ANNO LXXIII - N. 4 
OTTOBRE - DICEMBRE 2021 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Carlo 
Buonauro, 
Gabriella 
D’Avanzo, 
Pietro 
Garofoli, 
Michele 
Gerardo, 
Andrea 
Lipari, 
Adolfo 
Mutarelli, 
Gaetana 
Natale, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Emanuela 
Rosanò, 
Isabella 
Vitiello. 


Email 
Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
danilodelgaizo@avvocaturastato.it 
stefanovarone@avvocaturastato.it 


ABBONAMENTO 
ANNUO 
..............................................................................€ 40,00 
UN 
NUMERO 
.............................................................................................. € 12,00 


Per 
abbonamenti 
ed 
acquisti 
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copia 
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quietanza 
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bonifico 
bancario 
o 
postale 
a 
favore 
della 
Tesoreria 
dello 
Stato 
specificando 
codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
pregati 
di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



i 
n 
d 
i 
c 
e 
-s 
o 
m 
m 
a 
r 
i 
o 
Comunicato dell’Avvocato Generale, Conferimento dell’incarico di 
Vice 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
agli 
Avvocati 
dello 
Stato 
Maria 
Letizia 
Guida ed Enrico De Giovanni 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
TEMI 
ISTITUZIONALI 
Lectio 
magistralis 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli 
“La difesa del 
Governo italiano nel 
Contenzioso Internazionale 
ed Europeo” 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
1 
Soppressione 
di 
Riscossione 
Sicilia 
s.p.a. 
e 
successione 
a 
titolo 
universale 
di 
Agenzia 
delle 
Entrate-Riscossione 
(ADER) 
a 
decorrere 
dal 
1°.10.2021. 
Secondo Addendum 
al 
Protocollo d’intesa sottoscritto il 
30 marzo 2022 
tra l’Avvocatura dello Stato e 
ADER, Circolare 
A.G. 1 aprile 2022 n. 20 
›› 
26 
D.P.C.M. 
21 
marzo 
2021 
recante 
“Autorizzazione 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell’Azienda 
per 
il 
diritto 
allo studio universitario della Regione 
Campania nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità giudiziarie, i 
collegi 
arbitrali, le 
giurisdizioni 
ammnistrative 
e speciali”, Circolare 
A.G. 17 maggio 2022 n. 35 
. . . . . . . . ›› 
27 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
Emanuela 
Rosanò, 
Giudici 
di 
Pace: 
la 
CGUE 
riconosce 
il 
diritto 
alle 
ferie 
e 
alla 
tutela 
previdenziale 
e 
assistenziale 
ove 
sia 
accertata 
la 
“comparabilità” 
con 
i 
magistrati 
ordinari 
(C. 
giust. 
Ue, 
Prima 
Sez., 
sent. 
7 
aprile 2022, C-236/20) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
29 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Pietro Garofoli, Le 
c.d. “concessioni 
balneari”. Nota alle 
sentenze 
17 e 
18 
del 
2021 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(Cons. 
St., 
Ad. 
Plen., sentt. 9 novembre 2021 n. 17 e n. 18) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
51 
Gaetana 
Natale, La vexata quaestio della proroga delle 
concessioni 
demaniali: 
prospettive 
future 
(Cons. St., Ad. Plen., sentt. 9 novembre 
2021 
n. 17 e n. 18) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
85 
I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 
Gabriella 
D’Avanzo, Andrea 
Lipari, 
Appalti 
pubblici. Cessione 
di 
crediti 
da corrispettivo di 
appalto realizzata nell’ambito di 
una più ampia operazione 
di 
cartolarizzazione. Rapporto tra le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 
106, co. 13, Codice 
contratti 
pubblici 
e 
4, co. 4 bis, Legge 
cartolarizzazioni 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
95 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
Gaetana 
Natale, Il 
ruolo delle 
Nazioni 
Unite 
e 
della Nato nel 
nuovo contesto 
internazionale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
107 



Gaetana 
Natale, Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le 
sfide 
future per il giurista 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
116 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Adolfo Mutarelli, Domanda riconvenzionale 
impropria e 
domanda trasversale: 
un possibile distinguo? 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
261 
Carlo 
Buonauro, 
Michele 
Gerardo, 
Controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro. Questioni processuali tipiche del processo del lavoro pubblico 
›› 
269 
Isabella 
Vitiello, 
I 
requisiti 
estrinseci 
dell’atto 
di 
appello 
nel 
processo 
tributario, 
con particolare riguardo alla specificità dei motivi 
. . . . . . . . . . ›› 
295 
Un ricordo e un saluto a 
Paolo Vittorio di Tarsia di Belmonte 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Comunicato dell’Avvocato Generale, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ringraziamenti, Gabriella D’Avanzo 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Comunicato dell’Avvocato Generale, 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ringraziamenti, Pierluigi Di Palma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Comunicato dell’Avvocato Generale, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ringraziamenti, Maria Elena Scaramucci Lallo 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 


(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Con 
Decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
4 
maggio 
2022, 
registrato 
il 
12 
maggio 
2022, 
è 
stato 
disposto 
il 
conferimento 
dell’incarico 
di 
Vice 
Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
agli 
Avvocati dello Stato Maria Letizia Guida ed Enrico De Giovanni. 


Ai cari ed illustri Colleghi e 
Amici vivissime congratulazioni e i più fervidi auguri. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) Email Segreteria Particolare, venerdì 13 maggio 2022. 



TEMIISTITUZIONALI
LectIo 
MAGIStrALIS 
DeLL’AvvocAto 
GenerALe 
DeLLo 
StAto 


(*)

GABrIeLLA 
PALMIerI 
SAnDULLI 


La difesa del Governo italiano 
nel Contenzioso Internazionale ed Europeo 


1. Ringraziamenti e introduzione. 
Magnifico 
Rettore, 
Autorità, 
Prof. 
Mengozzi, 
con 
il 
quale 
condivido 
il 
bellissimo 
ricordo 
del 
Convegno 
organizzato 
nel 
2014 
in 
Avvocatura 
Generale 
e 
al 
Ministero degli 
Affari 
Esteri 
in occasione 
del 
semestre 
di 
presidenza 
italiana 
del 
Consiglio 
europeo, 
Chiarissimi 
Professori, 
Avvocati 
e 
rappresentanti 
dei 
Consigli 
degli 
Ordini, 
Avvocati 
dello 
Stato, 
Dottorandi, 
Studentesse 
e 
Studenti, 
gentili 
Ospiti 
anche 
collegati 
da 
remoto, desidero, innanzitutto, ringraziare 
davvero 
e 
non 
come 
una 
formula 
di 
mero 
stile 
il 
Magnifico 
Rettore, 
Prof. 
Giovanni 
Molari, 
il 
Direttore 
del 
Dipartimento 
di 
Scienze 
giuridiche, 
Prof. 
Michele 
Caianiello 
e 
il 
Presidente 
della 
Sezione 
Italiana 
dell’International 
Law 
Association, 
Prof. 
Attila 
Tanzi, 
per 
avermi 
invitato 
a 
tenere 
la 
lectio 
magistralis 
in questa 
prestigiosissima 
Università 
Alma 
Mater Studiorum 
di 
Bologna 
e 
in 
questa magnifica 
Aula Magna. 


Lo 
considero 
un 
grande 
onore 
per 
me 
e 
per 
l’Istituto 
che 
ho 
il 
privilegio 
di 
dirigere, 
perché 
l’impegno 
dell’Alma 
Mater 
e 
del 
suo 
Dipartimento 
di 
Scienze 
Giuridiche 
nella 
promozione 
dell’internazionalizzazione 
non 
solo 
è 
ben 
noto, 
ma 
è 
anche 
espresso 
nel 
riconoscimento 
di 
Dipartimento 
di 
eccellenza. 


L’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
da 
sempre, 
per 
consolidata 
tradizione, 
un 
co


(*) Lectio magistralis 
tenuta dall’Avvocato Generale 
dello Stato in 
occasione 
dell’evento organizzato 
dal 
Dipartimento 
di 
Scienze 
Giuridiche 
dell’Università 
Alma 
Mater 
Studiorum 
di 
Bologna 
con 
la 
collaborazione 
della 
Sezione 
Italiana 
dell’International 
Law 
Association 
e 
l’Avvocatura 
dello 
Stato, 
giovedì 
31 marzo 2022. 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


stante 
e 
vivo rapporto di 
collaborazione 
con le 
Università 
e 
ciò consente, attraverso 
l’aggiornamento e 
l’attenzione 
alle 
riflessioni 
giuridiche, il 
migliore 
svolgimento dei 
compiti 
istituzionali, in funzione 
di 
positivo completamento 
della professionalità. 


L’argomento oggetto della 
mia 
lezione 
credo illustri 
perfettamente 
le 
caratteristiche 
dell’Avvocatura 
dello Stato e 
la 
sua 
proiezione 
internazionale 
e 
che è di grande attualità anche in chiave sistemica. 


2. La storia. 
Desidero, innanzitutto, soffermarmi, seppure 
brevemente, sulle 
caratteristiche 
del 
nostro 
Istituto, 
anche 
per 
far 
comprendere 
come 
l’impegno 
in 
sede 
sovranazionale 
si 
inquadri 
perfettamente 
nelle 
competenze 
e 
nelle 
attribuzioni 
istituzionali. 


Non 
posso 
non 
cominciare 
da 
qualche 
sintetico 
richiamo 
alla 
nostra 
storia. 


L’Avvocatura 
dello Stato ha 
un’origine 
antica, essendo una 
delle 
prime 
istituzioni 
dello Stato unitario, se 
si 
considera 
che 
è 
stata 
fondata 
nel 
1876 all’indomani 
della sua nascita. 

La 
conformazione 
dell’Istituto ha 
la 
sua 
matrice 
storica 
nel 
sistema 
del 
Granducato di 
Toscana, dove 
Leopoldo di 
Lorena 
aveva 
istituito l’avvocato 
regio 
per 
la 
rappresentanza 
e 
difesa 
dello 
Stato 
in 
giudizio, 
che 
portò 
nel 
1876 
alla 
costituzione 
della 
Regia 
avvocatura 
erariale 
sul 
modello 
dell’avvocato 
regio di 
Toscana. 


L’Istituto, 
fondato 
con 
il 
nome 
di 
Avvocatura 
Erariale 
con 
un 
regolamento 
del 
16 gennaio 1876, “si 
articola 
su tre 
principi 
fondamentali, validi 
ancora 
oggi 
come 
vedremo: 
l’istituzione 
di 
un organo dello Stato nettamente 
distinto 
dalle 
amministrazioni 
assistite, e 
di 
un corpo di 
avvocati 
dello Stato, opportunamente 
qualificato 
e 
rigorosamente 
selezionato; 
una 
piena 
indipendenza 
funzionale 
ed una 
assoluta 
libertà 
di 
giudizio a 
tale 
organo riconosciuta, quale 
è 
quella 
propria 
del 
difensore 
e 
del 
patrono; 
l’esclusività 
del 
patrocinio 
attribuita 
all’Istituto 
per 
tutte 
le 
Amministrazioni 
ed 
aziende 
di 
Stato, 
così 
da 
assicurare, 
in un comune pensiero, una costante rigorosa unità d’indirizzo” . 


Essa 
trova 
i 
suoi 
antecedenti 
logici 
ed ideologici 
nella 
concezione 
illuministica 
dell'amministrazione 
pubblica, attenta 
ad un'ordinata 
e 
corretta 
gestione 
del settore finanziario nell’interesse degli stessi amministrati. 

La 
riforma 
consistette, 
in 
apparente 
semplicità, 
nell’affidamento 
della 
rappresentanza 
e 
difesa 
tecnica 
e 
delle 
consultazioni 
legali 
ad un corpo di 
avvocati 
costituito ad hoc. 


Questa 
vocazione 
spiccatamente 
legalitaria 
e 
giustiziale 
fu 
mantenuta 
dal-
l’Avvocatura 
dello Stato anche 
quando si 
trovò ad esercitare 
i 
propri 
compiti 
negli 
anni 
difficili 
in cui 
lo spirito autoritario dei 
tempi 
tendeva 
a 
privilegiare 
gli interessi contingenti dello Stato-apparato. 


L’Istituto trova, tuttora, la 
sua 
disciplina 
essenziale 
nel 
R.D. n. 1611 del 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


1933, cui 
la 
legge 
n. 103 del 
1979 ha 
apportato modifiche, introducendo importanti 
garanzie 
nella 
gestione 
dell'Istituto, 
nonché 
la 
disciplina 
della 
possibile 
estensione delle funzioni alle regioni a statuto ordinario. 


Sotto il 
profilo organizzativo, la 
riforma 
del 
1979 ha 
opportunamente 
accentuato 
l'affrancamento da 
riflessi 
burocratici 
della 
composita 
figura 
dell'avvocato 
dello 
Stato, 
che 
non 
è 
più 
ordinata 
in 
un 
complesso 
gerarchico 
di 
qualifiche, ma 
unitariamente 
concepita 
in ragione 
dell'identità 
della 
funzione. 


Pur 
avendo 
i 
suoi 
precedenti 
storici 
negli 
avvocati 
fiscali 
del 
diritto 
romano, 
riportati 
in 
auge 
nel 
Settecento 
dalla 
tradizione 
romanistica, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
Istituto 
relativamente 
recente: 
le 
sue 
strutture 
portanti 
sono 
direttamente 
connesse 
al 
moto 
di 
pensiero 
che 
ha 
portato 
in 
Italia 
a 
sottomettere 
la 
pubblica 
amministrazione 
alla 
giurisdizione 
e 
all’avvento 
dello 
Stato 
di 
diritto. 


La 
soluzione, adottata 
dal 
nuovo Stato nazionale, di 
affidare 
in via 
esclusiva 
a 
funzionari 
specializzati 
(veri 
e 
propri 
avvocati) 
la 
difesa 
in 
giudizio 
delle 
proprie 
controversie, 
è 
una 
caratteristica 
propria 
dell’esperienza 
italiana, 
ancorché, 
di 
recente, 
sia 
stata 
riproposta 
in 
altri 
ordinamenti 
giuridici, 
tra 
i 
quali 
la 
Spagna, 
il 
Marocco, 
il 
Brasile 
e, 
per 
certi 
aspetti, 
l’Austria 
(Finanzprokuratur), 
Albania, Grecia. 


I tratti 
comuni 
delle 
altre 
Istituzioni 
omologhe 
sono stati 
ben evidenziati 
nel 
corso 
di 
un 
interessantissimo 
Seminario 
a 
porte 
chiuse 
svoltosi 
a 
Bruxelles 
nel 
2017 
con 
il 
Servizio 
Giuridico 
della 
Commissione 
e 
gli 
Abogados 
de 
l’estado spagnoli 
per un incontro trilaterale 
e 
un confronto costruttivo e 
conoscitivo 
delle 
reciproche 
esperienze 
anche 
sotto 
il 
profilo 
eminentemente 
pratico. 


3. L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento nazionale. 
Nel 
sistema 
italiano l’Avvocatura 
dello Stato svolge 
le 
funzioni 
di 
assistenza, 
di 
consulenza 
e 
difesa 
in 
via 
esclusiva 
e 
organica 
delle 
Amministrazioni 
statali 
in tutte 
le 
loro articolazioni, degli 
Organi 
Costituzionali, delle 
Autorità 
amministrative indipendenti e delle Regioni a statuto speciale. 


L'Avvocatura 
dello Stato tutela 
in sede 
giudiziaria 
gli 
interessi 
patrimoniali 
e 
non 
patrimoniali 
dello 
Stato 
e 
di 
altri 
enti 
ammessi 
al 
patrocinio, 
ai 
quali presta pure la propria consulenza senza limiti di materia. 


A 
differenza 
dei 
sistemi 
adottati 
in altri 
Paesi, nell'ordinamento italiano 
la 
tutela 
legale 
degli 
interessi, patrimoniali 
e 
non patrimoniali 
dello Stato, è 
istituzionalmente 
attribuita 
a 
un 
corpo 
di 
giuristi 
specializzati, 
chiamato 
a 
svolgere 
la 
sua 
attività 
quando la 
cura 
dell'interesse 
pubblico -sia 
nelle 
forme 
del 
diritto comune 
che 
attraverso l'esercizio di 
potestà 
-richieda 
di 
promuovere 
o 
sostenere 
una 
controversia 
giudiziaria, ovvero comporti 
l'adozione 
di 
una 
determinazione 
che implichi l'applicazione di regole giuridiche. 


Tale 
scelta 
offre 
innegabili 
vantaggi 
che 
la 
rendono attuale 
ancora 
oggi 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


anche 
nella 
visione 
sovranazionale 
nell’ottica 
dell’evoluzione 
storico-concettuale 
dei 
tre 
principi 
fondamentali 
illustrati 
in 
precedenza: 
considerazione 
unitaria 
degli 
interessi 
dello Stato, che 
possono trascendere 
l'esito della 
singola 
causa; 
unità 
di 
indirizzo nell'attività 
defensionale; 
visione 
complessiva 
delle 
problematiche 
della 
funzione 
amministrativa; 
costante 
integrazione 
tra 
attività 
consultiva 
e 
contenziosa; 
e, non ultima 
per importanza, la 
notevole 
riduzione 
degli oneri di assistenza legale. 

L’Avvocatura 
costituisce, 
quindi, 
un 
osservatorio 
privilegiato, 
a 
tutto 
campo, 
delle 
problematiche 
-sotto 
ogni 
angolazione 
e 
sotto 
ogni 
sfaccettatura 
-che 
interessano 
la 
politica 
dello 
Stato 
attraverso 
una 
visione 
completa 
della 
giurisprudenza 
di 
tutti 
gli 
organi 
giurisdizionali 
di 
fronte 
ai 
quali 
questi 
problemi 
sono 
sollevati; 
in 
un’ottica 
di 
trattazione 
integrale 
e 
interdisciplinare. 


4. La rappresentanza e 
difesa del 
Governo italiano nel 
contenzioso internazionale. 
va, innanzitutto, ricordato che 
la 
norma 
cardine 
di 
riferimento è 
l’art. 9 
della 
legge 
3 aprile 
1979, n. 103, che 
contiene 
le 
modifiche 
all’ordinamento 
dell’Avvocatura 
dello Stato, prevede 
che 
“L'Avvocatura generale 
dello Stato 
provvede 
alla rappresentanza e 
difesa delle 
amministrazioni 
nei 
giudizi 
davanti 
alla Corte 
costituzionale, alla Corte 
di 
cassazione, al 
Tribunale 
superiore 
delle 
acque 
pubbliche, 
alle 
altre 
supreme 
giurisdizioni, 
anche 
amministrative, ed ai 
collegi 
arbitrali 
con sede 
in Roma, nonché 
nei 
procedimenti 
innanzi a collegi internazionali o comunitari”. 

Il 
predetto articolo costituisce, dunque, la 
base 
normativa 
sulla 
quale 
si 
fonda 
l’attività 
giurisdizionale 
dell’Avvocatura 
Generale 
in 
sede 
internazionale 
e innanzi ai Giudici dell’Unione europea. 


In particolare, va 
ricordato, seppure 
sia 
ormai 
risalente 
nel 
tempo, il 
caso 
Elsi 
Elettronica Sicula (Stati 
Uniti) c. Italia, deciso con la 
sentenza 
20 luglio 
1989 della 
Corte 
Internazionale 
di 
Giustizia 
dell’Aja, di 
rigetto (per 4 voti 
a 


1) dell’istanza, ritenendo che 
la 
Repubblica 
italiana 
non aveva 
commesso alcune 
delle 
violazioni 
allegate 
nella 
suddetta 
istanza 
e 
respingendo, 
con 
la 
stessa 
maggioranza, la 
domanda 
di 
risarcimento presentata 
dagli 
Stati 
Uniti 
contro 
la Repubblica italiana, con una sola opinione dissenziente. 
È 
stato il 
primo caso di 
Collegio difensivo misto (avvocati 
e 
professori 
e 
avvocati 
dello stato con una 
perfetta 
sinergia 
e 
collaborazione 
che 
ha 
reso le 
difese 
italiane 
“imbattibili”) 
istituito 
con 
DPCM 
ex 
art. 
5 
R.D. 
30 
ottobre 
1933, 


n. 
1611, 
“Approvazione 
del 
T.U. 
delle 
leggi 
e 
delle 
norme 
giuridiche 
sulla 
rappresentanza 
e 
difesa 
in 
giudizio 
dello 
Stato 
e 
sull'ordinamento 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato”, 
che 
espressamente 
prevede 
che 
“Nessuna 
Amministrazione 
dello 
Stato 
può 
richiedere 
la 
assistenza 
di 
avvocati 
del 
libero 
foro 
se 
non 
per 
ragioni 
assolutamente 
eccezionali, inteso il 
parere 
dell'Avvocato generale 
dello Stato 
e secondo norme che saranno stabilite dal Consiglio dei ministri. 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


L'incarico nei 
singoli 
casi 
dovrà essere 
conferito con decreto del 
Capo 
del 
Governo 
di 
concerto 
col 
Ministro 
dal 
quale 
dipende 
l'Amministrazione 
interessata 
e col Ministro delle finanze”. 


Successivamente 
alla 
costituzione 
del 
relativo gruppo di 
avvocati 
e 
professori, 
due 
Avvocati 
dello Stato sono stati 
chiamati 
a 
far parte 
dell’international 
legal 
team 
che 
ha 
seguito il 
contenzioso internazionale 
per la 
vicenda 
dei 
due 
marò (caso Enrica Lexie) azionato nei 
confronti 
dell’India 
innanzi 
al 
Tribunale 
Arbitrale 
Internazionale 
con sede 
a 
L’Aia 
e 
all’ITLOS 
-Tribunale 
Internazionale del Diritto del Mare con sede ad Amburgo. 


Un’esperienza 
unica 
grazie 
al 
confronto con le 
professionalità 
espresse 
ad altissimi 
livelli 
internazionali 
dai 
componenti 
e 
che 
ha 
determinato una 
eccezionale 
sinergia non solo lavorativa, ma anche culturale. 

Il 
risultato principale 
e 
fondamentale 
della 
sentenza 
arbitrale, pubblicata 
il 
21 
maggio 
2020, 
relativa 
alla 
“Enrica 
Lexie” 
è 
senz’altro 
costituito 
dalla 
dichiarazione 
di 
carenza 
di 
giurisdizione 
penale 
dei 
tribunali 
indiani, 
in 
base 
alla 
regola 
consuetudinaria 
sulla 
immunità 
dalla 
giurisdizione 
straniera 
degli 
organi 
dello Stato per atti 
compiuti 
nell’esercizio delle 
proprie 
funzioni 
pubblicistiche. 
A 
tal 
fine, è 
stato fondamentale 
l’accertamento da 
parte 
del 
Tribunale 
internazionale 
della 
natura 
pubblicistica 
della 
funzione 
di 
NMP 
(Nuclei 
Militari 
di 
Protezione) svolta 
dai 
due 
fucilieri 
sulla 
base 
del 
D.L. n. 107/2011, successivamente 
convertito con Legge 
n. 130/2011, per operazioni 
di 
contrasto alla 
pirateria 
nell’Oceano indiano occidentale 
in esecuzione 
delle 
Risoluzioni 
del 
Consiglio di 
Sicurezza 
ONU 
1976 (2011) e 
2077 (2012). Ciò comporta 
che 
solo 
l’Italia 
potrà/dovrà 
esercitare 
la 
giurisdizione 
penale 
in 
relazione 
agli 
eventi in questione. 


Il 
Tribunale 
non 
ha 
accolto 
la 
tesi 
della 
esclusività 
della 
giurisdizione 
italiana 
sull’incidente 
sulla 
base 
degli 
artt. 56, 58, 97, 100 e 
300 UNCLOS 
invocati 
dall’Italia. 
va, 
inoltre, 
rilevato 
come 
il 
Tribunale 
abbia 
superato 
il 
precedente 
della 
controversia, 
di 
cui 
si 
dirà 
più 
avanti, 
tra 
Panama 
e 
Italia 
circa 
la 
nave 
Norstar, nell’escludere 
la 
violazione 
degli 
artt. 87 e 
92 della 
Convenzione, 
anch’essi 
invocati 
dall’Italia. 
Mentre 
in 
Norstar 
l’ITLOS 
ha 
rilevato 
una 
violazione 
della 
libertà 
di 
navigazione 
sulla 
base 
di 
tali 
disposizioni 
per 
la 
semplice 
adozione 
del 
decreto di 
sequestro che 
non aveva 
materialmente 
in 
alcun 
modo 
interferito 
sulla 
navigazione 
della 
Norstar, 
il 
Tribunale, 
nella 
questione 
Enrica 
Lexie, 
ha 
elevato 
la 
soglia 
per 
l’illiceità 
della 
condotta, 
indicando 
che 
possono violare 
la 
libertà 
di 
navigazione 
esclusivamente 
“acts 
including 
physical 
or 
material 
interference 
with 
navigation 
of 
a 
foreign 
vessel, 
the 
threat 
or 
use 
of 
force 
against 
a foreign vessel, or 
non-physical 
forms 
of 
interference 
whose 
effect 
is 
that 
of 
instilling fear 
in, or 
causing hindrance 
to, the 
exercise 
of the freedom of navigation” (par. 472). 


Il 
Tribunale 
ha 
tenuto conto che 
l’incidente 
ha 
intralciato in modo determinante 
la 
navigazione 
della 
imbarcazione 
indiana 
St. Antony, provocando la 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


morte 
di 
due 
cittadini 
indiani. 
Sulla 
base 
di 
ciò, 
il 
Tribunale 
ha 
invitato 
le 
Parti 
a 
negoziare 
un accordo risarcitorio, riservandosi 
il 
potere 
di 
determinare 
egli 
stesso 
il 
quantum 
nel 
caso 
di 
mancato 
accordo. 
va, 
inoltre, 
ricordato 
che 
l’Italia 
aveva 
già 
provveduto a 
effettuare 
un pagamento ex 
gratia 
alle 
famiglie 
delle 
vittime 
nell’aprile 
2012, 
fatto 
che 
ha 
avuto 
conseguenze 
sul 
negoziato 
tra 
Italia 
e India circa il risarcimento da pagare. 


Si 
segnala 
che 
l’accertamento del 
giudice 
internazionale 
dell’obbligo di 
riparazione 
ha 
lasciato del 
tutto impregiudicato l’accertamento sul 
piano del 
diritto penale 
interno che 
compete, secondo la 
sentenza, esclusivamente 
alla 
magistratura 
italiana. Infatti, le 
valutazioni 
giuridiche 
internazionali 
costituiscono 
meri fatti per il giudice interno. 


La 
vicenda 
si 
è, poi, conclusa 
-com’è 
noto -anche 
innanzi 
alla 
Corte 
Suprema 
indiana 
che, 
preso 
atto 
dell’avvenuto 
risarcimento 
accettato 
dalle 
parti, 
il 
15 giugno 2021, ha 
disposto l’annullamento di 
tutte 
le 
accuse 
a 
carico dei 
due fucilieri di marina, estinguendo il processo penale a loro carico. 


In sede 
nazionale, il 
GIP 
di 
Roma, Alfonso Sabelli, ha 
disposto l’archiviazione 
dell’indagine della Procura di Roma il 31 gennaio 2022. 


Un 
Avvocato 
dello 
Stato 
è 
stato 
nominato 
a 
dicembre 
2015 
Agente 
del 
Governo dal 
Ministro degli 
Affari 
esteri 
e 
della 
Cooperazione 
internazionale 
nella 
controversia 
instaurata 
da 
Panama 
in protezione 
internazionale 
nei 
confronti 
dell’Italia, 
concernente 
il 
sequestro 
di 
una 
motonave 
avvenuto 
nel 
1998, 
con conseguente 
richiesta 
di 
risarcimento dei 
pretesi 
danni 
subiti, Caso M/N 
Norstar 
v. Italy, innanzi 
all’ITLOS 
-Tribunale 
Internazionale 
del 
Diritto del 
Mare con sede ad Amburgo, alla quale si accennava 
supra. 

Con la 
sentenza, pronunciata 
il 
10 aprile 
2019, sebbene 
con un alto numero 
di 
opinioni 
dissenzienti 
(7), 
il 
Tribunale 
ha 
ritenuto 
il 
sequestro 
della 
motonave, 
una 
violazione 
dell’art. 
87.1. 
della 
UNCLOS 
“libertà 
di 
navigazione”, 
ma 
non ha 
accolto gli 
altri 
due 
motivi 
di 
ricorso addotti 
dalla 
Repubblica 
di 
Panama, che 
agiva 
in protezione 
internazionale 
(violazione 
degli 
artt. 


87.2 e 
300, “rispetto degli 
interessi 
degli 
altri 
Stati” 
e 
“buona 
fede”) per inapplicabilità 
/irrilevanza 
nella 
controversia, condannando la 
Rep. Italiana 
al 
risarcimento 
del 
danno che 
ha 
stimato in 285.000 USD 
+ interessi 
del 
2,71% 
annuo a 
datare 
dal 
25 settembre 
1998 (data 
del 
sequestro) al 
10 aprile 
2019 
(data 
della 
lettura 
della 
sentenza), che 
è 
solo una 
minima 
frazione 
del 
petitum 
avanzato (50 milioni di dollari). 
I fatti 
da 
cui 
ha 
avuto origine 
la 
controversia 
riguardavano un provvedimento 
di 
sequestro 
emesso 
nel 
1998 
dalla 
Procura 
della 
Repubblica 
di 
Savona 
nei 
confronti 
della 
Norstar 
battente 
bandiera 
norvegese, 
nel 
quadro 
di 
indagini 
legate 
a 
presunti 
reati 
fiscali 
collegati 
(bunkeraggio). 
Il 
sequestro 
era 
stato 
materialmente 
eseguito 
nel 
porto 
di 
Palma 
di 
Maiorca 
dalle 
autorità 
spagnole 
dietro 
richiesta 
del 
PM 
italiano nel 
quadro della 
cooperazione 
giudiziaria 
e 
si 
era 
protratto fino al 
2003, quando il 
Tribunale 
di 
Savona 
aveva 
disposto la 
man



TEMI 
ISTITUzIONALI 


leva 
dell’immobilizzazione 
della 
nave, 
decisione 
confermata 
dalla 
Corte 
d’Appello 
di Genova nel 2005. 

va 
rilevato 
che 
la 
questione 
aveva 
una 
indubbia 
connessione 
logica 
e 
giuridica 
con 
la 
vicenda 
dell’Enrica 
Lexie 
e, 
quindi, 
era 
davvero 
importante, 
anche 
sotto il 
profilo della 
strategia 
processuale 
da 
adottare 
nelle 
due 
controversie, 
l’unitarietà difensiva e la visione di insieme. 


La 
controversia 
è 
stata 
anche 
un esempio di 
sinergia 
istituzionale, sia 
per 
la 
grande 
qualità 
professionale 
del 
consulente 
tecnico 
di 
parte 
scelto 
con 
il 
fondamentale 
apporto 
del 
Comandante 
generale 
delle 
Capitanerie 
di 
Porto. 
La 
consulenza 
di 
parte, infatti, è 
stata 
determinante 
per l’esito della 
controversia, 
consentendo di 
limitare 
il 
titolo della 
responsabilità 
per la 
Repubblica 
italiana 
e, in modo macroscopico, la 
quantificazione 
del 
danno (285.000 dollari 
USA 
invece 
dei 
50 milioni 
di 
dollari 
chiesti 
da 
parte 
attrice); 
fondamentale 
è 
stata, 
poi, la 
fattiva 
collaborazione 
con l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Genova 
per poter recuperare 
i 
fascicoli 
della 
causa 
nazionale 
presso la 
Procura 
di Savona. 


Molto 
delicata 
per 
i 
possibili 
effetti 
susseguenti 
sul 
piano 
dei 
rapporti 
internazionali 
e 
della 
responsabilità 
dello 
Stato 
italiano 
e 
che 
ha 
sollevato 
un 
vivo 
dibattito 
nella 
dottrina, 
la 
sentenza 
depositata 
il 
22 
ottobre 
2014, 
n. 
238, 
con 
la 
quale 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 
1 
legge 
17 
agosto 
1957, 
n. 
848, 
recante 
la 
“esecuzione 
dello 
Statuto 
delle 
Nazioni 
Unite 
firmato 
a 
San 
Francisco 
il 
26 
giugno 
1945”, 
e 
dell’art. 
3 
della 
legge 
n. 
14 
gennaio 
2013, 
n. 
5, 
“Adesione 
della 
Repubblica 
italiana 
alla 
Convenzione 
sull’immunità 
giurisdizionale 
degli 
Stati 
e 
dei 
loro 
beni 
fatta 
a 
New 
York 
il 
2 
dicembre 
2004, 
nonché 
norme 
di 
adeguamento 
all'ordinamento 
interno”, 
con 
le 
quali 
l’Italia 
aveva 
dato 
esecuzione 
alla 
sentenza 
del 
3 
febbraio 
2012 
della 
Corte 
Internazionale 
di 
Giustizia 
-CIG, 
resa 
nel 
giudizio 
proposto 
dalla 
Repubblica 
Federale 
di 
Germania 
contro 
Repubblica 
italiana 
e 
conclusosi 
con 
la 
condanna 
dell’Italia 
per 
essere 
venuta 
meno 
ai 
suoi 
obblighi 
di 
rispettare 
l’immunità 
riconosciuta 
alla 
Germania 
dal 
diritto 
internazionale. 
In 
quel 
giudizio 
le 
funzioni 
di 
Co-Agente 
erano 
svolte 
da 
un 
Avvocato 
dello 
Stato. 


Chiaro 
esempio 
di 
interazione 
e 
interconnessione 
fra 
diritto 
internazionale 
e diritto interno. 


In particolari 
situazioni, aventi 
a 
oggetto cause 
risarcitorie 
azionate 
con 
riferimento 
a 
stragi 
compiute 
sul 
territorio 
italiano 
da 
militari 
dell’esercito 
nazista 
(1), in cui 
si 
è 
espressa 
la 
funzione 
istituzionale 
tipica 
propria, l’Avvocatura 
ha 
rappresentato l’insussistenza 
dei 
presupposti 
per un intervento ex art. 
105 
c.p.c., 
trattandosi 
di 
fattispecie 
di 
particolare 
gravità 
anche 
sotto 
il 
profilo 


(1) Tribunale 
di 
Isernia 
causa 
azionata 
dal 
Comune 
di 
Fornelli; 
Tribunale 
di 
Roma 
causa 
azionata 
dagli eredi delle vittime delle Fosse 
Ardeatine. 

RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


umanitario, che 
toccano delicati 
profili 
di 
memoria 
storica 
collettiva 
ancora 
esistenti 
e 
fortemente 
radicati 
nella 
comune 
percezione 
e 
nel 
comune 
sentire; 
esprimendo così 
un giudizio tecnico coniugato a 
valutazioni 
di 
opportunità 
al 
fine 
di 
offrire 
al 
Governo 
italiano 
una 
complessiva 
valutazione 
della 
questione 
per orientare 
nel 
modo più completo e, perciò, nel 
modo migliore 
l’azione 
e 
la posizione nel giudizio della Repubblica italiana. 


Negli 
ultimi 
anni, a 
far data 
dal 
2014, è 
sensibilmente 
aumentato l’impegno 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nell’ambito 
delle 
controversie 
di 
diritto 
internazionale, 
che 
si 
è 
affiancato, 
quindi, 
a 
quello 
ormai 
consolidato 
da 
tempo, 
innanzi alla Corte di Giustizia e al 
Tribunale dell’Unione europea. 


L’Avvocatura 
Generale 
dello Stato svolge 
un ruolo da 
protagonista 
nel-
l’ambito della 
trattazione 
degli 
arbitrati 
internazionali 
azionati 
da 
investitori 
stranieri 
per la 
prima 
volta 
contro la 
Repubblica 
italiana 
innanzi 
all’ICSID 
-
International 
Center 
of 
Settlement 
of 
Investiment 
Disputes 
di 
Washington 
e 
innanzi 
alla 
SSC 
-Arbitration 
Institute 
of 
the 
Stockholm 
Chamber 
of 
Commerce 
in 
tema 
di 
fotovoltaico 
e 
c.d. 
“spalma 
incentivi” 
e 
di 
ECT 
-Energy 
Charter Treaty. 


Sui 
dettagli 
si 
soffermeranno 
i 
miei 
Colleghi 
nella 
tavola 
rotonda 
a 
seguire. 


In questa sede formulo solo alcune considerazioni di carattere generale. 


L’Avvocatura 
Generale 
ha 
dovuto, 
pertanto, 
confrontarsi 
con 
una 
diversa 
e, soprattutto, nuova 
modalità 
di 
svolgimento della 
procedura, che 
si 
caratterizza 
per 
la 
redazione 
di 
atti 
difensivi, 
di 
scambio 
di 
corrispondenza, 
anche 
per 
posta 
elettronica, 
di 
conference-call, 
non 
solo 
in 
tempi 
più 
ristretti 
rispetto 
a 
quelli 
previsti 
dalle 
norme 
processuali 
di 
diritto interno, ma 
anche 
e 
soprattutto 
nell’utilizzo della lingua inglese come lingua del processo. 


va 
segnalato che 
con nota 
del 
22 marzo scorso è 
stato comunicato, nel 
quadro dell’ampliata 
pubblicità 
informativa, ormai 
propria 
anche 
del 
Giudice 
eurounitario, che 
il 
Consiglio amministrativo dell’ICSID 
ha 
approvato la 
modifica 
del 
Regolamento con effetto dal 
1° 
luglio 2022 in chiave 
di 
miglioramento 
e 
di 
accelerazione, 
di 
trasparenza, 
di 
riduzione 
dei 
costi, 
prevedendo 
un termine 
cogente 
per la 
pronuncia 
di 
sentenze 
e 
di 
ordinanze, allo scopo di 
facilitare l’accesso agli investitori stranieri e il ricorso alla mediazione. 


Si 
tratta 
di 
controversie 
che, oltre 
ad avere 
un rilevantissimo valore 
economico, 
sono 
anche 
suscettibili 
di 
incidere 
sull’immagine 
del 
Paese, 
quale 
mercato idoneo a 
offrire 
agli 
investitori 
stranieri 
un contesto giuridico ed economico 
caratterizzato 
da 
stabilità. 
In 
queste 
cause 
ci 
troviamo 
a 
competere 
con attrezzatissimi 
studi 
legali 
esteri 
specializzati 
in questo campo, sulla 
base 
di 
regole 
procedimentali 
complesse 
e, all’inizio, per noi 
inedite. Un compito 
importante, che 
siamo fieri 
di 
svolgere 
e 
nel 
quale, come 
ci 
è 
stato in più sedi 
riconosciuto, 
abbiamo 
dato 
buona 
prova, 
anche 
grazie 
alla 
capacità 
di 
adeguamento 
alla visione d’insieme. 


Ne 
sono 
dimostrazione 
i 
diversi 
incontri 
che, su 
questo 
tema, ci 
hanno 
ri



TEMI 
ISTITUzIONALI 


chiesto le 
delegazioni 
di 
Stati 
esteri, che 
hanno individuato nell’Avvocatura 
dello Stato un modello per organizzare 
i 
loro sistemi 
di 
difesa 
negli 
analoghi 
giudizi arbitrali. 


Ancora 
più che 
in altre 
situazioni 
processuali, in questo tipo di 
controversie, 
ha 
assunto rilievo determinante 
la 
proficua 
collaborazione 
con le 
Amministrazioni 
interessate 
al 
fine 
di 
una 
puntuale 
e, quindi, più efficace, difesa 
e 
con i 
consulenti 
ed esperti 
del 
Ministero degli 
Affari 
Esteri 
e 
della 
Cooperazione 
Internazionale, 
quale 
supporto 
indispensabile 
per 
la 
migliore 
trattazione 
delle 
controversie 
stesse; 
con 
la 
preziosa 
e 
costante 
collaborazione 
del 
Servizio 
Giuridico 
per 
gli 
Affari 
giuridici 
del 
Contenzioso 
diplomatico 
e 
dei 
Trattati 
del MAECI e degli esperti. 


Anche 
la 
procedura 
con la 
quale 
si 
svolgono gli 
arbitrati 
è 
di 
assoluta 
novità, 
basti 
pensare 
alla 
cross 
examination, 
e 
si 
delinea, 
di 
volta 
in 
volta, 
secondo 
le 
indicazioni 
specifiche 
del 
Collegio arbitrale 
competente 
a 
risolvere 
la singola controversia. 


Abbiamo, quindi, organizzato un seminario, il 
12 aprile 
2016, per prepararci 
all’udienza 
dibattimentale, 
ad 
oggetto 
“L’udienza 
di 
assunzione 
della 
prova 
negli 
arbitrati 
ICSID” 
(struttura 
e 
regole 
dell’Oral 
Process; 
la 
prova 
testimoniale 
nell’arbitrato internazionale; 
la 
preparazione 
dei 
testimoni; 
Direct, 
Cross 
e 
Re-Direct Examination 
del testimone). 


All’interno 
del 
nostro 
Istituto 
abbiamo 
costituito 
un 
pool 
di 
Avvocati 
specializzati 
per seguire 
tutte 
queste 
controversie 
che 
assicurano anche 
il 
necessario 
coordinamento 
con 
il 
diritto 
dell’Unione 
europea; 
come, 
quando 
all’esito 
della 
decisione 
della 
Corte 
di 
giustizia 
sul 
caso Achmea, C-284/16, abbiamo 
chiesto, 
nei 
giudizi 
ancora 
pendenti 
e 
non 
decisi 
innanzi 
all’ICSID 
e 
alla 
SCC, 
“an award declaring immediate termination”. 


Segnalo, 
come 
espressione 
degli 
stretti 
rapporti 
fra 
diritto 
internazionale 
e 
diritto 
eurounitario 
e, 
come 
effetto 
anche 
della 
globalizzazione 
e 
della 
internazionalizzazione 
dei 
rapporti 
economici 
e, 
quindi, 
in 
definitiva 
dello 
stesso 
diritto 
eurounitario, 
la 
sentenza 
Komstroy 
resa 
il 
2 
settembre 
2021 
nella 
causa 
C-741/19. 


Con dovizia 
di 
argomenti 
in essa 
si 
rivendica 
la 
competenza 
della 
CGUE 
ad 
interpretare 
la 
Carta 
dell’energia 
considerandola 
essa 
stessa 
un 
atto 
di 
diritto 
dell’Unione siccome sottoscritta anche dalla Commissione Europea. 


Si 
ribadiscono le 
conclusioni 
cui 
era 
pervenuta 
la 
Corte 
nel 
precedente 
Achmea 
del 
6 marzo 2018 (all’epoca 
riguardante 
l’interpretazione 
di 
un BIT 
causa 
C-284/16) e 
l’attribuzione 
della 
giurisdizione 
alla 
Corte 
EU 
sulle 
controversie 
intracomunitarie. 


In 
quest’ottica, 
i 
Tribunali 
ICSID 
o 
SCC 
aditi 
per 
la 
tutela 
dei 
diritti 
derivanti 
dalla 
Carta 
dell’energia, 
non 
possono 
essere 
qualificati 
come 
organi 
giurisdizionali 
degli 
Stati 
membri 
con 
la 
conseguenza 
che 
le 
controversie 
tra 
soggetti 
intracomunitari 
devono 
essere 
delibate 
dagli 
organi 
giurisdizionali 
degli 
Stati 
membri 
sulla 
base 
dell’applicazione 
delle 
regole 
procedurali 
vigenti. 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Proprio 
la 
natura 
dell’arbitrato 
previsto 
dal 
Trattato 
dell’energia 
ed 
i 
limiti 
al 
riesame 
del 
lodo 
da 
parte 
dei 
Giudici 
ordinari 
degli 
Stati 
membri, 
implicano 
il 
rischio che 
controversie 
in buona 
misura 
riferite 
a 
materie 
disciplinate 
dal 
diritto comunitario vengano sottratte al sindacato esclusivo della CGUE. 


La 
competenza 
dell’UE 
nella 
stipula 
degli 
accordi 
internazionali 
non 
può 
spingersi 
fino 
al 
punto 
di 
negare 
l’autonomia 
dell’Unione 
e 
del 
suo 
ordinamento 
giuridico. 


Proprio 
sul 
profilo 
del 
difetto 
di 
giurisdizione 
dei 
Collegi 
arbitrali 
abbiamo 
sollecitato 
e 
ottenuto 
-anche 
grazie 
al 
supporto 
diplomatico 
del 
MAECI 
-l’adesione 
di 
altri 
Stati 
membri 
coinvolti 
negli 
arbitrati 
e 
che 
hanno 
condiviso 
la nostra linea difensiva tesa a sostenere, appunto, il difetto di giurisdizione. 


Alla 
fine 
della 
settimana 
di 
udienza, svoltasi 
nella 
sede 
della 
World Bank 
a 
Parigi, 
l’ICSID 
ha 
organizzato 
(Thursday, 
June, 
23, 
2016), 
una 
“training 
session” 
con 150 Paesi 
membri 
dell’ICSID; 
in apertura 
il 
Segretario generale 
dell’ICSID 
ha 
evidenziato l’importanza 
di 
una 
difesa 
istituzionale 
degli 
Stati 
nei 
confronti 
degli 
investitori, perché 
assicura 
il 
valore 
aggiunto della 
visione 
complessiva, della 
continuità 
della 
linea 
difensiva, l’assenza 
di 
conflitti 
di 
interessi 
che 
alcuni 
studi 
hanno, difendendo sia 
gli 
Stati 
sia 
gli 
investitori, contribuendo 
a 
formare 
la 
giurisprudenza 
arbitrale, 
caratteristiche 
proprie 
dell’Avvocatura dello Stato. 


Desidero 
sottolineare 
che, 
d’altronde, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
si 
è 
da 
tempo aperta 
agli 
scambi 
professionali 
con altre 
Istituzioni 
anche 
omologhe, 
come 
testimoniano, oltre 
ai 
Convegni 
internazionali 
ai 
quali 
partecipa 
l’Avvocato 
Generale 
dello Stato, accompagnato da 
una 
Delegazione 
di 
Avvocati 
dello 
Stato, 
l’incontro, 
avvenuto 
nel 
maggio 
2014, 
con 
la 
delegazione 
degli 
Avvocati 
dello 
Stato 
del 
Kuwait 
e 
nel 
luglio 
2014 
con 
la 
delegazione 
dello 
Yemen del 
Nord; 
l’incontro, avvenuto nel 
settembre 
2013, con la 
delegazione 
della 
Tunisia 
e 
l’incontro, 
avvenuto 
nel 
luglio 
2013, 
con 
la 
delegazione 
del 
Tagikistan. 


Tutti 
i 
predetti 
incontri 
erano stati 
patrocinati 
dall’IDLO 
-International 
Development 
Law Organization, e 
hanno consentito di 
realizzare 
un proficuo 
scambio 
di 
vedute 
e 
di 
informazioni 
sui 
rispettivi 
sistemi 
di 
difesa 
dello 
Stato. 


Di 
recente 
è 
stata 
in 
visita 
all’Avvocatura 
Generale 
una 
delegazione 
di 
avvocati 
sudcoreani, 
particolarmente 
interessati 
non 
solo 
a 
uno 
scambio 
di 
esperienze 
professionali, ma 
anche 
a 
conoscere 
i 
dettagli 
degli 
arbitrati 
internazionali 
di investimento seguiti dall’Avvocatura dello Stato. 


Il 
24 novembre 
2021 è 
stato presentato all’Avvocatura 
Generale 
il 
primo 
testo 
“Introduzione 
al 
diritto 
giapponese” 
in 
materia, 
opera 
collettanea 
che 
affronta 
in modo chiaro i profili storici, giuridici e comparatistici. 


Il 
ruolo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
si 
va, 
quindi, ormai 
da 
tempo e 
sempre 
più ampliando nella 
prospettiva 
del 
diritto 
internazionale 
e 
del 
diritto dell’Unione 
europea; 
va 
ricordato, infatti, che, con 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
in 
data 
7 
dicembre 
2018, 
l’Avvocatura 
dello Stato è 
stata 
autorizzata 
ad assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
della 
prestigiosa 
Banca 
Centrale 
Europea 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
innanzi 
le 
Autorità 
giudiziarie, i 
Collegi 
arbitrali 
e 
le 
Giurisdizioni 
amministrative 
e speciali sul territorio nazionale. 


Il 
ruolo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
si 
va 
sempre 
più ampliando anche 
sotto il 
profilo professionale 
della 
prestazione 
resa, 
che 
impone 
una 
preparazione 
più mirata 
alle 
nuove 
prospettive 
e 
che, quindi, 
non si soffermi alla sola visione di diritto interno. 


L’ampliamento porta 
con sé 
la 
necessità 
di 
ripensare 
ai 
meccanismi 
dei 
rapporti 
con 
le 
Amministrazioni 
in 
una 
chiave 
di 
lettura 
interdisciplinare 
e 
con 
una 
sempre 
crescente 
attenzione 
all’ottica 
dell’impatto 
sociale 
con 
la 
quale 
esaminare e valutare la questione giuridica. 


E 
ciò 
anche 
al 
fine 
di 
consentire 
di 
far 
confluire 
in 
un 
unico 
atto 
sia 
il 
profilo più squisitamente 
giuridico espresso dall’Avvocatura 
dello Stato, sia 
quello più essenzialmente politico. 

D’altronde, questa 
necessità 
di 
ridurre 
a 
unità 
ha 
come 
effetto quello di 
comporre 
in un quadro di 
riferimento condiviso le 
diverse 
sfaccettature 
delle 
singole 
questioni 
e 
le 
loro diverse 
angolazioni 
e 
i 
loro diversi 
profili 
in una 
complessiva 
visione 
di 
insieme, 
diretta 
alla 
migliore 
rappresentazione 
dell’interesse 
pubblico. 


Il 
valore 
aggiunto 
che 
ci 
dà 
questa 
proiezione 
internazionale 
credo 
sia 
anche 
quello -come 
ho già 
detto nel 
mio discorso di 
insediamento il 
22 novembre 
2019 -di 
avere 
l’occasione 
di 
formare, sin dal 
loro ingresso nell’Istituto, 
un corpo di 
giuristi 
versati 
nel 
diritto dell’Unione 
europea 
e 
nel 
settore 
della 
tutela 
internazionale 
dei 
diritti 
fondamentali, che 
contribuisce 
alla 
diffusione 
della 
conoscenza 
di 
tali 
materie 
a 
livello nazionale, attraverso la 
propria 
attività 
quotidiana 
nelle 
aule 
di 
giustizia 
e 
nelle 
altre 
sedi 
istituzionali 
dove 
Avvocati e Procuratori dello Stato prestano la loro opera. 


va 
ricordato che 
la 
Corte 
Penale 
Internazionale 
(CPI) sta 
indagando sui 
crimini 
commessi 
durante 
la 
guerra 
in Ucraina; 
il 
suo Procuratore 
Generale, 
il 
britannico 
Karim 
Khan, 
si 
è 
recato 
a 
Kiev 
per 
coordinare 
il 
lavoro 
di 
raccolta 
delle 
testimonianze 
e 
degli 
elementi 
di 
prova. «Se 
gli 
attacchi 
sono diretti 
intenzionalmente 
contro 
la 
popolazione 
civile, 
o 
contro 
strutture 
civili 
compresi 
gli 
ospedali 
-ha 
detto Khan -questi 
sono crimini 
che 
la 
CPI può indagare 
e 
perseguire». L'Organizzazione 
Mondiale 
della 
Sanità 
ha 
verificato che 
nelle 
prime 
tre 
settimane 
di 
invasione 
in 
Ucraina 
ci 
sono 
stati 
43 
attacchi 
contro 
strutture 
sanitarie. 
I 
crimini 
di 
guerra 
(come 
quelli 
più 
ampi 
dei 
crimini 
contro 
l’umanità: 
sterminio, 
torture, 
stupri, 
deportazioni) 
sono 
definiti 
in 
base 
alle 
Convenzioni 
di 
Ginevra 
del 
1949 e, più di 
recente, allo Statuto di 
Roma, che 
nel 1998 ha istituito la Corte Penale Internazionale. 


In 
data 
2 
marzo 
2022, 
prima 
39 
Paesi, 
poi 
divenuti 
41, 
con 
l’adesione 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


della 
Svezia 
e 
della 
Bulgaria, hanno presentato un Referral 
in base 
all’art. 14 
dello Statuto di 
Roma 
affinché 
il 
Procuratore 
indaghi 
sui 
crimini 
di 
guerra 
e 
contro l’umanità e genocidio compiuti nel territorio dell’Ucraina. 


Proprio oggi 
31 marzo 2022 si 
insedia 
la 
Commissione 
istituita 
dal 
Ministro 
della 
Giustizia 
e 
presieduta 
dal 
Prof. Francesco Palazzo, emerito di 
diritto 
penale 
presso 
l’Università 
di 
Firenze 
e 
dal 
Prof. 
Fausto 
Pocar, 
per 
17 
anni 
Presidente 
della 
Corte 
per i 
reati 
commessi 
nell’ex Jugoslavia, emerito di 
diritto 
internazionale 
presso 
l’Università 
di 
Milano, 
per 
redigere 
-come 
previsto 
dallo Statuto di 
Roma 
e 
dopo ben 24 anni 
-il 
codice 
sui 
crimini 
di 
guerra 
internazionali. 


5. La difesa del Governo italiano innanzi alla CEDU. 
Frequente 
è 
stata, poi, la 
partecipazione 
dell’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato a 
fianco dell’Agente 
del 
Governo innanzi 
alla 
Corte 
Europea 
dei 
Diritti 
dell’Uomo -CEDU 
a 
sostegno delle 
tesi 
difensive 
svolte 
nell’interesse 
dello 
Stato italiano, come 
nel 
giudizio innanzi 
alla 
Grand Chambre 
della 
CEDU, in 
tema 
di 
maternità 
surrogata, conclusosi 
con la 
sentenza 
del 
25 gennaio 2017, 
che 
ha 
affermato che 
il 
Governo italiano non ha 
violato alcuna 
norma 
della 
Convenzione 
EDU 
nel 
caso 
posto 
all’esame 
della 
Corte 
(caso 
Paradiso 
-Campanelli); 
e 
nel 
caso del 
crocifisso esposto nelle 
aule 
scolastiche, risolto dalla 
CEDU, Grande 
Camera, con la 
sentenza 
18 marzo 2011, con la 
quale 
è 
stato 
statuito che 
non contrasta 
con il 
diritto dei 
genitori 
all’istruzione 
dei 
figli 
secondo 
le 
proprie 
convinzioni 
religiose 
e 
filosofiche 
l’obbligo di 
affissione 
del 
crocifisso nelle 
aule 
scolastiche, in quanto, a 
dispetto della 
sua 
connotazione 
religiosa, il 
crocifisso rappresenta 
un “simbolo passivo”, inidoneo di 
per sé 
a 
configurare una forma di “indottrinamento” degli allievi. 


Si 
possono delineare 
due 
fasi 
temporali 
distinte: 
in una 
prima 
fase, la 
difesa 
dell’Avvocatura 
dello Stato è 
stata 
facoltativa, circoscritta 
solo a 
grandi 
questioni 
di 
rilievo; 
in una 
seconda, il 
ruolo di 
difesa 
del 
Governo italiano è 
stato 
istituzionalizzato, 
anche 
per 
effetto 
degli 
ottimi 
risultati 
conseguiti 
innanzi 
alla Corte di giustizia e al 
Tribunale Ue. 


Tanto che 
l’art. 15, rubricato “Disposizioni 
in materia di 
giustizia”, del 
decreto-legge 
4 ottobre 
2018, n. 113, contenente 
le 
“Disposizioni 
urgenti 
in 
materia 
di 
protezione 
internazionale 
e 
immigrazione, 
sicurezza 
pubblica, 
nonché 
misure 
per 
la funzionalità del 
Ministero dell'interno e 
l'organizzazione 
e 
il 
funzionamento 
dell'Agenzia 
nazionale 
per 
l'amministrazione 
e 
la 
destinazione 
dei 
beni 
sequestrati 
e 
confiscati 
alla 
criminalità 
organizzata”, 
convertito 
con modificazioni 
con la 
legge 
1 dicembre 
2018, n. 132, ha 
previsto che 
“le 
funzioni 
di 
agente 
del 
Governo 
a 
difesa 
dello 
Stato 
italiano 
dinanzi 
alla 
Corte 
europea dei 
diritti 
dell'uomo sono svolte 
dall'Avvocato generale 
dello Stato, 
che può delegare un avvocato dello Stato”. 


La 
norma 
è 
modellata 
sul 
meccanismo della 
difesa 
in giudizio del 
Presi



TEMI 
ISTITUzIONALI 


dente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
innanzi 
alla 
Corte 
Costituzionale, 
come 
espressione 
della 
sintesi 
della 
valutazione 
politica 
del 
Governo e 
della 
difesa 
tecnica da parte dell’Avvocatura dello Stato. 


Alla 
base 
l’esigenza 
di 
sistematizzazione 
nel 
patrocinio dello Stato italiano 
dinanzi 
alle 
Corti 
sovranazionali 
e 
l’integrazione 
dell’attività 
difensiva 
ivi 
svolta 
con 
l’esercizio 
defensionale 
ordinario 
al 
cospetto 
delle 
giurisdizioni 
interne, 
in 
specie 
superiori, 
sulle 
stesse 
materie, 
e 
l’opportunità 
di 
una 
simmetria 
con 
le 
modalità 
della 
difesa 
innanzi 
al 
Giudice 
eurounitario 
ancora 
una 
volta 
in chiave 
di 
unitarietà 
e 
visione 
di 
insieme 
che 
solo l’Avvocatura 
dello 
Stato può assicurare. 


Il 
Regolamento 
della 
CEDU, 
all’art. 
35, 
prevede 
che 
gli 
Stati 
membri 
della 
Convenzione 
siano rappresentati 
da 
agenti, che 
possono farsi 
assistere 
da avvocati o consulenti. 


I compiti 
che 
l’Agente 
è 
chiamato ad assolvere 
sono, innanzitutto, connessi 
alla 
rappresentanza 
e 
difesa 
del 
Governo italiano davanti 
alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
nelle 
questioni 
in 
cui 
è 
chiamato 
in 
giudizio 
lo 
Stato 
italiano. 
Talvolta, 
l’interesse 
indiretto 
dello 
Stato 
italiano 
può 
richiedere 
la 
predisposizione 
di 
interventi 
da 
svolgersi 
in procedimenti 
rivolti 
contro Stati 
diversi 
dall’Italia, 
quando 
-per 
le 
questioni 
trattate 
-possano 
derivarne 
riflessi 
significativi 
sul 
diritto 
italiano, 
nonché 
quando 
si 
presentino 
problematiche 
importanti 
nelle 
relazioni 
interstatali. 
va 
rilevato 
che 
lo 
schema 
concettuale 
non 
differisce 
nella 
sostanza 
da 
quello 
seguito 
per 
le 
cause 
innanzi 
alla 
CGUE. 


Rientra 
nell’esercizio di 
queste 
funzioni 
anche 
l’individuazione 
dei 
casi 
in cui, alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
consolidata 
della 
Corte, pare 
opportuno 


o 
finanche 
necessitato 
(in 
ipotesi 
in 
cui, 
fermi 
i 
precedenti 
sfavorevoli, 
sussista 
un rischio elevatissimo di 
condanna) pervenire 
a 
una 
soluzione 
amichevole 
o 
unilaterale del caso. 
La 
citata 
norma 
del 
2018 giunge 
a 
individuare 
-ancora 
una 
volta 
-nel-
l’Avvocatura 
dello Stato il 
punto centrale 
e 
di 
riferimento, la 
figura 
e, soprattutto, 
l’apparato amministrativo preposto a 
questa 
delicata 
attività 
di 
difesa. 
In 
questo 
modo, 
la 
gestione 
del 
contenzioso 
italiano 
davanti 
alla 
Corte 
di 
Strasburgo 
trova 
supporto 
all’interno 
della 
più 
qualificata 
e 
organizzata 
istituzione 
pubblica di assistenza legale. 

Con il 
prospettarsi 
di 
margini 
per un confronto sempre 
più anticipato con 
il 
diritto convenzionale, si 
rafforza 
sempre 
di 
più l’esigenza 
di 
consentire 
al-
l’Amministrazione 
statale 
coinvolta 
di 
avvalersi 
in 
maniera 
ancora 
più 
intensa, 
anche 
immediata 
e/o 
preventiva, 
dell’apporto 
consultivo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato per quanto attiene 
al 
profilo di 
prevenzione 
e 
del 
loro patrocinio per la 
gestione del contenzioso e, dunque, della condotta difensiva in giudizio. 


In questi 
termini 
il 
ruolo di 
Agente 
del 
Governo assegnato all’Avvocato 
Generale 
dello Stato si 
raccorda, peraltro, all’attività 
consultiva 
già 
svolta 
in 
tema 
di 
regolamentazione 
amichevole 
dinanzi 
alla 
Corte: 
la 
decisione, al 
ri



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


guardo, è 
di 
competenza 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, sentite 
le 
Amministrazioni 
coinvolte 
e, una 
volta 
determinatasi 
per una 
proposta 
di 
regolamento 
amichevole, di 
norma, richiede 
preventivamente 
un parere 
all’Avvocatura 
Generale 
dello Stato (la 
facoltà 
di 
richiedere 
detto parere 
è 
prevista 
dall’art. 1, comma 5, DPCM 1 febbraio 2007). 

Da 
ultimo, l’art. 1, comma 
172, della 
legge 
27 dicembre 
2019, n. 160 ha 
previsto che, al 
fine 
di 
supportare 
l’Agente 
del 
Governo a 
difesa 
dello Stato 
italiano dinanzi 
alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, possono essere 
nominati 
esperti, 
nel 
numero 
massimo 
di 
otto, 
individuati 
tra 
magistrati 
ordinari, 
amministrativi 
e 
contabili, professori 
universitari, ricercatori 
a 
tempo determinato, 
assegnisti 
di 
ricerca, 
dottori 
di 
ricerca 
e 
dirigenti 
dell’amministrazione 
dello 
Stato. 
L’attività 
dell’Agente 
del 
Governo 
può 
giovarsi, 
pertanto, 
delle 
esperienze 
professionali 
di 
queste 
figure 
istituzionali 
che 
ricoprono 
ruoli 
di 
rilievo 
e 
di 
prestigio in un’ottica 
interdisciplinare 
a 
tutto vantaggio della 
tutela 
dell’interesse pubblico nazionale innanzi alla CEDU. 


Una norma da me fortemente voluta e sostenuta proprio per questo. 


Come 
ha 
dato prova 
la 
giurisprudenza 
dei 
giudici 
di 
Strasburgo -e 
come 
già 
suggeriva 
la 
tradizione 
costituzionale 
interna 
-sarebbe 
oggi 
fuorviante 
pretendere 
di 
rappresentare 
l’insieme 
dei 
principi 
fondamentali 
come 
un 
catalogo 
tassativo, capace 
di 
cristallizzare 
un numero determinato di 
fattispecie 
giuridiche. 
Si 
tratta, 
piuttosto, 
di 
un 
elenco 
aperto, 
dove 
la 
precisa 
collocazione 
del 
diritto è 
spesso affidata 
alla 
responsabilità 
dell’interprete. Nondimeno, il 
fenomeno 
di 
necessitata 
interazione 
tra 
i 
diversi 
diritti, 
vecchi 
e 
nuovi, 
entro 
una 
società 
pluralistica, impone 
un loro contemperamento e, dunque, una 
loro reciproca 
limitazione, spesso anche 
in seno ad un corretto esercizio del 
potere 
pubblico. 

Da 
questa 
circostanza 
nasce 
la 
necessità 
di 
qualificare 
alcuni 
diritti 
come 
fondamentali, 
cioè, 
di 
collocare 
alcune 
situazioni 
in 
una 
posizione 
più 
alta 
nella 
gerarchia 
dei 
valori 
riconosciuti 
e 
tutelati 
dall’ordinamento, e 
tra 
questi 
alcuni 
come 
diritti 
inviolabili. 
Anche 
nella 
cornice 
della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, lo sforzo di 
inventariare 
un catalogo di 
diritti 
assurti 
al 
sommo rango potrebbe 
essere 
messo in crisi 
dal 
difetto di 
corrispondenza 
tra 
la 
nozione 
di 
diritti 
umani 
e 
quella, ormai 
storicizzata, di 
diritti 
costituzionali 
meritevoli 
di 
tutela 
in quanto fondamentali, ovvero, addirittura, in quanto inviolabili. 


Come 
è 
noto, tra 
le 
più significative 
novità 
introdotte 
per mezzo del 
Protocollo 
n. 15, la 
cui 
entrata 
in vigore 
è 
subordinata 
alla 
ratifica 
della 
totalità 
dei 
membri 
del 
Consiglio d’Europa, vi 
è 
senz’altro quella 
di 
inserire 
nel 
preambolo 
della 
Convenzione 
il 
richiamo 
al 
principio 
di 
sussidiarietà 
quale 
regola 
di 
precedenza 
e 
alla 
teoria 
del 
margine 
di 
apprezzamento, progressivamente 
emersa 
nella 
giurisprudenza 
di 
Strasburgo, come 
parametro limite 
dell’intervento 
e, dunque, di 
salvaguardia 
delle 
specificità 
di 
cui 
solo i 
Parlamenti 
na



TEMI 
ISTITUzIONALI 


zionali 
possono essere 
promotori. Entrambi 
costituiscono espressione 
del 
più 
generale 
principio di 
prossimità 
che 
governa 
funzionalmente 
i 
sistemi 
multi-
livello. 
Incamerarli 
dentro 
la 
Convenzione 
ha 
lo 
scopo 
di 
garantire 
una 
più 
puntuale 
definizione 
dello spazio giudiziale 
riconosciuto alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo in relazione 
ai 
margini 
di 
enforcement 
dei 
diritti, che 
tuttora 
sono 
riservati 
alle 
giurisdizioni 
interne 
dei 
Paesi 
membri. 
L’operatività 
del 
criterio del 
“margine 
di 
apprezzamento” 
ricorre 
nella 
giurisprudenza 
relativa 
a 
talune 
importanti 
disposizioni 
della 
Convenzione, quali 
quelle 
relative 
ai 
diritti 
di 
libertà 
e 
di 
sicurezza 
personale 
(art. 5), al 
rispetto della 
vita 
privata 
e 
familiare 
(art. 8), alla 
libertà 
di 
pensiero, di 
coscienza 
e 
di 
religione 
(art. 9), 
di 
espressione 
(art. 10), di 
riunione 
e 
di 
associazione 
(art. 11), al 
principio di 
non discriminazione 
(art. 14), al 
diritto di 
proprietà 
(art. 1, prot. 1). Peraltro, 
oltre 
che, 
nel 
lavoro 
degli 
organi 
giurisdizionali 
interni, 
anche 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
è 
chiamata, 
in 
prima 
battuta, 
a 
operare 
il 
bilanciamento 
tra 
i 
vari 
diritti 
attraverso 
la 
costante 
ricerca 
e 
la 
difesa 
dell’interesse 
pubblico 
quale 
crocevia e sintesi dei diversi interessi particolari. 

Di 
tale 
insopprimibile 
esigenza 
di 
contemperamento 
dei 
diritti 
umani 
non 
può non tenersi 
in debito conto, in specie 
nelle 
materie 
-come 
quella 
tratteggiata 
dall’art. 1, prot. 1 -in cui 
la 
ricerca 
di 
un «giusto equilibrio» è 
predicata 
dalla 
stessa 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo nell’interpretazione 
del 
testo 
convenzionale. In questo ambito, il 
funzionamento di 
tale 
complesso meccanismo 
può 
beneficiare 
del 
contributo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
quale 
esclusivo 
organo 
consultivo 
delle 
Amministrazioni 
statali 
chiamate 
al 
difficile 
compito 
di 
bilanciamento 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi, 
loro 
organo 
difensivo 
nel 
contenzioso nazionale 
e, infine, organo difensivo sovranazionale 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Strasburgo. Il 
circolo virtuoso che 
ne 
può derivare 
vede, da 
un lato, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
difendere 
e 
illustrare 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Strasburgo 
le 
ragioni 
delle 
scelte 
e 
del 
funzionamento dell’ordinamento nazionale; 
dal-
l’altro, 
intervenire 
presso 
gli 
organi 
nazionali 
al 
fine 
di 
proporre 
correttivi 
utili 
a 
scongiurare 
il 
prodursi 
di 
criticità 
anche 
sistematiche 
nella 
tutela 
dei 
diritti 
umani, tali 
oltre 
tutto da 
esporre 
lo Stato a 
un numero imprecisato di 
ricorsi 
e 
soccombenze. 

Nel 
contenzioso nazionale 
la 
presenza 
in giudizio dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
può 
rappresentare 
un 
mezzo 
per 
sensibilizzare 
il 
giudice 
domestico 
a 
una 
interpretazione 
convenzionalmente 
orientata, 
onde 
scongiurare, 
come 
detto, il 
formarsi 
di 
contenziosi 
(anche) seriali 
a 
Strasburgo. L’ambito giurisdizionale 
costituisce, 
dunque, 
la 
dimensione 
privilegiata 
della 
tutela 
dei 
diritti 
umani, nella 
variegatura 
dei 
casi 
di 
specie 
offerti 
da 
una 
realtà 
sociale 
complessa 
e 
in continua 
evoluzione. Di 
qui 
il 
primato della 
regola 
concreta, da 
ricostruirsi 
sempre 
più 
nel 
dialogo 
tra 
i 
diversi 
livelli 
dell’esperienza 
giudiziale. 
Sotto questo profilo la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
umani 
si 
caratterizza 
per una 
dimensione 
casistica, che 
ordinariamente 
si 
affida 
ad un 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


sistema 
di 
precedenti, sui 
quali 
vanno stratificandosi 
i 
principi 
utilizzati 
e 
applicati 
dalla Corte al caso concreto. 


Il 
sistema 
multilivello, benché 
imperniato sul 
primato della 
tutela 
come 
criterio di 
sintesi 
nella 
compresenza 
di 
fonti 
e 
giudici 
nazionali 
e 
sovranazionali, 
sembra 
insuscettibile 
di 
essere 
ricondotto ad una 
unità 
secondo il 
senso 
tradizionale. In un ordinamento così 
disarticolato e 
frammentato, dove 
pure 
si 
voglia 
garantire 
il 
primario valore 
della 
certezza 
del 
diritto, una 
funzione 
decisiva 
è 
svolta 
dal 
dialogo tra 
le 
Corti 
coinvolte 
secondo la 
rispettiva 
competenza. 
Esso va 
inteso come 
momento di 
confronto e 
di 
reciproco arricchimento, 
che 
matura 
anche 
al 
di 
fuori 
delle 
occasioni 
di 
scambio 
assicurate 
dalle 
regole 
procedurali. Il 
sorgere 
di 
una 
rete 
di 
soluzioni 
appare 
imprescindibile 
affinché 
la 
soluzione 
individuata 
come 
ottimale 
tenga 
conto anche 
dei 
profili 
sovranazionali 
ed 
internazionali, 
cosicché 
la 
tutela 
si 
riveli 
il 
più 
possibile 
uniforme 
e 
integrata. In questo senso, non si 
può ignorare 
il 
monito di 
chi 
riconduce 
concettualmente 
il 
c.d. dialogo tra 
le 
Corti 
a 
una 
visione 
d’insieme 
del 
sistema, che 
non trascuri 
la 
prospettiva 
della 
effettiva 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali, 
ma 
nemmeno si 
arresti 
al 
dogma 
della 
sua 
massimizzazione, salvaguardando 
il valore guida della certezza del diritto. 


Per 
agevolare 
i 
giudici 
nell’esercizio 
di 
questo 
importante 
ruolo 
collaborativo, 
sembra 
fondamentale 
l’apporto 
di 
un 
interlocutore 
comune 
nelle 
diverse 
sedi 
contenziose, 
quale 
l’Avvocatura 
dello 
Stato, 
punto 
di 
raccordo 
già 
in 
base 
ai 
propri 
compiti 
istituzionali 
più 
risalenti 
e, 
a 
fortiori, 
da 
quando 
ha 
anche 
il 
patrocinio 
assolto 
nella 
difesa 
dello 
Stato 
italiano 
davanti 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
e 
davanti 
alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo. 
Per 
il 
suo 
tramite, 
il 
dialogo 
tra 
le 
Corti, 
la 
cui 
importanza 
è 
ormai 
costantemente 
sottolineata 
anche 
dalla 
nostra 
Corte 
costituzionale, 
può 
essere 
reso 
più 
efficace 
e 
può 
essere 
favorito 
lo 
sviluppo 
di 
una 
cultura 
giuridica 
comune 
ai 
diversi 
ordinamenti 
e 
livelli, 
che 
tenga 
conto 
delle 
insopprimibili 
differenze 
che 
giustificano 
un 
trattamento 
differenziato, 
ma 
amplifichi 
gli 
aspetti 
di 
identità 
o 
similitudine. 
L’attività 
difensiva 
compiuta 
ai 
diversi 
piani 
della 
giurisdizione 
assicura 
continuità 
e 
formalità 
nella 
trasmissione 
del 
materiale 
giurisprudenziale 
e, 
ancor 
più, 
delle 
sensibilità 
sottese 
alle 
posizioni 
assunte 
dal 
legislatore 
ovvero 
dall’Amministrazione 
competente. 
La 
base 
della 
partecipazione 
a 
questo 
dialogo 
asimmetrico, 
in 
cui 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
finisce 
per 
essere 
il 
minimo 
comune 
denominatore, 
sembra 
garantita 
-ancora 
-da 
una 
interpretazione 
in 
chiave 
ampia 
e 
sostanziale 
del 
principio 
di 
sussidiarietà. 
Se, 
come 
detto, 
la 
dinamica 
prevalente 
corre 
verso 
un 
pragmatismo 
giurisdizionale, 
la 
funzione 
che 
deve 
essere 
riconosciuta 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
non 
può 
che 
essere 
quella 
di 
“cinghia 
di 
trasmissione” 
nel 
circuito 
dei 
comuni 
principi 
e 
beni 
giuridici 
meritevoli 
di 
tutela, 
contemperando 
-nella 
mediazione 
dell’interesse 
pubblico 
-le 
esigenze 
di 
garanzia 
dell’individuo 
con 
l’irrinunciabile 
esigenza 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


di 
coerenza 
interna 
al 
sistema 
tecnico, 
sulle 
cui 
forme 
giuridiche 
poggia 
l’affidamento 
dei 
cittadini 
nelle 
regole. 


Sembra 
voler rafforzare 
questo modello di 
dialogo, piuttosto che 
scardinarlo, 
la 
novità 
assoluta 
introdotta 
dallo 
strumento 
processuale 
congegnato 
nel 
Protocollo 
n. 
16 
recante 
emendamento 
alla 
Convenzione 
europea: 
il 
rinvio 
pregiudiziale 
facoltativo alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, avente 
per 
oggetto la 
richiesta 
-da 
parte 
delle 
«più alte 
giurisdizioni» individuate 
in concreto 
da 
ciascuno Stato -di 
un parere 
consultivo (cioè 
formalmente 
privo di 
un valore 
vincolante) riguardante 
questioni 
di 
principio relative 
all’interpretazione 
o 
all’applicazione 
della 
normativa 
della 
Convenzione. 
La 
riforma 
mira 
proprio a 
rafforzare 
il 
ruolo attivo delle 
giurisdizioni 
nazionali, attraverso un 
meccanismo che 
coinvolge 
in via 
preventiva 
e 
immediata 
l’organo giurisdizionale 
della 
Convenzione, ma 
tradisce, altresì, tutto sommato una 
funzione 
di 
autoconservazione 
del 
sistema 
convenzionale 
nella 
misura 
in 
cui 
si 
assicuri 
lo scopo ultimo di 
garantire 
una 
maggiore 
sostenibilità 
del 
meccanismo giurisdizionale. 


Le 
brevi 
riflessioni 
che 
sono state 
sin qui 
operate 
hanno permesso di 
tratteggiare, 
cogliendone, nonostante 
la 
necessaria 
sinteticità, gli 
elementi 
caratterizzanti, 
l’articolato 
funzionamento 
della 
difesa 
del 
Governo 
italiano 
di 
fronte 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
europea 
e 
la 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo. 


Di 
certo, entrambe 
le 
Corti 
hanno assunto una 
sempre 
maggiore 
importanza 
all’interno 
del 
nostro 
ordinamento, 
soprattutto 
perché 
partecipano 
sia 
direttamente 
che 
in via 
mediata, alla 
regolazione 
di 
ampi 
settori 
della 
vita 
dei 
cittadini, 
ivi 
inclusi 
i 
diritti 
fondamentali. 
Inoltre, 
il 
sistema 
UE 
e 
quello 
CEDU, benché 
separati 
ed autonomi, mostrano sempre 
maggiori 
spazi 
di 
interdipendenza 
e 
interconnessione: 
basti 
pensare 
alla 
circostanza 
che 
sempre 
più spesso le 
questioni 
pregiudiziali 
sottoposte 
alla 
CGUE 
dai 
Giudici 
nazionali 
degli 
Stati 
membri 
individuano 
come 
parametri 
di 
riferimento 
norme 
della 
Convenzione 
EDU 
e 
che 
la 
CGUE 
non 
si 
sottrae 
al 
compito 
di 
considerarli 
utili 
e 
di 
valutarli 
ai 
fini 
della 
pronuncia 
adottata. 
Tali 
spazi 
di 
interconnessione 
suggeriscono, 
quindi, 
anche 
un 
necessario 
rilancio 
della 
discussione 
sulle 
possibili 
modalità 
di 
“compartecipazione” 
fra 
i 
due 
sistemi. 
Non 
si 
intende 
approfondire 
qui 
una 
questione 
estremamente 
complessa 
come 
quella 
dell’adesione 
dell’UE 
alla 
CEDU, 
ma 
si 
vuole 
soprattutto 
sottolineare 
che 
permane 
-e 
forse 
si 
rafforza 
anche 
-una 
costante 
necessità 
di 
rafforzare 
il 
dialogo 
fra 
le 
Corti, compreso quello fra 
CGUE 
e 
CEDU. D’altronde, ben prima 
della 
previsione 
dell’adesione, i 
costanti 
richiami 
incrociati 
fra 
le 
due 
Corti 
hanno 
permesso di 
avviare 
il 
meritorio tentativo di 
uniformare 
la 
tutela 
multilivello 
dei diritti fondamentali. 

Da 
un 
punto 
di 
vista 
strettamente 
interno, 
l’avere 
concentrato 
le 
difese 
del 
Governo italiano presso l’Avvocatura 
dello Stato e 
previsto forme 
di 
co



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


ordinamento 
a 
“geometria 
variabile” 
ha 
fatto 
sì 
che 
nascesse 
un 
nuovo 
approccio 
al 
contenzioso 
europeo 
e 
internazionale, 
che 
ha 
condotto 
a 
esiti 
pienamente 
positivi 
e 
che 
inducono a 
ritenere 
sussistente 
la 
necessità 
di 
rafforzare 
i 
vari 
elementi 
di 
tale 
“modello” 
che 
potrebbe 
diventare 
ancora 
di 
più 
un’esperienza 
di riferimento anche all’estero. 

In 
tale 
contesto, 
non 
può 
rinunciarsi 
alla 
continua 
necessità 
di 
adeguamento 
ai 
cambiamenti, 
a 
volte 
veri 
e 
propri 
stravolgimenti, 
che 
le 
odierne 
sfide 
globali 
impongono 
agli 
Stati, 
sia 
internamente 
che 
nel 
panorama 
delle 
relazioni 
internazionali. 
Non 
a 
caso, 
il 
paradigma 
classico 
del 
processo 
è 
in 
forte 
evoluzione 
e 
si 
discosta 
sensibilmente 
da 
alcuni 
capisaldi 
che 
vengono, 
invece, 
man 
mano 
erosi. 
Si 
pensi, 
ad 
esempio, 
all’informatizzazione 
dei 
processi 
di 
lavoro, 
allo 
sviluppo 
del 
processo 
telematico, 
oppure 
alla 
possibilità 
che, 
oltre 
alla 
dematerializzazione, 
la 
presenza 
fisica 
possa 
essere 
sostituita 
da 
partecipazioni 
informatiche 
da 
remoto: 
elementi 
già 
ben 
utilizzati 
dalla 
CGUE, 
dal 
2012, 
anno 
in 
cui 
è 
stato 
dato 
avvio 
all’utilizzo 
del 
sistema 
informatico 
e-Curia. 


6. 
Il 
contenzioso 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
e 
al 
Tribunale 
dell’Unione 
europea. 
va 
ricordato 
che 
l’art. 
42, 
comma 
3, 
della 
legge 
24 
dicembre 
2012, 
n. 
234 
prevede 
che 
“Il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
o 
il 
Ministro 
per 
gli 
affari 
europei 
e 
il 
Ministro 
degli 
affari 
esteri 
nominano, 
quale 
agente 
del 
Governo 
italiano 
previsto 
dall'articolo 
19 
(2) 
dello 
Statuto 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
europea, 
un 
avvocato 
dello 
Stato, 
sentito 
l'Avvocato 
generale 
dello 
Stato”. 


Le 
difese 
del 
Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
Giustizia, 
al 
Tribunale 
dell’Unione 
europea 
e, 
più 
di 
rado, 
innanzi 
al 
Tribunale 
della 
funzione 
pubblica, 
sono 
state 
sempre 
svolte 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato. 


L’art. 
42 
citato 
ha, 
dunque, 
codificato 
una 
prassi 
che 
si 
era 
affermata 
negli 
ultimi 
anni 
con la 
nomina 
di 
un Avvocato dello Stato quale 
Capo del 
Contenzioso 
Diplomatico e 
Agente 
del 
Governo e, poi, dopo la 
riforma 
del 
Ministero 
degli 
Affari 
Esteri 
del 
2007, come 
Agente 
del 
Governo, il 
cui 
ufficio di 
supporto 
è 
posto all’interno del 
Servizio per gli 
Affari 
giuridici 
del 
Contenzioso 
diplomatico e 
dei 
Trattati 
del 
Ministero degli 
Affari 
Esteri, attualmente 
Ministero 
degli 
Affari Esteri e della Cooperazione internazionale. 


L’Agente 
del 
Governo 
(va 
precisato 
che, 
a 
differenza 
di 
quanto 
accade 
per la 
CEDU, non sono previsti 
né 
Co-Agenti, né 
la 
possibilità 
di 
delega) ha 
la 
rappresentanza 
processuale 
della 
Repubblica 
italiana 
davanti 
al 
plesso giudiziario 
dell’Unione 
europea 
e, 
pertanto, 
assicura 
il 
coordinamento 
delle 
difese 
istituzionalmente 
svolte 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
e 
l’unitarietà 


(2) Tutti 
gli 
Stati 
membri 
e 
le 
Istituzioni 
sono rappresentati 
davanti 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
da 
un 
agente 
nominato per ciascuna 
causa; 
l’agente 
può essere 
assistito da 
un consulente 
o da 
un avvocato 
abilitato al patrocinio dinnanzi a un organo giurisdizionale di uno Stato membro. 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


della 
difesa 
anche 
con riferimento al 
riparto di 
competenze 
fra 
Stato Regioni 
e Enti locali. 


Costante 
e 
intenso, quindi, il 
nostro impegno quotidiano nell’attuale 
sistema 
giuridico multilivello: 
l’ampiezza 
e 
l’importanza 
delle 
materie 
di 
competenza 
dell’Unione 
europea, sempre 
maggiori 
soprattutto dopo il 
Trattato di 
Lisbona, 
il 
progressivo 
aumento 
dello 
spettro 
dei 
diritti 
riconosciuti 
dalla 
Corte 
EDU 
e 
la 
complessità 
delle 
questioni 
oggetto 
degli 
arbitrati 
internazionali 
hanno richiesto una 
forte 
specializzazione 
e 
una 
visione 
dell’attività 
dell’Istituto 
che 
vada 
oltre 
le 
sue 
tradizionali 
caratteristiche. Ma 
ciò costituisce 
anche 
il nostro punto di forza. 


Il 
patrocinio 
dinnanzi 
alle 
giurisdizioni 
nazionali 
e 
sovranazionali 
consente 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
essere 
testimone 
privilegiato 
di 
quel 
dialogo 
tra 
le 
Alte 
Corti 
che 
costituisce 
strumento 
fondamentale 
affinché 
l’integrazione 
tra 
l’ordinamento 
interno 
e 
quelli 
sovranazionali 
avvenga 
senza 
pregiudizio 
per 
le 
nostre 
tradizioni 
costituzionali 
e 
per 
i 
principi 
supremi 
che 
ne 
sono 
alla 
base. 


È 
un 
dialogo 
al 
quale 
anche 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
contribuisce 
nel-
l’ottica 
di 
assicurare 
l’interesse 
pubblico 
generale 
e 
non 
solo 
quello 
della 
parte 
coinvolta 
nel 
giudizio. Basti 
ricordare, per limitarsi 
ai 
procedimenti 
già 
conclusi, 
il 
caso c.d. Taricco-bis, nel 
quale 
l’Avvocatura 
dello Stato ha 
difeso le 
ragioni 
del 
Governo 
dinnanzi 
alla 
Corte 
costituzionale 
e, 
poi, 
della 
Repubblica 
italiana dinnanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. 


In nessun luogo al 
di 
fuori 
dell’Avvocatura 
dello Stato è 
possibile 
avere 
quella 
visione 
d’insieme 
delle 
questioni 
giuridiche 
che 
caratterizzano un determinano 
momento 
storico: 
la 
presenza 
costante 
davanti 
al 
giudice 
ordinario, 
contabile 
e 
amministrativo, davanti 
alla 
Corte 
costituzionale 
e 
alle 
Corti 
sovranazionali, 
consente 
all’Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
affrontare 
le 
tematiche 
su 
cui 
i 
Giudici 
sono 
chiamati 
a 
pronunciarsi 
in 
ogni 
sua 
sfaccettatura, 
garantendo 
l’indispensabile 
coerenza 
delle 
posizioni 
sostenute 
e 
la 
comprensione 
delle 
ricadute 
di quelle posizioni in ogni ambito. 


Ciò 
fa 
dell’Avvocatura 
anche 
un’essenziale 
palestra 
di 
formazione 
di 
giovani 
leve 
di 
giuristi, in grado di 
affrontare 
con profitto tutti 
i 
settori 
della 
professione 
forense e di ben meritare in ogni sede. 


Negli 
ultimi 
anni 
si 
è 
radicata 
un’ulteriore 
competenza 
per l’Agente 
fondamentale 
per 
una 
rappresentazione 
ancora 
una 
volta 
unitaria 
dell’interesse 
del Governo italiano. 


Assolve, 
infatti, 
d’intesa 
con 
il 
Dipartimento 
per 
le 
politiche 
europee, 
anche 
il 
compito 
di 
indire 
le 
riunioni 
di 
coordinamento 
con 
le 
Amministrazioni 
centrali 
e 
locali 
di 
volta 
in volta 
interessate 
e 
presiede 
le 
riunioni 
finalizzate 
alla 
proposizione 
degli 
interventi 
e 
dei 
ricorsi 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
ex art. 42, comma 
2, della 
legge 
n. 234/2012 citata, alle 
quali 
partecipano in 
veste 
di 
relatori 
gli 
Avvocati 
dello Stato assegnatari 
delle 
singole 
cause 
e 
le 
Amministrazioni interessate per competenza e materia. 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Le 
riunioni 
si 
susseguono ininterrotte 
dall’agosto 2015 e 
sono diventate 
un importante 
ausilio per elaborare 
sia 
una 
visione 
unitaria 
sulla 
valutazione 
di 
opportunità 
di 
presentare 
osservazioni 
o 
spiegare 
intervento 
in 
giudizio 
(diretto) 
a 
sostegno di 
una 
delle 
parti 
in causa, sia 
nella 
fase 
contenziosa 
dei 
ricorsi 
diretti. 


L’Agente 
del 
Governo svolge 
un ruolo molto importante 
perché 
realizza 
un 
momento 
di 
sintesi, 
da 
un 
lato, 
tra 
le 
diverse 
posizioni 
e 
valutazioni 
espresse 
dalle 
singole 
Amministrazioni 
competenti 
e 
interessate 
e, 
dall’altro, 
con 
il 
profilo 
politico strettamente inteso. 


Una 
modalità 
operativa 
concreta 
che 
non si 
inquadra 
in una 
organizzazione 
burocratica, 
ma 
assume 
caratteristiche 
di 
duttilità 
per 
adattarsi 
e 
risolvere 
singole 
situazioni; 
nell’ambito di 
un regime 
di 
competenze 
non rigidamente 
delineate, ma 
concretamente 
operative 
e 
finalizzate 
alla 
migliore 
espressione 
dell’interesse pubblico, della collettività. 

Il 
riconoscimento 
del 
ruolo 
dell’Agente, 
espressamente 
codificato 
nell’art. 
42 della 
legge 
n. 234/2012, in particolare 
al 
comma 
1, citato, nell’ottica 
del 
sempre 
maggiore 
coinvolgimento anche 
nelle 
procedure 
precontenziose 
EU 
Pilot 
e 
nelle 
procedure 
di 
infrazione, affiancando all’Agente 
l’Avvocato assegnatario 
del fascicolo in Avvocatura (come nel caso della 
Xylella fastidiosa). 


Dal 
16 
aprile 
2012, 
dopo 
il 
primo 
periodo 
di 
sperimentazione 
effettuata 
nel 
mese 
di 
ottobre 
2011, 
è 
diventato 
operativo 
anche 
per 
l’Italia 
il 
processo 
telematico 
con 
il 
sistema 
e-Curia. 
L’introduzione 
del 
processo 
telematico 
ha 
rivoluzionato 
il 
modo 
di 
lavorare 
come 
tradizionalmente 
inteso, 
semplificando 
non 
solo 
le 
procedure 
di 
trasmissione 
delle 
comunicazioni 
della 
Cancelleria, 
di 
cui 
l’Ufficio 
dell’Agente 
costituisce 
il 
“back 
office”, 
ma 
anche 
delle 
procedure 
di 
trasmissione 
degli 
atti 
difensivi, 
rendendo 
l’Ufficio 
del-
l’Agente 
totalmente 
“paperless”, 
attuando, 
quindi, 
la 
totale 
dematerializzazione 
e 
realizzando 
pure 
un 
risparmio 
di 
spesa, 
stimato 
intorno 
ai 
250.000/300.000 
euro 
annui. 


va 
sottolineato 
che 
il 
nuovo 
sistema 
telematico 
della 
Corte 
costituzionale 
da 
poco entrato in funzione 
è 
ispirato a 
questo modello e 
non a 
caso si 
chiama 
e-Cost, pur essendo espressamente 
assimilato al 
processo amministrativo telematico, 
le 
cui 
regole 
si 
applicano in assenza 
di 
regole 
specifiche 
proprie 
e 
con un rinvio generale esterno. 


La 
partecipazione 
alle 
riunioni 
periodiche 
con 
gli 
Agenti 
di 
Governo 
degli 
altri 
Stati 
membri 
della 
UE, con i 
quali 
l’Agente 
e 
il 
suo ufficio condividono 
una 
rete 
di 
rapporti 
istituzionali, 
attraverso 
lo 
scambio 
di 
e-mail 
sulle 
questioni 
più 
rilevanti 
consente 
di 
coordinare 
le 
azioni 
dei 
Governi 
nazionali 
nelle 
cause 
d’interesse 
comune 
e 
di 
suggerire 
opportuni 
correttivi 
alle 
norme 
procedurali 
vigenti. 

L’Agente 
del 
Governo italiano svolge 
le 
proprie 
funzioni 
innanzi 
al 
Tribunale 
dell’Unione 
europea, 
la 
cui 
istituzione 
è 
stata 
decisa 
nel 
1988 
dal 
Con



TEMI 
ISTITUzIONALI 


siglio delle 
Comunità 
europee, su richiesta 
della 
Corte 
di 
giustizia. Esso è 
entrato 
in funzione 
il 
31 ottobre 
1989. Fino a 
tale 
data, l’unico processo comunitario 
esistente era quello di fronte la Corte di giustizia. 


Le 
principali 
ragioni 
che 
hanno portato all’istituzione 
del 
Tribunale 
del-
l’UE 
sono, da 
un lato, la 
necessità 
di 
alleviare 
l’onere 
di 
lavoro della 
Corte 
di 
giustizia 
e, dall’altro, l’intenzione 
di 
garantire 
una 
migliore 
tutela 
giurisdizionale 
all’interno del 
sistema 
comunitario, prevedendo un doppio grado di 
giudizio 
per talune controversie innestato dal basso. 

Come 
avvenuto per i 
Tribunali 
Amministrativi 
Regionali 
italiani, come 
ricordato 
l’anno 
scorso 
in 
occasione 
del 
50° 
anniversario 
della 
loro 
istituzione 
con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034. 


Il 
Tribunale, 
oltre 
alle 
competenze 
relative 
ai 
ricorsi 
per 
annullamento 
indicate 
nel 
paragrafo precedente, ha 
giurisdizione 
su: 
(a) i 
ricorsi 
diretti 
a 
ottenere 
il 
risarcimento 
per 
responsabilità 
extracontrattuale 
dei 
danni 
causati 
dalle 
istituzioni 
comunitarie 
o dai 
loro dipendenti; 
(b) i 
ricorsi 
fondati 
su contratti 
stipulati 
dalle 
Comunità, 
che 
prevedono 
espressamente 
la 
competenza 
del 
Tribunale; 
(c) 
i 
ricorsi 
in 
materia 
di 
marchio 
comunitario; 
(d) 
le 
impugnazioni 
proposte 
contro le 
sentenze 
di 
primo grado dei 
tribunali 
specializzati 
(ad oggi 
l’unico esistente 
è 
il 
Tribunale 
della 
Funzione 
Pubblica), in questo caso opera 
quale giudice di secondo grado. 

Il 
par. 3, dell’art. 256 TFUE 
dispone: 
«il 
Tribunale 
è 
competente 
a 
conoscere 
delle 
questioni 
pregiudiziali 
sottoposte 
ai 
sensi 
dell’art. 267, in materie 
specifiche 
determinate 
dallo Statuto». Le 
competenze 
del 
Tribunale 
sono andate 
ampliandosi nel corso degli anni. 

Sin dall’istituzione 
era 
previsto che 
il 
rito del 
Tribunale 
non dovesse 
discostarsi 
molto da 
quello della 
Corte. Nel 
preambolo della 
decisione 
istitutiva 
del 
nuovo organo si 
legge: 
«è 
auspicabile 
che 
le 
norme 
da applicare 
al 
procedimento 
dinanzi 
al 
Tribunale 
non divergano più del 
necessario dalle 
norme 
che 
disciplinano 
il 
procedimento 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia». 
In 
effetti, 
nella 
procedura 
del 
Tribunale 
dell’Ue, risultano essere 
vigenti 
le 
stesse 
norme 
generali 
valide 
per la 
Corte: 
fase 
scritta, fase 
orale, istruttoria, deliberazione 
delle 
sentenze/ordinanze, intervento dei 
terzi 
e 
via 
dicendo. Si 
è 
voluto, dunque, 
creare 
e 
mantenere 
un 
quadro 
di 
unitarietà 
del 
diritto 
processuale 
del-
l’Unione 
europea. 
I 
due 
riti 
sono 
disciplinati 
dalle 
medesime 
norme 
statutarie, 
originariamente 
previste 
per la 
sola 
Corte 
e 
poi 
estese 
al 
Tribunale. I regolamenti 
dei 
due 
organi 
spesso prevedono delle 
disposizioni 
del 
tutto identiche 
o 
con lievi differenze legate alla natura dell’organo. 


I giudizi 
pregiudiziali 
rappresentano la 
competenza 
più importante 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
in materia 
non contenziosa 
ed incidentale 
e 
per questo costituiscono 
l’attività 
più 
rilevante 
anche 
in 
termini 
numerici 
per 
l’Ufficio 
dell’Agente. 


Attraverso 
tale 
procedura, 
menzionata 
dall’art. 
19, 
par. 
3, 
lett. 
b, 
TUE 
e 
di



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


sciplinata 
dall’art. 
267 
TFUE, 
il 
giudice 
nazionale, 
qualora 
ravvisi 
la 
necessaria 
antecedenza 
logico-giuridica 
della 
“soluzione 
europea” 
rispetto 
alla 
controversia 
nazionale, 
ha 
la 
facoltà 
o 
l’obbligo 
(laddove 
sia 
un 
giudice 
di 
ultima 
istanza, 
salvo 
quando 
l’interpretazione 
della 
norma 
comunitaria 
sia 
chiara 
e 
non 
presenti 
alcun 
ragionevole 
dubbio) 
di 
deferire 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
le 
questioni 
riguardanti 
l’interpretazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
europea 
e 
-più 
di 
rado 
-l’accertamento 
della 
validità 
di 
un 
atto 
delle 
istituzioni 
europee. 
Dunque, 
il 
rinvio 
pregiudiziale 
può 
essere 
effettuato 
esclusivamente 
da 
un 
organo 
giurisdizionale 
(d’ufficio 
o 
su 
istanza 
delle 
parti) 
su 
questioni 
che 
scaturiscano 
da 
controversie 
reali 
e 
non 
fittizie. 
Le 
parti 
del 
procedimento 
nazionale 
non 
posso 
adire 
direttamente 
la 
Corte 
di 
Lussemburgo, 
ma 
prendono 
parte 
(anche 
attiva) 
al 
processo. 
La 
pendenza 
del 
procedimento 
pregiudiziale 
comporta 
la 
sospensione 
del 
processo 
nazionale, 
di 
cui 
costituisce 
una 
parentesi 
e, 
quindi, 
un 
incidente. 


L’art. 267 TFUE 
costituisce 
un ricorso di 
primaria 
importanza 
per il 
cittadino 
ed 
un 
mezzo 
fondamentale 
di 
creazione 
del 
diritto, 
perciò, 
il 
cancelliere 
della 
Corte 
provvede 
a 
notificare 
tutte 
le 
decisioni 
dei 
giudici 
nazionali 
nella 
versione 
originale 
o tradotta 
(salva 
la 
possibilità 
di 
comunicare 
un semplice 
sunto) alle 
parti 
in causa, agli 
Stati 
membri 
e 
ad altre 
istituzioni 
europee 
(in 
ogni 
caso alla 
Commissione 
europea). La 
notifica 
del 
cancelliere 
ha 
l’effetto 
di 
informare 
della 
pendenza 
del 
procedimento e, solo per le 
parti 
del 
processo 
nazionale, dell’apertura della fase incidentale. 

Il 
Parlamento 
Europeo, 
già 
nel 
documento 
di 
lavoro 
sulla 
diciassettesima 
relazione 
annuale 
sul 
controllo 
dell'applicazione 
del 
diritto 
comunitario 
del 
22 
gennaio 2001, aveva 
affermato che: 
“La 
differenza 
nel 
numero di 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
rivolte 
da 
ciascuno Stato membro induce 
a 
riflettere 
sul 
fatto che 
in alcuni 
Stati 
i 
giudici 
e 
gli 
avvocati 
non sono sufficientemente 
edotti 
in materia 
di 
diritto comunitario. Secondo un'altra 
teoria 
il 
diritto degli 
Stati 
membri 
di 
cui 
fanno parte 
le 
giurisdizioni 
nazionali 
che 
non rivolgono 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
è 
assai 
vicino al 
diritto comunitario, per 
cui 
le 
direttive 
vengono facilmente 
recepite. Siffatta 
spiegazione 
è 
forse 
corretta, 
ma 
va 
sottolineato che 
solo gli 
Stati 
membri 
che 
hanno un'alta 
percentuale 
di 
trasposizione 
possono utilizzare 
tale 
argomento. Il 
contrario sarebbe 
assai contraddittorio”. 


L’Italia 
si 
pone 
molto 
al 
di 
sopra 
della 
media 
degli 
altri 
Stati 
membri, 
segno che 
i 
Giudici 
italiani 
guardano con attenzione 
al 
diritto dell’Unione 
e 
prima 
di 
applicarlo, 
nei 
casi 
di 
dubbi 
interpretativi, 
preferiscono 
rivolgersi 
alla 
Corte di giustizia. 

Un punto va 
esaminato con attenzione 
e 
riguarda 
il 
significato da 
attribuire 
alla 
presenza 
di 
uno Stato membro nelle 
procedure 
pregiudiziali 
di 
interpretazione. 


va 
ricordato che, entro due 
mesi 
dalla 
notifica 
del 
rinvio pregiudiziale, a 
cui 
vanno 
aggiunti 
10 
giorni 
(termine 
processuale 
per 
la 
distanza 
ex 
art. 
51 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


del 
Regolamento di 
procedura 
della 
CGUE), l’Agente 
del 
Governo provvede 
a 
consultare 
le 
Amministrazioni 
dello Stato che 
hanno competenza 
nelle 
materie 
sollevate 
davanti 
alla 
Corte 
e, 
di 
concerto 
con 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato, 
all’esito 
delle 
riunioni 
di 
coordinamento 
indette 
ex 
art. 
42, 
comma 
1, citato, decide 
se 
depositare 
osservazioni 
scritte; 
se 
optare 
per un probabile 
intervento orale, con il 
rischio, però, di 
vedere 
preclusa 
una 
reale 
partecipazione 
alla 
fase 
orale, 
qualora 
la 
Corte 
decidesse 
di 
ometterla 
(ex 
art. 
44-bis 
del 
Regolamento 
di 
procedura); 
ovvero 
se 
non 
intervenire, 
perché, 
ad 
esempio, 
la 
questione 
non ha 
alcuna 
rilevanza 
nel 
diritto interno o non è 
segnalata 
la 
pendenza 
di 
un 
contenzioso 
nazionale 
analogo, 
sul 
quale 
la 
pronuncia 
della 
Corte possa avere influenza. 

Gli 
Stati 
membri 
spesso intervengono in procedimenti 
che 
non li 
riguardano 
direttamente, 
per 
l’estrema 
importanza 
che 
le 
sentenze 
della 
Corte 
ex 
art. 267 TFUE 
assumono sia 
sull’evoluzione 
del 
diritto dell’Unione 
europea, 
sia 
sul 
modo 
di 
interpretare 
il 
diritto 
dell’Unione 
europea 
cui 
ogni 
Stato 
membro 
è 
interessato; 
sia, 
soprattutto, 
sulle 
questioni 
di 
maggiore 
interesse 
politico. 

Una 
regola 
non scritta 
di 
“fair 
play” 
istituzionale 
impone 
di 
non presentare 
osservazioni 
al 
solo 
scopo 
di 
sottolineare 
o 
eccepire 
la 
non 
conformità 
della normativa di un altro Stato membro al diritto eurounitario. 


Dalle 
statistiche, 
redatte 
con 
cadenza 
trimestrale 
dall’Ufficio 
dell’Agente 
e 
inoltrate 
al 
Dipartimento per le 
Politiche 
europee, risulta 
che 
il 
maggior numero 
dei 
rinvii 
pregiudiziali 
notificati 
all’Agente 
del 
Governo italiano verte 
soprattutto sulla 
fiscalità; 
le 
altre 
materie 
più ricorrenti 
riguardano il 
lavoro e 
la 
politica 
sociale, la 
libertà 
di 
stabilimento e 
la 
libera 
prestazione 
dei 
servizi. 


Nella 
scansione 
procedimentale 
emergono gli 
aspetti 
più significativi 
e 
specifici 
della 
difesa 
svolta 
e 
dell’attività 
di 
sintesi 
e 
di 
coordinamento tra 
la 
visione 
giuridica 
e 
la 
visione 
politica, quest’ultima 
intesa 
nella 
più nobile 
accezione 
di tutela dell’interesse pubblico. 

Le 
parti 
non 
hanno 
la 
possibilità 
di 
replicare 
per 
iscritto 
alle 
rispettive 
osservazioni 
e 
per questo motivo la 
discussione 
orale 
rappresenta 
il 
momento in 
cui 
è 
possibile 
confutare 
le 
argomentazioni 
non collimanti 
o che 
possono indirizzare 
in modo non condivisibile 
la 
pronuncia 
della 
Corte. Tuttavia, il 
regolamento 
di 
procedura 
della 
Corte 
prevede 
la 
possibilità 
per 
la 
stessa, 
sentito 
l’Avvocato generale, di 
omettere 
la 
fase 
orale, se 
nessuna 
delle 
parti 
presenta 
una 
domanda 
(entro 
tre 
settimane 
dalla 
notifica 
della 
chiusura 
della 
fase 
scritta 
del 
procedimento) che 
indichi 
i 
motivi 
per i 
quali 
desidera 
essere 
sentita. La 
Corte 
è 
divenuta 
sempre 
più rigorosa 
nel 
richiedere 
una 
motivazione 
non di 
mero stile, ma 
assolutamente 
appropriata 
e 
nel 
considerare 
assolutamente 
discrezionale 
il 
suo 
potere 
di 
accoglierla 
o 
meno. 
La 
dequotazione 
della 
fase 
orale 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
si 
pone 
nell’ambito di 
un irreversibile 
processo di 
trasformazione 
della 
procedura 
in prevalentemente 
scritta 
e 
solo 
eventualmente orale. 



RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Durante 
il 
periodo 
più 
difficile 
dell’emergenza 
epidemiologica 
tale 
de-
quotazione 
ha 
consentito 
di 
assicurare 
l’ordinario 
svolgimento 
delle 
cause 
che, 
ove 
necessario, anche 
con udienze 
da 
remoto sulla 
piattaforma 
Cisco Webex 


o sostituendole con quesiti a risposta scritta diretti alle Parti. 
L’importanza 
del 
rinvio 
pregiudiziale, 
strumento 
di 
cooperazione 
“da 
giudice 
a 
giudice” 
è 
stata 
spesso sottolineata 
dalla 
stessa 
Corte 
di 
giustizia 
come 
la “chiave di volta” del sistema giurisdizionale dell’Unione europea. 


E 
proprio 
nel 
meccanismo 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
che 
si 
enfatizza 
la 
funzione 
dell’Avvocatura 
dello Stato che, già 
presente 
(a 
monte) nei 
giudizi 
nazionali 
a 
quo, 
è 
chiamata 
a 
rappresentare 
le 
ragioni 
del 
Governo 
italiano 
anche 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia, per, poi, (a 
valle), rappresentarne 
esiti 
e 
conseguenze 
alla 
ripresa 
del 
giudizio 
dinnanzi 
al 
giudice 
nazionale. 
Un 
circuito 
virtuoso, 
dunque, come si è già detto nel paragrafo precedente. 


Come 
accaduto 
nella 
causa 
C-497/20, 
su 
rinvio 
pregiudiziale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
che 
aveva 
adito 
la 
Corte 
di 
giustizia 
al 
fine 
di 
chiarire, 
in 
sostanza, 
se 
il 
diritto dell’Unione 
osti 
a 
una 
disposizione 
di 
diritto interno, l’art. 
111, 
comma 
8, 
della 
Cost., 
che, 
secondo 
la 
giurisprudenza 
nazionale, 
non 
consente 
al 
singolo 
di 
contestare, 
nell’ambito 
di 
un 
ricorso 
per 
cassazione 
dinanzi 
a 
tale 
giudice, 
la 
conformità 
al 
diritto 
dell’Unione 
di 
una 
sentenza 
del 
supremo 
organo della giustizia amministrativa. 


La 
Corte, riunita 
in Grande 
Sezione, ha 
dichiarato, con sentenza 
del 
21 
dicembre 
2021, 
che 
una 
siffatta 
disposizione 
è 
conforme 
al 
diritto 
dell’Unione. 
Alla 
luce 
del 
principio dell’autonomia 
procedurale, ha 
osservato, infatti, che, 
fatta 
salva 
l’esistenza 
di 
norme 
dell’Unione 
in 
materia, 
spetta 
all’ordinamento 
giuridico interno di 
ciascuno Stato membro stabilire 
le 
modalità 
processuali 
dei 
rimedi 
giurisdizionali 
per assicurare 
ai 
singoli, nei 
settori 
disciplinati 
dal 
diritto dell’Unione, il 
rispetto del 
loro diritto a 
una 
tutela 
giurisdizionale 
effettiva, 
ai 
sensi 
dell’articolo 19 TUE; 
garantendo che 
tali 
modalità 
non siano 
meno 
favorevoli 
rispetto 
a 
quelle 
relative 
a 
situazioni 
analoghe 
disciplinate 
dal 
diritto interno (principio di 
equivalenza) e 
che 
non rendano in pratica 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’esercizio dei 
diritti 
conferiti 
dal 
diritto 
dell’Unione 
(principio di 
effettività). Il 
diritto dell’Unione, infatti, in linea 
di 
principio, non osta 
a 
che 
gli 
Stati 
membri 
limitino o subordinino a 
condizioni 
i 
motivi 
che 
possono essere 
dedotti 
nei 
procedimenti 
per cassazione, purché 
tali due principi siano rispettati, come accade, appunto, nel caso di specie. 


Per citare 
solo qualche 
caso rilevante 
e 
di 
interesse 
recente, la 
causa 
pregiudiziale 
proposta 
dal 
giudice 
portoghese 
in 
tema 
di 
c.d. 
Superlega 
calcistica 
(C-331/21); 
e, innanzi 
al 
Tribunale 
dell’Ue, le 
cause 
in tema 
di 
sanzioni 
economiche 
alla 
Russia, T-125/22 e 
T-125/22R, ricorsi 
proposti 
da 
Russia 
Today 
France, nelle 
quali 
sono intervenuti 
la 
Francia, il 
Belgio e 
la 
Polonia 
a 
sostegno 
del 
Consiglio 
dell’Unione 
europea; 
di 
cui 
costituisce 
un 
precedente 
la 
causa 
T-732/14 e 
la 
sentenza 
del 
13 settembre 
2018 di 
rigetto del 
ricorso, pro



TEMI 
ISTITUzIONALI 


posta 
da 
una 
Banca 
russa. In relazione 
alla 
richiesta 
di 
misure 
cautelari, il 
Tribunale 
ha 
ritenuto, 
con 
ordinanza 
del 
30 
marzo 
2022, 
non 
sussistenti 
i 
presupposti 
in 
quanto 
il 
pregiudizio 
lamentato 
è 
meramente 
economico 
e 
finanziario, 
non si 
realizza 
la 
condizione 
dell’urgenza 
e 
il 
bilanciamento degli 
interessi 
è 
a favore del Consiglio. 


7. Conclusioni. 
Il 
ruolo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
si 
va 
sempre 
più 
ampliando 
nella 
prospettiva 
del 
diritto 
internazionale 
e 
del 
diritto 
dell’Unione 
europea. 
Questo 
ampliamento 
di 
ruolo 
è 
perfettamente 
congeniale 
alla 
preparazione 
giuridica 
e 
professionale 
degli 
Avvocati 
dello 
Stato 
e 
può 
essere 
la 
chiave 
di 
volta 
anche 
per la 
modernizzazione 
delle 
strutture 
amministrative, 
soprattutto nella 
fase 
attuativa 
del 
PNRR -Piano Nazionale 
di 
Ripresa 
e 
Resilienza 
e 
dei 
suoi 
obiettivi 
(come 
la 
riforma 
della 
giustizia 
civile 
e 
l’eliminazione dell’arretrato anche di quella amministrativa). 


Noi 
siamo 
pronti 
ad 
affrontare 
queste 
sfide, 
forti 
dell’esperienza 
maturata 
durante 
il 
periodo 
dell’emergenza 
epidemiologica 
che 
abbiamo 
trasformato 
in 
un 
fattore 
di 
accelerazione 
della 
informatizzazione 
e 
della 
dematerializzazione 
del 
nostro 
Istituto, 
per 
contribuire 
in 
modo 
fattivo 
alla 
crescita 
del 
nostro 
Paese 
e alla realizzazione degli obiettivi indicati nel PNRR. 


Grazie per l’attenzione. 


RASSEGNA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


cIrcoLAre 
n. 20/2022 


oggetto: 
Soppressione 
di 
riscossione 
Sicilia 
s.p.a. 
e 
successione 
a 
titolo 
universale 
di 
Agenzia delle 
entrate-riscossione 
(ADer) a decorrere 
dal 
1° 
ottobre 
2021. 
Secondo 
Addendum 
al 
Protocollo 
d’intesa 
sottoscritto 
il 
30 
marzo 2022 tra l’Avvocatura dello Stato e 
ADer. 


Con l'allegata 
Circolare 
n. 63/2021 è 
stato trasmesso l'Addendum 
al 
Protocollo d'intesa 
sottoscritto il 
1° 
ottobre 
2021 tra 
l'Avvocatura 
dello Stato e 
ADER con il 
quale, tenuto conto 
dell'impatto che 
la 
successione 
di 
ADER a 
Riscossione 
Sicilia 
s.p.a 
poteva 
avere 
sull'attività 
dell'Avvocatura 
dello Stato, si 
disponeva 
al 
punto 2.1, che 
“l'Avvocatura dello Stato fino al 
31 marzo 2022 non 
presterà il 
proprio patrocinio a favore 
dell'ente 
relativamente 
a tutte 
le 
cause, sia passive 
che 
attive, riferibili 
alle 
attività della disciolta Riscossione 
Sicilia S.p.A., 
e ciò indipendentemente dal grado di giudizio e dalla magistratura adita”. 


In data 
30 marzo 2022 è 
stato sottoscritto tra 
l'Avvocatura 
dello Stato e 
ADER un secondo 
Addendum, 
con 
il 
quale 
il 
termine 
del 
31 
marzo 
2022 
è 
stato 
posticipato 
al 
31 
dicembre 
2022. 


Fino 
a 
tale 
data, 
pertanto, 
continua 
ad 
applicarsi 
quanto 
previsto 
nella 
Circolare 
n. 
63/2021, con particolare 
riferimento al 
fatto che 
l'archivio non debba 
procedere 
all'impianto 
di 
nuovi 
affari 
per 
gli 
atti 
afferenti 
ai 
contenziosi 
suddetti 
eventualmente 
notificati 
presso 
l'Avvocatura. 


Allegati: 


1) Secondo Addendum 
del 
30 marzo 2022 (pubblicato sul 
sito Internet 
dell'Avvocatura 
dello Stato e dell'Agenzia delle Entrate-Riscossione); 
2) Circolare n. 63/2021. 
L'AvvOCATO GENERALE 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


(omissis) 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


cIrcoLAre 
n. 35/2022 


oggetto: D.P.c.M. 21 marzo 2021 recante 
“Autorizzazione 
all'Avvocatura 
dello Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa dell'Azienda per 
il 
diritto allo studio universitario della regione 
campania nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i 
collegi 
arbitrali, 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
e speciali”. 


Si 
comunica 
che 
con D.P.C.M. del 
21 marzo u.s., in fase 
di 
pubblicazione 
in Gazzetta 
Ufficiale, 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
autorizzata 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell'Azienda 
per il 
diritto allo studio universitario della 
Regione 
Campania 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i 
collegi 
arbitrali, 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali. 


L'AvvOCATO GENERALE 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 



ContEnziosoComUnitarioEdintErnazionalE
Giudici di Pace: la CGUE riconosce il diritto alle ferie 
e alla tutela previdenziale e assistenziale ove sia accertata 
la “comparabilità” con i magistrati ordinari 


Nota 
a 
Corte 
di 
giustizia 
dell’uNioNe 
europea, 
prima 
sezioNe, seNteNza 
7 aprile 
2022, C-236/20 


Emanuela Rosanò* 

Con la 
recentissima 
sentenza 
del 
7 aprile 
2022 (causa 
C-236/20) la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea, Prima 
Sezione, si 
è 
pronunciata 
sulla 
compatibilità 
con il 
diritto euro-unitario della 
normativa 
italiana 
che 
disciplina 
il 
rapporto di 
lavoro dei 
giudici 
di 
pace 
(L. 21 novembre 
1991 n. 374 e 
s.m.i.). 
Il 
rinvio 
pregiudiziale 
è 
stato 
operato 
dal 
Tar 
per 
l’Emilia 
Romagna, 
Prima 
Sezione, 
con 
ordinanza 
n. 
363/2020 
dell’1 
giugno 
2020, 
nell’ambito 
di 
una 
controversia 
sorta 
tra 
PG, 
giudice 
di 
pace, 
e 
il 
Ministero 
della 
Giustizia, 
il 
Consiglio Superiore 
della 
Magistratura 
e 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
in 
merito 
al 
rifiuto 
di 
accertare 
l’esistenza 
di 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
di 
pubblico impiego, a 
tempo pieno o a 
tempo parziale, tra 
la 
ricorrente 
e 
il 
Ministero 
della Giustizia. 


In 
particolare 
il 
Giudice 
Amministrativo 
ha 
sollevato 
le 
seguenti 
questioni 
pregiudiziali: 


“se 
gli 
artt. 20, 21, 31, 33 e 
34 della Carta dei 
diritti 
fondamentali 
del-
l’unione 
europea, le 
direttive 
n. 1999/70/Ce 
sul 
lavoro a tempo determinato 
(clausole 
2 e 
4), n. 1997/81/Ce 
sul 
lavoro a tempo parziale 
(clausola 4), n. 
2003/88/Ce 
sull’orario di 
lavoro (art. 7), n. 2000/78/Ce 
(artt. 1, 2, comma 2 
lett. a) in tema di 
parità di 
trattamento in materia di 
occupazione 
e 
di 
condi


(*) Avvocato e 
specialista 
giuridico legale 
finanziario presso la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, 
già praticante presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


zioni 
di 
lavoro, 
ostino 
all’applicazione 
di 
una 
normativa 
nazionale, 
quale 
quella italiana di 
cui 
alla legge 
374/91 e 
s.m. e 
d.lgs. 92/2016 come 
costantemente 
interpretata 
dalla 
giurisprudenza, 
secondo 
cui 
i 
giudici 
di 
pace, 
quali 
giudici 
onorari, risultano oltre 
che 
non assimilati 
quanto a trattamento economico, 
assistenziale 
e 
previdenziale 
a 
quello 
dei 
giudici 
togati, 
completamente 
esclusi 
da ogni 
forma di 
tutela assistenziale 
e 
previdenziale 
garantita 
al lavoratore subordinato pubblico. 


se 
i 
principi 
comunitari 
in 
tema 
[di] 
autonomia 
e 
indipendenza 
della 
funzione 
giurisdizionale 
e 
segnatamente 
l’art. 
47 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea 
ostino 
all’applicazione 
di 
una 
normativa 
nazionale, quale 
quella italiana secondo cui 
i 
giudici 
di 
pace, quali 
giudici 
onorari, 
risultano 
oltre 
che 
non 
assimilati 
quanto 
a 
trattamento 
economico 
assistenziale 
e 
previdenziale 
a 
quello 
dei 
giudici 
togati, 
completamente 
esclusi 
da ogni 
forma di 
tutela assistenziale 
e 
previdenziale 
garantita al 
lavoratore 
subordinato pubblico. 


se 
la clausola 5 dell’accordo quadro Ces, uNiCe 
e 
Ceep 
sul 
lavoro a 
tempo determinato, concluso il 
18 marzo 1999, che 
figura in allegato alla direttiva 
1999/70/Ce, osti 
all’applicazione 
di 
una normativa nazionale, quale 
quella 
italiana, 
secondo 
cui 
l’incarico 
a 
tempo 
determinato 
dei 
giudici 
di 
pace 
quali 
giudici 
onorari, originariamente 
fissato in 8 anni 
(quattro più quattro) 
possa 
essere 
sistematicamente 
prorogato 
di 
ulteriori 
4 
anni 
senza 
la 
previsione, 
in alternativa alla trasformazione 
in rapporto a tempo indeterminato, 
di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva”. 


elementi di fatto e di diritto del giudizio. 


Il 
procedimento principale 
trae 
origine 
dal 
ricorso promosso da 
una 
cittadina 
italiana, ricoprente 
funzioni 
di 
giudice 
di 
pace 
ininterrottamente 
dal 
3 
luglio 
2002 
al 
31 
maggio 
2016 
e 
in 
attesa 
di 
riconferma, 
volto 
all’accertamento 
del 
diritto alla 
costituzione 
di 
un rapporto di 
pubblico impiego a 
tempo pieno 


o 
part-time 
con 
il 
Ministero 
della 
Giustizia 
e 
la 
conseguente 
condanna 
del 
Ministero 
al 
pagamento 
delle 
differenze 
retributive 
medio 
tempore 
maturate, 
oltre 
oneri 
previdenziali 
e 
assistenziali 
o, in subordine, alla 
condanna 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
al 
risarcimento dei 
danni 
subiti 
a 
causa 
del-
l’assenza 
di 
qualsivoglia 
tutela 
assistenziale 
e 
previdenziale. A 
sostegno della 
propria 
domanda 
la 
ricorrente 
afferma 
che 
vi 
sarebbe 
una 
piena 
equiparazione, 
quanto alle 
funzioni 
esercitate, del 
giudice 
di 
pace 
rispetto ai 
magistrati 
togati 
o che 
comunque 
ricorrerebbero tutti 
gli 
indici 
tipici 
di 
un rapporto di 
lavoro 
pubblico di 
tipo subordinato (dovere 
di 
osservanza 
di 
un orario di 
lavoro, retribuzione 
prefissata 
erogata 
mensilmente, dovere 
di 
esclusività 
ad eccezione 
dell’attività 
forense 
al 
di 
fuori 
del 
circondario, sottoposizione, al 
pari 
dei 
magistrati 
ordinari, 
al 
potere 
disciplinare 
del 
Consiglio 
Superiore 
della 
Magistratura). 
La 
normativa 
italiana 
sarebbe 
dunque 
in contrasto con quella 
unionale 

ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 


in materia 
di 
lavoro, essendo irrilevante 
-per la 
nozione 
comunitaria 
di 
“lavoratore” 
- la qualificazione in termini di onorarietà del servizio. 

Contesto normativo e interpretazione del giudice a quo. 


La 
figura 
del 
giudice 
di 
pace 
è 
stata 
istituita 
con la 
legge 
21 novembre 
1991 n. 374, la 
quale 
aveva 
individuato nel 
termine 
di 
otto anni 
(due 
mandati 
da 
quattro anni) la 
durata 
massima 
del 
rapporto di 
lavoro. Il 
giudice 
di 
pace 
è 
un giudice 
ordinario (art. 1 del 
regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) appartenente 
all’ordine 
giudiziario 
(articolo 
1, 
comma 
2, 
legge 
n. 
374/1991) 
ed 
“esercita 
la 
giurisdizione 
in 
materia 
civile 
e 
penale 
e 
la 
funzione 
conciliativa 
in 
materia 
civile” 
(articolo 
1, 
comma 
1, 
l. 
374/1991), 
al 
pari 
del 
magistrato 
di 
carriera. 
Con 
riguardo 
alla 
durata 
dell’incarico 
con 
decreto 
legge 
n. 
115/2005, 
convertito, con modificazioni, in L. 168/2005, il 
legislatore 
ha 
ampliato l’originario 
termine 
di 
otto anni 
prevedendo un ulteriore 
mandato di 
quattro anni. 
Successivamente, sino ad oggi, la 
proroga 
nell’esercizio delle 
funzioni 
è 
stata 
continuativamente attuata in base alle leggi che si sono nel tempo succedute. 


La 
giurisprudenza 
italiana, 
in 
particolare 
della 
Cassazione, 
è 
costante 
nell’escludere 
l’inquadramento della 
figura 
del 
giudice 
di 
pace 
nel 
rapporto 
di pubblico impiego. 


In particolare, è 
stato osservato che 
la 
categoria 
dei 
funzionari 
onorari, 
della 
quale 
fa 
parte 
il 
giudice 
di 
pace 
ricorre 
quando esiste 
un rapporto di 
servizio 
volontario, con attribuzione 
di 
funzioni 
pubbliche, ma 
senza 
la 
presenza 
degli 
elementi 
che 
caratterizzano 
l’impiego 
pubblico. 
È 
stato, 
quindi, 
sostenuto 
che 
i 
due 
rapporti 
si 
distinguono per le 
seguenti 
caratteristiche: 
1) la 
scelta 
del 
funzionario, 
che 
nell’impiego 
pubblico 
viene 
effettuata 
mediante 
procedure 
concorsuali 
ed 
e, 
quindi, 
di 
carattere 
tecnico-amministrativo, 
mentre 
per 
le 
funzioni 
onorarie 
è 
di 
natura 
politico-discrezionale; 
2) l’inserimento nell’apparato 
organizzativo della 
pubblica 
amministrazione, che 
è 
strutturale 
e 
professionale 
per 
il 
pubblico 
impiegato 
e 
meramente 
funzionale 
per 
il 
funzionario 
onorario; 
3) lo svolgimento del 
rapporto, che 
nel 
pubblico impiego è 
regolato 
da 
un 
apposito 
statuto, 
mentre 
nell’esercizio 
di 
funzioni 
onorarie 
è 
privo 
di 
una 
specifica 
disciplina, quest’ultima 
potendo essere 
individuata 
unicamente 
nell’atto 
di 
conferimento 
dell’incarico 
e 
nella 
natura 
di 
tale 
incarico; 
4) 
il 
compenso, 
che 
consiste 
in una 
vera 
e 
propria 
retribuzione, inerente 
al 
rapporto sinallagmatico 
costituito 
fra 
le 
parti, 
con 
riferimento 
al 
pubblico 
impiegato 
e 
che 
invece, riguardo al 
funzionario onorario, ha 
carattere 
meramente 
indennitario 
e, in senso lato, di 
ristoro degli 
oneri 
sostenuti; 
5) la 
durata 
del 
rapporto 
che, 
di 
norma, 
è 
a 
tempo 
indeterminato 
nel 
pubblico 
impiego 
e 
a 
termine 
(anche 
se 
vi 
e 
la 
possibilità 
del 
rinnovo dell’incarico) quanto al 
funzionario 
onorario (cfr., ex plurimis, Cass. n. 99/2018 e n. 17862/2016). 


ne 
consegue, per il 
giudice 
di 
pace, il 
mancato riconoscimento di 
ogni 
forma 
di 
tutela 
di 
tipo previdenziale 
ed assistenziale, anche 
in riferimento alla 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


tutela 
della 
salute, della 
maternità 
e 
della 
famiglia 
oltre 
che 
del 
diritto irrinunciabile 
per qualsiasi lavoratore (art. 36 Cost.) alle ferie. 


II giudice 
del 
rinvio ritiene 
dubbia 
la 
conformità 
al 
diritto dell’Unione 
di 
siffatta 
disciplina 
in base 
alla 
nozione 
di 
“lavoratore” 
-di 
tipo senz’altro sostanziale 
-invalsa 
nell’ambito del 
diritto dell’UE, svolgendo i 
giudici 
di 
pace 
funzioni 
giurisdizionali 
del 
tutto 
assimilabili 
a 
quelle 
dei 
giudici 
c.d. 
togati 
e/o comunque 
a 
quelle 
di 
un prestatore 
di 
lavoro alle 
dipendenze 
di 
una 
Pubblica 
Amministrazione. 
Ricorda, 
infatti, 
il 
Collegio, 
come 
in 
base 
alla 
clausola 
4 
(“principio 
di 
non 
discriminazione”) 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato recepito nella 
direttiva 
1999/70/CE, il 
diverso trattamento di 
un 
lavoratore 
a 
tempo determinato rispetto ad un lavoratore 
a 
tempo indeterminato 
comparabile 
può 
giustificarsi 
solo 
in 
presenza 
di 
“ragioni 
oggettive”. 
orbene, 
la 
nozione 
di 
“ragioni 
oggettive” 
dev’essere 
intesa 
nel 
senso che 
essa 
non 
autorizza 
a 
giustificare 
una 
differenza 
di 
trattamento 
tra 
i 
lavoratori 
a 
tempo 
determinato 
e 
i 
lavoratori 
a 
tempo 
indeterminato 
per 
il 
fatto 
che 
tale 
differenza 
di 
trattamento sia 
prevista 
da 
una 
norma 
generale 
ed astratta. Tale 
nozione 
richiede, 
al 
contrario, 
che 
la 
disparità 
di 
trattamento 
in 
causa 
risponda 
ad una 
reale 
necessità, sia 
idonea 
a 
conseguire 
l’obiettivo perseguito e 
risulti 
a 
tal 
fine 
necessaria. La 
mera 
qualificazione 
legislativa 
di 
un rapporto di 
pubblico 
servizio come 
rapporto onorario non appare 
atta 
da 
sola 
ad escludere 
nè 
la 
sussistenza, di 
fatto e 
di 
diritto, di 
un rapporto di 
lavoro subordinato, nè 
ingiustificate 
discriminazioni 
a 
danno dei 
lavoratori 
pubblici 
a 
tempo determinato 
in assenza 
della 
determinazione 
di 
criteri 
oggettivi 
e 
trasparenti 
sottesi 
ad un’esigenza reale di discriminazione. 


del 
pari 
non potrebbero costituire 
“ragioni 
obiettive”, secondo il 
Collegio, 
le 
differenze 
-pur esistenti 
-in punto di 
modalità 
di 
selezione, apparendo 
ciò 
del 
tutto 
illogico 
oltre 
che 
sproporzionato, 
e 
non 
potendo 
ostare 
il 
mancato 
superamento del 
concorso pubblico (art. 97 Cost.) attesa 
la 
previsione 
di 
cui 
all’art. 2126 c.c. in tema di rapporto di lavoro di fatto. 

d’altra 
parte, aggiunge 
ancora 
il 
giudice 
rimettente, se 
anche 
si 
volesse 
conferire 
a 
tali 
differenze 
ordinamentali 
la 
valenza 
di 
"ragioni 
obiettive" 
atte 
a 
giustificare 
una 
discriminazione 
fra 
giudici 
di 
carriera 
e 
giudici 
di 
pace, tale 
differenziazione 
potrebbe 
solo consentire 
di 
escludere 
il 
diritto alla 
piena 
assimilazione 
e, 
quindi, 
l’applicabilità 
ai 
giudici 
di 
pace 
dello 
stesso 
trattamento 
economico e 
previdenziale 
dei 
giudici 
di 
carriera, ma 
non certo legittimare 
la 
negazione 
di 
qualsiasi 
diritto in presenza 
di 
un’acclarata 
attività 
continuativa 
ed 
a 
tempo 
pieno 
in 
regime 
di 
subordinazione 
(diritto 
ad 
un’equa 
retribuzione, 
alla 
pensione, alla 
tutela 
della 
salute 
e 
della 
maternità, alla 
continuità 
del 
rapporto 
in caso di abusiva reiterazione del rapporto a tempo determinato). 


Risulta, 
infine, 
dubbia, 
ad 
avviso 
del 
giudice 
a 
quo, 
la 
compatibilità 
euro-
unitaria 
-segnatamente 
in riferimento alla 
clausola 
5 (“misure 
di 
prevenzione 
degli 
abusi”) dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato sopra 
citato 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 


-della 
normativa 
nazionale 
in punto di 
sistematica 
proroga 
dell’incarico del 
giudice 
di 
pace. Secondo il 
Collegio, una 
volta 
acclarata 
la 
sussistenza 
di 
un 
rapporto di 
lavoro subordinato, la 
sistematica 
reiterazione 
del 
rapporto “onorario” 
disposta 
dal 
legislatore 
italiano contrasta 
con le 
esigenze 
poste 
dal 
suddetto 
accordo quadro, non essendo previste 
sanzioni 
“effettive 
e 
dissuasive” 
alternative 
rispetto alla 
non possibile 
conversione 
in rapporto a 
tempo indeterminato 
a 
meno 
di 
non 
voler 
riservare 
ai 
giudici 
di 
pace, 
anche 
in 
questo 
caso, 
un 
trattamento 
meno 
favorevole 
rispetto 
agli 
altri 
lavoratori 
dell’Unione. 
l’evoluzione 
della normativa e 
della giurisprudenza sui 
contratti 
a tempo determinato 
nel pubblico impiego. 

Il 
necessario 
punto 
di 
partenza 
è 
costituito 
dalla 
direttiva 
1999/70/CE 
del 
28 giugno 1999 che 
ha 
dato attuazione 
all’accordo quadro sui 
contratti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
il 
cui 
scopo 
è 
quello 
di 
garantire 
“il 
rispetto 
del 
principio di 
non discriminazione” 
fra 
lavoratori 
a 
tempo determinato e 
lavoratori 
a 
tempo indeterminato (clausola 
1, lett. a) e 
clausola 
4, comma 
1 (1)) 
nonché 
di 
prevenire 
“gli 
abusi 
derivanti 
dall'utilizzo 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
o 
rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato” 
(clausola 
1, 
lett. 
b). 
obiettivi 
questi 
poi 
concretizzati 
dalla 
clausola 
5 intitolata 
“misure 
di 
prevenzione 
degli 
abusi” 
ove 
è 
previsto che 
“per 
prevenire 
gli 
abusi 
derivanti 
dall'utilizzo 
di 
una successione 
di 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a tempo determinato, gli 
stati membri 
(…) 
dovranno introdurre 
(…) 
una o più misure relative a: 


-ragioni 
oggettive 
per 
la 
giustificazione 
del 
rinnovo 
dei 
suddetti 
contratti 


o rapporti; 
-la durata massima totale 
dei 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a tempo determinato 
successivi; 
- il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”. 
A 
tale 
direttiva 
lo 
Stato 
Italiano 
ha 
dato 
attuazione 
con 
il 
d.lgs. 
n. 
368/2001, 
che 
ha 
delimitato 
il 
perimetro 
della 
legittimità 
dei 
contratti 
a 
tempo 
determinato 
sanzionando 
l’abusiva 
protrazione/reiterazione 
dei 
rapporti 
a 
termine 
con 
la 
c.d. 
“conversione” 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
in 
rapporto 
a 
tempo 
indeterminato. 
L’art. 
5 
del 
decreto, 
nel 
comma 
4-bis 
(introdotto 
dalla 
L. 
247/07), 
recita: 
“Ferma 
restando 
la 
disciplina 
della 
successione 
di 
contratti 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti, 
qualora 
per 
effetto 
di 
successione 
di 
contratti 
a 
termine 
per 
lo 
svolgimento 
di 
mansioni 
equivalenti 
il 
rapporto 
di 
lavoro 
fra 
lo 
stesso 
datore 
di 
lavoro 
e 
lo 
stesso 
lavoratore 
abbia 
complessivamente 
superato 
i 
trentasei 
mesi 
comprensivi 
di 
proroghe 
e 
rinnovi, 
indipenden


(1) “1. per 
quanto riguarda le 
condizioni 
di 
impiego, i 
lavoratori 
a tempo determinato non possono 
essere 
trattati 
in modo meno favorevole 
dei 
lavoratori 
a tempo indeterminato comparabili 
per 
il 
solo fatto di 
avere 
un contratto o rapporto di 
lavoro a tempo determinato, a meno che 
non sussistano 
ragioni oggettive”. 

RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


temente 
dai 
periodi 
di 
interruzione 
che 
intercorrono 
tra 
un 
contratto 
e 
l'altro, 
il 
rapporto 
di 
lavoro 
si 
considera 
a 
tempo 
indeterminato 
ai 
sensi 
del 
comma 
2” 
. 
Il 
comma 
2, 
infatti, 
stabilisce 
che 
“se 
il 
rapporto 
di 
lavoro 
continua 
oltre 
il 
trentesimo 
giorno 
in 
caso 
di 
contratto 
di 
durata 
inferiore 
a 
sei 
mesi, 
nonché 
decorso 
il 
periodo 
complessivo 
di 
cui 
al 
comma 
4-bis, 
ovvero 
oltre 
il 
cinquantesimo 
giorno 
negli 
altri 
casi, 
il 
contratto 
si 
considera 
a 
tempo 
indeterminato 
dalla 
scadenza 
dei 
predetti 
termini”. 
In 
sostanza, 
il 
d.lgs. 
n. 
368/2001, 
emanato 
espressamente 
allo 
scopo 
di 
adeguare 
la 
normativa 
interna 
a 
quella 
comunitaria, 
stabilisce 
che, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
dipendente 
venga 
impiegato 
oltre 
il 
limite 
massimo 
di 
36 
mesi, 
il 
rapporto 
si 
“converte” 
e 
diviene 
a 
tempo 
indeterminato. 


nel 
pubblico 
impiego 
vige 
una 
disposizione 
che 
ha 
carattere 
di 
specialità 
rispetto alla 
disciplina 
anzidetta: 
l’art. 36 del 
d.lgs. n. 165/2001. Tale 
disposizione 
scaturisce 
dal 
dettato dell’art. 97 della 
Costituzione 
italiana, che 
impone 
alle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
assumere 
personale 
solo a 
seguito di 
procedure 
selettive. nello specifico, l’art. 36 del 
d.lgs. n. 165/01, nel 
primo 
comma 
stabilisce 
che: 
“per 
le 
esigenze 
connesse 
con 
il 
proprio 
fabbisogno 
ordinario 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
assumono 
esclusivamente 
con 
contratti 
di 
lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le 
procedure 
di 
reclutamento 
previste 
dall'articolo 
35”; 
nel 
comma 
2 
precisa 
che 
“per 
rispondere 
ad 
esigenze 
di 
carattere 
esclusivamente 
temporaneo 
o 
eccezionale 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
possono avvalersi 
delle 
forme 
contrattuali 
flessibili 
di 
assunzione 
e 
di 
impiego 
del 
personale 
previste 
dal 
codice 
civile 
e 
dalle 
leggi 
sui 
rapporti 
di 
lavoro subordinato nell’impresa, nel 
rispetto delle 
procedure 
di reclutamento vigenti”. 


La 
lettura 
del 
dato 
normativo 
interno 
consente 
di 
ritenere 
che 
nel 
pubblico 
impiego 
l’assunzione 
mediante 
contratto 
a 
tempo 
indeterminato 
costituisce 
(o 
dovrebbe 
costituire) 
la 
regola, 
essendo 
il 
ricorso 
a 
tipologie 
contrattuali 
cd 
flessibili 
consentito 
esclusivamente 
per 
rispondere 
ad 
esigenze 
di 
carattere 
“temporaneo” od “eccezionale” (cfr. art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001). 

Il 
comma 
5 
dell’art. 
36 
d.lgs. 
165/2001 
precisa 
infine 
che: 
“in 
ogni 
caso, 
la violazione 
di 
disposizioni 
imperative 
riguardanti 
l'assunzione 
o l'impiego 
di 
lavoratori, da parte 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, non può comportare 
la costituzione 
di 
rapporti 
di 
lavoro a tempo indeterminato con le 
medesime 
pubbliche 
amministrazioni, ferma restando ogni 
responsabilità e 
sanzione. il 
lavoratore 
interessato 
ha 
diritto 
al 
risarcimento 
del 
danno 
derivante 
dalla 
prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”. 

In altri 
termini, nel 
pubblico impiego, se 
l’assunzione 
a 
termine 
avviene 
in violazione 
di 
norme 
imperative, il 
prestatore 
ha 
solo titolo al 
risarcimento 
del danno. 


Per quanto attiene 
alla 
compatibilità 
tra 
tale 
sistema 
normativo e 
le 
fonti 
di 
provenienza 
comunitaria, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
ritenuto necessario elaborare 
un 
principio 
di 
“equivalenza” 
fra 
posizioni 
lavorative 
affini. 
In 
sostanza, 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 


l’abusiva 
reiterazione 
di 
contratti 
a 
tempo determinato, nel 
settore 
pubblico, 
deve 
dare 
luogo all’applicazione 
di 
rimedi 
di 
peso comparabile 
a 
quelli 
applicati 
nel settore privato (2). 


Con la 
sentenza 
emessa 
in data 
26 novembre 
2014, nelle 
cause 
riunite 
C22/
13, da 
C-61/13 a 
C-63/13 e 
C-418/13, c.d. caso mascolo, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
confermato 
in 
modo 
definitivo 
che 
la 
reiterazione 
di 
rapporti 
a 
tempo 
determinato, 
anche 
nell’ambito 
del 
settore 
pubblico, 
costituisce 
un 
abuso 
e, 
in quanto tale, deve 
essere 
necessariamente 
sanzionata. Per quanto concerne 
l’individuazione 
in concreto della 
misura 
repressiva 
applicabile, la 
pronuncia 
suddetta, nei 
punti 
77-83, ha 
ribadito che 
“quando, come 
nel 
caso di 
specie, il 
diritto 
dell’unione 
non 
prevede 
sanzioni 
specifiche 
nell’ipotesi 
in 
cui 
vengano 
nondimeno accertati 
abusi, spetta alle 
autorità nazionali 
adottare 
misure 
che 
devono rivestire 
un carattere 
non solo proporzionato, ma anche 
sufficientemente 
energico 
e 
dissuasivo 
per 
garantire 
la 
piena 
efficacia 
delle 
norme 
adottate 
in 
applicazione 
dell’accordo 
quadro 
… 
esse 
non 
devono 
essere 
però 
meno 
favorevoli 
di 
quelle 
che 
riguardano 
situazioni 
analoghe 
di 
natura 
interna 
(principio di 
equivalenza) né 
rendere 
in pratica impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
l’esercizio 
dei 
diritti 
conferiti 
dall’ordinamento 
giuridico 
dell’unione 
(principio di effettività)”. 


Fissati 
questi 
principi 
guida 
il 
danno risarcibile, per essere 
conforme 
al 
disposto del Giudice comunitario, deve: 


-avere 
effettiva 
efficacia 
dissuasiva, e 
non solo risarcitoria 
o ripristinatoria; 
-non 
avere 
conseguenze 
di 
minore 
favore 
rispetto 
al 
settore 
privato 
(principio 
di equivalenza); 
-non 
rendere 
praticamente 
impossibile 
o 
eccessivamente 
difficile 
l’esercizio 
dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario. 


(2) vale il richiamo alle seguenti pronunce: 
-sentenza 
emessa 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
il 
26 
novembre 
2006 
nella 
causa 
C-53/04 
(Caso 
marrosu+1/ospedale 
san martino di 
genova), in cui 
si 
afferma 
che 
(punto 48) “la clausola 5 dell’accordo 
quadro non osta, in quanto tale, a che 
uno stato membro riservi 
un destino differente 
al 
ricorso 
abusivo a contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a tempo determinato stipulati 
in successione 
a seconda che 
tali 
contratti 
siano stati 
conclusi 
con un datore 
di 
lavoro appartenente 
al 
settore 
privato o con un datore 
di 
lavoro rientrante 
nel 
settore 
pubblico” 
… (punto 49) “come 
risulta dal 
punto 105 della citata sentenza 
adeneler 
e 
a., 
affinché 
una 
normativa 
nazionale 
… 
che 
vieta, 
nel 
solo 
settore 
pubblico, 
la 
trasformazione 
in 
contratto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
indeterminato 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
a 
tempo 
determinato, 
possa 
essere 
considerata conforme 
all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello stato membro 
interessato deve 
prevedere, in tale 
settore, un’altra misura effettiva per 
evitare, ed eventualmente 
sanzionare, 
l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione”. 
-ordinanza 
del 
2 
dicembre 
2013, 
resa 
nel 
processo 
C-50/2013 
(caso 
papalia), 
in 
cui 
afferma 
che 
l’onere 
probatorio che 
il 
lavoratore 
deve 
assolvere 
per godere 
della 
protezione 
avverso l’abusiva 
reiterazione 
dei 
contratti 
a 
termine 
oltre 
il 
limite 
dei 
36 mesi, non deve 
essere 
tanto gravoso al 
punto da 
svilire 
la 
tutela. 
In 
particolare, 
al 
lavoratore 
che 
intenda 
conseguire 
il 
risarcimento 
del 
danno 
non 
può 
essere 
chiesto 
di provare la perdita di migliori opportunità lavorative. 

RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


Con 
la 
sentenza 
a 
Sezioni 
Unite 
n. 
5072/2016 
del 
15 
marzo 
2016 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
ritenuto 
di 
dare 
corretta 
e 
puntuale 
esecuzione 
alle 
istruzioni 
impartite 
all’ordinamento 
Comunitario, 
in 
particolare 
dalle 
sentenze 
marrosu 
del 
2006 e 
mascolo 
del 
2014, le 
quali 
hanno sancito la 
possibilità 
per gli 
Stati 
Membri 
di 
adottare 
forme 
di 
tutela 
diverse 
dalla 
“conversione” 
del 
rapporto 
lavorativo, lasciando agli 
Stati 
membri 
una 
certa 
discrezionalità 
di 
scelta. Il 
complesso di 
misure 
che 
le 
Sezioni 
Unite 
ritengono sufficienti 
a 
soddisfare 
i 
parametri 
dettati 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con la 
sent. mascolo 
(C-22/13) si 
articola 
nel seguente modo: 


1-Una 
“responsabilità, anche 
patrimoniale, del 
dirigente 
cui 
sia ascrivibile 
l’illegittimo ricorso al contratto a termine”, 

2-Un 
risarcimento del danno 
che si compone di due elementi: 


a. 
Un’indennità forfetaria, attribuita 
senza 
che 
il 
lavoratore 
sia 
chiamato 
a 
fornire 
alcuna 
prova, 
da 
quantificare 
fra 
un 
minimo 
di 
2,5 
mensilità 
e 
un 
massimo 
di 
12 
mensilità 
dell’ultima 
retribuzione 
globale 
di 
fatto 
(si 
tratta 
del-
l’indennità 
prevista 
dall’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010 che, nel 
lavoro privato, 
viene riconosciuta in aggiunta alla conversione del rapporto); 
b. 
Un risarcimento per la 
perdita 
di 
chances 
favorevoli, previo assolvimento 
di 
un pesante 
onere 
probatorio a 
carico del 
lavoratore. Costui 
deve 
dimostrare 
che, 
se 
l’Amministrazione 
avesse 
regolarmente 
indetto 
un 
concorso, 
egli 
sarebbe 
risultato vincitore 
o, comunque, che 
talune 
possibilità 
di 
impiego 
alternative 
sono sfumate 
a 
causa 
del 
rapporto a 
termine 
instaurato con l’Amministrazione. 
nell'ampia 
ed articolata 
motivazione 
le 
Sezioni 
Unite 
hanno rilevato che 
la 
misura 
dissuasiva 
e 
il 
rafforzamento della 
tutela 
del 
lavoratore 
pubblico richiesto 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
risiede 
proprio nella 
agevolazione 
della 
prova 
per cui 
il 
dipendente 
pubblico è 
esonerato dalla 
prova 
del 
danno nella 
misura 
in cui questo è presunto e determinato tra un minimo e un massimo. 


Il 
danno 
così 
determinato, 
ad 
avviso 
della 
Suprema 
Corte, 
può 
qualificarsi 
come 
“danno comunitario” 
nel 
senso che 
vale 
a 
colmare 
quel 
deficit 
di 
tutela, 
ritenuto dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia, la 
cui 
mancanza 
esporrebbe 
la 
norma 
interna 
(art. 
36, 
comma 
5 
d.lvo 
165/2001), 
ove 
applicabile 
nella 
sua 
sola 
portata 
testuale, a 
ritenersi 
lesiva 
della 
clausola 
5 della 
direttiva 
e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale. 


la sentenza della Corte di giustizia dell’unione europea. 


La 
Corte 
di 
Giustizia, 
pronunciandosi 
sui 
quesiti 
sollevati 
dal 
Tar 
per 
l’Emilia 
Romagna, ha 
dichiarato il 
secondo inammissibile 
e 
il 
primo ammissibile 
in parte, così statuendo: 


“1) 
l’articolo 
7 
della 
direttiva 
2003/88/Ce 
del 
parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
4 
novembre 
2003, 
concernente 
taluni 
aspetti 
dell’organizzazione 
dell’orario 
di 
lavoro, 
la 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 


tempo 
parziale, 
concluso 
il 
6 
giugno 
1997, 
che 
figura 
in 
allegato 
alla 
direttiva 
97/81/Ce 
del 
Consiglio, del 
15 dicembre 
1997, relativa all’accordo quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
concluso 
dall’uNiCe, 
dal 
Ceep 
e 
dalla 
Ces, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
98/23/Ce 
del 
Consiglio, 
del 
7 
aprile 
1998, 
nonché 
la 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
concluso il 
18 marzo 1999, che 
figura in allegato alla direttiva 1999/70/Ce 
del 
Consiglio, del 
28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro Ces, uNiCe 
e 
Ceep 
sul 
lavoro a tempo determinato, devono essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
essi 
ostano a una normativa nazionale 
che 
non prevede, per 
il 
giudice 
di 
pace, alcun diritto a beneficiare 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
30 giorni 
né 
di 
un 
regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
che 
dipende 
dal 
rapporto 
di 
lavoro, 
come 
quello previsto per 
i 
magistrati 
ordinari, se 
tale 
giudice 
di 
pace 
rientra 
nella nozione 
di 
«lavoratore 
a tempo parziale» ai 
sensi 
dell’accordo quadro 
sul 
lavoro a tempo parziale 
e/o di 
«lavoratore 
a tempo determinato» ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a tempo determinato, e 
si 
trova in una situazione 
comparabile a quella di un magistrato ordinario. 

2) 
la 
clausola 
5, 
punto 
1, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
concluso 
il 
18 
marzo 
1999, 
che 
figura 
in 
allegato 
alla 
direttiva 
1999/70, 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso 
che 
essa 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale 
in 
forza 
della 
quale 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
può 
essere 
oggetto, 
al 
massimo, 
di 
tre 
rinnovi 
successivi, 
ciascuno 
di 
quattro 
anni, 
per 
una 
durata 
totale 
non 
superiore 
a 
sedici 
anni, 
e 
che 
non 
prevede 
la 
possibilità 
di 
sanzionare 
in 
modo 
effettivo 
e 
dissuasivo 
il 
rinnovo 
abusivo 
di 
rapporti 
di 
lavoro”. 
In 
ordine 
alla 
prima 
questione 
la 
Corte 
ha 
precisato 
che 
spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio, 
in 
ultima 
analisi, 
determinare 
se 
il 
giudice 
di 
pace 
possa 
essere 
inquadrato 
nella 
nozione 
di 
«lavoratore 
a 
tempo 
determinato» 
ai 
sensi 
della 
clausola 
2, 
punto 
1 
(3), 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
e 
dei 
criteri 
indicati 
nella 
sentenza 
del 
16 
luglio 
2020 
(causa 
C 
658/18), 
dove 
la 
Corte 
ha 
ritenuto 
che 
possa 
essere 
incluso 
nella 
nozione 
di 
«lavoratore 
a 
tempo 
determinato
» 
chi, 
nell’esercizio 
delle 
funzioni 
di 
giudice 
di 
pace, 
sia 
stato 
nominato 
per 
un 
periodo 
limitato 
e 
abbia 
svolto 
prestazioni 
reali 
ed 
effettive 
per 
le 
quali 
ha 
percepito 
indennità 
aventi 
carattere 
remunerativo. 
Qualora 
sia 
accertato, 
ha 
aggiunto 
la 
Corte, 
che 
il 
giudice 
di 
pace 
si 
trovi, 
in 
una 
situazione 
“comparabile” 
a 
quella 
dei 
magistrati 
ordinari, 
occorre 
ancora 
verificare 
se 
esista 
una 
ragione 
oggettiva 
che 
giustifichi 
l’esistenza 
di 
una 
differenza 
di 
trattamento. 
Rileva, 
in 
particolare, 
la 
Corte 
che 
le 
diverse 
modalità 
di 
accesso, 
tramite 
concorso, 
alla 
magistratura 
ordinaria 
rispetto 
a 
quelle 
richieste 
per 
la 
nomina 
dei 
giudici 
di 
pace, 
consentono 
di 
escludere 
che 
questi 
ultimi 
beneficino 
integral


(3) “1. il 
presente 
accordo si 
applica ai 
lavoratori 
a tempo determinato con un contratto di 
assunzione 
o 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
disciplinato 
dalla 
legge, 
dai 
contratti 
collettivi 
o 
dalla 
prassi 
in 
vigore 
di ciascuno stato membro”. 

RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


mente 
dei 
diritti 
dei 
magistrati 
ordinari 
ma 
non 
possono 
giustificare 
l’esclusione, 
per 
i 
magistrati 
onorari, 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
nonché 
di 
ogni 
regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
di 
cui 
beneficiano 
i 
magistrati 
ordinari 
che 
si 
trovano 
in 
una 
situazione 
comparabile. 
Pertanto, 
osserva 
la 
Corte 
“fatte 
salve 
le 
verifiche 
di 
competenza 
esclusiva 
del 
giudice 
nazionale, 
occorre 
considerare 
che, 
sebbene 
talune 
differenze 
di 
trattamento 
possano 
essere 
giustificate 
dalle 
differenze 
di 
qualifiche 
richieste 
e 
dalla 
natura 
delle 
mansioni 
di 
cui 
i 
magistrati 
ordinari 
devono 
assumere 
la 
responsabilità, 
l’esclusione 
dei 
giudici 
di 
pace 
da 
ogni 
diritto 
alle 
ferie 
retribuite 
nonché 
da 
ogni 
forma 
di 
tutela 
di 
tipo 
assistenziale 
e 
previdenziale 
è, 
alla 
luce 
della 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
inammissibile”. 
In 
ordine 
alla 
terza 
questione 
pregiudiziale, 
relativa 
all’abusiva 
reiterazione 
dei 
contratti 
di 
lavoro 
dei 
giudici 
di 
pace, 
la 
Corte 
rileva, 
infine, 
che 
contrasta 
con 
il 
diritto 
unionale 
una 
normativa, 
come 
quella 
nazionale 
che, 
nel 
vietare, 
nel 
solo 
settore 
pubblico, 
la 
trasformazione 
in 
contratto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
indeterminato 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
a 
tempo 
determinato, 
non 
preveda 
al 
contempo, 
in 
tale 
settore, 
un’altra 
misura 
effettiva 
destinata 
ad 
evitare 
e, 
se 
del 
caso, 
a 
sanzionare 
l’utilizzo 
abusivo 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
a 
tempo 
determinato 
(cfr., 
in 
tal 
senso, 
il 
richiamo 
alla 
sentenza 
del 
7 
marzo 
2018, 
santoro, 
C 
494/16) 
(4). 


(4) 
Il 
rinvio 
pregiudiziale 
è 
stato 
sollevato 
dal 
Tribunale 
di 
Trapani, 
con 
ordinanza 
del 
5 
settembre 
2016, nell’ambito di 
una 
controversia 
insorta 
tra 
la 
ricorrente, dipendente 
comunale 
e 
il 
suo l’Ente 
datoriale, 
in 
merito 
alle 
conseguenze 
derivanti 
dalla 
successione 
di 
contratti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
conclusi 
tra 
l’interessata 
e 
l’Ente 
locale. La 
CGUE 
pronunciandosi 
sul 
rinvio ha 
così 
statuito: 
“la clausola 
5 dell’accordo quadro sul 
lavoro a tempo determinato, concluso il 
18 marzo 1999, che 
figura in 
allegato 
alla 
direttiva 
1999/70/Ce 
del 
Consiglio, 
del 
28 
giugno 
1999, 
relativa 
all’accordo 
quadro 
Ces, 
uNiCe 
e 
Ceep 
sul 
lavoro a tempo determinato, dev’essere 
interpretata nel 
senso che 
essa non osta a 
una 
normativa 
nazionale 
che, 
da 
un 
lato, 
non 
sanziona 
il 
ricorso 
abusivo, 
da 
parte 
di 
un 
datore 
di 
lavoro 
rientrante 
nel 
settore 
pubblico, a una successione 
di 
contratti 
a tempo determinato mediante 
il 
versamento, 
al 
lavoratore 
interessato, 
di 
un’indennità 
volta 
a 
compensare 
la 
mancata 
trasformazione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
in 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
indeterminato 
bensì, 
dall’altro, 
prevede 
la 
concessione 
di 
un’indennità 
compresa 
tra 
2,5 
e 
12 
mensilità 
dell’ultima 
retribuzione 
di 
detto 
lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per 
quest’ultimo, di 
ottenere 
il 
risarcimento integrale 
del 
danno 
dimostrando, 
mediante 
presunzioni, 
la 
perdita 
di 
opportunità 
di 
trovare 
un 
impiego 
o 
il 
fatto 
che, 
qualora 
un 
concorso 
fosse 
stato 
organizzato 
in 
modo 
regolare, 
egli 
lo 
avrebbe 
superato, 
purché 
una 
siffatta 
normativa 
sia 
accompagnata 
da 
un 
meccanismo 
sanzionatorio 
effettivo 
e 
dissuasivo, 
circostanza 
che 
spetta al 
giudice 
del 
rinvio verificare”. La 
Corte 
di 
Giustizia, se 
da 
un lato osserva 
come 
la 
clausola 
5 
dell’accordo 
quadro 
non 
possa 
ostare, 
in 
quanto 
tale, 
a 
che 
uno 
Stato 
membro 
riservi 
una 
sorte 
diversa 
al 
ricorso 
abusivo 
a 
contratti 
o 
rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
stipulati 
in 
successione, 
a 
seconda 
che 
detti 
contratti 
o rapporti 
siano stati 
conclusi 
con un datore 
di 
lavoro appartenente 
al 
settore 
privato 
o con un datore 
di 
lavoro rientrante 
nel 
settore 
pubblico, dall’altro lato rimette 
al 
giudice 
del 
rinvio il 
compito di 
verificare 
la 
concreta 
attuazione 
delle 
norme 
adottate 
in applicazione 
dell’accordo quadro e 
il 
carattere 
effettivo e 
dissuasivo del 
meccanismo sanzionatorio approntato per sanzionare 
l’abusivo ricorso 
alla successione dei contratti a termine. 

ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
39 


Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea, 
Prima 
sezione, 
sentenza 
7 
aprile 
2022, 
C-236/20 
pres., 
rel. 
A. 
Arabadjiev 
-domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposta 
dal 
Tribunale 
Amministrativo 
Regionale 
per 
la 
Emilia 
Romagna 
(Italia) 
il 
4 
giugno 
2020 
-PG 
/ 
Ministero 
della 
Giustizia, 
CSM 
-Consiglio 
Superiore 
della 
Magistratura, 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri. 


«Rinvio pregiudiziale 
-Politica 
sociale 
-Accordo quadro CES, UnICE 
e 
CEEP 
sul 
lavoro a 
tempo 
determinato 
-Clausole 
2 
e 
4 
-Accordo 
quadro 
CES, 
UnICE 
e 
CEEP 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
-Clausola 
4 -Principio di 
non discriminazione 
-Parità 
di 
trattamento in materia 
di 
occupazione 
e 
di 
condizioni 
di 
lavoro -Giudici 
di 
pace 
e 
magistrati 
ordinari 
-Clausola 
5 Misure 
volte 
a 
sanzionare 
il 
ricorso 
abusivo 
ai 
contratti 
a 
tempo 
determinato 
-direttiva 
2003/88/CE -Articolo 7 - Ferie annuali retribuite» 


1 La 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
verte 
sull’interpretazione 
degli 
articoli 
20, 
21, 
31, 
33, 
34 
e 
47 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
(in 
prosieguo: 
la 
«Carta»), della 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale, concluso il 
6 giugno 1997 (in prosieguo: 
l’«accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale»), che 
figura 
in allegato alla 
direttiva 
97/81/CE 
del 
Consiglio, del 
15 dicembre 
1997, relativa 
all’accordo 
quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale 
concluso dall’UnICE, dal 
CEEP 
e 
dalla 
CES 
(GU 
1998, L 
14, pag. 9), come 
modificata 
dalla 
direttiva 
98/23/CE 
del 
Consiglio, del 
7 
aprile 
1998 (GU 
1998, L 
131, pag. 10) (in prosieguo: 
la 
«direttiva 
97/81»), delle 
clausole 
2, 4 e 
5 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato, concluso il 
18 marzo 1999 
(in 
prosieguo: 
l’«accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato»), 
che 
figura 
in 
allegato 
alla 
direttiva 
1999/70/CE 
del 
Consiglio, del 
28 giugno 1999, relativa 
all’accordo quadro 
CES, UnICE 
e 
CEEP 
sul 
lavoro a 
tempo determinato (GU 
1999, L 
175, pag. 43), degli 
articoli 
1 e 
2 della 
direttiva 
2000/78/CE 
del 
Consiglio, del 
27 novembre 
2000, che 
stabilisce 
un quadro generale 
per la 
parità 
di 
trattamento in materia 
di 
occupazione 
e 
di 
condizioni 
di 
lavoro 
(GU 
2000, 
L 
303, 
pag. 
16), 
nonché 
dell’articolo 
7 
della 
direttiva 
2003/88/CE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
4 novembre 
2003, concernente 
taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 2003, L 299, pag. 9). 


2 Tale 
domanda 
è 
stata 
presentata 
nell’ambito 
di 
una 
controversia 
sorta 
tra 
PG, 
giudice 
di 
pace, 
e 
il 
Ministero 
della 
Giustizia 
(Italia), 
il 
Consiglio 
Superiore 
della 
Magistratura 
(Italia) 
e 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
(Italia) 
in 
merito 
al 
rifiuto 
di 
accertare 
l’esistenza 
di 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
di 
pubblico 
impiego, 
a 
tempo 
pieno 
o 
a 
tempo 
parziale, 
tra 
PG 
e 
il 
Ministero 
della 
Giustizia. 


Contesto normativo 


Diritto dell’Unione 


accordo quadro sul lavoro a tempo parziale 


3 La 
clausola 
2 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale, 
intitolata 
«Campo 
di 
applicazione
», 
così 
prevede: 


«1. Il 
presente 
accordo si 
applica 
ai 
lavoratori 
a 
tempo parziale 
che 
hanno un contratto o 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
definito 
per 
legge, 
contratto 
collettivo 
o 
in 
base 
alle 
prassi 
in 
vigore 
in ogni Stato membro. 
(...)». 
4 
La 
clausola 
4, 
punti 
1 
e 
2, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
dispone 
quanto 
segue: 


«1. 
Per 
quanto 
attiene 
alle 
condizioni 
di 
impiego, 
i 
lavoratori 
a 
tempo 
parziale 
non 
devono 
essere 
trattati 
in modo meno favorevole 
rispetto ai 
lavoratori 
a 
tempo pieno comparabili 

RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


per il 
solo motivo di 
lavorare 
a 
tempo parziale, a 
meno che 
un trattamento differente 
sia 
giustificato da ragioni obiettive. 


2. dove opportuno, si applica il principio “pro rata temporis”». 
accordo quadro sul lavoro a tempo determinato 


5 La 
clausola 
2 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
intitolata 
«Campo 
d’applicazione», 
così 
prevede: 


«1. Il 
presente 
accordo si 
applica 
ai 
lavoratori 
a 
tempo determinato con un contratto di 
assunzione 
o un rapporto di 
lavoro disciplinato dalla 
legge, dai 
contratti 
collettivi 
o dalla 
prassi in vigore di ciascuno Stato membro. 
(...)». 
6 La 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato, intitolata 
«Principio 
di non discriminazione», è del seguente tenore: 


«1. Per quanto riguarda 
le 
condizioni 
di 
impiego, i 
lavoratori 
a 
tempo determinato non 
possono 
essere 
trattati 
in 
modo 
meno 
favorevole 
dei 
lavoratori 
a 
tempo 
indeterminato 
comparabili 
per il 
solo fatto di 
avere 
un contratto o rapporto di 
lavoro a 
tempo determinato, 
a meno che non sussistano ragioni oggettive. 
2. Se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis. 
(...)». 
7 La 
clausola 
5 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato, intitolata 
«Misure 
di 
prevenzione degli abusi», è così formulata: 


«1. 
Per 
prevenire 
gli 
abusi 
derivanti 
dall’utilizzo 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
o 
rapporti 
di 
lavoro a 
tempo determinato, gli 
Stati 
membri, previa 
consultazione 
delle 
parti 
sociali 
a 
norma 
delle 
leggi, 
dei 
contratti 
collettivi 
e 
della 
prassi 
nazionali, 
e/o 
le 
parti 
sociali 
stesse, 
dovranno 
introdurre, 
in 
assenza 
di 
norme 
equivalenti 
per 
la 
prevenzione 
degli 
abusi 
e 
in 
un 
modo 
che 
tenga 
conto 
delle 
esigenze 
di 
settori 
e/o 
categorie 
specifici 
di 
lavoratori, 
una o più misure relative a: 
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; 
b) la 
durata 
massima 
totale 
dei 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a 
tempo determinato successivi; 
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 
2. Gli 
Stati 
membri, previa 
consultazione 
delle 
parti 
sociali, e/o le 
parti 
sociali 
stesse 
dovranno, 
se 
del 
caso, stabilire 
a 
quali 
condizioni 
i 
contratti 
e 
i 
rapporti 
di 
lavoro a 
tempo 
determinato: 
a) devono essere considerati “successivi”; 
b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». 
direttiva 2003/88 


8 L’articolo 7 della direttiva 2003/88, intitolato «Ferie annuali», dispone quanto segue: 


«1. Gli 
Stati 
membri 
prendono le 
misure 
necessarie 
affinché 
ogni 
lavoratore 
benefici 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
almeno 4 settimane, secondo le 
condizioni 
di 
ottenimento e 
di 
concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 
2. Il 
periodo minimo di 
ferie 
annuali 
retribuite 
non può essere 
sostituito da 
un’indennità 
finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro». 
Diritto italiano 


9 L’articolo 106 della 
Costituzione 
contiene 
disposizioni 
fondamentali 
relative 
all’accesso 
alla magistratura: 
«Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
41 


La 
legge 
sull’ordinamento giudiziario può ammettere 
la 
nomina, anche 
elettiva, di 
magistrati 
onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli 
(...)». 


10 La 
legge 
del 
21 novembre 
1991, n. 374 -Istituzione 
del 
giudice 
di 
pace 
(supplemento ordinario 
alla 
GURI n. 278, del 
27 novembre 
1991), nella 
versione 
applicabile 
ai 
fatti 
di 
cui al procedimento principale (in prosieguo: la «legge n. 374/1991»), così dispone: 
«Articolo 1 
Istituzione e funzioni del giudice di pace 


1. È 
istituito il 
giudice 
di 
pace, il 
quale 
esercita 
la 
giurisdizione 
in materia 
civile 
e 
penale 
e la funzione conciliativa in materia civile secondo le norme della presente legge. 
2. L’ufficio del 
giudice 
di 
pace 
è 
ricoperto da 
un magistrato onorario appartenente 
all’ordine 
giudiziario. 
(...) 
Articolo 4 
nomina nell’ufficio 
1. 
I 
magistrati 
onorari 
chiamati 
a 
ricoprire 
l’ufficio 
del 
giudice 
di 
pace 
sono 
nominati 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica, 
previa 
deliberazione 
del 
Consiglio 
superiore 
della 
magistratura 
su proposta 
formulata 
dal 
consiglio giudiziario territorialmente 
competente, 
integrato da 
cinque 
rappresentanti 
designati, d’intesa 
tra 
loro, dai 
consigli 
del-
l’ordine degli avvocati e procuratori del distretto di corte d’appello. 
(...) 
Articolo 10 
doveri del giudice di pace 
1. Il 
giudice 
di 
pace 
è 
tenuto all’osservanza 
dei 
doveri 
previsti 
per i 
magistrati 
ordinari. 
(...) 
(...) 
Articolo 11 
Indennità spettanti al giudice di pace 
1. L’ufficio del giudice di pace è onorario. 
2. Ai 
magistrati 
onorari 
che 
esercitano la 
funzione 
di 
giudice 
di 
pace 
è 
corrisposta 
un’indennità 
di 
[lire 
italiane 
(ITL)] 
70 
000 
(circa 
EUR 
35) 
per 
ciascuna 
udienza 
civile 
o 
penale, 
anche 
se 
non 
dibattimentale, 
e 
per 
l’attività 
di 
apposizione 
dei 
sigilli, 
nonché 
di 
[ITL] 
110 000 [circa 
EUR 55] per ogni 
altro processo assegnato e 
comunque 
definito o cancellato 
dal ruolo. 
3. È 
altresì 
dovuta 
un’indennità 
di 
[ITL] 500 000 [circa 
EUR 250] per ciascun mese 
di 
effettivo servizio a 
titolo di 
rimborso spese 
per l’attività 
di 
formazione, aggiornamento e 
per l’espletamento dei servizi generali di istituto. 
(...) 
4 bis. Le 
indennità 
previste 
dal 
presente 
articolo sono cumulabili 
con i 
trattamenti 
pensionistici 
e di quiescenza comunque denominati. 
4 ter. Le 
indennità 
previste 
dal 
presente 
articolo non possono superare 
in ogni 
caso l’importo 
di euro 72 000 lordi annui». 
Procedimento principale e questioni pregiudiziali 


11 
PG 
ha 
svolto 
ininterrottamente 
le 
funzioni 
di 
Giudice 
di 
pace 
dal 
3 
luglio 
2002 
al 
31 
maggio 
2016. 


12 nell’ambito del 
procedimento principale, PG, sostenendo che 
i 
giudici 
di 
pace 
e 
i 
magi



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


strati 
ordinari 
esercitano funzioni 
identiche, ha 
chiesto che 
fosse 
dichiarato il 
suo diritto 
allo status 
giuridico di 
dipendente 
pubblico, a 
tempo pieno o a 
tempo parziale, appartenente 
alla 
magistratura. PG 
ha 
altresì 
chiesto di 
essere 
reintegrato nei 
suoi 
diritti 
quanto 
a trattamento economico, assistenziale e previdenziale. 


13 Il 
giudice 
del 
rinvio sottolinea 
che, secondo la 
normativa 
nazionale, contrariamente 
alla 
situazione 
dei 
magistrati 
ordinari, il 
rapporto di 
lavoro del 
giudice 
di 
pace 
non presenta 
gli 
elementi 
caratteristici 
dei 
rapporti 
di 
lavoro rientranti 
nel 
pubblico impiego. ne 
conseguirebbe 
che 
il 
giudice 
di 
pace 
non beneficia 
di 
alcuna 
forma 
di 
tutela 
di 
tipo assistenziale 
e 
previdenziale, ivi 
compresa 
la 
tutela 
della 
salute, della 
maternità 
e 
della 
famiglia, 
oltre che del diritto alle ferie. 


14 Eppure, 
secondo 
il 
giudice 
del 
rinvio, 
i 
giudici 
di 
pace 
esercitano 
funzioni 
giurisdizionali 
assimilabili 
a 
quelle 
dei 
magistrati 
ordinari 
e, 
in 
ogni 
caso, 
a 
quelle 
di 
altri 
lavoratori 
della 
pubblica 
amministrazione. 
Il 
fatto 
che 
la 
retribuzione 
corrisposta 
ai 
giudici 
di 
pace 
sia 
formalmente 
qualificata 
come 
«indennità» 
sarebbe 
irrilevante. 
I 
rinnovi 
indebiti 
e 
ingiustificati 
dei 
rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
e 
la 
proroga 
sistematica 
dei 
mandati 
dei 
giudici 
di 
pace 
provocherebbero 
una 
«stabilizzazione» 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
che 
la 
legge 
italiana 
qualifica 
come 
onorario, 
per 
la 
quale 
non 
è 
prevista 
alcuna 
sanzione 
effettiva 
e 
dissuasiva. 


15 In tale 
contesto, il 
Tribunale 
Amministrativo Regionale 
per l’Emilia 
Romagna 
(Italia) ha 
deciso di 
sospendere 
il 
procedimento e 
di 
sottoporre 
alla 
Corte 
le 
seguenti 
questioni 
pregiudiziali: 
«1) Se 
gli 
articoli 
20, 21, 31, 33 e 
34 della 
[Carta], le 
[clausole 
2 e 
4 dell’accordo quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
allegato 
alla 
direttiva 
1999/70], 
[la 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
allegato 
alla 
direttiva 
97/81], 
[l’articolo 
7 
della 
direttiva 
2003/88 nonché 
l’articolo 1 e 
l’articolo 2, paragrafo 2, lettera 
a), della 
direttiva 
2000/78] 
ostino all’applicazione 
di 
una 
normativa 
nazionale, quale 
quella 
italiana 
di 
cui 
alla 
legge 


[n. 374/1991] e 
al 
decreto legislativo n. 92/2016 come 
costantemente 
interpretata 
dalla 
giurisprudenza, 
secondo 
cui 
i 
giudici 
di 
pace, 
quali 
giudici 
onorari, 
risultano 
oltre 
che 
non assimilati 
quanto a 
trattamento economico, assistenziale 
e 
previdenziale 
a 
quello dei 
giudici 
togati, 
completamente 
esclusi 
da 
ogni 
forma 
di 
tutela 
assistenziale 
e 
previdenziale 
garantita al lavoratore subordinato pubblico. 
2) Se 
i 
principi 
[di 
diritto dell’Unione 
europea] in tema 
[di] autonomia 
e 
indipendenza 
della 
funzione 
giurisdizionale 
e 
segnatamente 
l’articolo 47 della 
[Carta] ostino all’applicazione 
di 
una 
normativa 
nazionale, quale 
quella 
italiana 
secondo cui 
i 
giudici 
di 
pace, 
quali 
giudici 
onorari, risultano oltre 
che 
non assimilati 
quanto a 
trattamento economico 
assistenziale 
e 
previdenziale 
a 
quello dei 
giudici 
togati, completamente 
esclusi 
da 
ogni 
forma 
di 
tutela 
assistenziale 
e 
previdenziale 
garantita 
al 
lavoratore 
subordinato pubblico. 
3) Se 
la 
clausola 
5 dell’[accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato] osti 
all’applicazione 
di 
una 
normativa 
nazionale, quale 
quella 
italiana, secondo cui 
l’incarico a 
tempo 
determinato 
dei 
giudici 
di 
pace 
quali 
giudici 
onorari, 
originariamente 
fissato 
in 
8 
anni 
(quattro più quattro) possa 
essere 
sistematicamente 
prorogato di 
ulteriori 
4 anni 
senza 
la 
previsione, 
in 
alternativa 
alla 
trasformazione 
in 
rapporto 
a 
tempo 
indeterminato, 
di 
alcuna 
sanzione effettiva e dissuasiva». 
16 A 
seguito della 
pronuncia 
della 
sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572), la 
Corte 
ha 
chiesto 
al 
Tribunale 
Amministrativo 
Regionale 
per 
l’Emilia 
Romagna 
se, 
alla 
luce 
di 
tale 
sentenza, 
esso intendesse mantenere la propria domanda di pronuncia pregiudiziale. 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
43 


17 Il 
28 ottobre 
2020, il 
giudice 
del 
rinvio ha 
comunicato che 
intendeva 
mantenere 
tale 
domanda, 
motivando che 
la 
Corte 
non si 
era 
pronunciata 
su tutti 
i 
profili 
di 
incompatibilità 
tra 
il 
diritto dell’Unione 
e 
la 
normativa 
interna 
di 
cui 
trattasi. Tale 
giudice 
ha 
precisato 
che 
era 
importante 
che 
la 
Corte 
esaminasse 
in modo approfondito le 
funzioni 
esercitate 
dal 
giudice 
di 
pace 
nell’ordinamento giuridico italiano, in quanto l’assenza 
di 
un siffatto 
esame 
rischiava 
di 
comportare 
un margine 
di 
apprezzamento eccessivamente 
ampio da 
parte del giudice nazionale. 
sulle questioni pregiudiziali 
Sulla ricevibilità delle questioni 


18 In proposito, occorre 
rammentare 
che, secondo una 
costante 
giurisprudenza 
della 
Corte, 
nell’ambito della 
cooperazione 
tra 
quest’ultima 
e 
i 
giudici 
nazionali 
istituita 
dall’articolo 
267 TFUE, spetta 
esclusivamente 
al 
giudice 
nazionale, cui 
è 
stata 
sottoposta 
la 
controversia 
e 
che 
deve 
assumere 
la 
responsabilità 
dell’emananda 
decisione 
giurisdizionale, 
valutare, 
alla 
luce 
delle 
particolari 
circostanze 
di 
ciascuna 
causa, 
sia 
la 
necessità 
di 
una 
pronuncia 
pregiudiziale 
che 
lo ponga 
in grado di 
emettere 
la 
propria 
sentenza, sia 
la 
rilevanza 
delle 
questioni 
che 
sottopone 
alla 
Corte. di 
conseguenza, allorché 
le 
questioni 
sollevate 
riguardano l’interpretazione 
del 
diritto dell’Unione, la 
Corte 
è, in via 
di 
principio, 
tenuta 
a 
statuire 
(sentenza 
del 
17 
settembre 
2020, 
Burgo 
Group, 
C‑92/19, 
EU: 
C:2020:733, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). 


19 ne 
consegue 
che 
le 
questioni 
vertenti 
sul 
diritto 
dell’Unione 
sono 
assistite 
da 
una 
presunzione 
di 
rilevanza. 
Il 
diniego 
della 
Corte 
di 
statuire 
su 
una 
questione 
pregiudiziale 
sollevata 
da 
un 
giudice 
nazionale 
è 
possibile 
solo 
qualora 
risulti 
in 
modo 
manifesto 
che 
l’interpretazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
richiesta 
non 
ha 
alcun 
rapporto 
con 
la 
realtà 
effettiva 
o 
con 
l’oggetto 
del 
procedimento 
principale, 
qualora 
il 
problema 
sia 
di 
natura 
ipotetica, 
oppure 
quando 
la 
Corte 
non 
disponga 
degli 
elementi 
di 
fatto 
e 
di 
diritto 
necessari 
per 
fornire 
una 
risposta 
utile 
alle 
questioni 
che 
le 
vengono 
sottoposte 
(sentenza 
del 
17 
settembre 
2020, 
Burgo 
Group, 
C‑92/19, 
EU: 
C:2020:733, 
punto 
40 
e 
giurisprudenza 
ivi 
citata). 


20 
A 
questo 
proposito, 
al 
fine 
di 
permettere 
alla 
Corte 
di 
fornire 
un’interpretazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
che 
sia 
utile 
per 
il 
giudice 
nazionale, 
l’articolo 
94, 
lettera 
c), 
del 
regolamento 
di 
procedura 
della 
Corte 
esige, segnatamente, che 
la 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
contenga 
l’illustrazione 
dei 
motivi 
che 
hanno indotto il 
giudice 
del 
rinvio a 
interrogarsi 
sull’interpretazione 
o 
sulla 
validità 
di 
determinate 
disposizioni 
del 
diritto 
dell’Unione, 
nonché 
il 
collegamento che 
esso stabilisce 
tra 
dette 
disposizioni 
e 
la 
normativa 
nazionale 
applicabile al procedimento principale. 


21 Per quanto riguarda la prima questione, l’ordinanza di rinvio non soddisfa tali requisiti. 


22 
L’ordinanza 
di 
rinvio 
non 
consente 
infatti 
di 
comprendere 
le 
ragioni 
per 
le 
quali 
gli 
articoli 
33 
e 
34 
della 
Carta 
nonché 
le 
disposizioni 
della 
direttiva 
2000/78 
dovrebbero 
ostare 
a 
una 
normativa 
nazionale, 
come 
interpretata 
dalla 
giurisprudenza 
nazionale, 
secondo 
la 
quale 
i 
giudici 
di 
pace, in quanto magistrati 
onorari, non beneficerebbero dello stesso regime 
retributivo, assistenziale 
e 
previdenziale 
dei 
magistrati 
ordinari 
e 
sarebbero quindi 
esclusi 
da 
ogni 
forma 
di 
tutela 
assistenziale 
e 
previdenziale 
di 
cui 
beneficiano 
i 
lavoratori 
del settore pubblico. 


23 Quanto alla 
seconda 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio non espone 
le 
ragioni 
che 
possono 
averlo indotto a 
interrogarsi 
sulla 
compatibilità 
della 
normativa 
di 
cui 
trattasi 
rispetto ai 
principi 
di 
autonomia 
e 
di 
indipendenza 
delle 
funzioni 
giurisdizionali 
esercitate 
dai 
giudici 
di 
pace. 
Il 
giudice 
del 
rinvio 
si 
limita, 
infatti, 
a 
indicare 
che 
l’imparzialità 
e 
l’indipendenza 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


del 
giudice 
impongono 
che 
siano 
riconosciuti 
a 
tutti 
i 
magistrati 
i 
diritti 
fondamentali 
quali 
la 
continuità 
del 
servizio, 
un 
trattamento 
economico 
sufficiente 
e 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
della difesa nei procedimenti disciplinari e paradisciplinari. 


24 ne 
consegue 
che 
la 
Corte 
non dispone 
degli 
elementi 
di 
fatto e 
di 
diritto necessari 
per rispondere 
in modo utile a una parte della prima questione e alla seconda questione. 


25 
da 
quanto 
precede 
risulta 
che 
occorre 
dichiarare 
irricevibili, 
da 
un 
lato, 
la 
prima 
questione 
pregiudiziale 
nella 
parte 
in cui 
verte 
sull’interpretazione 
degli 
articoli 
33 e 
34 della 
Carta 
nonché 
della 
direttiva 
2000/78 
e, 
dall’altro, 
la 
seconda 
questione 
pregiudiziale 
nel 
suo 
insieme. 
Sulla prima questione 


26 
In 
via 
preliminare, 
non 
sembra 
che, 
con 
la 
sua 
prima 
questione, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
chieda 
un’interpretazione 
autonoma 
degli 
articoli 
20, 21 e 
31 della 
Carta, questi 
ultimi 
essendo 
richiamati 
unicamente 
a 
sostegno 
della 
domanda 
di 
interpretazione 
della 
direttiva 
2003/88, 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale 
nonché 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato. 


27 Pertanto, con tale 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
l’articolo 7 della 
direttiva 
2003/88, la 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale 
nonché 
la 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato debbano essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
essi 
ostano 
a 
una 
normativa 
nazionale 
che 
non 
preveda, 
per 
il 
giudice 
di 
pace, il 
diritto di 
beneficiare 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
30 giorni 
né 
di 
un regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
che 
dipende 
dal 
rapporto di 
lavoro, come 
quello previsto per 
i magistrati ordinari. 


28 Come 
già 
rilevato al 
punto 13 della 
presente 
sentenza, il 
giudice 
del 
rinvio precisa 
che 
il 
rapporto 
di 
lavoro 
dei 
magistrati 
ordinari 
è 
un 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego, 
diversamente 
da 
quello dei 
giudici 
di 
pace, che 
viene 
qualificato come 
«onorario» dalla 
normativa 
di 
cui 
trattasi. 
In 
tali 
circostanze, 
i 
giudici 
di 
pace, 
come 
PG, 
sarebbero 
privati 
di 
ogni 
diritto 
alle 
ferie 
retribuite 
nonché 
di 
ogni 
forma 
di 
tutela 
di 
tipo assistenziale 
e 
previdenziale, 
ivi compresa la tutela della salute, della maternità e della famiglia. 


29 A 
tale 
riguardo, dal 
fascicolo di 
cui 
dispone 
la 
Corte 
risulta 
che 
il 
rapporto di 
lavoro dei 
giudici 
di 
pace 
si 
distingue 
da 
quello 
dei 
magistrati 
ordinari 
sotto 
diversi 
profili 
essenziali, 
vale 
a 
dire 
l’assunzione, la 
posizione 
nel 
sistema 
organizzativo della 
pubblica 
amministrazione, 
il 
regime 
delle 
incompatibilità 
e 
di 
esclusività 
della 
prestazione, 
la 
retribuzione, 
la durata del rapporto nonché il carattere pieno ed esclusivo delle funzioni. 


30 Anzitutto, occorre 
ricordare 
che, nella 
sua 
sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani) 
(C‑658/18, 
EU:C:2020:572), 
la 
Corte 
ha 
dichiarato, in sostanza, che 
la 
nozione 
di 
«lavoratore 
a 
tempo determinato», di 
cui 
alla 
clausola 
2, 
punto 
1, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso 
che 
essa 
include 
un 
giudice 
di 
pace, 
nominato 
per 
un 
periodo 
limitato, il 
quale, nell’ambito delle 
sue 
funzioni, svolge 
prestazioni 
reali 
ed effettive, che 
non 
sono 
né 
puramente 
marginali 
né 
accessorie, 
e 
per 
le 
quali 
percepisce 
indennità 
aventi 
carattere remunerativo, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare. 


31 ne 
consegue 
che, nel 
caso di 
specie, spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio, in ultima 
analisi, determinare 
se 
PG 
rientri 
nella 
nozione 
di 
«lavoratore 
a 
tempo determinato» ai 
sensi 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
e/o 
di 
«lavoratore 
a 
tempo 
parziale» 
ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale. 


32 occorre 
ricordare 
che 
la 
clausola 
4, punto 1, dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo de



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
45 


terminato vieta 
che, per quanto riguarda 
le 
condizioni 
di 
impiego, i 
lavoratori 
a 
tempo 
determinato siano trattati 
in modo meno favorevole 
dei 
lavoratori 
a 
tempo indeterminato 
comparabili 
per il 
solo fatto di 
svolgere 
un’attività 
in forza 
di 
un contratto a 
tempo determinato, 
a 
meno che 
non sussistano ragioni 
oggettive 
[sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), 
C‑658/18, 
EU:C:2020:572, punto 136]. 


33 Analogamente, in conformità 
all’obiettivo di 
eliminazione 
delle 
discriminazioni 
tra 
lavoratori 
a 
tempo parziale 
e 
lavoratori 
a 
tempo pieno, la 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale, per quanto attiene 
alle 
condizioni 
di 
impiego, osta 
a 
che 
i 
lavoratori 
a 
tempo 
parziale 
siano 
trattati 
in 
modo 
meno 
favorevole 
rispetto 
ai 
lavoratori 
a 
tempo pieno comparabili 
per il 
solo motivo di 
lavorare 
a 
tempo parziale, a 
meno che 
un 
trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive. 


34 
Poiché 
la 
formulazione 
della 
clausola 
4, 
punti 
1 
e 
2, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
e 
quella 
della 
clausola 
4, 
punti 
1 
e 
2, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
sono, 
in 
sostanza, 
identiche, 
occorre 
rilevare 
che 
le 
considerazioni 
espresse riguardo a una di tali disposizioni valgono, mutatis mutandis, anche per l’altra. 


35 La 
Corte 
ha 
dichiarato che 
la 
clausola 
4, punto 1, dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo 
determinato mira 
a 
dare 
applicazione 
al 
principio di 
non discriminazione 
nei 
confronti 
dei 
lavoratori 
a 
tempo determinato, al 
fine 
di 
impedire 
che 
un rapporto di 
lavoro di 
tale 
natura 
venga 
utilizzato da 
un datore 
di 
lavoro per privare 
questi 
lavoratori 
di 
diritti 
riconosciuti 
ai 
lavoratori 
a 
tempo indeterminato [sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), 
C‑658/18, 
EU:C:2020:572, 
punto 
137]. 


36 Per quanto riguarda 
le 
«condizioni 
di 
impiego» di 
cui 
alla 
clausola 
4 del 
medesimo accordo 
quadro, la 
Corte 
ha 
già 
dichiarato che 
tali 
condizioni 
includono le 
condizioni 
relative 
alle 
retribuzioni 
nonché 
alle 
pensioni 
dipendenti 
dal 
rapporto 
di 
lavoro, 
ad 
esclusione 
delle 
condizioni 
relative 
alle 
pensioni 
derivanti 
da 
un regime 
legale 
di 
previdenza 
sociale 
(sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 134). 


37 
Spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio 
stabilire 
se 
il 
regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
di 
cui 
trattasi 
nel 
procedimento 
principale 
rientri 
nell’ambito 
di 
applicazione 
della 
clausola 
4 
di 
tale 
accordo 
quadro. 


38 Peraltro, poiché 
le 
suddette 
«condizioni 
di 
impiego», ai 
sensi 
della 
clausola 
4, punto 1, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
coprono 
gli 
elementi 
costitutivi 
della 
retribuzione, ivi 
compreso il 
livello di 
tali 
elementi, il 
diritto alle 
ferie 
annuali 
retribuite 
nonché 
le 
condizioni 
relative 
alle 
pensioni 
di 
vecchiaia 
che 
dipendono dal 
rapporto di 
lavoro, 
spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio accertare 
se, tenuto conto di 
un insieme 
di 
fattori, quali 
la 
natura 
del 
lavoro, 
le 
condizioni 
di 
formazione 
e 
le 
condizioni 
di 
impiego, 
l’attività 
giurisdizionale 
di 
PG, nell’esercizio delle 
funzioni 
di 
giudice 
di 
pace, fosse 
comparabile 
a 
quella 
di 
un magistrato ordinario [v., in tal 
senso, sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, 
punti da 143 a 147]. 


39 
Qualora 
sia 
accertato 
che 
un 
giudice 
di 
pace, 
come 
PG, 
si 
trova, 
sotto 
il 
profilo 
della 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
in 
una 
situazione 
comparabile 
a 
quella 
dei 
magistrati 
ordinari, occorre 
poi 
ancora 
verificare 
se 
esista 
una 
ragione 
oggettiva 
che giustifichi l’esistenza di una differenza di trattamento. 


40 A 
tale 
riguardo occorre 
ricordare 
che, secondo una 
giurisprudenza 
costante, la 
nozione 
di 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


«ragioni 
oggettive» ai 
sensi 
della 
clausola 
4, punto 1, di 
detto accordo quadro dev’essere 
intesa 
nel 
senso che 
essa 
non consente 
di 
giustificare 
una 
differenza 
di 
trattamento tra 
i 
lavoratori 
a 
tempo determinato e 
i 
lavoratori 
a 
tempo indeterminato con il 
fatto che 
tale 
differenza 
è 
prevista 
da 
una 
norma 
generale 
o 
astratta, 
quale 
una 
legge 
o 
un 
contratto 
collettivo 
[sentenza 
del 
16 
luglio 
2020, 
Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 150 e giurisprudenza ivi citata]. 


41 detta 
nozione 
richiede, secondo una 
giurisprudenza 
parimenti 
costante, che 
la 
disparità 
di 
trattamento constatata 
sia 
giustificata 
dalla 
sussistenza 
di 
elementi 
precisi 
e 
concreti 
che 
contraddistinguono la 
condizione 
di 
impiego di 
cui 
trattasi, nel 
particolare 
contesto 
in cui 
s’inscrive 
e 
in base 
a 
criteri 
oggettivi 
e 
trasparenti, al 
fine 
di 
verificare 
se 
tale 
disparità 
risponda 
ad una 
reale 
necessità, sia 
idonea 
a 
conseguire 
l’obiettivo perseguito e 
risulti 
a 
tal 
fine 
necessaria. 
Tali 
elementi 
possono 
risultare, 
segnatamente, 
dalla 
particolare 
natura 
delle 
funzioni 
per l’espletamento delle 
quali 
sono stati 
conclusi 
contratti 
a 
tempo 
determinato e 
dalle 
caratteristiche 
inerenti 
a 
queste 
ultime 
o, eventualmente, dal 
perseguimento 
di 
una 
legittima 
finalità 
di 
politica 
sociale 
di 
uno Stato membro [sentenza 
del 
16 
luglio 
2020, 
Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), 
C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 151]. 


42 La 
Corte 
ha 
dichiarato, al 
punto 156 della 
sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572), per 
quanto riguarda 
la 
giustificazione 
relativa 
all’esistenza 
di 
un concorso iniziale 
specificamente 
concepito per i 
magistrati 
ordinari 
ai 
fini 
dell’accesso alla 
magistratura, concorso 
che 
non è 
richiesto ai 
fini 
della 
nomina 
dei 
giudici 
di 
pace, che, tenuto conto del 
margine 
di 
discrezionalità 
di 
cui 
dispongono 
gli 
Stati 
membri 
quanto 
all’organizzazione 
delle 
loro 
amministrazioni 
pubbliche, essi 
possono, in linea 
di 
principio, senza 
violare 
la 
direttiva 
1999/70 
o 
l’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
stabilire 
condizioni 
di 
accesso 
alla 
magistratura, nonché 
condizioni 
di 
impiego applicabili 
sia 
ai 
magistrati 
ordinari 
che 
ai giudici di pace. 


43 
Tuttavia, 
nonostante 
tale 
margine 
di 
discrezionalità, 
l’applicazione 
dei 
criteri 
che 
gli 
Stati 
membri 
stabiliscono deve 
essere 
effettuata 
in modo trasparente 
e 
deve 
poter essere 
controllata 
al 
fine 
di 
impedire 
qualsiasi 
trattamento sfavorevole 
dei 
lavoratori 
a 
tempo determinato 
sulla 
sola 
base 
della 
durata 
dei 
contratti 
o dei 
rapporti 
di 
lavoro che 
giustificano 
la 
loro anzianità 
e 
la 
loro esperienza 
professionale 
[sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, 
punto 157]. 


44 
Qualora 
un 
simile 
trattamento 
differenziato 
derivi 
dalla 
necessità 
di 
tener 
conto 
di 
esigenze 
oggettive 
attinenti 
all’impiego che 
deve 
essere 
ricoperto mediante 
la 
procedura 
di 
assunzione 
e 
che 
sono estranee 
alla 
durata 
determinata 
del 
rapporto di 
lavoro che 
intercorre 
tra 
il 
lavoratore 
e 
il 
suo datore 
di 
lavoro, detto trattamento può essere 
giustificato, ai 
sensi 
della 
clausola 
4, 
punti 
1 
e/o 
4, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato. 
A 
tale 
riguardo, occorre 
considerare 
che 
talune 
differenze 
di 
trattamento tra 
lavoratori 
a 
tempo 
indeterminato assunti 
al 
termine 
di 
un concorso e 
lavoratori 
a 
tempo determinato assunti 
all’esito 
di 
una 
procedura 
diversa 
da 
quella 
prevista 
per 
i 
lavoratori 
a 
tempo 
indeterminato 
possono, in linea 
di 
principio, essere 
giustificate 
dalle 
diverse 
qualifiche 
richieste 
e 
dalla 
natura 
delle 
mansioni 
di 
cui 
devono 
assumere 
la 
responsabilità 
[sentenza 
del 
16 
luglio 
2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), C‑658/18, 
EU:C:2020:572, punti 158 e 159]. 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
47 


45 La 
Corte 
ha 
quindi 
ritenuto 
che 
gli 
obiettivi 
invocati 
dal 
governo 
italiano 
consistenti 
nel 
mettere 
in 
luce 
le 
differenze 
nell’attività 
lavorativa 
tra 
un 
giudice 
di 
pace 
e 
un 
magistrato 
ordinario 
possano 
essere 
considerati 
come 
configuranti 
una 
«ragione 
oggettiva», 
ai 
sensi 
della 
clausola 
4, 
punti 
1 
e/o 
4, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
nei 
limiti 
in 
cui 
essi 
rispondano 
a 
una 
reale 
necessità, 
siano 
idonei 
a 
conseguire 
l’obiettivo 
perseguito 
e 
siano 
necessari 
a 
tal 
fine 
[sentenza 
del 
16 
luglio 
2020, 
Governo 
della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani), 
C‑658/18, 
UE:C:2020:572, 
punto 
160]. 


46 
A 
questo 
proposito, 
la 
Corte 
ha 
considerato 
che 
le 
differenze 
tra 
le 
procedure 
di 
assunzione 
dei 
giudici 
di 
pace 
e 
dei 
magistrati 
ordinari 
e, segnatamente, la 
particolare 
importanza 
attribuita 
dall’ordinamento giuridico nazionale, e 
più specificamente 
dall’articolo 106, paragrafo 
1, 
della 
Costituzione 
italiana, 
ai 
concorsi 
appositamente 
concepiti 
per 
l’assunzione 
dei 
magistrati 
ordinari, 
sembrano 
indicare 
una 
particolare 
natura 
delle 
mansioni 
di 
cui 
questi 
ultimi 
devono assumere 
la 
responsabilità 
e 
un diverso livello delle 
qualifiche 
richieste 
ai 
fini 
dell’assolvimento 
di 
tali 
mansioni. 
In 
ogni 
caso, 
spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio 
valutare, 
a 
tal 
fine, 
gli 
elementi 
qualitativi 
e 
quantitativi 
disponibili 
riguardanti 
le 
funzioni 
svolte 
dai 
giudici 
di 
pace 
e 
dai 
magistrati 
professionali, i 
vincoli 
di 
orario e 
le 
sanzioni 
cui 
sono soggetti 
nonché, in generale, l’insieme 
delle 
circostanze 
e 
dei 
fatti 
pertinenti 
[v., 
in tal 
senso, sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 161]. 


47 discende 
quindi 
da 
tale 
giurisprudenza 
che 
l’esistenza 
di 
un concorso iniziale 
specificamente 
concepito 
per 
i 
magistrati 
ordinari 
ai 
fini 
dell’accesso 
alla 
magistratura, 
che 
invece 
non vale 
per la 
nomina 
dei 
giudici 
di 
pace, consente 
di 
escludere 
che 
questi 
ultimi 
beneficino 
integralmente dei diritti dei magistrati ordinari. 


48 Tuttavia, si 
deve 
constatare 
che, tenendo conto di 
detta 
giurisprudenza 
e, in particolare, 
delle 
verifiche 
che 
rientrano 
nella 
sua 
competenza 
esclusiva, 
conformemente 
alla 
sentenza 
del 
16 luglio 2020, Governo della 
Repubblica 
italiana 
(Status 
dei 
giudici 
di 
pace 
italiani) 
(C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 161) e 
ricordate 
al 
punto 46 della 
presente 
sentenza, 
il 
giudice 
del 
rinvio ha 
rilevato, in sostanza, che 
la 
differenza 
tra 
le 
modalità 
di 
accesso 
alla 
magistratura 
applicabili 
a 
queste 
due 
categorie 
di 
lavoratori 
non 
può 
giustificare 
l’esclusione, per i 
magistrati 
onorari, di 
ferie 
annuali 
retribuite 
nonché 
di 
ogni 
regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
di 
cui 
beneficiano i 
magistrati 
ordinari 
che 
si 
trovano in una 
situazione comparabile. 


49 Per quanto riguarda, in particolare, il 
diritto alle 
ferie, occorre 
ricordare 
che, conformemente 
all’articolo 7, paragrafo 1, della 
direttiva 
2003/88, «gli 
Stati 
membri 
prendono le 
misure 
necessarie 
affinché 
ogni 
lavoratore 
benefici 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
almeno 
4 settimane». 


50 Inoltre, dal 
tenore 
della 
direttiva 
2003/88 e 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
emerge 
che, 
se 
è 
vero che 
spetta 
agli 
Stati 
membri 
definire 
le 
condizioni 
di 
esercizio e 
di 
attuazione 
del 
diritto alle 
ferie 
annuali 
retribuite, essi 
devono, però, astenersi 
dal 
subordinare 
a 
una 
qualsivoglia 
condizione 
la 
costituzione 
stessa 
di 
tale 
diritto, 
il 
quale 
scaturisce 
direttamente 
dalla 
suddetta 
direttiva 
(sentenza 
del 
25 giugno 2020, varhoven kasatsionen sad 
na 
Republika 
Bulgaria 
e 
Iccrea 
Banca, C‑762/18 e 
C‑37/19, EU:C:2020:504, punto 56 
nonché giurisprudenza ivi citata). 


51 
del 
resto, 
si 
deve 
rammentare 
che, 
conformemente 
al 
punto 
2 
della 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale, dove 
opportuno, si 
applica 
il 
principio «pro rata 
temporis
». 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


52 In tal 
senso, la 
Corte 
ha 
dichiarato che, in caso di 
lavoro a 
tempo parziale, il 
diritto del-
l’Unione 
non 
osta 
né 
al 
calcolo 
di 
una 
pensione 
di 
vecchiaia 
effettuato 
secondo 
il 
principio 
«pro rata 
temporis» (v., in tal 
senso, sentenza 
del 
23 ottobre 
2003, Schönheit 
e 
Becker, 
C‑4/02 e 
C‑5/02, EU:C:2003:583, punti 
90 e 
91), né 
a 
che 
le 
ferie 
annuali 
retribuite 
siano 
calcolate 
secondo tale 
medesimo principio (v., in tal 
senso, sentenze 
del 
22 aprile 
2010, 
zentralbetriebsrat 
der 
Landeskrankenhäuser 
Tirols, 
C‑486/08, 
EU:C:2010:215, 
punto 
33, 
nonché 
dell’8 
novembre 
2012, 
Heimann 
e 
Toltschin, 
C‑229/11 
e 
C‑230/11, 
EU:C:2012:693, punto 36). Infatti, nelle 
cause 
che 
hanno dato luogo a 
tali 
sentenze, la 
presa 
in 
considerazione 
di 
un 
orario 
di 
lavoro 
ridotto 
rispetto 
a 
quello 
del 
lavoratore 
a 
tempo pieno costituiva 
un criterio obiettivo che 
consentiva 
una 
riduzione 
proporzionata 
dei 
diritti 
dei 
lavoratori 
interessati 
(sentenza 
del 
5 novembre 
2014, Österreichischer Gewerkschaftsbund, 
C‑476/12, EU:C:2014:2332, punti 23 e 24). 


53 Pertanto, fatte 
salve 
le 
verifiche 
di 
competenza 
esclusiva 
del 
giudice 
nazionale, occorre 
considerare 
che, 
sebbene 
talune 
differenze 
di 
trattamento 
possano 
essere 
giustificate 
dalle 
differenze 
di 
qualifiche 
richieste 
e 
dalla 
natura 
delle 
mansioni 
di 
cui 
i 
magistrati 
ordinari 
devono 
assumere 
la 
responsabilità, 
l’esclusione 
dei 
giudici 
di 
pace 
da 
ogni 
diritto 
alle 
ferie 
retribuite 
nonché 
da 
ogni 
forma 
di 
tutela 
di 
tipo assistenziale 
e 
previdenziale 
è, alla 
luce 
della 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato o della 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, inammissibile. 


54 Sulla 
scorta 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, occorre 
rispondere 
alla 
prima 
questione 
dichiarando che 
l’articolo 7 della 
direttiva 
2003/88, la 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo parziale 
nonché 
la 
clausola 
4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato 
devono essere 
interpretati 
nel 
senso che 
essi 
ostano a 
una 
normativa 
nazionale 
che 
non 
prevede, 
per 
il 
giudice 
di 
pace, 
alcun 
diritto 
a 
beneficiare 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
30 giorni 
né 
di 
un regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
che 
dipende 
dal 
rapporto di 
lavoro, 
come 
quello previsto per i 
magistrati 
ordinari, se 
tale 
giudice 
di 
pace 
rientra 
nella 
nozione 
di 
«lavoratore 
a 
tempo parziale» ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo 
parziale 
e/o di 
«lavoratore 
a 
tempo determinato» ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul 
lavoro 
a 
tempo determinato, e 
si 
trova 
in una 
situazione 
comparabile 
a 
quella 
di 
un magistrato 
ordinario. 
Sulla terza questione 


55 Con la 
sua 
terza 
questione, il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in sostanza, se 
la 
clausola 
5 del-
l’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato debba 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
essa 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale 
in forza 
della 
quale 
un rapporto di 
lavoro a 
tempo 
determinato 
può 
essere 
oggetto, 
al 
massimo, 
di 
tre 
rinnovi 
successivi, 
ciascuno 
di 
quattro 
anni, per una 
durata 
totale 
non superiore 
a 
sedici 
anni, e 
che 
non prevede 
la 
possibilità 
di 
sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro. 


56 
In 
primo 
luogo, 
occorre 
ricordare 
che 
la 
clausola 
5 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato prevede 
che 
gli 
Stati 
membri 
adottino misure 
relative 
al 
numero di 
rinnovi 
dei 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a 
tempo determinato successivi 
e/o alla 
durata 
massima 
totale di tali contratti o rapporti di lavoro. 


57 
orbene, 
si 
deve 
constatare 
che 
la 
normativa 
italiana 
applicabile 
alla 
controversia 
principale 
prevedeva 
effettivamente 
un 
limite 
al 
numero 
di 
rinnovi 
successivi 
nonché 
alla 
durata 
massima di tali contratti a tempo determinato. 


58 A 
tale 
riguardo, secondo costante 
giurisprudenza, sebbene 
gli 
Stati 
membri 
dispongano 
di 
un margine 
di 
discrezionalità 
quanto alle 
misure 
di 
prevenzione 
degli 
abusi, essi 
non 



ConTEnzIoSo 
CoMUnITARIo 
Ed 
InTERnAzIonALE 
49 


possono tuttavia 
rimettere 
in discussione 
l’obiettivo o l’effetto utile 
dell’accordo quadro 
sul 
lavoro a 
tempo determinato [v., in tal 
senso, sentenza 
dell’11 febbraio 2021, M.v. e 


a. 
(Successione 
di 
contratti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
nel 
settore 
pubblico), 
C‑760/18, 
EU:C:2021:113, punto 56]. 
59 In secondo luogo, occorre 
esaminare 
se 
la 
sanzione 
di 
un eventuale 
abuso soddisfi 
i 
requisiti 
posti 
dalla 
clausola 
5 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
nel-
l’ipotesi 
in 
cui 
la 
normativa 
italiana 
non 
consenta 
la 
trasformazione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
in un contratto a tempo indeterminato. 


60 da 
una 
giurisprudenza 
costante 
risulta 
che 
la 
clausola 
5 dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato non sancisce 
un obbligo per gli 
Stati 
membri 
di 
prevedere 
la 
trasformazione 
in contratto a 
tempo indeterminato dei 
contratti 
a 
tempo determinato (ordinanza 
del 
12 dicembre 
2013, Papalia, C‑50/13, non pubblicata, EU:C:2013:873, punto 16), né 
enuncia 
sanzioni 
specifiche 
nell’ipotesi 
in 
cui 
siano 
stati 
constatati 
abusi 
[sentenza 
dell’11 
febbraio 2021, M.v. e 
a. (Successione 
di 
contratti 
di 
lavoro a 
tempo determinato nel 
settore 
pubblico), C‑760/18, EU:C:2021:113, punto 57]. 


61 Spetta 
quindi 
alle 
autorità 
nazionali 
adottare 
misure 
proporzionate, effettive 
e 
dissuasive 
per garantire 
la 
piena 
efficacia 
delle 
norme 
adottate 
in applicazione 
dell’accordo quadro 
sul 
lavoro a 
tempo determinato, le 
quali 
possono prevedere, a 
tal 
fine, la 
trasformazione 
di 
contratti 
a 
tempo determinato in contratti 
a 
tempo indeterminato. Tuttavia, quando si 
sia 
verificato un ricorso abusivo a 
una 
successione 
di 
rapporti 
di 
lavoro a 
tempo determinato, 
deve 
potersi 
applicare 
una 
misura 
al 
fine 
di 
sanzionare 
debitamente 
tale 
abuso e 
rimuovere 
le 
conseguenze 
della 
violazione 
[sentenza 
dell’11 
febbraio 
2021, 
M.v. 
e 
a. 
(Successione 
di 
contratti 
di 
lavoro a 
tempo determinato nel 
settore 
pubblico), C‑760/18, 
EU:C:2021:113, punti da 57 a 59]. 


62 
Affinché 
una 
normativa 
nazionale, 
come 
quella 
controversa 
nel 
procedimento 
principale, 
che 
vieta, nel 
solo settore 
pubblico, la 
trasformazione 
in contratto di 
lavoro a 
tempo indeterminato 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
a 
tempo 
determinato, 
possa 
essere 
considerata 
conforme 
all’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
l’ordinamento 
giuridico 
interno 
dello Stato membro interessato deve 
prevedere, in tale 
settore, un’altra 
misura 
effettiva 
destinata 
ad 
evitare 
e, 
se 
del 
caso, 
a 
sanzionare 
l’utilizzo 
abusivo 
di 
una 
successione 
di 
contratti 
a 
tempo 
determinato 
(sentenza 
del 
7 
marzo 
2018, 
Santoro, 
C‑494/16, 
EU:C:2018:166, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). 


63 
Poiché 
non 
spetta 
alla 
Corte 
pronunciarsi 
sull’interpretazione 
delle 
disposizioni 
di 
diritto 
interno, incombe 
al 
giudice 
del 
rinvio valutare 
se 
i 
presupposti 
per l’applicazione 
nonché 
l’effettiva 
attuazione 
delle 
disposizioni 
rilevanti 
del 
diritto 
interno 
siano 
adeguati 
per 
prevenire 
e, se 
del 
caso, sanzionare 
l’utilizzo abusivo di 
una 
successione 
di 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
[sentenza 
dell’11 
febbraio 
2021, 
M.v. 
e 
a. 
(Successione 
di 
contratti 
di 
lavoro a 
tempo determinato nel 
settore 
pubblico), C‑760/18, 
EU:C:2021:113, punto 61]. 


64 nel 
caso di 
specie, dalle 
indicazioni 
fornite 
dal 
giudice 
del 
rinvio risulta 
che 
non vi 
è 
nel-
l’ordinamento giuridico italiano alcuna 
disposizione 
che 
consenta 
di 
sanzionare 
in modo 
effettivo 
e 
dissuasivo 
il 
rinnovo 
abusivo 
di 
rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
determinato 
ai 
sensi 
della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. 


65 orbene, l’assenza 
di 
qualsiasi 
sanzione 
non appare 
idonea 
a 
prevenire 
e, se 
del 
caso, a 
sanzionare 
l’utilizzo abusivo di 
una 
successione 
di 
contratti 
o rapporti 
di 
lavoro a 
tempo 
determinato. 



RASSEGnA 
AvvoCATURA 
dELLo 
STATo -n. 4/2021 


66 Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, occorre 
rispondere 
alla 
terza 
questione 
dichiarando 
che 
la 
clausola 
5, punto 1, dell’accordo quadro sul 
lavoro a 
tempo determinato 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
essa 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale 
in forza 
della 
quale 
un rapporto di 
lavoro a 
tempo determinato può essere 
oggetto, al 
massimo, di 
tre 
rinnovi 
successivi, ciascuno di 
quattro anni, per una 
durata 
totale 
non superiore 
a 
sedici 
anni, e 
che 
non prevede 
la 
possibilità 
di 
sanzionare 
in modo effettivo e 
dissuasivo il 
rinnovo 
abusivo di rapporti di lavoro. 
sulle spese 


67 nei 
confronti 
delle 
parti 
nel 
procedimento principale 
la 
presente 
causa 
costituisce 
un incidente 
sollevato dinanzi 
al 
giudice 
nazionale, cui 
spetta 
quindi 
statuire 
sulle 
spese. Le 
spese 
sostenute 
da 
altri 
soggetti 
per presentare 
osservazioni 
alla 
Corte 
non possono dar 
luogo a rifusione. 
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: 


1) l’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
4 
novembre 
2003, 
concernente 
taluni 
aspetti 
dell’organizzazione 
dell’orario 
di 
lavoro, 
la 
clausola 
4 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
parziale, 
concluso 
il 
6 
giugno 
1997, 
che 
figura 
in 
allegato 
alla 
direttiva 
97/81/CE 
del 
Consiglio, 
del 
15 
dicembre 
1997, relativa all’accordo quadro sul 
lavoro a tempo parziale 
concluso dall’UniCE, 
dal 
CEEP 
e 
dalla CEs, come 
modificata dalla direttiva 98/23/CE del 
Consiglio, del 
7 aprile 
1998, nonché 
la clausola 4 dell’accordo quadro sul 
lavoro a tempo determinato, 
concluso il 
18 marzo 1999, che 
figura in 
allegato alla direttiva 1999/70/CE del 
Consiglio, del 
28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CEs, UniCE e 
CEEP 
sul 
lavoro a tempo determinato, devono essere 
interpretati 
nel 
senso che 
essi 
ostano a 
una normativa nazionale 
che 
non 
prevede, per 
il 
giudice 
di 
pace, alcun 
diritto a beneficiare 
di 
ferie 
annuali 
retribuite 
di 
30 giorni 
né 
di 
un 
regime 
assistenziale 
e 
previdenziale 
che 
dipende 
dal 
rapporto di 
lavoro, come 
quello previsto per 
i 
magistrati 
ordinari, se 
tale 
giudice 
di 
pace 
rientra nella nozione 
di 
«lavoratore 
a tempo parziale
» ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a tempo parziale 
e/o di 
«lavoratore 
a 
tempo determinato» ai 
sensi 
dell’accordo quadro sul 
lavoro a tempo determinato, e 
si trova in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario. 
2) 
la 
clausola 
5, 
punto 
1, 
dell’accordo 
quadro 
sul 
lavoro 
a 
tempo 
determinato, 
concluso 
il 
18 
marzo 
1999, 
che 
figura 
in 
allegato 
alla 
direttiva 
1999/70, 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
essa osta a una normativa nazionale 
in 
forza della quale 
un 
rapporto 
di 
lavoro a tempo determinato può essere 
oggetto, al 
massimo, di 
tre 
rinnovi 
successivi, 
ciascuno di 
quattro anni, per 
una durata totale 
non 
superiore 
a sedici 
anni, e 
che 
non 
prevede 
la possibilità di 
sanzionare 
in 
modo effettivo e 
dissuasivo il 
rinnovo 
abusivo di rapporti di lavoro. 

CoNteNzioSoNAzioNALe
Le c.d. “concessioni balneari” 
Nota alle sentenze n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021 
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 


Pietro Garofoli* 


Con 
le 
sentenze 
nn. 
17 
e 
18 
del 
2021 
l’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
statuito 
(al 
punto 
14), 
in 
applicazione 
del 
diritto 
comunitario, 
che 
“il 
rilascio 
o 
il 
rinnovo 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
(o 
lacuali 
o 
fluviali) 
avvenga 
all’esito 
di 
una 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica, 
con 
conseguente 
incompatibilità 
della 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
automatica”. 


La 
decisione 
in 
commento 
è 
sicuramente 
destinata 
a 
lasciare 
il 
segno 
nella 
lunga 
e 
travagliata 
vicenda 
delle 
concessioni 
marittime 
(e 
d’ora 
in 
avanti 
quando 
si 
farà 
riferimento 
a 
queste 
si 
dovranno 
intendere 
anche 
quelle 
fluviali 
e 
lacuali) ed è 
stata 
presa 
sulla 
base 
di 
una 
puntuale 
e 
approfondita 
analisi 
del 
diritto comunitario e dei principi applicabili in materia. 


In particolare, il 
Consiglio di 
Stato si 
è 
soffermato dapprima 
sulla 
libertà 
di 
stabilimento 
dei 
cittadini 
di 
uno 
Stato 
membro, 
sancita 
dall’art. 
49 
del 
TFUE 
(1), indagando il 
concetto di 
“interesse 
transfrontaliero certo”, per l’applica


(*) Avvocato dello Stato. 


I 
due 
articoli 
che 
si 
pubblicano 
a 
margine 
delle 
sentenze 
nn. 
17 
e 
18 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato del 
9 novembre 
2021, sono stati 
redatti 
dagli 
Autori 
prima 
della 
recente 
approvazione 
da 
parte 
del 
Senato, approvazione 
con modificazioni 
al 
ddl 
d’iniziativa 
governativa 
e 
collegato alla 
legge 
di 
bilancio 
n. 2469, Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 (n.d.r.). 


(1) Articolo 49 TFUE (ex articolo 43 del TCE) 
Nel 
quadro delle 
disposizioni 
che 
seguono, le 
restrizioni 
alla libertà di 
stabilimento dei 
cittadini 
di 
uno 
Stato 
membro 
nel 
territorio 
di 
un 
altro 
Stato 
membro 
vengono 
vietate. 
Tale 
divieto 
si 
estende 
altresì 
alle 
restrizioni 
relative 
all'apertura 
di 
agenzie, 
succursali 
o 
filiali, 
da 
parte 
dei 
cittadini 
di 
uno 
Stato 
membro 
stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


zione 
dei 
principi 
di 
non 
discriminazione 
e 
di 
trasparenza 
espressi 
dalla 
norma. 

Successivamente, 
la 
sentenza 
in 
esame, 
ha 
fatto 
riferimento 
all’ambito 
di 
applicazione 
dell’art. 12 della 
Direttiva 
2006/123/CE 
(2) (c.d. Direttiva 
Bolkestein), 
prendendo in considerazione 
la 
nozione 
di 
autorizzazione 
di 
servizi 
e il requisito della “risorsa naturale scarsa” per la sua applicazione. 


L’analisi 
è 
stata 
condotta 
sulla 
falsariga 
della 
sentenza 
della 
CGUE 
nelle 
cause 
riunite 
C-458/14 e 
C-67/15, Promoimpresa, del 
14 luglio 2016, ripercorrendone 
le 
statuizioni, quasi 
a 
volerle 
definitivamente 
recepire 
nella 
giurisprudenza 
domestica. 


Il 
Consiglio di 
Stato sembrerebbe, però, essere 
andato oltre 
la 
decisione 
della 
Corte 
di 
Giustizia, definendone 
i 
contorni 
in maniera 
più netta 
ed eliminando 
il 
pur limitato margine 
di 
discrezionalità 
lasciato dalla 
Corte 
europea 
al 
giudice 
domestico nell’applicare 
i 
principi 
comunitari 
ai 
singoli 
casi 
concreti, 
eventualmente portati alla sua attenzione. 


La 
sentenza 
in 
esame 
ha, 
infatti, 
sancito 
il 
generalizzato 
divieto 
di 
proroghe 
e 
il 
conseguente 
obbligo 
di 
applicazione 
dell’evidenza 
pubblica 
senza 
alcun 
distinguo, 
per 
tutte 
le 
concessioni 
demaniali 
marittime 
o 
lacuali, 
indipendentemente 
dal 
loro 
valore, 
dalla 
loro 
ubicazione, 
dai 
risvolti 
occupazionali. 


Posto, quindi, che 
dopo la 
sentenza 
in esame, sembra 
ormai 
chiaro che 
le 
gare 
per l’assegnazione 
delle 
concessioni 
non potranno essere 
ulteriormente 
rinviate, come 
si 
è 
fatto negli 
ultimi 
anni 
attraverso le 
proroghe 
dichiarate 
illegittime 
dall’Unione 
europea, 
occorrerà 
focalizzare 
l’attenzione 
sui 
criteri, 
alla 
luce 
delle 
indicazioni 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
con 
cui 
le 
concessioni 
saranno 
riassegnate 
e 
soprattutto porsi 
il 
problema 
della 
valutazione, per i 
concessionari 
uscenti, 
del 
valore 
aziendale 
e 
quanto 
potrà 
incidere 
per 
la 


La libertà di 
stabilimento importa l'accesso alle 
attività autonome 
e 
al 
loro esercizio, nonché 
la costituzione 
e 
la gestione 
di 
imprese 
e 
in particolare 
di 
società ai 
sensi 
dell'articolo 54, secondo comma, 
alle 
condizioni 
definite 
dalla legislazione 
del 
paese 
di 
stabilimento nei 
confronti 
dei 
propri 
cittadini, 
fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali. 


(2) Articolo 12 Direttiva 2006/123/CE 
(Selezione tra diversi candidati) 
1. 
Qualora 
il 
numero 
di 
autorizzazioni 
disponibili 
per 
una 
determinata 
attività 
sia 
limitato 
per 
via 
della 
scarsità delle 
risorse 
naturali 
o delle 
capacità tecniche 
utilizzabili, gli 
Stati 
membri 
applicano una procedura 
di 
selezione 
tra i 
candidati 
potenziali, che 
presenti 
garanzie 
di 
imparzialità e 
di 
trasparenza e 
preveda, 
in 
particolare, 
un'adeguata 
pubblicità 
dell'avvio 
della 
procedura 
e 
del 
suo 
svolgimento 
e 
completamento. 
2. Nei 
casi 
di 
cui 
al 
paragrafo 1 l'autorizzazione 
è 
rilasciata per 
una durata limitata adeguata e 
non 
può prevedere 
la procedura di 
rinnovo automatico né 
accordare 
altri 
vantaggi 
al 
prestatore 
uscente 
o 
a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. 
3. Fatti 
salvi 
il 
paragrafo 1 e 
gli 
articoli 
9 e 
10, gli 
Stati 
membri 
possono tener 
conto, nello stabilire 
le 
regole 
della procedura di 
selezione, di 
considerazioni 
di 
salute 
pubblica, di 
obiettivi 
di 
politica sociale, 
della 
salute 
e 
della 
sicurezza 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
ed 
autonomi, 
della 
protezione 
dell'ambiente, 
della salvaguardia del 
patrimonio culturale 
e 
di 
altri 
motivi 
imperativi 
d'interesse 
generale 
conformi 
al diritto comunitario. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


quantificazione 
del 
relativo 
indennizzo 
l’eventuale 
affidamento 
sulla 
durata 
della concessione e se detto affidamento possa essere considerato legittimo. 


Per 
procedere 
ad 
una 
analisi 
delle 
luci 
e 
delle 
(possibili) 
ombre 
della 
sentenza 
in esame 
occorre 
fare 
un passo indietro e 
almeno accennare 
al 
contesto 
fattuale e normativo nel quale la sentenza ha visto la luce. 


* * * 


Il 
contrasto 
della 
legislazione 
nazionale 
in 
materia 
di 
concessioni 
balneari 
e 
il 
diritto dell’Unione 
si 
evidenzia 
a 
partire 
dal 
2006, anno in cui 
è 
stata 
adottata 
la 
direttiva 
2006/123/Ce, relativa 
ai 
servizi 
nel 
mercato interno (i.e. 
direttiva 
servizi, 
recepita 
nell'ordinamento 
interno 
con 
il 
decreto 
legislativo 
26 
marzo 2010 n. 59). 

Al 
tempo 
la 
legislazione 
italiana 
in 
materia 
di 
concessioni 
balneari 
si 
presentava 
non 
conforme 
al 
diritto 
primario 
dell’Unione 
(in 
particolare 
alla 
libertà 
di stabilimento ex 
art. 43 TCE, oggi art. 49 TFUE). 

vigeva, infatti, il 
c.d. diritto di 
insistenza 
ex 
art. 37 cod. nav., il 
quale 
al 
comma 
2 stabiliva 
che 
«al 
fine 
della tutela dell’ambiente 
costiero, per 
il 
rilascio 
di 
nuove 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
attività 
turistico-ricreative 
è 
data la preferenza alle 
precedenti 
concessioni, già rilasciate, in sede 
di 
rinnovo 
rispetto alle nuove istanze». 

Tale 
previsione 
dunque 
accordava 
la 
preferenza 
al 
concessionario 
uscente 
e 
rendeva 
più 
difficile 
il 
subentro 
di 
un 
altro 
operatore 
economico 
nei 
rapporti 
concessori 
in 
scadenza, 
con 
potenziale 
effetto 
di 
“chiusura” 
del 
mercato 
in 
questione. 

* * * 


La prima procedura di infrazione. 


È 
stato dunque 
in ragione 
di 
questo contrasto tra 
la 
normativa 
italiana 
e 
il 
diritto europeo che 
nel 
2008 la 
Commissione 
europea 
ha 
aperto una 
prima 
procedura 
di 
infrazione 
nei 
confronti 
dello 
Stato 
italiano 
(i.e. 
P.I. 
n. 
2008/4908). 


Tale 
procedura 
si 
è 
chiusa 
nel 
mese 
di 
febbraio 2012 dopo che 
il 
legislatore 
italiano ha adeguato il diritto interno al diritto comunitario: 


i) 
con 
l’abrogazione 
del 
diritto 
di 
insistenza 
ex 
all'art. 
37, 
comma 
2, 
cod. 
nav., 
(abrogato 
dall’art. 
l, 
comma 
18, 
del 
decreto 
legge 
30 
dicembre 
2009 
n. 
194); 
ii) 
e 
con 
la 
delega 
Governo 
ad 
adottare 
un 
decreto 
di 
riordino 
complessivo 
della 
materia, 
(decreto 
previsto 
dall'art. 
11, 
comma 
2, 
della 
Legge 
15 
dicembre 
2011 n. 217). 
In 
quella 
circostanza 
la 
Commissione 
europea 
ha 
concordato 
sulla 
opportunità 
di una proroga delle concessioni in essere. 

Ciò essenzialmente 
al 
fine 
di 
tutelare 
il 
legittimo affidamento degli 
operatori 
economici 
e 
assicurare 
la 
stabilità 
dei 
rapporti 
giuridici 
nelle 
more 
di 
un 
riordino complessivo della disciplina di settore. 

La 
disciplina 
in 
esame, 
come 
ricorda 
anche 
l’Adunanza 
Plenaria 
nella 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


sentenza 
in esame, è 
di 
sicuro impatto sul 
settore 
turistico balneare, per le 
caratteristiche 
geo-morfologiche 
(il 
territorio 
nazionale 
presenta 
7.500 
km 
di 
coste) ed economico-sociali 
del 
nostro Paese 
(circa 
300 mila 
gli 
occupati 
nel 
solo settore 
turistico balneare, stando ai 
dati 
del 
2018 e 
per un giro di 
affari 
stimato in circa 15 miliardi l’anno). 


In 
aggiunta, 
va 
considerato 
che 
la 
presenza 
di 
stabilimenti 
balneari 
ha 
origini 
lontane, in alcuni 
casi 
sin dal 
1700, sicché 
la 
problematica 
del 
legittimo 
affidamento 
assume 
particolare 
rilievo, 
soprattutto 
in 
ragione 
degli 
importanti 
investimenti realizzati nel tempo. 

Questi 
dati 
portano 
ad 
intendere 
quanto 
alto 
sia 
il 
numero 
e 
la 
varietà 
delle 
aree 
demaniali 
interessate 
e 
che 
potrebbero 
essere 
oggetto 
di 
concessione 
in Italia 
per le 
attività 
turistico balneari, in misura 
nemmeno comparabile 
con 
la maggior parte degli Stati membri. 


* * * 


La seconda procedura di infrazione. 


Per 
quanto 
si 
è 
detto, 
come 
è 
agevole 
intuire, 
un 
riordino 
sistematico 
della 
materia in esame è operazione né facile, né immediata. 

non 
solo 
in 
ragione 
del 
confronto 
politico 
che 
questa 
operazione 
implica, 
ma 
soprattutto 
attese 
le 
ricadute 
sociali 
ed 
economiche 
che 
alla 
stessa 
si 
legano 
e 
che 
necessariamente 
impongono 
-tra 
le 
altre 
cose 
-un 
coinvolgimento 
attivo 
degli 
stakeholders 
(e 
cioè 
delle 
circa 
30 mila 
imprese 
operanti 
nel 
settore, le 
quali sono rappresentate da numerose associazioni di categoria). 


La 
Commissione 
europea 
non ha, tuttavia, tollerato il 
dilatarsi 
pressoché 
inevitabile 
dei 
tempi, pur necessari 
per questa 
regolamentazione, e 
sul 
finire 
del 
2018 
ha 
inviato 
allo 
Stato 
italiano 
una 
lettera 
per 
l’apertura 
di 
una 
fase 
pre-contenziosa per non corretto recepimento della direttiva servizi. 


Il 
3 
dicembre 
2020 
la 
Commissione 
europea 
ha 
formalmente 
aperto 
una 
nuova 
procedura 
di 
infrazione 
nei 
confronti 
dello 
Stato 
italiano, 
avendo 
rilevato 
un 
contrasto 
della 
legislazione 
nazionale 
in 
materia 
di 
assegnazione 
e 
durata 
delle 
concessioni 
di 
beni 
demaniali 
marittimi, 
lacuali 
e 
fluviali 
per 
attività 
ricreative 
e 
turistiche 
(c.d. 
"concessioni 
balneari") 
con 
il 
diritto 
europeo. 


nella 
lettera 
inviata 
ex 
art. 258 TFUE, la 
Commissione 
europea 
prende 
in esame 
il 
quadro normativo nazionale, concludendo nel 
senso che 
la 
normativa 
interna 
si 
pone 
in contrasto con l'art. 12 della 
direttiva 
2006/123/Ce 
(i.e. 
direttiva servizi) e con l'art. 49 TFUE. 


* * * 


Il riordino e la proroga. 


nel 
frattempo, 
però, 
il 
legislatore 
italiano 
con 
l'art. 
l, 
commi 
da 
675 
a 
684, Legge 
30 dicembre 
2018 n. 145 (Legge 
di 
bilancio per il 
2019) ha 
disposto 
che 
con 
DPCM 
fosse 
avviata 
la 
revisione 
della 
disciplina 
delle 
concessioni 
balneari, 
ispirata 
ai 
principi 
di 
concorrenza, 
trasparenza 
e 
parità 
di 
trattamento 



ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


ed intesa 
ad assicurare 
tanto la 
tutela 
e 
la 
valorizzazione 
dei 
beni 
demaniali, 
quanto la massima qualità del servizio erogato. 


Per la 
redazione 
del 
DPCM 
è 
stato costituito un apposito tavolo tecnico 
interministeriale. 


nelle 
more 
di 
tale 
riordino 
della 
materia 
-e 
in 
linea 
con 
la 
soluzione 
convenuta 
con la 
Commissione 
europea 
al 
momento della 
chiusura 
della 
Procedura 
di 
Infrazione 
n. 2008/4908 -la 
Legge 
n. 145/2018 ha 
previsto altresì 
la 
proroga 
delle 
concessioni 
in 
essere, 
per 
evitare 
che 
il 
prodursi 
di 
un 
vuoto 
normativo 
potesse 
andare 
a 
detrimento del 
legittimo affidamento degli 
operatori 
economici e per garantire la certezza dei rapporti giuridici. 


Già 
nel 
mese 
di 
luglio 2019 un primo schema 
del 
DPCM 
è 
stato presentato 
alla Commissione europea, la quale ha formulato i propri rilievi. 

A 
seguito di 
ciò, i 
lavori 
del 
tavolo tecnico sono proseguiti 
al 
fine 
di 
accogliere 
le modifiche suggerite dalla Commissione. 

A 
inizio 
2020, 
è 
stata 
informalmente 
prospettata 
alla 
Commissione 
la 
presentazione 
di 
un nuovo schema 
di 
DPCM, giunto ormai 
alle 
fasi 
finali 
di 
preparazione. 


Tuttavia, lo stato di 
emergenza 
ingenerato dalla 
pandemia 
da 
Covid-19 
non ha 
consentito l'ultimazione 
dei 
lavori, ripresi 
sul 
finire 
dello scorso anno 
ed ancora in corso. 


* * * 


Le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria. 


In 
ragione 
di 
questa 
situazione, 
al 
momento 
delle 
pronunce 
dell’Adunanza 
Plenaria, 
la 
giurisprudenza 
del 
Giudice 
Amministrativo 
appariva 
divisa 
da 
una 
parte 
nel 
senso 
della 
disapplicazione 
della 
disciplina 
dettata 
dalla 
Legge 
di 
bilancio 
per il 
2019, Cons. Stato, sez. vI, 18 novembre 
2019 n. 7874 e 
Cons. 
Stato, sez. vI, 17 luglio 2020 n. 4610. 

In senso contrario, ossia 
nel 
senso della 
applicabilità 
delle 
norme 
di 
cui 
alla 
Legge 
n. 145/2018, -tra 
le 
molte 
-le 
sentenze 
"gemelle" 
Cons. Stato, sez. 
v, 
24 
ottobre 
2019 
nn. 
7251, 
7252, 
7253, 
7254, 
7255, 
7256, 
7257, 
7258; 
Cons. 
Stato, sez. v, 26 ottobre 
2020 n. 6472; 
Tar Puglia, Lecce, sez. I, 27 novembre 
2020 n. 1321; 
Tar Puglia, Lecce, sez. I, 15 gennaio 2021 n. 72. 


In questa 
situazione, la 
questione 
è 
stata 
rimessa 
all’Adunanza 
plenaria, 
“onde 
assicurare 
certezza 
e 
uniformità 
di 
applicazione 
del 
diritto 
da 
parte 
delle 
amministrazioni 
interessate, 
nonché 
uniformità 
di 
orientamenti 
giurisprudenziali” 
(par. 5). 


In 
applicazione 
del 
principio 
di 
effettività 
del 
diritto 
comunitario 
e 
seguendo 
consolidati 
indirizzi 
giurisprudenziali, 
la 
sentenza 
n. 
18/2021 
ha 
quindi 
risposto al 
primo quesito posto all’Adunanza 
nel 
senso che 
“l’obbligo di 
non 
applicare 
la 
legge 
anticomunitaria 
gravi 
in 
capo 
all’apparato 
amministrativo, 
anche 
nei 
casi 
in cui 
il 
contrasto riguardi 
una direttiva self-executing”. Secondo 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
“opinare 
diversamente 
significherebbe 
autorizzare 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


la P.A. all’adozione 
di 
atti 
amministrativi 
illegittimi 
per 
violazione 
del 
diritto 
dell’Unione, destinati 
ad essere 
annullati 
in sede 
giurisdizionale, con grave 
compromissione 
del 
principio di 
legalità, oltre 
che 
di 
elementari 
esigenze 
di 
certezza del diritto” (par. 32). 


* * * 


L’Adunanza 
Plenaria 
ha, 
quindi, 
indicato 
i 
profili 
di 
contrasto 
della 
normativa 
interna 
con 
l’art. 
49 
TFUE 
evidenziando 
come, 
a 
differenza 
che 
nel 
settore 
degli 
appalti, 
ove 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
si 
è 
maggiormente 
espressa, 
i 
principi 
in 
esso 
contenuti 
(pubblicità, 
trasparenza) 
debbano 
essere 
“‘adattati’ 
tenendo 
conto 
della 
particolarità 
del 
settore 
di 
mercato 
che 
viene 
in 
considerazione” 
(par. 
16) 
e 
giungendo 
alla 
conclusione 
che 
per 
qualsiasi 
concessione 
demaniale 
venga 
in 
rilievo 
un 
“interesse 
transfrontaliero 
certo” 
dal 
momento 
che 
“qui 
non 
si 
tratta 
di 
un 
appalto, 
infatti, 
di 
un 
appalto 
isolato, 
da 
eseguirsi 
una 
tantum” 
ma 
“al 
contrario 
degli 
appalti 
o 
delle 
concessioni 
di 
sevizi, 
la 
p.a. 
mette 
a 
disposizione 
dei 
privati 
concessionari 
un 
complesso 
di 
beni 
demaniali 
che, 
valutati 
unitariamente 
e 
complessivamente, 
costituiscono 
uno 
dei 
patrimoni 
naturalistici 
(in 
termini 
di 
coste, 
laghi 
e 
fiumi 
e 
connesse 
aree 
marittime, 
lacuali 
o 
fluviali) 
più 
rinomati 
e 
attrattivi 
del 
mondo”. 


In questo modo però, l’Adunanza 
Plenaria 
è 
forse 
stata 
“più realista del 
re” 
e 
al 
fine 
di 
non violare 
il 
principio di 
eguaglianza, ha 
tolto ogni 
possibilità 
di 
una 
valutazione 
amministrativa 
e 
giudiziale 
sulle 
singole 
concrete 
autorizzazioni 
senza 
considerare 
la 
varietà 
e 
l’estensione 
delle 
coste, la 
loro ubicazione 
e 
il 
grado di 
sviluppo della 
recettività 
locale, potrebbe 
non comportare, 
nel 
concreto, l’assenza 
di 
un interesse 
transfrontaliero certo (si 
pensi 
all’indubitabile 
valore 
economico di 
una 
concessione 
sulle 
rinomante 
coste 
della 
versilia 
paragonandola 
a 
quella 
di 
alcuni 
sperduti 
tratti 
delle 
coste 
ioniche, forse 
di maggior valore paesaggistico, ma avulsi da un contesto turistico). 


negare 
la 
possibilità 
che 
le 
migliaia 
di 
concessioni 
demaniali 
possano 
avere 
caratteristiche 
tali 
per 
le 
quali 
sia 
necessaria 
una 
disciplina 
giuridica 
differenziata, 
in 
ragione 
delle 
differenti 
caratteristiche, 
potrebbe 
determinare 
violazione 
del 
principio 
di 
uguaglianza, 
inteso 
in 
senso 
sostanziale, 
che 
ha 
voluto 
tutelare l’Adunanza plenaria. 


* * * 


La 
sentenza 
in esame 
passa, poi, a 
esaminare 
i 
profili 
di 
contrasto del 
regime 
interno con l'art. 12 direttiva 
2006/123/CE, soffermandosi 
in particolare 
sul concetto di "scarsità delle risorse naturali". 

L’art. 
12 
della 
direttiva 
2006/123/CE 
è 
rubricato 
“Selezione 
tra 
diversi 
candidati” 
e 
al 
suo 
primo 
comma 
stabilisce 
che 
«qualora 
il 
numero 
di 
autorizzazioni 
disponibili 
per 
una 
determinata 
attività 
sia 
limitato 
per 
via 
della 
scarsità 
delle 
risorse 
naturali 
o 
delle 
capacità 
tecniche 
utilizzabili, 
gli 
Stati 
membri 
applicano 
una 
procedura 
di 
selezione 
tra 
i 
candidati 
potenziali, 
che 



ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


presenti 
garanzie 
di 
imparzialità 
e 
di 
trasparenza 
e 
preveda, 
in 
particolare 
un'adeguata 
pubblicità 
dell'avvio 
della 
procedura 
e 
del 
suo 
svolgimento 
e 
completamento». 


non di 
meno, il 
successivo comma 
terzo ammette 
altresì 
che 
«gli 
Stati 
membri 
possono tenere 
conto, nello stabilire 
le 
regole 
della procedura di 
selezione, 
di 
considerazioni 
di 
salute 
pubblica, di 
obiettivi 
di 
politica sociale, 
della 
salute 
e 
della 
sicurezza 
dei 
lavoratori 
dipendenti 
ed 
autonomi, 
della 
protezione 
dell'ambiente, della salvaguardia del 
patrimonio culturale 
e 
di 
altri 
motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto comunitario». 


Dalla 
lettura 
congiunta 
di 
tali 
disposizioni, 
si 
ricava 
dunque 
che 
-di 
principio 
-a 
fronte 
di 
una 
risorsa 
naturale 
scarsa 
(condizione 
della 
"limitatezza" 
delle 
risorse) l'assegnazione 
della 
risorsa 
per finalità 
di 
sfruttamento economico 
deve 
avvenire 
attraverso l’espletamento di 
una 
gara 
improntata 
ai 
principi 
della trasparenza e dell'imparzialità. 

Questione 
centrale, perciò, è 
innanzitutto quella 
di 
definire 
quando una 
risorsa 
sia 
o meno scarsa, poiché 
è 
solo a 
fronte 
della 
accertata 
scarsità 
della 
risorsa 
naturale 
che 
consegue 
la 
necessità 
di 
fare 
applicazione 
dell'art. 
12 
della 
direttiva 2006/123/Ce. 


In tal 
senso si 
è 
espressa 
anche 
la 
Corte 
di 
giustizia 
nella 
citata 
sentenza 
Promoimpresa 
S.r.l. 
(3), 
dove 
-tra 
l’altro 
-si 
legge: 
«per 
quanto 
riguarda, 
più 
specificatamente, la questione 
se 
dette 
concessioni 
debbano essere 
oggetto di 
un numero limitato di 
autorizzazioni 
per 
via della scarsità delle 
risorse 
naturali, 
spetta al 
giudice 
nazionale 
verificare 
se 
tale 
requisito sia soddisfatto. A 
tale 
riguardo, 
il 
fatto 
che 
le 
concessioni 
di 
cui 
ai 
procedimenti 
principali 
siano 
rilasciate 
a livello non nazionale 
bensì 
comunale 
deve, in particolare, essere 
preso in considerazione 
al 
fine 
di 
determinare 
se 
tali 
aree 
che 
possono essere 
oggetto di 
uno sfruttamento economico siano in numero limitato» (par. 43; 
in 
senso analogo v. anche par. 49 e par. 62 della medesima sentenza). 


La 
Corte 
afferma 
in sostanza 
che 
spetta 
al 
giudice 
a quo 
stabilire 
l'applicabilità 
al 
caso 
di 
specie 
dell'art. 
12 
della 
direttiva 
2006/123/Ce, 
previa 
necessaria 
verifica, nel 
caso concreto, del 
ricorrere 
del 
requisito della 
scarsità 
della 
risorsa prescritto dallo stesso art. 12 primo allinea. 

Anche 
in 
relazione 
a 
questo 
profilo 
sembrerebbe 
che 
l’Adunanza 
plenaria 
abbia 
dato una 
interpretazione 
più rigorosa 
della 
norma 
comunitaria 
rispetto 
a quella data dalla Corte di Giustizia. 


Il 
Giudice 
Amministrativo, 
infatti, 
dopo 
aver 
correttamente 
affermato 
che 
“Il 
concetto di 
scarsità va, invero, interpretato in termini 
relativi 
e 
non assoluti, 
tenendo conto non solo della “quantità” 
del 
bene 
disponibile, ma anche 
dei 
suoi 
aspetti 
qualitativi” 
e 
aver 
ricordato 
che 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
sen


(3) Cause riunite C-458/14 e C-67/15. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


tenza 
Promoimpresa 
afferma 
che 
“le 
concessioni 
sono rilasciate 
a livello non 
nazionale 
ma comunale” 
e 
che 
“va ancora considerata la concreta disponibilità 
di 
aree 
ulteriori 
rispetto 
a 
quelle 
attualmente 
già 
oggetto 
di 
concessione” 
con una 
generica 
valutazione 
della 
situazione 
a 
livello nazionale 
giunge 
alla 
conclusione 
che 
“nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
con 
finalità 
turistico-
ricreative, 
le 
risorse 
naturali 
a 
disposizione 
di 
nuovi 
potenziali 
operatori 
economici 
sono 
scarse, 
in 
alcuni 
casi 
addirittura 
inesistenti” 
e 
che, 
pertanto, 
sussistono i 
presupposti 
per una 
indiscriminata 
applicazione 
dell’art. 12 della 
direttiva 2006/123 (par. 25 della sentenza 18/21). 


Si 
dovrebbe 
ritenere, invece, sulla 
scorta 
delle 
statuizioni 
della 
Corte 
di 
Giustizia, che 
di 
regola, il 
compito di 
svolgere 
una 
verifica 
circa 
il 
ricorrere 
della 
condizione 
della 
scarsità 
o limitatezza 
delle 
risorse 
naturali 
debba 
spettare 
all'amministrazione 
procedente, la 
quale 
dovrà 
condurre 
l’indagine 
caso 
per caso, alla luce dei parametri dettati dal legislatore nazionale. 


orbene, 
sul 
punto 
occorre 
osservare 
che 
il 
progetto 
di 
revisione 
complessiva 
della 
materia 
delineato dall'art. 1, commi 
da 
675 a 
684, della 
Legge 
30 
dicembre 
2018 n. 145 (i.e. Legge 
di 
bilancio per il 
2019) si 
articola 
in quattro 
fasi, 
la 
prima 
delle 
quali 
è 
finalizzata 
proprio 
alla 
ricognizione 
e 
alla 
mappatura 
del litorale e del demanio costiero marittimo. 

Scopo di 
una 
tale 
attività 
-che 
può senz'altro estendersi 
ai 
beni 
del 
demanio 
lacuale 
e 
fluviale 
-è 
essenzialmente 
quello di 
avere 
una 
reale 
contezza 
dell'entità 
e 
della 
consistenza 
di 
tale 
patrimonio, al 
fine 
di 
garantire 
la 
possibilità 
di 
accesso da 
parte 
di 
nuovi 
operatori 
economici 
(v. spec. art. 1, comma 
676, Legge 
n. 145 del 
2018, dove 
si 
legge 
che 
l'emanando DPCM 
«stabilisce 
le 
condizioni 
e 
le 
modalità per 
procedere: a) alla ricognizione 
e 
mappatura 
del 
litorale 
e 
del 
demanio 
costiero-marittimo; 
b) 
all'individuazione 
della 
reale 
consistenza dello stato dei 
luoghi, della tipologia e 
del 
numero di 
concessioni 
attualmente vigenti nonché delle aree libere e concedibili»). 


Detta 
attività 
di 
ricognizione 
e 
mappatura 
-che 
indubbiamente 
richiede 
del 
tempo 
per 
poter 
essere 
adeguatamente 
espletata 
in 
un 
contesto 
come 
quello 
italiano caratterizzato da 
oltre 
7.500 Km 
di 
coste 
-è 
senz'altro di 
essenziale 
importanza al fine di stabilire la scarsità o meno delle risorse in parola. 

Solo 
all'esito 
di 
una 
tale 
mappatura 
(che, 
come 
abbiamo 
visto, 
il 
Governo 
ha 
intrapreso) e, dunque, solo una 
volta 
stabilito quali 
aree 
demaniali 
possano 
dirsi 
"scarse", sarà 
possibile 
discutere 
del 
regime 
giuridico relativo ai 
provvedimenti 
autorizzatori che insistono su di esse. 


Questo, peraltro, sembra 
emergere 
anche 
dalla 
lettera 
di 
costituzione 
in 
mora 
inviata 
dalla 
Commissione 
europea, laddove 
la 
stessa 
in più punti 
rappresenta 
l'opportunità 
di 
una 
valutazione 
da 
effettuarsi 
caso 
per 
caso 
(v., 
ad 
es., pagg. 8 e 9). 


* * * 



ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


Considerazioni conclusive. 

1) 
Conclusivamente 
possiamo 
affermare 
che 
la 
sentenza 
in 
commento 
rappresenta 
senz’altro 
una 
pietra 
miliare 
nella 
disciplina 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
(fluviali 
e 
lacuali), di 
notevole 
pregio per la 
ricostruzione 
dell’istituto alla luce del diritto comunitario. 
2) occorre, tuttavia, rilevare 
la 
possibile 
sussistenza 
di 
alcune 
“criticità” 
sia 
in relazione 
ai 
criteri 
fissati 
per l’affidamento delle 
concessioni, sia 
in relazione 
alla 
indiscriminata 
fissazione 
del 
termine 
per il 
rinnovo delle 
concessioni 
(al 
31 dicembre 
2023), in assenza 
di 
una 
accurata 
e 
completa 
attività 
di 
mappatura e ricognizione dei beni stessi. 
Solo a 
conclusione 
di 
questa 
attività 
di 
monitoraggio si 
potrebbe 
essere 
certi 
della 
sussistenza 
dei 
requisiti 
della 
“scarsità 
della 
risorsa 
naturale”e 
“dell’interesse 
transfrontaliero 
certo” 
previsti 
per 
l’applicazione 
della 
normativa 
comunitaria. 


Detti 
requisiti 
sono, infatti, condizione 
necessaria 
e 
ineliminabile 
per ritenere 
applicabili, 
rispettivamente, 
l’art. 
12 
direttiva 
2006/12/Ce 
e 
l’art. 
49 
TFUE, 
come 
evidenziato 
anche 
dalla 
Commissione 
Europea 
nella 
lettera 
di 
formalizzazione della procedura di infrazione del 3 dicembre 2020. 

Tale 
mappatura 
sarà 
anche 
indispensabile 
per assicurare 
una 
adeguata 
e 
proporzionata 
tutela 
dell’eventuale 
legittimo affidamento ingenerato negli 
attuali 
concessionari, 
dal 
susseguirsi 
delle 
leggi 
di 
proroga 
e 
dalla 
incertezza 
giurisprudenziale sulla loro applicabilità. 

Come 
ricordato 
dalle 
sentenze 
in 
commento, 
anche 
in 
questo 
caso 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
sentenza 
Promoimpresa 
ha 
affermato 
che 
riguardo 
all’accertamento 
del 
legittimo 
affidamento 
necessiti 
“una 
valutazione 
caso 
per 
caso 
che 
consenta di 
dimostrare 
che 
il 
titolare 
dell’autorizzazione 
poteva legittimamente 
aspettarsi 
il 
rinnovo 
della 
propria 
autorizzazione 
e 
ha 
effettuato 
i 
relativi 
investimenti” 
e 
che 
“L’indizione 
di 
procedure 
competitive 
per 
l’assegnazione 
delle 
concessioni 
dovrà, 
pertanto, 
ove 
ne 
ricorrano 
i 
presupposti, 
essere 
supportata 
dal 
riconoscimento 
di 
un 
indennizzo 
a 
tutela 
degli 
eventuali 
investimenti 
effettuati 
dai 
concessionari 
uscenti, 
essendo 
tale 
meccanismo 
indispensabile 
per tutelare l’affidamento degli stessi” (par. 49). 


In 
questo 
quadro 
le 
amministrazioni 
locali 
e 
lo 
Stato 
potrebbero 
vedersi 
costretti 
a 
fare 
fronte 
ad 
innumerevoli 
richieste 
di 
indennizzo 
che 
poste 
a 
carico 
delle 
finanze 
pubbliche 
potrebbero 
comportare 
un 
notevole 
ed 
imprevisto 
impatto 
sui 
saldi 
di 
bilancio 
e 
se 
poste 
a 
carico 
degli 
altri 
concorrenti 
alla 
procedura 
di 
gara 
potrebbero 
costituire 
proprio 
quel 
vantaggio 
per 
il 
vecchio 
concessionario 
che 
la 
normativa 
comunitaria 
e 
interna 
ha 
deciso 
di 
eliminare. 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


Consiglio di 
Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 9 novembre 
2021 n. 18 -Pres. F. Patroni 
Griffi, Est. 
r. Giovagnoli 
-Comune 
di 
Lecce 
(avv.ti 
L. Astuto e 
S. Lazzari) c. A.C. (avv. F. 
vetrò), Associazione 
Federazione 
Imprese 
Demaniali 
(avv. F. Massa) e 
con l’intervento ad 
opponendum 
di Summertime S.a.s ed altri. Sentenza 
T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, n. 73/2021. 


FATTo e DIrITTo 


1. Con la 
sentenza 
di 
estremi 
indicati 
in epigrafe, il 
Tribunale 
amministrativo regionale 
per la 
Puglia, 
sezione 
staccata 
di 
Lecce, 
ha 
accolto 
il 
ricorso 
proposto 
da 
A.C., 
titolare 
di 
concessione 
demaniale 
marittima 
in Lecce, località 
Spiaggiabella, e, per l’effetto, ha 
annullato i 
provvedimenti 
con cui 
il 
Comune 
di 
Lecce 
ha 
respinto l’istanza 
di 
proroga 
ex 
lege 
145/2018, rivolgendo 
al 
concessionario 
formale 
interpello 
al 
fine 
di 
conoscere 
se 
lo 
stesso 
intendesse 
avvalersi 
della 
facoltà 
di 
prosecuzione 
dell’attività 
ai 
sensi 
dell’art. 
182 
d.l. 
34/2020 
(convertito 
in 
legge 
n. 
77/2020), 
con 
contestuale 
pagamento 
del 
canone 
per 
l’anno 
2021 
ovvero, 
in 
via 
alternativa, 
di 
non 
avvalersi 
di 
tale 
facoltà 
e 
di 
accettare 
una 
proroga 
tecnica 
della 
concessione 
per 
la 
durata di anni tre. 
Il 
T.a.r. 
Lecce, 
in 
sintesi, 
ha 
ritenuto 
che 
l’Amministrazione 
comunale 
avesse 
illegittimamente 
disapplicato la 
legge 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
delle 
concessioni 
demaniali; 
ha 
sostenuto, 
in particolare, che 
l’art. 12 direttiva 
2006/123/CE 
non sia 
self-executing 
e 
che, comunque, 
anche 
ove 
lo 
fosse, 
ciò 
non 
legittimerebbe 
l’organo 
amministrativo 
a 
disapplicare 
la 
legge 
interna, 
essendo 
l’accertamento 
della 
natura 
self-executing 
della 
direttiva 
riservato 
solo 
al 
giudice 
e precluso all’Amministrazione. 
2. 
Per 
ottenere 
la 
riforma 
di 
detta 
sentenza 
ha 
proposto 
appello 
il 
Comune 
di 
Lecce, 
con 
ricorso 
allibrato, presso la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con il numero di r.g. 1975/2021. 
3. Si è costituito in giudizio per resistere al ricorso l’originario ricorrente. 
4. Si 
è 
costituita 
in giudizio, al 
fine 
di 
sostenere 
le 
ragioni 
del 
ricorrente, chiedendo, quindi, 
il 
rigetto 
dell’appello, 
la 
Federazione 
imprese 
demaniali, 
già 
interveniente 
ad 
adiuvandum 
nel giudizio di primo grado. 
5. Con decreto n. 160 del 
2021, il 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato, rilevato che 
la 
questione 
oggetto del 
ricorso riveste 
una 
particolare 
rilevanza 
economico-sociale 
che 
rende 
opportuna 
una 
pronuncia 
della 
Adunanza 
plenaria, 
onde 
assicurare 
certezza 
e 
uniformità 
di 
applicazione 
del 
diritto da 
parte 
delle 
amministrazioni 
interessate 
nonché 
uniformità 
di 
orientamenti 
giurisprudenziali, 
ha 
deferito 
d’ufficio 
l’affare 
all’Adunanza 
plenaria, 
ai 
sensi 
dell’art. 
99, 
comma 
2, c.p.a., rimettendo, in particolare, le seguenti questioni di diritto: 
1) se 
sia 
doverosa, o no, la 
disapplicazione, da 
parte 
della 
repubblica 
Italiana, delle 
leggi 
statali 
o regionali 
che 
prevedano proroghe 
automatiche 
e 
generalizzate 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
finalità 
turistico-ricreative; 
in 
particolare, 
se, 
per 
l’apparato 
amministrativo 
e 
per i 
funzionari 
dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di 
disapplicare 
la 
norma 
nazionale 
confliggente 
col 
diritto 
dell’Unione 
europea 
e 
se 
detto 
obbligo, 
qualora 
sussistente, 
si 
estenda 
a 
tutte 
le 
articolazioni 
dello Stato membro, compresi 
gli 
enti 
territoriali, gli 
enti 
pubblici 
in genere 
e 
i 
soggetti 
ad essi 
equiparati, nonché 
se, nel 
caso di 
direttiva 
self-excuting, 
l’attività 
interpretativa 
prodromica 
al 
rilievo 
del 
conflitto 
e 
all‘accertamento 
dell’efficacia 
della 
fonte 
sia 
riservata 
unicamente 
agli 
organi 
della 
giurisdizione 
nazionale 
o spetti 
anche 
agli organi di amministrazione attiva; 
2) nel 
caso di 
risposta 
affermativa 
al 
precedente 
quesito, se, in adempimento del 
predetto obbligo 
disapplicativo, l’amministrazione 
dello Stato membro sia 
tenuta 
all’annullamento d’ufficio 
del 
provvedimento 
emanato 
in 
contrasto 
con 
la 
normativa 
dell’Unione 
europea 
o, 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


comunque, al 
suo riesame 
ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
dell’art. 21-octies 
della 
legge 
n. 241 del 
1990 e 
s.m.i., nonché 
se, e 
in quali 
casi, la 
circostanza 
che 
sul 
provvedimento sia 
intervenuto 
un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio. 


3) se, con riferimento alla 
moratoria 
introdotta 
dall’art. 182, comma 
2, del 
decreto-legge 
19 
maggio 
2020, 
n. 
34, 
come 
modificato 
dalla 
legge 
di 
conversione 
17 
luglio 
2020, 
n. 
77, 
qualora 
la 
predetta 
moratoria 
non risulti 
inapplicabile 
per contrasto col 
diritto dell’Unione 
europea, 
debbano 
intendersi 
quali 
«aree 
oggetto 
di 
concessione 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
di 
conversione 
del 
presente 
decreto» 
anche 
le 
aree 
soggette 
a 
concessione 
scaduta 
al 
momento 
dell’entrata 
in vigore 
della 
moratoria, ma 
il 
cui 
termine 
rientri 
nel 
disposto dell’art. 1, commi 
682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145. 
6. nella 
fase 
di 
giudizio dinnanzi 
all’Adunanza 
plenaria 
sono intervenuti 
ad opponendum, a 
sostegno delle 
ragioni 
dell’originario ricorrente 
davanti 
al 
T.a.r. Lecce 
(parte 
qui 
appellata), 
alcune 
associazioni 
di 
categoria 
(il 
Sindacato 
italiano 
balneari 
(SIB), 
l’Associazione 
nazionale 
approdi 
e 
porti 
turistici, 
l’Associazione 
CnA 
Balneatori 
Puglia 
e 
Lidi 
del 
Salento, 
il 
Comitato 
coordinamento concessionari 
demaniali 
pertinenziali 
italiani), alcuni 
enti 
territoriali 
(la 
regione 
Abruzzo e 
il 
Comune 
di 
Castrignano del 
Capo), nonché 
alcuni 
soggetti 
privati 
(indicati 
in epigrafe) titolari di concessione demaniale marittima. 
7. Il 
Comune 
di 
Lecce 
ha 
eccepito l’inammissibilità 
di 
tutti 
gli 
interventi 
e, con specifico motivo 
di 
appello, ha 
gravato la 
sentenza 
di 
primo grado anche 
nella 
parte 
in cui 
aveva 
ritenuto 
ammissibile l’intervento spiegato in primo grado dalla Federazione imprese demaniali. 
8. Alla pubblica udienza del 20 ottobre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. 
9. 
occorre, 
in 
via 
pregiudiziale, 
esaminare 
la 
questione, 
sulla 
quale 
le 
parti 
si 
sono 
confrontate 
anche 
nel 
corso dell’udienza 
pubblica 
del 
20 ottobre 
2021, relativa 
all’ammissibilità 
degli 
interventi, 
sia 
di 
quelli 
svolti 
direttamente 
innanzi 
all’Adunanza 
plenaria, sia 
di 
quello svolto 
in primo grado dalla 
Federazione 
imprese 
demaniali, atteso che 
il 
capo di 
sentenza 
che 
ha 
ritenuto 
ammissibile detto intervento è stato specificamente gravato dal Comune di Lecce. 
10. Gli interventi sono tutti inammissibili. 
10.1. 
I 
concessionari 
demaniali 
e 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
intervenienti, 
sia 
pure 
con 
sfumature 
diverse, assumono di 
essere 
titolari 
di 
un interesse 
a 
partecipare 
alla 
sede 
giurisdizionale 
in cui 
si 
definisce 
la 
regola 
di 
diritto da 
applicare 
successivamente 
alla 
risoluzione 
della 
presente controversia. 
Tale 
interesse 
non 
è, 
tuttavia, 
di 
per 
sé 
in 
grado 
di 
legittimare 
l’intervento 
in 
giudizio 
del 
terzo. 
Invero, come 
ha 
affermato questa 
Adunanza 
plenaria 
nelle 
sentenze 
n. 23 del 
2016 e 
n. 10 del 
2020, 
non 
è 
sufficiente 
a 
consentire 
l’intervento 
la 
sola 
circostanza 
che 
l’interventore 
sia 
parte 
di 
un (altro) giudizio in cui 
venga 
in rilievo una 
quaestio iuris 
analoga 
a 
quella 
oggetto del 
giudizio nel quale intende intervenire. 
osta 
al 
riconoscimento di 
una 
situazione 
che 
lo legittimi 
a 
intervenire 
l’obiettiva 
diversità 
di 
petitum 
e 
di 
causa petendi 
che 
distingue 
i 
due 
processi, sì 
da 
non potersi 
configurare 
in capo 
al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem. 
Al 
contrario, laddove 
si 
ammettesse 
la 
possibilità 
di 
spiegare 
l’intervento volontario a 
fronte 
della 
sola 
analogia 
fra 
le 
quaestiones 
iuris 
controverse 
nei 
due 
giudizi, si 
finirebbe 
per introdurre 
nel 
processo 
amministrativo 
una 
nozione 
di 
interesse 
del 
tutto 
peculiare 
e 
svincolata 
dalla 
tipica 
valenza 
endoprocessuale 
connessa 
a 
tale 
nozione 
e 
potenzialmente 
foriera 
di 
iniziative 
anche 
emulative, 
scisse 
dall’oggetto 
specifico 
del 
giudizio 
cui 
l’intervento 
si 
riferisce. 
non 
a 
caso, 
in 
base 
a 
un 
orientamento 
del 
tutto 
consolidato, 
nel 
processo 
amministrativo 
l’intervento 
ad 
adiuvandum 
o 
ad 
opponendum 
può 
essere 
proposto 
solo 
da 
un 
soggetto 
ti

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


tolare 
di 
una 
posizione 
giuridica 
collegata 
o 
dipendente 
da 
quella 
del 
ricorrente 
in 
via 
principale 
(v. 
ex 
plurimis, 
sul 
punto, 
Cons. 
St., 
sez. 
Iv, 
29 
febbraio 
2016, 
n. 
853). 
Ed 
è 
appena 
il 
caso 
di 
ricordare, 
come 
ha 
già 
chiarito 
questa 
Adunanza 
nella 
sentenza 
n. 
23 
del 
2016, 
che 
risulterebbe 
peraltro 
sistematicamente 
incongruo 
ammettere 
l’intervento 
volontario 
in 
ipotesi, 
come 
quella 
qui 
esaminata, 
che 
si 
risolvessero 
nel 
demandare 
ad 
un 
giudice 
diverso 
da 
quello 
naturale 
(art. 
25, 
comma 
primo, 
Cost.) 
il 
compito 
di 
verificare 
in 
concreto 
l’effettività 
dell’interesse 
all’intervento 
(e, 
con 
essa, 
la 
concreta 
rilevanza 
della 
questione 
ai 
fini 
della 
definizione 
del 
giudizio 
a 
quo), 
in 
assenza 
di 
un 
adeguato 
quadro 
conoscitivo 
di 
carattere 
processuale, 
ove 
si 
pensi, 
solo 
a 
mo’ 
di 
esempio, 
alla 
necessaria 
verifica 
che 
il 
giudice 
ad 
quem 
sarebbe 
chiamato 
a 
svolgere, 
ai 
fini 
del 
richiamato 
giudizio 
di 
rilevanza, 
circa 
l’effettiva 
sussistenza 
in 
capo 
all’interveniente 
dei 
presupposti 
e 
delle 
condizioni 
per 
la 
proposizione 
del 
giudizio 
a 
quo. 


10.2. Considerazioni 
in parte 
analoghe 
valgono per l’intervento spiegato dalle 
associazioni 
di categoria. 
nel 
processo amministrativo la 
legittimazione 
attiva 
(e, dunque, l’intervento in giudizio) di 
associazioni 
rappresentative 
di 
interessi 
collettivi 
obbedisce 
a 
regole 
stringenti, essendo necessario 
che 
la 
questione 
dibattuta 
attenga 
in 
via 
immediata 
al 
perimetro 
delle 
finalità 
statutarie 
dell’associazione 
e, cioè, che 
la 
produzione 
degli 
effetti 
del 
provvedimento controverso si 
risolva 
in una 
lesione 
diretta 
del 
suo scopo istituzionale, e 
non della 
mera 
sommatoria 
degli 
interessi 
imputabili ai singoli associati. 
resta 
quindi 
preclusa 
ogni 
iniziativa 
giurisdizionale 
che 
non si 
riverberi 
sugli 
interessi 
istituzionalmente 
perseguiti 
dall’associazione, sorretta 
dal 
solo interesse 
al 
corretto esercizio dei 
poteri 
amministrativi 
o per mere 
finalità 
di 
giustizia, finalizzate 
esclusivamente 
alla 
tutela 
di 
singoli 
iscritti, atteso che 
l’interesse 
collettivo dell’associazione 
deve 
identificarsi 
con l’interesse 
di 
tutti 
gli 
appartenenti 
alla 
categoria 
unitariamente 
considerata 
e 
non con la 
mera 
sommatoria 
degli 
interessi 
imputabili 
ai 
singoli 
associati. 
Per 
autorizzare 
l’intervento 
di 
un’associazione 
esponenziale 
di 
interessi 
collettivi 
occorre, quindi, un interesse 
concreto ed 
attuale 
(imputabile 
alla 
stessa 
associazione) 
alla 
rimozione 
degli 
effetti 
pregiudizievoli 
prodotti 
dal provvedimento controverso. 
nel 
caso di 
specie, il 
provvedimento impugnato (che 
si 
traduce 
nel 
diniego di 
proroga 
di 
una 
singola 
concessione 
demaniale) lede 
esclusivamente 
l’interesse 
del 
singolo, senza 
impingere 
in via 
immediata 
sulla 
finalità 
istituzionale 
delle 
associazioni. né, per le 
ragioni 
già 
esposte, 
a 
giustificare 
l’intervento 
può 
rilevare 
la 
circostanza 
che 
la 
risoluzione 
delle 
questioni 
di 
diritto 
sottese 
al 
caso 
del 
singolo 
associato 
possa 
avere, 
specie 
per 
la 
valenza 
nomofilattica 
della 
pronuncia 
resa 
da 
questa 
Adunanza 
plenaria, una 
rilevanza 
anche 
sulla 
posizione 
di 
altri 
concessionari. 
La 
soluzione 
delle 
quaestiones 
iuris 
deferite 
a 
questa 
Adunanza 
plenaria 
non 
incide 
in via 
diretta 
ed immediata 
sugli 
interessi 
istituzionalmente 
rappresentati, ma 
produce 
effetti 
non attuali 
e 
meramente 
eventuali 
sulla 
sfera 
giuridica 
dei 
concessionari, il 
che 
non può ritenersi 
sufficiente 
a 
radicare 
la 
legittimazione 
all’intervento, 
che, 
come 
si 
è 
detto, 
non 
può 
essere 
sorretto dalla 
necessità 
di 
sostenere 
una 
tesi 
di 
diritto e, quindi, da 
mere 
ed astratte 
finalità 
di 
giustizia (cfr. Ad. Plen. n. 9 del 2015). 
10.3. Alla 
stregua 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, gli 
interventi 
in questione 
vanno giudicati 
inammissibili e le relative parti estromesse dal giudizio. 
11. 
La 
risoluzione 
delle 
questioni 
sottoposte 
dall’Adunanza 
plenaria 
richiede 
in 
via 
preliminare 
l’esame 
del 
regime 
normativo 
cui 
è 
sottoposto 
il 
rilascio 
e 
il 
rinnovo 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
con 
finalità 
turistico-ricreative, 
al 
fine 
di 
vagliare 
la 
sussistenza 
di 
eventuali 
profili 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


di 
contrasto 
della 
legge 
nazionale 
(in 
particolare 
l’art. 
1, 
commi 
682 
e 
683, 
legge 
n. 
145 
del 
2018, 
che 
dispone 
la 
proroga 
automatica 
e 
generalizzata 
fino 
al 
31 
dicembre 
2033 
delle 
concessioni 
demaniali 
in 
essere) 
con 
norme 
dell’Unione 
europea 
direttamente 
applicabili. 


12. 
La 
questione 
è 
stata 
già 
in 
gran 
parte 
scandagliata 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
U.E., 
con 
la 
sentenza 
14 luglio 2016, in cause 
riunite 
C-458/14 e 
C-67/15, Promoimpresa, la 
quale 
ha 
affermato, 
in 
sintesi, 
i 
seguenti 
principi: 
a) 
l’articolo 
12, 
paragrafi 
1 
e 
2, 
della 
direttiva 
2006/123/CE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
12 dicembre 
2006, relativa 
ai 
servizi 
nel 
mercato 
interno, deve 
essere 
interpretato nel 
senso che 
essa 
osta 
a 
una 
misura 
nazionale, come 
quella 
di 
cui 
ai 
procedimenti 
principali, che 
prevede 
la 
proroga 
automatica 
delle 
autorizzazioni 
demaniali 
marittime 
e 
lacuali 
in 
essere 
per 
attività 
turistico‑ricreative, 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
procedura 
di 
selezione 
tra 
i 
potenziali 
candidati; 
2) 
l’articolo 
49 
TFUE 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso che 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale, come 
quella 
di 
cui 
ai 
procedimenti 
principali, 
che 
consente 
una 
proroga 
automatica 
delle 
concessioni 
demaniali 
pubbliche 
in essere 
per attività 
turistico‑ricreative, nei 
limiti 
in cui 
tali 
concessioni 
presentano un interesse 
transfrontaliero 
certo. 
13. Anche 
dopo la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia, nonostante 
essa 
sia 
stata 
recepita 
da 
una 
copiosa 
giurisprudenza 
nazionale, il 
dibattito sulla 
compatibilità 
comunitaria 
della 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
ex 
lege 
è 
continuato, 
soprattutto 
in 
ambito 
dottrinale. 
Da 
più 
parti, 
invero, 
si 
è 
negato 
che 
il 
diritto 
dell’Unione 
imponga 
l’obbligo 
di 
evidenza 
pubblica 
per il 
rilascio delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
con finalità 
turistico-ricreative. In questa 
prospettiva, si 
è 
apertamente 
contestata 
l’applicabilità 
sia 
dei 
principi 
generali 
a 
tutela 
della 
concorrenza desumibili dall’art. 49 TFUE, sia dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. 
13.1. L’applicabilità 
dell’art. 49 TFUE 
è 
stata 
messa 
in discussione 
ritenendo mancante 
nel 
caso di 
specie 
il 
requisito dell’interesse 
transfrontaliero certo, il 
cui 
accertamento è 
stato rimesso 
dalla Corte di giustizia alla valutazione del giudice nazionale. 
13.2. rispetto all’applicazione 
dell’art. 12 della 
direttiva 
2006/123/CE 
sono stati 
mossi 
due 
ordini 
di 
obiezioni: 
il 
primo 
volto 
a 
sostenere 
l’assenza 
della 
risorsa 
naturale 
scarsa 
(requisito 
la 
cui 
sussistenza 
la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
demandato 
al 
giudice 
nazionale); 
il 
secondo, 
che 
entra 
in 
contrasto 
frontale 
con 
la 
sentenza 
del 
giudice 
europeo, 
volto 
radicalmente 
ad 
escludere 
la 
possibilità 
di 
far 
rientrare 
le 
concessioni 
demaniali 
marittime 
con 
finalità 
turistico-ricreative 
nella 
nozione 
di 
autorizzazione 
di 
servizi 
e, 
quindi, 
nel 
campo 
di 
applicazione 
dell’art. 
12 
della citata direttiva. 
14. L’Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che 
tali 
obiezioni 
non siano condivisibili 
e 
che 
debba 
essere 
ribadito il 
principio secondo cui 
il 
diritto dell’Unione 
impone 
che 
il 
rilascio o il 
rinnovo delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
(o lacuali 
o fluviali) avvenga 
all’esito di 
una 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica, con conseguente 
incompatibilità 
della 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga automatica 
ex lege 
fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere. 
Tale 
incompatibilità 
sussiste, per le 
ragioni 
che 
si 
esporranno, sia 
rispetto all’art. 49 TFUE, 
sia rispetto all’art. 12 della c.d. direttiva servizi. 
15. Per quanto riguarda 
l’applicabilità 
dell’art. 49 TFUE, la 
Corte 
di 
giustizia, sin dalla 
nota 
sentenza 
7 dicembre 
2000, causa 
C-324/98, Telaustria 
e 
Telefonadress, ha 
chiarito che 
qualsiasi 
atto 
dello 
Stato 
che 
stabilisce 
le 
condizioni 
alle 
quali 
è 
subordinata 
la 
prestazione 
di 
un’attività 
economica 
sia 
tenuto 
a 
rispettare 
i 
principi 
fondamentali 
del 
trattato 
e, 
in 
particolare, 
i 
principi 
di 
non 
discriminazione 
in 
base 
alla 
nazionalità 
e 
di 
parità 
di 
trattamento, 
nonché 
l’obbligo 
di 
trasparenza 
che 
ne 
deriva. 
Come 
detto 
in 
precedenza, 
nell’ottica 
della 
Corte 
detto 
obbligo 
di 
trasparenza 
impone 
all’autorità 
concedente 
di 
assicurare, 
a 
favore 
di 
ogni 
potenziale 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


offerente, 
un 
“adeguato 
livello 
di 
pubblicità” 
che 
consenta 
l’apertura 
del 
relativo 
mercato 
alla 
concorrenza, nonché 
il 
controllo sull’imparzialità 
delle 
relative 
procedure 
di 
aggiudicazione. 
La 
Corte 
ha 
inizialmente 
elaborato 
tale 
giurisprudenza 
per 
disciplinare 
quelle 
commesse 
pubbliche 
che, 
per 
la 
loro 
natura 
giuridica 
o 
per 
le 
loro 
ridotte 
dimensioni, 
sono 
sottratte 
alle 
regole della concorrenza previste dalla normativa europea in tema di appalti pubblici. 
Si 
può, peraltro, ritenere 
che 
le 
ragioni 
di 
fondo alla 
base 
di 
tale 
giurisprudenza 
giustifichino 
-come, 
del 
resto, 
chiaramente 
confermato 
dalla 
sentenza 
Promoimpresa 
del 
2016 
-la 
loro 
applicazione 
ad 
ogni 
fattispecie 
(anche 
non 
avente 
carattere 
puramente 
negoziale 
per 
il 
diritto 
interno) che 
dia 
luogo a 
prestazione 
di 
attività 
economiche 
o che 
comunque 
costituisca 
condizione 
per l’esercizio di dette attività. 
Più precisamente, secondo questa 
giurisprudenza, quando sia 
accertato che 
un contratto (di 
concessione 
o 
di 
appalto), 
pur 
se 
si 
colloca 
al 
di 
fuori 
del 
campo 
di 
applicazione 
delle 
direttive, 
presenta 
un 
interesse 
transfrontaliero 
certo, 
l’affidamento, 
in 
mancanza 
di 
qualsiasi 
trasparenza, 
di 
tale 
contratto ad un’impresa 
con sede 
nello Stato membro dell’amministrazione 
aggiudicatrice 
costituisce 
una 
disparità 
di 
trattamento a 
danno di 
imprese 
con sede 
in un altro 
Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto. 
L’interesse 
transfrontaliero certo consiste 
nella 
capacità 
di 
una 
commessa 
pubblica 
o, più in 
generale, di 
un’opportunità 
di 
guadagno offerta 
dall’Amministrazione 
anche 
attraverso il 
rilascio 
di 
provvedimenti 
che 
non portano alla 
conclusione 
di 
un contratto di 
appalto o di 
concessione, 
di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri. 
La 
Corte 
di 
giustizia, 
nella 
sua 
giurisprudenza, 
se 
ne 
è 
occupata 
soprattutto 
in 
materia 
di 
appalti 
di lavori di importo inferiore alla 
soglia 
comunitaria, elaborando alcuni 
indici identificativi. 
Per la 
Corte 
di 
giustizia, “spetta in linea di 
principio all’amministrazione 
aggiudicatrice 
interessata valutare, prima di 
definire 
le 
condizioni 
del 
bando di 
appalto, l’eventuale 
interesse 
transfrontaliero di 
un appalto il 
cui 
valore 
stimato è 
inferiore 
alla soglia prevista 
dalle 
norme 
comunitarie, fermo restando che 
tale 
valutazione 
può essere 
oggetto di 
controllo 
giurisdizionale” 
(Corte 
di 
giustizia, 
15 
maggio 
2008, 
C. 
147/06). 
Tuttavia, 
prosegue 
la 
Corte, 
“una normativa può certamente 
stabilire, a livello nazionale 
o locale, criteri 
oggettivi 
che 
indichino 
l’esistenza 
di 
un 
interesse 
transfrontaliero 
certo. 
Tali 
criteri 
potrebbero 
sostanziarsi, 
in particolare, nell’importo di 
una certa consistenza dell’appalto in questione, in combinazione 
con il 
luogo di 
esecuzione 
dei 
lavori. Si 
potrebbe 
altresì 
escludere 
l’esistenza di 
un tale 
interesse 
nel 
caso, 
ad 
esempio, 
di 
un 
valore 
economico 
molto 
limitato 
dell’appalto 
in 
questione 
(v., in tal 
senso, sentenza 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 
20). È 
tuttavia necessario tenere 
conto del 
fatto che, in alcuni 
casi, le 
frontiere 
attraversano 
centri 
urbani 
situati 
sul 
territorio di 
Stati 
membri 
diversi 
e 
che, in tali 
circostanze, anche 
appalti 
di 
valore 
esiguo possono presentare 
un interesse 
transfrontaliero certo” 
(ancora 
Corte 
di giustizia, 15 maggio 2008, C. 147/06). 
In particolare, sempre 
con riferimento agli 
appalti, la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
affermato che 
tali 
criteri 
oggettivi 
potrebbero identificarsi 
“nell’importo di 
una certa consistenza dell’appalto 
in questione, in combinazione 
con il 
luogo di 
esecuzione 
dei 
lavori 
o, ancora, nelle 
caratteristiche 
tecniche 
dell’appalto e 
nelle 
caratteristiche 
specifiche 
dei 
prodotti 
in causa. A 
tal 
riguardo, 
si 
può altresì 
tenere 
conto dell’esistenza di 
denunce 
presentate 
da operatori 
ubicati 
in altri 
Stati 
membri, purché 
sia accertato che 
queste 
ultime 
sono reali 
e 
non fittizie” 
(Corte 
di giustizia, 6 ottobre 2016, n. 318). 


16. Con riferimento al 
“mercato” 
delle 
concessioni 
demaniali 
con finalità 
turistico-ricreative, 
tali 
criteri 
devono 
evidentemente 
essere 
“adattati”, 
tenendo 
conto 
della 
particolarità 
del 
settore 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


di 
mercato che 
viene 
in considerazione. Qui 
non si 
stratta, infatti, di 
un appalto “isolato”, da 
eseguirsi 
una 
tantum, 
rispetto 
al 
quale 
l’esiguo 
valore 
economico, 
la 
specialità, 
sotto 
il 
profilo 
tecnico, 
delle 
prestazioni 
richieste 
e 
anche 
l’ubicazione 
(lontana 
dai 
confini) 
della 
prestazione 
potrebbero scoraggiare 
o rendere 
comunque 
scarsamente 
probabile 
la 
partecipazione 
di 
operatori 
economici 
di 
altri 
Stati 
membri. nel 
caso delle 
concessioni 
demaniali 
con finalità 
turistico-
ricreative 
a 
venire 
in considerazione 
come 
strumento di 
guadagno offerto dalla 
p.a. non 
è 
il 
prezzo 
di 
una 
prestazione 
né 
il 
diritto 
di 
sfruttare 
economicamente 
un 
singolo 
servizio 
avente 
rilevanza 
economica. 
Al 
contrario 
degli 
appalti 
o 
delle 
concessioni 
di 
sevizi, 
la 
p.a. 
mette 
a 
disposizione 
dei 
privati 
concessionari 
un complesso di 
beni 
demaniali 
che, valutati 
unitariamente 
e 
complessivamente, costituiscono uno dei 
patrimoni 
naturalistici 
(in termini 
di 
coste, laghi 
e 
fiumi 
e 
connesse 
aree 
marittime, lacuali 
o fluviali) più rinomati 
e 
attrattivi 
del 
mondo. Basti 
pensare 
che 
il 
giro d’affari 
stimato del 
settore 
si 
aggira 
intorno ai 
quindici 
miliardi 
di 
euro all’anno, a 
fronte 
dei 
quali 
l’ammontare 
dei 
canoni 
di 
concessione 
supera 
di 
poco i 
cento milioni 
di 
euro, il 
che 
rende 
evidente 
il 
potenziale 
maggior introito per le 
casse 
pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime. 
L’attrattiva 
economica 
è 
aumentata 
dall’ampia 
possibilità 
di 
ricorrere 
alla 
sub-concessione. 
A 
tal 
proposito, l’articolo 45-bis 
cod. nav. consente 
al 
concessionario, previa 
autorizzazione 
dell’autorità 
competente, 
di 
affidare 
ad 
altri 
soggetti 
la 
gestione 
delle 
attività 
oggetto 
della 
concessione 
(o di 
attività 
secondarie 
nell’ambito della 
concessione 
stessa). L’attuale 
formulazione 
della 
norma 
è 
il 
risultato 
della 
modifica 
disposta 
dall’articolo 
10, 
comma 
2, 
della 
legge 
16 marzo 2001, n. 18, che 
ha 
soppresso le 
parole 
“in casi 
eccezionali 
e 
per periodi 
determinati”, 
rendendo 
possibile 
il 
ricorso 
alla 
sub-concessione 
in 
via 
generalizzata 
e 
senza 
limiti 
temporali. 
È 
allora 
evidente 
che, a 
causa 
del 
ridotto canone 
versato all’Amministrazione 
concedente, il 
concessionario 
ha 
già 
la 
possibilità 
di 
ricavare, 
tramite 
una 
semplice 
sub-concessione, 
un 
prezzo 
più 
elevato 
rispetto 
al 
canone 
concessorio, 
che 
riflette 
il 
reale 
valore 
economico 
e 
l’effettiva 
valenza turistica del bene. 
Già 
queste 
considerazioni 
traducono in termini 
economici 
un dato di 
oggettiva 
e 
comune 
evidenza, 
legata 
alla 
eccezionale 
capacità 
attrattiva 
che 
da 
sempre 
esercita 
il 
patrimonio costiero 
nazionale, il 
quale 
per conformazione, ubicazione 
geografica, condizioni 
climatiche 
e 
vocazione 
turistica 
è 
certamente 
oggetto 
di 
interesse 
transfrontaliero, 
esercitando 
una 
indiscutibile 
capacità attrattiva verso le imprese di altri Stati membri. 
Pensare 
che 
questo 
settore, 
così 
nevralgico 
per 
l’economia 
del 
Paese, 
possa 
essere 
tenuto 
al 
riparo 
dalle 
regole 
delle 
concorrenza 
e 
dell’evidenza 
pubblica, 
sottraendo 
al 
mercato 
e 
alla 
libera 
competizione 
economica 
risorse 
naturali 
in 
grado 
di 
occasionare 
profitti 
ragguardevoli 
in 
capo 
ai 
singoli 
operatori 
economici, 
rappresenta 
una 
posizione 
insostenibile, 
non 
solo 
sul 
piano 
costituzionale 
nazionale 
(dove 
pure 
è 
chiara 
la 
violazione 
dei 
principi 
di 
libera 
iniziativa 
economica 
e 
di 
ragionevolezza 
derivanti 
da 
una 
proroga 
generalizzata 
e 
automatica 
delle 
concessioni 
demaniali), 
ma, 
soprattutto 
e 
ancor 
prima, 
per 
quello 
che 
più 
ci 
interessa 
ai 
fini 
del 
presente 
giudizio, 
rispetto 
ai 
principi 
europei 
a 
tutela 
della 
concorrenza 
e 
della 
libera 
circolazione. 
né 
si 
può 
sminuire 
l’importanza 
e 
la 
potenzialità 
economica 
del 
patrimonio 
costiero 
nazionale 
attraverso 
un 
artificioso 
frazionamento 
del 
medesimo, 
nel 
tentativo 
di 
valutare 
l’interesse 
transfrontaliero 
rispetto alle 
singole 
aree 
demaniali 
date 
in concessione. Una 
simile 
parcellizzazione, 
oltre 
a 
snaturare 
l’indiscutibile 
unitarietà 
del 
settore, si 
porrebbe 
in contrasto, peraltro, 
con 
le 
stesse 
previsioni 
legislative 
nazionali 
(che, 
quando 
hanno 
previsto 
le 
proroghe, 
lo 
hanno 
sempre 
fatto indistintamente 
e 
per tutti, non con riferimento alle 
singole 
concessioni 
all’esito 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


di 
una 
valutazione 
caso 
per 
caso) 
e, 
soprattutto, 
darebbe 
luogo 
ad 
ingiustificabili 
ed 
apodittiche 
disparità 
di 
trattamento, consentendo solo per alcuni 
(e 
non per altri) la 
sopravvivenza 
del 
regime 
della 
proroga 
ex 
lege. non vi 
è 
dubbio, al 
contrario, che 
le 
spiagge 
italiane 
(così 
come 
le 
aree 
lacuali 
e 
fluviali) per conformazione, ubicazione 
geografica 
e 
attrazione 
turistica 
presentino 
tutte 
e 
nel 
loro insieme 
un interesse 
transfrontaliero certo, il 
che 
implica 
che 
la 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
automatica 
e 
generalizzata 
si 
pone 
in contrasto con gli 
articoli 
49 e 
56 del 
TFUE, in quanto è suscettibile 
di 
limitare 
ingiustificatamente 
la 
libertà di 
stabilimento e 
la 
libera 
circolazione 
dei 
servizi 
nel 
mercato interno, a 
maggior ragione 
in un 
contesto 
di 
mercato 
nel 
quale 
le 
dinamiche 
concorrenziali 
sono 
già 
particolarmente 
affievolite 
a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere. 


17. 
L’obbligo 
di 
evidenza 
pubblica 
discende, 
comunque, 
dall’applicazione 
dell’art. 
12 
della 
c.d. 
direttiva 
2006/123, 
che 
prescinde 
dal 
requisito 
dell’interesse 
transfrontaliero 
certo, 
atteso 
che 
la 
Corte 
di 
giustizia 
si 
è 
espressamente 
pronunciata 
sul 
punto 
ritenendo 
che 
“l’interpretazione 
in 
base 
alla 
quale 
le 
disposizioni 
del 
capo 
III 
della 
direttiva 
2006/123 
si 
applicano 
non 
solo 
al 
prestatore 
che 
intende 
stabilirsi 
in 
un 
altro 
Stato 
membro, 
ma 
anche 
a 
quello 
che 
intende 
stabilirsi 
nel 
proprio 
Stato 
membro 
è 
conforme 
agli 
scopi 
perseguiti 
dalla 
suddetta 
direttiva” 
(Corte 
di 
giustizia, 
Grande 
Sezione, 
30 
gennaio 
2018, 
C360/15 
e 
C31/16, 
punto 
103). 
18. 
Devono, 
a 
tal 
proposito, 
essere 
fugati 
i 
dubbi 
relativi 
alla 
possibilità 
di 
far 
rientrare 
le 
concessioni 
demaniali 
con finalità 
turistico-ricreative 
nel 
campo di 
applicazione 
della 
direttiva 
in questione 
e, più in generale, i 
dubbi 
in merito alla 
stessa 
possibilità 
di 
ritenere 
la 
direttiva 
immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto del presente giudizio. 
In 
tal 
senso, 
già 
la 
Corte 
di 
giustizia 
con 
la 
sentenza 
Promoimpresa 
del 
2016 
si 
è 
espressa 
chiaramente, 
demandando 
al 
giudice 
nazionale 
solo 
il 
compito 
di 
accertare 
il 
requisito 
della 
scarsità 
della 
risorsa 
naturale. 
Tuttavia, 
come 
si 
è 
accennato, 
le 
conclusioni 
cui 
è 
giunta 
nel 
2016 
la 
Corte 
di 
giustizia 
sono 
state, 
specie 
nell’ambito 
del 
dibattito 
dottrinale, 
oggetto 
di 
tentativi 
di 
confutazione 
e 
molti 
di 
quegli 
argomenti 
critici 
sono 
stati 
ripresi 
dall’appellante 
nel 
presente 
giudizio. 
19. I principali 
argomenti 
contrari 
all’applicazione 
della 
direttiva 
2006/123 alle 
concessioni 
demaniali 
con 
finalità 
turistico-ricreative 
possono 
essere 
sintetizzati 
nei 
termini 
che 
seguono. 
I) 
nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
con 
finalità 
turistico-ricreative, 
le 
notevoli 
differenze 
esistenti 
fra 
le 
legislazioni 
degli 
Stati 
membri 
(in 
particolare 
quelli 
più 
direttamente 
interessati 
ossia, 
oltre 
all’Italia, 
Spagna, 
Portogallo, 
Francia, 
Grecia 
e 
Croazia) 
avrebbe 
richiesto 
una 
preventiva 
armonizzazione 
delle 
normative 
nazionali 
applicabili 
in 
tale 
settore. 
Presupponendo 
(e 
implicando) tale 
preventiva 
armonizzazione, la 
direttiva 
2006/123 avrebbe 
dovuto essere 
fondata, 
oltre 
che 
sugli 
articoli 
del 
Trattato 
relativi 
alla 
libertà 
di 
stabilimento 
e 
alla 
libera 
circolazione 
dei 
servizi 
(artt. 47, paragrafo 2 del 
Trattato sulle 
Comunità 
europee, ora, rispettivamente, 
artt. 
53 
e 
63 
TFUE) 
anche 
su 
un’altra 
base 
giuridica, 
vale 
a 
dire 
sull’art. 
94 
del 
Trattato sulle 
Comunità 
europee 
(ora 
art. 115 TFUE) che 
prevede 
il 
ricorso all’unanimità 
per 
l’adozione 
di 
atti 
normativi 
aventi 
come 
obiettivo 
l’armonizzazione 
delle 
legislazioni 
nazionali 
(mentre la direttiva 2006/123 è stata approvata a maggioranza). 
II) La 
direttiva 
2006/123, se 
applicata 
alle 
concessioni 
demaniali 
con finalità 
turistico-ricreativa, 
comporterebbe 
un’armonizzazione 
delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
degli 
Stati 
membri 
in 
materia 
di 
turismo, 
ponendosi 
così 
in 
contrasto 
con 
quanto 
oggi 
prevede 
l’art. 
195 TFUE, secondo il 
quale, in materia 
di 
turismo, l’Unione 
europea 
si 
limita 
soltanto ad una 
politica 
di 
accompagnamento, 
con 
esclusione 
di 
“qualsiasi 
armonizzazione 
delle 
disposizioni 
legislative e regolamentari degli Stati membri”. 
III) La 
concessione 
di 
beni 
demaniali 
non rientrerebbe 
comunque 
nella 
nozione 
di 
autorizza

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


zione 
di 
servizi 
ai 
sensi 
dell’art. 12 della 
direttiva 
2006/123. La 
concessione 
del 
demanio marittimo 
-si 
osserva 
-è 
un atto che 
permette 
soltanto l’occupazione 
del 
bene 
di 
proprietà 
pubblica 
per 
uso 
turistico 
e 
ricreativo, 
ma 
non 
autorizza 
l’attività 
di 
servizio 
prestata 
dall’impresa 
turistico balneare. È 
vero che 
lo stabilimento balneare 
è 
di 
norma 
esercitato su suolo demaniale; 
nulla, 
tuttavia, 
toglierebbe, 
all’attività 
di 
servizio, 
il 
carattere 
suo 
proprio, 
se 
anche 
fosse 
esercitata 
su suolo di 
proprietà 
privata. Ma 
soprattutto non è 
vero il 
contrario, e 
cioè 
che 
la 
concessione 
demaniale 
riguardi 
necessariamente 
attività 
di 
stabilimento 
balneare 
(o 
di 
impresa 
turistica). In astratto, la 
concessione 
può essere 
richiesta 
e 
finanche 
preferita 
malgrado abbia 
ad oggetto attività 
non corrispondenti 
a 
prestazioni 
di 
servizi; 
e 
non perde 
in questo caso alcuno 
dei 
suoi 
connotati 
tipici. 
In 
senso 
giuridico, 
gli 
oggetti 
dei 
due 
provvedimenti 
permissivi 


-concessione 
demaniale 
e 
autorizzazione 
alla 
prestazione 
del 
servizio -corrono, quindi, su 
binari 
paralleli 
e 
non si 
confondono, con conseguente 
estraneità 
della 
concessione 
demaniale 
al campo applicativo dell’art. 12 della direttiva 2006/123. 
In tale 
direzione 
viene 
spesso richiamata 
anche 
la 
sentenza 
del 
Tribunal 
Costitucional 
spagnolo 
n. 223/2015, che, proprio su queste 
basi, ha 
escluso che 
la 
direttiva 
stessa 
si 
applichi 
al 
caso di 
concessione 
demaniale, ritenendo, appunto che 
la 
concessione 
“si 
configura 
come 
titolo 
di 
occupazione 
di 
demanio pubblico, non come 
misura 
di 
intervento secondo le 
leggi 
di 
settore 
che 
ricadono sull’attività 
[...]. Sarà 
quindi 
questa 
normativa 
di 
settore 
a 
disciplinare 
le 
attività di impresa di cui la concessione pubblica risulta essere solo il supporto fisico”. 
Iv) Le 
aree 
demaniali 
marittime, fluviali 
o lacuali 
non potrebbero in ogni 
caso considerarsi 
risorse 
scarse: 
mancherebbe, 
quindi, 
anche 
in 
fatto, 
il 
presupposto 
per 
applicare 
la 
norma 
della 
direttiva servizi. 
v) Si 
osserva, infine, che 
in ogni 
caso la 
direttiva 
2006/123 e, in particolare, la 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 12 sarebbe 
priva 
di 
quel 
livello di 
dettaglio e 
di 
specificità 
necessario ai 
fini 
della 
diretta 
applicabilità, in assenza 
di 
un puntuale 
recepimento da 
parte 
del 
legislatore 
nazionale. non si tratterebbe, in altri termini, di una direttiva 
self-executing. 
20. Ad avviso dell’Adunanza 
plenaria, nessuno di 
tali 
argomenti 
risulta 
meritevole 
di 
condivisione. 
21. 
occorre, 
anzitutto, 
evidenziare 
che 
la 
direttiva 
2006/123 
deve 
essere 
considerata 
una 
direttiva 
di 
liberalizzazione, 
nel 
senso 
che 
è 
tesa 
ad 
eliminare 
gli 
ostacoli 
alla 
libertà 
di 
stabilimento 
e 
di 
servizio, 
garantendo 
l’implementazione 
del 
mercato 
interno 
e 
del 
principio 
concorrenziale 
ad 
esso 
sotteso: 
“fissa 
disposizioni 
generali 
volte 
ad 
eliminare 
le 
restrizioni 
alla 
libertà 
di 
stabilimento 
dei 
prestatori 
di 
servizi 
negli 
Stati 
membri 
e 
alla 
libera 
circolazione 
dei 
servizi 
tra 
i 
medesimi, 
al 
fine 
di 
contribuire 
alla 
realizzazione 
di 
un 
mercato 
interno 
dei 
servizi 
libero 
e 
concorrenziale” 
(Corte 
di 
giustizia, 
Grande 
Sezione, 
30 
gennaio 
2018, 
C360/15 
e 
C31/16, 
punto 
104). 
Come 
emerge 
per 
tabulas 
dal 
suo 
articolo 
1 
(ed 
è, 
peraltro, 
confermato 
dai 
suoi 
numerosi 
Considerando 
e 
dal 
dibattito politico che 
si 
è 
svolto nella 
lunga 
fase 
di 
gestazione 
che 
ne 
ha 
preceduto 
la 
definitiva 
approvazione), 
l’obiettivo 
è 
quello 
di 
“stabilire 
le 
disposizioni 
generali 
che 
permettono di 
agevolare 
l’esercizio della 
libertà 
di 
stabilimento dei 
prestatori 
nonché 
la 
libera 
circolazione 
dei 
servizi, assicurando nel 
contempo un elevato livello di 
qualità 
dei 
servizi 
stessi”. 
Ciò 
al 
fine, 
appunto, 
di 
rendere 
possibile 
l’attuazione 
della 
libera 
circolazione 
dei 
servizi 
nel 
mercato interno, sul 
presupposto che 
tale 
libertà 
(a 
differenza 
di 
quella 
delle 
persone, 
dei 
beni 
e 
dei 
capitali) non avesse 
ancora 
trovato piena 
attuazione 
nell’ambito del 
mercato 
interno 
a 
causa 
della 
presenza 
all’interno 
degli 
ordinamenti 
nazionali 
di 
centinaia 
di 
ostacoli amministrativi o misure protezionistiche camuffate e discriminanti. 
La 
base 
giuridica 
della 
direttiva, 
pertanto, 
va 
individuata 
nel 
Capo 
II 
e 
nel 
Capo 
Iv 
del 
TFUE. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


L’obiettivo della 
direttiva 
non era 
(e 
non è) quello di 
“armonizzare” 
le 
discipline 
nazionali 
che 
prevedono ostacoli 
alla 
libera 
circolazione, ma, appunto, di 
eliminare 
tali 
ostacoli 
(attraverso 
lo 
smantellamento, 
più 
che 
l’armonizzazione, 
delle 
leggi 
nazionali 
che 
ad 
essi 
forniscono 
una 
copertura 
normativa), 
al 
fine 
di 
realizzare 
un’effettiva 
concorrenza 
fra 
i 
prestatori 
dei 
servizi, 
restando fermo che 
il 
risultato finale 
di 
ogni 
direttiva 
(anche 
se 
di 
liberalizzazione) implica 
un’armonizzazione 
normativa, 
che, 
però, 
non 
è 
l’obiettivo 
primario 
della 
direttiva 
2006/123 e 
non può costituirne, pertanto, la 
base 
giuridica 
legittimante, come 
sostenuto da 
chi, invece, invoca la necessità di applicare la regola dell’unanimità in seno al Consiglio. 
In tale 
prospettiva 
la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
infatti 
affermato, proprio con riferimento alla 
direttiva 
2006/123, che 
“la piena realizzazione 
del 
mercato interno dei 
servizi 
richiede 
anzitutto 
che 
vengano 
soppressi 
gli 
ostacoli 
incontrati 
dai 
prestatori 
per 
stabilirsi 
negli 
Stati 
membri”, 
per poi 
richiamare 
il 
considerando 7 e 
l’obiettivo di 
implementare 
un quadro giuridico generale, 
formato da 
una 
combinazione 
di 
misure 
diverse 
destinate 
a 
garantire 
un grado elevato 
d’integrazione 
giuridica 
nell’Unione 
per 
mezzo, 
in 
particolare, 
di 
un’armonizzazione 
vertente 
su precisi 
aspetti 
della 
regolamentazione 
delle 
attività 
di 
servizio (Corte 
di 
giustizia, Grande 
Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punti 105 e 106). 
In base 
al 
Considerando 7 risulta 
evidente 
che 
la 
finalità 
di 
istituire 
un quadro giuridico generale 
a 
vantaggio 
di 
un’ampia 
varietà 
di 
servizi 
ha 
comportato, 
in 
via 
prioritaria 
e 
principale, 
l’eliminazione 
degli 
“ostacoli 
che 
possono essere 
rimossi 
rapidamente”, mentre, per quanto 
riguarda 
gli 
altri 
ostacoli, necessita 
di 
“avviare” 
un processo di 
valutazione, consultazione 
e 
armonizzazione 
“complementare” 
in merito a 
questioni 
specifiche 
grazie 
al 
quale 
sarà 
possibile 
modernizzare 
progressivamente 
ed in maniera 
coordinata 
i 
sistemi 
nazionali 
che 
disciplinano 
le attività di servizi. 
Considerato quindi 
l’obiettivo primario della 
direttiva 
2006/123, non viene 
in evidenza 
l’art. 
115 
TFUE 
(art. 
94 
del 
Trattato 
sulle 
Comunità 
europee), 
che 
prevede 
la 
deliberazione 
all’unanimità 
delle direttive di armonizzazione e coordinamento. 


22. 
Queste 
considerazioni 
valgono 
anche 
per 
gli 
articoli 
da 
9 
a 
13, 
che 
riguardano, 
nell’ambito 
di 
attività 
diverse, il 
rilascio di 
autorizzazioni 
da 
parte 
di 
pubbliche 
autorità 
e, in particolare, 
per l’art. 12, ai 
sensi 
del 
quale, “qualora il 
numero di 
autorizzazioni 
disponibili 
per 
una determinata 
attività 
sia 
limitato 
per 
via 
della 
scarsità 
delle 
risorse 
naturali 
o 
delle 
capacità 
tecniche 
utilizzabili, 
gli 
Stati 
membri 
applicano 
una 
procedura 
di 
selezione 
tra 
i 
candidati 
potenziali, che 
presenti 
garanzie 
di 
imparzialità e 
di 
trasparenza e 
preveda, in particolare, 
un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e 
del 
suo svolgimento e 
completamento”. 
23. Le 
considerazioni 
che 
precedono consentono di 
superare 
anche 
il 
secondo argomento che 
viene 
invocato contro l’applicazione 
della 
direttiva 
in materia 
di 
concessioni 
demaniali 
con 
finalità 
turistico-ricreative, 
ossia 
l’assenza 
di 
competenza 
dell’Unione 
europea 
ad 
adottare 
misure 
di 
armonizzazione 
in materia 
di 
turismo, alla 
luce 
dell’art. 195 TFUE. La 
circostanza 
già 
evidenziata 
che 
la 
direttiva 
2006/123 non possa 
considerarsi 
una 
direttiva 
di 
armonizzazione 
(essendo, piuttosto, una 
direttiva 
di 
liberalizzazione) dimostra, di 
per sé, l’infondatezza 
dell’assunto. 
Inoltre, l’art. 12 della 
direttiva 
2006/123, nella 
misura 
in cui 
pretende 
una 
procedura 
di 
gara 
trasparente 
ed imparziale 
per il 
rilascio di 
autorizzazioni 
in caso di 
scarsità 
delle 
risorse 
naturali 
o delle 
capacità 
tecniche 
utilizzabili, è 
norma 
volta 
a 
disciplinare 
il 
mercato interno in 
termini 
generali, applicandosi 
quindi 
a 
tutti 
i 
settori 
salvo quelli 
esclusi 
dall’ambito di 
applicabilità 
della 
medesima 
direttiva. In tale 
prospettiva 
deve 
essere 
letta 
la 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 2 comma 
2 della 
direttiva 
2006/123, dove 
si 
stabilisce 
che 
la 
direttiva 
non si 
applica 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


ai 
“servizi 
nel 
settore 
dei 
trasporti, ivi 
compresi 
i 
servizi 
portuali”, con la 
conseguente 
necessità, 
in 
sede 
di 
applicazione 
pratica 
della 
norma, 
di 
enucleare 
specificamente 
la 
nozione 
di 
“servizi 
portuali”, 
anche 
con 
riferimento 
al 
(diverso) 
concetto 
di 
porto 
(turistico) 
e 
all’oggetto 
della concessione demaniale. 
Del 
resto, la 
portata 
conformativa 
dell’art. 12 della 
direttiva 
2006/123 sulle 
concessioni 
demaniali 
con 
finalità 
turistico-ricreativa 
non 
si 
riverbera 
in 
modo 
diretto 
sulla 
politica 
nazionale 
in 
materia 
di 
turismo: 
il 
rilascio 
della 
concessione 
rappresenta, 
infatti, 
solo 
una 
precondizione 
per 
l’esercizio 
dell’impresa 
turistica 
(nella 
specie 
lo 
stabilimento 
balneare), 
la 
cui 
attività, 
successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva. 
La 
tutela 
della 
concorrenza 
(e 
l’obbligo di 
evidenza 
pubblica 
che 
esso implica) è, d’altronde, 
una 
“materia” 
trasversale, che 
attraversa 
anche 
quei 
settori 
in cui 
l’Unione 
europea 
è 
priva 
di 
ogni 
tipo 
di 
competenza 
o 
ha 
solo 
una 
competenza 
di 
“sostegno”: 
anche 
in 
tali 
settori, 
quando 
acquisiscono 
risorse 
strumentali 
all’esercizio 
delle 
relative 
attività 
(o 
quando 
concedono 
il 
diritto di 
sfruttare 
economicamente 
risorse 
naturali 
limitate), gli 
Stati 
membri 
sono tenuti 
all’obbligo 
della 
gara, che 
si 
pone 
a 
monte 
dell’attività 
poi 
svolta 
in quella 
materia. Altrimenti, 
si 
dovrebbe 
paradossalmente 
ritenere 
che 
anche 
le 
direttive 
comunitarie 
in materia 
di 
appalti 
e 
concessioni 
non potrebbero trovare 
applicazione 
ai 
contratti 
diretti 
a 
procurare 
risorse 
strumentali 
all’esercizio 
di 
attività 
riservate 
alla 
sovranità 
nazionale 
degli 
Stati. 
Ad 
esempio, 
oltre 
al 
turismo, competenze 
di 
mero sostegno dell’Unione 
europea 
sono previste 
in materia 
di 
sanità 
pubblica, istruzione, cultura 
e 
protezione 
civile, che 
sono tutti 
settori 
rispetto ai 
quali 
i 
contratti pubblici sono sottoposti all’obbligo di gara. 
Del 
resto, con specifico riferimento all’applicabilità 
della 
direttiva 
2006/123 al 
settore 
del 
turismo, 
la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
espressamente 
affermato 
che 
essa 
“si 
applica 
a 
numerose 
attività 
in 
costante 
evoluzione, 
tra 
le 
quali 
figurano 
i 
servizi 
collegati 
con 
il 
settore 
immobiliare, 
nonché 
quelli 
nel 
settore 
del 
turismo” 
(Corte 
di 
giustizia, Grande 
sezione, 22 settembre 
2020, C724/
2018 e C-727/2018, punto 35). 


24. 
non 
ha 
pregio 
neanche 
l’argomento 
volto 
a 
contestare 
la 
qualificazione 
della 
concessione 
demaniale 
con 
finalità 
turistico-ricreativa 
in 
termini 
di 
autorizzazione 
di 
servizi 
ai 
sensi 
dell’art. 
12 
della 
direttiva 
2006/123. 
Come 
si 
è 
visto, 
a 
sostegno 
di 
tale 
posizione 
si 
osserva, 
in 
sintesi, 
che 
la 
concessione 
attribuisce 
il 
bene 
(rectius, 
il 
diritto 
di 
sfruttarlo), 
ma 
non 
autorizza 
l’esercizio 
dell’attività 
e 
che 
le 
attività 
svolte 
dal 
concessionario 
non 
sono 
sempre 
attività 
di 
servizi. 
Tale 
impostazione 
risulta, tuttavia, meramente 
formalistica, perché 
valorizza 
la 
distinzione, 
propria 
del 
diritto 
nazionale, 
tra 
concessione 
di 
beni 
(come 
atto 
con 
effetti 
costitutivi/traslativi 
che 
attribuisce 
un diritto nuovo su un’area 
demaniale) e 
autorizzazione 
di 
attività 
(come 
atto 
che si limita a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente). 
Questa 
distinzione, 
di 
stampo 
giuridico-formale, 
deve 
essere 
rivisitata 
nell’ottica 
funzionale 
e 
pragmatica 
che 
caratterizza 
il 
diritto 
dell’Unione, 
che 
da 
tempo, 
proprio 
in 
materia 
di 
concessioni 
amministrative, 
ha 
dato 
impulso 
ad 
un 
processo 
di 
rilettura 
dell’istituto 
in 
chiave 
sostanzialistica, 
attenta, 
più 
che 
ai 
profili 
giuridico-formali, 
all’effetto 
economico 
del 
provvedimento 
di 
concessione, 
il 
quale, 
nella 
misura 
in 
cui 
si 
traduce 
nell’attribuzione 
del 
diritto 
di 
sfruttare 
in 
via 
esclusiva 
una 
risorsa 
naturale 
contingentata 
al 
fine 
di 
svolgere 
un’attività 
economica, 
diventa 
una 
fattispecie 
che, 
a 
prescindere 
dalla 
qualificazione 
giuridica 
che 
riceve 
nell’ambito 
dell’ordinamento 
nazionale, 
procura 
al 
titolare 
vantaggi 
economicamente 
rilevanti 
in 
grado 
di 
incidere 
sensibilmente 
sull’assetto 
concorrenziale 
del 
mercato 
e 
sulla 
libera 
circolazione 
dei 
servizi. 
Dall’art. 
4, 
punto 
1, 
della 
direttiva 
2006/123 
risulta 
che 
per 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


“servizio”, 
ai 
fini 
di 
tale 
direttiva, 
si 
intende 
qualsiasi 
attività 
economica 
non 
salariata 
di 
cui 
all’articolo 
57 
TFUE, 
fornita 
normalmente 
dietro 
retribuzione. 
In 
particolare, 
“un’attività 
di 
locazione 
di 
un 
bene 
immobile 
[…], 
esercitata 
da 
una 
persona 
giuridica 
o 
da 
una 
persona 
fisica 
a 
titolo 
individuale, 
rientra 
nella 
nozione 
di 
􀀀servizio􀀀, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
4, 
punto 
1, 
della 
direttiva 
2006/123” 
(Corte 
di 
giustizia, 
Grande 
sezione, 
22.9.2020, 
C724/
2018 
e 
C-727/2018, 
punto 
34). 
La 
stessa 
decisione 
della 
Commissione 
4 
dicembre 
2020 
relativa 
al 
regime 
di 
aiuti 
SA. 
38399 
2019/C (ex 2018/E) “Tassazione 
dei 
porti 
in Italia” 
contiene 
l’affermazione 
per cui 
“la locazione 
di 
proprietà 
demaniali 
dietro 
il 
pagamento 
di 
un 
corrispettivo 
costituisce 
un’attività 
economica”. 
È 
allora 
evidente 
che 
il 
provvedimento che 
riserva 
in via 
esclusiva 
un’area 
demaniale 
(marittima, 
lacuale 
o 
fluviale) 
ad 
un 
operatore 
economico, 
consentendo 
a 
quest’ultimo 
di 
utilizzarlo 
come 
asset 
aziendale 
e 
di 
svolgere, grazie 
ad esso, un’attività 
d’impresa 
erogando servizi 
turistico-
ricreativi 
va 
considerato, 
nell’ottica 
della 
direttiva 
2006/123, 
un’autorizzazione 
di 
servizi 
contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara. 
Del 
resto, 
come 
ricordato 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
nella 
più 
volte 
citata 
sentenza 
Promoimpresa, 
“il 
considerando 39 della direttiva in questione 
precisa che 
la nozione 
di 
regime 
di 
autorizzazione 
dovrebbe 
comprendere, in particolare, le 
procedure 
amministrative 
per 
il 
rilascio di 
concessioni”. 
E 
la 
stessa 
sentenza 
ha 
chiaramente 
affermato 
che 
“tali 
concessioni 
possono 
quindi 
essere 
qualificate 
come 
autorizzazioni, 
ai 
sensi 
delle 
disposizioni 
della 
direttiva 
2006/123, 
in 
quanto 
costituiscono 
atti 
formali, 
qualunque 
sia 
la 
loro 
qualificazione 
nel 
diritto 
nazionale, che 
i 
prestatori 
devono ottenere 
dalle 
autorità nazionali 
al 
fine 
di 
poter 
esercitare 
la loro attività economica”. 
L’Adunanza 
plenaria 
non può che 
condividere 
tali 
conclusioni 
e 
ribadire 
che 
le 
concessioni 
di 
beni 
demaniali 
per 
finalità 
turistico-ricreative 
rappresentano 
autorizzazioni 
di 
servizi 
ai 
sensi dell’art. 12 della direttiva c.d. servizi, come tali sottoposte all’obbligo di gara. 


25. In senso contrario non vale 
neanche 
valorizzare 
la 
mancanza 
del 
requisito della 
scarsità 
della 
risorsa 
naturale, sul 
quale 
peraltro la 
Corte 
di 
giustizia, nella 
sentenza 
Promoimpresa, 
ha 
rilevato 
che 
le 
concessioni 
sono 
rilasciate 
a 
livello 
non 
nazionale 
bensì 
comunale, 
fatto 
che 
deve 
“essere 
preso 
in 
considerazione 
al 
fine 
di 
determinare 
se 
tali 
aree 
che 
possono 
essere 
oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato”. 
Il 
concetto di 
scarsità 
va, invero, interpretato in termini 
relativi 
e 
non assoluti, tenendo conto 
non solo della 
“quantità” 
del 
bene 
disponibile, ma 
anche 
dei 
suoi 
aspetti 
qualitativi 
e, di 
conseguenza, 
della 
domanda 
che 
è 
in grado di 
generare 
da 
parte 
di 
altri 
potenziali 
concorrenti, 
oltre 
che 
dei 
fruitori 
finali 
del 
servizio 
che 
tramite 
esso 
viene 
immesso 
sul 
mercato. 
va 
ancora 
considerata 
la 
concreta 
disponibilità 
di 
aree 
ulteriori 
rispetto a 
quelle 
attualmente 
già 
oggetto 
di 
concessione. È 
sulle 
aree 
potenzialmente 
ancora 
concedibili 
(oltre 
che 
su quelle 
già 
assentite), 
infatti, che 
si 
deve 
principalmente 
concentrare 
l’attenzione 
per verificare 
se 
l’attuale 
regime 
di 
proroga 
fino 
al 
31 
dicembre 
2033 
possa 
creare 
una 
barriera 
all’ingresso 
di 
nuovi 
operatori, in contrasto con gli 
obiettivi 
di 
liberalizzazione 
perseguiti 
dalla 
direttiva. La 
valutazione 
della 
scarsità 
della 
risorsa 
naturale, invero, dipende 
essenzialmente 
dall’esistenza 
di 
aree 
disponibili 
sufficienti 
a 
permettere 
lo svolgimento della 
prestazione 
di 
servizi 
anche 
ad 
operatori economici diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga 
ex lege. 
Da 
questo punto di 
vista, i 
dati 
forniti 
dal 
sistema 
informativo del 
demanio marittimo (SID) 
del 
Ministero delle 
Infrastrutture 
rivelano che 
in Italia 
quasi 
il 
50% delle 
coste 
sabbiose 
è 
occupato 
da 
stabilimenti 
balneari, con picchi 
che 
in alcune 
regioni 
(come 
Liguria, Emilia-ro

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


magna 
e 
Campania) arrivano quasi 
al 
70%. Una 
percentuale 
di 
occupazione, quindi, molto 
elevata, specie 
se 
si 
considera 
che 
i 
tratti 
di 
litorale 
soggetti 
ad erosione 
sono in costante 
aumento 
e 
che 
una 
parte 
significativa 
della 
costa 
“libera” 
risulta 
non fruibile 
per finalità 
turistico-
ricreative, perché inquinata o comunque “abbandonata”. 
A 
ciò si 
aggiunge 
che 
in molte 
regioni 
è 
previsto un limite 
quantitativo massimo di 
costa 
che 
può 
essere 
oggetto 
di 
concessione, 
che 
nella 
maggior 
parte 
dei 
casi 
coincide 
con 
la 
percentuale 
già assentita. 
È 
evidente, 
allora, 
che 
l’insieme 
di 
questi 
dati 
già 
evidenzia 
che 
attualmente 
le 
aree 
demaniali 
marittime 
(ma 
analoghe 
considerazioni 
valgono per quelle 
lacuali 
o fluviali) a 
disposizione 
di 
nuovi 
operatori 
economici 
sono caratterizzate 
da 
una 
notevole 
scarsità, ancor più pronunciata 
se 
si 
considera 
l’ambito territoriale 
del 
comune 
concedente 
o comunque 
se 
si 
prendono 
a 
riferimento 
porzioni 
di 
costa 
ridotte 
rispetto 
alla 
complessiva 
estensione 
delle 
coste 
italiane, 
a 
maggior 
ragione 
alla 
luce 
della 
già 
evidenziata 
capacità 
attrattiva 
delle 
coste 
nazionali 
e 
l’elevatissimo livello della 
domanda 
in tutto il 
periodo estivo (che 
caratterizza 
l’intero territorio 
nazionale, 
al 
di 
là 
della 
variabilità 
dei 
picchi 
massimi 
che 
possono 
differenziare 
le 
singole 
zone). Pertanto, nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
con finalità 
turistico-ricreative, le 
risorse 
naturali 
a 
disposizione 
di 
nuovi 
potenziali 
operatori 
economici 
sono scarse, in alcuni 
casi 
addirittura 
inesistenti, 
perché 
è 
stato 
già 
raggiunto 
il 
-o 
si 
è 
molto 
vicini 
al 
-tetto 
massimo 
di aree suscettibile di essere date in concessione. 
Anche 
da 
questo punto di 
vista, quindi, sussistono i 
presupposti 
per applicare 
l’art. 12 della 
direttiva 2006/123. 


26. non ha 
pregio, infine, la 
tesi 
volta 
a 
sostenere 
che 
la 
disposizione 
in questione 
non potrebbe 
considerarsi 
self-executing, perché non sufficientemente dettagliata o specifica. 
Il 
livello di 
dettaglio che 
una 
direttiva 
deve 
possedere 
per potersi 
considerare 
self-executing 
dipende, invero, dal 
risultato che 
essa 
persegue 
e 
dal 
tipo di 
prescrizione 
che 
è 
necessaria 
per 
realizzare 
tale 
risultato. Da 
questo punto di 
vista, l’art. 12 della 
direttiva 
persegue 
l’obiettivo 
di 
aprire 
il 
mercato delle 
attività 
economiche 
il 
cui 
esercizio richiede 
l’utilizzo di 
risorse 
naturali 
scarse, sostituendo, ad un sistema 
in cui 
tali 
risorse 
vengono assegnate 
in maniera 
automatica 
e 
generalizzata 
a 
chi 
è 
già 
titolare 
di 
antiche 
concessioni, 
un 
regime 
di 
evidenza 
pubblica 
che 
assicuri 
la 
par 
condicio 
fa 
i 
soggetti 
potenzialmente 
interessati. rispetto a 
tale 
obiettivo, la 
disposizione 
ha 
un livello di 
dettaglio sufficiente 
a 
determinare 
la 
non applicazione 
della 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
ex 
lege 
fino al 
2033 e 
ad imporre, di 
conseguenza, una 
gara 
rispettosa 
dei 
principi 
di 
trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, 
mutuo 
riconoscimento 
e 
proporzionalità. 
Pur 
essendo 
auspicabile 
(come 
si 
dirà 
nel 
prosieguo 
con 
maggiore 
dettaglio) 
che 
il 
legislatore 
intervenga, 
in 
una 
materia 
così 
delicata 
e 
sensibile 
dal 
punto di 
vista 
degli 
interessi 
coinvolti, con una 
disciplina 
espressa 
e 
puntuale, 
non vi 
è 
dubbio, tuttavia, che 
nell’inerzia 
del 
legislatore, l’art. 12 della 
direttiva 
2006/123 e 
i 
principi 
che 
essa 
richiama, 
tenendo 
anche 
conto 
di 
come 
essi 
sono 
stati 
più 
volti 
declinati 
dalla 
giurisprudenza 
europea 
e 
nazionale, già 
forniscono tutti 
gli 
elementi 
necessari 
per consentire 
alle 
Amministrazioni 
di 
bandire 
gare 
per 
il 
rilascio 
delle 
concessioni 
demaniali 
in 
questione, 
non applicando il regime di proroga 
ex lege. 
27. 
Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono 
deve, 
quindi, 
ritenersi 
che 
anche 
l’art. 
12 
della 
direttiva 
2006/123 
sia 
applicabile 
al 
rilascio 
e 
al 
rinnovo 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime, 
con 
conseguente 
incompatibilità 
comunitaria, 
anche 
sotto 
tale 
profilo, 
della 
disciplina 
nazionale 
che 
prevede 
la 
proroga 
automatica 
e 
generalizzata 
delle 
concessioni 
già 
rilasciate. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


È 
peraltro indiscutibile 
che 
il 
confronto competitivo, oltre 
ad essere 
imposto dal 
diritto del-
l’Unione, 
risulta 
coerente 
con 
l’evoluzione 
della 
normativa 
interna 
sull’evidenza 
pubblica, 
che 
individua 
in tale 
metodo non solo lo strumento più efficace 
per la 
scelta 
del 
miglior “contraente” 
(in tal 
caso, concessionario), cioè 
del 
miglior interlocutore 
della 
pubblica 
amministrazione, 
ma 
anche 
come 
mezzo 
per 
garantire 
trasparenza 
alle 
scelte 
amministrative 
e 
apertura 
del 
settore 
dei 
servizi 
al 
di 
là 
di 
barriere 
all’accesso. Inoltre, il 
confronto è 
estremamente 
prezioso 
per garantire 
ai 
cittadini 
una 
gestione 
del 
patrimonio nazionale 
costiero e 
una 
correlata 
offerta 
di 
servizi 
pubblici 
più efficiente 
e 
di 
migliore 
qualità 
e 
sicurezza, potendo contribuire 
in misura 
significativa 
alla 
crescita 
economica 
e, soprattutto, alla 
ripresa 
degli 
investimenti 
di cui il Paese necessita. 


28. 
Le 
considerazioni 
appena 
svolte 
conducono 
alla 
conclusione 
-anticipando 
sin 
da 
ora 
la 
risposta 
al 
terzo 
quesito 
-secondo 
cui 
anche 
la 
moratoria 
emergenziale 
prevista 
dall’art. 
182, 
co. 
2, 
d.l. 
34/2020 
presenta 
profili 
di 
incompatibilità 
comunitaria 
del 
tutto 
analoghi 
a 
quelli 
fino 
ad 
ora 
evidenziati. 
non 
è, 
infatti, 
seriamente 
sostenibile 
che 
la 
proroga 
delle 
concessioni 
sia 
funzionale 
al 
“contenimento 
delle 
conseguenze 
economiche 
prodotte 
dal-
l’emergenza 
epidemiologica”. 
In 
senso 
contrario, 
si 
deve 
osservare, 
come 
evidenziato 
dalla 
Commissione 
nell’ultima 
lettera 
di 
costituzione 
in 
mora 
(che 
riguarda 
anche 
l’art. 
182, 
co. 
2, 
d.l. 
34/2020), 
che 
“la 
reiterata 
proroga 
della 
durata 
delle 
concessioni 
balneari 
prevista 
dalla 
legislazione 
italiana 
scoraggia 
[…] 
gli 
investimenti 
in 
un 
settore 
chiave 
per 
l’economia 
italiana 
e 
che 
sta 
già 
risentendo 
in 
maniera 
acuta 
dell’impatto 
della 
pandemia 
da 
COVID-19. 
Scoraggiando 
gli 
investimenti 
nei 
servizi 
ricreativi 
e 
di 
turismo 
balneare, 
l’attuale 
legislazione 
italiana 
impedisce, 
piuttosto 
che 
incoraggiare, 
la 
modernizzazione 
di 
questa 
parte 
importante 
del 
settore 
turistico 
italiano. 
La 
modernizzazione 
è 
ulteriormente 
ostacolata 
dal 
fatto 
che 
la 
legislazione 
italiana 
rende 
di 
fatto 
impossibile 
l’ingresso 
sul 
mercato 
di 
nuovi 
ed 
innovatori 
fornitori 
di 
servizi”. 
non vi 
è 
quindi 
alcuna 
ragionevole 
connessione 
tra 
la 
proroga 
delle 
concessioni 
e 
le 
conseguenze 
economiche 
derivanti 
dalla 
pandemia, 
presentandosi 
semmai 
essa 
come 
disfunzionale 
rispetto all’obiettivo dichiarato e di fatto diretta a garantire posizioni acquisite nel tempo. 
29. 
Le 
considerazioni 
che 
precedono 
danno 
conto 
anche 
delle 
ragioni 
del 
mancato 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
ai 
sensi 
dell’art. 
267 
TFUE. 
nel 
caso 
di 
specie 
ricorre 
una 
delle 
situazioni 
in 
presenza 
delle 
quali, 
in 
base 
alla 
c.d. 
“giurisprudenza 
Cilfit” 
(di 
recente, 
ribadita, 
sia 
pure 
con 
alcuni 
correttivi 
volti 
a 
renderla 
più 
flessibile, 
dalla 
Corte 
di 
giustizia, 
Grande 
Camera, 
nella 
sentenza 
6 
ottobre 
2021, 
C-569/19), 
i 
giudici 
nazionali 
di 
ultima 
istanza 
non 
sono 
sottoposti 
all’obbligo 
di 
rinvio 
pregiudiziale. 
La 
questione 
controversa 
è 
stata, 
infatti, 
già 
oggetto 
di 
interpretazione 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
giustizia 
e 
gli 
argomenti 
invocati 
per 
superare 
l’interpretazione 
già 
resa 
dal 
giudice 
europeo 
non 
sono 
in 
grado 
di 
sollevare 
ragionevoli 
dubbi, 
come 
confermato 
anche 
dal 
fatto 
che 
i 
principi 
espressi 
dalla 
sentenza 
Promoimpresa 
sono 
stati 
recepiti 
da 
tutta 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
nazionale 
sia 
di 
primo 
che 
di 
secondo 
grado, 
con 
l’unica 
isolata 
eccezione 
del 
T.a.r. 
Lecce, 
il 
quale, 
peraltro, 
più 
che 
mettere 
in 
discussione 
l’esistenza 
di 
un 
regime 
di 
evidenza 
pubblica 
comunitariamente 
imposto 
cui 
sottoporre 
il 
rilascio 
o 
il 
rinnovo 
della 
concessioni 
demaniali, 
ha 
negato 
(come 
si 
vedrà 
nel 
prosieguo 
con 
maggiore 
dettaglio) 
la 
sussistenza 
di 
un 
potere 
di 
non 
applicazione 
in 
capo 
agli 
organi 
della 
P.A., 
toccando, 
quindi, 
una 
questione 
sulla 
quale 
esistono 
orientamenti 
giurisprudenziali 
(elaborati 
dai 
giudici 
europei 
e 
nazionali) 
ancor 
più 
consolidati 
e 
granitici. 
30. Appurata 
l’incompatibilità 
comunitaria 
(per contrasto sia 
con gli 
artt. 49 e 
56 TFUE 
sia 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


con l’art. 12 della 
direttiva 
2016/123) della 
disciplina 
nazionale 
(art. 1, commi 
682 e 
683, l. 


n. 145/2018 e 
art. 182, comma 
2, d.l. 19 n. 34/2020) che 
prevede 
la 
proroga 
ex 
lege 
delle 
concessioni 
demaniali 
già 
rilasciate, si 
può procedere 
all’esame 
dei 
quesiti 
concernenti 
le 
conseguenze 
di tale contrasto normativo. 
31. viene 
sotto tale 
profilo in rilievo il 
primo quesito oggetto del 
decreto presidenziale 
di 
rimessione 
all’Adunanza 
plenaria: 
1) se 
sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte 
della 
Repubblica 
Italiana, 
delle 
leggi 
statali 
o 
regionali 
che 
prevedano 
proroghe 
automatiche 
e 
generalizzate 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
finalità 
turistico-ricreative; 
in 
particolare, 
se, per 
l’apparato amministrativo e 
per 
i 
funzionari 
dello Stato membro sussista, o no, 
l’obbligo di 
disapplicare 
la norma nazionale 
confliggente 
col 
diritto dell’Unione 
europea e 
se 
detto obbligo, qualora sussistente, si 
estenda a tutte 
le 
articolazioni 
dello Stato membro, 
compresi 
gli 
enti 
territoriali, 
gli 
enti 
pubblici 
in 
genere 
e 
i 
soggetti 
ad 
essi 
equiparati, 
nonché 
se, 
nel 
caso 
di 
direttiva 
self-excuting, 
l’attività 
interpretativa 
prodromica 
al 
rilievo 
del 
conflitto 
e 
all’accertamento dell’efficacia della fonte 
sia riservata unicamente 
agli 
organi 
della giurisdizione 
nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva. 
32. L’Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che 
l’obbligo di 
non applicare 
la 
legge 
anticomunitaria 
gravi 
in capo all’apparato amministrativo, anche 
nei 
casi 
in cui 
il 
contrasto riguardi 
una 
direttiva 
self-executing. 
In 
termini 
generali, 
va, 
anzitutto, 
osservato 
che 
la 
sussistenza 
di 
un 
dovere 
di 
non 
applicazione 
anche 
da 
parte 
della 
P.A. rappresenta 
un approdo ormai 
consolidato nell’ambito della 
giurisprudenza 
sia europea sia nazionale. 
In particolare, nella 
sentenza 
Fratelli 
Costanzo 
si 
legge 
espressamente 
che 
“tutti 
gli 
organi 
dell’amministrazione, compresi 
quelli 
degli 
enti 
territoriali”, sono tenuti 
ad applicare 
le 
disposizioni 
UE 
self-executing, “disapplicando le 
norme 
nazionali 
ad esse 
non conformi” 
(22 
giugno 1989, C-103/88). 
Anche 
la 
Corte 
costituzionale 
(sentenza 
n. 389 del 
1989) ha 
ribadito che 
“tutti 
i 
soggetti 
competenti 
nel 
nostro ordinamento a dare 
esecuzione 
alle 
leggi 
(e 
agli 
atti 
aventi 
forza o valore 
di 
legge) 
-tanto 
se 
dotati 
di 
poteri 
di 
dichiarazione 
del 
diritto, 
come 
gli 
organi 
giurisdizionali, 
quanto se 
privi 
di 
tali 
poteri, come 
gli 
organi 
amministrativi 
– sono giuridicamente 
tenuti 
a 
disapplicare 
le 
norme 
interne 
incompatibili 
con le 
norme” 
comunitarie 
nell’interpretazione 
datane dalla Corte di giustizia europea. 
Il 
Consiglio di 
Stato, a 
sua 
volta, sin dalla 
sentenza 
sez. v 
6 aprile 
1991, n. 452, ha 
chiarito 
che 
tutti 
i 
soggetti 
dell’ordinamento, compresi 
gli 
organi 
amministrativi, devono riconoscere 
come 
diritto legittimo e 
vincolante 
le 
norme 
comunitarie, non applicando le 
norme 
nazionali 
contrastanti. 
opinare 
diversamente 
significherebbe 
autorizzare 
la 
P.A. all’adozione 
di 
atti 
amministrativi 
illegittimi 
per violazione 
del 
diritto dell’Unione, destinati 
ad essere 
annullati 
in sede 
giurisdizionale, 
con grave 
compromissione 
del 
principio di 
legalità, oltre 
che 
di 
elementari 
esigenze 
di certezza del diritto. 
33. Queste 
conclusioni 
valgono anche 
per il 
caso in cui 
a 
venire 
in rilievo sia 
una 
direttiva 
self-executing. A 
tal 
proposito, il 
T.a.r. Lecce 
(nella 
sentenza 
oggetto del 
presente 
giudizio) 
ha 
valorizzato la 
distinzione 
tra 
regolamenti 
comunitari 
-che 
sono, per loro stessa 
natura, direttamente 
applicabili 
e 
tali 
quindi 
da 
giustificare 
la 
non 
applicazione 
anche 
da 
parte 
della 
P.A. -e 
direttive, che, al 
contrario, di 
regola 
non possono produrre 
effetti 
diretti 
e 
la 
cui 
eccezionale 
natura 
self-executing 
richiederebbe 
una 
complessa 
attività 
interpretativa, 
la 
quale, 
ove 
rimessa 
ai 
singoli 
organi 
amministrativi, 
rischierebbe 
di 
legittimare 
non 
applicazioni 
della 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


legge 
nazionale 
affidate 
a 
valutazioni 
soggettive 
ed opinabili 
del 
singolo funzionario, prive 
di riscontro in sede di giurisprudenza nazionale o europea. 


34. L’argomento, sebbene suggestivo, non può essere condiviso, per diverse ragioni. 
34.1. In primo luogo, è 
dirimente 
la 
circostanza 
che 
nel 
caso di 
specie 
tale 
incertezza 
circa 
il 
carattere 
self-executing 
della 
direttiva 
2006/123 
non 
sussiste, 
perché 
tale 
carattere 
è 
stato 
espressamente 
riconosciuto 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
nella 
sentenza 
Promoimpresa 
(C-174/06), 
oltre che da una copiosa giurisprudenza nazionale che ad essa ha fatto seguito. 
34.2. In secondo luogo, la 
prospettata 
distinzione, nell’ambito delle 
norme 
U.E. direttamente 
applicabili, fra 
i 
regolamenti, da 
un lato, e 
le 
direttive 
self-executing, dall’altro -al 
fine 
di 
ritenere 
solo le 
prime 
e 
non le 
seconde 
in grado di 
produrre 
l’obbligo di 
non applicazione 
in 
capo alla 
P.A. -si 
tradurrebbe 
nel 
parziale 
disconoscimento del 
c.d. effetto utile 
delle 
stesse 
direttive 
autoesecutive 
e 
nella 
artificiosa 
creazione 
di 
un’inedita 
categoria 
di 
norme 
U.E. direttamente 
applicabili 
(nei 
rapporti 
verticali) solo da 
parte 
del 
giudice 
e 
non della 
P.A. Di 
tale 
limitazione 
non 
vi 
è 
traccia 
nella 
giurisprudenza 
comunitaria, 
la 
quale, 
anzi, 
è 
da 
tempo 
orientata 
verso 
una 
progressiva 
valorizzazione 
dell’effetto 
diretto 
della 
direttiva 
self-executing 
(cui 
si riconosce una crescente incidenza anche nella disciplina dei rapporti orizzontali). 
34.3. Infine, la 
tesi 
della 
non disapplicabilità 
da 
parte 
della 
P.A. della 
legge 
in contrasto con 
una 
direttiva 
self-executing 
cade 
in 
una 
contraddizione 
logica, 
che 
finisce 
per 
sterilizzarne 
ogni 
utilità 
pratica. Basti 
pensare 
che, anche 
ad ammettere 
che 
la 
legge 
in contrasto con la 
direttiva 
self-esecuting 
non sia 
disapplicabile 
dalla 
P.A. ma 
solo dal 
giudice, rimarrebbe 
fermo 
che 
l’atto amministrativo emanato in base 
ad una 
legge 
poi 
riconosciuta 
anticomunitaria 
in 
sede 
giurisdizionale 
sarebbe 
comunque 
illegittimo e, come 
tale, andrebbe 
annullato. E 
allora, 
nel 
momento in cui 
la 
P.A. ha 
comunque 
deciso di 
“non applicare” 
quella 
legge 
(nel 
caso di 
specie, negando la 
proroga) e 
il 
privato ha 
sottoposto al 
vaglio giurisdizionale 
l’atto amministrativo 
frutto di 
quella 
non applicazione, il 
giudice, che 
certamente 
ha 
il 
potere 
di 
non applicazione, 
non 
potrebbe 
che 
prendere 
atto 
della 
legittimità 
dell’atto 
e 
respingere 
il 
ricorso. 
Altrimenti 
si 
dovrebbe 
ritenere 
che 
nemmeno il 
giudice 
può disapplicare 
la 
legge 
che 
la 
P.A. 
ha 
applicato, con chiara 
violazione 
di 
consolidati 
principi 
sui 
rapporti 
tra 
ordinamenti 
nazionale 
e comunitario. 
In altri 
termini, delle 
due 
l’una: 
o si 
ammette 
che 
la 
legge 
non è 
disapplicabile 
nemmeno dal 
giudice 
(ma 
in questo modo il 
contrasto con il 
principio di 
primazia 
del 
diritto dell’Unione 
diventa 
stridente) oppure 
si 
ammette 
che 
l’Amministrazione 
è 
“costretta” 
ad adottare 
un atto 
illegittimo, destinato poi 
ad essere 
annullato dal 
giudice, che 
può fare 
ciò che 
la 
P.A. non ha 
potuto fare, cioè 
non applicare 
la 
legge 
nazionale 
anticomunitaria. Ma 
immaginare 
un’Amministrazione 
“costretta” 
ad 
adottare 
atti 
comunitariamente 
illegittimi 
e 
a 
farlo 
in 
nome 
di 
una 
esigenza 
di 
certezza 
del 
diritto 
(legata 
all’asserita 
difficoltà 
di 
individuare 
le 
direttive 
selfexecuting) 
appare una contraddizione in termini. 
35. Le 
considerazioni 
che 
precedono evidenziano come 
le 
distinzione 
tra 
norme 
non applicabili 
tout 
court 
e 
norme 
non applicabili 
dal 
giudice 
ma 
non della 
P.A. risulti 
foriera 
di 
contraddizioni 
e 
inconvenienti 
pratici, 
anche 
perché 
di 
fatto 
affida 
alla 
fase 
dell’eventuale 
contenzioso 
giurisdizionale 
la 
primazia 
del 
diritto 
dell’Unione, 
con 
la 
conseguenza 
che, 
in 
caso 
di 
mancata 
impugnazione, 
la 
violazione 
della 
direttiva 
andrebbe 
ingiustificatamente 
a 
consolidarsi 
(e 
con 
riferimento al 
presente 
contenzioso va 
sottolineato che 
rispetto alle 
proroghe 
assentite 
nella 
maggior parte dei casi non ci sono controinteressati attuali che propongono ricorso). 
36. ne 
consegue 
allora 
che 
la 
legge 
nazionale 
in contrasto con una 
norma 
europea 
dotata 
di 
efficacia 
diretta, ancorché 
contenuta 
in una 
direttiva 
self-executing, non può essere 
applicata 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


né 
dal 
giudice 
né 
dalla 
pubblica 
amministrazione, 
senza 
che 
sia 
all’uopo 
necessario 
(come 
chiarito dalla 
Corte 
costituzionale 
a 
partire 
dalla 
sentenza 
n. 170 del 
1984) una 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale. Si 
ricorda, invero, che 
un sindacato di 
costituzionalità 
in via 
incidentale 
su una 
legge 
nazionale 
anticomunitaria 
è 
oggi 
possibile 
solo se 
tale 
legge 
sia 
in contrasto 
con 
una 
direttiva 
comunitaria 
non 
self-executing 
oppure, 
secondo 
la 
recente 
teoria 
della 


c.d. 
doppia 
pregiudizialità, 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
legge 
nazionale 
contrasti 
con 
i 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
tutelati 
sia 
dalla 
Costituzione 
sia 
dalla 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
(cfr., 
in 
particolare, 
Corte 
Cost., 
sentenze 
n. 
289/2017, 
n. 
20/2019, 
n. 
63/2019, 
n. 
112/2019). 
nessuna 
delle 
due 
“eccezioni” 
ricorre 
nel 
caso di 
specie, perché 
le 
norme 
comunitarie 
violate 
sono self-executing 
e 
non vengono in rilievo diritti 
fondamentali 
della 
persona 
costituzionalmente 
protetti. 
37. 
In 
senso 
contrario 
non 
vale 
invocare 
il 
rischio 
correlato 
alle 
possibili 
ripercussioni 
che 
una 
simile 
non 
applicazione 
potrebbe 
generare 
in 
termini 
di 
responsabilità 
penale 
dei 
concessionari 
demaniali, 
i 
quali, 
secondo 
una 
certa 
impostazione, 
venute 
meno 
le 
proroghe 
ex 
lege, 
si 
troverebbero 
privi 
di 
titolo 
legittimante 
l’occupazione 
del 
suolo 
demaniale, 
così 
incorrendo 
nel 
reato 
di 
occupazione 
abusiva 
di 
spazio 
demaniale 
marittimo 
previsto 
dal-
l’art. 
1161 
cod. 
nav. 
Tale 
timore 
è, infatti, privo di 
fondamento, atteso che 
ad una 
simile 
conclusione 
ostano incondizionatamente 
i 
principi 
costituzionali 
di 
riserva 
di 
legge 
statale 
e 
di 
irretroattività 
della 
legge 
penale. 
Detti 
principi, 
come 
riconosciuto 
anche 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
U.E., 
fanno 
parte 
delle 
tradizioni 
costituzionali 
degli 
Stati 
membri 
e 
come 
tali 
sono 
parte 
integrante 
dello 
stesso 
ordinamento comunitario (ed in ogni 
caso rappresenterebbe 
comunque 
controlimiti 
interni 
al 
principio 
di 
primazia). 
ne 
discende 
che 
la 
descritta 
operazione 
di 
non 
applicazione 
della 
legge 
nazionale 
anticomunitaria 
non 
può 
in 
alcun 
modo 
avere 
conseguenze 
in 
punto 
di 
responsabilità 
penale, per la 
semplice 
ragione 
che 
il 
diritto dell’Unione 
non può mai 
produrre 
effetti 
penali 
diretti 
in malam partem. 
38. 
non 
rilevano, 
in 
senso 
contrario, 
neanche 
le 
esigenze 
correlate 
alla 
tutela 
dell’affidamento 
degli 
attuali 
concessionari. 
In 
primo 
luogo, 
l’affidamento 
del 
concessionario 
dovrebbe 
trovare 
tutela 
(come 
chiarito da 
Corte 
di 
giustizia 
e 
anche 
dalla 
Corte 
costituzionale) non attraverso 
la 
proroga 
automatica, ma 
al 
momento di 
fissare 
le 
regole 
per la 
procedura 
di 
gara 
(par. 3 del-
l’art. 12 della direttiva e sentenza 
Promoimpresa 
par. 52-56). 
In relazione 
alla 
pretesa 
esigenza 
di 
tutela 
dell’affidamento, anche 
la 
lettera 
di 
messa 
in mora 
della 
Commissione 
europea 
del 
3 
dicembre 
2020, 
nel 
rilevarne 
l’insussistenza, 
ricorda 
che 
“secondo il 
diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere 
solo se 
un certo numero di 
condizioni 
rigorose 
sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni 
precise, incondizionate 
e 
concordanti, provenienti 
da fonti 
autorizzate 
ed affidabili, devono essere 
state 
fornite 
all’interessato 
dall’amministrazione. 
In 
secondo 
luogo, 
tali 
rassicurazioni 
devono 
essere 
idonee 
a generare 
fondate 
aspettative 
nel 
soggetto cui 
si 
rivolgono. In terzo luogo, siffatte 
rassicurazioni 
devono essere conformi alle norme applicabili”. 
In termini 
più generali 
si 
è 
affermato che, “qualora un operatore 
economico prudente 
e 
accorto 
sia 
in 
grado 
di 
prevedere 
l’adozione 
di 
un 
provvedimento 
idoneo 
a 
ledere 
i 
suoi 
interessi, 
egli 
non può invocare 
il 
beneficio della tutela del 
legittimo affidamento nel 
caso in cui 
detto 
provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09). 
38.1. Tali 
condizioni 
non sussistono nella 
materia 
in esame, specie 
se 
si 
considera 
che, ancor 
prima 
e 
a 
prescindere 
dalla 
direttiva 
2006/123, il 
Consiglio di 
Stato aveva 
già 
affermato che 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


per le 
concessioni 
demaniali 
la 
sottoposizione 
ai 
principi 
della 
concorrenza 
e 
dell’evidenza 
pubblica 
trova 
il 
suo 
presupposto 
sufficiente 
nella 
circostanza 
che 
con 
la 
concessione 
del 
bene 
pubblico 
si 
fornisca 
un’occasione 
di 
guadagno 
a 
soggetti 
operanti 
sul 
mercato, 
tale 
da 
imporre 
una 
procedura 
competitiva 
ispirata 
ai 
suddetti 
principi 
di 
trasparenza 
e 
non discriminazione 
(cfr. Cons. Stato, sez. Iv, 25 gennaio 2005, n. 168, Id., sez. v, 31 maggio 2007, n. 2825). A 
ciò 
si 
aggiunga 
la 
considerazione 
che, 
su 
questa 
materia, 
la 
prima 
procedura 
di 
infrazione 
risale 
al 
2008. 
Si 
tratta 
della 
procedura 
di 
infrazione 
n. 
2008/4908, 
su 
cui 
v. 
la 
lettera 
di 
messa 
in 
mora 
inviata 
all’Italia 
il 
29 
gennaio 
2009, 
iniziata 
in 
seguito 
della 
segnalazione 
dell’AGCM 
(segnalazione 
AS481 
del 
20 
ottobre 
2008), 
procedura 
poi 
chiusa 
nel 
2012, 
confidando 
sul 
fatto 
che 
l’art. 
11 
d.l. 
n. 
194/2009, 
conv. 
in 
l. 
n. 
25/2010, 
aveva 
delegato 
il 
Governo 
ad 
emanare 
un decreto legislativo avente 
ad oggetto la 
revisione 
e 
il 
riordino della 
legislazione 
relativa 
alle concessioni demaniali marittime. 


38.2. 
Anche 
la 
Corte 
costituzionale, 
a 
partire 
dal 
2010, 
è 
più 
volte 
intervenuta 
sulla 
questione, 
dichiarando 
costituzionalmente 
illegittime 
alcune 
disposizioni 
regionali 
-per 
mancato 
rispetto 
dei 
vincoli 
derivanti 
dall’ordinamento 
U.E. 
(art. 
117, 
primo 
comma, 
Cost.) 
-che 
prevedevano 
proroghe 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
in favore 
dei 
titolari 
delle 
concessioni. Si 
segnala, 
in particolare, Corte 
cost. n. 180/2010, che 
ha 
dichiarato l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 1, l.r. Emilia-romagna 
23 luglio 2009, n. 8, il 
quale 
prevedeva 
la 
possibilità, per i 
titolari 
di 
concessioni 
demaniali, di 
chiedere 
la 
proroga 
della 
concessione, fino ad un massimo 
di 
20 anni 
dalla 
data 
del 
rilascio, subordinatamente 
alla 
presentazione 
di 
un programma 
di 
investimenti 
per 
la 
valorizzazione 
del 
bene. 
La 
Corte 
ha 
dichiarato 
la 
norma 
costituzionalmente 
illegittima 
perché 
determinava 
“un’ingiustificata 
compressione 
dell’assetto 
concorrenziale 
del 
mercato della 
gestione 
del 
demanio marittimo, invadendo una 
competenza 
spettante 
allo 
Stato, violando il 
principio di 
parità 
di 
trattamento (detto anche 
“di 
non discriminazione”), 
che 
si 
ricava 
dagli 
artt. 49 e 
ss. del 
Trattato sul 
funzionamento dell’Unione 
europea, in tema 
di 
libertà 
di 
stabilimento, favorendo i 
vecchi 
concessionari 
a 
scapito degli 
aspiranti 
nuovi”. 
Analoga 
vicenda 
ha 
riguardato l’art. 16, comma 
2, l.r. Toscana 
n. 23 dicembre 
2009, n. 77, 
che 
è 
stata 
dichiarata 
illegittima 
dalla 
Corte 
con sentenza 
n. 340/2010. Tale 
disposizione 
prevedeva 
la 
possibilità 
di 
una 
proroga, 
fino 
ad 
un 
massimo 
di 
20 
anni, 
delle 
concessioni 
in 
essere, in ragione 
dell’entità 
degli 
investimenti 
realizzati 
e 
dei 
relativi 
ammortamenti: 
in tale 
occasione la Corte si è richiamata alla sua precedente decisione n. 180/2010, sopra citata. 
Stessa 
sorte 
hanno 
subito 
l’art. 
4, 
comma 
1, 
l.r. 
Marche 
11 
febbraio 
2010, 
n. 
7; 
l’art. 
5, 
l.r. 
veneto 
16 
febbraio 
2010, 
n. 
13; 
gli 
artt. 
1 
e 
2, 
l.r. 
Abruzzo18 
febbraio 
2010, 
n. 
3, 
dichiarati 
illegittimi 
con 
sentenza 
n. 
213/2011. 
Tali 
disposizioni 
consentivano 
ai 
titolari 
di 
concessione 
in 
corso 
di 
validità, 
che 
avessero 
eseguito 
o 
che 
eseguissero, 
durante 
la 
vigenza 
della 
concessione, 
interventi 
edilizi, 
accompagnati 
o 
meno 
da 
acquisto 
di 
attrezzature 
e 
beni 
mobili, 
di 
chiedere 
la 
variazione 
della 
durata 
della 
concessione 
per 
un 
periodo 
compreso 
tra 
7 
e 
20 
anni 
(decorrenti 
dalla 
data 
di 
variazione). 
Al 
di 
là 
delle 
singole 
fattispecie, 
dall’esame 
delle 
pronunce 
citate 
si 
evince 
(appunto 
già 
a 
partire 
dal 
2010) 
che, 
nel 
procedimento 
di 
assegnazione 
dei 
beni 
demaniali, 
occorre 
assicurare 
il 
rispetto 
delle 
regole 
della 
par 
condicio, 
tra 
cui, 
in 
primis, 
l’effettiva 
equipollenza 
delle 
condizioni 
offerte 
dal 
precedente 
concessionario 
e 
dagli 
altri 
aspiranti. 
39. 
Può 
procedersi 
all’esame 
del 
secondo 
quesito 
rimesso 
all’Adunanza 
plenaria, 
con 
il 
quale 
si 
chiede 
di 
stabilire, “nel 
caso di 
risposta affermativa al 
precedente 
quesito, se, in adempimento 
del 
predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione 
dello Stato membro sia tenuta 
all’annullamento 
d’ufficio 
del 
provvedimento 
emanato 
in 
contrasto 
con 
la 
normativa 
del-
l’Unione 
europea 
o, 
comunque, 
al 
suo 
riesame 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
dell’art. 
21-octies 
della 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


legge 
n. 241 del 
1990, nonché 
se, e 
in quali 
casi, la circostanza che 
sul 
provvedimento sia intervenuto 
un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio”. 


40. In via 
preliminare, è 
utile 
ricordare 
che, secondo la 
stessa 
giurisprudenza 
comunitaria, il 
principio 
di 
primazia 
del 
diritto 
U.E. 
di 
regola 
non 
incide 
sul 
regime 
di 
stabilità 
degli 
atti 
(amministrativi 
e 
giurisdizionali) nazionali 
che 
risultino comunitariamente 
illegittimi. In linea 
di 
principio, quindi, va 
escluso un obbligo di 
autotutela 
(o anche 
di 
riesame), a 
maggior ragione 
laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato. 
Si 
possono richiamare, a 
tal 
proposto, con specifico riferimento alla 
questione 
dell’obbligo 
di 
autotutela 
su 
un 
atto 
amministrativo 
comunitariamente 
invalido, 
le 
sentenze 
Khune 
(C453/
04) e 
Kempter 
(C-2/06), in cui 
la 
Corte 
UE, pur escludendo la 
sussistenza 
di 
un generalizzato 
obbligo di 
autotutela 
o di 
riesame, individua 
alcune 
condizioni 
in presenza 
delle 
quali 
tale 
obbligo sussiste, anche 
in presenza 
di 
giudicato che 
abbia 
escluso l’illegittimità 
del 
provvedimento 
medesimo. 
Secondo la 
Corte, tale 
obbligo sussiste 
quando: 
a) l’amministrazione 
disponga 
secondo il 
diritto 
nazionale 
del 
potere 
di 
riesame; 
b) 
l’atto 
amministrativo 
sia 
divenuto 
definitivo 
a 
seguito 
di 
una 
sentenza 
di 
un giudice 
nazionale 
di 
ultima 
istanza; 
c) tale 
sentenza, alla 
luce 
di 
una 
giurisprudenza 
della 
CGUE 
successiva 
alla 
medesima, risulti 
fondata 
su una 
interpretazione 
errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale. 
41. Tali 
principi, che 
l’Adunanza 
plenaria 
intende 
condividere 
e 
ribadire, non sono tuttavia 
applicabili 
al 
caso di 
specie, dove, a 
ben guardare, non si 
pone 
propriamente 
una 
questione 
di 
autotutela amministrativa su provvedimenti amministrativi. 
La 
risposta 
al 
quesito sub 2) richiede, infatti, la 
previa 
qualificazione 
dell’atto di 
rinnovo di 
proroga, richiesto o che sia stato eventualmente già adottato. 
42. L’Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che 
l’atto di 
proroga 
sia 
un atto meramente 
ricognitivo di 
un 
effetto prodotto automaticamente 
dalla 
legge 
e 
quindi 
alla 
stessa 
direttamente 
riconducibile 
(così la sentenza Cons. St., sez. vI, 18 novembre 2019 n. 7874). 
In tal 
senso, la 
formulazione 
letterale 
dell’art. 1, comma 
682, della 
legge 
30 dicembre 
2018, 
n. 145 non lascia 
spazio a 
dubbi, perché 
la 
norma 
direttamente 
dispone 
che 
le 
concessioni 
demaniali 
già 
rilasciate 
“vigenti 
alla data di 
entrata in vigore 
della presente 
legge 
hanno una 
durata, con decorrenza dalla data di 
entrata in vigore 
della presente 
legge, di 
anni 
quindici” 
(sull’ambito 
oggettivo 
di 
applicabilità 
della 
disposizione 
è 
intervenuto 
il 
d.l. 
14.8.2020 
n. 
104 
convertito con legge 
13.10.2020 n. 126, che 
ha 
stabilito, al 
comma 
1 dell’art. 100, che 
“Le 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 1, commi 
682 e 
683, della legge 
30 dicembre 
2018, n. 145, si 
applicano anche 
alle 
concessioni 
lacuali 
e 
fluviali, ivi 
comprese 
quelle 
gestite 
dalle 
società 
sportive 
iscritte 
al 
registro Coni 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 23 luglio 1999 n. 242, nonché 
alle 
concessioni 
per 
la 
realizzazione 
e 
la 
gestione 
di 
strutture 
dedicate 
alla 
nautica 
da 
diporto, 
inclusi 
i 
punti 
d’ormeggio, nonché 
ai 
rapporti 
aventi 
ad oggetto la gestione 
di 
strutture 
turistico 
ricreative 
in 
aree 
ricadenti 
nel 
demanio 
marittimo 
per 
effetto 
di 
provvedimenti 
successivi 
all’inizio dell’utilizzazione”). 
La 
proroga 
del 
termine 
avviene, 
quindi, 
automaticamente, 
in 
via 
generalizzata 
ed 
ex 
lege, 
senza 
l’intermediazione 
di 
alcun 
potere 
amministrativo. 
Si 
tratta, 
in 
buona 
sostanza, 
di 
una 
legge-provvedimento 
che 
non 
dispone 
in 
via 
generale 
e 
astratta, 
ma, 
intervenendo 
su 
un 
numero 
delimitato 
di 
situazioni 
concrete, 
recepisce 
e 
“legifica”, 
prorogandone 
il 
termine, 
le 
concessioni 
demaniali 
già 
rilasciate. 
Ed 
invero, 
se 
una 
legge 
proroga 
la 
durata 
di 
un 
provvedimento 
amministrativo, 
quel 
contenuto 
continua 
ad 
essere 
vigente 
in 
forza 
e 
per 
effetto 
della 
legge 
e, 
quindi, 
assurge 
necessariamente 
a 
fonte 
regolatrice 
del 
rapporto 
rispetto 
al 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


quale 
l’atto 
amministrativo 
che 
(eventualmente) 
intervenga 
ha 
natura 
meramente 
ricognitiva 
dell’effetto 
prodotto 
dalla 
norma 
legislativa 
di 
rango 
primario. 
Si 
è 
verificata, 
quindi, 
e 
in 
mancanza 
di 
una 
riserva 
di 
amministrazione 
costituzionalmente 
garantita, 
una 
novazione 
sostanziale 
della 
fonte 
di 
regolazione 
del 
rapporto, 
che 
ora 
trova 
appunto 
la 
sua 
base, 
in 
particolare 
per 
ciò 
che 
concerne 
la 
durata 
del 
rapporto, 
nella 
legge 
e 
non 
più 
nel 
provvedimento 
(mutatis 
mutandis, 
con 
riferimento 
alla 
questione 
della 
legificazione 
dei 
d.P.C.M. 
adottati 
per 
contenere 
l’emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19, 
la 
cui 
durata 
è 
stata 
prorogata 
ex 
lege 
dai 
decreti-legge 
n. 
44/2021 
e 
n. 
52/2021, 
cfr. 
Cons. 
Stato, 
sez. 
III, 
ord. 
29 
marzo 
2021, 
n. 
1606). 


43. Seguendo questa 
impostazione, se 
la 
proroga 
è 
direttamente 
disposta 
per legge 
ma 
la 
relativa 
norma 
che 
la 
prevede 
non poteva 
e 
non può essere 
applicata 
perché 
in contrasto con il 
diritto 
dell’Unione, 
ne 
discende, 
allora, 
che 
l’effetto 
della 
proroga 
deve 
considerarsi 
tamquam 
non esset, come se non si fosse mai prodotto. 
Sono le 
dinamiche 
(di 
non applicazione) della 
fonte 
primaria 
che 
regolamenta 
il 
rapporto di 
diritto pubblico che determinano l’effetto di mancata proroga delle concessioni. 
Di 
talché 
l’Amministrazione 
non esercita 
alcun potere 
di 
autotutela 
(con i 
vincoli 
che 
la 
caratterizzano): 
se 
l’atto eventualmente 
adottato dall’amministrazione 
svolge 
la 
sola 
funzione 
ricognitiva 
(e 
nei 
termini 
appunto in cui 
svolga 
questa 
sola 
funzione), mentre 
l’effetto autoritativo 
è 
prodotto direttamente 
dalla 
legge, la 
non applicabilità 
di 
quest’ultima 
impedisce 
il 
prodursi dell’effetto autoritativo della proroga. 
Del 
resto, 
il 
potere 
di 
autotutela 
quale 
potere 
di 
regolamentare 
una 
seconda 
(rectius 
“ulteriore”) 
volta, in aderenza 
al 
principio di 
buon andamento e 
continuità 
dell’azione 
amministrativa, il 
rapporto di 
diritto pubblico (e 
l’interesse 
pubblico ad esso sotteso) presuppone 
detto potere 
di 
regolamentazione 
che, come 
sopra 
evidenziato, è 
stato invece 
avocato a 
sé 
dal 
legislatore. 
In 
altre 
parole, 
il 
provvedimento 
di 
secondo 
grado 
in 
cui 
si 
esprime 
l’autotutela 
non 
può 
avere 
ad oggetto una disciplina contenuta nella legge. 
non 
può 
peraltro 
evitarsi 
di 
considerare 
la 
particolare 
funzione 
svolta 
dall’atto 
ricognitivo 
eventualmente 
adottato dall’Amministrazione: 
essa 
non costituisce 
il 
portato del 
potere 
autoritativo 
riconosciuto alla 
soggettività 
pubblica, pur essendo comunque 
riconducibile 
alla 
posizione 
dell’Amministrazione all’interno dell’ordinamento giuridico generale. 
Tale 
provvedimento è 
funzionale 
a 
rappresentare 
il 
verificarsi 
di 
un fatto (la 
proroga) con un 
grado 
di 
certezza 
che 
consente 
alla 
collettività 
di 
fare 
affidamento 
su 
di 
esso 
al 
fine 
di 
rendere 
sollecito 
e 
affidabile 
il 
traffico 
economico 
e 
giuridico, 
che 
deriva 
appunto 
dal 
ruolo 
svolto 
dall’Amministrazione 
nell’ambito 
di 
una 
società 
fluida 
come 
quella 
contemporanea, 
nella 
quale 
anche 
molti 
rapporti 
tipicamente 
amministrativi 
sono regolati 
in assenza 
di 
un provvedimento 
espresso. 
Detto 
ruolo 
consente 
alle 
soggettività 
pubbliche 
di 
creare 
certezze 
giuridicamente 
rilevanti 
per i 
terzi, laddove 
invece 
ai 
privati 
è 
inibita 
questa 
facoltà 
rispetto a 
soggetti 
estranei 
al 
rapporto 
negoziale. 
Sicché 
le 
medesime 
ragioni 
di 
certezza 
depongono 
nel 
senso 
che 
l’Amministrazione 
provveda, 
comunque, a 
rendere 
pubblica 
l’inconsistenza 
oggettiva 
dell’atto ricognitivo eventualmente 
già adottato e di comunicarla al soggetto cui è stato rilasciato detto atto. 
44. Analoghe 
considerazioni 
valgono anche 
nei 
casi 
in cui 
sia 
intervenuto un giudicato favorevole 
al concessionario demaniale. 
Da 
questo 
punto 
di 
vista, 
è 
pur 
vero 
che 
occorre 
ribadire 
-in 
applicazione 
dei 
principi 
di 
certezza 
e 
stabilità 
del 
diritto 
e 
dei 
rapporti 
giuridici 
di 
cui 
è 
espressione 
la 
res 
iudicata, 
diventati 
essi 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


stessi 
princìpi 
non 
solo 
degli 
Stati 
membri 
ma 
anche 
del 
diritto 
dell’Unione 
-– 
l’importanza 
che 
il 
principio 
dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
riveste 
sia 
nell’ordinamento 
giuridico 
comunitario 
sia 
negli 
ordinamenti 
giuridici 
nazionali, 
con 
la 
conseguenza 
che, 
come 
affermato 
ripetutamente 
dalla 
stesa 
Corte 
di 
giustizia, 
il 
diritto 
europeo 
non 
impone 
a 
un 
giudice 
nazionale 
di 
non 
applicare 
le 
norme 
processuali 
interne 
che 
attribuiscono 
autorità 
di 
cosa 
giudicata 
ad 
una 
decisione, 
anche 
quando 
ciò 
permetterebbe 
di 
porre 
rimedio 
ad 
una 
violazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
da 
parte 
di 
tale 
decisione 
(v. 
ex 
plurimis, 
sentenza 
11 
settembre 
2019, 
causa 
C-676/17, 
con 
ulteriori 
richiami; 
Corte 
giust., 
16 
marzo 
2006, 
causa 
C-234/04; 
1° 
giugno 
1999, 
causa 
C-126/97; 
in 
termini 
cfr. 
anche 
Ad. 
Plen. 
n. 
6/2021 
e 
Cass. 
civ., 
Sez. 
5, 
27 
gennaio 
2017, 
n. 
2046). 
Tuttavia, occorre 
tener conto del 
fatto che, nel 
caso di 
specie, tali 
principi 
vanno adeguati 
tenendo 
conto che 
il 
giudicato incide 
su un rapporto di 
durata 
(qual 
è 
appunto quello che 
deriva 
dal 
rilascio 
o 
dal 
rinnovo 
della 
concessione 
demaniale). 
Sotto 
tale 
profilo, 
va, 
infatti, 
ricordato, 
che, come 
affermato da 
Cons. Stato, Ad. Plen. 11 del 
2016, le 
sentenze 
pregiudiziali 
interpretative 
della 
Corte 
di 
giustizia 
hanno la 
stessa 
efficacia 
vincolante 
delle 
disposizioni 
interpretate: 
la 
decisione 
della 
Corte 
resa 
in sede 
di 
rinvio pregiudiziale, dunque, oltre 
a 
vincolare 
il 
giudice 
che 
ha 
sollevato 
la 
questione, 
spiega 
i 
propri 
effetti 
anche 
rispetto 
a 
qualsiasi 
altro 
caso che 
debba 
essere 
deciso in applicazione 
della 
medesima 
disposizione 
di 
diritto. La 
sentenza 
interpretativa 
pregiudiziale 
della 
Corte 
di 
giustizia 
è, 
quindi, 
equiparabile 
ad 
una 
sopravvenienza 
normativa, 
la 
quale, 
incidendo 
su 
un 
procedimento 
ancora 
in 
corso 
di 
svolgimento e 
su un tratto di 
interesse 
non coperto dal 
giudicato (come 
accade 
quando viene 
in considerazione 
un rapporto di 
durata) determina 
non un conflitto ma 
una 
successione 
cronologica 
di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica. 
ora, considerando che 
in seguito al 
rinnovo della 
concessione 
demaniale 
nasce 
(o prosegue) 
un rapporto di 
durata, deve 
essere 
richiamato il 
consolidato principio in base 
al 
quale 
la 
sopravvenienza 
normativa 
(cui 
è 
equiparabile, appunto, la 
sentenza 
interpretativa 
della 
Corte 
di 
giustizia) incide 
sulle 
situazioni 
giuridiche 
durevoli 
per quella 
parte 
che 
si 
svolge 
successivamente 
al 
giudicato. ne 
consegue 
che, per quella 
parte 
di 
rapporto non coperta 
dal 
giudicato, 
non vi 
sono ostacoli 
a 
dare 
immediata 
attuazione 
allo jus 
superveniens 
di 
derivazione 
comunitaria 
(con le conseguenze di cui 
infra). 


45. In conclusione, pertanto, l’incompatibilità 
comunitaria 
della 
legge 
nazionale 
che 
ha 
disposto 
la 
proroga 
ex 
lege 
delle 
concessioni 
demaniali 
produce 
come 
effetto, anche 
nei 
casi 
in 
cui 
siano stati 
adottati 
formali 
atti 
di 
proroga 
e 
nei 
casi 
in cui 
sia 
intervenuto un giudicato favorevole, 
il 
venir 
meno 
degli 
effetti 
della 
concessione, 
in 
conseguenza 
della 
non 
applicazione 
della disciplina interna. 
46. L’Adunanza 
plenaria 
è, tuttavia, consapevole 
del 
notevole 
impatto (anche 
sociale 
ed economico) 
che 
tale 
immediata 
non applicazione 
può comportare, specie 
in un contesto caratterizzato 
da 
un 
regime 
di 
proroga 
che 
è 
frutto 
di 
interventi 
normativi 
stratificatisi 
nel 
corso 
degli 
anni. Basterà 
ricordare 
che 
la 
prima 
proroga, fino al 
31 dicembre 
2015, fu disposta 
dall’art. 
1, comma 
18, d.l. n. 194 del 
2009, convertito con modificazione 
in legge 
26 febbraio 2010, 
n. 
25. 
Il 
termine 
del 
31 
dicembre 
2015 
fu 
successivamente 
prorogato 
sino 
al 
31 
dicembre 
2020 per effetto della 
successiva 
legge 
24 dicembre 
2012, n. 228, e, infine, approssimandosi 
la 
scadenza 
del 
31 dicembre 
2020, l’art. 1, commi 
682 e 
683 ha 
disposto l’ulteriore 
proroga 
fino al 31 dicembre 2033. 
nel 
corso di 
queste 
ripetute 
proroghe, il 
legislatore, anche 
per fare 
fronte 
alle 
procedure 
di 
infrazione 
nel 
frattempo aperte 
dalla 
Commissione 
europea, aveva 
“annunciato” 
il 
“riordino 
della 
materia 
in conformità 
dei 
principi 
di 
derivazione 
europea” 
(così 
l’art. 24, comma 
3-sep

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


ties 
d.l. n. 113 del 
2016, convertito in legge 
n. 160 del 
2016); 
come 
è 
noto, tuttavia, la 
nuova 
normativa volta a garantire compatibilità con l’ordinamento europeo non è mai intervenuta. 
ne 
è 
derivata 
una 
situazione 
di 
sicura 
incertezza, che 
sarebbe 
ulteriormente 
alimentata 
dal-
l’improvvisa 
cessazione 
di 
tutti 
i 
rapporti 
concessori 
in atto, come 
conseguenza 
della 
immediata 
non applicazione della legge nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione. 


47. In questo quadro normativo, l’Adunanza 
plenaria, applicando principi 
analoghi 
a 
quelli 
già 
espressi 
nella 
sentenza 
n. 
13 
del 
2017, 
ritiene 
allora 
che, 
a 
fronte 
di 
un 
quadro 
di 
incertezza 
normativa, sussistano i 
presupposti 
per modulare 
gli 
effetti 
temporali 
della 
propria 
decisione. 
La 
deroga 
alla 
retroattività 
trova 
fondamento nel 
principio di 
certezza 
del 
diritto: 
si 
limita 
la 
possibilità 
per 
gli 
interessati 
di 
far 
valere 
la 
norma 
giuridica 
come 
interpretata, 
se 
vi 
è 
il 
rischio 
di 
ripercussioni 
economiche 
o sociali 
gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di 
rapporti 
giuridici 
costituiti 
in 
buona 
fede 
sulla 
base 
di 
una 
diversa 
interpretazione 
normativa, 
sempre 
che 
risulti 
che 
i 
destinatari 
del 
precetto erano stati 
indotti 
ad un comportamento non 
conforme 
alla 
normativa 
in 
ragione 
di 
una 
obiettiva 
e 
rilevante 
incertezza 
circa 
la 
portata 
delle 
disposizioni 
(in 
tal 
senso, 
ma 
con 
riferimento 
all’ordinamento 
comunitario, 
Corte 
di 
giustizia, 
15 marzo 2005, in C-209/03). 
nel 
caso di 
specie, peraltro, la 
graduazione 
degli 
effetti 
è 
resa 
necessaria 
dalla 
constatazione 
che 
la 
regola 
in base 
alla 
quale 
le 
concessioni 
balneari 
debbono essere 
affidate 
in seguito a 
procedura 
pubblica 
e 
imparziale 
richiede 
di 
prevedere 
un intervallo di 
tempo necessario per 
svolgere 
la 
competizione, nell’ambito del 
quale 
i 
rapporti 
concessori 
continueranno a 
essere 
regolati dalla concessione già rilasciata. 
Detto periodo deve 
essere 
congruo rispetto all’esigenza 
funzionale 
di 
espletare 
le 
gare 
e 
di 
evitare 
il 
significativo 
impatto 
economico 
e 
sociale 
che 
altrimenti 
deriverebbe 
dall’improvvisa 
decadenza 
dei 
rapporti 
concessori 
in 
essere. 
Al 
tempo 
stesso, 
il 
lasso 
temporale 
non 
può 
essere 
elusivo dell’obbligo di adeguamento della realtà nazionale all’ordinamento comunitario. 
L’intervallo temporale 
potrebbe 
altresì 
consentire 
a 
Governo e 
Parlamento di 
approvare 
doverosamente 
una 
normativa 
che 
possa 
finalmente 
riordinare 
la 
materia 
e 
disciplinare 
in conformità 
con l’ordinamento comunitario il 
sistema 
di 
rilascio delle 
concessioni 
demaniali. È, 
infatti, compito del 
legislatore 
farsi 
carico di 
una 
disciplina 
che, nel 
rispetto dei 
principi 
del-
l’ordinamento 
dell’Unione 
e 
degli 
opposti 
interessi, 
sia 
in 
grado 
di 
contemperare 
le 
ormai 
ineludibili 
istanze 
di 
tutela 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato con l’altrettanto importante 
esigenza 
di tutela dei concessionari uscenti. 
48. Pertanto, l’Adunanza 
plenaria, consapevole 
della 
portata 
nomofilattica 
della 
presente 
decisione, 
della 
necessità 
di 
assicurare 
alle 
amministrazioni 
un ragionevole 
lasso di 
tempo per 
intraprendere 
sin 
d’ora 
le 
operazioni 
funzionali 
all’indizione 
di 
procedure 
di 
gara, 
nonché 
degli 
effetti 
ad ampio spettro che 
inevitabilmente 
deriveranno su una 
moltitudine 
di 
rapporti 
concessori, ritiene 
che 
tale 
intervallo temporale 
per l’operatività 
degli 
effetti 
della 
presente 
decisione possa essere congruamente individuato al 31 dicembre 2023. 
Scaduto tale 
termine, tutte 
le 
concessioni 
demaniali 
in essere 
dovranno considerarsi 
prive 
di 
effetto, 
indipendentemente 
da 
se 
via 
sia 
-o 
meno 
-un 
soggetto 
subentrante 
nella 
concessione. 
Si 
precisa 
sin 
da 
ora 
che 
eventuali 
proroghe 
legislative 
del 
termine 
così 
individuato 
(al 
pari 
di 
ogni 
altra 
disciplina 
comunque 
diretta 
ad 
eludere 
gli 
obblighi 
comunitari) 
dovranno 
naturalmente 
considerarsi 
in 
contrasto 
con 
il 
diritto 
dell’Unione 
e, 
pertanto, 
immediatamente 
non 
applicabili 
ad 
opera 
non 
solo 
del 
giudice, 
ma 
di 
qualsiasi 
organo 
amministrativo, 
doverosamente 
legittimato 
a 
considerare, 
da 
quel 
momento, 
tamquam 
non 
esset 
le 
concessioni 
in 
essere. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


49. In ordine 
ai 
principi 
che 
dovranno ispirare 
lo svolgimento delle 
gare, ferma 
restando la 
discrezionalità 
del 
legislatore 
nell’approntare 
la 
normativa 
di 
riordino del 
settore, può ricordarsi 
che 
l’art. 
12 
della 
direttiva 
2006/123 
già 
contiene 
importanti 
criteri 
in 
grado 
di 
veicolare 
la 
discrezionalità 
del 
legislatore, imponendo, appunto, una 
“procedura di 
selezione 
tra i 
candidati 
potenziali, che 
presenti 
garanzie 
di 
imparzialità e 
di 
trasparenza e 
preveda, in particolare, 
un’adeguata 
pubblicità 
dell’avvio 
della 
procedura 
e 
del 
suo 
svolgimento 
e 
completamento”, ma 
precisando anche 
che, “nello stabilire 
le 
regole 
della procedura di 
selezione, 
di 
considerazioni 
di 
salute 
pubblica, 
di 
obiettivi 
di 
politica 
sociale, 
della 
salute 
e 
della sicurezza dei 
lavoratori 
dipendenti 
ed autonomi, della protezione 
dell’ambiente, della 
salvaguardia del 
patrimonio culturale 
e 
di 
altri 
motivi 
imperativi 
d’interesse 
generale 
conformi 
al diritto comunitario”. 
nel 
considerare 
tali 
ultime 
prerogative 
possono essere 
apprezzati 
e 
valorizzati 
in sede 
di 
gara 
profili di politica sociale e del lavoro e di tutela ambientale. 
Con 
specifico 
riferimento 
al 
legittimo 
affidamento 
dei 
titolari 
di 
tali 
autorizzazioni, 
funzionale 
ad ammortizzare 
gli 
investimenti 
da 
loro effettuati, la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
constatato che 
“gli 
Stati 
membri 
possono tener 
conto, nello stabilire 
le 
regole 
della procedura di 
selezione, di 
considerazioni 
legate 
a 
motivi 
imperativi 
d’interesse 
generale”, 
precisando 
che 
si 
possa 
tenere 
conto 
di 
tali 
considerazioni 
“solo 
al 
momento 
di 
stabilire 
le 
regole 
della 
procedura 
di 
selezione 
dei 
candidati 
potenziali 
e 
fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di 
tale 
direttiva” 
e 
che 
comunque 
necessiti 
al 
riguardo “una valutazione 
caso per 
caso che 
consenta di 
dimostrare 
che 
il 
titolare 
dell’autorizzazione 
poteva 
legittimamente 
aspettarsi 
il 
rinnovo 
della 
propria autorizzazione 
e 
ha effettuato i 
relativi 
investimenti” 
(sentenza 
Promoimpresa). La 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
del 
resto rinvenuto detta 
situazione 
rispetto a 
una 
concessione 
attribuita 
nel 
1984, “quando non era ancora stato dichiarato che 
i 
contratti 
aventi 
un interesse 
transfrontaliero 
certo avrebbero potuto essere 
soggetti 
a obblighi 
di 
trasparenza”, esigendo che 
“la risoluzione 
di 
siffatta concessione 
sia corredata di 
un periodo transitorio che 
permetta 
alle 
parti 
del 
contratto di 
sciogliere 
i 
rispettivi 
rapporti 
contrattuali 
a condizioni 
accettabili, 
in particolare, dal 
punto di 
vista economico” 
(sentenza 
Promoimpresa). L’indizione 
di 
procedure 
competitive 
per l’assegnazione 
delle 
concessioni 
dovrà, pertanto, ove 
ne 
ricorrano i 
presupposti, 
essere 
supportata 
dal 
riconoscimento 
di 
un 
indennizzo 
a 
tutela 
degli 
eventuali 
investimenti 
effettuati 
dai 
concessionari 
uscenti, essendo tale 
meccanismo indispensabile 
per 
tutelare l’affidamento degli stessi. 
Se 
i 
criteri 
dettati 
dall’art. 12 della 
direttiva 
2006/123 non impongono il 
rispetto del 
principio 
di 
rotazione 
(dettati 
in relazione 
al 
diverso settore 
dei 
contratti 
pubblici 
disciplinati 
dalle 
direttive 
del 
2014, le 
nn. 23, 24 e 
25), nondimeno, nel 
conferimento o nel 
rinnovo delle 
concessioni, 
andrebbero evitate 
ipotesi 
di 
preferenza 
“automatica” 
per i 
gestori 
uscenti, in quanto 
idonei 
a 
tradursi 
in un’asimmetria 
a 
favore 
dei 
soggetti 
che 
già 
operano sul 
mercato (circostanza 
che 
potrebbe 
verificarsi 
anche 
nell’ipotesi 
in cui 
le 
regole 
di 
gara 
consentano di 
tenere 
in 
considerazione 
gli 
investimenti 
effettuati 
senza 
considerare 
il 
parametro 
di 
efficienza 
quale 
presupposto di apprezzabilità dei medesimi). 
La 
scelta 
di 
criteri 
di 
selezione 
proporzionati, non discriminatori 
ed equi 
è, infatti, essenziale 
per garantire 
agli 
operatori 
economici 
l’effettivo accesso alle 
opportunità 
economiche 
offerte 
dalle 
concessioni. A 
tal 
fine 
i 
criteri 
di 
selezione 
dovrebbero dunque 
riguardare 
la 
capacità 
tecnica, professionale, finanziaria 
ed economica 
degli 
operatori, essere 
collegati 
all’oggetto 
del 
contratto e 
figurare 
nei 
documenti 
di 
gara. nell’ambito della 
valutazione 
della 
capacità 
tecnica 
e 
professionale 
potranno, tuttavia, essere 
individuati 
criteri 
che, nel 
rispetto della 
par 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


condicio, consentano anche 
di 
valorizzare 
l’esperienza 
professionale 
e 
il 
know-how 
acquisito 
da 
chi 
ha 
già 
svolto attività 
di 
gestione 
di 
beni 
analoghi 
(e, quindi, anche 
del 
concessionario 
uscente, ma 
a 
parità 
di 
condizioni 
con gli 
altri), anche 
tenendo conto della 
capacità di 
interazione 
del 
progetto con il 
complessivo sistema 
turistico-ricettivo del 
territorio locale; 
anche 
tale 
valorizzazione, peraltro, non potrà 
tradursi 
in una 
sorta 
di 
sostanziale 
preclusione 
all’accesso 
al settore di nuovi operatori. 
Ulteriori 
elementi 
di 
valutazione 
dell’offerta 
potranno riguardare 
gli 
standard qualitativi 
dei 
servizi 
(da 
incrementare 
rispetto 
ad 
eventuali 
minimi 
previsti) 
e 
sostenibilità 
sociale 
e 
ambientale 
del 
piano degli 
investimenti, in relazione 
alla 
tipologia 
della 
concessione 
da 
gestire. 
La 
durata 
delle 
concessioni 
dovrebbe 
essere 
limitata 
e 
giustificata 
sulla 
base 
di 
valutazioni 
tecniche, 
economiche 
e 
finanziarie, 
al 
fine 
di 
evitare 
la 
preclusione 
dell’accesso 
al 
mercato. 
Al 
riguardo, 
sarebbe 
opportuna 
l’introduzione 
a 
livello 
normativo 
di 
un 
limite 
alla 
durata 
delle 
concessioni, 
che 
dovrà 
essere 
poi 
in 
concreto 
determinata 
(nell’ambito 
del 
tetto 
normativo) 
dal-
l’amministrazione 
aggiudicatrice 
nel 
bando 
di 
gara 
in 
funzione 
dei 
servizi 
richiesti 
al 
concessionario. 
La 
durata 
andrebbe 
commisurata 
al 
valore 
della 
concessione 
e 
alla 
sua 
complessità 
organizzativa 
e 
non 
dovrebbe 
eccedere 
il 
periodo 
di 
tempo 
ragionevolmente 
necessario 
al 
recupero 
degli 
investimenti, 
insieme 
ad 
una 
remunerazione 
del 
capitale 
investito 
o, 
per 
converso, 
laddove 
ciò 
determini 
una 
durata 
eccessiva, 
si 
potrà 
prevedere 
una 
scadenza 
anticipata 
ponendo 
a 
base 
d’asta 
il 
valore, 
al 
momento 
della 
gara, 
degli 
investimenti 
già 
effettuati 
dal 
concessionario. 
È 
inoltre 
auspicabile 
che 
le 
amministrazioni 
concedenti 
sfruttino appieno il 
reale 
valore 
del 
bene 
demaniale 
oggetto di 
concessione. In tal 
senso, sarebbe 
opportuno che 
anche 
la 
misura 
dei 
canoni 
concessori 
formi 
oggetto della 
procedura 
competitiva 
per la 
selezione 
dei 
concessionari, 
in modo tale 
che, all’esito, essa 
rifletta 
il 
reale 
valore 
economico e 
turistico del 
bene 
oggetto di affidamento. 


50. 
Le 
suddette 
considerazioni 
si 
riverberano 
anche 
nei 
casi 
in 
cui 
sia 
intervenuto 
un 
giudicato 
favorevole al concessionario demaniale. 
Si 
è 
già 
detto che 
l’eventuale 
giudicato che 
abbia 
riconosciuto il 
diritto alla 
proroga 
non attribuisce 
un 
diritto 
incondizionato 
alla 
continuità 
del 
rapporto, 
dovendosi 
viceversa 
ritenere 
che 
la parte del rapporto non coperta dal giudicato sia esposta alla normativa comunitaria. 
Detta 
affermazione 
richiede 
di 
stabilire 
quale 
sia 
la 
parte 
del 
rapporto non coperta 
dal 
giudicato. 
I 
rapporti 
concessori 
oggetto 
di 
eventuali 
giudicati 
formatisi 
sulla 
normativa 
in 
esame 
(in 
particolare 
l’art. 1, commi 
682 e 
683, legge 
n. 145 del 
2018, che 
dispone 
la 
proroga 
automatica 
e 
generalizzata 
fino al 
31 dicembre 
2033 delle 
concessioni 
demaniali 
in essere), successiva 
alla 
sentenza 
Promoimpresa 
della 
Corte 
di 
giustizia, necessitano di 
essere 
regolamentati 
tenendo 
conto, da 
un lato, del 
portato tipico dell’autorità 
di 
cosa 
giudicata 
(sopra 
illustrato) e, 
dall’altro, delle 
implicazioni 
derivanti 
dalle 
modifiche 
normative 
(cui 
sono equiparate 
le 
sentenze 
della Corte di giustizia) successivamente intervenute a disciplinare il rapporto. 
La 
particolarità 
della 
vicenda 
discende 
dal 
fatto che 
la 
sentenza 
Promoimpresa 
è 
stata 
pronunciata 
nel 
2016, 
quindi 
prima 
della 
modifica 
normativa 
del 
2018, 
sicché 
essa 
non 
costituisce 
quella 
sopravvenienza 
idonea 
ad incidere 
sul 
giudicato formatosi 
successivamente 
(in particolare 
riguardante la modifica normativa del 2018). 
nondimeno non si 
può non considerare 
il 
ruolo che 
svolge 
la 
presente 
pronuncia 
in punto di 
certezza 
del 
diritto 
relativo 
alle 
concessioni 
balneari 
sul 
territorio 
italiano, 
ruolo 
reso 
evidente, 
da 
un lato, dal 
deferimento d’ufficio della 
questione 
da 
parte 
del 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato di 
cui 
al 
decreto n. 160 del 
2021, dato il 
notevole 
impatto sistemico della 
questione 
e 
la 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


rilevanza 
del 
rapporto 
tra 
il 
diritto 
nazionale 
e 
il 
diritto 
dell’Unione, 
e 
considerata 
la 
particolare 
rilevanza 
economico-sociale 
che 
rende 
opportuna 
una 
pronuncia 
della 
Adunanza 
plenaria 
“onde 
assicurare 
certezza e 
uniformità di 
applicazione 
del 
diritto da parte 
delle 
amministrazioni 
interessate 
nonché 
uniformità 
di 
orientamenti 
giurisprudenziali”; 
e, 
dall’altro 
lato, 
dalla 
graduazione temporale degli effetti della presente pronuncia. 
Dette 
circostanze 
inducono 
a 
ritenere 
che, 
anche 
rispetto 
ai 
rapporti 
oggetto 
di 
sentenza 
passata 
in 
giudicato 
favorevole 
per 
il 
concessionario, 
gli 
effetti 
della 
non 
applicazione 
della 
normativa 
in esame si produrranno al termine del periodo transitorio sopra illustrato. 
In tal senso convergono: 
-le 
stesse 
ragioni 
di 
certezza 
che 
inducono 
a 
prevedere 
un 
periodo 
transitorio 
che 
preceda 
l’obbligo di 
non applicazione 
della 
disciplina 
legislativa 
interna 
in conflitto con il 
diritto UE; 
-considerazioni 
concrete 
di 
applicabilità 
amministrativa 
del 
principio 
di 
diritto 
enunciato 
(che 
richiedono necessariamente di prevedere un intervallo per lo svolgimento delle gare); 


-l’opportunità 
di 
consentire 
al 
legislatore 
di 
normare 
le 
procedure 
di 
affidamento delle 
concessioni 
balneari 
in conformità 
al 
diritto UE, considerato anche 
il 
ruolo nevralgico delle 
medesime 
nell’ambito dell’economia italiana; 
- la necessità di evitare disparità di trattamento; 
- generali esigenze di semplificazione e linearità della disciplina pubblicistica. 
ne 
deriva 
che 
i 
giudicati 
favorevoli 
per il 
concessionario formatisi 
sulla 
normativa 
in esame 
cessano di 
disciplinare 
il 
rapporto concessorio a 
far data 
dalla 
scadenza 
del 
periodo biennale 
di cui appena sopra. 
51. 
Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, 
l’Adunanza 
plenaria 
enuncia 
i 
seguenti 
principi 
di diritto: 
1. Le 
norme 
legislative 
nazionali 
che 
hanno disposto (e 
che 
in futuro dovessero ancora disporre) 
la proroga automatica delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
finalità turistico-
ricreative 
-compresa 
la 
moratoria 
introdotta 
in 
correlazione 
con 
l’emergenza 
epidemiologica 
da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge 
n. 77/2020 -sono in 
contrasto con il 
diritto eurounitario, segnatamente 
con l’art. 49 TFUE 
e 
con l’art. 12 della 
direttiva 2006/123/CE. Tali 
norme, pertanto, non devono essere 
applicate 
né 
dai 
giudici 
né 
dalla pubblica amministrazione. 
2. Ancorché 
siano intervenuti 
atti 
di 
proroga rilasciati 
dalla P.A. (e 
anche 
nei 
casi 
in cui 
tali 
siano stati 
rilasciati 
in seguito a un giudicato favorevole 
o abbiamo comunque 
formato oggetto 
di 
un 
giudicato 
favorevole) 
deve 
escludersi 
la 
sussistenza 
di 
un 
diritto 
alla 
prosecuzione 
del 
rapporto in capo gli 
attuali 
concessionari. Non vengono al 
riguardo in rilievo i 
poteri 
di 
autotutela 
decisoria 
della 
P.A. 
in 
quanto 
l’effetto 
di 
cui 
si 
discute 
è 
direttamente 
disposto 
dalla legge, che 
ha nella sostanza legificato i 
provvedimenti 
di 
concessione 
prorogandone 
i 
termini 
di 
durata. La non applicazione 
della legge 
implica, quindi, che 
gli 
effetti 
da essa prodotti 
sulle 
concessioni 
già rilasciate 
debbano parimenti 
ritenersi 
tamquam 
non esset, senza 
che 
rilevi 
la presenza o meno di 
un atto dichiarativo dell’effetto legale 
di 
proroga adottato 
dalla 
P.A. 
o 
l’esistenza 
di 
un 
giudicato. 
Venendo 
in 
rilievo 
un 
rapporto 
di 
durata, 
infatti, 
anche 
il 
giudicato 
è 
comunque 
esposto 
all’incidenza 
delle 
sopravvenienze 
e 
non 
attribuisce 
un 
diritto 
alla continuazione del rapporto. 
3. 
Al 
fine 
di 
evitare 
il 
significativo 
impatto 
socio-economico 
che 
deriverebbe 
da 
una 
decadenza 
immediata e 
generalizzata di 
tutte 
le 
concessioni 
in essere, di 
tener 
conto dei 
tempi 
tecnici 
perché 
le 
amministrazioni 
predispongano le 
procedura di 
gara richieste 
e, altresì, nell’auspicio 
che 
il 
legislatore 
intervenga a riordinare 
la materia in conformità ai 
principi 
di 
deri

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


vazione 
europea, le 
concessioni 
demaniali 
per 
finalità turistico-ricreative 
già in essere 
continuano 
ad 
essere 
efficaci 
sino 
al 
31 
dicembre 
2023, 
fermo 
restando 
che, 
oltre 
tale 
data, 
anche 
in assenza di 
una disciplina legislativa, esse 
cesseranno di 
produrre 
effetti, nonostante 
qualsiasi 
eventuale 
ulteriore 
proroga legislativa che 
dovesse 
nel 
frattempo intervenire, la quale 
andrebbe 
considerata senza effetto perché 
in contrasto con le 
norme 
dell’ordinamento del-
l’U.E. 


P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Adunanza 
Plenaria), non definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come in epigrafe proposto: 


a) 
dichiara 
inammissibili 
gli 
interventi 
ed 
estromette 
dal 
giudizio 
il 
Sindacato 
italiano 
balneari 
(SIB), l’Associazione 
nazionale 
approdi 
e 
porti 
turistici, l’Associazione 
CnA 
Balneatori 
Puglia 
e 
Lidi 
del 
Salento, il 
Comitato coordinamento concessionari 
demaniali 
pertinenziali 
italiani, 
la 
regione 
Abruzzo, 
il 
Comune 
di 
Castrignano 
del 
Capo, 
i 
concessionari 
demaniali 
indicati 
in 
epigrafe 
nonché, 
in 
parziale 
riforma 
della 
sentenza 
appellata, 
la 
Federazione 
italiana 
imprese demaniali; 
b) enuncia i principi di diritto di cui in motivazione; 
c) restituisce 
gli 
atti 
alla 
v 
Sezione 
del 
Consiglio di 
Stato per ogni 
ulteriore 
statuizione, in 
rito, nel merito nonché sulle spese del giudizio. 
Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2021. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


La vexata quaestio 
della proroga delle 
concessioni demaniali: prospettive future 


Gaetana Natale* 


Le 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio di 
Stato n. 17 e 
n. 18 
del 
9 novembre 
2021 hanno suscitato, come 
è 
noto, un notevole 
dibattito vertente 
sulla 
sorte 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
in essere, c.d. concessioni 
balneari, in un paese 
come 
l’Italia 
che 
presenta 
molti 
kilometri 
di 
costa 
da tutelare. 

Il 
Supremo Consesso della 
Giustizia 
Amministrativa 
ha 
statuito che: 
“Le 
norme 
legislative 
nazionali 
che 
hanno disposto (e 
che 
in futuro dovessero ancora 
disporre) la proroga automatica delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
finalità turistico-ricreative 
-compresa la moratoria introdotta in correlazione 
con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, 


d.l. n. 34 del 
2020, convertito in legge 
n. 77 del 
2020 -sono in contrasto con 
il 
diritto euro-unitario, segnatamente 
con l’art. 49 TFUE 
e 
con l’art. 12 della 
direttiva 
2006/123/CE 
[c.d. 
direttiva 
Bolkestein]. 
Tali 
norme, 
pertanto, 
non 
devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. 
Ancorché 
siano intervenuti 
atti 
di 
proroga [delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
finalità 
turistico-ricreative] 
rilasciati 
dalla 
P.A. 
(e 
anche 
nei 
casi 
in cui 
tali 
atti 
siano stati 
rilasciati 
in seguito a un giudicato favorevole 
o abbiano, 
comunque, 
formato 
oggetto 
di 
un 
giudicato 
favorevole) 
deve 
escludersi 
la sussistenza di 
un diritto alla prosecuzione 
del 
rapporto in capo gli 
attuali 
concessionari. Non vengono al 
riguardo in rilievo i 
poteri 
di 
autotutela decisoria 
della 
P.A., 
in 
quanto 
l’effetto 
di 
cui 
si 
discute 
è 
direttamente 
disposto 
dalla legge, che 
ha nella sostanza legificato i 
provvedimenti 
di 
concessione, 
prorogandone 
i 
termini 
di 
durata. La non applicazione 
della legge 
implica, 
quindi, 
che 
gli 
effetti 
da 
essa 
prodotti 
sulle 
concessioni 
già 
rilasciate 
debbano 
parimenti 
ritenersi 
tamquam 
non esset, senza che 
rilevi 
la presenza o meno di 
un atto dichiarativo dell’effetto legale 
di 
proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza 
di 
un 
giudicato. 
Venendo 
in 
rilievo 
un 
rapporto 
di 
durata, 
infatti, 
anche 
il 
giudicato 
è, 
comunque, 
esposto 
all’incidenza 
delle 
sopravvenienze 
e 
non 
attribuisce 
un diritto alla continuazione del rapporto. 


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
Giuridici 
Comparati, Consigliere 
Giuridico 
del Garante per la Privacy. 

redazione 
delle 
note 
a 
cura 
della 
Dott.ssa 
Anna 
Pagano, ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale dello Stato. 


in 
appendice 
all’articolo 
i 
passaggi 
più 
significativi 
della 
bozza 
di 
emendamento 
al 
disegno 
di 
legge 
per 
il 
mercato e 
la concorrenza, per 
il 
riordino di 
tutte 
le 
concessioni 
demaniali 
marittime, 
lacuali e fluviali (Consiglio dei Ministri n. 61, 15 febbraio 2022). 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


Al 
fine 
di 
evitare 
il 
significativo 
impatto 
socio-economico 
che 
deriverebbe 
da 
una 
decadenza 
immediata 
e 
generalizzata 
di 
tutte 
le 
concessioni 
demaniali 
marittime 
[per finalità 
turistico-ricreative] 
in essere, di 
tener 
conto dei 
tempi 
tecnici 
perché 
le 
amministrazioni 
predispongano 
le 
procedure 
di 
gara 
richieste 
e, altresì, nell’auspicio che 
il 
legislatore 
intervenga a riordinare 
la materia 
in 
conformità 
ai 
principi 
di 
derivazione 
europea, 
le 
concessioni 
demaniali 
per 
finalità turistico-ricreative 
già in essere 
continuano ad essere 
efficaci 
sino al 
31 
dicembre 
2023, 
fermo 
restando 
che, 
oltre 
tale 
data, 
anche 
in 
assenza 
di 
una 
disciplina 
legislativa, 
esse 
cesseranno 
di 
produrre 
effetti, 
nonostante 
qualsiasi 
eventuale 
ulteriore 
proroga legislativa che 
dovesse 
nel 
frattempo intervenire, 
la quale 
andrebbe 
considerata senza effetto, perché 
in contrasto con 
le norme dell’ordinamento U.E.”. 


La 
lettura 
della 
suddetta 
statuizione 
riassunta 
nei 
suoi 
punti 
essenziali 
pone 
-prima 
facie 
-due 
questioni 
rilevanti: 
la 
prima 
quella 
della 
“modulazione 
temporale 
degli 
effetti 
della 
disapplicazione”, 
l’altra 
quella 
del 
“giudicato”. 


È 
opportuno 
ricordare 
che 
tali 
sentenze 
non 
nascono 
da 
ordinanze 
di 
rimessione 
delle 
sezioni 
semplici 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
ma 
da 
una 
precisa 
iniziativa 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
ai 
sensi 
dell’art. 
99 
comma 
2 


c.p.a. 
(1) 
(potere 
a 
cui 
non 
si 
ricorre 
spesso), 
previa 
richiesta 
all’Ufficio 
Studi 
di 
un 
dossier 
di 
giurisprudenza 
sul 
tema 
da 
cui 
emergeva 
che 
tutti 
i 
TAr 
(tranne 
il 
Tar 
Puglia 
-sede 
di 
Lecce) 
(2) 
avevano 
riconosciuto 
l’incompatibilità 
delle 
proroghe 
concesse 
senza 
la 
procedura 
dell’evidenza 
pubblica 
con 
la 
normativa 
eurounitaria. 
Si 
poneva, 
dunque, 
il 
problema 
della 
sorte 
di 
tali 
proroghe 
e 
la 
definizione 
di 
criteri 
guida 
per 
l’operato 
della 
P.A., 
data 
la 
portata 
nomofilattica 
e 
allo 
stesso 
tempo 
conformativa 
delle 
pronunzie 
dell’Adunanza 
Plenaria. 
riguardo al 
profilo della 
modulazione 
degli 
effetti 
temporali 
delle 
pronunzie, 
laddove 
fissano al 
31 dicembre 
2023 la 
durata 
delle 
proroghe, si 
ricorderà 
che 
già 
l’Adunanza 
Plenaria 
n. 
13 
del 
2017 
(3) 
aveva 
chiarito 
tale 
possibilità in merito agli effetti costitutivi del 
prospective overruling. 


(1) Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 160 del 24 maggio 2021. 
(2) vedi: 
T.A.r. Puglia, Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2021, nn. 71-75; 
T.A.r. Campania, Salerno, 
Sez. II, n. 265 del 
29 gennaio 2021; 
T.A.r. Puglia, Lecce, 1 febbraio 2021, nn. 155, 156, 160, 161, 164 
e 
165; 
T.A.r. 
Abruzzo, 
Pescara, 
Sez. 
I, 
n. 
40 
del 
3 
febbraio 
2021; 
T.A.r. 
Puglia, 
Lecce, 
15 
febbraio 
2021, nn. 263 e 
268; 
T.A.r. Toscana, Sez. II, n. 363 dell’8 marzo 2021; 
Consiglio di 
Stato, Sez. vI, n. 
7874 
del 
18 
novembre 
2019; 
Tar 
Puglia, 
Lecce, 
Sez. 
I, 
nn. 
1321-1322 
del 
27 
novembre 
2020; 
Cons. 
Stato, Sez. Iv, n. 1416 del 16 febbraio 2021. 
(3) Cons. Stato, Adunanza 
Plenaria 
n. 13 del 
22 dicembre 
2017: 
“L’Adunanza Plenaria del 
Consiglio 
di 
Stato può modulare 
la portata temporale 
delle 
proprie 
pronunce, in particolare 
limitandone 
gli 
effetti 
al 
futuro, al 
verificarsi 
delle 
seguenti 
condizioni: a) un’obiettiva e 
rilevante 
incertezza circa 
la portata delle 
disposizioni 
da interpretare; b) l’esistenza di 
un orientamento prevalente 
contrario al-
l’interpretazione 
adottata; c) la necessità di 
tutelare 
uno o più principi 
costituzionali 
o, comunque, di 
evitare ripercussioni socio-economiche”. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


riguardo 
alla 
seconda 
questione 
dei 
giudicati 
intervenuti 
prima 
delle 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria, questi 
possono essere 
incisi 
da 
norme 
sopravvenute 
essendo rapporti 
di 
durata: 
nel 
caso di 
specie 
lo ius 
superveniens 
viene 
individuato nella sentenza 
Promoimpresa 
del 14 luglio 2016 (4). 


nello stesso tempo tali 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
contengono un 
monito al 
legislatore, ossia 
quello di 
non concedere 
ulteriori 
proroghe 
che 
dovranno 
essere 
disapplicate 
sia 
dal 
giudice 
sia 
dalla 
pubblica 
amministrazione. 

Problema: 
tali 
statuizioni 
saranno 
in 
grado 
di 
prevenire 
i 
possibili 
contenziosi 
che 
potranno 
sorgere? 
Cercheremo 
di 
definire 
i 
possibili 
scenari 
futuri, 
considerato 
anche 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
99 
comma 
3, 
le 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
hanno 
effetto 
diretto 
solo 
sulle 
sezioni 
semplici 
del 
Consiglio di 
Stato e 
che 
queste 
ultime 
possono rimettere 
nuovamente 
la 
questione 
all’Adunanza 
Plenaria. 
È 
stato 
ritenuto 
(5) 
che 
in 
tale 
circostanza 
il 
Consiglio di 
Stato abbia 
svolto un ruolo di 
supplenza 
del 
legislatore 
che 
non 


(4) 
Sentenza 
della 
Grande 
Corte 
(Quinta 
Sezione) 
del 
14 
luglio 
2016, 
Promoimpresa 
srl 
(C458/
14) 
c. 
Consorzio 
dei 
Comuni 
della 
Sponda 
Bresciana 
del 
Lago 
di 
Garda 
e 
del 
Lago 
di 
Idro 
e 
Regione 
Lombardia 
e 
Mario 
Melis 
e 
a. 
(C-67/15) 
c. 
Comune 
di 
Loiri 
Porto 
San 
Paolo 
e 
Provincia 
di 
Olbia 
Tempio, 
Cause 
riunite 
C-458/14 
e 
C-67/15, 
ha 
affermato 
i 
seguenti 
principi 
di 
diritto 
“1) 
l’articolo 
12, 
paragrafi 
1 
e 
2, 
della 
direttiva 
2006/123/CE 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
12 
dicembre 
2006, 
relativa 
ai 
servizi 
nel 
mercato 
interno, 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
osta 
a 
una 
misura 
nazionale, 
come 
quella 
di 
cui 
ai 
procedimenti 
principali, 
che 
prevede 
la 
proroga 
automatica 
delle 
autorizzazioni 
demaniali 
marittime 
e 
lacuali 
in 
essere 
per 
attività 
turistico-ricreative, 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
procedura 
di 
selezione 
tra 
i 
potenziali 
candidati. 
2) 
L’articolo 
49 
TFUE 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale, 
come 
quella 
di 
cui 
ai 
procedimenti 
principali, 
che 
consente 
una 
proroga 
automatica 
delle 
concessioni 
demaniali 
pubbliche 
in 
essere 
per 
attività 
turistico-ricreative, 
nei 
limiti 
in 
cui 
tali 
concessioni 
presentano 
un 
interesse 
transfrontaliero 
certo”. 
Sul 
punto: 
SAnChInI, 
“Le 
concessioni 
demaniali 
marittime 
a 
scopo 
turistico-ricreativo 
tra 
meccanismi 
normativi 
di 
proroga 
e 
tutela 
dei 
principi 
europei 
di 
libera 
competizione 
economica: 
profili 
evolutivi 
alla 
luce 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
giustizia 
resa 
sul 
caso 
Promoimpresa-Melis” 
in 
Rivista 
della 
Regolazione 
dei 
Mercati, 
fascicolo 
27/2016; 
SQUArATTI, 
“L’accesso 
al 
mercato 
delle 
concessioni 
delle 
aree 
demaniali 
delle 
coste 
marittime 
e 
lacustri 
tra 
tutela 
dell’investimento 
ed 
interesse 
transfrontaliero” 
in 
European 
Paper. 
(5) CArAvITA 
-CArLoMAGno, “La proroga ex 
lege 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime. Tra tutela 
della concorrenza ed economia sociale 
di 
mercato. Una prospettiva di 
riforma”, in Federalismi.it, 
20, 2021, 1 ss.; 
ChITI, “False 
piste: il 
T.A.R. Lecce 
e 
le 
concessioni 
demaniali 
marittime” 
in Giornale 
di 
Diritto Amministrativo, 6/2021; 
FrAnCArIo, “Se 
questa è 
nomofiliachia. Il 
diritto amministrativo 2.0 
secondo l’Adunanza Plenaria del 
Consiglio di 
Stato”; 
GIAnnACCArI 
“Stessa spiaggia, stesso mare. Di 
concessioni 
demaniali 
marittime 
e 
(assenza di) concorrenza” 
in Mercato Concorrenza Regole, 2021, n. 
2, 307-341; 
roLLI, GrAnATA, “Concessioni 
demaniali 
marittime: la tutela della concorrenza quale 
Nemesi 
del 
legittimo affidamento” 
in Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc. 5, 2021, pag. 1624 -nota 
a 
Consiglio 
di 
Stato Ad. Plen., 9 novembre 
2021, n. 17; 
roMA, “Nessun dubbio su applicabilità Bolkestein a 
concessioni 
balneari 
rilasciate 
con atto formale” 
in https://www.mondobalneare.com/nessun-dubbiosu-
applicabilita-bolkestein-concessioni-balneari-atto-formale; 
PorTALUrI, 
“Concessioni 
balneari: 
giudizio 
netto, 
ora 
tocca 
al 
legislatore”, 
in 
Il 
quotidiano 
di 
Puglia, 
10 
novembre 
2021; 
TIMo, 
“Concessioni 
balneari 
senza 
gara… 
all’ultima 
spiaggia”; 
TonDI 
DELLA 
MUrA, 
“Se 
la 
supplenza 
dei 
giudici 
aggroviglia 
nodi 
e 
soluzioni”, in Dirittifondamentali.it, 14 novembre 
2021; 
“Spiagge: il 
Consiglio di 
Stato proroga 
le 
concessioni 
balneari 
fino al 
2023” 
in Diritto e 
Giustizia, 10 novembre 
2021; 
zAMPETTI, “Le 
concessioni 
balneari dopo le pronunce 
Ad. Plen. 17 e 18 2021” in giustiziainsieme.it. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


è 
intervenuto 
nella 
ultima 
legge 
di 
Bilancio 
e 
che 
nella 
legge 
delega 
sulla 
concorrenza 
si 
è 
limitato a 
chiedere 
una 
mappatura 
delle 
attuali 
concessioni 
che 
rappresentano un panorama 
molto variegato: 
vi 
sono, infatti, concessioni 
prorogate 
ex lege 
e molte altre prorogate 
de facto. 

Due affermazioni sono importanti dell’Adunanza Plenaria: 


1) 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
ha 
il 
dovere 
di 
disapplicare 
le 
norme 
incompatibili 
con 
il 
diritto 
euro-unitario. 
Alcuni 
Tar 
avevano 
sostenuto 
che 
non 
era 
la 
P.A. 
deputata 
a 
stabilire 
se 
la 
Direttiva 
Bolkestein 
fosse 
o 
non 
fosse 
self 
executive, 
ma 
tale 
argomentazione 
non 
è 
stata 
ritenuta 
valida 
dall’Adunanza 
Plenaria. 
2) occorre 
superare 
la 
nozione 
tradizionale 
di 
“concessione 
di 
beni” 
distinta 
dalla 
concessione 
di 
servizi 
e 
di 
lavori, perché 
in ambito euro-unitario 
quello che 
rileva 
è 
“l’attività”: 
se 
è 
economica 
ed incide 
sulla 
concorrenza, si 
ricade 
nel 
campo di 
applicazione 
dell’evidenza 
pubblica, tenuto anche 
conto 
del 
concetto di 
“scarsità delle 
risorse” 
e 
di 
“interesse 
certo transfrontaliero”. 
È 
opportuno precisare 
che 
tali 
pronunzie 
non porranno automaticamente 
fine 
alle 
procedure 
di 
infrazione, poiché 
le 
norme 
sono ancora 
vigenti 
e 
l’obbligo 
di 
disapplicazione 
potrà 
non 
essere 
rispettato. 
I 
concessionari 
uscenti 
cominciano a 
prospettare 
la 
lesione 
del 
legittimo affidamento per gli 
investimenti 
effettuati, ponendo la 
necessità 
di 
ricevere 
indennizzi 
e 
ristori 
in relazione 
ai 
quali 
dovranno 
essere 
prese 
in 
considerazione 
anche 
le 
tariffe 
e 
i 
canoni 
applicati. Ma 
si 
può parlare 
di 
legittimo affidamento quando la 
questione 
delle 
proroghe 
e 
le 
relativa 
procedura 
di 
infrazione 
risale 
addirittura 
al 
2008? 
(6). Di 
recente 
è 
stato istituito un tavolo tecnico per la 
definizione 
di 
un quadro completo con mappatura 
di 
tutte 
le 
concessioni, la 
loro scadenza 
e 
l’individuazione 
delle 
modalità 
del 
loro affidamento con il 
relativo tentativo 
di 
individuazione 
delle 
procedure 
per 
indennizzi 
che 
dovranno 
tener 
conto 
anche 
del 
c.d. vantaggio competitivo. È 
ragionevole 
pensare 
che 
vi 
saranno 
atti 
c.d. ricognitivi 
da 
parte 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
che 
potrebbero 
anche 
regolarizzare 
subito le 
procedure 
entro il 
31 dicembre 
2023. Tale 
scelta 
virtuosa 
potrebbe, però, far sorgere 
un copioso contenzioso volto ad ottenere 
l’indennizzo causato dalla c.d. risoluzione anticipata della concessione. 


Secondo alcuni 
autori 
come 
Clarich (7), le 
indicazioni 
prospettiche 
del


(6) Una 
prima 
procedura 
di 
infrazione 
n. 4908 risale 
già 
al 
2008. Lo Stato italiano, non avendo 
ottemperato 
alle 
promesse 
fatte 
a 
suo 
tempo 
è 
stato 
poi 
destinatario 
di 
una 
nuova 
procedura 
di 
infrazione 
risalente 
al 
3 
dicembre 
2020 
con 
una 
lettera 
di 
costituzione 
in 
mora 
n. 
4118, 
nella 
quale 
la 
Commissione 
osserva 
come 
“la normativa italiana, oltre 
a essere 
incompatibile 
con il 
diritto dell’Unione 
europea, 
sia 
in 
contrasto 
con 
la 
sostanza 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
(Promoimpresa)”. 
CASILLo, 
“Concessioni 
demaniali 
marittime: ancora una procedura di 
infrazione 
contro l’Italia” 
in https://www.agalegale.
it/2021/01/21/concessioni-demaniali-marittime/. 
(7) In un seminario tenutosi 
il 
19 gennaio 2021 presso l’Università 
Sapienza 
di 
roma 
dal 
titolo 
“Concessioni 
demaniali 
e 
diritto europeo. Le 
sentenze 
dell’Adunanza Plenaria del 
Consiglio di 
Stato n. 
17 e 
18/2021” 
il 
Professor Clarich ha 
puntualizzato come 
il 
vero destinatario delle 
statuizioni 
dell’Adunanza 
Plenaria siano le pubbliche amministrazioni. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


l’Adunanza 
Plenaria 
sono 
rivolte 
alla 
Pubblica 
Amministrazione 
più 
che 
al 
legislatore, 
affinché 
attivino sin da 
ora 
le 
procedure 
di 
gara 
in virtù dell’effetto 
conformativo delle 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
che 
hanno solo valore 
di 
orientamento 
e 
non 
effetti 
diretti. 
non 
è 
pienamente 
condivisibile 
la 
tesi 
di 
Enrico Follieri 
(8) secondo cui 
le 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
sarebbero 
fonti normative di secondo livello. 

Il 
Consiglio di 
Stato che 
ha 
considerato senza 
dubbio l’impatto sociale 
della 
sua 
pronuncia 
sui 
concessionari 
uscenti 
ha 
interferito sulle 
prerogative 
del 
Parlamento? 
È 
prospettabile 
un 
ricorso 
in 
Cassazione 
per 
eccesso 
di 
potere 
giurisdizionale 
ex 
art. 
111 
comma 
8 
Cost.? 
Secondo 
Clarich 
no, 
perché 
l’Adunanza 
Plenaria 
si 
limita 
ad 
indirizzare 
gli 
effetti 
delle 
concessioni 
in 
essere 
nei 
confronti 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
e 
non del 
legislatore. Il 
vincolo per 
il 
legislatore 
non 
è 
dato 
dalle 
statuizioni 
dell’Adunanza 
Plenaria, 
ma 
dalle 
prescrizioni 
del 
diritto euro-unitario (principio della 
gara 
pubblica, libertà 
di 
stabilimento, 
principio dell’indennizzo e dell’equo ristoro). 


Il 
problema 
del 
riordino normativo non si 
esaurisce 
nel 
dilemma 
proroga 


o 
non 
proroga, 
ma 
presenta 
profili 
di 
maggiore 
complessità 
se 
si 
prende 
in 
considerazione 
il 
rapporto 
del 
21 
dicembre 
della 
Corte 
dei 
Conti 
sezione 
Controlli 
sulla 
gestione 
dei 
beni 
demaniali. Tale 
rapporto ha 
messo in evidenza 
i 
problemi 
dei 
canoni: 
settore 
che 
muove 
15 miliardi 
di 
euro, mentre 
i 
canoni 
arrivano 
a 
100 
milioni 
di 
euro. 
vi 
è, 
dunque, 
un 
problema 
di 
sistema. 
La 
Corte 
dei 
Conti 
(9) 
evidenzia 
che 
la 
gestione 
delle 
concessioni 
spetta 
agli 
enti 
locali, 
mentre 
i 
proventi 
vanno 
all’Erario 
statale. 
vi 
sono 
attualmente 
12.000 
concessioni, 
il 
sistema 
informatico è 
il 
c.d. Portale 
del 
Mare 
che 
funziona 
solo se 
gli 
enti 
locali 
comunicano 
i 
dati 
alle 
regioni. 
Ma 
per 
gli 
enti 
che 
omettono 
(8) FoLLIErI, “L'Adunanza Plenaria, 'sovrano illuminato', prende 
coscienza che 
i 
principi 
enunciati 
nelle 
sue 
pronunzie 
sono fonti 
del 
diritto (Consiglio di 
stato, Ad. Plen., 22 dicembre 
2017, n. 13)” 
in 
Urbanistica 
e 
Appalti, 
2018, 
3, 
382. 
“I 
principi 
enunciati 
dall’Adunanza 
Plenaria 
sono 
fonti 
culturali 
del 
diritto che 
intervengono su altri 
atti-fonte 
(politici); la Plenaria non pone 
cioè 
un principio di 
per 
sé 
autonomo poiché 
ha ad oggetto un altro atto-fonte 
e 
questa constatazione 
determina i 
suoi 
caratteri 
che, in sintesi, sono: a) interviene 
su atti-fonte 
e, sotto questo profilo, può definirsi 
di 
secondo grado; 
b) 
non 
ha 
un 
grado 
prestabilito 
nella 
gerarchia 
delle 
fonti, 
ma 
va 
collocata 
nel 
gradino 
immediatamente 
superiore 
alla 
norma 
che 
interpreta; 
c) 
il 
vincolo 
del 
precedente 
viene 
meno 
quando 
la 
fonte 
interpretata 
è, in qualunque 
modo, rimossa; d) ha natura interpretativa ed efficacia retroattiva, tranne 
nell’ipotesi 
di 
overuling, nella ricorrenza di 
determinati 
elementi. Proprio la rilevanza del 
principio oltre 
il 
caso 
deciso e 
la acquisita coscienza del 
vincolo che 
ne 
deriva, fa degli 
enunciati 
della Plenaria una fonte 
del 
diritto che 
consente, per 
evitare 
le 
conseguenze 
di 
un mutamento di 
interpretazione 
rispetto a precedenti 
indirizzi 
giurisprudenziali 
che 
incidono 
sull’affidamento 
sino 
ad 
allora 
riposto 
dai 
soggetti 
del-
l’ordinamento 
su 
un 
determinato 
assetto 
dei 
rapporti, 
di 
stabilire 
che 
le 
modifiche 
non 
riguardano 
i 
casi 
pregressi, 
ma 
il 
futuro. 
Si 
prospetta, 
cioè, 
il 
cambiamento 
dell’interpretazione 
per 
le 
successive 
applicazioni 
della disposizione 
e, in un certo senso, si 
fanno salvi 
i 
rapporti 
pregressi 
e 
quello oggetto di 
decisione cui viene applicata la regola superata”. 
(9) 
Corte 
dei 
Conti, 
Sezione 
Generale 
di 
Controllo 
sulla 
gestione 
delle 
amministrazioni 
dello 
Stato. 
La 
gestione 
delle 
entrate 
derivanti 
dai 
beni 
demaniali 
marittimi. 
Deliberazione 
21 
dicembre 
2021, 
n. 20/2021/G in https://www.corteconti.it/Download?id=66e13045-e3dc-4787-9bc3-a2f59e757143. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


tale 
comunicazione 
non vi 
è 
alcuna 
sanzione. La 
Corte 
dei 
Conti 
suggerisce, 
pertanto, che 
i 
canoni 
pagati 
siano destinati 
ai 
Comuni 
che 
avrebbero così 
un 
incentivo ad una 
corretta 
gestione 
delle 
concessioni 
e 
alla 
puntuale 
comunicazione 
dei dati per tenere sotto controllo la situazione delle coste. 

Sorvolando 
sugli 
effetti 
verticali 
ed 
orizzontali 
della 
Direttiva 
Bolkestein, 
vediamo 
quale 
tipi 
di 
contenziosi 
potrebbero 
profilarsi 
in 
futuro 
dopo 
tali 
pronunzie 
in esame. 


1) 
Primo scenario: 
tali 
pronunzie 
impongono alla 
Pubblica 
Amministrazione 
di 
adottare 
i 
provvedimenti 
necessari 
in caso di 
giudicati 
favorevoli. vi 
saranno 
probabilmente 
ricorsi 
amministrativi 
per 
l’annullamento 
di 
tali 
atti 
che 
pongono nel 
nulla 
le 
proroghe 
in precedenza 
concesse: 
tali 
atti 
possono 
definirsi 
meramente 
ricognitivi 
o 
sono 
atti 
autoritativi 
espressione 
di 
potere 
pubblico? 
Sembrano 
avvalorare 
tale 
seconda 
tesi 
una 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
cassazione 
penale 
n. 3581 del 
28 gennaio 2021 (10) e 
la 
sentenza 
n. 802/21 
del 
CGA 
(11), la 
quale 
statuisce 
che 
anche 
in presenza 
di 
attività 
amministrativa 
vincolata, il 
provvedimento è 
espressione 
di 
potere 
amministrativo autoritativo, 
non ricognitivo, soggetto ad autotutela. 
2) 
Secondo scenario: 
riguardo a 
questi 
provvedimenti 
di 
segno contrario 
che 
ci 
saranno, 
perché 
l’Adunanza 
Plenaria 
impone 
di 
adottarli, 
i 
concessionari 
potrebbero 
chiedere 
il 
risarcimento 
per 
annullamento 
in 
autotutela 
di 
un 
provvedimento 
favorevole 
invocando le 
due 
Adunanze 
Plenarie 
nn. 20 e 
21/2021 
(12). Si 
ricorderà 
che 
il 
legittimo affidamento sul 
provvedimento favorevole 
(10) Corte 
di 
Cassazione 
Penale, Sez. 3^, 28 gennaio 2021, n. 3581 ha 
statuito che 
la 
proroga 
richiede 
un’espressa 
istanza 
del 
privato e 
un espresso provvedimento del 
Comune, per cui 
il 
reato di 
occupazione 
abusiva si configura quando non vi è tale provvedimento espresso. 
(11) 
Cons. 
Gius. 
Amm. 
regione 
Sicilia, 
del 
13 
settembre 
2021, 
n. 
802 
ove 
ha 
affermato 
che 
“Ai 
fini 
della 
sussistenza 
della 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo, 
la 
circostanza 
che 
il 
potere 
amministrativo 
sia 
vincolato 
-e 
cioè 
che 
il 
suo 
esercizio 
sia 
predeterminato 
dalla 
legge 
nell'an 
e 
nel 
quomodo 
-non 
trasforma 
il 
potere 
medesimo 
in 
una 
categoria 
civilistica, 
assimilabile 
ad 
un 
diritto 
potestativo, 
ove 
l'Amministrazione 
eserciti 
una 
funzione 
di 
verifica, 
controllo, 
accertamento 
tecnico 
dei 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge, 
quale 
soggetto 
incaricato 
della 
cura 
di 
interessi 
pubblici 
generali, 
esulanti 
dalla 
propria 
sfera 
patrimoniale: 
il 
potere 
vincolato, 
dunque, 
resta 
comunque 
espressione 
di 
"supremazia" 
o 
di 
"funzione", 
con 
il 
corollario 
che 
dalla 
sua 
natura 
vincolata 
derivano 
conseguenze 
non 
sul 
piano 
della 
giurisdizione, 
ma 
su 
quello 
delle 
tecniche 
di 
tutela 
(si 
pensi 
al 
potere 
del 
giudice 
in 
sede 
di 
giudizio 
sul 
silenzio 
di 
pronunciarsi, 
ai 
sensi 
dell'art. 
31, 
comma 
3, 
c.p.a., 
sulla 
fondatezza 
della 
pretesa 
dedotta 
in 
giudizio)”. 
(12) Cons. Stato, Adunanza 
Plenaria, Sentenze 
29 novembre 
2021, nn. 20-21. Sul 
punto si 
veda: 
ALESIo, 
“Concorso 
di 
colpa 
dell’impresa 
aggiudicataria 
e 
responsabilità 
precontrattuale 
della 
stazione 
appaltante” 
in Diritto & 
Giustizia, fasc. 235, 2021, pag. 4; 
nAPoLITAno, Legittimo affidamento e 
risarcimento 
del 
danno: la Plenaria si 
pronuncia 
(nota 
a 
Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 
2021, n. 20) 
in giustiziainsieme.it; 
rUM, “Provvedimento favorevole 
poi 
annullato: risarcibilità dell’affidamento incolpevole 
ingenerato 
nel 
privato. 
Questioni 
giurisdizionali 
e 
di 
merito. 
Il 
punto 
dopo 
la 
triade 
di 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
nn. 
19, 
20 
e 
21 
del 
2021” 
in 
Riv. 
il 
Diritto 
Amministrativo; 
“L'Adunanza Plenaria si 
esprime 
sulla domanda diretta ad ottenere 
la condanna della pubblica amministrazione 
al 
risarcimento dei 
danni 
subiti 
a seguito dell’annullamento in sede 
giurisdizionale 
di 
un 
provvedimento amministrativo, emanato dalla medesima amministrazione, favorevole 
all’interessato” 

ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


(13), secondo le 
sopracitate 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria, è 
escluso solo 
in caso di 
illegittimità 
evidente 
e 
se 
si 
ha 
conoscenza 
dell’impugnativa 
contro 
l’atto. 
I 
concessionari 
uscenti 
hanno 
fatto 
affidamento 
sulla 
legge 
145 
del 
2018 
che è successiva alla sentenza 
Promoimpresa 
che è del 2016. 


3) 
Terzo scenario: 
problema 
del 
giudicato. L’effetto della 
sentenze 
del-
l’Adunanza 
Plenaria 
si 
esplica 
anche 
sui 
giudicati 
favorevoli 
per lo ius 
superveniens 
nei 
rapporti 
di 
durata, non vi 
è 
conflitto, ma 
successione 
di 
norme. I 
nuovi 
provvedimenti 
potranno 
essere 
impugnati 
innanzi 
al 
giudice 
dell’ottemperanza 
(14), ma 
sono ius 
superveniens 
solo le 
sentenze 
interpretative 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
e 
non le 
sentenze 
dell’Adunanza 
Plenaria. Al 
par. 50 della 
sentenza 
si 
legge 
che 
è 
la 
stessa 
Adunanza 
a 
dire 
che 
la 
sentenza 
Promoimpresa 
è 
antecedente 
alla 
legge 
145/2018: 
quindi, nel 
caso di 
specie 
lo ius 
superveniens 
non 
è 
Promoimpresa, 
ma 
la 
stessa 
sentenza 
dell’Adunanza 
Plenaria 
(15). 
Riv. il 
Diritto Amministrativo; 
zUrLo, L’adunanza plenaria si 
pronuncia sul 
tema della responsabilità 
della p.a. per 
la lesione 
dell’affidamento ingenerato nel 
destinatario di 
un provvedimento favorevole 
poi annullato in via giudiziale” in appaltiecontratti.it. 


(13) Sul 
punto è 
da 
segnalarsi 
una 
recentissima 
sentenza 
del 
Consiglio di 
Stato del 
13 gennaio 
2022, Sez. vI, n. 229. Si 
tratta 
di 
una 
sentenza 
relativa 
ad un chiosco sito in area 
demaniale 
in località 
Campese 
all’Isola 
del 
Giglio, dopo un ricorso proposto dall’Agenzia 
del 
Demanio ove 
si 
conferma 
la 
validità 
delle 
concessioni 
balneari 
pre-2009, riconoscendo che 
i 
balneari 
che 
hanno concessioni 
antecedenti 
a 
quella 
data 
hanno diritto a 
vedersi 
riconosciuto il 
principio del 
legittimo affidamento, pur ribadendo 
i 
concetti 
riportati 
dell’Adunanza 
plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato. 
Si 
determina, 
in 
sostanza, 
l’inapplicabilità 
della 
direttiva 
Servizi 
ai 
rapporti 
concessori 
sorti 
anteriormente 
al 
termine 
di 
trasposizione 
della 
stessa. 
Si 
veda: 
https://iltirreno.gelocal.it/versilia/cronaca/2022/01/20/news/il-consiglio-distato-
valid 
e-le-vecchi 
e-concessioni-balneari-1.41150500 
; 
https://www.giglionews.it/concessioni-demaniali-il-consiglio-di-stato-a-favore-di-unimpresa-grossetana. 
(14) 
vedi 
Adunanza 
Plenaria 
9 
giugno 
2016, 
n. 
11. 
Sul 
punto: 
IMPArATo, 
“Nota 
a 
Consiglio 
di 
Stato 
-Adunanza 
Plenaria 
9 
giugno 
2016, 
n. 
11” 
in 
il 
diritto 
amministrativo.it; 
CoMMAnDATorE, 
“I 
limiti 
oggettivi del giudicato amministrativo all’esame della plenaria - il commento” in Leggi D’Italia. 
(15) Su leggi 
interpretative 
non retroattive 
e 
incidenza 
sul 
giudicato si 
veda 
Corte 
Costituzionale 
sentenza 
374 del 
2000, la 
quale 
dispone 
che 
“Secondo il 
consolidato indirizzo giurisprudenziale 
della 
Corte, in linea generale 
è 
da escludere 
che 
possa integrare 
una violazione 
delle 
attribuzioni 
spettanti 
al 
potere 
giudiziario una disposizione 
di 
legge 
che 
appare 
finalizzata ad imporre 
all'interprete 
un determinato 
significato 
normativo, 
ma 
se 
il 
legislatore, 
come 
nella 
specie, 
oltre 
a 
creare 
una 
regola 
astratta, prende 
espressamente 
in considerazione 
anche 
le 
sentenze 
passate 
in giudicato, che 
attribuiscono 
un 
trattamento 
economico 
al 
personale, 
incidendo 
direttamente 
ed 
esplicitamente 
su 
di 
esse, 
rivela in modo incontestabile 
il 
preciso intento di 
interferire 
su questioni 
coperte 
da giudicato, non rispettando, 
in modo arbitrario, la diversa condizione 
di 
chi 
abbia avuto il 
riconoscimento giudiziale 
definitivo 
di 
un 
certo 
trattamento 
economico 
rispetto 
a 
chi 
non 
lo 
abbia 
ottenuto, 
e 
conseguentemente 
violando i 
principi 
relativi 
ai 
rapporti 
tra potere 
legislativo e 
potere 
giurisdizionale 
nonché 
le 
disposizioni 
relative 
alla 
tutela 
giurisdizionale 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi 
legittimi. 
Peraltro, 
alle 
somme 
da 
corrispondersi 
in 
forza 
della 
presente 
decisione, 
sarà 
comunque 
applicata 
(successivamente 
all'entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
in 
questione) 
la 
detta 
disciplina 
del 
'riassorbimento' 
nei 
futuri 
incrementi 
retributivi 
prevista dal 
medesimo comma 5, in riferimento all'ipotesi 
di 
somme 
già versate 
allo stesso titolo, anteriormente 
all'entrata in vigore 
della legge 
medesima. -v. le 
sentenze 
nn. 229/1999, 432/1997, 153/1994 
e 
6/1994, in tema di 
retroattività della legge; le 
sentenze 
nn. 321/1998, 432/1997, 386/1996 e 
15/1995, 
riguardo 
ai 
limiti 
all'interferenza 
del 
legislatore 
sulla 
potestà 
di 
giudicare 
ed, 
infine, 
le 
sentenze 
n. 
417/1996 e 
390/1995, sulla discrezionalità di 
quest'ultimo di 
modificare, anche 
sfavorevolmente, la disciplina 
di trattamenti economici”. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


4) 
Quarto scenario: 
i 
concessionari 
che 
hanno avuto una 
proroga 
di 
anno 
in anno e 
ora 
sino al 
31 dicembre 
2023 potrebbero trovarsi 
di 
fronte 
ad una 
Amministrazione 
che 
comincia 
a 
pubblicare 
i 
bandi: 
tali 
bandi 
potrebbero essere 
impugnati 
se 
non prevedono un’applicazione 
differita 
al 
2024, poiché 
è 
stata 
concessa 
una 
proroga 
ai 
concessionari 
uscenti 
sino al 
31 dicembre 
2023. 
orbene, gli 
scenari 
potranno essere 
diversi: 
non è 
possibile 
prevedere 
il 
futuro, 
ma 
l’orizzonte 
che 
si 
profila 
non 
sarà 
scevro 
di 
questioni 
che 
il 
giudice 
amministrativo 
dovrà 
risolvere, 
auspicando 
sempre 
un 
intervento 
chiaro 
e 
tempestivo 
del legislatore nazionale. 


*** 


nella 
riunione 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
15 febbraio 2022 è 
stata 
discussa 
la 
bozza 
dell’emendamento al 
disegno di 
legge 
per il 
mercato e 
la 
concorrenza, 
prevedendo che 
entro 6 mesi 
siano approvati 
i 
decreti 
legislativi 
per 
il riordino di tutte le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali. 


Questo 
il 
passaggio 
più 
significativo 
dell’emendamento: 
“Al 
fine 
di 
assicurare 
un 
più 
razionale 
e 
sostenibile 
utilizzo 
del 
demanio 
marittimo, 
favorirne 
la 
pubblica 
fruizione 
e 
promuovere, 
in 
coerenza 
con 
la 
normativa 
europea, 
un 
maggiore 
dinamismo 
concorrenziale 
nel 
settore 
dei 
servizi 
e 
delle 
attività 
economiche 
connessi 
allo 
sfruttamento 
delle 
concessioni 
per 
finalità 
turistico-ricreative, 
il 
Governo, 
entro 
sei 
mesi 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
legge, 
è 
delegato 
ad 
adottare, 
su 
proposta 
del 
Ministero 
delle 
infrastrutture 
e 
della 
mobilità 
sostenibile 
e 
del 
Ministro 
del 
Turismo, 
di 
concerto 
con 
il 
Ministro 
della 
transizione 
ecologica, 
il 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
finanze, 
il 
Ministro 
dello 
sviluppo 
economico 
e 
il 
Ministro 
per 
gli 
affari 
regionali 
e 
le 
autonomie, 
previa 
intesa 
in 
sede 
di 
Conferenza 
unificata, 
uno 
o 
più 
decreti 
legislativi 
volti 
a 
riordinare 
e 
semplificare 
la 
disciplina 
in 
materia 
di 
concessioni 
demaniali 
marittime, 
lacuali 
e 
fluviali, 
per 
finalità 
turistico-ricreative, 
nonché 
la 
disciplina 
in 
materia 
di 
concessioni 
per 
la 
realizzazione 
e 
la 
gestione 
di 
strutture 
dedicate 
alla 
nautica 
da 
diporto, 
ivi 
inclusi 
i 
punti 
di 
ormeggio”. 


È 
significativo 
che 
l’emendamento 
preveda 
sempre 
un 
accesso 
libero 
alla spiaggia, considerandola un 
bene 
comune 
e 
fruibile 
dalla collettività. 
Infatti, tale 
emendamento prevede 
che 
i 
decreti 
legislativi 
dovranno determinare 
“criteri 
omogenei 
per 
l’individuazione 
delle 
aree 
suscettibili 
di 
affidamento 
in 
concessione, 
assicurando 
l’adeguato 
equilibrio 
tra 
le 
aree 
demaniali 
in 
concessione 
e 
le 
aree 
libere 
o 
libere 
attrezzate, 
nonché 
la 
costante 
presenza 
di 
varchi 
per 
il 
libero 
e 
gratuito 
accesso 
e 
transito 
per 
il 
raggiungimento 
della 
battigia antistante 
l’area ricompresa nella concessione 
anche 
al 
fine 
di 
bal



ConTEnzIoSo 
nAzIonALE 


neazione, 
con 
la 
previsione, 
in 
caso 
di 
ostacoli 
da 
parte 
del 
titolare 
della 
concessione 
al 
libero 
e 
gratuito 
accesso 
e 
transito 
alla 
battigia, 
delle 
conseguenze 
delle relative violazioni”. 


Importante 
è 
la 
previsione 
di 
una 
norma “scudo” per 
chi 
ha la concessione 
come 
unica fonte 
di 
reddito. Per le 
concessioni 
balneari 
che 
verranno 
messe 
a 
gara 
dall’1 
gennaio 
2024, 
sarà 
necessario 
tener 
conto 
“della 
posizione 
dei 
soggetti 
che, nei 
cinque 
anni 
antecedenti 
l’avvio della procedura selettiva 
hanno utilizzato la concessione, quale 
prevalente 
fonte 
di 
reddito per 
sé 
e 
per 
il 
proprio nucleo familiare, nei 
limiti 
definiti 
anche 
tenendo conto della titolarità, 
alla data di 
avvio della procedura selettiva, in via diretta o indiretta, 
di altra concessione o di altre attività di impresa o di tipo professionale”. 


Particolare 
attenzione 
è 
data 
alla 
tutela 
dell’ambiente 
e 
dell’ecosistema 
e 
alle 
disabilità. 
nello 
sforzo 
di 
sintesi 
operato 
dal 
Governo 
la 
bozza 
dell’emendamento 
prevede 
che 
si 
debba 
tenere 
“in 
adeguata 
considerazione, 
ai 
fini 
della 
scelta 
del 
concessionario, 
della 
qualità 
e 
delle 
condizioni 
del 
servizio 
offerto 
agli 
utenti, 
alla 
luce 
dei 
programmi 
di 
interventi 
indicati 
dall’offerente 
per 
migliorare 
l’accessibilità 
e 
la 
fruibilità 
del 
demanio, 
anche 
da 
parte 
dei 
soggetti 
con 
disabilità, 
e 
della 
idoneità 
di 
tali 
interventi 
ad 
assicurare 
il 
minimo 
impatto 
sul 
paesaggio, 
sull’ambiente 
e 
sull’ecosistema, 
con 
preferenza 
del 
programma 
di 
interventi 
che 
preveda 
attrezzature 
non 
fisse 
e 
completamente 
amovibili”. 


vi 
è 
un indennizzo per 
il 
concessionario uscente 
a carico del 
concessionario 
subentrante. 
La 
bozza 
dell’emendamento 
prevede 
“la 
definizione 
di 
criteri 
uniformi 
per 
la 
quantificazione 
dell’indennizzo 
da 
riconoscere 
al 
concessionario uscente, posto a carico del 
concessionario subentrante, in ragione 
del 
mancato ammortamento degli 
investimenti 
realizzati 
nel 
corso del 
rapporto concessorio e 
autorizzati 
dall’ente 
concedente 
e 
della perdita del-
l’avviamento connesso ad attività commerciali o di interesse turistico”. 


Ed inoltre 
un tetto al 
numero di 
concessioni 
di 
cui 
può essere 
titolare 
uno 
stesso 
concessionario. 
nei 
decreti 
legislativi 
da 
adottare 
da 
qui 
a 
sei 
mesi, 
il 
governo dovrà 
definire 
il 
“numero massimo di 
concessioni 
di 
cui 
può essere 
titolare 
in 
via 
diretta 
o 
indiretta, 
uno 
stesso 
concessionario 
a 
livello 
comunale, 
provinciale, regionale 
o nazionale, prevedendo obblighi 
informativi 
in capo 
all’ente 
concedente 
in relazione 
alle 
concessioni 
affidate 
al 
fine 
di 
verificare 
il rispetto del numero massimo”. 


Dalla 
lettura 
di 
tale 
bozza 
si 
coglie 
lo 
sforzo 
da 
parte 
del 
Governo 
di 
conciliare 
le 
varie 
istanze 
e 
i 
vari 
interessi 
coinvolti. Certamente 
la 
situazione 
italiana 
è 
peculiare, se 
pensiamo che 
in Francia 
e 
in Spagna, ma 
anche 
in molti 
Stati 
americani 
le 
spiagge 
sono libere. viene 
qui 
in rilievo la 
teoria 
dei 
beni 
pubblici 
di 
Giannini: 
il 
concetto di 
proprietà 
legato non alla 
“dimensione 
del-
l’appartenenza”, 
ma 
a 
quella 
“della 
funzione 
sociale”. 
nella 
bozza 
dell’emendamento 
si 
coglie 
in 
maniera 
pienamente 
condivisibile 
il 
profilo 
della 
“sostenibilità 
sociale 
ed 
ambientale” 
che 
deve 
essere 
centrale 
nelle 
nuove 
gare 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DELLo 
STATo -n. 4/2021 


che 
saranno poste 
in essere 
a 
partire 
dall’1 gennaio 2024, garantendo in maniera 
equilibrata 
la 
tutela 
del 
concessionario uscente 
e 
la 
tutela 
del 
livello occupazionale, 
prevedendo 
magari 
anche 
delle 
clausole 
sociali 
nei 
bandi 
che 
verranno 
pubblicati. 
Questi 
6 
mesi 
saranno, 
dunque, 
decisivi 
per 
la 
sorte 
delle 
nostre amate coste. 



PAReRiDeLCoMitAtoConsULtivo
Appalti pubblici. Cessione di crediti da corrispettivo 
di appalto realizzata nell’ambito di una più ampia 
operazione di cartolarizzazione. Rapporto tra 
le disposizioni di cui agli artt. 106, co. 13, Codice contratti 
pubblici e 4, co. 4 bis, Legge cartolarizzazioni 


Parere 
del 
15/02/2022-98869/98877, al 20506/2021, 
avv. Gabriella 
d’avanzo, Proc. andrea 
liPari 


1 -L'Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Napoli 
ha 
sottoposto alle 
definitive 
determinazioni 
della 
Scrivente 
il 
quesito formulato da 
un'istituzione 
scolastica 
in 
merito 
alla 
valenza 
del 
rifiuto 
da 
quest'ultima 
opposto, 
a 
norma 
dell'art. 
106, 
co. 13, del 
D.L.vo 50/2016 (Codice 
dei 
contratti 
pubblici), "a ... una cessione 
di 
crediti 
realizzata, nell'ambito di 
una più ampia operazione 
di 
cartolarizzazione 
ex art. 4 della legge 130/1999". 


Nella 
richiesta 
di 
parere 
si 
sostiene 
che 
l'art. 4, comma 
4 
bis 
(1) della 
c.d. 
legge 
cartolarizzazioni, n. 130/1999 e 
l'art. 106, comma 
13 (2) del 
D.L.vo n. 


(1) 
L. 
30/04/1999, 
n. 
130. 
Disposizioni 
sulla 
cartolarizzazione 
dei 
crediti. 
Pubblicata 
nella 
Gazz. Uff. 14 maggio 1999, n. 111. 
4. Modalità ed efficacia della cessione. 
(...) 
4-bis. Alle 
cessioni 
effettuate 
nell'ambito di 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
non si 
applicano gli 
articoli 
69 e 
70 del 
regio decreto 18 novembre 
1923, n. 2440, nonché 
le 
altre 
disposizioni 
che 
richiedano 
formalità 
diverse 
o ulteriori 
rispetto a 
quelle 
di 
cui 
alla 
presente 
legge. Dell'affidamento o trasferimento 
delle 
funzioni 
di 
cui 
all'articolo 2, comma 
3, lettera 
c), a 
soggetti 
diversi 
dal 
cedente 
è 
dato avviso mediante 
pubblicazione 
nella 
Gazzetta 
Ufficiale 
nonché 
comunicazione 
mediante 
lettera 
raccomandata 
con 
avviso di ricevimento alle pubbliche amministrazioni debitrici. 
(2) D.Lgs. 18/04/2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici). 
Art. 106 Modifica di contratti durante il periodo di efficacia. 
(...) 
comma 13. Si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
alla 
legge 
21febbraio 1991, n. 52. Ai 
fini 
dell'opponibilità 
alle 
stazioni 
appaltanti, le 
cessioni 
di 
crediti 
devono essere 
stipulate 
mediante 
atto pubblico o 
scrittura 
privata 
autenticata 
e 
devono essere 
notificate 
alle 
amministrazioni 
debitrici. Fatto salvo il 
rispetto 
degli 
obblighi 
di 
tracciabilità, le 
cessioni 
di 
crediti 
da 
corrispettivo di 
appalto, concessione, con

rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


50/2016, recante 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici, "lungi 
dal 
realizzare 
un'antinomia 
normativa ... presentano, in realtà un ambito oggettivo di 
applicazione 
radicalmente 
diverso", 
in 
quanto 
individuerebbero 
"altrettante 
norme 
eccezionali 
(rispetto 
alla 
lex 
generalis 
costituita 
dagli 
artt. 
69 
e 
70 
del 
r.d. 
n. 
2440/1923)". 


In estrema 
sintesi, la 
normativa 
in materia 
di 
cartolarizzazione 
dei 
crediti 
sarebbe 
"speciale 
rispetto a quella in materia di 
cessione 
dei 
crediti" 
disciplinata 
dalla 
L. n. 52/1991 -quest'ultima 
richiamata 
nel 
citato art. 106, comma 
13 
del 
D.Lgs. 
n. 
50/2016 
-in 
quanto 
la 
cartolarizzazione 
dei 
crediti 
"si 
realizza 
attraverso una operazione 
giuridico-economica complessa, di 
cui 
la cessione 
del credito costituisce solo un frammento". 


Inoltre, la 
medesima 
legge 
130 del 
1999, "precludendo a monte 
1'applicabilità 
degli 
artt. 69 e 
70 cit., ha inteso all'evidenza precludere 
anche 
l'applicazione 
delle 
ulteriori 
disposizioni 
(quali 
quella, 
antecedente, 
di 
cui 
all'art. 
117 
del 
codice 
appalti) 
che, 
derogando 
all'art. 
70, 
hanno 
disciplinato 
in 
modo 
diverso la medesima materia". 


Conclusivamente, 
l'Avvocatura 
Distrettuale 
ritiene 
che 
"se 
la 
l. 
n. 
130/1999 ha derogato alla lex 
generalis, escludendo a monte 
la necessità del 
consenso della pubblica amministrazione 
per 
le 
cessioni 
di 
crediti 
realizzate 
nell'ambito di 
più ampie 
operazioni 
di 
cartolarizzazione, in nessun caso potranno 
trovare 
applicazione 
le 
norme 
che, in parziale 
deroga all'art. 70 del 
regio 
decreto, 
si 
prefiggano 
il 
più 
limitato 
obiettivo 
di 
diversamente 
disciplinare 
le 
modalità di 
prestazione 
di 
tale 
consenso essendo esclusa in radice 
la possibilità di opporsi alla cessione". 

Alla 
luce 
delle 
suesposte 
considerazioni, rilevato che 
in questi 
termini 
si 
è 
pronunciato anche 
il 
Consiglio di 
Stato, Sez. III, con la 
sentenza 
del 
24 settembre 
2020, 
n. 
5561, 
si 
chiede 
di 
conoscere 
"le 
definitive 
determinazioni" 
della 
Scrivente, 
"eventualmente 
anche 
a 
modifica 
del 
precedente 
parere 
espresso con nota prot. 36748 del 17 luglio 2020". 


*** 


2-Come 
viene 
rilevato 
nella 
richiesta 
di 
parere, 
la 
Scrivente 
si 
è 
espressa 
sulla 
questione 
di 
diritto di 
cui 
trattasi, concludendo, con consultazione 
sottoposta 
al 
previo esame 
del 
Comitato Consultivo, che 
per le 
cessioni 
di 
credito 
derivanti 
da 
corrispettivo di 
appalto trovi 
applicazione 
lo speciale 
regime 
di 
cui 
all'art. 106, comma 
13 del 
D.Lgs. n. 50/2016, e 
che, quindi, non siano am


corso di 
progettazione, sono efficaci 
e 
opponibili 
alle 
stazioni 
appaltanti 
che 
sono amministrazioni 
pubbliche 
qualora 
queste 
non le 
rifiutino con comunicazione 
da 
notificarsi 
al 
cedente 
e 
al 
cessionario entro 
quarantacinque 
giorni 
dalla 
notifica 
della 
cessione. 
Le 
amministrazioni 
pubbliche, 
nel 
contratto 
stipulato 


o in atto separato contestuale, possono preventivamente 
accettare 
la 
cessione 
da 
parte 
dell'esecutore 
di 
tutti 
o di 
parte 
dei 
crediti 
che 
devono venire 
a 
maturazione. In ogni 
caso l'amministrazione 
cui 
è 
stata 
notificata 
la 
cessione 
può opporre 
al 
cessionario tutte 
le 
eccezioni 
opponibili 
al 
cedente 
in base 
al 
contratto 
relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, con questo stipulato. 

pArerI 
DeL 
ComItAto 
CoNSULtIvo 


missibili, senza 
l'adesione 
(sotto forma 
di 
mancato rifiuto) dell'Amministrazione 
debitrice, cessioni 
di 
credito nell'ambito di 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
(Ct 
52446/2019 
avv. 
D'Avanzo) 
se 
riguardanti, 
appunto, 
la 
materia 
degli 
appalti. 


All'esito 
di 
una 
complessiva 
ricognizione 
del 
sistema, 
infatti, 
si 
era 
giunti 
al 
motivato convincimento che 
l'art. 106 del 
D.Lgs. n. 50/2016 -che 
ricalca, 
con poche 
modifiche, il 
previgente 
art. 117 del 
D.L.gs. 163 del 
2006 -rechi 
un regime 
speciale 
per la 
cessione 
dei 
crediti 
da 
corrispettivo di 
appalto, incentrato 
sul 
potere 
di 
rifiuto della 
cessione 
da 
azionarsi 
entro il 
termine 
legale 
ivi 
stabilito. In ragione 
della 
rilevata 
specialità, dunque, si 
era 
ritenuto che 
la 
norma 
all'esame 
non 
potesse 
ritenersi 
tacitamente 
abrogata, 
anche 
considerato 
che 
essa 
è 
cronologicamente 
successiva 
all'art. 4, comma 
4 bis 
della 
legge 
n. 
130 del 1999, introdotto con l'art. 12, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145. 


A 
diverse 
conclusioni 
è, tuttavia 
giunto il 
Consiglio di 
Stato con la 
sentenza 
n. 
5561 
del 
24 
settembre 
2020, 
citata 
dall'Avvocatura 
Distrettuale 
-oltre 
che 
con la 
decisione, resa 
in pari 
data, n. 5562 -ritenendo preclusa, all'Amministrazione 
ceduta, la 
possibilità 
di 
opporre 
il 
suo rifiuto, ai 
sensi 
dell'art. 
106, comma 
13 del 
D.Lgs. n. 50/2016, alla 
cessione 
dei 
crediti 
riguardanti 
il 
corrispettivo di 
un contratto di 
appalto, nel 
caso in cui 
detta 
cessione 
avvenga 
nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione. 


In 
particolare, 
secondo 
il 
Giudice 
Amministrativo, 
il 
citato 
art. 
106, 
comma 
13 
del 
codice 
dei 
contratti 
"si 
appalesa 
speciale 
rispetto 
alla 
disciplina 
codicistica, mentre 
la norma recata dal 
comma 4-bis 
dell'art. 4 cit. è 
norma 
speciale 
rispetto 
a 
tutte 
le 
disposizioni 
che 
disciplinano 
le 
formalità 
per 
la 
cessione 
dei 
crediti, con la conseguenza che 
l'art. 106, comma 13, del 
d.lgs. 
50/2016, 
che 
richiama 
le 
sole 
"cessione 
dei 
crediti" 
e 
non 
contiene 
un 
espresso 
riferimento 
alla 
"cartolarizzazione" 
è 
inapplicabile, 
essendo 
prevalente 
la 
disciplina 
speciale recata dall'art. 4, comma 4-bis, della l. 130/1999 
". 

È 
stata 
così 
disattesa 
la 
tesi, prospettata 
in giudizio da 
un'Azienda 
Sanitaria, 
la 
quale 
aveva, 
invece, 
sostenuto 
che 
l'art. 
106 
comma 
13 
del 
D.lgs. 
50/2016 avesse 
abrogato implicitamente 
la 
norma 
di 
cui 
al 
comma 
4-bis 
del-
l'art. 
4 
della 
L. 
130/1999 
-in 
quanto 
successiva 
-introdotta 
dall'art. 
12 
del 


D.L. n. 145 del 
2013, conv. in L. n. 145 del 
2014; 
si 
legge, infatti, in entrambe 
le 
pronunce 
che 
"la norma in questione 
è 
meramente 
riproduttiva della precedente 
disposizione 
recata dall'art. 117 del 
d.lgs. n. 163/06 che 
era ad essa 
antecedente". 
3-Alla 
luce 
del 
duplice 
arresto 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
si 
rende 
necessario 
acquisire 
l'avviso di 
codeste 
Amministrazioni 
in ordine 
alla 
linea 
di 
condotta 
che si riterrà di adottare. 


È, 
infatti, 
innegabile 
la 
rilevanza 
che 
l'applicazione 
dei 
principi 
enunciati 
dal 
Giudice 
amministrativo avrà 
sulle 
(sempre 
più frequenti) cessioni 
dei 
crediti 
derivanti 
da 
corrispettivo 
di 
appalto, 
di 
concessione 
e 
delle 
altre 
operazioni 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


annoverate 
dall'art. 106, comma 
13 D.Lgs. n. 50/2016, cessioni 
che 
potranno, 
quindi, concludersi, se 
effettuate 
nell'ambito di 
un'operazione 
di 
cartolarizzazione, 
a 
prescindere 
dall'eventuale 
adesione 
della 
p.A. (espressa 
sotto forma 
di 
mancato rifiuto nel 
termine 
previsto dalla 
citata 
norma 
del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici). 


Il 
tema 
assume, 
peraltro, 
particolare 
rilievo 
anche 
in 
considerazione 
degli 
obiettivi 
perseguiti 
dal 
pNrr 
(piano 
Nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza) 
e, 
quindi, delle 
esigenze 
di 
tutela 
degli 
scambi 
commerciali 
e 
della 
circolazione 
della 
ricchezza 
oltre 
che 
della 
regolarità 
e 
dell'efficienza 
dei 
contratti 
pubblici. 


In questo contesto, non può che 
ribadirsi 
l'auspicio di 
un intervento legislativo 
che 
chiarisca 
l'ambito applicativo delle 
diverse 
discipline, rientrando 
nella 
potestà 
del 
legislatore 
l'emanazione 
di 
norme 
aventi 
finalità 
chiarificatrici, 
idonee, secondo il 
pacifico insegnamento della 
Corte 
di 
Cassazione, ad 
orientare 
l'interprete 
nella 
lettura 
di 
norme 
preesistenti 
in 
applicazione 
del 
principio 
di 
unità 
ed organicità 
dell'ordinamento giuridico (sul 
punto, ex 
multis, 
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2016, n. 22552). 


tanto 
premesso, 
al 
fine 
di 
offrire 
un 
contributo 
consultivo 
nell'individuazione 
di 
un 
percorso 
interpretativo 
quanto 
più 
lineare 
e 
coerente 
con 
il 
vigente 
sistema nel suo complesso, si osserva quanto segue. 


3.1 
-In 
primo 
luogo, 
nell'evidenziare 
che 
non 
risultano 
ulteriori 
pronunce 
del 
medesimo 
segno 
da 
parte 
del 
Giudice 
Amministrativo, 
si 
rileva 
che 
la 
specialità 
della 
disciplina 
degli 
appalti, in ragione 
della 
quale 
questa 
Avvocatura 
Generale 
aveva 
ritenuto di 
potere 
concludere 
per 1'inapplicabilità 
della 
cartolarizzazione, 
è 
stata 
condivisa 
dalla 
Corte 
dei 
Conti 
Sicilia, Sez. contr., Delib. 
26 marzo 2020, n. 34. 
Con la 
citata 
Deliberazione 
-che 
merita 
di 
essere 
esaminata 
per la 
convincente 
analisi 
delle 
diverse 
ipotesi 
di 
cessione 
del 
credito verso la 
p.A. -la 
Sezione 
di 
Controllo per la 
regione 
siciliana 
ha 
fornito esaustiva 
risposta 
ad 
un quesito attinente proprio alle operazioni di c.d. "cartolarizzazione". 


In 
particolare, 
dopo 
avere 
dato 
atto 
che 
nel 
nostro 
ordinamento 
vige, 
ai 
sensi 
dell'art. 
1260 
c.c., 
il 
principio 
della 
"libera 
circolazione 
del 
credito", 
e 
che 
la 
"cedibilità 
del 
credito 
verso 
lo 
Stato 
e 
gli 
altri 
enti 
pubblici" 
costituisce 
"disciplina 
speciale 
rispetto 
al 
diritto 
comune", 
la 
Corte 
dei 
Conti 
ha 
ben 
distinto, 
"nell'ambìto 
di 
detta 
disciplina, 
... 
la 
materia 
degli 
appalti 
pubblici 
da 
quella 
relativa 
alla 
circolazione 
dei 
crediti 
commerciali, 
interessata 
da 
una 
serie 
di 
disposizioni 
normative 
relative 
alla 
c.d. 
certificazione 
dei 
crediti 
mediante 
la 
piattaforma 
elettronica 
della 
P.a., 
introdotta 
con 
l'art. 
37, 
comma 
7 
bis 
del 
decreto 
legge 
24 
aprile 
2014, 
n. 
66, 
convertito 
dalla 
legge 
23 
giugno 
2014, 
n. 
89, 
che 
hanno 
semplificato 
le 
formalità 
richieste 
per 
la 
cessione 
dei 
crediti 
al 
fine 
di 
garantirne 
una 
maggiore 
circolazione". 


Con 
specifico 
riferimento 
all'art. 
106, 
comma 
13 
del 
D.Lgs. 
n. 
50 
del 



pArerI 
DeL 
ComItAto 
CoNSULtIvo 


2016, 
il 
Collegio 
ha 
precisato 
"che 
trattasi 
di 
norma 
speciale, 
dettata 
per 
la 
materia 
degli 
appalti 
(il 
cui 
testo 
riproduce 
l'analoga 
disciplina 
introdotta 
dall'art. 
117 
del 
decreto 
legislativo 
n. 
163/2006 
del 
codice 
dei 
contatti 
Pubblici) 
la 
cui 
disciplina 
si 
discosta 
dalla 
normativa 
codicistica 
in 
quanto 
la 
cessione 
dei 
crediti 
è 
subordinata 
alla 
preventiva 
adesione 
della 
pubblica 
amministrazione: 
il 
citato 
codice, 
al 
fine 
di 
conferire 
certezza 
alla 
prefata 
"adesione" 
della 
P.a. 
ha 
previsto 
che 
quest'ultima 
si 
esprima 
sotto 
forma 
di 
mancato 
rifiuto 
entro 
quarantacinque 
giorni 
dalla 
notifica 
della 
cessione". 


È 
stato, 
tuttavia, 
chiarito 
che, 
secondo 
il 
costante 
insegnamento 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
il 
divieto 
di 
cessione 
senza 
l'adesione 
della 
p.A. 
si 
applica 
"solo 
ai 
rapporti 
di 
durata", 
come, 
appunto, 
l'appalto, 
mentre 
nel 
caso 
di 
"cessione 
di 
un credito insorgente 
da un ordinario contratto di 
compravendita" 
la 
disciplina 
applicabile 
è 
quella 
ordinaria 
codicistica 
(così, 
Cass. 
III, 
n. 
981/2002). ed infatti, una 
volta 
eseguita 
la 
prestazione 
nell'ambito di 
un rapporto 
di 
durata 
(appalto, e/o somministrazione 
o fornitura), "non sussiste 
alcuna 
ragione 
per 
procrastinare, in deroga al 
principio di 
cui 
all'art. 1260 c.c. 
della generale 
cedibilità dei 
crediti 
indipendentemente 
dal 
consenso del 
debitore, 
1' 
"inefficacia provvisoria" 
della cessione 
dei 
crediti 
... Pertanto, allorchè 
il 
contratto 
di 
appalto 
all'origine 
del 
credito 
ceduto, 
alla 
data 
di 
comunicazione 
della cessione 
risulti 
completamente 
esaurito, non vi 
è 
necessità 
di 
accettazione 
del 
credito 
da 
parte 
dell'ente 
pubblico"(cass. 
iii, 
n. 
268/2006; n. 2209/2007). In senso conforme, si 
veda, ex 
aliis, Cass. Sez. vI 1, 
n. 16282/2020. 


In estrema 
sintesi, la 
facoltà 
riconosciuta 
alla 
p.A. di 
opporre 
un rifiuto 
alla 
cessione 
del 
credito è 
subordinata 
alla 
duplice 
condizione 
che 
si 
tratti 
di 
contratti 
disciplinati 
dall'art. 106, comma 
13 del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 


-previsione 
che 
costituisce 
lex 
specialis 
rispetto alle 
disposizioni 
civilistiche 
-e che tali contratti siano ancora in corso. 
Ne 
consegue 
che, 
come 
ben 
chiarito 
nella 
citata 
Deliberazione 
dalla 
Corte 
dei Conti, in caso di cessione di crediti derivanti da "operazioni negozialidiverse 
da quelle 
annoverate 
dall’art. 106 
citato (ad es. crediti 
commerciali 
derivanti 
dall'acquisto 
di 
beni 
e 
servizi) 
che 
avvengano 
nell'ambito 
di 
applicazione 
delle 
disposizioni 
sulla 
cartolarizzazione 
disciplinate 
dalla 
legge 


n. 130 del 
30 aprile 
1999, non è 
prevista la facoltà per 
la pubblica amministrazione 
di opporre un rifiuto" (3). 
(3) 
Sotto 
tale 
profilo, 
ha 
rilevato 
la 
Corte 
di 
Conti 
che, 
laddove 
si 
tratti 
della 
circolazione 
di 
crediti 
commerciali 
certificati 
attraverso la 
piattaforma 
elettronica 
per la 
gestione 
telematica 
del 
rilascio delle 
certificazioni 
predisposta 
dal 
ministero dell'economia 
e 
delle 
Finanze, è 
prevista 
una 
facoltà 
di 
rifiuto 
da 
parte 
della 
p.A., soggetta 
al 
brevissimo termine 
di 
sette 
giorni 
dalla 
comunicazione, in forza 
dell'art. 
7 
del 
D.L. 
8 
aprile 
2013, 
n. 
35, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
L. 
6 
giugno 
2013, 
n. 
64 
(c.d. 
decreto 
sblocca pagamenti). 

rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


Come 
si 
è 
sopra 
detto, alle 
medesime 
conclusioni 
si 
era 
pervenuti 
nel 
già 
citato parere del Comitato Consultivo. 


3.2 
-Con 
specifico 
riferimento 
alle 
due 
sentenze 
gemelle 
del 
24 
settembre 
2020 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
pur 
prendendosi 
ovviamente 
atto, 
per 
l'autorevolezza 
della 
fonte, 
della 
soluzione 
ivi 
prospettata, 
non 
ci 
si 
può 
esimere 
dall'osservare, 
da 
un 
lato, 
che 
non 
si 
tratta, 
per 
quanto 
si 
è 
sopra 
detto, 
di 
un 
orientamento 
consolidato 
(4) 
e, 
dall'altro 
lato, 
che 
i 
relativi 
giudizi 
hanno 
riguardato 
posizioni 
di 
enti 
non 
patrocinati 
dall'Avvocatura 
dello 
Stato, 
la 
quale, 
pertanto, 
non 
ha 
avuto 
modo 
di 
prospettare 
le 
proprie 
difese 
dinanzi 
al 
Giudice 
adito. 
Ad ogni 
modo, se, come 
si 
legge 
nei 
citati 
arresti 
del 
Consiglio di 
Stato, 
con l'art. 4, comma 
4-bis 
della 
legge 
130/1999, inserito con l'art. 12 D.L. n. 
145/2013, si 
è 
inteso introdurre 
un regime 
applicabile 
anche 
alla 
cessione 
dei 
crediti 
derivanti 
da 
appalti 
pubblici, non appare 
chiara 
la 
ragione 
per la 
quale 
tale 
disposizione 
non contenga 
nessun riferimento proprio alla 
normativa 
in 
materia di contratti pubblici (in primis 
al D.Lgs. 163/2006). 


Dal 
canto 
suo, 
l'art. 
106 
del 
Codice, 
nel 
prevedere 
una 
specifica 
potestà/facoltà 
dell'Amministrazione 
di 
opporsi 
alla 
cessione, 
nei 
termini 
e 
con 
le 
modalità 
stabilite 
dal 
legislatore, 
non 
disciplina 
alcuna 
deroga 
a 
tale 
facoltà 
per 
quanto 
riguarda 
la 
(già 
vigente) 
disciplina 
regolatoria 
delle 
operazioni 
di cartolarizzazione. 


È, 
infatti, 
avviso 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale 
che 
la 
disposizione 
in 
commento, 
che, 
come 
si 
è 
detto, 
riproduce 
sostanzialmente 
il 
previgente 
art. 
117, 
del 
D.lgs. 
n. 
163 
del 
2006, 
è 
tuttora 
vigente, 
né, 
proprio 
in 
ragione 
della 
sua 
specialità, 
potrebbe 
ritenersi 
tacitamente 
abrogata, 
anche 
considerato 
che 
essa 
è 
cronologicamente 
successiva 
all'art. 
4, 
comma 
4 
bis 
della 
legge 
130 
del 
1999, 
in 
quanto 
introdotto 
con 
l'art. 
12 
D.L. 
23 
dicembre 
2013, 
n. 
145. 


Ciò 
non 
sta, 
ovviamente, 
a 
significare 
che 
l'art. 
106 
abbia 
"implicitamente 
abrogato 
la 
norma 
recata 
dall'art. 
4 
bis 
dell'art. 
4 
della 
legge 
130 
del 
1999 
in 
quanto 
successiva" 
-come 
sembrerebbe 
avere 
inteso 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
nel-
l'esporre 
le 
ragioni 
della 
diversa 
soluzione 
data 
alla 
vicenda 
contenziosa 
-ma, 
ben 
diversamente, 
che 
la 
successione 
temporale 
delle 
norme 
in 
materia 
di 
appalti 
pubblici 
(art. 
117 
del 
D.Lgs. 
n. 
163 
del 
2006 
e 
art. 
106 
del 
D.Lgs 
n. 
50 
del 
2016) 
conferma 
di 
per 
sè 
la 
perdurante 
vigenza 
della 
cessione 
dei 
crediti 
disciplinata, 
appunto, 
anche 
nel 
2016, 
senza 
previsioni 
derogatorie 
della 
specifica 
facoltà 
oppositiva 
riconosciuta 
all'Amministrazione 
nel 
nuovo 
Codice 
degli 
appalti. 


(4) 
peraltro, 
la 
giurisdizione 
sugli 
atti 
di 
rifiuto 
della 
cessione 
del 
credito 
è 
del 
Giudice 
ordinario. 
Nei 
casi 
esaminati 
dal 
Consiglio di 
Stato, l'impugnazione 
ha 
riguardato una 
delibera 
di 
un'Azienda 
Sanitaria 
che 
aveva 
"disciplinato la materia", della 
quale 
le 
note 
impugnate 
costituivano, ad avviso del 
Giudice, atti "meramente applicativi". 

pArerI 
DeL 
ComItAto 
CoNSULtIvo 


Inoltre, il 
Consiglio di 
Stato qualifica 
l'art. 4, comma 
4 bis 
cit. "norma 
speciale 
rispetto 
a 
tutte 
le 
disposizioni 
che 
disciplinano 
le 
formalità 
per 
la 
cessione dei crediti". 


tuttavia, 
con 
riguardo 
a 
tale 
profilo, 
pare 
a 
questa 
Avvocatura 
quanto 
meno dubbio che 
gli 
innegabili 
effetti 
giuridici 
prodotti 
dalla 
manifestazione 
di 
volontà 
dell'Amministrazione 
nei 
rapporti 
con il 
cedente, e 
i 
significativi 
riflessi 
nei 
rapporti 
tra 
questi 
e 
il 
cessionario, consentano di 
attribuire 
valenza 
meramente 
procedurale 
o formalistica 
alle 
prescrizioni 
contenute 
all'art. 106, 
comma 
13, del 
D.Lgs. n. 50 del 
2016. In altri 
termini, sembra 
ragionevole 
sostenere 
che 
l'art. 106 non contempli 
un requisito formalistico della 
cessione, 
conferendo 
piuttosto 
una 
vera 
e 
propria 
potestà 
all'Amministrazione, 
in 
deroga 
a quanto previsto dal ridetto art. 4. 


3.3 
-Si 
soggiunge, 
per 
completezza 
di 
analisi, 
che 
la 
tesi 
che 
esclude 
l'applicazione 
del 
citato art. 106 nell'ambito delle 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
si 
presta 
ad 
una 
serie 
di 
non 
trascurabili 
criticità 
sul 
piano 
pratico, 
in 
parte 
evidenziate 
dalla 
stessa 
Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Napoli 
nella 
precedente 
consultazione. 
È, infatti, innegabile 
che, ove 
accolta, la 
diversa 
soluzione 
metterebbe 
in 
pericolo alcuni 
dei 
presidi 
posti 
a 
tutela 
dell'Amministrazione 
e 
finalizzati 
ad 
assicurare 
la 
corretta 
ed efficiente 
esecuzione 
del 
contratto relativo a 
lavori, 
servizi, forniture, progettazione, stipulato con il cedente. 


Innanzitutto, 
l'Amministrazione 
non 
potrebbe 
"opporre 
al 
cessionario 
tutte 
le 
eccezioni 
opponibili 
al 
cedente" 
in base 
al 
rapporto in corso, e 
quindi 
neppure, 
ad 
esempio, 
l'eccezione 
di 
compensazione, 
o 
quella 
di 
inadempimento 
legata alla non corretta esecuzione del contratto di appalto. 


occorre, al 
riguardo, considerare 
che, già 
in base 
ai 
principi 
generali 
in 
materia 
di 
cessione 
del 
credito, il 
debitore 
ceduto può opporre 
al 
cessionario 
le 
eccezioni 
opponibili 
al 
rapporto con il 
cedente 
soltanto se 
queste 
ultime 
riguardano 
fatti 
modificativi 
ed estintivi 
del 
rapporto anteriori 
all'accettazione 
della 
cessione 
o 
alla 
sua 
notifica 
o 
alla 
sua 
conoscenza 
di 
fatto 
(ex 
multis, 
Cass. 
Sez. 
3, 
sent. 
17 
gennaio 
2001, 
n. 
575; 
Cass. 
Sez. 
5, 
ord. 
20 
aprile 
2018, 
n. 
9842); 
di 
talché, 
ad 
esempio, 
l'Amministrazione 
non 
potrebbe 
eccepire 
al 
cessionario 
l'inadempimento 
dell'appaltatore-cedente 
verificatosi 
successivamente 
alla conoscenza della cessione. 


Il 
tema 
si 
pone 
in 
termini 
ancor 
più 
problematici 
alla 
luce 
dell'orientamento 
recente 
(e 
dai 
riflessi 
applicativi 
ancora 
incerti) 
della 
giurisprudenza 
nomofilattica, 
che 
sembra 
ulteriormente 
limitare 
le 
eccezioni 
opponibili 
dal 
debitore 
ceduto 
in 
un'operazione 
di 
cartolarizzazione, 
escludendo 
che 
quest'ultimo 
possa 
opporre 
al 
cessionario 
eccezioni 
fondate 
sui 
rapporti 
con 
il 
cedente 
(Cass., sez. III, 30 agosto 2019, n. 21843). 


Secondo la 
Corte 
di 
Cassazione, infatti, i 
crediti 
che 
formano oggetto di 
ciascuna 
operazione 
di 
cartolarizzazione 
costituiscono un vero e 
proprio "pa



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


trimonio separato", ad ogni 
effetto, rispetto a 
quello della 
società 
veicolo e 
rispetto 
a 
quello 
relativo 
ad 
altre 
operazioni 
di 
cartolarizzazione; 
tale 
patrimonio 
è 
a 
destinazione 
legalmente 
vincolata, 
in 
via 
esclusiva, 
al 
soddisfacimento 
dei 
diritti 
incorporati 
nei 
titoli 
emessi 
per finanziare 
l'acquisto dei 
crediti, nonché 
al 
pagamento 
dei 
costi 
dell'operazione. 
In 
altri 
termini, 
il 
flusso 
di 
liquidità 
che 
l'incasso dei 
crediti 
è 
in grado di 
generare 
è 
funzionale, in via 
esclusiva, 
al 
rimborso dei 
titoli 
emessi, alla 
corresponsione 
degli 
interessi 
pattuiti 
ed al 
pagamento dei costi dell'operazione. 


In un simile 
quadro, ai 
debitori 
non sarebbe 
consentito, secondo la 
Corte 
di 
Cassazione, 
opporre 
in 
compensazione, 
al 
cessionario, 
"controcrediti 
da 
essi 
vantati 
verso 
il 
cedente 
(nascenti 
da 
vicende 
relative 
al 
rapporto 
con 
esso 
intercorso ed il 
cui 
importo, pertanto, lungi 
dall'essere 
noto alla "società veicolo" 
al 
momento 
della 
cessione, 
deve 
essere 
accertato 
giudizialmente)" 
(Cass. 
n. 21843/2019 cit.). 


Inoltre, 
nei 
confronti 
del 
cessionario 
non 
potrebbero 
essere 
svolti 
i 
controlli 
prodromici 
al 
pagamento 
-se 
effettuato 
nei 
confronti 
del 
cedente 
quali 
ad 
esempio 
la 
verifica 
della 
regolarità 
del 
DUrC; 
né 
potrebbe 
operare 
il 
meccanismo 
dell'intervento 
sostitutivo 
previsto 
dal 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
in 
relazione 
alle 
inadempienze 
contributive 
risultanti 
dal 
DUrC 
(art. 
30, 
co. 
5) 
e 
ai 
ritardati 
pagamenti 
delle 
retribuzioni 
delle 
maestranze 
(art. 
30, 
co. 
6). 


peraltro, 
il 
divieto 
di 
rifiutare 
la 
cessione 
dei 
crediti 
derivanti 
da 
corrispettivo 
di 
un contratto di 
appalto in corso, non appare 
del 
tutto coerente 
con 
la 
ratio 
di 
tutela 
delle 
finanze 
pubbliche 
che 
ispira 
l'art. 
48-bis 
Dpr 
n. 
602 
del 
1973, 
ai 
sensi 
del 
quale 
"... 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
... 
prima 
di 
effettuare, 
a qualunque 
titolo, il 
pagamento di 
un importo superiore 
a cinquemila euro, 
verificano, anche 
in via telematica, se 
il 
beneficiano è 
inadempiente 
all'obbligo 
di 
versamento 
derivante 
dalla 
notifica 
di 
una 
o 
più 
cartelle 
di 
pagamento 
per 
un ammontare 
complessivo pari 
almeno a tale 
importo e, in caso affermativo, 
non 
procedono 
al 
pagamento 
e 
segnalano 
la 
circostanza 
all'agente 
della riscossione..." (5). 


(5) 
Ciò 
in 
quanto, 
aderendo 
alla 
tesi 
per 
cui, 
in 
applicazione 
della 
legge 
n. 
130 
del 
1999, 
il 
debitore 
ceduto 
in 
un'operazione 
di 
cartolarizzazione 
non 
possa 
opporre 
al 
cessionario 
eccezioni 
fondate 
sui 
rapporti 
con 
il 
cedente, 
neppure 
potrebbe 
essere 
rifiutato 
dalla 
p.A. 
l'adempimento 
nei 
confronti 
del 
cessionario, 
allorché 
la 
verifica 
di 
cui 
all'art. 
48 
bis 
cit. 
restituisca 
esito 
negativo 
per 
esposizioni 
debitorie 
maturate 
prima 
che 
la 
cessione 
sia 
opponibile 
all'Amministrazione. 
ma 
anche 
ritenendo 
che 
la 
verifica 
nei 
confronti 
del 
cedente 
sia 
ostativa 
dell'adempimento 
nei 
confronti 
del 
cessionario 
allorquando 
restituisca 
esito 
negativo 
per 
debiti 
maturati 
prima 
dell'opponibilità 
della 
cessione, 
l'Amministrazione 
ceduta 
non 
potrebbe 
tuttavia 
rifiutare 
il 
pagamento 
al 
cessionario, 
a 
fronte 
di 
una 
verifica 
negativa 
nei 
confronti 
del 
cedente 
per 
esposizioni 
debitorie 
sorte 
successivamente. 
Di 
talché 
vi 
sarebbe 
il 
rischio, 
per 
la 
p.A., 
di 
dover 
pagare 
al 
cessionario 
i 
crediti 
che 
di 
volta 
in 
volta, 
anno 
dopo 
anno, 
sorgeranno 
da 
quel 
contratto, 
anche 
se 
la 
parte 
contrattuale 
privata 
ha, 
da 
parte 
sua, 
consistenti 
debiti, 
maturati 
immediatamente 
dopo 
la 
pubblicazione 

pArerI 
DeL 
ComItAto 
CoNSULtIvo 


3.4 -occorre 
infine 
evidenziare 
che, come 
già 
anticipato in nota 
sub 
3, il 
Legislatore 
ha 
dettato una 
specifica 
disciplina 
per l'ipotesi 
di 
circolazione 
di 
crediti 
commerciali 
certificati 
attraverso la 
piattaforma 
elettronica 
per la 
gestione 
telematica 
del 
rilascio 
delle 
certificazioni 
predisposta 
dal 
ministero 
del-
l'economia e delle Finanze. 
In tali 
casi, è 
prevista 
una 
facoltà 
di 
rifiuto da 
parte 
della 
p.A., sia 
pure 
soggetta 
al 
brevissimo 
termine 
di 
sette 
giorni 
dalla 
comunicazione, 
in 
forza 
dell'art. 37, comma 
7 bis 
D.L. 24 aprile 
2014, n. 66, che 
ha 
modificato l'art. 7 
del 
D.L. 8 aprile 
2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla 
L. 6 giugno 
2013, n. 64 (c.d. decreto sblocca pagamenti). 


Ai 
sensi 
del 
citato 
art. 
37, 
co. 
7 
bis 
del 
D.L. 
n. 
66 
del 
2014, 
"le 
suddette 
cessioni 
dei 
crediti 
certificati 
si 
intendono 
notificate 
e 
sono 
efficaci 
ed 
opponibili 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
cedute 
dalla 
data 
di 
comunicazione 
della 
cessione 
alla 
pubblica 
amministrazione 
attraverso 
la 
piattaforma 
elettronica, 
che 
costituisce 
data 
certa, 
qualora 
queste 
non 
le 
rifiutino 
entro 
sette 
giorni 
dalla 
ricezione 
di 
tale 
comunicazione. 
non 
si 
applicano 
alle 
predette 
cessioni 
dei 
crediti 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 
117, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
12 
aprile 
2006, 


n. 
163, 
e 
di 
cui 
agli 
articoli 
69 
e 
70 
del 
r.d. 
18 
novembre 
1923, 
n. 
2440, 
nonché 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 
7 
della 
l. 
21 
febbraio 
1991, 
n. 
52, 
e 
all'articolo 
67 
del 
r.d. 
16 
marzo 
1942, 
n. 
267. 
le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
comma 
si 
applicano 
anche 
alle 
cessioni 
effettuate 
dai 
suddetti 
cessionari 
in 
favore 
dei 
soggetti 
ai 
quali 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
della 
l. 
30 
aprile 
1999, 
n. 
130". 
pertanto, con riferimento alle 
cessioni 
di 
crediti 
verso la 
pubblica 
amministrazione 
derivanti 
dall'esecuzione 
di 
appalti 
pubblici 
e 
che 
siano 
"certificati", 
il 
legislatore 
ha 
delineato una 
specifica 
forma 
di 
adesione 
per silenzio 
assenso 
(i.e.: 
per 
mancato 
rifiuto 
entro 
7 
giorni 
dalla 
comunicazione 
della 
cessione), 
che, per effetto del 
richiamo contenuto nell'ultimo periodo, è 
da 
ritenersi 
applicabile 
anche 
quando 
la 
cessione 
di 
tali 
crediti 
avvenga 
nel 
contesto, 
appunto, di operazioni di cartolarizzazione. 


La 
previsione 
avvalora, dunque, la 
tesi 
per cui 
le 
cessioni 
dei 
crediti 
derivanti 
da 
corrispettivo 
di 
appalto 
e 
dalle 
altre 
operazioni 
di 
cui 
all'art. 
106, 
comma 
13 
del 
D.L.gs. 
n. 
50/2016, 
sono 
regolate 
da 
un 
regime 
speciale 
che 
consente 
una 
diversa 
modalità 
della 
facoltà 
del 
rifiuto da 
parte 
dell'Amministrazione 
ceduta solo ove espressamente prevista dal legislatore. 


*** 


Nel 
senso 
sopra 
esposto 
è 
l'avviso 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale, 
che 
resta 
a 
disposizione 
per ogni 
chiarimento dovesse 
rendersi 
ulteriormente 
necessario, 
considerati 
i 
suesposti 
profili 
di 
criticità 
e 
la 
rilevanza 
economica 
del 
settore interessato. 


della 
cessione 
e 
conservati 
per 
tutta 
la 
durata 
del 
contratto 
(che 
può 
estendersi 
anche 
per 
molti 
anni). 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


Si 
allegano 
la 
richiesta 
di 
parere 
dell'Avvocatura 
Distrettuale(*) 
e 
la 
precedente 
consultazione 
resa 
dalla 
Scrivente 
con 
nota 
17 
luglio 
2020, 
n. 
367481(**). 
Sulla 
questione 
è 
stato nuovamente 
sentito il 
Comitato Consultivo, che, 
nella seduta del 9 febbraio 2022, si è espresso in conformità. 


(*) 
Parere del 20/05/2021-100681, Ct 2596/2021-MUtAReLLi: 


« 
Con 
nota 
prot. 
n. 
1935 
del 
9 
marzo 
2021, 
l'Istituto 
(...) 
chiedeva 
a 
questa 
Avvocatura 
di 
emettere 
il 
parere 
di 
competenza 
in ordine 
all'efficacia 
del 
rifiuto opposto dall'Istituzione 
scolastica 
a 
norma 
del-
l'art. 
106, 
co. 
13, 
D.Lgs. 
n. 
50/2016 
(c.d. 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici) 
a 
fronte 
di 
una 
cessione 
di 
crediti 
realizzata 
nell'ambito 
di 
una 
più 
ampia 
operazione 
di 
cartolarizzazione 
ex 
art. 
4 
della 
L. 
n. 
130/1999 


(c.d. Legge cartolarizzazioni). 
Ad avviso della 
Scrivente, le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 106, co. 13, Codice 
contratti 
pubblici, e 
4, co. 4-bis, Legge 
cartolarizzazioni, lungi 
dal 
realizzare 
un'antinomia 
normativa, che 
è 
invero soltanto 
apparente, presentano in realtà un ambito oggettivo di applicazione radicalmente diverso. 


rispetto agli 
artt. 69 e 
70 del 
r.D. n. 2440/1923, in altre 
parole, l'art. 4, co. 4-bis, L. n. 130/1999 
si 
pone 
quale 
legge 
eccezionale 
(nel 
senso fatto proprio dall'art. 14 delle 
preleggi) alla 
stessa 
stregua 
dell'art. 106, co. 13, del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici, che 
parimenti 
fa 
eccezione 
alla 
regula iuris 
tratteggiata 
dal legislatore del 1923. 


Com'è 
noto, infatti, a 
norma 
dell'art. 70 del 
r.D. n. 2440/1923 "per 
le 
somme 
dovute 
dallo Stato 
per 
somministrazioni, forniture 
ed appalti, devono essere 
osservate 
le 
disposizioni 
dell'art. 9, allegato 
e, della legge 
20 marzo 1865, n. 2248". tale 
disposizione, a 
sua 
volta, stabilisce 
che 
"sul 
prezzo dei 
contratti 
in corso non potrà avere 
effetto alcun sequestro, né 
convenirsi 
cessione, se 
non vi 
aderisca 
l'amministrazione interessata". 


orbene, il 
principio ricavabile 
dal 
combinato disposto degli 
artt. 69 e 
70 del 
r.D. n. 2440/1923 e 
9 della 
L. n. 2248/1865, può considerarsi 
ad un tempo 
lex 
specialis 
rispetto alla 
disciplina 
di 
cui 
agli 
artt. 1260 ss. cc., che 
non riconosce 
alcuna 
facoltà 
di 
opposizione 
al 
debitore 
ceduto, e 
lex 
generalis 
rispetto 
alla 
particolare 
materia 
della 
cessione 
di 
crediti 
verso lo Stato derivanti 
da 
contratti 
in corso di 
esecuzione per somministrazioni, forniture e appalti. 


ogni 
norma 
successiva 
che 
dovesse 
diversamente 
disciplinare 
la 
materia, 
dunque, 
dovrà 
fare 
i 
conti 
con tali 
richiamati 
principi 
generali, allo scopo di 
chiarire 
i 
rapporti 
tra 
la 
lex 
posterior 
e 
la 
lex 
prior. 


per quanto specificamente 
concerne 
la 
norma 
di 
cui 
all'art. 106, co. 13, Codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
prima 
di 
esaminare 
i 
rapporti 
tra 
questa 
e 
le 
disposizioni 
della 
L. n. 130/1999, occorre 
preliminarmente 
indagarne 
la 
genesi 
storica, 
essendo 
la 
stessa 
il 
frutto 
di 
successivi 
interventi 
legislativi, 
stratificatisi nel corso di 30 anni. 


All'indomani 
dell'emanazione 
della 
L. 
n. 
52/1991, 
infatti, 
le 
cessioni 
di 
crediti 
di 
impresa 
realizzate 
nell'ambito di 
operazioni 
di 
factoring 
erano integralmente 
assoggettate 
all'indicata 
disciplina 
generale 
di 
cui 
al 
r.D. n. 2440/1923. Si 
è 
dovuto attendere 
il 
6 marzo 1994, data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
L. n. 
109/1994, per potersi 
affermare, in deroga 
agli 
artt. 69 e 
70 del 
regio Decreto, che 
"le 
disposizioni 
di 
cui 
alla 
legge 
21 
febbraio 
1991, 
n. 
52, 
sono 
estese 
ai 
crediti 
verso 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
derivanti 
da 
contratti 
di 
appalto 
di 
lavori 
pubblici, 
di 
concessione 
di 
lavori 
pubblici 
e 
da 
contratti 
di 
progettazione, 
nell'ambito della realizzazione di lavori pubblici" (art. 26, co. 5). 


Il 
primo vagito dell'attuale 
art. 106, co. 13, del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici, tuttavia, appartiene 
al 
D.p.r. n. 554/1999, il 
cui 
art. 115, co. 3, finalmente 
stabiliva 
che 
"la cessione 
del 
credito da corrispettivo 
di 
appalto è 
efficace 
ed opponibile 
alla pubblica amministrazione 
qualora questa non la rifiuti 
con comunicazione 
da notificarsi 
al 
cedente 
ed al 
cessionario entro quindici 
giorni 
dalla notifica di 
cui 
al comma 2" (Art. 115, co. 3). 


La 
prefata 
disposizione, pur abrogata 
dall'art. 256 del 
D.Lgs. n. 163/2006 (in uno con l'art. 26, 



pArerI 
DeL 
ComItAto 
CoNSULtIvo 


co. 5, Legge 
merloni), è 
stata 
poi 
riprodotta 
all'art. 117 del 
vecchio Codice 
degli 
appalti, giungendo a 
noi, per il 
tramite 
dell'art. 106, co. 13, del 
D.Lgs. n. 50/2016, sostanzialmente 
inalterata 
(eccezion fatta. 
per il 
maggiore 
lasso di 
tempo oggi 
concesso alle 
amministrazioni 
pubbliche 
per comunicare 
la 
propria 
opposizione alla cessione). 


oggi, dunque, è 
normativamente 
stabilito che: 
"Si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
alla legge 
21 
febbraio 
1991, 
n. 
52. 
ai 
fini 
dell'opponibilità 
alle 
stazioni 
appaltanti, 
le 
cessioni 
di 
crediti 
devono 
essere 
stipulate 
mediante 
atto pubblico o scrittura privata autenticata e 
devono essere 
notificate 
alle 
amministrazioni 
debitrici. Fatto salvo il 
rispetto degli 
obblighi 
di 
tracciabilità, le 
cessioni 
di 
crediti 
da corrispettivo 
di 
appalto, 
concessione, 
concorso 
di 
progettazione, 
sono 
efficaci 
e 
opponibili 
alle 
stazioni 
appaltanti 
che 
sono amministrazioni 
pubbliche 
qualora queste 
non le 
rifiutino con comunicazione 
da 
notificarsi 
al 
cedente 
e 
al 
cessionario entro quarantacinque 
giorni 
dalla notifica della cessione. 
[ ... ]". 


L'ambito 
oggettivo 
di 
applicazione 
dell'art. 
106, 
co. 
13, 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
risulta 
quindi 
normativamente 
circoscritto in virtù del 
richiamo, per vero assai 
poco perspicuo, alla 
legge 
n. 52/1991. 


Quanto, 
invece, 
all'art. 
4, 
co. 
4-bis, 
L. 
n. 
130/1999, 
lo 
stesso, 
introdotto 
per 
mano 
del 
D.L. 
n. 
145/2013 (convertito con L. n. 9/2014), prevede 
che: 
"alle 
cessioni 
effettuate 
nell'ambito di 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
non si 
applicano gli 
articoli 
69 e 
70 del 
regio decreto 18 novembre 
1923, n. 2440, 
nonché 
le 
altre 
disposizioni 
che 
richiedano 
formalità 
diverse 
o 
ulteriori 
rispetto 
a 
quelle 
di 
cui 
alla 
presente 
legge". 


Si 
tratta, 
allora, 
di 
stabilire 
se 
le 
due 
norme 
disciplinino 
la 
stessa 
materia, 
realizzando 
un'antinomia 
normativa 
da 
risolversi 
mediante 
l'applicazione 
del 
c.d. criterio cronologico (predicante 
l'abrogazione 
implicita 
della 
lex 
prior), o se, all'opposto, si 
tratti 
di 
discipline 
dettate 
con riferimento a 
fattispecie 
diverse. 


Come 
anticipato, 
a 
parere 
della 
Scrivente 
gli 
artt. 
4, 
co. 
4-bis, 
L. 
n. 
130/1999 
e 
106, 
co. 
13, 
D.Lgs. 


n. 50/2016, individuano altrettante 
norme 
eccezionali 
(rispetto alla 
lex 
generalis 
costituita 
dagli 
artt. 69 
e 
70 
del 
r.D. 
n. 
2440/1923), 
ciascuna 
delle 
quali 
risulta 
limitata 
ad 
uno 
specifico 
ambito 
di 
applicazione 
(rispettivamente, 
le 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
e 
la 
cessione 
di 
crediti 
disciplinata 
dalla 
L. 
n. 
52/1991). tra 
le 
due 
norme, in altre 
parole, non si 
realizza 
alcuna 
antinomia 
normativa, disciplinando 
ciascuna la propria materia. 
La 
normativa 
in materia 
di 
cartolarizzazione 
dei 
crediti, infatti, si 
presenta 
quale 
normativa 
speciale 
rispetto 
a 
quella 
in 
materia 
di 
cessione 
dei 
crediti. 
La 
cartolarizzazione 
dei 
crediti, 
invero, 
si 
realizza 
attraverso 
una 
operazione 
giuridico-economica 
complessa, 
di 
cui 
la 
cessione 
del 
credito 
costituisce 
solo 
un frammento. 


Si 
osserva, inoltre, che 
la 
Legge 
cartolarizzazioni, precludendo a 
monte 
l'applicabilità 
degli 
artt. 
69 e 
70 del 
r.D. n. 2440/1923, ha 
inteso all'evidenza 
precludere 
anche 
l'applicazione 
delle 
ulteriori 
disposizioni 
(quali 
quella, antecedente, di 
cui 
all'art. 117 del 
Codice 
appalti) che, derogando all'art. 70, 
hanno 
disciplinato 
in 
modo 
diverso 
la 
medesima 
materia. 
In 
altre 
parole, 
se 
la 
L. 
n. 
130/1999 
ha 
derogato 
alla 
lex 
generalis, escludendo a 
monte 
la 
necessità 
del 
consenso della 
pubblica 
amministrazione 
per le 
cessioni 
di 
crediti 
realizzate 
nell'ambito 
di 
più 
ampie 
operazioni 
di 
cartolarizzazione, 
in 
nessun 
caso 
potranno 
trovare 
applicazione 
le 
norme 
che, in parziale 
deroga 
all'art. 70 del 
regio Decreto, si 
prefiggano 
il 
più 
limitato 
obiettivo 
di 
diversamente 
disciplinare 
le 
modalità 
di 
prestazione 
di 
tale 
consenso, 
essendo 
esclusa in radice la possibilità di opporsi alla cessione. 


Del 
medesimo avviso, del 
resto, appare 
anche 
la 
giurisprudenza 
del 
Giudice 
Amministrativo, alla 
stregua 
del 
quale 
"non 
può 
condividersi 
la 
tesi 
secondo 
cui 
la 
norma 
del 
nuovo 
codice 
degli 
appalti 
(art. 106 comma 13 del 
d.lgs. 50/2016) avrebbe 
abrogato implicitamente 
la norma recata del 
comma 4bis 
dell'art. 4 della l. 130/1999 in quanto successiva, poiché 
la norma in questione 
è 
meramente 
riproduttiva 
della 
precedente 
disposizione 
recata 
dall'art. 
117 
del 
d.lgs. 
n. 
163/06 
che 
era 
ad 
essa 
antecedente. 


neppure 
risulta 
convincente 
la 
tesi 
secondo 
cui 
la 
norma 
del 
codice 
degli 
appalti 
prevarrebbe, 
in 
base 
al 
principio 
di 
specialità, 
sulla 
disposizione 
recata 
dall'art. 
4, 
comma 
4 
bis, 
della 
l. 
130/1999, 
in 
quanto 
tale 
disposizione 
si 
appalesa 
speciale 
rispetto 
alla 
disciplina 
codicistica, 
mentre 
la 
norma 
recata 
dal 
comma 
4-bis 
dell'art. 
4 
cit. 
è 
norma 
speciale 
rispetto 
a 
tutte 
le 
disposizioni 
che 
disciplinano 
le 
formalità 
per 
la 
cessione 
dei 
crediti, 
con 
la 
conseguenza 
che 
l'art. 
106, 
comma 
13, 
del 
d.lgs. 
50/2016, 
che 
richiama 
le 
sole 
"cessione 
dei 
crediti" 
e 
non 
contiene 
un 
espresso 
riferimento 
alla 
"cartolarizzazione" 
è 
inapplicabile, 
essendo 
prevalente 
la 
disciplina 
speciale 
recata 
dall'art. 
4, 
comma 
4-bis, 
della 
l. 
130/1999. 


neppure 
è 
possibile 
ricorrere 
ad un'interpretazione 
estensiva dell'art. 106, comma 13, del 
d.lgs. 



rASSeGNA 
AvvoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


n. 50/2016, facendo rientrare 
le 
"cartolarizzazioni" 
nell'ambito delle 
"cessione 
dei 
crediti", in quanto, 
essendo tale 
disposizione 
derogatoria rispetto alla disciplina comune, deve 
essere 
interpretata restrittivamente. 
Peraltro, l'omesso espresso riferimento a tale 
strumento da parte 
del 
legislatore 
può ragionevolmente 
spiegarsi 
in 
considerazione 
della 
ratio 
della 
norma 
relativa 
alle 
cartolarizzazioni, 
richiamata 
nella 
propria 
memoria 
dalle 
parti 
appellate, 
che 
è 
quella 
di 
favorire 
la 
competitività 
delle 
imprese, 
consentendo 
alle 
imprese 
cedenti 
di 
conseguire 
il 
pagamento delle 
proprie 
fatture 
in termini 
rapidissimi, 
assicurando una regolarità di 
cash flow indispensabile 
per 
il 
finanziamento dell'attività" 
(Cons. Stato, 
Sez. III, 24 settembre 2020, n. 5561). 


Alla 
luce 
delle 
suesposte 
osservazioni, e 
tenuto conto della 
richiamata 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, in considerazione 
del 
rilievo della 
questione, in quanto involgente 
il 
generale 
rapporto tra 
le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 106, co. 13, Codice 
contratti 
pubblici 
e 
4, co. 4-bis, Legge 
cartolarizzazioni, 
si 
resta 
in attesa 
di 
conoscere 
le 
definitive 
determinazioni 
di 
codesta 
Avvocatura 
Generale, eventualmente 
anche 
a 
modifica 
del 
precedente 
parere 
espresso 
con 
nota 
di 
codesta 
Avvocatura 
prot. 
n. 
367481 del 17 luglio 2020. 
(...) 


Il procuratore dello Stato 
L'Avvocato Distrettuale dello Stato 
Francesco mutarelli 
Giovanni Cassano» 


(**) 
pubblicata in rass., 2020, vol. 4, pp. 170 ss. 



LegIsLazIoNeedattUaLItà
Il ruolo delle Nazioni Unite e della Nato 
nel nuovo contesto internazionale 


Gaetana Natale* 


La 
terribile 
guerra 
scoppiata 
lo scorso 24 febbraio 2022 in Ucraina, oltre 
a 
creare 
una 
profonda 
crisi 
umanitaria 
ed 
incertezza 
sul 
destino 
dell’intera 
Europa 
e 
sui 
valori 
fondanti 
di 
libertà 
e 
democrazia, 
ci 
ha 
spinti 
anche 
a 
riflettere 
sul 
ruolo 
che 
a 
livello 
internazionale 
deve 
essere 
svolto 
in 
maniera 
efficace 
dall’ONU 
e 
dalla 
Nato. L’uso della 
forza 
nel 
panorama 
del 
diritto internazionale 
è 
uno 
degli 
argomenti 
più 
controversi, 
considerato 
anche 
che 
in 
tale 
branca 
del 
diritto il 
sistema 
delle 
fonti 
è 
concepito non come 
«sistema verticale
», ma 
«come 
sistema orizzontale». Dal 
secondo dopoguerra 
tale 
sistema 
è stato oggetto di una parziale verticalizzazione per i seguenti motivi: 


1) 
da 
un lato, il 
consolidamento di 
alcune 
norme 
generali 
(i 
principi 
generali 
di 
diritto 
e 
le 
norme 
di 
jus 
cogens) 
che, 
costituendo 
regole 
fondamentali 
dell’ordinamento 
internazionale, 
sarebbero 
dotate 
di 
forza 
giuridica 
superiore; 
2) 
dall’altro, la 
costituzione 
di 
un numero sempre 
crescente 
di 
organizzazioni 
internazionali 
(per esempio, le 
Nazioni 
Unite), la 
cui 
produzione 
normativa, 
a 
difesa 
della 
pace 
e 
sicurezza 
internazionale, 
incorpora 
principi 
intangibili e universali. 
L’art. 38 dello Statuto della 
Corte 
Internazionale 
di 
Giustizia 
(CIG) è 
da 
una 
parte 
della 
dottrina 
considerato come 
la 
chiave 
di 
lettura 
del 
sistema 
in


(*) Professore 
di 
Sistemi 
Giuridici 
Comparati, Avvocato dello Stato, assegnato alla 
V 
sezione 
dell'Avvocatura 
Generale 
dello Stato, Sezione 
preposta 
alla 
difesa 
tecnica 
del 
Ministero degli 
Affari 
Esteri 
e 
della Cooperazione Internazionale e del Ministero della Difesa. 

Il 
presente 
scritto è 
stato elaborato dall'Autrice 
come 
parte 
integrante 
del 
corso di 
formazione 
per gli 
Ufficiali della Marina, tirocinanti presso l'Avvocatura Generale dello Stato. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


ternazionale 
delle 
fonti. Esso dispone 
che 
la 
Corte, nella 
soluzione 
delle 
controversie 
che le sono sottoposte, applicherà: 


-le 
convenzioni 
internazionali, sia 
generali 
che 
particolari, contenenti 
norme espressamente riconosciute fra gli Stati in controversia; 
-la 
consuetudine 
internazionale 
(basata 
sull’usus 
e 
opinio 
iuris), 
quale 
prova di una pratica generalmente accettata come diritto; 


-i 
principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; 
-le 
decisioni 
giudiziarie 
e 
la dottrina degli 
autori 
più 
altamente 
qualificati 
dalle varie nazioni, in qualità di strumenti sussidiari. 
Tale 
articolo 
38 
della 
CIG, 
per 
la 
dottrina 
dominante, 
si 
limita 
solo 
ad 
operare 
una 
mera ricognizione 
delle 
fonti, senza fornire 
alcuna gerarchia. 
Si 
tratta, 
pertanto, 
di 
una 
norma 
operativa 
che 
si 
limita 
a 
indicare 
i 
criteri 
adoperati 
dalla 
CIG 
nel 
procedimento 
di 
risoluzione 
delle 
controversie. 
A 
conferma 
di 
tale 
tesi, fu eliminata 
una 
precedente 
stesura 
del 
testo dello Statuto 
contenente 
un’esplicita 
successione 
delle 
fonti 
menzionate 
all’art. 
38: 
la 
Corte 
deve, 
quindi, 
prendere 
simultaneamente 
in 
considerazione 
tutte 
le 
fonti 
citate, 
tenendo altresì conto delle loro interrelazioni. 

È 
da 
notare 
che 
l’articolo 
in 
esame 
non 
ha 
la 
pretesa 
di 
contenere 
una 
lista 
esaustiva 
delle 
fonti 
a 
cui 
ricorrere 
nella 
risoluzione 
delle 
liti 
internazionali: 
a 
titolo 
di 
esempio, 
la 
Corte 
ha 
sovente 
richiamato 
nelle 
sue 
pronunce 
«atti 
di 
organizzazioni 
internazionali», 
(in 
particolare 
risoluzioni 
dell’Assemblea 
Generale 
delle 
Nazioni 
Unite) che, come 
visto, non figurano nell’elenco 
sopra esposto. 

Occorre, allora, chiedersi 
che 
valore 
abbia 
sul 
piano del 
diritto internazionale 
l’ultima 
risoluzione 
dell’Assemblea 
Generale 
ONU 
di 
condanna 
contro 
la Federazione Russa per l’invasione dell’Ucraina? 


Superando 
il 
concetto 
di 
soft 
law 
e 
tenendo 
ben 
presente 
il 
valore 
politico, 
è 
certamente 
una 
presa 
di 
posizione 
forte 
di 
condanna 
della 
guerra 
come 
strumento 
di 
risoluzione 
delle 
controversie, considerato che 
la 
comunità 
internazionale 
ha 
come 
obiettivo primario la 
civile 
convivenza 
fra 
i 
popoli 
(Quadri). 

Convenzionalmente 
la 
nascita 
del 
diritto 
internazionale 
viene 
fatta 
risalire 
all’epoca 
della 
pace 
di 
Westfalia del 
1648 
al 
termine 
della 
Guerra 
dei 
Trent’anni: 
da quella data tutti 
gli 
stati 
affermarono la loro eguaglianza nella 
sovranità 
e 
indipendenza, 
ponendo 
fine 
alla 
diarchia 
Impero-Papato, 
le 
entità 
sovrane 
di 
vertice 
di 
pari 
grado superiorem 
non recognoscens. Fu così 
che, da 
tale 
data, 
la 
comunità 
orizzontale 
degli 
Stati 
sovrani 
avvertì 
la 
necessità 
di 
dare 
vita 
ad una 
serie 
di 
norme 
condivise 
nel 
tentativo di 
“autolimitare 
la loro 
sfera di 
azione”. Da 
allora 
il 
diritto internazionale 
si 
sviluppò come 
«diritto 
degli 
stati», poiché 
essi 
rappresentano gli 
unici 
soggetti 
costituenti 
un ordinamento 
giuridico orizzontale. Tale 
assetto ha 
conservato quasi 
immutate 
le 
sue 
caratteristiche 
almeno fino ai 
primi 
anni 
del 
Novecento, anche 
se 
dopo il 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Congresso di 
Vienna 
(1815) si 
è 
sentito il 
bisogno di 
creare 
una 
«diplomazia 
dei 
congressi» in cui 
gli 
Stati 
«effettivamente 
più forti» (Inghilterra, Francia, 
Austria, Prussia 
e 
Russia) prendevano decisioni 
che 
incidevano sulla 
vita 
e 
i 
rapporti 
tra 
gli 
Stati 
di 
Occidente 
e 
sulla 
successiva 
«civilizzazione 
e 
colonizzazione
» del 
mondo. Fu così 
che 
già 
dal 
1500 si 
è 
assistito in Europa 
al 
progressivo 
consolidamento di 
alcuni 
Stati 
Nazionali, in particolare 
delle 
grandi 
monarchie Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo. 

Parallelamente, i 
principi 
di 
sovranità dello stato, nazionalità 
-intesa 
come 
fattore 
aggregante 
che 
ha 
costituito 
la 
premessa, 
in 
epoca 
più 
recente, 
del 
principio di 
autodeterminazione 
dei 
popoli 
e 
di 
uguaglianza formale 
fra 
Stati 
-si 
sono 
affermati 
come 
valori 
fondanti 
della 
comunità 
internazionale. Tali 
valori 
sono immanenti 
a 
prescindere 
dal 
fondamento teorico 
del 
diritto internazionale: 
si 
ricorderanno la 
teoria 
del 
diritto naturale 
del 
XVII secolo (Francisco de 
Vitoria 
e 
Francisco Suàrez 
in Spagna, Ugo Grozio 
in Olanda), le 
teorie 
positivistiche 
(Jellinek, Jhering secondo i 
quali 
lo Stato è 
sottoposto 
soltanto 
a 
quegli 
obblighi 
che 
esso 
stesso 
ha 
accettato 
attraverso 
un libero atto di 
autolimitazione 
della 
propria 
sovranità), la 
c.d. «teoria 
della 
volontà 
comune» 
(Vereinbarung), 
la 
teoria 
normativistica 
pura 
di 
Kelsen, 
la 
teoria 
sociologica 
francese 
(Scelle 
e 
Duguit 
che 
rintracciano il 
fondamento 
giuridico 
dell’ordinamento 
internazionale 
in 
un 
sentimento 
di 
solidarietà 
sociale 
capace 
di 
indurre 
qualsiasi 
comunità 
di 
individui 
a 
ricercare 
il 
bene 
comune), 
le 
nuove 
teorie 
realistiche 
basate 
sul 
c.d. 
common 
law 
of 
human Kind, nuova 
struttura 
di 
potere 
a 
tendenza 
universalistica 
(c.d. diritto 
globale 
dell’umanità), la teoria del 
«New Haven» (Tanzi), che 
evidenzia 
la 
centralità 
del 
processo normativo continuo in base 
al 
quale 
nella 
comunità 
internazionale 
si 
affermano le 
decisioni 
dei 
soggetti 
più forti 
della 
scena 
internazionale. 


Ebbene, attraverso l’elaborazione 
di 
tutte 
queste 
teorie 
è 
consolidato a 
livello 
internazionale 
il 
principio 
secondo 
il 
quale 
il 
riconoscimento 
di 
uno 
stato 
sovrano 
si 
basa 
essenzialmente, 
oltre 
che 
sul 
controllo 
effettivo 
e 
permanente 
del 
territorio, sullo svolgimento di 
elezioni 
democratiche. È 
questa 
la 
nota 
dottrina 
tobar: 
Tobar, 
Ministro 
degli 
Esteri 
dell’Ecuador, 
si 
fece 
portatore 
di 
tale 
principio 
all’inizio 
del 
Novecento, 
quando 
le 
Repubbliche 
centro-americane 
si 
impegnarono, 
mediante 
la 
stipula 
di 
appositi 
trattati, 
a 
non 
riconoscere 
la 
legittimità 
dei 
governi 
rivoluzionari, 
finchè 
i 
loro 
esponenti 
non 
fossero 
stati 
liberamente 
eletti 
dal 
popolo 
e 
non 
avessero 
riorganizzato 
su 
basi 
costituzionali i rispettivi Paesi di appartenenza. 


Nel 
Preambolo 
della 
Carta 
dell’oNU 
si 
legge 
“noi 
popoli 
delle 
nazioni 
Unite 
(siamo) 
decisi 
a 
salvare 
le 
generazioni 
future 
da 
ulteriori 
guerre”. 
Nel 
mondo, 
però, 
dal 
1945, 
anno 
di 
ratifica 
della 
Carta, 
ci 
sono 
stati 
più 
di 
100 
conflitti 
armati, 
con 
più 
di 
20 
milioni 
di 
vittime. 
Se 
da 
una 
parte 
la 
Carta, 
dun



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


que, 
vieta 
la 
minaccia 
e 
l’uso 
della 
forza 
(art. 
2, 
par. 
4), 
dall’altra, 
ci 
sono 
delle 
eccezioni 
in cui 
si 
può ricorrere 
ad essa: 
la 
legittima 
difesa 
individuale 
e 
collettiva 
in caso di 
attacco armato e 
il 
sistema 
di 
sicurezza 
collettiva 
ad opera 
del 
Consiglio di 
Sicurezza 
che 
ha 
una 
funzione 
ben diversa 
dall’Assemblea 
delle 
Nazioni 
Unite. È 
interessante, dunque, l’analisi 
di 
questo meccanismo e 
i chiari riferimenti presenti nello Statuto dell’Organizzazione. 

All’art. 
2 
(4) 
si 
legge 
testualmente: 
“I 
membri 
devono 
astenersi 
nelle 
loro 
relazioni 
internazionali 
dalla minaccia e 
dall’uso della forza, sia contro l’integrità 
territoriale 
o l’indipendenza politica di 
qualsiasi 
Stato, sia in qualunque 
altra maniera incompatibile 
con i 
fini 
delle 
Nazioni 
Unite”. Tale 
articolo 
si 
completa 
con la 
c.d. dottrina Stimson, ossia 
la 
dottrina 
del 
non riconoscimento 
di 
situazioni 
illegittime. Tale 
dottrina 
risale 
al 
1932, anno in cui 
il 
Segretario 
di 
Stato 
statunitense 
(Stimson, 
appunto) 
dichiarò 
di 
non 
poter 
ammettere 
la 
legittimità 
delle 
situazioni 
e 
degli 
atti 
contrari 
al 
diritto sancito 
dal 
Patto 
della 
Società 
delle 
Nazioni 
Unite. 
Si 
trattava, 
nel 
caso 
specifico, 
della 
conquista 
giapponese 
della 
provincia 
cinese 
della 
Manciuria. In epoca 
più recente, 
si 
ricordano la 
ris. 276 del 
1970, con cui 
il 
Consiglio di 
Sicurezza 
dichiarava 
contraria 
al 
diritto 
internazionale 
la 
presenza 
delle 
autorità 
sudafricane 
sul 
territorio della 
Namibia 
e 
la 
ris. 662 del 
1990 che 
dichiarava 
nulla e non avvenuta l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq. 

Disattendere 
il 
divieto dell’uso della 
forza 
può essere 
annoverato anche 
come 
una 
violazione 
stessa 
di 
diritto consuetudinario, come 
ha 
riconosciuto 
la 
Corte 
Internazionale 
di 
Giustizia 
nella 
celebre 
sentenza 
del 
1986 
relativa 
ad uno dei 
casi 
più importanti 
del 
diritto internazionale 
del 
dopoguerra, ossia 
Nicaragua vs Stati Uniti. 

Dal 
canto suo la 
Commissione 
del 
Diritto Internazionale 
ha 
espresso la 
sua 
visione 
a 
riguardo, affermando che 
le 
disposizioni 
della 
Carta 
riguardanti 
il 
divieto 
dell’uso 
della 
forza 
costituiscono 
un 
esempio 
cospicuo 
di 
una 
regola 
di diritto internazionale avente il carattere di 
jus cogens. 

È 
singolare 
osservare 
che 
nella 
Carta 
delle 
nazioni 
Unite 
non viene 
mai 
usata 
la 
parola 
“guerra”, ma 
“forza”, insieme 
all’espressione 
“misure 
coercitive”, 
questo 
perché 
tradizionalmente 
la 
guerra 
è 
la 
forma 
più 
grave 
di 
“forza”, 
ma 
non 
l’unica. 
Per 
prima 
cosa, 
con 
l’espressione 
“forza” 
si 
fa 
riferimento 
alla 
“forza 
armata”, ma 
ciò non esclude 
che 
anche 
altri 
tipi 
di 
forze 
come 
quella 
economica e politica non rientrino in tale categoria. 

L’organo che 
ha 
la 
responsabilità 
primaria 
di 
mantenere 
la 
pace 
e 
la 
sicurezza 
internazionale 
è 
il 
Consiglio 
di 
sicurezza, 
come 
sancito 
dall’art. 
24 
della 
Carta. Nel 
capitolo VII dello Statuto all’art. 39 si 
legge: 
“Il 
Consiglio di 
sicurezza 
accerta l’esistenza di 
una minaccia alla pace, di 
una violazione 
della 
pace, 
o 
di 
un 
atto 
di 
aggressione, 
e 
fa 
raccomandazione 
o 
decide 
quali 
misure 
debbano essere 
prese 
in conformità agli 
articoli 
41 e 
42 per 
mantenere 
o ristabilire 
la pace 
e 
la sicurezza internazionale”. Dunque, qualsiasi 
decisione 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


riguardante 
la 
minaccia 
o la 
violazione 
della 
pace 
deve 
passare 
sotto l’analisi 
del Consiglio di Sicurezza. 

La 
prima 
eccezione 
al 
divieto 
dell’uso 
della 
forza 
è 
il 
diritto 
di 
autodifesa 
collettiva 
ed individuale, come 
riconosciuto dall’art. 51. Il 
principio di 
autodifesa 
è 
da 
annoverare 
tra 
i 
“i 
diritti 
innati” 
di 
tutti 
gli 
stati, 
ma 
se 
da 
una 
parte 
il 
diritto di 
proteggere 
sé 
stessi 
da 
un attacco esterno è 
indiscutibile 
ed è 
alla 
base 
dell’istinto 
umano 
di 
sopravvivenza, 
dall’altra 
la 
sua 
definizione 
giuridica 
e 
ambito di 
applicazione 
è 
stato oggetto di 
diverse 
discussioni 
e 
controversie. 
Secondo 
quanto 
stabilito 
dall’art. 
51 
si 
comprendono 
caratteristiche 
e 
comportamenti 
che 
devono 
essere 
seguiti. 
Per 
prima 
cosa, 
esso 
si 
applica 
solo 
“contro un attacco armato”; 
in secondo luogo, gli 
Stati 
hanno il 
dovere 
di 
riportare 
al 
Consiglio di 
Sicurezza 
l’esercizio del 
diritto di 
autodifesa. A 
tal 
riguardo 
bisogna 
menzionare 
i 
tre 
elementi 
alla 
base 
della 
possibilità 
di 
uso 
della 
forza 
nel 
caso di 
autodifesa, che 
non sono espliciti 
nella 
Carta, ma 
fanno 
parte 
del 
diritto 
internazionale 
consuetudinario: 
necessità, 
proporzione 
e 
immediatezza. 


La 
seconda 
eccezione 
al 
divieto dell’uso della 
forza, oltre 
alla 
c.d. preemptive 
self-defense 
(c.d. guerra preventiva, dottrina Bush), è 
un ordine 
o, 
meglio 
dire, 
un’autorizzazione 
di 
uso 
della 
forza 
secondo 
l’art. 
42, 
qualora 
una 
minaccia, una 
violazione 
alla 
pace 
o un atto di 
aggressione 
si 
siano verificate. 
La 
Carta 
prevedeva, inizialmente 
un meccanismo di 
azioni 
per il 
mantenimento 
o il 
ristabilimento della 
pace 
portate 
direttamente 
dal 
Consiglio di 
Sicurezza 
con forze 
militari 
messe 
a 
disposizione 
da 
parte 
degli 
Stati 
membri, 
sulla 
base 
di 
accordi 
che 
si 
sarebbero dovuti 
stipulare 
in base 
all’art. 43. Dal 
momento 
che 
questi 
accordi 
non 
sono 
stati 
stipulati, 
il 
meccanismo 
ha 
funzionato 
ricorrendo ad azioni 
degli 
Stati 
autorizzate 
dal 
Consiglio di 
Sicurezza 
o 
con azioni 
più limitate 
decise 
dal 
Consiglio e 
gestite 
dal 
Segretario Generale 
secondo le 
direttive 
del 
Consiglio stesso. In questo secondo caso si 
fa 
riferimento 
alle 
c.d. 
operazioni 
di 
peace 
keeping, 
o 
di 
mantenimento 
della 
pace. 
All’indomani 
della 
fine 
della 
Guerra 
Fredda, periodo durante 
il 
quale 
il 
Consiglio 
di 
Sicurezza 
si 
trovava 
bloccato dal 
veto di 
uno o di 
più Membri 
Permanenti 
dovuto all’opposizione 
tra 
Usa 
e 
URSS, esso ha 
utilizzato questo suo 
potere 
in 
numerose 
occasioni, 
adottando 
risoluzioni 
di 
autorizzazione. 
Si 
possono 
citare la Somalia, Timor Est e l’Afghanistan. 

Il 
rapporto tra 
Consiglio di 
Sicurezza 
e 
Assemblea 
delle 
nazioni 
Unite 
è 
venuto 
in 
rilievo 
con 
il 
recente 
conflitto 
in 
Ucraina, 
riguardo 
al 
quale 
la 
Russia 
ha 
opposto il 
suo diritto di 
veto all’interno del 
Consiglio di 
Sicurezza, mentre 
l’Assemblea 
Generale 
con il 
voto di 
141 paesi 
(«one 
state 
one 
vote») ha 
approvato 
la 
recente 
risoluzione 
che 
ha 
usato la 
parola 
“deplora” 
in ordine 
al-
l’invasione dell’esercito russo sul territorio ucraino. 

Nel 
corso della 
storia 
la 
frequente 
inattività 
del 
Consiglio di 
Sicurezza, 
soprattutto nel 
primo quarantennio di 
vita 
dell’ONU, ha 
indotto l’Assemblea 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Generale 
a 
ritagliarsi 
una 
propria 
competenza 
concorrente 
a 
quella 
del 
Consiglio, 
al 
fine 
di 
salvaguardare 
la 
pace 
e 
la 
sicurezza 
internazionale. Tale 
competenza 
fu affermata 
per la 
prima 
volta 
nel 
1950 con l’adozione 
della 
ris. 377 


(c.d. 
risoluzione 
Uniting 
for 
Peace 
o 
risoluzione 
Acheson), 
con 
cui 
l’assemblea 
stabiliva la propria facoltà di 
intervenire, in 
caso di 
inerzia del 
Consiglio, 
in 
ogni 
situazione 
di 
minaccia 
alla 
pace 
attraverso 
l’adozione 
di 
raccomandazioni 
o di 
misure 
collettive 
ritenute 
necessarie, ivi 
comprese 
quelle relative all’invio delle forze armate. 
Nel 
recente 
panorama 
internazionale 
che 
sembra 
delineare 
un 
nuovo 
scenario 
geopolitico 
per 
la 
volontà 
della 
Russia 
di 
voler 
annettere 
al 
suo 
territorio 
il 
Don Bass 
e 
la 
Crimea 
(formalmente 
annessa 
con un referendum 
nel 
2014), 
l’attacco armato ad un paese 
sovrano, quale 
l’Ucraina, ha 
visto un rafforzamento 
anche 
della 
Nato, il 
cui 
ruolo sembrava 
essere 
sopito nel 
corso degli 
ultimi 
anni. Non solo: 
il 
Consiglio Atlantico ha 
deciso di 
recente 
di 
rafforzare 
la 
cooperazione 
con la 
Finlandia 
e 
la 
Svezia. Questi 
due 
paesi, ha 
affermato il 
segretario generale 
dell’Alleanza 
Jens 
Stoltenberg saranno associati 
a 
tutte 
le 
consultazioni. 
È 
singolare 
che 
paesi 
tradizionalmente 
neutrali 
abbiano 
chiesto 
di 
aderire 
alla 
NATO. 
Si 
ricorderà 
che 
l’Alleanza 
Atlantica 
è 
stata 
istituita 
con 
il 
Trattato di 
Washington del 
4 aprile 
1949. Creata 
come 
organizzazione 
militare 
per 
contrastare 
il 
pericolo 
sovietico, 
ha 
poi 
radicalmente 
mutato 
il 
proprio 
ruolo 
in 
seguito 
alla 
dissoluzione 
dell’URSS, 
trasformandosi 
così 
in 
una 
forza 
internazionale 
per 
il 
mantenimento 
della 
pace. 
scopi 
principali 
della 
Nato 
sono la mutua difesa obbligatoria dalle 
aggressioni 
esterne 
e 
la risoluzione 
diplomatica delle 
controversie 
tra gli 
stati 
membri. Organo supremo 
è 
il 
Consiglio 
Atlantico 
che 
riunisce 
i 
rappresentanti 
degli 
Stati 
membri 
e 
ha 
sede 
a 
Bruxelles. Dell’organizzazione 
fanno parte: 
Albania, Belgio, Bulgaria, 
Canada, 
Croazia, 
Danimarca, 
Estonia, 
Francia, 
Germania, 
Grecia, 
Regno 
Unito, 
Islanda, 
Italia, 
Lettonia, 
Lituania, 
Lussemburgo, 
Norvegia, 
Paese 
Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica 
Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, 
Spagna, Turchia, Ungheria e USA. 

L’aperura 
della 
NATO 
ai 
paesi 
dell’Europa 
orientale 
era 
stata 
avviata 
già 
nel 
gennaio 1994, quando durante 
il 
vertice 
tenutosi 
a 
Bruxelles, fu deciso di 
dar vita 
al 
c.d. Partenariato per 
la pace, invitando i 
paesi 
dell’Est 
ad instaurare 
una 
più stretta 
collaborazione 
con l’Alleanza 
in vista 
di 
un suo futuro allargamento. 
Si 
trattava 
di 
una 
logica 
conseguenza 
nel 
cambiamento del 
ruolo 
dell’Alleanza 
Atlantica 
nel 
nuovo ordine 
di 
sicurezza 
europeo generato dalla 
fine 
della 
guerra 
fredda. 
In 
questo 
contesto, 
accompagnato 
dal 
progressivo 
disimpegno 
militare 
statunitense 
dall’Europa, la 
NATO 
ha 
dovuto rimodulare 
il 
suo 
ruolo, 
caratterizzandosi 
sempre 
più 
come 
organizzazione 
regionale 
di 
difesa. 

Ed 
è 
tale 
il 
ruolo 
che 
sta 
svolgendo 
in 
questi 
drammatici 
giorni 
di 
attacchi 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


militari 
russi 
in 
Ucraina. 
Quest’ultima, 
infatti, 
ha 
fatto 
richiesta 
di 
adesione 
all’Unione 
Europea 
e 
non fa 
ancora 
parte 
della 
NATO. Pertanto, l’attività 
di 
difesa 
della 
NATO 
deve 
necessariamente 
consistere 
in un rafforzamento della 
difesa 
militare 
sui 
confini 
dei 
paesi 
aderenti 
(Polonia, Romania, Moldavia 
e 
gli 
altri 
paesi 
balcanici, 
c.d. 
“response 
defense”) 
e 
nel 
non 
riconoscimento 
della c.d. no fly-zone. 

Eppure, nella 
nostra 
epoca 
digitale 
che 
ha 
visto il 
passaggio dal 
“territorio” 
al 
“cloud” 
cambia 
anche 
il 
concetto di 
guerra 
e 
di 
aggressione: 
può definirsi 
tale 
anche 
l’attacco informatico agli 
asset 
IT 
nel 
cyberspazio (malware 
o 
attacchi 
DDoS, Distributed Denial 
od Service 
Attacks), ragion per cui 
sembra 
profilarsi 
la 
possibile 
(ma 
non auspicabile) applicazione 
dell’art. 5 dell’Alleanza 
atlantica 
(si 
pensi 
al 
cyberattacco nel 
2010 in Iran, Nokepia 
nel 
2017). 
Tale 
articolo afferma 
che 
un “attacco armato” 
contro uno o più alleati 
della 
Nato 
si 
considera 
come 
un 
attacco 
contro 
ogni 
componente 
della 
Nato 
e, 
quindi, 
ognuno 
di 
essi 
può, 
secondo 
il 
diritto 
all’autodifesa 
sancito 
dall’art. 
51 
della 
Carta 
dell’Onu 
decidere 
le 
azioni 
che 
ritiene 
opportuno 
intraprendere. 
Il 
concetto di 
guerra 
si 
evolve: 
si 
sta 
parlando di 
guerra 
“ibrida”, di 
“guerra 
delle 
narrative”, 
di 
“guerra 
dei 
numeri”, 
di 
“guerra 
basata 
sul 
terrore 
nucleare”, 
“guerra 
dell’energia 
intesa 
come 
fattore 
decisivo 
per 
la 
geopolitica”, 
“dell’uso 
anticipato 
dell’intelligence 
sulle 
azioni 
militari”, 
di 
“guerra 
della 
disinformazione”. 
L’informazione 
è 
concepita 
come 
una 
vera 
e 
propria 
“arma” 
in un mondo dominato dai social e dai c.d. “filter bubbles”. 


Le 
sanzioni 
molto 
dure 
adottate 
dall’Unione 
Europea 
(in 
particolare 
l’esclusione 
della 
Russia 
dal 
circuito Swift 
delle 
transazioni 
internazionali) ci 
portano a 
svolgere 
alcune 
considerazioni 
sulla 
c.d. PesC, la Politica estera 
e 
di 
sicurezza 
Comune, 
introdotta 
solo 
con 
Trattato 
di 
Maastricht, 
il 
c.d. 
«secondo 
pilastro». Sebbene 
il 
Trattato di 
Lisbona 
in vigore 
dal 
dicembre 
2009 
abbia 
operato 
una 
razionalizzazione 
dell’azione 
esterna 
complessiva 
dell’UE, 
la 
PESC 
continua 
a 
mantenere 
una 
struttura 
che 
la 
rende 
diversa 
dalle 
altre 
politiche 
(relative 
soprattutto alla 
sfera 
socio-economica), in quanto ancora 
si 
registra 
una 
prevalenza 
di 
elementi 
di 
cooperazione 
intergovernativa 
rispetto 
a 
quelli 
di 
integrazione 
a 
livello 
sovranazionale. 
Dopo 
la 
riforma 
operata 
dal 
Trattato di 
Lisbona, la 
PESC si 
fonda 
sui 
principi 
e 
persegue 
gli 
obiettivi 
sanciti 
nelle 
disposizioni 
generali 
sull’«azione 
esterna 
dell’Unione» 
(art. 21 tUe). Essa si fonda, in particolare: 


-sulla 
salvaguardia 
dei 
valori 
dell’unione, 
dei 
suoi 
interessi 
fondamentali, 
della sua sicurezza, indipendenza e integrità; 


-sul 
consolidamento e 
sul 
sostegno della 
democrazia, dello Stato di 
diritto, 
dei diritti umani e del diritto internazionale; 
- sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; 
- sulla prevenzione dei conflitti. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


La 
PESC, in quanto politica 
di 
cooperazione 
che 
adotta 
un metodo intergovernativo, 
conferisce 
un 
ruolo 
fondamentale 
agli 
Stati 
membri 
sotto 
tre 
aspetti: 


1) 
attraverso l’obbligo di 
cooperazione 
previsto all’art. 24 TUE 
che 
impone 
agli 
Stati 
di 
sostenere 
attivamente 
e 
senza 
riserve 
la 
politica 
estera 
e 
di 
sicurezza 
«in uno spirito di 
lealtà e 
di 
solidarietà reciproca» (c.d. clausola 
di solidarietà sociale); 
2) 
attribuendo loro il potere decisionale in sede di Consiglio Europeo; 
3) 
prevedendo per essi 
poteri 
e 
doveri 
specifici 
(tra 
cui, ex 
art. 28 par. 2 
TUE), l’obbligo di 
rispettare 
le 
decisioni 
adottate 
dal 
Consiglio nella 
conduzione 
della loro azione in caso di intervento operativo dell’Unione. 
Occorre 
precisare 
che 
l’art. 
42 
TUE 
stabilisce 
esplicitamente 
che 
la 
PsdC, ossia la Politica di 
sicurezza e 
difesa Comune 
costituisce 
parte 
integrante 
della 
PESC e 
«comprende 
la graduale 
definizione 
di 
una politica di 
difesa 
comune 
dell’Unione 
che 
condurrà 
a 
una 
difesa 
comune 
quando 
il 
Consiglio 
Europeo, deliberando all’unanimità, avrà così 
deciso». Essa 
mira 
ad 
assicurare 
all’Unione 
i 
mezzi 
civili 
e 
militari 
in missioni 
esterne 
per il 
mantenimento 
della 
pace, la 
prevenzione 
dei 
conflitti 
e 
il 
rafforzamento della 
sicurezza 
internazionale, 
in 
conformità 
ai 
principi 
della 
Carta 
delle 
Nazioni 
Unite. 
L’esecuzione 
di 
tali 
compiti 
si 
basa 
sulle 
capacità 
fornite 
dagli 
Stati 
membri, 
che restano su base volontaria. 

È 
stato osservato (Flick) che 
per la 
prima 
volta 
il 
Parlamento italiano ha 
autorizzato 
in 
questi 
giorni 
l’invio 
di 
“strumenti 
militari 
di 
protezione” 
per 
aiutare 
l’Ucraina. In conformità 
all’art. 11 della 
Costituzione, i 
decreti 
approvati 
non parlano tecnicamente 
di 
“armi”, ma 
di 
strumenti 
militari 
che 
servono 
più a proteggersi che ad attaccare. 

Sebbene 
l’Ucraina 
non sia 
formalmente 
ancora 
entrata 
nell’Unione 
Europea 
si 
è 
invocato l’art. 42 par. 7 TUE, la 
c.d. clausola di 
mutua assistenza, 
in virtù della 
quale 
se 
uno Stato membro subisce 
un’aggressione 
armata 
nel 
suo territorio, gli 
altri 
Stati 
membri 
sono tenuti 
a 
prestargli 
aiuto e 
assistenza 
con tutti 
i 
mezzi 
in loro possesso, in conformità 
all’art. 51 della 
Carta 
delle 
Nazioni 
Unite. Ciò tuttavia 
non pregiudica 
il 
carattere 
specifico della 
politica 
di 
sicurezza 
e 
di 
difesa 
di 
taluni 
Stati 
membri, 
in 
particolare 
di 
quelli 
che 
fanno 
parte 
della 
Organizzazione 
del 
Trattato 
del 
Nord-Atlantico 
(NATO). 
Anche 
dopo le 
riforme 
operate 
dal 
Trattato di 
Lisbona, dunque, la 
NATO 
continua 
a 
rappresentare 
il 
principale 
quadro di 
riferimento della 
difesa 
europea 
e, come 
disposto dall’art. 42, par. 2, TUE 
la 
cooperazione 
nel 
settore 
della 
PSDC deve 
essere 
conforme 
agli 
impegni 
assunti, nell’ambito di 
tale 
organizzazione 
dai 
Paesi che ne sono membri. 

Oltre 
all’asse 
G7, all’Unione 
Europea 
, all’Alto rappresentante 
UE 
per la 
Politica 
Estera, Josep Borrell, al 
Consiglio Affari 
Esteri 
UE 
con il 
Segretario 
di 
Stato 
USA 
Antony 
Blinken, 
un 
ruolo 
importante 
sta 
svolgendo 
in 
questi 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


drammatici 
giorni 
anche 
l’osCe, ossia l’organizzazione 
per 
la sicurezza 
e 
la Cooperazione 
in 
europa. Nata 
negli 
anni 
settanta 
con il 
nome 
di 
Conferenza 
sulla 
Sicurezza 
e 
la 
Cooperazione 
in Europa 
CSCE, l’organizzazione 
fu 
concepita 
come 
un forum 
di 
cooperazione 
tra gli 
stati 
europei 
volto a favorire 
la distensione internazionale. 


Finita 
la 
guerra 
fredda, il 
mutare 
delle 
priorità 
strategiche 
in tema 
di 
sicurezza 
internazionale 
rese 
necessaria 
una 
trasformazione 
della 
CSCE: 
con la 
conferenza 
di 
Budapest 
del 
dicembre 
del 
1994, pertanto, fu deciso di 
istituzionalizzare 
gli 
incontri, 
conferendo 
alla 
struttura 
lo 
status 
di 
organizzazione 
e cambiando il nome in osCe. 


L’OSCE, 
cui 
fanno 
parte 
attualmente 
56 
paesi 
(vi 
aderiscono 
tutti 
gli 
Stati 
europei, 
alcune 
Repubbliche 
ex 
sovietiche, 
gli 
Stati 
Uniti 
e 
il 
Canada) 
è 
un’organizzazione 
volta alla prevenzione 
dei 
conflitti, al 
monitoraggio delle 
situazioni 
di 
crisi 
e 
alla ricostruzione 
nelle 
zone 
interessate 
da una guerra: 
essa, dunque, è 
attiva 
e 
presente 
in ogni 
fase 
di 
un conflitto armato. La 
sua 
attività 
si 
basa 
su una 
stretta 
collaborazione 
tra 
gli 
Stati 
membri 
nelle 
questioni 
riguardanti la sicurezza politico-militare. 


Dato il 
carattere 
regionale 
dell’attività 
dell’OSCE, le 
possibilità 
di 
coordinazione 
tra 
l’attività 
di 
tale 
organismo e 
le 
altre 
organizzazioni 
europee 
si 
evidenziarono già 
in occasione 
del 
conflitto in Serbia. L’OSCE, infatti, riucì 
a 
realizzare 
una 
proficua 
collaborazione 
tra 
l’Unione 
Europea 
che 
garantiva 
il 
necessario 
supporto 
economico 
e 
la 
UEO 
(Unione 
dell’Europa 
Occidentale, 
mera 
struttura 
militare 
di 
raccordo), al 
fine 
di 
assicurare 
una 
migliore 
tenuta 
dell’embargo 
imposto 
all’epoca 
allo 
stato 
serbo. 
Nonostante 
l’Unione 
Europea 
non sia 
rappresentata 
nell’OSCE, le 
posizioni 
tenute 
dai 
membri 
dell’Unione 
in essa 
presenti 
vengono discusse 
come 
parte 
della 
PESC e 
prese 
in considerazione 
nelle riunioni del Consiglio Europeo. 


*** 


Leggendo 
le 
tragiche 
notizie 
che 
ci 
giungono 
in 
questi 
giorni 
dal-
l’Ucraina, non si 
può fare 
a 
meno di 
fare 
riferimento alla 
lettera 
che 
Einstein 
scrisse 
nel 
1932 
a 
Freud 
a 
seguito 
dell’invito 
rivoltogli 
dalla 
Società 
delle 
Nazioni 
intitolata 
“C’è 
un 
modo 
per 
liberare 
gli 
uomini 
dalla 
fatalità 
della 
guerra?”. 

In tale 
lettera 
Einstein proponeva 
a 
Freud la 
linea 
di 
Kant 
“Progetto per 
una Pace 
Perpetua” 
e 
quella 
di 
Kelsen “Il 
problema della sovranità”: 
“la ricerca 
della 
sicurezza 
internazionale 
implica 
che 
ogni 
Stato 
rinunci, 
entro 
certi 
limiti, 
alla 
sua 
libertà 
di 
azione, 
vale 
a 
dire 
alla 
sua 
sovranità, 
ed 
è 
chiaro 
che 
non 
vi 
è 
altra 
strada 
per 
arrivare 
a 
siffatta 
sicurezza. 
La 
sovranità 
rimane 
il 
problema nella misura in cui 
implica la prospettiva stessa dell’assenza di 
limiti”. 


RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Intelligenza artificiale, neuroscienze, 
algoritmi: le sfide future per il giurista 


Gaetana Natale* 


SommArIo: 
1. 
I 
problemi 
che 
gli 
algoritmi 
pongono 
oggi 
al 
giurista 
-2. 
Algoritmo 
e 
diritto 
amministrativo 
-3. 
Algoritmo 
e 
diritto 
penale 
-4. 
Algoritmo 
e 
contratto 
-5. 
Il 
governo 
della 
tecnica 
e 
il 
controllo 
umano 
delle 
sue 
applicazioni 
-6. 
Qual 
è 
oggi 
la 
più 
grande 
intelligenza 
artificiale 
del 
mondo? 
-7. 
Algoritmi, 
neuroscienze 
e 
neurodiritti. 
L’algoritmo 
e 
l’adolescenza 
-8. 
Strumenti 
normativi 
regolatori 
e 
prospettive 
future 
nella 
dimensione 
euro-unitaria 
e 
in 
quella 
nazionale 
-9. 
Servizio 
civile 
digitale 
-10. 
Hate 
speech: 
un 
fenomeno 
incontrollabile? 
-11. 
La 
figura 
degli 
influencer 
-12. 
La 
commercializzazione 
dei 
dati 
personali: 
il 
caso 
Facebook 
-13. 
La 
tutela 
dei 
minori 
e 
il 
diritto 
all’oblio 
-14. 
L’“eredità 
digitale” 
-15. 
Il 
fenomeno 
del 
c.d. 
revenge 
porn 
-16. 
La 
diffamazione 
tramite 
chat 
privata 


o 
mailing 
list 
-17. 
L’interoperabilità: 
il 
dialogo 
necessario 
tra 
il 
digitale 
e 
il 
diritto 
-Bibliografia. 
(...) 


6. Qual è oggi la più grande intelligenza artificiale del mondo? 
Nvidia 
e 
microsoft 
hanno fatto fronte 
comune 
e 
hanno “costruito” 
la 
più 
grande 
intelligenza 
artificiale 
del 
mondo: 
megatron-Turing 
Natural 
Language 
Generation 
(MT-NLG), composta 
da 
più di 
530 miliardi 
di 
parametri. Il 
software 
ha 
raggiunto un’accuratezza 
senza 
precedenti 
in moltissimi 
ambiti 
(dal 
ragionamento alla comprensione della lettura). 


MT-NLG 
è 
stato 
addestrato 
su 
Microsoft 
Azure 
NDv4, 
sul 
supercomputer 
di 
apprendimento automatico Selene 
di 
Nvidia 
ed è 
composto da 
ben 825 GB 
di 
testo ottenuti 
dal 
mondo del 
web, da 
articoli 
prelevati 
da 
Wikipedia, ad archivi 
di riviste accademiche (come 
Nature 
o Science) a video di notizie. 


In 
questo 
modo, 
l’intelligenza 
artificiale 
supera 
i 
suoi 
predecessori 
in 
un’ampia 
gamma 
di 
attività 
differenti: 
dal 
completamento 
automatico 
delle 
frasi, delle 
risposte 
che 
offre, passando dalla 
lettura 
e 
nel 
ragionamento. Tuttavia, 
a 
causa 
della 
grande 
quantità 
di 
dati 
utilizzati 
per l’addestramento del 
modello, i 
ricercatori 
non sono stati 
in grado di 
cancellare 
alcune 
parole 
che 
non dovrebbero essere utilizzate. 


In 
poche 
parole, 
MT-NLG 
può 
produrre 
dei 
contenuti 
potenzialmente 
razzisti 
o sessisti. Ne 
è 
la 
prova 
il 
fatto che 
alcune 
intelligenze 
artificiali 
create 


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
Giuridici 
Comparati, Consigliere 
Giuridico 
del Garante per la Privacy. 


Redazione 
delle 
note 
a 
cura 
delle 
Dott.sse 
Giulia 
Arcari 
e 
Valentina 
Sabatino, ammesse 
alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 


I precedenti capitoli della monografia pubblicati in Rass., 2021, n. 3, pp. 169 ss. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


per dare 
consigli 
etici 
hanno improvvisamente 
avuto una 
deviazione 
in senso 
contrario. 
Si 
tratta 
dell’IA 
chiamata 
Ask 
Delphi, 
creata 
da 
alcuni 
ricercatori 
sulla 
base 
di 
un 
algoritmo 
di 
apprendimento 
automatico 
in 
grado 
di 
consigliarci 
eticamente 
su cosa 
fare 
in base 
alla 
situazione 
in cui 
eravamo. A 
tale 
intelligenza 
artificiale 
si 
possono fare 
delle 
domande 
e, dopo pochi 
secondi, 
l’algoritmo ci 
dice 
se 
è 
la 
cosa 
più o meno etica 
da 
fare. Molti 
dei 
giudizi 
e 
delle 
risposte 
date 
sono discutibili. Ad esempio, un utente 
ha 
chiesto cosa 
ne 
pensasse 
di 
“un uomo bianco che 
cammina 
verso di 
te 
di 
notte”, rispondendo 
“va 
tutto bene”. La 
stessa 
domanda 
è 
stata 
fatta 
mettendo come 
soggetto un 
uomo di colore e la risposta è cambiata in peggio. 


Gli 
utenti 
sono 
riusciti 
a 
far 
piegare 
l’IA 
al 
loro 
volere, 
creando 
delle 
frasi 
ad hoc 
per mandare 
in confusione 
l’algoritmo. Ad esempio, domandando se 
fosse 
giusto mettere 
musica 
ad alto volume 
alle 
tre 
di 
notte, l’intelligenza 
artificiale 
ha 
risposto giustamente 
“no”, ma 
chiedendo, invece, se 
fosse 
giusto 
mettere 
musica 
ad alto volume 
alle 
tre 
di 
notte, perché 
vi 
rende 
felice, invece, 
il software ha risposto “si”. 


Secondo 
gli 
autori 
dell’intelligenza 
artificiale, 
però, 
Delphi 
è 
un 
prototipo 
di 
ricerca 
destinato a 
indagare 
le 
più ampie 
questioni 
scientifiche 
su come 
i 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale 
possano essere 
realizzati 
per comprendere 
le 
norme 
sociali 
e 
l’etica. Insomma, un’IA 
nata 
con finalità 
etiche, immessa 
nel 
mondo 
di 
internet 
diventa 
il 
“mostro”, 
nel 
senso 
latino 
del 
termine 
“monstrum”, 
ossia 
straordinario, 
ma 
nello 
stesso 
tempo 
spaventoso 
per 
le 
deviazioni 
in cui può evolvere. 


Secondo 
il 
Pentagono 
americano, 
sarà 
addirittura 
l’intelligenza 
artificiale 
a 
prevedere 
le 
guerre 
nel 
futuro. Si 
ricorderà 
la 
notizia 
della 
morte 
del 
capo 
del 
programma 
nucleare 
iraniano per mano di 
un’IA: 
essa 
avrebbe 
manovrato 
un fucile 
da 
cecchino posizionato da 
degli 
agenti 
dei 
servizi 
segreti 
israeliani 
per 
uccidere 
il 
nemico. 
Dopo 
questi 
eventi, 
il 
Pentagono 
ha 
manifestato 
un 
nuovo interesse 
nell’IA 
e 
nel 
suo uso per scopi 
bellici. Il 
Dipartimento della 
Difesa 
americano, infatti, vorrebbe 
usare 
i 
computer per prevedere 
le 
mosse 
dei nemici ed agire di conseguenza negli scenari di guerra (98). 

In particolare, il 
programma 
in cui 
l’IA 
sarebbe 
impiegata 
è 
il 
GIDE, o 
Global 
Information Dominance 
Experiments, che 
avrebbe 
già 
realizzato una 


(98) Vedi 
il 
libro di 
H.A. KISSINGER, E. SCHMIDT, D. HUTTENLOCHER, “The 
Age 
of 
AI: And our 
Human 
Future”, 
2021. 
Secondo 
gli 
autori, 
sarà 
l’intelligenza 
artificiale 
il 
prossimo 
terreno 
su 
cui 
si 
combatterà 
la 
futura 
guerra 
fredda. Kissinger ci 
mette 
in guardia 
sull’I.A. che 
«potrà essere 
utilizzata 
per 
una sorprendente 
gamma di 
usi 
civili 
e 
militari, dalla lettura dei 
raggi 
X 
e 
dalla previsione 
dei 
modelli 
meteorologici 
al 
potenziamento dei 
robot 
assassini 
e 
alla diffusione 
della disinformazione». Secondo 
Kissinger, 
«la 
relazione 
tra 
Stati 
Uniti 
e 
Cina 
è 
passata 
dalla 
partnership 
alla 
cooperazione, 
dall’incertezza 
al 
confronto 
vicino 
o 
reale, 
e 
in 
assenza 
di 
dialogo 
aspettarsi 
che 
vengano 
prese 
decisioni 
sagge 
da tutte 
le 
parti 
è 
un atto di 
fede 
nel 
futuro che 
è 
difficile 
da accettare». Insomma, «stiamo entrando 
in un nuovo periodo della coscienza umana che non comprendiamo ancora del tutto». 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


prima 
esercitazione 
completa 
con tre 
intelligenze 
artificiali 
separate, ma 
connesse 
tra loro, chiamate con i nomi in codice 
Cosmos, Gaia 
e 
Lattice. 

Esse 
hanno 
il 
compito 
di 
lavorare 
insieme 
e 
di 
processare 
una 
mole 
enorme 
di 
dati 
in tempo reale 
per effettuare 
previsioni 
di 
scenari 
bellici 
e 
configurare 
di 
conseguenza 
le 
difese 
americane. Durante 
una 
conferenza, il 
Segretario 
alla 
difesa 
americano 
Lloyd 
Austin 
ha 
elogiato 
l’IA, 
descrivendola 
come 
“il 
corretto mix 
di 
tecnologia, concetti 
operativi 
e 
capacità, inseriti 
in 
un reticolo flessibile, credibile, affidabile 
e 
formidabile, capace 
di 
fermare 
le 
azioni di ogni avversario”. 

L’idea 
del 
Pentagono 
sembra, 
dunque, 
quella 
di 
sviluppare 
un’intelligenza 
artificiale 
sempre 
più avanzata, usandola 
come 
deterrente 
contro qualsiasi 
nemico 
intenda 
iniziare 
una 
nuova 
guerra 
su 
larga 
scala. 
L’implementazione 
dell’IA 
è 
pensata 
per ridurre 
i 
tempi 
della 
“zona 
grigia” 
dei 
conflitti, ovvero il 
momento 
della 
guerra 
in 
cui 
entrambe 
le 
parti 
cercano 
di 
stabilire 
la 
consistenza 
delle 
forze, le 
debolezze 
e 
il 
posizionamento del 
nemico, preparando 
di 
conseguenza 
dei 
piani 
strategici 
per contrastarlo. In questo modo, gli 
Stati 
Uniti 
sperano 
di 
conseguire 
dei 
vantaggi 
operativi 
su 
qualsiasi 
nemico 
e 
in 
ogni 
teatro di 
guerra. La 
decisione 
del 
Pentagono di 
adoperare 
le 
intelligenze 
artificiali 
per scelte 
così 
delicate, che 
mettono a 
rischio anche 
migliaia 
di 
vite 
umane, è stata duramente criticata dal punto di vista etico. 

Lloyd, però, ne 
ha 
difeso l’impiego, dicendo che: 
“il 
nostro uso dell’IA 
vuole 
rafforzare 
i 
valori 
democratici, proteggere 
i 
nostri 
diritti, assicurare 
la 
sicurezza 
e 
difendere 
la 
Privacy. 
Capiamo 
le 
pressioni 
e 
le 
tensioni 
e 
sappiamo 
che 
le 
valutazioni 
etiche 
e 
legali 
dell’uso della tecnologia guerra possono richiedere 
tempo”. 

Anche 
la 
Cina 
potrebbe 
avere 
un programma 
IA 
molto avanzato, per cui 
Washington sarebbe 
già 
indietro nella 
guerra 
tecnologica 
rispetto al 
suo principale 
nemico. 


Ma 
a 
questo punto non si 
potrebbe 
creare 
un’intelligenza 
artificiale 
per 
migliorare 
le 
relazioni 
diplomatiche 
fra 
gli 
Stati? 
Non si 
potrebbe 
creare 
l’algoritmo 
della 
pace 
mondiale 
che 
sia 
in 
grado 
di 
prospettare 
i 
benefici 
della 
cooperazione 
internazionale 
e 
del 
multilateralismo 
per 
creare 
principi 
ecogiuridici 
in grado di 
rispettare 
l’ambiente 
e 
le 
risorse 
naturali 
per uno sviluppo 
sostenibile 
basato 
sul 
“principio 
di 
non 
regressione” 
delle 
risorse 
naturali? 
Non si 
potrebbero creare 
algoritmi 
di 
sviluppo etico in grado di 
contenere 
il 
climate 
change 
e 
raggiungere 
la 
carbon 
neutrality 
entro 
tempi 
ragionevoli 
per 
le future generazioni? 


Io 
credo 
di 
si: 
è 
l’uomo 
che 
può 
indirizzare 
lo 
sviluppo 
dell’IA 
verso 
obiettivi 
positivi, 
è 
l’uomo 
faber 
suae 
fortunae, 
è 
l’uomo 
che 
nel 
programmare 
ed educare 
gli 
algoritmi 
può decidere 
in che 
direzione 
andare, ponendo nella 
programmazione 
dei 
sistemi 
di 
allerta 
e 
di 
blocco in caso di 
deviazione 
del-
l’algoritmo dagli obiettivi etici da lui stesso prefissati. 


LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


È 
un’idea 
utopistica? 
Credo 
di 
no: 
la 
parola 
idea 
viene 
dalla 
radice 
greca 
id 
nell’aoristo 
del 
verbo 
orao, 
vedere 
con 
gli 
occhi 
della 
mente: 
occorre 
vedere 
oggi 
con 
gli 
occhi 
della 
mente 
quello 
che 
potrebbe 
essere 
il 
futuro 
possibile 
e 
decidere 
la 
direzione 
giusta 
verso 
cui 
tendere. 
Un 
episodio 
deve 
farci 
riflettere. 


Frances 
Haugen, 
ex 
dipendente 
di 
Facebook, 
laureata 
ad 
Harvard, 
assunta 
nel 
2019 come 
ingegnere 
informatico addetta 
ai 
dati, ha 
affermato, nel-
l’ottobre 
2021, che 
nella 
piattaforma 
Facebook “c’era un piano di 
sicurezza e 
di 
controlli 
sui 
messaggi 
di 
odio e 
sulla disinformazione, ma dopo le 
elezioni 
presidenziali 
del 
2020 qualcosa è 
cambiato, gli 
algoritmi 
sono cambiati 
e 
il 
sistema è diventato meno sicuro”. 


Secondo 
Haugen 
la 
piattaforma 
social 
avrebbe 
allentato 
la 
censura 
dei 
messaggi 
di 
odio e 
i 
contenuti 
che 
disinformavano sul 
risultato elettorale, finendo 
per 
favorire 
la 
diffusione 
dei 
messaggi 
di 
presunti 
brogli. 
La 
donna, 
considerata 
la 
misteriosa 
“gola 
profonda” 
di 
Facebook, è 
uscita 
allo scoperto, 
mostrando 
il 
suo 
volto 
e 
tratteggiando 
un 
quadro 
inquietante 
della 
piattaforma 
che 
fa 
capo 
a 
Mark 
zuckerberg, 
affermando 
in 
una 
deposizione 
innanzi 
al 
Congresso americano: 
«hanno sempre 
preferito il 
profitto alla sicurezza. Facebook 
amplifica il 
peggio degli 
esseri 
umani 
e 
questo atteggiamento si 
è 
allargato 
a Instagram. Avevano pensato che 
se 
avessero cambiato gli 
algoritmi 
per 
rendere 
il 
sistema più sicuro, la gente 
avrebbe 
speso meno tempo sui 
social, 
avrebbe 
cliccato 
meno 
le 
inserzioni 
pubblicitarie 
e 
Facebook 
avrebbe 
fatto 
meno 
soldi». 
Haugen 
ha 
raccontato 
di 
aver 
deciso 
di 
intraprendere 
questa 
battaglia, 
perché 
ha 
perso 
una 
persona 
cara 
a 
causa 
delle 
teorie 
cospirazioniste 
che 
circolavano sui 
social. Riguardo Instagram, l’ingegnere 
ha 
sostenuto che 
impatta 
in modo drammatico sugli 
adolescenti: 
prima 
al 
congresso Usa 
a 
Washington, 
poi 
al 
Parlamento di 
Londra, quindi 
al 
Web Summit 
di 
Lisbona 
con 
tappa 
a 
Bruxelles, 
l’ex 
data 
scientist 
di 
Facebook 
ha 
portato 
nel 
cuore 
del-
l’Unione 
Europea 
la 
sua 
testimonianza, nell’intento di 
dare 
impulso alle 
proposte 
di regolamentazione dei giganti digitali. 

Haugen, 
la 
whistleblower, 
ha 
parlato 
agli 
eurodeputati 
della 
Commissione 
per il 
mercato interno, con il 
Commissario europeo Thierry 
Breton 
e 
al 
Parlamento 
Europeo affermando: 
«Cari 
membri 
del 
Parlamento, la posta in gioco 
è 
molto 
alta. 
Avete 
l’opportunità 
unica 
di 
creare 
nuove 
regole 
per 
il 
nostro 
mondo online. Le 
regole 
non devono riguardare 
solo gli 
aspetti 
giuridici, ma 
anche 
le 
piattaforme. L’accesso ai 
dati 
è 
solo il 
punto di 
partenza. È 
ciò che 
consente 
ai 
ricercatori 
e 
alle 
autorità di 
regolamentazione 
di 
valutare 
i 
rischi 
e 
i 
danni 
dell’intero 
sistema 
di 
profilazione, 
targeting, 
e 
classificazione 
basata 
sull’engagement. Se 
a Facebook 
sarà permesso di 
continuare 
a operare 
nel-
l’oscurità, avremo solo un crescendo di 
tragedie 
come 
risultato, poiché 
viene 
favorito l’estremismo, la polarizzazione 
e 
la disinformazione. Abbiamo visto 
l’impatto che 
le 
grandi 
piattaforme 
possono avere 
sulle 
nostre 
democrazie 
e 
società, in particolare sul benessere dei nostri figli». 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Il 
Commissario Breton ha 
ribadito la 
determinazione 
dell’UE 
per regolamentare 
“quello 
che 
sembra 
ancora 
un 
Far 
west 
digitale” 
e 
ha 
sottolineato 
«che 
i 
grandi 
sforzi 
di 
lobby 
a cui 
stiamo assistendo sono sprecati: non permetteremo 
che 
gli 
interessi 
aziendali 
interferiscano con l’interesse 
generale 
degli europei». 


Il 
Commissario 
è 
strenuo 
difensore 
dell’adozione 
dei 
Regolamenti 
sui 
servizi 
digitali 
(Digital 
Services 
Act, Dsa) e 
sui 
mercati 
digitali 
(Digital 
markets 
Act, Dma) già 
nel 
primo semestre 
del 
2022, quando la 
Francia 
assumerà 
la 
presidenza 
di 
turno dell’UE. Si 
punterà 
a 
creare 
uno spazio digitale 
più sicuro 
in 
cui 
siano 
protetti 
i 
diritti 
degli 
utenti, 
comprese 
le 
regole 
per 
contrastare 
i 
contenuti 
illegali 
online, migliorare 
la 
responsabilità 
e 
la 
trasparenza 
degli 
algoritmi 
e 
occuparsi 
della 
moderazione 
dei 
contenuti 
e 
della 
pubblicità 
mirata; 
si 
propone 
come 
l’occasione 
di 
plasmare 
l’economia 
digitale 
a 
livello UE 
per 
diventare 
un punto di 
riferimento globale 
sulla 
regolamentazione 
digitale. Le 
proposte 
dei 
vari 
regolamenti 
presentata 
nel 
dicembre 
2020 dovrebbe 
essere 
modificata e migliorata. 


Ma 
è 
importante 
colpire 
anche 
il 
grande 
potere 
economico delle 
piattaforme 
con una 
adeguata 
tassazione: 
il 
G20 tenutosi 
a 
Roma 
il 
29-30 ottobre 
2021 ha 
concordato, tra 
i 
grandi 
della 
terra, la 
c.d. tassa 
minima 
globale, webtax 
al 
15%, definendo la 
base 
imponibile, non in relazione 
alla 
sede 
legale 
di 
tali 
società, ma 
in base 
al 
luogo in cui 
saranno realizzati 
i 
profitti 
(99). L’accordo, 
i 
cui 
aspetti 
tecnici 
dovranno 
essere 
meglio 
definiti 
da 
un 
ulteriore 
intesa 
in 
sede 
OCSE, 
rappresenta 
un 
primo 
passo 
per 
arginare 
gli 
ingenti 
profitti 
delle 
piattaforme 
che 
possono 
superare 
il 
PIL 
degli 
Stati 
sovrani. 
Non 
solo: 
le 
grandi 
piattaforme 
pongono in essere 
anche 
attività 
speculative 
grazie 
alla 
loro forza 
persuasiva. 

Ha 
suscitato scalpore 
la 
notizia 
che, dopo aver venduto sul 
mercato una 
quota 
nella 
sua 
partecipazione 
in Tesla 
come 
suggerito dall’esito di 
un sondaggio 
condotto su Twitter, Elon Musk abbia 
esercitato le 
sue 
stock 
options 
e 
ricomprato 
circa 
la 
metà 
delle 
azioni 
vendute 
pagandole, 
però, 
il 
99,4% 
in 
meno e 
guadagnando 2,4 miliardi 
di 
dollari. Twitter 
viene 
così 
utilizzato per 
manovrare gli 
assets 
finanziari. 

Elon Musk lo ha 
fatto con il 
bitcoin 
e 
con le 
altre 
valute 
digitali, lo ha 
fatto con azioni 
caldissime 
come 
quelle 
della 
catena 
dei 
punti 
vendita 
di 
videogiochi 
Gamestop. 

Ora 
si 
è 
dedicato 
direttamente 
alle 
azioni 
della 
sua 
azienda, 
produttrice 
di 


(99) Gli 
amministratori 
delle 
società 
di 
telecomunicazioni 
europee 
(come 
Deutsche 
Telekom, Telefonica 
e 
Vodafone) 
stanno 
chiedendo 
che 
le 
grandi 
società 
tecnologiche 
americane, 
come 
Netflix, 
You-
Tube 
(Google) e 
Facebook (oggi 
Meta), sostengano le 
spese 
di 
rete 
che 
loro stesse 
utilizzano per la 
loro 
massiccia 
attività 
in Europa. È 
questo uno strumento, insieme 
alla 
web tax, per contenere 
il 
loro straripante 
potere economico. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


auto 
elettriche: 
la 
Tesla. 
Egli, 
infatti, 
ha 
lanciato 
un 
sondaggio 
sul 
social 
per 
chiedere 
se 
avrebbe 
dovuto 
vendere 
il 
10% 
della 
sua 
partecipazione 
nella 
società 
di 
fronte 
all’ipotesi, 
in 
discussione 
presso 
il 
Senato 
statunitense, 
che 
venga 
introdotta 
una 
tassa 
sugli 
utili 
non 
realizzati 
(in 
pratica 
sull’eventuale 
aumento 
del 
valore 
delle 
azioni 
che 
rimane 
una 
ricchezza 
virtuale, 
finché 
i 
titoli 
non 
sono 
effettivamente 
venduti) 
per 
le 
700 
persone 
più 
facoltose 
del 
paese. 


Hanno risposto in 4 milioni 
con una 
prevalenza 
del 
58% dei 
voti 
favorevoli 
alla 
vendita. L’esito ha 
provocato uno scossone 
sui 
mercati 
con le 
azioni 
Tesla 
calate 
del 
16% in due 
giorni. A 
questo punto, Musk vende 
4,5 milioni 
di 
azioni 
per 
un 
controvalore 
di 
5,5 
miliardi 
di 
dollari, 
ma 
dai 
documenti 
trasmessi 
alla 
SEC 
(l’autorità 
statunitense 
di 
vigilanza 
dei 
mercati) 
Musk 
ha 
esercitato 
un diritto di 
stock 
options 
(ossia 
la 
possibilità 
di 
acquistare 
un titolo ad 
un 
valore 
prestabilito, 
indipendentemente 
dalle 
variazioni 
di 
prezzo 
intercorse 
nel frattempo) comprando 2,1 milioni di azioni. 

Le 
azioni 
sono state 
pagate 
6,2 dollari 
l’una 
a 
fronte 
di 
un valore 
di 
mercato 
che 
supera 
i 
mille 
dollari, garantendo all’imprenditore 
un guadagno del 
99,4%. Pagato 14 milioni 
di 
dollari, il 
pacchetto azionario vale 
ai 
prezzi 
correnti 
2,4 miliardi di dollari. 

Non 
solo: 
Musk 
ha 
spostato 
la 
sua 
residenza 
dalla 
California 
al 
Texas, 
dove 
il 
regime 
fiscale 
sui 
proventi 
da 
partecipazioni 
societarie 
è 
più 
favorevole. 

Musk ha, al 
momento, un patrimonio personale 
stimato in 281 miliardi 
di dollari, superiore al Pil di molti Stati sovrani. 

Tale 
situazione 
richiede 
un controllo e 
una 
tassazione 
adeguata, a 
cui 
il 
G20 
ha 
cercato 
di 
dare 
una 
risposta: 
le 
grandi 
ricchezze 
vanno 
adeguatamente 
tassate secondo il criterio della capacità contributiva e in aderenza ad una logica 
redistributiva. 

Tali 
piattaforme 
hanno 
un 
potere 
di 
contrattazione 
superiore 
agli 
Stati, 
che 
si 
concretizza 
nella 
c.d. Tax 
ruling, potendo stabilire 
i 
termini 
della 
regolazione 
e 
della 
tassazione 
su un piano di 
parità, se 
non di 
superiorità, con i 
governi 
nazionali 
che 
dipendono 
da 
tali 
piattaforme, 
per 
assicurare 
ai 
propri 
cittadini servizi come le comunicazioni, la sanità, la giustizia, la sicurezza. 


È 
notizia 
recente 
che 
Facebook 
stia 
pensando 
non 
solo 
di 
cambiare 
nome, 
ma 
di 
presentare 
Metaverso (100), nuova 
realtà 
aumentata 
che 
inciderà 
pro


(100) 
L. 
PARDO, 
“Il 
metaverso 
spalanca 
nuove 
frontiere 
dell’economia. 
E 
delle 
regole”, 
su 
https://www.wired.it/article/metaverso-ecommerce-regole/. La 
parola 
Metaverso è 
un neologismo che 
si 
sta 
diffondendo ormai 
tra 
coloro che 
studiano l’innovazione 
futura 
della 
tecnologia. A 
tutt’oggi, però, 
tale 
parola 
non può essere 
definita 
con uno specifico significato. Nell’articolo sopra 
riportato, la 
parola 
metaverso 
viene 
fatta 
risalire 
alla 
definizione 
di 
Neal 
Stephenson, 
contenuta 
nel 
romanzo 
cyberpunk 
“Snow 
Crash” 
del 
1992: 
«uno 
spazio 
tridimensionale 
all’interno 
del 
quale 
persone 
fisiche 
possono 
muoversi, 
condividere 
e 
interagire 
attraverso avatar 
personalizzati». Si 
prospettano scenari 
e 
soluzioni 
interessanti 
ma 
sorgono anche 
preoccupazioni 
inquietanti. Nel 
Metaverso ognuno di 
noi, in futuro, avrà 
un 
gemello 
virtuale? 
E 
se 
così 
sarà, 
potremo 
considerare 
il 
gemello 
un 
soggetto 
giuridico? 
Avrà 
capacità 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


fondamente 
sulle 
nostre 
vite 
(101). La 
tecnologia 
corre 
su un binario più ve-

giuridica 
e 
di 
agire? 
Il 
diritto potrà 
regolare 
il 
metaverso? 
Come 
riportato nell’articolo sopra 
citato, «il 
metaverso rappresenta l’ambiente 
globale 
di 
convergenza di 
differenti 
soluzioni 
tecnologiche 
(blockchain 
e 
smart 
contracts, 
non-fungible 
tokens 
e 
cryptovalute, 
intelligenza 
artificiale 
e 
realtà 
aumentata), 
che 
permetteranno 
la 
continua 
interazione 
personale 
e 
commerciale 
fra 
gli 
utenti, 
nonché 
la 
fusione 
fra il 
mondo reale 
e 
quello virtuale 
(attraverso avatar)». Un esempio di 
questo nuovo universo è 
dato 
dal 
videogioco, tramite 
il 
quale 
il 
giocatore/avatar, durante 
l’azione, accede 
al 
negozio virtuale 
di 
un 
marchio 
vero, 
reale, 
prova 
l’articolo 
di 
abbigliamento 
e 
lo 
compra 
realmente. 
Come 
ci 
dice 
l’autore 
del-
l’articolo, le 
caratteristiche 
essenziali 
del 
metaverso sono: 
«natura globale 
e 
decentralizzata, che 
non 
sopporta 
confini 
geografici 
o 
giurisdizionali; 
interazione 
sincronica 
degli 
e 
fra 
gli 
utenti, 
fra 
realtà 
fisica e 
realtà virtuale; connessione 
continua e 
interoperabilità». Il 
Metaverso sicuramente 
ci 
deve 
far 
riflettere 
sul 
modo 
in 
cui 
i 
dati 
saranno 
trattati: 
ci 
chiediamo 
quali 
soggetti 
dovranno 
raccogliere 
e 
trattare 
i 
dati, con quali 
procedure, se 
ci 
sarà 
una 
adeguata 
protezione. I rischi 
di 
data breach 
potrebbero essere 
all’ordine 
del 
giorno, 
per 
cui 
se 
vogliamo 
“spostarci” 
sulla 
realtà 
virtuale 
dobbiamo 
pensare 
ad 
una 
adeguata 
cybersecurity, 
dal 
momento 
che 
sarà 
sicuramente 
difficile 
identificare 
ed 
attribuire 
le 
responsabilità 
agli 
autori 
degli 
attacchi. Come 
si 
legge 
nell’articolo, «l’utilizzo di 
soluzioni 
di 
intelligenza artificiale 
nel 
metaverso 
richiederà 
soluzioni 
normative 
risk-based 
uniformi 
e 
quanto 
più 
possibile 
globali, 
nonché 
sistemi 
di 
compliance 
sofisticati 
ed 
affidabili 
in 
capo 
ai 
soggetti 
che 
tali 
soluzioni 
offrono 
nel 
metaverso. 
Il 
metaverso rappresenterà opportunità e 
rischi 
per 
titolari 
di 
diritti 
di 
proprietà intellettuale 
ed industriale, 
così 
come 
per 
fornitori 
di 
contenuti… 
L’idea di 
una due 
diligence 
preventiva sugli 
asset 
di 
proprietà 
intellettuale 
e 
industriale 
per 
coglierne 
opportunità 
e 
limiti 
di 
sfruttamento 
nel 
metaverso, 
ed 
eventualmente 
estendere 
agli 
aventi 
diritto tali 
facoltà, è 
altamente 
consigliata. Compresa l’esperienza 
fluida 
e 
decentralizzata 
del 
metaverso 
in 
ogni 
ambito 
dell’economia 
globale, 
sarà 
sempre 
più 
necessaria 
una corrispondente e quanto più uniforme possibile disciplina giuridica». 


(101) Dopo la 
crisi 
di 
Facebook, con il 
Metaverso Mark zuckerberg vuole 
portare 
la 
sua 
azienda 
in un’area 
di 
business 
senza 
confini, un nuovo modello di 
economia; 
v. M. DAL 
CO 
E 
A. LONGO, “metaverso, 
nuovo business 
della rete? Ecco gli 
scenari” 
su agendadigitale.eu. Si 
tratta 
di 
mondi 
digitali 
in 
cui 
non c’è 
limite 
agli 
acquisti, in cui 
il 
denaro è 
la 
criptovaluta, poiché 
la 
finanza 
nel 
Metaverso è 
alimentata 
dalla 
blockchain; 
mondi 
virtuali 
in cui 
chiunque 
può comprare 
o scambiare 
arte, musica, case, 
terreni 
o 
Token 
Non 
Fungibili 
(NFT) 
-definiti 
dal 
dizionario 
Collins 
parola 
dell’anno 
-che 
rappresentano 
«un 
certificato 
digitale 
unico, 
registrato 
in 
una 
blockchain, 
che 
viene 
utilizzato 
per 
registrare 
la 
proprietà 
di 
un bene 
come 
un’opera d’arte 
o un oggetto da collezione». Inoltre, sono sempre 
più comuni 
le 
transazioni 
di 
immobili 
nel 
Multiverso. V. anche 
E. ROTOLO, “Sarà metaverso in mille 
settori: ecco tutte 
le 
possibilità di 
business”, su agendadigitale.eu. Per non parlare 
dei 
matrimoni 
virtuali: 
lo scorso ottobre, 
una 
coppia 
si 
è 
sposata 
con una 
doppia 
celebrazione, una 
reale 
e 
un’altra 
virtuale, con i 
loro avatar che 
si 
sono scambiati 
gli 
anelli. I matrimoni 
nel 
metaverso non sono ancora 
riconosciuti 
ufficialmente 
e 
gli 
invitati 
per partecipare 
hanno dovuto scaricare 
un programma 
sul 
computer e 
creare 
il 
proprio avatar. 
Nel 
frattempo, 
come 
alternativa 
al 
Metaverso 
di 
Facebook, 
anche 
Microsoft 
sta 
creando 
una 
sorta 
di 
metaverso, chiamato mesh. 
Tuttavia, N. PATRIGNANI, “metaverso, rischio di 
un nuovo medioevo digitale”, su agendadigitale.eu, ci 
mette 
in 
guardia 
dai 
pericoli 
del 
Metaverso, 
esaminando 
gli 
aspetti 
più 
controversi 
di 
questa 
innovazione, 
che 
un po’ 
come 
Lucignolo di 
Collodi, rischia 
di 
spingerci 
verso il 
“nuovo paese 
dei 
balocchi”, dove 
rischiamo 
di 
diventare 
tutti 
asini. Si 
pensi 
alla 
«promessa di 
giochi 
e 
intrattenimenti 
senza fine, unita all’offerta 
speciale 
di 
caschi, visori 
e 
Smartglasses 
per 
entrare 
nel 
nuovo mondo, un mondo virtuale 
con 
intrattenimenti 
senza limiti 
(“sei 
giovedì 
e 
una domenica” 
come 
dice 
Lucignolo)»: 
si 
tratta 
di 
un’attrazione 
irresistibile, soprattutto per i 
più giovani. Il 
primo aspetto controverso del 
Metaverso è 
quello riferibile 
alla 
mancanza 
di 
interoperabilità 
e 
di 
standard, perché 
se 
ognuno costruisce 
il 
suo Metaverso, 
avremo 
«tanti 
“giardini 
recintati” 
non-comunicanti, 
ciascuno 
dominato 
dal 
“barone” 
di 
turno, 
un 
nuovo 
medioevo digitale». Un altro aspetto critico è 
il 
seguente: 
quali 
conseguenze 
fisiche 
provoca 
l’uso di 
tutti 
questi 
nuovi 
dispositivi? 
Si 
pensi 
ai 
problemi 
agli 
occhi 
che 
queste 
tecnologie 
possono 
portare, 
oltre 
alla 
nausea 
e 
alle 
vertigini. Non c’è 
sincronizzazione 
tra 
gli 
stimoli 
“percepiti” 
sensorialmente 
e 
l’esperienza 
fisica 
“vissuta” 
dal 
corpo 
(chinetosi). 
Altro 
aspetto 
controverso 
è 
quello 
sociale: 
riusciremo 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


loce 
rispetto 
alla 
regolamentazione 
globale. 
Per 
tale 
motivo, 
Viktor 
Mayer-
Schonberger, docente 
di 
internet 
e 
di 
governance 
presso l’Università 
di 
Oxford, 
ha 
pubblicato un libro dal 
titolo “Fuori 
i 
dati!”, sostenendo che 
occorre 
rompere 
i 
monopoli 
sulle 
informazioni 
per 
rilanciare 
il 
progresso. 
Negli 
ultimi 
vent’anni, i 
colossi 
del 
settore 
digitale 
sono progressivamente 
riusciti 
a 
concentrare 
sui 
loro server 
una 
quantità 
di 
dati 
impressionante. Questi 
monopoli 
di 
informazioni, se 
possono far bene 
agli 
azionisti 
di 
Facebook, di 
Amazon e 
di 
Google, fanno invece 
molto male 
al 
progresso umano. Tale 
autore, insieme 
a 
Thomas 
Ramge, avanza 
una 
tesi 
sui 
generis: 
aprire 
a 
tutti 
l’accesso ai 
dati 
non è solo possibile, ma è fondamentale per rilanciare il progresso. 

E 
l’Europa, 
oggi 
schiacciata 
nella 
morsa 
della 
“guerra 
fredda 
tecnologica” 
tra 
Stati 
Uniti 
e 
Cina, può e 
deve 
giocare 
un ruolo da 
protagonista 
nella 
costruzione 
di 
un nuovo ecosistema 
digitale, fondato sulla 
libera 
circolazione 
delle 
informazioni, dando così 
inizio a 
una 
rivoluzione 
in grado di 
scardinare 
i 
monopoli 
che 
attualmente 
frenano le 
potenzialità 
di 
sviluppo di 
buona 
parte 
del pianeta. 

Il 
primo 
passo 
per 
riuscirci? 
Secondo 
Thomas 
Ramge 
e 
Viktor 
Mayer-
Schonberger, 
superare 
il 
Regolamento 
generale 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
(GDPR) con un nuovo Regolamento generale sull’uso dei dati. 

I tempi 
sarebbero maturi 
per obbligare 
le 
“superstar digitali” 
a 
condividere 
il 
loro 
tesoro: 
una 
rivoluzione 
che 
non 
potrebbe 
partire 
né 
dagli 
Stati 
Uniti 
della 
Silicon Valley, né 
dalla 
Cina, impegnata 
a 
raggiungere 
lo status 
di 
prima 
superpotenza digitale del globo (102). 

a 
distinguere, tra 
le 
persone 
intorno a 
noi, chi 
è 
reale/fisico e 
chi 
è 
invece 
semplicemente 
connesso? 
Secondo 
Zuboff, docente 
della 
Harvard Business 
School, urge 
un intervento normativo: 
«Internet 
come 
mercato auto-regolante 
si 
è 
rivelato un esperimento fallimentare», per cui 
la 
domanda 
da 
porre 
al 
legislatore 
è 
«Come 
dovremmo 
organizzare 
e 
governare 
gli 
spazi 
di 
informazione 
e 
comunicazione 
del 
secolo digitale 
in modo da sostenere 
e 
promuovere 
valori 
e 
principi 
democratici?» (S. zUBBOF, 2021, 
12 Novembre, “You Are the object of a Secret Extraction operation”, The New York Times). 
Insomma, come 
nel 
mondo fisico le 
sostanze 
che 
creano dipendenza 
sono strettamente 
regolamentate, 
così 
nel 
mondo virtuale 
i 
servizi 
digitali 
che 
creano dipendenza 
dovrebbero essere 
limitati 
e 
il 
digitale 
dovrebbe 
essere 
utilizzato con molta 
saggezza 
e 
responsabilità 
«per 
aiutare 
l’umanità ad affrontare 
le 
immense sfide dell’Antropocene come il cambiamento climatico e le pandemie». 


(102) Come 
è 
noto, la 
Cina 
è 
ormai 
decisa 
a 
modificare 
gli 
standard di 
internet; 
è 
dal 
2019 che 
il 
paese 
spinge 
per una 
proposta 
di 
riforma, nota 
come 
New Ip, all’Unione 
internazionale 
delle 
telecomunicazioni 
(ITU), 
l’agenzia 
delle 
Nazioni 
Unite 
che 
fissa 
gli 
standard 
del 
settore. 
La 
proposta 
è 
stata 
bocciata 
il 
17 
e 
18 
dicembre 
2020 
da 
Stati 
Uniti, 
Canada 
ed 
Europa, 
che 
accusano 
Pechino 
di 
voler 
spezzare 
la rete globale in tante parti soggette a un maggiore controllo governativo. 
Eppure, il 
modello oggi 
in vigore, il 
Tcp/Ip, è 
considerato dalla 
Cina 
inadeguato per le 
sfide 
future 
del 
web (l’esplosione 
dell’internet 
delle 
cose, i 
servizi 
dallo spazio, la 
realtà 
virtuale 
del 
c.d. metaverso), 
per cui 
il 
paese 
è 
tornato alla 
carica 
con il 
New Ip 
all’Internet 
governance 
forum 
(IGF), la 
conferenza 
delle 
Nazioni 
Unite 
sul 
futuro del 
web, svoltasi 
tra 
il 
6 e 
il 
10 dicembre 
2021 a 
Katowice, in Polonia. 
Secondo 
Alain 
Durand, 
responsabile 
tecnologico 
dell’Internet 
corporation 
of 
assigned 
names 
and 
numbers 
(ICANN), 
l’ente 
che 
assegna 
gli 
indirizzi 
Ip 
all’IGF, 
un 
modello 
centralizzato 
come 
quello 
del 
New 
Ip 
«sarebbe 
un passo indietro e 
farebbe 
rallentare 
l'innovazione»: 
spingendo per una 
centralizzazione 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Il 
compito, quindi, spetterebbe 
a 
un’Europa 
che, se 
da 
un lato ha 
posto il 
tema 
della 
“sovranità 
digitale” 
e 
dell’innovazione 
tecnologica 
come 
una 
delle 
principali 
sfide 
da 
affrontare 
per rilanciarsi 
(103), dall’altro deve 
confrontarsi 
con 
una 
“versione 
quasi 
religiosa 
della 
protezione 
dei 
dati”, 
che 
sta 
contribuendo 
a generare una disponibilità sempre più scarsa di questi ultimi. 

Integrando 
il 
GDPR 
con 
un 
nuovo 
Regolamento 
generale 
sull’uso 
dei 
dati, 
l’Europa 
potrebbe 
inaugurare 
un 
sistema 
che 
renda 
obbligatoriamente 
accessibili 
le 
informazioni, non soggette 
a 
vincoli 
di 
riservatezza, (da 
quelli 
personali 
ai 
segreti 
industriali), 
in 
base 
a 
parametri 
ben 
definiti 
e 
progettati 
per favorirne la condivisione dai soggetti più grandi ai più piccoli. 

7. Algoritmi, neuroscienze e neurodiritti. L’algoritmo e l’adolescenza. 
Quando il 
28 gennaio del 
1981 fu firmata 
a 
Strasburgo la 
Convenzione 


n. 
108, 
non si 
aveva 
idea 
di 
come 
l’intelligenza 
artificiale 
potesse 
acquisire 
una 
tale 
forza 
invasiva 
e 
pervasiva, 
fino 
a 
condizionare 
lo 
stesso 
pensiero 
umano. 
Gli 
algoritmi 
ci 
hanno allertato sui 
rischi 
del 
dominio della 
tecnica 
con 
un processo di mimesi e superamento della razionalità umana. 
Le 
neuroscienze 
aprono scenari 
inimmaginabili 
nel 
binomio “coscienza 
e identità”. 


simile 
a 
quella 
delle 
reti 
telefoniche, si 
metterebbe 
a 
repentaglio il 
modello permissionless 
che 
è 
alla 
base 
di 
Tcp/Ip, con rischi 
di 
frammentazione. Il 
rischio maggiore, infatti, è 
quello di 
spezzare 
internet 


(c.d. 
splinternet): 
«la decisione 
di 
tutti 
di 
usare 
uno spazio comune 
dei 
nomi 
di 
dominio e 
del 
sistema di 
indirizzi 
di 
Ip 
e 
di 
aderire 
alle 
stesse 
specifiche 
del 
protocollo 
centrale 
sono 
stati 
i 
fattori 
critici 
per 
consentire 
il 
successo di 
un’internet 
globale 
negli 
ultimi 
30 anni», ha 
osservato l’ICANN, mentre 
con 
il 
modello cinese 
«una legge 
nazionale 
o regionale, che 
può essere 
anche 
basata su buone 
intenzioni, 
rischia 
di 
compromettere 
le 
fondamenta 
dell’infrastruttura 
di 
internet». 
Secondo 
un 
recente 
report 
sulla 
visione 
cinese 
sul 
cyberspazio del 
centro studi 
Australian strategic 
policy 
institute, sotto il 
presidente 
Xi 
Jinping il 
Partito comunista 
cinese 
ha 
una 
precisa 
strategia: 
«raggiungere 
lo status 
di 
una superpotenza 
cyber, fondamentale 
per 
il 
Partito comunista cinese 
per 
radicare 
con successo la sua linea di 
governo 
condiviso 
e 
lo 
sviluppo 
di 
un’internet 
con 
la 
Cina 
al 
centro», 
strategia 
perseguita 
dando 
assistenza 
a 
Paesi, 
come 
quelli 
africani, 
che 
hanno 
bisogno 
di 
aiuto 
per 
governare 
i 
problemi 
del 
web. 
V. 
https://www.wired.it/article/cina-internet-controllo-rete/. 


(103) 
Un 
altro 
campo 
in 
cui 
l’Europa 
vorrebbe 
eccellere 
è 
quello 
dei 
semiconduttori. 
La 
presidente 
della 
Commissione 
europea, Ursula von der 
Leyen, presentando il 
disegno di 
legge 
sui 
semiconduttori, 
ha 
affermato che 
con lo “European Chips 
Act” 
si 
vuole 
fare 
dell’Unione 
europea 
un «leader 
industriale 
in questo mercato strategico», con l’obiettivo di 
«avere 
nel 
2030 qui 
in Europa il 
20% della quota di 
mercato globale 
della produzione 
di 
chip», aumentando quella 
attuale 
del 
9%. Si 
veda 
l’articolo pubblicato 
dalla 
redazione 
ANSA 
l’8 
febbraio 
2022, 
“Von 
der 
Leyen 
lancia 
il 
piano 
per 
i 
chip, 
«Ue 
diventerà 
leader»”. 
È 
sicuramente 
una 
grande 
ambizione, 
per 
cui 
sono 
stati 
investiti 
15 
miliardi 
di 
euro 
in 
ulteriori 
investimenti 
privati 
e 
pubblici 
entro il 
2030, «che 
si 
aggiungono ai 
30 miliardi 
di 
euro che 
abbiamo già 
pianificato, 
finanziati 
dal 
Next 
Generation 
Eu, 
dal 
programma 
Horizon 
e 
dai 
bilanci 
nazionali». 
Secondo 
von 
der 
Leyen, 
l’Europa 
può 
essere 
la 
patria 
della 
prossima 
rivoluzione 
industriale. 
Il 
Chips 
Act 
europeo 
si 
concentrerà 
su 
cinque 
aree: 
la 
ricerca, 
l’innovazione 
industriale, 
la 
creazione 
di 
impianti 
di 
produzione 
avanzati, il 
sostegno pubblico agli 
impianti 
di 
produzione 
europei 
“primi 
nel 
loro genere”, la 
sicurezza 
delle catene di approvvigionamento. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Se 
Parmenide 
affermava 
“il 
pensiero è 
essere”, “il 
cogito ergo sum” 
di 
Cartesio oggi 
diventa 
“digito, videor 
ergo sum”, lo strumento digitale 
diventa 
lo strumento identificativo del sé, del proprio essere. 

Tale 
processo 
di 
identificazione 
diventa 
più 
evidente 
con 
i 
progetti 
di 
neurolink, 
utilizzati 
nell’ambito 
medico 
con 
l’installazione 
nel 
cervello 
di 
chip 
per bloccare 
patologie 
cerebrali 
neurodegenerative. In questo modo, la 
tecnologia 
può agire sulla formazione del pensiero e dei ricordi (104). 


Si 
stanno, però, nel 
contempo sviluppando tecniche 
di 
“brain reading”, 
interpretazione 
funzionale 
del 
pensiero, 
che 
pongono, 
però, 
il 
limite 
del 
rispetto 
dell’autodeterminazione individuale. 

Un riferimento normativo è 
rinvenibile 
nel 
codice 
di 
procedura 
penale 
e 
precisamente 
nell’art. 189 c.p.p., spesso richiamato per l’utilizzo di 
materiale 
probatorio volto ad accertare 
la 
colpevolezza 
dell’imputato, come 
ad esempio 


il c.d. siero della verità. 
L’art. 
189 
c.p.p. 
rubricato 
“Prove 
non 
disciplinate 
dalla 
legge”, 
recita 
espressamente: 
«Quando è 
richiesta una prova non disciplinata dalla legge, 
il 
giudice 
può assumerla se 
essa risulta idonea ad assicurare 
l’accertamento 
dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona». 

Tale 
riferimento 
normativo 
in 
materia 
penale 
ci 
induce 
a 
considerare 
senz’altro auspicabile 
l’utilizzo terapeutico della 
neurotecnologia 
per recuperare 
le 
funzionalità 
cerebrali 
perdute, più arduo è 
perimetrare 
gli 
ambiti 
di 
intervento 
per il c.d. potenziamento ricognitivo, il c.d. Brain enhancement. 


Viene, in tal 
caso, in rilievo il 
rapporto tra 
neuroscienza 
e 
capitalismo digitale, 
dando origine al c.d. 
neurocapitalismo 
(105). 

La 
mediazione 
tecnologica 
è 
da 
sempre 
parte 
integrante 
del 
rapporto 
degli 
uomini 
con la 
natura 
e 
la 
società 
ed è 
a 
sua 
volta 
una 
costruzione 
sociale 
continuamente 
attraversata 
da 
conflitti 
e 
biforcazioni. La 
razionalità 
economica 
del 
Neurocapitalismo 
tende 
a 
plasmare 
le 
produzioni 
tecnologiche 
del 
“comune”, 
come 
il 
free 
software, trasformandole 
in dispositivi 
di 
mercificazione, 
di 
controllo automatico del 
pensiero umano, andando ben oltre 
“il 
principio 
di 
precauzione” 
per 
non 
ingenerare 
discriminazioni. 
Ciò 
è 
reso 
ancora 
più 
evidente 
dal 
ruolo crescente 
delle 
produzioni 
autonome 
del 
General 
intellect 
tra


(104) Sul 
tema, si 
veda 
l’opera 
“Principi 
di 
neuroscienze”, 2015, del 
premio Nobel 
ERIK 
R. KANDEL, 
uno 
dei 
maggiori 
neuroscienziati 
del 
XX 
secolo, 
che 
afferma 
che 
«ad 
un 
certo 
punto 
dell’evoluzione 
i 
cervelli 
erano divenuti 
troppo complessi 
per 
governarsi 
da soli». Si 
veda 
anche 
l’opera 
del 
noto scienziato 
ANTONIO 
DAMASIO, 
“L’errore 
di 
Cartesio. 
Emozioni, 
ragione 
e 
cervello 
umano”, 
Adelphi, 
Milano, 
1995 e 
“Alla ricerca di 
Spinoza. Emozioni, sentimenti 
e 
cervello”, Adelphi, Milano, 2003, che 
spiega 
come 
la 
psiche 
si 
sia 
sviluppata 
per regolare 
la 
vita 
biologica 
e 
gli 
adattamenti 
in modo più raffinato ed 
efficace. V. anche 
l’ultimo libro del 
premio Nobel 
ELIzABETH 
BLACKBURN, “La scienza che 
allunga la 
vita. La rivoluzione 
dei 
telomeri”, 2017, in cui 
l’autrice 
sostiene 
che 
i 
vissuti 
psicologici 
modulano l’attività 
del 
DNA 
e 
che 
ognuno 
di 
noi 
è 
soprattutto 
ciò 
che 
c’è 
nella 
sua 
psiche, 
è 
la 
dimensione 
psicologica 
che ci rende felici o ci rende tristi, al di là dei fatti del mondo. 
(105) G. GRIzIOTTI, “Neurocapitalismo: mediazioni tecnologiche e linee di fuga”, 2016. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


mite 
lo sviluppo dei 
commons 
della 
conoscenza 
e 
degli 
usi 
alternativi 
e 
antagonisti 
delle nuove tecnologie. 


Non tutto ciò che 
è 
tecnologicamente 
possibile, è 
giuridicamente 
ed eticamente 
possibile. 
Occorre 
tener 
presente 
il 
catecòn, 
il 
limite 
di 
Prometeo, 
che 
è 
il 
limite 
dell’ammissibilità 
etica, 
giuridica 
e 
sociale 
delle 
innovazioni 
tecnologiche. 

Viene 
in rilievo il 
profilo della 
trasparenza 
e 
della 
visibilità 
del 
pensiero, 
che 
attiene 
al 
foro interno dell’uomo sotto diversi 
profili: 
il 
diritto al 
silenzio 
dell’imputato, la 
segretezza 
del 
voto, il 
principio di 
materialità 
del 
comportamento 
sanzionabile. 


Si 
pone 
il 
problema 
della 
libertà 
cognitiva 
come 
presupposto dell’autodeterminazione 
individuale, 
capacità 
di 
discernimento 
e 
imputabilità 
penale 
ben oltre la 
suitas, ossia la partecipazione psicologica del fatto a lui ascritto. 


Vi 
è 
allora 
da 
chiedersi: 
le 
neuroscienze 
saranno idonee 
a 
rimodulare 
il 
diritto penale? (106). 

Si 
pensi 
al 
caso Albertani 
-vicenda 
giudiziaria 
del 
2009 svoltasi 
a 
Cirimido 
(Como) -primo caso di 
riconoscimento in Italia, e 
fra 
i 
primi 
al 
mondo, 
della 
validità 
delle 
neuroscienze 
per l’accertamento dell’imputabilità: 
fu accertata 
la 
lesione 
della 
corteccia 
prefrontale 
come 
base 
dell’infermità 
mentale, 
attraverso indagini 
di 
“imaging cerebrale 
e 
di 
genetica molecolare”, accertamenti 
genetici 
per verificare 
se 
la 
perizianda 
presentasse 
“gli 
alleli” 
che, secondo 
la 
letteratura 
scientifica 
internazionale, 
sono 
significativamente 
associati 
ad un maggior comportamento impulsivo, aggressivo e violento. 

I 
reati 
commessi 
da 
Stefania 
Albertani 
erano 
gravissimi: 
quest’ultima 
uccise 
sua 
sorella 
maggiore, segregandola 
in casa 
e 
costringendola 
ad assumere 
psicofarmaci 
in dosi 
tali 
da 
causarne 
il 
decesso. Successivamente 
diede 
fuoco 
al 
cadavere. Indiziata 
per la 
morte 
della 
sorella 
e 
tenuta 
sotto controllo dalla 
polizia, 
durante 
un 
diverbio 
con 
la 
madre, 
tentò 
di 
strangolarla 
con 
una 
cintura. 
L’arrivo della 
polizia 
salvò la 
madre 
e 
portò all’arresto di 
Stefania. In seguito, 
emerse 
un complesso disegno criminoso per cui 
l’imputata 
fu chiamata 
a 
ri


(106) Sul 
tema 
v. A. TRAVERSI, “Intelligenza artificiale 
applicata alla giustizia”, 2005; 
S. GABORIAU, 
“Libertà e 
umanità del 
giudice: due 
valori 
fondamentali 
della giustizia. La giustizia digitale 
può 
garantire 
nel 
tempo la fedeltà a questi 
valori?”, in Questione 
Giustizia, fasc. 4, 2018; 
G. zARA, “Tra il 
probabile 
e 
il 
certo. La valutazione 
del 
rischio di 
violenza e 
di 
recidiva criminale”, in Diritto penale 
contemporaneo, 
20 
maggio 
2016; 
C. 
BAGNOLI, 
“Teoria 
della 
responsabilità”, 
2019; 
U. 
PAGALLO, 
S. 
QUATTROCOLO, “The 
impact 
of 
AI on criminal 
law, and its 
two fold procedures”, in W. BARFIELD, U. PAGALLO 
(a 
cura 
di), 
“research 
Handbook 
on 
the 
Law 
of 
Artificial 
Intelligence”, 
Edward 
Elgar 
Pub, 
2018; 
D. LIMA, “Could AI Agents 
Be 
Held Criminally 
Liable? Artificial 
Intelligence 
and the 
Challanges 
for 
Criminal 
Law”, in South Carolina Law review, 2018; 
T. KING, N. AGGARWAL, M. TADDEO, L. FLORIDI, 
“Artificial 
Intelligence 
Crime: An Interdisciplinary 
Analysis 
of 
Foreseeable 
Threats 
and Solutions”, in 
Science 
and 
Engineering 
Ethics, 
2019; 
S. 
GLEB, 
E. 
SILVERMAN, 
T. 
WEIGEND, 
“If 
robots 
cause 
harm, 
who 
is 
to blame? Self-driving cars 
and criminal 
liability”, in New Criminal 
Law review, 2016; 
P. ASARO, “A 
body 
to Kick, but 
Still 
No Soul 
to Damn: Legal 
Perspectives 
on robotics”, in P. LIN, K. ABNEY, G.A. 
BEKEY 
(a cura di), “robot Ethics”, mIT Press, 2012. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


spondere 
del 
sequestro di 
persona 
e 
poi 
dell’omicidio della 
sorella, omicidio 
preceduto 
dalla 
somministrazione 
di 
benzodiazepine, 
che 
aveva 
indotto 
la 
vittima 
in 
uno 
stato 
di 
confusione 
mentale 
e 
di 
incapacità 
reattiva, 
nonché 
dei 
reati 
di 
soppressione 
e 
distruzione 
di 
cadavere, di 
quello di 
utilizzo indebito 
delle 
carte 
di 
credito, del 
padre 
attraverso la 
somministrazione 
di 
medicinali 
che 
ne 
procurarono il 
ricovero in ospedale, di 
tentato omicidio di 
entrambi 
i 
genitori, 
avendo 
cercato 
di 
farne 
esplodere 
l’autovettura 
e 
del 
tentato 
omicidio 
della madre attraverso strangolamento. 

Il 
Gip di 
Como condannò Stefania 
a 
venti 
anni 
di 
reclusione, riconoscendole 
un vizio parziale 
di 
mente 
per la 
presenza 
di 
«alterazioni, in un’area del 
cervello 
che 
ha 
la 
funzione 
di 
regolare 
le 
azioni 
aggressive 
e, 
dal 
punto 
di 
vista 
genetico, 
di 
fattori 
significativamente 
associati 
ad 
un 
maggior 
rischio 
di comportamento impulsivo, aggressivo e violento» (107). 


Si 
pone, allora, la 
questione 
del 
comportamento criminale 
in bilico tra 
libero 
arbitrio e determinismo. 

Ora, presupposto del 
sistema 
penale 
è 
che 
l’individuo sia 
dotato di 
libero 
arbitrio, ossia 
in grado di 
distinguere 
il 
bene 
dal 
male 
e 
di 
decidere 
se 
agire 
in 
un 
senso 
o 
nell’altro. 
Su 
tale 
presupposto 
si 
basa 
il 
principio 
dell’imputabilità, 
da 
non 
confondere 
con 
la 
non-punibilità. 
Ma 
cosa 
succede 
se 
ci 
si 
accorge 
che 
il 
crimine 
compiuto non è 
stato idealizzato e 
voluto consciamente 
dall’autore 
dello 
stesso, 
bensì 
frutto 
di 
una 
serie 
predeterminata 
di 
cause 
innestata 
da 
processi 
algoritmici? 
Che 
succede 
se 
la 
genetica 
carica 
il 
fucile, 
la 
psicologia 
mira 
e l’algoritmo che incide sul percorso decisionale tira il grilletto? 


Bisogna, 
quindi, 
dare 
una 
breve 
definizione 
di 
neuroscienze, 
intese 
queste 
come 
un gruppo eterogeneo di 
discipline 
scientifiche, accomunate 
dall’obiettivo 
di 
spiegare 
come 
le 
connessioni 
neuronali 
sovrintendano lo svolgimento 
di 
tutte 
le 
attività 
umane, 
non 
solo 
quelle 
estrinsecantesi 
in 
semplici 
movimenti 
corporei, ma 
anche 
più complesse 
(la 
volizione, le 
emozioni, persino la 
formulazione 
di 
giudizi 
morali), 
tradizionalmente 
attribuite 
al 
dominio 
della 
mente e considerate inaccessibili all’indagine sperimentale. 

Oggi 
esistono diversi 
tipi 
di 
neuroscienze 
(molecolari, cellulari, comportamentali, 
integrative), ma 
per la 
nostra 
analisi 
è 
opportuno illustrare 
il 
filone 
del 
c.d. Neurodiritto, ovvero le 
più aggiornate 
scoperte 
neuroscientifiche 
applicabili 
all’ordinamento normativo. 


La 
sfida 
della 
prova 
neuroscientifica 
in 
ambito 
processuale 
penale, 
ai 
fini 
dell’attribuzione di responsabilità, è quella di: 


(107) C. GRANDI, “Neuroscienze 
e 
responsabilità penale: nuove 
soluzioni 
per 
problemi 
antichi”, 
2016; 
L. 
ALGERI, 
“Neuroscienze 
e 
testimonianza 
della 
persona 
offesa”, 
2012; 
F. 
CASASOLE, 
“Neuroscienze, 
genetica comportamentale 
e 
processo penale”, 2012; 
A. LAVAzzA, L. SAMMICHELI, “Il 
delitto 
del 
cervello. 
La 
mente 
tra 
scienza 
e 
diritto”, 
2012; 
D.M. 
WEGNER, 
“The 
illusion 
of 
conscious 
will”, 
2002; 
B.J. 
FEIJOS 
SANCHEz, 
“Derecho 
Penal 
y 
Neurosciencias, 
Una 
relaciòn 
tormentosa?”, 
2011; 
G. 
VELLAR, F. BASILE, “Diritto penale e neuroscienze”, 2016. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


a) 
identificare 
i 
circuiti 
cerebrali 
necessari 
alla 
formazione 
della 
consapevolezza 
e delle intenzioni; 
b) 
dimostrare 
se 
e 
in che 
misura 
i 
circuiti 
cerebrali 
dell’imputato fossero 
difettosi al momento di pianificare l’azione e di controllare un impulso; 
c) 
valutare 
quanto l’eventuale 
deficit 
possa 
aver influito sul 
compimento 
dell’azione illecita. 
Le 
neuroscienze, avendo come 
oggetto di 
analisi 
qualcosa 
di 
molto complesso 
come 
il 
cervello e 
i 
vari 
e 
articolati 
meccanismi 
di 
funzionamento cerebrale 
e 
neuronale, 
suscitano 
molti 
interrogativi 
e 
dubbi, 
non 
solo 
di 
carattere 
strettamente 
scientifico, ma, per quanto ci 
riguarda, essendo operatori 
di 
diritto, 
dubbi 
di 
natura 
giuridico-etico: 
è 
il 
tema 
affrontato 
già 
da 
Lombroso 
nell’ambito dell’antropologia 
criminale, ma 
l’ambito dell’analisi 
deve 
essere 
circoscritto al criterio dell’imputabilità da distinguere dalla non-punibilità. 

Tra 
le 
varie 
problematiche 
che 
sono 
state 
affrontate, 
ci 
si 
è 
chiesti 
se 
l’avvento 
delle 
neuroscienze 
possa 
in qualche 
modo rimodulare 
alcuni 
capisaldi 
del 
diritto penale, quali 
il 
concetto di 
libero arbitrio, coscienza, volontà 
e 
responsabilità. 


Secondo i 
fautori 
del 
c.d. determinismo, ogni 
comportamento umano è 
solo l’esito meccanicistico di un processo cerebrale. 


La 
rimodulazione 
del 
diritto penale 
su basi 
deterministiche 
è 
una 
strada 
percorribile, con la 
naturale 
conseguenza 
che 
si 
dovrebbe 
operare 
una 
completa 
rimodulazione 
delle 
sanzioni, sganciate 
da 
qualsiasi 
nucleo retribuzionistico 
e 
proiettate 
esclusivamente 
in 
funzione 
di 
cura 
e 
di 
controllo 
del 
soggetto predisposto al crimine. 

Tale conclusione, però, suscita molte perplessità e avanza due critiche. 

La 
prima 
è 
che 
la 
concezione 
deterministica 
potrebbe 
voler 
solamente 
fornire 
una 
spiegazione 
unicausale 
della 
criminalità. 
In 
passato 
si 
è 
sempre 
sostenuto che 
la 
causa 
della 
criminalità 
è 
da 
rinvenirsi 
in vari 
fattori 
quali 
la 
povertà, la 
razza, il 
ceto sociale, il 
livello di 
istruzione, la 
conformazione 
del 
cranio. Ora 
la 
causa 
si 
individua 
nella 
conformazione 
cerebrale 
e 
nelle 
interconnessioni 
neuronali dell’individuo. 


Le 
teorie 
unicausali 
della 
criminalità 
-compresa 
la 
teoria 
neuroscientifica 
-oscurano, 
insomma, 
altri 
possibili 
fattori, 
di 
natura 
personale 
(che 
vanno 
dal-
l’indole 
all’educazione) 
e/o 
ambientale 
(che 
a 
loro 
volta 
variano 
dalla 
cultura 
alla 
società, 
alla 
famiglia 
alla 
scuola, 
ecc.), 
i 
quali 
esercitano 
indubbiamente 
un 
ruolo 
importante, 
per 
lo 
meno 
in 
funzione 
di 
creazione 
dell’occasione 
o 
di 
innesco 
del 
comportamento 
criminale: 
ammesso, 
quindi, 
che 
le 
neuroscienze 
riescano 
davvero 
a 
mappare 
una 
predisposizione 
neuronale 
al 
crimine, 
non 
disponiamo 
ancora 
di 
alcun 
elemento 
per 
affermare 
se 
e 
quando 
tale 
predisposizione 
si 
trasformerà 
effettivamente 
in 
realizzazione 
concreta. 


La 
seconda 
critica 
ad 
una 
possibile 
rimodulazione 
del 
diritto 
penale 
si 
basa 
sul 
fatto 
che, 
almeno 
ad 
oggi, 
le 
acquisizioni 
dei 
neuroscienziati 
non 
giu



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


stificano alcun cambiamento della 
legge 
penale, obiettivo che, peraltro, la 
comunità 
neuroscientifica 
nemmeno si 
pone, puntando, invece, essa 
solo a 
mettere 
a 
disposizione 
del 
diritto penale 
metodi 
e 
tecniche 
atti 
a 
meglio valutare 
aspetti 
come 
l’imputabilità, 
la 
pericolosità 
sociale, 
la 
eventuale 
falsità 
delle 
dichiarazioni processuali. 


Se 
le 
neuroscienze 
non 
possono 
incidere 
oltre 
un 
certo 
limite 
sul 
concetto 
di 
imputabilità, l’algoritmo può rappresentare 
l’elemento di 
eterodeterminazione 
della 
volontà 
umana, ponendo la 
questione 
della 
legittimità 
di 
un intervento 
eteronomo sul processo cognitivo e volitivo dell’uomo. 

Si 
pensi 
al 
programma 
di 
interfaccia 
cervello-computer elaborato da 
Facebook 
nel 
2018 
(il 
c.d. 
neuromarketing) 
con 
parametri 
psicometrici 
basati 
sulla 
profilazione 
predittiva 
a 
carattere 
neuroscientifico 
(c.d. 
brainreading), 
con sfruttamento a 
scopi 
commerciali. In tal 
caso occorre 
distinguere 
tra 
persuasione, 
suggestione 
e 
soggezione psichica. 


Il 
codice 
penale, pur non prevedendo più il 
reato di 
plagio, sanziona 
la 
manipolazione 
psicologica 
quando 
presenta 
gli 
estremi 
della 
violenza 
privata. 


Ma può oggi l’algoritmo plagiare la mente umana? 


Si 
ricorderà 
il 
caso 
di 
Aldo 
Braibanti, 
scrittore, 
fine 
intellettuale, 
accusato 
di 
aver plagiato un giovane, Giovanni 
Sanfratello, inculcandogli 
le 
sue 
idee 
e 
soggiogandolo da 
un punto di 
vista 
psicologico: 
la 
Corte 
costituzionale, con 
la 
sentenza 
n. 96 del 
9 aprile 
1981, dichiarò illegittimo il 
reato di 
plagio di 
cui 
all’art. 
603 
c.p. 
per 
indeterminatezza 
della 
fattispecie. 
In 
tale 
sentenza 
la 
Corte 
precisò: 


«Per 
la configurazione 
del 
reato e 
per 
l’analisi 
oggettiva dell’attività illecita 
e 
degli 
effetti 
di 
questa la recente 
letteratura ha anche 
fatto ricorso e 
si 
è 
avvalsa di 
dati 
forniti 
da moderni 
trattati 
di 
neurologia e 
psichiatria, cercando 
di 
individuare 
a 
fini 
giuridici, 
i 
concetti 
medici, 
peraltro 
non 
ancora 
pacifici, di 
suggestione, convincimento, di 
persuasione, di 
soggezione, di 
determinismo, 
di 
annientamento della volontà e 
di 
trasferimento della personalità 
umana 
da 
parte 
di 
un 
soggetto 
ad 
altro 
soggetto. 
Ciò 
al 
fine 
di 
determinare 
oggettivamente 
quale 
sia in realtà il 
totale 
stato di 
soggezione 
indicato nella 
norma, di 
indicare 
i 
possibili 
mezzi 
per 
accertarlo concretamente 
e 
di 
fissare 
i 
confini 
della 
sfera 
giuridica 
entro 
cui 
manifestarsi. 
La 
varietà 
delle 
numerose 
opinioni 
avanzate 
e 
i 
mutamenti 
della 
dottrina 
costituiscono 
anch’essi 
una 
conferma 
dell’indeterminatezza 
della 
norma 
e 
dell’impossibilità 
di 
dare 
ad 
essa un’univoca applicazione concreta. 


L’analisi 
del 
testo 
dell’art. 
603 
e 
i 
vari 
tentativi 
di 
distinguere 
il 
reato 
dagli 
altri 
delitti 
contro 
la 
libertà 
individuale, 
quale 
figura 
autonoma, 
non 
hanno permesso di 
precisare 
in modo razionalmente 
sicuro le 
sue 
caratteristiche 
specifiche. 


Formalmente 
appare 
come 
un reato a condotta libera che 
dovrebbe 
essere 
diverso dalla riduzione 
in schiavitù o in condizione 
analoga. …Questo 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


potrebbe 
essere 
attuato 
con 
mezzi 
psichici, 
cioè 
attraverso 
un’attività 
psichica 
del 
plagiante 
esercitata 
direttamente 
sul 
plagiato. 
L’effetto 
dell’attività 
psichica 
del 
plagiante 
dovrebbe 
essere 
non già quello di 
ridurre 
un individuo in 
stato di 
incapacità di 
intendere 
o di 
volere 
(previsto espressamente 
nell’art. 
613 c.p.), bensì 
quello di 
ridurre 
la vittima da persona capace 
a persona in 
totale 
stato di 
soggezione. Questo totale 
stato di 
soggezione 
indicato dall’art. 
603 c.p. annienterebbe 
il 
determinismo della vittima, sostituendo il 
determinismo 
del 
plagiante 
a 
quello 
del 
plagiato 
in 
guisa 
da 
ridurre 
questo 
ultimo 
nello 
stato 
di 
cosa 
che 
pensa 
e 
agisce 
come 
pensa 
e 
agisce 
il 
plagiante. 
In 
altre 
parole, 
sarebbe 
il 
plagiante 
a 
formare 
la 
volontà 
sua 
e 
del 
plagiato, 
questi 
essendo solo un mezzo fisico per 
compere 
le 
attività volute 
dal 
plagiante. 
Non 
si 
conoscono 
né 
sono 
accertabili 
i 
modi 
con 
i 
quali 
si 
può 
effettuare 
l’azione 
psichica del 
plagio, né 
come 
è 
raggiungibile 
il 
totale 
stato di 
soggezione 
che 
qualifica tale 
reato, né 
se 
per 
l’esistenza di 
questo sia necessaria la 
continuità 
dell’azione 
plagiante 
nel 
senso 
che, 
se 
la 
volontà 
del 
plagiante 
non 
si 
dirige 
più 
verso 
il 
plagiato, 
cessi 
lo 
stato 
di 
totale 
soggezione 
di 
questo. 
Non è 
dato, pertanto, conoscere 
se 
l’effetto dell’azione 
plagiante 
sia permanente 
e 
duraturo o se 
può venir 
meno in qualunque 
momento per 
volontà del 
plagiante 
o anche 
perché 
non persiste 
l’attività di 
questo o per 
altre 
cause. 
Nemmeno 
si 
conosce 
se 
il 
risorgere 
della 
facoltà 
di 
determinismo 
del 
plagiato 
possa essere 
la conseguenza di 
un mutamento del 
determinismo del 
plagiante 


o 
di 
una 
diversa 
direzione 
data 
al 
determinismo 
di 
questo. 
Quanto 
all’elemento 
psichico si 
tratta di 
un delitto a dolo generico… 
La scienza medica ha 
accuratamente 
indagato intorno alla formazione 
e 
al 
meccanismo della persuasione, 
della suggestione e della soggezione psichica. 
Fra 
individui 
psichicamente 
normali, 
l’esternazione 
da 
parte 
di 
un 
essere 
umano di 
idee 
e 
di 
convinzioni 
su altri 
essere 
umani 
può provocare 
l’accettazione 
delle 
idee 
e 
delle 
convinzioni 
così 
esternate 
e 
dar 
luogo ad uno stato di 
soggezione 
psichica 
dell’agente 
e, 
pertanto, 
una 
limitazione 
del 
determinismo 
del 
soggetto. 
Questa 
limitazione, 
come 
è 
stato 
scientificamente 
individuato 
ed 
accertato, può dar 
luogo a tipiche 
situazioni 
di 
dipendenza psichica che 
possono 
raggiungere, 
per 
periodi 
più 
o 
meno 
lunghi, 
gradi 
elevati, 
come 
nel 
caso 
del 
rapporto 
amoroso, 
del 
rapporto 
fra 
il 
sacerdote 
e 
il 
credente, 
fra 
il 
maestro 
e 
l’allievo, 
fra 
il 
medico 
e 
il 
paziente 
ed 
anche 
dar 
luogo 
a 
rapporti 
di 
influenza 
reciproca. ma è 
estremamente 
difficile 
se 
non impossibile 
individuare 
sul piano pratico e 
distinguere 
a fini 
di conseguenze giuridiche l’attività psichica 
di 
persuasione 
da 
quella 
anche 
essa 
psichica 
di 
suggestione. 
Non 
vi 
sono criteri 
sicuri 
per 
separare 
e 
qualificare 
l’una e 
l’altra attività e 
per 
accertare 
l’esatto 
confine 
fra 
esse. 
L’affermare 
che 
nella 
persuasione 
il 
soggetto 
passivo conserva la facoltà di 
scegliere 
in base 
alle 
argomentazioni 
rivoltegli 
ed 
è 
pertanto, 
in 
grado 
di 
rifiutare 
e 
criticare, 
mentre 
nella 
suggestione 
la 
convinzione 
avviene 
in maniera diretta e 
irresistibile, profittando dell’altrui 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


impossibilità 
di 
critica 
e 
scelta, 
implica 
necessariamente 
una 
valutazione 
non 
solo 
dell’intensità 
dell’attività 
psichica 
del 
soggetto 
attivo, 
ma 
anche 
della 
qualità e 
dei 
risultati 
di 
essa. Quanto all’intensità, dai 
testi 
psichiatrici, psicologici 
e 
psicoanalitici 
e 
dalle 
ampie 
descrizioni 
mediche 
di 
condizionamento 
psichico risulta che 
ogni 
individuo è 
più o meno suggestionabile, ma che 
non 
è 
possibile 
graduare 
ed 
accertare 
in 
modo 
concreto 
sino 
a 
qual 
punto 
l’attività 
psichica 
del 
soggetto 
esternante 
idee 
e 
concetti 
possa 
impedire 
ad 
altri 
il 
libero 
esercizio 
della 
propria 
volontà. 
Quanto 
alla 
qualità 
non 
è 
acquisito 
sino 
a 
qual 
punto l’attività del 
soggetto attivo non riguardi 
direttive 
e 
suggerimenti 
che 
il 
soggetto passivo sia già disposto ad accettare. Quanto alla valutazione 
dei 
risultati 
essa 
non 
potrà 
che 
essere 
sintomatica 
e 
concludere 
positivamente 


o negativamente 
a seconda che 
l’attività esercitata sul 
soggetto passivo porti 
a comportamenti 
conformi 
o a comportamenti 
devianti 
rispetto a modelli 
di 
etica 
sociale 
e 
giuridica. 
L’accertamento 
se 
l’attività 
psichica 
possa 
essere 
qualificata come 
persuasione 
o suggestione 
con gli 
eventuali 
effetti 
giuridici 
a questa connessi, nel 
caso di 
plagio non potrà che 
essere 
del 
tutto incerto e 
affidato 
all’arbitrio 
del 
giudice. 
Infatti, 
in 
applicazione 
dell’art. 
603 
c.p., 
qualunque 
rapporto 
sia 
amoroso, 
sia 
di 
professione 
religiosa, 
sia 
di 
partecipazione 
a movimenti 
ideologici, sia di 
altra natura, se 
sorretto da un’aderenza 
«cieca e 
totale» di 
un soggetto ad un altro soggetto e 
sia considerato socialmente 
deviante, potrebbe 
essere 
perseguito penalmente 
come 
plagio. Anche 
sotto 
questi 
profili 
risulta, 
pertanto, 
l’indeterminatezza 
della 
norma 
e 
della 
sua interpretazione. La formulazione 
letterale 
dell’art. 603 c.p. prevede, pertanto, 
un’ipotesi 
non verificabile 
nella sua effettuazione 
e 
nel 
risultato, non 
essendo 
né 
individuabili 
né 
accertabili 
le 
attività 
che 
potrebbero 
concretamente 
esplicarsi 
per 
ridurre 
una 
persona 
in 
totale 
stato 
di 
soggezione, 
né 
come 
sarebbe 
oggettivamente 
qualificabile 
questo stato, la cui 
totalità, legislativamente 
dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata. 
Presupponendo 
la 
natura 
psichica 
dell’azione 
plagiante 
è 
chiaro 
che 
questa, 
per 
raggiungere 
l’effetto 
di 
porre 
la 
vittima 
in 
stato 
di 
totale 
soggezione, 
dovrebbe 
essere 
esercitata 
da 
persona 
che 
possiede 
una 
vigoria 
psichica 
capace 
di 
compiere 
un 
siffatto 
risultato. 
Non 
esistono, 
però, 
elementi 
o 
modalità 
per 
poter 
accertare 
queste 
particolari 
ed 
eccezionali 
qualità 
né 
è 
possibile 
ricorrere 
ad 
accertamenti 
di 
cui 
all’art. 
314 
c.p.p., 
non 
essendo 
ammesse 
nel 
nostro 
ordinamento 
perizie 
sulle 
qualità 
psichiche 
indipendenti 
da 
cause 
patologiche. 


Né 
è 
dimostrabile, 
in 
base 
alle 
attuali 
conoscenze 
ed 
esperienze, 
che 
possano 
esistere 
esseri 
capaci 
di 
ottenere 
con soli 
mezzi 
psichici 
l’asservimento 
totale di una persona». 

Così 
si 
esprimeva 
la 
Corte 
Costituzionale 
nell’anno 
1981: 
ma 
oggi 
non 
sono 
gli 
esseri 
umani 
a 
porre 
in 
essere 
attività 
di 
persuasione 
e 
suggestione, 
bensì 
le 
grandi 
piattaforme 
digitali 
che, 
utilizzando 
gli 
algoritmi 
e 
software 
sofisticati, 
hanno 
una 
straordinaria 
forza 
invasiva 
e 
persuasiva 
sulla 
psiche 
umana. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Se 
leggiamo la 
parte 
finale 
di 
tale 
nota 
sentenza, altre 
riflessioni 
sorgeranno 
spontanee in noi. 


A 
pag. 40 di 
tale 
storica 
pronunzia 
la 
Corte 
Costituzionale 
afferma: 
«Dinanzi 
alla perplessità che 
ha dato luogo l’unica sentenza di 
condanna per 
il 
delitto 
di 
plagio 
pronunziata 
nel 
nostro 
ordinamento 
in 
oltre 
50 
anni 
dall’emanazione 
del 
codice 
penale, parte 
della dottrina ha tentato di 
rinvenire 
connotazioni 
tipiche 
di 
tale 
figura 
criminosa, 
richiamandosi 
anche 
ad 
elementi 
tratti 
da 
ipotesi 
psichiatriche. 
Alcuni, 
infatti, 
interpretando 
limitativamente 
la 
norma 
nel 
senso che 
il 
suo scopo sarebbe 
quello di 
proteggere 
da fenomeni 
ossessivi 


o 
da 
psicosi 
indotta, 
vorrebbero 
ravvisare 
tale 
delitto 
nella 
concorrenza 
di 
altri 
elementi. 
Uno 
esteriore 
consistente 
nell’allontanamento 
dai 
terzi 
del 
plagiato 
ad opera del 
plagiante 
anche 
attraverso un sequestro di 
persona o fatti 
simili. 
Uno 
interiore 
consistente 
nel 
senso 
di 
deprivazione 
psichica 
in 
cui 
deve 
versare 
il 
plagiato una volta interrotto il 
rapporto con il 
plagiante, deprivazione 
che, 
secondo 
l’ipotesi 
prospettata, 
mostrerebbe 
come 
il 
soggetto 
passivo 
era stato ridotto ad uno stato di soggezione totale… 
Va 
osservato 
che 
il 
concetto 
di 
«deprivazione 
psichica» 
che 
si 
identifica 
con 
il 
senso 
di 
aver 
bisogno 
di 
qualcuno, 
è 
essenzialmente 
quantitativo, 
instaurandosi 
in 
qualsiasi 
rapporto 
affettivo 
una 
sorta 
di 
quello 
che 
gli 
psicologi 
chiamano 
«transfert» 
o 
anche 
di 
rapporto 
psicologico 
reciproco. 
ma 
per 
valutare 
se 
l’interruzione 
del 
rapporto 
con 
altri 
faccia 
arguire 
la 
preesistenza 
di 
uno 
stato 
di 
«totale 
soggezione», 
è 
necessario 
conoscere 
l’intensità 
dolorosa 
del-
l’interruzione. 
Quesito 
questo 
a 
cui 
può 
darsi 
solo 
una 
risposta 
soggettiva 
e 
quindi, 
di 
per 
sé 
convalidante 
l’arbitrarietà 
di 
una 
simile 
soluzione 
concettuale. 


D’altra 
parte, 
l’elemento 
esteriore 
consistente 
nell’allontanamento 
da 
terzi, se 
non sorretto dall’elemento interiore 
o se 
sorretto da un elemento interiore 
non 
determinato, 
quale 
la 
deprivazione 
di 
cui 
si 
è 
detto, 
perde 
ogni 
connotazione significativa ai fini di una tipizzazione del delitto. 


L’art. 
603 
c.p., 
in 
quanto 
contrasta 
con 
il 
principio 
di 
tassatività 
della 
fattispecie 
contenuto 
nella 
riserva 
assoluta 
di 
legge 
in 
materia 
penale, 
consacrato 
nell’art. 
25 
Cost., 
deve, 
pertanto, 
ritenersi 
costituzionalmente 
illegittimo». 


Tale 
pronunzia 
ci 
illustra 
il 
concetto 
di 
«deprivazione 
psicologica», 
ossia 
la 
dipendenza 
da 
un soggetto plagiante: 
ma 
oggi, se 
pensiamo soprattutto agli 
adolescenti, tale 
fenomeno di 
dipendenza, c.d. addiction, si 
registra 
nel 
rapporto 
con il cellulare e in genere con lo strumento digitale. 


Con il 
Metaverso verranno introdotti 
degli 
avatar virtuali 
per interagire 
sulle 
varie 
piattaforme 
in 
internet 
e 
si 
passerà 
ad 
una 
realtà 
virtuale 
ancora 
più 
avanzata 
di 
quella 
già 
presente 
nei 
vari 
social 
network. 
Tuttavia, 
bisogna 
porre 
attenzione 
al 
modo 
in 
cui 
questa 
esperienza 
virtuale 
potrebbe 
influenzare 
il 
modo di percepire i nostri corpi. 

Il 
rischio paventato è 
quello di 
acuire 
le 
problematiche 
relative 
alla 
tossicità 
di 
Instagram 
e 
Facebook, già 
parzialmente 
affrontate 
e 
non ancora 
ri



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


solte, anzi 
bypassate. Per capire 
meglio di 
cosa 
si 
parla, bisogna 
avvicinarsi 
agli studi sulle neuroscienze (108). 

Ad 
affrontare 
questo 
argomento, 
ad 
esempio, 
è 
stata 
la 
Dottoressa 
Barbara 
Collevecchio, 
psicologa 
ad 
orientamento 
junghiano, 
autrice 
de 
“Il 
male 
che 
cura”, 
che 
ci 
dice 
che 
«oggi 
grazie 
alla 
grande 
evoluzione 
delle 
ricerche 
scientifiche 
che 
sono 
state 
portate 
avanti 
soprattutto 
in 
questo 
ultimo 
decennio, 
dove 
le 
neuroscienze 
hanno addirittura aperto un nuovo filone 
che 
si 
chiama 
neuro 
psicanalisi, 
sappiamo 
che 
il 
corpo 
è 
fondamentale; 
il 
corpo 
e 
il 
cervello 
sono alla base del collegamento che c’è tra gli esseri umani». 

Partendo 
dall’origine 
della 
percezione 
corporea 
di 
sé, 
la 
psicologa 
illustra 
le 
cause 
profonde 
del 
rischio di 
c.d. dismorfofobia 
o dismorfismo, ossia 
il 
rischio 
che 
corrono oggi 
gli 
adolescenti 
quando passano (quotidianamente) dal 
reale 
al 
virtuale: 
«Sappiamo 
addirittura 
che 
la 
giunzione 
temporo-parietale 
destra 
è 
preposta 
alla 
percezione 
che 
il 
soggetto 
ha 
del 
proprio 
corpo 
ed 
è 
all’origine 
della 
sensazione 
corporea 
del 
sé 
e 
dipende 
dallo 
sviluppo 
delle 
aree 
corticali 
e 
subcorticali 
che 
sono influenzate 
dalle 
relazioni 
primarie. Le 
relazioni 
primarie 
sono quelle 
con il 
nostro care 
giver, quindi 
con i 
nostri 
familiari, 
soprattutto 
nei 
primi 
due 
anni, 
la 
mamma… 
La 
relazione 
madre 
-bambino, 
crea 
un 
network 
implicato 
nell’integrazione 
multisensoriali 
delle 
esperienze 
di 
sé 
e 
degli 
altri 
e 
quindi 
questo network 
e 
questa capacità di 
interrelazionarsi 
con gli 
altri 
crea anche 
la capacità di 
mentalizzare 
del 
bambino 
e quindi una primaria sintonizzazione intersoggettiva». 


Ciò 
significa 
che 
«c’è 
un’interrelazione 
molto 
importante 
tra 
natura, 
corpo 
e 
società 
e 
quindi 
innanzitutto 
le 
nostre 
relazioni 
primarie 
sono 
mediate 
dal 
corpo, cioè 
quanto la mamma e 
quanto i 
care 
giver 
primari 
sono capaci 
di 
relazionarsi 
a noi 
e 
di 
mediare 
le 
esigenze, i 
bisogni 
e 
le 
pulsioni 
che 
derivano 
dal 
corpo, che 
ci 
arrivano dal 
corpo. Se 
questa intermediazione 
e 
interrelazione 
c’è 
stata e 
questa sincronizzazione 
è 
stata sana, allora noi 
avremo 
anche 
una regolazione 
degli 
affetti 
sana. Se 
questo non avviene, abbiamo disregolazioni 
emotive 
che 
si 
riversano 
sul 
corpo, 
e 
purtroppo 
lo 
vediamo 
in 
tanti 
pazienti 
borderline 
o 
con 
problemi 
di 
dismorfofobia 
eccetera, 
dove 
ci 
sono somatizzazioni e addirittura dei veri e propri attacchi sul corpo». 


Un 
ruolo 
fondamentale 
lo 
rivestono 
il 
narcisismo 
e 
la 
spettacolarizzazione 
del 
proprio 
corpo: 
«È 
stato 
lanciato 
anche 
un 
allarme 
dal 
primario 
di 
neuropsichiatria 
dell’ospedale 
Bambin 
Gesù 
di 
roma: 
abbiamo 
veramente 
un 


(108) Il 
nuovo metaverso 
di 
zuckerberg, con i 
suoi 
avatar, potrebbe 
peggiorare 
la 
situazione 
di 
tossicità 
dei 
social, aumentando il 
problema 
del 
dismorfismo, un problema 
serio nei 
ragazzi 
che 
vivono 
nella 
realtà 
virtuale. Le 
alterazioni 
di 
immagini 
con filtri 
e 
modifiche 
virtuali 
alterano la 
percezione 
del 
nostro corpo creando dismorfofobia. Ce 
ne 
hanno parlato, preoccupati, due 
esperti, B. COLLEVECCHIO 
(autrice 
del 
libro 
“Il 
male 
che 
cura”) 
e 
G. 
RIVA 
(autore 
del 
libro 
“Selfie. 
Narcisismo 
e 
identità”) 
su 
https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/noi-e-il-corpo-un-rapporto-in-crisi-nel-metaverso-chedicono-
gli-psicologi/. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


aumento incredibile 
di 
giovani 
adolescenti 
che 
hanno questo problema e 
appunto 
le 
nuove 
ricerche 
ipotizzano che 
siano dovute 
ad un problema di 
regolazione 
degli 
affetti 
e 
dalle 
disfunzioni 
delle 
cure 
primarie 
di 
attaccamento, 
ma 
le 
ricerche 
ci 
dimostrano 
anche 
che 
appunto 
il 
corpo 
è 
legato 
anche 
al 
concetto 
di 
cultura 
perché 
la 
cultura 
e 
i 
mass-media 
di 
un 
periodo 
storico 
raccontano 
e 
immaginano un ideale 
di 
corpo e 
anche 
questo influenza come 
noi 
percepiamo il 
nostro corpo. Quindi 
non a caso in questo periodo di 
grande 
narcisismo 
e 
di 
spettacolarizzazione 
del 
corpo 
è 
possibile 
che 
queste 
continue 
visioni 
e 
narrazioni 
di 
corpi 
perfetti, 
postati 
sui 
social 
media 
anche 
dagli 
adolescenti, 
tutti 
questi 
filtri 
che 
possono modificare 
parti 
del 
corpo e 
deformare 
l’immagine, insomma tutto questo può acuire 
e 
portare 
ad una dis-percezione 
del 
proprio corpo e 
alla dismorfofobia e 
nei 
casi 
più gravi 
anche 
un attacco 
al corpo, vissuto come non all’altezza degli standard che ci sono». 


Secondo 
la 
psicologa 
Collevecchio, 
dunque, 
è 
fondamentale 
«rendersi 
conto che 
alla base 
delle 
nostre 
relazioni 
c’è 
anche 
il 
corpo e 
le 
nostre 
relazioni 
non possono non essere 
mediate 
da una corporeità vera, dove 
deve 
esserci 
un corpo vero, non uno idealizzato o disincarnato» (109). 


Ecco che 
invece 
ciò su cui 
punta 
il 
Metaverso con i 
suoi 
avatar è 
proprio 
l’opposto, un corpo virtuale, perfetto, idealizzato. Nell’era 
dei 
social 
ciò potrebbe 
avere conseguenze a vari livelli. 


Come 
ha 
sottolineato 
Giuseppe 
Riva 
(110), 
professore 
di 
Psicologia 
della 
comunicazione 
all’Università 
Cattolica 
di 
Milano, 
autore 
del 
libro 
“Selfie. 
Narcisismo e 
identità”, «il 
successo dei 
filtri 
di 
Instagram 
sottolinea il 
desiderio 
di 
moltissimi 
utenti 
di 
mostrare 
sui 
social 
un corpo perfetto» e 
la 
«capacità 
del 
metaverso di 
mostrare 
corpi 
esteticamente 
perfetti, che 
non sono 
soggetti 
all’invecchiamento, 
potrebbe 
spingere 
molti 
soggetti 
a 
decidere 
di 
apparire 
online 
solo con un corpo digitalmente 
ritoccato». Ed ecco che 
il 
pericolo 
è 
dietro 
l’angolo, 
dal 
momento 
che, 
con 
il 
Metaverso 
che 
sostituisce 
Instagram 
e 
Facebook, 
gli 
utenti 
potrebbero 
cominciare 
a 
desiderare, 
più 
che 
una 
copia 
di 
sé 
stessi, una 
rappresentazione 
idealistica. Si 
potrebbe 
arrivare 
ad avatar completamente 
diversi 
dalle 
persone 
fisiche, che 
giocano il 
ruolo di 
chi, 
a 
tutti 
i 
costi, 
vuole 
apparire 
perfetto 
agli 
occhi 
degli 
altri, 
con 
buona 
pace 
delle 
tendenze 
body 
positivity 
che, 
almeno 
negli 
ultimi 
tempi, 
facevano 
sperare 
in una 
presa 
di 
coscienza 
delle 
diversità 
che 
caratterizzano i 
corpi 
degli 
esseri 
umani. Il 
rischio è 
che 
alterare 
la 
propria 
identità 
digitale 
possa 
sfociare 
nella 
dismorfofobia (111). 


(109) Il 
testo intero dell’intervista 
è 
riportato da 
M. CASTIGLI, “Come 
il 
metaverso ci 
cambia il 
rapporto col corpo: nuovi rischi psicologici”, su 
agendadigitale.eu. 
(110) Sempre 
su agendadigitale.eu, M. CASTIGLI, “Come 
il 
metaverso ci 
cambia il 
rapporto col 
corpo”, cit. 
(111) Sul tema, vedi anche L. RINALDI, “Sul cibo, sul corpo e sul divenire della forma”, 2021. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Si 
verifica 
sia 
l’elemento 
esteriore, 
ossia 
l’isolamento 
dal 
mondo 
esterno, 
che 
l’elemento interiore, la 
stretta 
dipendenza 
dallo strumento digitale, fino a 
configurare il c.d. 
effetto dopamina sul cervello. 

In altre 
parole, lo strumento digitale 
crea 
una 
totale 
dipendenza, come 
se 
un 
adolescente 
assumesse 
droga 
all’interno 
del 
suo 
organismo. 
Ma 
vi 
è 
di 
più: 
l’uso eccessivo del 
cellulare 
crea 
il 
c.d. effetto pruning, ossia 
la 
potatura 
neuronale. 
In 
altre 
parole, 
il 
cervello 
degli 
adolescenti, 
privo 
ancora 
della 
corteccia 
cerebrale 
ancora 
in formazione, si 
presenta 
caratterizzato dalla 
c.d. plasticità, 
basata 
sul 
modello 
experience 
dependent, 
ossia 
si 
forma 
in 
base 
alle 
esperienze 
che 
vive. L’uso del 
cellulare 
non consente 
di 
sviluppare 
la 
parte 
del 
cervello 
preposta 
alla 
riflessione 
e 
alla 
meditazione, stante 
la 
velocità 
delle 
informazioni 
che 
l’adolescente 
riceve 
in tempi 
brevissimi. Per tale 
processo, non sviluppando 
determinate 
facoltà 
cognitive 
di 
rielaborazione 
concettuale, 
le 
perde 
progressivamente: 
è 
il 
principio dont’use 
it, lose 
it 
(se 
non usi 
una 
facoltà 
cognitiva, 
la perdi). 


L’incidenza 
sulla 
mente 
dell’adolescente 
è 
ancora 
più 
significativa 
se 
solo 
si 
pensa 
ai 
possibili 
attacchi 
ramsonware, che 
mettono in luce 
tutta 
la 
debolezza 
dei 
sistemi 
di 
sicurezza 
dei 
nostri 
computer. 
Molto 
spesso 
gli 
adolescenti, 
ma 
anche 
i 
sistemi 
informatici 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
o 
di 
grandi 
società, 
sono attaccati 
da 
hacker 
che 
chiedono un riscatto per poter superare 
il 
blocco e 
per poter restituire 
tutti 
i 
dati 
rubati 
e 
conservati 
nella 
loro interezza. 
Oltre 
all’attacco ramsonware, nel 
caso in cui 
un utente 
o una 
società 
si 
rifiuti 
interamente 
di 
pagare, il 
passo successivo è 
un attacco DDoS, distributed denial 
of 
service, 
un 
sistema 
che 
blocca 
gli 
accessi, 
facendo 
collassare 
il 
sito 
web 
con 
un 
fenomeno 
susseguente 
che 
prende 
il 
nome 
di 
digital 
shaming: 
dominio.
rip, una nuova modalità di estorsione del cyber-crimine. 

In pratica 
i 
cyber criminali, iniziando a 
inviare 
e-mail 
a 
tutti 
i 
contatti 
di 
chi 
è 
stato 
colpito, 
preannunciando 
l’imminente 
pubblicazione 
dei 
dati 
online, 
quando 
la 
vittima 
non 
vuole 
collaborare, 
mettono 
in 
atto 
una 
doppia 
estorsione, 
la prima per sbloccare i dati, la seconda per non divulgarli. 

Ciò 
che 
incide 
in 
maniera 
ancora 
più 
negativa 
sugli 
adolescenti 
è 
che 
queste 
organizzazioni 
prendono 
anche 
in 
giro 
le 
vittime 
che 
non 
pagano 
il 
riscatto. 

Nel 
caso 
di 
attaccati 
che 
rifiutano 
qualsiasi 
contatto 
e 
che 
resistono 
ad 
attacchi 
DDoS, pubblicano tutti 
i 
dati 
su un sito uguale 
a 
quello ufficiale, ma 
con suffisso differente, il 
soprarichiamato digital 
shaming, pubblicandolo poi 
sul 
sito web visibile, così 
che 
sia 
verificabile 
da 
tutti: 
il 
danno reputazionale 
diventa 
ancora 
più grave 
di 
quello dei 
dati 
persi. La 
beffa 
nasce 
dal 
fatto che 
questi 
siti 
hanno un dominio.rip, così 
da 
ridicolizzare 
chi 
ha 
subito questo ricatto 
pesantissimo. 

Nell’età 
evolutiva 
dell’adolescenza, i 
danni 
sulla 
psiche 
dei 
giovani 
scaturenti 
da 
tali 
eventi 
possono 
raggiungere 
un 
certo 
livello 
di 
gravità. 
Nell’adolescenza, 
infatti, 
è 
in 
corso 
un 
processo 
di 
soggettivazione 
che 
si 
snoda 
sul 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


campo 
edipico 
e 
sul 
campo 
narcistico 
secondo 
la 
psicologia 
dell’età 
evolutiva 
più accreditata. 

Patologia 
e 
normalità 
si 
pongono in un rapporto antinomico nella 
duplicità 
dei 
modelli 
familiari 
che 
si 
dividono 
in 
famiglia 
etica 
(in 
cui 
prevale 
il 
primato di 
regole 
e 
norme) e 
famigli 
affettiva 
(in cui 
l’affetto genitoriale 
prevale 
sul 
criterio 
della 
regola 
educativa). 
Una 
quota 
di 
emozioni 
negative 
è 
parte 
integrante 
del 
processo di 
crescita 
dell’adolescente, ma 
la 
crisi 
della 
genitorialità, 
e 
il 
c.d. 
lutto 
narcistico, 
possono 
presentare 
segnali 
di 
difficoltà 
nel 
processo 
di 
separazione-individuazione 
che 
i 
social 
network 
accentuano 
negli 
individui 
in 
età 
evolutiva, 
causando 
sempre 
più 
spesso 
sintomi 
depressivi, 
ansiosi, 
e reazioni aggressive. 

L’ansia 
stimolata 
dai 
social 
network, 
per 
i 
continui 
input 
scaricati 
sul 
cervello 
adolescenziale, 
privo 
della 
corteccia 
prefrontale, 
non 
è 
un’ansia 
adattiva, 
positiva 
e 
propulsiva, 
volta 
a 
far 
superare 
le 
difficoltà 
della 
crescita, 
ma 
è 
un’ansia 
di 
stato che 
si 
riversa 
sulle 
aree 
relative 
ai 
circuiti 
della 
ricompensa, 
regolazione 
e 
relazione. 

Tale 
incidenza 
sulla 
c.d. plasticità 
del 
cervello in formazione 
può avere 
degli 
effetti 
negativi 
lungo il 
percorso verso l’autonomia, l’individuazione 
e 
la 
soggettivazione 
in 
età 
adulta. 
La 
formazione, 
infatti, 
della 
corteccia 
prefrontale 
nel 
sistema 
limbico può avvenire 
in tempi 
diversi: 
infatti, si 
distingue 
tra prima adolescenza, media adolescenza e tarda adolescenza (112). 

Nella 
nostra 
epoca 
digitale 
noi 
assistiamo 
all’anticipo 
dell’inizio 
dell’adolescenza 
e 
allo sfumare 
del 
momento della 
sua 
conclusione. La 
contrapposizione 
famiglia affettiva 
versus 
famiglia etica (113). 

Gli 
adolescenti 
attuali 
vivono il 
passaggio da 
un’infanzia 
privilegiata 
al-
l’età 
adulta 
con grande 
intensità 
emotiva, la 
dittatura 
del 
presente 
(114), l’angoscia 
legata 
al 
“furto 
del 
futuro”, 
la 
scomparsa 
del 
principio 
di 
autorità-anteriorità 
(115); 
l’indebolimento 
della 
funzione 
regolativa 
esercitata 


(112) Vedi 
il 
libro dello psicologo D. KAHNEMAN, “Pensieri 
lenti 
e 
veloci”, 2012, sul 
tema 
del-
l’intelligenza, razionalità e formazione del pensiero. 
(113) 
G. 
PIETROPOLLI 
CHARMET, 
uno 
dei 
più 
importanti 
psichiatri 
e 
psicoterapeuti 
italiani 
(primario 
in diversi 
ospedali 
psichiatrici 
e 
docente 
di 
Psicologia 
dinamica 
all’Università 
Statale 
di 
Milano e 
al-
l’Università 
di 
Milano 
Bicocca) 
nella 
sua 
opera 
“I 
nuovi 
adolescenti”, 
2000, 
afferma 
che 
il 
clima 
affettivo 
in cui 
si 
dipana 
l’adolescenza 
è 
radicalmente 
cambiato, perché 
è 
mutato il 
modo in cui 
gli 
adulti 
si 
trovano 
a esercitare il mestiere di padre e madre. 
(114) P. CARBONE, “Adolescenza e disagio”, 2001. 
(115) 
M. 
BENASOYAG, 
filosofo 
e 
psicanalista 
di 
origine 
argentina, 
in 
“La 
tirannia 
dell’Algoritmo”, 
2020, afferma 
che 
siamo marionette 
in mano ai 
coach 
e 
agli 
smartphone, che 
occorre 
una 
visione 
modulare 
dell’uomo, con il 
recupero dell’agency, la 
possibilità 
di 
iniziare 
un’azione 
accesa 
dall’interno; 
critica 
la 
tirannia 
degli 
algoritmi, riflessione 
sull’espulsione 
del 
conflitto o la 
confusione 
esiziale 
tra 
desideri 
generativi 
e 
voglie 
seriali 
del 
niente; 
v. le 
sue 
opere 
“La responsabilità della rivolta”, una 
riflessione 
critica 
in relazione 
alla 
pandemia, come 
anche 
“Cinque 
lezioni 
di 
complessità”, 2020, in dialogo 
con Teodoro Cohen, parla 
della 
pandemia 
come 
di 
un “attraversamento sfibrante”, è 
un’esperienza 
del 
trauma 
prolungato 
e 
anche 
di 
una 
trasformazione 
che 
ci 
riguarda 
tutti, 
continuiamo 
a 
confondere 
la 
com

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


dagli 
adulti 
nel 
porre 
dei 
limiti 
(116) 
e 
nel 
modulare 
la 
distanza 
ha 
determinato, 
insieme 
alla 
cultura 
della 
dimensione 
digitale, un mutamento della 
crisi 
adolescenziale, 
potenziandone gli aspetti patologici. 

P. Jeammet, psicologo e 
psicoterapeuta, propone 
un modello psicopatologico 
dell’adolescenza 
basato 
su 
diversi 
elementi: 
la 
complessità 
che 
in 
senso 
operativo 
si 
esplica 
nell’utilizzo 
dei 
contributi 
dell’approccio 
ecologico, 
della 
teoria 
sistemico-relazionale, della 
teoria 
dinamica 
dei 
sistemi; 
la 
prospettiva 
life span; “la visione biografica” della psicopatologia in adolescenza. 
Ma 
come 
è 
cambiata 
la 
funzione 
educativa 
dei 
genitori 
nella 
dimensione 
digitale in cui si trovano a vivere gli adolescenti? (117). 
Secondo 
Laurence 
Steinberg 
(118), 
uno 
dei 
più 
importanti 
esperti 
di 
adolescenza 
al 
mondo, i 
genitori 
di 
figli 
adolescenti 
devono essere 
1) affettuosi, 


2) risoluti, 3) incoraggianti nei confronti delle loro potenzialità. 
Sembra 
ovvio, eppure 
la 
parola 
educare 
deriva 
dal 
latino 
ex 
duco, “tirare 
fuori”, ossia 
estrarre 
le 
capacità 
innate 
dei 
figli, far evolvere 
la 
loro autostima 
secondo le loro propensioni naturali per farne degli adulti felici. 

Don 
Bosco 
diceva 
che 
la 
migliore 
educazione 
è 
data 
dall’esempio, 
eppure 
le 
figure 
genitoriali 
durante 
l’adolescenza 
non 
sono 
sufficienti: 
occorre 
che 
alcune 
funzioni 
educative 
siano svolte 
dai 
c.d. terzi, ossia 
il 
gruppo dei 
pari, 
che 
rappresenta 
la 
nascita 
sociale 
dell’adolescente 
e 
il 
contesto scolastico, definito 
come 
“ambiente 
mentalizzante”, dove 
la 
doxa 
diventa 
episteme 
e 
trust, 
ossia 
fiducia 
nella 
comunità. 
Nell’era 
post-moderna, 
definita 
liquida 
con 
la 
crisi 
dei 
valori 
e 
la 
crisi 
della 
trasmissione 
dei 
saperi, 
la 
scuola 
insegna 
il 
valore 
del 
limite 
e 
della 
regola 
tendente 
ad 
evitare 
una 
società 
adolescentizzata 
e 
una 
precoce adultizzazione. 

Ma 
il 
potere 
invasivo e 
pervasivo dei 
social 
mette 
a 
dura 
prova 
tale 
processo 
c.d. di 
contenimento. Pensiamo al 
fenomeno del 
c.d. “vamping”: 
molti 
ragazzi 
restano connessi 
tutta 
la 
notte 
senza 
orari 
e 
regole, con un decremento 
potenziale 
delle 
loro capacità 
cognitive 
e 
del 
loro rendimento scolastico, acquisendo 
molte informazioni, ma poca “conoscenza”. 

Secondo 
Federico 
Toniani, 
psichiatra 
del 
Policlinico 
Gemelli, 
che 
ha 
creato 
un 
primo 
ambulatorio 
in 
Italia 
per 
la 
dipendenza 
da 
internet 
e 
dal 
cellulare, 
da


plessità 
con 
la 
linearità 
dell’Antropocene, 
il 
futuro 
è 
una 
virtualità 
del 
presente, 
la 
sfida 
dell’atto, 
“clinica 
del 
legame 
e 
legame 
del 
comune”, parla 
degli 
effetti 
psicologici 
della 
pandemia 
come 
depressione 
di 
massa: 
“Deleuze 
diceva che 
la tristezza è 
reazionaria, sembra un ammonimento troppo severo, ma lo 
diceva 
pensando 
a 
Spinoza 
quando 
avvertiva 
sulla 
perdita 
della 
capacità 
di 
agire 
non 
facendo 
lavorare 
la gioia”. Tra 
le 
sue 
opere, “L’epoca delle 
passioni 
tristi”, 2004 con G. SCHIMIT, “Il 
cervello aumentato, 
l’uomo diminuito”, 2016. 


(116) P. JEAMMET, “Psicopatologia dell’adolescenza”, 2019. 
(117) 
V.L. 
RINALDI, 
“Sul 
nascere 
madri 
e 
padri. 
L’abisso, 
le 
sue 
insidie 
e 
le 
sue 
possibilità”, 
2019. 
(118) L. STEINBERG, “Age 
of 
opportunity: Lessons 
from 
the 
New Science 
of 
Adolescence”, 2015; 
“You and your 
adolescent”, 2011; 
“The 
10 Basic 
principles 
of 
Good parenting”, 2005; 
“Adolescence”, 
2010. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


vanti 
allo 
schermo 
il 
bambino 
e 
l’adolescente 
perde 
il 
c.d. 
“rispecchiamento 
emotivo”. 
Si 
perde, 
cioè, 
la 
capacità 
di 
attendere 
e 
la 
capacità 
di 
restare 
da 
solo. 
È 
il 
fenomeno 
degli 
Hikikomori: 
l’iperconnessione 
è 
una 
nuova 
normalità, 
un 
nuovo 
modo 
di 
affrontare 
le 
sfide 
della 
crescita 
oppure 
un 
segnale 
di 
una 
dipendenza 
patologica, 
diffusa 
a 
livello 
pandemico 
tra 
le 
nuove 
generazioni? 


Il 
Dott. Lancini 
(119) ha 
approfondito il 
c.d. Internet 
addiction disorder, 
attraverso un suo inquadramento nosografico, spiegandone 
le 
cause 
e 
le 
metodiche 
di 
analisi. 
L’adolescenza 
è 
il 
punto 
di 
snodo 
della 
traiettoria 
evolutiva, 
del 
processo 
della 
“soggettivazione”: 
il 
ruolo 
della 
mente 
adulta 
che 
dovrebbe 
fungere 
da 
guida 
è 
svolto dallo strumento digitale, che 
può incidere 
in modo 
negativo 
sul 
bambino 
e 
sull’adolescente 
in 
un 
periodo 
in 
cui 
la 
neuroplasticità 
del 
cervello è 
massima. Si 
pensi 
al 
caso Tik 
Tok 
dello scorso 21 gennaio 2021: 
gli 
organi 
di 
informazione 
riportarono la 
notizia 
del 
decesso di 
una 
bambina 
di 
10 anni 
a 
Palermo, avvenuto in relazione 
ad un gioco definito “black 
challenge” 
condiviso sulla 
suddetta 
piattaforma. Tale 
triste 
avvenimento ha 
confermato, 
purtroppo, 
in 
maniera 
tragica, 
l’assenza 
di 
controlli 
sull’età 
degli 
utenti 
e 
sulla 
pericolosità 
dei 
contenuti 
veicolati 
tramite 
social 
network 
(120). 
Per la 
prima 
volta, il 
Garante 
per la 
Privacy italiano ha 
attivato la 
procedura 
di 
urgenza, 
ai 
sensi 
dell’art. 
66 
del 
GDPR, 
in 
applicazione 
del 
criterio 
del 
local 
case, derogatoria 
rispetto al 
meccanismo di 
cooperazione, di 
coerenza 
e 
del 
principio dell’one 
stop shop, pretendendo da 
parte 
di 
Tik Tok con sede 
legale 


(119) 
Psicologo, 
psicoterapeuta, 
Presidente 
della 
Fondazione 
Minotauro 
di 
Milano, 
docente 
presso 
il 
Dipartimento di 
psicologia 
dell’Università 
di 
Milano-Bicocca, autore 
di 
numerose 
pubblicazioni 
sull’adolescenza, 
le 
più 
recenti: 
“Adolescenti 
navigati, 
Come 
sostenere 
la 
crescita 
dei 
nativi 
digitali” 
(Erickson, 
2015); 
“Abbiamo 
bisogno 
di 
genitori 
autorevoli. 
Aiutare 
gli 
adolescenti 
a 
diventare 
adulti” 
(Mondadori, 2017); 
“Il 
ritiro sociale 
negli 
adolescenti. La solitudine 
di 
una generazione 
iperconnessa” 
(Raffaello Cortina, 2019), “Cosa serve 
ai 
nostri 
ragazzi. I nuovi 
adolescenti 
spiegati 
ai 
genitori, agli 
insegnanti, agli adulti” (Utet, 2020). 
(120) Sul 
tema 
della 
privacy, della 
gestione 
dei 
dati 
personali 
e 
della 
sicurezza, si 
pensi 
anche 
al 
recente 
“caso Alexa”, che 
ha 
visto coinvolti 
l’assistente 
vocale 
di 
Amazon e 
una 
bambina 
di 
appena 
10 
anni: 
lo strumento di 
IA, probabilmente 
per un errore 
di 
programmazione, ha 
suggerito alla 
bambina 
di 
mettere 
una 
moneta 
in una 
presa 
elettrica. La 
vicenda, raccontata 
dalla 
madre 
su Twitter, mette 
in luce 
i 
limiti 
degli 
strumenti 
di 
IA: 
l’assistente 
vocale, alla 
richiesta 
della 
bambina 
di 
proporle 
una 
sfida, ha 
ricercato e 
trovato sul 
web una 
sfida 
ai 
limiti 
della 
follia. Questo è 
il 
messaggio che 
Alexa 
ha 
dato alla 
bambina: 
«Secondo ourcommunitynow.com 
la sfida è 
semplice: collegare 
un caricatore 
del 
telefono a 
metà in una presa a muro, quindi 
toccare 
con un centesimo i 
poli 
esposti». L’azienda 
produttrice 
del 
dispositivo 
Echo 
ha 
da 
subito dichiarato di 
voler sistemare 
il 
problema, per evitare 
che 
cose 
del 
genere 
possano accadere 
in futuro. La 
sfida 
era 
spopolata 
su Tik 
Tok 
all’inizio del 
2020, ed era 
stata 
successivamente 
bandita 
per ovvi 
motivi. Il 
problema 
degli 
assistenti 
vocali 
e 
degli 
strumenti 
di 
IA 
in generale 
è 
quello relativo al 
“buon senso”, elemento che 
troppo spesso manca, come 
è 
venuto in rilievo in questo 
caso che 
risale 
a 
dicembre 
2021. Secondo il 
ricercatore 
mayank 
Kejriwal, della 
University 
of 
Southern 
California, 
il 
traguardo 
è 
possibile 
ma 
«estremamente 
impegnativo», 
in 
quanto 
«il 
buon 
senso 
delle 
macchine 
è 
un problema di 
intelligenza artificiale 
dei 
nostri 
tempi, che 
richiede 
collaborazioni 
concertate 
tra 
le 
istituzioni 
per 
molto 
tempo». 
Un 
esempio 
di 
ciò 
è 
il 
programma 
quadriennale 
“machine 
Common 
Sense” 
lanciato 
nel 
2019 
dall’Agenzia 
per 
i 
progetti 
di 
ricerca 
avanzata 
della 
difesa 
degli 
Stati 
Uniti. Sono molti i progetti di ricerca finanziati da questo programma. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


in 
Irlanda 
di 
introdurre, 
come 
sistema 
di 
blocco 
dell’account, 
un 
algoritmo 
denominato 
“age 
verification”, 
che 
consente 
di 
impedire 
l’accesso 
alla 
piattaforma 
i minori di anni 14 (121). 

Occorre 
ricordare 
che 
il 
Considerando 38 del 
GDPR stabilisce 
che 
i 
minori 
meritano una 
specifica 
protezione 
relativamente 
ai 
loro dati 
personali, in 
quanto possono essere 
meno consapevoli 
dei 
rischi, delle 
conseguenze 
e 
delle 
misure 
di 
salvaguardia, 
nonché 
dei 
loro 
diritti. 
Per 
tali 
ragioni, 
l’art. 
8 
del 
GDPR è 
da 
considerarsi 
una 
disposizione 
speciale 
che 
prevede, come 
ipotesi 
privilegiata 
per 
il 
trattamento 
dei 
dati 
dei 
minori 
in 
relazione 
ai 
servizi 
del-
l’informazione, il 
consenso, stabilendo che 
questo possa 
considerarsi 
lecito, 
ove 
sia 
stato 
prestato 
o 
autorizzato 
dal 
titolare 
della 
responsabilità 
genitoriale, 
ovvero 
il 
minore 
abbia 
almeno 
16 
anni, 
limite 
ridotto 
a 
14 
anni 
dall’art. 
2quinquies 
del Codice della Privacy, D.lgs. 101/2018. 

L’individuazione 
dell’età 
minima, ai 
sensi 
dell’art. 8 del 
GDPR, in Italia 
fissato a 
14 anni, rispetto ai 
16 del 
GDPR dall’art. 2-quinquies 
del 
codice 
privacy, 
in 
attuazione 
della 
clausola 
di 
flessibilità 
introdotta 
dall’art. 
8, 
par. 
1, 
ultimo 
capoverso, 
integra 
una 
tipica 
ipotesi 
di 
legislazione 
nazionale 
derogatoria 
ai 
principi 
stabiliti 
dal 
Regolamento. 
Come 
autorevole 
dottrina 
ha 
avuto 
modo 
di 
osservare 
(122), 
l’art. 
8 
del 
Regolamento, 
ispirato 
al 
Coppa 
statunitense, 
nel 
prevedere 
una 
disciplina 
specifica 
sul 
trattamento 
dei 
dati 
personali 
dei 
minori 
d’età, lungi 
dal 
rendere 
più agevole 
la 
sottoscrizione 
di 
servizi 
online, 
ha 
colmato un vuoto di 
tutela 
per coloro i 
quali 
sono tra 
i 
maggiori 
fruitori 
dei 
servizi della c.d. ICT 
society, ma anche tra le maggiori vittime. 

La 
disciplina 
dell’art. 8 è 
di 
primaria 
importanza, non solo perché 
il 
consenso 
(espresso, 
libero, 
specifico, 
informato 
ed 
inequivocabile) 
diventa 
l’unica 
valida 
base 
giuridica 
per 
il 
trattamento 
dei 
dati 
dei 
minori, 
ma 
anche 
per 
la 
correlata 
speciale 
disciplina 
accordata 
ai 
minori 
dall’art. 17, par. 1, lett. f), in 
tema di diritto alla cancellazione ed all’oblio. 


Ma 
oggi, 
possiamo 
dire 
che 
il 
consenso 
prestato 
da 
un 
quattordicenne 
che 
naviga per ore in internet sia veramente libero da subdoli condizionamenti? 


Il 
codice 
civile 
ci 
parla, 
all’art. 
1426 
c.c. 
(123), 
di 
malitia 
supplet 
aetatem, 


(121) In merito al 
procedimento di 
consistency 
and cooperation, si 
segnala 
l’articolo di 
GAETANA 
NATALE, 
“La 
Grande 
Sezione 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
si 
è 
pronunciata 
sui 
poteri 
delle 
Autorità 
Nazionali 
nell’ambito 
del 
rGDP 
a 
fronte 
della 
gestione 
dei 
dati 
da 
parte 
dei 
colossi 
del 
web 
(C. 
giust. 
UE, 
Grande 
Sezione, sentenza 15 giugno 2021, C-645/19)”, pubblicato sulla 
rassegna dell’Avvocatura dello Stato 
Gennaio-Marzo 2021, pp. 39 ss. 
(122) A. ASTONE, “L’accesso dei 
minori 
d’età ai 
servizi 
della c.d. “società dell’informazione”: 
l’art. 8 del 
reg (UE) 2016/679 e 
i 
suoi 
riflessi”, in Contratto e 
Impresa, 2019, 2, 614; 
G. BIANCHEDI, “Il 
consenso 
dei 
minori 
per 
i 
servizi 
della 
società 
dell’informazione 
sotto 
il 
profilo 
giuridico 
e 
informatico”, 
in Ciberspazio e diritto, vol. 20, n. 63 (3-2019), pp. 389-413. 
(123) Art. 1426 c.c.: 
“Il 
contratto non è 
annullabile, se 
il 
minore 
ha con raggiri 
occultato la sua 
minore 
età; ma la semplice 
dichiarazione 
da lui 
fatta di 
essere 
maggiorenne 
non è 
di 
ostacolo all'impugnazione 
del contratto”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


ma 
oggi 
nella 
dimensione 
digitale 
sono 
i 
continui 
input 
e 
immagini 
di 
internet 
a 
costituire 
il 
concetto di 
“malitia”, intesa 
come 
artifizi 
e 
raggiri 
che 
incidono 
sulla capacità di discernimento del minore. 

I concetti 
di 
capacità 
giuridica 
e 
di 
capacità 
di 
agire 
non sono delineati 
nei 
sistemi 
di 
common law, che 
parlano di 
legal 
capacity, prescindendo dai 
concetti 
di 
soggettività, centro autonomo di 
imputazione 
di 
effetti 
giuridici, e 
di capacità giuridica. 

L’età 
è 
graduata 
in relazione 
agli 
atti 
da 
compiere: 
pertanto, per i 
c.d. necessaries, 
atti 
di 
acquisto minori 
per i 
beni 
necessari 
di 
modico valore, il 
minore 
è considerato pienamente capace di stipulare contratti validi. 


Fino 
a 
che 
punto, 
però, 
il 
minore 
può 
essere 
considerato 
in 
grado 
di 
capire 
cosa 
sta 
operando con un click sul 
computer: 
egli 
dovrebbe 
essere 
istruito e 
formato per accedere 
al 
computer o allo smartphone, che 
è 
una 
vera 
e 
propria 
finestra 
sul 
mondo: 
senza 
un’adeguata 
formazione 
sui 
pericoli 
occulti 
è 
come 
se 
si 
desse 
ad 
un 
minore 
una 
macchina 
da 
guidare 
senza 
avergli 
dato 
la 
patente. 

Ricordiamo 
che 
il 
filosofo 
Karl 
Popper, 
il 
campione 
della 
società 
aperta 
e 
libera, 
chiedeva, 
ancor 
prima 
che 
si 
sviluppasse 
la 
c.d. 
infosfera, 
che 
soltanto 
pochi 
potessero 
andare 
in 
tv, 
muniti 
di 
una 
patente 
ottenuta 
dopo 
speciali 
esami. 
Già 
allora 
si 
dibatteva 
molto 
sull’influenza 
degenerativa 
della 
televisione, 
sulla 
passività 
di 
chi 
se 
ne 
sta 
seduto, 
catatonico, 
davanti 
al 
magico 
schermo. 


Ma 
erano tutte 
opinioni 
arbitrarie, nulla 
di 
scientifico basato sul 
test 
di 
Stroop, 
test 
elaborato 
negli 
anni 
‘30 
dallo 
psicologo 
statunitense 
Ridley 
Stroop, 
tuttora 
utilizzato per verificare 
con il 
riconoscimento di 
parole 
e 
colori 
il 
funzionamento 
corretto del cervello. 


Adesso uno studio della 
prestigiosa 
Johns 
Hopkins 
University di 
Baltimora 
è 
lapidario: 
«Per 
ogni 
ora e 
quaranta minuti 
di 
visione 
è 
come 
se 
il 
cervello 
fosse 
un 
anno 
più 
vecchio. 
Le 
cause: 
sedentarietà 
e 
passività. 
Al 
contrario, il 
movimento contrasta questo processo di 
invecchiamento», così 
dice 
l’autore 
principale 
della 
ricerca, Ryan Dougherty. Chi 
da 
giovane 
guarda 
più 
televisione, 
si 
troverà 
con 
meno 
materia 
grigia 
da 
adulto, 
e 
proprio 
in 
quelle 
aree 
cognitive-corteccia 
frontale 
e 
corteccia 
entorinale 
del 
cervello, responsabili 
dei 
processi 
più importanti. Il 
rapporto causale 
tra 
esposizione 
alla 
tv e 
diminuzione 
di 
“cellule 
grigie” 
è 
stato stabilito in virtù di 
esami 
di 
risonanza 
magnetica 
su 
599 
soggetti 
seguiti 
per 
25 
anni, 
i 
quali, 
all’inizio 
del-
l’esperimento, avevano un’età 
media 
di 
30 anni. Stiamo parlando, dunque, di 
uno studio molto importante e rigoroso. 

Alcune 
delle 
cause 
della 
diminuzione 
del 
volume 
cerebrale 
sembrano 
essere 
solo indirettamente legate alla tv, ad esempio la sedentarietà. 

Secondo Dougherty, gli 
studi 
dimostrano che 
chi 
fa 
attività 
fisica 
mantiene 
il 
volume 
cerebrale 
invariato anche 
con l’avanzare 
degli 
anni. E 
addirittura 
alcuni 
studi 
mettono in rapporto una 
vita 
sedentaria 
a 
un maggior rischio 
di sviluppare l’Alzheimer. 


LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Il 
problema 
della 
sedentarietà 
sembra 
essere 
collegato 
a 
un 
deterioramento 
cardiovascolare 
e 
dunque 
a 
un 
minor 
afflusso 
di 
sangue 
al 
cervello, 
che 
provoca 
una 
minore 
ossigenazione 
neuronale, che, per così 
dire, fa 
gradualmente 
appassire il cervello stesso. 

Non tutte 
queste 
nuove 
attività 
(non tutte 
le 
sedentarietà) sono uguali: 
in 
particolare 
deleterie 
sono, 
come 
la 
televisione, 
quelle 
in 
cui 
il 
soggetto 
subisce 
passivamente 
il 
messaggio, 
o 
meglio, 
un 
abbondante 
flusso 
di 
informazioni 
che 
lo bersagliano senza 
dargli 
possibilità 
di 
interagire, a 
differenza 
di 
altre 
attività 
come 
le 
parole 
crociate, gli 
scacchi 
o la 
lettura. Ma 
poiché 
la 
televisione 
oggi 
sta 
sempre 
più diventando un accessorio superfluo, superato dagli 
smartphone 
e 
dai 
tablet, e 
la 
classica 
programmazione 
televisiva 
è 
sostituita 
da 
fruizioni 
molto diverse, come 
lo streaming 
e, soprattutto, ci 
sono i 
social, 
che 
sono il 
nuovo punto dolente 
della 
comunicazione 
di 
massa, che 
accade 
al 
cervello in tutte queste nuove attività? 


Su 
questo, 
lo 
studio 
americano 
non 
ci 
sa 
dare 
una 
risposta, 
tranne 
che, 
anch’esse, sono attività 
sedentarie 
e 
quindi, a 
rischio. Ma 
per sapere 
se 
usare 
Instagram 
o Facebook, almeno sul 
piano scientifico, sia 
cognitivamente 
dannoso, 
bisognerà forse aspettare altri 25 anni. 

Noi, 
però, 
sulla 
base 
di 
quello 
che 
vediamo 
attorno, 
e 
anche 
di 
quanto 
personalmente 
ci 
riguarda, 
un’ipotesi 
l’avanziamo: 
i 
social 
network, 
tutti, 
nessuno 
escluso, sono di 
gran lunga 
peggiori 
della 
televisione, almeno dal 
punto 
di 
vista 
della 
salute 
mentale 
dei 
loro 
fruitori. 
In 
confronto, 
gli 
effetti 
inebetenti 
della tv sono di gran lunga meno pericolosi. 

Basti 
pensare 
al 
fenomeno dei 
suicidi, alle 
“challenge”, le 
sfide 
social, il 
“cutting”, ossia 
l’invito all’autolesionismo, o i 
veri 
e 
propri 
linciaggi 
attuati 
su queste 
piattaforme, da 
cui 
la 
vittima, se 
ne 
esce, resterà 
profondamente 
segnata 
(124). 

Solo 
in 
piccola 
parte 
i 
social 
sono 
comunicazione, 
in 
larga 
parte 
sono 
esibizionismo, 
vanità, 
merchandising 
e 
sfoghi 
aggressivi. 
Senza 
considerare 
i 
c.d. 
hype, 
distopie 
e 
montature 
giornalistiche 
che 
alterano 
la 
realtà 
e 
le 
informazioni. 


In questa 
dimensione, dominata 
da 
“atopia 
e 
anomia”, come 
afferma 
il 
Professore 
Natalino Irti, occorre 
integrare 
la 
biosfera 
con l’infosfera: 
il 
Professor 
Floridi, partendo dalla 
distinzione 
on-line 
e 
off-line, ha 
coniato il 
termine 
onlife, neologismo che 
sta 
ad indicare 
la 
necessità 
di 
collegare 
la 
nostra 
conoscenza 
alla 
dimensione 
della 
vita 
reale 
con 
l’introduzione 
dei 
filtri 
del 
nostro senso critico. Ma 
tale 
senso critico e 
capacità 
di 
riflessione 
sono duramente 
messi 
sotto 
attacco 
da 
nuovi 
espedienti 
ingannatori 
della 
tecnologia, 


(124) Sul 
tema 
del 
pericoloso rapporto tra 
digitale 
e 
minori, si 
veda 
anche 
M. MARTORANA, “minori 
sui 
social: 
educhiamoli 
per 
difenderli”, 
su 
agendadigitale.eu, 
che 
ci 
mette 
in 
guardia 
sulla 
necessità 
di 
agire 
contro i 
pericoli 
del 
digitale, prima 
che 
con la 
legge, con l’educazione 
dei 
minori 
a 
scuola 
e 
in 
casa. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


che 
rubano 
i 
nostri 
dati 
e 
la 
nostra 
identità 
digitale 
senza 
una 
nostra 
vera 
e 
propria 
consapevolezza. 

Si 
pensi 
al 
fenomeno del 
c.d. “Flubot”: 
è 
uno spyware, ovvero un software 
che, a 
nostra 
insaputa, può essere 
installato sullo smartphone 
per rubare 
password e 
altri 
dati 
riservati. Flubot 
invia 
un banale 
messaggio di 
testo che 
notifica, 
ad 
esempio, 
il 
ritardo 
di 
una 
consegna 
da 
parte 
di 
aziende 
di 
trasporto. 
L’utente 
legge 
il 
messaggio 
ed 
inconsapevolmente 
consente 
l’accesso 
ai 
propri 
dati riservati. 

Certamente 
la 
tecnologia 
non ha 
solo aspetti 
negativi, può assicurare 
livelli 
di 
sicurezza. Si 
pensi 
all’utilità 
della 
Blockchain 
(125): 
un registro decentrato 
in 
forma 
digitale 
basato 
su 
un 
linguaggio 
crittografico 
hash 
e 
in 
grado 
di 
contenere 
una 
serie 
infinita 
di 
dati. Esso è 
composto da 
più blocchi, legati 
l’uno all’altro, nei 
quali 
sono registrate 
le 
informazioni, distribuiti 
all’interno 
da una rete composta da più nodi. 

Una 
volta 
registrati, 
tali 
blocchi 
non 
sono 
più 
modificabili 
senza 
invalidare 
l’intera 
struttura 
e 
sono 
così 
costantemente 
controllati 
da 
tutti 
i 
nodi 
della 
rete. 
Questo 
significa 
che 
una 
blockchain 
garantisce 
un 
livello 
di 
sicurezza 
e 
trasparenza 
assoluta 
assicurando, 
ad 
esempio, 
che 
una 
transazione 
sia 
sempre 
tracciabile. 


Si 
pensi 
alla 
tutela 
del 
diritto 
d’autore 
tramite 
blockchain 
(c.d. 
tokenizzazione), 
cioè 
la 
conversione 
dei 
diritti 
di 
un 
bene 
in 
un 
token 
digitale 
delle 
varie 
identità 
degli 
autori 
che 
verranno 
poi 
associate 
alle 
varie 
opere 
mediante 
database 
contenenti 
tutti 
i 
dati 
registrate 
dalla 
SIAE, 
c.d. 
NFT, 
“non 
fungible 
token”. 


Viene 
in 
rilievo, 
in 
questi 
esempi, 
il 
concetto 
di 
“sicurezza 
funzionale” 
della 
tecnologia. Il 
sociologo tedesco Ulrich Deck parlava 
della 
“società 
del 
rischio”, 
risikogesellschaft, 
cultura 
dell’incertezza 
e 
rischio 
residuale: 
tale 
dimensione 
del 
rischio è 
dovuta 
all’accelerazione 
tecnologica 
che 
stiamo vivendo, 
non solo sotto il 
profilo sanzionatorio, ma 
anche 
sotto il 
profilo culturale. 
Di 
qui 
l’importanza 
delle 
Autorità 
regolatorie, 
quali 
arbitri 
che 
non 
devono indicare 
soluzioni, ma 
valutare 
la 
correttezza 
di 
quelle 
adottate 
nel 
rispetto 
del principio dell’accountability. 

La 
Commissione 
Europea 
sollecita 
gli 
Stati 
membri 
non con regole, ma 


(125) W. NONNIS, “Blockchain, il 
suo contributo durante 
la pandemia”, in www.blockchain4innovation.
it, 
19 aprile 
2021; 
A. BELLO, “Blockchain e 
privacy: soluzioni 
per 
la compliance 
alle 
norme”, 
15 
maggio 
2019, 
in 
agendadigitale.eu; 
M. 
IASELLI, 
“Blockchain 
e 
privacy, 
bisogna 
lavorare 
ancora 
molto”, in federprivacy.org, luglio 2020; 
N. BOLDRINI, “Blockchain e 
GDPr: le 
sfide 
(e 
le 
opportunità) 
per 
la protezione 
dei 
dati”, in blockchain4innovation.it, 2018; 
V. PORTALE, “Quanto è 
legale 
la Blockchain? 
La 
compatibilità 
tra 
Blockchain 
e 
normativa 
GDPr”, 
in 
www.blog.osservatori.net, 
31 
luglio 
2020; 
A. GAMBINO, C. BOMPREzzI, “Blockchain e 
titolare 
del 
trattamento dei 
dati 
personali: il 
nodo rimane 
irrisolto”, in www.iaic.it, 20 gennaio 2020; 
D. MARCIANO, G. CAPACCIOLI, “La blockchain ed il 
problema 
del 
trattamento 
dei 
dati 
personali”, 
in 
www.affidaty.io, 
4 
giugno 
2019; 
R. 
BATTAGLINI, 
M. 
GIORDANO 
(a 
cura 
di), “Blockchain e 
smart 
contract. Funzionamento, profili 
giuridici 
e 
internazionali, 
applicazioni 
pratiche”, 2019; 
M. BELLINI, “La blockchain per 
le 
imprese. Come 
prepararsi 
alla nuova 
«internet del valore»”, 2019; 
A. BASILE; “Blockchain: La Nuova rivoluzione Industriale”, 2019. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


con 
obiettivi 
nella 
regolamentazione 
delle 
piattaforme 
digitali, 
cercando 
di 
affermare 
uno 
“standard 
europeo 
regolatorio” 
per 
la 
definizione 
del 
nuovo 
“capitalismo 
digitale”, 
basato 
in 
primis 
sulla 
c.d. 
“igiene 
informatica 
e 
informativa”. 

La 
sicurezza 
delle 
piattaforme 
poggia 
essenzialmente 
sul 
controllo 
dei 
dati 
e 
sulla 
loro trasparenza, in una 
configurazione 
preliminare 
e 
predefinita: 
è 
il 
concetto di 
privacy 
by 
design 
e 
by 
default. 
Non una 
privacy per la 
privacy, 
ma 
la 
protezione 
dei 
dati 
come 
nuovo paradigma 
e 
nuovo asset 
per uno sviluppo 
tecnologico sostenibile, teso al 
rispetto della 
persona 
umana 
che 
vada 
aldilà della figura dei 
followers. 

Il 
Professore 
Franco Pizzetti 
(126) affermava 
che 
le 
Autorità 
regolatorie 
hanno il 
compito di 
affiancare 
e 
sollecitare 
i 
governi 
nell’adottare 
nuove 
politiche 
digitali 
per 
raggiungere 
gli 
obiettivi 
europei. 
Più 
di 
recente, 
il 
Professore 
Oreste 
Pollicino (127) ha 
affermato che 
«la nuova sfida non è 
solo la tutela 
dei 
diritti 
fondamentali, 
ma 
la 
governance 
dei 
dati, 
non 
solo 
di 
quelli 
personali 
e il loro riutilizzo per i software di intelligenza artificiale». 

La 
proposta 
di 
regolamento 
sull’intelligenza 
artificiale 
presentata 
lo 
scorso 
21 
aprile 
2021 
dalla 
Commissione 
ha, 
infatti, 
distinto 
4 
livelli 
di 
rischio: 


1) 
Unacceptable 
risk 
(ad esempio, quelli 
relativi 
ai 
dati 
biometrici 
per i 
quali si esclude l’applicazione dell’intelligenza artificiale); 
2) 
High risk 
(si ammette l’IA con opportune cautele); 
3) 
Limited risk 
(AI systems with specific transparency obligations); 
4) 
minimal risk. 
Tale 
proposta 
non prevede, però, la 
questione 
della 
responsabilità 
civile 
che, come 
annunciato dalla 
Commissione 
su Agenda 
Digitale, sarà 
oggetto di 
un 
testo 
diverso 
e 
separato 
che 
dovrebbe 
essere 
presentato 
all’inizio 
dell’anno 
2022. 

Si 
tratta 
di 
un 
altro 
fondamentale 
tassello 
nel 
percorso 
verso 
una 
“trustworthy 
AI”, ossia un’intelligenza artificiale che generi fiducia negli utenti. 


Ci 
vorranno 2 anni 
per approvare 
il 
testo definitivo e 
altri 
2 anni 
prima 
che 
diventi 
operativo. 
Visti 
gli 
enormi 
interessi 
in 
gioco, 
che 
toccano 
tutti 
i 
settori 
industriali 
ed economici, non solo le 
big tech, non sarà 
un confronto 
facile. Il 
fatto che 
poi 
stiamo parlando di 
norme 
che 
andranno a 
regolare 
un 
qualcosa 
che 
per 
sua 
natura 
è 
in 
continua 
evoluzione, 
rende 
la 
sfida 
ancora 
più difficile. 


(126) F. PIzzETTI, “Intelligenza artificiale, protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
regolazione”, cit.; 
ID., 
“Privacy 
e 
il 
diritto europeo alla protezione 
dei 
dati 
personali. dalla direttiva 95/46 al 
nuovo regolamento 
europeo”, 
2016; 
ID., 
“Protezione 
dei 
dati 
personali 
in 
Italia 
tra 
GDPr 
e 
codice 
novellato”, 
2021. 
(127) O. POLLICINO, “Diritto dell’informazione 
e 
dei 
media”, 2019; 
ID., “Parole 
e 
potere. Libertà 
di espressione, hate speech e fake news”, 2017; ID., “Codice della comunicazione digitale”, 2015. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Si 
pensi 
alle 
società 
che 
utilizzano i 
sistemi 
di 
riconoscimento facciale, 
operando il 
c.d. scraping 
di 
dati 
in rete, ovvero automatizzando l’attività 
di 
raccolta 
di 
dati 
anche 
biometrici: 
riescono a 
stoccare 
nei 
loro database 
i 
volti 
di cittadini anche senza il loro consenso, assegnando ad ogni volto un hash. 

Tali 
società 
creano 
dei 
veri 
e 
propri 
archivi 
di 
dati 
biometrici, 
che, 
per 
esempio, 
in 
America 
vengono 
utilizzati 
dalle 
forze 
dell’ordine 
per 
individuare 
i 
criminali, 
anche 
se 
alcuni 
dipartimenti 
come 
quello 
di 
Los 
Angeles 
ne 
hanno 
sospeso 
l’utilizzo, 
poiché 
si 
realizza 
una 
forma 
di 
sorveglianza 
elettronica 
massiva ed invasiva. 

Si 
pensi 
ancora 
alla 
pratica 
di 
“Sim 
swapping”, 
una 
tecnica 
di 
attacco 
che 
consente 
di 
avere 
accesso al 
numero di 
telefono del 
legittimo proprietario e 
violare 
determinate 
tipologie 
di 
servizio 
online 
che 
usano 
il 
numero 
di 
telefono 
come sistema di autenticazione. 

Alcune 
piattaforme, 
come 
Google, 
si 
stanno 
organizzando 
per 
evidenziare 


i 
c.d. 
“Privacy 
Labels”, 
ossia 
le 
etichette 
della 
privacy 
che 
permetteranno 
agli 
utenti 
di 
conoscere 
in 
dettaglio 
i 
dati 
utilizzati 
dalle 
app 
pubblicate 
su 
Playstore. 
Nei 
sistemi 
aziendali 
alcuni 
vendor 
introducono 
nelle 
infrastrutture 
iperconvergenti 
anche 
sistemi 
embedded 
di 
backup 
e 
disaster 
recovery, 
garantendo 
il 
miglioramento 
della 
protezione 
dei 
dati 
e 
il 
minimo 
rischio 
di 
perdita 
dei 
dati 
stessi. 


Ciò avviene 
grazie 
all’incorporazione 
di 
tecnologie 
di 
rilevamento della 
corruzione 
dati 
e 
self-healing, 
che 
agiscono 
durante 
l’operatività 
standard 
e 
nelle fasi di 
back-up 
automatizzato. 

Per 
il 
raggiungimento 
di 
tali 
obiettivi 
il 
preemptive-remedy, 
ossia 
il 
rimedio 
preventivo, 
trova 
un 
suo 
completamento 
nel 
potere 
sanzionatorio 
delle 
Autorità 
regolatorie 
tenuto 
conto 
dei 
principi 
di 
effettività, 
proporzionalità 
e 
dissuasività 
delle 
sanzioni. A 
tal 
riguardo, si 
è 
posta 
la 
questione 
del 
rapporto 
tra 
il 
consenso 
ed 
il 
legittimo 
interesse 
quale 
base 
giuridica 
del 
trattamento 
dei 
dati. L’Opinion WP29 n. 6/2004 ha 
escluso che 
il 
legittimo interesse 
ex 
art. 6, par. 1, lett. f) (128) possa 
surrogare 
il 
consenso espresso, libero ed inequivocabile 
sul proprio trattamento dei dati. 


(128) Art. 6 GDPR (Liceità 
del 
trattamento): 
“1. Il 
trattamento è 
lecito solo se 
e 
nella misura in 
cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: 
a) 
l’interessato 
ha 
espresso 
il 
consenso 
al 
trattamento 
dei 
propri 
dati 
personali 
per 
una 
o 
più 
specifiche 
finalità; 
b) il 
trattamento è 
necessario all’esecuzione 
di 
un contratto di 
cui 
l’interessato è 
parte 
o all’esecuzione 
di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; 
c) il 
trattamento è 
necessario per 
adempiere 
un obbligo legale 
al 
quale 
è 
soggetto il 
titolare 
del 
trattamento; 
d) 
il 
trattamento 
è 
necessario 
per 
la 
salvaguardia 
degli 
interessi 
vitali 
dell’interessato 
o 
di 
un’altra 
persona 
fisica; 
e) il 
trattamento è 
necessario per 
l’esecuzione 
di 
un compito di 
interesse 
pubblico o connesso all’esercizio 
di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; 
f) il 
trattamento è 
necessario per 
il 
perseguimento del 
legittimo interesse 
del 
titolare 
del 
trattamento o 
di 
terzi, 
a 
condizione 
che 
non 
prevalgano 
gli 
interessi 
o 
i 
diritti 
e 
le 
libertà 
fondamentali 
dell’interessato 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Il 
consenso 
assume 
ancora 
più 
importanza 
in 
relazione 
alla 
prospettiva 
del futuro non troppo lontano dei c.d. “Computer quantistici”. 

La 
mit 
Technology 
review, di 
recente, ha 
messo in evidenza 
i 
rischi 
di 
chi 
oggi 
raccoglie 
dati 
sensibili 
anche 
crittografati, 
dunque, 
di 
fatto, 
al 
momento 
inservibili 
perché 
blindati, ma 
con la 
speranza 
di 
poterli 
sfruttare 
e 
decrittare 
in 
futuro. 
Come? 
Adoperando 
l’enorme 
potenza 
di 
calcolo 
dei 
“computer quantistici” 
che 
lavorano in modo ben diverso da 
quelli 
attuali 
con 
ogni 
bit 
quantistico (o qubit) (129) in grado di 
assumere 
diversi 
valori 
nello 
stesso momento, e, dunque, moltiplicare il potere computazionale (130). 

La 
complessità 
dei 
computer 
quantistici 
potrebbe 
renderli 
molto 
più 
rapidi 
per certi 
compiti, consentendo loro di 
risolvere 
problemi 
oggi 
impossibili 
da 
sciogliere (131). 

che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore. 
La lettera f) del 
primo comma non si 
applica al 
trattamento di 
dati 
effettuato dalle 
autorità pubbliche 
nell’esecuzione dei loro compiti”. 


(129) 
Se 
le 
informazioni 
memorizzate 
nei 
computer 
“normali” 
sono 
assimilabili 
a 
una 
lunga 
sequenza 
di 
zero 
e 
uno, 
i 
bit, 
nella 
meccanica 
quantistica 
le 
informazioni 
sono 
memorizzate 
in 
bit 
quantistici, 
i 
c.d. 
qubit, 
che 
assomigliano 
di 
più 
a 
un’onda 
piuttosto 
che 
a 
una 
serie 
di 
valori 
discreti. 
Quando 
i 
fisici 
vogliono 
rappresentare 
con 
precisione 
le 
informazioni 
contenute 
nei 
qubit, 
usano 
quindi 
le 
funzioni 
d’onda. 
Di 
recente, 
un 
gruppo 
di 
fisici 
dell’Università 
di 
Bonn 
e 
del 
Technion 
-Israel 
Institute 
of 
Technology 
hanno 
effettuato 
un 
esperimento 
per 
capire 
quali 
fattori 
determinano 
la 
velocità 
con 
cui 
un 
computer 
quantistico 
può 
eseguire 
i 
suoi 
calcoli, 
e 
sono 
stati 
testati 
i 
limiti 
di 
velocità 
dei 
computer 
quantistici, 
ossia 
il 
limite 
di 
mandelstam-Tamm 
e 
quello 
di 
margolus-Levitin, 
che 
mettono 
in 
relazione 
la 
velocità 
massima 
di 
evoluzione 
di 
uno 
stato 
con 
l’incertezza 
energetica 
del 
sistema 
e 
l’energia 
media. 
I 
risultati 
dello 
studio 
sono 
pubblicati 
sulla 
rivista 
Science 
Advances. V. https://www.media.inaf.it/2021/12/30/limiti-computerquantistici/. 
(130) Secondo Erminio Polito Minsait, responsabile 
Energy 
& 
Utilities 
di 
Minsait 
in Italia, l’utilizzo 
del 
Quantum 
Computing, 
ossia 
del 
calcolo 
quantistico, 
potrebbe 
fare 
la 
differenza 
anche 
nel 
settore 
dell’energia, 
riducendo 
i 
tempi 
di 
elaborazione 
delle 
scelte 
strategiche 
e 
migliorando 
la 
performance 
degli 
algoritmi 
predittivi. È 
stato affermato che 
«da un lato, l’aumento esponenziale 
della potenza di 
calcolo 
offerto 
dai 
computer 
quantistici 
sarà 
cruciale 
per 
la 
costruzione 
di 
un 
nuovo 
orizzonte 
energetico 
basato 
su 
ecosistemi 
collaborativi 
gestiti 
in 
una 
logica 
“platform-based”, 
dall’altro, 
anche 
le 
tecnologie 
già in uso nei 
sistemi 
energetici 
più avanzati, come 
IoT, Intelligenza Artificiale 
e 
Blockchain, ne 
trarranno 
beneficio. 
Vi 
sono 
però 
vantaggi 
più 
immediati, 
come 
quelli 
che 
può 
offrire 
attualmente 
al 
trading 
di 
energia 
dove 
avere 
a 
disposizione 
una 
tecnologia 
quantistica 
rappresenta 
un 
miglioramento 
decisivo 
in termini 
di 
velocità delle 
transazioni». Adottando il 
calcolo quantistico, dunque, si 
potrà 
prevedere 
con maggiore 
accuratezza 
il 
rendimento della 
rete 
elettrica 
in un dato momento, così 
da 
migliorarne 
la 
produzione, anche 
per una 
maggiore 
sostenibilità 
ambientale. Per quanto riguarda 
il 
settore 
della 
cybersecurity, 
Minsait 
ha 
sostenuto che 
«ad oggi, non esistono computer 
quantistici 
in grado di 
mettere 
a repentaglio 
la 
sicurezza 
della 
crittografia 
tradizionale, 
tuttavia, 
ci 
sono 
già 
le 
prime 
opportunità 
di 
business 
per 
prepararsi 
per 
un futuro di 
decrittazione 
quantistica: il 
potenziale 
dell’informatica quantistica 
non decreterà la fine 
della crittografia, bensì 
un cambiamento nelle 
pratiche 
come, ad esempio, 
chiavi 
crittografiche 
più lunghe 
e 
complesse. In un futuro con milioni 
di 
transazioni 
energetiche 
decentralizzate, 
simultanee 
e 
certificate 
tramite 
smart 
contract 
e 
blockchain, la crittografia quantistica sarà 
un pilastro centrale del nuovo sistema». 
(131) È 
recente 
la 
notizia 
relativa 
alla 
sperimentazione 
dei 
c.d. cristalli 
temporali, strutture 
peculiari 
che 
si 
ripetono 
regolarmente 
nel 
tempo 
invece 
che 
nello 
spazio, 
teorizzati 
dai 
fisici 
negli 
ultimi 
anni 
e 
spiegati 
dalle 
leggi 
della 
meccanica 
quantistica. 
Come 
noto, 
i 
cristalli 
classici 
sono 
strutture 
solide, 
composte 
da 
atomi, molecole 
o ioni, che 
per definizione 
hanno una 
disposizione 
geometrica 
definita 
e 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


In questa 
classe 
di 
problemi 
c’è 
anche 
la 
capacità 
di 
scardinare 
gli 
algoritmi 
che 
al 
momento utilizziamo per proteggere 
database 
e 
server 
farm 
che 
custodiscono 
informazioni 
personali, 
segreti 
di 
Stato 
o 
importanti 
brevetti 
commerciali (132). 


8. Strumenti 
normativi 
regolatori 
e 
prospettive 
future 
nella dimensione 
euro-
unitaria e in quella nazionale. 
La 
Commissione 
Europea 
ha 
cercato 
di 
attivarsi 
per 
sviluppare 
un’attività 


che 
si 
ripetono nelle 
tre 
dimensioni 
spaziali. La 
recente 
notizia 
-che 
viene 
da 
un team 
dell’università 
di 
Stanford, di 
oxford 
e 
del 
max 
Planck 
Institute, insieme 
con Google 
Quantum 
AI Lab 
-riguarda, invece, 
il 
caso 
dei 
cristalli 
temporali, 
in 
cui 
la 
regolarità 
si 
manifesta 
e 
si 
dispiega 
nel 
tempo. 
Se 
l’ipotesi 
teorica 
era 
stata 
avanzata 
nel 
2012 ad opera 
del 
fisico premio Nobel 
Franck 
Wilczek, docente 
al 
mit, il 
primo 
esperimento in laboratorio è 
avvenuto nel 
2017, ed oggi 
gli 
scienziati 
hanno trasformato un gruppo di 
qubit 
in un cristallo temporale, mediante 
l’uso del 
computer quantistico di 
Google 
Sycamore: 
i 
risultati 
dell’esperimento 
sono 
stati 
pubblicati 
sulla 
rivista 
Nature. 
Si 
tratta 
di 
strutture 
diverse, 
che 
si 
modificano 
costantemente 
nel 
tempo 
e 
poi 
tornano 
sempre 
periodicamente 
nella 
configurazione 
iniziale. 
Sono 
catene 
di 
atomi 
che 
pulsano in assenza 
di 
energia, restando in movimento nel 
tempo senza 
richiedere 
l’azione 
di 
una 
forza 
esterna, 
la 
cui 
resistenza 
li 
rende 
interessanti 
per 
lo 
sviluppo 
dei 
potentissimi 
computer 
quantistici. In una 
recente 
sperimentazione 
pubblicata 
sulla 
rivista 
Science, gli 
scienziati 
sono riusciti 
a 
tenere 
in vita 
per alcuni 
secondi 
i 
cristalli 
temporali 
ottenuti 
utilizzando i 
qubit. Queste 
catene 
di 
qubit 
hanno di 
fatto dimostrato di 
avere 
una 
simmetria 
temporale 
(e 
non spaziale, come 
i 
cristalli 
classici), riprodotta 
durante 
tutta 
la 
sperimentazione. 
Il 
fisico 
V. 
Khemani 
dell’Università 
di 
Stanford 
ha 
commentato 
così 
l’esperimento: 
«I cristalli 
temporali 
sono un esempio lampante 
di 
un nuovo tipo di 
fase 
quantistica 
della materia al 
non-equilibrio». La 
ricerca 
sul 
tema, d’altronde, sta 
crescendo rapidamente, come 
dimostrano 
anche i recenti studi del 2021 sulle riviste 
Physical review Letters 
e 
Physical review B. 


(132) 
Si 
parla 
sempre 
più 
spesso 
del 
Metaverso, 
tuttavia 
è 
necessario 
anche 
chiedersi 
se 
le 
aziende 
dispongono effettivamente 
delle 
capacità 
computazionali 
necessarie 
e 
in generale 
dell’hardware 
di 
cui 
ci 
sarà 
bisogno. 
Sappiamo 
che 
il 
metaverso 
di 
zuckerberg 
sarà 
una 
specie 
di 
mondo 
3D 
in 
cui 
ogni 
utente 
assumerà 
le 
sembianze 
di 
un avatar 
che, riproducendolo voce 
e 
movimenti 
della 
persona 
fisica, 
potrà 
interagire 
in tempo reale 
con altre 
persone 
dal 
salotto di 
casa. Secondo raja Koduri, senior 
vice 
president 
e 
general 
manager 
del 
team 
di 
Intel 
(Computing Systems 
and Graphics 
Group) una 
rete 
del 
genere 
necessiterà 
di 
un livello computazionale 
molto alto e 
di 
un’infrastruttura 
hardware/software 
che 
dovrà 
essere 
almeno 1000 volte 
più potente 
di 
quella 
disponibile 
oggi 
(es. petaflop, una 
potenza 
computazionale 
che 
dovrà 
essere 
disponibile 
in pochi 
10 millisecondi 
per un uso in tempo reale). Non sarà 
facile 
digitalizzare 
caratteristiche 
come 
la 
pelle, le 
funzionalità 
vocali, il 
movimento delle 
persone, elementi 
che 
vanno inseriti 
in un dispositivo con sensori 
indossato dagli 
utenti. Secondo Koduri 
serve 
una 
banda 
molto larga 
con una 
latenza 
bassissima, che 
gli 
odierni 
server 
del 
cloud computing 
non posseggono, 
per cui 
è 
difficile 
che 
il 
sistema 
possa 
funzionare. Se 
si 
pensa 
a 
“Second Life”, “roblox” 
e 
simili, 
già 
creati 
ed utilizzati, essi 
sono molto lontani 
dal 
vero metaverso. Comunque, Intel 
sta 
lavorando seriamente 
a 
questo fine 
e 
in un comunicato stampa 
ha 
fatto presente 
che, tramite 
una 
“roadmap multigenerazionale”, 
vuole 
processare 
dati 
provenienti 
dal 
client 
e 
diretti 
verso il 
cloud 
con un’elaborazione 
zettascale. 
Lo 
zettascale 
computing 
si 
riferisce 
ai 
supercomputer 
che 
permettono 
prestazioni 
nell’ordine 
degli 
zettaflop. Uno zettaflop 
è 
uguale 
a 
circa 
un sestilione 
di 
operazioni 
in virgola 
mobile 
al 
secondo. 
Un sistema 
zettaflop 
può generare 
una 
marea 
di 
dati 
in virgola 
mobile 
in un secondo. Secondo gli 
scienziati 
dobbiamo aspettare 
il 
2035 per avere 
un sistema 
zettascale 
perfettamente 
funzionante, e 
prima 
di 
arrivare 
ad un Metaverso completamente 
funzionante 
devono passare 
tanti 
altri 
anni. Ci 
sarà 
bisogno 
anche 
di 
algoritmi 
specializzati, di 
una 
nuova 
architettura 
(che 
Intel 
ha 
denominato Xe) e 
di 
nuovi 
software, 
tutto 
comunque 
alla 
nostra 
portata 
secondo 
Koduri. 
V. 
https://notiziescientifiche.it/metaverso-serviranno-
potenza-computazionale-enorme-e-decenni-di 
-svil 
upp 
o/ 
; 
https://www.punto-informatico.it/intel-potenza-di-calcolo-1000-volte-maggiore-per-il-metaverso/. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


regolatoria 
c.d. 
di 
contenimento: 
il 
15 
dicembre 
2020, 
al 
fine 
di 
regolamentare 
i 
mercati 
digitali, 
ha 
presentato 
due 
proposte 
di 
Regolamento 
che 
compongono 
il 


c.d. 
“Digital 
markets 
Package”: 
il 
Digital 
Services 
Act 
e 
il 
Digital 
markets 
Act. 
Il 
primo modifica 
alcune 
disposizioni 
dell’attuale 
Direttiva 
e-commerce, 
regolamentando il regime di responsabilità delle piattaforme digitali. 
Il 
secondo, invece, introduce 
in capo ai 
c.d. “gatekeeper” 
-ossia 
le 
piattaforme 
che 
controllano 
l’accesso 
ai 
mercati 
digitali 
-una 
serie 
di 
obblighi 
volti 
a 
rendere 
i 
mercati 
digitali 
più equi 
e 
contendibili, arginando la 
tendenza 
alla 
creazione 
di 
monopoli, 
nei 
servizi 
o 
nella 
distribuzione, 
a 
cui 
si 
assiste 
oggi attraverso una procedura di “inspection” degli algoritmi. 

A 
completare 
il 
quadro delle 
nuove 
proposte 
legislative 
contribuiscono 
la 
bozza 
di 
Regolamento 
sull’Intelligenza 
Artificiale, 
nonché 
la 
proposta 
di 
Regolamento e-Privacy 
che 
andrà 
a 
regolare 
specificamente 
la 
protezione 
dei 
dati 
nelle 
comunicazioni 
elettroniche; 
il 
Regolamento 2018/1807 sui 
dati 
non 
personali 
e 
la 
Direttiva 
NIS 
per la 
cybersecurity (“Network 
and Information 
Security”), 
recepita 
nel 
nostro 
ordinamento 
attraverso 
il 
decreto 
legislativo 
18 
maggio 2018, n. 65 (anche 
detto “decreto legislativo NIS”), in vigore 
dal 
24 
giugno 
2018; 
la 
nuova 
direttiva 
SMAV 
del 
2018, 
sui 
servizi 
media 
audiovisivi. 

Di 
recente, anche 
l’ONU 
ha 
pubblicato un report 
sull’intelligenza 
artificiale, 
mettendo in guardia sui pericoli insiti nell’utilizzo di dati biometrici. 

In 
Italia, 
sono 
state 
intraprese 
alcune 
iniziative, 
indotte 
dalla 
rilevanza 
sociale 
di 
alcuni 
fenomeni. 
Ad 
esempio, 
in 
contrasto 
al 
fenomeno 
del 
c.d. 
“revenge 
porn”, il 
c.d. “Decreto Capienze” 
(D.l. n. 139 dell’8 ottobre 
2021, convertito 
in legge 
3 dicembre 
2021, n. 205) ha 
introdotto il 
nuovo art. 144-bis 
al 
Codice 
Privacy, con il 
quale 
si 
riconosce 
alle 
vittime 
la 
possibilità 
di 
godere 
di 
una 
tutela 
anticipata, rivolgendosi 
al 
Garante 
mediante 
reclamo o segnalazione, 
affinché 
questo 
intervenga, 
esercitando 
i 
poteri 
di 
cui 
gode 
ai 
sensi 
dell’art. 58 GDPR, nell’ipotesi 
in cui 
sussista 
il 
fondato timore 
che 
possa 
essere 
commessa 
una 
delle 
condotte 
descritte 
dall’art. 612-ter 
c.p., ossia 
la 
diffusione 
di contenuti sessualmente espliciti non realizzati a tale scopo. 

Si 
veda, in particolare, l’art. 9 del 
“decreto capienze”, che, se 
da 
un lato 
ha 
creato 
scalpore 
per 
quanto 
concerne 
l’adottata 
riduzione 
di 
alcuni 
poteri 
del 
Garante 
per la 
privacy, dall’altro ha, come 
accennato, introdotto disposizioni 
nuove e necessarie in tema di 
revenge porn. 

Per 
quanto 
concerne 
la 
prima 
questione, 
l’art. 
9, 
co. 
1, 
lett. 
b) 
del 
Decreto 
abroga 
interamente 
l’articolo 
2-quinquesdecies 
del 
Codice 
Privacy, 
il 
quale 
stabiliva 
che 
“con 
riguardo 
ai 
trattamenti 
svolti 
per 
l’esecuzione 
di 
un 
compito 
di 
interesse 
pubblico che 
possono presentare 
rischi 
elevati 
ai 
sensi 
dell’articolo 
35 del 
regolamento, il 
Garante 
può, sulla base 
di 
quanto disposto dal-
l’articolo 36, paragrafo 5, del 
medesimo regolamento e 
con provvedimenti 
di 
carattere 
generale 
adottati 
d’ufficio, prescrivere 
misure 
e 
accorgimenti 
a 
garanzia 
dell’interessato, 
che 
il 
titolare 
del 
trattamento 
è 
tenuto 
ad 
adottare”. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


In 
sostanza, 
dunque, 
la 
norma 
ha 
espunto 
dal 
Codice 
una 
disposizione 
che 
imponeva 
alla 
P.A. di 
consultare 
il 
Garante 
prima 
di 
porre 
in essere 
trattamenti 
ad alto rischio -come 
quelli 
relativi 
ai 
dati 
sanitari 
-nell’interesse 
pubblico 
affinché potesse intervenire a tutela del soggetto interessato. 


Il 
testo dell’art. 9, significativamente 
modificato in sede 
di 
conversione 
del 
decreto-legge 
nel 
corso dell’esame 
in Senato, reca 
disposizioni 
in materia 
di protezione dei dati personali. 


In particolare, il 
comma 
1 
novella 
il 
Codice 
della 
privacy (d.lgs. n. 196 
del 2003): 


-prevedendo che 
il 
trattamento di 
dati 
personali 
effettuato per l’esecuzione 
di 
un 
compito 
di 
interesse 
pubblico 
possa 
trovare 
fondamento 
e 
base 
giuridica, 
oltre 
che 
nella 
legge 
e 
-nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge 
-nel 
regolamento, 
anche 
in un atto amministrativo generale 
(modifica 
dell’art. 2-ter 
del 
Codice) e 
che 
tale 
ampliamento della 
base 
giuridica 
valga 
anche 
per il 
trattamento 
dei 
dati 
particolari 
(sanità 
pubblica, medicina 
del 
lavoro, archiviazione 
nel 
pubblico interesse 
o per ricerca 
scientifica 
o storica 
o a 
fini 
statistici) disciplinato 
dall’art. 2-sexies 
del 
Codice 
e 
per il 
trattamento dei 
dati 
personali 
per fini di sicurezza nazionale o difesa, disciplinato dall’art. 58 del Codice; 
-consentendo il 
trattamento di 
dati 
personali 
effettuato per l’esecuzione 
di 
un 
compito 
di 
interesse 
pubblico 
o 
per 
l’esercizio 
di 
pubblici 
poteri, 
da 
parte 
di 
una 
serie 
di 
soggetti 
pubblici, 
anche 
per 
l’adempimento 
di 
un 
compito 
svolto 
nel 
pubblico interesse 
o per l’esercizio di 
pubblici 
poteri 
attribuiti 
ai 
suddetti 
soggetti pubblici (nuovo comma 1-bis 
dell’art. 2-ter 
del Codice); 
-introducendo 
una 
disciplina 
specifica 
per 
il 
trattamento 
di 
dati 
personali 
relativi 
alla 
salute 
quando gli 
stessi 
siano “privi 
di 
elementi 
identificativi 
diretti” 
(art. 2-sexies, comma 1-bis, del Codice); 


-abrogando 
l’articolo 
2-quinquesdecies 
del 
Codice 
della 
privacy 
che, 
nel 
caso di 
trattamenti 
di 
dati 
personali 
svolti 
per l’esecuzione 
di 
un compito di 
interesse 
pubblico, tali 
da 
poter presentare 
un rischio elevato per i 
diritti 
e 
le 
libertà 
delle 
persone 
fisiche, consentiva 
al 
Garante 
di 
adottare 
d’ufficio provvedimenti 
di 
carattere 
generale, prescriventi 
misure 
e 
accorgimenti 
a 
garanzia 
dell’interessato; 


-prevedendo che 
il 
trattamento dei 
dati 
relativi 
al 
traffico telefonico e 
telematico 
che 
devono 
essere 
conservati 
dal 
fornitore 
per 
finalità 
di 
accertamento 
e 
repressione 
di 
reati, sia 
effettuato nel 
rispetto delle 
misure 
e 
degli 
accorgimenti 
a 
garanzia 
dell’interessato 
prescritti 
dal 
Garante 
con 
provvedimento 
“di 
carattere generale” (modifica dell’art. 132, comma 5, del Codice); 
-potenziando 
la 
competenza 
del 
Garante 
al 
fine 
di 
prevenire 
la 
diffusione 
di 
materiali, 
foto 
o 
video, 
sessualmente 
espliciti 
(nuovo 
art. 
144-bis 
del 
Codice, 
rubricato 
revenge 
porn). 
In 
particolare, 
la 
disposizione 
prevede 
che 
chiunque, 
compresi 
i 
minori 
ultraquattordicenni, 
abbia 
fondato 
motivo 
di 
ritenere 
che 
immagini, 
audio, 
video 
o 
altri 
documenti 
informatici 
a 
contenuto 
sessualmente 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


esplicito 
che 
lo 
riguardano, 
destinati 
a 
rimanere 
privati, 
possano 
essere 
oggetto 
di 
invio, 
consegna, 
cessione, 
pubblicazione 
o 
diffusione 
attraverso 
piattaforme 
digitali, senza 
il 
suo consenso, può rivolgersi, mediante 
segnalazione, al 
Garante, 
il 
quale, 
entro 
48 
ore 
può 
rivolgere 
avvertimenti, 
ammonimenti, 
imporre 
una 
limitazione 
provvisoria 
o definitiva 
al 
trattamento, ordinare 
la 
rettifica, la 
cancellazione 
di 
dati 
personali 
o 
la 
limitazione 
del 
trattamento 
e 
infliggere 
una 
sanzione 
amministrativa 
pecuniaria. In base 
al 
comma 
6 
dell’art. 9, i 
fornitori 
di 
servizi 
di 
condivisione 
di 
contenuti, ovunque 
stabiliti, devono entro 6 mesi 
dalla 
legge 
di 
conversione 
pubblicare 
il 
proprio recapito, ai 
fini 
dell’adozione 
dei provvedimenti da parte del Garante; 


-intervenendo 
sul 
parere 
che 
il 
Garante 
deve 
rendere 
al 
legislatore 
in 
vista 
dell’adozione 
di 
una 
disciplina 
relativa 
al 
trattamento 
dei 
dati, 
per 
circoscriverne 
i 
presupposti 
(modifica 
dell’art. 
154 
del 
Codice). 
Inoltre, 
quando 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
dichiari 
che 
ragioni 
di 
urgenza 
non 
consentono 
la 
consultazione 
preventiva, 
e 
comunque 
nei 
casi 
di 
adozione 
di 
decreti-legge, 
si 
prevede 
che 
il 
Garante 
esprima 
il 
parere 
in 
una 
fase 
successiva, 
vale 
a 
dire 
in 
sede 
di 
esame 
parlamentare 
dei 
disegni 
di 
legge 
o 
delle 
leggi 
di 
conversione 
dei 
decreti-legge 
o 
in 
sede 
di 
vaglio 
definitivo 
degli 
schemi 
di 
decreto 
legislativo 
sottoposti 
al 
parere 
delle 
Commissioni 
parlamentari; 


-consentendo 
l’omissione 
della 
previa 
notifica 
della 
violazione 
contestata 
nei 
confronti 
dei 
soggetti 
pubblici 
che 
trattano 
i 
dati 
quando 
il 
loro 
trattamento 
abbia 
già 
arrecato pregiudizio agli 
interessati 
(modifica 
dell’art. 166 del 
Codice); 


-introducendo la 
possibilità 
di 
applicare, a 
titolo di 
sanzione 
accessoria 
rispetto alle 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie 
comminate 
dal 
Garante, l’ingiunzione 
a 
realizzare 
campagne 
di 
comunicazione 
istituzionale 
di 
sensibilizzazione 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
(modifica 
dell’art. 
166 
del 
Codice); 
-subordinando l’applicazione 
della 
fattispecie 
penale 
di 
inosservanza 
di 
provvedimenti 
del 
Garante 
(punita 
con la 
reclusione 
da 
tre 
mesi 
a 
due 
anni) al 
“concreto nocumento” 
dei 
soggetti 
interessati 
e 
alla 
querela 
della 
persona 
offesa 
(modifica all’art. 170 del Codice). 
Il 
comma 
2 
si 
pone 
come 
disposizione 
di 
coordinamento, 
conseguente 
all’abrogazione dell’articolo 2-quinquiesdecies 
del Codice della privacy. 


Il 
comma 
3 
modifica 
il 
d.lgs. 
n. 
51 
del 
2018, 
relativo 
alla 
protezione 
delle 
persone 
fisiche 
con 
riguardo 
al 
trattamento 
dei 
dati 
personali 
da 
parte 
delle 
autorità 
competenti 
a 
fini 
di 
prevenzione, indagine, accertamento e 
perseguimento 
di 
reati 
o esecuzione 
di 
sanzioni 
penali, nonché 
alla 
libera 
circolazione 
di tali dati, per: 


-confermare 
l’estensione 
agli 
atti 
amministrativi 
generali 
della 
base 
giuridica 
del trattamento; 
-sostituire, nella 
determinazione 
dei 
termini, delle 
modalità 
di 
conservazione, 
dei 
soggetti 
legittimati 
ad 
accedere 
ai 
dati 
nonché 
delle 
modalità 
e 
delle 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


condizioni 
per l’esercizio dei 
diritti 
dell’interessato, l’attuale 
riferimento a 
un 
regolamento governativo con quello a un decreto ministeriale; 


-circoscrivere, anche 
in questo caso, l’applicabilità 
del 
reato di 
inosservanza 
dei 
provvedimenti 
del 
Garante, alle 
ipotesi 
di 
concreto nocumento arrecato 
ad 
uno 
o 
più 
interessati 
e 
alla 
presentazione 
di 
querela 
della 
persona 
offesa. 
Il 
comma 
4 
interviene 
sull’art. 
7 
del 
decreto-legge 
n. 
34 
del 
2020 
per 
modificare 
ed integrare 
la 
disciplina 
concernente 
il 
trattamento di 
dati 
personali 
da 
parte 
del 
Ministero 
della 
salute. 
Tale 
disciplina, 
nella 
versione 
vigente, 
concerne 
i 
dati 
personali 
-anche 
relativi 
alla 
salute 
degli 
assistiti 
-raccolti 
nei 
sistemi 
informativi 
del 
Servizio 
sanitario 
nazionale 
ed 
autorizza 
il 
suddetto 
Ministero al 
relativo trattamento, al 
fine 
di 
sviluppare 
metodologie 
predittive 
dell’evoluzione 
del 
fabbisogno 
di 
salute 
della 
popolazione, 
demandando 
ad 
un decreto di 
natura 
regolamentare 
del 
Ministro della 
salute 
-adottato previo 
parere 
del 
Garante 
per la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
-la 
definizione 
delle 
norme 
attuative. Le 
novelle 
in esame 
prevedono che 
il 
decreto sia 
invece 
di 
natura 
non 
regolamentare 
-fermo 
restando 
il 
parere 
del 
suddetto 
Garante 
-, 
estendono, con riferimento a 
dati 
personali 
non sanitari, l’ambito delle 
norme 
di 
rango legislativo in esame 
e 
del 
relativo decreto attuativo e 
pongono una 
norma transitoria, valida nelle more dell'emanazione del medesimo decreto. 


Il 
comma 
5 
introduce 
disposizioni 
di 
coordinamento relative 
alla 
previsione 
che 
ha 
esteso agli 
atti 
amministrativi 
generali 
la 
base 
giuridica 
del 
trattamento 
dati (v. sopra). 


Il 
comma 
7 
riduce 
a 
30 giorni 
il 
termine 
per i 
pareri 
che 
il 
Garante 
renda 
su 
atti 
riconducibili 
al 
Piano 
nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(PNRR), 
al 
Piano 
nazionale 
per gli 
investimenti 
complementari 
ed al 
Piano nazionale 
integrato 
per l’energia 
e 
il 
clima 
2030 e 
prevede 
che 
quel 
termine 
sia 
improrogabile 
(ed 
una volta decorso, si può comunque procedere, pur in assenza di parere). 


Il 
comma 
8 
interviene 
sugli 
articoli 
1 e 
2 della 
legge 
n. 5 del 
2018, al 
fine 
di 
prevedere 
che 
i 
diritti 
dell’utente 
iscritto al 
registro pubblico delle 
opposizioni, 
nonché 
gli 
obblighi 
in 
capo 
agli 
operatori 
di 
call 
center 
operino 
indipendentemente 
dalle 
modalità 
in cui 
il 
trattamento delle 
numerazioni 
è 
stato 
effettuato, 
ovvero 
con 
o 
senza 
operatore 
con 
l’impiego 
del 
telefono, 
ma 
anche 
in via 
più generale 
mediante 
sistemi 
automatizzati 
di 
chiamata 
senza 
l’intervento 
di un operatore. 


I commi 
da 
9 a 
12 
prevedono una 
sospensione 
(eccezion fatta 
per la 
prevenzione 
e 
la 
repressione 
dei 
reati) della 
installazione 
e 
utilizzazione 
di 
impianti 
di 
videosorveglianza 
con 
sistemi 
di 
riconoscimento 
facciale 
operanti 
attraverso l’uso dei 
dati 
biometrici 
in luoghi 
pubblici 
o aperti 
al 
pubblico, da 
parte 
di 
autorità 
pubbliche 
o soggetti 
privati. Tale 
moratoria 
è 
prevista 
“fino 
all’entrata 
in vigore 
di 
una 
disciplina 
legislativa 
della 
materia”, e 
comunque 
non oltre il 31 dicembre 2023. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


In ambito parlamentare 
si 
riscontra 
sensibilità 
verso il 
fenomeno del 
c.d. 
“hate 
speech”. Sebbene 
nel 
nostro ordinamento manchi 
ancora 
una 
legge 
ad 
hoc 
per i 
discorsi 
d’odio, diverse 
proposte 
sono giunte 
in discussione 
alle 
Camere. 
Le 
due 
più rilevanti 
sono il 
DDL 
Cirinnà 
e 
il 
DDL 
Boldrini, presentato 
lo scorso anno. 

Il 
Governo ha, inoltre, recentemente 
adottato il 
decreto legislativo 4 novembre 
2021, 
n. 
170, 
pubblicato 
il 
25 
novembre 
scorso, 
di 
attuazione 
della 
Direttiva 
771/2019. Il 
decreto disciplina 
alcuni 
aspetti 
dei 
contratti 
per la 
fornitura 
di 
servizi 
digitali, 
introducendo 
nuove 
disposizioni 
nel 
Codice 
del 
Consumo 
(133), estendendo la 
tutela 
fornita 
da 
quest’ultimo anche 
ai 
contratti 
in 
cui 
professionista 
si 
obbliga 
a 
fornire 
un 
servizio 
o 
un 
contenuto 
digitale 
a 
fronte 
non della 
corresponsione 
di 
un prezzo, ma 
della 
cessione 
di 
dati 
personali 
da 
parte 
del 
consumatore. 
Il 
decreto 
interviene, 
dunque, 
sul 
dibattuto 
tema 
della 
patrimonializzazione 
e 
commercializzazione, 
c.d. 
monetizzazione 
dei 
dati personali, sempre più rilevante nell’economia moderna. 

Sotto altro profilo, ricordiamo che, in precedenza, con l’art. 8 ter 
del 
d.l. 
135/2018 
(c.d. 
Decreto 
Semplificazioni 
2019), 
aggiunto 
in 
sede 
di 
conversione 
in legge, è 
stata 
introdotta 
nel 
nostro ordinamento la 
definizione 
di 
tecnologie 
basate su registri distribuiti 
(o 
blockchain) e di 
smart contract. 

Dalle 
linee 
evolutive 
della 
normativa 
si 
intravede 
la 
necessità 
di 
conciliare 
la 
digitalizzazione 
ed 
il 
concetto 
di 
interoperabilità 
dei 
sistemi 
con 
la 
tutela 
dei 
dati. 
Le 
nuove 
Linee 
Guida 
dell’Agid, 
con 
i 
relativi 
protocolli 
informatici 
ed 
il 
sistema 
Cloud 
PA 
(134), 
cercano 
di 
rispondere 
a 
tale 
esigenza 
secondo 
le 
indicazioni 
della 
Commissione 
Europea. 
Il 
2 
dicembre 
2020, 
infatti, 
quest’ultima, 
in 
materia 
di 
giustizia, 
ha 
pubblicato 
la 
Comunicazione 
Digitalisation 
of 
Jiu


(133) Il 
decreto legislativo modifica 
gli 
articoli 
da 
128 a 
135 del 
Codice 
del 
Consumo (introducendo 
anche 
gli 
artt. da 
135-bis 
a 
135-septies) ed entrerà 
in vigore 
il 
1° 
gennaio 2022. Le 
modifiche 
concernono 
la 
vendita 
di 
beni 
tra 
il 
venditore 
e 
il 
consumatore, 
che 
non 
viene 
più 
limitata 
ai 
beni 
di 
consumo. 
Vengono 
inserite 
le 
nozioni 
di 
“bene 
con 
elementi 
digitali” 
e 
di 
“aggiornamento 
dei 
beni 
digitali”. 
Il 
Capo 
I 
del 
Titolo 
III, 
che 
prima 
era 
dedicato 
alla 
vendita 
di 
beni 
di 
consumo, 
è 
ora 
dedicato 
alla 
vendita 
di 
beni 
tout 
court, tra 
cui 
rientrano anche 
i 
beni 
con elementi 
digitali; 
parallelamente 
viene 
ampliata 
la 
nozione 
di 
venditore, che 
ora 
comprende 
anche 
il 
“fornitore 
di 
piattaforme 
se 
agisce 
per 
finalità che 
rientrano 
nel 
quadro 
della 
sua 
attività 
e 
quale 
controparte 
contrattuale 
del 
consumatore 
per 
la 
fornitura 
di 
contenuto digitale 
o di 
servizi 
digitali”. Vengono inserite 
anche 
le 
definizioni 
dei 
contenuti 
digitali, 
del 
servizio digitale, della 
compatibilità, interoperabilità 
e 
del 
supporto durevole. Per quanto riguarda 
i 
contratti 
di 
fornitura 
di 
contenuti 
digitali 
o di 
servizi 
digitali, le 
nuove 
disposizioni 
vengono applicate 
ai 
contenuti 
digitali 
o ai 
servizi 
digitali 
incorporati 
o interconnessi 
con beni. Vengono previsti 
a 
carico 
del 
venditore 
appositi 
obblighi 
con 
riferimento 
agli 
aggiornamenti 
nel 
caso 
di 
beni 
con 
elementi 
digitali, 
con conseguente 
precisa 
responsabilità 
ex 
art. 133; 
il 
venditore 
è 
responsabile 
per ogni 
vizio di 
conformità 
del 
bene 
esistente 
al 
momento 
della 
consegna 
e 
che 
si 
manifesta 
entro 
due 
anni. 
Tuttavia, 
per 
quanto 
riguarda 
i 
beni 
con elementi 
digitali, vi 
è 
una 
possibile 
estensione 
della 
responsabilità 
nel 
caso in cui 
il 
contratto preveda la fornitura continuativa del contenuto digitale per più di due anni. 
(134) “Linee 
Guida Tecnologie 
e 
standard per 
la sicurezza dell’interoperabilità tramite 
API dei 
sistemi 
informatici”e“Linee 
Guida 
sull’interoperabilità 
tecnica 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni”, 
pubblicate 
in data 22 ottobre 2021 sul sito dell’Agid. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


stice 
in 
the 
in 
the 
European 
Union, 
A 
tool 
box 
of 
opportunities 
(Com 
(2020)710) 
e 
documento 
di 
accompagnamento 
(JWD 
(2020) 
540), 
indicando 
le 
nuove 
linee 
di 
azione 
a 
cui 
attenersi: 
digital 
transformation 
e 
design 
dei 
processi. 
La 
Commissione 
ha 
affermato 
che 
“La 
Giustizia 
è 
una 
delle 
componenti 
strategiche 
per 
una 
società 
basata 
sui 
valori 
UE 
e 
per 
un’economia 
resiliente”. 


Nel 
settore 
della 
giustizia, 
così 
come 
in 
altri 
settori 
come 
la 
sanità, 
a 
scuola, 
i 
trasporti, 
prerequisito 
della 
digitalizzazione 
(che 
è 
un 
concetto 
diverso 
dall’informatizzazione, 
anzi 
una 
sua 
evoluzione, 
un 
suo 
salto 
quantico), 
è 
la 
re-ingegnerizzazione 
dei 
processi 
e 
del 
design 
dei 
sistemi 
di 
supporto, 
tenendo 
a 
mente 
le 
esigenze 
dei 
cittadini 
e 
delle 
imprese. 
La 
Commissione 
ha 
riscontrato 
diversi 
Tool 
IT, 
ma 
senza 
alcuna 
considerazione 
sulla 
interoperabilità. 
Quest’ultima 
rappresenta 
l’indice 
evolutivo 
dello 
sviluppo 
tecnologico 
per 
ottimizzare 
le 
risorse 
pubbliche: 
il 
passaggio 
dall’informatizzazione 
alla 
digitalizzazione 
si 
basa 
sulle 


c.d. “infrastrutture 
iperconvergenti”, rappresentate 
da 
componenti 
hardware 
estremamente 
“modulari”. 
La 
caratterizzazione 
delle 
architetture 
si 
deve 
al 
layer 
software, 
grazie 
al 
quale 
le 
risorse 
di 
computing 
e 
storage 
di 
ogni 
nodo 
sono 
combinate 
in 
un 
pool 
unico 
e 
messe 
a 
disposizione 
con 
i 
vantaggi 
dell’elasticità 
e 
della 
scalabilità. 
Significative 
sono 
risultate 
le 
proposte 
della 
Commissione 
per 
i 
tool 
IT 
di 
cooperazione 
giudiziaria 
cross-border. 
Piattaforme 
di 
comunicazione 
e 
scambi 
di 
dati, registri 
interconnessi 
dovrebbero 
essere 
una 
realtà 
già 
consolidata, ma 
sono poco sfruttati. Eurlex, il 
portale 
E-justice, 
il 
sistema 
Business 
registers 
Interconnession 
System 
(BRIS), 
il 
sistema 
ECLI 
(per 
la 
identificazione 
dei 
case 
law 
e 
della 
minima 
base 
di 
metadati), 
il 
sistema 
E-Codex, 
sistemi 
che 
facilitano 
l’accesso 
cross-border 
alle 
informazioni 
giudiziarie 
da 
parte 
dell’autorità 
e 
dei 
privati 
e 
anche 
quelli 
che 
facilitano 
la 
cooperazione 
giudiziaria 
dovranno 
diventare 
i 
“gold 
standard”, 
con un punto di accesso unico ad una rete europea. 

Ma 
cosa 
succede 
se 
lo scambio di 
dati 
deve 
avvenire 
con Paesi 
non europei? 
L’European 
Data 
Protection 
Board, 
la 
Commissione 
che 
riunisce 
le 
Autorità 
di 
Protezione 
dei 
dati 
personali 
nazionali 
che 
operano 
in 
tutta 
Europa, 
lo scorso anno ha 
lanciato una 
consultazione 
pubblica 
su uno schema 
di 
provvedimento 
che 
aveva 
un unico obiettivo dichiarato: 
quello di 
identificare 
rimedi 
e 
soluzioni, 
oltre 
alle 
attuali 
“general 
clauses” 
capaci 
di 
garantire 
il 
trasferimento dei 
dati 
personali 
dall’Europa 
agli 
Stati 
Uniti. Dopo la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
C-311/2018, ormai 
nota 
come 
Schrems 
II, i 
giudici 
di 
Lussemburgo hanno dichiarato a 
tal 
fine 
invalido il 
c.d. Privacy 
Shield, erigendo, 
così 
di 
fatto, un muro giuridico difficilmente 
penetrabile 
tra 
Europa 
e 
Stati Uniti in fatto di trasferimento di dati personali. 

La 
partecipazione 
alla 
consultazione 
pubblica 
da 
parte 
di 
tutti 
gli 
stakeholder 
pubblici 
e 
privati 
è 
preziosa, perché 
il 
trasferimento dei 
dati 
non è 
solo 
con gli USA, ma anche con altri paesi non europei. 

La 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea, con la 
sentenza 
Schrems 
II, 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


ha 
accertato che 
le 
leggi 
americane 
non riconoscono agli 
interessati 
un livello 
di 
tutela 
equivalente 
rispetto 
a 
quello 
loro 
riconosciuti 
dalla 
disciplina 
europea 
in materia di protezione dei dati personali. 

Il 
draft 
di 
provvedimento posto in consultazione 
non supera 
la 
considerazione 
che occorre un intervento normativo che allinei gli ordinamenti. 

I 
rimedi 
contrattuali 
o 
tecnologici 
da 
soli 
non 
risolvono 
il 
problema. 
È 
necessario che 
la 
diplomazia 
europea 
e 
statunitense 
si 
mettano alla 
ricerca 
di 
una 
soluzione 
più definitiva 
attraverso uno strumento pattizio capace 
di 
garantire 
con sicurezza la libera circolazione dei dati. 

Si 
pensi 
al 
caso 
della 
disciplina 
FATCA 
(135) 
(Foreign 
Account 
Tax 
Compliance 
Act), che, come 
noto, è 
nata 
come 
disciplina 
unilaterale 
statunitense, 
salvo poi 
acquisire 
reciprocità 
sostanziale 
tramite 
i 
vari 
accordi 
intergovernativi 
sottoscritti 
ad hoc 
dai vari Paesi che intendono aderire alla disciplina. 

L’Italia 
vi 
ha 
aderito tramite 
l’“Iga” 
(accordo del 
gennaio 2014), che 
ha 
dato 
attuazione 
al 
FATCA 
traducendo 
la 
disciplina 
in 
uno 
scambio 
automatico 
annuale 
di 
informazioni 
tra 
le 
autorità 
fiscali 
dei 
due 
Paesi 
che 
interessa 
non 
più 
esclusivamente 
i 
cittadini 
statunitensi 
ma 
anche 
i 
conti 
correnti 
e 
assimilati 
detenuti in territorio statunitense da residenti italiani. 

Ebbene, la 
disciplina 
FATCA 
ha 
un impatto non solamente 
in ambito fiscale, 
ma 
incide 
gravemente 
anche 
sulle 
procedure 
di 
gestione 
interna 
dei 
dati 
(personali 
e 
finanziari). 
Infatti, 
gli 
istituti 
bancari 
devono 
monitorare 
tutti 
i 
rapporti 
finanziari 
riconducibili 
a 
persone 
fisiche 
ed 
enti 
fiscalmente 
residenti 
negli 
USA. L’elemento di 
maggiore 
impatto è, dunque, che 
gli 
istituti 
finanziari 
dell’Unione 
europea 
sono tenuti 
a 
divulgare 
informazioni, anche 
dettagliate, 
relative 
ai 
conti 
detenuti 
da 
presunti 
cittadini 
statunitensi. Evidente 
il 
problema 
che 
si 
pone 
nell’ambito della 
materia 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali. 


Tra 
le 
questioni 
di 
maggiore 
rilevanza 
possiamo menzionare, da 
un lato, 
la 
posizione 
dei 
c.d. “Accidentals 
Americans” 
(136), cittadini 
europei 
che, a 
causa 
degli 
elevati 
compliance 
costs 
connessi 
al 
FATCA, si 
sono visti 
negare 
l’accesso 
a 
servizi 
bancari 
essenziali 
nell’UE, 
con 
conseguente 
violazione 
della 
direttiva 
sui 
conti 
di 
pagamento (direttiva 
2014/92/UE) e 
della 
Carta 
dei 


(135) Il 
FATCA 
(Foreign Account 
Tax 
Compliance 
Act) è 
un accordo sottoscritto da 
Italia 
e 
Stati 
Uniti 
che 
prevede 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
finanziarie 
per 
contrastare 
l’evasione 
fiscale 
internazionale, 
in particolare 
quella 
relativa 
a 
cittadini 
e 
residenti 
statunitensi 
attraverso conti 
correnti 
detenuti 
presso 
le 
istituzioni 
finanziarie 
italiane 
e 
quella 
relativa 
a 
residenti 
italiani 
tramite 
conti 
correnti 
presso le 
istituzioni 
finanziarie 
statunitensi. 
Le 
comunicazioni 
dei 
dati 
avvengono 
tra 
l’Agenzia 
delle 
Entrate 
e 
l’IRS 
statunitense, 
che 
nel 
2016 
hanno 
sottoscritto 
un 
accordo, 
concludendo 
così 
l’implementazione 
della 
normativa 
FATCA. 
(136) Sono i 
c.d. “americani 
accidentali”, o americani 
“per caso”, perché 
nati 
negli 
Stati 
Uniti 
o 
perché 
sposati 
con una 
statunitense, che, anche 
se 
non vivono negli 
Usa, sono tenuti 
a 
rispettare 
tutti 
gli 
obblighi 
dei 
cittadini 
del 
Paese, compreso quello di 
pagare 
le 
tasse; 
vi 
rientrano anche 
i 
cittadini 
con 
doppia cittadinanza europea/statunitense e i loro familiari non statunitensi. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


diritti 
fondamentali 
dell’UE 
(137); 
e 
dall’altro l’intervento del 
GDPR, entrato 
in vigore 
nel 
2018, che 
riguarda 
i 
dati 
online 
di 
ogni 
tipo e 
si 
applica 
anche 
allo scambio automatico di 
informazioni 
in ambito fiscale, andando a 
bilanciare 
il 
diritto dei 
cittadini 
alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
nei 
confronti 
del 
preminente interesse degli Stati alla tutela del fisco. 

In 
particolare, 
il 
GDPR 
prevede 
che 
la 
trasmissione 
dei 
rilevanti 
dati 
personali 
dalla 
UE 
a 
stati 
terzi, 
come 
gli 
USA, 
possa 
avvenire 
solo 
se 
questi 
ultimi 
garantiscono un livello di 
sicurezza 
equivalente 
a 
quello previsto nell’Unione 
europea 
dal 
GDPR. Purtroppo, però, gli 
accordi 
tra 
gli 
Stati 
dell’Unione 
europea 
e 
gli 
Usa 
non operano in maniera 
effettiva 
sulla 
base 
del 
principio di 
reciprocità: 
gli 
Stati 
Uniti 
non trasmettono in Europa 
dati 
equivalenti, cosicché 
il 
sistema 
multilaterale 
che 
era 
stato inizialmente 
previsto dall’Ue 
e 
dagli 
Usa 
sta entrando in crisi (138). 

Si 
è 
reso, quindi, necessario un intervento da 
parte 
dell’Unione 
europea, 
affinché 
siano modificati 
o riavviati 
agli 
accordi 
che 
prevedono lo scambio di 
informazioni 
tra 
UE 
e 
Stati 
Uniti, per (ri)stabilire 
una 
vera 
simmetria 
nel 
trasferimento 
dei 
dati 
tra 
USA 
e 
UE. 
Il 
rischio 
paventato 
è 
quello 
di 
una 
possibile 
attuazione 
della 
c.d. blocking legislation, ossia 
una 
disciplina 
che, nelle 
more 
di 
una 
ridefinizione 
degli 
accordi 
attuativi 
dei 
FATCA, non permetterebbe 
la 
trasmissione 
dei 
dati 
oltreoceano 
fintantoché 
la 
reciprocità 
e 
le 
tutele 
del 
GDPR non vengano ristabilite. 


Nel 
frattempo, l’utilizzo delle 
Clausole 
generali 
(c.d. “clausole 
standardizzate 
approvate 
dalla Commissione 
Europea”) utilizzate 
da 
organizzazioni 
che 
aderiscono a 
programmi 
internazionali 
di 
protezione 
dati, probabilmente 
è 
l’unico 
modo 
attuale 
per 
il 
trasferimento 
dei 
dati 
dall’Europa 
agli 
Stati 
Uniti. 

Pertanto, le 
clausole 
contrattuali 
che 
garantiscono adeguate 
garanzie 
di 
protezione 
dei 
dati 
possono essere 
utilizzate 
come 
base 
per il 
trasferimento di 
dati 
e 
informazioni 
dall’Unione 
europea 
a 
paesi 
terzi, sebbene 
la 
Corte 
Europea 
abbia 
chiarito 
che 
l’autorità 
di 
controllo 
di 
ciascuno 
Stato 
membro 
è 
tenuta 
a 
sospendere 
o vietare 
il 
trasferimento di 
dati 
personali 
a 
un Paese 
extra 
UE 
quando, 
a 
causa 
di 
circostanze 
specifiche, 
si 
presume 
che 
le 
clausole 
stesse 
non siano, o non possano essere 
rispettate 
in quel 
Paese, e 
che 
la 
protezione 
dei dati trasferiti, prevista dal diritto dell’Unione, non possa essere garantita. 

Inoltre, l’esportatore 
europeo di 
dati 
personali 
e 
l’importatore 
extra 
UE, 
sono 
obbligati 
ad 
effettuare 
le 
proprie 
valutazioni 
sui 
singoli 
trasferimenti 
esi


(137) Vedi, già 
nel 
2018, l’interrogazione 
parlamentare 
del 
parlamento europeo sugli 
effetti 
negativi 
della 
normativa 
statunitense 
“Foreign Tax 
Compliance 
Act” 
(FATCA) sui 
cittadini 
dell’UE 
e 
in 
particolare 
sugli 
“americani 
casuali”, 
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/o-8-2018000053_
IT.html. 
(138) C. GARBARINO, “Applicazione 
del 
FATCA 
a livello europeo e 
protezione 
dei 
dati”, 2018, in 
https:// 
privatebank.jpmorgan.com/content/dam/j 
pm-wmaem/
documents/JPm%20Wealth%20Journal_Article_2019-04_Applicazione%20del%20FATCA.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


stenti 
entro 
le 
clausole 
standardizzate, 
e 
la 
possibilità 
di 
trasferire 
dati 
personali 
sulla 
base 
delle 
clausole 
contrattuali 
tipo dipenderà 
dal 
risultato della 
valutazione 
effettuata 
dall’esportatore 
sulle 
garanzie 
offerte 
nel 
paese 
importatore 
(in particolare, gli 
USA), nel 
rispetto dell’adeguatezza 
della 
tutela 
e 
del 
principio 
di 
proporzionalità. Inoltre, il 
loro utilizzo deve 
essere 
supportato anche 
dalla collaborazione diplomatica per preservare le relazioni tra i due Paesi. 


Anche 
il 
Comitato 
europeo 
per 
la 
protezione 
dei 
dati, 
nelle 
sue 
FAQs 
relative 
al 
caso 
Schrems 
II 
(139), 
ha 
riconosciuto 
espressamente 
che 
le 
clausole 
contrattuali 
standardizzate 
possono 
ancora 
essere 
considerate 
strumenti 
adeguati, 
se 
sono 
incluse 
misure 
aggiuntive 
per 
proteggere 
il 
trasferimento 
dei 
dati. 


È 
stato 
affermato 
che: 
“Il 
Comitato 
europeo 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
sta 
attualmente 
analizzando 
la 
sentenza 
della 
Corte 
per 
determinare 
il 
tipo 
di 
misure 
supplementari 
che 
potrebbero 
essere 
fornite 
in 
aggiunta 
alle 
clausole 
contrattuali 
tipo, siano esse 
misure 
legali, tecniche 
o organizzative, per 
trasferire 
dati 
a paesi 
terzi 
in cui 
le 
clausole 
standardizzate 
non forniranno da 
sole 
il 
livello 
sufficiente 
di 
garanzie. 
Il 
Comitato 
sta 
esaminando 
ulteriormente 
in cosa potrebbero consistere 
queste 
misure 
supplementari 
e 
fornirà ulteriori 
indicazioni” (140). 


Comunque, nel 
caso dei 
contribuenti, la 
trasmissione 
dei 
dati 
non deve 
eccedere 
la 
finalità 
fiscale 
(c.d. “limitazione 
delle 
finalità”), deve 
essere 
adeguata, 
pertinente 
e 
limitata 
a 
quanto 
necessario 
rispetto 
alle 
finalità 
per 
le 
quali 
i 
dati 
sono trattati 
(c.d. “minimizzazione 
dei 
dati”) (141). Se 
le 
richiamate 
garanzie 
non 
verranno 
rispettate, 
ci 
sarà 
il 
rischio 
che 
in 
Europa 
si 
possa 
propendere 
per la 
creazione 
di 
vere 
e 
proprie 
“black 
list” 
di 
Stati 
extra-UE 
che 
non garantiscono la 
tutela 
della 
privacy dei 
cittadini 
europei, e 
ciò avrà 
inevitabili 
conseguenze sul piano degli scambi e dei commerci internazionali. 


(139) 
Vedi 
“Privacy 
Shield: 
le 
FAQ 
dell’EDPB 
sulla 
sentenza 
Schrems 
II”, 
tradotte 
dal 
Garante 
della 
Privacy, 
https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9442415. 
(140) 
Si 
vedano 
le 
clausole 
contrattuali 
standard 
aggiornate 
ai 
sensi 
del 
GDPR 
emesse 
il 
4 
giugno 
2021 
dalla 
Commissione 
per 
i 
trasferimenti 
di 
dati 
da 
titolari 
o 
responsabili 
del 
trattamento 
nell’UE/SEE 
(o altrimenti 
soggetti 
al 
GDPR) a 
titolari 
o responsabili 
del 
trattamento stabiliti 
al 
di 
fuori 
dell’UE/SEE 
(e 
non 
soggetti 
al 
GDPR): 
queste 
clausole 
modernizzate 
sostituiranno 
i 
tre 
insiemi 
di 
clausole 
contrattuali 
tipo adottate ai sensi della precedente Direttiva sulla protezione dei dati 95/46. 
(141) 
Per 
quanto 
riguarda 
il 
trade-off 
tra 
privacy 
e 
interesse 
pubblico, 
è 
utile 
menzionare 
la 
recente 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU, 
che 
nella 
sentenza 
36345/16 
del 
12 
gennaio 
2021 
nel 
caso 
L.B. 
v. 
Hungary, 
ha 
mostrato 
una 
certa 
apertura 
verso 
una 
“deroga” 
ai 
principi 
in 
materia 
di 
privacy 
in 
nome 
dell’interesse 
pubblico, 
contestando 
che 
in 
alcuni 
casi 
la 
privacy 
non 
può 
divenire 
un 
ostacolo 
al 
controllo 
fiscale. 
La 
Corte 
ha 
contraddetto 
il 
Garante 
della 
privacy 
ungherese, 
affermando 
che 
è 
ammissibile 
la 
pubblicazione 
sul 
sito 
dell’autorità 
fiscale 
dei 
dati 
dei 
contribuenti 
che 
non 
hanno 
pagato 
le 
tasse. 
Secondo 
la 
Corte, 
in 
un’opera 
di 
bilanciamento 
degli 
interessi, 
la 
riservatezza 
di 
questi 
dati 
(nome, 
indirizzo, 
morosità 
fiscali) 
può 
cedere 
il 
passo 
all’interesse 
pubblico 
alla 
trasparenza 
sul-
l’affidabilità 
economica 
delle 
persone: 
prevale 
la 
considerazione 
che 
chi 
non 
adempie 
agli 
obblighi 
fiscali 
costituisce 
una 
minaccia 
per 
gli 
interessi 
di 
chi 
potrebbe 
entrarvi 
in 
contatto 
per 
stringere 
rapporti 
commerciali. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Come 
si 
è 
visto, 
i 
problemi 
e 
i 
temi 
sono 
molto 
trasversali: 
si 
sono 
spesso 
sovrapposte 
delle 
competenze 
in materia 
di 
supervisione 
e 
controllo attribuite 
alle 
diverse 
Autorità 
all’interno del 
nostro ordinamento, con difficoltà 
nell’attuazione 
della 
disciplina, e 
ciò potrebbe 
determinare 
un impatto negativo sull’efficacia 
delle misure adottate. 

Servirebbe 
maggiore 
chiarezza 
nel 
riparto 
delle 
competenze: 
si 
potrebbero 
usare 
meglio 
le 
risorse 
e 
l’applicazione 
della 
disciplina 
sarebbe 
più 
sicura. 


Nonostante 
il 
problema 
sia 
noto, 
non 
è 
ancora 
stato 
intrapreso 
un 
indirizzo 
per una 
soluzione 
unanime. Intanto, allora, si 
procede 
con una 
collaborazione 
fra 
le 
Autorità 
esistenti, 
ma 
non 
si 
esclude, 
in 
futuro, 
la 
nascita 
di 
un’unica 
Autorità con tutte le competenze necessarie. 


Le 
nuove 
proposte 
di 
Regolamento 
presentate 
dalla 
Commissione 
europea 
si 
limitano ad incoraggiare 
la 
collaborazione 
fra 
le 
Autorità 
esistenti, ed è 
rimesso 
agli Stati membri l’onere di disciplinare le modalità concrete. 


Il 
problema 
non è 
solamente 
teorico, in quanto ha 
effetto sull’effettività 
della 
disciplina 
e 
sull’efficacia 
della 
tutela 
che 
l’ordinamento 
intende 
garantire 
ai soggetti coinvolti. 

I 
dubbi 
in 
materia, 
nonché 
la 
concorrenza 
fra 
le 
diverse 
Autorità, 
incidono 
negativamente sull’applicazione della disciplina, inficiandone la portata. 


Il 
lavoro 
delle 
autorità 
dovrebbe 
essere 
sinergico 
già 
nella 
fase 
di 
indagine 
e analisi dei problemi, vista la complessità delle fattispecie che emergono. 

Si 
faccia 
l’esempio dell’Indagine 
conoscitiva 
sui 
Big Data 
(142), che 
è 
stata 
condotta 
insieme 
da 
Antitrust, 
AGCOM 
e 
Garante 
della 
Privacy, 
ed 
è 
stata 
pubblicata 
nel 
2018: 
si 
tratta 
di 
un 
caso 
in 
cui, 
unendo 
le 
diverse 
prospettive, 
le 
Autorità 
sono riuscite 
ad avere 
un quadro completo del 
fenomeno 
che dovevano affrontare. 


Il 
problema 
sta, poi, nella 
fase 
di 
implementazione 
delle 
misure, perché 
si 
crea 
una 
situazione 
di 
confusione, per la 
quale 
più Autorità 
rivendicano la 
propria 
competenza, e 
così 
si 
rischia 
di 
pregiudicare 
i 
soggetti 
che 
chiedono 
la tutela prevista dall’ordinamento. 


Per fare 
un altro esempio pratico, si 
pensi 
alla 
Direttiva 
SMAV: 
con riferimento 
alle 
nuove 
disposizioni 
poste 
a 
tutela 
dei 
minori 
potrebbero sorgere 
problemi, perché 
si 
prevede 
che, per evitare 
la 
fruizione 
da 
parte 
di 
questi 
di 
contenuti 
pericolosi 
per il 
loro sviluppo fisico, mentale 
o morale, i 
fornitori 
di 
servizi 
media 
audiovisivi 
siano soggetti 
a 
misure 
introdotte 
dai 
singoli 
Stati 
(es. meccanismi 
volti 
a 
verificare 
l’età 
di 
chi 
accede 
ai 
servizi). Eppure, resta 


(142) 
Il 
testo 
dell’indagine 
conoscitiva 
è 
accessibile 
da 
https://www.garanteprivacy.it/documents/
10160/0/Indagine+conoscitiva+sui+Big+Data.pdf/58490808-c024-bf04-7e4ee953b3d38a9a?
version=1.0. 
Interessante, 
sul 
punto, 
G. 
BUSIA, 
L. 
FEROLA, 
“Il 
Garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali: le 
funzioni, i 
rapporti 
con le 
altre 
Istituzioni 
ed Autorità in Italia e 
in Europa”, in G. 
BUSIA, L. LIGUORI, O. POLLICINO 
(a 
cura 
di), “Le 
nuove 
frontiere 
della privacy 
nelle 
tecnologie 
digitali: 
bilanci e prospettive”, Aracne, 2016. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


fermo che 
i 
dati 
personali 
dei 
minori, così 
raccolti, non possono essere 
trattati 
a 
fini 
commerciali, né 
per finalità 
di 
marketing 
diretto, profilazione 
o pubblicità 
mirata sulla base dei comportamenti. 


Il 
problema 
è 
palese: 
si 
devono 
riunire 
tutte 
le 
competenze 
dell’AGCOM, 
dell’AGCM e del Garante della Privacy. 

L’Autorità 
Garante 
delle 
Comunicazioni 
deve 
vigilare 
sui 
servizi 
media 
audiovisivi, 
in 
particolare 
sulle 
piattaforme 
di 
condivisione 
video 
(anche 
social 
media). 


Per 
quanto 
concerne 
il 
rinvio 
al 
marketing 
e 
alla 
pubblicità, 
questo 
richiede 
una 
tutela 
dei 
consumatori, 
con 
conseguente 
competenza 
dell’Antitrust. 


Infine, il 
Garante 
della 
Privacy è 
necessario per la 
raccolta 
di 
dati 
personali, 
interventi 
già 
avvenuti 
per il 
controllo dell’età 
dei 
soggetti 
che 
accedono 
ai 
social, in risposta ai gravissimi episodi avvenuti su Tik Tok. 

Il 
Digital 
Services 
Act, 
dal 
canto 
suo, 
si 
limita 
a 
prevedere 
l’istituzione 
dei 


c.d. 
“coordinatori 
nazionali 
per 
i 
servizi 
digitali”, 
cioè 
autorità 
nazionali 
competenti 
per 
il 
controllo 
e 
l’attuazione 
della 
disciplina. 
Sicuramente 
tali 
poteri 
potrebbero 
essere 
attribuiti 
all’AGCOM, 
ma 
è 
solo 
una 
delle 
tante 
possibilità. 
Anche 
le 
altre 
Autorità, 
infatti, 
potrebbero 
rivendicare 
i 
poteri 
previsti 
dal 
DSA, specialmente 
perché 
il 
Regolamento esplicitamente 
prevede 
la 
possibilità 
di designare contestualmente più soggetti competenti. 


Oppure, si potrebbe istituire un’Autorità 
ex novo. 


Ancora, 
auspicabilmente, 
si 
potrebbe 
optare 
per 
l’accorpamento 
delle 
diverse 
Autorità, riunificando le competenze di quelle già esistenti. 


Ad 
ogni 
modo, 
sui 
singoli 
Stati 
incombe 
l’onere 
di 
determinare 
quali 
compiti 
siano attribuiti 
a 
ciascuna 
Autorità 
e 
le 
modalità 
di 
cooperazione 
fra 
le une e le altre. 


Si 
vedano 
le 
osservazioni 
formulate 
dell’EPDS 
nell’opinion 
1/2021: 
data 
la 
trasversalità 
delle 
attività 
oggetto della 
regolamentazione, è 
quasi 
scontato 
che 
vi 
sarà 
la 
concorrenza 
di 
più 
autorità, 
soprattutto 
di 
quelle 
responsabili 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali, poiché 
queste 
vengono in rilievo ogni 
volta 
in 
cui 
le 
attività 
includano 
l’utilizzo 
di 
dati 
personali. 
Per 
questo 
motivo, 
il 
Comitato 
spera 
che 
la 
versione 
definitiva 
del 
Regolamento 
individui 
un 
criterio 
legale 
sul 
quale 
basare 
la 
cooperazione, 
strutturi 
la 
cooperazione 
fra 
le 
diverse 
Autorità 
e 
precisi 
con chiarezza 
le 
Autorità 
coinvolte 
nella 
cooperazione 
e 
le 
circostanze che prevedono tale cooperazione. 


Per quanto concerne 
il 
Digital 
markets 
Act, si 
richiamano ipotesi 
di 
concorrenza 
di 
diverse 
Autorità: 
diverse 
norme 
hanno ad oggetto lo sfruttamento 
dei 
dati 
personali 
da 
parte 
dei 
“gatekeepers”, 
ossia 
dei 
soggetti 
destinatari 
della 
disciplina, preannunciando il 
possibile 
intervento del 
Garante, oltre 
all’ovvia 
competenza dell’Antitrust. 


L’art. 32 della 
proposta 
prevede 
anche 
la 
creazione 
di 
un comitato consultivo 
per 
assistere 
la 
Commissione 
nello 
svolgimento 
delle 
funzioni. 
Su 
que



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


sto 
elemento 
si 
è 
pronunciato 
l’EDPS 
con 
l’opinion 
2/2021 
(143), 
secondo 
cui 
i 
membri 
dell’EDPB 
dovrebbero 
prendere 
parte 
a 
tale 
comitato 
consultivo 
e 
bisognerebbe 
strutturare 
al 
meglio 
la 
cooperazione 
fra 
le 
diverse 
Autorità 
competenti 
potenzialmente 
coinvolte 
(indicando 
la 
base 
giuridica 
idonea 
a 
giustificare 
lo scambio di informazioni fra le stesse). 


Si 
può 
affermare, 
in 
conclusione, 
che 
il 
quadro 
normativo 
vigente 
e 
le 
prospettive 
di 
riforma 
non 
sono 
rassicuranti 
per 
lo 
scopo 
qui 
analizzato: 
è, 
tuttavia, 
un elemento importante, per cui 
servirebbe, il 
prima 
possibile, riorganizzare 
il sistema (144). 

9. Servizio civile digitale. 
Si 
parla 
di 
“servizio 
civile 
digitale” 
per 
indicare 
l’utilizzo 
del 
digitale 
nello svolgimento di 
attività 
di 
interesse 
pubblico. Il 
servizio civile 
digitale 
è 
teso, 
ad 
esempio, 
a 
combattere 
fenomeni 
devianti 
come 
quelli 
multiformi 
della 
corruzione. 

Per 
citare 
un’applicazione 
concreta, 
di 
recente 
si 
è 
proceduto 
alla 
c.d. 
Robustezza 
di 
piattaforme 
per le 
segnalazioni 
di 
whistleblowing 
al 
Responsabile 
della 
prevenzione, corruzione 
e 
trasparenza. Il 
portale 
utilizza 
un protocollo 
di 
crittografia 
in 
grado 
di 
garantire 
la 
riservatezza 
dell’identità 
del 
segnalante, 
del 
contenuto della 
segnalazione 
e 
della 
documentazione 
allegata. È curioso 
che, alla 
notevole 
attenzione 
sociale 
e 
politica, non corrisponda 
una 
proporzionale 
densità di casistica giurisprudenziale. 

I 
fenomeni 
in 
questione 
sembrano 
restare 
al 
di 
fuori 
della 
dimensione 
giudiziaria. 
Storicamente, in un primo tempo, l’esplosione 
del 
mondo digitale 
è 
avvenuta 
per 
gran 
parte 
addirittura 
al 
di 
fuori 
della 
stessa 
dimensione 
giuridica; 
talvolta 
in 
un 
vero 
e 
proprio 
far 
west. 
Oggi, 
questo 
non 
è 
più 
vero 
ma 
le 
regole 
del gioco sembrano applicarsi con molta difficoltà. 

Su un fronte, quello delle 
piattaforme 
social, sono queste 
stesse 
a 
dettare 
le 
regole 
e, almeno in parte 
o nelle 
intenzioni, costituiscono anche 
gli 
organi 
di giustizia. 


Sull’altro 
fronte, 
del 
c.d. 
“marketing 
digitale”, 
l’economia 
data 
driven 
sembra 
sottrarsi 
ad ogni 
regola, fatta 
eccezione 
per la 
disciplina 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali, che 
sembra 
atteggiarsi 
talvolta 
ad ultima 
barriera 
ad 
una incontrollata libertà di azione. 

(143) Consultabile su 
https://edps.europa.eu/system/files/2021-02/21-02-10-opinion_on_digital_markets_act_en.pdf. 


(144) 
In 
conclusione, 
sul 
tema 
dei 
rischi 
che 
la 
condivisione 
dei 
dati 
così 
come 
regolata 
nelle 
nuove 
proposte 
EU 
(DGA, DSA, DMA), può far correre 
agli 
interessati, minacciando in tal 
modo di 
violare 
proprio il 
GDPR, si 
veda 
il 
commento dell’ex Garante 
della 
Privacy, F. PIzzETTI, “La nuova era 
digitale 
europea ha un problema privacy, bene 
EDPB-EDPS” 
su 
agendadigitale.eu, in cui 
si 
mette 
in 
luce 
l’importanza 
del 
parere 
dell’EDPB 
e 
dell’EDPS 
sulle 
proposte 
regolatorie 
della 
Commissione 
contenute 
nel 
DGA, nel 
DMA 
e 
nel 
DSA, parere 
reso pubblico il 
18 novembre 
2021 sul 
sito del 
Garante 
privacy italiano. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Il principale presidio di legalità è rappresentato dalle autorità garanti. 

Nelle 
pronunce 
del 
Garante 
della 
privacy (GPDP) si 
riscontra 
una 
particolare 
attenzione 
alla 
tutela 
dei 
dati 
personali 
nel 
processo in corso di 
costruzione 
dell’interoperabilità 
digitale 
basata 
sulle 
c.d. 
porte 
di 
dominio 
API, 
cercando di 
individuare 
sempre 
il 
titolare 
del 
trattamento, come 
centro di 
imputazione 
della responsabilità. 

È 
attiva 
l’Autorità 
garante 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato 
(AGCM), 
con 
riguardo alla 
protezione 
dei 
consumatori 
dei 
servizi 
digitali, sia 
nei 
confronti 
delle 
piattaforme 
social, 
sia 
con 
riguardo 
alle 
nuove 
dinamiche 
di 
promozione 
e 
pubblicità 
commerciale. L’Autorità 
garante 
delle 
comunicazioni 
(AGCOM) 
è 
particolarmente 
attenta, 
naturalmente, 
ai 
profili 
della 
comunicazione 
digitale, 
con particolare riguardo per le campagne di odio e di denigrazione. 

Va, 
peraltro, 
riscontrato 
che 
il 
riparto 
di 
competenze 
fra 
le 
diverse 
Autorità 
rappresenta 
un 
profilo 
sempre 
più 
incerto, 
data 
la 
trasversalità 
dei 
temi 
affrontati. 


È, comunque, utile 
analizzare 
il 
quadro generale 
delle 
questioni 
verso le 
quali 
queste 
hanno maggiormente 
posto la 
propria 
attenzione, anche 
nel 
tentativo 
di 
comprendere 
quali 
problemi 
siano 
maggiormente 
rilevanti, 
prevedendo 
anche quali tematiche potrebbero arrivare nelle aule dei tribunali. 

Il 
GPDP, 
ad 
esempio, 
si 
è 
pronunciato 
sulla 
necessità 
di 
rimuovere 
alcuni 
contenuti 
dai 
social 
media, nel 
caso di 
coinvolgimento di 
soggetti 
minori 
o di 
episodi che integrassero il reato di diffamazione. 

L’AGCM 
ha, invece, toccato ampiamente 
il 
tema 
delle 
pubblicità 
online, 
soprattutto 
con 
riguardo 
all’attività 
svolta 
dagli 
influencer, 
incrociando 
la 
propria 
attività 
all’introduzione 
di 
nuove 
regole 
-anche 
e 
soprattutto a 
livello europeo 
-volte 
a 
disciplinarne 
il 
comportamento. 
Parallelamente, 
vi 
è 
un’attività 
cospicua 
nel 
settore 
della 
tutela 
dei 
marchi, legata 
ai 
nuovi 
rischi 
di 
contraffazione 
e non solo sorti con l’avvento dell’economia digitale (145). 


(145) Tra 
i 
soggetti 
pubblici 
capaci 
di 
arginare 
lo strapotere 
delle 
piattaforme, l’Antitrust 
ha 
sempre 
svolto 
un 
ruolo 
fondamentale. 
Si 
pensi 
anche 
alle 
ultime 
vicende 
che 
hanno 
visto 
coinvolta 
la 
società 
fondata 
da 
Jeff Bezos. L’AGCM 
ha 
irrogato una 
sanzione 
di 
oltre 
1 miliardo di 
euro ad Amazon per 
abuso di 
posizione 
dominante. La 
multa 
inflitta 
riguarda 
i 
comportamenti 
discriminatori 
posti 
in essere 
da 
Amazon 
nei 
confronti 
dei 
venditori 
che 
non 
si 
affidano 
alla 
sua 
logistica: 
praticamente 
il 
colosso 
americano ha 
creato un canale 
preferenziale 
per i 
commercianti 
che 
seguono le 
sue 
scelte 
logistiche 
(es. 
aderire 
a 
creare 
un negozio virtuale 
sul 
suo sito) ed ha 
dato preferenza 
agli 
acquirenti 
Prime 
a 
maggior 
capacità 
di 
spesa. L’azienda 
fondata 
da 
Jeff Bezos 
avrebbe 
sfruttato queste 
dinamiche 
per condizionare 
il 
mercato in termini 
distorsivi. L’azione 
è 
stata 
promossa 
per violazione 
dell’art. 102 del 
TFUE 
che, 
come 
noto, vieta 
“lo sfruttamento abusivo da parte 
di 
una o più imprese 
di 
una posizione 
dominante 
sul 
mercato interno o su una parte 
sostanziale 
di 
questo”. Siccome 
durante 
il 
lockdown l’Italia 
è 
stata 
una 
delle 
nazioni 
dove 
Amazon è 
cresciuta 
di 
più (il 
75% degli 
italiani 
ha 
fatto acquisti 
online), l’impresa 
ne 
ha 
approfittato per aumentare 
non solo le 
vendite 
di 
beni 
materiali, ma 
anche 
per collezionare 
dati 
e 
creare 
profilazioni 
dei 
consumatori 
(le 
merci 
sono uno strumento per arrivare 
ai 
dati 
degli 
utenti), crescendo 
sul 
mercato 
a 
un 
prezzo 
e 
con 
modalità 
che 
ne 
hanno 
distorto 
il 
meccanismo, 
penalizzando 
i 
concorrenti 
incapaci 
di 
stare 
al 
passo. Le 
conseguenze 
e 
gli 
effetti 
della 
sua 
posizione 
dominante 
hanno 
portato l’Antitrust 
italiana 
ad agire. Qui 
il 
testo del 
provvedimento: 
https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-
news/A528_chiusura%20istruttoria.pdf. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


L’AGCOM, infine, ha 
rivendicato su più fronti 
l’importanza 
del 
proprio 
ruolo, anche 
tenendo conto delle 
modifiche 
che 
saranno apportate 
dal 
recepimento 
della 
nuova 
Direttiva 
SMAV 
(Servizi 
Media 
AudioVisivi), 
che 
qualifica 
i 
servizi 
di 
video-sharing 
come 
media, facendo rientrare 
il 
controllo sui 
contenuti 
condivisi 
attraverso 
questi 
strumenti 
entro 
l’ambito 
di 
competenza 
dell’Autorità. 

Tornando a 
quanto detto prima 
in merito alla 
sempre 
maggiore 
sovrapposizione 
dell’ambito di 
intervento delle 
Autorità, può evidenziarsi 
una 
certa 
affinità 
fra 
alcune 
delle 
tematiche 
affrontate 
dall’AGCOM 
e 
dall’AGCM, 
con 
ad esempio per quanto riguarda 
appunto l’attività 
pubblicitaria 
e 
di 
sponsorizzazione 
portata avanti dagli 
influencer. 

La 
bassa 
densità 
di 
pronunce 
giudiziali 
è 
un 
indice 
significativo 
della 
inadeguatezza 
degli 
attuali 
strumenti 
giudiziali 
con riguardo a 
fenomeni 
caratterizzati 
dalla 
estrema 
rapidità 
e 
frequenza 
delle 
condotte; 
e 
da 
una 
notevole 
varietà degli effetti. 

Tuttavia, è 
per certi 
versi 
paradossale 
o comunque 
un segno dei 
tempi, 
che 
-mentre 
l’economia 
e 
le 
dinamiche 
sociali 
sono caratterizzate 
sempre 
più 
dalla 
digitalizzazione 
-la 
domanda 
di 
giustizia 
che 
deriva 
da 
queste 
dinamiche 
non trova risposte adeguate in ambito giudiziario. 

Il 
deficit 
di 
offerta 
di 
tutela 
è 
da 
imputare 
in 
primo 
luogo 
alla 
lentezza 
dei 
tempi 
delle 
decisioni, platealmente 
non sincronizzata 
alla 
velocità 
degli 
accadimenti; 
in secondo luogo, all’assenza 
di 
giudici 
specializzati; 
infine, ma 
non 
per importanza, all’assenza di strumenti di intervento efficaci e tempestivi. 

Non 
è 
un 
caso 
che 
i 
casi 
che 
sono 
stati 
più 
frequentemente 
portati 
all’attenzione 
dei 
giudici 
riguardano 
il 
diritto 
all’oblio 
o 
alla 
cancellazione 
dei 
dati, 
dopo 
un 
tempo 
rilevante; 
o, 
più 
di 
recente, 
la 
cosiddetta 
“eredità 
digitale”, 
ossia 
l’accesso 
dei 
familiari 
alle 
informazioni 
di 
un 
defunto 
nella 
disponibilità 
di 
una 
piattaforma 
digitale. 
Insomma, 
casi 
in 
cui 
la 
rapidità 
dell’intervento 
non 
è 
essenziale. 


Nell’era 
digitale 
cambia 
il 
concetto di 
proprietà: 
Rebecca 
Mardon, del-
l’Università 
di 
Cardiff (146), ha 
scritto che 
oggi 
la 
proprietà 
è 
sostituita 
dal-
l’accesso, “età dell’accesso”, in cui 
la proprietà 
non è 
più importante 
per 
i 
consumatori 
e 
diventerà 
presto 
irrilevante. 
Gli 
ultimi 
anni 
hanno 
visto 
l’emergere 
di una serie di modelli basati sull’accesso nel regno digitale”. 

In 
uno 
studio 
realizzato 
nel 
2018 
dalla 
Norton 
School 
of 
Family 
and 
Consumer 
Sciences 
dell’Università 
della 
Arizona, 
è 
emerso 
il 
concetto 
di 
proprietà 
psicologica 
che 
applichiamo 
ad 
un 
bene 
digitale 
che, 
in 
realtà, 
non 
ci 
appartiene. 


Ecco così 
che 
trasformiamo la 
non-proprietà 
di 
un bene 
digitale 
in percezione 
di 
possesso. Una 
percezione 
di 
proprietà 
che 
risponde 
principalmente 
a 
3 fattori: 
la 
sensazione 
di 
avere 
il 
controllo sull’oggetto che 
si 
possiede, il 


(146) R. MARDON, “The 
relationship between ownership and possession: observations 
from 
the 
context of digital virtual goods”, 2016. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


ruolo che 
l’oggetto assume 
per definire 
chi 
siamo, l’aiuto che 
l’oggetto ci 
fornisce 
per migliorare il senso di appartenenza nella società. 

Il 
punto 
è 
che 
comprando 
un 
bene 
digitale 
-sia 
ebook, 
come 
un 
brano 
musicale 
o un film 
-in realtà 
otteniamo una 
licenza 
di 
utilizzo con restrizioni 
più o meno ampie. 

Non entriamo in possesso del 
bene 
come 
accade 
per i 
beni 
fisici. Non a 
caso, 
ci 
sono 
esempi 
di 
utenti 
che 
si 
sono 
trovati 
privati 
della 
possibilità 
di 
utilizzo di 
beni 
digitali, come 
nel 
caso di 
Microsoft 
che 
ha 
deciso di 
chiudere 
il 
suo servizio di 
ebook, portandosi 
dietro tutte 
le 
librerie 
dei 
clienti 
(anche 
se 
promettendo loro un rimborso). 

Il 
mondo 
digitale 
presenta 
nuove 
minacce 
alla 
proprietà 
a 
cui 
i 
nostri 
beni 
fisici 
non ci 
hanno preparato. Si 
parla 
di 
regolare 
il 
“patrimonio digitale” 
e 
la 


c.d. 
“successione 
digitale”, 
distinguendo 
beni 
digitali 
(c.d. 
digital 
assets)a 
contenuto patrimoniale, come 
Bitcoin, basata 
su tecnologia 
blockchain 
e 
beni 
a 
contenuto non patrimoniale, che 
dovrebbero essere 
esclusi 
da 
una 
successione 
ereditaria, ma così non è (147). 
Rientrano 
nella 
delazione 
ereditaria 
le 
opere 
creative 
dell’ingegno 
nell’ambito 
del 
digitale 
come 
i 
software, 
ma 
è 
anche 
l’account 
che 
può 
avere 
un 
valore 
patrimoniale 
spesso 
rilevante. 
La 
patrimonialità 
dell’account 
può 
derivare 
dal 
contenuto, 
come 
nel 
caso 
di 
account 
di 
pagamento 
automatizzato 
(Paypal, 
ecc.) 


o 
per 
trading 
on 
line 
(IQ 
option, 
markets, 
Binance, 
ecc.), 
dai 
contratti 
di 
sponsorizzazione, 
che 
lo 
corredano, 
dalle 
recensioni 
o 
valutazione 
degli 
utenti 
(Youtube, 
E-bay, 
Tripadvisor, 
ecc.) 
o 
semplicemente 
dal 
valore 
acquisito 
per 
essere 
divenuto 
per 
gli 
utenti 
di 
una 
community 
un 
punto 
di 
riferimento 
(si 
prendano 
ad 
esempio 
gli 
account 
social 
di 
personaggi 
famosi 
o 
c.d. 
influencer). 
A 
tal 
proposito, 
giova 
accennare 
alla 
nuova 
criptovaluta 
annunciata 
da 
Facebook 
per 
erogare 
servizi 
finanziari 
tramite 
il 
proprio 
social 
network: 
Libra. Attraverso Libra 
i 
titolari 
di 
un account 
Facebook, Whatsapp 
o messenger 
potranno 
inviare 
e 
ricevere 
pagamenti 
in 
criptovaluta, 
sulla 
base 
di 
una 
blockchain 
che, 
a 
differenza 
del 
sistema 
Bitcoin, 
sarà 
“permissioned”, 
dunque, 
solo un numero limitato di 
utenti 
sarà 
autorizzato a 
tener traccia 
del 
ledger, 
“libro mastro”, della rete 
blockchain. 

Libra 
avrà 
un 
valore 
predeterminato 
che 
la 
legherà 
al 
valore 
della 
moneta, 
forzandone 
gli 
equilibri 
di 
cambio, 
affinché 
in 
qualsiasi 
momento 
possano 
essere 
chiari 
i 
meccanismi 
ed il 
valore 
della 
somma 
inviata 
o ricevuta. Se 
il 
progetto 
Libra 
dovesse 
avere 
successo, 
l’account 
acquisterà 
anche 
un 
valore 
patrimoniale, essendo direttamente 
ad esso associato un patrimonio di 
cripto


(147) 
G. 
MARINO, 
“La 
successione 
digitale”, 
in 
oss. 
dir. 
civ. 
e 
comm., 
2018; 
A. 
MAGNANI, 
“L’eredità 
digitale”, 
in 
Notariato, 
2014; 
A. 
SERENA, 
“Eredità 
digitale”, 
in 
AA.VV, 
“Identità 
ed 
eredità 
digitali, 
stato 
dell’arte 
e 
possibili 
soluzioni”, 
Aracne, 
2016; 
C. 
CAMARDI, 
“L’eredità 
digitale. 
Tra 
reale 
e 
virtuale”, 
in “Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, 2018. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


valute 
riconducibile 
al 
defunto 
e 
assumerà 
ancora 
più 
rilevanza 
in 
caso 
di 
morte dell’utente. 

Alcuni 
gestori 
di 
posta 
elettronica, 
tra 
le 
condizioni 
generali 
di 
servizio 
(che 
spesso 
vengono 
frettolosamente 
accettate 
con 
un 
semplice 
click), 
prevedono 
la 
non 
trasferibilità 
dell’account. 
L’account 
mail 
Yahoo, 
ad 
esempio, 
non 
è 
trasferibile 
e 
qualsiasi 
diritto 
relativo 
all’ID 
o 
ai 
contenuti 
all’interno 
dell’account 
verrà 
meno 
in 
seguito 
al 
decesso 
del 
titolare 
dell’indirizzo 
di 
posta. 
Questo 
significa 
che 
il 
provider 
potrà 
essere 
contattato 
solo 
per 
richiedere, 
previa 
esibizione 
del 
certificato 
di 
morte, 
la 
cancellazione 
dell’account 
e 
tutto 
il 
suo 
contenuto. 


Così 
anche 
per 
Apple, 
Linkedin 
e 
Twitter. 
Anche 
se 
si 
decidesse 
di 
andare 
per 
le 
vie 
legali, 
sarebbero, 
comunque, 
applicabili 
leggi 
e 
giurisdizioni 
straniere, 
così 
come 
accade 
nel 
caso 
di 
problematiche 
con 
alcuni 
provider 
statunitensi. 


Vi 
è 
allora 
da 
chiedersi: 
oggi 
la 
nostra 
proprietà 
digitale, 
così 
come 
la 
nostra 
identità 
digitale 
legata 
ai 
dati 
(data mining, data driven economy), è 
nelle 
mani delle grandi piattaforme? 


L’avvento dell’era 
digitale 
non ha 
stravolto solamente 
il 
nostro modo di 
rapportarci 
con altre 
persone, ma 
ha 
dato vita 
ad un vero e 
proprio patrimonio 
digitale. Sebbene 
in molti 
casi 
il 
valore 
di 
quest’ultimo sia 
solamente 
perso-
nale-sentimentale 
(foto 
digitali, 
messaggi 
Whatsapp, 
files), 
spesso 
accade 
che 
si presenti tuttavia di rilevanza economica tutt’altro che trascurabile. 

È 
evidente, 
allora, 
che 
prevedere 
disposizioni 
precise 
sul 
destino 
del 
proprio 
patrimonio 
digitale 
rappresenta, 
più 
che 
un’opportunità, 
una 
vera 
e 
propria 
esigenza. 

I 
concetti 
di 
proprietà, 
possesso 
e 
dominio 
nell’era 
digitale 
che 
stiamo 
vivendo, 
richiedono 
la 
rimodulazione 
dei 
principi 
generali 
di 
autodeterminazione 
individuale 
e 
di 
responsabilizzazione 
delle 
piattaforme: 
principi 
che 
costituiscono 
regole 
metagiuridiche 
con 
funzione 
normogenetica 
in 
grado 
di 
regolare 
la complessità del nostro tempo. 

Il 
meum 
esse 
risulta 
modificato nella 
dimensione 
digitale: 
dal 
territorio 
si 
passa 
al 
cloud 
ed 
anche 
la 
distinzione 
di 
Pugliatti 
(148) 
che, 
nello 
studio 
della 
proprietà 
invitata 
a 
spostare 
l’analisi 
dal 
concetto di 
“appartenenza”a 
quello della 
“funzione”, non risulta 
più in linea 
con una 
realtà 
multiversante, 
fluida e cangiante. 

Schmitt 
(149) 
parlava 
del 
“nomos 
della 
terra”, 
ma 
oggi 
nella 
dimensione 
digitale 
non è 
più dato distinguere 
il 
“dove 
di 
posizione”eil 
“dove 
di 
applicazione”: 
il 
diritto 
è 
scosso 
da 
due 
potenze 
atopiche 
che 
sono 
la 
tecnica 
e 
l’economia. 


(148) La 
distinzione 
tra 
le 
proprietà 
e 
la 
proprietà, S. PUGLIATTI, “La proprietà nel 
nuovo diritto”, 
1964. 
(149) C. SCHMITT, “Il 
nomos 
della terra nel 
diritto internazionale 
dello «Jus 
publicum 
europaeum
»”, Adelphi, 2011. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Secondo 
il 
Professore 
Natalino 
Irti 
(150), 
tali 
potenze 
si 
sono 
alleate, 
divenendo 
potenze 
della 
sconfinatezza: 
non 
conoscono 
il 
dove, 
ma 
il 
“dovunque”. 
“Come 
può 
il 
diritto 
regolamentare 
la 
sconfinatezza 
della 
“tecnoeconomia”? 
Il 
diritto, 
se 
non 
lascia 
la 
genesi 
della 
terra, 
non 
può 
seguire 
tali 
potenze 
atopiche”. 
“Anomia 
e 
atopia”: 
sono 
questi 
i 
due 
termini 
che 
descrivono 
il 
mondo 
digitale. 


Non è 
un caso che 
i 
Trattati 
istitutivi 
dell’Unione 
Europea 
parlino non di 
territorio, 
ma 
di 
“spazio 
comune 
europeo”. 
“Il 
mio 
esterno” 
diceva 
Kant 
(151), 
precisando che 
il 
fondamento del 
diritto di 
proprietà 
non è 
di 
ordine 
empirico 


o sensibile, ma 
intellegibile 
e 
razionale 
scaturendo dalla 
stessa 
ragion pratica. 
Il 
“possesso 
intelligibile” 
distinto 
dal 
“possesso 
empirico”, 
“possessio 
phoenomenon”e“possessio 
noumenon”: 
la 
proprietà 
come 
esercizio 
spaziale, 
la presa di terra fattuale 
“landnahme” come base del diritto di proprietà. 

Il 
tema 
della 
proprietà 
privata 
era 
stato ampiamente 
dibattuto nella 
repubblica 
di 
Platone, che 
lo ricollegava 
alle 
questioni 
di 
giustizia 
e 
di 
stabilità 
sociale 
(funzione 
sociale 
della 
proprietà 
affermata 
anche 
nell’art. 42 della 
nostra 
Costituzione). 

Altra 
concezione 
della 
proprietà 
era 
quella 
di 
Aristotele 
legata 
al 
concetto 
di progresso. 


Ancora 
oggi, l’indice 
di 
sviluppo umano (Human Development 
Index), 
elaborato 
annualmente 
dalle 
Nazioni 
Unite, 
è 
strettamente 
correlato 
all’indice 
di proprietà privata (Property right Index). 

In 
una 
visione 
Neokeynesiana, 
quale 
è 
quella 
che 
si 
sta 
affermando 
nel 
periodo 
della 
pandemia 
in 
corso, 
il 
tema 
della 
proprietà, 
anche 
nella 
dimensione 
digitale, 
pone 
l’annosa 
questione 
dell’intervento 
pubblico 
nell’economia 
(si 
ricorderà 
la 
diversa 
concezione 
tra 
Weber 
e 
Schmitt) 
volto 
ad 
accompagnare 
gli 
assets 
strategici 
del 
paese 
attraverso 
provvedimenti 
in 
equity 
di 
uno 
Stato 
player 
che 
affianca 
ed 
aiuta 
la 
proprietà 
privata 
di 
tipo 
produttivo 
ed 
imprenditoriale. 


Se 
spostiamo tali 
considerazioni 
filosofiche 
sul 
piano dell’applicazione 
pratica 
del 
diritto, 
quale 
scienza 
storica 
e 
scienza 
applicata, 
ci 
rendiamo 
conto 
che 
la 
proprietà 
oggi 
non è 
strettamente 
correlata 
alla 
materialità, prevale 
la 


c.d. “cultura dell’immateriale e dell’adiacente possibile”. 
Di 
recente, il 
premio Nobel 
per la 
fisica 
Giorgio Parisi 
chi 
ha 
ricordato 
che 
anche 
la 
«materia 
è 
un 
fenomeno 
dinamico», 
definendo 
il 
concetto 
di 
caos 
e di “sistemi complessi” su scala atomica e planetaria. 

Oggi, il diritto deve confrontarsi con l’immateriale e regolarlo. 

Per 
poter 
regolare 
occorre, 
però, 
capire 
i 
fenomeni 
digitali: 
il 
giurista 
deve 
sviluppare 
oggi 
delle 
“competenze 
trasversali” 
che 
gli 
consentano 
di 
comprendere 
la complessità. 

Di seguito capiremo in che modo e in quali settori. 


(150) N. IRTI, “Il diritto nell’età della tecnica”, Editoriale Scientifica, 2007. 
(151) I. KANT, “Principi metafisici della dottrina del diritto”, 1797. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


10. Hate speech: un fenomeno incontrollabile? 
La 
tecnologia 
e 
gli 
strumenti 
digitali 
ci 
impongono 
ormai 
di 
riflettere 
su 
un 
nuovo 
orizzonte 
di 
senso 
dell’uomo, 
sullo 
stesso 
concetto 
di 
valore 
(Wertbegriff) 
della 
persona 
umana, 
che 
purtroppo 
viene 
colpito 
profondamente 
quando, 
tramite 
lo 
strumento 
digitale, 
le 
persone 
esprimono 
la 
c.d. 
negatività 
del 
pensiero 
e 
della 
parola. 
Come 
è 
noto, 
uno 
degli 
aspetti 
negativi 
e 
più 
diffusi 
della 
comunicazione 
digitale 
è 
la 
reiterazione 
di 
attività 
denigratorie 
o 
lesive 
di 
vario 
tipo, 
che 
se 
talvolta 
sono 
l’opera 
di 
un 
singolo 
soggetto, 
altre 
volte, 
invece, 
convergono 
in 
vere 
e 
proprie 
campagne 
di 
diffamazione 
digitale 
(152). 


Ne 
è 
un paradigma 
l’emergente 
fenomeno delle 
campagne 
d’odio (il 
c.d. 
hate 
speech), strettamente 
connesso a 
quello della 
diffamazione 
online 
(153). 

A 
questo 
riguardo, 
è 
rilevante 
come 
la 
diffusione 
delle 
piattaforme 
digitali 
stia determinando la frequenza e la pervasività di queste condotte. 


La 
necessità 
di 
strumenti 
di 
azione 
più 
efficaci 
ha 
determinato 
l’avvio 
di 
alcune 
iniziative 
del 
Parlamento. 
Eppure, 
gli 
unici 
risultati 
raggiunti 
sono 
stati 
quelli 
in 
materia 
di 
diffusione 
di 
immagini 
a 
contenuto 
sessualmente 
esplicito, 
inizialmente 
con 
l’introduzione 
nell’ordinamento 
dell’art. 
612-ter 
c.p., 
e 
successivamente 
con 
la 
predisposizione 
del 
nuovo 
art. 
144-bis 
del 
Codice 
Privacy. 


Il 
tema 
ricorrente 
nell’ambito della 
diffamazione 
online, presente 
anche 
nei 
casi 
di 
diffamazione 
in generale, è 
che 
la 
persona 
offesa 
è 
molto spesso 
più interessata, inizialmente, a 
ristabilire 
la 
verità 
dei 
fatti, piuttosto che 
al 
risarcimento 
dei 
danni 
e 
alla 
cessazione 
della 
condotta 
lesiva. Eppure, la 
verità 
dei 
fatti 
rimane 
spesso sullo sfondo: 
generalmente 
gli 
elementi 
di 
maggiore 
rilevanza 
e 
importanza, 
ai 
fini 
della 
decisione, 
insieme 
a 
quello 
della 
eventuale 
rilevanza 
pubblica 
della 
notizia 
diffusa, sono quello della 
continenza 
e 
quello 
della verità putativa. 

Insomma, 
la 
realtà 
dei 
fatti 
per 
come 
si 
sono 
realmente 
svolti, 
molto 
spesso, resta 
fuori 
dal 
processo e 
la 
relativa 
domanda 
di 
giustizia 
è 
destinata 
a 
non essere 
soddisfatta 
dal 
giudice. Si 
tratta 
di 
un profilo di 
grande 
interesse, 


(152) 
Il 
sociologo 
Georg 
Simmel 
nella 
sua 
oper 
“La 
socievolezza” 
evidenzia 
che 
nella 
dimensione 
digitale 
deve 
essere 
recuperata 
l’importanza 
del 
comportamento, che 
è 
la 
sintesi 
di 
un processo di 
razionalizzazione 
delle 
emozioni 
e 
dei 
sentimenti 
individuali. Il 
rispetto di 
tale 
galateo digitale 
realizzerebbe 
quello 
che 
Simmel 
definiva 
estetica 
che 
si 
fa 
etica. 
Allo 
stesso 
modo, 
Norbert 
Elias 
nella 
sua 
opera 
“La civiltà delle 
buone 
maniere” 
sottolinea 
l’importanza 
del 
rispetto dell’altro inteso come 
kindness, 
ossia 
come 
gentilezza 
delle 
forme 
comunicative. Il 
concetto della 
gentilezza 
comunicativa 
rientra 
nel 
più grande concetto di 
paideia 
digitale. 
(153) Si 
veda 
la 
recente 
opera 
di 
E. DHAWAN, “Digital 
body 
language. How to build trust 
& 
connection 
no matter 
the 
distance”, 2021, sull’importanza 
della 
correttezza 
e 
della 
misura 
del 
linguaggio 
digitale. 
L’autrice 
sottolinea 
l’importanza 
del 
linguaggio 
digitale 
nel 
mondo 
del 
lavoro 
per 
evitare 
il 
c.d. 
“distancing effect” 
e 
realizzare 
il 
c.d. “water 
cooler 
effect”, ossia 
un linguaggio informale 
collaborativo 
nel mondo del lavoro. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


che 
deve 
essere 
segnalato, da 
un lato, al 
fine 
di 
tenere 
sotto osservazione 
la 
casistica 
in materia, e 
dall’altro, allo scopo di 
favorire 
la 
ricerca 
di 
possibili 
soluzioni. 

Partiamo 
dal 
presupposto 
che 
il 
fenomeno 
del 
c.d. 
“hate 
speech” 
non 
è 
una 
novità 
degli 
ultimi 
tempi, 
anche 
se 
è 
inevitabilmente 
recente 
l’attenzione 
verso 
i 
c.d. 
“discorsi 
d’odio”. 
Infatti, 
il 
loro 
impatto 
sugli 
individui 
e 
l’introduzione 
di 
discipline 
e 
misure 
che 
consentano 
di 
arginare 
il 
fenomeno, 
sono 
cresciuti 
di 
gran 
lunga 
negli 
ultimi 
anni. 
La 
causa 
di 
ciò 
è 
da 
rinvenirsi 
certamente 
nell’avvento 
di 
Internet 
e 
dei 
social 
network 
(154), 
che 
hanno 
agito 
come 
amplificatori. 
Il 
tentativo 
di 
regolamentare 
questo 
fenomeno 
si 
scontra 
inevitabilmente 
con 
la 
necessità 
di 
garantire 
un 
equo 
e 
corretto 
trade-off 
tra 
gli 
interessi 
in 
gioco, 
i 
diritti 
e 
le 
libertà; 
vengono 
in 
rilievo 
l’onore, 
la 
reputazione, 
la 
dignità 
della 
persona, 
ma 
anche 
la 
libertà 
di 
espressione, 
di 
critica 
e 
di 
cronaca, 
fino 
ad 
arrivare 
alla 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
e 
di 
associazione. 


In 
ambito 
europeo, 
è 
già 
da 
qualche 
anno 
che 
si 
sono 
prese 
delle 
misure 
per 
arginare 
comportamenti 
illegittimi: 
l’intervento 
forse 
più 
rilevante 
è 
stato 
l’adozione, 
da 
parte 
della 
Commissione, 
insieme 
a 
diversi 
players 
del 
settore 
(primi 
fra 
tutti, 
Google 
e 
Facebook), 
di 
un 
Codice 
di 
Condotta, 
che 
impone 
ai 
gestori 
dei 
siti 
e 
dei 
social 
network 
di 
intervenire 
attraverso 
la 
rimozione 
dei 
contenuti 
illeciti. 
Per 
quanto 
riguarda 
l’ordinamento 
interno, 
invece, 
sono 
stati 
mossi 
soltanto 
i 
primi 
passi, 
tanto 
sul 
piano 
giurisprudenziale, 
quanto 
su 
quello 
legislativo. 


Per quanto riguarda 
il 
primo profilo, è 
fondamentale 
l’analisi 
delle 
due 
pronunce 
del 
Tribunale 
di 
Roma 
(155) -relative 
ad alcune 
controversie 
che 
hanno 
visto 
rispettivamente 
protagoniste 
le 
forze 
politiche 
Forza 
Nuova 
e 
Ca


(154) Il 
10 dicembre 
2021, ricevendo il 
Premio Nobel 
per la 
pace, la 
giornalista 
filippina 
Maria 
Ressa 
ha 
lanciato un forte 
messaggio contro i 
colossi 
tecnologici 
americani, colpevoli, secondo lei, di 
aver lasciato che 
l’avidità 
alimentasse 
sentimenti 
negativi 
sui 
social 
network. La 
giornalista 
Ressa, cofondatrice 
del 
sito 
rappler, 
che 
ha 
vinto 
il 
premio 
insieme 
al 
collega 
russo 
Dimitry 
Muratov, 
ha 
attaccato 
le 
società 
di 
internet 
americane 
che 
«hanno 
permesso 
a 
un 
virus 
di 
bugie 
di 
infettare 
ognuno 
di 
noi, 
mettendoci 
l’uno contro l’altro, facendo emergere 
le 
nostre 
paure, la rabbia e 
l’odio. Ciò che 
accade 
sui 
social 
media non rimane 
sui 
social 
media. La violenza online 
è 
la violenza del 
mondo reale. I fatti 
e 
la 
verità 
sono 
al 
centro 
della 
risoluzione 
delle 
maggiori 
sfide 
che 
la 
società 
deve 
affrontare 
oggi. 
Senza fatti, non c’è 
verità. Senza verità non c’è 
fiducia. Senza fiducia non abbiamo realtà condivisa, 
nessuna democrazia e 
diventa impossibile 
affrontare 
i 
problemi 
esistenziali 
del 
nostro mondo: clima, 
coronavirus, battaglia per 
la verità». Ressa 
-il 
cui 
sito web è 
molto critico nei 
confronti 
del 
Presidente 
filippino 
Rodrigo 
Duterte 
-è 
oggetto 
di 
7 
cause 
legali 
nel 
suo 
paese 
che, 
secondo 
lei, 
rischiano 
di 
metterla 
in 
prigione 
per 
100 
anni. 
Attualmente 
in 
libertà 
vigilata, 
in 
attesa 
di 
appello 
dopo 
essere 
stata 
condannata 
per diffamazione 
lo scorso anno, ha 
dovuto chiedere 
a 
4 tribunali 
il 
permesso di 
viaggiare 
e 
di 
ritirare 
di persona il suo Nobel per la pace. 
(155) 
Tribunale 
di 
Roma, 
ordinanza 
del 
23 
febbraio 
2020, 
resa 
nell’ambito 
del 
procedimento 
cautelare 
ex 
art. 700 c.p.c. (R.G. 64894/2019) e 
Tribunale 
di 
Roma, ordinanza 
del 
14 febbraio 2020, resa 
nell’ambito della 
causa 
n. 80961/19, entrambe 
commentate 
e 
reperibili 
su https://www.iusinitinere.it/liberta-
di-espressione-facebook-e-movimenti-di-estrema-destra-provvedimenti-a-confronto-27066,“Libertà 
di 
espressione, 
Facebook 
e 
movimenti 
di 
estrema 
destra: 
provvedimenti 
a 
confronto”, 
di 
E. 
PALAzzOLO, 2020. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


sapound Italia 
contro Facebook -emesse 
successivamente 
alla 
decisione 
del 
famoso 
social 
network 
di 
chiudere 
alcune 
pagine 
ad 
esse 
collegate, 
nonché 
vari 
account 
personali 
riconducibili 
a 
loro militanti 
e 
gestori. Le 
due 
vicende 
hanno avuto esito diametralmente 
opposto: 
la 
prima 
si 
è 
conclusa 
con la 
conferma, 
da 
parte 
del 
Tribunale, della 
legittimità 
della 
decisione 
di 
Facebook; 
la 
seconda, invece, con l’accoglimento delle 
domande 
presentate 
dai 
ricorrenti. 
Questo duplice e diverso esito ci porta a fare alcune considerazioni. 


L’importanza 
e 
la 
delicatezza 
del 
tema 
emergono 
anche 
se 
si 
esamina 
l’interesse 
politico sull’argomento, interesse 
che 
ha 
portato alla 
presentazione 
di 
diverse 
proposte 
di 
legge 
al 
riguardo. 
Da 
ultimo, 
è 
stato 
presentato 
alla 
Camera 


il 
c.d. DDL 
Boldrini, ispirato anche 
dalla 
riforma 
tedesca, il 
cui 
aspetto più rilevante 
risiede 
nell’introduzione 
di 
diversi 
meccanismi 
volti 
sia 
alla 
responsabilizzazione 
dei 
gestori 
dei 
siti 
internet, 
sia 
a 
fornire 
agli 
individui 
degli 
strumenti 
concreti 
di 
difesa, soprattutto tramite 
l’attribuzione 
di 
nuove 
prerogative 
e 
poteri 
in capo al 
Garante 
per la 
privacy. E 
proprio quest’ultimo ha 
dimostrato 
di 
apprezzare 
la 
proposta, e 
ciò, congiuntamente 
all’impegno e 
alle 
azioni 
intraprese 
dall’AGCOM 
sul 
tema, 
dimostra 
l’importanza 
del 
ruolo 
svolto dalle 
Autorità garanti. 
Il 
nostro ordinamento, a 
differenza 
di 
altri, non ha 
una 
normativa 
completa 
e 
specifica 
finalizzata 
a 
disciplinare 
il 
fenomeno del 
c.d. “hate 
speech”. 

Secondo 
la 
definizione 
proposta 
dall’OCSE 
nel 
2003, 
con 
questo 
termine 
si 
vogliono intendere 
le 
“manifestazioni 
di 
pensiero che 
esprimono disprezzo 
nei 
confronti 
di 
individui 
appartenenti 
a 
determinate 
categorie 
o 
nei 
confronti 
di 
determinate 
categorie 
di 
persone”; 
manifestazioni 
di 
pensiero 
da 
tenere 
comunque 
distinte 
dalla 
più grande 
e 
generale 
categoria 
degli 
“hate 
crimes” 
(i 
“crimini 
d’odio”), i 
quali 
ricomprendono tutti 
i 
reati 
che 
condividono la 
matrice 
del pregiudizio (156). 

Comunque, 
bisogna 
tenere 
a 
mente 
che, 
tuttora, 
manca 
un’unica 
definizione. 
Il 
tema 
è 
diventato centrale 
a 
causa 
all’avvento della 
rete 
e 
delle 
comunicazioni 
tecnologiche, ed in particolare 
a 
seguito della 
diffusione 
dell’utilizzo 


(156) Per una 
puntuale 
ricostruzione 
delle 
alternative 
definitorie 
concernenti 
gli 
hate 
crimes, v. 
da 
ultimo 
L. 
GOISIS, 
“Hate 
Crimes: 
perché 
punire 
l’odio. 
Una 
prospettiva 
internazionale, 
comparatistica 
e 
politico-criminale”, in rIDPP, 2018, 2021 s. Secondo B. PERRY 
«il 
crimine 
d’odio 
(...) comporta atti 
violenti 
ed intimidatori, generalmente 
diretti 
verso gruppi 
già oggetto di 
marginalizzazione 
e 
stigmatizzazione. 
Così 
inteso, 
è 
un 
meccanismo 
di 
potere 
e 
di 
oppressione, 
teso 
a 
riaffermare 
le 
precarie 
gerarchie 
che 
caratterizzano un dato ordine 
sociale 
(...)» in B. PERRY, “In the 
Name 
of 
Hate: Understanding Hate 
Crimes”, Londra, 2001, 1 e 
10. Ancora, secondo N. CHAKRABORTI, i 
crimini 
d’odio vanno individuati 
in 
quegli 
«atti 
di 
violenza, intimidazione 
e 
ostilità diretti 
verso persone 
a causa della loro identità o della 
loro percepita diversità», in N. CHAKTABORTI, J. GARLAND, “Hate 
Crime. Impact, Causes, and responses”, 
Los 
Angeles-Londra, 2015, 5. Da 
ultimo, F. LAWRENCE 
definisce 
l’hate 
crime 
-o meglio il 
bias 
crime 
-come 
un 
«crimine 
commesso 
per 
un 
motivo 
di 
pregiudizio 
(bias) 
contro 
una 
“caratteristica 
protetta”, 
propria 
di 
un 
gruppo», 
in 
F.M. 
LAWRENCE, 
“Punishing 
Hate. 
Bias 
Crimes 
under 
American 
Law”, 
Cambridge, 1999, 9. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


dei 
vari 
social 
network, i 
quali 
ormai 
veicolano ininterrottamente 
messaggi, 
video, audio e 
immagini 
fra 
una 
moltitudine 
di 
persone, con tempi 
brevissimi 
e senza confini geografici. 

Si 
è 
fatta 
strada, 
così, 
la 
necessità 
di 
garantire 
maggiori 
tutele 
a 
favore 
degli 
utenti 
di 
internet, la 
cui 
dignità, nonché 
libertà 
personale, sono messe 
in 
serio pericolo dal continuo verificarsi di condotte illecite 
online. 


Il 
tema 
è, inevitabilmente, molto complesso. Anzitutto, per la 
necessità 
di 
contemperare 
ogni 
esigenza 
di 
tutela 
degli 
utenti 
online 
con il 
rispetto di 
altri 
diritti 
fondamentali 
che 
vengono 
ugualmente 
in 
rilievo, 
come, 
ad 
esempio, 
il 
diritto 
alla 
libertà 
di 
espressione, 
di 
cronaca 
e 
critica. 
E 
poi, 
per 
la 
mancanza 
di 
una 
vera 
e 
propria 
regolamentazione 
della 
rete: 
infatti, sia 
a 
livello interno 
che 
sovranazionale, 
si 
è 
posto 
il 
problema 
relativo 
al 
se 
e 
in 
che 
misura 
sia 
necessario introdurre 
nuove 
regole 
e 
norme 
valide 
per l’Internet, e 
quali 
obblighi 
debbano essere 
imposti 
ai 
principali 
attori 
del 
mondo digitale, ossia 
ai 
gestori delle grandi piattaforme. 


In risposta 
a 
tali 
quesiti, alcune 
delle 
maggiori 
piattaforme 
recentemente 
hanno sia 
introdotto strumenti 
di 
autoregolamentazione, che 
proposto alcune 
novità 
anche 
sul 
piano legislativo, sotto l’influenza 
dell’Unione 
Europea 
e 
di 
altri 
Paesi 
(come, 
ad 
esempio, 
la 
Germania) 
che 
si 
sono 
già 
mossi 
verso 
questa 
direzione. 
Inoltre, 
nel 
maggio 
del 
2016, 
è 
stato 
adottato 
un 
Codice 
di 
Condotta 
dell’Unione 
Europea 
(157), 
tramite 
il 
quale 
non 
solo 
l’Unione 
e 
gli 
Stati 
Membri, 
ma 
anche 
i 
social 
media 
e 
le 
altre 
piattaforme 
digitali 
si 
impegnano 
a 
condividere 
“la responsabilità di 
promuovere 
e 
favorire 
la libertà di 
espressione 
nel 
mondo online”edi 
“vigilare 
affinché 
Internet 
non diventi 
un ricettacolo 
di violenza e odio liberamente accessibile”. 

Il 
Codice 
è 
stato presentato congiuntamente 
dalla 
Commissione 
europea 
e 
da 
quattro grandi 
piattaforme 
digitali 
(Facebook, microsoft, Twitter 
e 
You-
Tube), cui 
si 
sono successivamente 
aggiunte 
Google+, Instagram, Snapchat, 
Dailymotion 
e 
Webedia. 

Il 
Codice 
impone 
ai 
gestori 
delle 
piattaforme 
di 
effettuare, entro 24 ore 
dalla 
segnalazione, una 
valutazione 
dei 
contenuti 
e 
di 
eseguire 
la 
rimozione 
di 
post 
o commenti discriminatori costituenti 
hate speech. 


In 
base 
alla 
Direttiva 
2000/31/CE, 
relativa 
agli 
aspetti 
giuridici 
dei 
servizi 
della 
società 
dell’informazione 
(158), tuttavia, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
affermato 
che 
i 
prestatori 
di 
servizi 
di 
hosting 
non sono soggetti 
ad un obbligo generale 
di 
sorveglianza 
sulle 
informazioni 
trasmesse 
o memorizzate, né 
ad un 
obbligo di 
ricerca 
attiva 
di 
contenuti 
illeciti, tranne 
in alcuni 
casi 
specifici 
in 
cui 
l’host 
provider 
è 
obbligato 
a 
prevenire 
una 
violazione 
ed 
evitarne 
di 
nuove. 


(157) Accessibile da 
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_805. 
(158) 
Su 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:02000L003120000717&
qid=1495727154628&from=IT. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Per quanto concerne 
il 
livello nazionale, la 
giurisprudenza 
si 
è 
tradizionalmente 
orientata 
nel 
senso di 
ritenere 
che 
l’hate 
speech 
non possa 
rientrare 
nell’ambito 
di 
tutela 
della 
libertà 
di 
manifestazione 
del 
pensiero, 
dato 
che 
questa 
libertà 
non può estendersi 
andando a 
negare 
i 
principi 
fondamentali 
ed inviolabili 
dell’ordinamento 
(159), 
come 
appunto 
il 
rispetto 
della 
dignità 
umana 
e il divieto di ogni tipo di odio e discriminazione. 


A 
livello europeo, è 
maturata 
una 
certa 
consapevolezza 
sulla 
necessità 
di 
contrastare 
efficacemente 
il 
fenomeno dell’incitamento all’odio e 
sulla 
stretta 
correlazione 
esistente 
tra 
la 
sua 
diffusione 
e 
il 
ruolo 
preminente 
che 
viene 
oggi 
assunto dalle 
piattaforme 
digitali, consapevolezza 
che 
evidentemente 
si 
manifesta 
sia 
nelle 
norme 
contenute 
all’interno delle 
nuove 
proposte 
di 
regolamentazione 
dei 
mercati 
digitali 
presentate 
a 
dicembre 
2020 
dalla 
Commissione, 
che 
nel 
testo 
del 
Digital 
Services 
Act, 
ossia 
il 
Regolamento 
che 
ha 
come 
scopo quello di 
andare 
a 
modificare 
alcuni 
aspetti 
dell’attuale 
Direttiva 
e-Commerce. 

In 
particolare, 
il 
Considerando 
12 
del 
Regolamento 
chiarisce 
un 
elemento 
fondamentale, 
ossia 
che 
cosa 
debba 
intendersi 
per 
“contenuti 
illegali”, 
dato 
che, 
se 
è 
vero 
che 
le 
piattaforme 
digitali 
non 
hanno 
un 
obbligo 
generale 
di 
sorveglianza, 
esse 
sono 
comunque 
tenute 
a 
provvedere 
alla 
rimozione 
di 
tali 
contenuti 
qualora vengano loro segnalati o comunque ne abbiano conoscenza. 

Ebbene, 
il 
Regolamento 
espressamente 
include, 
tra 
i 
contenuti 
illegali, 
quelli qualificabili come “hate speech”. 

Il 
Comitato europeo per la 
protezione 
dei 
dati 
ha 
formulato un parere 
su 
questo 
profilo, 
in 
particolare 
in 
merito 
ai 
meccanismi 
di 
moderazione 
dei 
contenuti 
utilizzati dalle piattaforme. 

All’interno 
dell’Opinione 
1/2021 
(160) 
è, 
infatti, 
specificato 
che 
non 
tutti 
i 
meccanismi 
in 
questione 
presuppongono 
il 
trattamento 
di 
dati 
personali 
e 
che, per rispettare 
il 
principio di 
data minimisation, il 
Regolamento dovrebbe 
evidenziare 
in 
maniera 
più 
precisa 
e 
dettagliata 
le 
condizioni 
specifiche 
in 
presenza 
delle 
quali 
il 
trattamento dei 
dati 
personali 
nella 
moderazione 
dei 
contenuti 
risulta ammesso. 

Ad ogni 
modo, la 
piattaforma 
dovrà 
dimostrare 
la 
necessità 
e 
la 
proporzionalità 
delle 
misure 
adottate. 
È 
importante 
evidenziare 
che, 
comunque, 
oltre 
che 
per la 
tutela 
dei 
dati 
personali, l’implementazione 
di 
tali 
meccanismi 
rappresenta 
un rischio anche per la libertà di espressione. 


In quest’ottica, nella 
proposta 
di 
DSA 
è 
previsto che 
la 
Commissione 
eu


(159) 
Per 
un 
approfondimento 
sulla 
ricostruzione 
dei 
reati 
di 
opinione 
come 
fattispecie 
consistenti 
nella 
manifestazione 
di 
un 
pensiero 
critico, 
dove 
la 
condotta 
comunicativa 
viene 
incriminata 
perché 
idonea 
a 
turbare 
i 
valori 
morali 
sovra-individuali 
riconducibili 
a 
un’intera 
collettività, si 
veda 
A. SPENA, 
“Libertà di espressione e reati di opinione”, in 
rIDPP, 2007, 692 ss. 
(160) 
Opinione 
1/2021 
accessibile 
da 
https://edps.europa.eu/system/files/2021-02/21-02-10opinion_
on_digital_services_act_en.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


ropea 
incoraggi 
e 
favorisca 
l’adozione, 
a 
livello 
europeo, 
di 
codici 
di 
condotta 
che 
aiutino a 
garantire 
una 
migliore 
applicazione 
del 
Regolamento e 
a 
gestire 
i 
rischi 
derivanti 
dalla 
diffusione 
di 
contenuti 
illeciti, tenuto conto soprattutto 
dei profili che riguardano la concorrenza e la protezione dei dati personali. 


Il 
nuovo orientamento giurisprudenziale 
italiano, legato ad alcuni 
casi 
di 
rimozione 
di 
contenuti 
online 
da 
parte 
di 
Facebook, 
e 
ispirato 
anche 
ai 
dettami 
della 
Corte 
Edu 
(161), 
si 
va 
ad 
inserire 
all’interno 
di 
questo 
quadro 
normativo, 
relativo ai 
limiti 
che 
possono, in maniera 
legittima, essere 
imposti 
alla 
libertà 
di espressione in relazione a messaggi d’odio o discriminatori. 

Per 
cominciare, 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
è 
conforme 
nel 
ritenere 
che 
gli 
atti 
di 
istigazione 
all’odio 
non 
necessitino 
della 
presenza 
di 
violenza 
o 
delitti 
consumati. 
Bisogna 
soffermarsi 
anche 
sull’identificazione, 
in 
concreto, 
dell’incitamento 
alla 
violenza, 
che 
deve 
essere 
valutato 
basandosi 
su 
diversi 
elementi, 
tra 
i 
quali 
rientra 
il 
modo 
in 
cui 
viene 
effettuata 
una 
data 
comunicazione, 
il 
linguaggio 
in 
concreto 
utilizzato, 
il 
contesto 
specifico, 
il 
numero 
di 
persone 
a 
cui 
l’informazione 
è 
rivolta, 
la 
posizione 
e 
la 
qualità 
ricoperte 
dall’autore, 
nonché 
la 
posizione 
di 
debolezza 
o 
meno 
del 
destinatario 
della 
dichiarazione. 


In altri 
termini, si 
può ammettere 
una 
compressione 
della 
libertà 
di 
manifestare 
il 
proprio pensiero in rete 
solamente 
se 
le 
manifestazioni 
d’odio raggiungono 
un livello tale 
da 
dirsi 
funzionali 
alla 
compressione 
dei 
principi 
di 
uguaglianza e libertà (162). 


L’Unione 
Europea, 
d’altronde, 
già 
nel 
2008 
aveva 
adottato 
la 
decisione-
quadro 
2008/913/GAI 
(163) 
sulla 
lotta 
contro 
alcune 
forme 
ed 
espressioni 
di 
razzismo 
e 
xenofobia 
mediante 
il 
diritto 
penale, 
tramite 
l’inserimento, 
tra 
i 
reati 
di 
stampo 
razzista 
o 
xenofobo, 
dell’“istigazione 
pubblica 
alla 
violenza 
o 
all’odio 
nei 
confronti 
di 
un 
gruppo 
di 
persone, 
o 
di 
un 
suo 
membro, 
definito 
in 
riferimento 
alla 
razza, 
al 
colore, 
alla 
religione, 
all’ascendenza 
o 
all’origine 
nazionale 
o 
etnica” 
e 
dell’“apologia, 
la 
negazione 
o 
la 
minimizzazione 
grossolana 
dei 
crimini 
di 
genocidio, 
dei 
crimini 
contro 
l’umanità 
e 
dei 
crimini 
di 
guerra”, 
come 
sono 
definiti 
agli 
articoli 
6, 
7 
e 
8 
dello 
Statuto 
della 
Corte 
penale 
internazionale. 


(161) Corte 
Europea 
dei 
Diritti 
dell’Uomo, sez. I, sent. 16 gennaio 2020 magosso-Brindiani 
c/ 
Italia, 
Ricorso 
59347/11; 
Corte 
Europea 
Diritti 
dell’Uomo, 
sez. 
III, 
22 
giugno 
2021, 
ric. 
n. 
5869/17, 
Erkizia Almandoz c. Spagna. 
(162) Sul 
tema 
v. anche 
L. GOISIS, “Libertà di 
espressione 
e 
odio omofobico. La Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
equipara 
la 
discriminazione 
in 
base 
all’orientamento 
sessuale 
alla 
discriminazione 
razziale”, in rIDPP, 2013, 418 ss.; 
L. GOISIS, “omosessualità, hate 
crimes 
e 
diritto penale”, in GenIus, 
2015, 44 ss. Sul 
tema 
specifico, A. PUGIOTTO, “Aporie, paradossi 
ed eterogenesi 
dei 
fini 
nel 
disegno di 
legge 
in materia di 
contrasto all’omofobia e 
alla transfobia”; 
M. PELISSERO, “omofobia e 
plausibilità 
dell’intervento 
penale”; 
L. 
IMARISIO, 
“Il 
reato 
che 
non 
osa 
pronunciare 
il 
proprio 
nome. 
reticenze 
e 
limiti 
nel 
c.d. 
disegno 
di 
legge 
Scalfarotto”; 
M. 
CAIELLI, 
“Punire 
l’omofobia: 
(non) 
ce 
lo 
chiede 
l’Europa. 
riflessioni 
sulle 
incertezze 
giurisprudenziali 
e 
normative 
in 
tema 
di 
hate 
speech”; 
L. 
MORASSUTTO, 
“omofobia e medioevo italiano”, contributi pubblicati in GenIus, 2015, 6 ss. 
(163) 
Il 
testo 
della 
decisione 
quadro 
2008/913/GAI 
su 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/
IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32008F0913&from=IT. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Sotto 
questo 
aspetto, 
il 
primo 
caso 
rilevante 
riguarda 
la 
chiusura 
di 
diverse 
pagine 
Facebook 
riconducibili 
ad 
alcune 
articolazioni 
territoriali 
del 
noto 
partito 
politico Forza Nuova, ed alla 
diretta 
sospensione 
degli 
account 
personali 
di alcuni suoi esponenti, amministratori delle pagine richiamate. 

In particolare, con l’ordinanza 
resa 
nell’ambito del 
procedimento cautelare 
ex 
art. 
700 
c.p.c. 
(R.G. 
64894/2019) 
in 
data 
23 
febbraio 
2020 
(164), 
il 
Tribunale 
ha 
rigettato 
il 
ricorso 
presentato 
contro 
il 
social 
network 
Facebook, 
volto a 
contestare 
il 
su citato provvedimento di 
sospensione 
e 
chiusura 
delle 
pagine, aderendo quindi alla tesi della piattaforma 
social. 

Nella 
pronuncia 
romana, 
che 
si 
rifà 
alla 
definizione 
di 
“hate 
speech” 
predisposta 
dall’OSCE, i 
Giudici 
sottolineano la 
natura 
di 
Facebook quale 
soggetto 
privato, evidenziando che, nonostante 
la 
rilevanza 
sociale 
dell’attività 
svolta 
da 
quest’ultimo, il 
rapporto tra 
le 
due 
parti 
è 
comunque 
regolato dalle 
condizioni 
contrattuali 
a 
cui 
queste 
aderiscono al 
momento dell’iscrizione 
al 
social network. 

Tramite 
la 
sottoscrizione 
di 
tali 
condizioni, in effetti, l’utente 
assume 
il 
precipuo 
impegno 
di 
“non 
usare 
Facebook 
per 
scopi 
illegali, 
ingannevoli, 
malevoli 
o discriminatori” 
e 
di 
non “pubblicare 
ed eseguire 
azioni 
che 
non rispettino 
i diritti di terzi o le leggi vigenti”. 

Tra 
l’altro, 
nell’ipotesi 
di 
violazione 
delle 
suddette 
condizioni, 
Facebook 
si 
riserva, 
inoltre, 
il 
diritto 
di 
rimuovere 
tali 
contenuti 
e 
di 
interrompere 
la 
fornitura 
del suo servizio. 

Viene 
poi 
previsto 
che, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
fruitore 
del 
servizio 
digitale 
violi 
chiaramente, 
seriamente 
o 
reiteratamente 
le 
condizioni 
o 
normative 
-ed 
in 
particolare 
gli 
Standard 
della 
Community 
-Facebook potrebbe 
arrivare 
a 
sospendere 
o 
disabilitare 
in 
modo 
permanente 
l’accesso 
dell’utente 
al 
proprio 
account, 
fermo 
restando 
che 
le 
misure 
in 
concreto 
adottate 
dipendono, 
in 
ogni 
caso, 
dalla 
gravità 
della 
violazione 
e 
dalle 
precedenti 
condotte 
dell’utente-fruitore. 
Queste 
stesse 
regole 
si 
applicano anche 
alle 
“pagine 
social”, e 
l’utente 
è 
in tal 
senso tenuto a 
garantirne 
la 
conformità 
non solo rispetto agli 
Standard 
della 
Community, ma anche a leggi, regolamenti e altre normative vigenti. 

Gli 
Standard 
cui 
ci 
si 
riferisce 
riguardano in particolare 
i 
contenuti 
e 
le 
attività 
dell’utente 
su Facebook e 
prevedono specificatamente 
il 
divieto di 
divulgare 
contenuti 
che 
possano essere 
interpretati 
come 
discorsi 
di 
incitazione 
all’odio 
e 
che 
in 
alcuni 
casi 
possono 
addirittura 
portare 
ad 
incoraggiare 
episodi 
di violenza reale. 

(164) L’ordinanza 
è 
reperibile 
su https://www.questionegiustizia.it/data/doc/2345/ordinanza-rg648942019-
forza-nuova-art700.pdf, ed è 
commentata 
da 
I.M. LO 
PRESTI, “CasaPound, Forza Nuova e 
Facebook. Considerazioni 
a margine 
delle 
recenti 
ordinanze 
cautelari 
e 
questioni 
aperte 
circa la relazione 
tra partiti 
politici 
e 
social 
network”, in 
Forum 
di 
Quaderni 
Costituzionali, 2, 2020, accessibile 
da: 
https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/07/52-Lo-Presti-FQC-220.
pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Facebook definisce 
i 
discorsi 
d’odio come 
“un attacco diretto alle 
persone 
sulla base 
di 
aspetti 
tutelati 
a norma di 
legge, quali 
razza, etnia, nazionalità 
di 
origine, 
religione, 
orientamento 
sessuale, 
casta, 
sesso, 
genere 
o 
identità 
di 
genere 
e 
disabilità 
o 
malattie 
gravi” 
e 
aggiunge 
che 
“forniamo 
anche 
misure 
di 
protezione 
per 
lo 
status 
di 
immigrato. 
Definiamo 
l’attacco 
come 
un discorso violento o disumanizzante, dichiarazioni 
di 
inferiorità o incitazioni 
all’esclusione o alla segregazione”. 

Al 
tempo stesso, viene 
vietata 
la 
divulgazione 
di 
contenuti 
che 
possano 
esprimere 
supporto 
o 
elogio 
ai 
gruppi 
o 
leader 
coinvolti 
nell’odio 
organizzato. 
Viene, inoltre, definita 
come 
organizzazione 
che 
incita 
all’odio “qualsiasi 
associazione 
di 
almeno 
tre 
persone 
organizzata 
con 
un 
nome, 
un 
segno 
o 
simbolo 
e 
che 
porta 
avanti 
un’ideologia, 
dichiarazioni 
o 
azioni 
fisiche 
contro 
individui 
in base 
a caratteristiche 
come 
razza, credo religioso, nazionalità, etnia, genere, 
sesso, orientamento sessuale, malattie 
gravi 
o disabilità”, specificando 
di 
non 
consentire 
“la 
condivisione 
sulla 
nostra 
piattaforma 
di 
simboli 
che 
rappresentano 
una delle 
organizzazioni 
o degli 
individui 
di 
cui 
sopra se 
non ai 
fini 
di 
condanna 
o 
discussione. 
Non 
consentiamo 
contenuti 
che 
elogiano 
le 
organizzazioni 
e 
gli 
individui 
di 
cui 
sopra o atti 
da loro commessi. Non consentiamo 
il 
coordinamento 
del 
supporto 
a 
qualsiasi 
organizzazione 
o 
individuo 
di cui sopra o agli atti da loro commessi”. 


Tornando al 
caso di 
specie, Facebook ha 
provveduto a 
risolvere 
il 
contratto, 
chiudendo poi 
le 
pagine 
riconducibili 
a 
Forza 
Nuova, qualificando la 
stessa 
come 
“organizzazione 
che 
incita 
all’odio” 
alla 
luce 
della 
definizione 
sopra 
riportata. L’organizzazione, infatti, svolge 
una 
serie 
di 
attività 
di 
propaganda 
razzista, xenofoba 
e 
antisemita, ostentando il 
fatto di 
essere 
un movimento 
neofascista 
e 
utilizzando simboli 
del 
fascismo nel 
corso delle 
proprie 
manifestazioni. 

Le 
pagine 
oggetto della 
decisione 
di 
Facebook -insieme 
ai 
profili 
privati 
dei 
loro amministratori 
-erano utilizzate 
per la 
divulgazione 
di 
contenuti 
di 
propaganda 
in 
favore 
dell’organizzazione, 
facendo 
uso 
di 
simboli 
fascisti 
e 
razzisti che, a parere di Facebook, incitavano all’odio e alla discriminazione. 


Nella 
parte 
motiva 
del 
provvedimento 
di 
rigetto 
del 
ricorso 
presentato 
da 
Forza 
Nuova 
nei 
confronti 
di 
Facebook, 
il 
Tribunale 
romano 
ha, 
per 
prima 
cosa, 
richiamato 
il 
programma 
politico 
dell’organizzazione, 
che 
risulta 
agli 
occhi 
di 
tutti 
in 
contrasto 
con 
alcuni 
principi 
del 
nostro 
ordinamento, 
primo 
fra 
tutti 
il 
divieto, 
valido 
per 
tutte 
le 
forze 
politiche, 
di 
rifarsi 
esplicitamente 
all’ideologia 
fascista 
o 
nazista, 
al 
razzismo, 
alla 
xenofobia 
e 
di 
proclamare 
idee 
discriminatorie 
(ad 
esempio, 
Forza 
Nuova 
vorrebbe 
espressamente 
l’abrogazione 
delle 
leggi 
Scelba 
e 
Mancino, 
definendo 
le 
stesse 
come 
leggi 
liberticide). 


Secondo il 
parere 
dell’organo giudicante, tenuto conto dei 
numerosi 
episodi 
che 
testimoniano 
la 
stretta 
vicinanza 
di 
Forza 
Nuova 
al 
fascismo, 
alla 
luce 
sia 
della 
normativa 
interna 
e 
sovranazionale, che 
del 
Codice 
di 
condotta 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


sottoscritto da 
Facebook insieme 
alla 
Commissione 
europea, è 
stata 
assolutamente 
legittima 
la 
decisione 
di 
addivenire 
alla 
risoluzione 
del 
contratto e 
alla 
sospensione 
del 
servizio, dal 
momento in cui 
è 
senza 
dubbio possibile 
ascrivere 
il partito entro la definizione di “organizzazione d’odio”. 

Ma 
i 
giudici 
si 
spingono oltre, asserendo che 
Facebook aveva 
il 
dovere 
giuridico di 
agire 
in tal 
senso, rischiando altrimenti 
di 
incorrere 
in responsabilità. 
A 
ciò devono essere 
aggiunti 
i 
diversi 
episodi 
in cui 
vari 
esponenti 
di 
Forza 
Nuova 
si 
sono resi 
protagonisti 
di 
veri 
e 
propri 
discorsi 
d’odio o hanno 
comunque 
supportato o elogiato l’attività 
del 
partito, circostanza 
che 
secondo 
la 
Corte 
legittima 
la 
contestuale 
sospensione 
dei 
loro 
account 
privati, 
in 
quanto 
tali 
comportamenti 
si 
pongono 
anche 
in 
aperto 
contrasto 
con 
gli 
Standard 
della 
Community 
sopra richiamati. 

Il 
Tribunale 
di 
Roma 
si 
è 
espresso anche 
in merito alla 
proporzionalità 
della 
misura 
adottata, asserendo che, poiché 
prima 
di 
giungere 
alla 
rimozione 
totale 
delle 
pagine 
e 
degli 
account, vi 
era 
stata 
reiteratamente 
da 
parte 
di 
Facebook 
la 
rimozione 
di 
singoli 
contenuti, la 
misura 
della 
sospensione 
si 
presentava 
come necessaria e adeguata. 


Segue 
lo stesso orientamento anche 
un’ordinanza 
del 
Tribunale 
di 
Siena 
(165), pronunciata 
nell’ambito di 
un ricorso ex 
artt. 669-bis 
e 
ss. e 
700 c.p.c., 
anch’essa 
riguardo 
alla 
rimozione 
dell’account 
privato 
di 
un 
utente 
e 
della 
“pagina 
tematica” 
ad 
esso 
connessa. 
Anche 
in 
questo 
caso 
i 
contenuti 
divulgati 
erano attinenti 
allo svolgimento di 
attività 
politica 
e 
sono stati 
considerati 
in 
contrasto 
con 
gli 
Standard 
della 
Community, 
tanto 
da 
Facebook 
quanto 
dal 
Tribunale, che ha rigettato l’istanza del ricorrente. 


Risulta 
di 
diverso avviso, invece, il 
Tribunale 
di 
Roma 
-sia 
in prima 
fase 
che 
in 
sede 
di 
reclamo 
-nell’ordinanza 
resa 
in 
data 
14 
febbraio 
2020 
(nell’ambito 
della 
causa 
n. 80961/19) (166), a 
seguito del 
ricorso promosso da 
parte 
di 
Casapound 
Italia 
contro 
Facebook, 
che 
aveva 
rimosso 
la 
pagina 
dell’Associazione 
e del profilo personale di uno dei suoi esponenti. 

Il 
Collegio 
giudicante, 
sebbene 
abbia 
ritenuto 
-in 
difformità 
rispetto 
a 
quanto affermato dall’ordinanza 
reclamata 
-che 
il 
rapporto fra 
le 
parti 
vada 
inquadrato tra 
i 
contratti 
ordinari 
di 
diritto civile 
e 
che, di 
conseguenza, la 
legittimità 
dell’esercizio del 
diritto di 
recesso da 
parte 
del 
contraente 
debba 
essere 
valutata 
alla 
luce 
dell’accordo 
negoziale 
stipulato 
fra 
le 
stesse, 
ha 
tuttavia 


(165) 
Testo 
accessibile 
su 
https://dirittodiinternet.it/wp-content/uploads/2020/01/ordinanzaSiena.
pdf. 
(166) Il 
testo è 
disponibile 
su https://media2-col.corriereobjects.it/pdf/2019/politica/sentenzacpifb.
pdf, con nota 
di 
I.M. LO 
PRESTI, 
“CasaPound, Forza Nuova e 
Facebook. Considerazioni 
a margine 
delle 
recenti 
ordinanze 
cautelari 
e 
questioni 
aperte 
circa 
la 
relazione 
tra 
partiti 
politici 
e 
social 
network”, 
cit.; 
vedi 
anche 
il 
commento di 
P. VILLASCHI, “Facebook 
come 
la rAI?: note 
a margine 
dell’ordinanza 
del 
Tribunale 
di 
roma 
del 
12.12.2019 
sul 
caso 
CasaPound 
c. 
Facebook”, 
disponibile 
sul 
sito 
https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2020_2_24_Villaschi.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


puntualizzato che 
risulta 
preclusa 
all’autonomia 
privata 
la 
possibilità 
di 
limitare 
i 
diritti 
costituzionali 
di 
una 
delle 
parti. 
In 
altri 
termini, 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
fondamentali 
-in 
questo 
caso, 
la 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
privata, 
ex 
art. 
41 Cost. e 
la 
libertà 
di 
manifestazione 
del 
pensiero e 
di 
associazione, rispettivamente 
riconosciute 
dagli 
artt. 
21 
e 
18 
Cost. 
-si 
pone 
quale 
limite 
invalicabile 
dell’autonomia privata. 


Nello specifico, i 
giudici 
hanno respinto il 
reclamo presentato da 
Facebook 
sulla 
base 
dell’assunto che 
quest’ultimo, avente 
natura 
di 
soggetto privato, 
non sia 
legittimato ad esprimersi 
sulla 
liceità 
o meno dell’Associazione 
in 
quanto 
tale, 
potendo 
limitarsi 
esclusivamente 
a 
contestare 
la 
violazione 
delle 
regole contrattuali che ne disciplinano il reciproco rapporto. 

In 
particolare, 
l’organo 
giudicante 
ha 
evidenziato 
che 
Facebook 
aveva 
giustificato 
la 
chiusura 
delle 
pagine 
e 
la 
sospensione 
dell’erogazione 
del 
servizio 
nei 
confronti 
del 
singolo 
utente 
privato, 
sulla 
base 
di 
valutazioni 
concernenti 
il 
complesso 
dell’attività 
politica 
di 
Casapound, 
ed 
in 
particolare 
l’esplicito 
richiamo 
di 
questa 
all’ideologia 
fascista. 
A 
parere 
di 
Facebook, 
ciò 
costituiva, 
infatti, 
una 
forma 
di 
sostegno 
a 
“politiche 
incompatibili 
a 
quelle 
del 
Servizio 
Facebook”, 
sufficiente 
a 
legittimare 
la 
recessione 
dal 
contratto 
da 
parte 
dello 
stesso. 


Tuttavia, nonostante 
il 
Tribunale 
ammetta 
che 
la 
compatibilità 
dell’associazione 
con le 
condizioni 
contrattuali 
debba 
essere 
valutata 
anche 
alla 
luce 
della 
sua 
natura 
intrinseca, i 
Giudici 
sottolineano che 
la 
valutazione 
inerente 
alla 
liceità 
dell’organizzazione 
vada 
compiuta 
con riferimento alla 
disciplina 
pubblicistica, 
assumendo 
quale 
riferimento 
i 
limiti 
posti 
dall’art. 
18 
Cost., 
come 
interpretato 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
di 
legittimità, 
e 
la 
successiva 
normativa a tutela del valore dell’uguaglianza. 

Per 
quanto 
concerne 
il 
richiamo 
all’art. 
18 
-a 
norma 
del 
quale 
la 
libertà 
di 
associazione 
dei 
cittadini 
incontra, 
quale 
unico 
limite, 
il 
perseguimento 
di 
fini 
vietati 
ai 
singoli 
dalla 
legge 
penale 
-potrebbe 
rilevare, 
nel 
caso 
di 
specie, 
in 
virtù 
del 
divieto 
di 
ricostituzione 
del 
partito 
fascista 
sancito 
dal 
nostro 
ordinamento. 


Senonché, la 
fattispecie 
in esame 
richiederebbe 
la 
sussistenza 
di 
un pericolo 
in 
concreto, 
attinente 
alle 
finalità 
specifiche 
e 
alle 
modalità 
di 
azione 
della 
forza politica, non essendo sufficiente il solo richiamo all’ideologia fascista. 

Secondo 
il 
Collegio, 
inoltre, 
nel 
caso 
di 
specie 
non 
rileverebbe 
nemmeno 
la 
disciplina 
che 
lega 
l’illiceità 
dell’associazione 
all’incitamento 
all’odio, 
alla 
discriminazione 
o 
alla 
violenza 
per 
motivi 
razziali, 
etnici, 
nazionali 
o 
religiosi, 
poiché, nella 
prospettazione 
data 
da 
Facebook, tali 
elementi 
sarebbero riconducibili 
all’attività 
di 
Casapound esclusivamente 
sulla 
base 
dell’inscindibilità 
di questi aspetti dall’ideologia e dall’esperienza del fascismo. 

Questo 
è 
un 
criterio 
che, 
secondo 
il 
Tribunale, 
non 
può 
che 
dirsi 
arbitrario, 
costituendo un’inaccettabile 
estensione 
dell’applicazione 
della 
norma 
penale 


-come 
noto soggetta 
al 
principio di 
tipicità 
-e 
un’illegittima 
limitazione 
del 
diritto alla libertà di manifestazione del pensiero. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


In altre 
parole, gli 
elementi 
dedotti 
in giudizio non sono, secondo il 
Giudice, 
sufficienti 
a 
permettere 
di 
affermare 
che 
Casapound sia 
un’associazione 
illecita 
secondo 
l’ordinamento 
generale, 
tenuto 
conto 
che 
la 
valutazione 
svolta 
è limitata all’oggetto del giudizio in essere. 

Inoltre, nel 
valutare 
la 
sussistenza 
o meno del 
periculum 
in mora, il 
Tribunale 
ha 
evidenziato 
la 
rilevanza 
del 
servizio 
reso 
da 
Facebook 
in 
riferimento 
alla 
partecipazione 
al 
dibattito politico. La 
gravità 
del 
pregiudizio subito da 
Casapound viene, altresì, rapportata al numero di utenti della piattaforma. 


Dal 
punto 
di 
vista 
politico, 
la 
nascita 
di 
una 
Commissione 
parlamentare 
competente 
per 
il 
tema 
dell’incitamento 
all’odio 
e 
la 
proposizione, 
nel 
corso 
degli 
ultimi 
anni, 
di 
diversi 
disegni 
di 
legge 
finalizzati 
a 
colmare 
l’attuale 
lacuna 
dell’ordinamento, 
sono 
la 
piena 
testimonianza 
del 
fatto 
che 
anche 
dal 
punto 
di 
vista 
normativo 
c’è 
stata 
grande 
attenzione 
verso 
il 
tema 
dell’hate 
speech. 


Nel 
2019, 
infatti, 
è 
stato 
presentato 
in 
Parlamento 
il 
primo 
disegno 
di 
legge 
DDL 
Cirinnà, volto a 
disciplinare 
e 
arginare 
il 
fenomeno dell’hate 
speech 
in Italia, denominato “misure 
per 
il 
contrasto del 
fenomeno dell’istigazione 
all’odio 
sul 
web” 
(167). 
All’interno 
della 
relazione 
introduttiva, 
vi 
è 
l’illustrazione 
del 
quadro normativo europeo e 
sovranazionale 
vigente, a 
dimostrazione 
del 
fatto 
che 
il 
legislatore 
italiano 
ha 
come 
obiettivo 
quello 
di 
garantire 
coerenza e continuità rispetto a quanto già fatto in materia. 

L’art. 1 della 
proposta 
di 
legge, nel 
definire 
le 
finalità 
del 
progetto, individuate 
nella 
volontà 
di 
“prevenire 
e 
sanzionare 
il 
fenomeno dell’istigazione 
all’odio 
sul 
web”, 
richiama 
espressamente 
la 
decisione 
quadro 
2008/913/GAI 
e 
il 
protocollo addizionale 
alla 
Convenzione 
del 
Consiglio d’Europa 
sulla 
criminalità 
informativa. 

I 
soggetti 
destinatari 
della 
proposta 
sono 
i 
c.d. 
“gestori 
informatici”, 
come 
vengono 
definiti 
dalla 
legge 
in 
materia 
di 
cyberbullismo, 
mentre 
invece, 
le 
condotte 
sanzionate 
coincidono 
con 
quelle 
previste 
in 
materia 
di 
discriminazione 
etnica, 
razziale 
e 
religiosa, 
ma 
con 
esplicito 
richiamo 
all’ambito 
della 
rete. 


Una 
delle 
novità 
più 
interessanti 
è 
quella 
prevista 
dall’art. 
4, 
che 
vorrebbe 
introdurre, nel 
nostro ordinamento, lo specifico delitto di 
istigazione 
all’odio 
in rete. 

La 
fattispecie, di 
nuova 
introduzione, consentirebbe 
di 
sanzionare 
fenomeni 
che, sebbene 
rechino già 
pregiudizio agli 
utenti, non sono attualmente 
rilevanti per la disciplina penale. 

Se 
si 
prende 
in 
esame 
il 
tradizionale 
reato 
di 
diffamazione 
ex 
art. 
595 
c.p., 
infatti, 
si 
noterà 
che 
esso 
tutela 
la 
reputazione 
soltanto 
individuale, 
escludendo 
le 
ipotesi 
in cui 
espressioni 
offensive 
e 
lesive 
siano rivolte 
ad intere 
categorie 


o gruppi di persone, e non ad un soggetto specifico. 
(167) Accessibile da 
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01124878.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


La 
nuova 
fattispecie, inoltre, troverebbe 
collocazione 
fra 
i 
delitti 
contro 
l’uguaglianza, al 
fine 
di 
garantire 
la 
piena 
tutela 
a 
tutte 
le 
categorie 
oggetto di 
fenomeni di istigazione all’odio. 

Si 
tenga 
presente 
che 
l’art. 5 introduce 
nuovi 
obblighi 
in capo ai 
gestori 
dei 
siti 
web, in materia 
di 
segnalazione 
e 
rimozione 
di 
post 
dal 
contenuto illecito. 
Per prima 
cosa, questi 
sono tenuti 
a 
mettere 
a 
disposizione 
degli 
utenti 
in 
rete 
una 
procedura 
che 
sia 
chiara, 
semplice 
e 
sempre 
attiva, 
idonea 
a 
formulare 
le 
proprie 
segnalazioni. Quest’ultime 
saranno, poi, valutate 
da 
un organismo 
di 
autoregolazione, 
composto 
da 
analisti 
e 
periti 
indipendenti, 
e, 
nel 
caso 
venga 
espresso parere 
positivo, il 
gestore 
dovrà 
provvedere 
alla 
rimozione 
del 
post 
nel 
termine 
di 
24 ore 
dalla 
segnalazione, salvo che 
intervenga 
un diverso accordo 
con le autorità competenti. 

L’art. 6 sancisce, inoltre, l’obbligo per i 
gestori 
dei 
siti 
web di 
redigere 
un 
rapporto 
semestrale 
sulle 
segnalazioni 
ricevute, 
distinguendo 
le 
stesse 
a 
seconda 
dell’oggetto e del motivo ed indicando l’esito di ciascuna. 

Tale 
rapporto 
deve 
venire 
poi 
pubblicato 
sulla 
homepage 
del 
sito, 
affinché 
sia 
facilmente 
fruibile 
dagli 
utenti. Nel 
caso di 
violazione 
di 
tali 
obblighi 
da 
parte 
dei 
gestori 
dei 
siti, possono essere 
irrogate 
nei 
loro confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie, la 
cui 
entità 
può variare 
a 
seconda 
del 
tipo di 
violazione, della gravità e dell’eventuale reiterazione della condotta. 


Si 
evidenzia 
che, da 
ultimo, è 
stato presentato alla 
Camera 
il 
c.d. DDL 
Boldrini, 
denominato 
“misure 
per 
la 
prevenzione 
e 
il 
contrasto 
della 
diffusione 
di manifestazioni d’odio mediante la rete internet” (168). 

Si 
parte, anche 
qui, dalla 
considerazione 
che 
la 
rete 
sia 
ormai 
diventata 
lo strumento di 
diffusione 
di 
idee 
e 
messaggi 
più potente 
di 
qualunque 
altro e 
che 
il 
suo utilizzo errato o distorto si 
possa 
concretizzare 
in severe 
forme 
di 
discriminazione 
di 
alcune 
categorie, 
soprattutto 
minoranze, 
sulla 
base 
del-
l’orientamento 
sessuale, 
della 
razza 
o 
del 
genere. 
Nel 
seguire 
l’esempio 
di 
altri 
Paesi 
europei, che 
si 
sono già 
dotati 
di 
una 
normativa 
specifica 
in materia 
di 
hate 
speech 
(v. 
supra 
il 
riferimento 
alla 
Germania), 
lo 
scopo 
dichiarato 
è 
quello 
di 
andare 
a 
regolamentare 
questa 
fattispecie 
specifica, che 
presenta 
connotati 
ben diversi 
rispetto alla 
tradizionale 
figura 
dell’incitamento all’odio, proprio 
in ragione 
della 
maggiore 
invasività 
del 
web come 
strumento di 
diffusione. Il 
presupposto di 
tale 
ragionamento è 
che 
la 
regolamentazione 
di 
Internet 
sia 
divenuta 
non solo cosa possibile, bensì strettamente necessaria. 


Il 
DDL 
Boldrini, 
all’art. 
1, 
dichiara 
in 
maniera 
esplicita 
lo 
scopo 
della 
proposta 
di 
legge, ossia 
la 
tutela 
delle 
dignità, libertà 
personale 
e 
salute 
psicofisica 
dei 
fruitori 
del 
web, messe 
a 
serio rischio da 
comportamenti 
che 
continuamente 
incitano, promuovono o incoraggiano l’odio. 

(168) 
Il 
testo 
del 
DDL 
è 
disponibile 
su 
http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.
2936.18PDL0133410.pdf. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Per 
raggiungere 
tale 
precipua 
finalità, 
si 
è 
optato 
per 
una 
maggiore 
responsabilizzazione 
dei 
gestori 
dei 
siti, chiamati 
a 
contribuire 
alla 
prevenzione 
e al contrasto di tali fenomeni, anche limitando la diffusione di 
fake news. 

È 
un elemento che 
si 
ricollega 
alla 
tematica 
della 
diffamazione 
a 
mezzo 
social 
(169), di cui si parlerà più avanti. 

Il 
prevalente 
orientamento 
giurisprudenziale 
ritiene 
che 
sia 
sufficiente, 
affinché 
il 
diritto di 
cronaca/critica 
prevalga 
sull’interesse 
del 
soggetto diffamato, 
scriminando la 
condotta, che 
sia 
presente 
la 
c.d. verità putativa. Questo 
esplicito riferimento del 
progetto di 
legge 
alla 
verità 
dei 
fatti 
potrebbe 
contribuire 
a 
modificare 
tale 
orientamento nel 
senso di 
riconoscere 
maggiore 
rilevanza 
alla 
dignità 
della 
persona 
e 
al 
diritto 
di 
quest’ultima 
di 
ottenere 
l’accertamento della realtà. 

È 
anche 
prevista 
la 
modifica 
di 
diverse 
disposizioni 
del 
codice 
penale, 
allo scopo di favorire la rimozione di contenuti illegali dal web. 


Anche 
qui, come 
nel 
DDL 
Cirinnà, è 
riconosciuto agli 
utenti 
del 
servizio 
web il 
diritto di 
segnalare 
la 
presenza 
di 
contenuti 
manifestamente 
illeciti, per 
ottenerne la rimozione. 

Il 
gestore 
del 
sito 
web 
è 
obbligato 
a 
mettere 
a 
disposizione 
dei 
fruitori 
una 
procedura 
semplice, 
chiara 
e 
trasparente 
per 
effettuare 
la 
segnalazione. 
Anche 
in 
questo 
caso, 
inoltre, 
l’esame 
della 
segnalazione 
è 
rimesso 
ad 
un 
organismo 
di 
autoregolamentazione, 
di 
cui 
fanno 
parte 
“esperti 
dotati 
di 
ampie 
e 
diverse 
competenze 
e 
di 
esperienza, 
che 
non 
presentino 
cause 
di 
conflitto 
di 
interessi 
tali 
da 
comprometterne 
l’indipendenza 
del 
giudizio 
e 
delle 
decisioni 
prese”. 

Il 
gestore 
del 
sito 
internet 
deve 
farsi 
carico 
degli 
oneri 
di 
gestione 
del 
suddetto 
organismo, mentre 
la 
definizione 
dell’ambito e 
della 
struttura 
delle 
verifiche 
è 
rimessa 
a 
norme 
procedurali 
ispirate 
ad 
un 
codice 
etico 
di 
comportamento, trasparente e accessibile agli utenti. 

Se 
il 
parere 
dell’organismo risulta 
negativo, è 
ammesso il 
ricorso al 
Garante 
per la protezione dei dati personali. 

Il 
gestore 
del 
sito è, in ogni 
caso, legittimato a 
segnalare 
la 
presenza 
di 
un contenuto manifestamente 
illecito direttamente, in assenza 
di 
specifica 
segnalazione 
da 
parte 
dell’utente, ed è 
tenuto a 
garantire 
che 
il 
medesimo contenuto 
non venga nuovamente caricato o condiviso. 

I gestori 
dovranno, inoltre, redigere 
un resoconto delle 
segnalazioni 
pervenute, 
con specifici 
obblighi 
nel 
caso in cui 
il 
numero di 
queste 
ultime 
sia 
particolarmente 
elevato. Il 
Garante 
per la 
privacy può anche 
irrogare 
sanzioni 


(169) Sul 
tema 
v. anche 
M. PELISSERO, “La parola pericolosa. Il 
confine 
incerto del 
controllo penale 
del 
dissenso”, in QuestG, 2015, 38; 
L. ALESIANI, “I reati 
di 
opinione. Una rilettura in chiave 
costituzionale”, 
Milano, 
2006; 
C. 
CALVERT 
-J. 
BROWN, 
“Video 
Voyeurism, 
Privacy 
and 
the 
Internet: 
exposing 
Peeping Toms 
in Cyberspace”, in Cardozo Arts 
Entertainment 
Law Journal, 2000, 469 ss.; 
J. CLOUGH, 
“Principles 
of 
Cybercrime”, 
Cambridge, 
2010, 
388 
ss.; 
D. 
ORMEROD, 
“Voyeurism: 
Elements 
of 
offencePrivacy-
reasonable Expectation of Privacy”, in 
CrimLawreview, 2008, 12 ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


-la 
cui 
entità 
è 
commisurata 
alla 
gravità 
della 
violazione 
-in 
caso 
di 
violazione 
degli 
obblighi 
in 
materia 
di 
segnalazione, 
oscuramento, 
rimozione 
o 
blocco 
di contenuti illeciti e resoconto da parte dei gestori. 


Per quanto concerne 
l’art. 8, esso interviene 
sul 
diritto all’oscuramento, 
alla 
rimozione 
o 
al 
blocco 
della 
diffusione 
dei 
propri 
dati 
o 
immagini 
personali 
nella 
rete, 
ampliandone 
la 
portata 
rispetto 
alle 
fattispecie 
di 
cui 
all’art. 
167 
del 
D.lgs. n. 196/2003 e 
includendovi 
anche 
ipotesi 
escluse 
dall’art. 4 del 
medesimo 
disegno di legge o da altre norme incriminatrici. 

È, infatti, riconosciuto a 
chiunque 
(ivi 
compresi 
i 
soggetti 
di 
minore 
età; 
se 
ultraquattordicenni, i 
minori 
possono agire 
personalmente) il 
diritto ad ottenere, 
in 
qualsiasi 
momento, 
l’oscuramento, 
la 
rimozione 
o 
il 
blocco 
di 
propri 
dati 
o 
immagini 
ritenuti 
offensivi 
o 
lesivi 
della 
propria 
dignità, 
identità 
e 
libertà 
personale, tramite istanza presentata al titolare del trattamento. 

Nel 
caso in cui 
questo dia 
tempestivamente 
seguito alla 
richiesta 
o non 
sia 
possibile 
identificarlo, l’istanza 
può essere 
presentata 
direttamente 
al 
Garante 
della 
Privacy. La 
legittimità 
della 
richiesta 
di 
rimozione 
del 
contenuto 
può altresì 
essere 
contestata 
innanzi 
al 
Garante, le 
cui 
decisioni 
sono suscettibili 
di 
ricorso innanzi 
al 
giudice 
ordinario. Il 
Garante 
ha 
il 
potere 
di 
irrogare 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie 
nei 
confronti 
del 
gestore 
sul 
web, 
il 
cui 
ammontare 
può variare 
da 
500.000 a 
5.000.000 euro, sulla 
base 
della 
gravità 
e della reiterazione della condotta. 


Il 
meccanismo 
di 
tutela 
appena 
descritto 
coincide 
con 
quanto 
già 
previsto 
in materia 
di 
diritto all’oblio e 
cyberbullismo, ed è 
stato richiamato e 
lodato 
dal 
Presidente 
del 
Garante 
della 
Privacy, il 
Professor Pasquale 
Stanzione, nel 
corso dell’audizione 
tenutasi 
il 
13 luglio 2021 (170), il 
quale 
lo ha 
definito un 
utile 
strumento 
di 
tutela 
dei 
diritti 
della 
personalità 
online, 
capace 
di 
conciliare 
l’esigenza 
di 
rimozione 
dei 
contenuti 
con la 
riserva 
all’autorità 
pubblica 
della 
decisione 
di 
ultima 
istanza, in linea 
con il 
difficile 
bilanciamento di 
interessi 
da 
svolgere 
secondo le 
indicazioni 
della 
CGUE 
e 
della 
Corte 
EDU. È 
interessante 
evidenziare 
che 
il 
coinvolgimento del 
Garante 
è 
funzionale 
al 
rispetto 
delle 
libertà 
fondamentali, sottratte 
a 
valutazioni 
compiute 
esclusivamente 
da 
soggetti privati, arginando il rischio di comportamenti arbitrari e abusivi. 

Il 
Presidente, inoltre, si 
è 
espresso in senso favorevole 
all’ampliamento 
dell’ambito 
di 
applicazione 
dell’art. 
167 
del 
Codice 
Privacy, 
che 
si 
occupa 
del 
delitto di 
trattamento illecito di 
dati 
personali: 
si 
suggerisce 
la 
reintroduzione 
del 
consenso tra 
i 
requisiti 
di 
illiceità 
speciale 
(come 
prima 
della 
riforma 
di 
cui 
al 
D.lgs. 
101/2018; 
la 
disciplina 
attuale 
ha 
infatti 
limitato 
la 
fattispecie 
alle 
sole attività di 
telemarketing). 


Si 
sta 
andando verso la 
stessa 
direzione 
di 
quella 
emersa 
in ambito europeo, 
come 
dimostrato dal 
c.d. Digital 
Services 
Act 
(171), la 
proposta 
di 
Rego


(170) V. https://www.garanteprivacy.it/home/attivita-e-documenti/documenti/audizioni. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


lamento 
presentata 
dalla 
Commissione 
nel 
dicembre 
2020. 
La 
proposta 
italiana 
va 
ad imporre, infatti, degli 
specifici 
obblighi 
in capo ai 
gestori 
delle 
piattaforme 
digitali, mirando alla 
responsabilizzazione 
di 
questi 
ultimi, proprio con 
riferimento alla 
rimozione 
di 
contenuti 
illegali, fra 
i 
quali 
rientrano senz’altro 
i 
contenuti 
di 
hate 
speech. Non è 
un caso, infatti, che 
già 
nel 
corso dei 
lavori 
di 
preparazione 
della 
bozza 
di 
provvedimento 
-anch’esso 
fortemente 
influenzato 
dalla 
nuova 
normativa 
tedesca 
-sia 
emersa 
la 
rilevanza 
di 
tali 
disposizioni 
nel contesto dell’hate speech. 


Per 
quanto 
concerne 
la 
responsabilità 
dei 
gestori 
e 
la 
prevenzione 
di 
comportamenti 
illeciti, è 
importante 
anche 
il 
parere 
espresso dall’AGCOM 
in merito 
all’utilizzo dell’Intelligenza 
Artificiale 
come 
strumento di 
monitoraggio. 
Viene, 
in 
tal 
caso, 
incoraggiato 
lo 
sfruttamento 
delle 
nuove 
tecnologie, 
che 
deve avvenire non in sostituzione dell’attività umana, bensì in suo supporto. 

L’approccio 
sin 
qui 
delineato 
potrebbe 
contribuire, 
senza 
dubbio, 
ad 
agevolare 
l’adempimento degli 
obblighi 
che 
s’intende 
imporre 
in capo ai 
gestori 
dei siti. 


L’Autorità 
garante 
delle 
comunicazioni 
ha 
già 
aderito 
al 
progetto 
ISmyPP 
(172), il 
quale 
vuole 
arrivare 
allo sviluppo di 
tecniche 
per la 
rilevazione 
automatizzata 
dei 
discorsi 
d’odio, 
che 
assume 
particolare 
rilevanza 
nell’ambito 
del 
recepimento della 
Direttiva 
(UE) 1808/2018 (Direttiva 
SMAV) (173), con 
la 
quale 
viene 
esteso l’ambito di 
applicazione 
delle 
norme 
in materia 
di 
contrasto 
all’hate speech 
anche alle piattaforme di 
video sharing. 

Tuttavia, poiché 
la 
rimozione 
di 
contenuti 
dal 
web costituisce 
comunque 
una 
limitazione 
del 
diritto alla 
libertà 
d’espressione, ammissibile 
solo in presenza 
di 
specifiche 
circostanze, si 
è 
diffusa 
la 
tendenza 
che 
vuole 
escludere 
che 
i 
processi 
di 
monitoraggio 
siano 
totalmente 
automatizzati, 
dovendo 
comunque 
essere garantito il controllo umano volto ad evitare errori eventuali. 


Una 
delle 
decisioni 
assunte 
dall’oversight 
Board 
istituito da 
Facebook, 
un Comitato interno alla 
società 
e 
preposto a 
valutare 
l’adeguatezza 
delle 
decisioni 
concernenti la rimozione dei 
post, è rilevate in tal senso. 

Trovatosi 
ad 
affrontare 
la 
questione 
a 
seguito 
della 
cancellazione 
di 
un 
post 
per 
la 
sensibilizzazione 
sul 
tumore 
al 
seno, 
raffigurante 
foto 
di 
donne 
che 
avevano 
subito 
operazioni, 
il 
Comitato 
ha 
sostenuto 
che 
la 
decisione 
assunta 
dall’algoritmo 
era 
sbagliata: 
non 
era 
stata 
rilevata 
correttamente 
la 
descrizione 
dell’immagine, 
nella 
quale 
si 
chiariva 
lo 
scopo 
del 
post. 
Il 
Comitato, 
dunque, 
si 
è 
espresso 
proprio 
nel 
senso 
di 
ribadire 
la 
necessità 
di 
un 
controllo 
umano 
rispetto 
alle 
decisioni 
algoritmiche, 
a 
tutela 
delle 
libertà 
fondamentali 
dell’individuo. 


(171) 
Accessibile 
da 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0825&from=en. 


(172) Disponibile su https://www.agcom.it/956. 
(173) 
V. 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018L1808&from=pl. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Per quanto riguarda 
la 
partecipazione 
dell’AGCOM, bisogna 
segnalare 
che 
l’Autorità 
ha 
già 
approvato 
un 
proprio 
Regolamento, 
rivolto 
in 
primo 
luogo 
ai 
fornitori 
di 
servizi 
media 
audiovisivi 
e 
radiofonici 
(174), 
invitati 
a 
promuovere 
i 
temi 
dell’inclusione, della 
coesione 
sociale, della 
promozione 
della diversità e dei diritti fondamentali (175). 


Ebbene, l’AGCOM 
ha 
avviato delle 
interlocuzioni 
con le 
maggiori 
piattaforme 
(come 
Google 
e 
Facebook), 
proprio 
alla 
luce 
della 
crescente 
rilevanza 
della 
diffusione 
dei 
contenuti 
sulla 
rete 
e 
del 
potere 
riconosciuto all’Autorità 
di 
promuovere, 
mediante 
procedure 
di 
co-regolamentazione, 
l’adozione 
da 
parte 
delle 
piattaforme 
di 
misure 
volte 
a 
contrastare 
la 
diffusione 
sui 
social 
di 
contenuti lesivi della dignità umana. 

È 
evidente 
che 
l’Autorità 
punta 
a 
raccogliere 
informazioni 
sui 
criteri 
e 
le 
procedure 
già 
in 
essere 
per 
la 
segnalazione 
e 
la 
rimozione 
dei 
contenuti 
d’odio, 
volendo raggiungere 
l’obiettivo di 
favorire 
l’adozione 
di 
misure 
ulteriori 
(es. 
codici di condotta). 

Al 
fine 
di 
assicurare 
l’efficacia 
di 
tali 
misure, 
l’AGCOM 
ha 
anche 
avviato 
un’indagine 
conoscitiva 
(176), 
volta 
a 
valutare 
l’impatto 
delle 
piattaforme 
sull’economia 
e 
sulla 
società, classificando i 
servizi 
offerti 
da 
queste 
ultime 
e 
valutandone le potenzialità, le problematiche e gli effetti. 

11. La figura degli influencer. 
Il 
mondo dei 
social 
media, e 
soprattutto il 
modo in cui 
questi 
vengono 
utilizzati 
dai 
c.d. influencer, sta 
avendo un grande 
impatto anche 
per quanto 
concerne la materia relativa alla tutela dei marchi e della pubblicità occulta. 

L’AGCM, 
consapevole 
della 
portata 
della 
questione, 
ha 
mostrato 
una 
grande 
attenzione 
verso quest’ultima 
fattispecie, scegliendo di 
modificare 
il 
proprio 
approccio 
nell’ultimo 
periodo. 
Piuttosto 
che 
limitarsi 
a 
pronunce 
di 
soft 
law 
(177), 
sono 
state 
recentemente 
avviate, 
infatti, 
vere 
e 
proprie 
indagini 
istruttorie 
nei 
confronti 
delle 
imprese 
digitali, 
con 
lo 
scopo 
di 
spronarle 
all’adeguamento 
alla disciplina vigente. 


Dal 
momento 
che 
l’attività 
del 
c.d. 
influencer 
marketing 
(178) 
ricade 


(174) 
Accessibile 
da 
https://www.agcom.it/documents/10179/539471/Delibera+607-10CoNS/
13bf547f-48e6-4f22-94f4-b82a46bb41e3?version=1.0&targetExtension=pdf. 
(175) Si 
segnala 
che 
lo stesso impegno era 
già 
stato richiesto anche 
ai 
social 
media 
e 
ai 
servizi 
online, proprio in ragione 
dell’interazione 
fra 
i 
diversi 
mezzi 
di 
comunicazione; 
tuttavia, a 
differenza 
di 
quanto previsto per i media tradizionali, si trattava esclusivamente di un invito all’autodisciplina. 
(176) 
Disponibile 
su 
https://www.agcom.it/documents/10179/5041493/Delibera+309-16CoNS/
7f6d711a-ac5d-48b1-9b30-faa27d6a1ecb?version=1.0. 
(177) 
Le 
prime 
pronunce 
di 
“moral 
suasion” 
dell’AGCM 
risalgono 
alle 
estati 
del 
2017 
e 
del 
2018, 
con riferimento rispettivamente agli 
influencer 
più noti e ai c.d. micro-influencer. 
(178) 
Di 
influencer 
marketing 
si 
parla 
già 
in 
un 
articolo 
di 
G. 
SATELL, 
“3 
reasons 
to 
Kill 
Influencer 
marketing”, 
su 
Harvard 
Business 
review, 
2014; 
v. 
anche 
S. 
SARDELLA, 
“Influencer 
marketing 
e 
Fashion 
Law”, su iusinitinere.it, 19 aprile 2020. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


nell’ambito 
di 
applicazione 
del 
Codice 
del 
Consumo, 
non 
è 
raro 
che 
si 
vadano 
a configurare ipotesi di pubblicità occulta a danno del consumatore. 


Per 
ovviare 
a 
tale 
pericolosa 
situazione, 
è 
stato 
necessario 
l’intervento 
dello IAP, che 
ha 
reso pubblica 
la 
Digital 
Chart 
(179), che 
consiste 
in un documento 
-condiviso 
anche 
dall’AGCM 
-con 
cui 
sono 
fornite 
delle 
precise 
indicazioni 
per quanto riguarda 
le 
misure 
che 
gli 
influencer 
devono adottare 
al 
fine 
di 
rendere 
esplicita 
la 
finalità 
commerciale 
delle 
loro 
comunicazioni 
social 
(posts, stories), a 
seconda 
del 
tipo di 
contenuto che 
viene 
pubblicato e 
della 
natura 
del 
rapporto 
che 
lega 
l’influencer 
al 
titolare 
del 
marchio. 
Ed 
è 
sulla 
base 
di 
questa 
più limpida 
regolamentazione 
che 
l’Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato 
ha 
iniziato 
ad 
intervenire. 
Si 
pensi 
ai 
casi 
che 
hanno 
coinvolto 
Alitalia 
e 
Barilla: 
sono 
la 
testimonianza 
dell’attenzione 
dell’Autorità 
anche verso le più recenti evoluzioni del fenomeno. 


Per quanto concerne 
la 
tutela 
dei 
marchi, invece, vengono in rilievo anzitutto 
le 
questioni 
legate 
all’utilizzo degli 
hashtag; 
si 
pensi, ad esempio, alla 
possibilità 
di 
applicare 
a 
questi 
ultimi 
la 
disciplina 
propria 
dei 
segni 
distintivi. 

Recentemente, la 
giurisprudenza 
si 
è 
espressa 
sui 
marchi 
celebri, in un 
caso che 
ha 
visto protagonista 
la 
Ferrari 
(180). La 
pronuncia 
in questione 
ha 
suscitato grande 
interesse, da 
un lato perché 
si 
tratta 
di 
una 
delle 
primissime 
applicazioni 
del 
Codice 
della 
Proprietà 
Industriale 
al 
nuovo e 
specifico contesto 
dei 
social 
network, 
dall’altro 
perché 
vi 
si 
trova 
una 
grande 
estensione 
della 
tutela 
riconosciuta 
al 
titolare 
del 
marchio, 
al 
di 
là 
della 
funzione 
distintiva 
propria dello stesso. 


Più in generale, la 
diffusione 
di 
casi 
in cui 
il 
marchio celebre 
altrui 
è 
utilizzato 
non in funzione 
distintiva, bensì 
di 
agganciamento, è 
un tema 
che 
sta 
suscitando molto interesse. In alcuni 
casi, addirittura, il 
marchio viene 
utilizzato 
in maniera 
occulta, in funzione 
della 
presentazione 
di 
prodotti 
di 
concorrenti 
(ad esempio nei 
marketplace 
e nei 
recommender system). 


Sul 
tema, 
per 
quanto 
concerne 
l’ambito 
europeo 
e 
la 
legislazione 
europea, 
il 
riferimento obbligato è 
al 
“Social 
media discussion paper”, rilasciato dal-
l’Ufficio 
dell’UE 
per 
la 
Proprietà 
Intellettuale 
(EUIPO), 
il 
quale 
ha 
evidenziato 
ed esaminato le 
violazioni 
di 
diritti 
IP 
in cui 
è 
possibile 
incorrere 
attraverso 
l’utilizzo 
dei 
social 
media; 
contestualmente, 
è 
stata 
suggerita 
l’adozione 
di 
al


(179) Per la 
disciplina 
del 
Regolamento Digital 
Chart 
si 
veda 
M. RACO, “La Digital 
Chart: una 
prima regolamentazione 
dell’influencer 
marketing”, su iusinitinere.it, 5 maggio 2020; 
v. anche 
C. PAPPALARDO, 
“Influencer 
e 
Autodisciplina pubblicitaria -prime 
applicazioni 
della Digital 
Chart”, su De-
Jure. 
(180) Il 
caso è 
sorto a 
seguito di 
un reclamo cautelare 
presentato dalla 
Ferrari 
S.p.A. contro un 
famoso stilista 
tedesco, accusato di 
aver pubblicato, sul 
suo profilo social 
di 
Instagram, numerosi 
post 
e 
stories 
pubblicizzando 
calzature 
accanto 
al 
cofano 
della 
nota 
auto 
di 
lusso 
che 
porta 
il 
marchio 
Ferrari. 
Il 
Tribunale 
di 
Genova, 
con 
ordinanza 
n. 
15949 
del 
30 
gennaio 
2020, 
pubblicata 
il 
4 
febbraio, 
ha 
ritenuto 
che 
il 
marchio fosse 
da 
considerarsi 
notorio, e 
che 
lo stilista 
influencer 
lo abbia 
utilizzato in maniera 
scorretta (v. infra). 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


cune 
good 
practices 
allo 
scopo 
di 
impedire 
-o 
quantomeno 
arginare 
-gli 
effetti 
negativi che ne potrebbero derivare. 


Anche 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
è 
intervenuta 
sul 
tema 
relativo 
alle 
regole 
procedurali 
applicabili 
nel 
caso di 
azioni 
civili 
promosse 
per la 
contraffazione 
di 
marchi europei e nazionali, in cui siano parti due o più Stati Membri. 


Non è 
una 
novità, dunque, che 
l’avanzare 
dell’utilizzo di 
Internet, e 
soprattutto 
la 
diffusione 
dei 
social 
network, stiano modificando, rivoluzionandolo 
del tutto, il mondo della pubblicità e della tutela dei marchi. 


Anzitutto, è 
necessario volgere 
lo sguardo alle 
problematiche 
poste 
dalla 
pubblicità occulta e dalla tutela degli utenti-consumatori. 

Nel 
nostro ordinamento, è 
in particolare 
il 
Codice 
del 
Consumo a 
fornire 
le 
direttive 
che 
devono essere 
seguite 
nell’ambito delle 
attività 
pubblicitarie. 
Le 
regole 
ivi 
contenute, infatti, tutelano il 
consumatore 
tramite 
la 
predisposizione 
di 
norme 
finalizzate 
a 
garantire 
la 
massima 
trasparenza; 
è 
necessario, 
come 
prima 
cosa, assicurarsi 
che 
il 
destinatario del 
messaggio pubblicitario 
sia 
posto nella 
facoltà 
di 
discernere 
la 
natura 
commerciale 
di 
una 
data 
comunicazione, 
attraverso l’inserimento di appositi 
disclaimer. 


Per 
applicare 
questa 
disciplina 
è 
stato 
inevitabile 
un 
confronto 
con 
l’evoluzione 
delle 
tecnologie 
e 
dei 
mezzi 
di 
comunicazione, dapprima 
con riferimento 
alle opere audiovisive e, da ultimo, ai 
social network. 


Per 
quanto 
riguarda 
quest’ultimo 
profilo, 
con 
l’espressione 
“influencer 
marketing” 
(181) 
si 
intende 
-secondo 
una 
definizione 
condivisa 
dall’Autorità 
Garante 
per la 
Concorrenza 
e 
per il 
Mercato -“una modalità consolidata di 
comunicazione, 
consistente 
nella 
diffusione 
su 
blog, 
vlog 
e 
social 
network 
(come 
Facebook, 
Instagram, 
Twitter, 
YouTube, 
Snapchat, 
myspace) 
di 
foto, 
video 
e 
commenti 
da 
parte 
di 
blogger 
e 
influencer 
che 
mostrano 
sostegno 
o 
approvazione 
(endorsement) 
per 
determinati 
brand, 
generando 
un 
effetto 
pubblicitario”. 


Differentemente 
dal 
caso dei 
tradizionali 
canali 
di 
pubblicità, l’AGCM 
ha 
rilevato che 
la 
condivisione 
da 
parte 
degli 
influencer, sul 
proprio profilo 
privato, genera 
nell’utente-consumatore 
la 
sensazione 
di 
una 
maggiore 
credibilità 
del 
messaggio, 
poiché 
questo 
è 
inserito 
“in 
un 
flusso 
che 
dà 
l’impressione 
di 
una narrazione 
privata della quotidianità dell’influencer, che 
coinvolge 
i 
destinatari nel proprio racconto”. 

Il 
fenomeno in esame 
è 
talmente 
diffuso che, ormai, si 
assiste 
anche 
ad 
una 
sua 
evoluzione, 
che 
può 
essere 
ravvisata 
nel 
coinvolgimento 
sempre 
maggiore 
di 
soggetti 
che 
non godono di 
un numero di 
followers 
così 
elevato (si 
tratta dei c.d. microinfluencer). 


(181) Per un’analisi 
del 
fenomeno dell’influencer 
marketing, v. anche 
J. CIANI, M. TAVELLA, “La 
riconoscibilità 
della 
natura 
pubblicitaria 
della 
comunicazione 
alla 
prova 
del 
digital: 
native 
advertising 
tra 
obbligo 
di 
disclosure 
e 
difficoltà 
di 
controllo”, 
in 
“Social 
media 
e 
diritto. 
Diritti 
e 
social 
media” 
della 
rivista Informatica e Diritto, 2017. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Analizzando la 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Consumo, agli 
artt. 22 e 
23 in 
materia 
di 
pubblicità 
occulta 
-che 
sicuramente 
trovano 
applicazione 
anche 
qui 
-notiamo che 
le 
norme 
impongono l’adozione 
di 
specifici 
accorgimenti 
che 
consentano al 
consumatore 
di 
identificare 
in maniera 
chiara 
la 
presenza 
di un messaggio pubblicitario. 

Nel 
caso specifico dei 
messaggi 
pubblicitari 
veicolati 
attraverso i 
social 
network, è 
interessante 
analizzare 
l’intervento dell’Istituto di 
Autodisciplina 
Pubblicitaria (IAP). L’istituto ha 
pubblicato la 
“Digital 
Chart” 
(182), un importante 
documento che 
riporta 
le 
regole 
e 
le 
misure 
che 
tutti 
gli 
influencer 
sono obbligati 
a 
rispettare 
affinché 
l’attività 
di 
pubblicizzazione 
dei 
prodotti 
delle 
loro imprese 
digitali 
soddisfi 
il 
requisito della 
c.d. “riconoscibilità”. Si 
tratta 
della 
necessità 
che, al 
di 
là 
dello strumento utilizzato per porre 
in essere 
la 
comunicazione 
commerciale, se 
ne 
deve 
sempre 
garantire 
la 
piena 
riconoscibilità. 
La 
Digital 
Chart, che 
nell’ambito dell’accordo-quadro stipulato fra 
l’AGCM 
e 
l’Istituto (183) ha 
trovato anche 
l’approvazione 
dell’Autorità, distingue 
varie ipotesi, a seconda del tipo di contenuto condiviso sui 
social. 


La 
prima 
ipotesi 
analizzata 
è 
quella 
del 
c.d. 
“endorsement”, 
che 
si 
sostanzia 
nell’attività 
di 
chi 
accredita 
un 
prodotto 
per 
persuadere 
il 
pubblico 
al 
suo 
acquisto 
(184). 
All’interno 
di 
questa 
fattispecie, 
bisogna 
ulteriormente 
distinguere 
due 
casi: 
il 
caso 
in 
cui 
il 
rapporto 
fra 
il 
titolare 
del 
brand 
e 
l’influencer 
sia 
un 
rapporto 
di 
committenza 
e 
il 
diverso 
caso 
in 
cui 
il 
rapporto 
abbia 
natura 
meramente 
occasionale 
(es. 
invio 
gratuito 
di 
prodotti 
o 
dietro 
modico 
corrispettivo). 


Nel 
caso di 
rapporto di 
committenza, è 
necessario che 
la 
natura 
commerciale 
della 
comunicazione 
social 
sia 
resa 
esplicita 
tramite 
l’inserimento 
-nella 
caption 
che 
accompagna 
il 
post 
o le 
stories 
(in modo tale 
che 
la 
dicitura 
sia 
ben visibile 
rispetto agli 
elementi 
promozionali) -di 
diciture 
quali 
“Pubblicità/
Advertising”, o “Promosso da…brand/Promoted by…brand”o “Sponsorizzato 
da…brand/Sponsored 
by…brand”, 
o 
“in 
collaborazione 
con… 
brand/In partnership with…brand”; 
e/o nel 
caso di 
un post 
entro i 
primi 
tre 
hashtag, purché 
di 
immediata 
percezione, una 
delle 
seguenti 
diciture: 
“#Pubblicità/#
Advertising”, o “#Sponsorizzato da…brand/#Sponsored by…brand”, 


o “#ad” 
unitamente a 
“#brand”. 
(182) Regolamento Digital 
Chart 
sulla 
riconoscibilità 
della 
comunicazione 
commerciale 
diffusa 
attraverso 
internet, 
emanato 
nel 
2016 
dall’Istituto 
di 
Autodisciplina 
Pubblicitaria, 
disponibile 
qui 
https://www.iap.it/wp-content/uploads/2016/05/Digital-Chart-IAP-VErSIoNE-oNLINE.pdf; 
sul 
tema 
vedi 
anche 
E. NUNzIANTE, “Influencer 
e 
pubblicità, quale 
trasparenza: che 
fare”, su agendadigitale.eu, 
30 
ottobre 
2019; 
G. 
IOzzIA, 
“Influencer 
marketing 
e 
quadro 
normativo”, 
su 
altalex.com, 
17 
luglio 
2019. 
(183) 
Il 
testo 
dell’accordo 
è 
disponibile 
su 
https://www.iap.it/wp-content/uploads/2018/06/Accordo-
quadro_AGCom_IAP_amc.pdf. 
(184) 
Vedi 
anche 
R. 
MAzzUCCONI, 
“L’influencer 
marketing 
e 
il 
rapporto 
di 
endorsement 
tra 
aziende e influencers: profili giuridici e derive illecite”, su cyberlaws.it, 21 maggio 2020. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Se 
il 
rapporto 
tra 
il 
brand 
e 
l’influencer 
ha 
natura 
meramente 
occasionale, 
invece, 
è 
sufficiente 
che 
l’influencer 
inserisca 
un 
disclaimer 
del 
tenore 
di 
“prodotto 
inviato 
da…brand”, 
o 
equivalente. 
La 
particolarità, 
qui, 
è 
che 
l’inserzionista 
è 
in 
ogni 
caso 
tenuto, 
al 
momento 
dell’invio 
del 
prodotto, 
ad 
informare 
l’influencer 
riguardo quest’ultimo obbligo. 


Allo 
stesso 
modo, 
anche 
nella 
seconda 
ipotesi, 
ossia 
nel 
caso 
in 
cui 
la 
comunicazione 
commerciale 
sia 
diffusa 
sul 
web mediante 
un video (185), bisogna 
distinguere 
a 
seconda 
della 
natura 
del 
rapporto giuridico esistente 
fra 
le 
parti. Se 
fra 
inserzionista 
e 
influencer 
esiste 
un rapporto di 
committenza, la 
Digital 
Chart 
richiede 
che 
sia 
la 
descrizione 
del 
video 
che 
le 
scene 
iniziali 
dello stesso debbano riportare 
delle 
avvertenze 
scritte 
che 
ne 
rendano chiara 
ed 
esplicita 
la 
natura 
commerciale; 
si 
precisa 
che, 
nei 
video 
in 
streaming, 
queste 
avvertenze 
devono 
essere 
ribadite 
nel 
corso 
della 
trasmissione. 
I 
disclaimer 
devono altresì 
comparire 
alla 
fine 
del 
video, nonché 
ogni 
volta 
che 
siano inquadrati 
in maniera specifica i prodotti inseriti a fini commerciali. 

Nel 
caso 
in 
cui, 
invece, 
le 
parti 
siano 
legate 
da 
un 
rapporto 
meramente 
occasionale, 
l’influencer 
può 
limitarsi 
ad 
inserire 
in 
apertura 
del 
video 
un 
disclaimer, 
che 
può 
essere 
sia 
in 
forma 
verbale 
che 
in 
forma 
scritta, 
del 
tenore 
di 
“questo 
prodotto 
mi 
è 
stato 
inviato 
da…”; 
in 
questo 
caso, 
resta 
ferma 
la 
responsabilità 
dell’inserzionista 
di 
informare 
l’influencer 
sull’esistenza 
di 
tale 
obbligo. 


A 
causa 
della 
violazione 
di 
queste 
ultime 
regole, l’AGCM 
potrebbe 
irrogare 
una 
sanzione 
nei 
confronti 
dei 
cantanti 
Fedez, 
Orietta 
Berti 
e 
Achille 
Lauro per il videoclip caricato su Youtube 
del brano musicale “mille” (186). 

Lo scorso settembre, infatti, è 
pervenuta 
una 
segnalazione 
del 
Codacons, 
e 
l’Autorità 
ha 
aperto un’indagine 
istruttoria 
per verificare 
la 
configurabilità 
di 
pubblicità 
occulta 
in favore 
del 
marchio Coca-cola. Secondo il 
comunicato 
stampa 
diffuso dal 
Codacons, il 
motivo della 
contestazione 
non sarebbe 
tanto 
il 
testo del 
brano musicale, libera 
espressione 
dell’artista, quanto il 
video promozionale 
dello 
stesso, 
che 
non 
reca 
indicazioni 
sufficienti 
a 
chiarire 
la 
natura 
commerciale 
della 
comunicazione, 
mostrando 
durante 
l’intero 
video, 
in 
più 
occasioni, il marchio della nota bevanda. 


Per 
quanto 
riguarda 
la 
terza 
ipotesi, 
si 
tratta 
della 
fattispecie 
in 
cui 
la 
promozione 
del 
prodotto 
avvenga 
esclusivamente 
mediante 
l’invito 
dell’influencer 


(185) Per un accurato approfondimento del 
Product 
Placement 
si 
veda 
M. RACO, “Product 
placement 
ai 
limiti 
della pubblicità occulta: Baby 
K e 
Chiara Ferragni 
per 
Pantene”, su 
iusinitinere.it, 3 
gennaio 2021; 
P.F. CARBALLO 
-CALERO, “Pubblicità occulta e 
product 
placement”, Cedam, 2004; 
vedi 
anche 
V. D’ANTONIO 
e 
D. TARANTINO, “Il 
product 
placement 
nell’ordinamento italiano: breve 
fenomenologia 
di uno strumento pubblicitario”, in Comparazione e Diritto Civile, 2011. 
(186) V. “Pubblicità occulta alla Coca Cola nel 
video di 
“mille”: Fedez 
rischia una multa di 
5 
milioni 
dall’Antitrust”, 
su 
codacons.it, 
5 
settembre 
2021; 
E. 
SIMIONATO 
e 
M.E. 
ORLANDINI, 
“Fedez, 
mille 
e Coca Cola: è davvero pubblicità occulta?”, su iusinitinere.it, 8 luglio 2021. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


a 
partecipare 
ad 
un 
determinato 
evento. 
Poiché 
la 
fattispecie 
dà 
luogo 
ad 
un 
rapporto 
occasionale, 
secondo 
la 
disciplina 
della 
Digital 
Chart 
l’influencer 
deve 
solamente 
informare 
il 
pubblico, 
dal 
momento 
in 
cui 
fa 
pubblicità 
dei 
contenuti 
riguardanti 
l’evento, 
che 
la 
propria 
partecipazione 
è 
legata 
ad 
invito 
da 
parte 
del 
professionista 
(il 
quale 
comunque 
rimane 
obbligato 
ad 
informare 
in 
tal 
senso). 


Per 
quanto 
concerne 
i 
contenuti 
generati 
dagli 
utenti 
(c.d. 
“user 
generated 
content”), è 
parimenti 
richiesta 
l’adozione 
di 
una 
delle 
misure 
su indicate 
per 
precisare 
la 
natura 
della 
comunicazione. A 
tal 
proposito, si 
segnala 
che 
l’Autorità 
Garante 
ha 
recentemente 
avviato un’indagine 
istruttoria 
(187) dopo che 
alcuni 
noti 
influencer 
avevano pubblicato post 
e 
stories 
chiedendo ai 
propri 
followers 
di 
ripubblicare 
(c.d. repost) loro contenuti 
con l’utilizzo di 
specifici 
tag 
e 
hashtag 
riconducibili alla promozione del prodotto Glo Hyper. 


In questo caso viene 
in rilievo, più che 
altro, il 
problema 
relativo all’attività 
pubblicitaria 
posta 
in essere 
indirettamente 
dagli 
utenti, e 
i 
quesiti 
che 
ci 
poniamo 
sono 
i 
seguenti: 
qual 
è 
la 
natura 
degli 
ulteriori 
post 
pubblicati 
dagli 
utenti? Qual è, inoltre, l’impatto che ne deriva sugli altri utenti? 


È 
normale 
che 
sia 
molto più complicato, in questo caso, riconoscere 
in 
maniera 
lampante 
la 
natura 
commerciale 
delle 
comunicazioni. 
Non 
a 
caso, 
nel 
comunicato stampa 
divulgato dall’AGCM 
il 
21 maggio 2021, si 
legge: 
“L’intervento 
si 
inserisce 
nell’ambito 
di 
un 
filone 
di 
indagine 
che, 
seguendo 
le 
evoluzioni 
delle 
tecniche 
di 
marketing adottate 
sui 
social 
media, punta a colpire 
le 
comunicazioni 
apparentemente 
neutrali 
e 
disinteressate 
ma in realtà strumentali 
a 
promuovere 
un 
prodotto 
e, 
come 
tali, 
in 
grado 
di 
influenzare 
le 
scelte 
del consumatore”. 


Secondo 
la 
nuova 
disciplina, 
occorre 
inserire 
disclaimer 
anche 
in 
altri 
casi 
riconducibili 
alle 
seguenti 
ipotesi: 
“In-feed 
units” 
(ossia 
contenuti 
redazionali), 
“paid 
search 
units” 
(risultati 
di 
ricerca 
sponsorizzati), 
“in 
App 
advertising” 
(app 
con 
contenuto 
pubblicitario), 
“recommendation 
widgets” 
(contenuti 
raccomandati) 
e 
“advergame” 
(giochi 
promozionali). 


Bisogna 
ora 
porre 
l’attenzione 
sull’evoluzione 
che 
l’approccio adottato 
nei 
confronti 
degli 
influencer 
dall’Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato ha avuto negli ultimi anni. 

In passato, l’approccio dell’Antitrust 
si 
è 
sempre 
limitato all’adozione 
di 
decisioni 
di 
moral 
suasion: 
si 
trattava 
di 
strumenti 
di 
soft 
law, di 
meri 
inviti, 
diretti 
alle 
imprese 
digitali, 
volti 
a 
far 
adeguare 
gli 
influencer 
alle 
disposizioni 
della 
Digital Chart 
e del Codice di autodisciplina dell’IAP. 

Ultimamente, 
invece, 
l’Autorità 
ha 
avviato 
diverse 
indagini 
per 
pubblicità 
occulta, 
a 
causa 
dell’importanza 
assunta 
da 
questo 
fenomeno 
sul 
mercato 
e 


(187) 
Accessibile 
da 
https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2021/5/PS12009; 
v. 
E. 
SIMIONATO, 
“AGCm 
e 
pubblicità 
occulta: 
aperto 
il 
procedimento 
istruttorio 
nei 
confronti 
di 
BAT 
e 
Stefano 
De martino, Cecilia rodriguez e Stefano Sala”, su iusinitinere.it, 1° giugno 2021. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


sulla 
concorrenza. 
E 
proprio 
tramite 
varie 
pronunce 
adottate 
dall’Autorità 
nell’ambito di 
questi 
procedimenti, sono state 
elaborate 
vere 
e 
proprie 
linee-
guida, 
che 
permettono 
ad 
aziende 
e 
influencer 
di 
avere 
un 
punto 
di 
riferimento 
per adeguarsi 
alle 
misure 
e 
per adottare 
i 
giusti 
accorgimenti, al 
fine 
di 
evitare 
l’insorgenza di violazioni e l’irrogazione di sanzioni. 


Uno 
dei 
primi 
casi 
in 
cui 
si 
è 
pronunciata 
l’Autorità 
è 
quello 
relativo 
al-
l’indagine 
per 
pubblicità 
occulta 
scaturita 
dalla 
pubblicazione, 
sui 
profili 
Instagram 
di 
diversi 
influencer, 
di 
post 
raffiguranti 
immagini 
di 
capi 
firmati 
da 
Alberta 
Ferretti 
in 
cui 
appariva 
inquadrato 
il 
logo 
di 
Alitalia, 
indagine 
conclusasi 
con 
l’importante 
Provvedimento 
n. 
27787/19 
(188). 
Si 
è 
configurata, 
nel 
caso 
di 
specie, 
una 
possibile 
violazione 
degli 
artt. 
22 
e 
23, 
comma 
1, 
lett. 
m) 
del 
Codice 
del 
Consumo, 
in 
quanto 
nella 
pubblicazione 
dei 
post 
suddetti 
sembrava 
chiaro 
l’intento 
promozionale, 
sia 
considerando 
la 
proporzionalità 
della 
citazione 
dei 
marchi, 
sia 
valutando 
il 
contesto 
in 
cui 
erano 
inseriti 
i 
post. 
Nonostante 
ciò, 
non 
era 
possibile, 
per 
l’utente 
consumatore 
che 
avesse 
visionato 
detti 
post, 
identificare 
chiaramente 
la 
natura 
commerciale 
della 
comunicazione. 


A 
seguito dell’apertura 
delle 
indagini 
istruttorie, Alitalia 
ha 
inoltrato alle 
imprese 
digitali 
coinvolte 
la 
raccomandazione 
ad 
adeguarsi 
alla 
normativa 
sulle 
pratiche 
commerciali 
scorrette. 
A 
ciò 
si 
è 
aggiunto, 
da 
un 
lato, 
l’impegno 
ad adottare 
specifiche 
linee-guida 
per definire 
le 
regole 
di 
condotta 
che 
gli 
influencer 
devono 
seguire, 
poiché 
parte 
dell’accordo 
di 
collaborazione 
commerciale 
stipulato 
con 
la 
società, 
e 
dall’altro, 
l’introduzione 
-nei 
contratti 
di 
co-marketing 
per la 
concessione 
della 
licenza 
del 
marchio Alitalia 
e 
nei 
contratti 
di 
licenza 
del 
marchio 
a 
fini 
promozionali 
-dell’obbligo 
per 
i 
partner 
commerciali 
di 
adottare 
tutte 
le 
misure 
e 
le 
cautele 
necessarie 
per evitare 
che 
si 
verifichino fenomeni 
di 
pubblicità 
occulta. Se 
suddetto obbligo viene 
violato, 
si 
attiva 
una 
specifica 
procedura 
di 
avvertimento, 
che 
potrebbe 
anche 
concludersi 
con l’irrogazione 
di 
una 
penale. Anche 
la 
società 
di 
riferimento 
del marchio di 
Alberta Ferretti, Aeffe, ha assunto impegni simili. 


Per 
quanto 
riguarda 
gli 
influencer 
coinvolti, 
essi 
si 
sono 
specificatamente 
impegnati 
a 
rispettare 
quanto previsto sull’utilizzo di 
hashtag 
e 
diciture 
varie 
nella 
pubblicazione 
dei 
post, al 
fine 
di 
rispettare 
la 
disciplina 
contenuta 
nella 
Digital Chart. 


Dal 
momento che 
gli 
impegni 
assunti 
dalle 
parti 
coinvolte 
sono stati 
ritenuti 
idonei, l’istruttoria 
si 
è 
conclusa 
senza 
accertamento di 
infrazione; 
tuttavia, 
l’Autorità 
ha 
ritenuto di 
ordinare 
alle 
parti 
suddette 
di 
dare 
attuazione 


(188) Testo del 
provvedimento disponibile 
su https://www.agcm.it/dotcmsCustom/tc/2024/6/getDominoAttach?
urlStr=192.168.14.10:8080/C12560D000291394/0/E6B624BBD0F6A573C1258415004 
9D1EE/$File/p27787.pdf; 
v. B. MANCA, “L’Antitrust 
apre 
istruttoria su Alitalia e 
Aeffe 
di 
Alberta Ferretti: 
nel 
mirino anche 
le 
foto di 
influencer: 
“pubblicità non riconoscibile”, su 
ilfattoquotidiano.it, 15 
dicembre 2018. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


alle 
misure 
proposte, avvertendo che, in caso di 
mancata 
ottemperanza, sarà 
applicata 
una 
sanzione 
amministrativa 
pecuniaria 
da 
10.000 
a 
5.000.000 
euro, 
nonché 
la 
sospensione 
dell’attività 
per 
un 
periodo 
non 
superiore 
a 
trenta 
giorni 
se l’inottemperanza sarà reiterata. 


Il 
secondo caso interessante 
da 
prendere 
in considerazione 
è 
quello relativo 
alla 
pubblicizzazione 
degli 
integratori 
alimentari 
prodotti 
da 
JuicePlus+. 
Il 
procedimento 
istruttorio 
-che 
si 
è 
concluso 
con 
il 
Provvedimento 
n. 
27612/2019 (189) -ha 
visto l’azienda 
protagonista 
porre 
in essere 
attività 
di 
divulgazione 
di 
informazioni 
sulle 
caratteristiche 
e 
la 
natura 
dei 
prodotti 
tramite 
gruppi 
segreti 
di 
Facebook; 
alcuni 
rivenditori 
dell’azienda 
portavano 
i 
consumatori 
ad entrare 
nei 
gruppi 
a 
fini 
promozionali. I post 
contestati 
dal-
l’Autorità 
narravano l’esperienza 
personale 
di 
alcuni 
consumatori, mentre 
in 
alcuni 
casi 
l’amministratore 
della 
pagina 
Facebook 
condivideva 
esperienze 
di 
consumo personale o esperienze di terzi. 

I 
contenuti 
della 
pagina 
erano 
accomunati 
da 
una 
forte 
enfatizzazione 
delle 
proprietà 
degli 
integratori 
e 
dei 
risultati 
ottenuti. Nell’indagine 
condotta 
dall’Autorità 
è 
emerso che 
alcuni 
dei 
soggetti 
che 
si 
presentavano come 
consumatori 
erano, in realtà, i 
rivenditori 
del 
prodotto. Ciò avveniva 
anche 
attraverso 
i profili privati degli stessi o all’interno di chat private su Whatsapp. 

Non solo, è 
emerso anche 
che 
le 
informazioni 
divulgate 
erano fuorvianti 
e 
inesatte, 
sia 
sotto 
il 
profilo 
della 
qualità 
e 
delle 
proprietà 
dei 
prodotti 
venduti, 
sia sotto quello della modalità di utilizzo degli stessi. 


L’istruttoria 
ha 
evidenziato, inoltre, che 
era 
stata 
la 
stessa 
azienda 
ad invitare 
i 
venditori 
a 
diventare 
“brand di 
se 
stessi”, promuovendo l’uso dei 
prodotti 
attraverso 
i 
propri 
profili 
sui 
social 
network 
e 
proponendosi 
come 
esempi 
da 
seguire 
nel 
proprio stile 
di 
vita. Il 
problema 
è 
che 
nelle 
operazioni 
e 
indicazioni 
dell’azienda 
non vi 
era 
alcun riferimento alla 
necessità 
di 
identificarsi 
chiaramente 
dinnanzi 
agli 
utenti-consumatori 
come 
venditori 
della 
stessa. 
Poiché, 
dunque, la 
condotta 
tenuta 
dalla 
società 
integra 
una 
pratica 
commerciale 
scorretta 
ai 
sensi 
degli 
artt. 20, 21, 22, comma 
2 e 
23, comma 
1, lett. aa) del 
Codice 
del 
consumo, l’Autorità 
ha 
accertato la 
violazione 
ed ha 
irrogato una 
sanzione amministrativa pecuniaria di 1.000.000 di euro. 


Il 
terzo caso da 
prendere 
in considerazione 
è 
quello relativo alla 
società 
Barilla 
(Provvedimento 
n. 
28167/2020) 
(190), 
la 
cui 
vicenda 
pone 
in 
luce 
l’evoluzione 
del 
fenomeno 
dell’influencer 
marketing, 
facendo 
venire 
in 
rilievo 
il 
coinvolgimento 
dei 
c.d. 
microinfluencer. 
Anche 
in 
questo 
caso 
-relativo 
alla 
pubblicazione 
di 
post 
della 
linea 
di 
prodotti 
“Pan di 
Stelle” 
-la 
contestazione 


(189) 
Accessibile 
da 
https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11050_scorr-sanz_omi.pdf. 
v. anche 
l’articolo “Vendite 
segrete 
integratori 
su Fb, Antitrust 
multa Juice 
Plus” 
su adnkronos.com, 15 
aprile 2019. 
(190) Testo accessibile da 
https://www.agcm.it/dotcmsdoc/bollettini/2020/11-20_all.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


dell’Autorità 
riguardava 
la 
violazione 
delle 
norme 
dettate 
dal 
Codice 
del 
Consumo 
in 
materia 
di 
pubblicità 
occulta 
(191). 
Ebbene, 
poiché 
tutte 
le 
parti 
coinvolte 
hanno 
formulato 
delle 
proposte 
di 
impegni 
concernenti 
l’adozione 
di 
misure 
volte 
a 
garantire 
maggiore 
trasparenza 
nella 
divulgazione 
dei 
contenuti 
di 
natura 
commerciale, 
l’istruttoria 
si 
è 
conclusa 
solamente 
con 
la 
disposizione 
dell’obbligo 
di 
dare 
attuazione 
agli 
impegni 
formulati, 
senza 
alcuna 
irrogazione 
di 
sanzione. 
Poiché 
in 
questo 
caso 
peculiare 
ad 
essere 
coinvolti 
sono 
stati 
i 
c.d. microinfluencer, le 
misure 
di 
cui 
si 
è 
proposta 
l’adozione 
differiscono 
leggermente 
da 
quelle 
oggetto 
del 
provvedimento 
di 
Alitalia, 
ma 
rispondono 
alla 
medesima 
ratio 
e 
alla 
necessità 
di 
trasparenza 
e 
tutela 
del 
consumatore. 

Nell’analisi 
delle 
problematiche 
relative 
al 
nuovo mondo digitale, quella 
relativa 
al 
reparto 
di 
competenze 
fra 
le 
diverse 
autorità 
garanti 
che 
operano 
nel 
nostro Paese 
è 
sicuramente 
di 
grande 
rilievo. Complice 
la 
natura 
intrinsecamente 
trasversale 
dei 
problemi 
affrontati, urge 
un approccio sempre 
più sinergico 
tra 
le 
autorità, anche 
a 
causa 
della 
difficoltà, se 
non l’impossibilità, di 
distinguere 
nettamente 
fra 
le 
competenze 
attribuite 
all’una 
o 
all’altra 
istituzione. 
Per 
quanto 
riguarda, 
dunque, 
il 
fenomeno 
dell’influencer 
marketing 
(192), si 
rileva 
che, pur riguardando prevalentemente 
il 
tema 
del 
consumo e 
ricadendo dunque 
entro l’ambito di 
competenza 
dell’AGCM, ci 
sono alcuni 
profili 
che 
rendono auspicabile 
-se 
non addirittura 
necessario -il 
coinvolgimento 
di altre autorità, prima fra tutte l’AGCOM. 


Il 
commissario dell’AGCOM, Laura 
Aria, ha 
analizzato il 
tema, esaminando 
quale 
potrebbe 
essere 
l’impatto della 
Direttiva 
SMAV 
(Servizi 
Media 
AudioVisivi) 
e 
delle 
proposte 
della 
Commissione 
Europea 
sui 
mercati 
digitali 
(DMA 
e 
DSA), se 
le 
stesse 
fossero approvate. È 
noto che 
la 
crescente 
importanza 
delle 
piattaforme 
online 
ha 
portato alla 
necessità 
di 
regolamentare 
più 
compiutamente 
un settore 
che, fino a 
poco tempo fa, non era 
stato adeguatamente 
studiato 
nelle 
proprie 
peculiarità. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
nuova 
Direttiva 
SMAV, 
essa 
riconosce, 
per 
la 
prima 
volta, 
l’equiparabilità 
delle 
piattaforme 
di 
video sharing 
rispetto ai 
media 
tradizionali, con tutte 
le 
conseguenze 
che 
ne derivano in termini di responsabilità. E non solo. 

Da 
tale 
equiparazione 
deriva, infatti, la 
legittimazione 
dell’AGCOM 
ad 
intervenire 
per 
svolgere 
la 
propria 
attività 
di 
controllo. 
Ma 
siccome 
la 
Direttiva 
volge 
la 
propria 
attenzione 
anche 
ai 
pericoli 
in 
cui 
incorrono 
i 
consumatori 
nell’utilizzo 
delle 
piattaforme 
video, 
l’ambito 
di 
competenza 
dell’autorità 
deve 


(191) 
G. 
DE 
CRISTOFARO, 
“Influencer 
marketing: 
caso 
‘Crema 
Pan 
di 
Stelle’. 
Come 
nel 
caso 
Alitalia-
Ferretti 
nessuna 
sanzione. 
L’Antitrust 
accetta 
gli 
impegni 
di 
Barilla 
e 
dei 
micro-Influencer. 
tanto 
rumore 
per 
nulla? 
Non 
si 
direbbe: 
altri 
spunti 
utili 
per 
inserzionisti 
e 
influencer”, 
su 
youmark.it, 
17 
marzo 
2020. 
(192) 
Sul 
tema 
v. 
anche 
S. 
BARCO, 
“Il 
contratto 
di 
Influencer 
marketing: 
profili 
civilistici 
del 
rapporto 
tra brand ed influencer”, su iusinitinere.it, 28 maggio 2020. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


ritenersi 
esteso 
anche 
a 
questi 
profili, 
soggetti, 
come 
noto, 
al 
controllo 
da 
parte 
dell’AGCM. 

È 
un 
profilo 
molto 
innovativo; 
si 
pensi 
al 
fatto 
che 
la 
SMAV 
prevede 
anche 
l’introduzione 
di 
meccanismi 
di 
risoluzione 
extragiudiziale 
delle 
controversie 
e 
di 
indennizzo nel 
caso di 
disservizi 
a 
scapito dei 
consumatori, la 
cui 
definizione 
procedurale 
potrebbe 
ragionevolmente 
spettare 
proprio 
all’AGCOM. 


Si 
pensi 
anche 
alle 
proposte 
della 
Commissione 
europea 
per 
la 
regolamentazione 
dei 
mercati 
digitali: 
esse 
andrebbero senza 
dubbio ad incidere 
sul 
profilo suddetto. 

Il 
Digital 
Services 
Act 
interviene, 
infatti, 
sul 
regime 
di 
responsabilità 
delle 
piattaforme 
online, 
qualificate 
come 
servizi 
di 
hosting 
provider, 
alle 
quali 
verrebbe 
applicato un sistema 
che 
ricalca 
quello previsto attualmente 
dall’art. 17 
della 
Direttiva 
e-commerce. Si 
prevede 
l’individuazione 
di 
una 
o più autorità 
competenti 
all’interno di 
ciascun Stato Membro, che 
garantiscano l’effettiva 
applicazione 
della 
disciplina 
e 
svolgano 
attività 
di 
controllo: 
ebbene, 
una 
delle 
possibilità sarebbe quella di attribuire tali poteri proprio all’AGCOM. 

Dal 
canto 
suo, 
il 
Digital 
markets 
Act 
pone, 
invece, 
il 
tema 
della 
potenziale 
concorrenza 
dell’AGCOM 
e 
dell’AGCM 
quali 
Garanti 
per 
l’applicazione 
del 
Regolamento, 
dato 
che 
si 
includono 
anche 
le 
piattaforme 
video 
fra 
i 
soggetti 
potenzialmente 
qualificabili 
come 
“gatekeeper” 
(ossia 
le 
piattaforme 
online 
che 
controllano 
gli 
accessi 
ai 
mercati) 
e 
quindi 
destinatari 
della 
disciplina 
ivi 
prevista. 


Oltre 
al 
profilo della 
pubblicità 
occulta, c’è 
un altro ambito in cui 
viene 
in rilievo l’attività 
degli 
influencer, ossia 
quello legato all’utilizzo dei 
marchi 
e alla tutela dei diritti di soggetti terzi. 


Si 
pensi, 
anzitutto, 
alla 
possibilità 
che 
la 
promozione 
dei 
prodotti 
mediante 
l’influencer 
marketing 
contrasti 
con 
il 
rispetto 
della 
disciplina 
sulla 
tutela 
dei 
dati 
personali, 
dal 
momento 
che 
l’immagine 
di 
una 
persona, 
tale 
da 
consentirne 
l’identificazione, 
viene 
considerata 
un 
dato 
personale 
e, 
perciò, 
non 
è 
ammissibile 
la 
sua 
divulgazione 
senza 
il 
consenso 
da 
parte 
dell’interessato. 


È 
lecito 
affermare, 
dunque, 
che 
l’utilizzo 
di 
un’immagine 
di 
un 
influencer 
a 
fini 
promozionali, 
se 
manca 
uno 
specifico 
accordo 
in 
tal 
senso, 
può 
integrare 
gli estremi di una violazione della suddetta disciplina. 

Si 
deve 
anche 
avere 
riguardo 
della 
necessità 
di 
tutelare 
i 
diritti 
di 
paternità 
dell’opera 
e 
di 
natura 
patrimoniale 
attribuibili 
al 
fotografo che 
ha 
realizzato 
l’immagine. 


Si 
devono considerare, inoltre, le 
ipotesi 
nelle 
quali 
l’immagine, che 
si 
usa 
per 
sponsorizzare 
un 
dato 
prodotto, 
presenti 
anche 
marchi 
ulteriori; 
in 
tale 
circostanza 
la 
condotta 
può portare 
ad una 
violazione 
dei 
diritti 
di 
esclusiva, 
che 
sono 
riservati 
al 
titolare 
del 
marchio, 
potendo 
anche 
integrare 
la 
fattispecie 
di concorrenza sleale. 


Un esempio di 
violazione 
della 
normativa 
che 
tutela 
il 
marchio da 
parte 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


di 
attività 
di 
influencer 
marketing 
è 
il 
caso 
deciso 
dal 
Tribunale 
di 
Genova 
che, 
con 
l’ordinanza 
n. 
15949/2020 
(193), 
ha 
applicato 
per 
la 
prima 
volta 
l’art. 
20, comma 
1, lett. c) del 
Codice 
della 
Proprietà 
Industriale 
allo specifico contesto 
dei 
social network. 


Si 
tratta 
di 
un caso in cui 
a 
venire 
in rilievo è 
stato un marchio notorio, e 
dunque 
l’articolo, in questi 
casi, prevede 
che 
l’utilizzo di 
tale 
marchio è 
illecito, 
anche 
per 
fini 
diversi 
da 
quello 
di 
distinzione 
di 
prodotti 
e 
servizi, 
se 
“senza 
giusto 
motivo 
consente 
di 
trarre 
indebitamente 
vantaggio 
dal 
carattere 
distintivo o dalla rinomanza del 
marchio stesso”. Dunque, l’utilizzo del 
marchio 
notorio sui 
social 
network 
da 
parte 
di 
terzi 
è 
lecito soltanto se 
non è 
effettuato 
a 
fini 
commerciali 
o 
se 
è 
espressamente 
autorizzato 
dal 
titolare 
del 
marchio stesso. 


Nel 
caso 
di 
specie, 
l’influencer 
tedesco 
Philipp 
Plein 
aveva 
pubblicato 
numerose 
foto 
promozionali 
di 
un 
paio 
di 
calzature 
sul 
cofano 
di 
una 
delle 
autovetture 
della 
nota 
casa 
automobilistica 
Ferrari, inquadrandone 
chiaramente 
il marchio, senza godere di alcuna autorizzazione in tal senso. 

Il 
Tribunale, 
con 
l’ordinanza 
del 
30 
gennaio 
2020, 
pubblicata 
il 
successivo 
4 
febbraio, 
ha 
evidenziato 
che 
nel 
caso 
di 
specie 
non 
fosse 
riscontrabile 
alcuno 
scopo 
ad 
esclusione 
di 
quello 
di 
favorire 
la 
pubblicizzazione 
delle 
calzature. 
I 
giudici 
hanno, 
pertanto, 
considerato 
illecita 
la 
condotta 
tenuta 
dall’influencer, 
che 
è 
stato 
condannato 
a 
rimuovere 
i 
post 
oggetto 
del 
contenzioso 
e, 
inoltre, 
è 
stata 
imposta 
l’inibizione 
a 
qualsiasi 
futuro 
utilizzo 
del 
marchio 
in 
questione 
(pena 
l’irrogazione 
di 
una 
sanzione 
pari 
a 


20.000 
euro 
per 
ogni 
violazione). 
Altro profilo che 
viene 
in rilievo nel 
caso di 
specie 
è 
quello che 
concerne 
il 
c.d. 
offuscamento 
(o 
diluition 
by 
tarnishment), 
ossia 
l’ipotesi 
in 
cui 
l’utilizzo 
da 
parte 
di 
terzi 
del 
segno/marchio rechi 
pregiudizio al 
titolare, poiché 
alternativamente 
rovina 
l’immagine 
dello 
stesso 
agli 
occhi 
del 
pubblico 
oppure 
viene 
inserito 
in 
un 
contesto 
che 
si 
pone 
in 
contrasto 
rispetto 
all’immagine 
promossa 
in precedenza, vanificando gli 
sforzi 
del 
titolare 
per promuoverla. 
Ebbene, in questo caso è 
stata 
contestata 
la 
pubblicazione 
sul 
social 
network 
di 
video 
ritraenti 
giovani 
donne 
in 
abiti 
succinti, 
intente 
nel 
lavaggio 
di 
un’autovettura 
della 
nota 
casa 
automobilistica, 
sul 
cofano 
della 
quale 
erano 
collocate 
le calzature oggetto di promozione commerciale. 
È 
necessario 
anche 
analizzare 
il 
profilo 
relativo 
all’utilizzo 
degli 
hashtag. 
Una 
domanda 
che 
ci 
si 
è 
posti 
è 
la 
seguente: 
è 
possibile 
qualificarli 
come 
marchi, riconoscendone la funzione di segno distintivo? (194). 


(193) L’ordinanza 
è 
commentata 
da 
S. GIANCONE, “Influencer 
e 
social 
network: quando l’uso di 
un marchio altrui è un atto illecito”, su iusinitinere.it, 8 ottobre 2020. 
(194) 
Sul 
tema, 
v. 
L. 
BERTO, 
“È 
possibile 
registrare 
un 
hashtag 
come 
marchio?”, 
su 
iusinitinere.it, 
13 novembre 2017. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


Partiamo dal 
presupposto che 
la 
funzione 
degli 
hashtag 
è 
molto diversa: 
trattandosi 
di 
strumenti 
finalizzati 
a 
facilitare 
le 
ricerche 
da 
parte 
degli 
utenti, 
raggruppano 
prodotti 
e 
servizi 
simili 
sotto 
una 
stessa 
dicitura; 
dunque, 
gli 
stessi 
rispondono ad una 
ratio 
completamente diversa dai marchi. 

In più, bisogna 
considerare 
che 
applicargli 
la 
disciplina 
della 
tutela 
dei 
marchi, limitandone 
di 
conseguenza 
l’utilizzo, rischierebbe 
di 
limitare 
in maniera 
ingiustificata 
la 
libertà 
di 
espressione 
degli 
utenti. È 
anche 
vero, però, 
che 
in maniera 
sempre 
più diffusa 
si 
verificano sui 
social 
episodi 
di 
agganciamento 
a 
marchi 
noti, proprio tramite 
lo strumento dell’hashtag, che 
ricollega 
tramite un click un determinato marchio. 


Proprio per questo, è 
lecito chiedersi 
se 
un diritto di 
registrazione 
degli 
hashtag 
come 
marchi 
possa 
esistere, e 
se 
questi 
possano godere 
o meno dei 
requisiti 
necessari 
per poter essere 
qualificati 
come 
tali, primo fra 
tutti 
la 
capacità 
distintiva. 


Purtroppo, 
la 
normativa 
italiana, 
come 
la 
disciplina 
europea, 
non 
è 
chiara 
sul 
punto, 
e 
neanche 
la 
giurisprudenza 
è 
riuscita 
a 
dettare 
direttive 
da 
seguire, 
potendo 
essere 
considerate 
rilevanti 
sul 
punto 
soltanto 
le 
pronunce 
che 
sanciscono 
il 
divieto 
di 
utilizzo 
non 
autorizzato 
del 
marchio 
altrui 
come 
AdWords 
o 
keyword. 


Ebbene, su questo elemento si 
è 
espresso il 
Tribunale 
di 
Milano nel 
2018 
(195): 
i 
giudici 
hanno censurato l’utilizzo del 
marchio da 
parte 
di 
terzi 
al 
solo 
scopo 
parassitario, 
per 
sfruttare 
la 
rinomanza 
del 
nome 
del 
marchio 
per 
accreditare 
i propri prodotti. 

Bisogna 
ribadire, infatti, che 
il 
fine 
delle 
parole 
chiave 
è 
quello di 
fornire 
all’utente 
la 
possibilità 
concreta 
di 
scegliere 
tra 
le 
alternative 
commerciali 
presenti 
sul mercato. 


Comunque, 
nel 
silenzio 
del 
legislatore 
sul 
punto, 
in 
ragione 
della 
crescente 
importanza 
dell’utilizzo 
degli 
hashtag 
sul 
mercato, 
molti 
produttori 
hanno iniziato a registrarli insieme ai marchi. 


L’interesse 
verso 
i 
rischi 
legati 
alla 
tutela 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale, 
nel 
contesto 
emergente 
dei 
social 
network, 
è 
cresciuto 
anche 
in 
ambito 
europeo, 
dove 
si 
assiste 
ad 
una 
approfondita 
analisi 
della 
questione 
da 
parte 
dell’EUIPO, 
in 
particolare 
nel 
documento 
“Social 
media 
Discussion 
Paper” 
(196), 
il 
cui 
intento 
è 
quello 
di 
evidenziare 
le 
violazioni 
che, 
in 
particolare, 
avvengono 
attraverso 
i 
social, ma 
anche 
quelle 
violazioni 
riconducibili 
esclusivamente 
al 
particolare 
contesto 
dei 
social 
media. 
È 
anche 
riportato 
l’ambito 
concernente 
i 
casi 
in 
cui 
i 
social 
network 
non 
costituiscono 
di 
per 
sé 
il 
mezzo 
con 
cui 
avven


(195) 
Tribunale 
di 
Milano, 
sentenza 
n. 
830/2018 
del 
25 
gennaio 
2018, 
commentata 
da 
E. 
BADIALI, 
“Il 
caso Barilla e 
la tutela del 
marchio rinomato: commento alla sent. n. 830/2018 del 
Tribunale 
di 
milano”, 
su iusinitinere.it, luglio 2018. 
(196) 
Testo 
accessibile 
da 
https://euipo.europa.eu/tunnel-web/secure/webdav/guest/document_library/
observatory/documents/reports/2021_Social_media/2021_Social_media_Discussion_Paper_Full 
r_en.pdf. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


gono 
le 
violazioni 
dei 
diritti 
IP, 
ma 
piuttosto 
rappresentano 
lo 
strumento 
di 
divulgazione 
di 
informazioni 
concernenti 
siti 
che 
ne 
sono 
responsabili. 


Nella 
prima 
ipotesi, 
sono 
ricompresi 
i 
servizi 
come 
l’hosting, 
lo 
streaming 
e 
il 
live 
streaming. Inoltre, l’utilizzo dei 
social 
media 
può portare 
a 
sponsorizzare 
contenuti 
che 
violano i 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale, tramite 
sponsorizzazioni 
che 
rimandano 
gli 
utenti-consumatori 
ad 
altri 
siti 
e 
pagine 
esterne. 

È 
importante 
la 
distinzione 
tra 
questa 
categoria 
e 
quella, diversa, che 
riguarda 
più 
nello 
specifico 
l’attività 
degli 
influencer, 
che 
promuovono 
i 
prodotti 
attraverso i propri 
account social. 


L’EUIPO 
ha 
approfondito il 
profilo relativo ai 
possibili 
casi 
di 
contraffazione 
del 
marchio. Si 
fa 
l’esempio di 
influencer 
che 
incoraggiavano i 
propri 
utenti-followers 
ad acquistare la versione economica di prodotti noti. 


Un 
altro 
esempio 
interessante 
è 
quello 
dei 
c.d. 
“burner 
accounts”, 
account 
che 
vengono 
utilizzati 
al 
fine 
di 
attirare 
gli 
utenti 
di 
siti 
riconducibili 
ai 
legittimi 
titolari 
del 
marchio 
verso 
altre 
pagine, 
che 
invece 
divulgano 
contenuti 
illeciti. 


Quest’ultima 
fattispecie 
va 
tenuta 
distinta 
da 
quella 
degli 
“scam 
accounts” 
i 
quali, invece, sfruttano i 
marchi 
noti 
allo scopo di 
ingannare 
gli 
utenti, indirizzando 
loro verso siti 
illeciti 
o, addirittura, per sottrargli 
dati 
della 
carta 
di 
credito o simili. 


Sul 
tema 
della 
contraffazione 
del 
marchio 
sui 
social 
network, 
anche 
se 
relativamente 
ad 
un 
profilo 
diverso, 
si 
è 
espressa 
pure 
la 
giurisprudenza 
italiana. 


Il 
Tribunale 
di 
Milano, 
nell’ordinanza 
pubblicata 
il 
15 
ottobre 
2019 
(197), 
ha 
statuito 
che 
l’uso 
del 
marchio 
da 
parte 
di 
terzi 
sulle 
piattaforme 
social 
come 
Instagram 
e 
Facebook, anche 
se 
non in funzione 
distintiva, integri 
comunque 
la 
fattispecie 
di 
contraffazione 
del 
marchio, 
in 
quanto 
idoneo 
a 
creare 
negli 
utenti 
confusione, anche 
tenuto conto del 
fatto che 
le 
due 
imprese 
coinvolte 
operavano 
nel 
medesimo 
settore 
merceologico. 
All’esito 
del 
procedimento, 
l’organo giudicante 
ha 
ravvisato la 
sussistenza 
del 
fumus 
boni 
iuris 
e 
del 
periculum 
in 
mora, 
disponendo 
nei 
confronti 
del 
resistente 
l’inibitoria 
all’utilizzo 
del marchio altrui su tutti i 
social network. 


Uno 
dei 
caratteri 
peculiari 
dei 
social 
network 
è 
la 
possibilità 
per 
gli 
utenti 
di 
comunicare 
su vari 
livelli, sia 
pubblicamente 
che 
attraverso gruppi 
chiusi 
e 
accessibili solo a specifici iscritti. 

Ebbene, 
secondo 
gli 
esperti, 
questa 
seconda 
funzionalità 
viene 
sfruttata 
allo 
scopo 
di 
eludere 
l’applicazione 
della 
disciplina 
sulla 
proprietà 
intellettuale. 


(197) Pronunciata nell’ambito del procedimento cautelare n. r.g. 23037/2019, disponibile su 
https://www.sistemaproprietaintellettuale.it/giurisprudenza/procedimenti-giurisdizionali/merito/17542tribunale-
milano-ord-15-10-2019-marchio-registrato-inibitoria-all-uso-del-marchio-marchiofigurativo-
uso-segno-distintivo-di-ramo-di-azienda-acquistato-contraffazione.html?title=Tribunale%20 
milano%20(ord.),%2015/10/2019. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


I 
gruppi 
chiusi 
creati 
sui 
social 
divengono, 
quindi, 
strumenti 
finalizzati 
a 
condividere 
con 
gli 
utenti 
contenuti 
che 
violano 
i 
diritti 
IP, 
oppure 
link 
che 
li 
rimandano 
a 
siti 
parimenti 
illeciti, 
nascosti 
dall’occhio 
pubblico. 
In 
altri 
casi 
ancora, 
invece, 
viene 
sfruttata 
la 
criptazione 
delle 
chat 
private, 
grazie 
alla 
quale, 
per 
esempio, 
comunicazioni 
relative 
ai 
pagamenti 
dei 
prodotti 
sono 
protette. 


Il 
Social 
media 
Discussion 
Paper, 
nell’individuare 
le 
maggiori 
problematiche 
poste 
dalle 
violazioni 
dei 
diritti 
IP 
attraverso 
l’uso 
dei 
social 
media, 
esamina 
la 
disciplina 
vigente 
a 
livello 
europeo, 
ponendo 
in 
evidenza, 
fin 
da 
subito, 
che 
uno 
degli 
elementi 
che 
ne 
limita 
maggiormente 
l’efficacia 
è 
la 
circostanza 
che, 
attraverso 
i 
social 
network, 
gli 
utenti 
hanno 
a 
disposizione 
funzionalità 
molto 
diverse 
fra 
loro, 
tra 
cui 
rientrano 
la 
diffusione 
di 
vari 
dati 
e 
contenuti. 
Questo 
fa 
si 
che 
le 
regole 
applicabili 
divengono 
svariate, 
e 
tale 
frammentazione 
del 
quadro 
normativo 
si 
pone 
in 
contrasto 
con 
la 
garanzia 
di 
un 
intervento 
efficace. 


Nel 
documento, 
la 
prima 
grande 
distinzione 
prevista 
è 
quella 
fra 
contenuti 
disponibili pubblicamente e contenuti di natura privata. 


Nel 
caso di 
contenuti 
privati, si 
pongono le 
questioni 
relative 
alla 
normativa 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
con 
riguardo, 
da 
un 
lato, 
alla 
possibilità 
di 
divulgare 
i 
dati 
privati 
dei 
soggetti 
responsabili 
delle 
violazioni 
e, 
dall’altro, 
alla tutela della riservatezza delle comunicazioni. 


Nel 
caso di 
contenuti 
pubblici, invece, trova 
applicazione 
la 
Direttiva 
ecommerce, 
che 
limita, ai 
sensi 
dell’art. 14, la 
responsabilità 
dell’hosting provider, 
precisando 
che 
il 
suo 
obbligo, 
nel 
caso 
in 
cui 
pervenga 
una 
segnalazione, 
è 
solamente 
quello di 
rimuovere 
tempestivamente 
eventuali 
contenuti 
illeciti, 
non essendo tenuto ad effettuare alcun controllo preventivo. 

Questo 
è 
il 
quadro 
normativo 
vigente; 
eppure, 
ultimamente, 
la 
direzione 
verso 
cui 
si 
sta 
andando 
è 
quella 
di 
coinvolgere 
maggiormente 
le 
piattaforme, 
promuovendo 
la 
cooperazione 
fra 
queste 
e 
i 
titolari 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale, 
allo 
scopo 
di 
arginare 
il 
fenomeno 
della 
diffusione 
di 
contenuti 
illeciti. 


Lungo questa 
direzione 
si 
colloca 
anche 
il 
Digital 
Services 
Act, ossia 
la 
recente 
proposta 
di 
Regolamento 
presentata 
dalla 
Commissione 
al 
Parlamento 
europeo, 
che, 
ribadendo 
l’assenza 
di 
un 
generale 
obbligo 
di 
monitoraggio, 
vuole 
introdurre 
obblighi 
di 
due-diligence, 
per 
facilitare 
la 
rimozione 
dei 
contenuti 
illeciti, anche al fine di assicurare maggiore trasparenza. 

Si 
ricorda, peraltro, che 
la 
regolamentazione 
di 
queste 
nuove 
materie 
è 
particolarmente 
complessa, potendo essa 
incidere 
direttamente 
sui 
diritti 
e 
le 
libertà fondamentali degli individui. 


Bisogna 
ricordare, inoltre, che 
i 
social 
network 
sono soggetti 
all’applicazione 
di 
altre 
due 
fonti 
normative 
dell’Unione 
Europea, 
la 
Direttiva 
UE 
48/2004 (198) sull’applicazione 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale 
(IPrED) 


(198) 
Il 
testo 
della 
direttiva 
sull’applicazione 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale 
(IPRED) 
è 
disponibile 
su 
https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32004L0048r(01):IT:HTmL. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


e 
la 
Direttiva 
UE 
29/2001 (199) sull’armonizzazione 
di 
alcuni 
aspetti 
del 
copyright 
e altri diritti nella società dell’informazione (INFoSoC). 

Infine, nel 
caso in cui 
i 
social 
media 
siano utilizzati 
per la 
divulgazione 
di contenuti tutelati da 
copyright, si applica la Direttiva 
Copyright 
(200). 


Passando ai 
contenuti 
ed alle 
chat 
private, le 
maggiori 
perplessità 
sono 
sorte 
riguardo alla 
possibilità 
di 
qualificare 
le 
comunicazioni 
istantanee 
che 
avvengono 
attraverso 
i 
social 
media 
come 
comunicazioni 
elettroniche 
ai 
sensi 
della 
Direttiva 
e-Privacy 
(201), garantendo l’applicazione 
del 
relativo regime 
di tutela ivi previsto. 

In passato, infatti, i 
social 
erano rimasti 
esclusi 
da 
tale 
nozione, anche 
se 
vi 
erano state 
alcune 
pronunce 
discordanti 
della 
Corte 
di 
Giustizia, che 
avevano 
alimentato il regime di incertezza già presente. 


Il 
quadro 
è 
ancora 
più 
incerto 
da 
quando 
è 
entrata 
in 
vigore, 
il 
21 
dicembre 
2020, 
la 
Direttiva 
UE 
1972/2018 
(202), 
contenente 
il 
c.d. 
Codice 
Europeo 
delle 
Comunicazioni 
Elettroniche, 
che 
ha 
introdotto 
una 
nuova 
definizione 
di 
comunicazioni 
elettroniche, 
includendovi 
tutti 
i 
servizi 
di 
comunicazione 
interpersonale. 
Si 
attendono 
maggiori 
chiarimenti 
sull’applicazione 
della 
disciplina 
con 
l’entrata 
in 
vigore 
del 
Regolamento 
e-Privacy, 
che 
sostituirà 
l’attuale 
Direttiva. 


Nel 
documento, 
si 
prende 
in 
considerazione 
il 
problema 
legato 
alla 
nascita 
di 
nuovi 
social 
media, 
definiti 
come 
“decentralizzati”, 
in 
quanto 
basati 
su 
tecnologie 
peer-to-peer, come 
ad esempio la 
blockchain. La 
novità 
sta 
nel 
fatto 
che 
queste 
nuove 
realtà 
vanno 
a 
modificare 
la 
struttura 
tradizionale 
client-server, 
caratterizzata 
dalla 
circostanza 
che 
i 
dati 
e 
i 
contenuti 
degli 
utenti 
venissero 
gestiti e conservati in maniera 
centralizzata 
da una singola società. 


Sono anche 
evidenziate 
le 
principali 
good practices: 
misure 
che 
devono 
essere 
prese 
per arginare 
il 
rischio di 
violazioni 
e 
che 
possono essere 
distinte 
in preventive 
e 
reattive. 


Tra 
le 
misure 
preventive 
rientrano, 
anzitutto, 
le 
condizioni 
contrattuali, 
nonché 
le 
linee-guida 
adottate 
da 
ogni 
società 
per 
regolare 
l’utilizzo 
dei 
propri 
servizi 
da 
parte 
degli 
utenti. Ci 
si 
riferisce 
a 
quanto esaminato sull’emergente 
fenomeno dell’hate 
speech, in relazione 
al 
quale 
le 
principali 
difese 
di 
Face


(199) 
Il 
testo 
della 
direttiva 
sull’armonizzazione 
di 
alcuni 
aspetti 
del 
copyright 
e 
altri 
diritti 
nella 
società 
dell’informazione 
(INFOSOC) 
è 
accessibile 
su 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/
IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32001L0029&from=IT. 
(200) 
Il 
testo 
della 
direttiva 
Copyright 
è 
disponibile 
su 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/
IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L0790&from=ro; 
v. 
anche 
L. 
SERRA, 
“Copyright 
e 
diritti 
nel 
mercato digitale: attuata la Direttiva UE”, su altalex.com. 
(201) 
Il 
testo 
della 
direttiva 
e-Privacy 
è 
accessibile 
da 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/
IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002L0058&from=IT. 
(202) 
Su 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018L1972; 
v. 
anche 
R. 
JACCHIA, 
M. 
STILLO, 
“Codice 
Ue 
delle 
comunicazioni 
elettroniche: 
la 
nuova 
normativa 
per 
un 
mercato 
più accessibile e sicuro”, su agendadigitale.eu, 30 aprile 2021. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


book 
si 
basavano 
proprio 
sulla 
violazione 
da 
parte 
degli 
utenti 
delle 
regole 
della 
Community. 

Per rendere 
più efficace 
l’applicazione 
delle 
policy, bisognerebbe 
differenziare 
queste 
ultime 
sulla 
base 
delle 
funzionalità 
e 
dei 
servizi 
a 
cui 
s’intende 
applicarle. 


È 
anche 
auspicabile 
che 
vengano 
introdotti 
e 
utilizzati 
sistemi 
di 
verifica 
degli 
account 
social, 
per 
garantire 
che 
questi 
corrispondano 
all’identità 
reale 
degli 
utenti-utilizzatori 
e 
per 
favorire 
l’identificazione 
dei 
soggetti 
che 
si 
rendono 
responsabili 
di 
atti 
illeciti. 
Oltre 
a 
questa 
misura, 
vi 
è 
anche 
l’introduzione, 
da 
parte 
di 
alcune 
piattaforme, 
di 
strumenti 
di 
identificazione 
più 
incisivi 
nei 
confronti 
di 
soggetti 
che 
sponsorizzano 
sui 
social, 
fornendo 
agli 
utenti 
informazioni 
utili 
sulla 
loro 
identità 
ed 
evitando 
così 
il 
rischio 
di 
violazione 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale 
attraverso 
l’attività 
di 
influencer 
marketing. 


Alcune 
piattaforme, inoltre, usano misure 
in grado di 
controllare 
l’eventuale 
utilizzo distorto degli 
account: 
i 
gestori 
dei 
social 
media 
possono introdurre 
sistemi 
che 
permettono 
di 
identificare 
gli 
utenti 
bannati 
ed 
impedire 
loro 
di creare nuovi 
account, limitando la reiterazione di atti illeciti. 

Bisognerebbe, 
inoltre, 
intervenire 
per 
impedire 
la 
creazione 
di 
molteplici 
profili 
riconducibili 
al 
medesimo utente, nonché 
introdurre 
dei 
sistemi 
di 
autorizzazione 
differenziati, 
precludendo 
determinate 
funzionalità 
(es. 
l’accesso 
ai 
servizi e-commerce) agli account di nuova creazione. 

Inoltre, 
i 
social 
media 
dovrebbero, 
da 
un 
lato, 
limitare 
l’utilizzo 
di 
parole 
chiave 
(compresi 
i 
marchi) 
all’interno 
del 
nome 
dell’utente; 
dall’altro, 
effettuare 
controlli 
circa 
l’identità 
dell’utente 
e 
il 
possesso 
da 
parte 
di 
quest’ultimo 
dei 
diritti 
e 
delle 
autorizzazioni 
necessarie 
all’utilizzo 
di 
un 
dato 
segno 
distintivo. 


Le 
misure 
reattive 
ricomprendono, invece, i 
cosiddetti 
meccanismi 
“notice 
and action”. Si 
tratta, ad esempio, di 
specifici 
canali 
messi 
a 
disposizione 
dei 
titolari 
di 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale 
o degli 
utenti 
per segnalare 
presunte 
violazioni. 

Tali 
strumenti 
possono risultare 
efficaci 
a 
seconda 
della 
presenza 
o meno 
di specifici elementi, che ne facilitano l’accesso e la comprensione (203). 

Tuttavia, 
affinché 
tali 
strumenti 
possano 
risultare 
pienamente 
efficaci, 
bisogna 
applicarli 
a 
tutte 
le 
funzioni 
dei 
social 
media, 
compresi 
i 
contenuti 
temporanei 
(“stories”) 
o 
gli 
hashtag 
che, 
come 
visto, 
possono 
essere 
utilizzati 
nella 
violazione 
dei 
diritti 
di 
proprietà 
intellettuale. Non bisogna 
dimenticare 
che 
sono anche 
i 
titolari 
dei 
diritti 
IP 
a 
dover osservare 
alcune 
good practices, 
come ad esempio l’utilizzo appropriato dei meccanismi appena elencati. 


L’impiego delle 
nuove 
tecnologie 
(es. IA), inoltre, potrà 
essere 
utile 
per 


(203) Ad esempio, informazioni 
chiare 
sui 
soggetti 
legittimati 
ad effettuare 
la 
segnalazione, sugli 
elementi 
da 
includervi 
ecc.; 
possibilità 
di 
segnalare 
molteplici 
violazioni 
mediante 
un singolo report; 
informare tempestivamente il soggetto segnalante dell’avvenuta rimozione del contenuto illecito. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


l’introduzione 
di 
nuovi 
e 
più rapidi 
sistemi 
per indagare 
eventuali 
violazioni. 


Tra 
le 
misure 
di 
carattere 
reattivo rientra 
anche 
la 
collaborazione 
con le 
autorità pubbliche, competenti ad intervenire per tali violazioni. 


Si 
faccia 
l’esempio 
fornito 
dall’operazione 
“Aphrodite”, 
condotta 
congiuntamente 
dall’EUROPOL, dalla 
Guardia 
di 
Finanza 
italiana 
e 
dalle 
forze 
di 
polizia 
di 
diversi 
Stati 
Membri, che 
ha 
portato al 
sequestro di 
20.000 prodotti 
contraffatti 
e 
alla 
chiusura 
di 
oltre 
1.000 conti. È 
un esempio concreto 
dell’effetto 
positivo 
derivante 
dalla 
collaborazione 
con 
le 
autorità, 
nonché 
dell’intervento sinergico fra queste ultime. 


Il 
comunicato 
stampa 
trasmesso 
da 
EUROPOL 
evidenzia 
proprio 
il 
ruolo 
giocato 
dai 
social 
media 
nella 
divulgazione 
delle 
offerte 
di 
prodotti 
contraffatti 
per raggiungere il pubblico. 


La 
tendenza 
di 
internet 
e 
dei 
social 
media 
ad 
abbattere 
i 
confini 
geografici 
ha 
creato non pochi 
problemi 
nell’applicazione 
della 
disciplina 
e 
nell’individuazione 
delle norme effettivamente applicabili. 


Sul 
tema 
della 
contraffazione 
del 
marchio, nel 
caso specifico di 
contraffazione 
attraverso l’uso di 
nomi 
a 
dominio e 
sulle 
piattaforme 
social, la 
Corte 
di 
Giustizia 
si 
è 
pronunciata 
in via 
pregiudiziale 
per risolvere 
una 
questione 
legata 
alla 
litispendenza 
di 
azioni 
civili 
simultanee, sulla 
base 
di 
marchi 
nazionali 
e dell’Unione Europea. 


Nel 
noto 
caso 
(causa 
C-231/16) 
(204) 
agiva 
merck 
KGaA, 
operante 
nel 
settore 
chimico-farmaceutico 
e 
titolare 
di 
vari 
marchi 
che 
tutelano 
il 
nome 
“merck”. 


La 
società 
ha 
intrapreso contestualmente 
due 
azioni 
diverse, una 
innanzi 
alla 
High Court 
of 
Justice 
ed un’altra 
innanzi 
al 
Landgericht 
Hamburg (Tribunale 
regionale di 
Amburgo). 

Nel 
primo caso, veniva 
in rilievo la 
contraffazione 
dei 
marchi 
nazionali 
ed 
internazionali 
protetti 
nel 
Regno 
Unito, 
a 
causa 
dell’utilizzo 
in 
rete 
del 
nome 
“merck”. 
Nel 
secondo 
caso, 
invece, 
si 
agiva 
a 
tutela 
del 
marchio 
UE 
merck, per il 
suo utilizzo non solo su internet, ma 
anche 
sulle 
piattaforme 
Facebook, 
Twitter e 
Youtube. 


Il 
giudice 
di 
Amburgo 
ha 
sollevato 
una 
questione 
sull’interpretazione 
dell’art. 
109, 
par. 
1, 
del 
Regolamento 
(CE) 
n. 
207/2009, 
che 
dispone: 
“Qualora 
azioni 
per 
contraffazione 
siano 
proposte 
per 
gli 
stessi 
fatti 
e 
tra 
le 
stesse 
parti 
davanti 
a 
tribunali 
di 
Stati 
membri 
differenti, 
aditi 
rispettivamente 
sulla 
base 
di 
un 
marchio 
[dell’Unione 
Europea] 
e 
sulla 
base 
di 
un 
marchio 
nazionale: 


a) 
il 
tribunale 
successivamente 
adito deve, anche 
d’ufficio, dichiarare 
la 
propria incompetenza a favore 
del 
primo tribunale 
adito quando i 
marchi 
in 
causa sono identici 
e 
validi 
per 
prodotti 
o servizi 
identici. Il 
tribunale 
che 
do(
204) Accessibile da 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTmL/?uri=CELEX:62016CJ0231&from=it. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2021 


vrebbe 
dichiarare 
la 
propria 
incompetenza 
può 
sospendere 
il 
procedimento 
qualora venga eccepita l’incompetenza dell’altro tribunale; 


b) 
il 
tribunale 
successivamente 
adito 
può 
sospendere 
il 
procedimento 
quando i 
marchi 
in causa sono identici 
e 
validi 
per 
prodotti 
o servizi 
simili, 
nonché 
quando 
i 
marchi 
in 
causa 
sono 
simili 
e 
validi 
per 
prodotti 
o 
servizi 
identici o simili”. 
Con il 
primo quesito, è 
stato chiesto all’adita 
Corte 
di 
Giustizia 
se 
la 
locuzione 
“stessi 
fatti” 
debba 
essere 
intesa 
nel 
senso 
di 
includere 
il 
mantenimento 
e 
l’utilizzo in tutto il 
mondo -e 
quindi 
anche 
in tutta 
l’Unione 
Europea 
-di 
una 
pagina 
internet 
accessibile 
in 
modo 
identico 
da 
qualunque 
luogo, 
sotto 
lo stesso dominio, o, parimenti, di 
contenuti 
accessibili 
in modo identico di 
volta 
in 
volta 
con 
il 
medesimo 
username, 
sotto 
il 
dominio 
“facebook.com” 
e/o 
“youtube.com” e/o “twitter.com”. 


Con un altro quesito, è 
stato poi 
chiesto alla 
Corte 
se 
il 
“tribunale 
successivamente 
adito” 
avesse 
l’obbligo 
di 
dichiarare 
la 
propria 
incompetenza 
solo sul 
territorio dello Stato membro in cui 
un altro Tribunale 
era 
stato adito 
per 
primo 
-a 
fronte 
di 
una 
violazione 
commessa 
mediante 
una 
pagina 
internet 
accessibile 
da 
tutto 
il 
mondo 
sotto 
lo 
stesso 
dominio 
o 
attraverso 
contenuti 
accessibili 
da 
tutto 
il 
mondo 
sotto 
il 
dominio 
“facebook.com” 
e/o 
“youtube.com” 
e/o “twitter.com” 
con il 
medesimo username 
-o se, invece, la 
dichiarazione 
di incompetenza dovesse estendersi a tutto il territorio dell’Unione Europea. 


In primo luogo, la 
CGUE 
ha 
richiamato l’interpretazione 
relativa 
all’esistenza 
di domande aventi “il medesimo oggetto e il medesimo titolo”. 


La 
nozione 
di 
titolo 
ricomprende 
i 
fatti 
e 
la 
norma 
giuridica 
posta 
a 
fondamento 
della 
domanda. 
La 
Corte 
ha 
rilevato 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
la 
norma 
fondante 
la 
domanda 
è 
coincidente 
ed 
individuabile 
nella 
tutela 
di 
diritti 
esclusivi 
derivanti 
da 
marchi 
identici. 
Non 
rileva, 
dunque, 
il 
fatto 
che 
la 
prima 
azione 
abbia 
quale 
fondamento 
la 
tutela 
di 
un 
marchio 
nazionale, 
mentre 
la 
seconda 
di 
un 
marchio 
europeo. 
Inoltre, 
può 
dirsi 
soddisfatto 
il 
requisito 
dell’identità 
dei 
fatti, 
dato 
che 
entrambe 
le 
questioni 
riguardano 
l’utilizzo 
del 
termine 
“merck” 
in 
nomi 
di 
domini 
e 
in 
piattaforme 
social 
accessibili 
da 
tutto 
il 
mondo. 


La 
nozione 
di 
oggetto, 
invece, 
coincide 
con 
lo 
scopo 
della 
domanda. 
Ebbene, 
mentre 
l’azione 
intentata 
davanti 
alla 
High 
Court 
of 
Justice 
mirava 
a 
precludere 
l’utilizzo 
del 
marchio 
sul 
territorio 
del 
Regno 
Unito, 
l’azione 
presentata 
al 
Giudice 
di 
Amburgo 
voleva 
vietarne 
l’utilizzo 
su 
tutto 
il 
territorio 
dell’Unione. 


In 
secondo 
luogo, 
sulla 
base 
di 
tali 
considerazioni, 
in 
risposta 
all’altro 
quesito, 
la 
Corte 
è 
giunta 
alla 
conclusione 
che 
le 
due 
azioni 
possono 
dirsi 
aventi 
il 
medesimo 
oggetto 
solo 
limitatamente 
alle 
contraffazioni 
avvenute 
nel 
medesimo 
territorio 
e, 
di 
conseguenza, 
è 
esclusivamente 
con 
riguardo 
a 
queste 
ipotesi 
che 
il 
Tribunale 
adito successivamente 
sarà 
tenuto a 
dichiarare 
la propria incompetenza. 



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


12. La commercializzazione dei dati personali: il caso Facebook. 
La 
disciplina 
relativa 
alla 
tutela 
della 
privacy 
-che 
riveste 
ormai 
un 
ruolo 
centrale 
nel 
nostro ordinamento -sembra 
tuttavia 
porsi 
in contrasto rispetto 
allo sviluppo delle nuove tecnologie e dell’economia c.d. “data driven”. 


Ormai, lo sfruttamento dei 
dati 
è 
diventato il 
core 
business 
delle 
imprese 
e, 
conseguentemente, 
deve 
essere 
riconosciuto 
il 
valore 
economico 
dei 
dati 
personali. 
Tuttavia, 
bisogna 
tenere 
anche 
presente 
gli 
altissimi 
rischi 
per 
la 
tutela 
dei diritti fondamentali dell’individuo. 

La 
riflessione 
sulla 
c.d. 
commercializzazione 
dei 
dati 
personali 
si 
basa 
su 
queste due considerazioni. 

Vi 
sono 
due 
tesi 
fondamentali 
in 
contrapposizione 
tra 
loro, 
una 
favorevole 
e 
una 
contraria; 
entrambe 
richiamano argomentazioni 
di 
natura 
etica, economica 
e sociale. 

Il 
nucleo 
del 
dibattito, 
tuttora 
aperto, 
è 
la 
possibilità 
di 
utilizzare 
i 
dati 
personali come corrispettivo delle prestazioni. 


Sul 
tema, 
recentemente 
è 
intervenuto 
il 
D.lgs. 
di 
attuazione 
della 
Direttiva 
770/2019, 
relativa 
ad 
alcuni 
aspetti 
dei 
contratti 
di 
fornitura 
di 
servizi 
digitali. 

La 
disciplina 
vuole 
estendere 
le 
tutele 
previste 
per 
i 
contratti 
di 
consumo 
anche 
alle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
consumatore 
non 
si 
impegni 
a 
pagare 
una 
somma 
di 
denaro, 
ma 
si 
obblighi 
a 
cedere 
i 
propri 
dati 
personali. 
Eppure, 
il 
profilo 
economico 
non 
esaurisce 
il 
novero 
delle 
questioni 
legate 
alla 
tutela 
dei 
dati 
personali 
nel 
nuovo 
contesto 
digitale. 
Sono 
state 
sollevate 
diverse 
altre 
questioni. 


Si 
pensi 
alla 
pubblicazione 
di 
immagini 
in 
assenza 
del 
consenso 
dell’interessato: 
si 
tratta 
chiaramente 
di 
illegittima 
diffusione 
dei 
dati 
personali. 
Questo 
specifico 
tema 
ha 
sollevato 
grandi 
preoccupazioni, 
soprattutto 
con 
riferimento 
alla 
pubblicazione 
sui 
social 
e 
alla 
diffusione 
di 
dati 
riferibili 
a 
soggetti 
minori. 


La 
giurisprudenza 
che 
si 
è 
formata 
sul 
punto 
dimostra 
quanto 
la 
delicatezza 
dei 
temi 
che 
vengono 
in 
rilievo 
renda 
necessario 
l’attento 
bilanciamento 
degli 
interessi 
in 
gioco. 
Si 
pensi, 
poi, 
alla 
diffusione 
di 
immagini 
illegittima 
non 
soltanto 
perché 
l’interessato 
non 
vi 
ha 
acconsentito, 
ma 
anche 
per 
il 
contenuto 
delle 
immagini 
stesse, 
quando 
ad 
esempio 
si 
tratti 
di 
immagini 
a 
contenuto 
sessuale. 


È 
il 
noto -e 
purtroppo diffuso, soprattutto tra 
i 
giovani 
-fenomeno del 


c.d. revenge 
porn, contro cui 
le 
autorità 
e 
i 
titolari 
delle 
principali 
piattaforme 
coinvolte stanno cercando di trovare delle soluzioni concrete (v. infra). 
Le 
altre 
questioni 
interessanti 
riguardano 
gli 
elementi 
applicativi 
della 
disciplina 
sulla 
tutela 
della 
privacy, la 
corretta 
individuazione 
dei 
soggetti 
qualificabili 
come 
titolari 
o responsabili 
del 
trattamento in contesti 
innovativi, i 
problemi 
relativi 
alla 
c.d. eredità 
digitale 
e 
dunque 
all’applicazione 
della 
disciplina 
successoria 
in riferimento ai 
beni 
“digitali” 
del 
de 
cuius, e 
tante 
altre 
questioni che si pongono oggi al giurista. 


Nella 
nuova 
economia 
digitale, 
i 
dati 
hanno 
un 
nuovo 
ruolo 
di 
mercato, 
come 
d’altronde 
è 
stato 
dimostrato 
dal 
cambiamento 
dei 
business 
model 
delle 
società. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


Nell’economia 
guidata 
dai 
dati, 
infatti, 
questi 
sono 
diventati 
un 
vero 
e 
proprio 
asset 
strategico: 
grazie 
ai 
dati, 
le 
imprese 
possono 
fornire 
beni 
e 
servizi 
migliori, perché costruiti sulla base delle preferenze dei consumatori. 

I dati 
personali, dunque, giocano un ruolo fondamentale, dato che 
senza 
di 
essi 
le 
imprese 
non sarebbero in grado di 
acquisire 
il 
grande 
numero di 
informazioni 
utili sulle tendenze del mercato. 

Tuttavia, 
l’esigenza 
economica 
di 
sfruttare 
queste 
informazioni 
contrasta 
con il 
rispetto del 
diritto fondamentale 
alla 
protezione 
della 
privacy e 
dei 
dati 
personali, importante 
nel 
panorama 
europeo e 
italiano. Si 
arriva, addirittura, 
alla 
constatazione 
che 
l’applicazione 
della 
relativa 
disciplina 
è 
vista 
come 
un 
ostacolo allo sviluppo dell’economia. 


Eppure, 
tale 
conclusione 
appare 
paradossale 
se 
si 
considera 
che 
è 
lo 
stesso 
gDPR 
a 
perseguire 
il 
rafforzamento 
del 
mercato 
interno 
quale 
fine 
ultimo, 
come 
alla 
fine 
vale 
per tutta 
la 
legislazione 
europea. È 
conseguenza 
evidente, 
allora, che 
nelle 
intenzioni 
del 
legislatore 
non si 
vuole 
porre 
alcun limite 
all’esercizio 
delle 
attività 
economiche, 
bensì 
solamente 
evitare 
inaccettabili 
violazioni 
dei diritti fondamentali. 


Sulla 
base 
di 
quanto detto, dottrina 
e 
giurisprudenza 
si 
sono interrogate 
sul 
valore 
effettivo da 
dare 
ai 
dati 
personali: 
essendo diventati 
un vero e 
proprio 
mezzo 
di 
lucro, 
deve 
essere 
riconosciuto 
loro, 
anche 
dal 
punto 
di 
vista 
economico-giuridico, un valore diverso? 


La 
questione 
principale 
è 
quella 
relativa 
a 
quei 
servizi 
che 
vengono 
offerti 
ai 
consumatori 
apparentemente 
in maniera 
gratuita, ma 
che 
in realtà 
presuppongono 
la cessione di dati personali. 

L’esempio paradigmatico è 
quello dei 
social 
network: 
per accedere 
è 
necessario 
accettare 
uno 
specifico 
set 
di 
termini 
e 
condizioni 
e 
procedere 
alla 
comunicazione 
di 
una 
serie 
di 
dati 
personali 
quali 
nome, 
cognome, 
data 
di 
nascita, 
indirizzo 
e-mail, 
ecc. 
Non 
solo, 
ma 
durante 
la 
fruizione 
del 
servizio 
vengono 
generati 
dall’utente 
dati 
ulteriori, 
rilevatori 
delle 
proprie 
tendenze 
e 
preferenze; 
questi 
dati 
vengono spesso condivisi 
dalla 
società 
che 
gestisce 
i 
social 
con soggetti terzi, traendone profitto. 


Per 
questo 
motivo, 
da 
tempo 
si 
è 
fatta 
strada 
la 
tesi, 
per 
il 
vero 
opinabile, 
sull’equiparabilità 
dei 
dati 
personali 
alla 
valuta: 
l’acquisto 
di 
determinati 
beni 
o 
servizi 
potrebbe 
avvenire 
(o, 
meglio, 
di 
fatto 
avverrebbe 
già), 
dietro 
la 
“corresponsione” 
di 
dati 
personali. 
alcuni, 
di 
fronte 
a 
ciò, 
hanno 
parlato 
del 
cambio 
di 
dimensione 
dei 
dati 
dalla 
tradizionale 
dimensione 
“morale”a 
quella 
“negoziale”. 


Chi 
sostiene 
questa 
tesi, 
invero, 
pensa 
che 
gli 
individui 
godrebbero 
di 
una 
maggiore 
tutela, 
dal 
momento 
che 
troverebbero 
contestualmente 
applicazione 
tanto la 
disciplina 
sulla 
tutela 
dei 
dati 
personali 
che 
quella 
del 
consumo, così 
evitando che 
il 
singolo sia, da 
un lato, tratto in inganno dalla 
gratuità 
dell’offerta 
e 
perfezioni 
un 
acquisto 
inconsapevole 
dell’effettivo 
valore 
ceduto 
e, 



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


dall’altro, 
sia 
privo 
della 
possibilità 
di 
usufruire 
dei 
mezzi 
di 
tutela 
messi 
a 
disposizione dall’ordinamento. 


Bisogna 
chiedersi: 
la 
strada 
della 
c.d. commercializzazione 
dei 
dati 
personali 
è 
davvero 
la 
via 
migliore? 
Sarebbe, 
da 
un 
lato, 
finalizzata 
a 
rendere 
l’interessato-
consumatore 
maggiormente 
consapevole 
del 
valore 
dei 
propri 
dati 
personali 
(restituendogli 
un 
effettivo 
controllo 
su 
di 
essi 
come, 
d’altronde, 
auspicato 
dal gDPR). 


Dall’altro 
lato, 
lo 
scopo 
sarebbe 
quello 
di 
mettere 
a 
disposizione 
del-
l’utente tutte le tutele e gli strumenti già previsti dal Codice del Consumo. 

Inoltre, per sostenere 
la 
percorribilità 
di 
questa 
strada, si 
fa 
generalmente 
un 
parallelismo 
con 
la 
disciplina 
della 
proprietà 
intellettuale, 
che 
riconosce 
contestualmente 
all’autore 
dell’opera 
diritti 
di 
natura 
morale 
(si 
pensi 
al 
riconoscimento 
della 
paternità) 
e 
diritti 
di 
sfruttamento 
economico 
(come 
il 
diritto 
di fare copie o riprodurre l’opera). 


La 
tesi 
contrapposta 
-tradizionalmente 
affermata 
sia 
a 
livello 
europeo 
che 
nazionale 
-sostiene, invece, che, essendo il 
diritto alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
un 
diritto 
fondamentale, 
questo 
abbia 
valore 
assoluto, 
indisponibile, 
intrasmissibile 
e 
imprescrittibile, 
non 
potendo 
ammettersi 
in 
alcun 
modo 
la 
loro commercializzazione. 

Insomma, si 
sostiene 
il 
contrario di 
quanto sopra 
detto, ossia 
che 
la 
commercializzazione 
dei 
dati 
personali 
-lungi 
dal 
garantire 
una 
maggiore 
tutela 
agli 
interessati 
-finirebbe 
con lo sminuire 
l’effettivo valore 
dei 
dati 
personali, 
esponendo gli individui al rischio di subire pregiudizi ulteriori. 


La 
Commissione, nella 
bozza 
della 
Direttiva 
sui 
contratti 
per la 
fornitura 
di 
servizi 
digitali, 
ha 
avanzato 
per 
la 
prima 
volta 
la 
proposta 
di 
ammettere 
l’utilizzo dei 
dati 
come 
corrispettivo. Sembrava 
opportuno, in particolare, riconoscere 
ai 
consumatori 
il 
diritto 
di 
scegliere 
tra 
le 
due 
alternative: 
acquistare 
un determinato bene 
mediante 
la 
cessione 
dei 
propri 
dati 
personali 
o facendo 
ricorso alla valuta ordinaria. 

Sul 
punto, 
però, 
ha 
espresso 
subito 
parere 
negativo 
il 
garante 
europeo 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
(EDPS) 
(205), 
che 
ha 
voluto 
escludere 
categoricamente 
la 
possibilità 
di 
equiparare 
i 
dati 
personali 
al 
corrispettivo 
o 
al 
denaro, 
seppur 
aprendo 
alla 
possibilità 
di 
applicare 
le 
regole 
di 
tutela 
previste 
per 
i 
consumatori 
anche 
nel 
caso 
di 
acquisto 
di 
servizi 
generalmente 
considerati 
gratuiti. 


In Italia, guido Scorza, membro del 
garante 
per la 
protezione 
dei 
dati, 
ha 
espresso le 
sue 
perplessità 
sul 
tema, evidenziando che 
in questo modo si 
creerebbe 
una 
discrepanza 
fra 
coloro che 
godono di 
una 
migliore 
condizione 
economica 
-e 
possono, 
quindi, 
scegliere 
effettivamente 
quale 
mezzo 
di 
acquisto 
utilizzare 
-e 
coloro 
che, 
invece, 
sarebbero 
maggiormente 
propensi 
a 


(205) 
accessibile 
da 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52017XX0623(01)&from=EL. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


cedere 
i 
propri 
dati 
personali, trovandosi 
in una 
situazione 
peggiore 
e 
ignorandone 
le conseguenze. 

La 
tesi 
contraria 
alla 
commercializzazione 
dei 
dati 
personali 
sostiene 
le 
sue 
ragioni 
anche 
per evitare 
l’eccessiva 
profilazione 
della 
popolazione, a 
cui 
è 
legato 
il 
rischio 
di 
possibili 
discriminazioni. 
L’obiettivo 
della 
tutela 
si 
estende, quindi, all’intera collettività. 

Di 
recente, 
sia 
la 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
che 
l’autorità 
garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato attraverso le 
sue 
pronunce, si 
sono 
posti 
in 
una 
posizione 
più 
aperta 
e 
favorevole 
all’introduzione 
di 
un 
approccio 
negoziale 
rispetto alla disciplina dei dati personali. 

Si 
può, preliminarmente, fare 
l’esempio dell’agCM 
che, dichiarando la 
vessatorietà 
di 
alcune 
clausole 
contrattuali 
poste 
da 
Whatsapp, ha 
affermato 
che 
non assumesse 
rilevanza 
alcuna 
il 
fatto che 
l’App 
di 
messaggistica 
istantanea 
venisse 
offerta 
agli 
utenti 
in 
maniera 
gratuita, 
ai 
fini 
della 
qualificazione 
del 
rapporto giuridico istauratosi 
fra 
gli 
stessi 
e 
la 
società 
come 
un rapporto 
consumeristico. 

La 
posizione 
dell’autorità 
poggia 
sulla 
considerazione 
che 
il 
valore 
economico 
dei 
dati 
personali 
degli 
utenti 
ceduti 
alla 
società 
per accedere 
al 
servizio 
di 
messaggistica 
dovesse 
ritenersi, da 
solo, sufficiente 
a 
far sorgere 
un 
rapporto consumatore/professionista (206). 


In 
realtà, 
però, 
l’esempio 
più 
lampante 
di 
questo 
nuovo 
approccio 
negoziale 
è 
da 
rinvenirsi 
nel 
caso 
che 
ha 
visto 
come 
parti 
contrapposte 
l’agCM 
e 
Facebook, 
e 
che 
è 
arrivato 
fino 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
davanti 
al 
quale 
le 
parti 
avevano 
presentato 
ricorso. 
La 
vicenda 
ha 
inizio 
il 
29 
novembre 
2018, 
quando 
l’agCM, 
dopo 
aver 
contestato 
la 
violazione, 
da 
parte 
di 
Facebook 
Inc. 
e 
Facebook 
Ireland 
ltd, 
della 
disciplina 
sulle 
pratiche 
commerciali 
scorrette, 
irrogava 
nei 
confronti 
delle 
società 
una 
sanzione 
per 
un 
importo 
complessivo 
di 
10 
milioni 
di 
euro 
(207). 


Sono due le attività scorrette contestate dall’autorità. 


La 
pratica 
a), 
che 
è 
stata 
ritenuta 
in 
contrasto 
con 
gli 
artt. 
21 
e 
22 
del 
D.lgs. 
206/2005 
(Codice 
del 
Consumo), 
consisteva 
nell’avere 
tratto 
in 
inganno 
gli 
utenti, enfatizzando la 
gratuità 
del 
servizio offerto, senza 
informarli 
adeguatamente 
e 
tempestivamente 
del 
fatto 
che 
i 
loro 
dati 
personali 
sarebbero 
stati 
utilizzati 
a 
fini 
commerciali. 
Secondo 
il 
parere 
dell’autorità, 
in 
questo 
modo 
gli 
utenti 
sarebbero 
stati 
“obbligati” 
ad 
assumere 
una 
decisione 
commerciale 
che altrimenti non avrebbero preso. 


La 
pratica 
b), contestata 
per violazione 
degli 
artt. 24 e 
25 del 
Codice 
del 
Consumo -che 
disciplinano le 
pratiche 
commerciali 
aggressive 
-è 
stata 
rite


(206) 
Il 
testo 
del 
provvedimento 
è 
accessibile 
su 
https://www.agcm.it/dotcmsDOC/allegatinews/
IP278_ch.%20inott.%20%20sanz.pdf. 
(207) 
Il 
testo 
del 
provvedimento 
è 
accessibile 
su 
https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegatinews/
PS11112_scorr_sanz.pdf. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


nuta, come 
tecnica 
di 
acquisizione 
del 
consenso degli 
utenti, una 
forma 
di 
indebito 
condizionamento 
degli 
stessi: 
questi 
avevano, 
infatti, 
la 
sola 
possibilità 
di 
deselezionare 
la 
pre-impostazione 
effettuata 
da 
Facebook, tramite 
un meccanismo 
di 
opt-out. 
Così 
-secondo 
l’autorità 
-gli 
utenti 
si 
sarebbero 
ritrovati, 
di 
fatto, costretti 
a 
subire, senza 
avere 
prestato adeguato consenso in merito, 
la cessione dei propri dati personali a soggetti terzi per finalità commerciali. 


L’agCM, evidenziando la 
natura 
di 
vero e 
proprio corrispettivo attribuibile, 
nel 
caso di 
specie, ai 
dati 
personali 
degli 
utenti, fa 
espresso riferimento 
al 
business 
model 
della 
società 
sanzionata, il 
che 
consentirebbe 
-secondo la 
stessa 
autorità 
-di 
ritenere 
esistente 
un 
rapporto 
di 
consumo 
fra 
la 
nota 
società 
e gli utenti utilizzatori. 

Ebbene, 
da 
questo 
rapporto 
deriverebbe 
il 
dovere 
di 
dare 
attuazione 
agli 
obblighi 
di 
trasparenza 
e 
corretta 
informazione 
previsti 
dal 
Codice 
del 
Consumo. 


La 
società 
si 
è 
poi 
rivolta 
al 
TaR (208), il 
quale 
ha 
annullato la 
sanzione 
con 
riferimento 
alla 
pratica 
b), 
perché 
non 
ha 
ritenuto 
sussistenti 
elementi 
sufficienti 
a 
dimostrare 
la 
natura 
aggressiva 
della 
pratica 
commerciale; 
tuttavia, 
ha confermato il provvedimento dell’autorità rispetto alla pratica a). 


a 
quest’ultimo proposito, l’argomento portato da 
Facebook, secondo cui 
l’agCM 
non sarebbe 
stata 
competente 
a 
pronunciarsi 
su una 
questione 
concernente 
la 
disciplina 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
è 
stato 
totalmente 
respinto 
dal 
TaR, 
che 
ha 
motivato 
tale 
rigetto 
esprimendo 
in 
modo 
chiaro 
la 
propria posizione in merito alla patrimonializzazione dei dati personali. 

I giudici 
hanno spiegato che 
la 
tesi 
della 
società 
ricorrente, secondo cui 
i 
dati 
personali, in quanto oggetto di 
un diritto fondamentale, non potessero 
acquisire 
la 
funzione 
di 
corrispettivo 
di 
una 
prestazione, 
non 
terrebbe 
adeguatamente 
conto del 
valore 
commerciale 
degli 
stessi 
nel 
mercato digitale 
e 
nel 
modello di 
business 
della società stessa. 

Il 
TaR 
ha 
concluso, 
dunque, 
che 
debba 
trovare 
applicazione 
la 
disciplina 
del 
Codice 
del 
consumo, ed in particolare 
le 
norme 
che 
impongono i 
caratteri 
di chiarezza, competenza e non ingannevolezza delle informazioni fornite. 


La 
vicenda 
è 
arrivata 
al 
Consiglio di 
Stato che, nella 
recente 
pronuncia 


n. 2631/2021 (209), ha 
colto l’occasione 
per ribadire 
l’erroneità 
della 
tesi 
sostenuta 
da 
Facebook in merito alla 
necessità 
di 
netta 
separazione 
fra 
la 
disciplina 
sulla tutela dei dati personali e quella contrattualistica. 
(208) T.a.R. Roma 
(Lazio), sez. I, 10 gennaio 2020, n. 260, disponibile 
su dejure.it, commentata 
“Facebook, 
è 
scorretta 
la 
pratica 
che 
prevede 
la 
cessione 
a 
terzi 
dei 
dati 
degli 
iscritti 
senza 
un 
adeguato 
consenso”, su Diritto & Giustizia, 13 gennaio 2020. 
(209) 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
VI, 
29 
marzo 
2021, 
n. 
2631, 
disponibile 
su 
dejure.it; 
note 
a 
sentenza: 
I.M. aLagNa, “Abuso dati 
personali 
di 
utenti: respinto in appello il 
ricorso di 
Facebook 
contro l’Antitrust”, 
Diritto 
& 
Giustizia, 
fasc. 
74, 
2021, 
pag. 
9; 
V. 
RICCIuTO, 
C. 
SOLINaS, 
“Fornitura 
di 
servizi 
digitali 
e 
prestazione 
di 
dati 
personali: punti 
fermi 
ed ambiguità sulla corrispettività del 
contratto”, GiustiziaCivile.
com, 18 maggio 2021. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


I giudici 
del 
Supremo Consesso amministrativo hanno evidenziato che, 
dal 
momento che 
tutte 
le 
azioni 
umane 
implicano il 
trattamento di 
dati 
personali, 
è 
ammissibile 
che 
all’applicazione 
della 
relativa 
disciplina 
si 
accompagni 
contestualmente 
quella 
di 
altre 
branche 
del 
diritto, tra 
cui 
rientra 
sicuramente 
quella 
del 
consumo. Si 
è 
parlato, a 
tal 
proposito, di 
“tutele 
multilivello” 
garantite 
alle persone fisiche. 


Il 
Consiglio di 
Stato ha 
aderito alla 
posizione 
secondo la 
quale, nel 
caso 
di 
specie, 
le 
informazioni 
fornite 
agli 
utenti 
non 
fossero 
sufficientemente 
chiare 
e 
adeguate 
a 
permettere 
loro 
di 
assumere 
piena 
consapevolezza 
del 
fatto 
che 
i 
propri 
dati 
personali 
non 
vengono 
utilizzati 
esclusivamente 
per 
consentire 
la 
fruizione 
del 
servizio, 
ma 
vengono 
ulteriormente 
sfruttati 
a 
fini 
commerciali. 
Dunque, si 
conclude 
nel 
senso che 
la 
pratica 
è 
senz’altro da 
qualificarsi 
come 
ingannevole. 


Se 
è 
vero 
che 
nel 
business 
model 
di 
Facebook 
i 
dati 
vengono 
utilizzati 
per fini 
commerciali, è 
certamente 
discutibile 
la 
possibilità 
di 
attribuire 
loro 
la qualificazione giuridica di corrispettivo della controprestazione. 


Si 
consideri 
che 
i 
dati 
forniti 
dagli 
utenti-consumatori 
sono 
generalmente 
raccolti 
sulla 
base 
giuridica 
di 
cui 
all’art. 
6, 
par. 
1, 
lett. 
b) 
del 
gDPR, 
in 
quanto 
necessari all’esecuzione del contratto digitale. 

anche 
ammettendo che 
tutti 
i 
dati 
raccolti 
dalla 
società 
siano effettivamente 
indispensabili 
a 
tal 
fine, la 
loro dazione 
da 
parte 
degli 
utenti 
non potrebbe 
qualificarsi 
come 
corrispettivo 
della 
prestazione; 
piuttosto 
dovrebbe 
essere 
considerato come 
suo presupposto. allo stesso modo, se 
i 
dati 
raccolti 
fossero utilizzati 
per finalità 
diverse 
o ulteriori, non potrebbero comunque 
essere 
considerati 
come 
un corrispettivo, in quanto ciò presuppone 
che 
il 
versamento 
avvenga consapevolmente. 


Viene 
anche 
analizzata 
l’ipotesi 
del 
ricorso al 
consenso come 
base 
giuridica. 
Tuttavia, affinché 
il 
consenso sia 
libero, in assenza 
di 
esso non potrebbe 
comunque essere negata l’erogazione del servizio all’utente. 

Ciò 
porta 
ad 
escludere 
l’ammissibilità 
della 
tesi 
dei 
dati 
come 
corrispettivo. 


Si 
tenga 
presente 
che 
il 
governo ha 
adottato il 
decreto legislativo 4 novembre 
2021, 
n. 
170, 
pubblicato 
il 
25 
novembre 
scorso, 
di 
attuazione 
della 
Direttiva 
770/2019, che 
introduce 
nel 
Codice 
del 
Consumo un nuovo Capo Ibis 
nella 
parte 
IV, Titolo III, volto appunto a 
regolamentare 
i 
contratti 
aventi 
ad oggetto contenuti e servizi digitali (210). 


(210) 
Il 
comma 
2 
contiene 
le 
definizioni, 
stabilendo 
che, 
per 
il 
Capo 
I-bis, 
per 
“contenuto 
digitale” 
si 
intendono 
i 
dati 
prodotti 
e 
forniti 
in 
formato 
digitale; 
per 
“servizio 
digitale” 
si 
intende 
un 
servizio 
che 
consente 
al 
consumatore 
di 
creare, 
trasformare, 
archiviare 
i 
dati 
o 
di 
accedervi 
in 
formato 
digitale; 
oppure 
un 
servizio 
che 
consente 
la 
condivisione 
di 
dati 
in 
formato 
digitale 
caricati 
o 
creati 
dal 
consumatore 
e 
da 
altri 
utenti 
di 
tale 
servizio 
o 
qualsiasi 
altra 
interazione 
con 
tali 
dati; 
per 
“beni 
con 
elementi 
digitali” 
si 
intende 
qualsiasi 
bene 
mobile 
materiale 
che 
incorpora 
o 
è 
interconnesso 
con 
un 
contenuto 
digitale 
o 
un 
servizio 
digitale 
in 
modo 
tale 
che 
la 
mancanza 
di 
detto 
contenuto 
digitale 
o 
servizio 
digitale 
impedirebbe 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


Il 
testo individua 
l’ambito di 
applicazione 
della 
nuova 
disciplina, includendovi 
le 
ipotesi 
in 
cui 
“il 
professionista 
fornisce 
o 
si 
impegna 
a 
fornire 
contenuto 
digitale 
o 
un 
servizio 
digitale 
al 
consumatore 
e 
il 
consumatore 
fornisce 


o si 
impegna a fornire 
dati 
personali 
al 
professionista, fatto salvo il 
caso in 
cui 
i 
dati 
personali 
forniti 
dal 
consumatore 
siano trattati 
esclusivamente 
dal 
professionista ai 
fini 
della fornitura del 
contenuto digitale 
o del 
servizio digitale 
[…] 
o 
per 
consentire 
l’assolvimento 
degli 
obblighi 
di 
legge 
cui 
è 
soggetto 
l’operatore economico”. 
Viene 
qui 
richiamato 
quanto 
previsto 
dal 
Considerando 
14 
della 
Direttiva, 
il 
quale 
specifica 
che 
quest’ultima 
non 
può 
trovare 
applicazione 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
il 
professionista 
sia 
entrato 
nella 
disponibilità 
dei 
dati 
senza 
che 
il 
consumatore 
glieli 
abbia 
forniti 
“attivamente” 
(ad 
es. 
mediante 
l’utilizzo 
di 
cookies). 


Le 
disposizioni 
di 
nuova 
introduzione 
intervengono, 
dunque, 
su 
un 
profilo 
specifico, e 
puntano ad estendere 
la 
tutela 
prevista 
dall’ordinamento in favore 
dei 
consumatori 
-quali 
noti 
soggetti 
deboli 
nel 
rapporto contrattuale 
-anche 
a 
quei 
contratti 
nei 
quali, pur non essendoci 
la 
corresponsione 
di 
una 
somma 
di 
denaro, 
sorge 
in 
capo 
al 
consumatore 
un’obbligazione, 
consistente 
appunto 
nella cessione dei propri dati personali. 


È 
essenziale 
comprendere, però, che 
ciò non è 
sufficiente 
ad affermare 
che 
i 
dati 
personali 
abbiano assunto il 
valore 
di 
controprestazione, con tutte 
le 
altre conseguenze in tema di sinallagma contrattuale. 


un altro passaggio interessante 
del 
decreto riguarda 
il 
rapporto fra 
la 
disciplina 
in 
esame 
e 
le 
disposizioni 
nazionali 
e 
dell’unione 
Europea 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
personali. Il 
nuovo Capo I-bis 
del 
Codice 
del 
Consumo 


-viene 
specificato -trova 
applicazione 
con riferimento a 
qualsiasi 
dato personale 
trattato in relazione 
a 
contratti 
in cui 
il 
professionista 
fornisce 
un contenuto 
digitale 
o 
un 
servizio 
digitale 
al 
consumatore 
e 
che, 
in 
caso 
di 
conflitto, 
prevalgano le norme in materia di protezione dei dati. 
Passando ad esaminare 
il 
diritto all’immagine, di 
rango di 
diritto fondamentale 
-ed in quanto tale 
inalienabile 
-si 
ammette 
la 
possibilità 
di 
cedere 
il 
diritto di riproduzione della stessa, previo consenso dell’interessato. 

alla 
regola 
del 
consenso fanno eccezione 
le 
ipotesi 
espressamente 
previste 
dalla 
L. n. 633 del 
1941, tra 
cui 
vi 
è 
il 
caso dell’esercizio del 
diritto di 
cronaca 
-nel 
caso 
in 
cui 
la 
pubblicazione 
della 
foto 
risponda 
ad 
esigenze 
di 
pubblico 
interesse 
e 
sia 
comunque 
necessaria 
ai 
fini 
di 
completezza 
e 
chiarezza 
della notizia divulgata. 

Sul 
tema, la 
Corte 
di 
Cassazione 
(211) ha 
stabilito che 
è 
necessario che 


lo 
svolgimento 
delle 
funzioni 
del 
bene. 
L’intero 
testo 
è 
accessibile 
su 
http://documenti.camera.it/leg18/dossier/
pdf/TR0249.pdf. 


(211) 
Cass. 
Civ., 
sez. 
I, 
9 
luglio 
2018, 
n. 
18006, 
disponibile 
su 
dejure.it,“È 
censurabile 
la 
pratica 
delle 
interviste 
televisive 
con “riprese 
occulte”, ovvero tenendo la telecamera accesa all’insaputa del 
soggetto”, su Guida al diritto, 2018, 32, 35. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


vi 
sia 
uno specifico ed autonomo interesse 
pubblico alla 
conoscenza 
delle 
fattezze 
della persona ritratta. 


Con 
la 
sentenza 
n. 
29583/2020 
(212), 
inoltre, 
i 
giudici 
di 
legittimità 
hanno 
chiarito 
che 
la 
nozione 
di 
interesse 
pubblico 
deve 
essere 
intesa 
in 
senso 
ampio 
e 
che 
la 
sussistenza 
del 
diritto 
di 
cronaca, 
nonché 
della 
necessità 
di 
rappresentare 
l’immagine 
della 
persona 
protagonista 
della 
vicenda, deve 
essere 
comunque 
valutata 
alla 
luce 
del 
tipo di 
pubblicazione 
e 
della 
natura 
dell’attività 
giornalistica svolta. 


Nel 
caso che 
ha 
dato origine 
alla 
pronuncia, infatti, la 
Corte 
ha 
accolto il 
ricorso contro la 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Milano, che 
riconosceva 
l’illiceità 
della 
pubblicazione, 
su 
un 
settimanale, 
di 
alcune 
fotografie, 
nello 
specifico 
sette, ritraenti 
un personaggio pubblico in vacanza 
alle 
Maldive. I ricorrenti 
lesi 
lamentavano 
la 
violazione 
degli 
artt. 
136 
e 
137 
del 
Codice 
Privacy, 
dell’art. 
6 del codice deontologico dei giornalisti, e dell’art. 21 della Costituzione. 


La 
Suprema 
Corte 
ha 
riconosciuto 
la 
fondatezza 
delle 
argomentazioni 
addotte 
da 
chi 
faceva 
valere 
il 
suo 
diritto 
di 
cronaca, 
e 
ha 
ritenuto 
che 
le 
circostanze 
del 
caso 
concreto 
permettessero 
di 
applicare 
l’esimente 
del 
diritto 
di 
cronaca. 


Non poteva, infatti 
-ad avviso dell’organo giudicante 
-ravvisarsi 
alcuna 
lesione 
dei 
diritti 
fondamentali, dal 
momento che 
la 
pubblicazione 
delle 
foto 
era 
giustificata 
da 
vari 
elementi 
quali: 
la 
notorietà 
del 
soggetto, la 
tipologia 
di 
cronaca, 
il 
fatto 
che 
i 
soggetti 
si 
trovassero 
in 
un 
luogo 
pubblico 
e, 
soprattutto, 
la 
considerazione 
che 
la 
narrazione 
non avesse 
travalicato i 
limiti 
della 
continenza, 
non recando danno alcuno alla reputazione del soggetto ripreso. 

I giudici 
hanno, dunque, concluso nel 
senso di 
ammettere 
la 
liceità 
della 
pubblicazione, anche se mancava del consenso delle parti. 


Per 
quanto 
concerne 
il 
consenso 
(213), 
sono 
diversi 
gli 
aspetti 
da 
evidenziare, 
partendo 
dalle 
forme 
con 
cui 
può 
essere 
prestato, 
sino 
alle 
questioni 
concernenti 
la sua validità, alla luce anche di un’eventuale revoca dello stesso. 


La 
succitata 
legge 
non 
richiede 
che 
il 
consenso 
venga 
fornito 
in 
una 
forma 
specifica: 
infatti, la 
giurisprudenza 
(214) ha 
ammesso la 
sua 
rilevanza 
anche 
nelle ipotesi in cui questo fosse soltanto implicito. 


(212) Cass. Civ., sez. I, 24 dicembre 
2020, n. 29583, disponibile 
su dejure.it, “Pubblicazione 
di 
foto a corredo di 
un articolo in assenza di 
consenso dell’interessato: condizioni 
di 
liceità”, su Giustizia 
Civile Massimario, 2021 e 
Rivista di Diritto Industriale, 2020, 6, III, 414. 
(213) 
Sul 
tema 
del 
consenso 
dell’avente 
diritto, 
v. 
F. 
BRaVO, 
“Il 
consenso 
e 
le 
altre 
condizioni 
di 
liceità 
del 
trattamento 
dei 
dati 
personali”, 
in 
g. 
FINOCChIaRO 
(diretto 
da), 
“Il 
nuovo 
Regolamento 
europeo 
sulla 
privacy 
e 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali”, 
Torino, 
zanichelli, 
2017; 
S. 
TORDINI 
CagLI, 
“Principio 
di 
autodeterminazione 
e 
consenso 
dell’avente 
diritto”, 
Bologna, 
2008, 
165. 
Più 
in 
generale, 
F. 
aLBEggIaNI, 
“Profili 
problematici 
del 
consenso 
dell’avente 
diritto”, 
Milano, 
1995, 
31. 
Per 
quanto 
concerne 
il 
dibattito 
dottrinale 
in 
germania, 
cfr. 
C. 
ROxIN, 
“Sul 
consenso 
nel 
diritto 
penale”, 
in 
“Antigiuridicità 
e 
cause 
di 
giustificazione. 
Problemi 
di 
teoria 
dell’illecito 
penale”, 
a 
cura 
di 
S. 
MOCCIa, 
Napoli, 
1996, 
126; 
ID., 
“Über 
die 
mutmassliche 
Einwilligung”, 
in 
“Festschrift 
für 
Hans 
Welzel”, 
Berlino-New 
York 
1974, 
449 
ss.; 
per 
un 
quadro 
di 
sintesi, 
g. 
FORNaSaRI, 
“I 
principi 
del 
diritto 
penale 
tedesco”, 
Padova, 
1993, 
289 
ss. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


La 
forma 
scritta 
è 
necessaria, 
infatti, 
al 
solo 
fine 
di 
dirimere 
eventuali 
controversie 
concernenti 
la 
sussistenza 
del 
diritto alla 
divulgazione 
dell’immagine 
conteso fra soggetti diversi. 

ad ogni 
modo, il 
consenso alla 
pubblicazione 
può essere 
oggetto di 
specifico 
accordo contrattuale 
fra 
le 
parti, e 
la 
conseguenza 
è 
che 
una 
sua 
eventuale 
violazione fa insorgere il relativo regime di responsabilità. 


La 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
affrontato 
il 
tema 
del 
consenso 
prestato 
mediante 
accordo 
contrattuale 
nella 
sentenza 
n. 
10957/2010, 
attinente 
al 
diritto 
di 
sfruttamento 
commerciale 
di 
alcune 
pose 
di 
nudo 
di 
un’attrice 
esordiente 
da 
parte 
di 
un 
fotografo. 
Dal 
canto 
suo, 
l’attrice 
sosteneva 
che 
non 
vi 
fosse 
alcun 
rapporto 
contrattuale 
intercorrente 
fra 
le 
parti, 
e 
l’autorizzazione 
a 
disporre 
delle 
foto 
fosse 
stata 
concessa 
mediante 
atto 
unilaterale 
recettizio, 
da 
intendersi 
revocato 
alla 
luce 
di 
una 
serie 
di 
emergenze 
istruttorie. 
Della 
revoca, 
poi, 
erano 
state 
rese 
edotte, 
mediante 
lettere 
di 
diffida, 
altre 
due 
società 
convenute 
in 
giudizio, 
responsabili 
dell’ulteriore 
diffusione 
delle 
immagini 
sulla 
base 
del 
diritto 
di 
disposizione 
delle 
stesse, 
acquisito 
dal 
predetto 
fotografo. 
La 
Corte 
di 
Cassazione, 
pronunciandosi 
sulla 
sussistenza 
e 
sulla 
validità 
o 
meno 
del 
consenso 
prestato 
dall’attrice, 
ha 
per 
prima 
cosa 
ribadito 
quanto 
detto 
sopra 
in 
merito 
alla 
rilevanza 
del 
consenso 
anche 
se 
prestato 
solo 
tacitamente. 


Inoltre, 
si 
è 
chiarita 
la 
disciplina 
del 
consenso, 
che 
sarà 
volto 
esclusivamente 
a 
delineare 
le 
condizioni 
e 
i 
limiti 
entro 
i 
quali 
il 
suddetto 
diritto 
potrà 
legittimamente 
essere 
esercitato 
-specificando 
che 
anche 
nell’ipotesi 
in 
cui 
il 
diritto 
di 
disporre 
dell’immagine 
divenga 
oggetto 
di 
un 
rapporto 
contrattuale 
fra 
le 
parti, 
il 
consenso 
rimane 
comunque 
elemento 
esterno 
rispetto 
a 
tale 
rapporto. 


Conseguenza 
di 
ciò 
è 
che 
il 
contratto 
ha 
il 
consenso 
quale 
suo 
presupposto 
e 
che, una 
volta 
stipulato, “questo non possa di 
norma essere 
revocato fino a 
che 
l’utilizzazione 
entro 
i 
limiti 
stabiliti 
dal 
rapporto 
contrattuale 
sia 
possibile 
e/o non sia ancora stata realizzata”. 

Nel 
caso di 
specie, questo rileva 
in quanto la 
cessione 
del 
diritto di 
disposizione 
delle 
immagini 
a 
soggetti 
terzi 
era 
stata 
oggetto di 
contestazione. 
Per 
giustificare 
la 
legittimità 
di 
tale 
condotta, 
si 
sarebbe 
dovuta 
dimostrare 
non soltanto l’esistenza 
di 
un rapporto contrattuale, ma 
anche 
il 
fatto che 
questo 
disciplinasse il profilo della cessione a terzi del diritto. 


È 
necessario 
porre 
l’accento 
su 
quel 
“di 
norma” 
utilizzato 
dalla 
Corte 
nella 
succitata 
pronuncia, 
dal 
momento 
che 
un 
orientamento 
più 
risalente 
(215) 
aveva 
stabilito che 
il 
consenso alla 
pubblicazione 
della 
propria 
immagine, in 


(214) Cfr. Cass. Civ., sez. III, 6 maggio 2010, n. 10957, disponibile 
su dejure.it; 
con nota 
di 
a. 
NaTaLINI, “Diritto all’immagine 
e 
pubblicazione 
di 
foto non autorizzata: per 
essere 
risarcita è 
la parte 
lesa che deve provare il pregiudizio economico”, su Diritto & Giustizia, fasc. 0, 2010, pag. 193. 
(215) Si 
veda 
Cass. Civ., sez. I, 19 novembre 
2008, n. 27506, disponibile 
su dejure.it; 
Giust. civ. 
2009, 2, 313; 
Riv. dir. ind. 
2009, 4-5, II, 466; 
Foro it. 
2009, 10, I, 2728 NOTa 
(s.m.) con nota 
di 
L.C. 
uBERTazzI. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


quanto negozio unilaterale, fosse 
“revocabile 
in ogni 
tempo, anche 
in difformità 
di 
quanto pattuito contrattualmente 
salvo, in questo caso, il 
diritto del-
l’altra parte al risarcimento del danno”. 


ultimamente, il 
tema 
della 
revoca 
del 
consenso è 
tornato a 
far discutere, 
perché 
una 
sentenza 
della 
Corte 
d’appello 
di 
Milano 
(216) 
ha 
ribaltato 
quanto 
stabilito dai 
giudici 
di 
primo grado, affermando la 
revocabilità 
del 
consenso 
in qualunque momento. 

Nel 
caso di 
specie, riguardante 
la 
pubblicazione 
delle 
foto di 
due 
attori, 
congiuntamente 
ad un’intervista 
sulla 
loro vita 
sentimentale, i 
giudici 
hanno 
richiamato 
il 
principio 
già 
affermato 
dalla 
Cassazione 
secondo 
cui 
la 
sussistenza 
del 
consenso alla 
pubblicazione 
della 
propria 
immagine, è 
sempre 
necessario 
ed 
imprescindibile 
anche 
al 
momento 
della 
pubblicazione 
stessa. 
Quindi, a 
prescindere 
dagli 
accordi 
contrattuali 
originariamente 
raggiunti 
fra 
le 
parti, l’intervento della 
revoca 
prima 
dell’avvenuta 
pubblicazione 
fa 
venire 
senz’altro meno il presupposto della sua legittimità. 


13. La tutela dei minori e il diritto all’oblio. 
anche 
nei 
casi 
in 
cui 
l’immagine 
ritragga 
soggetti 
minori 
viene 
in 
rilievo 
la 
tutela 
della 
reputazione 
altrui, dovendosi 
comunque 
ritenere 
lecita, qualora 
sussista 
una 
delle 
ipotesi 
previste 
dalla 
legge 
e 
non sia 
recato pregiudizio alla 
persona, la pubblicazione in assenza di consenso. 

Ciò 
è 
stato 
affermato 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
nella 
pronuncia 
n. 
8880/2020 (217), che 
ha 
concluso che 
nel 
caso di 
specie 
“le 
fotografie 
che 
ritraevano 
le 
minori 
(…), 
le 
quali 
partecipavano 
ad 
una 
manifestazione 
di 
massa 
in 
occasione 
dell’inaugurazione 
di 
uno 
scivolo 
gonfiabile, 
di 
certo 
non 
era lesiva della reputazione 
o dell’onore, posto che 
non è 
disdicevole 
o disonorevole, 
o contraria a qualsivoglia disposizione 
di 
ordine 
pubblico o buon 
costume, l’utilizzo di uno scivolo”. 


Parimenti, 
può 
essere 
affermato 
che 
l’elemento 
dell’interesse 
pubblico 
giustifica 
la 
pubblicazione 
dell’immagine 
di 
un 
minore 
solo 
se 
vi 
è 
la 
necessità 
“di 
conoscere 
le 
fattezze 
dei 
protagonisti 
della vicenda narrata ai 
fini 
della 
completezza e correttezza della divulgazione della notizia 
(…)” (218). 


Tuttavia, la 
questione 
diventa 
più problematica 
quando, invece 
che 
avvenire 
su una 
testata 
giornalistica 
-trovando così 
pacificamente 
applicazione 
l’esimente 
del 
diritto di 
cronaca 
-la 
pubblicazione 
dell’immagine 
altrui 
abbia 
luogo sui 
social network. 


(216) Si veda la sentenza della Corte di 
appello di Milano, n. 21043 del 2021. 
(217) 
Cass. 
Civ., 
sez. 
III, 
13 
maggio 
2020, 
n. 
8880, 
disponibile 
su 
dejure.it, 
Guida 
al 
diritto 
2020, 
37, 64; 
Giustizia Civile Massimario, 2020; 
Rivista di Diritto Industriale, 2020, 4-05, II, 344. 
(218) Cass. Civ., sez. I, 19 febbraio 2021, n. 4477, disponibile 
su dejure.it, commentata 
da 
I.M. 
aLagNa, 
“L’interesse 
pubblico 
alla 
diffusione 
di 
una 
notizia 
non 
legittima 
la 
pubblicazione 
di 
immagini 
ritraenti un minore su testate giornalistiche”, su Diritto & Giustizia, fasc. 38, 2021, pag. 6. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


La 
Corte 
EDu 
ha 
ritenuto che 
“la pubblicazione 
di 
un’immagine 
manipolata 
sul 
social 
network 
Instagram” 
integri 
la 
violazione 
dell’art. 
8 
della 
Carta 
Europea 
sui 
diritti 
dell’uomo, posto a 
tutela 
del 
diritto al 
rispetto della 
vita 
privata, incluso quello alla 
reputazione. a 
Strasburgo si 
è 
infatti 
spiegato 
che 
la 
tutela 
alla 
reputazione 
deve 
essere 
garantita 
anche 
a 
coloro che 
subiscono 
diffamazione 
sui 
social, dovendosi 
garantire 
un equo bilanciamento fra 
il diritto alla libertà di espressione e la tutela della reputazione privata (219). 


Ovviamente, nei 
casi 
in cui 
ad essere 
ritratto è 
un minore, la 
situazione 
diviene 
più delicata; 
le 
sempre 
più numerose 
pronunce 
giurisprudenziali 
al 
riguardo 
sono accomunate 
dalla 
prevalenza 
della 
tutela 
del 
minore 
sulla 
libertà 
di espressione altrui. 


La 
questione 
è 
stata 
affrontata 
dal 
Tribunale 
di 
Rieti 
nel 
marzo 
del 
2019 
(220). 


I 
giudici 
si 
sono 
trovati 
a 
risolvere 
una 
controversia 
riguardante 
la 
liceità 
della 
pubblicazione 
di 
foto ritraenti 
soggetti 
di 
minore 
età, nel 
caso di 
specie 
figli di genitori divorziati, da parte della nuova compagna del padre. 


Con 
ricorso 
ex 
art. 
700 
c.p.c., 
il 
tribunale 
è 
stato 
adito 
dalla 
madre 
dei 
minorenni, affinché 
ordinasse 
alla 
nuova 
compagna 
del 
padre 
l’immediata 
rimozione 
dai 
social 
media 
delle 
immagini 
che 
ritraevano i 
propri 
figli, nonché 
inibisse la generale diffusione delle medesime foto. 

Il 
ricorso 
era 
giunto 
al 
Tribunale 
dopo 
una 
preliminare 
diffida, 
a 
seguito 
della 
quale 
il 
comportamento 
della 
convenuta 
era 
cessato 
solo 
temporaneamente, 
salvo 
poi 
riprendere, 
tanto 
che 
i 
genitori 
sono 
stati 
costretti 
a 
convenire 
in 
sede 
di 
divorzio 
che 
la 
pubblicazione 
delle 
immagini 
dei 
propri 
figli 
sarebbe 
stata 
consentita, 
sia 
ai 
genitori 
che 
ai 
terzi, 
soltanto 
previo 
consenso 
espresso 
di 
entrambi. 


L’intervento del tribunale è scaturito dall’inosservanza di tale accordo. 


Il 
collegio giudicante, nella 
propria 
argomentazione, ha 
ripreso il 
principio 
che 
subordina 
l’utilizzo di 
un’immagine 
ritraente 
un soggetto minorenne 
al 
previo consenso degli 
esercenti 
la 
responsabilità 
genitoriale 
-richiamando 
sia 
le 
norme 
nazionali 
che 
quelle 
sovranazionali 
rilevanti 
in materia 
(tra 
cui 
rientrano l’art. 10 c.c., gli 
artt. 4, 7, 8 e 
145 del 
Codice 
della 
Privacy e 
la 
Convenzione 
di 
New 
York del 
20 novembre 
1989) -e 
ha 
così 
condannato la 
convenuta 
alla 
rimozione 
dei 
contenuti 
esistenti 
sui 
social, 
vietandole 
altresì 
di 
pubblicare ulteriormente simili immagini. 


Elemento 
interessante 
della 
pronuncia 
è 
stata 
l’applicazione 
dell’art. 
614bis 
c.p.c.: 
i 
giudici 
hanno 
fissato 
in 
50,00 
euro 
la 
somma 
dovuta 
per 
ogni 


(219) 
Corte 
Europea 
Diritti 
dell’uomo, 
sez. 
II, 
7 
novembre 
2017, 
n. 
24703, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
Guida al diritto, 2018, 1, 42. 
(220) Tribunale 
di 
Rieti, sentenza 
del 
7 marzo 2019, pronunciata 
nel 
procedimento avente 
r.g. n. 
2008/2018, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
a. SIMEONE, “La nuova compagna del 
padre 
non 
può pubblicare le foto dei minori senza il consenso della madre”, su Ilfamiliarista.it, luglio 2019. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


giorno 
di 
ritardo 
nell’esecuzione 
dell’ordine 
di 
rimozione 
e 
per 
ogni 
successiva 
violazione dell’inibitoria. 


anche 
altre 
pronunce 
più risalenti 
si 
sono espresse 
sul 
tema 
della 
diffusione 
di 
immagini 
di 
minori 
in assenza 
del 
consenso dell’esercente 
la 
responsabilità 
genitoriale, 
in 
particolare 
in 
casi 
di 
pubblicazione 
di 
immagini, 
da 
parte 
di uno dei due genitori, in assenza del consenso dell’altro. 

ad 
esempio, 
nel 
2017 
il 
Tribunale 
di 
Mantova 
(221), 
all’interno 
di 
un 
giudizio di 
separazione, aveva 
inibito alla 
madre 
la 
diffusione 
delle 
immagini 
dei 
figli 
in assenza 
del 
consenso del 
padre. Proprio nello stesso anno, il 
Tribunale 
di 
Roma 
(222) si 
è 
spinto oltre, ordinando contestualmente 
la 
rimozione 
dei contenuti già pubblicati e applicando l’art. 614-bis 
c.p.c. 


Tema 
interessante 
è 
anche 
quello 
del 
diritto 
all’oblio, 
riconosciuto 
agli 
interessati 
dall’art. 17 del 
gDPR, che 
ha 
rappresentato, sin dall’entrata 
in vigore 
del 
Regolamento, 
uno 
degli 
aspetti 
maggiormente 
problematici 
nella 
emergente realtà digitale. 


Ciò 
è 
causato, 
da 
un 
lato, 
dalla 
difficoltà 
di 
garantirne 
l’effettività, 
e 
dall’altro, 
dalla 
necessità 
di 
bilanciare 
correttamente 
tale 
diritto 
con 
gli 
altri 
interessi 
in 
gioco. 


Il 
diritto 
all’oblio 
può 
essere 
esercitato 
solo 
nei 
casi 
previsti 
dall’art. 
17 
e 
purché 
sussistano 
circostanze 
idonee 
a 
dimostrare 
che 
l’interessato 
si 
trovi 
in 
una 
situazione 
particolare. 
Tale 
diritto 
è 
venuto 
in 
rilievo 
nel 
caso 
Google 
Spain 
(223). 


La 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
selezionato 
diversi 
elementi 
da 
tenere 
in 
mente 
quando 
si 
procede 
ad 
una 
tale 
valutazione, 
elementi 
che 
sono 
stati 
ampiamente 
condivisi 
anche 
dalla 
giurisprudenza 
interna, 
come 
emerge 
dall’analisi 
delle 
sentenze 
più 
rilevanti 
degli 
ultimi 
anni 
(es. 
l’interessato 
è 
un 
personaggio 
pubblico, 
i 
fatti 
riportati 
sono 
inaccurati 
ecc). 
Si 
badi 
che 
fra 
i 
suddetti 
elementi 
figura 
anche 
il 
caso 
in 
cui 
l’informazione 
riportata 
sia 
qualificabile 
come 
hate 
speech. 


anzitutto, 
secondo 
la 
Suprema 
Corte, 
il 
diritto 
all’oblio 
consiste 
“nel 
non 
rimanere 
esposti 
senza 
limiti 
di 
tempo 
ad 
una 
rappresentazione 
non 
più 
attuale 
della 
propria 
persona 
con 
pregiudizio 
alla 
reputazione 
ed 
alla 
riservatezza” 
(224). 


La 
pronuncia 
rientra 
nell’ambito 
di 
quella 
che 
viene 
considerata, 
da 
parte 
della 
dottrina, la 
seconda 
accezione 
del 
diritto all’oblio, concernente 
la 
tutela 


(221) Tribunale 
di 
Mantova, 19 settembre 
2017, disponibile 
su dejure.it, con nota 
a 
sentenza 
di 
S. 
MOLFINO, 
“Vietato 
pubblicare 
le 
foto 
dei 
figli 
sui 
social 
network 
senza 
il 
consenso 
dell’altro 
genitore”, 
su Ilfamiliarista.it, gennaio 2018. 
(222) Tribunale 
di 
Roma, sez. I, 23 dicembre 
2017, disponibile 
su dejure.it, con nota 
a 
sentenza 
di 
g.O. CESaRO, “Genitore 
pubblica sui 
social 
network 
foto e 
notizie 
del 
figlio minore: interviene 
d’ufficio 
il Giudice”, su Ilfamiliarista.it, marzo 2018. 
(223) Vedi 
g. RESTa, V. zENO 
-zENCOVICh 
(a 
cura 
di), “Il 
diritto all’oblio su internet 
dopo la sentenza 
Google Spain”, Roma 
Tre Press, Roma, 2015. 
(224) Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2020, n. 9147, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
M. 
COCuCCIO, 
“Deindicizzare 
per 
non 
censurare: 
il 
«ragionevole 
compromesso» 
tra 
diritto 
all’oblio 
e 
diritto 
di cronaca”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2021, pag. 175. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


dell’identità 
personale. In quest’ottica, il 
bene 
giuridico tutelato è 
più ampio 
rispetto al 
singolo dato personale, mirando a 
tutelare 
nel 
complesso la 
dignità 
della persona. 

Ne 
discende 
la 
necessità 
di 
contestualizzare 
le 
informazioni, 
valutando 
l’impatto di 
queste 
sull’individuo in relazione 
alla 
situazione 
nella 
quale 
egli 
si trova in un dato momento. 


Nella 
medesima 
pronuncia, 
i 
giudici 
affrontano 
il 
tema 
del 
complesso 
bilanciamento 
fra 
il 
diritto 
all’oblio 
e 
il 
diritto 
di 
cronaca 
(e 
informazione), 
che 
rappresenta, 
forse, 
l’aspetto 
più 
delicato 
e 
problematico 
dell’attuazione 
di 
questa disposizione. 

a 
norma 
dell’art. 17, comma 
3, lett. a), l’esercizio della 
libertà 
di 
espressione 
e 
di 
informazione 
costituisce 
una 
delle 
eccezioni 
che 
consentono 
di 
escludere 
l’esercizio 
del 
diritto 
all’oblio, 
configurando 
come 
necessaria 
un’analisi 
svolta 
caso per caso e 
finalizzata 
a 
valutare 
la 
prevalenza 
dell’uno 


o dell’altro diritto nelle circostanze concrete. 
Nel 
compiere 
tale 
valutazione, si 
deve 
anzitutto tenere 
in considerazione 
il 
lasso 
di 
tempo 
trascorso 
fra 
i 
fatti 
verificatisi 
e 
la 
persistenza 
della 
pubblicità 
della notizia. 

I 
giudici 
evidenziano, 
infatti, 
che 
il 
pregiudizio 
alla 
reputazione 
e 
alla 
riservatezza 
dell’interessato possa 
discendere 
dalla 
ripubblicazione 
“a distanza 
di 
un importante 
lasso temporale 
di 
una notizia relativa ai 
fatti 
del 
passato”. 

In un passo importante, la 
Corte 
afferma 
che 
il 
diritto all’oblio può dirsi 
garantito 
anche 
soltanto 
mediante 
la 
deindicizzazione 
di 
un 
articolo 
dai 
motori 
di 
ricerca, proprio perché 
il 
diritto dell’interessato va 
comunque 
posto in relazione 
a 
quello 
di 
cronaca 
e 
di 
conservazione 
della 
notizia 
per 
finalità 
storico-
sociali. 

Il 
medesimo 
concetto 
è 
stato 
ribadito 
nella 
sentenza 
n. 
7559 
del 
2020 
(225), nella 
quale 
è 
riportato che 
la 
deindicizzazione 
di 
un articolo risalente 
nel 
tempo 
-nonostante 
la 
permanenza 
di 
quest’ultimo 
nell’archivio 
online 
del 
giornale 
-è 
idonea 
a 
garantire 
un corretto trade-off 
fra 
il 
diritto all’oblio del-
l’interessato e l’interesse della collettività alla permanenza della notizia. 


Sul punto bisogna fare almeno due diverse considerazioni. 


La 
prima 
riflessione 
riguarda 
la 
valutazione 
di 
un 
“lasso 
di 
tempo 
idoneo” 
a 
far 
venir 
meno 
l’interesse 
pubblico 
alla 
conoscenza 
della 
notizia. 
Tale 
criterio, 
infatti, 
sebbene 
possa 
sembrare 
chiaro 
nella 
teoria, 
non 
lo 
è 
nella 
pratica; 
sono 
moltissimi, 
infatti, 
i 
fattori 
che 
il 
giudice 
sarà 
chiamato 
a 
valutare 
nel 
corretto 
bilanciamento 
degli 
interessi. 
ad 
esempio, 
la 
Suprema 
Corte, 
nella 
sentenza 
n. 
13161/2016 
(226), 
ha 
affermato 
che 
il 
pe


(225) Cass. Civ., sez. I, 27 marzo 2020, n. 7559, disponibile 
su 
dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
V. 
aMENDOLagINE, 
“Il 
diritto 
all’oblio 
tra 
rievocazione 
storiografica 
online 
e 
cronaca 
giudiziaria”, 
su 
GiustiziaCivile.com, 18 agosto 2020. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


riodo 
idoneo 
a 
far 
venir 
meno 
l’interesse 
per 
la 
divulgazione 
di 
un 
fatto 
di 
cronaca 
nera 
fosse 
individuabile 
in 
due 
anni 
mezzo. 
Tuttavia, 
ci 
si 
chiede 
come 
tale 
criterio 
possa 
dirsi 
indistintamente 
valido 
per 
qualunque 
circostanza, 
essendo 
comunque 
sempre 
necessario 
svolgere 
un’analisi 
concreta 
caso 
per 
caso. 


La 
seconda 
considerazione 
da 
fare 
concerne 
il 
fatto 
che 
limitare 
la 
portata 
del 
diritto all’oblio alla 
sola 
cancellazione 
dei 
dati, significherebbe 
snaturare 
ingiustamente 
la 
disposizione. Questa, infatti, anche 
alla 
luce 
dell’interpretazione 
che 
ne 
è 
stata 
data 
dalla 
giurisprudenza, ammette, fra 
le 
misure 
che 
ne 
permettono 
la 
piena 
attuazione, 
la 
deindicizzazione, 
l’anonimizzazione 
dei 
dati e la loro esatta contestualizzazione. 

Si 
tratta 
di 
elementi 
il 
cui 
riconoscimento 
assume 
particolare 
rilevanza 
proprio 
in 
virtù 
dell’avvento 
di 
Internet, 
dato 
che 
assicurare 
la 
cancellazione 
dei 
dati 
sul 
web 
risulta 
particolarmente 
complesso 
in 
molti 
casi, 
ma 
è 
ben 
possibile 
garantire 
la 
piena 
tutela 
dell’interessato 
all’oblio 
facendo 
ricorso 
a 
mezzi 
diversi. 


Questo 
concetto 
si 
ricollega 
anche 
al 
tema 
dell’ampliamento 
della 
portata 
del 
diritto 
all’oblio 
e 
alla 
configurabilità 
di 
un 
vero 
e 
proprio 
diritto 
all’identità, 
alla 
quale 
oggi 
parte 
della 
dottrina 
si 
riferisce 
con l’espressione 
“identità dinamica 
dell’individuo”. 


Si 
è 
compreso, in altri 
termini, che 
per garantire 
la 
tutela 
dell’interessato 
non basta 
prevedere 
la 
cancellazione 
dei 
dati, bensì 
è 
necessario provvedere 
all’attuazione 
di 
misure 
ulteriori, 
prime 
fra 
tutte 
il 
loro 
continuo 
aggiornamento 
e la loro contestualizzazione. 

Sul 
tema, 
si 
rimanda 
alla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
(227), 
che 
ha 
anzitutto 
riconosciuto 
all’interessato 
il 
diritto 
di 
rivolgersi 
direttamente 
al 
sito che 
manteneva 
la 
notizia 
disponibile 
online 
e 
non al 
motore 
di 
ricerca, 
affermando al 
contempo che 
al 
fine 
di 
garantire 
un corretto bilanciamento fra 
il 
diritto d’informazione 
e 
il 
diritto all’oblio, si 
sarebbe 
dovuto garantire 
l’aggiornamento 
delle notizie riportate. 


Tra 
gli 
elementi 
rilevanti 
nel 
bilanciamento 
fra 
il 
diritto 
all’oblio 
e 
quello 
al-
l’informazione, 
è 
da 
tenere 
in 
considerazione 
la 
notorietà 
del 
soggetto 
interessato. 


a 
tal 
proposito, deve 
richiamarsi 
la 
pronuncia 
(228) con cui 
la 
Corte 
di 
legittimità, 
ribaltando 
la 
decisione 
della 
Corte 
d’appello, 
ha 
riconosciuto 
il 


(226) Cass. Civ., sez. I, 24 giugno 2016, n. 13161, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
D. 
BIaNChI, “Danno e 
oblio. Nesso di 
causalità, principio di 
proporzionalità e 
misure 
di 
sicurezza Data 
Protection”, su Ridare.it, 19 ottobre 2016. 
(227) Cass. Civ., sez. III, 5 aprile 
2012, n. 5525, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
g. CI-
TaRELLa, “Aggiornamento degli 
archivi 
online, tra diritto all’oblio e 
rettifica «atipica»”, su Responsabilità 
Civile e Previdenza, fasc. 4, 2012, pag. 1155. 
(228) Cass. Civ., sez. I, 31 maggio 2021, n. 15160, disponibile 
su dejure.it; 
v. anche 
“Diritti 
alla 
riservatezza e 
all’identità personale 
e 
bilanciamento con il 
diritto della collettività all'informazione”, 
su Giustizia Civile Massimario, 2021. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


diritto di 
un imprenditore 
ad ottenere 
la 
deindicizzazione 
da 
un motore 
di 
ricerca 
di 
un articolo nel 
quale 
venivano riportate 
intercettazioni 
telefoniche 
di 
terzi che riferivano di una presunta vicinanza dello stesso a gruppi mafiosi. 

Nel 
caso di 
specie, i 
giudici 
hanno ritenuto prevalente 
il 
diritto all’oblio 
dell’interessato, dato che 
quest’ultimo non era 
un personaggio pubblico e 
godeva 
di 
notorietà 
solo a 
livello locale. a 
parere 
della 
Corte, negare 
la 
deindicizzazione 
avrebbe 
infatti 
comportato una 
lesione 
del 
diritto dell’interessato 
“a non vedersi 
attribuita reiteratamente 
una biografia telematica, diversa da 
quella reale e oggetto di notizie ormai superate”. 


La 
Corte 
di 
giustizia 
si 
è, 
altresì, 
focalizzata 
sull’elemento 
della 
natura 
della 
notizia, 
affermando 
che 
il 
diritto 
alla 
cronaca 
e 
all’informazione 
prevalgono, 
nonostante 
il 
trascorrere 
di 
un 
lungo 
lasso 
di 
tempo, 
nel 
caso 
di 
notizie 
relative 
a 
procedimenti 
penali. 
Il 
caso 
di 
specie 
esaminato 
dai 
giudici 
di 
Lussemburgo 
concerneva 
la 
condanna 
all’ergastolo 
per 
omicidio 
di 
due 
cittadini 
tedeschi: 
la 
Corte 
ha 
ritenuto 
che 
“gli 
archivi 
online 
di 
giornali 
e 
radio 
sono 
un 
bene 
da 
proteggere 
perché 
garantiscono 
il 
diritto 
della 
collettività 
a 
ricevere 
notizie 
di 
interesse 
generale, 
che 
non 
è 
attenuato 
dal 
passare 
del 
tempo” 
(229). 


La 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 
si 
è 
pronunciata 
anche 
sul 
contenuto 
della 
domanda 
di 
deindicizzazione 
rivolta 
ai 
motori 
di 
ricerca, sottolineando 
che, in questo caso, si 
richiede 
la 
precisa 
individuazione 
dei 
risultati 
della 
ricerca 
che 
l’attore 
intende 
rimuovere 
(generalmente 
serve 
l’indicazione 
di 
indirizzi 
telematici o uRL). 

Non 
è 
escluso, 
comunque, 
che 
“una 
puntuale 
rappresentazione 
delle 
singole 
informazioni 
associate 
alle 
parole 
chiave” 
possa 
bastare 
a 
permettere 
al 
motore di ricerca di adempiere all’obbligo cui è soggetto (230). 


Sul 
tema 
della 
deindicizzazione 
da 
parte 
dei 
motori 
di 
ricerca 
su 
richiesta 
degli 
interessati, la 
Corte 
europea, nella 
causa 
C-136/2019, pur ribadendo la 
sussistenza 
di 
tale 
obbligo, 
ha 
evidenziato 
che 
questo 
ha 
valenza 
solo 
per 
quanto 
riguarda 
le 
versioni 
presenti 
negli 
Stati 
Membri 
e 
non 
tutte 
quelle 
sotto 
il 
dominio 
dei 
gestori. 
Ciò 
significa 
che 
il 
motore 
di 
ricerca 
sarà 
tenuto 
a 
deindicizzare 
solo i 
dati 
presenti 
nei 
server 
europei. Questo profilo ha 
assunto una 
rilevanza 
sempre 
maggiore, tanto che 
lo scorso 7 luglio l’EDPB ha 
adottato 
le 
linee-guida 
5/2019 (231) relative 
proprio all’esercizio del 
diritto all’oblio 
nei 
casi 
relativi 
ai 
motori 
di 
ricerca. In relazione 
all’art. 17 comma 
1, lett. b), 


(229) 
Corte 
Europea 
Diritti 
dell’uomo, 
sez. 
V, 
28 
giugno 
2018, 
n. 
60798, 
disponibile 
su 
dejure.it; 
v. anche 
“Il 
diritto all’informazione 
prevale 
su quello all’oblio se 
si 
tratti 
di 
notizie 
relative 
a procedimenti 
penali”, su Guida al diritto, 2018, 30, 24. 
(230) Cass. Civ., sez. I, 2 luglio 2021, n. 20861, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
R. 
SETTIMIO, “Deindicizzazione 
e 
diritto all’oblio al 
vaglio della Suprema Corte”, su GiustiziaCivile.com, 
27 settembre 2021. 
(231) 
Su 
https://edpb.europa.eu/our-work-tools/our-documents/guidelines/guidelines-52019criteria-
right-be-forgotten-search-engines_it. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


che 
riconosce 
il 
diritto dell’interessato di 
richiedere 
la 
cancellazione 
dei 
dati 
nell’ipotesi 
in 
cui 
abbia 
ritirato 
il 
proprio 
consenso 
al 
trattamento, 
il 
documento 
evidenzia 
il 
fatto che, normalmente, il 
consenso è 
dato al 
web publisher 
e 
non 
al 
motore 
di 
ricerca 
e, perciò, è 
al 
primo che 
sarà 
comunicata 
dall’interessato 
la 
volontà 
di 
ritirare 
il 
consenso. 
Secondo 
l’EDPB, 
in 
tal 
caso, 
è 
onere 
del 
web 
publisher 
informare 
tempestivamente 
il 
motore 
di 
ricerca 
e 
ottenere 
la 
cancellazione 
dei 
dati, ai 
sensi 
del 
comma 
2 dell’art. 17 gDPR. L’interessato potrà, 
tuttavia, esercitare 
direttamente 
il 
proprio diritto, ai 
sensi 
dell’art. 17, comma 
1, lett. c). La 
norma 
consente 
all’interessato, infatti, di 
esercitare 
il 
diritto all’oblio 
altresì 
nell’ipotesi 
in 
cui 
abbia 
previamente 
esercitato 
il 
diritto 
di 
obiezione 
ex 
art. 21, comma 
1 del 
gDPR. L’articolo pone 
a 
carico del 
motore 
di 
ricerca 
l’onere 
di 
provare 
la 
sussistenza 
di 
motivi 
legittimi 
prevalenti 
rispetto 
al 
diritto 
di 
obiezione. 
Il 
legame 
fra 
le 
due 
disposizioni 
richiamate 
-come 
messo 
in 
luce 
dall’EDPB 
-comporta 
che 
nel 
caso 
del 
diritto 
all’oblio, 
se 
il 
motore 
di 
ricerca 
non è 
in grado di 
fornire 
la 
prova 
richiesta, sarà 
obbligato 
ad 
esaudire 
la 
richiesta 
dell’interessato. 
Per 
quanto 
concerne 
la 
legittimazione 
ad 
agire 
per 
il 
riconoscimento 
del 
diritto 
all’oblio, 
nell’ipotesi 
di 
notizie 
riguardanti 
una 
persona 
deceduta, i 
giudici 
di 
legittimità 
hanno affermato che 
tale 
diritto non può essere 
fatto valere 
dal 
congiunto iure 
proprio, ma 
soltanto 
nella sua veste di erede (232). 


Come 
si 
configura 
il 
risarcimento del 
danno derivante 
dalla 
lesione 
del 
diritto all’oblio? 
La 
giurisprudenza 
è 
pacifica 
nel 
riconoscere 
la 
risarcibilità 
di 
tutti 
i 
danni, patrimoniali 
e 
non, riconducibili 
alla 
violazione 
di 
tale 
diritto, 
avendo il 
diritto all’oblio rango di 
diritto fondamentale 
della 
persona, per cui 
è 
azionabile 
il 
risarcimento per danno da 
fatto illecito ex 
art. 2043 c.c. Per vedersi 
riconosciuto il 
danno non patrimoniale, chi 
agisce 
in giudizio deve, tuttavia, 
allegare 
e 
provare 
tale 
danno 
(233). 
Sotto 
il 
profilo 
della 
quantificazione, 
il danno è calcolato perlopiù in via equitativa 
ex 
art. 1226 c.c. (234). 

14. L’“eredità digitale”. 
Infine, 
molto 
interessante 
è 
anche 
il 
tema 
dell’accesso 
e 
del 
trasferimento 


(232) Si veda Cass. Civ., sez. I, 27 marzo 2020, n. 7559, cit. 
(233) Cass. Civ., sez. III, 19 luglio 2018, n. 19137, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
I. 
PIETROLETTI, “Nessun risarcimento per 
l’avvocato se 
non prova i 
pregiudizi 
concreti 
ricollegabili 
al-
l’attività”, 
su 
Diritto 
& 
Giustizia, 
fasc. 
128, 
2018, 
pag. 
10 
e 
Cass. 
Civ., 
sez. 
I, 
23 
maggio 
2018, 
n. 
12855, 
disponibile 
su 
dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
F. 
VaLERINI, 
“La 
familiarità 
della 
minore 
con 
i 
social 
network 
non salva Yahoo.it 
dal 
risarcimento del 
danno per 
la pubblicazione 
della foto”, su Diritto & 
Giustizia, 
fasc. 92, 2018, pag. 21. 
(234) È 
utile 
richiamare 
la 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 
relativa 
al 
risarcimento del 
danno da 
reputazione, la 
cui 
ratio 
trova 
applicazione 
anche 
nel 
contesto che 
qui 
interessa. a 
proposito, la 
Corte 
ha 
ribadito che 
il 
giudice 
è 
“tenuto a dare 
conto delle 
circostanze 
considerate 
nel 
compimento della valutazione 
equitativa e 
del 
percorso logico che 
lo ha condotto a quel 
determinato risultato” 
(Cass. Civ., 
n. 11039/2006, disponibile su 
dejure.it 
e 
Giust. civ. Mass. 2006, 5). 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


dei 
dati 
di 
una 
persona 
deceduta 
(c.d. 
“eredità 
digitale”), 
questione 
emersa 
con 
l’avvento 
e 
la 
diffusione 
della 
società 
digitale. 
L’esigenza 
principale 
che 
pone 
la 
questione 
è 
quella 
di 
stabilire 
quali 
sono 
i 
soggetti 
che 
abbiano 
-e 
a 
quali 
condizioni 
-il 
diritto 
di 
accedere 
ai 
dati 
personali 
online 
di 
una 
persona 
deceduta. 


Il 
fenomeno 
della 
c.d. 
“digitalizzazione” 
dell’economia 
ha 
comportato 
che 
i 
beni 
immateriali 
e 
gli 
asset 
intangibili 
sono 
entrati 
a 
far 
parte 
della 
massa 
ereditaria, 
creando 
il 
problema 
relativo 
all’individuazione 
delle 
regole 
di 
ripartizione 
della 
stessa. 
Inoltre, 
soprattutto 
a 
causa 
dell’avvento 
dei 
social 
media, 
un’enorme 
quantità 
di 
dati 
personali 
resta 
disponibile 
online 
sul 
web 
anche 
durante 
la 
fase 
post 
mortem, 
facendo 
sorgere 
anche 
la 
problematica 
concernente 
il 
controllo 
di 
tali 
dati. 
Il 
fulcro 
della 
questione 
è 
che 
i 
dati 
vengono 
affidati 
all’intermediario 
professionista 
(ossia 
la 
piattaforma), 
in 
virtù 
di 
accordi 
contrattuali 
che, 
tuttavia, 
in 
molti 
casi 
prevedono 
espressamente 
la 
loro 
intrasmissibilità 
mortis 
causa, 
in 
contrasto 
con 
la 
disciplina 
in 
materia 
di 
successioni. 


Inoltre, un altro problema 
è 
quello legato all’eterogeneità 
dei 
beni 
qualificabili 
come 
facenti 
parte 
dell’eredità 
digitale. 
Infatti, 
oltre 
ai 
dati 
presenti 
sui 
social 
media, vi 
rientrerebbero, ad esempio, i 
documenti 
digitali 
offline 
e 
quelli 
conservati 
grazie 
a 
servizi 
di 
cloud computing, i 
profili 
online, sia 
professionali 
che 
personali, i 
dati 
relativi 
a 
giochi 
virtuali, gli 
accounts, le 
cripto-
valute, 
i 
nomi 
di 
dominio. 
Per 
fare 
chiarezza 
sulla 
questione, 
si 
possono 
suddividere tutti questi elementi in almeno due categorie. 


Da 
un lato, vi 
sono i 
beni 
a 
connotazione 
prettamente 
patrimoniale 
(es. le 
criptovalute) e dall’altro, quelli di carattere personale (es. profili 
social). 


Da 
questa 
distinzione 
deriverebbe 
l’applicabilità 
di 
regole 
diverse 
per 
l’una e l’altra categoria, individuate sulla base delle caratteristiche dei beni. 

È 
una 
distinzione 
apparentemente 
semplice 
in teoria, ma 
più complicata 
da 
effettuare 
nella 
pratica, dal 
momento che 
in molti 
casi 
vi 
è 
una 
sovrapposizione 
dei caratteri. 

Si 
aggiungono gli 
ormai 
noti 
problemi 
legati 
al 
carattere 
transnazionale 
delle questioni. 


Con il 
D.lgs. n. 101 del 
2018, che 
ha 
novellato il 
Codice 
della 
Privacy, il 
legislatore 
italiano 
è 
intervenuto 
sul 
tema 
introducendo 
l’art. 
2-terdecies 
(235). 

(235) art. 2-terdecies 
Codice Privacy (“Diritti riguardanti le persone decedute”) 
“1. I diritti 
di 
cui 
agli 
articoli 
da 15 a 22 del 
Regolamento riferiti 
ai 
dati 
personali 
concernenti 
persone 
decedute 
possono essere 
esercitati 
da chi 
ha un interesse 
proprio, o agisce 
a tutela dell’interessato, in 
qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. 
2. L’esercizio dei 
diritti 
di 
cui 
al 
comma 1 non è 
ammesso nei 
casi 
previsti 
dalla legge 
o quando, limitatamente 
all’offerta 
diretta 
di 
servizi 
della 
società 
dell’informazione, 
l’interessato 
lo 
ha 
espressamente 
vietato con dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest’ultimo comunicata. 
3. La volontà dell’interessato di 
vietare 
l’esercizio dei 
diritti 
di 
cui 
al 
comma 1 deve 
risultare 
in modo 
non equivoco e 
deve 
essere 
specifica, libera e 
informata; il 
divieto può riguardare 
l’esercizio soltanto 
di alcuni dei diritti di cui al predetto comma. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


È 
una 
norma 
molto 
rilevante, 
anche 
perché 
il 
Considerando 
27 
del 
gDPR 
afferma 
chiaramente 
che 
il 
Regolamento non si 
applica 
ai 
dati 
delle 
persone 
decedute, 
lasciando 
agli 
Stati 
membri 
la 
possibilità 
di 
introdurre 
regole 
proprio 
su questo profilo. 


La 
norma 
non 
chiarisce 
se 
i 
soggetti 
legittimati 
all’esercizio 
dei 
diritti 
del 
de 
cuius 
agiscano in virtù di 
un acquisto mortis 
causa, oppure 
se 
godano di 
una legittimazione 
iure proprio. 


gli 
aspetti 
più rilevanti 
sono che, anzitutto, la 
norma 
include 
fra 
i 
diritti 
esercitabili 
post 
mortem 
dell’interessato 
anche 
il 
diritto 
alla 
portabilità 
dei 
dati. 

Poiché 
la 
ratio 
della 
norma 
risponde 
sia 
all’esigenza 
di 
garantire 
il 
pieno 
controllo sui 
dati 
personali 
che 
a 
quella 
di 
tutelare 
il 
mercato concorrenziale, 
si 
deve 
dedurre 
che 
la 
legittimazione 
all’esercizio di 
tale 
diritto deve 
essere 
riconosciuta 
solo 
ai 
soggetti 
che 
agiscono 
a 
tutela 
dell’interessato 
e 
non 
anche 
a chi vanta un proprio interesse. 


Il 
mandatario 
è 
incluso 
tra 
i 
soggetti 
legittimati 
all’esercizio 
dei 
diritti 
post 
mortem. Questo, per l’esigenza 
di 
prendere 
atto della 
prassi 
sempre 
più 
diffusa 
di 
affidare 
la 
gestione 
dei 
propri 
account 
e 
profili 
social, soprattutto 
professionali, a soggetti terzi. 

Il 
compimento da 
parte 
di 
tale 
soggetto di 
atti 
giuridici 
in nome 
dell’interessato 
-e 
per espressa 
volontà 
di 
quest’ultimo dopo la 
sua 
morte 
-è 
compatibile 
con il 
nostro diritto successorio solo nella 
misura 
in cui 
attenga 
a 
quei 
beni 
che 
sono stati 
definiti 
di 
carattere 
“personale”. In caso contrario, infatti, 
s’incorrerebbe nella violazione del divieto di patti successori. 


I 
commi 
successivi 
dell’articolo 
prevedono 
che 
l’esercizio 
dei 
diritti 
possa 
essere 
precluso 
per 
espressa 
volontà 
dell’interessato, 
consegnata 
o 
comunicata 
al 
titolare 
del 
trattamento, ma 
solo per quanto concerne 
l’ambito dei 
servizi 
della società dell’informazione. 

Tale 
volontà 
deve 
avere 
queste 
caratteristiche: 
risultare 
in 
modo 
non 
equivoco, 
essere specifica, libera e informata. 

La 
previsione 
deriva 
dalla 
consapevolezza 
dell’asimmetria 
informativa 
e 
dello squilibrio che 
caratterizza 
i 
rapporti 
contrattuali 
fra 
i 
soggetti 
privati 
e 
le 
grandi 
piattaforme 
e 
vuole 
tutelare 
l’integrità 
delle 
scelte 
compiute 
dai 
primi. 

ad 
ogni 
modo, 
i 
terzi 
non 
possono 
subire 
alcun 
pregiudizio 
rispetto 
ai 
diritti 
patrimoniali 
derivanti 
loro dalla 
morte 
dell’interessato, nonché 
rispetto al 
diritto di difendere in giudizio i propri interessi. 


Di 
questa 
disposizione, 
ha 
fatto 
di 
recente 
applicazione 
il 
Tribunale 
di 
Milano 
(236), 
con 
una 
sentenza 
in 
cui 
si 
è 
affermato 
che 
l’accesso 
e 
il 
trasferimento 


4. L’interessato ha in ogni momento il diritto di revocare o modificare il divieto di cui ai commi 2 e 3. 
5. In ogni 
caso, il 
divieto non può produrre 
effetti 
pregiudizievoli 
per 
l’esercizio da parte 
dei 
terzi 
dei 
diritti 
patrimoniali 
che 
derivano dalla morte 
dell’interessato nonché 
del 
diritto di 
difendere 
in giudizio 
i propri interessi”. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


dei 
dati 
delle 
informazioni 
memorizzate 
sull’account 
di 
una 
persona 
deceduta 
o 
sincronizzate 
online 
su 
iCloud 
è 
consentito, 
ai 
sensi 
dell’art. 
2-terdecies 
del 
Codice, 
ai 
terzi 
legittimati, 
soltanto 
nell’ipotesi 
in 
cui 
sussistano 
ragioni 
familiari 
meritevoli 
di 
protezione 
e 
se 
non 
espressamente 
vietato 
dall’interessato. 


alla 
società 
di 
informazione, titolare 
del 
trattamento, è 
vietato frapporre 
ostacoli 
all’esercizio 
di 
tale 
diritto, 
se 
non 
in 
adempimento 
della 
disciplina 
nazionale 
ed europea. 


Con 
la 
pronuncia 
cautelare 
in 
esame, 
il 
giudice 
ha 
ordinato 
d’urgenza 
ad 
una 
società 
del 
gruppo 
Apple 
di 
consentire 
ai 
genitori 
di 
un 
ragazzo 
venuto 
a 
mancare 
in 
un 
incidente 
stradale 
di 
accedere 
ai 
dati 
dell’account 
i-cloud 
del 
figlio. 


L’intervento della 
società 
si 
è 
rivelato necessario, poiché 
il 
telefono del 
ragazzo defunto era 
andato distrutto. Ebbene, alla 
prima 
richiesta 
di 
accesso 
rivolta 
dai 
genitori 
alla 
società, questa 
aveva 
risposto che 
avrebbe 
provveduto 
in tal senso soltanto su ordine del 
Tribunale, avente specifici contenuti. 

gli 
interessati, dunque, si 
erano rivolti 
al 
Tribunale 
di 
Milano, affinché 
emettesse 
-con 
decreto 
inaudita 
altera 
parte 
o 
con 
ordinanza 
-i 
provvedimenti 
necessari 
in via 
cautelare, ex 
artt. 669-bis 
e 
700 c.p.c. Quanto alla 
sussistenza 
del 
fumus 
boni 
iuris, i 
ricorrenti 
sostenevano la 
ravvisabilità 
dei 
requisiti 
previsti 
dall’art. 
2-terdecies 
del 
Codice 
Privacy. 
Relativamente 
al 
periculum 
in 
mora, 
si 
faceva 
presente 
che 
l’Apple 
aveva 
comunicato 
loro 
che 
i 
dati 
dell’account 
sarebbero stati 
automaticamente 
distrutti 
una 
volta 
decorso un determinato 
periodo 
di 
inattività 
dello 
stesso. 
Il 
Tribunale, 
nel 
caso 
di 
specie, 
ha 
ritenuto 
che 
la 
richiesta 
dei 
genitori, 
giustificata 
dal 
tentativo 
di 
cercare 
di 
colmare 
il 
senso 
di 
vuoto 
e 
il 
dolore 
causati 
dalla 
perdita 
del 
figlio, 
integrasse 
perfettamente 
le 
“ragioni 
familiari 
meritevoli 
di 
protezione” 
richieste 
dall’art. 
2-terdecies 
e 
che 
fosse 
altresì 
sussistente 
il 
requisito del 
periculum 
in mora, 
concludendo dunque 
con l’ordine 
rivolto ad Apple 
di 
consentire 
ai 
ricorrenti 
l’accesso all’account. 


altro elemento interessante 
dell’ordinanza 
è 
la 
considerazione 
fatta 
dai 
giudici 
sui 
requisiti 
che 
-ai 
sensi 
delle 
condizioni 
contrattuali 
previste 
da 
Apple 


- l’ordine del 
Tribunale dovrebbe possedere per vincolare la società. 
Secondo la Società, l’ordine dove specificare: 
a) 
che 
il 
defunto 
fosse 
proprietario 
di 
tutti 
gli 
account 
associati 
all’ID 
apple; 
b) che 
il 
richiedente 
fosse 
l’amministratore 
o il 
rappresentante 
legale 
del 
patrimonio del defunto; 
c) che 
questo agisse 
come 
“agente” 
del 
defunto e 
la 
sua 
autorizzazione 
costituisse un “consenso legittimo”; 
d) che 
l’ordine 
imponesse 
ad Apple 
di 
fornire 
assistenza 
nel 
recupero dei 
(236) Tribunale 
di 
Milano, sez. I, 9 febbraio 2021, disponibile 
su dejure.it; 
v. nota 
a 
sentenza 
di 
S. CIaRDO, “Privacy 
e 
tutela dei 
dati 
personali 
memorizzati 
nell’account 
della persona deceduta”, su 
Ridare.it, 20 aprile 2021. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


dati 
personali 
degli 
account, che 
avrebbero potuto contenere 
anche 
informazioni 
o dati personali di terzi. 


Il 
Tribunale 
di 
Milano ha, tuttavia, evidenziato alcune 
criticità 
della 
richiesta, 
dovute 
soprattutto 
al 
fatto 
che 
questa 
si 
basasse 
sul 
diritto 
statunitense, 
piuttosto 
che 
su 
quello 
italiano. 
ad 
esempio, 
è 
noto 
che 
nel 
nostro 
ordinamento 
non 
esiste 
la 
figura 
dell’amministratore, 
del 
rappresentante 
legale 
o 
dell’agente 
del 
de 
cuius. 
Parimenti, 
la 
disciplina 
interna 
non 
prevede 
alcuna 
autorizzazione 


o consenso legittimo all’attività di tali soggetti. 
alla 
luce 
di 
ciò, il 
Tribunale 
ha 
dichiarato illegittima 
la 
pretesa 
di 
Apple 
di 
subordinare 
l’esercizio 
di 
un 
diritto 
riconosciuto 
dall’ordinamento 
giuridico 
italiano a 
condizioni 
estranee 
a 
quest’ultimo. Infine, il 
Tribunale 
ha 
respinto 
la 
tesi 
di 
Apple 
che 
legittimava 
il 
proprio rifiuto ad accogliere 
la 
richiesta 
invocando 
la 
“sicurezza dei 
clienti”, affermando che 
ai 
sensi 
dell’art. 6, par. 1, 
lett. f) del 
gDPR il 
trattamento dei 
dati 
è 
possibile 
se 
necessario per il 
perseguimento 
del 
legittimo 
interesse 
del 
titolare 
o 
di 
terzi. 
Secondo 
i 
giudici 
di 
Milano, essendo la 
richiesta 
avanzata 
dai 
genitori 
basata 
su “ragioni 
familiari 
meritevoli di protezione”, sussisterebbe in questo caso il legittimo interesse. 


15. Il fenomeno del c.d. Revenge porn. 
Il 
fenomeno 
del 
c.d. 
revenge 
porn, 
concernente 
la 
diffusione 
di 
immagini 
a 
contenuto sessuale, senza 
il 
consenso della 
persona 
interessata 
è, purtroppo, 
sempre 
più frequente 
nell’era 
dei 
social 
media 
e 
della 
divulgazione 
online 
di 
foto e 
video (237), ponendosi 
in stretta 
correlazione 
con la 
tutela 
dei 
dati 
personali, 
poiché 
le 
immagini 
diffuse 
rientrano pienamente 
nella 
nozione 
di 
dato 
personale fornita dalla legge. 


Il 
garante 
per 
la 
Privacy, 
per 
contrastare 
la 
diffusione 
di 
questo 
fenomeno, 
ha 
cercato 
di 
fornire 
uno 
strumento 
specifico 
per 
tutelare 
le 
vittime 
di 
revenge 
porn, 
e 
così 
ha 
formulato 
un 
accordo 
con 
Facebook, 
introducendo 
un 
meccanismo 
di 
segnalazione, 
agevolmente 
accessibile 
attraverso 
il 
sito 
del 
garante, 
attraverso 
il 
quale 
chiunque 
abbia 
modo 
di 
temere 
che 
le 
proprie 
immagini 
possano 
essere 
illegittimamente 
diffuse 
attraverso 
i 
canali 
social 
forniti 
dal 
social 
network, 
può 
richiedere 
che 
la 
piattaforma 
intervenga 
in 
maniera 
preventiva, 
proteggendo 
le 
immagini 
mediante 
un 
codice 
hash 
ed 
impedendone 
così 
la 
divulgazione. 


Sul 
tema 
del 
revenge 
porn, è 
intervenuta 
la 
Corte 
di 
Cassazione, con la 


(237) Sul 
tema 
v. g.M. CaLETTI, “Revenge 
porn e 
tutela penale. Prime 
riflessioni 
sulla criminalizzazione 
specifica della pornografia non consensuale 
alla luce 
delle 
esperienze 
angloamericane”, in 
DirPenCont 
2018, 65 ss.; 
D. CITRON 
-K. FRaNKS, “Criminalizing Revenge 
Porn”, in Wake 
Forest 
Law 
Review, 2014, 347; 
M. KaMaL 
-W. NEWMaN, “Revenge 
Pornography: Mental 
Health Implications 
and 
Related Legislation”, in The 
Journal 
of 
American Academy 
of 
Psychiatry 
and the 
Law, 2016, 362 ss.; 
B. SaNDYWELL, “On the 
globalisation of 
crime: The 
internet 
and the 
new criminality”, in “Handbook 
of 
Internet 
Crime”, a 
cura 
di 
Y. JEWKES 
-M. YaR, Milton, 2010, 46, che 
inserisce 
il 
“revenge 
porn” 
all’interno 
delle «traditional criminal activities that are generalised and radicalised by the internet». 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


pronuncia 
n. 
3050/2020 
(238), 
in 
particolare 
sull’argomento 
relativo 
all’applicabilità 
della 
disciplina 
dettata 
dal 
Codice 
della 
Privacy 
alle 
condotte 
ascrivibili 
a 
tale 
fenomeno 
in 
espansione. 
Nello 
specifico, 
è 
venuta 
in 
rilievo 
la 
continuità 
normativa 
fra 
il 
vecchio e 
il 
nuovo articolo 167, comma 
2 del 
Codice, 
da cui discende la rilevanza penale o meno della condotta. 


La 
pronuncia 
trae 
origine 
da 
una 
vicenda 
che 
ha 
visto la 
diffusione 
-da 
parte 
dello stesso indirizzo riconducibile 
alla 
vittima 
-di 
diciotto e-mail, con 
allegati 
video raffiguranti 
atti 
e 
rapporti 
sessuali 
fra 
il 
soggetto che 
aveva 
divulgato 
i 
messaggi 
e 
la 
vittima 
di 
revenge 
porn, nonché 
foto intime 
ritraenti 
la figlia minorenne di quest’ultima. 

Il 
ricorrente 
lamentava 
la 
falsa 
applicazione 
dell’art. 
167 
del 
Codice 
della 
Privacy, ritenendo escluse, sulla 
base 
della 
nuova 
formulazione 
dell’articolo, 
le condotte di 
comunicazione 
e 
diffusione 
dei dati. 

Si 
sosteneva, 
pertanto, 
che 
il 
giudice 
dell’esecuzione, 
ritenendo 
sussistente 
la 
continuità 
normativa 
rispetto 
alla 
vecchia 
versione 
del 
codice, 
avesse 
fatto 
un’applicazione 
della 
norma 
in 
malam 
partem, 
data 
la 
mancanza 
dei 
presupposti 
normativi o giurisprudenziali in tal senso. 


I giudici 
della 
Cassazione 
hanno accolto tale 
tesi, sostenendo l’erroneità 
della 
conclusione 
formulata 
dal 
giudice 
dell’esecuzione, 
dato 
che, 
alla 
luce 
dell’intervenuta 
riforma 
del 
Codice 
Privacy, 
non 
si 
può 
ritenere 
che 
la 
condotta 
sia ascrivibile alla figura di reato a cui si era fatto riferimento. 

Leggendo 
la 
norma, 
infatti, 
si 
nota 
che 
essa 
si 
riferisce 
soltanto 
alle 
ipotesi 
in cui 
la 
condotta 
sia 
posta 
in violazione 
dell’art. 9, par. 1 del 
gDPR, concernente 
i 
trattamenti 
necessari 
per motivi 
di 
interesse 
pubblico rilevante, o degli 
artt. 2-septies, 2-octies 
e 
2-quinquiedecies 
del 
Codice 
Privacy, concernenti 
rispettivamente 
le 
misure 
di 
garanzia 
per il 
trattamento dei 
dati 
genetici, biometrici 
e 
relativi 
alla 
salute, i 
principi 
relativi 
al 
trattamento dei 
dati 
relativi 
a 
condanne 
penali 
e 
reati 
e 
il 
trattamento che 
presenta 
rischi 
elevati 
per l’esecuzione 
di un compito di interesse pubblico. 

Non 
vi 
rientrerebbe, 
dunque, 
la 
diffusione 
di 
dati 
appartenenti 
a 
categorie 
particolari, come nel caso di specie. 

I 
giudici 
di 
legittimità 
hanno 
rilevano 
che 
non 
è 
stata 
neanche 
posta 
la 
questione 
di 
continuità 
con 
l’art. 
612-ter 
c.p., 
concernente, 
nello 
specifico, 
la 
condotta 
illecita 
di 
chi 
fa 
diffusione 
di 
immagini 
o 
video 
sessualmente 
espliciti. 


L’epilogo della 
vicenda 
ha 
visto l’annullamento dell’ordinanza, e 
ciò ci 
dà 
l’occasione 
per riflettere 
sull’importanza 
del 
corretto inquadramento giuridico 
delle 
fattispecie, sia 
ai 
fini 
della 
punibilità 
che 
del 
contrasto effettivo di 
fenomeni 
come 
quello esaminato. La 
Suprema 
Corte 
ha 
affermato il 
seguente 


(238) Cass. Pen., sez. V, 17 dicembre 
2020, n. 3050, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
F. 
BRIzzI, 
“Diffusione 
illecita 
di 
immagini 
o 
video 
sessualmente 
espliciti: 
tra 
tutela 
della 
privacy 
e 
revenge 
porn”, su Ilpenalista.it, 30 marzo 2021. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


principio: 
il 
giudice 
di 
merito, 
chiamato 
ad 
interpretare 
la 
portata 
dell’art. 
167bis 
del 
Codice 
Privacy, 
deve 
interrogarsi 
circa 
la 
sussistenza 
di 
continuità 
normativa 
fra 
tale 
norma 
ed altre 
disposizioni 
normative, anche 
non appartenenti 
al Codice Privacy. 


Rilevante, 
sul 
tema, 
è 
stata 
la 
modifica 
al 
Codice 
prodotta 
dal 
recente 
D.L. 


n. 
139/2021 
(c.d. 
“Decreto 
Capienze”), 
il 
quale 
introduce 
l’art. 
144-bis, 
rubricato, 
appunto, 
“revenge 
porn”, 
con 
cui 
viene 
riconosciuto 
alle 
vittime 
del 
reato, 
ivi 
inclusi 
i 
minori 
ultraquattordicenni, 
il 
diritto 
di 
presentare 
reclamo 
o 
segnalazione 
innanzi 
al 
garante 
della 
privacy 
nell’ipotesi 
in 
cui 
vi 
sia 
il 
fondato 
timore 
che 
una 
delle 
condotte 
descritte 
dall’art. 
612-ter 
c.p. 
possa 
essere 
realizzata. 
Il 
potere 
di 
intervento 
del 
garante 
è 
quello 
ai 
sensi 
dell’art. 
58 
del 
gDPR: 
egli 
può, ad esempio, ordinare 
l’interruzione 
del 
trattamento o la 
rimozione 
dei 
contenuti 
illeciti. Lo scopo della 
norma 
è 
quello di 
anticipare 
la 
tutela 
riconosciuta 
alle 
vittime, dando loro la 
possibilità 
di 
invocare 
l’intervento del-
l’autorità 
già 
prima 
che 
il 
reato 
sia 
effettivamente 
commesso; 
dunque, 
non 
viene ampliato il novero di strumenti 
correttivi 
di cui può servirsi l’autorità. 


gli 
strumenti 
che 
l’interessato può utilizzare 
sono il 
reclamo e 
la 
segnalazione, 
accessibili 
gratuitamente 
e 
meno onerosi 
dei 
classici 
rimedi 
giurisdizionali. 


La 
speranza 
è 
che 
l’introduzione 
di 
questa 
nuova 
disposizione, 
ossia 
la 
previsione 
di 
un 
sistema 
di 
tutela 
anticipato 
e 
parallelo 
rispetto 
a 
quello 
tradizionale, 
possa 
-se 
non 
eliminare 
-quanto 
meno 
arginare 
il 
più 
possibile 
il 
fenomeno. 


È 
fisiologico 
che 
il 
sistema 
giuridico 
si 
debba 
adattare 
alle 
nuove 
tecnologie, 
con 
un 
necessario 
ripensamento 
rispetto 
alle 
fattispecie 
esistenti, 
data 
la 
repentina 
diffusione 
dei 
mezzi 
di 
comunicazione 
di 
massa 
cui 
stiamo 
assistendo. 


Il 
mondo digitale, se 
da 
un lato moltiplica 
le 
occasioni 
di 
contatto, dal-
l’altro 
aumenta 
in 
maniera 
proporzionale 
le 
incertezze 
in 
merito 
alla 
liceità 
del comportamento sul web, i cui limiti non sono ancora definiti. 


gli 
utenti 
pagano le 
più aspre 
conseguenze, e 
i 
loro diritti 
costituzionalmente 
tutelati 
rischiano seriamente 
di 
essere 
messi 
a 
repentaglio con una 
lesività 
maggiore rispetto al passato. 

I comportamenti 
illeciti 
sulla 
rete 
sono sempre 
più difficilmente 
identificabili, 
e anche gli eventuali rimedi sembrano essere spesso insufficienti. 


La 
Dichiarazione 
dei 
diritti 
in 
internet 
del 
2015, 
tuttavia, 
precisa 
che 
i 
diritti 
fondamentali 
di 
ogni 
persona 
sono garantiti 
anche 
sul 
web, e 
devono essere 
interpretati 
in modo da 
assicurarne 
l’effettività, nel 
pieno rispetto della 
dignità, libertà, uguaglianza e diversità di ognuno (art. 1). 

Pertanto, il 
compito dell’ordinamento è 
quello di 
reinterpretare 
le 
norme 
esistenti in modo aperto e realizzare tale obiettivo. 
L’art. 9 della 
Dichiarazione, inoltre, riconosce 
il 
diritto a 
non veder rappresentata 
erroneamente la propria identità in rete. 
Questo tema 
è 
caro alla 
giurisprudenza, la 
quale 
si 
è 
pronunciata 
svariate 



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


volte 
cercando di 
adattare 
il 
contenuto dell’articolo 595 c.p. al 
web e 
temperarlo 
con la tutela della libertà di cui all’art. 21 Cost. 


una 
delle 
domande 
che 
ogni 
giurista 
si 
è 
posto 
è 
quella 
relativa 
all’estensibilità 
della 
nozione 
di 
stampa 
ai 
periodici 
telematici, soprattutto allo scopo 
di 
accertare 
la 
legittimità, per questi 
ultimi, del 
sequestro preventivo a 
scopo 
cautelativo. 

Ci 
si 
è 
interrogati, inoltre, sulla 
possibilità 
di 
aggravamento della 
pena 
in 
caso 
di 
diffamazione 
tramite 
social 
network, 
forum 
e 
blog, 
in 
ragione 
della 
maggiore diffusività del mezzo. 


È 
stata 
considerata, 
inoltre, 
la 
responsabilità 
a 
carico 
a 
chi 
ha 
la 
possibilità 
di 
avere 
accesso ai 
contenuti 
in rete 
e 
sono state 
analizzate 
le 
politiche 
perseguite 
dalle piattaforme 
online 
in materia. 

I maggiori 
problemi 
sono legati 
al 
fatto che 
non è 
prevista 
una 
garanzia 
ex 
ante 
per gli 
utenti 
che 
usufruiscono della 
rete, i 
quali 
sono costretti 
a 
beneficiare 
unicamente 
di 
rimedi 
riparatori 
e 
mai 
di 
inibitorie 
preventive 
a 
causa 
dell’eccessiva onerosità che questo comporterebbe per i 
provider. 

Tuttavia, 
sarebbe 
auspicabile 
un 
equo 
bilanciamento 
tra 
gli 
interessi 
coinvolti 
e 
sarebbe 
opportuno 
adottare 
soluzioni 
tecniche, 
anche 
automatizzate, 
finalizzate 
alla 
prevenzione 
di 
quella 
maggiore 
lesività 
della 
condotta 
veicolata 
dalla 
rete. 


Lo 
sviluppo 
e 
la 
diffusione 
degli 
strumenti 
informatici 
hanno 
favorito 
l’utilizzo sempre 
più frequente 
di 
blog, chat 
rooms, forum, periodici 
online, 
social networks, 
mailing-list 
e 
newsgroup. 

Frequente 
è 
il 
superamento, 
da 
parte 
degli 
utenti 
che 
utilizzano 
queste 
piattaforme, dei 
confini 
della 
libertà 
di 
espressione, della 
critica 
ovvero della 
cronaca, ledendo il diritto all’altrui reputazione (es. hate speech). 


Come 
sostenuto da 
autorevole 
dottrina, i 
diritti 
della 
personalità 
di 
una 
persona 
corrispondono 
alle 
sue 
qualità, 
che 
devono 
essere 
tutelate 
nel 
rapporto 
con gli 
altri. Tra 
questi 
diritti 
personali 
assoluti 
di 
esclusione 
vi 
è 
anche 
il 
diritto 
all’onore; 
questi 
diritti 
trovano la 
loro fonte 
nella 
personalità 
dell’uomo 
ed alcuni sono “la causa prima” di tutti gli altri diritti particolari (239). 

Secondo la 
Corte 
Costituzionale, è 
l’art. 2 Cost. (240) a 
riconoscere 
il 
diritto 
all’identità 
personale, 
inteso 
come 
diritto 
ad 
essere 
se 
stessi 
con 
le 
proprie 
idee, esperienze, convinzioni 
ideologiche 
e 
religiose, tutti 
elementi 
che 
qualificano 
un dato individuo (241). 

Leggendo insieme 
tale 
disposizione 
con le 
altre 
norme 
che 
riconoscono 


(239) g. aLPa, “Alle 
origini 
dei 
diritti 
della personalità”, in Riv. Trim. di 
Dir. Proc. Civ., 3, 2021, 
p. 567. 
(240) art. 2 Cost.: 
“La Repubblica riconosce 
e 
garantisce 
i 
diritti 
inviolabili 
dell’uomo, sia come 
singolo 
sia 
nelle 
formazioni 
sociali 
ove 
si 
svolge 
la 
sua 
personalità, 
e 
richiede 
l’adempimento 
dei 
doveri 
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. 
(241) 
Cfr. 
I 
diritti 
fondamentali 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, 
2006, 
p. 
8., 
Corte 
Costituzionale, sent. n. 98/1979. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


e 
garantiscono le 
singole 
libertà 
dell’individuo, si 
possono desumere 
gli 
ulteriori 
diritti 
della 
personalità, come 
ad esempio il 
decoro e 
l’onore, la 
rispettabilità, 
la riservatezza, l’intimità e la reputazione. 

Per 
quanto 
riguarda 
la 
previsione 
costituzionale 
del 
diritto 
di 
manifestare 
il 
proprio 
pensiero, 
non 
si 
tratta 
di 
una 
tutela 
incondizionata, 
essendo 
essa 
temperata 
dall’esistenza 
di 
interessi 
diversi 
che 
sono 
ugualmente 
garantiti. 
Vi 
rientra 
l’onore, insieme 
al 
decoro e 
alla 
reputazione, in quanto diritti 
inviolabili 
della persona umana (242). 


Questi 
diritti 
ricevono 
tutela 
dall’ordinamento 
ai 
sensi 
dell’articolo 
595 
c.p., 
il 
quale 
punisce 
qualsiasi 
espressione 
diffamatoria 
dell’altrui 
onore 
e 
decoro, 
indipendentemente 
dal 
mezzo 
con 
cui 
la 
stessa 
sia 
perpetuata. 
Come 
noto, 
affinché 
il 
reato 
si 
configuri, 
è 
necessario 
che 
tale 
messaggio 
sia 
percepito 
come 
tale 
da 
una 
pluralità 
di 
soggetti. 
La 
diffamazione 
è 
punita 
più 
severamente 
in 
presenza 
di 
determinate 
aggravanti; 
si 
pensi 
a 
quella 
prevista 
nel 
comma 
3, 
concernente 
l’utilizzo 
del 
mezzo 
della 
stampa 
o 
di 
altro 
mezzo 
di 
pubblicità. 


La 
domanda 
che 
si 
è 
posta 
la 
giurisprudenza 
è 
quella 
relativa 
alla 
configurabilità 
o meno di 
tale 
aggravante 
nei 
casi 
di 
diffusione 
del 
messaggio diffamatorio 
tramite giornale 
online, blog, social networks 
e 
forum. 


Bisogna 
partire 
dal 
presupposto che, nel 
caso del 
giornale 
online, la 
sua 
configurabilità 
come 
“stampa” 
è 
stata 
storicamente 
esclusa 
da 
numerose 
pronunce 
della 
Cassazione 
(243). L’impossibilità 
di 
estensione 
era 
collegata 
alla 
definizione 
di 
“stampa” 
contenuta 
nell’art. 
1 
della 
l. 
47/1948, 
che 
ricomprende 
le 
riproduzioni 
tipografiche 
o ottenute 
con mezzi 
meccanici 
o fisico-chimici 
in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione. 

È 
chiaro che 
una 
tale 
interpretazione 
storica 
della 
norma 
limiti 
l’applicabilità 
delle garanzie riservate ai periodici unicamente alla “carta stampata”. 


Tuttavia, 
successivamente, 
le 
Sezioni 
unite 
della 
Cassazione 
(244) 
si 


(242) Idem. Tale 
limite 
è 
espressamente 
riconosciuto dall’articolo 10 della 
CEDu: 
“L’esercizio 
di 
queste 
libertà, poiché 
comporta doveri 
e 
responsabilità, può essere 
sottoposto alle 
formalità, condizioni, 
restrizioni 
o sanzioni 
che 
sono previste 
dalla legge 
e 
che 
costituiscono misure 
necessarie, in una 
società democratica 
[…] 
alla protezione della reputazione o dei diritti altrui”. 
(243) Cass. Pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
S. 
PERON, “Internet, regime 
applicabile 
per 
i 
casi 
di 
diffamazione 
e 
responsabilità del 
direttore”, su Responsabilità 
Civile 
e 
Previdenza, fasc. 1, 2011, pag. 85; 
Cass. Pen., sez. V, 28 ottobre 
2011, n. 44126, 
disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
D. PETRINI, “Il 
direttore 
della testata telematica, tra horror 
vacui 
e 
prospettive 
di 
riforma; sperando che 
nulla cambi”, su Riv. It. Dir. e 
Proc. Pen., fasc. 4, 2012, 
pag. 1611; 
Cass. Pen., sez. V, 5 novembre 
2013, n. 10594, con nota 
di 
C. MELzI 
D’ERIL, “La Cassazione 
esclude 
l’estensione 
ai 
siti 
internet 
delle 
garanzie 
costituzionali 
previste 
per 
il 
sequestro di 
stampati”, 
in Dir. Pen. Uomo, 2014. 
(244) 
Cass. 
Pen., 
Sez. 
un., 
17 
luglio 
2015, 
n. 
31022, 
disponibile 
su 
dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
L. 
DIOTaLLEVI, 
“La 
Corte 
di 
cassazione 
sancisce 
l'“equiparazione” 
tra 
giornali 
cartacei 
e 
telematici 
ai 
fini 
dell’applicazione 
della 
disciplina 
in 
materia 
di 
sequestro 
preventivo: 
un 
nuovo 
caso 
di 
“scivolamento” 
dalla 
“nomofilachia” 
alla 
“nomopoiesi”?”, 
su 
Giurisprudenza 
Costituzionale, 
fasc. 
3, 
2015, 
pag. 
1062. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


sono 
pronunciate 
sul 
tema 
del 
sequestro 
preventivo 
tramite 
oscuramento 
di 
una 
pagina 
telematica, in un caso che 
riguardava 
la 
diffamazione 
online 
sulla 
pagina di un noto quotidiano. 

Ebbene 
i 
giudici, 
dopo 
aver 
dichiarato 
l’idoneità 
di 
tale 
misura 
cautelare, 
hanno 
però 
chiarito 
che 
non 
è 
ammissibile 
il 
sequestro 
preventivo 
di 
un 
periodico 
online 
fuori 
dai 
casi 
previsti 
dalla 
legge 
poiché, 
sulla 
base 
dell’equiparazione, 
a 
certe 
condizioni, 
delle 
testate 
telematiche 
alla 
stampa 
cartacea, 
vi 
è 
la 
conseguente 
applicabilità 
delle 
garanzie 
costituzionali 
di 
cui 
all’art. 
21 
Cost. 


La 
Cassazione 
si 
è 
discostata 
dall’esegesi 
letterale 
del 
dettato 
normativo, 
privilegiando 
una 
interpretazione 
estensiva 
ed 
evolutiva 
dello 
stesso, 
consapevole 
che 
in 
senso 
figurato 
la 
definizione 
di 
stampa 
su 
richiamata, 
fa 
riferimento 
ai 
giornali 
come 
mezzo 
elettivo 
di 
informazione 
a 
prescindere 
dalla 
digitalizzazione 
di 
cui 
si 
ignorava 
l’esistenza 
quando 
una 
simile 
norma 
fu 
elaborata. 


La 
Corte 
ci 
dice 
che 
un prodotto editoriale 
propriamente 
inteso possiede 
dei 
requisiti 
ontologici 
e 
teleologici, 
quali 
una 
“testata”, 
la 
periodicità 
regolare 
delle 
pubblicazioni, 
la 
finalità 
informativa 
e 
diretta 
al 
pubblico, 
oltreché 
un 
generico interesse 
alla 
pubblicazione, ossia 
alla 
diffusione 
dell’informazione. 

C’è, 
inoltre, 
il 
requisito 
del 
direttore 
responsabile 
e 
quello 
relativo 
alla 
registrazione delle testate presso la cancelleria del competente 
Tribunale. 


alla 
luce 
di 
ciò è 
evidente 
che 
tali 
requisiti, pacificamente 
appartenenti 
alla 
stampa, non sono menzionati 
nell’articolo 1 della 
l. 47/1948, ancorata 
invece 
alle tecnologie dell’epoca. 

Comunque, la 
Corte 
ha 
sostenuto che 
non ci 
sono ostacoli 
alla 
possibilità 
di 
accreditare 
il 
giornale 
telematico come 
stampa 
alla 
luce 
dei 
progressi 
tecnologici 
e 
in presenza 
dei 
requisiti 
sopra 
elencati. Invero, l’elemento caratterizzante 
dell’attività 
giornalistica 
è 
il 
fine 
informativo, dunque, in presenza 
di 
esso, i 
periodici 
telematici 
possono essere 
assimilati 
ontologicamente 
e 
funzionalmente 
alla pubblicazione cartacea. 


Conclusione 
rilevante, soprattutto perché 
in tal 
modo alla 
testata 
telematica 
vengono applicate 
le 
disposizioni 
costituzionali 
e 
ordinarie 
che 
disciplinano 
l’attività 
di 
informazione 
diretta 
al 
pubblico e, nel 
caso di 
specie, non è 
attuabile 
il 
sequestro preventivo, poiché 
la 
diffamazione 
a 
mezzo stampa 
non 
rientra tra i casi al ricorrere dei quali la legge lo consente. 


La 
pronuncia, inoltre, chiarisce 
la 
differenza 
di 
trattamento ed inquadramento 
normativo 
tra 
testate 
e 
ulteriori 
mezzi 
di 
informazione 
quali 
blog, 
social 
network 
e 
forum, 
ugualmente 
rientranti 
nell’ambito 
dell’art. 
21 
Cost., 
quali 
strumenti 
attraverso cui 
manifestare 
liberamente 
la 
propria 
opinione, ma 
che 
non 
rientrano 
nel 
concetto 
di 
stampa. 
Infatti, 
nei 
vari 
siti, 
blog, 
forum 
ecc., 
diversi 
dai 
periodici 
online, ci 
sono pagine 
web che 
consentono uno scambio 
di 
opinioni 
e 
commenti, in forma 
sia 
privata 
che 
pubblica, che 
difettano dei 
requisiti di assimilabilità alla stampa. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


Per 
inquadrare 
correttamente 
il 
fenomeno 
è 
necessario 
che 
il 
giornale 
online 
possegga i requisiti di cui all’art. 2, l. 47/1948. 


Per 
parlare 
di 
“stampato” 
è 
necessario 
che 
siano 
indicati 
il 
luogo 
e 
l’anno 
di 
pubblicazione, il 
nome 
e 
il 
domicilio dello stampatore 
e, se 
esiste, dell’editore. 
Solo per quanto concerne 
i 
giornali, le 
agenzie 
di 
informazioni 
e 
i 
periodici 
è 
necessario 
aggiungere 
i 
dati 
identificativi 
del 
proprietario 
e 
del 
direttore 
(o vice) responsabile. 


Perché 
si 
possa 
parlare 
propriamente 
di 
giornale 
o 
periodico, 
bisogna 
inoltre 
registrare 
lo stesso presso la 
cancelleria 
del 
tribunale, nella 
cui 
circoscrizione 
debba 
effettuarsi 
la 
pubblicazione, ai 
sensi 
dell’articolo 5, l. 47/1948. 
Ciò sia 
nel 
caso in cui 
l’editore 
intenda 
ottenere 
contributi 
statali 
ovvero preveda 
di avvalersi di giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti. 


Per 
i 
periodici 
web 
di 
piccole 
dimensioni, 
quest’ultimo 
obbligo 
non 
è 
imprescindibile, 
perché 
se 
si 
tratta 
di 
giornali 
realizzati 
unicamente 
su supporto 
informatico 
e 
diffusi 
unicamente 
per 
via 
telematica 
ovvero 
online, 
i 
cui 
editori 
non abbiano fatto domanda 
di 
contributi 
o agevolazioni 
pubbliche 
e 
che 
conseguano 
ricavi 
annui 
inferiori 
a 
100.000 
euro, 
questi 
non 
sono 
soggetti 
alla 
registrazione 
di cui all’art. 5 (art. 3-bis, l. 103/2012). 


al 
contrario, l’art. 3 della 
l. 103/2012 impone 
dei 
parametri 
per valutare 
la 
periodicità 
di 
testate 
giornalistiche 
di 
grandi 
dimensioni 
che 
offrano contenuti 
anche 
online, 
parametri 
che 
riguardano 
l’accessibilità 
online 
della 
testata, 
anche 
a 
titolo non oneroso, la 
garanzia 
di 
un’informazione 
quotidiana 
composta 
da 
informazione 
autoprodotta 
per 
almeno 
dieci 
articoli 
al 
giorno, 
con 
un 
aggiornamento pari 
ad almeno 240 giorni 
per i 
quotidiani, 45 per i 
settimanali 
e 
plurisettimanali, 18 uscite 
per i 
quindicinali 
e 
9 per i 
mensili. In più, qualora 
la 
testata 
sia 
pubblicata 
sia 
in edizione 
cartacea 
sia 
in edizione 
digitale, con lo 
stesso marchio editoriale, l’impresa 
non è 
tenuta 
all’iscrizione 
di 
entrambe 
le 
testate, ma 
solo a 
dare 
apposita 
comunicazione 
al 
registro degli 
operatori 
di 
comunicazione (art. 3, l. 103/2012). 


Concludendo, 
per 
le 
testate 
giornalistiche 
online 
non 
è 
configurabile 
un 
obbligo 
di 
registrazione 
ai 
fini 
dell’equiparazione 
degli 
stessi 
alla 
nozione 
di 
stampa. 


La 
giurisprudenza 
successiva 
alle 
Sezioni 
unite 
del 
2015 si 
è 
uniformata 
all’orientamento 
secondo 
cui 
i 
periodici 
online 
sarebbero 
assimilabili 
alla 
stampa, 
contrariamente 
ai 
social, 
forum, 
blog 
e 
newsletter 
i 
quali, 
pur 
essendo 
tutelabili 
ai 
sensi 
dell’art. 
21 
Cost., 
non 
godrebbero 
tuttavia 
delle 
garanzie 
costituzionali 
di 
cui 
ai 
commi 
successivi 
al 
primo, 
non 
essendo 
soggetti 
alla 
normativa 
e tutela accordata alla stampa. 


Per 
quanto 
riguarda 
l’applicabilità 
dell’aggravante 
di 
cui 
al 
comma 
3 
dell’articolo 595 c.p., si 
è 
scelto di 
ricomprendere 
nell’ambito del 
“qualsiasi 
altro mezzo di 
pubblicità”i 
social 
network, blog 
o forum 
in cui 
si 
perpetuava 
il reato di diffamazione (245). 



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


L’aggravante 
in questione 
si 
applica 
ai 
social 
network 
anche 
in virtù del 
costante 
orientamento 
volto 
a 
considerarli 
come 
strumenti 
idonei 
a 
raggiungere 
una 
pluralità 
di 
persone, determinando quella 
maggiore 
diffusività 
dell’offesa 
che giustifica un trattamento sanzionatorio più severo (246). 


Nulla 
osta, ai 
fini 
della 
configurabilità 
dell’aggravante, la 
pubblicazione 
del 
contenuto diffamatorio nella 
bacheca 
Facebook 
della 
persona 
offesa, poiché 
la maggiore diffusività è comunque configurabile. 

Da 
parte 
di 
alcuni, in effetti, era 
stato sostenuto che, nel 
caso in esame, 
non 
si 
integrasse 
la 
pubblicazione, 
con 
conseguente 
diffusione, 
del 
messaggio 
diffamatorio, poiché 
potevano agire 
i 
meccanismi 
di 
privacy impostati 
dalla 
persona sulla cui bacheca era pubblicato il messaggio. 

Contrariamente 
a 
questa 
tesi, 
la 
Cassazione 
ha 
deciso 
sia 
per 
l’applicabilità 
dell’aggravante 
sulla 
base 
dell’idoneità 
del 
mezzo 
(Facebook) 
a 
consentire 
un’ampia 
e 
indiscriminata 
diffusione 
della 
notizia, 
sia 
per 
l’idoneità 
della 
bacheca 
a 
tal 
fine, 
indipendentemente 
dalle 
impostazioni 
della 
privacy; 
e 
ciò 
“sia 
perché, 
per 
comune 
esperienza, 
bacheche 
di 
tal 
natura 
racchiudono 
un 
numero 
apprezzabile 
di 
persone 
(senza 
le 
quali 
la 
bacheca 
Facebook 
non 
avrebbe 
senso), 
sia 
perché 
l'utilizzo 
di 
Facebook 
integra 
una 
delle 
modalità 
attraverso 
le 
quali 
gruppi 
di 
soggetti 
socializzano 
le 
rispettive 
esperienze 
di 
vita, 
valorizzando 
in 
primo 
luogo 
il 
rapporto 
interpersonale, 
che, 
proprio 
per 
il 
mezzo 
utilizzato, 
assume 
il 
profilo 
del 
rapporto 
interpersonale 
allargato 
ad 
un 
gruppo 
indeterminato 
di 
aderenti 
al 
fine 
di 
una 
costante 
socializzazione” 
(247). 


(245) Cfr. Cass. Pen., sez. I, 28 aprile 
2015, n. 24431, disponibile 
su dejure.it 
e 
su Ilpenalista.it, 
4 settembre 
2015, con nota 
di 
V. SPazIaNI 
TESTa; 
Cass. Pen., sez. V, 25 gennaio 2021, n. 13979, disponibile 
su dejure.it 
e su Responsabilità Civile e Previdenza, 2021, 4, 1341. 
(246) Cfr. Cass. Pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, cit. 
(247) 
Cfr. 
Cass. 
Pen., 
sez. 
I, 
28 
aprile 
2015, 
n. 
24431, 
cit. 
un’altra 
interessante 
pronuncia 
da 
prendere 
in 
considerazione 
è 
la 
recente 
sentenza 
n. 
27939 
del 
13 
ottobre 
2021, 
con 
cui 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
confermando la 
decisione 
della 
Corte 
d’appello di 
Roma, ha 
rigettato definitivamente 
il 
ricorso contro 
un licenziamento di 
un ex dipendente 
TIM, statuendo che 
il 
lavoratore 
che 
insulta 
i 
propri 
responsabili 
sui 
social 
network 
può incorrere 
nel 
licenziamento per giusta 
causa. Il 
caso ha 
preso le 
mosse 
dalla 
diffusione 
-tramite 
tre 
e-mail 
e 
un post 
sulla 
propria 
pagina 
Facebook -di 
diverse 
frasi 
rivolte 
ai 
propri 
superiori, gravemente 
offensive 
e 
diffamatorie, cui 
è 
seguito il 
licenziamento del 
dipendente 
per giusta 
causa, 
in 
applicazione 
dell’art. 
2119 
c.c., 
per 
la 
grave 
insubordinazione 
posta 
in 
essere 
attraverso 
i 
mezzi 
di 
comunicazione 
citati. Secondo il 
lavoratore, i 
post 
sulla 
pagina 
Facebook erano da 
considerarsi 
riservati, 
in quanto la 
pagina 
era 
destinata 
alla 
comunicazione 
esclusiva 
con i 
propri 
“amici”. Tuttavia, secondo 
i 
giudici, 
la 
tutela 
della 
libertà 
e 
della 
segretezza 
della 
corrispondenza 
non 
può 
trovare 
applicazione 
dal 
momento 
che 
lo 
strumento 
utilizzato 
non 
integra 
le 
caratteristiche 
della 
corrispondenza 
o di 
“ogni 
altra 
forma 
di 
comunicazione”, ovvero l’attualità, la 
determinatezza 
o determinabilità 
del 
destinatario 
e 
la 
segretezza 
della 
comunicazione. Viene 
in questo caso in rilievo il 
concetto di 
“bacheca 
Facebook”, alla 
quale 
possono accedere 
gli 
utenti 
considerati 
“amici” 
dal 
titolare 
dell’account. Ebbene, 
se 
da 
una 
parte 
tale 
elenco di 
“amici” 
non comprende 
la 
totalità 
degli 
utilizzatori 
del 
social 
network, 
dall’altra 
parte 
l’elenco è 
sempre 
modificabile 
tramite 
l’accettazione 
o la 
rimozione 
di 
ulteriori 
“amicizie” 
da 
parte 
dell’utente, comportando perciò l’impossibilità 
di 
avere 
un numero di 
destinatari 
determi

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


Nel 
caso in 
cui 
la 
portata 
diffamatoria 
del 
messaggio 
non 
emerga 
direttamente, 
ma 
derivi 
da 
una 
discussione 
nei 
commenti 
ad 
un 
post 
all’interno 
di 
un 
gruppo 
Facebook, 
la 
Corte 
ha 
optato 
per 
un 
bilanciamento 
con 
il 
diritto 
di 
libera 
espressione 
del 
pensiero, 
escludendo 
la 
fattispecie 
nel 
caso 
dell’azione 
di 
chi 
abbia 
inteso 
condividere 
una 
critica 
nei 
confronti 
della 
persona 
offesa, 
ma 
nel 
farlo 
sia 
rimasto 
entro 
i 
limiti 
dell’esercizio 
del 
proprio 
diritto 
di 
manifestazione 
del 
pensiero, 
senza 
condividerne 
le 
forme 
illecite 
usate 
da 
altri. 


La 
Corte 
ha 
stabilito, infatti: 
“che 
l’imputato condividesse 
o meno i 
presunti 
insulti 
che 
altri 
avrebbero postato è 
infatti 
circostanza irrilevante 
nella 
misura in cui 
la sua condotta materiale 
non evidenzia oggettivamente 
alcuna 
adesione 
ai 
medesimi, 
rilanciandoli 
direttamente 
o 
anche 
solo 
indirettamente. 
[…] 
La 
condotta 
contestata 
potrebbe 
assumere 
in 
astratto 
rilevanza 
penale 
soltanto qualora potesse 
affermarsi 
che 
con il 
proprio messaggio l’imputato 
aveva 
consapevolmente 
rafforzato 
la 
volontà 
dei 
suoi 
interlocutori 
di 
diffamare” 
(248). 


Dunque, i 
giudici 
di 
legittimità 
escludono che 
sia 
integrato il 
reato di 
diffamazione 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
discorso 
o 
l’espressione 
configurino 
una 
semplice 
condivisione 
di 
un post 
nel 
suo complesso, e 
qualora 
il 
commento non abbia 
carattere esplicitamente diffamatorio. 


alla 
luce 
di 
quanto 
detto, 
non 
dovrebbe 
configurarsi 
la 
fattispecie 
in 
questione 
qualora 
il 
contenuto diffamatorio venga 
semplicemente 
condiviso o si 
esprima 
un 
gradimento 
allo 
stesso, 
attraverso 
i 
c.d. 
likes 
ai 
post 
o 
ai 
commenti. 

Questo 
perché, 
pur 
manifestando 
la 
persona 
un’adesione 
al 
contenuto 
offensivo, 
non ne 
si 
condividono le 
modalità 
illecite; 
dunque, la 
condotta 
non 
sarebbe manifestamente diffamatoria (249). 


nato o determinabile; 
emerge, quindi, l’elemento della 
pluralità, previsto nella 
fattispecie 
della 
diffamazione. 
V. 
a. 
DE 
LuCIa, 
“Offese 
su 
Facebook: 
la 
Cassazione 
conferma 
la 
legittimità 
del 
licenziamento”, 
su altalex.com. 


(248) V. Cass. Pen., sez. V, 29 gennaio 2016, n. 3981, con nota 
di 
a. aLì, “Diffamazione 
via Facebook: 
condividere post offensivi non è reato”, su 
altalex.com, 2016. 
(249) La 
Corte 
d’appello dell’aquila, con la 
sentenza 
1659 del 
9 novembre 
2021, si 
è 
espressa 
sul 
rapporto contrattuale 
che 
si 
instaura 
tra 
utente 
e 
social 
network, concludendo che 
l’utente 
ingiustamente 
bannato da 
un social 
ha 
diritto di 
ottenere 
il 
risarcimento del 
danno subìto a 
causa 
della 
sospensione 
delle 
proprie 
relazioni 
sociali. La 
pronuncia 
ha 
preso le 
mosse 
dal 
ricorso presentato da 
un utente 
che, dopo aver pubblicato foto didascalie 
e 
commenti 
sulla 
figura 
di 
Mussolini, mostrando la 
propria 
appartenenza 
politica, 
era 
stato 
sospeso 
da 
Facebook 
per 
oltre 
quattro 
mesi 
per 
violazione 
degli 
«standard 
della comunità». I giudici 
di 
prime 
cure 
hanno condannato Facebook a 
un risarcimento di 
15 mila 
euro 
a 
titolo di 
danno morale 
e 
il 
social 
network 
ha 
impugnato la 
decisione. La 
Corte 
d’appello, nel 
decidere 
la 
questione, è 
partita 
dal 
fatto che 
il 
contratto tra 
le 
parti 
è 
un contratto a 
titolo oneroso e 
a 
prestazioni 
corrispettive, dove 
il 
“prezzo” 
pagato dall’utente 
è 
rappresentato dalla 
concessione 
dei 
propri 
dati 
personali 
a 
fini 
commerciali. Dunque, se 
è 
vero che 
ogni 
social 
network 
può introdurre 
clausole 
con poteri 
di 
rimozione 
dei 
post 
degli 
utenti 
e 
di 
sospensione 
degli 
account, è 
anche 
vero che 
i 
social 
devono fare 
attente 
valutazioni 
prima 
di 
attivare 
poteri 
di 
sospensione 
o 
rimozione. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
i 
giudici 
hanno ritenuto lecite 
le 
prime 
due 
sospensioni 
dell’account, effettuate 
per commenti 
lesivi 
dell’altrui 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


16. La diffamazione tramite chat privata o mailing list. 
Quid iuris 
nel 
caso di 
un messaggio lesivo dell’onore 
e 
della 
reputazione 
di 
un soggetto, trasmesso tramite 
chat 
di 
gruppo o mailing list, ovvero posta 
elettronica 
indirizzata 
a 
più destinatari 
in cui 
partecipava 
la 
persona 
offesa? 
Si può configurare il reato di diffamazione? 


Partiamo dal 
presupposto la 
Cassazione 
(250) ha 
ritenuto che 
la 
mailing 
list 
rientri 
nell’alveo “dell’altro mezzo di 
pubblicità” 
di 
cui 
si 
è 
detto, poiché 
configura 
un 
mezzo 
di 
comunicazione 
in 
cui 
si 
condividono 
informazioni 
utili, 
ad un numero anche 
ampio di 
destinatari, circa 
le 
quali 
è 
possibile 
esprimere 
condivisione, commentare 
e 
discutere. Eppure, la 
questione 
principale 
sollevata 
dalla 
mailing list 
è 
quella 
relativa 
alla 
configurabilità 
stessa 
del 
reato di 
diffamazione, 
data 
la 
partecipazione 
del 
soggetto 
offeso 
alla 
conversazione 
diffamante. 


Di 
recente, nell’aprile 
del 
2021, la 
Corte 
di 
Cassazione 
è 
stata 
investita 
della 
questione 
in 
un 
caso 
in 
cui 
il 
ricorrente 
lamentava 
l’errata 
qualificazione 
del 
fatto come 
diffamazione 
e 
la 
configurabilità, al 
contrario, della 
fattispecie 
depenalizzata 
di 
cui 
all’articolo 594 c.p. (ingiuria), poiché 
la 
persona 
offesa 
avrebbe 
partecipato “in tempo reale” 
alla 
conversazione. I giudici 
hanno respinto 
tale obiezione. 


Non è 
facile 
adattare 
le 
norme 
al 
contesto digitale: 
in effetti, è 
lecito il 
dubbio circa 
la 
“presenza” 
della 
persona 
offesa 
come 
circostanza 
che 
renderebbe 
applicabile 
l’illecito depenalizzato dell’ingiuria, al 
massimo configurabile 
come 
aggravato 
dalla 
comunicazione 
a 
distanza, 
ovvero 
dalla 
presenza 
contestuale 
di 
altre 
persone, come 
attualmente 
previsto dai 
commi 
2 e 
4 del-
l’articolo, abrogato con il D.lgs. n. 7 del 2016. 


Tale 
norma 
consente 
di 
operare 
un discrimine 
con la 
diffamazione, che 
si 
configura 
allora, secondo la 
Corte, nel 
caso dell’offesa 
“a 
distanza” 
della 
comunicazione 
lesiva, qualora 
indirizzata 
anche 
ad altri 
soggetti 
oltre 
che 
all’offeso 
(fermo 
restando 
che 
l’offesa 
riguardante 
un 
assente 
comunicata 
ad 
almeno 
due persone, presenti o distanti, integra sempre la diffamazione). 

È 
quindi 
nata 
la 
necessità 
di 
riempire 
il 
significato 
di 
“presenza”, 
alla 
luce 
di 
mezzi 
quali 
mailing list, videoconferenze 
o audio conferenze. Negli 
ultimi 
due 
casi, 
e 
nelle 
situazioni 
equivalenti, 
in 
cui 
cioè 
ci 
si 
trovi 
alla 
presenza 
anche 
virtuale 
dell’offeso unitamente 
ad altri 
soggetti 
che 
possono interagire 
in 
audio, 
video 
o 
scrivere 
istantaneamente 
-quindi 
di 
fatto 
in 
una 
riunione 
virtuale 
- si configurerebbe l’ingiuria (251). 


reputazione 
(l’utente 
aveva 
definito 
“stupido” 
un 
altro 
utente); 
tuttavia, 
ha 
considerato 
che 
le 
successive 
sospensioni 
fossero 
illegittime, 
poiché 
«la 
mera 
pubblicazione 
di 
una 
foto 
con 
un 
commento 
che 
si 
limita 
all’espressione 
del 
proprio 
pensiero 
(…) 
non 
si 
ritiene 
sufficiente 
a 
violare 
gli 
standard 
della 
comunità». 
In appello si è quindi ridimensionato il risarcimento dovuto, in 3 mila euro. 


(250) Cfr. Cass. Pen., Sez. un., 17 luglio 2015, n. 31022, cit. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


Invece, nel 
caso di 
mailing list, è 
difficile 
-se 
non impossibile 
-parlare 
di 
presenza 
virtuale, perché 
le 
e-mail 
sono considerate 
delle 
lettere 
in formato 
elettronico, indirizzate 
a 
persone 
che 
non sono contestualmente 
presenti. Per 
tale 
ragione, nonostante 
il 
fatto si 
compia 
con un unico gesto, la 
trasmissione 
effettiva 
del 
messaggio 
si 
realizza 
attraverso 
una 
pluralità 
di 
atti 
di 
cui 
l’agente 
ha coscienza e volontà. 

In 
sostanza, 
la 
Corte 
(252) 
considera 
integrato 
il 
reato 
di 
diffamazione 
nel 
caso in cui 
il 
fatto è 
compiuto tramite 
l’invio di 
e-mail 
di 
contenuto offensivo, 
sebbene tra i destinatari del messaggio vi sia la persona offesa. 


Tale 
orientamento non è 
però pacifico: 
in altri 
casi, la 
“presenza”, da 
remoto 
o 
virtuale, 
dell’offeso, 
ha 
guidato 
i 
giudici 
verso 
un’interpretazione 
rigida 
del 
dettato 
normativo, 
e 
si 
è 
optato 
per 
l’applicazione 
dell’art. 
594, 
ultimo 
comma c.p. (253) 


Passando ad esaminare 
l’esimente 
del 
diritto di 
critica, si 
può iniziare 
col 
dire 
che 
il 
diritto della 
persona 
a 
non veder leso il 
suo onore 
e 
la 
sua 
reputazione 
non 
è 
configurato 
come 
assoluto 
nel 
nostro 
ordinamento, 
potendo 
essere 
limitato 
dall’altrettanto 
legittima 
libertà 
di 
manifestazione 
del 
pensiero, 
anche 
in rete, di cui all’art. 21 Cost. 


Il 
diritto di 
critica, quindi, come 
il 
diritto di 
cronaca 
o di 
satira, può, a 
determinate 
condizioni, moderare la portata del diritto all’onore. 

La 
critica 
si 
esprime 
in un giudizio soggettivo, che 
non può certamente 
essere 
asettico o obiettivo, ma 
affinché 
si 
applichi 
l’esimente 
è 
necessario che 
il 
fatto 
di 
cui 
si 
stia 
trattando 
sia 
corrispondente 
a 
verità, 
per 
cui 
non 
dovrebbe 
essere 
arbitrariamente 
inventato o elaborato esorbitando da 
quello che 
è 
il 
nu


(251) Cfr. Cass. Pen., sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905, disponibile 
su dejure.it 
e 
su Responsabilità 
Civile 
e 
Previdenza 2020, 4, 1306. Si 
veda 
anche 
la 
recente 
sentenza 
2 dicembre 
2021, n. 44662, 
della 
Quinta 
Sezione 
Penale 
della 
Corte 
di 
Cassazione, commentata 
da 
M. MaRTORaNa, “L’offesa su 
Facebook 
non 
è 
reato 
se 
l’insultato 
è 
online”, 
su 
altalex.com, 
febbraio 
2022. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
i 
giudici 
della 
Corte 
d’appello di 
Catanzaro avevano confermato la 
condanna 
di 
un soggetto per diffamazione 
per 
aver 
pubblicato 
commenti 
e 
insulti 
su 
una 
chat 
con 
la 
persona 
offesa. 
La 
Corte 
di 
Cassazione, 
tuttavia, 
ha 
accolto il 
ricorso dell’imputato, che 
richiedeva 
di 
qualificare 
la 
fattispecie 
come 
ingiuria 
e 
non come 
diffamazione. In sostanza, la 
Corte 
ha 
ribadito l’importanza 
del 
requisito della 
presenza 
della 
vittima 
per 
la 
distinzione 
tra 
ingiuria 
e 
diffamazione, 
presenza 
che 
secondo 
i 
giudici 
può 
essere 
anche 
“virtuale” 
e 
non necessariamente 
fisica 
o telefonica. Poiché 
nel 
caso di 
specie 
il 
destinatario delle 
offese 
in chat 
era 
online 
e, dunque, riceveva 
i 
messaggi 
in tempo reale, la 
fattispecie 
che 
si 
è 
configurata 
è 
quella 
del-
l’ingiuria, con esclusione 
del 
reato di 
diffamazione 
e 
della 
rilevanza 
penale 
della 
condotta. La 
Corte, richiamando 
la 
precedente 
sentenza 
n. 10905/2020, ha 
chiarito che 
anche 
laddove 
gli 
insulti 
fossero stati 
proferiti 
durante 
una 
riunione 
da 
remoto 
tra 
più 
individui 
compreso 
l’offeso 
si 
sarebbe 
trattato 
di 
ingiuria 
commessa alla presenza di più persone, anch’essa depenalizzata. 
(252) 
Cass. 
Pen., 
sez. 
V, 
2 
febbraio 
2017, 
n. 
12603, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
su 
Cassazione 
Penale 
2017, 
9, 
3312 
e 
CED 
Cass. 
pen. 
2017; 
Cass. 
Pen., 
sez. 
V, 
6 
luglio 
2018, 
n. 
34484, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
su Diritto & 
Giustizia, 23 luglio 2018; 
Cass. Pen., sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252, disponibile 
su dejure.
it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
a. IEVOLELLa, “Offeso con una e-mail 
inviata a lui 
e 
ad alcuni 
colleghi: è 
diffamazione”, 
su Diritto & Giustizia, fasc. 73, 2021, pag. 7. 
(253) V. Cass. Pen., sez. V, n. 10905/2020, cit. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


cleo essenziale, come 
specificato dal 
Tribunale 
di 
Firenze 
con la 
pronuncia 
n. 
1502 del 
2019. Dunque, è 
necessario che 
la 
verità 
sia 
quanto meno putativa 
in 
ragione 
di 
una 
verifica 
sulle 
fonti 
da 
cui 
proviene 
o 
sul 
contesto 
all’interno 
del quale il fatto è avvenuto. 


Oltre 
a 
questo 
requisito 
della 
verità, 
devono 
sussistere 
anche 
la 
continenza 
espositiva 
e 
l’interesse 
sociale 
alla 
notizia. Quest’ultimo è 
connesso alla 
necessità 
che 
la 
critica 
soddisfi 
l’interesse 
di 
un pubblico alla 
notizia 
e 
alla 
sua 
interpretazione 
critica, 
che 
non 
sia, 
dunque, 
mera 
curiosità 
pur 
potendo 
riguardare 
la 
vita 
privata 
di 
un soggetto (c.d. principio di 
pertinenza). Per quanto riguarda 
la 
continenza 
espressiva, 
questa 
non 
esclude 
la 
possibilità 
di 
un 
linguaggio 
più 
colorito 
o 
pungente, 
purché 
esso 
sia 
strumentalmente 
collegato 
alla 
manifestazione 
di 
un 
dissenso 
ragionato 
dall’opinione 
o 
dal 
comportamento 
preso di 
mira, tanto che, in ultima 
analisi, il 
giudizio in questione 
deve 
essere 
accompagnato 
da 
una 
motivazione 
in 
merito 
al 
disvalore 
attribuito, 
dato 
che 
la 
critica 
non può risolversi 
in una 
aggressione 
gratuita, come 
evidenziato 
dalla giurisprudenza (254). 


allorquando non possa 
trovare 
applicazione 
l’art. 51 c.p. -che 
esclude 
la 
punibilità 
nei 
casi 
in cui 
il 
fatto sia 
commesso nell’adempimento di 
un dovere 


o nell’esercizio di 
un diritto (chiaramente 
quello di 
cui 
all’art. 21 Cost.) -è 
possibile 
invocare 
l’exceptio 
veritatis, 
nei 
limiti 
di 
quanto 
previsto 
dall’art. 
596 c.p. (255). 
Si 
tratta 
di 
una 
disposizione 
volta 
a 
considerare 
la 
verità 
dei 
fatti 
come 
causa 
di 
esclusione 
della 
punibilità 
qualora 
la 
stessa 
sia 
accertata 
per fatti 
determinati, 
nei 
casi 
di 
accordo tra 
offensore 
ed offeso per il 
deferimento del-
l’accertamento ad un giurì 
d’onore, ovvero nei 
casi 
di 
cui 
al 
comma 
3 dello 
stesso articolo. 


Per 
escludere 
la 
punibilità 
serve 
che 
la 
prova 
del 
fatto 
sia 
completa, 
e 
non 
parziale, ai 
fini 
di 
una 
perfetta 
aderenza 
dei 
fatti 
di 
causa 
con quelli 
realmente 
accaduti: 
non devono essere 
riportate 
inesattezze 
non marginali, idonee 
a 
modificare 
l’assetto sostanziale 
degli 
eventi 
(256). Comunque, anche 
qualora 
la 


(254) 
Si 
vedano 
le 
sentenze 
Tribunale 
di 
Firenze, 
15 
maggio 
2019, 
n. 
1502, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
su 
Redazione 
Giuffrè 
2019; 
Corte 
di 
appello 
di 
Taranto, 
27 
gennaio 
2021, 
n. 
84, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
su Guida al 
diritto 
2021, 23; 
Cass. Civ., sez. III, 26 ottobre 
2017, n. 25420, disponibile 
su dejure.it; 
note 
a 
sentenza 
di 
I. 
aLagNa, 
“Diffamazione 
a 
mezzo 
stampa: 
il 
reato 
sussiste 
anche 
in 
assenza 
di 
esplicita 
indicazione 
del 
nome”, su Ridare.it, 18 dicembre 
2017 e 
a. VILLa, “Il 
diritto di 
critica ancorché 
contenga giudizi 
soggettivi 
deve 
fondarsi 
su fatti 
che 
debbono corrispondere 
a verità perlomeno putativa”, 
su Diritto & 
Giustizia, fasc. 171, 2017, pag. 11; 
Tribunale 
di 
Milano, sez. I, 15 luglio 2020, n. 
4250, disponibile 
su dejure.it 
e 
Redazione 
Giuffrè 
2020; 
Cass. Civ., sez. III, 29 ottobre 
2019, n. 27592, 
disponibile su dejure.it 
e 
Giustizia Civile Massimario 
2019. 
(255) 
Vedi 
Cass. 
Pen., 
sez. 
V, 
16 
giugno 
2016, 
n. 
41414, 
disponibile 
su 
dejure.it 
e 
CED 
Cass. 
pen. 
2016. 
(256) Cass. Pen., sez. V, 18 novembre 
2019, n. 7008, disponibile 
su dejure.it 
e 
CED 
Cass. pen. 
2020. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


verità 
sia 
provata, se 
i 
modi 
usati 
sono stati 
diffamanti, secondo una 
valutazione 
conforme 
al 
principio 
di 
continenza 
espositiva, 
non 
è 
automatica 
l’esclusione 
della punibilità per il reato di diffamazione. 


In 
realtà, 
sembrerebbe 
che 
una 
disposizione 
come 
quella 
esaminata 
voglia 
sancire 
il 
divieto 
dell’exceptio 
veritatis, 
che 
non 
si 
applica 
che 
nei 
casi 
previsti 
dall’art. 
596 
c.p. 
e 
nell’esercizio 
di 
un 
diritto, 
ex 
art. 
51 
c.p. 
(all’interno 
del 
quale 
è 
pacificamente 
ricomprendibile 
il 
diritto 
di 
critica). 
In 
definitiva, 
dunque, 
in 
determinate 
circostanze, 
viene 
temperato 
il 
diritto 
a 
non 
veder 
leso 
il 
proprio 
onore 
con 
l’interesse 
alla 
verità 
oggettiva 
o 
putativa 
che 
sia, 
che 
si 
dimostra, 
però, 
inidonea, 
da 
sola, 
ad 
escludere 
la 
punibilità. 
Resta 
fermo 
che 
l’assenza 
di 
uno 
dei 
criteri 
richiamati 
(verità, 
interesse 
pubblico, 
continenza 
espressiva) 
determina 
la 
carenza 
dell’esimente 
del 
diritto 
di 
critica, 
per 
cui 
il 
diritto 
di 
manifestare 
liberamente 
il 
proprio 
pensiero 
non 
è 
giustificato 
ma 
punibile, 
e 
dunque 
risarcibile. 
Se 
accade 
il 
contrario, 
la 
condotta 
è 
da 
considerare 
lecita. 


Passando ad esaminare 
il 
profilo del 
danno, nel 
caso in cui 
la 
fattispecie 
si 
perfeziona, questo pregiudizio si 
può considerare, anzitutto, come 
una 
lesione 
di 
un interesse 
giuridicamente 
apprezzabile; 
in secondo luogo, come 
un 
effetto 
economico 
negativo; 
in 
terzo 
luogo, 
come 
liquidazione 
pecuniaria 
dell’evento economico negativo (257). 


Il 
danno 
ex 
art. 
2043 
c.c. 
è 
un 
danno 
non 
iure 
e 
contra 
ius, 
perché 
generato 
da 
un 
comportamento 
non 
giustificato 
dall’ordinamento 
e 
che 
lede 
un 
interesse 
giuridicamente 
tutelato. 
Ovviamente, 
grava 
sulla 
parte 
che 
si 
dichiara 
lesa 
provare 
la 
sussistenza 
del 
nesso 
di 
causalità 
tra 
l’azione 
ed 
il 
danno 
ingiusto 
derivatone, 
nonché 
l’imputabilità 
soggettiva 
a 
carico 
del 
presunto 
offensore 
(258). 


È 
interessante 
notare 
che 
nei 
casi 
di 
diffamazione 
perpetuata 
in internet, 
è 
stato 
registrato 
che 
in 
luogo 
dell’azione 
penale 
si 
è 
preferita 
quella 
civile 
del 
risarcimento 
del 
danno 
(259) 
ed 
inoltre, 
stante 
la 
difficoltà 
di 
provare 
il 
danno 
patrimoniale, ai 
sensi 
dell’articolo 2043 c.c., si 
è 
preferito ricorrere 
al 
danno 
di cui all’articolo 2059 c.c. 


Molto 
spesso, 
infatti, 
il 
fatto 
illecito 
genera 
comunque 
un 
turbamento, 
una sofferenza interiore, con conseguenze pregiudizievoli risarcibili. 

al 
riguardo, 
deve 
essere 
illustrato 
brevemente 
il 
contributo 
delle 
Sezioni 
unite 
della 
Cassazione 
che, 
con 
le 
c.d. 
sentenze 
gemelle 
del 
2008, 
hanno 
ridefinito 
i 
confini 
del 
danno 
non 
patrimoniale. 
La 
Corte 
ha, 
infatti, 
ricondotto 
ad 
unità 
fenomenica 
e 
giuridica 
il 
danno 
non 
patrimoniale, 
sancendo 
l’uni


(257) M. BIaNCa, “Diritto civile”, Milano, 2011, 123. 
(258) Cass. Civ., Sez. un., 26 gennaio 1971, n. 174, in Resp. Civ. Prev., 1971, 67 ss. 
(259) Solo nel 
biennio 2011-2012, su un campione 
di 
112 sentenze 
emesse 
dal 
Tribunale 
di 
Milano, 
sono state 
registrate 
richieste 
risarcitorie 
per un ammontare 
pari 
a 
€ 766.511,93; 
cfr. New Tabloid, 
3, 2013, 32 ss., come 
riportato da 
S. PERON, “Il 
risarcimento dei 
danni 
da diffamazione: analisi 
e 
riflessione 
sui 
criteri 
orientativi 
proposti 
dell’Osservatorio 
sulla 
Giustizia 
civile 
di 
Milano” 
(edizione 
2018), 
in filodiritto.it, 2018. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


tarietà 
del 
pregiudizio 
le 
cui 
differenti 
denominazioni 
(danno 
morale, 
danno 
biologico, 
danno 
da 
perdita 
del 
rapporto 
parentale) 
sono 
semplicemente 
descrittive. 


Se 
il 
fatto illecito si 
configura 
come 
reato, dunque, è 
risarcibile 
il 
danno 
non patrimoniale 
sofferto dalla 
persona 
offesa 
nella 
sua 
più ampia 
accezione 
di 
danno determinato dalla 
lesione 
di 
interessi 
inerenti 
alla 
persona, non connotati 
da 
rilevanza 
economica 
(260). 
Nel 
caso 
di 
diffamazione, 
quindi, 
qualora 
non si 
possano riscontrare 
degenerazioni 
patologiche 
della 
sofferenza, si 
verificherà 
il 
danno 
morale, 
ove 
sia 
allegato 
il 
turbamento 
dell’animo 
o 
il 
dolore 
intimo sofferti (261). 


Il 
giudice 
di 
merito deve 
accertare 
l’effettiva 
consistenza 
del 
pregiudizio 
allegato, 
a 
prescindere 
dal 
nome 
attribuitogli, 
individuando 
quali 
ripercussioni 
negative 
sul 
valore-uomo si 
siano verificate 
e 
provvedendo alla 
loro integrale 
riparazione. 


La 
prova 
del 
danno 
è 
a 
carico 
sulla 
parte 
lesa, 
che 
potrà 
però 
servirsi 
anche 
di 
mezzi 
di 
prova 
presuntivi 
che 
testimonino 
che 
lo 
scritto 
offensivo 
abbia 
ingenerato 
una 
ripercussione 
dolorosa 
nella 
sfera 
personale. 
I 
danni 
così 
provati non potranno che essere liquidati in via equitativa (262). 


Molteplici 
sono i 
parametri 
di 
quantificazione 
del 
danno adoperati 
dalla 
giurisprudenza 
con specifico riferimento alla 
liquidazione 
del 
danno da 
diffamazione 
a mezzo di comunicazione di massa. 


anzitutto 
rileva 
la 
diffusività 
della 
notizia, 
con 
riguardo 
alla 
notorietà 
del 
diffamante; 
poi 
è 
importante 
un’eventuale 
reiterazione 
della 
condotta; 
si 
guarda 
anche 
alla 
collocazione 
della 
notizia/commento 
(se 
in 
una 
posizione 
rilevante 
rispetto 
ad 
altre) 
(263); 
al 
mezzo 
(se 
sia 
o 
meno 
idoneo 
ad 
una 
più 
capillare 
diffusione); 
è 
importante, 
inoltre, 
la 
risonanza 
mediatica 
suscitata 
dalle 
notizie 
diffamatorie. 
Ma 
non 
solo. 
Si 
guarda 
anche 
alla 
posizione 
sociale 
ricoperta 
dal 
diffamato, 
senza 
però 
distinguere 
tra 
reputazione 
professionale 
e 
personale, 
poiché 
la 
rilevanza 
è 
data 
alla 
complessiva 
diminuzione 
del 
valore 
della 
persona. 


(260) Punto 2.1, Cass. Civ., Sez. un., 11 novembre 
2008, n. 26972, disponibile 
su 
dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
M. ROSSETTI, “Post 
nubila phoebus, ovvero gli 
effetti 
concreti 
della sentenza delle 
sezioni 
unite 
n. 26972 del 
2008 in tema di 
danno non patrimoniale”, su Giustizia Civile, fasc. 4-5, 2009, pag. 
930. 
(261) Punto 4.8, Cass. Civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit. 
(262) In tema 
di 
risarcimento del 
danno causato da 
diffamazione 
a 
mezzo stampa, la 
liquidazione 
del 
danno 
morale 
va 
necessariamente 
operata 
con 
criteri 
equitativi, 
il 
ricorso 
ai 
quali 
è 
insito 
nella 
natura 
del 
danno 
e 
nella 
funzione 
del 
risarcimento, 
realizzato 
mediante 
la 
dazione 
di 
una 
somma 
di 
denaro 
compensativa 
di 
un pregiudizio di 
tipo non economico (v. Cass. 5 dicembre 
2014, n. 25739; 
v. anche 
Cass. 16 luglio 2002, n. 10268, secondo cui 
la 
liquidazione 
del 
danno morale 
conseguente 
alla 
lesione 
dell’onore o della reputazione è rimessa alla valutazione equitativa del giudice). 
(263) 
a 
tal 
proposito, 
è 
stato 
ritenuto 
che 
anche 
solo 
il 
titolo 
di 
un 
articolo 
giornalistico 
sia 
idoneo 
ad integrare la fattispecie, cfr. Cass. Civ., sez. III, 7 agosto 2013, n. 18769. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


Certamente 
rileva 
l’animus 
diffamandi, 
quindi 
la 
presenza 
o 
meno 
degli 
elementi 
esimenti 
richiamati. 
Infatti, 
pur 
bastando 
l’elemento 
della 
colpa, 
l’intensità 
dell’elemento 
psicologico 
certamente 
rileva 
nella 
quantificazione 
del 
danno. 
ancora 
rilevano 
le 
conseguenze 
dell’azione 
diffamatoria: 
in 
senso 
favorevole 
al 
diffamante 
acquisiscono 
importanza 
alcuni 
comportamenti 
quali 
la 
ratifica 
delle 
dichiarazioni 
ovvero 
la 
pubblicazione 
della 
sentenza 
in 
uno 
o 
più 
quotidiani. 


In 
base 
alle 
decisioni 
risarcitorie 
della 
giurisprudenza, 
sono 
state 
previste 
cinque 
categorie 
di 
diffamazione, sulla 
base 
del 
grado di 
lesività 
dell’offesa 
complessivamente 
considerata 
(264). 
Le 
fasce 
sono 
le 
seguenti: 
tenue 
gravità, 
modesta 
gravità, media 
gravità, elevata 
gravità 
ed eccezionale 
gravità; 
la 
collocazione 
del 
fatto di 
reato dipenderà 
certamente 
dalla 
posizione 
ricoperta 
dal 
diffamato, ma parimenti dal grado di diffusività della notizia. 


Ebbene, 
ci 
chiediamo 
se 
le 
categorie 
sopra 
rappresentate 
sono 
o 
meno 
idonee 
a 
trovare 
applicazione 
nel 
mondo 
di 
internet: 
nel 
grado 
di 
elevata 
gravità, 
oltre 
all’intensità 
dell’elemento 
soggettivo 
o 
alla 
gravità 
del 
discredito, 
si 
fa 
riferimento 
alla 
risonanza 
mediatica. 
Sulle 
piattaforme 
social 
è 
già 
intrinseca 
questa 
risonanza 
mediatica, 
indipendentemente 
dalla 
gravità 
dell’offesa 
o 
dall’intensità 
del 
dolo. 
Inoltre, 
se 
si 
guardano 
i 
rimedi 
risarcitori, 
solo 
una 
deindicizzazione 
della 
notizia 
o 
la 
rimozione 
della 
stessa 
possono 
dare 
“soddisfazione” 
all’offeso, 
ma 
neanche 
in 
quel 
caso 
si 
potrà 
avere 
la 
certezza 
che 
il 
contenuto 
sia 
rimosso 
dalla 
rete, 
o 
comunque 
che 
la 
condotta 
non 
sia 
reiterata. 
La 
domanda 
che 
ci 
si 
è 
posti 
è: 
la 
condotta 
diffamatoria 
tramite 
il 
web 
è 
da 
considerare 
sempre 
come 
di 
“elevata 
gravità”? 
(265). 
accogliendo 
questa 
interpretazione, 
si 
dovrebbero 
ridefinire 
tutte 
le 
altre 
categorie 
prospettate, 
perché 
al 
più 
elevato 
grado 
di 
lesività 
corrisponde 
un 
più 
elevato 
quantum 
risarcitorio 
(266): 
potrebbe 
allora 
sembrare 
sproporzionato 
un 
tale 
rimedio, 
nonostante 
la 
diffusività, 
rispetto, 
ad 
esempio, 
alla 
diffamazione 
tramite 
Facebook. 


Tema 
interessante 
è 
quello del 
locus 
commissi 
delicti: 
qual 
è 
il 
luogo di 
consumazione 
del 
reato 
in 
caso 
di 
diffamazione 
online? 
Ciò 
vale 
per 
tutti 
i 
reati 
informatici, per i 
quali 
bisogna 
chiedersi 
quale 
sia 
il 
luogo in cui 
si 
perfeziona 
la 
fattispecie 
-se 
il 
luogo in cui 
il 
contenuto è 
caricato in rete 
ovvero 
il luogo in cui si ha la percezione dello stesso. 


Partiamo 
dal 
presupposto 
che 
il 
reato 
di 
diffamazione 
si 
consuma 
nel 
momento 
della 
percezione 
del 
contenuto lesivo della 
reputazione 
altrui 
da 
parte 
di 
terzi, per cui 
rientra 
pacificamente 
tra 
i 
reati 
di 
evento. Sono, dunque, ipotizzabili 
due 
distinti 
momenti: 
da 
un 
lato, 
quello 
dell’immissione 
del 
contenuto 


(264) Elaborazione dell’Osservatorio per la giustizia civile di Milano nell’anno 2018. 
(265) Per completezza, l’Osservatorio di 
Milano ha 
stimato che 
l’importo medio matematico liquidato 
tra i casi analizzati sia pari a € 26.290. 
(266) attualmente prospettato intorno a € 40.000. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


sul 
web, dall’altro, quello della 
percezione 
dello stesso da 
parte 
di 
terzi. È 
pacificamente 
configurabile 
l’ipotesi 
del 
tentativo: 
si 
pensi 
al 
caso in cui 
il 
diffamatore 
scriva 
il 
messaggio ma 
questo non venga 
caricato correttamente 
per 
mancanza 
di 
rete 
o altre 
motivazioni. È 
anche 
configurabile 
il 
reato impossibile, 
quando 
l’azione 
risulti 
in 
concreto 
inidonea 
a 
produrre 
i 
suoi 
effetti 
in 
quanto, 
ad 
esempio, 
l’agente 
fa 
uso 
di 
uno 
strumento 
difettoso, 
che 
solo 
in 
modo apparente 
gli 
consente 
l’accesso ad uno spazio web, mentre 
in realtà 
il 
suo messaggio non è stato mai caricato in rete (267). 


Ne 
deriva 
che 
la 
giurisdizione 
appartiene 
al 
giudice 
italiano, 
ai 
sensi 
della 


c.d. teoria 
dell’ubiquità, sia 
che 
la 
condotta 
sia 
posta 
in essere 
nel 
territorio 
nazionale, sia 
che 
sia 
solo stata 
percepita 
da 
terzi 
nel 
territorio italiano (268). 
Il 
giudice 
territorialmente 
competente 
per 
i 
reati 
informatici 
è, 
invece, 
frutto 
di 
una 
presunzione: 
si 
ritiene 
che 
la 
percezione 
del 
contenuto 
lesivo 
si 
abbia 
nel 
luogo 
di 
residenza, 
domicilio 
o 
dimora 
della 
persona 
offesa, 
ossia 
il 
luogo 
dove 
il 
soggetto 
vive 
e, 
in 
quanto 
tale, 
in 
cui 
svolge 
la 
sua 
personalità. 
È 
un 
criterio 
elaborato 
dai 
giudici 
di 
legittimità, 
per 
evitare 
di 
rendere 
indefinito 
il 
luogo 
in 
cui 
è 
sorta 
l’obbligazione 
ovvero 
il 
luogo 
in 
cui 
il 
danno 
si 
è 
verificato. 
Non 
sostenibile 
appare, 
invece, 
la 
tesi 
di 
chi 
individua 
tale 
luogo 
in 
quello 
presso 
cui 
il 
contenuto 
sia 
stato 
caricato 
sulla 
rete, 
in 
primis, 
perché 
il 
soggetto 
agente 
ben 
potrebbe 
essere 
in 
movimento 
durante 
il 
caricamento, 
e 
poi 
perché 
i 
server 
dell’ISP 
potrebbero 
essere 
locati 
in 
qualsiasi 
luogo, 
rendendo 
così 
quasi 
impossibile 
per 
la 
vittima 
risalire 
al 
server 
su 
cui 
sia 
stata 
caricata 
la 
notizia. 
Non 
è 
plausibile 
nemmeno 
la 
tesi 
di 
chi 
sostiene 
che 
la 
lesione 
del 
diritto 
si 
possa 
verificare 
in 
tutti 
i 
luoghi 
in 
cui 
avviene 
la 
diffusione 
della 
notizia, 
poiché 
in 
tal 
modo 
si 
andrebbe 
ad 
incidere 
sulla 
situazione 
processuale 
dell’attore, 
per 
cui 
sarebbe 
impossibile 
dimostrare, 
per 
il 
risarcimento 
del 
danno, 
che 
il 
luogo 
da 
lui 
indicato 
sia 
quello 
della 
prima 
visita. 


Passiamo ad esaminare la posizione di garanzia 
online. 


Nel 
caso 
in 
cui 
vi 
sia 
una 
fonte 
di 
rischio 
che 
trovi 
la 
causa 
in 
un 
rapporto 
qualificato 
tra 
un 
soggetto 
e 
l’attività 
da 
questi 
esercitata, 
l’attribuzione 
di 
una 
posizione 
di 
garanzia 
è 
funzionale 
a 
tutelare 
l’interesse 
previsto dall’ordinamento. 


a 
fronte 
del 
recente 
incremento dei 
cybercrimes, tra 
cui 
rientra 
la 
diffamazione 
online 
appena 
esaminata, ci 
si 
chiede 
quale 
possa 
essere 
il 
soggetto 
cui 
viene 
affidata 
la 
posizione 
di 
garanzia 
e 
l’obbligo giuridico di 
attivarsi 
per 
prevenire la commissione di reati 
online. 


(267) Cass. Pen., sez. V, 17 novembre 
2000, n. 4741, disponibile 
su dejure.it; 
nota 
a 
sentenza 
di 
E. PERuSIa, “Giurisdizione 
italiana anche 
per 
le 
offese 
on line 
su un sito straniero”, su Cassazione 
Penale, 
fasc. 6, 2001, pag. 1835. 
(268) Cass. Pen., sez. V, 27 dicembre 2000, n. 4741, cit. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


È 
diffusa 
la 
consapevolezza 
della 
necessità 
di 
un 
controllo 
online, 
eppure 
è nota la difficoltà dello stesso per l’intrinseca natura del mezzo utilizzato. 


Si 
pensa, comunemente, che 
il 
legislatore, piuttosto che 
prevedere 
meccanismi 
di 
controllo 
preventivo 
non 
percorribili 
e 
che 
potrebbero 
porsi 
in 
contrasto 
con 
la 
natura 
libertaria 
della 
rete, 
dovrebbe 
valorizzare 
modelli 
di 
compliance 
e controllo successivo. 


D’altro canto, è 
pur vero che 
l’esigenza 
comunque 
sentita 
di 
prevenire 
i 
reati mette in dubbio questo orientamento. 


ultimamente, 
è 
stato 
il 
legislatore 
europeo 
a 
riconoscere 
un 
obbligo 
di 
attivazione 
in capo ai 
soggetti 
che 
hanno la 
possibilità 
di 
agire 
sui 
contenuti 
online, 
ossia 
gli 
Internet 
Service 
Provider 
(ISP) 
che, 
come 
noto, 
rappresentano 
i 
principali 
intermediari 
dell’offerta 
digitale 
(269). 
La 
Direttiva 
sul 
commercio 
elettronico (2000/31/CE), confluita 
poi 
nel 
Codice 
del 
commercio elettronico 
(D.lgs. 70/2003), ha 
introdotto gli 
artt. 14 ss., che 
consentono di 
configurare 
a 
carico degli 
ISP 
un obbligo di 
attivarsi 
qualora 
venissero a 
conoscenza 
della 
trasmissione 
di 
un 
contenuto 
illecito. 
gli 
ISP 
si 
configurano, 
dunque, 
come 
veri 
e 
propri 
tutori 
dell’ordine 
virtuale, 
collaborando 
nella 
attenuazione 
ovvero 
eliminazione 
delle 
conseguenze 
dei 
contenuti 
illeciti, senza 
però avere 
alcun 
obbligo di verifica preventiva intervenendo esclusivamente 
ex post. 


Resta 
ferma 
la 
possibile 
responsabilità 
per 
concorso 
attivo 
nel 
reato 
commesso 
dall’utente. 
Tale 
sistema 
di 
responsabilità 
indiretta 
in 
capo 
ai 
provider 
è 
stato, 
in 
parte, 
modificato 
dalla 
c.d. 
Direttiva 
Copyright 
(2019/790/uE) 
che, 
con 
riguardo 
ai 
contenuti 
protetti 
dal 
diritto 
d’autore, 
prevede 
che 
gli 
ISP 
debbano, 
in 
via 
preventiva, 
ottenere 
una 
licenza 
per 
caricare 
i 
contenuti, 
anche 
qualora 
condivisi 
dai 
propri 
utenti, 
costituendo, 
di 
fatto, 
una 
forma 
di 
controllo 
anche 
ex 
ante 
in 
capo 
agli 
ISP, 
e 
presupponendo 
un 
comportamento 
attivo 
degli 
stessi. 


Se 
questo 
obbligo 
di 
controllo 
preventivo 
in 
capo 
agli 
ISP 
fosse 
applicato 
ai 
contenuti 
diffamatori 
o 
d’odio, 
ciò 
sarebbe 
funzionale 
alla 
prevenzione 
della 
lesione 
esaminata 
fino ad ora. Tuttavia, la 
disciplina 
di 
cui 
sopra 
è 
applicabile 
unicamente 
alle 
violazioni 
in 
materia 
di 
Diritto 
d’autore. 
ai 
sensi 
dell’articolo 
15, comma 
1, della 
Direttiva 
e-commerce, infatti, è 
vietato agli 
Stati 
membri 
di 
imporre 
un 
obbligo 
generale 
di 
sorveglianza 
o 
di 
ricerca 
attiva 
tra 
i 
contenuti 
veicolati dagli ISP (270). 

Per cui, chi 
subisce 
una 
lesione 
del 
proprio onore 
e 
della 
propria 
reputazione 
in 
internet, 
ha 
la 
facoltà 
di 
chiedere 
la 
disabilitazione 
all’accesso 
dei 
singoli 
contenuti 
diffamatori, 
ma 
non 
ne 
può 
chiedere 
una 
disabilitazione 
preventiva o generalizzata indipendente dalla sua richiesta. 

(269) L’OSCE 
ha 
definito gli 
ISP 
degli 
intermediari 
che 
danno accesso agli 
utenti, ospitano, trasmettono, 
e 
indicizzano contenuti 
originati 
dai 
content 
provider 
o forniscono servizi 
basati 
su internet 
a 
terze 
parti, cfr. g.E. VIgEVaNI, O. POLLICINO, C. MELzI 
D’ERIL, M. CuNIBERTI, M. BaSSINI, “Diritto 
dell’informazione e dei media”, g. giappichelli Editore, Torino, 2019, p. 336. 
(270) Cfr. sul punto: 
Sabam c. Netlog, C-360/10; 
Scarlet Extended c. SABAM, C-70/10. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


Nel 
2018, però, la 
Corte 
di 
giustizia 
è 
intervenuta 
con una 
sentenza 
rivoluzionaria 
in 
materia 
(271), 
perché, 
pur 
ribadendo 
quanto 
disposto 
dall’art. 
15, 
ha 
riconosciuto 
la 
possibilità 
di 
intimare 
agli 
ISP 
di 
bloccare 
l’accesso 
alle 
informazioni 
di 
contenuto identico ed equivalente 
(272), anche 
qualora 
condivisi 
da utenti terzi. 

Tale 
riconoscimento 
deriva 
dall’applicazione 
del 
combinato 
disposto 
dell’art. 18 della 
medesima 
Direttiva 
e 
del 
Considerando 47, poiché 
il 
primo 
consente 
di 
intimare 
ai 
provider 
di 
tenere 
un 
comportamento 
attivo, 
teso 
a 
porre 
fine 
alle 
violazioni 
e 
a 
impedire 
ulteriori 
danni 
agli 
interessi 
in causa; 
mentre 
il 
secondo, nel 
rispetto del 
divieto di 
sorveglianza 
generale, ammette 
una 
tale 
possibilità 
unicamente 
con riguardo a 
casi 
specifici 
e 
ben determinati 
in sede di richiesta del provvedimento (273). 


Secondo 
quest’ottica, 
l’ingiunzione 
dovrebbe 
individuare 
sia 
il 
nome 
della 
persona 
interessata 
dalla 
violazione 
accertata, sia 
le 
circostanze 
in cui 
è 
stata 
accertata 
tale 
violazione, nonché 
un contenuto equivalente 
a 
quello dichiarato 
illecito. 

Le 
differenze 
nella 
formulazione 
di 
tale 
contenuto equivalente, rispetto 
al 
contenuto dichiarato illecito, non dovrebbero, ad ogni 
modo, essere 
tali 
da 
costringere 
il 
prestatore 
di 
servizi 
di 
hosting 
interessato ad effettuare 
una 
valutazione 
autonoma 
di 
tale 
contenuto, 
così 
che 
siano 
bilanciati 
l’interesse 
dell’offeso a 
non veder leso il 
suo onore, anche 
pro futuro, e 
la 
fattibilità 
tecnica 
(274) della misura inibitoria a carico degli 
Internet Service Provider. 


Seguendo 
quanto 
tracciato 
dalla 
giurisprudenza 
europea, 
si 
potrebbe 
pensare 
a 
strumenti 
di 
intelligenza 
artificiale 
in 
grado 
di 
discernere 
i 
contenuti 
caricati 
nelle 
piattaforme 
per 
ottimizzare 
le 
procedure 
di 
controllo 
e 
l’analisi 
dei 
contenuti, 
approccio 
non 
del 
tutto 
sconosciuto 
alle 
piattaforme 


(271) 
La 
causa 
C-18/18 
ha 
ad 
oggetto 
la 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposta 
alla 
CguE 
dalla Corte suprema austriaca nel procedimento 
Eva Glawischnig Piesczek v. Facebook Ireland. 
Il 
caso trae 
origine 
da 
un commento diffamatorio ad opera 
di 
un utente 
della 
piattaforma, che 
ha 
accompagnato 
la 
condivisione 
di 
un articolo di 
un quotidiano austriaco con un commento lesivo dell’onore 
e 
della reputazione della ricorrente. 
Le domande proposte sono state tre: 
I) Se 
l’articolo 15, co. 1 della 
direttiva 
2000/31/CE 
consenta 
di 
imporre 
ad un hosting provider 
di 
eliminare 
non 
soltanto 
il 
contenuto 
dichiarato 
illecito, 
ma 
anche 
contenuti 
identici, 
anche 
qualora 
pubblicati 
da altri utenti e a livello mondiale; 
II) In caso di risposta negativa al primo quesito, valga anche per i contenuti equivalenti; 
III) 
Se 
valga 
per 
i 
contenuti 
equivalenti, 
non 
appena 
il 
gestore 
sia 
venuto 
a 
conoscenza 
di 
tale 
circostanza. 
(272) Punto 39 della 
sentenza: 
“Dalle 
indicazioni 
contenute 
nella decisione 
di 
rinvio risulta che, 
con i 
termini 
«informazioni 
di 
contenuto equivalente», il 
giudice 
del 
rinvio intende 
riferirsi 
a informazioni 
che 
veicolano un messaggio il 
cui 
contenuto rimane, in sostanza, invariato e 
quindi 
diverge 
molto 
poco da quello che ha dato luogo all’accertamento d’illiceità”. 
(273) Con riguardo ai tempi, alle circostanze e al contenuto da bloccare o rimuovere. 
(274) 
In 
forma 
prettamente 
automatizzata, 
emblematica 
sul 
punto 
è 
la 
sentenza 
C 
324/09, 
L’Oreal 
v. eBay. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


di 
grandi 
dimensioni 
che 
si 
servono 
già 
di 
elementi 
del 
genere 
(ma 
in 
via 
riparativa). 


Potrebbe 
allora 
essere 
ripensato 
l’uso 
dei 
sistemi 
automatizzati 
in 
funzione 
garantista 
dei 
contenuti 
veicolati, ma 
un tale 
approccio dovrebbe 
essere 
ponderato, sia 
per quanto riguarda 
il 
punto di 
vista 
etico che 
dal 
punto di 
vista 
della 
responsabilità 
e, 
in 
ultima 
analisi, 
anche 
dal 
punto 
di 
vista 
di 
un 
eventuale 
controllo umano sulle decisioni della macchina. 


Più di 
recente, la 
Commissione 
europea 
ha 
elaborato una 
proposta 
di 
regolamento 
sui 
servizi 
digitali, il 
c.d Digital 
Services 
Act 
(DSa), che 
si 
basa 
sui 
principi 
già 
affermati 
dalla 
Direttiva 
sul 
commercio elettronico, e 
tuttavia 
mira 
ad assicurare 
le 
condizioni 
migliori 
per la 
prestazione 
dei 
servizi 
digitali 
innovativi 
nel 
mercato 
interno. 
La 
proposta 
vuole 
contribuire 
alla 
sicurezza 
online 
e 
alla 
protezione 
dei 
diritti 
fondamentali, nonché 
creare 
una 
struttura 
di 
governance 
solida 
e 
duratura 
per 
una 
vigilanza 
efficace 
sui 
prestatori 
di 
servizi 
intermediari. 

La 
proposta 
di 
regolamento mantiene 
il 
sistema 
di 
esonero da 
responsabilità 
per i 
provider 
che 
non svolgano un ruolo attivo nella 
trasmissione 
dei 
contenuti, tuttavia 
ne 
modifica 
le 
condizioni, rendendole 
più rigide 
per i 
c.d. 
hosting provider. 


Si 
impongono, 
infatti, 
obblighi 
di 
comunicazione 
ed 
informazione 
più 
chiari 
e 
trasparenti; 
obblighi 
di 
moderazione 
dei 
contenuti 
e 
di 
azioni 
disincentivanti 
alla 
pubblicazione 
di 
contenuti 
illeciti; 
si 
introduce 
la 
possibilità 
di 
impugnare 
le 
decisioni; 
si 
istituisce 
un sistema 
interno di 
gestione 
dei 
reclami 
ed 
inoltre 
la 
proposta 
delinea 
degli 
speciali 
obblighi 
per 
le 
piattaforme 
di 
grandi 
dimensioni, soprattutto per quanto concerne 
i 
rischi 
sistemici. Rimane 
fermo 
il 
divieto 
di 
obbligo 
di 
controllo 
o 
di 
accertamento 
attivo, 
ma 
tale 
divieto 
deve 
essere 
rispettato seguendo i 
principi 
esaminati 
e, purché 
non si 
pongano 
a 
carico 
degli 
ISP 
oneri 
spropositati, 
si 
lascerebbe 
impregiudicata 
la 
possibilità, 
da 
parte 
delle 
autorità 
nazionali, di 
ordinare 
che 
vengano contrastati 
determinati 
contenuti illegali specifici o di fornire informazioni specifiche. 


Dunque, 
il 
legislatore 
europeo 
continua 
ad 
essere 
garante 
della 
libertà 
della 
rete 
e 
della 
libertà 
di 
opinione, operando però un bilanciamento con la 
possibilità 
di 
un 
intervento 
postumo, 
sottraendo 
le 
opinioni 
altrui 
ad 
un 
vaglio 
preventivo, con obblighi più rigidi di trasparenza e informazione. 


Per 
quanto 
concerne 
le 
singole 
policies 
adottate, 
si 
osserva 
che 
social 
network 
come 
Facebook, Instagram, Twitter stabiliscono linee 
guida 
per i 
propri 
utenti. Il 
discorso è 
legato anche 
al 
fenomeno dell’hate 
speech: 
le 
piattaforme 
social, nel 
condannare 
comportamenti 
come 
la 
lesione 
dell’onore 
e 
della 
reputazione, 
il 
cyberbullismo, ecc., stabiliscono un sistema 
di 
segnalazione 
interno 
che valuta il contenuto ed eventualmente lo rimuove. 

I contenuti, inoltre, quando violino le 
norme 
della 
community, possono 
essere 
moderati, 
retrocessi 
(deindicizzati), 
oppure 
può 
essere 
disabilitato 
l’ac



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


cesso 
agli 
stessi. 
Nei 
casi 
più 
gravi, 
le 
piattaforme 
possono 
anche 
inibire 
l’utilizzo 
del 
social 
per un periodo di 
tempo, oscurando il 
profilo oppure 
configurandolo 
come 
“sola 
lettura” 
(l’utente 
può 
effettivamente 
accedere 
al 
social 
ma 
non può in alcun modo interagire 
con gli 
altri 
utenti 
o pubblicare 
ulteriori 
contenuti). 


Twitter, 
in 
particolare, 
oltre 
ad 
attuare 
quanto 
appena 
detto, 
prevede 
la 
possibilità 
di 
etichettare 
il 
contenuto e 
renderlo visibile 
solo a 
chi 
lo desidera, 
avvertendo che 
dietro l’avviso si 
cela 
un contenuto che 
potrebbe 
includere 
informazioni 
errate 
o fuorvianti; 
ciò nei 
soli 
casi 
di 
covid-19, integrità 
civica 
e 
contenuti 
artificiosi 
e 
manipolati. Potrebbe 
accadere 
lo stesso anche 
nel 
caso 
di 
tweet 
in cui 
la 
piattaforma 
riscontri 
un interesse 
pubblico: 
si 
possono adottare 
accortezze 
che 
limitano 
la 
visibilità 
sul 
social. 
ancora, 
in 
caso 
di 
messaggi 
offensivi 
via 
conversazione 
diretta, 
lo 
stesso 
social 
può 
porre 
fine 
alla 
conversazione 
a seguito di segnalazione da parte dell’offeso. 


Facebook 
è 
la 
piattaforma 
più visitata 
online: 
vanta 
al 
2020 il 
77,5% del 
traffico totale 
rispetto alle 
altre 
piattaforme 
online 
in Europa, e 
oltre 
ad un sistema 
automatizzato di 
analisi 
dei 
contenuti 
segnalati, ha 
istituito dal 
2020 un 
Oversight 
Board 
chiamato a 
giudicare 
la 
sorte 
dei 
contenuti 
contrari 
alle 
linee 
guida della 
community. 


Il 
comitato 
è 
stato 
soprannominato 
una 
Corte 
Suprema 
della 
libertà 
di 
parola 
digitale, è 
composto da 
venti 
membri 
scelti 
e 
chiamati 
a 
pronunciarsi 
su 
alcuni 
casi 
controversi, 
casi 
che 
sono 
stati 
considerati 
confliggenti 
con 
gli 
standard 
del 
social 
e 
a 
cui 
l’autore 
si 
è 
opposto. 
Il 
Board 
deve 
effettuare 
una 
sintesi 
tra 
i 
diritti 
fondamentali 
e 
le 
regole 
private 
del 
social, operando una 
valutazione 
anche 
di 
contesto che 
sfugge 
ai 
sistemi 
automatizzati. Lo stesso social 
network 
sarà poi vincolato a tali decisioni. 


La 
decisione 
di 
affidare 
ad 
un 
comitato 
le 
scelte 
in 
merito 
ai 
contenuti 
più controversi, secondo alcuni 
è 
da 
condividere 
e 
apprezzare, perché 
intesa 
come 
garanzia 
aggiuntiva 
di 
moderazione 
nelle 
scelte 
di 
oscuramento o rimozione 
dei contenuti. 


Secondo altri, invece, il 
comitato -composto da 
venti 
tra 
uomini 
e 
donne 
bianchi 
e 
occidentali 
-non potrebbe 
divenire 
fonte 
di 
uguaglianza, perché 
dimostrerebbe, 
nelle decisioni prese, il contesto culturale di provenienza. 

a 
ciò 
si 
aggiunga 
che 
gli 
standard 
sono 
univocamente 
decisi 
da 
Facebook, 
che 
“spaccia” 
per 
assoluti 
i 
parametri 
della 
piattaforma 
in 
un 
mondo 
culturalmente 
e 
socialmente 
variegato. 
È 
pur 
vero 
che, 
sottoscrivendo 
i 
termini 
e 
le 
condizioni 
d’uso 
del 
social, 
si 
accettano 
dichiaratamente 
le 
regole 
ivi 
decise. 
In 
conclusione, 
sicuramente 
si 
può 
dubitare 
che 
possano 
esistere 
delle 
linee 
guida 
che 
soddisfino 
tutti, 
in 
qualsiasi 
parte 
del 
mondo, 
ma 
si 
potrebbe 
pure 
dubitare 
che 
per 
favorire 
la 
libertà 
nella 
rete 
e 
garantire 
la 
libertà 
d’espressione, 
il 
parametro 
sia 
quello 
individuato 
dagli 
operatori 
del 
sistema. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


17. L’interoperabilità: il dialogo necessario tra il digitale e il diritto. 
Il 
termine 
“interoperabilità” 
esprime 
il 
concetto moderno, oggi 
sempre 
più applicato a 
molteplici 
settori, di 
permettere, mediante 
procedure 
tecniche 
unificanti 
e 
standardizzate, 
l’interscambio 
di 
dati 
e 
l’interazione 
dei 
sistemi 
nei 
campi 
dell’informatica, delle 
comunicazioni, della 
sanità, dell’istruzione, 
dei trasporti ferroviari ed aerei e dei sistemi di sicurezza di un Paese. 


Più 
precisamente, 
il 
Codice 
dell’amministrazione 
digitale 
(D.lgs. 
n. 
82/2015, 
in 
prosieguo 
“CaD”) 
definisce 
l’interoperabilità 
come 
la 
“caratteristica 
di 
un 
sistema 
informativo, 
le 
cui 
interfacce 
sono 
pubbliche 
e 
aperte, 
di 
interagire 
in 
maniera 
automatica 
con 
altri 
sistemi 
informativi 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi” 
(275). 
Questa 
definizione 
deve 
essere 
associata 
a 
quella 
di 
cooperazione 
applicativa, 
definita 
nel 
CaD 
come 
“la 
parte 
del 
Sistema 
Pubblico 
di 
Connettività 
finalizzata 
all’interazione 
tra 
i 
sistemi 
informativi 
dei 
soggetti 
partecipanti, 
per 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, 
delle 
informazioni, 
dei 
processi 
e 
procedimenti 
amministrativi” 
(276). 


In breve, la 
combinazione 
e 
l’applicazione 
dei 
due 
principi 
consente 
lo 
scambio 
dati 
tra 
PPaa 
e 
i 
soggetti 
interessati 
in 
modo 
standard, 
al 
fine 
di 
consentire 
lo svolgimento di 
procedimenti 
amministrativi 
complessi, ovvero che 
coinvolgono 
più 
amministrazioni, 
ovvero, 
ancora, 
più 
banche 
dati 
anche 
esterne alla Pubblica 
amministrazione. 


Sempre 
il 
CaD, in più punti, ribadisce 
il 
principio in forza 
del 
quale 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
sono 
tenute 
a 
gestire 
i 
procedimenti 
amministrativi 
utilizzando le 
tecnologie 
dell’informazione 
e 
della 
comunicazione 
(c.d. ICT). 
Lo specifico procedimento, dunque, deve 
fornire 
opportuni 
servizi 
di 
interoperabilità 
o 
integrazione/cooperazione 
a 
carico 
dell’amministrazione 
(277). 
Tali 
servizi 
devono risultare 
conformi 
alle 
Linee 
guida 
elaborate 
dall’agID 


(278) (autorità per l’Italia Digitale). 
(275) art. 1, comma 1, lett. dd) D.lgs. n. 82/2015. 
(276) art. 1, comma 1, lett. ee) D.lgs. n. 82/2015. 
(277) g. MaNCa, “Interoperabilità nella pubblica amministrazione: presente 
e 
futuro digitale”, 
in www.agendadigitale.eu, 6 settembre 2018. 
(278) 
L’art. 
71 
del 
CaD 
dispone 
che 
“1. 
L’AgID, 
previa 
consultazione 
pubblica 
da 
svolgersi 
entro 
il 
termine 
di 
trenta giorni, sentiti 
le 
amministrazioni 
competenti 
e 
il 
Garante 
per 
la protezione 
dei 
dati 
personali 
nelle 
materie 
di 
competenza, 
nonché 
acquisito 
il 
parere 
della 
Conferenza 
unificata, 
adotta 
Linee 
guida contenenti 
le 
regole 
tecniche 
e 
di 
indirizzo per 
l’attuazione 
del 
presente 
Codice. Le 
Linee 
guida divengono efficaci 
dopo la loro pubblicazione 
nell’apposita area del 
sito Internet 
istituzionale 
dell’AgID 
e 
di 
essa ne 
è 
data notizia nella Gazzetta Ufficiale 
della Repubblica italiana. Le 
Linee 
guida 
sono aggiornate o modificate con la procedura di cui al primo periodo. 
1-ter. Le 
regole 
tecniche 
di 
cui 
al 
presente 
codice 
sono dettate 
in conformità ai 
requisiti 
tecnici 
di 
accessibilità 
di 
cui 
all'articolo 11 della legge 
9 gennaio 2004, n. 4, alle 
discipline 
risultanti 
dal 
processo 
di standardizzazione tecnologica a livello internazionale ed alle normative dell’Unione europea”. 
Mentre, 
l’art. 
72 
del 
CaD 
-abrogato 
dal 
D.lgs. 
179/2016 
-forniva 
le 
definizioni 
di 
“d) 
“interoperabilità 
evoluta”: i 
servizi 
idonei 
a favorire 
la circolazione, lo scambio di 
dati 
e 
informazioni, e 
l’erogazione 
fra le 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
tra queste 
e 
i 
cittadini; e) “cooperazione 
applicativa”: la parte 
del 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


L’art. 71 del 
Codice 
dell’amministrazione 
Digitale, norma 
primaria, richiede 
che 
le 
Linee 
guida 
dell’agid 
debbano 
essere 
adottate 
su 
parere 
positivo 
rilasciato dal garante per la Privacy. I punti che rilevano sono: 


1) 
nello 
scambio 
di 
dati 
tra 
Pa 
chi 
deve 
considerarsi 
titolare 
del 
trattamento?; 
2) che 
tempo di 
durata 
deve 
avere 
la 
conservazione 
dei 
dati 
nell’attività 
di 
caching?; 
3) chi 
è 
il 
responsabile 
del 
trattamento dei 
dati 
a 
cui 
il 
privato può rivolgersi 
per eventuali osservazioni o richieste di chiarimento?; 
4) vi 
è 
una 
modulazione 
dei 
sistemi 
di 
sicurezza 
in relazione 
al 
grado di 
riservatezza dei dati, ad esempio quelli giudiziari?; 
5) il 
principio di 
privacy 
by 
design and by 
default 
riguarda 
solo la 
fase 
di 
conservazione o anche la fase di gestione dei dati? 
Per 
cogliere 
gli 
aspetti 
problematici 
del 
rapporto 
tra 
interoperabilità 
e 
tutela 
dei 
dati 
personali, 
occorre 
chiarire 
il 
concetto 
di 
interoperabilità, 
strettamente 
connesso 
a 
quello 
di 
cooperazione 
applicativa. 
Le 
pubbliche 
amministrazioni, 
infatti, 
possono 
dialogare 
in 
via 
digitale 
non 
solo 
con 
i 
tradizionali 
mezzi 
di 
trasmissione 
telematica, 
ossia 
la 
posta 
elettronica 
e 
la 
posta 
elettronica 
certificata, 
ma 
anche 
tramite 
la 
cooperazione 
applicativa. 


La 
cooperazione 
applicativa, 
ai 
sensi 
del 
CaD, 
è 
quella 
parte 
del 
sistema 
pubblico 
di 
connettività 
(di 
seguito 
anche 
“SPC”) 
finalizzata 
all’interazione 
tra 
i 
sistemi 
informatici 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
al 
fine 
di 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, 
delle 
informazioni 
e 
dei 
procedimenti 
amministrativi. 


Il 
sistema 
pubblico di 
connettività 
(279) costituisce 
l’infrastruttura 
telematica 
abilitante 
della 
pubblica 
amministrazione, definita 
anche 
la 
c.d. «autostrada 
del 
sole 
digitale» (280); 
è 
l’insieme 
di 
infrastrutture 
tecnologiche 
e 


sistema pubblico di 
connettività finalizzata all’interazione 
tra i 
sistemi 
informatici 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
per 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, delle 
informazioni 
e 
dei 
procedimenti 
amministrativi”. 
L’art. 72, abrogato, recitava espressamente: 
“1. Ai fini del presente decreto si intende per: 


a) “trasporto di 
dati”: i 
servizi 
per 
la realizzazione, gestione 
ed evoluzione 
di 
reti 
informatiche 
per 
la trasmissione di dati, oggetti multimediali e fonia; 
b) “interoperabilità di 
base”: i 
servizi 
per 
la realizzazione, gestione 
ed evoluzione 
di 
strumenti 
per 
lo scambio di documenti informatici fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; 
c) “connettività”: l’insieme dei servizi di trasporto di dati e di interoperabilità di base; 
d) “interoperabilità evoluta”: i 
servizi 
idonei 
a favorire 
la circolazione, lo scambio di 
dati 
e 
informazioni, 
e l’erogazione fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; 
e) 
“cooperazione 
applicativa”: 
la 
parte 
del 
sistema 
pubblico 
di 
connettività 
finalizzata 
all’interazione 
tra 
i 
sistemi 
informatici 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
per 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, 
delle 
informazioni e dei procedimenti amministrativi”. 
(279) Il 
Sistema 
Pubblico di 
Connettività 
e 
Cooperazione, istituito con D.Lgs. 28 febbraio 2005, 
n. 42 quale 
evoluzione 
della 
RuPa 
(Rete 
unitaria 
della 
Pubblica 
amministrazione), è 
confluito grazie 
al 
D.lgs. 159/2006 (che 
ha 
abrogato il 
D.lgs. 42/2005) negli 
artt. 72 ss. del 
D.lgs. 82/2005, modificato 
dal 
D.lgs. 179/2016, poi 
dal 
correttivo D.lgs. 217/17. Operativo dal 
2007, un quadro consolidato si 
è 
avuto con il d.p.c.m. 1° aprile 2008, recante regole tecniche e di sicurezza per il suo funzionamento. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


di 
regole 
tecniche 
per lo sviluppo, la 
condivisione, l’integrazione 
e 
la 
diffusione 
del 
patrimonio 
informativo 
e 
dei 
dati 
dell’amministrazione 
pubblica, 
necessarie 
per assicurare 
l’interoperabilità 
di 
base 
ed evoluta 
e 
la 
cooperazione 
applicativa 
dei 
sistemi 
informatici 
(281) e 
dei 
flussi 
informativi, garantendo 
la 
sicurezza, la 
riservatezza 
delle 
informazioni, nonché 
la 
salvaguardia 
e 
l’autonomia 
del 
patrimonio informativo di 
ciascuna 
amministrazione 
(282). È 
il 
concetto della 
c.d. “infrastruttura immateriale” 
alla 
base 
dell’economia 
della 
conoscenza dei dati. 

L’art. 73 del 
Codice 
dell’amministrazione 
Digitale, riguardo al 
Sistema 
Pubblico 
di 
Connettività, 
afferma 
che 
“1. 
Nel 
rispetto 
dell’articolo 
117, 
secondo 
comma, 
lettera 
r), 
della 
Costituzione, 
e 
nel 
rispetto 
dell’autonomia 
dell’organizzazione 
interna 
delle 
funzioni 
informative 
delle 
regioni 
e 
delle 
autonomie 
locali 
il 
presente 
Capo definisce 
e 
disciplina il 
Sistema pubblico di 
connettività e 
cooperazione 
(SPC), quale 
insieme 
di 
infrastrutture 
tecnologiche 
e 
di 
regole 
tecniche 
che 
assicura 
l’interoperabilità 
tra 
i 
sistemi 
informativi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, permette 
il 
coordinamento informativo e 
informatico 
dei 
dati 
tra le 
amministrazioni 
centrali, regionali 
e 
locali 
e 
tra queste 
e 
i 
sistemi 
dell’Unione 
europea 
ed 
è 
aperto 
all’adesione 
da 
parte 
dei 
gestori di servizi pubblici e dei soggetti privati. 


2. 
Il 
SPC 
garantisce 
la 
sicurezza 
e 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni, 
nonché 
la 
salvaguardia 
e 
l’autonomia 
del 
patrimonio 
informativo 
di 
ciascun 
soggetto 
aderente. 
3. La realizzazione del SPC avviene nel rispetto dei seguenti principi: 
a) sviluppo architetturale 
e 
organizzativo atto a garantire 
la federabilità 
dei 
sistemi; b) economicità nell’utilizzo dei 
servizi 
di 
rete, di 
interoperabilità 
e 
di 
supporto alla cooperazione 
applicativa; b-bis) aggiornamento continuo 
del 
sistema e 
aderenza alle 
migliori 
pratiche 
internazionali; c) sviluppo del 
mercato e 
della concorrenza nel 
settore 
delle 
tecnologie 
dell’informazione 
e 
della comunicazione. 
3-bis. 
[Le 
regole 
tecniche 
del 
Sistema pubblico di 
connettività sono dettate 
ai sensi dell’articolo 71] 
(283). 
3-ter. Il SPC è costituito da un insieme di elementi che comprendono: 


(280) L. aMaDEI, “Il 
codice 
dell’amministrazione 
digitale”, in L. DE 
PIETRO 
(a 
cura 
di), “Dieci 
lezioni 
per 
capire 
e 
attuare 
l’e-government”, definisce 
l’SPC una 
sorta 
di 
“framework” 
nazionale 
di 
interoperabilità. 
Per M. IaSELLI, “La raccomandata on line: disciplina normativa ed aspetti 
operativi”, in 
Diritto dell’Internet, n. 6, 2006, l’SPC costituisce 
“l’asse 
portante 
per 
l’applicazione 
del 
codice 
del-
l’amministrazione digitale”. 
(281) 
L’art. 
72 
del 
D.lgs. 
82/2005 
abrogato 
forniva 
una 
serie 
di 
definizioni 
relative 
al 
sistema 
pubblico 
di 
connettività. 
In 
particolare, 
oltre 
alla 
cooperazione 
applicativa 
(lett. 
e), 
l’interoperabilità 
evoluta (lett. d). 
(282) art. 73, co. 2, D.lgs. 82/2005. 


(283) Il 
comma 
3-bis 
è 
stato abrogato dal 
D.lgs. 179/2016, il 
quale 
ha 
modificato gran parte 
del-
l’articolo, riportando nell’art. 57, “Modifiche all'articolo 73 del decreto legislativo n. 82 del 2005”. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


a) 
infrastrutture, 
architetture 
e 
interfacce 
tecnologiche; 
b) 
linee 
guida 
e 
regole 
per 
la 
cooperazione 
e 
l’interoperabilità; 
c) 
catalogo 
di 
servizi 
e 
applicazioni. 
3-quater. Ai 
sensi 
dell’articolo 71 sono dettate 
le 
regole 
tecniche 
del 
Sistema 
pubblico 
di 
connettività 
e 
cooperazione, 
al 
fine 
di 
assicurarne: 
l’aggiornamento 
rispetto alla evoluzione 
della tecnologia; l’aderenza alle 
linee 
guida europee 
in materia di 
interoperabilità; l’adeguatezza rispetto alle 
esigenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
dei 
suoi 
utenti; la più efficace 
e 
semplice 
adozione 
da 
parte 
di 
tutti 
i 
soggetti, 
pubblici 
e 
privati, 
il 
rispetto 
di 
necessari livelli di sicurezza”. 


Il 
SPC 
ha, 
quindi, 
il 
compito 
di 
assicurare 
la 
sicurezza 
e 
il 
buon 
esito 
della 
trasmissione 
dei 
dati, 
esito 
garantito 
dai 
fornitori 
del 
servizio, 
che 
possono 
svolgere 
questa 
attività 
solo 
laddove 
in 
possesso 
di 
determinati 
requisiti 
di 
qualità 
e 
sicurezza. Non si 
tratta, quindi, solo ed esclusivamente 
di 
una 
rete 
tecnologica, ma 
della 
condizione 
abilitante 
per il 
corretto funzionamento del-
l’e-government, 
dal 
momento 
che 
influenza 
fortemente 
le 
scelte 
organizzative 
ed è 
volta 
a 
promuovere 
la 
collaborazione 
tra 
amministrazioni, finalità 
quest’ultima 
estremamente 
rilevante 
in 
un 
sistema 
pubblico 
articolato 
su 
molte 
istruzioni e livelli diversi (284). 


È 
proprio 
la 
cooperazione 
applicativa 
ad 
entrare 
in 
gioco 
nella 
trasmissione 
e 
nello 
scambio 
di 
dati 
e 
informazioni 
tra 
amministrazioni: 
le 
comunicazioni 
telematiche, 
in 
tal 
caso, 
si 
atteggiano 
in 
modo 
molto 
diverso 
rispetto 
alla 
posta 
elettronica 
e 
alla 
posta 
elettronica 
certificata 
che, 
si 
può 
dire, 
riproducono 
a 
livello 
informatico 
rispettivamente 
il 
meccanismo 
della 
posta 
ordinaria 
e 
della 
raccomandata. 
Nella 
cooperazione 
applicativa 
la 
comunicazione 
avviene, 
invece, 
attraverso 
l’interfacciamento 
fra 
le 
porte 
di 
dominio 
(285) 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, 
in 
quanto 
si 
basa 
sulle 
capacità 
di 
esportare 
i 
propri 
servizi 
applicativi 
e 
di 
accedere 
ai 
servizi 
erogati 
da 
altre 
amministrazioni 
attraverso 
le 
porte 
di 
dominio, 
punto 
di 
contatto 
telematico 
fra 
amministrazioni 
che 
gestiscono 
i 
messaggi 
in 
entrata 
e 
in 
uscita. 
Le 
porte 
di 
dominio 
devono 
rispondere 
a 
determinati 
standard 
e 
regole 
di 
comunicazione 
definite; 
ciò 
le 
distingue 
dai 


(284) appare 
la 
traduzione 
della 
nozione, elaborata 
da 
Sabino Cassese, di 
“rete 
come 
figura organizzativa 
della collaborazione”. Così, C. D’ORTa, “Il 
sistema pubblico di 
connettività”, in Giornale 
di 
diritto amministrativo, 2005, n. 7, riferendosi 
a 
S. CaSSESE, “le 
reti 
come 
figura organizzativa della 
collaborazione”, in ID., “Lo spazio giuridico globale”, Roma-Bari, 2003. 
(285) La 
porta 
di 
dominio rappresenta 
un elemento concettuale 
che 
ha 
la 
funzione 
di 
proxy 
per 
l’accesso alle 
risorse 
applicative 
del 
dominio. Fa 
parte 
del 
modello organizzativo di 
SPCoop e, come 
tale, trova 
naturalmente 
posto nella 
progettazione 
concettuale 
piuttosto che 
in quella 
logica 
o fisica. La 
PD 
può 
essere 
ricoprire 
due 
ruoli: 
Porta 
applicativa 
-Ruolo 
assunto 
da 
una 
porta 
di 
dominio 
di 
SPCoop 
nell’ambito di 
un episodio di 
collaborazione 
applicativa. assume 
tale 
ruolo la 
porta 
di 
dominio che, a 
seguito della 
ricezione 
di 
un messaggio di 
richiesta 
proveniente 
da 
un’altra 
porta 
di 
dominio (porta 
delegata) 
invia 
al 
mittente 
un messaggio di 
risposta; 
Porta Delegata 
-Ruolo assunto da 
una 
porta 
di 
dominio 
di 
SPCoop nell’ambito di 
un episodio di 
collaborazione 
applicativa. assume 
tale 
ruolo la 
porta 
di 
dominio 
che 
origina 
un 
messaggio 
di 
richiesta 
(di 
servizio) 
destinato 
ad 
un’altra 
porta 
di 
dominio 
(porta applicativa). 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


domini 
che 
sono 
invece 
l’insieme 
di 
risorse 
software, 
hardware 
e 
di 
comunicazione 
di 
una 
pubblica 
amministrazione, 
da 
intendersi 
come 
lo 
spazio 
di 
competenza 
di 
ciascuna 
amministrazione 
in 
relazione 
al 
proprio 
sistema 
informativo 
e 
informatico, 
che 
per 
questo 
possono 
conservare 
strutture 
autonome, 
dato 
che 
la 
funzione 
di 
adattamento 
è 
compiuta 
dalle 
porte 
di 
dominio 
(286). 


Di 
conseguenza, 
la 
cooperazione 
applicativa 
non 
si 
limita 
all’aspetto 
tecnologico, 
ma 
implica 
una 
vera 
e 
propria 
riorganizzazione 
e 
reingegnerizzazione 
dei 
processi 
all’interno 
delle 
pubbliche 
amministrazioni. 
Segna 
il 
passaggio 
concreto 
dall’informatizzazione 
alla 
vera 
e 
propria 
“digitalizzazione” 
in 
senso 
non 
solo 
formale, 
ma 
anche 
sostanziale 
nel 
rispetto 
del 
principio 
“once 
only”. 


Sebbene 
l’importanza 
del 
meccanismo di 
cooperazione 
si 
colga 
primariamente 
sotto il 
profilo dello scambio di 
informazioni 
e 
delle 
comunicazioni 
che 
intercorrono tra 
soggetti 
pubblici, più in generale 
la 
cooperazione 
costituisce 
l’asse 
portante 
delle 
relazioni 
tra 
amministrazioni 
e, in quanto tale, dovrebbe 
essere 
favorita 
ed 
implementata 
al 
fine 
di 
garantire 
semplificazione, 
efficacia 
e 
sicurezza 
nell’ottica 
di 
una 
profonda 
evoluzione 
e 
modernizzazione 
dell’intero sistema pubblico (287). 


Il 
comma 
2 
dell’art. 
73 
del 
CaD 
pone 
in 
rilievo 
la 
necessità 
che 
l’SPC 
garantisca 
“sicurezza” 
e 
“riservatezza” 
delle 
informazioni: 
la 
seconda 
è 
da 
intendere 
come 
direttamente 
-sebbene 
non 
unicamente 
-condizionata 
dalla 
prima: 
è 
del 
tutto 
evidente, 
difatti, 
che 
un 
sistema 
non 
sicuro 
è 
potenzialmente 
idoneo 
a 
pregiudicare 
anche 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni 
trasmissibili 
ed 
acquisibili 
per 
il 
suo 
tramite. 
Più 
precisamente, 
un 
sistema 
non 
sicuro 
potrebbe 
esporre 
al 
rischio 
di 
data 
breach, 
al 
verificarsi 
dei 
quali 
il 
Regolamento 
uE 
gDPR 
(n. 
676/16) 
fa 
discendere 
l’obbligo 
di 
relativa 
comunicazione 
all’autorità 
garante 
Privacy 
e 
al 
ricorrere 
di 
determinati 
presupposti, 
anche 
agli 
interessati 
cui 
i 
dati 
si 
riferiscono, 
in 
entrambi 
i 
casi 
entro 
tempi 
assai 
ristretti. 
Senza 
trascurare 
l’evenienza 
di 
possibili 
richieste 
risarcitorie. 
gli 
standard 
di 
sicurezza 
prescritti 
per 
l’SPC 
sono 
stati 
stabiliti, 
secondo 
quanto 
disposto 
dal 
comma 
3-quater, 
dall’agID, 
attraverso 
lo 
strumento 
delle 
Linee 
guida 
di 
cui 
all’art. 
71 
del 
CaD 
(288). 


(286) In tal 
senso F. MaRTINI, “Il 
sistema informativo pubblico”, in “Quaderni 
del 
Dipartimento 
Pubblico”, università di Pisa, Torino, 2006. 
(287) 
Come 
rileva 
F. 
MaRTINI, 
op. 
cit., 
la 
cooperazione 
applicativa 
prospetta 
di 
dissolvere 
i 
confini 
di 
competenza 
fra 
amministrazione 
permettendo 
ad 
un’amministrazione 
di 
accedere 
con 
pieno 
valore 
giuridico 
ai 
servizi 
di 
un’altra. 
I 
concetti 
di 
interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa 
sono 
considerati 
fattori 
chiave 
e 
ricevono 
impulso 
dalla 
normativa 
e 
dalle 
politiche 
dell’unione 
europea, 
anche 
dall’attuale 
agenda 
Digitale 
europea. 
Su 
interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa 
cfr. 
B. 
Da 
RONCh 
-L. 
DE 
PIETRO, 
“Interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa”, 
in 
L. 
DE 
PIETRO 
(a 
cura 
di), 
“Dieci 
lezioni 
per 
capire 
e 
attuare 
l’e-government”, 
cit. 
Sulla 
cooperazione 
applicativa 
e 
i 
suoi 
modelli, 
cfr. 
a. 
MaggIPINTO. 
(288) 
Proprio 
il 
1° 
gennaio 
2022 
sono 
entrate 
in 
vigore 
le 
Linee 
guida 
dell’agID 
sulla 
formazione, 
gestione 
e 
conservazione 
dei 
documenti 
informatici 
-come 
disposto dalla 
proroga 
inserita 
nella 
determinazione 
n. 371/2021 del 
17 maggio 2021 -che 
segneranno il 
salto quantico evolutivo dalla 
informatizzazione 
alla 
vera 
e 
propria 
digitalizzazione 
e 
porteranno l’azione 
amministrativa 
ad un altro livello 
digitale. 
Finalmente 
si 
attua, 
dunque, 
il 
processo 
di 
trasformazione 
digitale 
delineato 
nel 
CaD 
e 
nel 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


Tale 
aspetto 
viene 
ribadito 
anche 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
(289) 
che, 
con 
riferimento 
all’art. 
73, 
precisa 
che 
il 
SPC 
(Sistema 
Pubblico 
di 
Connettività) 
deve 
garantire 
la 
sicurezza 
e 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni, nonché 
la 
salvaguardia 
e 
l’autonomia 
del 
patrimonio informativo di 
ciascun soggetto aderente 
secondo le regole tecniche di cui all’art. 71 del CaD. 


Con 
essa 
ed 
i 
relativi 
allegati, 
l’agID 
ha 
definito 
la 
Linea 
di 
indirizzo 
sull’interoperabilità 
tecnica 
che 
tutte 
le 
Pubbliche 
amministrazioni 
devono 
adottare 
al 
fine 
di 
garantire 
l’interoperabilità 
dei 
propri 
sistemi 
con quelli 
di 
altri 
soggetti 
e 
favorire 
l’implementazione 
complessiva 
del 
Sistema 
informativo 
della 
Pa. In particolare, circolare 
ed allegati 
si 
occupano di 
individuare 
le 
tecnologie 
e 
gli 
standard 
che 
le 
PPaa 
devono 
tenere 
in 
considerazione 
nella 
realizzazione 
dei 
propri 
sistemi 
informatici, al 
fine 
di 
permettere 
il 
coordinamento 
informatico 
dei 
dati 
tra 
le 
amministrazioni 
nonché 
tra 
i 
gestori 
di 
servizi 
pubblici e i soggetti privati e l’unione Europea. 


TuDa 
(DPR 445/2000) che 
si 
attendeva 
da 
tempo. Erano state, infatti, già 
pubblicate 
con la 
determinazione 
n. 
407/2020 
del 
9 
settembre 
2020, 
ma 
è 
stato 
dopo 
la 
correzione 
avvenuta 
con 
la 
determinazione 
del 
17 maggio 2021 che 
sono iniziati 
i 
lavori 
finali 
per portare 
a 
compimento il 
documento: 
il 
gruppo 
di 
lavoro 
coordinato 
da 
agID 
e 
costituito 
da 
agenzia 
delle 
Entrate, 
Consiglio 
Nazionale 
dei 
dottori 
commercialisti, 
assosoftware, aNORC e 
assoconservatori 
-con il 
supporto del 
Politecnico di 
Milano e 
di 
Sogei 
-ha 
concluso 
i 
lavori 
a 
dicembre 
2021. 
Inoltre, 
con 
la 
determinazione 
n. 
629/2021 
l’agID 
ha 
modificato 
il 
Regolamento 
sui 
criteri 
per 
la 
fornitura 
dei 
servizi 
di 
conservazione 
dei 
documenti 
informatici 
relativo alla 
fornitura 
del 
servizio in favore 
delle 
Pa, adottato con la 
determinazione 
n. 455/2021. La 
nuova 
disciplina 
abroga, con delle 
eccezioni 
espresse, le 
regole 
tecniche 
precedentemente 
in vigore. Le 
Linee 
guida 
sono 
fondamentali 
per 
garantire 
il 
passaggio 
dall’informatizzazione, 
che 
costituisce 
la 
“mera” 
riproduzione 
sul 
supporto informatico, alla 
vera 
e 
propria 
digitalizzazione, che 
è 
la 
nascita 
del 
documento digitale, con tutte 
le 
regole 
tecniche 
necessarie 
per la 
forma 
scritta 
digitale, per la 
corretta 
fascicolazione 
informatica. 
Nonostante 
il 
lavoro 
sia 
stato 
portato 
a 
termine 
correttamente, 
Mariella 
guercio, 
in 
un 
intervento 
del 
29 
dicembre 
2021 
nel 
gruppo 
Facebook 
“Italian 
Digital 
Minions”, 
ha 
sostenuto 
che 
la 
parte 
relativa 
ai 
metadati 
contiene 
una 
«somma 
di 
informazioni 
obbligatorie 
prive 
di 
contesto 
temporale 
e 
di 
finalità esplicite 
(non è 
chiaro chi, quando, come 
debba acquisire 
queste 
informazioni 
e 
gestirle 
sia 
all’interno 
del 
sistema 
documentale 
sia 
nelle 
successive 
-sottolineo 
successive 
-fasi 
di 
conservazione
». 
È 
stato 
osservato 
che 
l’ambito 
della 
metadatazione 
andrebbe 
riportata 
nell’alveo 
originario 
della 
gestione 
documentale 
e 
non della 
formazione 
del 
documento, «infatti, se 
per 
una pubblica amministrazione 
l’utilizzo dei 
metadati 
resta assolutamente 
indispensabile 
per 
gestire 
le 
operazioni 
di 
registrazione 
e 
di 
segnatura, quindi 
di 
classificazione 
(e 
di 
corretta formazione 
dell’archivio digitale), in 
ambito privato, al 
contrario, non vi 
è 
alcun obbligo di 
gestione 
documentale 
e 
l’utilizzo dei 
metadati, 
specie 
nell’attuale 
configurazione, rischia di 
rimanere 
solo un inutile 
e 
periglioso esercizio di 
stile», v. 


a. LISI, “Come 
sarà il 
2022 dei 
documenti 
informatici: nuove 
regole 
digitali 
e 
qualche 
polemica”, su 
agendadigitale.eu. 
Le 
nuove 
Linee 
guida, 
comunque, 
garantiscono 
un 
buon 
collegamento 
con 
il 
sistema 
delineato 
dal 
gDPR, 
soprattutto 
per 
quanto 
riguarda 
il 
ruolo 
dei 
conservatori 
dei 
documenti 
informatici. 
Infine, la 
legge 
n. 108 del 
2021, che 
modifica 
il 
CaD, all’art. 18-bis 
prevede 
in capo all’agID 
poteri 
di 
vigilanza, 
verifica, 
controllo 
e 
monitoraggio 
simili 
a 
quelli 
dell’anac, 
nell’esercizio 
dei 
quali 
l’agenzia 
richiede 
e 
acquisisce 
presso tutti 
i 
soggetti 
pubblici, dati, documenti 
e 
altre 
informazioni 
strumentali 
e 
necessarie. Se 
non si 
ottempera 
alla 
richiesta 
di 
dati, documenti 
o informazioni, ovvero si 
trasmettono 
dati 
o informazioni 
parziali 
o non veritieri, si 
incorre 
in sanzioni 
amministrative 
pecuniarie 
nel 
minimo 
di euro 10.000 e nel massimo di euro 100.000. 
(289) Vedasi 
parere 
n. 785 del 
23 marzo 2016. Più di 
recente, si 
segnala 
il 
parere 
del 
CdS 
del 
26 
novembre 2020, n. 1940 sull’e-procurement. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


L’agenzia 
per l’Italia 
Digitale 
è, del 
resto, l’autorità 
responsabile 
delle 
attività 
di 
governance 
con 
l’obiettivo 
di 
definire, 
condividere 
e 
assicurare 
l’aggiornamento 
continuo dei seguenti aspetti: 


-l’insieme 
delle 
tecnologie 
che 
abilitano 
l’interoperabilità 
tra 
Pa, 
cittadini 
e imprese; 


-i 
pattern 
di interoperabilità (interazione e sicurezza); 
- i profili di interoperabilità. 
Tutte 
le 
amministrazioni 
devono, 
dunque, 
aderire 
agli 
standard 
tecnologici 
ed 
utilizzare 
pattern 
e 
profili 
del 
nuovo 
Modello 
di 
interoperabilità, 
che 
consentirà 
di 
definire 
ed 
esporre 
Application 
Programming 
Interface 
(c.d. 
aPI) 
conformi 
agli 
standard consolidati 
anche 
in ambito Eu. Le 
aPI realizzate 
in 
conformità 
con 
il 
nuovo 
Modello 
di 
Interoperabilità 
garantiscono 
in 
particolare: 


-tracciabilità 
delle 
diverse 
versioni 
delle 
aPI, 
allo 
scopo 
di 
consentire 
evoluzioni non distruttive (versioning); 


-documentazione 
coordinata 
con la 
versione 
delle 
aPI (documentation); 
-limitazioni 
di 
utilizzo 
collegate 
alle 
caratteristiche 
delle 
aPI 
stesse 
e 
della classe di utilizzatori (throttling); 
-tracciabilità 
delle 
richieste 
ricevute 
e 
del 
loro 
esito 
(logging 
e 
accounting); 


-un adeguato livello di 
servizio in base 
alla 
tipologia 
del 
servizio fornito 
(SLa); 
- configurazione scalabile delle risorse. 
Il 
nuovo 
Modello 
di 
interoperabilità 
rappresenta 
un 
asse 
portante 
del 
Piano 
triennale 
per 
l’informatica 
nella 
Pa 
2020-2022. 
Come 
stabilito 
nel 
Piano, l’agenzia per l’Italia Digitale: 


-fornisce 
un catalogo delle 
aPI e 
dei 
servizi 
disponibili 
con una 
interfaccia 
di accesso unica; 
-rende 
disponibili 
appositi 
strumenti 
di 
cooperazione 
per 
agevolare 
la 
risoluzione 
di problematiche relative alle 
aPI; 


- stabilisce e pubblica le metriche di utilizzo delle 
aPI. 
La 
Circolare 
n. 1 del 
9 settembre 
2020 aggiorna, altresì, il 
Sistema 
pubblico 
di 
cooperazione 
(SPCoop) proseguendo nel 
processo di 
aggiornamento 
avviato con la determinazione 
agID 219/2017. 

La 
messa 
in opera 
delle 
regole 
di 
interoperabilità, di 
integrazione 
e 
cooperazione 
per lo scambio di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi 
nella 
Pa 
è 
un percorso che parte da lontano, ma presenta ancora molte criticità. 


Il 
tema 
dell’interoperabilità 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi 
nella 
Pubblica 
amministrazione 
rappresenta, 
infatti, 
un 
tema 
tra 
i 
più 
importanti 
per 
lo 
sviluppo 
del 
digitale 
nella 
Pa 
insieme 
alla 
gestione 
dell’identità 
digitale 
anche 
in 
chiave 
anagrafica 
e 
di 
sicurezza 
dei 
dati 
e 
dei 
sistemi. 


Non è 
un caso che 
nell’ultima 
versione 
del 
“Recovery 
Plan” 
si 
citi, tra 
gli 
obiettivi 
di 
“digitalizzazione, innovazione, competitività e 
cultura”, l’im



LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


plementazione 
dell’interoperabilità 
nella 
Pubblica 
amministrazione, con uno 
sguardo costante ai dati personali (290). 


Non solo. Nel 
decreto cd. Semplificazioni 
(291), gli 
artt. 24 e 
25 prevedono 
una 
valorizzazione 
dei 
sistemi 
di 
identificazione 
digitale 
Spid e 
Cie 
per 
l’accesso ai 
servizi 
on line, rafforzando il 
concetto di 
identità 
digitale 
anche 
attraverso 
il 
“punto 
di 
accesso 
telematico 
previsto 
dall’art. 
64-bis”, 
ossia 
l’applicazione 
per smartphone 
IO, la 
piattaforma 
unica 
per tutte 
le 
Pubbliche 
amministrazioni 
integrata 
con le 
piattaforme 
abilitanti 
come 
pagoPa, Spid e 
Cie. 
allo stesso modo, l’art. 26 prevede 
una 
piattaforma 
unica 
per la 
notificazione 
digitale 
degli 
atti 
della 
Pubblica 
amministrazione, e 
il 
comma 
15 dell’art. 26 
prevede 
un’articolata 
procedura 
da 
adottarsi 
con uno o più DPCM, sentito il 
Ministero dell’Economia 
e 
il 
garante 
per la 
Privacy, nel 
termine 
ordinatorio 
di 
120 giorni 
dalla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
decreto con cui 
vengano stabilite 
le 
regole 
tecniche, l’infrastruttura 
tecnologia 
e 
le 
modalità 
di 
inserimento 
degli 
atti, nonché 
il 
piano test 
per la 
verifica 
del 
corretto funzionamento. ultimato 
il 
test, 
con 
atto 
del 
Capo 
della 
competente 
struttura 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
“è 
fissato il 
termine 
a decorrere 
dal 
quale 
le 
amministrazioni 
possono 
aderire 
alla 
piattaforma”. 
anche 
per 
l’elenco 
dei 
domicili 
digitali 
il 
comma 
3-bis 
dell’art. 3-bis 
prevede 
che 
sia 
un DPCM, sentito agid, 
il 
garante 
per la 
Privacy e 
la 
Conferenza 
unificata, a 
fissare 
la 
data 
in cui 
le 
comunicazioni 
tra 
i 
soggetti 
non digitale 
e 
la 
Pa 
avvenga 
“esclusivamente 
in 
forma elettronica”, mettendosi 
a 
disposizione 
di 
tali 
soggetti 
un domicilio digitale 
o 
altre 
modalità 
per 
superare 
il 
Digital 
divide. 
Occorre 
precisare 
che 
più 


(290) 
Per 
uno 
studio 
più 
approfondito, 
si 
consiglia 
di 
consultare 
il 
Piano 
Nazionale 
di 
Ripresa 
e 
Resilienza 
(PNRR) 
2021, 
da 
pagg. 
119 
a 
129, 
che, 
in 
tema 
di 
dati 
e 
interoperabilità, 
si 
esprime 
nei 
seguenti 
termini: 
“Il 
gap 
digitale 
della 
PA 
italiana 
si 
traduce 
oggi 
in 
ridotta 
produttività 
e 
spesso 
in 
un 
peso 
non 
sopportabile 
per 
cittadini, 
residenti 
e 
imprese, 
che 
debbono 
accedere 
alle 
diverse 
amministrazioni 
come 
silos 
verticali, 
non 
interconnessi 
tra 
loro. 
La 
trasformazione 
digitale 
della 
PA 
si 
prefigge 
quindi 
di 
cambiare 
l’architettura 
e 
le 
modalità 
di 
interconnessione 
tra 
le 
basi 
dati 
delle 
amministrazioni 
affinché 
l’accesso 
ai 
servizi 
sia 
trasversalmente 
e 
universalmente 
basato 
sul 
principio 
“once 
only”, 
facendo 
sì 
che 
le 
informazioni 
sui 
cittadini 
siano 
a 
disposizione 
“una 
volta 
per 
tutte” 
per 
le 
amministrazioni 
in 
modo 
immediato, 
semplice 
ed 
efficace, 
alleggerendo 
tempi 
e 
costi 
legati 
alle 
richieste 
di 
informazioni 
oggi 
frammentate 
tra 
molteplici 
enti. 
Investire 
sulla 
piena 
interoperabilità 
dei 
dataset 
della 
PA 
significa 
introdurre 
un 
esteso 
utilizzo 
del 
domicilio 
digitale 
(scelto 
liberamente 
dai 
cittadini) 
e 
garantire 
un’esposizione 
automatica 
dei 
dati/attributi 
di 
cittadini/residenti 
e 
imprese 
da 
parte 
dei 
database 
sorgente 
(dati/attributi 
costantemente 
aggiornati 
nel 
tempo) 
a 
beneficio 
di 
ogni 
processo/servizio 
“richiedente”. 
Si 
verrà 
a 
creare 
una 
“Piattaforma 
Nazionale 
Dati” 
che 
offrirà 
alle 
amministrazioni 
un 
catalogo 
centrale 
di 
“connettori 
automatici” 
(le 
cosiddette 
“API” 
-Application 
Programming 
Interface) 
consultabili 
e 
accessibili 
tramite 
un 
servizio 
dedicato, 
in 
un 
contesto 
integralmente 
conforme 
alle 
leggi 
europee 
sulla 
privacy, 
evitando 
così 
al 
cittadino 
di 
dover 
fornire 
più 
volte 
la 
stessa 
informazione 
a 
diverse 
amministrazioni. 
La 
realizzazione 
della 
Piattaforma 
Nazionale 
Dati 
sarà 
accompagnata 
da 
un 
progetto 
finalizzato 
a 
garantire 
la 
piena 
partecipazione 
dell’Italia 
all’iniziativa 
Europea 
del 
Single 
Digital 
Gateway, 
che 
consentirà 
l’armonizzazione 
tra 
tutti 
gli 
Stati 
Membri 
e 
la 
completa 
digitalizzazione 
di 
un 
insieme 
di 
procedure/servizi 
di 
particolare 
rilevanza 
(ad 
es. 
richiesta 
del 
certificato 
di 
nascita, 
ecc.)”. 
(291) D.L. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito in legge n. 120/20. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


recentemente 
il 
Ministro 
per 
l’Innovazione 
tecnologica 
e 
la 
transizione 
digitale 
Colao ha 
annunciato il 
progetto di 
realizzazione 
di 
una 
Rete 
unica 
Digitale 
entro 
il 
2026 
con 
la 
necessità 
di 
un’unificazione 
dello 
Spid 
con 
la 
carta 
di 
identità 
elettronica. La 
tutela 
dei 
dati 
personali 
verrà 
a 
realizzarsi, anche 
in questo 
caso, 
con 
il 
rispetto 
delle 
procedure 
standardizzate 
contenute 
nelle 
Linee 
guida 
agid 
da 
aggiornarsi 
con 
l’evoluzione 
continua 
dei 
protocolli 
informatici 
grazie 
anche 
all’apporto tecnico di 
un apposito Dipartimento, il 
Dipartimento per la 
trasformazione 
digitale, struttura 
di 
supporto al 
Ministro per l’innovazione 
e 
la 
transizione 
digitale 
per 
la 
promozione 
il 
coordinamento 
delle 
azioni 
governo 
finalizzate 
alla 
definizione 
di 
una 
strategia 
unitaria 
in 
materia 
di 
trasformazione 
digitale e di modernizzazione del Paese. 


un campo in cui 
la 
tutela 
dei 
dati 
personali 
viene 
messa 
maggiormente 
in 
discussione 
è 
quello 
della 
tecnologia 
Blockchain 
(292) 
che 
si 
sta 
applicando 
in vari 
settori 
dell’agire 
pubblico, sanitario, appalti, transazioni. Tale 
tecnologia 
si 
scontra 
con i 
due 
principi 
cardini 
del 
gDPR (293): 
i 
dati 
inseriti 
nelle 
blockchain 
sono pubblici 
ed accessibili 
da 
chiunque 
partecipi 
alla 
catena 
e 
i 
dati presenti nelle 
blockchain 
sono conservati illimitatamente. 

Le 
parole 
chiave 
del 
gDPR, 
ossia 
centralizzazione, 
limitazione 
e 
rimovibilità, 
si 
pongono 
in 
contrasto 
con 
la 
tecnologia 
blockchain 
basata 
su 
decentralizzazione, 
distribuzione 
e 
immutabilità. 
La 
tutela 
del 
dato 
personale 
risiede 
sempre 
in 
un 
hash 
crittografato 
(294) 
e 
nella 
anomizzazione 
dei 
soggetti 
coinvolti. 


I servizi 
di 
gestione 
dei 
dati 
e 
l’architettura 
dei 
dati, progettati 
per conservare, 
utilizzare, riutilizzare 
e 
organizzare 
i 
dati, sono componenti 
decisivi 
della 
catena 
del 
valore 
dell’economia 
digitale 
europea 
(295). Per questo motivo, 
si 
pone 
l’attenzione 
sui 
costi 
e 
sulle 
competenze 
inerenti 
all’accesso 
e 
alla 
conservazione 
dei 
dati, 
che 
determinano 
la 
velocità, 
la 
profondità 
e 
la 
portata 
dell’adozione 
di 
infrastrutture 
e 
prodotti 
digitali, 
in 
particolare 
per 
le 
PMI 
e le 
start-up 
(296). 


Negli 
ultimi 
anni, infatti, si 
sono sviluppati 
tanto gli 
ecosistemi 
tecnologici 
(297) basati 
e 
sviluppati 
sul 
web, quanto, di 
conseguenza, i 
relativi 
pro


(292) 
La 
blockchain 
è 
una 
particolare 
tecnologia 
di 
registro 
distribuito 
(DLT), 
in 
grado 
di 
registrare 
scambi 
e 
informazioni 
in modo sicuro e 
permanente, mediante 
la 
condivisione 
di 
un database 
che 
rimuove 
essenzialmente 
la 
necessità 
degli 
intermediari 
i 
quali, in precedenza, erano tenuti 
ad agire 
come 
terze parti di fiducia per verificare, registrare e coordinare i dati. 
(293) 
Regolamento 
CE 
del 
Parlamento 
europeo 
n. 
679/2016 
(General 
Data 
Protection 
Regulation). 
(294) 
una 
funzione 
hash 
crittografica 
fa 
parte 
di 
un 
gruppo 
di 
funzioni 
hash 
adatte 
per 
applicazioni 
crittografiche 
come 
SSL/TLS. 
Come 
altre 
funzioni 
hash, 
le 
funzioni 
hash 
crittografiche 
sono 
algoritmi 
matematici 
unidirezionali 
utilizzati 
per 
mappare 
i 
dati 
di 
qualsiasi 
dimensione 
su 
una 
stringa 
di 
bit 
di 
una 
dimensione 
fissa. 
Le 
funzioni 
hash 
crittografiche 
sono 
ampiamente 
utilizzate 
nelle 
pratiche 
di 
sicurezza 
delle 
informazioni, 
quali 
firme 
digitali, 
codici 
di 
autenticazione 
dei 
messaggi 
e 
altre 
forme 
di 
autenticazione. 
(295) g. D’aCQuISTO, “Blockchain e 
GDPR: verso un approccio basato sul 
rischio”, in www.federalismi.
it, 18 gennaio 2021. 
(296) 
C. 
MORELLI, 
“Dallo 
spazio 
economico 
europeo 
allo 
spazio 
comune 
dei 
data 
UE”, 
in 
www.altalex.
com, 22 marzo 2021. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


blemi 
in ambito di 
sicurezza 
e 
trattamento dei 
dati, non solo delle 
aziende 
o 
dei professionisti, ma di tutti gli utenti in generale. 


È 
chiaro 
che 
qualsiasi 
strumento, 
se 
usato 
in 
modo 
improprio, 
può 
causare 
danni, più o meno gravi. Spesso, quindi, non è 
tanto lo strumento in sé 
ad essere 
la 
causa 
del 
danno, 
bensì 
le 
modalità 
attraverso 
cui 
viene 
utilizzato, 
il 
che 
vale anche per gli strumenti più semplici. Tali problematiche investono naturalmente 
anche l’utilizzo della 
Blockchain. 


Molto 
spesso 
si 
è 
inclini 
a 
collocare 
la 
blockchain 
nell’ambito 
dei 
Bitcoin, 
delle 
criptovalute 
o delle 
transazioni 
finanziarie; 
ma 
la 
blockchain 
può dare 
risposte 
assolutamente 
innovative 
anche 
sul 
piano 
della 
creazione 
di 
un 
sistema 
di 
relazioni 
interamente 
basato su un nuovo concetto di 
fiducia. In questo 
caso, occorre 
trovare 
uno strumento di 
disintermediazione, che 
permetta 
di 
dare 
un indirizzo di 
vita 
quotidiana 
per creare 
ecosostenibilità 
e 
benessere 
attraverso il 
digitale. Il 
che 
tradotto significa 
che 
la 
blockchain 
nella 
Pa 
può e 
deve apportare dei benefici al cittadino e non la sola funzionalità (298). 


La 
blockchain 
di 
per 
sé 
è 
lo 
strumento 
che, 
se 
usato 
in 
modo 
inappropriato, 
può 
portare 
ad 
incorrere 
in 
situazioni 
contrarie 
alle 
normative 
nazionali 
e/o sovranazionali 
approvate 
a 
tutela 
del 
diritto alla 
riservatezza 
del 
cittadino. 
Il caso lampante è quello del trattamento dei dati personali (299). 


In 
merito 
all’adeguamento 
della 
blockchain 
al 
Regolamento 
uE 
2016/679, 
lo 
scoglio 
apparentemente 
insormontabile 
è 
garantire 
i 
diritti 
dell’interessato, 
disciplinati 
al 
capo 
III, 
negli 
artt. 
12-23 
del 
Regolamento 
in 
oggetto. 


In 
particolar 
modo, 
la 
peculiarità 
intrinseca 
della 
blockchain 
della 
non 
modificabilità 
e 
cancellazione 
risulta 
essere 
in 
forte 
contrasto 
con 
il 
più 
noto 
(per 
il 
clamore 
datogli 
post 
gDPR) 
“diritto 
all’oblio” 
sancito 
nell’art. 
17 
del 
gDPR. 


Secondo 
lo 
studio 
condotto 
dalla 
“Queen 
Mary 
University” 
di 
Londra, 
sarebbe 
ipotizzabile 
una 
blockchain compliance 
al 
gDPR mediante 
la 
crittografia 
dei 
dati 
personali 
e 
la 
successiva 
eliminazione 
delle 
corrispettive 
chiavi 
decrittografiche, lasciando su blockchain 
solo i 
dati 
indecifrabili 
o mediante 
l’uso dei cosiddetti modelli di memoria “fuori catena” (300). 


Come 
sostiene 
N. 
Boldrini 
(301), 
infatti, 
le 
tecnologie 
Blockchain 
stanno 
rompendo molti 
schemi, soprattutto quelle 
di 
natura 
pubblica 
su cui 
si 
basa 
la 
circolazione 
delle 
criptovalute 
bitcoin 
ed ethereum, ed introducono nuovi 
paradigmi 
compresi 
quelli 
di 
natura 
legale. In quest’ottica, diventa 
interessante 
capire 
il 
binomio Blockchain 
e 
gDPR, ossia 
come 
la 
Blockchain 
potrà 
sup


(297) R.D. CaRDENaS 
ESPINOSa 
e 
altri, “Ecosistemi 
tecnologici 
per 
la ricerca formativa nel 
contesto”, 
Ed. Sapienza, 2020. 
(298) W. NONNIS, “Blockchain, il suo contributo durante la pandemia”, cit. 
(299) 
a. 
BELLO, 
“Blockchain 
e 
privacy: 
soluzioni 
per 
la 
compliance 
alle 
norme”, 
cit.; 
M. 
IaSELLI, 
“Blockchain e privacy, bisogna lavorare ancora molto”, cit. 
(300) a. BELLO, “Blockchain e privacy: soluzioni per la compliance alle norme”, cit. 
(301) 
N. 
BOLDRINI, 
“Blockchain 
e 
GDPR: 
le 
sfide 
(e 
le 
opportunità) 
per 
la 
protezione 
dei 
dati”, 
cit. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


portare 
e 
rispettare 
le 
regole 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
introdotte 
dal 
gDPR. 


La 
tecnologia 
Blockchain 
consente 
transazioni 
tra 
le 
parti 
senza 
dover 
rivelare 
la 
propria 
identità 
direttamente. 
Tuttavia, 
ogni 
transazione 
che 
viene 
eseguita 
viene 
pubblicata 
e 
collegata 
a 
una 
chiave 
pubblica 
che 
rappresenta 
perciò 
uno 
pseudonimo 
di 
un 
determinato 
utente. 
Sebbene 
la 
chiave 
pubblica 
non 
contenga 
informazioni 
direttamente 
riconducibili 
all’utente, 
l’utilizzo 
della 
medesima 
chiave 
per 
diverse 
transazioni 
e 
l’incrocio 
con 
altre 
informazioni 
potrebbero 
consentire 
di 
individuare 
gli 
autori 
di 
una 
determinata 
transazione. 


Ne 
consegue 
che 
la 
chiave 
pubblica, 
se 
associata 
a 
una 
persona, 
potrà 
eventualmente 
essere 
qualificata 
come 
dato 
personale 
ai 
fini 
della 
legislazione 
europea 
sulla 
protezione 
dei 
dati. Infatti, quando la 
chiave 
pubblica 
è 
ricondotta 
a 
un soggetto identificato, è 
possibile 
ottenere 
informazioni 
su tutte 
le 
transazioni 
che 
il 
soggetto ha 
compiuto sulla 
blockchain. Di 
conseguenza, le 
norme 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
potrebbero 
essere 
applicabili 
ad 
almeno 
alcuni 
dei dati coinvolti nelle soluzioni 
Blockchain 
(302). 


Qualora 
si 
intenda 
utilizzare 
la 
blockchain 
come 
storage 
(303) di 
tutti 
i 
dati 
degli 
utenti, anziché, per esempio, creare 
una 
linea 
privata 
dove 
immagazzinare 
(c.d. 
storare) 
i 
dati 
sensibili 
accoppiandola 
ad 
una 
blockchain 
da 
usare in formato “notarile” è importante sapere che: 


-i 
dati 
archiviati 
in 
una 
blockchain 
sono 
a 
prova 
di 
manomissione: 
questo 
si 
traduce 
in 
un’impossibilità 
pura 
(derivante 
da 
codifica 
della 
blockchain) 
di 
cancellazione 
dei 
dati, 
una 
volta 
che 
essi 
verranno 
immessi 
nella 
catena 
distribuita; 


-le 
Blockchain 
sono 
distribuite, 
quindi 
nemmeno 
il 
controllo 
sui 
dati 
può 
essere 
centralizzato 
ed 
è 
demandato 
a 
tutti 
i 
partecipanti 
alla 
blockchain 
(304); 


-gli 
Smart 
Contract 
(contratti 
intelligenti) 
(305) 
sono 
creati 
per 
essere 
automatizzati 
sotto 
il 
profilo 
decisionale: 
questo 
può 
aprire 
quindi 
criticità 
comprensibilmente 
non 
banali 
sul 
fronte, 
per 
esempio, 
di 
casi 
di 
impugnazioni 
e contestazioni. 


In 
linea 
generale, 
ciò 
che 
si 
pone 
in 
contrasto 
con 
il 
gDPR, 
in 
questo 
caso, sono due 
dei 
principi 
che 
fino ad oggi 
hanno costituito il 
cardine 
su cui 
si sono affermati il valore ed il potere della 
Blockchain 
(306), ossia: 


(302) V. PORTaLE, “Quanto è 
legale 
la Blockchain? La compatibilità tra Blockchain e 
normativa 
GDPR”, cit. 
(303) Supporto di memorizzazione dei dati. 
(304) 
al 
più 
ai 
miners, 
che 
comunque 
non 
possono 
essere 
considerati 
dei 
Data 
Protection 
Officer 
come richiesto da gDPR. 
(305) 
Vedi 
parere 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
26 
novembre 
2020, 
n. 
1940 
sullo 
Schema 
di 
regolamento 
recante le modalità di digitalizzazione delle procedure dei contratti pubblici (c.d. e-procurement). 
(306) 
a. 
gaMBINO, 
C. 
BOMPREzzI, 
“Blockchain 
e 
titolare 
del 
trattamento 
dei 
dati 
personali: 
il 
nodo rimane irrisolto”, cit. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


-i 
dati 
inseriti 
nelle 
blockchain 
sono pubblici 
ed accessibili 
da 
chiunque 
partecipi alla catena; 
- i dati presenti nelle 
blockchain 
sono conservati illimitatamente (307). 
Viceversa, 
se 
volessimo 
riassumere 
in 
breve 
ciò 
che 
caratterizza 
il 
gDPR 
potremmo 
utilizzare 
tre 
parole 
chiave: 
centralizzazione, 
limitazione 
e 
rimovibilità 
(cancellazione), 
termini 
che 
ovviamente, 
anche 
solo 
ad 
una 
prima 
lettura, 
si 
pongono 
in 
netto 
contrasto 
con 
i 
fondamenti 
che, 
al 
contrario, 
costituiscono 
la 
base 
della 
blockchain, 
ossia 
decentralizzazione, 
distribuzione 
ed 
immutabilità. 


Come 
noto, 
il 
gDPR 
conferisce 
ai 
residenti 
nel 
territorio 
europeo 
una 
serie 
di 
diritti 
esecutivi 
in 
relazione 
al 
trattamento 
dei 
propri 
dati 
personali, 
i 
quali 
risultano 
comprensibili 
nel 
contesto 
di 
un 
database 
centralizzato 
controllato 
da 
un 
singolo 
controller 
di 
dati 
con 
un 
insieme 
finito 
di 
processori 
(308). 


Se 
partiamo dall’assunto che, in generale, le 
Blockchain 
si 
concentrano 
principalmente 
sulla 
protezione 
dell’identità 
più che 
sui 
dati 
ad essa 
associati, 
il 
parallelismo con la 
“Carta 
dei 
diritti 
digitali” 
delle 
persone 
appare 
evidente, 
dato che 
il 
gDPR nasce 
come 
volontà 
di 
restituire 
alle 
persone 
(309) il 
“potere” 
sui propri dati personali. 


In 
linea 
di 
principio, 
attraverso 
la 
Blockchain 
un 
utente 
è 
sempre 
in 
grado 
di 
controllare 
i 
propri 
dati 
personali, 
anzi, 
è 
l’unico 
a 
sapere 
a 
che 
informazioni 
corrisponde la propria chiave pubblica. 


Nonostante 
le 
sfide 
legate 
principalmente 
a 
immutabilità 
e 
replicazione 
siano 
indubbiamente 
delicate 
e 
sarà 
necessario 
attendere 
le 
interpretazioni 
del 
legislatore 
europeo per avere 
un quadro di 
diritto completo, ad oggi 
ci 
sono 
delle 
possibili 
“vie” 
di 
prevenzione 
(310), ossia 
di 
applicabilità 
della 
blockchain 
in conformità a quanto stabilito dal gDPR. 


Va, 
tuttavia, 
fatta 
un’ulteriore 
precisazione 
sulla 
sicurezza 
crittografica: 
«la 
crittografia 
non 
libera 
persone 
ed 
aziende 
dalle 
proprie 
responsabilità 
sul 
controllo 
dei 
dati 
perché 
-per 
dirla 
senza 
mezzi 
termini 
-tutta 
la 
crittografia 
può 
essere 
violata», 
avverte 
Rutjes 
(311). 
«Questo 
vale 
anche 
per 
gli 
hash 
crittografici 
che, 
nell’interpretazione 
del 
gruppo 
di 
lavoro 
di 
esperti 
tecnici 
dell’Unione 
Europea, 
è 
da 
considerarsi 
come 
dato 
personale. 
A 
mio 
avviso 
che 
un 
hash 
sia 
una 
stringa 
di 
codice 
ben 
progettata 
è 
sufficientemente 
sicura 
e 
anonima 
dal 
mettere 
al 
riparo 
i 
dati 
personali 
di 
chi 
possiede 
le 
chiavi 
crittografiche; 
tuttavia, 
sarà 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
Europea 
a 
doversi 
pronunciare 
in 
merito». 


Per 
quanto 
riguarda 
i 
conflitti 
attorno 
alle 
caratteristiche 
uniche 
della 


(307) a garanzia e tutela dell’intero registro distribuito. 
(308) D. MaRCIaNO, g. CaPaCCIOLI, “La blockchain ed il 
problema del 
trattamento dei 
dati 
personali”, 
cit. 
(309) In una 
Blockchain 
diremmo quindi l’identità. 
(310) Come, ad esempio, la 
crittografia 
o i 
codici 
Qr, protocolli 
informatici 
che 
prevedano htpp 
cache control. 
(311) a. RuTJES, “Blockchain and GDPR: better safe than sorry”, 2018. 

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


blockchain, la 
soluzione 
è 
semplice, scrive 
Rutjes 
nel 
suo post: 
«memorizzare 
i 
dati 
personali 
al 
di 
fuori 
della 
blockchain, 
ad 
esempio 
in 
un 
database 
privato. 
In generale, è 
buona norma limitare 
la quantità di 
informazioni 
condivise 
nel 
libro 
mastro; 
ancora 
di 
più 
con 
informazioni 
personali 
o 
comunque 
sensibili». 


L’opportunità 
potenziale 
è 
l’abilitazione 
di 
un futuro in cui 
la 
fornitura 
di 
servizi 
pubblici 
sia 
più 
vicina 
alla 
persona 
e 
alle 
imprese, 
creando 
delle 
condizioni 
di maggior sviluppo e integrazione economica e sociale. 

I 
cosiddetti 
smart 
contract 
(312) 
si 
candidano 
quali 
strumenti 
adatti 
a 
portare 
miglioramenti 
sostanziali 
in 
termini 
di 
conformità, 
uniformità, 
standardizzazione 
ed implementazione della catena di responsabilità. 


Trattandosi 
di 
tecnologie 
ancora 
in 
fase 
di 
completamento 
del 
proprio 
ciclo 
di 
sviluppo, 
è 
fondamentale 
maturare 
degli 
elementi 
di 
valutazione 
delle 
diverse 
opzioni 
disponibili 
in quanto a 
paradigma 
di 
adozione, considerando 
gli specifici obiettivi dei relativi ambiti di applicazione. 


Temi 
quali 
privacy, sicurezza, solidità 
e 
scalabilità 
diventano ancor più 
centrali 
e 
strategici 
quando 
la 
loro 
contestualizzazione 
avviene 
in 
ambiti 
di 
investimento 
pubblico; 
è 
pertanto 
necessario 
comprendere 
come 
la 
tecnologia 
sia 
lo strumento di 
implementazione 
di 
un modello che 
porta 
un effetto di 
trasformazione 
con implicazioni etiche e sociali. 


In 
questa 
prospettiva 
va 
collocata 
l’iniziativa 
di 
creazione 
della 
European 
Blockchain 
Service 
Infrastructure 
(EBSI) 
(313), 
azione 
congiunta 
della 
Commissione 
europea 
e 
del 
partenariato 
europeo 
Blockchain 
(EBP) 
per 
fornire 
servizi 
pubblici 
transnazionali 
sicuri 
a 
livello 
dell’uE 
utilizzando 
le 
tecnologie 
blockchain. 


Periodi 
di 
difficoltà 
e 
di 
incertezza, 
come 
quelli 
che 
stiamo 
attraversando 
in 
questi 
mesi, 
possono 
essere 
trasformati 
in 
occasioni 
per 
introdurre 
degli 
elementi 
di 
discontinuità 
che 
si 
candidano 
quali 
fattori 
decisivi 
per 
una 
visione 
programmatica di ripresa e sviluppo (naturale appare un richiamo al PNRR). 


È 
necessario, 
quindi, 
affrontare 
resistenze 
culturali 
(e 
a 
volte 
ideologiche) 
che 
spesso ostacolano i 
processi 
di 
sviluppo per creare 
opportunità 
concrete 
di 
trasformazione 
attraverso 
delle 
progettualità 
di 
sistema 
volte 
a 
generare 
nuove prospettive di valore per cittadini e imprenditori (314). 

(312) 
Protocolli 
informatici 
che 
facilitano, 
verificano 
o 
fanno 
rispettare 
la 
negoziazione 
o 
l’esecuzione 
di 
un 
contratto, 
permettendo 
talvolta 
la 
parziale 
o 
la 
totale 
esclusione 
di 
una 
clausola 
contrattuale. 
gli 
smart 
contract, 
di 
solito, 
hanno 
anche 
una 
interfaccia 
utente 
e 
spesso 
simulano 
la 
logica 
delle 
clausole 
contrattuali. 
(313) alla 
base 
dell’avvio del 
progetto EBSI c’è 
l’European Blockchain Partnership (promossa 
nel 
2018), ossia 
un’iniziativa 
voluta 
dall’unione 
europea 
che 
punta 
a 
favorire 
la 
collaborazione 
tra 
gli 
Stati 
membri 
per lo scambio di 
esperienze 
e 
di 
expertise, sia 
sul 
piano tecnico sia 
su quello della 
regolamentazione. 
L’Italia 
è 
entrata 
a 
far parte 
del 
partenariato il 
27 settembre 
2018. Secondo gli 
obiettivi 
del 
partenariato, 
lo 
sviluppo 
dell’infrastruttura 
permetterà 
di 
condividere 
in 
maniera 
sicura 
informazioni 
come, 
ad 
esempio, 
dati 
doganali 
e 
fiscali 
dell’ue, 
documenti 
di 
audit 
di 
progetti 
finanziati, 
certificazioni 
transfrontaliere di diplomi e sulle qualifiche professionali e le identità digitali (eIDaS). 
(314) 
P. 
ghEzzI, 
“Blockchain, 
quali 
prospettive 
per 
le 
politiche 
pubbliche”, 
in 
www.blockchain4innovation.
it, 14 aprile 2021. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


Di 
recente, il 
Ministro per la 
transizione 
digitale 
ha 
annunciato che 
entro 
fine 
gennaio verrà 
emanato il 
bando di 
gara 
per il 
Piano Strategico Nazionale 
relativo alla realizzazione della rete unica digitale. 

La 
centrale 
di 
committenza 
per 
l’espletamento 
delle 
gare 
sarà 
Difesa 
Servizi, 
società 
in house 
del 
Ministero della 
Difesa, specializzata 
in acquisti 
ad 
altro contenuto tecnologico. 

Ciò 
è 
emerso 
durante 
un’audizione 
alla 
Camera 
nell’ambito 
di 
un’indagine 
conoscitiva 
sulla 
digitalizzazione 
e 
interoperabilità 
delle 
banche 
dati 
fiscali, 
durante 
la 
quale 
il 
Ministro 
competente 
ha 
aggiunto 
che 
«entro 
la 
fine 
del 
2022 
prevediamo 
il 
collaudo 
della 
infrastruttura, 
mentre 
tra 
la 
fine 
del 
2022 
e 
il 
2025, 
prevediamo 
di 
completare 
la 
migrazione 
dei 
dati 
della 
p.a.» 
(315). 


Per 
garantire 
continuità 
in 
questo 
periodo, 
il 
Ministro 
ha 
chiarito 
che 
Sogei, società 
in house 
controllata 
al 
100% dal 
MEF, potrà 
continuare 
ad erogare 
i 
servizi 
cloud 
che 
già 
eroga 
a 
diverse 
amministrazioni 
sulla 
base 
delle 
convenzioni 
in 
essere. 
anche 
l’agenzia 
Nazionale 
per 
la 
Cybersicurezza 
potrà 
avvalersi 
di 
Sogei 
per 
realizzare 
e 
gestire 
i 
propri 
sistemi 
informativi 
nelle 
more di realizzazione del piano. 

È 
opportuno che 
la 
gestione 
di 
tali 
processi 
di 
digitalizzazione 
resti 
nella 
“mano pubblica” 
e 
che 
vengano individuati 
i 
centri 
di 
imputazione 
delle 
responsabilità 
nell’attività di trattamento dei dati. 

È 
importante, altresì, che 
al 
centro di 
tale 
evoluzione 
digitale 
resti 
“il 
valore 
dell’uomo”, inteso sempre come fine, e mai come mezzo. 

a 
tal 
riguardo, 
è 
opportuno 
ricordare 
che 
il 
termine 
“robot” 
deriva 
etimologicamente 
dalla lingua serba e significa “lavoro forzato”. 

Viene 
in 
mente 
la 
“Fenomenologia 
dello 
Spirito” 
di 
hegel, 
nella 
dinamica 
servo-padrone: l’algoritmo è il nuovo padrone delle nostre vite. 


Se 
è 
vero che 
le 
“parole 
sono azioni”, come 
affermava 
Ludwig Wittgenstein, 
nel 
suo 
“Tractatus 
logico-philosophicus” 
del 
1921, 
il 
linguaggio 
diventa 
strumento dinamico -e 
non statico -di 
descrizione 
dell’evoluzione 
culturale 
di 
una 
società. I termini 
che 
si 
utilizzano costituiscono l’espressione 
concreta 
di 
un’astrazione 
concettuale 
che 
si 
traduce 
nell’implicita 
accettazione 
di 
un 
comune sentire sociale e culturale. 

Non è 
un caso che 
John Langslaw 
austin, altro grande 
filosofo del 
Novecento, 
indicasse 
con il 
termine 
“speech act” 
il 
dinamismo descrittivo delle 
parole che innesta processi sociali e culturali in continuo divenire. 

(315) La 
memoria 
del 
Ministro Vittorio Colao del 
24 novembre 
2021 è 
reperibile 
al 
seguente 
link 
https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/ 
000/006/683/Memoria_Ministro_Colao_prot.pdf; 
Per gli 
atti 
dell’indagine 
conoscitiva 
si 
rinvia 
al 
sito 
della 
Camera 
https://www.camera.it/leg18/1101?idLegislatura=18&idCommissione=&tipoElenco=indaginiConoscitiveCronologico&
annoMese=&breve=c31_banche_dati&calendario=false&soloSten=fa 
lse&foglia=true&shadow_organo_parlamentare=3074. 



RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
DELLO 
STaTO -N. 4/2021 


In questo senso, utilizzare 
nel 
linguaggio comune, sempre 
più frequentemente, 
termini 
come 
“decisioni 
robotizzate”, nel 
campo del 
diritto, della 
medicina 
e 
delle 
altre 
applicazioni, in ogni 
aspetto della 
nostra 
vita 
quotidiana, 
accende 
un alert, il 
campanello di 
allarme 
di 
elevata 
intensità 
sul 
graduale 
assoggettamento 
dell’uomo alla macchina. 


Come 
spiega 
l’autrice 
Kate 
Crawford nel 
suo ultimo libro (316), la 
tecnologia 
sta 
diventando sempre 
più promiscua: 
l’intelligenza 
artificiale 
non è 
solo 
un’invenzione 
di 
supporto 
di 
cui 
usufruire, 
ma 
è 
una 
vera 
e 
propria 
«idea, 
un’infrastruttura, un’industria, una forma di 
esercizio del 
potere 
e 
un modo 
di 
vedere 
le 
cose 
… 
un attore 
nella formazione 
della conoscenza, nella comunicazione 
e 
nel 
potere». 
I 
computer, 
le 
macchine, 
i 
robot, 
gli 
algoritmi 
non 
sono 
solo 
concetti 
astratti, 
bensì 
vere 
e 
proprie 
«infrastrutture 
fisiche 
che 
stanno rimodellando la Terra, modificando contemporaneamente 
il 
modo in 
cui vediamo e comprendiamo il mondo». 


Si 
tratta 
di 
una 
rivoluzione 
nel 
modo di 
concepire 
il 
mondo intorno a 
noi, 
e 
il 
nostro 
compito 
allora 
diventa 
quello 
di 
“rimanere 
con 
i 
piedi 
per 
terra” 
per 
osservare, 
studiare 
e 
comprendere 
le 
riconfigurazioni 
che 
si 
stanno 
verificando 
«a 
livello 
di 
epistemologia, 
principi 
di 
giustizia, 
organizzazione 
sociale, 
espressione 
politica, 
cultura, 
concezione 
del 
corpo 
umano, 
soggettività 
e 
identità: 
cosa siamo e cosa possiamo essere». 

Bisogna 
comprendere 
che 
l’intelligenza 
artificiale 
è 
politica 
condotta 
con 
altri 
mezzi; 
è 
arrivato 
il 
momento 
di 
confrontarci 
con 
l’Ia 
come 
forza 
politica, 
economica, culturale e scientifica. 


Come 
osservato 
da 
alondra 
Nelson, 
Thuy 
Linh 
Tu 
e 
alicia 
headlam 
hines, 
«le 
controversie 
in 
campo 
tecnologico 
sono 
sempre 
collegate 
a 
lotte 
più ampie 
per 
la mobilità economica, a questioni 
politiche 
e 
alla costruzione 
di 
comunità» (317) e 
come 
scrive 
ursula 
Franklin, «la fattibilità della tecnologia, 
come 
la democrazia, dipende 
alla fin fine 
dalla pratica della giustizia 
e dall’imposizione di limiti al potere» (318). 


La 
tutela 
della 
democrazia 
è 
basata 
sulla 
conoscenza, 
intesa 
come 
episteme 
e 
non come 
doxa, come 
opinione 
volatile, volendo usare 
termini 
del-
l’antica 
grecia: 
la 
conoscenza 
si 
nutre 
di 
concetti, 
dal 
latino 
“cumcapio”, 
prendere 
insieme 
elementi 
della 
realtà 
per giungere 
al 
conceptus, al 
pensiero 
critico concepito e ragionato. 


Il 
giurista 
deve 
allora 
concepire 
il 
pensiero critico, osservando la 
realtà 
digitale 
con intelligenza 
(dal 
latino “intuslegis” 
leggere 
dentro le 
cose), saper 


(316) 
K. 
CRaWFORD, 
“Né 
intelligente 
né 
artificiale. 
Il 
lato 
oscuro 
dell’IA”, 
il 
Mulino, 
2021. 
L’autrice 
ci 
spinge 
a 
riflettere, 
bisogna 
porsi 
le 
seguenti 
domande: 
“cos’è 
l’IA?”, 
“quali 
forme 
di 
politica 
propaga?” 
“quali 
interessi 
promuove 
e 
chi 
rischia 
il 
maggiore 
danno?”e“dove 
dovremmo 
limitare 
l’uso 
dell’IA?”. 
(317) 
a. 
NELSON, 
T.L. 
NguYEN 
Tu 
e 
a. 
hEaDLaM 
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“Technicolor. 
Race, 
Technology, 
and 
Everyday Life”, 2001. 
(318) u.M. FRaNKLIN, “The Real World of Technology”, 1999. 

LEgISLazIONE 
ED 
aTTuaLITà 


cogliere 
la 
complessità, le 
straordinarie 
opportunità, ma 
anche 
i 
pericoli 
del-
l’intelligenza 
artificiale 
che 
sta 
invadendo 
le 
nostre 
vite, 
indicando 
le 
linee 
evolutive 
di 
un’equilibrata 
e 
lungimirante 
regolamentazione 
che 
sia 
capace 
di 
coniugare il progresso tecnologico con il concetto di “humanitas”. 

È questa la grande sfida che dovrà affrontare nel prossimo futuro. 


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sequestro 
preventivo: 
un 
nuovo 
caso 
di 
“scivo

RaSSEgNa 
aVVOCaTuRa 
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CONTRIBUTIDIDOTTRINA
Domanda riconvenzionale impropria 
e domanda trasversale: un possibile distinguo? 

Adolfo Mutarelli* 


Sommario: 
1. 
ammissibilità 
della 
domanda 
tra 
coevocati 
-2. 
La 
domanda 
tra 
coevocati: 
natura ed effetti - 3. modalità e termini di proposizione. 


1. ammissibilità della domanda tra coevocati. 
A 
poco meno di 
un anno la 
Suprema 
Corte 
(1), ribaltando un suo recente 
decisum 
(2), ha 
statuito che 
il 
convenuto che 
intenda 
formulare 
una 
domanda 
nei 
confronti 
di 
altro 
convenuto 
non 
ha 
l’onere 
di 
richiedere 
il 
differimento 
dell’udienza 
ai 
sensi 
dell’art. 
269 
c.p.c. 
ma 
è 
sufficiente 
che 
formuli 
la 
suddetta 
domanda 
nei 
termini 
e 
nelle 
forme 
stabiliti 
per la 
domanda 
riconvenzionale 
dall’art. 167, secondo comma, c.p.c. Ciò in quanto deve 
qualificarsi 
come 
riconvenzionale 
la 
domanda 
che 
il 
convenuto formula 
nei 
confronti 
dell’attore, 
quella 
che 
il 
convenuto 
formula 
nei 
confronti 
di 
altro 
convenuto 
che 
è 
già 
parte 
del 
processo e 
quella 
che 
il 
chiamato in causa 
formula 
nei 
confronti 
del 
chiamante 
ovvero di altri convenuti facenti parte del processo. 


Nel 
silenzio del 
codice 
di 
rito, che 
non offre 
una 
nozione 
di 
domanda 
riconvenzionale, 
la 
dottrina 
e 
la 
giurisprudenza 
ne 
hanno nel 
tempo elaborato i 
tratti 
connotativi 
nella 
provenienza 
soggettiva 
dal 
convenuto il 
cui 
contegno 


(*) Già 
Avvocato dello Stato. 


(1) Cass., ord., 23 marzo 2022, n. 9441. 
(2) Cass., 12 maggio 2021, n. 12662 secondo cui, a 
differenza 
di 
quanto sostenuto da 
Cass. 12 
aprile 
2011, 8315, non è 
necessario distinguere 
il 
caso in cui 
il 
titolo della 
domanda 
trasversale 
sia 
il 
medesimo o sia 
diverso rispetto a 
quello su cui 
si 
basa 
la 
domanda 
dell’attore 
dovendosi 
sempre 
nella 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta 
chiedere 
il 
differimento 
dell’udienza 
per 
la 
chiamata 
del 
coevocato/terzo. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


processuale 
non si 
limita 
ad invocare 
il 
rigetto della 
domanda 
di 
parte 
attrice 
chiedendo che 
il 
giudice, con accertamento idoneo a 
giudicato, prenda 
cognizione 
del 
diritto opposto alla 
domanda 
principale 
seppur ad essa 
collegato sul 
piano obiettivo (3). 

Nella 
riferita 
prospettiva 
rientra, pertanto, nella 
nozione 
di 
domanda 
riconvenzionale 
anche 
quella 
proposta 
dall’attore 
(art. 
183, 
4° 
comma 
c.p.c.) 
quale 
conseguenza 
delle 
domande 
riconvenzionali 
ed eccezioni 
proposte 
dal 
convenuto (reconventio reconventionis) (4). 

in 
tale 
contesto 
si 
innesta 
la 
problematica 
dell’ammissibilità 
della 
domanda 
(c.d. 
trasversale 
o 
riconvenzionale 
impropria) 
nei 
confronti 
di 
altro 
coevocato 
in 
giudizio 
e 
in 
particolare, 
ove 
ritenuta 
ammissibile, 
in 
ordine 
alle 
modalità di proposizione. 


il 
problema 
è 
sorto in quanto mentre 
il 
codice 
di 
rito, nel 
suo impianto 
originario, non concede 
appigli 
per consentire 
di 
qualificare 
come 
domanda 
riconvenzionale 
(solo) 
quella 
svolta 
dal 
convenuto 
nei 
confronti 
dell’attore 


(5) (artt. 36, 167, 2° 
comma, e 
292 c.p.c.) gli 
interventi 
successivi 
sembrano 
militare proprio nel senso restrittivo sopra delineato. 
Così 
l’art. 418 c.p.c., introdotto con l. 11 agosto 1973, n. 533 per il 
processo 
del 
lavoro, secondo cui 
“il 
convenuto che 
abbia proposta una domanda 
in 
via 
riconvenzionale 
a 
norma 
del 
secondo 
comma 
dell'articolo 
416 
deve, 
con istanza contenuta nella stessa memoria, a pena di 
decadenza dalla riconvenzionale 
medesima, chiedere 
al 
giudice 
che, a modifica del 
decreto di 
cui 


(3) La 
distinzione 
tra 
domanda 
ed eccezione 
riconvenzionale 
non dipende 
dal 
titolo posto a 
base 
della 
difesa 
del 
convenuto, e 
cioè 
dal 
fatto o dal 
rapporto giuridico invocato a 
suo fondamento, ma 
dal 
relativo oggetto, vale 
a 
dire 
dal 
risultato processuale 
che 
lo stesso intende 
con essa 
ottenere, che 
è 
limitato, 
nel 
secondo caso, al 
rigetto della 
domanda 
proposta 
dall'attore. 
L'eccezione 
riconvenzionale 
consiste, 
a 
differenza 
della 
domanda 
riconvenzionale, in una 
prospettazione 
difensiva 
che, pur ampliando 
il 
tema 
della 
controversia 
è 
finalizzata 
esclusivamente 
alla 
reiezione 
della 
domanda 
attrice, attraverso 
l'opposizione 
al 
diritto fatto valere 
dall'attore 
di 
un altro diritto idoneo a 
paralizzarlo (Cass., 16 marzo 
2021, n. 7292; 
in dottrina 
M. DiNi, La domanda riconvenzionale 
nel 
diritto processuale 
civile, Milano, 
1978, 203 e 
passim). 
(4) Così 
M. CoMAStri, Commentario del 
codice 
di 
procedura civile, diretto da 
L.P. CoMoGLio, 
C. CoNSoLo, B. SASSANi 
e 
r. VACCAreLLA, torino, Vol. i, p. 487. 
(5) Per una 
ricostruzione 
storica 
della 
ammissibilità 
della 
domanda 
riconvenzionale 
da 
parte 
del 
convenuto è 
agevole 
il 
rinvio a 
i. Di 
CioMMo, anche 
la riconvenzionale 
tra convenuti 
va soggetta ad 
autorizzazione 
del 
giudice, in Dir. Proc. Civ. it. comp., 2021, p. 319 secondo cui 
“Nel 
diritto romano 
classico l’esistenza della riconvenzionale 
era dibattuta, almeno fino all’avvento della Nov. 96, con cui 
Giustiniano prescrisse 
l’obbligo per 
il 
convenuto di 
far 
valere 
ogni 
pretesa contro l’attore 
nello stesso 
giudizio, in tal 
modo evitando superflui 
dispendi 
per 
l’amministrazione 
della giustizia. Nel 
diritto intermedio 
e 
nel 
diritto canonico, la riconvenzionale 
era ammessa solo se 
relativa a causa connessa con 
quella originariamente 
introdotta dall’attore. Volgendo lo sguardo oltralpe, la legislazione 
statutaria 
francese 
vietava 
la 
riconvenzione 
fino 
alla 
Coutume 
de 
Paris 
del 
1580. 
anche 
il 
code 
de 
procedure 
civile 
del 
1806 conteneva appena tre 
riferimenti 
indiretti 
alla riconvenzionale, senza offrirne 
una specifica 
regolamentazione. Solo con le 
leggi 
del 
1838 viene 
formalmente 
disciplinata la “domande 
incidentale”, 
poi recepita anche dal nuovo code de procedure civile”. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


al 
secondo 
comma 
dell'articolo 
415, 
pronunci, 
non 
oltre 
cinque 
giorni, 
un 
nuovo decreto per la fissazione dell'udienza”. 

ed ancora 
l’art. 183, 4° 
comma 
c.p.c 
di 
cui 
alla 
(sempre 
meno) novella 


L. 26 novembre 
1990, n. 353 (6) a 
mente 
del 
quale 
“Nella stessa udienza l'attore 
può proporre 
le 
domande 
e 
le 
eccezioni 
che 
sono conseguenza della domanda 
riconvenzionale 
o delle 
eccezioni 
proposte 
dal 
convenuto. Può altresì 
chiedere 
di 
essere 
autorizzato a chiamare 
un terzo ai 
sensi 
degli 
articoli 
106 
e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto”. 
tuttavia, 
a 
ben 
riflettere, 
anche 
tali 
norme 
non 
possono 
essere 
interpretate 
nel 
senso di 
circoscrivere 
la 
nozione 
di 
riconvenzionale 
(solo) a 
quella 
proposta 
dal 
convenuto nei 
confronti 
dell’attore 
in quanto la 
loro ermeneusi 
va 
calata, 
per 
l’art. 
418 
c.p.c., 
nell’ambito 
delle 
esigenze 
specifiche 
del 
processo 
del 
lavoro 
in 
cui 
vi 
è 
ordinariamente 
contrapposizione 
tra 
due 
parti 
(7) 
ovvero, 
per l’art. 183, 4° 
comma 
c.p.c., nella 
fase 
processuale 
successiva 
al 
momento 
di 
dispiegamento 
delle 
domande 
tra 
le 
parti. 
Sicché 
costituirebbe 
forzatura 
ermeneutica 
quella 
di 
voler 
desumere 
(sol 
per 
questo) 
da 
tali 
norme 
l’esclusione 
dal 
novero 
della 
nozione 
di 
domanda 
c.d. 
riconvenzionale 
quella 
svolta 
dal 
convenuto nei confronti di altro coevocato in giudizio. 


Non 
sono 
pertanto 
rintracciabili 
sicuri 
indici 
normativi 
che 
circoscrivano 
la 
nozione 
di 
riconvenzionale 
alla 
sola 
domanda 
del 
convenuto 
nei 
confronti 
dell’attore, 
così 
come 
il 
codice 
di 
rito, 
non 
dedicando 
alcuna 
disciplina 
alla 
domanda 
del 
convenuto 
nei 
confronti 
del 
coevocato 
in 
giudizio, 
non 
può 
ritenersi 
ne 
escluda 
l’ammissibilità. 
il 
problema 
è, 
quindi, 
stabilire 
quale 
sia 
la 
disciplina 
applicabile. 


Va 
dato 
atto 
alla 
giurisprudenza 
di 
aver 
per 
prima 
ammesso 
e 
poi 
plasmato 
nel 
tempo 
(e 
nel 
silenzio 
del 
diritto 
positivo) 
i 
presupposti 
e 
la 
modalità 
di 
proposizione 
della 
domanda 
nei 
confronti 
del 
convenuto contro altro coevocato, 
facendo prevalere 
esigenze 
sostanzial-sistematiche 
in quanto “sarebbe 
rigido 
e 
vacuo 
formalismo 
negare 
a 
chi 
è 
chiamato 
in 
un 
giudizio 
la 
possibilità 
di 
far 
valere 
in quella medesima sede 
il 
diritto di 
cui 
è 
titolare 
e 
che 
avrebbe 
potuto sicuramente 
tutelare 
mediante 
l’intervento sol 
perché, maliziosamente 


o meno, gli è stata attribuita altra veste processuale” (8). 
in 
tal 
senso 
la 
giurisprudenza 
successiva 
e 
la 
dottrina 
che, 
in 
analoga 
prospettiva, 
ha 
opportunamente 
osservato 
che 
se 
al 
convenuto 
è 
dato 
ampliare 
l’oggetto 
del 
giudizio 
chiamando 
in 
causa 
un 
terzo 
non 
può 
poi 
essergli 
negato 


(6) B. SASSANi, 
il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Judicium.it. 
(7) M. GerArDo 
-A. MutAreLLi, il 
processo nelle 
controversie 
di 
lavoro pubblico, Giuffrè, Milano, 
2012, p. 10 e 
passim. 
(8) 
testualmente 
da: 
Cass. 
4 
gennaio 
1969, 
n. 
9, 
in 
Giur. 
it., 
1970, 
i, 
c. 
810, 
con 
nota 
di 
G. 
tArziA, 
Sulla 
proposizione 
delle 
domande 
tra 
litisconsorti. 
in 
tal 
senso 
anche 
Cass., 
26 
marzo 
1971, 
n. 
894; 
Cass., 29 aprile 1980, n. 2848; Cass., 15 giugno 1991, n. 6800. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


il 
potere 
di 
proporre 
una 
domanda 
nei 
suoi 
confronti 
solo perché 
il 
terzo è 
già 
convenuto in lite (9). 

L’esistenza 
di 
un 
contraddittorio 
già 
così 
dispiegato 
dovrebbe 
infatti 
agevolare 
il 
riconoscimento 
di 
tale 
facoltà 
se 
non 
altro 
per 
il 
rispetto 
di 
palesi 
esigenze 
di 
concentrazione, 
celerità 
ed 
economicità 
del 
processo 
che, 
tuttavia 
devono 
pur 
sempre 
essere 
declinate 
e 
contemperate 
con 
il 
diritto 
di 
difesa 
del 
coevocato 
destinatario 
della 
domanda 
del 
litisconsorte. 


2. La domanda tra coevocati: natura e effetti. 
Dall’ammissibilità 
della 
domanda 
nei 
confronti 
del 
coevocato consegue 
che 
la 
nozione 
di 
“riconvenzionale” 
andrebbe 
ridisegnata 
in 
senso 
ampliativo, 
ritenendo 
cioè 
tale 
ogni 
domanda 
proposta 
tra 
parti 
già 
evocate 
in 
giudizio. 
Mentre 
la 
riconvenzionale 
proposta 
dal 
convenuto nei 
confronti 
dell’attore 
richiede 
che 
tra 
le 
contrapposte 
pretese 
sia 
configurabile 
(art. 36 c.p.c.) un collegamento 
obiettivo 
tale 
da 
rendere 
opportuna 
la 
celebrazione 
del 
simultaneus 
processus 
a 
fini 
di 
economia 
processuale 
ed in applicazione 
del 
principio del 
giusto processo di 
cui 
all'art. 111, 1° 
co., Cost. (10) (ricomprendendo in tale 
ambito l’ammissibilità 
anche 
della 
c.d. riconvenzionale 
non connessa) (11), e 
la 
reconventio reconventionis, la 
connessione 
nei 
limiti 
in cui 
la 
sua 
proposizione 
sia 
giustificata 
dalle 
difese 
del 
convenuto (12), resta 
dubbio se 
qualsiasi 
domanda 
tra 
coevocati, possa 
qualificarsi 
sempre 
riconvenzionale 
o solo allorchè, 
come 
si 
ritiene 
preferibile, 
se 
fondata 
su 
medesimo 
titolo 
della 
domanda 
dell’attore principale. 


Senza 
negare 
lo 
iato 
concettuale 
tra 
domanda 
riconvenzionale 
in 
senso 
proprio 
(13) 
e 
domande 
tra 
litisconsorti, 
c’è 
da 
indagare 
se 
la 
domanda 
nei 
confronti 
del 
coevocato 
debba 
(sempre) 
parificarsi 
tout-court 
e 
quoad 
effectum 
alla 
domanda 
riconvenzionale 
(che 
definiremo, 
per 
comodità, 
riconvenzionale 
impropria) tra 
attore 
e 
convenuto nei 
suoi 
presupposti, nei 
termini 
e 
nelle 
modalità 
di 
proposizione 
(art. 36 c.p.c.) o se 
da 
tale 
ambito debbano enuclearsi 
le 
domande 
tra 
litisconsorti 
(che 
definiremo per comodità, trasversali) fondate 


(9) e. VuLLo, La domanda proposta dal 
convenuto contro l’altro: condizioni 
di 
ammissibilità, 
termini e forme, in Giur. it., 2002, p. 1779. 
(10) Cass., 24 gennaio 2018, n. 1752. 


(11) Così: 
Cass. ord., 15 gennaio 2020, n. 533. in dottrina, in senso positivo: 
CArNeLutti, istituzioni 
di 
diritto 
processuale 
civile, 
i, 
roma, 
1950, 
256; 
NAPPi, 
Commentario 
al 
codice 
di 
procedura 
civile, 
i, 
Milano, 
1943, 
124; 
FrANChi, 
Delle 
modificazioni 
della 
competenza 
per 
ragione 
di 
connessione, 
in 
Comm. 
c.p.c. 
ALLorio, 
i, 
torino, 
1973, 
352; 
LuiSo, 
Diritto 
processuale 
civile, 
i, 
7a 
ed., 
Milano, 
2013, 
26865. in senso negativo: 
SAttA, Diritto processuale 
civile, Padova, 1973, 39; 
ANDrioLi, Commento al 
codice 
di 
procedura 
civile, 
i, 
Napoli, 
1957, 
125; 
zANzuCChi, 
Diritto 
processuale 
civile, 
i, 
Milano, 
1975, 
197; GioNFriDA, La competenza nel nuovo codice di procedura civile, Palermo, 1942, 363. 
(12) Cass., 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro it., i, c. 1037. 
(13) Cfr. A. roNCo, appunti 
sulla domanda di 
un convenuto contro l’altro, in Giur. it., 1999, pp. 
2290 e ss. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


su diverso titolo e 
alle 
quali 
applicare 
il 
meccanismo che 
il 
codice 
di 
rito prevede 
per 
la 
vocatio 
del 
terzo 
estraneo 
per 
il 
quale 
(artt. 
167 
e 
269 
c.p.c.) 
si 
rende 
necessaria 
la 
chiamata 
in 
causa 
a 
tutela 
dell’integrità 
del 
diritto 
di 
difesa 
e di reazione processuale (artt. 3 e 24 Cost.). 

Nella 
prima 
pronuncia 
(14) successiva 
alla 
novella 
del 
1990 viene 
pressoché 
dato per scontato che 
ogni 
domanda 
proposta 
nei 
confronti 
di 
altro convenuto 
sia 
parificabile 
tout-court 
alla 
domanda 
riconvenzionale. 
Ciò 
nell’avvertita 
esigenza, 
ritenuta 
prevalente, 
di 
agevolare 
il 
simultaneus 
processus 
nel dichiarato fine di privilegiarne celerità e concentrazione. 

in 
tal 
senso 
anche 
la 
prevalente 
giurisprudenza 
successiva 
(15) 
che 
ha 
posto l’accento sul 
rilievo che, diversamente 
opinando, dovrebbe 
autorizzarsi 
la 
chiamata 
in causa 
(art. 269 c.p.c.) di 
un terzo già 
evocato in giudizio cui 
è 
già 
noto il 
thema decidendum 
con differimento dell’udienza. e 
tutto ciò al 
limitato 
fine 
di 
far acquisire 
per tal 
via 
(al 
già 
evocato) la 
qualità 
di 
parte 
nei 
confronti della domanda del coevocato in giudizio. 

in 
analoga 
prospettiva 
anche 
l’ordinanza 
23 
marzo 
2022, 
n. 
9441 
secondo 
cui 
“la domanda proposta da un convenuto nei 
confronti 
di 
altro convenuto 
non esige 
le 
forme 
per 
la chiamata del 
terzo” 
e, comunque, “non è 
necessario 
che 
la riconvenzionale 
“trasversale” 
sia fondata sui 
medesimi 
fatti 
posti 
dal-
l’attore 
principale 
a fondamento della sua domanda” 
(16). tale 
pronuncia, in 
ragione 
di 
esigenze 
di 
semplificazione 
delle 
forme, parifica 
la 
disciplina 
della 
domanda 
tra 
litisconsorti 
alla 
ricovenzionale 
in senso proprio senza 
offrire 
alcuna 
proposta ricostruttiva (17). 

orbene 
è 
evidente 
che 
il 
coevocato dinanzi 
a 
una 
domanda 
non fondata 
su 
un 
legame 
oggettivo 
facente 
già 
parte 
del 
processo 
(si 
pensi 
a 
una 
domanda 
fondata 
su titolo diverso da 
quello posto a 
base 
del 
giudizio dall’attore, ad es. 
garanzia 
convenzionale) 
si 
trova 
nella 
medesima 
posizione 
di 
un 
terzo 
estraneo 
al 
giudizio senza, tuttavia, avere 
a 
disposizione 
i 
termini 
di 
costituzione 
ma 
solo 
la 
possibilità 
di 
replicare 
alla 
stessa 
nei 
termini 
di 
cui 
al 
5° 
comma 
dell’art. 
183 
c.p.c. 
(18). 
Non 
sussiste, 
peraltro, 
alcuna 
assorbente 
ragione 
che 
possa 
autorizzare 
la 
sottrazione 
(al 
destinatario 
della 
domanda 
del 
coevocato) 
dei 


(14) Cass., 12 novembre 1999, n. 12558. 


(15) Cass., 16 marzo 2017, n. 6846; Cass., 26 ottobre 2010, n. 25415. 
(16) in tal senso nella disciplina 
ante 
novella 1990: Cass., 29 aprile 1980, n. 2848. 
(17) Ex 
plurimis: 
Cass., 6 luglio 2001, n. 9210; 
Cass., 26 marzo 1971, n. 894; 
Cass., 27 settembre 
1999, n. 10605. 
(18) 
in 
tal 
senso 
Cass. 
16 
marzo 
2017, 
n. 
6846 
che 
ha 
ritenuto 
non 
tempestiva 
la 
contro-riconvenzionale 
proposta 
da 
convenuto 
a 
fronte 
di 
domanda 
di 
coevocato 
in 
sede 
di 
memoria 
ex 
art. 
183, 
Vi 
comma 
c.p.c. 
anzichè 
alle 
udienze 
di 
prima 
comparizione 
e 
trattazione 
(distinte 
al 
tempo 
della 
decisione). 
ed 
ancora 
Cass., 
26 
ottobre 
2017, 
n. 
25415 
in 
imm. 
e 
propr., 
2018, 
p. 
54 
che 
si 
segnala 
per 
aver, 
con 
riferimento 
al 
processo 
regolato 
dal 
“nuovo 
rito”, 
avallato 
l’indirizzo 
precedente 
che 
consentiva 
di 
proporre, 
con 
la 
comparsa 
di 
costituzione 
in 
giudizio, 
una 
domanda 
nei 
confronti 
di 
altro 
convenuto. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


termini 
a 
comparire 
nonché 
di 
godere 
dell’ordinario 
svolgimento 
del 
processo 
secondo la 
tempistica 
propria 
degli 
artt. 180 e 
183 c.p.c. il 
simultaneus 
processus 
non 
può 
realizzarsi 
con 
sacrificio 
del 
diritto 
di 
difesa 
in 
quanto 
solo 
quest’ultimo è principio costituzionale. 


Né 
appare 
significativo 
che 
il 
terzo 
sia 
già 
convenuto 
nel 
processo 
in 
quanto rimane 
pur sempre 
terzo rispetto ad una 
nuova 
domanda 
fondata 
su titolo 
diverso 
da 
quello 
posto 
a 
fondamento 
dall’attore 
della 
propria 
azione. 
esigenza 
di 
celerità 
e 
concentrazione 
del 
processo 
non 
possono 
sacrificare 
il 
diritto di 
difesa 
del 
destinatario di 
domanda 
da 
parte 
di 
altro litisconsorte 
fondata 
su titolo autonomo rispetto al 
thema decidendum 
del 
giudizio per l’evidente 
ragione 
che, 
da 
un 
lato, 
non 
vi 
è 
alcuna 
norma 
che 
lo 
preveda 
e, 
dall’altro, 
che 
il 
sistema 
processuale 
non 
sembra 
consentirlo 
né, 
infine, 
appare 
costituzionalmente tollerabile. 

A 
prescindere 
dal 
dato 
testuale 
che 
l’art. 
183, 
5° 
comma 
c.p.c. 
(“... 
l’attore 
nella 
stessa 
udienza 
può 
proporre 
[…] 
che 
sono 
conseguenza 
della 
riconvenzionale 
proposta 
dal 
convenuto”) 
contiene 
significativamente 
i 
termini 
di 
“attore”
e“riconvenzionale” 
evocando 
le 
rispettive 
nozioni 
e, 
per 
quanto 
concerne 
la 
riconvenzionale 
(art. 
36 
c.p.c.), 
i 
limiti 
di 
ammissibilità 
(ancor 
più 
rigorosamente 
circoscritti 
per 
la 
reconventio 
reconventionis) 
non 
si 
ritiene 
che 
esigenze 
di 
concentrazione 
processuale 
possano 
far 
premio 
sull’integrità 
del 
diritto 
di 
difesa 
del 
terzo 
coevocato 
cui 
verrebbe 
riconosciuto 
il 
(ben 
più) 
ristretto 
termine 
processuale 
di 
reazione 
di 
20 
giorni 
a 
fronte 
di 
una 
domanda 
che 
non 
presenta, 
per 
dir 
così, 
connotati 
di 
connessione 
con 
il 
giudizio 
principale. 


Non 
sembra 
invero 
che 
in 
tali 
specifiche 
ipotesi 
la 
domanda 
tra 
coevocati 
possa 
ritenersi 
sottratta 
alla 
disciplina 
della 
chiamata 
del 
terzo 
in 
causa 
e, 
quindi, all’autorizzazione 
del 
giudice 
alla 
chiamata 
in causa 
con differimento 
dell’udienza 
(art. 269 c.p.c.). Si 
aggiunga 
inoltre 
che, secondo l’orientamento 
prevalente, la 
domanda 
nei 
confronti 
del 
coevocato farebbe 
perciò stesso di 
fatto 
sempre 
parte 
del 
processo 
(fino 
alla 
sua 
eventuale 
pronuncia 
di 
inammissibilità) 
in quanto ab initio non opererebbe 
il 
filtro dell'autorizzazione 
a 
chiamare 
in causa 
un terzo che, secondo la 
prevalente 
giurisprudenza, costituisce 
esercizio del 
potere 
discrezionale 
ed insindacabile 
del 
giudice 
in ordine 
alla 
sussistenza 
del 
requisito 
della 
comunanza 
(e 
convenienza) 
di 
causa 
(19). 
Potere 
riconosciuto proprio a 
tutela 
di 
ragioni 
di 
economia 
processuale 
e 
di 
garanzia 
della ragionevole durata del processo (20). 

(19) Cass. S.u., 23 febbraio 2010, n. 4309. Con riferimento al 
rito lavoro: 
Cass., 4 agosto 2004, 
n. 17218. 
(20) Deve 
tuttavia 
avvertirsi 
che, secondo il 
più recente 
orientamento, quando l'attore 
o il 
convenuto 
provveda 
alla 
chiamata 
di 
terzo senza 
il 
rispetto delle 
modalità 
di 
cui 
rispettivamente 
all'art. 269, 
2° 
e 
3° 
co., se 
il 
giudice 
di 
primo grado non rileva 
d'ufficio tale 
nullità, sempreché 
il 
chiamato si 
sia 
costituito 
senza 
eccepire 
la 
decadenza 
del 
chiamante, il 
vizio si 
sana, ove 
non dedotto come 
specifico motivo 
di impugnazione: Cass., 23 dicembre 2021, n. 41383. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


in 
relazione 
a 
quanto 
precede, 
sembra 
doversi 
prediligere 
l’orientamento, 
invero sin qui 
minoritario (21), che 
diversifica 
la 
domanda 
proposta 
nei 
confronti 
del 
coevocato che 
si 
fonda 
sul 
medesimo titolo posto a 
base 
della 
domanda 
dell’attore, 
(che 
preferiamo 
qualificare 
di 
c.d. 
riconvenzionale 
impropria) dalla 
diversa 
ipotesi 
della 
domanda 
non fondata 
sul 
medesimo titolo 
su cui 
si 
basa 
la 
domanda 
dell’attore 
fondata 
bensì 
su di 
un diverso rapporto 
(che 
preferiamo qualificare 
come 
c.d. domanda 
trasversale) per la 
quale 
sarà 
necessario ottenere 
l’autorizzazione 
alla 
chiamata 
in causa 
del 
terzo già 
evocato in lite. Alla 
domanda 
tra 
coevocati 
dovrebbe, quindi, applicarsi 
la 
disciplina 
della 
riconvenzionale 
se 
il 
legame 
obiettivo (rectius: 
titolo) è 
il 
medesimo 
di 
quello dell’attore, la 
disciplina 
della 
chiamata 
del 
terzo se 
il 
titolo 
è 
diverso. 
La 
prospettata 
soluzione, 
nel 
silenzio 
del 
diritto 
positivo, 
sembra 
costituire 
tollerabile 
bilanciamento 
tra 
esigenze 
di 
concentrazione 
del 
processo 
e diritto di difesa. 


La 
proposta 
diversificazione 
appare 
peraltro in linea 
con il 
principio, di 
recente 
confermato dalla 
Corte 
costituzionale, secondo cui 
non sussiste 
un diritto 
costituzionalmente 
tutelato 
al 
simultaneus 
processus 
la 
cui 
eventuale 
inattuabilità 
non può ritenersi 
ex 
se 
lesiva 
del 
diritto di 
difesa 
o di 
azione 
se 
“la 
pretesa sostanziale 
può essere 
fatta valere 
nella competente, pur 
se 
distinta, 
sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa” (22). 

Nel 
caso di 
diversità 
di 
titolo deve 
pertanto ritenersi 
che 
l’esigenza 
della 
concentrazione 
propria 
della 
realizzazione 
del 
simultaneus 
processus 
debba 
cedere 
il 
passo dinanzi 
alle 
esigenze 
difensive 
e 
di 
reazione 
processuale 
del 
coevocato/terzo e ciò a tutto beneficio della “parità di armi” (23). 

3. modalità e termini di proposizione. 
Nel 
codice 
di 
rito 
ante 
“novella 
1990”, 
ai 
fini 
dell’ammissibilità 
della 
domanda 
tra 
coevocati 
era 
necessaria 
la 
mera 
proposizione 
nella 
comparsa 
di 
costituzione 
(art. 170 c.p.c.). Sulle 
parti 
evocate 
in giudizio gravava 
infatti 
un 
vero e 
proprio onere 
di 
vigilanza 
e 
controllo sull’attività 
processuale, dal 
cui 
adempimento conseguiva 
la 
possibilità 
di 
tempestiva 
reazione 
processuale 
e 
la 
scelta 
del 
contegno processuale 
da 
assumere. Peraltro nel 
sistema 
processuale 
previgente 
era 
meno 
avvertita 
la 
contiguità 
della 
domanda 
trasversale 
con la 
chiamata 
del 
terzo. il 
terzo, infatti, poteva 
essere 
chiamato alla 
prima 
udienza 
dal 
convenuto 
che, 
in 
alternativa, 
poteva 
chiedere 
di 
essere 
autorizzato 
dal 
giudice, il 
quale 
disponeva 
di 
ampio potere 
discrezionale 
nel 
valutare 
le 
ragioni 
che 
avevano impedito alla 
parte 
originaria 
l’immediata 
chiamata 
del 


(21) Così: Cass., 12 aprile 2011, n. 8315. 
(22) Giurisprudenza 
costituzionale 
costante: 
da 
ultimo: 
Corte 
Cost. 26 novembre 
2020, n. 253 in 
Foro it., 2021, i, c. 19 ed ivi nota redazionale. 
(23) 
A. 
MutAreLLi, 
all’esame 
della 
Consulta 
il 
problema 
della 
revocabilità 
della 
provvisoria 
esecuzione del decreto ingiuntivo, in Corr. giur., 1996, p. 569. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


terzo 
(24). 
Sicché 
alla 
soluzione 
della 
problematica 
esaminata 
non 
era 
riservato 
particolare rilievo. 


il 
novellato 
art. 
269 
c.p.c. 
non 
consente 
più 
tale 
alternativa 
ed 
anzi 
impone 
che 
il 
convenuto 
manifesti 
la 
volontà 
di 
chiamare 
un 
terzo 
in 
causa 
nella 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta 
(art. 
167 
c.p.c.). 
Costituendo 
la 
richiesta 
in 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta 
l’unica 
possibilità 
di 
ampliare 
l’ambito 
della 
controversia, 
appare 
evidente 
che 
l’esistenza 
di 
parte 
già 
coevocata 
in 
giudizio non muti 
l’esigenza 
di 
conseguire 
l’autorizzazione 
alla 
chiamata 
in 
causa 
(almeno 
allorché) 
la 
domanda 
sia 
fondata 
su 
un 
diverso 
rapporto 
rispetto 
a quello su cui si fonda la domanda dell’attore (25). 


Nella 
diversa 
ipotesi 
in cui 
la 
domanda 
tra 
coevocati 
è 
fondata 
sul 
medesimo 
titolo 
sui 
cui 
si 
basa 
la 
domanda 
dell’attore 
potrà 
tollerabilmente 
ritenersi 
sufficiente 
che 
tale 
domanda 
sia 
formulata 
tempestivamente 
nella 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta 
senza 
alcuna 
necessità 
di 
notificazione 
della 
stessa 
ai sensi dell’art. 170 c.p.c. (26). 


Nell’ipotesi 
in cui 
il 
coevocato convenuto non si 
costituisca 
sarà 
necessario 
procedere 
alla 
notifica 
del 
verbale 
di 
udienza 
e 
della 
comparsa 
di 
costituzione 
nei suoi confronti quale parte contumace 
ex 
art. 292 c.p.c. 


Alla 
luce 
dell’illustrato 
dibattito, 
del 
silenzio 
del 
codice 
di 
rito 
e 
dell’inesistenza 
di 
un consolidato orientamento della 
giurisprudenza 
in subiecta materia, 
costituisce 
accortezza 
forense 
quella 
di 
proporre 
nella 
comparsa 
di 
costituzione 
e 
risposta, tempestivamente 
depositata, la 
domanda 
nei 
confronti 
del 
coevocato, richiedendo nel 
contempo che 
il 
tribunale, ove 
ritenuto necessario, 
disponga 
il 
differimento dell’udienza 
ex 
art. 269 c.p.c. per consentire 
la 
chiamata 
del 
coevocato/terzo nel 
rispetto dei 
termini 
di 
cui 
all’art. 183 c.p.c. 
Del 
resto al 
giurista 
compete 
individuare 
ogni 
possibile 
insidia 
processuale, 
all’avvocato dribblarle (27). 

(24) 
Da 
G.P. 
CALiFANo, 
intervento 
di 
terzi 
e 
riunione 
di 
procedimenti, 
in 
Commentario 
del 
Codice 
di procedura civile, a cura di S. ChiArLoNi, Milano 2019, pp. 122 e ss. 
(25) in ordine 
all’intervenuto superamento della 
distinzione 
tra 
garanzia 
propria 
e 
impropria 
si 
rinvia, 
per 
evidenti 
esigenze 
di 
economia 
del 
presente 
lavoro, 
a 
r. 
tiSCiNi, 
Garanzia 
propria 
e 
impropria: 
una distinzione superata, in Dir. proc. civ., 2016, pp. 827 e ss. 
(26) Peraltro appare 
opportuno osservare 
che 
nel 
rito lavoro, caratterizzato dalla 
tassatività 
di 
rigide 
preclusioni, l’onere 
di 
chiedere 
al 
giudice 
l’emissione 
di 
un nuovo decreto di 
fissazione 
udienza 
ex 
art. 418 c.p.c., a 
pena 
di 
decadenza, sussiste 
a 
carico del 
convenuto che 
abbia 
proposto domanda 
riconvenzionale, 
si 
applica 
anche 
nei 
confronti 
del 
terzo chiamato in causa 
che, con la 
memoria 
difensiva, 
abbia 
proposto autonoma 
domanda 
riconvenzionale 
nei 
confronti 
di 
una 
delle 
parti 
in giudizio. in tal 
senso Cass., Sez. Lav., 22 luglio 2008, n. 20176. 
(27) 
Per 
un 
veloce 
censimento 
delle 
insidie 
processuali, 
cfr. 
M. 
MiNArDi, 
Le 
trappole 
nel 
processo 
civile, Milano, Giuffrè, 2010. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Controversie relative ai rapporti di lavoro. Questioni 
processuali tipiche del processo del lavoro pubblico 


Carlo Buonauro e Michele Gerardo* 


Sommario: 1. aspetti 
generali 
delle 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro -2. Giurisdizione 
sulle 
controversie 
assunzionali 
di 
lavoro pubblico -3. Controversie 
escluse 
dalla 
cognizione 
del 
giudice 
ordinario: 
il 
c.d. 
scorrimento 
della 
graduatoria 
-4. 
Peculiari 
questioni 
processuali 
nel 
processo del 
lavoro pubblico -5. identificazione 
della parte 
pubblica, ossia: 
capacità di 
essere 
parte 
dell’ente 
pubblico (c.d. legitimatio ad causam) -6. Legittimazione 
passiva 
nei 
processi 
di 
lavoro 
pubblico, 
ossia: 
capacità 
processuale 
dell’ente 
pubblico 
ex 
art. 
75, 
comma 
3, 
c.p.c. 
(c.d. 
legitimatio 
ad 
processum) 
-7. 
rapporti 
tra 
i 
poteri 
dell’aGo 
e 
quelli 
della P.a. -8. Notifica dell’atto introduttivo -9. Difesa delle 
amministrazioni 
pubbliche 
-10. 
Competenza per territorio. 


1. aspetti generali delle controversie relative ai rapporti di lavoro. 
L’art. 63 D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 (c.d. tuPi, testo unico sul 
pubblico 
impiego) 
devolve 
al 
giudice 
ordinario, 
in 
funzione 
di 
giudice 
del 
lavoro, 
tutte 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro alle 
dipendenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni (1). 


(*) Carlo Buonauro, Giudice del 
tar emilia romagna. 
Michele Gerardo, Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. 


(1) 
“1. 
Sono 
devolute 
al 
giudice 
ordinario, 
in 
funzione 
di 
giudice 
del 
lavoro, 
tutte 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
alle 
dipendenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
all'articolo 
1, 
comma 
2, 
ad 
eccezione 
di 
quelle 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
di 
cui 
al 
comma 
4, 
incluse 
le 
controversie 
concernenti 
l'assunzione 
al 
lavoro, 
il 
conferimento 
e 
la 
revoca 
degli 
incarichi 
dirigenziali 
e 
la 
responsabilità 
dirigenziale, 
nonché 
quelle 
concernenti 
le 
indennità 
di 
fine 
rapporto, 
comunque 
denominate 
e 
corrisposte, 
ancorché 
vengano 
in 
questione 
atti 
amministrativi 
presupposti. 
Quando 
questi 
ultimi 
siano 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
decisione, 
il 
giudice 
li 
disapplica, 
se 
illegittimi. 
L'impugnazione 
davanti 
al 
giudice 
amministrativo 
dell'atto 
amministrativo 
rilevante 
nella 
controversia 
non 
è 
causa 
di 
sospensione 
del 
processo. 
2. 
il 
giudice 
adotta, 
nei 
confronti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
tutti 
i 
provvedimenti, 
di 
accertamento, 
costitutivi 
o di 
condanna, richiesti 
dalla natura dei 
diritti 
tutelati. Le 
sentenze 
con le 
quali 
riconosce 
il 
diritto all'assunzione, ovvero accerta che 
l'assunzione 
è 
avvenuta in violazione 
di 
norme 
sostanziali 
o 
procedurali, 
hanno 
anche 
effetto 
rispettivamente 
costitutivo 
o 
estintivo 
del 
rapporto 
di 
lavoro. 
il 
giudice, 
con 
la 
sentenza 
con 
la 
quale 
annulla 
o 
dichiara 
nullo 
il 
licenziamento, 
condanna 
l'amministrazione 
alla 
reintegrazione 
del 
lavoratore 
nel 
posto di 
lavoro e 
al 
pagamento di 
un'indennità risarcitoria commisurata 
all'ultima 
retribuzione 
di 
riferimento 
per 
il 
calcolo 
del 
trattamento 
di 
fine 
rapporto 
corrispondente 
al 
periodo 
dal 
giorno 
del 
licenziamento 
fino 
a 
quello 
dell'effettiva 
reintegrazione, 
e 
comunque 
in 
misura 
non 
superiore 
alle 
ventiquattro 
mensilità, 
dedotto 
quanto 
il 
lavoratore 
abbia 
percepito 
per 
lo 
svolgimento 
di 
altre 
attività lavorative. il 
datore 
di 
lavoro è 
condannato, altresì, per 
il 
medesimo periodo, al 
versamento 
dei contributi previdenziali e assistenziali. 
2-bis. 
Nel 
caso 
di 
annullamento 
della 
sanzione 
disciplinare 
per 
difetto 
di 
proporzionalità, 
il 
giudice 
può 
rideterminare 
la sanzione, in applicazione 
delle 
disposizioni 
normative 
e 
contrattuali 
vigenti, tenendo 
conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


La 
cognizione 
attribuita 
al 
giudice 
ordinario 
si 
caratterizza 
per 
il 
requisito 
della 
generalità. i rapporti 
di 
lavoro alle 
dipendenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
devoluti 
alla 
cognizione 
del 
Giudice 
ordinario, 
comprendono 
anche 
i rapporti a tempo determinato. 


Dal 
tenore 
letterale 
della 
disposizione 
affermativa 
della 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario nelle 
controversie 
di 
pubblico impiego privatizzato ed, altresì, 
dai 
connotati 
propri 
dei 
poteri 
datoriali 
nel 
rapporto di 
lavoro è 
dato desumere 
che 
la 
cognizione 
del 
giudice 
del 
lavoro 
non 
costituisce 
una 
giurisdizione 
esclusiva 
di 
diritti 
soggettivi 
ed interessi 
legittimi 
ma 
una 
ordinaria 
giurisdizione 
su 
diritti. 
Difatti 
al 
giudice 
ordinario 
non 
è 
riconosciuto 
alcun 
potere 
demolitorio/sostitutivo/modificativo 
dell’atto 
amministrativo 
come, 
viceversa 
riconosciuto 
in 
altre 
ipotesi 
tra 
cui 
l’art. 
6, 
comma 
12, 
D.L.vo 
1 settembre 2011, n. 150 in tema di ordinanze ingiunzioni. 


La 
cognizione 
del 
giudice 
ordinario 
abbraccia 
anche 
gli 
atti 
amministrativi 
presupposti 
-ossia, 
una 
species 
bene 
individuata 
nel 
genus 
degli 
atti 
di 
macro-
organizzazione 
ex 
art. 
2 
tuPi 
-con 
previsione 
che 
quando 
questi 
siano 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
decisione, 
il 
giudice 
li 
disapplica 
incidenter 
tantum, 
se 
illegittimi. 


La 
cognizione 
del 
giudice 
ordinario 
in 
funzione 
del 
giudice 
del 
lavoro 
concerne 
non 
solo 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
individuali 
con 
la 
P.A. 
ma 
altresì 
le 
due 
specifiche 
tipologie 
di 
controversie 
collettive 
descritte 
all’art. 63, comma 
3, tuPi, ossia 
quelle 
a) relative 
a 
comportamenti 
antisindacali 
delle 
PP.AA. (2); 
b) promosse 
da 
oo.SS. o dalle 
PP.AA. e 
relative 
alle 
procedure di contrattazione collettiva. 


Nei 
confronti 
della 
P.A. possono essere 
adottati 
tutti 
i 
provvedimenti, di 
accertamento, 
costitutivi 
o 
di 
condanna, 
richiesti 
dalla 
natura 
dei 
diritti 
tutelati. 
È 
irrilevante 
il 
profilo 
dell’insuscettibilità 
di 
esecuzione 
forzata 
che 
condiziona, 
eventualmente, solo l’esecuzione. 


3. Sono devolute 
al 
giudice 
ordinario, in funzione 
di 
giudice 
del 
lavoro, le 
controversie 
relative 
a comportamenti 
antisindacali 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
ai 
sensi 
dell'articolo 
28 
della 
legge 
20 
maggio 
1970, n. 300, e 
successive 
modificazioni 
ed integrazioni, e 
le 
controversie, promosse 
da organizzazioni 
sindacali, dall'araN o dalle 
pubbliche 
amministrazioni, relative 
alle 
procedure 
di 
contrattazione 
collettiva 
di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto. 
4. 
restano 
devolute 
alla 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
le 
controversie 
in 
materia 
di 
procedure 
concorsuali 
per 
l'assunzione 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, nonché, in sede 
di 
giurisdizione 
esclusiva, 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
di 
cui 
all'articolo 
3, 
ivi 
comprese 
quelle 
attinenti ai diritti patrimoniali connessi. 
5. Nelle 
controversie 
di 
cui 
ai 
commi 
1 e 
3 e 
nel 
caso di 
cui 
all'articolo 64, comma 3, il 
ricorso per 
cassazione 
può essere 
proposto anche 
per 
violazione 
o falsa applicazione 
dei 
contratti 
e 
accordi 
collettivi 
nazionali di cui all'articolo 40”. 
(2) 
A 
seguito 
della 
sopravvenuta 
abrogazione 
dei 
commi 
6 
e 
7 
dell'art. 
28 
Stat. 
lav. 
-legge 
n. 
300/1970 -ad opera 
della 
legge 
11 aprile 
2000, n. 83, art. 4, la 
giurisdizione 
ordinaria 
sussiste 
ai 
sensi 
del 
tuPi, art. 40, pur se 
la 
denunciata 
condotta 
antisindacale, oggetto del 
giudizio promosso dalle 
associazioni 
sindacali, afferisca 
ad un rapporto di 
pubblico impiego non contrattualizzato qual 
è 
quello 
intercorrente tra la Banca d'italia ed i suoi dipendenti (così Cass. S.u., 24 settembre 2010, n. 20161). 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Affermato tale 
principio, con il 
comma 
secondo dell’art. 63, va 
precisato 
che 
lo stesso trova 
significativi 
limiti 
normativi, a 
garanzia 
dell’imparzialità 
e 
buon andamento della P.A. Difatti: 


-sono 
inammissibili 
pronunce 
costitutive 
di 
un 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
indeterminato per violazione di norme imperative (art. 36, comma 5, tuPi); 


-sono altresì 
inammissibili 
pronunce 
di 
accertamento del 
diritto al 
superiore 
inquadramento 
in 
relazione 
all’esercizio 
di 
fatto 
di 
mansioni 
superiori 
(art. 52, comma 1, tuPi); 
-per 
le 
sentenze 
di 
condanna 
della 
P.A. 
al 
pagamento 
di 
somme 
di 
danaro 
per crediti 
di 
lavoro vi 
è 
-in deroga 
all’art. 429, comma 
3, c.p.c. -il 
divieto di 
cumulo di 
interessi 
e 
rivalutazione 
(art. 22, comma 
36, L. 23 dicembre 
1994, 


n. 724, secondo cui 
l'art. 16, comma 
6, della 
legge 
30 dicembre 
1991, n. 412 
(3) 
-disponente: 
“L'importo 
dovuto 
a 
titolo 
di 
interessi 
è 
portato 
in 
detrazione 
dalle 
somme 
eventualmente 
spettanti 
a ristoro del 
maggior 
danno subito dal 
titolare 
della prestazione 
per 
la diminuzione 
del 
valore 
del 
suo credito” 
-si 
applica 
anche 
agli 
emolumenti 
di 
natura 
retributiva, pensionistica 
ed assistenziale 
spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza). 
Le 
indicate 
disposizioni 
costituiscono sintomo che, a 
differenza 
che 
nel 
lavoro privato, nel 
lavoro pubblico in talune 
individuate 
ipotesi 
la 
tutela 
effettiva 
del 
lavoratore 
è 
di 
fatto subordinata 
all’interesse 
organizzativo del 
datore 
di lavoro. 


2. Giurisdizione sulle controversie assunzionali di lavoro pubblico. 
i 
principi 
generali 
in 
tema 
di 
riparto 
di 
giurisdizione, 
con 
specifico 
riguardo 
al 
momento 
assunzionale/reclutativo 
(4), 
sono 
stati 
più 
volte 
affermati 


(3) L'importo dovuto a 
titolo di 
interessi 
è 
portato in detrazione 
dalle 
somme 
eventualmente 
spettanti 
a 
ristoro del 
maggior danno subito dal 
titolare 
della 
prestazione 
per la 
diminuzione 
del 
valore 
del 
suo credito. 
(4) 
Al 
di 
fuori 
di 
tale 
ambito, 
nuovi 
profili 
problematici 
sembrano 
profilarsi 
in 
relazione 
al 
riparto 
di 
giurisdizione 
in tema 
di 
accertamento della 
violazione 
dell’obbligo vaccinale 
e 
riflessi 
sul 
rapporto 
di 
lavoro 
alle 
dipendenze 
di 
pubbliche 
amministrazioni. 
Nella 
recentissima 
giurisprudenza 
del 
G.A. 
sembrano infatti 
delinearsi 
due 
antipodici 
indirizzi: 
da 
un lato, l’opzione 
ermeneutica 
cd. panpubblicistica, 
che 
attrae 
l’intero contenzioso (a 
monte 
sull’accertamento della 
violazione 
dell’obbligo vaccinale 
ed a 
valle 
sui 
relativi 
riflessi 
sulla 
gestione 
del 
rapporto di 
lavoro alle 
dipendenze 
di 
pubbliche 
amministrazioni), 
sulla 
base 
della 
duplice 
motivazione 
per cui 
il 
primo implica 
esercizio di 
poteri 
autoritativi 
ed 
il 
secondo 
ne 
viene 
attratto 
in 
quanto 
effetto 
automatico 
che 
discende 
direttamente 
dalla 
legge 
a 
carico 
del 
sanitario 
inottemperante. 
Cfr., 
da 
ultimo, 
Cons. 
St., 
sez. 
iii, 
ord., 
22 
dicembre 
2021, 
n. 
6790, 
secondo 
cui 
sussiste 
in 
materia 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
sul 
rilievo 
che 
la 
giurisdizione 
sull’atto 
di 
accertamento circa 
la 
inosservanza 
dell’obbligo vaccinale 
si 
trascina 
la 
giurisdizione 
sull’atto di 
sospensione 
del 
rapporto, data 
la 
sua 
natura 
di 
atto meramente 
consequenziale 
e 
vincolato: 
infatti 
la 
spendita 
di 
poteri 
amministrativi 
sull’accertamento circa 
la 
inosservanza 
dell’obbligo vaccinale 
giustifica 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo e 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo si 
estende 
automaticamente 
anche 
alla 
comunicazione 
di 
sospensione 
dal 
servizio, atteso che 
una 
simile 
evenienza 
costituisce 
effetto automatico che 
discende 
direttamente 
dalla 
legge 
a 
carico del 
sanitario inottemperante; 
ulteriori 
indicazioni 
anche 
in tar Lazio, sez. iii quater, sent. breve, 4 gennaio 2022, n. 37, secondo cui 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


dalle 
Sezioni 
unite 
della 
Suprema 
Corte 
(5), sul 
fondamentale 
asse 
ermeneutico 
per 
cui 
in 
tema 
di 
impiego 
pubblico 
contrattualizzato, 
ai 
sensi 
dell’art. 
63, 
comma 
1, tuPi e 
sulla 
base 
dei 
principi 
elaborati 
dalla 
Corte 
costituzionale 
a 
proposito dell’art. 97 Cost., sono attribuite 
alla 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario 
tutte 
le 
controversie 
inerenti 
ad ogni 
fase 
del 
rapporto di 
lavoro (incluse 
le 
controversie 
concernenti 
l'assunzione 
al 
lavoro); 
la 
riserva 
alla 
giurisdizione 
amministrativa 
delle 
controversie 
relative 
alle 
“procedure 
concorsuali” 
(per 
l'assunzione 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni), 
prevista 
dall’art. 
63, comma 4, è del tutto residuale-eccezionale. 

in base a tale interpretazione, ex 
artt. 12-14 preleggi c.c.: 


a) al 
termine 
“concorsuale” 
è 
stato attribuito un significato restrittivo, riferito 
alle 
sole 
procedure 
caratterizzate: 
dall’emanazione 
di 
un bando, da 
una 
successiva 
fase 
di 
svolgimento delle 
prove 
e 
di 
confronto delle 
capacità, dalla 
valutazione 
comparativa 
dei 
candidati 
e 
dalla 
compilazione 
finale 
di 
una 
graduatoria 
di 
merito, cioè 
alle 
procedure 
conformi 
ai 
principi 
indicati 
nell’art. 
35, comma 3, tuPi; 
b) di 
contro, il 
lemma 
“assunzione” 
(contenuto nel 
comma 
4 cit.) è 
stato 
inteso 
in 
senso 
da 
comprendervi 
non 
solo 
i 
concorsi 
aperti 
agli 
esterni 
ma 
anche 
quelli 
riservati 
agli 
interni 
e 
finalizzati 
a 
“progressioni 
verticali 
novative” 
ovvero verso un’area o una categoria superiore; 
c) posto che 
la 
riserva 
in via 
residuale 
alla 
giurisdizione 
amministrativa, 
sul 
piano della 
giurisdizione, il 
sistema 
delineato dall’art. 4 del 
d.l. 44 del 
2021 prevede 
uno specifico 
segmento 
procedimentale 
propriamente 
amministrativo 
e 
pubblicistico 
diretto 
ad 
accertare, 
mediante 
l’esercizio di 
un potere 
discrezionale 
ed autoritativo, se 
il 
sanitario abbia 
ricevuto o meno la 
somministrazione 
del 
vaccino 
contro 
il 
SArS-CoV-2, 
in 
conformità 
all'obbligo 
sancito 
dal 
comma 
1, 
e 
soprattutto 
se 
la 
documentazione 
prodotta 
in caso di 
omissione 
dell’obbligo possa 
ritenersi 
idonea 
al 
fine 
di 
essere 
esonerati 
da 
siffatto 
obbligo. 
Di 
qui 
la 
ridetta 
spendita 
di 
poteri 
amministrativi 
e 
dunque 
la 
giurisdizione 
di 
questo giudice 
amministrativo. Giurisdizione 
che 
si 
estende 
automaticamente 
anche 
alla 
comunicazione 
di 
sospensione 
dal 
servizio, atteso che 
una 
simile 
evenienza 
costituisce 
effetto automatico che 
discende 
direttamente 
dalla 
legge 
a 
carico del 
sanitario inottemperante; 
dall’altro un indirizzo di 
segno 
opposto 
che, 
in 
disparte 
la 
complessità 
di 
forme 
di 
deroghe 
alla 
giurisdizione 
per 
motivi 
di 
connessione, 
evidenzia 
in radice 
come 
nella 
specie 
non viene 
in rilievo nessun provvedimento amministrativo autoritativo 
e 
come 
tale 
idoneo ad incidere 
sulle 
posizioni 
soggettive 
dei 
ricorrenti 
che 
mantengono la 
consistenza 
di 
diritti 
soggettivi 
(cfr. 
in 
termini, 
tar 
Liguria 
n. 
983/2021, 
n. 
984/2021, 
n. 
985/2021, 
n. 
986/2021, n. 987/2021, n. 991/2021; 
inoltre 
tar Valle 
d’Aosta, sez. unica, sent. 20 dicembre 
2021, n. 
72), per cui 
i 
provvedimenti 
del 
datore 
di 
lavoro pubblico conseguenti 
all’accertamento dell’inottemperanza 
all’obbligo 
vaccinale, 
afferendo 
alla 
posizione 
lavorativa 
dei 
ricorrenti, 
sono 
ricompresi 
nella 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario, mentre 
nel 
solo caso di 
sanitario dipendente 
pubblico avente 
rapporto 
di 
pubblico impiego non privatizzato, quale 
ad esempio sanitario militare 
ovvero sanitario della 
Polizia 
di 
Stato, 
potrebbe 
sussistere, 
sotto 
questo 
profilo 
la 
giurisdizione, 
esclusiva, 
del 
giudice 
amministrativo. 

(5) Particolarmente 
paradigmatici 
i 
riferimenti 
nelle 
ordd. nn. 29462, 29463, 29464 del 
2019, da 
ultimo ribaditi 
con ord. del 
13 marzo 2020 n. 7218 e 
ripresi 
da 
Cassazione 
civile, sez. lav., sent. 16 novembre 
2020, n. 25986 quest’ultima 
anche 
sul 
rilievo che 
il 
Collegio è 
delegato a 
trattare 
la 
questione 
di 
giurisdizione 
in 
virtù 
del 
Decreto 
del 
Primo 
Presidente 
in 
data 
10 
settembre 
2018, 
in 
quanto 
essa 
rientra, 
nell’ambito 
delle 
materie 
di 
competenza 
della 
sezione 
lavoro, 
tra 
le 
questioni, 
indicate 
nel 
richiamato 
decreto, sulle quali si è consolidata la giurisprudenza delle Sezioni unite. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


contenuta 
nel 
comma 
4 
del 
citato 
art. 
63, 
concerne 
esclusivamente 
le 
procedure 
concorsuali 
strumentali 
alla 
costituzione 
del 
rapporto 
con 
la 
P.A., 
le 
quali 
possono 
essere 
anche 
interne, 
purché 
configurino 
"progressioni 
verticali 
novative", 
diversamente 
si 
torna 
alla 
previsione 
generale 
di 
cui 
al 
comma 
1 
(e 
quindi 
alla 
giurisdizione 
dell’AGo) 
in 
presenza 
di 
progressioni 
meramente 
economiche 
oppure 
comportanti, in base 
alla 
contrattazione 
collettiva 
applicabile, 
il 
conferimento 
di 
qualifiche 
più 
elevate, 
ma 
comprese 
nella 
stessa 
area, 
categoria 
o fascia 
di 
inquadramento e, come 
tali, caratterizzate, da 
profili 
professionali 
omogenei 
nei 
tratti 
fondamentali, diversificati 
sotto il 
profilo quantitativo 
piuttosto che qualitativo. 


Quanto 
poi 
ai 
concreti 
sintomi 
della 
concorsualità 
nella 
procedura 
assunzionale, 
gli 
stessi 
vengono declinati 
lungo una 
triplice 
direttrice 
così 
schematizzabile: 


a) 
sul 
piano 
strutturale, 
rileva 
la 
presenza 
ovvero 
la 
mancanza 
di 
una 
fase 
di 
presentazione 
delle 
candidature, valutazione 
comparativa 
e 
formazione 
di 
una graduatoria di merito; 
b) sul 
piano funzionale, la 
presenza 
ovvero l’assenza 
di 
spazio di 
discrezionalità 
amministrativa, 
che 
ben 
può 
esaurirsi 
nel 
momento 
iniziale 
della 
pianificazione 
della 
strategia 
assunzionale 
(i.e. 
scelta 
di 
avvalersi 
di 
forme 
di 
impiego 
flessibili) 
per 
cui 
occorre 
esaminare 
il 
petitum 
sostanziale 
fatto 
valere 
in 
giudizio 
(6): 
se 
attiene, 
dunque, 
ad 
un 
ambito 
di 
discrezionalità 
amministrativa 
ovvero 
ad 
un 
diritto 
soggettivo 
alla 
assunzione 
(i.e. 
formazione 
di 
liste 
di 
idonei 
sulla 
base 
di 
criteri 
oggettivi, quali: 
il 
precedente 
impiego a 
termine; 
l’inserimento tra 
gli 
idonei 
delle 
graduatorie 
dei 
concorsi 
per la 
assunzione 
a 
tempo indeterminato); 
c) sul 
piano temporale, rileva 
il 
momento della 
approvazione 
della 
graduatoria 
finale con la conseguente proclamazione dei vincitori (7). 
(6) 
in 
tale 
ottica 
rileva 
l’intrinseca 
natura 
della 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
dedotta 
in 
giudizio 
e 
ricostruita 
dal 
giudice 
stesso 
con 
riguardo 
ai 
fatti 
allegati 
ed 
al 
rapporto 
giuridico 
del 
quale 
detti 
fatti 
costituiscono 
manifestazione, 
non 
assumendo 
valenza 
la 
prospettazione 
delle 
parti 
e 
cioè 
il 
tipo 
di 
pronuncia 
chiesta 
al 
giudice 
(Cass. 
28 
febbraio 
2019 
n. 
6040; 
Cass. 
26 
giugno 
2019 
n. 
17140; 
Cass. 
20 
febbraio 
2020 
n. 
4318). 
Ne 
discende 
che, 
indipendentemente 
dal 
fatto 
che 
la 
parte 
abbia 
instaurato 
un 
giudizio 
prospettando 
al 
giudice 
una 
richiesta 
di 
annullamento 
dell’atto 
adottato 
dalla 
pubblica 
amministrazione, 
dirimente 
ai 
fini 
del 
riparto 
della 
giurisdizione 
è 
pur 
sempre 
la 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
che 
si 
vuole 
far 
valere 
in 
giudizio. 
Se 
il 
ricorrente 
è 
titolare 
di 
una 
posizione 
di 
diritto 
soggettivo, 
la 
giurisdizione 
sarà 
attribuita 
al 
giudice 
ordinario, 
mentre 
se 
il 
ricorrente 
è 
portatore 
di 
un 
interesse 
legittimo, 
la 
giurisdizione 
spetterà 
al 
giudice 
amministrativo. 
Va 
peraltro 
ricordato 
come 
in 
ogni 
caso 
venga 
assicurata 
la 
pienezza 
e 
l’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale, 
anche 
per 
le 
controversie 
devolute 
alla 
giurisdizione 
del 
G.o.: 
il 
secondo 
comma 
dell’art. 
63 
tuPi 
conferisce, 
infatti, 
al 
giudice 
del 
lavoro 
il 
potere 
di 
adottare 
“tutti 
i 
provvedimenti, 
di 
accertamento, 
costitutivi, 
o 
di 
condanna, 
richiesti 
dalla 
natura 
dei 
diritti 
tutelati”. 
(7) Cfr. Cass. 13 novembre 
2018 n. 29081 e 
Cass. 13 marzo 2020 n. 7218: 
l’ambito della 
giurisdizione 
amministrativa 
copre 
l’intero 
“iter” 
attinente 
al 
reclutamento, 
dal 
suo 
avvio 
(generalmente 
coincidente 
con la 
determinazione 
adottata 
dall’organo competente 
di 
ricorrere 
alla 
procedura 
stessa) 
sino all’approvazione 
della 
graduatoria 
finale 
con la 
proclamazione 
dei 
vincitori, la 
quale 
pertanto costituisce 
lo spartiacque del criterio di riparto. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


in base 
al 
suddetto criterio del 
“petitum 
sostanziale” 
-da 
determinare 
all’esito 
dell’indagine 
sull’effettiva 
natura 
della 
controversia 
in 
relazione 
alle 
peculiarità 
del 
singolo rapporto fatto valere 
in giudizio -si 
accerta 
che 
la 
controversia 
attiene 
alla 
lesione 
di 
un 
diritto 
soggettivo 
derivante 
da 
un 
atto 
o 
comportamento posto in essere 
dalla 
P.A. con i 
poteri 
del 
privato datore 
di 
lavoro, 
la 
giurisdizione 
compete 
al 
giudice 
ordinario 
senza 
che 
rilevi 
che 
la 
pretesa 
giudiziale 
sia 
stata 
prospettata 
come 
richiesta 
di 
annullamento di 
uno o 
più 
atti 
amministrativi 
o 
che 
comunque 
nel 
giudizio 
vengano 
in 
questione 
“atti 
amministrativi 
presupposti” 
illegittimi 
incidenti 
direttamente 
o 
indirettamente 
sulle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
di 
cui 
si 
tratta, come 
tali 
disapplicabili 
da parte del giudice ordinario (8). 


3. Controversie 
escluse 
dalla cognizione 
del 
giudice 
ordinario: il 
cd. scorrimento 
della graduatoria. 
Per 
converso, 
sussiste 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
quando 
la 
controversia 
ha 
come 
oggetto principale 
la 
contestazione 
della 
legittimità 
degli 
atti 
amministrativi 
autoritativi 
con i 
quali 
l’Amministrazione 
ha 
operato 
circa 
le 
modalità 
di 
copertura 
dei 
posti 
vacanti 
ovvero di 
attribuzione 
di 
incarichi 
direttivi 
e 
quindi 
siano 
“principaliter” 
impugnati 
gli 
atti 
organizzativi 
mediante 
i 
quali 
le 
Amministrazioni 
pubbliche 
definiscono secondo i 
principi 
generali 
fissati 
da 
disposizioni 
di 
legge 
le 
linee 
fondamentali 
di 
organizzazione 
degli 
uffici, individuando gli 
uffici 
di 
maggiore 
rilevanza 
e 
i 
modi 
di 
conferi


(8) La 
sicurezza 
di 
tali 
coordinate 
ermeneutiche 
potrebbe 
vacillare 
con riferimento ai 
nuovi 
meccanismi 
assunzionali 
previsti 
dal 
cd. “Decreto reclutamento Pa” 
(Decreto-Legge 
9 giugno 2021, n. 80 
“misure 
urgenti 
per 
il 
rafforzamento 
della 
capacità 
amministrativa 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
funzionale 
all’attuazione 
del 
Piano 
nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(PNrr) 
e 
per 
l’efficienza 
della 
giustizia”, 
conv. L. 6 agosto 2021, n. 113), che 
regola 
le 
procedure 
per assumere 
a 
tempo determinato nella 
P.A. 
gli 
esperti 
e 
i 
funzionari 
che 
lavoreranno 
ai 
progetti 
del 
PNrr 
e 
per 
conferire 
incarichi 
di 
consulenza 
con sistemi 
più rapidi 
ed efficaci; 
inoltre 
investe 
nei 
dipendenti 
pubblici 
già 
in servizio, favorendo progressioni 
di 
carriera 
più fluide, osmosi 
con il 
settore 
privato, valorizzazione 
del 
merito e 
prevede 
il 
potenziamento 
di 
enti 
come 
Sna 
e 
Formez, 
per 
rafforzare 
la 
formazione 
dei 
lavoratori 
pubblici 
e 
l’assistenza 
tecnica alle amministrazioni. 
Se, infatti, minori 
problematiche, quanto al 
riparto di 
giurisdizione 
sulle 
relative 
controversie, presenta 
il 
profilo 
delle 
regole 
per 
il 
reclutamento 
dei 
tecnici 
PNrr 
con 
contratti 
a 
tempo 
determinato 
e 
concorsi 
in 100 giorni 
(ivi 
applicandosi 
la 
riforma 
dei 
concorsi 
pubblici 
contenuta 
all’art. 10 del 
D.L. n. 44/2021 
con la 
valutazione 
dei 
titoli 
per le 
figure 
a 
elevata 
specializzazione 
tecnica 
e 
la 
previsione 
di 
una 
sola 
prova 
scritta 
digitale, trattandosi 
con relativa 
certezza 
di 
procedura 
concorsuale 
ex 
art. 63, co. 4, tuPi), 
diversamente 
è 
da 
dirsi 
per le 
procedure 
speciali 
per il 
reclutamento “alte 
specializzazioni”: 
trattasi 
invero 
dei 
profili 
in possesso di 
dottorato di 
ricerca 
o master universitario di 
secondo livello, oppure 
della 
sola 
laurea 
magistrale 
o 
specialistica 
ma 
con 
esperienze 
documentate, 
qualificate 
e 
continuative 
di 
lavoro 
subordinato almeno triennali 
in organismi 
nazionali, internazionali 
e 
dell’unione 
europea, per i 
quali 
è 
prevista 
l’iscrizione 
in un apposito elenco sul 
Portale 
del 
reclutamento, a 
seguito di 
una 
procedura 
di 
selezione 
organizzata 
dal 
Dipartimento 
della 
Funzione 
pubblica 
e 
basata 
anch’essa 
sulla 
valutazione 
dei 
titoli 
e 
su 
un 
esame 
scritto. 
una 
volta 
iscritti 
nell’elenco, 
i 
profili 
ad 
alta 
specializzazione 
potranno 
essere 
direttamente 
assunti 
dalle 
amministrazioni 
che 
necessitano di 
personale, sulla 
base 
della 
graduatoria 
e 
senza ulteriori selezioni. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


mento 
della 
titolarità 
dei 
medesimi 
(art. 
2, 
comma 
1, 
tuPi), 
mentre 
l’eventuale 
pretesa 
di 
accertamento 
dell’invalidità 
del 
provvedimento 
di 
conferimento 
del-
l’incarico e 
della 
stipulazione 
del 
contratto, in questi 
casi, ha 
carattere 
consequenziale 
rispetto 
a 
quella 
afferente 
la 
legittimità 
degli 
atti 
amministrativi 
impugnati; 
in 
quest’ultimo 
caso 
la 
posizione 
fatta 
valere 
in 
giudizio 
appartiene 
alla 
categoria 
degli 
interessi 
legittimi, 
la 
cui 
tutela 
è 
demandata 
al 
giudice 
amministrativo 
-al 
quale 
spetta 
il 
controllo sulle 
modalità 
di 
esercizio del 
potere 
amministrativo ai 
sensi 
dell’art. 103 Cost. -perché 
nel 
giudizio non si 
contro-
verte 
del 
diritto soggettivo all’assunzione 
o all’incarico direttivo, bensì 
delle 
modalità 
di 
esercizio 
di 
poteri 
autoritativi 
dell’Amministrazione, 
nella 
fase 
antecedente 
alla 
pubblicazione 
della 
graduatoria 
del 
concorso 
oppure 
all’esito 
della 
selezione 
per l’incarico direttivo, anche 
se 
i 
relativi 
effetti 
si 
sono poi 
riverberati 
sulla 
singola 
assunzione, 
ma 
in 
senso 
derivato. 
in 
simili 
controversie, 
in caso di 
illegittimità 
degli 
atti 
impugnati 
(anche 
generali 
o di 
macro-organizzazione), 
non 
può 
operare 
il 
potere 
di 
disapplicazione 
del 
giudice 
ordinario, 
che 
presuppone 
la 
deduzione 
di 
un 
diritto 
soggettivo 
direttamente 
inciso 
da 
un provvedimento amministrativo e 
non una 
situazione 
giuridica 
suscettibile 
di 
assumere 
la 
consistenza 
di 
diritto soggettivo solo all’esito della 
rimozione 
del provvedimento amministrativo di macro-organizzazione impugnato. 


Con 
particolare 
riferimento 
alla 
opzione 
strategica 
circa 
le 
modalità 
di 
copertura 
di 
posti 
vacanti, rileva 
quindi 
l’alternativa 
tra 
contestazione 
sull’an 
ovvero sul 
quomodo 
dello scorrimento della pregressa graduatoria. 


ed, 
invero, 
nella 
prima 
eventualità 
rientra 
l’ipotesi 
del 
candidato 
che 
agisca 
in giudizio innanzitutto al 
fine 
di 
contestare 
l’esercizio del 
potere 
autoritativo 
dell’Amministrazione, 
la 
quale 
abbia 
deciso 
di 
non 
coprire 
affatto 
i 
posti 
resisi 
vacanti, 
oppure, 
per 
coprire 
i 
posti 
resisi 
vacanti, 
abbia 
indetto 
un 
nuovo 
concorso 
anziché 
procedere 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria. 
in 
questo 
caso 
il 
ricorrente 
tende 
in primo luogo a 
conseguire 
una 
dichiarazione 
di 
inefficacia/
declaratoria 
di 
annullamento del 
comportamento/provvedimento con cui 
l’Amministrazione 
abbia 
assunto una 
delle 
predette 
decisioni, e 
solo consequenzialmente 
a 
vedere 
riconosciuto 
il 
proprio 
diritto 
all’assunzione 
mediante 
lo scorrimento della graduatoria. 


Pertanto, allorquando il 
ricorrente 
contesti 
il 
potere 
autoritativo dell’amministrazione, 
si 
trova 
dinanzi 
a 
quest’ultima 
nella 
posizione 
di 
titolare 
di 
un 
interesse 
legittimo, rispetto al 
quale 
sussiste, ancora 
una 
volta 
alla 
stregua 
del 
criterio del 
petitum 
sostanziale 
di 
cui 
sopra, la 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
(9). 


(9) Cfr. Cass., S.u., 22 agosto 2019 n. 21607 in relazione 
alla 
domanda 
proposta 
dinanzi 
al 
tar 
avente 
ad oggetto, a 
monte, l’accertamento dell’illegittimità 
della 
decisione 
assunta 
dall’Amministrazione 
di 
coprire 
solo in parte 
i 
posti 
resisi 
vacanti, pur in presenza 
di 
scoperture 
di 
organico maggiori, 
e 
di 
conseguenza, a 
valle, il 
loro diritto allo scorrimento della 
graduatoria 
per un numero di 
posti 
supe

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


Diversamente 
è 
da 
dirsi 
quando 
la 
contestazione 
involge 
il 
quomodo 
dello 
scorrimento: 
si 
pensi 
al 
candidato utilmente 
collocato nella 
graduatoria 
finale 
che 
agisca 
in 
giudizio 
al 
solo 
fine 
di 
far 
valere 
un 
diritto 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria, contestando le 
modalità 
di 
suo utilizzo. Si 
riespande 
in tal 
caso la 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario, 
in 
quanto 
il 
ricorrente 
si 
limita 
a 
far 
valere, 
al 
di 
fuori 
dell’ambito della 
procedura 
concorsuale, un proprio diritto soggettivo 
all’assunzione, diritto perfezionatosi 
nel 
momento in cui 
l’Amministrazione 
ha deciso di coprire i posti vacanti mediante tale scorrimento (10). 


4. Peculiari questioni processuali nel processo del lavoro pubblico. 
il 
processo 
del 
lavoro 
pubblico 
costituisce 
un 
rito 
speciale 
nell’ambito 
dello già 
speciale 
rito del 
lavoro disciplinato negli 
artt. 409 e 
ss. c.p.c. La 
presenza 
di 
una 
parte 
pubblica 
comporta 
delle 
regole 
peculiari 
non solo sostanziali, 
come 
sunteggiate 
nel 
primo paragrafo, ma 
anche 
processuali. in questo 
studio si 
evidenzieranno le 
principali 
regole 
peculiari 
al 
processo del 
lavoro 
pubblico rispetto al modello generale del processo del lavoro. 


5. 
identificazione 
della 
parte 
pubblica, 
ossia: 
capacità 
di 
essere 
parte 
dell’ente 
pubblico (c.d. legitimatio ad causam). 
La 
c.d. 
legitimatio 
ad 
causam 
è 
il 
riflesso 
della 
capacità 
giuridica 
nel 
processo. 


riore 
rispetto a 
quelli 
stabiliti 
dalla 
P.A. Per le 
Sezioni 
unite, si 
contesta 
la 
determinazione 
dell’Amministrazione 
di 
non coprire 
tutti 
i 
posti 
vacanti, con la 
conseguenza 
che, dinanzi 
a 
questa 
scelta 
discrezionale, 
i 
ricorrenti 
sono 
titolari 
di 
un 
interesse 
legittimo, 
rispetto 
al 
quale 
la 
giurisdizione 
è 
amministrativa. 
Né 
potrebbe 
essere 
diversamente, 
posto 
che, 
a 
fronte 
dell’esercizio 
di 
un 
potere 
discrezionale, 
il 
giudice 
ordinario è 
sprovvisto del 
potere 
di 
disapplicare 
la 
delibera 
con cui 
la 
P.A. ha 
deciso la 
copertura 
di 
un 
numero 
di 
posti 
inferiore 
rispetto 
alle 
esigenze 
di 
organico. 
in 
definitiva, 
ove 
si 
intenda 
far 
valere 
il 
solo 
diritto 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria, 
e 
quindi 
un 
diritto 
all’assunzione, 
la 
giurisdizione 
è 
del 
giudice 
ordinario, 
in 
funzione 
di 
giudice 
del 
lavoro; 
ove 
si 
voglia 
contestare 
la 
determinazione 
autoritativa 
della 
P.A., 
la 
quale 
abbia 
deciso 
di 
non 
procedere 
allo 
scorrimento, 
o 
di 
procedervi 
in 
misura 
inferiore 
rispetto 
alle 
esigenze 
di 
organico, la 
posizione 
giuridica 
che 
si 
fa 
valere 
è 
di 
mero interesse 
legittimo, rispetto al 
quale la giurisdizione è amministrativa. 


(10) 
Così 
Cassazione 
3 
gennaio 
2019 
n. 
29: 
la 
ricorrente 
aveva 
agito 
in 
giudizio 
contestando 
le 
modalità 
con 
le 
quali 
era 
avvenuto 
lo 
scorrimento 
delle 
graduatorie, 
e 
chiedendo 
al 
giudice 
l’accertamento 
del 
suo 
diritto 
a 
che 
la 
P.A. 
procedesse 
allo 
scorrimento 
prioritario 
della 
graduatoria 
più 
risalente 
nel 
tempo, 
nella 
quale 
ella 
era 
utilmente 
collocata, 
prima 
di 
attingere 
alle 
graduatorie 
successive. 
in 
questo 
caso 
la 
Corte 
ha 
ritenuto 
che 
la 
lavoratrice 
avesse 
correttamente 
instaurato 
il 
giudizio 
dinanzi 
al 
giudice 
del 
lavoro, 
intendendo 
la 
lavoratrice 
far 
valere 
un 
proprio 
diritto 
soggettivo 
all’assunzione. 
La 
posizione 
da 
ultimo descritta 
appare 
in linea 
con il 
consolidato orientamento del 
giudice 
amministrativo 
(Consiglio 
di 
Stato, 
Sez. 
Vi, 
del 
20 
maggio 
2011 
n. 
3014) 
che 
riprende 
tale 
dicotomia 
e 
ripropone 
la 
distinzione 
tra 
le 
due 
fattispecie, precisando che 
spetta 
al 
giudice 
ordinario la 
controversia 
instaurata 
dal 
candidato idoneo che 
aspiri 
allo scorrimento della 
graduatoria 
senza 
porre 
in discussione 
lo svolgimento 
della 
procedura 
concorsuale. La 
giurisdizione 
è 
del 
giudice 
amministrativo solo se 
la 
pretesa 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria 
sia 
consequenziale 
alla 
contestazione 
della 
decisione 
dell'amministrazione 
di indire un nuovo concorso invece di procedere con lo scorrimento della graduatoria. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Nel 
processo 
del 
lavoro 
pubblico 
relativo 
alle 
controversie 
individuali 
dinanzi 
all’A.G.o., 
in 
funzione 
del 
giudice 
del 
lavoro, 
è 
parte 
necessaria 
del 
giudizio 
una P.A. 


È 
noto che 
non esiste 
una 
definizione 
di 
P.A. valida 
a 
tutti 
gli 
effetti: 
in 
date 
materie 
(contratti 
pubblici, 
accesso 
ai 
documenti, 
contabilità 
pubblica, 
ecc.) 
vale 
una 
specifica 
nozione 
normativa, 
in 
altri 
ambiti 
vale 
una 
nozione 
diversa. 
Nel 
processo 
del 
lavoro 
pubblico 
la 
nozione 
è 
delineata 
nell’art. 
1, 
comma 
2, tuPi, ossia: 
“Per 
amministrazioni 
pubbliche 
si 
intendono tutte 
le 
amministrazioni 
dello Stato, ivi 
compresi 
gli 
istituti 
e 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado e 
le 
istituzioni 
educative, le 
aziende 
ed amministrazioni 
dello Stato ad 
ordinamento autonomo, le 
regioni, le 
Province, i 
Comuni, le 
Comunità montane, 
e 
loro consorzi 
e 
associazioni, le 
istituzioni 
universitarie, gli 
istituti 
autonomi 
case 
popolari, 
le 
Camere 
di 
commercio, 
industria, 
artigianato 
e 
agricoltura 
e 
loro 
associazioni, 
tutti 
gli 
enti 
pubblici 
non 
economici 
nazionali, 
regionali 
e 
locali, le 
amministrazioni, le 
aziende 
e 
gli 
enti 
del 
Servizio sanitario 
nazionale, l'agenzia per 
la rappresentanza negoziale 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(araN) 
e 
le 
agenzie 
di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 
30 
luglio 
1999, 


n. 300. Fino alla revisione 
organica della disciplina di 
settore, le 
disposizioni 
di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CoNi”. 
La 
nozione 
che 
emerge 
è 
ristretta 
in 
quanto 
non 
abbraccia 
gli 
enti 
pubblici 
economici (ancorché questi sono in fase di dissoluzione). 
La 
questione 
processuale 
della 
individuazione 
della 
P.A. 
-solitamente 
convenuta 
in giudizio -può essere 
complessa 
attesa 
la 
numerosità 
degli 
enti, 
la 
loro 
eterogeneità, 
le 
frequenti 
vicende 
organizzative 
che 
li 
riguardano 
(soppressione 
mera; 
incorporazione 
di 
enti 
in 
altri 
enti; 
accorpamenti 
di 
enti; 
creazione 
di 
nuovi 
enti 
puramente 
e 
semplicemente 
o per distacco, gemmazione 
da 
enti 
preesistenti). Questo è 
un tema 
rilevante 
atteso il 
problema 
della 
imputazione 
di atti e responsabilità. 


tenuto conto di 
ciò si 
esamineranno i 
profili 
relativi 
alla 
individuazione 
dei 
principali 
enti 
pubblici 
non economici 
e 
altresì 
peculiari 
aspetti 
della 
vicenda. 


amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. 

Lo 
Stato 
è 
una 
struttura 
non 
unitaria, 
ma 
disaggregata, 
sicché 
non 
può 
essere 
evocato nella 
sua 
unità, ma 
tramite 
articolazioni 
aventi 
una 
soggettività 
autonoma 
ed una 
legittimazione 
(sostanziale 
e 
processuale) separata. il 
concetto 
di 
“amministrazioni 
dello Stato”, abbraccia 
i 
soggetti 
riconducibili 
non 
solo allo Stato-amministrazione, ma 
anche 
i 
soggetti 
riconducibili 
allo Stato-
ordinamento 
(sempreché, 
in 
quest’ultimo 
caso, 
i 
soggetti 
esplichino 
un’attività 
sostanzialmente 
amministrativa 
e 
siano soggetti 
di 
procedura 
giudiziaria; 
per 
es. Camera dei deputati e Senato per i contratti da essi stipulati). 


tra tali soggetti riconducibili allo Stato-amministrazione, citiamo: 



rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


-Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
e 
organi 
alla 
stessa 
riconducibili, 
come 
gli 
organi 
delegati 
dell'Amministrazione 
centrale 
dello 
Stato 
quali 
i 
Commissari 
delegati 
in 
materia 
di 
protezione 
civile 
ex 
art. 
25, 
comma 
7, 
D.L.vo 2 gennaio 2018 n. 1 ed i 
Commissari 
Straordinari 
del 
Governo ex 
art. 
11 1. 23 agosto 1988, n. 400; 
- Ministeri. 
Spesso il 
ricorso è 
proposto contro la 
Dirigenza 
amministrativa 
del 
Ministero 
o una 
Commissione 
di 
concorso. Ciò è 
erroneo. Sicché, ad esempio, 
l'ufficio 
Scolastico 
regionale 
(uSr) 
ed 
il 
suo 
dirigente 
sono 
sì 
organi 
del 
Ministero 
dell’istruzione, 
muniti 
di 
poteri 
di 
rappresentanza 
di 
esso 
verso 
l'esterno, ma 
non di 
un'autonoma 
soggettività; 
di 
conseguenza, parte 
in causa, 
ove 
si 
tratti 
di 
contenzioso riconnesso ai 
contratti 
di 
lavoro di 
docenti 
ed amministrativi, 
dovrà 
essere 
comunque 
il 
Ministero dell’istruzione, per quanto 
rappresentato dall'uSr e 
non l'uSr in quanto tale 
(11). in queste 
evenienze, 
ove 
non venga 
evocato in giudizio il 
Ministero competente, il 
giudizio dovrà 
concludersi con una sentenza in rito, di inammissibilità dell’azione. 


Molto ricorrente 
-attesa 
la 
massività 
del 
contenzioso -è 
la 
problematica 
della 
legittimazione 
nella 
materia 
della 
scuola. 
Al 
Ministero 
dell'istruzione 
sono attribuite 
le 
funzioni 
e 
i 
compiti 
spettanti 
allo Stato in ordine 
al 
sistema 
educativo 
di 
istruzione 
e 
formazione 
di 
cui 
all'art. 
2 
della 
legge 
28 
marzo 
2003, 


n. 53, e 
di 
cui 
all'art. 13, comma 
1, del 
D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, conv. L. 2 
aprile 
2007, n. 40 (art. 49 D.L.vo 30 luglio 1999, n. 300). L’art. 15 D.P.r. 8 
marzo 1999, n. 275 dettaglia 
le 
competenze 
statali 
con riguardo allo stato giuridico 
del 
personale: 
a) 
formazione 
delle 
graduatorie 
permanenti 
riferite 
ad 
ambiti 
territoriali 
più vasti 
di 
quelli 
della 
singola 
istituzione 
scolastica; 
b) reclutamento 
del 
personale 
docente, 
amministrativo, 
tecnico 
e 
ausiliario 
con 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
indeterminato; 
c) 
mobilità 
esterna 
alle 
istituzioni 
scolastiche 
e 
utilizzazione 
del 
personale 
eccedente 
l'organico 
funzionale 
di 
istituto; 
d) autorizzazioni 
per utilizzazioni 
ed esoneri 
per i 
quali 
sia 
previsto 
un contingente 
nazionale; 
comandi, utilizzazioni 
e 
collocamenti 
fuori 
ruolo; 
e) riconoscimento di 
titoli 
di 
studio esteri. Corollario della 
indicata 
disciplina 
è 
che 
il 
personale 
intrattiene 
il 
rapporto di 
lavoro con il 
Ministero dell'istruzione, 
che 
è 
a 
tutti 
gli 
effetti 
datore 
di 
lavoro, 
e 
non 
con 
i 
singoli 
istituti 
-presso 
i quali presta servizio - pur se dotati di autonomia amministrativa (12). 
(11) Conf. da ultimo, Cass. 9 novembre 2021, n. 32938. 
(12) 
Conf., 
ex 
plurimis, 
Cass. 
28 
luglio 
2008, 
n. 
20521, 
secondo 
cui 
nelle 
controversie 
relative 
al-
l'applicazione 
della 
normativa 
sui 
congedi 
parentali 
e 
sull'assistenza 
a 
congiunto 
portatore 
di 
handicap, 
venendo 
in 
considerazione 
diritti, 
di 
sicuro 
rilievo 
costituzionale, 
che 
possono 
essere 
esercitati 
qualunque 
sia 
l'istituzione 
scolastica 
ove 
il 
docente 
esplichi 
le 
sue 
funzioni 
e 
il 
cui 
riconoscimento 
va 
operato 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
che 
ricopre 
la 
qualità 
di 
datore 
di 
lavoro, 
sussiste 
la 
legittimazione 
passiva 
del-
l'Amministrazione 
centrale, 
mentre 
difetta 
quella 
del 
singolo 
istituto. 
in 
senso 
analogo 
Cass., 
10 
maggio 
2005, 
n. 
9752 
secondo 
cui 
il 
personale 
docente 
degli 
istituti 
statali 
di 
istruzione 
superiore 
(nella 
specie, 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


-Amministrazioni 
dello 
Stato 
organizzate 
con 
ordinamento 
autonomo. 
tra 
cui 
Fondo edifici 
di 
culto (artt. 56 e 
ss. L. 20 maggio 1985, n. 222), i 
Conservatori 
di 
musica 
e 
le 
istituzioni 
scolastiche, 
ossia 
gli 
istituti 
e 
Scuole 
Statali 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado 
e 
le 
istituzioni 
educative 
(le 
controversie 
afferenti 
al 
rapporto di 
lavoro vedono quale 
controparte, come 
descritto innanzi, il 
Ministero 
dell’istruzione, datore 
di 
lavoro ex 
art. 15 D.P.r. n. 275/1999; 
per quelle 
diverse, ad es. repressione 
della 
condotta 
antisindacale, vi 
è 
autonoma 
legittimazione 
dei singoli istituti). 


Va 
precisato 
che 
le 
istituzioni 
scolastiche 
statali, 
alle 
quali 
è 
stata 
attribuita 
l'autonomia 
e 
la 
personalità 
giuridica 
a 
norma 
dell'art. 
21 
della 
L. 
15 
marzo 
1997, 
n. 
59, 
sono 
compenetrate 
nell'amministrazione 
dello 
Stato, 
in 
cui 
sono 
incardinate 
-sono 
organi 
dello 
Stato 
con 
persona 
giuridica 
-e 
conservano 
il 
patrocinio 
legale 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato, 
come 
risulta 
dalla 
espressa 
previsione 
dell'art. 
1, 
lettera 
b), 
del 
D.P.r. 
4 
agosto 
2001, 
n. 
352 
(13). 
Corollario 
di 
ciò, 
ad 
esempio, 
è 
che 
il 
singolo 
istituto 
scolastico 
non 
è 
titolare 
di 
un'autonoma 
legittimazione 
a 
sindacare 
in 
via 
giudiziale 
l'organizzazione 
della 
rete 
scolastica 
come 
disciplinata 
dagli 
organi 
periferici 
ministeriali, 
in 
quanto 
il 
rapporto 
tra 
l'istituto 
scolastico 
ed 
Amministrazione 
statale 
centrale 
è 
da 
considerarsi 
di 
natura 
interorganica 
e 
non 
intersoggettiva, 
per 
cui 
ogni 
eventuale 
contrasto 
va 
risolto 
in 
sede 
amministrativa, 
difettando 
un'autonoma 
posizione 
azionabile 
in 
sede 
giurisdizionale 
(14). 
una 
capacità 
autonoma 
si 
ha 
nelle 
controversie 
diverse 
da 
quelle 
individuali 
di 
lavoro 
(procedimento 
ex 
art. 
28 
Statuto 
dei 
lavoratori 
per 
condotta 
antisindacale; 
procedimento 
avente 
ad 
oggetto 
controversie 
sui 
contratti 
collettivi; 
controversie 
in 
materia 
di 
appalti, 
ecc.). 


tra 
tali 
soggetti 
riconducibili 
allo Stato-ordinamento, citiamo gli 
organi 
costituzionali, ossia: 
Presidenza 
della 
repubblica, Camera 
dei 
Deputati 
e 
Senato 
della 
repubblica, Corte 
Costituzionale 
(per questi 
quattro soggetti 
vi 
è 
l’autodichia, 
sicché 
la 
cognizione 
delle 
controversie 
individuali 
di 
lavoro 
spetta 
agli 
stessi 
organi 
costituzionali); 
Consiglio 
di 
Stato; 
Corte 
dei 
Conti; 


un 
istituto 
Professionale 
di 
Stato) 
-che 
costituiscono 
organi 
dello 
Stato 
muniti 
di 
personalità 
giuridica 
ed 
inseriti 
nell'organizzazione 
statale 
-si 
trova 
in 
rapporto 
organico 
con 
l'Amministrazione 
della 
Pubblica 
istruzione 
dello 
Stato 
e 
non 
con 
i 
singoli 
istituti, 
che 
sono 
dotati 
di 
mera 
autonomia 
amministrativa 
per 
la 
realizzazione 
dei 
fini 
di 
istruzione 
pubblica. 
in 
senso 
analogo 
altresì 
Cass., 
21 
marzo 
2011, 
n. 
6372, 
secondo 
cui 
anche 
dopo 
l'estensione 
della 
personalità 
giuridica, 
per 
effetto 
della 
legge 
delega 
n. 
59 
del 
1997 
e 
dei 
successivi 
provvedimenti 
di 
attuazione, 
ai 
circoli 
didattici, 
alle 
scuole 
medie 
e 
agli 
istituti 
di 
istruzione 
secondaria, 
il 
personale 
AtA 
e 
docente 
della 
scuola 
si 
trova 
in 
rapporto 
organico 
con 
l'Amministrazione 
della 
Pubblica 
istruzione 
dello 
Stato, 
a 
cui 
l'art. 
15 
del 
d.P.r. 
n. 
275 
del 
1999 
ha 
riservato 
le 
funzioni 
relative 
al 
reclutamento 
del 
personale, 
e 
non 
con 
i 
singoli 
istituti, 
che 
sono 
dotati 
nella 
materia 
di 
mera 
autonomia 
amministrativa; 
ne 
consegue 
che, 
nelle 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro, 
sussiste 
la 
legittimazione 
passiva 
del 
Ministero, 
mentre 
difetta 
la 
legittimazione 
passiva 
del 
singolo 
istituto. 


(13) Conf. Cons. Stato, 27 novembre 2019, n. 8081. 
(14) Così Cons. Stato, 20 marzo 2018, n. 1769. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


Consiglio 
nazionale 
dell’economia 
e 
del 
Lavoro; 
Consiglio 
Superiore 
della 
Magistratura. 


Enti pubblici non economici diversi dalle 
amministrazioni dello Stato. 


tra gli enti pubblici non economici diversi dallo Stato citiamo: 


- regione (15); 


- Province, Comuni ed altri enti locali; 
- università Statali; 
-Aziende ospedaliere universitarie; 
-Agenzie 
ex 
art. 
8 
D.L.vo 
30 
luglio 
1999, 
n. 
300 
con 
personalità 
giuridica 
di 
diritto 
pubblico 
(Agenzia 
industrie 
difesa, 
Agenzia 
per 
la 
protezione 
del-
l'ambiente 
e 
per i 
servizi 
tecnici, Agenzia 
dei 
trasporti 
terrestri 
e 
delle 
infrastrutture), 
anche fiscali. 


Estinzione degli enti. 

Spesso, 
con 
una 
particolare 
intensificazione 
negli 
ultimi 
anni, 
si 
assiste 
a 
rilevanti 
fenomeni 
di 
accorpamento 
di 
enti, 
loro 
disaggregazione 
o 
estinzione, 
in 
funzione 
della 
efficienza 
e 
razionalizzazione 
della 
P.A. 
Va 
esaminata 
la 
ricaduta 
nella 
ipotesi 
in 
cui 
il 
fenomeno 
avvenga 
nella 
pendenza 
di 
un 
giudizio. 
in 
assenza 
di 
specifiche 
previsioni 
legislative, 
occorre 
rifarsi 
ai 
principi 
generali: 


a) se, con previsione 
espressa 
o dal 
complesso della 
disciplina, è 
statuito 
che 
l’ente 
subentrante 
succede 
in 
tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
facenti 
capo all’ente 
estinto, la 
successione 
è 
a 
titolo universale 
(in universum 
ius). 
L’ente 
subentrante, 
pertanto, 
per 
i 
principi 
risponde 
dei 
debiti 
anche 
ultra 
vires. 
inoltre 
i 
processi 
civili 
pendenti 
al 
momento 
della 
successione 
subiscono 
l’interruzione 
(artt. 110 e 
299-304 c.p.c.), a 
tutela 
del 
contraddittorio e 
del 
diritto 
di 
difesa, 
con 
la 
possibilità 
della 
prosecuzione 
o 
riassunzione 
pena 
l’estinzione 
del giudizio; 
b) 
se, 
l’ente 
subentrante 
succede 
solo 
in 
determinati 
rapporti 
giuridici 
facenti 
capo 
all’ente 
estinto, 
la 
successione 
è 
a 
titolo 
particolare 
(in 
singulas 
res). 
Questo 
è 
quello 
che 
di 
solito 
accade 
quando 
vi 
è 
il 
procedimento 
liquidatorio. 
i 
processi 
civili 
pendenti 
al 
momento 
della 
successione 
particolare 
non 
subiscono 
l’interruzione, 
ma 
sono 
sottoposti 
alla 
particolare 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
111 
c.p.c. 
sulla 
successione 
a 
titolo 
particolare 
nel 
diritto 
controverso. 
(15) Nella 
regione 
Sicilia 
-sulla 
falsariga 
dell’Amm.ne 
statale 
-il 
Presidente 
e 
gli 
Assessori 
ex 
art. 20, comma 
1, dello Statuto, sono autonomi 
organi-soggetti 
di 
diritto, da 
evocare 
pertanto distintamente 
in giudizio. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


6. 
Legittimazione 
passiva 
nei 
processi 
di 
lavoro 
pubblico, 
ossia: 
capacità 
processuale 
dell’ente 
pubblico 
ex 
art. 
75, 
comma 
3, 
c.p.c. 
(c.d. 
legitimatio 
ad 
processum). 
La 
c.d. legitimatio ad processum 
è 
il 
riflesso della 
capacità 
di 
agire 
nel 
processo ed è fissata dall’art. 75 c.p.c. (16). 


La 
legitimatio ad processum 
è 
sempre 
attribuita, con salvezza 
di 
diverse 
specifiche 
disposizioni, 
all’organo 
di 
vertice 
dell’ente 
(il 
comma 
3 
dell’art. 
75 


c.p.c. prescrive: 
“Le 
persone 
giuridiche 
stanno in giudizio per 
mezzo di 
chi 
le 
rappresenta a norma della legge 
o dello statuto”). Solitamente 
il 
rappresentante 
è 
dotato di 
un potere 
di 
rappresentanza 
sia 
sostanziale 
che 
processuale 
(e sottoscrive la procura). 
Si 
passeranno 
in 
rassegna 
le 
questioni 
sul 
punto 
riguardanti 
i 
più 
rilevanti 
enti pubblici. 


amministrazioni dello Stato. 


“Tutte 
le 
citazioni, 
i 
ricorsi 
e 
qualsiasi 
altro 
atto 
di 
opposizione 
giudiziale, 
nonché 
le 
opposizioni 
ad ingiunzione 
e 
gli 
atti 
istitutivi 
di 
giudizi 
che 
si 
svolgono 
innanzi 
alle 
giurisdizioni 
amministrative 
o speciali, od innanzi 
agli 
arbitri, 
devono essere 
notificati 
alle 
amministrazioni 
dello Stato presso l'ufficio 
dell'avvocatura dello Stato nel 
cui 
distretto ha sede 
l'autorità giudiziaria innanzi 
alla quale 
è 
portata la causa, nella persona del 
ministro competente” 
(art. 11, comma 
1, r.D. 30 ottobre 
1933, n. 1611) (17). La 
previsione 
de 
qua 
è 
eccentrica 
rispetto alle 
regole 
ordinarie 
in tema 
di 
agire 
delle 
PP.AA. e, nel-
l’attuale 
assetto 
ordinamentale, 
ha 
una 
rilevanza 
eminentemente 
formale 
in 
quanto 
tale 
legittimazione 
è 
avulsa 
dai 
poteri 
di 
rappresentanza 
sostanziale 
spettanti 
non 
più 
al 
Ministro, 
ma 
ai 
dirigenti. 
infatti, 
in 
virtù 
del 
principio 
della 
separazione 
tra 
politica 
ed amministrazione 
(art. 4, comma 
2, tuPi; 
art. 107 
D.L.vo 18 agosto 2000, 267, testo unico enti 
Locali-tueL), la 
decisione 
di 
promuovere 
o resistere 
alle 
liti, in quanto attinente 
alla 
gestione 
amministrativa, 
spetta alla dirigenza (art. 16, comma 1, lett. f, tuPi). 


in 
pratica 
tutti 
i 
poteri, 
tranne 
quello 
della 
mera 
presenza 
in 
giudizio, 
spet


(16) “Sono capaci 
di 
stare 
in giudizio le 
persone 
che 
hanno il 
libero esercizio dei 
diritti 
che 
vi 
si 
fanno valere. 
Le 
persone 
che 
non hanno il 
libero esercizio dei 
diritti 
non possono stare 
in giudizio se 
non rappresentate, 
assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. 
Le 
persone 
giuridiche 
stanno 
in 
giudizio 
per 
mezzo 
di 
chi 
le 
rappresenta 
a 
norma 
della 
legge 
o 
dello 
statuto. 
Le 
associazioni 
e 
i 
comitati, 
che 
non 
sono 
persone 
giuridiche, 
stanno 
in 
giudizio 
per 
mezzo 
delle 
persone 
indicate negli articoli 36 e seguenti del Codice civile”. 
(17) i cui 
commi 
2 e 
3 così 
dispongono: 
“ogni 
altro atto giudiziale 
e 
le 
sentenze 
devono essere 
notificati 
presso 
l'ufficio 
dell'avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
cui 
distretto 
ha 
sede 
l'autorità 
giudiziaria 
presso 
cui 
pende 
la 
causa 
o 
che 
ha 
pronunciato 
la 
sentenza. 
Le 
notificazioni 
di 
cui 
ai 
commi 
precedenti 
devono 
essere 
fatte 
presso la competente 
avvocatura dello Stato a pena di 
nullità da pronunciarsi 
anche 
d'ufficio”. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


tano 
ai 
dirigenti. 
ed 
è 
per 
questo 
che 
la 
legittimazione 
processuale 
del 
Ministro 
in 
giudizio 
ha 
via 
via 
acquistato 
una 
connotazione 
spiccatamente 
formale. 
L’ultima 
disposizione 
citata, nel 
disporre 
che 
i 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali 
(o 
strutture 
sovraordinate) 
“promuovono 
e 
resistono 
alle 
liti 
ed 
hanno 
il 
potere 
di 
conciliare 
e 
di 
transigere, fermo restando quanto disposto dall'articolo 
12, 
comma 
1, 
della 
legge 
3 
aprile 
1979, 
n. 
103”, 
precisa 
il 
riparto 
di 
competenze 
tra 
organi 
di 
gestione 
e 
organi 
di 
governo, ma 
non modifica 
certamente 
il 
criterio di 
individuazione 
dell’organo che 
rappresenta 
legalmente 
l’amministrazione, 
rientrando 
nell’ambito 
delle 
competenze 
dirigenziali 
i 
soli 
poteri sostanziali di gestione delle liti (18). 


Non 
condivisibile 
è, 
quindi, 
quell’orientamento, 
talora 
diffuso 
nei 
giudici 
di 
merito, secondo il 
quale 
vi 
sarebbe 
la 
legitimatio ad processum 
in capo ai 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali 
(art. 
16, 
comma 
1, 
lett. 
f 
, 
tuPi); 
norma 
questa 
-secondo tale 
orientamento -cui 
dovrebbe 
riconoscersi 
natura 
derogatoria, 
solo per la 
materia 
di 
pubblico impiego, dell’art. 11 r.D. n. 1611/1933 
in quanto la 
scelta 
della 
difesa 
del 
datore 
di 
lavoro sarebbe 
ritenuta 
partecipe 
della funzione amministrativa ma non di quella politica (19). 


(18) Conf. Cass. S.u. 6 luglio 2006, n. 15342 precisante 
altresì 
che 
lo Stato agisce 
ed è 
chiamato 
in 
giudizio 
in 
persona 
del 
Ministro 
competente 
o 
in 
persona 
del 
Presidente 
del 
Consiglio, 
mentre 
le 
strutture 
interne 
ai 
Ministeri 
non 
sono 
dotate 
di 
soggettività 
sul 
piano 
dei 
rapporti 
esterni. 
Analogamente 
Cass., 26 marzo 2008, n. 7862, Cass., 13 aprile 
2012, n. 5885 (“Questa Corte 
ha avuto già occasione 
di 
affermare 
che 
il 
D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 16, lett. f), laddove 
dispone 
che 
i 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali 
(o strutture 
sovraordinate) "promuovono e 
resistono alle 
liti 
ed hanno il 
potere 
di 
conciliare 
e 
di 
transigere, 
fermo 
restando 
quanto 
disposto 
dalla 
L. 
3 
aprile 
1979, 
n. 
103, 
art. 
12, 
comma 
1", precisa il 
riparto di 
competenze 
tra organi 
di 
gestione 
e 
organi 
di 
governo, ma non modifica certamente 
il 
criterio 
di 
individuazione 
dell'organo 
che 
rappresenta 
legalmente 
l'amministrazione, 
rientrando 
nell'ambito delle 
competenze 
dirigenziali 
i 
soli 
poteri 
sostanziali 
di 
gestione 
delle 
liti. Pertanto è 
il 
rettore 
legale 
rappresentante 
dell'Università 
il 
solo 
legittimato 
ad 
agire 
in 
giudizio 
ed 
a 
rappresentare 
l'Università stessa in giudizio (confr. Cass. 26 marzo 2008 n. 7862”); 
in applicazione 
del 
principio, la 
S.C. ha 
affermato che 
unico legittimato ad agire 
in giudizio per conto dell'università 
è 
il 
rettore, suo legale 
rappresentante, 
e 
ha 
cassato 
la 
decisione 
di 
merito 
che 
aveva 
attribuito 
la 
legittimazione 
al 
direttore 
amministrativo. in senso analogo altresì 
Cass., 13 settembre 
2006, n. 19558: 
nelle 
PP.AA., la 
funzione 
di 
promuovere 
e 
resistere 
alle 
liti 
rientra 
tra 
quelle 
affidate 
dal 
tuPi ai 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali. tale 
attribuzione, che 
comporta 
anche 
il 
potere 
di 
conferire 
procura 
alle 
liti, non è 
derogata 
in 
difetto di 
qualsiasi 
previsione 
in tal 
senso -dalla 
successiva 
istituzione 
dell'ufficio per la 
gestione 
del 
contenzioso del 
lavoro e 
dalla 
attribuzione 
a 
tale 
ufficio (ai 
sensi 
dell'art. 12 del 
d.lgs. citato) di 
detta 
funzione 
(e 
del 
connesso potere), sia 
pure 
limitatamente 
al 
contenzioso del 
lavoro. Né, allorquando la 
procura 
provenga 
dal 
dirigente 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali, sussiste 
alcun limite 
relativo alla 
sede 
in 
cui 
presta 
servizio il 
dipendente 
delegato a 
rappresentare 
l'amministrazione 
-sia 
pure 
limitatamente 
al 
giudizio 
di 
primo 
grado 
-nelle 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
privatizzati 
e 
come 
tali 
devoluti 
alla 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario (fattispecie 
relativa 
a 
procura 
alle 
liti 
rilasciata 
a 
un dirigente 
in 
servizio 
presso 
la 
Procura 
della 
repubblica 
di 
un 
distretto 
diverso 
da 
quello 
del 
tribunale 
innanzi 
al 
quale 
si 
celebrava 
la 
controversia 
di 
lavoro instaurata 
contro il 
Ministero della 
Giustizia 
con difesa 
ex 
art. 417 
bis 
c.p.c.). 
(19) in questi 
termini, tribunale 
di 
Pisa, sentenza 
21 marzo 2002 evidenziata 
nella 
nota 
di 
B. Si-
MoNi, La legittimazione 
sostanziale 
e 
processuale 
delle 
istituzioni 
scolastiche 
nelle 
controversie 
di 
lavoro, 
in Lavoro P.a., 2002, p. 798. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Va 
rilevato 
che 
dalla 
normativa 
emerge 
uno 
specifico 
caso 
-avente 
riflessi 
nel 
contenzioso in esame 
-nel 
quale, nell’ambito del 
Ministero, la 
legittimazione 
processuale 
spetta 
non 
al 
Ministro, 
ma 
ad 
un 
organo 
amministrativo: 
quello -nelle 
cause 
che 
vedono parte 
processuale 
il 
Ministero dell’istruzione 
-del 
dirigente 
generale 
dell’ufficio 
Scolastico 
regionale 
in 
luogo 
del 
Ministro 
dell'istruzione. 
Difatti, 
in 
conseguenza 
dei 
regolamenti 
relativi 
alla 
definizione 
dell'organizzazione 
e 
della 
disciplina 
degli 
uffici 
periferici 
del 
Miur -sulla 
base 
degli 
artt. 13 e 
21, comma 
18, L. n. 59/1997 -il 
dirigente 
generale 
del-
l’ufficio Scolastico regionale 
può essere 
evocato in giudizio rispetto al 
contenzioso 
con 
il 
personale 
della 
scuola 
pubblica 
non 
in 
proprio 
ma 
in 
rappresentanza 
processuale, 
ai 
sensi 
dell'art. 
75 
c.p.c., 
del 
Ministero 
dell’istruzione 
(20). 


Convenuta 
in giudizio una 
amministrazione 
dello Stato, l’errore 
di 
identificazione 
del 
Ministro competente 
eventualmente 
commesso dal 
ricorrente 
nell’atto introduttivo del 
giudizio non dà 
luogo a 
pregiudizi 
per l’interessato. 
All’uopo, l’art. 4 L. 25 marzo 1958, n. 260 dispone 
che 
l'errore 
di 
identificazione 
della 
persona 
alla 
quale 
l'atto introduttivo del 
giudizio ed ogni 
altro atto 
doveva 
essere 
notificato, ossia 
del 
Ministro competente, deve 
essere 
eccepito 
dall'Avvocatura 
dello Stato nella 
prima 
udienza, con la 
contemporanea 
indicazione 
della 
persona, ossia 
del 
Ministro, alla 
quale 
l'atto doveva 
essere 
notificato. 
La 
disposizione 
citata 
prevede 
un 
meccanismo 
di 
sanatoria 
con 
efficacia 
retroattiva, in quanto la 
rinnovazione 
dell’atto introduttivo della 
lite 
fa 
salvi 
gli 
effetti 
dell’atto 
originario, 
impedendo 
che 
il 
ricorrente, 
a 
causa 
dell’errore, 
possa 
incorrere 
nella 
prescrizione 
dei 
propri 
diritti 
o 
in 
decadenze. 
Se 
il 
difetto 
concernente 
l’individuazione 
del 
Ministro 
competente 
non 
è 
tempestivamente 
sollevato 
dal 
difensore, 
si 
determina 
una 
decadenza 
e 
la 
legittimazione 
passiva 
del 
Ministro erroneamente 
evocato in giudizio non può essere 
ulteriormente 
contestata dalla difesa dell’amministrazione. 


La 
norma 
sull’errata 
identificazione 
(art. 
4 
L. 
n. 
260/1958) 
si 
riferisce 
al 
solo 
tema 
della 
legittimazione 
processuale, 
ossia 
alla 
individuazione 
nel-
l’ambito 
di 
ogni 
amministrazione 
dello 
Stato 
interessata, 
dell’organo 
processualmente 
legittimato 
(ad 
esempio 
in 
luogo 
del 
Ministro 
titolare 
si 
indica 
altra 
persona 
preposta 
ad 
un 
ufficio 
del 
medesimo 
Ministero), 
non 
invece 
al 
diverso 
problema 
della 
legittimazione 
ad 
causam 
e 
quindi 
dell’errore 
di 
individuazione 
dell’amministrazione 
interessata 
che 
si 
avrebbe 
ove 
si 
evocasse 
in 
giudizio 
un 
Ministero 
non 
legittimato 
al 
posto 
del 
Ministero 
competente 
(a 
questo 
caso 
non 
possono 
applicarsi 
le 
norme 
agevolatrici 
dell’art. 
4 
L. 
n. 
260/1958). 
il 
giudice 
di 
legittimità 
è 
di 
contrario 
avviso. 
Con 
orientamento 
consolidato 
la 
Cassazione 
(21) 
pone 
sullo 
stesso 
piano 
legitimatio 
ad 
causam 


(20) Cass., 9 novembre 2021, n. 32938. 


(21) 
ex 
plurimis: 
Cass., 
3 
marzo 
2021, 
n. 
5819; 
Cass., 
20 
ottobre 
2020, 
n. 
22802; 
Cass., 
24 
gennaio 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


e 
legitimatio 
ad 
processum 
applicando 
la 
medesima 
disciplina 
(art. 
4 
L. 
n. 
260/1958) 
anche 
all’errore 
nell’individuazione 
del 
Ministero 
competente. 
tanto 
sulla 
base 
del 
rilievo 
che 
la 
detta 
equiparazione 
è 
pienamente 
compatibile 
con 
il 
complessivo 
dato 
letterale 
e 
si 
rivela 
il 
solo 
idoneo 
a 
soddisfare 
la 
ratio 
legis, 
identificabile 
nell'intento 
di 
agevolare 
l'effettività 
del 
diritto 
alla 
tutela 
giurisdizionale 
delle 
pretese 
vantate 
nei 
confronti 
della 
pubblica 
amministrazione, 
in 
rapporto 
alla 
circostanza 
che 
l'esercizio 
di 
tale 
diritto, 
condizionato 
dal 
rispetto 
di 
rigorosi 
termini 
di 
decadenza, 
rischia 
di 
essere 
vanificato 
nelle 
non 
infrequenti 
ipotesi 
in 
cui 
la 
concreta 
individuazione 
del-
l'organo 
investito 
della 
rappresentanza 
dell'amministrazione 
convenuta 
ovvero 
quella 
del 
soggetto 
pubblico 
passivamente 
legittimato 
al 
giudizio 
risulti 
particolarmente 
ardua. 


tale 
orientamento, costituente 
diritto vivente, non è 
condivisibile 
perché 
contrasta 
con 
la 
portata 
della 
norma 
e 
con 
le 
norme 
sulla 
contabilità 
dello 
Stato 
rendendo possibile 
la 
condanna 
di 
un determinato Ministero per affari 
la 
cui 
spesa è prevista nel bilancio di Ministeri diversi. 


un 
ulteriore 
orientamento 
del 
giudice 
di 
legittimità 
conduce 
ad 
estendere 
un segmento della 
disposizione 
di 
cui 
al 
citato art. 4 L. n. 260/1958 -quello 
relativo al 
recupero della 
presenza 
in giudizio della 
“vera” 
amministrazione 
avente 
capacità 
di 
essere 
parte 
con 
la 
previsione 
che 
l'errore 
di 
identificazione 
della 
persona 
alla 
quale 
l'atto 
introduttivo 
del 
giudizio 
ed 
ogni 
altro 
atto 
doveva 
essere 
notificato deve 
essere 
eccepito dall'Avvocatura 
dello Stato nella 
prima 
udienza 
con la 
contemporanea 
indicazione 
della 
persona 
alla 
quale 
l'atto doveva 
essere 
notificato 
e 
il 
giudice 
deve 
concedere 
un 
termine 
entro 
il 
quale 
l'atto deve 
essere 
rinnovato -ad ulteriori 
due 
fattispecie 
sempre 
inerenti 
alla 
capacità 
di 
essere 
parte, 
alla 
corretta 
evocazione 
in 
giudizio 
dell’ente 
pubblico: 


-l'errore 
d'identificazione 
riguardante 
distinte 
ed autonome 
soggettività 
di 
diritto 
pubblico 
ammesse 
al 
patrocinio 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
(ad 
esempio 
Agenzia 
delle 
entrate 
-non compresa 
nel 
concetto di 
“Amministrazione 
dello Stato, anche 
ad ordinamento autonomo” 
-in luogo del 
Ministero competente) 
(22); 
-l’erronea 
evocazione 
in giudizio di 
una 
articolazione 
del 
Ministero, in 
luogo 
del 
Ministero; 
ossia 
l'azione 
viene 
dispiegata 
direttamente 
nei 
confronti 
di 
un ufficio o di 
un organo privo di 
soggettività 
autonoma. Ad esempio viene 
convenuto in giudizio l’ufficio Scolastico regionale 
-come 
tale 
privo di 
autonoma 
capacità di essere parte - in luogo del Ministero dell’istruzione (23). 
2020, 
n. 
1583; 
Cass., 
9 
maggio 
2019, 
n. 
12322; 
Cass., 
21 
marzo 
2019, 
n. 
8049; 
Cass., 
S.u., 
27 
novembre 
2018, n. 30649; 
Cass., S.u., 14 febbraio 2006, n. 3117; 
Cass., 19 novembre 
2003, n. 17546; 
Cass., 26 
giugno 2001, n. 8697. 


(22) 
Cass., 
6 
marzo 
2018, 
n. 
5314; 
Cass. 
4 
marzo 
2016, 
n. 
4266 
e 
Cass. 
17 
dicembre 
2014, 
n. 
26501. 
(23) Cass., 9 novembre 2021, n. 32938 e Cass., 5 novembre 2021, n. 32166. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Per il 
citato orientamento, l'operatività 
della 
disposizione 
l'art. 4 della 
L. 


n. 260/1958 è 
circoscritta 
al 
solo profilo della 
rimessione 
in termini; 
è 
esclusa 
-atteso il 
rispetto del 
principio dell'effettività 
del 
contraddittorio -ogni 
stabilizzazione 
degli 
effetti 
dell'atto giudiziario (e 
del 
conseguente 
giudizio) ove 
sia 
stato 
evocato 
ad 
altro 
soggetto. 
Sicché, 
in 
mancanza 
dell'eccezione 
da 
parte 
dell'Avvocatura 
o dell'indicazione 
di 
pertinenza 
dell'Avvocatura, oppure 
nel 
caso 
del 
mancato 
adeguamento 
della 
parte 
o 
mancanza 
del 
provvedimento 
del 
giudice 
non denunciata 
in sede 
di 
impugnazione 
o non coinvolta 
dagli 
effetti 
dell'impugnazione, la 
sanatoria 
non ha 
corso; 
l'azione 
resta 
inammissibile 
in 
quanto 
proposta 
nei 
confronti 
di 
entità 
priva 
di 
soggettività 
e 
quindi 
di 
titolarità 
delle situazioni oggetto di giudizio. 
Anche 
quest’ultimo 
orientamento 
estensivo 
-applicare 
un 
segmento 
dell’art. 
4 
L. 
n. 
258/1958 
-non 
deve 
ritenersi 
condivisibile. 
Peraltro 
agli 
stessi 
risultati 
si 
perviene 
con 
l’applicazione 
delle 
regole 
generali 
sul 
controllo 
d’ufficio 
degli 
aspetti 
relativi 
alla 
capacità 
processuale, ossia 
con l’applicazione 
dell’art. 182 c.p.c. 


istituzioni scolastiche. 


il 
dirigente 
scolastico, 
legale 
rappresentante 
dell’istituzione 
scolastica 
(art. 25, comma 
2, D.L.vo n. 165/2001), é 
l’organo dotato della 
capacità 
processuale 
(24). 

agenzie Fiscali. 


il 
potere 
di 
rappresentanza 
generale, e 
quindi 
anche 
processuale, spetta 
in assenza 
di 
diverse 
previsioni 
statutarie 
-al 
direttore 
il 
quale 
“rappresenta 
l'agenzia e 
la dirige, emanando tutti 
i 
provvedimenti 
che 
non siano attribuiti, 
in base 
alle 
norme 
del 
presente 
decreto legislativo o dello statuto, ad altri 
organi” 
(art. 68, comma 1, D.L.vo n. 300/1999). 


regioni. 


La 
legittimazione 
processuale, per le 
regioni, è 
attribuita 
al 
Presidente 
della 
Giunta 
regionale 
(art. 121, comma 
4, Cost.). Per la 
regione 
Sicilia, ove 
parte 
in causa 
sia 
l’Assessorato, ciascun assessore 
è 
legittimato a 
stare 
in giudizio 
(in rappresentanza 
dell’ente) nelle 
controversie 
relative 
a 
materie 
di 
sua 
competenza. 


Per 
la 
regione 
-per 
un 
principio 
valevole 
per 
tutti 
gli 
enti 
i 
cui 
organi 
di 
ver


(24) in senso contrario, Cass. 17 marzo 2009, n. 6460 secondo cui 
ai 
dirigenti 
delle 
istituzioni 
scolastiche 
competono, in base 
all'art. 25 del 
d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, funzioni 
decisamente 
più ridotte 
rispetto a 
quelle 
spettanti 
ai 
dirigenti 
degli 
uffici 
dirigenziali 
generali, e 
limitati 
all'ambito dell'autonomia 
organizzativa, didattica 
e 
finanziaria, con la 
conseguenza 
che 
ai 
primi 
non spetta 
il 
potere 
di 
promuovere 
e 
resistere 
alle 
liti, che 
è, invece, esplicitamente 
previsto (dall'art. 16 del 
citato d.lgs. n. 165 
del 2001) per i dirigenti di uffici dirigenziali generali. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


tice 
siano 
direttamente 
o 
indirettamente 
espressione 
di 
rappresentanza 
politica 
l’attribuzione 
ex 
art. 
4, 
comma 
2, 
tuPi 
ai 
dirigenti 
della 
funzione 
di 
gestione 
amministrativa 
comprende 
l’attribuzione 
agli 
stessi 
del 
potere 
di 
determinazione 
circa 
l’opportunità 
di 
promuovere 
o 
resistere 
alle 
liti 
(ma 
non 
di 
stare 
in 
giudizio). 


Comuni e Province. 


Per gli 
enti 
locali 
la 
legittimazione 
processuale 
spetta 
-ex 
artt. 6, prima 
parte 
del 
comma 
2, e 
50, incipit 
del 
comma 
2, tueL 
(25) -al 
sindaco ed al 
presidente 
della 
provincia, cui 
compete, in via 
esclusiva, il 
potere 
di 
conferire 
al 
difensore 
la 
procura 
alle 
liti, senza 
la 
necessità 
di 
una 
delibera 
di 
autorizzazione 
della 
Giunta; 
analogamente 
allo Stato, anche 
per gli 
enti 
locali 
l’attribuzione 
al 
dirigente 
della 
funzione 
di 
gestione 
amministrativa 
(ai 
sensi 
dell’art. 
107 
tueL) 
comprende 
l’attribuzione 
al 
medesimo 
del 
potere 
di 
determinazione 
in ordine 
all’opportunità 
di 
promuovere 
o resistere 
alle 
liti 
(ma 
non di 
stare 
in 
giudizio), 
atteso 
che 
tale 
provvedimento 
assume 
il 
carattere 
di 
una 
valutazione 
di 
natura 
tecnica, 
strettamente 
legata 
alla 
gestione 
amministrativa 
nel 
caso singolo. È 
salva 
la 
possibilità 
per lo Statuto (competente 
a 
stabilire 
i 
modi 
di 
esercizio della 
rappresentanza 
legale 
dell'ente, anche 
in giudizio ex 
art. 6, comma 
2, tueL), ed anche 
per il 
regolamento, ove 
lo statuto contenga 
un espresso rinvio in materia, al regolamento 


-di 
prevedere 
l'autorizzazione 
della 
Giunta, 
ovvero 
di 
richiedere 
una 
preventiva 
determinazione 
del 
competente 
dirigente, 
ovvero, 
ancora, 
di 
postulare 
l'uno 
o 
l'altro 
intervento 
in 
relazione 
alla 
natura 
o 
all'oggetto 
della 
controversia. 
ove 
l'autonomia 
statutaria 
si 
sia 
così 
indirizzata, 
l'autorizzazione 
giuntale 
o 
la 
determinazione 
dirigenziale 
devono 
essere 
considerati 
atti 
necessari, 
per 
espressa 
scelta 
statutaria, ai 
fini 
della 
legittimazione 
processuale 
dell'organo 
titolare della rappresentanza; 


-di 
attribuire 
la 
legittimazione 
processuale 
ai 
dirigenti, 
nell'ambito 
dei 
rispettivi 
settori 
di 
competenza, 
ovvero 
ad 
esponenti 
apicali 
della 
struttura 
burocratico-
amministrativa 
ovvero al 
dirigente 
dell’ufficio legale; 
in questa 
ultima 
evenienza 
il 
dirigente 
dell'ufficio legale, quando ne 
abbia 
i 
requisiti, può 
costituirsi 
senza 
bisogno di 
procura, ovvero attribuire 
l'incarico ad un professionista 
legale 
interno o del 
libero foro (salve 
le 
ipotesi, legalmente 
tipizzate, 
nelle 
quali 
l'ente 
locale 
può stare 
in giudizio senza 
il 
ministero di 
un legale) e, 
ove 
abilitato alla 
difesa 
presso le 
magistrature 
superiori, può anche 
svolgere 
personalmente attività difensiva nel giudizio di cassazione (26). 


(25) Art. 6, prima 
parte 
del 
comma 
2, tueL: 
“Lo statuto, nell'ambito dei 
principi 
fissati 
dal 
presente 
testo unico, stabilisce 
le 
norme 
fondamentali 
dell'organizzazione 
dell'ente 
e, in particolare, specifica 
le 
attribuzioni 
degli 
organi 
e 
le 
forme 
di 
garanzia e 
di 
partecipatone 
delle 
minoranze, i 
modi 
di 
esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio”. 
Art. 50, incipit del comma 2, tueL: “il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente”. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


altri enti pubblici. 


Per i 
restanti 
enti 
pubblici, nei 
quali 
è 
assente 
il 
momento politico, tendenzialmente 
in capo al 
rappresentante 
legale 
dell’ente 
si 
cumulano ambedue 
le 
legittimazioni, processuale 
e 
sostanziale, salva 
diversa 
previsione 
legale 
o 
statutaria. 


Fatta 
questa 
precisazione 
si 
evidenzia 
che, con riferimento agli 
enti 
pubblici 
diversi 
dagli 
enti 
territoriali, 
la 
legittimazione 
processuale, 
con 
indicazione 
esemplificativa, spetta: 


-per le 
Aziende 
Sanitarie 
Locali 
al 
Direttore 
Generale, al 
quale 
sono riservati 
“Tutti 
i 
poteri 
di 
gestione, 
nonché 
la 
rappresentanza 
dell'unità 
sanitaria 
locale” (art. 3, incipit comma 6, D.L.vo 30 dicembre 1992, n. 502); 
-per le 
Camere 
di 
Commercio, industria, artigianato e 
agricoltura 
la 
legittimazione 
processuale 
spetta 
al 
Presidente 
(art. 16, incipit 
comma 
2, L. 29 
dicembre 
1993, 
n. 
580); 
analogamente 
per 
l’iNPS 
(art. 
2, 
incipit 
comma 
2, 
D.P.r. 
30 
aprile 
1970, 
n. 
639) 
e 
l’iNAiL 
(art. 
2, 
comma 
2, 
lett. 
a, 
r.D. 
6 
luglio 
1933, n. 1033). 
requisiti della capacità processuale dell’ente pubblico. 


Affinché 
sia 
regolare 
il 
presupposto 
processuale 
della 
capacità 
processuale 
è 
necessario, quindi, che 
l’ente 
stia 
in giudizio a 
mezzo dell’organo dotato 
della 
capacità 
di 
stare 
in giudizio ed altresì 
-nei 
casi 
in cui 
la 
normativa 
rilevante 
richieda 
l’autorizzazione 
a 
stare 
in giudizio, ossia 
la 
determinazione 
di 
promuovere 
o 
resistere 
alle 
liti 
(circostanza 
che 
ricorre 
spesso 
negli 
enti 
territoriali) 
-che 
sia 
adottato il 
provvedimento di 
autorizzazione 
a 
stare 
in giudizio, 
debitamente documentato nel processo. 


Va 
precisato 
che 
allorché 
l’ente 
pubblico 
sia 
difeso 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato, 
il 
mandato 
ex 
lege 
spettante 
all’organo 
Legale 
esclude 
la 
necessità 
della 
adozione 
e 
documentazione 
dell’atto 
di 
autorizzazione 
a 
stare 
in 
giudizio, 
avendo quest’ultimo un valore 
di 
atto interno (nei 
rapporti 
tra 
Amm.ne 
ed Avvocatura) 
senza 
alcun riflesso processuale. Difatti 
lo jus 
postulandi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
organico, 
derivante 
direttamente 
dalla 
legge. 
L’organicità 
dello jus 
postulandi 
comporta 
che 
gli 
avvocati 
dello Stato esercitano 
le 
loro 
funzioni 
innanzi 
a 
tutte 
le 
giurisdizioni 
ed 
in 
qualunque 
sede 
e 
non 


(26) Conf. Cass. S.u., 16 giugno 2005, n. 12868 (specificante, tra 
l’altro, che 
in mancanza 
di 
una 
specifica 
previsione 
statutaria, che 
affida 
la 
rappresentanza 
processuale 
e 
la 
difesa 
dell'ente 
ai 
dirigenti, 
il 
potere 
medesimo spetta 
al 
Sindaco ex 
art. 50 t.u.e.L., il 
quale, tranne 
che 
vi 
sia 
espressa 
previsione 
statutaria, 
non 
deve 
essere 
autorizzato 
dalla 
Giunta 
a 
resistere 
in 
giudizio 
o 
a 
nominare 
il 
legale 
e 
l'eventuale 
previsione 
in 
Statuto 
della 
previa 
determinazione 
del 
dirigente 
competente 
ha 
natura 
di 
valutazione 
tecnica 
circa 
l'opportunità 
della 
lite 
e 
non 
di 
atto 
autorizzatorio 
in 
senso 
tecnico). 
in 
senso 
analogo: 
Cass. 
S.u., 27 giugno 2005, n. 13710; 
Cons. Stato, 30 luglio 2021, n. 5619; 
Cass, 30 giugno 2020, n. 12976; 
Cass., 30 dicembre 
2019, n. 34599; 
Cass., 22 marzo 2012, n. 4556; 
Cass., 21 maggio 2009, n. 11848; 
Cass., 13 marzo 2009, n. 6227; Cass., 16 giugno 2005, n. 68. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


hanno bisogno di 
mandato, neppure 
nei 
casi 
nei 
quali 
le 
norme 
ordinarie 
richiedono 
quello 
speciale 
(art. 
1, 
comma 
2, 
r.D. 
n. 
1611/1933) 
e 
non 
sono 
onerati 
della 
produzione 
del 
provvedimento, 
del 
competente 
organo, 
di 
autorizzazione 
ad 
agire 
o 
resistere 
in 
giudizio, 
essendo 
sufficiente 
soltanto 
che 
risulti 
la 
loro qualità. il 
rapporto tra 
amministrazione 
difesa 
e 
l’Avvocatura 
è 
un 
rapporto 
interno, 
di 
immedesimazione 
organica, 
con 
una 
duplice 
conseguenza: 
da 
un 
lato, 
è 
inibita 
al 
giudice 
ogni 
indagine 
sull’esistenza 
o 
meno 
dell’incarico attribuito dall’Amministrazione 
all’Avvocatura 
dello Stato; 
dal-
l’altro la 
deliberazione 
dell’organo statale 
competente 
a 
promuovere 
la 
lite 
(o 
resistere 
alla 
lite 
da 
altri 
promossa) resta 
un mero atto interno, privo di 
rilevanza 
processuale 
e 
la 
violazione 
da 
parte 
dell’Avvocatura 
delle 
direttive 
impartite 
dall’organo 
statale 
titolare 
della 
legitimatio 
ad 
processum 
potrà 
dar 
luogo 
a 
responsabilità 
disciplinare 
e/o 
amministrativa 
dell’Avvocato 
dello 
Stato 
“infedele” 
per 
i 
danni 
erariali 
eventualmente 
cagionati, 
ma 
non 
produrrà 
mai alcun effetto invalidante sul processo (27). 

Patologia 
del 
presupposto 
processuale 
della 
legitimatio 
ad 
processum 
e 
la 
sua 
sanatoria. 


Nel 
caso 
in 
cui 
il 
soggetto 
costituito 
in 
giudizio 
sia 
privo 
della 
rappresentanza 
processuale 
ex 
art. 75 c.p.c. -o questa 
presenti 
vizi 
-il 
giudice 
d’ufficio 
deve procedere al rilievo ex 
art. 182 c.p.c. (28) onde sanare il vizio. 


il 
rilievo deve 
essere 
fatto alla 
prima 
udienza 
(artt. 182 e 
183, commi 
1 e 
2, c.p.c.) (29), in mancanza 
può essere 
fatto nel 
corso del 
giudizio, sicché 
la 


(27) Conf., da 
ultimo ex 
plurimis, Cass., 3 settembre 
2018, n. 21557 secondo cui 
in tema 
di 
rappresentanza 
e 
difesa 
facoltativa 
degli 
enti 
pubblici 
da 
parte 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato, 
non 
è 
necessario 
che, in ordine 
ai 
singoli 
giudizi, l'ente 
rilasci 
uno specifico mandato all'Avvocatura 
medesima, né 
che 
questa 
produca 
il 
provvedimento 
del 
competente 
organo 
dell'ente 
recante 
l'autorizzazione 
del 
legale 
rappresentante 
ad agire 
od a 
resistere 
in causa, escludendo gli 
artt. 1 e 
45 r.D. n. 1611 del 
1933 che 
l'Avvocatura 
necessiti 
di 
alcuna 
forma 
di 
mandato 
ed 
essendo 
eventuali 
divergenze 
tra 
organi 
sulla 
opportunità 
di 
promuovere 
la 
lite 
o di 
resistere 
a 
lite 
da 
altri 
proposta, impedite 
o composte 
"intra moenia" 
dalla 
previsione 
dell'art. 12 L. 3 aprile 
1979, n. 103. Ne 
consegue 
che 
la 
stessa 
assunzione 
di 
iniziativa 
giudiziaria, 
pure 
nella 
forma 
dell'impugnazione, 
ad 
opera 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
con 
riguardo 
a 
tali 
organi 
od enti, comporta 
la 
presunzione 
"iuris 
et 
de 
iure" 
di 
esistenza 
di 
un valido consenso e 
di 
piena 
validità 
dell'atto 
processuale 
compiuto 
e 
lascia 
nell'ambito 
del 
rapporto 
interno 
le 
questioni 
attinenti 
alla 
inosservanza 
di 
regole 
di 
formazione 
del 
consenso medesimo. Analogamente: 
Cons. Stato, 16 febbraio 
2017, n. 691 e 
Cons. Stato, 16 febbraio 2017, n. 692 per le 
quali 
l’Avvocatura 
dello Stato non ha 
bisogno, per compiere 
gli 
atti 
del 
proprio ministero, del 
mandato dell'amministrazione 
rappresentata, in 
quanto questo discende direttamente dalla legge (art. 1 r.D. n. 1611/1933). 
(28) “il 
giudice 
istruttore 
verifica d'ufficio la regolarità della costituzione 
delle 
parti 
e, quando 
occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. 
Quando rileva un difetto di 
rappresentanza, di 
assistenza o di 
autorizzazione 
ovvero un vizio che 
determina 
la nullità della procura al 
difensore, il 
giudice 
assegna alle 
parti 
un termine 
perentorio per 
la costituzione 
della 
persona 
alla 
quale 
spetta 
la 
rappresentanza 
o 
l'assistenza, 
per 
il 
rilascio 
delle 
necessarie 
autorizzazioni, ovvero per 
il 
rilascio della procura alle 
liti 
o per 
la rinnovazione 
della stessa. L'osservanza 
del 
termine 
sana i 
vizi, e 
gli 
effetti 
sostanziali 
e 
processuali 
della domanda si 
producono fin dal 
momento della prima notificazione”. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


sanatoria 
del 
difetto di 
rappresentanza 
processuale 
della 
parte 
può avvenire 
in 
qualunque 
stato e 
grado del 
giudizio con efficacia 
retroattiva, con riferimento 
a 
tutti 
gli 
atti 
processuali 
già 
compiuti 
per 
effetto 
della 
costituzione 
in 
giudizio 
del 
soggetto dotato dell'effettiva 
rappresentanza 
dell'ente 
stesso, il 
quale 
manifesti 
la 
volontà, anche 
tacita, di 
ratificare 
la 
precedente 
condotta 
difensiva 
del 
falsus procurator. 


La 
sanatoria 
del 
difetto 
di 
legittimazione 
può 
avvenire 
sia 
indirettamente, 
in conseguenza 
di 
un giudicato interno, sia 
direttamente 
mediante 
la 
costituzione 
dell'effettivo rappresentante 
legale 
nei 
vari 
gradi 
del 
giudizio, sia 
attraverso 
atti 
di 
ratifica 
o di 
accettazione 
anche 
implicita 
(per 
facta concludentia) 
del contraddittorio da parte del soggetto legittimato. 

7. rapporti tra i poteri dell’aGo e quelli della P.a. 
La 
sentenza 
di 
condanna 
può avere 
quale 
contenuto anche 
un facere 
infungibile, 
di 
un obbligo incoercibile 
(ad esempio: 
adempimento del 
datore 
di 
lavoro dell’obbligo di 
assegnare 
mansioni 
equivalenti 
ex 
art. 2103 c.c. scaturente 
dall’accertamento 
di 
un 
illegittimo 
demansionamento 
del 
lavoratore, 
con 
condanna 
della 
P.A. 
al 
ripristino 
in 
precedenti 
o 
equivalenti 
mansioni; 
reintegra 
in 
conseguenza 
di 
licenziamento 
illegittimo). 
Le 
eventuali 
difficoltà 
esecutive 
non 
ridondano 
sulla 
effettività 
della 
tutela 
cognitiva: 
vi 
può 
essere 
l’esecuzione 
volontaria; 
altrimenti 
comunque 
-attesa 
la 
insuscettibilità 
della 
esecuzione 
forzata 
ex 
art. 612 c.p.c. dinanzi 
all’A.G.o. -si 
può proporre 
la 
domanda 
di 
risarcimento del 
danno. eppoi 
vi 
è 
il 
giudizio di 
ottemperanza, a 
fronte 
del 
fa-
cere 
infungibile, dinanzi al giudice amministrativo. 


A 
fronte 
del 
facere 
fungibile, invece, vi 
è 
una 
doppia 
tutela 
esecutiva: 
dinanzi 
all’A.G.o. in sede 
di 
esecuzione 
civile 
e 
dinanzi 
al 
G.A. con il 
giudizio 
di 
ottemperanza 
ex 
art. 
112, 
comma 
2, 
lett. 
c, 
c.p.a. 
(pacificamente 
utilizzabile 
con riguardo a 
statuizioni 
giudiziali 
del 
giudice 
civile 
recanti 
condanne 
al 
pagamento 
di 
somme, con possibilità 
di 
nomina 
del 
Commissario ad acta 
affinché 
proceda in caso di ulteriore inerzia dell'Amministrazione) (30). 


8. Notifica dell’atto introduttivo. 
Per l’art. 415, comma 
7, c.p.c. “Nelle 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
al 
quinto 
comma 
dell'articolo 
413, 
il 
ricorso 
è 
notificato 
direttamente 
presso 
l'amministrazione 


(29) 
“all'udienza 
fissata 
per 
la 
prima 
comparizione 
delle 
parti 
e 
la 
trattazione 
il 
giudice 
istruttore 
verifica 
d'ufficio 
la 
regolarità 
del 
contraddittorio 
e, 
quando 
occorre, 
pronuncia 
i 
provvedimenti 
previsti 
dall'articolo 102, secondo comma, dall'art. 164, secondo, terzo e 
quinto comma, dall'art. 167, secondo 
e 
terzo comma, dall'articolo 182 e 
dall'articolo 291, primo comma. Quando pronunzia i 
provvedimenti 
di cui al primo comma, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione”. 
(30) 
ex 
plurimis: 
Cons. 
Stato, 
25 
agosto 
2020, 
n. 
5201; 
Cons. 
Stato, 
30 
giugno 
2020, 
n. 
4111; 
Cons. Stato, 15 maggio 2020, n. 3098. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


destinataria 
ai 
sensi 
dell'articolo 
144, 
secondo 
comma. 
Per 
le 
amministrazioni 
statali 
o ad esse 
equiparate, ai 
fini 
della rappresentanza e 
difesa in giudizio, 
si 
osservano 
le 
disposizioni 
delle 
leggi 
speciali 
che 
prescrivono 
la 
notificazione 
presso gli uffici dell'avvocatura dello Stato competente per territorio”. 


La 
citata 
disposizione, 
ove 
sia 
parte 
in 
giudizio 
una 
Amministrazione 
dello Stato anche 
ad ordinamento autonomo, conferma 
la 
regola 
sulla 
notifica 
degli 
atti 
processuali 
introduttivi 
del 
giudizio 
presso 
gli 
uffici 
dell'Avvocatura 
dello Stato competente per territorio fissata dall’art. 11 r.D. n. 1611/1933. 

inoltre, la 
detta 
disposizione 
estende 
la 
regola 
sulla 
notifica 
degli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio 
presso 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
anche 
nel 
caso 
in 
cui 
siano 
parte 
in 
giudizio 
Amm.ni 
equiparate, 
ai 
fini 
della 
rappresentanza 
e 
difesa 
in giudizio, alle 
amministrazioni 
statali; 
sono tali 
gli 
enti 
pubblici 
beneficiari 
del 
c.d. 
patrocinio 
autorizzato 
ex 
art. 
43 
r.D. 
n. 
1611/1933 
(31). 
in 
questa 
ipotesi, 
giusta 
l’art. 45 r.D. n. 1611/1933 “Per 
l'esercizio delle 
funzioni 
di 
cui 
ai 
due 
precedenti 
articoli, si 
applica il 
secondo comma dell'art. 1 del 
presente 
testo unico” 
sul 
c.d. mandato ex 
lege. operano peraltro quelle 
normative 
proprie 
del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato; 
si 
estendono quindi 
agli 
enti 
le 
norme 
dell’art. 
2 
r.D. 
n. 
1611/1933 
(32) 
sulla 
rappresentanza 
dei 
funzionari 
e 
dell’art. 3 r.D. n. 1611/1933 (33) sulla 
diretta 
difesa 
dell’amministrazione 
indirizzata 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato. 
il 
c.d. 
patrocinio 
autorizzato 
è 
così 
ca


(31) 
“L'avvocatura 
dello 
Stato 
può 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i 
Collegi 
arbitrali, 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali, 
di 
amministrazioni 
pubbliche 
non 
statali 
ed 
enti 
sovvenzionati, 
sottoposti 
a 
tutela 
od 
anche 
a 
sola 
vigilanza 
dello 
Stato, 
sempre 
che 
sia 
autorizzata 
da 
disposizione 
di 
legge, 
di 
regolamento 
o 
di 
altro 
provvedimento 
approvato 
con 
regio 
decreto 
[A 
termini 
dell’art. 
2 
L. 
12 
gennaio 
1991, 
n. 
13: 
“1. 
Gli 
atti 
amministrativi, 
diversi 
da 
quelli 
previsti 
dall'articolo 
1, 
per 
i 
quali 
è 
adottata 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
legge 
la 
forma 
del 
decreto 
del 
Presidente 
della 
repubblica, 
sono 
emanati 
con 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
o 
con 
decreto 
ministeriale, 
a 
seconda 
della 
competenza 
a 
formulare 
la 
proposta 
sulla 
base 
della 
normativa 
vigente 
alla 
data 
di 
cui 
sopra. 
2. 
Gli 
atti 
amministrativi 
di 
cui 
al 
comma 
1, 
ove 
proposti 
da 
più 
ministri 
sono 
emanati 
nella 
forma 
del 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri”]. 
Le 
disposizioni 
e 
i 
provvedimenti 
anzidetti 
debbono 
essere 
promossi 
di 
concerto 
coi 
ministri 
per 
la 
grazia 
e giustizia e per le finanze. 
Qualora 
sia 
intervenuta 
l'autorizzazione, 
di 
cui 
al 
primo 
comma, 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
nei 
giudizi 
indicati 
nello stesso comma sono assunte 
dalla avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati 
i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le regioni. 
Salve 
le 
ipotesi 
di 
conflitto, 
ove 
tali 
amministrazioni 
ed 
enti 
intendano 
in 
casi 
speciali 
non 
avvalersi 
della avvocatura dello Stato, debbono adottare 
apposita motivata delibera da sottoporre 
agli 
organi 
di 
vigilanza. 
Le 
disposizioni 
di 
cui 
ai 
precedenti 
commi 
sono estese 
agli 
enti 
regionali, previa deliberazione 
degli 
organi competenti”. 
(32) “Per 
la rappresentanza delle 
amministrazioni 
dello Stato nei 
giudizi 
che 
si 
svolgono fuori 
della sede 
degli 
uffici 
dell'avvocatura dello Stato, questa ha facoltà di 
delegare 
funzionari 
dell'amministrazione 
interessata, esclusi 
i 
magistrati 
dell'ordine 
giudiziario, ed in casi 
eccezionali 
anche 
procuratori 
legali, esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio. 
[…].”. 
(33) 
“innanzi 
alle 
Preture 
ed 
agli 
Uffici 
di 
conciliazione 
le 
amministrazioni 
dello 
Stato 
possono, 
intesa 
l'avvocatura 
dello 
Stato, 
essere 
rappresentate 
dai 
propri 
funzionari 
che 
siano 
per 
tali 
riconosciuti”. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


ratterizzato: 
l’Avvocatura 
dello Stato difende 
in giudizio e 
rende 
i 
pareri 
richiesti 
all’ente; 
in giudizio non occorre 
esibire 
il 
mandato né 
la 
delibera 
di 
incarico, 
bastando 
solo 
che 
consti 
la 
qualità 
di 
avvocato 
dello 
Stato; 
non 
si 
applica 
il 
restante 
speciale 
regime 
processuale 
relativo al 
patrocinio istituzionale, 
ossia 
in favore 
delle 
Amministrazioni 
dello Stato anche 
ad ordinamento 
autonomo 
(fondamentalmente 
le 
regole 
sul 
foro 
erariale, 
sulla 
notificazione 
degli 
atti 
processuali 
all’Avvocatura 
dello Stato, sulla 
necessità 
della 
autorizzazione 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
per 
la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo penale 
ex 
art. 1, comma 
4, L. 3 gennaio 1991, n. 3 e 
sulle 
norme 
tributarie 
di 
favore 
relative 
alla 
prenotazione 
a 
debito 
delle 
spese 
di 
giudizio ex 
art. 158 D.P.r. 30 maggio 2002, n. 115). 


Alla 
stregua 
di 
quanto esposto quindi 
-in virtù della 
disposizione 
estensiva 
della 
regola 
sulla 
notifica 
degli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio presso l'Avvocatura 
dello 
Stato 
anche 
nel 
caso 
in 
cui 
siano 
parte 
in 
giudizio 
Amm.ni 
equiparate, ai 
fini 
della 
rappresentanza 
e 
difesa 
in giudizio, alle 
amministrazioni 
statali 
-si 
deroga, per le 
controversie 
individuali 
di 
lavoro, all’ordinario 
regime 
processuale 
valevole 
per 
il 
c.d. 
patrocinio 
autorizzato 
dell’Avvocatura 
dello Stato sulla materia delle notifiche. 


Sicché, 
ad 
esempio, 
alle 
università 
degli 
Studi 
e 
istituti 
Superiori 
Statali 
beneficiarie 
ex 
art. 
56, 
comma 
1, 
t.u. 
31 
agosto 
1933, 
n. 
1592 
(34) 
del 


c.d. 
patrocinio 
autorizzato 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
sono 
-in 
via 
ordinaria 
-inapplicabili 
le 
disposizioni 
sul 
foro 
erariale 
e 
sulla 
domiciliazione 
presso 
l'Avvocatura, 
ai 
fini 
della 
notificazione 
di 
atti 
e 
provvedimenti 
giudiziali, 
salve 
-quanto 
alle 
notificazioni 
-le 
controversie 
in 
materia 
di 
lavoro, 
attesa 
l'equiparazione 
alle 
amministrazioni 
statali 
ai 
fini 
della 
(34) “Le 
Università e 
gli 
istituti 
superiori 
possono essere 
rappresentati 
e 
difesi 
dall'avvocatura 
dello Stato nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
l'autorità giudiziaria, i 
collegi 
arbitrali 
e 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
speciali, sempreché 
non trattisi 
di 
contestazioni 
contro lo Stato”. Questi, prima 
della 
riforma 
operata 
con 
la 
L. 
2 
maggio 
1989, 
n. 
168 
(che 
all’art. 
6 
ha 
riconosciuto 
autonomia 
didattica, 
scientifica, 
organizzativa, finanziaria, contabile 
ed autorganizzazione 
degli 
atenei 
statali) erano qualificati, 
essendo 
inseriti 
nell’organizzazione 
statale, 
organi 
dello 
Stato 
muniti 
della 
personalità 
giuridica, 
con 
conseguente 
regime 
di 
patrocinio istituzionale 
(Conf. Cass. 10 settembre 
1997, n. 8877; 
Cass. 2 marzo 
1994, n. 2061). Dopo la 
riforma 
introdotta 
dalla 
L. n. 168/1989, si 
ritiene 
che 
alle 
università 
non può 
più 
essere 
riconosciuta 
la 
qualità 
di 
organi 
dello 
Stato, 
ma 
quella 
di 
ente 
pubblico 
autonomo, 
con 
la 
conseguenza 
che, ai 
fini 
della 
rappresentanza 
e 
difesa 
da 
parte 
dell'Avvocatura 
dello Stato, non opera 
il 
patrocinio 
istituzionale 
disciplinato dal 
r.D. 30 ottobre 
1933, n. 1611, artt. da 
1 a 
11, bensì, in virtù del 
r.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56, non abrogato dalla 
L. n. 168 del 
1989, il 
patrocinio autorizzato 
disciplinato dal 
r.D. n. 1611 del 
1933, art. 43 e 
art. 45, con i 
limitati 
effetti 
previsti 
per tale 
forma 
di 
rappresentanza: 
esclusione 
della 
necessità 
del 
mandato 
e 
facoltà, 
salvo 
i 
casi 
di 
conflitto, 
di 
non 
avvalersi 
dell'Avvocatura 
dello Stato con apposita 
e 
motivata 
delibera 
(in tal 
senso: 
Cass., S.u., 10 maggio 2006, 
n. 
10700; 
Cass., 
29 
luglio 
2008, 
n. 
20582). 
Sulla 
problematica: 
V. 
rAGo, 
Università 
degli 
Studi: 
giudice 
amministrativo e 
ordinario concordano sul 
patrocinio esclusivo dell’avvocatura dello Stato, in rass. 
avv. Stato, 2004, 3, pp. 769-771; 
A. Mezzotero, M.V. LuMetti, 
il 
patrocinio erariale 
autorizzato: è 
organico, esclusivo e 
non presuppone 
alcuna istanza dell’ente 
all’avvocatura dello Stato, in 
rass. avv. 
Stato, 2009, 2, pp. 20-33. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


rappresentanza 
e 
difesa 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
del 
comma 
7 
dell’art. 
415 
c.p.c. 
(35). 


9. Difesa delle 
amministrazioni pubbliche. 
L’art. 417 
bis 
c.p.c. recita: 


“Nelle 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
al 
quinto 
comma 
dell'articolo 
413, 
limitatamente 
al 
giudizio di 
primo grado le 
amministrazioni 
stesse 
possono stare 
in giudizio 
avvalendosi direttamente di propri dipendenti. 


Per 
le 
amministrazioni 
statali 
o ad esse 
equiparate, ai 
fini 
della rappresentanza 
e 
difesa in giudizio, la disposizione 
di 
cui 
al 
comma precedente 
si 
applica salvo che 
l'avvocatura dello Stato competente 
per 
territorio, ove 
vengano 
in rilievo questioni 
di 
massima o aventi 
notevoli 
riflessi 
economici, determini 
di 
assumere 
direttamente 
la 
trattazione 
della 
causa 
dandone 
immediata comunicazione 
ai 
competenti 
uffici 
dell'amministrazione 
interessata, 
nonché 
al 
Dipartimento della funzione 
pubblica, anche 
per 
l'eventuale 
emanazione 
di 
direttive 
agli 
uffici 
per 
la gestione 
del 
contenzioso del 
lavoro. 
in ogni 
altro caso l'avvocatura dello Stato trasmette 
immediatamente, e 
comunque 
non oltre 
7 giorni 
dalla notifica degli 
atti 
introduttivi, gli 
atti 
stessi 
ai 
competenti 
uffici 
dell'amministrazione 
interessata per 
gli 
adempimenti 
di 
cui al comma precedente. 


Gli 
enti 
locali, anche 
al 
fine 
di 
realizzare 
economie 
di 
gestione, possono 
utilizzare 
le 
strutture 
dell'amministrazione 
civile 
del 
ministero 
dell'interno, 
alle quali conferiscono mandato nei limiti di cui al primo comma”. 


La 
difesa 
diretta 
opera 
solo 
per 
le 
Amm.ni 
di 
cui 
all’art. 
1, 
comma 
2, 
tuPi; 
sono esclusi, quindi, gli 
enti 
pubblici 
economici; 
essa 
riguarda 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro 
alle 
dipendenze 
delle 
PP.AA. 
(non 
anche 
quelle collettive, ad es. ex 
art. 28 Statuto). 

La 
norma 
in esame 
distingue 
tra 
amministrazioni 
statali 
o ad esse 
equiparate 
e 
tutte 
le 
altre 
amministrazioni 
pubbliche. Queste 
ultime 
nelle 
controversie 
di 
lavoro 
possono 
stare 
in 
giudizio 
costituendosi 
direttamente 
attraverso 
i 
propri 
dipendenti, mentre 
per le 
amministrazioni 
statali 
e 
ad esse 
equiparate 
ciò è 
possibile 
solo se 
l'Avvocatura 
dello Stato competente 
per territorio non 
scelga 
di 
assumere 
la 
trattazione 
della 
causa, nel 
caso in cui 
sussistano questioni 
di 
massima 
oppure 
aventi 
notevoli 
riflessi 
economici, dando in tal 
caso 
le 
comunicazioni 
previste 
dal 
comma 
2; 
se, invece, non assume 
direttamente 
la 
difesa, l'Avvocatura, immediatamente 
e 
non oltre 
sette 
giorni 
dalla 
notifica 
degli 
atti 
introduttivi, trasmette 
gli 
stessi 
all'amministrazione 
interessata, per 
gli adempimenti conseguenziali in ordine alla difesa. 


(35) Conf. Cass. 20582/2008 cit. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


il 
codice 
consente 
la 
difesa 
diretta 
della 
P.A. secondo il 
tipo regolato in 
via 
generale 
dall’art. 86 c.p.c., in alternativa 
alla 
difesa 
tecnica 
(difesa 
tecnica 
operante: 
per 
le 
amministrazioni 
statali 
o 
ad 
esse 
equiparate, 
a 
mezzo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ex 
r.D. 
30 
ottobre 
1933, 
n. 
1611, 
anche 
con 
delega 
ex 
art. 
2 
r.D. 
n. 
1611/1933 
o 
intesa 
ex 
art. 
3 
r.D. 
n. 
1611/1933; 
per 
le 
altre 
Amm.ni 
pubbliche 
a 
mezzo 
di 
avvocato 
del 
libero 
foro 
o, 
se 
esistenti, 
avvocati 
dipendenti degli enti iscritti nell’Albo speciale). 


La 
determinazione 
di 
difesa 
diretta 
è 
atto 
interno 
e 
non 
è 
necessario 
alcun 
mandato 
generale 
o 
speciale. 
Non 
sussistano 
limiti 
territoriali 
all'esercizio 
della 
difesa da parte del dipendente. 


L’attività 
defensionale 
viene 
svolta 
da 
dipendenti 
dell’Amm.ne 
interessata, 
anche 
se 
questi 
non hanno qualifica 
di 
funzionari. La 
difesa 
diretta 
opera 
sia 
che 
la 
P.A. rivesta 
il 
ruolo di 
ricorrente 
che 
di 
resistente. i relativi 
atti 
processuali 
(ricorso, memoria, ecc.) sono redatti 
e 
sottoscritti 
dal 
dipendente 
ed ove 
occorra - notificati ad istanza dello stesso. 


tale 
difesa 
si 
estende 
a 
tutti 
gli 
atti 
e 
a 
tutte 
le 
fasi 
-compresa 
quelle 
cautelare, 
anche 
nel 
procedimento di 
reclamo -nel 
solo primo grado di 
giudizio. 


Se 
l'amministrazione 
dello Stato si 
costituisce 
a 
mezzo dei 
propri 
dipendenti, 
la 
notificazione 
della 
sentenza 
conclusiva 
del 
giudizio di 
primo grado, 
finalizzata 
alla 
decorrenza 
del 
termine 
breve 
per l'impugnazione, deve 
essere 
effettuata 
-secondo l’assestato orientamento giurisprudenziale 
-all'amministrazione 
ed 
è 
irrilevante 
la 
notificazione 
effettuata 
all'Avvocatura 
dello 
Stato. 
Successivamente 
all'entrata 
in vigore 
dell'art. 16, comma 
7, D.L. 18 ottobre 
2012, n. 179, conv. L. 17 dicembre 
2012, n. 221, tali 
notificazioni 
vanno eseguite 
esclusivamente 
per via 
telematica 
agli 
indirizzi 
di 
posta 
elettronica 
comunicati 
ai 
sensi 
del 
comma 
12 dell'art. 16 citato, senza 
che, ove 
effettuate 
al 
funzionario 
delegato 
con 
altre 
modalità, 
possa 
operare 
la 
sanatoria 
per 
raggiungimento 
dello scopo (36). 


Giusta 
l’art. 152 bis 
disp. att. c.p.c. nelle 
liquidazioni 
delle 
spese 
del 
giudizio 
ex 
art. 
91 
c.p.c. 
a 
favore 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
assistite 
da 
propri 
dipendenti 
ai 
sensi 
dell'articolo 
417 
bis 
c.p.c., 
si 
applicano 
le 
ordinarie 
tariffe 
legali 
(fissate 
con il 
decreto adottato ai 
sensi 
dell'art. 9, comma 
2, D.L. 
24 gennaio 2012, n. 1, conv. L. 24 marzo 2012, n. 27), per la 
liquidazione 
del 
compenso 
spettante 
agli 
avvocati, 
con 
la 
riduzione 
del 
venti 
per 
cento 
dell'importo 
complessivo ivi previsto. 

(36) 
Conf. 
ex 
plurimis, 
Cass., 
24 
maggio 
2021, 
n. 
14195 
e 
Cass., 
5 
novembre 
2021, 
n. 
32166; 
quest’ultima 
precisa 
che 
è 
ammissibile 
la 
notificazione 
presso 
la 
cancelleria 
non 
già 
nel 
caso 
di 
mancata 
elezione 
di 
domicilio ex 
art. 82 del 
r.d. n. 37 del 
1934 (inapplicabile 
ai 
funzionari 
della 
P.A. cui 
sia 
demandata 
la 
difesa 
in giudizio), bensì 
nella 
sola 
ipotesi 
di 
impossibilità 
di 
procedere 
alla 
notifica 
telematica, 
imputabile alla P.A. medesima. 

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DeLLo 
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10. Competenza per territorio. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
413, 
commi 
5 
e 
6, 
c.p.c.: 
“Competente 
per 
territorio 
per 
le 
controversie 
relative 
ai 
rapporti 
di 
lavoro alle 
dipendenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
è 
il 
giudice 
nella cui 
circoscrizione 
ha sede 
l'ufficio al 
quale 
il 
dipendente 
è 
addetto 
o 
era 
addetto 
al 
momento 
della 
cessazione 
del 
rapporto. 
Nelle 
controversie 
nelle 
quali 
è 
parte 
una amministrazione 
dello Stato 
non 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
dell'articolo 
6 
del 
regio 
decreto 
30 
ottobre 
1933, n. 1611”. 


Viene 
in rilievo un foro inderogabile 
(comma 
7 del 
citato art. 413), speciale 
ed esclusivo. L'ufficio al 
quale 
è 
addetto il 
dipendente 
è 
quello di 
stabile 
assegnazione (irrilevante è quello di distacco o applicazione temporanea). 


tale 
foro, 
ove 
sia 
parte 
in 
giudizio 
una 
Amministrazione 
dello 
Stato, 
anche 
ad ordinamento autonomo, deroga 
al 
c.d. foro erariale 
ex artt. 6 r.D. n. 
1611/1933 e 25 c.p.c. 



CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


I requisiti estrinseci ed intrinseci dell’atto 
di appello nel processo tributario, con particolare 
riguardo alla specificità dei motivi 


Isabella Vitiello* 


Sommario: 
1. 
aspetti 
generali 
-2. 
Disciplina 
applicabile 
all’appello 
tributario 
-3. 
L’oggetto 
del 
giudizio 
di 
appello 
-4. 
Chiarezza 
e 
sinteticità 
dell’atto 
di 
appello 
(requisiti 
estrinseci) 
-5. 
Vizi 
inerenti 
alla 
redazione 
dell’atto 
(ai 
requisiti 
estrinseci) 
e 
loro 
conseguenze 
-6. 
il 
contenuto dell'atto di 
appello (requisiti 
intrinseci) -7. Vizi 
inerenti 
al 
contenuto (ai 
requisiti 
intrinseci) e 
loro conseguenze 
-8. i motivi 
specifici 
dell'impugnazione 
-9. (segue) i motivi 
specifici 
dell'impugnazione. incidenza della disciplina contenuta nell’art. 342 c.p.c. sul 
requisito 
della specificità dei motivi. 


1. aspetti generali. 
La 
sentenza 
tributaria 
di 
primo grado può essere 
censurata 
a 
mezzo del-
l’atto di 
appello, che 
costituisce 
un mezzo di 
impugnazione 
ordinario, condizionante 
la 
formazione 
della 
cosa 
giudicata, 
a 
critica 
libera 
(si 
può 
denunciare 
qualsiasi 
vizio come 
causa 
di 
ingiustizia 
della 
sentenza 
di 
primo grado), con 
portata 
sostitutiva 
(1). L’appello garantisce 
un doppio grado di 
giurisdizione 
sul merito per le controversie tributarie. 


Le 
sentenze 
delle 
commissioni 
tributarie 
provinciali 
possono essere 
appellate, 
con 
ricorso 
alla 
commissione 
tributaria 
regionale, 
nel 
termine 
di 
60 
giorni 
dalla 
notificazione, ad istanza 
di 
parte, della 
sentenza 
di 
primo grado 
oppure 
entro il 
termine 
“lungo” 
ex 
art. 327, comma 
1, c.p.c. di 
sei 
mesi 
dalla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
(artt. 51, comma 
1, e 
38, comma 
3, D.L.vo 31 
dicembre 1992, n. 546, recante “Disposizioni sul processo tributario”). 


L'atto di 
appello deve 
essere 
-nel 
termine 
per impugnare 
-notificato a 
tutte 
le 
parti 
che 
hanno partecipato al 
giudizio di 
primo grado; 
alla 
notificazione 
deve 
seguire 
la 
costituzione 
in 
giudizio 
(art. 
53, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992). 
La 
parte 
appellata, 
se 
è 
anch'essa 
soccombente, 
può 
a 
sua 
volta 
appellare 
proponendo, nell'atto di 
controdeduzioni, appello incidentale 
(art. 54, 
comma 2, D.L.vo n. 546/1992)(2). 


(*) Funzionario dell’Agenzia delle entrate. 


(1) Sui 
caratteri 
delle 
impugnazioni, 
ex 
multis: 
C. MANDrioLi, A. CArrAttA, Diritto processuale 
civile, vol. ii, XXV 
edizione, Giappichelli, 2016, pp. 425 e 
ss.; 
N. GiuDiCeANDreA, Le 
impugnazioni 
civili, 
i, Giuffré, 1952, pp. 1 e ss. 
(2) Per un quadro generale: 
F. teSAuro, istituzioni 
di 
diritto tributario, 
i. Parte 
generale, Xi edizione, 
utet, 2013, pp. 391 e 
ss.; 
L. QuerCiA, il 
processo tributario, iV 
edizione, Sistemi 
editoriali, 
2009, pp. 267 e ss. 

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DeLLo 
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2. Disciplina applicabile all’appello tributario. 
Le 
disposizioni 
generali 
in materia 
di 
impugnazioni, contenute 
negli 
artt. 
323-338 c.p.c., si 
applicano anche 
al 
procedimento di 
appello nel 
giudizio tributario. 
tanto in virtù del 
testuale 
richiamo contenuto nell’art. 49 D.L.vo n. 
546/1992, che 
fa 
“salvo quanto disposto nel 
presente 
decreto”. Decreto che 
interviene, quindi 
-nei 
punti 
espressamente 
disciplinati 
-con portata 
derogatoria 
rispetto alla disciplina processualcivilistica. 


La 
disciplina 
applicabile 
al 
procedimento 
di 
appello 
davanti 
alla 
commissione 
tributaria 
regionale 
è 
contenuta 
negli 
artt. 52-60 D.L.vo n. 546/1992; 
si 
applicano altresì, giusta 
l’art. 61 D.L.vo n. 546/1992, “le 
norme 
dettate 
per 
il 
procedimento di 
primo grado, se 
non sono incompatibili 
con le 
disposizioni 
della presente 
sezione” 
(ossia 
con i 
citati 
artt. 52-60). Vuol 
dirsi 
che 
il 
procedimento 
è 
regolato specificamente 
dalle 
disposizioni 
contenute 
nella 
Sezione 
ii del 
capo iii del titolo ii del 
D.L.vo n. 546/1992 relative 
al 
giudizio di 
appello 
davanti 
alla 
commissione 
tributaria 
regionale. Per quanto non disposto 
-ossia 
nel 
caso di 
lacune 
-si 
applicano le 
disposizioni 
contenute 
nel 
capo i 
del 
titolo ii del 
D.L.vo n. 546/1992 (artt. 18-46) relative 
al 
procedimento di 
primo grado dinanzi 
alla 
commissione 
tributaria 
provinciale 
ove 
non incompatibili 
con le disposizioni della sezione dedicata al giudizio di appello. 


in caso di 
ulteriori 
lacune 
si 
applicano le 
disposizioni 
del 
c.p.c. sull’appello, 
giusta 
la 
norma 
generale 
di 
richiamo 
ex 
art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
564/1992 secondo cui 
“i giudici 
tributari 
applicano le 
norme 
del 
presente 
decreto 
e, per 
quanto da esse 
non disposto e 
con esse 
compatibili, le 
norme 
del 
codice di procedura civile”. 

All’evidenza, 
il 
diritto 
comune 
della 
materia 
processuale 
è 
rappresentato 
dal 
codice 
di 
procedura 
civile: 
a) 
una 
disposizione 
identica 
si 
ha 
nel 
processo 
contabile, 
giusta 
l’art. 
7, 
comma 
2, 
Codice 
di 
giustizia 
contabile 
adottato 
con 
D.L.vo 
26 
agosto 
2016, 
n. 
174 
(“Per 
quanto 
non 
disciplinato 
dal 
presente 
codice 
si 
applicano 
gli 
artt. 
99, 
100, 
101, 
110 
e 
111, 
c.p.c. 
e 
le 
altre 
disposizioni 
del 
medesimo 
codice, 
in 
quanto 
espressione 
di 
principi 
generali”); 
b) 
una 
disposizione 
analoga 
si 
ha 
nell’art. 
39, 
comma 
1, 
Codice 
del 
processo 
amministrativo 
adottato 
con 
D.L.vo 
2 
luglio 
2010, 
n. 
104 
(“Per 
quanto 
non 
disciplinato 
dal 
presente 
codice 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
del 
codice 
di 
procedura 
civile, 
in 
quanto 
compatibili 
o 
espressione 
di 
principi 
generali”). 


3. L’oggetto del giudizio di appello. 
L'oggetto del 
giudizio di 
appello è 
delimitato dal 
petitum 
dell'atto di 
appello, 
ossia 
dalla 
indicazione 
dei 
capi 
della 
decisione 
di 
primo grado su cui 
viene 
richiesto un nuovo giudizio. Se 
non viene 
richiesta 
la 
riforma 
integrale, 
si 
formerà 
un 
giudicato 
parziale 
già 
con 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
con 
riguardo 
alla parte non censurata. 



CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


Per il 
principio del 
doppio grado di 
giurisdizione 
sul 
merito, l'appellante 
non può proporre 
al 
giudice 
di 
appello domande 
non proposte 
in primo grado, 
né 
possono 
essere 
proposte 
nuove 
eccezioni 
che 
non 
siano 
rilevabili 
anche 
d'ufficio. inoltre, non può essere 
mutato il 
motivo della 
domanda, né 
possono 
essere 
introdotti 
nuovi 
motivi. 
Possono 
peraltro 
essere 
domandati 
-nei 
processi 
di 
rimborso -gli 
interessi 
maturati 
dopo la 
sentenza 
di 
primo grado (art. 57 
D.L.vo n. 546/1992). 


in relazione 
ai 
capi 
che 
hanno formato oggetto di 
impugnazione 
si 
ha 
il 
cosiddetto effetto devolutivo, per cui 
le 
deduzioni 
ed i 
materiali 
acquisiti 
in 
primo grado passano automaticamente all'esame del secondo giudice. 


Le 
questioni 
e 
le 
eccezioni 
non accolte 
nella 
sentenza 
della 
commissione 
provinciale, che 
non sono espressamente 
riproposte 
in appello, si 
intendono 
rinunciate 
(art. 
56 
D.L.vo 
n. 
546/1992). 
Sicché 
la 
parte 
vittoriosa 
in 
primo 
grado, che 
abbia 
proposto più questioni, e 
che 
sia 
risultata 
vittoriosa 
essendo 
stata 
accolta 
una 
soltanto 
delle 
questioni 
dedotte, 
ha 
l'onere 
di 
riproporre 
le 
questioni non accolte in quanto infondate o perché assorbite (3). 


L'appello 
è 
una 
impugnazione 
sostitutiva. 
il 
giudice 
dell'appello 
deve 
esaminare 
la 
sentenza 
di 
prime 
cure 
alla 
luce 
dei 
vizi 
denunciati 
dall'appellante, 
ma 
la 
decisione 
di 
appello riguarda 
direttamente 
l'atto amministrativo impugnato. 
Le 
decisioni 
di 
merito sostituiscono quelle 
di 
primo grado, sia 
quando 
accolgono, sia quando respingono l'appello (4). 


4. Chiarezza e sinteticità dell’atto di appello (requisiti estrinseci). 
L’atto di 
appello -come 
qualsivoglia 
atto processuale, sia 
di 
parte 
sia 
del 
giudice 
-deve 
avere 
i 
requisiti 
estrinseci 
della 
chiarezza 
e 
della 
concisione 
(5). La 
chiarezza 
implica, in base 
al 
significato corrente, lucidità, ordine, evidenza, 
comprensibilità, 
intelligibilità. 
La 
concisione 
equivale, 
sempre 
alla 
stregua 
del 
significato 
comune, 
a 
sinteticità, 
stringatezza, 
essenzialità 
sulle 
questioni rilevanti (6). 


Nessuna 
norma 
nel 
processo civile 
o tributario enuncia 
che 
le 
parti 
redigono 
gli 
atti 
in 
maniera 
chiara. 
tuttavia, 
la 
chiarezza 
è 
un 
requisito 
ontologico 


(3) 
Sull’oggetto 
dell’atto 
di 
appello 
nel 
processo 
tributario, 
F. 
teSAuro, 
voce 
Processo 
tributario, 
cit., paragrafo 46. 
(4) Così 
F. teSAuro, voce 
Processo tributario, in Digesto. Quarta 
edizione. Discipline 
privatistiche. 
Sezione commerciale. iii Aggiornamento, 2017, paragrafo 21. 
(5) Per una 
introduzione 
alla 
problematica: 
M. GerArDo, Chiarezza e 
concisione 
degli 
atti 
giuridici 
in rass. avv. Stato, 2019, 1, pp. 223-252. 
(6) Concisione 
non implica 
necessariamente 
brevità 
dell’atto; 
può venire 
in rilievo un atto -ad 
esempio un atto di 
appello in un giudizio con numerose 
parti, con svariate 
questioni 
pregiudiziali 
e/o 
preliminari 
e 
complessità 
nel 
merito con cumulo di 
domande 
-nel 
quale 
necessariamente 
il 
contenuto è 
“lungo” 
e 
non “breve”. inoltre 
la 
concisione 
trova 
il 
suo limite 
nella 
inintelligibilità: 
se 
la 
concisione 
conduce 
ad 
un 
atto 
“oscuro”, 
non 
chiaro 
sulle 
questioni 
rilevanti, 
occorre 
integrare 
i 
dati 
rappresentativi 
affinché l’atto sia reso intelligibile al destinatario. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


e 
funzionale 
degli 
atti 
processuali, 
come 
confermato 
da 
specifiche 
disposizioni 
dettate 
per altre 
tipologie 
di 
processi. Vuol 
farsi 
riferimento, con riguardo al 
processo amministrativo, all’art. 3, comma 
2, c.p.a. secondo cui 
“il 
giudice 
e 
le 
parti 
redigono 
gli 
atti 
in 
maniera 
chiara 
e 
sintetica, 
secondo 
quanto 
disposto 
dalle 
norme 
di 
attuazione”. 
Norma 
analoga 
vi 
è 
nel 
processo 
contabile: 
“il 
giudice, il 
pubblico ministero e 
le 
parti 
redigono gli 
atti 
in maniera chiara e 
sintetica” (art. 5 c.g.c.). 


Quanto 
al 
requisito 
della 
sinteticità, 
vi 
è 
la 
prescrizione 
di 
cui 
all’art. 
16 
bis, 
comma 
9 
octies, 
D.L. 
18 
ottobre 
2012, 
n. 
179, 
conv. 
L. 
17 
dicembre 
2012, 
n. 
221 
secondo 
cui: 
“Gli 
atti 
di 
parte 
e 
i 
provvedimenti 
del 
giudice 
depositati 
con 
modalità 
telematiche 
sono 
redatti 
in 
maniera 
sintetica”, 
applicabile 
al 
processo 
tributario 
con 
il 
medio 
del 
citato 
art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546. 


5. Vizi 
inerenti 
alla redazione 
dell’atto (ai 
requisiti 
estrinseci) e 
loro conseguenze. 
il 
mancato 
rispetto 
dei 
requisiti 
della 
chiarezza 
e 
concisione 
determina 
varie conseguenze pregiudizievoli. 


Perché 
un 
atto, 
e 
quindi 
l’appello 
tributario, 
realizzi 
la 
sua 
funzione 
il 
suo 
contenuto 
deve 
essere, 
intuitivamente, 
chiaro. 
ove 
l’atto 
di 
appello 
non 
sia 
chiaro 
le 
conseguenze 
possono 
essere: 
a) 
la 
inammissibilità 
se 
l’atto 
sia 
inintelligibile; 
ciò 
in 
quanto 
si 
determina 
una 
assoluta 
incertezza 
dei 
requisiti 
intrinseci 
del 
ricorso, 
specie 
con 
riguardo 
a 
quello 
della 
specificità 
dei 
motivi; 
b) 
la 
riduzione 
della 
sua 
efficacia 
giuridica, 
se 
l’atto 
sia 
parzialmente 
inintelligibile. 


La 
concisione 
attiene 
al 
modo di 
esporre. L’atto non conciso, quindi 
ridondante, 
inevitabilmente 
vede 
ridotta 
la 
propria 
capacità 
persuasiva 
e 
argomentativa. 
La 
mancanza 
di 
concisione 
non 
determina, 
di 
per 
sé 
sola, 
la 
inammissibilità 
o 
altra 
invalidità, 
a 
meno 
che 
non 
renda 
incomprensibile 
il 
contenuto dell’atto nei 
punti 
essenziali, ossia 
in ordine 
alle 
personae, al 
petitum 
e 
alla 
causa petendi; 
in tale 
evenienza, la 
conseguenza 
è 
sempre 
la 
inammissibilità 
dell’appello (7). 


(7) uno spunto in tal 
senso è 
offerto dalla 
pronuncia 
del 
Cons. Stato, 7 novembre 
2016, n. 4636, 
per 
la 
quale 
l'appello 
manifestamente 
prolisso 
-che 
comporti 
la 
inintelligibilità 
dei 
punti 
rilevanti 
-deve 
essere 
dichiarato inammissibile: 
“Nel 
caso di 
specie 
-premesso che 
la difesa del 
Q. non ha specificamente 
contestato 
l'eccezione 
di 
inammissibilità 
sollevata 
da 
roma 
Capitale 
e 
non 
ha 
proposto 
di 
ridurre 
e 
semplificare 
i 
motivi 
di 
gravame 
-il 
Collegio rileva che 
l'atto di 
appello (di 
217 pagine), risulta caratterizzato 
da 
plurime 
reiterazioni 
delle 
medesime 
argomentazioni, 
dalla 
conseguente 
esposizione 
delle 
stesse 
in modo non specifico ed esaustivo ma attraverso motivi 
intrusi, da interpolazioni 
con atti 
giudiziari 
ed amministrativi 
(talora fotocopiati 
ed inseriti 
nel 
testo), dallo stralcio di 
dibattiti 
in sedute 
di 
organi 
collegiali 
nonché 
da 
manifesta 
prolissità. 
Tale 
esposizione 
ha 
reso 
estremamente 
difficile 
la 
comprensione 
del 
thema decidendum 
da parte 
del 
Collegio che 
-pur 
avendo effettuato una attività di 
"estrazione" 
dei 
motivi 
come 
desumibili 
dalla lettura del 
ricorso -resta non certo né 
della esaustività 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


A 
fronte 
dell’atto 
non 
chiaro 
e/o 
conciso 
non 
determinante 
conseguenze 
invalidanti, 
vi 
può 
essere 
comunque 
la 
conseguenza 
spiacevole 
della 
condanna 
alle 
spese 
in 
capo 
alla 
parte 
che 
ha 
redatto 
un 
atto 
che 
supera 
la 
ragionevole 
dimensione 
o 
che 
sia 
non 
chiaro. 
tanto 
è 
previsto 
espressamente 
nel 
processo 
amministrativo, 
con 
l’art. 
26, 
comma 
1, 
c.p.a. 
(8). 
La 
condanna 
alle 
spese 
per 
tale 
ragione 
può 
reputarsi 
operante 
anche 
nel 
processo 
tributario, 
con 
l’applicazione 
degli 
artt. 
88, 
comma 
1, 
e 
92, 
comma 
1, 
c.p.c., 
mediata 
dall’art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992. 
L’art. 
92, 
comma 
1, 
c.p.c. 
recita: 
“il 
giudice, 
nel 
pronunciare 
la 
condanna 
di 
cui 
all'articolo 
precedente 
[condanna 
alle 
spese 
in 
applicazione 
della 
regola 
della 
soccombenza], 
[…] 
può, 
indipendentemente 
dalla 
soccombenza, 
condannare 
una 
parte 
al 
rimborso 
delle 
spese, 
anche 
non 
ripetibili, 
che, 
per 
trasgressione 
al 
dovere 
di 
cui 
all'articolo 
88, 
essa 
ha 
causato 
all'altra 
parte”. 
L’art. 
88, 
comma 
1, 
c.p.c. 
dispone: 
“Le 
parti 
e 
i 
loro 
difensori 
hanno 
il 
dovere 
di 
comportarsi 
in 
giudizio 
con 
lealtà 
e 
probità”. 
All’evidenza, 
la 
redazione 
di 
atti 
non 
chiari 
e 
non 
concisi 
integra 
una 
condotta 
violativa 
del 
principio 
di 
lealtà 
processuale, 
atteso 
che 
la 
chiarezza 
e 
la 
concisione 
attengono 
alla 
piena 
attuazione 
del 
contraddittorio 
e 
alla 
piena 
funzionalità 
del 
diritto 
di 
difesa. 


6. il contenuto dell'atto di appello (requisiti intrinseci). 
L'oggetto del 
giudizio di 
appello è 
fissato dall'atto di 
appello (principale 
e 
incidentale); 
tale 
atto deve 
contenere 
“l'indicazione 
della commissione 
tributaria 
a 
cui 
è 
diretto, 
dell'appellante 
e 
delle 
altre 
parti 
nei 
cui 
confronti 
è 
proposto, 
gli 
estremi 
della 
sentenza 
impugnata, 
l'esposizione 
sommaria 
dei 
fatti, 
l'oggetto 
della 
domanda 
ed 
i 
motivi 
specifici 
dell'impugnazione. 
il 
ricorso 
in appello è 
inammissibile 
se 
manca o è 
assolutamente 
incerto uno degli 
elementi 
sopra indicati 
o se 
non è 
sottoscritto a norma dell'art. 18, comma 3” 
(art. 53, comma 1, D.L.vo n. 546/1992). 

La 
disposizione 
citata 
costituisce 
un miglioramento rispetto alla 
formulazione 
della 
previgente 
disciplina 
-contenuta 
nel 
D.P.r. 26 ottobre 
1972, n. 
636, avente 
ad oggetto la 
“revisione 
della disciplina del 
contenzioso tributario” 
(9) -per la 
quale 
“L'atto di 
appello deve 
contenere 
l'indicazione 
della de-

dei 
motivi 
di 
appello, 
né 
della 
loro 
esatta 
definizione 
contenutistica. 
Tanto 
basta 
a 
che 
l'appello 
proposto 
dal 
Q. sia dichiarato inammissibile 
per 
difetto di 
specificità dei 
motivi 
proposti 
e 
violazione 
del 
dovere 
di 
sinteticità”. il 
Supremo Consesso amministrativo, tra 
le 
ragioni 
della 
inammissibilità 
evoca 
anche 
l’aspetto della 
giurisdizione 
come 
risorsa 
a 
disposizione 
della 
collettività, che 
proprio per tale 
ragione 
deve 
essere 
impiegata 
in maniera 
razionale, sì 
da 
preservare 
la 
possibilità 
di 
consentirne 
l'utilizzo anche 
alle 
parti 
nelle 
altre 
cause 
pendenti 
e 
agli 
utenti 
che 
in futuro indirizzeranno le 
loro controversie 
alla 
cognizione 
del giudice statale. 


(8) “Quando emette 
una decisione, il 
giudice 
provvede 
anche 
sulle 
spese 
del 
giudizio, secondo 
gli 
articoli 
91, 92, 93, 94, 96 e 
97 del 
codice 
di 
procedura civile, tenendo anche 
conto del 
rispetto dei 
principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2. 
[…]”. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


cisione 
impugnata, l'esposizione 
sommaria dei 
fatti 
ed i 
motivi 
dell'impugnazione” 
(art. 
22, 
comma 
4, 
D.P.r. 
n. 
636/1972). 
Mancava, 
dunque, 
una 
sanzione 
di 
inammissibilità 
dell’appello 
mancante 
dei 
motivi. 
Sicché 
si 
rilevava 
che 
“Diversamente 
dall’art. 342 C. Proc. Civ., l’art. 22 non prescrive 
che 
l’atto 
di 
appello debba contenere 
i 
motivi 
<specifici> 
dell’impugnazione. La prescrizione 
formale 
è 
dunque 
soddisfatta, nel 
nostro processo, anche 
da un motivo 
generico (la mera affermazione, ad es., che 
la decisione 
di 
primo grado 
è errata in fatto ovvero in diritto)” (10). 

Ciò premesso, i 
requisiti 
intrinseci 
del 
ricorso si 
desumono dal 
testuale 
contenuto dell’art. 53, integrato -in virtù del 
rinvio interno ex 
art. 61 -dalle 
disposizioni 
di 
cui 
all’art. 18 (11) con riguardo al 
ricorso di 
primo grado. il 
ricorso 
in appello deve quindi contenere l'indicazione: 


a) 
della commissione tributaria regionale cui è diretto; 
b) 
dell’appellante 
e 
del 
suo 
legale 
rappresentante, 
della 
relativa 
residenza 
o sede 
legale 
o del 
domicilio eventualmente 
eletto nel 
territorio dello Stato, 
nonché del codice fiscale e dell'indirizzo di posta elettronica certificata; 
c) 
delle altre parti nei cui confronti è proposto; 
d) 
degli estremi della sentenza impugnata; 
e) 
dell'esposizione sommaria dei fatti; 
f) 
dell'oggetto 
della 
domanda. 
L’oggetto 
della 
domanda 
consiste 
nella 
richiesta 
di 
riforma 
totale 
o 
parziale 
della 
sentenza 
pronunciata 
dalla 
commissione 
tributaria 
provinciale. 
Nelle 
conclusioni 
del 
ricorso 
introduttivo 
del 
giudizio 
di 
appello 
-e 
quindi 
nella 
sedes 
materiae 
dell’oggetto 
della 
domanda 
-vi 
deve 
essere 
altresì 
la 
dichiarazione 
in 
ordine 
al 
valore 
della 
lite 
determinato, 
per 
ciascun 
atto 
impugnato, 
ai 
sensi 
dell’art. 
12, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
(12); 
tanto 
al 
fine 
del 
pagamento 
del 
contributo 
unificato 
(9) Sulla 
disciplina 
previgente: 
G.A. MiCheLi, Corso di 
diritto tributario, Vii edizione, utet, 
1984, pp. 268 e ss. 
(10) 
in 
tal 
senso 
F. 
teSAuro, 
voce 
Processo 
tributario, 
in 
Novissimo 
Digesto 
italiano. 
Appendice, 
vol. V, 1984, p. 1410. 
(11) “1. il processo è introdotto con ricorso alla commissione tributaria provinciale. 
2. 
il 
ricorso 
deve 
contenere 
l'indicazione: 
a) 
della 
commissione 
tributaria 
cui 
è 
diretto; 
b) 
del 
ricorrente 
e 
del 
suo legale 
rappresentante, della relativa residenza o sede 
legale 
o del 
domicilio eventualmente 
eletto 
nel 
territorio 
dello 
Stato, 
nonché 
del 
codice 
fiscale 
e 
dell'indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata; 
c) 
dell'ufficio 
nei 
cui 
confronti 
il 
ricorso 
è 
proposto; 
d) 
dell'atto 
impugnato 
e 
dell’oggetto 
della 
domanda; 
e) dei motivi. 
3. il 
ricorso deve 
essere 
sottoscritto dal 
difensore 
e 
contenere 
l'indicazione: a) della categoria di 
cui 
all'articolo 12 alla quale 
appartiene 
il 
difensore; b) dell'incarico a norma dell'articolo 12, comma 7, 
salvo che 
il 
ricorso non sia sottoscritto personalmente; c) dell'indirizzo di 
posta elettronica certificata 
del difensore. 
4. il 
ricorso è 
inammissibile 
se 
manca o è 
assolutamente 
incerta una delle 
indicazioni 
di 
cui 
al 
comma 
2, ad eccezione 
di 
quella relativa al 
codice 
fiscale 
e 
all'indirizzo di 
posta elettronica certificata, o non 
è sottoscritto a norma del comma precedente”. 
(12) “Per 
le 
controversie 
di 
valore 
fino a tremila euro le 
parti 
possono stare 
in giudizio senza assistenza 
tecnica. 
Per 
valore 
della 
lite 
si 
intende 
l'importo 
del 
tributo 
al 
netto 
degli 
interessi 
e 
delle 
even

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


delle 
spese 
di 
lite. 
La 
dichiarazione 
va 
resa 
anche 
nell'ipotesi 
di 
prenotazione 
a 
debito 
(art. 
14, 
comma 
3 
bis, 
D.P.r. 
30 
maggio 
2002, 
n. 
115, 
avente 
ad 
oggetto 
il 
“Testo 
unico 
delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
in 
materia 
di 
spese 
di 
giustizia”). 
La 
parte 
che 
deposita 
il 
ricorso 
in 
appello 
è 
tenuta 
al 
pagamento 
contestuale 
del 
contributo 
unificato 
(art. 
14, 
comma 
1, 


D.P.r. 
n. 
115/2002), 
negli 
importi 
indicati 
nell’art. 
13, 
comma 
6 
quater, 
D.P.r. 
n. 
115/2002 
(13); 
g) 
dei 
motivi 
specifici 
dell'impugnazione. 
i 
motivi 
dell'impugnazione 
sono 
critiche 
rivolte 
contro 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado. 
Si 
rileva 
che 
l'appellante 
ha 
un 
doppio 
onere: 
riproporre 
i 
motivi 
di 
critica 
dei 
provvedimenti, 
dedotti 
nel 
ricorso 
di 
primo 
grado, 
e 
censurare 
la 
sentenza 
che 
non 
li 
ha 
accolti 
(14); 
h) della 
categoria 
di 
cui 
all'art. 12 D.L.vo n. 546/1992 alla 
quale 
appartiene 
il 
difensore 
e 
dell'incarico a 
norma 
dell'art. 12, comma 
7, citato, salvo 
che il ricorso non sia sottoscritto personalmente; 
i) 
dell'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore. 
il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore. 
7. Vizi inerenti al contenuto (ai requisiti intrinseci) e loro conseguenze. 
il 
ricorso 
in 
appello, 
ove 
deviante 
dal 
modello 
legale 
che 
regola 
i 
requisiti 
intrinseci, 
determina 
-a 
seconda 
dell’entità 
della 
devianza 
-delle 
conseguenze 
pregiudizievoli per il ricorrente, riconducibili a tre categorie: 


a) 
Mere 
irregolarità. Vengono in rilievo delle 
disformità 
dal 
modello legale 
che 
non hanno alcuna 
conseguenza, in quanto gli 
elementi 
identificativi 
(personae, petitum 
e 
causa petendi) sono comunque 
desumibili 
dall’atto. È 
il 
caso 
della 
mancata 
indicazione 
dell'indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
della parte; 
b) 
irregolarità 
determinanti 
conseguenze 
non 
invalidanti. 
trattasi 
dei 
casi 
di 
devianze 
sanzionate 
con un surplus 
di 
oneri 
economici. Due 
sono le 
ipotesi 
emblematiche: 
-ove 
il 
difensore 
non indichi 
il 
proprio indirizzo di 
posta 
elettronica 
certificata, 
ovvero qualora 
la 
parte 
ometta 
di 
indicare 
il 
codice 
fiscale 
nel 
ricorso 


tuali 
sanzioni 
irrogate 
con l'atto impugnato; in caso di 
controversie 
relative 
esclusivamente 
alle 
irrogazioni 
di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”. 


(13) 
“Per 
i 
ricorsi 
principale 
ed 
incidentale 
proposti 
avanti 
le 
Commissioni 
tributarie 
provinciali 
e 
regionali 
è 
dovuto il 
contributo unificato nei 
seguenti 
importi: a) euro 30 per 
controversie 
di 
valore 
fino 
a 
euro 
2.582,28; 
b) 
euro 
60 
per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a 
euro 
2.582,28 
e 
fino 
a 
euro 
5.000; 
c) euro 120 per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 5.000 e 
fino a euro 25.000 e 
per 
le 
controversie 
tributarie 
di 
valore 
indeterminabile; d) euro 250 per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a euro 25.000 e 
fino 
a 
euro 
75.000; 
e) 
euro 
500 
per 
controversie 
di 
valore 
superiore 
a 
euro 
75.000 
e 
fino 
a 
euro 
200.000; 
f) euro 1.500 per controversie di valore superiore a euro 200.000”. 
(14) Così 
F. teSAuro, voce 
Processo tributario, in Digesto. Quarta 
edizione. Discipline 
privatistiche. 
Sezione commerciale. i Aggiornamento, 2000, paragrafo 45. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


introduttivo 
del 
giudizio, 
il 
contributo 
unificato 
è 
aumentato 
della 
metà. 
tanto 
è previsto dal comma 3 bis 
dell’art. 13 del D.P.r. n. 115/2002; 


-se 
manca 
la 
dichiarazione, 
nelle 
conclusioni 
del 
ricorso, 
del 
valore 
della 
lite 
il 
processo 
si 
presume 
del 
valore 
indicato 
al 
comma 
6 
quater, 
lettera 
f) 
dell’art. 14 D.P.r. n. 115/2002. tanto è 
previsto dal 
comma 
6 dell’art. 13 del 
D.P.r. n. 115/2002; 


c) inammissibilità. La 
mancanza 
o la 
assoluta 
incertezza 
di 
uno dei 
requisiti 
del 
ricorso -riepilogati 
nel 
precedente 
paragrafo alle 
lettere 
da 
a) ad i) 
-o la 
mancata 
sottoscrizione 
a 
norma 
dell'art. 18, comma 
3 comporta 
la 
inammissibilità 
del 
ricorso. tanto è 
espressamente 
disposto dagli 
artt. 18, comma 
4, e 53, comma 1, D.L.vo n. 546/1992. 
La 
pronuncia 
di 
inammissibilità 
ex 
art. 53 D.L.vo n. 546/1992 conduce 
al 
passaggio in giudicato delle 
statuizioni 
del 
giudice 
di 
primo grado, in virtù 
di 
quanto disposto dall’art. 60 D.L.vo n. 546/1992 per il 
quale 
“L'appello dichiarato 
inammissibile 
non può essere 
riproposto anche 
se 
non è 
decorso il 
termine stabilito dalla legge”. 


Prima 
della 
pronuncia 
di 
inammissibilità 
-se 
ancora 
in termini 
-l’interessato 
può riproporre il ricorso in appello emendato dai vizi. 


Deve 
ritenersi 
che 
la 
specifica 
disciplina 
delle 
invalidità 
nel 
processo 
tributario 
escluda 
l’operatività 
di 
altre 
categorie 
di 
invalidità 
dell’atto, 
quale 
ad 
esempio 
la 
nullità. 
Vuol 
dirsi 
che: 
o 
i 
requisiti 
mancano 
o 
sono 
assolutamente 
incerti 
ed 
in 
questo 
caso 
l’appello 
è 
inammissibile; 
oppure 
i 
requisiti 
sussistono 
senza 
incertezze 
ed 
in 
questo 
caso 
l’atto 
è 
sempre 
valido. 
Ad 
esempio: 
la 
mancata 
indicazione 
della 
residenza 
dell’appellante 
è 
innocua, 
atteso 
che 
-anche 
a 
mezzo 
del 
codice 
fiscale 
-la 
parte 
è 
identificabile 
senza 
incertezze; 
la 
genericità 
dei 
motivi, 
invece, 
comporta 
la 
inammissibilità 
del 
gravame, 
atteso 
che 
manca 
il 
requisito 
dei 
“motivi 
specifici 
dell'impugnazione”. 


8. i motivi specifici dell'impugnazione. 
i motivi 
specifici 
dell'appello -aspetto questo relativo ai 
requisiti 
intrinseci 
dell’atto -hanno la 
funzione 
di 
determinare 
esattamente 
il 
quantum 
appellatum. 
È 
pertanto 
escluso 
che 
il 
ricorso 
in 
appello 
possa 
contenere 
una 
richiesta 
generica 
di 
riforma 
della 
sentenza 
impugnata 
sulla 
base 
di 
una 
non 
specifica 
doglianza 
di 
erroneità 
in 
fatto 
e 
in 
diritto 
della 
stessa 
oppure 
un 
rinvio 
tout 
court 
alla 
difesa 
di 
primo grado. Le 
censure 
da 
far valere, invece, devono 
essere 
chiaramente 
esposte, 
essendo 
escluso 
che 
si 
possa 
avanzare 
una 
riserva 
di produrre i motivi di appello in un secondo tempo (15). 


Le 
aporie 
relative 
ai 
motivi 
di 
impugnazione 
sono, 
in 
ordine 
di 
gravità 


(15) Per tali 
rilievi, ex 
plurimis: 
B. Lo 
GiuDiCe, i mezzi 
di 
impugnazione: l'appello tributario, in 
Fisco, 2005, 37 - parte 1, pp. 5794 e ss. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


decrescente, 
le 
seguenti: 
a) 
mancanza 
dei 
motivi; 
b) 
assoluta 
incertezza 
dei 
motivi; c) genericità dei motivi (16). 


La 
mancanza 
o 
la 
assoluta 
incertezza 
dei 
motivi 
di 
appello 
è 
causa 
espressa 
di 
inammissibilità 
del 
ricorso ai 
sensi 
dell'art. 53, comma 
1, D.L.vo 


n. 
546/1992. 
Le 
ipotesi 
della 
mancanza 
dei 
motivi 
e/o 
della 
assoluta 
incertezza 
dei 
motivi 
si 
possono 
rinvenire 
nel 
caso 
in 
cui 
l'appellante 
si 
limiti 
a 
richiedere 
la 
riforma 
della 
sentenza 
di 
primo grado ovvero a 
denunciarne 
la 
"ingiustizia" 
o 
la 
"illegittimità", 
rispettivamente 
senza 
alcun 
argomento 
a 
ciò 
finalizzato 
(mancanza 
di 
motivi) ovvero con argomenti 
del 
tutto disancorati 
dal 
contesto 
o 
comunque 
del 
tutto 
inconferenti 
o 
incongruenti 
rispetto 
alla 
materia 
del 
contendere 
(assoluta incertezza dei motivi) (17). 
Alla 
stregua 
dell’orientamento 
consolidato 
del 
giudice 
di 
legittimità, 
non 
rispettano 
i 
requisiti 
di 
specificità 
dei 
motivi 
d'impugnazione 
quei 
motivi 
addotti 
contro 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
che 
siano 
limitati 
alla 
mera 
denuncia 
dei 
vizi 
che 
inficerebbero 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado, 
senza 
alcun 
supporto 
argomentativo 
idoneo 
a 
dimostrarne 
la 
sussistenza 
in 
concreto; 
ciò 
in 
quanto 
la 
specificità 
dei 
motivi 
esige 
che, 
alle 
argomentazioni 
svolte 
nella 
sentenza 
impugnata, 
vengano 
contrapposte 
quelle 
dell'appellante, 
volte 
ad 
incrinare 
il 
fondamento 
logico-giuridico 
delle 
prime, 
non 
essendo 
le 
statuizioni 
di 
una 
sentenza 
separabili 
dalle 
argomentazioni 
che 
le 
sorreggono 
(18). 
Alla 
violazione 
del 
richiamato 
onere 
di 
specificazione 
dei 
motivi 
consegue 
-sempre 
a 
giudizio 
del 
giudice 
di 
legittimità 
-l'inammissibilità 
dell'appello 
(19). 
tanto 
è 
coerente, 
come 
anticipato 
nel 
precedente 
paragrafo, 
con 
i 
dati 
normativi 
in 
gioco: 
la 
genericità 
dei 
motivi 
implica 
la 
mancanza 
di 
un 
requisito 
dell’appello 
(quello 
dei 
“motivi 
specifici 
dell'impugnazione”) 
e 
la 
mancanza 
di 
un 
requisito 
è 
sanzionata 
testualmente 
con 
la 
inammissibilità 
dell’impugnazione. 


Va 
evidenziato che 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, conscia 
della 
gravità 
delle 
conseguenze 
scaturenti 
dalla 
genericità 
dei 
motivi, ha 
un atteggiamento 
non 
formalista 
sul 
punto. 
Si 
evidenzia, 
infatti, 
che 
nel 
procedimento 
tributario, 
in 
considerazione 
della 
permanente 
natura 
di 
revisio 
prioris 
instantiae 
del 
giudizio 
di 
appello, il 
quale 
mantiene 
la 
sua 
diversità 
rispetto alle 
impugnazioni 
a 
critica 
vincolata, deve 
escludersi 
che 
l'atto di 
gravame 
debba 
rivestire 
particolari 
forme 
sacramentali, o che 
debba 
contenere 
la 
redazione 
di 
un progetto 
alternativo 
di 
decisione 
da 
contrapporre 
a 
quella 
di 
primo 
grado; 
sicché 
va 


(16) Così 
F. SorreNtiNo, motivi 
di 
appello nel 
processo tributario, in Fisco, 2013, 39 -parte 
1, 
pp. 6053 e ss. 
(17) Così F. SorreNtiNo, motivi di appello nel processo tributario, cit. 
(18) 
in 
questi 
termini: 
Cass. 
S.u., 
29 
gennaio 
2000, 
n. 
16 
con 
pronuncia 
relativa 
all’art. 
342 
c.p.c. 
nel 
testo previgente 
di 
contenuto identico -sul 
requisito della 
specificità 
dei 
motivi 
-all’art. 53 D.L.vo 
n. 546/1992. 
(19) Cass. S.u., n. 16/2000, cit. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


censurata 
la 
decisione 
del 
giudice 
di 
appello che 
abbia 
ritenuto inammissibile 
il 
gravame 
per mancanza 
o assoluta 
incertezza 
dei 
motivi 
specifici 
di 
impugnazione, 
sul 
rilievo che 
l'appellante 
abbia 
riproposto dubbi 
e 
perplessità 
già 
sollevati 
in primo grado senza 
esporre 
gli 
eventuali 
vizi 
riscontrabili 
nell'iter 
logico-giuridico seguito dal 
primo giudice, limitandosi 
ad una 
generica 
contestazione 
della 
sentenza 
impugnata 
e 
adducendo motivi 
di 
censura 
che 
concernevano 
direttamente 
l'atto 
impugnato, 
ove 
a 
supporto 
del 
gravame 
siano 
state 
riproposte 
le 
ragioni 
di 
impugnazione 
del 
provvedimento impositivo in 
contrapposizione 
alle 
argomentazioni 
adottate 
dal 
giudice 
di 
primo grado, ciò 
assolvendo l'onere 
di 
impugnazione 
specifica 
imposto dall'art. 53, D.L.vo n. 
546/1992 (20). 


9. 
(segue) 
i 
motivi 
specifici 
dell'impugnazione. 
incidenza 
della 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 342 c.p.c. sul requisito della specificità dei motivi. 
Nel 
processo 
tributario 
-come 
innanzi 
evidenziato 
-la 
forma 
dell’appello 
trova 
espressa 
disciplina 
nell’art. 53 D.L.vo n. 546/1992, che 
prevede 
che 
il 
ricorso 
in 
appello 
debba 
contenere, 
a 
pena 
di 
inammissibilità, 
l’indicazione 
della 
commissione 
tributaria 
a 
cui 
è 
diretto, dell’appellante 
e 
delle 
altre 
parti 
nei 
cui 
confronti 
è 
proposto, gli 
estremi 
della 
sentenza 
impugnata, l’esposizione 
sommaria 
dei 
fatti, 
l’oggetto 
della 
domanda 
ed 
i 
motivi 
specifici 
del-
l’impugnazione. 

Si 
pone 
la 
problematica 
della 
applicabilità 
al 
processo tributario, in via 
integrativa 
rispetto 
ai 
precetti 
contenuti 
nell’art. 
53 
D.l.vo 
n. 
546/1992, 
dell’art. 
342 c.p.c. (come 
novellato dall'art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. L. 7 
agosto 2012, n. 134), regolante 
i 
requisiti 
dell’atto di 
appello nel 
processo civile, 
paradigma dei processi speciali come innanzi esposto. 


L’art. 
342 
c.p.c. 
-per 
la 
parte 
che 
ci 
riguarda 
-così 
dispone: 
“L'appello 
deve 
essere 
motivato. 
La 
motivazione 
dell'appello 
deve 
contenere, 
a 
pena 
di 
inammissibilità: 
1) 
l'indicazione 
delle 
parti 
del 
provvedimento 
che 
si 
intende 
appellare 
e 
delle 
modifiche 
che 
vengono 
richieste 
alla 
ricostruzione 
del 
fatto 
compiuta 
dal 
giudice 
di 
primo 
grado; 
2) 
l'indicazione 
delle 
circostanze 
da 
cui 
deriva 
la 
violazione 
della 
legge 
e 
della 
loro 
rilevanza 
ai 
fini 
della 
decisione 
impugnata”. 


Appare 
chiaro che 
la 
disciplina 
del 
contenuto della 
motivazione 
dell’appello 
civile 
di 
cui 
all’art. 342 c.p.c. (21) è 
più rigorosa 
e 
specifica 
rispetto alla 
disciplina dell’omologo istituto nel processo tributario. 

Da 
un lato, infatti, oltre 
a 
dover essere 
individuata 
la 
parte 
del 
provvedi


(20) in questo senso: Cass., 28 febbraio 2019, n. 5864. 
(21) Sulla 
quale: 
C. MANDrioLi, A. CArrAttA, Diritto processuale 
civile, vol. ii, cit., pagg. 510511; 
F.P. LuiSo, Diritto processuale 
civile, vol. ii, Vii edizione, Giuffrè, 2013, pagg. 383-386; 
G. BA-
LeNA, 
istituzioni 
di 
diritto 
processuale 
civile, 
vol. 
ii, 
V 
edizione, 
Cacucci, 
2019, 
pagg. 
399-403; 
G. 
MoNteLeoNe, Diritto processuale civile, vol. i, Viii edizione, CeDAM, 2018, pagg. 607-609. 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


mento impugnato che 
si 
intende 
appellare 
(evidentemente, se 
si 
tratta 
di 
appello 
parziale), 
nell’atto 
di 
appello, 
ove 
venga 
denunciato 
un 
vizio 
nel 
giudizio 
di 
fatto del 
giudice 
di 
prime 
cure 
(errore 
di 
fatto; 
quaestio facti), non è 
sufficiente 
denunciare 
l’ingiustizia 
della 
decisione, 
ma 
grava 
sull’appellante 
anche 
l’onere 
(a 
pena 
di 
inammissibilità) di 
puntualizzare 
quale 
avrebbe 
dovuto essere 
la 
corretta 
ricostruzione 
dei 
fatti 
di 
causa, 
con 
riferimento 
alla 
quale 
viene 
chiesta la riforma del provvedimento appellato. 


Dall’altro 
lato, 
ove 
in 
sede 
di 
appello 
venga 
denunciata 
la 
violazione 
di 
una 
norma 
di 
legge 
da 
parte 
del 
giudice 
di 
primo 
grado 
(errore 
di 
diritto; 
quaestio 
iuris), 
non 
è 
sufficiente 
la 
sola 
indicazione 
delle 
norme 
violate, 
ma 
è 
necessaria 
(sempre 
a 
pena 
di 
inammissibilità 
dell’appello) 
la 
specifica 
individuazione 
delle 
concrete 
circostanze 
che, 
secondo 
l’appellante, 
hanno 
determinato 
questa 
violazione 
e 
delle 
sue 
conseguenze 
per 
gli 
esiti 
della 
decisione. 


Deve 
ritenersi 
che 
l’art. 342 c.p.c. sia 
inapplicabile 
al 
processo tributario. 


L’applicabilità 
del 
solo 
art. 
53 
D.L.vo 
n. 
546/1992, 
con 
esclusione 
dell’art. 
342 c.p.c., consegue 
alla 
piena 
applicazione 
della 
disciplina 
regolatrice 
del-
l’appello tributario come sunteggiata innanzi nel paragrafo 2. 


Difatti, 
da 
una 
parte 
l’art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
prevede 
che 
i 
giudici 
tributari 
applicano 
le 
norme 
del 
D.L.vo. 
n. 
546/1992 
e, 
per 
quanto 
da 
esse 
non 
disposto 
e 
con 
esse 
compatibili, 
le 
norme 
del 
codice 
di 
procedura 
civile. 
Dall’altra, 
l’art. 
49 
del 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
dispone 
che 
“alle 
impugnazioni 
delle 
sentenze 
delle 
commissioni 
tributarie 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
del 
titolo 
iii, 
capo 
i, 
del 
libro 
ii 
del 
codice 
di 
procedura 
civile, 
e 
fatto 
salvo 
quanto 
disposto 
nel 
presente 
decreto”, 
con 
un 
chiaro 
rinvio 
ai 
soli 
artt. 
323-338 
c.p.c., 
fatto 
comunque 
salvo 
quanto 
disposto 
nel 
D.L.vo 
n. 
546/1992. 
orbene, 
l’art. 
53 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
regola 
in 
modo 
completo 
ed 
autosufficiente 
il 
contenuto 
intrinseco 
dell’atto 
di 
appello 
tributario, 
sicché, 
mancando 
una 
lacuna, 
non 
vi 
è 
spazio 
per 
l’eterointegrazione 
disposta 
dall’art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
546/1992 
(e 
quindi 
per 
l’applicabilità 
dell’art. 
342 
c.p.c.). 


Quanto ricostruito trova 
conferma 
nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità. in 
proposito la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
osservato che 
l’art. 53 del 
D.L.vo n. 546 
del 
1992, dettato per l’appello in materia 
tributaria, si 
discosta 
notevolmente 
dall’omologa 
norma 
dettata 
per 
il 
processo 
civile 
dall’art. 
342 
c.p.c., 
potendosi 
qualificare 
come 
norma 
speciale 
rispetto all’art. 342 c.p.c., “che 
nella sua attuale 
formulazione 
si 
divarica sostanzialmente 
dalla citata norma in tema di 
contenzioso tributario” 
(22). A 
parere 
della 
Corte, l’art. 53 D.L.vo n. 546 del 


(22) Cass., 5 ottobre 2018, n. 24641. 



rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


1992 è 
tale 
da 
diversificarsi 
in modo sostanziale 
rispetto all’art. 342 c.p.c., atteso 
che 
richiede 
unicamente 
che 
il 
ricorso in appello contenga 
“i 
motivi 
specifici 
dell’impugnazione”. 
Ciò 
consente 
di 
ritenere 
“legittimo 
l’appello 
allorché 
l’appellante 
si 
limiti 
a sottoporre 
alla CTr 
le 
medesime 
argomentazioni 
proposte 
innanzi 
alla 
CTP 
e 
da 
quest’ultima 
respinte, 
essendo 
in 
sostanza 
sufficiente 
che 
emerga 
un 
dissenso 
riferibile 
alla 
decisione 
di 
primo 
grado 
nella sua interezza” (23). 


La 
giurisprudenza 
pacificamente 
afferma 
che 
il 
carattere 
di 
dettaglio 
e 
specificità 
dei 
motivi 
di 
ricorso 
in 
appello 
richiesto 
dall’art. 
53 
del 
D.L.vo 


n. 
546/1992 
non 
consiste 
nell’obbligo 
di 
descrizione 
minuziosa 
della 
fattispecie 
impositiva 
e 
delle 
doglianze, 
ben 
potendo 
l’appellante 
anche 
fornire 
un’illustrazione 
sommaria 
ma 
sufficiente 
a 
rappresentare 
correttamente 
al 
giudice 
del 
gravame 
le 
rationes 
decidendi 
della 
sentenza 
impugnata 
e 
i 
motivi 
di 
fatto 
e 
di 
diritto 
posto 
a 
base 
dell’impugnazione 
(24). 
È 
necessario, 
insomma, 
far 
comprendere 
al 
giudice 
adito 
le 
censure 
mosse 
nei 
confronti 
della 
decisione 
gravata 
(25), 
perché 
l’indicazione 
dei 
motivi 
specifici 
del-
l’impugnazione 
“non 
deve 
necessariamente 
consistere 
in 
una 
rigorosa 
e 
formalistica 
enunciazione 
delle 
ragioni 
invocate 
a 
sostegno 
dell’appello, 
ben 
potendo 
i 
motivi 
di 
gravame 
essere 
ricavati, 
anche 
per 
implicito, 
purché 
in 
maniera 
univoca, 
dall’intero 
atto 
di 
impugnazione 
considerato 
nel 
suo 
complesso” 
(26). 
Dunque, a 
parere 
della 
Suprema 
Corte, ai 
sensi 
dell’art. 53 del 
D.L.vo n. 
546/1992, 
è 
sufficiente 
“soltanto 
una 
esposizione 
chiara 
ed 
univoca, 
anche 
se 
sommaria, 
sia 
della 
domanda 
rivolta 
al 
giudice 
del 
gravame, 
sia 
delle 
ragioni 
della doglianza” (27). 

È 
pertanto irrilevante 
che 
i 
motivi 
siano enunciati 
nella 
parte 
espositiva 
dell’atto ovvero separatamente, atteso che, non essendo imposti 
dalla 
norma 
rigidi 
formalismi, 
gli 
elementi 
idonei 
a 
rendere 
specifici 
i 
motivi 
di 
appello 
possono essere 
ricavati, anche 
per implicito, purché 
in maniera 
univoca, dal-
l’intero 
atto 
di 
impugnazione 
considerato 
nel 
suo 
complesso, 
comprese 
le 
premesse 
in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (28). 

i suddetti 
principi 
risultano costantemente 
applicati 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
per valutare 
l’ammissibilità 
dell’appello proposto nel 
processo 
tributario (29). 


(23) Cass., 12 febbraio 2021, n. 3759. 

(24) in tal senso Cass., 30 gennaio 2009, n. 2507. 
(25) Cass., 21 gennaio 2009, n. 1465. 
(26) in tal senso Cass., 16 maggio 2012, n. 7671; Cass., 14 gennaio 2011, n. 802. 
(27) Cass., 11 gennaio 2016, n. 227. 
(28) Cass., 31 marzo 2011, n. 7393; Cass., 15 settembre 2008, n. 23608. 
(29) ex 
multis 
Cass., 11 luglio 2018, n. 18225; 
Cass., 4 maggio 2016, n. 8823; 
Cass., 15 aprile 
2016, 
n. 
7596; 
Cass., 
16 
marzo 
2016, 
n. 
5177; 
Cass., 
23 
febbraio 
2016, 
n. 
3536; 
Cass., 
22 
febbraio 
2016, 

CoNtriButi 
Di 
DottriNA 


in 
particolare 
il 
Supremo 
Consesso 
ha 
affermato 
che 
la 
riproposizione 
in 
appello, 
da 
parte 
del 
contribuente, 
delle 
stesse 
argomentazioni 
poste 
a 
sostegno 
della 
domanda 
disattesa 
dal 
giudice 
di 
primo 
grado 
assolve 
l’onere 
di 
specificità 
dei 
motivi 
di 
impugnazione, 
ben 
potendo 
il 
dissenso 
della 
parte 
soccombente 
investire 
la 
decisione 
impugnata 
nella 
sua 
interezza 
(30). 
infatti, 
la 
specificità 
dei 
motivi 
di 
appello, 
finalizzata 
ad 
evitare 
un 
ricorso 
generalizzato 
e 
poco 
meditato 
al 
giudice 
di 
seconda 
istanza, 
esige 
che 
alle 
argomentazioni 
svolte 
nella 
sentenza 
impugnata 
vengano 
contrapposte 
quelle 
dell’appellante, 
volte 
a 
incrinare 
il 
fondamento 
logico-giuridico 
delle 
prime: 
alla 
parte 
volitiva 
deve 
sempre 
accompagnarsi 
una 
parte 
argomentativa 
che 
confuti 
e 
contrasti 
le 
ragioni 
addotte 
dal 
primo 
giudice. 
tale 
parte 
può 
appunto 
consistere 
anche 
nella 
riproposizione 
delle 
argomentazioni 
svolte 
nel 
ricorso 
di 
primo 
grado 
(31). 


il 
principio vale 
anche 
per il 
ricorso in appello proposto dall’ente 
impositore, 
perché 
la 
riproposizione 
delle 
argomentazioni 
poste 
a 
sostegno 
dell’atto 
impugnato dal 
contribuente, in quanto considerate 
idonee 
a 
sostenere 
la 
legittimità 
dell’atto 
stesso 
e 
confutare 
le 
diverse 
conclusioni 
cui 
è 
pervenuto 
il 
giudice 
di 
primo grado, assolve 
l’onere 
di 
impugnazione 
specifica 
previsto dalla 
norma. invero, il 
ricorso in appello deve 
contenere 
i 
motivi 
specifici 
dell’impugnazione 
e 
non 
già 
nuovi 
motivi, 
atteso 
il 
carattere 
devolutivo 
pieno 
del 
gravame, 
che 
è 
un 
mezzo 
d’impugnazione 
non 
limitato 
al 
controllo 
di 
vizi 
specifici 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado, 
ma 
rivolto 
ad 
ottenere 
il 
riesame 
della 
causa nel merito (32). 


in 
conclusione, 
alla 
luce 
del 
consolidato 
orientamento 
giurisprudenziale, 
può 
senz’altro 
affermarsi 
che 
in 
materia 
tributaria 
la 
riproposizione 
in 
appello 
delle 
originarie 
censure 
formulate 
nel 
ricorso 
di 
primo 
grado 
sia 
sufficiente 
ad 
assolvere 
l’onere 
d’impugnazione 
specifica 
imposto 
dall’art. 
53 
del 
D.L.vo 
n. 
546/1992. 
Nel 
processo 
tributario, 
infatti, 
l’appello 
ha 
carattere 
devolutivo 
pieno, 
in 
quanto 
non 
è 
limitato 
al 
controllo 
di 
vizi 
specifici 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado, 
ma 
persegue 
la 
finalità 
di 
ottenere 
il 
riesame 
nella 
causa 
nel 
merito. 
il 
requisito 
della 
specificità 
dei 
motivi 
di 
appello 
non 
può 
essere 
inteso 
nel 
senso 
che 
l’appellante 
sia 
tenuto 
a 
formulare 
nuovi 
argomenti 
giuridici 
a 
sostegno 
dell’impugnazione, 
potendo 


n. 3467; 
Cass., 22 febbraio 2016, n. 3367; 
Cass., 12 febbraio 2016, n. 2871; 
Cass., 29 gennaio 2016, n. 
1702; 
Cass., 11 gennaio 2016, n. 226; 
Cass., 24 giugno 2015, n. 13030; 
Cass., 19 dicembre 
2014, n. 
27037; 
Cass., 28 maggio 2014, n. 11945; 
Cass., 19 giugno 2013, n. 15331; 
Cass., 20 dicembre 
2012, n. 
23567; 
Cass., 30 novembre 
2012, n. 21390; 
Cass., 24 febbraio 2012, n. 2855; 
Cass., 5 dicembre 
2011, 
n. 26091; Cass., 26 gennaio 2005, n. 1574. 
(30) Cass., 4 novembre 2015, n. 22510; Cass., 22 aprile 2015, n. 8185. 
(31) in questo senso: Cass., 28 ottobre 2015, n. 21972; Cass., 1° luglio 2014, n. 14908. 
(32) 
così 
Cass., 
11 
gennaio 
2018, 
n. 
426; 
Cass., 
27 
ottobre 
2017, 
n. 
25553; 
Cass., 
23 
giugno 
2015, 
n. 13007; 
Cass., 24 aprile 
2015, n. 8335; 
Cass., 6 dicembre 
2013, n. 27354; 
Cass., 29 febbraio 2012, n. 
3064. 

rASSeGNA 
AVVoCAturA 
DeLLo 
StAto -N. 4/2021 


lo 
stesso 
limitarsi 
a 
sottoporre 
all’esame 
del 
giudice 
di 
gravame 
le 
medesime 
argomentazioni 
formulate 
in 
primo 
grado 
e 
respinte 
in 
quella 
sede, 
manifestando 
un 
dissenso 
che 
investa 
la 
decisione 
di 
primo 
grado 
nella 
sua 
interezza 
(33). 


(33) Cass., 12 febbraio 2021, n. 3759, secondo cui 
tale 
tesi 
“non è 
in contrasto con altra pur 
autorevole 
pronuncia di 
legittimità (Cass. SS.UU. n. 27199 del 
2017), in materia di 
specificità dei 
motivi 
di 
appello, di 
cui 
agli 
artt. 342 e 
434 c.p.c., nel 
testo formulato dal 
D.L. n. 83 del 
2012, convertito, con 
modificazioni, nella L. n. 134 del 
2012, secondo cui 
gli 
articoli 
anzidetti 
vanno interpretati 
nel 
senso 
che 
l’impugnazione 
deve 
contenere 
una 
chiara 
individuazione 
delle 
questioni 
e 
dei 
punti 
contestati 
dalla 
sentenza impugnata e 
delle 
relative 
doglianze, affiancando alla parte 
volitiva una parte 
argomentativa, 
che 
confuti 
e 
contrasti 
le 
ragioni 
addotte 
dal 
primo giudice; invero, nella citata sentenza, è 
stato pur 
sempre 
rimarcato che 
il 
giudizio di 
appello mantiene 
il 
suo fondamentale 
carattere 
di 
“revisio prioris 
instantiae”, in tal 
modo diversificandosi 
dal 
ricorso per 
cassazione, qualificabile 
invece 
come 
impugnazione 
a critica vincolata, e 
che, pertanto, l’atto di 
appello non deve 
rivestire 
particolari 
formule 
sacramentali, 
nè 
deve 
contenere 
la redazione 
di 
un progetto alternativo di 
decisione 
da contrapporre 
a 
quello 
di 
primo 
grado, 
essendo 
sufficiente 
la 
mera 
riproposizione 
delle 
originarie 
argomentazioni 
svolte 
in 
primo 
grado, 
in 
quanto 
il 
dissenso 
può 
legittimamente 
investire 
la 
decisione 
nella 
sua 
interezza 
e 
può 
legittimamente 
sostanziarsi 
nelle 
argomentazioni 
poste 
a fondamento della domanda rimasta disattesa 
in primo grado”; 
Cass., 21 novembre 
2019, n. 30341; 
Cass., 23 novembre 
2018, n. 30525; 
Cass., 19 dicembre 
2018, n. 32838; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32954; Cass., 22 gennaio 2016, n. 1200. 

Un ricordo e un saluto a Paolo Vittorio di Tarsia di Belmonte 


Da: #Segreteria_generale <segreteria.generale@avvocaturastato.it> 
Inviato: venerdì 29 aprile 2022 13:11 


A: 
Avvocati_tutti 
<Avvocati_tutti@avvocaturastato.it>; 
Amministrativi_tutti 
<Amministrativi_
tutti@avvocaturastato.it> 
Oggetto: decesso 
Con profondo dispiacere 
comunico che 
ieri 
sera 
è 
venuto a 
mancare, all'età 
di 
90 anni, l'Avv. 
Paolo di 
Tarsia di Belmonte, Avvocato Generale dello Stato Onorario. 
I funerali 
saranno celebrati 
sabato 30 aprile 
p.v., alle 
ore 
11:00, presso la 
Parrocchia 
dei 
SS. 
Pietro e Paolo, via 
Antonio Conti n. 189, OLGIATA CERQUETTA. 


Il 
Segretario Generale 


Un ricordo e 
un saluto a Paolo Vittorio di 
Tarsia di 
Belmonte, uno dei 
capostipiti 
della 
schiatta dei penalisti dell’Avvocatura dello Stato. 


Ne 
abbiamo conosciuto l’abilità forense 
e 
l’arguzia gioviale 
(che 
poteva però passare 
facilmente 
al 
gelo, quando si 
trattava di 
ricordare 
le 
gerarchie 
non scritte 
dell’Istituto a un 
giovane avvocato). 


Voglio rammentare 
-specie 
ai 
tanti 
ragazzi 
che 
si 
sono uniti 
a noi 
negli 
ultimi 
anni 
-un 
modo di vedere la nostra professione di questo grande avvocato: 


il 
senso della Storia, quella con la “S” 
maiuscola, che 
i 
processi 
ci 
fanno attraversare 
e allo stesso tempo ricostruire. 


Paolo Vittorio sentiva questo tratto, tanto che 
a fine 
carriera, aveva riunito in una raccolta 
questi 
frammenti 
di 
Storia 
che 
aveva 
incrociato 
nella 
sua 
lunga 
carriera, 
dagli 
attentati 
ai 
pali 
della luce 
in Alto Adige, alle 
Foibe, all’omicidio di 
‘Ndrangheta con la testimone 
Rosetta 
Cerminara. 
Si 
tratta 
di 
“Storie 
d'Italia 
-piccole 
e 
grandi 
nelle 
arringhe 
di 
un 
penalista”, 
la 
cui 
struttura 
ricorda 
il 
notissimo 
“Controvento”, 
dove 
un’introduzione 
inserisce 
l’episodio 
nel 
flusso della grande 
storia, in cui 
nel 
nostro lavoro ci 
troviamo coinvolti 
a volte 
inconsapevolmente. 


Carlo Maria Pisana 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Lascia 
il 
servizio, 
dopo 
oltre 
trentotto 
anni 
di 
significativa 
e 
prestigiosa 
presenza, 
l’Avv. 
Gabriella D’Avanzo, Responsabile della 
VII Sezione. 


Alla 
cara 
Gabriella, Collega 
e 
Amica 
che 
ha 
sempre 
onorato l’Istituto con la 
Sua 
alta 
professionalità, il 
Suo grande 
impegno, la 
Sua 
costante 
dedizione 
alla 
cura 
degli 
interessi 
del 
Paese, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e 
del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


Carissimi, 


vi 
ringrazio di 
cuore 
per le 
attestazioni 
di 
stima 
e 
di 
affetto che, anche 
in privato, mi 
avete inviato! 


La 
vicinanza 
e 
l’ampia 
partecipazione 
dei 
colleghi 
e 
del 
personale 
amministrativo che 
hanno fatto seguito al messaggio dell’Avvocato Generale mi hanno veramente commosso. 

(...) tantissimo ... ho ricevuto -sia 
in ambito professionale 
che 
umano -e 
che 
ho cercato 
di 
restituire, almeno in parte, svolgendo la 
professione, per quanto mi 
è 
stato possibile, con 
serietà 
ed impegno, oltre 
che 
con passione, sempre 
grata 
del 
senso di 
appartenenza 
che 
pochi 
lavori accordano: un vero privilegio! 


Molti 
sono i 
colleghi 
che 
hanno segnato in qualche 
modo il 
mio percorso professionale 
con il 
loro esempio e, per ovvie 
ragioni 
di 
brevità, ricorderò solo il 
grandissimo Antonio Palatiello 
... punto di 
riferimento insostituibile 
per tutti 
quelli 
che 
hanno avuto la 
fortuna 
di 
conoscerlo. 


(...) 


A tutti un grande e affettuoso abbraccio. 

Con gratitudine 


Gabriella D’Avanzo 


(*) Email Segreteria Particolare, lunedì 2 maggio 2022. 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Lascia 
il 
servizio, 
dopo 
oltre 
trentotto 
anni 
di 
significativa 
presenza, 
l’Avv. 
Pierluigi 
Umberto Di Palma. 


Al 
caro 
Pierluigi, 
Collega 
e 
Amico 
che 
ha 
sempre 
onorato 
l’Istituto 
con 
la 
Sua 
professionalità 
e 
il 
Suo 
grande 
impegno 
nell’interesse 
del 
Paese, 
vanno 
i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più 
affettuosi 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello 
Stato 
e 
del 
Personale 
dell’Avvocatura, 
in 
particolare, 
per 
lo 
svolgimento 
del 
prestigioso 
incarico 
di 
Presidente 
dell’ENAC 
-Ente 
Nazionale 
per 
l’Aviazione 
Civile. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


Gentili Colleghi, Personale tutto, 


nel 
ringraziare 
l'Avvocato Generale 
per le 
parole 
di 
stima 
amicizia 
ed affetto con cui 
ha 
voluto accompagnare il mio collocamento a riposo (...) 


Naturalmente, per quanto mi 
riguarda, resterò sempre 
un Avvocato dello Stato legato al 
nostro Istituto di 
antica 
e 
consolidata 
tradizione 
che 
ha, ancora, la 
capacità 
di 
tramandare 
di 
generazione 
in generazione 
un modo di 
essere 
Avvocati, facendo valere 
un'alta 
capacità 
professionale 
ed un'etica 
pubblica 
di 
indiscusso valore; 
qualità 
queste 
ultime 
che, sicuramente 
mi ritrovo nello svolgere, oggi, l'incarico che il Governo mi ha voluto, di recente, conferire. 


Colgo l'occasione 
per salutare 
tutti, regalandovi 
“le 
parole 
al 
Santo Padre” 
con cui 
ho 
voluto 
raccontare 
il 
trasporto 
aereo 
del 
terzo 
millennio, 
con 
positivo 
riscontro, 
venerdì 
scorso, 
a 
Papa 
Francesco, in un incontro privato, rappresentando la 
comunità 
nazionale 
ed internazionale 
del settore, presente numerosa in Sala Nervi. 


Pierluigi Di Palma 


Le parole al Santo Padre 


Papa Francesco, Fratelli tutti, 
per 
me, 
con 
profonda 
emozione, 
è 
un 
privilegio 
unico 
poter 
rappresentare 
in 
questo 
momento, 
innanzi 
a Sua Santità, la comunità nazionale 
ed internazionale 
del 
trasporto aereo, oggi 
presente 
numerosa in Sala Nervi. Una comunità, per 
dirla con parole 
di 
San Francesco d'Assisi 
riprese 
dall'incipit 
della Enciclica Fratelli 
tutti, impegnata a favorire 
una fraternità aperta, 
che 
permette 
di 
riconoscere, 
apprezzare 
ed 
amare 
ogni 
persona 
al 
di 
là 
della 
vicinanza 
fisica, 
al di là del luogo del mondo dove è nata e dove abita. 
Proprio la centralità e 
la sicurezza del 
passeggero hanno avuto il 
merito di 
concorrere 
ad 
abbattere 
i 
muri 
che 
separano culture 
diverse 
ed incoraggiare 
la cultura dell'incontro, rendendoci 
consapevoli dell'intima interconnessione che esiste tra tutti i popoli della Terra. 
Sono valori 
che 
appartengono al 
processo di 
liberalizzazione 
e 
privatizzazione 
del 
trasporto 
aereo, che, negli 
ultimi 
anni, ha permesso di 
intercettare 
i 
bisogni 
legati 
alla mobilità di 
miliardi 
di donne e uomini abitanti del creato. 


(*) Email Segreteria Particolare, martedì 17 maggio 2022. 



Per 
quel 
che 
riguarda 
il 
nostro 
Continente, 
al 
nuovo 
modello 
del 
trasporto 
aereo 
è 
da 
riconoscere, 
in 
particolare, 
la 
sua 
utilità 
per 
costruire 
l'Europa 
quale 
luogo 
che 
non 
solo 
geograficamente 
ma 
anche 
culturalmente 
può 
rappresentare 
l'identità 
nazionale 
di 
tutti 
i 
suoi 
cittadini. 
Pensiamo 
soprattutto 
alle 
nuove 
generazioni, 
invogliate 
dalla 
mobilità 
sicura 
ed 
a 
costo 
contenuto 
a "girare" 
senza passaporto, superando, con la diretta conoscenza di 
nuovi 
Paesi, le 
diffidenze 
che, 
anche 
nel 
recente 
passato, 
per 
lungo 
tempo, 
hanno 
favorito 
visioni 
nazionaliste 
e 
contrasti 
geo-politici 
anche 
di 
carattere 
bellico, che, nell'era dell'economia digitalizzata e 
globalizzata, 
si 
ritenevano 
definitivamente 
superate, 
ricercando 
nell'Europa 
delle 
Regioni 
un 
nuovo e diverso punto d'equilibrio del sistema democratico occidentale. 
Oggi, 
questa 
comunità 
è 
pronta, 
anche 
per 
le 
ragioni 
dette, 
a 
far 
ripartire, 
dopo 
il 
Covid, 
i 
ponti 
aerei 
che 
collegano 
l'universo, 
e, 
convinti 
della 
necessaria 
inclusione 
di 
tutti 
i 
Paesi, 
auspicando 
la 
pace, 
tutti 
noi 
ci 
stringiamo 
intorno 
al 
direttore 
generale 
dell'aviazione 
civile 
ucraina, 
Mr. 
Oleksandr 
Bilchuk, 
che 
pur 
non 
potendo 
partecipare, 
ha 
aderito 
a 
questo 
evento, 
per 
esprimere 
piena 
solidarietà 
al 
popolo 
della 
sua 
Nazione 
che, 
ingiustamente, 
si 
trova 
ad 
affrontare 
e 
resistere 
ad 
una 
devastante 
occupazione 
militare 
che 
sta 
mietendo 
vittime 
innocenti. 
Va ricordato che 
questa udienza privata del 
Santo Padre 
con gli 
operatori 
del 
settore 
del 
trasporto 
aereo è 
stata fortemente 
voluta dal 
Direttore 
Generale 
dell'ENAC, Alessio Quaranta, 
insieme 
a Monsignor 
Fabio Dal 
Cin, preposto alla Delegazione 
Pontificia della Santa Casa 
di 
Loreto, quale 
momento simbolico di 
condivisione 
del 
Giubileo Lauretano concesso da Sua 
Santità, per 
ufficializzare 
l'istituzione 
dell'8 ottobre 
quale 
"giornata della memoria" 
in onore 
della Madonna di Loreto, protettrice degli aviatori. 
Per 
volontà del 
Parlamento, grazie 
alla determinazione 
dell'on. Raffaella Paita, Presidente 
della 
Commissione 
Trasporti, 
e 
dell'on. 
Alessia 
Rotta, 
Presidente 
della 
Commissione 
Ambiente, 
l'8 ottobre 
sarà, da quest'anno, anche, la Giornata nazionale 
"Per 
non dimenticare" 
proprio per 
ricordare, nella ricorrenza della tragedia aerea del 
2001 a Linate 
con 118 morti, 
tutte le vittime degli incidenti del trasporto. 
Dunque, anche 
qui 
un ponte 
teso a unire 
culture 
diverse, civili 
e 
religiose, per 
sensibilizzare 
l'opinione 
pubblica 
sulla 
sicurezza 
del 
trasporto, 
la 
centralità 
del 
passeggero, 
il 
rispetto 
della 
dignità umana e del valore della vita di ciascun individuo. 
Il 
nostro auspicio, dunque, è 
che 
alla fine 
di 
un periodo buio possa tornare 
a risplendere 
la 
luce 
che, 
nel 
modesto 
ma 
significativo 
omaggio 
che 
abbiamo 
voluto 
riservare 
a 
Lei 
Papa 
Francesco, si 
materializza in una croce 
eterea, simbolo universale 
del 
necessario sacrificio 
che l'uomo deve affrontare per vivere in pace. 
Ancora grazie, Sua Santità, che 
nonostante 
le 
sofferenze 
personali, ha voluto partecipare 
a 
quest'incontro rendendo per tutti noi il 13 maggio 2022 un giorno indimenticabile. 


Venerdì 13 maggio 2022 


Pierluigi Di Palma 
Presidente 
Ente Nazionale per l'Aviazione Civile 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Lascia 
il 
servizio, 
dopo 
oltre 
quarantuno 
anni 
di 
significativa 
e 
prestigiosa 
presenza, 
l’Avv. Maria Elena Scaramucci. 


Alla 
cara 
Maria 
Elena, Collega 
e 
Amica 
che 
ha 
sempre 
onorato l’Istituto con la 
Sua 
alta 
professionalità, il 
Suo grande 
impegno, la 
Sua 
costante 
dedizione 
alla 
cura 
degli 
interessi 
del 
Paese, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
di 
tutti 
gli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e 
del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


Carissimi, 

desidero anzitutto ingraziare 
l'Avvocato Generale 
per le 
parole 
di 
stima 
e 
di 
affetto con 
cui 
ha 
voluto accompagnare 
il 
mio collocamento a 
riposo e 
tutti 
coloro che 
hanno voluto o 
vorranno, in pubblico o in privato, inviarmi un pensiero di saluto. 

Lascio l’Avvocatura 
con tantissimi 
ricordi 
e 
posso dire 
in tutta 
sincerità 
che 
questi 
41 
anni 
mi 
sembrano 
passati 
in 
un 
soffio. 
Sono 
riconoscente 
per 
tutte 
le 
opportunità 
che 
mi 
sono 
state 
date 
dal 
punto 
di 
vista 
professionale 
ed 
ho 
fatto 
tutto 
il 
mio 
meglio 
per 
esserne 
all’altezza. 
Tante 
persone 
mi 
saranno sempre 
care 
per l’amicizia 
che 
mi 
hanno dimostrato, che 
mi 
ha 
aiutato 
a 
superare 
momenti 
tristi 
della 
vita, altre, per non avermi 
fatto mai 
mancare 
la 
loro preziosa 
collaborazione, sempre accompagnata da professionalità e gentilezza. 

(...) 


Alla 
fine, se 
qualcuno dovesse 
chiedermi 
ora, a 
seguito del 
collocamento a 
riposo dopo 
così 
tanti 
anni 
di 
professione 
(oltre 
43 in totale), come 
passerò il 
resto del 
mio tempo, risponderei 
con un pensiero di Seneca, tratto dalla sua opera “De brevitate vitae”: 


“C’è 
un tempo per 
capire. Un tempo per 
scegliere. Un altro per 
decidere. C’è 
un tempo 
che abbiamo vissuto, un altro che abbiamo perso. E un tempo che ci attende”. 

La risposta è: “Cercherò di farne buon uso”. 

Buona vita e un grande abbraccio a tutti. 

Con affetto 

Maria Elena Scaramucci Lallo 

(*) Email Segreteria Particolare, mercoledì 1 giugno 2022. 



Finito di stampare nel mese di giugno 2022 
Stabilimenti 
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