consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; 


c) 
i 
consorzi 
stabili, 
costituiti 
anche 
in 
forma 
di 
società 
consortili 
ai 
sensi 
dell'articolo 
2615-ter 
del 
codice 
civile, 
tra 
imprenditori 
individuali, 
anche 
artigiani, società commerciali, società cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro. I 
consorzi 
stabili 
sono 
formati 
da 
non 
meno 
di 
tre 
consorziati 
che, 
con 
decisione 
assunta 
dai 
rispettivi 
organi 
deliberativi, 
abbiano 
stabilito 
di 
operare 
in 
modo 
congiunto 
nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture 
per 
un 
periodo 
di 
tempo 
non 
inferiore 
a 
cinque 
anni, 
istituendo 
a 
tal 
fine 
una 
comune 
struttura di impresa 
[...]". 
Peculiarità del caso di specie. 


Premesso 
quanto 
sopra, 
codesta 
stazione 
appaltante 
riferisce, 
nell'ambito 
della 
richiesta 
di 
parere 
indicata 
in epigrafe, che 
secondo l'operatore 
economico 
(della cui possibile esclusione si discute) 


"il 
Consorzio tra imprese 
artigiane 
sarebbe 
a tutti 
gli 
effetti 
equiparato 
ai 
consorzi 
di 
società cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro di 
cui 
alla legge 
n. 
422/1909, e 
sarebbe, per 
tale 
motivo, "dotato di 
propria autonomia, sia dal 
punto 
di 
vista 
organizzativo 
che 
giuridico, 
rispetto 
alle 
consorziate 
che 
ne 
fanno parte"; di 
conseguenza, l'irregolarità contributiva non rileverebbe, ma 
il 
Consorzio dovrebbe 
poter 
estromettere 
la Consorziata" 
(pag. 1 della 
nota 
che si riscontra). 


Tale 
assunto pare 
condiviso anche 
nella 
richiesta 
di 
parere, come 
è 
testimoniato 
dalla 
circostanza 
che 
gli 
orientamenti 
giurisprudenziali 
ivi 
citati, che 
si 
assumono 
tra 
loro 
in 
contrasto, 
non 
riguardano 
direttamente 
consorzi 
tra 
imprese 
artigiane, 
bensì 
consorzi 
di 
società 
cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro. 
Codesta 
società, 
quindi, 
sembra 
condividere 
implicitamente 
la 
tesi 
secondo 
cui le due fattispecie sarebbero disciplinate analogamente. 


Al riguardo, la Scrivente reputa necessarie delle precisazioni. 


In primo luogo, si 
evidenzia 
che, nel 
caso di 
specie, non emerge 
con certezza 
se 
il 
soggetto 
partecipante 
alla 
gara 
sia 
un 
consorzio 
tra 
imprese 
artigiane 


o un consorzio stabile 
tra 
artigiani 
(rispettivamente, lettere 
b) 
e 
c) 
dell'art. 34 
del 
d.lgs. 163/2006 e 
dell'art. 45 del 
d.lgs. 50/2016), il 
che 
potrebbe 
incidere, 
ad 
esempio, 
sulla 
applicabilità 
o 
meno 
del 
c.d. 
"cumulo 
alla 
rinfusa" 
per 
la 
prova 
dei 
requisiti 
di 
qualificazione 
(tra 
le 
più recenti, Cons. Stato, Sez. III, 
26 aprile 2021, n. 3358). 
La 
stessa 
Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
nella 
recente 
sentenza 
18 marzo 2021, n. 5, ha infatti precisato che: 


"7. 
occorre 
partire 
dalla 
peculiare 
configurazione 
del 
consorzio 
stabile, 
prevista dall'art. 45, comma 2, lett. c) del 
d.lgs. n. 50/2016, rispetto al 
consorzio 
ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. del codice civile. 


7.1. 
Quest'ultimo, 
pur 
essendo 
un 
autonomo 
centro 
di 
rapporti 
giuridici, 
non 
comporta 
l'assorbimento 
delle 
aziende 
consorziate 
in 
un 
organismo 
uni

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


tario costituente 
un'impresa collettiva, né 
esercita autonomamente 
e 
direttamente 
attività 
imprenditoriale, 
ma 
si 
limita 
a 
disciplinare 
e 
coordinare, 
attraverso 
un'organizzazione 
comune, 
le 
azioni 
degli 
imprenditori 
riuniti 
(cfr., 
ex multis, Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2020, n. 6569; Cass. civ., sez. I, 27 
gennaio 2014, n. 1636). 
Nel 
consorzio con attività esterna la struttura organizzativa 
provvede 
all'espletamento in comune 
di 
una o alcune 
funzioni 
(ad 
esempio, l'acquisto di 
beni 
strumentali 
o di 
materie 
prime, la distribuzione, 
la pubblicità, etc.), ma nemmeno in tale 
ipotesi 
il 
consorzio, nella sua disciplina 
civilistica, è 
dotato di 
una propria realtà aziendale. Ne 
discende 
che, ai 
fini 
della disciplina in 
materia di 
contratti 
pubblici, il 
consorzio ordinario è 
considerato un 
soggetto con 
identità plurisoggettiva, che 
opera in 
qualità di 
mandatario 
delle 
imprese 
della 
compagine. 
Esso 
prende 
necessariamente 
parte 
alla 
gara 
per 
tutte 
le 
consorziate 
e 
si 
qualifica 
attraverso 
di 
esse, 
in 
quanto le 
stesse, nell'ipotesi 
di 
aggiudicazione, eseguiranno il 
servizio, rimanendo 
esclusa la possibilità di 
partecipare 
solo per 
conto di 
alcune 
associate 
(cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 6 ottobre 
2015, n. 4652, il 
quale 
ha 
statuito 
l'illegittimità 
della 
partecipazione 
di 
un 
consorzio 
ordinario 
che, 
pur 
riunendo due 
società, aveva dichiarato di 
gareggiare 
per 
conto di 
una sola 
di esse). 


7.2. 
Non 
è 
così 
per 
i 
consorzi 
stabili. 
Questi, 
a 
mente 
dell'art. 
45, 
comma 
2, lett. c) del 
d.lgs. n. 50/2016, sono costituiti 
"tra imprenditori 
individuali, 
anche 
artigiani, società commerciali, società cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro" 
che 
"abbiano 
stabilito 
di 
operare 
in 
modo 
congiunto 
nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture 
per 
un 
periodo 
di 
tempo 
non 
inferiore 
a 
cinque 
anni, 
istituendo 
a 
tal 
fine 
una 
comune 
struttura 
di 
impresa". 
È 
in 
particolare 
il 
riferimento 
aggiuntivo 
e 
qualificante 
alla 
"comune 
struttura di 
impresa" 
che 
induce 
ad approdare 
verso lidi 
ermeneutici 
diversi 
ed 
opposti 
rispetto 
a 
quanto 
visto 
per 
i 
consorzi 
ordinari. 
I 
partecipanti 
in 
questo caso danno infatti 
vita ad una stabile 
struttura di 
impresa collettiva, 
la 
quale, 
oltre 
a 
presentare 
una 
propria 
soggettività 
giuridica 
con 
autonomia 
anche 
patrimoniale, 
rimane 
distinta 
e 
autonoma 
rispetto 
alle 
aziende 
dei 
singoli 
imprenditori 
ed è 
strutturata, quale 
azienda consortile, per 
eseguire, 
anche 
in 
proprio (ossia senza l'ausilio necessario delle 
strutture 
imprenditoriali 
delle 
consorziate), 
le 
prestazioni 
affidate 
a 
mezzo 
del 
contratto 
(da 
ultimo, 
Cons. St., sez. III, 13 ottobre 2020, n. 6165). 


7.3. Proprio sulla base 
di 
questa impostazione, la Corte 
di 
Giustizia Ue 
(C-376/08, 23 dicembre 
2009) è 
giunta ad ammettere 
la contemporanea partecipazione 
alla medesima gara del 
consorzio stabile 
e 
della consorziata, ove 
quest'ultima 
non 
sia 
stata 
designata 
per 
l'esecuzione 
del 
contratto 
e 
non 
abbia 
pertanto 
concordato 
la 
presentazione 
dell'offerta 
(ex 
multis, 
Cons. 
st., 
sez. 
III, 
4 febbraio 2019, n. 865)". 
*** 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


In secondo luogo, dalla 
richiesta 
di 
parere 
non si 
evince 
univocamente 
se 
il consorzio di cui si discute sia o meno dotato della personalità giuridica. 


Per i 
consorzi 
di 
società 
cooperative 
di 
produzione 
e 
lavoro, di 
cui 
alla 
legge 
25 
giugno 
1909, 
n. 
422, 
infatti, 
è 
già 
la 
fonte 
normativa 
primaria 
(in 
particolare, 
l'art. 
4 
della 
legge 
citata) 
a 
prevedere 
che 
"Il 
consorzio 
di 
cooperative 
costituisce persona giuridica 
[...]". 


L'art. 6 della 
c.d. legge 
quadro sull'artigianato (ossia 
la 
menzionata 
legge 
443/1985), invece, non prevede 
che 
il 
consorzio tra 
imprese 
artigiane 
debba 
necessariamente essere munito della personalità giuridica. 


Tale 
questione 
potrebbe 
rilevare 
nel 
caso 
di 
specie, 
atteso 
che 
le 
sentenze 
citate 
come 
aderenti 
al 
primo orientamento ermeneutico, che 
sembra 
consentire 
la 
sostituzione 
o estromissione 
della 
consorziata 
rivelatasi 
priva 
di 
un requisito 
di 
ordine 
generale, 
sono 
fondate 
(anche, 
ma 
non 
solo) 
sul 
possesso 
della 
personalità 
giuridica 
da 
parte 
del 
consorzio, 
con 
conseguente 
alterità 
soggettiva 
rispetto 
alle 
sue 
consorziate 
(vedasi 
al 
riguardo 
Cons. 
Stato, 
Sez. 
v, 
23 
novembre 
2018, n. 6632, nonché, con alcune 
significative 
precisazioni, Cons. 
Stato, Sez. v, 2 settembre 2019, n. 6024). 


ne 
segue 
che, ove 
si 
accertasse 
che 
il 
consorzio di 
cui 
si 
discute 
è 
privo 
di 
personalità 
giuridica, 
risulterebbe 
già 
opinabile 
l'applicazione 
al 
caso 
di 
specie 
dei 
principi 
di 
diritto enucleati 
nell'ambito del 
citato orientamento ermeneutico. 


*** 


Orientamenti giurisprudenziali e principi applicabili. 


Fatte 
le 
suddette 
premesse, si 
evidenzia 
che, nella 
nota 
che 
si 
riscontra, 
codesta 
stazione 
appaltante 
enuclea 
due 
possibili 
orientamenti 
giurisprudenziali 
che si assumono reciprocamente in contrasto. 


Secondo il 
primo orientamento (punto A 
della richiesta di 
parere), la 
mancanza 
o la 
perdita 
di 
un requisito di 
ordine 
generale 
di 
una 
consorziata 
legittimerebbe 
il 
consorzio alla 
sostituzione 
o estromissione 
della 
stessa, senza 
necessità 
di 
escludere 
il 
consorzio stesso dalla 
procedura 
evidenziale 
(pag. 2 
della nota che si riscontra). 


In 
base 
ad 
un 
diverso 
orientamento 
(punto 
B 
della 
richiesta 
di 
parere), 
"in caso di 
perdita di 
un requisito di 
ordine 
generale 
della consorziata esecutrice 
di 
un 
consorzio 
[...] 
l'estromissione 
o 
la 
sostituzione 
della 
consorziata 
non sarebbe 
ammissibile 
quando l'obiettivo perseguito è 
evitare 
la sanzione 
di 
esclusione 
dalla gara per 
difetto dei 
requisiti 
in capo alla consorziata medesima 
[...]" (pag. 3 della richiesta di parere). 


*** 


Al 
riguardo, la 
Scrivente 
osserva 
innanzitutto che, ferma 
restando la 
innegabile 
problematicità 
delle 
questioni 
giuridiche 
sottoposte 
all'esame, 
il 
quadro 
giurisprudenziale 
al 
quale 
si 
fa 
riferimento 
nella 
nota 
che 
si 
riscontra 
appariva comunque caratterizzato da una tendenziale stabilità. 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Tale 
ultima 
caratteristica 
sembra 
invece 
venuta 
meno 
a 
seguito 
dalla 
pubblicazione, 
in 
data 
18 
ottobre 
2021, 
dell'ordinanza 
di 
rimessione 
all'Adunanza 
Plenaria 
n. 
6959/2021, 
con 
la 
quale 
la 
v 
Sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
sollecitato 
un 
riesame 
di 
taluni 
principi 
consolidati, 
dubitando 
della 
corretta 
interpretazione 
dell'art. 
48, 
commi 
17, 
18 
e 
19 
ter 
del 
d.lgs. 
18 
aprile 
2016, 
n. 
50. 


Alla 
luce 
di 
quanto appena 
esposto, la 
Scrivente 
ritiene 
che, in relazione 
al 
secondo quesito formulato nella 
richiesta 
di 
parere, non sia 
opportuna, al 
momento, l'emanazione 
di 
un parere 
di 
massima 
sulla 
interpretazione 
e 
applicazione 
del 
predetto 
d.lgs. 
50/2016, 
in 
attesa 
del 
pronunciamento 
dell'Adunanza 
Plenaria. 


In relazione 
al 
primo quesito posto nella 
nota 
che 
si 
riscontra, invece, si 
ritiene 
astrattamente 
possibile 
rendere 
un parere, anche 
al 
fine 
di 
evitare 
una 
ulteriore 
paralisi 
dell'azione 
amministrativa 
di 
codesta 
stazione 
appaltante, 
tenuto 
conto 
che 
la 
procedura 
ad 
evidenza 
pubblica 
risulta 
ormai 
bandita 
da 
lungo tempo. 


Sul 
punto, tuttavia, corre 
l'obbligo di 
segnalare 
che 
non può escludersi 
la 
possibilità 
che 
il 
futuro 
pronunciamento 
dell'Adunanza 
Plenaria 
contenga 
l'enunciazione 
di 
principi 
generali, 
potenzialmente 
incidenti 
anche 
su 
fattispecie 
disciplinate 
dal 
previgente 
d.lgs. 163/2006, ragion per cui 
il 
parere 
deve 
intendersi 
reso 
allo 
stato 
degli 
atti, 
con 
riserva 
di 
una 
successiva 
revisione 
dello stesso in caso di mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti. 


*** 


Ciò chiarito, la Scrivente 
ritiene 
che, nell'ipotesi 
prospettata da codesta 
società (consorziata 
designata 
esecutrice, in capo alla 
quale 
sussisterebbe 
un'irregolarità 
contributiva 
grave 
definitivamente 
accertata, attestata 
da 
specifico 
D.U.R.C. 
irregolare), 
l'orientamento 
giurisprudenziale 
da 
seguire, 
in 
relazione 
alle 
procedure 
evidenziali 
disciplinate 
dal 
d.lgs. 163/2006, sia 
quello 
che 
reputa 
necessaria 
la 
sanzione 
espulsiva 
(sviluppando 
le 
argomentazioni 
a 
suo 
tempo 
enucleate 
dall'Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato, nella 
sentenza 
4 maggio 2012, n. 8, in particolare 
§§ 5 e 
seguenti 
in diritto). 


Quanto sopra appare giustificato dalle seguenti considerazioni. 


1) 
Le 
sentenze 
menzionate 
nell'ambito 
del 
primo 
orientamento 
ermeneutico 
-che 
predica 
l'ammissibilità 
della 
sostituzione 
o estromissione 
della 
consorziata 
risultata 
priva 
di 
un 
requisito 
di 
ordine 
generale 
-sono 
riferite 
alla 
specifica 
ipotesi 
di 
una 
consorziata 
posta 
in 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
(in 
particolare, 
Cons. 
Stato, 
Sez. 
v, 
23 
novembre 
2018, 
n. 
6632, 
nonché 
Cons. 
Stato, Sez. v, 2 settembre 2019, n. 6024). 
Com'è 
noto, in relazione 
alle 
procedure 
concorsuali, lo stesso legislatore 
ha 
talvolta 
ritenuto 
necessario 
dettare 
una 
disciplina 
specifica, 
volta 
ad 
un 
temperamento 
del 
generale 
principio di 
immodificabilità 
soggettiva 
dei 
raggrup



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


pamenti 
e 
dei 
consorzi. 
vedasi, 
esemplificativamente, 
i 
commi 
18 
e 
19 
dell'art. 
37 del 
d.lgs. 163/2006, i 
quali, per inciso, avevano una 
formulazione 
letterale 
(e 
un 
conseguente 
ambito 
applicativo) 
non 
del 
tutto 
coincidente 
con 
il 
vigente 
art. 48 del 
d.lgs. 50/2016, preso in esame 
dal 
Consiglio di 
Stato nella 
menzionata 
ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria. 


L'ulteriore 
e 
più 
recente 
sentenza 
menzionata 
nella 
richiesta 
di 
parere 
come 
aderente 
al 
primo 
orientamento 
ermeneutico 
(Cons. 
Stato, 
Sez. 
v, 
26 
giugno 
2020, 
n. 
4100), 
invece, 
non 
appare 
dirimente 
in 
relazione 
all'ipotesi 
di 
cui 
si 
discute, 
poiché 
sembra 
riprendere 
il 
principio 
di 
diritto 
affermato 
nei 
precedenti 
citati 
(fondato 
anche 
sull'alterità 
soggettiva 
tra 
consorzio 
e 
consorziata), 
al 
limitato 
fine 
di 
escludere 
che, 
nella 
specifica 
ipotesi 
al-
l'esame 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
potessero 
"derivare 
esclusioni 
per 
Ciclat 
da 
debiti 
retributivi 
o 
anche 
previdenziali 
[...] 
inadempiuti 
dalla 
Cogei 
s.r.l.". 
Trattavasi, 
in 
quel 
caso, 
di 
inadempimenti 
o 
ritardi 
nell'adempimento 
verificatisi 
nell'esecuzione 
di 
un 
diverso 
appalto, 
che 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
riteneva 
comunque 
non 
qualificabili 
come 
"errore 
grave 
nell'esercizio 
dell'attività 
professionale": 
la 
fattispecie 
appare 
quindi 
differente 
rispetto 
a 
quanto 
rappresentato 
nella 
richiesta 
di 
parere, 
in 
cui 
non 
sembrano 
sussistere 
dubbi 
sulla 
possibilità 
di 
inquadrare 
il 
D.U.R.C. 
irregolare 
nel 
ben 
diverso 
novero 
delle 
"violazioni 
gravi, 
definitivamente 
accertate, 
alle 
norme 
in 
materia 
di 
contributi 
previdenziali 
e 
assistenziali", 
ai 
sensi 
dell'art. 
38, 
comma 
1, 
lett. 
i), 
del 
d.lgs. 
163/2006. 


2) 
entrambi 
gli 
orientamenti 
giurisprudenziali 
che 
si 
assumono in contrasto, 
in realtà, sembrano concordare 
sull’"argomentazione 
che 
fa leva sulla 
distinzione 
fra requisiti 
"soggettivi" 
di 
partecipazione, in 
specie 
i 
requisiti 
di 
moralità e 
di 
regolarità fiscale 
e 
contributiva, e 
requisiti 
"oggettivi" 
(da 
non 
confondersi 
con 
quelli 
attinenti 
l'offerta), fra i 
quali 
ultimi 
si 
annovera 
l'assenza di 
procedure 
concorsuali, per 
la cui 
sopravvenienza già il 
d.lgs. n. 
163 del 
2006 prevedeva le 
deroghe 
al 
divieto di 
modificazione 
soggettiva dei 
raggruppamenti 
stabilite 
dall'art. 37, comma 18 e 
19" 
(Cons. Stato, Sez. v, 
21 settembre 2020, n. 5496). 


nella 
sentenza 
appena 
citata 
(menzionata 
anche 
nella 
richiesta 
di 
parere, 
tra 
quelle 
aderenti 
all'orientamento 
giurisprudenziale 
favorevole 
alla 
sanzione 
espulsiva), il Consiglio di Stato ha infatti precisato come 


"le 
decisioni 
dichiaratamente 
conformi 
ai 
principi 
seguiti 
nella citata 
pronuncia dell'Adunanza plenaria n. 8/2012 siano riferite 
alla mancanza, 
originaria 
o 
sopravvenuta, 
dei 
requisiti 
c.d. 
soggettivi 
di 
partecipazione 
(così 
Cons. 
Stato, 
V, 
23 
gennaio 
2017, 
n. 
849, 
riguardante 
irregolarità 
fiscali 
e 
contributive). Questi, ai 
fini 
del 
principio di 
immodificabilità soggettiva dei 
raggruppamenti, 
vengono 
contrapposti 
alle 
evenienze 
sopravvenute 
alla 
partecipazione 
alla 
gara 
costituite 
dalle 
procedure 
concorsuali, 
nelle 
quali 
"non 
assume 
rilevanza 
il 
comportamento 
dell'operatore 
economico, 
ma 
il 
dato 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


oggettivo 
della 
sua 
insolvenza 
giudizialmente 
dichiarata, 
mentre 
nel 
caso 
di 
difetto 
dei 
requisiti 
di 
ordine 
generale 
altrettanto 
non 
può 
predicarsi: 
in 
particolare, 
l'irregolarità fiscale 
ha un'ineliminabile 
coefficiente 
soggettivo di 
imputabilità 
nei 
confronti 
dell'operatore 
economico 
che 
versi 
nella 
situazione 
prevista 
dalla 
citata disposizione" 
(così 
Cons. Stato, V, 26 aprile 
2018, 


n. 
2537). 
Per 
tale 
ragione, 
già 
nel 
vigore 
del 
d.lgs. 
n. 
163 
del 
2006, 
in 
un 
caso 
analogo a quello oggetto del 
presente 
giudizio, di 
dichiarazione 
di 
fallimento 
di 
una componente 
del 
raggruppamento intervenuta nella fase 
pubblicistica, 
precisamente 
dopo l'aggiudicazione 
provvisoria, si 
è 
ritenuto che 
dall'esclusione 
della 
mandante 
dichiarata 
fallita 
" 
non 
doveva 
necessariamente 
derivare 
l'esclusione 
dalla gara dell'intero raggruppamento", ma che 
fosse 
sufficiente 
l'estromissione 
della fallita, dato che 
non poteva dirsi 
"disposta al 
fine 
di 
eludere 
le 
verifiche 
in ordine 
al 
possesso dei 
requisiti 
(verifiche 
che 
si 
erano già 
svolte 
in 
precedenza 
e 
con 
esito 
positivo)" 
e 
che 
"i 
residui 
membri 
del 
raggruppamento 
risultavano ex 
se 
in possesso della totalità dei 
requisiti 
di 
qualificazione 
richiesti 
per 
l'esecuzione 
dell'appalto 
[...]" 
(Cons. 
stato, 
v, 
17 
luglio 
2017, n. 3507). Identica conclusione 
è 
stata raggiunta, come 
detto, nel 
caso 
oggetto delle 
decisioni 
di 
questa sezione, n. 6632/18 e 
n. 6024/19, richiamate 
nella 
sentenza 
di 
primo 
grado, 
riguardanti 
la 
sopravvenuta 
liquidazione 
coatta 
amministrativa di una consorziata indicata come esecutrice dei lavori". 
*** 


nello stesso senso, anche 
la 
citata 
sentenza 
del 
Cons. Stato, Sez. v, 2 settembre 
2019, 
n. 
6024 
(favorevole 
invece 
alla 
sostituzione/estromissione 
della 
consorziata) ha precisato che, nel caso concreto sottoposto al suo esame, 


"l'estromissione 
di 
so.Co.Fat. conseguiva alla sua messa in liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
fattispecie 
contemplata 
dal 
legislatore 
(inizialmente 
all'art. 
37, 
commi 
18 
e 
19, 
del 
d.lgs. 
n. 
163 
del 
2006 
e 
quindi 
all'art. 
48, 
commi 
17 e 
18, del 
d.lgs. n. 50 del 
2016) proprio al 
fine 
di 
derogare 
al 
principio di 
immodificabilità del 
rti: non 
sono pertanto conferenti 
i 
richiami 
ai 
precedenti 
della Sezione 
5 giugno 2018, n. 3345 e 
23 gennaio 2017, n. 849, concernenti 
la 
diversa 
fattispecie 
dell'esclusione 
dalla 
gara 
per 
l'accertata 
carenza di 
un 
requisito "soggettivo" 
di 
partecipazione 
(nella specie, un'irregolarità 
tributaria 
e 
contributiva) 
e 
non, 
invece, 
di 
un 
requisito 
"oggettivo" 
quale 
una 
sopravvenuta 
procedura 
concorsuale, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, ipotesi 
nella quale 
-come 
detto -la normativa vigente 
prevede 
le 
deroghe 
di cui al comma 19 dell'art. 37 del d.lgs. n. 163 del 2006". 


*** 


Resta 
sullo 
sfondo, 
come 
anticipato, 
la 
possibilità 
che 
l'Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
riconsideri 
questo 
profilo, 
quantomeno 
in 
relazione 
alle 
procedure 
disciplinate 
dal 
d.lgs. 50/2016, ove 
fossero ritenute 
condivisibili 
le 
argomentazioni 
esplicitate, tra 
l'altro, al 
paragrafo 5.7 della 
citata 
ordinanza 
di rimessione n. 6959/2021. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


*** 


3) 
In 
relazione 
al 
caso 
prospettato 
nella 
richiesta 
di 
parere, 
appare 
dubbia 
la 
legittimità 
di 
una 
modifica 
in senso riduttivo del 
consorzio, atteso che, secondo 
il 
consolidato 
orientamento 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(Sez. 
v, 
5 
maggio 
2020, n. 2849), 
"a) 
è 
precluso 
al 
consorzio 
la 
sostituzione 
del 
soggetto 
indicato 
come 
esecutore 
dell'appalto; 
ammettere 
la 
sostituzione 
successiva 
della 
consorziata, 
in caso di 
esito negativo della verifica sul 
possesso dei 
requisiti 
generali, significherebbe 
eludere 
le 
finalità sottese 
alle 
prescrizioni 
di 
gara che 
-come 
nella 
vicenda 
oggetto 
dell'odierno 
giudizio 
-richiedono 
l'indicazione 
delle 
consorziate 
che 
eseguiranno il 
servizio e 
la loro dichiarazione 
sul 
possesso 
dei 
requisiti 
generali 
di 
partecipazione, 
e 
renderebbe, 
di 
fatto, 
vano 
il 
controllo 
preventivo ex 
art. 38 d.lgs. n. 163 del 
2006, in capo all'impresa indicata nella 
domanda di partecipazione; 


b) 
è 
consentita la modifica "in 
riduzione", vale 
a dire 
l'eliminazione, 
senza 
sostituzione, 
di 
una 
delle 
consorziate, 
con 
conseguente 
esecuzione 
del-
l'appalto integralmente 
dalle 
altre, a condizione 
che 
la modifica della compagine 
in 
senso 
riduttivo 
avvenga 
per 
esigenze 
organizzative 
proprie 
del 
consorzio e 
non, invece, per 
eludere 
la legge 
di 
gara, e, in 
particolare, per 
evitare 
la sanzione 
di 
esclusione 
dalla gara per 
difetto dei 
requisiti 
in 
capo 
alla consorziata, che viene meno attraverso l'operazione riduttiva. 
[...] 


Contrariamente 
a 
quanto 
pare 
sostenere 
l'appellante, 
la 
successiva 
giurisprudenza 
non 
si 
è 
discostata 
da 
tali 
regole 
ma 
ne 
ha 
fatto 
applicazione 
[...]; 
né 
si 
è 
posta 
in 
contrasto 
con 
essi 
la 
sentenza 
di 
questa 
Sezione, 
più 
volte 
citata 
dall'appellante, 
2 
settembre 
2019, 
n. 
6024. 
È 
vero, 
infatti 
che 
nella sentenza in 
esame 
è 
affermato il 
principio per 
cui 
la sostituzione 
della 
consorziata esecutrice 
è 
sempre 
possibile, in 
ragione 
del 
rapporto organico 
tra 
consorziata 
e 
consorzio, 
ma 
si 
ribadisce 
pure 
che 
la 
modifica 
in 
riduzione 
è 
consentita alle 
condizioni 
"che 
quelle 
che 
restano a farne 
parte 
siano comunque 
titolari, da sole, dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
e 
di 
qualificazione", 
ma specialmente, "che 
ciò non 
avvenga al 
fine 
di 
eludere 
la legge 
di 
gara". 
La 
sentenza, 
del 
resto, 
riconosce, 
espressamente, 
nel 
caso 
esaminato, 
che 
l'esclusione 
-derivante 
dalla 
messa 
in 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
della consorziata -non 
poteva dirsi 
disposta al 
fine 
di 
eludere 
le 
verifiche 
in 
ordine al possesso dei requisiti. 


[...] 


3.4. occorre, però, subito completare 
il 
discorso con una precisazione: 
la modifica "in riduzione" 
della compagine 
soggettiva di 
un operatore 
partecipante 
alla 
procedura 
in 
forma 
plurisoggettiva 
presuppone, 
pur 
sempre, 
il 
possesso 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
alla 
procedura 
di 
gara 
alla 
data 
di 
presentazione della domanda. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


diversamente, 
l'esclusione 
dell'operatore 
è, 
comunque, 
dovuta 
per 
il 
principio 
di 
continuità 
nel 
possesso 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
per 
il 
quale 
essi 
devono essere 
mantenuti 
senza soluzione 
di 
continuità dalla data di 
presentazione 
della domanda a quella di 
aggiudicazione, e, per 
tutta la fase 
di 
esecuzione 
in 
caso 
di 
aggiudicazione 
del 
contratto 
(cfr. 
Cons. 
stato, 
sez. 
v, 
14 
aprile 
2020, n. 2397 e i precedenti ivi citati) 
[...]". 


*** 
ne 
segue 
che, fatta 
sempre 
salva 
l'eventualità 
di 
un revirement 
giurisprudenziale 
da 
parte 
dell'Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio di 
Stato, la 
modifica 
riduttiva 
di 
cui 
si 
discute 
nella 
richiesta 
di 
parere 
potrebbe 
configurare 
una 
elusione della legge di gara. 


*** 


4) Le 
suddette 
considerazioni 
appaiono indirettamente 
confortate 
anche 
dalla 
recente 
sentenza 
dell'Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
18 
marzo 
2021, 
n. 
5, 
la 
quale 
ha 
affermato, 
seppur 
nella 
diversa 
ipotesi 
avente 
ad 
oggetto 
la 
partecipazione 
alla 
gara 
di 
un 
consorzio 
stabile, 
il 
principio 
di 
diritto 
secondo 
cui 
"la consorziata di 
un consorzio stabile, non 
designata ai 
fini 
dell'esecuzione 
dei 
lavori, è 
equiparabile, ai 
fini 
dell'applicazione 
dell'art. 63 della 
direttiva 24/2014/Ue 
e 
dell'art. 89 co. 3 del 
d.lgs. n. 50/2016, all'impresa ausiliaria 
nell’avvalimento, sicché 
la perdita da parte 
della stessa del 
requisito 
impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione". 


Da 
tale 
statuizione, pur se 
resa 
nell'ambito di 
una 
vicenda 
non sovrapponibile 
a 
quella 
sottoposta 
all'attenzione 
della 
Scrivente, 
sembra 
potersi 
comunque 
desumere 
che 
la 
mancanza 
o 
la 
perdita 
di 
un 
requisito 
soggettivo 
di 
partecipazione 
da 
parte 
della 
consorziata 
designata 
esecutrice 
non 
dovrebbe 
ammettere 
alcuna 
sostituzione, proprio alla 
luce 
del 
citato principio di 
(tendenziale) 
immodificabilità 
soggettiva 
dei 
partecipanti 
alla 
procedura 
ad evidenza 
pubblica. 


*** 


In conclusione, in riscontro alla 
richiesta 
di 
parere 
indicata 
in epigrafe, 
la 
Scrivente 
ritiene 
che, in relazione 
alle 
procedure 
ad evidenza 
pubblica 
tuttora 
disciplinate 
dal 
d.lgs. 163/2006, non possa 
dirsi 
allo stato condivisibile 
la 
scelta 
di 
seguire, in una 
gara 
in cui 
sia 
emersa, a 
carico di 
una 
consorziata 
designata 
esecutrice, una 
irregolarità 
contributiva 
grave 
definitivamente 
accertata, 
l'orientamento giurisprudenziale 
favorevole 
alla 
possibilità 
di 
sostituire 


o estromettere tale consorziata. 
*** 


In 
relazione 
ad 
eventuali 
ipotesi 
dello 
stesso 
tipo 
che 
dovessero 
verificarsi 
nella 
vigenza 
del 
d.lgs. 50/2016, viceversa, sembra 
opportuno, al 
momento, 
riservare 
il 
giudizio 
e 
attendere 
il 
prossimo 
pronunciamento 
dell'Adunanza 
Plenaria del Consiglio di Stato. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Trattandosi 
di 
questione 
di 
massima, 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura 
dello Stato, che 
si 
è 
espresso in conformità 
nella 
seduta 
del 
21 ottobre 2021. 


Consiglio di 
Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 25 gennaio 2022 n. 2 
-Pres. Filippo Patroni 
Griffi, est. oberdan Forlenza. 
(...) 


DIRITTo 


8. L’Adunanza 
Plenaria 
ritiene 
che 
la 
modifica 
soggettiva 
del 
raggruppamento temporaneo 
di 
imprese, in caso di 
perdita 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
di 
cui 
all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 
2016 n. 50 (Codice 
dei 
contratti 
pubblici) da 
parte 
del 
mandatario o di 
una 
delle 
mandanti, è 
consentita 
non solo in sede 
di 
esecuzione, ma 
anche 
in fase 
di 
gara, in tal 
senso interpretando 
l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter del medesimo Codice. 
ne 
consegue 
che, laddove 
si 
verifichi 
la 
predetta 
ipotesi 
di 
perdita 
dei 
requisiti, la 
stazione 
appaltante, in ossequio al 
principio di 
partecipazione 
procedimentale, è 
tenuta 
ad interpellare 
il 
raggruppamento e, laddove 
questo intenda 
effettuare 
una 
riorganizzazione 
del 
proprio assetto, 
onde 
poter 
riprendere 
la 
partecipazione 
alla 
gara, 
provveda 
ad 
assegnare 
un 
congruo 
termine per la predetta riorganizzazione. 
9. 
Al 
fine 
di 
meglio 
inquadrare 
il 
“punto 
di 
diritto” 
rimesso 
all’esame 
di 
questa 
Adunanza 
Plenaria 
occorre 
evidenziare, 
in 
punto 
di 
fatto, 
come 
nel 
caso 
oggetto 
del 
presente 
giudizio 
la 
modificazione 
soggettiva 
in 
riduzione 
del 
raggruppamento 
appellato 
sia 
stata 
dapprima 
ricercata 
dal 
r.t.i. 
Medil 
attraverso 
il 
recesso 
della 
mandante 
(ipotesi 
disciplinata 
dall’art. 
48, 
comma 
19, 
d.lgs. 
n. 
50/2016) 
e 
solo 
successivamente, 
una 
volta 
negata 
l’autorizzazione 
al 
recesso, 
si 
sia 
evidenziata 
la 
questione 
interpretativa 
dei 
commi 
17, 
18 
e 
19-ter 
dell’art. 
48 
e 
dunque 
se 
la 
modificazione 
soggettiva 
del 
raggruppamento 
da 
questi 
ultimi 
prevista 
per 
il 
caso 
di 
perdita 
di 
un 
requisito 
di 
partecipazione 
ex 
art. 
80, 
co. 
5, 
in 
capo 
alla 
mandataria 
o 
alla 
mandante, 
sia 
applicabile 
anche 
in 
fase 
di 
gara 
e 
non 
solo 
in 
fase 
di 
esecuzione 
del 
contratto. 
Ciò comporta che l’Adunanza Plenaria deve: 
-sia 
fornire, in funzione 
nomofilattica, l’interpretazione 
dei 
commi 
17, 18 e 
19-ter dell’art. 
48 
(se, 
cioè, 
come 
si 
è 
detto, 
la 
modificazione 
in 
riduzione 
del 
raggruppamento 
ivi 
contemplata 
sia possibile anche in fase di gara); 
-sia 
chiarire 
(preliminarmente) se 
il 
diniego di 
autorizzazione 
al 
recesso di 
cui 
al 
comma 
19 
influisca 
(anche 
eventualmente 
in senso impeditivo) sulla 
applicabilità 
della 
modificazione 
prevista dai commi 17 e 18. 
Ciò si 
evince 
dalla 
stessa 
ordinanza 
di 
rimessione, laddove 
questa, nel 
formulare 
i 
quesiti 
e 
riferendosi 
alle 
“modalità 
procedimentali” 
onde 
pervenire 
(se 
ritenuto ammissibile) alla 
modificazione 
soggettiva 
ai 
sensi 
dei 
commi 
17 e 
18 in fase 
di 
gara, chiede, in sostanza, se 
tali 
norme 
siano concretamente 
applicabili 
“anche 
qualora 
(la 
stazione 
appaltante) abbia 
negato 
l’autorizzazione 
al 
recesso che 
sia 
stata 
richiesta 
dal 
raggruppamento per restare 
in gara” 
e 
se, in caso affermativo, la 
medesima 
stazione 
appaltante 
abbia 
(o meno) l’obbligo di 
“interpellare 
il 
raggruppamento, assegnando congruo termine 
per la 
riorganizzazione 
del 
proprio 
assetto” in modo da poter “riprendere la propria partecipazione alla gara”. 
10.1. 
Come 
è 
noto, 
l’art. 
48, 
comma 
9, 
del 
d.lgs. 
n. 
50/2016 
prevede, 
in 
via 
generale, 
il 
divieto 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


di 
modificazione 
della 
composizione 
dei 
raggruppamenti 
temporanei 
e 
dei 
consorzi 
ordinari 
di 
concorrenti 
“rispetto a 
quella 
risultante 
dall’impegno in sede 
di 
offerta”, fatto salvo quanto 
disposto ai 
successivi 
commi 
17 e 
18, che 
costituisce 
ipotesi 
di 
“eccezione” 
al 
predetto principio 
generale. 
Più precisamente, i commi 17 e 18 dispongono: 
(comma 
17). “Salvo quanto previsto dall'articolo 110, comma 
5, in caso di 
fallimento liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
amministrazione 
controllata, 
amministrazione 
straordinaria, 
concordato 
preventivo 
ovvero 
procedura 
di 
insolvenza 
concorsuale 
o 
di 
liquidazione 
del 
mandatario 
ovvero, 
qualora 
si 
tratti 
di 
imprenditore 
individuale, 
in 
caso 
di 
morte, 
interdizione, 
inabilitazione 
o fallimento del 
medesimo ovvero in caso di 
perdita, in corso di 
esecuzione, 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all'articolo 
80, 
ovvero 
nei 
casi 
previsti 
dalla 
normativa 
antimafia, 
la 
stazione 
appaltante 
può proseguire 
il 
rapporto di 
appalto con altro operatore 
economico che 
sia 
costituito 
mandatario 
nei 
modi 
previsti 
dal 
presente 
codice 
purché 
abbia 
i 
requisiti 
di 
qualificazione 
adeguati 
ai 
lavori 
o servizi 
o forniture 
ancora 
da 
eseguire; 
non sussistendo tali 
condizioni 
la 
stazione appaltante deve recedere dal contratto”. 
(comma 
18). “Salvo quanto previsto dall'articolo 110, comma 
5, in caso di 
fallimento, liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
amministrazione 
controllata, 
amministrazione 
straordinaria, 
concordato preventivo ovvero procedura 
di 
insolvenza 
concorsuale 
o di 
liquidazione 
di 
uno 
dei 
mandanti 
ovvero, qualora 
si 
tratti 
di 
imprenditore 
individuale, in caso di 
morte, interdizione, 
inabilitazione 
o fallimento del 
medesimo ovvero in caso di 
perdita, in corso di 
esecuzione, 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all'articolo 80, ovvero nei 
casi 
previsti 
dalla 
normativa 
antimafia, il 
mandatario, 
ove 
non 
indichi 
altro 
operatore 
economico 
subentrante 
che 
sia 
in 
possesso 
dei 
prescritti 
requisiti 
di 
idoneità, 
è 
tenuto 
alla 
esecuzione, 
direttamente 
o 
a 
mezzo 
degli 
altri 
mandanti, 
purché 
questi 
abbiano 
i 
requisiti 
di 
qualificazione 
adeguati 
ai 
lavori 
o 
servizi 
o 
forniture 
ancora da eseguire”. 
Quanto 
all’ambito 
di 
applicazione 
di 
tali 
disposizioni, 
questa 
Adunanza 
Plenaria, 
con 
sentenza 
27 maggio 2021 n. 10, ha già avuto modo di affermare i seguenti principi di diritto: 
“a) l’art. 48, commi 
17, 18 e 
19-ter, del 
d.lgs. n. 50 del 
2016, nella 
formulazione 
attuale, consente 
la 
sostituzione 
meramente 
interna 
del 
mandatario 
o 
del 
mandante 
di 
un 
raggruppamento 
temporaneo di 
imprese 
con un altro soggetto del 
raggruppamento stesso in possesso dei 
requisiti, 
nella 
fase 
di 
gara, 
e 
solo 
nelle 
ipotesi 
di 
fallimento, 
liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
amministrazione 
straordinaria, concordato preventivo o di 
liquidazione 
o, qualora 
si 
tratti 
di 
imprenditore 
individuale, 
di 
morte, 
interdizione, 
inabilitazione 
o 
anche 
liquidazione 
giudiziale 
o, più in generale, per esigenze 
riorganizzative 
dello stesso raggruppamento temporaneo di 
imprese, a 
meno che 
-per questa 
ultima 
ipotesi 
e 
in coerenza 
con quanto prevede, parallelamente, 
il 
comma 
19 
per 
il 
recesso 
di 
una 
o 
più 
imprese 
raggruppate 
-queste 
esigenze 
non 
siano finalizzate ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara; 


b) 
l’evento 
che 
conduce 
alla 
sostituzione 
meramente 
interna, 
ammessa 
nei 
limiti 
anzidetti, 
deve 
essere 
portato 
dal 
raggruppamento 
a 
conoscenza 
della 
stazione 
appaltante, 
laddove 
questa 
non ne 
abbia 
già 
avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di 
c.d. sostituibilità 
procedimentalizzata 
a 
tutela 
della 
trasparenza 
e 
della 
concorrenza, 
di 
assegnare 
al 
raggruppamento un congruo termine 
per la 
riorganizzazione 
del 
proprio assetto interno tale 
da 
poter riprendere 
correttamente, e 
rapidamente, la 
propria 
partecipazione 
alla 
gara 
o la 
prosecuzione 
del rapporto contrattuale”. 
I commi 
17, 18 e 
19-ter dell’art. 48 del 
Codice 
dei 
contratti 
sono stati 
interpretati, dunque, 
nel 
senso di 
consentire, ricorrendone 
i 
presupposti, esclusivamente 
la 
modificazione 
“in di

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


minuzione” 
del 
raggruppamento 
temporaneo 
di 
imprese, 
e 
non 
anche 
quella 
cd. 
“per 
addizione”, 
che 
si 
verificherebbe 
con 
l’introduzione 
nella 
compagine 
di 
un 
soggetto 
ad 
essa 
esterno. Si è in tal senso affermato: 
“La 
deroga 
all’immodificabilità 
soggettiva 
dell’appaltatore 
costituito 
in 
raggruppamento, 
tale 
da 
evitare 
in fase 
esecutiva 
la 
riapertura 
dell’appalto alla 
concorrenza 
e, dunque, l’indizione 
di 
una 
nuova 
gara, 
è 
solo 
quella 
dovuta, 
in 
detta 
fase, 
a 
modifiche 
strutturali 
interne 
allo 
stesso 
raggruppamento, 
senza 
l’addizione 
di 
nuovi 
soggetti 
che 
non 
abbiano 
partecipato 
alla 
gara 
(o, addirittura, che 
vi 
abbiano partecipato e 
ne 
siano stati 
esclusi), ciò che 
contraddirebbe 
la 
stessa 
ratio della 
deroga, dovuta 
a 
vicende 
imprevedibili 
che 
si 
manifestino in sede 
esecutiva 
e 
colpiscano 
i 
componenti 
del 
raggruppamento, 
tuttavia 
senza 
incidere 
sulla 
capacità 
complessiva 
dello stesso raggruppamento di 
riorganizzarsi 
internamente, con una 
diversa 
distribuzione 
di diversi compiti e ruoli (tra mandante e mandataria o tra i soli mandanti), in modo 
da 
garantire 
l’esecuzione 
dell’appalto anche 
prescindendo dall’apporto del 
componente 
del 
raggruppamento ormai 
impossibilitato ad eseguire 
le 
prestazioni 
o, addirittura, non più esistente 
nel mondo giuridico (perché, ad esempio, incorporato od estinto). 
È 
chiaro che 
la 
modifica 
sostituiva 
c.d. per addizione 
costituisce 
ex se 
una 
deroga 
non consentita 
al 
principio della 
concorrenza 
perché 
ammette 
ad eseguire 
la 
prestazione 
un soggetto 
che 
non ha 
preso parte 
alla 
gara 
secondo regole 
di 
correttezza 
e 
trasparenza, in violazione 
di 
quanto prevede 
attualmente 
l’art. 106, comma 
1, lett. d), n. 2, del 
d.lgs. n. 50 del 
2016, più in 
generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario”. 


10.2. 
Una 
ulteriore 
eccezione 
al 
principio 
generale 
di 
immodificabilità 
della 
composizione 
del 
raggruppamento, 
benché 
non 
richiamata 
dal 
comma 
9 
dell’art. 
48, 
è 
introdotta 
dal 
comma 
19, che prevede: 
“È 
ammesso il 
recesso di 
una 
o più imprese 
raggruppate, anche 
qualora 
il 
raggruppamento si 
riduca 
ad un unico soggetto, esclusivamente 
per esigenze 
organizzative 
del 
raggruppamento 
e 
sempre 
che 
le 
imprese 
rimanenti 
abbiano i 
requisiti 
di 
qualificazione 
adeguati 
ai 
lavori 
o 
servizi 
o forniture 
ancora 
da 
eseguire. In ogni 
caso la 
modifica 
soggettiva 
di 
cui 
al 
primo periodo 
non è 
ammessa 
se 
finalizzata 
ad eludere 
la 
mancanza 
di 
un requisito di 
partecipazione 
alla gara”. 
Da 
un lato, dunque, il 
comma 
9 dell’art. 48 introduce 
un principio generale 
di 
“immodificabilità” 
della 
composizione 
del 
raggruppamento; 
dall’altro 
lato, 
i 
commi 
17, 
18 
e 
19, 
quali 
norme 
di 
eccezione 
alla 
norma 
generale, introducono una 
pluralità 
di 
esclusioni 
a 
tale 
principio, 
tali 
per 
la 
verità 
(stante 
il 
loro 
numero) 
da 
renderne 
sempre 
meno 
concreta 
l’applicazione. 
L’ampiezza 
dell’ambito applicativo delle 
eccezioni 
si 
dimostra, a 
maggior ragione, alla 
luce 
di 
quanto 
previsto 
dal 
comma 
19-ter 
dell’art. 
48, 
in 
base 
al 
quale 
“le 
previsioni 
di 
cui 
ai 
commi 
17, 18 e 
19 trovano applicazione 
anche 
laddove 
le 
modifiche 
soggettive 
ivi 
contemplate 
si 
verifichino in fase di gara”. 
10.3. occorre 
evidenziare 
come 
le 
norme 
di 
eccezione 
di 
cui 
ai 
commi 
17 e 
18 disciplinano 
fattispecie diverse da quella di cui al comma 19. ed infatti: 
-mentre 
le 
ipotesi 
disciplinate 
dal 
comma 
17 (con riferimento al 
mandatario) e 
dal 
comma 
18 (con riferimento ad uno dei 
mandanti) attengono a 
vicende 
soggettive, puntualmente 
indicate, 
del 
mandatario 
o 
di 
un 
mandante, 
conseguenti 
ad 
eventi 
sopravvenuti 
rispetto 
al 
momento 
di presentazione dell’offerta; 
-invece 
l’ipotesi 
di 
cui 
al 
comma 
19 
attiene 
ad 
una 
modificazione 
della 
composizione 
del 
raggruppamento derivante 
da 
una 
autonoma 
manifestazione 
di 
volontà 
di 
recedere 
dal 
raggruppamento 
stesso, 
da 
parte 
di 
una 
o 
più 
delle 
imprese 
raggruppate, 
senza 
che 
si 
sia 
verificato 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


nessuno dei 
casi 
contemplati 
dai 
commi 
17 e 
18, ma 
solo come 
espressione 
di 
un diverso e 
contrario volere 
rispetto a 
quello di 
partecipare, in precedenza 
manifestato. ed il 
recesso in 
tanto è 
ammesso, non tanto in base 
ad una 
più generale 
valutazione 
dei 
motivi 
che 
lo determinano, 
ma 
in quanto le 
imprese 
rimanenti 
“abbiano i 
requisiti 
di 
qualificazione 
adeguati 
ai 
lavori 
o servizi 
o forniture 
ancora 
da 
eseguire” 
e 
sempre 
che 
la 
modifica 
soggettiva 
derivante 
dal recesso non sia “finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara”. 
Si 
tratta, dunque, nel 
caso disciplinato dal 
comma 
19, di 
eccezione 
al 
principio generale 
di 
immodificabilità 
della 
composizione 
del 
raggruppamento del 
tutto diversa 
da 
quelle 
di 
cui 
ai 
commi 
17 e 
18, di 
modo che 
la 
possibilità 
che 
la 
stazione 
appaltante 
non ammetta 
il 
recesso 
di 
una 
o più delle 
imprese 
raggruppate 
non esplica 
alcun effetto sulle 
diverse 
ipotesi 
di 
eccezione, 
relative 
alle 
vicende 
soggettive 
del 
mandatario o di 
uno dei 
mandanti, disciplinate 
dai 
citati commi 17 e 18 dell’art. 48. 
Quanto 
sin 
qui 
esposto 
in 
ordine 
ai 
rapporti 
tra 
ipotesi 
di 
cui 
ai 
commi 
17 
e 
18 
e 
distinta 
ipotesi 
di 
cui 
al 
comma 
19 
appare 
di 
particolare 
rilievo 
nel 
caso 
oggetto 
del 
presente 
giudizio, 
poiché, 
come 
esattamente 
osservato dall’ordinanza 
di 
rimessione, era 
“il 
recesso della 
mandante 
che 
il 
raggruppamento intendeva 
in prima 
battuta 
far valere 
quale 
causa 
di 
modificazione 
soggettiva 
in riduzione 
della 
compagine, e 
solo quando la 
stazione 
appaltante, negando la 
sua 
autorizzazione, 
ha 
impedito che 
l’effetto modificativo dovuto al 
recesso si 
producesse, ha 
assunto 
rilievo la 
(diversa) vicenda 
modificativa 
costituita 
dalla 
perdita 
di 
un requisito di 
partecipazione 
ex art. 80, comma 5 del codice dei contratti”. 
Il 
diniego di 
autorizzazione 
al 
recesso non assume, quindi, alcun ruolo (tantomeno di 
“precedente 
impeditivo”) 
al 
fine 
della 
soluzione 
del 
quesito 
interpretativo 
rimesso 
a 
questa 
Adunanza 
Plenaria, 
stante 
la 
evidenziata 
differenza 
della 
previsione 
di 
cui 
al 
comma 
19 
rispetto 
alle 
previsioni 
di cui ai commi 17 e 18. 
In altre 
parole, risolta 
la 
questione 
afferente 
all’autorizzazione 
al 
recesso con il 
diniego di 
autorizzazione, 
il 
comma 
19 
non 
trova 
alcuna 
residua 
applicazione 
nel 
caso 
oggetto 
del 
presente 
giudizio, dovendosi 
invece 
affrontare, a 
tal 
fine, il 
problema 
di 
interpretazione 
dei 
commi 
17, 
18 e 
19-ter, e 
dunque 
se 
-come 
chiede 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
-la 
modifica 
soggettiva 
del 
raggruppamento temporaneo di 
imprese 
in caso di 
perdita 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
ex 
art. 80 da 
parte 
del 
mandatario o di 
una 
delle 
mandanti 
sia 
consentita 
anche 
in fase 
di 
gara, e 
non solo in fase di esecuzione. 


11.1. Il 
problema 
interpretativo dei 
commi 
17, 18 e 
19-ter dell’art. 48 del 
Codice 
dei 
contratti 
è 
ingenerato dall’antinomia 
normativa, ivi 
presente 
e 
che 
come 
tale 
richiede 
soluzione, frutto 
di una tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata. 
È 
opportuno preliminarmente 
precisare 
che 
tale 
problema 
non può dirsi 
superato e 
risolto per 
effetto 
di 
quanto 
incidentalmente 
affermato 
da 
questa 
stessa 
Adunanza 
Plenaria, 
con 
la 
propria 
citata 
decisione 
n. 
10 
del 
2001 
(v. 
par. 
23.3), 
al 
contrario 
di 
come 
invece 
ritengono 
l’appellante 
e la costituita amministrazione. 
Come 
condivisibilmente 
osservato 
anche 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, 
la 
questione 
della 
estensione 
della 
perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 80 non rappresentava 
affatto la 
questione 
centrale 
di 
quel 
giudizio, 
né 
tale 
problema 
interpretativo 
forma 
espressamente 
oggetto 
dei 
principi 
di 
diritto enunciati 
dalla 
citata 
sentenza 
n. 10/2001 (né 
di 
questi 
costituisce 
il 
presupposto 
logico-giuridico), 
principi 
solo 
in 
relazione 
ai 
quali 
si 
esplica 
l’effetto 
nomofilattico 
voluto 
dall’art. 99 c.p.a. 
Si 
è 
trattato, dunque, di 
una 
affermazione 
incidentale, non conseguente 
ad una 
disamina 
argomentativa 
peraltro 
non 
necessaria, 
stante 
l’estraneità 
di 
questo 
aspetto 
al 
thema 
decidendum. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


11.2 
Tanto 
precisato, 
occorre 
ricordare 
che 
i 
commi 
17 
e 
18, 
nella 
loro 
originaria 
formulazione, 
si 
occupavano di 
specifiche 
sopravvenienze, quali 
la 
sottoposizione 
a 
procedura 
concorsuale 
(fallimento, 
liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
amministrazione 
controllata, 
amministrazione 
straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura 
di 
insolvenza 
concorsuale 
o di 
liquidazione), 
ovvero, nel 
caso di 
imprenditore 
individuale, la 
morte, l’interdizione 
e 
l’inabilitazione, 
ovvero ancora i “casi previsti dalla normativa antimafia”. 
In 
tali 
ipotesi, 
le 
disposizioni 
predette 
consentivano, 
rispettivamente, 
la 
prosecuzione 
del 
rapporto 
di 
appalto con altro operatore 
in qualità 
di 
mandatario, purché 
in possesso dei 
requisiti 
di 
qualificazione 
adeguati 
ai 
lavori, servizi 
o forniture 
ancora 
da 
eseguire 
e, nel 
caso di 
sopravvenienza 
relativa 
ad una 
delle 
mandanti, consentivano l’indicazione 
da 
parte 
del 
mandatario 
di 
altro operatore 
economico subentrante 
in possesso dei 
prescritti 
requisiti 
di 
idoneità, 
prevedendo altresì 
che, in caso di 
mancata 
indicazione, fosse 
lo stesso mandatario tenuto al-
l’esecuzione, 
direttamente 
o 
a 
mezzo 
degli 
altri 
mandanti, 
purché 
in 
possesso 
dei 
requisiti 
adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. 
Il 
riferimento, 
in 
entrambe 
le 
disposizioni, 
ai 
“lavori 
ancora 
da 
eseguire” 
rendeva 
chiaro 
come 
sottolinea 
anche 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
-“che 
la 
fase 
cui 
le 
disposizioni 
avevano riguardo 
era quella di esecuzione del contratto di appalto”. 
A 
fronte 
di 
ciò, l’art. 32, comma 
1, lett. h) del 
d.lgs. 19 aprile 
2017 n. 56 ha 
introdotto nel 
testo dell’art. 48, per quel che interessa nella presente sede, due modifiche: 
-la 
prima 
nei 
commi 
17 
e 
18, 
aggiungendo 
alle 
sopravvenienze 
già 
ivi 
presenti 
anche 
il 
“caso 
di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80”; 
-la 
seconda, consistente 
nell’introduzione 
del 
comma 
19-ter, il 
quale 
prevede 
che 
“le 
previsioni 
di 
cui 
ai 
commi 
17, 18 e 
19 trovano applicazione 
anche 
laddove 
le 
modifiche 
soggettive 
ivi contemplate si verifichino in fase di gara”. 
Per 
un 
verso, 
dunque, 
il 
riferimento 
espresso 
al 
“corso 
dell’esecuzione”, 
contenuto 
nei 
commi 
17 e 
18, farebbe 
propendere 
per ritenere 
l’ipotesi 
di 
“perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 80”, 
come 
limitata 
ad una 
sopravvenienza 
che 
si 
verifichi 
in quella 
fase; 
per altro verso, l’ampia 
dizione 
del 
comma 
19-ter 
rende 
applicabili 
tutte 
le 
modifiche 
soggettive 
contemplate 
dai 
commi 
17 e 
18 (quindi 
anche 
la 
predetta 
“perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 80”), anche 
in 
fase di gara. 
11.2. Tale 
contraddizione 
o incompatibilità 
tra 
norme, sussumibile 
nella 
fattispecie 
generale 
dell’“antinomia 
normativa”, risulta 
ancora 
più problematica 
per l’interprete, attesa 
la 
contestualità 
temporale 
delle 
disposizioni 
che 
le 
prevedono, riferibili 
ed introdotte 
dalla 
medesima 
fonte. 
Ciò 
rende 
l’antinomia 
non 
risolvibile 
applicando 
normali 
criteri 
interpretativi, 
quali 
il 
criterio 
gerarchico ovvero il 
criterio della 
competenza 
della 
fonte, ovvero ancora 
i 
criteri 
cronologico 
o temporale 
o quello di 
specialità, trattandosi 
in questo caso di 
introduzione 
di 
norme 
per il 
tramite della medesima fonte. 
né 
particolari 
elementi 
utili 
all’interprete 
possono essere 
ricavati, in applicazione 
dell’art. 12 
disp. prel cod. civ., dalla lettera delle disposizioni, ovvero dalla “volontà del legislatore”. 
Quanto alla 
lettera 
delle 
disposizioni, essa 
non si 
presenta 
particolarmente 
“affidabile”, tale 
cioè 
da 
poter desumerne 
un senso “fatto palese 
dal 
significato proprio delle 
parole 
secondo la 
connessione 
di 
esse”, non essendo in particolare 
coordinati 
gli 
enunciati 
introdotti 
dal 
d.lgs. 
n. 56 del 
2017 con quelli 
originari 
del 
Codice; 
e 
di 
ciò costituisce 
dimostrazione, oltre 
ad altri 
casi 
non rilevanti 
nella 
presente 
sede, lo stesso intervento interpretativo effettuato da 
questa 
Adunanza Plenaria con la propria sentenza n. 10/2021. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Quanto alla 
interpretazione 
secondo criterio psicologico o soggettivo (cui 
in parte 
si 
riporta 
la 
stazione 
appaltante: 
v. 
pagg. 
4-5 
memoria 
del 
27 
novembre 
2021), 
essa 
non 
può 
essere 
utilmente 
esercitata, facendo leva 
sulla 
relazione 
illustrativa 
al 
d.lgs. n. 56/2017, trattandosi 
in 
questo caso poco più di una parafrasi del testo normativo. 


11.3. Allo stesso tempo, non è 
possibile 
negare 
che 
si 
tratti 
di 
antinomia 
cd. assoluta 
(o, secondo 
altre 
classificazioni, “totale”) -che 
si 
ha 
allorché 
nessuna 
delle 
due 
norme 
può essere 
applicata 
alla 
circostanza 
considerata 
senza 
entrare 
in conflitto con l’altra 
-sostenendo che, 
in 
realtà, 
vi 
sarebbe 
solo 
una 
incompatibilità 
apparente 
di 
enunciati, 
state 
la 
natura 
“generale” 
della 
norma 
espressa 
dal 
comma 
19-ter e 
la 
natura 
“parziale” 
di 
quella 
ricavabile 
dagli 
incisi 
dei commi 17 e 18. 
È 
questo il 
caso che 
ricorrerebbe 
allorché 
si 
intenda 
sostenere 
che 
il 
richiamo effettuato dal-
l’art. 
19-ter 
(norma 
generale) 
alle 
“modifiche 
soggettive 
ivi 
contemplate” 
(cioè 
nei 
commi 
17 
e 
18) 
vada 
inteso 
come 
riferito 
alle 
predette 
modifiche 
“come 
disciplinate” 
dai 
medesimi 
commi 
17 
e 
18 
(e 
dunque, 
anche 
nei 
limiti 
per 
esse 
imposti). 
Da 
ciò 
conseguirebbe 
che 
mentre 
la 
norma 
del 
comma 
19-ter sarebbe 
tranquillamente 
applicabile 
(nel 
suo effetto espansivo riferito 
alla 
fase 
di 
gara) a 
tutte 
le 
modifiche 
soggettive 
salvo quelle 
derivanti 
“dalla 
perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 80”, l’enunciato “in corso di 
esecuzione” 
a 
queste 
ultime 
riferito introdurrebbe 
una norma speciale che sottrae i casi considerati alla disciplina del comma 19-ter. 
A 
questa 
tesi 
-sia 
pure 
con 
diversità 
di 
accenti 
e 
di 
formulazione 
e 
senza 
che 
il 
problema 
venga 
espressamente 
affrontato in termini 
di 
antinomia 
normativa 
-possono essere 
riportate 
anche 
precedenti 
decisioni 
del 
Consiglio di 
Stato, indicate 
nell’ordinanza 
di 
rimessione, laddove 
si 
afferma 
che 
sarebbe 
“del 
tutto 
illogico 
che 
l’estensione 
alla 
fase 
di 
gara 
di 
cui 
al 
comma 
19-ter, introdotto dallo stesso decreto correttivo, vada 
a 
neutralizzare 
la 
specifica 
e 
coeva 
modifica 
del 
comma 
18” 
(Cons. 
Stato, 
sez. 
v, 
28 
gennaio 
2021 
n. 
833 
e 
sez. 
III, 
11 
agosto 
2021 n. 5852). 
ed è 
alla 
tesi 
in precedenza 
esposta 
che 
si 
riportano sia 
l’appellante, quando parla 
di 
“effetto 
abrogativo” 
inammissibile, laddove 
sostiene 
che 
un ampliamento della 
sopravvenienza 
della 
“perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 80” 
comporterebbe 
un “effetto abrogativo” 
dell’inciso “in 
corso di 
esecuzione”, presente 
nei 
commi 
17 e 
18 (v. pag. 6 memoria 
del 
2 dicembre 
2021), 
sia 
la 
stazione 
appaltante, la 
quale 
fa 
leva 
sulla 
natura 
eccezionale, e 
quindi 
di 
stretta 
interpretazione, 
delle 
norme 
che 
derogano al 
principio generale 
di 
immodificabilità 
del 
raggruppamento 
temporaneo di imprese (art. 48, co. 9). 
Benché 
non priva 
di 
elementi 
meritevoli 
di 
esame, anche 
questa 
tesi 
interpretativa 
non può 
essere condivisa. 
ed 
infatti, 
perché 
possa 
sostenersi 
la 
ricorrenza 
di 
una 
ipotesi 
particolare 
di 
antinomia 
(secondo 
talune classificazioni definita “parziale” o “unilaterale), occorrerebbe: 
-o che 
uno dei 
due 
enunciati 
normativi 
aggiungesse 
una 
specificazione 
(ad esempio, nel 
caso 
di 
specie, ad una 
certa 
fase 
della 
gara), tale 
da 
escludere 
(eccettuare) un singolo caso dalla 
classe 
di 
fattispecie 
altrimenti 
disciplinata 
dalla 
norma 
generale; 
nel 
caso di 
specie, invece, le 
fattispecie si presentano perfettamente coincidenti; 
-ovvero (e 
quantomeno) che 
l’esclusione 
della 
singola 
fattispecie 
fosse 
prevista 
dalla 
stessa 
norma 
generale, 
con 
una 
delle 
formule 
usualmente 
utilizzate 
dal 
legislatore 
(ad 
esempio: 
“fatto 
salvo quanto previsto…etc.”), e 
dunque, nel 
caso di 
specie, avrebbe 
dovuto essere 
il 
comma 
19-ter (norma 
generale) ad escludere 
la 
specifica 
ipotesi 
della 
“perdita 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 
80” 
dalla 
classe 
di 
fattispecie 
degli 
articoli 
17 e 
18 per le 
quali 
interviene 
l’effetto ampliativo 
anche alla fase di gara. 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Invece, in difetto di 
previsione 
espressa 
del 
legislatore, l’esclusione 
della 
predetta 
fattispecie 
sarebbe 
il 
frutto 
di 
una 
doppia 
operazione 
dell’interprete, 
il 
quale 
dovrebbe 
dapprima 
applicare 
l’estensione 
prevista 
dal 
comma 
19-ter alle 
molteplici 
fattispecie 
di 
cui 
ai 
commi 
17 e 
18 e 
poi 
limitare 
tale 
estensione 
ad una 
sola 
di 
esse 
per effetto di 
una 
esclusione 
che 
agirebbe 
per 
così 
dire 
“di 
rimbalzo” 
sulla 
norma 
generale. 
In 
questo 
caso, 
per 
effetto 
di 
un 
duplice 
percorso 
interpretativo (secondo un tragitto, per così 
dire, di 
“andata 
e 
ritorno”), l’interprete 
più che 
risolvere 
un 
problema 
di 
antinomia 
finisce 
per 
auto-attribuirsi 
una 
potestà 
normativa 
ex 
novo. 
All’esclusione 
di 
tale 
ipotesi 
interpretativa 
perviene, in sostanza, anche 
l’ordinanza 
di 
rimessione, 
laddove 
sostiene 
come 
risponda 
“a 
logica” 
“l’argomento per il 
quale, se 
il 
legislatore, 
introducendo 
il 
comma 
19-ter 
all’interno 
dell’art. 
48, 
avesse 
voluto 
fare 
eccezione 
alla 
deroga 
e 
ripristinare 
il 
principio di 
immodificabilità 
….la 
via 
maestra 
sarebbe 
stata 
quella 
di 
operare 
la 
distinzione 
all’interno dello stesso comma 
19-ter, senza 
dare 
vita 
ad un arzigogolo interpretativo”. 
ed al 
fine 
di 
escludere 
l’interpretazione 
“restrittiva”, valga, da 
ultimo, rilevare 
come 
questa 
sia 
conseguenza 
di 
una 
considerazione 
“sovrastimata” 
dell’inciso “in corso di 
esecuzione”, 
posto che 
problemi 
interpretativi 
non molto dissimili 
potrebbero porsi 
-volendo utilizzare 
il 
metodo interpretativo qui 
non condiviso -anche 
per il 
fatto che 
il 
legislatore, nel 
momento 
stesso in cui 
introduceva 
il 
comma 
19-ter, non ha 
eliminato dai 
commi 
17 e 
18 i 
riferimenti 
ai 
lavori, 
servizi 
o 
forniture 
“ancora 
da 
eseguire”; 
cioè 
proprio 
quei 
riferimenti 
che, 
prima 
delle 
modifiche 
introdotte 
dal 
d.lgs. n. 56/2017, costituivano il 
fondamento dell’interpretazione 
limitativa delle sopravvenienze soggettive alla sola fase di esecuzione. 

12. 
L’Adunanza 
Plenaria 
ritiene 
che 
l’antinomia 
evidenziata 
possa 
e 
debba 
essere 
superata 
(come 
è 
noto, non ammettendo l’ordinamento lacune), attraverso il 
ricorso ad altre 
considerazioni, 
riconducibili 
ai 
principi 
di 
interpretazione 
secondo ragionevolezza 
ovvero secondo 
Costituzione 
(o 
costituzionalmente 
orientata), 
cui 
peraltro 
lo 
stesso 
criterio 
di 
ragionevolezza 
(riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta. 
A 
tali 
fini, giova 
innanzi 
tutto osservare 
come 
una 
interpretazione 
che 
escluda 
la 
sopravvenienza 
della 
perdita 
dei 
requisiti 
ex art. 80 in fase 
di 
gara, per un verso introdurrebbe 
una 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
varie 
ipotesi 
di 
sopravvenienze 
non 
ragionevolmente 
supportata; 
per 
altro verso, perverrebbe 
ad un risultato irragionevole 
nella 
comparazione 
in concreto tra 
le 
diverse 
ipotesi, poiché 
sarebbe 
consentita 
la 
modificazione 
del 
raggruppamento in casi 
che 
ben possono essere 
considerate 
più gravi 
-secondo criteri 
di 
disvalore 
ancorati 
a 
valori 
costituzionali 
che 
l’ordinamento 
deve 
tutelare, 
come 
certamente 
quella 
inerente 
a 
casi 
previsti 
dalla 
normativa antimafia - rispetto a quelli relative alla perdita di requisiti di cui all’art. 80. 
Inoltre, si 
verificherebbe 
un caso di 
concreta 
incapacità 
a 
contrattare 
con la 
pubblica 
amministrazione 
da 
parte 
di 
imprese 
in sé 
“incolpevoli”, riguardando il 
fatto impeditivo sopravvenuto 
una 
sola 
di 
esse, così 
finendo per costituire 
una 
fattispecie 
di 
“responsabilità 
oggettiva”, 
ovvero una 
inedita, discutibile 
(e 
sicuramente 
non voluta) speciale 
fattispecie 
di 
culpa in eligendo. 
Se 
uno dei 
principi 
fondamentali 
in tema 
di 
disciplina 
dei 
contratti 
con la 
pubblica 
amministrazione 
-tale 
da 
giustificare 
la 
previsione 
stessa 
del 
raggruppamento 
temporaneo 
di 
imprese 


-è 
quello di 
consentire 
la 
più ampia 
partecipazione 
delle 
imprese, in condizione 
di 
parità, ai 
procedimenti 
di 
scelta 
del 
contraente 
(e 
dunque 
favorirne 
la 
potenzialità 
di 
accedere 
al 
contratto, 
al 
contempo tutelando l’interesse 
pubblico ad una 
maggiore 
ampiezza 
di 
scelta 
conseguente 
alla 
pluralità 
di 
offerte), una 
interpretazione 
restrittiva 
della 
sopravvenuta 
perdita 
dei 
requisiti 
ex art. 80, a 
maggior ragione 
perché 
non sorretta 
da 
alcuna 
giustificazione 
non solo 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


ragionevole, 
ma 
nemmeno 
percepibile, 
finisce 
per 
porsi 
in 
contrasto 
sia 
con 
il 
principio 
di 
eguaglianza, sia 
con il 
principio di 
libertà 
economica 
e 
di 
par condicio delle 
imprese 
nei 
confronti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(come 
concretamente 
declinati 
anche 
dall’art. 1 della 


l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici). 
ed 
infatti, 
come 
condivisibilmente 
affermato 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, 
“nessuna 
delle 
ragioni 
che 
sorreggono 
il 
principio 
di 
immodificabilità 
della 
composizione 
del 
raggruppamento 
varrebbero a 
spiegare 
in maniera 
convincente 
il 
divieto di 
modifica 
per la 
perdita 
dei 
requisii 
di 
partecipazione 
ex art. 80 in sede 
di 
gara: 
non la 
necessità 
che 
la 
stazione 
appaltante 
si 
trovi 
ad aggiudicare 
la 
gara 
e 
a 
stipulare 
il 
contratto con un soggetto del 
quale 
non abbia 
potuto verificare 
i 
requisiti, in quanto, una 
volta 
esclusa 
dall’Adunanza 
Plenaria 
nella 
sentenza 
n. 10 
del 
2021 
la 
c.d. 
sostituzione 
per 
addizione, 
tale 
evenienza 
non 
potrà 
giammai 
verificarsi 
quale 
che 
sia 
la 
vicenda 
sopravvenuta 
per 
la 
quale 
sia 
venuto 
meno 
uno 
dei 
componenti 
del 
raggruppamento; 
né 
la 
tutela 
della 
par 
condicio 
dei 
partecipanti 
alla 
procedura 
di 
gara, 
che 
è 
violata 
solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato”. 
nel 
caso 
in 
esame, 
quindi, 
l’antinomia 
trova 
soluzione 
inquadrando 
il 
caso 
concreto 
e 
le 
norme 
antinomiche 
ad 
esso 
applicabili 
nel 
più 
generale 
contesto 
dei 
principi 
costituzionali 
ed 
eurounitari, 
fornendo una 
interpretazione 
che 
renda 
applicabile 
una 
sola 
di 
esse 
in quanto coerente 
con detti principi, e che consente una regolazione del caso concreto con essi compatibile. 
In tal 
modo, l’interpretazione 
determina 
-in presenza 
di 
norme 
incompatibili 
ma 
provenienti 
da 
fonti 
di 
pari 
livello e 
contestualmente 
introdotte 
dalla 
medesima 
fonte 
-la 
applicazione 
di 
una 
sola 
di 
esse 
(quella, appunto, compatibile 
con le 
fonti 
sovraordinate 
della 
Costituzione 
e 
del 
diritto dell’Unione 
europea) e 
la 
non applicazione 
dell’altra, recessiva 
perché 
contraria 
ai 
più volte richiamati principi. 
Tale 
operazione 
interpretativa 
-lungi 
dal 
porsi 
come 
inedita 
“costruzione 
giuridica” 
-costituisce, 
per un verso (sia 
pure 
in presenza 
di 
due 
norme 
incompatibili 
e 
non di 
una 
sola 
con riferimento 
ad un caso da 
esse 
disciplinato) solo una 
più articolata 
applicazione 
del 
metodo di 
interpretazione 
secondo Costituzione; 
per altro verso, costituisce 
metodo interpretativo non 
del 
tutto 
ignoto 
allo 
stesso 
legislatore 
ordinario, 
laddove 
questi 
prevede 
(art. 
15 
disp. 
prel. 
cod. civ.) la 
possibile 
abrogazione 
di 
norme 
“per incompatibilità 
tra 
le 
nuove 
disposizioni 
e 
le 
precedenti”. Se 
vi 
è, dunque, la 
possibilità 
di 
verificare 
l’intervenuta 
abrogazione 
di 
una 
norma 
rimettendo al 
giudice/interprete 
la 
verifica 
della 
incompatibilità 
tra 
due 
norme 
temporalmente 
successive, 
non 
sembrano 
sussistere 
impedimenti 
a 
che 
la 
medesima 
operazione 
possa riguardare norme incompatibili non successive ma coeve. 
e 
ciò anche 
in attuazione 
del 
“principio di 
coerenza” 
dell’ordinamento giuridico, che 
impone 
il 
superamento 
delle 
antinomie, 
rimettendo 
all’interprete, 
chiamato 
ad 
individuare 
ed 
applicare 
la 
regola 
di 
diritto 
al 
caso 
concreto, 
di 
verificare 
le 
possibilità 
offerte 
dall’interpretazione, 
senza necessariamente (e prima di) evocare l’intervento del giudice delle leggi. 
13. 
Il 
riconoscimento 
della 
possibilità 
di 
modificare 
(in 
diminuzione) 
il 
raggruppamento 
temporaneo 
di 
imprese, anche 
nel 
caso di 
perdita 
sopravvenuta 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
di 
cui 
all’art. 
80 
del 
Codice 
dei 
contratti, 
determina 
che, 
laddove 
si 
verifichi 
un 
caso 
riconducibile 
a 
tale 
fattispecie, la 
stazione 
appaltante, in applicazione 
dei 
principi 
generali 
di 
cui 
all’art. 1 
della 
l. 
n. 
241/1990 
e 
all’art. 
4 
d.lgs. 
n. 
50/2016, 
debba 
interpellare 
il 
raggruppamento 
(se 
questo non abbia 
già 
manifestato la 
propria 
volontà) in ordine 
alla 
volontà 
di 
procedere 
alla 
riorganizzazione 
del 
proprio assetto interno, al 
fine 
di 
rendere 
possibile 
la 
propria 
partecipazione 
alla gara. 
In 
modo 
non 
dissimile 
da 
quanto 
avviene 
ai 
fini 
del 
soccorso 
istruttorio, 
la 
stazione 
appaltante 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


concederà 
un termine 
ragionevole 
e 
proporzionale 
al 
caso concretamente 
verificatosi, riprendendo 
all’esito l’ordinario procedimento di gara. 
Tali 
considerazioni 
non necessitano della 
formulazione 
di 
un principio di 
diritto, in quanto 
pianamente desumibili dall’ordinamento giuridico amministrativo vigente. 

14. Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sin qui 
esposte, l’Adunanza 
Plenaria 
formula 
il 
seguente 
principio di diritto: 
“la 
modifica 
soggettiva 
del 
raggruppamento temporaneo di 
imprese, in caso di 
perdita 
dei 
requisiti 
di 
partecipazione 
di 
cui 
all’art. 
80 
d.lgs. 
18 
aprile 
2016 
n. 
50 
(Codice 
dei 
contratti 
pubblici) 
da 
parte 
del 
mandatario 
o 
di 
una 
delle 
mandanti, 
è 
consentita 
non 
solo 
in 
sede 
di 
esecuzione, ma 
anche 
in fase 
di 
gara, in tal 
senso interpretando l’art. 48, commi 
17, 18 e 
19ter 
del medesimo Codice”. 
9. L’Adunanza 
Plenaria 
dispone 
la 
restituzione 
del 
giudizio alla 
sezione 
rimettente, per ogni 
ulteriore 
decisione 
nel 
merito 
e 
sulle 
spese 
ed 
onorari 
del 
giudizio, 
ivi 
compresi 
quelli 
inerenti 
alla presente fase. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Adunanza 
Plenaria), pronunciando sull’appello 
proposto da 
C.M.B., società 
cooperativa 
muratori 
e 
braccianti 
di 
Carpi, come 
in epigrafe 
meglio 
indicata (n. 2512/2021 r.g.): 


- enuncia il principio di diritto di cui in motivazione; 
- restituisce per il resto il giudizio alla sezione rimettente. 
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 13 dicembre 2021. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Attuale vigenza dell’art. 123 d.P.r. 10 gennaio 1957 n. 3 
alla procedura di esonero di un direttore generale 
preposto ad un ufficio dell’amministrazione penitenziaria 


Parere 
del 
09/11/2021-646454, al 30934/2021, 
avv. GIorGIo 
saNTINI 


i. 
Con 
la 
nota 
indicata 
a 
margine 
codesto 
Ministero 
ha 
sottoposto 
alla 
Scrivente 
alcuni 
dubbi 
interpretativi 
in 
ordine 
alla 
perdurante 
applicabilità 
del-
l'art. 123 del 
d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle 
disposizioni 
concernenti 
lo statuto degli 
impiegati 
civili 
dello Stato) alla 
procedura 
di 
esonero 
di 
un direttore 
generale 
preposto ad un ufficio dell'amministrazione 
penitenziaria 
sia 
sotto il 
profilo della 
competenza 
sia 
sotto l'aspetto dell'iter procedi-
mentale. 
In particolare, si 
chiede 
di 
conoscere 
se 
rientrano tutt'ora 
nell'alveo delle 
competenze 
del 
Ministro la 
contestazione 
degli 
addebiti 
disciplinari 
e 
la 
formulazione 
di una proposta di provvedimento di dispensa dal servizio. 


L'art. 123 d.p.r. cit. così 
recita: 
"Nel 
procedimento disciplinare 
a carico 
di 
un impiegato con qualifica non inferiore 
a direttore 
generale, la contestazione 
degli 
addebiti 
viene 
fatta con atto del 
Ministro, al 
quale 
debbono essere 
dirette 
le 
giustificazioni 
dell'impiegato. 
si 
osservano 
le 
disposizioni 
degli 
artt. 
104 
e 
105. 
Il 
Ministro, 
qualora 
non 
accolga 
le 
giustificazioni, 
riferisce 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
il 
quale 
delibera 
sulla 
incompatibilità 
dell'impiegato 
ad 
essere 
mantenuto in servizio e 
sul 
diritto al 
trattamento di 
quiescenza e 
previdenza. 
l'impiegato 
riconosciuto 
incompatibile 
è 
dispensato 
dal 
servizio 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della 
repubblica 
su 
proposta 
del 
Ministro 
competente". 


Ciò premesso in ordine 
al 
quesito formulato da 
codesto Ufficio, nella 
richiesta 
di 
parere, si 
richiamano le 
due 
opzioni 
ermeneutiche 
ivi 
prospettate, 
al 
fine 
di 
un 
migliore 
inquadramento 
delle 
questioni 
interpretative 
che 
verranno 
affrontate nel proseguo. 


1.1 
Secondo 
una 
prima 
tesi, 
con 
la 
privatizzazione 
del 
pubblico 
impiego, 
il 
legislatore 
avrebbe 
introdotto 
un 
principio 
generale 
di 
separazione 
tra 
le 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico, 
spettante 
agli 
organi 
di 
governo, 
e 
le 
funzioni 
di 
gestione 
amministrativa 
proprie 
dei 
dirigenti, estendibile 
anche 
al 
personale 
in 
regime 
di 
diritto 
pubblico 
(o 
categorie 
non 
privatizzate). 
Da 
ciò 
discenderebbe 
in 
prima 
approssimazione 
che 
l'art. 
123 
cit. 
non 
sarebbe 
più 
vigente 
e, 
dunque, 
applicabile 
nella 
fattispecie 
in esame, rientrando l'esonero del 
direttore 
generale 
nell'alveo delle funzioni amministrative attribuite alla dirigenza. 
Il 
primo 
argomento, 
a 
sostegno 
di 
questa 
tesi, 
troverebbe 
il 
suo 
fondamento 
nei 
principi 
generali 
in 
materia 
di 
pubblico 
impiego 
elaborati 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, 
la 
quale 
ha 
riconosciuto 
che 
"la 
separazione 
tra funzioni 
di 
indirizzo politico-amministrativo e 
funzioni 
di 
ge



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


stione 
amministrativa, quindi, costituisce 
un principio di 
carattere 
generale, 
che 
trova 
il 
suo 
fondamento 
nell'art. 
97 
Cost. 
l'individuazione 
dell'esatta 
linea 
di 
demarcazione 
tra gli 
atti 
da ricondurre 
alle 
funzioni 
dell'organo politico e 
quelli 
di 
competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al 
legislatore. 
a 
sua volta, tale 
potere 
incontra un limite 
nello stesso art. 97 Cost.: nel-
l'identificare 
gli 
atti 
di 
indirizzo politico amministrativo e 
quelli 
a carattere 
gestionale, il 
legislatore 
non può compiere 
scelte 
che, contrastando in modo 
irragionevole 
con il 
principio di 
separazione 
tra politica e 
amministrazione, 
ledano 
l'imparzialità 
della 
pubblica 
amministrazione" 
(v. 
Corte 
costituzionale 
3 maggio 2013, punto 3.2. del 
Considerato in diritto). 


Il 
secondo 
argomento, 
muovendo 
dal 
tenore 
letterale 
dell'art. 
123 
cit., 
ove 
viene 
fatto espresso riferimento ad atto del 
Ministro, si 
fonda 
sulla 
necessità 
di 
non attribuire 
rilevanza 
determinante 
alla 
qualificazione 
formale 
dell'atto 
presente 
nella 
norma, tenuto conto che 
quest'ultima 
non sarebbe 
in grado di 
radicare 
la 
competenza 
alla 
persona 
del 
Ministro. Ciò in quanto, ai 
fini 
del 
riparto 
di 
competenze 
tra 
organi 
di 
direzione 
politica 
e 
organi 
di 
gestione 
amministrativa 
si 
tiene 
conto esclusivamente 
del 
contenuto sostanziale 
dell'atto 
da adottare (cfr. Cons. Stato sez. Iv 14 maggio 2014, n. 2480). 


Tale 
approccio ermeneutico condurrebbe 
alle 
seguenti 
conseguenze 
già 
in parte anticipate: 


a) 
l'art. 123 d.p.r. cit. non sarebbe 
più vigente, quantomeno per abrogazione 
implicita 
della 
disposizione, 
non 
potendo 
sopravvivere 
norme, 
ancorché 
settoriali 
e 
afferenti 
a 
qualsiasi 
carriera 
pubblica 
che 
attribuiscano 
compiti 
gestionali 
(o disciplinari) ad organi politici (ad es. il Ministro); 
b) 
la 
legittimazione 
all'iniziativa 
disciplinare 
verrebbe 
attribuita, di 
conseguenza, 
in 
via 
esclusiva, 
alla 
dirigenza 
amministrativa 
nelle 
cui 
competenze 
rientra 
l'emanazione 
dell'atto conclusivo del 
procedimento disciplinare 
di 
cui 
è 
responsabile 
(i.e. nel 
caso di 
specie 
l'atto di 
contestazione 
e 
la 
proposta 
di 
dispensa dal servizio). 
1.2 
Secondo 
una 
seconda 
opzione 
ermeneutica 
la 
privatizzazione 
del 
pubblico impiego non avrebbe 
interessato il 
personale 
appartenente 
alla 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria 
il 
cui 
ordinamento è 
rispettivamente 
disciplinato 
dal 
d.lgs. 
15 
febbraio 
2006, 
n. 
63 
e 
sussidiariamente, 
in 
quanto 
compatibile, 
dal 
d.p.r. 
n. 
3/1957 
(cfr. 
art. 
2, 
comma 
1 
d.lgs. 
cit. 
e 
art. 
3, 
comma 
1-ter 
d.lgs. n. 165/2001 aggiunto dall'art. 2, comma 
2, della 
legge 
27 luglio 
2005, n. 154 recante 
"delega al 
Governo per 
la disciplina dell'ordinamento 
della 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria"). 
In 
considerazione 
della 
particolare 
natura 
delle 
funzioni 
esercitate 
dal 
personale 
appartenente 
alla 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria, il 
relativo rapporto di 
lavoro è 
stato riconosciuto come 
rapporto di 
diritto pubblico non privatizzato. Seguendo tale 
diversa 
impostazione 
ermeneutica 
l'art. 123 cit. sarebbe 
disposizione 
applicabile 
alla 
fattispecie 
in 
esame 
in 
quanto 
compatibile 
con 
l'ordinamento 
della 
dirigenza 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


penitenziaria, che 
è 
normativa 
speciale, nell'ambito del 
quale 
la 
contestazione 
degli 
addebiti 
e 
la 
proposta 
di 
dispensa 
dal 
servizio 
rientrano 
nelle 
competenze 
del Ministro. 


Tale 
opzione 
ermeneutica, 
oltre 
a 
trovare 
fondamento 
negli 
argomenti 
appena 
esposti, sarebbe 
confermata 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa 
che, in 
una 
fattispecie 
riguardante 
il 
personale 
della 
carriera 
diplomatica 
(soggetto al 
regime 
pubblicistico) ha 
riconosciuto la 
pacifica 
sopravvivenza 
dell'art. 123 
cit. 
in 
relazione 
a 
quei 
comparti 
dell'amministrazione 
pubblica 
sottratti 
al 
processo 
di 
privatizzazione 
del 
pubblico impiego (cfr. Cons. Stato sez. Iv 
27 ottobre 
2005, n. 6023). 


Un 
secondo 
argomento 
di 
carattere 
generale, 
a 
sostegno 
della 
predetta 
tesi, 
risiede 
nel 
fatto 
che 
la 
materia 
disciplinare 
(entro 
cui 
si 
inquadra 
l'esonero 
del 
direttore 
generale) non è 
oggetto di 
specifica 
regolamentazione 
da 
parte 
del 
d.lgs. n. 63/2006 e, inoltre, quest'ultimo testo normativo non la 
include 
tra 
quelle 
specificamente 
indicate 
come 
oggetto 
di 
negoziazione 
tra 
la 
delegazione 
di 
parte 
pubblica 
ed la 
delegazione 
delle 
organizzazioni 
sindacali 
rappresentative 
dei 
funzionari 
(cfr. 
artt. 
21-22 
d.lgs. 
cit.). 
È 
per 
l'appunto 
il 
d.p.r. 
n. 
3/1957 a 
trovare 
applicazione 
considerato che 
l'art. 123 non rientra 
tra 
quelle 
disposizioni 
che 
sono 
state 
oggetto 
di 
espressa 
abrogazione 
da 
parte 
degli 
artt. 
71-72 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. 


Dalle 
predette 
considerazioni 
poste 
alla 
base 
del 
secondo orientamento 
interpretativo l'art. 123 del 
dpr. cit. sull'esonero del 
direttore 
generale 
sarebbe 
applicabile 
al 
personale 
della 
dirigenza 
penitenziaria, non essendovi 
disposizioni 
che 
attribuiscano ad un diverso titolare 
l'iniziativa 
del 
procedimento di 
esonero del 
direttore 
generale. A 
tal 
ultimo riguardo, quando il 
legislatore 
ha 
inteso 
eliminare 
una 
determinata 
competenza 
in 
capo 
al 
Ministro 
l'ha 
fatto 
espressamente 
(cfr. art. 40, secondo comma, lett. b), del 
d.lgs. 139/2000 con 
cui 
è 
stato abrogato l'art. 10 del 
d.p.r. 748/1972 che 
riconosceva 
al 
Ministro 
determinate 
competenze 
di 
natura 
gestoria 
in 
materia 
di 
personale 
dirigenziale). 


§§ 


ii. 
Al 
fine 
di 
risolvere 
le 
questioni 
interpretative 
esposte 
nella 
richiesta 
di parere occorre riportare il dato normativo rilevante. 
Il 
principio 
generale 
della 
separazione 
delle 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico 


- amministrativo è fissato dall'art. 4 del d.lgs. 165/2001 il quale prevede: 
"1. Gli 
organi 
di 
governo esercitano le 
funzioni 
di 
indirizzo politico-amministrativo, 
definendo gli 
obiettivi 
ed i 
programmi 
da attuare 
ed adottando 
gli 
altri 
atti 
rientranti 
nello 
svolgimento 
di 
tali 
funzioni, 
e 
verificano 
la 
rispondenza 
dei 
risultati 
dell'attività amministrativa e 
della gestione 
agli 
indirizzi 
impartiti. [...] 
ad essi spettano, in particolare: 


[...] 


2. ai 
dirigenti 
spetta l'adozione 
degli 
atti 
e 
provvedimenti 
amministrativi 

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DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


compresi 
tutti 
gli 
atti 
che 
impegnano 
l'amministrazione 
verso 
l'esterno, 
nonché 
la gestione 
finanziaria, tecnica e 
amministrativa mediante 
autonomi 
poteri 
di 
spesa di 
organizzazione 
delle 
risorse 
umane, strumentali 
e 
di 
controllo. essi 
sono responsabili 
in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione 
e dei relativi risultati. 


3. 
Le 
attribuzioni 
dei 
dirigenti 
indicate 
dal 
comma 
2 
possono 
essere 
derogate 
soltanto espressamente 
e 
ad opera di 
specifiche 
disposizioni 
legislative. 
4. 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
i 
cui 
organi 
di 
vertice 
non siano direttamente 
o indirettamente 
espressione 
di 
rappresentanza politica, adeguano i 
propri 
ordinamenti 
al 
principio della distinzione 
tra indirizzo e 
controllo, da 
un 
lato, 
e 
attuazione 
e 
gestione 
dall'altro. 
a 
tali 
amministrazioni 
è 
fatto 
divieto 
di 
istituire 
uffici 
di 
diretta collaborazione, posti 
alle 
dirette 
dipendenze 
del-
l'organo di vertice dell'ente". 
Riguardo, in particolare, al 
regime 
giuridico cui 
è 
sottoposto il 
personale 
della 
carriera 
dirigenziale 
dell'amministrazione 
penitenziaria, l'art. 3 co. 1 
ter 
stabilisce, 
nella 
formulazione 
ratione 
temporis 
vigente: 
"In 
deroga 
all'articolo 
2, commi 
2 e 
3, il 
personale 
della carriera dirigenziale 
penitenziaria è 
disciplinato 
dal rispettivo ordinamento" (enfasi aggiunta). 


In 
considerazione 
della 
particolare 
posizione 
riconosciuta 
al 
personale 
della 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria 
il 
legislatore 
ha 
ritenuto di 
delineare, 
in deroga 
alla 
disciplina 
del 
pubblico impiego privatizzato, lo status 
del 
dirigente 
penitenziario 
la 
cui 
regolamentazione 
si 
colloca 
nel 
rispettivo 
ordinamento, 
come 
avviene, tra 
gli 
altri, per le 
altre 
categorie 
di 
personale 
in regime 
di 
diritto pubblico di 
cui 
all'art. 3 del 
d.lgs. n. 165/2001 (magistrati 
ordinari, 
amministrativi 
e 
contabili, gli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato, il 
personale 
militare 
e 
le 
Forze 
di 
polizia 
di 
Stato, il 
personale 
della 
carriera 
diplomatica 
e 
della carriera prefettizia). 


L'ordinamento 
della 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria 
è 
stato 
adottato, 
in attuazione 
della 
legge 
27 luglio 2005, n. 154 
recante 
"delega al 
Governo 
per 
la disciplina dell'ordinamento della carriera dirigenziale 
penitenziaria" 
con 
cui 
è 
stata 
operata 
una 
sostanziale 
riforma 
del 
rapporto 
di 
impiego 
del 
personale 
dirigente 
e 
direttivo dell'amministrazione 
penitenziaria, inquadrato in 
una 
nuova, 
specifica 
carriera 
a 
livello 
dirigenziale 
rientrante 
negli 
speciali 
rapporti 
di lavoro pubblico. 


A 
tale 
scopo la 
legge 
delega, contenente 
da 
un lato principi 
e 
criteri 
direttivi 
e, 
dall'altro, 
norme 
prescrittive, 
ha 
aggiunto 
il 
comma 
1-ter 
nel 
testo 
dell'art. 3 del 
d.lgs. n. 165/2001, già 
richiamato, per effetto del 
quale 
il 
personale 
della 
(neo) istituita 
carriera 
dirigenziale 
è 
stato escluso dalla 
privatizzazione 
(o contrattualizzazione) in considerazione 
della 
particolare 
natura 
delle 
funzioni 
esercitate 
dal 
personale 
appartenente 
alla 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria 
(cfr. art. 2 della legge 27 luglio 2005, n. 154). 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Fin dalla 
legge 
delega 
si 
assiste, ad una 
rinnovata 
consapevolezza 
del 
rilievo 
e 
della 
specificità 
dell'attività 
del 
personale 
dirigente 
e 
direttivo 
penitenziario, 
tant'è 
che 
il 
legislatore 
ha 
conferito 
a 
tale 
categoria 
un'autonoma 
collocazione 
professionale, 
riconoscendo 
un 
particolare 
status 
giuridico 
ed 
economico. 


In 
attuazione 
della 
legge 
delega, 
è 
stato 
adottato 
il 
d.lgs. 
15 
febbraio 
2006, n. 63 
recante 
"ordinamento della carriera dirigenziale 
penitenziaria, a 
norma della legge 
27 luglio 2005, n. 154", il 
quale, all'art. 2 intitolato "Funzioni 
dirigenziali", stabilisce quanto segue: 


"1. 
La 
carriera 
dirigenziale 
penitenziaria 
è 
unitaria 
in 
ragione 
dei 
compiti 
di 
esecuzione 
penale 
attribuite 
ai 
funzionari. Lo svolgimento della carriera 
è 
regolato 
dal 
presente 
decreto, 
e 
sussidiariamente 
ed 
in 
quanto 
compatibili, dal 
decreto del 
Presidente 
della Repubblica 10 gennaio 1957, 


n. 3, e successive modificazioni 
[...]". 
Il 
decreto 
legislativo 
menzionato 
regola 
il 
conferimento 
degli 
incarichi 
dirigenziali 
e, 
ai 
fini 
che 
qui 
rilevano, 
l'art. 
8 
rubricato 
"nomina 
a 
dirigente 
generale penitenziario" stabilisce che 


"1. 
la 
nomina 
a 
dirigente 
generale 
penitenziario 
(1) 
può 
essere 
conferita 
ai 
funzionari 
con qualifica di 
dirigente 
che 
abbiano svolto incarichi 
di 
particolar 
rilevanza, ivi 
compresi 
quelli 
di 
cui 
all'articolo 7 con decreto del 
Presidente 
della 
repubblica, 
previa 
deliberazione 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
su 
proposta del 
Ministro della Giustizia ferma restando quanto previsto dall'art. 
18 
del 
decreto 
legislativo 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300, 
e 
dall'articolo 
19 
del 
decreto 
legislativo 30 marzo 2001, n. 165". 


nel 
richiamare 
il 
testo dell'art. 123 d.p.r. n. 3/1957 già 
menzionato nella 
premessa 
del 
presente 
parere, 
occorre 
precisare 
che 
alcune 
disposizioni 
del 
testo unico sugli 
impiegati 
civili 
sono state 
espressamente 
abrogate 
dal 
d.lgs. 


n. 165/2001, ferma 
restando l'inapplicabilità 
delle 
stesse 
nelle 
parti 
incompatibili 
con la 
contrattazione 
collettiva 
nazionale 
(cfr. artt. 71, lett. a, e 
comma 
4, 72). 
L'art. 72, comma 
4, prevede 
che, "a seguito della stipulazione 
dei 
contratti 
collettivi 
per 
il 
quadriennio 
1994-1997, 
per 
ciascun 
ambito 
di 
riferimento, 
per 
i 
dipendenti 
di 
cui 
all'art. 
2, 
comma 
2, 
non 
si 
applicano 
gli 
articoli 
da 100 a 123 del 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 10 gennaio 1957, n. 
3 e 
le 
disposizioni 
ad essi 
collegate". Il 
legislatore 
ha 
previsto espressamente 
l'inapplicabilità 
dell'art. 
123 
per 
le 
categorie 
di 
personale 
con 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego privatizzato. 


§§ 


(1) nell'ambito della 
qualifica 
di 
dirigente 
generale 
penitenziario rientrano in base 
alla 
Tabella 
A 
di 
cui 
all'art. 3, comma 
3, d.lgs. 63/2006 le 
seguenti 
funzioni: 
Capo di 
Dipartimento; 
vice 
capo di 
Dipartimento; 
direttore generale; direttore istituto superiori studi penitenziari; provveditore regionale. 

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iii. Così 
ricostruite 
le 
opzioni 
ermeneutiche 
prospettate 
nella 
richiesta 
di 
parere 
e 
il 
quadro normativo riguardante 
l'ordinamento della 
dirigenza 
penitenziaria, 
è 
necessario 
esaminare 
se 
sia 
attualmente 
vigente 
l'art. 
123 
del 
d.p.r. 
n. 3/1957 e 
se 
lo stesso sia 
applicabile 
all'esonero del 
direttore 
generale 
incardinato 
negli 
uffici 
dell'amministrazione 
penitenziaria, nella 
parte 
in cui 
la 
disposizione 
prevede 
che 
la 
contestazione 
degli 
addebiti 
di 
natura 
disciplinare 
e 
la proposta per la dispensa dal servizio spettino al Ministro della Giustizia. 
nel 
verificare 
l'eventuale 
cessazione 
della 
vigenza 
di 
una 
disposizione, 
occorre 
accertare 
se 
si 
sia 
in presenza 
di 
una 
delle 
fattispecie 
tipizzate 
dall'art. 
15 disp. prel. c.c. ove 
sono disciplinate 
tre 
ipotesi 
di 
abrogazione: 
la 
dichiarazione 
espressa 
dell'avvenuta 
abrogazione 
da 
parte 
della 
stessa 
norma 
abrogante 
(abrogazione 
espressa), l'incompatibilità 
di 
nuove 
disposizioni 
con altre 
precedentemente 
poste 
(abrogazione 
tacita) 
e 
la 
nuova 
regolazione 
dell'intera 
materia. 


La 
norma 
di 
cui 
all'art. 123 del 
T.U. cit. prevede 
una 
particolare 
forma 
di 
procedimento disciplinare 
nel 
caso di 
impiegati 
con qualifica 
non inferiore 
a 
direttore 
generale, incentrato sulla 
contestazione 
di 
addebiti 
e 
le 
relative 
giustificazioni 
e 
finalizzato a 
definire 
la 
compatibilità 
o meno dell'impiegato ad 
essere mantenuto in servizio (cfr. Cons. Stato sez. Iv sent. 6023/2005). 


Detta 
valutazione, pur se 
da 
un lato appare 
assumere 
connotazioni 
prevalentemente 
organizzative, 
rispondendo 
all'esigenza 
di 
pubblico 
interesse 
della 
P.A. che 
il 
personale 
in servizio, appartenente 
alle 
qualifiche 
di 
vertice, 
sia 
per 
caratteristiche 
professionali 
e 
personali 
all'altezza 
dei 
compiti 
assegnatigli, 
non 
per 
questo 
esime 
l'Amministrazione 
da 
una 
delibazione 
complessiva 
ed 
attualizzata 
dell'operato 
del 
dipendente, 
proprio 
perché, 
se 
pure 
occasionata 
da 
profili 
disciplinari, 
è 
alla 
compatibilità 
alla 
permanenza 
in 
servizio 
che 
detta 
delibazione è finalizzata. 


Come 
rilevato 
da 
autorevole 
dottrina 
l'esonero 
dei 
direttori 
generali 
e 
degli 
impiegati 
con 
qualifiche 
pari 
o 
superiori 
consiste 
nella 
"dispensa 
dal 
servizio 
che 
spetta al 
Consiglio dei 
Ministri 
-in sede 
di 
deliberazione 
circa la 
eliminazione 
del 
funzionario 
dal 
servizio 
-di 
deliberare, 
discrezionalmente 
anche 
in 
ordine 
al 
trattenimento 
di 
quiescenza 
e 
previdenza" 
(così 
Aru, 
L'esonero 
del 
direttore 
generale, 
AC, 
1959; 
Amendola, 
La 
destituzione 
nell'impiego 
pubblico 
edD, 
XII, 
326 
ss.; 
A.M. 
Sandulli, 
Manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
1982). 


orbene, 
muovendo 
dai 
dubbi 
interpretativi 
sollevati 
da 
codesto 
Ministero, 
occorre 
chiedersi 
se 
in 
seguito 
alla 
privatizzazione 
del 
pubblico 
impiego, 
il 
principio 
generale 
di 
separazione 
delle 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico 
e 
funzioni 
di 
gestione 
amministrativa, 
fissato 
attualmente 
dall'art. 
4 
del 
d.lgs. 
165/2001, 
abbia 
comportato 
un'abrogazione 
dell'art. 
123 
del 
d.p.r. 
n. 
3/1957 
nella 
parte 
in 
cui 
riconosce 
il 
potere 
del 
Ministro 
di 
contestare 
gli 
addebiti 
e 
di 
proporre 
la 
dispensa 
dal 
servizio 
del 
funzionario 
con 
qualifica 
non 
inferiore 
a 
direttore 
generale. 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Ritiene 
la 
Scrivente 
che 
la 
prima 
opzione 
interpretativa 
da 
cui 
deriva 
la 
predetta 
conclusione 
non possa 
essere 
seguita 
per le 
ragioni 
che 
di 
seguito si 
illustrano. 


Dal 
quadro normativo sopra 
esposto e 
alla 
luce 
delle 
considerazioni 
ivi 
svolte, 
non 
emergono 
elementi 
o 
indici 
da 
cui 
far 
discendere 
che 
l'art. 
123 


d.p.r. 
n. 
3/1957 
sia 
abrogato 
espressamente 
o 
tacitamente 
nella 
parte 
in 
cui 
prevede 
la 
contestazione 
disciplinare 
quale 
atto del 
Ministro nonché 
il 
potere 
di proposta della dispensa dal servizio. 
È 
certamente 
da 
escludere 
che 
possa 
esservi 
stata 
un'abrogazione 
espressa 
della 
menzionata 
disposizione 
al 
personale 
in regime 
di 
diritto pubblico alla 
luce 
delle 
previsioni 
contenute 
negli 
artt. 
71-72 
del 
d.lgs. 
n. 
165/2001 
(e 
prima 
ancora 
dell'art. 74 d.lgs. n. 29/1993) ove 
viene 
precisato che 
alcune 
disposizioni 
del 
d.p.r. 
3/1957, 
tra 
cui 
l'art. 
123 
cit., 
sono 
divenute 
inapplicabili 
al 
solo 
personale c.d. contrattualizzato. 


D'altro lato, si 
ritiene 
che 
la 
disposizione 
non sia 
neanche 
abrogata 
implicitamente 
per incompatibilità 
o perché 
sostituita 
da 
una 
nuova 
regolamentazione 
della 
materia, 
in 
particolare 
dalla 
privatizzazione 
del 
pubblico 
impiego 
(e, in particolare, dalla 
separazione 
tra 
funzioni 
di 
indirizzo politico, spettanti 
agli organi di governo e funzioni amministrative, spettanti ai dirigenti). 


La 
privatizzazione 
del 
pubblico impiego è 
stata 
infatti 
esclusa 
per le 
diverse 
categorie 
di 
personale 
in 
regime 
di 
diritto 
pubblico, 
nell'ambito 
delle 
quali 
è 
annoverata 
espressamente 
la 
dirigenza 
penitenziaria 
per la 
quale 
la 
relativa 
disciplina 
trova 
la 
sua 
regolamentazione 
nel 
d.lgs. 
n. 
63 
del 
2006 
e, 
sussidiariamente 
e in quanto compatibile 
nel d.p.r. n. 3/1957. 


orbene, non essendo la 
materia 
disciplinare 
(entro cui 
si 
inquadra 
l'esonero 
del 
direttore 
generale 
di 
cui 
all'art. 123 d.p.r. cit.) espressamente 
regolamentata 
dalle 
previsioni 
normative 
contenute 
nel 
d.lgs. 
n. 
63 
del 
2006 
né, 
tantomeno, rientrante 
nelle 
materie 
oggetto di 
negoziazione 
tra 
la 
parte 
pubblica 
e 
la 
delegazione 
di 
organizzazioni 
sindacali 
(art. 22 d.lgs. cit.), si 
reputa 
che 
la 
disposizione 
che 
prevede 
la 
procedura 
dell'esonero del 
direttore 
generale, 
oltre 
ad 
essere 
vigente 
nell'attuale 
formulazione, 
possa 
trovare 
tuttora 
applicazione 
nella 
parte 
in 
cui 
è 
prevista 
una 
competenza 
per 
l'adozione 
di 
taluni 
atti 
in capo al 
Ministro in quanto compatibile 
con la 
disciplina 
pubblicistica 
speciale 
del 
personale 
dirigenziale 
della 
carriera 
penitenziaria 
il 
cui 
rapporto 
si inquadra, come già evidenziato, nell'ambito del lavoro pubblico. 


In virtù della 
specialità 
della 
disciplina 
che 
espressamente 
connota 
la 
dirigenza 
penitenziaria, 
non 
si 
rinvengono 
ragioni 
ostative 
a 
configurare 
il 
potere 
di 
iniziativa 
disciplinare 
in 
capo 
al 
Ministro 
della 
Giustizia, 
facendo 
riferimento 
al 
principio 
generale 
di 
separazione 
tra 
le 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico-
amministrativo, 
spettanti 
agli 
organi 
di 
governo, 
e 
funzioni 
di 
gestione 
amministrativa, proprie 
dei 
dirigenti 
introdotto a 
far data 
dal 
d.lgs. 3 febbraio 
1993, 
n. 
29 
(Razionalizzazione 
dell'organizzazione 
delle 
amministrazioni 
pub



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


bliche 
e 
revisione 
della 
disciplina 
in 
materia 
di 
pubblico 
impiego, 
a 
norma 
dell'articolo 2 della 
legge 
23 ottobre 
1992, n. 421) accentuato dal 
legislatore, 
con gli 
interventi 
normativi 
del 
1998 e 
del 
2001 «proprio per 
porre 
i 
dirigenti 
(generali) "in condizione 
di 
svolgere 
le 
loro funzioni 
nel 
rispetto dei 
principi 
d'imparzialità e 
buon andamento della pubblica amministrazione"» (v. Corte 
Cost. sentenza n. 104 del 2007). 


A 
tal 
ultimo riguardo la 
giurisprudenza 
costituzionale 
richiamata 
anche 
nella 
richiesta 
di 
parere 
ha 
affermato più volte 
(da 
ultimo v. Corte 
costituzionale 
sentenza 
n. 81/2013) che 
una 
«netta e 
chiara separazione 
tra attività di 
indirizzo 
politico-amministrativo 
e 
funzioni 
gestorie» 
(sentenza 
n. 
161 
del 
2008) 
costituisce 
una 
condizione 
«necessaria 
per 
garantire 
il 
rispetto 
dei 
principi 
di 
buon 
andamento 
e 
di 
imparzialità 
dell'azione 
amministrativa» 
(sentenza 
n. 304 del 
2010; nello stesso senso, sentenze 
n. 390 del 
2008, n. 104 e 


n. 103 del 
2007). al 
principio di 
imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si 
accompagna, 
come 
«natural[e] 
corollari[o]», 
la 
separazione 
«tra 
politica 
e 
amministrazione, 
tra 
l'azione 
del 
"governo" 
-che, 
nelle 
democrazie 
parlamentari, 
è 
normalmente 
legata 
agli 
interessi 
di 
una 
parte 
politica, 
espressione 
delle 
forze 
di 
maggioranza 
-e 
l'azione 
dell' 
"amministrazione" 
-che, 
nell'attuazione 
dell'indirizzo 
politico 
della 
maggioranza, 
è 
vincolata 
invece 
ad 
agire 
senza 
distinzione 
di 
parti 
politiche, 
al 
fine 
del 
perseguimento 
delle 
finalità 
pubbliche 
obbiettivate dall'ordinamento» (sentenza n. 453 del 1990). 
orbene, 
se 
indubbiamente 
è 
vero 
che 
la 
Corte 
costituzionale 
abbia 
riconosciuto 
che 
la 
separazione 
tra 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico-amministrativo 
e 
funzioni 
di 
gestione 
amministrativa, 
costituisca 
un 
principio 
di 
carattere 
generale 
che 
trova 
il 
suo 
fondamento 
nell'art. 
97 
Cost., 
è 
indubbio 
che 
non 
è 
stata 
sancita 
dal 
giudice 
delle 
leggi 
l'estensione 
di 
quest'ultimo 
alle 
categorie 
sottoposte 
al 
regime 
di 
diritto 
pubblico. 
Tale 
estensione 
non 
si 
ricava 
in 
via 
espressa 
dal 
quadro 
normativo 
ratione 
materiae 
applicabile, 
neanche 
attraverso 
un 
procedimento 
di 
interpretazione 
analogica 
tenuto 
conto 
del 
differente 
regime 
giuridico 
del 
personale 
di 
diritto 
pubblico 
rispetto 
al 
personale 
sottoposto 
alla 
contrattualizzazione. 
non 
si 
rinvengono 
segni 
di 
carattere 
contrario 
nel 
dettato 
costituzionale 
(artt. 
97, 
98 
Cost.) 
che 
fonda 
lo 
statuto 
della 
pubblica 
amministrazione, 
tenuto 
conto 
che, 
in 
ogni 
caso, 
la 
Consulta 
ha 
da 
sempre 
sottolineato 
che 
"l'individuazione 
dell'esatta 
linea 
di 
demarcazione 
tra 
gli 
atti 
da 
ricondurre 
alle 
funzioni 
dell'organo 
politico 
e 
quelli 
di 
competenza 
della 
dirigenza 
amministrativa, 
però, 
spetta 
al 
legislatore. 
a 
sua 
volta, 
tale 
potere 
incontra 
un 
limite 
nello 
stesso 
art. 
97 
Cost.: 
nell'identificare 
gli 
atti 
di 
indirizzo 
politico 
amministrativo 
e 
quelli 
a 
carattere 
gestionale, 
il 
legislatore 
non 
può 
compiere 
scelte 
che, 
contrastando 
in 
modo 
irragionevole 
con 
il 
principio 
di 
separazione 
tra 
politica 
e 
amministrazione, 
ledano 
l'imparzialità 
della 
pubblica 
amministrazione". 


nella 
fattispecie 
in esame, il 
legislatore 
del 
1957, con una 
disposizione 
tutt'ora 
compatibile 
con l'ordinamento della 
dirigenza 
penitenziaria, nell'eser



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


cizio della 
discrezionalità 
non trasmodante, anche 
alla 
luce 
dell'ordinamento 
vigente, in profili 
di 
irragionevolezza, ha 
attribuito -limitatamente 
ai 
direttori 
generali 
e 
qualifiche 
superiori 
-la 
contestazione 
dell'addebito disciplinare, la 
valutazione 
delle 
eventuali 
giustificazioni 
dell'interessato 
e 
il 
potere 
di 
proposta 
della 
dispensa 
dal 
servizio 
al 
Ministro 
della 
Giustizia 
in 
considerazione 
del 
particolare 
legame 
fiduciario 
intercorrente 
tra 
l'organo 
politico 
e 
il 
direttore 
generale 
che 
è 
alla 
base 
della 
nomina 
e 
del 
conferimento 
dell'incarico. 
Per 
tale 
categoria 
di 
soggetti 
la 
dispensa 
dal 
servizio 
è 
l'unica 
sanzione 
disciplinare 
tutt'ora prevista. 


non 
si 
ravvisano 
in 
tale 
scelta 
profili 
di 
incompatibilità 
con 
il 
limite 
esterno rinvenuto dal 
giudice 
delle 
leggi 
nell'art. 97 Cost., ossia 
nei 
principi 
di 
buon andamento ed imparzialità 
in quanto il 
procedimento non è 
caratterizzato 
da 
automatismi, anzi, l'eventuale 
provvedimento finale 
è 
adottato all'esito 
di 
un 
contraddittorio 
endoprocedimentale 
che 
si 
instaura 
con 
l'interessato che 
ha 
diritto di 
presentare 
le 
sue 
giustificazioni 
a 
seguito della 
contestazione disciplinare. 


Quest'ultima, ossia 
la 
riscontrata 
violazione 
dei 
doveri 
gravanti 
sull'interessato, 
è 
prodromica 
e 
strettamente 
collegata 
alla 
successiva 
valutazione 
delle 
giustificazioni 
da 
parte 
dell'interessato 
e, 
inoltre, 
connessa, 
in 
ogni 
caso, 
al 
potere 
sussistente 
in capo al 
Ministro della 
Giustizia 
di 
riferire, nell'ipotesi 
di 
mancato 
accoglimento 
delle 
controdeduzioni 
dell'interessato, 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri 
chiamato a 
sua 
volta 
ad esprimersi 
in ordine 
all'eventuale 
incompatibilità 
del 
direttore 
generale 
a 
rimanere 
in servizio e 
sul 
diritto al 
trattamento 
di 
quiescenza 
e 
previdenza. Al 
riguardo non può tuttavia 
negarsi 
lo stretto legame 
(interconnessione 
o 
presupposizione) 
tra 
gli 
atti 
rientranti 
nell'alveo 
delle 
competenze 
del 
Ministro della 
Giustizia 
e 
sarebbe 
irragionevole, anche 
per la 
natura 
unitaria 
del 
procedimento, ipotizzare 
competenze 
differenziate 
in capo 
a diversi soggetti. 


L'atto 
di 
contestazione 
disciplinare 
qui 
esprime 
una 
constatazione 
della 
violazione 
dei 
doveri, 
in 
termini 
di 
"disapprovazione" 
da 
parte 
del 
Ministro, 
rispetto 
alla 
condotta 
posta 
in 
essere 
dal 
direttore 
generale 
idonea 
ad 
incrinare 
quel 
legame 
fiduciario 
intercorrente 
con 
il 
medesimo 
posto 
alla 
base 
della 
nomina. 


Gli 
atti 
di 
competenza 
del 
Ministro, riconducibili 
al 
potere 
di 
iniziativa 
disciplinare, 
sono 
atti 
non 
immediatamente 
impugnabili 
in 
quanto 
meramente 
propulsivi 
all'interno dell'iter 
ivi 
descritto ed inidonei 
a 
ledere 
di 
per sé 
gli 
interessi 
dell'incolpato. La 
sequenza 
procedimentale 
degli 
atti 
rientranti 
nell'alveo 
delle 
competenze 
del 
Ministro culmina 
con una 
deliberazione 
finale 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
che 
va 
ad incidere 
tuttavia 
sul 
rapporto di 
servizio incardinato 
-nel 
caso di 
specie 
-tra 
il 
direttore 
generale 
con il 
Ministero della 
Giustizia 
-Dipartimento 
dell'Amministrazione 
Penitenziaria, 
alla 
base 
del 
rapporto 
organico. 


Tale 
è 
la 
particolarità 
del 
procedimento che 
va 
ad incidere 
non sull'inca



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


rico, bensì 
sulla 
prosecuzione 
del 
rapporto di 
servizio, giustificata 
dal 
particolare 
regime 
giuridico 
del 
rapporto 
pubblicistico 
della 
dirigenza 
penitenziaria 
rispetto alla 
quale 
vi 
sono talune 
categorie, quali 
i 
direttori 
generali, rispetto 
ai 
quali 
l'ordinamento presuppone 
la 
sussistenza 
di 
un rapporto di 
fiducia 
da 
parte 
degli 
organi 
politici 
preposto 
al 
governo 
dell'amministrazione 
(ciò 
al 
fine 
di 
assicurarne 
la 
sensibilità 
alle 
direttive 
di 
alta 
amministrazione 
in cui 
si 
traducono 
gli 
indirizzi 
politici). Per tali 
categorie 
di 
soggetti, come 
è 
stato osservato 
dalla 
dottrina, 
il 
c.d. 
diritto 
al 
posto 
è 
notevolmente 
affievolito, 
specialmente 
per 
coloro 
che 
sono 
posti 
ai 
livelli 
più 
alti 
delle 
scale 
gerarchiche 
dell'amministrazione 
attiva 
(direttori 
generali) 
i 
quali 
possono 
essere 
dispensati 
dal servizio con provvedimenti largamente discrezionale. 


orbene, 
ove 
si 
dovesse 
riconoscere 
-in 
base 
alla 
prima 
opzione 
ermeneutica 
-che 
le 
attività 
in questione 
attengono a 
competenze 
gestionali 
si 
finirebbe 
per mettere 
in discussione 
non solo e 
non tanto il 
potere 
del 
Ministro 
di 
formulare 
la 
contestazione 
disciplinare, prodromica 
alla 
valutazione 
delle 
giustificazioni 
dell'interessato e 
alla 
proposta 
di 
dispensa, ma 
la 
stessa 
competenza 
dell'organo 
finale, 
ossia 
il 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
chiamato 
ad 
emettere 
il 
provvedimento disciplinare 
conclusivo. e 
d'altronde 
la 
rimessione 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri 
non può che 
avvenire 
ad opera 
del 
Ministro la 
cui 
proposta 
è 
strettamente 
connessa 
al 
mancato accoglimento delle 
giustificazioni 
dell'incolpato. 
Inoltre, lo stesso articolo 2, terzo comma 
lett. q) del 
d.lgs. 400/1988 
prevede 
che 
sono 
sottoposti 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri 
i 
provvedimenti 
per 
i 
quali 
sia 
prescritta 
la 
deliberazione 
consiliare. nel 
caso di 
specie 
la 
contestazione 
disciplinare 
costituisce 
l'atto 
di 
impulso 
del 
Ministro 
di 
un 
procedimento 
unitario che 
si 
conclude 
con una 
deliberazione 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
la 
cui competenza va tuttora confermata. 


Al 
riguardo, 
a 
conferma 
delle 
predette 
conclusioni, 
può 
richiamarsi 
anche, 
ma 
non da 
ultimo, la 
teoria 
del 
contrarius 
actus 
in forza 
del 
quale 
il 
provvedimento 
con cui 
è 
disposta 
la 
dispensa 
dal 
servizio del 
direttore 
generale 
non 
potrà 
che 
seguire 
lo stesso iter procedimentale 
già 
osservato illo tempore 
all'atto 
della 
nomina, ossia 
l'adozione 
di 
un decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica, 
previa 
deliberazione 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
su 
proposta 
del 
Ministro 
(cfr. art. 8 d.lgs. 63/2006). 


L'esonero 
del 
direttore 
generale, 
diretto 
a 
rimuovere 
quest'ultimo 
dal 
servizio, 
dovrà, 
dunque, 
essere 
adottato 
secondo 
i 
principi 
costanti 
affermati 
dalla 
giurisprudenza 
del 
Giudice 
amministrativo, 
dall'organo 
competente, 
tenuto 
conto 
che 
il 
provvedimento 
di 
cui 
all'art. 
123 
d.p.r. 
cit. 
è 
espressione 
dello 
stesso 
potere 
di 
cui 
è 
emanazione 
il 
provvedimento 
che 
ne 
costituisce 
l'oggetto 
e, pertanto, può essere 
adottato solo dall'organo titolare 
del 
potere 
(Cons. St., 
v 
Sez., 30 novembre 
2000, n. 6354; 
Cons. Stato sez. v 
20 febbraio 2006, n. 
701 riferite 
all'autotutela 
con principi 
estendibili 
al 
caso di 
specie 
trattandosi 
di provvedimento discrezionale). 



PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Inoltre, quale 
ulteriore 
argomento a 
sostegno della 
conclusione 
secondo 
cui 
sussiste 
ancora 
oggi 
la 
competenza 
del 
Ministro 
nell'adozione 
dei 
rispettivi 
atti 
del 
procedimento 
disciplinare, 
si 
condivide 
quanto 
evidenziato 
da 
codesto 
Ministero, il 
quale 
ha 
rappresentato che 
-conformemente 
al 
brocardo ubi 
lex 
voluit 
dixit 
ubi 
lex 
noluit 
tacuit 
-ove 
il 
legislatore 
ha 
inteso 
abrogare 
una 
competenza 
del 
Ministro 
l'ha 
fatto 
espressamente, 
circostanza 
che, 
nella 
specie, 
non si è verificata. 


§§ 


iv. Conclusioni 
Alla 
luce 
delle 
suesposte 
considerazioni, 
ritiene 
la 
Scrivente 
che 
l'art. 
123 
del 
d.p.r. n. 3/1957 sia 
tutt'ora 
applicabile 
nella 
parte 
in cui 
prevede 
la 
competenza 
del 
Ministro 
a 
promuovere 
il 
procedimento 
disciplinare, 
a 
valutare 
le 
giustificazioni 
dell'interessato, 
a 
riferire 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e 
a 
formulare 
la proposta di dispensa dal servizio. 


*** 


Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che, nella 
seduta 
del 9 novembre 2021, si è espresso in conformità. 



RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


Applicazione dell’imposta municipale unica (c.d. i.m.u.) 
sugli alloggi di servizio in uso al personale militare 


Parere 
del 
23/12/2021-749238, al 19130/2021, 
avv. MarCo 
sTIGlIaNo 
MessUTI, ProC. adele 
BerTI 
sUMaN 


Con la 
nota 
prot. n. 58628 dell'11 maggio 2021, codesto Comando Generale 
del 
Corpo 
delle 
Capitanerie 
di 
Porto 
ha 
richiesto 
il 
parere 
della 
Scrivente 
in merito all'assoggettamento, o meno, all'imposta 
municipale 
unica 
o propria 


(c.d. IMU): 
a) 
delle 
unità 
immobiliari 
classificate 
nelle 
seguenti 
categorie 
di 
alloggio 
in uso al 
Corpo: 
alloggi 
di 
servizio connessi 
con l'incarico, con annessi 
locali 
di 
rappresentanza 
(ASIR) e 
alloggi 
di 
servizio connessi 
con l'incarico (ASI) 
(1), entrambi ovunque si trovino (2); 
b) 
degli 
alloggi 
di 
servizio (che 
non siano ASIR/ASI) situati 
all'interno 
di impianti militari. 
entrambe 
le 
questioni 
concernono, nello specifico, l'applicabilità 
ai 
predetti 
alloggi 
dell'esenzione 
IMU 
ora 
prevista 
dall'art. 1, comma 
759, lett. a), 
della 
Legge 
27 dicembre 
2019, n. 160 (che 
ricalca 
quella 
già 
disposta 
ai 
fini 
ICI 
dall'art. 
7, 
comma 
1, 
lett. 
a) 
del 
D.lgs. 
n. 
504/1992 
e 
poi 
dall'art. 
9, 
comma 
8, del 
D.lgs. n. 23/2011), il 
quale 
statuisce 
espressamente 
che: 
"sono esenti 
dall'imposta, 
per 
il 
periodo 
dell'anno 
durante 
il 
quale 
sussistono 
le 
condizioni 
prescritte: a) gli 
immobili 
posseduti 
dallo stato, dai 
comuni, nonché 
gli 
immobili 
posseduti, 
nel 
proprio 
territorio, 
dalle 
regioni, 
dalle 
province, 
dalle 
comunità 
montane, 
dai 
consorzi 
fra 
detti 
enti, 
dagli 
enti 
del 
servizio 
sanitario 
nazionale, 
destinati 
esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali; 
[...]". 
Alla 
stregua 
del 
suo 
inequivoco 
tenore 
letterale, 
le 
amministrazioni 
citate 
godono 
dell'esenzione 
quando 
sono 
proprietarie 
di 
un 
bene 
che 
utilizzano 
"esclusivamente" 
per 
fini istituzionali (3). 


(1) 
Segnatamente: 
gli 
alloggi 
ASIR, 
ai 
sensi 
dell'art. 
282 
del 
Codice 
dell'ordinamento 
militare 
(Decreto 
Legislativo 
15 
marzo 
2010, 
n. 
66), 
sono 
assegnati 
a 
"titolari 
di 
incarichi 
che 
comportano 
obblighi 
di 
rappresentanza" 
e 
gli 
alloggi 
ASI, 
ai 
sensi 
dell'art. 
281 
del 
predetto 
Codice, 
sono 
assegnati 
al 
"personale 
dipendente 
cui 
sono 
affidati 
incarichi 
che 
richiedono 
l'obbligo 
di 
abitare 
presso 
la 
località 
di 
servizio". 
(2) 
Secondo 
quanto 
si 
legge 
nello 
schema 
riepilogativo 
allegato 
alla 
sopracitata 
nota, 
tali 
tipologie 
di 
alloggi 
sarebbero 
destinate 
"esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali" 
dell'Amministrazione, 
in 
quanto 
"funzionali 
al 
corretto 
andamento 
di 
ogni 
singola 
unità 
organizzativa 
da 
essa 
dipendente. 
Tali 
strutture 
abitative, 
infatti, 
vengono 
assentite 
esclusivamente 
a 
favore 
di 
soggetto 
titolare 
del 
Comando 
e 
con 
funzioni 
di 
rappresentanza 
della 
Forza 
armata 
(alloggi 
asIr), 
oppure 
di 
incarichi 
istituzionali 
che 
richiedono 
una 
presenza 
costante 
in 
sede 
per 
assicurare 
il 
funzionamento 
e 
la 
sicurezza 
di 
servizio 
(alloggi 
asI)". 
(3) Sul 
punto è 
costante 
l'orientamento del 
Giudice 
di 
legittimità, espresso con riferimcnto alla 
analoga 
esenzione 
prevista 
in materia 
di 
ICI dalle 
norme 
sopra 
citate, per gli 
immobili 
posseduti 
dagli 
enti 
ivi 
indicati 
"destinati 
esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali", per il 
quale 
tale 
esenzione 
spetta 
soltanto 
se 
l'immobile 
è 
"direttamente 
e 
immediatamente" 
destinato 
allo 
svolgimento 
di 
tali 
compiti: 
ipotesi 
che 
non si 
configura 
quando il 
bene 
venga 
utilizzato per attività 
di 
carattere 
privato, come 
avviene, in 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


Con 
il 
parere 
del 
Comitato 
Consultivo 
del 
4 
ottobre 
2019 
(CS 
30226/2018 
-Avv. 
Fiduccia)(*), 
entrambe 
le 
questioni 
oggi 
nuovamente 
riproposte 
nei 
quesiti 
del 
Comando 
Generale 
del 
Corpo 
delle 
Capitanerie 
di 
Porto 
erano 
state 
considerate 
quale 
possibile 
-e 
residuale 
-ambito 
di 
sostenibilità, 
anche 
in 
giudizio, 
dei presupposti per l'applicazione della predetta esenzione, in quanto: 


-con 
riguardo 
alla 
questione 
sub 
a) 
(n.d.r.: 
applicabilità 
dell'esenzione 
IMU 
agli 
alloggi 
ASI/ASIR), 
si 
era 
ritenuto 
che 
le 
specifiche 
esigenze 
ai 
quali 
detti 
alloggi 
erano 
destinati, 
in 
quanto 
concessi 
esclusivamente 
a 
favore 
di 
soggetti 
titolari 
del 
Comando 
e 
con 
funzioni 
di 
rappresentanza 
della 
Forza 
Armata 
(alloggi 
ASIR), oppure 
di 
incarichi 
istituzionali 
che 
richiedono una 
presenza 
costante 
in 
sede 
per 
assicurare 
il 
funzionamento 
e 
la 
sicurezza 
di 
servizio 
(alloggi 
ASI), giustificassero l'applicabilità dell'esenzione (4); 


-con 
riguardo 
alla 
questione 
sub 
b) 
(n.d.r.: 
applicabilità 
dell'esenzione 
IMU 
agli 
alloggi 
situati 
all'interno degli 
stabilimenti 
militari), si 
era 
fatto riferimento 
alla 
riconducibilità 
al 
"patrimonio infrastrutturale" 
militare, sancita 


linea 
di 
massima, 
in 
tutti 
i 
casi 
in 
cui 
il 
godimento 
del 
bene 
stesso 
sia 
concesso 
a 
terzi 
verso 
il 
pagamento 
di 
un canone 
(cfr. ex 
plurimis, Cass. sez. trib., 30 dicembre 
2019, n. 34602, che 
richiama 
Cass., sez. 5, 
11 
giugno 
2010, 
n. 
14094; 
nello 
stesso 
senso, 
ex 
multis 
Cass. 
15025/15; 
30731/11; 
20850/10, 
14094/10, 
20577/05). 
La 
Cassazione 
ha 
fornito 
una 
interpretazione 
estremamente 
restrittiva 
della 
disposizione, 
specificando che 
l'esenzione 
per gli 
immobili 
"destinati 
esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali" 
è 
subordinata 
alla 
compresenza 
di 
un 
requisito 
oggettivo, 
rappresentato 
dallo 
svolgimento 
esclusivo 
nel-
l'immobile 
di 
attività 
istituzionali 
ai 
fini 
dell'esenzione, 
e 
di 
un 
requisito 
soggettivo, 
costituito 
dallo 
svolgimento di 
tali 
attività 
da 
parte 
dello Stato, di 
enti 
territoriali 
o enti 
pubblici 
(Cass. nn. 20776/05; 
5485/08; 
6711/15; 
14226/15 
ed 
altre). 
Sotto 
il 
primo 
profilo, 
si 
è 
stabilito 
che 
il 
requisito 
oggettivo 
"non 
può essere 
desunto esclusivamente 
sulla base 
di 
documenti 
che 
attestino "a priori" 
il 
tipo di 
attività cui 
l'immobile 
è 
destinato, 
occorrendo 
invece 
verificare 
che 
tale 
attività 
sia 
svolta 
per 
compiti 
istituzionali"; 
ne 
consegue 
che 
"il 
contribuente 
ha 
l'onere 
di 
dimostrare 
l'esistenza, 
in 
concreto, 
dei 
requisiti 
dell'esenzione, 
mediante 
la 
prova 
che 
l'attività 
cui 
l'immobile 
è 
destinato, 
rientra 
tra 
quelle 
esenti" 
(Cass. 
14226/15; 19039/2016; 6711/2015; 5062/2015). 

(*) Pubblicato in questa 
rass., 2019, vol. Iv, pp. 145-179 (n.d.r.). 


(4) nello specifico, si 
era 
affermato che 
"l'esenzione 
parrebbe 
fondatamente 
potersi 
continuare 
ad invocare, e 
così 
a sostenere 
in giudizio, con riguardo a quegli 
alloggi 
effettivamente 
connessi 
a (e 
concessi 
per) particolari 
incarichi 
(così 
per 
le 
categorie 
asGC, asIr, asI e 
omologhi 
dell'arma dei 
Carabinieri 
individuati 
dalla 
normativa 
vigente), 
in 
funzione 
dei 
quali 
soltanto 
il 
godimento 
dell'immobile 
trova il 
suo titolo esclusivo nella <titolarità dell'ufficio e 
nelle 
esigenze 
organizzative 
ricollegate 
all'ufficio medesimo> 
(nei 
termini 
già indicati 
dalla Circolare 
n. 14 del 
1993 cit.)". Tale 
conclusione 
era 
motivata 
sull'assunto 
che, 
anche 
"considerato 
altresì 
che 
le 
richiamate 
pronunce 
di 
legittimità 
sono 
state 
occasionate 
per 
lo più in riferimento ad immobili 
appartenenti 
alla categoria asT, ovvero in contesti 
processuali 
in cui 
non aveva assunto rilevanza l'indagine 
di 
una diversa categoria di 
alloggi 
o comunque 
in cui 
non era stata dimostrata, né 
era rimasta incontestata, la loro funzionalità rispetto alla 
titolarità dell'incarico nel 
periodo di 
imposta 
[...]" 
"... per 
gli 
alloggi 
connessi 
ad un incarico così 
individuati 
(asGC, asIr, asI e 
omologhi 
dell'arma dei 
Carabinieri) l'esigenza abitativa generalmente 
evidenziata in senso ostativo dalla Cassazione, non assume 
qui 
carattere 
prevalente, bensì 
diventa recessiva 
rispetto 
all'esigenza 
di 
funzionalità 
dell'incarico 
per 
l'espletamento 
del 
quale 
soltanto 
l'alloggio 
è 
concesso. In tale 
contesto, ferma la gratuità degli 
alloggi 
asGC, anche 
la previsione 
del 
canone 
stabilita 
dalla legge 
per 
gli 
alloggi 
asIr 
e 
asI dovrebbe 
essere 
destinata a perdere 
quella "sintomaticità" 
del 
fine 
privato, in via generale 
ed astratta conferita dalle 
decisioni 
della Corte 
di 
Cassazione 
al 
solo 
fatto del pagamento di un corrispettivo". 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


prima 
dalla 
legge 
del 
1978 e, allo stato attuale, dall'art. 231 del 
codice 
dell'ordinamento 
militare 
che 
per 
la 
prima 
volta 
conferisce 
agli 
alloggi 
siti 
all'interno 
delle infrastrutture militare carattere demaniale (5). 


nella 
seduta 
del 
22 luglio 2021, alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
nel 
frattempo 
consolidatasi 
in senso opposto a 
quanto definito nel 
precedente 
parere 
(su cui 
v. infra), il 
Comitato Consultivo ha 
ritenuto opportuno acquisire 
preliminarmente 
sulla 
questione 
l'avviso del 
Ministero dell'economia 
e 
delle 
Finanze, 
della 
Agenzia 
delle 
entrate 
e 
della 
Agenzia 
del 
Demanio, 
anche 
alla 
luce 
del 
rilevante 
impatto che 
la 
soluzione 
dei 
quesiti 
posti 
ha 
sull'intero sistema 
tributario. 


La 
Scrivente 
ha, 
dunque, 
formulato 
con 
nota 
prot. 
n. 
468679-91 
del 
2 
agosto 
2021 
richiesta 
interlocutoria 
agli 
Uffici 
suddetti, 
chiedendo 
di 
esprimersi 
sui 
quesiti 
testé 
indicati 
e 
domandando altresì 
di 
far conoscere 
l'avviso 
in 
merito 
alla 
connessa 
problematica 
della 
corretta 
identificazione 
del 
soggetto 
obbligato passivo ai fini IMU. 


La 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
-Dipartimento 
per 
gli 
Affari 
Giuridici 
e 
Legislativi 
-Ufficio 
contenzioso 
e 
per 
la 
consulenza 
giuridica, 
con 
nota 
4.3.20/2021/1663 
ha 
chiesto 
di 
essere 
messa 
a 
conoscenza 
dei 
riscontri 
forniti. 


Con mail 
del 
10 agosto 2021 (acquisita 
al 
protocollo della 
Scrivente 
n. 
482069 
dell'11 
agosto 
2021) 
l'Agenzia 
delle 
entrate 
ha 
comunicato 
di 
"non 
avere 
osservazioni 
da formulare, atteso che 
la gestione 
del 
tributo in oggetto 
non rientra nelle competenze della scrivente 
agenzia". 


In 
seguito, 
lo 
Stato 
Maggiore 
della 
Difesa 
ha 
trasmesso 
un 
contributo 
con 
nota prot. 212952 del 18 novembre 2021. 


Da 
ultimo, il 
Ministero dell'economia 
e 
delle 
Finanze 
ha 
riscontrato la 
richiesta 
con nota 
prot. n. 16085 del 
7 dicembre 
2021, allegando il 
parere 
del 
Dipartimento delle 
finanze 
prot. 70807 del 
6 dicembre 
2021, che 
si 
esprime 
in merito ai 
quesiti 
posti, definendo quello relativo all'assoggettamento al 
pagamento 
dell'IMU 
degli 
alloggi 
sopra 
indicati 
e 
demandando all'Agenzia 
del 
Demanio l'ulteriore 
questione 
del 
soggetto legittimato passivo al 
pagamento 
del tributo. 


*** 


Il 
tema 
oggetto del 
presente 
parere 
riguarda 
due 
questioni, tra 
loro connesse: 


(5) In particolare, si 
era 
ritenuto che 
"solo con specifico riferimento a quegli 
alloggi 
di 
servizio 
che, in quanto destinati 
al 
personale 
militare 
(presupposto soggettivo) ed ubicati 
nel 
medesimo ambito 
spaziale 
o posti 
in stretta pertinenzialità rispetto alle 
basi, impianti 
e 
istallazioni 
militari 
(presupposto 
oggettivo), siano effettivamente 
riconducibili 
al 
"patrimonio infrastrutturale" 
militare, ed ora dichiaratamente 
rientrino, ai 
sensi 
dell'art. 231, comma 4, CoM "ad ogni 
effetto" 
tra le 
opere 
di 
difesa nazionale, 
potrà 
sostenersi 
in 
giudizio, 
anche 
in 
forza 
della 
demanialità 
dichiarata 
ex 
lege, 
l'esclusiva 
destinazione 
ai 
compiti 
istituzionali 
dello stato-Ministero della difesa, secondo il 
presupposto previsto 
dalla norma di esenzione tributaria". 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


1. 
in 
primo 
luogo, 
l'applicabilità 
della 
predetta 
esenzione 
tributaria 
agli 
alloggi 
di 
servizio 
siti 
all'interno 
delle 
infrastrutture 
militari 
ovvero 
agli 
alloggi 
ASI/ASIR 
ovunque 
essi 
si 
trovino 
(an 
dell'obbligazione 
tributaria 
in 
questione); 
2. 
in 
caso 
di 
risposta 
affermativa 
al 
primo 
quesito, 
la 
conseguente 
problematica 
relativa 
alla 
identificazione 
del 
soggetto 
passivo 
d'imposta 
(l'Amministrazione 
ovvero 
il 
dipendente 
pubblico 
che 
usufruisce 
dell'alloggio 
di 
servizio). 
Si 
precisa 
fin d'ora 
che, in seguito alle 
interlocuzioni 
condotte 
dalla 
Scrivente, 
allo stato, si 
rende 
parere 
sulla 
prima 
delle 
questioni 
suddette 
(oggetto 
degli 
specifici 
quesiti 
posti 
da 
codesto 
Comando 
Generale), 
mentre 
ci 
si 
riserva 
di 
rispondere 
alla 
seconda 
questione 
all'esito degli 
ulteriori 
approfondimenti 
istruttori ancora in corso. 


1. 
Tanto premesso, esaminati 
gli 
atti 
e 
i 
riscontri 
trasmessi, con riguardo 
alla 
questione 
relativa 
alla 
possibilità 
di 
applicare 
l'esenzione 
IMU 
per gli 
immobili 
"destinati 
esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali" 
agli 
alloggi 
militari 
in questione, la 
Scrivente 
è 
dell'avviso che 
le 
conclusioni 
raggiunte 
nel 
precedente 
parere 
del 
2019 vadano riviste 
alla 
luce 
dell'orientamento oramai 
consolidato 
della 
Cassazione, da 
ultimo ribadito dalla 
recente 
sentenza 
Cass. sez. 
v, del 
16 febbraio 2021, n. 3974 con cui 
la 
Suprema 
Corte 
ha 
confermato l'indirizzo 
giurisprudenziale 
pregresso in merito all'assoggettamento a 
ICI/IMU 
delle 
abitazioni 
di 
proprietà 
del 
Ministero della 
Difesa 
concesse 
in uso al 
personale 
in 
servizio 
(6), 
evidenziando 
l'irrilevanza, 
ai 
fini 
della 
applicabilità 
del-
l'esenzione, del 
fatto che 
gli 
immobili 
siano classificabili, ai 
sensi 
dell'art. 5 
della 
legge 
n. 497 del 
1978 (applicabile 
ratione 
temporis 
all'anno di 
imposta 
di riferimento, ossia il 2008, ed ora abrogata), quali "infrastrutture militari". 
La 
vicenda 
ha 
riguardato, in particolare, abitazioni 
site 
all'interno 
di 
uno 
stabilimento militare, le 
quali 
-secondo il 
Ministero della 
Difesa 
ricorrente 
dovevano 
ritenersi 
esenti 
dal 
versamento dell'Imposta 
in quanto "tutti 
i 
fabbricati 
realizzati 
su aree 
urbane 
all'interno di 
basi, impianti, installazioni 
militari, 
sono 
considerati 
a 
tutti 
gli 
effetti 
di 
legge, 
'infrastrutture 
militari' 
preordinate 
a garantire 
la funzionalità di 
enti, comandi 
e 
reparti 
militari 
preposti 
alla difesa dello stato". 


(6) Con specifico riferimento agli 
alloggi 
di 
servizio dei 
militari 
e 
loro pertinenze, si 
era 
infatti 
già 
consolidato 
l'orientamento 
-richiamato 
anche 
nella 
nota 
allegata 
alla 
richiesta 
di 
parere 
-per 
il 
quale: 
"l'esenzione 
ICI 
prevista 
dall'art. 
7, 
comma 
1 
lett. 
a), 
d.lgs. 
n. 
504 
del 
1992, 
per 
gli 
immobili 
posseduti 
dagli 
enti 
ivi 
indicati 
"destinati 
esclusivamente 
ai 
compili 
istituzionali" 
spetta soltanto se 
l'immobile 
è 
direttamente 
ed immediatamente 
destinato allo svolgimento dei 
compiti 
istituzionali 
dell'ente 
e, evidentemente, 
tale 
ipotesi 
non 
ricorre 
in 
caso 
di 
utilizzazione 
semplicemente 
indiretta 
ai 
fini 
istituzionali, 
che 
si 
verifica 
quando 
il 
godimento 
del 
bene 
stesso 
sia 
ceduto 
per 
il 
preminente 
soddisfacimento 
di 
esigenze 
di 
carattere 
privato 
(quali 
quelle 
abitative 
proprie 
del 
cessionario 
e 
della 
relativa 
famiglia) 
e 
della 
quale 
è 
certo sintomo il 
pagamento di 
un canone. e 
siffatta conclusione 
è 
coerente 
con il 
rilievo che 
le 
norme 
introducenti 
esenzioni, 
in 
quanto 
eccezionali, 
sono 
di 
stretta 
interpretazione 
(Cass. 
n. 
6925/2011; 
n. 
381/2006)". 
(ex 
multis, 
Cass. 
n. 
3268/2019; 
n. 
26453/2017; 
n. 
20042/2011; 
n. 
20850/20; 
n. 
14094/2010, 
n. 20577/2005). 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


nel 
ricorso 
per 
Cassazione 
il 
Ministero 
della 
Difesa 
aveva, 
in 
particolare, 
con 
il 
primo 
motivo, 
lamentato 
"Falsa 
applicazione 
dell'art. 
7, 
comma 
1, 
lett. 


a) 
d.lgs. 
n. 
504/1992, 
violazione 
degli 
artt. 
1, 
5 
e 
6 
della 
l. 
n. 
497/1978 
e 
del-
l’art. 
231 
del 
d.lgs. 
n. 
66/2010, 
in 
relazione 
all'art. 
360, 
comma 
1, 
n. 
3 
c.p.c." 
evidenziando 
come 
la 
CTR 
non 
avesse 
correttamente 
valutato 
la 
portata 
della 
norma 
di 
esenzione 
invocata 
dal 
Ministero 
in 
quanto 
"la 
portata 
dell'esenzione 
di 
cui 
all'art. 
7, 
comma 
1, 
lettera 
a) 
del 
d.lgs. 
504/1992 
doveva 
essere 
correttamente 
valutata 
alla 
luce 
dell'intero 
e 
speciale 
contesto 
normativo 
di 
riferimento 
già 
evincibile 
nell'anno 
di 
imposta 
di 
riferimento 
dagli 
artt. 
1, 
5 
e 
6 
della 
l. 
n. 
497/1978 
e 
definitivamente 
sancito 
dalla 
normativa 
di 
riordino 
costituita 
da 
codice 
dell'ordinamento 
militare 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
n. 
66 
del 
2010". 
La 
Cassazione 
ha 
disatteso 
tale 
impostazione, 
evidenziando 
come 
"ai 
fini 
dell'applicazione 
della norma fiscale 
non può dirsi 
dirimente 
né 
che 
gli 
immobili 
stessi 
siano classificabili 
ex 
lege 
n. 497/78, poi 
abrogata ("autorizzazione 
di 
spese 
per 
la 
costruzione 
di 
alloggi 
di 
servizio 
per 
il 
personale 
militare 
e 
disciplina 
delle 
relative 
concessioni"), 
quali 
"infrastrutture 
militari 
", 
né 
che 
il 
canone 
concessorio 
così 
percepito 
(suddiviso 
a 
metà 
tra 
Ministero 
della 
difesa 
e 
MeF) abbia carattere 
non di 
corrispettivo da attività lucrativa, ma essenzialmente 
di 
rimborso 
di 
soli 
costi 
di 
manutenzione" 
trattandosi, 
comunque, 
nel 
caso 
di 
specie, 
di 
"utilizzazione 
semplicemente 
indiretta 
a 
fini 
istituzionali, 
in quanto il 
godimento del 
bene 
stesso è 
stato ceduto per 
il 
preminente 
soddisfacimento 
di 
carattere 
privato (quali 
quelle 
abitative 
proprie 
del 
cessionario 
e 
della relativa famiglia) e 
della quale 
è 
certo sintomo il 
pagamento di 
un canone, 
come confermato dalla CTr". 


Tale 
pronuncia 
ritiene 
dunque 
irrilevante, 
ai 
fini 
della 
destinazione 
degli 
immobili 
a 
"finalità 
istituzionali", 
il 
luogo 
in 
cui 
siano 
situati 
detti 
alloggi 
(se, 
cioè, 
all'interno 
ovvero 
al 
di 
fuori 
delle 
infrastrutture 
militari), 
considerando 
invece 
dirimente, 
per 
l'applicazione 
dell'imposta, 
il 
fatto 
che 
tali 
fabbricati 
siano 
impiegati 
come 
alloggi, 
e 
siano, 
dunque, 
diretti 
a 
soddisfare 
principalmente 
esigenze 
di 
carattere 
privato, 
ovvero 
quelle 
abitative 
proprie 
del 
cessionario 
e 
della 
relativa 
famiglia, 
delle 
quali 
è 
"certo 
sintomo 
il 
pagamento 
di 
un 
canone". 


Si 
ritiene, 
pertanto, 
che 
la 
distinzione 
tra 
alloggi 
posti 
all'interno 
o 
all'esterno 
di 
infrastrutture 
militari, richiamata 
nel 
parere 
del 
Comitato Consultivo 
e 
a 
cui 
pure 
fa 
riferimento 
codesto 
Comando 
Generale 
del 
Corpo 
delle 
Capitanerie 
di 
Porto nella 
richiesta 
di 
parere, possa 
dirsi 
superata 
alla 
luce 
del 
recente arresto della Cassazione citato. 


né 
a 
diverse 
conclusioni 
pare 
condurre 
il 
disposto 
di 
cui 
all'art. 
231, 
commi 
1 
e 
4, 
del 
codice 
dell'ordinamento 
militare 
oggetto 
del 
D.Lgs. 
n. 
66 
del 
2010 
(7), 
allo 
stato 
vigente, 
il 
quale 
-come 
era 
stato 
rilevato 
nel 
parere 
del 


(7) L'art. 231 del 
D.Lgs. n. 66 del 
2010 rubricato "demanio militare 
e 
demanio culturale 
in consegna 
alla 
difesa" 
afferma 
che 
"1. 
appartengono 
al 
demanio 
militare 
del 
Ministero 
della 
difesa 
le 
opere 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


2019 -conferisce 
per la 
prima 
volta 
espressamente 
natura 
demaniale 
agli 
alloggi 
allorquando 
realizzati 
"all'interno 
di 
basi, 
impianti, 
installazioni 
militari", 
posto che, come 
detto, ai 
sensi 
della 
predetta 
sentenza, ciò che 
rileva 
ai 
fini 
dell'applicabilità 
dell'esenzione 
dall'imposta 
è 
il 
fatto 
che 
il 
godimento 
del 
bene 
sia 
stato 
ceduto 
dietro 
pagamento 
di 
un 
canone, 
indipendentemente 
dalla 
natura dell'immobile locato. 


Sul 
punto, peraltro, la 
Corte 
di 
Cassazione 
aveva 
già 
in precedenza 
specificato 
che 
"ai 
fini 
dell'applicazione 
della norma fiscale 
non può dirsi 
dirimente 
né 
che 
gli 
immobili 
stessi 
siano 
classificabili 
ex 
lege 
(l. 
n. 
497 
del 
1978, 
poi 
abrogata: 
"autorizzazione 
di 
spesa 
per 
la 
costruzione 
di 
alloggi 
di 
servizio 
per 
il 
personale 
militare 
e 
disciplina delle 
relative 
concessioni") quali 
"infrastrutture 
militari", né 
che 
il 
canone 
concessorio così 
percepito (suddiviso a 
metà tra Ministero della difesa e 
MeF) abbia carattere 
non di 
corrispettivo 
da 
attività 
lucrativa, 
ma 
essenzialmente 
di 
rimborso 
dei 
soli 
costi 
di 
manutenzione" 
(cfr. ordinanza n. 3268, depositata il 5 febbraio 2019) (8). 


Inoltre, appare 
rilevante 
evidenziare 
-come 
peraltro rilevato anche 
dalla 
Commissione 
tributaria 
regionale 
Marche 
sez. v, Ancona, nella 
sentenza 
del 
2 dicembre 
2019, n. 870 (9) -che 
l'art. 233 del 
predetto D.Lgs. n. 66 del 
2010 


destinate 
alla difesa nazionale. 2. Gli 
aeroporti 
militari 
fanno parte 
del 
demanio militare 
aeronautico. 


3. 
appartengono 
al 
demanio 
culturale 
gli 
immobili 
in 
consegna 
al 
Ministero 
della 
difesa, 
non 
rientranti 
nel 
demanio 
militare 
di 
cui 
al 
comma 
1, 
riconosciuti 
di 
interesse 
storico, 
archeologico 
e 
artistico 
a 
norma delle 
leggi 
in materia, le 
raccolte 
di 
musei, pinacoteche, archivi, biblioteche 
a esso assegnati. 4. 
Fatta salva l'applicazione 
dell'articolo 147, comma 1, del 
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, 
recante 
il 
codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio, 
rientrano 
tra 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
nazionale 
e 
sono considerati 
infrastrutture 
militari, a ogni 
effetto, tutti 
gli 
alloggi 
di 
servizio per 
il 
personale 
militare 
realizzati 
su aree 
ubicate 
all'interno di 
basi, impianti, installazioni 
militari 
o posti 
al 
loro diretto 
e funzionale servizio". 
(8) La 
Corte 
di 
cassazione 
con ordinanza 
3268, depositata 
il 
5 febbraio 2019, ha 
affermato il 
seguente 
principio di 
diritto: 
"in tema di 
I.C.I., l'esenzione 
riconosciuta dall'art. 7, comma 1, lett. a), del 
d.lgs. n. 504 del 
1992, per 
gli 
immobili 
posseduti 
dagli 
enti 
ivi 
indicati 
spetta soltanto ove 
gli 
stessi 
siano direttamente 
ed immediatamente 
destinati 
a finalità istituzionali, sicché 
la stessa non spetta per 
gli 
alloggi 
di 
servizio 
dei 
militari 
e 
delle 
relative 
famiglie, 
in 
quanto 
utilizzati 
per 
esigenze 
di 
preminente 
carattere privato, in virtù di concessione e dietro pagamento di un canone". 
(9) 
Sulla 
rilevanza 
della 
presenza 
del 
canone 
ai 
fini 
della 
esclusione 
della 
applicazione 
della 
esenzione 
agli 
alloggi 
in 
questione, 
cfr. 
Comm. 
trib. 
reg. 
Marche 
sez. 
v 
-Ancona, 
2 
dicembre 
2019, 
n. 
870, 
nella 
quale 
si 
afferma 
che: 
"Non 
solo. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
l'Ufficio 
accertatore 
ha 
dimostrato 
che 
in 
realtà 
il 
canone 
di 
locazione, 
lungi 
dal 
costituire 
una 
sorta 
di 
canone 
concessorio 
di 
natura 
pubblicistica 
finalizzato in via esclusiva alla copertura delle 
spese 
di 
manutenzione 
dell'immobile, ha proprio natura 
di 
corrispettivo 
per 
l'utilizzo 
dell'alloggio 
ai 
fini 
abitativi. 
ed 
infatti, 
l'art. 
230 
del 
d.lgs. 
n. 
66 
del 
2010, 
intitolato 
alle 
"Categorie 
dei 
beni 
della 
difesa", 
richiama 
l'applicazione 
della 
normativa 
civilistica, 
mentre 
l'art. 
233 
("Individuazione 
delle 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
nazionale 
a 
fini 
determinati") 
non 
cita 
gli 
alloggi 
assegnati 
al 
personale 
tra 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa 
a 
fini 
determinati. 
Inoltre, 
se 
si 
considerano 
gli 
artt. 
da 
278 
a 
294, 
dedicati 
agli 
alloggi 
di 
servizio 
di 
tipo 
economico, 
quali 
sono 
quelli 
oggetti 
dell'avviso 
di 
accertamento, 
ci 
si 
avvede 
che 
vi 
sono 
diverse 
categorie 
di 
alloggi 
di 
servizio, 
taluni 
a 
titolo 
gratuito, 
tra 
i 
quali 
non 
rientra 
alcuno 
degli 
immobili 
oggetto 
di 
accertamento 
ICI; 
altri, 
come 
quelli 
individuali, 
per 
i 
quali 
è 
prevista 
la 
corresponsione 
di 
un 
canone 
di 
locazione, 
sul 
modello 
di 
quello 
previsto 
dalla 
normativa 
in 
tema 
di 
"equo 
canone". 
a 
ciò 
si 
aggiunga 
che 
in 
ag

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


recante 
"Individuazione 
delle 
opere 
destinate 
alla difesa nazionale 
a fini 
determinati" 
non cita 
gli 
alloggi 
assegnati 
al 
personale 
tra 
le 
opere 
destinate 
alla 
difesa a fini determinati (10). 


Con 
riferimento 
poi 
agli 
alloggi 
ASI/ASIR 
occorre 
osservare 
che, 
seppure 
con la 
particolarità 
di 
essere 
assegnati 
esclusivamente 
a 
favore 
di 
soggetti 
titolari 
del 
Comando e 
con funzioni 
di 
rappresentanza 
della 
Forza 
Armata 
(alloggi 
ASIR), 
oppure 
di 
incarichi 
istituzionali 
che 
richiedono 
una 
presenza 
costante 
in sede 
per assicurare 
il 
funzionamento e 
la 
sicurezza 
di 
servizio (alloggi 
ASI), sono anch'essi 
tuttavia 
dati 
in concessione 
dietro pagamento di 
un 
canone 
(cfr. nello specifico, l'art. 286 del 
D.Lgs. n. 66/2010 rubricato "determinazione 
dei 
canoni") 
(11), 
il 
quale 
è 
riscosso 
mediante 
ritenute 
mensili 
sullo 


giunta 
al 
canone, 
che 
quindi 
non 
mira 
soltanto 
a 
coprire 
le 
spese 
di 
manutenzione 
ma 
presenta 
i 
tipici 
aspetti 
del 
corrispettivo 
di 
mercato, 
sono 
previsti 
dall'art. 
288 
ulteriori 
esborsi 
personali 
per 
gli 
utilizzatori 
degli 
alloggi, 
cui 
si 
applica 
l'art. 
1609 
del 
codice 
civile, 
oltre 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
gestione 
e 
di 
funzionamento 
delle 
parti 
comuni. 
Trattasi, 
come 
ognuno 
vede, 
di 
vere 
e 
proprie 
spese 
analoghe 
alle 
spese 
condominiali. 
[...]". 


(10) 
L'art. 
233 
del 
D.Lgs. 
n. 
66 
del 
2010 
rubricato 
"Individuazione 
delle 
opere 
destinate 
alla 
difesa nazionale 
a fini 
determinati" 
recita: 
"1. ai 
fini 
urbanistici, edilizi, ambientali 
e 
al 
fine 
dell'affidamento 
ed esecuzione 
di 
contratti 
pubblici 
relativi 
a lavori, servizi 
e 
forniture, sono opere 
destinate 
alla 
difesa nazionale 
le 
infrastrutture 
rientranti 
nelle 
seguenti 
categorie: a) sedi 
di 
servizio e 
relative 
pertinenze 
necessarie 
a soddisfare 
le 
esigenze 
logistico-operative 
dell'arma dei 
carabinieri; b) opere 
di 
costruzione, 
ampliamento 
e 
modificazione 
di 
edifici 
o 
infrastrutture 
destinati 
ai 
servizi 
della 
leva, 
del 
reclutamento, 
incorporamento, 
formazione 
professionale 
e 
addestramento 
dei 
militari 
della 
Marina 
militare, 
da realizzare 
nelle 
sedi 
di 
la spezia, Taranto e 
la Maddalena su terreni 
del 
demanio, compreso 
quello marittimo; c) aeroporti 
ed eliporti; d) basi 
navali; e) caserme; f) stabilimenti 
e 
arsenali; g) reti, 
depositi 
carburanti 
e 
lubrificanti; 
h) 
depositi 
munizioni 
e 
di 
sistemi 
d'arma; 
i) 
comandi 
di 
unità 
operative 
e 
di 
supporto 
logistico; 
l) 
basi 
missilistiche; 
m) 
strutture 
di 
comando 
e 
di 
controllo 
dello 
spazio 
terrestre, 
marittimo e 
aereo; n) segnali 
e 
ausili 
alla navigazione 
marittima e 
aerea; o) strutture 
relative 
alle 
telecomunicazioni 
e 
ai 
sistemi 
di 
allarme; p) poligoni 
e 
strutture 
di 
addestramento; q) centri 
sperimentali 
di 
manutenzione 
dei 
sistemi 
d'arma; r) opere 
di 
protezione 
ambientale 
correlate 
alle 
opere 
della difesa 
nazionale; s) installazioni 
temporanee 
per 
esigenze 
di 
rapido dispiegamento; t) attività finanziate 
con 
fondi 
comuni 
della NaTo 
e 
da utenti 
alleati 
sul 
territorio nazionale. 1-bis. alle 
costruzioni 
e 
alle 
ricostruzioni 
di 
edilizia residenziale 
pubblica destinate 
a uso militare 
si 
applica l'articolo 1 della legge 
29 
luglio 1949, n. 717, e successive modificazioni. 
(11) nello specifico, l'art. 286 del 
D.Lgs. n. 66 del 
2010 rubricato "Determinazione 
dei 
canoni" 
dispone 
che: 
"1. 
Il 
regolamento 
fissa 
i 
criteri 
per 
la 
determinazione 
dei 
canoni 
di 
concessione, 
sulla 
base 
delle 
disposizioni 
di 
legge 
vigenti 
in materia di 
determinazione 
dell'equo canone; su tali 
criteri 
è 
acquisito 
il 
concerto 
del 
Ministro 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti 
e 
del 
Ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze. In tutti 
i 
casi 
in cui 
disposizioni, anche 
regolamentari, fissano criteri 
di 
aggiornamento dei 
canoni 
degli 
alloggi 
della difesa, il 
canone 
è 
aggiornato, annualmente, in misura pari 
al 
75 per 
cento 
della variazione 
accertata dall'Istituto nazionale 
di 
statistica dell'ammontare 
dei 
prezzi 
al 
consumo per 
le 
famiglie 
degli 
operai 
e 
impiegati, verificatasi 
nell'anno precedente, con decreto del 
Ministro della 
difesa, d'intesa con il 
Ministro dell'economia e 
delle 
finanze, o degli 
organi 
corrispondenti. agli 
oneri 
derivanti 
dal 
presente 
comma, pari 
a ottantamila euro annui 
a decorrere 
dall'anno 2014, si 
provvede 
mediante 
utilizzo di 
quota parte 
dei 
risparmi 
di 
spesa rivenienti 
dall'applicazione 
delle 
norme 
di 
riorganizzazione 
contenute 
nel 
titolo III del 
libro primo. 2. Ferma restando la gratuità degli 
alloggi 
di 
cui 
al 
comma 1, lettera a), dell'articolo 279, e 
l'esclusione 
di 
quelli 
di 
cui 
al 
comma 1, lettera b), del 
medesimo 
articolo, il 
cui 
canone 
è 
determinato dal 
Ministro della difesa con il 
regolamento, alla concessione 
di 
alloggi 
costituenti 
il 
patrimonio 
abitativo 
della 
difesa 
si 
applica 
un 
canone 
determinato 
ai 
sensi 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


stipendio (cfr. l'art. 287 del 
D.Lgs. n. 66/2010 rubricato "Modalità di 
riscossione 
del 
canone 
e 
sua destinazione" 
nonché 
l'art. 358 (Allegato P) del 
Testo 
unico delle 
disposizioni 
regolamentari 
in materia 
di 
ordinamento militare 
di 
cui al D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90). 


A 
ciò si 
aggiunga 
che, oltre 
al 
canone, che 
quindi 
non mira 
soltanto a 
coprire 
le 
spese 
di 
manutenzione 
ma 
presenta 
i 
tipici 
aspetti 
del 
corrispettivo di 
mercato, 
sono 
previsti 
dall'art. 
288 
del 
D.Lgs. 
n. 
66/2010 
rubricato 
"altri 
oneri 
a 
carico 
del 
concessionario 
dell'alloggio" 
ulteriori 
esborsi 
personali 
per 
gli 
utilizzatori 
degli 
alloggi 
di 
cui 
al 
comma 
1, 
lettere 
b) 
e 
c), 
dell'articolo 
279 
[tra 
cui 
ASI e 
ASIR], in quanto la 
legge 
prevede 
a 
loro carico le 
piccole 
riparazioni 
previste 
dall'art. 1609 del 
codice 
civile 
(a 
cui 
il 
concessionario provvede 
"direttamente"), 
nonché 
il 
consumo 
di 
acqua, 
luce 
e 
riscaldamento 
dell'alloggio 
ed 
eventuali 
altri 
servizi 
necessari, 
oltre 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di gestione e di funzionamento delle parti comuni (12). 


Pertanto, non pare 
che 
le 
specifiche 
esigenze 
a 
cui 
gli 
alloggi 
ASI/ASIR 
sono 
destinati 
siano 
tali 
da 
poter 
ritenere 
gli 
stessi 
esclusi 
dal 
novero 
degli 
immobili 
soggetti 
all'imposta, 
trattandosi 
comunque 
di 
alloggi 
dati 
in 
concessione 
ai 
dipendenti 
per 
esclusivo 
uso 
personale, 
a 
fronte 
del 
pagamento 
di 
un 
canone, 
cui 
si 
aggiungono una 
serie 
di 
spese 
accessorie 
-in conformità 
alla 
normativa 
civilistica, 
a 
cui 
pure 
l'art. 
230, 
co. 
1, 
del 
D.Lgs. 
n. 
66/2010, 
recante 
"Categorie 
dei 
beni 
della difesa -rinvio ad altre 
fonti" 
fa 
rinvio (13) -poste 
a 
carico del 


del 
comma 1, ovvero, se 
più favorevole 
all'utente, un canone 
pari 
a quello derivante 
dall'applicazione 
della normativa vigente 
in materia di 
equo canone 
[...]". Il 
Testo unico delle 
disposizioni 
regolamentari 
in materia 
di 
ordinamento militare 
di 
cui 
al 
D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 all'art. 336 disciplina 
la 
"Determinazione 
del 
canone 
per 
gli 
alloggi 
ASIR-ASI" 
prevedendo 
che: 
"1. 
l'ammontare 
del 
canone 
mensile 
di 
concessione 
degli 
alloggi 
asIr 
-asI è 
calcolato moltiplicando il 
valore 
del 
metro quadrato di 
superficie, 
pari 
a euro 1,60, per 
la superficie 
convenzionale 
dell'alloggio (fino a un massimo di 
120 mq) e 
per 
i 
coefficienti 
relativi 
al 
livello 
del 
piano, 
alla 
vetustità 
e 
allo 
stato 
di 
conservazione 
e 
manutenzione. 


2. se 
il 
canone 
così 
calcolato risulta superiore 
a quello derivante 
dall'applicazione 
della normativa vigente 
in 
materia 
di 
equo 
canone, 
al 
concessionario 
dell'alloggio 
è 
applicato 
quest'ultimo. 
3. 
Nessun 
canone 
è 
dovuto 
per 
i 
locali 
di 
rappresentanza 
degli 
alloggi 
asIr, 
la 
cui 
identificazione 
è 
determinata 
con atto formale 
del 
comando competente 
alla concessione 
dell'alloggio. Tali 
locali 
rimangono nella 
disponibilità dell'amministrazione militare cui fanno carico tutte le relative spese". 
(12) L'art. 288 del 
D.Lgs. n. 66 del 
2010 rubricato "altri 
oneri 
a carico del 
concessionario del-
l'alloggio" 
recita: 
"1. oltre 
al 
canone 
mensile, sono a carico del 
concessionario dell'alloggio di 
cui 
al 
comma 1, lettere 
b) e 
c), dell'articolo 279 le 
piccole 
riparazioni 
previste 
dall'articolo 1609 del 
codice 
civile, 
il 
consumo 
di 
acqua, 
luce 
e 
riscaldamento 
dell'alloggio 
ed 
eventuali 
altri 
servizi 
necessari. 
Il 
concessionario provvede 
direttamente 
alle 
piccole 
riparazioni 
di 
cui 
sopra. 2. sono ripartite 
tra i 
concessionari, 
in 
rapporto 
alla 
consistenza 
millesimale 
dell'alloggio, 
le 
spese 
di 
gestione 
e 
di 
funzionamento 
degli ascensori e montacarichi, della pulizia delle parti in comune e della loro illuminazione". 
(13) L'art. 230, comma 
1, del 
D.Lgs. n. 66 del 
2010 rubricato "Categorie 
dei 
beni 
della difesa rinvio 
ad altre 
fonti" 
afferma: 
"1. I beni 
della difesa si 
distinguono in demanio pubblico e 
beni 
patrimoniali, 
disponibili 
e 
indisponibili, secondo le 
norme 
del 
codice 
civile, e 
sono sottoposti: a) alle 
disposizioni 
dettate 
nel 
codice 
civile 
per 
tali 
categorie 
di 
beni; b) alle 
disposizioni 
dettate 
nel 
codice 
della 
navigazione 
e 
relativo regolamento, e 
nelle 
pertinenti 
leggi 
speciali, per 
porti 
e 
aeroporti 
militari, navi 
e 
((aeromobili)) militari; c) alle 
disposizioni 
dettate 
nel 
codice 
della proprietà industriale 
(decreto le

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


concessionario, giacché 
tale 
uso non può considerarsi 
rientrare 
stricto sensu 
nei 
fini 
istituzionali 
del 
Corpo medesimo, indipendentemente 
dal 
luogo in cui 
essi si trovino. 


Del 
resto, 
se 
secondo 
quanto 
di 
recente 
affermato 
dalla 
Cassazione 
n. 
3974/2021, l'imposta 
si 
applica 
anche 
ai 
locali 
siti 
all'interno della 
infrastruttura 
militare 
(essendo irrilevante 
il 
fatto che 
gli 
immobili 
in questione 
siano 
classificabili 
ex 
lege 
come 
"infrastrutture 
militari"), 
a 
fortiori 
si 
ritiene 
che 
essa 
possa 
dirsi 
applicabile 
agli 
immobili 
adibiti 
ad 
alloggi 
ASI/ASIR 
(ubicati 
sia 
all'interno che 
all'esterno dell'impianto militare) i 
quali, seppure 
connessi 
ad 
esigenze 
di 
servizio, 
hanno 
come 
scopo 
primario 
quello 
di 
garantire 
un 
uso 
privato 
da 
parte 
del 
personale 
con 
particolari 
qualifiche, 
circostanza 
questa 
che 
si 
desume 
dal 
fatto che 
sono concessi 
dietro pagamento di 
un canone 
(riscosso 
mediante ritenute mensili sullo stipendio) 
(14). 


In altre 
parole, proprio la 
circostanza 
che 
il 
fine 
istituzionale 
sia 
lo scopo 
"prevalente" 
ma 
non "esclusivo" 
di 
utilizzo degli 
alloggi 
in questione, comporta 
che 
essi 
non possano dirsi 
rientranti 
nella 
esenzione 
prevista 
dall'art. 1, 
comma 
759, lett. a) della 
legge 
n. 160 del 
2019 in quanto la 
norma 
espressamente 
richiede, ai 
fini 
dell'esenzione 
dall'IMU, che 
la 
destinazione 
degli 
immobili 
ai compiti istituzionali sia "esclusiva". 


Le 
sopraesposte 
considerazioni 
sono 
state 
integralmente 
condivise 
dal 
MeF 
nella 
nota 
trasmessa, 
nella 
quale 
si 
è 
rilevato, 
quanto 
all'assoggettabilità 
al 
pagamento 
dell'IMU 
degli 
alloggi 
di 
cui 
trattasi, 
che 
"non 
ci 
sono 
ragioni 
ulteriori 
per 
discostarsi 
dall'orientamento 
ormai 
consolidato 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
da 
ultimo 
ribadito 
nella 
sentenza 
n. 
3974 
del 
2021". 
Il 
Diparti


gislativo 
10 
febbraio 
2005 
n. 
30) 
per 
le 
invenzioni 
militari: 
d) 
alle 
disposizioni 
dettate 
nel 
codice 
penale 
per la tutela dei beni militari". 


(14) L'art. 358 (Allegato P) del 
Testo unico delle 
disposizioni 
regolamentari 
in materia 
di 
ordinamento 
militare 
di 
cui 
al 
D.P.R. 
15 
marzo 
2010, 
n. 
90 
disciplina 
le 
modalità 
per 
la 
riscossione 
delle 
somme 
dovute 
dagli 
utenti 
per canone 
e 
spese 
comuni 
alloggi 
ASIR, ASI e 
AST 
prevedendo -tra 
l'altro -che: 
"2. Quanto al 
canone 
per 
gli 
alloggi 
asIr, asI, asT: a) i 
competenti 
enti 
esecutivi 
del 
Genio militare 
e 
gli 
organi 
corrispondenti 
per 
la Marina militare 
e 
l'aeronautica militare, all'atto della consegna del-
l'alloggio 
e 
delle 
variazioni 
a 
qualsiasi 
titolo 
intervenute, 
comunicano 
l'importo 
dei 
canoni 
dovuti 
dagli 
utenti 
ai 
rispettivi 
enti 
amministratori 
e 
alle 
competenti 
direzioni 
di 
amministrazione 
e 
corrispondenti 
organi 
di 
controllo; b) alla riscossione 
delle 
somme 
dovute 
per 
il 
canone 
degli 
utenti 
di 
alloggi 
asIr, 
asI e 
asT 
provvedono gli 
enti 
che 
amministrano gli 
utenti 
stessi, mediante 
ritenute 
mensili 
sullo stipendio; 
c) gli 
enti 
predetti 
provvedono anche 
a versare 
direttamente 
entro il 
giorno 10 del 
mese 
successivo 
i 
relativi 
importi 
alla tesoreria provinciale 
con imputazione 
ai 
competenti 
capitoli 
dello stato di 
previsione 
dell'entrata 
riassegnabile 
al 
bilancio 
della 
difesa; 
d) 
le 
relative 
quietanze 
sono 
inviate 
dagli 
enti 
medesimi 
direttamente 
alle 
direzioni 
di 
amministrazione 
competenti, per 
il 
successivo inoltro alla 
ragioneria 
centrale; 
e) 
alla 
fine 
di 
ciascun 
trimestre, 
i 
singoli 
enti 
trasmettono 
alle 
competenti 
direzioni 
di 
amministrazione 
una nota in cui 
saranno indicati, per 
ogni 
concessione, le 
date 
delle 
trattenute 
ai 
propri 
dipendenti 
utenti 
di 
alloggio, gli 
importi 
delle 
stesse 
e 
gli 
estremi 
dei 
versamenti 
in tesoreria; f) 
ogni 
direzione 
di 
amministrazione 
interessata riscontra le 
note 
ricevute 
dagli 
enti 
con le 
previste 
segnalazioni 
esistenti 
ai 
propri 
atti, 
ai 
fini 
del 
controllo 
amministrativo 
e 
contabile 
sulla 
esattezza 
dei 
versamenti 
eseguiti, e riferisce al Ministero le eventuli inadempienze e manchevolezze". 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


mento 
nelle 
finanze 
ha, 
in 
particolare, 
ritenuto 
"non 
dirimente" 
quanto 
affermato 
dallo 
Stato 
Maggiore 
della 
Difesa 
nella 
nota 
prot. 
n. 
0212952 
del 
18 
novembre 
2021 
laddove 
si 
precisa 
che 
"In 
tal 
senso, 
si 
fornisce 
anche 
evidenza 
che 
il 
fine 
prevalente 
di 
utilizzo 
dell'alloggio 
non 
sia 
di 
natura 
privatistica 
(come 
asserito 
dalla 
Cassazione) 
bensì 
istituzionale, 
perché 
senza 
l'utilizzo 
del-
l'alloggio 
attiguo 
alla 
sala 
operativa, 
il 
militare 
non 
avrebbe 
potuto 
assolvere 
i 
propri 
doveri 
e 
compiti 
assegnati 
dall'a.d. 
Pertanto, 
la 
concomitanza 
di 
altro 
utilizzo 
come 
quello 
privatistico 
(per 
aver 
la 
famiglia 
al 
seguito) 
diviene 
secondario 
ed 
assorbito 
dal 
primo, 
unitamente 
alla 
valenza 
asserita 
sintomatica 
(dalla 
stessa 
Cassazione) 
di 
utilizzo 
privato 
per 
la 
presenza 
di 
un 
canone 
ancorché 
irrisorio". 
Ciò 
in 
quanto, 
ad 
avviso 
del 
Dipartimento 
delle 
Finanze, 
"riscontrandosi 
in 
siffatta 
ipotesi 
un 
"fine 
prevalente" 
di 
carattere 
istituzionale 
nonché 
la 
"concomitanza 
di 
altro 
utilizzo", 
sembrerebbe 
venir 
meno 
proprio 
la 
condizione 
essenziale 
prevista 
dall'art. 
1, 
comma 
759, 
lett. 
a) 
della 
legge 
n. 
160 
del 
2019 
che 
prescrive, 
ai 
fini 
dell'esenzione 
dall'IMU, 
che 
gli 
immobili 
in 
questione 
siano 
"destinati 
esclusivamente 
ai 
compiti 
istituzionali" 
(15). 


Questa 
interpretazione 
restrittiva 
risulta 
del 
resto 
coerente 
con 
il 
carattere 
"derogatorio" 
ed 
"eccezionale" 
delle 
norme 
di 
esenzione 
tributaria. 
Rileva, 
in 
proposito, 
"il 
principio 
costantemente 
affermato 
in 
sede 
di 
legittimità 
per 
cui 
-in 
materia 
di 
ICI 
-l'esenzione 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
30 
dicembre 
1992, 
n. 
504, 
art. 
7, 
comma 
1, 
norma 
agevolatrice 
e, 
dunque, 
di 
stretta 
interpretazione, 
non 
opera 
in 
caso 
di 
utilizzo 
indiretto 
dell'immobile 
da 
parte 
dell'ente 
proprietario; 
ancorché 
per 
finalità 
di 
pubblico 
interesse 
e 
senza 
fine 
di 
lucro" 
(in 
questi 
termini, 
Cass. 
ordinanza 
5 
febbraio 
2019, 
n. 
3275; 
nonché, 
Cass. 
ordinanza 
14 
marzo 
2018, 
n. 
6319, 
che 
richiama 
Cass. 
nn. 
16797/2017; 
14912/16; 
12495/14; 
7385/12 
ed 
altre). 


*** 


2. 
Con riferimento alla 
seconda 
questione 
posta 
nella 
nota 
interlocutoria 
della 
Scrivente, 
concernente 
il 
problema 
della 
eventuale 
legittimazione 
passiva 
del 
concessionario/affittuario/utente 
dell'alloggio di 
servizio e, precisamente, 
se 
quest'ultimo debba 
essere 
trattato alla 
stregua 
di 
un concessionario di 
aree 
demaniali, ovvero come 
un locatario, si 
evidenzia 
come 
dalla 
soluzione 
in un 
senso o nell'altro derivino evidenti 
conseguenze 
in merito alla 
identificazione 
del soggetto obbligato passivo ai fini IMU. 
2.1 -nello specifico, se 
si 
sposa 
la 
tesi 
che 
qualifica 
l'assegnazione 
del(
15) Alla 
luce 
di 
tali 
considerazioni, il 
Dipartimento delle 
Finanze 
ha 
ipotizzato di 
"agire 
in via 
normativa attraverso un intervento legislativo volto a prevedere 
direttamente 
l'esenzione 
dall'imposta 
per 
gli 
immobili 
in questione", nello stesso tempo evidenziando che 
"l 
'accoglimento della stessa comporterebbe 
una perdita di 
gettito per 
i 
bilanci 
dei 
comuni 
e, conseguentemente, la necessità di 
dover 
reperire 
risorse 
finanziare 
per 
il 
ristoro ai 
comuni 
del 
mancato gettito IMU. In alternativa, prosegue 
la 
nota 
del 
MeF, 
"si 
potrebbe 
anche 
intervenire 
con una diversa soluzione, che 
risulterebbe 
anche 
più naturale 
rispetto alla prima, consistente 
nella previsione 
di 
un’integrazione 
delle 
risorse 
nel 
pertinente 
capitolo 
di 
spesa 
dello 
stato 
di 
previsione 
del 
dicastero 
interessato 
per 
far 
fronte 
al 
versamento 
dell’IMU 
ai comuni competenti". 

RASSeGnA 
AvvoCATURA 
DeLLo 
STATo -n. 1/2022 


l'alloggio di 
servizio in termini 
di 
concessione 
demaniale 
e 
non di 
locazione, 
solo il 
concessionario/utente 
potrebbe 
ritenersi 
soggetto passivo d'imposta, in 
virtù 
di 
quanto 
da 
ultimo 
sancito 
dall'art. 
1, 
comma 
743, 
della 
legge 
n. 
160 
del 
2019 (16), che 
individua 
tra 
i 
soggetti 
obbligati 
ai 
fini 
IMU 
-tra 
gli 
altri 
-il 
"concessionario nel 
caso di 
concessione 
di 
aree 
demaniali". Tale 
soluzione 
è 
condivisa 
dallo Stato Maggiore 
della 
difesa 
nella 
nota 
prot. n. 0212952 del 
18 
novembre 
2021 laddove 
si 
precisa 
che: 
"...lo strumento giuridico di 
gestione 
degli 
alloggi 
cui 
ricorre 
il 
dicastero è 
l'atto di 
concessione 
amministrativa a 
fronte 
della qualificazione 
giuridica del 
bene 
immobile 
assegnato al 
militare, 
bene 
che 
appartiene 
al 
demanio 
e/o 
al 
patrimonio 
indisponibile 
(principio 
consolidato in dottrina e 
giurisprudenza di 
merito e 
di 
legittimità). Il 
ricorso 
all'istituto 
pubblicistico 
dell'atto 
concessorio 
è 
necessitato 
e 
supportato 
da 
tutta la normativa specifica di 
riferimento dell'ordinamento militare 
(di 
cui 
al 


d.P.r. 
n. 
90/10 
attuativo 
del 
d.lgs. 
n. 
66/10) 
per 
i 
profili 
propri 
di 
tale 
istituto 
giuridico. In particolare, la durata, l'assegnazione, la cessazione 
e 
per 
scadenza 
del 
periodo, perdita del 
titolo, la decadenza per 
l'utilizzo non conforme 
ai 
fini 
determinati 
per 
cui 
è 
stato concesso e 
la revoca costituiscono espressioni 
autorizzative 
della Pubblica amministrazione, strumentali 
alla tutela di 
superiori 
interessi 
pubblici. elementi 
che, viceversa, non sono rinvenibili 
in 
un semplice 
contratto di 
locazione 
connotato da una sostanziale 
condizione 
paritetica 
delle 
parti, 
regime 
per 
questo 
utilizzato 
dalla 
difesa 
solo 
per 
gli 
alloggi 
dismessi 
che, pertanto, transitano nel 
patrimonio disponibile. Caso di 
specie, 
questo, 
che 
vedrebbe 
invece 
la 
difesa 
soggetto 
passivo 
di 
imposta. 
Ciò, è 
ancor 
più evidente 
nella tecnica legislativa adoperata dal 
legislatore 
ove, terminata la disciplina settoriale 
per 
l'ordinamento 
militare 
ricorre 
a un 
rinvio 
generale 
esterno 
allo 
stesso 
ordinamento, 
ovvero 
"alle 
concessioni 
amministrative 
in generale, per 
quanto non previsto (artt. 290 e 
1828 del 
citato 
d.lgs. n. 66/2010). Ne 
consegue, che 
solo il 
concessionario possa ritenersi-
soggetto 
passivo 
d'imposta, 
come 
peraltro 
inequivocabilmente 
confermato 
anche 
dalla Finanziaria del 
2020 (l. n. 160/2019 -art. 1, comma 743) che, 
sul punto, ha mantenuto le disposizioni normative precedenti". 
2.2 
-viceversa, qualora 
si 
qualificasse 
il 
rapporto in questione 
come 
un 
rapporto di 
natura 
obbligatoria, assimilabile 
ad un contratto di 
locazione, da 
(16) 
743. 
I 
soggetti 
passivi 
dell’imposta 
sono 
i 
possessori 
di 
immobili, 
intendendosi 
per 
tali 
il 
proprietario ovvero il 
titolare 
del 
diritto reale 
di 
usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie 
sugli 
stessi. È 
soggetto passivo dell’imposta il 
genitore 
assegnatario della casa familiare 
a seguito di 
provvedimento 
del 
giudice 
che 
costituisce 
altresì 
il 
diritto di 
abitazione 
in capo al 
genitore 
affidatario dei 
figli. 
Nel 
caso 
di 
concessioni 
di 
aree 
demaniali, 
il 
soggetto 
passivo 
è 
il 
concessionario. 
Per 
gli 
immobili, 
anche 
da costruire 
o in corso di 
costruzione, concessi 
in locazione 
finanaziaria, il 
soggetto passivo è 
il 
locatario a decorrere 
dalla data della stipula e 
per 
tutta la durata del 
contratto. In presenza di 
più soggetti 
passivi 
con riferimento ad un medesimo immobile, ognuno è 
titolare 
di 
un’autonoma obbligazione 
tributaria e 
nell’applicazione 
dell’imposta si 
tiene 
conto degli 
elementi 
soggettivi 
ed oggettivi 
riferiti 
ad ogni singola quota di possesso, anche nei casi di applicazione delle sanzioni o agevolazioni. 

PAReRI 
DeL 
CoMITATo 
ConSULTIvo 


cui 
scaturisce 
una 
semplice 
detenzione 
del 
bene 
oggetto della 
concessione, la 
legittimazione 
passiva 
spetterebbe 
all'Amministrazione 
stessa. 
Tale 
conclusione 
sembra 
essere 
condivisa 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
la 
quale, nella 
ordinanza 
n. 3275 depositata 
il 
5 febbraio 2019, esprimendosi 
con riferimento ad un caso specifico in cui 
soggetto obbligato al 
pagamento 
ICI/IMU 
era 
l'Agenzia 
del 
Demanio, 
richiamando 
l'articolo 
3, 
comma 
1, 
D.Lgs. n. 504 del 
1992 secondo cui 
"soggetti 
passivi 
dell'imposta sono il 
proprietario 
di 
immobili 
di 
cui 
al 
comma 2 dell'articolo 1, ovvero il 
titolare 
di 
diritto 
reale 
di 
usufrutto, 
uso, 
abitazione, 
enfiteusi, 
superficie, 
sugli 
stessi, 
(omissis...)", 
ha 
evidenziato 
che 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
proprietario 
del 
bene 
ne 
abbia 
concesso il 
godimento ad un terzo, soggetto passivo del 
tributo resta 
il 
concedente, 
non 
potendosi 
ravvisare 
in 
tale 
rapporto 
una 
cessione 
di 
usufrutto 
o 
una 
concessione, espressamente menzionate dalla norma citata. 


In questo secondo caso, è 
evidente 
che 
si 
pone 
un importante 
tema 
di 
copertura 
di 
finanza 
pubblica, 
discendendo 
dalla 
identificazione 
dell'Amministrazione 
quale 
soggetto 
legittimato 
passivo 
ai 
fini 
IMU 
rilevanti 
implicazioni 
in punto di spesa pubblica. 


Ciò 
posto, 
alla 
luce 
dell'urgenza 
di 
definire 
il 
quesito 
posto 
da 
codesto 
Comando Generale 
e 
attesa 
la 
delicatezza 
della 
questione 
sopra 
prospettata, 
la 
Scrivente 
ritiene 
opportuno, 
prima 
di 
assumere 
le 
proprie 
determinazioni 
conclusive 
in merito, attendere 
l'esito delle 
interlocuzioni 
ancora 
in corso con 
l'Agenzia 
del 
Demanio, 
il 
cui 
avviso 
sulla 
questione 
è 
stato 
ritenuto 
necessario 
anche dalla nota del MeF. 


*** 


Il 
presente 
parere 
è 
stato 
sottoposto 
all'esame 
del 
Comitato 
Consultivo 
che, nella seduta del 22 dicembre 2021, si è espresso in conformità. 


Ci 
si 
riserva 
di 
definire 
la 
questione 
relativa 
alla 
legittimazione 
passiva 
all'esito delle 
interlocuzioni 
ancora 
in corso e 
si 
resta 
a 
disposizione 
per ogni 
approfondimento o chiarimento dovesse rendersi ulteriormente necessario. 



LegisLazioneedattuaLità
L’anticorruzione nella gestione del territorio 


Verdiana Fedeli* 


Sommario: 1. Premessa -2. La definizione 
di 
corruzione 
e 
il 
reato di 
corruzione 
-3. il 
governo del 
territorio -4. i rimedi 
di 
cui 
alla legge 
6 novembre 
2012, n. 190 “Disposizioni 
per 
la prevenzione 
e 
la repressione 
della corruzione 
e 
dell’illegalità nella pubblica amministrazione” 
-5. La figura del 
responsabile 
della prevenzione 
della corruzione 
e 
della trasparenza 
-6. 
La 
trasparenza 
-7. 
La 
pianificazione 
territoriale 
regionale, 
provinciale 
o 
metropolitana - 8. i processi di pianificazione comunale generale e l’attività di vigilanza. 


1. Premessa. 
Il 
tema 
dell’anticorruzione 
nella 
gestione 
del 
territorio, 
notevolmente 
complesso 
e 
vasto, 
involge 
diverse 
discipline 
ed 
investe 
interessi 
pubblici 
e 
privati 
che, 
nell’opera 
di 
programmazione, 
devono 
essere 
adeguatamente 
contemperati 
dalle 
diverse 
pubbliche 
amministrazioni, 
potendo 
in 
caso 
di 
patologia, 
anche 
giungere 
a 
configurare 
illeciti 
penali 
e, 
in 
particolare, 
condotte 
corruttive. 


Tra 
gli 
strumenti, 
volti 
ad 
evitare 
le 
suddette 
condotte 
illecite 
possono 
essere 
annoverati, 
per 
un 
verso, 
il 
riconoscimento 
generalizzato 
in 
capo 
ai 
privati 
del 
diritto 
di 
accesso 
agli 
atti 
amministrativi 
e, 
per 
altro 
verso, 
l’individuazione 
di 
precise 
regole 
che 
le 
diverse 
PP.AA. 
devono 
rispettare, 
anch’esse 
oggetto 
di 
piena 
conoscibilità 
da 
parte 
dei 
privati, 
dirette 
ad 
evitare 
l’insorgere 
di 
condotte 
illecite. 


La 
trasparenza 
realizza 
già 
di 
per sé 
una 
misura 
di 
prevenzione, perché 
consente 
il 
controllo da 
parte 
degli 
utenti 
dello svolgimento dell’attività 
amministrativa 
e deve essere coordinata con la prevenzione della corruzione. 


La 
rilevanza 
del 
tema, 
oggetto 
di 
esame, 
emerge 
da 
un 
semplice 
dato: 
nel 
2016 
l’Italia 
era 
al 
60 
posto 
su 
176 
Paesi 
per 
fenomeni 
corruttivi, 
collocandosi 


(*) Avvocato dello Stato. 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


al 
terzultimo gradino tra 
i 
paesi 
europei, davanti 
solo a 
Grecia 
e 
Bulgaria, nel 
2020 al 52esimo posto su 180 paesi e nel 2021 è salita al 42esimo posto. 

Nel 
2021 la 
classifica 
di 
Transparency 
international 
ha 
attribuito all’Italia, 
quanto 
alla 
percezione 
della 
corruzione 
nel 
settore 
pubblico 
e 
nella 
politica, 
un indice 
pari 
a 
56 punti, di 
ben tre 
punti 
in più rispetto all’anno precedente, 
anche se lontano dalla media UE di 64 punti. 

Il 
progresso dell’Italia 
è 
il 
risultato della 
crescente 
attenzione 
dedicata 
al 
problema 
della 
corruzione 
nell’ultimo decennio e 
fa 
ben sperare 
per la 
ripresa 
economica del Paese dopo la crisi generata dalla pandemia. 


Il 
legislatore, 
da 
un 
lato, 
è 
intervenuto 
con 
una 
legislazione 
volta 
a 
rendere 
quanto 
più 
possibile 
trasparente 
l’agire 
delle 
PP.AA., 
mediante 
maggiori 
forme 
di 
pubblicità 
(es. pubblicazioni 
su siti 
internet 
di 
bandi 
di 
concorso, bandi 
di 
gara) 
e 
dall’altro, 
consentendo 
ai 
cittadini, 
mediante 
lo 
strumento 
dell’accesso 
agli atti della P.A., di conoscere le scelte da questa operate. 


2. La definizione di corruzione e il reato di corruzione. 
Preliminarmente va esaminato il concetto di corruzione. 


La 
legge 
2012 
n. 
190 
non 
contiene 
una 
definizione 
di 
corruzione, 
che 
viene quindi data per presupposta. 


Con riferimento al 
reato di 
corruzione, assumono rilievo le 
condotte 
indicate 
negli artt. 318 e 319 e 319-ter 
c.p. 


La 
prima 
norma, 
rubricata 
corruzione 
per 
l'esercizio 
della 
funzione 
(detta 
corruzione 
impropria), stabilisce 
che 
“il 
pubblico ufficiale 
che, per 
l'esercizio 
delle 
sue 
funzioni 
o 
dei 
suoi 
poteri, 
indebitamente 
riceve, 
per 
sé 
o 
per 
un 
terzo, 
denaro o altra utilità o ne 
accetta la promessa è 
punito con la reclusione 
da 
tre a otto anni”. 


La 
seconda 
norma, 
rubricata 
corruzione 
per 
un 
atto 
contrario 
ai 
doveri 
d'ufficio 
(detta 
corruzione 
propria), 
prevede 
che 
“il 
pubblico 
ufficiale 
che, 
per 
omettere 
o ritardare 
o per 
aver 
omesso o ritardato un atto del 
suo ufficio, ovvero 
per 
compiere 
o per 
aver 
compiuto un atto contrario ai 
doveri 
di 
ufficio, 
riceve, per 
sé 
o per 
un terzo, denaro od altra utilità, o ne 
accetta la promessa, 
è punito con la reclusione da sei a dieci anni”. 


L’ 
art. 
319-ter 
c.p. 
concerne 
la 
corruzione 
in 
atti 
giudiziari 
e 
prescrive 
che 
“Se 
i 
fatti 
indicati 
negli 
articoli 
318 e 
319 sono commessi 
per 
favorire 
o danneggiare 
una parte 
in un processo civile, penale 
o amministrativo, si 
applica 
la pena della reclusione da sei a dodici anni. 

Se 
dal 
fatto deriva l'ingiusta condanna di 
taluno alla reclusione 
non superiore 
a cinque 
anni, la pena è 
della reclusione 
da sei 
a quattordici 
anni; se 
deriva l'ingiusta condanna alla reclusione 
superiore 
a cinque 
anni 
o all'ergastolo, 
la pena è della reclusione da otto a venti anni”. 


Con la 
legge 
6 novembre 
2012, n. 190 “Disposizioni 
per 
la prevenzione 
e 
la repressione 
della corruzione 
e 
dell’illegalità nella pubblica amministra



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


zione” 
il 
legislatore 
ha 
dato seguito agli 
impegni 
internazionali 
assunti 
a 
Strasburgo 
con la 
“Convenzione 
penale 
sulla 
corruzione” 
il 
27 gennaio 1999, ratificata 
con 
L. 
28 
giugno 
2012, 
n. 
110 
e 
con 
la 
“Convenzione 
contro 
la 
corruzione”, 
adottata 
dall’Assemblea 
generale 
dell'oNU 
il 
31 
ottobre 
2003 
con 
risoluzione 
n. 
58/4 
(Convenzione 
di 
Merida), 
ratificata 
con 
L. 
3 
agosto 
2009, 
n. 
116, 
innalzando 
le 
pene 
previste 
dai 
suddetti 
reati 
e 
introducendo 
nuove 
fattispecie 
illecite 
come 
l’induzione 
indebita 
a 
dare 
o promettere 
utilità 
(art. 319 quater 
c.p.) e il traffico di influenze illecite, art. 346 bis 
c.p. 

Con il 
primo reato viene 
data 
rilevanza 
penale 
anche 
alla 
mera 
condotta 
del 
pubblico ufficiale 
o l’incaricato di 
pubblico servizio che, seppure 
non in 
grado di 
costringere 
qualcuno a 
dargli 
indebitamente 
qualcosa 
(art. 317 c.p. 
concussione), lo induce a tale dazione. 

Con il 
secondo reato la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(sentenza 
Cass., n. 
4113 
del 
2017) 
ha 
attribuito 
rilevanza 
alla 
condotta 
di 
colui 
che 
“vantando 
un'influenza 
effettiva 
verso 
il 
pubblico 
ufficiale, 
si 
fa 
dare 
o 
promettere 
denaro 


o altra utilità come 
prezzo della propria mediazione 
o col 
pretesto di 
dover 
comprare 
il 
favore 
del 
pubblico 
ufficiale”; 
condotta 
riconducibile, 
prima 
della 
legge n. 190 del 2012, al reato di millantato credito. 
Le 
due 
fattispecie 
di 
corruzione, 
secondo 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
si 
pongono in rapporto di 
specialità, essendo stato affermato dalla 
Cassazione 
(sentenza 
n. 49226 del 
2014) “in tema di 
corruzione, la fattispecie 
di 
cui 
all'art. 
319 cod. pen. (nel 
testo introdotto dalla legge 
6 novembre 
2012, n. 190), 
-corruzione 
propria 
-è 
in 
rapporto 
di 
specialità 
unilaterale 
per 
specificazione 
rispetto a quella prevista dall'art. 318 cod. pen., in quanto mentre 
questa punisce 
la 
generica 
condotta 
di 
vendita 
della 
funzione 
pubblica, 
la 
prima 
richiede, 
invece, 
un 
preciso 
atto 
contrario 
ai 
doveri 
di 
ufficio, 
oggetto 
di 
illecito 
mercimonio”. 

Ed ancora, 
“in tema di 
corruzione, lo stabile 
asservimento del 
pubblico 
ufficiale 
ad 
interessi 
personali 
di 
terzi, 
attraverso 
il 
sistematico 
ricorso 
ad 
atti 
contrari 
ai 
doveri 
di 
ufficio 
non 
predefiniti, 
né 
specificamente 
individuabili 
"ex 
post", 
ovvero 
mediante 
l'omissione 
o 
il 
ritardo 
di 
atti 
dovuti, 
integra 
il 
reato 
di 
cui 
all'art. 
319 
cod. 
pen. 
e 
non 
il 
più 
lieve 
reato 
di 
corruzione 
per 
l'esercizio della funzione 
di 
cui 
all'art. 318 cod. pen., il 
quale 
ricorre, invece, 
quando l'oggetto del 
mercimonio sia costituito dal 
compimento di 
atti 
dell'ufficio” 
(Cass. n. 15959 del 2016). 


In 
particolare, 
ciò 
che 
distingue 
una 
corruzione 
propria 
da 
una 
corruzione 
impropria 
(art. 
318) 
è 
il 
fatto 
che, 
nel 
primo 
caso, 
a 
differenza 
che 
nel 
secondo, 
l'atto oggetto della corruzione è contrario ai doveri d'ufficio. 


Quanto 
alla 
finalità 
del 
reato 
di 
corruzione 
essa 
viene 
individuata 
in 
quella 
di 
“proteggere 
l'interesse 
dell'amministrazione 
alla 
fedeltà 
e 
all'onestà 
dei 
suoi 
funzionari 
e, 
quindi, 
i 
principi 
di 
corretto 
funzionamento, 
buon 
andamento 
e 
imparzialità 
nell'attività 
di 
amministrazione 
della 
cosa 
pubblica, 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


posto 
che 
le 
indebite 
retribuzioni 
percepite 
o 
delle 
quali 
è 
accettata 
la 
promessa 
diffondono 
tra 
i 
cittadini 
la 
sfiducia 
nei 
pubblici 
poteri” 
(cfr. 
ex 
plurimis 
ed in ultimo Cass. n. 17586 del 
2017 -condotta 
del 
pubblico ufficiale 
che, al 
fine 
di 
favorire 
l'aggiudicazione 
di 
una 
gara 
di 
appalto ad una 
società, in cambio 
del 
versamento di 
importi 
in denaro già 
corrisposti 
e 
dell'impegno di 
corrispondere 
ulteriori 
somme 
e 
utilità, 
si 
era 
impegnato 
anche 
a 
sostituire 
fraudolentemente 
la 
proposta 
tecnica 
presentata 
da 
quest'ultima 
con altra 
più 
adeguata agli standards di gara). 


La 
lesione 
del 
bene 
interesse 
oggetto 
di 
tutela 
sopra 
indicato 
ricorre 
anche 
quando “il 
pubblico ufficiale 
che, dietro elargizione 
di 
un indebito compenso, 
esercita i 
poteri 
discrezionali 
rinunciando ad una imparziale 
comparazione 
degli 
interessi 
in gioco, al 
fine 
di 
raggiungere 
un esito predeterminato, anche 
quando questo risulta coincidere, "ex 
post", con l'interesse 
pubblico, e 
salvo 
il 
caso 
di 
atto 
sicuramente 
identico 
a 
quello 
che 
sarebbe 
stato 
comunque 
adottato 
in 
caso 
di 
corretto 
adempimento 
delle 
funzioni, 
in 
quanto, 
ai 
fini 
della 
sussistenza 
del 
reato 
in 
questione 
e 
non 
di 
quello 
di 
corruzione 
impropria, 
l'elemento 
decisivo 
è 
costituito 
dalla 
"vendita" 
della 
discrezionalità 
accordata 
dalla legge” 
(Cass. n. 4459 del 
2017 -la 
condotta 
di 
un medico penitenziario 
che, dietro il 
versamento di 
corrispettivo in denaro, predisponeva, a 
prescindere 
dalle 
reali 
condizioni 
di 
salute 
degli 
interessati, un quadro sanitario favorevole 
per 
taluni 
detenuti, 
anteponendone 
la 
visita 
e 
l'effettuazione 
degli 
accertamenti 
specialistici 
rispetto agli 
altri, in modo tale 
da 
favorirne 
il 
conseguimento 
dei benefici penitenziari). 


La 
Cassazione 
(sentenza 
n. 
22069/2015, 
in 
relazione 
a 
pratiche 
di 
edilizia 
cimiteriale) 
ai 
fini 
della 
configurabilità 
di 
un' 
associazione 
per 
delinquere 
finalizzata 
alla 
commissione 
di 
delitti 
contro 
la 
P.A., 
non 
richiede 
l'apposita 
creazione 
di 
un'organizzazione, 
sia 
pure 
rudimentale, 
ma 
l'attivazione 
di 
una 
struttura 
che 
può 
essere 
anche 
preesistente 
all’ideazione 
criminosa 
e 
già 
dedita 
a 
finalità 
lecita 
né 
è 
necessario 
che 
il 
vincolo 
associativo 
assuma 
carattere 
di 
stabilità, 
essendo 
sufficiente 
che 
esso, 
a 
prescindere 
dalla 
sua 
durata 
nel 
tempo, 
non 
sia 
a 
priori 
circoscritto 
alla 
consumazione 
di 
uno 
o 
più 
reati 
predeterminati. 


Nell’ambito 
del 
diritto 
amministrativo, 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, con la 
circolare 
n. 1 del 
25 gennaio 2013, ha 
precisato che, nel 
contesto 
della 
riforma, “il 
concetto di 
corruzione 
deve 
essere 
inteso in senso lato 
come 
comprensivo delle 
varie 
situazioni 
in cui, nel 
corso dell'attività amministrativa, 
si 
riscontri 
l'abuso da parte 
di 
un soggetto del 
potere 
a lui 
affidato 
al 
fine 
di 
ottenere 
vantaggi 
privati. 
Le 
situazioni 
rilevanti 
sono 
quindi 
evidentemente 
più 
ampie 
della 
fattispecie 
penalistica 
(artt. 
318, 
319 
e 
319-ter 
codice 
penale) e 
sono tali 
da comprendere 
non solo l'intera gamma dei 
delitti 
contro 
la 
pubblica 
amministrazione, 
ma 
anche 
le 
situazioni 
in 
cui 
-a 
prescindere 
dalla rilevanza penale 
-venga in evidenza un malfunzionamento dell'amministrazione 
a causa dell'uso ai fini privati delle funzioni attribuite”. 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Pertanto, al 
concetto penalistico di 
corruzione 
se 
ne 
affianca 
uno nuovo 
e 
più 
ampio: 
quello 
di 
corruzione 
amministrativa, 
quando 
un'inefficienza 
della 
macchina 
amministrativa 
sia 
causata 
dall'uso distorto a 
fini 
privati 
delle 
funzioni 
attribuite, a prescindere dalla rilevanza penale della fattispecie. 

In questo modo, le 
maglie 
dei 
comportamenti 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
corruzione 
si 
allargano 
ulteriormente 
e 
ciò 
consente 
di 
ricomprendere, 
nell'ambito 
applicativo 
della 
normativa, 
anche 
tutte 
quelle 
situazioni 
che, 
prima 
dell'entrata 
in vigore 
della 
legge 
n. 190/2012, rimanevano sostanzialmente 
impunite, alimentando 
sacche 
di 
inefficienza 
e 
di 
illegalità 
all'interno degli 
enti 
territoriali 


(c.d. maladministration). 
L'obiettivo 
perseguito 
è, 
pertanto, 
quello 
di 
promuovere 
la 
cultura 
dell'integrità 
e 
della 
legalità, 
anche 
attraverso 
l'introduzione 
di 
strumenti 
concreti 
come 
il 
Piano 
Triennale 
di 
Prevenzione 
della 
Corruzione 
(PTPC) 
e 
la 
figura 
del 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione, 
tenendo 
conto 
degli 
indirizzi 
contenuti 
nel 
PNA 
(Piano 
Nazionale 
Anticorruzione), 
di 
cui 
al 
successivo 
paragrafo 
4. 


3. il governo del territorio. 
Fatte 
queste 
necessarie 
premesse 
di 
ordine 
generale 
occorre 
ora 
valutare 
come 
i 
principi 
sopra 
riportati 
trovino 
applicazione 
e 
incidano 
su 
una 
delle 
funzioni 
più 
complesse, 
demandate 
alla 
pubblica 
amministrazione, 
quale 
quella del governo e gestione del territorio. 


Con 
tale 
espressione 
si 
fa 
riferimento 
a 
tutto 
quell’insieme 
di 
procedimenti 
amministrativi 
volti 
a 
contemperare 
i 
diversi 
interessi 
che 
attengono 
alla 
gestione, tutela e più in generale all’uso e alla trasformazione del territorio. 

A 
tale 
ambito si 
ascrivono principalmente 
i 
settori 
dell’urbanistica 
e 
del-
l’edilizia, 
come 
chiarito 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale 
(Corte 
Cost. 
n. 
232 del 
2005 -Stato e 
regioni 
-standards 
di 
protezione 
uniformi, validi 
in 
tutte 
le 
regioni 
e 
non 
modificabili) 
con 
attribuzione 
alle 
regioni 
della 
potestà 
legislativa concorrente in materia. 


Il 
governo 
del 
territorio 
rappresenta 
da 
sempre 
e 
viene 
percepito 
come 
un’area 
ad elevato rischio di 
corruzione, per le 
forti 
pressioni 
di 
interessi 
particolaristici, 
che 
possono 
condizionare 
o 
addirittura 
precludere 
il 
perseguimento 
degli interessi generali. 


Le 
principali 
cause 
di 
corruzione 
in questa 
materia 
sono determinate 
da: 


a) estrema 
complessità 
ed ampiezza 
della 
materia, che 
si 
riflette 
nella 
disorganicità, 
scarsa 
chiarezza 
e 
stratificazione 
della 
normativa 
di 
riferimento e 
perdurante 
vigenza 
di 
una 
frammentaria 
legislazione 
precostituzionale, ancorata 
alla 
legge 
urbanistica 
17 agosto 1942, n. 1150. Tale 
complessità 
si 
ripercuote 
negativamente: 
sull’individuazione 
e 
delimitazione 
delle 
competenze 
spettanti 
alle 
diverse 
amministrazioni 
coinvolte 
e 
sui 
contenuti 
-con possibili 
duplicazioni 
-dei 
rispettivi, 
diversi, 
atti 
pianificatori; 
sui 
tempi 
di 
adozione 
delle 
decisioni; 
sulle 
risorse 
pubbliche; 
sulla 
fiducia 
dei 
cittadini, dei 
profes

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


sionisti 
e 
degli 
imprenditori; 
sull’utilità, 
sull’efficienza 
e 
sull’efficacia 
del 
ruolo svolto dai pubblici poteri; 


b) 
varietà 
e 
molteplicità 
degli 
interessi 
pubblici 
e 
privati 
da 
ponderare, 
che 
comportano che 
gli 
atti 
che 
maggiormente 
caratterizzano il 
governo del 
territorio -i 
piani 
generali 
dei 
diversi 
livelli 
territoriali 
-presentino un elevato 
grado di discrezionalità; 
c) 
difficoltà 
nell’applicazione 
del 
principio 
di 
distinzione 
fra 
politica 
e 
amministrazione 
nelle 
decisioni, le 
più rilevanti 
delle 
quali 
sono di 
sicura 
valenza 
politica; 
d) una 
non adeguata 
formazione 
tecnica 
dei 
pubblici 
funzionari 
preposti 
all’espletamento di 
talune 
gare 
rispetto alla 
complessità 
del 
loro oggetto, che 
pone 
questi 
ultimi 
in condizione 
di 
difficile 
gestione 
della 
stessa 
rispetto alle 
maggiori 
conoscenze 
dei 
privati 
che 
vi 
partecipano, con la 
conseguenza 
che 
vi può essere uno squilibrio nel rapporto tra i due contraenti. 
Appare 
opportuno 
subito 
chiarire 
che 
il 
rischio 
corruttivo 
è 
trasversale 
e 
comune 
a 
tutti 
i 
processi 
dell’area 
governo 
del 
territorio, 
a 
prescindere 
dal 
contenuto 
(generale 
o 
speciale) 
e 
dagli 
effetti 
(autoritativi 
o 
consensuali) 
degli 
atti 
adottati 
(piani, 
programmi, 
concessioni, 
accordi, 
convenzioni); 
rischio 
che 
può 
comportare 
danni 
irreversibili, 
tenuto 
conto 
del 
fatto 
che 
gran 
parte 
delle 
trasformazioni 
territoriali 
ha 
conseguenze 
permanenti, 
che 
possono 
causare 
la 
perdita 
o 
il 
depauperamento 
di 
risorse 
non 
rinnovabili, 
prima 
fra 
tutte 
il 
suolo, 
le 
cui 
funzioni 
sono 
tanto 
essenziali 
quanto 
infungibili 
per 
la 
collettività 
e 
per 
l'ambiente. 


La 
prevenzione 
e 
il 
contrasto 
del 
rischio 
traversale 
di 
sviamento 
dall’interesse 
pubblico 
primario 
richiedono 
che, 
nella 
mappatura 
di 
tutti 
i 
processi 
che 
riguardano 
il 
governo 
del 
territorio, 
siano 
precisati, 
preliminarmente, 
i 
criteri 
e 
le 
specifiche 
modalità 
delle 
verifiche 
previste, 
per 
accertare 
la 
compatibilità 
tra 
gli 
effetti 
delle 
trasformazioni 
programmate 
e 
la 
salvaguardia 
delle 
risorse 
ambientali, 
paesaggistiche 
e 
storico 
culturali, 
che 
costituiscono 
il 
patrimonio 
identitario 
delle 
popolazioni 
insediate 
nello 
specifico 
contesto 
territoriale. 


4. 
i 
rimedi 
di 
cui 
alla 
Legge 
6 
novembre 
2012, 
n. 
190 
“Disposizioni 
per 
la 
prevenzione 
e 
la repressione 
della corruzione 
e 
dell’illegalità nella pubblica 
amministrazione”. 
La 
legge 
n. 190 del 
2012 detta 
principi 
che 
trovano applicazione 
anche 
nella materia della Gestione del 
Territorio. 


La 
ratio 
della 
legge, così 
per come 
indicato nella 
sua 
rubrica, è 
la 
prevenzione 
e 
la 
repressione 
del 
fenomeno della 
corruzione, mediante 
forme 
di 
partecipazione, al 
fine 
di 
incentivare 
gli 
investimenti 
anche 
stranieri 
e 
di 
conseguenza 
lo sviluppo economico. 


Al 
fine 
di 
perseguire 
il 
suindicato 
scopo, 
il 
legislatore 
attribuisce 
a 
diversi 
organi 
competenze 
e 
poteri 
volti 
a 
rendere 
effettive 
le 
esigenze 
di 
trasparenza 
e uniformità nell’agire delle PP.AA. 


LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


La 
legge 
individua 
in 
ambito 
nazionale 
l’Autorità 
nazionale 
anticorruzione 
e 
le 
assegna 
funzioni 
consultive, 
di 
vigilanza 
e 
di 
controllo 
(commi 
1-3). 


In 
particolare, 
tra 
gli 
altri 
compiti, 
l’Autorità 
adotta 
il 
Piano 
nazionale 
anticorruzione 
(PNA), 
che 
ha 
durata 
triennale 
ed 
è 
aggiornato 
annualmente. 
Esso 
costituisce 
atto 
di 
indirizzo 
per 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
-tra 
le 
quali 
rientrano 
tutte 
le 
amministrazioni 
dello Stato, ivi 
compresi 
gli 
istituti 
e 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado e 
le 
istituzioni 
educative, le 
aziende 
ed amministrazioni 
dello Stato ad ordinamento autonomo, le 
regioni, le 
Province, i 
Comuni, le 
Comunità montane -. 

Il 
PNA, in relazione 
alla 
dimensione 
e 
ai 
diversi 
settori 
di 
attività 
degli 
enti, 
individua 
i 
principali 
rischi 
di 
corruzione 
e 
i 
relativi 
rimedi 
e 
contiene 
l'indicazione 
di 
obiettivi, tempi 
e 
modalità 
di 
adozione 
e 
attuazione 
delle 
misure 
di contrasto alla corruzione. 


Nell’ottica 
di 
collaborazione 
tra 
PP.AA. 
e 
al 
fine 
di 
rendere 
concreta 
l’opera 
di 
indirizzo e 
di 
coordinamento del 
dipartimento della 
funzione 
pubblica, 
il 
legislatore 
ha 
previsto che 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
centrali 
definiscono 
e 
trasmettono 
al 
suddetto 
dipartimento 
un 
piano 
di 
prevenzione 
della 
corruzione, 
che 
fornisca 
una 
valutazione 
del 
diverso 
livello 
di 
esposizione 
degli 
uffici 
al 
rischio di 
corruzione 
e 
indica 
gli 
interventi 
organizzativi 
volti 
a 
prevenire il medesimo rischio. 


I 
Comuni 
con 
popolazione 
inferiore 
a 
15.000 
abitanti 
possono 
aggregarsi 
per definire 
il 
piano triennale 
per la 
prevenzione 
della 
corruzione, secondo le 
indicazioni contenute nel Piano nazionale anticorruzione. 

Ai 
fini 
della 
predisposizione 
del 
piano triennale 
per la 
prevenzione 
della 
corruzione, il 
Prefetto, su richiesta, fornisce 
il 
necessario supporto tecnico e 
informativo agli 
enti 
locali, anche 
al 
fine 
di 
assicurare 
che 
i 
piani 
siano formulati 
e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale. 


Le 
finalità 
del 
piano di 
prevenzione 
(comma 
9) sono indicate 
dal 
legislatore 
nel seguente modo: 


a) 
individuare 
le 
attività, 
tra 
le 
quali 
quelle 
di 
cui 
al 
comma 
16, 
riportate 
al 
paragrafo successivo, anche 
ulteriori 
rispetto a quelle 
indicate 
nel 
Piano 
nazionale 
anticorruzione, 
nell'ambito 
delle 
quali 
è 
più 
elevato 
il 
rischio 
di 
corruzione, e 
le 
relative 
misure 
di 
contrasto, anche 
raccogliendo le 
proposte 
dei 
dirigenti, elaborate 
nell'esercizio delle 
competenze 
previste 
dall'articolo 
16, comma 1, lettera a-bis), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; 
b) 
prevedere, per 
le 
attività individuate 
ai 
sensi 
della lettera a), meccanismi 
di 
formazione, attuazione 
e 
controllo delle 
decisioni 
idonei 
a prevenire 
il rischio di corruzione; 
c) 
prevedere, 
con 
particolare 
riguardo 
alle 
attività 
individuate 
ai 
sensi 
della lettera a), obblighi 
di 
informazione 
nei 
confronti 
del 
responsabile, individuato 
ai 
sensi 
del 
comma 
7, 
chiamato 
a 
vigilare 
sul 
funzionamento 
e 
sull'osservanza 
del piano; 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


d) 
definire 
le 
modalità di 
monitoraggio del 
rispetto dei 
termini, previsti 
dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti; 
e) 
definire 
le 
modalità 
di 
monitoraggio 
dei 
rapporti 
tra 
l'amministrazione 
e 
i 
soggetti 
che 
con la stessa stipulano contratti 
o che 
sono interessati 
a procedimenti 
di 
autorizzazione, concessione 
o erogazione 
di 
vantaggi 
economici 
di 
qualunque 
genere, anche 
verificando eventuali 
relazioni 
di 
parentela o affinità 
sussistenti 
tra 
i 
titolari, 
gli 
amministratori, 
i 
soci 
e 
i 
dipendenti 
degli 
stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti dell'amministrazione; 
f) individuare 
specifici 
obblighi 
di 
trasparenza ulteriori 
rispetto a quelli 
previsti da disposizioni di legge. 
I destinatari 
del 
piano sono tutti 
coloro che 
interagiscono con le 
Amministrazioni; 
i 
dirigenti 
e 
tutto il 
personale 
sono tenuti 
ad assicurare 
la 
collaborazione 
all’attuazione del piano. 


5. La figura del 
responsabile 
della prevenzione 
della corruzione 
e 
della trasparenza. 
All’interno 
di 
ogni 
singola 
P.A. 
ed 
ente 
locale 
viene 
individuato, 
di 
norma 
tra 
i 
dirigenti 
di 
ruolo in servizio, il 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e della trasparenza (comma 7). 


Il 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
predispone 
ogni 
anno 
il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione. 


Il 
Piano, 
una 
volta 
fatto 
proprio 
dall'organo 
politico 
di 
vertice, 
viene 
pubblicato 
sul sito internet, nella sezione "Amministrazione 
Trasparente". 


Al 
responsabile 
competono, 
in 
base 
alla 
L. 
190/2012, 
le 
seguenti 
attività 
e funzioni: 


-elaborare 
la 
proposta 
di 
Piano della 
prevenzione, che 
deve 
essere 
adottato 
dall'organo di indirizzo politico (art. 1, comma 8); 
-definire 
le 
procedure 
appropriate 
per selezionare 
e 
formare 
i 
dipendenti 
destinati 
ad operare 
in settori 
particolarmente 
esposti 
alla 
corruzione 
(art. 1, 
comma 8); 
-verificare 
l'efficace 
attuazione 
e 
l'idoneità 
del 
Piano (art. 1, comma 
10, 
lett. a); 
-proporre 
modifiche 
al 
Piano 
in 
caso 
di 
accertamento 
di 
significative 
violazioni 
o di mutamenti dell'organizzazione (art. 1, comma 10, lett. a); 


-verificare, d'intesa 
con i 
dirigenti 
competenti, l'effettiva 
rotazione 
degli 
incarichi 
negli 
uffici 
preposti 
allo svolgimento delle 
attività 
nel 
cui 
ambito è 
più elevato il 
rischio che 
siano commessi 
reati 
di 
corruzione 
(art. 1, comma 
10, lett. b); 
-individuare 
il 
personale 
da 
inserire 
nei 
percorsi 
di 
formazione 
generici 
e specifici sui temi dell'etica e della legalità (art. 1, comma 10, lett. c); 
-pubblicare 
entro il 
15 dicembre 
di 
ogni 
anno sul 
sito web aziendale 
una 
relazione recante i risultati dell'attività (art. 1, comma 14); 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


-vigilare 
sul 
rispetto delle 
disposizioni 
in materia 
di 
inconferibilità 
e 
incompatibilità 
(art. 15 d.lgs. n. 39/2013). 
In capo al 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
trasparenza 
incombono le seguenti responsabilità: 


-in caso di 
commissione, all'interno dell'amministrazione, di 
un reato di 
corruzione 
accertato con sentenza 
passata 
in giudicato, il 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
ne 
risponde 
dal 
punto di 
vista 
disciplinare, oltre 
che 
per 
il 
danno 
erariale 
e 
all'immagine 
della 
pubblica 
amministrazione, 
salvo 
che provi tutte le seguenti circostanze: 
a) di 
avere 
predisposto, prima 
della 
commissione 
del 
fatto, il 
Piano di 
cui 
al 
comma 
5 e 
di 
aver osservato le 
prescrizioni 
di 
cui 
ai 
commi 
9 e 
10 dell'articolo 
in disamina; 
b) di aver vigilato sul funzionamento e sull'osservanza del Piano; 
-in ipotesi 
di 
ripetute 
violazioni 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
previste 
dal 
Piano, 
il 
responsabile 
risponde 
ai 
sensi 
dell'articolo 
21 
del 
decreto 
legislativo 
30 marzo 2001, n. 165, nonché, per omesso controllo, sul Piano disciplinare. 
La 
violazione, da 
parte 
dei 
dipendenti 
dell'amministrazione, delle 
misure 
di prevenzione previste dal Piano costituisce illecito disciplinare. 


Nel 
caso in cui, nello svolgimento della 
sua 
attività, riscontri 
dei 
fatti 
che 
possono 
presentare 
una 
rilevanza 
disciplinare, 
il 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
della 
trasparenza 
deve 
darne 
tempestiva 
informazione 
al 
dirigente 
preposto all'ufficio, a 
cui 
il 
dipendente 
è 
addetto o al 
dirigente 
sovraordinato, 
se 
trattasi 
di 
dirigente 
e 
all'ufficio procedimenti 
disciplinari, affinché 
possa essere avviata, con tempestività, l'azione disciplinare. 


Qualora 
venga 
a 
conoscenza 
di 
fatti 
suscettibili 
di 
dar luogo a 
responsabilità 
amministrativa, 
deve 
presentare 
tempestiva 
denuncia 
alla 
competente 
procura 
della 
Corte 
dei 
conti 
per le 
eventuali 
iniziative 
in ordine 
all'accertamento 
del danno erariale. 


ove 
apprenda 
notizie 
di 
reato, 
deve 
presentare 
denuncia 
alla 
procura 
della 
repubblica 
o 
ad 
un 
ufficiale 
di 
polizia 
giudiziaria 
con 
le 
modalità 
previste 
dalla 
legge 
(art. 331 c.p.p.) e 
deve 
darne 
tempestiva 
informazione 
all'Autorità 
nazionale anticorruzione. 


ove 
riscontri 
ipotesi 
di 
possibile 
violazione 
delle 
disposizioni 
in materia 
di 
inconferibilità 
o incompatibilità, ai 
sensi 
del 
d.lgs. n. 39/2013, deve 
contestare 
all'interessato l'esistenza 
o l'insorgere 
delle 
situazioni 
di 
inconferibilità 


o incompatibilità di cui al richiamato decreto legislativo. 
Qualora 
le 
situazioni 
di 
inconferibilità 
o 
incompatibilità 
contestate 
all'interessato 
risultino 
effettivamente 
sussistenti 
e 
le 
cause 
di 
incompatibilità 
non 
vengano 
tempestivamente 
rimosse, 
deve 
darne 
segnalazione 
all'organo 
di 
indirizzo 
politico, 
ossia 
all'oIv, 
all'Autorità 
nazionale 
anticorruzione, 
all'Autorità 
garante 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato 
ai 
fini 
dell'esercizio 
delle 
funzioni 
di 
cui 
alla 
legge 
20 
luglio 
2004, 
n. 
215, 
nonché 
alla 
Corte 
dei 
Conti, 
per 
l'accer



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


tamento 
di 
eventuali 
responsabilità 
amministrative 
(art. 
15 
d.lgs. 
n. 
39/2013). 


Il 
responsabile 
segnala, poi, all'organo di 
indirizzo e 
all'organismo indipendente 
di 
valutazione 
le 
disfunzioni 
inerenti 
all'attuazione 
delle 
misure 
in 
materia 
di 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
di 
trasparenza 
e 
indica 
agli 
uffici, 
competenti 
all'esercizio dell'azione 
disciplinare, i 
nominativi 
dei 
dipendenti, 
che 
non 
hanno 
attuato 
correttamente 
le 
misure 
in 
materia 
di 
prevenzione 
della 
corruzione e di trasparenza. 

Eventuali 
misure 
discriminatorie, 
dirette 
o 
indirette, 
nei 
confronti 
del 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
della 
trasparenza 
per motivi 
collegati, direttamente 
o indirettamente, allo svolgimento delle 
sue 
funzioni 
devono essere 
segnalate 
all'Autorità 
nazionale 
anticorruzione, che 
può chiedere 
informazioni 
all'organo di 
indirizzo ed intervenire 
nelle 
forme 
di 
cui 
al 
comma 3, articolo 15, decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39. 

L’eventuale 
provvedimento 
di 
revoca 
deve 
essere 
comunicato 
all'Autorità 
nazionale 
anticorruzione 
che, entro trenta 
giorni, può formulare 
una 
richiesta 
di 
riesame, qualora 
rilevi 
che 
la 
revoca 
sia 
correlata 
alle 
attività 
svolte 
dal 
responsabile 
in materia 
di 
prevenzione 
della 
corruzione. decorso tale 
termine, 
la revoca diventa efficace. 


va 
infine 
segnalato che 
mentre 
non vi 
è 
alcun indirizzo quanto all’individuazione 
di 
tale 
responsabile 
all’interno delle 
PP.AA. dell’amministrazione 
centrale, 
per 
quanto 
riguarda 
gli 
enti 
locali 
il 
legislatore 
ha 
stabilito 
che 
la 
scelta 
del 
responsabile 
deve 
ricadere 
sul 
segretario 
o 
sul 
dirigente 
apicale 
“salva diversa e motivata determinazione”. 


Con la 
redazione 
del 
piano triennale 
per la 
prevenzione 
della 
corruzione 
vengono stabiliti, su proposta 
del 
responsabile, gli 
obiettivi 
strategici 
in materia 
di 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
trasparenza. 
Il 
piano 
viene, 
poi, 
trasmesso 
all'Autorità nazionale anticorruzione (comma 8). 


Negli enti locali il piano è approvato dalla giunta. 

Altro aspetto da 
sottolineare 
è 
la 
previsione 
secondo cui 
l’elaborazione 
del piano non può essere affidata a soggetti estranei all'amministrazione. 

A 
titolo 
meramente 
esemplificativo, 
nella 
regione 
Lazio 
sono 
considerate 
attività c.d. sensibili le seguenti: 


- autorizzazioni, concessioni; 
-procedure 
di 
appalto per l'affidamento di 
lavori, servizi 
e 
forniture, ivi 
comprese le procedure in economia e gli affidamenti d'urgenza; 
-erogazioni 
a 
contenuto liberale 
sotto forma 
di 
sovvenzioni, contributi, 
sussidi, 
ausili 
finanziari, 
nonché 
attribuzione 
di 
vantaggi 
economici 
di 
qualunque 
genere a persone ed enti pubblici e privati; 
-conferimento 
di 
incarichi 
dirigenziali 
individuati 
discrezionalmente 
dal-
l'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione; 


-concorsi 
e 
prove 
selettive 
per l'assunzione 
di 
personale 
anche 
a 
tempo 
determinato e per la progressione di carriera; 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


-attività 
di 
pianificazione 
urbanistica 
ed 
attuativa, 
ivi 
compresi 
i 
permessi 
di costruire, nonché monetizzazioni e bonus volumetrici; 


- accordi in materia di urbanistica negoziata; 
- procedure di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica; 
-attività 
di 
accertamento 
e 
di 
verifica 
della 
elusione 
ed 
evasione 
tributaria 
ed extratributaria; 


-materie 
oggetto di 
incompatibilità, cumulo di 
impieghi 
e 
incarichi 
(art. 
53 
d.lgs. 
n. 
165/2001 
e 
s.m.i., 
così 
come 
modificato 
dalla 
Legge 
n. 
190/2012); 
- transazioni stragiudiziali; 
- sponsorizzazioni; 
- donazioni a favore dell'ente; 
-proroghe e rinnovi di un servizio o di una fornitura; 
- nomine in società pubbliche; 
- nomine di legali esterni; 
- affidamenti di servizi pubblici; 
- liquidazioni e collaudi; 
- affidamenti diretti; 
- procedimenti sanzionatori; 
-rapporti 
di 
partenariato 
pubblico/privato 
in 
genere; 
-pagamenti 
in 
genere; 
-incarichi 
di 
consulenza, studio e 
ricerca 
e 
di 
collaborazione, nonché 
di 
supporto al rUP ai sensi del d.lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii.; 
- sgravi tributari; 
-alienazione 
di 
beni 
immobili 
e 
costituzione 
di 
diritti 
reali 
minori 
su di 
essi 
o concessione 
in uso di 
beni 
appartenenti 
al 
patrimonio disponibile 
del-
l'ente; 
- gestione del patrimonio immobiliare; 
- utilizzo dei beni dell'ente da parte del personale. 
Una 
volta 
individuate 
le 
attività 
a 
più 
elevato 
rischio 
di 
corruzione, 
si 
procede 
alla 
mappatura 
dei 
rischi, 
vale 
a 
dire 
all'individuazione 
del 
tipo 
di 
rischio 
collegato ad ognuna di esse. 


La 
mappatura 
dei 
rischi 
presuppone 
una 
prima 
analisi 
dei 
singoli 
procedimenti 
e 
dei 
tempi 
degli 
stessi, al 
fine 
di 
individuare 
le 
possibili 
criticità 
che 
potrebbero generare eventuali comportamenti illeciti e/o illegali. 


Per ciascun rischio sono indicate 
azioni 
e 
misure 
idonee 
a 
prevenirlo o 
quantomeno a 
ridurlo. In via 
generale, tra 
queste 
azioni 
possiamo citare, a 
titolo 
meramente esemplificativo, le seguenti: 


-assicurare 
la 
massima 
trasparenza 
e 
accessibilità 
alle 
informazioni 
ai 
fini 
della 
tracciabilità 
dell'attività 
amministrativa. 
Il 
responsabile 
dovrà 
vigilare 
affinché 
sia 
assicurata 
puntuale 
applicazione 
alle 
disposizioni 
della 
legge 
n. 
190/2012, 
del 
decreto 
legislativo 
n. 
33/2013 
e 
delle 
altre 
fonti 
normative 
vigenti; 


-motivare 
adeguatamente 
gli 
atti, 
soprattutto 
in 
presenza 
di 
attività 
di



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


screzionale: 
maggiore 
è 
la 
discrezionalità 
del 
provvedimento, tanto più è 
necessario 
l'onere di motivazione; 


-distinguere 
l'attività 
istruttoria 
e 
la 
relativa 
responsabilità 
dall'adozione 
dell'atto finale, in modo tale 
che 
per ogni 
atto siano coinvolti 
almeno due 
soggetti 
l'istruttore proponente e il dirigente; 
-rispettare 
tutte 
le 
disposizioni 
in materia 
di 
procedimento amministrativo, 
con particolare 
riferimento ai 
termini 
e 
al 
divieto di 
aggravio del 
procedimento 
amministrativo; 
-assicurare 
la 
rotazione 
del 
personale 
dirigenziale 
e 
del 
personale 
con 
funzioni 
di 
responsabilità 
operante 
nelle 
aree 
a 
rischio di 
corruzione, garantendo 
comunque la continuità dell'azione amministrativa; 


-intraprendere 
adeguate 
iniziative 
per 
informare 
il 
personale 
sull'obbligo 
di 
astenersi 
in 
caso 
di 
situazioni 
di 
conflitto 
di 
interessi, 
anche 
solo 
potenziale; 


-verificare 
la 
sussistenza 
di 
eventuali 
condizioni 
ostative 
in capo ai 
soggetti 
ai 
quali 
intendono conferire 
incarichi 
dirigenziali, nonché 
eventuali 
incompatibilità 
ai sensi del decreto legislativo n. 39/2013; 
-impartire 
direttive 
interne 
affinché 
sia 
rispettato, da 
parte 
di 
dipendenti 
che 
hanno 
esercitato 
poteri 
negoziali 
per 
conto 
della 
P.A., 
il 
divieto 
di 
prestare 
attività 
lavorativa 
nei 
tre 
anni 
successivi 
alla 
cessazione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
presso gli 
stessi 
soggetti 
privati 
destinatari 
della 
loro attività 
(art. 53, comma 
16-ter, decreto legislativo n. 165/2001); 
-verificare 
la 
sussistenza 
di 
eventuali 
precedenti 
penali 
a 
carico 
di 
dipendenti 
e/o 
di 
soggetti 
cui 
si 
intende 
conferire 
incarichi 
per 
la 
formazione 
di 
commissioni, 
ovvero l'assegnazione 
ad uffici 
particolarmente 
esposti 
al 
rischio di 
corruzione; 


-adottare 
tutte 
le 
misure 
necessarie 
a 
tutelare 
l'anonimato del 
dipendente 
che 
segnala 
illeciti 
di 
cui 
è 
venuto 
a 
conoscenza 
in 
ragione 
del 
proprio 
rapporto 
di lavoro (art. 54-bis 
del decreto legislativo n. 165/2001). 
Sempre 
al 
fine 
di 
prevenire 
fenomeni 
patologici 
nell’esercizio dei 
poteri 
attribuiti 
ai 
funzionari 
delle 
diverse 
PP.AA., il 
legislatore, all’art. 1 comma 
15 
legge 
2012 
n. 
190, 
ha 
previsto 
“la 
trasparenza 
dell'attività 
amministrativa, 
che 
costituisce 
livello essenziale 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
sociali 
e 
civili 
ai 
sensi 
dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione” 
ed è 
assicurata 
“mediante 
la pubblicazione, nei 
siti 
web istituzionali 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, delle 
informazioni 
relative 
ai 
procedimenti 
amministrativi, 
secondo 
criteri 
di 
facile 
accessibilità, 
completezza 
e 
semplicità 
di 
consultazione, nel 
rispetto delle 
disposizioni 
in materia di 
segreto di 
Stato, 
di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali”. 

Tra 
i 
procedimenti 
in 
esame, 
il 
comma 
16, 
indica 
quelli 
di: 
a) 
autorizzazione 
o 
concessione; 
b) 
scelta 
del 
contraente 
per 
l'affidamento 
di 
lavori, 
forniture 
e 
servizi, 
anche 
con 
riferimento 
alla 
modalità 
di 
selezione 
prescelta 
ai 
sensi 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
relativi 
a 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, 
di 
cui 
al 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


decreto 
legislativo 
12 
aprile 
2006, 
n. 
163; 
c) 
concessione 
ed 
erogazione 
di 
sovvenzioni, 
contributi, 
sussidi, 
ausili 
finanziari, 
nonché 
attribuzione 
di 
vantaggi 
economici 
di 
qualunque 
genere 
a 
persone 
ed 
enti 
pubblici 
e 
privati; 
d) 
concorsi 
e 
prove 
selettive 
per 
l'assunzione 
del 
personale 
e 
progressioni 
di 
carriera 
di 
cui 
all'articolo 
24 
del 
citato 
decreto 
legislativo 
n. 
150 
del 
2009. 
Tale 
pubblicazione 
è 
prevista 
anche 
per 
i 
bilanci 
e 
i 
conti 
consuntivi, 
nonché 
i 
costi 
unitari 
di 
realizzazione 
delle 
opere 
pubbliche 
e 
di 
produzione 
dei 
servizi 
erogati 
ai 
cittadini. 


rispetto a 
tali 
procedimenti 
e 
in relazione 
all’obbligo di 
trasparenza 
indicato 
al 
comma 
15, il 
successivo comma 
32, indica 
in modo specifico i 
dati 
che 
le 
stazioni 
appaltanti 
devono 
pubblicare 
(es. 
oggetto 
del 
bando, 
elenco 
soggetti invitati, importi liquidati, tempi di completamento dell’opera). 


Sempre 
nell’ottica 
dell’effettività 
della 
trasparenza 
amministrativa, 
il 
comma 
30, 
dispone 
che 
le 
amministrazioni, 
nel 
rispetto 
della 
disciplina 
del 
diritto di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi 
di 
cui 
al 
capo v 
della 
legge 
7 
agosto 1990, n. 241, hanno l'obbligo di 
rendere 
accessibili 
in ogni 
momento 
agli 
interessati, tramite 
strumenti 
di 
identificazione 
informatica, le 
informazioni 
relative 
ai 
provvedimenti 
e 
ai 
procedimenti 
amministrativi 
che 
li 
riguardano, 
ivi 
comprese 
quelle 
relative 
allo stato della 
procedura, ai 
relativi 
tempi 
e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase. 


6. La trasparenza. 
Con il 
d.lgs. n. 33/2013, il 
legislatore 
ha 
introdotto significative 
novità 
rispetto 
alla 
precedente 
normativa 
in 
tema 
di 
trasparenza, 
novità 
di 
seguito 
specificate: 


1. l'introduzione 
di 
un nuovo istituto chiamato “accesso civico”, inteso 
come 
diritto, da 
parte 
di 
qualunque 
cittadino, di 
richiedere 
i 
documenti, le 
informazioni 
o i 
dati 
oggetto di 
pubblicazione 
obbligatoria, senza 
alcuna 
limitazione 
quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente; 
2. la 
standardizzazione 
delle 
modalità 
di 
pubblicazione, in modo da 
rendere 
facilmente 
comparabili 
i 
siti 
istituzionali 
delle 
pubbliche 
amministrazioni; 
3. un articolato sistema 
sanzionatorio che 
riguarda 
le 
persone 
fisiche 
inadempienti, 
gli 
enti 
e 
gli 
altri 
organismi 
destinatari 
e 
che, 
in 
taluni 
casi, 
colpisce 
l'atto da pubblicare, disponendone l'inefficacia. 
Il 
d.lgs. 
25 
maggio 
2016, 
n. 
97 
ha 
introdotto 
all’art. 
5, 
comma 
2, 
del 
d.lgs. n. 33/2013 l'istituto dell’accesso civico generalizzato, con cui 
il 
legislatore 
ha 
riconosciuto a 
chiunque 
il 
diritto di 
accedere 
ai 
dati 
e 
ai 
documenti 
detenuti 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni, ulteriori 
rispetto a 
quelli 
oggetto di 
pubblicazione, nel 
rispetto dei 
limiti 
relativi 
alla 
tutela 
di 
interessi 
giuridicamente 
rilevanti. 

Esso si 
inserisce 
nel 
più generale 
diritto all'informazione 
dei 
cittadini 
rispetto 
all'organizzazione 
e 
all'attività 
della 
pubblica 
amministrazione 
e 
di 
controllo 
democratico 
del 
suo 
operato 
e 
attiene 
ai 
livelli 
essenziali 
delle 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali, che 
devono essere 
garantiti 
su 
tutto il territorio nazionale. 


L'accesso 
civico 
rappresenta 
“l'espressa 
previsione 
del 
diritto 
di 
ciascuno 
alla conoscibilità, ovvero del 
diritto a conoscere, utilizzare 
e 
riutilizzare 
(alle 
condizioni 
descritte 
nel 
decreto) 
i 
dati, 
i 
documenti 
e 
le 
informazioni 
in 
quanto 
oggetto di 
pubblicazione 
obbligatoria” 
(cfr. parere 
del 
Garante 
per la 
protezione 
dei dati personali n. 49 del 7 febbraio 2013). 


Il 
d.lgs. n. 33/2013 riconosce 
un diritto soggettivo in capo a 
qualunque 
cittadino, diritto a 
cui 
corrisponde 
un obbligo di 
provvedere 
in capo alla 
pubblica 
amministrazione, nel 
caso in cui 
sia 
stata 
omessa 
la 
pubblicazione 
obbligatoria 
o tale pubblicazione sia avvenuta in modo solo parziale. 


Chiunque 
può 
legittimamente 
presentare 
richiesta 
di 
accesso 
civico 
senza 
alcuna 
motivazione, 
né 
specificazione 
delle 
ragioni 
che 
lo 
inducono 
a 
formulare 
tale 
richiesta, 
ogni 
qualvolta 
la 
pubblicazione 
sia 
stata 
omessa 
o 
risulti 
parziale. 


La 
richiesta, 
inoltre, 
è 
completamente 
gratuita. 
La 
richiesta 
di 
accesso 
civico 
ha 
ad oggetto tutti 
i 
documenti, le 
informazioni 
o i 
dati 
per i 
quali 
il 
legislatore 
abbia 
previsto 
la 
pubblicazione 
obbligatoria 
ai 
sensi 
dell'art. 
3, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
n. 
33/2013, 
“fermi 
restando 
i 
limiti 
e 
le 
condizioni 
espressamente 
previsti 
da 
disposizioni 
di 
legge, 
procedendo 
all’anonimizzazione 
dei 
dati 
personali 
eventualmente presenti" (art. 4, comma 3). 


Le 
singole 
amministrazioni 
sono 
tenute 
ad 
adottare 
autonomamente 
le 
misure 
organizzative 
necessarie 
al 
fine 
di 
assicurare 
l'efficacia 
di 
tale 
istituto 
e 
a 
pubblicare, nella 
sezione 
“amministrazione 
Trasparente”, gli 
indirizzi 
di 
posta 
elettronica 
cui 
inoltrare 
le 
richieste 
di 
accesso civico, corredate 
dalle 
informazioni 
relative alle modalità di esercizio di tale diritto. 


Anche 
nell'ordinamento dell'Unione 
Europea, soprattutto a 
seguito del-
l'entrata 
in 
vigore 
del 
Trattato 
di 
Lisbona 
(cfr. 
art. 
15 
TFUE 
e 
capo 
v 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali) 
il 
diritto 
di 
accesso 
non 
è 
preordinato 
alla 
tutela 
di 
una 
propria 
posizione 
giuridica 
soggettiva, quindi 
non richiede 
la 
prova 
di 
un 
interesse 
specifico, 
ma 
risponde 
ad 
un 
principio 
generale 
di 
trasparenza 
dell'azione 
dell'Unione 
ed è 
uno strumento di 
controllo democratico sull'operato 
dell'amministrazione 
europea, 
come 
strumento 
per 
promuovere 
il 
buon 
governo e garantire la partecipazione della società civile. 

La 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo ha 
qualificato il 
diritto di 
accesso 
alle 
informazioni 
quale 
specifica 
manifestazione 
della 
libertà 
di 
informazione 
ed in quanto tale 
protetto dall'art. 10(1) della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo. 

Come 
previsto nella 
legge 
190/2012, il 
principio della 
trasparenza 
costituisce, 
inoltre, misura 
fondamentale 
per le 
azioni 
di 
prevenzione 
e 
contrasto 
anticipato della corruzione. 


A 
questa 
impostazione 
consegue, nel 
novellato decreto legislativo n. 33 
del 
2013 
ad 
opera 
del 
decreto 
legislativo 
n. 
97 
del 
2016, 
il 
rovesciamento 
della 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


precedente 
prospettiva 
che 
comportava 
l'attivazione 
del 
diritto di 
accesso civico 
solo 
strumentalmente 
all'adempimento 
dell'obbligo 
di 
pubblicazione; 
ora 
è 
proprio la 
libertà 
di 
accedere 
ai 
dati 
e 
ai 
documenti, cui 
corrisponde 
una 
diversa 
versione 
dell'accesso 
civico, 
a 
divenire 
centrale 
nel 
nuovo 
sistema, 
in 
analogia 
agli 
ordinamenti 
aventi 
il 
Freedom 
of Information Act 
(FoIA), ove 
il 
diritto all'informazione 
è 
generalizzato e 
la 
regola 
generale 
è 
la 
trasparenza, 
mentre la riservatezza e il segreto costituiscono le eccezioni. 


In 
coerenza 
con 
il 
quadro 
normativo, 
il 
diritto 
di 
accesso 
civico 
disciplinato 
dall'art. 
5, 
comma 
1 
d.lgs. 
14 
marzo 
2013, 
n. 
33 
si 
configura 
come 
diritto 
a 
titolarità 
diffusa, 
potendo 
essere 
attivato 
“da 
chiunque” 
e 
non 
essendo 
sottoposto 
ad 
alcuna 
limitazione 
quanto 
alla 
legittimazione 
soggettiva 
del 
richiedente 
(comma 
3). 


A 
ciò si 
aggiunge 
un ulteriore 
elemento, ossia 
che 
l'istanza 
“non richiede 
motivazione”. In altri 
termini, tale 
nuova 
tipologia 
di 
accesso risponde 
all'interesse 
dell'ordinamento di 
assicurare 
ai 
cittadini 
(a 
“chiunque”), indipendentemente 
dalla 
titolarità 
di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive, un accesso a 
dati, 
documenti 
e 
informazioni 
detenute 
da 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
dai 
soggetti 
indicati 
nell'art. 2-bis 
del 
d.lgs. 33/2013 come 
modificato dal 
d.lgs. 97/2016. 


Per 
quanto 
sopra 
evidenziato, 
si 
ritiene 
che 
i 
principi 
delineati 
debbano 
fungere 
da 
canone 
interpretativo 
in 
sede 
di 
applicazione 
della 
disciplina 
del-
l'accesso 
civico 
generalizzato 
da 
parte 
delle 
amministrazioni 
e 
degli 
altri 
soggetti 
obbligati, 
avendo 
il 
legislatore 
posto 
la 
trasparenza 
e 
l'accessibilità 
come 
la 
regola 
rispetto 
alla 
quale 
i 
limiti 
e 
le 
esclusioni 
previste 
dall'art. 
5 
bis 
del 
d.lgs. 
33/2013, 
rappresentano 
eccezioni 
e 
come 
tali 
da 
interpretarsi 
restrittivamente. 


L'accesso 
civico 
generalizzato 
non 
sostituisce 
l'accesso 
civico 
“semplice” 
(d'ora 
in poi 
“accesso civico”) previsto dall'art. 5, comma 
1 del 
decreto trasparenza 
e 
disciplinato nel 
citato decreto già 
prima 
delle 
modifiche 
ad opera 
del d.lgs. 97/2016. 

L'accesso 
civico 
rimane 
circoscritto 
ai 
soli 
atti, 
documenti 
e 
informazioni 
oggetto di 
obblighi 
di 
pubblicazione 
e 
costituisce 
un rimedio alla 
mancata 
osservanza 
degli 
obblighi 
di 
pubblicazione 
imposti 
dalla 
legge, sovrapponendo 
al 
dovere 
di 
pubblicazione, il 
diritto del 
privato di 
accedere 
ai 
documenti, dati 
e informazioni interessati dall'inadempienza. 


I 
due 
diritti 
di 
accesso, 
pur 
accomunati 
dal 
diffuso 
riconoscimento 
in 
capo 
a“chiunque”, 
indipendentemente 
dalla 
titolarità 
di 
una 
situazione 
giuridica 
soggettiva connessa, sono quindi destinati a muoversi su binari differenti. 


L'accesso 
civico 
generalizzato 
si 
delinea 
come 
affatto 
autonomo 
ed 
indipendente 
da 
presupposti 
obblighi 
di 
pubblicazione 
e 
come 
espressione, 
invece, 
di 
una 
libertà 
che 
incontra, 
quali 
unici 
limiti, 
da 
una 
parte, 
il 
rispetto 
della 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
e/o 
privati 
indicati 
all'art. 
5 
bis, 
commi 
1 
e 
2 
e 
dall'altra, 
il 
rispetto 
delle 
norme 
che 
prevedono 
specifiche 
esclusioni 
(art. 
5 
bis, 
comma 
3). 


L'accesso civico generalizzato si 
differenzia 
dalla 
disciplina 
dell'accesso 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


ai 
documenti 
amministrativi 
di 
cui 
agli 
articoli 
22 
e 
seguenti 
della 
legge 
7 
agosto 
1990, n. 241 (d'ora in poi “accesso documentale”). 


La 
finalità 
dell'accesso 
documentale 
ex 
l. 
241/90 
è 
quella 
di 
far 
esercitare 
al 
meglio 
le 
facoltà 
-partecipative 
e/o 
oppositive 
e 
difensive 
-che 
l'ordinamento 
attribuisce 
a 
tutela 
delle 
posizioni 
giuridiche 
qualificate 
di 
cui 
si 
è 
titolari. 


Più precisamente, dal 
punto di 
vista 
soggettivo, ai 
fini 
dell'istanza 
di 
accesso 
ex lege 
n. 241 del 
1990 il 
richiedente 
deve 
dimostrare 
di 
essere 
titolare 
di 
un «interesse 
diretto, concreto e 
attuale, corrispondente 
ad una situazione 
giuridicamente 
tutelata 
e 
collegata 
al 
documento 
al 
quale 
è 
chiesto 
l’accesso». 
La 
legge 
241/90 
esclude 
perentoriamente 
l'utilizzo 
del 
diritto 
di 
accesso 
ivi 
disciplinato 
al 
fine 
di 
sottoporre 
l'amministrazione 
a 
un 
controllo 
generalizzato. 


dunque, 
l'accesso 
agli 
atti 
di 
cui 
alla 
L. 
241/90 
continua 
certamente 
a 
sussistere 
parallelamente 
all'accesso 
civico 
(generalizzato 
e 
non), 
operando 
sulla base di norme e presupposti del tutto difformi. 


Tenere 
distinte 
le 
due 
tipologie 
di 
accesso è 
essenziale 
per calibrare 
i 
diversi 
interessi 
in 
gioco, 
allorché 
si 
renda 
necessario 
un 
bilanciamento 
caso 
per 
caso tra tali interessi. 

Come 
già 
evidenziato, 
essendo 
l'ordinamento 
improntato 
ad 
una 
netta 
preferenza 
per la 
trasparenza 
dell'attività 
amministrativa, la 
conoscibilità 
generalizzata 
degli 
atti 
diviene 
la 
regola, temperata 
solo dalla 
previsione 
di 
eccezioni 
poste 
a 
tutela 
di 
interessi 
(pubblici 
e 
privati), 
che 
possono 
essere 
lesi/pregiudicati 
dalla 
rivelazione 
di 
certi 
dati 
e/o contemperati 
attraverso lo 
strumento del differimento. 


Ulteriori 
istituti 
che 
assicurano 
ai 
cittadini 
l’esercizio 
del 
diritto 
di 
accesso 
sono 
l’accesso 
alla 
documentazione 
relativa 
alle 
gare 
d’appalto 
(art. 
53 
del 
d.lgs. 
50/2016) 
e 
la 
disciplina 
di 
particolare 
favore 
riservata 
ai 
Consiglieri 
comunali 
e provinciali (art. 43 del d.lgs. 267/2000 TUEL). 


7. La pianificazione territoriale regionale, provinciale o metropolitana. 
La 
pianificazione 
territoriale, sia 
di 
carattere 
generale 
che 
settoriale, che 
di 
livello metropolitano, provinciale, regionale 
o d’area 
vasta, pur assumendo 
nelle 
legislazioni 
regionali 
denominazioni 
talvolta 
differenti, è 
regolamentata 
in maniera 
analoga, per i 
profili 
concernenti 
la 
trasparenza 
e 
la 
partecipazione 
alle 
diverse 
fasi 
in cui 
si 
articola 
la 
procedura 
di 
approvazione 
(formazione, 
adozione e approvazione del piano). 


Molte 
legislazioni 
regionali 
prevedono, 
infatti, 
peculiari 
forme 
di 
pubblicità 
dell’atto 
con 
cui 
l’organo 
di 
governo 
manifesta 
la 
volontà 
di 
procedere 
all’elaborazione 
del 
piano territoriale 
o alla 
sua 
variante, disciplinando già 
in 
questa fase la partecipazione dei portatori di interesse. 


Con 
riferimento 
alla 
fase 
di 
adozione 
dell’atto 
di 
pianificazione 
regionale, 
le 
discipline 
regionali 
sono 
sostanzialmente 
omogenee, 
prevedendo 
ampie 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


forme 
di 
pubblicità 
tra 
cui 
la 
consultazione 
degli 
atti 
via 
web 
e 
presso le 
sedi 
regionali, 
provinciali, 
spesso 
anche 
presso 
le 
sedi 
comunali, 
garantendo 
a 
tutti 
i 
portatori 
di 
interesse 
la 
possibilità 
di 
accedere 
agli 
atti 
e 
di 
esprimere 
le 
proprie 
osservazioni. 


Con riferimento, infine, alla 
fase 
di 
approvazione, la 
proposta 
di 
atto di 
pianificazione 
territoriale 
viene 
elaborata 
con apposito atto motivato (anche 
sull’accoglimento delle 
osservazioni) e 
trasmessa 
al 
Consiglio regionale 
per 
l’approvazione definitiva. 


8. i processi di pianificazione comunale generale e l’attività di vigilanza. 
Il 
modello 
della 
pianificazione 
disciplinato 
dalla 
legge 
urbanistica 
1150/1942 prevede 
il 
piano regolatore 
generale 
(p.r.g.), che 
presenta, oltre 
ad 
un contenuto direttivo e 
programmatico, prescrizioni 
vincolanti 
per i 
privati, 
con 
effetti 
conformativi 
della 
proprietà. 
Esso 
può 
essere 
ricondotto 
ai 
piani 
comunali 
generali, 
ovvero 
a 
quegli 
strumenti 
di 
pianificazione 
urbanistica 
che 
hanno ad oggetto l’intero territorio comunale. 


Le 
leggi 
regionali 
hanno introdotto propri 
modelli 
di 
pianificazione 
urbanistico-
territoriale 
e 
sono intervenute 
sulla 
struttura, sul 
contenuto e 
sugli 
effetti 
giuridici 
della 
pianificazione 
urbanistica 
comunale, che 
può articolarsi 
su 
più 
livelli. 
di 
conseguenza, 
il 
panorama 
attuale 
dei 
piani 
comunali 
generali 
si presenta molto variegato e complesso. 

Pertanto, 
anche 
la 
mappatura 
dei 
processi 
di 
pianificazione 
generale 
e 
l’individuazione 
dei 
rischi 
corruttivi 
che 
ne 
derivano 
devono 
essere 
dimensionate 
e 
calibrate 
da 
ogni 
amministrazione 
interessata 
in 
rapporto 
a 
tale 
complessità 
e varietà. 


di 
seguito si 
indicano alcuni 
eventi 
rischiosi, aggregati 
per fasi 
del 
processo, 
che 
possono considerarsi 
comuni 
ai 
vari 
modelli 
adottati 
dalle 
regioni 
ed alcune misure per prevenirli. 


Le 
varianti 
specifiche 
allo 
strumento 
urbanistico 
generale, 
approvate 
con 
iter 
ordinario 
ovvero 
attraverso 
i 
numerosi 
procedimenti 
che 
consentono 
l’approvazione 
di 
progetti 
con 
l’effetto 
di 
variante 
agli 
strumenti 
urbanistici, 
sono 
esposte 
a 
rischio 
corruttivo 
e 
necessitano 
di 
misure 
preventive 
integrative, 
laddove 
dalle 
modifiche 
derivi 
per i 
privati 
interessati 
un significativo aumento 
delle 
potestà 
edificatorie 
o del 
valore 
d’uso degli 
immobili 
interessati. I rischi 
connessi 
a 
tali 
varianti 
ineriscono in particolare: 
alla 
scelta 
o al 
maggior consumo 
del 
suolo finalizzati 
a 
procurare 
un indebito vantaggio ai 
destinatari 
del 
provvedimento; 
alla 
possibile 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
diversi 
operatori; 
alla 
sottostima del maggior valore generato dalla variante. 


La 
mancanza 
di 
chiare 
e 
specifiche 
indicazioni 
preliminari, 
da 
parte 
degli 
organi 
politici, sugli 
obiettivi 
delle 
politiche 
di 
sviluppo territoriale, alla 
cui 
concretizzazione 
le 
soluzioni 
tecniche 
devono 
essere 
finalizzate, 
può 
impedire 
una 
trasparente 
verifica 
della 
corrispondenza 
tra 
le 
soluzioni 
tecniche 
adottate 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


e 
le 
scelte 
politiche 
ad 
esse 
sottese, 
non 
rendendo 
evidenti 
gli 
interessi 
pubblici 
che effettivamente si intendono privilegiare. 

Tale 
commistione 
tra 
soluzioni 
tecniche 
e 
scelte 
politiche 
è 
ancor più rimarcata 
nel 
caso in cui 
la 
redazione 
del 
piano sia 
affidata 
a 
tecnici 
esterni 
al-
l’amministrazione comunale. 


va 
rilevato 
che 
in 
caso 
di 
affidamento 
della 
redazione 
del 
piano 
a 
soggetti 
esterni 
all’amministrazione 
comunale, 
è 
necessario 
che 
l’ente 
renda 
note 
le 
ragioni 
che 
determinano 
questa 
scelta, 
le 
procedure 
che 
intende 
seguire 
per 
individuare 
il 
professionista, 
cui 
affidare 
l’incarico 
e 
i 
relativi 
costi, 
nel 
rispetto 
della 
normativa 
vigente 
in materia 
di 
affidamento di 
servizi 
e, comunque, dei 
principi 
dell’evidenza 
pubblica; 
il 
Comune, 
specialmente 
se 
di 
piccole 
dimensioni, 
può 
valutare 
preventivamente 
la 
possibilità 
di 
associarsi 
con 
comuni 
confinanti 
per la 
redazione 
dei 
rispettivi 
piani, con conseguente 
risparmio di 
costi 
e 
possibilità 
di 
acquisire 
una 
visione 
più ampia 
e 
significativa 
di 
contesti 
territoriali contigui e omogenei. 

In 
ogni 
caso, 
è 
opportuno 
che 
lo 
staff, 
incaricato 
della 
redazione 
del 
piano, 
sia 
interdisciplinare 
(con 
la 
presenza 
di 
competenze 
anche 
ambientali, 
paesaggistiche 
e 
giuridiche) e 
che 
siano comunque 
previste 
modalità 
operative, che 
vedano il diretto coinvolgimento delle diverse strutture comunali. 


È 
fondamentale 
la 
verifica 
dell’assenza 
di 
cause 
di 
incompatibilità 
o di 
casi 
di 
conflitto di 
interesse 
in capo a 
tutti 
i 
soggetti 
appartenenti 
al 
gruppo di 
lavoro, 
anteriormente 
all’avvio 
del 
processo 
di 
elaborazione 
del 
piano, 
nonché 
l’individuazione, da 
parte 
dell'organo politico competente, degli 
obiettivi 
generali 
del 
piano e 
l’elaborazione 
di 
criteri 
generali 
e 
linee 
guida 
per la 
definizione 
delle conseguenti scelte pianificatorie. 

In quest’ottica 
è 
utile 
prevedere, in fase 
di 
adozione 
dello strumento urbanistico, 
che 
l'amministrazione 
comunale 
effettui 
un’espressa 
verifica 
del 
rispetto 
della 
coerenza 
tra 
gli 
indirizzi 
di 
politica 
territoriale 
e 
le 
soluzioni 
tecniche adottate e in caso apporti i conseguenti correttivi. 

Può, altresì, essere 
opportuno dare 
ampia 
diffusione 
di 
tali 
documenti 
di 
indirizzo alla 
popolazione 
locale, prevedendo forme 
di 
partecipazione 
dei 
cittadini 
sin dalla 
fase 
di 
redazione 
del 
piano, in modo da 
acquisire 
ulteriori 
informazioni 
sulle 
effettive 
esigenze 
o 
sulle 
eventuali 
criticità 
di 
aree 
specifiche, 
per adeguare 
ed orientare 
le 
soluzioni 
tecniche, ma 
anche 
al 
fine 
di 
consentire 
a 
tutta 
la 
cittadinanza, così 
come 
alle 
associazioni 
e 
organizzazioni 
locali, di 
avanzare 
proposte 
di 
carattere 
generale 
e 
specifico 
per 
riqualificare 
l’intero 
territorio comunale, con particolare attenzione ai servizi pubblici. 


Possibili 
misure 
atte 
a 
scongiurare 
rischi 
di 
contaminazioni 
illecite 
nel 
procedimento 
possono 
essere 
quelle 
di 
divulgare 
le 
decisioni 
fondamentali 
contenute 
nel 
piano adottato, anche 
attraverso l’elaborazione 
di 
documenti 
di 
sintesi 
dei 
loro 
contenuti 
in 
linguaggio 
non 
tecnico 
e 
la 
predisposizione 
di 
punti informativi per i cittadini. 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Nella 
fase 
di 
approvazione 
del 
piano 
è 
opportuno 
che 
sia 
prevista 
una 
motivazione 
puntuale 
delle 
decisioni 
di 
accoglimento delle 
osservazioni 
che 
modificano il 
piano adottato, con particolare 
riferimento agli 
impatti 
sul 
contesto 
ambientale, paesaggistico e culturale. 


In alcune 
leggi 
regionali 
è 
previsto che 
la 
regione, la 
provincia 
e 
la 
città 
metropolitana 
svolgano un’importante 
attività 
di 
concorso nel 
processo di 
approvazione 
dei 
piani 
comunali, finalizzata 
a 
garantire 
la 
coerenza 
tra 
i 
vari 
livelli 
di governo del territorio. 


Nell’esercizio 
di 
tale 
funzione 
possono 
individuarsi 
alcuni 
eventi 
rischiosi 
tra 
cui: 
il 
decorso 
infruttuoso 
del 
termine 
di 
legge 
a 
disposizione 
degli 
enti 
per 
adottare 
le 
proprie 
determinazioni, 
al 
fine 
di 
favorire 
l’approvazione 
del 
piano 
senza 
modifiche; 
l’istruttoria 
non 
approfondita 
del 
piano 
in 
esame 
da 
parte 
del 
responsabile 
del 
procedimento; 
l’accoglimento delle 
controdeduzioni 
comunali 
alle 
proprie 
precedenti 
riserve 
sul 
piano, pur in carenza 
di 
adeguate 
motivazioni. 


Le 
principali 
misure 
di 
prevenzione 
possono 
fare 
leva 
sulla 
trasparenza 
degli 
atti, 
anche 
istruttori, 
al 
fine 
di 
rendere 
evidenti 
e 
conoscibili 
le 
scelte 
operate. 


Per 
quanto 
concerne 
la 
trasparenza, 
ad 
esempio, 
l’ente 
(regione, 
provincia 


o 
città 
metropolitana) 
cura 
la 
pubblicazione 
sintetica 
e 
comprensibile 
degli 
atti, anche istruttori al fine di rendere evidenti e conoscibili le scelte operate. 
La 
locuzione 
“piani 
attuativi” 
non 
indica 
una 
tipologia 
omogenea 
di 
strumenti 
pianificatori, 
bensì 
una 
pluralità 
di 
strumenti 
urbanistici 
di 
dettaglio, 
non 
ascrivibili 
ad 
uno 
schema 
unitario, 
configurando 
tipologie 
pianificatorie 
fra 
loro 
disomogenee. 
A 
tali 
strumenti 
esecutivi 
della 
pianificazione 
urbanistica 
comunale, 
si 
è 
aggiunta 
una 
ulteriore 
categoria 
dei 
c.d. 
“programmi 
complessi” 
(il 
prototipo 
dei 
quali 
è 
il 
programma 
integrato 
di 
intervento, 
introdotto 
dall’art. 
16 
della 
legge 
17 
febbraio 
1992, 
n. 
179 
recante 
«Norme 
per 
l’edilizia 
residenziale 
pubblica») 
consistenti 
in 
programmi 
di 
intervento, 
finanziati 
con 
risorse 
pubbliche 
statali 
e 
regionali, 
che 
prevedono 
la 
realizzazione 
di 
opere 
di 
interesse 
pubblico 
e 
privato, 
per 
il 
recupero 
e 
la 
rigenerazione 
dei 
tessuti 
urbani 
esistenti. 
Tali 
programmi 
presentano 
il 
dettaglio 
urbanistico 
proprio 
dei 
piani 
attuativi 
e 
sono 
abilitati 
ad 
apportare 
varianti 
ai 
piani 
urbanistici 
generali. 


Nella 
fase 
di 
adozione 
del 
piano attuativo il 
principale 
evento rischioso è 
quello della 
mancata 
coerenza 
con il 
piano generale 
(e 
con la 
legge), che 
si 
traduce in uso improprio del suolo e delle risorse naturali. 


Un’efficace 
azione 
di 
contrasto dei 
fenomeni 
corruttivi 
presuppone 
che 
sia 
valorizzata 
l’efficacia 
prescrittiva 
del 
piano comunale 
generale, in ordine 
alla 
puntuale 
definizione 
degli 
obiettivi, dei 
requisiti 
e 
delle 
prestazioni 
che 
in fase attuativa degli interventi debbano essere realizzati. 

La 
chiarezza 
di 
tali 
indicazioni 
consente, infatti, di 
guidare 
in fase 
attuativa 
la 
verifica 
da 
parte 
delle 
strutture 
comunali 
del 
rispetto degli 
indici 
e 
parametri 
edificatori 
e 
degli 
standards 
urbanistici 
stabiliti 
dal 
piano 
generale, 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


ma 
anche 
della 
traduzione 
grafica 
delle 
scelte 
urbanistiche 
riguardanti: 
la 
viabilità 
interna, 
l’ubicazione 
dei 
fabbricati, 
la 
sistemazione 
delle 
attrezzature 
pubbliche, l’estensione dei lotti da edificare, ecc. 


I piani 
attuativi 
di 
iniziativa 
privata 
si 
caratterizzano per la 
presenza 
di 
un promotore 
privato, che 
predispone 
lo strumento urbanistico di 
esecuzione, 
sottoponendolo all’approvazione 
comunale 
e 
con il 
quale 
viene 
stipulata 
una 
convenzione 
per 
la 
realizzazione 
di 
opere 
di 
urbanizzazione 
primaria 
e 
secondaria 
e 
per la 
cessione 
delle 
aree 
necessarie. Tali 
piani 
sono pertanto particolarmente 
esposti al rischio di indebite pressioni di interessi particolaristici. 


I piani 
attuativi 
di 
iniziativa 
pubblica 
presentano caratteristiche 
comuni 
con 
i 
piani 
sopradescritti, 
ma 
sono 
caratterizzati 
in 
genere 
da 
una 
minore 
pressione 
o condizionamento da 
parte 
dei 
privati. Tuttavia, particolare 
attenzione 
deve 
essere 
prestata 
ai 
piani 
in 
variante, 
qualora 
risultino 
in 
riduzione 
delle 
aree assoggettate a vincoli ablatori. 


Fra 
gli 
atti 
predisposti 
nel 
corso del 
processo di 
pianificazione 
attuativa, 
lo schema 
di 
convenzione 
riveste 
un particolare 
rilievo, in quanto stabilisce 
gli 
impegni 
assunti 
dal 
privato per l’esecuzione 
delle 
opere 
di 
urbanizzazione 
connesse 
all’intervento (ed in particolare: 
obbligo di 
realizzazione 
di 
tutte 
le 
opere 
di 
urbanizzazione 
primaria 
e 
di 
una 
quota 
parte 
delle 
opere 
di 
urbanizzazione 
secondaria 
o di 
quelle 
che 
siano necessarie 
per allacciare 
la 
zona 
ai 
servizi 
pubblici; 
obbligo 
di 
cessione 
gratuita 
delle 
aree 
necessarie 
per 
le 
opere 
di 
urbanizzazione 
primaria 
e 
per le 
attrezzature 
pubbliche 
e 
di 
interesse 
pubblico 
o generale; 
nel 
caso in cui 
l’acquisizione 
di 
tali 
aree 
non risulti 
possibile 


o non sia 
ritenuta 
opportuna 
dal 
comune, corresponsione 
di 
una 
somma 
commisurata 
all’utilità 
economica 
conseguita 
per effetto della 
mancata 
cessione 
e 
comunque 
non inferiore 
al 
costo dell’acquisizione 
di 
altre 
aree; 
congrue 
garanzie 
finanziarie 
per gli 
obblighi 
derivanti 
al 
privato per effetto della 
stipula 
della convenzione). 
Nel 
calcolo 
degli 
oneri 
di 
urbanizzazione 
primaria 
e 
secondaria, 
un 
primo, 
possibile, 
evento 
rischioso 
è 
connesso 
alla 
non 
corretta, 
non 
adeguata 
o 
non 
aggiornata 
commisurazione 
degli 
“oneri” 
dovuti, 
in 
difetto 
o 
in 
eccesso, 
rispetto 
all’intervento 
edilizio 
da 
realizzare, 
al 
fine 
di 
favorire 
eventuali 
soggetti 
interessati. 


Ciò 
può 
aver 
luogo 
a 
causa 
di 
una 
erronea 
applicazione 
dei 
sistemi 
di 
calcolo, 
ovvero 
a 
causa 
di 
omissioni 
o 
errori 
nella 
valutazione 
dell’incidenza 
urbanistica 
dell’intervento 
e/o 
delle 
opere 
di 
urbanizzazione 
che 
lo 
stesso 
comporta. 


Altrettanto rilevante 
è 
la 
corretta 
individuazione 
delle 
opere 
di 
urbanizzazione 
necessarie 
e 
dei 
relativi 
costi, 
in 
quanto 
la 
sottostima/sovrastima 
delle 
stesse 
può comportare 
un danno patrimoniale 
per l’ente, venendo a 
falsare 
i 
contenuti 
della 
convenzione 
riferiti 
a 
tali 
valori 
(scomputo degli 
oneri 
dovuti, 
calcolo del contributo residuo da versare, ecc.). 


Possibili 
eventi 
rischiosi 
possono 
essere: 
l’individuazione 
di 
un’opera 
come 
prioritaria, laddove 
essa, invece, sia 
a 
beneficio esclusivo o prevalente 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


dell’operatore 
privato; 
l’indicazione 
di 
costi 
di 
realizzazione 
superiori 
a 
quelli 
che l’amministrazione sosterebbe con l’esecuzione diretta. 


Nella 
cessione 
delle 
aree 
necessarie 
per 
opere 
di 
urbanizzazione 
primaria 
e 
secondaria, le 
valutazioni 
compiute 
dall’amministrazione 
ai 
fini 
dell’acquisizione 
delle aree sono connotate da una forte discrezionalità tecnica. 

La 
cessione 
gratuita 
delle 
aree 
per 
standards 
è 
determinata 
con 
riferimento 
alle 
previsioni 
normative 
e 
al 
progetto 
urbano 
delineato 
dal 
piano 
e 
deve 
essere 
coerente 
con 
le 
soluzioni 
progettuali 
contenute 
negli 
strumenti 
urbanistici 
esecutivi 
o 
negli 
interventi 
edilizi 
diretti 
convenzionati, 
mentre 
tempi 
e modalità della cessione sono stabiliti nella convenzione. 


I 
possibili 
eventi 
rischiosi 
consistono 
dunque: 
nell’errata 
determinazione 
della 
quantità 
di 
aree 
da 
cedere 
(inferiore 
a 
quella 
dovuta 
ai 
sensi 
della 
legge 
o 
degli 
strumenti 
urbanistici 
sovraordinati); 
nell’individuazione 
di 
aree 
da 
cedere 
di 
minor 
pregio 
o 
di 
poco 
interesse 
per 
la 
collettività, 
con 
sacrificio 
dell'interesse 
pubblico 
a 
disporre 
di 
aree 
di 
pregio 
per 
servizi, 
quali 
verde 
o 
parcheggi; 
nel-
l’acquisizione 
di 
aree 
gravate 
da 
oneri 
di 
bonifica 
anche 
rilevanti. 


In 
conformità 
alla 
legislazione 
regionale 
vigente, 
la 
pianificazione 
urbanistica 
può 
prevedere 
il 
versamento 
al 
comune 
di 
un 
importo 
alternativo 
alla 
cessione 
diretta 
delle 
aree, 
qualora 
l'acquisizione 
non 
risulti 
possibile 
o 
non 
sia 
ritenuta 
opportuna, 
in 
relazione 
alla 
estensione 
delle 
aree, 
alla 
loro 
conformazione 
o 
localizzazione, 
ovvero 
in 
relazione 
ai 
programmi 
comunali 
di 
intervento. 


Tale 
valutazione 
appartiene 
alla 
discrezionalità 
tecnica 
degli 
uffici 
competenti 
e 
può 
comportare 
minori 
entrate 
per 
le 
finanze 
comunali, 
ma 
anche 
determinare 
un’elusione 
dei 
corretti 
rapporti 
tra 
spazi 
destinati 
agli 
insediamenti 
residenziali 
o 
produttivi 
e 
spazi 
a 
destinazione 
pubblica, 
con 
sacrificio 
del-
l’interesse 
generale 
a 
disporre 
di 
servizi 
-quali 
aree 
a 
verde 
o parcheggi 
-in 
aree di pregio. 


Anche 
nel 
corso 
del 
processo 
di 
approvazione 
del 
piano 
attuativo, 
possono 
essere 
riscontrati 
eventi 
rischiosi 
(legati 
alla 
scarsa 
trasparenza 
e 
conoscibilità 
dei 
contenuti 
del 
piano, 
alla 
mancata 
o 
non 
adeguata 
valutazione 
delle 
osservazioni 
pervenute, 
dovuta 
a 
indebiti 
condizionamenti 
dei 
privati 
interessati, 
al 
non 
adeguato 
esercizio 
della 
funzione 
di 
verifica 
dell’ente 
sovraordinato). 


La 
fase 
dell’esecuzione 
da 
parte 
degli 
operatori 
privati 
delle 
opere 
di 
urbanizzazione 
presenta 
rischi 
analoghi 
a 
quelli 
previsti 
per l’esecuzione 
di 
lavori 
pubblici 
e 
alcuni 
rischi 
specifici, laddove 
l’amministrazione 
non eserciti 
i 
propri 
compiti 
di 
vigilanza 
al 
fine 
di 
evitare 
la 
realizzazione 
di 
opere 
qualitativamente 
di minor pregio rispetto a quanto dedotto in obbligazione. 


Le 
carenze 
nell’espletamento di 
tale 
importante 
attività 
comportano un 
danno sia 
per l’ente, che 
sarà 
costretto a 
sostenere 
più elevati 
oneri 
di 
manutenzione 
o per la 
riparazione 
di 
vizi 
e 
difetti 
delle 
opere, sia 
per la 
collettività 
e 
per gli 
stessi 
acquirenti 
degli 
immobili 
privati 
realizzati 
che 
saranno privi 
di 
servizi essenziali ai fini dell’agibilità degli stessi. 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


Altro 
rischio 
tipico 
è 
costituito 
dal 
mancato 
rispetto 
delle 
norme 
sulla 
scelta del soggetto che deve realizzare le opere. 


Al 
fine 
di 
evitare 
quanto 
sopra 
è 
opportuno 
costituire 
un’apposita 
struttura 
interna, 
composta 
da 
dipendenti 
di 
uffici 
tecnici 
con 
competenze 
adeguate 
alla 
natura 
delle 
opere 
e 
che 
non siano in rapporto di 
contiguità 
con il 
privato, che 
verifichi 
puntualmente 
la 
correttezza 
dell’esecuzione 
delle 
opere 
previste 
in 
convenzione. 
Tale 
compito 
di 
vigilanza 
deve 
comprendere 
anche 
l’accertamento 
della 
qualificazione 
delle 
imprese 
utilizzate, 
qualora 
l’esecuzione 
delle 
opere 
sia 
affidata 
direttamente 
al 
privato titolare 
del 
permesso di 
costruire, in 
conformità 
alla 
vigente 
disciplina 
in materia 
(cfr. d.lgs. 50/2016, artt. 1, co. 
2, lettera 
e) e 
36, co. 3 e 
4, ove 
è 
fatta 
salva 
la 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 16, 
co. 2-bis, del 
Testo Unico sull’edilizia). 

L’attività 
amministrativa 
attinente 
al 
rilascio 
o 
alla 
presentazione 
dei 
titoli 
abilitativi 
edilizi 
e 
ai 
relativi 
controlli, 
salvo 
diversa 
disciplina 
regionale, 
è 
regolata 
dal d.p.r. 380/2001. 


va 
rilevato che 
il 
procedimento per il 
rilascio del 
permesso di 
costruire 
e 
la 
verifica 
delle 
istanze 
presentate 
dai 
privati 
in 
relazione 
a 
SCIA, 
CIL 
e 
CILA 
sono 
considerati 
espressione 
di 
attività 
vincolata, 
in 
quanto 
in 
presenza 
dei 
requisiti 
e 
presupposti 
richiesti 
dalla 
legge 
non sussistono margini 
di 
discrezionalità, 
né 
circa 
l’ammissibilità 
dell’intervento, 
né 
sui 
contenuti 
progettuali 
dello stesso. 


Nondimeno, l’ampiezza 
e 
la 
complessità 
della 
normativa 
da 
applicare 
è 
tale da indurre a considerare l’attività edilizia un’area di rischio specifico. 


Sotto il 
profilo della 
complessità 
e 
rilevanza 
dei 
processi 
interpretativi, 
non sussistono differenze 
significative 
tra 
i 
diversi 
tipi 
di 
titoli 
abilitativi 
edilizi: 
l’uno, il 
permesso di 
costruire, richiede 
il 
rilascio di 
un provvedimento 
abilitativo (suscettibile 
di 
silenzio assenso); 
l’altro, la 
SCIA 
presuppone 
comunque 
un 
obbligo 
generale 
dell’amministrazione 
comunale 
di 
provvedere 
al 
controllo della pratica. 

Ma 
in entrambi 
i 
casi 
è 
necessaria 
una 
attività 
istruttoria 
che 
porti 
all’accertamento 
della 
sussistenza 
dei 
requisiti 
e 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge 
per 
l’intervento ipotizzato. 


In questa 
fase 
il 
principale 
evento rischioso consiste 
nell’assegnazione 
a 
tecnici 
in 
rapporto 
di 
contiguità 
con 
professionisti 
o 
aventi 
titolo 
al 
fine 
di 
orientare 
le 
decisioni 
edilizie. Nelle 
difficoltà 
di 
attuare 
misure 
di 
rotazione, a 
causa 
della 
specializzazione 
richiesta 
ai 
funzionari 
assegnati 
a 
tali 
funzioni, 
gli 
eventi 
corruttivi 
possono essere 
prevenuti, ove 
possibile, con l’informatizzazione 
delle 
procedure 
di 
protocollazione 
e 
assegnazione 
automatica 
delle 
pratiche 
ai 
diversi 
responsabili 
del 
procedimento. Sotto questo profilo è 
utile 
mantenere 
la 
tracciabilità 
delle 
modifiche 
alle 
assegnazioni 
delle 
pratiche 
e 
monitorare i casi in cui tali modifiche avvengono. 


Anche 
la 
fase 
di 
richiesta 
di 
integrazioni 
documentali 
e 
di 
chiarimenti 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


istruttori 
può essere 
l’occasione 
di 
pressioni, al 
fine 
di 
ottenere 
vantaggi 
indebiti. 
Le 
misure 
possibili 
attengono 
al 
controllo 
a 
campione 
di 
tali 
richieste, 
monitorando eventuali 
eccessive 
frequenze 
di 
tali 
comportamenti, al 
fine 
di 
accertare anomalie. 


Sia 
in 
caso 
di 
permesso 
di 
costruire 
(cui 
si 
applica 
il 
meccanismo 
del 
silenzio 
assenso) 
che 
di 
SCIA 
(per 
la 
quale 
è 
stabilito 
un 
termine 
perentorio 
per 
lo 
svolgimento 
dei 
controlli), 
la 
mancata 
conclusione 
dell’attività 
istruttoria 
entro 
i 
tempi 
massimi 
stabiliti 
dalla 
legge 
(e 
la 
conseguente 
non 
assunzione 
di 
provvedimenti 
sfavorevoli 
agli 
interessati) 
deve 
essere 
considerata 
un 
evento 
rischioso. 


Le 
amministrazioni 
devono 
porre 
attenzione 
al 
calcolo 
del 
contributo 
di 
costruzione 
da 
corrispondere, 
alla 
corretta 
applicazione 
delle 
modalità 
di 
rateizzazione 
dello 
stesso 
e 
all’applicazione 
delle 
eventuali 
sanzioni 
per 
il 
ritardo. 


Gli 
eventi 
rischiosi 
ad esso riferibili 
sono: 
l’errato calcolo del 
contributo, 
il 
riconoscimento di 
una 
rateizzazione 
al 
di 
fuori 
dei 
casi 
previsti 
dal 
regolamento 
comunale 
o comunque 
con modalità 
più favorevoli 
e 
la 
non applicazione 
delle sanzioni per il ritardo. 


In 
merito 
al 
controllo 
dei 
titoli 
rilasciati 
possono 
configurarsi 
rischi 
di 
omissioni 
o ritardi 
nello svolgimento di 
tale 
attività; 
inoltre 
può risultare 
carente 
la 
definizione 
di 
criteri 
per la 
selezione 
del 
campione 
delle 
pratiche 
soggette 
a controllo. 


In tutti 
i 
casi 
nei 
quali 
i 
controlli 
sono attuati 
a 
campione, la 
principale 
misura 
di 
prevenzione 
del 
rischio 
appare 
la 
puntuale 
regolamentazione 
dei 
casi 
e 
delle 
modalità 
di 
individuazione 
degli 
interventi 
da 
assoggettare 
a 
verifica 
(per esempio con sorteggio in data 
fissa, utilizzando un estrattore 
di 
numeri 
verificabili 
nel 
tempo, dando alle 
pratiche 
presentate 
un peso differente 
in ragione della rilevanza o della problematicità dell’intervento). 


L’attività 
di 
vigilanza 
costituisce 
un processo complesso volto all’individuazione 
degli 
illeciti 
edilizi, 
all’esercizio 
del 
potere 
sanzionatorio, 
repressivo 
e 
ripristinatorio, 
ma 
anche 
alla 
sanatoria 
degli 
abusi 
attraverso 
il 
procedimento 
di 
accertamento 
di 
conformità. 
Questa 
attività 
è 
connotata 
da 
un’ampia 
discrezionalità 
tecnica 
e, 
come 
tale, 
è 
suscettibile 
di 
condizionamenti 
e 
pressioni 
esterne, 
anche 
in 
relazione 
ai 
rilevanti 
valori 
patrimoniali 
in 
gioco 
e 
alla 
natura 
reale della sanzione ripristinatoria. 


Gli 
eventi 
rischiosi 
consistono, 
innanzitutto, 
nell’omissione 
o 
nel 
parziale 
esercizio 
dell’attività 
di 
verifica 
dell’attività 
edilizia 
in 
corso 
nel 
territorio. 
Altro 
evento 
rischioso 
può 
essere 
individuato 
nell’applicazione 
della 
sanzione 
pecuniaria, in luogo dell’ordine 
di 
ripristino, che 
richiede 
una 
attività 
particolarmente 
complessa, dal 
punto di 
vista 
tecnico, di 
accertamento dell’impossibilità 
di 
procedere 
alla 
demolizione 
dell’intervento abusivo senza 
pregiudizio 
per le opere eseguite legittimamente in conformità al titolo edilizio. 


Una 
particolare 
attenzione 
si 
deve 
avere 
per 
i 
processi 
di 
vigilanza 
e 
controllo 
delle 
attività 
edilizie 
(minori) 
non 
soggette 
a 
titolo 
abilitativo 
edilizio, 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


bensì 
totalmente 
liberalizzate 
o 
soggette 
a 
comunicazione 
di 
inizio 
lavori 
(CIL) 
da 
parte 
del 
privato 
interessato 
o 
a 
CIL 
asseverata 
da 
un 
professionista 
abilitato. 


Tali 
interventi, infatti, pur essendo comunque 
tenuti 
al 
rispetto della 
disciplina 
che 
incide 
sull’attività 
edilizia, sono sottratti 
alle 
ordinarie 
procedure 
di 
controllo e 
sottoposti 
alla 
generale 
funzione 
comunale 
di 
vigilanza 
sull’attività 
edilizia, il 
cui 
esercizio e 
le 
cui 
modalità 
di 
svolgimento di 
norma 
non 
sono soggetti a criteri rigorosi e verificabili. 


Al 
fine 
di 
prevenire 
i 
rischi 
di 
mancata 
ingiunzione 
a 
demolire 
l’opera 
abusiva 
o di 
omessa 
acquisizione 
gratuita 
al 
patrimonio comunale 
di 
quanto 
costruito, 
a 
seguito 
del 
mancato 
adempimento 
dell’ordine 
di 
demolire 
possono 
essere introdotte le seguenti misure: 


-l’istituzione 
di 
un registro degli 
abusi 
accertati, che 
consenta 
la 
tracciabilità 
di 
tutte 
le 
fasi 
del 
procedimento, compreso l’eventuale 
processo di 
sanatoria; 
-la 
pubblicazione 
sul 
sito del 
comune 
di 
tutti 
gli 
interventi 
oggetto di 
ordine 
di 
demolizione 
o ripristino e 
dello stato di 
attuazione 
degli 
stessi, nel 
rispetto 
della normativa sulla tutela della riservatezza; 
-il 
monitoraggio 
dei 
tempi 
del 
procedimento 
sanzionatorio, 
comprensivo 
delle attività esecutive dei provvedimenti finali. 


In 
conclusione, 
l’anticorruzione 
nella 
gestione 
del 
territorio 
è 
correlata 
alla 
necessità 
di 
semplificazione 
delle 
procedure 
e 
alla 
maggior 
trasparenza 
delle medesime. 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Come cambierà la sanità dopo il Covid: le linee 
evolutive future del sistema sanitario nazionale 


Gaetana Natale* 


La 
pandemia 
vissuta 
in 
questi 
ultimi 
due 
anni 
ci 
ha 
fatto 
capire 
in 
maniera 
drammatica la interrelazione sussistente tra economia e salute. 

ogni 
dollaro 
investito 
nella 
ricerca 
biomedica 
dà 
un 
ritorno 
di 
140 
dollari. 
Il 
rapporto 
spesa 
sanitaria 
sul 
PIL 
in 
Italia 
è 
al 
di 
sotto 
degli 
altri 
paesi 
europei, 
l’incidenza 
della 
spesa 
sanitaria 
secondo l’oCSE 
è 
del 
6% sul 
PIL. occorre 
un 
quadro 
programmatico 
e 
finanziario 
certo 
e 
stabile 
che 
tenga 
conto 
dell’innovazione, 
sostenibilità 
e 
governance 
del 
sistema 
sanitario, risolvendo anche 
il 
rapporto Stato-regioni. La 
spesa 
sanitaria 
non deve 
essere 
legata 
alla 
spesa 
storica, ma 
ai 
fabbisogni 
reali, superando la 
logica 
dei 
silos 
ed introducendo 
la 
valutazione 
del 
costo-opportunità, dicono gli 
economisti 
con modelli 
predittivi, 
con 
un’integrazione 
ospedale-territorio, 
con 
il 
potenziamento 
della 
medicina 
preventiva, 
di 
iniziativa 
e 
di 
prossimità, 
telemedicina, 
contrazione 
della 
mobilità 
sanitaria, 
adeguamento 
dell’offerta 
di 
assistenza 
sanitaria 
con 
un 
partenariato 
solido tra pubblico e privato. 

J.K. Helderman affermava 
che 
la 
spesa 
sanitaria 
incide 
in maniera 
significativa 
sulle 
politiche 
sociali 
ed economiche: 
tale 
affermazione 
ci 
fa 
molto 
riflettere 
se 
pensiamo che 
dopo la 
legge 
833/78 (universalità 
del 
sistema 
sanitario), 
FSN 
e 
Lea, dopo la 
crisi 
del 
1992 che 
imponeva 
il 
vincolo di 
spesa, si 
passa 
nel 
2006 
dalla 
regola 
“dell’aspettativa 
del 
ripiano 
dei 
disavanzi” 
ai 
piani 
di 
rientro, con programmazione 
e 
implementazione 
di 
misure 
di 
correzione, 
tetti 
di 
spesa 
payback, decreto Calabria 
(n. 35/2019), contrazione 
della 
spesa 
investita. 
La 
pandemia 
ha 
fatto 
emergere 
la 
logica 
della 
spesa 
utile 
ed 
efficiente 
con una 
sostituzione 
dell’ospedalizzazione 
a 
vantaggio della 
medicina 
territoriale, 
in 
particolare 
per 
il 
paziente 
con 
fragilità, 
disabilità, 
cronicità 
o 
con 
pluripatologie. 
La 
parola 
chiave 
è 
fare 
rete 
nella 
gestione 
di 
qualsiasi 
patologia, 
favorendo 
il 
modello 
hub 
and 
spoke, 
integrazione 
dell’assistenza 
sanitaria 
con 
i 
servizi 
socio-assistenziali 
e 
medicina 
preventiva. 
Stop 
alla 
logica 
dei 
silos, 
in 
quanto 
serve 
un’integrazione 
ospedale/territorio: 
non 
si 
possono 
considerare 
servizi 
e 
prestazioni 
come 
componenti 
isolati, 
ma 
nell’ottica 
di 
un’integrazione 
completa 
delle 
cure, tenendo conto anche 
dei 
costi 
indiretti, quali 
assegni di invalidità e inabilità erogati dall’Inps e dall’Inail. 


(*) Avvocato dello Stato, assegnato alla 
v 
Sezione 
dell’Avvocatura 
Generale 
dello Stato, Sezione 
preposta 
alla difesa tecnica del Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Aifa ed Agenas. 


Articolo pervenuto a questa Rassegna nel marzo 2022. 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


Come 
si 
possono 
valorizzare 
le 
innovazioni, 
telemedicina 
e 
big 
data? 
Come 
razionalizzare 
le 
norme 
del 
Codice 
degli 
appalti 
che 
distingue 
tra 
medicinali 
e 
dispositivi 
medici? 
Come 
realizzare 
la 
interoperabilità 
dei 
dati 
con 
data 
base 
che 
devono dialogare 
tra 
loro, tra 
Aifa, regioni 
e 
Ministero? 
Come 
realizzare 
in medicina 
il 
principio dell’once 
only 
e 
il 
sistema 
“cloud” 
per la 
PA, garantendo la 
titolarità 
del 
dato in mano pubblica. Come 
potenziare 
i 
dipartimenti 
di 
Prevenzione, 
i 
vecchi 
Uffici 
Igiene 
sul 
territorio? 
Come 
deve 
cambiare 
la 
figura 
del 
medico di 
medicina 
generale 
nelle 
nuove 
case 
di 
Comunità 
previste nel PNrr e definire percorsi di 
fast track 
negli ospedali? 


È 
singolare 
ricordare 
che 
la 
telemedicina 
nasce 
dal 
noto 
CIrM, 
radio 
medica 
fondata 
nel 
1934 
per 
la 
telemedicina 
dei 
marittimi 
presieduto 
da 
Guglielmo 
Marconi. 
La 
telemedicina 
pone 
certamente 
il 
problema 
della 
revisione 
delle 
gare 
d’appalto, 
della 
ridefinizione 
della 
responsabilità 
medica 
ex 
artt. 
2232 
cc 
-2236 
cc, 
la 
verifica 
del 
consenso 
informato, 
la 
responsabilità 
del-
l’equipe 
per 
smart 
reporting 
e 
second 
opinion 
e 
la 
tutela 
della 
privacy. 
vi 
sono 
Linee 
Guida 
del 
Ministro della 
salute 
fin dal 
2007 con un osservatorio Nazionale 
sulla 
Telemedicina. 

Secondo quanto previsto dal 
Pnrr ad Agenas 
è 
stata 
attribuita 
la 
governance 
della 
sanità 
digitale 
e 
a 
gennaio 2022 sono stati 
pubblicati 
i 
primi 
bandi 
per realizzare 
la 
Piattaforma 
per la 
telemedicina. Secondo quanto stabilito dal 
Comitato interministeriale 
per la 
transizione 
digitale, l’Agenzia 
nazionale 
per 
i 
servizi 
sanitari 
regionali 
avrà 
il 
compito 
di 
stabilire 
e 
rendere 
obbligatori 
standard 
omogenei 
per 
tutte 
le 
piattaforme 
pubbliche 
di 
sanità 
digitale. 
Il 
primo 
passo 
sarà 
quello 
di 
realizzare 
la 
piattaforma 
nazionale 
di 
telemedicina 
che 
gestirà 
i 
servizi 
nazionali 
abilitanti 
per 
l’adozione 
nei 
territori 
(ad 
esempio 
l’integrazione 
con l’identità 
digitale 
e 
pagoPA). L’identificazione 
delle 
specifiche 
applicazioni 
per i 
servizi 
di 
telemedicina 
-come 
la 
televisita, il 
telecontrollo, 
il 
teleconsulto, 
il 
telemonitoraggio 
-sarà, 
invece, 
affidata 
a 
livello 
regionale 
tramite 
regioni 
capofila, con l’obiettivo di 
selezionare 
applicazioni 
innovative 
e 
scalabili 
secondo 
requisiti 
definiti 
dalla 
piattaforma 
nazionale. 
La 
procedura 
di 
attivazione 
scelta 
per la 
piattaforma 
nazionale 
sarà 
quella 
del 
Private 
Public 
Partnership 
(PPP), 
nella 
quale 
soggetti 
privati 
possono 
proporre 
soluzioni 
tecnologiche, 
tra 
cui 
il 
Governo 
sceglierà 
la 
più 
rispondente 
alle 
proprie 
esigenze. L’Agenzia 
nazionale 
per i 
servizi 
sanitari 
regionali 
Agenas 
con 
il 
supporto del 
Ministero dell’Innovazione 
e 
della 
transizione 
digitale, raccoglierà 
le 
manifestazioni 
di 
interesse 
a 
partire 
da 
gennaio 2022, dopo la 
pubblicazione 
di 
uno 
specifico 
avviso. 
Per 
quanto 
riguarda 
le 
applicazioni 
che 
insistono sulla 
piattaforma 
nazionale, le 
regioni 
capofila, individuate 
su proposta 
del 
Ministero 
per 
gli 
Affari 
regionali 
e 
le 
Autonomie, 
d’intesa 
con 
il 
Ministero 
della 
Salute 
e 
con 
il 
Ministro 
per 
l’innovazione 
tecnologica 
e 
la 
transizione 
digitale, cureranno le 
procedure 
di 
acquisizione 
dei 
servizi 
di 
teleme



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


dicina. Tra 
queste 
soluzioni, tutte 
le 
regioni 
potranno scegliere 
i 
servizi 
che 
si 
adattano meglio alle 
loro esigenze, utilizzando le 
stesse 
procedure. I fondi 
del 
Piano Nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
saranno, quindi, erogati 
alle 
regioni 
che attiveranno servizi di telemedicina selezionati dagli specifici bandi. 

Si 
è, inoltre, deciso di 
costituire, all’interno di 
Agenas, una 
struttura 
dedicata 
alla 
governance 
della 
sanità 
digitale, con l’iniziale 
supporto del 
MITd. 
Agenas 
avrà, così, la 
responsabilità 
di 
stabilire 
e 
rendere 
obbligatori 
standard 
omogenei 
per tutte 
le 
piattaforme 
pubbliche 
di 
sanità 
digitale, al 
fine 
di 
consentire 
la 
portabilità 
dei 
dati 
sanitari, certificare 
soluzioni 
tecnologiche 
e 
governare 
l’interoperabilità 
e 
la 
scalabilità 
a 
livello 
centrale. 
Alla 
luce 
di 
tale 
indicazioni 
programmatiche, grazie 
alle 
risorse 
del 
PNrr, nel 
2022 si 
aprono 
ampie 
opportunità 
di 
trasformazione 
digitale 
in Sanità. Progetti 
che 
possono 
contribuire al ridisegno di una Sanità più giusta, sostenibile e personalizzata. 

Ma 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti 
devono 
essere 
pronti 
a 
sfruttare 
le 
opportunità 
che 
si 
stanno presentando. Se 
il 
2020 è 
stato l’anno della 
“resilienza” 
e, forse, 
con un pizzico di 
ottimismo, possiamo definire 
il 
2021 come 
l’anno della 
“ripresa” 
con il 
Pil 
al 
6%, ci 
auguriamo che 
il 
2022 possa 
essere 
per la 
Sanità 
l’anno 
della 
“trasformazione”. 
La 
pandemia 
da 
Covid 
non 
si 
è 
ancora 
esaurita, 
ma 
il 
sistema 
sanitario sta 
dimostrando di 
saper reagire 
ed essere 
in grado di 
passare 
da 
uno stato di 
risposta 
in emergenza 
ad uno più consapevole 
e 
strutturato 
di 
“nuova 
normalita”, 
rafforzandosi 
per 
mettere 
in 
campo 
servizi 
più 
adeguati 
ai 
bisogni 
di 
cittadini, 
pazienti 
e 
professionisti 
sanitari 
e 
capaci 
di 
evolvere alla luce delle nuove sfide. 

di 
questa 
volontà 
di 
trasformazione 
il 
Piano Nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(PNrr) è 
al 
tempo stesso premessa 
e 
banco di 
prova: 
la 
Missione 
6 
si 
focalizza 
interamente 
sulla 
Salute, dedicando in particolare 
8,63 miliardi 
di 
euro a 
“Innovazione, ricerca 
e 
digitalizzazione 
del 
Servizio Sanitario Nazionale 
(SSN)” 
e 
7 
miliardi 
a 
“reti 
di 
prossimità, 
strutture 
e 
telemedicina 
per 
l’assistenza 
sanitaria 
territoriale”, 
andando 
così 
ad 
affrontare 
due 
dei 
principali 
punti di debolezza del nostro sistema. 

Ma 
come 
cambierà 
la 
sanità 
dopo 
il 
Covid? 
di 
recente 
è 
stato 
trasmesso 
alle 
regioni 
dal 
Ministero 
della 
Salute 
il 
decreto 
denominato 
“dM 
71” 
con i 
nuovi 
standard per le 
cure 
territoriali. Tale 
decreto definisce 
come 
dovranno essere 
organizzate 
e 
con quanto personale 
le 
cure 
sul 
territorio. A 
vigilare sarà l’Agenas che presenterà ogni sei mesi un’apposita relazione. 

Il 
perno del 
sistema 
sarà 
il 
distretto sanitario al 
cui 
interno rivestirà 
un 
ruolo 
fondamentale 
la 
Casa 
della 
Comunità, 
dove 
i 
cittadini 
potranno 
trovare 
assistenza 
h24 ogni 
giorno della 
settimana. Rimangono in 
piedi 
gli 
studi 
dei 
medici 
di 
famiglia (definiti 
spoke 
delle 
Case 
Comunità) che 
saranno collegati 
in 
rete 
per 
garantire 
aperture 
h12 sei 
giorni 
su 
sette. il 
decreto è 
stato denominato dM 
71, intendendo con 
tale 
sigla l’omologo per 
l’assi



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


stenza 
territoriale 
del 
dM 
70 
del 
2015 
sugli 
standard 
ospedalieri. 
Il 
decreto 
ministeriale 
che 
ora 
dovrà 
essere 
approvato in Conferenza 
Stato-regioni, definisce 
nella 
sostanza 
la 
riforma 
degli 
attuali 
assetti 
delle 
cure 
primarie 
e 
ha 
il 
compito 
decisivo 
di 
indirizzare 
come 
spendere 
le 
risorse 
del 
Pnrr. 
Per 
la 
prima 
volta 
vengono 
definiti 
degli 
standard 
che 
dovranno 
essere 
rispettati 
in 
ogni 
regione. 
A 
vigilare 
sarà 
l’Agenas 
che 
presenterà 
una 
relazione 
semestrale. 
Il 
documento 
non 
scioglie 
il 
nodo 
sull’inquadramento 
giuridico 
dei 
medici 
di 
medicina 
generale 
(lavoratori 
subordinati 
o autonomi), tema 
su cui 
è 
ancora 
in 
atto 
un 
confronto 
tra 
Governo 
e 
regioni. 
All’interno 
del 
distretto 
vi 
saranno 
poi 
gli 
ospedali 
di 
Comunità 
con 
una 
forte 
assistenza 
infiermieristica 
e 
saranno 
decisivi, ad esempio, per la 
presa 
in carico di 
pazienti 
nelle 
fasi 
post 
ricovero 
ospedaliero o in tutti 
quei 
casi 
dove 
c’è 
bisogno di 
una 
particolare 
assistenza 
vicino 
al 
domicilio 
del 
paziente. 
Nel 
nuovo 
sistema 
un 
forte 
ruolo 
rivestiranno 
gli 
infermieri 
di 
famiglia 
che 
saranno impiegati 
in molte 
delle 
nuove 
strutture 
definite dal decreto. 


A 
coordinare 
i 
vari 
servizi 
presenti 
nei 
distretti 
vi 
saranno 
poi 
le 
Centrali 
operative 
territoriali 
e 
forte 
impulso verrà dato al 
numero di 
assistenza 
territoriale 
europeo 116117 che 
i 
cittadini 
potranno chiamare 
per 
richiedere 
tutte 
le 
prestazioni 
sanitarie 
e 
socio-sanitarie 
a 
base 
intensità 
assistenziale. 
vengono 
poi 
fissati 
gli 
standard 
per 
l’assistenza 
domiciliare 
e 
viene 
definito l’utilizzo dei 
servizi 
di 
Telemedicina. restano in piedi, dopo la 
sperimentazione 
in 
pandemia 
le 
cd. 
usCa, 
le 
Unità 
di 
continuità 
assistenziale. 
vengono poi 
fissati 
gli 
standard per i 
servizi 
delle 
cure 
palliative 
(ad esempio, 
gli 
hospice), 
per 
i 
dipartimenti 
di 
prevenzione 
e 
consultori 
familiari. 
Nel 
nuovo 
sistema 
di 
cure 
primarie 
ruolo rilevante 
avranno anche 
le 
farmacie 
che 
sono 
identificate 
a 
tutti 
gli 
effetti 
come 
presidi 
sanitari 
di 
prossimità, dove 
il 
cittadino 
potrà trovare sempre più servizi aggiuntivi. 

dopo anni 
di 
scarsi 
investimenti, sembra 
ormai 
convinzione 
di 
tutti 
che 
l’evoluzione 
del 
Sistema 
Sanitario verso un modello di 
cura 
innovativo, sostenibile 
e 
universale, debba 
passare 
da 
un percorso profondo di 
innovazione 
digitale. 


Le barriere alla trasformazione digitale della Sanità. 


Ad 
oggi, 
però, 
come 
messo 
in 
luce 
anche 
dalle 
ricerche 
dell’osservatorio 
Sanità 
digitale 
del 
Politecnico di 
Milano, gli 
attori 
del 
Sistema 
Sanitario percepiscono 
ancora diverse barriere alla trasformazione digitale. 


1) 
Risorse 
economiche: 
la 
limitatezza 
di 
risorse 
è 
stata 
la 
causa 
per non 
innestare 
un 
processo 
virtuoso 
di 
innovazione. 
Grazie 
al 
PNrr, 
però, 
oggi 
sono disponibili 
risorse 
ingenti 
e 
dedicate 
che, se 
non adeguatamente 
indirizzate 
con capacità 
di 
progettazione 
e 
esecuzione, finirebbero per essere 
perse 
con 
grave 
danno 
economico 
e 
di 
immagine 
del 
Sistema 
Paese. 
ricordiamo 
che 
tali 
aiuti 
ci 
provengono dall’Europa 
sotto forma 
di 
“grant 
in aid”, ossia 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


aiuto per il 
raggiungimento di 
un risultato operativo e 
concreto. Almeno nel 
medio 
periodo, 
dunque, 
la 
disponibilità 
di 
risorse 
economiche 
sembra 
destinata 
da barriera a trasformarsi in stimolo per la digitalizzazione. 


2) 
integrazione: 
per effetto delle 
profonde 
differenze 
socioeconomiche 
a 
livello nazionale 
e 
delle 
scelte 
di 
regionalizzazione 
e 
aziendalizzazione 
del 
Sistema 
Sanitario 
nazionale 
fatte 
nel 
passato, 
i 
sistemi 
informativi 
sanitari 
italiani 
sono 
storicamente 
frammentati 
a 
livello 
di 
governance, 
architetture 
e 
dati. 
Un rilancio digitale 
della 
Sanità 
passa, dunque, innanzitutto dalla 
definizione 
di 
un percorso di 
omogeneizzazione 
degli 
standard e 
di 
costruzione 
di 
architetture 
organizzative 
e 
di 
dati 
coerenti, 
che 
consentano 
di 
andare 
verso 
una 
piena 
integrazione 
e 
interoperabilità. da 
questo punto di 
vista 
il 
nostro Paese 
non parte 
da 
zero, perché 
da 
anni 
si 
è 
investito nello sviluppo di 
fascicoli 
Sanitari 
Elettronici 
(regionali) 
e 
nella 
loro 
progresssiva 
convergenza 
verso 
un’infrastruttura 
a 
livello 
nazionale, 
percorso 
ancora 
largamente 
incompiuto, 
ma 
che può costituire l’architrave dello sviluppo della nuova sanità digitale. 
3) 
Cultura 
e 
competenze: 
la 
sfida 
oggi 
è 
innanzitutto 
quella 
dell’alfabetizzazione 
di 
una 
larga 
fetta 
degli 
operatori 
sanitari 
e 
dei 
pazienti 
stessi 
che, 
a 
causa 
della 
mancanza 
di 
competenze 
digitali 
di 
base 
(cd. digital 
divide), rischiano 
di 
vedersi 
esclusi 
dai 
nuovi 
modelli 
di 
cura. In secondo luogo, occorrerà 
diffondere 
tra 
gli 
operatori 
sanitari 
quelle 
competenze 
avanzate 
nell’utilizzo 
di 
canali 
di 
comunicazione, 
strumenti 
e 
dati 
indispensabili 
per 
una corretta valorizzazione delle nuove tecnologie. 
4) 
Risultati: 
in questi 
anni 
è 
spesso mancata 
la 
capacità 
di 
analizzare 
e 
valutare 
con metodo scientifico i 
risultati 
e 
gli 
effetti 
delle 
iniziative 
di 
Sanità 
digitale. Il 
diffondersi 
di 
approcci 
di 
Evidence 
Based medicine 
e 
Value 
Based 
Healthcare, oltre 
allo sviluppo delle 
prime 
iniziative 
di 
ricerca 
clinica 
strutturata 
su percorsi 
di 
Telemedicina 
e 
Terapie 
digitali, può consentire 
di 
superare 
questa 
fragilità 
e 
orientarsi 
più decisamente 
verso un’evoluzione 
digitale 
dei 
metodi e dei percorsi di cura. 
Il 
2022, 
quindi, 
si 
presenta 
con 
tutte 
le 
premesse 
per 
essere 
un 
anno 
chiave 
per lo swich-off digitale 
del 
nostro Sistema 
Sanitario, a 
patto che 
si 
lavori 
fin 
da 
subito 
per 
attuare 
il 
programma 
di 
trasformazione 
digitale 
tracciato 
dal 
PNrr e 
superare 
le 
barriere 
che 
rischiano di 
bloccarne 
lo sviluppo su tre 
direttrici 
principali: 
Connected 
Care 
e 
telemedicina, 
service 
designe, 
one 
Health. 


1) 
Connected 
Care 
e 
telemedicina: 
la 
Connected care 
e 
Telemedicina 
è 
il 
paradigma 
che 
integra 
nuovi 
modelli 
organizzativi 
e 
soluzioni 
tecnologiche 
interoperabili 
al 
fine 
di 
abilitare 
la 
condivisione 
delle 
informazioni 
cliniche 
dei 
pazienti 
tra 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti 
nel 
percorso di 
cura. In questa 
visione 
il 
cittadino, opportunamente 
informato, è 
al 
centro del 
suo percorso che 
non 
si 
limita 
alla 
cura, ma 
include 
la 
prevenzione, l’accesso ai 
servizi 
e 
il 
monito

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


raggio (della 
terapia, dello stile 
di 
vita, ecc.) a 
seguito delle 
prestazioni 
ricevute. 
Il 
digitale 
in questo percorso fa 
sì 
che 
i 
processi 
non strettamente 
clinici, 
quindi 
quelli 
di 
relazione 
con 
il 
cittadino/paziente 
e 
quelli 
di 
backoffice, 
siano 
orientati 
il 
più possibile 
alle 
necessità 
dell’utente 
finale 
in termini 
sia 
di 
efficacia 
che 
di 
efficienza 
dei 
servizi 
erogati. In questo senso gli 
sforzi 
devono 
essere 
indirizzati 
verso la 
progettazione 
e 
realizzazione 
di 
servizi 
digitali 
a 
supporto 
dei 
processi 
di 
accoglienza 
del 
cittadino/paziente 
(prenotazione, 
pagamento, 
refertazione, 
scambio 
documentale) 
e 
dell’erogazione 
dei 
servizi 
di 
cura e 
assistenza (televisita, teleconsulto, telemonitoraggio, ecc.). 
La 
telemedicina, quindi, è 
un tassello di 
questo paradigma 
che 
ridisegna 
fortemente 
l’esperienza 
del 
paziente 
e 
dei 
professionisti 
impegnati 
nell’atto medico, 
ma 
che 
al 
tempo stesso, risponde 
all’esigenza 
di 
maggiore 
flessibilità 
e 
adattabilità 
dei 
servizi 
in funzione 
dello specifico profilo del 
paziente. Nella 
visione 
della 
Connected Care, il 
cittadino paziente 
deve 
essere 
ingaggiato e 
partecipare 
attivamente 
al 
percorso 
di 
cura, 
essendo, 
però, 
accompagnato 
e 
assistito 
in 
modo 
personalizzato, 
predittivo 
e 
preventivo. 
oggi 
i 
cittadini 
si 
aspettano 
servizi 
integrati, 
interoperabili 
e 
fluidi, 
per 
i 
quali 
non 
devono 
essere 
percepite 
barriere 
tra 
i 
diversi 
setting 
assistenziali. 
Per 
tale 
motivo, 
uno 
dei 
prerequisiti 
alla 
realizzazione 
della 
Connected Care 
estesa 
(e 
quindi, non limitata 
alla 
singola 
azienda 
sanitaria) 
è 
la 
piena 
interoperabilità 
dei 
dati 
sanitari 
per superare i silos tra ospedale e territorio, tra pubblico e privato. 


2) 
service 
design: 
se 
le 
risorse 
economiche 
ci 
sono o ci 
saranno attraverso 
il 
PNrr, ciò che 
farà 
la 
differenza 
tra 
il 
successo ed il 
fallimento delle 
iniziative 
di 
innovazione 
sarà 
la 
capacità 
progettuale: 
quella 
di 
pensare, progettare 
e 
realizzare 
(e 
poi 
misurarne 
i 
risultati) 
progetti 
di 
digitalizzazione. 
Elemento fondamentale 
in questo contesto, fino ad oggi 
troppo spesso sottovalutato, 
è 
il 
Service 
design, cioè, l’approccio multidisciplinare 
e 
collaborativo 
che, 
attraverso 
il 
coinvolgimento 
di 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti 
nella 
progettazione 
ed 
erogazione 
di 
un 
nuovo 
servizio, 
consente 
di 
orientarne 
lo 
sviluppo, ponendo maggiore 
enfasi 
alla 
user 
experience. È 
evidente 
che 
iniziative 
come 
quella 
della 
Connected 
Care 
e 
della 
Telemedicina 
presentano 
una 
complessità 
di 
fondo nel 
progettare, realizzare 
e 
comunicare 
i 
servizi 
sanitari 
e 
socio-sanitari 
ai 
cittadini/pazienti, in risposta 
alle 
loro nuove 
esigenze 
e 
bisogni. 
Finora 
abbiamo 
assistito 
alla 
coesistenza 
di 
esperienze 
di 
eccellenza 
con altre 
in cui 
la 
sostanziale 
assenza 
di 
un approccio progettuale 
orientato ai 
servizi 
ha 
portato allo sviluppo di 
soluzioni 
e 
applicazioni 
largamente 
inutilizzate. 
requisito fondamentale 
per utilizzare 
efficacemente 
le 
tecnologie, e 
sfruttare 
al 
meglio le 
risorse 
economiche, sarà, quindi, lo sviluppo di 
cultura 
e 
competenze 
di 
design 
dei 
servizi. 
Tale 
approccio 
potrà 
garantire 
un 
reale 
orientamento 
all’utente, 
sia 
cittadino/paziente 
che 
professionista 
sanitario, 
esplicitando tutti 
i 
punti 
di 
contatto dei 
nuovi 
servizi 
digitali 
e 
la 
loro integrazione 
all’interno di 
un sistema 
informativo preesistente. La 
leva 
digitale, in

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


fatti, offre 
la 
possibilità 
di 
connettere 
attori 
e 
ridefinire 
i 
ruoli, ma 
questo accade 
solo se 
le 
piattaforme 
vengono sviluppate, affinchè 
favoriscano l’empowerment 
degli 
utenti 
e, 
viceversa, 
se 
questi 
ultimi 
sono 
accompagnati 
con 
attenzione 
e 
metodo al 
loro utilizzo. dal 
punto di 
vista 
manageriale, occorre 
che 
vengano 
sviluppate 
e 
potenziate 
non 
solo 
le 
competenze 
di 
service 
design, 
ma 
anche 
quelle 
di 
gestione 
di 
progetti 
di 
innovazione 
complessi 
e 
di 
change 
management. 


3) 
one 
Health: 
la 
salute 
dell’uomo 
non 
può 
più 
prescindere 
dal 
benessere 
dell’ecosistema. medicus 
curat, natura sanat: 
le 
soluzioni 
per una 
salute 
realmente 
globale 
sono, 
quindi, 
quelle 
che 
ci 
consentono 
di 
porre 
al 
centro 
il 
cittadino, sapendo che 
le 
parole 
chiave 
sono “digitalizzazione” 
e 
“green”. Ci 
possiamo 
immaginare 
la 
salute 
come 
un 
sistema 
di 
vasi 
comunicanti: 
ambiente 
e 
salute 
sono un binomio inscindibile 
e 
la 
digitalizzazione 
oggi 
ci 
offre 
una 
possibilità 
in più per gestire 
in maniera 
efficace 
le 
interazioni 
tra 
uomo e 
ambiente 
e 
garantire 
la 
sostenibilità 
del 
nostro 
sistema 
sanitario. 
Ancora 
una 
volta 
la 
prima 
azione 
concreta 
nella 
direzione 
della 
one 
Health 
è 
la 
disponibilità 
trasversale 
di 
dati 
e 
l’interoperabilità 
tra 
sistemi 
e, soprattutto, saperi 
e 
discipline 
che, fino ad oggi, sono stati 
trattati 
come 
silos. La 
data 
-driven one 
Health 
è 
uno dei 
fattori 
abilitanti 
della 
Connected Care 
e, più in generale, di 
un 
approccio globale 
alla 
salute 
che 
ne 
definisca 
le 
priorità 
e 
ne 
favorisca 
la 
valutazione 
dei 
risultati. I principi 
della 
one 
Health si 
applicano anche 
alle 
inevitabili 
interconnessioni 
di 
natura 
sociale, 
scientifica 
e 
istituzionale. 
Ciò 
significa 
che 
le 
scelte 
di 
salute 
globale 
devono vedere 
attivata 
una 
stretta 
collaborazione 
tra 
policy 
makers, 
ricerca 
e 
decision 
makers. 
Un 
patto 
per 
la 
salute 
globale 
deve 
essere 
stretto a 
partire 
dalle 
politiche 
e 
tradotto a 
livelli 
decisionali 
e operativi. 
L’auspicio è 
che 
il 
2022 sia 
davvero l’anno in cui 
-grazie 
anche 
alle 
risorse 
del 
PNrr -si 
aprano ampie 
opportunità 
per avviare 
progetti 
di 
trasformazione 
digitale 
profonda, 
Progetti 
che 
possano 
davvero 
contribuire 
al 
ridisegno 
di 
una 
Sanità 
più 
giusta, 
sostenibile 
e 
personalizzata, 
a 
patto 
che 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti 
ai 
diversi 
livelli 
sappiano 
sfruttare 
al 
massimo 
le 
opportunità 
di 
collaborazione 
intersettoriale 
e 
siano disposti 
ad attuare 
le 
riforme 
prospettate 
all’interno di 
una 
cornice 
di 
governance 
chiara 
e 
di 
una 
normativa 
snella, 
che consenta di spendere al meglio le risorse previste. 


Un 
“nuovo 
sistema 
sanitario”, 
una 
rivoluzione 
epocale 
per 
il 
nostro 
SSN, 
“la 
rivoluzione 
digitale 
del 
SSN: 
il 
2022 
dovrebbe 
essere 
l’anno 
delle 
iperboli 
per la 
sanità 
digitale. Un dato è 
certo: 
i 
fondi 
non saranno un problema, e 
non 
solo 
attraverso 
il 
PNrr, 
il 
Ministero 
della 
Salute, 
ha 
appena 
emesso 
il 
decreto 
che, tra 
le 
altre 
cose 
assegna 
oltre 
230 milioni 
ai 
medici 
di 
medicina 
generale 
per incentivare 
una 
diagnostica 
di 
base 
negli 
studi 
dei 
MMG, allo scopo di 
ridurre 
le 
liste 
di 
attesa. ogni 
sviluppo o tecnologia 
o modello dovrà 
ruotare 
attorno 
al paziente”. 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


Evoluzione delle tecnologie assistenziali. 


Guidate 
dal 
Covid, 
ma 
anche 
dai 
grandi 
investimenti, 
le 
nuove 
tecnologie 
faranno passi 
da 
gigante, sempre 
più “contactless”, senza 
bisogno di 
contatto 
fisico diretto con il 
paziente, utilizzando i 
sensori 
di 
uso comune, ad esempio 
la 
fotocamera 
dello 
smartphone, 
sensori 
che 
utilizzano 
radiofrequenza, 
sensori 
di 
temperatura, sistemi 
integrati 
di 
sensori 
per la 
rilevazione 
senza 
bracciale 
della 
pressione 
arteriosa, certificati 
come 
dispositivi 
medici, il 
tutto guidato 
ed 
integrato 
dall’Intelligenza 
Artificiale. 
Un 
esempio 
sono 
i 
“simptom 
tracker”, 
questi 
sistemi 
che, attraverso un’app, tengono traccia 
non solo dei 
parametri 
rilevati 
da 
un bracciale 
al 
polso del 
paziente, ma 
anche 
di 
eventuali 
sintomi 
o 
semplicemente 
di 
come 
si 
sente 
la 
persona, approfondendo con domande 
mirate 
la 
valutazione 
fino a 
suggerire 
un contatto con il 
proprio medico. Si 
diffonderanno 
sempre 
di 
più 
“i 
compagni 
digitali” 
dei 
farmaci, 
quelle 
app 
che 
sono integrate 
con una 
terapia 
e 
consentono di 
gestirla 
al 
meglio ottimizzandola 
o 
registrando 
automaticamente 
la 
somministrazione 
e 
la 
dose 
del 
farmaco. 
Un 
farmaco 
o 
una 
terapia 
complessa, 
con 
un 
compagno 
digitale 
migliorano 
l’aderenza 
terapeutica, il 
contatto con il 
medico prescrittore 
ed anche 
le 
valutazioni 
di “real life” della terapia. 


Le terapie digitali. 


oltre 
al 
compagno digitale 
arriveranno vere 
e 
proprie 
terapie 
digitali. Ad 
esempio, una 
terapia 
digitale 
ha 
mostrato recentemente 
in uno studio controllato 
un’ottima 
efficacia 
sul 
dolore 
lombare, 
suggerendo 
esercizi 
posturali 
adeguati 
e 
personalizzati, consentendo un miglioramento della 
vita 
rilevante 
per 
i 
pazienti. Altre 
terapie 
digitali 
riguardano il 
supporto psicologico, il 
supporto 
alla 
terapia 
in 
alcune 
tipologie 
di 
neoplasie, 
il 
trattamento 
dell’obesità 
e 
molto 
altro. Le 
tecnologie, insomma, ci 
sono, ma 
mancano le 
regole: 
il 
compagno 
digitale 
viene 
venduto insieme 
al 
farmaco? 
È 
una 
opzione 
a 
pagamento per il 
paziente? 
Chi 
ne 
valuta 
i 
risultati? 
E 
la 
terapia 
digitale 
come 
può essere 
prescritta? 
Come 
viene 
inserita 
nel 
prontuario 
farmaceutico? 
E 
la 
rimborsabilità? 
riguardo 
il 
telemonitoraggio, 
quali 
sono 
le 
condizioni, 
perché 
possa 
essere 
rimborsato 
dal 
SSN? 
E 
la 
teleriabilitazione? 
Nuove 
tecnologie, 
ma 
anche 
nuove sfide per un SSN in grande cambiamento. 


Nuovi modelli assistenziali. 


Le 
tecnologie 
abilitano 
nuovi 
modelli 
di 
servizi 
sanitari. 
Il 
più 
semplice 
tra 
questi 
è 
quello della 
televisita 
che 
non può essere 
una 
attività 
a 
parte, ma 
deve 
essere 
un momento della cura. oggi 
è 
un momento di 
controllo di 
una 
diagnosi 
già 
nota 
e 
allora, come 
logica 
conseguenza, ogni 
Pdta, percorso 
diagnostico-terapeutico-assistenziale, 
dovrebbe 
essere 
integrato 
con 
la 
tele-
visita. Nelle 
bozze 
dei 
nuovi 
modelli 
di 
cura 
da 
inserire 
nel 
PNrr, l’Agenas 
ed il 
Ministero della 
Salute 
hanno esplicitato la 
telemedicina come 
obbligo 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


e 
non 
solo come 
opportunità, sia 
come 
telemonitoraggio domiciliare 
dei 
pazienti 
più fragili, sia 
come 
strumenti 
per il 
teleconsulto e 
la 
telerefertazione 
nel 
setting dell’assistenza 
domiciliare. Tutte 
queste 
metodiche 
di 
erogazione 
di 
servizi 
sanitari 
devono 
essere 
declinate 
nel 
solito 
modello 
concettuale, 
i 
PdTA, che 
definiscono chi, quando, come, dove 
e 
perché. Per esemplificare, 
immaginiamo 
la 
cardiologia 
nello 
scompenso 
cardiaco. 
Teleconsulti 
con 
i 
MMG, televisite 
cardiologiche 
di 
controllo, ECG 
nelle 
case 
della 
salute 
o dal 
MMG 
o a 
domicilio con telereferatzione, integrazione 
del 
percorso con il 
telemonitoraggio 
e 
la 
teleriabilitazione 
cardiologica. Immaginiamo questi 
modelli 
per il 
diabete, per le 
malattie 
reumatiche, per le 
malattie 
respiratorie, per 
le 
fragilità, 
per 
il 
percorso 
gravidanza 
o 
per 
il 
percorso 
follow 
up 
delle 
malattie 
neoplastiche. Non si 
tratta 
più di 
volenterosi 
direttori 
di 
struttura 
ospedaliera 
che 
mettono in piedi 
percorsi 
virtuosi, si 
costruirà 
un vero e 
proprio modello 
industriale 
della 
telemedicina, che 
includa 
anche 
gli 
specialisti 
ambulatoriali 
(SUMAI). 
La 
telemedicina 
del 
2022 
dovrà 
essere 
frutto 
di 
processi 
industriali, 
essenziali 
ed efficienti, un vero strumento di 
cura 
basato su piattaforme 
il 
più 
possibile 
“trasversali” 
a 
tutte 
le 
specializzazioni 
ed 
i 
contesti 
clinici, 
emergenza, 
domicilio, case della comunità, ospedali della comunità. 


medicina personalizzata e FSE. 


La 
medicina 
della 
persona, 
la 
medicina 
personalizzata, 
significa 
anche 
che 
le 
“cronicità” 
e 
le 
“fragilità”, 
andranno 
affrontate 
concentrandosi 
sulle 
persone 
e 
non sulle 
patologie. La 
medicina 
personalizzata 
non si 
occupa 
della 
medicina 
di 
genere, del 
diabetico, del 
cardiopatico, dell’artrosico, è 
una 
medicina 
delle 
persone, una 
medicina 
che 
si 
adatta 
all’individuo, una medicina 
che 
prende 
in 
carico una persona e 
non 
una cronicità. il 
punto centrale 
della medicina personalizzata sono i 
dati: 
si 
tratta 
di 
una 
medicina 
basata 
su grandi 
quantità 
di 
dati 
e 
non solo di 
dati 
relativi 
alla 
salute; 
nella 
medicina 
personalizzata 
entrano 
in 
gioco 
anche 
indicatori 
socioeconomici, 
dalla 
cultura, 
al 
luogo di 
vita, ai 
servizi 
presenti 
sul 
territorio e 
molto altro. il 
rinnovo del 
Fascicolo sanitario elettronico, uno degli 
obiettivi 
della 
rimodellazione 
del 
SSN 
potrebbe 
essere 
un elemento chiave 
soprattutto se 
diventasse 
un repository 
da 
cui 
attingere, con servizi 
di 
fascicolo che 
possano integrarlo con l’intelligenza 
artificiale, con i 
dati 
del 
telemonitoraggio, delle 
televisite 
e 
di 
tutto 
il processo di diagnosi e cura. 


Il 
FSE 
deve 
diventare 
uno strumento reale 
di 
cura 
e 
non solo uno strumento 
di controllo di gestione del SSN. 


Formazione e competenze. 


dovranno necessariamente 
partire 
grandi 
iniziative 
regionali 
e 
nazionali 
per 
le 
competenze 
digitali 
con 
master 
universitari 
di 
primo 
e 
di 
secondo 
livello 
in 
eHealth, 
di 
formazione 
della 
leadership 
dell’innovazione 
digitale 
nei 
sistemi 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


sanitari, con obbligo di 
una 
quota 
di 
formazione 
digitale 
nell’educazione 
continua 
in medicina 
ECM, i 
principali 
stakeholder del 
farmaco stanno supportando 
con 
forza 
queste 
iniziative. 
Queste 
competenze 
dovranno 
essere 
vincolanti 
anche 
per 
la 
progressione 
nella 
carriera 
di 
manager 
del 
SSN. 
In 
molti 
paesi 
nel 
mondo esiste 
una 
“digital 
Health Agency”, un’agenzia 
per la 
sanità digitale ed è auspicabile che si crei anche in Italia. 

In tale 
nuovo contesto che 
ruolo avrà 
l’accreditamento delle 
strutture 
sanitarie private? 


L’accreditamento sanitario è 
il 
provvedimento con 
il 
quale 
viene 
riconosciuto 
alle 
strutture 
sanitarie 
già in 
possesso di 
un’autorizzazione, lo 
status 
di 
potenziali 
erogatori 
di 
prestazioni 
sanitarie 
nell’ambito 
e 
per 
conto del 
servizio sanitario nazionale. in 
base 
al 
d.Lgs 
502/1992 tutte 
le 
strutture 
sanitarie 
pubbliche 
e 
private, 
operanti 
per 
il 
ssn 
debbono 
essere 
accreditate 
in 
base 
a 
procedure 
definite 
dalla 
Regione 
e 
secondo 
i 
requisiti 
fissati dal Ministero della salute. 

La procedura di accreditamento prevede tre fasi: 


1) 
autorizzazione: 
il 
provvedimento con cui 
viene 
consentito da 
parte 
della 
regione 
(previa 
verifica 
dell’esistenza 
dei 
requisiti 
minimi 
previsti 
dal 
dpr 14 gennaio 1997) l’esercizio di 
attività 
sanitarie 
a 
soggetti 
pubblici 
e 
privati. 
L’autorizzazione 
non abilita 
la 
struttura 
ad operare 
in regime 
SSN, fino 
a 
quando non sia 
dimostrato il 
possesso di 
determinati 
requisiti 
per le 
prestazioni 
che si intende erogare; 
2) 
Rilascio 
dell’accreditamento: 
subordinato 
ad 
una 
serie 
di 
requisiti 
della 
struttura 
(standard 
minimi 
di 
infrastruttura, 
attrezzature, 
tecnologie, 
strumenti 
adoperati, ecc.); 
3) 
definizione 
di 
accordo/contratto 
tra 
regione 
con 
asl 
e 
struttura 
accreditata: 
attraverso 
un 
contratto 
sarà 
possibile 
formalizzare 
le 
condizioni 
del 
rapporto, 
il 
tetto 
di 
spesa 
mensile 
imposta 
dalle 
Asl, 
gli 
obiettivi 
della 
struttura, 
la 
quantità 
delle 
prestazioni 
erogabili 
nell’ambito dei 
LEA, i 
tempi 
di 
attesa, 
ecc. 
Ma 
una 
struttura 
sanitaria 
come 
può gestire 
un proficuo rapporto di 
accreditamento 
e 
promuovere 
il 
miglioramento 
delle 
prestazioni 
sanitarie 
offerte 
e l’efficienza della propria organizzazione? 


Strutture sanitarie e gestione dell’accreditamento in sanità. 


Una 
modalità 
per essere 
conformi 
ai 
regolamenti 
e 
alle 
normative 
della 
Asl 
è 
acquisire 
tecnologie 
e 
software 
gestionali 
con cui 
supportare 
tutte 
le 
attività 
annesse 
alla 
gestione 
dell’accreditamento 
SSN. 
Attraverso 
tecnologie 
software, come i software sanità doctor manager, le strutture potranno: 


1) 
Inviare 
il 
rendiconto 
periodico 
alla 
ASL 
per 
l’acquisizione 
dei 
rimborsi 
per le prestazioni effettuate in regime convenzionato con il SS. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


2) 
Avere 
visione 
dei 
budget 
di 
spesa 
assegnato 
alla 
struttura 
in 
tempo 
reale su base periodica, mensile o annuale. 
3) 
Integrarsi 
con 
i 
CUP 
di 
competenza 
e 
gestire 
le 
agende 
mediche 
in 
maniera 
coerente con i tetti di spesa imposti dalle 
ASL di competenza. 
4) 
disporre 
del 
nomenclatore 
dell’assistenza 
specialistica 
ambulatoriale 
(come 
disciplinato 
dal 
dPCM 
1/2017), 
così 
da 
far 
fare 
riferimento 
senza 
errori 
ai codici di prestazione afferenti alla propria branca specialistica. 
5) 
Accedere 
al 
SAC/SAr in sicurezza 
e 
gestire 
con immediatezza 
e 
meticolosità 
la ricetta dematerializzata. 
6) 
ottemperare 
alle 
varie 
richieste 
di 
informazioni 
o rendiconti 
prodotte 
dalle 
ASL o dalle regioni. 
L’accreditamento sanitario è 
un processo complesso, ma 
se 
ben efficientato 
assicura 
qualità 
alle 
prestazioni 
erogate 
ed all’intero processo ambulatoriale. 


L’accreditamento nasce 
negli 
USA 
all’inizio del 
XX 
secolo quando, nel 
1910, 
ernest 
Codman 
propone 
un 
sistema 
basato 
sugli 
“end 
risult”, 
secondo 
il 
quale 
un ospedale 
avrebbe 
dovuto seguire 
i 
pazienti 
ricoverati 
abbastanza 
a 
lungo 
da 
valutare 
l’efficacia 
del 
trattamento 
prestato; 
qualora 
il 
trattamento 
non 
fosse 
stato 
efficace, 
l’ospedale 
avrebbe 
allora 
provato 
a 
determinare 
la 
causa, affinchè 
casi 
simili 
potessero essere 
in avvenire 
trattati 
con successo. 
Nel 
1913 Franklin Martin, fonda 
l’American College 
of Surgeons 
(ACS) ed 
il 
Sistema 
basato sugli 
“end result” 
viene 
assunto come 
obiettivo. Nel 
1917 
l’ACS 
con il 
sostegno dei 
fratelli 
Mayo e 
Cushing, sviluppa 
i 
Minimum 
Standard 
for Hospitals. Nel 
corso degli 
anni 
aderiscono a 
questa 
iniziativa 
diverse 
altre 
associazioni 
mediche 
tra 
cui 
l’American 
Medical 
Association, 
l’American 
Hospital 
Association, 
l’American 
College 
of 
Physicians, 
la 
Canadian 
Medical 
Association, l’American dental 
Association, e 
nel 
1951 nasce 
la 
Joint 
Commission 
on 
Accreditation 
of 
Hospital 
organizzation 
(JCAHo). 
due 
anni 
dopo 
la 
JCAHo 
pubblica 
i 
suoi 
primi 
“Standards 
for Hospitals 
Accreditation”, riguardanti 
requisiti 
minimi 
di 
strutture 
e 
competenze 
degli 
enti 
erogatori 
di 
servizi 
sanitari. 

Il 
modello 
americano 
ha 
ispirato 
i 
principali 
sistemi 
di 
accreditamento 
dei 
paese 
anglosassoni 
(Canadian Council 
on Health Services 
Accreditation 
CCHSA, 
Australian 
Council 
on 
Healthcare 
Standards 
ACHS, 
King’s 
Fund) 
ed altre 
esperienze 
europee 
quali 
quelle 
di 
Catalogna 
(regione 
autonoma 
spagnola, 
dove 
la 
maggior parte 
degli 
ospedali, sia 
pubblici 
che 
privati, sono già 
stati 
accreditati) e 
Francia 
dove 
è 
stato costituito l’Agence 
nationale 
d’Accreditation 
et 
d’Evaluation en Santè 
(ANAES). L’accreditamento è 
configurato 
come 
un 
sistema 
di 
autoregolazione 
in 
cui 
un’organizzazione 
indipendente 
stabilisce e controlla gli standard di qualità nella struttura. 


Fatta 
eccezione 
per 
la 
Francia 
l’adesione 
a 
questi 
sistemi 
è 
volontaria, 
ma 
di 
fatto, 
costituendo 
uno 
strumento 
che 
garantisce 
sia 
gli 
utenti 
che 
gli 
enti 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


erogatori, l’accreditamento assume 
sempre 
più la 
prerogativa 
di 
strumento finalizzato 
alla 
regolamentazione 
delle 
organizzazioni 
sanitarie, tanto che 
negli 
Stati 
Uniti 
l’accreditamento 
è 
una 
condizione 
necessaria, 
affinchè 
un 
ospedale 
possa 
accedere 
a 
programmi 
Medicare 
e 
Medicaid e 
ricevere 
i 
relativi 
finanziamenti 
governativi. 


Anche 
in Catalogna 
l’accreditamento è 
ritenuto un requisito indispensabile 
per 
l’erogazione 
delle 
prestazioni 
sanitarie 
per 
conto 
del 
servizio 
sanitario. 
Tra 
gli 
ospedali 
pubblici 
o convenzionati 
con la 
Securidad Social 
che 
hanno 
richiesto di 
essere 
accreditati 
il 
30% non raggiunsero gli 
standard minimi 
richiesti 
e 
persero 
i 
loro 
contratti, 
dovendo 
trasformarsi 
in 
residenza 
per 
anziani 


o in strutture totalmente private o, in alcuni casi, a cessare la propria attività. 
Nel 
regno Unito nel 
1988, il 
King Edward’s 
Hospital 
Fund for London 
ha 
avviato 
un 
programma 
di 
accreditamento 
volontario 
sul 
modello 
australiano 
che 
ha 
previsto la 
costituzione 
di 
un comitato promotore, cui 
partecipano Società 
scientifiche 
ed 
associazioni 
professionali, 
che 
hanno 
elaborato 
un 
manuale 
di accreditamento. 


Queste ed altre esperienze sono caratterizzate dalle seguenti peculiarità: 


1) 
L’accreditamento è 
un’attività 
autoregolata 
del 
sistema 
finalizzata 
al 
miglioramento continuo dei servizi sanitari; 
2) 
È un’attività volontaria; 
3) 
Le 
associazioni 
professionali 
hanno un ruolo fondamentale 
nella 
definizione 
dei criteri e standard. 
diversi, 
pur 
con 
tante 
analogie, 
sono 
gli 
obiettivi, 
gli 
strumenti 
e 
l’approccio 
all’accreditamento 
istituzionale, 
strutturato 
secondo 
un 
modello 
predefinito 
dalle 
istituzioni 
ed 
i 
cui 
programmi 
attuativi 
rispondono 
sostanzialmente 
alle 
esigenze 
di 
garantire: 


-Adeguati ed omogenei livelli di cura; 
-L’idoneità 
delle 
prestazioni 
relativamente 
al 
loro 
compenso, 
per 
cui 
l’accreditamento 
è 
interpretato 
come 
un 
processo 
di 
selezione 
degli 
erogatori 
delle 
prestazioni sanitarie: 


-Che 
si 
integrano 
con 
le 
finalità 
dell’accreditamento 
volontario 
ed 
altre 
forme 
di 
riconoscimento 
da 
parte 
di 
enti 
terzi 
rispetto 
alla 
adesione 
a 
modelli 
prestabiliti 
come 
le 
norme 
ISo. 
In 
questa 
direzione, 
infatti, 
l’accreditamento 
istituzionale 
deve 
essere 
interpretato 
come 
un 
processo 
continuo 
finalizzato 
al: 


-Miglioramento della 
qualità 
dell’assistenza, attraverso 1) la 
definizione 
dei 
livelli 
qualitativi 
delle 
prestazioni 
erogate; 
2) monitoraggio dei 
risultati; 
3) miglioramento delle 
qualità 
professionali; 
4) gestione 
del 
rischio clinico; 
5) 
orientamento 
del 
servizio 
attraverso 
la 
ricerca 
del 
giudizio 
degli 
utenti 
come 
punto di avvio delle azioni di miglioramento. 
In Italia, come 
sopra 
già 
esposto, il 
termine 
accreditamento è 
stato introdotto 
nella 
normativa 
italiana 
con il 
decreto legislativo n. 502/92, sebbene 
la 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


prima 
definizione 
di 
accreditamento 
è 
formulata 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
che 
nel 
pronunciare 
la 
sentenza 
n. 416 del 
21 luglio 1995 in merito all’art. 10 
della 
legge 
724/1994 statuisce: 
«l’accreditamento è 
un’operazione 
da parte 
di 
un’autorità o istituzione 
(Regione), con 
il 
quale 
si 
riconosce 
il 
possesso 
da 
parte 
di 
un 
soggetto 
o 
di 
un 
organismo 
di 
prescritti 
specifici 
requisiti 
(standard 
di 
qualificazione) 
e 
si 
risolve, 
nell’iscrizione 
in 
elenco, 
da 
cui 
possono 
attingere 
per 
l’utilizzazione 
altri 
soggetti 
(assistiti-utenti 
delle 
prestazioni 
sanitarie)». 


Tale 
concetto è 
stato ribadito successivamente 
dal 
decreto legislativo n. 
229/99. Analogo nei 
principi, ma 
ben diverso dall’accreditamento all’eccellenza, 
quello 
istituzionale 
è 
un 
processo 
obbligatorio 
attraverso 
il 
quale 
le 
strutture 
autorizzate 
all’esercizio 
dell’attività 
sanitaria, 
pubbliche 
o 
private, 
ed i 
professionisti 
che 
ne 
facciano richiesta, dopo attenta 
verifica 
sul 
possesso 
dei 
requisiti 
strutturali, 
tecnici 
ed 
organizzativi, 
definiti 
dalla 
regione 
indispensabili 
per l’accreditamento, acquisiscono lo “status” 
di 
soggetto idoneo 
ad erogare 
prestazioni 
sanitarie 
per conto del 
Servizio sanitario nazionale, divenendo, 
pertanto, potenziali erogatori. 


Sebbene 
il 
soggetto accreditato sia 
abilitato a 
fornire 
prestazioni 
a 
carico 
del 
Servizio Sanitario Nazionale, la 
qualità 
di 
“soggetto accreditato”, non costituisce 
vincolo 
per 
le 
aziende 
e 
gli 
enti 
del 
Servizio 
Sanitario 
nazionale 
a 
corrispondere 
le 
remunerazioni 
delle 
prestazioni 
erogate, al 
di 
fuori 
degli 
accordi 
contrattuali di cui all’art. 8 quinquies 
decreto legislativo n. 502/92. 


Il 
modello di 
accreditamento introdotto nell’ordinamento italiano individua, 
dunque, 
nelle 
regioni 
il 
livello 
di 
governo 
del 
processo 
e 
caratterizza 
tale 
processo 
quale 
strumento 
di 
programmazione 
sotto 
il 
duplice 
aspetto 
della 
“regolazione” 
dell’accesso al 
servizio sanitario Nazionale 
dei 
soggetti 
erogatori 
delle 
prestazioni 
e 
della 
definizione 
del 
livello qualitativo necessario per erogare 
prestazioni 
a 
carico del 
Servizio sanitario nazionale 
con piani 
sanitari 
regionali. 
Per garantire 
un livello predefinito di 
qualità, la 
regione, secondo i 
criteri 
uniformi 
indicati 
a 
livello 
nazionale 
(LEA) 
deve 
definire 
i 
requisiti 
sulla 
base dei quali valutare i soggetti richiedenti. 


L’accreditamento delle 
strutture 
sanitarie 
private 
pone 
il 
problema 
della 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo nelle 
controversie 
aventi 
ad oggetto 
il 
monitoraggio e 
controllo delle 
attività 
delle 
strutture 
private 
accreditate. a 
tal 
proposito si 
ricorda la sentenza del 
Consiglio di 
stato sez. iii 
9 dicembre 
2020 
n. 
7820 
Pres. 
garofoli 
est. 
Puliatti, 
la 
quale 
ha 
affermato 
che 
rientra 
nella 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
la 
controversia 
avente 
ad 
oggetto i 
provvedimenti 
che 
afferiscono al 
complesso procedimento 
di 
monitoraggio e 
controllo delle 
attività e 
prestazioni 
oggetto dei 
rapporti 
contrattuali 
intercorsi 
tra 
la 
Regione 
e 
una 
struttura 
privata 
accreditata, 
non 
potendo 
l’individuazione 
del 
giudice 
competente 
dipendere 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


a seconda che 
l’amministrazione 
scelga di 
formalizzare 
gli 
esiti 
del 
controllo 
in 
un’apposita 
veste 
provvedimentale, 
ovvero 
di 
inserirli 
all’interno 
di un’apposita partita di dare/avere. 

Ha 
premesso il 
Consiglio di 
Stato che 
i 
controlli 
di 
appropriatezza 
non 
esauriscono 
la 
loro 
funzione 
nella 
verifica 
dell’adempimento 
da 
parte 
del 
soggetto 
convenzionato alle 
obbligazioni 
derivanti 
a 
suo carico dal 
rapporto concessorio 
di 
accreditamento, 
ma 
sono 
volti 
a 
perseguire 
obiettivi 
di 
pubblico 
interesse, di 
economicità 
nell’utilizzo delle 
risorse 
e 
di 
verifica 
della 
qualità 
di 
assistenza 
erogata, a 
tutela 
del 
diritto alla 
salute. Ed infatti, le 
disposizioni 
dell’art. 79 d.l. n. 112 del 
2008, superando definitivamente 
la 
disciplina 
transitoria 
e 
sommaria 
della 
tariffazione 
forfettaria 
nell’ambito delle 
prestazioni 
sanitarie, in quanto inadeguata 
a 
garantire 
una 
efficiente 
ed imparziale 
allocazione 
delle 
risorse 
a 
tutela 
del 
diritto 
alla 
salute, 
garantiscono 
l’efficienza, 
l’economicità 
e 
l’appropriatezza 
del 
Sistema 
Sanitario Nazionale 
(Consiglio 
di Stato sez. III 10 agosto 2018 n. 4902). 

Il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
aggiunto 
che 
si 
deve 
escludere 
che 
il 
carattere 
vincolato dell’attività 
svolta 
denoti 
ipso facto 
l’assenza 
in capo alla 
PA 
di 
una 
posizione 
di 
supremazia, 
nonché 
la 
conseguente 
natura 
paritetica 
degli 
atti 
adottati 
dalla 
stessa 
PA 
nel 
rapporto con l’amministrato. La 
circostanza 
che 
il 
potere 
amministrativo sia 
vincolato -e 
cioè, che 
il 
suo esercizio sia 
predeterminato 
dalla 
legge 
nell’an 
e 
nel 
quomodo 
-non trasforma 
il 
potere 
medesimo 
in 
una 
categoria 
civilistica 
assimilabile 
ad 
un 
diritto 
potestativo, 
poiché 
l’Amministrazione 
esercita 
in questi 
casi 
una 
funzione 
di 
verifica, controllo, accertamento 
tecnico dei 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge, quale 
soggetto incaricato 
della 
cura 
di 
interessi 
pubblici 
generali, esulanti 
dalla 
propria 
sfera 
patrimoniale: 
il 
suo 
potere 
vincolato, 
dunque, 
resta, 
comunque, 
espressione 
di 
“supremazia” 
o 
di 
“funzione” 
con 
il 
corollario 
che 
dalla 
sua 
natura 
vincolata 
derivano 
conseguenze 
non sul 
piano della 
giurisdizione, ma 
sul 
piano delle 
tecniche 
di 
tutela 
(si 
pensi 
al 
potere 
del 
giudice 
in sede 
di 
giudizio sul 
silenzio di 
pronunciarsi, 
ai 
sensi 
dell’art. 
31, 
comma 
3 
cpa, 
sulla 
fondatezza 
della 
pretesa 
dedotta 
in giudizio). 

del 
resto che 
l’attività 
della 
PA, per il 
solo fatto di 
essere 
vincolata, non 
cessi 
di 
essere 
attività 
autoritativa 
e 
di 
tradursi 
in 
atti 
aventi 
natura 
non 
già 
paritetica, 
bensì 
provvedimentale, sottoposti 
alla 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo, 
emerge 
da 
molteplici 
istituti 
del 
diritto amministrativo. A 
mero 
titolo esemplificativo si indicano i seguenti casi: 


a) 
La 
materia 
edilizia, connotata 
per larga 
parte 
dall’esercizio di 
attività 
vincolata 
che, non per questo, cessa 
di 
essere 
attività 
autoritativa, espressione 
di 
potestà 
pubblicistiche. 
Basti 
pensare 
al 
riguardo 
al 
permesso 
di 
costruire 
ed 
all’ordine 
di 
demolizione, atti 
vincolati 
aventi 
natura 
di 
provvedimenti 
amministrativi. 
La 
devoluzione 
della 
materia 
dell’edilizia 
alla 
giurisdizione 
esclusiva 
del 
giudice 
amministrativo ex 
art. 133 comma 
1 lett. f) cpa 
si 
spiega, del 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


resto, 
proprio 
in 
ragione 
del 
carattere 
autoritativo 
e 
pubblicistico 
dei 
poteri 
esercitati 
dall’Amministrazione 
nella 
materia 
in esame, in coerenza 
con l’insegnamento 
della 
Corte 
costituzionale 
(Corte 
Costituzionale 
n. 
204/2004 
e 
191/2006). 


b) 
Il 
potere 
del 
giudice 
amministrativo in sede 
di 
giudizio sul 
silenzio, di 
pronunciarsi 
sulla 
fondatezza 
della 
pretesa 
dedotta 
in giudizio, esercitabile, ai 
sensi 
dell’art. 31, comma 
3, cpa, quando si 
tratta 
di 
atti 
vincolati, ovvero non 
residuino ulteriori 
margini 
di 
discrezionalità 
in capo alla 
PA; 
ciò tenuto conto 
che 
il 
rimedio del 
rito del 
silenzio si 
applica 
in via 
esclusiva 
all’attività 
provvedimentale 
della 
PA, essendo, invece, escluso tale 
rimedio, quando si 
tratta 
di 
pretesa 
fondata 
sull’esercizio 
di 
diritti 
soggettivi, 
ovvero 
per 
ottenere 
l’adempimento di 
obblighi 
convenzionali, o addirittura, la 
stipula 
di 
accordi 
contrattuali. 
c) 
In 
terzo 
luogo 
il 
dettato 
dall’art. 
21-octies, 
comma 
2, 
L. 
241/90, 
lì 
dove 
inibisce 
al 
giudice 
amministrativo l’annullamento dei 
provvedimenti 
adottati 
in violazione 
di 
norme 
sul 
procedimento o sulla 
forma 
degli 
atti, qualora 
per 
la 
natura 
vincolata 
del 
provvedimento, sia 
palese 
che 
il 
suo contenuto dispositivo 
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. 
A 
ciò si 
aggiunge 
che 
non mancano situazioni 
in cui 
nei 
controlli 
di 
appropriatezza 
la 
PA 
si 
trova 
a 
disporre 
di 
margini 
di 
discrezionalità 
tecnica, 
come 
nel 
caso 
in 
cui 
si 
contesti 
l’attribuzione 
ad 
una 
certa 
prestazione 
sanitaria 
di 
un drG 
(raggruppamento omogeneo di 
diagnosi) in luogo di 
un altro, con 
i 
correlativi 
effetti 
sul 
piano di 
maggior o minor esborso a 
carico della 
PA. da 
tali 
argomentazioni 
discende 
la 
riconducibilità 
della 
questione 
del 
controllo 
sulle strutture accreditate alla giurisdizione amministrativa. 

Secondo il 
Consiglio di 
Stato attribuire 
la 
giurisdizione 
al 
giudice 
ordinario 
comporterebbe 
la 
segmentazione 
del 
procedimento di 
controllo in varie 
sottofasi, 
con 
frammentazione 
del 
contenzioso 
in 
contrasto 
con 
il 
principio 
costituzionale 
di 
accentramento delle 
tutele, la 
cui 
vigenza 
nel 
processo amministrativo 
è esplicitata dall’art. 7 comma 7 cpa. 

Né 
sarebbe 
ipotizzabile 
una 
vis 
espansiva della 
giurisdizione 
ordinaria, a 
ciò ostando il 
dettato dell’art. 133, comma 
1, lett. c) cpa 
che 
riserva 
alla 
predetta 
giurisdizione, in deroga 
alla 
giurisdizione 
esclusiva 
del 
giudice 
amministrativo, 
in materia 
di 
concessioni 
di 
pubblici 
servizi, le 
sole 
controversie 
e, 
in ogni 
caso, “concernenti 
indennità, canoni 
ed altri 
corrispettivi”, e, cioè, le 
controversie 
di 
contenuto prettamente 
patrimoniale 
che 
riguarda 
anche 
l’impugnazione 
degli 
atti 
che 
hanno definito i 
criteri 
di 
controllo e, in ogni 
caso, 
involge 
le 
stesse 
modalità 
di 
esercizio dei 
poteri 
di 
controllo e 
gli 
esiti 
a 
cui 
questi sono approdati. 

Una 
diversa 
conclusione 
porterebbe 
la 
possibilità 
di 
abuso 
della 
strumentazione 
giuridica, 
quale 
è 
quello 
che 
potrebbe 
derivare 
dall’inserimento 
dei 
ri



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


sultati 
di 
una 
tipica 
attività 
amministrativa 
(nel 
caso del 
controllo) e 
che 
partecipano 
della 
natura 
di 
tale 
attività 
all’interno di 
atti 
recanti 
partite 
di 
dare 
e 
avere, al 
fine 
di 
attrarre 
ad una 
diversa 
giurisdizione 
la 
cognizione 
sulla 
suddetta 
attività 
e 
sui 
suoi 
esiti. 
In 
questo 
modo 
si 
lascerebbe 
alla 
mercè 
dell’Amministrazione 
di 
decidere 
essa 
stessa 
il 
giudice 
deputato 
a 
conoscere 
dell’attività 
di 
controllo 
e 
dei 
suoi 
esiti, 
a 
seconda 
che 
l’Amministrazione 
scelga 
di 
formalizzare 
detti 
esiti 
in un’apposita 
veste 
provvedimentale 
ovvero 
di 
inserirli 
all’interno di 
apposita 
partita 
di 
dare/avere, dando vita 
a 
quella 
che 
è 
stata 
definita 
dalla 
dottrina 
come 
“giurisdizione 
ballerina”, in violazione 
dei 
canoni 
costituzionali 
in tema 
di 
riparto della 
giurisdizione 
e 
dello stesso principio 
del 
giudice 
naturale 
precostituito per legge 
e 
non lasciato alla 
libera 
disponibilità 
delle parti. 


Sul 
tema 
dell’accreditamento molte 
questioni 
hanno riguardato le 
leggi 
regionali 
per le 
quali 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
sollevato questioni 
di 
legittimità 
costituzionale. 


Si 
pensi 
all’ordinanza 
della 
II 
sezione 
del 
24 
dicembre 
2021 
n. 
8610 
Pres. 
ff. Noccelli 
Est. Maiello, la 
quale 
ha 
statuito: 
“È 
rilevante 
e 
non manifestamente 
infondata la questione 
di 
legittimità costituzionale 
in relazione 
all’art. 
117, comma 3 Cost., dell’art. 19 comma 3, Legge 
regionale 
Puglia n. 9/2017, 
nella versione 
antecedente 
alle 
modifiche 
introdotte 
dagli 
art. 49, comma 1, 
leg. reg. 30 novembre 
2019 n. 52 e 
9, comma 1, leg. reg. 7 luglio 2020, nella 
parte 
in 
cui 
introduce 
una 
deroga 
al 
principio 
generale 
in 
forza 
del 
quale 
l’autorizzazione 
alla realizzazione 
e 
all’esercizio delle 
strutture 
sanitarie 
e 
sociosanitarie 
non 
produce 
effetti 
vincolanti 
ai 
fini 
della 
procedura 
di 
accreditamento 
istituzionale 
che 
si 
fonda 
sul 
criterio 
della 
funzionalità 
rispetto 
alla programmazione regionale”. 


Ha 
chiarito la 
Sezione 
che 
l’art. 19, comma 
3 della 
legge 
regionale 
n. 9 
del 
2017 -nella 
versione 
antecedente 
alle 
modifiche 
introdotte 
dagli 
art. 49, 
comma 
1, legge 
regionale 
30 novembre 
2019 n. 52 e 
9, comma 
1, legge 
regionale 
7 
luglio 
2020, 
dichiarate 
costituzionalmente 
illegittime 
rispettivamente 
con 
sentenza 
12 
marzo 
2021 
n. 
36 
e 
15 
ottobre 
2021 
n. 
195 
(a 
mente 
della 
quale 
“L’autorizzazione 
alla 
realizzazione 
e 
all’esercizio non produce 
effetti 
vincolanti 
ai 
fini 
della 
procedura 
di 
accreditamento istituzionale, che 
si 
fonda 
sul 
criterio 
della 
funzionalità 
rispetto 
alla 
programmazione 
regionale, 
salvo 
che 
non si 
tratti 
di 
modifiche, ampliamento e 
trasformazione 
di 
cui 
all’art. 5, 
comma 
2, inerenti 
strutture 
già 
accreditate”) pone, in presenza 
di 
strutture 
accreditate 
per altre 
attività, l’obbligo dell’Amministrazione 
di 
prendere 
atto ai 
fini 
del 
rilascio di 
un ulteriore 
provvedimento di 
accreditamento -e 
senza 
la 
mediazione 
costitutiva 
di 
una 
propria 
autonoma 
e 
specifica 
valutazione 
quanto 
alla 
funzionalità 
rispetto 
alla 
programmazione 
regionale 
-della 
già 
intervenuta 
autorizzazione 
alla 
realizzazione 
e 
all’esercizio di 
attività 
costituenti 
modifi



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


che, ampliamento e 
trasformazione 
di 
cui 
all’art. 5 comma 
2. La 
circostanza 
che, in presenza 
delle 
condizioni 
derogatorie 
ivi 
espressamente 
previste 
(modifiche, 
ampliamento 
e 
trasformazione 
di 
cui 
all’art. 
5, 
comma 
2, 
inerenti 
strutture 
già 
accreditate), l’accreditamento risulti 
legato, sotto il 
profilo genetico, 
da 
un rapporto vincolato ed automatico con il 
distinto e 
presupposto provvedimento 
autorizzatorio, senza 
che, nei 
suddetti 
casi, sull’an 
del 
rilascio possano 
in 
alcun 
modo 
interferire 
valutazioni 
discrezionali 
dell’Amministrazione 
nell’ambito (come 
avviene 
di 
norma) di 
un apposito procedimento amministrativo, 
da 
ritenersi 
viceversa 
indispensabile 
siccome 
forma 
indefettibile 
della 
funzione amministrativa. 


In 
altri 
termini, 
in 
presenza 
delle 
menzionate 
fattispecie 
derogatorie, 
il 
provvedimento di 
rilascio dell’accreditamento si 
pone 
come 
misura 
rigorosamente 
attuativa 
di 
norme 
vincolanti 
che 
rendono 
la 
statuizione 
amministrativa 
atto dovuto e a contenuto vincolato. 

Secondo il 
Consiglio di 
Stato la 
menzionata 
disposizione 
si 
pone 
in contrasto 
con 
l’art. 
117, 
comma 
3, 
Cost., 
in 
relazione 
ai 
principi 
fondamentali 
posti 
dalla 
legge 
statale 
in materia 
di 
tutela 
della 
salute, nella 
specie 
declinati 
agli 
artt. 8, comma 
4, 8-bis, 8 ter 
e8 quater 
d.lgs 
n. 502 del 
1992, per le 
medesime 
ragioni 
già 
evidenziate 
dal 
Giudice 
delle 
leggi 
nelle 
decisioni 
del 
12 
marzo 2021 n. 36 e 
del 
15 ottobre 
2021 n. 195, non direttamente 
applicabili, 
in quanto riferite 
a 
norme 
diverse 
da 
quella 
qui 
in rilievo, ma 
replicabili 
nei 
principi 
ivi 
affermati 
siccome 
riferiti 
a 
una 
fattispecie 
parimenti 
governata 
da 
una 
vincolante 
sequenza 
di 
effetti 
giuridici 
ampliativi, 
geneticamente 
collegati 
in via 
ordinaria 
a 
distinti 
e 
autonomi 
provvedimenti, ma 
qui, scandita, per effetto 
di 
derogatorie 
previsioni 
normative 
regionali, 
da 
rigidi 
automatismi 
ingeneranti 
una 
non 
consentita 
sovrapposizione 
tra 
autorizzazione 
e 
accreditamento. 


Come 
è 
noto, 
la 
competenza 
regionale 
in 
materia 
di 
autorizzazione 
ed 
accreditamento 
di 
istituzioni 
sanitarie 
private 
deve 
essere 
inquadrata 
nella 
più 
generale 
potestà 
legislativa 
concorrente 
in 
materia 
di 
tutela 
della 
salute 
che 
vincola 
le 
regioni 
al 
rispetto 
dei 
principi 
fondamentali 
stabiliti 
dalla 
leggi 
dello Stato e 
nel 
reticolo delle 
disposizioni 
sopramenzionate 
il 
legislatore 
statale 
pone 
in rapporto di 
autonomia 
i 
provvedimenti 
di 
autorizzazione 
e 
di 
accreditamento 
di 
strutture 
sanitarie, 
dovendo 
soggiungersi 
che 
la 
necessità 
della 
mediazione 
costitutiva 
di 
un 
atto 
di 
accreditamento 
si 
impone 
anche 
nel 
caso di 
ampliamento di 
una struttura preesistente, ai 
sensi 
dell’art. 8 
quater, comma 7, d.lgs 502 del 1992 (Corte cost. n. 132 del 2013). 


Il 
Consiglio di 
Stato ha 
escluso che 
assuma 
rilievo la 
circostanza 
che 
la 
norma 
in esame, e 
vigente 
al 
momento dell’atto impugnato in prime 
cure, sia 
stata 
successivamente 
abrogata. La 
Corte 
costituzionale 
ha 
costantemente 
affermato 
la persistenza della rilevanza della questione anche nel caso in cui la 
norma 
sottoposta 
a 
scrutinio sia 
sostituita 
da 
una 
successiva, perché 
la 
legitti



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


mità 
dell’atto deve 
essere 
esaminata, in virtù del 
principio tempus 
regit 
actum 
con riguardo alla 
situazione 
di 
fatto e 
di 
diritto esistente 
al 
momento della 
sua 
adozione 
(sentenze 
24 aprile 
2013, 78; 
11 luglio 2012 n. 177; 
nonché 
tra 
le 
altre 
sentenze 
25 novembre 
2011 n. 321; 
11 giugno 2010 n. 209). Più recentemente 
la 
Corte 
costituzionale 
nella 
sentenza 
n. 
177 
del 
2021 
ha 
precisato 
che 
“il 
fatto che 
la norma da scrutinare 
sia stata sostituita da una successiva, 
poi 
dichiarata 
costituzionalmente 
illegittima, 
non 
toglie 
di 
per 
sé 
rilevanza 
alla questione 
di 
legittimità costituzionale 
avente 
ad oggetto la disposizione 
precedente; 
questa 
Corte 
ha 
avuto 
modo 
di 
precisare 
in 
altre 
occasioni, 
infatti, 
che, ove 
un determinato atto amministrativo sia stato adottato sulla base 
di 
una norma poi 
abrogata -come, nelle 
specie, dichiarata costituzionalmente 
illegittima 
-la 
legittimità 
dell’atto 
deve 
essere 
esaminata, 
in 
virtù 
del 
principio 
tempus 
regit 
actum 
“con 
riguardo 
alla 
situazione 
di 
fatto 
e 
di 
diritto” 
esistente 
al 
momento della sua adozione 
(sentenza n. 209 del 
2010, nonché, in precedenza, 
sentenza n. 509 del 
2000)”. del 
resto, i 
due 
istituti 
giuridici 
dell’abrogazione 
e 
della 
illegittimità 
costituzionale 
delle 
leggi 
non 
sono 
uguali 
fra 
loro, 
ma 
si 
muovono su piani 
diversi 
ed hanno, soprattutto, effetti 
diversi. Mentre 
la 
dichiarazione 
di 
incostituzionalità 
di 
una 
legge 
o di 
un atto avente 
forza 
di 
legge 
rende 
la 
norma 
inefficace 
ex 
tunc 
e, quindi, estende 
la 
sua 
invalidità 
a 
tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
ancora 
pendenti 
al 
momento 
della 
decisione 
della 
Corte, 
restandone 
così 
esclusi 
soltanto 
i 
“rapporti 
esauriti” 
(cfr. 
l’art. 
136 
Cost., 
e 
l’art. 
30, 
comma 
3, 
L. 
11 
marzo 
1953 
n. 
87), 
l’abrogazione, 
salvo 
il 
caso 
dell’abrogazione 
con effetti 
retroattivi, opera 
solo per l’avvenire, atteso che 
anche 
la 
legge 
abrogante 
è 
sottoposta 
alla 
regola 
di 
cui 
all’art. 11 delle 
disposizioni 
sulla 
legge 
in 
generale 
(cd. 
Preleggi), 
secondo 
cui 
“la 
legge 
non 
dispone 
che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”. 


Il 
Consiglio di 
Stato non si 
è 
limitato a 
definire 
il 
rapporto tra 
autorizzazione 
e 
accreditamento 
sul 
profilo 
esterno, 
ma 
in 
altre 
pronunzie 
ha 
dettato 
importanti 
principi 
anche 
con riferimento al 
rapporto interno tra 
struttura 
privata 
accreditata e Pubblica 
Amministrazione. 

Con sentenza 
4 agosto 2021 n. 5758 la sezione 
iii 
ha affermato che 
in 
sede 
di 
remunerazione 
di 
prestazioni 
sanitarie 
erogate 
da strutture 
private, 
il 
principio di 
buona fede 
che 
deve 
improntare 
i 
rapporti 
tra Pubblica 
amministrazione 
e 
cittadino, impone 
di 
considerare 
che 
a fronte 
di 
somme 
ricevute 
a 
titolo 
di 
anticipazione, 
per 
una 
causale 
ben 
precisa, 
i 
percipienti 
sono 
perfettamente 
a 
conoscenza 
dell’esistenza 
del 
procedimento 
nel 
cui 
ambito tale 
erogazione 
era avvenuta, e 
che 
ha come 
inevitabile 
conseguenza normativa il 
successivo conguaglio finale, senza che 
il 
decorso 
del 
tempo 
possa 
legittimamente 
fondare 
la 
convinzione 
di 
una 
estinzione - per rinuncia - del procedimento medesimo. 


Il 
Consiglio di 
Stato ha 
ricordato che 
in diritto civile 
la 
nozione 
di 
affida



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


mento 
ha 
riguardato 
“fenomeni 
distinti”, 
accomunati 
dalla 
necessità 
di 
risolver 
il 
conflitto 
ingenerato 
dalla 
divergenza 
fra 
realtà 
e 
apparenza; 
essa, 
nell’età 
contemporanea, tende 
ad essere 
ricondotta 
al 
dovere 
di 
solidarietà 
cui 
devono 
essere 
improntate 
le 
relazioni 
intersoggettive. Si 
tratta 
di 
una 
regola 
che 
viene 
declinata 
anzitutto in materia 
di 
acquisti 
a 
non domino, non solo per via 
contrattuale; 
è 
tuttavia 
nella 
materia 
contrattuale 
che 
l’affidamento viene 
elevato 
dalle 
norme 
a 
criterio 
interpretativo 
della 
dichiarazione 
negoziale 
e, 
quindi, 
del 
contenuto 
dell’obbligo. 
L’istituto 
e 
le 
regole 
che 
ne 
discendono 
hanno, 
pertanto, 
la 
funzione 
di 
adeguare 
sul 
piano delle 
regole 
di 
validità, l’assetto di 
interessi 
all’apparenza 
creata 
da 
fatti, comportanti 
e 
dichiarazioni 
in modo da 
conformare 
le 
vicende 
relative 
alla 
circolazione 
dei 
beni 
all’impronta 
solidaristica. 
da 
qui 
la 
peculiarità 
della 
nozione 
in ambito civile 
e 
la 
sua 
non automatica 
esportabilità 
nel 
settore 
del 
diritto 
amministrativo. 
In 
diritto 
amministrativo la 
nozione 
ha 
un fondamento analogo, ma 
un ambito più circoscritto. 
Il 
fondamento analogo è 
dato dal 
fatto che 
il 
destinatario del 
provvedimento 
favorevole 
ripone 
un affidamento sulla 
validità 
ed efficacia 
dello 
stesso (sempre 
che 
tale 
affidamento sia 
autorizzato dal 
regime 
del 
provvedimento): 
il 
problema 
della 
divergenza 
fra 
realtà 
ed apparenza 
si 
pone 
allorchè 
tale 
provvedimento, e 
i 
relativi 
effetti 
ampliativi, vengono rimossi 
(in autotutela, 
o a seguito di ricorso giurisdizionale). 

Con due 
importanti 
precisazioni: 
la 
prima 
è 
che 
il 
procedimento amministrativo 
non è 
un’attività 
relazionale 
a 
forma 
libera. La 
pretesa 
di 
ritenere 
non iure 
la 
condotta 
dell’amministrazione 
passa 
inevitabilmente 
per l’accertamento 
dell’illegittimità 
dei 
suoi 
atti. 
La 
seconda 
è 
che 
la 
valutazione 
del-
l’ordinamento 
sul 
grado 
di 
affidamento 
configurabile 
a 
seguito 
di 
un 
provvedimento favorevole 
è 
già 
contenuta 
nel 
regime 
di 
stabilità 
del 
provvedimento 
medesimo. 

Il 
concetto 
di 
buona 
fede, 
good 
faith 
e 
quello 
di 
affidamento 
hanno 
riguardo 
a 
due 
distinte 
nozioni 
tra 
loro connesse, in quanto già 
in diritto civile 
è 
la 
buona 
fede 
che 
qualifica 
come 
incolpevole 
l’affidamento 
meritevole 
di 
tutela 
(la 
stessa 
teorica 
civilistica 
dell’affidamento 
esige, 
infatti, 
una 
diligenza 
nell’affidarsi 
all’altrui 
comportamento). Il 
beneficiario del 
provvedimento favorevole 
sa 
già 
che, a 
certe 
condizioni 
(anche 
temporali) lo stesso può essere 
rimosso: 
tanto 
che 
in 
materia 
di 
provvedimenti 
amministrativi 
la 
tutela 
del-
l’affidamento in ambito comunitario (veicolata 
attraverso l’art. 1, comma 
1, 


L. n. 241 del 
1990 nel 
nostro ordinamento) è 
costruita 
sul 
piano degli 
effetti 
giuridici 
dell’autotutela: 
i 
margini 
della 
tutela 
dell’affidamento riposto nella 
stabilità 
del 
provvedimento 
sono 
definiti 
dal 
legislatore, 
attraverso 
la 
disciplina 
dei limiti di natura temporale all’esercizio del potere di autotutela. 
Il 
Consiglio 
di 
Giustizia 
Amministrativa 
della 
regione 
siciliana, 
con 
sentenza 
10 novembre 
2021 n. 994 
ha 
ritenuto che 
le 
strutture 
accreditate 
che, 
pur aspirando alla 
contrattualizzazione 
(e 
quindi, all’apertura 
al 
mercato) ab



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


biano 
prestato 
acquiescenza 
ai 
dinieghi 
di 
contrattualizzazione 
emessi 
dal-
l’Azienda 
Sanitaria 
di 
riferimento 
o 
addirittura 
non 
abbiamo 
nemmeno 
formulato 
istanza, non possono trarre 
beneficio dalla 
statuizione 
giurisdizionale 
favorevole intervenuta sul ricorso proposto da altre strutture. 

Il 
Cga 
ha 
escluso 
che 
a 
tale 
preclusione 
possa 
ovviare 
l’Agcm, 
tenuto 
conto della 
natura 
giuridica 
dell’interesse 
tutelato mediante 
il 
ricorso ex 
art. 
21 
bis 
L. 
n. 
287/90, 
ossia 
l’interesse 
pubblico 
alla 
tutela 
e 
alla 
promozione 
del 
mercato e 
della 
concorrenza, in funzione 
del 
quale 
viene 
riconosciuta 
una 
legittimazione 
processuale 
straordinaria 
che 
consente 
la 
proposizione 
del 
ricorso 
a 
prescindere 
dall’iniziativa 
dei 
singoli 
che 
lamentino 
una 
lesione 
diretta 
e 
immediata 
della 
loro sfera 
giuridica 
ed anche 
oltre 
gli 
ordinari 
termini 
di 
decadenza. 
viene 
così 
in evidenza 
la 
lesione 
del 
principio di 
libera 
concorrenza 
a 
seguito di 
un ricorso proposto dall’Autorità 
di 
settore 
che, attivando la 
legittimazione 
straordinariamente 
attribuita 
dal 
legislatore, 
fa 
valere 
l’interesse 
generale 
al 
corretto 
dispiegarsi 
del 
mercato. 
L’Agcm, 
quindi, 
anche 
nel 
chiedere 
l’esecuzione 
del 
giudicato è 
portatrice 
di 
un interesse 
generale 
e 
non di 
una 
somma 
di 
interessi 
individuali, 
per 
cui 
deve 
escludersi 
che 
possa 
agire 
nell’interesse 
dei 
singoli 
che 
non abbiano tempestivamente 
impugnato i 
provvedimenti 
lesivi, 
cosa 
che 
determinerebbe 
un 
aggiramento 
dei 
termini 
decadenziali 
di 
impugnazione 
e 
l’elusione 
delle 
regole 
in tema 
di 
inoppugnabilità 
degli 
atti 
(gli 
uni 
e 
le 
altre 
funzionali 
alla 
rapida 
definizione 
e 
certezza 
dei 
rapporti 
fra 
cittadini e Pubblica 
Amministrazione). 

d’altra 
parte 
le 
strutture 
che 
si 
siano, 
invece, 
tempestivamente 
attivate 
avverso gli 
atti 
di 
rigetto della 
richiesta 
di 
contrattualizzazione 
sarebbero, comunque, 
tutelate 
in 
virtù 
della 
propria 
singola 
impugnazione. 
Nel 
bilanciamento, 
quindi, fra 
le 
varie 
posizioni 
si 
evince 
che 
dall’efficacia 
ex 
nunc 
della 
statuizione 
nessun soggetto verrebbe 
pregiudicato tra 
coloro che 
non siano rimasti 
acquiescenti 
al 
provvedimento. d’altra 
parte 
alla 
luce 
della 
circostanza 
che 
il 
ricorso ex 
art. 21 bis, l. 287 del 
1990 è 
proposto oltre 
i 
termini 
di 
decadenza 
e 
non 
è 
richiesto 
che 
sia 
notificato 
a 
tutti 
i 
beneficiari 
del 
provvedimento, 
si 
perviene 
alla 
conclusione 
che 
il 
ricorso ex 
art. 21 bis 
l. 287/1990 tende 
soprattutto 
ad un risultato conformativo per il 
futuro e 
non ripristinatorio; 
risultato 
conformativo 
che 
è, 
perciò, 
il 
solo 
per 
il 
quale 
l’Agcm 
potrà 
eventualmente 
agire 
in 
sede 
di 
ottemperanza, 
in 
mancanza 
dell’auspicabile 
adeguamento spontaneo della regione. 


La 
programmazione 
regionale 
viene 
in 
rilievo, 
soprattutto, 
per 
la 
nota 
questione 
del 
calcolo 
dell’extrabudget 
sul 
fatturato 
complessivo 
delle 
strutture 
private 
accreditate. 
A 
tal 
riguardo 
si 
segnala 
una 
recente 
sentenza 
del 
tar 
sardegna, 
sez. 
i, 
del 
21 
febbraio 
2022 
n. 
125 
che 
ha 
statuito 
il 
seguente 
principio: 
la 
previsione 
solo eventuale 
di 
una 
remunerazione 
extrabudget 
e 
la 
decurtazione 
di 
una 
determinata 
percentuale 
dalle 
tariffe 
risultano legittime 
scelte 
di



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


screzionali 
che 
la 
regione 
può compiere 
nella 
determinazione 
dei 
criteri 
per 
remunerare 
l’extrabudget. È 
però, illegittima 
la 
scelta 
della 
regione 
di 
calcolare 
l’extrabudget 
sul 
fatturato 
complessivo 
e 
non 
sul 
tetto 
di 
spesa, 
utilizzando, 
perciò, 
anche 
l’extrabudget 
prodotto, 
così 
da 
minare 
e 
produrne 
(“investire”) 
quote 
maggiori, 
si 
da 
acquisirne 
negli 
anni 
successivi 
tetti 
di 
spesa 
maggiori. 


La 
sezione 
del 
Tar 
Sardegna 
ha 
chiarito 
che 
“l’invalicabilità 
del 
limite 
massimo di 
finanziamento assegnato dalle 
aSP 
alle 
singole 
strutture 
private 
accreditate 
è 
pienamente 
in linea con la ratio di 
tutela della finanza pubblica 
sottesa 
al 
tetto 
di 
spesa, 
laddove, 
invece, 
meccanismi 
di 
remunerazione 
extra-
budget 
(quali 
l’istituto della regressione 
tariffaria) hanno rilevanza residuale 
ed eventuale. in materia sanitaria l’osservanza del 
tetto di 
spesa rappresenta 
un 
vincolo 
ineludibile 
che 
costituisce 
la 
misura 
delle 
prestazioni 
sanitarie 
che 
il 
SSN può erogare 
e 
può, quindi, permettersi 
di 
acquistare 
da ciascun erogatore 
privato; di 
conseguenza deve 
considerarsi 
giustificata anche 
la mancata 
previsione 
di 
criteri 
di 
remunerazione 
delle 
prestazioni 
extrabudget 
per 
la 
necessità 
di 
dover, comunque, rispettare 
i 
tetti 
di 
spesa e, quindi, il 
vincolo delle 
risorse disponibili (Tar Catanzaro, sez. ii, 18 dicembre 2018 n. 2144)”. 


Tale 
orientamento è 
stato confermato in sede 
di 
appello dal 
Consiglio di 
Stato 
che 
ha 
affermato 
che 
“la 
facoltà 
per 
le 
regioni 
di 
determinare 
criteri 
per 
la remunerazione 
delle 
prestazioni 
erogate 
al 
di 
sopra del 
tetto di 
spesa 
previsto dall’8 quinquies, comma 1, lett. d) del 
dlgs 
n. 502 del 
1992, non implica 
che 
alle 
stesse 
regioni 
sia 
precluso, 
in 
circostanze 
particolarmente 
“stringenti” 
come 
quelle 
determinate 
dal 
piano di 
rientro, di 
stabilire 
legittimamente 
il 
criterio secondo cui 
nessuna remunerazione 
è 
prevista (CDS sez. 
iii, 25 marzo 2016 n.1244; id 11 novembre 2020 n. 6936)”. 


Ha 
ricordato 
il 
Tar 
Sardegna 
nella 
recentissima 
sentenza 
che 
è 
proprio 
tale 
logica 
ad 
essere 
illegittima, 
in 
quanto 
stimola 
un 
aumento 
delle 
prestazioni 
extrabudget, 
in 
contrasto 
con 
il 
vincolo 
imposto 
dal 
tetto 
di 
spesa: 
“l’art. 
8 
quinquies 
del 
D.lgs 
n. 502/1992 non consente 
la remunerazione 
delle 
prestazioni 
che 
eccedono il 
tetto di 
spesa, in quanto la funzionalità del 
sistema di 
programmazione 
della 
spesa 
sanitaria 
presuppone 
il 
rispetto 
del 
limite 
di 
spesa stabiliti: la regione 
Sardegna con tali 
delibere 
premia, invece, la produzione 
extrabudget, 
penalizzando 
le 
strutture 
che 
rispettano 
il 
tetto 
assegnato 
ai 
fini 
del 
contenimento della spesa pubblica (Consiglio di 
Stato sez. III 
7 dicembre 
2021 n. 8161)”. 



rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


tecnologia e diritto: gli effetti 
collaterali dei tabulati telefonici 


Daniela Migali* 


Sommario: 
1. 
i 
diritti 
fondamentali 
nel 
contesto 
storico 
prima 
dell’era 
digitale 
-2. 
L’impatto 
dirompente 
della 
tecnologia 
nel 
tessuto 
giuridico 
-3. 
La 
tutela 
del 
diritto 
alla 
riservatezza: 
profili 
problematici 
-4. 
il 
tortuoso 
cammino 
verso 
la 
legittimità 
dei 
tabulati 
-4.1 
La 
giurisprudenza 
comunitaria 
-4.2. 
La 
querelle 
giurisprudenziale 
italiana 
-4.3 
La 
reazione 
del 
legislatore 
nazionale 
-5. 
Luci 
ed 
ombre 
della 
normativa 
-6. 
i 
(dischiusi) 
possibili 
scenari. 


1. i diritti fondamentali nel contesto storico prima dell’era digitale. 
La 
filosofia 
medievale 
del 
diritto naturale 
ha 
contribuito alla 
proclamazione 
dei 
diritti 
fondamentali, o anche 
inviolabili, dell’uomo inerenti 
alla 
persona 
umana 
e 
alla 
sua 
dignità. 
Una 
volta 
conquistata 
la 
rilevanza 
anche 
in 
ambito 
sociale, 
con 
il 
tramonto 
delle 
vecchie 
strutture 
feudali, 
detti 
diritti 
hanno ottenuto il 
primo vero riconoscimento in ambito giuridico con la 
dichiarazione 
dei diritti dell’uomo del 1789. 

All’indomani 
delle 
atrocità 
compiute 
durante 
i 
conflitti 
mondiali, 
la 
maggior 
parte 
degli 
Stati, 
mossi 
da 
un 
sentimento 
di 
convinta 
reazione, 
si 
sono 
impegnati 
a 
dare 
riconoscimento, 
all’interno 
dei 
propri 
territori, 
a 
princìpi 
ampiamente 
condivisi attraverso una vera e propria formalizzazione. 

Nel 
panorama 
sovranazionale, quest’impegno si 
è 
concretizzato per ventotto 
Stati 
il 
10 dicembre 
1948, data 
in cui 
è 
stata 
emanata 
la 
dichiarazione 
universale 
dei 
diritti 
dell’uomo. 
Tra 
questi 
ultimi, 
meritevole 
di 
particolare 
attenzione 
è 
il 
diritto alla 
riservatezza, nel 
quale 
confluiscono una 
pluralità 
di 
interessi 
legati 
all’estrinsecazione 
della 
personalità 
umana. 
La 
riservatezza 
ha 
assunto 
nel 
corso 
degli 
anni 
diverse 
sembianze 
a 
seconda 
del 
contesto 
storico: 
dapprima, 
solo 
come 
riservatezza 
domiciliare 
e 
della 
corrispondenza, 
più 
tardi 


-in concomitanza 
all’avvento della 
digitalizzazione 
-è 
stata 
intesa 
come 
inviolabilità 
dei dati personali (di cui all’art. 615 bis 
c.p.). 
Tra 
i 
molteplici 
riferimenti 
normativi 
alla 
riservatezza 
in senso lato -da 
intendersi 
come 
diritto 
alla 
privacy 
-di 
spiccata 
importanza 
è 
la 
dichiarazione 
Universale 
dei 
diritti 
umani 
(art. 12) la 
quale 
sancisce 
il 
diritto dell’individuo 
di 
mantenere 
il 
controllo sulle 
proprie 
informazioni, da 
intendersi 
come 
presupposto 
per 
l’esercizio 
di 
altri 
diritti 
di 
libertà. 
Lo 
stesso, 
è 
altresì 
ripreso 
nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (art. 17). 

I testi 
citati, pur non presentando un carattere 
vincolante, hanno ispirato 
gli Stati nella predisposizione di un efficace e garantista sistema normativo. 

(*) dottoressa 
in Giurisprudenza, ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
distrettuale 
dello 
Stato di Bologna. 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Nel 
contesto nazionale, è 
l’art. 2 della 
Carta 
costituzionale 
-noto come 
strumento dinamico di 
protezione 
(1) -che 
espressamente 
riconosce 
i 
diritti 
fondamentali, ne 
esplicita 
il 
contenuto a 
seconda 
che 
ineriscano l’ambito civile, 
etico-sociale, economico e 
politico. Sulla 
scorta 
di 
quanto affermato a 
livello 
globale, 
la 
rivisitazione 
del 
diritto 
alla 
riservatezza, 
in 
concomitanza 
allo 
sviluppo delle 
tecnologie 
informatiche, si 
è 
tradotto nell’emersione 
del 
diritto 
alla 
protezione 
dei 
dati 
personali. orbene, tale 
approdo è 
stato preceduto da 
una 
serie 
di 
tappe 
-tutte 
tese 
a 
valorizzare 
la 
mutevolezza 
contenutistica 
del 
diritto 
in 
questione 
-che 
hanno 
lasciato 
inalterata 
la 
ratio 
di 
tutelare 
le 
esigenze 
multiformi. 

Tuttavia, 
data 
la 
centralità 
dell’informazione 
nel 
contesto 
economico 
e 
sociale, 
al 
titolare 
dei 
dati 
è 
conferita 
una 
sorta 
di 
“sovranità 
digitale” 
affinché 
possa provvedere, in prima persona, al controllo dei propri dati. 


Nel 
tentativo di 
dipanare 
i 
dubbi 
sulla 
natura 
“tiranna” 
(2) di 
tali 
diritti, è 
stato 
rimesso 
all’equo 
giudizio 
del 
legislatore 
il 
bilanciamento 
tra 
interessi 
confliggenti, in virtù dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità. 


2. L’impatto dirompente della tecnologia nel tessuto giuridico. 
La 
profonda 
trasformazione 
che 
ha 
interessato 
l’odierna 
società 
-al 
punto 
tale 
da 
segnare 
il 
passaggio nella 
c.d. era 
digitale 
-deve 
essere 
attribuita 
all’avvento 
delle 
scienze 
tecnologiche. Non è 
improprio definire 
“rivoluzione 
digitale” 
quel 
passaggio graduale 
verso la 
tecnologia 
digitale 
(3), la 
quale, in 
poco tempo, è divenuta indispensabile in diversi campi della vita quotidiana. 


Alla 
luce 
dell’impatto che 
queste 
tecnologie 
hanno avuto anche 
nella 
ridefinizione 
dei 
processi 
organizzativi 
e 
gestionali, è 
stata 
avvertita 
l’esigenza 
di 
promuovere 
l’acquisizione 
di 
adeguate 
competenze 
da 
parte 
dei 
destinatari. 
difatti, una 
delle 
sfide 
lanciate 
di 
recente 
dalla 
Commissione 
Europea, è 
stata 
quella 
di 
puntare 
al 
miglioramento delle 
competenze 
digitali 
dei 
cittadini, tra 
le sette azioni prioritarie. 

Nel 
campo 
delle 
investigazioni, 
il 
ritardo 
dell’Accademia 
nella 
elaborazione 
di 
una 
risposta 
dogmatica 
ha 
indotto 
la 
dottrina 
ad 
individuare 
delle 
soluzioni 
tecnico-giuridiche 
in 
grado 
di 
reggere 
l’urto 
della 
situazione 
contingente 
e 
di 
imporsi 
come 
pratiche, 
condivisibili 
dagli 
addetti 
ai 
lavori 
(4). 


Nell’arduo 
tentativo 
di 
sfruttare 
al 
meglio 
le 
potenzialità 
delle 
scienze 
digitali, 
un elemento di 
estrema 
rilevanza, del 
quale 
la 
dottrina 
ha 
dovuto tener 


(1) LEo, Nuove 
frontiere 
dell’investigazione 
scientifica e 
diritti 
fondamentali 
dell’uomo, appunti 
per la relazione 11 aprile 2022. 
(2) Così 
definiti 
in ragione 
del 
regime 
di 
tutela 
in apparenza 
incondizionata, prescindendo dai 
sacrifici 
derivanti dalla tutela ed esistenza degli interessi confliggenti. 
(3) Così definita in relazione ad un sistema binario di cifratura. 
(4) 
Introduzione 
ad 
opera 
di 
ATErNo, 
CAJANI, 
CoSTABILE, 
MATTIUCCI, 
MAzzArACo, 
Cyber 
forensics 
e indagini digitali, 2021, pp. 23 ss. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


conto, 
è 
stata 
la 
nuova 
categoria 
di 
minacce: 
infatti, 
l’utilizzo 
illecito 
della 
tecnologia 
ha 
generato 
la 
c.d. 
criminalità 
cibernetica, 
ovvero 
un 
fenomeno 
in 
continua 
espansione 
i 
cui 
soggetti 
passivi 
-cittadini, 
imprese, 
e 
nel 
complesso 
gli 
Stati 
-sono sempre 
più vulnerabili 
(5). Il 
carattere 
camaleontico e 
immateriale 
della 
criminalità 
informatica 
è 
ciò di 
cui 
deve 
tener conto lo studioso 
nell’elaborazione 
di 
misure 
sicuritarie 
e 
di 
prevenzione, 
in 
raccordo 
con 
le 
nuove fattispecie incriminatrici. 

Tutto ciò avviene 
quando nelle 
asfittiche 
aule 
dei 
tribunali 
italiani 
irrompono 
(6) rumorosamente 
i 
data retention 
(7) e 
data protection, riportando alla 
memoria 
il 
principio secondo il 
quale 
il 
processo inquisitorio è 
destinato a 
cedere 
davanti 
alle 
fonti 
dell'Unione 
europea 
-di 
superiore 
valore 
giuridico 
come 
la Carta dei diritti fondamentali. 


In un sofisticato eco-sistema 
tecnologico, la 
prova 
digitale 
(e-evidence) 
(8), 
date 
le 
sue 
molteplici 
sfaccettature, 
è 
stata 
la 
causa 
scatenante 
del 
momento 
di 
tensione 
fra 
i 
poli 
del 
garantismo e 
dell’autoritarismo: 
le 
necessarie 
azioni 
preventive 
e 
repressive, volte 
a 
tutelare 
l’ordine 
pubblico, hanno determinato 
l’infausta 
compressione 
dei 
diritti 
fondamentali. 
Così, 
se 
la 
digital 
evidence 
costituisce 
la 
misura 
atomica 
delle 
indagini 
nel 
mondo 
digitale, 
la 
digital 
forensics 
è 
il 
processo 
teso 
alla 
“manipolazione 
controllata, 
o 
più 
in 
generale, 
al 
trattamento di 
dati 
o informazioni 
digitali 
e 
sistemi 
informativi 
per 
finalità 
investigative e di giustizia” (9). 


difatti, 
l’individuazione 
degli 
strumenti 
da 
offrire 
agli 
organi 
investigativi 
ha 
risentito della 
necessaria 
intersecazione 
con le 
garanzie 
proprie 
del 
giusto 
processo: 
l’esito di 
tali 
operazioni 
è 
l’acquisizione 
di 
dati 
e 
informazioni 
autentiche 
ad insaputa 
del 
soggetto sotto accusa. d’altro canto, le 
tracce 
infor


(5) 
Esemplificativi, 
sono 
stati 
gli 
attacchi 
Wannacry 
e 
NotPetya 
nei 
quali 
sono 
stati 
attaccati 
diversi 
strati 
della 
società 
nell’arco 
di 
pochi 
giorni 
del 
2017: 
sono 
infatti 
stati 
infettati 
i 
sistemi 
di 
molte 
aziende 
e istituzioni europee (la deutsche Bahn in Germania e il National Health Service nel regno Unito). 
(6) In realtà, c’è 
in dottrina 
chi 
sostiene 
che 
il 
connubio tra 
il 
mondo giuridico e 
l’intelligenza 
artificiale 
si 
colloca 
negli 
anni 
ottanta 
del 
1900, per poi 
esser ritornato in auge 
in maniera 
significativa 
a 
partire 
dal 
2010, 
KrAUSovà, 
interaction 
between 
law 
and 
artificial 
intelligence, 
in 
international 
Journal 
of computer, 2017, p. 55. 
(7) dati 
“esterni” 
delle 
comunicazioni 
di 
traffico telefonico: 
ovvero una 
serie 
di 
elementi 
eterogenei 
che 
attestano 
il 
fatto 
storico 
di 
una 
comunicazione 
già 
avvenuta 
e 
coessenziale 
alla 
stessa, 
che 
consentono alle 
forze 
dell'ordine 
e 
alla 
magistratura 
inquirente 
di 
ricostruire 
-necessariamente 
a 
posteriori 
e 
senza 
il 
consenso dell'abbonato -i 
dati 
c.d. "esterni" 
relativi 
al 
flusso di 
traffico telefonico (''in 
entrata" 
ed "in uscita", comprese 
le 
chiamate 
perse) e 
telematico (files 
di 
log) intercorso con riguardo 
ad una 
certa 
utenza; 
questa 
è 
la 
spiegazione 
enunciata 
nella 
relazione 
su novità normativa, Ufficio del 
massimario e del ruolo della Suprema Corte di Cassazione, rel. 55/2021. 
(8) 
Per 
tali 
si 
intendono 
le 
fonti 
di 
prova 
memorizzate 
in 
strumenti 
informatici, 
come 
le 
postazioni 
di 
lavoro degli 
utenti, i 
server aziendali, il 
Cloud o altri 
sistemi 
informatici. La 
necessità 
di 
avvalersi 
di 
strumenti 
idonei 
nella 
fase 
di 
acquisizione 
è 
data 
dalla 
natura 
“carente 
di 
fisicità” 
la 
quale 
potrebbe 
incorrere 
nel rischio di modifica accidentale. 
(9) CoSTABILE, Digital 
forensics 
& 
digital 
investigation: classificazione, tecniche 
e 
linee 
guida 
nazionali e internazionali; così anche, zICCArdI, Scienze forensi e tecnologie informatiche, 2007, p. 3. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


matiche 
lasciate 
da 
un sospettato costituiscono patrimonio informativo di 
notevole 
importanza 
per gli 
investigatori, che 
-conseguentemente 
-provvedono 
a verificare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria mossa a suo carico. 


In 
direzione 
opposta 
allo 
sviluppo 
tecnologico, 
procede 
l’arretramento 
dei 
livelli 
di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
(10), aumentato a 
dismisura 
con la 
crescita 
esponenziale 
dei 
fenomeni 
di 
stampo criminale-terroristico (11). Proprio 
per 
far 
fronte 
a 
tali 
esigenze, 
sono 
stati 
introdotti 
“istituti 
disfunzionali 
rispetto 
all’impianto 
pregresso 
[...], 
ma 
che 
gradualmente 
-grazie 
ad 
una 
sorta di 
osmosi 
-sono stati 
assorbiti 
al 
suo interno diventandone 
parte 
integrante. 
E, 
naturalmente, 
incidendo 
-talora 
in 
maniera 
significativa 
-sulla 
geografia processuale 
esistente 
e 
sull’interpretazione 
dei 
capisaldi 
della giustizia 
penale desumibili dalla Carta costituzionale” (12). 


Se 
ben noti 
sono i 
risvolti 
positivi 
apportati 
dalla 
tecnologia 
nell’ambito 
investigativo, 
di 
converso, 
deve 
prendersi 
atto 
dell’annoso 
compito 
affidato 
all’autorità 
giudiziaria 
ogni 
qual 
volta 
sia 
opportuno 
effettuare 
un 
bilanciamento 
tra 
l’indispensabile 
esercizio 
del 
potere 
pubblico 
e 
l’invalicabile 
sostrato 
di tutela dei diritti dell’individuo. 

Esemplificativa, 
è 
la 
vicenda 
Abu 
omar, 
nell’ambito 
della 
quale 
la 
dIGoS 
di 
Milano 
ha 
rintracciato 
i 
responsabili 
grazie 
all’acquisizione 
del 
traffico 
telefonico 
delle 
celle 
radio 
base 
della 
zona 
in 
cui 
si 
sono 
svolti 
i 
fatti. 
Ciò 
avviene 
grazie 
allo 
strumento 
del 
c.d. 
tracing, 
è 
attraverso 
il 
quale 
la 
polizia 
giudiziaria, 
procedendo 
a 
ritroso, 
rintraccia 
l’origine 
della 
condotta 
posta 
in 
essere. 


Una 
conferma 
sulla 
necessarietà 
di 
conservazione 
dei 
dati 
del 
traffico telefonico 
ai 
fini 
delle 
indagini 
sul 
cyber 
crime 
era 
emersa 
già 
nella 
discussione 
“paper for expert’s meeting on retention of traffic data” tenutosi nel 2001. 

Nel 
contesto 
nazionale, 
è 
frequente 
l’avvalimento 
della 
tecnologia 
da 
parte 
degli 
organi 
investigativi, in particolare 
in tema 
di 
acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici, che 
costituisce 
terreno fertile 
sia 
per la 
dottrina 
(13) e 
sia 
per 


(10) 
di 
tutta 
evidenza 
è 
il 
fatto 
che 
le 
operazioni 
acquisitive 
consentono 
altresì 
di 
risalire 
alle 
abitudini 
quotidiane 
dell’individuo, tra 
cui 
la 
geolocalizzazione. Attraverso la 
c.d. mappatura 
ad irraggiamento 
è 
possibile 
conoscere 
tutte 
le 
utenze 
che 
in 
un 
determinato 
momento 
hanno 
agganciato 
una 
specifica 
cella 
di 
apertura. 
Per 
una 
disamina, 
ATErNo, 
CAJANI, 
L'acquisizione 
dei 
dati 
di 
traffico, 
pp. 
284 ss.; 
NEroNI 
rEzENdE, Dati 
esterni 
alle 
comunicazioni 
e 
processo penale: questioni 
ancora aperte 
in tema di data retention, in Sistema penale, 2020, 5, p. 194. 
(11) Corte 
costituzionale 
tedesca, sentenza 
del 
20 aprile 
2016, in occasione 
della 
quale 
aveva 
riconosciuto 
la 
compatibilità 
con 
il 
vulnus 
dei 
diritti 
fondamentali, 
l’impiego 
delle 
misure 
di 
sorveglianza 
occulte finalizzato alla protezione della società contro le minacce del terrorismo internazionale. 
(12) 
LorUSSo, 
Processo 
penale 
e 
bit 
oltre 
l’emergenza, 
Processo 
penale 
e 
giustizia, 
2020, 
p. 
1000, 
il 
quale 
ha 
ritenuto che 
il 
legislatore, anziché́ individuare 
nuovi 
istituti 
e/o regole, ha 
ridotto il 
proprio 
intervento a un’opera di riscrittura «radicale» dell’esistente. 
(13) Seppure 
in maniera 
isolata, nella 
dottrina 
si 
evince 
il 
parere 
di 
chi 
(come 
il 
dottor Musolino 
Stefano) ritiene 
che 
l’acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
è 
un metodo di 
indagine 
poco invasivo, specie 
nella prima fase delle indagini preliminari. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


la 
giurisprudenza, entrambe 
fermamente 
convinte 
di 
stimolare 
la 
reazione 
del 
legislatore. 


dal 
punto 
di 
vista 
tecnico, 
l’uso 
dei 
tabulati 
telefonici 
altro 
non 
è 
che 
l’analisi 
di 
un file 
di 
log 
(14) relativo alle 
operazioni 
svolte 
da 
un terminale 
mobile, quale il telefono smartphone 
(15). 

Invero, 
ogni 
qual 
volta 
si 
procede 
ad 
accertare 
un 
fatto 
che 
costituisce 
reato, 
e 
per 
i 
quali 
sono 
da 
ritenersi 
insufficienti 
i 
tradizionali 
mezzi 
-come 
il 
pedinamento 
-nel 
momento 
in 
cui 
si 
ricorre 
agli 
strumenti 
tecnologici 
si 
genera 
quella 
frizione 
tra 
la 
scienza 
e 
diritto. 


d’altra 
parte, 
al 
fine 
di 
non 
lasciare 
ampio 
margine 
al 
potere 
giurisdizionale, 
il 
legislatore 
ha 
pensato 
bene 
di 
fornire 
delle 
rassicurazioni 
alla 
persona 
sotto 
indagine: 
quali, 
ad 
esempio, 
la 
cancellazione 
dei 
dati 
raccolti 
ritenuti 
irrilevanti 
ai 
fini 
del 
processo, 
la 
necessaria 
comunicazione 
del 
termine 
delle 
indagini 
svolte 
nei 
suoi 
confronti 
con 
la 
possibilità 
di 
verificare 
il 
controllo 
sull’operato 
giurisdizionale. 


Alla 
luce 
delle 
vicende 
a 
titolo esemplificativo riportate 
finora 
e 
le 
modifiche 
intervenute 
nel 
corso degli 
anni 
recenti, il 
dato che 
emerge 
è 
la 
vulnerabilità 
del 
diritto 
penale 
sostanziale 
e 
procedurale 
che, 
esposto 
al 
vento 
dell’innovazione 
tecnologica, 
si 
è 
trovato 
a 
dover 
far 
fronte 
ad 
una 
nuova 
sfida: 
l’elaborazione 
di 
sistemi 
di 
tutela 
nella 
governance 
dei 
dati 
-personali 
e 
non 
-e 
nel 
riutilizzo 
per 
i 
software 
dell’intelligenza 
artificiale, 
a 
discapito 
dell’effettiva 
tutela di diritti fondamentali (16). 

Il 
dibattito 
dottrinale, 
sorto 
dalle 
storture 
dell’irruzione 
delle 
scienze 
digitali 
nel 
campo 
giuridico, 
è 
stato 
molto 
acceso 
ma 
in 
egual 
misura 
utile 
nel 
focalizzare 
il 
problema: 
l’impossibilità 
di 
un 
eventuale 
e 
futuro 
“incastro”. 
Infatti, 
seppur 
nota 
è 
la 
flessibilità 
che 
connota 
il 
diritto 
(in 
tal 
senso, 
emblematica 
è 
la 
continua 
ricezione 
dei 
mutamenti 
sociali), 
deve 
prendersi 
atto 
della 
necessarietà 
del 
tempo 
di 
assimilazione 
ai 
fini 
di 
un 
effettivo 
consolidamento 
(17). 


Un 
fenomeno 
che 
da 
ultimo 
ha 
notevolmente 
influito 
nel 
processo 
di 
modernizzazione 
dei 
sistemi 
normativi 
penale 
(18) 
è 
rappresentato 
dall’emergenza 
pandemica 
per 
la 
diffusione 
del 
virus 
CovId 
19 
che 
ha 
interessato 


(14) La 
terminologia 
indica 
i 
registri 
in grado di 
documentare 
tempi 
e 
orari 
della 
connessione 
al 
sistema dei diversi IP, e non dati di traffico. 
(15) 
FErrAzzANo, 
rEALE, 
Una 
proposta 
di 
progetto 
open 
source 
per 
l’analisi 
dei 
tabulati 
telefonici 
in 
risposta 
a 
problematiche 
ed 
errori 
ricorrenti, 
in 
informatica 
e 
diritto, 
vol. 
XXIv, 
2015, 
nn. 
1-2, 
373. 
(16) Tra 
i 
tanti, PoLLICINo, Costituzionalismo, Privacy 
e 
neurodiritti, in medialaws, 2021, n. 2, 
pp. 9 ss. 
(17) 
Convegno 
“Prove 
digitali 
atipiche 
e 
diritti 
individuali”, 
15 
giugno 
2022, 
intervento 
della 
Prof.ssa 
Conti, 
ordinario 
di 
procedura 
penale 
presso 
l’Università 
di 
roma 
Tor 
vergata, 
la 
quale 
ha 
espresso l’immagine 
di 
un giurista 
chiamato a 
dismettere 
i 
panni 
di 
puro umanista 
per diventare 
un giurista 
2.0 scendendo nell’arena delle prove digitali. 
(18) definito anche 
un “formidabile 
laboratorio di 
sperimentazione” 
per istituti 
di 
nuovi 
e 
meccanismi 
preesistenti da 
MAzzA, Distopia del processo a distanza, in arch. pen., 2020, n. 1, p. 2. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Paesi 
europei 
e 
non, a 
partire 
dalla 
fine 
dell’anno 2019. Il 
Governo italiano 
(19), seguendo l’esempio anche 
di 
altri 
Paesi 
all’avanguardia, nel 
rispondere 
all’esigenza 
di 
garantire 
una 
continuità 
delle 
attività 
scolastiche 
e 
lavorative, 
ha 
incentivato 
l’utilizzo 
delle 
nuove 
tecnologie, 
applicate 
anche 
in 
ambito 
giudiziario, 
favorendo la 
conoscenza 
di 
sistemi 
informatici, fino a 
quel 
momento 
in disuso in diversi campi (20). 


Il 
capolinea 
dell’avvento 
della 
digitalizzazione 
è 
segnato 
dalla 
riforma 
Cartabia, poi 
trasfusa 
nella 
legge 
n. 134/2021, nota 
per l’ambizione 
di 
ridurre 
i 
tempi 
del 
processo attraverso una 
riorganizzazione 
del 
sistema 
giudiziario, 
come si avrà modo di analizzare nel prosieguo. 


3. La tutela del diritto alla riservatezza: profili problematici. 
L’inviolabilità 
dei 
diritti 
professata 
nei 
testi 
normativi 
comunitari 
e 
nazionali 
non 
è 
sufficiente 
ad 
arginare 
il 
rischio 
che 
nella 
realtà 
giudiziaria 
i 
medesimi 
vengano 
violati, 
si 
pensi 
-in 
particolare 
-al 
diritto 
alla 
riservatezza 
(21). Ciò avviene 
in maniera 
quasi 
automatica 
se 
a 
concorrere 
c’è 
il 
principio 
di ordine pubblico o di buon andamento della giustizia. 

ripercorrendo con un breve 
excursus 
gli 
orientamenti 
giurisprudenziali, 
la 
regola 
della 
segretezza, come 
principio guida 
delle 
indagini 
investigative, 
è stata esplicitata 
sic et sempliciter 
dalla Consulta nel 1966 (22). 

Se 
da 
un lato, lo svolgimento delle 
indagini 
non può essere 
comunicato 
alla 
persona 
nei 
cui 
confronti 
sono svolte, dall’altro, deve 
prendersi 
atto della 
contestuale 
intromissione 
illegittima 
nella 
sfera 
privata 
del 
medesimo. 
La 
ratio 
sottesa 
al 
segreto istruttorio è 
duplice: 
ovvero quella 
di 
assicurare 
la 
serenità 
e 
l’indipendenza 
del 
giudice 
-libero 
da 
condizionamenti 
esterni 
di 
alcun 
tipo -e 
altresì 
quella 
di 
tutelare 
la 
dignità 
e 
la 
reputazione 
di 
tutti 
coloro che, 
sotto diverse vesti (23), sono coinvolti nel processo. 

A 
distanza 
di 
trent’anni, i 
giudici 
della 
Corte 
costituzionale, seppur con 
ondivaghi 
interventi, sono ritornati 
sul 
tema, caldeggiando l’approccio “caso 
per 
caso”: 
“l’interesse 
protetto 
dall’art. 
21 
della 
Costituzione 
non 
è 
in 
astratto 


(19) 
In 
occasione 
dell’inaugurazione 
dell’anno 
giudiziario 
2022, 
la 
Ministra 
della 
Giustizia, 
Marta 
Cartabia 
ha 
dato 
per 
certo 
il 
fatto 
che 
l’emergenza 
pandemica 
è 
in 
grado 
di 
assolvere 
un 
ruolo 
propulsivo 
di 
innovazioni 
legislative: 
«dalla 
crisi 
una 
opportunità. 
ovvero: 
dalle 
misure 
emergenziali, 
riforme 
strutturali. 
Un 
indirizzo 
di 
questa 
amministrazione, 
infatti, 
è 
stato 
quello 
di 
cogliere 
le 
opportunità 
nella 
situazione 
di 
crisi 
in 
cui 
la 
pandemia 
ci 
ha 
posti, 
valutando 
quali 
misure, 
anche 
tra 
quelle 
imposte 
dalla 
contingenza, potranno tradursi 
in modifiche 
strutturali». Per il 
testo completo dell’intervento, si 
rinvia 
al sito www.giustizia.it. 
(20) 
Secondo 
alcuni 
proprio 
l’esperienza 
pandemica 
è 
stata 
l’occasione 
per 
creare 
un 
allineamento 
tra 
i 
diversi 
settori 
lavorativi: 
si 
pensi 
alle 
discrepanze 
tra 
il 
mondo della 
giustizia 
e 
quello economico 
in merito all’uso dei sistemi informatici. 
(21) Sin dalla 
sentenza 
della 
Corte 
cost. 38 del 
1973, confermata 
da 
ultimo dalla 
sentenza 
n. 173 
del 2009. 
(22) Corte cost. del 3 marzo 1966, n. 18. 
(23) Persona offesa, testimoni, talvolta anche le persone costituenti parte civile, etc. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


superiore 
a quello parimenti 
fondamentale 
della giustizia, nei 
cui 
confronti 
è 
stato, 
anzi 
ritenuto 
cedevole, 
nelle 
concrete 
situazioni 
giuridiche 
esaminate 
dalle 
precedenti 
sentenze 
che, 
[...] 
nel 
conflitto 
tra 
tali 
due 
istanze, 
deve 
essere 
il 
legislatore 
nella sua discrezionalità a realizzare 
la ragionevole 
ed equilibrata 
composizione degli opposti interessi” (24). 

Sulla 
medesima 
scia 
garantista, da 
ultimo, la 
Legge 
n. 7/2020 ha 
polarizzato 
il 
suo interesse 
alla 
tutela 
della 
persona 
sottoposta 
ad indagini 
per fatti 
estranei a quelli per i quali si procede. 


A 
tal 
riguardo, 
sagacemente 
la 
dottrina 
ha 
distinto 
la 
riservatezza 
in 
senso 
stretto (privacy) -come 
diritto alla 
non divulgazione 
di 
conversazioni 
riguardanti 
dati 
personali 
o 
sensibili 
-e 
la 
riservatezza 
in 
senso 
lato, 
ovvero 
il 
diritto 
volto 
alla 
non 
divulgazione 
di 
conversazioni 
processualmente 
irrilevanti 
(25). 


L’interrogativo che 
a 
questo punto sorge 
spontaneo porsi, inerisce 
le 
tecniche 
di 
tutela 
che 
sono state 
adottate 
dagli 
Stati 
per apprestare 
un’effettiva 
salvaguardia 
al 
diritto 
fondamentale 
della 
riservatezza. 
Più 
volte 
il 
legislatore, 
accogliendo 
le 
istanze 
della 
dottrina 
e 
gli 
influssi 
comunitari, 
ha 
cercato 
di 
dare 
una 
risposta 
esaustiva 
con ripetuti 
interventi 
legislativi. Tale 
sforzo, con 
un intento garantista, si 
è 
rivelato insufficiente 
con riferimento a 
quei 
fatti 
in 
cui 
la 
preminenza 
di 
ulteriori 
interessi, 
quale 
ad 
esempio 
la 
sicurezza 
pubblica, 
hanno determinato la compressione del diritto in causa. 

Nel 
tentativo di 
apprestare 
un rimedio alla 
deludente 
normativa, la 
giurisprudenza 
ha 
svolto un ruolo determinante, affrontando le 
questioni 
pratiche 
come terreno fertile per calibrare la gravità delle violazioni messe in atto. 

La 
scelta 
di 
cavalcare 
l’onda 
della 
lotta 
alla 
criminalità 
cibernetica 
ha 
determinato 
lo 
scontro 
tra 
le 
competenze 
territoriali 
degli 
Stati 
interessati: 
i 
reati 
informatici 
hanno 
come 
locus 
commissi 
delicti 
lo 
spazio 
virtuale, 
la 
cui 
unicità 
non è 
riscontrabile 
nella 
realtà. È 
sovente 
che 
un utente, autore 
di 
un cyber 
attacco, 
mentre 
si 
trova 
davanti 
ad 
un 
pc, 
nella 
sua 
stanza, 
ubicata 
in 
una 
regione 
di 
un Paese 
democratico inizi 
a 
sfruttare 
la 
vulnerabilità 
di 
un cittadino, presente 
in rete, di 
un altro Stato, nel 
quale 
sono vigenti 
strette 
restrizioni 
in materia 
di protezione di dati. 


Tralasciando 
la 
vexata 
quaestio 
sulla 
a-territorialità 
della 
cybercriminalità 
e 
la 
difficoltà 
di 
dover 
bilanciare 
gli 
interessi 
di 
diverso 
rango 
-anche 
tra 
Paesi 
diversi 
-meritevole 
di 
considerazione 
è 
il 
rapporto 
che 
intercorre 
tra 
il 
legislatore 
comunitario 
e 
la 
volontà 
degli 
Stati 
di 
adeguarsi. 
Infatti, 
con 
l’iniziale 
intento 
di 
rafforzare 
la 
tutela 
di 
alcuni 
di 
tali 
diritti 
fondamentali, 
il 
legislatore 
comunitario 
si 
è 
lasciato 
travolgere 
dalla 
foga 
dell’era 
digitale 
e 
ha 
consegnato 
un 
organico 
sistema 
di 
norme 
(26) 
agli 
Stati 
membri, 
richiamandoli 
ad 
allinearsi. 


(24) Corte cost. 22 gennaio 1981, n. 1. 
(25) Ciò che 
la 
dottrina 
americana 
ha 
raccolto sotto la 
definizione 
di 
“diritto all’anonimato”. Sul 
punto, WESTIN, Privacy and freedom, London, 1967, p. 31. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


dal 
canto suo, il 
legislatore 
nazionale, attraverso una 
lettura 
sistematica 
e 
analogica, vi 
ha 
dato ascolto: 
estendendo il 
novero dei 
reati 
penalmente 
perseguibili 
e, conseguentemente, aggiornando (per modo di 
dire) la 
disciplina 
sui 
mezzi 
di 
ricerca 
della 
prova, pur discostandosi 
dalle 
rigide 
posizioni 
giurisprudenziali. 


La 
conferma 
-seppur 
spiacevole 
-è 
ravvisabile 
in 
ambito 
processuale, 
dove 
il 
varco lasciato aperto dal 
legislatore 
con la 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
189 c.p.p. (27) inerente 
al 
regime 
delle 
prove 
atipiche, ha 
costituito la 
zona 
grigia alla quale si è “aggrappata” la giurisprudenza per legittimare l’utilizzo 
di 
strumenti 
informatici, seppur noti 
per la 
forte 
ingerenza 
nella 
vita 
dei 
soggetti 
coinvolti (28). 

Il 
monito proveniente 
dalla 
dottrina 
(29) che 
-alla 
stregua 
di 
una 
romantica 
spettatrice 
-osserva 
le 
deludenti 
soluzioni 
della 
giurisprudenza, consiste 
nell’introduzione 
di 
una 
riserva 
di 
giurisdizione 
volta 
a 
garantire 
un’effettiva 
tutela (seppur minima) al diritto alla riservatezza. 


4. il tortuoso cammino verso la legittimità dei tabulati. 
La 
disciplina 
dei 
tabulati 
-riprendendo l’immagine 
evocativa 
fornita 
da 
autorevole 
dottrina 
riguardo 
alle 
intercettazioni 
-costituisce 
l’ago 
della 
bussola 
del 
tasso 
di 
efficienza 
e 
di 
garanzia 
tra 
le 
contrapposte 
esigenze 
che 
affluiscono 
ad un affollato incrocio (30). 

Gli 
studiosi, 
con 
fervida 
attenzione, 
si 
sono 
cimentati 
nel 
rintracciare 
i 
contrapposti 
valori 
di 
rango costituzionale 
coinvolti 
nell’operazione 
di 
bilanciamento 
rimessa 
in 
capo 
al 
giudice. 
Comunemente, 
tra 
i 
più 
disparati 
vi 
sono: 
la 
garanzia 
della 
giurisdizione, 
la 
presunzione 
di 
innocenza 
e 
il 
diritto 
di 
difesa, 


(26) regolamento Generale 
sulla 
Protezione 
dei 
dati 
2016/679 (c.d. GdPr) finalizzato alla 
protezione 
delle 
persone 
fisiche 
con riguardo al 
trattamento dei 
dati 
personali 
e 
alla 
libera 
circolazione 
dei 
dati, escludendo le sole persone giuridiche. 
(27) Secondo il 
tenore 
letterale 
della 
norma 
è 
necessaria 
l’idoneità 
della 
stessa 
prova 
-non disciplinata 
dalla 
legge 
-ad assicurare 
l’accertamento dei 
fatti 
senza 
arrecare 
pregiudizio alla 
libertà 
morale 
della persona. Tuttavia, ai fini dell’assunzione, il giudice vi provvede sentite le parti. 
(28) 
Cass. 
Pen., 
sez. 
III, 
sentenza 
n. 
43609 
dell’8 
ottobre 
2021-rv. 
282164 
-01: 
“In 
tema 
di 
prove 
atipiche, sono legittime 
e, pertanto, utilizzabili, senza 
che 
necessiti 
l'autorizzazione 
del 
giudice 
per 
le 
indagini 
preliminari, 
le 
videoriprese 
dell'ingresso 
e 
del 
piazzale 
di 
un'impresa, 
eseguite 
dalla 
polizia 
giudiziaria 
a 
mezzo di 
impianti 
installati 
sull'edificio antistante, non configurandosi, in tal 
caso, 
alcuna 
indebita 
intrusione 
nell'altrui 
domicilio, 
posto 
che 
i 
luoghi 
suddetti 
non 
rientrano 
in 
tale 
nozione. 
(Fattispecie 
di 
videoriprese 
aventi 
ad oggetto la 
mera 
presenza 
di 
cose 
o persone 
e 
i 
loro movimenti). 
diversamente, qualora 
le 
videoriprese 
di 
comportamenti 
non comunicativi 
siano avvenute 
all’interno 
del 
domicilio degli 
interessati, data 
la 
valenza 
del 
diritto di 
cui 
all’art. 14 Cost., saranno qualificabili 
come 
prove 
illecite 
(vd. Cass. pen., sez. III, Sentenza 
n. 15206 del 
21/11/2019 Ud. (dep. 15/05/2020) 
rv. 279067 - 04)”. 
(29) LEo, cit., il 
quale 
prende 
in esame 
la 
sentenza 
Prisco la 
quale 
aveva 
fatto riferimento all’art. 
2 
Cost. 
con 
atteggiamento 
maieutico 
(cfr. 
Sez. 
U, 
Sentenza 
n. 
26795 
del 
28 
marzo 
2006 
Cc. 
-rv. 
234270 
- 01.) 
(30) FILIPPI, intercettazioni, accesso ai dati personali e valori costituzionali, 2021, p. 13. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


il 
segreto di 
Stato (art. 270 c.p.p.) e 
il 
segreto professionale 
(art. 271, co. II, 
c.p.p.), il 
diritto di 
cronaca 
giudiziaria 
su fatti 
socialmente 
rilevanti, e 
infine, 
il diritto alla privacy su fatti estranei all’indagine (31). 


Sotto 
il 
profilo 
procedurale, 
le 
intercettazioni 
telefoniche 
non 
possono 
essere 
equiparate 
ai 
tabulati: 
mentre 
le 
prime 
costituiscono delle 
tecniche 
attraverso 
cui 
è 
possibile 
apprendere, 
in 
tempo 
reale, 
il 
contenuto 
di 
una 
conversazione 
o 
di 
una 
comunicazione, 
che 
altrimenti 
non 
sarebbe 
accessibile 
in altro modo, diversamente, oggetto dei 
tabulati 
sono i 
dati 
esterni 
delle 
comunicazioni, 
ovvero 
la 
durata, 
le 
utenze 
coinvolte, 
il 
luogo 
nei 
quali 
si 
trovano 
i soggetti coinvolti. 

In 
più 
occasioni, 
l’accento 
sulla 
necessaria 
differenziazione 
-appena 
enunciata 
-è 
stato 
posto 
dalla 
Corte 
costituzionale 
(32), 
guardando 
proprio 
ai 
risvolti 
processuali: 
mentre 
le 
intercettazioni 
sono 
autorizzate 
dal 
Gip, 
per 
l’ottenimento 
dei 
contenuti 
dei 
tabulati, 
invece, 
colui 
che 
è 
chiamato 
ad 
avanzare 
la 
richiesta 
al 
giudice 
competente 
è 
il 
Pubblico 
Ministero, 
sul 
quale 
grava 
l’onere 
di 
fornire 
-in 
maniera 
dettagliata 
-le 
circostanze 
meritevoli 
di 
legittimazione. 


In 
un 
quadro 
quantomai 
frastagliato 
e 
complesso, 
le 
soluzioni 
offerte 
dalla 
dottrina 
e 
dalla 
giurisprudenza 
seguono il 
fil 
rouge 
verso la 
tradizionalità: 
valorizzando 
l’esaustività 
delle 
precedenti 
disposizioni 
-seppur 
risalenti 
all’anno 
1988 -la 
critica 
ha 
espresso la 
propria 
preferenza 
a 
favore 
di 
una 
rilettura 
dei 
principi 
costituzionali 
e 
delle 
Convenzioni 
internazionali, 
piuttosto 
che 
imboccare 
la via interpretativa della giurisprudenza comunitaria (33). 


di 
seguito, 
sono 
riportati, 
in 
maniera 
analitica, 
gli 
orientamenti 
giurisprudenziali 
succedutisi 
negli 
anni, 
al 
fine 
di 
individuare 
quello 
che, 
alla 
luce 
degli 
invariabili 
principi 
fondamentali, 
possa 
apparire 
il 
“più 
sicuro” 
approdo 
ermeneutico. 


4.1 La giurisprudenza comunitaria. 
Ad 
affrontare 
per 
la 
prima 
volta 
il 
tema 
del 
bilanciamento 
tra 
l’esigenza 
statuale 
di 
accertamento 
e 
repressione 
dei 
reati 
-mediante 
l’acquisizione 
di 
dati/informazioni 
presso 
service 
providers 
-e 
il 
diritto 
fondamentale 
alla 
riservatezza 
dell’individuo 
è 
stata 
la 
sentenza 
Digital 
rights 
ireland 
(34), 
nota 
per 
aver 
soppiantato 
la 
direttiva 
Frattini 
(35). 
In 
questa 
occasione, 
la 
Corte, 


(31) Artt. 2 Cost., art. 8 Conv. edu, art. 17 Patto internaz. dir. civ. e 
pol. e 
art. 7 Carta 
dei 
diritti 
fondamentali dell’UE. 
(32) Le note sentenze del 1998: nn. 81 e 281. 
(33) Sul 
punto, FILIPPI, intercettazioni, accesso ai 
dati 
personali 
e 
valori 
costituzionali, cit., p. 
163. 
(34) 
C. 
giust., 
8 
aprile 
2014, 
Digital 
rights 
ireland 
vs 
minister 
for 
Communications 
e 
a., 
C-293/12 
e 
C-594/12, 
la 
quale 
è 
stata 
annullata 
tenuto 
conto 
dell’eccedenza 
dei 
limiti 
imposti 
dal 
principio 
di 
proporzionalità, 
alla 
luce 
degli 
artt. 7, 8 e 
52 della 
Carta 
dei 
diritti 
Fondamentali 
dell'Unione 
Europea 
(o 
“Carta di Nizza”). 
(35) direttiva 2006/24/CE. 



LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


inaugurando 
un 
approccio 
rigoristico 
alla 
tutela 
della 
vita 
privata 
e 
alla 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
ha 
ritenuto 
che 
la 
compressione 
della 
riservatezza 
degli 
utenti 
(peraltro 
non 
messi 
al 
corrente 
di 
tali 
evenienze) 
sia 
giustificabile 
solo 
per 
il 
fine 
ultimo 
di 
contribuire 
alla 
lotta 
contro 
la 
criminalità 
grave 
e 
il 
terrorismo 
internazionale 
(36). 


Tra 
i 
punti 
essenziali 
(37) messi 
in evidenza 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
-sui 
quali 
la 
medesima 
tornerà 
più volte 
per porvi 
l’accento, a 
fronte 
dell’inerzia 
dei 
legislatori 
nazionali 
-è 
stata 
rintracciata 
la 
mancanza 
di 
differenziazione 
delle 
varie 
circostanze, 
all’interno 
della 
disciplina 
sulla 
conservazione 
dei 
dati. 
In particolare, sotto il 
profilo applicativo, di 
cui 
all’art. 52 par. 1 della 
Carta: 
dal 
punto di 
vista 
soggettivo, la 
Corte 
esprime 
il 
suo dissenso verso l’acquisizione 
di 
dati 
riferibili 
a 
coloro che 
non sono “indiziati”, mentre, nel 
versante 
oggettivo, 
la 
medesima 
rileva 
che 
le 
Autorità 
nazionali 
qualora 
decidano 
di 
intervenire 
-anche 
nei 
casi 
non sufficientemente 
gravi 
-violino gli 
articoli 
7 
e 8 della Carta. 

Ne 
consegue 
che, fissata 
la 
regola 
della 
graduazione 
-nei 
limiti 
alla 
conservazione 
-dei 
dati 
esterni 
di 
una 
comunicazione 
telefonica 
o telematica, la 
Corte 
di 
Giustizia 
lascia 
aperto uno spiraglio e 
ammette, in via 
eccezionale, la 
conservazione 
generalizzata 
e 
indifferenziata 
degli 
indirizzi 
IP 
(38) attribuiti 
alla 
fonte 
di 
una 
connessione, 
tenuto 
conto 
della 
loro 
utilità 
per 
l’accertamento 
di reati (come la pedopornografia online). 


Tanto 
premesso, 
la 
mancanza 
di 
chiarezza 
e 
precisione 
della 
disciplina 
che 
regola 
l’acquisizione 
dei 
dati, 
impone 
di 
ritenere 
invalida 
la 
direttiva 
(Frattini) 
in questione. Conseguentemente, la 
Corte 
europea 
statuisce 
che 
la 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 15 “osta ad una normativa nazionale, la quale 
disciplini 
la protezione 
e 
la sicurezza dei 
dati 
relativi 
al 
traffico e 
dei 
dati 
relativi 
al-
l’ubicazione, e 
segnatamente 
l’accesso delle 
autorità nazionali 
competenti 
ai 
dati 
conservati, senza limitare, nell’ambito della lotta contro la criminalità, 
tale 
accesso alle 
sole 
finalità di 
lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre 
detto 
accesso 
ad 
un 
controllo 
preventivo 
da 
parte 
di 
un 
giudice 
o 
di 
un’autorità 
amministrativa 
indipendente, 
e 
senza 
esigere 
che 
i 
dati 
di 
cui 
trattasi 
siano conservati nel territorio dell’Unione 
” (39). 

dirompente 
e 
rivoluzionaria 
è 
stata 
la 
sentenza 
della 
Grande 
Sezione 
della 


(36) Il 
quale, secondo la 
Corte, è 
in grado di 
alterare 
il 
mantenimento della 
pace 
e 
della 
sicurezza 
internazionale. 
(37) In particolare, ha 
notevole 
importanza 
nella 
comprensione 
delle 
ricadute 
sugli 
stati 
membri, 
la 
differenziazione 
tra 
la 
fase 
di 
conservazione 
dei 
dati 
di 
traffico e 
relativi 
all’ubicazione 
e 
la 
fase 
successiva 
dell’accesso a tali dati. 
(38) Abbreviazione 
di 
internet 
Protocol 
address 
riferita 
ad un’etichetta 
numerica 
che 
identifica 
univocamente 
un dispositivo, detto host, collegato ad una 
rete 
informatica 
che 
lo usa 
come 
protocollo 
di rete. 
(39) C. giust. UE, Grande Sezione, Tele, 21 dicembre 2016, C-203/15. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


Corte 
di 
Giustizia 
del 
2 marzo 2021 (40), nel 
tentare 
di 
restituire 
degna 
importanza 
al 
regime 
di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali. Nel 
caso de 
quo, la 
questione 
che 
le 
era 
stata 
sottoposta 
dall’Estonia 
riguardava 
la 
corretta 
interpretazione 
dell’art. 15, par. 1, della 
direttiva 
2002/58 il 
quale 
-letto alla 
luce 
degli 
articoli 
7, 8, 11 e 
52 par. 1 della 
Carta 
-poteva 
ostare 
a 
una 
normativa 
nazionale 
che 
attribuiva 
al 
Pubblico ministero la 
competenza 
per autorizzare 
un’Autorità 
pubblica 
ad 
accedere 
ai 
dati 
relativi 
al 
traffico 
e 
ai 
dati 
relativi 
all’ubicazione, nell’ambito di un’istruttoria penale. 

Prima 
di 
addivenire 
alla 
soluzione, la 
Corte 
ha 
approfondito il 
ruolo assunto 
dal 
Pubblico 
Ministero 
nell’ambito 
di 
un 
procedimento 
penale 
(41), 
concludendo 
che 
“è 
essenziale 
che 
l’accesso delle 
autorità nazionali 
competenti 
ai 
dati 
conservati 
sia subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da 
un giudice 
o da un’entità amministrativa indipendente, e 
che 
la decisione 
di 
tale 
giudice 
o 
di 
tale 
entità 
intervenga 
a 
seguito 
di 
una 
richiesta 
motivata 
delle 
autorità suddette 
presentata, in particolare, nell’ambito di 
procedure 
di 
prevenzione 
o di 
accertamento di 
reati 
ovvero nel 
contesto di 
azioni 
penali 
esercitate”. 
Con 
riferimento 
alla 
posizione 
del 
medesimo: 
“in 
un’indagine 
penale, 
tale 
controllo preventivo richiede 
che 
detto giudice 
o detta entità sia in grado 
di 
garantire 
un giusto equilibrio tra, da un lato, gli 
interessi 
connessi 
alle 
necessità 
dell’indagine 
nell’ambito 
della 
lotta 
contro 
la 
criminalità 
e, 
dall’altro, 
i 
diritti 
fondamentali 
al 
rispetto della vita privata e 
alla protezione 
dei 
dati 
personali 
delle 
persone 
i 
cui 
dati 
sono 
interessati 
dall’accesso”. 
Concludendo, 
afferma 
che 
“il 
pubblico ministero sia tenuto, conformemente 
alle 
norme 
che 
disciplinano 
le 
sue 
competenze 
e 
il 
suo 
status, 
a 
verificare 
gli 
elementi 
a 
carico 
e 
quelli 
a discarico, a garantire 
la legittimità del 
procedimento istruttorio e 
ad agire 
unicamente 
in base 
alla legge 
ed al 
suo convincimento”. Alla 
luce 
di 
quanto 
riportato, 
se 
ne 
conviente 
che 
il 
P.M. 
è 
vincolato 
a 
rivestire 
la 
qualifica 
di 
tertius 
rispetto agli interessi in gioco. 


Allo stato attuale, in occasione 
dell’ultima 
sentenza 
-a 
chiusura 
dell’iter 
comunitario 
finora 
descritto 
-del 
5 
aprile 
2022, 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
affrontato 
il 
sensibile 
tema 
degli 
abusi 
ed 
accessi 
illeciti 
di 
dati, 
il 
più 
delle 
volte 
conservati dai privati per svariati fini. 


In risposta 
alle 
tre 
(contemporanee) questioni 
pregiudiziali 
pendenti, la 


(40) C. giust. UE, Grande Sezione, del 2 marzo 2021, K.m. 
- causa C-746/18. 
(41) 
Il 
quale 
è 
tenuto 
“ad 
agire 
in 
modo 
indipendente, 
è 
soggetto 
soltanto 
alla 
legge 
e 
deve 
esaminare 
gli 
elementi 
a 
carico 
e 
quelli 
a 
discarico 
nel 
corso 
del 
procedimento 
istruttorio, 
l’obiettivo 
di 
tale 
procedimento 
resta 
nondimeno 
quello 
di 
raccogliere 
elementi 
di 
prova 
nonché 
di 
pervenire 
al 
soddisfacimento 
degli 
altri 
presupposti 
necessari 
per 
lo 
svolgimento 
di 
un 
processo. 
Sarebbe 
questa 
stessa 
autorità 
a 
rappresentare 
la 
pubblica 
accusa 
nel 
processo, 
ed 
essa 
dunque 
sarebbe 
altresì 
parte 
nel 
procedimento. 
inoltre, 
risulta 
dal 
fascicolo 
a 
disposizione 
della 
Corte, 
come 
confermato 
anche 
dal 
governo 
estone 
e 
dal 
Prokuratuur 
all’udienza, 
che 
il 
pubblico 
ministero 
estone 
è 
organizzato 
in 
modo 
gerarchico 
e 
che 
le 
domande 
di 
accesso 
ai 
dati 
relativi 
al 
traffico 
e 
ai 
dati 
relativi 
all’ubicazione 
non 
sono 
soggette 
ad 
un 
requisito 
di 
forma 
particolare 
e 
possono 
essere 
presentate 
dal 
procuratore 
stesso” 
par. 
47, 
C-746/18. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Corte 
è 
stata 
irremovibile 
nell’affermare 
che 
il 
diritto europeo, in forza 
della 
primauté, 
osta 
ad 
una 
normativa 
nazionale 
che 
preveda 
una 
conservazione 
generalizzata 
ed 
indifferenziata 
dei 
dati 
di 
traffico 
e 
relativi 
all’ubicazione, 
se 
non finalizzato alla 
lotta 
contro gravi 
forme 
di 
criminalità 
e 
alla 
prevenzione 
di minacce gravi alla sicurezza pubblica. 


4.2. La querelle giurisprudenziale italiana. 
Le 
plurime 
posizioni 
assunte 
dai 
giudici 
nazionali 
sono connotate 
da 
un 
marcato 
disinteresse 
all’operazione 
di 
adeguamento 
al 
dictum 
comunitario, 
volto ad arginare 
il 
rischio di 
eventuali 
e 
possibili 
violazioni 
dei 
diritti 
fondamentali, 
di 
cui 
agli 
articoli 
7 
e 
8 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’uomo. 

All’indomani 
della 
sentenza 
della 
CGUE 
del 
2014, 
la 
Corte 
di 
Cassazione 


(42) ha 
ravvisato la 
compatibilità 
dell’art. 132 del 
codice 
della 
privacy -che 
consente 
l’acquisizione 
dei 
tabulati 
in forza 
del 
provvedimento del 
Pubblico 
Ministero -con i 
principi 
sovranazionali. A 
sostegno di 
tale 
posizione, il 
percorso 
argomentativo seguito fa 
leva 
sul 
dato letterale 
della 
pronuncia 
comunitaria, 
la 
quale 
individua 
come 
baluardo di 
legittimità 
dell’acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
l’Autorità 
giudiziaria; 
secondo un’interpretazione 
in senso 
lato, è 
possibile 
ricomprendere 
nella 
locuzione 
impiegata 
dalla 
Corte 
comunitaria 
anche 
la 
figura 
del 
Pubblico 
Ministero: 
“dalla 
lettura 
della 
versione 
francese 
delle 
sentenze, che 
ricorrono al 
termine 
"juridiction", riferibile 
alla 
magistratura francese 
nel 
suo complesso, composta da giudici 
e 
da pubblici 
ministeri 
(magistrats 
du 
parquet). 
[...] 
allo 
stesso 
modo 
nella 
versione 
inglese 
delle 
sentenze 
viene 
adottato il 
termine 
"Court", anch'esso promiscuo, considerato 
che 
la funzione 
giudiziaria è, in via generale, indicata con la formula 
"Court 
clerk", 
mentre 
termini 
precisi 
designano 
il 
giudice 
(judge) 
e 
il 
pubblico 
ministero 
britannico 
(prosecutor), 
quest'ultimo 
privo 
della 
prerogativa 
italiana 
dell'indipendenza”. 
Tuttavia, anche 
la 
successiva 
puntualizzazione 
operata 
dal 
Supremo organo 
comunitario -dietro la 
sollecitazione 
estone 
-non ha 
persuaso i 
giudici 
del 
Tribunale 
di 
Tivoli 
(43) e 
della 
Corte 
di 
Assise 
di 
Napoli 
(44), dal 
disso


(42) Cass. Pen., sez. v, 24 aprile 2018, n. 33851. 
(43) ordinanza del GIP del 9 giugno 2021. 
(44) ordinanza 
del 
16 giugno 2021, Corte 
di 
Assise 
Napoli, sez. I penale 
in cui 
si 
è 
giustificata 
l’inapplicabilità 
diretta 
della 
decisione 
europea 
che 
vieta 
l’acquisizione 
dei 
tabulati 
al 
PM 
in 
quanto 
“organo 
facente 
parte 
dell’autorità Giudiziaria e, come 
tale, destinatario dei 
doveri 
di 
imparzialità e 
di 
rispetto della legge 
ed anche 
delle 
guarentigie 
costituzionali 
poste 
a tutela della piena autonomia della 
funzione 
[...] il 
Pm è 
chiamato ad acquisire 
non solo le 
prove 
di 
accusa, ma anche 
quelle 
a favore 
del-
l’indagato, essendo in suo potere 
richiedere 
l’archiviazione; la sua posizione 
non può, pertanto, essere 
assimilata a quella del 
corrispondente 
organo estone, che 
è 
autorità soggetta alla sfera di 
competenza 
del 
ministro 
della 
Giustizia 
che 
partecipa 
alla 
pianificazione 
delle 
misure 
necessarie 
per 
la 
lotta 
e 
l’accertamento 
dei 
reato”. 
Sulla 
stessa 
scia, l’ordinanza 
del 
Tribunale 
di 
Milano, sez. vII penale, 22 aprile 
2021, 
commento 
ToNdI, 
La 
disciplina 
italiana 
in 
materia 
di 
data 
retention 
a 
seguito 
della 
sentenza 
della 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


ciarsi 
dai 
precedenti 
giurisprudenziali, con l’intento ultimo di 
conformarsi 
al 
diritto comunitario. 

A 
latere 
di 
detti 
orientamenti, i 
giudici 
del 
Tribunale 
di 
rieti, animati 
dal 
bisogno 
di 
certezza, 
hanno 
rinviato 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
una 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
al 
fine 
di 
comprendere 
se 
il 
Pubblico Ministero nazionale 
sia 
effetivamente 
dotato di 
garanzie 
che 
gli 
consentano di 
acquisire 
in 
maniera 
diretta 
i 
tabulati 
o, in alternativa, se 
sia 
previamente 
necessaria 
la 
decisione 
di 
un 
giudice 
ad 
hoc. 
In 
verità, 
ai 
giudici 
rimettenti, 
erano 
già 
ben 
chiare 
le 
differenze 
strutturali 
tra 
l’organo di 
accusa 
estone 
-profilo descritto 
ampiamente 
dalla 
stessa 
CGUE 
-e 
quello 
italiano, 
dotato 
di 
più 
evidenti 
e 
pieni caratteri di autonomia e indipendenza. 


In 
questo 
articolato 
spettro 
di 
decisioni, 
si 
attende 
ancora 
una 
risposta 
dal 
versante comunitario che chiarisca ogni dubbio. 


4.3 La reazione del legislatore nazionale. 
Nelle 
more 
dell’attesa 
decisione, 
la 
risposta 
italiana 
-in 
direzione 
opposta 
alle 
richieste 
comunitarie 
(45) 
-proveniente 
dal 
Consiglio 
dei 
ministri, 
si 
è 
concretizzata, 
in 
prima 
battuta, 
con 
l’approvazione 
del 
d.L. 
132/2021 
(46), 
convertito con la 
L. n. 178 del 
23 novembre 
2021, lasciando ancora 
irrisolti 
alcuni nodi problematici. 

Tra 
i 
progetti 
normativi 
nomopoietici 
già 
realizzati 
e 
quelli 
ancora 
in 
fieri, 
il 
testo in commento spicca 
per l’ambizione 
di 
ridurre 
i 
tempi 
di 
definizione 
dei 
procedimenti 
penali 
mediante 
una 
riorganizzazione 
del 
sistema 
giudiziario 
nel 
segno: 
da 
una 
parte, 
dello 
snellimento 
procedurale 
e 
della 
digitalizzazione, 
e 
dall’altra, dell’irrobustimento del 
suo organigramma 
e, in particolar modo, 
dell’Ufficio del Processo (47). 

Corte 
di 
Giustizia UE: il 
Tribunale 
di 
milano nega il 
contrasto con il 
diritto sovranazionale, in Sistema 
penale, 7 maggio 2021. 


(45) 
BErTUoL, 
La 
nuova 
disciplina 
per 
l'acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici: 
l'interpretazione 
"autentica" 
del 
Legislatore 
e 
la 
parola 
fine 
alla 
(fin 
troppo) 
lunga 
querelle 
giurisprudenziale, 
in 
Giurisprudenza 
penale, 2021, n. 12. 
(46) 
recante 
Misure 
urgenti 
in 
materia 
di 
giustizia 
e 
di 
difesa, 
nonché 
proroghe 
in 
tema 
di 
referendum, 
assegno 
temporaneo 
e 
IrAP 
(GU 
n. 
234 
del 
30 
settembre 
2021). 
Tra 
i 
primi 
commentatori 
della 
disciplina 
vi 
è 
FILIPPI, 
La 
nuova 
disciplina 
dei 
tabulati: 
il 
commento 
“a 
caldo” 
del 
Prof. 
Filippi, 
in 
www.penaledp.it, 
1° 
ottobre 
2021, 
il 
quale 
evidenzia 
come 
sia 
inevitabile 
sollevare 
una 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
per 
violazione 
dell'art. 
117 
Cost.; 
CASCoNE, 
La 
Corte 
di 
Giustizia 
del-
l’Unione 
Europea 
definisce 
le 
condizioni 
per 
la 
legittimità 
delle 
normative 
nazionali 
in 
materia 
di 
acquisizione 
dei 
tabulati. 
Le 
ripercussioni 
sull’ordinamento 
italiano 
della 
sentenza 
2 
marzo 
2021, 
Cass. 
Pen., 
fasc. 
2, 
1 
febb. 
2022, 
p. 
419; 
MUrro, 
Dubbi 
di 
legittimità 
costituzionale 
e 
problemi 
di 
inquadramento 
sistematico 
della 
nuova 
disciplina 
dei 
tabulati, 
Cass. 
Pen., 
Fasc. 
6, 
1 
giugno 
2022, 
p. 
2440. 
(47) FANCHIoTTI, il 
PNrr 
e 
l’ufficio del 
processo nella giustizia penale, in Dir. pen. proc., 2022, 
pp. 
276 
ss., 
analizza 
le 
varie 
figure 
equivalenti 
all’Ufficio 
del 
processo 
guardando 
con 
uno 
sguardo 
comparativo 
quelli 
che 
da 
anni 
operano 
negli 
ordinamenti 
europei; 
ancora, 
L. 
GATTA, 
riforma 
della 
giustizia 
penale: contesto, obiettivi 
e 
linee 
di 
fondo della ‘legge 
Cartabia’, in www.sistemapenale.it, 15 ottobre 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


Prima 
ancora 
di 
addentrarsi 
alle 
questioni 
attinenti 
al 
merito, meritevole 
di 
attenzione 
è 
la 
tecnica 
impiegata 
dal 
legislatore, il 
quale 
si 
esime 
(48) dal-
l’inserire 
una 
norma 
definitoria 
del 
concetto di 
dati 
(art. 1, comma 
1 bis) nel 
TU privacy, decreto legislativo n. 196 del 2003. 

Nulla 
questio 
sulla 
premessa 
iniziale, 
in 
cui 
è 
esplicitata 
la 
finalità 
perseguita, 
ovvero 
di 
garantire 
il 
rispetto 
dei 
principi 
-già 
ribaditi 
dalla 
Grande 
sezione 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
-durante 
l’acquisizione 
dei 
dati 
relativi 
al 
traffico 
telefonico 
e 
telematico 
nel 
corso 
delle 
indagini 
penali. 


Sulla 
scorta 
di 
tali 
premesse, si 
evince 
la 
coerenza 
sistemica 
nella 
previsione 
della 
limitazione 
all’acquisizione 
dei 
dati 
nei 
soli 
procedimenti 
penali 
con oggetto forme 
gravi 
di 
criminalità, a 
seguito del 
controllo di 
un’Autorità 
giurisdizionale. 


A 
ben vedere, costituisce 
un elemento di 
novità 
la 
previsione 
di 
una 
doppia 
procedura 
(49) per l’acquisizione 
dei 
tabulati: 
in via 
ordinaria 
(co. 3) con 
la 
previa 
autorizzazione 
del 
giudice 
con decreto motivato, dietro richiesta 
del 
Pubblico Ministero e 
del 
difensore 
dell’imputato, persona 
sottoposta 
alle 
indagini 
e 
della 
persona 
offesa; 
in via 
urgente, giustificata 
da 
situazioni 
di 
impellenza, 
è 
sufficiente 
il 
decreto motivato dello stesso Pubblico Ministero che 
dovrà 
essere 
comunicato 
immediatamente 
-e 
comunque 
non 
oltre 
quarantotto 
ore 
-al 
giudice 
competente 
per il 
rilascio dell’autorizzazione 
in via 
ordinaria 
entro le successive quarantotto ore (co. 3 bis). 

I 
presupposti 
basilari 
richiesti 
ai 
fini 
dell’applicabilità 
sono 
“sufficienti 
indizi 
di 
reati 
per 
i 
quali 
la legge 
stabilisce 
la pena dell’ergastolo o della reclusione 
non inferiore 
nel 
massimo a tre 
anni 
(...) e 
di 
reati 
di 
minaccia e 
di 
molestia o disturbo alle 
persone 
col 
mezzo del 
telefono, quando la minaccia, 
la molestia e 
il 
disturbo sono gravi”, nonché 
la 
rilevanza 
dei 
medesimi 
“per 
l’accertamento dei 
fatti”, e 
non più -come 
era 
nella 
previgente 
formulazione 


- per la prosecuzione delle indagini (50). 
Il 
requisito 
della 
“rilevanza” 
che 
legittima 
l’acquisizione 
dei 
dati 
deve 
es2021; 
LA 
roCCA, il 
modello di 
riforma “Cartabia”: ragioni 
e 
prospettive 
della Delega n. 134/2021, in 
arch. pen., 2021, n. 3, pp. 1 ss.; 
G. SPANGHEr, La riforma Cartabia nel 
labirinto della politica, in Dir. 
pen. proc., 2021, pp. 1155 ss. 

(48) Probabilmente nel tentativo di rendere più difficoltosa la conoscenza. 
(49) Secondo l’aspra 
critica 
della 
dottrina, questo determina 
un “ritorno indietro le 
lancette 
del-
l’orologio al 
previgente 
sistema del 
“doppio binario”. Queste 
due 
procedure 
hanno in comune 
solo i 
presupposti, per 
il 
resto sono strutturate 
diversamente”, così 
CArdINALE, La nuova disciplina di 
acquisizione 
dei tabulati telefonici e telematici: scenari e prospettive, in Giurispurdenza penale, 10/2021. 
(50) 
Secondo 
la 
dottrina, 
l’elisione 
in 
sede 
di 
conversione 
è 
spiegabile 
solo 
ritenendo 
la 
precedente 
formulazione 
“fuorviante”, lasciando supporre 
che 
la 
richiesta 
dei 
tabulati 
fosse 
possibile 
solo per corroborare 
l’ipotesi 
accusatoria 
e 
non anche 
a 
supporto delle 
indagini 
difensive, così 
MALACArNE, La decretazione 
d’urgenza del 
Governo in materia di 
tabulati 
telefonici: breve 
commento a prima lettura del 
d.l. 
30 
settembre 
2021, 
n. 
132, 
in 
https://www.sistemapenale.it/it/scheda/decreto-legge-132-2021tabulati-
telefonici-malacarne-commento-a-prima-lettura. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


sere 
letto secondo un’ampia 
accezione, ricomprendendovi 
sia 
le 
attività 
di 
indagine 
del 
P.M., 
sia 
le 
indagini 
difensive, 
senza 
peraltro 
escludere 
un’eventuale 
estensione alla fase dibattimentale. 

Altro 
punto 
sul 
quale 
la 
normativa 
registra 
un 
superamento 
del 
precedente 
testo, è 
il 
regime 
di 
inutilizzabilità 
(co. 
3 quater): 
non avranno rilevanza 
probatoria 
“i 
dati 
acquisiti 
in violazioni 
delle 
disposizioni 
dei 
commi 
3 e 
3 bis”. 
L’intentio legis 
di 
non fare 
alcun riferimento ai 
dati 
acquisiti 
in assenza 
di 
un 
provvedimento 
di 
convalida, 
apre 
il 
varco 
all’interpretazione 
dell’ondivaga 
giurisprudenza. 


In una 
logica 
di 
rafforzamento di 
tutela 
a 
favore 
del 
singolo, con il 
co. 1 
bis 
-in cui 
confluiscono gli 
strascichi 
della 
disciplina 
transitoria 
-è 
stabilito 
che 
“i 
dati 
relativi 
al 
traffico telefonico, al 
traffico telematico e 
alle 
chiamate 
senza risposta, acquisiti 
nei 
procedimenti 
penali 
in data precedente 
alla data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
presente 
decreto, 
possono 
essere 
utilizzati 
a 
carico 
dell'imputato 
solo 
unitamente 
ad 
altri 
elementi 
di 
prova 
ed 
esclusivamente 
per 
l'accertamento dei 
reati 
per 
i 
quali 
la legge 
stabilisce 
la pena dell'ergastolo o 
della reclusione 
non inferiore 
nel 
massimo a tre 
anni, determinata a norma 
dell'articolo 
4 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
e 
dei 
reati 
di 
minaccia 
e 
di 
molestia 
o disturbo alle 
persone 
con il 
mezzo del 
telefono, quando la minaccia, 
la molestia o il disturbo sono gravi”. 

5. Luci ed ombre della normativa. 
L’iniziale 
euforia 
dovuta 
al 
risveglio del 
legislatore 
nazionale 
si 
è 
tramutata 
ben presto in un’amara 
delusione 
da 
parte 
della 
dottrina 
(e 
non solo) nel 
prendere 
atto della 
mancanza 
di 
omogeneità 
tra 
le 
disposizioni 
in questione 
e 
della permanenza di questioni irrisolte. 


Sin 
dal 
principio, 
i 
primi 
commentatori 
avevano 
riconosciuto 
all’interpolazione 
normativa 
il 
pregio 
di 
aver 
ricondotto 
a 
sistema 
una 
disciplina 
che, 
sino 
a 
poco 
tempo 
prima, 
aveva 
come 
unico 
obiettivo 
l’efficienza 
delle 
indagini 
-nell’ottica 
di 
una 
tutela 
indiscriminata 
dell’interesse 
collettivo 
alla 
repressione 
dei 
reati 
(51) 
-ma, 
d’altro 
canto, 
non 
si 
sono 
astenuti 
dal 
mettere 
in 
risalto 
i 
vizi 
di 
costituzionalità. 


Posto 
che 
il 
testo 
di 
legge 
era 
stato 
pensato 
con 
riguardo 
alla 
sola 
fase 
delle 
indagini 
preliminari, 
la 
sostituzione 
della 
formula 
limitativa 
(52) 
-dietro 
cui 
si 
procedeva 
all’acquisizione 
dei 
dati 
-“ai 
fini 
della 
prosecuzione 
delle 
indagini” 
con “l’accertamento dei 
fatti”, presta 
il 
fianco ad una 
lettura 
estensiva 
secondo 
la 
quale 
il 
giudice 
dibattimentale 
o 
il 
Gup, 
in 
sede 
di 
motivazione 


(51) MALACArNE, già cit. 
(52) Come 
si 
legge 
nella 
relazione 
55/2021; 
sul 
punto anche 
AMATo, Nella “costruzione” 
normativa 
si 
è 
sminuito il 
ruolo del 
Pm, in Guida dir., 2021, n. 39 pp. 18 ss.; 
rINALdINI, La nuova disciplina 
del 
regime 
di 
acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
e 
telematici: scenari 
e 
prospettive, in Giurisprudenza 
penale web, 2021, del 27 ottobre 2021. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


favorevole 
all’istanza 
acquisitiva, 
può 
fare 
riferimento 
alle 
specifiche 
esigenze 
probatorie 
avanzate 
dal 
P.M. Ciò avviene 
in ragione 
del 
fatto che 
la 
necessità 
di 
acquisire 
i 
tabulati 
può sorgere 
altresì 
a 
seguito dell’esercizio dell’azione 
penale, in caso di 
indagini 
integrative 
del 
P.M. o di 
investigazioni 
difensive 
(in 
ogni 
stato 
e 
grado 
del 
procedimento). 
In 
altri 
termini, 
l’acquisizione 
dei 
tabulati 
è 
utile 
tanto 
per 
suffragare 
l’ipotesi 
accusatoria, 
quanto 
per 
consentire 
la 
verifica 
delle 
tesi 
difensive 
in ordine 
alla 
riferibilità 
delle 
condotte 
poste 
in 
essere nel 
locus commissi delicti. 

In tal 
senso, si 
realizza 
dunque 
un allineamento con la 
successiva 
previsione, 
la 
quale 
ammette 
la 
facoltà 
del 
difensore 
dell’imputato di 
avanzare 
al 
giudice 
la 
richiesta 
di 
acquisizione 
dei 
tabulati 
nella 
fase 
processuale 
successiva 
all’esercizio dell’azione penale (co. 3). 


Un’altra 
modifica 
apportata, tesa 
a 
dipanare 
i 
dubbi 
dottrinali, inerisce 
la 
natura 
autorizzatoria 
del 
decreto 
giudiziale. 
Nella 
precedente 
formulazione, 
era 
riscontrabile 
una 
dicotomia 
tra 
l’acquisizione 
diretta 
del 
giudice 
dei 
tabulati 
nella 
procedura 
ordinaria, 
ed 
un’autorizzazione 
del 
giudice 
competente 
in 
quella attivata, in via di urgenza, dal P.M. 


Tralasciando 
i 
risvolti 
pratici 
della 
previgente 
disciplina, 
l’attuale 
formulazione 
(53) oltre 
a 
realizzare 
una 
reductio ad unum 
rispetto alle 
norme 
codi-
cistiche 
sulle 
intercettazioni 
(art. 
267 
c.p.p.), 
spicca 
per 
la 
chiarezza 
nel 
prevedere 
le 
modalità 
pratiche 
con 
le 
quali 
ottenere 
l’acquisizione, 
finendo 
per arginare il pericolo di disvelamento degli elementi riservati. 


Le 
alternative 
individuate 
dalla 
dottrina, e 
rimesse 
alla 
decisione 
del 
legislatore, 
erano due: 
la 
possibilità 
che 
al 
gestore 
dei 
servizi 
venisse 
notificata, 
in 
forma 
integrale 
o 
eventualmente 
parziale, 
anche 
il 
decreto 
autorizzatorio 
del 
giudice, oppure 
scegliere 
di 
astenersi, considerati 
i 
rischi 
di 
dispersione 
di 
dati investigativi. 

Attraverso una 
lettura 
estensiva 
dell’art. 267 co. 3 c.p.p., si 
è 
messo fine 
a 
quell’estenuante 
questione 
inerente 
al 
quomodo 
dell’acquisizione 
dei 
dati: 
il 
P.M., o il 
difensore 
istante, una 
volta 
ottenuta 
l’autorizzazione 
da 
parte 
del 
giudice, 
è 
tenuto 
a 
trasmettere 
ai 
competenti 
gestori 
solamente 
il 
proprio 
provvedimento, 
il 
quale 
potrà 
essere 
eventualmente 
accompagnato dalla 
missiva 
con l’intervenuta 
autorizzazione 
ma, in quel 
caso, ne 
conseguirà 
l’assunzione 
della responsabilità penale e disciplinare a suo carico. 


Nella 
formulazione 
ellittica 
di 
cui 
al 
co. 
3, 
il 
legislatore 
conferma 
tra 
i 
requisiti 
necessari 
ai 
fini 
dell’acquisizione 
dei 
tabulati 
la 
sussistenza 
di 
“sufficienti 
indizi 
di 
reati 
per 
i 
quali 
la 
legge 
stabilisce 
la 
pena 
dell’ergastolo 
o 
della reclusione 
non inferiore 
nel 
massimo a tre 
anni, determinata a norma 
dell’art. 4 c.p.p., e 
di 
reati 
di 
minaccia, e 
di 
molestia o disturbo alle 
persone 


(53) Il 
co. 3, del 
medesimo articolo, enuncia 
“previa 
autorizzazione 
rilasciata 
dal 
giudice”, il 
co. 
3 bis 
“autorizzazione in via ordinaria”. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


col 
mezzo 
del 
telefono, 
quando 
la 
minaccia, 
la 
molestia 
o 
il 
disturbo 
sono 
gravi”, conformandosi alla volontà della CGUE. 

Secondo 
il 
giudizio 
di 
un’attenta 
dottrina, 
la 
creazione 
del 
c.d. 
“sistema 
del 
doppio 
binario” 
costituisce, 
non 
soltanto, 
un 
aggravio 
di 
impegno 
per 
il 
giudice 
ed 
il 
P.M., 
ma 
preclude 
la 
possibilità 
di 
ricorrere 
all’acquisizione 
di 
dati 
quando 
si 
procede 
per 
reati 
di 
eguale 
gravità 
(si 
pensi 
alla 
fattispecie 
di 
sostituzione 
di 
persona, 
o 
ancora, 
commercio 
di 
prodotti 
con 
segni 
falsi 
etc.) 
(54). 


Un altro aspetto, che 
ha 
stimolato la 
critica, attiene 
la 
previsione 
dei 
casi 
di 
“molestia 
e 
disturbo 
grave” 
la 
quale 
funge 
da 
clausola 
aperta: 
alla 
giurisprudenza 
è 
rimesso il 
difficile 
compito di 
individuare 
gli 
elementi 
utili 
ai 
fini 
dell’inquadramento, in assenza di alcun tipo di indicazione. 


Un’ulteriore 
osservazione 
compiuta 
dalla 
dottrina 
attiene 
la 
procedura 
di 
urgenza 
che, secondo tenore 
letterale 
del 
comma 3 bis 
della 
disposizione 
in 
commento, 
è 
attivabile 
dalla 
sola 
autorità 
requirente. 
In 
questo 
senso, 
tale 
previsione 
determina 
il 
naturale 
allontanamento 
dalle 
richieste 
comunitarie 
di 
garantire 
la 
neutralità 
tra 
le 
parti 
processuali, 
nonché 
trascura 
la 
possibile 
dispersione di elementi di prova a sostegno delle tesi difensive. 


È 
espressione 
della 
discrezionalità 
legislativa 
parlamentare, la 
disciplina 
intertemporale 
che, proprio in ragione 
della 
sua 
“esauribilità”, è 
stata 
appositamente 
(55) 
collocata 
in 
seno 
al 
co. 
1 
bis 
dell’art. 
1 
del 
d.L. 
132 
(e 
non 
all’art. 
132). In virtù di 
quest’ultima, i 
dati 
acquisiti 
nei 
procedimenti 
pendenti 
al 
30 
settembre 
2021 sarebbero assoggettati 
al 
principio generale 
del 
tempus 
regit 
actum, 
se 
non 
fosse 
che 
il 
legislatore 
si 
è 
preoccupato 
di 
ammettere 
due 
ipotesi 
derogatorie 
ai 
fini 
della 
possibile 
utilizzabilità: 
in primo luogo, la 
presenza 
di 
elementi 
estrinseci 
(“altri 
elementi 
di 
prova”) 
di 
qualsiasi 
natura 
purché 
“dotati 
di 
consistenza tale 
da resistere 
agli 
elementi 
contrari 
dedotti 
dall’imputato 
” 


(56) da 
valutare 
“a carico dell’imputato” 
(57); 
in secondo luogo, in una 
prospettiva 
di 
valorizzazione 
del 
ribadito principio di 
proporzionalità, qualora 
si 
proceda 
per i 
fatti 
la 
cui 
rilevanza 
penale 
giustifica 
di 
per sé 
l’accesso (già 
avvenuto) 
ai dati acquisiti. 
Tale 
formulazione, secondo il 
parere 
dei 
primi 
commentatori, è 
da 
ritenersi 
vacue 
ed 
inutile 
(58) 
se 
si 
considera 
che: 
in 
primo 
luogo, 
il 
vero 
e 
proprio 


(54) A 
riguardo vd. CArdINALE, La nuova disciplina di 
acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
e 
telematici, 
op. cit. 
(55) 
Scelta 
ritenuta 
censurabile, 
sotto 
il 
profilo 
tecnico, 
poiché 
rende 
più 
difficoltosa 
la 
conoscenza 
e 
la 
lettura 
dei 
precetti 
normativi, così 
PESTELLI, Convertito in legge 
il 
D.L. 132/2021: le 
modifiche 
apportate 
(e quelle mancate) in materia di tabulati, op. cit. 
(56) Questo appunto è 
contenuto nella 
relazione 
67/2021 del 
Massimario della 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione, che richiama la Cass. Pen., sez. II, n. 35923 del 11 luglio 2019. 
(57) Il 
riferimento alla 
persona 
dell’imputato, e 
non dell’indagato, così 
come 
indicato nella 
relazione 
del 
Massimario, già 
cit., è 
solamente 
formale: 
in virtù di 
un’interpretazione 
in bonam 
partem 
è 
riferibile 
anche al secondo. 

LEGISLAzIoNE 
Ed 
ATTUALITà 


criterio di 
“sbarramento” 
dei 
risultati 
dell’attività 
di 
indagine 
è 
data 
dai 
limiti 
edittali 
della 
fattispecie 
per la 
quale 
si 
procede 
e 
che, in secondo luogo, solitamente 
i 
dati 
dei 
tabulati 
sono oggetto di 
una 
valutazione 
complessiva, altrimenti 
considerandoli 
in 
maniera 
isolata, 
non 
sarebbero 
idonei 
di 
per 
sé 
a 
fondare il convincimento giudiziale. 

Eppure, proprio di 
recente, la 
Suprema 
Corte 
(59), ha 
avuto modo di 
affermare 
la 
compatibilità 
con 
l’art. 
15, 
par. 
1, 
della 
direttiva 
2002/58/CE 
in 
un’ottica 
di 
“ragionevole 
ed 
equilibrato 
contemperamento 
di 
interessi 
diversi” 
al fine di evitare la dispersione di dati già acquisiti. 


Inevitabili 
dubbi 
ermeneutici 
ha 
suscitato la 
rimodulazione 
delle 
conseguenze 
patologiche 
trasfuse 
nel 
co. 
4 
quater. 
Pur 
ammettendo 
il 
notevole 
passo 
in 
avanti 
del 
legislatore 
per 
aver 
esteso 
la 
sanzione 
dell’inutilizzabilità 
al 
mancato 
rispetto delle 
procedure 
di 
cui 
ai 
commi 
3 e 
3 bis, non è 
trascurabile 
il 
silenzio 
-per niente 
innocuo -circa 
le 
conseguenze 
patologiche 
della 
mancata 
convalida del decreto del P.M. 


Come 
è 
facilmente 
evincibile 
dall’analisi 
critica 
della 
normativa, il 
legislatore 
italiano, seppur con apprezzabile 
premura, abbia 
definito i 
contorni 
di 
una 
disciplina 
-quanto 
delicata 
tanto 
labile 
-ha 
omesso 
di 
trattare 
e 
rintracciare 
profili 
di 
compatibilità 
con l’art. 15 della 
Costituzione 
e 
52 della 
CEdU, le 
cui frizioni sono 
topoi 
comuni in dottrina e in giurisprudenza. 

Tirando le 
fila 
del 
discorso, ancora 
una 
volta, la 
tendenza 
sembra 
essere 
quella 
di 
rimettere 
all’interprete 
la 
decisione 
di 
tutelare 
il 
diritto alla 
riservatezza, 
e non le esigenze di sicurezza pubblica. 

6. i (dischiusi) possibili scenari. 
dallo 
scenario 
finora 
descritto 
traspare 
un 
garantismo 
“di 
facciata”, 
le 
cui 
conseguenze 
si 
riflettono 
in 
maniera 
distorta 
sul 
lavoro 
delle 
cancellerie 
per 
ciascuna 
volta 
in 
cui 
il 
Gip 
sarà 
tenuto 
ad 
autorizzare 
l’acquisizione 
dei 
tabulati. 


d’altronde, la 
stessa 
Corte 
di 
Giustizia, nell’ultimo arresto citato, ha 
ritenuto 
censurabili 
i 
commi 
1 
e 
1 bis 
dell’art. 132 cod. privacy, ritenendoli, diversamente 
dalle 
intenzioni 
del 
legislatore 
nazionale, non idonei 
a 
limitare 
o 
rimediare 
alla 
grave 
ingerenza 
nei 
diritti 
fondamentali 
alla 
vita 
privata 
e 
alla 
libertà 
di 
espressione, che 
si 
verifica 
per effetto dell’acquisizione 
di 
una 
conversazione 
generalizzata e indifferenziata. 


Gli 
influssi 
provenienti 
da 
Bruxelles, 
nonostante 
il 
loro 
carattere 
innovativo, 
non 
hanno 
in 
alcun 
modo 
scalfito 
la 
cultura 
autoritaria 
della 
magistratura 
inquirente 
italiana. 
L’inevitabile 
conseguenza 
è 
l’allungamento 
dei 


(58) PESTELLI, Convertito in legge 
il 
D.L. 132/2021: le 
modifiche 
apportate 
(e 
quelle 
mancate) in 
materia di tabulati, op. cit. 
(59) Cass., sez. III, 31 gennaio 2022 (dep. 1 aprile 2022), n. 11991. 

rASSEGNA 
AvvoCATUrA 
dELLo 
STATo -N. 1/2022 


tempi 
processuali, 
al 
quale 
proprio 
le 
riforme 
sulla 
giustizia 
-autoproclamandosi 
portatrici 
sane 
per 
la 
tutela 
del 
giusto 
processo 
-miravano 
ad 
ovviare. 


d’altra 
parte, (ancora 
una 
volta) ad essere 
frustata 
rimane 
la 
vena 
repressiva 
verso alcune 
fattispecie 
di 
reato -come 
le 
lesioni 
colpose 
o alcune 
fattispecie 
di 
furto o sostituzione 
di 
persona 
-rimaste 
fuori 
dal 
perimetro fissato 
da una disciplina che si mostra fossilizzata sul metodo dei limiti edittali. 


Nonostante 
i 
diversi 
punti 
pretermessi 
sui 
quali 
è 
inevitabile 
riconoscere 
la 
non conformità 
alle 
richieste 
comunitarie, c’è 
isolata 
dottrina 
(60) che, nel-
l’esprime 
un 
parere 
positivo 
in 
considerazione 
dell’avvenuto 
adempimento 
almeno 
delle 
principali 
indicazioni 
europee, non si 
sottrae, dopo aver preso in 
esame 
le 
possibili 
“soluzioni” 
(61), dal 
ritenerla 
ad ogni 
modo “un’occasione 
persa” 
per 
la 
regolamentazione 
di 
alcuni 
strumenti 
di 
indagine 
in 
uso 
nella 
prassi investigativa (62). 


(60) FILIPPI, riservatezza e 
data retention: una storia infinita, in Penale 
e 
diritto e 
procedura, n. 
2, 2022, p. 209. 
(61) FILIPPI, Nel 
decreto-legge, op. cit., suggerisce: 
a) la 
realizzazione 
di 
una 
riserva 
di 
legge 
collocandola 
nel 
sistema 
in sequenza 
successiva 
agli 
artt. 266-271 c.p.p.; 
b) un necessario coordinamento 
tra 
le 
nuove 
disposizioni 
e 
l’art. 254 bis 
c.p.p., che 
disciplina 
il 
procedimento di 
sequestro di 
dati 
informatici 
presso 
fornitori 
di 
servizi 
informatici; 
c) 
un’espressa 
previsione 
di 
inutilizzabilità 
dei 
dati 
acquisiti 
in 
difetto 
di 
un’autorizzazione 
del 
giudice 
e 
di 
una 
esauriente 
motivazione 
sulla 
qualificazione 
giuridica 
del 
fatto, 
sulla 
sufficienza 
indiziaria 
e 
sulla 
rilevanza 
dell’acquisizione 
dei 
dati 
ai 
fini 
della 
prosecuzione 
delle indagini. 
(62) 
Come 
le 
riprese 
visive, 
l’agente 
segreto 
attrezzato 
per 
il 
suono, 
le 
body-cam, 
le 
intercettazioni 
mediante 
droni 
e 
il 
“code 
catcher”, che 
è 
in grado di 
registrare 
le 
informazioni 
provenienti 
da 
tutti 
i 
cellulari 
che si trovano in una certa area. 

ContribUtididottrina
L’incidenza della gestione della pandemia e 
delle conseguenze della guerra in Ucraina sui contratti 
di appalto pubblico in corso di esecuzione 


Michele Gerardo* 


Sommario: 
1. 
introduzione 
-2. 
Criticità 
dei 
rapporti 
contrattuali 
di 
appalti 
pubblici 
per 
sopravvenienze 
collegate 
alla pandemia e 
alla guerra in Ucraina -3. Quadro dei 
rimedi 
di 
diritto 
comune 
a 
fronte 
dello 
squilibrio 
del 
sinallagma 
contrattuale 
nel 
corso 
della 
esecuzione 
del 
rapporto -4. Quadro dei 
rimedi 
di 
diritto speciale 
per 
i 
contratti 
ad evidenza pubblica 
con la P.a. a fronte 
dello squilibrio del 
sinallagma contrattuale 
nel 
corso della esecuzione 
del 
rapporto -5. Quadro dei 
rimedi 
di 
diritto speciale 
per 
i 
contratti 
ad evidenza pubblica 
con la P.a. a fronte 
dello squilibrio del 
sinallagma contrattuale 
nel 
corso della esecuzione 
del 
rapporto. Segue. modifica dei 
contratti 
attivi 
per 
sopravvenuta onerosità nell’esecuzione 
-6. 
Disposizioni 
speciali 
per 
regolare 
specifici 
aspetti 
dello 
squilibrio 
contrattuale 
conseguente 
agli 
avvenimenti 
eccezionali 
ed imprevedibili 
collegati 
alla pandemia CoViD 
19 -7. 
Conclusioni. 


1. introduzione. 
Non è un buon momento per i rapporti di durata. 

Nel 
marzo 
2020 
la 
diffusione 
del 
virus 
COVID 
19 
e 
le 
strategie 
per 
contrastarlo 
hanno 
comportato 
oltre 
a 
lutti 
per 
i 
tanti 
morti 
e 
a 
nuove 
abitudini 
di 
vita 
altresì 
delle 
inevitabili 
conseguenze 
sui 
rapporti 
contrattuali 
di 
durata 
pubblici 
e 
privati: 
differimenti, 
rallentamenti, 
interruzioni, 
appesantimenti 
degli 
oneri 
nella 
esecuzione 
dei 
contratti 
fonte 
di 
rapporti 
di 
durata 
con 
prestazioni 
continuative, 
periodiche, 
differite 
o 
prolungate. 


Nelle 
fasi 
acute 
della 
gestione 
del 
contrasto 
della 
pandemia, 
e 
in 
specie 
nella 
fase 
iniziale 
con 
le 
severe 
misure 
(adottate 
per 
specifiche 
aree, 
anche 
intere 


(*) Avvocato dello Stato. 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Regioni 
del 
Paese) 
di 
isolamento, 
chiusura 
di 
pubblici 
uffici 
e 
di 
spazi 
aperti 
al 
pubblico, 
restrizione 
del 
regolare 
svolgimento 
delle 
attività 
commerciali, 
confinamento, 
blocco 
di 
attività, 
limitazioni 
di 
spostamento 
anche 
da 
e 
per 
l'estero 


(c.d. 
lockdown), 
i 
contratti 
in 
esame 
hanno 
subito 
-a 
seconda 
delle 
circostanze 
-una 
anticipata 
anomala 
estinzione 
oppure 
una 
forte 
alterazione 
del 
sinallagma. 
Anche 
nel 
momento 
attuale 
(2022) 
-nel 
quale 
sono 
operative 
misure 
anti 
COVID 
per 
contrastare 
la 
pandemia 
tuttora 
esistente 
al 
fine 
di 
assicurare 
una 
convivenza 
tollerabile 
con 
il 
virus 
-vi 
sono 
fattori 
che 
rendono 
deviante 
il 
modello 
di 
esecuzione 
del 
contratto 
rispetto 
alle 
modalità 
ordinarie 
(quantomeno 
con 
riguardo 
agli 
oneri 
economici), 
ossia 
alle 
modalità 
relative 
al 
periodo 
antecedente 
alla 
diffusione 
del 
virus. 
Vuol 
farsi 
riferimento 
alla 
recrudescenza 
del 
virus 
in 
specifici 
luoghi 
comportanti 
lockdown 
limitati 
spazialmente 
o 
alla 
crisi 
di 
forniture 
di 
materie 
prime 
da 
paesi 
esportatori 
che 
adottano 
ferrei 
e 
severi 
lockdown 
(è 
il 
caso, 
ad 
esempio, 
della 
Cina 
che 
-ancora 
nell’aprile 
2022 
-a 
fronte 
dell’insorgere 
di 
focolai 
adotta 
strategie 
di 
blocco 
totale 
per 
eradicare 
il 
virus 
con 
stasi 
delle 
attività 
produttive). 
Vuol 
farsi 
riferimento 
soprattutto 
alle 
modalità 
organizzative 
nella 
esecuzione 
della 
prestazione 
implicanti: 
distanziamento 
e 
divieto 
di 
assembramenti 
degli 
operatori 
coinvolti 
nella 
esecuzione 
della 
prestazione; 
utilizzo 
di 
igienizzanti, 
di 
mascherine 
protettive, 
di 
misuratori 
della 
temperatura, 
di 
tamponi 
per 
testare 
la 
negatività 
al 
virus. 
Ad aggravare 
il 
quadro, da 
ultimo -perché 
le 
disgrazie 
non vengono mai 
da 
sole 
-si 
è 
avuto lo scoppio della 
guerra 
in Ucraina 
nel 
febbraio 2022. La 
guerra 
e 
le 
sue 
conseguenze 
(morti, 
distruzioni 
e 
devastazioni 
di 
territori, 
blocco 
dei 
collegamenti, 
embarghi) 
sta 
determinando, 
da 
una 
parte, 
il 
venir 
meno in tutto o in parte 
di 
materie 
prime 
(con aumento dei 
relativi 
costi 
per 
gli 
operatori 
economici) e, da 
un’altra 
parte, il 
venire 
meno in tutto o in parte 
di 
mercati 
(con problemi 
sulla 
collocazione 
dei 
prodotti 
oggetto di 
contratti 
ad esecuzione differita). 


2. 
Criticità 
dei 
rapporti 
contrattuali 
di 
appalti 
pubblici 
per 
sopravvenienze 
collegate alla pandemia e alla guerra in Ucraina. 
La 
pandemia 
e 
la 
guerra 
in Ucraina, ma 
soprattutto la 
numerosa 
legislazione 
d’emergenza 
emanata 
di 
volta 
in 
volta 
per 
contenerne 
la 
diffusione, 
hanno 
causato 
quale 
effetto 
naturale 
uno 
sconvolgimento 
sopravvenuto 
all’equilibrio 
contrattuale 
che 
regolava 
le 
preesistenti 
prestazioni 
nei 
contratti 
a 
prestazioni 
corrispettive. La 
corrispettività 
delle 
prestazioni 
contrattuali 
sta 
a 
significare 
che 
la 
prestazione 
di 
una 
parte 
trova 
remunerazione 
nella 
prestazione 
dell’altra. 


I 
contratti 
a 
prestazioni 
corrispettive 
sono 
anche 
detti 
sinallagmatici. 
Essi 
comprendono principalmente 
i 
contratti 
di 
scambio, i 
contratti 
di 
concessione 
in 
godimento 
e 
di 
servizi 
a 
titolo 
oneroso 
(locazione, 
lavoro 
subordinato, 
ecc.) 
in 
cui 
la 
prestazione 
di 
una 
parte 
è 
compensata 
dalla 
controprestazione 
del



CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


l’altra. La 
corrispettività 
comporta 
normalmente 
l’interdipendenza 
delle 
prestazioni 
(1). 


In 
questa 
tipologia 
di 
contratti 
l’equilibrio 
è 
un 
elemento 
essenziale 
e 
deve 
sussistere 
per 
tutta 
la 
durata 
della 
prestazione. 
L’eventuale 
vizio 
o 
difetto 
che 
colpisce 
una 
delle 
due 
prestazioni 
è 
destinato 
a 
ripercuotersi 
inevitabilmente 
anche 
sull’altra, 
poiché 
quest’ultima 
diverrebbe 
irrimediabilmente 
sproporzionata. 


Le 
sopravvenienze 
in 
esame, 
collegate 
alla 
pandemia 
e 
alla 
guerra 
in 
Ucraina, possono essere causate, in essenza, da due fattori: 


a) factum 
principis, ossia 
atti 
normativi 
(leggi, decreti 
legge) o amministrativi 
(D.P.C.M., 
D.M., 
D.P. 
giunta 
Regionale, 
Decreti 
sindacali) 
con 
i 
quali 
si 
dispongono misure 
di 
contenimento, quali 
lockdown 
(severi 
o leggeri; 
per 
aree 
limitate 
o 
per 
aree 
ampie), 
divieti 
o 
restrizioni 
nella 
circolazione 
di 
merci 
(ad es. armi) o nello svolgimento di attività, ecc.; 
b) mutamenti 
nella 
circolazione 
di 
beni 
o servizi 
quale 
effetto indiretto 
delle 
crisi. Ad esempio: 
distruzione 
e/o perimento di 
materie 
prime 
comportante 
secondo la 
legge 
economica 
della 
domanda 
e 
della 
offerta 
un aumento 
dei prezzi. 
Le 
sopravvenienze, 
poi, 
a 
seconda 
del 
loro 
connotato, 
rifluiscono 
sul 
rapporto 
contrattuale 
come 
circostanza 
“anomala”, 
rectius: 
impossibilità 
della 
prestazione 
oggetto 
del 
contratto 
sub 
specie 
di 
forza 
maggiore, 
eccessiva 
o 
maggiore 
onerosità 
della 
prestazione 
oggetto del 
contratto, pregiudizio nella 
utilizzazione riconducibile a “grave motivo” (2), ecc. 


In 
questa 
sede 
si 
esamineranno 
le 
criticità 
conseguenti 
alle 
due 
emergenze 
sopraindicate 
sui 
contratti 
di 
appalto pubblici 
in essere 
originanti 
rapporti 
di 
durata, 
ossia 
ad 
una 
species 
dei 
contratti 
pubblici 
come 
definiti 
dall’art. 
3, 
lett. 
dd), D.L.vo 18 aprile 
2016, n. 50, recante 
il 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(“i 
contratti 
di 
appalto 
o 
di 
concessione 
aventi 
per 
oggetto 
l'acquisizione 
di 
servizi 


o di 
forniture, ovvero l'esecuzione 
di 
opere 
o lavori, posti 
in essere 
dalle 
stazioni 
appaltanti”). 
Ai 
contratti 
di 
appalti 
pubblici 
(3) 
vanno 
equiparati, 
a 
questi 
fini, i contratti di concessione di lavori o di servizi (4). 
(1) Così C.M. BIANCA, Diritto civile. iii. il contratto, II edizione, giuffré, 2015, p. 488. 
(2) Ad esempio i 
gravi 
motivi 
ex 
art. 4, comma 
2, L. 27 luglio 1978, n. 392 facultanti 
il 
recesso 
del conduttore. 
(3) “i 
contratti 
a titolo oneroso, stipulati 
per 
iscritto tra una o più stazioni 
appaltanti 
e 
uno o più 
operatori 
economici, aventi 
per 
oggetto l'esecuzione 
di 
lavori, la fornitura di 
prodotti 
e 
la prestazione 
di servizi” (art. 3, lett. ii, Codice dei Contratti). 
(4) contratti 
a 
titolo oneroso stipulati 
per iscritto in virtù dei 
quali 
una 
o più stazioni 
appaltanti 
affidano 
l'esecuzione 
di 
lavori 
ovvero la 
progettazione 
esecutiva 
e 
l'esecuzione, ovvero la 
progettazione 
definitiva, la 
progettazione 
esecutiva 
e 
l'esecuzione 
di 
lavori 
oppure 
la 
fornitura 
e 
la 
gestione 
di 
servizi 
ad uno o più operatori 
economici 
riconoscendo a 
titolo di 
corrispettivo unicamente 
il 
diritto di 
gestire 
le 
opere 
ovvero i 
servizi 
oggetto del 
contratto o tale 
diritto accompagnato da 
un prezzo, con assunzione 
in capo al 
concessionario del 
rischio operativo legato alla 
gestione 
delle 
opere 
ovvero dei 
servizi 
(art. 
3, lett. uu, lett. vv, Codice dei Contratti). 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Sono esclusi 
dalla 
disamina 
i 
contratti 
di 
appalti 
pubblici 
non originanti 
rapporti 
di 
durata, quali 
potrebbero essere 
i 
contratti 
di 
appalti 
pubblici 
di 
forniture 
(5) ad esecuzione non differita, ma immediata. 


All’evidenza 
sono 
i 
contratti 
di 
durata 
che 
risentono 
maggiormente 
di 
difficoltà 
nella 
gestione 
ed 
evoluzione 
del 
rapporto 
in 
conseguenza 
delle 
due 
emergenze 
in esame. Il 
contratto di 
durata 
è 
quello nel 
quale 
il 
protrarsi 
del-
l’adempimento, per una 
certa 
durata, è 
condizione 
perché 
il 
contratto produca 
l’effetto voluto dalle 
parti 
e 
soddisfi 
il 
bisogno (durevole 
o continuativo) che 
le 
indusse 
a 
contrarre; 
in tal 
caso la 
durata 
non è 
subìta, ma 
voluta 
da 
esse, in 
quanto 
l’utilità 
del 
contratto 
è 
proporzionale 
alla 
durata 
di 
questo. 
L’esecuzione 
continuata 
o 
periodica 
si 
ha, 
propriamente, 
quando 
essa 
sia, 
non 
tanto 
differita, 
quanto 
distribuita, 
o 
reiterata 
nel 
tempo. 
La 
categoria 
si 
bipartisce, 
secondo 
che 
il 
contratto sia 
ad esecuzione 
continuata, dove 
la 
prestazione 
(di 
regola, 
di 
fare, ma 
anche 
negativa) è 
unica, ma 
ininterrotta 
(locazione, affitto, somministrazione 
di 
energie, comodato e 
simili), ovvero ad esecuzione 
periodica, 
dove 
si 
hanno 
più 
prestazioni 
(di 
regola, 
di 
fare), 
che 
sono 
ricorrenti 
a 
date 
prestabilite 
(ad esempio, rendita 
e 
contratto vitalizio), ovvero saltuarie, su richiesta 
di 
una 
delle 
parti 
(es. conto corrente, apertura 
di 
credito in conto corrente) 
(6). 
Distinti 
dai 
contratti 
di 
durata 
sono 
i 
contratti 
ad 
esecuzione 
differita, 
nei 
quali 
il 
momento della 
scadenza 
o il 
momento iniziale 
dell’esecuzione 
è 
spostato 
nel 
tempo 
rispetto 
alla 
conclusione; 
il 
legislatore, 
a 
determinati 
effetti 


-come 
ad esempio in sede 
di 
disciplina 
della 
risoluzione 
per eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta - li equipara ai contratti di durata. 
Ciò 
premesso 
si 
deve 
evidenziare 
che 
pervengono 
alle 
Amm.ni 
pubbliche 
istanze 
da 
parte 
degli 
appaltatori 
di 
lavori 
già 
affidati 
negli 
anni 
precedenti, 
tendenti 
a 
denunciare 
l'alterazione 
finanziaria 
dovuta 
a 
maggiori 
oneri 
che 
le 
stesse 
imprese 
sarebbero costrette 
a 
sostenere 
per effetto di 
fatti 
eccezionali, 
contingenti 
ed 
imprevedibilità 
correlati 
alla 
guerra 
in 
Ucraina 
e 
all’emergenza 
sanitaria dovuta alla pandemia ancora in corso. 


In particolare 
le 
imprese 
appaltatrici 
ritengono che 
i 
citati 
sopravvenuti 
fatti, imprevisti 
ed imprevedibili 
in sede 
di 
gara, abbiano cambiato in modo 
radicale 
il 
mercato 
delle 
forniture 
e 
delle 
acquisizioni 
stravolgendo 
il 
sinallagma 
contrattuale sia in termini di costi che di durata dei lavori. 


È 
circostanza 
nota 
l’eccezionale 
aumento dei 
costi 
delle 
materie 
prime 
e 
dell’energia. L’acciaio alla 
fine 
del 
2021 era 
aumentato fino al 
140 % rispetto 
all’anno precedente 
(e 
il 
trend è 
continuato nel 
periodo successivo fino all’at


(5) “i 
contratti 
tra una o più stazioni 
appaltanti 
e 
uno o più soggetti 
economici 
aventi 
per 
oggetto 
l'acquisto, la locazione 
finanziaria, la locazione 
o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione 
per 
l'acquisto, 
di 
prodotti. Un appalto di 
forniture 
può includere, a titolo accessorio, lavori 
di 
posa in opera e 
di installazione” (art. 3, lett. tt, Codice dei Contratti). 
(6) Su tali 
connotati 
dei 
contratti 
di 
durata: 
F. MESSINEO, manuale 
di 
diritto civile 
e 
commerciale, 
vol. III, IX edizione, giuffré, 1959, p. 627. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


tuale 
momento), il 
legno dell’80%. La 
guerra 
in Ucraina 
e 
i 
timori 
per l'approvvigionamento 
di 
materie 
prime 
hanno spinto i 
prezzi 
del 
petrolio ai 
massimi 
degli 
ultimi 
dieci 
anni, mentre 
gas 
naturale 
e 
alluminio hanno raggiunto 
nuovi record. 


tale 
sofferenza 
si 
concretizza 
in evidenti 
inadempienze 
contrattuali 
con 
rallentamenti 
della 
produzione 
e 
sospensioni 
delle 
attività 
che, 
sempre 
più 
frequentemente 
pregiudicano l'ultimazione dei lavori nei tempi stabiliti. 


Alla 
luce 
di 
quanto evidenziato e 
al 
fine 
di 
scongiurare 
il 
rischio di 
abbandono 
dei 
lavori 
con 
conseguente 
mancata 
esecuzione 
delle 
opere 
pubbliche 


-conseguenza 
inevitabile 
della 
risoluzione 
per impossibilità 
sopravvenuta 
o 
per eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta, a 
seconda 
delle 
circostanze 
-le 
stazioni 
appaltanti 
si 
sono 
spesso 
attivate 
per 
individuare 
iniziative 
da 
intraprendere 
per conseguire il riequilibrio del sinallagma contrattuale (7). 
3. 
Quadro 
dei 
rimedi 
di 
diritto 
comune 
a 
fronte 
dello 
squilibrio 
del 
sinallagma 
contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto. 
A 
fronte 
dello squilibrio del 
sinallagma 
contrattuale 
nel 
corso della 
esecuzione 
del 
rapporto, 
conseguente 
alle 
situazioni 
emergenziali 
innanzi 
descritte, 
i 
rimedi 
previsti, 
in 
generale, 
nel 
diritto 
comune 
sono 
-sussistenti 
i 
presupposti 
e 
le 
situazioni 
connotate 
dalla 
legge 
-la 
risoluzione 
per impossibilità 
totale 
o 
parziale 
della 
prestazione 
e 
la 
risoluzione 
per 
eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta. Per specifici contratti sono previsti poi ulteriori rimedi. 


In 
via 
generale 
le 
soluzioni 
codicistiche 
si 
concentrano 
sullo 
scioglimento 
del 
contratto, 
prestando 
scarsa 
attenzione 
ai 
rimedi 
conservativi 
e 
ciò 
è 
un 
vulnus 
significativo 
se 
si 
considerano 
le 
conseguenze 
penalizzanti 
della 
cessazione 
del 
rapporto, 
soprattutto 
per 
la 
parte 
che 
non 
sia 
direttamente 
incisa 
dalla 
sopravvenienza. 
Può 
essere 
importante 
-al 
fine 
di 
soddisfare 
gli 
interessi 
concreti 
-conseguire 
l’opera, 
il 
servizio, 
la 
prestazione 
oggetto 
del 
contratto 
anche 
a 
mezzo di 
una 
revisione 
del 
contenuto del 
contratto. tuttavia, in via 
generale 
l’istituto 
della 
rinegoziazione 
delle 
disposizioni 
contrattuali 
finalizzato 
all’adeguamento 
del 
contratto alle 
sopravvvenienze 
non è 
previsto nel 
codice 
civile 
ed è 
problematica 
-in via 
ricostruttiva 
-prevederne 
l’operatività. tale 
istituto 
sussiste 
solo in specifici 
limitati 
ambiti 
fissati 
da 
normative 
speciali, quali 
ad 
esempio, l’art. 2, comma 
5, L. 9 dicembre 
1998, n. 431 (8) relativamente 
alle 


(7) 
Sulla 
problematica: 
S. 
FANtINI, 
Le 
sopravvenienze 
nelle 
concessioni 
e 
contratti 
pubblici 
di 
durata nel diritto dell'emergenza, in Urbanistica e appalti, 2020, 5, pp. 641 e ss. 
(8) “i contratti 
di 
locazione 
stipulati 
ai 
sensi 
del 
comma 3 non possono avere 
durata inferiore 
ai 
tre 
anni, ad eccezione 
di 
quelli 
di 
cui 
all'articolo 5. alla prima scadenza del 
contratto, ove 
le 
parti 
non 
concordino sul 
rinnovo del 
medesimo, il 
contratto è 
prorogato di 
diritto per 
due 
anni 
fatta salva la facoltà 
di 
disdetta da parte 
del 
locatore 
che 
intenda adibire 
l'immobile 
agli 
usi 
o effettuare 
sullo stesso le 
opere 
di 
cui 
all'articolo 
3, 
ovvero 
vendere 
l'immobile 
alle 
condizioni 
e 
con 
le 
modalità 
di 
cui 
al 
medesimo 
articolo 3. alla scadenza del 
periodo di 
proroga biennale 
ciascuna delle 
parti 
ha diritto di 
attivare 
la 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


modalità 
di 
stipula 
e 
di 
rinnovo 
dei 
contratti 
di 
locazione 
degli 
immobili 
adibiti 
ad uso abitativo e 
l’art. 55, comma 
9, L. 27 dicembre 
1997, n. 449 (9) con riguardo 
ai 
fitti 
passivi 
per la 
P.A.; 
diversamente 
la 
materia 
è 
rimessa 
all’autonomia 
delle 
parti 
che 
possono modificare 
o estinguere 
il 
rapporto contrattuale 
oppure 
rinegoziare 
il 
contenuto 
del 
contratto 
e/o 
avvalersi 
della 
clausola 
di 
modifica 
e/o operare 
il 
recesso ove 
la 
sopravvenienza, in ipotesi, sia 
stata 
prevista 
(quale 
ipotesi 
di 
recesso, di 
obbligo di 
rinegoziazione, di 
modifica 
automatica 
del 
contratto) 
-intuitivamente 
con 
clausola 
prevedente 
in 
modo 
generale 
sopravvenienze 
straordinarie 
o imprevedibili 
-al 
momento della 
stipulazione 
del contratto. 


L’istituto 
della 
risoluzione 
del 
contratto 
secondo 
il 
diritto 
comune 
-sia 
per impossibilità 
sopravvenuta 
(artt. 1462-1466 c.c.), che 
per eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta 
(artt. 1467-1469 c.c.) -si 
applica 
altresì 
ai 
contratti 
che 
vedono quale 
parte 
contraente 
una 
P.A. (10). Ciò in quanto vengono in rilievo 
delle 
disposizioni 
di 
carattere 
generale 
non derogate 
dal 
Codice 
dei 
contratti 
e 
compatibili 
con 
le 
disposizioni 
contenute 
in 
quest’ultimo. 
Problematica, 
come 
si 
vedrà 
di 
seguito, 
è 
l’applicazione 
dell’istituto 
della 
rinegoziazione 
delle disposizioni contrattuali ove parte del contratto sia una P.A. 


La 
disciplina 
della 
risoluzione 
secondo il 
diritto comune, in sintesi, è 
la 
seguente. 


a) 
Risoluzione per impossibilità totale o parziale della prestazione (11). 
Vi 
è 
una 
disciplina 
ad 
hoc 
sia 
per 
i 
contratti 
ad 
efficacia 
obbligatoria 
(artt. 
1463-1464 
c.c.) 
che 
per 
i 
contratti 
ad 
efficacia 
reale 
(art. 
1465 
c.c.). 
tale 
disciplina 
è 
specificativa 
della 
regolazione 
generale 
contenuta 
negli 
artt. 
1256-1259 
c.c. 
relativa 
alla 
estinzione 
delle 
obbligazioni 
per 
impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
per 
causa 
non 
imputabile 
al 
debitore. 


L’evento regolato è 
l’impossibilità 
sopravvenuta, totale 
o parziale, della 
prestazione, non imputabile 
al 
debitore 
stesso; 
l’impossibilità 
deve 
essere 
as


procedura per 
il 
rinnovo a nuove 
condizioni 
o per 
la rinuncia al 
rinnovo del 
contratto comunicando la 
propria 
intenzione 
con 
lettera 
raccomandata 
da 
inviare 
all'altra 
parte 
almeno 
sei 
mesi 
prima 
della 
scadenza. 
in 
mancanza 
della 
comunicazione 
il 
contratto 
è 
rinnovato 
tacitamente 
alle 
medesime 
condizioni”. 


(9) “il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri, entro sei 
mesi 
dalla data di 
entrata in vigore 
della 
presente 
legge, 
adotta, 
con 
il 
supporto 
dell'osservatorio 
sul 
patrimonio 
immobiliare 
degli 
enti 
previdenziali, 
misure 
finalizzate 
a ridurre 
gradualmente 
l'utilizzo di 
immobili 
presi 
in locazione 
da privati 
da parte 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, di 
cui 
all'articolo 1, comma 2, del 
decreto legislativo 3 febbraio 
1993, 
n. 
29. 
Le 
predette 
amministrazioni 
rinegoziano, 
entro 
sei 
mesi 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
legge, 
i 
contratti 
di 
fitto 
locali 
attualmente 
in 
essere 
con 
privati 
con 
l'obiettivo 
di 
contenere 
la relativa spesa almeno nella misura del 10 per cento rispetto al canone di locazione vigente”. 
(10) 
Conf., 
per 
la 
risoluzione 
per 
eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta, 
Cass. 
17 
maggio 
1976, 
n. 
1738. 
(11) 
Su 
tale 
istituto: 
C.M. 
BIANCA, 
Diritto 
civile. 
V. 
La 
responsabilità, 
III 
edizione, 
giuffré, 
2021, 
pp. 385-398. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


soluta 
e 
definitiva, 
riferita 
ad 
una 
prestazione 
infungibile, 
e 
riguardare 
proprio 
la prestazione e non la concreta condizione del contraente. 


Nel 
caso di 
impossibilità 
totale 
l’art. 1463 c.c. dispone 
che 
“Nei 
contratti 
con prestazioni 
corrispettive, la parte 
liberata per 
la sopravvenuta impossibilità 
della prestazione 
dovuta non può chiedere 
la controprestazione, e 
deve 
restituire 
quella che 
abbia già ricevuta, secondo le 
norme 
relative 
alla ripetizione 
dell'indebito”. Lo scioglimento del 
contratto è 
conseguenza 
immediata 
della 
liberazione 
della 
controparte. 
La 
risoluzione, 
dunque, 
opera 
di 
diritto, 
senza 
bisogno 
di 
alcuna 
iniziativa 
della 
parte, 
né 
di 
intervento 
del 
giudice, 
sicché 
ove 
sorga 
una 
controversia 
in ordine 
al 
verificarsi 
di 
un'ipotesi 
di 
sopravvenuta 
impossibilità 
della 
prestazione, 
deve 
essere 
emessa 
una 
sentenza 
contenente 
un mero accertamento dell'avvenuta 
liberazione 
del 
debitore 
e 
del 
conseguente scioglimento del contratto, con effetto retroattivo. 

Nel 
caso di 
impossibilità 
temporanea 
-per la 
presenza 
di 
un ostacolo, di 
fatto o di 
diritto, all’attualità 
insormontabile 
che 
si 
oppone 
all'adempimento, 
ma 
possa 
prevedersi 
che 
con il 
tempo esso sia 
destinato a 
venir meno -si 
applica 
la 
regola 
generale 
di 
cui 
all’art. 
1256, 
comma 
2, 
c.c. 
secondo 
cui 
“Se 
l’impossibilità è 
solo temporanea, il 
debitore, finché 
essa perdura, non è 
responsabile 
del 
ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione 
si 
estingue 
se 
l'impossibilità 
perdura 
fino 
a 
quando, 
in 
relazione 
al 
titolo 
dell'obbligazione 


o alla natura dell'oggetto, il 
debitore 
non può più essere 
ritenuto obbligato a 
eseguire 
la 
prestazione 
ovvero 
il 
creditore 
non 
ha 
più 
interesse 
a 
conseguirla”. 
Ossia: 
in caso d'impossibilità 
temporanea 
il 
rapporto entra 
in una 
situazione 
di 
sospensione 
oggettiva 
-sicché 
il 
debitore 
è 
esonerato dalla 
responsabilità 
per 
il 
ritardo 
-che 
può 
risolversi 
in 
due 
modi: 
o 
l'impossibilità 
temporanea 
viene 
meno e, allora, il 
persistere 
dell'inesecuzione 
diviene 
imputabile 
e 
costituisce 
inadempimento 
(anche 
agli 
effetti 
della 
risoluzione 
e 
del 
risarcimento 
del 
danno); 
o l'impossibilità 
persiste 
al 
di 
là 
dei 
limiti 
indicati 
dall'art. 1256 e 
finisce 
per equivalere 
all'impossibilità 
definitiva 
che 
determina 
nel 
contratto 
quello 
stesso 
scioglimento 
(automatico), 
che 
è 
proprio 
dell'impossibilità 
fin 
dall'origine definitiva (12). 
La 
disciplina 
ora 
delineata 
nel 
caso 
di 
impossibilità 
temporanea 
non 
si 
applica 
ai 
contratti 
pubblici. Per questi, infatti, vi 
è 
la 
speciale 
disciplina 
ex 
art. 
107 
del 
Codice 
dei 
contratti 
sulla 
sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto 
disposta 
dalla 
stazione 
appaltante 
e 
sulla 
proroga 
della 
durata 
del 
contratto richiesta 
dall’operatore economico (13). 


(12) Così 
A. DALMARtELLO, voce 
risoluzione 
del 
contratto, in Novissimo Digesto italiano, vol. 
XVI, UtEt, 1969, p. 129. 
(13) In senso analogo il 
parere 
del 
Comitato Consultivo dell’Avvocatura 
dello Stato, seduta 
del 
12 
novembre 
2020 
-568719 
(in 
rass. 
avv. 
Stato, 
2020, 
4, 
pp. 
184-187) 
secondo 
cui 
il 
periodo 
di 
chiusura 
obbligatoria 
al 
pubblico dall'8 marzo 2020 al 
20 giugno 2020 a 
causa 
dell'emergenza 
epidemiologica 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Corollario di 
quanto detto è 
che, ove 
la 
prestazione 
oggetto del 
contratto 
divenga 
impossibile 
in via 
totale 
e 
definitiva 
in conseguenza 
di 
misure 
o circostanze 
collegate 
alla 
gestione 
della 
pandemia 
o 
della 
crisi 
bellica, 
il 
contratto 
si 
risolve. È 
il 
caso questo, ad esempio, di 
un contratto di 
appalto di 
servizi 
di 
pulizia 
in una 
scuola 
di 
un dato Comune 
o di 
un contratto di 
supplenza 
scolastica 
nella 
stessa 
scuola 
aventi 
durata 
compresa 
in un periodo nel 
quale 
si 
è 
avuto un lockdown 
totale 
con chiusura 
di 
tutti 
gli 
uffici 
pubblici 
del 
Comune 
interessato. È 
il 
caso altresì 
-riprendendo l’esempio con riguardo alla 
impossibilità 
temporanea 
-di 
un 
contratto 
di 
appalto 
di 
servizi 
di 
pulizia 
in 
una 
scuola 
o 
di 
un 
contratto 
di 
supplenza 
scolastica 
nella 
stessa 
scuola 
aventi 
durata 
parzialmente 
compresa 
in un periodo nel 
quale 
si 
è 
avuto un lockdown 
totale 
con chiusura di tutti gli uffici pubblici del Comune interessato. 


Nel 
caso di 
impossibilità 
parziale 
l’art. 1464 c.c. dispone 
che 
“Quando 
la prestazione 
di 
una parte 
è 
divenuta solo parzialmente 
impossibile, l'altra 
parte 
ha diritto a una corrispondente 
riduzione 
della prestazione 
da essa dovuta, 
e 
può anche 
recedere 
dal 
contratto qualora non abbia un interesse 
apprezzabile 
all'adempimento parziale”. L'impossibilità 
parziale 
non determina 
in alcun caso l'estinzione 
dell'obbligazione 
(art. 1258 c.c.) e 
non produce 
di 
conseguenza 
la 
risoluzione 
del 
contratto, potendo invece 
il 
creditore 
ottenere, 
in via 
alternativa, o la 
riduzione 
della 
prestazione 
o, recedendo dal 
contratto, 
la 
totale 
liberazione 
dalla 
propria 
obbligazione; 
il 
contraente 
la 
cui 
prestazione 
è 
divenuta 
parzialmente 
impossibile 
non ha, invece, alcun potere 
d'iniziativa, 
rimanendo obbligato, nei 
limiti 
in cui 
la 
prestazione 
è 
ancora 
possibile, ad effettuare 
l'adempimento parziale (14). 


b) 
Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (15). 
L’eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta 
nel 
corso del 
rapporto contrattuale 
è 
l’ipotesi 
più 
ricorrente 
con 
riguardo 
alla 
problematica 
esaminata 
nella 
odierna 
sede. Il 
codice 
civile, nell’art. 1467 -costituente 
la 
norma 
generale 
di 
riferimento 
-regolamenta 
gli 
istituti 
specifici 
utilizzabili 
nel 
caso 
di 
specie. 
La 
norma così dispone: 


“Nei 
contratti 
a esecuzione 
continuata o periodica, ovvero a esecuzione 
differita, 
se 
la 
prestazione 
di 
una 
delle 
parti 
è 
divenuta 
eccessivamente 
onerosa 
per 
il 
verificarsi 
di 
avvenimenti 
straordinari 
e 
imprevedibili, 
la 
parte 
che 
deve 
tale 
prestazione 
può 
domandare 
la 
risoluzione 
del 
contratto, 
con 
gli 
effetti 
stabiliti 
dall'articolo 1458. 


COVID-19 di 
un sito -oggetto di 
contratto di 
concessione 
di 
servizi 
-pare 
rifluire 
nella 
fattispecie 
di 
cui 
all'art. 107, D.L.vo n. 50/2016, che 
prevede 
la 
possibile 
sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto 
quando circostanze 
speciali 
impediscano la 
regolare 
esecuzione 
delle 
prestazioni, con conseguente 
non 
debenza 
del 
canone 
concessorio per i 
periodi 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
detto sito (tanto anche 
per effetto 
dell’art. 3, comma 6 bis, D.L. 23 febbraio 2020 n. 6). 


(14) Così 
A. DALMARtELLO, voce 
risoluzione del contratto, cit., pp. 129-130. 
(15) Su tale istituto: C.M. BIANCA, Diritto civile. V. La responsabilità, cit., pp. 398-416. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


La risoluzione 
non può essere 
domandata se 
la sopravvenuta onerosità 
rientra nell'alea normale del contratto. 


La 
parte 
contro 
la 
quale 
è 
domandata 
la 
risoluzione 
può 
evitarla 
offrendo 
di modificare equamente le condizioni del contratto”. 


L’avvenimento straordinario e 
imprevedibile 
è 
un evento che 
si 
colloca 
al 
di 
fuori 
della 
normale 
evoluzione 
degli 
eventi 
(straordinario) 
e 
della 
normale 
prevedibilità 
secondo la 
ordinaria 
diligenza 
(imprevedibile). All’evidenza 
la 
disciplina 
ad hoc 
contenuta 
nei 
decreti 
emergenziali 
e 
le 
circostanze 
concrete 
consentono 
di 
qualificare 
la 
pandemia 
-e, 
mutatis 
mutandis, 
la 
guerra 
in 
Ucraina 
-come 
avvenimento 
straordinario 
ed 
imprevedibile, 
con 
la 
conseguenza 
di 
rendere 
possibile 
l’esperimento 
della 
risoluzione 
di 
cui 
all’art. 
1467 


c.c. 
L’applicabilità 
della 
norma 
resta 
in 
ogni 
caso 
subordinata 
alla 
verifica 
della 
sussistenza 
delle 
ulteriori 
condizioni 
previste 
dalla 
disposizione. Ossia 
la 
presenza 
di 
un 
contratto 
ad 
esecuzione 
continuata, 
periodica, 
differita 
o 
prolungata 
(quest’ultima 
evenienza 
riguarda 
gli 
appalti 
di 
opera) 
nel 
quale 
la 
prestazione 
dell’appaltatore 
è 
divenuta 
eccessivamente 
onerosa 
in 
quanto 
non 
rientra 
nell'alea 
normale 
del 
contratto. 
L'alea 
normale 
del 
contratto 
consiste 
nell'incertezza, 
per 
effetto 
del 
differimento, 
del 
risultato 
economico 
dell'affare 
concluso, e 
nel 
rischio, cui 
le 
parti 
si 
sottopongono stipulando un dato contratto, 
di 
variazioni 
di 
costi 
e 
valori 
che 
rimane 
entro i 
limiti 
della 
normalità 
e 
comprende 
anche 
le 
oscillazioni 
di 
valore 
delle 
prestazioni 
originate 
dalle 
regolari 
e 
normali 
fluttuazioni 
di 
mercato. 
L'alea 
normale 
di 
un 
contratto 
non 
legittima la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. 
Il 
codice, 
da 
un 
punto 
di 
vista 
letterale, 
disciplina 
la 
sola 
ipotesi 
della 
prestazione 
divenuta 
più onerosa 
per la 
parte 
obbligata 
in conseguenza 
dell’aumento 
del 
costo 
originario 
della 
prestazione 
al 
momento 
dell'adempimento, 
d'entità 
superiore 
alla 
normale 
alea 
contrattuale. 
Deve 
ritenersi, 
dando 
rilevanza 
all’alterazione 
dell’equilibrio originario del 
sinallagma, che 
per aversi 
eccessiva 
onerosità 
è 
necessario che 
si 
determini 
una 
notevole 
alterazione 
del 
rapporto originario delle 
prestazioni 
(in base 
ad una 
valutazione 
globale 
del-
l'economia 
generale 
del 
contratto), sicché 
l'eccessiva 
onerosità 
sussiste 
anche 
in 
caso 
di 
eccezionale 
diminuzione 
del 
valore 
reale 
della 
controprestazione 
dovuto, ad es., alla svalutazione monetaria. 


L’art. 
1467 
c.c. 
consente 
all’appaltatore 
di 
chiedere 
la 
risoluzione 
del 
contratto 
per eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta. Difatti, l'onerosità 
sopravvenuta 
non 
produce 
alcun 
effetto 
liberatorio 
automatico: 
in 
presenza 
delle 
condizioni 
e 
dei 
presupposti 
di 
operatività 
del 
rimedio in esame, la 
parte 
tenuta 
all'adempimento 
può agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto. 


Il 
committente 
può 
evitare 
la 
risoluzione 
offrendo 
di 
modificare 
equamente 
le 
condizioni 
del 
contratto. L'offerta 
-che 
ha 
natura 
di 
negozio unilaterale 
recettizio, 
costituente 
esercizio 
di 
un 
diritto 
potestativo, 
funzionale 
al 
principio 
di 
conservazione 
del 
contratto 
-non 
deve 
ristabilire 
esattamente 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


l'equilibro 
originario 
delle 
prestazioni, 
essendo 
sufficiente 
una 
modifica 
idonea 
ad 
attenuare 
il 
connotato 
dell'eccessività, 
e 
ricondurre 
così 
l'onerosità 
nella 
normale 
alea 
della 
fattispecie 
contrattuale. A 
fronte 
dell’offerta 
si 
può addivenire 
alla 
stipula 
di 
un contratto modificativo che 
riequilibri 
il 
contratto sterilizzando 
i 
fattori 
perturbativi; 
in questo caso l’autonomia 
negoziale 
è 
sovrana 
e 
le 
parti 
potrebbero tanto ricostituire 
l'equilibrio iniziale 
delle 
posizioni 
(così 
che 
le 
prestazioni 
siano ricondotte 
ad una 
piena 
equivalenza 
obiettiva) quanto 
attenuare 
l'onerosità 
sopravvenuta 
tale 
da 
eliminare 
il 
connotato dell'eccessività, 
riconducendo la 
stessa 
nei 
limiti 
consentiti 
dalla 
normale 
alea 
del 
contratto. 
Ove 
non 
si 
raggiunga 
un 
accordo 
sarà 
necessaria 
una 
sentenza 
determinativa del giudice. 


c) 
Rinegoziazione delle disposizioni contrattuali (16). 
Nell’esercizio della 
autonomia 
negoziale 
ex 
artt. 1321 e 
1322, comma 
1, 
c.c. le 
parti 
possono operare 
la 
rinegoziazione 
del 
contratto squilibrato e 
modificare 
il 
contratto 
al 
fine 
di 
addivenire 
al 
riequilibrio 
convenzionale 
dello 
stesso. 
Va 
evidenziato che 
vi 
sono correnti 
dottrinali 
secondo cui 
nei 
contratti 
di 
durata 
vi 
è 
implicitamente 
contenuta 
una 
clausola 
di 
rinegoziazione 
in virtù 
della 
quale 
il 
dato obsoleto o non più funzionale 
può essere 
sostituito dal 
dato 
aggiornato e 
opportuno. Pertanto, in applicazione 
dei 
generali 
principi 
di 
correttezza 
e 
buona 
fede 
oggettiva 
nella 
interpretazione, integrazione 
ed esecuzione 
del 
contratto 
(artt. 
1366, 
1374 
e 
1375 
c.c.) 
(17) 
-trovante 
altresì 
fondamento nei 
doveri 
di 
solidarietà 
costituzionale 
ex 
art. 2 Cost. -la 
risoluzione 
deve 
essere 
l’extrema ratio 
nella 
gestione 
delle 
sopravvenienze 
contrattuali 
e 
non 
l’unica 
via 
eletta 
dal 
codice. 
Il 
generale 
principio 
di 
buona 
fede 
consentirebbe 
una 
stabilità 
del 
contratto 
e 
imporrebbe, 
prima 
di 
addivenire 
alla 
risoluzione, 
una 
reductio 
ad 
aequitatem 
tendente 
al 
riequilibrio 
dell’equilibrio 
sinallagmatico. Quindi 
vi 
sarebbe 
un obbligo di 
rinegoziazione 
del 
contratto 
squilibrato. 

La 
portata 
sistematica 
della 
buona 
fede 
oggettiva 
nella 
fase 
esecutiva 
del 
contratto assumerebbe 
assoluta 
centralità, postulando la 
rinegoziazione 
come 
strumento 
necessitato 
di 
adattamento 
del 
contratto 
alle 
circostanze 
ed 
esigenze 
sopravvenute. La 
correttezza 
è 
suscettibile 
di 
assolvere, nel 
contesto dilaniato 
dalla 
pandemia 
e 
dagli 
effetti 
della 
guerra 
in 
Ucraina, 
la 
funzione 
di 
salva


(16) Su tale 
istituto: 
M. MAggIOLO, Poteri 
e 
iniziative 
unilaterali 
nella rinegoziazione 
del 
contratto, 
in riv. dir. civ., 2021, 5, pp. 907-928. 
(17) C.M. BIANCA, Diritto civile. iii. il 
contratto, cit., pp. 500-501 e 
505 evidenzia 
che 
la 
buona 
fede 
in senso oggettivo o correttezza 
è 
una 
regola 
di 
condotta 
alla 
quale 
devono attenersi 
le 
parti 
del 
contratto avente 
valore 
di 
ordine 
pubblico ed espressione 
del 
principio di 
solidarietà 
contrattuale; 
tale 
regola 
si 
specifica 
in 
due 
fondamentali 
canoni 
di 
condotta: 
obbligo 
di 
lealtà 
di 
comportamenti 
ed 
obbligo 
di 
ciascuna 
parte 
di 
salvaguardare 
l’utilità 
dell’altra 
nei 
limiti 
in cui 
ciò non importi 
un apprezzabile 
sacrificio. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


guardare 
il 
rapporto economico sottostante 
al 
contratto nel 
rispetto della 
pianificazione 
convenzionale. 


In questo contesto, l’obbligo di 
rinegoziare 
impone 
di 
intavolare 
nuove 
trattative 
e 
di 
condurle 
correttamente, 
non 
anche 
di 
concludere 
il 
contratto 
modificativo. 
Pertanto, 
la 
parte 
tenuta 
alla 
rinegoziazione 
è 
adempiente 
se, 
in 
presenza 
dei 
presupposti 
che 
richiedono 
la 
revisione 
del 
contratto, 
promuove 
una 
trattativa 
o raccoglie 
positivamente 
l’invito di 
rinegoziare 
rivoltole 
dalla 
controparte 
e 
se 
propone 
soluzioni 
riequilibrative 
che 
possano ritenersi 
eque 
ed 
accettabili 
al 
lume 
dell’economia 
contrattuale. Al 
contrario, si 
avrà 
inadempimento 
se 
la 
parte 
tenuta 
alla 
rinegoziazione 
si 
oppone 
in 
maniera 
ingiustificata 
ad essa 
o si 
limita 
ad intavolare 
trattative 
di 
mera 
facciata, senza 
alcuna 
effettiva 
intenzione di rivedere i termini dell’accordo. 

Nel 
senso della 
sussistenza 
di 
un obbligo di 
rinegoziare 
-che 
impone 
di 
intavolare 
nuove 
trattative 
e 
di 
condurle 
correttamente, non anche 
di 
concludere 
il 
contratto modificativo -vi 
sono altresì 
orientamenti 
giurisprudenziali 


(18) e della prassi (19). 
(18) 
tribunale 
Roma, 
Sez. 
VI, 
Ordinanza, 
27 
agosto 
2020 
enuncia: 
la 
crisi 
economica 
dipesa 
dalla 
pandemia 
Covid e 
la 
chiusura 
forzata 
delle 
attività 
commerciali 
-ed in particolare 
di 
quelle 
legate 
al 
settore 
della 
ristorazione 
-devono 
qualificarsi 
quale 
sopravvenienza 
nel 
sostrato 
fattuale 
e 
giuridico 
che 
costituisce 
il 
presupposto della 
convenzione 
negoziale. Pur in mancanza 
di 
clausole 
di 
rinegoziazione, 
i 
contratti 
a 
lungo 
termine, 
in 
applicazione 
dell'antico 
brocardo 
"rebus 
sic 
stantibus", 
devono 
continuare 
ad essere 
rispettati 
ed applicati 
dai 
contraenti 
sino a 
quando rimangono intatti 
le 
condizioni 
ed i 
presupposti 
di 
cui 
essi 
hanno 
tenuto 
conto 
al 
momento 
della 
stipula 
del 
negozio. 
Al 
contrario, 
qualora 
si 
ravvisi 
una 
sopravvenienza 
nel 
sostrato 
fattuale 
e 
giuridico 
che 
costituisce 
il 
presupposto 
della 
convenzione 
negoziale, 
quale 
quella 
determinata 
dalla 
pandemia 
del 
Covid-19, la 
parte 
che 
riceverebbe 
uno svantaggio 
dal 
protrarsi 
dell'esecuzione 
del 
contratto alle 
stesse 
condizioni 
pattuite 
inizialmente 
deve 
poter avere 
la 
possibilità 
di 
rinegoziarne 
il 
contenuto, in base 
al 
dovere 
generale 
di 
buona 
fede 
oggettiva 
(o correttezza) 
nella 
fase 
esecutiva 
del 
contratto. La 
buona 
fede, infatti, può essere 
utilizzata 
anche 
con funzione 
integrativa 
cogente 
nei 
casi 
in cui 
si 
verifichino dei 
fattori 
sopravvenuti 
ed imprevedibili 
non presi 
in 
considerazione 
dalle 
parti 
al 
momento della 
stipulazione 
del 
rapporto, che 
sospingano lo squilibrio negoziale 
oltre 
l'alea 
normale 
del 
contratto. (Nella 
fattispecie 
si 
è 
ritenuto di 
dover far ricorso al 
criterio 
della 
buona 
fede 
integrativa 
per riportare 
in equilibrio il 
contratto nei 
limiti 
dell'alea 
negoziale 
normale, 
disponendo la 
riduzione 
del 
canone 
di 
locazione 
del 
40% per i 
mesi 
di 
aprile 
e 
maggio 2020 e 
del 
20% 
per i 
mesi 
da 
giugno 2020 a 
marzo 2021, tenuto conto che, anche 
dopo la 
riapertura 
dell'esercizio commerciale, 
l'accesso della clientela resta contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria). 
(19) Parere 
del 
Comitato Consultivo dell’Avvocatura 
dello Stato, seduta 
del 
12 novembre 
2020582619 
(in rass. avv. Stato, 2020, 4, pp. 188-189) secondo cui, anche 
per effetto dell’art. 3, comma 
6 
bis, D.L. 23 febbraio 2020 n. 6 -a 
fronte 
della 
richiesta 
di 
avviamento di 
un procedimento di 
revisione 
delle 
condizioni 
contrattuali 
di 
una 
ditta 
titolare 
di 
un contratto denominato “cessione 
di 
spazi 
per 
la installazione 
e 
la 
gestione 
di 
distributori 
automatici" 
presso 
un 
Istituto 
Scolastico 
in 
conseguenza 
del-
l'evento 
di 
forza 
maggiore 
rappresentato 
dalla 
chiusura 
dell'Istituto 
stesso 
a 
causa 
dell'emergenza 
epidemiologica 
COVID-19 -“la buona fede 
oggettiva nella fase 
esecutiva del 
contratto ex 
art. 1375 
c.c. postula la rinegoziazione 
come 
cammino necessitato di 
adattamento del 
contratto alle 
circostanze 
ed 
esigenze 
sopravvenute 
ai 
fine 
di 
portare 
a 
compimento 
il 
risultato 
negoziale 
prefigurato 
ab 
initio 
dalle 
parti, allineando il 
regolamento pattizio a circostanze 
che 
sono mutate; ciò nel 
pieno rispetto del-
l'autonomia 
negoziale 
delle 
parti 
che 
un 
siffatto 
dovere 
non 
abbiano 
manifestamente 
escluso 
(in 
tal 
senso 
anche 
la 
relazione 
tematica 
n. 
56 
dell'8 
luglio 
2020 
redatta 
dall'ufficio 
del 
massimario 
e 
del 
ruolo 
presso la Corte 
Suprema di 
Cassazione). Tanto premesso si 
ritiene 
che 
sussistano le 
condizioni, in capo 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


d) 
Rimedi per specifici contratti. 
Per il 
contratto di 
appalto di 
diritto comune 
vi 
è 
la 
previsione 
dei 
rimedi 
in 
caso 
di 
onerosità 
dell’esecuzione 
(art. 
1664, 
comma 
1, 
c.c.) 
(20) 
e 
il 
recesso 
unilaterale 
del 
committente 
dal 
contratto (art. 1671 c.c.) (21). Queste 
disposizioni 
non si 
applicano ai 
contratti 
ad evidenza 
pubblica 
con la 
P.A. atteso che 
il codice dei contratti contiene disposizioni speciali sul punto. 


La 
norma 
contenuta 
nell’art. 1664 c.c. viene 
adattata, nella 
materia 
dei 
contratti 
pubblici, con l’art. 106 del 
Codice 
(22). Invece, la 
norma 
contenuta 
nell’art. 
1671 
c.c. 
viene 
replicata 
nel 
codice 
di 
contratti, 
con 
l’art. 
109 
con 
una 
marginale 
differenza 
in ordine 
ad una 
componente 
dell’indennizzo da 
erogare 
all’appaltatore (23). 


Ulteriori 
rimedi 
sono 
previsti 
per 
altre 
tipologie 
di 
contratti, 
come 
ad 
esempio: 
nel 
contratto di 
enfiteusi 
(art. 963, comma 
2, c.c.) (24), nel 
contratto 
di 
affitto (art. 1623, comma 
1, c.c.) (25), nel 
contratto di 
trasporto di 
cose 
(art. 
1686 c.c.), nel contratto di deposito (art. 1780 c.c.), ecc. 


ai 
Dirigenti, per 
procedere, con il 
concessionario che 
ne 
faccia formale 
richiesta, alla rinegoziazione 
del 
contratto in relazione 
al 
periodo in cui 
si 
è 
palesata la crisi 
epidemiologica e 
fino a quando questa 
ha concretamente 
inciso sullo stesso. Ciò detto, l'obbligo di 
rinegoziare 
impone 
alle 
parti 
di 
intavolare 
nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo”. 


(20) “Qualora per 
effetto di 
circostanze 
imprevedibili 
si 
siano verificati 
aumenti 
o diminuzioni 
nel 
costo dei 
materiali 
o della mano d'opera, tali 
da determinare 
un aumento o una diminuzione 
superiori 
al 
decimo del 
prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore 
o il 
committente 
possono chiedere 
una 
revisione 
del 
prezzo medesimo. La revisione 
può essere 
accordata solo per 
quella differenza che 
eccede 
il 
decimo”. 
Questa 
disposizione 
non 
mette 
fuori 
gioco 
l’applicazione 
dell’art. 
1467 
c.c. 
Difatti, 
si 
applica 
il 
rimedio generale 
dell'art. 1467 c.c. se 
la 
sopravvenienza 
derivi 
da 
cause 
diverse 
da 
quelle 
specificamente 
previste 
dalla 
disciplina 
particolare 
contenuta 
nell’art. 1664 c.c. Conf. Cass. 3 novembre 
1994, 
n. 9060 secondo cui 
l'art. 1467 c.c. si 
applica 
ad un contratto di 
appalto nell’ipotesi 
in cui 
l'onerosità 
sopravvenuta 
sia 
da 
attribuire 
a 
cause 
diverse 
da 
quelle 
previste 
nell'art. 1664 c.c., dovendo altrimenti 
la 
norma 
speciale 
prevalere 
sulla 
norma 
generale, in quanto disciplina 
specifica 
di 
un contratto commutativo 
con caratteristiche particolari. 
(21) “il 
committente 
può recedere 
dal 
contratto, anche 
se 
è 
stata iniziata l'esecuzione 
dell'opera 
o 
la 
prestazione 
del 
servizio, 
purché 
tenga 
indenne 
l'appaltatore 
delle 
spese 
sostenute, 
dei 
lavori 
eseguiti 
e del mancato guadagno”. 
(22) 
Conf. 
E. 
StRACQUALURSI, 
Varianti 
e 
rinegoziazioni 
nella 
disciplina 
degli 
appalti: 
emergenza 
e 
principio di 
concorrenza, in Nuova Giur. Civ., 2020, 5 -Supplemento, pp. 139 e 
ss. secondo cui 
la 
disciplina 
dell'art. 106 del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
“si 
presenta come 
una disposizione 
speciale 
e 
derogatoria 
rispetto a quella disciplinata dall'art. 1664 cod. civ.”. 
(23) Nell’art. 109 viene stabilito che: 
-la 
stazione 
appaltante 
può 
recedere 
dal 
contratto 
in 
qualunque 
momento 
previo 
il 
pagamento 
dei 
lavori 
eseguiti 
o 
delle 
prestazioni 
relative 
ai 
servizi 
e 
alle 
forniture 
eseguiti 
nonché 
del 
valore 
dei 
materiali 
utili 
esistenti 
in 
cantiere 
nel 
caso 
di 
lavoro 
o 
in 
magazzino 
nel 
caso 
di 
servizi 
o 
forniture, 
oltre 
al 
decimo 
dell'importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite; 
-l'esercizio 
del 
diritto 
di 
recesso 
è 
preceduto 
da 
una 
formale 
comunicazione 
all'appaltatore 
da 
darsi 
con 
un 
preavviso 
non 
inferiore 
a 
venti 
giorni, 
decorsi 
i 
quali 
la 
stazione 
appaltante 
prende 
in 
consegna 
i 
lavori, 
servizi 
o 
forniture 
ed 
effettua 
il 
collaudo 
definitivo 
e 
verifica 
la 
regolarità 
dei 
servizi 
e 
delle 
forniture. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


4. Quadro dei 
rimedi 
di 
diritto speciale 
per 
i 
contratti 
ad evidenza pubblica 
con 
la 
P.a. 
a 
fronte 
dello 
squilibrio 
del 
sinallagma 
contrattuale 
nel 
corso 
della 
esecuzione del rapporto. 
Disposizioni 
speciali 
per la 
specifica 
materia 
dei 
contratti 
di 
appalti 
pubblici 
sono contenute 
nel 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici. Vengono in rilievo gli 
istituti 
della 
modifica 
del 
contratto 
(art. 
106), 
della 
sospensione 
dell'esecuzione 
del contratto o la proroga della durata (art. 107) ed il recesso (art. 109). 


a) 
Modifica del contratto per sopravvenuta onerosità nell’esecuzione. 
L’istituto è 
regolato all’art. 106 recante 
la 
“modifica di 
contratti 
durante 
il 
periodo di 
efficacia” 
(26). Le 
disposizioni 
rilevanti 
nel 
caso di 
specie 
sono 
le seguenti: 


“1. Le 
modifiche, nonché 
le 
varianti, dei 
contratti 
di 
appalto in corso di 
validità devono essere 
autorizzate 
dal 
rUP 
con le 
modalità previste 
dall'ordinamento 
della 
stazione 
appaltante 
cui 
il 
rUP 
dipende. 
i 
contratti 
di 
appalto 
nei 
settori 
ordinari 
e 
nei 
settori 
speciali 
possono essere 
modificati 
senza una 
nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: 
[…] 


c) 
ove 
siano 
soddisfatte 
tutte 
le 
seguenti 
condizioni, 
fatto 
salvo 
quanto 
previsto 
per 
gli 
appalti 
nei 
settori 
ordinari 
dal 
comma 
7: 
1) 
la 
necessità 
di 
modifica è 
determinata da circostanze 
impreviste 
e 
imprevedibili 
per 
l'amministrazione 
aggiudicatrice 
o per 
l'ente 
aggiudicatore. in tali 
casi 
le 
modifiche 
all'oggetto 
del 
contratto 
assumono 
la 
denominazione 
di 
varianti 
in 
corso 
d'opera. Tra le 
predette 
circostanze 
può rientrare 
anche 
la sopravvenienza di 
nuove 
disposizioni 
legislative 
o regolamentari 
o provvedimenti 
di 
autorità od 
enti 
preposti 
alla tutela di 
interessi 
rilevanti; 2) la modifica non altera la natura 
generale del contratto; 
[…] 
6. Una nuova procedura d'appalto in conformità al 
presente 
codice 
è 
richiesta 
per 
modifiche 
delle 
disposizioni 
di 
un 
contratto 
pubblico 
di 
un 
accordo 
quadro 
durante 
il 
periodo 
della 
sua 
efficacia 
diverse 
da 
quelle 
previste 
ai 
commi 1 e 2. 
7. Nei 
casi 
di 
cui 
al 
comma 1, lettere 
[…] c), per 
i 
settori 
ordinari 
il 
contratto 
può 
essere 
modificato 
se 
l'eventuale 
aumento 
di 
prezzo 
non 
eccede 
il 
50 
per 
cento 
del 
valore 
del 
contratto 
iniziale. 
in 
caso 
di 
più 
modifiche 
successive, 
(24) “Se 
è 
perita una parte 
notevole 
del 
fondo e 
il 
canone 
risulta sproporzionato al 
valore 
della 
parte 
residua, l'enfiteuta, secondo le 
circostanze, può chiedere 
una congrua riduzione 
del 
canone, o rinunziare 
al 
suo diritto, restituendo il 
fondo al 
concedente, salvo il 
diritto al 
rimborso dei 
miglioramenti 
sulla parte residua”. 
(25) 
“Se, 
in 
conseguenza 
di 
una 
disposizione 
di 
legge, 
di 
una 
norma 
corporativa 
o 
di 
un 
provvedimento 
dell'autorità 
riguardanti 
la 
gestione 
produttiva, 
il 
rapporto 
contrattuale 
risulta 
notevolmente 
modificato 
in 
modo 
che 
le 
parti 
ne 
risentano 
rispettivamente 
una 
perdita 
e 
un 
vantaggio, 
può 
essere 
richiesto 
un 
aumento 
o 
una 
diminuzione 
del 
fitto 
ovvero, 
secondo 
le 
circostanze, 
lo 
scioglimento 
del 
contratto”. 
(26) Su cui 
A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase 
di 
esecuzione 
nell’appalto di 
lavori 
pubblici, EPC Editore, 2018, pp. 197-2006 ed altresì pp. 257-283. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


tale 
limitazione 
si 
applica al 
valore 
di 
ciascuna modifica. Tali 
modifiche 
successive 
non sono intese ad aggirare il presente codice. 
[…]”. 


Con 
le 
varianti 
in 
corso 
d’opera, 
il 
contenuto 
dispositivo 
dell’art. 
106, 
comma 
1, lett. c) consente 
-a 
fronte 
di 
un evento straordinario ed imprevedibile, 
determinante 
l’eccessiva 
onerosità 
della 
prestazione 
-l’eccezionale 
modificazione 
del 
contenuto del 
contratto. Con tale 
misura 
si 
evita 
la 
risoluzione 
per 
eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta 
ex 
art. 
1467 
c.c. 
L’istituto 
faculta 
una 
volontaria 
riconduzione 
ad equità 
del 
contratto alterato nel 
sinallagma, con il 
tetto massimo -assente 
nella 
disciplina 
di 
diritto comune 
-dell’aumento non 
eccedente il 50 % del valore del contratto iniziale. 

Una 
disposizione 
analoga 
all’art. 106 è 
contenuta, con riguardo ai 
contratti 
di concessione, nell’art. 175 del Codice dei contratti. 


b) 
Sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto disposta 
dalla 
stazione 
appaltante 
e 
proroga 
della 
durata 
del 
contratto 
richiesta 
dall’operatore 
economico. 
L’istituto è 
regolato all’art. 107 (27). Le 
disposizioni 
rilevanti 
nel 
caso di 
specie sono le seguenti: 


“1. in tutti 
i 
casi 
in cui 
ricorrano circostanze 
speciali 
che 
impediscono in 
via temporanea che 
i 
lavori 
procedano utilmente 
a regola d'arte, e 
che 
non 
siano prevedibili 
al 
momento della stipulazione 
del 
contratto, il 
direttore 
dei 
lavori 
può disporre 
la sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto, compilando, 
se 
possibile 
con l'intervento dell'esecutore 
o di 
un suo legale 
rappresentante, 
il 
verbale 
di 
sospensione, con l'indicazione 
delle 
ragioni 
che 
hanno determinato 
l'interruzione 
dei 
lavori, nonché 
dello stato di 
avanzamento dei 
lavori, 
delle 
opere 
la 
cui 
esecuzione 
rimane 
interrotta 
e 
delle 
cautele 
adottate 
affinché 
alla 
ripresa 
le 
stesse 
possano 
essere 
continuate 
ed 
ultimate 
senza 
eccessivi 
oneri, 
della 
consistenza 
della 
forza 
lavoro 
e 
dei 
mezzi 
d'opera 
esistenti 
in 
cantiere 
al 
momento della sospensione. il 
verbale 
è 
inoltrato al 
responsabile 
del 
procedimento entro cinque giorni dalla data della sua redazione. 


2. 
La 
sospensione 
può, 
altresì, 
essere 
disposta 
dal 
rUP 
per 
ragioni 
di 
necessità o di 
pubblico interesse, tra cui 
l’interruzione 
di 
finanziamenti 
per 
esigenze 
sopravvenute 
di 
finanza pubblica, disposta con atto motivato delle 
amministrazioni 
competenti. 
Qualora 
la 
sospensione, 
o 
le 
sospensioni, 
durino 
per 
un 
periodo 
di 
tempo 
superiore 
ad 
un 
quarto 
della 
durata 
complessiva 
prevista 
per 
l'esecuzione 
dei 
lavori 
stessi, o comunque 
quando superino sei 
mesi 
complessivi, 
l'esecutore 
può 
chiedere 
la 
risoluzione 
del 
contratto 
senza 
indennità; 
se 
la stazione 
appaltante 
si 
oppone, l'esecutore 
ha diritto alla rifusione 
dei 
maggiori 
oneri 
derivanti 
dal 
prolungamento della sospensione 
oltre 
i 
termini 
suddetti. Nessun indennizzo è dovuto all’esecutore negli altri casi. 
(27) Su cui 
A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase 
di 
esecuzione 
nell’appalto di 
lavori 
pubblici, cit., pp. 207-221. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


3. 
La 
sospensione 
è 
disposta 
per 
il 
tempo 
strettamente 
necessario. 
Cessate 
le 
cause 
della 
sospensione, 
il 
rUP 
dispone 
la 
ripresa 
dell’esecuzione 
e 
indica 
il nuovo termine contrattuale. 
4. 
ove 
successivamente 
alla 
consegna 
dei 
lavori 
insorgano, 
per 
cause 
imprevedibili 
o di 
forza maggiore, circostanze 
che 
impediscano parzialmente 
il 
regolare 
svolgimento dei 
lavori, l'esecutore 
è 
tenuto a proseguire 
le 
parti 
di 
lavoro eseguibili, mentre 
si 
provvede 
alla sospensione 
parziale 
dei 
lavori 
non 
eseguibili, dandone 
atto in apposito verbale. Le 
contestazioni 
dell'esecutore 
in 
merito 
alle 
sospensioni 
dei 
lavori 
sono 
iscritte 
a 
pena 
di 
decadenza 
nei 
verbali 
di 
sospensione 
e 
di 
ripresa dei 
lavori, salvo che 
per 
le 
sospensioni 
inizialmente 
legittime, 
per 
le 
quali 
è 
sufficiente 
l'iscrizione 
nel 
verbale 
di 
ripresa 
dei 
lavori; 
qualora 
l'esecutore 
non 
intervenga 
alla 
firma 
dei 
verbali 
o 
si 
rifiuti 
di 
sottoscriverli, 
deve 
farne 
espressa 
riserva 
sul 
registro 
di 
contabilità. 
Quando la sospensione 
supera il 
quarto del 
tempo contrattuale 
complessivo 
il 
responsabile 
del 
procedimento dà avviso all'aNaC. in caso di 
mancata o 
tardiva comunicazione 
l'aNaC irroga una sanzione 
amministrativa alla stazione 
appaltante 
di 
importo compreso tra 50 e 
200 euro per 
giorno di 
ritardo. 
5. 
L'esecutore 
che 
per 
cause 
a 
lui 
non 
imputabili 
non 
sia 
in 
grado 
di 
ultimare 
i 
lavori 
nel 
termine 
fissato 
può 
richiederne 
la 
proroga, 
con 
congruo 
anticipo 
rispetto 
alla 
scadenza 
del 
termine 
contrattuale. 
in 
ogni 
caso 
la 
sua 
concessione 
non 
pregiudica 
i 
diritti 
spettanti 
all'esecutore 
per 
l'eventuale 
imputabilità 
della 
maggiore 
durata 
a 
fatto 
della 
stazione 
appaltante. 
Sull'istanza 
di 
proroga 
decide 
il 
responsabile 
del 
procedimento, 
sentito 
il 
direttore 
dei 
lavori, 
entro 
trenta 
giorni 
dal 
suo 
ricevimento. 
L’esecutore 
deve 
ultimare 
i 
lavori 
nel 
termine 
stabilito 
dagli 
atti 
contrattuali, 
decorrente 
dalla 
data 
del 
verbale 
di 
consegna 
ovvero, 
in 
caso 
di 
consegna 
parziale 
dall’ultimo 
dei 
verbali 
di 
consegna. 
L’ultimazione 
dei 
lavori, 
appena 
avvenuta, 
è 
comunicata 
dall'esecutore 
per 
iscritto 
al 
direttore 
dei 
lavori, 
il 
quale 
procede 
subito 
alle 
necessarie 
constatazioni 
in 
contraddittorio. 
L'esecutore 
non 
ha 
diritto 
allo 
scioglimento 
del 
contratto 
né 
ad 
alcuna 
indennità 
qualora 
i 
lavori, 
per 
qualsiasi 
causa 
non 
imputabile 
alla 
stazione 
appaltante, 
non 
siano 
ultimati 
nel 
termine 
contrattuale 
e 
qualunque 
sia 
il 
maggior 
tempo 
impiegato. 
[…] 
7. Le 
disposizioni 
del 
presente 
articolo si 
applicano, in quanto compatibili, 
ai contratti relativi a servizi e forniture”. 
All’evidenza 
gli 
ostacoli 
all’esecuzione 
del 
contratto -del 
tipo di 
quelli 
considerati 
nel 
presente 
scritto -facultano, ove 
connotati 
nei 
modi 
delineati 
dalla 
disposizione, l’eccezionale 
sospensione 
del 
decorso del 
termine 
di 
esecuzione 
del contratto con differimento del termine finale contrattuale. 


L’art. 107 è 
applicabile 
altresì 
ai 
contratti 
di 
concessione. tanto in virtù 
dell’art. 164, comma 
2, del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
secondo cui 
alle 
procedure 
di 
aggiudicazione 
di 
contratti 
di 
concessione 
di 
lavori 
pubblici 
o 
di 
servizi 
si 
applicano, per quanto compatibili, le 
disposizioni 
contenute 
nella 
parte 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


I e 
nella 
parte 
II, relativamente 
ai 
principi 
generali 
e 
ad altri 
istituti 
tra 
cui 
le 
disposizioni 
relative 
alle 
modalità 
di 
esecuzione 
(artt. 100 
-113 bis) e 
quindi 
anche quella relativa alla disciplina della sospensione (art. 107). 


Va 
rilevato 
che 
la 
disciplina 
codicistica 
della 
sospensione 
innanzi 
riportata 
di 
cui 
all'art. 107 è 
derogata, in via 
temporanea, dalle 
disposizioni 
sulla 
“sospensione 
dell'esecuzione 
dell'opera pubblica” 
contenute 
nell'art. 5 del 
D.L. 
16 luglio 2020, n. 76, conv. L. 11 settembre 
2020, n. 120 con riguardo all'esecuzione 
di 
opere 
pubbliche 
di 
importo 
pari 
o 
superiore 
alle 
soglie 
comunitarie, 
anche 
se 
già 
iniziate. È 
disposto, fino al 
30 giugno 2023, che 
la 
sospensione, 
volontaria 
o 
coattiva, 
“può 
avvenire, 
esclusivamente, 
per 
il 
tempo 
strettamente 
necessario al 
loro superamento, per 
le 
seguenti 
ragioni: a) cause 
previste 
da 
disposizioni 
di 
legge 
penale, dal 
codice 
delle 
leggi 
antimafia e 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 6 settembre 
2011, n. 159, nonché 
da 
vincoli 
inderogabili 
derivanti 
dall'appartenenza all'Unione 
europea; b) gravi 
ragioni 
di 
ordine 
pubblico, salute 
pubblica o dei 
soggetti 
coinvolti 
nella realizzazione 
delle 
opere, ivi 
incluse 
le 
misure 
adottate 
per 
contrastare 
l'emergenza 
sanitaria 
globale 
da 
CoViD-19; 
c) 
gravi 
ragioni 
di 
ordine 
tecnico, 
idonee 
a incidere 
sulla realizzazione 
a regola d'arte 
dell'opera, in relazione 
alle 
modalità 
di 
superamento 
delle 
quali 
non 
vi 
è 
accordo 
tra 
le 
parti; 
d) 
gravi 
ragioni 
di 
pubblico 
interesse”; 
le 
successive 
disposizioni 
dell’art. 
5, 
dal 
comma 
2 al 
comma 
6, sono finalizzate 
alla 
abbreviazione 
dei 
tempi 
della 
sospensione 
e 
comunque 
a 
conseguire 
una 
sollecita 
esecuzione 
delle 
opere 
pubbliche. 


c) 
Recesso ad nutum 
della stazione appaltante. 
L’istituto è regolato nell’art. 109 innanzi evidenziato (28). 
Per il 
contratto di 
concessione 
vi 
è 
poi 
(regolata 
dall’art. 165) la 
misura 
della 


d) 
Revisione 
del 
PEF 
(piano 
Economico 
Finanziario) 
per 
garantire 
l’equilibrio 
economico-finanziario. 
giusta 
il 
comma 
6 “il 
verificarsi 
di 
fatti 
non riconducibili 
al 
concessionario 
che 
incidono sull'equilibrio del 
piano economico finanziario può comportare 
la 
sua 
revisione 
da 
attuare 
mediante 
la 
rideterminazione 
delle 
condizioni 
di 
equilibrio. 
La 
revisione 
deve 
consentire 
la 
permanenza 
dei 
rischi 
trasferiti 
in 
capo 
all'operatore 
economico 
e 
delle 
condizioni 
di 
equilibrio 
economico 
finanziario 
relative 
al 
contratto” 
[…] 
“in 
caso 
di 
mancato 
accordo 
sul 
riequilibrio 
del 
piano 
economico 
finanziario, 
le 
parti 
possono 
recedere 
dal contratto 
[…]”. 


Le 
conseguenze 
delle 
emergenze 
della 
pandemia 
e 
della 
guerra 
in 
Ucraina 
possono integrare 
fatti 
non riconducibili 
al 
concessionario determinanti 
la 
re


(28) Su cui 
A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase 
di 
esecuzione 
nell’appalto di 
lavori 
pubblici, cit., pp. 311-322. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


visione 
del 
PEF. All’evidenza 
la 
disposizione 
citata 
prevede 
un obbligo di 
negoziazione 
del tipo di quello innanzi analizzato. 


5. Quadro dei 
rimedi 
di 
diritto speciale 
per 
i 
contratti 
ad evidenza pubblica 
con 
la 
P.a. 
a 
fronte 
dello 
squilibrio 
del 
sinallagma 
contrattuale 
nel 
corso 
della 
esecuzione 
del 
rapporto. 
Segue. 
modifica 
dei 
contratti 
attivi 
per 
sopravvenuta 
onerosità nell’esecuzione. 
Deve 
ritenersi 
che 
la 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 106 del 
Codice 
dei 
contratti 
regolante 
la 
modifica 
dei 
contratti 
per 
sopravvenuta 
onerosità 
nel-
l’esecuzione, 
sicuramente 
applicabile 
ai 
contratti 
passivi 
(appalti 
e, 
con 
l’analoga 
disposizione 
di 
cui 
al 
successivo 
art. 
175, 
alle 
concessioni), 
si 
applica 
altresì 
ai 
contratti 
attivi, 
ossia 
ai 
contratti 
dai 
quali 
la 
P.A. 
consegue 
una 
entrata 
(tali 
possono essere, a 
date 
condizioni, i 
contratti 
di 
concessione 
di 
lavori 
o di 
servizi; 
tali 
possono essere 
altresì 
i 
contratti 
con i 
quali 
la 
P.A. consente 
l’uso, 
il godimento di suoi beni). 

Come 
è 
noto, la 
disciplina 
dei 
contratti 
attivi 
è 
contenuta 
nel 
R.D. 18 novembre 
1923, 
n. 
2440, 
ove, 
tra 
l’altro, 
è 
prevista 
la 
fase 
dell’evidenza 
pubblica, 
costituita 
dalla 
procedura 
aperta. 
Difatti, 
a 
termini 
dell’art. 
3 
R.D. 
cit. 
i 
contratti 
dai 
quali 
derivi 
un'entrata 
per 
lo 
Stato 
debbono 
essere 
preceduti 
da 
pubblici 
incanti 
-rectius, 
all’attualità: 
procedura 
aperta 
-salvo 
che 
per 
particolari 
ragioni, 
delle 
quali 
dovrà 
farsi 
menzione 
nel 
decreto 
di 
approvazione 
del 
contratto, 
e 
limitatamente 
ai 
casi 
da 
determinare 
con 
il 
regolamento, 
l'amministrazione 
non 
intenda 
far 
ricorso 
alla 
licitazione 
ovvero 
nei 
casi 
di 
necessità 
alla 
trattativa 
privata. 


Inoltre, all’affidamento dei 
contratti 
attivi 
si 
applicano i 
principi 
generali 
in 
materia 
di 
attività 
negoziale 
della 
P.A., 
ossia 
“di 
economicità, 
efficacia, 
imparzialità, 
parità di 
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela 
dell'ambiente 
ed 
efficienza 
energetica”, 
come 
precisato 
nell’art. 
4 
del 
Codice dei contratti pubblici. 

Di 
conseguenza, l’art. 106 costituente 
esplicazione 
dei 
principi 
generali 
di 
imparzialità 
e 
di 
parità 
di 
trattamento, è 
applicabile 
-in quanto compatibile 


-ai 
contratti 
attivi. Sicché, in presenza 
di 
un evento straordinario ed imprevedibile 
è 
possibile 
modificare 
il 
contenuto del 
contratto al 
fine 
di 
conseguire 
un nuovo equilibrio nel 
sinallagma 
con possibilità 
della 
variazione 
del 
corrispettivo 
al 
quale 
è 
tenuto il 
privato per l’utilizzazione 
del 
bene. Ciò -in analogia 
alla 
disciplina 
di 
cui 
al 
comma 
7 dell’art. 106 -purché 
la 
diminuzione 
non sia eccedente il 50 per cento del valore del contratto iniziale (29). 
(29) La 
Corte 
dei 
conti, Sezioni 
riunite 
in sede 
di 
controllo, con deliberazione 
17 maggio 2021, 
N. 7/SSRRCO/QMIg/21 -con riguardo ad un contratto attivo per la 
P.A. valorizzando, tra 
l’altro, l’obbligo 
di 
rinegoziazione, 
in 
presenza 
di 
mutate 
condizioni 
di 
mercato, 
in 
base 
alle 
regole 
della 
correttezza 
e 
della 
buona 
fede 
ex 
artt. 1175, 1366 e 
1375 c.c. -ha 
enunciato: 
“gli 
enti 
locali, in presenza di 
una ri

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


6. Disposizioni 
speciali 
per 
regolare 
specifici 
aspetti 
dello squilibrio contrattuale 
conseguente 
agli 
avvenimenti 
eccezionali 
ed 
imprevedibili 
collegati 
alla 
pandemia CoViD 19. 
Il 
legislatore 
è 
intervenuto 
con 
disposizioni 
speciali 
per 
regolare 
specifici 
aspetti 
dello squilibrio contrattuale 
conseguente 
agli 
avvenimenti 
eccezionali 
ed 
imprevedibili 
sopramenzionati 
collegati 
alla 
diffusione 
del 
COVID 
19. 
Vuol 
farsi riferimento, tra l’altro, alle seguenti disposizioni: 


a) 
Art. 
3, 
comma 
6 
bis, 
D.L. 
23 
febbraio 
2020, 
n. 
6, 
conv. 
L. 
5 
marzo 
2020, 
n. 
13, 
secondo 
cui 
“il 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento 
di 
cui 
al 
presente 
decreto 
[dell'emergenza 
epidemiologica 
da 
COVID-19] 
è 
sempre 
valutato 
ai 
fini 
dell'esclusione, 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
degli 
articoli 
1218 
e 
1223 
del 
codice 
civile, 
della 
responsabilità 
del 
debitore, 
anche 
relativamente 
al-
l'applicazione 
di 
eventuali 
decadenze 
o penali 
connesse 
a ritardati 
o omessi 
adempimenti”. 
All’evidenza, 
per 
dichiarata 
previsione 
normativa, 
il 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento dell'emergenza 
epidemiologica 
da 
COVID-19 “è 
sempre 
valutato” 
ai 
fini 
dell’esclusione 
della 
responsabilità 
del 
debitore 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
degli 
artt. 1218 e 
1223 c.c. ed anche 
relativamente 
all’applicazione 
di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. 


L’espresso 
riferimento 
contenuto 
nella 
citata 
disposizione 
rispettivamente 
agli 
artt. 1218 e 
1223 c.c. ed alle 
clausole 
contrattuali 
da 
cui 
discendono decadenze 
o penali 
consente 
di 
individuare 
gli 
effetti 
che 
l’emergenza 
sanitaria 
può produrre sui rapporti contrattuali in corso. 


L’osservanza 
delle 
misure 
di 
contenimento 
può 
innanzitutto 
incidere 
sull’obbligo 
del 
risarcimento 
del 
danno 
che 
ex 
art. 
1218 
c.c. 
in 
capo 
al 
debitore 
inadempiente 
al 
punto da 
escluderne 
la 
responsabilità. In altri 
termini, in considerazione 
della 
peculiarità 
delle 
circostanze 
in cui 
si 
verificano il 
ritardo o 
l’inadempimento, 
il 
debitore 
inadempiente 
può 
andare 
esente 
da 
responsabilità 


o 
essere 
obbligato 
ad 
un 
risarcimento 
in 
misura 
inferiore 
e 
non 
uguale 
al 
danno 
cagionato. 
chiesta di 
riduzione 
del 
corrispettivo dei 
contratti 
di 
locazione 
di 
diritto privato stipulati 
con imprese 
esercenti 
attività di 
ristorazione, motivata dai 
plurimi 
provvedimenti 
di 
chiusura al 
pubblico emanati 
nel 
corso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, e 
dalla conseguente 
crisi 
economica, possono 
assentirvi, in via temporanea, all’esito di 
una ponderazione 
dei 
diversi 
interessi 
coinvolti, da esternare 
nella motivazione 
del 
relativo provvedimento, in particolare 
considerando elementi 
quali: i. la significativa 
diminuzione 
del 
valore 
di 
mercato del 
bene 
locato; ii. l’impossibilità, in caso di 
cessazione 
del 
rapporto con il 
contraente 
privato, di 
utilizzare 
in modo proficuo per 
la collettività il 
bene 
restituito, 
tramite 
gestione 
diretta 
ovvero 
locazione 
che 
consenta 
la 
percezione 
di 
un 
corrispettivo 
analogo 
a 
quello 
concordato 
con 
l’attuale 
gestore 
o, 
comunque, 
superiore 
a 
quello 
derivante 
dalla 
riduzione 
prospettata; 


iii. la possibilità di 
salvaguardia degli 
equilibri 
di 
bilancio dell’ente, e 
nello specifico la mancanza di 
pregiudizio alle 
risorse 
con cui 
la medesima amministrazione 
finanzia spese, di 
rilievo sociale, del 
pari 
connesse 
alla corrente 
emergenza epidemiologica, anche 
alla luce 
della diminuita capacità di 
entrata 
sempre correlata alla situazione contingente”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


Inoltre, il 
legislatore 
-in modo esemplificativo in ordine 
circa 
la 
sterilizzazione 
delle 
conseguenze 
dell’inadempimento -ha 
preso in considerazione 
le 
eventuali 
clausole 
contrattuali 
che 
fanno discendere 
decadenze 
o penali 
dal 
ritardato o omesso adempimento sancendone 
la 
non applicabilità 
nell’ipotesi 
di 
ritardo 
o 
inadempimento 
giustificati 
dal 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento 
dell’epidemia. 
La 
sterilizzazione 
delle 
conseguenze 
dell’inadempimento 
riguarda 
anche, ad esempio, le 
clausole 
che 
prevedono lo scioglimento 
del 
contratto nel 
caso in cui 
una 
determinata 
obbligazione 
non sia 
adempiuta 
secondo le 
modalità 
stabilite 
(cc.dd. clausole 
risolutive 
espresse 
di 
cui 
all’art. 
1456 c.c.) o anche 
quelle 
che 
prevedono e 
determinano la 
misura 
degli 
interessi 
moratori dovuti in caso di ritardo. 


L’esclusione 
o attenuazione 
della 
responsabilità 
da 
inadempimento contrattuale 
e 
la 
non 
applicabilità 
delle 
suddette 
clausole 
possono 
operare 
solo 
qualora 
l’inadempimento o il 
ritardo siano conseguenza 
diretta 
ed immediata 
e 
quindi 
in 
rapporto 
di 
causalità 
con 
l’osservanza 
delle 
misure 
di 
contenimento. 
Solo 
in 
tale 
circostanza 
l’inadempimento 
del 
debitore 
risulta 
giustificato 
e 
pertanto 
idoneo 
ad 
escludere 
o 
attenuare 
la 
responsabilità 
e 
il 
conseguente 
dovere 
di 
risarcire 
il 
danno cagionato al 
creditore. All’evidenza, il 
legislatore 
ha 
considerato 
il 
rispetto delle 
misure 
di 
contenimento alla 
stregua 
di 
una 
causa 
di 
forza 
maggiore 
tale 
da 
determinare 
anche 
un alleggerimento dell’onere 
probatorio. 
Qualora 
il 
debitore 
non abbia 
potuto adempiere 
o sia 
in ritardo nel-
l’adempimento 
dell’obbligazione 
a 
causa 
del 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento, 
forniti 
al 
giudice 
gli 
elementi 
di 
prova 
di 
tale 
fatto, 
il 
medesimo 
è, in deroga 
alla 
disciplina 
generale, esonerato dal 
provare 
il 
carattere 
straordinario 
ed imprevedibile 
dell’evento, presunto dal 
legislatore 
in ragione 
del-
l’eccezionalità della pandemia. 


La 
disciplina 
sin 
qui 
descritta 
degli 
effetti 
che 
il 
ritardato 
o 
omesso 
adempimento 
della 
prestazione 
ha 
sulla 
responsabilità 
del 
debitore 
non 
chiarisce 
tuttavia 
quale 
sia 
la 
sorte 
del 
contratto 
di 
cui 
la 
suddetta 
prestazione 
costituisca 
l’oggetto. 


In altri 
termini, quando la 
prestazione 
rimasta 
inadempiuta 
a 
causa 
del-
l’osservanza 
delle 
misure 
di 
contenimento della 
pandemia 
si 
inserisce 
in un 
contratto a 
prestazioni 
corrispettive, occorre 
interrogarsi 
non solo sulla 
sorte 
del 
contratto ma 
anche 
sugli 
eventuali 
strumenti 
di 
cui 
la 
controparte 
può avvalersi 
per 
tutelarsi 
contro 
tale 
giustificato 
inadempimento 
contrattuale. 
A 
fronte 
di 
una 
esclusione 
o attenuazione 
della 
responsabilità 
di 
una 
parte, l’esigenza 
di 
tutela 
della 
controparte 
e 
del 
suo interesse 
a 
non essere 
costretto ad 
adempiere 
può concretizzarsi 
nella 
possibilità 
di 
avvalersi 
dell’eccezione 
di 
inadempimento di 
cui 
all’art. 1460 c.c., ossia 
di 
rifiutarsi 
di 
adempiere 
la 
propria 
obbligazione. 


Se 
tale 
soluzione 
può apparire 
praticabile 
allorquando la 
controparte 
non 
abbia 
ancora 
eseguito 
la 
sua 
prestazione 
e 
conservi 
un 
interesse 
all’esecuzione 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


del 
contratto, 
in 
attesa 
della 
cessazione 
dello 
stato 
di 
emergenza 
e 
quindi 
della 
situazione 
impeditiva 
dell’adempimento, 
nella 
diversa 
ed 
opposta 
ipotesi 
in 
cui 
la 
prestazione 
sia 
già 
stata 
eseguita 
o, pur se 
ancora 
non eseguita, la 
parte 
non 
abbia 
più 
interesse 
alla 
conservazione 
del 
contratto, 
vanno 
applicati 
-sussistenti 
i 
presupposti 
-i 
rimedi 
generali 
di 
diritto comune 
innanzi 
sunteggiati. 
Ossia: 
il 
rimedio caducatorio della 
risoluzione 
del 
contratto per impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
di 
cui 
all’art. 1463 c.c. o i 
rimedi 
ex 
art. 1464 


c.c. nel 
caso di 
impossibilità 
parziale 
ovvero il 
rimedio caducatorio della 
risoluzione 
del 
contratto per eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta 
ex 
art. 1467 c.c. 
b) Art. 1 septies 
D.L. 25 maggio 2021, n. 73, conv. L. 23 luglio 2021, n. 
106 
recante 
disposizioni 
urgenti 
in 
materia 
di 
revisione 
dei 
prezzi 
dei 
materiali 
nei 
contratti 
pubblici. La 
situazione 
regolata 
è 
la 
seguente: 
“Per 
fronteggiare 
gli 
aumenti 
eccezionali 
dei 
prezzi 
di 
alcuni 
materiali 
da 
costruzione 
verificatisi 
nell'anno 2021, per 
i 
contratti 
in corso di 
esecuzione 
alla data di 
entrata in 
vigore 
della legge 
di 
conversione 
del 
presente 
decreto, il 
ministero delle 
infrastrutture 
e 
della mobilità sostenibili 
rileva, entro il 
31 ottobre 
2021 e 
il 
31 
marzo 2022, con proprio decreto, le 
variazioni 
percentuali, in aumento o in 
diminuzione, superiori 
all'8 per 
cento, verificatesi 
rispettivamente 
nel 
primo 
e 
nel 
secondo semestre 
dell'anno 2021, dei 
singoli 
prezzi 
dei 
materiali 
da costruzione 
più significativi” (comma 1). 
Inoltre 
il 
legislatore, pro futuro 
(ossia 
per i 
futuri 
contratti 
da 
stipulare) e 
per una 
durata 
contingente, ha 
previsto apposite 
norme 
per tenere 
conto degli 
squilibri 
contrattuali 
in esame. Vuol 
farsi 
riferimento all’art. 29 del 
D.L. 27 
gennaio 2022, n. 4, conv. L. 28 marzo 2022, n. 25 contenente 
disposizioni 
urgenti 
in materia 
di 
contratti 
pubblici 
connesse 
all'emergenza 
da 
COVID-19, 
nonché 
per il 
contenimento degli 
effetti 
degli 
aumenti 
dei 
prezzi 
nel 
settore 
elettrico (30). 


(30) Il 
comma 
1 così 
statuisce: 
“Fino al 
31 dicembre 
2023, al 
fine 
di 
incentivare 
gli 
investimenti 
pubblici, nonché 
al 
fine 
di 
far 
fronte 
alle 
ricadute 
economiche 
negative 
a seguito delle 
misure 
di 
contenimento 
dell'emergenza 
sanitaria 
globale 
derivante 
dalla 
diffusione 
del 
virus 
SarS-CoV-2, 
in 
relazione 
alle 
procedure 
di 
affidamento dei 
contratti 
pubblici, i 
cui 
bandi 
o avvisi 
con cui 
si 
indice 
la procedura 
di 
scelta del 
contraente 
siano pubblicati 
successivamente 
alla data di 
entrata in vigore 
del 
presente 
decreto, 
nonché, in caso di 
contratti 
senza pubblicazione 
di 
bandi 
o di 
avvisi, qualora l'invio degli 
inviti 
a presentare 
le 
offerte 
sia effettuato successivamente 
alla data di 
entrata in vigore 
del 
presente 
decreto, 
si applicano le seguenti disposizioni: 
a) è 
obbligatorio l'inserimento, nei 
documenti 
di 
gara iniziali, delle 
clausole 
di 
revisione 
dei 
prezzi 
previste 
dall'articolo 106, comma 1, lettera a), primo periodo, del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 
18 
aprile 
2016, 
n. 
50, 
fermo 
restando 
quanto 
previsto 
dal 
secondo 
e 
dal 
terzo 
periodo 
della medesima lettera a); 
b) per 
i 
contratti 
relativi 
ai 
lavori, in deroga all'articolo 106, comma 1, lettera a), quarto periodo, del 
decreto 
legislativo 
n. 
50 
del 
2016, 
le 
variazioni 
di 
prezzo 
dei 
singoli 
materiali 
da 
costruzione, 
in 
aumento 
o in diminuzione, sono valutate 
dalla stazione 
appaltante 
soltanto se 
tali 
variazioni 
risultano superiori 
al 
cinque 
per 
cento rispetto al 
prezzo, rilevato nell'anno di 
presentazione 
dell'offerta, anche 
tenendo 
conto di 
quanto previsto dal 
decreto del 
ministero delle 
infrastrutture 
e 
della mobilità sostenibili 
di 
cui 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


7. Conclusioni. 
A 
fronte 
dell'alterazione 
finanziaria 
dovuta 
a 
maggiori 
oneri 
che 
le 
imprese, 
esecutrici 
dei 
contratti 
pubblici, sono costrette 
a 
sostenere 
per effetto di 
fatti 
eccezionali, 
contingenti 
ed 
imprevedibilità 
correlati 
alla 
guerra 
in 
Ucraina 
e 
all’emergenza 
sanitaria 
dovuta 
alla 
pandemia 
ancora 
in 
corso 
sono 
applicabili 
i 
rimedi 
innanzi 
evidenziati: 
risoluzione 
per impossibilità 
totale 
sopravvenuta 
della 
prestazione, riduzione 
della 
prestazione 
o recesso dal 
contratto nel 
caso 
di 
impossibilità 
parziale 
sopravvenuta 
della 
prestazione, 
risoluzione 
per 
eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta, 
modifica 
o 
sospensione 
o 
proroga 
del 
contratto 
ex 
artt. 106 e 107 del Codice dei contratti. 


Con riguardo alla 
possibilità 
di 
modificazione 
dei 
contratti 
di 
appalto al 
fine 
di 
ricondurli 
ad equità 
in conseguenza 
degli 
squilibri 
nel 
sinallagma 
collegati 
alla 
pandemia 
e 
alla 
guerra 
i 
margini 
operativi 
sono fissati 
dal 
Codice 
dei 
contratti. 
Difatti 
al 
caso 
di 
specie 
vanno 
applicate 
le 
disposizioni 
contenute 
nell’art. 
106 
del 
Codice 
dei 
contratti, 
con 
le 
ulteriori 
variazioni 
consentite 
nelle 
disposizioni 
speciali 
innanzi 
sunteggiate 
(art. 1 septies 
D.L. n. 73/2021). Ciò 
in 
quanto 
la 
disciplina 
della 
modificazione 
del 
contratto 
in 
corso 
di 
esecuzione 


-in conseguenza 
dei 
recenti 
avvenimenti 
straordinari 
ed imprevedibili 
-è 
fissata 
dalle disposizioni or citate. 
Vuol 
dirsi 
che 
tanto le 
disposizioni 
generali 
contenute 
nell’art. 1467 c.c. 
con 
riguardo 
alla 
possibilità 
di 
modificazione 
del 
contratto 
(e 
in 
specie 
il 
comma 
terzo), quanto la 
facoltà 
di 
rinegoziazione 
del 
contratto squilibrato in 
base 
alla 
autonomia 
negoziale 
oppure 
in 
base 
ad 
un 
eventuale 
obbligo 
secondo 
le 
regole 
delle 
buona 
fede, costituiscono misure 
inapplicabili 
-in modo generale 
-al 
caso di 
specie, tenuto conto delle 
disposizioni 
puntuali 
contenute 
nel-
l’art. 106 cit. 


I 
detti 
istituti 
-art. 
1467, 
comma 
3, 
c.c.; 
facoltà 
di 
rinegoziazione 
del 
contratto 
squilibrato 
in 
base 
alla 
autonomia 
negoziale 
oppure 
in 
base 
ad 
un 
eventuale 
obbligo 
secondo 
le 
regole 
delle 
buona 
fede 
-sono 
applicabili 
nei 
limiti 
delle 
modifiche 
consentite 
dall’art. 
106 
come 
integrato 
dall’art. 
1 
septies 
D.L. 


n. 
73/2021. 
Ossia, 
ove 
ipotizzato 
un 
obbligo 
di 
negoziazione 
secondo 
buona 
fede, 
la 
P.A. 
deve 
precisare 
fin 
da 
subito 
alla 
controparte 
-in 
ossequio 
dell’obbligo 
di 
lealtà 
-che 
la 
trattativa 
aperta 
potrà 
giungere 
ad 
un 
eventuale 
accordo 
entro 
il 
perimetro, 
entro 
i 
limiti 
massimi 
fissati 
dall’art. 
106 
(non 
alterazione 
della 
natura 
generale 
del 
contratto; 
aumento 
del 
prezzo 
fino 
al 
50 
%). 
Dell’art. 1467 c.c. è 
applicabile, in tutta 
la 
sua 
portata, la 
parte 
non regolata 
dall’art. 106, ossia 
la 
facoltà 
dell’appaltatore 
(o anche 
del 
committente) 
di risolvere il contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. 


al 
comma 2, secondo periodo. in tal 
caso si 
procede 
a compensazione, in aumento o in diminuzione, 
per 
la percentuale 
eccedente 
il 
cinque 
per 
cento e 
comunque 
in misura pari 
all'80 per 
cento di 
detta eccedenza, 
nel limite delle risorse di cui al comma 7”. 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Quanto 
ricostruito, 
all’evidenza, 
non 
disciplina 
al 
meglio 
la 
materia, 
attesi 
i 
notevoli 
vincoli 
apposti 
dall’art. 106 alla 
possibilità 
di 
riequilibrio del 
contratto 
nella 
situazione 
data. tuttavia 
la 
chiara 
disciplina 
in materia, e 
in specie 
il 
disposto 
del 
comma 
6 
dell’art. 
106 
(“Una 
nuova 
procedura 
d'appalto 
in 
conformità al 
presente 
codice 
è 
richiesta per 
modifiche 
delle 
disposizioni 
di 
un contratto pubblico 
[deve 
ritenersi 
che, alla 
stregua 
delle 
omologhe 
previsioni 
contenute 
nell’art. 
106, 
per 
mero 
refuso 
legislativo, 
manchi, 
in 
questo 
punto del 
periodo, la 
congiunzione 
“o”] di 
un accordo quadro durante 
il 
periodo 
della sua efficacia diverse 
da quelle 
previste 
ai 
commi 
1 e 
2”) esclude 
la 
possibilità 
di 
modificazioni 
del 
contratto 
oltre 
le 
ipotesi 
specificamente 
previste 
e 
regolate 
nell’art. 106 (31). Inoltre, la 
rinegoziazione 
dell’appalto pubblico 
-al 
di 
fuori 
dei 
casi 
consentiti 
dalla 
legge 
e 
come 
innanzi 
precisato 
integra 
una lesione del principio della concorrenza (32). 


All’evidenza, 
l’esigenza 
di 
riequilibrare 
i 
contratti 
di 
appalto 
in 
corso 
d’opera 
in modo da 
tenere 
conto dei 
maggiori 
oneri 
degli 
appaltatori 
conseguenza 
dei 
recenti 
avvenimenti 
straordinari 
ed imprevedibili 
può essere 
soddisfatta 
-per 
la 
disciplina 
non 
prevista 
già 
dall’art. 
106 
e 
dalle 
disposizioni 
speciali 
innanzi 
citate 
-unicamente 
con una 
novella 
legislativa 
sul 
punto, con 
la previsione della necessaria presumibile maggior provvista finanziaria. 

Una 
novella 
di 
tal 
genere 
è 
necessaria 
al 
fine 
di 
consentire 
-senza 
ritardi 


-l’esecuzione 
delle 
opere 
pubbliche. Diversamente 
il 
ciclo dei 
lavori 
pubblici 
nel Paese subirebbe stasi o rallentamenti con sperpero di danaro pubblico. 
(31) 
In 
tal 
senso 
altresì 
S. 
FANtINI, 
Le 
sopravvenienze 
nelle 
concessioni 
e 
contratti 
pubblici 
di 
durata nel 
diritto dell'emergenza, cit., p. 644, per il 
quale 
“è 
noto che 
la rinegoziazione, specie 
ove 
incrementativa 
del 
corrispettivo dovuto dall'amministrazione 
appaltante, è 
di 
dubbia ammissibilità, al 
di 
fuori dei casi specificamente previsti dalla legge, perché si traduce in una sorta di trattativa privata”. 
(32) 
In 
tal 
senso 
altresì 
E. 
StRACQUALURSI, 
Varianti 
e 
rinegoziazioni 
nella 
disciplina 
degli 
appalti: 
emergenza 
e 
principio 
di 
concorrenza, 
cit., 
secondo 
cui 
“Nel 
campo 
dei 
contratti 
pubblici, 
tuttavia, 
l'invarianza 
delle 
condizioni 
economiche 
dell'accordo 
garantisce 
la 
par 
condicio 
tra 
gli 
aspiranti 
contraenti 
e 
la migliore 
tutela delle 
finanze 
pubbliche: per 
questo i 
principi 
generali 
dell'ordinamento e 
le 
indicazioni 
di 
matrice 
comunitaria impongono di 
attribuire 
alla forza di 
legge 
del 
contratto una pregnanza 
maggiore 
di 
quella tipica dell'appalto privato. in ogni 
caso, varianti 
e 
revisioni 
dei 
prezzi 
fanno parte 
anche 
della disciplina del 
Codice 
dei 
Contratti 
Pubblici, non solo a testimonianza della necessità di 
tutela 
del 
sinallagma, ma soprattutto a garanzia dell'interesse 
dell'impresa a non essere 
onerata dei 
costi 
per 
l'alterazione 
dell'equilibrio contrattuale, prevenendo il 
rischio che 
tali 
sopravvenienze 
possano indurla 
ad una riduzione degli standard delle prestazioni”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


Metaverso: necessità di un diritto reale per un mondo 
virtuale. Gli aspetti giuridici rilevanti del Metaverso 


Gaetana Natale* 


Kelsen 
affermava 
che 
la 
norma 
giuridica 
crea 
il 
suo 
spazio 
di 
applicazione: 
ma 
oggi 
la 
norma 
giuridica 
può regolare 
la 
dimensione 
digitale 
e 
fino 
a 
che 
punto? 
Il 
c.d. Metaverso è 
una 
nuova 
dimensione 
di 
vita 
in cui 
il 
diritto 
può svolgere 
una 
funzione 
regolatoria? 
Per regolare 
un fenomeno occorre 
capirlo. 
Cerchiamo allora 
di 
definire 
il 
concetto di 
metaverso, realtà 
immersiva 
che si sta affacciando all’orizzonte. 


Che cos’è il Metaverso? 


La 
parola 
Metaverso 
è 
un 
neologismo 
che 
si 
sta 
diffondendo 
ormai 
tra 
coloro che 
studiano l’innovazione 
futura 
della 
tecnologia. A 
tutt’oggi, però, 
tale parola non può essere definita con uno specifico significato (1). 

La 
parola 
metaverso viene 
fatta 
risalire 
alla 
definizione 
di 
Neal 
Stephenson, 
contenuta 
nel 
romanzo cyberpunk “Snow Crash” 
del 
1992: 
«uno spazio 
tridimensionale 
all’interno del 
quale 
persone 
fisiche 
possono muoversi, condividere 
e interagire attraverso avatar personalizzati». 


gli 
esperti 
ci 
dicono 
che 
«il 
metaverso 
rappresenta 
l’ambiente 
globale 
di 
convergenza 
di 
differenti 
soluzioni 
tecnologiche 
(blockchain 
e 
smart 
contracts, 
non-fungible 
tokens 
e 
cryptovalute, 
intelligenza 
artificiale 
e 
realtà 
aumentata), 
che 
permetteranno 
la 
continua 
interazione 
personale 
e 
commerciale 
fra 
gli 
utenti, 
nonché 
la 
fusione 
fra 
il 
mondo 
reale 
e 
quello 
virtuale 
(attraverso 
avatar)». 


Si 
prospettano scenari 
e 
soluzioni 
interessanti, ma 
sorgono anche 
preoccupazioni 
inquietanti. 

Nel 
Metaverso ognuno di 
noi, in futuro, avrà 
un gemello virtuale? 
E 
se 
così 
sarà, 
potremo 
considerare 
il 
gemello 
un 
soggetto 
giuridico? 
Avrà 
capacità 
giuridica e di agire? 


L’uomo 
in 
futuro 
vivrà, 
così, 
in 
una 
nuova 
dimensione 
duale, 
una 
reale 
e 
una 
virtuale? 
Un 
esempio 
di 
questo 
nuovo 
universo 
è 
dato 
dal 
videogioco, 
tramite 
il 
quale 
il 
giocatore/avatar, 
durante 
l’azione, 
accede 
al 
negozio 
virtuale 
di 
un 
marchio 
vero, 
reale, 
prova 
l’articolo 
di 
abbigliamento 
e 
lo 
compra 
realmente. 


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
giuridici 
Comparati, Consigliere 
giuridico 
del garante per la Privacy. 

Il 
presente 
articolo è 
stato scritto con 
la collaborazione 
della Dott.ssa Giulia Arcari, ammessa alla 
pratica forense 
presso l’Avvocatura Generale 
dello Stato ed è 
il 
risultato di 
una ricerca svolta dal-
l’Autrice con esperti di tecnologia immersiva. 


(1) 
L. 
PARDO, 
“il 
metaverso 
spalanca 
nuove 
frontiere 
dell’economia. 
E 
delle 
regole”, 
su 
https://www.wired.it/article/metaverso-ecommerce-regole/. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Le 
caratteristiche 
essenziali 
del 
metaverso, 
secondo 
gli 
studiosi, 
sono: 
«natura globale 
e 
decentralizzata, che 
non sopporta confini 
geografici 
o giurisdizionali; 
interazione 
sincronica degli 
e 
fra gli 
utenti, fra realtà fisica e 
realtà 
virtuale; connessione continua e interoperabilità». 

Il 
Metaverso 
sicuramente 
ci 
deve 
far 
riflettere 
sul 
modo 
in 
cui 
i 
dati 
saranno 
trattati: 
quali 
soggetti 
dovranno 
raccogliere 
e 
trattare 
i 
dati 
utilizzati 
nel 
metaverso, 
con 
quali 
procedure 
e 
con 
quali 
livelli 
di 
protezione? 
Occorre 
chiedersi 
se 
i 
concetti 
di 
accountability 
e 
di 
privacy 
by 
design 
and 
default, 
ossia 
i 
parametri 
regolatori 
per 
impostazione 
predefinita 
previsti 
dal 
gDPR 
per 
la 
creazione 
di 
un 
ambiente 
digitale 
trustworthy 
(ossia, 
affidabile 
e 
sicuro) 
possano 
essere 
sufficienti 
per 
regolare 
tale 
nuovo 
fenomeno. 
Occorrerà 
decidere 
il 
tipo 
di 
regolamentazione 
da 
introdurre: 
autoregolazione 
(self 
regulation 
delle 
piattaforme), 
coregolazione 
o 
eteroregolazione? 
regolamentazione 
omogenea 
o 
per 
settori? 
Strutturale 
o 
funzionale? 
Cosa 
dovrà 
essere 
regolato 
dalle 
piattaforme 
e 
cosa 
dovrà, 
invece, 
essere 
regolato 
dallo 
Stato? 
Dovrà 
anche 
per 
il 
metaverso 
essere 
introdotta 
la 
figura 
del 
“certificatore 
di 
conformità” 
prevista 
dal 
Digital 
Service 
Act, 
con 
obbligo 
c.d. 
di 
reporting, 
analisi 
e 
monitoraggio 
del 
“livello 
di 
rischio” 
per 
conciliare 
il 
principio 
di 
autodeterminazione 
individuale 
con 
quello 
di 
“responsabilizzazione 
delle 
piattaforme”? 
I 
rischi 
di 
data 
breach 
potrebbero 
essere 
all’ordine 
del 
giorno, 
per 
cui 
se 
vogliamo 
“spostarci” 
sulla 
realtà 
virtuale 
dobbiamo 
pensare 
ad 
una 
adeguata 
cybersecurity 
con 
adeguati 
sistemi 
di 
“alert” 
e 
di 
controllo 
dinamico. 
Occorre 
un 
processo 
di 
“concettualizzazione 
della 
tecnologia”, 
la 
definizione 
di 
una 
sua 
“dimensione 
epistemologica” 
volta 
a 
declinare 
sul 
piano 
giuridico 
il 
c.d. 
pre-emptive 
remedy, 
ossia 
il 
“rimedio 
preventivo” 
basato 
sul 
giudizio 
tecnico 
di 
adeguatezza 
degli 
standard 
di 
sicurezza 
(c.d. 
ecosistema 
digitale). 


Per dare 
un inquadramento sistematico a 
tali 
problematiche, occorre 
capire 
le 
modalità 
di 
funzionamento di 
tale 
nuova 
dimensione 
digitale 
che 
trova 
nel termine “metaverso” un momento di “sintesi concettuale complessa”. 


L’analista 
statunitense 
Matthew 
Ball 
(2) ha 
provato a 
individuare 
gli 
elementi 
che 
potrebbero caratterizzare 
il 
Metaverso. Questo nuovo spazio relazionale 
dovrebbe essere: 


a) persistente, ossia continuare indefinitamente e senza pausa alcuna; 
b) 
in 
tempo 
reale 
per 
tutti 
i 
suoi 
utenti, 
per 
permettere 
la 
fruizione 
di 
eventi e contenuti in maniera simultanea a ogni singola persona connessa; 
c) 
senza 
alcun 
limite 
di 
connessione, 
per 
far 
sì 
che 
non 
ci 
siano 
limitazioni 
al numero di utenti connessi in contemporanea; 
d) un’economia 
autonoma 
e 
indipendente 
dove 
gli 
utenti 
possano offrire 
o comprare beni e servizi; 
(2) M. BALL, “The 
metaverse: what 
it 
is, where 
to find it, who will 
build it, and Fortnight”, su 
https://www.matthewball.vc/all/themetaverse. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


e) 
un’esperienza 
che 
unisce 
il 
mondo 
fisico 
a 
quello 
virtuale 
senza 
distinzioni 
di modalità di accesso o fruizione; 
f) un’esperienza 
che 
garantisca 
la 
totale 
interoperabilità 
in termini 
di 
dati 
e informazioni immesse e scambiate tra gli utenti; 
g) uno spazio con infinite 
possibilità 
in termini 
di 
esperienze 
da 
provare 
e contenuti da sfruttare. 
Alla 
luce 
di 
queste 
caratteristiche, il 
Metaverso può essere 
definito come 
una 
sorta 
di 
Internet 
incorporato nell’esperienza 
umana 
quotidiana: 
una trasposizione 
della realtà fisica in una dimensione virtuale 
(3). 

Un 
Metaverso 
completo 
e 
funzionante 
è 
un 
qualcosa 
ancora 
ai 
limiti 
della 
fantascienza, ma 
potrebbe 
essere 
una 
componente 
importante 
del 
futuro tecnologico. 
gli 
attuali 
piani 
industriali 
delle 
più 
grandi 
compagnie 
high-tech 
verso esperienze 
virtuali 
sempre 
più immersive 
e 
coinvolgenti 
(es. realtà 
virtuale, 
realtà 
aumentata, 
interoperabilità 
dei 
sistemi, 
etc.), 
portano 
a 
credere 
che l’avvento del Metaverso possa non essere così lontano nel tempo. 

Occorre 
quindi 
iniziare 
a 
riflettere 
sui 
problemi 
giuridici 
ed etici 
legati 
al 
possibile 
avvento di 
una 
nuova 
dimensione 
in grado di 
collegare 
il 
mondo fisico 
a quello virtuale. 


Con il 
Metaverso, infatti, verranno introdotti 
degli 
avatar virtuali 
per interagire 
sulle 
varie 
piattaforme 
in internet 
e 
si 
passerà 
ad una 
realtà 
virtuale 
ancora più avanzata di quella già presente nei vari 
social network. 

Dopo la 
crisi 
di 
Facebook, con il 
Metaverso Mark zuckerberg ha 
voluto 
portare 
la 
sua 
azienda 
in un’area 
di 
business 
senza 
confini, un nuovo modello 
di economia (4). 


Si 
tratta 
di 
mondi 
digitali 
in 
cui 
non 
c’è 
limite 
agli 
acquisti, 
in 
cui 
il 
denaro 
è 
la 
criptovaluta, 
poiché 
la 
finanza 
nel 
Metaverso 
è 
alimentata 
dalla 
blockchain; 
mondi 
virtuali 
in cui 
chiunque 
può comprare 
o scambiare 
arte, musica, 
case, terreni 
o Token 
Non Fungibili 
(NFt) -definiti 
dal 
dizionario Collins 
parola 
dell’anno -che 
rappresentano «un certificato digitale 
unico, registrato in 
una 
blockchain, 
che 
viene 
utilizzato 
per 
registrare 
la 
proprietà 
di 
un 
bene 
come un’opera d’arte o un oggetto da collezione». 

Inoltre, 
sono 
sempre 
più 
comuni 
le 
transazioni 
di 
immobili 
nel 
Metaverso 
(5). 
tuttavia, c’è 
chi 
ci 
mette 
in guardia 
dai 
pericoli 
del 
Metaverso (6), esa


(3) 
M. 
FORtI, 
“il 
diritto 
del 
metaverso: 
quali 
regole 
per 
la 
nuova 
dimensione 
virtuale?” 
su 
https://www.cyberlaws.it/2021/il-diritto-del-metaverso/. 
(4) Si 
veda 
M. DAL 
CO 
e 
A. LONgO, “metaverso, nuovo business 
della rete? Ecco gli 
scenari” 
su 
agendadigitale.eu. Nel 
frattempo, come 
alternativa 
al 
Metaverso di 
Facebook, anche 
Microsoft 
sta 
creando 
una sorta di metaverso, chiamato Mesh. 
(5) Si 
veda 
E. ROtOLO, “Sarà metaverso in mille 
settori: ecco tutte 
le 
possibilità di 
business”, su 
agendadigitale.eu. 
(6) Si 
veda 
N. PAtRIgNANI, “metaverso, rischio di 
un nuovo medioevo digitale”, su agendadigitale.
eu. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


minando 
gli 
aspetti 
più 
controversi 
di 
questa 
innovazione, 
che 
un 
po’ 
come 
Lucignolo 
di 
Collodi, 
rischia 
di 
spingerci 
verso 
il 
“nuovo 
paese 
dei 
balocchi”, 
dove rischiamo di diventare tutti asini. 

Si 
pensi 
alla 
promessa 
di 
giochi 
e 
intrattenimenti 
senza 
fine, unita 
all’offerta 
speciale 
di 
caschi, visori 
e 
Smartglasses 
per entrare 
nel 
nuovo mondo, 
un 
mondo 
virtuale 
con 
intrattenimenti 
senza 
limiti, 
si 
tratta 
di 
un’attrazione 
irresistibile, soprattutto per i più giovani. 

Il 
primo aspetto controverso del 
Metaverso è 
quello riferibile 
alla 
mancanza 
di 
interoperabilità 
e 
di 
standard, perché 
se 
ognuno costruisce 
il 
suo Metaverso, 
avremo 
«tanti 
“giardini 
recintati” 
non-comunicanti, 
ciascuno 
dominato dal “barone” di turno, un nuovo medioevo digitale». 

Un altro aspetto critico è 
il 
seguente: 
quali 
conseguenze 
fisiche 
provoca 
l’uso 
di 
tutti 
questi 
nuovi 
dispositivi? 
Si 
pensi 
ai 
problemi 
agli 
occhi 
che 
queste 
tecnologie 
possono portare, oltre 
alla 
nausea 
e 
alle 
vertigini. Non c’è 
sincronizzazione 
tra 
gli 
stimoli 
“percepiti” 
sensorialmente 
e 
l’esperienza 
fisica 
“vissuta” 
dal 
corpo 
(chinetosi). 
Si 
pensi 
al 
fenomeno 
dell’“addiction”, 
termine 
inglese 
che 
sta 
ad 
indicare 
la 
dipendenza 
dal 
mondo 
virtuale, 
del 
c.d. 
pruning, 
ossia 
potatura 
neuronale 
nel 
cervello 
delle 
giovani 
generazioni, 
dotato 
di 
maggiore 
plasticità, 
o 
all’“effetto 
dopamina”, 
nel 
senso 
che 
il 
mondo 
digitale 
produce 
la 
stessa 
dipendenza 
di 
una 
sostanza 
stupefacente 
o 
all’ 
“effetto 
Flynn”, ossia 
l’abbassamento delle 
facoltà cognitive 
delle 
nuove 
generazioni, 
dovuto all’uso eccessivo dello strumento digitale. 


Altro aspetto controverso è 
quello sociale: 
riusciremo a 
distinguere, tra 
le 
persone 
intorno a 
noi, chi 
è 
reale/fisico e 
chi 
è 
invece 
semplicemente 
connesso? 
Andando 
oltre 
il 
test 
di 
turing 
e 
delle 
leggi 
di 
Asimov, 
il 
metaverso 
potrà 
ridurre 
l’uomo 
ad 
un 
robot, 
creando 
degli 
automatismi 
nei 
comportamenti 
e 
nelle 
relazioni 
sociali 
“c.d. 
determinismo 
tecnologico”? 
Il 
termine 
“robot” 
deriva 
dalla 
lingua 
ceca 
e 
significa 
letteralmente 
“lavoro 
forzato”, 
quasi 
evocando il 
binomio servo-padrone 
della 
Fenomenologia 
dello Spirito 
di 
Hegel. La 
conoscenza 
umana, in questo modo, diventerà 
“irrelata” 
e 
non 
“correlata”? 


Secondo Zuboff, docente 
della 
Harvard Business 
School, urge 
un intervento 
normativo: 
«internet 
come 
mercato 
auto-regolante 
si 
è 
rivelato 
un 
esperimento 
fallimentare», 
per 
cui 
la 
domanda 
da 
porre 
al 
legislatore 
è 
«Come 
dovremmo 
organizzare 
e 
governare 
gli 
spazi 
di 
informazione 
e 
comunicazione 
del 
secolo digitale 
in modo da sostenere 
e 
promuovere 
valori 
e 
principi 
democratici?
» (7). 


Insomma, 
come 
nel 
mondo 
fisico 
le 
sostanze 
che 
creano 
dipendenza 
sono 
strettamente 
regolamentate, 
così 
nel 
mondo 
virtuale 
i 
servizi 
digitali 
che 


(7) S. zUBOFF, 
“You are 
the 
object 
of 
a Secret 
Extraction operation”, The 
New York 
Times, 12 
novembre 2021. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


creano 
dipendenza 
dovrebbero 
essere 
limitati 
e 
il 
digitale 
dovrebbe 
essere 
utilizzato 
con molta 
saggezza 
e 
responsabilità 
«per 
aiutare 
l’umanità ad affrontare 
le 
immense 
sfide 
dell’antropocene 
come 
il 
cambiamento 
climatico 
e 
le 
pandemie». 


Inoltre, 
bisogna 
porre 
attenzione 
al 
modo 
in 
cui 
questa 
esperienza 
virtuale 
potrebbe influenzare il modo di percepire i nostri corpi. 

Il 
rischio paventato è 
quello di 
acuire 
le 
problematiche 
relative 
alla 
tossicità 
di 
Instagram 
e 
Facebook, già 
parzialmente 
affrontate 
e 
non ancora 
risolte, 
anzi 
bypassate. Per capire 
meglio di 
cosa 
si 
parla, bisogna 
avvicinarsi 
agli studi sulle neuroscienze (8). 

Ad 
affrontare 
questo 
argomento, 
ad 
esempio, 
è 
stata 
la 
Dottoressa 
Barbara 
Collevecchio, 
psicologa 
ad 
orientamento 
junghiano, 
autrice 
de 
“il 
male 
che 
cura”, 
che 
ci 
dice 
che 
«oggi 
grazie 
alla 
grande 
evoluzione 
delle 
ricerche 
scientifiche 
che 
sono 
state 
portate 
avanti 
soprattutto 
in 
questo 
ultimo 
decennio, 
dove 
le 
neuroscienze 
hanno addirittura aperto un nuovo filone 
che 
si 
chiama 
neuro 
psicanalisi, 
sappiamo 
che 
il 
corpo 
è 
fondamentale; 
il 
corpo 
e 
il 
cervello 
sono alla base del collegamento che c’è tra gli esseri umani». 

Partendo 
dall’origine 
della 
percezione 
corporea 
di 
sé, 
la 
psicologa 
illustra 
le 
cause 
profonde 
del 
rischio di 
c.d. dismorfofobia 
o dismorfismo, ossia 
il 
rischio 
che 
corrono oggi 
gli 
adolescenti 
quando passano (quotidianamente) dal 
reale 
al 
virtuale: 
«Sappiamo 
addirittura 
che 
la 
giunzione 
temporo-parietale 
destra 
è 
preposta 
alla 
percezione 
che 
il 
soggetto 
ha 
del 
proprio 
corpo 
ed 
è 
all’origine 
della 
sensazione 
corporea 
del 
sé 
e 
dipende 
dallo 
sviluppo 
delle 
aree 
corticali 
e 
subcorticali 
che 
sono influenzate 
dalle 
relazioni 
primarie. Le 
relazioni 
primarie 
sono quelle 
con il 
nostro care 
giver, quindi 
con i 
nostri 
familiari, 
soprattutto 
nei 
primi 
due 
anni, 
la 
mamma… 
La 
relazione 
madre 
-bambino, 
crea 
un 
network 
implicato 
nell’integrazione 
multisensoriali 
delle 
esperienze 
di 
sé 
e 
degli 
altri 
e 
quindi 
questo network 
e 
questa capacità di 
interrelazionarsi 
con gli 
altri 
crea anche 
la capacità di 
mentalizzare 
del 
bambino 
e quindi una primaria sintonizzazione intersoggettiva». 


Ciò 
significa 
che 
«c’è 
un’interrelazione 
molto 
importante 
tra 
natura, 
corpo 
e 
società 
e 
quindi 
innanzitutto 
le 
nostre 
relazioni 
primarie 
sono 
mediate 
dal 
corpo, cioè 
quanto la mamma e 
quanto i 
care 
giver 
primari 
sono capaci 
di 
relazionarsi 
a noi 
e 
di 
mediare 
le 
esigenze, i 
bisogni 
e 
le 
pulsioni 
che 
derivano 
dal 
corpo, che 
ci 
arrivano dal 
corpo. Se 
questa intermediazione 
e 
inter


(8) Il 
nuovo metaverso 
di 
zuckerberg, con i 
suoi 
avatar, potrebbe 
peggiorare 
la 
situazione 
di 
tossicità 
dei 
social, aumentando il 
problema 
del 
dismorfismo, un problema 
serio nei 
ragazzi 
che 
vivono 
nella 
realtà 
virtuale. Le 
alterazioni 
di 
immagini 
con filtri 
e 
modifiche 
virtuali 
alterano la 
percezione 
del 
nostro corpo creando dismorfofobia. Ce 
ne 
hanno parlato, preoccupati, due 
esperti, B. COLLEVECCHIO 
(autrice 
del 
libro 
“il 
male 
che 
cura”) 
e 
g. 
RIVA 
(autore 
del 
libro 
“Selfie. 
Narcisismo 
e 
identità”) 
su 
https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/noi-e-il-corpo-un-rapporto-in-crisi-nel-metaverso-chedicono-
gli-psicologi/. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


relazione 
c’è 
stata e 
questa sincronizzazione 
è 
stata sana, allora noi 
avremo 
anche 
una regolazione 
degli 
affetti 
sana. Se 
questo non avviene, abbiamo disregolazioni 
emotive 
che 
si 
riversano 
sul 
corpo, 
e 
purtroppo 
lo 
vediamo 
in 
tanti 
pazienti 
borderline 
o 
con 
problemi 
di 
dismorfofobia 
eccetera, 
dove 
ci 
sono somatizzazioni e addirittura dei veri e propri attacchi sul corpo». 


Un 
ruolo 
fondamentale 
lo 
rivestono 
il 
narcisismo 
e 
la 
spettacolarizzazione 
del 
proprio 
corpo: 
«È 
stato 
lanciato 
anche 
un 
allarme 
dal 
primario 
di 
neuropsichiatria 
dell’ospedale 
Bambin 
Gesù 
di 
roma: 
abbiamo 
veramente 
un 
aumento incredibile 
di 
giovani 
adolescenti 
che 
hanno questo problema e 
appunto 
le 
nuove 
ricerche 
ipotizzano che 
siano dovute 
ad un problema di 
regolazione 
degli 
affetti 
e 
dalle 
disfunzioni 
delle 
cure 
primarie 
di 
attaccamento, 
ma 
le 
ricerche 
ci 
dimostrano 
anche 
che 
appunto 
il 
corpo 
è 
legato 
anche 
al 
concetto 
di 
cultura 
perché 
la 
cultura 
e 
i 
mass-media 
di 
un 
periodo 
storico 
raccontano 
e 
immaginano un ideale 
di 
corpo e 
anche 
questo influenza come 
noi 
percepiamo il 
nostro corpo. Quindi 
non a caso in questo periodo di 
grande 
narcisismo 
e 
di 
spettacolarizzazione 
del 
corpo 
è 
possibile 
che 
queste 
continue 
visioni 
e 
narrazioni 
di 
corpi 
perfetti, 
postati 
sui 
social 
media 
anche 
dagli 
adolescenti, 
tutti 
questi 
filtri 
che 
possono modificare 
parti 
del 
corpo e 
deformare 
l’immagine, insomma tutto questo può acuire 
e 
portare 
ad una dis-percezione 
del 
proprio corpo e 
alla dismorfofobia e 
nei 
casi 
più gravi 
anche 
un attacco 
al corpo, vissuto come non all’altezza degli standard che ci sono». 


Secondo 
la 
psicologa 
Collevecchio, 
dunque, 
è 
fondamentale 
«rendersi 
conto che 
alla base 
delle 
nostre 
relazioni 
c’è 
anche 
il 
corpo e 
le 
nostre 
relazioni 
non possono non essere 
mediate 
da una corporeità vera, dove 
deve 
esserci 
un corpo vero, non uno idealizzato o disincarnato» (9). 


Ecco che 
invece 
ciò su cui 
punta 
il 
Metaverso con i 
suoi 
avatar è 
proprio 
l’opposto, un corpo virtuale, perfetto, idealizzato. Nell’era 
dei 
social 
ciò potrebbe 
avere conseguenze a vari livelli. 


Come 
ha 
sottolineato giuseppe 
Riva 
(10), professore 
di 
Psicologia 
della 
comunicazione 
all’Università 
Cattolica 
di 
Milano, 
autore 
del 
libro 
“Selfie. 
Narcisismo e 
identità”, «il 
successo dei 
filtri 
di 
instagram 
sottolinea il 
desiderio 
di 
moltissimi 
utenti 
di 
mostrare 
sui 
social 
un corpo perfetto» e 
la 
«capacità 
del 
metaverso di 
mostrare 
corpi 
esteticamente 
perfetti, che 
non sono 
soggetti 
all’invecchiamento, 
potrebbe 
spingere 
molti 
soggetti 
a 
decidere 
di 
apparire 
online 
solo con un corpo digitalmente 
ritoccato». Ed ecco che 
il 
pericolo 
è 
dietro 
l’angolo, 
dal 
momento 
che, 
con 
il 
Metaverso 
che 
sostituisce 
Instagram 
e 
Facebook, 
gli 
utenti 
potrebbero 
cominciare 
a 
desiderare, 
più 
che 


(9) Il 
testo intero dell’intervista 
è 
riportato da 
M. CAStIgLI, “Come 
il 
metaverso ci 
cambia il 
rapporto 
col corpo: nuovi rischi psicologici”, su agendadigitale.eu. 
(10) Sempre 
su agendadigitale.eu, M. CAStIgLI, “Come 
il 
metaverso ci 
cambia il 
rapporto col 
corpo”, cit. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


una 
copia 
di 
sé 
stessi, una 
rappresentazione 
idealistica. Si 
potrebbe 
arrivare 
ad avatar completamente 
diversi 
dalle 
persone 
fisiche, che 
giocano il 
ruolo di 
chi, 
a 
tutti 
i 
costi, 
vuole 
apparire 
perfetto 
agli 
occhi 
degli 
altri, 
con 
buona 
pace 
delle 
tendenze 
body 
positivity 
che, 
almeno 
negli 
ultimi 
tempi, 
facevano 
sperare 
in una 
presa 
di 
coscienza 
delle 
diversità 
che 
caratterizzano i 
corpi 
degli 
esseri 
umani. Il 
rischio è 
che 
alterare 
la 
propria 
identità 
digitale 
possa 
sfociare 
nella 
dismorfofobia. 


I diritti nel metaverso. 


È evidente 
che 
i 
mondi 
virtuali 
sono, come 
le 
comunità 
“reali”, luoghi 
in 
cui 
i 
soggetti 
interagiscono 
fra 
di 
loro, 
riproducendo 
un 
complesso 
sistema 
sia 
sociale 
sia 
economico e 
conservando al 
contempo la 
loro originaria 
natura 
di 
“formidabile mezzo di comunicazione in tre dimensioni” (11). 

Diventa, 
dunque, 
necessario 
coglierne 
gli 
aspetti 
particolari, 
capirne 
la 
vera 
natura 
e 
tentare 
un 
approccio 
giuridico 
volto 
a 
regolarizzare 
le 
attività 
umane che in essi si svolgono. 


Nel 
metaverso gli 
individui 
si 
organizzano, lavorano, studiano e 
spesso 
svolgono transazioni, guadagnando e 
investendo (12); 
sostanzialmente 
socializzano, 
come accade nella vita reale (13). 

Non 
si 
capisce, 
dunque, 
per 
quale 
motivo 
tutte 
queste 
attività 
umane 
debbano 
sfuggire 
al 
“controllo” 
e 
ai 
mezzi 
di 
tutela 
approntati 
dal 
diritto 
nella 
quotidiana realtà. 


(11) Si 
veda 
l’articolo di 
M.C. DE 
VIVO, “Viaggio nei 
metaversi 
alla ricerca del 
diritto perduto”, 
informatica e diritto, XXXV annata, Vol. XVIII, 2009, n. 1, pp. 191-225. 
(12) 
Il 
mercato 
digitale 
è 
in 
continua 
espansione. 
Sul 
nuovo 
fenomeno 
dell’acquisto 
di 
terreni 
virtuali 
vedi 
W. 
FERRI, 
“2,4 
milioni 
per 
500mq 
di 
cyber 
spazio: 
il 
metaverso 
e 
la 
corsa 
all’oro 
digitale”, 
su 
lindipendenteonline.it, 
che 
spiega 
bene 
questa 
“corsa 
all’oro 
in 
salsa 
digitale”: 
gli 
investitori 
accorrono 
oggi 
alle 
risorse 
offerte 
da 
metaverso 
per 
ottenere 
(in 
futuro) 
grandi 
ritorni 
economici. 
Non 
è 
una 
novità, 
ma 
la 
portata 
del 
fenomeno 
cresce 
quanto 
più 
si 
ingigantisce 
“la 
febbre 
per 
il 
digitale”. 
Lo 
dimostrerebbero 
i 
dati 
pubblicati 
da 
Dappradar, 
portale 
secondo 
cui 
il 
mercato 
dei 
terreni 
virtuali 
ha 
smosso 
circa 
100 
milioni 
di 
dollari 
sui 
soli 
The 
Sandbox, 
Decentraland, 
CryptoVoxels 
e 
Somnium 
Space. 
Non 
sarebbero 
solo 
piccoli 
investitori 
in 
ricerca 
di 
facili 
guadagni. 
Si 
parla 
anche 
di 
agenzie 
immobiliari 
virtuali, 
che 
comprano 
grandi 
lotti 
per 
scommettere 
su 
un 
loro 
aumento 
di 
valore 
nel 
prossimo 
futuro. 
The 
metaverse 
Group, 
nell’ultimo 
periodo, 
ha 
riscattato 
500 
metri 
quadrati 
digitali 
sulla 
piattaforma 
virtuale 
Decentraland: 
la 
transazione 
ha 
mosso 
2,43 
milioni 
di 
dollari. 
È 
il 
fenomeno 
dei 
latifondisti 
4.0, 
letteralmente 
in 
espansione; 
v. 
https://www.lindipendente.online/2021/12/04/24-milioni-
per-500mq-di-cyber-spazio-il-metaverso-e-la-corsa-alloro-digitale/. 
Interessante 
anche 
il 
tema 
dell’acquisto 
del 
mattone 
virtuale, 
v. 
A. 
gRECO, 
“il 
metaverso 
come 
il 
monopoli: 
scatta 
la 
corsa 
al 
mattone 
virtuale”, 
su 
repubblica.it; 
il 
fenomeno 
si 
sta 
sviluppando 
negli 
ultimi 
5 
mesi 
con 
metaverso, 
gli 
acquisti 
immobiliari 
con 
le 
criptovalute 
stanno 
diventando 
virtuali, 
v. 
https://www.repubblica.it/cronaca/
2021/12/06/news/il_metaverso_come_il_monopoli_scatta_la_corsa_al_mattone_virtuale329215917/. 
(13) 
Per 
non 
parlare 
dei 
matrimoni 
virtuali: 
lo 
scorso 
ottobre, 
una 
coppia 
si 
è 
sposata 
con 
una 
doppia 
celebrazione, una 
reale 
e 
un’altra 
virtuale, con i 
loro avatar che 
si 
sono scambiati 
gli 
anelli. I 
matrimoni 
nel 
metaverso non sono ancora 
riconosciuti 
ufficialmente 
e 
gli 
invitati 
per partecipare 
hanno 
dovuto scaricare un programma sul computer e creare il proprio avatar. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Le 
problematiche 
giuridiche 
legate 
all’assenza 
di 
uno Stato, alla 
aterritorialità, 
alla 
deresponsabilizzazione, 
tipiche 
del 
mondo 
di 
Internet, 
si 
ripropongono 
anche 
nei 
metaversi, 
dove 
diventerà 
più 
accentuato 
il 
fenomeno 
che 
Natalino Irti definisce di “atopia” e “anomia”. 


A 
volte 
è 
possibile 
applicare 
il 
diritto 
positivo 
in 
questi 
mondi 
digitali, 
come 
nel 
caso 
in 
cui 
si 
verificano 
illeciti 
penali. 
Si 
pensi 
alla 
pedopornografia, 
al 
vandalismo 
contro 
gli 
oggetti 
di 
proprietà 
degli 
utenti, 
alla 
violazione 
di 
domicilio 
(informatico), alla 
violazione 
del 
diritto d’autore, all’abuso e 
contraffazione 
di 
marchio, 
ai 
casi 
di 
ingiuria 
e/o 
diffamazione 
e 
infine 
all’abuso 
e 
furto 
di 
identità. 
Le 
problematiche 
inerenti 
all’ambito 
privatistico, 
come 
quelle 
legate 
ad attività 
lavorative 
o commerciali 
online, sono le 
più difficili 
da 
regolamentare, 
mentre 
restano confinate 
nel 
fantadiritto alcune 
ipotesi 
decisamente 
speciali, 
come 
ad 
esempio 
quelle 
legate 
alla 
figura 
dell’avatar, 
e 
la 
difficoltà di individuare il suo ruolo nell’effimero mondo virtuale. 


I metaversi 
suscitano interesse 
anche 
da 
un punto di 
vista 
medicolegale. 
Se 
da 
un 
lato 
l’analisi 
del 
rapporto 
tra 
individuo 
e 
il 
proprio 
avatar 
può 
portare 
ad evidenziare 
vere 
e 
proprie 
forme 
di 
dipendenza 
da 
web e 
da 
MMORPg, 
dall’altro 
lato 
appare 
evidente 
il 
legame 
che 
può 
instaurarsi 
tra 
un 
soggetto 
diversamente 
abile 
e 
il 
proprio 
avatar. 
Per 
il 
soggetto 
diversamente 
dotato 
a 
volte 
l’alter 
ego 
digitale 
può 
rappresentare 
una 
sorta 
di 
prolungamento 
della 
propria 
fisicità, uno strumento particolarmente 
adeguato a 
svolgere 
attività 
e 
funzioni 
che 
altrimenti 
gli 
sarebbero 
preclusi, 
permettendogli 
di 
accedere 
all’interno 
della 
comunità 
virtuale 
con 
particolare 
facilità, 
sicuramente 
maggiore 
rispetto 
al suo inserimento nel mondo reale. 


tutto ciò porta 
a 
chiedersi 
che 
natura 
abbiano i 
metaversi, se, cioè 
debbano 
intendersi 
come 
“semplici” 
strumenti 
di 
gioco 
oppure 
come 
strumenti 
di 
comunicazione 
e 
di 
interazione 
sociale 
dai 
quali 
i 
soggetti 
a 
rischio (disabili 
e 
minori) 
debbono 
essere 
particolarmente 
tutelati. 
Si 
pensi 
al 
gaming 
come 
strumento 
di 
“grooming” 
(ossia 
di 
“adescamento 
”)o 
“hunting 
grounds”, 
ossia 
terreni di caccia. 


Pur 
volendo 
minimizzare 
l’impatto 
che 
i 
metaversi 
hanno 
nella 
realtà, 
per 
la 
loro 
originaria 
natura 
ludica, 
è 
bene 
ricordare 
che 
il 
gioco 
è̀

, 
comunque, 
una 
forma 
primordiale 
di 
attività 
formativa. 
Second 
Life 
(SL) 
e 
gli 
altri 
metamondi 
appaiono sempre 
più simili 
a 
serious 
games, ossia 
a 
giochi 
ideati 
non solo per 
insegnare 
e 
imparare 
ma 
anche 
per 
sperimentare 
nuove 
forme 
di 
attività 
aziendali, 
per scopi 
medico-terapeutici, per effettuare 
sondaggi, per svolgere 
particolari 
forme 
di 
comunicazione 
(ad 
esempio 
politica) 
e 
così 
via; 
diventano, 
cioè, 
ambienti 
(virtuali) 
in 
cui 
le 
aziende 
provano 
“nuove 
idee 
su 
scala 
ridotta” 
al 
fine 
di 
testare 
strategie 
promozionali. 
È 
ormai 
diffuso 
l’utilizzo 
di 
questi 
strumenti 
in 
3D 
per 
scopi 
di 
formazione 
a 
distanza 
e 
di 
studio, 
dove 
la 
presenza 
di 
avatar e 
la 
riproduzione 
di 
ambienti 
realistici 
contribuiscono ad “umanizzare” 
il 
software 
e 
l’ambiente 
informatico in genere. Molte 
sono le 
Università 



CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


in 
SL 
e 
con 
la 
loro 
presenza 
hanno 
dato 
vita 
ad 
una 
nuova 
forma 
di 
e-learning. 


La 
natura 
informatica 
dei 
metaversi 
pone, inoltre, problematiche 
legate 
alla 
gestione 
e 
al 
corretto funzionamento della 
piattaforma 
e 
del 
software 
utilizzati 
per creare 
e 
gestire 
una 
società 
virtuale, ma 
soprattutto alle 
relative 
responsabilità 
per i possibili danni causati dal software. 


Il codice di Metaverso 
(14). 


Il 
mondo digitale 
ideato da 
metaverso suggerisce 
la 
domanda 
se 
è 
lecito 
tutto 
ciò 
che 
è 
tecnicamente 
possibile 
e 
se 
l’architettura 
tecnico-normativa 
con 
cui 
Facebook è 
trasmutato in metaverso è 
stata 
previamente 
approvata 
dalle 
autorità politiche. 


Se 
invece 
i 
regolatori 
pubblici 
aspettano 
di 
intervenire 
a 
valle, 
cioè 
a 
cose 
fatte, dobbiamo chiederci 
quali 
sono le 
effettive 
fonti 
del 
diritto in Internet. 
La 
risposta 
a 
questo quesito è 
stata 
data 
dai 
sostenitori 
del 
code-based approach, 
ad avviso dei 
quali 
la 
legge 
non 
è 
la fonte 
primaria del 
diritto digitale 
bensì 
lo è 
il 
code, cioè 
l’insieme 
dei 
software 
e 
degli 
hardware 
che 
regola 
il funzionamento di internet. 


Metaverso: code is law. 


Il 
code 
è 
una 
delle 
poche 
forze 
ad 
aver 
sfidato 
il 
dominio 
della 
legge 
nella 
regolamentazione 
del 
comportamento umano. Nel 
metaverso il 
confronto tra 
code e legge raggiungerà un livello completamente inedito. 


Meta 
è 
la 
società 
madre 
rinominata 
di 
Facebook, Instagram, WhatsApp 
e 
Oculus. Non limitato alla 
realtà 
virtuale, il 
CEO 
di 
Meta 
Mark zuckerberg 
definisce 
il 
metaverso 
come 
un 
Internet 
immersivo 
e 
incarnato 
nell’esperienza 
reale. Questa 
versione 
del 
metaverso segnala 
l’inizio di 
una 
profonda 
riforma 
delle 
funzioni 
economiche, sociali 
e 
giuridiche, aspirando a 
fondere 
definitivamente 
il mondo virtuale con quello fisico. 


Nel 
metaverso immaginato da 
zuckerberg le 
attività 
sociali 
e 
personali 
si 
sposteranno 
ulteriormente 
dalla 
realtà 
alla 
virtualità. 
tra 
gli 
estremi 
di 
questo 
continuum 
si 
trova 
la 
“realtà mista”, termine 
utilizzato per descrivere 
la 
fusione 
del 
mondo reale 
con i 
mondi 
virtuali. Allo stesso tempo, questo movimento 
globale 
verso la 
virtualità 
continuerà 
a 
sollevare 
interrogativi 
su come 
il 
comportamento 
umano 
può 
essere 
regolato 
all’interno 
di 
un 
framework 
contraddistinto 
da una continua tensione tra code e legge. 


La discussione sulla regolamentazione dei mondi virtuali non è nuova. 


Nel 
1996, 
il 
giudice 
Frank 
H. 
Easterbrook 
della 
Corte 
d’Appello 
del 
Settimo 
Circuito 
degli 
Stati 
Uniti 
suggerì 
di 
definire 
il 
diritto 
digitale 
come 
un 
segmento 
a 
sé 
stante 
degli 
studi 
giuridici. 
Un 
anno 
dopo, 
in 
un 
articolo 
intitolato 
"Lex 
Informatica", 
Joel 
Reidenberg, 
esperto 
di 
diritto 
delle 
tecnologie 
dell’informazione, 


(14) https://www.filodiritto.com/il-codice-di-metaverso. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


ha 
sostenuto 
e 
difeso 
l’impiego 
nel 
cyberspazio 
della 
lex 
informatica 
-un 
insieme 
di 
regole 
che 
disciplinano 
il 
trattamento 
delle 
informazioni 
digitali 
-al 
fine 
di 
offrire 
stabilità 
e 
prevedibilità 
alla 
socialità 
digitale 
in 
modo 
che 
i 
partecipanti 
abbiano 
sufficiente 
fiducia 
per 
far 
prosperare 
le 
loro 
comunità 
virtuali. 


Secondo 
Reidenberg, 
la 
legge 
e 
le 
policies 
governative 
hanno 
storicamente 
stabilito regole 
predefinite 
per la 
politica 
dell’informazione, comprese 
le 
regole 
costituzionali 
sulla 
libertà 
di 
espressione 
e 
i 
diritti 
di 
proprietà 
delle 
informazioni, 
ma 
per 
gli 
ambienti 
di 
rete 
e 
la 
società 
dell’informazione, 
la 
legge 
e 
la 
regolamentazione 
del 
governo 
non 
sono 
l’unica 
fonte 
di 
produzione 
di 
regole, poiché 
le 
capacità 
tecnologiche 
e 
le 
scelte 
di 
progettazione 
del 
sistema 
impongono regole ai partecipanti. 


Nel 
1999, 
l’avvocato 
e 
costituzionalista 
Lawrence 
Lessig 
ha 
sostenuto 
che 
la 
legge 
potrebbe 
dover rispondere 
allo sconvolgimento dei 
grandi 
valori 
giuridici 
causato dal 
code. E 
più recentemente, nel 
considerare 
la 
regolamentazione 
dei 
registri 
distribuiti 
(DLt), i 
giuristi 
Primavera 
De 
Filippi 
e 
Aaron 
Wright 
fanno 
riferimento 
a 
framework 
normativi 
privati 
che 
le 
blockchain 
creano 
e 
che 
porteranno 
all’espansione 
di 
un 
nuovo 
sottoinsieme 
di 
leggi 
chiamato 
Lex 
Cryptographia, 
cioè 
un 
insieme 
di 
regole 
amministrate 
attraverso 
contratti intelligenti 
self-execution, autonomi e decentralizzati. 

Metaverso: la lotta tra legge e code. 


L’architettura 
centralizzata 
del 
cyberspazio 
significa 
che 
gli 
organi 
di 
governo 
possono 
far 
rispettare 
le 
norme 
di 
legge 
alle 
aziende 
che 
operano 
online. 
Spostare 
le 
nostre 
attività 
commerciali 
e 
sociali 
in 
una 
realtà 
mista 
metterebbe 
il 
mondo 
fisico 
-dove 
i 
nostri 
ordinamenti 
giuridici 
esistono 
e 
prevalgono 
normativamente 
-contro 
il 
mondo 
virtuale, 
che 
è 
il 
regno 
del 
code. 
In 
quanto 
tale, 
lo spostamento delle 
nostre 
funzioni 
economiche 
e 
sociali 
verso la 
virtualità 
(sul 
continuum 
realtà 
-virtualità) 
richiederà 
una 
significativa 
risposta 
da 
parte 
dei nostri ordinamenti giuridici. 


Ad esempio, se 
il 
diritto dei 
consumatori 
deve 
proteggere 
efficacemente 
gli 
utenti 
da 
pratiche 
sleali 
o abusive 
nel 
metaverso, dovrà 
essere 
in grado di 
esaminare 
gli 
accordi 
commerciali 
con 
cui 
gli 
utenti 
effettuano 
transazioni 
nel 
metaverso 
e 
promuovono 
campagne 
di 
marketing 
che 
si 
svolgono 
interamente 
nel mondo virtuale. 


Nella 
realtà 
mista 
l’interazione 
tra 
utenti 
e 
le 
aziende 
nel 
metaverso può 
rendere 
ridondanti 
i 
termini 
scritti; 
i 
nostri 
ordinamenti 
giuridici 
potrebbero 
regolamentare 
le 
imprese 
attive 
nel 
metaverso per garantire 
che 
le 
regole 
di 
protezione 
dei 
consumatori 
siano 
recepite 
by 
design 
direttamente 
nel 
code, 
garantendo una 
conformità 
ab initio. Dovrebbe 
anche 
essere 
possibile 
proiettare 
informazioni 
obbligatorie 
precontrattuali 
in un ambiente 
di 
realtà 
mista, 
non necessariamente in forma scritta. 


Dal 
punto di 
vista 
dell’antitrust, le 
autorità 
di 
regolamentazione 
potrebbero 
essere 
in grado di 
attingere 
efficacemente 
nel 
metaverso per monitorare 



CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


le 
pratiche 
di 
mercato, 
per 
identificare 
comportamenti 
anticoncorrenziali 
e 
per 
garantire 
l’accesso alle 
strutture 
essenziali 
per i 
nuovi 
operatori 
del 
mercato. 
Ciò 
può 
comportare 
la 
regolamentazione 
dell’accesso 
al 
codice 
sorgente 
da 
parte delle autorità garanti della concorrenza. 


I 
raid 
all’alba 
(ovvero, 
indagini 
in 
loco 
senza 
preavviso 
da 
parte 
delle 
autorità 
antitrust 
alla 
ricerca 
di 
informazioni 
su comportamenti 
potenzialmente 
criminali) sono un importante 
strumento investigativo nell’arsenale 
delle 
autorità 
garanti 
della 
concorrenza, che 
quasi 
certamente 
vorrebbero avere 
a 
disposizione 
in un ambiente di realtà mista. 


La 
legge 
dovrebbe 
facilitare 
l’applicazione 
delle 
regole 
di 
concorrenza 
nell’interesse superiore degli utenti e per la tutela della concorrenza. 


Anche 
la 
transazione 
di 
risorse 
digitali 
rappresenterà 
una 
sfida 
significativa 
per la 
regolamentazione 
nel 
metaverso. I token non fungibili 
(NFt) sono 
risorse 
digitali 
che 
rappresentano 
la 
proprietà 
di 
un 
oggetto 
o 
un 
contenuto 
unico aventi 
la 
capacità 
di 
generare 
nuovi 
ecosistemi 
aziendali 
nel 
metaverso. 
Le 
NFt 
musicali 
o 
artistiche, 
ad 
esempio, 
possono 
prevedere 
pagamenti 
di 
royalty automatizzati sul token trasferito tra gli utenti. 


La 
legge 
dovrebbe 
garantire 
che 
la 
proprietà 
e 
la 
transazione 
nelle 
NFt 
possano essere 
esecutive 
e 
reali, poiché 
gli 
utenti 
virtuali 
potrebbero essere 
in 
grado di 
eludere 
l’esecutività 
a 
seconda 
della 
loro posizione 
o delle 
impostazioni 
di identità. 


Nell’ultimo 
decennio, 
l’attività 
sui 
social 
media 
ha 
avuto 
un 
profondo 
impatto 
sui 
processi 
elettorali 
e 
su 
altri 
processi 
democratici 
in 
tutto 
il 
mondo. 
Attingendo a 
queste 
esperienze, la 
propagazione 
di 
contenuti 
falsificati 
e 
dannosi 
nel 
metaverso -comprese 
le 
notizie 
false 
e 
l’uso di 
“deep fake” 
o persino 
la 
propaganda 
sponsorizzata 
dallo 
stato 
-dovrà 
essere 
affrontata 
con 
decisione 
per proteggere lo stato di diritto, la coesione sociale e le nostre democrazie. 


L’evoluzione 
giuridica 
per 
l’era 
del 
metaverso 
comporterebbe 
l’inserimento 
del 
diritto nel 
code 
in modo da 
bilanciare 
i 
diritti 
fondamentali, come 
la libertà di espressione con la tutela dell’interesse pubblico. 


Mentre 
i 
mondi 
virtuali 
performano la 
nostra 
realtà 
fisica, il 
code 
su cui 
girano questi 
mondi 
può prevalere 
sulla 
legge. La 
legge 
dovrà 
raccogliere 
la 
sfida 
di 
garantire 
che 
il 
code 
aderisca 
alle 
regole 
applicabili 
nel 
mondo fisico 
e nel cyberspazio convenzionale. 


In 
alternativa, 
il 
code 
può 
assurgere 
a 
ordinamento 
normativo 
prevalente 
nel 
metaverso, 
privo 
di 
qualsiasi 
collegamento 
con 
gli 
ordinamenti 
giuridici 
positivi. 
Un 
tale 
cambiamento 
vedrà 
gli 
attori 
privati 
capaci 
potenzialmente 
di 
esercitare 
un 
controllo 
sui 
nostri 
corsi 
di 
azione 
nel 
metaverso 
e 
privarci 
delle 
protezioni 
sviluppate 
dai 
nostri 
ordinamenti 
giuridici 
nel 
corso 
dei 
secoli. 


Dato che 
l’attività 
del 
metaverso corrisponderà 
a 
individui 
e 
aziende 
esistenti 
nel 
mondo fisico, il 
code 
del 
metaverso concorrerà 
con il 
potere 
normativo 
dei 
nostri 
ordinamenti 
giuridici. 
Le 
leggi 
esistenti 
non 
saranno 
sempre 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


adatte 
alle 
circostanze 
che 
si 
verificheranno nella 
virtualità 
e 
sarà 
necessario 
sviluppare una nuova legislazione. 


Allo 
stesso 
tempo, 
la 
regolamentazione 
non 
dovrebbe 
soffocare 
i 
benefici 
che gli ambienti di realtà mista potrebbero apportare nelle nostre vite. 


tenendo presente 
quanto sopra, il 
modo più efficace 
di 
regolare 
il 
comportamento 
nel 
metaverso sarà 
quello di 
garantire 
che 
gli 
elementi 
e 
le 
componenti 
della 
realtà 
mista 
soddisfino 
determinati 
standard 
obbligatori 
sui 
quali 
esiste 
un consenso generale. tale 
obiettivo richiederà 
la 
cooperazione 
tra 
le 
autorità 
di 
regolamentazione 
e 
le 
società 
tecnologiche. gli 
ordinamenti 
giuridici 
che 
non si 
adegueranno alle 
sfide 
poste 
dal 
metaverso rischieranno di 
essere 
soppiantati dalla governance del code. 


In definitiva, la 
questione 
potrebbe 
non essere 
più se 
il 
codice 
o la 
legge 
regoleranno 
la 
condotta 
nel 
metaverso, 
ma 
piuttosto 
se 
la 
legge 
dovrà 
allinearsi 
al code o essere sostituita da esso. 


Metaverso e medicina (15). 


Nel 
campo 
della 
medicina 
è 
nato 
il 
concetto 
del 
gemello 
digitale, 
una 
sorta 
di 
avatar 
gemello 
di 
un 
paziente 
che 
si 
alimenta 
da 
diverse 
fonti 
di 
dati 
sanitari, 
come 
immagini 
radiologiche, 
parametri 
personali, 
risultati 
di 
test 
di 
laboratorio 
e 
genetici 
che 
possono 
aiutare 
in 
una 
diagnosi. 
tramite 
tali 
dati, 
simula 
lo 
stato 
di 
salute 
e 
deduce 
eventuali 
parametri 
mancanti 
dai 
modelli 
statistici. 


La 
società 
Q 
Bio 
-ad 
esempio 
-è 
riuscita 
a 
creare 
un 
“gemello 
digitale” 
di 
una 
persona 
che 
combina 
genetica, 
chimica, 
anatomia, 
stile 
di 
vita 
e 
anamnesi 
della 
persona 
stessa. 
L’obiettivo 
è 
monitorare 
la 
salute 
di 
un 
paziente 
attraverso 
un 
modello 
virtuale 
scalabile 
che 
possa 
essere 
condiviso 
in 
modo 
sicuro 
con 
medici 
e 
specialisti 
di 
tutto 
il 
mondo. 
tale 
gemello 
digitale 
è 
stato 
ottenuto 
usando 
una 
piattaforma 
di 
“digital 
twin” 
chiamata 
Q 
Bio 
gemini. 
Il 
suo 
cuore 
è 
lo 
scanner 
self-driving 
Mark 
I 
che 
“digitalizza” 
l’intero 
corpo 
in 
15 
minuti 
senza 
emettere 
radiazioni 
e 
fornendo 
un’immagine 
simile 
a 
quella 
di 
una 
risonanza 
magnetica, 
ma 
in 
3D. 
In 
tal 
modo, 
si 
ottiene 
un 
gemello 
digitale 
di 
tutti 
gli 
organi 
della 
persona, 
che 
possono 
anche 
essere 
analizzati 
singolarmente. 
Le 
informazioni 
raccolte 
possono 
adattarsi 
in 
tempo 
reale 
ai 
cambiamenti 
nell’anatomia 
e 
nella 
biochimica 
dell’individuo, 
perché 
ponderate 
in 
funzione 
dello 
stile 
di 
vita, 
dell’anamnesi 
e 
dei 
fattori 
di 
rischio 
genetici 
(16). 


(15) 
“il 
nostro 
gemello 
digitale 
ci 
regalerà 
benessere 
e 
salute”, 
su 
https://www.healthtech360.it/salute-
digitale/un-gemello-digitale-per-monitorare-la-salute/. 
(16) Sul 
tema, si 
veda 
anche 
“il 
gemello digitale 
del 
corpo umano: la nuova frontiera della medicina 
personalizzata” 
su 
https://www.agendadigitale.eu/sanita/il-gemello-digitale-del-corpo-umanola-
nuova-frontiera-della-medicina-personalizzata/. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


Il 
metaverso 
potrebbe 
avere 
un 
‘utilità 
anche 
nell’attivazione 
dei 
c.d. 
Neuroni 
gPS. 


Il 
prof. giuseppe 
Riva, professore 
ordinario di 
Psicologia 
generale 
del-
l’Università 
Cattolica 
del 
Sacro Cuore 
di 
Milano, ha 
messo in evidenza 
come 
nel 
campo psicologico il 
c.d. “ghetto digitale” 
in cui 
i 
ragazzi 
si 
stanno formando 
attraverso “filter bubbles” 
(bolle 
informative 
e 
profilazione) porterà 
il 
loro cervello a 
non evolversi 
verso quello che 
i 
fisici 
chiamano “l’adiacente 
possibile”. 
Si 
parla 
a 
tal 
proposito 
di 
Cyberpsicologia 
che 
poggia 
sulla 
nozione 
di 
“neuroni 
luogo”o 
“neuroni 
space 
gPS”, 
scoperti 
dai 
coniugi 
Moser 
vincitori 
del 
premio 
Nobel 
della 
medicina 
nel 
2014. 
tali 
neuroni 
si 
attivano 
quando 
siamo in un luogo fisico, che 
diventa 
luogo di 
identificazione 
della 
persona 
“c.d. suitas”, “Bildung del 
sé”, costruzione 
della 
propria 
identità 
fisica. tali 
neuroni 
gPS 
non si 
attivano quando siamo in un ambiente 
virtuale, come 
internet. 
Allo 
stesso 
modo 
la 
c.d. 
“sincronizzazione 
delle 
onde 
cerebrali” 
avviene 
in 
una 
realtà 
fisica: 
l’unica 
tecnologia 
che 
può 
attivare 
tali 
processi 
è 
la 
“realtà 
virtuale 
immersiva”. 
È 
questa 
la 
ragione 
per 
cui 
il 
metaverso 
avrà 
un 
notevole 
sviluppo, perché 
recupera 
nel 
mondo digitale 
virtuale 
la 
c.d. “fisicità”. Sembra, 
quasi, che 
il 
metaverso sintetizzi 
in 
sé 
la res 
extensa 
e 
la res 
cogitans 
di 
cui 
parlava Cartesio nelle 
“Meditazioni 
metafisiche” del 
1641. Per cui 
se 
Cartesio affermava 
“cogito ergo sum”, oggi 
con il 
metaverso possiamo affermare 
“videor 
ergo sum”. grazie 
all’elemento della 
“fisicità” 
che 
il 
meta-
verso riesce 
a 
recuperare 
nella 
dimensione 
digitale, secondo alcuni 
neurologi 
sarà 
possibile 
attivare 
facoltà 
cognitive 
perse 
a 
causa 
di 
trauma 
cranici. Con il 
trauma 
cranico, infatti, l’assone 
si 
stacca 
dal 
neurone 
che 
tende 
a 
morire. La 
realtà 
virtuale 
immersiva, se 
ben calibrata 
e 
strutturata 
per scopo terapeutici, 
potrebbe 
aiutare 
a 
recuperare 
le 
facoltà 
sensoriali 
nella 
zona 
temporale: 
la 
memoria, 
infatti, è 
legata 
non solo all’immagine 
visiva, ma 
anche 
a 
quella 
sensoriale. 
Da 
questo 
punto 
di 
vista, 
il 
metaverso 
potrebbe 
avere 
un’utilità 
fondamentale anche per le patologie neurodegenerative. 


Metaverso e reati 
(17). 


Il 
Metaverso potrà 
rappresentare 
un nuovo mezzo per commettere 
reati? 
Potrebbe 
cambiare 
i 
concetti 
di 
imputabilità 
e 
colpevolezza? 
Sarà 
uno 
strumento 
di 
brain 
enhancement? 
Potrà 
alterare 
la 
percezione 
delle 
nostre 
azioni? 


Lo 
scorso 
ottobre 
Mark 
zuckerberg 
annunciava 
il 
cambiamento 
che 
coinvolgeva 
le 
sue 
aziende: 
difatti 
l’azienda 
Facebook 
cambia 
il 
suo 
nome 
in 
Meta 
ed 
è 
da 
qui 
che 
si 
inizia 
a 
parlare 
di 
Metaverso. 
Il 
Metaverso, 
come 
si 
è 
letto 
in 
questi 
mesi 
sui 
giornali, 
è 
“una 
terza 
dimensione 
ibrida 
in 
cui 
l’online 
e 
offline 
si 
completano 
a 
vicenda 
e 
creano 
una 
realtà 
che 
va 
oltre 
l’immaginazione”. 


(17) M.E. ORLANDINI 
“Social 
network 
e 
molestie 
online: il 
metaverso come 
nuovo “locus 
commissi 
delicti”?”, su https://www.iusinitinere.it/metaverso-e-palpeggiamento-40977. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


L’obiettivo del 
Metaverso è 
quello di 
far vivere 
delle 
esperienze 
coinvolgenti 
a 
quelle 
persone 
che 
nel 
mondo 
reale 
non 
potrebbero 
trovarsi 
nella 
stessa 
città 
per ragioni 
geografiche 
e 
soprattutto dà 
la 
possibilità 
a 
questi 
di 
vivere 
delle emozioni che nella realtà difficilmente potrebbero provare. 


Il 
Metaverso, invero, è 
un luogo al 
quale 
si 
accede 
virtualmente 
tramite 
un proprio ologramma, il 
quale, anche 
in ottica 
non troppo futura, permetterà 
altresì 
ai 
lavoratori 
di 
recarsi 
in 
ufficio 
e 
pianificare 
delle 
riunioni, 
rinunciando 
alle 
lungaggini 
e 
ai 
ritardi 
dovuti 
al 
traffico e 
ad altri 
mezzi 
di 
trasporto: 
insomma 
si potrà pensare ad un nuovo modo di lavorare in smart working. 


Seppur vero che 
questa 
nuova 
realtà 
faciliterà 
i 
rapporti 
umani 
e 
migliorerà, 
in 
un 
certo 
senso, 
lo 
stile 
di 
vita 
di 
alcuni 
di 
noi, 
non 
lo 
si 
può 
considerare 
un vero e 
proprio locus 
amoenus, in quanto, anche 
in questa 
nuova 
realtà 
si 
è 
visto l’insorgere 
di 
fattispecie 
criminali, primo tra 
tutti 
di 
un’ipotesi 
di 
reato 


p.p. ai sensi dell’art. 609 
bis 
c.p. (le molestie sui social). 
Il 
Metaverso, 
purtroppo, 
non 
potrà 
essere 
considerato 
un’isola 
felice 
nella 
quale 
non si 
perfezioneranno delle 
fattispecie 
criminali. Invero, proprio ad un 
evento inaugurale 
di 
questo nuovo universo è 
stato denunciato da 
un’utente 
un palpeggiamento avvenuto dinanzi 
ad una 
platea 
di 
persone 
che 
aizzavano 
il 
palpeggiatore 
anziché 
bloccarlo. 
È 
stato, 
pertanto, 
disposto 
nel 
sistema 
Oculus 
che gli 
Avatar debbano essere distanti tra loro di almeno un metro. 


Orbene, quanto è 
accaduto non è 
troppo lontano da 
quanto accade 
nella 
realtà 
fisica, o anche 
detta 
“normale”: 
in tale 
ipotesi, tuttavia, come 
è 
noto si 
procederà, 
nel 
caso 
in 
cui 
la 
giurisdizione 
fosse 
italiana, 
ad 
un’incriminazione 
ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
dell’art. 609 bis 
c.p.; 
nel 
caso che 
ci 
occupa, invece, 
come è possibile regolare un reato consumato in un’altra dimensione? 


È 
palmare 
che 
questa 
nuova 
dimensione 
abbisogna 
di 
un proprio ordinamento 
giuridico o, quantomeno, che 
consenta 
alle 
Autorità 
Competenti, di 
regolare 
e 
redimere 
qualsivoglia 
controversia 
che 
possa 
esservi 
in 
uno 
spazio 
non regolato dai 
nostri 
codici 
“tradizionali”, lo stesso zuckerberg è 
consapevole 
di questa necessità. 


Per ora, data 
la 
mancanza 
di 
un sistema 
legislativo atto a 
regolare 
il 
Metaverso, 
risulterà 
necessario fare 
riferimento ai 
principi 
del 
nostro codice 
penale 
letti 
in combinato disposto alle 
leggi 
che 
regolano la 
privacy, al 
fine 
di 
ottenere nell’immediato una prima tutela. 


tuttavia, come 
già 
suggerito da 
due 
ricercatrici 
della 
University di 
Washington, 
sarebbe 
opportuno ideare 
una 
“Safe 
zone” 
la 
quale 
banni 
l’utente 
“molestatore” 
dalla 
realtà 
virtuale, 
per 
rendere 
non 
soltanto 
più 
sicura 
la 
realtà 
virtuale, 
ma 
anche 
accessibile 
agli 
utenti 
senza 
alcuna 
preoccupazione 
che 
possa riguardare l’astratta possibilità di vedersi vittima di un reato. 


La 
nascita 
del 
Metaverso, 
si 
deve 
purtroppo 
ammettere, 
non 
fa 
altro 
che 
evidenziare 
le 
carenze 
del 
nostro 
sistema 
legislativo, 
il 
quale 
non 
ha 
acquisito 
una 
vera 
consapevolezza 
di 
quelli 
che 
possono 
essere 
le 
fattispecie 
criminali 



CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


che 
si 
perfezionano 
online 
e 
di 
cui, 
purtroppo, 
vi 
è 
ancora 
un 
vuoto 
legislativo. 


Se 
il 
nostro sistema 
risulta 
essere 
carente, o comunque 
in via 
di 
espansione 
per ciò che 
riguarda 
i 
reati 
come 
il 
cyberbullismo o il 
riciclaggio di 
denaro 
nel 
dark 
web, 
sicuramente 
dovrà 
velocizzare 
e 
dare 
una 
spinta 
legislativa 
volta 
a 
tutelare 
anche 
le 
fattispecie 
criminali 
che 
si 
perfezioneranno in questa 
nuova realtà (18). 


Il 
metaverso 
sembra 
rappresentare 
un 
momento 
di 
“osmosi” 
tra 
la 
dimensione 
reale 
e 
la 
dimensione 
digitale: 
è 
importante 
che 
resti 
fermo il 
principio 
“human loop”, affinchè 
la 
realtà 
immersiva 
non diventi 
uno strumento o uno 
scudo per compiere 
frodi 
o per commettere 
reati. Non esiste 
una 
tecnologia 
buona 
e 
una 
tecnologia 
cattiva, 
ma 
l’uso 
in 
concreto 
ne 
determina 
il 
valore 
Wertebegreiff. 
È 
sempre 
l’uomo 
a 
determinare 
la 
direzione 
positiva 
o 
negativa 
dello sviluppo tecnologico. 


(18) Nuovi 
libri 
usciti 
sul 
tema: 
g. CASSANO, B. tASSONE, “Diritto industriale 
e 
diritto d’autore 
nell’era 
digitale”, 
giuffré, 
2022; 
R. 
gIORDANO, 
A. 
PANzAROLA, 
A. 
POLICE, 
S. 
PREzIOSI, 
M. 
PROtO 
(a 
cura di), “il diritto nell’era digitale. Persona, mercato, amministrazione, Giustizia”, giuffré, 2022. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


La cybersicurezza nazionale: 
la nuova frontiera della difesa dello Stato 


Gaetana Natale* 


Difendere 
i 
confini 
del 
proprio 
Stato 
significa 
oggi 
difendere 
lo 
spazio 
cibernetico: 
il 
passaggio 
dal 
territorio 
al 
cloud 
ci 
impone 
di 
innalzare 
il 
livello 
di 
alert, in quanto il 
diffondersi 
delle 
connessioni 
digitali 
ha 
aumentato la 
c.d. 
superficie di attacco. Ma in che modo e con quali strumenti? 


Di 
recente 
sono 
state 
fornite 
istruzioni 
precise 
alle 
pubbliche 
amministrazioni 
per cambiare 
le 
soluzioni 
dedicate 
alla 
sicurezza 
degli 
endpoint 
e 
al 
firewall 
che 
venivano fornite 
da 
provider legati 
alla 
Russia, i 
quali 
potrebbero 
non essere 
in grado di 
fornire 
aggiornamenti 
e 
soluzioni 
a 
causa 
della 
guerra 
in Ucraina, con possibili ripercussioni sul sistema di sicurezza nazionale. 


Si 
tratta 
di 
sei 
best 
practice 
da 
attuare 
per evitare 
rischi, contenute 
nella 
circolare 
numero 4336 del 
21 aprile 
2022 dell’Agenzia 
per la 
cybersicurezza 
nazionale 
(1) in attuazione 
dell’articolo 29, comma 
3 del 
cosiddetto Decreto 
Ucraina, cioè il decreto numero 21 del 21 marzo 2022. 


La 
norma 
prevede 
infatti 
che 
le 
PA 
sostituiscano i 
prodotti 
di 
sicurezza 
informatica 
di 
operatori 
legati 
alla 
Russia, in quanto, a 
causa 
del 
conflitto in 
corso, 
i 
provider 
potrebbero 
non 
aver 
la 
possibilità 
di 
“fornire 
servizi 
e 
aggiornamenti 
ai 
propri 
prodotti”, 
si 
legge 
nella 
circolare 
pubblicata 
in 
gazzetta 
Ufficiale il 26 aprile. 


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
giuridici 
Comparati, Consigliere 
giuridico 
del garante per la Privacy. 

Redazione 
delle 
note 
a cura della Dott.ssa Anna Pagano, ammessa alla pratica forense 
presso l’Avvocatura 
Generale dello Stato. 

(1) 
L'adozione 
del 
D.L. 
14 
giugno 
2021, 
n. 
82 
ha 
ridefinito 
l'architettura 
nazionale 
cyber 
e 
istituito 
l'Agenzia 
per la 
Cybersicurezza 
Nazionale 
(ACN) a 
tutela 
degli 
interessi 
nazionali 
nel 
campo della 
cybersicurezza. 
L’ACN 
è 
Autorità 
nazionale 
per 
la 
cybersicurezza 
e 
assicura 
il 
coordinamento 
tra 
i 
soggetti 
pubblici 
coinvolti 
nella 
materia. 
Promuove 
la 
realizzazione 
di 
azioni 
comuni 
volte 
a 
garantire 
la 
sicurezza 
e 
la 
resilienza 
cibernetica 
necessarie 
allo sviluppo digitale 
del 
Paese. Persegue 
il 
conseguimento del-
l’autonomia 
strategica 
nazionale 
ed 
europea 
nel 
settore 
del 
digitale, 
in 
sinergia 
con 
il 
sistema 
produttivo 
nazionale, 
nonché 
attraverso 
il 
coinvolgimento 
del 
mondo 
dell’università 
e 
della 
ricerca. 
Favorisce 
specifici 
percorsi 
formativi 
per lo sviluppo della 
forza 
lavoro nel 
settore 
e 
sostiene 
campagne 
di 
sensibilizzazione 
oltre 
che 
una 
diffusa 
cultura 
della 
cybersicurezza. Sull’istituzione 
dell’ACN 
si 
veda: 
A. MACRì, 
“agenzia per 
la cybersicurezza nazionale 
e 
PNrr” 
su actedmagazine.com;“agenzia per 
la Cybersicurezza 
Nazionale: 
cos’è 
e 
come 
funziona” 
su 
https://www.insic.it/privacy-e-sicurezza/informationsecurity/
al-via-lagenzia-per-la-cybersicurezza-nazionale/;“agenzia 
per 
la 
cybersicurezza 
nazionale: 
via 
libera 
del 
Governo 
Draghi” 
su 
https://www.ancdv.it/web/index.php?option=com_content&view=article&
id=724:acn-agenzia-per-la-cybersicurezza-nazionale-via-libera-del-governodraghi&
catid=114&itemid=1180;“Come 
cambia 
la 
sicurezza 
cybernetica 
in 
italia” 
su 
https://www.cybersecitalia.it/agenzia-cybersicurezza-nazionale-ecco-il-logo-sito-web-e-al-viacampagna-
reclutamento-cyber-defender/15919/. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


All’origine 
della 
circolare 
c’è 
un 
approccio 
risk 
based: 
sono 
individuate 
sei 
buone 
pratiche 
da 
realizzare 
immediatamente, 
ma 
soprattutto 
invita 
le 
PA 
ad 
agire 
sia 
nel 
controllo 
di 
quanto 
in 
esercizio 
che 
nell’acquisto 
di 
nuove 
tecnologie, 
con 
metodi 
risk 
based, 
ossia 
partendo 
sempre 
da 
una 
analisi 
del 
rischio. 


Con il 
Decreto Ucraina, relativo a 
“misure 
urgenti 
per 
contrastare 
gli 
effetti 
economici 
e 
umanitari 
della crisi 
ucraina”, il 
governo ha 
evidenziato la 
necessità 
di 
rafforzare 
le 
difese. In particolare, il 
citato comma 
3 dell’articolo 
29 del 
decreto prevede 
per le 
PA 
la 
“diversificazione 
dei 
prodotti 
di 
sicurezza 
informatica 
in 
uso” 
forniti 
dai 
provider 
legati 
alla 
Russia, 
“al 
fine 
di 
prevenire 
pregiudizi 
alla sicurezza delle 
reti, dei 
sistemi 
informativi 
e 
dei 
servizi 
informatici”. 
Effetti 
che 
possono 
essere 
conseguenza 
dell’impossibilità, 
da 
parte 
dei 
provider, 
di 
aggiornare 
le 
soluzioni 
o 
fornire 
i 
propri 
servizi, 
proprio 
a 
causa della guerra. 


La 
circolare 
spiega 
che 
i 
prodotti 
di 
cui 
si 
parla 
nel 
decreto sono quelli 
relativi a: 


- endpoint security, compresi antivirus, antimalware ed EDR 
-WAF 
-web application firewall. 
In particolare, vengono citati 
nella 
circolare 
i 
prodotti 
delle 
società 
Kaspersky 
Lab 
(2), 
group 
IB 
e 
i 
prodotti 
di 
Positive 
technologies 
rispettivamente 
nel 
comma 
3 dell’articolo 29 alla 
lettera 
A 
per le 
prime 
due 
aziende 
e 
alla 
lettera 
B per la terza società. 

Le sei raccomandazioni dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. 

La 
circolare 
riporta 
sei 
raccomandazioni 
per “adottare 
tutte 
le 
misure 
e 
le 
buone 
prassi 
di 
gestione 
di 
servizi 
informatici 
e 
del 
rischio cyber 
e, in particolare, 
di 
tenere 
conto di 
quanto definito dal 
Framework 
nazionale 
per 
la 
cybersecurity 
e 
la data protection, del 
2019, realizzato dal 
Centro di 
ricerca 
di 
cyber 
intelligence 
and information security 
(CiS) dell’Università Sapienza 
di 
roma 
e 
dal 
Cybersecurity 
national 
lab 
del 
Consorzio 
interuniversitario 
nazionale 
per 
l’informatica (CiNi), con il 
supporto dell’autorità garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
del 
Dipartimento delle 
informazioni 
per 
la sicurezza” 
(3). 

(2) La 
società 
Kaspersky Lab, fondata 
in Russia 
nel 
1997 da 
Eugene 
e 
Natalya 
Kaspersky, è 
divenuta 
famosa 
nel 
mondo per i 
suoi 
sistemi 
antivirus. In questo momento storico, però, con il 
protrarsi 
della 
guerra 
in Ucraina 
l’affidabilità 
di 
tali 
sistemi 
è 
stata 
fortemente 
messa 
in discussione 
per il 
rischio 
che 
tale 
società 
venga 
sfruttata 
per diffondere 
malware 
o spyware 
all’interno delle 
infrastrutture 
in cui 
è 
istallato. 
Sul 
punto 
si 
vedano 
i 
seguenti 
articoli: 
“il 
caso 
Kaspersky 
ci 
racconta 
come 
siamo 
in 
pericolo 
(digitale)” 
su 
https://www.panorama.it/Tecnologia/cyber-security/kaspersky-russia-spionaggio-hacker; 
Per una 
prospettiva 
comparata: 
“Caso Kaspersky: le 
mosse 
di 
italia, Francia e 
olanda a confronto” 
su 
https://www.startmag.it/innovazione/caso-kaspersky-le-mosse-di-italia-francia-e-olanda-a-confronto/; 
“Kaspersky 
e 
software 
russi 
via 
dai 
dispositivi 
della 
Pa 
italiana, 
la 
circolare 
dell’aCN” 
su 
https://www.corriere.it/economia/cybersecurity-aziende-privati-evento/notizie/kaspersky-software-russivia-
dispositivi-pa-italiana-circolare-dell-acn-70ee28bc-c7ab-11ec-8e7f-1a021a80175d.shtml. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


(3) Circolare 
del 
21 
aprile 
2022, 
n. 
4336. 
Attuazione 
dell'articolo 
29, 
comma 
3, 
del 
decreto-legge 
21 
marzo 
2022, 
n. 
21. 
Diversificazione 
di 
prodotti 
e 
servizi 
tecnologici 
di 
sicurezza 
informatica. 
(22A02611) 
(gU 
Serie 
generale 
n. 
96 
del 
26-04-2022) 
su 
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/04/26/22a02611/sg. 
A) 
Premessa. 
“Con 
il 
decreto-legge 
21 
marzo 
2022, 
n. 
21, 
recante 
«Misure 
urgenti 
per 
contrastare 
gli 
effetti 
economici 
e 
umanitari 
della 
crisi 
ucraina», il 
governo ha 
ritenuto, tra 
l'altro, la 
straordinaria 
necessità 
e 
urgenza 
di 
assicurare 
il 
rafforzamento 
dei 
presidi 
per 
la 
sicurezza, 
la 
difesa 
nazionale, 
le 
reti 
di 
comunicazione 
elettronica 
e 
degli 
approvvigionamenti 
di 
materie 
prime. A 
tale 
riguardo, l'art. 29, comma 
1, del 
medesimo 
decreto-legge, 
prevede 
che, 
al 
fine 
di 
prevenire 
pregiudizi 
alla 
sicurezza 
delle 
reti, 
dei 
sistemi 
informativi 
e 
dei 
servizi 
informatici 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
di 
cui 
all'art. 
1, 
comma 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 marzo 2001, n. 165, derivanti 
dal 
rischio che 
le 
aziende 
produttrici 
di 
prodotti 
e 
servizi 
tecnologici 
di 
sicurezza 
informatica 
legate 
alla 
Federazione 
Russa 
non siano in grado di 
fornire 
servizi 
e 
aggiornamenti 
ai 
propri 
prodotti, in conseguenza 
della 
crisi 
in Ucraina, le 
medesime 
amministrazioni 
procedano 
tempestivamente alla diversificazione dei prodotti in uso. 
Più nello specifico, il 
medesimo art. 29, secondo il 
combinato disposto dei 
commi 
1 e 
3, prevede 
che 
l'individuazione 
dei 
prodotti 
e 
servizi 
da 
diversificare 
avvenga 
in relazione 
alle 
categorie 
indicate 
con 
circolare 
dell'Agenzia 
per la 
cybersicurezza 
nazionale 
tra 
quelle 
volte 
ad assicurare 
le 
seguenti 
funzioni 
di 
sicurezza: 
a) 
sicurezza 
dei 
dispositivi 
(endpoint 
security), 
ivi 
compresi 
applicativi 
antivirus, 
antimalware 
ed «endpoint detection and response» (EDR); 
b) 
«web application firewall» (WAF). 
La 
presente 
circolare 
è 
volta, pertanto, ad indicare 
le 
categorie 
di 
prodotti 
e 
servizi 
tecnologici 
di 
sicurezza 
informatica 
per 
le 
quali 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
dovranno 
procedere 
a 
diversificazione 
ai 
sensi dell'art. 29, del decreto-legge n. 21 del 2022. 
B) Individuazione dei prodotti e servizi oggetto di diversificazione. 
Ai 
fini 
dell'individuazione 
dei 
prodotti 
e 
servizi 
tecnologici 
di 
sicurezza 
informatica 
di 
aziende 
produttrici 
legate 
alla 
Federazione 
Russa, ai 
sensi 
dell'art. 29, commi 
1 e 
3, del 
decreto-legge 
n. 21 del 
2022, ciascuna 
pubblica 
amministrazione 
destinataria 
della 
presente 
circolare 
procede 
alla 
diversificazione 
delle 
seguenti categorie di prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica: 
1) 
prodotti 
e 
servizi 
di 
cui 
all'art. 
29, 
comma 
3, 
lettera 
a), 
del 
decreto-legge 
n. 
21 
del 
2022, 
della 
società 
«Kaspersky 
Lab» 
e 
della 
società 
«group-IB», 
anche 
commercializzati 
tramite 
canale 
di 
rivendita 
indiretta 
e/o 
anche 
veicolati 
tramite 
accordi 
quadro 
o 
contratti 
quadro 
in 
modalità 
«on-premise» 
o 
«da 
remoto»; 
2) prodotti 
e 
servizi 
di 
cui 
all'art. 29, comma 
3, lettera 
b), del 
decreto-legge 
n. 21 del 
2022, della 
società 
«Positive 
technologies», 
anche 
commercializzati 
tramite 
canale 
di 
rivendita 
indiretta 
e/o 
anche 
veicolati 
tramite accordi quadro o contratti quadro in modalità «on-premise» o «da remoto». 
C) Raccomandazioni procedurali. 
Si 
raccomanda 
alle 
amministrazioni 
destinatarie 
della 
presente 
circolare 
-responsabili 
nella 
conduzione 
delle 
operazioni 
di 
configurazione 
dei 
nuovi 
servizi 
e 
prodotti 
acquisiti 
ai 
sensi 
dell'art. 29 del 
decreto-
legge 
n. 
21 
del 
2022, 
anche 
in 
relazione 
alla 
precisa 
conoscenza 
dei 
propri 
asset 
(reti, 
sistemi 
informativi 
e 
servizi 
informatici) e 
degli 
impatti 
degli 
stessi 
sulla 
continuità 
dei 
servizi 
e 
della 
protezione 
dei 
dati 
di 
adottare 
tutte 
le 
misure 
e 
le 
buone 
prassi 
di 
gestione 
di 
servizi 
informatici 
e 
del 
rischio cyber 
e, in 
particolare, di 
tenere 
conto di 
quanto definito dal 
Framework 
nazionale 
per la 
cybersecurity 
e 
la 
data 
protection, 
edizione 
2019, 
realizzato 
dal 
Centro 
di 
ricerca 
di 
cyber 
intelligence 
and 
information 
security 
(CIS) 
dell'Università 
Sapienza 
di 
Roma 
e 
dal 
Cybersecurity 
national 
lab 
del 
Consorzio 
interuniversitario 
nazionale 
per l'informatica 
(CINI), con il 
supporto dell'Autorità 
garante 
per la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. 
In particolare, si raccomanda di: 
1) 
censire 
dettagliatamente 
i 
servizi 
e 
prodotti 
di 
cui 
al 
paragrafo 
B) 
della 
presente 
circolare, 
analizzando 
gli impatti degli aggiornamenti degli stessi sull'operatività, quali i tempi di manutenzione necessari; 
2) 
identificare 
e 
valutare 
i 
nuovi 
servizi 
e 
prodotti, 
validandone 
la 
compatibilità 
con 
i 
propri 
asset, 
nonché 
la complessità di gestione operativa delle strutture di supporto in essere; 
3) definire, condividere 
e 
comunicare 
i 
piani 
di 
migrazione 
con tutti 
i 
soggetti 
interessati 
a 
titolo diretto 
o indiretto, quali organizzazioni interne alle amministrazioni e soggetti terzi; 
4) validare 
le 
modalità 
di 
esecuzione 
del 
piano di 
migrazione 
su asset 
di 
test 
significativi, assicurandosi 
di 
procedere 
con la 
migrazione 
dei 
servizi 
e 
prodotti 
sugli 
asset 
più critici 
soltanto dopo la 
validazione 
di 
alcune 
migrazioni 
e 
con l'ausilio di 
piani 
di 
ripristino a 
breve 
termine 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
necessaria 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


È 
da 
ricordare 
l’importanza 
della 
Convenzione 
di 
Budapest 
sulla 
criminalità 
informatica. 
Di 
recente 
il 
Consiglio 
di 
Europa 
ha 
adottato 
una 
decisione 
che 
autorizza 
gli 
Stati 
membri 
a 
firmare 
nell’interesse 
dell’UE 
il 
secondo 
protocollo 
addizionale 
alla 
Convenzione 
suddetta. Questo protocollo migliorerà 
l’accesso transfrontaliero alle 
“prove 
elettroniche” 
da 
utilizzare 
nei 
procedimenti 
penali. Contribuirà 
alla 
lotta 
contro la 
criminalità 
informatica 
a 
livello 
mondiale, semplificando la 
cooperazione 
tra 
gli 
Stati 
membri 
e 
i 
paesi 
terzi, 
garantendo 
un 
elevato 
livello 
di 
protezione 
delle 
persone 
e 
il 
rispetto 
delle 
norme 
UE 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
dati. 
Attualmente 
66 
paesi 
di 
cui 
26 
Stati 
membri 
dell’UE 
sono parti 
della 
Convenzione 
di 
Budapest, che, oltre 
a 
rafforzare 
la 
cooperazione 
diretta 
con i 
prestatori 
di 
servizi, stabilisce 
le 
c.d. 
procedure per la mutua assistenza giudiziaria di emergenza. 


Le sei best practice della Circolare: 


1. 
Censire 
prodotti 
e 
servizi 
indicati 
nella 
circolare 
e 
analizzare 
“gli 
impatti 
degli 
aggiornamenti 
degli 
stessi 
sull’operatività, quali 
i 
tempi 
di 
manutenzione 
necessari”; 
2. 
Individuare 
nuovi 
servizi 
e 
prodotti 
e 
farne 
una 
valutazione, considerando 
sia 
che 
siano 
compatibili 
con 
i 
propri 
asset 
e 
la 
“complessità 
di 
gestione 
operativa delle strutture di supporto in essere”; 
3. Occuparsi 
della 
definizione, condivisione 
e 
comunicazione 
dei 
piani 
di migrazione; 
4. 
Validare 
i 
modi 
per eseguire 
il 
piano di 
migrazione 
“su asset 
di 
test 
significativi, 
assicurandosi 
di 
procedere 
con 
la 
migrazione 
dei 
servizi 
e 
prodotti 
sugli 
asset 
più critici 
soltanto dopo la validazione 
di 
alcune 
migrazioni 
e 
con 
l’ausilio 
di 
piani 
di 
ripristino 
a 
breve 
termine 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
necessaria 
continuità operativa”, 
spiega 
la 
circolare. 
Si 
chiarisce 
anche 
che 
il 
piano di 
migrazione 
“dovrà garantire 
che 
in nessun momento venga interrotta la funzione 
di protezione garantita dagli strumenti oggetto della diversificazione”; 
5. 
Condurre 
analisi 
e 
validazione 
delle 
funzioni 
e 
integrazioni 
dei 
nuovi 
continuità 
operativa. Il 
piano di 
migrazione 
dovrà 
garantire 
che 
in nessun momento venga 
interrotta 
la 
funzione di protezione garantita dagli strumenti oggetto della diversificazione; 


5) analizzare 
e 
validare 
le 
funzionalità 
e 
integrazioni 
dei 
nuovi 
servizi 
e 
prodotti, assicurando l'applicazione 
di 
regole 
e 
configurazioni 
di 
sicurezza 
proporzionate 
a 
scenari 
di 
rischio 
elevati 
(quali, 
ad 
esempio, 
autenticazione 
multi-fattore 
per tutti 
gli 
accessi 
privilegiati, attivazione 
dei 
soli 
servizi 
e 
funzioni 
strettamente 
necessari, adozione di principi di «zero-trust»); 
6) 
assicurare 
adeguato 
monitoraggio 
e 
audit 
dei 
nuovi 
prodotti 
e 
servizi, 
prevendendo 
adeguato 
supporto 
per l'aggiornamento e la revisione delle configurazioni in linea. 
Nella 
predisposizione, migrazione 
e 
gestione 
dei 
nuovi 
prodotti 
e 
servizi, si 
raccomanda 
l'adozione 
di 
principi 
trasversali 
di 
indirizzo, quali 
a 
titolo esemplificativo quello della 
«gestione 
del 
rischio», in termini 
di 
identificazione, valutazione 
e 
mitigazione 
dei 
rischi 
di 
diversa 
fattispecie 
che 
concorrono nel-
l'attuazione della diversificazione dei servizi. 
Infine, 
si 
raccomanda 
alle 
amministrazioni 
di 
controllare 
costantemente 
i 
canali 
istituzionali 
di 
comunicazione 
dell'Agenzia 
per 
la 
cybersicurezza 
nazionale 
https://www.acn.gov.it/ 
e 
https://csirt.gov”. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


prodotti 
e 
servizi 
scelti, 
“assicurando 
l’applicazione 
di 
regole 
e 
configurazioni 
di 
sicurezza proporzionate 
a scenari 
di 
rischio elevati”. tra 
questi 
rientrano 
autenticazione 
multi 
fattore 
per 
ogni 
accesso 
privilegiato, 
attivare 
solo 
funzioni 
necessarie e adottare principi di zero-trust; 


6. 
garantire 
monitoraggio 
e 
audit 
dei 
nuovi 
prodotti, 
con 
la 
previsione 
di 
un 
adeguato 
sostegno 
per 
gli 
aggiornamenti 
e 
le 
revisioni 
delle 
configurazioni. 
Considerando 
questi 
consigli 
si 
deduce 
che 
l’analisi 
del 
rischio 
è 
la 
metodologia 
base 
di 
una 
postura 
consapevole 
e 
pronta 
rispetto 
alla 
minaccia 
cyber. 
Ormai 
tutte 
le 
metodologie 
sposate 
dalle 
amministrazioni 
occidentali 
partono 
dalla 
analisi 
del 
rischio. 
L’Europa 
è 
profondamente 
consapevole 
di 
questo 
e 
si 
sta 
muovendo 
in 
tal 
senso 
in 
tutte 
le 
proposte 
di 
nuove 
direttive 
(come 
la 
NIS 
2 
e 
la 
CER). 
La 
postura 
cyber 
sicura 
è 
prima 
di 
tutto 
una 
postura 
risk 
based 
basata 
sulla 
c.d. 
awarness, 
consapevolezza 
delle 
potenzialità 
di 
attacco. 


Il ruolo dell’Agenzia di cybersicurezza nazionale. 


Stiamo vivendo un momento storico senza 
precedenti, in cui 
ci 
troviamo 
per 
la 
prima 
volta 
a 
dover 
agire 
tempestivamente 
per 
arginare 
un 
rischio 
cyber 
importante 
legato ad una 
crisi 
geo politica 
in atto. Emerge, quindi, non solo 
l’importanza 
di 
avere 
un 
ente 
deputato 
alla 
gestione 
del 
tema, 
l’Agenzia 
di 
cybersicurezza 
nazionale 
guidata 
dalla 
figura 
autorevole 
del 
prof. Baldoni, ma 
anche 
la 
sua 
efficacia. 
Questa 
circolare 
chiarisce 
in 
modo 
inequivocabile 
i 
prodotti 
già 
valutati 
dall’Agenzia, nell’ottica 
delle 
raccomandazioni 
fornite 
dallo 
CSIRt 
Italia 
prima 
e 
dal 
Decreto legislativo 21/22, così 
come 
chiesto da 
diverse 
organizzazioni. 
Vengono 
inoltre 
fornite 
precise 
indicazioni 
sul 
come 
procedere 
alla diversificazione dei prodotti e servizi informatici. 

L’impatto del contesto politico. 


Per comprendere 
la 
rilevanza 
delle 
decisioni 
in questo ambito, è 
importante 
considerare 
il 
contesto geo politico attuale. La 
decisione 
dell’Agenzia 
è 
motivata 
dal 
fatto che 
nell’ottica 
di 
rafforzamento della 
postura 
di 
sicurezza 
informatica 
nazionale 
è 
necessario mitigare 
il 
rischio derivante 
dall’indisponibilità 
di 
prodotti 
e 
servizi 
tecnologici 
forniti 
da 
aziende 
di 
sicurezza 
informatica 
legate 
alla 
Federazione 
Russa 
(4). 
Nella 
circolare 
si 
evidenzia 
come 


(4) 
La 
guerra 
in 
Ucraina 
non 
è 
infatti 
solo 
una 
guerra 
sul 
campo 
ma 
passa 
anche 
attraverso 
attacchi 
cyber tanto da 
definire 
questa 
come 
una 
guerra 
cybernetica. Basti 
pensare 
al 
fatto che 
i 
primi 
attacchi 
hacker 
al 
sistema 
ucraino 
sono 
avvenuti 
intorno 
al 
13 
gennaio, 
più 
di 
un 
mese 
prima 
dell’inizio 
ufficiale 
della 
guerra. Per rispondere 
a 
tali 
attacchi, in seguito il 
gruppo Anonymous 
ha 
dato vita 
ad una 
serie 
di 
hackeraggi 
effettuati 
a 
vari 
siti 
governativi 
nonché 
alla 
Banca 
Centrale 
della 
Federazione 
Russa. Il 
famoso 
gruppo non è 
l’unico a 
combattere 
contro la 
Russia 
ma 
ce 
ne 
sono anche 
altri 
come 
il 
gruppo polacco 
Squad303 
e 
il 
bielorusso 
Cyber 
Partisan, 
oppositore 
del 
Presidente 
Lukashenko. 
Per 
un 
approfondimento 
si 
veda: 
https://www.repubblica.it/esteri/2022/03/24/news/anonymous_e_la_guerra_ci

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


queste 
aziende 
possano non essere 
in grado di 
fornire 
servizi 
e 
aggiornamenti 
ai propri prodotti. 

In 
un 
contesto 
internazionale 
come 
quello 
attuale 
caratterizzato 
da 
notevoli 
tensioni 
geopolitiche 
è 
fondamentale 
distinguere 
la 
decisione 
politica 
da 
quella 
tecnologica 
e 
acquisire 
la 
consapevolezza 
del 
livello 
di 
rischio 
di 
un 
attacco 
informatico 
di 
tipo 
DDos 
(Denial 
of 
Service), 
elemento 
attivo 
di 
minaccia 
concreta 
alle 
istituzioni 
e 
infrastrutture 
critiche. 
Bisogna 
prestare 
massima 
attenzione 
anche 
alla 
dimensione 
digitale 
dei 
conflitti 
prima 
che 
sfocino 
in 
veri 
e 
propri 
casus 
belli: 
una 
sorta 
di 
attentato 
di 
Sarajevo 
digitale. 
Si 
vis 
pacem 
para 
bellum 
significa 
oggi 
potenziare 
la 
c.d. 
“robustezza” 
della 
sicurezza 
digitale. 


La 
circolare 
della 
ACN 
evidenzia 
la 
necessità 
di 
affrontare 
il 
rischio 
del-
l'attacco 
informatico: 
è 
significativo 
osservare 
che 
la 
circolare 
suddetta 
non 
qualifica 
il 
rischio 
di 
utilizzo 
degli 
stessi 
servizi 
e 
prodotti 
come 
vettore 
di 
attacco, 
bensì 
mette 
in 
luce 
la 
loro 
indisponibilità 
legata 
al 
conflitto. 
Prevale 
un'impostazione 
condivisibile 
non 
belligerante, 
ma 
tesa 
a 
garantire 
la 
sicurezza 
dei 
sistemi 
informatici 
preposti 
all'erogazione 
dei 
servizi 
pubblici 
essenziali 
del 
paese. 


La 
circolare 
emanata 
dall’ACN 
rafforza 
il 
concetto di 
sovranità 
tecnologica 
nazionale 
e 
della 
necessità 
nel 
tempo di 
rendere 
le 
nostre 
infrastrutture 
critiche 
indipendenti 
dalle 
tecnologie 
straniere 
(5). Altro aspetto cruciale 
è 
la 
capacità 
di 
qualifica 
di 
sistemi 
hardware 
e 
software 
che 
importiamo. 
Dobbiamo 
sviluppare 
una 
capacità 
di 
analisi 
tale 
da 
rendere 
ragionevolmente 
sicura 
l’adozione 
di 
queste 
soluzioni 
da 
parte 
delle 
nostre 
imprese 
e 
della 
pubblica amministrazione (6). 


bernetica_in_ucraina_domande_e_risposte_per_capire_gli_attacchi_degli_hacker-342704238/; 
https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/guerra-cibernetica-gli-impatti-del-conflitto-russia-ucrainae-
il-contrattacco-di-anonymous/; 
https://www.wired.it/article/ucraina-russia-guerra-ransomware-conti/ 
;https://www.redhotcyber.com/post/la-cybergang-russa-oldgremlin-attacca-le-aziende-russe/ 
; 
https://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/04/27/news/ucraina_microsoft_da_hacker_russi_ondata_di_cyber 
_attacchi-9276132/. 


(5) 
Nel 
decreto 
legislativo 
attualmente 
in 
discussione, 
l’ACN 
viene 
individuata 
come 
autorità 
nazionale 
di 
certificazione 
di 
cyber 
security 
di 
prodotto 
al 
fine 
di 
adeguare 
il 
sistema 
nazionale 
al 
quadro 
europeo 
(https://www.cybersecurity360.it/outlook/certificazioni-di-cyber-security-il-futuro-nel-decretoin-
arrivo/). 
(6) 
Ciò 
è 
necessario 
soprattutto 
alla 
luce 
dei 
molteplici 
attacchi 
informatici 
subiti 
da 
aziende 
pubbliche 
e 
private 
nei 
campi 
più 
disparati. 
Da 
ultimo, 
si 
segnala 
il 
recentissimo 
attacco 
cyber 
avvenuto 
a 
diversi 
siti 
italiani 
tra 
i 
quali, 
il 
sito 
istituzionale 
del 
Senato, 
della 
Difesa, 
della 
Scuola 
alti 
studi 
di 
Lucca, 
l’Istituto 
superiore 
di 
Sanità, 
da 
parte 
del 
gruppo 
russo 
Killnet 
(https://www.rainews.it/articoli/2022/05/attacco-
hacker-ai-siti-di-senato-e-difesa-rivendicato-dal-gruppo-russo-killnet-e8495f90-7a5f-44bb-8512bb63c4b39e5d.
html). 
Invece, 
nella 
notte 
tra 
il 
30 
aprile 
e 
il 
1 
maggio 
2022 
i 
sistemi 
informatici 
dell’Ospedale 
Fatebenefratelli 
Sacco 
di 
Milano 
sono 
stati 
vittima 
di 
un 
attacco 
haker 
che 
ha 
provocato 
notevoli 
disservizi 
che 
incidono 
inevitabilmente 
sulle 
cure 
dei 
pazienti 
(https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/ransomware/
attacco-informatico-allasst-fatebenefratelli-sacco-di-milano-potrebbe-essere-un-ransomware/; 
https://quifinanza.it/innovazione/video/ospedali-in-tilt-nuovo-attacco-hacker-colpisce-italia-cosasappiamo/
646091/ 
). 
Le 
strutture 
sanitarie 
sono quelle 
più al 
rischio perché 
sempre 
più sotto il 
mirino 
degli 
attacchi 
hacker, basti 
pensare 
all’attacco di 
tipo ransomware 
subito nel 
2021 dal 
sistema 
sanitario 
irlandese 
o da 
quello neozelandese 
o quelli 
avvenuti 
in ospedali 
americani 
(https://www.lastampa.it/cro

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Secondo eu-Lisa 
(Agenzia 
europea 
per la 
gestione 
operativa 
dei 
sistemi 
It 
su larga 
scala 
nello spazio di 
libertà, sicurezza 
e 
giustizia) che 
ha 
sede 
a 
tallin (7) è 
importante 
una 
mappatura 
delle 
infrastrutture 
critiche 
con un’attività 
di 
prevenzione 
per attuare 
il 
c.d. “disaster recovery” 
con cloud nazionale 
“robusto” 
dal 
punto 
di 
vista 
della 
sicurezza 
nazionale. 
Sono 
determinanti 
il 


c.d. controll 
vulnerabilities 
e 
i 
sistemi 
di 
notification, perché 
molto spesso gli 
atti 
informatici 
sono silenziosi 
e 
non facilmente 
individuabili 
(8). Un attacco 
informatico 
può 
spesso 
determinare 
un 
effetto 
spill-over 
su 
altri 
computer 
portando 
ad un completo blocco di 
tutti 
i 
sistemi 
informatici 
con danni 
inestimabili. 
Ecco perché 
si 
sta 
definendo la 
figura 
del 
cibersecurity specialist, figura 
inizialmente 
sviluppatasi 
in Israele 
con competenze 
trasversali 
volta 
a 
prevenire 
incidenti 
ed attacchi 
informatici 
che 
possono determinare 
un arresto improvviso 
di 
tutti 
i 
servizi 
essenziali 
di 
un 
paese. 
Il 
controllo 
del 
mondo 
digitale 
è 
determinante 
per 
la 
sicurezza 
di 
un 
paese: 
di 
questo 
il 
governo 
italiano 
è 
pienaca/
2021/05/14/news/irlanda-attacco-hacker-al-sistema-sanitario-1.40270603/ 
; 
https://www.wired.it/internet/
web/2021/05/25/ospedali-hacker-nuova-zelanda-irlanda-ransomware/; https://www.cybersecurity360.
it/nuove-minacce/ransomware/irlanda-attacco-ransomware-al-sistema-sanitario-cosa-imparare-a 
ncora-dalle-lezioni-del-passato/ 
). 
gli 
attacchi 
perlopiù 
si 
sostanziano 
in 
attacchi 
ransomware 
che 
si 
caratterizzano 
per 
la 
scansione 
dei 
file 
importanti 
e 
per 
un 
processo 
di 
crittografia 
avanzato 
non 
reversibile, 
paralizzando 
un'organizzazione 
più 
velocemente 
di 
altre 
applicazioni 
dannose. 
In 
Italia, 
attacchi 
di 
questo 
tipo 
hanno 
riguardato 
enti 
come 
la 
Regione 
Lazio 
i 
cui 
sistemi 
informatici 
hanno 
riportato 
non 
pochi 
danni 
data 
l’interruzione 
dei 
servizi 
che 
ne 
è 
conseguita 
per 
quasi 
un 
mese 
(https://www.pandasecurity.com/it/mediacenter/sicurezza/attacco-regione-lazio/, 
https://www.cybersecurity360.
it/nuove-minacce/regione-lazio-vaccini-bloccati-poco-pronta-contro-il-ranwomare-ecco-perche/); 
ma 
anche 
le 
Ferrovie 
dello Stato che 
nel 
mese 
di 
marzo 2022 ha 
rilevato, durante 
i 
controlli 
di 
sicurezza 
giornalieri, 
elementi 
che 
riconducono 
ad 
un 
attacco 
di 
crytolocker. 
FS 
ha 
poi 
deciso 
in 
via 
precauzionale 
di 
disattivare 
alcune 
utenze 
dei 
sistemi 
di 
vendita 
fisici, 
tutti 
i 
sistemi 
di 
self 
service 
utilizzati 
nelle 
varie 
stazioni, 
mentre 
è 
rimasta 
attiva 
la 
vendita 
online 
(https://www.insic.it/privacy-e-sicurezza/informationsecurity/
attacco-hacker-alle-ferrovie-dello-stato-tutti-i-dettagli/). 
Sempre 
con 
riguardo 
agli 
attacchi 
ransomware, 
un 
nuovo 
gruppo 
di 
questo 
tipo, 
ribattezzato 
Black 
Basta 
e 
già 
noto 
per 
aver 
recentemente 
preso 
di 
mira 
l’American 
Dental 
Association 
(ADA), 
è 
arrivato 
anche 
in 
Italia. 
Si 
tratta 
di 
un malware 
che 
ruba 
i 
dati 
delle 
vittime 
e 
li 
cripta 
sfruttando 
servizi 
leciti 
di 
Windows 
(https://www.cybersecurity360.
it/nuove-minacce/ransomware/black-basta-il-ransomware-che-sfrutta-i-servizi-di-windows-percriptare-
i-dati-i-dettagli/ 
). Ad esser presa 
di 
mira 
dagli 
attacchi 
cybernetici 
sono anche 
società 
private 
come 
la 
Coca-Cola, la 
quale 
è 
stata 
vittima 
di 
un attacco in cui 
sono stati 
sottratti 
161 gB di 
dati, poi 
messi 
in 
vendita 
per 
1,65 
bitcoin 
(https://sicurezza.net/cyber-security/coca-cola-stormous-ruba-161gbdi-
dati/#gref 
). Il 
governo degli 
Stati 
Uniti, per cercare 
di 
far fronte 
“all’emergenza 
hacker”, ha 
deciso 
di 
istituire 
una 
taglia 
di 
10 milioni 
di 
dollari 
per coloro i 
quali 
siano in grado di 
fornire 
informazioni 
che 
possano 
portare 
alla 
cattura 
o 
quanto 
meno 
all’identificazione 
del 
famoso 
gruppo 
hacker 
Conti. 
(https://www.computermagazine.it/2022/05/10/conti-il-gruppo-hacker-ha-le-ore-contate-taglia-di-10milioni-
di-dollari-dal-governo-usa/). 


(7) Il 
gruppo Leonardo ha 
vinto il 
contratto per gestire 
la 
sicurezza 
delle 
infrastrutture 
It 
e 
delle 
sedi 
della 
struttura 
eu-Lisa. L'accordo, della 
durata 
di 
cinque 
anni, prevede 
servizi 
di 
cyber security integrati 
erogati 
da 
specialisti 
di 
Leonardo a 
protezione 
di 
tutte 
le 
sedi 
di 
eu-Lisa 
(https://www.milanofinanza.
it/news/a-leonardo-la-cyber-security-dell-agenzia-europea-lisa-202205060939498036). 
(8) 
Sotto 
l’aspetto 
della 
sicurezza 
delle 
aziende 
sono 
rilevanti 
anche 
i 
sistemi 
VPN. 
tuttavia, 
sono 
state 
messe 
in 
luce 
alcune 
criticità 
che 
possono 
rilevare 
alcuni 
elementi 
di 
vulnerabilità. 
Sul 
punto: 
“VPN 
e 
se 
la 
sicurezza 
fosse 
apparente?”(https://www.cybersecurity360.it/outlook/vpn-e-se-la-sicurezza-fosseapparente-
ecco-la-soluzione/). 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


namente 
consapevole, avendo previsto il 
sistema 
del 
golden power (con obbligatorietà 
della 
notifica 
al 
governo) per tutte 
le 
imprese 
straniere 
che 
manifestino 
la 
propria 
volontà 
di 
acquisire 
partecipazioni 
azionarie 
in 
società 
italiane coinvolte nella realizzazione del 5 g. 


Friedrich Nietzsche 
parlava 
di 
Wille 
zur Macht 
per indicare 
la 
cieca 
tendenza 
degli 
organismi 
a 
espandersi 
a 
detrimento 
del 
circostante, 
nonché 
la 
necessità 
di 
dominare, 
occupare, 
sottomettere. 
Oggi 
tale 
desiderio 
di 
dominio 
avviene 
nello 
spazio 
cibernetico: 
occorrono 
competenze, 
consapevolezza 
e 
strategie 
per 
realizzare 
un 
sistema 
di 
sicurezza 
nazionale 
che 
ci 
metta 
al 
riparo 
da 
attacchi 
informatici 
insidiosi 
e 
pericolosi: 
è 
la 
nuova 
frontiera 
della 
difesa 
digitale dei nostri sistemi democratici. 



RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


il governo delle spese nel processo tributario 


Isabella Vitiello* 


Sommario: 1. regolamento delle 
spese 
in generale 
-2. C.d. spese 
di 
giustizia e 
prenotazione 
a debito -3. C.d. spese 
legali 
-4. La regolazione 
delle 
spese 
processuali 
secondo la 
disciplina antecedente 
al 
D.L.vo 31 dicembre 
1992, n. 546 -5. La regolazione 
vigente 
delle 
spese 
processuali 
-6. 
il 
principio 
di 
soccombenza 
nel 
governo 
delle 
spese 
-7. 
Compensazione 
delle 
spese 
-8. Governo delle 
spese 
nel 
caso di 
estinzione 
del 
processo -9. Governo delle 
spese 
nelle 
controversie 
di 
cui 
all’art. 17 bis 
D.L.vo n. 546/1992 (il 
reclamo e 
la mediazione) 


-10. Governo delle 
spese 
nel 
caso di 
tentativo di 
conciliazione 
andato a vuoto e 
nel 
caso di 
intervenuta conciliazione 
-11. Eterointegrazione 
nella disciplina delle 
spese 
-12. Governo 
delle 
spese 
collegato alla violazione 
delle 
regole 
redazionali 
degli 
atti 
processuali 
-13. ammontare 
delle spese legali - 4. Conclusioni. 
1. regolamento delle spese in generale. 
Il 
processo tributario, come 
ogni 
altro, comporta 
una 
serie 
di 
spese 
afferenti 
al 
compimento di 
atti 
processuali 
(bollo, diritti, notifiche, Ctu, ecc.), c.d. 
spese 
di 
giustizia, 
e 
al 
pagamento 
degli 
onorari 
dei 
difensori 
e 
dei 
loro 
ausiliari, 


c.d. 
spese 
legali 
(1). 
Sia 
le 
spese 
correlate 
all’accesso 
al 
servizio 
giustizia 
(c.d. 
spese 
di 
giustizia), sia 
quelle 
connesse 
alla 
prestazione 
d’opera 
professionale 
erogata 
dal 
difensore 
(c.d. spese 
legali) fanno carico inizialmente, quale 
anticipazione, 
alla 
parte 
che 
le 
ha 
determinate, salve 
le 
norme 
sul 
gratuito patrocinio 
(2). 
Nel 
caso 
di 
intervento 
di 
terzi 
per 
ordine 
del 
giudice, 
sia 
di 
sua 
iniziativa 
che 
su 
istanza 
di 
parte, 
le 
relative 
spese 
vanno 
rimborsate 
a 
cura 
della 
parte 
soccombente, 
ove 
si 
accerti 
che 
essa 
-con 
il 
suo 
atteggiamento 
processuale 
e 
con le 
sue 
eccezioni 
in seguito respinte 
-abbia 
reso necessaria 
l’integrazione 
del contraddittorio in questione. 
(*) Funzionario dell’Agenzia delle Entrate. 


Le 
considerazioni 
espresse 
nel 
presente 
studio rappresentano il 
pensiero dell’Autrice 
e 
non necessariamente 
quello della 
Amm.ne presso la quale presta servizio. 


(1) 
tanto 
trova 
conferma 
nell’art. 
15, 
comma 
2 
ter 
D.L.vo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546, 
recante 
“Disposizioni 
sul 
processo tributario”, secondo cui 
“Le 
spese 
di 
giudizio comprendono, oltre 
al 
contributo 
unificato, gli 
onorari 
e 
i 
diritti 
del 
difensore, le 
spese 
generali 
e 
gli 
esborsi 
sostenuti, oltre 
il 
contributo 
previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti”. 
(2) giusta 
l’art. 8 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, avente 
ad oggetto il 
“Testo unico delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
in 
materia 
di 
spese 
di 
giustizia”, 
“1. 
Ciascuna 
parte 
provvede 
alle 
spese 
degli 
atti 
processuali 
che 
compie 
e 
di 
quelli 
che 
chiede 
e 
le 
anticipa per 
gli 
atti 
necessari 
al 
processo 
quando l'anticipazione 
è 
posta a suo carico dalla legge 
o dal 
magistrato. 2. Se 
la parte 
è 
ammessa al 
patrocinio a spese 
dello Stato, le 
spese 
sono anticipate 
dall'erario o prenotate 
a debito, secondo le 
previsioni 
della parte iii del presente testo unico”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


2. C.d. spese di giustizia e prenotazione a debito. 
Le 
c.d. spese 
di 
giustizia 
consistono nel 
pagamento del 
contributo unificato. 
Questo ha 
natura 
tributaria 
(3) e 
costituisce 
un onere 
in capo alla 
parte 
che 
chiede 
l’accesso al 
servizio (rectius: 
funzione) giustizia. L’attuale 
regolamentazione 
dello stesso è contenuta nel D.P.R. n. 115/2002. 


La 
parte 
che 
deposita 
il 
ricorso -sia 
principale 
che 
incidentale, tanto nei 
due 
gradi 
di 
merito quanto nel 
giudizio di 
legittimità 
-è 
tenuta 
al 
pagamento 
contestuale 
del 
contributo 
unificato 
(art. 
14, 
commi 
1 
e 
3, 
D.P.R. 
n. 
115/2002). 


L’ammontare 
degli 
importi 
nei 
due 
gradi 
di 
merito è 
indicato nell’art. 13, 
comma 
6 
quater, 
D.P.R. 
n. 
115/2002, 
il 
quale 
così 
dispone: 
“Per 
i 
ricorsi 
principale 
ed incidentale 
proposti 
avanti 
le 
Commissioni 
tributarie 
provinciali 
e 
regionali 
è 
dovuto il 
contributo unificato nei 
seguenti 
importi: a) euro 30 per 
controversie 
di 
valore 
fino a euro 2.582,28; b) euro 60 per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 2.582,28 e 
fino a euro 5.000; c) euro 120 per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 5.000 e 
fino a euro 25.000 e 
per 
le 
controversie 
tributarie 
di 
valore 
indeterminabile; 
d) 
euro 
250 
per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 25.000 e 
fino a euro 75.000; e) euro 500 per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 75.000 e 
fino a euro 200.000; f) euro 1.500 per 
controversie 
di valore superiore a euro 200.000” (4). 


(3) La 
Corte 
costituzionale, con la 
decisione 
11 febbraio 2005, n. 73, ha 
affermato la 
natura 
di 
“entrata 
tributaria 
erariale” 
del 
contributo 
unificato, 
che 
si 
desume, 
“indipendentemente 
dal 
nomen 
iuris 
utilizzato dalla normativa che 
lo disciplina: a) dalla circostanza che 
esso è 
stato istituito in forza: di 
legge 
a 
fini 
di 
semplificazione 
e 
in 
sostituzione 
di 
tributi 
erariali 
gravanti 
anch'essi 
su 
procedimenti 
giurisdizionali, 
quali 
l'imposta 
di 
bollo 
e 
la 
tassa 
di 
iscrizione 
a 
ruolo, 
oltre 
che 
dei 
diritti 
di 
cancelleria 
e 
di 
chiamata in causa dell'ufficiale 
giudiziario (art. 9, commi 
1 e 
2, della legge 
n. 488 del 
1999); b) 
dalla conseguente 
applicazione 
al 
contributo unificato delle 
stesse 
esenzioni 
previste 
dalla precedente 
legislazione 
per 
i 
tributi 
sostituiti 
e 
per 
l'imposta di 
registro sui 
medesimi 
procedimenti 
giurisdizionali 
(comma 8 dello stesso art. 9); c) dalla sua espressa configurazione 
quale 
prelievo coattivo volto al 
finanziamento 
delle 
«spese 
degli 
atti 
giudiziari» (rubrica del 
citato art. 9); d) dal 
fatto, infine, che 
esso, 
ancorché 
connesso alla fruizione 
del 
servizio giudiziario, è 
commisurato forfetariamente 
al 
valore 
del 
processi 
(comma 
2 
dell'art. 
9 
e 
tabella 
1 
allegata 
alla 
legge) 
e 
non 
al 
costo 
del 
servizio 
reso 
od 
al 
valore 
della prestazione 
erogata. il 
contributo ha, pertanto, le 
caratteristiche 
essenziali 
del 
tributo e 
cioè 
la 
doverosità della prestazione 
e 
il 
collegamento di 
questa ad una pubblica spesa, quale 
è 
quella per 
il 
servizio giudiziario (analogamente 
si 
sono espresse, quanto alle 
caratteristiche 
dei 
tributi, le 
sentenze 
n. 26 del 
1982, n. 63 del 
1990, n. 1 del 
1995, n. 11 del 
1995 e 
n. 37 del 
1997), con riferimento ad un 
presupposto economicamente rilevante”. 
La 
natura 
di 
entrata 
tributaria 
del 
contributo 
unificato 
è 
stata 
ribadita 
da 
Cass. 
S.U., 
sentenza 
5 
maggio 
2011, 
n. 
9840, 
secondo 
cui 
“Da 
tale 
qualificazione 
discende 
che 
conoscere 
della 
domanda 
proposta 
dal-
l'attuale 
ricorrente, 
rientra 
nella 
giurisdizione 
del 
giudice 
tributario 
in 
base 
al 
decreto 
legislativo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546, 
art. 
2, 
comma 
1, 
e 
art. 
19 
lettera 
d). 
Le 
questioni 
di 
nullità 
sollevate 
con 
la 
domanda 
attengono 
infatti 
non 
ad 
atti 
dell’esecuzione 
forzata 
esattoriale, 
ma 
ad 
atti 
inerenti 
alla 
fase 
della 
riscossione, 
il 
controllo 
della 
cui 
legittimità, 
quando 
riguardino 
tributi, 
spetta 
al 
giudice 
tributario”. 
(4) 
Il 
comma 
3 
bis 
dell’art. 
13, 
D.P.R. 
n. 
115/2002 
statuisce 
inoltre 
che 
“ove 
il 
difensore 
non 
indichi 
il 
proprio 
numero 
di 
fax 
ai 
sensi 
dell'articolo 
125, 
primo 
comma, 
del 
codice 
di 
procedura 
civile 
e 
il 
proprio 
indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
ai 
sensi 
dell'articolo 
16, 
comma 
1-bis, 
del 
decreto 
legislativo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546, 
ovvero 
qualora 
la 
parte 
ometta 
di 
indicare 
il 
codice 
fiscale 
nell'atto 
introduttivo 
del 
giudizio 
o, 
per 
il 
processo 
tributario, 
nel 
ricorso 
il 
contributo 
unificato 
è 
aumentato 
della 
metà”. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Il 
contributo 
di 
cui 
al 
comma 
6 
quater 
è 
raddoppiato 
per 
i 
processi 
dinanzi 
alla Corte di cassazione (artt. 13, comma 1 bis 
e 261 D.P.R. n. 115/2002). 


Il valore della lite, giusta l’art. 14, comma 3 bis, D.P.R. n. 115/2002 


-deve 
risultare 
da 
apposita 
dichiarazione 
resa 
dalla 
parte 
nelle 
conclusioni 
del ricorso, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito; 


-è 
determinato, 
per 
ciascun 
atto 
impugnato 
anche 
in 
appello, 
ai 
sensi 
del 
comma 
2 
dell'articolo 
12 
del 
D.L.vo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546, 
secondo 
cui 
“Per 
valore 
della 
lite 
si 
intende 
l'importo 
del 
tributo 
al 
netto 
degli 
interessi 
e 
delle 
eventuali 
sanzioni 
irrogate 
con 
l'atto 
impugnato; 
in 
caso 
di 
controversie 
relative 
esclusivamente 
alle 
irrogazioni 
di 
sanzioni, 
il 
valore 
è 
costituito 
dalla 
somma 
di 
queste”. 


Va 
precisato che 
allorché 
parte 
in giudizio è 
una 
Amministrazione 
dello 
Stato, anche 
ad ordinamento autonomo, opera 
la 
prenotazione 
a 
debito delle 
spese 
di 
giudizio 
regolata 
dall’art. 
158 
D.P.R. 
n. 
115/2002 
(5). 
Viene 
in 
rilievo 
l’annotazione 
a 
futura 
memoria 
di 
una 
voce 
di 
spesa, per la 
quale 
non vi 
è 
il 
pagamento, 
ai 
fini 
dell’eventuale 
successivo 
recupero. 
Si 
tratta 
in 
genere 
di 
imposte, tasse 
e 
tributi 
vari, ma 
non solo, che, nei 
casi 
espressamente 
previsti 
dalla 
legge, 
lo 
Stato 
non 
percepisce 
immediatamente, 
ma 
si 
limita 
ad 
annotare 
(non 
avendo 
senso 
un’anticipazione 
in 
favore 
di 
sé 
stesso) 
ai 
fini 
dell’eventuale 
successivo recupero (6). Ossia: 
se 
nella 
controversia 
lo Stato risulterà 
vincitore, 
si 
procederà 
al recupero nei confronti 
della 
controparte; se nella 
controversia 
lo 
Stato 
risulterà 
soccombente, 
si 
procederà 
al 
definitivo 
annullamento. 


Beneficiano 
di 
tale 
disciplina 
-da 
interpretare 
in 
senso 
restrittivo, 
in 
quanto derogatoria 
della 
regola 
generale 
del 
pagamento del 
contributo unificato 
-le 
Amministrazione 
dello 
Stato, 
anche 
ad 
ordinamento 
autonomo. 
Ossia: 


-Presidenza 
Consiglio 
dei 
ministri 
e 
organi 
alla 
stessa 
riconducibili, 
come 
gli 
organi 
delegati 
dell'Amministrazione 
centrale 
dello Stato quali 
i 
Commissari 
delegati 
in 
materia 
di 
protezione 
civile 
ex 
art. 
25, 
comma 
7, 
D.L.vo 
2 
gennaio 
2018 
n. 
1 
ed 
i 
Commissari 
Straordinari 
del 
governo 
ex 
art. 
11 
1. 
23 
agosto 
1988, n. 400; 


- Ministeri; 
-Amministrazioni 
dello 
Stato 
organizzate 
con 
ordinamento 
autonomo, 
(5) 
“1. 
Nel 
processo 
in 
cui 
è 
parte 
l'amministrazione 
pubblica, 
sono 
prenotati 
a 
debito, 
se 
a 
carico 
dell'amministrazione: a) il 
contributo unificato nel 
processo civile, nel 
processo amministrativo e 
nel 
processo tributario; b) l'imposta di 
bollo nel 
processo contabile; c) l'imposta di 
registro ai 
sensi 
del-
l'articolo 59, comma 1, lettere 
a) e 
b), del 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 26 aprile 
1986, n. 
131, nel 
processo civile 
e 
amministrativo; d) l'imposta ipotecaria e 
catastale 
ai 
sensi 
dell'articolo 16, 
comma 1, lettera e), del 
decreto legislativo 31 ottobre 
1990, n. 347; e) le 
spese 
forfettizzate 
per 
le 
notificazioni 
a richiesta d'ufficio nel 
processo civile. 2. Sono anticipate 
dall'erario le 
indennità di 
trasferta 
o le 
spese 
di 
spedizione 
degli 
ufficiali 
giudiziari 
per 
le 
notificazioni 
e 
gli 
atti 
di 
esecuzione 
a richiesta 
dell'amministrazione. 3. Le 
spese 
prenotate 
a debito e 
anticipate 
dall'erario sono recuperate 
dall'amministrazione, 
insieme 
alle 
altre 
spese 
anticipate, 
in 
caso 
di 
condanna 
dell'altra 
parte 
alla 
rifusione 
delle spese in proprio favore”. 
(6) 
Così: 
A. 
BRUNI, 
g. 
PALAtIELLO, 
La 
difesa 
dello 
Stato 
nel 
processo, 
UtEt 
giuridica, 
2011, 
p. 
194. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


come 
il 
Fondo 
edifici 
di 
culto 
(artt. 
56 
e 
ss. 
L. 
20 
maggio 
1985, 
n. 
222), 
i 
Conservatori 
di 
musica 
(L. 21 dicembre 
1999, n. 508) e, soprattutto, le 
Istituzioni 
scolastiche 
(Istituti 
e 
Scuole 
Statali). Alle 
Istituzioni 
scolastiche 
è 
stata 
attribuita, 
in virtù dell'articolo 21 della 
legge 
15 marzo 1997, n. 59, l'autonomia 
e 
la 
personalità 
giuridica; 
tali 
enti, 
tuttavia 
costituiscono 
altresì 
organi 
dello 
Stato 
atteso che sono compenetrati nell'Amministrazione dello Stato (7); 


-Agenzie 
fiscali 
(Agenzia 
delle 
entrate, Agenzia 
delle 
dogane 
e 
Agenzia 
del demanio) (8). 
3. C.d. spese legali. 
Le 
spese 
legali 
costituiscono 
la 
remunerazione 
per 
l’attività 
professionale 
prestata 
per la 
difesa 
della 
parte. giusta 
l’art. 24, comma 
2, Cost. “La difesa 
è 
diritto 
inviolabile 
in 
ogni 
stato 
e 
grado 
del 
procedimento”. 
Chi 
intende 
agire 


o resistere in giudizio ha l’onere di avvalersi di un difensore. 
tanto 
a 
mezzo 
della 
stipulazione 
di 
un 
contratto 
d’opera 
professionale 
(artt. 2222-2238 c.c.) oppure, nel 
caso dei 
non abbienti, in virtù di 
provvedimenti 
attributivi 
del 
patrocinio a 
spese 
dello Stato (secondo la 
disciplina 
contenuta 
negli artt. 137-139 D.P.R. n. 115/2002). 


Per 
gli 
enti 
impositori 
(“l'ufficio 
dell'agenzia 
delle 
entrate 
e 
dell'agenzia 
delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli 
di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300, 
gli 
altri 
enti 
impositori, 
l'agente 
della 
riscossione 
ed 
i 
soggetti 
iscritti 
nell'albo 
di 
cui 
all'articolo 
53 
del 
decreto 
legislativo 
15 
dicembre 
1997, 
n. 
446”: 
così 
l’art. 10 D.L.vo n. 546/1992) vi 
è 
una 
normativa 
speciale, che 
faculta 
anche 
la 
difesa 
personale 
con un peculiare 
regime 
circa 
le 
spese 
legali, 
contenuta 
nell’art. 
11, 
commi 
2 
e 
3, 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
secondo 
cui 
“L'ufficio 
dell'agenzia delle 
entrate 
e 
dell'agenzia delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 nonché 
dell'agente 
della riscossione, 
nei 
cui 
confronti 
è 
proposto il 
ricorso, sta in giudizio direttamente 
o 
mediante 
la struttura territoriale 
sovraordinata. Stanno altresì 
in giudizio direttamente 
le 
cancellerie 
o segreterie 
degli 
uffici 
giudiziari 
per 
il 
contenzioso 
in materia di 
contributo unificato. L'ente 
locale 
nei 
cui 
confronti 
è 
proposto il 
ricorso può stare 
in giudizio anche 
mediante 
il 
dirigente 
dell'ufficio tributi, 
ovvero, 
per 
gli 
enti 
locali 
privi 
di 
figura 
dirigenziale, 
mediante 
il 
titolare 
della 
posizione 
organizzativa in cui 
è 
collocato detto ufficio”. 
Inoltre, le 
Agenzie 
delle 
entrate, delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli 
di 
cui 
al 
D.L.vo 30 luglio 1999, n. 
300, 
possono 
essere 
assistite 
-nei 
due 
giudizi 
di 
merito 
-dall'Avvocatura 
dello 
Stato 
(così 
l’art. 
12, 
comma 
8, 
D.L.vo 
n. 
546/1992, 
in 
raccordo 
all’art. 
72 


(7) Conf. Cass., 13 luglio 2004, n. 12977; Cons. Stato, 27 novembre 2019, n. 808. 
(8) Art. 12, comma 
5, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. L. 26 aprile 
2012, n. 44: 
“Le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 158 del 
testo unico delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
in materia di 
spese 
di 
giustizia, di 
cui 
al 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 30 maggio 2002, n. 115, si 
applicano alle 
agenzie fiscali delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio”. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


D.L.vo n. 300/1999 secondo cui 
“Le 
agenzie 
fiscali 
possono avvalersi 
del 
patrocinio 
dell'avvocatura dello Stato, ai 
sensi 
dell'articolo 43 del 
testo unico 
approvato con regio decreto 30 ottobre 
1933, n. 1611, e 
successive 
modificazioni”); 
assistenza 
che 
è 
necessaria, secondo la 
disciplina 
dell’art. 43 R.D. n. 
1611/1933, nel giudizio di legittimità. 


La 
parametrazione 
del 
compenso 
viene 
fissata, 
giusta 
la 
normativa 
in 
materia, 
da 
un 
regolamento 
ministeriale 
(9). 
La 
remunerazione 
del 
difensore 
comprende 
l’onorario, 
le 
spese 
vive 
documentate 
ed 
altresì 
un 
rimborso 
forfettario 
del 15% per le spese generali. 


4. La regolazione 
delle 
spese 
processuali 
secondo la disciplina antecedente 
al D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546. 
Nella 
normativa 
previgente 
al 
D.L.vo n. 546/1992 -contenuta 
nel 
D.P.R. 
26 ottobre 
1972, n. 636 avente 
ad oggetto “revisione 
della disciplina del 
contenzioso 
tributario” 
-era 
previsto che 
“al 
procedimento dinanzi 
alle 
commissioni 
tributarie 
si 
applicano, in quanto compatibili 
con le 
norme 
del 
presente 
decreto e 
delle 
leggi 
che 
disciplinano le 
singole 
imposte, le 
norme 
contenute 
nel 
libro i del 
codice 
di 
procedura civile, con esclusione 
degli 
articoli 
da 61 
a 67, dell'art. 68, primo e 
secondo comma, degli 
articoli 
da 90 a 97” 
(art. 39, 
comma 
1, D.P.R. n. 636/1972, anche 
dopo la 
novella 
operata 
con l'art. 1, L. 
22 maggio 1989, n. 198; sottolineatura aggiunta). 


testualmente 
-nel 
difetto di 
una 
espressa 
disciplina, confermata 
da 
una 
espressa 
esclusione 
dell’applicazione 
degli 
articoli 
del 
codice 
di 
rito civile 
non 
operava 
il 
governo delle 
spese 
nel 
processo tributario. tanto, deve 
ritenersi, 
per 
l’assenza 
dell’obbligo 
della 
assistenza 
tecnica 
in 
giudizio 
in 
uno 
alle 
incertezze 
ed 
ambiguità 
illo 
tempore 
sulla 
natura 
giurisdizionale 
o 
amministrativa 
delle Commissioni tributarie. 


5. La regolazione vigente delle spese processuali. 
tra 
le 
disposizioni 
generali 
sul 
processo tributario, contenute 
nel 
D.L.vo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546, 
vi 
è 
l’art. 
15 
(significativamente 
novellato 
nel 
2015), avente 
ad oggetto la 
regolazione 
delle 
spese 
di 
giudizio, il 
quale 
così 
dispone: 


“1. 
La 
parte 
soccombente 
è 
condannata 
a 
rimborsare 
le 
spese 
del 
giudizio 
che sono liquidate con la sentenza. 

2. 
Le 
spese 
di 
giudizio 
possono 
essere 
compensate 
in 
tutto 
o 
in 
parte 
dalla 
commissione 
tributaria 
soltanto 
in 
caso 
di 
soccombenza 
reciproca 
o 
qualora 
sussistano 
gravi 
ed 
eccezionali 
ragioni 
che 
devono 
essere 
espressamente 
motivate. 
(9) All’attualità: 
Decreto 10 marzo 2014, n. 55 contenente 
il 
“regolamento recante 
la determinazione 
dei 
parametri 
per 
la liquidazione 
dei 
compensi 
per 
la professione 
forense, ai 
sensi 
dell'articolo 
13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


2-bis. Si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 96, commi 
primo e 
terzo, del codice di procedura civile. 

2-ter. Le 
spese 
di 
giudizio comprendono, oltre 
al 
contributo unificato, gli 
onorari 
e 
i 
diritti 
del 
difensore, le 
spese 
generali 
e 
gli 
esborsi 
sostenuti, oltre 
il contributo previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti. 

2-quater. Con l'ordinanza che 
decide 
sulle 
istanze 
cautelari 
la commissione 
provvede 
sulle 
spese 
della relativa fase. La pronuncia sulle 
spese 
conserva 
efficacia 
anche 
dopo 
il 
provvedimento 
che 
definisce 
il 
giudizio, 
salvo 
diversa statuizione espressa nella sentenza di merito. 


2-quinquies. 
i 
compensi 
agli 
incaricati 
dell'assistenza 
tecnica 
sono 
liquidati 
sulla base 
dei 
parametri 
previsti 
per 
le 
singole 
categorie 
professionali. 
agli 
iscritti 
negli 
elenchi 
di 
cui 
all'articolo 12, comma 4, si 
applicano i 
parametri 
previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili. 

2-sexies. 
Nella 
liquidazione 
delle 
spese 
a 
favore 
dell'ente 
impositore, 
del-
l'agente 
della riscossione 
e 
dei 
soggetti 
iscritti 
nell'albo di 
cui 
all'articolo 53 
del 
decreto legislativo 15 dicembre 
1997, n. 446, se 
assistiti 
da propri 
funzionari, 
si 
applicano le 
disposizioni 
per 
la liquidazione 
del 
compenso spettante 
agli 
avvocati, con la riduzione 
del 
venti 
per 
cento dell'importo complessivo 
ivi 
previsto. La riscossione 
avviene 
mediante 
iscrizione 
a ruolo a titolo definitivo 
dopo il passaggio in giudicato della sentenza. 

2-septies. 
Nelle 
controversie 
di 
cui 
all'articolo 
17-bis 
le 
spese 
di 
giudizio 
di 
cui 
al 
comma 1 sono maggiorate 
del 
50 per 
cento a titolo di 
rimborso delle 
maggiori spese del procedimento. 

2-octies. 
Qualora 
una 
delle 
parti 
abbia 
formulato 
una 
proposta 
conciliativa, 
non 
accettata 
dall'altra 
parte 
senza 
giustificato 
motivo, 
restano 
a 
carico 
di 
quest'ultima 
le 
spese 
del 
processo 
ove 
il 
riconoscimento 
delle 
sue 
pretese 
risulti 
inferiore 
al 
contenuto 
della 
proposta 
ad 
essa 
effettuata. 
Se 
è 
intervenuta 
conciliazione 
le 
spese 
si 
intendono 
compensate, 
salvo 
che 
le 
parti 
stesse 
abbiano 
diversamente 
convenuto 
nel 
processo 
verbale 
di 
conciliazione”. 


All’evidenza 
la 
disciplina 
dell’art. 15 citato richiama, testualmente 
o con 
recezione del contenuto, la disciplina contenuta nel codice di rito civile (10). 


La 
disposizione 
costituisce 
trama 
coerente 
con 
la 
necessità 
della 
assi


(10) 
Sulla 
materia 
delle 
spese 
nel 
processo 
tributario: 
V. 
BARtOLI, 
F. 
PODDIgHE, 
La 
disciplina 
delle 
spese 
nel 
processo 
tributario, 
in 
Fisco, 
2000, 
27, 
pp. 
8970 
e 
ss.; 
A. 
ROSSI, 
Condanna 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
giudizio 
nel 
contenzioso 
tributario, 
in 
Fisco, 
2001, 
38, 
pp. 
12503 
e 
ss.; 
F. 
RUSSO, 
Le 
spese 
processuali 
nel 
processo 
tributario, 
in 
Fisco, 
2009, 
12 
-parte 
1, 
pp. 
1898 
e 
ss.; 
M. 
SCUFFI, 
regolamentazione 
e 
liquidazione 
delle 
spese 
nel 
giudizio 
tributario, 
in 
Fisco, 
2013, 
3 
-parte 
1, 
pp. 
363 
e 
ss.; 
A. 
RUSSO, 
revisione 
delle 
spese 
di 
lite 
nel 
processo 
tributario, 
in 
Fisco, 
2015, 
44, 
pp. 
4231 
e 
ss.; 
M. 
LUPANO, 
Spese 
nel 
processo 
tributario 
-compensazione 
delle 
spese 
nel 
processo 
tributario, 
in 
Giur. 
it., 
2018, 
3, 
pp. 
625 
e 
ss.; 
F. 
CORDA, 
Le 
spese 
giudiziali 
nel 
processo 
tributario, 
in 
Dir. 
e 
Prat. 
Trib., 
2018, 
4, 
pp. 
1539 
e 
ss. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


stenza 
tecnica 
in 
giudizio 
come 
regolata 
dall’art. 
12 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
(11), 
in 
uno 
con 
la 
consapevolezza 
della 
natura 
giurisdizionale 
delle 
Commissioni 
tributarie. 
Si 
ricorda, 
infatti, 
che 
le 
Commissioni 
tributarie 
sono 
organi 
preesistenti 
alla 
Costituzione 
dalla 
originaria 
dubbia 
natura 
giuridica; 
successivamente 
si 
è 
consolidata 
la 
tesi 
della 
natura 
di 
giudice 
speciale 
delle 
stesse. 


Il 
giudice 
deve 
pronunciare 
d’ufficio sulle 
spese. Nel 
caso in cui 
il 
giudizio 
sia 
dichiarato 
estinto 
per 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
(12), 
permanendo 
tra 
le 
parti 
un 
contrasto 
circa 
l’onere 
delle 
spese, 
il 
giudice 
deve 
procedere 
ai 
necessari 
accertamenti 
sulla 
fondatezza 
delle 
domande 
e 
delle 
eccezioni 
delle 
parti 
medesime, al 
fine 
di 
stabilire 
quale 
sarebbe 
stata 
l’incidenza 
della 
soccombenza 
(c.d. 
soccombenza 
virtuale) 
se 
il 
giudizio 
fosse 
stato 
definito con pronuncia di merito, decidendo così sulle spese. 


(11) 
“1. 
Le 
parti, 
diverse 
dagli 
enti 
impositori, 
dagli 
agenti 
della 
riscossione 
e 
dai 
soggetti 
iscritti 
nell'albo di 
cui 
all'articolo 53 del 
decreto legislativo 15 dicembre 
1997, n. 446, devono essere 
assistite 
in giudizio da un difensore abilitato. 
2. Per 
le 
controversie 
di 
valore 
fino a tremila euro le 
parti 
possono stare 
in giudizio senza assistenza 
tecnica. 
Per 
valore 
della 
lite 
si 
intende 
l'importo 
del 
tributo 
al 
netto 
degli 
interessi 
e 
delle 
eventuali 
sanzioni 
irrogate 
con l'atto impugnato; in caso di 
controversie 
relative 
esclusivamente 
alle 
irrogazioni 
di 
sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste. 
3. 
Sono 
abilitati 
all'assistenza 
tecnica, 
se 
iscritti 
nei 
relativi 
albi 
professionali 
o 
nell'elenco 
di 
cui 
al 
comma 4: 
a) gli 
avvocati; b) i 
soggetti 
iscritti 
nella Sezione 
a 
commercialisti 
dell'albo dei 
dottori 
commercialisti 
e degli esperti contabili; c) i consulenti del lavoro; 
[…] 
5. Per 
le 
controversie 
di 
cui 
all'articolo 2, comma 2, primo periodo, sono anche 
abilitati 
all'assistenza 
tecnica, se 
iscritti 
nei 
relativi 
albi 
professionali: a) gli 
ingegneri; b) gli 
architetti; c) i 
geometri; d) i 
periti industriali; e) i dottori agronomi e forestali; f) gli agrotecnici; g) i periti agrari. 
6. Per 
le 
controversie 
relative 
ai 
tributi 
doganali 
sono anche 
abilitati 
all'assistenza tecnica gli 
spedizionieri 
doganali iscritti nell'apposito albo. 
7. 
ai 
difensori 
di 
cui 
ai 
commi 
da 
1 
a 
6 
deve 
essere 
conferito 
l'incarico 
con 
atto 
pubblico 
o 
con 
scrittura 
privata 
autenticata 
od 
anche 
in 
calce 
o 
a 
margine 
di 
un 
atto 
del 
processo, 
nel 
qual 
caso 
la 
sottoscrizione 
autografa 
è 
certificata 
dallo 
stesso 
incaricato. 
all'udienza 
pubblica 
l'incarico 
può 
essere 
conferito 
oralmente 
e se ne dà atto a verbale. 
8. Le 
agenzie 
delle 
entrate, delle 
dogane 
e 
dei 
monopoli 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 
300, possono essere assistite dall'avvocatura dello Stato. 
9. 
i 
soggetti 
in 
possesso 
dei 
requisiti 
richiesti 
nei 
commi 
3, 
5 
e 
6 
possono 
stare 
in 
giudizio 
personalmente, 
ferme restando le limitazioni all'oggetto della loro attività previste nei medesimi commi. 
10. Si 
applica l'articolo 182 del 
codice 
di 
procedura civile 
ed i 
relativi 
provvedimenti 
sono emessi 
dal 
presidente della commissione o della sezione o dal collegio”. 
(12) Art. 46 D.L.vo n. 546/1992 (Estinzione 
del 
giudizio per cessazione 
della 
materia 
del 
contendere): 
“1. il 
giudizio si 
estingue, in tutto o in parte, nei 
casi 
di 
definizione 
delle 
pendenze 
tributarie 
previsti 
dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere. 
2. La cessazione 
della materia del 
contendere 
è 
dichiarata con decreto del 
presidente 
o con sentenza 
della commissione. il provvedimento presidenziale è reclamabile a norma dell'art. 28. 
3. Nei 
casi 
di 
definizione 
delle 
pendenze 
tributarie 
previsti 
dalla legge 
le 
spese 
del 
giudizio estinto restano 
a carico della parte che le ha anticipate”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


6. il principio di soccombenza nel governo delle spese. 
Il 
comma 
1 del 
citato art. 15 -secondo cui 
“La parte 
soccombente 
è 
condannata 
a 
rimborsare 
le 
spese 
del 
giudizio 
che 
sono 
liquidate 
con 
la 
sentenza” 


-itera 
i 
contenuti 
dell’art. 91, comma 
1, primo periodo, c.p.c. (13). Con esso 
si 
fissa 
nel 
processo tributario, e 
per tutti 
i 
tipi 
di 
giudizi 
-quale 
canone 
regolatorio 
nel 
governo delle 
spese 
-il 
principio di 
soccombenza. La 
liquidazione 
prescinde dal deposito della nota spese a sensi dell'art. 75 att. c.p.c. 
La 
condanna 
al 
rimborso delle 
spese 
di 
giudizio trova 
il 
suo fondamento 
nell'esigenza 
di 
evitare 
una 
diminuzione 
patrimoniale 
alla 
parte 
che 
ha 
dovuto 
svolgere 
un'attività 
processuale 
per 
ottenere 
il 
riconoscimento 
di 
un 
suo 
diritto: 
essa 
quindi 
non 
ha 
natura 
sanzionatoria, 
né 
avviene 
a 
titolo 
di 
risarcimento 
dei 
danni 
-costituendo 
il 
comportamento 
del 
soccombente 
esercizio 
del 
diritto 
di 
difesa 
in 
giudizio 
-ma 
è 
conseguenza 
oggettiva 
della 
soccombenza, 
rispondendo 
alla 
necessità 
di 
ristorare 
la 
parte 
vittoriosa 
dagli 
oneri 
inerenti 
al 
dispendio 
di 
attività 
processuale 
legata 
all'iniziativa 
od 
al 
comportamento 
dell'avversario. 
tanto 
in 
coerenza 
con 
il 
principio 
chiovendiano 
che 
il 
processo 
deve dare tutto, ma proprio tutto alla parte che ha ragione. 


Parte 
soccombente 
è 
quindi 
in 
generale 
quella 
che, 
lasciando 
insoddisfatta 
una 
pretesa 
riconosciuta 
come 
fondata 
o azionando una 
pretesa 
riconosciuta 
infondata, 
abbia 
dato 
causa 
alla 
lite. 
La 
soccombenza 
può 
tuttavia 
derivare 
anche 
da 
ragioni 
di 
carattere 
meramente 
processuale, indipendentemente 
dal 
merito 
della 
questione 
controversa 
(ad 
esempio, 
per 
inammissibilità 
del 
ricorso, 
pur se 
fondato). L'individuazione 
della 
parte 
soccombente, ai 
fini 
della 
condanna 
alle 
spese, 
deve 
essere 
operata 
in 
considerazione 
dell'esito 
finale 
della 
controversia 
sulla 
base 
di 
una 
valutazione 
globale 
ed unitaria, senza 
che 
possa 
rilevare 
l'esito 
di 
una 
particolare 
fase 
del 
processo 
e 
senza 
poter 
separare 
l'esito 
del 
giudizio 
di 
impugnazione 
dai 
risultati 
totali 
del 
processo 
(se 
non 
per 
quanto concerne la possibilità di compensazione). 

Alla 
parte 
vincitrice 
la 
rifusione 
delle 
spese 
processuali 
spetta 
solo per le 
spese 
effettivamente 
sostenute 
e 
per il 
solo fatto oggettivo della 
soccombenza 
della 
controparte, 
quale 
che 
sia 
stata 
la 
posizione 
assunta 
da 
questa 
in 
sede 
processuale. La 
condanna 
al 
rimborso delle 
spese 
non può essere 
quindi 
pronunciata 
in 
favore 
del 
contumace 
vittorioso, 
poiché 
tale 
parte, 
non 
avendo 
spiegato 
alcuna 
attività 
processuale, 
non 
ha 
sopportato 
alcuna 
spesa 
al 
cui 
rimborso 
abbia diritto (14). 

La 
parte 
(privata) vittoriosa 
ha 
diritto al 
rimborso diretto delle 
spese 
dal 


(13) “il 
giudice, con la sentenza che 
chiude 
il 
processo davanti 
a lui, condanna la parte 
soccombente 
al 
rimborso delle 
spese 
a favore 
dell'altra parte 
e 
ne 
liquida l'ammontare 
insieme 
con gli 
onorari 
di difesa”. 
(14) Per tali 
rilievi 
A. ROSSI, Condanna al 
pagamento delle 
spese 
di 
giudizio nel 
contenzioso tributario, 
cit. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


soccombente, sia 
se 
costituita 
a 
mezzo di 
assistenza 
tecnica 
sia 
se 
sta 
in giudizio 
personalmente 
come 
previsto dall'art. 12, comma 
2, del 
D.L.vo (per le 
controversie 
di 
valore 
fino a 
tremila 
euro), anche 
se 
si 
ritiene 
che 
il 
ristoro, in 
questo 
caso, 
non 
possa 
superare 
le 
spese 
vive 
sostenute 
(in 
pratica 
il 
contributo 
unificato) (15). 


Le 
parti 
coinvolte 
nella 
condanna 
alle 
spese 
non 
sono 
solo 
l’attore 
e 
il 
convenuto, ma 
anche 
l’interveniente 
ex 
art. 14 D.L.vo n. 546/1992. Ciò in ossequio 
ai 
principi 
per i 
quali 
parte 
soccombente 
può essere 
l’attore, il 
convenuto 
e qualunque intervenuto (16). 

La 
sentenza 
che 
chiude 
il 
processo -nella 
pacifica 
interpretazione 
dottrinale 
(17) e 
giurisprudenziale 
(18) -è 
la 
sentenza 
definitiva 
che 
decide 
totalmente 
il 
merito 
della 
lite 
oppure 
una 
questione, 
pregiudiziale 
di 
rito 
o 
di 
merito 


o 
preliminare 
di 
merito, 
in 
senso 
ostativo 
alla 
prosecuzione 
del 
giudizio. 
Quanto 
ricostruito 
trova 
conferma 
nel 
D.L.vo 
n. 
546/1992, 
che 
all’art. 
5, 
comma 
3, qualifica 
come 
sentenza 
il 
provvedimento con il 
quale 
la 
commissione 
tributaria 
dichiara 
la 
propria 
incompetenza; 
ciò in uno agli 
artt. 35 e 
36, 
per i 
quali 
il 
provvedimento definitorio del 
giudizio -sia 
in rito che 
sul 
merito 
-è 
di 
norma 
la 
sentenza, la 
quale, poi, deve 
essere 
definitiva 
(art. 35, comma 
3: 
“alle 
deliberazioni 
del 
collegio si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
276 
e 
seguenti 
del 
codice 
di 
procedura 
civile. 
Non 
sono 
tuttavia 
ammesse 
sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande”). 
La 
dottrina 
processualcivilistica 
evidenzia 
che 
il 
provvedimento 
che 
contiene 
la 
condanna 
alle 
spese 
può anche 
non essere 
una 
sentenza 
(ad esempio, 
un’ordinanza 
o un decreto), ma 
deve 
trattarsi 
di 
una 
pronuncia 
che 
definisce 
il 
processo 
davanti 
al 
giudice 
che 
la 
emette, 
tenendo 
conto 
dell’esito 
complessivo 
della 
lite 
(19). Analogo rilievo vale 
per il 
processo tributario. All’uopo si 


(15) Così 
M. SCUFFI, regolamentazione 
e 
liquidazione 
delle 
spese 
nel 
giudizio tributario, cit., il 
quale 
precisa 
che 
una 
lettura 
costituzionalmente 
orientata 
dell'art. 15 del 
D.L.vo n. 546/1992 non consente 
un 
diverso 
trattamento 
nelle 
due 
ipotesi, 
tanto 
più 
che 
l'ufficio 
o 
l'ente 
locale, 
ove 
assistito 
da 
propri 
funzionari 
o dipendenti, conserva 
pur sempre 
il 
diritto alla 
liquidazione 
(ancorché 
decurtato nel-
l'onorario del 20%) a sensi dell'art. 15, comma 2 sexies, del D.L.vo n. 546/1992. 
(16) Così 
S. SAttA, Commentario al 
codice 
di 
procedura civile, Libro primo, Milano, Vallardi, 
1959, p. 301. 
(17) 
Ex 
plurimis: 
C. MANDRIOLI, A. CARRAttA, Diritto processuale 
civile, vol. I, torino, giappichelli, 
2016, 25° ed., p. 424; S. SAttA, Commentario al codice di procedura civile, cit., p. 302. 
(18) 
Ex 
plurimis: 
Cass., 
8 
maggio 
1992, 
n. 
5504; 
19 
gennaio1999, 
n. 
469, 
che 
precisa 
“in 
relazione 
al 
concetto di 
sentenza che 
chiude 
il 
processo, ai 
sensi 
dell’art. 91 non si 
richiede 
esclusivamente 
una 
soccombenza in merito, rilevando anche 
una soccombenza per 
ragioni 
di 
ordine 
processuale 
(Cass. 6 
marzo 1987, n. 2377), purché 
la pronuncia che 
la dichiari, in forma di 
sentenza, chiuda il 
processo davanti 
al 
giudice, cioè 
sia conclusiva almeno di 
una fase 
del 
giudizio. in particolare, la giurisprudenza 
ha 
già 
avuto 
modo 
di 
rilevare 
come, 
agli 
effetti 
del 
regolamento 
delle 
spese 
processuali, 
la 
soccombenza 
ben può essere 
determinata, anziché 
da ragioni 
di 
merito, dall’avere 
la parte 
attrice 
adito un giudice 
privo di 
giurisdizione 
o di 
competenza, ricorrendo pure 
in tal 
caso il 
mancato accoglimento della domanda, 
ancorché 
per 
un 
impedimento 
di 
carattere 
processuale 
(Cass., 
Sez. 
lav., 
9 
agosto 
1996, 
n. 
7389)”. 
(19) C. MANDRIOLI, A. CARRAttA, Diritto processuale civile, cit., 425, in nota. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


richiama 
il 
decreto 
del 
Presidente 
ex 
art. 
46, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
dichiarativo 
della cessazione della materia del contendere. 


Nell’ambito 
della 
regolazione 
del 
principio 
di 
soccombenza 
vi 
è 
il 
testuale 
richiamo -con il 
comma 
2 bis 
dell’art. 15 -dei 
commi 
1 e 
3 dell’art. 96 c.p.c. 
sulla responsabilità aggravata, i quali così dispongono: 


-“Se 
risulta che 
la parte 
soccombente 
ha agito o resistito in giudizio con 
mala fede 
o colpa grave, il 
giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, 
oltre 
che 
alle 
spese, 
al 
risarcimento 
dei 
danni, 
che 
liquida, 
anche 
d'ufficio, 
nella 
sentenza” 
(comma 
1). 
La 
mala 
fede 
implica 
intenzionalità 
dannosa 
e 
consapevolezza, 
mentre 
la 
colpa 
grave 
esclude 
la 
volontarietà, 
ma 
non 
si 
esaurisce 
solo 
-come 
la 
colpa 
c.d. 
lieve 
-nella 
negligenza, 
imprudenza 
o 
imperizia, 
dovendo le 
stesse 
esser elevate, macroscopiche. Si 
deve 
trattare, insomma, di 
violazioni 
grossolane 
del 
dovere 
di 
diligenza, di 
prudenza 
e 
perizia 
(non intelligere 
quod omnes 
intelligunt). È 
questa 
la 
responsabilità 
aggravata 
per lite 
temeraria 
(responsabilità 
processuale 
speciale 
rispetto alla 
generale 
responsabilità 
extracontrattuale 
prevista 
e 
disciplinata 
agli 
artt. 2043 ss. c.c.), allorché 
il 
comportamento del 
soggetto, che 
agisce 
o resiste 
in giudizio, assume 
modalità 
illecite 
che 
si 
sostanziano in abuso del 
diritto ad agire 
o resistere 
in giudizio; 
-“in ogni 
caso, quando pronuncia sulle 
spese 
ai 
sensi 
dell’articolo 91, il 
giudice, anche 
d’ufficio, può altresì 
condannare 
la parte 
soccombente 
al 
pagamento, 
a favore 
della controparte, di 
una somma equitativamente 
determinata” 
(comma 
3). 
All’evidenza, 
se 
viene 
constatato 
un 
comportamento 
socialmente 
e 
civilmente 
censurabile 
(dolo, colpa 
grave), il 
giudice 
può condannare 
il 
soccombente 
a 
pagare 
non solo le 
spese 
di 
lite 
ma 
anche 
i 
cd. danni 
punitivi, con finalità deterrente. 
La 
disposizione 
costituisce 
una 
eccezionale 
ipotesi 
di 
c.d. danni 
punitivi, 
ossia 
ulteriori 
rispetto ai 
danni 
effettivamente 
subiti. Circa 
i 
danni 
punitivi 
si 
è 
rilevato 
che 
-sulla 
premessa 
che 
a 
nessuno 
dovrebbe 
essere 
concessa 
la 
possibilità 
di 
trarre 
profitto dal 
compimento di 
una 
condotta 
illecita 
-“questa articolazione 
risarcitoria 
conferisce 
alla 
vittima 
dell’illecito 
l’opportunità 
di 
ottenere 
una 
sanzione 
esemplare 
nei 
confronti 
di 
chi 
ha 
commesso 
in 
mala 
fede un atto particolarmente grave e riprovevole” (20). 


Si 
è 
evidenziata 
la 
portata 
eccezionale 
della 
disposizione. Ciò in quanto 
nell’ordinamento 
giuridico 
italiano 
-a 
differenza 
di 
altre 
esperienze 
giuridiche, 
ad es. statunitense 
-la 
regola 
è 
che 
il 
danno risarcibile 
è 
determinato in via 
primaria 
dal 
principio 
di 
causalità: 
il 
debitore 
è 
tenuto 
al 
risarcimento 
del 
danno che 
è 
conseguenza 
immediata 
e 
diretta 
dell’inadempimento (art. 1223 
c.c., 
disposizione 
richiamata, 
in 
materia 
di 
danno 
aquiliano, 
dall’art. 
2056 
c.c.). 


(20) 
Così 
R. 
PARDOLESI, 
voce 
Danni 
punitivi, 
in 
Dig. 
disc. 
priv. 
(sez. 
civ. 
-Aggiornamento), 
torino, 
UtEt, 2007, I, pp. 452 ss. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Alla 
base 
di 
questa 
regola 
sta 
il 
principio del 
danno effettivo: 
l’obbligo del 
risarcimento 
deve 
adeguarsi 
al 
danno 
effettivamente 
subito 
dal 
creditore, 
il 
quale 
non deve 
ricevere 
né 
più né 
meno di 
quanto necessario a 
rimuovere 
gli 
effetti 
economici 
negativi 
dell’inadempimento 
o 
dell’illecito. 
Non 
sono 
ammessi, 
pertanto, a 
legislazione 
vigente, i 
c.d. danni 
punitivi. Non è, cioè, ammesso il 
risarcimento 
in 
funzione 
punitiva 
del 
danneggiante. 
È 
infatti 
estranea 
al 
nostro 
ordinamento l’idea 
che 
il 
risarcimento del 
danno possa 
avere 
una 
funzione 
afflittiva 
per il 
danneggiante 
(21). Questa 
è 
la 
regola. L’ordinamento potrebbe 
tuttavia, con una 
norma 
ad hoc, introdurre 
-per la 
tutela 
di 
interessi 
costituzionalmente 
tutelati 
-ipotesi 
di 
danni 
punitivi. Uno di 
questi 
casi 
è, appunto, 
la disposizione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. (22). 

Il 
principio 
di 
soccombenza 
viene 
applicato 
anche 
al 
procedimento 
cautelare, 
sulla 
falsariga 
della 
disciplina 
processualcivilistica 
(art. 
669 
septies, 
commi 
2 
e 
3 
c.p.c. 
per 
il 
caso 
di 
provvedimento 
negativo; 
art. 
669 
octies, 
comma 
7, 
c.p.c. 
per 
il 
caso 
del 
provvedimento 
di 
accoglimento) 
e 
del 
processo 
amministrativo 
(art. 
57 
c.p.a.) 
(23). 
tanto 
con 
la 
disposizione 
dell’art. 
15, 
2-quater, 
per 
la 
quale 
“Con 
l'ordinanza 
che 
decide 
sulle 
istanze 
cautelari 
la 
commissione 
provvede 
sulle 
spese 
della 
relativa 
fase. 
La 
pronuncia 
sulle 
spese 
conserva 
efficacia 
anche 
dopo 
il 
provvedimento 
che 
definisce 
il 
giudizio, 
salvo 
diversa 
statuizione 
espressa 
nella 
sentenza 
di 
merito”. 
Disposizione 
iterativa 
-anche 
nel 
tenore 
letterale 
-della 
disciplina 
operante 
per 
il 
processo 
amministrativo. 


7. Compensazione delle spese. 
Il 
comma 
2 
dell’art. 
15 
disciplina 
la 
compensazione 
delle 
spese 
di 
lite: 
“Le 
spese 
di 
giudizio 
possono 
essere 
compensate 
in 
tutto 
o 
in 
parte 
dalla 
commissione 
tributaria 
soltanto 
in 
caso 
di 
soccombenza 
reciproca 
o 
qualora 
sussistano 
gravi 
ed 
eccezionali 
ragioni 
che 
devono 
essere 
espressamente 
motivate”. 


Questa 
disposizione 
contiene 
una 
disciplina 
identica 
a 
quella 
operante 


(21) 
Per 
tali 
aspetti: 
C.M. 
BIANCA, 
Diritto 
civile. 
5. 
La 
responsabilità, 
II 
edizione, 
Milano, 
giuffré, 
2012, pp. 140-141. 
(22) 
Altre 
ipotesi 
sono: 
la 
misura 
coercitiva 
di 
cui 
all’art. 
614 
bis 
c.p.c.; 
l’ipotesi 
dell’art. 
125 
D.L.vo 10 febbraio 2005, n. 30 contenente 
il 
Codice 
della 
Proprietà 
Industriale 
(“1. il 
risarcimento dovuto 
al 
danneggiato 
è 
liquidato 
secondo 
le 
disposizioni 
degli 
articoli 
1223, 
1226 
e 
1227 
del 
codice 
civile, tenuto conto di 
tutti 
gli 
aspetti 
pertinenti, quali 
le 
conseguenze 
economiche 
negative, compreso 
il 
mancato guadagno, del 
titolare 
del 
diritto leso, i 
benefici 
realizzati 
dall'autore 
della violazione 
e, nei 
casi 
appropriati, elementi 
diversi 
da quelli 
economici, come 
il 
danno morale 
arrecato al 
titolare 
del 
diritto 
dalla violazione. 
[…]); 
la 
riparazione 
pecuniaria 
ex 
art. 12 L. 8 febbraio 1948, n. 47 sulla 
stampa 
(“Nel 
caso di 
diffamazione 
commessa col 
mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre 
il 
risarcimento dei 
danni 
ai 
sensi 
dell'art. 185 del 
Codice 
penale, una somma a titolo di 
riparazione. La 
somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato”). 
(23) Art. 57 c.p.a.: 
“Con l'ordinanza che 
decide 
sulla domanda il 
giudice 
provvede 
sulle 
spese 
della fase 
cautelare. La pronuncia sulle 
spese 
conserva efficacia anche 
dopo il 
provvedimento che 
definisce 
il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


per il 
processo civile 
con l’art. 92, comma 
2, c.p.c. come 
integrato dalla 
sentenza 
della Corte Costituzionale del 19 aprile 2018, n. 77 (24). 


Molto importante 
è 
delineare 
i 
casi 
nei 
quali 
è 
possibile 
disporre 
la 
compensazione 
delle spese. 

Il 
caso più rilevante 
è 
quello della 
soccombenza 
reciproca. All’uopo va 
premesso che 
qualsivoglia 
eccezione, di 
rito (25) o di 
merito (26), sollevata 
dal 
resistente 
a 
contrasto 
delle 
pretese 
del 
ricorrente, 
tecnicamente, 
integra 
una 
domanda 
processuale, sulla 
quale 
matura 
anche 
la 
soccombenza 
nell’ipotesi 
di 
rigetto della 
stessa. Analoga 
situazione 
si 
ha 
nel 
caso della 
mera 
contestazione 
dei 
fatti 
costitutivi 
delle 
pretese 
del 
ricorrente 
ad 
opera 
del 
resistente, 
con richiesta 
di 
rigetto, nel 
merito, delle 
dette 
pretese. La 
sentenza 
che 
chiude 
il 
processo, per i 
principi 
generali, è 
la 
sentenza 
definitiva 
che 
decide 
totalmente 
il 
merito 
della 
lite 
oppure 
una 
questione, 
pregiudiziale 
di 
rito 
o 
di 
merito 


o 
preliminare 
di 
merito, 
in 
senso 
ostativo 
alla 
prosecuzione 
del 
giudizio. 
Il 
caso 
del 
resistente 
che 
soccombe 
sulle 
eccezioni 
processuali, 
preliminari 
e 
pregiudiziali 
e 
vince 
nel 
merito 
integra 
l’esemplificazione 
tipica 
della 
soccombenza 
reciproca, 
in 
presenza 
della 
quale 
il 
giudice, 
in 
ossequio 
al 
comma 
2 
dell’art. 15, può compensare 
le 
spese 
tra 
le 
parti. La 
situazione 
de 
qua 
è 
speculare 
al 
caso della 
domanda 
del 
ricorrente 
accolta 
sulla 
base 
di 
una 
sola 
delle 
argomentazioni 
svolte 
o 
al 
caso 
dell’accoglimento 
solo 
di 
alcuni 
capi 
del-
l’unica 
domanda 
proposta: 
anche 
in questo caso ricorre 
la 
soccombenza 
reciproca. 
Al 
lume 
dell’insegnamento 
della 
Cassazione, 
la 
disciplina 
della 
soccombenza 
reciproca 
deve 
essere 
letta 
in senso ampio, in quanto essa 
sottende 
“una 
pluralità 
di 
domande 
contrapposte, 
accolte 
o 
rigettate 
e 
che 
si 
siano 
trovate 
in 
cumulo 
nel 
medesimo 
processo 
fra 
le 
stesse 
parti 
ovvero 
anche 
l’accoglimento parziale 
dell’unica domanda proposta, allorché 
essa sia stata 
articolata in più capi 
e 
ne 
siano stati 
accolti 
uno o alcuni 
e 
rigettati 
gli 
altri 
ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente 
quantitativa e 
riguardi una domanda articolata in un unico capo” (27). 
(24) Art. 92, comma 
2, c.p.c.: 
“Se 
vi 
è 
soccombenza reciproca ovvero nel 
caso di 
assoluta novità 
della questione 
trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle 
questioni 
dirimenti, il 
giudice 
può compensare 
le 
spese 
tra le 
parti, parzialmente 
o per 
intero”. La 
Corte 
costituzionale, con sentenza 
19 aprile 
2018, n. 77, ha 
dichiarato, tra 
l’altro, l’illegittimità 
costituzionale 
del 
presente 
comma 
nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che 
il 
giudice 
possa 
compensare 
le 
spese 
tra 
le 
parti, parzialmente 
o per intero, 
anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. 
(25) Ad esempio, nullità del ricorso introduttivo della lite. 
(26) Ad esempio, eccezione di prescrizione. 
(27) Ex 
plurimis: 
Cass., 21 ottobre 
2009, n. 22381; 
4 gennaio 2013, n. 134; 
22 febbraio 2016, n. 
3438; 
22 
settembre 
2000, 
n. 
12541, 
enuncia 
altresì 
che 
in 
tema 
di 
compensazione 
delle 
spese 
processuali 
per soccombenza 
reciproca, l’art. 92, c. 2, c.p.c., non deve 
necessariamente 
interpretarsi 
come 
facente 
riferimento al 
concetto tecnico di 
soccombenza 
e 
che 
quando l’attore 
ottiene 
l’accoglimento della 
domanda 
e 
il 
bene 
della 
vita 
richiesto sulla 
base 
di 
una 
delle 
argomentazioni 
svolte, dopo, però, che 
il 
giudice 
ne 
ha 
rigettate 
altre, non si 
versa 
in un’ipotesi 
di 
soccombenza 
in senso tecnico, ma 
lo svolgimento 
dell’attività 
processuale 
conseguente 
alle 
argomentazioni 
disattese 
è 
casualmente 
attribuibile 
a 
chi 
ha 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


Va 
evidenziato 
che 
parte 
della 
dottrina 
sostiene 
la 
difficile 
operatività 
della soccombenza reciproca nel processo tributario (28). 


Le 
spese 
possono essere 
compensate 
altresì 
“qualora sussistano gravi 
ed 
eccezionali 
ragioni 
che 
devono 
essere 
espressamente 
motivate”. 
Le 
ipotesi 
più 
spesso individuate 
dalla 
giurisprudenza 
concernono la 
novità 
o l'oggettiva 
incertezza 
delle 
questioni 
controverse, 
la 
presenza 
di 
orientamenti 
giurisprudenziali 
contrastanti 
al 
momento 
dell'inizio 
della 
lite, 
il 
sopraggiungere 
di 
modifiche 
normative 
o di 
pronunce 
della 
Corte 
costituzionale 
o della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
europea. 
Il 
giudice 
è 
tenuto 
ad 
indicare 
esplicitamente 
in 
cosa 
consistano 
le 
ragioni 
della 
compensazione 
e 
non 
può 
limitarsi 
ad 
espressioni 
generiche, quali 
sono il 
riferimento alla 
peculiarità 
della 
lite 
o alla 
natura 
della 
controversia. La 
decisione 
di 
compensare 
le 
spese 
non sorretta 
da 
ragioni 
gravi 
ed eccezionali 
o priva 
di 
specifica 
motivazione 
è 
censurabile 
in 
sede 
di 
legittimità, in quanto, come 
afferma 
una 
consolidata 
giurisprudenza, 
viola una norma processuale (29). 


8. Governo delle spese nel caso di estinzione del processo. 
Nell’ipotesi 
di 
estinzione 
del 
processo, 
il 
governo 
delle 
spese 
è 
regolato 
da 
disposizioni 
che 
mutuano 
il 
contenuto 
delle 
ordinarie 
regole 
processualcivilistiche. 


Nell’ipotesi 
di 
estinzione 
del 
processo 
per 
rinuncia 
al 
ricorso 
l’art. 
44, 
comma 
2, D.L.vo n. 546/1992 prevede: 
“il 
ricorrente 
che 
rinuncia deve 
rimborsare 
le 
spese 
alle 
altre 
parti 
salvo 
diverso 
accordo 
fra 
loro. 
La 
liquidazione 
è 
fatta dal 
presidente 
della sezione 
o dalla commissione 
con ordinanza non 
impugnabile”. 
All’evidenza, 
si 
ripete 
l’analogo 
precetto 
del 
giudizio 
civile, 
ossia quanto statuito dall’art. 306, comma 4, c.p.c. (30). 


Nell’ipotesi, 
poi, 
di 
estinzione 
del 
processo 
per 
inattività 
delle 
parti 
è 
disposto 
(art. 
45, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992) 
che 
“Le 
spese 
del 
processo 


proposto la 
domanda, determinandosi 
così 
una 
situazione 
che 
non rende 
illegittima 
la 
compensazione 
delle spese con riferimento alla soccombenza reciproca. 


(28) F. CORDA, Le 
spese 
giudiziali 
nel 
processo tributario, cit., rileva 
che 
“riguardo la soccombenza 
reciproca può porsi 
un problema di 
inapplicabilità di 
tale 
fattispecie 
al 
processo tributario; ciò 
in quanto il 
giudice 
di 
prime 
cure 
deve 
limitarsi 
al 
controllo della legittimità dell'atto impositivo impugnato 
nei 
limiti 
della pretesa fatta valere 
dalle 
parti. Ed invero, né 
l'Ufficio può proporre 
domande 
riconvenzionali 
-a differenza di 
quanto avviene 
nel 
processo civile 
-né 
il 
contribuente 
può richiedere 
al 
giudice 
tributario una pronuncia che 
vada oltre 
il 
provvedimento impositivo oggetto di 
gravame. Peraltro, 
si 
evidenzia che 
l'atto dell'Ufficio può essere 
censurato dal 
contribuente, sia da un punto di 
vista 
sostanziale 
che 
formale, con la conseguenza che 
può instaurarsi 
un giudizio al 
tempo stesso di 
annullamento 
e 
di 
merito. ragione 
per 
cui, il 
provvedimento del 
giudice 
tributario è 
strettamente 
correlato 
al 
tipo di 
azione 
proposta dal 
ricorrente, il 
quale 
potrà risultare 
soccombente 
su alcune 
delle 
censure 
proposte 
nei 
confronti 
dell'atto, e 
vittorioso su altre. in questo caso vi 
sarà soccombenza reciproca in 
quanto il fenomeno investe entrambe le parti del giudizio”. 
(29) Per tali 
rilievi: 
M. LUPANO, Spese 
nel 
processo tributario -compensazione 
delle 
spese 
nel 
processo tributario, cit. 
(30) “il 
rinunciante 
deve 
rimborsare 
le 
spese 
alle 
altre 
parti, salvo diverso accordo tra loro. La 
liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


estinto a norma del comma 1 restano a carico delle parti che le hanno anticipate”; 
tanto 
in 
continuità 
con 
quanto 
statuito 
dall’art. 
310, 
comma 
4 
c.p.c. 
(31). 


9. 
Governo 
delle 
spese 
nelle 
controversie 
di 
cui 
all’art. 
17 
bis 
D.L.vo 
n. 
546/1992 (il reclamo e la mediazione). 
L’art. 
15, 
comma 
2 
septies 
così 
dispone: 
“Nelle 
controversie 
di 
cui 
all’art. 
17 
bis 
le 
spese 
di 
giudizio 
di 
cui 
al 
comma 
1 
sono 
maggiorate 
del 
50 
per 
cento 
a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento”. 


La 
disposizione 
si 
riferisce 
alle 
controversie 
di 
valore 
non superiore 
ad 
euro 50.000,00, per le 
quali 
il 
ricorso produce 
anche 
gli 
effetti 
di 
un reclamo 
e 
può 
contenere 
una 
proposta 
di 
mediazione 
con 
rideterminazione 
dell’ammontare 
della 
pretesa, 
nella 
evenienza 
che 
il 
reclamo 
non 
venga 
accolto 
e 
prosegua 
il giudizio fino alla sentenza definitoria del primo grado. 


La 
disposizione 
in 
esame 
è 
stata 
introdotta 
con 
il 
D.L.vo 
24 
settembre 
2015, n. 156. Con tale 
novella 
-rispetto alla 
previgente 
disciplina 
contenuta 
nell’originario comma 
10 dell’art. 17 
bis 
D. L.vo n. 546/1992 (32) -il 
legislatore 
ha 
mantenuto 
la 
logica 
dell’incremento 
del 
50 
per 
cento 
delle 
spese 
di 
giudizio ove 
la 
fase 
processuale 
sia 
preceduta 
da 
quella 
del 
reclamo, mentre 
non ha 
più previsto la 
compensazione 
in caso di 
giustificato rifiuto della 
proposta 
di 
mediazione. Ciononostante, come 
è 
stato giustamente 
osservato (33) 
pur in assenza 
di 
espressa 
previsione, dovrebbe 
trovare 
applicazione 
la 
regola 
generale 
della 
compensazione 
di 
cui 
al 
comma 
2 
dell’art. 
15, 
ben 
potendo 
sussistere 
quelle 
“gravi 
ed 
eccezionali 
ragioni”, 
in 
luogo 
dei 
“giusti 
motivi” 
della 
previgente 
disciplina, 
in 
relazione 
alla 
giustificabilità 
del 
rifiuto 
della 
proposta 
di mediazione. 


10. Governo delle 
spese 
nel 
caso di 
tentativo di 
conciliazione 
andato a vuoto 
e nel caso di intervenuta conciliazione. 
L’art. 15, comma 
2 octies 
così 
dispone: 
“Qualora una delle 
parti 
abbia 
formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte 
senza giustificato 
motivo, restano a carico di 
quest'ultima le 
spese 
del 
processo ove 
il 
riconoscimento delle 
sue 
pretese 
risulti 
inferiore 
al 
contenuto della proposta 
ad essa effettuata. Se 
è 
intervenuta conciliazione 
le 
spese 
si 
intendono com


(31) “Le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate”. 
(32) “Nelle 
controversie 
di 
cui 
al 
comma 1 la parte 
soccombente 
è 
condannata a rimborsare, in 
aggiunta alle 
spese 
di 
giudizio, una somma pari 
al 
50 per 
cento delle 
spese 
di 
giudizio a titolo di 
rimborso 
delle 
spese 
del 
procedimento 
disciplinato 
dal 
presente 
articolo. 
Nelle 
medesime 
controversie, 
fuori 
dei 
casi 
di 
soccombenza 
reciproca, 
la 
commissione 
tributaria, 
può 
compensare 
parzialmente 
o 
per 
intero le 
spese 
tra le 
parti 
solo se 
ricorrono giusti 
motivi, esplicitamente 
indicati 
nella motivazione, 
che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”. 
(33) F. tESAURO 
(a 
cura 
di), Codice 
commentato del 
processo tributario, II edizione, UtEt 
giuridica, 
2016, pp. 291-292. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


pensate, 
salvo 
che 
le 
parti 
stesse 
abbiano 
diversamente 
convenuto 
nel 
processo 
verbale di conciliazione”. 


All’evidenza, 
questa 
disciplina 
-nel 
caso 
di 
tentativo 
di 
conciliazione 
andato 
a 
vuoto -è 
speciale 
rispetto a 
quella 
prevista 
per il 
processo civile 
all’art. 
91, comma 
1, seconda 
parte, c.p.c., mentre 
-nel 
caso di 
intervenuta 
conciliazione 
-è 
identica 
a 
quella 
del 
processo civile 
contenuta 
nel 
comma 
3 dell’art. 
92 c.p.c. 


11. Eterointegrazione nella disciplina delle spese. 
Le 
disposizioni 
contenute 
nell’art. 15 soprariportato non esauriscono la 
disciplina 
del 
governo delle 
spese 
nel 
processo tributario, come 
emerge 
pianamente 
con il 
confronto della 
disciplina 
operante 
per il 
processo civile 
(artt. 
91-97 c.p.c.). 


Per quanto non disposto -ossia 
nel 
caso di 
lacune 
-si 
applicano le 
disposizioni 
del 
codice 
di 
procedura 
civile 
sulle 
spese, giusta 
la 
norma 
generale 
di 
richiamo 
ex 
art. 1, comma 
2, D.l.vo n. 546/1992 secondo cui 
“i giudici 
tributari 
applicano 
le 
norme 
del 
presente 
decreto 
e, 
per 
quanto 
da 
esse 
non 
disposto 
e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”. 

All’evidenza, il 
diritto comune 
della 
materia 
processuale 
è 
rappresentato 
dal 
codice 
di 
procedura 
civile. Difatti: 
a) una 
disposizione 
identica 
si 
ha 
nel 
processo 
contabile, 
giusta 
l’art. 
7, 
comma 
2, 
Codice 
di 
giustizia 
contabile 
adottato 
con 
D.L.vo 
26 
agosto 
2016, 
n. 
174 
(“Per 
quanto 
non 
disciplinato 
dal 
presente 
codice 
si 
applicano 
gli 
artt. 
99, 
100, 
101, 
110 
e 
111, 
c.p.c. 
e 
le 
altre 
disposizioni 
del 
medesimo 
codice, 
in 
quanto 
espressione 
di 
principi 
generali”); 


b) una 
disposizione 
analoga 
si 
ha 
nell’art. 39, comma 
1, Codice 
del 
processo 
amministrativo adottato con D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 (“Per 
quanto non 
disciplinato 
dal 
presente 
codice 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
del 
codice 
di 
procedura 
civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”). 
Fissato 
tale 
principio, 
occorre 
evidenziare 
quali 
disposizioni 
contenute 
negli artt. 91-97 si applicano al processo tributario. 


Circa 
l’art. 91 c.p.c. (condanna 
alle 
spese), la 
prima 
parte 
del 
comma 
1 è 
iterata 
nel 
comma 
1 dell’art. 15 D.L. n. 546/1992 e 
quindi 
non si 
pone 
un problema 
di applicazione. 

La 
seconda 
parte 
del 
comma 
1 dispone: 
“Se 
accoglie 
la domanda in misura 
non 
superiore 
all’eventuale 
proposta 
conciliativa, 
condanna 
la 
parte 
che 
ha 
rifiutato 
senza 
giustificato 
motivo 
la 
proposta 
al 
pagamento 
delle 
spese 
del 
processo 
maturate 
dopo 
la 
formulazione 
della 
proposta, 
salvo 
quanto 
disposto 
dal 
secondo comma dell’articolo 92”. Questa 
disposizione 
è 
inapplicabile 
al 
processo 
tributario, 
attesa 
la 
testuale 
diversa 
disciplina 
sulla 
specifica 
vicenda 
contenuta nel comma 2 octies 
dell’art. 15. 


I commi 2 e 3 dell’art. 91 così dispongono: 
“Le 
spese 
della sentenza sono liquidate 
dal 
cancelliere 
con nota in mar



CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


gine 
alla stessa; quelle 
della notificazione 
della sentenza, del 
titolo esecutivo 
e 
del 
precetto sono liquidate 
dall'ufficiale 
giudiziario con nota in margine 
al-
l'originale e alla copia notificata. 


i reclami 
contro le 
liquidazioni 
di 
cui 
al 
comma precedente 
sono decisi 
con le 
forme 
previste 
negli 
articoli 
287 e 
288 dal 
capo dell'ufficio a cui 
appartiene 
il cancelliere o l'ufficiale giudiziario”. 


trattasi 
di 
disposizioni 
di 
dettaglio, 
per 
le 
quali 
nulla 
osta 
all’applicabilità, 
mutatis mutandis, al processo tributario. 


L’art. 
92 
c.p.c. 
(condanna 
alle 
spese 
per 
singoli 
atti. 
Compensazione 
delle 
spese) statuisce: 


“il 
giudice, nel 
pronunciare 
la condanna di 
cui 
all’articolo precedente, 
può escludere 
la ripetizione 
delle 
spese 
sostenute 
dalla parte 
vincitrice, se 
le 
ritiene 
eccessive 
o superflue; e 
può, indipendentemente 
dalla soccombenza, 
condannare 
una parte 
al 
rimborso delle 
spese, anche 
non ripetibili, che, per 
trasgressione 
al 
dovere 
di 
cui 
all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte. 


Se 
vi 
è 
soccombenza 
reciproca 
ovvero 
nel 
caso 
di 
assoluta 
novità 
della 
questione 
trattata 
o 
mutamento 
della 
giurisprudenza 
rispetto 
alle 
questioni 
dirimenti, 
il 
giudice 
può 
compensare 
le 
spese 
tra 
le 
parti, 
parzialmente 
o 
per 
intero 
(34). 


Se 
le 
parti 
si 
sono 
conciliate, 
le 
spese 
si 
intendono 
compensate, 
salvo 
che 
le 
parti 
stesse 
abbiano diversamente 
convenuto nel 
processo verbale 
di 
conciliazione”. 


Atteso che 
l’art. 15, comma 
2, D.L.vo n. 546/1992 contiene 
la 
espressa 
regolazione 
della 
materia 
della 
compensazione 
delle 
spese, la 
disposizione 
di 
cui 
al 
comma 
2 
dell’art. 
92 
c.p.c. 
integrata 
dal 
dictum 
della 
Corte 
costituzionale 
è inapplicabile nel processo tributario. 

Analogo discorso vale 
per il 
comma 
3 dell’art. 92 c.p.c., vista 
la 
espressa 
disciplina 
(peraltro iterativa 
del 
c.p.c.) contenuta 
nell’art. 15 octies 
D.L.vo n. 
546/1992. 


Si 
applica, pertanto, la 
restante 
parte 
dell’art. 92 c.p.c., ossia 
il 
comma 
1, 
considerato 
che 
vi 
è 
una 
lacuna 
sul 
punto 
nel 
processo 
tributario 
e 
che 
tale 
comma 
è 
compatibile 
con l’impianto del 
processo in esame. Sicché, in virtù 
del 
comma 
1 dell’art. 92, il 
giudice 
tributario può ridurre 
le 
spese 
eccessive 
(ad esempio di più difensori nel caso di causa semplice) o superflue. 


L’art. 93 c.p.c. (distrazione delle spese) statuisce: 


“il 
difensore 
con procura può chiedere 
che 
il 
giudice, nella stessa sentenza 
in 
cui 
condanna 
alle 
spese, 
distragga 
in 
favore 
suo 
e 
degli 
altri 
difensori 


(34) La 
Corte 
costituzionale, con sentenza 
19 aprile 
2018, n. 77, ha 
dichiarato, tra 
l’altro, l’illegittimità 
costituzionale 
del 
presente 
comma 
nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che 
il 
giudice 
possa 
compensare 
le 
spese 
tra 
le 
parti, 
parzialmente 
o 
per 
intero, 
anche 
qualora 
sussistano 
altre 
analoghe 
gravi 
ed 
eccezionali ragioni. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


gli 
onorari 
non riscossi 
e 
le 
spese 
che 
dichiara di 
avere 
anticipate. Finché 
il 
difensore 
non abbia conseguito il 
rimborso che 
gli 
è 
stato attribuito, la parte 
può 
chiedere 
al 
giudice, 
con 
le 
forme 
stabilite 
per 
la 
correzione 
delle 
sentenze, 
la revoca del 
provvedimento, qualora dimostri 
di 
aver 
soddisfatto il 
credito 
del difensore per gli onorari e le spese”. 


Nulla 
osta 
all’applicazione 
dell’art. 93 c.p.c. nel 
processo tributario, venendo 
in rilievo una 
disposizione 
connotante 
il 
regime 
di 
tutela 
del 
difensore 
della 
parte 
in ordine 
alle 
tecniche 
per la 
sollecita 
liquidazione 
di 
quanto dovutogli 
per l’attività professionale svolta (35). 


L’art. 94 c.p.c. (condanna di rappresentanti o curatori) statuisce: 


“Gli 
eredi 
beneficiati, i 
tutori, i 
curatori 
e 
in generale 
coloro che 
rappresentano 
o assistono la parte 
in giudizio possono essere 
condannati 
personalmente, 
per 
motivi 
gravi 
che 
il 
giudice 
deve 
specificare 
nella 
sentenza, 
alle 
spese 
dell’intero processo o di 
singoli 
atti, anche 
in solido con la parte 
rappresentata 
o assistita”. 


tale 
disposizione 
si 
applica 
al 
processo 
tributario, 
attesa 
la 
lacuna 
sul 
punto e la compatibilità della stessa con l’impianto del processo in esame. 


L’art. 95 c.p.c. (spese del processo di esecuzione) statuisce: 


“Le 
spese 
sostenute 
dal 
creditore 
procedente 
e 
da quelli 
intervenuti 
che 
partecipano utilmente 
alla distribuzione 
sono a carico di 
chi 
ha subito l'esecuzione, 
fermo il privilegio stabilito dal codice civile”. 


Come 
nel 
caso dell’articolo precedente, la 
disposizione 
in esame 
è 
certamente 
applicabile 
al 
processo tributario, vista 
la 
compatibilità 
con l’impianto 
di 
tale 
processo e 
considerato che 
nulla 
è 
disposto sul 
punto. tanto è 
confermato 
da 
espresse 
disposizioni 
-come 
l’art. 69, comma 
3, D.L.vo n. 546/1992 


(36) - che presuppongono l’operatività del principio. 
L’art. 96 c.p.c. (responsabilità aggravata) statuisce: 
“Se 
risulta 
che 
la 
parte 
soccombente 
ha 
agito 
o 
resistito 
in 
giudizio 
con 
mala 
fede 
o 
colpa 
grave, 
il 
giudice, 
su 
istanza 
dell’altra 
parte, 
la 
condanna, 
oltre 
che 
alle 
spese, 
al 
risarcimento 
dei 
danni, 
che 
liquida, 
anche 
d’ufficio, 
nella 
sentenza. 


il 
giudice 
che 
accerta l’inesistenza del 
diritto per 
cui 
è 
stato eseguito un 
provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca 
giudiziale, oppure 
iniziata o compiuta l’esecuzione 
forzata, su istanza della 
parte 
danneggiata condanna al 
risarcimento dei 
danni 
l’attore 
o il 
creditore 
procedente, 
che 
ha 
agito 
senza 
la 
normale 
prudenza. 
La 
liquidazione 
dei 
danni 
è fatta a norma del comma precedente. 

in 
ogni 
caso, 
quando 
pronuncia 
sulle 
spese 
ai 
sensi 
dell’art. 
91, 
il 
giudice, 


(35) In senso analogo, sull’applicabilità 
dell’art. 93 c.p.c.: 
M. SCUFFI, regolamentazione 
e 
liquidazione 
delle spese nel giudizio tributario, cit. 
(36) L’articolo ha 
ad oggetto l’esecuzione 
delle 
sentenze 
di 
condanna 
in favore 
del 
contribuente 
e 
al 
comma 
3 
dispone: 
“i 
costi 
della 
garanzia, 
anticipati 
dal 
contribuente, 
sono 
a 
carico 
della 
parte 
soccombente all'esito definitivo del giudizio”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


anche 
d’ufficio, può altresì 
condannare 
la parte 
soccombente 
al 
pagamento, 
a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. 

I commi 
1 e 
3, come 
visto innanzi, si 
applicano al 
processo tributario per 
l’espresso richiamo contenuto nell’art. 15, comma 
2 bis, D.L.vo n. 546/1992. 


Anche 
il 
comma 
2, riguardante 
l’esecuzione 
di 
provvedimenti 
cautelari 


o esecutivi, deve 
ritenersi 
applicabile. In proposito la 
Suprema 
Corte 
ha 
affermato 
che 
la 
domanda 
di 
risarcimento dei 
danni 
subiti 
dal 
debitore 
per l’illegittima 
iscrizione 
di 
un 
fermo 
amministrativo 
può 
essere 
avanzata 
ai 
sensi 
dell’art. 96, comma 
2, c.p.c., a 
condizione 
che 
vi 
sia 
un pregiudizio effettivo 
e 
percepibile 
(37). Ciò in quanto il 
fermo amministrativo rientra 
fra 
le 
misure 
cautelari, come rilevato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (38). 
L’art. 97 c.p.c. (responsabilità di più soccombenti) statuisce: 


“Se 
le 
parti 
soccombenti 
sono più, il 
giudice 
condanna ciascuna di 
esse 
alle 
spese 
e 
ai 
danni 
in proporzione 
del 
rispettivo interesse 
nella causa. Può 
anche 
pronunciare 
condanna 
solidale 
di 
tutte 
o 
di 
alcune 
tra 
esse, 
quando 
hanno interesse 
comune. Se 
la sentenza non statuisce 
sulla ripartizione 
delle 
spese e dei danni, questa si fa per quote uguali”. 


Come 
nel 
caso dell’art. 94 c.p.c., la 
disposizione 
in esame 
si 
applica 
al 
processo tributario, che 
sul 
punto presenta 
una 
lacuna, considerata 
la 
compatibilità 
della stessa con l’impianto del processo in questione. 


12. 
Governo 
delle 
spese 
collegato 
alla 
violazione 
delle 
regole 
redazionali 
degli 
atti processuali. 
gli 
atti 
processuali 
di 
parte 
(come 
quelli 
del 
giudice, 
peraltro) 
devono 
avere 
i 
requisiti 
estrinseci 
della 
chiarezza 
e 
della 
concisione 
(39). 
La 
chiarezza 
è 
un 
requisito 
ontologico 
e 
funzionale 
degli 
atti 
processuali, 
come 
confermato 
da 
specifiche 
disposizioni 
dettate 
per altre 
tipologie 
di 
processo (40). Quanto 
al 
requisito della 
sinteticità, vi 
è 
la 
prescrizione 
di 
cui 
all’art. 16 bis, comma 
9 octies, D.L. 18 ottobre 
2012, n. 179, conv. L. 17 dicembre 
2012, n. 221 secondo 
cui: 
“Gli 
atti 
di 
parte 
e 
i 
provvedimenti 
del 
giudice 
depositati 
con modalità 
telematiche 
sono redatti 
in maniera sintetica”, applicabile 
al 
processo 
tributario con il medio del citato art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546. 


A 
fronte 
dell’atto non chiaro e/o conciso non determinante 
conseguenze 
invalidanti, 
vi 
può 
essere 
comunque 
la 
conseguenza 
spiacevole 
della 
condanna 


(37) Cass., 16 giugno 2016, n. 12413. 

(38) Cass., S.U., 22 luglio 2015, n. 15354. 
(39) Per una 
introduzione 
alla 
problematica: 
M. gERARDO, Chiarezza e 
concisione 
degli 
atti 
giuridici, 
in rass. avv. Stato, 2019, 1, pp. 223-252. 
(40) Vuol 
farsi 
riferimento, con riguardo al 
processo amministrativo, all’art. 3, comma 
2, c.p.a. 
secondo 
cui 
“il 
giudice 
e 
le 
parti 
redigono 
gli 
atti 
in 
maniera 
chiara 
e 
sintetica, 
secondo 
quanto 
disposto 
dalle 
norme 
di 
attuazione”. 
Norma 
analoga 
vi 
è 
nel 
processo 
contabile: 
“il 
giudice, 
il 
pubblico 
ministero 
e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica” (art. 5 c.g.c.). 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


alle 
spese 
in capo alla 
parte 
che 
ha 
redatto un atto che 
superi 
la 
ragionevole 
dimensione 
o che 
sia 
non chiaro. tanto è 
previsto espressamente 
nel 
processo 
amministrativo, 
con 
l’art. 
26, 
comma 
1, 
c.p.a. 
(41). 
La 
condanna 
alle 
spese 
per 
tale 
ragione 
può 
reputarsi 
operante 
anche 
nel 
processo 
tributario, 
con 
l’applicazione 
degli 
artt. 88, comma 
1, e 
92, comma 
1, c.p.c., mediata 
dall’art. 1, 
comma 
2, D.L.vo n. 546/1992. L’art. 92, comma 
1, c.p.c. recita: 
“il 
giudice, 
nel 
pronunciare 
la 
condanna 
di 
cui 
all'articolo 
precedente 
[condanna 
alle 
spese 
in applicazione 
della 
regola 
della 
soccombenza], […] può, indipendentemente 
dalla soccombenza, condannare 
una parte 
al 
rimborso delle 
spese, 
anche 
non 
ripetibili, 
che, 
per 
trasgressione 
al 
dovere 
di 
cui 
all'articolo 
88, 
essa ha causato all'altra parte”. L’art. 88, comma 
1, c.p.c. dispone: 
“Le 
parti 
e 
i 
loro difensori 
hanno il 
dovere 
di 
comportarsi 
in giudizio con lealtà e 
probità”. 
All’evidenza, la 
redazione 
di 
atti 
non chiari 
e 
non concisi 
integra 
una 
condotta 
violativa 
del 
principio di 
lealtà 
processuale, giacché 
la 
chiarezza 
e 
la 
concisione 
attengono 
alla 
piena 
attuazione 
del 
contraddittorio 
e 
alla 
piena 
funzionalità 
del diritto di difesa. 


Nel 
caso di 
specie 
viene 
in rilievo una 
condanna 
alle 
spese 
che 
prescinde 
dal principio di soccombenza (42). 


13. ammontare delle spese legali. 
Le 
spese 
legali 
-ossia 
la 
remunerazione 
per 
l’attività 
di 
assistenza 
tecnica 
prestata 
-vanno 
inquadrate 
in 
due 
distinti 
contesti: 
quello 
del 
contratto 
d’opera 
stipulato tra 
cliente 
e 
avvocato e 
quello della 
statuizione 
del 
giudice 
circa 
le 
stesse. 


L’entità 
del 
compenso 
è 
il 
frutto 
di 
una 
pattuizione 
inter 
partes 
tra 
cliente 
e 
professionista. Per farsi 
difendere 
la 
parte, infatti, si 
rivolge 
-tranne 
nei 
casi 
di 
difesa 
personale, ove 
consentita 
-ad un professionista 
(avvocato, commercialista 
o altra 
figura 
prevista 
nell’art. 13 D.L.vo n. 546/1992) con il 
quale 
stipula 
un 
contratto 
d’opera 
professionale 
contenente 
anche 
la 
pattuizione 
del 
compenso, la 
cui 
la 
misura 
“deve 
essere 
adeguata all'importanza dell'opera e 
al decoro della professione” (art. 2233, comma 2, c.c.). 


È 
previsto testualmente 
che 
i 
patti 
conclusi 
tra 
gli 
avvocati 
ed i 
praticanti 
abilitati 
con 
i 
loro 
clienti 
che 
stabiliscono 
i 
compensi 
professionali 
devono 
essere, 
a pena di nullità, redatti in forma scritta (art. 2233, comma 3, c.c.). 


(41) “Quando emette 
una decisione, il 
giudice 
provvede 
anche 
sulle 
spese 
del 
giudizio, secondo 
gli 
articoli 
91, 92, 93, 94, 96 e 
97 del 
codice 
di 
procedura civile, tenendo anche 
conto del 
rispetto dei 
principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2. 
[…]”. 
(42) 
Più 
in 
generale 
A. 
RUSSO, 
Le 
condanne 
processuali 
estranee 
al 
principio 
della 
soccombenza, 
in 
Fisco, 2016, 22, pp. 2150 e 
ss. evidenzia 
che 
gli 
artt. 88 e 
89 c.p.c. -pacificamente 
applicabili 
al 
processo 
tributario -prevedono due 
tipi 
di 
condanna 
che 
si 
rivelano indipendenti 
dal 
principio di 
soccombenza 
e 
che 
tendono a 
sanzionare 
i 
comportamenti 
delle 
parti 
che, eccedendo il 
legittimo esercizio del 
diritto di difesa, si traducono in condotte sleali o espressioni offensive nei confronti della controparte. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


In base 
all’accordo inter 
partes 
il 
cliente 
remunera 
il 
professionista 
per 
l’attività 
prestata. 
Nella 
evenienza 
che, 
all’esito 
del 
giudizio, 
la 
parte 
risulti 
vittoriosa 
in 
giudizio 
ed 
il 
giudice 
condanni 
il 
soccombente 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
lite, la 
detta 
parte 
può recuperare 
dal 
soccombente 
quanto pagato al 
proprio difensore, ma nei limiti del 
quantum 
fissato dal giudice. 


Vuol 
dirsi 
che 
debitore 
per il 
compenso professionale 
è 
sempre 
il 
cliente, 
sia 
che 
risulti 
soccombente 
in giudizio (in tal 
caso, ove 
vi 
sia 
condanna 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
lite, 
dovrà 
rimborsare 
altresì 
la 
controparte), 
sia 
che 
risulti 
vittorioso. 
In 
quest’ultima 
evenienza, 
ove 
sia 
disposta 
la 
distrazione 
delle 
spese 
ex 
art. 
93 
c.p.c., 
contro 
il 
soccombente 
può 
agire 
anche 
il 
difensore 
della 
parte 
vittoriosa, fermo restando che 
-fino alla 
soddisfazione 
del 
professionista 
- resta obbligato il suo cliente. 


Alla 
luce 
di 
ciò può accadere 
che 
le 
spese 
di 
lite 
-dovute 
dal 
cliente 
al 
professionista 
-siano irripetibili, ossia 
irrecuperabili 
in tutto o in parte 
dalla 
controparte soccombente in giudizio. 

tanto accade 
nel 
caso di 
compensazione, in tutto o in parte, delle 
spese 
di 
lite. Ed accade 
altresì 
quando il 
giudice 
condanni 
il 
soccombente 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
lite 
-in base 
ai 
parametri 
legali 
-ma 
per un ammontare 
inferiore a quanto pattuito tra cliente e professionista. 


L’art. 
15 
del 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
non 
prende 
in 
esame 
il 
contratto 
d’opera 
tra 
cliente 
e 
professionista, 
ma 
fissa 
i 
parametri 
nei 
quali 
il 
giudicante 
-nel 
pronunciare 
sulle 
spese 
-deve 
quantificare 
la 
condanna 
alle 
spese 
del 
soccombente. 


Le 
spese 
oggetto di 
rimborso comprendono gli 
onorari 
del 
difensore, liquidati 
con valutazione 
discrezionale 
ed insindacabile 
del 
giudice 
nel 
rispetto 
dei 
limiti 
inderogabili 
minimi 
e 
massimi 
stabiliti 
dalle 
relative 
tariffe 
professionali 
con riferimento al 
momento in cui 
l'attività 
defensionale 
complessiva 
è 
stata 
condotta 
a 
termine 
(43), oltre 
ai 
relativi 
oneri 
accessori, nonché 
il 
rimborso 
delle 
somme 
dovute 
dalla 
parte 
al 
difensore 
a 
titolo di 
contributo cassa 
di 
previdenza. tra 
le 
spese 
processuali, che 
la 
parte 
soccombente 
è 
tenuta 
a 
rimborsare 
al 
vincitore, rientra 
anche 
la 
somma 
dovuta 
da 
quest'ultimo al 
proprio 
difensore 
a 
titolo di 
Iva, costituendo tale 
imposta 
una 
voce 
accessoria, di 
natura 
fiscale, del 
corrispettivo dovuto per prestazioni 
professionali 
relative 
alla 
difesa 
in giudizio, il 
cui 
rimborso spetta 
anche 
in assenza 
di 
espressa 
domanda 
o specifica pronuncia del giudice. 


L'omessa 
liquidazione 
delle 
spese 
processuali 
non integra 
una 
omissione 
emendabile 
con 
la 
procedura 
di 
correzione 
degli 
errori 
materiali, 
perché 
la 


(43) 
Ex 
plurimis: 
Cass., 
4 
dicembre 
2020, 
n. 
27809 
enuncia 
che 
“La 
determinazione 
degli 
onorari 
di 
avvocato e 
degli 
(onorari) e 
diritti 
di 
procuratore 
costituisce 
esercizio di 
un potere 
discrezionale 
del 
giudice 
che, qualora sia contenuto tra il 
minimo ed il 
massimo della tariffa, non richiede 
una specifica 
motivazione 
e 
non può formare 
oggetto di 
sindacato in sede 
di 
legittimità, se 
non quando sia stato l'interessato 
stesso 
a 
specificare 
le 
singole 
voci 
della 
tariffa 
che 
assume 
essere 
state 
violate 
(v. 
Cass. 
18238/2015; Cass. 10350/1993)”. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


sentenza 
non è 
affetta 
da 
mera 
mancanza 
di 
documentazione 
della 
volontà 
del 
giudice, 
comunque 
implicitamente 
desumibile, 
ma 
è 
affetta 
dalla 
mancanza 
di 
un giudizio sull'attività 
difensiva 
svolta 
dalla 
parte 
vittoriosa, con la 
conseguenza 
che 
la 
relativa 
omissione 
può 
essere 
emendata 
soltanto 
a 
seguito 
di 
impugnazione. 


La 
materia 
è 
testualmente 
regolata 
dai 
commi 
2 quinquies 
e2 sexies 
del-
l’art. 15 del D.L.vo n. 546/1992, i quali così dispongono: 


-“i compensi 
agli 
incaricati 
dell'assistenza tecnica sono liquidati 
sulla 
base 
dei 
parametri 
previsti 
per 
le 
singole 
categorie 
professionali. agli 
iscritti 
negli 
elenchi 
di 
cui 
all'articolo 12, comma 4, si 
applicano i 
parametri 
previsti 
per i dottori commercialisti e gli esperti contabili” (comma 2 quinquies). 
La 
materia, 
per 
gli 
avvocati, 
all’attualità 
è 
regolata 
dal 
D.M. 
10 
marzo 
2014, n. 55 contenente 
il 
“regolamento recante 
la determinazione 
dei 
parametri 
per 
la 
liquidazione 
dei 
compensi 
per 
la 
professione 
forense, 
ai 
sensi 
del-
l'articolo 13, comma 6, della legge 
31 dicembre 
2012, n. 247”. L’art. 2 di 
tale 
decreto 
dispone: 
“1. 
il 
compenso 
dell'avvocato 
è 
proporzionato 
all'importanza 
dell'opera. 2. oltre 
al 
compenso e 
al 
rimborso delle 
spese 
documentate 
in relazione 
alle 
singole 
prestazioni, all'avvocato è 
dovuta -in ogni 
caso ed anche 
in caso di 
determinazione 
contrattuale 
-una somma per 
rimborso spese 
forfettarie 
di 
regola 
nella 
misura 
del 
15 
per 
cento 
del 
compenso 
totale 
per 
la 
prestazione, 
fermo restando quanto previsto dai 
successivi 
articoli 
5, 11 e 
27 in 
materia 
di 
rimborso 
spese 
per 
trasferta”. 
L’art. 
4, 
comma 
1, 
tra 
l’altro, 
prevede 
che 
“il 
giudice 
tiene 
conto dei 
valori 
medi 
di 
cui 
alle 
tabelle 
allegate, che, in 
applicazione 
dei 
parametri 
generali, 
possono 
essere 
aumentati, 
di 
regola, 
fino 
all'80 per 
cento, o diminuiti 
fino al 
50 per 
cento. Per 
la fase 
istruttoria l'aumento 
è 
di 
regola fino al 
100 per 
cento e 
la diminuzione 
di 
regola fino al 
70 
per 
cento”. Il 
comma 
5 dell’art. 4 prevede 
altresì 
che 
il 
compenso è 
liquidato 
per fasi 
(fase 
di 
studio della 
controversia; 
fase 
introduttiva 
del 
giudizio; 
fase 
istruttoria; fase decisionale); 


-“Nella 
liquidazione 
delle 
spese 
a 
favore 
dell'ente 
impositore, 
dell'agente 
della riscossione 
e 
dei 
soggetti 
iscritti 
nell'albo di 
cui 
all'articolo 53 del 
decreto 
legislativo 15 dicembre 
1997, n. 446, se 
assistiti 
da propri 
funzionari, si 
applicano le 
disposizioni 
per 
la liquidazione 
del 
compenso spettante 
agli 
avvocati, 
con la riduzione 
del 
venti 
per 
cento dell'importo complessivo ivi 
previsto. 
La 
riscossione 
avviene 
mediante 
iscrizione 
a 
ruolo 
a 
titolo 
definitivo 
dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (comma 2 sexies) (44). 


14. Conclusioni. 
(44) 
Conf. 
ex 
plurimis 
Cass. 
civ., 
19 
febbraio 
2021, 
n. 
4473 
(in 
relazione 
alla 
rifusione 
delle 
spese 
del 
giudizio, nel 
caso in cui 
la 
parte 
pubblica, risultata 
vittoriosa, sia 
assistita 
da 
un proprio funzionario 
o da 
un proprio dipendente, si 
applicano, ai 
sensi 
dell'art. 15, comma 
2-sexies, del 
D.Lgs. n. 546/1992, 
le 
disposizioni 
per la 
liquidazione 
del 
compenso spettante 
agli 
avvocati, con la 
riduzione 
del 
venti 
per 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


La 
corretta 
applicazione 
del 
governo 
delle 
spese 
-con 
la 
regola 
della 
soccombenza 
e 
l’eccezione 
della 
compensazione 
e 
con 
la 
corretta 
applicazione 
dell’ammontare 
-è 
funzionale 
alla 
tutela 
giurisdizionale 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive protette. 


Il 
timore 
della 
soccombenza 
agisce 
da 
controstimolo 
all’esercizio 
di 
azioni 
giurisdizionali 
esili 
nella 
loro sostanza, consentendo l’accesso alla 
giustizia 
alle 
domande 
di 
tutela 
veramente 
necessarie. 
Laddove 
l’eccessivo 
ricorso 
alla 
compensazione 
delle 
spese 
finisce 
inevitabilmente 
per 
costituire 
incentivo 
alla litigiosità e spesso odiosa punizione per la parte vittoriosa. 


L’applicazione 
corretta 
del 
principio 
di 
soccombenza 
determinerebbe 
una 
adeguata 
igiene 
sociale, 
come 
osservato 
da 
Francesco 
Carnelutti 
(45), 
il 
quale 
evidenziava 
che 
la 
soluzione 
tendenzialmente 
accolta 
nel 
nostro 
ordinamento 
giuridico 
in 
ordine 
al 
governo 
delle 
spese 
processuali 
è 
quella 
della 
causa 
che 
rende 
necessario 
il 
servizio, 
ossia 
la 
spesa 
deve 
essere 
sopportata 
non 
dalle 
parti 
in 
genere, 
ma 
da 
una 
di 
queste, 
cioè 
dalla 
parte 
che 
con 
il 
suo 
contegno 
ha 
dato 
causa 
al 
processo. 
tale 
soluzione, 
secondo 
l’illustre 
Autore, 
“corrisponde 
insieme 
a 
un 
principio 
di 
giustizia 
distributiva 
e 
a 
un 
principio 
di 
igiene 
sociale: 
da 
un 
lato 
è 
giusto 
che 
chi 
ha 
reso 
necessario 
il 
servizio 
ne 
sopporti 
il 
carico; 
dall’altro 
è 
opportuno 
perché 
la 
previsione 
di 
questo 
carico 
reagisce 
nel 
suo 
contegno 
nel 
senso 
di 
renderlo 
più 
cauto. 
Così 
la 
responsabilità 
della 
parte, 
che 
ha 
dato 
causa 
al 
processo, 
per 
le 
spese 
mostra 
fin 
da 
ora 
quella 
funzione 
di 
controstimolo 
dell’azione, 
per 
cui 
essa 
rientra 
nell’ampia 
nozione 
del 
rischio 
processuale” 
(46). 
L’interessato, 
prima 
di 
instaurare 
un’azione 
giudiziaria, 
dovrà 
ponderare 
adeguatamente 
i 
pro 
e 
i 
contro, 
mettendo 
in 
conto 
che, 
ove 
risultasse 
soccombente 
nella 
instauranda 
lite, 
dovrebbe 
pagare, 
oltre 
che 
il 
proprio 
avvocato, 
anche 
le 
spese 
di 
giudizio 
e 
il 
compenso 
dell’avvocato 
della 
controparte: 
“La 
regola 
della 
soccombenza 
impone 
attenta 
riflessione 
a 
colui 
che 
intende 
pro-

cento dell'importo complessivo ivi 
previsto) e 
Cass., n. 27809/2020 cit. (“Va premesso che 
"in tema di 
contenzioso 
tributario, 
all'amministrazione 
finanziaria 
assistita 
in 
giudizio 
dai 
propri 
funzionari, 
in 
caso di 
vittoria nella lite, spetta, ai 
sensi 
del 
D.Lgs. 31 dicembre 
1992, n. 546, art. 15, comma 2 bis, 
(oggi 
comma 2 sexies, sostituito dal 
D.Lgs. 24 settembre 
2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. f), n. 2), a 
decorrere 
dal 
1 gennaio 2016), la liquidazione 
delle 
spese 
che 
va effettuata applicandosi 
la tariffa vigente 
per 
gli 
avvocati 
e 
procuratori, 
con 
la 
riduzione 
del 
venti 
per 
cento 
degli 
onorari 
di 
avvocato, 
quale 
rimborso per 
la sottrazione 
di 
attività lavorativa dei 
funzionari 
medesimi, utilizzabile 
altrimenti 
in compiti 
interni 
di 
ufficio e 
tenuto conto dell'identità della prestazione 
professionale 
profusa dal 
funzionario 
rispetto 
a 
quella 
del 
difensore 
abilitato" 
(Cass. 
24675/2011)”). 
In 
senso 
contrario, 
all’evidenza 
contra 
legem, 
Cass., 
1 
dicembre 
2020, 
n. 
27444, 
secondo 
cui 
in 
tema 
di 
liquidazione 
delle 
spese 
del 
giudizio in favore 
della 
parte 
pubblica 
vittoriosa 
e 
assistita 
da 
funzionari 
interni, la 
parte 
privata 
non 
può essere 
condannata 
al 
pagamento delle 
spese 
processuali 
sostenute 
dall'Ufficio, perché 
quest'ultimo 
è 
stato in giudizio avvalendosi 
di 
un funzionario interno e, per l'effetto, non è 
stato interessato dal 
sostenimento 
di costi riferibili all'assistenza tecnica. 


(45) Citato da 
V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Jovene editore, 1979, vol. I, p. 422. 
(46) op. e loc. ult. cit. 

RASSEgNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 1/2022 


muovere 
un 
processo, 
perché 
deve 
calcolare 
la 
probabilità 
di 
successo. 
il 
rischio 
di 
essere 
responsabile 
per 
le 
spese 
scoraggia 
molte 
persone 
che 
non 
hanno 
reale 
probabilità 
di 
successo” 
(47). 


Ciò 
premesso 
in 
linea 
ideologica 
ed 
in 
coerenza 
con 
i 
dati 
normativi, 
va 
tuttavia 
rilevato 
che 
l'istituto 
della 
condanna 
al 
rimborso 
delle 
spese 
di 
giudizio, 
nella 
sua 
applicazione 
concreta 
al 
contenzioso 
tributario, 
risulta 
spesso 
disatteso 
od 
oggetto 
di 
attuazione 
in 
modo 
non 
conforme 
alla 
corretta 
interpretazione 
delle 
norme 
che 
lo 
contemplano. 
Vi 
è, 
infatti, 
una 
diffusa 
riluttanza 
delle 
Commissioni 
tributarie 
a 
condannare 
la 
parte 
soccombente 
al 
pagamento 
delle 
spese 
del 
giudizio, 
indipendentemente 
dalla 
circostanza 
che 
soccombente 
sia 
l'Amministrazione 
o 
il 
contribuente, 
riscontrandosi 
poi 
anche 
una 
confermata 
tendenza 
alla 
compensazione 
delle 
spese 
processuali 
da 
parte 
delle 
Commissioni, 
in 
particolare 
provinciali, 
non 
solo 
in 
ipotesi 
di 
incertezze 
interpretative 
ma 
persino 
quando 
una 
parte 
è 
del 
tutto 
soccombente 
(48). 


A 
favore 
di 
qualsivoglia 
parte 
(contribuente 
o ente 
impositore) vi 
sia 
una 
prassi lassista, i guasti sono evidenti. 


Ove 
la 
compensazione 
venga 
disposta 
irragionevolmente 
in 
favore 
del 
contribuente, tale 
prassi 
incentiva 
il 
contenzioso. in primis 
perché 
nel 
perdere 
la 
lite 
si 
rischia 
poco (solo le 
spese 
del 
proprio difensore, ove 
non vi 
sia 
stata 
la 
difesa 
personale). Eppoi, la 
scelta 
di 
rivolgersi 
alla 
giustizia 
tributaria 
o di 
coltivare 
un processo pendente 
talvolta 
ha 
finalità 
dilatorie; 
la 
durata 
media 
del 
processo 
tributario 
(49) 
è 
tale 
che 
la 
probabilità 
di 
poter 
beneficiare 
di 
condoni 
prima 
del 
termine 
della 
lite 
è 
notevole. Questi 
ultimi 
andrebbero quindi 
definitivamente 
abbandonati, 
anche 
perché 
certamente 
non 
incentivano 
il 
contribuente 
a rispettare spontaneamente le regole. 

Qualora 
la 
compensazione 
a 
favore 
dell'erario 
sia 
disposta 
frequentemente 
e 
risulti 
dunque 
prevedibile, 
il 
contribuente 
è 
indotto 
a 
non 
opporsi 
alle 
pretese 
dell'erario 
di 
valore 
modesto, 
per 
quanto 
infondate. 
Difatti, 
se 
proporre 
ricorso 
comporta 
costi 
non 
recuperabili 
simili 
a 
quelli 
che 
si 
devono 
affrontare 
per 


(47) Così 
U. JACOBSSON, La giustizia civile 
nei 
Paesi 
comunitari, vol. II, CEDAM, 1996, p. 120, 
a 
proposito 
del 
processo 
civile 
in 
Svezia, 
dove 
vige 
il 
principio 
“tutto 
o 
niente” 
ossia 
che 
le 
spese 
seguono 
la soccombenza. 
(48) Per tale 
rilievo già 
A. ROSSI, Condanna al 
pagamento delle 
spese 
di 
giudizio nel 
contenzioso 
tributario, cit. 
(49) 
M. 
LUPANO, 
Spese 
nel 
processo 
tributario 
-compensazione 
delle 
spese 
nel 
processo 
tributario, 
cit., rileva 
che 
“La più recente 
relazione 
annuale 
sul 
contenzioso tributario consultabile 
nel 
momento 
in cui 
scriviamo sul 
sito web del 
ministero delle 
Finanze 
(www.finanze.it) afferma che, in media, tra la 
data di 
deposito presso la commissione 
tributaria provinciale 
e 
quella di 
spedizione 
del 
dispositivo alle 
parti 
sono decorsi 
28 mesi. Presso le 
commissioni 
tributarie 
regionali 
invece 
i 
tempi 
rilevati 
sono stati 
di 
25 mesi. La durata complessiva dei 
due 
gradi 
di 
merito è 
dunque 
di 
circa 4,5 anni. Per 
quanto riguarda 
invece 
il 
giudizio di 
cassazione, la durata media dei 
procedimenti 
tributari 
è 
stata, nel 
2016, di 
poco superiore 
a 47 mesi 
(v. annuario statistico 2016 della Cassazione 
civile, pag. 48), ovvero quasi 
altri 4 anni”. 

CONtRIBUtI 
DI 
DOttRINA 


versare 
spontaneamente 
quanto richiesto dal 
fisco, agire 
in giudizio non rappresenta 
una 
scelta 
razionale. L’effetto che 
ne 
consegue 
è 
certamente 
deflattivo, 
tuttavia 
la 
deflazione 
non è 
virtuosa, poiché 
non opera 
selettivamente: 
il 
cittadino 
è 
dissuaso 
dal 
proporre 
il 
ricorso 
anche 
quando 
ha 
(o 
ritiene 
di 
avere) 
chiaramente ragione. 

Per 
tali 
motivi 
è 
più 
che 
mai 
auspicabile 
una 
corretta 
applicazione 
del 
governo 
delle 
spese 
-anche 
stimolata 
dall’organo 
di 
autogoverno 
-dove 
la 
regola 
sia quella della soccombenza e la compensazione sia un’ipotesi eccezionale. 



Finito di stampare nel mese di ottobre 2022 
Stabilimenti 
Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 
Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma