ANNO LXXII - N. 1 
GENNAIO - MARZO 2020 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: Michele 
Dipace. Componenti: Franco Coppi 
-Giuseppe 
Guarino Natalino 
Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Andrea 
Carbone, 
Maurizio 
Fiorilli, 
Giuseppe 
Gerardo, 
Michele 
Gerardo, 
Gessica 
Golia, 
Maurizio 
Greco, 
Antonio 
Mitrotti, 
Gaetana 
Natale, 
Nicole 
Piccozzi, 
Loredana 
Pileggi, 
Stefano 
Pizzorno, 
Salvatore 
Paolo 
Putrino 
Gallo, 
Massimiliano 
Stagno, 
Gustavo 
Visentini. 


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giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it 
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Stato 
specificando 
codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
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di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


TEMI 
ISTITUZIONALI 


Direttiva relativa al 
contenzioso in materia di 
accertamento del 
diritto al 
riconoscimento e 
alla corresponsione 
dell’integrale 
trattamento pensionistico, 
senza assoggettamento alle 
misure 
introdotte 
dall’art. 1, commi 
260-268, della Legge 
30 dicembre 
2018, n. 145 e 
s.m.i., Circolare 
A.G. 
del 15 giugno 2020 n. 37 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

D.P.C.M. 15 maggio 2020 recante 
“Autorizzazione 
all’Avvocatura dello 
Stato ad assumete 
la rappresentanza e 
la difesa dell’Agenzia Regionale 
per 
il 
lavoro, la formazione 
e 
l’accreditamento (ALFA)”, Circolare 
A.G. 
del 2 luglio 2020 n. 42 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Pareri 
di 
rimborso spese 
legali, Comunicazione 
di 
servizio A.G.A. del 
7 
luglio 2020 prot. 346365 n. 59. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

D.P.C.M. 
27 
luglio 
2020 
recante 
“Autorizzazione 
all’Avvocatura 
dello 
Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa del 
Museo Storico della 
Fisica e 
Centro Studi 
e 
Ricerche 
‘Enrico Fermi’”, Circolare 
A.G. del 
18 
settembre 2020 n. 51. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
D.P.C.M. 
27 
luglio 
2020 
recante 
“Autorizzazione 
all’Avvocatura 
dello 
Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa dell’Ente 
autonomo regionale 
Teatro Massimo Bellini 
di 
Catania”, Circolare 
A.G. del 
25 settembre 
2020 n. 53. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


Paolo Gentili, La Corte 
di 
giustizia sulla sentenza della Corte 
costituzionale 
tedesca; e i settanta anni dalla dichiarazione di Schuman 
. . . . . . . 

Gustavo 
Visentini, 
Lo 
scontro 
tra 
Corte 
tedesca 
e 
Corte 
europea 
e 
la 
vera 
posta in gioco 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Maurizio 
fiorilli, 
La 
qualificazione 
tributaria 
della 
indennità 
liquidata 
per 
la accertata responsabilità dello Stato per 
gli 
atti 
e 
le 
omissioni 
contrari 
al diritto europeo 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Gaetana 
Natale, 
Il 
Covid 
e 
la 
crisi 
pandemica: 
quali 
prospettive 
future 
per un diritto sostenibile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

CONTENZIOSO 
NAZIONALE 


Maurizio Greco, Michele 
Gerardo, Funzione 
consultiva e 
responsabilità 
penale 
(Trib. 
Napoli, 
Sez. 
I 
pen., 
sent. 
28 
novembre 
2019, 
dep. 
21 
gennaio 
2020 n. 12933) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Gessica 
Golia, Rideterminazine 
dei 
criteri 
di 
assegnazione 
di 
un aiuto di 
Stato: 
la 
questione 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
(Cons. 
St., 
Sez. IV, ord. 4 dicembre 2019 n. 8299) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

pag. 
1 
›› 
12 
›› 
13 
›› 
14 
›› 
15 
›› 
17 
›› 
21 
›› 
25 
›› 
44 
›› 
51 
›› 
88 



Wally ferrante, I procedimenti 
cautelari 
alla luce 
della normativa emergenziale 
da Covid-19 (art. 84 D.L. 18/20); un excursus 
della giurisprudenza 
sul 
sistema 
delle 
cautele 
antimafia 
nell’atto 
defensionale 
dell’Avvocatura 
(Cons. St., Sez. III, ord. 22 maggio 2020 n. 2870) 
. . . . pag. 
104 
Wally ferrante, Diniego di 
rinnovo di 
porto d’armi: l’automatismo preclusivo 
dell’art. 43 T.U.LP.S. e 
la rilevanza della declaratoria di 
riabilitazione 
(Cons. St., Sez. III, sent. 1 giugno 2020 n. 3452) 
. . . . . . . . . . . . ›› 
111 
Nicole 
Piccozzi, Una nota (ragionata) alla sentenza del 
TAR 
Calabria n. 
841/2020: rapporti 
tra Stato e 
Regioni 
in tempo di 
Covid-19 
(T.a.r. Calabria, 
Sez. I, sent. 9 maggio 2020 n. 841) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
120 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
Gaetana 
Natale, L’arte 
come 
strumento di 
evoluzione 
dell’economia: le 
prospettive future 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
149 
Giuseppe 
Gerardo, La disciplina dell’azione 
di 
classe 
italiana ex 
lege 
n. 
31 
del 
2019 
e 
comparazione 
tra 
la 
disciplina 
della 
class 
action 
nel 
diritto 
statunitense e l’azione di classe italiana 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
170 
Massimiliano 
Stagno, 
Il 
contrasto 
al 
finanziamento 
del 
terrorismo: 
un 
duro compromesso tra esigenze 
di 
tutela e 
garanzie 
di 
offensività e 
determinatezza 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
234 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Stefano 
Pizzorno, 
Covid-19 
e 
ordinanze 
del 
Governo. 
In 
particolare, 
i 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
quali 
strumento 
necessario 
per 
far 
fronte alla pandemia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
257 
Lorenzo D’Ascia, Lo stato di 
emeregenza da COVID-19 e 
il 
diritto del-
l’immigrazione, nella cornice 
della Convenzione 
europea dei 
diritti 
del-
l’uomo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
268 
Loredana 
Pileggi, Salvatore 
Paolo Putrino Gallo, 
La gestione 
delle 
emergenze 
sanitarie nell’ordinamento italiano 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
282 
RECENSIONI 
Antonio Mitrotti, L’interesse 
nazionale 
nell’ordinamento italiano. Itinerari 
della genesi 
ed evoluzione 
di 
un’araba fenice, Editoriale 
Scientifica, 
2020. Presentazione di 
Augusto Cerri 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
307 
Andrea 
Carbone, 
Potere 
e 
situazioni 
soggettive 
nel 
diritto 
amministrativo. 
I. 
Situazioni 
giuridiche 
soggettive 
e 
modello 
procedurale 
di 
accertamento, 
G. Giappichelli Editore, 2020 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
310 



TEMIISTITUZIONALI
Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 37/2020 


oggetto: 
Direttiva 
relativa 
al 
contenzioso 
in 
materia 
di 
accertamento 
del 
diritto 
al 
riconoscimento 
e 
alla 
corresponsione 
dell'integrale 
trattamento 
pensionistico, 
senza 
assoggettamento 
alle 
misure 
introdotte 
dall'art. 
1, 
commi 260-268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 e s.m.i. 


In 
considerazione 
della 
rilevanza, 
anche 
numerica, 
che 
sta 
assumendo 
il 
contenzioso 
promosso, sia 
innanzi 
alla 
giurisdizione 
contabile 
sia 
innanzi 
alla 
giurisdizione 
ordinaria, dai 
titolari 
di 
trattamento pensionistico superiore 
a 
euro 100 mila 
lordi 
su base 
annua, per l'accertamento 
del 
diritto al 
riconoscimento e 
alla 
corresponsione 
dell'integrale 
trattamento di 
quiescenza, 
senza 
i 
limiti 
introdotti 
alla 
rivalutazione 
automatica, 
né 
assoggettamento 
alla 
decurtazione 
di 
cui 
all'art. 1, commi 
260-268, della 
Legge 
30 dicembre 
2018 n. 145, al 
fine 
di 
uniformare 
le 
linee 
difensive 
a 
tutela 
dell'Amministrazione, 
anche 
in 
relazione 
alle 
prospettate 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
delle 
norme 
contestate, 
si 
fornisce 
-con 
riguardo 
alle 
argomentazioni 
generalmente 
addotte 
al 
riguardo dai 
ricorrenti 
-la 
seguente 
direttiva 
per 
la 
trattazione 
dei 
pertinenti 
affari 
legali, 
che 
in 
ogni 
caso 
dovranno 
essere 
direttamente 
trattati, 
anche davanti agli organi giurisdizionali contabili, dall'Avvocatura dello Stato. 


Si 
premette 
che 
numerosi 
Giudici 
hanno già 
rimesso alla 
Corte 
Costituzionale 
la 
questione 
di 
legittimità 
della 
legge 
in questione. La 
prima 
ordinanza 
di 
rimessione, emessa 
dalla 
Corte 
dei 
conti 
-Sezione 
giurisdizionale 
per il 
Friuli-Venezia 
Giulia 
(R.O. 213/19), sarà 
oggetto 
di 
discussione 
all'udienza 
del 
20 ottobre 
2020; 
nel 
relativo giudizio è 
stato depositato 
dall'Avvocatura 
Generale 
atto di 
intervento del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, il 
cui 
contenuto è alla base delle sotto indicate linee difensive. 


******* 


1. Sull'asserito diritto dei 
ricorrenti 
alla percezione 
integrale 
del 
trattamento previdenziale 
e 
sulla 
conseguente 
asserita 
illegittimità 
delle 
trattenute 
operate 
a 
titolo 
di 
"taglio" 
ex art. 1, comma 261 e 
ss., l. n. 145/2018. Manifesta infondatezza della questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell'art. 1, commi 
261, 262, 263 e 
265, della legge 
30 dicembre 
2018, 
n. 145. 

RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


Le 
prospettate 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
devono ritenersi 
destituite 
di 
fondamento. 


Per quanto concerne 
la 
riduzione 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
di 
importo complessivamente 
superiore 
ai 
100 mila 
euro, disposta 
per un periodo di 
cinque 
anni 
dall'art. 1, comma 
261 e 
ss., della 
Legge 
n. 145/2018, si 
rileva 
che 
tale 
misura 
risulta 
simile 
a 
quella 
prevista, 
per il 
triennio 2014-2016, dall'art. 1, comma 
486, della 
Legge 
n. 147/2013, la 
cui 
legittimità 
è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale. 


In tale 
occasione, la 
Corte, nel 
respingere, con la 
pronuncia 
n. 173 del 
2016, le 
varie 
questioni 
sollevate, 
ha 
escluso 
la 
natura 
tributaria 
del 
contributo, 
operando 
lo 
stesso 
all'interno 
del 
circuito previdenziale 
e 
trovando giustificazione, in via 
del 
tutto eccezionale, nel 
periodo 
di grave crisi economico-finanziaria del sistema. 


Ora, come 
noto, il 
sistema 
previdenziale 
si 
regge 
dal 
punto di 
vista 
economico su un 
equilibrio fra 
contributi 
versati 
dai 
lavoratori 
in servizio e 
pensioni 
pagate 
a 
chi 
ha 
cessato il 
lavoro. In caso di 
squilibrio si 
può intervenire 
e 
si 
interviene 
anche 
a 
carico del 
bilancio dello 
Stato, ma 
non è 
irragionevole 
che 
il 
legislatore 
persegua 
prima 
di 
tutto quell'equilibrio. Esso, 
come 
è 
altrettanto 
noto, 
è 
pregiudicato 
o 
rischia 
di 
esserlo, 
all'attualità, 
a 
causa 
della 
restrizione 
della 
base 
contributiva 
su cui 
il 
sistema 
può far conto e 
dell'allungamento della 
vita 
media 
dei 
pensionati. 
Non 
è 
dunque 
irragionevole 
che 
il 
legislatore 
voglia 
assicurare 
l'equilibrio 
delle 
gestioni 
anche 
attraverso 
forme 
di 
imposizione 
straordinaria 
sugli 
assegni 
più 
elevati 
oggi 
corrisposti, frutto per lo più dell'applicazione 
agli 
interessati 
di 
un regime 
pensionistico 
nettamente 
più favorevole 
di 
quelli 
oggi 
(e 
domani) riconosciuti 
ai 
lavoratori 
più giovani. Lo 
potrebbe 
fare, astrattamente, intervenendo con riduzioni 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
più elevati 
in atto, come 
sostanzialmente 
avviene 
quando blocca 
o riduce 
l'indicizzazione 
delle 
pensioni 
al 
costo 
della 
vita, 
"modulando" 
l'adeguamento 
nel 
tempo 
delle 
pensioni, 
necessario 
per 
evitare 
la 
perdita 
del 
valore 
reale 
delle 
stesse 
(cfr., 
ad 
es., 
sentenza 
n. 
30 
del 
2004), 
in 
un'ottica 
di 
"concorso 
solidaristico 
al 
finanziamento 
di 
un 
riassetto 
progressivo" 
di 
altre 
pensioni, 
onde 
"riequilibrare il sistema a costo invariato" 
(sentenza n. 316 del 2010). 


Nella 
citata 
sentenza 
n. 173/2016 la 
Corte 
costituzionale 
ha, altresì, ritenuto che 
tale 
riduzione, 
pur comportando innegabilmente 
un sacrificio, quest'ultimo sia, comunque, sostenibile, 
in 
quanto 
tale 
riduzione 
è 
applicata 
solo 
sulle 
pensioni 
di 
importo 
più 
elevato 
nel 
rispetto di 
criteri 
di 
progressività. Non sussiste, infatti, nel 
nostro ordinamento un principio 
d'incondizionata 
tutela 
dell'affidamento nel 
trattamento pensionistico, soprattutto ove 
si 
consideri 
che 
i 
ricorrenti 
sono percettori 
di 
somme 
pensionistiche 
di 
notevole 
entità 
che 
sicuramente 
non privano gli interessati dei mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita. 


L'intervento normativo sulle 
pensioni 
più elevate, dunque, è 
pienamente 
conforme 
alle 
norme 
costituzionali 
che 
erroneamente 
si 
considerano 
violate 
e 
anzi, 
in 
sua 
assenza, 
si 
sarebbe 
creata 
una 
sorta 
di 
"zona 
franca" 
sottratta 
alla 
logica 
di 
contenimento dei 
costi 
degli 
apparati 
pubblici, resa 
necessaria 
e 
indifferibile 
dalla 
grave 
crisi 
economico-finanziaria, in contrasto 
con l’ineludibile 
esigenza 
di 
fornire 
un contribuito equamente 
distribuito, ispirato ai 
principi 
di solidarietà ed eguaglianza. 


Si 
tratta 
di 
una 
normativa 
espressione 
di 
un 
disegno 
organico, 
che 
-per 
effetto 
del 
comma 
264 
L. 
n. 
145/2018 
-coinvolge 
anche 
gli 
organi 
costituzionali 
dotati 
di 
autonomia 
normativa, 
egualmente 
impegnati 
nello 
sforzo 
di 
risanamento 
economico 
e 
di 
contenimento 
dei costi. 


Nonostante 
ciò, i 
ricorrenti 
dubitano della 
legittimità 
costituzionale 
della 
normativa 
richiamata, 
ma 
prospettano censure 
sorrette 
da 
argomenti 
che 
non resistono ad un esame 
più 
approfondito della complessa controversia. 



tEMI 
IStItuzIONALI 


Con riferimento alla 
prima 
questione 
proposta, come 
indicato dagli 
stessi 
ricorrenti, la 
Corte 
costituzionale 
si 
è 
già 
pronunciata 
con la 
predetta 
sentenza 
n. 173 del 
2016 sull'art. 1, 
comma 
486, della 
Legge 
n. 147 del 
2013, il 
quale 
-in modo assai 
simile 
alla 
norma 
qui 
in 
esame 
-prevedeva 
che 
"a decorrere 
dal 
1o 
gennaio 2014 e 
per 
un periodo di 
tre 
anni, sugli 
importi 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
corrisposti 
da enti 
gestori 
di 
forme 
di 
previdenza obbligatorie 
complessivamente 
superiori 
a quattordici 
volte 
il 
trattamento minimo INPS è 
dovuto 
un contributo di 
solidarietà a favore 
delle 
gestioni 
previdenziali 
obbligatorie, pari 
al 
6 per 
cento della parte 
eccedente 
il 
predetto importo lordo annuo fino all'importo lordo annuo di 
venti 
volte 
il 
trattamento minimo INPS, nonché 
pari 
al 
12 per 
cento per 
la parte 
eccedente 
l'importo lordo annuo di 
venti 
volte 
il 
trattamento minimo INPS e 
al 
18 per 
cento per 
la parte 
eccedente 
l'importo lordo annuo di 
trenta volte 
il 
trattamento minimo INPS. Ai 
fini 
dell'applicazione 
della predetta trattenuta è 
preso a riferimento il 
trattamento pensionistico complessivo 
lordo 
per 
l'anno 
considerato. 
L'INPS, 
sulla 
base 
dei 
dati 
che 
risultano 
dal 
casellario 
centrale 
dei 
pensionati, 
istituito 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
31 
dicembre 
1971, n. 1388, è 
tenuto a fornire 
a tutti 
gli 
enti 
interessati 
i 
necessari 
elementi 
per 
l'effettuazione 
della trattenuta del 
contribuito di 
solidarietà, secondo modalità proporzionali 
ai 
trattamenti 
erogati. 
Le 
somme 
trattenute 
vengono 
acquisite 
dalle 
competenti 
gestioni 
previdenziali 
obbligatorie, anche 
al 
fine 
di 
concorrere 
al 
finanziamento degli 
interventi 
di 
cui 
al 
comma 
191 del presente articolo". 


La 
Corte 
in quella 
occasione 
ha 
affermato che 
un simile 
prelievo non è 
di 
per sé 
illegittimo 
e 
non riveste 
natura 
di 
imposta, perché 
esso non è 
acquisito allo Stato, né 
è 
destinato 
alla 
fiscalità 
generale, 
in 
quanto 
è 
prelevato 
dall'INPS 
e 
dagli 
altri 
Enti 
previdenziali 
coinvolti, 
che 
lo trattengono all'interno delle 
loro gestioni, con speciali 
finalità 
solidaristiche 
ed endo-
previdenziali. 
La 
Corte 
ha 
ritenuto, 
altresì, 
trattarsi 
di 
un 
prelievo 
"inquadrabile 
nel 
genus 
delle 
prestazioni 
patrimoniali 
imposte 
per 
legge, di 
cui 
all'art. 23 Cost., avente 
la finalità di 
contribuire agli oneri finanziari del sistema previdenziale". 


La 
stessa 
Corte 
Costituzionale, 
in 
occasione 
della 
sentenza 
citata, 
ha, 
però, 
precisato 
che 
il 
prelievo 
si 
poteva 
ritenere 
legittimo 
a 
condizione 
che 
il 
legislatore 
non 
eccedesse 
precisi 
limiti, derivanti 
dal 
"combinato operare 
dei 
principi 
[ ... ] 
di 
ragionevolezza, di 
affidamento 
e 
della 
tutela 
previdenziale 
(art. 
3 
e 
38 
Cost.)", 
il 
cui 
rispetto 
è 
oggetto 
di 
uno 
scrutinio 
"stretto 
di 
costituzionalità 
che 
impone 
un 
grado 
di 
ragionevolezza 
complessiva 
ben 
più 
elevato 
di 
quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà". 


Nel 
dettaglio, la 
Corte 
ha 
ritenuto che 
l'intervento dovesse 
"assicurare 
il 
rispetto di 
alcune 
condizioni, atte 
a configurare 
l'intervento ablativo come 
sicuramente 
ragionevole, non 
imprevedibile 
e 
sostenibile". La 
prima 
condizione 
generale 
indicata 
era 
che 
il 
contributo dovesse 
operare 
all'interno dell'ordinamento previdenziale, 
"come 
misura di 
solidarietà forte", 
mirata 
a 
puntellare 
il 
sistema 
pensionistico, e 
di 
sostegno previdenziale 
ai 
più deboli, anche 
in un'ottica 
di 
mutualità 
intergenerazionale, siccome 
imposta 
da 
una 
situazione 
di 
grave 
crisi 
del 
sistema 
stesso, indotta 
da 
vari 
fattori 
endogeni 
ed esogeni 
(il 
più delle 
volte 
tra 
loro intrecciati: 
crisi 
economica 
internazionale, suo impatto sulla 
economia 
nazionale, disoccupazione, 
mancata 
alimentazione 
della 
previdenza, riforme 
strutturali 
del 
sistema 
pensionistico), 
che 
devono essere 
oggetto di 
attenta 
ponderazione 
da 
parte 
del 
legislatore, in modo da 
conferire 
all'intervento quella 
incontestabile 
ragionevolezza, a 
fronte 
della 
quale 
soltanto può consentirsi 
di 
derogare 
(in 
termini 
accettabili) 
al 
principio 
di 
affidamento 
in 
ordine 
al 
mantenimento 
del 
trattamento 
pensionistico 
già 
maturato. 
Anche 
perché 
l'effettività 
delle 
condizioni 
di 
crisi 
del 
sistema 
previdenziale 
consentirebbe 
di 
salvaguardare 
il 
principio dell'affi



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


damento, nella 
misura 
in cui 
il 
prelievo non risulta 
sganciato dalla 
realtà 
economico-sociale, 
di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli. 


La 
seconda 
condizione 
posta 
dalla 
Corte 
era 
che 
un contributo sulle 
pensioni 
dovesse 
costituire 
"una 
misura 
del 
tutto 
eccezionale, 
nel 
senso 
che 
non 
può 
essere 
ripetitivo 
e 
tradursi 
in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza". 


Ancora, come 
affermato dalla 
Corte, il 
prelievo, per essere 
solidale 
e 
ragionevole 
e 
non 
contrastare 
con 
la 
garanzia 
costituzionale 
dell'art. 
38 
Cost. 
(agganciata 
anche 
all'art. 
36 
Cost., 
ma 
non 
in 
modo 
indefettibile 
e 
strettamente 
proporzionale: 
v. 
sentenza 
n. 
116 
del 
2010), 
avrebbe 
dovuto "incidere 
sulle 
pensioni 
più elevate", parametro, questo, da 
misurare 
in rapporto 
al 
"nucleo essenziale" 
di 
protezione 
previdenziale 
assicurata 
dalla 
Costituzione, ossia 
la 
"pensione minima". 


Infine, 
per 
la 
Corte 
l'incidenza 
sulle 
pensioni 
"più 
elevate", 
per 
essere 
legittima, 
avrebbe 
dovuto "essere 
contenuta in limiti 
di 
sostenibilità e 
non superare 
livelli 
apprezzabili", per cui 
le 
aliquote 
di 
prelievo non possono essere 
eccessive 
e 
devono rispettare 
il 
principio di 
proporzionalità, 
che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura. 


In definitiva, per superare 
lo scrutinio "stretto" 
di 
costituzionalità, e 
palesarsi 
come 
misura 
improntata 
effettivamente 
alla 
solidarietà 
previdenziale 
(artt. 2 e 
38 Cost.), il 
contributo 
di solidarietà dovrebbe per come riassunto dalla stessa Corte in un preciso catalogo: 


1) operare all'interno del complessivo sistema di previdenza; 
2) essere imposto dalla crisi contingente e grave del sistema; 
3) incidere sulle pensioni più elevate; 
4) presentarsi come prelievo sostenibile; 
5) rispettare il principio di proporzionalità; 
6) essere comunque utilizzato come misura 
una tantum. 
Ciò chiarito, si 
deve 
ritenere 
che 
anche 
la 
normativa 
censurata 
con l'odierno ricorso supera 
lo "scrutinio stretto" di costituzionalità. 
Quanto al 
primo punto fissato dalla 
Corte, anche 
il 
prelievo in esame 
opera, indubbiamente, 
all'interno del 
complessivo sistema 
della 
previdenza, perché, in forza 
del 
comma 
265 
dell'art. 1 della 
Legge 
n. 145/2018, 
"presso INPS e 
gli 
altri 
enti 
previdenziali 
interessati 
sono 
istituiti 
appositi 
fondi 
denominati 
'fondo 
risparmio 
sui 
trattamenti 
pensionistici 
di 
importo 
elevato' 
in 
cui 
confluiscono 
i 
risparmi 
derivati 
dai 
commi 
da 
261 
a 
263. 
Le 
somme 
ivi 
confluite 
restano accantonate". 


Pur 
non 
essendo 
disciplinato 
l'uso 
delle 
somme 
così 
accantonate, 
resta 
il 
fatto 
che 
le 
stesse 
rimangono 
all'interno 
dell'INPS 
o 
degli 
altri 
enti 
previdenziali 
interessati 
e 
confluiscono 
in un fondo specifico, per restare 
qui 
accantonate, senza, quindi, possibilità 
di 
utilizzi 
diversi. 


In merito al 
secondo punto si 
deve 
ritenere 
ancora 
attuale 
l'esigenza 
di 
un supporto al 
sistema 
pensionistico, in un'ottica 
di 
sostegno previdenziale 
ai 
più deboli 
e 
di 
mutualità 
intergenerazionale, 
perché 
la 
situazione 
di 
grave 
crisi 
del 
sistema 
previdenziale 
italiano 
deriva 
dal-
l'accresciuta 
longevità 
a 
fronte 
di 
un 
calo 
demografico 
e 
di 
un 
calo 
dell'occupazione 
che 
contrae 
il 
rapporto lavoratori/pensionati 
e 
che 
rende 
difficilmente 
sostenibile 
la 
spesa 
previdenziale, 
tanto più alla 
luce 
dell'ampio riconoscimento di 
trattamenti 
di 
quiescenza 
svicolati 
da 
un 
meccanismo 
contributivo, 
quali 
sono 
quelli 
colpiti 
dall'intervento 
normativo 
sottoposto 
al vaglio di legittimità costituzionale. 


Non ha 
alcun rilievo il 
dato per cui 
il 
legislatore, nello stesso contesto normativo, ha 
ampliato la 
platea 
degli 
aventi 
diritto al 
trattamento di 
quiescenza 
(c.d. "quota 
100"), con un 
intervento di 
favore 
rispetto al 
regime 
precedente, perché 
ciò se 
da 
un lato non dimostra 
in 



tEMI 
IStItuzIONALI 


alcun modo l'irragionevolezza 
dell'intervento che 
qui 
viene 
in considerazione, dall'altro semmai 
confermerebbe 
la 
destinazione 
del 
prelievo ad operare 
nell'ambito del 
sistema 
previdenziale 
con 
finalità 
solidaristiche, 
avendo 
consentito 
l'accesso 
al 
trattamento 
di 
quiescenza 
a 
soggetti penalizzati dalla riforma precedente. 


Circa 
i 
punti 
terzo, quarto e 
quinto indicati 
dalla 
Corte 
costituzionale 
come 
vincoli 
gravanti 
sul 
legislatore, si 
osserva 
che 
il 
prelievo in esame 
incide 
sulle 
pensioni 
più alte, è 
certamente 
sostenibile per i beneficiari di queste e rispetta il principio di proporzionalità. 


Infatti, 
la 
norma 
consente 
di 
operare 
il 
prelievo 
sui 
trattamenti 
superiori 
a 
100 
mila 
euro 
lordi 
annui, con riduzione 
di 
un'aliquota 
pari 
al 
15 per cento per la 
parte 
eccedente 
il 
predetto 
importo fino a 
130.000 euro, pari 
al 
25 per cento per la 
parte 
eccedente 
130.000 euro fino a 


200.000 euro, pari 
al 
30 per cento per la 
parte 
eccedente 
200.000 euro fino a 
350.000 euro, 
pari 
al 
35 per cento per la 
parte 
eccedente 
350.000 euro fino a 
500.000 euro e 
pari 
al 
40 per 
cento per la 
parte 
eccedente 
500.000 euro; 
mentre, in forza 
del 
comma 
267 dello stesso art. 
1, 
L. 
n. 
145/2018, 
"l’importo 
complessivo 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
diretti 
non 
può 
comunque 
essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua". 
di 
conseguenza, il 
meccanismo è 
tarato in modo tale 
da 
incidere 
solo sulle 
pensioni 
più 
elevate, 
in 
misura 
proporzionalmente 
crescente 
al 
crescere 
del 
trattamento, 
evitando 
che 
i 
trattamenti 
incisi, comunque, scendano sotto la misura di 100.000 euro l'anno. 


Quindi, in concreto, non subiscono contrazioni 
i 
trattamenti 
fino a 
100 mila 
euro lordi 
annui 
e, per quelli 
superiori, la 
contrazione 
viene 
ad incidere 
con percentuali 
crescenti 
al 
crescere 
del 
trattamento e 
solo sugli 
importi 
che 
superano le 
singole 
soglie: 
con l'effetto che 
il 
prelievo è, esemplificativamente, pari: 
ad euro 4.500 lordi 
annui 
per il 
primo scaglione 
nel-
l'importo massimo (di 
euro 130.000), garantendo, quindi, un trattamento pari 
a 
125.500 euro 
lordi 
annui; 
ed è 
pari 
ad euro 17.500 euro lordi 
annui 
nell'importo massimo per il 
secondo 
scaglione 
(di 
euro 
200.000), 
garantendo, 
quindi, 
un 
trattamento 
pari 
a 
182.500 
euro 
lordi 
annui: importi che paiono tali da far ritenere sostenibile il prelievo. 


Quanto, 
infine, 
al 
sesto 
punto 
fissato 
dalla 
Corte, 
in 
primo 
luogo, 
non 
si 
può 
affermare 
che 
si 
sia 
in 
presenza 
di 
una 
proroga 
o 
di 
un'estensione 
del 
precedente 
prelievo, 
perché 
quello 
ha 
operato 
per 
il 
triennio 
decorrente 
dal 
1° 
gennaio 
2014, 
mentre 
il 
prelievo 
qui 
in 
esame 
opererà 
per 
la 
durata 
di 
cinque 
anni 
a 
decorrere 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
Legge 
n. 
145 
del 
2018, 
ossia 
dal 
1 
gennaio 
2019, 
con 
l'effetto 
che 
per 
gli 
anni 
2017 
e 
2018 
non 
vi 
è 
stato 
alcun 
prelievo. 


Inoltre, la 
disciplina 
pregressa 
era 
diversa, anche 
in relazione 
alle 
aliquote 
di 
prelievo e 
agli 
importi 
su cui 
erano destinate 
ad operare, applicandosi 
a 
trattamenti 
"superiori 
a quattordici 
volte 
il 
trattamento minimo INPS" 
e 
con aliquote 
"pari 
al 
6 per 
cento della parte 
eccedente 
il 
predetto 
importo 
lordo 
annuo 
fino 
all'importo 
lordo 
annuo 
di 
venti 
volte 
il 
trattamento minimo INPS, nonché 
pari 
al 
12 per 
cento per 
la parte 
eccedente 
l'importo lordo 
annuo di 
venti 
volte 
il 
trattamento minimo INPS e 
al 
18 per 
cento per 
la parte 
eccedente 
l'importo 
lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo INPS ". 


In generale, dunque, l'estensione 
temporale 
dell'intervento non è 
tale 
da 
poter indurre 
ad 
affermare 
che 
non 
resti 
un 
prelievo 
eccezionale 
e 
che 
si 
traduca 
in 
un 
meccanismo 
ordinario 
e stabile di alimentazione del sistema di previdenza. 


Le 
disposizioni 
in parola 
rispettano il 
parametro della 
temporaneità 
del 
prelievo, come 
delineato dalla 
Corte 
Costituzionale 
nelle 
sentenze 
n. 173/2016, n. 69/2014, n. 166/2012, in 
quanto la 
decurtazione 
del 
trattamento pensionistico si 
applica 
per cinque 
anni. d'altra 
parte 
non è 
configurabile 
alcuna 
continuità 
con le 
diverse 
misure 
adottate 
in precedenza 
dal 
legislatore, 
né omogeneità di contenuti. 



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


L'intervento 
in 
esame 
appare 
giustificato 
dal 
principio 
di 
solidarietà 
che 
informa 
la 
Carta 
Costituzionale, nonché 
dalla 
necessità 
di 
un riequilibrio del 
sistema 
previdenziale 
che 
di 
quel 
principio costituisce 
espressione, applicandosi 
la 
riduzione 
esclusivamente 
a 
pensioni 
di 
importo 
elevato e unicamente sulla parte eccedente una determinata soglia. 


È 
coerente 
e 
certamente 
non irragionevole 
l'esclusione 
dal 
contributo di 
solidarietà 
dei 
pensionati 
degli 
enti 
previdenziali 
privatizzati 
e 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
dei 
superstiti; 
inoltre, 
non 
c'è 
alcuna 
discriminazione 
rispetto 
ai 
cittadini 
che 
fruiscono 
di 
redditi 
complessivi 
di 
uguale 
entità, in quanto il 
prelievo forzoso ha 
funzione 
solidaristica 
all'interno del 
sistema 
previdenziale, 
come 
confermato 
dalla 
previsione 
normativa 
dell'accantonamento 
delle 
risorse 
risparmiate presso la gestione Inps. 


La 
soglia 
minima 
di 
intervento è 
più elevata 
rispetto alle 
precedenti 
misure 
restrittive 
ex L. n. 147/2013 e sono stati introdotti un maggior numero di scaglioni reddituali. 


La 
decurtazione 
patrimoniale 
non è 
definitiva 
e 
le 
risorse 
acquisite 
non sono destinate 
al 
finanziamento delle 
spese 
pubbliche. La 
durata 
quinquennale 
del 
prelievo e 
l'accantonamento 
dei risparmi presso l'Inps avvalorano questa tesi. 


Non è 
conferente 
né 
ammissibile 
il 
raffronto con il 
reddito di 
cittadinanza 
e 
con la 
riforma 
pensionistica 
c.d. quota 
100. L'apporto recato dal 
prelievo in esame 
-pari 
a 
circa 
416 
milioni 
nel 
quinquennio 
-è 
di 
rilievo, 
ferma 
restando 
la 
non 
confrontabilità 
con 
gli 
oneri 
connessi 
agli altri interventi legislativi. 


Quanto alla 
paventata 
violazione 
del 
legittimo affidamento, si 
osserva 
che 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
chiarito, da 
tempo, che 
la 
tutela 
del 
legittimo affidamento non impedisce 
al 
legislatore 
di 
emanare 
norme 
che 
modificano 
la 
disciplina 
dei 
rapporti 
di 
durata 
in 
senso 
sfavorevole 
per i 
destinatari, purché 
si 
tratti 
di 
disposizioni 
che 
non trasmodino in un regolamento 
irrazionale. La 
tipologia 
di 
contributi 
in argomento è 
ammessa 
purché 
gli 
stessi 
siano 
non arbitrari 
e 
non eccessivamente 
lesivi 
delle 
legittime 
aspettative 
del 
cittadino destinatario 
(sentenza n. 349 del 1985). 


Nel caso in esame, per quanto eccepito, tali connotati non sono sussistenti. 


1.1. la Circolare 
attuativa inPS 
n. 62/2019, pubblicata il 
7 maggio 2019, esclude 
dal 
taglio alle 
pensioni 
d'oro introdotto dalla legge 
di 
bilancio 2019 i 
trattamenti 
ottenuti 
con 
il cumulo contributivo. 
Con la 
Circolare 
62/2019 pubblicata 
il 
7 maggio 2019, l'Inps 
ha 
affrontato per la 
prima 
volta 
il 
tema 
del 
taglio alle 
pensioni 
d'oro introdotto dalla 
legge 
di 
bilancio del 
2019, introducendo 
un'esenzione per i trattamenti ottenuti con il cumulo contributivo. 


Nella 
Circolare 
l'Inps 
premette 
che 
la 
Legge 
n. 145/2018 ha 
previsto un contributo di 
solidarietà 
dal 
2019 al 
2023 per tutte 
le 
pensioni 
che 
superino l'importo lordo annuo (rata 
di 
tredicesima 
inclusa) 
di 
100.000 
euro. 
Per 
determinare 
il 
valore 
complessivo 
delle 
pensioni 
oggetto 
del 
taglio 
saranno 
considerati 
tutti 
i 
trattamenti 
pensionistici 
diretti 
(dunque, 
sia 
la 
pensione 
di 
vecchiaia 
sia 
quella 
anticipata, ma 
anche 
quelle 
supplementari) fruiti 
dallo stesso 
beneficiario e 
liquidati 
a 
carico delle 
gestioni 
Inps. Il 
taglio parte 
dal 
15% (per i 
primi 
30.000 
euro eccedenti i 100mila) e arriva al 40% per la quota eccedente i 500.000 euro. 


La 
Circolare 
rammenta, 
poi, 
che 
per 
fare 
scattare 
il 
contributo 
di 
solidarietà 
è 
necessario 
che 
le 
pensioni 
computate 
contengano almeno una 
quota 
afferente 
al 
sistema 
di 
calcolo retributivo, 
in quanto l'articolo 1, comma 
263, della 
Legge 
n. 145/2018, fa 
salve 
dal 
taglio anche 
le 
pensioni 
«interamente 
liquidate 
con 
il 
sistema 
contributivo». 
Per 
questo 
motivo, 
la 
Circolare 
Inps 
esclude 
dal 
taglio i 
trattamenti 
in totalizzazione 
(anche 
se, in realtà, non sempre 
queste 



tEMI 
IStItuzIONALI 


pensioni 
sono 
liquidate 
con 
il 
sistema 
contributivo), 
le 
pensioni 
o 
le 
quote 
di 
pensione 
a 
carico 
della 
gestione 
separata, 
così 
come 
quelle 
ottenute 
con 
il 
"vecchio 
cumulo" 
del 
d.lgs. 
n. 
184/1997 per pensioni contributive. 


Ciò 
che 
appare 
rilevante 
è 
la 
menzione 
del 
cumulo 
contributivo 
della 
Legge 
n. 
228/2012 
che, 
dal 
2017, 
consente 
di 
cumulare 
contributi 
accantonati 
anche 
presso 
le 
casse 
dei 
liberi 
professionisti. 


Nella 
Circolare 
il 
taglio 
delle 
pensioni 
d'oro 
appare 
completamente 
neutralizzato 
per 
qualsiasi 
trattamento liquidato in cumulo, anche 
qualora 
la 
pensione 
in esame 
fosse 
interamente 
liquidata 
con il 
sistema 
retributivo e 
non contenesse 
alcun contributo afferente 
a 
una 
cassa 
professionale, come 
se 
la 
pensione 
in cumulo, in base 
alla 
Legge 
n. 228/2012, rappresentasse 
una 
sorta 
di 
genere 
a 
sé 
stante 
e, pertanto, immune 
dalle 
peculiarità 
delle 
gestioni 
Inps, ivi incluso il contributo di solidarietà. 


tale 
interpretazione 
appare 
fortemente 
innovativa 
anche 
rispetto alla 
prassi, già 
consolidata, 
da 
parte 
dell'Inps, 
di 
applicare 
il 
trattamento 
peggiorativo 
previsto 
dall'articolo 
1, 
comma 
707, della 
Legge 
n. 190/2014, per la 
quota 
accantonata 
dal 
2012 delle 
pensioni 
integralmente 
retributive, anche nel caso fossero richieste in cumulo. 


La 
Circolare 
comprende 
anche 
tutti 
gli 
assegni 
frutto di 
cumulo, ottenuti 
come 
sommatoria 
di contributi versati in gestioni diverse. 


È 
il 
caso di 
chi, per esempio, ha 
cumulato contributi 
sia 
da 
dipendente 
privato che 
da 
dipendente 
statale. 
Ma 
anche 
di 
chi 
ha 
costruito 
parte 
della 
pensione 
con 
il 
metodo 
contributivo 
con una cassa separata dall'Inps, anche se supera la soglia dei 100 mila euro. 


Questo indirizzo che, circoscrivendo la 
platea 
dei 
destinatari 
del 
prelievo conferma 
ulteriormente 
la 
proporzionalità 
dell'intervento del 
legislatore, si 
fonda 
proprio -spiega 
l'Inps 
sul 
menzionato 
dettato 
normativo, 
che 
fa 
riferimento, 
per 
la 
riduzione, 
esclusivamente 
ai 
trattamenti 
pensionistici 
diretti 
a 
carico del 
Fondo pensioni 
lavoratori 
dipendenti, delle 
Gestioni 
speciali 
dei 
lavoratori 
autonomi, delle 
forme 
sostitutive, esclusive 
ed esonerative 
dell'assicurazione 
generale obbligatoria e della Gestione separata. 


1.2. Sull'impatto economico della normativa censurata, in 
relazione 
agli 
artt. 81 e 
97 
della Costituzione. 
Non si 
può non tenere 
conto degli 
effetti 
finanziari 
delle 
disposizioni 
censurate 
e 
della 
circostanza 
che 
l'impatto 
di 
cui 
tenere 
conto 
risulterebbe 
aggravato 
dalla 
necessità 
di 
restituire 
i 
contributi 
(anche 
ai 
pensionati 
degli 
organi 
costituzionali, Presidenza 
della 
Repubblica, Senato, 
Camera e Corte Costituzionale). 


A 
seguito 
della 
riforma 
costituzionale 
intervenuta 
con 
Legge 
costituzionale 
n. 
1 
del 
2012, l'art. 81 Cost. è 
stato riscritto, a 
partire 
dalla 
disposizione 
del 
nuovo comma 
1, secondo 
la 
quale 
"Lo Stato assicura l'equilibrio fra le 
entrate 
e 
le 
spese 
del 
proprio bilancio, tenendo 
conto delle 
fasi 
avverse 
e 
delle 
fasi 
favorevoli 
del 
ciclo economico", ed è 
stato inserito, all'inizio 
dell'art. 
97 
Cost., 
un 
nuovo 
comma 
1, 
dove 
si 
stabilisce 
che 
"le 
pubbliche 
amministrazioni, 
in 
coerenza 
con 
l'Ordinamento 
dell'Unione 
Europea, 
assicurano 
l'equilibrio 
dei 
bilanci 
e la sostenibilità del debito pubblico". 


In questo modo, la 
tendenziale 
e 
progressiva 
riduzione 
delle 
spese 
pubbliche 
si 
è 
trasformata, 
da 
una 
esigenza 
legata 
a 
specifiche 
e 
transitorie 
fasi 
negative 
del 
ciclo economico-
finanziario, in un dato strutturale 
e 
in un elemento caratterizzante 
del 
sistema 
costituzionale. 


di 
ciò si 
trova 
già 
un significativo riscontro nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, 
dove 
si 
afferma 
che 
"il 
nuovo sistema di 
finanza pubblica disegnato dalla legge 
cost. 



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


n. 1 del 
2012 ha ... una sua interna coerenza e 
una sua completezza, ed è 
pertanto solo alla 
sua stregua che 
vanno vagliate 
le 
questioni 
di 
costituzionalità sollevate 
nei 
confronti 
della 
legge" 
e 
che 
"l'attuazione 
dei 
nuovi 
princìpi, e 
in particolare 
di 
quello della sostenibilità del 
debito pubblico, implica una responsabilità che, in attuazione 
di 
quelli 
"fondanti" 
(sentenza 
n. 264 del 
2012) di 
solidarietà e 
di 
eguaglianza, non è 
solo delle 
istituzioni 
ma anche 
di 
ciascun 
cittadino nei 
confronti 
degli 
altri, ivi 
compresi 
quelli 
delle 
generazioni 
future" 
(Corte 
Cost. sentenza n. 88 del 2014). 
L'introduzione, 
nel 
testo 
costituzionale, 
dei 
nuovi 
principi 
sull'equilibrio 
fra 
entrate 
e 
spese 
nei 
bilanci 
pubblici 
e 
la 
sostenibilità 
del 
debito pubblico, introdotti 
con la 
Legge 
cost. 


n. 1 del 
2012, induce, dunque, ad affrontare 
in termini 
diversi 
dal 
passato la 
questione 
del-
l'estensione 
temporale 
di 
interventi 
normativi 
che 
vadano 
ad 
incidere 
sui 
trattamenti 
retributivi 
o previdenziali 
del 
pubblico impiego globalmente 
considerato o di 
terminate 
categorie 
di 
dipendenti 
pubblici. 
L'esigenza 
di 
ancorare 
le 
indispensabili 
azioni 
di 
razionalizzazione 
della 
spesa 
pubblica 
al 
rispetto 
del 
principio 
di 
eguaglianza 
e 
di 
quello, 
connesso, 
di 
solidarietà, 
costituisce 
un 
dato 
da 
tempo 
chiaramente 
messo 
in 
evidenza 
dalla 
Corte 
Costituzionale: 
nella 
sentenza 
n. 
296 
del 
1993, ad esempio, si 
richiama 
1'"imperativo costituzionale 
comportato dal 
principio di 
eguaglianza 
per 
il 
quale 
il 
legislatore 
è 
tenuto 
a 
distribuire 
i 
sacrifici 
derivanti 
da 
una 
politica 
economica di 
emergenza nel 
più totale 
rispetto di 
una sostanziale 
parità di 
trattamento fra 
tutti 
i 
cittadini" 
e 
si 
rammenta 
che 
il 
"rispetto del 
dovere 
costituzionale 
di 
distribuire 
in modo 
eguale 
il 
carico dei 
sacrifici 
imposti 
dall'emergenza, costituisce 
una componente 
essenziale 
di 
un 
disegno 
di 
politica 
economica 
destinato, 
nel 
complesso 
dei 
suoi 
elementi 
e 
delle 
sue 
fasi, a trasformare 
profondamente 
la situazione 
di 
grave 
squilibrio finanziario esistente 
nel 
settore pubblico". 


Non meno significativa 
è 
anche 
l'affermazione 
secondo la 
quale 
"non è 
senza rilievo il 
fatto che 
il 
legislatore... possa modificare 
in modo sfavorevole, in vista del 
raggiungimento 
di 
finalità 
perequative, 
la 
disciplina 
di 
determinati 
trattamenti 
economici 
con 
esiti 
privilegiati 
senza per 
questo violare 
l'affidamento nella sicurezza giuridica (sent. n. 6 del 
1994 e 
sent. n. 
282 del 
2005), là dove, ovviamente, l'intervento possa dirsi 
non irragionevole" 
(Corte 
cost., 
sentenza 
n. 74 del 
2008). A 
sua 
volta, la 
sentenza 
n. 310 del 
2013 dichiara 
che 
superano "il 
vaglio di 
ragionevolezza" 
norme 
"mirate 
ad un risparmio di 
spesa che 
opera riguardo a tutto 
il 
comparto del 
pubblico impiego, in una dimensione 
solidaristica -sia pure 
con le 
differenziazioni 
rese 
necessarie 
dai 
diversi 
statuti 
professionali 
delle 
categorie 
che 
vi 
appartengono". 


Non 
potranno, 
pertanto, 
non 
considerarsi 
il 
rilevante 
impatto 
economico 
delle 
norme 
censurate, le 
necessità 
finanziarie 
che 
soddisfano e 
l'esigenza, anche 
nel 
nostro caso, di 
assicurare 
un equilibrato bilanciamento di tutti i valori costituzionali compresenti. 


Il 
nuovo 
sistema 
di 
finanza 
pubblica, 
disegnato 
dalla 
Legge 
costituzionale 
n. 
1 
del 
2012, 
ha 
una 
sua 
interna 
coerenza 
e 
una 
sua 
completezza 
ed è, pertanto, solo alla 
sua 
stregua 
che 
devono essere 
vagliate 
le 
questioni 
di 
costituzionalità 
prospettate 
dai 
ricorrenti 
nei 
confronti 
delle citate norme della L. n. 145/2018. 


2. Sull'asserito diritto dei 
ricorrenti 
alla percezione 
integrale 
del 
trattamento previdenziale 
senza 
il 
blocco 
di 
rivalutazione 
ex 
l. 
n. 
145/2018. 
Manifesta 
infondatezza 
della 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell'art. 
1, 
comma 
260, 
della 
legge 
30 
dicembre 
2018, 
n. 145, in relazione al parametro degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione. 
Con riferimento alla 
seconda 
questione, concernente 
la 
limitazione 
introdotta 
alla 
riva



tEMI 
IStItuzIONALI 


lutazione 
automatica 
dei 
trattamenti 
pensionistici, si 
deve, preliminarmente, osservare 
che 
la 
norma 
censurata 
non realizza 
un blocco del 
sistema 
di 
indicizzazione 
delle 
pensioni, ma 
introduce 
una 
mera 
limitazione 
alla 
sua 
piena 
operatività, stabilendo che 
essa 
operi 
in misura 
percentualmente decrescente al crescere del trattamento pensionistico. 


Questo rilievo è 
importante 
perché 
con la 
sentenza 
n. 70 del 
2015, citata 
dai 
ricorrenti, 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
dichiarato 
l'illegittimità 
costituzionale 
della 
norma 
che 
sospendeva 
il 
sistema 
di 
indicizzazione 
di 
tutte 
le 
pensioni, non già 
che 
si 
limitava 
a 
ridurne 
l'efficacia, 
per 
di 
più 
solo 
per 
le 
pensioni 
più 
elevate 
e 
con 
effetti 
proporzionali 
di 
sterilizzazione 
crescente 
al crescere dell'importo del trattamento. 


La 
Corte 
Costituzionale, su analoghe 
questioni 
di 
costituzionalità 
sollevate 
in relazione 
al 
blocco 
della 
rivalutazione 
automatica 
delle 
prestazioni 
pensionistiche 
stabilita 
temporaneamente 
dal 
legislatore, 
si 
è 
già 
espressa 
con 
la 
sentenza 
n. 
250/2017 
e 
con 
l'ordinanza 
n. 
96/2018, 
in 
senso 
favorevole 
a 
interventi 
di 
contenimento 
della 
spesa 
pensionistica 
attuati 
dal 
legislatore. 


Nella 
sentenza 
n. 250 del 
2017, parimenti 
richiamata 
dai 
ricorrenti, la 
Corte 
ha 
ritenuto 
"che 
manovre 
correttive 
attuate 
dal 
Parlamento ben possono escludere 
da tale 
adeguamento 
le 
pensioni 
"di 
importo più elevato" 
(richiamando la 
propria 
ordinanza 
n. 256 del 
200 1) e 
che 
"nel 
replicare, in più occasioni, una tale 
scelta, che 
privilegia i 
trattamenti 
pensionistici 
di 
modesto importo, il 
legislatore 
soddisfa un canone 
di 
non irragionevolezza che 
trova riscontro 
nei 
maggiori 
margini 
di 
resistenza delle 
pensioni 
di 
importo più alto rispetto agli 
effetti 
dell'inflazione". 


Nella 
medesima 
sentenza 
n. 250 del 
2017, infine, la 
Corte 
ha 
ricordato, in relazione 
al 
blocco 
della 
perequazione 
stabilito 
per 
due 
anni 
dalle 
norme 
denunciate 
(art. 
1, 
comma 
1, 


d.L. n. 65/2015, conv. in L. n. 109/2015), che 
esso "diversamente 
da quello (di 
pari 
durata) 
previsto dal 
previgente 
comma 25 del 
D.L. n. 201 del 
2011, non incide 
su trattamenti 
previdenziali 
"modesti" 
-elemento cui 
questa Corte, nel 
dichiarare 
l'illegittimità costituzionale 
di 
quest'ultima disposizione, aveva attribuito specifico rilievo, ma soltanto su trattamenti 
pensionistici 
di 
importo medio-alto, quali 
sono da considerare 
quelli 
di 
importo complessivo superiore 
a sei volte il trattamento minimo INPS". 
Ancora 
più 
significativamente, 
infine, 
la 
Corte 
Costituzionale, 
nella 
stessa 
sentenza 
250 
del 
2017, 
si 
è 
confrontata 
anche 
con 
quelle 
norme 
che 
riconoscono 
la 
rivalutazione 
automatica, 
per alcuni 
trattamenti 
pensionistici 
(quelli 
superiori 
a 
tre 
volte 
e 
fino a 
sei 
volte 
il 
trattamento 
minimo 
INPS), 
ma 
in 
misura 
decrescente 
all'aumentare 
dei 
trattamenti; 
rispetto 
alla 
citata 
previsione 
normativa 
(del 
tutto analoga 
a 
quella 
oggi 
in scrutinio), la 
Corte 
ha 
affermato che 
"il 
riconoscimento della perequazione 
in misura progressivamente 
decrescente 
al 
crescere 
del-
l'importo complessivo di 
tali 
trattamenti 
[...] 
si 
differenzia dal 
precedente 
blocco della perequazione" 
e 
che 
una 
simile 
soluzione 
risponde 
ai 
parametri 
costituzionali 
"della 
proporzionalità e 
dell'adeguatezza dei 
trattamenti 
di 
quiescenza", perché 
assicura 
"ai 
trattamenti 
pensionistici 
una 
salvaguardia 
dall'erosione 
del 
potere 
d'acquisto 
che 
aumenta 
gradualmente 
al 
diminuire, 
con 
la 
riduzione 
del 
loro 
importo, 
anche 
della 
loro 
capacità 
di 
resistenza 
alla 
stessa 
erosione", 
concludendo 
che 
deve 
essere 
"ribadita 
la 
discrezionalità 
che 
spetta al 
legislatore 
nel 
bilanciare 
l'interesse 
dei 
pensionati 
alla difesa del 
potere 
d'acquisto 
dei 
propri 
trattamenti 
con 
le 
esigenze 
finanziarie 
dello 
Stato" 
e 
che 
"le 
misure 
percentualmente 
decrescenti 
della perequazione 
riconosciuta, per 
gli 
anni 
2012 e 
2013, a trattamenti 
pensionistici 
medi 
(quali 
devono 
considerarsi, 
per 
quanto 
detto, 
quelli 
superiori 
a 
cinque 
volte 
e 
pari 
o 
inferiori 
a 
sei 
volte 
il 
minimo 
INPS), 
o, 
ancorché 
modesti, 
tuttavia 
pur 
sempre 
superiori 



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


a tre 
e 
a quattro volte 
il 
trattamento che 
costituisce 
il 
"nucleo essenziale" 
della tutela previdenziale 
(sentenza 
n. 
173 
del 
2016) 
non 
sono 
irragionevoli", 
in 
quanto 
"non 
sono 
tali 
da 
poter 
concretamente 
pregiudicare 
l'adeguatezza dei 
trattamenti, considerati 
nel 
loro complesso, a 
soddisfare le esigenze di vita". 


tutte 
queste 
valutazioni 
tanto più, all'evidenza, sono applicabili 
a 
un intervento normativo, 
come 
quello oggetto dell'attuale 
ricorso, che 
solo per i 
"trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a 
tre 
volte 
il 
trattamento 
minimo 
INPS' 
prevede 
"una 
riduzione 
dell'indicizzazione, 
crescente 
proporzionalmente 
al 
crescere 
del 
trattamento, 
con 
l'effetto 
che 
la rivalutazione 
è 
riconosciuta nella misura del 
97 per 
cento per 
i 
trattamenti 
complessivamente 
pari 
o 
inferiori 
a 
quattro 
volte 
il 
trattamento 
minimo 
INPS 
(ma 
superi 
a 
tre 
volte 
il 
trattamento minimo), nella misura del 
77 per 
cento per 
i 
trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a quattro volte 
il 
trattamento minimo INPS, nella misura del 
52 per 
cento 
per 
i 
trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a cinque 
volte 
il 
trattamento minimo 
INPS, nella misura del 
47 per 
cento per 
i 
trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a sei 
volte 
il 
trattamento minimo INPS, nella misura del 
45 per 
cento per 
i 
trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a 
otto 
volte 
il 
trattamento 
minimo 
INPS 
e 
pari 


o inferiori 
a nove 
volte 
il 
trattamento minimo Inps, nella misura del 
40 per 
cento per 
i 
trattamenti 
pensionistici 
complessivamente 
superiori 
a nove 
volte 
il 
trattamento minimo INPS.". 
Inoltre, si 
precisa 
che 
il 
meccanismo di 
perequazione, di 
cui 
all'art. 1, comma 
260, della 
Legge 
145/2018 (legge 
di 
bilancio 2019), valido per il 
periodo 2019-2021, è 
stato modificato 
dall'art. 1, commi 
477 e 
478, della 
Legge 
n. 160/2019 (legge 
di 
bilancio 2020), secondo le 
modalità di seguito indicate: 


• 
il 
comma 
477 interviene 
sulla 
disciplina 
transitoria 
valida 
per il 
periodo 2020-2021; 
in particolare, la 
misura 
della 
perequazione 
viene 
stabilita 
al 
100% per le 
pensioni 
il 
cui 
importo 
complessivo sia 
pari 
o inferiore 
a 
4 volte 
il 
trattamento minimo Inps 
(anziché 
pari 
o inferiore 
a 3 volte, come indicato nella legge di bilancio 2019); 
• 
il 
comma 
478 
prevede, 
in 
materia 
di 
perequazione, 
a 
decorrere 
dal 
2022, 
l'applicazione 
di 
una 
nuova 
disciplina, 
non 
più 
basata, 
come 
ora, 
sulla 
applicazione 
della 
medesima 
aliquota 
sul 
trattamento 
pensionistico 
complessivo, 
ma 
sulla 
rivalutazione 
per 
singole 
fasce 
di 
importo 
della 
pensione. tali 
fasce 
d'importo saranno, pertanto, rivalutate 
al 
100% per la 
parte 
che 
va 
fino a 
4 volte 
il 
trattamento minimo, al 
90% per la 
fascia 
d'importo che 
va 
da 
4 a 
5 volte 
il 
trattamento minimo e al 75% per la parte superiore a 5 volte il trattamento minimo. 
Anche 
in ordine 
alla 
legittimità 
delle 
disposizioni 
recate 
dalla 
legge 
di 
bilancio 2020 si 
rammenta 
l'orientamento della 
Corte 
Costituzionale 
che 
ha 
dichiarato non fondate 
questioni 
concernenti 
fattispecie 
analoghe 
a 
quella 
in esame, ritenendo non irragionevole 
la 
scelta 
di 
riconoscere 
la 
perequazione 
in 
misure 
percentuali 
decrescenti 
all'aumentare 
dell'importo 
complessivo 
del 
trattamento 
pensionistico, 
laddove 
ciò 
avvenga 
in 
un'ottica 
di 
bilanciamento 
degli 
interessi 
costituzionali 
nel 
quadro 
delle 
compatibilità 
economiche 
e 
finanziarie 
(cfr., 
Corte 
Cost., sentenza n. 250 del 2017 e Corte Cost., ordinanza n. 96 del 2018). 


Analogamente, la 
CEdu, con specifico riferimento alle 
fasce 
di 
rivalutazione 
previste 
dal 
d.L. n. 65/2015, ha 
riconosciuto la 
legittimità 
della 
misura, in quanto idonea 
a 
realizzare 
un'operazione 
di 
ridistribuzione 
a 
favore 
delle 
pensioni 
di 
basso livello, preservando al 
contempo 
la 
redditività 
del 
sistema 
di 
sicurezza 
sociale 
per 
le 
generazioni 
future 
(decisioni 
n. 
27166/2018 e n. 27167/2018). 


In conclusione, non si 
può mettere 
in dubbio la 
legittimità 
della 
misura 
in argomento, 
posto che 
la 
disposizione 
in parola 
contrae 
il 
meccanismo perequativo delle 
pensioni, attra



tEMI 
IStItuzIONALI 


verso la 
previsione 
di 
un numero più elevato di 
aliquote 
in relazione 
ai 
diversi 
scaglioni 
di 
reddito 
da 
un 
lato 
e 
di 
percentuali 
di 
perequazione 
più 
favorevoli 
rispetto 
alla 
disciplina 
vigente 
nel periodo 2014/2018. 


******** 


tanto premesso per quanto concerne, allo stato, le 
linee 
difensive 
generali 
per la 
trattazione 
degli 
affari, si 
fa 
riserva 
di 
eventuali 
ulteriori 
integrazioni 
e 
aggiornamenti 
che 
si 
rendessero 
necessari anche in relazione all'andamento del contenzioso. 


L'AVVOCAtO 
GENERALE 
dELLO 
StAtO 
Gabriella Palmieri Sandulli 



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 42/2020 


oggetto: D.P.C.M. 15 maggio 2020 recante 
"autorizzazione 
all'avvocatura 
dello 
Stato 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell'agenzia 
regionale per il lavoro, la formazione e l'accreditamento (alFa)". 


Si 
comunica 
che 
con d.P.C.M. del 
15 maggio u.s., in fase 
di 
pubblicazione 
in Gazzetta 
ufficiale, 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
autorizzata 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell'Agenzia 
regionale 
per il 
lavoro, la 
formazione 
e 
l'accreditamento (ALFA), nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, i 
collegi 
arbitrali, le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali. 


L'AVVOCAtO GENERALE 
Gabriella Palmieri Sandulli 



tEMI 
IStItuzIONALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CoMuniCazione 
Di 
Servizio 
n. 59/2020 
oggetto: Pareri di rimborso spese legali. 


Alcune 
Amministrazioni 
hanno di 
recente 
richiesto, prendendo spunto da 
specifici 
casi, 
quale 
sia, in relazione 
alla 
singola 
richiesta 
di 
rimborso spese 
legali, l'Avvocatura 
dello Stato 
competente a rendere il relativo parere. 


In 
thema, si 
ricorda 
che, anche 
al 
fine 
di 
evitare 
possibili 
contrasti 
valutativi 
sull'an 
e 
sul 
quantum 
della 
richiesta, si 
è 
sempre 
ritenuto che 
la 
competenza 
consultiva 
spetti 
all'Avvocatura 
nel 
cui 
distretto 
è 
intervenuta 
la 
pronuncia 
che 
ha 
definito 
l'intero 
giudizio, 
come 
tale legittimante la richiesta di rimborso. 


Con 
la 
presente 
circolare, 
si 
ribadisce 
quanto 
sopra 
richiedendo 
puntuale 
osservanza. 
Si 
rimane disponibile per eventuali chiarimenti. 


L'AVVOCAtO GENERALE 
AGGIuNtO 
Avv. Carlo Sica 



RASSEGNA 
AVVOCAtuRA 
dELLO 
StAtO -N. 1/2020 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 51/2020 


oggetto: D.P.C.M. 27 luglio 2020 recante 
"autorizzazione 
all'avvocatura 
dello 
Stato 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
del 
Museo 
Storico 
della Fisica e Centro Studi e ricerche ‘enrico Fermi’". 


Si 
comunica 
che 
con d.P.C.M. del 
27 luglio u.s., in fase 
di 
pubblicazione 
in Gazzetta 
ufficiale, 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
autorizzata 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
del 
Museo Storico della 
Fisica 
e 
Centro Studi 
e 
Ricerche 
‘Enrico Fermi’”, nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, i 
collegi 
arbitrali, le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali. 


L'AVVOCAtO GENERALE 
Gabriella Palmieri Sandulli 



tEMI 
IStItuzIONALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 53/2020 


oggetto: D.P.C.M. 27 luglio 2020 recante 
"autorizzazione 
all'avvocatura 
dello Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa dell’ente 
autonomo 
regionale Teatro Massimo Bellini di Catania". 


Si 
comunica 
che 
con d.P.C.M. del 
27 luglio u.s., in fase 
di 
pubblicazione 
in Gazzetta 
ufficiale, 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
autorizzata 
ad 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell’Ente 
autonomo regionale 
teatro Massimo Bellini 
di 
Catania, nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali. 


L'AVVOCAtO GENERALE 
Gabriella Palmieri Sandulli 



ContenzioSoComunitarioedinternazionaLe
La Corte di giustizia sulla sentenza della Corte costituzionale 
tedesca; e i settanta anni dalla dichiarazione di Schuman 
(*) 


In tempi 
di 
dibattito giustamente 
acceso sull’Europa, è 
una 
coincidenza 
(che 
dimostra 
la 
tesi 
vichiana/hegeliana 
secondo cui 
nella 
storia 
non ci 
sono 
coincidenze 
ma 
sempre 
una 
ragione 
nascosta), 
che 
i 
settanta 
anni 
dalla 
dichiarazione 
di 
Schuman (9 maggio 1950) cadano quando la 
Corte 
costituzionale 
tedesca 
ha 
affermato, 
in 
sostanza, 
che 
il 
primato 
dell’ordinamento 
dell’Unione, 
anche 
se 
avvalorato dall’interpretazione 
che 
ne 
dà 
la 
Corte 
di 
giustizia, è 
subordinato 
alla 
conformità 
di 
questa 
interpretazione 
ai 
tratti 
caratteristici 
dei 
diversi 
ordinamenti 
costituzionali 
degli 
Stati 
membri, come 
interpretati 
dalle 
rispettive corti costituzionali. 


Il 
principio dell’integrazione 
non viene 
negato, ma 
certo è 
sottoposto ad 
una 
robusta 
sollecitazione, da 
cui 
è 
probabile 
che 
esca 
un po’ 
diverso da 
come 
lo abbiamo inteso finora. 


Allego, allora, due 
documenti 
di 
oggi: 
il 
comunicato della 
Corte 
di 
giustizia 
sulla 
sentenza 
tedesca 
(1), e 
il 
manifesto che 
l’AIGE 
(2), legata 
all’Av


(*) Segnalazione 8 maggio 2020, avv. St. Paolo Gentili. 


(1) Corte di giustizia dell’Unione europea 
COMUNICATO STAMPA n. 58/20 
Lussemburgo, 8 maggio 2020 
Comunicato stampa a seguito della sentenza della Corte costituzionale tedesca 
del 5 maggio 2020 


La 
direzione 
della 
Comunicazione 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
ha 
ricevuto 
numerose 
domande 
riguardanti 
la 
sentenza 
emessa 
dalla 
Corte 
costituzionale 
tedesca 
il 
5 
maggio 
2020 
vertente 
sul 
programma 
PSPP 
della 
Banca 
centrale 
europea 
(BCE). 
I 
servizi 
dell’istituzione 
non 
commentano 
mai 
una 
sentenza 
di 
un 
organo 
giurisdizionale 
nazionale. 
In 
linea 
generale, 
si 
ricorda 
che, 
in 
base 
a 
una 
giurisprudenza 
consolidata 
della 
Corte 
di 
giustizia, 
una 
sentenza 
pronunciata 
in 
via 
pregiudiziale 
da 
questa 
Corte 
vincola 
il 
giudice 
nazionale 
per 
la 
soluzione 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


vocatura 
fin dalla 
sua 
fondazione 
nel 
1957 da 
costanti 
rapporti 
di 
collaborazione 
nello studio del 
diritto europeo, diffonderà 
alla 
stampa 
per ricordare 
la 
dichiarazione di Schuman. 

Nelle 
due 
cause 
pregiudiziali 
oggi 
concluse 
in sede 
nazionale 
dalla 
sentenza 
della Corte tedesca, avevamo indicato una possibile via d’uscita. 


A 
fronte 
della 
dura 
messa 
a 
punto 
che 
emerge 
dal 
comunicato 
odierno 
della 
Corte 
di 
giustizia, mi 
sono tornate 
in mente 
alcune 
tesi 
che 
le 
sottoponemmo 
nelle due cause C-62/14 e C-493/17. 


Forse, in via 
preliminare, avrebbe 
dovuto accogliere 
la 
nostra 
eccezione, 
sollevata 
entrambe 
le 
volte, di 
irricevibilità 
dei 
quesiti 
della 
c. cost. tedesca: 
non è 
una 
vera 
domanda 
pregiudiziale 
quella 
proposta 
con riserva 
di 
valutare 
la 
vincolatività 
della 
risposta 
della 
corte 
di 
g. a 
seconda 
del 
contenuto della 
sentenza 
di 
questa. Ma 
la 
corte 
preferì 
il 
compromesso, e 
adesso ci 
troviamo 
con 
le 
istituzioni 
europee 
potenzialmente 
tenute 
a 
rispondere 
entro 
termini 
perentori 
alle 
richieste 
di 
giustificazioni 
avanzate 
da 
ventisei 
corti 
costituzionali 
nazionali. È 
chiaro che, prima 
o poi, la 
corte 
di 
g. dovrà 
regolare 
questo traffico, 
ma ormai i buoi sono usciti dalla stalla. 


Non 
c’entrano 
i 
controlimiti 
invocati 
anche 
dalla 
nostra 
c. 
cost. 
nel 
caso 
Taricco 
e 
Taricco 
bis, 
come 
qualcuno 
ha 
sostenuto 
in 
questi 
giorni. 
I 
controlimiti 
stanno 
nel 
quadrante 
“diritti 
fondamentali” 
della 
costituzione; 
non 
certo 
nel 
quadrante 
“organizzazione 
costituzionale”, 
dove 
invece 
sta 
la 
pretesa 
della 
corte 
tedesca 
di 
sindacare 
la 
sentenza 
della 
corte 
di 
g.: 
il 
criterio 
di 
sindacato 
sarebbe 
infatti 
la 
conformità 
della 
sentenza 
al 
principio 
di 
organizzazione 
costituzionale 
tedesco 
(e 
non 
solo) 
secondo 
cui 
il 
bilancio 
statale, 
con 
le 
spese 
pubbliche 
e 
il 
livello 
di 
deficit 
che 
stabilisce, 
può 
essere 
votato 
solo 
dal 
parlamento 
nazionale, 
sicché 
le 
decisioni 
delle 
istituzioni 
europee 
non 
possono 
mai 
produrre 
effetti 
sul 
bilancio 
nazionale 
non 
previamente 
votati 
dal 
parlamento. 


Da 
noi 
questo non è 
mai 
stato sostenuto, e 
anzi 
la 
nostra 
corte 
cost. ha 
sempre 
affermato 
che 
l’art. 
11 
della 
Costituzione 
è 
una 
base 
sufficiente 
per 


della 
controversia 
dinanzi 
ad 
esso 
pendente 
(1). 
Per 
garantire 
un’applicazione 
uniforme 
del 
diritto 
dell’Unione, 
solo 
la 
Corte 
di 
giustizia, 
istituita 
a 
tal 
fine 
dagli 
Stati 
membri, 
è 
competente 
a 
constatare 
che 
un 
atto 
di 
un’istituzione 
dell’Unione 
è 
contrario 
al 
diritto 
dell’Unione. 
Eventuali 
divergenze 
tra 
i 
giudici 
degli 
Stati 
membri 
in 
merito 
alla 
validità 
di 
atti 
del 
genere 
potrebbero 
compromettere 
infatti 
l’unità 
dell’ordinamento 
giuridico 
dell’Unione 
e 
pregiudicare 
la 
certezza 
del 
diritto 
(2). 
Al 
pari 
di 
altre 
autorità 
degli 
Stati 
membri, 
i 
giudici 
nazionali 
sono 
obbligati 
a 
garantire 
la 
piena 
efficacia 
del 
diritto 
dell’Unione 
(3). 
Solo 
in 
questo 
modo 
può 
essere 
garantita 
l’uguaglianza 
degli 
Stati 
membri 
nell’Unione 
da 
essi 
creata. 
L’istituzione 
si 
asterrà 
da 
qualsiasi 
altra 
comunicazione 
a 
questo 
proposito. 


(1) Sentenza della Corte del 14 dicembre 2000, Fazenda Pública (C-446/98, punto 49). 
(2) Sentenza della Corte del 22 ottobre 1987, Foto-Frost (C-314/85, punti 15 e 17). 
(3) Sentenza della Corte del 4 luglio 2006, Adeneler e a. (C-212/04, punto 122). 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


consentire 
di 
ratificare 
con legge 
ordinaria 
e 
non costituzionale 
i 
trattati 
europei, 
anche quando contengano limitazioni di sovranità. 


È 
una 
tesi 
oggi 
consolidata, ma 
in passato contrastata 
da 
voci 
anche 
au


(2) aSSOCIAZIONE 
iTALIANA 
GIUrISTI eUrOPEI 
L'inevitabilità di essere parte dell'Unione Europea 
70 anni dopo la Dichiarazione Schuman 


9 maggio 2020 


Esattamente 
70 
anni 
fa 
l'allora 
Ministro 
degli 
esteri 
francese 
Robert 
Schuman 
pronunciò 
a Parigi 
il 
discorso passato alla storia, appunto, come 
Dichiarazione 
Schuman. Come 
Schuman 
ebbe 
ad avvertire 
nella sua allocuzione, "L'Europe 
ne 
se 
fera pas 
d'un coup, ni 
dans 
une 
construction d'ensemble: elle 
se 
fera par 
des 
réalisations 
concrètes 
créant 
d'abord une 
solidarité 
de 
fait". Da quell'idea germogliò un anno più tardi 
la costituzione 
della CECA, con 
l'Italia tra i 
suoi 
sei 
membri 
fondatori: la prima di 
una serie 
di 
istituzioni 
europee 
sovranazionali 
che sarebbero poi diventate l'attuale Unione. 


L'Europa vive 
oggi 
giorni 
molto difficili, confrontata com'è 
alla sfida della pandemia a 
livello 
globale. 
Lo 
shock 
economico 
innescato 
dall'emergenza 
sanitaria 
ha 
esacerbato 
gli 
egoismi 
nazionali 
e 
innalzato barriere, letteralmente 
e 
metaforicamente, tra gli 
Stati 
membri 
dell'UE, 
rimettendo 
in 
questione 
valori 
europei 
che 
ritenevamo 
definitivamente 
acquisiti, 
quali 
la coesione 
e 
la solidarietà. Ma il 
virus 
che 
tormenta l'umanità in questo periodo non 
avrà la meglio sulla nostra Unione, e anzi può e deve contribuire a rafforzarla. 


Di 
fronte 
alle 
difficoltà 
presenti, 
l'Associazione 
Italiana 
dei 
Giuristi 
Europei 
ritiene 
che 
si 
debba riaffermare 
con fermezza l'importanza del 
processo di 
integrazione 
europea, che 
ha 
garantito 
70 
anni 
di 
pace 
e 
di 
straordinario 
progresso 
sociale 
ed 
economico, 
e 
sviluppare 
un'affectio societatis europea autentica e solida. 


La nostra Unione 
ha vissuto molti 
momenti 
di 
crisi, ma è 
sempre 
riuscita a superarli, 
approfondendo il 
proprio ambito e 
riuscendo a passare 
da una comunità economica ad una 
unione, che 
intende 
mettere 
al 
suo centro il 
cittadino: di 
crisi 
in crisi, di 
piccolo passo in piccolo 
passo, l'integrazione 
europea è 
avanzata e 
diventata quasi 
irreversibile. Secondo la lungimirante 
intuizione 
di 
Jean Monnet 
del 
1976, "L'Europe 
se 
fera dans 
les 
crises 
et 
elle 
sera 
la somme des solutions apportées à ces crises". 


Mai 
come 
adesso ci 
è 
chiara l'indispensabile 
funzione 
delle 
nostre 
istituzioni, unico argine 
al 
risorgere 
di 
egoismi 
nazionali, che 
potrebbero distruggere 
la costruzione 
europea faticosamente 
eretta nel 
corso dei 
decenni 
passati. I Trattati, il 
Parlamento, la Commissione, 
la Corte 
di 
giustizia e 
la Banca centrale 
europea sono gli 
strumenti 
essenziali 
per 
temperare 
gli 
egoismi 
e 
le 
prevaricazioni 
dei 
singoli 
Stati. Temperamento che 
deve 
realizzarsi 
in seno al 
Consiglio, Camera degli 
Stati, e 
al 
Parlamento dei 
rappresentanti 
eletti 
del 
popolo europeo, 
e che può essere rafforzato grazie ai diritti che i Trattati riconoscono ai cittadini europei. 


Anche 
la soluzione 
di 
questa crisi 
non può che 
essere 
trovata a livello europeo. Le 
istituzioni 
dell'Unione 
si 
sono 
mosse 
nella 
giusta 
direzione, 
fra 
mille 
contrasti 
e 
opposizioni. 
Sosteniamole 
in 
questo 
sforzo, 
rafforziamole 
con 
il 
nostro 
supporto, 
e 
aiutiamole 
a 
fare 
un 
ulteriore balzo in avanti nel processo di integrazione preconizzato da Schuman e Monnet. 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


torevoli. 
Sarà 
interessante 
vedere 
se 
questo 
dibattito 
riprenderà 
(personalmente 
non me 
lo auguro: 
le 
questioni 
serie 
dell’integrazione 
europea 
sono evidentemente 
altre). 


Quanto, poi, al 
merito della 
questione 
degli 
acquisti 
di 
titoli 
pubblici 
nazionali 
da 
parte 
della 
BCE, 
le 
sentenze 
della 
corte 
di 
giustizia 
finirono 
per 
ammettere 
che 
la 
BCE 
nei 
suoi 
interventi 
sul 
mercato 
secondario 
dei 
titoli 
pubblici 
nazionali 
incontra 
in 
sostanza 
limiti 
quantitativi, 
determinabili 
alla 
stregua 
del 
principio di 
proporzionalità. Ed infatti 
è 
su questo punto che 
oggi 
la corte tedesca interroga la BCE. 

Ma 
questo 
significa 
consegnare 
un’arma 
formidabile 
alla 
speculazione 
al 
ribasso, 
che 
non 
attacca 
un 
titolo 
di 
Stato 
solo 
se 
non 
sa 
se 
e 
in 
quale 
momento 
e 
a 
quale 
livello 
quantitativo 
cesserà 
il 
sostegno 
al 
titolo 
stesso: 
già 
ammettere 
la 
possibilità 
di 
un limite 
giuridico, sia 
pure 
incertus 
quando 
(come 
sarebbe 
quello derivante 
dalla 
proporzionalità), all’intervento di 
sostegno, costituisce 
un invito alla 
speculazione 
ribassista 
a 
tentare 
la 
carta. In entrambe 
le 
cause 
spiegammo 
bene 
alla 
corte 
di 
g. 
il 
pericolo 
insito 
nell’accettare 
il 
compromesso 
costituito 
dal 
limite 
quantitativo 
“leggero” 
basato 
sulla 
proporzionalità 
(a 
fronte 
di 
quello 
“pesante”, 
costituito 
addirittura 
da 
un 
plafond 
di 
intervento 
predeterminato al 
momento del 
varo del 
programma 
di 
acquisti, come 
voleva 
la 
corte 
tedesca 
nelle 
ordinanze 
di 
rinvio); 
ma 
neanche 
da 
questo orecchio la 
corte ci ha sentito. 


Di compromessi a volte si campa, ma più spesso si muore. 


Comunque, per chi 
volesse 
tirarsi 
un po’ 
su il 
morale 
europeistico, il 
manifesto 
dell’AIGE 
sulla 
dichiarazione 
di 
Schuman 
a 
me 
sembra 
un 
testo 
molto 
bello ed equilibrato. 


Mi permetto di invitare soprattutto i più giovani a rifletterci sopra. 


Perdonate la lunghezza. 


Paolo Gentili 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


Lo scontro tra Corte tedesca e 
Corte europea e la vera posta in gioco 


Gustavo Visentini* 


Non è 
pensabile 
l’esistenza dell’euro senza riconoscere 
alla Bce 
la competenza 
di 
prestatore 
di 
ultima istanza ma l’evoluzione 
dei 
tempi 
spinge 
a ripensare 
lo 
stesso 
sistema 
monetario 
e 
soprattutto 
a 
rispondere 
al 
quesito 
centrale 
sulla concezione 
dell’Europa: semplice 
coordinamento tecnico o integrazione 
sociale? 


La 
Corte 
costituzionale 
tedesca 
si 
è 
di 
recente 
pronunciata 
in contrasto 
con la Corte di giustizia europea e su questo vale la pena di riflettere. 

Per la 
Corte 
europea 
l’acquisto sul 
mercato secondario di 
titoli 
di 
debito 
degli 
Stati 
nazionali 
non viola 
l’art. 123 del 
Trattato, che 
vieta 
alla 
BCE 
di 
finanziare 
gli 
Stati; 
che 
sì 
vieta 
l’acquisto di 
titoli 
di 
debito, ma 
se 
diretto, cioè 
in 
sede 
di 
emissione; 
che 
perciò 
ne 
consente 
l’acquisto 
sul 
mercato 
secondario, 
funzionale 
alla 
stabilità 
monetaria. Per la 
Corte 
tedesca 
l’effetto di 
finanziamento 
dello Stato, prodotto dall’acquisto sul 
mercato, cessa 
di 
essere 
secondario 
qualora, per la 
dimensione 
e 
la 
continuità 
delle 
operazioni, si 
consolida 
in modalità 
elusiva 
del 
divieto di 
finanziamento diretto: 
l’acquisto non è 
proporzionale 
all’obiettivo; è in frode all’art. 123. 


Sul 
piano tecnico l’argomentazione 
della 
Corte 
europea 
è 
ineccepibile. Il 
giudizio 
cade 
sulla 
singola 
operazione 
in 
controversia; 
valida 
se 
per 
le 
quantità 
e 
le 
modalità 
dell’acquisto rispetta 
le 
condizioni 
che 
ne 
fanno un intervento di 
stabilità 
monetaria, con precise 
indicazioni 
affinché 
l’ineliminabile 
finanziamento 
dello Stato emittente 
resti 
contenuto ad effetto indiretto. Effetto contingente 
dal 
momento che 
cessa 
il 
finanziamento con la 
rivendita 
dei 
titoli 
nel 
perseguire 
l’obiettivo 
primario: 
per 
l’emittente 
la 
precarietà 
del 
finanziamento 
impedisce 
che 
vi 
possa 
fare 
affidamento; 
perciò 
il 
finanziamento 
è 
valutato 
dalla 
Corte 
proporzionale 
all’obiettivo primario. Il 
giudizio della 
Corte 
resta 
circoscritto alla 
validità 
della 
decisione 
di 
acquisto che 
ha 
sollevato il 
contenzioso. 
Mentre 
ricadono sulla 
responsabilità 
della 
BCE 
la 
corretta 
esecuzione 
della 
decisione 
di 
acquisto, così 
come 
l’eventuale 
deviazione 
dalle 
sue 
competenze 
per 
la 
ripetizione 
degli 
acquisti 
nel 
tempo. 
Questioni 
di 
responsabilità 
che 
possono essere 
sollevate 
su eccezione 
degli 
interessati. Su di 
esse 
even


(*) 
Prof. 
Avv., 
già 
Professore 
ordinario 
di 
Diritto 
commerciale 
presso 
la 
Facoltà 
di 
Giurisprudenza 
della 
Luiss Guido Carli e Docente di 
Teoria generale del diritto presso la medesima Facoltà. 

Articolo già edito sulla rivista 
FIRSTonline 
- 29 agosto 2020. 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


tualmente 
la 
Corte 
potrà 
essere 
chiamata 
a 
giudicare, ma 
in questi 
casi 
il 
conflitto 
non sarebbe 
sull’acquisto dei 
titoli, ma 
sul 
comportamento della 
Banca, 
denunciato dall’interessato come abusivo. 


È 
da 
questa 
prospettiva 
che 
va 
intesa 
la 
decisione 
della 
Corte 
tedesca. Se 
guardiamo con l’occhio della 
politica 
delle 
istituzioni, la 
BCE 
ha 
operato da 
prestatore 
di 
ultima istanza 
per riparare 
all’indebitamento, non soltanto pubblico, 
che 
ha 
prodotto la 
grave 
depressione 
del 
2008; 
nuovamente 
è 
chiamata 
ad 
intervenire 
nell’attuale 
crisi 
dovuta 
alla 
pandemia; 
sarà 
chiamata 
a 
sostenere 
l’indebitamento europeo che 
si 
è 
reso necessario per sovvenzionare 
le 
economie 
nazionali 
in crisi. Ne 
è 
evidenza 
l’ampliamento del 
bilancio della 
Banca 
in 
conseguenza 
degli 
interventi 
che 
si 
protraggono 
fisiologicamente, 
come 
accade 
per la 
Fed e 
per le 
banche 
centrali 
in generale. Per la 
Corte 
tedesca 
l’art. 
123 inibisce alla Banca di operare come 
prestatore di ultima istanza. 


Nel 
confronto delle 
due 
decisioni, al 
di 
là 
dell’abilità 
tecnica 
dell’argomentazione 
della 
Corte 
europea, 
si 
prospetta 
l’antinomia 
tra 
il 
divieto 
dell’art. 
123 e 
la 
creazione 
dell’euro; 
meglio, tra 
la 
configurazione 
della 
BCE 
nell’assetto 
delle 
istituzioni 
europee 
e 
la 
volontà 
politica 
di 
creare 
con 
l’euro 
la 
nuova 
moneta 
europea: 
di 
sostituire 
l’euro alle 
monete 
nazionali. Può darsi 
un ordinamento 
monetario 
stabile 
senza 
riconoscere 
alla 
banca 
centrale 
la 
competenza 
di prestatore di ultima istanza? 


È 
l’antinomia 
che 
cogliamo 
sottostante 
alla 
decisione 
della 
Corte 
europea, 
risolta 
a 
favore 
della 
BCE. 
Non 
è 
possibile 
che 
il 
legislatore 
europeo 
abbia 
creato l’euro senza 
il 
supporto della 
banca 
centrale 
nella 
competenza 
di 
prestatore 
di ultima istanza. Preso atto che la creazione della moneta unica è decisione 
politica 
fondamentale, 
con 
essa 
va 
resa 
coerente 
la 
disciplina 
monetaria; 
ad essa 
va 
piegata 
l’interpretazione 
delle 
singole 
disposizioni, per 
evitare 
che 
la 
prevalenza 
del 
disposto particolare 
porti 
alla 
dissoluzione 
della 
decisione 
fondamentale; 
in altre 
parole 
ad evitare 
che 
la 
prevalenza 
della 
lettera 
dell’art. 123 porti 
alla 
caduta 
dell’euro come 
moneta 
comune 
per il 
prodursi 
di 
gravissima 
depressione 
nelle 
economie 
europee, 
di 
cui, 
appunto, 
l’euro 
è 
ora 
la 
moneta. Invece 
la 
Corte 
tedesca 
avvia 
a 
questa 
seconda 
alternativa: 
la 
possibile 
eliminazione 
degli 
Stati 
insolventi, se 
non la 
dissoluzione 
dell’euro. 

Perché l’antinomia nel sistema monetario europeo? 


Lo dobbiamo all’ideologia, che 
si 
è 
imposta 
dagli 
anni 
’80 a 
partire 
dagli 
Usa, 
della 
centralità 
del 
mercato 
nell’organizzazione 
dell’economia. 
Il 
mercato 
va 
sottratto alle 
politiche 
di 
intervento dello Stato, che 
va 
relegato al 
compito 
minimo 
di 
ordinare 
gli 
strumenti 
per 
lo 
svolgimento 
di 
transazioni 
di 
esclusiva 
pertinenza 
dei 
protagonisti 
per 
l’assetto 
dei 
loro 
interessi, 
nelle 
decisioni 
e 
nelle 
responsabilità: 
appunto, 
di 
esclusiva 
pertinenza 
del 
mercato. 
L’ideologia 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


si 
è 
imposta 
nella 
costituzione 
della 
BCE, 
investita 
dell’esclusiva 
funzione 
tecnica 
della 
stabilità 
della 
moneta 
(euro) al 
servizio delle 
transazioni 
private. 
Allo Stato è 
sottratta 
la 
banca 
centrale 
nella 
sua 
originaria 
e 
tradizionale 
funzione 
di 
prestatore 
negli 
squilibri 
di 
bilancio; 
nella 
sua 
funzione, successivamente 
acquisita, di 
strumento monetario per correggere 
le 
fasi 
di 
depressione 
dell’economia 
e 
per promuovere 
investimenti 
nelle 
carenze 
del 
mercato. Le 
crisi 
sono affare 
privato che 
il 
mercato assorbe 
nel 
ritornare 
all’equilibrio secondo 
la 
sua 
naturale 
propensione: 
come 
per ogni 
ideologia, si 
argomenta 
la 
verità 
del 
dogma 
sulla 
natura 
delle 
cose. 
L’ideologia 
ha 
imposto 
l’art. 
123; 
giustifica, 
nella 
funzione 
di 
agenzia 
tecnica, 
la 
spiccata 
indipendenza 
della 
BCE; 
ci 
spiega 
anche 
la 
istituzione 
dell’euro 
nonostante 
la 
pluralità 
degli 
Stati 
aderenti, 
asserviti 
al 
vincolo 
di 
bilancio 
come 
qualunque 
altro 
protagonista 
del 
mercato: 
non è 
lo Stato che 
crea 
la 
moneta 
attraverso la 
sua 
banca 
centrale, 
ma 
è 
questa, la 
BCE, che 
crea 
la 
moneta 
all’esclusivo servizio del 
mercato, 
vincolando 
gli 
stati 
nazionali. 
È 
ideologia 
che 
soltanto 
nelle 
istituzioni 
europee 
ha 
trovato così 
piena 
formulazione; 
la 
Fed non risponde 
a 
questa 
idea, né 
nel-
l’esperienza 
della 
conduzione 
monetaria, né 
nell’indipendenza 
dal 
Presidente 
e 
dal 
Congresso. La 
crisi 
degli 
anni 
’08, ancora 
in corso, ora 
la 
crisi 
da 
pandemia, 
ne 
rendono 
evidente 
l’inconsistenza 
sul 
piano 
dell’esperienza. 
È 
un’idea 
che 
potrebbe 
realizzarsi 
soltanto con ingenti 
costi 
economici 
e 
perciò 
sociali 
per 
la 
distruzione 
di 
risorse 
peraltro 
disponibili; 
è 
posto 
artificialmente 
un 
vincolo 
per 
l’intervento 
politico 
nell’affrontare 
crisi, 
che 
sono 
ineliminabili 
nella 
dinamicità 
delle 
società; 
vincolo 
ben 
più 
consistente 
dell’allora 
ancoraggio 
della moneta all’oro. 


L’evoluzione 
delle 
cose 
-accompagnata 
dalla 
giurisprudenza 
e 
dagli 
indirizzi 
politici 
che 
vanno emergendo ai 
livelli 
degli 
Stati 
aderenti, e 
di 
conseguenza 
al 
livello 
delle 
istituzioni 
europee 
-ricolloca 
la 
BCE 
nella 
tradizionale 
funzione 
di 
banca 
centrale 
prestatore 
di 
ultima 
istanza, 
per 
la 
capacità 
di 
creare 
moneta 
secondo le 
esigenze 
delle 
politiche 
economiche 
che 
esprimono le 
società 
attraverso le 
loro istituzioni 
democratiche. Ma 
proprio per questo da 
più 
parti, a 
ragione, è 
riproposta 
la 
questione 
dell’indipendenza 
della 
banca 
centrale, 
non più giustificata 
nelle 
attuali 
condizioni. Gli 
interventi 
del 
prestatore 
di 
ultima 
istanza 
possono richiedere 
di 
distinguere 
gli 
Stati 
e 
le 
entità 
da 
sostenere; 
ad 
es. 
è 
emersa 
la 
richiesta 
che 
nelle 
operazioni 
di 
acquisto 
sul 
mercato 
di 
titoli 
privati 
la 
Bce 
debba 
privilegiare 
gli 
emittenti 
che 
orientano la 
produzione 
verso il 
verde. La 
Banca 
non può fare 
politica 
se 
non sotto la 
responsabilità 
di 
istituzioni 
politiche 
di 
dipendenza 
democratica. 
Per 
altro 
verso 
la 
politica 
monetaria, sottratta 
agli 
Stati, ordinata 
in federale, implica 
la 
solidarietà 
nella gestione. 


Dunque, per rimediare 
non basta 
ricondurre 
la 
Banca 
alle 
dipendenze 
di 
istituzioni 
politiche 
UE. 
va 
ripensato, 
reinventato, 
il 
sistema 
monetario 
per 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


farlo 
adeguato 
alle 
nuove 
esperienze 
federali. 
Da 
un 
canto, 
svincolata 
dall’oro, 
da 
ogni 
altra 
parità, 
la 
creazione 
di 
moneta 
è 
divenuta 
libera: 
the 
Age 
of 
Magic 
Money; 
the 
Deficit 
Myth. 
D’altro 
canto, 
va 
orientata 
la 
solidarietà 
implicita 
nella politica monetaria comune. 


Ma 
vi 
è 
di 
più. 
L’ideologia 
non 
si 
esaurisce 
nel 
dibattito 
dottrinale 
tra 
Friedman e 
Keynes, tra 
monetaristi 
e 
interventisti, tra 
neoliberali 
e 
socialisti, 
tra 
Stato minimo e 
Stato sociale. La 
dottrina 
è 
ripresa 
dalla 
politica, che 
la 
riconfigura 
nella 
consistenza 
di 
contrapposti 
assetti 
d’interessi: 
si 
dispiega 
negli 
Usa 
nella 
evidente 
contrapposizione 
dei 
repubblicani 
e 
dei 
democratici 
(almeno 
sino 
alla 
presidenza 
Trump). 
Nella 
prospettiva 
dello 
Stato 
minimo, 
il 
capitale, 
la 
finanza, 
nella 
globalizzazione 
si 
sottraggono 
alla 
regolamentazione 
statale, si 
appropriano della 
creazione 
monetaria. In Europa 
la 
vicenda 
è 
diversa 
per la 
presenza 
degli 
Stati 
sociali. L’alternativa 
politica 
si 
riflette 
nella 
concezione 
dell’UE: 
coordinamento tecnico o integrazione 
sociale? 
Tra 
l’Europa 
tecnica, 
privilegiata 
dal 
capitale 
globale, 
o 
l’Europa 
politica 
che, 
nel-
l’economia 
globale, soltanto così 
può essere 
investita 
dei 
problemi 
sociali 
del 
territorio. Il 
dibattito ai 
vertici 
politici 
ha 
radici 
nella 
divisione 
dell’opinione 
pubblica: 
lo 
abbiamo 
colto 
nella 
vicenda 
greca. 
Le 
recenti 
vicende 
stanno 
portando 
a 
questa 
seconda 
alternativa, a 
modifica 
dell’originaria 
impostazione: 
si 
spiegano 
le 
difficili 
trattative; 
si 
spiega 
l’uscita 
dell’Inghilterra 
già 
contraria 
all’integrazione sociale. 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


La qualificazione tributaria della indennità liquidata 
per la accertata responsabilità dello Stato 
per gli atti e le omissioni contrari al diritto europeo 


Maurizio Fiorilli* 


1. La 
qualificazione 
tributaria 
del 
risarcimento dovuto per la 
lesione 
di 
un 
diritto 
soggettivo 
riconosciuto 
dall’ordinamento 
europeo 
da 
parte 
di 
uno 
Stato membro dipende 
dai 
Trattati 
istitutivi 
della 
Unione 
Europea 
e 
dal 
principio 
di territorialità proprio della fiscalità nazionale. 
Le 
competenze 
dell’Unione 
Europea 
si 
fondano sul 
principio di 
attribuzione 
(art. 
5 
TUE), 
ne 
consegue 
che 
essa 
agisce 
esclusivamente 
nei 
limiti 
delle 
competenze 
che 
le 
sono attribuite 
dagli 
Stati 
membri 
nei 
Trattati 
per la 
realizzazione 
degli obiettivi da questi stabiliti. 

Il 
comportamento dello Stato membro nelle 
materie 
di 
competenza 
del-
l’Unione 
Europea 
è 
qualificato 
come 
antigiuridico 
in 
base 
ai 
principi 
e 
alle 
norme 
dell’ordinamento europeo (art. 4, comma 
3 TUE). Il 
trattamento giuridico 
delle 
fattispecie 
di 
responsabilità 
dello 
Stato 
membro 
per 
violazione 
delle 
norme 
di 
diritto primario o secondario europeo di 
conseguenza 
è 
attratto (ratione 
materiae) nell'ambito di 
applicazione 
del 
diritto europeo. Ne 
segue 
che 
nel 
caso 
di 
accertata 
violazione 
del 
diritto 
europeo 
che 
comporti 
un 
risarcimento 
del 
danno l’ordinamento dello Stato membro deve 
assicurare 
una 
congrua 
riparazione del pregiudizio inferto. 

2. La 
responsabilità 
dello Stato membro non è 
assimilabile 
a 
quella 
derivante 
da un accordo internazionale. E ciò, in quanto l’accordo internazionale 
crea 
obblighi 
reciproci 
fra 
gli 
Stati 
contraenti, 
ma 
non 
attribuisce 
direttamente 
ai privati diritti o gli impone degli obblighi. 
I Trattati 
che 
hanno istituito le 
Comunità 
europee, ed ora 
l’Unione 
europea, 
hanno comportato la 
attribuzione 
di 
competenze 
statali 
“per 
conseguire 
i 
loro obiettivi 
comuni” 
(art. 1 TUE) ad un ente 
internazionale 
costituendo un 
ordinamento giuridico internazionale di nuovo tipo (art. 5 TUE). 

La 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
sentenza 
5 febbraio 1963, causa 
26/62, Van 
Gend & 
Loos 
(1) ha 
sottolineato che 
“Lo scopo del 
Trattato CEE, cioè 
l’instaurazione 
di 
un mercato comune 
il 
cui 
funzionamento incide 
direttamente 
sui 
soggetti 
della 
Comunità, implica 
che 
esso va 
al 
di 
là 
di 
un accordo che 
si 
limitasse 
a 
creare 
degli 
obblighi 
reciproci 
tra 
Stati 
contraenti. 
Ciò 
è 
confermato 
dal 
Preambolo del 
Trattato il 
quale, oltre 
a 
menzionare 
i 
Governi, fa 
richiamo 


(*) Già 
vice 
Avvocato Generale dello Stato. 


(1) racc. 1963 00003. 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


ai 
popoli 
e, più concretamente 
ancora, dalla 
instaurazione 
di 
organi 
investiti 
istituzionalmente 
di 
poteri 
sovrani 
da 
esercitarsi 
nei 
confronti 
sia 
degli 
Stati 
membri 
sia 
dei 
loro cittadini. va 
poi 
rilevato che 
i 
cittadini 
degli 
Stati 
membri 
della 
Comunità 
collaborano, 
attraverso 
il 
Parlamento 
europeo 
e 
il 
Comitato 
economico 
e 
sociale, 
alle 
attività 
della 
Comunità 
stessa. 
Oltracciò, 
la 
funzione 
attribuita 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dall’articolo 177 (ora art. 267 TFUE), funzione 
il 
cui 
scopo 
è 
di 
garantire 
l’uniforme 
interpretazione 
del 
Trattato 
da 
parte 
dei 
giudici 
nazionali, costituisce 
la 
riprova 
del 
fatto che 
gli 
Stati 
hanno riconosciuto 
al 
diritto 
comunitario 
una 
autorità 
tale 
da 
poter 
essere 
fatta 
valere 
dai 
suoi 
cittadini 
davanti 
a 
detti 
giudici. In considerazione 
di 
tutte 
queste 
circostanze 
si 
deve 
concludere 
che 
la 
Comunità 
costituisce 
un ordinamento giuridico 
di 
nuovo genere 
nel 
campo del 
diritto internazionale 
a 
favore 
del 
quale 
gli 
Stati 
hanno rinunciato, anche 
se 
in settori 
limitati, ai 
loro poteri 
sovrani, 
ordinamento che 
riconosce 
come 
soggetti, non soltanto gli 
Stati 
membri 
ma 
anche i loro cittadini”. 


Pertanto, 
a 
differenza 
di 
quanto 
avviene 
generalmente 
nel 
quadro 
della 
cooperazione 
giuridica 
internazionale, 
le 
norme 
e 
provvedimenti 
amministrativi 
adottati 
dalle 
Istituzioni 
europee 
raggiungono 
o 
sono 
suscettibili 
di 
raggiungere 
i 
soggetti 
interni 
degli 
Stati 
membri 
senza 
bisogno 
di 
o 
indipendentemente 
dal-
l’intermediazione 
del 
diritto 
nazionale. 
Invero, 
in 
molti 
dei 
settori 
attribuiti 
alla 
competenza 
della 
Unione 
Europea, 
si 
pensi 
al 
settore 
della 
concorrenza 
(artt. 
101-106 
TFUE) 
o 
a 
quello 
degli 
aiuti 
di 
Stato 
(artt. 
107-109 
TFUE), 
tale 
competenza 
non 
è 
solo 
normativa, 
ma 
anche 
di 
amministrazione 
diretta 
in 
capo 
ai 
privati 
(cittadini 
europei 
o 
persone 
giuridiche 
ad 
essi 
parificati): 
spetta 
in 
altri 
termini 
alle 
stesse 
Istituzioni 
dell’Unione 
la 
gestione 
di 
una 
data 
materia 
ed 
il 
controllo 
sul 
rispetto 
delle 
relative 
norme 
da 
parte 
degli 
amministrati. 


La 
diretta 
efficacia 
del 
diritto 
dell’Unione 
europea 
sulle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
dei 
singoli 
si 
accompagna 
strettamente 
ad 
un’altra 
caratteristica 
fondamentale 
di 
questo 
diritto, 
consistente 
nella 
supremazia 
delle 
sue 
disposizioni 
su 
quelle 
dell’ordinamento 
giuridico 
nazionale 
(2). 
La 
norma 
giuridica 


(2) Sentenza 
15 luglio 1964, in Causa 
C-6/64, Flaminio Costa 
(racc. 1964 01141) “ 
[..] A 
differenza 
dei 
comuni 
trattati 
internazionali, il 
trattato CEE 
ha istituito un proprio ordinamento giuridico, 
integrato nell'ordinamento giuridico degli 
Stati 
membri 
all'atto dell'entrata in vigore 
del 
trattato e 
che 
i 
giudici 
nazionali 
sono tenuti 
ad osservare 
... Tale 
integrazione 
nel 
diritto di 
ciascuno Stato membro di 
norme 
che 
provengono da fonti 
comunitarie 
e, più in generale, lo spirito o i 
termini 
del 
Trattato hanno 
per 
corollario l’impossibilità per 
gli 
Stati 
di 
far 
prevalere, contro un tale 
ordinamento giuridico da essi 
accettato 
a 
condizioni 
di 
reciprocità 
un 
provvedimento 
unilaterale 
ulteriore, 
il 
quale 
pertanto 
non 
potrà 
essere 
opponibile 
all’ordinamento 
comune 
... 
La 
preminenza 
del 
diritto 
comunitario 
trova 
conferma 
nell’art. 
189 
(ora 
288 
TFUE) 
a 
norma 
del 
quale 
i 
regolamenti 
sono 
obbligatori 
e 
direttamente 
applicabili 
in 
ciascuno 
degli 
Stati 
membri. 
Questa 
disposizione 
che 
non 
è 
accompagnata 
da 
alcuna 
riserva, 
sarebbe 
priva di 
significato se 
uno Stato potesse 
unilateralmente 
annullarne 
gli 
effetti 
con un provvedimento legislativo 
che 
prevalesse 
sui 
testi 
comunitari 
…”, conf. Sentenza 
del 
9 marzo 1978, in causa 
C-106/77, 
Simmenthal 
(racc. 1978 00629). 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


nazionale, 
sia 
essa 
antecedente 
o 
successiva, 
contrastante 
cede 
dinanzi 
a 
quella 
europea 
e 
non 
può 
essere 
quindi 
applicata 
dai 
giudici 
nazionali 
nell’ambito 
di 
una 
controversia 
giudiziaria 
in 
cui 
un 
parte 
abbia 
invece 
ritenuto 
di 
invocarla. 


La 
responsabilità 
dello Stato membro per la 
violazione 
del 
diritto riconosciuto 
al 
singolo dall’ordinamento europeo si 
inquadra 
ed è 
disciplinata 
in 
tale ordinamento (3). 

I Trattati 
(TUE 
e 
TFUE 
) in relazione 
all’obbligo di 
leale 
collaborazione 
tra 
Unione 
e 
Stati 
membri 
hanno per un verso previsto l’obbligo degli 
Stati 
membri 
di 
risolvere 
eventuali 
controversie 
sulla 
interpretazione 
e 
sull’applicazione 
dei 
Trattati 
nel 
quadro e 
secondo procedure 
previste 
dal 
sistema, rendendo 
così 
quest’ultimo, 
anche 
su 
tale 
versante, 
tendenzialmente 
chiuso 
e 
autosufficiente; 
dall’altro 
hanno 
istituito 
procedure 
finalizzate 
ad 
assicurare 
il 
corretto funzionamento del 
sistema 
lasciate 
alla 
iniziativa 
e/o alla 
partecipazione 
della Commissione e dei cittadini. 


La 
responsabilità 
dello 
Stato 
membro, 
che 
ha 
carattere 
unitario 
(4) 
in 
quanto non rileva 
per l’ordinamento europeo la 
imputabilità 
interna 
della 
violazione, 
è 
accertata 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
nei 
ricorsi 
per 
inadempimento 
promossi 
dalla Commissione (artt. 258 e 260 TFUE). 


(3) I parametri 
per valutare 
la 
conformità 
del 
diritto interno ai 
risultati 
imposti 
dall'ordinamento 
europeo, sono stati 
enunciati 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
risoluzione 
delle 
questioni 
pregiudiziali 
concernenti: 
1) l'ambito della 
responsabilità 
dello Stato per gli 
atti 
e 
le 
omissioni 
del 
legislatore 
contrari 
al 
diritto europeo; 
2) i 
presupposti 
della 
responsabilità; 
3) la 
possibilità 
di 
subordinare 
il 
risarcimento all'esistenza 
di 
una 
colpa; 
4) l'entità 
del 
risarcimento; 
5) la 
delimitazione 
del 
periodo coperto dal 
risarcimento 
(sentenza 
5 marzo 1996, cause 
riunite 
C-46/93 e 
C-48/93). I detti 
parametri 
sono stati 
precisati 
secondo i 
principi 
di 
seguito elencati: 
a) anche 
l'inadempimento riconducibile 
al 
legislatore 
nazionale 
obbliga 
lo Stato a 
risarcire 
i 
danni 
causati 
ai 
singoli 
dalle 
violazioni 
del 
diritto europeo; 
b) il 
diritto al 
risarcimento deve 
essere 
riconosciuto allorché 
la 
norma 
comunitaria, non dotata 
del 
carattere 
self-executing 
sia 
preordinata 
ad 
attribuire 
diritti 
ai 
singoli, 
la 
violazione 
sia 
manifesta 
e 
grave 
e 
ricorra 
un 
nesso 
causale 
diretto fra 
tale 
violazione 
ed il 
danno subito dai 
singoli, fermo restando che 
è 
nell'ambito delle 
norme 
del 
diritto nazionale 
relative 
alla 
imputazione 
(interna) della 
responsabilità 
che 
lo Stato è 
tenuto 
a 
riparare 
il 
danno, ma 
a 
condizioni 
non meno favorevoli 
di 
quelle 
che 
riguardano analoghi 
reclami 
di 
natura 
interna 
e, comunque, non tali 
da 
rendere 
praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
ottenere 
il 
risarcimento; 
c) il 
risarcimento del 
danno non può essere 
subordinato alla 
sussistenza 
del 
dolo 
o 
della 
colpa; 
d) 
il 
risarcimento 
deve 
essere 
adeguato 
al 
danno 
subito, 
spettando 
all'ordinamento 
giuridico 
interno stabilire 
i 
criteri 
di 
liquidazione, che 
non possono essere 
meno favorevoli 
di 
quelli 
applicabili 
ad analoghi 
reclami 
di 
natura 
interna, o tali 
da 
rendere 
praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
ottenere 
il 
risarcimento. 
In 
ogni 
caso, 
non 
può 
essere 
escluso 
in 
via 
generale 
il 
risarcimento 
di 
componenti 
del 
danno, quale 
il 
lucro cessante; 
e) il 
risarcimento non può essere 
limitato ai 
soli 
danni 
subiti 
successivamente 
alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
che 
accerti 
l'inadempimento. 
(4) Sentenza 
30 settembre 
2003, Köbler, in causa 
C-224/01, racc. 2003 I-10239: 
“ 
[…] 32. Se 
nell’ordinamento 
giuridico 
internazionale 
lo 
Stato 
la 
cui 
responsabilità 
sorgerebbe 
in 
caso 
di 
violazione 
di 
un impegno internazionale 
viene 
considerato nella sua unità, senza che 
ne 
derivi 
la circostanza che 
la 
violazione 
da 
cui 
ha 
avuto 
origine 
il 
danno 
sia 
imputabile 
al 
potere 
legislativo, 
giudiziario 
o 
esecutivo, 
tale 
principio deve 
valere 
a maggior 
ragione 
nell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti 
gli 
organi 
dello Stato, ivi 
compreso il 
potere 
legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei 
loro compiti, 
all’osservanza delle 
prescrizioni 
dettate 
dal 
diritto comunitario e 
idonee 
a disciplinare 
direttamente 
la 
situazione dei singoli”. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La 
responsabilità 
dello 
Stato 
membro 
è 
fondata 
sui 
principi 
della 
primauté 
del diritto europeo (5) e di leale collaborazione tra Stati membri. 


3. 
La 
responsabilità 
dello 
Stato 
membro 
per 
violazione 
del 
diritto 
europeo 
nell’esercizio 
della 
funzione 
legislativa 
è 
contestata 
da 
una 
parte 
della 
dottrina 
mediante 
l’apodittico 
richiamo 
al 
principio 
dell’assoluta 
discrezionalità 
del 
legislatore. 
La 
tesi 
si 
fonda 
sul 
principio della 
libertà 
nei 
fini 
della 
funzione 
legislativa, 
in quanto espressione 
del 
potere 
politico; 
da 
ciò conseguirebbe 
l’insindacabilità 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’esercizio 
di 
tale 
potere 
e 
l’inconfigurabilità 
di 
un 
diritto 
del 
singolo 
al 
legittimo 
esercizio 
di 
tale 
potere. 


Ciò 
che 
viene 
opposto 
al 
principio 
della 
responsabilità 
dello 
Stato 
per 
l’attività 
legislativa 
è 
un 
limite 
di 
tipo 
costituzionale 
che 
richiama 
la 
cosiddetta 
dottrina 
dei 
“controlimiti” 
(6), 
elaborata 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale 
italiana 
e 
da 
quella 
tedesca, secondo cui 
le 
norme 
europee 
ricadono nel 
controllo 
esclusivo di costituzionalità delle Corti costituzionali nazionali. 

La 
nozione 
volontaristica 
del 
potere 
politico 
che 
questa 
teoria 
invoca, 
con 
il 
riferimento ad una 
discrezionalità 
libera 
ed assoluta 
del 
legislatore, si 
pone 
in stridente 
contrasto non solo con il 
trasferimento di 
competenze 
su un complesso 
di 
materie 
alle 
Istituzioni 
europee 
(7), 
ma 
anche 
e 
soprattutto 
con 
la 
stessa 
idea 
di 
“costituzione 
rigida” 
che 
caratterizza 
il 
costituzionalismo contemporaneo, 
secondo 
la 
quale 
il 
potere 
non 
è 
più 
concentrato 
in 
un 
onnipotente 


(5) 
Il 
percorso 
interpretativo 
diretto 
ad 
affermare 
il 
principio 
della 
“primauté” 
del 
diritto 
europeo, 
è 
stato 
portato 
a 
compimento 
con 
la 
sentenza 
Simmenthal 
(sentenza 
del 
9 
marzo 
1978, 
in 
causa 
C106/
77). Questa 
sentenza 
precisa 
che, in forza 
del 
principio della 
preminenza 
del 
diritto europeo, le 
disposizioni 
del 
Trattato e 
gli 
atti 
delle 
Istituzioni, qualora 
siano direttamente 
applicabili, hanno l'effetto 
non solo di 
rendere 
ipso iure 
inapplicabile, per il 
fatto stesso della 
loro entrata 
in vigore, qualsiasi 
disposizione 
del 
diritto interno degli 
Stati 
membri 
contrastante 
con la 
legislazione 
nazionale 
preesistente, 
ma 
anche 
-in 
quanto 
dette 
disposizioni 
e 
detti 
diritti 
fanno 
parte 
integrante, 
con 
rango 
superiore 
rispetto 
alle 
norme 
interne, 
dell'ordinamento 
giuridico 
vigente 
nel 
territorio 
dei 
singoli 
Stati 
membri 
-di 
impedire 
la 
valida 
formazione 
di 
nuovi 
atti 
legislativi 
nazionali, 
nella 
misura 
in 
cui 
questi 
siano 
incompatibili 
con 
sentenze o con norme europee. 
(6) 
La 
teoria 
dei 
“controlimiti” 
è 
stata 
elaborata 
come 
argine 
rispetto 
a 
possibili 
violazioni 
dei 
principi 
fondamentali 
della 
Costituzione 
e 
dei 
diritti 
inviolabili 
da 
parte 
delle 
fonti 
degli 
ordinamenti 
sovranazionali 
e 
internazionale, oltre 
che 
del 
diritto concordatario e 
delle 
leggi 
costituzionali 
e 
di 
revisione. 
Di 
recente 
la 
Corte 
Costituzione 
ha 
utilizzato l’istituto in una 
fattispecie 
relativa 
alla 
norma 
consuetudinaria 
internazionale, entrata 
nell’ordinamento in base 
all’art. 10 Cost., dell’immunità 
degli 
Stati 
dalla 
giurisdizione 
per atti 
iure 
imperii 
(sentenza 
n. 238 del 
2014) e 
alla 
legge 
di 
esecuzione 
del 
Trattato 
di 
Lisbona 
nella 
parte 
in cui, in violazione 
del 
controlimite 
di 
cui 
all’art. 25 Cost., renderebbe 
efficace 
nell’ordinamento 
italiano 
la 
sentenza 
interpretativa 
della 
Corte 
di 
giustizia 
Ue 
sul 
caso 
Taricco, 
decisione 
con 
cui 
il 
giudice 
europeo 
ha 
inteso 
orientare 
i 
giudici 
italiani 
verso 
la 
disapplicazione 
delle 
norme 
sulla 
prescrizione 
nel 
processo 
penale 
nei 
casi 
in 
cui 
le 
stesse 
non 
garantiscano 
efficacemente 
la 
sanzione 
delle 
frodi 
fiscali 
in relazione 
agli 
interessi 
finanziari 
dell’Ue 
ai 
sensi 
del 
principio posto nell’art. 325 
TFUE. 
(7) TESAUrO 
G., Responsabilità degli 
Stati 
per 
violazione 
del 
diritto comunitario, in Tutela giurisdizionale 
dei diritti nel sistema comunitario, Bruxelles 1997, 306 ss. 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


legislatore, ma 
è 
diffuso in una 
pluralità 
di 
poteri 
separati 
ed in rapporto di 
reciproco 
bilanciamento e 
controllo, al 
punto che, secondo la 
letteratura 
più recente 
(8), 
è 
la 
stessa 
idea 
di 
“sovrano” 
ad 
essere 
superata 
nell’ambito 
dello 
Stato costituzionale. 


Il 
far dipendere 
poi 
la 
conclusione 
negativa 
in punto di 
responsabilità 
civile 
dall’inesistenza 
di 
un 
diritto 
soggettivo 
all’esercizio 
del 
potere 
legislativo, 
vuol 
dire 
assumere 
la 
concezione 
della 
responsabilità 
contrattuale 
ed 
extracontrattuale 
come 
lesione 
di 
diritti 
soggettivi; 
concezione 
che 
è 
stata 
tuttavia 
definitivamente 
superata 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
con 
l’approdo 
alla 
lettura 
dell’art. 2043 c. civ. nei 
termini 
della 
clausola 
generale 
del 
“danno ingiusto”. 


La 
responsabilità 
del 
legislatore 
per la 
violazione 
del 
diritto europeo presuppone 
la 
legittimità 
del 
comportamento 
tenuto 
dall’organo 
dal 
punto 
di 
vista 
del 
diritto interno. La 
validità 
dell’atto (legge 
o atto normativo) non è 
posto 
così 
in discussione: 
anzi, sono proprio la 
sua 
efficacia 
giuridica 
e 
la 
sua 
obbligatorietà 
a 
fondare 
la 
responsabilità 
dello Stato dal 
punto di 
vista 
dell’ordinamento 
europeo. 
Non 
è 
dunque 
in 
questione 
la 
validità 
dell’atto 
di 
diritto 
interno, ma 
la 
liceità 
della 
condotta 
tenuta 
dallo Stato, considerato nella 
sua 
unità dal punto di vista dell’ordinamento europeo. 


Ciò 
significa 
che 
fra 
ordinamento 
europeo 
ed 
ordinamento 
nazionale 
non 
si 
stabilisce 
un rapporto di 
tipo gerarchico, nel 
senso che 
l’uno definisca 
i 
criteri 
di 
validità 
dell’altro, 
ma 
un 
rapporto 
di 
liceità 
in 
luogo 
di 
quello 
di 
validità 
dell’atto, 
nel 
quale 
rilevano 
i 
comportamenti 
allorquando 
esso 
sia 
effettivamente 
entrato nel 
diritto positivo e 
nella 
consequenziale 
semplice 
perdita 
di 
applicabilità del diritto interno. 


Il 
primato 
del 
diritto 
europeo, 
presentato 
dalla 
giurisprudenza 
europea 
come 
“disapplicazione” 
dell'atto interno non conforme 
all’ordinamento europeo, 
non si 
traduce 
in una 
invalidità 
o in un annullamento, ma 
nella 
“preferenza” 
del 
diritto 
europeo 
quando 
esso 
sia 
effettivamente 
entrato 
nel 
diritto 
positivo e 
nella 
consequenziale 
semplice 
perdita 
di 
applicabilità 
del 
diritto interno 
(9). 
L’integrazione 
fra 
i 
due 
ordinamenti 
non 
discende 
da 
una 
norma 
fondamentale 
europea 
che 
condizioni 
la 
validità 
del 
diritto 
nazionale, 
ma 
dal 
riconoscimento dell’efficacia 
dell'ordinamento europeo quale 
fonte 
di 
diritto 
interno (10). 


Tanto trova 
conferma 
nel 
fatto che, allorché 
la 
Corte 
Costituzionale 
italiana 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
della 
norma 
nazionale 
conflig


(8) FIOrAvANTI 
M., Stato e Costituzione, in Lo Stato moderno in Europa, 2002. 
(9) CArTABIA 
-WELLEr, L’Italia in Europa. Profili 
istituzionali 
e 
costituzionali, Bologna, 2000, 
pp. 173 ss. 
(10) MENGONI 
v., Note 
sul 
rapporto fra fonti 
di 
diritto comunitario e 
fonti 
di 
diritto interno degli 
Stati 
membri, in LIPArI 
(a 
cura 
di) Diritto privato europeo e 
categorie 
civilistiche, Napoli, 1998, pp. 26 
ss. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


gente 
con 
la 
norma 
europea, 
quest’ultima 
non 
ha 
assunto 
direttamente 
la 
veste 
di 
parametro 
del 
giudizio, 
ma 
è 
stata 
configurata 
quale 
norma 
interposta 
rispetto 
alla costituzione formale (11). 


La 
attribuzione 
interna 
della 
responsabilità 
unitaria 
dello Stato al 
legislatore 
nazionale, sia 
in carenza 
che 
nell’esercizio della 
funzione 
legislativa, è 
da qualificare 
non iure 
sul piano sovrannazionale, ma non su quello interno. 

La 
sentenza 
Francovich, che 
per prima 
ha 
riconosciuto la 
responsabilità 
dello 
Stato-legislatore 
per 
carenza, 
rinvia 
alla 
disciplina 
interna 
dei 
singoli 
Stati 
membri 
le 
condizioni 
dell'azione 
riparatoria. Ed è 
proprio in tale 
ambito 
che 
lo 
Stato 
conserva, 
anche 
nelle 
intenzioni 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
la 
propria 
“limitata 
sovranità”, subordinata, peraltro, anzitutto al 
principio che 
le 
condizioni 
previste 
dal 
diritto nazionale 
per far valere 
questo tipo di 
responsabilità 
non 
possono 
essere 
meno 
favorevoli 
rispetto 
a 
quelle 
interne 
imposte 
per 
azioni 
analoghe 
(regola del 
trattamento nazionale) e 
tali 
condizioni 
non possono 
rendere 
praticamente 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
ottenere 
il 
risarcimento (regola dello standard minimo europeo). 


Sta 
di 
fatto che, al 
di 
fuori 
di 
tale 
duplice 
limite, indispensabile 
per assicurare 
una 
soglia 
minimale 
di 
effettività 
alla 
tutela 
riconosciuta, il 
giudice 
europeo 
omette 
di 
indicare 
a 
quali 
condizioni 
sostanziali 
e 
formali 
e 
secondo 
quali 
criteri 
debba 
essere 
garantita 
la 
tutela 
dei 
singoli 
e 
come 
possa 
esserlo 
in tutti gli Stati membri in modo, se non uniforme, almeno omogeneo (12). 

Inizialmente 
la 
regola 
è 
stata 
utilizzata 
dai 
giudici 
nazionali 
-evidentemente 
restii, specie 
quelli 
di 
vertice, ad accostare 
il 
concetto di 
fatto illecito 
alla 
attività 
legislativa 
-per 
circoscrivere 
le 
ipotesi 
di 
responsabilità 
dello 
Stato-legislatore 
ai 
soli 
casi 
immediatamente 
riferibili 
alla 
citata 
sentenza 
Francovich. 

La 
giurisprudenze 
più recente 
(13), a 
partire 
dalla 
sentenza 
delle 
SS.UU, 
del 
17 
aprile 
2009, 
n. 
9147, 
ha 
qualificato 
il 
c.d. 
“illecito 
del 
legislatore” 
come 
derivante 
dalla 
violazione 
di 
un’obbligazione 
ex 
lege 
di 
natura 
indennitaria, 
aderendo così 
alla 
tesi, secondo cui 
sussisterebbe 
un autentico obbligo legale 
per 
lo 
Stato 
membro 
di 
predisporre 
i 
mezzi 
necessari 
per 
garantire 
gli 
obiettivi 
di 
tutela 
posti 
dal 
diritto 
europeo. 
Tale 
impostazione 
prende 
le 
mosse 
dalla 
considerazione 
che 
lo Stato membro si 
obbliga 
nei 
riguardi 
dell’ordinamento 
comunitario al 
conseguimento di 
un risultato; 
e 
ciò perché 
«stante 
il 
carattere 
autonomo e 
distinto tra i 
due 
ordinamenti, comunitario e 
interno, il 
comportamento 
del 
legislatore 
è 
suscettibile 
di 
essere 
qualificato come 
antigiuridico 
nell'ambito 
dell’ordinamento 
comunitario, 
ma 
non 
alla 
stregua 
dell'ordina


(11) 
CELOTTO 
A., 
Le 
“modalità”di 
prevalenza 
delle 
norme 
comunitarie 
sulle 
norme 
interne: 
spunti 
ricostruttivi, in Riv. Ital. Dir. Publ. Comunitario, 1999, p. 1482. 
(12) TIZZANO, La tutela dei 
privati 
nei 
confronti 
degli 
Stati 
membri 
nell’Unione 
Europea, in Foro 
Ital. 
1995, Iv, 13 c. 27. 
(13) Cass. Civ., Sez. III, 11 novembre 2011 n. 23568; 
idem, 9 febbraio 2012 n. 1917. 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


mento 
interno, 
secondo 
principi 
fondamentali 
che 
risultano 
evidenti 
nella 
stessa Costituzione». 


Naturale 
conseguenza 
della 
soluzione 
accolta 
dalle 
SS.UU. civili 
è 
che 
la 
responsabilità 
dello Stato membro nei 
confronti 
dell’Unione 
è 
assimilabile 
alla 
responsabilità 
interna 
di 
natura 
contrattuale 
ai 
sensi 
dell'articolo 1218 c. 


civ. 
ed 
è 
assoggettata 
alle 
relative 
regole; 
e 
ciò 
ad 
eccezione 
del 
profilo 
del 
termine 
di 
prescrizione, dal 
momento che 
la 
legge 
di 
stabilità 
per il 
2012 ha 
stabilito 
che 
il 
diritto 
al 
risarcimento 
dei 
danni 
patiti 
per 
effetto 
della 
tardività, 
omessa 
o 
erronea 
attuazione 
di 
direttive 
comunitarie 
è 
soggetto 
al 
termine 
prescrizionale 
breve 
di 
cinque 
anni 
previsto dall'articolo 2947 c. civ. a 
far data 
dal momento in cui si è verificato il fatto dal quale derivavano i diritti. 
4. Nella 
ipotesi 
in cui 
la 
attività amministrativa 
abbia 
violato il 
diritto 
europeo e 
sia 
fonte 
di 
un danno, la 
responsabilità 
indennitaria 
dello Stato rappresenta 
un correttivo alla 
tutela 
assicurata 
ai 
singoli 
dall’azione 
di 
annullamento 
dell’atto amministrativo (14). 
(14) La 
responsabilità 
dello Stato membro per violazione 
del 
diritto europeo da 
parte 
di 
una 
pubblica 
amministrazione 
è 
stata 
accertata, 
la 
prima 
volta, 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con 
decisione 
23 
maggio 
1996, in causa 
C-5/94, The 
Queen v. Ministry 
of 
Agriculture. La 
controversia 
riguardava 
il 
diniego di 
un provvedimento di 
autorizzazione 
per l’esportazione 
di 
animali 
da 
macello in Spagna. Il 
Ministry of 
Agriculture 
aveva 
violato le 
norme 
europee 
che 
vietano le 
restrizioni 
quantitative 
all’esportazione 
(art. 
30 TCE), poiché 
aveva 
negato la 
autorizzazione 
alla 
esportazione 
alla 
società 
Hedley Lomas, pur non 
avendo il 
potere 
di 
assumere 
una 
scelta 
discrezionale 
in merito. La 
Corte 
ha 
condannato lo Stato a 
ristorare 
il 
danno cagionato, mettendo in evidenza, in particolare, come 
l'autorità 
pubblica 
disponeva 
nel 
caso di specie di un potere discrezionale molto ridotto. 
Un caso analogo, ma 
con la 
specificazione 
che 
si 
trattava 
di 
una 
norma 
comunitaria 
che 
non lasciava 
spazio alla 
discrezionalità 
amministrativa, è 
stato deciso dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con sentenza 
2 aprile 
1998 in causa 
C-127/95, Norbrook 
Laboratories 
Ltd., relativa 
all'autorizzazione 
al 
commercio di 
farmaci 
per uso veterinario. L’art. 5, secondo comma, della 
direttiva 
81/851, relativa 
ai 
medicinali 
veterinari, in 
combinato 
disposto 
con 
le 
altre 
disposizioni 
di 
tale 
direttiva 
e 
con 
la 
direttiva 
81/852, 
relativa 
alle 
norme 
e 
ai 
protocolli 
analitici, tossico-farmacologici 
e 
clinici 
in materia 
di 
prove 
effettuate 
su medicinali 
veterinari, 
consentiva 
all’autorità 
competente 
di 
richiedere 
informazioni 
e 
documenti 
solo 
se 
espressamente 
elencati 
in tale 
disposizione, come 
precisati 
nell’allegato della 
direttiva 
81/852. Il 
Ministero della 
agricoltura 
inglese 
aveva 
richiesto alla 
Norbrook Laboratoriesa 
Ltd., produttrice 
di 
un farmaco ad uso veterinario, 
richiedente 
la 
autorizzazione 
alla 
immissione 
in commercio, informazioni 
ulteriori 
rispetto a 
quelle 
richieste 
dalla 
predetta 
direttiva 
integrata 
e, 
non 
avendole 
ricevute, 
aveva 
negato 
la 
autorizzazione. 
La 
Corte, adita 
con una 
domanda 
pregiudiziale 
interpretativa, ha 
precisato che 
la 
domanda 
di 
rilascio di 
un’autorizzazione 
di 
immissione 
sul 
mercato di 
un medicinale 
veterinario deve 
soddisfare 
tutte 
le 
condizioni 
previste 
dall’art. 
5 
della 
direttiva 
81/851 
perché 
l’autorizzazione 
possa 
essere 
rilasciata 
e, 
di 
conseguenza, 
l’autorità 
competente 
non 
è 
autorizzata 
a 
dispensare 
il 
richiedente 
dal 
fornire 
un’informazione 
o un documento previsti 
dal 
detto art. 5, anche 
se 
risulti 
che 
l’ottenimento di 
tale 
informazione 
è 
praticamente 
impossibile 
in un caso concreto, e 
non può chiedere 
ulteriori 
informazioni. E 
ciò, in quanto le 
direttive 
81/851 
e 
81/852, 
per 
quanto 
riguarda 
le 
informazioni 
e 
i 
documenti 
richiesti 
nell’ambito 
di 
una 
domanda 
di 
autorizzazione, sono conformi 
agli 
artt. 30-36 del 
Trattato. Da 
un lato, infatti, l’armonizzazione 
delle 
procedure 
nazionali 
in materia 
di 
rilascio di 
un’autorizzazione 
ha 
proprio lo scopo di 
eliminare 
gli 
ostacoli 
alla 
libera 
circolazione 
dei 
medicinali 
veterinari; 
dall’altro, anche 
se 
le 
rigorosissime 
condizioni 
imposte 
dalle 
direttive 
di 
cui 
trattasi 
comportano di 
per sé 
alcune 
restrizioni, non sembra 
che 
esse 
non siano giustificate 
dalla 
tutela 
della 
salute, che 
è 
l’obiettivo fondamentale 
di 
tali 
direttive. La 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La 
peculiarità 
della 
fattispecie 
è 
data 
dal 
fatto che 
il 
giudizio di 
responsabilità 
non 
è 
aggiuntivo 
alla 
tutela 
demolitoria, 
ma 
interviene 
in 
via 
quasi 
sostitutiva 
nei casi in cui quest’ultima non sia più utilmente esperibile (15). 


Dall’accertamento 
dell’illegittimità 
dell’azione 
amministrativa 
per 
violazione 
del 
diritto europeo possono invero, in base 
a 
regole 
peculiari 
diverse 
da 
quelle 
ordinarie, scaturire 
conseguenze 
non solo demolitorie 
dell’atto illegittimo, 
ma 
anche 
riparatorie 
dei 
danni 
subiti 
dal 
soggetto 
passivo. 
Emerge 
così 
una 
forma 
di 
tutela 
differenziata, poiché 
a 
una 
diversità 
di 
rapporti 
giuridici 
corrisponde una diversità di tutela giurisdizionale. 

La 
richiesta 
di 
tutela, che 
di 
norma 
viene 
soddisfatta 
principalmente 
mediante 
l’azione 
costitutiva, nelle 
ipotesi 
di 
violazione 
del 
diritto europeo diventa 
più 
articolata, 
poiché 
organizzata 
in 
diverse 
forme 
rimediali, 
come 
il 
risarcimento in forma 
specifica 
o per equivalente, tese 
ad assicurare 
la 
piena 
riparazione del diritto del ricorrente. 

Il 
relativo regime 
diverge 
da 
quello ordinario. La 
ragione 
di 
tale 
mutamento 
può essere 
individuata 
anche 
nel 
fatto «che 
è 
socialmente 
ed economicamente 
in 
contrasto 
con 
il 
principio 
di 
proporzionalità, 
quale 
anche 
delineato 
nell’ordinamento 
europeo, 
che 
l’annullamento 
debba 
costituire 
l’unica 
statuizione 
che 
il 
giudice 
amministrativo può adottare 
in sede 
di 
giudizio di 
legittimità
» 
(16). 

La 
tutela 
dei 
diritti 
di 
fonte 
europea 
richiedono l’adozione 
di 
una 
logica 
rimediale 
completa, 
tipica 
dei 
modelli 
processuali 
di 
piena 
giurisdizione 
(cioè 
non limitata 
all’annullamento dell’atto). E 
ciò, in quanto la 
protezione 
dei 
di-

Corte 
ha 
conseguentemente 
concluso 
che 
uno 
Stato 
membro 
è 
tenuto 
a 
risarcire 
i 
danni 
che 
il 
richiedente 
di 
un’autorizzazione 
all’immissione 
in commercio abbia 
subìto a 
causa 
di 
richieste 
di 
informazioni 
e 
a 
causa 
di 
condizioni 
che 
violano le 
direttive 
81/851 e 
81/852, nel 
caso in cui 
la 
norma 
di 
diritto comunitario 
violata 
sia 
preordinata 
a 
conferire 
diritti 
ai 
singoli, la 
violazione 
sia 
grave 
e 
manifesta 
ed esista 
un 
nesso 
di 
causalità 
diretto 
tra 
tale 
violazione 
e 
il 
danno 
subìto 
dai 
singoli. 
Con 
questa 
riserva, 
è 
nell’ambito 
delle 
norme 
nazionali 
relative 
alla 
responsabilità 
che 
lo 
Stato 
è 
tenuto 
a 
riparare 
le 
conseguenze 
del 
danno provocato da 
una 
violazione 
del 
diritto comunitario ad esso imputabile, fermo restando che 
le 
condizioni 
stabilite 
dalla 
normativa 
nazionale 
in materia 
di 
risarcimento dei 
danni 
non possono essere 
meno favorevoli 
di 
quelle 
che 
riguardano reclami 
analoghi 
di 
natura 
interna 
e 
non possono essere 
congegnate 
in 
modo 
da 
rendere 
praticamente 
impossibile 
o 
eccessivamente 
difficile 
ottenere 
il 
risarcimento. 

(15) Il 
tema 
dei 
rapporti 
fra 
la 
tutela 
demolitoria 
(tradizionale) e 
tutela 
risarcitoria 
a 
fronte 
del-
l'azione 
amministrativa 
illegittima 
é 
di 
grande 
attualità 
nel 
dibattito 
scientifico 
italiano. 
Anche 
nel 
Codice 
del 
processo 
amministrativo 
(decreto 
legislativo 
2 
luglio 
2010 
n. 
104) 
ai 
sensi 
dell'articolo 
34 
il 
giudice, 
in 
caso 
di 
accoglimento 
del 
ricorso, 
può 
disporre 
le 
misure 
idonee 
ad 
assicurare 
l'attuazione 
del 
giudicato. 
Oltre 
a 
ciò si 
prevede 
che 
la 
pronuncia 
di 
annullamento non è 
adottabile 
quando l'eliminazione 
dell'atto 
non è 
utile 
ai 
fini 
del 
conseguimento del 
bene 
della 
vita 
da 
parte 
del 
ricorrente. Il 
giudice 
è, dunque, autorizzato 
a 
limitarsi 
all'accertamento dell'illegittimità 
per consentire 
il 
ristoro del 
danno, parallelamente 
si 
inibisce 
l'annullamento di 
atti 
che 
hanno esaurito i 
loro effetti 
e 
si 
consente 
di 
convertire 
un'azione 
di 
annullamento in un'azione 
di 
accertamento. Secondo questa 
logica 
la 
sanzione 
dell'annullamento non è 
più indefettibile, poiché solo una delle sanzioni dell'illegittimità. 
(16) S. GIACHETTI 
-G. GIACHETTI, Occupazione 
in carenza di 
potere, riparto di 
giurisdizione 
e 
concezione “a matrioska” del provvedimento amministrativo, in Foro amm. CdS, 2006, 1093. 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


ritti 
riconosciuti 
dal 
diritto europeo è 
garantita 
mediante 
il 
ricorso a 
diverse 
sanzioni 
giuridiche. In primo luogo, la 
tutela 
eliminatoria 
(o caducatoria); 
in 
secondo luogo, la 
tutela 
integratoria 
(o restituttoria), con la 
quale 
si 
richiede 
il 
conseguimento del 
bene 
di 
cui 
si 
è 
stati 
spogliati; 
in terzo luogo, la 
tutela 
risarcitoria, 
sotto 
varie 
forme. 
Alcune 
di 
esse 
colpiscono 
l’atto, 
a 
causa 
della 
sua 
difformità 
dallo 
schema 
normativo, 
altre 
colpiscono 
l’amministrazione, 
in 
quanto autore 
dell’azione 
illegittima, quando vi 
sia 
una 
illiceità 
a 
cui 
si 
ricollega 
il risarcimento del danno. 

Se 
è 
vero che 
la 
violazione 
del 
diritto europeo conduce 
all'invalidità 
del 
provvedimento amministrativo, è 
altrettanto vero che 
in tale 
ipotesi 
si 
evidenzia 
una sorta di discrezionalità sanzionatoria. 

La 
illegittimità 
della 
azione 
amministrativa 
può, dunque, dare 
vita 
a 
diverse 
conseguenze a seconda dei casi e della fonte violata. Si conferma in tal 
modo 
il 
principio 
che 
l’invalidità 
non 
riguarda 
un 
atto 
giuridico 
da 
considerare 
nella 
sua 
staticità, ma 
si 
appunta 
sul 
potere 
e 
sulle 
norme 
che 
ne 
vincolano lo 
svolgimento, inteso come 
situazione 
che 
si 
esplica 
per la 
produzione 
di 
effetti 
giuridici conseguenti agli atti che costituiscono il suo esercizio. 

5.1. Il 
giudice 
nazionale, avendo come 
compito quello di 
applicare 
il 
diritto, 
compreso il 
diritto europeo, assume 
incontestabilmente 
un ruolo essenziale 
nell’ordinamento 
giuridico 
europeo. 
La 
sua 
posizione 
costituzionale, 
all’incrocio 
di 
due 
diversi 
sistemi 
giuridici 
(nazionale 
e 
europeo), 
gli 
consente 
di 
fornire 
un rilevante 
contributo all'applicazione 
effettiva 
del 
diritto europeo 
e, in definitiva, allo sviluppo del 
processo di 
integrazione 
europea. Il 
compito 
del 
giudice 
nazionale 
si 
articola 
intorno 
ad 
un 
duplice 
obbligo: 
quello 
di 
fornire 
un’interpretazione 
ed un’applicazione 
del 
diritto interno che 
siano conformi 
alle 
esigenze 
del 
diritto 
europeo 
e 
qualora 
una 
siffatta 
interpretazione 
conforme 
non 
sia 
possibile, 
di 
disapplicare 
le 
norme 
nazionali 
incompatibili 
con 
il 
diritto 
europeo; 
nonché, 
in 
mancanza 
di 
una 
tale 
possibilità, 
di 
sollevare 
una 
questione 
di 
interpretazione 
del 
diritto 
europeo 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
(art. 
267 TFUE). E 
ciò in quanto il 
Trattato ha 
posto l’obbligo di 
interpretazione 
conforme 
del 
diritto europeo primario (le 
disposizione 
del 
Trattato) (17) e 
derivato 
(in 
particolare 
le 
direttive). 
La 
sentenza 
del 
giudice 
può 
assumere 
un 
duplice 
rilievo: 
costituire 
la 
fonte 
della 
responsabilità 
dello Stato membro per 
la 
violazione 
degli 
obblighi 
derivanti 
a 
suo 
carico 
dalla 
appartenenza 
alla 
Unione 
Europea; 
ovvero costituire 
il 
mezzo per assicurare 
la 
piena 
tutela 
del 
diritto riconosciuto al 
singolo dal 
diritto europeo. Il 
quesito al 
quale 
si 
deve 
dare 
risposta 
nel 
caso di 
responsabilità 
dello Stato per l’illecito europeo nel-
l’esercizio del 
potere 
giudiziario è, quindi, se 
la 
norma 
interna 
applicata 
per 
(17) Sentenza 4 febbraio 1988, in causa C-157/86, Murpphy, 
punto 11. 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


la 
decisione 
della 
fattispecie 
in 
giudizio 
consentisse 
o 
meno 
una 
interpretazione 
orientata 
al 
diritto europeo. Nel 
caso di 
risposta 
positiva, la 
lesione 
del 
diritto 
europeo 
deve 
essere 
imputata 
al 
giudice. 
La 
lesione 
può 
essere 
verificata 
unicamente 
attraverso il 
puntuale 
esame 
della 
motivazione 
della 
sentenza 
in 
relazione 
alle 
risultanze 
istruttorie 
di 
causa, 
alla 
luce 
delle 
norme 
o 
dei 
principi 
europei 
applicabili 
nella 
fattispecie 
in giudizio. Il 
solo limite 
che 
si 
impone 
al 
giudice 
nazionale, 
nell'ambito 
di 
questo 
esercizio 
di 
interpretazione 
conforme, 
è 
di 
non 
imporre 
a 
un 
singolo 
un 
obbligo 
previsto 
da 
una 
direttiva 
non 
trasposta 
(art. 288 TFUE) o di 
determinare 
o di 
aggravare, sulla 
base 
della 
direttiva 
e 
in 
assenza 
di 
una 
legge 
emanata 
per la 
sua 
attuazione, la 
responsabilità 
penale 
di 
coloro che ne trasgrediscono le disposizioni (18). 

Quanto all'obbligo di 
disapplicare 
il 
diritto nazionale 
incompatibile 
con 
il 
diritto comunitario, la 
Corte 
nella 
sentenza 
Simmenthal 
(19), basandosi 
sui 
principi 
dell'applicabilità 
diretta 
e 
del 
primato 
del 
diritto 
comunitario, 
ha 
posto 
il 
principio 
che 
«il 
giudice 
nazionale 
incaricato 
di 
applicare, 
nell’ambito 
della 
propria competenza (in quanto organo di 
uno Stato membro), le 
disposizioni 
di 
diritto 
comunitario 
ha 
l’obbligo 
di 
garantire 
la 
piena 
efficacia 
di 
tali 
norme, 
disapplicando 
all’occorrenza, 
di 
propria 
iniziativa, 
qualsiasi 
disposizione 
contrastante 
della legislazione 
nazionale, anche 
posteriore, senza doverne 
chiedere 
o 
attendere 
la 
previa 
rimozione 
in 
via 
legislativa 
o 
mediante 
qualsiasi 
altro procedimento costituzionale» (20). 


Da 
tale 
giurisprudenza 
si 
ricava 
che 
il 
giudice 
nazionale 
deve 
assicurare 
la 
tutela 
immediata 
dei 
diritti 
che 
ai 
singoli 
derivano 
dall’ordinamento 
europeo. 
Questa 
esigenza 
della 
immediatezza 
nella 
tutela 
dei 
diritti 
conferita 
ai 
singoli 
dal 
diritto 
europeo 
risponde 
ad 
un 
duplice 
obiettivo 
di 
effettività: 
effettività 
della 
tutela 
e, 
di 
conseguenza, 
effettività 
della 
norma 
giuridica 
stessa 
(21). 


(18) Sentenza 
26 settembre 
1996, in causa 
C-168/95, Arcaro, punto 42, ove 
si 
fa 
riferimento alla 
sentenza 8 ottobre 1987, in causa C-80/86, Kolpinghuis Njmegen, punti 13 e 14. 
(19) Sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, in causa C-106/77, racc. 1978 00629. 
(20) Punto 24 in connessione 
con il 
punto 16. Elementi 
in tal 
senso si 
potevano già 
vedere 
nella 
sentenza 19 dicembre 1968, in causa C-13/68, Salgoil. 
(21) Sulla 
scia 
della 
sentenza 
Simmenthal, la 
Corte 
ha 
dichiarato nella 
sentenza 
Factortame 
(sentenza 
19 giugno 1999, in causa 
C-213/89), che 
il 
giudice 
nazionale 
deve 
eliminare 
qualsiasi 
ostacolo di 
diritto 
nazionale 
che 
gli 
impedisca 
di 
disporre, 
se 
necessario, 
provvedimenti 
provvisori 
destinati 
a 
tutelare 
diritti 
che 
i 
singoli 
asseriscono derivare 
dal 
diritto europeo. Il 
principio è 
stato riaffermato in una 
fattispecie 
di 
azione 
pregiudiziale 
relativo 
alla 
compatibilità 
con 
il 
diritto 
europeo 
di 
una 
disposizione 
di 
common law 
che 
disponeva 
la 
non sospendibilità 
provvisoria 
di 
un provvedimento giurisdizionale. La 
Corte, ha 
così 
motivato “20. (..) 
considerato che 
è 
incompatibile 
con le 
esigenze 
inerenti 
alla natura 
stessa 
del 
diritto 
comunitario 
qualsiasi 
disposizione 
facente 
parte 
dell'ordinamento 
giuridico 
di 
uno 
Stato membro o qualsiasi 
prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale 
porti 
ad una riduzione 
della concreta efficacia del 
diritto comunitario per 
il 
fatto che 
sia negato al 
giudice, competente 
ad 
applicare 
questo 
diritto, 
il 
potere 
di 
fare, 
all'atto 
stesso 
di 
tale 
applicazione, 
tutto 
quanto 
è 
necessario 
per 
disapplicare 
le 
disposizioni 
legislative 
nazionali 
che 
eventualmente 
ostino, 
anche 
temporaneamente, 
alla piena efficacia delle 
norme 
comunitarie 
(vedasi 
la già citata sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


5.2. 
La 
problematica 
relativa 
ai 
presupposti 
della 
responsabilità 
nell’esercizio 
della 
funzione 
giurisdizionale 
è 
stata 
esaminata 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con la sentenza 30 settembre 2003 in causa C-224/01, Köbler 
(22). 
La 
Corte, 
considerata 
la 
specificità 
della 
funzione 
giurisdizionale 
nonché 
le 
legittime 
esigenze 
della 
certezza 
del 
diritto e 
la 
circostanza 
che 
un organo 
giurisdizionale 
di 
ultimo 
grado 
costituisce, 
per 
definizione, 
l’ultima 
istanza 
dinanzi 
alla 
quale 
i 
soggetti 
possono far valere 
i 
diritti 
che 
il 
diritto europeo 
conferisce 
loro, ha 
chiarito che 
tale 
responsabilità 
può sussistere 
solo nel 
caso 
eccezionale 
che 
questi 
abbia 
violato in modo manifesto il 
diritto europeo vigente. 
Al 
fine 
di 
determinare 
se 
questa 
condizione 
sia 
soddisfatta, il 
giudice 
nazionale 
investito di 
una 
domanda 
di 
risarcimento danni 
deve 
tener conto di 
tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato. 


Fra 
questi, 
in 
particolare, 
il 
grado 
di 
chiarezza 
e 
di 
precisione 
della 
norma 
violata, 
il 
carattere 
intenzionale 
della 
violazione, 
la 
scusabilità 
o 
inescusabilità 
dell’errore 
di 
diritto, 
la 
posizione 
adottata 
eventualmente 
da 
un’istituzione 
comunitaria, 
nonché 
la 
mancata 
osservanza, 
da 
parte 
dell’organo 
giurisdizionale 
di 
cui 
trattasi, 
del 
suo 
obbligo 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
ai 
sensi 
dell’art. 
234, 
terzo comma, CE 
(ora, art. 267, terzo comma, TFUE) (cfr. sentenza 
Köbler, 
cit., punti 54-55). 


6. 
La 
violazione 
dell’obbligo 
dello 
Stato 
membro 
di 
“adottare 
ogni 
misura 
di 
carattere 
generale 
o 
particolare 
atta 
ad 
assicurare 
l’esecuzione 
degli 
obblighi 
derivanti 
dai 
trattati 
o conseguenti 
agli 
atti 
delle 
istituzioni 
dell’Unione” 
(art. 
4, co. 3 TUE) può determinare 
la 
lesione 
di 
diritti 
soggettivi 
attribuiti 
dal-
l’ordinamento europeo ai cittadini (23). 
punti 
22 e 
23 della motivazione). 21. Va aggiunto che 
la piena efficacia del 
diritto comunitario sarebbe 
del 
pari 
ridotta se 
una norma di 
diritto nazionale 
potesse 
impedire 
al 
giudice 
chiamato a dirimere 
una 
controversia disciplinata dal 
diritto comunitario di 
concedere 
provvedimenti 
provvisori 
allo scopo di 
garantire 
la 
piena 
efficacia 
della 
pronuncia 
giurisdizionale 
sull'esistenza 
dei 
diritti 
invocati 
in 
forza 
del 
diritto comunitario. Ne 
consegue 
che 
in una situazione 
del 
genere 
il 
giudice 
è 
tenuto a disapplicare 
la norma di 
diritto nazionale 
che 
sola osti 
alla concessione 
di 
provvedimenti 
provvisori. 22. Questa interpretazione 
trova conferma nel 
sistema istituito dall'art. 177 del 
Trattato CEE, il 
cui 
effetto utile 
sarebbe 
ridotto 
se 
il 
giudice 
nazionale 
che 
sospende 
il 
procedimento 
in 
attesa 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
sulla sua questione 
pregiudiziale 
non potesse 
concedere 
provvedimenti 
provvisori 
fino al 
momento in 
cui 
si 
pronuncia in esito alla soluzione 
fornita dalla Corte. 23. La questione 
pregiudiziale 
va pertanto 
risolta dichiarando che 
il 
diritto comunitario dev'essere 
interpretato nel 
senso che 
il 
giudice 
nazionale 
chiamato a dirimere 
una controversia vertente 
sul 
diritto comunitario, qualora ritenga che 
una norma 
di 
diritto 
nazionale 
sia 
l'unico 
ostacolo 
che 
gli 
impedisce 
di 
pronunciare 
provvedimenti 
provvisori, 
deve 
disapplicare detta norma”. 


(22) racc. 2003 I-10239. 


(23) “33 [..] 
sarebbe 
messa a repentaglio la piena efficacia delle 
norme 
comunitarie 
e 
sarebbe 
infirmata la tutela dei 
diritti 
da esse 
riconosciuti 
se 
i 
singoli 
non avessero la possibilità di 
ottenere 
un 
risarcimento 
ove 
i 
loro 
diritti 
siano 
lesi 
da 
una 
violazione 
del 
diritto 
comunitario 
imputabile 
ad 
uno 
Stato membro. 34. La possibilità di 
risarcimento a carico dello stato membro è 
particolarmente 
indispensabile 
qualora, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, 
la 
piena 
efficacia 
delle 
norme 
comunitarie 
sia 
subordinata 

rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Il 
diritto al 
risarcimento è 
riconosciuto dal 
diritto europeo se 
siano soddisfatte 
tre 
condizioni, vale 
a 
dire 
che 
la 
norma 
giuridica 
europea 
violata 
sia 
preordinata 
a 
conferire 
diritti 
ai 
singoli, che 
si 
tratti 
di 
violazione 
sufficientemente 
caratterizzata 
(24) 
e, 
infine, 
che 
esista 
un 
nesso 
causale 
diretto 
tra 
la 
violazione 
dell’obbligo incombente 
allo Stato membro e 
il 
danno subito dai 
soggetti lesi. 


L’obbligo dello Stato membro di 
risarcire 
i 
danni 
per la 
lesione 
dei 
diritti 
riconosciuti dall’ordinamento europeo ha natura extra-contrattuale (25). 

E 
ciò, in base 
alla 
considerazione 
che, stante 
il 
carattere 
autonomo e 
distinto 
tra 
i 
due 
ordinamenti 
(europeo 
e 
interno), 
il 
comportamento 
dello 
Stato, 
e 
in 
conseguenza 
dei 
suoi 
organi 
interni 
(legislativo, 
amministrativo, 
giudiziario), 
è 
suscettibile 
di 
essere 
qualificato 
come 
antigiuridico 
nell’ambito 
dello 
ordinamento europeo, ma 
non alla 
stregua 
dell’ordinamento interno, secondo 
principi fondamentali riconosciuti dalla stessa Costituzione. 

Sulla 
base 
del 
principio della 
“non applicabilità” 
della 
normativa 
nazionale 
(sia 
precedente 
che 
successiva) contrastante 
con quella 
europea, che 
non 
implica 
fenomeni 
né 
di 
caducazione, 
né 
di 
abrogazione 
della 
norma 
statale 
confliggente 
con quella 
comunitaria, il 
trattamento giuridico delle 
fattispecie 
di 
responsabilità 
dello Stato per violazione 
delle 
norme 
di 
diritto primario o 
secondario europeo è 
attratto (ratione 
materiae) nell’ambito di 
applicazione 
del 
diritto europeo, in modo che 
al 
giudice 
è 
demandato il 
controllo dell’adeguamento 
dell’ordinamento 
interno 
a 
quello 
europeo; 
adeguamento 
che 
diviene 
così 
automatico, dovendo la 
normativa 
interna 
cedere 
il 
passo a 
quella 
europea ove risulti essere con questa contrastante. 


alla 
condizione 
di 
un’azione 
da 
parte 
dello 
Stato 
e, 
di 
conseguenza, 
i 
singoli, 
in 
mancanza 
di 
tale 
azione, 
non possano fare 
valere 
dinanzi 
ai 
giudici 
nazionali 
i 
diritti 
loro riconosciuti 
dal 
diritto comunitario. 


35. Ne 
consegue 
che 
il 
principio della responsabilità dello Stato per 
danni 
causati 
da violazioni 
del 
diritto 
comunitario 
ad 
esso 
imputabili 
e 
inerente 
allo 
stesso 
trattato” 
(Sentenza 
19 
novembre 
1991, 
Andrea 
Francovich e a. c. Italia, cause riunite C-6/90 e C-9/90, racc. 1991 I-05357.) 
(24) 
Il 
criterio 
determinante 
per 
stabilire 
se 
si 
sia 
in 
presenza 
di 
una 
violazione 
sufficientemente 
caratterizzata 
di 
una 
norma 
superiore 
intesa 
a 
tutelare 
i 
singoli 
è 
il 
margine 
di 
discrezionalità 
di 
cui 
dispone 
lo 
Stato 
membro 
nella 
trasposizione 
dell’atto 
normativo 
europeo 
o 
di 
applicazione 
dell’atto 
normativo 
europeo 
con 
efficacia 
diretta. 
Tra 
le 
norme 
superiori 
intese 
a 
tutelare 
i 
singoli 
la 
giurisprudenza 
ha 
annoverato 
il 
principio 
di 
non 
discriminazione 
(Tribunale, 
6 
marzo 
2003, 
Dole 
Fresh 
Fruit 
International, 
in 
causa 
T-56/00), 
quello 
di 
proporzionalità 
(Tribunale, 
6 
dicembre 
2001, 
Emesa 
Sugar, 
in 
causa 
T-43/98), 
quello 
di 
parità 
di 
trattamento 
(Tribunale, 
27 
giugno 
1991, 
Stahlwerler, 
in 
causa 
T-120/89), 
nonché 
il 
dovere 
di 
diligenza 
(Tribunale 
24 
ottobre 
2000, 
Fresh 
Marine 
Company, 
in 
causa 
T-178/98) 
e 
il 
principio 
del 
legittimo 
affidamento 
(Tribunale 
6 
dicembre 
2001, 
Emesa 
Sugar, 
in 
causa 
T-43/98). 
(25) Sentenza 
5 marzo 1996, Brasserie 
du pêcheu S.A., in cause 
riunite 
C-46/93 e 
C-48/93, racc. 
1996 I-01029, “ 
[…] 
i 
presupposti 
del 
sorgere 
della responsabilità dello Stato per 
danni 
cagionati 
ai 
singoli 
in 
conseguenza 
della 
violazione 
del 
diritto 
comunitario 
non 
debbono 
essere 
diversi, 
in 
mancanza 
di 
specifica giustificazione, da quelli 
che 
disciplinano la responsabilità della Comunità in circostanze 
analoghe. Infatti 
la tutela dei 
diritti 
attribuiti 
ai 
singoli 
dal 
diritto comunitario non può variare 
in funzione 
della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno”. 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


7. 
Di 
recente, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
optato per ricondurre 
tale 
illecito 
nell’ambito 
della 
obbligazione 
ex 
lege 
dello 
Stato 
inadempiente, 
di 
natura 
indennitaria 
per attività 
non antigiuridica 
(SS.UU 
17 aprile 
2009 n. 9147). E 
ciò, 
sul 
presupposto 
che 
nell’ambito 
del 
rimedio 
risarcitorio 
occorre 
distinguere 
tra 
la 
disciplina 
sostanziale 
stabilita 
dal 
diritto 
dell’Unione 
e 
quella 
procedurale 
rimessa ai diritti nazionali. 
Le 
condizioni 
fissate 
dalla 
normativa 
nazionale 
in 
materia 
di 
risarcimento 
dei 
danni 
per la 
violazione 
del 
diritto dell’Unione 
non possono essere 
meno 
favorevoli 
di 
quelle 
che 
regolano 
gli 
analoghi 
rimedi 
disponibili 
in 
ordine 
alle 
situazioni 
di 
diritto 
interno 
(principio 
di 
equivalenza), 
né 
comunque 
tali 
da 
rendere 
impossibile 
o eccessivamente 
difficile 
ottenere 
il 
risarcimento (principio 
di effettività). 


Le 
SS.UU. 
nella 
sentenza 
n. 
9147/2009 
motivano 
le 
proprie 
conclusioni 
come 
segue: 
“4.5. 
… 
Esiste 
però 
un 
altro 
orientamento 
giurisprudenziale 
che, 
all’esito 
dell’analisi 
del 
fenomeno 
giuridico, 
esclude 
che 
il 
danno 
derivante 
dalla 
mancata 
attuazione 
nei 
termini 
prescritti 
di 
una 
direttiva 
Cee, 
attuazione 
dalla 
quale 
sarebbe 
derivata 
l’attribuzione 
ai 
singoli 
di 
diritti 
dal 
contenuto 
ben 
individuato 
sulla 
base 
della 
direttiva 
stessa, 
secondo 
il 
principio 
precisato 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
Cee 
19 
novembre 
1991, 
cause 
6-90 
e 
990 
e 
ribadito 
nella 
successiva 
sentenza 
14 
luglio 
1994, 
causa 
91-92, 
costituisca 
la 
conseguenza 
di 
un 
fatto 
imputabile 
come 
illecito 
civile 
(art. 
2043 
cod. 
civ. 
e 
segg.) 
allo 
Stato 
inadempiente 
(cf., 
in 
particolare, 
Cass. 
5 
ottobre 
1996, 
n. 
8739; 
11 
ottobre 
1995, 
n. 
10617; 
19 
luglio 
1995, 
n. 
7832). 
Ciò 
in 
base 
alla 
considerazione 
che, 
stante 
il 
carattere 
autonomo 
e 
distinto 
tra 
i 
due 
ordinamenti, 
comunitario 
e 
interno, 
il 
comportamento 
del 
legislatore 
è 
suscettibile 
di 
essere 
qualificato 
come 
antigiuridico 
nell’ambito 
dell’ordinamento 
comunitario, 
ma 
non 
alla 
stregua 
dell’ordinamento 
interno, 
secondo 
principi 
fondamentali 
che 
risultano 
evidenti 
nella 
stessa 
Costituzione. 
4.6. 
Sulla 
base 
del 
principio 
della 
“non 
applicabilità” 
della 
normativa 
nazionale 
(sia 
essa 
la 
precedente 
che 
successiva) 
contrastante 
con 
quella 
comunitaria 
-che 
non 
implica 
fenomeni 
né 
di 
caducazione, 
né 
di 
abrogazione 
della 
norma 
statale 
configgente 
con 
quella 
comunitaria, 
il 
trattamento 
giuridico 
del 
caso 
di 
specie 
è 
attratto 
(ratione 
materiae) 
nell’ambito 
di 
applicazione 
del 
diritto 
comunitario, 
in 
modo 
che 
al 
giudice 
è 
demandato 
il 
controllo 
dell’adeguamento 
dell’ordinamento 
interno 
a 
quello 
comunitario, 
adeguamento 
che 
diviene 
così 
automatico, 
dovendo 
la 
normativa 
interna 
cedere 
il 
passo 
a 
quella 
comunitaria 
ove 
risulti 
essere 
con 
quest’ultima 
contrastante. 
Ne 
segue 
che, 
per 
risultare 
adeguato 
al 
diritto 
comunitario, 
il 
diritto 
interno 
deve 
assicurare 
una 
congrua 
riparazione 
del 
pregiudizio 
subito 
dal 
singolo 
per 
il 
fatto 
di 
non 
avere 
acquistato 
la 
titolarità 
di 
un 
diritto 
in 
conseguenza 
della 
violazione 
dell’ordinamento 
comunitario. 
4.7. 
…. 
4.8. 
Sulla 
base 
del 
descritto 
complesso 
di 
principi 
e 
regole, 
va 
data 
continuità 
all’indirizzo 
della 
giurisprudenza 
da 
ultimo 
richiamata, 
secondo 
cui 
i 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


profili 
sostanziali 
della 
tutela 
apprestata 
dal 
diritto 
comunitario 
inducono 
a 
reperire 
gli 
strumenti 
utilizzabili 
nel 
diritto 
interno 
fuori 
dello 
schema 
della 
responsabilità 
civile 
extracontrattuale 
e 
in 
quello 
dell’obbligazione 
ex 
lege 
dello 
Stato 
inadempiente, 
di 
natura 
indennitaria 
per 
attività 
non 
antigiuridica, 
che 
il 
giudice 
deve 
determinare 
in 
base 
ai 
presupposti 
oggettivi 
sopra 
indicati, 
in 
modo 
che 
sia 
idonea 
a 
porre 
riparo 
effettivo 
ed 
adeguato 
al 
pregiudizio 
subito 
dal 
singolo. 
La 
qualificazione 
in 
termini 
di 
obbligazione 
indennitaria, 
del 
resto, 
consente 
di 
assoggettare 
allo 
stesso 
regime 
giuridico 
sia 
il 
caso, 
come 
quello 
in 
esame, 
di 
attuazione 
tardiva 
di 
una 
direttiva 
senza 
alcuna 
previsione 
di 
riparazione 
del 
pregiudizio 
per 
l’inadempimento, 
sia 
quello 
dell’intervento 
specifico, 
preordinato 
alla 
disciplina 
risarcitoria 
(come 
è 
avvenuto, 
ad 
esempio, 
con 
il 
D.lgs 
n. 
80 
del 
1992, 
art. 
7, 
comma 
2, 
in 
tema 
tutela 
dei 
lavoratori 
subordinati 
in 
caso 
di 
insolvenza 
del 
datore 
di 
lavoro, 
su 
cui 
la 
citata 
Cass. 
n. 
8110 
del 
2002). 
E 
ciò, 
in 
linea 
con 
il 
principio 
secondo 
cui 
la 
qualificazione 
della 
situazione 
soggettiva 
dei 
privati 
deve 
farsi 
con 
esclusivo 
riferimento 
ai 
criteri 
dell’ordinamento 
giuridico 
interno 
(cfr. 
Cass. 
Sez. 
un., 
27 
luglio 
1993, 


n. 
8385), 
imponendo 
l’ordinamento 
comunitario 
soltanto 
il 
raggiungimento 
di 
un 
determinato 
risultato. 
4.9. 
In 
conclusione, 
per 
realizzare 
il 
risultato 
imposto 
dall’ordinamento 
comunitario 
con 
i 
mezzi 
offerti 
dall’ordinamento 
interno, 
si 
deve 
riconoscere 
al 
danneggiato 
un 
credito 
alla 
riparazione 
del 
pregiudizio 
subito 
per 
effetto 
del 
c.d. 
fatto 
illecito 
del 
legislatore 
di 
natura 
indennitaria, 
rivolto, 
in 
presenza 
del 
requisito 
di 
gravità 
della 
violazione 
ma 
senza 
che 
operino 
i 
criteri 
di 
responsabilità 
per 
dolo 
o 
colpa 
grave, 
a 
compensare 
l’avente 
diritto 
della 
perdita 
subita 
in 
conseguenza 
del 
ritardo 
oggettivamente 
apprezzabile 
e 
avente 
perciò 
natura 
di 
credito 
di 
valore, 
rappresentando 
il 
danno 
soltanto 
l’espressione 
monetaria 
dell’utilità 
sottratta 
al 
patrimonio”. 
I 
giudici 
della 
Suprema 
Corte 
hanno 
successivamente 
chiarito 
che 
le 
SS.UU. non avevano inteso escludere 
l’antigiuridicità 
della 
violazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
sul 
piano 
del 
diritto 
interno 
(violazione 
della 
legge 
di 
ratifica 
del 
Trattato), bensì 
evidenziare 
la 
mera 
assenza 
del 
requisito della 
fattispecie 
aquiliana 
(Cass. 
civ., 
18 
aprile 
2011 
n. 
10813; 
17 
maggio 
2011 
nn. 
1081410816; 
9 febbraio 2012 n. 1917). 


In conclusione, per realizzare 
il 
risultato imposto dall'ordinamento europeo 
con i 
mezzi 
offerti 
dall'ordinamento interno, si 
deve 
riconoscere 
al 
danneggiato 
un credito alla 
riparazione 
del 
pregiudizio subito per effetto del 
c.d 
fatto illecito dello Stato (indipendentemente 
dalla 
imputabilità 
interna) di 
natura 
indennitaria, rivolto, in presenza 
del 
requisito di 
gravità 
della 
violazione, 
senza 
che 
operino 
i 
criteri 
di 
imputabilità 
per 
dolo 
o 
colpa, 
a 
compensare 
l’avente 
diritto della 
perdita 
subita 
in conseguenza 
del 
ritardo oggettivamente 
apprezzabile 
e 
avente 
perciò natura 
di 
credito di 
valore, rappresentando il 
danaro 
soltanto l'espressione monetaria dell'utilità sottratta al patrimonio. 

8. 
Conformemente 
ai 
principi 
generali 
comuni 
alla 
maggior 
parte 
dei 
pro

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


venti 
degli 
Stati 
membri, la 
giurisprudenza 
europea 
ha 
precisato che 
sono risarcibili 
sia 
il 
danno patrimoniale 
sia 
il 
danno non patrimoniale, quest'ultimo 
quantificabile anche in equità. 


Il 
danno 
risarcibile 
comprende 
di 
regola 
sia 
il 
danno 
emergente 
che 
il 
lucro cessante. 


Il 
giudice 
europeo, 
e 
quindi 
anche 
il 
giudice 
nazionale, 
adito 
dal 
soggetto 
leso dall’inadempimento dello Stato membro, è 
competente 
a 
imporre 
qualsiasi 
forma 
di 
risarcimento 
conforme 
ai 
principi 
generali 
comuni 
agli 
Stati 
membri 
in materia 
di 
responsabilità 
extracontrattuale, incluso, se 
appare 
conforme 
a 
tali 
principi, 
il 
risarcimento 
in 
natura, 
eventualmente 
anche 
sotto 
forma 
di ingiunzione di fare o di non fare. 


Si 
deve, infine, tenere 
conto della 
svalutazione 
monetaria 
successiva 
all'evento 
dannoso 
che 
permette 
al 
danneggiato 
di 
vedersi 
rimborsati 
gli 
interessi 
compensativi. 

Il 
giudice 
nazionale 
adito liquida 
tali 
interessi 
al 
tasso nazionale. Quanto 
alla 
decorrenza, gli 
interessi 
compensativi 
sono comunque 
da 
tenere 
distinti 
dagli 
interessi 
moratori, 
i 
quali 
decorrono 
dalla 
sentenza 
che 
accerta 
la 
responsabilità 
dello Stato membro. 

In 
conclusione, 
nella 
liquidazione 
del 
danno 
imputabile 
allo 
Stato 
membro 
si 
deve 
tener 
conto 
di 
tutti 
gli 
elementi 
valutabili 
in 
relazione 
al 
caso 
concreto. 


Il 
risarcimento del 
danno non può essere 
subordinato alla 
sussistenza 
del 
dolo o della colpa e deve essere adeguato. 


Spetta 
all’ordinamento interno dello Stato membro stabilire 
i 
criteri 
di 
liquidazione 
dei 
danni, che 
non possono essere 
meno favorevoli 
di 
quelli 
applicabili 
ad analoghi 
reclami 
di 
natura 
interna, o tali 
da 
rendere 
praticamente 
impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. 

Sulla 
base 
del 
descritto 
complesso 
di 
principi 
e 
regole, 
i 
profili 
sostanziali 
della 
tutela 
apprestata 
dal 
diritto 
europeo 
inducono 
a 
reperire 
gli 
strumenti 
utilizzabili 
nel 
diritto 
interno 
al 
di 
fuori 
dallo 
schema 
della 
responsabilità 
civile 
extra-contrattuale 
e 
nell’ambito 
di 
quello 
dell’obbligazione 
ex 
lege 
dello 
Stato 
inadempiente, 
di 
natura 
indennitaria 
per 
attività 
non 
antigiuridica, 
che 
il 
giudice 
deve 
determinare 
in 
base 
ai 
presupposti 
oggettivi 
sopra 
indicati, 
in 
modo 
che 
sia 
idonea 
a 
porre 
riparo 
effettivo 
ed 
adeguato 
al 
pregiudizio 
subito 
dal 
singolo. 


La 
qualificazione 
in termini 
di 
obbligazione 
indennitaria, del 
resto, consente 
di 
assoggettare 
allo stesso regime 
giuridico sia 
il 
caso di 
attuazione 
tardiva 
di 
una 
direttiva 
senza 
alcuna 
previsione 
di 
riparazione 
del 
pregiudizio 
per 
l'inadempimento, sia 
quello dell'intervento legislativo specifico, preordinato 
alla disciplina dell’obbligazione risarcitoria. 

E 
ciò, in linea 
con il 
principio secondo cui 
la 
qualificazione 
della 
situazione 
soggettiva 
dei 
privati 
deve 
farsi 
con esclusivo riferimento ai 
criteri 
del-
l’ordinamento 
giuridico 
di 
riferimento 
(Cass., 
SS.UU., 
27 
luglio 
1993, 
n. 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


8385), 
imponendo 
l'ordinamento 
europeo 
soltanto 
il 
raggiungimento 
di 
un 
determinato 
risultato. 


In conclusione, per realizzare 
il 
risultato imposto dall’ordinamento europeo 
con i 
mezzi 
offerti 
dall'ordinamento interno, si 
deve 
riconoscere 
al 
danneggiato 
un credito alla 
riparazione 
del 
pregiudizio subito per effetto del 
cd. 
“fatto 
illecito 
dello 
Stato” 
(indipendentemente 
dalla 
imputabilità 
interna) 
di 
natura 
indennitaria, 
rivolto, 
in 
presenza 
del 
requisito 
di 
gravità 
della 
violazione, 
ma 
senza 
che 
operino i 
criteri 
di 
imputabilità 
per dolo o colpa, a 
compensare 
l’avente 
diritto 
della 
perdita 
subita 
in 
conseguenza 
del 
ritardo 
oggettivamente 
apprezzabile 
e 
avente 
perciò natura 
di 
credito di 
valore, rappresentando 
il 
danaro soltanto l’espressione 
monetaria 
dell’utilità 
sottratta 
al 
patrimonio. 


9. 
Il 
problema 
che 
si 
pone 
è, 
quindi, 
la 
legittimazione 
dei 
singoli 
Stati 
membri 
alla 
qualificazione 
fiscale 
di 
tale 
risarcimento 
che 
presenta 
un carattere 
di estraneità rispetto all’ordinamento nazionale. 
La 
qualificazione 
tributaria 
dell’indennizzo da 
corrispondere 
al 
soggetto 
leso secondo il 
diritto italiano discende 
dalla 
distinzione 
tra 
la 
nozione 
di 
“patrimonio” 
e 
di 
“reddito”. E 
ciò, in quanto il 
“patrimonio” 
designa 
l’insieme 
delle 
attività 
e 
delle 
passività 
possedute 
da 
un 
determinato 
soggetto 
a 
una 
certa 
data; 
il 
“reddito” 
misura 
l’aumento 
di 
ricchezza 
del 
soggetto 
in 
un 
determinato 
lasso di 
tempo. In altri 
termini, il 
“patrimonio” 
si 
presenta 
come 
un concetto 
statico, mentre 
il 
“reddito” 
ha 
natura 
dinamica, essendo espressione 
del 
confronto 
fra 
le 
situazione 
economica 
del 
soggetto 
esistenti 
in 
due 
diversi 
momenti 
temporali, che poi delimitano il c.d. periodo di imposta. 

L’art. 
1 
del 
TUIr 
-al 
pari 
dell’art. 
72 
TUIr 
-non 
fornisce 
una 
definizione 
di 
“reddito” 
in 
base 
a 
criteri 
economici, 
ma 
in 
base 
a 
categorie 
normativamente 
delimitate. I redditi 
appartenenti 
a 
ciascuna 
categoria 
provengano tendenzialmente 
tutti 
da 
una 
fonte 
produttiva, 
che 
può 
essere 
costituita 
da 
un’attività 
oppure 
da 
un 
capitale. 
In 
sostanza, 
è 
possibile 
ritenere 
che 
il 
vigente 
sistema 
impositivo adotti 
fondamentalmente 
il 
criterio di 
tassazione 
del 
reddito inteso 
come 
“prodotto”, 
vale 
a 
dire 
come 
nuova 
ricchezza 
derivante 
da 
un’attività 
produttiva esercitata dal soggetto passivo (26). 

Le 
indennità 
risarcitorie 
assumono 
rilevanza 
tributaria 
solamente 
nei 
casi 
in 
cui 
il 
risarcimento 
abbia 
una 
funzione 
sostitutiva 
di 
un 
reddito 
astrattamente 
sussumibile 
nelle 
categorie 
tipizzate 
nel 
comma 
1 dell’art. 6 TUIr (o art. 72 


(26) Un parte 
della 
dottrina, a 
fronte 
alle 
incertezze 
interpretative 
della 
scienza 
finanziaria 
connesse 
all’individuazione 
di 
un 
concetto 
unitario 
di 
reddito 
ai 
fini 
tributari, 
ha 
sottolineato 
la 
scarsa 
utilità 
di 
ogni 
tentativo 
volto 
a 
ricondurre 
tale 
nozione 
ad 
una 
delle 
categorie 
elaborate 
dalla 
scienza 
economica 
(“prodotto”, “entrata”, “spesa”), preferendo intendere 
reddito né 
più né 
meno ciò che 
il 
legislatore 
ha 
stabilito essere tale attraverso disposizioni 
ad hoc 
(c.d. tesi “nominalistica”). 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


TUIr). 
La 
disposizione 
si 
fonda 
su 
una 
concezione 
di 
reddito 
quale 
incremento 
del 
patrimonio 
e, 
secondo 
la 
maggior 
parte 
della 
dottrina, 
consente 
di 
escludere 
dalla 
tassazione 
quei 
proventi 
che 
costituiscono una 
mera 
reintegrazione 
del 
patrimonio già 
posseduto, che 
non comporta 
alcun incremento di 
ricchezza. 
In tal 
senso, quindi, il 
legislatore 
tributario ha 
fatto propria 
la 
distinzione 
civilistica 
tra 
danno 
emergente 
(ovvero 
volto 
ad 
una 
reintegrazione 
patrimoniale) 
e 
lucro 
cessante 
(diretto 
invece 
a 
reintegrare 
una 
perdita 
di 
redditi), 
attribuendo 
rilevanza reddituale ai soli risarcimenti corrisposti a fronte di quest’ultimo. 


La 
indennità 
sostitutiva 
della 
sottrazione 
di 
un valore 
economico (sottrazione 
di 
un bene 
immobile, mobile, di 
un diritto a 
valenza 
economica, del 
pagamento 
di 
una 
imposta 
illegittima) costituisce 
dal 
punto di 
vista 
fiscale 
una 
“reintegrazione” patrimoniale e non un “incremento patrimoniale”. 


La 
norma 
che 
qualificasse 
la 
reintegrazione 
economica 
del 
patrimonio 
come 
“reddito” 
violerebbe 
l’art. 1 del 
Protocollo 1 CEDU, in quanto è 
fermo 
indirizzo 
giurisprudenziale 
che 
la 
nozione 
di 
“bene” 
(in 
inglese 
possession) 
ha 
una 
portata 
autonoma 
che 
sicuramente 
non si 
limita 
alla 
proprietà 
di 
beni 
materiali: 
taluni 
altri 
diritti 
e 
interessi 
che 
costituiscono attivi 
possono anche 
essere 
considerati 
“diritti 
di 
proprietà” 
e 
dunque 
“beni” 
ai 
fini 
di 
tale 
disposizione 
(sentenza 20 novembre 1995, Pressos Naviera S.A. e altri). 


In definitiva, il 
reddito che 
costituisce 
il 
presupposto dell’IrPEF 
e 
del-
l’IrES 
è 
quel 
reddito che 
il 
legislatore 
tributario considera 
tale, ispirandosi 
al 
principio di 
capacità 
contributiva 
sancito dall’art. 53, comma 
1, della 
Costituzione 
nell’individuazione 
della 
base 
economica 
del 
dovere 
del 
concorso alle 
pubbliche spese. 

Da 
tale 
precisazione 
deriva 
anche 
la 
necessaria 
limitazione 
della 
portata 
del 
presupposto dell’IrPEF 
o dell’IrES, che 
dovrà 
ritenersi 
ancorata 
alla 
definizione 
legislativa, pur ispirata 
alla 
nozione 
economica, ma 
non potrà 
utilizzare 
la 
nozione 
economica 
di 
reddito 
ai 
fini 
dell’individuazione 
dell’area 
della 
rilevanza 
impositiva. Per cui, come 
potranno individuarsi 
fattispecie 
qualificate 
dal 
legislatore 
come 
reddito 
pur 
in 
mancanza 
di 
una 
base 
economica, 
così 
dovrà 
prendersi 
atto 
che, 
in 
altre 
circostanze, 
una 
situazione 
espressiva, 
dal 
punto di 
vista 
economico, di 
un reddito, non è 
rilevante 
ai 
fini 
dell’IrPEF 
o 
IrES. 
La 
somma 
liquidata 
al 
soggetto 
leso 
nel 
proprio 
diritto 
riconosciuto 
dall’ordinamento 
europeo 
in 
conseguenza 
dello 
inadempimento 
dello 
Stato 
membro 
deve 
essere 
qualificato 
come 
“reintegrazione” 
della 
perdita 
di 
un 
“bene” 
e 
deve 
essere 
ritenuto 
come 
credfito 
di 
valore 
fiscalmente 
neutro, 
e 
tali 
debbono 
essere 
ritenuti 
anche 
gli 
interessi 
da 
corrispondere 
per 
la 
ritardata 
reintegrazione. 


Il 
sistema 
impositivo italiano non dà 
rilievo, in via 
generale, a 
tali 
fenomeni 
monetari, non consentendo di 
sottrarre 
dall’imposta, in via 
permanente, 
gli 
incrementi 
di 
reddito puramente 
nominali. A 
tal 
fine 
si 
interviene, invece, 
con appositi 
provvedimenti 
normativi 
per dare 
rilievo alle 
conseguenze 
del



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


l’inflazione 
i 
quali, 
solitamente, 
consistono 
in 
leggi 
di 
rivalutazione 
monetaria 
dei 
beni 
aziendali, che 
subordinano la 
rivalutazione 
dei 
beni 
d’impresa 
a 
rigorosi 
limiti 
temporali, 
tipologici 
e 
quantitativi. 
Non 
può, 
dunque, 
essere 
soggetta 
a 
tassazione 
la 
“rivalutazione” 
monetaria 
della 
indennità 
risarcitoria 
di 
illecito 
europeo, 
non 
costituendo 
“ontologicamente” 
una 
sopravvenienza 
attiva 
né una plusvalenza. 


Gli 
interessi 
liquidati 
sull’indennizzo in forma 
monetaria 
dovrebbero essere 
considerati 
come 
“reddito” 
secondo 
la 
lettera 
della 
seconda 
parte 
dell’art. 
6, comma 
2 del 
TUIr, secondo cui 
«gli 
interessi 
moratori 
e 
gli 
interessi 
per 
dilazione 
di 
pagamento costituiscono redditi 
della stessa categoria di 
quelli 
da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati». 


Senonchè, 
il 
dictum 
davvero 
uno 
dei 
più 
infelici, 
interpretato 
alla 
luce 
del 
disposto dell’art. 53 della 
Costituzione, afferente 
all’imponibilità 
proporzionale 
alla 
capacità 
reddituale, evidenzierebbe 
-nell’interpretazione 
più affidabile, 
dottrinale, giurisprudenziale 
e 
dell’Agenzia 
delle 
Entrate 
che 
ad essa 
si 
è 
adeguata 
-come 
debbano essere 
considerati 
“redditi 
imponibili” 
i 
soli 
redditi 
risarcitori 
di 
“lucro cessante”, in quanto afferenti 
a 
“redditi 
perduti” 
nella 
maturazione 
o 
nella 
corresponsione 
futura; 
pertanto 
sarebbero 
da 
considerare 
estranei 
alla 
nozione 
fiscale 
di 
reddito i 
risarcimenti 
che 
reintegrano, tramite 
l’equivalente 
monetario, una 
lesione 
patrimoniale 
o non patrimoniale, strutturante 
un 
danno 
attuale 
(cd. 
danno 
emergente) 
e 
non 
il 
mancato 
guadagno 
futuro. 
In forza 
di 
tale 
disposizione 
gli 
interessi 
moratori 
e 
quelli 
per dilazione 
di 
pagamento, 
dovendo 
anch’essi 
coprire 
una 
lesione 
patrimoniale 
ed 
essendo 
qualificati 
come 
accessori 
della 
fattispecie 
reddituale 
individuata 
dalla 
fonte 
del credito non potrebbero essere soggetti a tassazione. 


10. 
Sulla 
questione 
della 
rilevanza 
fiscale 
della 
indennità 
risarcitoria 
di 
illecito comunitario, non risultano nè 
precedenti 
giurisprudenziali 
né 
risoluzioni 
ministeriali. La 
ricostruzione 
giuridica 
della 
fattispecie 
conduce 
a 
qualificare 
il 
danno subito dai 
contribuenti 
come 
“danno emergente” 
che, come 
noto, 
consiste 
nella 
perdita 
economica 
che 
il 
patrimonio 
del 
creditore 
ha 
subito 
per colpa 
della 
mancata, inesatta 
o ritardata 
prestazione 
del 
debitore 
(nel 
caso 
il 
rimborso dell’indebito tributario). Deve 
trattarsi 
di 
una 
perdita 
di 
utilità 
già 
presenti 
nel 
patrimonio del 
danneggiato e 
fattispecie 
tipiche 
in tal 
senso possono 
rinvenirsi 
nel 
disvalore 
economico provocato, tra 
l’altro, nella 
temporanea 
impossibilità 
di 
godere 
del 
bene. 
L’insegnamento 
giurisprudenziale 
è 
fermo nel 
ritenere 
che: 
“In tema di 
liquidazione 
del 
danno, la locuzione 
“perdita 
subita”, 
con 
la 
quale 
l’art. 
1223 
c. 
civ. 
individua 
il 
danno 
emergente, 
non 
può essere 
considerata indicativa dei 
soli 
esborsi 
monetari 
o di 
diminuzioni 
patrimoniali 
già materialmente 
intervenuti, ma include 
anche 
l’obbligazione 
di 
effettuare 
l’esborso, in quanto il 
vincolum 
iuris, nel 
quale 
l’obbligazione 
si 
sostanzia, costituisce 
già una posta passiva del 
patrimonio del 
danneggiato, 

CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


consistente 
nell’insieme 
dei 
rapporti 
giuridici, 
con 
diretta 
rilevanza 
economica, 
di cui una persona è titolare” 
(Cass. n. 4718/2016). 

A 
titolo 
di 
ulteriore 
argomentazione, 
sotto 
il 
profilo 
analogico, 
si 
possono 
richiamare 
la 
risoluzione 
n. 153/E 
del 
18 dicembre 
2017 (relativa 
alla 
qualificazione 
fiscale 
delle 
somme 
corrisposte 
a 
seguito di 
stipula 
di 
accordi 
transattivi 
da 
parte 
di 
una 
banca 
in liquidazione 
con i 
propri 
soci 
investitori), n. 
106/E 
del 
22 
aprile 
2009 
(relativa 
alla 
qualificazione 
fiscale 
delle 
somme 
corrisposte 
ad un dipendente 
a 
titolo transattivo per l’anticipata 
risoluzione 
dei 
rapporti 
di 
collaborazione 
intrattenuti 
a 
titolo di 
risarcimento danni 
patrimoniali 
connessi 
alla 
perdita 
di 
“immagine” 
e 
di 
“opportunità”) e 
n. 155/E 
del 
22 
maggio 
2002 
(relativa 
alla 
qualificazione 
fiscale 
del 
contributo 
assistenziale 
a 
favore 
delle 
vittime 
delle 
persecuzioni 
naziste). Le 
predette 
risoluzioni 
confermano 
il 
principio che 
“.. laddove 
il 
risarcimento erogato voglia indennizzare 
il 
soggetto 
delle 
perdite 
subite 
(il 
c.d. 
danno 
emergente), 
ed 
abbia, 
quindi 
la precipua funzione 
di 
integrazione 
patrimoniale, tale 
somma non sarà assoggettata 
a 
tassazione. 
Infatti, 
in 
quest’ultimo 
caso 
assume 
rilevanza 
assoluta 
il 
carattere 
risarcitorio del 
danno alla persona del 
soggetto leso e 
manca una 
qualsiasi 
funzione 
sostitutiva 
o 
integrativa 
di 
eventuali 
trattamenti 
retributivi: 
pertanto gli 
indennizzi 
non concorreranno alla formazione 
del 
credito delle 
persone fisiche per mancanza del presupposto impositivo”. 


In 
caso 
di 
ripresa 
tributaria 
della 
indennità 
percepita 
dal 
danneggiato 
a 
titolo di 
risarcimento per l’illecito comunitario commesso da 
un organo nazionale 
(legislativo, giudiziario o amministrativo) si 
potrà 
configurare 
la 
necessità 
di 
sollevare 
una 
questione 
pregiudiziale 
interpretativa 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
motivata 
con la 
predetta 
interpretazione 
degli 
Uffici 
tributari 
per 
violazione del principio di “equivalenza”. 


rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


il Covid e la crisi pandemica: quali 
prospettive future per un diritto sostenibile 


Gaetana Natale* 


Necessitas 
non 
habet 
legem, 
dicevano 
i 
latini, 
volendo 
significare 
che 
nel 
momento 
di 
estrema 
necessità, 
le 
categorie 
giuridiche 
devono 
adeguarsi 
al 
bisogno 
di 
sopravvivenza 
dell’uomo. 
Ma 
nel 
caso 
della 
pandemia 
da 
coronavirus, 
sembrano 
non 
del 
tutto 
peregrine 
le 
tesi 
di 
alcuni 
scienziati 
secondo 
le 
quali 
la 
nascita 
e 
la 
diffusione 
del 
coronavirus 
rNA 
sarebbero 
avvenute 
proprio 
per 
colpa 
dell’uomo: 
è 
questa 
la 
teoria 
di 
Jane 
Goodhall, 
esperta 
mondiale 
di 
etologia 
che 
da 
oltre 
50 
anni 
studia 
le 
relazioni 
tra 
ambiente, 
essere 
umani 
e 
virus. 
La 
ricercatrice 
ha 
più 
volte 
invitato 
tutti 
alla 
massima 
attenzione 
per 
quella 
che 
vede 
come 
la 
più 
grande 
minaccia 
all’esistenza 
dell’umanità, 
ovvero 
la 
distruzione 
della 
biodiversità. 
È 
questa 
la 
tesi 
anche 
della 
Società 
Italiana 
di 
Medicina 
Ambientale 
S.I.M.A. 
che 
con 
riguardo 
alla 
zoonosi, 
rischio 
zoonotico 
o 
spillover, 
(termine 
che 
indica 
il 
cd. 
salto 
di 
specie 
dal 
virus 
all’uomo), 
propone 
l’approccio 
One 
Health 
Evolution, 
basato 
sull’“understanding 
the 
factors 
that 
control 
the 
dynamies 
of 
interacting 
species”. 
In 
altri 
termini, 
alterando 
gli 
ecosistemi, 
con 
la 
distruzione 
massiccia 
di 
foreste 
pluviali, 
con 
l’emissione 
incontrollata 
di 
ossido 
di 
carbonio, 
con 
colture 
ed 
allevamenti 
intensivi, 
gli 
animali 
vengono 
spinti 
ad 
un 
maggior 
contatto 
con 
l’uomo. 
Con 
tali 
modalità 
i 
coronavirus, 
che 
hanno 
un’“elevata 
plasticità 
d’ospite”, 
(cioè 
genomi 
in 
grado 
di 
adattarsi 
con 
grande 
facilità 
fino 
a 
superare 
le 
“barriere 
di 
specie” 
con 
mutazioni 
definite 
antigenic 
drift 
e 
i 
più 
decisivi 
antigenic 
shift) 
hanno 
vita 
facile 
e 
posso 
tranquillamente 
saltare 
da 
una 
specie 
all’altra 
come 
è 
successo 
con 
il 
Sars-Cov-2, 
(erroneamente 
chiamato 
comunemente 
Covid 
19 
che 
è, 
invece, 
la 
malattia), 
un 
virus 
rNA, 
tendente 
a 
modificarsi 
rapidamente, 
originato 
dalla 
nostra 
invasione 
nel 
territorio 
di 
vita 
dei 
pipistrelli 
nel 
wet 
market 
di 
grandi 
dimensioni 
in 
una 
città 
cinese 
Wuhan 
di 
oltre 
6 
milioni 
di 
abitanti 
fortemente 
connessa 
al 
resto 
del 
mondo 
globalizzato. 
Con 
la 
distruzione 
degli 
ecosistemi 
il 
rischio 
zoonotico 
degli 
spillover 
sembra 
destinato 
ad 
aumentare, 
spingendoci 
verso 
periodi 
interpandemici 
sempre 
più 
lunghi 
ed 
incontrollati. 


Più del 
60 % delle 
malattie 
infettive 
emergenti 
(EIDS 
Emercency 
Infections 
Desesas) 
identificate 
dal 
1940 
hanno 
avuto 
un’origine 
zoonotica 
e 
tra 


(*) Avvocato dello Stato, Consigliere 
Giuridico del 
Ministero del 
Lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali, Professore 
a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno. 


Il 
presente 
scritto costituisce 
la lezione 
tenuta dall’Autrice 
il 
28 settembre 
2020 presso l’Università 
degli Studi di Salerno per il Corso Sistemi giuridici comparati. 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


queste 
i 
due 
terzi 
derivano da 
animali 
selvatici 
(Jones 
et 
al. 2008). Si 
pensi 
a 
quelli 
che 
hanno 
causato 
la 
Sars 
(Severe 
Acute 
Respiratory 
Syndrome 
nel 
2002) 
e 
la 
Mers 
(Middle 
East 
Respiratory 
Syndrome 
emersa 
nel 
2012). Era 
proprio 
il 
2012 quando David Quammen, scienziato e 
divulgatore 
del 
National 
Geographic 
scriveva 
il 
libro 
“Spillover: 
l’evoluzione 
delle 
pandemie”, 
sostenendo 
che 
i 
virus 
pandemici, (che 
secondo un processo naturale 
di 
riequilibrio ritornano 
nel 
reservoir, ossia 
nel 
loro serbatoio di 
origine), sono l’inevitabile 
risposta 
della 
natura 
all’assalto 
dell’uomo 
agli 
ecosistemi 
e 
all’ambiente. 
Il 
virus 
influisce 
sul 
nostro concetto di 
identità: 
siamo davvero una 
specie 
animale 
legata 
in modo indissolubile 
alle 
altre 
nelle 
nostre 
origini 
e 
nella 
nostra 
evoluzione. 
Emblematica 
è 
la 
celebre 
frase 
del 
filosofo 
Josè 
Ortega y 
Gasset 
che 
a 
tal 
riguardo affermava: 
“Yo soy 
y 
mis 
circumstancia”, io sono io e 
ciò che 
mi 
sta 
intorno, 
io 
sono 
me 
più 
il 
mio 
ambiente 
e 
se 
non 
preservo 
quest’ultimo 
non preservo me 
stesso. Ciò è 
ancora 
più chiaro se 
riflettiamo sulla 
stessa 
derivazione 
etimologica 
di 
“ambiente”, parola 
derivante 
dal 
latino che 
significa 
“ambire”, “girare intorno”. 


Già 
nel 
1962 
Rachel 
Louise 
Carson, 
biologa 
e 
zoologa 
americana, 
scrisse 
“Primavera silenziosa” 
che 
ebbe 
molto successo negli 
USA, fino ad essere 
ritenuto il 
manifesto del 
movimento ambientalista 
moderno. È 
al 
suo appassionato 
impegno 
che 
si 
deve 
la 
crescita 
di 
una 
diffusa 
sensibilità 
ecologista 
tanto da 
essere 
riconosciuta 
come 
la 
madre 
dell’ambientalismo, pietra 
miliare 
nella 
storia 
dell’ecologia. Fu, infatti, la 
prima 
a 
prevedere 
con forte 
anticipo 
sui 
tempi 
gli 
effetti 
delle 
tecniche 
in agricoltura, la 
prima 
a 
denunciare 
pubblicamente 
e 
con appassionata 
forza 
i 
danni 
inferti 
alla 
natura 
dall’uso indiscriminato 
di 
insetticidi 
chimici 
(vedi 
ddt 
e 
l’odierno glifosfato) e 
composti 
organici 
di 
sintesi, dal 
fenomeno della 
deforestazione 
e 
dall’incontrollato intervento 
dell’uomo sull’ambiente 
secondo l’equazione 
differenziale 
Lootka-
Volterra, preda-predators models. 

Sullo stretto legame 
tra 
virus 
e 
ambiente 
sembra 
soffermarsi 
di 
recente 
anche 
la 
prof.ssa 
Ilaria 
Capua, 
virologa 
che 
dirige 
l’One 
Health 
Centre 
Excellence 
in Florida. Nel 
suo recente 
libro “Il 
dopo” 
ella 
considera 
la 
comparsa 
del 
Sars 
Covid 2 uno stress 
test 
in grado di 
misurare 
le 
fragilità 
del 
nostro sistema. 
Questo 
patogeno 
dalle 
dimensioni 
infinitesimali 
ha 
messo 
l’umanità 
intera 
di 
fronte 
al 
disequilibrio 
creato 
nel 
rapporto 
con 
la 
natura, 
alla 
riscoperta 
della 
propria 
dimensione 
terrena 
e 
della 
caducità 
che 
le 
è 
connaturata, all’arbitrarietà 
dell’organizzazione 
sociale 
che 
si 
è 
data, delle 
sue 
scale 
di 
valori, 
del 
concetto stesso di 
salute 
pubblica. Uno dei 
motti 
di 
Ilaria 
Capua 
è 
“Every 
cloud has 
a silver 
lining”, ogni 
nuvola 
ha 
una 
cornice 
di 
argento. Anche 
una 
pandemia, 
con 
la 
sua 
drammaticità, 
può 
insegnarci 
qualcosa: 
per 
esempio, 
che 
dobbiamo 
modificare 
il 
nostro 
atteggiamento 
nei 
confronti 
della 
natura 
e 
della 
biodiversità, ponendoci come guardiani anziché invasori. 


La 
pandemia 
in corso ci 
ha 
imposto di 
ripensare 
il 
nostro modello di 
svi



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


luppo sulla 
base 
di 
tre 
concetti 
basilari: 
la 
transizione 
digitale, la 
sostenibilità 
ambientale 
e 
l’inclusione 
sociale. 
In 
questo 
Great 
Reset, 
ossia 
in 
questa 
“giuntura 
critica” 
di 
grande 
riassetto 
del 
concetto 
di 
sviluppo 
(secondo 
l’espressione 
di 
Daniel 
Kelemen), 
o 
“punto 
di 
svolta” 
(James 
Mahoney), 
che 
ruolo 
deve 
svolgere 
il 
giurista? in 
che 
modo il 
diritto può costituire 
la leva e 
lo strumento 
dinamico 
di 
evoluzione 
lungimirante 
del 
futuro 
sistema 
produttivo 
che concili la salute con il progresso? 


Cercherò 
di 
dare 
delle 
risposte 
a 
tale 
domanda 
con 
la 
piena 
consapevolezza, 
essendo 
un 
Avvocato 
dello 
Stato, 
che 
la 
norma 
giuridica 
è 
il 
necessario 
strumento 
operativo 
con 
cui 
rendere 
concreta 
e 
realistica 
una 
visione 
sostenibile 
di 
sviluppo 
futuro 
a 
tutela 
soprattutto 
della 
Next 
Generation. 
Non 
è 
un 
caso 
che 
con 
tale 
termine 
si 
sia 
denominato 
il 
Recovery 
Fund 
proposto 
dalla 
Commissione 
Europea, 
di 
recente 
negoziato 
sulla 
base 
del 
pilastro 
essenziale 
del 
Facility 
Resilience 
basato 
sia 
su 
loans 
sia 
su 
grants 
in 
aid, 
accanto 
al 
programma 
Sure 
e 
al 
processo 
di 
capitalizzazione 
della 
Bei, 
nonché 
all’importante 
attività 
di 
politica 
monetaria 
cd. 
quantitative 
easing 
(facilitazione 
quantitativa) 
della 
BCE 
nel 
programma 
PEPP 
(Pandemic 
Emercency 
Purchase 
Programm) 
che 
prescinde 
per 
la 
prima 
volta 
dalla 
regola 
del 
Capital 
Key 
(regola 
che 
stabilisce 
la 
proporzionalità 
dell’aiuto 
della 
BCE 
rispetto 
alla 
quota 
di 
partecipazione 
di 
un 
paese 
al 
capitale 
della 
Banca 
Centrale 
Europea). 
È 
prevalsa 
la 
regola 
del 
“Whatever 
it 
takes”, 
introdotta 
dal 
Presidente 
Draghi 
nel 
2012 
in 
un 
contesto 
economico 
che 
si 
profila 
ancora 
più 
drammatico 
rispetto 
al 
passato. 


Il 
virus 
ha 
segnato 
sul 
piano 
strettamente 
euro-unitario 
uno 
“spillover 
giuridico”, ossia 
un passaggio evolutivo dell’Unione 
Europea 
verso una 
tendenziale 
unione 
di 
bilancio con la 
sospensione 
della 
“general 
escape 
clause” 
(ossia, la 
sospensione 
del 
patto di 
stabilità), con la 
possibilità 
di 
emettere 
in 
futuro 
titoli 
del 
debito 
comune 
europeo 
(obbligazioni 
triplo 
A) 
attraverso 
strumenti 
finanziari 
da 
reperire 
sul 
mercato con la 
contestuale 
riduzione 
dei 
rebates 
dei 
Paesi 
frugali 
(ossia 
la 
riduzione 
del 
loro 
contributo 
al 
bilancio 
pluriennale 
europeo). L’Europa 
ha 
dimostrato nell’attuale 
crisi 
pandemica 
di 
sapersi 
evolvere, 
di 
considerare 
essenziale 
la 
solidarietà 
in 
un 
momento 
di 
crisi 
economica 
simmetrica, 
valorizzando 
l’elemento 
della 
unità 
sanitaria 
tesa 
a 
realizzare 
il 
c.d. momento Hamilton: 
ne 
è 
prova 
l’accordo Inclusion Vaccine 
Alliance, basato essenzialmente 
sul 
contratto che 
la 
Commissione 
europea 
ha 
stipulato con il 
colosso Astrazeneca 
per la 
sperimentazione 
del 
vaccino sviluppato 
dall’Università 
di 
Oxford con il 
contributo della 
società 
Irbm 
di 
Pomezia. 
Di 
recente 
la 
Presidente 
della 
Commissione 
Europea 
Ursula 
von der 
Leyen ha 
annunciato la 
costituzione 
di 
un’“Agenzia Europea per 
la ricerca 
bio-medica e 
per 
la gestione 
delle 
crisi 
pandemiche”, ponendo in luce 
la 
necessità 
di 
un’azione 
coordinata 
europea 
volta 
a 
creare 
quella 
unità 
sanitaria 
che trova la sua base giuridica negli artt. 122 e 168 del 
TFUE. 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


La 
pandemia 
ha 
colpito oggi 
30 milioni 
di 
persone 
con oltre 
900 mila 
morti, mettendo in risalto la 
fragilità 
del 
nostro modello di 
sviluppo globale, 
come 
ha 
sottolineato di 
recente 
lo scorso 21 settembre 
2020 l’ex premier portoghese 
Antonio Guterres, Segretario Generale 
delle 
Nazioni 
Unite, in occasione 
dei 
75 anni 
dell’ONU, richiamando la 
necessità 
mondiale 
di 
resuscitare 
il 
cd. 
Multilateralismo 
sulla 
base 
dello 
slogan 
People, 
Planet, 
Prosperity. 
L’economia 
globale 
a 
fine 
2021 
perderà 
16 
mila 
miliardi 
di 
dollari 
a 
causa 
degli 
effetti 
della 
pandemia 
secondo le 
previsioni 
del 
Fondo Monetario Internazionale 
che 
prevede 
in tale 
anno il 
maggior crollo del 
Pil 
globale 
del 
dopoguerra. 
L’Agenda 
G20 a 
guida 
italiana 
da 
dicembre 
dovrà 
rendere 
attuabili 
i 
17 obiettivi 
dell’Agenda 
Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile, ma 
dovrà 
necessariamente 
tener conto delle 
debolezze 
strutturali 
delle 
Nazioni 
Unite 
dovute 
essenzialmente 
oggi 
alle 
divisioni 
interne 
nel 
Consiglio di 
Sicurezza 
tra 
Stati 
Uniti 
e 
Cina. Gli 
Stati 
Uniti 
sono usciti 
dall’Accordo sul 
clima 
di 
Parigi 
e 
dall’Accordo Onu sul 
nucleare 
iraniano, ripristinando le 
sanzioni 
unilaterali 
con una 
posizione 
che 
non è 
in perfetta 
sintonia 
con la 
diplomazia 
internazionale. 
Si 
ricorderà 
che 
le 
Nazioni 
Unite 
nacquero dopo il 
fallimento delle 
Società 
delle 
Nazioni, 
travolta 
dai 
totalitarismi 
e 
dagli 
orrori 
della 
guerra 
mondiale. 
Eleanor 
Roosevelt 
chiamò 
quel 
sogno 
dei 
paesi 
uniti 
< 
la 
nostra 
grande 
speranza per 
un futuro di 
pace>. Le 
parole 
di 
roosevelt 
volte 
a 
realizzare 
la 
missione 
di 
peacekeeping 
delle 
Nazioni 
Unite 
che 
significato assumono 
oggi 
in un mondo globalizzato? 
Per rispondere 
a 
tale 
quesito bisogna 
chiarire 
bene 
il 
concetto 
di 
globalizzazione. 
Se 
partiamo 
dagli 
studi 
di 
Anthony 
Giddens, 
sociologo 
e 
politologo 
britannico, 
la 
globalizzazione 
non 
è 
un 
singolo 
processo, ma 
un “sistema 
di 
processi” 
che 
non interessa 
solo la 
sfera 
economica 
con la 
creazione 
di 
un mercato globale 
basata 
sulla 
cd. “finanziarizzazione 
dell’economia” 
e 
sul 
“new 
global 
electronic 
money”, 
ma 
che 
investe 
anche 
la 
sfera 
sociale, politica 
e 
culturale, realizzando la 
cd. radicalizzazione 
della post-modernità o tarda modernità. Per Giddens 
la 
globalizzazione 
è 
un 
termine 
che 
descrive 
un fenomeno reale 
che 
fa 
delle 
interconnessioni 
e 
delle 
contaminazioni 
un aspetto cruciale 
della 
sua 
struttura. Non identifica 
la 
globalizzazione 
con 
il 
neoliberismo, 
costituendo 
quest’ultimo 
solo 
una 
sua 
declinazione. 
Nel 
suo 
libro 
pubblicato 
nell’anno 
2000 
“Runawayworld: 
how 
Globalization 
is 
reshaping 
our 
lives”, 
egli 
sostiene 
che 
la 
globalizzazione 
non 
sia 
solo un fenomeno macrosociale 
che 
interessa 
solo i 
grandi 
sistemi 
(i 
mercati 
finanziari, gli 
Stati, etc.), ma 
le 
sue 
conseguenze 
riguardano anche 
la 
vita 
dei 
singoli 
con scambio del 
cd. globale 
con il 
locale. Egli 
giunge 
a 
definire 
la 
globalizzazione 
come 
uno 
strumento 
concettuale 
per 
definire 
quell’insieme 
di 
processi 
sociali, 
economici, 
politici 
e 
culturali 
che 
influenzano 
la 
vita 
di 
ognuno 
sebbene 
sia 
difficile 
per 
chiunque 
comprendere 
pienamente 
tutti 
i 
loro 
sviluppi 
ed effetti. Emblematica 
è 
quella 
che 
Giddens 
definisce 
“reverse 
colonization”, 
per 
descrivere 
tutti 
quei 
casi 
in 
cui 
i 
paesi 
in 
via 
di 
sviluppo 
hanno 



rASSEGNA 
AvvOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


imposto determinate 
condizioni 
in paesi 
più ricchi. Si 
pensi 
alle 
difficoltà 
riscontrate 
dai 
Paesi 
del 
Nord nelle 
trattative 
commerciali 
con il 
WTO 
(World 
Trade 
Organization) dove 
il 
Brasile 
ha 
visto recentemente 
riconosciuto dal-
l’istituzione 
multilaterale 
del 
commercio la 
legittimità 
delle 
sue 
richieste 
nei 
confronti degli USA. 

vi 
è 
allora 
da 
chiedersi: 
che 
ruolo 
hanno 
oggi 
gli 
Stati 
e 
gli 
organismi 
sovranazionali 
nel 
regolare 
il 
fenomeno 
della 
globalizzazione, 
la 
loro 
incisività 
implica 
necessariamente 
una 
rimodulazione 
della 
loro 
struttura 
e 
delle 
loro 
funzioni? 
Nella 
sua 
monografia 
pubblicata 
nel 
2012 
“Turbolent 
and 
Mighty 
Continent: 
what 
future 
for 
Europe” 
(Turbolento 
e 
potente 
continente: 
quale 
futuro 
per 
l’Europa), 
Giddens 
sostiene 
che 
la 
rimodulazione 
della 
struttura 
e 
delle 
funzioni 
della 
Commissione 
Europea 
e 
della 
BCE 
sia 
essenziale 
per 
la 
sopravvivenza 
dell’Unione 
Europea. 
Ne 
è 
stata 
prova 
la 
funzione 
di 
“stance” 
di 
mantenimento 
dell’inflazione 
nel 
limite 
del 
2% 
svolta 
dalla 
BCE 
con 
la 
sua 
politica 
monetaria 
ex 
art. 
127 
del 
TFUE, 
anche 
se 
la 
Corte 
Costituzionale 
tedesca 
di 
Karlsruhe 
con 
la 
nota 
sentenza 
dello 
scorso 
5 
maggio 
aveva 
contestato 
il 
mancato 
rispetto 
del 
principio 
di 
proporzionalità 
nel 
programma 
straordinario 
di 
intervento 
finanziario 
PSPP 
(Public 
Sector 
Purchase 
Programme, 
(Programma 
di 
Acquisto 
del 
Settore 
Pubblico, 
altrimenti 
noto 
come 
QE-quantitative 
easing). 
Tanto 
tuonò 
che 
non 
piovve: 
in 
realtà 
il 
quotidiano 
Der 
Spiegel 
del 
31 
luglio 
ha 
dato 
notizia 
che 
il 
Ministro 
delle 
Finanze 
della 
Germania, 
Olaf 
Scholz, 
ha 
inviato 
una 
lettera 
alla 
Corte 
Costituzionale 
Federale 
tedesca 
in 
cui 
sono 
stati 
confermati 
la 
bontà 
della 
condotta 
della 
BCE 
in 
punto 
di 
QE 
e 
il 
coinvolgimento 
anche 
per 
il 
futuro 
della 
Bundesbank 
nel 
programma 
di 
acquisto 
dei 
titoli 
di 
Stato 
delle 
singole 
Nazioni 
del-
l’Unione. 
Ancora 
una 
volta 
è 
prevalso 
il 
criterio 
del 
riequilibrio 
tra 
le 
Corti 
Costituzionali 
Nazionali 
e 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea, 
messo 
in 
crisi 
dal 
caso 
Taricco, 
ma 
saggiamente 
recuperato 
dato 
il 
contingente 
momento 
di 
crisi 
economica. 
La 
rimodulazione 
delle 
funzioni 
invocata 
da 
Giddens 
ha 
investito 
anche 
la 
Commissione 
organo 
esecutivo 
che 
nell’ambito 
dei 
vari 
programmi 
di 
supporto 
all’economia 
come 
il 
programma 
Sure 
procederà 
ora 
anche 
alla 
raccolta 
di 
fondi 
sui 
mercati 
internazionali 
dei 
capitali 
per 
conto 
dell’UE 
e 
li 
concederà 
come 
prestiti 
back-to-back 
agli 
Stati 
membri 
che 
faranno 
richiesta 
di 
prestito. 


Alla 
luce 
della 
descrizione 
di 
tale 
evoluzione 
dell’ONU 
e 
dell’Unione 
Europea, 
si 
può 
dedurre 
che 
parlare 
oggi 
di 
diritto 
globale 
e 
sostenibile, 
significa 
porre 
l’accento 
su 
principi 
di 
sintesi 
valoriale 
che 
costituiscono 
il 
punto 
di 
convergenza 
delle 
azioni 
degli 
Stati: 
uno 
di 
tale 
principio 
di 
sintesi 
valoriale 
è 
costituito 
senz’altro 
dalla 
tutela 
degli 
Human 
Rights, 
la 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona. 
La 
questione 
della 
territoriality 
si 
è 
posta 
più 
volte 
innanzi 
alla 
Corte 
Europea 
dei 
diritti 
dell’Uomo 
e 
delle 
Libertà 
Fondamentali 
ed 
ha 
determinato 
la 
ricerca 
del 
cd. 
link 
giurisdizionale 
per 
radicare 



CONTENZIOSO 
COMUNITArIO 
ED 
INTErNAZIONALE 


l’applicabilità 
della 
Convenzione, 
al 
di 
fuori 
dei 
confini 
degli 
Stati 
che 
hanno 
sottoscritto 
la 
Convenzione. 
Il 
diritto 
sostenibile 
è 
un 
diritto 
che 
radica 
un 
sistema 
integrato 
di 
tutele 
sulla 
base 
del 
principio 
di 
solidarietà 
e 
del 
rispetto 
dei 
diritti 
umani. 


La 
crisi 
pandemica 
ha 
posto 
il 
giurista 
di 
fronte 
ad 
una 
grande 
sfida: 
usare 
le 
norme 
nazionali 
e 
sovranazionali 
per 
orientare 
lo 
sviluppo 
tecnologico 
verso 
un 
futuro 
green 
che 
ponga 
l’uomo 
e 
la 
sua 
salute 
sempre 
al 
centro 
di 
ogni 
processo 
evolutivo. 



Contenziosonazionale
Funzione consultiva e responsabilità penale 


Tribunale 
di 
napoli, prima 
Sezione 
penale, SenTenza 
28 novembre 
2019, dep. 21 gennaio 
2020, n. 12933 


Maurizio Greco* 
Michele Gerardo* 


Sommario: 1. introduzione 
-2. dati 
fattuali 
-3. aspetti 
preliminari: il 
parere 
nel 
diritto 
amministrativo -4. (segue) 
aspetti 
preliminari. responsabilità penale 
connessa alla emanazione 
di 
un 
parere 
-5. 
profili 
di 
interesse 
giuridico 
-6. 
l’oggetto 
della 
consultazione 
giuridica 


-7. Criteri 
di 
assegnazione 
degli 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi 
-8. modalità di 
espletamento 
della consulenza - 9. imputazione giuridica dei pareri. 
1. introduzione. 
La 
sentenza 
che 
si 
annota 
riveste 
un 
particolare 
rilievo 
con 
riguardo 
al 
tema 
della 
responsabilità 
penale 
dell’avvocato dello Stato nell’esercizio della 
funzione consultiva. 


All’uopo al 
fine 
di 
lumeggiare 
i 
dati 
di 
fatto e 
di 
diritto si 
riporta 
altresì 
il testo della memoria difensiva redatta in vista della discussione. 


2. dati fattuali. 
Nel 
caso di 
specie 
l’Avvocatura 
dello Stato, in via 
istituzionale, ha 
reso 
un parere 
in materia 
di 
procedura 
di 
gara 
pubblica 
(rectius: 
un procedimento 
selettivo concorrenziale ai sensi degli artt. 36 e ss. cod. navig.). 


A 
fronte 
dei 
quesiti 
posti 
-tre 
particolari 
aspetti 
della 
gara 
-l’Organo 
Erariale 
ha 
reso il 
parere. Parere 
sottoscritto dall’avvocato estensore 
e 
dall’avvocato 
distrettuale. 


(*) Avvocati dello Stato. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Sulla 
gara 
si 
è 
aperto 
un 
procedimento 
penale. 
Nella 
fase 
delle 
indagini 
preliminari, 
tra 
gli 
altri, 
è 
stato 
indagato 
l’avvocato 
dello 
Stato 
estensore 
del 
parere. 
L’ipotesi 
accusatoria 
è 
che 
l’avvocato 
dello 
Stato 
estensore, 
in 
collusione 
con 
altri 
indagati, 
avrebbe 
reso 
un 
parere 
di 
comodo 
finalizzato 
a 
consentire 
l’aggiudicazione 
in 
favore 
di 
un 
dato 
concorrente, 
che 
non 
avrebbe 
avuto 
titolo; 
parere 
in 
contrasto 
con 
il 
consolidato 
orientamento 
giurisprudenziale. 


Tanto sulla 
base 
di 
un quadro investigativo, come 
confermato poi 
nel 
dibattimento, 
inficiato da 
errori 
e 
dalla 
assoluta 
assenza 
di 
evidenze 
probatorie. 


Nella 
fase 
delle 
indagini, l’avvocato dello Stato ha 
chiesto di 
essere 
sentito 
dal 
Pubblico 
ministero, 
prima 
della 
conclusione 
delle 
indagini 
preliminari, 
per evidenziare 
la 
dinamica 
dei 
fatti. L’interrogatorio spontaneo si 
è 
svolto e 
l’indagato ha illustrato i dati rilevanti. 

A 
seguito della 
notifica 
dell’avviso della 
conclusione 
delle 
indagini 
preliminari, 
l’avvocato dello Stato ha 
presentato due 
memorie 
difensive 
al 
pubblico 
ministero (in una 
delle 
quali 
dava 
conto dell’intervenuta 
pubblicazione 
della 
decisione 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
la 
n. 
9 
del 
2014, 
che 
riguardava 
proprio la 
procedura 
in questione 
e 
confermava 
il 
contenuto 
del parere reso dall’Avvocatura dello Stato). 


Nonostante 
ciò, al 
termine 
delle 
indagini 
il 
Pubblico ministero ha 
formulato 
la 
richiesta 
di 
rinvio a 
giudizio -tra 
gli 
altri 
-dell’avvocato dello Stato, 
estensore del parere. 


All’udienza 
preliminare 
la 
difesa 
(all’epoca 
assunta 
da 
due 
legali 
del 
libero 
Foro) dell’avvocato dello Stato, ormai 
imputato, ha 
illustrato con ampia 
argomentazione l’assenza di evidenze incriminatrici. 


Al 
termine 
dell’udienza 
preliminare, 
il 
G.I.P. 
con 
decreto 
ha 
disposto 
il 
giudizio 
-tra 
gli 
altri 
-nei 
confronti 
dell’avvocato 
dello 
Stato, 
estensore 
del 
parere. 


Nel 
dibattimento dinanzi 
al 
Tribunale, prima 
della 
conclusione 
del 
giudizio 
il 
Tribunale 
con sentenza 
ha 
assolto ex 
art. 129 c.p.p., l’avvocato dello 
Stato estensore del parere per non aver commesso il fatto. 


Tanto, sulla 
scorta 
sia 
della 
richiesta 
del 
pubblico ministero che 
della 
difesa 
dell’imputato 
assunta, 
in 
dibattimento, 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’art. 44 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611. 


Nel 
corso del 
dibattimento si 
sono tenute 
29 udienze, nelle 
quali 
l’imputato 
- avvocato dello Stato - è sempre stato presente. 


3. aspetti preliminari: il parere nel diritto amministrativo. 
Prima 
di 
illustrare 
i 
profili 
di 
interesse 
giuridico della 
sentenza 
che 
si 
annota 
è 
necessario 
esaminare 
i 
caratteri 
dell’atto 
“incriminato” 
nel 
processo 
penale, 
ossia 
i 
caratteri 
del 
parere, ed altresì 
la 
problematica 
della 
responsabilità 
penale connessa alla emanazione di un parere. 


Il 
parere 
è 
un atto amministrativo adottato da 
un organo consultivo della 
pubblica 
amministrazione 
esprimente 
un giudizio -alla 
stregua 
di 
norme 
tec



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


niche 
(giuridiche, sanitarie, ingegneristiche, chimiche, ecc.) -su un oggetto, 
costituito da 
circostanze 
fattuali 
e 
dal 
contesto regolatorio, suscettibile 
di 
una 
univoca 
valutazione 
oppure 
di 
varia 
valutazione. 
univoca 
valutazione 
laddove 
la 
materia 
è 
connotata 
da 
elevata 
tecnicità 
e 
complessità; 
varia 
valutazione 
nel 
caso che l’obiettivo avuto di mira si può conseguire per strade diverse (1). 

Il 
giudizio 
espresso 
dall’organo 
consultivo 
è 
un 
elemento 
conoscitivo 
che 
dovrà 
essere 
tenuto 
presente 
dall’amministrazione 
al 
momento 
della 
adozione 
del 
provvedimento. Serve 
a 
lumeggiare 
la 
scelta 
dell’amministrazione 
decidente. 
Questo 
è 
un 
connotato 
essenziale; 
tanto 
che 
ove 
venga 
omesso 
il 
parere 
non è 
possibile 
la 
sanatoria 
ex 
post, non potendo essere 
soddisfatta 
la 
fondamentale 
funzione. 
vi 
è 
un 
atto 
a 
funzione 
prodromica 
che 
deve 
necessariamente 
essere 
esercitata 
prima 
che 
si 
formi 
nell’organo 
agente 
la 
determinazione 
volitiva, che 
il 
parere 
concorre 
a 
determinare; 
sicché 
vi 
è 
la 
necessità logica che il parere preceda il provvedimento. 

L’organo 
consultivo 
della 
pubblica 
amministrazione 
è 
quello 
che, 
in 
base 
ad 
una 
norma 
giuridica, 
ha 
in 
attribuzione 
la 
funzione 
di 
esprimere 
un 
parere 
su 
un 
aspetto 
dell’attività 
delle 
amministrazioni 
pubbliche: 
attività 
sia 
di 
diritto 
pubblico 
(nell’ambito 
di 
un 
procedimento 
amministrativo), 
che 
di 
diritto 
privato 
(nell’ambito 
di 
un 
procedimento 
negoziale, 
ad 
esempio 
in 
tema 
di 
transazioni). 


vi 
sono organi 
consultivi 
che 
rendono giudizi 
alla 
stregua 
di 
norme 
giuridiche 
(Avvocatura 
dello 
Stato, 
Consiglio 
di 
Stato, 
ecc.), 
alla 
stregua 
di 
norme 
ingegneristiche, ecc. 


A 
seconda 
che 
l’amministrazione 
procedente 
sia 
obbligata 
o meno a 
richiedere 
il parere, questo si distingue in obbligatorio o facoltativo. 


Il 
parere 
obbligatorio 
va 
necessariamente 
richiesto; 
l’omissione 
genera 
una 
violazione 
di 
legge, con invalidità 
derivata 
del 
provvedimento finale. un 
esempio di 
parere 
obbligatorio è 
il 
parere 
di 
congruità 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ex 
art. 
18 
D.L. 
25 
marzo 
1997 
n. 
67, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
nella 


L. 23 maggio 1997, n. 135 (2) sulle 
istanze 
di 
rimborso delle 
spese 
di 
patrocinio 
legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici. 
Il 
parere 
facoltativo 
non 
va 
necessariamente 
richiesto. 
È 
l’amministrazione 


(1) Sui 
pareri, ex 
plurimis: 
F. FRANChINI, voce 
parere, in novissimo digesto italiano, vol. XII, 
uTET, 1965, pp. 396-397; 
G. CORREALE, voce 
parere 
(dir. amm.), in enc. del 
diritto, vol. XXXI, 1981, 
Giuffré, pp. 676-685. 
(2) 
“le 
spese 
legali 
relative 
a 
giudizi 
per 
responsabilità 
civile, 
penale 
e 
amministrativa, 
promossi 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in 
conseguenza 
di 
fatti 
ed 
atti 
connessi 
con 
l'espletamento 
del 
servizio 
o 
con 
l'assolvimento 
di 
obblighi 
istituzionali 
e 
conclusi 
con 
sentenza 
o 
provvedimento 
che 
escluda 
la 
loro 
responsabilità, 
sono 
rimborsate 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall'avvocatura 
dello 
Stato. 
le 
amministrazioni 
interessate, 
sentita 
l'avvocatura 
dello 
Stato, 
possono 
concedere 
anticipazioni 
del 
rimborso, 
salva 
la 
ripetizione 
nel 
caso 
di 
sentenza 
definitiva 
che 
accerti 
la 
responsabilità”. 
Sulla 
materia: 
M. 
GERARDO, 
il 
rimborso 
delle 
spese 
di 
patrocinio 
legale 
nei 
giudizi 
di 
responsabilità 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
pubblici 
ai 
sensi 
dell’art. 
18 
del 
d.l. 
25 
marzo 
1997 
n. 
67 
in 
questa 
rassegna, 
2018, 
3, 
pp. 
207-236. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


procedente 
a 
reputare 
necessario, 
per 
la 
completezza 
dell’istruttoria, 
acquisire 
un 
parere. 
In 
ossequio 
al 
principio 
di 
non 
aggravamento 
del 
procedimento 
ex 
art. 
1, 
comma 
2, 
L. 
n. 
241/1990, 
tanto 
può 
avvenire 
solo 
per 
straordinarie 
e 
motivate 
esigenze 
imposte 
dallo 
svolgimento 
dell'istruttoria. 
un 
esempio 
di 
parere 
facoltativo 
è 
la 
consultazione 
legale 
richiesta 
dalle 
Amministrazioni 
ex 
art. 
13 
R.D. 
30 
ottobre 
1933, 
n. 
1611 
(3) 
all’Avvocatura 
dello 
Stato. 


una 
volta 
acquisito il 
parere 
-obbligatorio o facoltativo che 
sia 
-l’amministrazione 
è 
tenuta 
a 
valutarlo in sede 
di 
decisione, fermo restando che 
il 
giudizio espresso nel 
parere 
non è 
vincolante, perché 
l’amministrazione 
è 
comunque 
libera 
di 
disattenderlo, 
assumendone 
la 
responsabilità 
e 
fornendo 
una 
adeguata giustificazione del dissenso. 


Fanno eccezione 
alla 
regola 
da 
ultimo enunciata 
i 
cd. pareri 
vincolanti, i 
quali 
vincolano -in virtù di 
disposizione 
di 
legge 
-l’amministrazione 
attiva 
a 
decidere 
nel 
quid 
indicato nel 
parere. All’evidenza 
qui 
non vi 
è 
un “vero” 
parere 
ma una codecisione. 


L’acquisizione 
del 
parere 
genera 
un 
subprocedimento, 
articolantesi 
nei 
seguenti momenti: 


-richiesta 
di 
parere, con l’articolazione 
dei 
quesiti. Ciò determina 
l’oggetto 
sul quale deve esprimersi l’organo consultivo; 
- rilascio del parere; 
- acquisizione del parere. 
L’art. 16 della 
L. n. 241/1990 delinea 
la 
disciplina 
del 
subprocedimento, 
con l’obiettivo di 
rendere 
celere 
l’iter 
-in funzione, quindi, della 
semplificazione 
dell’azione 
amministrativa 
-delineando 
termini 
massimi, 
con 
previsione 
di prescindere dal parere ove non rilasciato nei termini. Questo il testo: 


“1. gli 
organi 
consultivi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
[…], sono tenuti 
a rendere 
i 
pareri 
ad essi 
obbligatoriamente 
richiesti 
entro venti 
giorni 
dal 
ricevimento della richiesta. Qualora siano richiesti 
di 
pareri 
facoltativi, 
sono 
tenuti 
a 
dare 
immediata 
comunicazione 
alle 
amministrazioni 
richiedenti 
del 
termine 
entro 
il 
quale 
il 
parere 
sarà 
reso, 
che 
comunque 
non 
può 
superare 
i venti giorni dal ricevimento della richiesta. 

2. 
in 
caso 
di 
decorrenza 
del 
termine 
senza 
che 
sia 
stato 
comunicato 
il 
parere 
obbligatorio 
o 
senza 
che 
l'organo 
adito 
abbia 
rappresentato 
esigenze 
istruttorie, 
è 
in 
facoltà 
dell'amministrazione 
richiedente 
di 
procedere 
indipendentemente 
dall'espressione 
del 
parere. 
in 
caso 
di 
decorrenza 
del 
termine 
senza 
che 
sia 
stato 
comunicato 
il 
parere 
facoltativo 
o 
senza 
che 
l'organo 
adito 
(3) 
“l'avvocatura 
dello 
Stato 
provvede 
alla 
tutela 
legale 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi 
dello 
Stato; 
alle 
consultazioni 
legali 
richieste 
dalle 
amministrazioni 
ed 
inoltre 
a 
consigliarle 
e 
dirigerle 
quando 
si 
tratti 
di 
promuovere, 
contestare 
o 
abbandonare 
giudizi: 
esamina 
progetti 
di 
legge, 
di 
regolamenti, 
di 
capitolati 
redatti 
dalle 
amministrazioni, 
qualora 
ne 
sia 
richiesta; 
predispone 
transazioni 
d'accordo 
con 
le 
amministrazioni 
interessate 
o 
esprime 
parere 
sugli 
atti 
di 
transazione 
redatti 
dalle 
amministrazioni: 
prepara 
contratti 
o 
suggerisce 
provvedimenti 
intorno 
a 
reclami 
o 
questioni 
mossi 
amministrativamente 
che 
possano 
dar 
materia 
di 
litigio”. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


abbia rappresentato esigenze 
istruttorie, l'amministrazione 
richiedente 
procede 
indipendentemente 
dall'espressione 
del 
parere. Salvo il 
caso di 
omessa 
richiesta 
del 
parere, 
il 
responsabile 
del 
procedimento 
non 
può 
essere 
chiamato 
a 
rispondere 
degli 
eventuali 
danni 
derivanti 
dalla 
mancata 
espressione 
dei 
pareri di cui al presente comma. 


3. 
le 
disposizioni 
di 
cui 
ai 
commi 
1 
e 
2 
non 
si 
applicano 
in 
caso 
di 
pareri 
che 
debbano 
essere 
rilasciati 
da 
amministrazioni 
preposte 
alla 
tutela 
ambientale, 
paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini. 
4. 
nel 
caso 
in 
cui 
l'organo 
adito 
abbia 
rappresentato 
esigenze 
istruttorie, 
i 
termini 
di 
cui 
al 
comma 1 possono essere 
interrotti 
per 
una sola volta e 
il 
parere 
deve 
essere 
reso definitivamente 
entro quindici 
giorni 
dalla ricezione 
degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate. 
[…]”. 
Il 
periodo del 
subprocedimento di 
rilascio del 
parere 
sospende 
il 
termine 
del 
procedimento principale. Deve, infatti, ritenersi 
che 
i 
termini 
possono essere 
sospesi 
durante 
il 
periodo per acquisire 
da 
un soggetto estraneo all’amministrazione 
procedente 
qualsivoglia 
atto 
istruttorio 
necessario 
al 
procedimento. Questa 
ipotesi 
non è 
testualmente 
prevista 
in alcuna 
disposizione, 
ma 
esigenze 
logiche 
impongono 
di 
applicare, 
per 
analogia, 
la 
disciplina 
di cui al comma 7 dell’art. 2 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (4). 


Il 
parere, in quanto atto endoprocedimentale, non è 
impugnabile. I suoi 
vizi, 
se 
si 
ripercuotono 
sul 
provvedimento 
finale, 
devono 
essere 
fatti 
valere 
impugnando quest’ultimo. Per i 
principi 
generali 
della 
giustizia 
amministrativa, 
il 
vizio 
dell’atto 
consultivo 
non 
è 
immediatamente 
lesivo 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
del 
soggetto 
nei 
confronti 
del 
quale 
il 
provvedimento 
finale 
è 
destinato 
a 
produrre 
effetti 
diretti; 
manca, 
quindi, 
la 
condizione 
del-
l’azione 
dell’interesse 
ad 
impugnare. 
va 
precisato, 
tuttavia, 
che 
il 
principio 
della 
non immediata 
impugnabilità 
degli 
atti 
di 
carattere 
endoprocedimentale 
è 
stato 
talvolta 
temperato 
dal 
giudice 
amministrativo. 
In 
particolare, 
è 
stato 
evidenziato 
che 
tale 
regola 
incontra 
un’eccezione 
nell’ipotesi 
in 
cui 
gli 
atti 
endoprocedimentali 
siano 
suscettibili 
di 
incidere 
immediatamente 
sulla 
posizione 
giuridica 
dell’interessato, come 
nel 
caso degli 
atti 
di 
natura 
vincolata 
(questo 
accade 
per i 
cd. pareri 
conformi), idonei 
in quanto tali 
ad imprimere 
un indirizzo 
ineluttabile 
alla 
determinazione 
conclusiva, oppure 
degli 
atti 
interlocutori, 
laddove 
idonei 
a 
determinare 
un 
arresto 
procedimentale 
capace 
di 
frustrare 
l’aspirazione 
dell’istante 
ad un celere 
soddisfacimento dell’interesse 
pretensivo prospettato (5). 


(4) “Fatto salvo quanto previsto dall'art. 17, i 
termini 
di 
cui 
ai 
commi 
2, 3, 4 e 
5 del 
presente 
articolo 
possono essere 
sospesi, per 
una sola volta e 
per 
un periodo non superiore 
a trenta giorni, per 
l'acquisizione 
di 
informazioni 
o 
di 
certificazioni 
relative 
a 
fatti, 
stati 
o 
qualità 
non 
attestati 
in 
documenti 
già in possesso dell'amministrazione 
stessa o non direttamente 
acquisibili 
presso altre 
pubbliche 
amministrazioni. 
Si applicano le disposizioni dell'art. 14, comma 2”. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


4. 
(segue) 
aspetti 
preliminari. 
responsabilità 
penale 
connessa 
alla 
emanazione 
di un parere. 
Il 
parere 
è, come 
visto, un atto amministrativo. Nella 
sua 
emanazione, a 
seconda 
della 
fattispecie 
concreta, si 
può incorrere, tra 
gli 
altri, nei 
delitti 
delineati 
nel 
Capo I del 
Titolo II del 
Libro II del 
Codice 
penale 
(artt. 314-335bis: 
“dei 
delitti 
dei 
pubblici 
ufficiali 
contro 
la 
pubblica 
amministrazione”) 
ed altresì 
-a 
titolo di 
concorso -nei 
delitti 
delineati 
nel 
Capo II del 
Titolo II 
del 
Libro II del 
Codice 
penale 
(artt. 336-356: 
“dei 
delitti 
dei 
privati 
contro la 
pubblica amministrazione”). 


Sicché, la persona fisica componente l’organo consultivo che 


-riceva 
una 
mercede 
per rendere 
un parere 
risponderà 
per corruzione 
ex 
artt. 318-319 c.p.; 
-renda 
un 
parere, 
costringendo 
taluno 
a 
dare 
o 
promettere 
danaro, 
abusando 
della 
sua 
qualità 
o 
dei 
suoi 
poteri 
risponderà 
per 
concussione 
ex 
artt. 
317 
c.p.; 


-renda 
il 
parere 
abusando 
del 
suo 
ufficio 
risponderà 
del 
reato 
ex 
art. 
323 
c.p. 


Molto rilevante 
è 
la 
problematica 
della 
responsabilità 
penale 
per la 
emanazione 
di 
un parere 
nel 
corso di 
un procedimento sfociante 
in un provvedimento 
che integra - quest’ultimo - una fattispecie criminosa (es. corruzione). 


A 
stretto rigore 
il 
ruolo del 
parere 
nel 
procedimento amministrativo non 
condiziona 
il 
provvedimento finale. Sicché 
-con l’eccezione 
del 
parere 
conforme 
-non si 
dovrebbe 
mai 
rispondere 
per l’emanazione 
di 
un simile 
parere, 
atteso che 
farebbe 
difetto il 
nesso di 
causalità, il 
contributo causale 
ex 
art. 40 
c.p., atteso che 
il 
parere 
potrebbe 
essere 
sempre 
motivatamente 
disatteso dal 
destinatario. 


La 
giurisprudenza 
-giustamente 
-è 
di 
contrario avviso. Reputa, difatti, 
che 
ove 
il 
parere 
abbia 
avuto una 
qualche 
influenza 
nella 
adozione 
del 
provvedimento 
finale 
risponde 
del 
reato -in concorso -il 
soggetto che 
ha 
emanato 
il 
parere. Beninteso: 
ciò in presenza 
di 
tutti 
i 
requisiti 
della 
fattispecie 
incriminatrice, 
primo fra 
tutti 
l’elemento psicologico del 
dolo o, nei 
casi 
previsti 
dalla legge, della colpa. 


5. profili di interesse giuridico. 
Delineati 
gli 
aspetti 
prodromici, 
si 
osserva 
che 
il 
caso 
di 
specie 
riveste 
un 
particolare 
interesse 
giuridico 
per 
almeno 
quattro 
profili 
-involgenti 
la 
funzione 
consultiva 
dell’Avvocatura 
dello Stato -oggetto di 
disamina 
tanto nella 
memoria difensiva, che nella sentenza. 


(5) In tal 
senso ex 
multis: 
Cons. St., vI, 20 luglio 2011, n. 4393; 
Cons. St., Iv, 4 febbraio 2008, 
n. 296; 
T.A.R. Lazio Roma, Sez. I, 26 gennaio 2012, n. 865. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


6. l’oggetto della consultazione giuridica. 
Il 
primo aspetto rilevante 
è 
l’oggetto della 
consultazione, all’esito della 
richiesta di parere. 


L’organo 
consultivo 
risponde 
rispetto 
a 
quello 
che 
viene 
richiesto 
dal-
l’amministrazione ausiliata. 


Il 
parere 
è, 
in 
ogni 
caso, 
reso 
secondo 
parametri 
di 
diritto, 
sulla 
base 
delle 
indicazioni 
di 
fatto 
fornite 
dall’amministrazione 
richiedente 
che 
sono 
necessariamente 
assunte 
a 
presupposto 
dell’opinione 
giuridica 
espressa 
ove 
non 
emergano 
elementi 
di 
contrasto 
o 
contraddizioni 
nella 
stessa 
richiesta 
di 
parere. 


Il 
procedimento 
consultivo 
-o 
subprocedimento, 
a 
seconda 
delle 
evenienze 
-inizia 
con la 
richiesta 
di 
parere. La 
richiesta 
contiene 
i 
quesiti 
posti 
all’organo consultivo. Il 
parere, nel 
riscontrare 
la 
richiesta, deve 
avere 
ad oggetto 
i temi oggetto della richiesta. 

Sicché, 
ad 
esempio, 
ove 
su 
una 
gara 
d’appalto 
-procedura 
strutturalmente 
complessa, con varie 
fasi 
-sorge 
un dubbio e 
viene 
richiesto un parere 
per lumeggiare 
il 
dubbio, 
l’organo 
consultivo 
dovrà 
rispondere 
sul 
tema 
posto. 
Nella 
richiesta 
di 
parere, l’istante 
allegherà 
il 
bando, l’aggiudicazione, il 
contratto. 
L’organo 
consultivo 
non 
deve 
-rectius: 
non 
potrà 
-controllare 
la 
regolarità 
dell’intera gara, in assenza di una traccia su cui lavorare. 

Anche 
nel 
procedimento 
consultivo 
opera 
il 
principio 
della 
domanda. 
Tanto 
viene 
statuito, 
nella 
sua 
essenzialità, 
dal 
citato 
art. 
13 
del 
R.D. 
n. 
1611/1933 
secondo 
cui 
“l'avvocatura 
dello 
Stato 
provvede 
[…] 
alle 
consultazioni 
legali 
richieste 
dalle 
amministrazioni 
[…]”. 
Diversamente, 
l’organo 
consultivo 
si 
arrogherebbe 
un 
compito 
che 
non 
gli 
compete: 
quello 
sindacatorio. 


La 
sentenza 
annotata 
riconosce 
tale 
dato, 
evidenziando 
che 
alcuna 
censura 
può essere 
mossa 
all’organo legale 
per la 
mancata 
valutazione 
di 
un -rectius: 
di 
uno degli 
svariati, indeterminati, aspetti 
-aspetto del 
procedimento in assenza 
di specifico quesito al riguardo. 


7. Criteri di assegnazione degli affari contenziosi e consultivi. 
Il 
secondo dato rilevante 
attiene 
ai 
criteri 
di 
assegnazione 
degli 
affari 
tra 
i 
quali 
gli 
affari 
consultivi 
-nello specifico ufficio (Avvocatura 
Generale 
e 
Avvocature Distrettuali). 

Il 
giudicante 
riconosce, 
in 
coerenza 
con 
quanto 
rappresentato 
dalla 
difesa 
dell’imputato, la 
discrezionalità 
del 
capo dell’ufficio nella 
assegnazione 
degli 
affari. 
La 
eventuale 
articolazione 
degli 
uffici 
in 
sezioni, 
ciascuna 
trattante 
specifiche 
materie 
e 
con 
avvocati 
ivi 
addetti 
-all’attualità 
presso 
l’Avvocatura 
Generale 
e 
presso l’Avvocatura 
dello Stato di 
Napoli 
-non comporta 
ritagli 
di 
competenza interna. 


Di 
conseguenza 
il 
capo dell’ufficio, rectius: 
l’Avvocato Generale 
e 
l’Avvocato 
Distrettuale, 
ha 
piena 
discrezionalità 
nelle 
assegnazioni, 
affidando 
l’affare 
contenzioso o consultivo ad avvocato di sezione o fuori sezione. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


8. modalità di espletamento della consulenza. 
Altro 
aspetto 
rilevante 
è 
l’analisi 
delle 
modalità 
di 
espletamento 
della 
consulenza. 


Il 
giudicante 
-alla 
luce 
delle 
risultanze 
dibattimentali 
-prende 
atto delle 
molteplici 
modalità, comunque 
funzionali 
all’interesse 
pubblico, con le 
quali 
può 
essere 
resa 
la 
consultazione. 
Modalità 
che 
tengono 
conto 
della 
evoluzione 
e 
degli 
sviluppi 
collegati 
con la 
modernizzazione, efficienza 
ed efficacia 
del-
l’azione 
amministrativa: 
consulenza 
per le 
vie 
brevi, assistenza 
post 
consultazione 
(delibazione 
della 
bozza 
del 
provvedimento conseguenziale 
al 
giudizio 
consultivo), sessioni 
periodiche 
dedicate 
all’esame 
delle 
criticità 
amministrative 
con consulenza preventiva all’azione amministrativa. 


9. imputazione giuridica dei pareri. 
ultimo aspetto rilevante è la imputazione giuridica dei pareri. 


Il 
parere 
non viene 
reso dall’Avvocato dello Stato estensore, ma 
dall’Avvocatura 
dello Stato, a mezzo dei suoi rappresentanti. 


Orbene, 
l’organo 
al 
quale 
imputare 
la 
consultazione 
è 
l’Avvocato 
Distrettuale 
(presso le 
Avvocature 
Distrettuali) e 
l’Avvocato Generale 
e/o i 
vice 
Avvocati 
Generali 
(presso l’Avvocatura 
Generale). Tanto, in conseguenza 
delle 
competenze 
legislativamente 
determinate, 
come 
ampiamente 
esposto 
nella 
memoria difensiva. 


va 
infine 
rilevato 
che 
-sempre 
in 
tema 
responsabilità 
penale 
collegata 
alla 
redazione 
di 
un 
parere 
-si 
è 
autorevolmente 
osservato 
che 
allorché 
un’amministrazione 
dello Stato richiede 
un parere 
“si 
rivolge 
all’avvocatura dello 
Stato e 
non al 
singolo avvocato dello Stato, e 
che 
il 
parere 
viene 
reso all’amministrazione 
richiedente 
non dal 
singolo avvocato dello Stato che 
lo redige 


o 
dall’avvocato 
generale 
o 
vive 
avvocato 
generale 
che 
lo 
sottoscrive, 
ma 
dall’avvocatura 
dello 
Stato, 
previo 
esperimento 
di 
un 
procedimento 
complesso 
che 
passa 
attraverso 
fasi 
specifiche 
di 
competenza 
funzionale 
di 
più 
organi 
interni 
distinti 
l’uno dall’altro: assegnazione 
-redazione 
-esame 
di 
coordinamento 
-(eventuale 
intervento 
del 
comitato 
consultivo) 
-sottoscrizione” 
(6). 
(6) 
Così: 
O. 
FIuMARA, 
E. 
FIGLIOLIA, 
il 
procedimento 
di 
formazione 
dei 
pareri 
dell’avvocatura 
dello Stato, in questa 
rassegna, 2003, nn. 2-3, p. 3. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


TRIBuNALE DI NAPOLI 


R.G. 35402/08 NR - 14931/14 RG 
Prima sezione penale - Coll. A 
udienza del 14 novembre 2019 
MEMORIA DIFENSIvA 
per l’avvocato dello Stato P.D.v. rapp. e 
difeso ex 
artt. 44 T.u. 1611/1933 e 
9 L. 103/1979 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
e 
dall’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli 
presso cui domicilia in Napoli alla via Diaz, 11 


PREMESSO 
l’avv. 
P.D.v. 
è 
stato 
tratto 
in 
giudizio 
-unitamente 
ad 
altri 
coimputati 
-per 
rispondere 
del 
“reato p. e 
p. dagli 
artt. 81 c.p., 110, 353 comma 2 c.p., perché 
in concorso e 
previo accordo 
tra 
loro, 
con 
più 
azioni 
esecutive 
di 
un 
medesimo 
disegno 
criminoso, 
d. 
quale 
presidente 
dell’autorità portuale 
di 
napoli, istigatore, esecutore 
ed organizzatore 
delle 
condotte 
criminose, 
p. 
quale 
dirigente 
della 
predetta 
autorità, 
nonché 
quale 
componente 
della 
Commissione 
giudicatrice 
per 
la gara relativa all’“assentimento in concessione 
delle 
aree 
e 
di 
uno specchio 
acqueo 
prospiciente 
il 
lato 
interno 
del 
molo 
martello 
nel 
porto 
di 
napoli 
per 
l’ormeggio 
di 
un 
bacino 
galleggiante 
di 
proprietà 
privata 
per 
svolgere 
attività 
di 
riparazione 
navale” 
[…], u., l.d.F. e 
p. quali 
amministratori 
di 
fatto e/o di 
diritto nonché 
dirigenti 
della società 
“nuova 
meccanica 
navale 
srl” 
partecipante 
alla 
gara 
sopra 
indicata 
e 
beneficiaria 
delle 
collusioni, p.d.v. quale 
avvocato dello Stato che 
predisponeva, per 
l’autorità portuale, un 
parere 
di 
comodo 
per 
consentire 
alla 
“nuova 
meccanica 
navale” 
di 
essere 
dichiarata 
aggiudicataria 
della gara in virtù dell’esclusione 
dalla stessa della palumbo spa da parte 
del-
l’autorità 
portuale 
causa 
un 
vizio 
di 
forma 
(pacificamente 
ritenuto 
irrilevante 
dalla 
giurisprudenza amministrativa e, comunque, del 
tutto simile 
-se 
non di 
minor 
rilievo -rispetto 
ad 
un 
vizio 
di 
forma 
analogo 
che 
riguardava 
l’offerta 
della 
“nuova 
meccanica 
navale”) 
colludendo 
tra 
loro, 
turbavano 
il 
regolare 
andamento 
della 
gara 
al 
fine 
di 
favorire 
l’aggiudicazione 
della stessa alla citata “nuova meccanica navale 
srl” 
che, prima riceveva 
dalla 
Commissione 
un 
elevato 
punteggio 
nella 
valutazione 
(discrezionale) 
della 
prima 
offerta 
inerente 
al 
cd. “piano d’impresa” 
e, poi, una volta che 
l’offerta complessiva della “nuova 
meccanica 
navale 
srl” 
veniva 
superata 
dalla 
concorrente 
“palumbo 
spa” 
che 
otteneva, 
nella 
seconda 
offerta, 
cd. 
economica, 
un 
punteggio 
più 
elevato 
(la 
palumbo 
offriva 
all’autorità 
portuale 
un canone 
concessorio più che 
doppio rispetto a quello offerto dalla nuova meccanica 
navale 
srl”) veniva comunque 
dichiarata aggiudicataria della gara con provvedimento 
del 
d. che 
-sulla base 
del 
parere 
dell’avvocatura sopra indicato -sovvertendo il 
provvedimento 
provvisorio della commissione 
di 
gara, escludeva la palumbo spa dalla gara e 
dichiarava 
aggiudicataria la “nuova meccanica navale srl”. 


********* 
L’accusa 
appare 
essere 
sfornita 
di 
qualsivoglia 
fondamento come 
dimostrato nel 
corso del-
l’istruttoria dibattimentale per quanto appresso si riassume. 
DATI FATTuALI 


1) Procedura 
relativa 
all’“assentimento in concessione 
delle 
aree 
e 
di 
uno specchio acqueo 
prospiciente 
il 
lato 
interno 
del 
molo 
martello 
nel 
porto 
di 
napoli 
per 
l’ormeggio 
di 
un 
bacino 
galleggiante di proprietà privata per svolgere attività di riparazione navale”. 
La 
normativa 
in materia 
prevede 
che 
le 
concessioni 
marittime 
ultraquadriennali 
vengano rilasciate 
dal 
Comitato Portuale, giusta 
art. 9, L. 28 gennaio 1994, n. 84 nel 
testo vigente 
al



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


l’epoca 
dei 
fatti, tenendo conto delle 
regole 
del 
codice 
della 
navigazione 
(artt. 36-37 c.n.; 
art. 
18 regolamento c.n.). 
Nel 
caso di 
specie, in presenza 
di 
una 
sollecitazione 
di 
un privato, istanza 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale, si 
ebbe 
l’avvio, ai 
sensi 
dell'art. 36 c.n., a 
rilasciare 
una 
concessione; 
all’uopo 
venne pubblicato un avviso per poter sollecitare domande concorrenti. 
Con 
la 
deliberazione 
43 
del 
21.12.2010, 
il 
Comitato 
Portuale 
conferì 
mandato 
al 
Presidente 
dell'Autorità 
Portuale, 
L.D., 
di 
“procedere 
alla 
definizione 
procedimentale 
delle 
istanze 
pendenti 
richiamate 
in 
premessa, 
previa 
determinazione 
dell’applicabilità 
o 
di 
procedura 
di 
gara 
oppure 
di 
procedimento 
selettivo 
concorrenziale 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
comunitari 
cui 
va 
uniformata 
l’azione 
amministrativa…”. 
Le 
istanze 
riguardavano 
la 
concessione 
demaniale 
per 
le 
aree 
e 
per 
lo 
specchio 
d'acqua 
poste 
in 
prossimità 
del 
Molo 
Martello 
nel 
Porto 
di 
Napoli. 
L'avviso fu pubblicato il 26.01.2011. 
Con 
la 
delibera 
numero 
147 
del 
23.03.2011, 
il 
Presidente 
D., 
atteso 
l’elevato 
tecnicismo 
nella 
materia, 
provvide 
a 
nominare 
una 
commissione 
composta 
da 
quattro 
membri, 
da 
tecnici 
esperti 
della materia per scegliere il privato che doveva costruire il bacino galleggiante. 
Il 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
-autolimitandosi 
-in 
funzione 
della 
trasparenza 
affidò 
quindi 
l’istruttoria 
(a 
tanto 
non 
era 
tenuto, 
giusta 
la 
normativa 
in 
materia) 
ad 
una 
commissione 
ad hoc 
i 
cui 
lavori 
sfociarono nell’individuazione 
di 
date 
risultanze 
alla 
stregua 
di 
prefissati 
criteri 
(cd. 
aggiudicazione, 
assegnazione 
provvisoria: 
i 
termini 
sono 
impropri 
atteso 
che 
si 
descrive l’esito di una attività istruttoria). 
In 
data 
18.05.2011, 
all’esito 
dell’istruttoria 
-con 
l’esame 
delle 
offerte 
(busta 
A, 
busta 
B, 
busta 


C) delle 
due 
società 
partecipanti 
(Nuova 
Meccanica 
Navale 
e 
Palumbo), la 
Commissione 
assegnò 
provvisoriamente 
(rectius: 
terminò i 
propri 
compiti, individuando, date 
le 
risultanze) 
alla società Palumbo. 
A 
verbale, 
il 
P., 
in 
rappresentanza 
della 
società 
Nuova 
meccanica 
Navale 
ebbe 
a 
fare 
riserva 
di 
impugnazione 
dell’aggiudicazione 
stessa 
(le 
vicende 
del 
procedimento 
e 
il 
contenuto 
delle 
buste 
con 
le 
varie 
mancanze 
emergono 
dagli 
atti 
acquisiti 
al 
procedimento 
e 
dalle 
escussioni 
procedimentali; 
tra 
queste 
ultime 
ex 
plurimis: 
escussione 
del 
teste 
F. 
all’udienza 
del 
02.02.2016: 
pp. 
18-27 
del 
verbale; 
escussione 
del 
teste 
D.M. 
all’udienza 
del 
03.05.2016: 
pp. 
16-20 
e 
pp. 
37-39 
del 
verbale 
[tra 
l’altro 
si 
evidenzia: 
“DICh. 
D.M. 
-nel 
bando 
era 
prevista 
a 
pena 
di 
esclusione 
tassativamente 
l’obbligo 
a 
carico 
dei 
concorrenti 
di 
inserire 
in 
ogni 
busta 
la 
fotocopia 
del 
documento 
di 
riconoscimento 
di 
colui 
che 
sottoscriveva 
l’offerta 
tecnica, 
l'offerta 
economica 
etc. 
etc..” 
pp. 
19-20 
del 
verbale]; 
escussione 
del 
teste 
L.P. 
all’udienza 
del 
10.05.2018: 
pp. 
9-15 
del 
verbale; 
esame 
dell’imputato 
P. 
all’udienza 
del 
13.06.2019: 
pp. 
25-40 
del 
verbale; 
esame 
dell’imputato 
D.v. 
all’ 
udienza 
del 
12.09.2019: 
pp. 
6-7 
del 
verbale). 
In 
ordine 
alla 
Busta 
A 
(Richiesta 
di 
partecipazione) 
delle 
due 
società 
partecipanti 
(Nuova 
Meccanica 
Navale 
e 
Palumbo), il 
verbale 
della 
Commissione 
rilevava 
che 
mancavano i 
documenti 
di 
riconoscimento per i 
direttori 
tecnici 
sia 
dell’una 
che 
dell’altra 
ditta 
e 
concludeva, 
evidenziando che 
tale 
vizio non era 
previsto a 
pena 
di 
esclusione 
dal 
bando (ed essendo, comunque, 
comune ad entrambi). 
La 
Commissione 
rilevava, 
altresì, 
la 
mancanza 
del 
documento 
per 
il 
fideiussore 
della 
soc. 
Palumbo, 
evidenziando, anche 
in questo caso, che 
non vi 
era 
una 
previsione 
di 
esclusione 
nelle 
prescrizioni del bando. 
Dal 
carteggio 
acquisito 
al 
procedimento 
e 
all’esito 
dell’istruttoria 
dibattimentale 
(dichiarazione 
dell’imputato 
P. 
all’udienza 
dibattimentale 
del 
10.01.2019: 
pp. 
10-13 
del 
verbale) 
emerge 
pianamente 
che 
le 
prescrizioni 
del 
bando (art. 5, Busta 
A, comma 
3A 
/m 
quater 
pag. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


8), 
sul 
punto, 
rimandavano 
per 
le 
dichiarazioni 
(del 
direttore 
tecnico) 
all’art. 
46 
del 
DPR 
445/00 
che, 
letteralmente, 
è 
riferito 
alle 
“dichiarazioni 
sostitutive 
di 
certificazione” 
che, 
stando alla 
norma, non postulavano l’allegazione 
del 
documento di 
riconoscimento, diversamente 
dalle 
“dichiarazioni 
sostitutive 
dell’atto 
di 
notorietà” 
previste 
dall’art. 
47 
che, 
invece, 
rinviando all’art. 38 del 
DPR 445/00, dovevano essere 
corredate 
da 
fotocopia 
del 
documento 
di riconoscimento. 
La 
prescrizione 
violata 
da 
entrambi 
i 
partecipanti 
nella 
busta 
A) 
(per 
la 
sola 
figura 
del 
direttore 
tecnico) non era connotata dalla previsione del bando a pena di esclusione. 
In 
ordine 
alla 
Busta 
B 
(Piano 
Industriale 
-Offerta 
Tecnica) 
dei 
due 
partecipanti, 
il 
verbale 
della 
Commissione 
rilevava 
la 
mancanza 
di 
un documento allegato alla 
dichiarazione 
del 
legale 
rappresentante 
Palumbo, la 
quale 
veniva 
notata, perché 
prevista 
a 
pena 
di 
esclusione 
nel 
bando (art. 5, Busta 
B, comma 
4, ult. capoverso, pag. 10); 
tuttavia 
tale 
violazione 
del 
bando 
non veniva sanzionata dalla commissione con la doverosa esclusione, ma superata. 
Analogamente 
per 
la 
Busta 
C 
(Offerta 
Economica) 
(art. 
5, 
Busta 
C, 
pag. 
10), 
dove 
si 
verificava 
la 
stessa 
situazione 
e 
la 
Commissione 
ripeteva 
la 
stessa 
verbalizzazione 
effettuata 
per 
la 
busta 
B). 
La 
differenza 
tra 
i 
vizi 
conseguiva 
dall’applicazione 
della 
lex 
specialis: 
si 
trattava 
di 
violazioni 
apparentemente 
simili, ma 
sancite 
in modo assolutamente 
diverso, in quanto solo quelle 
previste 
a 
pena di esclusione 
dal 
bando - come 
nel 
caso della 
busta 
B) e 
C) - avevano un rilievo 
tale 
da 
determinarne 
l’esclusione, anche 
perché 
riferite 
ad una 
figura 
diversa 
(il 
legale 
rappresentante 
e non il direttore tecnico). 
Il 
vizio di 
forma 
di 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
di 
cui 
alla 
busta 
A) non era, quindi, analogo a 
quello 
della 
società 
Palumbo 
con 
riferimento 
alla 
busta 
B) 
perché 
riguardava 
un 
requisito 
non 
richiesto a 
pena 
di 
esclusione 
dal 
bando e 
cioè 
la 
fotocopia 
del 
documento di 
identità 
del 
direttore 
tecnico 
(non 
previsto 
affatto, 
quindi 
nemmeno, 
a 
maggior 
ragione, 
a 
pena 
di 
esclusione, 
in quanto si 
rientrava 
in un caso di 
autocertificazione 
e 
non, come 
nella 
busta 
B), di 
dichiarazione 
sostituiva di atto di notorietà del legale rappresentante). 
Le 
violazioni, 
nella 
quale 
è 
incorsa 
la 
sola 
Palumbo, 
nelle 
buste 
B) 
e 
C) 
erano 
diverse 
ed 
erano 
previste espressamente e tassativamente a pena di esclusione nell’avviso. 
La 
Commissione 
avrebbe 
dovuto, quindi, escludere 
la 
società 
Palumbo all’atto dell’apertura 
della busta B). 
Alla busta C) non si sarebbe dovuti proprio arrivare. 
Dall’esame 
dell’imputato 
P. 
all’udienza 
del 
20.01.2019 
si 
rileva: 
“IMPuTATO, 
P. 
-[…] 
il 
problema 
grosso 
va 
sulla 
busta 
b, 
perché 
nella 
busta 
b 
dove 
sta 
scritto 
espressamente 
dal 
bando 
“a 
pena 
di 
esclusione” 
non 
c’era 
il 
documento 
del 
legale 
rappresentante 
della 
palumbo. 
PuB-
BLICO 
MINISTERO 
-e 
quindi 
lei 
lo 
fece 
rilevare? 
IMPuTATO, 
P. 
-assolutamente 
l’ho 
fatto 
rilevare 
ed i signori si incontrarono, la Commissione si riunì, e dopo un po’ uscirono con questo giudizio 
molto 
all’acqua 
di 
rosa, 
“per 
noi 
non 
è 
rilevante 
dato 
che 
sta 
già 
nella 
busta 
a”. 
“ma 
scusa, 
sta 
scritto 
sopra 
al 
bando 
di 
gara. 
allora 
di 
che 
cosa 
parliamo? 
allora 
scrivete 
un 
altro 
bando, 
fate 
un’altra 
cosa”. 
PuBBLICO 
MINISTERO 
-lei 
ha 
fatto 
mettere 
a 
verbale 
questo? 
IM-
PuTATO, 
P. 
-Sì, 
loro 
l’hanno 
scritto 
e 
si 
è 
chiusa 
la 
seduta” 
[…] 
PuBBLICO 
MINISTERO 
-della 
mancanza 
del 
documento. 
IMPuTATO, 
P. 
-la 
prima 
cosa, 
devo 
dirle 
la 
verità, 
chiamai 
il 
nostro 
legale 
che 
poi 
ci 
segue 
per 
tutte 
queste 
pratiche, 
che 
è 
l’avvocato 
enrico 
Soprano. 
lui 
disse: 
“dario, 
va 
bene, 
l’importante 
è 
che 
loro 
la 
mettono 
a 
verbale, 
poi 
vediamo”. 
PuBBLICO 
MINISTERO 
-un 
eventuale 
ricorso, 
immagino? 
IMPuTATO, 
P. 
-Certo, 
per 
valutare 
un 
eventuale 
ricorso, 
naturalmente” 
(pagg. 
10-11 
del 
verbale). 
Dall’esame 
dell’imputato 
P. 
all’udienza 
del 
13.06.2019 
si 
rileva 
altresì: 
“DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-ammiraglio, 
chiedo 
scusa, 
con 
chiarezza, 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


quindi 
all'esito 
dei 
lavori 
della 
Commissione 
e 
quindi 
della 
aggiudicazione 
provvisoria 
fatta 
a 
palumbo 
ci 
fu 
una 
riserva 
espressa 
del 
rappresentante 
della 
nuova 
meccanica 
navale? 
IM-
PuTATO, 
P. 
-Sì. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-può 
dire 
questa 
riserva 
cosa 
prevedeva? 
Fu 
messa 
a 
verbale 
questa 
riserva? 
IMPuTATO, 
P. 
-È 
certo. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Cosa 
diceva 
questa 
riserva? 
IMPuTATO, 
P. 
-Che 
“la 
nuova 
meccanica 
navale 
si 
riserva 
di 
tutelare 
i 
propri 
interessi 
nelle 
sedi 
opportune 
con 
particolare 
riguardo 
alla 
ammissibilità, 
alla 
compatibilità” 
e 
quindi 
avrebbe 
fatto 
ricorso 
e 
opposizione. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Cioè, 
su 
cosa 
esprimeva 
riserva? 
IMPuTATO, 
P. 
-Sulla 
decisione 
della 
Commissione 
presa 
in 
precedenza 
di 
continuare 
ad 
ammettere 
la 
società 
palumbo 
anche 
se 
non 
aveva 
presentato 
la 
fotocopia 
del 
documento 
di 
identità 
nella 
offerta 
economica. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Quindi 
immediatamente 
la 
nuova 
meccanica 
navale 
mise 
a 
verbale 
la 
propria 
riserva 
che 
avrebbe 
fatto 
ricorso. 
C’era 
qualche 
altra 
riserva, 
per 
caso? 
non 
è 
che 
erano 
due 
le 
riserve, 
ammiraglio 
[…] 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-mi 
pare 
che 
fossero 
due 
le 
riserve. 
IMPuTATO, 
P. 
-“la 
nuova 
meccanica 
navale 
si 
riserva 
di 
tutelare 
i 
propri 
interessi…” 
questo 
è 
quello 
che 
ha 
scritto 
il 
rappresentante 
della 
meccanica 
navale 
p. 
“... 
la 
meccanica 
navale 
si 
riserva 
di 
tutelare 
i 
propri 
interessi 
nelle 
sedi 
opportune, 
con 
particolare 
riferimento 
a: 
ammissibilità 
all'offerta 
economica 
presentata 
dalla 
palumbo 
S.p.a. 
priva 
del 
documento 
d'identità 
del 
legale 
rappresentante 
previsto 
espressamente 
dall'articolo 
5 
del 
bando 
a 
pena 
di 
esclusione. 
alla 
compatibilità 
della 
concessione 
da 
rilasciare 
con 
quelle 
già 
in 
essere 
dal 
medesimo 
scopo 
rilasciate 
alla 
palumbo 
S.p.a. 
espressamente 
previste 
dal-
l'articolo 
4”. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Quindi 
erano 
due 
le 
riserve? 
IMPuTATO, 
P. 
-Queste 
erano, 
due, 
sì. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-perfetto. 
Quindi, 
concluso 
questo 
verbale 
cosa 
accadde? 
IMPu-
TATO, 
P. 
-vengono 
trasmessi 
gli 
atti 
al 
presidente. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-il 
presidente 
cosa 
fece? 
IMPuTATO, 
P. 
-intanto, 
era 
anche 
facile, 
vide 
che 
c'era, 
come 
dire, 
una 
promessa, 
minaccia, 
di 
opposizione 
se… 
e 
quindi 
iniziava 
la 
possibilità 
di 
azioni 
di 
diffida, 
magari 
non 
solo 
amministrative 
come 
ricorso 
ma 
anche 
di 
livello 
personale 
come 
responsabilità. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-perché? 
IMPuTATO, 
P. 
-il 
risarcimento 
del 
danno. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Quindi 
il 
presidente 
era 
preoccupato 
di 
questa 
riserva 
perché 
non 
c'era 
solamente 
una 
problematica 
del 
rispetto 
delle 
norme 
amministrative 
ma 
c'era 
addirittura 
una 
responsabilità, 
un'ipotesi 
di... 
come 
dire, 
di 
aver 
danneggiato, 
cagionato 
un 
danno 
all'autorità 
portuale 
in 
questi 
termini… 
IMPuTATO, 


P. 
-esatto. 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-... 
e 
quindi, 
cosa 
pensò 
di 
fare, 
se 
lei 
lo 
sa, 
se 
partecipò, 
se 
ebbe 
ad 
interloquire 
con 
il 
presidente? 
IMPuTATO, 
P.-Si 
parlò 
di 
questo 
fatto 
e 
ritenne 
di 
consultarsi 
con 
l'avvocatura 
dello 
Stato. 
(pagg. 
39-40 
del 
verbale). 
L’Ammiraglio 
D., 
anche 
a 
seguito 
dei 
rilievi 
di 
illegittimità 
subito 
sollevati 
dalla 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
in sede 
di 
aggiudicazione 
provvisoria 
-prima 
di 
approvare 
i 
lavori 
della 
Commissione 
e 
rimettere 
gli 
atti 
al 
Comitato 
Portuale 
in 
vista 
del 
rilascio 
della 
concessione 
-investì 
della 
problematica 
relativa 
alla 
correttezza 
della 
aggiudicazione 
provvisoria 
con riferimento 
alla 
regolarità 
della 
valutazione 
operata 
dalla 
Commissione 
con riguardo alla 
Busta 
B) l’Avvocatura 
dello Stato. 
2) Iter del rilascio del parere di cui al capo di imputazione. 
L’avv. P. D.v. è 
avvocato dello Stato in servizio presso l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato 
di Napoli all’epoca dei fatti rilevanti. 
L’avv. 
D.v. 
-come 
confermato 
sia 
in 
sede 
di 
interrogatorio 
investigativo, 
reso 
prima 
della 
conclusione 
delle 
indagini 
preliminari 
al 
PM, dott.ssa 
Antonella 
Fratello (pag. 2 del 
relativo 
verbale), che 
in sede 
di 
esame 
e 
controesame 
dibattimentale 
(udienza 
12.09.2019; 
pag. 5 del 
verbale) 
-ha 
conosciuto, 
tra 
i 
vari 
coimputati, 
il 
solo 
Ammiraglio 
D., 
probabilmente 
nel 
giugno 
2011, in Avvocatura distrettuale dello Stato, in via Diaz in Napoli. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


L’Avvocato 
Distrettuale 
F., 
per 
ragioni 
istituzionali, 
aveva 
una 
pregressa 
conoscenza 
con 
l’Ammiraglio 
D. 
(come 
confermato 
dall’avv. 
F. 
in 
sede 
di 
esame 
testimoniale 
all’udienza 
12.09.2019, pag. 11 del verbale). 
Il 
capo dell’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli, all’epoca 
dei 
fatti 
rilevanti, G.F., 
chiamò D.v. nella 
propria 
stanza 
e 
gli 
presentò, in presenza 
di 
altre 
persone 
(probabilmente 
c’era 
anche 
il 
collega 
avvocato dello Stato, F.v., l’Ammiraglio D., il 
quale, in modo molto 
amareggiato, espose una situazione di proprio isolamento rispetto all’ufficio da lui diretto. 
In particolare 
fece 
riferimento ad una 
situazione 
conflittuale 
con il 
proprio dirigente 
di 
staff 
e responsabile dell’ufficio legale interno dell’Autorità, A.D.M. 
Tale 
disagio, a 
quanto è 
dato oggi 
leggere 
nelle 
varie 
denunzie 
presentate 
dall’avv. D.M., era 
reciproco e 
nasceva 
già 
dal 
2009, vale 
a 
dire 
da 
quando D. era 
diventato Presidente 
dell’Autorità 
Portuale. 
Nel 
corso di 
quel 
breve 
incontro, l’Avvocato Distrettuale 
anticipò all’avv. D.v. che 
probabilmente 
gli 
avrebbe 
assegnato una 
richiesta 
di 
parere 
in relazione 
ad una 
procedura, motivando 
l’assegnazione 
con il 
fatto che 
l’avv. D.v. era 
uno tra 
gli 
avvocati 
dello Stato con maggiore 
esperienza in materia di contratti pubblici. 
Tale 
circostanza 
è 
stata 
confermata 
da 
F. 
nell’interrogatorio 
testimoniale 
reso 
in 
data 
12.09.2019 (pag. 13 del verbale). 
Né 
D. né 
F. fecero cenno al 
merito e 
al 
contenuto della 
richiesta 
di 
parere; 
pertanto l’avv. D. 


v. lasciò la stanza dell’Avvocato Distrettuale, senza conoscere alcunchè della questione. 
Dall’esame 
testimoniale 
dell’avv. 
F., 
all’udienza 
del 
12.09.2019, 
si 
rileva: 
“DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-un’ultima precisazione, vengo viceversa all’incontro nel 
suo ufficio con l’ammiraglio d. 
ed in particolare 
al 
momento in cui 
le 
parlò dell’esito di 
questa vicenda amministrativa per 
la concessione 
del 
molo martello. ma le 
riferì 
che 
lui 
preferiva una ditta rispetta all’altra, le 
chiedeva di 
rendere 
un parere 
con un risultato predefinito? 
TESTIMONE, F. 
-Ci 
mancherebbe 
altro 
che 
qualcuno 
si 
permettesse 
di 
una 
cosa 
del 
genere, 
voglio 
dire, 
il 
problema 
è… 
DIFESA, 
Avv. GuIDA 
-mi 
deve 
perdonare 
la domanda, avvocato, ma noi 
celebriamo il 
processo anche 
per 
questo. 
TESTIMONE, F. 
-voglio dire, lui 
mi 
disse 
che 
aveva molti 
dubbi 
sull’assoluzione 
che 
gli 
prospettava l’ufficio legale, ma devo dire 
era un normale 
dubbio… 
indicò questa divergenza 
di 
opinione 
tra 
lui 
e 
l’ufficio 
legale, 
ma 
no, 
(inc.) 
del 
problema, 
ufficio 
legale, 
difesa 
emersa 
nel 
corso… 
DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-Sì, 
era 
già 
merso, 
io 
le… 
TESTIMONE, 
F. 
-no, 
è 
emerso 
dopo, 
nella 
riunione 
successiva, 
perché 
il 
primo 
incontro 
fu 
in 
avvocatura, 
il 
secondo 
incontro fu all’ente portuale” 
(pag. 16 del verbale). 
In 
data 
24.06.2011 
(prot. 
148/P 
dell’Autorità 
Portuale 
e 
prot. 
76214 
in 
entrata 
dell’Avvocatura 
dello Stato) pervenne 
in Avvocatura 
la 
richiesta 
di 
parere 
da 
parte 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli. 
La 
richiesta 
arrivò in busta: 
sulla 
busta 
l’intestazione 
recava 
la 
dicitura 
“avvocatura distrettuale 
dello Stato - c.a. avvocato g.F. - avvocato distrettuale”. 
La 
richiesta 
di 
parere 
non 
poteva 
arrivare 
direttamente 
all’avv. 
D.v., 
in 
quanto 
in 
Avvocatura 
dello 
Stato, 
tutto 
ciò 
che 
arriva 
dall’esterno, 
atti 
giudiziari 
o 
corrispondenza, 
passa 
prima 
dal-
l’Avvocato 
Distrettuale 
che 
ha 
il 
compito 
istituzionale 
di 
valutare 
la 
questione 
e 
assegnarla 
ad 
un 
Avvocato 
o 
Procuratore 
dello 
Stato 
(cfr. 
dichiarazione 
teste 
M., 
pag. 
17, 
udienza 
12.09.2019). 
In 
sede 
di 
assegnazione 
l’Avv. 
F. 
scrisse, 
sul 
frontespizio 
della 
richiesta 
di 
parere, 
il 
nominativo 
dell’Avvocato assegnatario (“Avv. D.v.”) e 
la 
data 
dell’assegnazione 
(“24/vI”); 
quindi 
l’ufficio 
Archivio predispose 
il 
fascicolo, attribuendogli 
il 
n. 7244/11. Dopo di 
ciò il 
fascicolo 
arrivò all’avv. D.v. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Detta 
richiesta 
di 
parere 
fu, 
in 
ogni 
caso, 
curata 
dall’avv. 
D.v. 
in 
modo 
routinario 
e 
senza 
alcun tipo di 
condizionamento né 
da 
parte 
dell’avvocato distrettuale, né, tanto meno, da 
parte 
dell’esterno, come ha evidenziato l’istruttoria dibattimentale. 
una 
volta 
redatto e 
sottoscritto quale 
avvocato estensore, il 
parere, questo fu sottoposto all’Avvocato 
Distrettuale, al 
quale 
compete 
la 
funzione 
di 
indirizzo dell’ufficio e 
la 
manifestazione 
della volontà all’esterno (cfr. dichiarazione teste M., pag. 18, udienza 12.09.2019). 
L’Avvocato Distrettuale, dopo aver condiviso il 
parere 
ed aver anche 
aggiunto una 
frase, lo 
sottoscrisse 
quale 
Capo dell’ufficio e 
unico soggetto legittimato ad esternare 
il 
parere. Detto 
parere 
fu inviato, al 
fine 
di 
recapitarlo al 
destinatario, all’ufficio del 
protocollo della 
posta 
in 
partenza (dell’Avvocatura). 
Tutto 
quanto 
sopra 
è 
stato 
confermato 
dall’avv. 
F., 
in 
sede 
di 
interrogatorio 
come 
teste 
il 
12.09.2019 (pagg. 13-14 del verbale). 
Il 
parere 
-protocollato 
in 
data 
30.06.2011 
con 
nota 
prot. 
78708 
-fu 
ritirato 
a 
mani 
dall’Autorità 
Portuale, modalità che era stata richiesta dall’Ammiraglio D. sia a F. che a D.v. 
In 
ogni 
caso 
dopo 
la 
firma 
del 
parere 
da 
parte 
dell’Avvocato 
distrettuale, 
l’avv. 
D.v. 
si 
disinteressò 
del 
fascicolo 
e 
non 
seppe 
mai 
-in 
realtà 
-le 
modalità 
con 
le 
quali 
il 
parere 
stesso 
fu 
ritirato. 
Comunque 
ed 
in 
ogni 
caso, 
il 
ritiro 
a 
mano 
della 
corrispondenza 
è 
una 
modalità 
oramai 
diffusa 
in 
Avvocatura, 
in 
quanto 
spesso, 
per 
ragioni 
di 
riservatezza 
o 
di 
celerità, 
viene 
chiesto 
appunto 
dai 
destinatari 
il 
ritiro a 
mani 
della 
corrispondenza 
(si 
veda 
il 
caso dell’Agenzia 
delle 
Entrate 
che 
ha 
sede 
addirittura 
nello stesso edificio in Napoli 
alla 
via 
Diaz, n. 11, in cui 
si 
trova 
l’Avvocatura 
dello Stato) (cfr. dichiarazione teste F., pag. 14, udienza 12.09.2019). 
Si 
è 
prodotto elenco delle 
“raccomandate 
a 
mani” 
dal 
2010 al 
2014 (All. 10 del 
Foliario con 
documenti prodotto all’udienza del 16.06.2015). 
La 
modalità 
di 
ritiro può essere 
dettata 
dall’urgenza 
o dal 
fatto che 
il 
legale 
rappresentante 
dell’Amministrazione voglia, per ragioni di riservatezza, leggere per primo il parere. 
Nel 
caso di 
specie, D. chiese 
di 
poter ritirare 
il 
parere 
a 
mani, invece 
che 
riceverlo per fax 
(come 
è 
successo per altra 
corrispondenza 
riguardante 
lo stesso fascicolo), essendo delicata 
la questione e voleva, presumibilmente, leggere per primo il parere. 
Sulla vicenda si ebbero due telefonate del 24.06.2011 tra l’Ammiraglio D. e l’avv. D.v.: 
-una 
progr. 
2353 
del 
24.06.2011 
alle 
11.49 
in 
cui 
il 
D. 
avvisava 
l’avv. 
D.v. 
che 
aveva 
mandato 
delle schede in aggiunta alla documentazione allegata alla richiesta di parere; 
-la 
seconda 
sempre 
del 
24.06.2011 
progr. 
2356 
delle 
13.45 
con 
la 
quale 
il 
D. 
chiedeva 
all’avv. 


D.v. di 
avvertirlo quando il 
parere 
sarebbe 
stato pronto, in quanto avrebbe 
voluto ritirarlo di 
persona. 
Si 
deve 
sottolineare, a 
questo proposito, che 
l’avv. D.v., una 
volta 
consegnato il 
parere 
da 
lui 
firmato, all’Avvocato Distrettuale 
F., non si 
curò di 
avvertire 
l’Amm. D. né 
alcuna 
altra 
persona 
dell’Autorità 
Portuale, né 
si 
curò di 
come 
sarebbe 
stato trasmesso il 
parere 
(cfr. esame 
D.v., pag. 8, udienza 12.09.2019). 
Il 
parere 
arrivò 
in 
Autorità 
Portuale 
in 
data 
01.07.2011 
(con 
protocollo 
n. 
162/P) 
come 
si 
evince dagli atti di causa. 
3) Sui criteri di assegnazione dei fascicoli. 
Giova 
precisare 
che 
l’assegnazione 
degli 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi 
(così 
chiamati) 
presso 
l’Avvocatura 
dello Stato avviene 
su base 
assolutamente 
discrezionale 
da 
parte 
del 
soggetto 
competente 
(Avvocato Distrettuale 
presso le 
Avvocatura 
Distrettuali 
ed Avvocato Generale 
o 
vice 
Avvocati Generali presso l’Avvocatura Generale). 
Non esistono presso l’Avvocatura dello Stato criteri cd. “tabellari”. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Solo 
una 
decina 
di 
anni 
fa 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
si 
è 
suddivisa 
in 
sezioni 
(ognuna 
delle 
quali 
tratta 
alcune 
amministrazioni), ma 
tale 
suddivisione 
presenta 
un carattere 
di 
facilitazione 
del lavoro e non ha alcuna natura cogente. 
vale 
a 
dire 
l’Avvocato Generale 
e 
l’Avvocato Distrettuale 
hanno piena 
discrezionalità 
nelle 
assegnazioni, affidando l’affare 
contenzioso o consultivo ad avvocato di 
sezione 
o fuori 
sezione 
(cfr. dichiarazione teste M., pag. 18, udienza 12.09.2019). 
Le 
Avvocature 
Distrettuali 
non hanno tali 
suddivisioni 
e 
nemmeno Napoli 
aveva 
tale 
articolazione. 
È 
stato proprio l’avv. G.F. ad attivare, nell’anno 2010, presso l’ufficio di 
Napoli 
(che 
è 
la 
distrettuale 
più grande d’Italia) l’articolazione in tre sezioni. 
Peraltro l’Autorità 
Portuale 
non era 
inserita 
in nessuna 
sezione 
(cfr. Allegato 4 del 
Foliario 
con 
documenti 
prodotto 
all’udienza 
del 
16.06.2015); 
a 
maggior 
ragione, 
quindi, 
l’assegnazione 
era 
assolutamente 
libera 
e 
discrezionale 
da 
parte 
dell’Avvocato Distrettuale, che 
non aveva 
nemmeno articolazioni funzionali da tener presenti. 
Tale 
modalità 
è 
stata 
confermata 
anche 
dall’avv. D.v. in sede 
di 
esame, e 
dagli 
avvocati 
F. e 


M. -avvocati 
distrettuali 
presso la 
sede 
di 
Napoli, rispettivamente, nel 
periodo 2010-2013 e 
2013-2014 -in sede 
di 
esame 
testimoniale 
all’udienza 
del 
12.09.2019 (rispettivamente 
pag. 
13 e pag. 18 del verbale). 
4) Sulle modalità di espletamento della consulenza. 
Ordinariamente 
le 
Amministrazioni 
con nota 
scritta 
formulano richiesta 
di 
parere 
all’Avvocatura 
dello Stato la quale riscontra nello stesso modo quanto richiesto, ossia per iscritto. 
Tanto è avvenuto nel caso di specie. 
L’Avvocatura 
dello Stato, da 
vent’anni 
a 
questa 
parte, ha 
sviluppato il 
modello di 
“assistenza 
procedimentale” 
alle 
amministrazioni 
difese 
e 
si 
è 
andata 
sempre 
più rendendo informale 
il 
proprio modus 
operandi, in quanto i 
rapporti 
con le 
Amministrazioni 
statali 
sono sempre 
più 
assimilabili 
a 
rapporti 
con 
clienti, 
i 
quali 
richiedono 
assistenza 
mediante 
posta 
elettronica, 
fax, cellulari di servizio, consulenza in via breve, etc. 
Così come è normale osservare una certa riservatezza per situazioni più delicate. 
Sulle 
descritte 
modalità 
di 
consultazione 
-preannuncio di 
parere, consulenza 
in via 
breve, integrazione 
e 
correzione 
delle 
bozze 
di 
atti 
e 
provvedimenti 
-ci 
si 
riporta 
alla 
testimonianza 
dell’avv. F. (pp. 12-13 del 
verbale 
del 
12.09.2019) e 
dell’avv. M. (pp. 17-18 del 
verbale 
del 
12.09.2019). 
L’Avvocatura 
dello Stato assiste 
l’Amministrazione 
secondo le 
regole 
di 
buona 
amministrazione 
anche 
prima 
dell’adozione 
del 
provvedimento, 
cercando 
di 
contribuire 
a 
creare 
un 
buon 
provvedimento 
(non 
per 
questo 
inattaccabile, 
ma 
magari 
con 
una 
miglior 
tenuta 
di 
legittimità). 
Sia 
l’avv. D.v. che 
l’avv. F., in sede 
di 
esame 
hanno ribadito che 
tali 
prassi 
sono sempre 
più 
diffuse. In particolare 
l’avv. F. ha 
parlato di 
alcune 
giornate 
prestabilite 
in cui 
la 
Soprintendenza 
ai 
Beni 
Culturali 
e 
la 
Prefettura 
di 
Napoli 
portavano “pacchi” 
di 
provvedimenti 
da 
sottoporre 
all’Avvocatura, 
in 
via 
assolutamente 
informale, 
al 
fine 
di 
avere 
un 
conforto 
di 
legittimità prima di procedere all’adozione degli stessi. 
Coerente 
con 
le 
descritte 
modalità 
di 
consultazione 
è 
lo 
scambio 
di 
posta 
elettronica 
del 
06/07.07.2011, 
quando 
l’Autorità 
Portuale 
ha 
chiesto 
-all’avvocato 
incaricato 
dell’affare 
presso 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli, 
avv. 
D.v. 
-un 
ausilio 
legale 
sulla 
bozza 
di 
provvedimento da 
loro predisposto in conseguenza 
del 
parere 
reso -e 
sul 
quale 
D.v. ha 
apportato 
alcune 
modifiche 
(invero più formali 
che 
sostanziali, in rosso), restituendo lo schema 
sempre con lo stesso mezzo. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


In 
particolare 
ha 
rimarcato 
l’AvvISO 
espresso 
nel 
parere 
dall’Avvocatura 
(quindi, 
sottolineando 
il 
fatto che 
l’Avvocatura 
si 
era 
espressa 
con un atto ufficiale, un parere 
e 
non con una 
consulenza 
in via breve) e ha chiarito meglio la parte dispositiva. 
Fatti, tra l’altro, nemmeno contestati nel capo di imputazione. 


5) Sulle 
relazioni 
(rectius: 
non relazioni) conoscitive 
tra 
l’avv. D.v. e 
gli 
ipotizzati 
concorrenti. 
Si 
precisa 
che 
i 
partecipanti 
alla 
gara 
erano 
e 
sono, 
ancora 
oggi, 
assolutamente 
sconosciuti 
al-
l’avv. 
D.v., 
che 
non 
ha 
mai 
conosciuto 
né 
prima 
del 
parere, 
né 
durante 
la 
stesura 
del 
parere, 
né 
dopo 
lo 
stesso 
i 
legali 
rappresentanti 
della 
Palumbo 
e 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale. 
Non conosce, pertanto, a parte D. e P., alcuno degli altri imputati. 
Il 
rapporto tra 
l’Avvocatura 
dello Stato ed i 
suoi 
appartenenti, l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
ed i 
suoi 
rappresentanti 
si 
svolse 
in piena 
ed esclusiva 
dialettica 
istituzionale, così 
come 
ha 
accertato l’istruttoria dibattimentale. 
Tanto è 
emerso pianamente 
da 
tutte 
le 
dichiarazioni, né 
l’Accusa 
sul 
punto ha 
portato alcun 
elemento di segno diverso: 
-l’Ammiraglio D. nella 
memoria 
di 
dichiarazioni 
spontanee 
(pag. 5) afferma 
di 
avere 
conosciuto 
l’avv. D.v. solo in occasione 
dell’incontro del 
giugno 2011 nella 
stanza 
dell’Avvocato 
Distrettuale e che intrattenne rapporti con l’Avvocato Distrettuale; 
-l’imputato 
P. 
dichiara 
che 
l’Ammiraglio 
D., 
in 
questa 
come 
in 
altre 
vicende 
con 
risvolti 
legali, aveva 
un rapporto istituzionale 
e 
personale 
con l’Avvocato Distrettuale 
F. (pagg. 4142 
del verbale del 13.06.2019); 
- l’imputato P. dichiara di non conoscere l’avv. D.v. (pag. 33 del verbale del 10.01.2019); 
-il 
testimone 
F. 
dichiara 
che 
la 
telefonata 
di 
cui 
al 
progressivo 
2350 
del 
24.06.2011 
si 
è 
svolta 
tra 
l’Ammiraglio 
D. 
(chiamante) 
e 
l’avv. 
F. 
(chiamato), 
correggendo 
la 
precedente 
trascrizione 
(erronea) che 
individuava 
il 
chiamato nell’avv. D.v. (udienza 
dibattimentale 
del 
05.04.2016, 
pagg. 106-107 del verbale). 
Tale 
telefonata 
attesta 
esclusivamente 
che 
i 
rapporti 
istituzionali 
per l’Avvocatura 
dello Stato 
sulla 
vicenda 
li 
aveva 
e 
curava 
solo l’Avvocato Distrettuale 
(“Avv. GRECO 
-[…] Senta, avete 
accertato che 
contatti 
aveva avuto l’ammiraglio d. con l’avvocato F.? e 
in particolare 
oggi 
lei 
ha fatto riferimento ad una telefonata del 
24 giugno 2011, riferendo questa telefonata intervenuta 
con l’avvocato d.v., mentre 
a me 
risulta che 
è 
il 
d. che 
chiama l’avvocato F. P.M. 
-avvocato, 
quale 
è 
la 
telefonata? 
avv. 
greCo 
progressivo 
2350. 
Se 
le 
può 
essere 
utile, 
la 
citate 
anche 
nell’informativa. 
diCH. 
F. 
-no, 
ha 
ragione, 
evidentemente 
ho 
sbagliato. 
avv. 
greCo 
-Quindi 
è 
d. 
che 
chiama 
F. 
diCH. 
F. 
-perché 
così 
abbiamo 
messo 
proprio 
la 
nota. 
pre-
SidenTe 
-no, chiariamo bene, tenuto conto che 
d.v. è 
imputato, la telefonata numero? dica. 
diCH. F. 
-la telefonata 2350 del 
29 giugno 2011 delle 
ore 
11.09, è 
questa? avv. greCo 
-no, 
del 
24 giugno. diCH. F. 
-del 
24 giugno 2011. avv. greCo 
-dobbiamo essere 
precisi, data e 
soggetti. diCH. F. 
-[…] del 
24 giugno delle 
ore 
11.09 in uscita dal 
cellulare 
in uso a d., il 
329/......., d. chiama l’avvocato, e 
noi 
in nota abbiamo detto avvocato F. della avvocatura 
dello Stato. avv. greCo 
-esatto. preSidenTe 
-dobbiamo dare 
atto che 
nell’informativa è 
riportato 
corretto. avv. greCo 
-Corretto, è 
F., è 
giusta, la telefonata è 
giusta, c’è 
anche 
la trascrizione 
della 
telefonata. 
preSidenTe 
-la 
telefonata 
è 
avvenuta 
con 
l’avvocato 
F., 
d. 
ha 
avuto la telefonata con l’avvocato F. e 
non con l’avvocato d.v.? avv. greCo 
-esattamente. 
diCH. F. 
-e 
la segretaria riferisce 
che 
gli 
recapiterà una busta chiusa con tutto quello che 
ha 
chiesto sulla faccenda. avv. greCo 
-Quindi, d. dice 
a F. che 
la sua segretaria? diCH. F. 
-gli 
recapiterà in busta chiusa tutto quello che 
ha chiesto e 
della faccenda lo sanno solo lui 
e 
p. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


perché 
degli 
altri 
non si 
fida. avv. greCo 
. Quindi 
parla con F. di 
questo. perché 
degli 
altri 
non si fida. Questo è il contenuto della telefonata tra d. e F. preciso, benissimo”. 


Quindi, 
pertanto, 
risulta 
acclarato 
che 
non 
c’e’ 
stato 
alcun 
contatto 
tra 
l’avv. 
D.v. 
e 
chicchessia 
prima 
della 
richiesta 
di 
parere, essendo cosi 
evidente 
che 
non vi 
poteva 
essere 
alcun accordo 
per ottenere 
un parere 
di 
comodo, in quanto vi 
sono stati 
esclusivamente 
rapporti 
istituzionali 
tra i capi degli uffici. 
È 
bene 
ribadire 
e 
ripetere 
ancora 
una 
volta 
quanto sul 
punto ha 
risposto a 
precisa 
domanda 
l’avv. 
F., 
all’udienza 
del 
12.09.2019: 
“DIFESA, 
Avv. 
GuIDA 
-un’ultima 
precisazione, 
vengo 
viceversa all’incontro nel 
suo ufficio con l’ammiraglio d. ed in particolare 
al 
momento in 
cui 
le 
parlò 
dell’esito 
di 
questa 
vicenda 
amministrativa 
per 
la 
concessione 
del 
molo 
martello. 
ma le 
riferì 
che 
lui 
preferiva una ditta rispetta all’altra, le 
chiedeva di 
rendere 
un parere 
con 
un risultato predefinito? TeSTimone, F. 
-Ci 
mancherebbe 
altro che 
qualcuno si 
permettesse 
di una cosa del genere…(cfr. pag. 16 verbale). 


6) Stato del procedimento al momento della richiesta e del rilascio del parere. 
Al 
momento della 
richiesta 
e 
del 
rilascio del 
parere 
ed altresì 
al 
momento della 
adozione 
del 
provvedimento che 
teneva 
conto del 
parere 
dell’organo Legale 
(annullamento dell’aggiudicazione 
provvisoria 
in 
favore 
della 
Società 
Palumbo 
ed 
aggiudicazione 
alla 
Nuova 
Meccanica 
Navale) la 
procedura 
non si 
è 
mai 
conclusa, in quanto quella 
che 
in gergo viene 
chiamata 
aggiudicazione, 
era 
solo una 
individuazione 
all’esito di 
una 
istruttoria 
che 
doveva 
poi 
passare 
al 
vaglio del 
Comitato portuale, unico organo in grado di 
deliberare 
su concessioni 
oltre 
i 
4 
anni 
(e 
qui 
parliamo 
di 
una 
concessione 
trentennale), 
secondo 
quanto 
previsto 
dall’art. 
9, 
comma 3 lett. g) della L. n. 84/1994. 
vuol 
dirsi 
che 
la 
attività 
dell’Organo legale 
-asseritamente 
illegittima 
secondo la 
Pubblica 
Accusa - è intervenuta in una fase endoprocedimentale. 
La 
procedura, comunque, fu istruita 
dall’Autorità 
Portuale 
per portarla 
in Comitato Portuale 
a 
novembre 
del 
2012 e 
nella 
seduta 
del 
15.11.2012, il 
Comitato espresse 
parere 
positivo al-
l’aggiudicazione con delibera n. 31/2012. 
Detta 
aggiudicazione, nella 
realtà, pur dopo il 
parere 
positivo del 
Comitato Portuale 
(che 
ai 
sensi 
dell’art. 9, comma 
3, lettera 
g) della 
L. 84/1994 “delibera…su proposta del 
presidente 
per 
le 
concessioni 
di 
durata superiore 
ai 
quattro anni…”), non vi 
è 
mai 
stata: 
la 
concessione 
non è mai stata aggiudicata. 
7) Sul merito del parere. 
È 
bene 
precisare 
come 
la 
richiesta 
di 
parere 
verteva 
unicamente 
ed esclusivamente 
sulla 
verifica 
di ritualità della Busta B) e della Busta C). 
La 
richiesta 
di 
parere 
non 
aveva 
ad 
oggetto 
la 
verifica 
di 
ritualità 
della 
Busta 
A. 
Questi 
i 
quesiti 
sottoposti all’esame dell’Avvocatura: 
“….dall’esame 
della 
documentazione 
(verbali 
della 
seduta) 
-allegati 
da 
4 
a 
10 
-lo 
scrivente 
ha 
rilevato 
mancata 
coerenza, 
illogicità 
e 
sproporzione 
nella 
attribuzione 
dei 
punteggi, 
in 
particolare 
tra 
i 
differenziali 
di 
punteggio 
attribuito 
dai 
membri 
della 
commissione 
e 
nell’ambito 
del 
punteggio 
attribuito 
ai 
due 
concorrenti 
per 
la 
stessa 
voce. 
inoltre 
ha 
rilevato 
che, 
benchè 
l’avviso di 
gara prevedesse 
all’art. 5 busta c) che 
l’offerta sottoscritta dal 
rappresentante 
del 
concorrente 
fosse 
corredata da fotocopia di 
un documento valido di 
identità a pena 
di 
esclusione, verificatosi 
il 
caso, la commissione 
ha comunque 
determinato di 
non escludere 
il concorrente, risultato poi essere quello preferito dalla commissione stessa”. 
“…Con nota n. 271 del 
9 giugno 2011 -allegato 11 -è 
stata invitata la commissione 
ad applicare 
il 
criterio 
di 
selezione, 
sopra 
richiamato, 
inserito 
nell’avviso 
pubblico, 
in 
base 
al 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


quale 
“nel 
caso vi 
siano più concorrenti 
che 
hanno ottenuto il 
punteggio più alto, verrà aggiudicata 
la procedura a quello che non possiede altre concessioni nel porto di napoli….”. 
“…la commissione 
con nota n. 281 in data 15 giugno 2011 -allegato 12 -ha rimesso gli 
atti 
esprimendo l’avviso che 
trattasi 
di 
aspetto discrezionale 
valutativo volto al 
perseguimento 
della proficua utilizzazione 
della concessione 
ed a tutela della concorrenza e, quindi, rientrante 
nelle competenze del titolare del provvedimento finale”. 


“…premesso quanto sopra si 
prega codesta avvocatura, esaminata la documentazione 
allegata, 
di 
voler 
confortare 
questa amministrazione 
nei 
dubbi 
evidenziati 
al 
fine 
di 
una corretta 
applicazione del primo comma dell’articolo 37 del codice della navigazione”. 
Il plico conteneva esclusivamente i seguenti documenti: 


A) Richiesta di parere; 
1) Delibera del CP n. 43/2010; 
2) Bando o avviso pubblico; 
3) Delibera n. 147/10; 
4 a 10) verbali della Commissione di gara; 
11) Nota del RuP al Presidente della Commissione di gara; 
12) Nota del RuP al Presidente dell’AP con allegato l’ultimo verbale della Commissione; 
13) 
Schede 
di 
confronto 
per 
singole 
voci 
sui 
differenziali 
di 
punteggio 
dei 
membri 
della 
Commissione 
(documento aggiunto in un secondo momento). 
Nell’esprimere 
il 
proprio 
giudizio, 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
tenuto 
nel 
doveroso 
rilievo 
che 
ciò 
che 
deve 
orientare 
la 
procedura: 
il 
bando, 
la 
lex 
specialis, 
sempre 
ed 
esclusivamente 
nel-
l’ambito 
di 
quanto 
richiesto 
dall’Amministrazione 
ai 
sensi 
dell’art. 
13 
R.D. 
30.10.1933 
n. 
1611. 
Peraltro, nel 
caso di 
specie, il 
bando è 
frutto di 
una 
decisione 
di 
autovincolarsi 
da 
parte 
del-
l’Amm.ne 
Portuale 
per un affidamento che 
poteva 
avvenire 
anche 
direttamente, quindi 
parliamo 
di 
un “di 
più’ 
(come 
evidenziato nella 
memoria 
difensiva 
prodotta 
al 
TAR Campania, 
a 
firma 
dell’Avv. 
F. 
dove 
si 
fa 
espressamente 
menzione 
del 
fatto 
che 
la 
procedura 
in 
questione, 
essendo regolata 
dal 
codice 
della 
navigazione, recepiva 
solo i 
principi 
del 
codice 
dei 
contratti 
e non applicava in modo pedissequo le regole espresse dalle norme del codice stesso). 
La 
differenza 
tra 
i 
vizi 
viene 
imposta 
chiaramente 
dalla 
lex 
specialis: 
si 
tratta 
di 
violazioni 
simili, 
ma 
sancite 
in 
modo 
assolutamente 
diverso, 
in 
quanto 
solo 
quelle 
previste 
a 
pena 
di 
esclusione 
dal 
bando -e 
nel 
caso di 
specie 
riguardavano le 
Buste 
B e 
C -hanno un rilievo tale 
per 
la Commissione da determinare l’esclusione. 
Quindi 
il 
vizio -asseritamente 
“pacificamente 
ritenuto irrilevante” 
in base 
al 
capo di 
imputazione 
-era 
previsto dal 
bando a 
pena 
di 
esclusione 
e 
ritenuto dalla 
giurisprudenza 
appena 
precedente, 
coeva 
e 
successiva 
(in 
particolare 
dall’Ad. 
Plen, 
n. 
9/2014) 
assolutamente 
diverso 
e più grave di quello di cui alla busta a). 
Su 
tali 
basi 
il 
parere 
reso 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato, 
alla 
luce 
della 
lex 
specialis 
-non 
poteva 
non 
rilevare 
che 
i 
vizi 
previsti 
dall’AvvISO 
a 
pena 
di 
esclusione, 
andavano 
sanzionati, 
appunto, 
con l’esclusione, già 
all’atto dell’apertura 
dell’offerta 
tecnica 
(Busta 
B), senza 
nemmeno arrivare 
a 
quella 
economica 
(Busta 
C). 
D’altronde 
la 
sent. 
Ad. 
Plen 
n. 
9/14 
lo 
dice 
espressamente 
a 
pag. 
25: 
“…trattasi 
di 
conseguenze 
discendenti 
dall’applicazione 
di 
consolidati 
principi 
(espressi 
da quest’adunanza e 
che 
si 
confermano in toto, cfr. Cons. St, ad. plen., n. 14/2011, 
n. 9/11, n. 1/03 e 
ord. n. 1/98), secondo cui 
il 
bando: 1) è 
un atto amministrativo generale, 
d’indole 
imperativa, recante 
il 
compendio delle 
regole 
(ed in particolare 
quelle 
afferenti 
alle 
cause 
di 
esclusione), cui 
devono attenersi 
sia i 
concorrenti 
che 
l’amministrazione; 2) è 
costitutivo 
di 
effetti 
eventualmente 
anche 
derogatori 
rispetto alla disciplina introdotta dalle 
fonti 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


di 
rango primario o regolamentare 
e 
come 
tale 
non disapplicabile 
da parte 
dell’amministrazione 
e 
del 
giudice 
amministrativo, potendo essere 
oggetto solo di 
specifica impugnativa; 3) 
deve 
essere 
interpretato secondo il 
criterio formale 
(testuale 
ed oggettivo), con esclusione 
di 
letture 
ermeneutiche 
in chiave 
soggettiva ed integrativa, e 
con l’applicazione 
automatica e 
vincolata dell’esclusione laddove previsto dalla normativa di gara”. 


L’Organo Legale 
ha 
agito -applicando il 
quadro normativo pertinente 
-in base 
a 
ciò che 
le 
è 
stato prospettato e 
richiesto (si 
ribadisce, a 
tale 
proposito, l’art. 13 T.u. 1611/33 secondo cui: 


“l’avvocatura dello Stato provvede 
alla tutela legale 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi 
dello Stato; 
alle consultazioni legale richieste dalle 
amministrazioni...”). 


8) 
Condotta 
conseguenziale 
dell’Autorità 
portuale 
dopo 
il 
rilascio 
del 
parere: 
adozione 
del 
provvedimento di 
non approvazione 
dell’“aggiudicazione 
provvisoria” 
disposta 
dalla 
Commissione 
aggiudicatrice 
in favore 
della 
Palumbo S.p.A. assegnazione 
della 
concessione 
alla 
società Nuova Meccanica Navale. 
Il 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
adottava 
la 
delibera 
n. 390 in data 
8.07.2011 con cui 
non 
veniva 
approvata 
l’“aggiudicazione 
provvisoria” 
disposta 
dalla 
Commissione 
aggiudicatrice 
in favore 
della 
Palumbo S.p.A. -per mancanza 
del 
documento di 
riconoscimento del 
legale 
rappresentante 
della 
Palumbo s.p.a. nella 
Busta 
B) e 
nella 
Busta 
C) -e 
veniva 
assegnata 
la 
concessione 
alla 
società 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
(art. 7 punto 8, del 
bando in presenza 
di 
un’unica 
offerta 
valida). Anche 
tale 
assegnazione 
ha 
una 
valenza 
meramente 
procedimentale 
in 
quando 
è 
l’atto 
terminale 
posto 
in 
essere 
dal 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
in 
attuazione 
del 
mandato 
ricevuto 
dal 
Comitato 
Portuale 
con 
la 
sopracitata 
deliberazione 
n. 
43 
del 
21.12.2010. Sulla 
base 
di 
tale 
atto il 
provvedimento concessorio definitivo va 
poi 
rilasciato 
dall’Autorità 
competente, 
ossia 
dal 
Comitato 
Portuale, 
venendo 
in 
rilievo 
una 
concessione 
ultraquadriennale (art. 9, comma 3, lett. g) L. n. 84/1994). 
9) Contenzioso dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo avverso il 
provvedimento di 
non approvazione 
dell’ 
“aggiudicazione 
provvisoria” 
in favore 
della 
Palumbo S.p.A. assegnazione 
della 
concessione alla società Nuova Meccanica Navale. 
A 
smentire 
l’assunto 
accusatorio, 
ove 
ve 
ne 
fosse 
ancora 
bisogno, 
vale, 
altresì, 
tutta 
la 
vicenda 
processuale 
che 
è 
scaturita 
dal 
provvedimento adottato dal 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale, 
vicenda 
il 
cui 
esito conferma 
l’esattezza 
giuridica 
del 
parere 
e 
soprattutto dimostra 
che 
anche 
logicamente e giuridicamente non possa parlarsi di parere di “comodo”. 
E valga il vero. 
a) ricorso al 
TAR 
Con ricorso notificato in data 
29.07.2011, la 
“Palumbo S.p.A.” 
impugnava 
la 
determinazione 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
dell’8.07.2011, 
n. 
390, 
con 
cui 
era 
stata 
esclusa, 
concludendo 
per l’accoglimento del ricorso ed il risarcimento dei danni. 
La 
lite 
veniva 
decisa 
con 
sentenza 
n. 
1888/12 
(All. 
14 
del 
Foliario 
con 
documenti 
depositati 
all’udienza 
del 
16.06.2015 
che 
per 
comodità 
si 
rideposita 
[all. 
1A]), 
i 
cui 
stralci 
principali 
si 
riportano: 
“in 
base 
ad 
una 
linea 
interpretativa 
più 
volte 
manifestata 
dal 
superiore 
giudice 
amministrativo 
(cfr., 
in 
generale, 
C. 
Stato, 
sez. 
vi, 
27 
aprile 
2011 
n. 
2478) 
le 
clausole 
del 
bando 
di 
gara 
possono 
ritenersi 
illegittime 
se 
impongono 
adempimenti 
manifestamente 
illogici 
o 
sproporzionati 
(in 
senso 
analogo 
Consiglio 
di 
Stato 
sez. 
iii, 
12 
maggio 
2011, 
n. 
2851, 
secondo 
cui 
“le 
clausole 
della 
lex 
specialis, 
ancorchè 
contenenti 
comminatorie 
di 
esclusione, 
non 
possono 
essere 
applicate 
meccanicisticamente, 
ma 
secondo 
il 
principio 
di 
ragionevolezza, 
e 
devono 
essere 
valutate 
alla 
stregua 
dell’interesse 
che 
la 
norma 
violata 
è 
destinata 
a 
presidiare 
per 
cui, 
ove 
non 
sia 
ravvisabile 
la 
lesione 
di 
un 
interesse 
pubblico 
ef

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


fettivo 
e 
rilevante, 
deve 
essere 
accordata 
la 
preferenza 
al 
favor 
partecipationis”; 
T.a.r. 
puglia 
lecce, 
sez. 
iii, 
13 
gennaio 
2011, 
n. 
15 
secondo 
cui 
“nella 
materia 
dei 
contratti 
pubblici, 
le 
formalità 
prescritte 
dal 
bando 
di 
gara 
sono 
dirette 
ad 
assicurare 
la 
trasparenza 
e 
l’imparzialità 
dell’amministrazione 
e 
la 
parità 
di 
condizioni 
tra 
i 
concorrenti; 
dette 
formalità, 
pertanto, 
ove 
poste 
a 
pena 
di 
esclusione 
dalla 
gara, 
devono 
rispondere 
al 
comune 
canone 
di 
ragionevolezza, 
in 
stretta 
relazione 
con 
i 
richiamati 
principi. 
ne 
deriva 
che 
l’inserimento 
di 
clausole 
che 
prevedono 
la 
sanzione 
dell’esclusione 
deve 
essere 
giustificata 
da 
un 
particolare 
interesse 
pubblico, 
evitando 
il 
mero 
formalismo 
non 
legato 
a 
finalità 
di 
interesse 
pubblico 
e 
oneri 
procedimentali 
inutili 
ed 
eccessivi” 
(nella 
fattispecie 
è 
stato 
ritenuto 
che 
la 
clausola 
del 
bando 
di 
gara 
che 
imponeva 
la 
contestuale 
disponibilità 
di 
più 
forme 
di 
ricezione 
concernenti 
le 
comunicazioni 
di 
gara 
domicilio, 
fax 
e 
posta 
elettronica 
certificata 
si 
ponesse 
in 
contrasto 
con 
la 
previsione 
generale 
di 
cui 
all’art. 
79, 
d.lgs. 
12 
aprile 
2006 
n. 
163, 
il 
quale 
individua 
mezzi 
alternativi 
e 
non 
cumulativi 
di 
comunicazione). 
nel 
caso 
di 
specie, 
l’adempimento 
imposto, 
vale 
a 
dire 
l’allegazione 
di 
una 
fotocopia 
del 
documento 
di 
identità, 
non 
è 
né 
illogico 
né 
sproporzionato 
non 
illogico, 
atteso 
che 
essa 
giova 
a 
verificare 
l’attribuibilità 
dell’offerta 
al 
soggetto 
offerente 
e, 
soprattutto, 
la 
sua 
impegnatività; 
non 
sproporzionato, 
atteso 
la 
minimalità 
della 
prescrizione 
imposta, 
presidiata 
con 
la 
clausola 
di 
esclusione 
proprio 
per 
rimarcare 
l’interesse 
della 
amministrazione 
al 
rispetto 
della 
prescrizione 
stessa 
e 
la 
allettata 
diligenza 
nel 
rispettarla. 
Tale 
prescrizione 
soddisfa, 
pertanto, 
l’interesse 
pubblico 
volto 
alla 
certezza 
della 
imputabilità 
dell’offerta, 
per 
cui 
non 
può 
dirsi 
come 
irragionevolmente 
posto 
a 
restrizione 
della 
massima 
concorrenza, 
ma 
come 
onere 
da 
osservare, 
nel 
rispetto 
della 
par 
condicio. 
Ciò 
trova 
conferma 
nella 
circostanza 
che 
la 
giurisprudenza 
ha 
ritenuto 
in 
fattispecie 
analoga 
legittima 
l’esclusione, 
anche 
a 
seguito 
della 
novellata 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
46 
comma 
1 
bis 
del 
d.lgs. 
146/03 
(che 
ha 
ristretto 
il 
novero 
delle 
clausole 
da 
porre 
a 
pena 
di 
esclusione 
prevedendo 
che 
“la 
stazione 
appaltante 
esclude 
i 
candidati 
o 
i 
concorrenti 
in 
caso 
di 
mancato 
adempimento 
alle 
prescrizioni 
previste 
dal 
presente 
codice 
e 
dal 
regolamento 
e 
da 
altre 
disposizioni 
di 
legge 
vigenti, 
nonché 
nei 
casi 
di 
incertezza 
assoluta 
sul 
contenuto 
o 
sulla 
provenienza 
dell’offerta, 
per 
difetto 
di 
sottoscrizione 
o 
di 
altri 
elementi 
essenziali 
ovvero 
in 
caso 
di 
non 
integrità 
del 
plico 
contenente 
l’offerta 
o 
la 
domanda 
di 
partecipazione 
o 
altre 
irregolarità 
relative 
alla 
chiusura 
dei 
plichi, 
tali 
da 
far 
ritenere, 
secondo 
le 
circostanze 
concrete, 
che 
sia 
stato 
violato 
il 
principio 
di 
segretezza 
delle 
offerte; 
i 
bandi 
e 
le 
lettere 
di 
invito 
non 
possono 
contenere 
ulteriori 
prescrizioni 
a 
pena 
di 
esclusione. 
dette 
prescrizioni 
sono 
comunque 
nulle”), 
in 
quanto 
“ai 
sensi 
dell’art. 
46, 
comma 
i 
bis, 
c. 
contr. 
pubbl. 
(aggiunto 
dall’art. 
4, 
comma 
2, 
lett. 
d) 
d.1. 
13 
maggio 
2011 
n. 
70, 
conv. 
in 
legge, 
con 
modificazioni, 
dall’art. 
1, 
comma 
1, 
1. 
12 
luglio 
2011 
n. 
106) 
in 
materia 
di 
partecipazione 
alle 
gare 
pubbliche, 
la 
mancata 
allegazione 
della 
fotocopia 
di 
un 
valido 
documento 
d’identità 
riguardante 
le 
generalità 
del 
sottoscrittore 
concreta 
proprio 
la 
fattispecie 
prevista 
dalla 
novella 
normativa 
innanzi 
citata, 
integrando 
un’ipotesi 
di 
“incertezza 
assoluta 
sul 
contenuto 
o 
sulla 
provenienza 
dell’offerta, 
per 
difetto 
di 
sottoscrizione 
o 
di 
altri 
elementi 
essenziali”. 
Conseguentemente, 
pure 
ove 
si 
tratti 
di 
una 
procedura 
negoziata 
senza 
previa 
pubblicazione 
di 
un 
bando 
di 
gara, 
è 
legittima 
l’esclusione 
dalla 
gara 
disposta 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
offerente 
laddove 
risulti 
una 
incertezza 
assoluta 
sul 
contenuto 
o 
sulla 
provenienza 
dell’offerta, 
per 
difetto 
di 
sottoscrizione 
o 
di 
altri 
elementi 
essenziali” 
(T.a.r. 
roma 
lazio 
sez. 
i 
bis, 
06 
dicembre 
2011, 
n. 
9597). 
pertanto a maggior 
ragione 
deve 
ritenersi 
nell’ipotesi 
de 
qua legittima la prescrizione 
del 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


disciplinare 
di 
gara, nella cui 
osservanza si 
è 
disposta, con l’atto gravato, l’esclusione 
della 
ricorrente, in quanto pubblicato prima dell’entrata in vigore 
della novellata e 
più restrittiva 
disciplina. 
deve, 
infatti, 
ritenersi 
che 
l’allegazione 
della 
copia 
fotostatica 
del 
documento 
non 
costituisca 
elemento estrinseco rispetto alla sottoscrizione 
dell’istanza o della dichiarazione, bensì 
elemento 
centrale 
della stessa dichiarazione 
di 
volontà, poiché 
concorre 
a dare 
legale 
scienza 
contezza e 
certezza che 
la sottoscrizione 
è 
autentica, ovvero è 
stata apposta proprio da colui 
che 
ne 
appare 
l’autore 
(Tar 
puglia, bari, sez. i, 9 gennaio 2004, n. 29, confermata da Consiglio 
di Stato sez. v, 7 novembre 2007 n. 2761). 
né 
rileva il 
riferimento, addotto da parte 
della società ricorrente, alla prescrizione 
dell’art. 
38 Codice 
contratti 
pubblici, atteso il 
chiaro tenore 
letterale 
della prescrizione 
dell’avviso di 
gara, inequivocabilmente 
posta a pena di 
esclusione, costituente 
lex 
specialis 
e 
da ritenersi 
non illegittima, alla stregua di quanto innanzi illustrato. 
il 
chiaro ed univoco tenore 
letterale 
della lex 
specialis 
non lasciava, dunque, spazio alcuno 
alla possibilità di 
ovviare 
al 
tassativo rigore 
della disposizione, ad esempio mediante 
la produzione 
del 
richiesto documento ad altri 
e 
diversi 
fini 
e 
non consentiva, quindi, che 
il 
criterio 
formale 
potesse 
recedere 
a fronte 
di 
un’opzione 
ermeneutica, che 
privilegiasse 
l’indagine 
finalistica 
o teleologica sull’effettiva valenza della prescrizione, da un punto di 
vista sostanziale, 
e sull’eventuale necessità della sua pedissequa osservanza. 
poiché, 
pertanto, 
l’accertata 
violazione 
della 
riportata 
prescrizione 
comportava 
-quale 
conseguenza 
ineludibile 
cui 
l’amministrazione 
non 
poteva 
sottrarsi, 
proprio 
a 
tutela 
dell’affidamento 
e 
nel 
rispetto 
del 
principio 
della 
par 
condicio 
degli 
aspiranti 
-l’esclusione 
dalla 
procedura 
delle 
concorrenti 
inadempienti, 
risulta 
evidente 
la 
legittimità 
dell’operato 
dell’autorità 
portuale 
che 
con 
la 
impugnata 
delibera 
non 
ha 
approvato 
l’aggiudicazione 
provvisoria 
disposta 
dalla 
commissione 
giudicatrice, 
stante 
la 
necessità 
dell’esclusione 
della 
società 
ricorrente. 
l’operato dell’autorità portuale 
deve 
peraltro ritenersi 
legittimo anche 
sotto il 
profilo del 
rispetto dei 
principi 
di 
diritto comunitario in materia di 
evidenza pubblica, atteso che 
il 
rispetto 
delle 
condizioni 
di 
gara è 
posto a salvaguardia della trasparenza della procedura di 
gara e 
della par 
condicio dei 
concorrenti, valori 
questi 
che 
si 
pongono primari 
anche 
nel 
diritto 
comunitario. 
la 
questione 
della 
legittimità 
dell’esclusione 
disposta 
in 
danno 
della 
ricorrente 
principale, 
rilevando 
la 
infondatezza 
preclusiva 
della 
doglianza 
avverso 
l’esclusione 
della 
parte 
ricorrente 
principale, 
rende 
inammissibili, 
per 
difetto 
di 
legittimazione 
al 
ricorso, 
sia 
le 
ulteriori 
doglianze 
proposte 
con 
il 
ricorso 
principale, 
che 
quelle 
proposte 
con 
i 
ricorsi 
per 
motivi 
aggiunti. 
la legittimità della esclusione 
rende 
priva di 
pregio anche 
la domanda risarcitoria proposta 
dalla ricorrente, che 
non può pertanto che 
essere 
rigettata per 
mancanza di 
danno ingiusto”. 


In 
sintesi, 
il 
TAR 
nel 
merito 
dichiarava 
assolutamente 
legittimo 
il 
provvedimento 
adottato 
dal 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
(e 
con 
esso, 
quindi, 
il 
parere 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato). 


b) Appello 
La sentenza innanzi indicata veniva impugnata dalla società Palumbo. 
In data 
1.8.2012 il 
Consiglio di 
Stato, vI sezione, con ord. 3017/12, respingeva 
la 
domanda 
cautelare 
proposta 
da 
Palumbo, affermando: 
“ritenuto che 
non sussistono i 
presupposti 
per 
l’accoglimento dell’istanza cautelare, tenuto conto delle 
cause 
di 
esclusione 
dalla procedura 
concorsuale, tassativamente 
previste 
dal 
bando” 
(All. 15 del 
Foliario con documenti 
depositati 
all’udienza del 16.06.2015). 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


c) Ordinanza di rimessione n. 2681/2013 del Consiglio di Stato. 
Il Consiglio di Stato fissava il merito per la discussione dell’appello il 19.03.2013. 
All’esito dell’udienza, con ordinanza 
n. 2681 la 
sezione 
rimetteva 
all’Adunanza 
Plenaria 
con 
ordinanza 
di 
rimessione 
n. 
2681 
del 
19.03.2013 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
cui 
si 
affermava 
quanto segue: 
“rileva invece 
il 
principio di 
tassatività oggi 
codificato dal 
comma 1-bis 
del-
l’art. 46 d.lgs. n. 163 del 
2006. in relazione 
a tale 
profilo vi 
sono certamente 
elementi 
per 
ritenere 
che 
tale 
previsione 
abbia una portata non innovativa, ma interpretativa; per 
ritenere, 
in 
altri 
termini, 
che 
il 
legislatore, 
in 
presenza 
di 
un 
contrasto 
giurisprudenziale 
in 
ordine 
alla 
reale 
portata 
del 
dovere 
di 
soccorso 
istruttorio 
nell’ambito 
delle 
procedure 
di 
gara, 
abbia 
voluto prendere 
posizione 
a favore 
dell’interpretazione 
ispirata ad un maggiore 
sostanzialismo, 
chiarendo, a fronte 
di 
una prassi 
amministrativa e 
di 
una interpretazione 
giurisprudenziale 
di 
segno 
prevalentemente 
contrario, 
che 
alla 
stazione 
appaltante 
è 
precluso 
imporre 
nel 
bando prescrizioni 
ed adempimenti 
ulteriori 
a quelli 
ordinariamente 
previsti 
sulla base 
della 
legge e del regolamento” 
(All. 2 alla presente memoria). 
d) Adunanza Plenaria n. 9/2014 e sent. n. 4662/14 del Consiglio di Stato. 
L’Adunanza 
Plenaria 
ha 
statuito ed affermato che 
la 
soluzione 
indicata 
nel 
suddetto parere 
dell’Avvocatura 
dello Stato è 
quella 
che 
discende 
dall’applicazione 
alla 
fattispecie 
dell’insegnamento 
pacificamente 
espresso da 
sempre 
dal 
Consiglio di 
Stato: 
l’Adunanza 
Plenaria 
non 
esita 
a 
definire 
e 
qualificare 
tale 
insegnamento “autentico diritto vivente 
improntato ad una 
esegesi 
ed applicazione 
rigorosa del 
potere 
di 
soccorso” 
(così, a 
pag. 11, 2° 
periodo del 
par. 
4.3 della sentenza dell’Adunanza Plenaria). 
Da tale preliminare rilevazione discendono i seguenti corollari: 
-risulta 
totalmente 
smentito 
dal 
Supremo 
Consesso 
giurisdizionale 
amministrativo, 
l’assunto 
-su 
cui 
si 
fonda 
il 
capo 
d’imputazione 
-secondo 
cui 
il 
parere 
in 
questione 
reso 
dall’Avvocatura 
dello Stato con il contributo dell’avv. D.v. costituisca un “parere di comodo”; 
-risulta, altresì, in palese 
contrasto con il 
‘diritto vivente’ 
quale 
attestato dall’Adunanza 
Plenaria 
l’altra 
affermazione 
che 
si 
legge 
nel 
capo di 
imputazione 
secondo cui 
il 
“vizio” 
che 
inficiava 
l’offerta 
della 
spa 
Palumbo sarebbe 
un vizio “pacificamente 
ritenuto irrilevante 
dalla 
giurisprudenza amministrativa”; 
-nella 
specie 
la 
esclusione 
dalla 
gara 
della 
indicata 
spa 
Palumbo era 
doverosa 
e 
l’unica 
conforme 
a legge e al 
‘diritto vivente’; 
-aggiudicare 
la 
gara 
alla 
spa 
Palumbo costitutiva 
-essa 
sì 
-condotta 
contraria 
a 
legge, suscettibile 
di essere apprezzata in sede di responsabilità (anche per danno erariale). 
L’Adunanza 
Plenaria 
fa 
chiarezza 
anche 
su 
un’altra 
affermazione 
svolta 
dalla 
Procura 
nel 
capo 
di 
imputazione: 
laddove 
si 
accusa 
l’Avvocatura 
(e 
l’avv. 
D.v., 
in 
particolare) 
di 
non 
avere 
rilevato che 
l’offerta 
dell’altra 
concorrente 
(Nuova 
Meccanica 
navale 
srl) presentava 
“un vizio di 
forma analogo” 
rispetto a 
quello inficiante 
l’offerta 
della 
spa 
Palumbo: 
secondo 
la 
Procura, 
il 
vizio 
di 
quest’ultima 
offerta 
doveva 
ritenersi 
“del 
tutto 
simile 
-se 
non 
di 
minore 
rilievo” 
di 
quello che 
connotava 
l’offerta 
della 
nuova 
Meccanica 
s.r.l., la 
quale 
aveva 
omesso 
di 
allegare 
una 
fotocopia 
del 
documento di 
identità 
del 
direttore 
tecnico a 
corredo della 
dichiarazione 
di costui di possedere i vari requisiti generali. 
L’Adunanza 
Plenaria 
ha 
in contrario evidenziato ed accertato che 
“in base 
alla lettera delle 
disposizioni 
della legge 
di 
gara contenute 
negli 
artt. 3 -requisiti 
di 
ordine 
generale 
per 
la 
partecipazione 
alla 
procedura 
-e 
5 
-modalità 
di 
presentazione 
della 
domanda 
di 
concessione 
-al 
direttore 
tecnico non era imposto, a pena di 
esclusione, di 
corredare 
la dichiarazione 
di 
possesso dei 
vari 
requisiti 
generali 
con una fotocopia del 
documento di 
identità”. Tale 
preci

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


sazione 
è 
stata 
effettuata 
dall’Adunanza 
Plenaria 
proprio per sottolineare 
la 
differenza 
di 
disciplina 
dettata 
dal 
bando con riguardo alle 
‘mancanze’ 
documentali 
che 
erano state 
dedotte 
e 
segnalate 
con riferimento a 
ciascuna 
delle 
due 
offerte 
presenta 
dalle 
ditte 
Nuova 
Meccanica 
srl 
e 
Palumbo 
spa: 
per 
la 
mancata 
produzione 
della 
fotocopia 
del 
documento 
del 
direttore 
tecnico, 
di 
cui 
alla 
busta 
a), 
il 
bando 
non 
comminava 
espressamente 
l’esclusione, 
mentre 
tale 
esclusione 
era 
dettata 
espressamente 
con riguardo alle 
buste 
B e 
C, stante 
che 
nell’art. 5, sezione 
busta 
B, 
ultimo 
periodo, 
sezione 
busta 
C, 
n. 
4 
era 
specificato 
che 
“l’offerta 
tecnica 
dovrà essere 
sottoscritta dal 
legale 
rappresentante 
del 
concorrente 
o da suo procuratore 
(in 
tal 
caso deve 
essere 
allegata la relativa procura) e 
dovrà essere 
corredata da fotocopia d un 
valido documento di identità a pena di esclusione”. 
L’Adunanza 
Plenaria 
ha 
anche 
precisato 
-a 
pag. 
28 
-che 
“il 
bando: 
i) 
è 
un 
atto 
amministrativo 
generale, d’indole 
imperativa, recante 
il 
compendio delle 
regole 
(ed in particolare 
quelle 
afferenti 
alle 
cause 
di 
esclusione), 
cui 
devono 
attenersi 
sia 
i 
concorrenti 
che 
l’amministrazione; 


ii) è 
costitutivo di 
effetti 
eventualmente 
anche 
derogatori 
rispetto alla disciplina introdotta 
dalle 
fonti 
di 
rango primario o regolamentare 
e 
come 
tale 
non disapplicabile 
da parte 
del-
l’amministrazione 
e 
del 
giudice 
amministrativo, potendo essere 
oggetto solo di 
specifica impugnativa; 
iii) 
deve 
essere 
interpretato 
secondo 
il 
criterio 
formale 
(testuale 
ed 
oggettivo), 
con 
esclusione 
di 
letture 
ermeneutiche 
in 
chiave 
soggettiva 
ed 
integrativa, 
e 
con 
l’applicazione 
automatica 
e 
vincolata 
dell’esclusione 
laddove 
previsto 
dalla 
normativa 
di 
gara” 
(All. 
15 
del 
Foliario con documenti 
depositati 
all’udienza 
del 
10.03.2015 e 
All. 16 del 
Foliario con 
documenti depositati all’udienza del 16.06.2015). 
In data 
12.09.2014 il 
Consiglio di 
Stato, sez. vI, con sent. n. 4662 (All. 17 del 
Foliario con 
documenti 
depositati 
all’udienza 
del 
16.06.2015), nel 
definire 
il 
giudizio, confermava 
definitivamente 
la legittimità dell’esclusione della Palumbo. 
10) vicende 
giurisdizionali 
dinanzi 
al 
Giudice 
civile 
successive 
al 
provvedimento di 
non approvazione 
dell’ 
“aggiudicazione 
provvisoria” 
in 
favore 
della 
Palumbo 
S.p.A. 
ed 
assegnazione 
della concessione alla società Nuova Meccanica Navale. 
Nell’anno 2011 la 
società 
Palumbo s.p.a. ha 
convenuto davanti 
al 
Tribunale 
di 
Napoli, quale 
giudice 
civile, l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli, l’Amm. L.D. e 
il 
dott. F.L.P. e 
-sulla 
base 
del-
l’assegnazione 
definitiva 
alla 
società 
Nuova 
meccanica 
Navale 
come 
sopradescritta 
-ha 
chiesto 
la condanna al risarcimento del danno nei confronti dei convenuti. 
Il 
Tribunale, esaminando i 
fatti 
di 
causa 
ed acclarata 
la 
legittimità 
della 
condotta 
dell’amministrazione 
anche 
in ordine 
alla 
esclusione 
della 
società 
Palumbo per i 
vizi 
relativi 
alle 
Buste 
B e 
C (in coerenza 
con le 
conclusioni 
del 
parere 
dell’Avvocatura 
dello Stato), ha 
rigettato le 
domande 
con sentenza 
n. 8054/2016 (sentenza 
già 
prodotta 
all’udienza 
del 
05.04.2018 e 
che 
si rideposita con la presente memoria all’All. 3). 
11) Sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato e rapporti con l’Autorità Portuale. 
In ordine 
al 
patrocinio delle 
Autorità 
Portuali 
da 
parte 
dell’Avvocatura 
dello Stato si 
osserva 
quanto segue. 
In 
virtù 
del 
DPCM 
del 
4.12.1997, 
oltre 
che 
in 
conformità 
a 
quanto 
previsto 
nel 
provvedimento 
della 
PCM 
pubblicato 
in 
G.u. 
05.02.1998, 
l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
è 
autorizzata 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’art. 
43 
R.D. 
30.10.1933, 
n. 
1611. 
Il 
patrocinio 
autorizzato 
previsto 
dal 
citato 
DPCM 
-e 
di 
cui 
gode 
l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
-sottostà 
alla 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 43 T.u., commi 
3 e 
4 dove 
è 
espressamente 
precisato 
che 
una 
volta 
che 
l’ente 
pubblico 
sia 
autorizzato 
ad 
avvalersi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
“la rappresentanza e 
la difesa nei 
giudizi… 
sono assunte 
dalla avvocatura dello Stato in via 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


organica ed esclusiva, eccettuati 
i 
casi 
di 
conflitto di 
interessi 
con lo Stato o con le 
regioni” 
e 
“Salve 
le 
ipotesi 
di 
conflitto, ove 
tali 
amministrazioni 
ed enti 
intendano in casi 
speciali 
non 
avvalersi 
della avvocatura dello Stato, debbono adottare 
apposita motivata delibera da sottoporre 
agli organi di vigilanza”. 


La 
giurisprudenza 
è 
pacifica 
nel 
dire 
che 
per 
gli 
Enti 
e 
le 
Amministrazioni 
autorizzate 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
della 
citata 
norma, 
la 
rappresentanza 
e 
difesa 
in 
giudizio 
da 
parte 
di 
quest’ultima 
costituisce 
la 
regola 
che 
deve 
sempre 
essere 
seguita 
e 
che 
-al 
di 
fuori 
dei 
casi 
di 
conflitto 
di 
interessi 
con 
lo 
Stato 
o 
con 
le 
Regioni 
-per 
potere 
affidare 
il 
patrocinio 
ad 
avvocato 
del 
libero 
foro 
è 
necessario 
adottare 
preliminarmente 
una 
apposita 
delibera 
motivata 
e 
sottoporla 
all’Organo 
di 
vigilanza. 
Si 
tratta 
di 
insegnamento 
pacifico 
che 
si 
è 
formato 
sin 
dai 
primi 
anni 
successivi 
all’entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
103/1979 
(Cass. 
SS.uu. 
n. 
4512 
del 
05.07.1983 
in 
rass. 
avv. 
Stato 
1983, 
I, 
699; 
Cass. 
Sez. 
civ. 
III 
n. 
21296 
del 
14.10.2011 
che 
richiama 
Cass. 
SS.uu. 
n. 
13659/06, 
Cass. 
28478/05, 
Cons. 
Stato 
n. 
332/07). 
La 
mancanza 
anche 
di 
uno 
solo 
dei 
requisiti 
sopra 
citati 
determina 
la 
nullità 
della 
costituzione 
(Cass. 
Civ. 
sent. 
n. 
1057/87) 
ed 
il 
difetto 
di 
ius 
postulandi 
è 
rilevabile 
anche 
d’ufficio 
(oltre 
a 
Cass. 
SS.uu. 
n. 
4512/83 
si 
veda 
anche 
Cass. 
Civ. 
sez. 
III 
n. 
21296 
del 
14.10.2011 
che 
richiama 
Cass. 
29.10.1974 
n. 
3283; 
Cass. 
Civ. 
nn. 
21296/11, 
18506/12). 
Del 
resto l’avv. D.v. è 
oggi 
imputato proprio nella 
qualità 
di 
avvocato dello Stato per aver 
reso un parere all’Autorità Portuale di Napoli. 
La 
circostanza 
che 
l’Ammiraglio D. abbia 
ritenuto, in applicazione 
dei 
citati 
atti, di 
avvalersi 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
è 
stata 
contrastata 
dai 
propri 
uffici 
(si 
vedano 
in 
proposito 
le 
varie 
denunce 
da 
parte 
del 
legale 
del 
servizio interno all’Autorità 
portuale 
culminate 
con un atto di 
diffida 
nel 
2013, dopo che 
una 
sentenza 
del 
Tar del 
Lazio ha 
messo in discussione 
il 
fatto che 
il DPCM del 14 dicembre 1997 avesse valenza per tutte le 
Autorità Portuali). 
Occorre 
ribadire 
che 
l’intero periodo in cui 
G.F. è 
stato Avvocato Distrettuale 
dello Stato di 
Napoli 
(giugno 2010 -gennaio 2013), l’Avvocatura 
ha 
acquisito in via 
organica 
ed esclusiva 
il 
patrocinio 
delle 
università 
statali, 
dell’ARCADIS 
(Agenzia 
regionale 
difesa 
suolo), 
del-
l’ARPAC, dell’ADISu “Federico II” e dell’Autorità Portuale. 
La 
fonte 
normativa 
del 
patrocinio per cui 
l’Avvocatura, dal 
2011 sino a 
metà 
2013, ha 
difeso 
l’Autorità 
Portuale, pressocchè 
organicamente, è 
un DPCM 
del 
1997, in base 
al 
quale 
molte 
Autorità 
Portuali 
si 
rivolsero all’Avvocatura 
dello Stato: 
a 
ciò fece 
seguito una 
circolare 
della 
PCM dell’8.02.1998 che estese a tutte le 
Autorità il patrocinio dell’Avvocatura. 
Il 
Consiglio di 
Stato con ord. 5484/09, Iv 
sezione, ha 
rilevato che 
il 
predetto decreto fa 
stato 
per tutte 
le 
Autorità 
portuali 
e 
che, anzi, le 
Autorità 
Portuali 
che 
volessero discostarsi 
dal 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello Stato devono motivare 
l’eventuale 
affidamento di 
patrocinio a 
liberi professionisti. 
Inoltre, 
in 
materia, 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
era 
intervenuta 
di 
recente 
con 
un 
parere 
portato in Comitato consultivo, cioè 
il 
massimo Consesso tecnico giuridico presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato dove 
vengono discusse 
le 
questioni 
di 
“massima” 
e 
in quella 
sede 
si 
era 
espressa 
per la 
piena 
ammissibilità 
del 
patrocinio autorizzato a 
tutte 
le 
AP, sulla 
scorta 
del DPCM del 04.12.1997 e della circolare esplicativa dell’8.02.1998. 
Con 
nota 
n. 
161082 
dell’11.04.2013 
diretta 
all’Autorità 
Portuale 
di 
Genova 
e 
al 
Ministero 
delle 
Infrastrutture 
e 
Trasporti, 
l’Avvocatura 
Generale 
ha 
ribadito 
che 
l’istanza 
per 
ottenere 
il 
patrocinio 
autorizzato 
di 
cui 
parlava 
il 
TAR 
del 
Lazio, 
sez. 
III, 
nella 
sentenza 
n. 
4640/09 
è 
stata 
poi 
successivamente 
smentita 
da 
altra 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
vI, 
n. 
647 
del 
9.02.2010 
che 
ha 
statuito 
che 
“per 
il 
patrocinio 
autorizzato 
non 
occorre 
mandato 
né 
deliberazione”. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Il 
carattere 
di 
organicità 
si 
rifarebbe, 
pertanto 
all’originaria 
previsione 
del 
DPCM 
confermato 
dalla 
circolare, tanto da 
ritenere 
detto patrocinio escludente 
sia 
rispetto ai 
liberi 
professionisti 
che 
dello stesso ufficio legale 
interno (cosa 
poi 
ribadita 
di 
recente 
dal 
Direttore 
generale 
del 
Ministero delle Infrastrutture e 
Trasporti). 
Pertanto l’organicità 
ed esclusività 
opererebbe 
a 
tutto campo, in virtù del 
fatto che 
l’Avvocatura 
dello Stato entrerebbe in un rapporto di immedesimazione organica con l’Ente. 
In 
tal 
modo 
l’ufficio 
legale 
interno 
potrebbe 
patrocinare 
direttamente 
solo 
nei 
casi 
in 
cui, 
con 
delibera 
motivata, decida 
di 
discostarsi 
dal 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato (prevalentemente 
nel 
caso 
in 
cui 
vi 
siano 
conflitti 
di 
interesse, 
per 
esempio 
perché 
l’Avvocatura 
difende 
lo 
Stato 
contro 
l’Autorità 
Portuale). 
Sul 
punto 
si 
è 
espresso 
precedentemente 
il 
Comitato 
consultivo 
con parere prot. n. 332607 del 24.10.2011 per Autorità di Piombino. 
Si 
rappresenta, altresì, che 
con carteggio dell’anno 2013, vi 
è 
stata 
una 
richiesta 
di 
conferma 
di 
patrocinio ex 
art. 43 T.u. 30.10.1933, n. 1611 alla 
PCM 
e 
al 
MIT, nonchè 
all’Avvocatura 
Generale, 
inoltrata 
dall’Amm. 
D. 
con 
nota 
n. 
311 
del 
6.12.2013 
(All. 
4 
alla 
presente 
memoria); 
detta 
richiesta 
fu 
accolta 
con 
parere 
favorevole 
dell’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(con 
nota n. 37147 del 27.01.2014 - All. 5 alla presente memoria). 
La 
citata 
richiesta 
di 
concessione 
istituzionale 
del 
patrocinio fu inoltrata 
“ad abundantiam”, 
vale a dire pur non essendo l’Amm. D. tenuto a ciò. 
Dagli 
atti 
prodotti 
in 
uno 
alla 
memoria 
di 
opposizione 
alla 
costituzione 
di 
parte 
civile 
del-
l’Autorità 
Portuale 
-depositata 
all’udienza 
del 
21.04.2015 
-si 
evince 
con 
chiarezza 
che 
l’Autorità, 
sul 
territorio 
nazionale, 
si 
è 
avvalsa 
e 
continua 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura dello Stato (1). 
Codesto Tribunale 
sulla 
vicenda 
dei 
caratteri 
del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato in favore 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli, 
con 
ordinanza 
del 
16.05.2015 
-decisoria, 
tra 
l’altro, 
nel 
senso 
della 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli, 
contestata 
da 
questa 
difesa 
per carenza 
di 
ius 
postulandi 
-ha 
espresso un diverso avviso rispetto 
a 
quanto prospettato innanzi, ritenendo che 
l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
sia 
carente 
tanto del 
patrocinio obbligatorio ex 
lege 
(art. 1 R.D. n. 1633/1933), quanto del 
patrocinio facoltativo 
(art. 43 R.D. n. 1633/1933) dell’Avvocatura dello Stato. 


COROLLARI GIuRIDICI 
Riepilogati i dati di fatto rilevanti, agevoli sono le conseguenze giuridiche. 


1) 
Alcunché 
dell’ipotesi 
accusatoria 
ha 
trovato 
conferma 
nel 
procedimento 
penale 
a 
carico 
dell’avv. D.v. 
Le 
emergenze 
processuali 
hanno evidenziato che 
l’avv. D.v. ha 
svolto in modo corretto e 
diligente 
i 
compiti 
affidatigli, 
con 
la 
pertinente 
interlocuzione 
con 
il 
proprio 
superiore 
gerarchico 
(l’Avvocato 
Distrettuale) 
e 
il 
funzionale 
rapporto 
con 
l’amministrazione 
patrocinata 
(Autorità 
Portuale) mirante 
ad una 
consultazione 
completa, rapida, efficiente, sinergica 
ed anche 
eco(
1) Non infirma 
la 
suddetta 
conclusione 
la 
circostanza 
che 
il 
Consiglio di 
Stato abbia 
accolto il 
ricorso 
proposto dall’Autorità 
Portuale 
di 
venezia: 
la 
sentenza 
in questione 
(CdS 
sez. Iv 
n. 3238/14) ha 
effetti 
limitati 
alla 
predetta 
ricorrente, in quanto la 
ragione 
dell’accoglimento di 
quel 
ricorso si 
fonda 
sull’accertamento 
-tempestivamente 
dedotto 
ed 
eccepito 
da 
quell’Autorità 
-di 
circostanze 
fattuali 
attinenti 
esclusivamente 
alla 
sfera 
di 
quell’Autorità 
(che 
lamentava 
di 
non 
essere 
stata 
coinvolta 
nel 
procedimento 
di adozione del cit. DPCM). 
L’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
non ha 
impugnato tale 
DPCM: 
sicchè 
esso nei 
suoi 
confronti 
è 
divenuto 
inoppugnabile ed è tuttora efficace. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


nomica 
(atteso che 
il 
rilascio dei 
pareri 
in favore 
degli 
enti 
patrocinati 
è 
a 
titolo gratuito secondo 
la 
disciplina 
in materia, come, peraltro, confermato dall’avv. F. nella 
escussione 
testimoniale 
del 12.09.2019: pag.15 del relativo verbale). 
va 
da 
ultimo evidenziato che 
la 
consultazione 
è 
stata 
altresì 
efficace 
atteso che 
la 
stessa 
era 
esatta 
e 
corretta 
nelle 
conclusioni, conforme 
alla 
normativa 
di 
riferimento e 
coerente 
con il 
quadro giurisprudenziale in materia. 
L’avvocato che 
rende 
un parere 
può anche 
giungere 
a 
delle 
conclusioni 
che 
siano vittoriosamente 
contestate in sede giudiziaria, ciò specie quando la materia è ondivaga. 
Per ciò solo non commette 
un illecito, salvo il 
ricorrere 
di 
condotte 
criminali 
qui 
insussistenti 
perché 
risulta 
provata 
l’assenza 
di 
qualunque 
preventivo accordo che 
avrebbe 
dovuto coinvolgere 
per primo anche 
l’Avvocato Distrettuale 
che 
ha 
assegnato la 
richiesta 
di 
parere, lo ha 
condiviso, integrato e firmato (cfr. testimonianza F., pag. 12 - udienza 12.09.2019). 
Il 
tutto 
rientra 
nell’id 
quod 
plerumque 
accidit, 
nella 
normale 
dialettica 
giuridica. 
Analogo 
ragionamento 
si 
può 
fare 
per 
il 
giudice 
che 
emana 
la 
sentenza, 
ove 
questa 
venga 
ribaltata 
in 
appello. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
peraltro, 
come 
evidenziato, 
la 
consultazione 
è 
stata 
efficace 
con 
conclusioni 
confermate 
in svariate 
sedi 
giurisdizionali. Conclusioni, va 
detto, in un certo senso obbligate; 
difatti: 
alla 
luce 
della 
normativa 
di 
riferimento e 
del 
quadro giurisprudenziale 
in materia, le 
dette 
conclusioni 
-alla 
stregua 
di 
quanto richiesto dall’Amm.ne 
-non potevano che 
condurre 
alla 
valutazione 
di 
illegittimità 
della 
offerta 
della 
società 
Palumbo, 
come 
ampiamente 
descritto 
innanzi. 
L’avv. 
D.v. 
doveva 
essere 
ringraziato 
per 
la 
diligenza 
e 
competenza 
posta 
nella 
consultazione. 
Diversamente 
ha 
opinato 
la 
pubblica 
accusa 
nella 
confezione 
del 
capo 
d’imputazione. 
Difatti, 
sulla base: 


-di 
un erroneo inquadramento giuridico della 
vicenda 
(tra 
cui 
le 
regole 
sul 
perfezionamento 
del parere), 
-di 
una 
istruttoria 
approssimativa 
(valga 
per tutte 
la 
problematica 
della 
telefonata 
n. 2350, 
dal 
contenuto peraltro istituzionale, del 
24.06.2011 erroneamente 
ascritta 
all’avv. D.v., laddove 
l’interlocutore era l’avv. F.), 
-di 
una 
non 
esatta 
individuazione 
del 
momento 
procedimentale 
nel 
quale 
è 
intervenuto 
il 
parere, 
-di 
una 
erronea 
ricostruzione 
della 
giurisprudenza 
prevalente 
nella 
materia 
delle 
esclusioni 
dalle gare, 
-di 
una 
teorizzata 
ed indimostrata 
collusione 
tra 
l’avv. D.v. ed i 
restanti 
protagonisti 
della 
vicenda 
(le emergenze processuali hanno evidenziato la ineccepibilità della condotta), 
l’avv. Del 
vecchio è chiamato dal PM a rispondere della imputazione di turbativa d’asta. 
L’avvocato 
dello 
Stato 
P.D.v., 
civil 
servant, 
con 
quasi 
trent’anni 
di 
carriera 
e 
di 
riconoscimenti 
professionali, da 
sei 
anni 
a 
questa 
parte 
si 
trova 
coinvolto nelle 
aule 
giudiziarie, imputato di 
un reato gravissimo, attesa 
la 
qualità 
rivestita 
di 
Avvocato dello Stato nell’espletamento del-
l’attività 
consultiva, 
laddove 
la 
piana 
ricostruzione 
dei 
fatti 
rilevanti 
evidenzia 
l’assoluta 
estraneità 
dello stesso a qualsivoglia condotta illecita. 
2) Segue. Alcunché 
dell’ipotesi 
accusatoria 
ha 
trovato conferma 
nel 
procedimento penale 
a 
carico dell’avv. D.v. In specie: perfezionamento del parere. 
Come 
innanzi 
evidenziato, 
il 
parere 
coinvolto 
nel 
procedimento 
penale 
venne 
sottoscritto 
dall’avv. 
D.v. 
nella 
qualità 
di 
Avvocato 
estensore 
e 
dall’Avvocato 
Distrettuale 
F. 
nella 
qualità 
di 
capo 
dell’ufficio. 
Tanto 
in 
conformità 
alle 
norme 
ed 
atti 
amministrativi 
regolanti 
il 
procedimento 
di 
rilascio 
dei 
pareri; 
alla 
stregua 
di 
tali 
regole 
il 
momento 
perfezionativo, 
con 
il 
quale 
si 
esterna 
il 
parere 
(rectius: 
esiste 
giuridicamente 
è 
la 
sottoscrizione 
del 
Capo 
dell’ufficio). 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


I rapporti 
istituzionali 
con l’esterno così 
come 
la 
funzione 
di 
indirizzo sulle 
questioni 
giuridiche 
la 
teneva 
e 
l’ha 
tenuta 
l’Avvocato distrettuale 
e 
non certo l’avv. P.D.v., avvocato dello 
Stato, ma che fa parte del ruolo dei venticinque avvocati dello Stato in servizio a Napoli. 
Per cui 
il 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
come 
qualsiasi 
altra 
Autorità 
venne 
ricevuta 
dal-
l’Avvocato Distrettuale e intrattenne rapporti istituzionali con lui. 
Pertanto la 
richiesta 
di 
parere 
fu assegnata 
dall’Avvocato Distrettuale 
che 
discrezionalmente 
decise 
a 
chi 
affidare 
la 
pratica 
e 
il 
parere 
fu firmato dall’Avvocato Distrettuale 
dello Stato, 
che 
ne 
ha 
assunse 
la 
paternità, condividendolo e, in parte, integrandolo (cfr. dichiarazione 
testimoniale 
F., pag.12 - udienza del 12.09.2019). 
L’Avvocatura 
dello 
Stato, 
essendo 
organo 
impersonale, 
manifesta 
all’esterno 
la 
propria 
volontà 
con 
la 
sottoscrizione 
da 
parte 
dei 
vertici 
dell’Istituto, 
quindi 
tramite 
l’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato e 
i 
vice 
Avvocati 
Generali 
dello Stato in Roma 
e 
tramite 
gli 
Avvocati 
distrettuali 
presso 
gli uffici distrettuali. 
In 
base 
agli 
artt. 
9 
e 
18 
della 
L. 
3 
aprile 
1979, 
n. 
103 
è 
l’Avvocato 
distrettuale 
dello 
Stato 
che 
impegna 
la 
volontà 
dell’Avvocatura 
all’esterno. 
In 
particolare 
l’art. 
18 
statuisce 
che: 
“l'avvocato 
distrettuale, 
dello 
Stato: 
vigila 
e 
soprintende, 
nell'ambito 
dell'avvocatura 
distrettuale, 
all'espletamento 
delle 
funzioni 
di 
istituto 
ed 
all'organizzazione 
e 
funzionamento 
degli 
uffici 
e 
dei 
servizi; 
assegna 
agli 
avvocati 
e 
procuratori 
in 
servizio 
presso 
l'avvocatura 
distrettuale 
gli 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi, 
in 
base 
ai 
criteri 
stabiliti 
dal 
comitato 
consultivo; 
assicura 
il 
coordinamento 
e 
l'unità 
di 
indirizzo 
dell'attività 
contenziosa 
e 
consultiva 
dell'avvocatura 
distrettuale, 
promuovendo 
l'esame 
e 
la 
decisione 
collegiale 
delle 
questioni 
giuridiche 
di 
maggiore 
rilievo, 
nonchè 
l'informazione 
e 
collaborazione 
reciproca 
tra 
gli 
avvocati 
e 
procuratori……”. 


Pertanto 
è 
necessaria 
la 
condivisione 
ed 
appropriazione 
giuridica 
del 
parere 
da 
parte 
del 
Capo 
dell’ufficio, 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
vi 
è 
stata, 
come 
specificato 
dall’avv. 
F., 
il 
quale 
ha 
chiarito 
che, nel 
sottoscrivere 
il 
parere, ha 
interloquito con l’avv. D.v., intervenendo anche 
sul 
testo 
del 
parere 
medesimo: 
“… 
mi 
ricordo 
che 
aggiunsi 
pure 
qualcosa 
alla 
fine 
del 
parere, 
una 
frase 
finale 
la modificai, mi 
sembra di 
ricordare 
e 
facemmo questo parere…” 
(esame 
testimoniale 
F., pag. 12 - udienza del 12.09.2019). 
Ciò a 
testimonianza 
della 
piena 
condivisione 
del 
parere 
e 
della 
linearità 
dell’azione 
dell’Avvocatura 
dello Stato tutta. 
Inoltre, 
va 
rilevato 
che 
solo 
dal 
2002 
(Circolare 
n. 
13/2002 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
e 
comunicazione 
di 
servizio 
n. 
34/02 
dell’Avvocato 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Napoli) 
in 
avanti 
compare 
la 
firma 
per esteso dell’avvocato dello Stato estensore 
del 
parere, mentre 
in 
precedenza 
tutta 
l’attività 
consultiva 
dell’Avvocatura 
dello Stato era 
sottoscritta 
unicamente 
dall’Avvocato Distrettuale. 
Ciò 
è 
stato 
confermato 
anche 
dal 
teste 
avv. 
S.M. 
nell’udienza 
del 
12.09.2019: 
“preSidenTe 
-la 
responsabilità 
di 
chi 
è? 
TeSTimone, 
m. 
-la 
responsabilità 
è 
dell’avvocato 
distrettuale, 
la 
firma 
dei 
parerei 
di 
tutti 
gli 
atti 
anche 
di 
quelli 
che 
non 
sono 
pareri, 
tranne 
le 
difese, 
per 
le 
difese 
c’è 
il 
visto, 
ma 
per 
ciò 
che 
riguarda 
il 
parere 
e 
le 
note, 
la 
responsabilità 
e 
la 
titolarità 
è 
dell’avvocato 
distrettuale. 
devo 
aggiungere 
che 
fino 
agli 
anni 
90’, 
non 
esisteva 
una 
firma 
congiunta 
del 
parere, 
il 
parere 
usciva 
solo 
a 
firma 
dell’avvocato 
distrettuale 
o 
dell’avvocato 
generale, 
negli 
anni 
90’, 
per 
fare 
emergere 
nei 
curricula 
anche 
queste 
attività 
consultive 
rese 
dai 
singoli 
avvocati, 
si 
è 
diramata 
dall’avvocatura 
generale, 
una 
circolare 
con 
la 
quale 
si 
consentiva, 
fermo 
restando 
la 
responsabilità 
all’esterno 
dell’avvocatura 
distrettuale 
e 
dell’avvocato 
distrettuale, 
si 
consentiva 
di 
individuare 
anche 
l’avvocato 
che 
aveva 
predisposto 
il 
parere… 
preSidenTe 
Quindi 
è 
a 
firma 
congiunta 
il 
parere? 
TeSTimone, 
m. 
-il 
parere 
esce 
a 
firma 
congiunta, 
ma 
da 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


un 
po’di 
tempo 
a 
questa 
parte, 
cioè 
a 
partire 
dagli 
anni 
90’, 
fermo 
restando 
che 
questa 
seconda 
firma, 
non 
è 
quella 
che 
fa 
assumere 
valenza 
al 
parere, 
perché 
la 
sola 
firma 
del 
singolo 
avvocato, 
non 
è 
idonea 
a 
imputare 
l’atto 
all’avvocatura 
dello 
Stato” 
(pp. 
18-19 
del 
verbale). 
In particolare 
la 
Circolare 
n. 13/2002 dell’AGS 
ribadisce 
come 
sia 
assolutamente 
necessaria 
la 
firma 
dell’Avvocato Distrettuale 
per le 
“espressioni 
di 
parere 
su questioni 
di 
diritto o di 
opportunità o di adozione di opzioni decisionali in punto di linee difensive..”. 
Tale 
circolare 
risulta 
poi 
essere 
stata 
confermata 
più 
volte 
negli 
anni 
sino 
ai 
giorni 
nostri 
(All. 
5 del Foliario con documenti depositati all’udienza del 16.06.2015). 
Tenuto conto di 
quanto ascritto nel 
capo di 
imputazione 
(predisposizione 
di 
un parere 
di 
comodo) 
appare, 
quindi, 
incomprensibile 
attribuire 
il 
parere 
di 
comodo 
ad 
un 
semplice 
avvocato 
dello Stato che 
non ha 
poteri 
di 
assegnazione, che 
non ha 
rapporti 
istituzionali 
e 
di 
rappresentanza 
con 
l’esterno, 
che 
non 
ha 
avuto 
contatto 
con 
i 
coimputati 
e 
che 
si 
è 
limitato 
a 
redigere 
il 
parere 
(rectius 
proposta 
di 
parere), di 
fatto siglandolo e 
sottoponendolo all’Avvocato Distrettuale 
(F.) che lo ha condiviso (integrato/modificato) e sottoscritto. 


3) Segue. Alcunché 
dell’ipotesi 
accusatoria 
ha 
trovato conferma 
nel 
procedimento penale 
a 
carico dell’avv. D.v. In specie: 
circa 
l’ 
individuazione 
del 
momento procedimentale 
nel 
quale 
è intervenuto il parere. 
Il 
capo 
di 
imputazione 
riporta 
poi 
una 
scansione 
temporale 
del 
tutto 
inesatta: 
in 
quanto 
sembra 
che 
l’avvocato 
D.v. 
partecipi 
a 
tutto 
il 
procedimento 
di 
gara, 
prima 
valutando 
l’offerta 
tecnica 
(il 
piano d’impresa) e 
poi 
sovvertendo la 
parte 
economica 
che 
era 
inizialmente 
andata 
a 
vantaggio 
di 
Palumbo. Si 
trascura 
un particolare 
e 
cioè 
che 
il 
parere 
venne 
chiesto quando l’assegnazione 
(“aggiudicazione 
provvisoria”) a 
Palumbo era 
già 
avvenuta. Le 
offerte 
erano già 
state 
valutate 
dalla 
Commissione 
e 
l’Avvocatura 
con il 
proprio parere 
sostenne 
che, all’atto 
dell’OFFERTA 
TECNICA 
(vale 
a 
dire 
quella 
che 
secondo 
il 
capo 
d’accusa 
avvantaggiava 
la 
Nuova 
Meccanica 
Navale) 
si 
doveva 
procedere 
all’esclusione 
di 
Palumbo, 
perché 
già 
in 
quella 
busta 
(la 
busta 
b) Palumbo non aveva 
allegato il 
documento di 
identità 
all’istanza 
del 
legale 
rappresentante. 
Quindi, 
alla 
luce 
del 
bando, 
all’offerta 
economica 
(qualunque 
fosse 
stata) 
non 
bisognava 
proprio arrivarci, in disparte 
poi 
il 
fatto che 
nemmeno nella 
busta 
c), cioè 
quella 
dell’offerta 
economica 
vi 
fosse 
il 
documento di 
riconoscimento del 
legale 
rappresentante 
di 
Palumbo, 
richiesto 
anche 
lì 
a 
pena 
di 
esclusione 
(ricordiamo 
che 
il 
TAR 
Campania, 
nella 
sentenza 
n. 1888/12 citata, statuisce: 
“…... nel 
caso di 
specie, l’adempimento imposto, vale 
a 
dire 
l’allegazione 
di 
una fotocopia del 
documento di 
identità, non è 
né 
illogico né 
sproporzionato 
non illogico, atteso che 
essa giova a verificare 
l’attribuibilità dell’offerta al 
soggetto 
offerente 
e, soprattutto, la sua impegnatività; non sproporzionato, atteso la minimalità della 
prescrizione 
imposta, presidiata con la clausola di 
esclusione 
proprio per 
rimarcare 
l’interesse 
della amministrazione 
al 
rispetto della prescrizione 
stessa e 
la allettata diligenza nel 
rispettarla. 
Tale 
prescrizione 
soddisfa, 
pertanto, 
l’interesse 
pubblico 
volto 
alla 
certezza 
della 
imputabilità dell’offerta, per 
cui 
non può dirsi 
come 
irragionevolmente 
posto a restrizione 
della massima concorrenza, ma come 
onere 
da osservare, nel 
rispetto della par 
condicio”. 
Ed ancora 
sempre 
nella 
medesima 
decisione 
TAR (cfr. pag. 20) : 
“…… RISULTA 
EVIDENTE LA 
LEGITTIMITÀ 
DELL’OPERATO 
DELL’AUTORITÀ 
PORTUALE 
CHE 
CON 
LA 
IMPUGNATA 
DELIBERA 
NON 
HA 
APPROVATO 
L’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA 
DISPOSTA 
DALLA 
COMMISSIONE GIUDICATRICE, 
STANTE LA 
NECESSITÀ DELL’ESCLUSIONE DELLA 
SOCIETÀ RICORRENTE. L’OPERATO 
DELL’AUTORITÀ 
PORTUALE 
DEVE 
PERALTRO 
RITENERSI 
LEGITTIMO….” 
(All. 
14 
del 
Foliario 
con documenti 
depositati 
all’udienza 
del 
16.06.2015) [maiuscolo, neretto, sottolineato a 
cura 
dei redattori]. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


4) Segue. Alcunché 
dell’ipotesi 
accusatoria 
ha 
trovato conferma 
nel 
procedimento penale 
a 
carico 
dell’avv. 
D.v. 
In 
specie: 
circa 
la 
giurisprudenza 
prevalente 
nella 
materia 
delle 
esclusioni 
dalle gare. 
Il 
capo di 
imputazione 
coinvolgente 
l’avv. D.v. evidenzia 
che 
il 
vizio di 
forma 
rilevato nel 
bando -ed attenzionato nel 
parere 
-è 
ritenuto pacificamente 
irrilevante 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa. 
Tanto è 
palesemente 
erroneo alla 
stregua 
di 
quanto ricostruito nel 
quadro fattuale 
e 
giurisprudenziale. 
Sia 
il 
parere 
(che 
richiamava 
già 
una 
serie 
di 
decisioni 
sul 
punto) 
e 
sia 
la 
sentenza 
del 
Tar 
Campania 
n. 1888/12, intervenuta 
tra 
le 
parti, che 
si 
è 
pronunciata 
proprio sul 
provvedimento 
dell’Autorità 
Portuale 
hanno 
confermato 
che 
quel 
vizio 
non 
era 
irrilevante 
ed 
anzi 
andava 
sanzionato con l’esclusione della Palumbo. 
Conferma 
si 
è 
avuta 
poi 
con la 
sentenza 
n. 9/14 del 
Consiglio di 
Stato che, in Adunanza 
Plenaria, 
ha 
addirittura 
definito 
l’orientamento 
seguito 
nel 
parere 
e 
nel 
successivo 
provvedimento, 
come 
“diritto vivente”. 
Tanto 
evidenzia 
che 
l’affermazione 
di 
cui 
al 
capo 
di 
imputazione 
secondo 
cui 
il 
vizio 
in 
esame 
è 
“pacificamente 
ritenuto irrilevante 
dalla giurisprudenza amministrativa” 
è 
assolutamente 
erronea. 
Palese 
risulta 
la 
correttezza 
delle 
valutazioni 
dell’Avvocatura 
sullo 
specifico 
quesito 
posto 
dall’Autorità 
Portuale, in quanto la 
Palumbo andava 
esclusa, come 
statuito in tutti 
i 
gradi 
di 
giudizio (civili 
e 
amministrativi) e 
confermato, da 
ultimo, dalla 
sentenza 
n. 4662/14 del 
Consiglio 
di 
Stato, 
passata 
in 
giudicato, 
che 
ha 
definitivamente 
ritenuta 
legittima 
l’esclusione 
della 
Palumbo 
dalla 
gara, 
ritenendo 
necessaria 
l’allegazione 
documentale 
che 
era 
del 
tutto 
mancante nelle buste b) e c). 
5) Segue. Alcunché 
dell’ipotesi 
accusatoria 
ha 
trovato conferma 
nel 
procedimento penale 
a 
carico 
dell’avv. 
D.v. 
In 
specie: 
circa 
l’esistenza 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
nei 
confronti dell’Autorità Portuale. 
Come 
evidenziato 
innanzi, 
codesto 
Tribunale 
sulla 
vicenda 
dei 
caratteri 
del 
patrocinio 
del-
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
in 
favore 
dell’Autorità 
portuale 
di 
Napoli 
con 
ordinanza 
del 
16.05.2015 -decisoria, tra 
l’altro, nel 
senso della 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli, 
contestata 
da 
questa 
difesa 
per 
carenza 
di 
ius 
postulandi 
atteso 
che 
l’Autorità 
si 
è 
costituita 
con 
il 
patrocinio 
di 
un 
avvocato 
del 
libero 
foro 
e 
non 
a 
mezzo dell’Avvocatura 
dello Stato -ha 
ritenuto che 
l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
è 
carente 
tanto del 
patrocinio obbligatorio ex 
lege 
(art. 1 R.D. n. 1633/1933), quanto del 
patrocinio facoltativo 
(art. 43 R.D. n. 1633/1933) dell’Avvocatura dello Stato. 
Orbene 
applicando tale 
principio di 
diritto alla 
fattispecie 
del 
rilascio del 
parere 
per il 
quale 
è 
imputato l’avv. D.v. agevole 
è 
il 
corollario: 
se 
l’Autorità 
Portuale 
non gode 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
l’avv. 
D.v. 
-che 
ha 
reso 
un 
parere 
quale 
membro 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
-ha 
reso 
un 
parere 
inesistente, 
di 
nessuna 
rilevanza 
giuridica, 
come 
tale 
ininfluente 
sulla 
procedura. Ricorre, quindi, un’ipotesi 
di 
scuola 
di 
reato impossibile 
(art. 49 c.p.), ulteriore 
titolo per il quale l’avv. D.v. va mandato assolto. 
va 
precisato 
che 
per 
questo 
Organo 
legale, 
per 
quanto 
ampiamente 
esposto 
nel 
quadro 
fattuale, 
sussiste il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in favore dell’Autorità Portuale di Napoli. 
CONCLuSIONI 
Alla 
stregua 
di 
tutto 
quanto 
ricostruito, 
attesa 
la 
piana 
assenza 
di 
responsabilità 
in 
capo 
all’avv. 
D.v., si 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


ChIEDE 


che 
l’adito 
Tribunale, 
in 
via 
immediata, 
pronunci 
l’assoluzione 
dell’avv. 
D.v. 
ai 
sensi 
dell’art. 
129 c.p.p. 
Documenti come da indice. 
Napoli, 3 novembre 2019 


Maurizio Greco 


Avvocato dello Stato 


Michele Gerardo 
Avvocato dello Stato 


tribunale 
di 
napoli, 
Prima 
sezione 
penale, 
sentenza 
28 
novembre 
2019, 
dep. 
il 
21 
gennaio 
2020 
n. 12933 
-pres. v. Bove, est. P. Cirillo - Procedimento a carico di D.v.P., imputato. 
(...) 


MotiVi Della DeCisione 


1. i fatti contestati. 
D.v. 
P. 
è 
chiamato 
a 
rispondere, 
in 
concorso 
con 
altri 
soggetti, 
del 
reato 
di 
turbata 
libertà 
degli 
incanti, nella 
fattispecie 
aggravata 
ex 
art. 353 comma 
2 c.p., perché, in occasione 
di 
una 
gara 
relativa 
alla 
concessione 
delle 
aree 
e 
dello 
specchio 
acqueo 
prospiciente 
il 
lato 
interno 
del 
Molo 
Martello 
nel 
Porto 
di 
Napoli, 
quale 
Avvocato 
dello 
Stato, 
avrebbe 
predisposto 
un 
“parere 
di 
comodo”, per favorire 
una 
delle 
due 
società 
partecipanti 
alla 
gara 
(la 
“Nuova 
Meccanica 
Navale s.r.l.”), contribuendo così a turbare il regolare andamento della procedura. 
Secondo 
l’ipotesi 
accusatoria, 
la 
condotta 
del 
D.v. 
si 
sarebbe 
inserita 
in 
un 
ampio 
disegno 
criminoso, mirante 
a 
consentire 
alla 
“Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l.” 
di 
aggiudicarsi 
la 
gara, 
grazie 
all’esclusione 
dalla 
procedura 
della 
società 
che 
si 
era 
aggiudicata 
in via 
provvisoria 
la 
gara 
(la 
“Palumbo 
S.p.A.”); 
esclusione 
da 
raggiungersi 
dando 
rilievo 
ad 
un 
vizio 
di 
forma 
dell’offerta 
presentata 
dalla 
“Palumbo S.p.A.”, che 
-a 
parere 
dell’accusa 
-sarebbe 
pacificamente 
ritenuto 
irrilevante 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa 
e, 
in 
ogni 
caso, 
analogo 
ad 
altro 
riscontrabile nell’offerta della Nuova Meccanica s.r.l. 
Nell’ambito di 
tale 
disegno, di 
particolare 
rilievo sarebbe 
stato il 
contributo del 
D.v. che, con 
il 
suo “parere 
di 
comodo” 
avrebbe 
fornito adeguata 
“copertura 
giuridica” 
alla 
tesi 
della 
rilevanza 
del 
vizio 
dell’offerta 
presentata 
dalla 
“Palumbo 
S.p.A.”; 
vizio 
posto 
dal 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale, 
D.L., 
anche 
lui 
concorrente 
nel 
reato, 
a 
fondamento 
del 
provvedimento 
di revoca dell’aggiudicazione provvisoria della gara in favore della Palumbo S.p.A. 
Il 
D.v. 
avrebbe 
operato 
in 
concorso 
con 
altri 
soggetti 
coinvolti 
a 
vario 
titolo 
nella 
procedura: 
D.L., 
in 
qualità 
di 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli; 
P.S., 
quale 
dirigente 
della 
predetta 
autorità 
e 
quale 
componente 
della 
commissione 
aggiudicatrice; 
[…] 
u.A., 
L.D.F.P 
e 
P.D., 
quali 
amministratori 
di 
fatto 
e 
o 
diritto 
nonché 
dirigenti 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l. 
2. l’istruttoria dibattimentale. 
va 
premesso che 
il 
fatto contestato al 
D.v. è 
stato oggetto di 
una 
più ampia 
indagine, riguardante 
l’attività 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli, i 
cui 
esiti 
sono confluiti 
originariamente, in 
un unico processo, avente 
ad oggetto altri 
diciassette 
capi 
di 
imputazione, ciascuno dei 
quali 
riferibile a presunti episodi criminosi completamente distinti da quello contestato al D.v. 
L 
istruttoria 
dibattimentale, 
pertanto, 
si 
è 
estesa 
anche 
a 
vicende 
che 
non 
riguardano 
minimante 
la 
posizione 
del 
D.v. e 
che, chiaramente 
non saranno analizzate 
e 
valutate 
nell’ambito della 
presente sentenza. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Gli 
esiti 
dell’istruttoria 
di 
maggior rilievo in relazione 
alla 
posizione 
di 
D.v. P. -in base 
alla 
documentazione 
prodotta 
dalle 
parti 
e 
alle 
dichiarazioni 
rese 
dai 
testi 
(e 
in particolar modo a 
quelle rese dal maresciallo F.F.) - possono essere riassunti nel modo che segue. 
La 
procedura 
di 
gara 
indicata 
nell’imputazione 
traeva 
origine 
dalla 
deliberazione 
n. 43 del 
21 
dicembre 
2010, con la 
quale 
il 
Comitato Portuale 
conferiva 
mandato al 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale, 
D.L., 
di 
definire 
i 
procedimenti 
pendenti 
a 
seguito 
della 
presentazione 
di 
istanze 
di 
concessione 
delle 
aree 
e 
dello 
specchio 
d 
acqua 
siti 
in 
prossimità 
del 
Molo 
Martello; 
istanze 
che erano state presentate, tra il 2007 e il 2010, da svariate società. 
Con 
il 
provvedimento 
n. 
25 
del 
28 
gennaio 
2011, 
il 
Presidente 
D. 
deliberava 
lassentimento 
in 
concessione 
delle 
aree 
e 
dello 
specchio 
acqueo 
prospiciente 
il 
lato 
interno 
del 
Molo 
Martello, 
da 
destinare 
all’ormeggio 
di 
un 
bacino 
galleggiante 
per 
lo 
svolgimento 
di 
attività 
di 
riparazione 
navale. 
Il 
D. 
nominava 
L.F. 
(funzionario 
dell’ufficio 
demanio 
dell’area 
istituzionale 
dell’Autorità 
Portuale) 
responsabile 
unico del 
procedimento e 
autorizzava 
l’ufficio appalti 
ad avviare 
la 
procedura 
selettiva a evidenza pubblica. 
Con la 
deliberazione 
n. 147 del 
23 marzo 2011, il 
D., confermato L. quale 
responsabile 
unico 
del 
procedimento, visto l’elevato tecnicismo della 
materia, nominava 
una 
commissione 
aggiudicatrice 
composta da quattro tecnici […]. 
In data 
29 marzo 2011, si 
teneva 
la 
prima 
seduta 
pubblica 
della 
commissione, che 
dava 
atto 
di 
aver accertato il 
rispetto dei 
termini 
di 
scadenza 
per la 
presentazione 
delle 
domande 
e 
di 
aver verificato la 
riconducibilità 
delle 
offerte 
a 
due 
società: 
la 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l. 
(legalmente rappresentata da u.A.) e la Palumbo S.p.A. (legalmente rappresentata da P.A.). 
Nel 
corso della 
prima 
seduta 
pubblica, la 
commissione 
procedeva 
alla 
verifica 
dell’integrità 
dei 
plichi 
presentati 
dalle 
due 
società, ciascuno dei 
quali 
si 
articolava 
in tre 
buste 
contraddistinte 
dalle 
lettere 
a), b) e 
c): 
la 
prima 
contenente 
la 
domanda 
di 
partecipazione 
e 
i 
dati 
della 
società 
che 
l 
aveva 
presentata; 
la 
seconda 
il 
progetto 
industriale 
(offerta 
tecnica); 
la 
terza 
l’offerta 
economica (canone concessorio proposto). 
La 
commissione, verificata 
la 
presentazione 
nei 
termini 
delle 
domande 
e 
aperte 
le 
buste, rilevava 
diversi vizi di forma. 
Il 
primo 
vizio 
riscontrato 
nella 
busta 
a), 
comune 
ad 
entrambe 
le 
offerte, 
consisteva 
nella 
mancata 
allegazione 
della 
copia 
del 
documento 
d’identità 
del 
direttore 
tecnico; 
il 
secondo, 
rilevato 
nella 
busta 
b), riguardava 
solo la 
Palumbo S 
p A 
e 
consisteva 
nella 
mancanza 
del 
documento 
del legale rappresentante della stessa (P.A.). 
La 
commissione 
riteneva 
che 
il 
primo dei 
due 
vizi, quello comune 
ad entrambe 
le 
offerte, era 
irrilevante 
ai 
fini 
della 
partecipazione 
alla 
gara 
e 
non previsto dal 
bando a 
pena 
di 
esclusione 
dalla gara. 
La 
commissione 
riteneva 
irrilevante 
anche 
l’altro 
vizio, 
che 
riguardava 
solo 
l’offerta 
presentata 
dalla 
Palumbo S.p.A., sebbene 
il 
mancato inserimento nella 
busta 
b) del 
documento in questione 
fosse 
espressamente 
sanzionato dall’art. 5 del 
“bando” 
a 
pena 
di 
esclusione 
dalla 
gara. 
A 
sostegno di 
tale 
valutazione, la 
commissione 
osservava 
che 
l’omissione 
riguardava 
“una 
documentazione 
tecnica e 
non certificativa di 
stati 
e 
qualità personali” 
e 
che, in ogni 
caso, 
la fotocopia del documento d’identità del P. era comunque presente nella busta a). 
Nella 
prima 
seduta 
riservata 
del 
7 aprile 
2011, a 
cui 
non prendevano parte 
le 
società 
partecipanti 
alla 
gara, la 
commissione 
elaborava 
i 
criteri 
da 
applicare 
per la 
valutazione 
delle 
due 
offerte tecniche, procedendo poi all’esame dei piani di impresa contenuti nella busta b). 
In due 
sedute 
riservate, tenutesi 
il 
13 aprile 
e 
il 
3 maggio del 
2011, veniva 
assegnato un punteggio 
per i diversi parametri di valutazione del piano di impresa. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Nella 
quarta 
e 
nella 
quinta 
seduta 
riservata, la 
commissione 
valutava 
le 
offerte 
tecniche 
delle 
due società partecipanti. 
Durante 
la 
seconda 
seduta 
pubblica, in data 
18 maggio 2011, in presenza 
dei 
delegati 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l. 
e 
della 
Palumbo 
S.p.A., 
la 
commissione 
comunicava 
i 
punteggi 
attribuiti alle due società per i piani d impresa presentati. 
Seguiva 
l’apertura 
delle 
buste 
contraddistinte 
dalla 
lettera 
c), 
contenenti 
le 
offerte 
economiche: 
nella 
busta 
della 
Palumbo 
S.p.A. 
mancava, 
ancora 
una 
volta, 
la 
fotocopia 
della 
carta 
d’identità 
del 
legale 
rappresentante, 
che 
l’art. 
5 
del 
bando 
richiedeva 
anche 
per 
la 
busta 
c) 
a 
pena 
di 
esclusione. 
La 
commissione, 
tuttavia, 
riteneva 
ancora 
una 
volta 
irrilevante 
l’omissione, 
in 
quanto il documento risultava comunque inserito nella busta a). 
Conseguentemente 
riteneva 
di 
non 
escludere 
la 
Palumbo 
S.p.A. 
e, 
dopo 
aver 
proceduto 
al 
calcolo 
dei 
punteggi 
assegnati, 
dichiarava 
la 
Palumbo 
S.p.A. 
aggiudicataria 
provvisoria 
della 
gara per aver realizzato un punteggio superiore a quello dell’altra società. 
Nel 
corso della 
seduta 
del 
18 maggio 2011, P.D. (intervenuto in rappresentanza 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l.) 
dichiarava 
che 
avrebbe 
tutelato 
nelle 
sedi 
opportune 
gli 
interessi 
della 
società 
da 
lui 
rappresentata, 
lamentando 
la 
mancanza 
del 
documento 
di 
identità 
del 
legale 
rappresentante 
nell’offerta 
economica 
presentata 
dalla 
Palumbo S 
p A 
nonché 
la 
possibile 
incompatibilità 
della 
concessione 
da 
rilasciare 
alla 
Palumbo S.p.A. con quelle 
già 
rilasciate 
in 
favore della medesima società (su tali punti formalizzava espressa riserva). 
Con nota 
n. 271 del 
9 giugno 2011, il 
responsabile 
unico del 
procedimento chiedeva 
al 
presidente 
della 
commissione 
[…] un approfondimento sui 
“criteri 
di 
preferenza” 
sanciti 
nell’art. 
4 
dell’avviso 
di 
gara, 
che 
prevedeva 
espressamente, 
per 
il 
caso 
in 
cui 
vi 
fossero 
più 
concorrenti 
ad 
aver 
ottenuto 
il 
punteggio 
più 
alto, 
l’aggiudicazione 
in 
favore 
del 
partecipante 
che 
non 
possedesse altre concessioni nel Porto di Napoli. 
Nella 
successiva 
seduta 
riservata, la 
commissione 
confermava 
che 
il 
vincitore 
della 
gara 
rimaneva 
la 
Palumbo 
S.p.A., 
rinunciando 
ad 
ulteriori 
valutazioni 
in 
ordine 
all’ 
applicazione 
del 
predetto “criterio di preferenza”. 
Il 
Presidente 
D., 
dopo 
aver 
ricevuto 
i 
verbali 
della 
commissione 
e 
aver 
letto 
la 
specifica 
riserva 
che 
P.D. aveva 
fatto verbalizzare 
nel 
corso della 
seduta 
pubblica, decideva 
di 
rivolgersi 
all’Avvocatura 
dello 
Stato, 
onde 
verificare 
la 
correttezza 
dell’aggiudicazione 
provvisoria 
e 
prevenire 
eventuali ricorsi e richieste di risarcimento danni. 
Con nota 
n. 148/P 
del 
24 giugno 2011, il 
Presidente 
D. ricostruiva 
sommariamente 
le 
varie 
fasi 
della 
procedura 
e 
invitava 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato, nella 
persona 
dell’Avv. 
F.G., a 
esprimere 
un parere 
su alcuni 
profili 
critici 
dello svolgimento della 
gara: 
1) l’omessa 
produzione 
della 
fotocopia 
di 
un 
valido 
documento 
di 
identità 
del 
legale 
rappresentante 
di 
una 
delle 
società 
concorrenti, 
richiesta 
dall’art. 
5 
dell’avviso 
di 
gara 
a 
pena 
di 
esclusione 
della 
procedura; 
2) 
mancata 
coerenza, 
illogicità 
e 
sproporzione 
nell’attribuzione 
dei 
punteggi 
di 
cui 
all’art 
4 
dell’avviso 
di 
gara; 
3) 
esatta 
portata 
del 
criterio 
di 
preferenza, 
sempre 
sancito 
nell’art 
4 dell’avviso di 
gara, che 
prevedeva, per il 
caso in cui 
vi 
fossero più concorrenti 
ad 
aver ottenuto il 
punteggio più alto, l’aggiudicazione 
in favore 
del 
partecipante 
che 
non possedesse 
altre concessioni nel Porto di Napoli. 
L’Avvocato 
Distrettuale, 
F.G., 
individuava 
nell’avv. 
D.v.P. 
la 
figura 
più 
adatta 
a 
istruire 
la 
pratica 
(cfr. 
dichiarazioni 
di 
F.G., 
verbale 
d’udienza 
del 
12.9.2019, 
p. 
13: 
“ho 
scelto 
d.v. 
perché 
in 
quel 
periodo 
stava 
scrivendo 
un 
libro 
sul 
nuovo 
Codice 
degli 
appalti, 
studia 
quella 
roba…) e 
gli 
assegnava 
il 
fascicolo in base 
alla 
sua 
discrezionale 
valutazione; 
tale 
modalità 
di 
assegnazione 
del 
fascicolo era 
corrispondente 
alla 
prassi 
normalmente 
seguita 
in tali 
casi 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


dalle 
avvocature 
distrettuali 
(cfr. sul 
punto le 
dichiarazioni 
del 
teste 
M.S., che 
ha 
prestato servizio 
in svariate avvocature distrettuali: verbale d’udienza del 12.9.2019, pp. 17-18). 
L’Avvocatura 
dello 
Stato, 
con 
la 
nota 
n. 
78708 
del 
30 
giugno 
2011, 
sottoscritta 
dall’Avvocato 
Distrettuale, 
F.G., 
e 
dall’avvocato 
estensore, 
D.v.P., 
evidenziava 
che 
l’aggiudicazione 
provvisoria 
disposta 
dalla 
commissione 
doveva 
considerarsi 
illegittima, 
in 
quanto 
la 
Palumbo 


S.p.A. 
ai 
sensi 
dell’art 
5 
dell’avviso 
di 
gara, 
doveva 
essere 
esclusa 
dalla 
procedura 
per 
l’omesso 
inserimento, 
nelle 
buste 
b) 
e 
c), 
della 
fotocopia 
del 
documento 
d’identità 
del 
legale 
rappresentante. 
Per 
completezza 
l’ 
Avvocatura 
affrontava 
anche 
le 
altre 
criticità 
rilevate 
dal 
D. 
Quanto 
all’attribuzione 
dei 
punteggi, 
l’Avvocatura 
rilevava 
che 
rientrava 
nella 
discrezionalità 
amministrativa 
l’individuazione 
degli 
elementi 
di 
valutazione 
dell’offerta 
e 
dei 
relativi 
parametri; 
tale 
scelta 
non era 
sindacabile 
a 
meno di 
manifesta 
irrazionalità 
della 
scelta 
o palese 
travisamento dei presupposti di fatto. 
Quanto, infine, al 
criterio di 
preferenza 
previsto dall’art. 4 dell’avviso di 
gara, l’Avvocatura 
rilevava 
che 
esso non era 
in concreto applicabile 
in quanto le 
due 
società 
avevano conseguito 
punteggi 
differenti; 
queste 
ultime, peraltro, risultavano entrambe 
concessionarie 
di 
beni 
demaniali 
nel Porto di Napoli. 
Con la 
delibera 
n. 390 dell’8 luglio 2011, avente 
ad oggetto le 
determinazioni 
finali 
in ordine 
alla 
procedura 
in questione, il 
Presidente 
D. non approvava 
l’ 
aggiudicazione 
provvisoria 
disposta 
dalla 
commissione 
perché 
l 
offerta 
della 
Palumbo S.p.A. era 
affetta 
da 
vizi 
espressamente 
sanzionati 
dal 
“bando” 
con l’esclusione 
dalla 
gara 
(mancata 
allegazione 
nelle 
buste 
b 
e 
c 
della 
copia 
fotostatica 
del 
documento di 
identità 
del 
legale 
rappresentante); 
con il 
medesimo 
atto assegnava la concessione alla Nuova Meccanica Navale s.r.l. 
Avverso la 
delibera 
n. 390 dell’8 luglio 201l, la 
Palumbo S 
p A 
proponeva 
ricorso al 
T.A.R., 
che, con sentenza 
n.1888/12, dopo aver dichiarato la 
legittimità 
del 
disciplinare 
di 
gara, nella 
parte 
in cui 
prevedeva 
a 
pena 
di 
esclusione 
dalla 
gara 
l’allegazione 
nell’offerta 
economica 
e 
nell’offerta 
tecnica 
del 
documento del 
legale 
rappresentante 
della 
società, rigettava 
il 
ricorso, 
dichiarando 
la 
legittimità 
dell’operato 
dell’Autorità 
Portuale 
che, 
con 
la 
delibera 
in 
questione, 
non aveva approvato l’aggiudicazione provvisoria disposta dalla commissione giudicatrice. 
La 
sentenza 
del 
T.A.R. veniva 
in parte 
riformata 
dal 
C. di 
S. con la 
sentenza 
n. 4662/14, che, 
in parziale 
accoglimento dell’appello proposto dalla 
Palumbo S.p.A., annullava 
l’intera 
procedura 
di gara. 
Con la 
suddetta 
sentenza, il 
C. di 
S. ribadiva 
che 
la 
società 
Palumbo S.p.A. era 
stata 
legittimamente 
esclusa 
dalla 
gara 
per la 
riscontrata 
mancata 
allegazione 
del 
documento di 
identità 
del 
legale 
rappresentante, requisito previsto a 
pena 
di 
esclusione 
dal 
bando di 
gara. Sul 
punto 
il 
C. di 
S. affermava 
che 
“la clausola in questione 
rispetta, anche 
in considerazione 
del 
sacrificio 
minimo imposto al 
concorrente 
(la mera allegazione 
di 
una fotocopia del 
documento 
d’identità del 
soggetto che 
ha sottoscritto l’offerta) e 
dell’interesse 
con essa perseguito dal-
l’amministrazione 
(la certezza dell’autenticità della sottoscrizione) i 
principi 
di 
ragionevolezza, 
proporzionalità e 
pertinenza, individuati 
dalla tradizionale 
giurisprudenza come 
limiti 
al 
potere 
dell’amministrazione 
di 
imporre, in sede 
di 
bando, adempimenti 
ulteriori 
da rispettare 
a pena di 
esclusione”, rilevando altresì 
che, 
“in presenza di 
clausole 
che 
contemplano 
prescrizioni 
a 
pena 
di 
esclusione, 
non 
è 
ammissibile 
il 
c.d. 
soccorso 
istruttorio, 
in 
quanto 
l’invito alla regolarizzazione costituirebbe una palese violazione della par condicio...”. 
Il 
C. 
di 
S., 
tuttavia, 
accoglieva 
parzialmente 
l’appello, 
con 
riferimento 
ad 
un 
motivo 
di 
ricorso 
in ordine 
al 
quale 
il 
T.A.R. (per considerazioni 
di 
carattere 
procedurale 
non condivise 
dal 
C. 
di S.) non si era pronunciato nel merito: l’eccesso di potere per disparità di trattamento. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Il 
giudice 
dell’impugnazione 
affrontava 
nel 
merito 
tale 
motivo 
di 
ricorso 
e 
lo 
riteneva 
fondato, 
poiché 
“il 
presidente 
dell’autorità portuale, pur 
avendo contezza dai 
verbali 
che 
anche 
la 
nuova 
meccanica 
navale 
s.r.l. 
non 
aveva 
allegato 
alla 
dichiarazione 
del 
proprio 
tecnico, 
resa 
ai 
sensi 
dell’art 
38 
d.lgs. 
n.163 
del 
2006, 
la 
copia 
fotostatica 
del 
relativo 
documento 
d’identità, 
ha 
chiesto 
all’avvocatura 
dello 
Stato 
un 
parere 
con 
riferimento 
alla 
sola 
eventuale 
esclusione della palumbo S.p.a.”. 
Il 
C. di 
S. riteneva 
“eclatante” 
la 
disparità 
di 
trattamento in concreto verificatasi, in considerazione 
del 
fatto che 
l’amministrazione, nel 
richiedere 
il 
parere 
all’Avvocatura 
sull’omessa 
produzione 
del 
documento 
da 
parte 
della 
Palumbo 
S.p.A., 
non 
aveva 
esteso 
la 
richiesta 
anche 
all’analoga 
dimenticanza 
nella 
quale 
era 
incorsa 
la 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l.: 
“in definitiva, 
la stazione 
appaltante, nel 
formulare 
il 
quesito all’ 
avvocatura, avrebbe 
dovuto non 
limitarlo alla posizione 
della palumbo S.p.a. ma allargarne 
l’oggetto al 
fine 
di 
estendere 
il 
giudizio di validità all’altra concorrente...”. 


La vicenda in esame veniva portata all’attenzione anche del giudice civile. 
La 
Palumbo S.p.A., invero, citava 
in giudizio davanti 
al 
Tribunale 
di 
Napoli 
l’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli 
nonché 
D.L. (presidente 
dell’Autorità) e 
L.P.F. (r.u.p.) per vederli 
condannare 
al 
risarcimento dei 
danni 
da 
lei 
subiti 
in ragione 
della 
mancata 
conferma 
dell’aggiudicazione 
provvisoria. 
Il 
Tribunale 
di 
Napoli 
-Decima 
Sezione 
Civile 
-rigettava 
la 
domanda 
poiché 
riteneva 
“provato 
dalla documentazione 
che 
il 
bando fosse 
pienamente 
legittimo, nella parte 
in cui 
prevedeva 
l’obbligo di 
allegazione 
del 
documento di 
identità del 
responsabile 
dell’impresa a pena 
di 
esclusione, 
e 
che 
l’amministrazione 
avesse 
fatto 
corretta 
applicazione 
delle 
norme 
del 
bando 
di 
gara, 
estromettendo 
l’impresa 
palumbo 
per 
il 
vizio 
dell’offerta 
da 
essa 
presentata”. 


3. la valutazione degli esiti dell’istruttoria dibattimentale. 
Essendo questi 
gli 
esiti 
dell’istruttoria, il 
Collegio ritiene 
che 
non sia 
stata 
dimostrata 
la 
fondatezza 
dell’ipotesi accusatoria formulata a carico di D.v.P. 
L’impianto accusatorio a 
carico dell’imputato, invero, si 
fondava 
su un presunto “parere 
di 
comodo” 
che 
sarebbe 
stato 
formulato 
dal 
D.v. 
per 
fornire 
“copertura 
giuridica” 
all’esclusione 
della 
Palumbo 
S.p.A. 
dalla 
gara, 
in 
modo 
tale 
da 
consentire 
l’aggiudicazione 
della 
concessione 
in favore dell’unica altra società partecipante: la Nuova Meccanica Navale s.r.l. 
In particolare, il 
D.v., nel 
parere 
in questione 
avrebbe 
dato rilievo a 
un vizio pacificamente 
ritenuto irrilevante dalla giurisprudenza amministrativa. 
Orbene, 
dall’istruttoria 
espletata, 
è 
emerso 
che 
il 
vizio 
a 
cui 
ha 
dato 
rilievo 
il 
D.v. 
era 
costituito 
dalla 
mancata 
allegazione, nelle 
buste 
b) e 
c), del 
documento d’identità 
del 
legale 
rappresentante 
della Palumbo S.p.A. 
Ebbene 
tale 
vizio, diversamente 
da 
quanto sostenuto nella 
contestazione, non era 
affatto ritenuto 
irrilevante dalla giurisprudenza amministrativa. 
Invero, 
come 
espressamente 
affermato 
dal 
T.A.R. 
e 
dal 
C. 
di 
S., 
chiamati 
a 
pronunciarsi 
proprio 
sulla 
procedura 
amministrativa 
in 
questione, 
la 
clausola 
di 
esclusione 
dalla 
gara 
in 
caso 
di 
mancata 
allegazione 
del 
documento 
di 
riconoscimento 
del 
rappresentante 
legale 
era 
legittima, 
perché 
ragionevole 
sotto 
il 
profilo 
logico, 
in 
quanto 
finalizzata 
a 
verificare 
se 
l’offerta 
fosse 
attribuibile 
al 
soggetto 
offerente, 
e 
proporzionata, 
“data 
la 
minimalità 
della 
prescrizione 
imposta”. 
Da 
entrambe 
le 
sentenze 
emesse 
dai 
giudici 
amministrativi, inoltre, emerge 
con evidenza 
che 
la 
conseguente 
esclusione 
della 
Palumbo S.p.A., una 
volta 
accertata 
la 
violazione 
della 
clausola 
in questione, era inevitabile. 
Occorre 
evidenziare 
che 
i 
principi 
espressi 
dal 
T.A.R. e 
dal 
Consiglio di 
Stato, nell’ambito 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


del 
procedimento 
avente 
ad 
oggetto 
la 
delibera 
di 
esclusione 
dalla 
gara 
della 
Palumbo 
S.p.A., 
seguivano il 
solco già 
tracciato dalla 
prevalente 
giurisprudenza, che 
aveva 
affermato che 
la 
mancata 
allegazione 
del 
documento 
di 
riconoscimento 
del 
sottoscrittore 
dell’offerta 
determina 
un’ipotesi 
di 
incertezza 
assoluta 
sul 
contenuto o sulla 
provenienza 
dell’offerta 
per difetto di 
sottoscrizione 
o di 
altri 
elementi 
essenziali 
(cfr. T.A.R. Lazio, Sez 
I bis, 6 dicembre 
2011 n. 
9597), 
costituendo 
tale 
allegazione 
un 
elemento 
integrante 
della 
stessa 
dichiarazione 
di 
volontà 
che 
consente 
di 
attestare 
l’autenticita 
della 
sottoscrizione 
da 
parte 
dell’autore 
(cfr. C. di 
S., 
Sez. v, 7 novembre 2007 n. 2761). 
Come 
detto, 
da 
entrambe 
le 
sentenze 
emesse 
dai 
giudici 
amministrativi 
che 
si 
sono 
pronunciati 
sul 
ricorso 
presentato 
dalla 
Palumbo 
S.p.A., 
emerge 
con 
evidenza 
che: 
era 
legittima 
la 
clausola 
del 
bando che 
imponeva 
alle 
società 
di 
allegare 
all’offerta 
il 
documento del 
loro legale 
rappresentante; 
l’esclusione 
della 
Palumbo 
S.p.A., 
una 
volta 
accertata 
la 
violazione 
della 
clausola 
in questione, era inevitabile. 
La 
circostanza 
che 
il 
C. di 
S. (sentenza 
n 4662/2014) abbia 
annullato l’intera 
procedura 
per 
la 
presenza 
di 
vizi 
afferenti 
alle 
offerte 
di 
entrambe 
le 
società 
non rileva 
con specifico riferimento 
alla 
valutazione 
della 
penale 
rilevanza 
della 
condotta 
del 
D.v., che 
si 
era 
pronunciato 
esclusivamente 
in ordine 
ai 
tre 
specifici 
quesiti 
posti 
all’Avvocatura 
dello Stato con la 
nota 
n. 
148/P 
del 
24 giugno 2011, che 
non riguardavano presunti 
vizi 
dell’offerta 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale s.r.l. 
Al 
riguardo va 
evidenziato che 
il 
C. di 
S., sostanzialmente, ha 
annullato l’intera 
procedura 
proprio perché 
l’Autorità 
Portuale, nel 
richiedere 
il 
parere 
all’Avvocatura 
sull’omessa 
produzione 
del 
documento da 
parte 
della 
Palumbo S.p.A., non aveva 
esteso la 
richiesta 
anche 
all’analoga 
dimenticanza 
nella 
quale 
era 
incorsa 
la 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l.: 
“in 
definitiva, 
la 
stazione 
appaltante, 
nel 
formulare 
il 
quesito 
all’avvocatura, 
avrebbe 
dovuto 
non 
limitarlo alla posizione 
della palumbo S.p.a. ma allargarne 
l 
oggetto al 
fine 
di 
estendere 
il 
giudizio di validità all’altra concorrente…”. 


La 
mancata 
valutazione 
dei 
vizi 
dell’offerta 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l., 
dunque, 
non 
può essere 
imputata 
all’Avvocatura 
alla 
quale 
non era 
stato posto alcun specifico quesito al 
riguardo. 
Il 
parere 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
in 
definitiva, 
risultava 
perfettamente 
conforme 
alla 
giurisprudenza 
amministrativa, come 
riconosciuto anche 
dalla 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Napoli 


-Decima 
Sezione 
Civile 
-che 
in ragione 
di 
tale 
considerazione 
ha 
rigettato la 
domanda 
di 
risarcimento 
dei danni avanzata dalla Palumbo S.p.A. 
Risulta, dunque, evidente 
l’infondatezza 
dell’ipotesi 
accusatoria, secondo la 
quale, invece, si 
sarebbe 
trattato 
di 
un 
“parere 
di 
comodo”, 
che 
avrebbe 
dato 
rilievo 
a 
vizi 
ritenuti 
pacificamente 
irrilevanti dalla giurisprudenza amministrativa. 
Quanto ai 
vizi 
dell’offerta 
della 
Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l., che 
secondo la 
contestazione 
sarebbero 
stati 
analoghi 
a 
quelli 
dell’offerta 
della 
Palumbo 
S.p.A., 
come 
visto, 
la 
loro 
mancata 
valutazione 
non può essere 
imputata 
al 
D.v., perché 
tale 
valutazione 
non rientrava 
nei 
quesiti 
posti dall’Autorità Portuale all’Avvocatura dello Stato. 
Queste 
sole 
considerazioni 
basterebbero 
a 
escludere 
la 
penale 
responsabilità 
del 
D.v. 
in 
ordine 
al reato a lui ascritto. 
Per 
mera 
completezza, 
va 
rilevato 
che, 
secondo 
l’ipotesi 
accusatoria, 
la 
redazione 
del 
presunto 
“parere 
di 
comodo” 
avrebbe 
costituito 
parte 
di 
un 
più 
ampio 
disegno 
criminoso, 
mirante 
a 
consentire 
alla 
“Nuova 
Meccanica 
Navale 
s.r.l.” 
di 
ottenere 
la 
concessione, grazie 
all’esclusione 
dalla 
procedura 
della 
società 
che 
si 
era 
aggiudicata 
in via 
provvisoria 
la 
gara 
(la 
“Pa

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


lumbo S.p.A.”). Il 
D.v. avrebbe 
operato in concorso con altri 
soggetti 
coinvolti 
a 
vario titolo 
nella 
procedura: 
D.L., in qualità 
di 
Presidente 
dell’Autorità 
Portuale 
di 
Napoli; 
P.S., quale 
dirigente 
della 
predetta 
autorità 
e 
quale 
componente 
della 
commissione 
aggiudicatrice; 
[…] 
quali 
componenti 
della 
suddetta 
commissione; 
u.A., L.D.F.P. e 
P.D., quali 
amministratori 
di 
fatto e/o diritto nonché dirigenti della Nuova Meccanica s.r.l. 
Orbene, la 
pubblica 
accusa 
non ha 
affatto dimostrato la 
sussistenza 
di 
un accordo collusivo 
tra 
il 
D.v. e 
gli 
altri 
presunti 
concorrenti 
nel 
reato; 
né, dall’istruttoria 
espletata, è 
emerso che 
tra 
questi 
ultimi 
e 
l’odierno 
imputato 
sussistessero 
rapporti 
che 
andassero 
oltre 
la 
normale 
dialettica istituzionale. 
In 
ordine 
ai 
suoi 
rapporti 
con 
i 
presunti 
concorrenti 
nel 
reato, 
l’imputato, 
in 
sede 
di 
esame 
ha 
dichiarato 
che 
aveva 
conosciuto 
l’Ammiraglio 
D. 
nel 
giugno 
2011, 
quando 
gli 
era 
stato 
presentato 
dall’Avvocato 
Distrettuale, 
nel 
corso 
di 
una 
riunione 
negli 
uffici 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato. 
In quell’occasione 
gli 
era 
stato anticipato che, in virtù della 
sua 
competenza 
nel 
settore 
della 
contrattualistica 
pubblica, 
gli 
sarebbe 
stata 
assegnata 
una 
richiesta 
di 
parere 
avanzata 
dall’ 
Autorità Portuale. 
Le 
modalità 
di 
assegnazione 
del 
parere 
e 
di 
formazione 
del 
fascicolo avevano seguito l’iter 
ordinario. 
Aveva 
proceduto allo studio degli 
atti 
con una 
certa 
urgenza, vista 
la 
scadenza 
dei 
termini 
in 
relazione all’aggiudicazione provvisoria. 
Nel 
redigere 
il 
parere 
assegnatogli, aveva 
ritenuto preminente 
e 
assorbente 
il 
vizio di 
forma 
rispetto 
agli 
altri 
due 
quesiti 
postigli 
e 
aveva 
risolto 
la 
questione 
alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
dominante 
sul 
punto, con una 
soluzione 
poi 
confermata 
anche 
dal 
Consiglio 
di Stato, pronunciatosi a seguito del ricorso presentato dalla Palumbo S.p.A. 
Completato il 
lavoro, aveva 
consegnato il 
parere 
all’Avv. F. che 
l’aveva 
corretto e 
vi 
aveva 
apposto la propria firma. 
Le dichiarazioni dell’imputato trovano riscontro in quelle rese dall’Avv. F.G. 
Il 
teste, con riferimento al 
parere 
richiesto dall’Autorità 
Portuale, ha 
riferito che 
aveva 
chiamato 
a 
partecipare 
alla 
riunione 
col 
D. due 
avvocati: 
il 
v., che 
si 
occupava 
di 
affari 
penali, e 
il 
D.v., che 
si 
occupava 
specificamente 
di 
procedure 
ad evidenza 
pubblica, appalti 
e 
materie 
similari. 
Aveva deciso di affidare la questione al secondo, in ragione della sua competenza specifica. 
ha 
precisato 
che 
il 
parere 
preparato 
dal 
D.v. 
era 
stato 
da 
lui 
leggermente 
corretto: 
“mi 
ricordo 
che 
aggiunsi 
qualcosa pure 
alla fine 
del 
parere, una frase 
finale 
la modificai, mi 
sembra di 
ricordare”. 


Il 
F. 
ha 
negato 
con 
decisione 
che 
il 
D. 
gli 
avesse 
mai 
chiesto 
di 
rendere 
un 
parere 
che 
favorisse 
una concorrente rispetto all’altra. 
Dalle 
dichiarazioni 
rese 
dall’avv. 
F. 
emerge 
anche 
che 
egli 
aveva 
partecipato 
ad 
alcune 
riunioni 
presso 
la 
sede 
dell’Autorità 
Portuale 
(alle 
quali 
era 
presente 
anche 
l’avv. 
Del 
Mese, 
dell’ufficio 
legale 
interno) 
nel 
corso 
delle 
quali 
aveva 
rappresentato 
che 
l’Autorità 
Portuale 
poteva 
essere 
assistita 
in giudizio dall’Avvocatura 
dello Stato senza 
dover corrispondere 
alcun compenso; 
vantaggio 
che 
non 
vi 
era 
stato 
in 
precedenza 
nei 
casi 
in 
cui 
l’ente 
si 
era 
avvalso 
del 
patrocinio 
di avvocati esterni del libero foro. 
Dalle 
conversazioni 
intercettate 
si 
trae 
conferma 
che 
l’interlocutore 
principale 
dell’Autorità 
Portuale 
è 
stato proprio l’Avvocato Distrettuale, F.G.; 
per contro non si 
rinvengono conversazioni 
di 
particolare 
rilievo tra 
il 
D. e 
il 
D.v., dalle 
quali 
poter desumere 
la 
prova 
della 
presunta 
collusione. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Sul 
punto 
deve 
essere 
precisato 
che 
conversazione 
telefonica 
n. 
2350 
del 
24 
giugno 
2011 
ore 


11.09 
(che 
peraltro 
non 
appare 
neanche 
di 
particolare 
rilievo), 
diversamente 
da 
quanto 
sostenuto 
in 
un 
primo 
momento 
dal 
teste 
F. 
non 
è 
riconducibile 
al 
D.v. 
Invero, 
lo 
stesso 
F., 
successivamente, 
si 
è 
corretto, 
precisando 
che 
si 
trattava 
di 
una 
conversazione 
intervenuta 
tra 
il 
D. 
e 
il 
F. 
Si 
tratta 
peraltro di 
una 
conversazione 
dal 
contenuto poco significativo, nel 
corso della 
quale 
i 
due 
interlocutori 
si 
soffermavano sulle 
modalità 
di 
trasmissione 
all’Avvocatura 
della 
documentazione 
necessaria per istruire la pratica. 
Quanto alle 
comunicazioni 
a 
cui 
ha 
fatto riferimento il 
teste 
F., intervenute 
tra 
il 
P. e 
il 
D.v. 
successivamente 
al 
rilascio 
del 
parere, 
va 
rilevato 
che 
esse 
sembrano 
riconducibili 
alla 
prassi, 
cui 
ha 
fatto 
riferimento 
l’avv. 
F. 
(oltre 
che 
lo 
stesso 
D.v.), 
secondo 
cui 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
fornisce 
la 
sua 
assistenza 
anche 
per 
la 
revisione 
da 
parte 
dell’amministrazione 
del 
provvedimento 
consequenziale 
al 
parere. Il 
F. ha 
precisato che, già 
da 
anni, attraverso comunicazioni 
di 
carattere 
informale 
con 
gli 
Avvocati 
dello 
Stato, 
le 
amministrazioni 
(tra 
le 
quali 
anche 
la 
Prefettura 
di 
Napoli, il 
Ministero dei 
Beni 
Culturali, il 
Ministero delle 
Infrastrutture 
e 
dei 
Trasporti) 
ricevono 
tempestivamente 
consigli 
sul 
corretto 
esercizio 
della 
propria 
attività 
al 
fine di prevenire eventuali ricorsi al 
T.A.R. 
In conclusione, 
dall’istruttoria 
dibattimentale 
non sono emersi 
elementi 
di 
rilievo dai 
quali 
poter desumere 
che 
le 
relazioni 
tra 
il 
D.v. e 
gli 
altri 
soggetti 
a 
vario titolo intervenuti 
nella 
procedura di gara si siano svolti al di fuori di una normale dialettica istituzionale. 
va, 
sotto 
altro 
profilo, 
evidenziato 
che, 
vista 
la 
struttura 
gerarchica 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, l’atto attraverso il 
quale 
si 
sarebbe 
concretizzato il 
contributo causale 
fornito dal 
D.v. 
alla 
consumazione 
del 
reato 
a 
lui 
contestato, 
in 
realtà, 
è 
formalmente 
imputabile 
all’unico 
soggetto che 
ha 
il 
potere 
di 
manifestare 
ed impegnare 
all’esterno la 
volontà 
dell’istituzione: 
l’Avvocato Distrettuale. 
Dall’istruttoria, invero, è 
emerso che, sebbene 
dagli 
anni 
‘90 si 
sia 
diffusa 
la 
prassi 
per cui 
anche 
l 
avvocato 
che 
ha 
istruito 
la 
pratica 
e 
predisposto 
il 
parere 
appone 
la 
sua 
firma 
in 
qualità 
di 
estensore, la 
responsabilità 
dell’atto è 
sempre 
riferibile 
solo all’Avvocato Distrettuale, che 
con la 
propria 
firma 
ne 
sancisce 
appartenenza 
all’Avvocatura 
dello Stato (cfr. dichiarazioni 
del teste M.S. verbale d udienza del 12.9.2019, pp. 18-19). 
Orbene, è 
fin troppo agevole 
evidenziare 
che, senza 
il 
necessario contributo del 
F. (neppure 
ipotizzato dall’accusa) sarebbe 
stato ben difficile 
per il 
D.v. fornire 
effettivamente 
il 
proprio 
contributo alla consumazione del reato. 
In 
conclusione, 
all’esito 
dell’istruttoria 
dibattimentale, 
il 
Collegio 
ritiene 
che 
l’accusa 
non 
abbia fornito la prova della penale responsabilità di D.v.P., in ordine al reato a lui ascritto 
P.Q.M. 
visto l’art 129 c.p.p.; 
assolve D.v.P. dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto. 
visto l’ art 544 c.p.p.; 
fissa il termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione. 
Napoli, 28 novembre 2019. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Rideterminazione dei criteri di assegnazione di un aiuto di 
stato: la questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea 


noTa 
a 
ConSiglio 
di 
STaTo, Sez. iv, ordinanza 
4 diCembre 
2019 n. 8299 


Gessica Golia* 


Sommario: 1. la vicenda -2. disciplina comunitaria degli 
aiuti 
di 
Stato -2.1. 
(segue) 
gli 
aiuti 
di 
Stato non notificati 
alla Commissione 
-3. il 
ruolo dei 
giudici 
nazionali 
-4. mera 
ridistribuzione di un aiuto di Stato: quid iuris? 


1. la vicenda. 
Con l’ordinanza 
in commento il 
Consiglio di 
Stato ha 
disposto il 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
Europea 
al 
fine 
di 
stabilire 
se 
un 
regolamento, 
che 
modifica 
talune 
modalità 
applicative 
di 
un 
aiuto 
di 
Stato precedentemente 
disposto, debba 
essere 
qualificato, esso stesso, come 
un 
aiuto 
di 
Stato, 
e, 
di 
conseguenza, 
se 
sia 
da 
considerarsi 
illegittimo 
per 
mancata 
notifica alla Commissione europea. 


Precisamente, 
per 
agevolare 
il 
mercato 
nazionale 
del 
biodiesel, 
lo 
Stato 
italiano 
aveva 
emanato 
tre 
diversi 
programmi 
di 
intervento, 
previa 
la 
necessaria 
approvazione 
della 
Commissione 
Europea 
(v. 
infra), 
corredati 
da 
appositi 
decreti 
del 
Ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
recanti 
le 
relative 
modalità 
applicative. 


Successivamente, 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
con 
le 
sentenze 
nn. 
812 
e 
1120 
del 
2012 
(cui 
seguiva 
la 
sentenza 
di 
ottemperanza 
n. 
998/2014), 
disponeva 
l’annullamento di 
talune 
disposizioni 
dei 
decreti 
attuativi 
inerenti 
i 
criteri 
di 
assegnazione 
(nello specifico: 
la 
quantità 
di 
biodiesel 
immessa 
in consumo e 
la 
capacità 
produttiva 
dell’impianto) 
(1), 
sicché, 
di 
conseguenza, 
il 
MEF 
adottava 
un 
nuovo 
regolamento, 
il 
D.M. 
n. 
37/2015, 
rimodulando 
i 
coefficienti 
censurati secondo le indicazioni provenienti da Palazzo Spada. 


Anche 
tale 
decreto 
veniva 
impugnato 
innanzi 
al 
Tar 
Lazio, 
segnatamente, 
eccependone 
l’illegittimità 
per la 
mancata 
notifica 
alla 
Commissione, trattandosi 
- secondo la tesi del ricorrente - di un vero e proprio aiuto di Stato. 


Al 
contrario, l’Amministrazione 
resistente 
illustrava 
che 
il 
nuovo regolamento, 
ben 
lungi 
dall’introdurre 
un 
nuovo 
regime 
di 
aiuti 
di 
Stato, 
incide 
esclusivamente 
sulle 
modalità 
applicative 
dell’agevolazione 
già 
costituita, 
andando 
a 
rideterminare, ora per 
allora, i 
criteri 
di 
assegnazione 
oggetto delle 
pronunce del Giudice 
Amministrativo. 


(*) 
Dottore 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di Catanzaro (avv. St. Ermelinda Biesuz). 


(1) 
Le 
sentt. 
nn. 
812 
e 
1120 
del 
2012 
hanno 
annullato, 
rispettivamente, 
l’art. 
4 
co. 
2 
del 
D.M. 
253/2003 e l’art. 3 co. 4 del D.M. 156/2008. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Ed 
invero, 
il 
decreto 
de 
quo 
non 
estende 
l’ambito 
soggettivo 
(sono 
rimasti 
immutati 
i 
beneficiari 
dell’agevolazione); 
né 
l’ambito 
oggettivo 
dell’aiuto, 
ma 
sostanzialmente modifica i criteri di riparto del beneficio. 


Il 
Tribunale 
adito, con sentenza 
n. 8482 del 
26 luglio 2018, rigettava 
il 
ricorso rilevando come 
il 
D.M. gravato non avesse 
introdotto un nuovo aiuto 
di 
Stato, ma 
si 
fosse 
limitato a 
rideterminarne 
taluni 
coefficienti: 
in altre 
parole, 
i 
giudici 
di 
prime 
cure 
hanno ritenuto che, in esecuzione 
delle 
predette 
pronunce 
del 
Supremo 
Consesso, 
il 
riesercizio 
del 
potere 
regolamentare 
da 
parte 
dell’Amministrazione 
fosse 
pienamente 
legittimo, e 
tale 
da 
colmare 
il 
vuoto normativo 
che 
altrimenti 
sarebbe 
derivato dall’annullamento dei 
criteri 
operato in sede giurisdizionale. 


La 
sentenza 
veniva 
appellata 
innanzi 
al 
Consiglio di 
Stato, il 
quale, con 
l’ordinanza 
n. 8299/2019, in considerazione 
del 
monopolio interpretativo del 
diritto eurounitario, ha 
sospeso il 
giudizio disponendo il 
rinvio pregiudiziale 
ex 
art. 
267 
TFue 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
Europea, 
affinché 
sia 
questa 
a 
stabilire 
se 
il 
decreto ministeriale 
per cui 
è 
causa 
costituisce 
o meno 
aiuto di 
Stato, in quanto tale 
soggetto all’onere 
di 
previa 
notifica 
alla 
Commissione 
europea. 


Per un’ottimale 
comprensione 
della 
pronuncia 
in commento si 
rende 
necessaria 
una 
breve 
esposizione 
della 
disciplina 
degli 
aiuti 
di 
Stato, ponendo 
l’accento 
sui 
rapporti 
tra 
la 
Commissione 
Europea 
e 
gli 
Stati 
Membri, 
con 
particolare 
riferimento al 
ruolo delle 
Autorità 
Giudiziarie 
nazionali 
in presenza 
di aiuti illegittimi. 

2. la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato. 
La 
disciplina 
comunitaria 
degli 
aiuti 
di 
Stato si 
riconduce 
nell’alveo del-
l’art. 
3 
lett. 
b) 
TFuE, 
in 
forza 
del 
quale 
l’unione 
Europea 
ha 
competenza 
esclusiva 
nella 
“definizione 
delle 
regole 
di 
concorrenza necessarie 
al 
funzionamento 
del mercato interno”. 


Dunque, 
tale 
disciplina 
costituisce 
uno 
dei 
pilastri 
del 
funzionamento 
del 
mercato europeo, poiché 
finalizzata 
ad una 
migliore 
allocazione 
delle 
risorse 
pubbliche ed alla parità di trattamento delle imprese. 

Il 
paradigma 
normativo 
di 
riferimento 
è 
dato 
dagli 
articoli 
107, 
108 
e 
109 
TFuE, cui 
si 
aggiungono le 
disposizioni 
che 
estrinsecano i 
principi 
della 
materia 
ai 
settori 
nevralgici 
del 
mercato unico: 
art. 42 (in materia 
di 
produzione 
e 
commercializzazione 
di 
prodotti 
agricoli), art. 93 (in materia 
di 
trasporti) e 
art. 106 (in tema 
di 
Servizi 
di 
interesse 
economico generale, c.d. SIEG) dello 
stesso Trattato. 


A 
mente 
dell’art. 
107 
par. 
1 
TFuE, 
l’aiuto 
di 
stato 
può 
essere 
definito 
come 
una 
agevolazione, 
sotto 
qualsiasi 
forma, 
concessa 
senza 
corrispettivo 
dallo 
Stato 
(in 
senso 
lato: 
nel 
senso 
di 
risorse 
statali) 
ad 
un 
numero 
determinato 
di 
soggetti 
che 
svolgono attività 
economica 
su un determinato mercato, con



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


ferendo loro un vantaggio in grado di 
incidere 
sugli 
scambi 
interni, quindi 
di 
falsare o minacciare di falsare la concorrenza. 


L’agevolazione 
de 
qua 
non 
necessariamente 
deve 
sostanziarsi 
in 
una 
prestazione 
positiva, ben potendo trattarsi 
anche 
di 
rinunce 
dello Stato ad un introito, 
quali 
aiuti 
indiretti, agevolazioni 
fiscali 
e 
altri 
strumenti 
che 
comunque 
alleviano gli oneri dell’impresa (2). 


Da 
tale 
sommaria 
definizione 
è 
possibile 
enucleare 
i 
criteri 
che 
devono 
sussistere 
cumulativamente 
per 
poter 
qualificare 
una 
misura 
come 
aiuto 
di 
Stato: 
provenienza 
pubblica 
del 
beneficio 
(state 
origin,o 
imputability); 
esistenza 
di 
un 
vantaggio 
economicamente 
apprezzabile 
per 
l’impresa, 
derivante 
dalla 
gratuità 
dell’intervento 
statale 
(advantage); 
selettività 
delle 
imprese 
beneficiarie 
(selectivity) 
(3); 
pregiudizio 
agli 
scambi 
tra 
gli 
Stati 
Membri 
e 
alla 
concorrenza. 


Per 
giurisprudenza 
comunitaria 
costante 
(4), 
gli 
aiuti 
non 
vengono 
distinti 
a 
seconda 
della 
loro causa 
o degli 
scopi 
perseguiti, bensì 
solo in funzione 
dei 
loro 
effetti 
(c.d. 
principio 
dell’irrilevanza 
dei 
motivi): 
in 
altre 
parole, 
lo 
scopo 
degli 
interventi 
non 
vale 
a 
sottrarli 
alla 
loro 
qualificazione 
come 
aiuti, 
rilevando, 
a 
tale 
fine, non già 
la 
ragione 
che 
ha 
indotto lo Stato membro ad adottare 
la 
misura, 
bensì 
l’effetto 
che 
la 
stessa 
produce 
sulla 
concorrenza 
e 
sul 
commercio intraeuropeo. 


Orbene, l’art. 107 TFuE, da 
cui 
deriva 
la 
definizione 
appena 
sviscerata, 
pone 
il 
generale 
principio di 
incompatibilità con il 
mercato interno (i.e.: 
divieto) 
degli 
aiuti 
concessi 
dagli 
Stati, ad eccezion fatta 
di 
quegli 
aiuti 
che, in 
deroga 
a 
tale 
generale 
principio, 
vengono 
dichiarati 
compatibili 
con 
il 
mercato 
interno dalla Commissione. 


Il 
controllo della Commissione, dunque, rappresenta 
il 
perno della 
disciplina 
degli 
aiuti 
di 
Stato: 
solo un organo indipendente, infatti, è 
in grado di 
valutare 
i 
danni 
causati 
al 
funzionamento 
del 
mercato 
comune 
dagli 
aiuti 
pubblici 
degli 
Stati 
membri, operando in modo da 
canalizzare 
l’intervento pubblico 
verso obiettivi compatibili con gli interessi comunitari. 


Per 
completezza, 
si 
aggiunge 
che 
il 
controllo 
della 
Commissione 
si 
estende 
anche 
agli 
aiuti 
provenienti 
da 
Paesi 
extraeuropei 
in forza 
di 
quanto 
disposto 
dall’ordinamento 
dell’Organizzazione 
Mondiale 
del 
Commercio: 
nel 


(2) 
In 
proposito, 
si 
consideri, 
ex 
multis, 
la 
sentenza 
CGuE, 
Seydaland, 
16 
dicembre 
2010, 
C239/
09, con la 
quale 
la 
CGuE 
così 
argomenta: 
“la nozione 
di 
aiuto non comprende 
soltanto prestazioni 
positive, come 
sovvenzioni, prestiti 
o assunzione 
di 
partecipazione 
al 
capitale 
delle 
imprese, ma anche 
interventi 
i 
quali, in varie 
forme, alleviano gli 
oneri 
che 
di 
regola gravano sul 
bilancio di 
un’impresa e 
che 
di 
conseguenza, 
senza 
essere 
sovvenzioni 
in 
senso 
stretto, 
hanno 
la 
stessa 
natura 
e 
producono 
identici 
effetti”. 
(3) Può esservi 
una 
selettività 
materiale, che 
fa 
riferimento a 
taluni 
settori 
economici, o una 
selettività 
geografica, 
che 
circoscrive 
il 
beneficio 
ad 
una 
parte 
del 
territorio 
dello 
Stato 
(è 
il 
caso 
degli 
aiuti regionali). 
(4) Cfr., ex 
plurimis, sent. 3m italia Spa, 29 marzo 2012, C-417/10; 
british aggregates, 22 dicembre 
2008, C-487/06. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


caso 
in 
cui 
tali 
aiuti 
siano 
ritenuti 
incompatibili, 
la 
Commissione 
agisce 
innanzi 
agli 
organi 
dell’Organizzazione 
stessa 
(panels 
e 
appellate 
bodies), 
i 
quali possono dichiarare gli aiuti incompatibili con le norme OMC (5). 


Per 
altro 
verso, 
vi 
sono 
casi 
in 
cui 
non 
è 
previsto 
alcun 
controllo 
della 
Commissione, 
ma 
gli 
aiuti 
si 
intendono 
senz’altro 
compatibili: 
è 
il 
caso 
del 


c.d. principio 
de 
minimis; 
delle 
c.d. esenzioni 
di 
categoria, nonché 
delle 
deroghe 
di cui all’art. 107 par. 2 TFue. 
Il 
principio de 
minimis 
è 
il 
logico corollario del 
requisito del 
pregiudizio 
alla 
concorrenza 
e 
agli 
scambi 
tra 
gli 
Stati: 
come 
si 
evince 
dalla 
lettera 
dell’art. 
107 
TFuE, 
è 
agevole 
intuire 
che 
la 
valutazione 
di 
compatibilità 
con 
il 
mercato 
dell’unione, 
evidentemente, 
perde 
la 
sua 
ragion 
d’essere 
con 
riguardo 
agli 
aiuti che non abbiano un impatto sensibile sulla concorrenza (6). 


Le 
esenzioni 
di 
categoria, 
invece, 
sono 
stabilite 
dalla 
stessa 
Commissione, 
la 
quale, 
ai 
sensi 
dell’art. 
109 
TFuE, 
può 
adottare 
appositi 
regolamenti 
che dichiarino compatibili determinate categorie di aiuti. 


Ancora, il 
legislatore 
comunitario ha 
previsto un sistema 
di 
presunzione 
di 
compatibilità, che 
si 
snoda 
in una 
duplice 
direzione: 
da 
un lato, l’art. 107 
par. 
2 
TFuE 
prevede 
delle 
deroghe 
che 
operano 
de 
jure, 
ossia 
aiuti 
che 
si 
considerano 
sempre 
compatibili 
(quali 
gli 
aiuti 
a 
carattere 
sociale 
per i 
consumatori, 
o 
quelli 
concessi 
a 
fronte 
di 
calamità 
naturali); 
dall’altro, 
vi 
sono 
le 
deroghe 
di 
carattere 
discrezionale 
(di 
cui 
all’art. 107 par. 3 TFuE), rimesse 
appunto alla valutazione della Commissione. 


Nella 
prassi 
della 
Commissione 
si 
possono individuare 
ormai 
dei 
veri 
e 
propri 
criteri 
che 
orientano la 
valutazione, i 
c.d. principi 
di 
compatibilità, tra 
cui, in particolare, spiccano il 
principio della trasparenza 
e 
il 
principio della 
contropartita. Il 
principio della trasparenza 
è 
connesso con gli 
obblighi 
informativi 
posti 
a 
carico degli 
Stati, ed impone 
di 
effettuare 
la 
valutazione 
alla 
luce 
di 
tutti 
gli 
elementi 
indicati 
dallo Stato membro; 
il 
principio della contropartita, 
invece, impone 
di 
bilanciare 
l’interesse 
nazionale 
con l’interesse 
europeo: 
in 
particolare, 
l’aiuto 
potrà 
ritenersi 
compatibile 
quando 
non 
sia 
possibile 
realizzare 
diversamente 
l’obiettivo comune 
in funzione 
del 
quale 
è 
stabilita 
la deroga. 


L’art. 
108 
TFuE 
pone 
in 
capo 
allo 
Stato 
membro 
l’obbligo 
di 
notifica 
alla 
Commissione 
dell’aiuto di 
Stato che 
si 
intende 
erogare, onde 
consentire 
il 
preventivo 
controllo 
di 
compatibilità 
con 
il 
mercato 
interno. 
Nelle 
more, 
prima 
che 
la 
Commissione 
dichiari 
l’aiuto compatibile, lo Stato membro non 
può dargli esecuzione o erogarlo (c.d. clausola sospensiva o stand still). 


(5) È 
quanto avvenuto, ad esempio, nel 
caso degli 
aiuti 
DS 
353 concessi 
alla 
boing dalla 
NASA 
e dal Ministero americano della Difesa (la Commissione vinse anche in appello). 
(6) 
Ad 
esempio, 
in 
materia 
di 
aiuti 
di 
durata 
triennali, 
si 
considerano 
de 
minimis 
gli 
aiuti 
di 
importo 
inferiore a 200.000 €. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La 
disposizione 
in parola 
ha 
effetto diretto: 
essa, cioè, è 
idonea a creare 
direttamente 
diritti 
e 
obblighi 
in capo ai 
singoli; sicché 
la sua violazione 
può 
essere 
sollevata dinanzi 
ai 
Tribunali 
nazionali, i 
quali, quindi, ben potranno 
impedire di mettere in atto la misura illegittima perché non notificata. 


Dunque, 
si 
può 
osservare 
che 
il 
legislatore 
comunitario 
ha 
previsto 
sostanzialmente 
un rapporto esclusivo tra la Commissione 
e 
lo Stato, ma 
attribuendo 
ai 
soggetti 
concorrenti, beneficiari 
e 
non, il 
ruolo indiretto di 
fonte 
di 
informazioni, che 
si 
estrinseca 
nel 
potere 
di 
presentare 
denunce 
alla 
Commissione, 
o di adire i 
Tribunali nazionali. 


La 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
stabilito che 
non possono ricevere 
nuovi 
aiuti 
di 
Stato le 
imprese 
già beneficiarie 
che 
non siano in regola con gli 
obblighi 
di 
restituzione: 
si 
tratta 
della 
c.d. 
regola deggendorf 
(7), codificata 
in Italia 
dal-
l’art. 46 della 
L. n. 234/2012. verificare 
il 
rispetto di 
tale 
regola 
compete 
alle 
amministrazioni concedenti. 


Oltre 
che 
il 
controllo ex 
ante 
sugli 
aiuti 
nuovi, la 
Commissione 
esercita 
altresì 
un esame 
permanente 
degli 
aiuti 
esistenti, già 
regolarmente 
notificati 
e 
autorizzati, che 
si 
basa 
da 
un lato, su di 
un sistema 
di 
Relazioni 
annuali 
degli 
Stati 
Membri, dall’altro, sulle 
denunce 
e 
segnalazioni 
da 
parte 
delle 
imprese 
che 
ritengono 
di 
essere 
state 
svantaggiate 
dalle 
erogazioni 
concesse 
ai 
concorrenti. 


All’esito 
della 
procedura 
di 
controllo 
(8), 
la 
Commissione 
può 
adottare 
una 
decisione 
positiva 
o 
negativa, 
dichiarando, 
rispettivamente, 
l’aiuto 
compatibile 
o 
incompatibile 
con 
il 
mercato 
interno, 
nonché 
una 
decisione 
condizionale, 
dichiarando 
il 
provvedimento 
compatibile 
con 
il 
mercato 
interno 
e 
quindi 
attuabile 
a 
condizione 
che 
lo 
Stato 
interessato 
adotti 
determinate 
misure. 


Nel 
caso in cui, pur intervenendo la 
decisione 
negativa, la 
misura 
fosse 
stata 
già 
precedentemente 
irrogata, 
il 
beneficiario 
è 
tenuto 
alla 
sua 
restituzione 
(salva 
impossibilità 
di 
cui 
si 
dirà 
infra), pena 
l’apertura 
di 
una 
procedura 
di 
infrazione di cui all’art. 258 TFuE. 


Dal 
punto di 
vista 
del 
diritto nazionale, si 
evidenzia 
altresì 
che 
la 
violazione 
delle 
norme 
comunitarie 
in materia 
di 
aiuti 
di 
Stato è 
suscettibile 
di 
integrare 
una violazione dell’art. 2598 c.c., in tema di concorrenza sleale (9). 


(7) Il 
nome 
deriva 
dalla 
sentenza 
della 
CGuE 
che 
ha 
posto tale 
principio: 
sent. 15 maggio 1997, 
C-355/95 P, 
deggendorf gmbH e a. c. Commissione e altri. 
(8) La 
procedura 
di 
controllo della 
Commissione 
consta 
di 
due 
fasi: 
la 
prima 
fase 
(indagine 
preliminare) 
consiste 
in un esame 
preliminare 
e 
sommario che 
deve 
esaurirsi 
entro 2 mesi 
dalla 
notifica, 
decorsi 
i 
quali 
l’aiuto si 
intende 
implicitamente 
autorizzato, e 
sarà 
sottoposto al 
regime 
degli 
aiuti 
esistenti. 
All’esito 
della 
prima 
fase, 
se 
l’aiuto 
è 
risultato 
manifestamente 
compatibile, 
la 
Commissione 
adotta 
una 
decisione 
senza 
sollevare 
obiezioni, altrimenti, avvia 
con decisione 
l’indagine 
formale, che 
deve concludersi nei successivi 18 mesi. 
(9) In particolare, ci 
si 
riferisce 
all’art. 2598 co. 1 n. 3) c.c. a 
tenore 
del 
quale 
“compie 
atti 
di 
concorrenza 
sleale 
chi 
… 
si 
vale 
direttamente 
o 
indirettamente 
di 
ogni 
altro 
mezzo 
non 
conforme 
ai 
principi 
della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


In particolare, rileva 
in questa 
sede 
la 
sorte 
degli 
aiuti 
di 
Stato adottati 
in 
violazione dell’obbligo di notificazione alla Commissione. 


2.1. (segue) 
gli aiuti di Stato non notificati alla Commissione. 
Gli 
aiuti 
di 
Stato non notificati 
alla 
Commissione 
in violazione 
dell’art. 
108 TFuE 
non sono considerati 
di 
per sé 
incompatibili 
con il 
diritto comunitario, 
ma, al 
contrario, nel 
caso in cui 
la 
Commissione 
venga 
a 
conoscenza 
di 
un 
aiuto 
non 
notificato, 
deve 
comunque 
procedere 
alla 
verifica 
della 
sua 
compatibilità, 
adottando, se 
ritiene, nelle 
more 
della 
procedura, una 
decisione 
di 
recupero 
provvisorio, 
ed 
ingiungendo 
lo 
Stato 
inadempiente 
a 
sospendere 
l’aiuto de quo e a trasmettere tutta la documentazione necessaria all’esame. 


La 
verifica 
deve 
essere 
effettuata 
conformemente 
ai 
testi 
normativi 
in 
vigore 
all’epoca in cui l’aiuto è stato concesso. 


Molto spesso la 
Commissione 
viene 
a 
conoscenza 
di 
tali 
aiuti 
non notificati 
grazie 
alle 
denunce 
presentate 
da 
soggetti 
interessati 
(normalmente: 
concorrenti 
delle imprese beneficiarie) (10). 


Dalla 
decisione 
di 
incompatibilità 
deriva 
l’obbligo per lo Stato di 
procedere 
alla 
sospensione 
delle 
erogazioni 
ancora 
in corso e 
al 
recupero (immediato) 
(11) 
delle 
somme 
illegittimamente 
erogate, 
con 
tanto 
di 
interessi 
(efficacia 
ex 
tunc). Non sussiste 
l’obbligo di 
recupero solo in caso di 
impossibilità 
assoluta, 
con 
ciò 
intendendo 
-come 
ha 
chiarito 
la 
stessa 
Commissione 


(12) 
-l’assenza 
di 
qualsiasi 
bene 
da 
pignorare/recuperare, 
o 
la 
prescrizione 
decennale (13). 
Al 
contrario, 
la 
decisione 
di 
incompatibilità 
della 
Commissione 
avente 
ad 
oggetto 
un 
aiuto 
esistente 
non 
comporta 
l’obbligo 
di 
recupero 
di 
quanto 
già 
erogato 
sino 
all’apertura 
della 
procedura 
formale 
di 
controllo 
(efficacia 
ex 
nunc). 


La 
decisione 
di 
recupero della 
Commissione 
può essere 
contestata 
solo 
innanzi ai giudici comunitari, non già davanti ai 
Tribunali nazionali. 
Se 
lo Stato non applica 
la 
decisione, la 
Commissione 
può citarlo innanzi 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
ai 
sensi 
dell’art. 
108 
par. 
2 
TFuE 
(14); 
se 
l’inadem


(10) La 
Commissione 
si 
impegna 
ad esaminare 
le 
denunce 
entro 12 mesi 
dal 
loro ricevimento; 
in 
caso di ritardo l’interessato può rivolgersi all’ombudsman. 
(11) vi 
sono due 
termini: 
entro 2 mesi 
dall’entrata 
in vigore 
della 
decisione 
lo Stato dovrà 
informare 
la 
Commissione 
delle 
misure 
adottate 
o 
previste; 
entro 
i 
successivi 
2 
mesi 
(dunque 
4 
mesi 
in 
totale 
dalla 
decisione) lo Stato dovrà 
eseguire 
la 
decisione 
stessa, salvo proroga 
concessa 
dalla 
Commissione 
per 
giustificazioni 
oggettive 
(cfr. 
Comunicazione 
relativa 
all’effettiva 
applicazione 
delle 
decisioni 
di 
recupero di aiuti illegali e incompatibili, in GuuE del 15 novembre 2007, par. 43). 
(12) ibidem. 
(13) Sul 
punto, appare 
interessante 
richiamare 
la 
decisione 
19 dicembre 
2012, SA 
20829, sul 
regime 
fiscale 
dell’ICI a 
favore 
degli 
enti 
ecclesiastici 
e 
delle 
società 
sportive 
dilettantistiche, con cui 
la 
Commissione 
ha 
rinunciato 
al 
recupero 
in 
quanto 
le 
Autorità 
italiane 
avevano 
dimostrato 
l’impossibilità 
di 
identificare 
i 
beneficiari 
degli 
aiuti 
in questione 
e 
di 
calcolare 
oggettivamente 
l’aiuto stesso per la 
mancanza 
di 
dati, di 
talché 
un’ingiunzione 
di 
recupero sarebbe 
risultata 
impossibile 
in termini 
oggettivi 
e assoluti. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


pienza 
persiste 
la 
Commissione 
può emettere 
un parere 
motivato e, successivamente, 
potrà 
richiedere 
alla 
CGuE 
l’irrogazione 
di 
una 
penale, 
quantificata 
in base alla gravità e alla durata della violazione e all’effetto deterrente. 


La 
mancata 
attività 
di 
recupero 
coattivo 
degli 
aiuti 
dichiarati 
incompatibili 
già 
erogati 
può portare 
la 
Commissione 
ad attivare 
la 
procedura 
di 
infrazione 
di cui all’art. 258 TFuE. 


Lo Stato Italiano, ai 
sensi 
dell’art. 43 della 
L. n. 234/2012, ha 
diritto di 
rivalsa 
nei 
confronti 
degli 
enti 
pubblici 
responsabili 
di 
violazioni 
del 
diritto 
dell’unione Europea. 


Sul 
punto, 
si 
segnala 
che 
recentemente 
la 
v 
sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
con 
sentenza 
numero 
4962 
del 
15 
luglio 
2019, 
ha 
chiarito 
-richiamando 
diversi 
precedenti 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
(15) -che 
la 
valutazione 
di 
compatibilità 
espressa 
dalla 
Commissione 
a 
sanatoria 
in 
un 
periodo 
successivo 
può 
comportare 
effetti 
nei 
rapporti 
tra 
lo Stato e 
la 
Comunità 
europea, la 
quale 
eventualmente 
può rinunciare 
alla 
comminatoria 
di 
ulteriori 
sanzioni 
nei 
confronti 
dello Stato inadempiente, ma 
non vale 
a 
sanare, con effetto 
ex 
tunc, l’illegittimità 
del 
beneficio 
attribuito 
in 
base 
a 
una 
normativa 
e 
ad 
atti 
preventivamente 
notificati 
alla 
Commissione 
stessa, in quanto la 
decisione 
della 
Commissione 
ha 
carattere 
costitutivo del 
beneficio. Il 
Supremo Consesso ha 
osservato che 
tale 
interpretazione 
risponde 
anche 
ad una 
logica 
deterrente 
e 
antielusiva: 
diversamente 
le norme europee sarebbero sostanzialmente prive di efficacia. 


Ancora, sembra 
opportuno richiamare 
un altro rinvio pregiudiziale 
alla 
CGuE 
in 
subiecta 
materia 
proveniente 
dall’Autorità 
Giudiziaria 
italiana: 
il 
Tar Sardegna, sezione 
I, con ordinanza 
n. 353 del 
17 aprile 
2019, ha 
disposto 
il 
rinvio pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
per stabilire 
se 
il 
recupero degli 
aiuti 
di 
stato 
attuati 
in 
violazione 
della 
c.d. 
decisione 
condizionale 
possa 
essere 
deciso 
autonomamente 
dal 
singolo 
Stato 
membro, 
ovvero 
se 
occorra 
pur 
sempre 
una 
preliminare 
decisione 
di 
recupero della 
Commissione; 
stesso dicasi 
al 
fine di stabilire il tasso di interesse da applicare. 


3. il ruolo dei giudici nazionali. 
Come 
si 
è 
in parte 
accennato, anche 
i 
giudici 
nazionali 
giocano un ruolo 
essenziale 
nell’applicazione 
della 
disciplina 
in materia 
di 
aiuti 
di 
Stato, ed infatti: 
“al 
pari 
della Commissione, i 
giudici 
nazionali 
possono interpretare 
la 
nozione di aiuto di Stato” 
(16). 


(14) Ad esempio, è 
quanto avvenuto al 
nostro Paese 
pochi 
anni 
fa: 
con sent. 6 ottobre 
2011, su ricorso 
della 
Commissione, 
la 
CGuE 
ha 
dichiarato 
l’Italia 
inottemperante 
alla 
decisione 
del 
25 
novembre 
1999 della 
Commissione 
che 
le 
ordinava 
il 
recupero degli 
aiuti 
di 
Stato illegali 
e 
incompatibili 
concessi 
a talune imprese site a 
venezia e Chioggia. 
(15) CGuE 
sent. 21 novembre 
1991, C-354/90, 
FnCe 
c. Stato Francese; 
sent. 5 ottobre 
2006, 
C-368/04; 
Transalpine olletung in osterreich gmbH e altri c. Finanzlanesdirektion fur Tirol e altri. 
(16) Cfr. Comunicazione della Commissione 
cit., § 2.1.1., punto 10. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Nell’ambito dei 
diversi 
compiti 
attribuiti 
alla 
Commissione 
e 
ai 
giudici 
nazionali, 
viene 
in 
rilievo 
la 
distinzione 
tra 
illegalità 
e 
incompatibilità 
del-
l’aiuto. 


Come 
si 
è 
detto, 
in 
forza 
dell’effetto 
diretto 
delle 
predette 
disposizioni 
del 
Trattato, le 
Autorità 
giudiziarie 
nazionali 
sono chiamate 
a 
tutelare 
i 
diritti 
dei 
singoli 
lesi 
dall’esecuzione 
illegale 
dell’aiuto 
derivante 
dalla 
mancata 
notifica 
alla 
Commissione 
dell’aiuto stesso, ovvero dalla 
violazione 
della clausola 
di 
standstill 
(17), 
la 
quale, 
parimenti, 
fa 
sorgere 
direttamente 
diritti 
individuali azionabili in capo agli interessati (18). 


Più precisamente, in Italia, la 
L. n. 234/2012, per le 
controversie 
in materia 
di 
aiuti 
di 
Stato, prevede 
la 
giurisdizione 
esclusiva del 
giudice 
amministrativo 
(art. 
49); 
precisando 
che 
avverso 
i 
provvedimenti 
adottati 
in 
violazione 
dell’art. 108 par. 3 TFuE 
è 
possibile 
proporre 
ricorso innanzi 
al 
Tar competente 
per territorio (art. 50). 


In 
particolare, 
i 
giudici 
nazionali 
possono 
disporre: 
la 
sospensione 
del 
pagamento 
dell’aiuto 
illegale; 
il 
recupero 
dell’aiuto 
illegale; 
il 
recupero 
degli 
interessi 
dovuti 
per 
la 
durata 
dell’aiuto 
stesso; 
il 
risarcimento 
dei 
danni 
a 
concorrenti 
e 
a 
terzi 
interessati; 
l’adozione 
di 
misure 
provvisorie 
contro gli 
aiuti 
illegali. 


Il 
giudice 
nazionale 
è 
tenuto ad ordinare 
il 
recupero integrale 
dell’aiuto 
che 
risulti 
illegale 
-indipendentemente 
dalla 
sua 
compatibilità 
-ordinando 
contestualmente 
il 
recupero 
degli 
interessi 
dal 
momento 
in 
cui 
la 
somma 
è 
stata 
messa 
a 
disposizione 
del 
beneficiario. La 
mancata 
emanazione 
da 
parte 
del 
giudice 
di 
un ordine 
di 
recupero può essere 
giustificata 
solo dalla 
sussistenza 
di 
un “fatto specifico e 
concreto [che] 
abbia suscitato legittime 
aspettative 
da parte del beneficiario” 
(19). 

Preme 
rammentare 
che 
l’ordine 
di 
recupero del 
giudice 
nazionale 
-garantito 
dagli 
strumenti 
giuridici 
dell’ordinamento interno -assicura 
una 
certa 
celerità, quando invece 
gli 
esiti 
di 
una 
denuncia alla Commissione 
sono ben 
più lenti 
ed incerti, atteso che 
la 
Commissione 
dovrà 
in ogni 
caso procedere 
alla 
verifica 
della 
compatibilità 
dell’aiuto 
di 
Stato 
illegalmente 
erogato, 
mentre 
il 
giudice 
nazionale 
compie 
una 
valutazione 
circoscritta 
alla 
mera 
legalità 
dello stesso (20). 


Non è 
escluso che 
le 
due 
procedure 
si 
sovrappongano: 
in tal 
caso l’obbligo 
del 
giudice 
di 
ordinare 
il 
recupero 
dell’aiuto 
di 
Stato 
illegale 
viene 
meno 
nel 
momento 
in 
cui 
la 
Commissione 
dichiari 
l’aiuto 
compatibile 
con 
il 
mercato 
interno. 

(17) Cfr. Comunicazione della Commissione 
cit., § 2.1.3., punto 21, lett. a). 
(18) Cfr. Comunicazione della Commissione 
cit., § 2.2., punto 24. 
(19) Cfr. Comunicazione della Commissione 
cit., § 2.2.1., punti 28-34. 
(20) Da 
ultimo, Trib. Salerno sez. lav., 17 luglio 2019, n. 1693 ha 
ribadito che 
i 
giudici 
nazionali 
non sono competenti a statuire sulla compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato unico europeo. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Ciò 
che 
non 
viene 
meno, 
invece, 
anche 
in 
tale 
ipotesi, 
è 
l’obbligo 
di 
disporre 
il 
recupero 
degli 
interessi 
relativamente 
alla 
durata 
della 
violazione 
(21). 


Inoltre, 
il 
giudice 
nazionale 
è 
chiamato 
a 
pronunciarsi 
sulle 
domande 
di 
risarcimento 
danni 
intentate 
contro 
l’Autorità 
che 
ha 
emanato 
l’aiuto 
di 
Stato 
(22). 


Orbene, 
tali 
azioni 
si 
rivelano 
particolarmente 
proficue 
per 
il 
ricorrente/concorrente 
del 
beneficiario, 
poiché 
consentono 
di 
ottenere 
una 
compensazione 
finanziaria 
diretta 
per la 
perdita 
subita. Esse 
dipendono dal-
l’ordinamento giuridico nazionale, non vi 
sono basi 
giuridiche 
comunitarie, 
sicché le tutele variano considerevolmente tra gli Stati membri. 

È 
possibile 
chiedere 
il 
risarcimento 
dei 
danni 
non 
solo 
a 
fronte 
di 
un 
aiuto 
incompatibile, 
ma 
anche 
a 
fronte 
di 
un 
aiuto 
meramente 
illegale; 
con 
ciò 
comprendendosi 
altresì le violazioni della 
clausola sospensiva. 


Infatti, 
il 
diritto 
al 
risarcimento 
dei 
danni 
sorge 
anche 
in 
relazione 
al 
semplice 
vantaggio temporale 
goduto dal 
beneficiario di 
un aiuto illegale 
(ancorché 
poi 
scoperto, 
esaminato 
ed 
approvato 
dalla 
Commissione 
prima 
della 
sentenza 
del 
giudice 
nazionale) 
secondo 
il 
solco 
tracciato 
dalle 
sentenze 
Francovich 
e 
brasserie 
du 
pecheur, 
a 
tenore 
delle 
quali, 
com’è 
noto, 
gli 
Stati 
membri 
sono 
tenuti 
a 
compensare 
le 
perdite 
e 
i 
danni 
agli 
individui 
causati 
da 
violazioni 
del 
diritto 
comunitario 
di 
cui 
siano 
responsabili. 
Tale 
responsabilità 
sussiste 
ricorrendo 
congiuntamente 
i 
seguenti 
presupposti: 
la 
legge 
violata 
conferisca 
diritti 
agli 
individui; 
la 
violazione 
sia 
sufficientemente 
grave; 
esista 
un nesso di 
causalità 
diretta 
tra 
la 
violazione 
dell’obbligo che 
incombe 
sullo 
Stato e 
i 
danni 
subiti 
dalle 
parti 
lese. Nella 
materia 
in esame 
tali 
presupposti 
sono 
integrati 
in 
quanto: 
l’art. 
108 
par. 
3 
TFuE 
è 
pacificamente 
invocabile 
dagli 
individui, 
come 
si 
è 
ripetutamente 
affermato; 
la 
sua 
violazione 
è 
da 
considerarsi 
sufficientemente 
grave 
poiché 
l’obbligo di 
notifica 
risponde 
altresì 
ad esigenze di certezza del diritto. 


Anche 
le 
misure 
provvisorie 
adottate 
dal 
giudice 
nazionale 
possono rivelarsi 
particolarmente 
utili, nei 
casi 
di 
aiuti 
appena 
versati 
o di 
imminente 
erogazione. 
Ad 
esempio, 
in 
caso 
di 
parallela 
pendenza 
della 
procedura 
amministrativa 
innanzi 
alla 
Commissione, il 
giudice 
nazionale 
potrà 
ordinare 
il 
versamento dei 
fondi 
in questione 
su un conto bloccato in attesa 
dell’esito 
della 
valutazione 
di 
compatibilità 
della 
Commissione: 
dunque 
in caso di 
decisione 
negativa, 
il 
giudice 
ordinerà 
la 
restituzione 
delle 
somme; 
in 
caso 
di 
decisione 
positiva 
ordinerà 
il 
trasferimento 
dei 
fondi 
stessi 
al 
beneficiario, 
fermo restando però il recupero degli interessi. 


I giudici 
nazionali 
possono disporre 
il 
rinvio pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 


(21) 
Infatti, 
se 
l’aiuto 
fosse 
stato 
notificato 
il 
pagamento 
sarebbe 
avvenuto 
successivamente, 
sicché 
il 
beneficiario 
sarebbe 
stato 
verosimilmente 
costretto 
a 
reperire 
i 
fondi 
sul 
mercato 
dei 
capitali, 
pagando 
gli interessi al tasso di mercato. 
(22) v. Comunicazione della Commissione 
cit., § 2.2.4. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


giustizia 
ex 
art. 267 TFuE, ovvero possono anche 
chiedere 
alla 
Commissione 
semplici 
pareri, relativamente 
a 
questioni 
dubbie 
di 
fatto o di 
diritto, emerse 
nel 
corso 
del 
procedimento 
(quali, 
ad 
esempio, 
la 
natura 
d’aiuto 
di 
una 
misura, 
ovvero l’applicabilità di un regolamento di esenzione). 


Da 
ultimo, 
si 
evidenzia 
che 
il 
giudice 
nazionale 
può 
altresì 
sospendere 
un provvedimento amministrativo di 
recupero dell’aiuto (quale 
misura 
cautelare) 
solo se 
nutra 
seri 
dubbi 
sulla 
validità 
dell’atto della 
Commissione 
e 
se 
provveda 
all’immediato 
rinvio 
pregiudiziale 
alla 
CGuE, 
sempre 
che 
l’impresa 
ricorrente 
rischi 
seri 
ed 
irreparabili 
danni. 
Infatti, 
è 
pur 
vero 
che 
l’annullamento 
di 
un 
atto 
amministrativo 
di 
esecuzione 
di 
un 
ordine 
di 
recupero 
di 
aiuti 
di 
Stato 
contrasta 
con 
l’esigenza 
di 
esecuzione 
immediata 
ed 
effettiva 
del-
l’aiuto stesso, ma, nondimeno, la 
Commissione 
ha 
evidenziato come 
il 
controllo 
svolto dal 
giudice 
nazionale 
sulla 
legittimità 
di 
un atto amministrativo 
diretto a 
recuperare 
l’aiuto incompatibile 
sia 
in linea 
con il 
principio europeo 
della 
tutela giurisdizionale effettiva (23). 


4. mera ridistribuzione di un aiuto di Stato: quid iuris? 
Dalla 
qualificazione 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
adita 
del 
provvedimento 
impugnato come 
nuovo aiuto di 
Stato 
discenderebbe 
l’illegalità insanabile 
dello stesso, con tutte le conseguenze sopra esposte. 


In conclusione, delineata 
la 
disciplina 
applicabile 
alla 
vicenda 
in esame, 
giova 
ancora 
focalizzare 
l’attenzione 
su due 
aspetti, sui 
quali 
la 
sentenza 
in 
commento non prende una netta posizione. 


Nel 
procedimento in parola 
si 
inserisce 
un’ulteriore 
circostanza 
che 
potrebbe 
rivelarsi 
non 
indifferente: 
dalla 
documentazione 
versata 
in 
atti 
è 
emerso 
che 
la 
Commissione 
Europea 
aveva 
aperto un’indagine 
sul 
D.M. 37/2015, su 
richiesta 
di 
una 
parte 
privata 
che 
sosteneva 
la 
medesima 
tesi 
del 
ricorrente. 
Nell’ambito 
di 
tale 
indagine 
la 
Commissione 
inviava 
rituale 
richiesta 
di 
informazioni 
al 
Ministero 
concedente, 
il 
quale, 
con 
apposita 
documentazione, 
spiegava 
la medesima tesi esposta nel giudizio in commento. 


Da 
ciò si 
deduce, quindi, come 
la 
Commissione 
fosse 
certamente 
a 
conoscenza 
dell’esistenza 
e 
del 
tenore 
del 
D.M. gravato, e 
ciò potrebbe 
indurre 
a 
ritenere 
che 
se 
la 
Commissione 
avesse 
ravvisato nel 
decreto un nuovo aiuto 
di 
Stato, avrebbe 
avviato le 
misure 
volte 
al 
ripristino della 
legalità, il 
che, allo 
stato, non pare sia avvenuto. 


Soprattutto, 
l’aspetto 
da 
chiarire, 
che 
potrebbe 
rivelarsi 
dirimente, 
è 
quello 
di 
stabilire 
se 
davvero 
-come 
sostenuto 
dall’appellante 
-debba 
essere 
preventivamente 
comunicata 
alla 
Commissione 
qualunque 
modifica 
dell’aiuto 
di 
Stato: 
risolvendo in senso positivo tale 
questione 
-per come 
genericamente 


(23) Cfr. CGuE 
sent. 11 maggio 2011 C-305/2009, Commissione 
c. repubblica italiana, punti 
43-48. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


dedotto dal 
ricorrente 
-diverrebbe 
del 
tutto irrilevante 
il 
‘calibro’ 
dell’intervento 
concretamente realizzato dal decreto de quo. 


A 
ben vedere, non esiste 
un consolidato orientamento giurisprudenziale 
in 
tal 
senso, 
atteso 
che, 
come 
rilevato 
dal 
Collegio, 
i 
precedenti 
richiamati 
dallo stesso appellante 
(24) si 
riferiscono ad atti 
costitutivi 
degli 
aiuti 
o estensivi 
degli 
stessi 
a nuove 
categorie 
di 
beneficiari, tipologia 
che 
non appare 
sovrapponibile 
al 
provvedimento 
su 
cui 
si 
controverte, 
la 
cui 
peculiarità 
consiste 


-si 
ribadisce 
-nell’essersi 
limitato, in esecuzione 
di 
un giudicato, a 
rideterminare, 
ora per 
allora, i 
criteri 
di 
assegnazione 
di 
un aiuto di 
Stato, dunque 
incidendo 
sulle 
mere 
modalità 
applicative 
dell’aiuto, 
senza 
estendere 
il 
profilo 
soggettivo o oggettivo, né la durata temporale dello stesso. 
Consiglio 
di 
stato, 
sezione 
Quarta, 
ordinanza 
4 
dicembre 
2019 
n. 
8229 
-pres. 
A. 
Anastasi, 
est. 
G. Castiglia 
-Eco Fox s.r.l. (avv.ti 
G. Bonaccio, S. Cortiglioni, M.E. Cortiglioni) c. Fallimento 
Mythen s.p.a. (avv. O. Grandinetti), Ministero dell’Eonomia 
e 
delle 
Finanze 
+ altri 
(avv. gen. Stato). 

premessa. 


1. Con successivi 
provvedimenti 
legislativi 
lo Stato italiano, per agevolare 
l’avviamento di 
un mercato nazionale 
del 
biodiesel, ha 
disposto tre 
diversi 
programmi 
di 
interventi 
di 
durata 
pluriennale. 
2. 
Questi 
hanno 
ricevuto 
l’approvazione 
preventiva 
della 
Commissione 
uE, 
necessaria 
per 
trattarsi di aiuti di Stato. 
3. In attuazione 
dell’art. 21 del 
decreto legislativo 26 ottobre 
1995, n. 504 e 
delle 
sue 
successive 
modificazioni 
e 
poi 
dell’art. 
22 
bis, 
il 
Ministero 
dell’economia 
e 
delle 
finanze 
ha 
adottato 
con propri 
decreti 
i 
regolamenti 
recanti 
le 
modalità 
di 
applicazione 
dell'accisa 
agevolata 
sul 
prodotto. 
4. Con sentenze 
16 febbraio 2012, n. 812, e 
28 febbraio 2012, n. 1120, la 
Iv 
sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato ha 
annullato, rispettivamente, l’art. 4, comma 
2, del 
d.m. n. 256/2003, e 
l’art. 
3, comma 
4, del 
d.m. n. 156/2008. Le 
disposizioni 
annullate 
riguardavano entrambe 
i 
criteri 
di assegnazione ai produttori di biodiesel dei quantitativi di prodotto esenti dall'accisa. 
5. È seguita una sentenza di ottemperanza (sez. Iv, 4 marzo 2014, n. 998). 
6. 
Con 
decreto 
ministeriale 
17 
febbraio 
2015, 
n. 
37, 
il 
MEF 
ha 
adottato 
un 
nuovo 
regolamento, 
con il quale ha riformulato le disposizioni annullate. 
il giudizio di primo grado. 


7. La società Eco Fox s.r.l. ha impugnato il d.m. n. 37/2015. 
8. Con sentenza 
26 luglio 2018, n. 8482, il 
Tribunale 
amministrativo regionale 
per il 
Lazio, 
sez. II, respinta 
un’istanza 
di 
riunione 
con altri 
giudizi, ha 
del 
pari 
respinto il 
ricorso, compensando 
fra le parti le spese di giudizio. 
Con riguardo agli 
undici 
motivi 
di 
doglianza, intesi 
a 
censurare 
sotto molteplici 
profili 
la 
vio(
24) Corte 
di 
Gustizia, G.C., 27 giugno 2017, C-74/16; 
Trib. I grado, sez. vIII, 11 giugno 2009, 
T-301/02. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


lazione 
di 
legge 
(nazionale 
ed euro-unitaria) e 
l’eccesso di 
potere, il 
Tribunale 
regionale 
ha 
ritenuto non sussistere: 


I) 
la 
violazione 
delle 
garanzie 
partecipative 
nell’emanazione 
del 
regolamento 
(e 
in 
specie 
dell’art. 
7 
della 
legge 
n. 
241/1990). 
Queste 
andrebbero 
interpretate 
in 
modo 
non 
formalistico; 
la 
ricorrente 
sarebbe 
stata 
comunque 
al 
corrente 
del 
procedimento, 
resosi 
necessario 
a 
seguito 
delle 
sentenze 
-pronunziate 
all’esito 
di 
giudizi 
cui 
la 
ricorrente 
stessa 
avrebbe 
partecipato 
come 
controinteressata 
-di 
parziale 
annullamento dei 
precedenti 
regolamenti 
ministeriali 
in 
materia, adottati 
con d.m. n. 256/2003 e 
n. 156/2008 (Cons. Stato, sez. Iv, n. 812/2012 e 
n. 
1120/2012), nonché 
della 
sentenza 
di 
ottemperanza 
n. 998/2014, con la 
quale 
la 
Iv 
sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
ordinato 
all'Amministrazione 
di 
dare 
esecuzione 
alle 
sentenze 
richiamate; 
il riesercizio del potere regolamentare sarebbe vincolato nell’an; 
II) il 
difetto di 
attribuzione 
dell’organo dello Stato (MEF) ad adottare 
un aiuto di 
Stato, rientrante 
invece 
nelle 
attribuzioni 
della 
Commissione 
uE 
o, 
comunque 
la 
mancata 
previa 
notifica 
agli 
organi 
sovranazionali 
competenti 
a 
stabilire 
la 
compatibilità 
dell’aiuto con la 
disciplina 
euro-unitaria. Il 
d.m. n. 37/2015 non istituirebbe 
un nuovo programma 
di 
aiuti 
di 
Stato ma, 
senza 
modificarne 
la 
durata, disporrebbe 
ora 
per allora 
nuovi 
criteri 
in sostituzione 
di 
quelli 
annullati 
dal 
giudice 
nazionale. Il 
TAR ha 
anche 
respinto la 
domanda 
di 
rinvio pregiudiziale 
alla CGuE, articolata dalla parte su tre distinte questioni; 
III) 
la 
violazione 
del 
giudicato 
per 
errata 
interpretazione 
o 
applicazione 
delle 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato n. 812/2012 e 
n. 1120/2012 e 
la 
violazione 
dell’art. 2909 c.c., nel 
senso 
che 
non vi 
sarebbe 
un giudicato cui 
prestare 
ottemperanza 
perché 
il 
giudizio di 
compatibilità 
comunitaria 
degli 
aiuti 
di 
Stato 
sarebbe 
riservato 
agli 
organi 
euro-unitari 
e 
nessun 
vincolo 
potrebbe 
derivare 
dalle 
decisioni 
dei 
giudici 
nazionali. Dalla 
sentenza 
delle 
Sezioni 
unite 
della 
Corte 
di 
cassazione 
10 settembre 
2013, n. 20698 -resa 
su ricorso con il 
quale 
era 
stato denunziato 
l’eccesso di 
potere 
giurisdizionale 
del 
Consiglio di 
Stato ai 
danni 
del 
legislatore 
deriverebbe 
la 
riaffermazione 
della 
piena 
giurisdizione 
del 
GA 
e 
l’effetto di 
cosa 
giudicata 
proprio 
delle 
sentenze 
ricordate; 
l’attività 
provvedimentale 
si 
conformerebbe 
ai 
giudicati, 
come anche risulterebbe dalle premesse del decreto impugnato; 
Iv) in via 
subordinata 
al 
riconoscimento della 
valenza 
di 
giudicato, la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
delle 
sentenze 
n. 
812/2012 
e 
n. 
1120/2012 
e 
la 
violazione 
di 
legge 
sotto 
diversi 
profili, 
nel 
senso 
che 
il 
d.m. 
n. 
37/2015 
avrebbe 
reintrodotto 
un 
aiuto 
di 
Stato 
a 
termini 
scaduti 
senza 
la 
previa 
notifica 
ai 
competenti 
organi 
dell’uE. Come 
detto, le 
disposizioni 
impugnate 
non 
avrebbero 
stabilito 
un 
programma 
di 
aiuti 
di 
Stato, 
ma 
rideterminato, 
ora 
per 
allora, 
alcuni 
coefficienti 
di 
assegnazione 
delle 
quote 
di 
biodiesel 
fiscalmente 
agevolato a 
seguito dell’annullamento 
dei criteri precedenti; 
v) 
nella 
medesima 
via 
subordinata, 
il 
vizio 
di 
ultrapetizione 
rispetto 
alle 
sentenze 
citate, 
nella 
misura 
in 
cui 
il 
nuovo 
regolamento 
attribuirebbe 
alla 
controinteressata 
un 
beneficio 
maggiore 
di 
quello dalla 
stessa 
rivendicato sul 
piano sostanziale. Le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato sarebbero 
chiare 
nel 
disporre 
una 
riedizione 
del 
potere 
regolamentare 
per riconoscere, ora 
per 
allora, 
una 
diversa 
quantificazione 
del 
biodiesel 
sottoposto 
ad 
aliquota 
agevolata 
e 
non 
-come 
invece sostenuto - un risarcimento in forma specifica; 
vI) la 
violazione 
del 
principio di 
legalità, dell’art. 11 delle 
preleggi, del 
principio del 
buon 
andamento 
della 
PA, 
nonché 
il 
travisamento 
dei 
presupposti 
di 
fatto 
e 
di 
diritto, 
a 
seguito 
della 
violazione 
della 
regola 
della 
irretroattività 
dell’azione 
amministrativa, che 
troverebbe 
applicazione 
anche 
per le 
fonti 
regolamentari, per avere 
il 
nuovo regolamento disposto non il 
solo 
risarcimento per equivalente 
a 
favore 
del 
soggetto vittorioso nei 
due 
giudizi, ma 
riaperto in

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


tegralmente 
i 
termini 
per 
la 
riassegnazione 
di 
tutte 
le 
esenzioni. 
Al 
di 
fuori 
dell’ambito 
penale, 
il 
principio 
di 
non 
retroattività 
non 
avrebbe 
carattere 
assoluto 
e, 
in 
materia 
tributaria, 
deroghe 
sarebbero costituzionalmente 
legittime 
in quanto non irrazionali, proporzionate 
e 
giustificate 
dall’esigenza 
di 
salvaguardare 
le 
finanze 
statali. 
Annullate 
con 
efficacia 
ex 
tunc 
le 
disposizioni 
previgenti, 
il 
riesercizio 
del 
potere 
regolamentare 
non 
avrebbe 
potuto 
non 
determinare 
una 
rideterminazione 
delle 
quote 
agevolate 
già 
assegnate. Il 
decorso del 
termine 
di 
prescrizione 
per le 
assegnazioni 
già 
effettuate 
sarebbe 
stato interrotto dai 
numerosi 
giudizi 
in cui 
la 
ricorrente 
avrebbe 
preso parte 
come 
parte 
formale 
e 
dagli 
atti 
adottati 
dall’Agenzia 
delle 
dogane 
per il recupero dell’imposta, oggetto di contenzioso avviato dalla medesima società; 
vII) 
la 
lesione 
dell’affidamento 
nei 
confronti 
dei 
provvedimenti 
con 
cui 
erano 
state 
assegnate 
le 
quote 
di 
biodiesel 
agevolato sulla 
base 
dei 
criteri 
poi 
annullati. La 
tutela 
del 
legittimo affidamento 
richiederebbe, 
oltre 
la 
buona 
fede 
di 
chi 
lo 
invoca, 
una 
situazione 
di 
certezza 
giuridica 
della 
disciplina 
vigente, laddove 
i 
decreti 
ministeriali 
succedutisi 
nel 
tempo sarebbero stati 
oggetto di 
plurimi 
contenziosi, cui 
la 
ricorrente 
avrebbe 
partecipato. Inoltre 
nessun legittimo 
affidamento potrebbe 
scaturire 
da 
atti 
amministrativi 
annullati 
con sentenza 
passata 
in giudicato, 
con le quali il GA avrebbe ordinato all’Amministrazione di provvedere nuovamente; 
vIII) la 
violazione 
del 
parere 
espresso dalla 
Sezione 
consultiva 
degli 
atti 
normativi 
del 
Consiglio 
di 
Stato nell’adunanza 
del 
27 marzo 2014 (l’ultima 
memoria 
depositata 
si 
riferirebbe 
invece 
ai 
pareri 
26 marzo 2004, n. 2680, e 
20 dicembre 
2004, n. 11602), che 
avrebbe 
rilevato 
la 
mancata 
allegazione 
al 
testo dell’analisi 
tecnico normativa 
(ATN) e 
dell’analisi 
di 
impatto 
della 
regolamentazione 
(AIR), e 
mancata 
notifica 
alla 
Commissione 
uE. In disparte 
tale 
profilo, 
esaminato e 
respinto sub II), e 
il 
richiamo ai 
pareri 
del 
2004, cronologicamente 
inconferenti, 
le 
omissioni 
rilevate 
sarebbero 
sintomatiche 
di 
una 
istruttoria 
non 
ottimale, 
ma 
non 
potrebbero 
determinare 
il 
vizio 
di 
un 
atto 
con 
la 
caratteristica 
della 
novella 
di 
testi 
precedenti, 
emanato a seguito di numerosi giudicati amministrativi; 


IX) 
la 
riproposizione 
dei 
criteri 
del 
regolamento 
annullato, 
con 
l’unica 
differenza 
di 
avere 
riaperto 
i termini per la concessione del beneficio, e 
X) l’effetto distorsivo della 
concorrenza 
prodotto dal 
riferimento ai 
dati 
storici 
della 
produzione, 
vale 
a 
dire 
a 
un parametro risultante 
non dalla 
logica 
di 
libero mercato, ma 
dai 
precedenti 
programmi 
di 
aiuto 
annullati 
dal 
GA. 
I 
criteri 
in 
questione 
(quantità 
di 
biodiesel 
immessa 
al 
consumo nell’anno precedente 
e 
capacità 
produttiva) non sarebbero stati 
di 
per sé 
ritenuti 
irragionevoli 
dal 
Consiglio di 
Stato, che 
nel 
regolamento del 
2003 avrebbe 
censurato la 
loro 
modulazione 
(nella 
misura 
rispettiva 
dello 0,6 e 
dello 0,4) e 
la 
doppia 
valutazione 
del 
grado 
di 
utilizzo, 
con 
conseguente 
peso 
eccessivo 
del 
dato 
storico 
della 
produzione 
immessa 
al 
consumo. 
I regolamenti 
successivi, e 
in particolare 
quello impugnato, avrebbero posto rimedio 
alla 
illegittimità 
(da 
ultimo, entrambi 
i 
parametri 
sarebbero dello 0,5), nel 
non irragionevole 
intento 
di 
porre 
sullo 
stesso 
piano 
le 
imprese 
capaci 
da 
subito 
di 
immettere 
nel 
mercato 
il 
biocarburante 
con quelle 
dotate 
di 
rilevante 
capacità 
produttiva. Come 
già 
detto, sarebbe 
infondata 
l’assunto della riapertura dei termini per la concessione dell’aiuto; 
XI) l’invalidità 
derivata 
rispetto alle 
note 
con cui 
il 
MEF 
ha 
richiesto il 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato in ordine 
al 
regolamento. Il 
motivo sarebbe 
inammissibile 
perché 
oscuro e 
generico. 
il giudizio di appello. 


9. La 
società 
ricorrente 
ha 
interposto appello avverso la 
sentenza, ribadendo la 
tesi 
di 
fondo 
che 
il 
d.m. n. 37/2015 disporrebbe 
un nuovo aiuto di 
Stato con efficacia 
di 
proroga 
di 
quello 
annullato e, nello specifico, formulando otto motivi di ricorso. 
Per resistere 
all’appello, si 
sono costituiti 
in giudizio l’Amministrazione 
delle 
finanze 
e 
altre 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Amministrazioni 
dello 
Stato, 
nonché 
il 
Fallimento 
Mythen 
s.p.a., 
(d’ora 
in 
poi: 
il 
Fallimento), 
il quale considera il ricorso in parte inammissibile e in toto comunque infondato nel merito. 
In 
vista 
dell’udienza 
pubblica 
di 
discussione, 
la 
società 
appellante 
ha 
depositato 
una 
memoria. 
All’udienza 
pubblica 
del 
15 maggio 2019 il 
Fallimento ha 
depositato copia 
della 
sentenza 
n. 
5749/2019 resa 
dal 
TAR per il 
Lazio, II sezione, che 
ha 
ordinato all’Agenzia 
delle 
entrate 
e 
dei 
monopoli 
di 
provvedere, in applicazione 
del 
d.m. n. 37/2015 qui 
impugnato, alla 
rideterminazione 
delle 
quote 
fiscalmente 
agevolate 
di 
biodiesel 
spettanti 
alla 
ricorrente 
per le 
annualità 
2006-2020. 


10. Con ordinanza 
21 maggio 2019, n. 3242, la 
Sezione 
ha 
disposto istruttoria 
per “acquisire 
dall’Amministrazione 
una 
relazione 
che 
dia 
conto del 
se, e 
in quali 
tempi, i 
regolamenti 
adottati 
con i 
decreti 
ministeriali 
25 luglio 2003, n. 256, e 
3 settembre 
2008, n. 156, siano stati 
notificati 
ai 
competenti 
Organi 
dell’unione 
europea, 
nonché, 
sotto 
il 
profilo 
di 
specie, 
di 
ogni 
altro elemento utile alla decisone”. 
Il MEF ha depositato una relazione corredata di alcuni allegati. 
11. Le 
parti 
hanno discusso i 
risultati 
dell’acquisizione 
istruttoria, traendone 
conclusioni 
opposte. 
Il 
Fallimento osserva 
che 
dalla 
relazione 
dimostrerebbe 
la 
conoscenza, da 
parte 
della 
Commissione 
europea, dell’esistenza 
e 
del 
contenuto del 
d.m. n. 37/2015 per avere 
aperto un’indagine 
sull’asserito aiuto illegale 
su richiesta 
di 
una 
parte 
privata, che 
avrebbe 
prospettato la 
medesima 
tesi 
ora 
sostenuta 
nel 
corso del 
presente 
giudizio. Se 
avesse 
ritenuto che 
il 
regolamento 
impugnato 
costituisse 
un 
aiuto 
di 
Stato 
non 
autorizzato, 
la 
Commissione 
avrebbe 
adottato 
le misure necessarie al ripristino della legalità euro-unitaria violata. 
La 
società 
appellante 
rileva 
che, contrariamente 
a 
quanto sostenuto dalle 
controparti, i 
precedenti 
regolamenti 
sarebbero stati 
notificati 
ai 
competenti 
Organi 
dell’unione, cosicché 
anche 
l’impugnato d.m. n. 37/2015 avrebbe 
dovuto essere 
oggetto di 
notifica 
in diretta 
applicazione 
della 
pertinente 
normativa 
euro-unitaria. Ne 
chiede 
dunque 
l’annullamento o la 
disapplicazione. 
Le 
parti 
si 
sono scambiate 
memorie 
di 
replica. Quanto alla 
tesi 
sviluppata 
dal 
resistente 
circa 
la 
conoscenza 
da 
parte 
della 
Commissione 
dell’esistenza 
e 
del 
contenuto 
dell’atto 
impugnato, 
la 
società 
appellante 
sostiene 
che 
l’Amministrazione 
non 
avrebbe 
fornito 
informazioni 
in 
merito 
al 
procedimento 
richiamato 
e 
alla 
decisione 
finale, 
rimanendo 
così 
inadempiente 
all’ordine 
disposto dal Collegio. 
Il 
Fallimento 
ha 
replicato 
che, 
secondo 
la 
normativa 
euro-unitaria 
di 
settore, 
a 
fronte 
della 
denuncia 
presentata 
da 
un soggetto privato la 
Commissione 
non sarebbe 
tenuta 
ad adottare 
una 
decisione 
finale, potendo limitarsi 
a 
inviare 
all’esponente 
il 
proprio parere 
preliminare, 
come nel caso di specie sarebbe avvenuto. 
12. All’udienza 
pubblica 
del 
28 novembre 
2019, l’appello è 
stato chiamato e 
trattenuto in decisione. 
la domanda di pronuncia pregiudiziale. 


13. Con il 
secondo motivo dell’appello, la 
società 
rinnova 
la 
censura 
di 
violazione 
di 
svariate 
disposizioni 
e 
decisioni 
euro-unitarie 
nonché 
dell’art. 117 Cost. e 
di 
norme 
nazionali: 
il 
regolamento 
impugnato 
costituirebbe 
un 
aiuto 
di 
Stato 
nuovo, 
il 
precedente 
essendo 
stato 
annullato 
con 
effetti 
retroattivi, 
o 
comunque 
modificativo 
dell’aiuto 
preesistente, 
che 
-a 
norma 
dell’art. 
108, comma 
3, TFuE, come 
interpretato dalla 
Corte 
di 
giustizia 
uE 
-avrebbe 
comunque 
richiesto 
la previa notifica alla Commissione europea. 
Dalla 
istruttoria 
disposta 
dalla 
Sezione 
è 
emerso che 
-contrariamente 
a 
quanto assunto dalle 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


parti 
resistenti 
-i 
regolamenti 
adottati 
con i 
d.m. n. 256/2003 e 
n. 156/2008 sono stati 
portati 
a conoscenza della Commissione europea. 
Come 
risulta 
dalla 
tecnica 
normativa 
adoperata, 
cioè 
quella 
della 
novellazione 
dei 
testi 
precedenti, 
i 
primi 
due 
articoli 
del 
d.m. 
n. 
37/2015 
non 
hanno 
inteso 
estendere 
la 
durata 
degli 
aiuti 
già 
disposti, 
ma 
hanno 
modificato 
i 
criteri 
di 
attribuzione 
dei 
benefici 
innovandone 
la 
disciplina 
ora 
per 
allora. 
È 
inequivoco 
in 
questo 
senso 
il 
successivo 
art. 
3 
del 
regolamento, 
a 
norma 
del 
quale 
“Fermi 
restando 
i 
dati 
storici 
in 
base 
ai 
quali 
ciascuna 
ditta 
ammessa 
a 
partecipare 
ai 
programmi 
e 
risultata 
destinataria 
di 
quote 
agevolate 
di 
biodiesel, 
per 
le 
annualità 
2006, 
2007, 
2008 
e 
2009 
le 
assegnazioni 
del 
medesimo 
prodotto 
sono 
rideterminate 
alle 
stesse 
ditte 
tenuto 
conto 
dei 
criteri 
individuati 
rispettivamente 
negli 
articoli 
1 
e 
2”. 
La 
parte 
appellante 
sostiene 
che, 
secondo 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia, 
qualunque 
modifica 
di 
un 
aiuto 
di 
Stato 
dovrebbe 
essere 
preventivamente 
notificata 
alla 
Commissione 
europea. 
Tuttavia, 
non 
pare 
che 
i 
precedenti 
richiamati 
al 
riguardo 
siano 
decisivi 
in 
quanto, 
al 
di 
là 
delle 
affermazioni 
di 
principio, sembrano riferirsi 
ad atti 
costitutivi 
degli 
aiuti 
(Corte 
di 
giustizia, 
grande 
sezione, 27 giugno 2017, in causa 
C-74/16) o estensivi 
degli 
aiuti 
stessi 
a 
una 
nuova categoria di beneficiari (Trib. I grado, sez. vIII, 11 giugno 2009, in causa 
T-301/02). 
Appare 
inoltre 
che 
la 
Commissione, 
su 
denuncia 
di 
un 
controinteressato, 
ha 
avuto 
conoscenza 
del 
regolamento adottato con d.m. n. 37/2015, senza 
avviare 
alcuna 
iniziativa 
al 
riguardo nei 
confronti 
dell’Italia. 
Questa 
circostanza 
potrebbe 
essere 
significativa 
del 
fatto 
che 
la 
Commissione 
non abbia 
considerato il 
regolamento come 
istitutivo di 
un nuovo aiuto di 
Stato ai 
sensi della normativa euro-unitaria. 
Il 
Collegio dà 
atto della 
previsione 
del 
§ 13 della 
Comunicazione 
della 
Commissione 
relativa 
all'applicazione 
della 
normativa 
in 
materia 
di 
aiuti 
di 
Stato 
da 
parte 
dei 
giudici 
nazionali 
(2009/C 
85/01), 
secondo 
la 
quale 
“qualora 
nutrano 
dubbi 
in 
merito 
a 
un 
aiuto 
di 
Stato, 
i 
giudici 
nazionali 
possono chiedere 
il 
parere 
della 
Commissione 
in base 
alla 
sezione 
3 della 
presente 
comunicazione”. Aggiunge 
tuttavia 
il 
§ 13 che 
“ciò non pregiudica 
la 
possibilità 
o l'obbligo 
del 
giudice 
nazionale 
di 
chiedere 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
di 
pronunciarsi 
in via 
pregiudiziale 
sulla questione ai sensi dell'articolo 234 del trattato CE” (ora art. 267 TFuE). 


14. 
Pertanto, 
in 
considerazione 
del 
monopolio 
interpretativo 
del 
diritto 
euro-unitario 
che 
i 
Trattati 
assegnano alla 
Corte 
di 
giustizia 
e 
della 
natura 
di 
Giudice 
di 
ultima 
istanza 
rivestita 
dal 
Consiglio 
di 
Stato, 
il 
Collegio 
-ai 
sensi 
dell’art. 
267 
TFuE 
-sospende 
il 
presente 
giudizio 
per investire 
la 
Corte 
di 
giustizia 
dell’unione 
europea 
della 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
nei termini che seguono. 
“dica 
la 
Corte 
di 
giustizia 
dell’unione 
europea 
se 
-in 
relazione 
agli 
artt. 
107 
e 
108 
TFue, 
al 
regolamento 
(Ce) 
n. 
659/1999 
del 
Consiglio 
del 
22 
marzo 
1999, 
e 
successive 
modificazioni, 
al 
regolamento 
(Ce) 
n. 
794/2004 
della 
Commissione 
del 
21 
aprile 
2004 
e 
alle 
eventuali 
ulteriori 
pertinenti 
disposizioni 
del 
diritto 
euro-unitario 
-costituisca 
aiuto 
di 
Stato, 
come 
tale 
soggetto 
all’onere 
di 
previa 
notifica 
alla 
Commissione 
europea, 
un 
atto 
normativo 
secondario 
quale 
il 
regolamento 
adottato 
con 
il 
d.m. 
n. 
37/2015 
qui 
impugnato 
che, 
in 
diretta 
esecuzione 
di 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
recanti 
il 
parziale 
annullamento 
dei 
regolamenti 
precedenti 
già 
comunicati 
alla 
Commissione, 
abbia 
inciso 
“ora 
per 
allora” 
sulle 
modalità 
di 
applicazione 
dell'accisa 
agevolata 
sul 
biodiesel 
modificando 
retroattivamente 
i 
criteri 
di 
riparto 
del 
beneficio 
fra 
le 
imprese 
richiedenti 
senza 
estendere 
la 
durata 
temporale 
del 
programma 
di 
agevolazioni 
fiscali”. 


15. Ogni 
ulteriore 
determinazione 
nel 
rito, sul 
merito e 
quanto alle 
spese 
va 
rinviata 
alla 
definizione 
della controversia. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


P.Q.M. 


Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Quarta), viste 
le 
Raccomandazioni 
al-
l’attenzione 
dei 
giudici 
nazionali 
relative 
alla 
presentazione 
di 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale, 
adottate dalla Corte di giustizia dell’unione europea (2019/C 380/01): 


a) rimette alla Corte la questione pregiudiziale esposta in motivazione 
sub 
§ 14; 
b) ordina 
alla 
Segreteria 
della 
Sezione 
di 
trasmettere 
alla 
medesima 
Corte 
copia 
conforme 
al-
l’originale della presente ordinanza, nonché copia integrale del fascicolo di causa; 
c) dispone, in attesa 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell’unione 
europea, la 
sospensione 
del presente giudizio; 
d) riserva 
alla 
sentenza 
definitiva 
ogni 
ulteriore 
pronuncia 
nel 
rito, sul 
merito e 
quanto alle 
spese. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 novembre 2019. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


i procedimenti cautelari alla luce della normativa 
emergenziale da Covid-19 (art. 84 D.l. 18/20); 
un excursus della giurisprudenza sul sistema delle cautele 
antimafia nell’atto defensionale dell’avvocatura (*) 


ConSiglio 
di 
STaTo, Sezione 
Terza, ordinanza 
22 maggio 
2020 n. 2870 


L’ordinanza 
in 
rassegna 
ha 
rigettato 
l’eccezione 
avversaria 
di 
nullità 
dell’ordinanza 
impugnata 
per 
violazione 
del 
diritto 
di 
difesa 
e 
del 
principio 
del 
contraddittorio in quanto emessa, in data 
9 aprile 
2020, in assenza 
della 
richiesta congiunta delle parti 
ex 
art. 84 D.L. 18/20. 


Si trascrive integralmente la memoria difensiva dell’Avvocatura. 


CT 9118/20 avv. Ferrante 


AvvOCATuRA GENERALE DELLO STATO 


CONSIGLIO DI STATO 


IN SEDE GIuRISDIzIONALE 


SEzIONE III - R.G. 3373/20 - uDIENzA 21.5.2020 


MEMORIA DIFENSIvA 
Per 
il 
MINISTERO 
DELL’INTERNO 
(C.F. 
97149560589) 
-u.T.G. 
Prefettura 
di 
Cosenza, 
in 
persona 
del 
Ministro 
pro 
tempore, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 


(C.F. 80224030587) presso i 
cui 
uffici 
è 
per legge 
domiciliato in Roma, via 
dei 
Portoghesi 
12 
(per il ricevimento degli atti, FAX 06/96514000 e PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) 
C O NT R O 
(OMISSIS) nella 
qualità 
di 
legale 
rappresentante 
delle 
società 
(OMISSIS), come 
in atti 
rappresentate 
e difese 
E NEI CONFRONTI DEL 
COMuNE 
DI (OMISSIS), in persona 
del 
Sindaco pro tempore, come 
in atti 
rappresentato e 
difeso 
* * * 
Con il 
ricorso al 
TAR Calabria 
-Catanzaro ritualmente 
notificato, la 
parte 
ricorrente 
ha 
chiesto l’annullamento, previa 
sospensione 
del 
provvedimento interdittivo antimafia 
emesso 
dalla 
Prefettura 
di 
Cosenza 
il 
15.1.2020, 
prot. 
n. 
(OMISSIS) 
nonché 
delle 
due 
ordinanze 
del 
Comune 
di 
(OMISSIS) 
di 
chiusura 
delle 
due 
attività 
di 
somministrazione 
di 
alimenti 
e 
bevande 
svolte 
dalle 
due 
società 
odierne 
appellanti 
e 
di 
tutti 
i 
provvedimenti 
presupposti, connessi 
e 
conseguenziali. 


Il 
TAR, con ordinanza (OMISSIS), ha respinto l’istanza cautelare. 
L’appello avversario è infondato e va respinto per i seguenti motivi in 
FATTO 
L’informazione 
antimafia 
interdittiva 
impugnata, 
che 
ha 
colpito 
le 
società 
(OMISSIS) 
con 


(*) Segnalazione avv. St. Wally Ferrante. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


sedi 
legali 
in 
(OMISSIS), 
prende 
le 
mosse 
dalla 
circostanza 
che 
coniuge 
dell’amministratore 
unico e 
proprietaria 
di 
quote 
(OMISSIS) è 
(OMISSIS), il 
quale, sulla 
base 
degli 
approfondimenti 
effettuati 
dalla 
Direzione 
Investigativa 
Antimafia, risulta 
avere, sin dal 
2012 (cfr. nota 
della 


D.I.A. del 
21.12.2018 all. 2 in atti, pag. 3), “una 
continua 
ed assidua 
frequentazione 
con “elementi 
di 
spicco e 
fiancheggiatori 
della 
cosca 
dominante 
in (OMISSIS), al 
cui 
vertice 
di 
colloca 
(OMISSIS), con il 
quale, in particolare 
nel 
periodo da 
luglio ad oggi, la 
predetta 
frequentazione 
si infittisce”. 
La 
sentenza 
n. 
(OMISSIS) 
della 
Corte 
d’Appello 
di 
Catanzaro, 
in 
data 
24 
novembre 
2010, 
nell’attestare 
l’esistenza 
di 
una 
consorteria 
criminale 
in (OMISSIS), ha 
ricordato: 
“Il 
sodalizio, 
originariamente 
denominato 
come 
“cosca 
degli 
(OMISSIS)” 
il 
cui 
vertice 
è 
stato 
assunto 
da 
(OMISSIS) con l’appoggio dei 
più potenti 
gruppi 
criminali 
cosentini, ha 
mantenuto dal 
1999 al 
2007 il controllo delle principali attività criminali nel territorio di (OMISSIS)...”. 


Dalle 
risultanze 
investigative, 
è 
emerso 
il 
ruolo 
centrale 
di 
(OMISSIS) 
nella 
direzione 
e 
gestione 
dell’attività 
delle 
società 
appellanti 
mentre 
ne 
è 
ufficialmente 
legale 
rappresentante 
il 
coniuge; 
inoltre, 
contrariamente 
a 
quanto 
affermato 
da 
controparte 
-che 
mira 
a 
rendere 
non 
significativi 
i 
numerosissimi 
episodi 
di 
frequentazione 
dello 
stesso 
(OMISSIS) 
con 
soggetti 
appartenenti 
alla 
cosca 
dominante 
in 
(OMISSIS) 
e, 
finanche, 
con 
il 
capo 
cosca 
risulta 
che 
lo 
stesso 
ne 
abbia 
assunto 
addirittura 
il 
ruolo 
di 
“accompagnatore 
e 
braccio 
destro” 
e 
comunque 
di 
“persona 
di 
fiducia” 
(cfr. 
Nota 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
-Tenenza 
di 
(OMISSIS) 
all. 
3 
in 
atti). 


A 
fondamento dell’informativa 
antimafia 
sono stati 
posti 
quindi 
i 
seguenti 
elementi 
indiziari: 
il 
pacificamente 
riconosciuto 
ruolo 
centrale 
di 
(OMISSIS) 
nella 
direzione 
e 
gestione 
dell’attività 
connessa 
alle 
società; 
i 
numerosissimi 
episodi 
di 
frequentazione 
dello 
stesso 
(OMISSIS) 
con 
soggetti 
appartenenti 
alla 
cosca 
dominante 
in 
(OMISSIS) 
e, 
finanche, 
con 
il 
capo 
cosca, 
sino ad assumerne 
il 
ruolo di 
“accompagnatore 
e 
braccio destro”; 
la 
circostanza 
che 
gli 
accertamenti 
antimafia 
svolti 
negli 
ultimi 
anni 
abbiano fatto emergere 
quanto gli 
esponenti 
di 
‘ndrangheta 
siano 
presenti 
nel 
tessuto 
economico 
-commerciale 
di 
(OMISSIS), 
proprio 
a 
partire 
dalla persona giudiziariamente indicata come capo cosca, (OMISSIS). 


DIRITTO 


1) sull’eccezione preliminare: 
In limine, le 
appellanti 
eccepiscono che 
l’ordinanza 
impugnata 
sarebbe 
stata 
emessa 
in 
violazione 
dei 
principi 
a 
tutela 
del 
diritto 
di 
difesa 
e 
del 
contraddittorio 
in 
quanto 
sarebbe 
stata 
pronunciata 
in 
assenza 
di 
richiesta 
congiunta 
di 
trattazione 
delle 
parti 
ai 
sensi 
dell’art. 
84, 
comma 2 D.L. 18/2020. 


L’eccezione è infondata. 


Come 
ricordato 
dalle 
stesse 
appellanti, 
è 
stato 
depositato 
un 
primo 
decreto 
presidenziale 
del 
22 febbraio 2020, n. 86 di 
accoglimento dell’istanza 
cautelare; 
successivamente, l’istanza 
cautelare 
è 
stata 
respinta 
con decreto presidenziale 
del 
25 marzo 2020, n. 145 emesso ai 
sensi 
dell’art. 84, comma 
1 D.L. 18/20; 
a 
seguito di 
istanza 
di 
revoca 
del 
predetto decreto, è 
stata 
nuovamente 
accolta 
l’istanza 
cautelare 
con 
decreto 
presidenziale 
n. 
163/20 
ed, 
infine, 
con 
l’ordinanza 
dell’8 aprile 
2020, n. (OMISSIS) qui 
impugnata 
l’istanza 
cautelare 
è 
stata 
definitivamente 
respinta. 


Sostenere 
che 
siano stati 
violati 
il 
diritto di 
difesa 
ed il 
principio del 
contraddittorio appare 
all’evidenza 
smentito 
dal 
susseguirsi 
di 
provvedimenti 
cautelari 
che 
hanno 
consentito 
alla controparte ogni possibile attività difensiva nel pieno rispetto del contraddittorio. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Peraltro, 
non 
appare 
applicabile 
alla 
fattispecie 
il 
primo 
periodo 
del 
citato 
comma 
1 
dell’art. 84 D.L. 18/20 che 
prevede 
la 
richiesta 
congiunta 
di 
passaggio in decisione 
di 
tutte 
le 
parti 
costituite 
bensì 
il 
terzo periodo dello stesso comma 
in base 
al 
quale 
“nei 
procedimenti 
cautelari 
in 
cui 
sia 
stato 
emanato 
decreto 
monocratico 
di 
accoglimento, 
totale 
o 
parziale, 
della domanda cautelare 
la 
trattazione 
collegiale 
in camera 
di 
consiglio è 
fissata, ove 
possibile, 
nelle 
forme 
e 
nei 
termini 
di 
cui 
all’art. 56, comma 
4 c.p.a., a 
partire 
dal 
6 aprile 
2020 
e 
il 
collegio definisce 
la 
fase 
cautelare 
secondo quanto previsto dal 
presente 
comma, salvo 
che 
entro 
il 
termine 
di 
cui 
al 
precedente 
periodo 
[due 
giorni 
liberi 
prima 
dell’udienza] 
una 
delle parti su cui incide la misura cautelare depositi un’istanza di rinvio”. 


Non 
essendo 
stata 
depositata 
istanza 
di 
rinvio 
da 
alcuna 
delle 
parti, 
correttamente 
l’istanza cautelare è stata decisa in sede collegiale. 


Del 
resto, diversamente 
opinando, si 
avrebbe 
l’incongruente 
conseguenza 
che 
la 
parte 
che 
ha 
ottenuto 
un 
decreto 
cautelare 
monocratico 
a 
sé 
favorevole 
possa 
cristallizzarlo 
non 
depositando 
la domanda congiunta di decisione collegiale. 


2) 
sul primo motivo di appello: 
Con il 
primo motivo di 
appello, la 
controparte 
censura, sotto diversi 
profili, l’asserita 
illogicità 
manifesta, il 
presunto travisamento dei 
fatti 
e 
la 
pretesa 
insufficiente 
motivazione 
in ordine alla valutazione dei presupposti del provvedimento impugnato. 


Il motivo è infondato. 


Giova 
rammentare, 
in 
proposito, 
che 
con 
le 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
3 
maggio 
2016, n. 1743 e 
del 
9 maggio 2016, n. 1846, è 
stato chiarito che 
“è 
estranea al 
sistema delle 
informative 
antimafia, 
non 
trattandosi 
di 
provvedimenti 
nemmeno 
latamente 
sanzionatori, 
qualsiasi 
logica penalistica di 
certezza probatoria raggiunta al 
di 
là del 
ragionevole 
dubbio 
(né 
-tanto 
meno 
-occorre 
l’accertamento 
di 
responsabilità 
penali, 
quali 
il 
«concorso 
esterno» 


o la commissione 
di 
reati 
aggravati 
ai 
sensi 
dell’art. 7 della legge 
n. 203 del 
1991), poiché 
simile 
logica 
vanificherebbe 
la 
finalità 
anticipatoria 
dell’informativa, 
che 
è 
quella 
di 
prevenire 
un grave 
pericolo e 
non già quella di 
punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente 
rilevante”. 
È 
stato 
inoltre 
precisato, 
per 
quanto 
qui 
interessa, 
che 
“occorre 
invece 
valutare 
il 
rischio 
di 
inquinamento mafioso in base 
all’ormai 
consolidato criterio del 
più «probabile 
che 
non», 
alla 
luce 
di 
una 
regola 
di 
giudizio, 
cioè, 
che 
ben 
può 
essere 
integrata 
da 
dati 
di 
comune 
esperienza, 
evincibili 
dall’osservazione 
dei 
fenomeni 
sociali, qual 
è, anzitutto, anche 
quello mafioso. 
per 
questo 
gli 
elementi 
posti 
a 
base 
dell’informativa 
possono 
essere 
anche 
non 
penalmente 
rilevanti 
o non costituire 
oggetto di 
procedimenti 
o di 
processi 
penali 
o, addirittura 
e 
per 
converso, possono essere 
già stati 
oggetto del 
giudizio penale, con 
esito di 
proscioglimento 
o di assoluzione”. 


Detto 
orientamento 
è 
stato 
confermato 
con 
le 
successive 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
stato n. 1296/17; 1980/17; 2314/17; 3171/17; 3576/17; 4781/17; 5143/17 e 
da ultimo con 
la 
sentenza 
del 
30 
gennaio 
2019, 
n. 
758 
che 
ha 
ricostruito 
la 
materia 
alla 
luce 
della 
più 
recente 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, 
della 
CEDu, 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di Stato e delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. 


L’interdittiva 
oggetto del 
presente 
ricorso è 
stata 
adottata 
proprio alla 
luce 
di 
tali 
consolidati 
principi. 


Nel 
caso in esame, l’informativa 
impugnata 
si 
fonda 
su una 
pluralità 
di 
elementi 
che, 
valutati 
complessivamente, 
inducono 
a 
ritenere 
non 
irragionevole 
il 
giudizio 
del 
Prefetto 
circa 
il pericolo che l’impresa odierna appellante sia esposta al condizionamento mafioso. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


La 
verifica 
spettante 
al 
Prefetto si 
deve 
basare 
su un quadro indiziario in cui 
assumono 
rilievo preponderante 
i 
fattori 
da 
cui 
trarre 
la 
conclusione 
che 
non sono infondati 
i 
sospetti 
che 
comportamenti 
e 
scelte 
dell’imprenditore 
possano 
rappresentare 
un 
veicolo 
attraverso 
cui 
le 
organizzazioni 
criminali 
intendano 
infiltrarsi 
negli 
appalti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni. 
L’Amministrazione, dunque, gode 
di 
un ampio margine 
di 
accertamento e 
di 
apprezzamento 
discrezionale, nella 
ricerca 
e 
nella 
valutazione 
dei 
fatti 
sintomatici 
di 
eventuali 
connivenze 
o 
collegamenti di tipo mafioso. 


Il 
sistema 
delle 
cautele 
antimafia, 
per 
costante 
giurisprudenza, 
non 
mira 
all’accertamento 
di 
responsabilità, ma 
si 
colloca 
come 
forma 
di 
massima 
anticipazione 
dell’azione 
di 
prevenzione, 
inerente 
alla 
funzione 
di 
polizia 
di 
sicurezza, rispetto a 
cui 
assumono rilievo fatti 
e 
vicende 
economico-imprenditoriali. 


Pertanto, le 
informative 
prefettizie 
non richiedono “un grado di 
dimostrazione 
probatoria 
analogo 
a 
quello 
richiesto 
per 
dimostrare 
l’appartenenza 
di 
un 
soggetto 
ad 
associazione 
di 
tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi 
su fatti 
e 
vicende 
aventi 
un valore 
sintomatico ed indiziario e 
con l’ausilio di 
indagini 
che 
possono risalire 
anche 
ad eventi 
verificatisi 
a distanza di 
tempo” 
(ex 
multis 
Consiglio di 
Stato III Sezione, 23 febbraio 2012 


n. 
1068); 
inoltre, 
“gli 
elementi 
raccolti 
non 
vanno 
considerati 
separatamente, 
dovendosi 
piuttosto 
stabilire 
se 
sia 
configurabile 
un 
quadro 
indiziario 
complessivo 
dal 
quale 
possa 
ritenersi, 
attendibile 
l’esistenza di 
un condizionamento da parte 
della criminalità organizzata” 
(C.d.S. 
n. 1068/2012 e 
C.d.S. III Sezione 
n. 1329 del 
5 marzo 2013), non dovendosi 
pertanto provare 
“l’intervenuta 
infiltrazione 
mafiosa, 
ma 
solo 
la 
sussistenza 
di 
elementi 
dai 
quali 
sia 
deducibile 
il pericolo di ingerenza” 
(C.d.S. III Sezione n. 2352/2011). 


Del 
resto, 
la 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
sezione 
Terza 
n. 
3299 
in 
data 
20 
luglio 
2016, nel 
richiamare 
la 
sentenza 
n. 1743 del 
3 maggio 2016 ribadisce 
“gli 
elementi 
di 
inquinamento 
mafioso, ben lungi 
dal 
costituire 
un numerus 
clausus, assumono infatti 
forme 
e 
caratteristiche 
diverse 
secondo 
i 
tempi, 
i 
luoghi 
e 
le 
persone 
e 
sfuggono 
ad 
un 
preciso 
inquadramento, per 
l’insidiosa pervasività e 
mutevolezza, anzitutto sul 
piano sociale, del 
fenomeno 
mafioso”.... “Quello voluto dal 
legislatore, ben consapevole 
di 
questo, è 
dunque 
un 
“catalogo aperto” 
di 
situazioni 
sintomatiche 
del 
condizionamento mafioso. Tra queste 
situazioni 
sintomatiche 
non 
tipizzate 
dal 
legislatore, 
..., 
figura 
anche 
“l’assunzione 
esclusiva 
o 
prevalente, da parte 
di 
imprese 
medio -piccole, di 
personale 
avente 
precedenti 
penali 
gravi 


o comunque 
contiguo ad associazioni 
criminalità” 
ed inoltre 
“consentire, infatti, che 
la propria 
attività esecutiva sia affidata a soggetti 
contigui 
o affiliati 
alle 
cosche 
non può far 
ragionevolmente 
escludere 
che 
anche 
le 
decisioni 
e 
la vita stessa dell’impresa siano affidati 
ad 
una direzione 
esterna, per 
il 
tramite 
di 
uomini 
di 
fiducia posti 
dalle 
cosche 
all’interno del-
l’impresa” 
onde 
per 
cui 
“la 
mafia 
non 
si 
serve 
necessariamente, 
infatti, 
dei 
soli 
amministratori 
o dei 
soci 
di 
una società per 
condizionare 
l’impresa e 
strumentalizzarla ai 
propri 
scopi, 
ben 
potendo 
avvalersi 
di 
soggetti 
che 
nell’impresa 
svolgono 
una 
qualsivoglia 
mansione 
poiché 
suo scopo non è 
solo -o non sempre 
-la scalata delle 
gerarchie 
societarie, ma il 
controllo 
delle 
attività economiche 
più lucrose 
con ogni 
mezzo e 
con ogni 
uomo idoneo allo scopo, con 
una 
flessibilità 
di 
forme 
interne 
che 
sfugge 
e 
intende 
sfuggire, 
per 
non 
attirare 
controlli 
esterni, 
alle 
“armonie 
prestabilite” 
del 
diritto 
societario 
“ne 
deriva 
quindi 
che, 
sul 
piano 
qualitativo, 
il 
condizionamento mafioso (ovvero “controllo del 
territorio” 
con la creazione 
di 
un clima 
di 
paura o di 
omertà) può derivare 
anche 
dalla presenza di 
soggetti 
che 
non svolgano ruoli 
apicali 
all’interno 
della 
società, 
ma 
siano 
o 
figurino 
come 
meri 
dipendenti, 
entrati 
a 
far 
parte 
dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi”. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Alla luce di tali principi, le deduzioni avversarie appaiono del tutto infondate. 


Innanzitutto, 
la 
circostanza 
che 
(OMISSIS) 
è 
stato 
detenuto 
dal 
20 
dicembre 
2007 
al 
3 
marzo 2018 non appare 
affatto contrastare 
con gli 
accertamenti 
svolti 
dalla 
D.I.A. che, con 
nota 
del 
21 
dicembre 
2018, 
ha 
evidenziato 
una 
continua 
ed 
assidua 
frequentazione 
di 
(OMISSIS) 
con “elementi 
di 
spicco e 
fiancheggiatori 
della 
cosca 
dominante 
in (OMISSIS), al 
cui 
vertice 
di 
colloca 
(OMISSIS), 
con 
il 
quale, 
in 
particolare 
nel 
periodo 
da 
luglio 
ad 
oggi, 
la 
predetta 
frequentazione 
si 
infittisce”. La 
frequentazione 
di 
(OMISSIS), coniuge 
della 
legale 
rappresentante 
delle 
società 
appellanti 
(OMISSIS), 
con 
il 
capo 
clan 
è 
dunque 
riferita 
al 
periodo 
luglio-dicembre 
2018, periodo in cui lo stesso non era più detenuto. 


Inoltre, 
gli 
episodi 
in 
base 
ai 
quali 
è 
stato 
ricostruito 
il 
ruolo 
gestorio 
di 
fatto 
di 
(OMISSIS) 
dell’attività 
facente 
capo formalmente 
alla 
moglie 
non sono stati 
smentiti 
dalle 
appellanti 
che 
non hanno potuto negare 
il 
ruolo svolto dallo stesso in ben due 
occasioni, per le 
trattative 
di 
cessione 
dell’azienda 
sita 
in via 
(OMISSIS) poi 
non andate 
in porto (p. 17 dell’appello) e 
per 
l’affitto dell’azienda sita in via (OMISSIS) (p. 18 dell’appello). 


Nessun travisamento, né 
alcuna 
illogicità 
sono quindi 
riscontrabili 
nel 
provvedimento 
interdittivo antimafia 
ex adverso 
impugnato, che si appalesa pienamente legittimo. 


3) 
sul secondo motivo di appello: 
Il 
secondo motivo di 
appello, attinente 
alla 
legittimità 
delle 
due 
ordinanze 
del 
Comune 
di 
(OMISSIS) 
di 
chiusura 
dell’attività, 
è 
infondato, 
per 
quanto 
di 
interesse 
dell’amministrazione 
resistente, 
nella 
parte 
in 
cui 
si 
deduce 
una 
presunta 
contraddittorietà 
tra 
le 
ordinanze 
comunali 
e 
l’informazione 
prefettizia 
atteso 
che, 
al 
contrario, 
quest’ultima 
costituisce 
il 
presupposto 
delle prime che ne sono la diretta conseguenza. 

4) sul periculum in mora: 
Quanto 
al 
periculum 
in 
mora, 
si 
evidenzia 
che 
al 
momento 
dell’emissione 
dell’ordinanza 
cautelare 
(8 
aprile 
2020) 
e 
della 
proposizione 
dell’appello 
(20 
aprile 
2020) 
e 
sino 
al 
18 
maggio 
2020 l’attività 
di 
(OMISSIS) sarebbe 
stata 
comunque 
preclusa 
dai 
provvedimenti 
governativi 
per il contrasto del contagio dovuto all’emergenza COvID-19. 


Inoltre, l’ordinanza 
del 
Consiglio di 
Stato dell’8 marzo 2019, n. 1230 ha 
precisato che 
“sul 
piano 
del 
periculum 
in 
mora, 
nella 
comparazione 
tra 
gli 
opposti 
interessi 
deve 
prevalere 
quello, 
irrinunciabile 
e 
improcrastinabile, 
alla 
sterilizzazione 
delle 
influenze 
mafiose 
nell’attività 
imprenditoriale e, in ogni caso, nell’economia legale”. 


Analoga 
motivazione 
è 
rinvenibile 
nell’ordinanza 
del 
Consiglio di 
Stato del 
9 maggio 
2019, 
n. 
2223: 
“deve 
ritenersi 
prevalente, 
nella 
comparazione 
tra 
i 
contrapposti 
interessi, 
quello pubblico ad evitare l’infiltrazione mafiosa nell’economia legale”. 


Si 
richiama 
inoltre 
la 
giurisprudenza 
in materia 
che 
ritiene 
“prevalente 
l’interesse 
pubblico 
a 
prevenire 
possibili 
implicazioni 
con 
la 
criminalità 
organizzata” 
chiarendo 
che 
“le 
ragioni 
di 
una 
tale 
interpretazione 
della 
normativa 
muovono 
dalla 
natura 
dell’accertamento 
antimafia e 
dall’esigenza di 
tutelare 
in via preferenziale 
la trasparenza e 
l’immunità dal 
settore 
dei 
pubblici 
appalti 
da 
fenomeni 
invasivi, 
anche 
interposti, 
da 
parte 
della 
criminalità 
organizzata” 
(Cons. di Stato, sez. v, n. 6076/2011). 

ha 
ritenuto 
“prevalente 
l’interesse 
pubblico 
alla 
tutela 
dell’ordine 
e 
della 
sicurezza 
pubblica, che 
presiede 
ai 
poteri 
interdittivi 
antimafia” 
anche 
Cons. Stato, sez. III, ord. 14 novembre 
2013, n. 4495, atteso che 
“è 
evidente 
il 
profilo negativo per 
l’interesse 
pubblico nel-
l’avere 
rapporti 
contrattuali 
con 
imprese 
esposte 
a 
rischi 
di 
condizionamenti 
mafiosi 
(principio che si pone come regola dell’agire amministrativo)” 
. 


Tutto ciò premesso, l’amministrazione in epigrafe, come in atti rappresentata e difesa, 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


ChIEDE 
che 
il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
voglia 
respingere 
l’appello perché 
infondato, 
con il favore delle spese. 
Roma, 19 maggio 2020 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 


Consiglio 
di 
stato, 
sezione 
terza, 
ordinanza 
del 
22 
maggio 
2020 
n. 
2870 
-pres. 
F. 
Frattini, 
est. P.A.A. Pulitatti 
-(OMISSIS) n.q. di 
legale 
rappresentante 
della 
società 
(OMISSIS) (avv. B. 
Carratelli) 
c. 
Ministero 
dell’Interno 
(avv. 
gen. 
St.), 
ufficio 
territoriale 
del 
Governo 
di 
Cosenza 
(n.c.), Comune di (OMISSIS) (avv. N. Missineo). 


Ritenuto, 
preliminarmente, 
di 
dover 
ritenere 
infondato 
il 
motivo 
di 
appello 
concernente 
la 
violazione 
del 
diritto di 
difesa, poiché 
l’art. 84, comma 
2, del 
D.L. n. 18/2020, in presenza 
di 
Decreto presidenziale 
di 
accoglimento, non richiede 
la 
richiesta 
congiunta 
delle 
parti 
di 
mandare 
in decisione 
l’istanza 
cautelare, ma 
prevede 
che 
“il 
collegio definisce 
la 
fase 
cautelare 
secondo quanto previsto dal 
presente 
comma 
(sulla 
base 
degli 
atti), salvo che 
entro il 
termine 
di 
cui 
al 
precedente 
periodo (2 gg. liberi 
prima 
della 
camera 
di 
consiglio) una 
delle 
parti 
su 
cui incide la misura cautelare depositi un'istanza di rinvio”; 
Ritenuto che 
dagli 
atti 
istruttori 
(rapporti 
della 
Tenenza 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
di 
(OMISSIS) 
del 
(OMISSIS) e 
del 
(OMISSIS), rapporto DIA 
del 
(OMISSIS)) emergono indizi 
plurimi 
e 
concordanti 
a 
carico 
di 
(OMISSIS) 
che 
fanno 
ritenere 
“una 
continua 
ed 
assidua 
frequentazione 
con 
elementi 
di 
spicco 
e 
fiancheggiatori 
della 
cosca 
dominante 
in 
(OMISSIS)” 
(cfr. 
sentenza 
n. 
(OMISSIS) 
della 
Corte 
d’Appello di 
Catanzaro, in data 
(OMISSIS)) e 
che 
non può escludersi 
un ruolo 
centrale 
dello stesso nella 
direzione 
e 
gestione 
dell’attività 
delle 
società 
in epigrafe, sebbene 
ufficialmente 
legale 
rappresentante 
sia 
la 
coniuge, cosicché 
appare 
attendibile 
il 
giudizio di 
pericolosità formulato con l’informativa antimafia impugnata; 
Ritenuto 
che 
la 
certificazione 
antimafia 
è 
stata 
legittimamente 
richiesta 
dal 
Comune 
di 
(OMISSIS) 
al 
fine 
di 
verificare 
il 
possesso dei 
requisiti 
al 
fine 
di 
rigettare 
la 
SCIA 
e 
le 
autorizzazioni 
amministrative 
richieste 
in 
relazione 
alle 
attività 
commerciali 
(veridicità 
dell’autodichiarazione 
circa 
la 
non sussistenza 
di 
cause 
di 
decadenza 
ex art. 67 codice 
antimafia, ovvero applicazione 
di misure di prevenzione) ex artt. 84, comma 3, e 91 cod. antimafia; 
Ritenuto, ancora, che 
l'art. 89, comma 
2, del 
D.lgs. n. 159 del 
2011 prevede 
espressamente, 
alla 
lett. 
a), 
che 
l'autocertificazione 
resa 
dell'interessato, 
che 
nei 
propri 
confronti 
non 
sussistono 
le 
cause 
di 
divieto, di 
decadenza 
o di 
sospensione, di 
cui 
all'art. 67, riguarda 
anche 
"attività 
private, 
sottoposte 
a 
regime 
autorizzatorio, 
che 
possono 
essere 
intraprese 
su 
segnalazione 
certificata 
di 
inizio attività 
da 
parte 
del 
privato alla 
Pubblica 
amministrazione” 
(cfr. sez. III, 20 
gennaio 2020, n. 452); 
Considerato che 
per tali 
ragioni 
non sussiste 
il 
richiesto fumus 
boni 
iuris 
per l’accoglimento 
dell’appello cautelare; 
Ritenuto, infine, di 
dover condannare 
la 
parte 
appellante 
alle 
spese 
della 
presente 
fase 
cautelare, 
liquidandole come da dispositivo; 


P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), respinge 
l'appello (Ricorso numero: 
3373/2020). 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Condanna 
la 
parte 
appellante 
alle 
spese 
della 
presente 
fase 
cautelare, 
liquidandole 
in 
euro 
3.000, oltre accessori di legge, in favore delle 
Amministrazioni resistenti, in parti uguali. 
La 
presente 
ordinanza 
sarà 
eseguita 
dall'Amministrazione 
ed 
è 
depositata 
presso 
la 
Segreteria 
della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. 
Ritenuto che 
sussistano i 
presupposti 
di 
cui 
all'art. 52, comma 
1 D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 
196, 
a 
tutela 
dei 
diritti 
o 
della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento delle 
generalità 
nonché 
di 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare 
le 
appellanti 
e le altre parti private. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2020. 


CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Diniego di rinnovo di porto d’armi: 
l’automatismo preclusivo dell’art. 43 t.U.l.P.s. 
e la rilevanza della declaratoria di riabilitazione 
(*) 


ConSiglio 
di 
STaTo, Sezione 
Terza, SenTenza 
1 giugno 
2020 n. 3452 


La 
favorevole 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
1° 
giugno 
2020, 
n. 
3452 
ha 
respinto 
l’appello 
avversario, 
in 
materia 
di 
diniego 
di 
rinnovo 
di 
porto 
d’armi, alla 
luce 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 109/2019 che, in 
fattispecie 
del 
tutto analoga 
di 
soggetto condannato per furto e 
poi 
riabilitato, 
ha 
dichiarato in parte 
inammissibile 
e 
in parte 
infondata 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
43, 
comma 
1 
TuLPS 
in 
relazione 
all’art. 
3 
Cost. 
nella 
parte 
in cui 
attribuisce 
automatica 
efficacia 
preclusiva 
al 
rilascio della 
licenza 
di 
porto 
d’armi 
alla 
condanna 
per 
determinati 
reati 
ritenuti 
sintomatici 
dell’inaffidabilità del soggetto nell’uso delle armi, quali il furto. 


Il 
Consiglio di 
Stato ha 
inoltre 
ritenuto legittimo il 
provvedimento di 
diniego 
di 
rinnovo 
della 
licenza 
-considerando 
irrilevante 
il 
precedente 
erroneo 
rilascio della 
licenza 
in presenza 
della 
medesima 
condanna 
-in base 
al 
principio 
del 
tempus 
regit 
actum, atteso che 
il 
provvedimento impugnato è 
stato 
emesso 
prima 
dell’intervenuta 
riabilitazione 
e 
prima 
dello 
stesso 
d.lgs. 
n. 
104/2018 che 
-nel 
modificare 
il 
secondo comma 
dell’art. 43 TuLPS 
-ha 
attribuito 
una 
possibile 
rilevanza, ai 
fini 
del 
rilascio della 
licenza, alla 
dichiarazione 
di riabilitazione. 


Si riporta integralmente la memoria defensionale. 

CT 21479/19 avv. Ferrante 


AvvOCATuRA GENERALE DELLO STATO 


CONSIGLIO DI STATO 


IN SEDE GIuRISDIzIONALE 


SEz. III - R.G. 4284/2019 - uDIENzA 21.5.2020 


MEMORIA DIFENSIvA 


Per il 
MINISTERO 
DELL’INTERNO 
(C.F. 97149560589) in persona 
del 
Ministro pro tempore, 
rappresentato e 
difeso dall’Avvocatura 
Generale 
dello Stato (C.F. 80224030587) per il 
ricevimento degli 
atti, FAX 
06/96514000 e 
PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it 
presso i 
cui uffici è per legge domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12 


C O NT R O 
(OMISSIS), come in atti rappresentato e difeso 
* * * 
Con ricorso al 
T.A.R. Calabria 
ritualmente 
notificato, il 
ricorrente 
ha 
impugnato, chiedendone 
l’annullamento previa 
sospensione, il 
decreto del 
Questore 
di 
Cosenza 
di 
rigetto del 


(*) Segnalazione avv. St. Wally Ferrante. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


rinnovo del 
porto d’armi 
per uso tiro a 
volo del 
22.4.2016 (OMISSIS), nonché 
gli 
atti 
connessi, 


presupposti e conseguenziali. 


Il 
TAR, con la sentenza del 31.10.2018, (OMISSIS), ha respinto il ricorso. 


L’appello avversario è infondato per i seguenti motivi in 


FATTO 
Il 
Sig. (OMISSIS) presentava 
istanza 
diretta 
ad ottenere 
il 
rinnovo della 
licenza 
di 
porto 
di fucile uso tiro a volo. 
Nel 
corso dell’istruttoria 
all’uopo espletata 
è 
emerso che, nei 
confronti 
del 
richiedente, 
in data 
16.12.1999, è 
stata 
emessa 
una 
sentenza 
da 
parte 
della 
Corte 
d’Appello di 
Catanzaro 


-divenuta 
irrevocabile 
il 
20.10.2000 -con conseguente 
condanna 
a 
giorni 
20 di 
reclusione 
ed 
al pagamento di € 30,99 (Lire 60.000) di multa. 
Il 
ricorrente 
si 
è 
reso responsabile 
del 
reato di 
tentato furto aggravato in concorso (artt. 
625 nr. 7 e 
62 bis 
c.p.); 
inoltre 
è 
emerso che 
lo stesso richiedente, in data 
09.06.1997, è 
stato 
deferito 
in 
stato 
di 
libertà 
alla 
competente 
Autorità 
Giudiziaria 
da 
parte 
dei 
Carabinieri 
di 
(OMISSIS), 
a 
seguito 
di 
querela, 
successivamente 
rimessa 
dalla 
controparte, 
poiché 
ritenuto 
responsabile 
di minaccia e lesioni personali. 

Dunque, 
alla 
luce 
di 
quanto 
sopra, 
veniva 
data 
comunicazione 
di 
avvio 
del 
procedimento 
amministrativo 
diretto 
all’eventuale 
diniego 
del 
rilascio 
del 
titolo 
richiesto, 
mediante 
atto 
notificato 
all’interessato per il tramite della Stazione Carabinieri di (OMISSIS). 

Dopo la 
notifica 
dell’avvio del 
procedimento, il 
ricorrente 
non presentava 
memorie 
difensive 
o altri 
scritti 
e, pertanto, l’istanza 
del 
Sig. (OMISSIS) veniva 
respinta 
con il 
decreto impugnato 
nel presente giudizio. 


DIRITTO 


1. Con il 
primo motivo di 
appello, controparte 
censura 
la 
decisione 
del 
TAR nella 
parte 
in 
cui, 
a 
fronte 
della 
contestazione 
di 
un 
reato 
ostativo 
al 
rilascio 
del 
porto 
d’armi 
ai 
sensi 
dell’art. 43, comma 
1, lett 
a) TuLPS, ha 
motivato in relazione 
alla 
valutazione 
di 
tipo prognostico 
che 
deve 
effettuare 
l’amministrazione, 
nell’ambito 
dei 
propri 
poteri 
discrezionali, 
in 
merito alla 
possibilità 
che 
l’istante 
sia 
capace 
di 
abusare 
delle 
armi 
e 
in ordine 
all’assenza 
del 
requisito della buona condotta. 
La 
censura 
è 
inammissibile 
(prima 
ancora 
che 
infondata) per carenza 
di 
interesse 
a 
censurare 
detta statuizione del 
TAR. 


Infatti, se 
è 
pacificamente 
riconosciuto dalla 
legge 
(art. 10, art. 11, comma 
2, art. 43, 
comma 
2 
TuLPS) 
e 
dalla 
giurisprudenza 
il 
potere 
dell’amministrazione 
di 
valutare 
il 
pericolo 
di 
abuso del 
titolo e 
l’assenza 
della 
buona 
condotta 
(che 
può anche 
prescindere 
dalla 
commissione 
di 
reati) a 
maggior ragione, tale 
valutazione 
può e 
deve 
esser fatta 
qualora 
venga 
commesso un reato ostativo ai 
sensi 
dell’art. 43, comma 
1, lett. a) dello stesso TuLPS, quale 
il 
furto, che 
viene 
considerato dal 
Legislatore 
come 
necessariamente 
sintomatico di 
tale 
pericolo 
di abuso. 


La censura è comunque infondata. 

Nessun vizio di 
motivazione 
è 
infatti 
ravvisabile 
nella 
sentenza 
del 
TAR laddove 
fa 
riferimento 
al 
potere 
dell’amministrazione 
di 
vietare 
la 
detenzione 
di 
armi 
in assenza 
del 
requisito 
della 
buona 
condotta 
atteso 
che 
nel 
provvedimento 
impugnato 
si 
fa 
espressa 
menzione 
del 
fatto che 
la 
“sentenza 
di 
condanna 
influisce 
sul 
prerequisito della 
buona 
condotta, essenziale 
ai fini del rilascio di un titolo in materia di armi”. 


2. Con il 
secondo motivo di 
appello, il 
ricorrente 
lamenta 
la 
risalenza 
del 
reato per il 
quale 
ha 
subito condanna, si 
duole 
della 
mancata 
considerazione 
dell’avvenuta 
riabilitazione 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


e 
lamenta 
il 
fatto che 
il 
precedente 
penale 
per tentato furto aggravato in concorso e 
il 
deferimento 
per minaccia 
e 
lesioni 
personali 
siano stati 
considerati 
solo in sede 
di 
rinnovo della 
licenza 
di porto d’armi e non anche per il rilascio pur essendo precedenti a quest’ultimo. 


Tutte le censure sono destituite di fondamento. 


va 
ricordato 
che, 
per 
giurisprudenza 
consolidata, 
“le 
condanne 
di 
cui 
all’art. 
43, 
comma 1, lett. a) del 
R.D. n. 733/1931 costituiscono causa automatica ostativa al 
rilascio 


o al 
rinnovo della licenza di 
porto d’armi, anche 
in 
caso di 
estinzione 
del 
reato e 
di 
riabilitazione, 
a 
nulla 
rilevando 
il 
lungo 
tempo 
trascorso 
dalla 
commissione 
del 
fatto” 
(Cons. 
Stato, sez. III, 9 novembre 
2016, n. 4656; 
id., 20 ottobre 
2016, n. 4390, id., 14 ottobre 
2016, 
n. 4262; 
id., 5 luglio 2016, n. 2992; 
id., 31 maggio 2016, n. 2312; 
18 maggio 2016, n. 2019; 
TAR Marche, 5 dicembre 2016, n. 700; id., 3 novembre 2016, n. 617). 
Il 
criterio dirimente 
che 
ha 
portato la 
Questura 
a 
negare 
il 
rinnovo del 
porto d’armi 
al 
ricorrente si basa sulla revisione critica del giudizio di affidabilità precedentemente reso. 
Il 
fatto 
che 
l’Amministrazione 
locale 
di 
pubblica 
sicurezza 
abbia 
in 
precedenza 
rilasciato 
il 
titolo 
non 
radica 
il 
diritto 
ad 
ottenere 
il 
rinnovo 
del 
porto 
d’armi 
tenuto 
conto 
che 
la 
revisione 
del 
giudizio di 
affidabilità 
è 
avvenuta 
in attuazione 
della 
Circolare 
del 
Ministero dell’Interno 
del 
28 
novembre 
2014, 
n. 
557/LEG7225.00, 
deputato 
ad 
adottare 
linee 
di 
indirizzo 
applicabili 
a 
livello nazionale 
nella 
tutela 
dell’ordine 
e 
della 
sicurezza 
pubblica, proprio alla 
luce 
di 
gravissimi 
fatti 
di 
sangue 
che 
sono 
stati 
compiuti 
con 
le 
armi 
e 
di 
cui 
era 
stato 
autorizzato 
il 
porto. 


In questa 
chiave 
interpretativa, la 
Questura 
di 
Cosenza 
ha 
ritenuto che 
il 
Sig. (OMISSIS), 
anche 
in 
forza 
dei 
precedenti 
penali 
e 
di 
polizia 
esistenti 
a 
suo 
carico, 
non 
desse 
garanzia 
piena e incondizionata di affidabilità a portare le armi. 


La 
Questura 
ha 
pertanto doverosamente 
dato attuazione 
alla 
suddetta 
Circolare, espressamente 
richiamata nel provvedimento impugnato. 


Il 
recente 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato n. 01620/2016 relativo alla 
obbligatorietà 
di 
negare 
o 
revocare 
le 
licenze 
di 
porto 
d’armi 
a 
soggetti 
che 
hanno 
subito 
condanne 
per 
reati 
ostativi, 
previsti 
dagli 
artt. 
11 
e 
43 
T.u.l.p.s., 
è 
stato 
recepito 
dal 
Dipartimento 
della 
Pubblica 
Sicurezza nella richiamata Circolare. 

Con detto atto di 
indirizzo, il 
Ministero dell’Interno, confidando nella 
puntuale 
osservanza 
delle 
indicazioni 
contenute 
nello 
stesso, 
ha 
evidenziato 
i 
principi 
di 
diritto 
affermati 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
sottolineando, 
in 
particolare, 
che 
“a 
chi 
è 
stato 
condannato 
per 
i 
reati 
previsti 
come 
preclusivi 
dal 
citato 
art. 
43, 
non 
può 
essere 
rilasciata, 
e 
dev’essere 
revocata 
se 
sia 
stata 
rilasciata, 
la 
licenza 
di 
porto 
d’armi 
senza 
che 
possa 
aver 
rilievo 
la 
conseguita 
riabilitazione”. 


Infatti, 
il 
giudizio 
di 
affidabilità 
richiesto 
dalla 
legge 
per 
dare 
la 
possibilità 
ad 
un 
soggetto 
di 
portare 
armi 
è 
sicuramente 
diverso 
da 
quello 
necessario 
alla 
concessione 
della 
riabilitazione. 
La 
riabilitazione 
riguarda 
solo gli 
aspetti 
penali 
e 
le 
vicende 
connesse, tant’è 
che, e 
non è 
un 
caso, il 
Consiglio di 
Stato ha 
precisato, nel 
parere 
sopra 
citato, che 
anche 
in presenza 
di 
riabilitazione, 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
ha 
i1 
dovere 
di 
revocare 
o 
negare 
il 
rilascio 
del 
titolo 
autorizzativo, in quanto la 
riabilitazione 
estingue 
soltanto gli 
effetti 
penali 
della 
condotta 
e 
non già quelli previsti da norme speciali, come gli artt. 11 e 43 T.u.l.p.s. 


Tali 
principi 
sono stati 
poi 
confermati 
dal 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
con 
le sentenze sopra richiamate. 


3. Con il 
terzo motivo di 
appello, il 
ricorrente 
chiede 
sollevarsi 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale dell’art. 43, comma 1 TuLPS per asserita violazione dell’art. 3 Cost. 
Anche tale motivo è infondato. 



RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Come 
noto, la 
Corte 
costituzionale 
ha 
da 
tempo chiarito che 
«il 
porto d’armi 
non costituisce 
un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione 
al 
normale 
divieto di 
portare 
le 
armi 
e 
che 
può divenire 
operante 
soltanto nei 
confronti 
di 
persone 
riguardo alle 
quali 
esista 
la 
perfetta 
e 
completa 
sicurezza 
circa 
il 
“buon uso” 
delle 
armi 
stesse»; 
e 
ha 
osservato, altresì, 
che 
dalla 
«eccezionale 
permissività 
del 
porto d’armi 
e 
dai 
rigidi 
criteri 
restrittivi 
regolatori 
della 
materia 
deriva 
che 
il 
controllo dell’autorità 
amministrativa 
deve 
essere 
più penetrante 
rispetto al 
controllo che 
la 
stessa 
autorità 
è 
tenuta 
ad effettuare 
con riguardo a 
provvedimenti 
permissivi 
di 
tipo diverso, talora 
volti 
a 
rimuovere 
ostacoli 
a 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
di cui sono titolari i richiedenti» (sentenza n. 44 del 1993). 


Con 
recente 
pronuncia, emessa in 
fattispecie 
del 
tutto analoga di 
soggetto condannato 
per 
furto 
e 
poi 
riabilitato, 
la 
Corte 
costituzionale, 
con 
la 
sentenza 
del 
20 
marzo 
2019, n. 109, ha dichiarato in 
parte 
inammissibile 
e 
in 
parte 
infondata la questione 
di 
legittimità costituzionale 
dell’art. 43, comma 1 tUlPs 
in 
relazione 
all’art. 3 Cost. affermando 
che 
“proprio in ragione 
dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale 
italiano, di 
un diritto di 
portare 
armi, deve 
riconoscersi 
in linea 
di 
principio un ampio margine 
di 
discrezionalità 
in capo al 
legislatore 
nella 
regolamentazione 
dei 
presupposti 
in presenza 
dei 
quali 
può essere 
concessa 
al 
privato la 
relativa 
licenza, nell’ambito di 
bilanciamenti 
che 
-entro il 
limite 
della 
non manifesta 
irragionevolezza 
-mirino a 
contemperare 
l’interesse 
dei 
soggetti 
che 
richiedono la 
licenza 
di 
porto d’armi 
per motivi 
giudicati 
leciti 
dall’ordinamento e 
il 
dovere 
costituzionale 
di 
tutelare, da 
parte 
dello Stato, la 
sicurezza 
e 
l’incolumità 
pubblica 
(su 
tale 
dovere, ex 
plurimis, sentenze 
n. 115 del 
1995, n. 218 del 
1988, n. 4 del 
1977, n. 31 del 
1969 e 
n. 2 del 
1956): 
beni, questi 
ultimi, che 
una 
diffusione 
incontrollata 
di 
armi 
presso i 
privati 
potrebbe 
porre 
in grave 
pericolo, e 
che 
pertanto il 
legislatore 
ben può decidere 
di 
tutelare 
anche 
attraverso la 
previsione 
di 
requisiti 
soggettivi 
di 
affidabilità 
particolarmente 
rigorosi 
per chi intenda chiedere la licenza di portare armi. 


non 
può, di 
conseguenza, ritenersi 
manifestamente 
irragionevole 
una disciplina, 
pur 
particolarmente 
severa come 
quella ora all’esame, che 
sancisce 
un 
divieto assoluto 
di 
concessione 
della licenza di 
porto d’armi 
anche 
nei 
confronti 
di 
chi 
sia stato condannato 
per 
furto e 
abbia ottenuto la riabilitazione, dal 
momento che 
tale 
delitto comporta 
pur 
sempre 
una diretta aggressione 
ai 
diritti 
altrui, che 
pregiudica in 
maniera significativa 
la sicurezza pubblica e 
al 
tempo stesso rivela una grave 
mancanza di 
rispetto delle 
regole basilari della convivenza civile da parte del suo autore”. 


Le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dedotte 
debbono 
quindi 
ritenersi 
manifestamente 
infondate. 


4. Con il 
quarto motivo di 
appello, la 
controparte 
deduce, in subordine, ove 
si 
dovesse 
ritenere 
infondato il 
motivo sub 1, l’insufficente 
e 
contraddittoria 
motivazione 
della 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in cui 
ha 
ritenuto congruo il 
giudizio di 
non affidabilità 
compiuto dal-
l’amministrazione. 
Anche tale motivo è infondato. 


A 
ben vedere, il 
ricorrente 
risulta 
condannato in concorso con altre 
persone 
nel 
delitto 
di tentato furto. 


È 
stato 
inoltre 
denunciato 
per 
minaccia 
e 
lesioni 
personali. 
In 
tale 
condotta, 
prescindendo 
dal 
venir meno dell'accertamento giurisdizionale 
della 
sua 
responsabilità 
penale, per revoca 
della querela, emerge in modo evidente il pericolo di abuso delle armi. 


Tali 
precedenti 
dimostrano un’attitudine 
non occasionale 
a 
comportamenti 
devianti 
che 
non possono indurre a ritenere sussistente l’affidabilità piena dell’istante. 



CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Il 
provvedimento impugnato deve 
ritenersi 
pertanto pienamente 
legittimo e 
conforme 
alla normativa e alla giurisprudenza di settore. 
Tutto ciò premesso, l’amministrazione in epigrafe, come sopra rappresentata e difesa 
ChIEDE 
che 
il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale, voglia 
respingere 
l’appello perché 
infondato, 
con il favore delle spese. 
Roma, 20 aprile 2020 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 


Consiglio di 
stato, sezione 
terza, sentenza 1 giugno 2020 n. 3452 -pres. F. Frattini, est. 


P. De Berardinis - (OMISSIS) (avv. F. D’Elia) c. Ministero Interno (avv. gen. St.). 
FATTO 
Con ricorso al 
T.A.R. per la 
Calabria 
-Catanzaro, R.G. n. (OMISSIS) il 
sig. (OMISSIS) ha 
impugnato 
il 
decreto del 
Questore 
di 
Cosenza 
Div. P.A.S.- Cat. (OMISSIS) del 
22 aprile 
2016, contenente 
il 
rigetto 
della 
sua 
istanza 
di 
rinnovo 
della 
licenza 
di 
porto 
di 
fucile 
per 
uso 
tiro 
a 
volo, 
chiedendone l’annullamento. 
L’appellante 
lamenta 
che, dopo aver ottenuto la 
licenza 
di 
porto di 
fucile 
per uso tiro a 
volo 
nel 
2008, si 
è 
visto respingere 
dal 
Questore 
di 
Cosenza 
l’istanza 
di 
rinnovo con il 
provvedimento 
impugnato. 
Quest’ultimo 
si 
è 
basato 
sull’esistenza, 
a 
carico 
del 
richiedente, 
di 
una 
sentenza 
di 
condanna, 
divenuta 
irrevocabile 
il 
20 
ottobre 
2000, 
a 
giorni 
20 
di 
reclusione 
ed 
€ 
30,99 
di 
multa 
per 
il 
delitto 
di 
tentato 
furto 
aggravato 
in 
concorso 
(art. 
625, 
n. 
7, 
c.p.), 
nonché 
sul 
deferimento del 
medesimo richiedente 
all’autorità 
giudiziaria 
eseguito il 
9 giugno 1997 
dal 
Comando 
Carabinieri 
di 
(OMISSIS) 
(CS) 
per 
i 
reati 
di 
minaccia 
e 
lesioni 
personali, 
a 
seguito 
della proposizione di querela, successivamente rimessa. 
La 
condanna 
per furto -sottolinea 
il 
decreto questorile 
-è 
ostativa 
al 
rilascio della 
licenza 
di 
porto d’armi ai sensi dell’art. 43, primo comma, lett. a), del r.d. n. 773/1931, cd. T.u.L.P.S. 
A 
supporto dell’impugnazione 
il 
ricorrente 
ha 
dedotto, con un unico motivo, i 
vizi 
di 
eccesso 
di potere per carenza di istruttoria e contraddittorietà estrinseca della motivazione. 
Si 
sono 
costituiti 
in 
giudizio 
il 
Ministero 
dell’Interno 
e 
la 
Questura 
di 
Cosenza, 
ribadendo 
l’assunto 
-contenuto 
nel 
decreto 
del 
Questore 
-circa 
l’automatismo 
preclusivo 
derivante 
dalla 
condanna per furto, ai sensi dell’art. 43 del 
T.u.L.P.S. 
Con sentenza 
n. (OMISSIS) del 
31 ottobre 
2018 il 
Tribunale 
adito ha 
respinto il 
ricorso, ritenendolo 
infondato. 
In particolare, il 
T.A.R. ha 
giudicato legittimo il 
diniego di 
rinnovo della 
licenza 
di 
porto di 
fucile 
per uso tiro a 
volo, richiesto dall’interessato, per essere 
costui 
privo del 
requisito della 
buona condotta, in ragione della suvvista condanna per tentato furto aggravato in concorso. 
Avverso 
detta 
sentenza 
il 
sig. 
(OMISSIS) 
propone 
appello 
con 
il 
ricorso 
in 
epigrafe, 
chiedendo 
che 
la 
stessa 
sia 
riformata 
e 
che, 
pertanto, 
venga 
accolto 
il 
ricorso 
da 
lui 
presentato 
in 
primo 
grado. 
A supporto dell’impugnazione, l’appellante formula i seguenti motivi: 


1) violazione 
e 
falsa applicazione 
dell’art. 43 T.u.l.p.S., in quanto il 
T.A.R. avrebbe 
oltrepassato 
la 
motivazione 
del 
decreto impugnato, riconducendo la 
fattispecie 
all’ambito applicativo 
dell’art. 43, secondo comma, T.u.L.P.S.; 
2) 
eccesso 
di 
potere 
per 
carenza 
di 
istruttoria 
e 
contraddittorietà 
estrinseca 
della 
motivazione, 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


poiché 
l’interpretazione 
costituzionalmente 
orientata 
dell’art. 
43 
T.u.L.P.S., 
fatta 
propria 
dalla 
più recente 
giurisprudenza, porterebbe 
ad escludere 
che 
tale 
norma 
abbia 
l’automatismo preclusivo 
che il decreto impugnato ha preteso di riconnettervi; 


3) nel 
caso in cui 
il 
Collegio ritenesse 
tuttora 
vigente 
l’automatismo preclusivo dell’art. 43, 
comma 
1, T.u.L.P.S., il 
sig. (OMISSIS) ha 
chiesto che 
venga 
sollevata 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
predetta 
disposizione 
per violazione 
dei 
principi 
di 
uguaglianza, proporzionalità 
e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; 
4) motivazione 
insufficiente 
e 
contraddittoria, in quanto, da 
un lato, la 
sentenza 
impugnata 
si 
porrebbe 
in contraddizione 
con i 
principi 
da 
essa 
stessa 
richiamati; 
dall’altro, il 
T.A.R. non 
avrebbe tenuto nella dovuta considerazione le circostanze del caso concreto. 
(...) 
Si 
è 
costituito in giudizio il 
Ministero dell’Interno, depositando memoria 
difensiva 
e 
concludendo 
per la reiezione dell’appello. 
In data 
6 aprile 
2020 il 
sig. (OMISSIS) ha 
presentato istanza 
per l’autorizzazione 
al 
deposito 
tardivo di 
un documento e, in specie, della 
declaratoria 
di 
riabilitazione 
emessa 
a 
suo favore 
il 22 ottobre 2019 dal 
Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro. 
All’udienza 
del 
21 maggio 2020, svoltasi 
con le 
modalità 
di 
cui 
all’art. 84, commi 
5 e 
6, del 
d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con l. 24 aprile 
2020, n. 27, la 
causa 
è 
stata 
trattenuta 
in decisione. 
DIRITTO 
Forma 
oggetto dell’appello la 
sentenza 
del 
T.A.R. Calabria 
-Catanzaro, Sez. II, n. (OMISSIS) 
del 
31 ottobre 
2018, con cui 
è 
stato respinto il 
ricorso proposto dall’odierno appellante, sig. 
(OMISSIS), 
nei 
confronti 
del 
decreto 
del 
Questore 
di 
Cosenza 
recante 
rigetto 
dell’istanza 
di 
rinnovo 
del porto di fucile per uso tiro a volo. 
Il 
diniego 
questorile, 
emesso 
il 
22 
aprile 
2016, 
richiama 
a 
proprio 
fondamento 
l’art. 
43 
T.u.L.P.S., 
il 
quale, 
alla 
lett. 
a) 
del 
primo 
comma, 
prescrive 
il 
divieto 
di 
porto 
d’armi 
per 
quanti 
abbiano riportato una 
condanna 
per taluni 
delitti 
non colposi, tra 
cui 
il 
furto: 
ciò -nel 
testo 
dell’art. 
43 
T.u.L.P.S. 
in 
vigore 
al 
tempo 
dell’adozione 
del 
diniego 
-senza 
lasciare 
spazio 
alla 
discrezionalità 
valutativa 
della 
P.A. e 
senza 
che 
potessero rilevare 
l’estinzione 
del 
reato 


o la riabilitazione. 
Nel 
senso dell’automatismo preclusivo da 
riconoscere 
alla 
condanna 
subita 
dal 
sig. (OMISSIS) 
-aggiunge 
il 
provvedimento 
-depone 
una 
circolare 
del 
Ministero 
dell’Interno 
del 
28 
novembre 
2014, la 
quale 
ha 
recepito il 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato, Sez. I, n. 3257/2014 del 
16 luglio 
2014, reso sulla corretta interpretazione del citato art. 43. 
Sul 
punto si 
ricorda 
sin da 
subito che 
una 
diversa 
soluzione, volta 
ad attribuire 
una 
possibile 
rilevanza 
alla 
dichiarazione 
di 
riabilitazione, è 
stata 
successivamente 
introdotta 
dal 
d.lgs. n. 
104/2018, che ha in tal senso modificato il secondo comma dell’art. 43 T.u.L.P.S. 
La 
sentenza 
di 
primo grado -sintetica 
nel 
suo apparato motivazionale 
-si 
è 
fondata 
sul 
consolidato 
indirizzo, 
secondo 
cui 
il 
rilascio 
del 
porto 
d’armi 
ha 
natura 
eccezionale, 
sicché 
l’esame 
delle 
relative 
richieste, rimesso all’Autorità 
di 
P.S., deve 
essere 
improntato a 
particolare 
rigore 
circa 
il 
giudizio 
di 
totale 
affidabilità 
nell’uso 
delle 
armi. 
Il 
diniego 
si 
giustifica 
non 
solo 
per 
la 
capacità 
di 
abusare 
delle 
armi, 
ma 
anche 
per 
la 
mancanza 
del 
requisito 
della 
buona 
condotta, in relazione 
alla 
commissione 
di 
fatti 
anche 
estranei 
alla 
gestione 
delle 
armi, che 
comunque 
rendano il 
soggetto non meritevole 
di 
ottenere 
o di 
mantenere 
la 
licenza 
di 
polizia: 
e 
tale 
è 
la 
situazione 
del 
sig. 
(OMISSIS), 
in 
quanto 
gravato 
da 
una 
condanna 
definitiva 
per 
tentato 
furto aggravato in concorso. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Con il 
primo motivo di 
appello il 
richiedente 
censura 
la 
sentenza 
del 
T.A.R. per avere 
essa 
ricondotto 
-erroneamente, a 
suo avviso -la 
fattispecie 
esaminata 
al 
secondo comma 
dell’art. 
43 T.u.L.P.S. (che 
prevede 
la 
possibilità 
per la 
P.A. di 
ricusare 
la 
licenza 
di 
porto d’armi 
a 
chi 
non può provare 
la 
buona 
condotta 
e 
non dà 
affidamento di 
non abusare 
delle 
armi), mentre 
il 
provvedimento impugnato l’ha 
ricondotta 
alla 
lett. a) del 
primo dell’art. 43 cit. (che 
elenca 
il furto tra i reati ostativi al rilascio della licenza). 
Con il 
secondo motivo il 
sig. (OMISSIS) ripropone 
censure 
ed argomentazioni 
già 
formulate 
nel ricorso di primo grado e precisamente: 


1) la 
tenuità 
del 
reato per cui 
egli 
è 
stato condannato (tentato furto di 
grappoli 
d’uva), dimostrata, 
del resto, dalla misura della condanna (20 giorni di reclusione ed € 30,99 di multa); 
2) il carattere risalente della vicenda (la denuncia è stata fatta 19 anni prima del ricorso); 
3) la 
circostanza 
che 
la 
condanna 
fosse 
già 
nota 
all’Autorità 
di 
P.S. al 
tempo del 
rilascio del 
porto 
d’armi 
e 
tuttavia 
non 
fosse 
stata 
considerata 
ostativa 
al 
suddetto 
rilascio, 
mentre 
in 
sede 
di diniego di rinnovo la P.A. non avrebbe spiegato le ragioni del suo “revirement”; 
4) il 
fatto che 
la 
denuncia 
per minaccia 
e 
lesioni 
personali 
non sia 
mai 
sfociata 
in un procedimento 
penale; 
5) l’utilizzo delle 
armi 
da 
parte 
sua 
per anni 
dopo la 
condanna 
penale, con il 
ché 
egli 
avrebbe 
dato la prova in concreto di non abusarne. 
Con il 
terzo motivo egli 
richiama 
le 
ordinanze 
del 
T.A.R. Toscana, Sez. II, 16 gennaio 2018, 
n. 56 e 
del 
T.A.R. Friuli 
venezia 
Giulia, Sez. I, 11 giugno 2018, n. 190, che 
hanno sollevato 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 43 T.u.L.P.S.; 
invoca, poi, un recente 
indirizzo 
giurisprudenziale, che, muovendo da 
taluni 
precedenti 
di 
questa 
Sezione, offre 
un’interpretazione 
costituzionalmente 
orientata 
del 
predetto art. 43, volta 
ad escludere 
l’esistenza 
di 
un automatismo assoluto nel 
caso di 
condanna 
per uno dei 
reati 
indicati 
dalla 
norma 
e 
ad 
ancorare 
la 
valutazione 
della 
P.A. sul 
diniego di 
porto d’armi 
a 
vicende 
che, per la 
loro collocazione 
temporale, esprimano con concretezza ed attualità l’inaffidabilità della persona. 
In 
alternativa 
all’adesione 
a 
tale 
ultima 
impostazione, 
l’appellante 
chieda 
che 
sia 
sollevata 
questione 
di 
costituzionalità 
dell’art. 
43 
T.u.L.P.S., 
per 
gli 
stessi 
profili 
già 
evidenziati 
dal 
T.A.R. Toscana e dal 
T.A.R. Friuli 
venezia Giulia nelle ordinanze sopra riportate. 
Infine, con il 
quarto motivo lamenta 
che 
il 
T.A.R., nel 
trarre 
le 
conclusioni 
circa 
la 
meritevolezza 
o meno dello stesso richiedente 
di 
ottenere 
il 
rinnovo del 
porto d’armi, non avrebbe 
tenuto 
nella dovuta considerazione le circostanze del caso concreto. 
In 
data 
6 
aprile 
2020 
l’appellante 
ha 
depositato 
il 
decreto 
del 
Tribunale 
di 
Sorveglianza 
di 
Catanzaro del 
17 ottobre 
2019 (dunque 
successivo al 
diniego impugnato), che 
dichiara 
la 
sua 
riabilitazione dalla condanna penale riportata. 
L’Avvocatura 
dello 
Stato 
produce 
memoria 
con 
cui 
eccepisce 
l’integrale 
infondatezza 
del-
l’appello, 
richiamando 
in 
particolare 
la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
109 
del 
20 
marzo 
2019, che 
ha 
respinto la 
questione 
di 
costituzionalità 
dell’art. 43, primo comma, lett. a), del 
T.u.L.P.S. sollevata dal 
T.A.R. Toscana e dal 
T.A.R. Friuli 
venezia Giulia. 
Così 
riportate 
le 
posizioni 
delle 
parti, ritiene 
il 
Collegio che 
l’appello sia 
infondato e 
debba, 
pertanto, essere respinto. 
In particolare, non può essere 
accolto il 
primo motivo di 
appello, giacché 
-contrariamente 
a 
quanto 
in 
esso 
sostenuto 
-la 
sentenza 
impugnata 
non 
reca 
alcun 
riferimento 
al 
secondo 
comma 
dell’art. 43 T.u.L.P.S., essendosi 
essa 
incentrata 
sulla 
mancanza, in capo al 
richiedente, del 
requisito della buona condotta. 
Al 
riguardo 
ritiene 
il 
Collegio 
che 
sia 
stato 
lo 
stesso 
Legislatore, 
con 
l’aver 
attribuito 
nella 
lett. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


a) 
del 
primo 
comma 
dell’art. 
43 
cit. 
alla 
condanna 
per 
furto 
efficacia 
preclusiva 
al 
rilascio 
della 
licenza 
di 
porto 
d’armi, 
ad 
aver 
individuato 
in 
tale 
condanna 
un’ipotesi 
ex 
lege 
di 
assenza 
della 
buona 
condotta: 
il 
tutto 
in 
base 
ad 
un 
legittimo 
esercizio 
della 
discrezionalità 
legislativa. 
ha osservato, in proposito, la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 109/2019: 
“proprio in ragione 
dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale 
italiano, di 
un diritto 
di 
portare 
armi, deve 
riconoscersi 
in linea di 
principio un ampio margine 
di 
discrezionalità 
in 
capo 
al 
legislatore 
nella 
regolamentazione 
dei 
presupposti 
in 
presenza 
dei 
quali 
può 
essere 
concessa al 
privato la relativa licenza, nell’ambito di 
bilanciamenti 
che 
-entro il 
limite 
della 
non manifesta irragionevolezza -mirino a contemperare 
l’interesse 
dei 
soggetti 
che 
richiedono 
la licenza di 
porto d’armi 
per 
motivi 
giudicati 
leciti 
dall’ordinamento e 
il 
dovere 
costituzionale 
di 
tutelare, 
da 
parte 
dello 
Stato, 
la 
sicurezza 
e 
l’incolumità 
pubblica 
(su 
tale 
dovere, 
ex plurimis, sentenze 
n. 115 del 
1995, n. 218 del 
1988, n. 4 del 
1977, n. 31 del 
1969 e 
n. 2 del 
1956): beni, questi 
ultimi, che 
una diffusione 
incontrollata di 
armi 
presso i 
privati 
potrebbe 
porre 
in grave 
pericolo, e 
che 
pertanto il 
legislatore 
ben può decidere 
di 
tutelare 
anche 
attraverso 
la previsione 
di 
requisiti 
soggettivi 
di 
affidabilità particolarmente 
rigorosi 
per 
chi 
intenda chiedere la licenza di portare armi. 
non può, di 
conseguenza, ritenersi 
manifestamente 
irragionevole 
una disciplina, pur 
particolarmente 
severa 
come 
quella 
ora 
all’esame, 
che 
sancisce 
un 
divieto 
assoluto 
di 
concessione 
della 
licenza 
di 
porto 
d’armi 
anche 
nei 
confronti 
di 
chi 
sia 
stato 
condannato 
per 
furto 
e 
abbia 
ottenuto la riabilitazione 
(qui 
la 
Corte 
costituzionale 
si 
riferisce 
al 
dettato normativo antecedente 
alle 
modifiche 
introdotte 
dal 
d.lgs. n. 104/2018) 
dal 
momento che 
tale 
delitto comporta 
pur 
sempre 
una diretta aggressione 
ai 
diritti 
altrui, che 
pregiudica in maniera significativa 
la sicurezza pubblica e 
al 
tempo stesso rivela una grave 
mancanza di 
rispetto delle 
regole 
basilari della convivenza civile da parte del suo autore”. 


E 
le 
argomentazioni 
ora 
esposte, 
incentrate 
sulla 
gravità 
insita 
nel 
delitto 
di 
furto 
e 
sulla 
valutazione 
di 
assenza 
della 
buona 
condotta 
che 
il 
Legislatore 
riconnette 
alla 
condanna 
per 
tale 
delitto 
-valgono 
a 
dimostrare 
l’infondatezza, 
altresì, 
del 
secondo 
e 
del 
terzo 
motivo 
d’appello. 
Infatti, dette 
argomentazioni 
-che 
supportano la 
legittimità 
dell’automatismo preclusivo stabilito 
dal 
Legislatore 
-superano 
sia 
la 
tenuità 
del 
reato 
commesso 
dal 
sig. 
(OMISSIS), 
sia 
la 
circostanza 
che, 
errando, 
la 
P.A. 
non 
abbia 
considerato 
la 
condanna 
per 
tale 
reato 
come 
ostativa 
al 
rilascio dell’autorizzazione 
di 
polizia, ma 
solo al 
suo rinnovo, sia 
l’utilizzo in concreto che 
delle 
armi 
abbia 
fatto l’interessato dopo il 
rilascio del 
titolo. Né 
rileva 
di 
per sé 
il 
carattere 
risalente 
della 
condanna, 
potendo 
piuttosto 
riconoscersi 
rilevanza 
giuridica, 
nei 
limiti 
di 
seguito 
precisati, all’intervenuta riabilitazione ottenuta dal reo. 
A questo riguardo, mette conto osservare che: 


a) la 
modifica 
normativa 
del 
secondo comma 
dell’art. 43 T.u.L.P.S., che 
consente 
alla 
P.A. di 
tener 
conto 
dell’intervenuta 
riabilitazione, 
è 
stata 
introdotta, 
come 
detto, 
dal 
d.lgs. 
n. 
104/2018, 
entrato in vigore 
il 
14 settembre 
2018 e, quindi, è 
posteriore 
al 
provvedimento impugnato, 
emanato il 22 aprile 2016; 
b) la 
riabilitazione 
ottenuta 
dal 
sig. (OMISSIS), essendo stata 
dichiarata 
nell’ottobre 
2019, è 
a 
propria 
volta 
posteriore 
al 
diniego 
impugnato, 
quindi 
in 
base 
al 
principio 
“tempus 
regit 
actum” 
essa 
è 
irrilevante 
ai 
fini 
della 
valutazione 
della 
legittimità 
del 
medesimo. Ai 
fini 
della 
corretta 
applicazione 
del 
principio “tempus 
regit 
actum”, è 
infatti 
necessario che 
la 
legittimità 
di 
un 
provvedimento 
amministrativo 
sia 
valutata 
al 
momento 
della 
sua 
adozione 
(cfr. 
ex 
multis, 
C.d.S., 
Sez. 
Iv, 
30 
luglio 
2019, 
n. 
5395 
e 
22 
gennaio 
2019, 
n. 
532; 
Sez. 
III, 
22 
novembre 
2017, n. 5443); 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


c) ove 
l’interessato presenti 
una 
nuova 
istanza 
di 
rilascio del 
titolo, l’Autorità 
di 
P.S. dovrà 
valutare 
stavolta 
la 
riabilitazione, alla 
stregua 
del 
nuovo art. 43, secondo comma, T.u.L.P.S., 
come modificato dal d.lgs. n. 104/2018. 
Da 
ultimo, 
è 
infondato 
il 
quarto 
motivo, 
poiché 
l’automatismo 
preclusivo 
derivante 
dalla 
condanna 
per furto non consente 
di 
attribuire 
alle 
circostanze 
del 
caso concreto -per come 
rappresentate 
e 
per 
quanto 
enfatizzate 
dall’appellante 
-quella 
valenza 
che 
egli 
pretende 
di 
riconnettervi. 
In conclusione, l’appello è infondato e deve, perciò, essere respinto. 
Sussistono, comunque, giusti 
motivi 
per disporre 
l’integrale 
compensazione 
tra 
le 
parti 
delle 
spese di lite. 
(...) 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
-Sezione 
Terza 
(III^), così 
definitivamente 
pronunciando 
sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
Compensa le spese. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 
Ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all’art. 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
d.lgs. 
30 
giugno 
2003, 


n. 
196, 
ed 
all’art. 
10 
del 
Regolamento 
(uE) 
2016/679 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio 
del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
e 
della 
dignità 
dell’interessato, manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
ad oscurare 
le 
generalità 
nonché 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare 
l’appellante. 
Così 
deciso in Roma, nella 
camera 
di 
consiglio del 
giorno 21 maggio 2020, tenutasi, ai 
sensi 
dell’art. 84, comma 
6, del 
d.l. 17 marzo 2020, n. 18, mediante 
collegamento da 
remoto in videoconferenza. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Una 
nota 
(ragionata) 
alla 
sentenza 
del 
taR 
Calabria 


n. 
841/2020: 
rapporti 
tra 
stato 
e 
Regioni 
in 
tempo 
di 
Covid-19 
noTa 
a 
Tribunale 
amminiSTraTivo 
regionale 
per 
la 
Calabria, 
Sezione 
prima, SenTenza 
9 maggio 
2020 n. 841 


Nicole Piccozzi* 


Il 
presente 
contributo analizza 
la 
sentenza 
del 
Tribunale 
amministrativo 
regionale 
che 
ha 
annullato, 
su 
ricorso 
del 
Governo, 
l’ordinanza 
amministrativa 
emanata 
dal 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria. 
vengono 
in 
particolare 
esaminate 
le 
seguenti 
questioni: 
il 
microsistema 
delle 
fonti 
che 
si 
è 
sviluppato 
per fronteggiare 
la 
situazione 
emergenziale, la 
questione 
di 
costituzionalità 
in 
merito al 
d.l. n. 19/2020 e 
la 
natura 
giuridica 
dei 
provvedimenti 
emanati 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio per far fronte 
all’emergenza 
Coronavirus. Ci 
si 
occupa, 
infine, del 
principio di 
leale 
collaborazione 
e 
dell’operatività 
del 
principio 
di precauzione nel contesto emergenziale. 

Sommario: 1. premessa. il 
microsistema delle 
fonti 
disegnato dai 
decreti-legge 
n. 6/23 
febbraio 2020 e 
n. 19/25 marzo 2020 -2. la questione 
oggetto di 
giudizio e 
le 
ragioni 
di 
illegittimità 
dell’ordinanza impugnata -3. le 
questioni 
di 
costituzionalità sollevate 
dalla regione 
Calabria 
-4. 
la 
natura 
del 
d.p.C.m 
26 
aprile 
2020 
-5. 
i 
principi 
oggetto 
della 
controversia - 6. Conclusioni. 

1. 
premessa. 
il 
microsistema 
delle 
fonti 
disegnato 
dai 
decreti-legge 
n. 
6/23 
febbraio 2020 e n. 19/25 marzo 2020. 
L’emergenza 
sanitaria 
da 
Covid-19 è 
una 
situazione 
del 
tutto inedita 
per 
il 
nostro ordinamento. Pertanto, si 
è 
resa 
necessaria 
l’adozione 
di 
un sistema 
ad hoc 
(1) volto a 
gestirla 
ed è 
nata 
la 
necessità 
di 
individuare 
con chiarezza 
non solo gli 
strumenti 
di 
cui 
il 
Governo dispone 
per gestire 
una 
simile 
crisi 
(decreti-legge, ordinanze 
di 
necessità, D.P.C.M.) ma 
anche 
gli 
strumenti 
che 
possiedono 
le 
autorità 
periferiche 
(Regioni 
e 
Comuni) 
per 
fronteggiare 
l’emergenza 
(2). 


(*) Laureanda in Giurisprudenza presso l’università degli Studi di 
Trieste. 


Lo sviluppo dell’articolo è 
stato curato dal 
Prof. Gian Paolo Dolso, Professore 
associato di 
Diritto costituzionale 
presso l’università 
degli 
Studi 
di 
Trieste 
e 
dal 
Dott. Antonio Mitrotti, già 
praticante 
forense 
presso l’Avvocatura 
dello Stato e 
Dottore 
di 
ricerca 
in Diritto pubblico comparato presso l’ 
università 
degli Studi di 
Teramo. 


(1) Attraverso l’emanazione 
dei 
decreti-legge 
n. 6 e 
n. 19 del 
2020 è 
stato concepito un “sistema 
di 
produzione 
del 
diritto” 
per 
far 
fronte 
all’emergenza, 
che 
si 
è 
posto 
in 
rapporto 
con 
il 
precedente 
quadro 
ordinamentale 
dedicato alle 
emergenze 
in generale: 
il 
d.lgs. n. 1/2018, la 
legge 
n. 833 del 
1978, le 
disposizioni 
contenute nel d.lgs. n. 112/1998 ed il d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico sugli enti locali). 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


In 
particolare, 
il 
propagarsi 
dell’epidemia 
ha 
spinto 
i 
Presidenti 
di 
Regione 
ed i 
Sindaci 
ad emanare 
ordinanze 
(3) allo scopo di 
dettare 
misure 
specifiche 
per ciascuna 
realtà 
territoriale. Queste 
ordinanze 
sono state 
emanate 
ai 
sensi 
dell’art. 32 (4), comma 
3 della 
Legge 
n. 833 del 
1978, che 
istituisce 
il 
Servizio sanitario nazionale 
(5) e 
conferisce 
al 
Presidente 
della 
Giunta 
regionale 
e 
ai 
sindaci 
la 
possibilità 
di 
emanare 
ordinanze 
contingibili 
ed urgenti 
nelle 
materie 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica. 
Inoltre, 
il 
potere 
di 
emettere 
ordinanze 
sindacali 
contingibili 
ed urgenti 
trova 
la 
propria 
legittimazione 
negli 
artt. 50 
e 
54 
del 
T.u.E.L. 
(Testo 
unico 
degli 
Enti 
locali) 
adottato 
con 
D.Lgs. 
n. 
267/2000 (6). 

L’art. 50 prevede 
questa 
possibilità 
nei 
casi 
di 
“emergenze 
sanitarie 
o di 
igiene 
pubblica”, ma 
anche 
in relazione 
alle 
“necessità 
urgenti”. Invece, secondo 
l’art. 54 “il 
sindaco, quale 
ufficiale 
del 
Governo, adotta, con atto motivato, 
provvedimenti 
anche 
contingibili 
ed 
urgenti 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
generali 
dell’ordinamento, 
al 
fine 
di 
prevenire 
e 
di 
eliminare 
gravi 
pericoli 
che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. 

In questo contesto, composto da 
più provvedimenti, il 
criterio di 
priorità 
è 
stato 
dato 
dal 
primo 
provvedimento 
governativo 
emesso 
per 
fronteggiare 
l’emergenza: 
il 
decreto-legge 
n. 6 del 
23 febbraio 2020, recante 
“misure 
urgenti 
in 
materia 
di 
contenimento 
e 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19” 
(successivamente 
quasi 
integralmente 
abrogato dal 
D.L. n. 19 
del 25 marzo 2020, fatti salvi gli artt. 3, comma 6-bis 
e 4). 

(2) Ci 
si 
trova 
così 
di 
fronte 
ad un universo vastissimo di 
interventi, che 
è 
impossibile 
da 
valutare 
compiutamente 
a 
causa 
del 
numero cospicuo di 
provvedimenti 
emanati 
per far fronte 
alla 
crisi. Sotto 
questo 
profilo, 
varie 
riviste 
online 
hanno 
allestito 
osservatori 
di 
vario 
genere 
sull’emergenza. 
Tra 
le 
quali 
si 
possono indicare, a 
titolo esemplificativo, le 
sezioni 
dedicate 
all’emergenza 
da 
Federalismi.it, 
osservatoriosullefonti.it, biodiritto.org, etc… 
(3) 
Sul 
punto, 
L. 
MAzzAROLLI, 
Sulle 
fonti 
del 
diritto 
in 
tempi 
di 
virus 
-parte 
ii 
-la 
“guerra 
delle 
ordinanze”, in Quaderni amministrativi, 2020. 
(4) 
Ai 
sensi 
dell’art. 
32 
(Funzioni 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica 
e 
di 
polizia 
veterinaria): 
“il 
Ministro 
della 
sanità 
può 
emettere 
ordinanze 
di 
carattere 
contingibile 
e 
urgente, 
in 
materia 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica 
e 
di 
polizia 
veterinaria, 
con 
efficacia 
estesa 
all'intero 
territorio 
nazionale 
o 
a 
parte 
di 
esso 
comprendente 
più 
regioni. 
La 
legge 
regionale 
stabilisce 
norme 
per 
l'esercizio 
delle 
funzioni 
in 
materia 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica, 
di 
vigilanza 
sulle 
farmacie 
e 
di 
polizia 
veterinaria, 
ivi 
comprese 
quelle 
già 
esercitate 
dagli 
uffici 
del 
medico 
provinciale 
e 
del 
veterinario 
provinciale 
e 
dagli 
ufficiali 
sanitari 
e 
veterinari 
comunali 
o 
consortili, 
e 
disciplina 
il 
trasferimento 
dei 
beni 
e 
del 
personale 
relativi. 
Nelle 
medesime 
materie 
sono 
emesse 
dal 
presidente 
della 
giunta 
regionale 
e 
dal 
sindaco 
ordinanze 
di 
carattere 
contingibile 
ed 
urgente, 
con 
efficacia 
estesa 
rispettivamente 
alla 
regione 
o 
a 
parte 
del 
suo 
territorio 
comprendente 
più 
comuni 
e 
al 
territorio 
comunale. 
Sono 
fatte 
salve 
in 
materia 
di 
ordinanze, 
di 
accertamenti 
preventivi, 
di 
istruttoria 
o 
di 
esecuzione 
dei 
relativi 
provvedimenti 
le 
attività 
di 
istituto 
delle 
forze 
armate 
che, 
nel 
quadro 
delle 
suddette 
misure 
sanitarie, 
ricadono 
sotto 
la 
responsabilità 
delle 
competenti 
autorità. 
Sono 
altresì 
fatti 
salvi 
i 
poteri 
degli 
organi 
dello 
Stato 
preposti 
in 
base 
alle 
leggi 
vigenti 
alla 
tutela 
dell'ordine 
pubblico”. 
(5) 
Il 
Servizio 
sanitario 
nazionale, 
nell'ordinamento 
giuridico 
italiano, 
identifica 
il 
complesso 
delle funzioni, delle attività e dei servizi assistenziali gestiti ed erogati dalle Regioni italiane. 
(6) Testo unico delle 
leggi 
sull'ordinamento degli 
enti 
locali, pubblicato nella 
gazzetta ufficiale 
n. 227 del 28 settembre 2000. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Questo 
decreto-legge 
rappresenta 
la 
fonte 
del 
diritto 
che 
dovrebbe 
fondare 
la 
lunga 
catena 
di 
atti 
adottati 
successivamente. Il 
Governo ha 
ritenuto necessaria 
l’adozione 
del 
suddetto decreto-legge 
e 
ha 
previsto agli 
artt. 1 e 
2 che 
le 
“autorità 
competenti” 
sono autorizzate 
«ad adottare 
ogni 
misura di 
contenimento 
e 
gestione 
adeguata e 
proporzionata all’evolversi 
della situazione 
epidemiologia
». 

Poi, 
all’art. 
3, 
comma 
1 
ha 
indicato 
le 
forme 
attraverso 
le 
quali 
le 
misure 
di 
contenimento 
possono 
essere 
adottate: 
«uno 
o 
più 
decreti 
del 
presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
su 
proposta 
del 
ministro 
della 
Salute, 
sentito 
il 
ministro 
dell'interno, 
il 
ministro 
della 
difesa, 
il 
ministro 
dell'economia 
e 
delle 
Finanze 
e 
gli 
altri 
ministri 
competenti 
per 
materia, 
nonché 
i 
presidenti 
delle 
regioni 
competenti, 
nel 
caso 
in 
cui 
riguardino 
esclusivamente 
una 
sola 
regione 
o 
alcune 
specifiche 
regioni, 
ovvero 
il 
presidente 
della 
Conferenza 
dei 
presidenti 
delle 
regioni, 
nel 
caso 
in 
cui 
riguardino 
il 
territorio 
nazionale». 
Segue 
il 
comma 
2, 
che 
prevede, 
in 
assenza 
dei 
D.P.C.M. 
di 
cui 
sopra 
e 
nei 
casi 
di 
estrema 
necessità 
ed 
urgenza, 
che 
«le 
misure 
di 
contenimento 
possano 
essere 
adottate 
dal 
ministro 
della 
salute, 
dai 
presidenti 
di 
regione 
e 
dai 
sindaci, 
ai 
sensi 
del-
l’art. 
32 
della 
l. 
23 
dicembre 
1978 
n. 
833, 
dell’art. 
117 
del 
d.lgs. 
31 
marzo 
1998 


n. 
112 
(7) 
e 
dell’art. 
50 
del 
T.u. 
delle 
leggi 
sull’ordinamento 
degli 
enti 
locali». 
Questo 
inciso 
è 
particolarmente 
problematico. 
In 
sostanza, 
le 
misure 
possono 
essere 
adottate, 
rispettivamente, 
dal 
Ministero 
della 
Salute, 
dal 
Presidente 
della 
Regione 
e 
dal 
Sindaco. 
Dunque, 
è 
prevista 
una 
sorta 
di 
“delega 
in 
bianco” 
(8), che lascia un’ampia discrezionalità in capo ai destinatari. 

Si 
delinea 
così 
il 
sistema 
delle 
fonti: 
le 
misure 
di 
contenimento 
dell’emergenza 
devono 
essere 
disposte 
con 
i 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
(D.P.C.M.); 
unicamente 
nel 
caso in cui, in una 
determinata 
materia, 
si 
prospettino casi 
di 
estrema 
necessità 
ed urgenza 
e 
non vi 
sia 
una 
previsione 
da 
parte 
del 
d.l. 
n. 
6/23 
febbraio 
prima 
e 
del 
d.l. 
n. 
19/25 
marzo 
poi, 
allora 
possono 
essere 
emanate 
ordinanze 
contigibili 
ed 
urgenti 
da 
parte 
delle 
Regioni 
e dei Comuni. 

In altri 
termini, assume 
prevalenza 
la 
disciplina 
nazionale 
dettata 
dai 
de-
creti-legge 
e 
dai 
vari 
D.P.C.M. e 
solo in via 
sussidiaria 
e 
per misure 
non già 
regolamentate possono essere emanante ordinanze regionali e comunali. 

(7) Conferimento di 
funzioni 
e 
compiti 
amministrativi 
dello Stato alle 
regioni 
ed agli 
enti 
locali, 
in attuazione 
del 
capo I della 
legge 
15 marzo 1997 n. 59, pubblicato nella 
gazzetta ufficiale 
n. 116 del 
21 maggio 1998. 
(8) Sul 
punto, M. BELLETTI, la “confusione” 
nel 
sistema delle 
fonti 
ai 
tempi 
della gestione 
del-
l’emergenza 
da 
Covid-19 
mette 
a 
dura 
prova 
gerarchia 
e 
legalità, 
in 
osservatorio 
aiC, 
3, 
2020, 
pp. 
188 
-189; 
R. 
RuSSO, 
la 
delega 
in 
bianco 
nella 
giurisprudenza 
costituzionale, 
in 
osservatorio 
aiC, 
2015; 
R. RuSSO, Quando una legge 
di 
delega può definirsi 
“in bianco”?, in rivista aiC, 1, 2019; 
M. 
CALAMO 
SPECChIA, 
principio 
di 
legalità 
e 
stato 
di 
necessità 
al 
tempo 
del 
“Covid-19”, 
in 
osservatorio 
aiC, 
3, 
2020; 
v. 
DI 
CAPuA, 
il 
nemico 
invisibile. 
la 
battaglia 
contro 
il 
Covid-19 
divisa 
tra 
Stato 
e 
regioni, 
in Federalismi.it, 2020, p. 10. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


In 
realtà, 
le 
autorità 
regionali 
e 
comunali 
hanno 
prodotto 
una 
gran 
quantità 
di 
ordinanze 
per 
fronteggiare 
le 
criticità 
emerse 
nei 
rispettivi 
territori 
(9). 
Queste 
ordinanze 
si 
sono intrecciate 
e 
sovrapposte 
ai 
provvedimenti 
nazionali, finendo 
per compromettere 
la 
strategia 
unitaria 
di 
gestione 
della 
crisi 
e 
creando 
incertezza e problemi interpretativi. 


Pertanto, il 
Governo, per risolvere 
le 
criticità 
emerse 
a 
livello territoriale 
e 
locale 
con il 
d.l. n. 6 del 
23 febbraio 2020, è 
intervenuto con l’emanazione 
del 
d.l. n. 19 del 
25 marzo 2020, che 
ha 
cercato di 
costruire 
degli 
‘argini’ 
all’esercizio 
dei 
poteri 
d’ordinanza, stabilendo che 
le 
Regioni 
ed i 
Comuni 
potranno 
sì 
emettere 
ordinanze, ma 
soltanto per uno dei 
vari 
motivi 
indicati 
dal 
suddetto decreto e mai in contrasto con le leggi nazionali ed i D.P.C.M. 

Il 
decreto-legge 
n. 19 rappresenta 
così 
la 
base 
giuridica 
del 
potere 
di 
ordinanza 
regionale 
e 
sindacale 
di 
carattere 
contingibile 
e 
urgente, fissando i 
limiti, 
gli 
ambiti 
di 
intervento, le 
finalità 
del 
relativo potere 
ed i 
tempi 
di 
durata 
dei 
provvedimenti. 
In 
tal 
modo, 
nel 
contesto 
emergenziale, 
le 
Regioni 
possono 
emettere 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
nella 
materia 
di 
tutela 
della 
sanità 
pubblica, al 
verificarsi 
di 
specifiche 
situazioni 
di 
aggravamento sopravvenute 
del 
rischio sanitario nel 
proprio territorio, negli 
ambiti 
individuati 
nell’art. 1, 
comma 2 (10) del suddetto decreto-legge. 


Per quanto riguarda 
l’articolazione 
delle 
competenze, il 
decreto-legge 
n. 
19 
cerca 
di 
razionalizzare 
e 
regolare 
il 
rapporto 
tra 
Stato 
e 
Regioni, 
prevedendo 
espressamente 
all’articolo 2 che, nell’emanazione 
degli 
atti, il 
Presidente 
del 


(9) 
Per 
una 
visione 
schematica 
delle 
ordinanze 
emanate 
dalle 
autorità 
periferiche 
durante 
l’emergenza 
sanitaria 
da 
Covid-19 
si 
rimanda 
alla 
Tabella 
relativa 
alle 
leggi 
e 
alle 
ordinanze 
regionali, 
in 
regioni.it, 
http://www.regioni.it/protezione-civile/2020/04/20/coronavirus-tabella-relativa-alle-leggie-
alle-ordinanze-regionali-aggiornata-al-20-04-2020-608461/. 
(10) In particolare, “ai 
sensi 
e 
per le 
finalità 
di 
cui 
al 
comma 
1, possono essere 
adottate, secondo 
i 
principi 
di 
adeguatezza 
e 
proporzionalità 
al 
rischio effettivamente 
presente 
su specifiche 
parti 
del 
territorio 
nazionale 
ovvero sulla 
totalità 
di 
esso, una 
o più tra 
le 
seguenti 
misure 
… “tra 
cui: 
il 
divieto di 
entrare 
o 
di 
allontanarsi 
dal 
comune 
o 
dall’area 
interessata 
(lett. 
a) 
e 
b)); 
la 
sospensione 
di 
manifestazioni, 
di 
iniziative, 
di 
eventi 
e 
di 
ogni 
forma 
di 
riunione, 
in 
luogo 
pubblico 
o 
privato, 
a 
prescindere 
dal 
carattere 
culturale, 
ludico, 
sportivo 
e 
religioso 
(lett. 
c)); 
sospensione 
dei 
servizi 
educativi 
dell’infanzia 
e 
delle 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado, 
nonché 
della 
frequenza 
delle 
attività 
scolastiche 
e 
di 
formazione 
superiore, 
compresa 
quella 
universitaria 
(lett. d)); 
chiusura 
al 
pubblico dei 
musei 
e 
degli 
altri 
istituti 
e 
luoghi 
di 
cultura 
(lett. 
e)); 
sospensione 
dei 
viaggi 
d’istruzione 
scolastica 
(lett. 
f)); 
sospensione 
delle 
procedure 
concorsuali 
per l’assunzione 
di 
personale 
(lett. h)); 
applicazione 
della 
misura 
della 
quarantena 
con sorveglianza 
attiva 
agli 
individui 
che 
hanno avuto contatti 
stretti 
con casi 
confermati 
di 
malattia 
infettiva 
diffusiva 
(lett. h)); 
previsione 
dell’obbligo da 
parte 
degli 
individui 
che 
hanno fatto ingresso in Italia 
da 
zone 
a 
rischio epidemiologico, come 
identificate 
dall’Organizzazione 
mondiale 
della 
sanità, di 
comunicare 
tale 
circostanza 
al 
Dipartimento di 
prevenzione 
dell’azienda 
sanitaria 
competente 
per territorio, 
che 
provvee 
a 
comunicarlo all’autorità 
sanitaria 
competente 
per l’adozione 
della 
misura 
di 
permanenza 
domiciliare 
fiduciaria 
(lett. 
i)); 
chiusura 
di 
tutte 
le 
attività 
commerciali, 
con 
esclusione 
di 
quelle 
relative 
alla 
vendita 
di 
beni 
di 
prima 
necessità 
(lett. j)); 
chiusura 
o limitazione 
degli 
uffici 
pubblici, esercenti 
attività 
di 
pubblica 
utilità 
e 
servizi 
pubblici 
essenziali 
(lett. l)); 
limitazione 
all’accesso o sospensione 
dei 
servizi 
del 
trasporto 
delle 
merci 
o 
delle 
persone 
fisiche 
(lett. 
m)), 
adozione 
delle 
modalità 
di 
svolgimento 
del lavoro agile (lett. n) e o))”. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Consiglio 
dei 
Ministri 
deve 
preventivamente 
sentire 
i 
Presidenti 
delle 
Regioni, 
nel 
caso in cui 
il 
provvedimento interessi 
solo una 
o alcune 
delle 
Regioni 
oppure 
il 
Presidente 
della 
Conferenza 
delle 
Regioni 
nel 
caso in cui 
il 
provvedimento 
sia 
di 
interesse 
nazionale. 
Inoltre, 
è 
previsto 
che 
le 
misure 
di 
contenimento devono essere 
adottate 
in primis 
con i 
D.P.C.M. e, solo al 
ricorrere 
di determinate condizioni, con ordinanze regionali e/o comunali. 


Invece, l’art. 3, comma 
1 stabilisce 
la 
possibilità 
per le 
Regioni 
ed i 
Comuni 
di 
prendere 
decisioni 
soltanto 
più 
restrittive 
in 
caso 
di 
«situazioni 
sopravvenute 
di 
aggravamento 
del 
rischio 
sanitario 
verificatesi 
nel 
loro 
territorio 
o 
in 
una 
parte 
di 
esso» 
mantenendosi 
però 
«esclusivamente 
nell’ambito 
delle 
attività 
di 
loro 
competenza 
e 
senza 
incisione 
delle 
attività 
produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza strategica per 
l’economia nazionale». Questo articolo 
ha 
lo scopo di 
mettere 
ordine 
e 
di 
porre 
dei 
limiti 
puntualmente 
definiti 
al 
potere 
d’ordinanza regionale. 

Queste 
norme 
sono state 
adottate 
al 
fine 
di 
porre 
rimedio alla 
situazione 
di 
incertezza 
dovuta 
al 
proliferare 
di 
ordinanze 
regionali 
e 
locali. Da 
un lato, 
infatti, il 
potere 
di 
adozione 
viene 
concentrato nelle 
mani 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
che 
dovrebbe, 
in 
questo 
modo, 
mantenere 
la 
“regia” 
dell’operazione 
di 
gestione 
emergenziale, 
e 
dall’altro, 
si 
prevede 
che 
il 
relativo 
esercizio, da 
parte 
delle 
Regioni 
e 
dei 
Comuni, avvenga 
nel 
rispetto del 
principio 
di leale collaborazione. 

In questo problematico rapporto tra 
centro e 
periferia 
è 
certamente 
emblematica 
la 
sentenza 
n. 841/2020 del 
TAR Calabria, in cui 
il 
tribunale 
amministrativo 
è 
stato chiamato a 
decidere 
circa 
il 
ricorso presentato dal 
Governo 
avverso l’ordinanza 
n. 37 del 
29 aprile 
2020 della 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria, Jole Santelli. 

2. la questione 
oggetto di 
giudizio e 
le 
ragioni 
di 
illegittimità dell’ordinanza 
impugnata. 
Il 
TAR Calabria 
è 
stato adito dalla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
per l’annullamento dell’ordinanza 
della 
Regione 
Calabria 
che, al 
punto n. 6, 
consentiva 
la 
ripresa 
delle 
attività 
di 
Bar, 
Pasticcerie, 
Ristoranti, 
Pizzerie, 
Agriturismo 
con 
somministrazione 
esclusiva 
attraverso 
il 
servizio 
con 
tavoli 
all’aperto 
(11). 
Tale 
ordinanza 
risultava 
in 
contrasto 
con 
il 
D.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020 (12) e, perciò, la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
l’ha 
impugnata 
dinanzi al 
Tar sollevando tre ordini di motivi: 


1) 
l’ordinanza violerebbe 
l’art. 2, comma 1 e 
l’art. 3, comma 1 del 
d.l. 
(11) Si 
rimanda 
al 
testo completo dell’ordinanza: 
https://www.regione.calabria.it/website/portalmedia/
2020-04/ordinanza-p.g.r.-n.-37_2020.pdf. 
(12) 
Per 
il 
testo 
completo 
del 
D.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020 
si 
rimanda 
alla 
gazzetta 
ufficiale: 
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/27/20a02352/sg. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


n. 19 del 
25 marzo 2020 e 
sarebbe 
stata emanata in carenza di 
potere 
per 
incompetenza 
assoluta. 
Occorre 
precisare 
che 
l’art. 
2, 
comma 
1 
del 
d.l. 
n. 
19 
del 
25 marzo 2020 attribuisce 
la 
competenza 
ad adottare 
le 
misure 
urgenti 
per 
evitare 
la 
diffusione 
del 
Covid-19 e 
le 
ulteriori 
misure 
di 
gestione 
dell’emergenza 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri. Invece, l’art. 3, comma 
1 dispone 
che 
le 
Regioni 
possono 
adottare 
ulteriori 
misure 
ad 
efficacia 
locale 
«esclusivamente 
nell’ambito 
delle 
attività 
di 
loro 
competenza 
e 
senza 
incisione 
delle 
attività produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza strategica per 
l’economia nazionale
». Si 
prospetta 
così 
un potere 
integrativo da 
parte 
delle 
Regioni, che 
però è 
sottoposto alle 
seguenti 
condizioni: 
deve 
trattarsi 
di 
interventi 
destinati 
ad operare 
nelle 
more 
dell’adozione 
di 
un nuovo D.P.C.M; 
gli 
interventi 
devono 
essere 
giustificati 
da 
situazioni 
sopravvenute 
di 
aggravamento 
del 
rischio 
sanitario 
proprie 
della 
Regione 
interessata; 
infine, 
deve 
trattarsi 
di 
misure 
“ulteriormente 
restrittive” 
delle 
attività 
sociali 
e 
produttive 
esercitabili 
nella 
regione. 
Dal 
seguente 
quadro emerge 
che 
spetta 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
individuare 
le 
misure 
necessarie 
a 
contrastare 
la 
diffusione 
del 
Covid19, 
mentre 
alla 
Regione 
Calabria 
è 
dato 
intervenire 
solo 
nei 
limiti 
delineati 
dal 
d.l. n. 19. Dunque, la 
Regione 
si 
è 
posta 
in evidente 
contrasto con quanto 
disposto dal D.P.C.M. del 26 aprile. 
2) 
l’ordinanza sarebbe 
priva di 
un’adeguata motivazione, non sarebbe 
stata supportata da una valida istruttoria e 
sarebbe 
illogica ed irrazionale. 
Si 
precisa 
che 
non è 
stato adottato un metodo scientifico valido nella 
valutazione 
del 
rischio epidemiologico e 
che 
non emergono condizioni 
tali 
da 
giustificare 
l’abbandono del principio di precauzione. 
3) 
l’ordinanza 
sarebbe 
viziata 
da 
eccesso 
di 
potere, 
evidenziato 
dalla 
violazione 
del 
principio di 
leale 
collaborazione. 
In particolare, sarebbe 
mancata 
ogni tipo di interlocuzione con il Governo. 
Invece, la 
Regione 
Calabria 
ha 
posto, nelle 
sue 
difese, la 
questione 
pregiudiziale 
di 
giurisdizione 
(13) ed ha 
affermato che 
la 
controversia 
consisterebbe 
in 
un 
conflitto 
di 
attribuzioni. 
Dunque, 
sarebbe 
devoluto 
alla 
Corte 
costituzionale 
ai 
sensi 
dell’art. 
134 
Cost. 
ha 
affermato 
anche 
che 
«l’ordinanza 
impugnata 
troverebbe 
fondamento 
nell’art. 
32, 
comma 
3 
della 
l. 
n. 
833 
del 
1978» e 
che 
«sarebbe 
pienamente 
informata ai 
principi 
di 
adeguatezza e 
proporzionalità 
espressamente 
richiamati 
dall’art. 1, comma 2 del 
d.l. n. 19 del 
2020, i 
quali 
richiedono di 
modulare 
i 
provvedimenti 
volti 
al 
contrasto del-
l’epidemia 
al 
rischio 
effettivamente 
presente 
su 
specifiche 
parti 
del 
territorio». 

(13) 
Si 
rimanda 
alla 
lettura 
dell’art. 
8 
(Cognizione 
incidentale 
e 
questioni 
pregiudiziali) 
del 
codice 
del 
processo 
amministrativo, 
secondo 
il 
quale 
«Il 
giudice 
amministrativo 
nelle 
materie 
in 
cui 
non 
ha 
giurisdizione 
esclusiva 
conosce, senza 
efficacia 
di 
giudicato, di 
tutte 
le 
questioni 
pregiudiziali 
o incidentali 
relative 
a 
diritti, la 
cui 
risoluzione 
sia 
necessaria 
per pronunciare 
sulla 
questione 
principale. Restano 
riservate 
all'autorità 
giudiziaria 
ordinaria 
le 
questioni 
pregiudiziali 
concernenti 
lo 
stato 
e 
la 
capacità 
delle 
persone, 
salvo 
che 
si 
tratti 
della 
capacità 
di 
stare 
in 
giudizio, 
e 
la 
risoluzione 
dell'incidente 
di 
falso». 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Tuttavia, 
il 
Tribunale 
ha 
rigettato 
l’eccezione 
di 
giurisdizione 
ed 
i 
giudici 
amministrativi 
hanno 
riconosciuto 
il 
proprio 
jus 
decidendi 
sulla 
base 
di 
tre 
osservazioni: 


1) 
Il 
provvedimento 
emanato 
dal 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
ha 
natura 
di 
ordinanza 
contingibile 
ed urgente 
in materia 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica. 
Dunque, si 
tratta 
di 
un esercizio del 
potere 
amministrativo che 
è 
ovviamente 
attribuito al giudice della funzione pubblica. 
2) 
Le 
ragioni 
di 
illegittimità 
dedotte 
dalla 
parte 
ricorrente, riguardanti 
i 
confini 
delle 
attribuzioni 
assegnate 
ai 
diversi 
poteri 
dello Stato, non sono sufficienti 
ad attribuire alla controversia un tono costituzionale. 
3) 
Non va 
esclusa 
la 
via 
del 
ricorso d’innanzi 
al 
giudice 
amministrativo, 
anche 
se 
fosse 
possibile 
attivare 
il 
conflitto 
di 
attribuzione 
d’innanzi 
alla 
Corte 
costituzionale. 
Inoltre, 
sempre 
secondo 
il 
Tar 
Calabria, 
l’ordinanza 
regionale 
calabrese 
non 
può 
trovare 
fondamento 
nell’art. 
32 
della 
L. 
n. 
833 
del 
23 
dicembre 
1978 
(istituzione 
del 
Servizio 
sanitario 
nazionale), 
la 
quale 
disciplina, 
al 
comma 
3, 
il 
potere 
del 
Presidente 
della 
Regione 
di 
emanare 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
in 
materia 
di 
igiene 
e 
sanità 
pubblica. 
Ma 
tale 
disposizione 
risulta 
derogata 
dalla 
disciplina 
dettata 
dal 
d.l. 
n. 
19/25 
marzo 
2020 
all’art. 
3, 
comma 
3 
che 
stabilisce 
i 
limiti 
al 
potere 
di 
ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione, 
i 
quali 
valgono 
per 
tutti 
gli 
«atti 
posti 
in 
essere 
per 
ragioni 
di 
sanità 
in 
forza 
di 
poteri 
attribuiti 
da 
ogni 
disposizione 
di 
legge 
previgente». 
Inoltre, 
l’emergenza 
sanitaria 
ha 
carattere 
nazionale 
ed 
impone 
l’intervento 
da 
parte 
del 
Governo 
centrale. 


In conclusione, il 
TAR accoglie 
i 
tre 
motivi 
di 
ricorso (14) sollevati 
dalla 
Presidenza del Consiglio dei Ministri: 


1) 
Il 
primo motivo relativo alla 
carenza 
di 
potere 
per incompetenza 
assoluta 
trova 
pieno 
accoglimento, 
in 
quanto 
le 
condizioni 
previste 
dall’art 
3, 
comma 1 del d.l. n. 19/2020 non sono dimostrate. 
2) 
Il 
secondo motivo è 
accolto, in quanto manca 
un’adeguata 
istruttoria 
tale da giustificare l’abbandono del principio di precauzione. 
3) 
Il 
terzo motivo è 
accolto in quanto si 
lamenta 
violazione 
del 
principio 
di 
leale 
collaborazione, elemento sintomatico del 
vizio dell’eccesso di 
potere. 
Perciò, 
il 
TAR 
annulla 
l’ordinanza 
nella 
parte 
in 
cui, 
al 
punto 
n. 
6, 
dispone 
che, 
a 
partire 
dalla 
data 
di 
adozione 
dell’ordinanza 
medesima, 
sul 
territorio 
della 
Regione 
Calabria 
«è 
consentita 
la 
ripresa 
delle 
attività 
di 
bar, 
ristoranti, 
pasticcerie, 
pizzerie, 
agriturismi 
con 
somministrazione 
esclusiva 
attraverso 
il 
servizio 
con 
tavoli 
all’aperto», 
in 
contrasto 
con 
quanto 
disposto 
dal 
D.P.C.M. 
26 aprile 2020. 


Il 
TAR giunge 
così 
a 
dichiarare 
l’illegittimità 
dell’ordinanza 
della 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
e 
ne 
dispone 
l’annullamento, 
in 
quanto 
le 
Regioni 


(14) 
ivi, pp. 5 - 6. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


possono intervenire 
solo nei 
termini 
delineati 
dall’art. 3, comma 
1 del 
d.l. n. 
19/2020, non integrati nel caso di specie. 

3. le questioni di costituzionalità sollevate dalla regione Calabria. 
Dall’esame, nella 
sentenza, delle 
posizioni 
delle 
parti 
(Regione 
Calabria 
e 
interventori) 
emergono 
due 
distinte 
questioni 
che 
tendono 
a 
chiamare 
in 
causa, sotto diversi 
profili, la 
Corte 
costituzionale: 
la 
prima 
è 
relativa 
alla 
(sostenuta) 
necessità 
di 
adire 
la 
Corte 
costituzionale 
in sede 
di 
conflitto di 
attribuzioni 
tra 
Stato 
e 
Regioni; 
la 
seconda 
ha 
ad 
oggetto 
la 
decisione 
sulla 
prospettata eccezione di legittimità costituzionale in via incidentale. 

La 
prima 
questione 
riguarda 
un’eccezione 
pregiudiziale 
di 
difetto di 
giurisdizione 
sollevata 
dalla 
Regione 
Calabria, 
la 
quale 
afferma 
che 
la 
controversia, 
consistendo 
in 
un 
conflitto 
di 
attribuzioni, 
avrebbe 
dovuto 
essere 
devoluta 


-secondo la 
prospettazione 
della 
Regione 
-alla 
Corte 
Costituzionale 
ai 
sensi 
dell’art. 134 Cost. (15). 
Tuttavia, dall’esame, nella 
sentenza, delle 
questioni 
pregiudiziali 
e 
preliminari, 
emerge 
che 
il 
Tar Calabria 
ha 
respinto la 
questione 
pregiudiziale 
sollevata 
dalla 
Regione 
Calabria 
circa 
il 
“tono 
costituzionale” 
(16) 
della 
controversia 
e 
ha 
affermato di 
essere 
dotato di 
giurisdizione 
sulla 
base 
delle 
seguenti argomentazioni: 


1) 
il 
provvedimento 
emanato 
dalla 
presidente 
dalla 
regione 
Calabria 
ha 
natura di 
ordinanza contingibile 
ed urgente 
in materia di 
igiene 
e 
sanità, nel 
quadro della disciplina dettata dall’art. 32 l. n. 833 del 
1978. 
Dunque, trattandosi 
di 
esercizio 
di 
potere 
amministrativo, 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
deve 
essere 
naturalmente 
attribuito 
al 
giudice 
della 
funzione 
pubblica, 
cioè 
il 
giudice 
amministrativo. 
2) 
il 
fatto 
che 
le 
ragioni 
di 
illegittimità 
dedotte 
dalla 
parte 
ricorrente 
siano 
inerenti 
anche 
ai 
confini 
delle 
attribuzioni 
assegnate 
ai 
diversi 
poteri 
dello 
Stato 
non 
è 
sufficiente 
ad 
attribuire 
alla 
controversia 
un 
tono 
costituzionale. 
In 
particolare, 
il 
Tar 
richiama 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale, 
secondo 
la 
quale 
«il 
tono 
costituzionale 
del 
conflitto 
sussiste 
quando 
il 
ricorrente 
non 
lamenti 
una 
lesione 
qualsiasi, 
ma 
una 
lesione 
delle 
proprie 
attribuzioni 
costituzionali» 
(17). 
Inoltre, 
è 
stato 
chiarito 
(18) 
che 
«non 
basta 
che 
nella 
materia 
in 
questione 
vengano 
in 
gioco 
competenze 
e 
attribuzioni 
previste 
dalla 
Costituzione, 
perché 
la 
controversia 
assuma 
un 
tono 
costituzionale». 


(15) 
La 
Corte 
costituzionale 
giudica: 
sulle 
controversie 
relative 
alla 
legittimità 
costituzionale 
delle 
leggi 
e 
degli 
atti, 
aventi 
forza 
di 
legge, 
dello 
Stato 
e 
delle 
Regioni; 
sui 
conflitti 
di 
attribuzione 
tra 
i 
poteri 
dello 
Stato 
e 
su 
quelli 
tra 
lo 
Stato 
e 
le 
Regioni, 
e 
tra 
le 
Regioni; 
sulle 
accuse 
promosse 
contro 
il 
Presidente 
della Repubblica [ed i Ministri] a norma della Costituzione. 
(16) La 
nozione 
di 
“tono costituzionale” 
del 
conflitto è 
stata 
coniata 
da 
Carlo Mezzanotte. Sul 
punto, C. MEzzANOTTE, le 
nozioni 
di 
“potere” 
e 
di 
“conflitto” 
nella giurisprudenza della Corte 
costituzionale, 
in giurisprudenza italiana, 1979, p. 113. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Sulla 
base 
di 
queste 
considerazioni 
il 
Giudice 
amministrativo conclude 
nel 
senso che 
la 
via 
del 
ricorso d’innanzi 
al 
giudice 
amministrativo è 
legittimamente 
esperibile. 
Infatti, 
il 
Tar 
Calabria 
precisa 
di 
avere 
giurisdizione 
a 
decidere, 
dal 
momento che 
la 
via 
del 
conflitto di 
attribuzione 
non è, nel 
caso, da 
ritenersi costituzionalmente obbligata. 

La 
seconda 
questione 
riguarda 
l’eccezione 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevata 
sul 
d.l. n. 19 del 
25 marzo 2020 (19). In particolare, secondo le 
parti 
resistenti, il 
decreto sarebbe 
in contrasto con gli 
artt. 77, 13, 14, 15, 16, 17 e 
41 Cost.; 
con l’art. 117, comma 
3 Cost. (20) e 
con l’art. 120, comma 
2 Cost. 


(21) 
in 
quanto 
demanderebbe 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
il 
potere 
di limitare le libertà garantite dalla Costituzione. 
Il 
TAR Calabria 
non ha 
ritenuto che 
ricorressero gli 
estremi 
per sospendere 
il 
giudizio e 
sollevare 
davanti 
alla 
Corte 
Costituzionale 
questione 
di 
legittimità 
del 
d.l. 
n. 
19 
del 
25 
marzo 
2020, 
sulla 
base 
delle 
seguenti 
considerazioni: 


a) 
la 
restrizione 
alla 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
è 
predeterminata 
dalla 
legge. 
In 
particolare, 
l’art. 
41 
Cost. 
(22) 
prevede 
che 
essa 
non 
possa 
svolgersi 
in modo da 
recare 
danno alla 
sicurezza, alla 
libertà 
e 
alla 
dignità 
umana. 
Dunque, il 
contenuto del 
provvedimento (ordinanza 
n. 37 del 
29 aprile 
2020) 
adottato sulla 
base 
del 
d.l. n. 19/25 marzo 2020 risulta 
predeterminato dal 
de(
17) 
ex 
plurimis, 
Corte 
cost. 
14 
febbraio 
2018 
n. 
28; 
Id. 
15 
maggio 
2015 
n. 
87; 
Id. 
28 
marzo 
2013 
n. 52. In particolare, sul 
rapporto tra 
giudizio amministrativo e 
giudizio per conflitto di 
attribuzioni 
si 
rimanda 
a 
G. zAGREBELSky, v. MARCENò, giustizia Costituzionale, Il 
Mulino, 2012; 
G. zAGREBELSky, 
manuale 
di 
diritto 
costituzionale, 
uTET, 
1987; 
v. 
CRISAFuLLI, 
lezioni 
di 
diritto 
costituzionale, 
CEDAM, 
1984. 
(18) Cfr., ad esempio, Corte 
Cost. 29 ottobre 
2019 n. 224. Nel 
caso la 
Corte 
costituzionale, pronunciandosi 
su 
un 
ricorso 
per 
conflitto 
di 
attribuzione 
tra 
Regione 
e 
Stato, 
avente 
ad 
oggetto 
una 
sentenza 
definitiva 
del 
giudice 
amministrativo 
che 
aveva 
annullato 
il 
rifiuto 
regionale 
dell’intesa 
in 
ordine 
al 
procedimento 
di 
rilascio di 
un permesso di 
ricerca 
di 
idrocarburi, ha 
avuto modo di 
dichiarare 
l’inammissibilità 
del conflitto per carenza del c.d. “tono costituzionale”. 
(19) Cfr. il d.l. n. 19 del 25 marzo 2020, in gazzetta ufficiale: 
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/25/20g00035/sg. 
(20) In particolare, l’art. 117, comma 
3, Cost. stabilisce 
che 
“sono materie 
di 
legislazione 
concorrente 
quelle 
relative 
alla 
tutela 
della 
salute; 
protezione 
civile 
etc 
... 
Nelle 
materie 
di 
legislazione 
concorrente 
spetta 
alle 
Regioni 
la 
potestà 
legislativa, 
salvo 
che 
per 
la 
determinazione 
dei 
principi 
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. 
(21) L’art. 120, comma 
2 Cost. stabilisce 
che 
“il 
Governo può sostituirsi 
a 
organi 
delle 
Regioni, 
delle 
Città 
metropolitane, delle 
Province 
e 
dei 
Comuni 
nel 
caso di 
mancato rispetto di 
norme 
e 
trattati 
internazionali 
o 
della 
normativa 
comunitaria 
oppure 
di 
pericolo 
grave 
per 
l'incolumità 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, 
ovvero 
quando 
lo 
richiedono 
la 
tutela 
dell'unità 
giuridica 
o 
dell'unità 
economica 
e 
in 
particolare 
la 
tutela 
dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali, 
prescindendo 
dai 
confini 
territoriali 
dei 
governi 
locali. La 
legge 
definisce 
le 
procedure 
atte 
a 
garantire 
che 
i 
poteri 
sostitutivi 
siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. 
(22) L'iniziativa 
economica 
privata 
è 
libera. Non può svolgersi 
in contrasto con l'utilità 
sociale 
o 
in 
modo 
da 
recare 
danno 
alla 
sicurezza, 
alla 
libertà, 
alla 
dignità 
umana. 
La 
legge 
determina 
i 
programmi 
e 
i 
controlli 
opportuni 
perché 
l'attività 
economica 
pubblica 
e 
privata 
possa 
essere 
indirizzata 
e 
coordinata 
a fini sociali. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


creto 
stesso, 
il 
quale 
rende 
possibile 
la 
«limitazione 
o 
sospensione 
delle 
attività 
di 
somministrazione 
al 
pubblico 
di 
bevande 
e 
alimenti, 
nonché 
di 
consumo 
sul 
posto 
di 
alimenti 
e 
bevande». 
Pertanto, 
alla 
discrezionalità 
dell’autorità 
amministrativa 
è 
demandata 
la 
sola 
individuazione 
dell’ampiezza 
di 
tale 
limitazione 
in ragione 
dell’esame 
epidemiologico. Infatti, «è 
la legge 
a predeterminare 
il 
contenuto 
della 
restrizione 
alla 
libertà 
di 
iniziativa 
economica, 
demandando ad un atto amministrativo la commisurazione 
dell’estensione 
di 
tale limitazione». 


b) lo Stato aveva la competenza legislativa ad adottare 
il 
d.l. 19/2020. 
Questo è 
vero sulla 
base 
sia 
dell’art. 117, comma 
2, lett. q) Cost., che 
attribuisce 
allo Stato competenza 
esclusiva 
in materia 
di 
‘profilassi 
internazionale’, 
sia 
dell’art. 117, comma 
3 Cost., che 
gli 
attribuisce 
competenza 
concorrente 
in materia di ‘tutela della salute’ e ‘protezione civile’. 
c) 
Il 
d.l. 
n. 
19/25 
marzo 
ha 
riconosciuto 
in 
capo 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
il 
potere 
di 
individuare 
le 
misure 
necessarie 
in 
concreto 
per 
affrontare 
l’emergenza 
sanitaria, 
trovando 
giustificazione 
nell’art. 
118, 
comma 
1 
Cost. 
(23). 
Nello 
specifico, 
poiché 
si 
tratta 
di 
un’emergenza 
a 
carattere 
internazionale, 
l’individuazione 
delle 
misure 
precauzionali 
deve 
essere 
operata 
a 
livello 
unitario 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
sussidiarietà. 
In 
particolare, 
il 
Tar 
Calabria 
(25) 
precisa 
che 
«è 
noto 
che 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
ritenuto 
(26) 
che 
(23) In base 
al 
quale 
“le 
funzioni 
amministrative 
sono attribuite 
ai 
Comuni 
salvo che, per assicurarne 
l’esercizio unitario, siano conferite 
a 
Provincie, Città 
metropolitane, Regioni 
e 
Stato, sulla 
base 
del principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. 
(25) 
Cfr. 
T.A.R. 
Calabria, 
sez. 
I, 
9 
maggio 
2020, 
n. 
841 
in 
giustizia 
amministrativa: 
https://www.giustiziaamministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?noderef=&schema=tar_ 
cz&nrg=202000457&nomeFile=202000841_20.html&subdir=provvedimenti. 
(26) Sin dalla 
sent. n. 303 del 
1 ottobre 
2003 con cui 
la 
Corte 
ha 
teorizzato per la 
prima 
volta 
la 
c.d. chiamata in sussidiarietà. La 
Corte 
ammise 
la 
possibilità̀ per il 
legislatore 
statale 
di 
“attrarre” 
in 
sussidiarietà, alla 
propria 
competenza 
legislativa, oltre 
che 
amministrativa, la 
disciplina 
di 
determinati 
oggetti, a 
tutela 
di 
esigenze 
unitarie 
e 
previa 
intesa 
fra 
Stato e 
Regioni. Orbene, in quella 
fattispecie, il 
nuovo 
meccanismo 
operava 
in 
realtà 
con 
riferimento 
ad 
una 
questione 
di 
“interesse 
generale/nazionale” 
(provvedimenti 
legislativi 
relativi 
alla 
disciplina 
di 
procedimenti 
amministrativi 
finalizzati 
all’individuazione, 
localizzazione 
e 
realizzazione 
di 
infrastrutture 
pubbliche 
e 
private 
e 
insediamenti 
produttivi 
strategici 
di 
preminente 
interesse 
nazionale) e 
concerneva 
una 
normativa 
che 
investiva 
materie 
di 
competenza 
esclusiva 
statale 
e 
concorrente, 
senza 
“toccare” 
l’ambito 
(ben 
più 
delicato) 
delle 
materie 
di 
competenza 
residuale, 
rispetto 
alla 
quale, 
infatti, 
la 
Corte 
scelse 
di 
non 
pronunciarsi 
(“è 
estranea 
alla 
materia 
del 
contendere 
la 
questione 
se 
i 
principi 
di 
sussidiarietà 
e 
adeguatezza 
permettano 
di 
attrarre 
allo 
Stato 
anche 
competenze 
legislative 
residuali 
delle 
regioni”, par. 2.3 del 
Considerato in diritto). Successivamente 
però, con la 
sentenza 
13 gennaio 2004 n. 6, la 
Corte 
chiarirà 
che 
la 
chiamata 
in sussidiarietà 
di 
funzioni 
(anche) 
legislative, 
poichè 
motivata 
da 
“istanze 
unitarie”, 
prioritarie, 
può 
(deve) 
riguardare 
anche 
le 
materie 
oggetto 
di 
potestà 
legislativa 
concorrente 
e 
residuale. 
L’allocazione 
a 
livello 
statale 
delle 
funzioni 
di 
competenza 
regionale 
anche 
residuale 
ha 
poi 
trovato conferma 
nella 
giurisprudenza 
successiva 
(cfr., 
da 
ultimo, 
sentenza 
n. 
278/2010). 
Specificatamente, 
sulla 
sentenza 
n. 
6/2004, 
si 
rimanda 
a 
O. 
ChESSA, 
Sussidiarietà 
ed 
esigenze 
unitarie: 
modelli 
giurisprudenziali 
e 
modelli 
teorici 
a 
confronto, 
in le 
regioni, 4, 2004, 941 ss. Inoltre, le 
argomentazioni 
riportate 
nella 
sentenza 
n. 303/2003 costituiscono 
il 
punto di 
riferimento per tutte 
le 
elaborazioni 
concettuali 
successive 
sul 
tema. Numerosissimi 
i 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


l’avocazione 
della 
funzione 
amministrativa 
si 
deve 
accompagnare 
all’attrazione 
della 
competenza 
legislativa 
necessaria 
alla 
sua 
disciplina, 
onde 
rispettare 
il 
principio 
di 
legalità 
dell’azione 
amministrativa 
(27), 
purché 
all’intervento 
legislativo 
per 
esigenze 
unitarie 
si 
accompagnino 
forme 
di 
collaborazione 
tra 
Stato 
e 
regioni 
nel 
momento 
dell’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa» 
(28). 


Inoltre, si 
esclude 
anche 
che, nel 
caso di 
specie, siano stati 
attribuiti 
al-
l’amministrazione 
centrale 
poteri 
sostitutivi 
non 
previsti 
dalla 
Costituzione. 
In particolare, l’art. 120, comma 
2 Cost. (29) disciplina 
il 
potere 
sostitutivo 
del 
Governo, 
stabilendo 
che 
«il 
governo 
può 
sostituirsi 
a 
organi 
delle 
regioni, 
delle 
Città metropolitane, delle 
provincie 
e 
dei 
Comuni 
nel 
caso di 
mancato 
rispetto di 
norme 
e 
trattati 
internazionali 
o della normativa comunitaria oppure 
di 
pericolo 
grave 
per 
l’incolumità 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, 
ovvero 
quando 
lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e 
in particolare 
la 
tutela 
dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali» (30). 

Dunque, 
non 
vi 
è 
stato 
alcun 
intervento 
sostitutivo 
dello 
Stato, 
bensì 
avocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
in 
ragione 
del 
principio 
di 
sussidiarietà, 
accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa (31). 


Pertanto, 
sulla 
base 
delle 
considerazioni 
appena 
riassunte, 
il 
Giudice 
amministrativo 
ha 
escluso che 
le 
prescrizioni 
del 
citato decreto violino la 
Costituzione 
e 
ha 
affermato 
che 
non 
è 
necessaria 
la 
rimessione 
alla 
Corte 
costituzionale. Dunque, conclude 
per il 
rigetto dell’eccezione 
di 
costituziona


commenti 
della 
dottrina 
che 
ha 
attentamente 
analizzato la 
decisione, traendo spunto per le 
più diverse 
riflessioni, 
dati 
i 
numerosi 
temi 
ivi 
affrontati. 
Tra 
i 
tanti, 
cfr. 
S. 
BARTOLE, 
Collaborazione 
e 
sussidiarietà 
nel 
nuovo ordine 
regionale, in le 
regioni, 1, 2004; 
F. CINTIOLI, le 
forme 
dell’intesa e 
il 
controllo sulla 
leale collaborazione dopo la sentenza n. 303 del 2003, in Forum di Quad. Cost., 31 ottobre 2003. 

(27) 
Il 
principio 
di 
legalità 
dell’azione 
amministrativa 
stabilisce 
che 
la 
pubblica 
amministrazione 
trova 
nella 
legge 
i 
fini 
della 
propria 
azione 
e 
i 
poteri 
giuridici 
che 
può 
esercitare 
e 
non 
può 
esercitare 
alcun 
potere 
al 
di 
fuori 
di 
quelli 
che 
la 
legge 
le 
attribuisce. 
È 
espressione 
del 
principio 
democratico 
e 
della 
supremazia 
della 
volontà 
popolare. 
Tale 
principio 
è 
accolto 
dalla 
Costituzione 
italiana 
all'art. 
23 
stabilendo 
che 
"nessuna 
prestazione 
personale 
o 
patrimoniale 
può 
essere 
imposta 
se 
non 
in 
base 
alla 
legge”; 
all'art. 
42, 
comma 
3 
dicendo 
che 
“la 
proprietà 
privata 
può 
essere, 
nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge,e 
salvo 
indennizzo, 
espropriata 
per 
motivi 
d'interesse 
generale”; 
all'art. 
97 
dove 
stabilisce 
che 
“i 
pubblici 
uffici 
sono 
organizzati 
secondo 
disposizioni 
di 
legge, 
in 
modo 
che 
siano 
assicurati 
il 
buon 
andamento 
e 
l'imparzialità 
dell’amministrazione". 
Inoltre, 
l’art. 
1 
della 
legge 
n. 
241/1990 
(legge 
sul 
procedimento 
amministrativo) 
stabilisce 
che 
“l'attività 
amministrativa 
persegue 
i 
fini 
determinati 
dalla 
legge 
secondo 
le 
modalità 
fissate 
dalla 
stessa 
legge, 
nonché 
in 
base 
ai 
principi 
individuati 
dall'ordinamento 
comunitario”. 
(28) Sul punto si rimanda alla sent. n. 278, Corte cost. 22 luglio 2010. 
(29) 
L’articolo 
è 
stato 
riformulato 
dalla 
L. 
Cost. 
n. 
3/2001, 
attuata 
attraverso 
la 
Legge 
“La 
Loggia” 
(L. n. 131/2003, Disposizioni 
per l'adeguamento dell'ordinamento della 
Repubblica 
alla 
legge 
costituzionale 
18 ottobre 2001, n. 3) pubblicata nella 
gazzetta ufficiale 
n. 132 del 10 giugno 2003. 
(30) La 
disciplina 
dell’esercizio di 
questo potere 
sostitutivo del 
Governo per le 
finalità 
indicate 
nella stessa disposizione, è recata dall’art. 8, l. n. 131/2003 (cd. Legge “La Loggia”). 
(31) Come 
supra 
specificato. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


lità, ritenendo la 
questione 
di 
illegittimità 
costituzionale 
prospettata 
dalla 
Regione 
manifestamente infondata. 

4. la natura del d.p.C.m. 26 aprile 2020. 
La 
sentenza 
del 
TAR Calabria 
n. 841 (32) ha 
chiarito qual 
è 
la 
natura 
del 


D.P.C.M. del 
26 aprile 
2020: 
«non è 
un atto a carattere 
normativo, bensì 
un 
atto amministrativo generale». 
La 
pronuncia 
ha 
fornito un prezioso orientamento in riferimento all’incerta 
natura 
giuridica 
dei 
D.P.C.M. 
in 
quanto 
durante 
il 
periodo 
dell’emergenza 
sanitaria 
da 
Coronavirus 
è 
sorto un nutrito dibattito, in dottrina, sulla 
natura 
di 
tali 
atti 
e 
sulla 
loro 
collocazione 
all’interno 
del 
sistema 
delle 
fonti 
(33). 
Nello specifico, il 
D.P.C.M. è 
stato oggetto di 
una 
puntuale 
analisi 
classificatoria: 
ci 
si 
è 
in particolare 
chiesti 
se 
si 
tratti 
di 
un “regolamento” 
o di 
un “atto 
amministrativo generale”? (34). 

va 
sottolineato 
che 
il 
D.P.C.M. 
è 
un 
decreto 
ministeriale 
(35) 
e, 
in 
quanto 
tale, 
può 
avere 
anche 
natura 
regolamentare 
ma 
a 
condizione 
che 
sussistano 
due 
requisiti: 
uno formale 
e 
l’altro sostanziale 
(36). Secondo il 
requisito formale, 
il 
decreto deve 
recare 
la 
dicitura 
di 
‘regolamento’ 
ed adottare 
l’iter 
procedimentale 
previsto dall’art. 17, commi 3 e 4 della legge n. 400/1988 (37). 

(32) 
Si 
rimanda, 
in 
dottrina, 
ai 
preziosi 
commenti 
di 
E. 
GuARNA 
ASSANTI, 
il 
processo 
amministrativo 
e 
la giurisdizione 
(s)oggettiva. Considerazioni 
sulla sentenza n. 841/2020 del 
Tar 
Calabria, in 
amministrazione 
e 
Contabilità dello Stato e 
degli 
enti 
pubblici, n. 1-2-3/2020; 
F.F. PAGANO 
-A. SAITTA 
-F. SAITTA, il 
giudice 
amministrativo stoppa la ripartenza anticipata della regione 
Calabria: sul 
lockdown 
è lo Stato a dettare legge, in osservatorio aiC, n. 3/2020. 
(33) Sulla 
figura 
del 
D.P.C.M. si 
veda, per tutti, A. LuCARELLI, Costituzione, fonti 
del 
diritto ed 
emergenza 
sanitaria, 
in 
rivista 
aiC, 
2, 
2020, 
p. 
565 
ss.; 
u. 
DE 
SIERvO, 
emergenza 
Covid 
e 
sistema 
delle 
fonti: prime impressioni, in osservatorio sulle fonti, fascicolo speciale, 2020. 
(34) Per un minuzioso esame 
si 
rinvia 
a 
quanto brillantemente 
ricostruito da 
A. MITROTTI, Salus 
rei 
publicae 
e 
legalità 
alla 
prova 
dell’emergenza 
da 
Covid-19. 
inediti 
strumenti 
di 
gestione 
dei 
d.p.C.m., in ambiente 
e 
diritto, 3, 2020, pp. 17 ss.; 
G. DI 
COSIMO, Quel 
che 
resta della libertà di 
circolazione 
al 
tempo del 
Coronavirus, in osservatorio sulle 
fonti, fascicolo speciale, 2020; 
M. LuCIANI, il 
sistema 
delle 
fonti 
del 
diritto 
alla 
prova 
dell’emergenza, 
in 
rivista 
aiC, 
2, 
2020, 
p. 
121, 
il 
quale 
riconosce 
con sicurezza natura normativa “non regolamentare” a tali provvedimenti. 
(35) 
un 
decreto 
ministeriale 
(D.M.), 
nell'ordinamento 
giuridico 
italiano, 
è 
un 
atto 
amministrativo 
emanato 
da 
un 
ministro 
nell'esercizio 
della 
sua 
funzione 
e 
nell'ambito 
delle 
materie 
di 
competenza 
del 
suo 
dicastero. 
Attraverso 
la 
forma 
del 
decreto 
ministeriale 
possono 
essere 
poste 
tanto 
norme 
generali 
e 
astratte, 
quanto 
disposizioni 
particolari: 
nel 
primo 
caso 
un 
decreto 
ministeriale 
riveste 
natura 
di 
regolamento 
e 
costituisce 
quindi 
una 
fonte 
del 
diritto 
autonoma; 
nel 
secondo 
caso 
esso 
costituisce 
un 
mero 
atto 
amministrativo. 
Pertanto, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
decreto 
ministeriale 
contenga 
solo 
disposizioni 
particolari 
e 
discrezionali 
(per 
esempio: 
nomine 
di 
dirigenti 
ministeriali 
o 
di 
enti 
pubblici 
sottoposti 
all'autorità 
ministeriale), 
esso 
non 
costituisce 
una 
fonte 
del 
diritto, 
bensì 
un 
mero 
atto 
amministrativo, 
in 
particolare 
un 
atto 
di 
alta 
amministrazione. 
Inoltre, 
quando 
un 
decreto 
ministeriale 
è 
emanato 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
prende 
la 
denominazione 
di 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
(D.P.C.M.). 
(36) La 
giurisprudenza 
amministrativa 
prende 
congiuntamente 
in considerazione 
i 
due 
criteri 
formale 
e sostanziale - per la verifica inerente alla natura regolamentare di un decreto ministeriale. 
(37) 
Rubricata 
“disciplina 
dell’attività 
di 
governo 
e 
ordinamento 
della 
presidenza 
del 
Consiglio 
dei ministri”. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Invece, per quanto riguarda 
il 
requisito sostanziale, l’atto deve 
possedere 
i 
cosiddetti 
“caratteri 
intriseci” 
(38), ossia 
generalità, astrattezza 
ed innovatività 
(39). Nel 
caso di 
specie, i 
D.P.C.M. non presentano i 
caratteri 
dell’astrattezza 
e 
della 
generalità. 
Si 
esclude 
così 
che 
si 
tratti 
di 
“atti 
a 
carattere 
normativo” 
e 
non possono essere 
definiti 
“decreti 
regolamentari” 
per la 
mancanza 
dei requisiti sopra esposti. 

Inoltre, 
alcuni 
(40) 
hanno 
ricondotto 
la 
natura 
dei 
D.P.C.M. 
a 
quella 
delle 
“ordinanze 
di 
protezione 
civile”. Tuttavia, ciò sembra 
da 
escludere 
in quanto 
la 
delibera 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
31 gennaio 2020 (41) ha 
disposto, al 
punto 2, che 
«per 
l’attuazione 
degli 
interventi 
di 
cui 
all’articolo 25, comma 
2, 
lettere 
a) 
e 
b) 
del 
decreto 
legislativo 
2 
gennaio 
2018, 
n. 
1, 
da 
effettuare 
nella 
vigenza 
dello 
stato 
di 
emergenza, 
si 
provvede 
con 
ordinanze 
emanate 
dal 
Capo del dipartimento della protezione 
civile 
[…]». Dunque, se il 
Presidente 
del 
Consiglio 
avesse 
voluto 
emanare 
ordinanze 
avrebbe 
potuto 
farlo 
per 
il 
necessario tramite 
del 
Capo del 
Dipartimento della 
protezione 
civile 
e 
non 


(38) Cons. St., Sez. Sesta, sent. 30 novembre 
2016, n. 5035, par. 5 del 
Considerato in diritto: 
«il 
criterio sostanziale 
valorizza la natura intrinseca dell’atto che, per 
essere 
normativo, deve 
avere 
i 
seguenti 
caratteri: 
i) 
generalità, 
intesa 
quale 
indeterminabilità 
a 
priori 
ed 
a 
posteriori 
dei 
soggetti 
ai 
quali 
l’atto si 
indirizza; ii) astrattezza, intesa quale 
indefinita ripetibilità ed applicabilità a fattispecie 
concrete; 
iii) 
innovatività, 
intesa 
quale 
capacità 
di 
concorrere 
a 
costituire 
o 
ad 
innovare 
l’ordinamento». 
(39) Sui 
caratteri 
della 
generalità, dell’astrattezza 
e 
della 
novità 
di 
una 
‘fonte 
normativa’ 
è 
significativo 
il 
richiamo alle 
autorevoli 
ricostruzioni 
sviluppate 
brillantemente 
in v. CRISAFuLLI, lezioni 
di 
diritto Costituzionale, Padova, Cedam, 1984, pp. 26 ss.; 
L. PALADIN, diritto Costituzionale, Padova, 
Cedam, 
1998, 
pp. 
124 
ss. 
Più 
di 
recente 
si 
confrontino 
(ex 
multis) 
le 
diffuse 
analisi 
ricostruite 
in 
L. 
BENvENuTI, 
interpretazione 
e 
dogmatica nel 
diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2002; 
F. SORRENTINO, 
le 
fonti 
del 
diritto 
amministrativo, 
Padova, 
Cedam, 
2007; 
A. 
CERRI, 
prolegomeni 
ad 
un 
corso 
sulle 
fonti 
del 
diritto, Torino, Giappichelli, 2011; 
R. BIN, a 
discrezione 
del 
giudice. ordine 
e 
disordine: una prospettiva 
“quantistica”, Milano, Franco Angeli, 2013. 
(40) 
Sul 
punto, 
M. 
LuCIANI, 
il 
sistema 
delle 
fonti 
del 
diritto 
alla 
prova 
dell’emergenza, 
in 
Consulta 
online, 11 aprile 
2020, secondo il 
quale 
«i 
DPCM 
sono ordinanze, “pur se 
nella 
forma 
tipica 
-per quel-
l’organo -del 
decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio». Inoltre, pare 
non ravvisare 
alcuna 
anomalia, sul 
rilievo 
che 
i 
Decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
trovino 
legittimazione 
nel 
Codice 
della 
protezione 
civile, in particolare 
nelle 
parti 
in cui 
esso individua 
nel 
Presidente 
del 
Consiglio l’autorità 
nazionale 
di 
protezione 
civile 
e 
il 
titolare 
delle 
politiche 
in materia 
(art. 3, comma 
1, lett. a) e 
gli 
affida 
“poteri 
di 
ordinanza 
in materia 
di 
protezione 
civile” 
(art. 5, comma 
1), ordinanze 
che 
possono essere 
adottate 
“in deroga 
a 
ogni 
disposizione 
di 
legge, pur nei 
limiti 
e 
con le 
modalità 
indicate 
nella 
deliberazione 
dello 
stato 
d’emergenza 
e 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
generali 
dell’ordinamento 
giuridico 
e 
delle 
norme 
dell’unione 
europea” 
(art. 
25, 
comma 
1); 
l’ipotesi 
interpretativa 
in 
parola 
trova 
conforto, 
secondo 
l’Autore, anche 
nella 
giurisprudenza 
costituzionale 
(Corte 
cost., sent. n. 277 del 
9 luglio 2008, che, in 
riferimento a 
ordinanze 
analoghe 
previste 
dalla 
legge 
istitutiva 
del 
Servizio Nazionale 
della 
Protezione 
Civile 
e 
che 
possono essere 
emesse 
a 
seguito della 
dichiarazione 
di 
emergenza, e 
per far fronte 
ad essa, 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio, 
afferma 
che 
“per 
l’attuazione 
dei 
predetti 
interventi 
di 
emergenza, 
possono 
essere 
adottate 
ordinanze 
[…] in deroga 
ad ogni 
disposizione 
vigente, nel 
rispetto, tuttavia, dei 
principi 
generali dell’ordinamento giuridico […]”). 
(41) “dichiarazione 
dello stato di 
emergenza in conseguenza del 
rischio sanitario connesso all’insorgenza 
di 
patologie 
derivanti 
da 
agenti 
virali 
trasmissibili”. 
Per 
una 
brillante 
disamina 
si 
rimanda 
a 
G.P. DOLSO, Coronavirus: nota sulla dichiarazione 
dello stato di 
emergenza per 
rischio sanitario, in 
ambientediritto.it, 1, 2020. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


nella 
‘forma’ 
di 
D.P.C.M. Pertanto, i 
D.P.C.M. non possono essere 
qualificati 
come “ordinanze”. 

In 
conclusione, 
secondo 
il 
tribunale 
amministrativo, 
non 
può 
che 
trattarsi 
di 
“atto amministrativo generale” 
in quanto «presenta una pluralità di 
destinatari
» (non determinabile 
ex 
ante) ed «esauriscono la loro efficacia con le 
singole applicazioni» (42). 


5. i principi oggetto della controversia. 
Il 
TAR Calabria, nell’esame 
dei 
motivi 
di 
ricorso, ha 
approfondito i 
principi 
che 
giustificano 
la 
compressione 
dei 
poteri 
contingibili 
ed 
urgenti 
dei 
Presidenti 
delle Regioni, di cui all’art. 32 della legge n. 833 del 1978. 

Nello 
specifico, 
emerge 
la 
constatazione 
che 
l’ordinanza 
regionale 
sarebbe 
stata 
emanata 
in 
“violazione 
del 
principio 
di 
leale 
collaborazione”; 
mentre, 
di 
contro, 
la 
Regione 
Calabria 
sostiene, 
appoggiata 
da 
alcuni 
Comuni 
intervenuti 
a 
suo favore, che 
il 
D.P.C.M. del 
26 aprile 
2020, sottoponendo ad 
una 
disciplina 
unitaria 
tutto il 
territorio nazionale, non tenga 
conto delle 
peculiari 
esigenze fattuali 
in loco. 


Il 
giudice 
amministrativo 
calabrese 
attesta 
la 
mancanza 
di 
coordinamento 
tra 
i 
livelli 
di 
Governo, 
evidenziando 
che 
la 
condotta 
della 
Presidente 
della 
Regione 
sia 
sintomatica 
del 
vizio dell’eccesso di 
potere 
(43); 
in particolare, 
ha 
laconicamente 
rilevato 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
non 
risulta 
che 
l’emanazione 
dell’ordinanza 
oggetto di 
impugnativa 
sia 
stata 
preceduta 
da 
una 
qualsivoglia 
forma 
di 
intesa, 
consultazione 
o 
anche 
solo 
informazione 
nei 
confronti 
del 
Governo. 
Anzi, il 
contrasto nei 
contenuti 
tra 
l’ordinanza 
regionale 
e 
il 
D.P.C.M. 
26 aprile 
2020 denota 
un evidente 
difetto di 
coordinamento tra 
i 
due 
diversi 
livelli 
di 
governo, 
e 
dunque 
la 
violazione, 
da 
parte 
della 
Regione 
Calabria, 
del 
dovere 
di 
leale 
collaborazione 
(44) tra 
i 
vari 
soggetti 
che 
compongono la 
Repubblica. 


La 
situazione 
emergenziale 
richiede 
il 
raggiungimento 
di 
un 
equilibrio 
tra 
le 
prerogative 
dello 
Stato, 
quale 
ente 
preposto 
alla 
gestione 
dell’emergenza, 
e 
quelle 
delle 
Regioni, 
quali 
enti 
territoriali 
maggiormente 
vicini 
alle 
esigenze 
della 
popolazione. 
Tuttavia, 
l’emergenza 
sanitaria 
da 
Covid-19 
ha 
posto 
in 
essere 
la 
necessità, 
da 
parte 
dello 
Stato, 
di 
intervenire 
su 
materie 
di 


(42) S. TARuLLO, manuale di diritto amministrativo, Bologna, zanichelli, 2017, p. 310. 
(43) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 14 dicembre 
2001 n. 9. Sul 
punto, si 
rimanda 
a 
M. OCChIENNA, 
alle 
regioni 
quel 
che 
è 
dello 
Stato: 
il 
federalismo 
nella 
tutela 
del 
paesaggio 
[Nota 
a 
sentenza: 
Consiglio 
di 
Stato, ad. plen., 14 dicembre 
2001, n. 9], in periodico di 
urbanistica e 
appalti, v. 6, 4, 2002; 
F. CORTESE, 
l'adunanza plenaria e 
la natura del 
potere 
ministeriale 
di 
annullamento 'ad estrema difesa del 
vincolo' 
paesistico: chiarimenti 
sulla disciplina del 
riesame 
nel 
contesto della 'sussidiarietà' 
[Nota 
a 
sentenza: 
Cons. 
Stato, 
ad. 
plen., 
14 
dicembre 
2001, 
n. 
9], 
in 
periodico 
diritto 
& 
formazione, 
v. 
2, 
4, 
2002. 
(44) Principio fondamentale nell’assetto di competenze del titolo v della Costituzione. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


cui 
non 
ha 
la 
competenza 
esclusiva, 
come 
la 
sanità, 
per 
avere 
una 
normativa 
omogenea 
ed 
uniforme 
su 
tutto 
il 
territorio, 
evitando 
così 
che 
ciascuna 
Regione 
decida 
autonomamente 
ed 
in 
difformità 
rispetto 
alle 
altre. 
Lo 
Stato 
ha 
rinvenuto 
la 
competenza 
legislativa 
innanzitutto 
nell’art. 
117, 
comma 
2, 
lett. 


q) 
Cost., 
che 
gli 
attribuisce 
competenza 
esclusiva 
in 
materia 
di 
«profilassi 
internazionale
», 
e 
poi 
nel 
terzo 
comma 
del 
medesimo 
art. 
117 
Cost., 
che 
attribuisce 
allo 
Stato 
competenza 
concorrente 
in 
materia 
di 
«tutela 
della 
salute» 
e 
«protezione 
civile». 
Di 
conseguenza, si 
è 
venuto a 
creare 
un intreccio complesso nei 
rapporti 
tra 
Stato e 
Regioni 
e 
sono emerse 
diverse 
criticità 
con riguardo al 
principio di 
leale 
collaborazione, che 
rappresenta 
il 
pilastro al 
quale 
devono informarsi 
i 
rapporti 
Stato-Regioni. Infatti, è 
il 
loro principio ispiratore. È 
stato elaborato 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
dalla 
dottrina 
(45) per poi 
essere 
positivizzato, 
solo 
dopo 
la 
riforma 
del 
Titolo 
v 
del 
2001, 
nella 
Carta 
costituzionale. 
Però, il 
concetto di 
leale 
collaborazione 
(46) non è 
definito espressamente 
in 
Costituzione: 
vi 
è 
un riferimento espresso all’art. 120, comma 
2, Cost. (47). 
Solitamente 
trova 
la 
sua 
espressione 
in quelle 
fattispecie 
in cui 
si 
verificano 
intrecci 
di 
competenze 
statali 
e 
regionali, 
che 
implicano 
una 
co-gestione 
degli 
interessi nazionali e regionali. 

In 
questo 
caso, 
il 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
ha 
trovato 
qualche 
spazio 
di 
applicazione 
ed è 
stato assicurato attraverso il 
seguente 
schema: 
i 
prov


(45) In dottrina, è 
opportuno menzionare, S. BARTOLE, Supremazia e 
collaborazione 
nei 
rapporti 
fra Stato e 
regioni, Giuffrè, Milano, 1972. Si 
rinvia 
anche 
alla 
lettura 
di 
G. D’AuRIA, misure 
di 
politica 
economica generale, attrazione 
in sussidiarietà di 
funzioni 
regionali 
da parte 
dello Stato, leale 
collaborazione 
fra Stato e autonomie, in il Foro italiano, n. 10/2018, pp. 3010-3014. 
(46) 
Sul 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
e 
sulla 
rilevanza 
che 
esso 
riveste 
quale 
vera 
condizione 
della 
regola 
sussidiaria 
si 
riportano 
alcuni 
passaggi 
significativi 
della 
giurisprudenza 
costituzionale. 
Corte 
cost. 
14 
ottobre 
1996 
n. 
341definisce 
la 
leale 
collaborazione 
“un 
permanente 
fattore 
di 
composizione 
di 
un 
disegno 
autonomistico 
che 
è 
basato 
sì 
sulla 
distinzione 
e 
sull’articolazione 
delle 
competenze, 
ma 
anche, 
talvolta, 
sulla 
loro 
interferenza 
e 
sul 
loro 
reciproco 
legame”. 
Corte 
cost. 
23 
gennaio 
2006 
n. 
31 
ha 
affermato 
che 
il 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
“deve 
presiedere 
a 
tutti 
i 
rapporti 
che 
intercorrono 
tra 
Stato 
e 
Regioni”, 
dato 
che 
“la 
sua 
elasticità 
e 
la 
sua 
adattabilità 
lo 
rendono 
particolarmente 
idoneo 
a 
regolare 
in 
modo 
dinamico 
i 
rapporti 
in 
questione, 
attenuando 
i 
dualismi 
ed 
evitando 
eccessivi 
irrigidimenti”. 
Quello 
della 
leale 
collaborazione 
costituisce 
un 
principio 
interpretativo 
generale 
delle 
norme 
sul 
riparto 
di 
competenza 
e 
più 
in 
generale 
delle 
relazioni 
istituzionali 
fra 
Stato 
e 
Regioni; 
cfr. 
anche 
Corte 
cost. 
18 
luglio 
1997 
n. 
242. 
Sulla 
rilevanza 
del 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
quale 
“strumento 
imprescindibile” 
nella 
regolazione 
dei 
rapporti 
tra 
Stato 
e 
Regioni 
si 
veda 
L. 
ANTONINI, 
M. 
BERGO, 
il 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
e 
la 
remuntada 
delle 
regioni 
nei 
rapporti 
finanziari 
con 
lo 
Stato: 
brevi 
riflessioni 
a 
margine 
di 
alcune 
recenti 
sentenze 
della 
Corte 
costituzionale, 
in 
Federalismi.it, 
n. 
12/2018, 
p. 
2. 
(47) Il 
secondo comma 
dell’articolo 120 Cost. prevede 
i 
presupposti 
sostanziali 
per l’esercizio 
del 
potere 
sostitutivo straordinario del 
Governo, in assenza 
dei 
quali 
tale 
potere 
sarebbe 
inammissibile. 
Tale 
potere 
può essere, quindi, esercitato: 
nel 
caso di 
mancato rispetto di 
norme 
e 
trattati 
internazionali 
o della 
normativa 
comunitaria 
oppure 
di 
pericolo grave 
per l’incolumità 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, ovvero 
quando lo richiedono la 
tutela 
dell’unità 
giuridica 
o dell’unità 
economica 
e 
in particolare 
la 
tutela 
dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali, 
prescindendo 
dai 
confini 
territoriali 
dei governi locali. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


vedimenti 
diretti 
a 
regolamentare 
la 
materia 
(ovvero 
i 
D.P.C.M.) 
devono 
essere 
adottati 
“sentiti” 
i 
Presidenti 
di 
Regione 
coinvolti 
o il 
Presidente 
della 
Conferenza 
delle 
regioni 
e 
delle 
province 
autonome, 
o 
su 
loro 
proposta, 
senza 
intese 
formalizzate 
che 
risulterebbero 
inconciliabili 
con 
le 
tempistiche 
indispensabili 
in periodi emergenziali. 

Tuttavia, 
nella 
gestione 
dell’emergenza 
da 
Covid-19, 
le 
seguenti 
forme 
di 
coordinamento 
inter-istituzionale 
non 
sono 
state 
sufficienti. 
In 
particolar 
modo, 
i 
provvedimenti 
del 
Governo 
avrebbero 
dovuto 
implicare 
una 
maggiore 
collaborazione 
con 
le 
autorità 
periferiche, 
anche 
attraverso 
lo 
strumento 
dell’intesa 
o 
della 
Conferenza 
Stato-Regioni 
e 
autonomie 
locali, 
in 
considerazione 
della 
loro 
maggiore 
conoscenza 
delle 
specificità 
delle 
singole 
aree 
e 
delle 
varie 
esigenze 
contingenti. 
Pertanto, 
l’amministrazione 
centrale 
avrebbe 
dovuto 
valutare 
più 
attentamente 
gli 
strumenti 
di 
raccordo, 
poiché, 
in 
assenza 
di 
uno 
spirito 
collaborativo, 
qualsiasi 
tentativo 
di 
dare 
una 
forma 
giuridica 
tra 
i 
vari 
livelli 
di 
governo 
rimane 
fine 
a 
sé 
stesso. 
Si 
è 
così 
sviluppato 
un 
ordinamento 
emergenziale 
di 
carattere 
duale 
e 
concorrenziale, 
in 
cui 
Stato 
e 
Regioni 
non 
riescono 
a 
coordinarsi 
facendo 
così 
venir 
meno 
il 
principio 
di 
leale 
collaborazione. 


Inoltre, 
dall’esame 
dei 
motivi 
del 
ricorso, 
non 
emergono 
condizioni 
peculiari 
tali 
da 
giustificare 
l’abbandono 
del 
principio 
di 
precauzione 
(48). 
Infatti, 
l’emergenza 
epidemiologica 
ha 
insegnato 
che 
il 
rischio 
non 
ha 
solo 
a 
che 
fare 
con 
la 
diffusione 
del 
virus, 
ma 
anche 
con 
le 
misure 
di 
contenimento 
e 
la 
dotazione 
sanitaria 
deputata 
a 
combatterlo. 
Si 
è 
così 
seguita 
una 
strategia 
coerente 
con 
tale 
sopracitato 
principio, 
che 
deve 
guidare 
l’operato 
dei 
poteri 
pubblici 
in 
un 
contesto 
di 
emergenza 
sanitaria. 
Si 
ricorda 
anche 
che 
“ogni 
qual 
volta 
non 
siano 
conosciuti 
con 
certezza 
i 
rischi 
indotti 
da 
un’attività 
potenzialmente 
pericolosa, 
l’azione 
dei 
pubblici 
poteri 
debba 
tradursi 
in 
una 
prevenzione 
anticipata 
rispetto 
al 
consolidamento 
delle 
conoscenze 
scientifiche 
(49)”. 


(48) Per “principio di 
precauzione” 
si 
intende 
una 
politica 
di 
condotta 
cautelativa 
per quanto riguarda 
le 
decisioni 
politiche 
ed 
economiche 
sulla 
gestione 
delle 
questioni 
scientificamente 
controverse. 
In particolare, 
è 
citato nell’articolo 191 del 
Trattato sul 
funzionamento dell’unione 
Europea 
(uE). 
Il 
suo scopo è 
garantire 
un alto livello di 
protezione 
dell’ambiente 
grazie 
a 
delle 
prese 
di 
posizione 
preventive 
in 
caso 
di 
rischio. 
Tuttavia, 
nella 
pratica, 
il 
campo 
di 
applicazione 
del 
principio 
è 
molto 
più 
vasto. La 
definizione 
deve 
anche 
avere 
un impatto positivo a 
livello internazionale, al 
fine 
di 
garantire 
un livello appropriato di 
protezione 
dell’ambiente 
e 
della 
salute 
nei 
negoziati 
internazionali. Infatti, tale 
principio è 
stato riconosciuto da 
varie 
convenzioni 
internazionali 
e 
figura 
in special 
modo nell'Accordo 
sulle 
misure 
sanitarie 
e 
fitosanitarie 
(SPS) concluso nel 
quadro dell’Organizzazione 
mondiale 
del 
commercio 
(OMC). Inoltre, il 
suo ricorso è 
giustificato solo quando riunisce 
tre 
condizioni, ossia 
l'identificazione 
degli 
effetti 
potenzialmente 
negativi; 
la 
valutazione 
dei 
dati 
scientifici 
disponibili; 
l'ampiezza 
dell'incertezza scientifica. 
(49) 
Cfr. 
Cons. 
Stato, 
Sez. 
III, 
3 
ottobre 
2019 
n. 
6655. 
Sul 
punto, 
si 
rimanda 
a 
L. 
DE 
vECChI, 
gare 
per 
la fornitura di 
vaccini 
e 
principio di 
precauzione: è 
legittimo porre 
in concorrenza al 
criterio del 
prezzo più basso due 
vaccini 
con coperture 
differenti, in net4market, 14 novembre 
2019; 
L. FILIERI, un 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


6. Conclusioni 
L’emergenza 
da 
Coronavirus 
ha 
suscitato non pochi 
problemi 
in ordine 
alla 
distribuzione 
delle 
competenze 
tra 
i 
vari 
livelli 
di 
Governo 
e 
ha 
dato 
luogo 
a 
numerose 
incertezze 
applicative 
che, 
talvolta, 
sono 
sfociate 
anche 
in 
conflitti 
giudiziari, come il caso sopra analizzato. 

In particolare, appare 
pacifico come 
si 
siano progressivamente 
prodotti 
spazi 
di 
differenziazione 
(50): 
molte 
Regioni 
si 
sono distaccate 
rispetto alle 
linee 
guida 
dettate 
dagli 
organi 
tecnico-scientifici 
centrali, 
producendo 
conflitti 


(51) e generando confusione nell’ordinamento. 
Di 
conseguenza, l’ordinamento si 
è 
rivelato territorialmente 
“diviso” 
nel 
contrasto 
alla 
diffusione 
dell’epidemia. 
Tuttavia, 
questa 
divisione 
è 
stata 
in 
parte 
contenuta 
attraverso l’esercizio dal 
potere 
centrale, i 
cui 
provvedimenti 
hanno in qualche 
modo limitato l’incertezza 
generata 
dalla 
moltitudine 
di 
ordinanze 
regionali 
e 
locali, dimostrando che 
una 
regia 
nazionale 
per far fronte 
ad emergenze di questo genere è di certo opportuna. 

In conclusione, emerge, complessivamente, un’esigenza 
da 
parte 
del 
potere 
centrale 
di 
porre 
in essere 
misure 
omogenee 
per l’intero territorio nazionale, 
ma 
contemporaneamente 
anche 
la 
volontà, 
da 
parte 
delle 
autonomie 
locali, di 
provvedere 
con specifiche 
discipline, che 
possano tener conto delle 
esigenze 
dei 
territori, di 
cui, sicuramente, il 
livello di 
governo “più vicino” 
ha 
maggiore 
e 
più completa 
cognizione, il 
tutto nel 
rispetto del 
quadro generale 
di disciplina predisposto dalle autorità centrali. 


In aggiunta, si 
pone 
anche 
l’esigenza 
di 
introdurre 
rettifiche 
migliorative 
in grado di 
favorire 
la 
chiarezza 
e 
la 
fluidità 
dei 
rapporti 
tra 
i 
due 
livelli 
di 
gestione 
dell’emergenza. 

caso di 
“non” 
applicazione 
del 
principio di 
precauzione 
nella scelta del 
vaccino a minore 
copertura, 
in italiappalti, 2 novembre 
2019. In particolare, “il 
principio di 
precauzione 
obbliga 
le 
Autorità 
competenti 
ad 
adottare 
provvedimenti 
appropriati 
al 
fine 
di 
scongiurare 
i 
rischi 
potenziali 
per 
la 
sanità 
pubblica, 
per la 
sicurezza 
e 
per l’ambiente, senza 
dover attendere 
che 
siano pienamente 
dimostrate 
l’effettiva 
esistenza 
e 
la 
gravità 
di 
tali 
rischi 
e 
prima 
che 
subentrino più avanzate 
e 
risolutive 
tecniche 
di 
contrasto. 
Per la 
sua 
applicazione, tuttavia, è 
presupposta 
l’esistenza 
di 
un rischio specifico all’esito di 
una 
valutazione 
quanto 
più 
possibile 
completa, 
condotta 
alla 
luce 
dei 
dati 
disponibili 
che 
risultino 
maggiormente 
affidabili 
e 
che 
deve 
concludersi 
con un giudizio di 
stretta 
necessità 
della 
misura. Nel 
caso di 
specie, 
non 
è 
stata 
verificata 
una 
condizione 
di 
rischio 
indeterminato 
e 
incontrollabile 
tale 
da 
suggerire 
l’impiego 
alla massima intensità di tutti gli strumenti di contenimento del rischio”. 

(50) Per una 
attenta 
analisi 
riguardo al 
fenomeno della 
differenziazione 
durante 
l’emergenza 
sanitaria 
si 
rimanda 
a 
P. GIANGASPERO, note 
sparse 
sui 
rapporti 
tra Stato e 
regioni 
in materia di 
gestione 
dell’emergenza Covid 
19, tra istanze 
di 
omogeneità e 
spinte 
alle 
differenziazioni 
territoriali, in Quaderni 
amministrativi, n. 3/2020. 
(51) A 
testimonianza 
della 
conflittualità 
in atto tra 
Stato e 
Regioni 
si 
prenda 
anche 
in considerazione 
il 
decreto n. 344 del 
Presidente 
del 
TAR Sardegna, Sez. I, che 
ha 
sospeso in via 
cautelare 
l’ordinanza 
(n. 
43, 
11 
settembre 
2020), 
che 
imponeva 
a 
tutti 
coloro 
che 
intendevano 
fare 
ingresso 
nel 
territorio 
regionale 
di 
presentare, all’atto dell’imbarco, l’esito di 
un test 
(sierologico o molecolare 
o antigenico 
rapido) effettuato nelle 48 ore precedenti. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


In particolare, si 
riscontra 
l’esigenza 
di 
dare 
attuazione 
all’art. 11 della 
Legge 
costituzionale 
n. 3 del 
2001, che 
prevede 
l’integrazione 
con rappresentanti 
regionali 
della 
‘Commissione 
parlamentare 
per 
le 
questioni 
regionali’, 
prevista dall’art. 126, comma 1, Cost. 

Inoltre, appare 
in questo contesto opportuno il 
rafforzamento del 
ruolo e 
della 
presenza 
di 
organi 
“misti”, quali 
la 
Conferenza 
Stato-Regioni 
e 
StatoCittà-
Enti 
locali. Di 
più, il 
ruolo delle 
Conferenze 
potrebbe 
essere 
reso più efficiente 
attraverso una 
riorganizzazione 
delle 
molte 
sedi 
in cui 
è 
articolato e 
attraverso 
forme 
di 
consultazione 
più 
tempestive. 
Per 
esempio, 
attraverso 
l’uso 
delle 
nuove 
tecnologie 
digitali. 
Pare 
anche 
opportuno 
prevedere 
il 
rafforzamento 
del 
ruolo 
delle 
Regioni 
nella 
formulazione 
delle 
proposte 
relative 
ai 
“livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali, che 
devono 
essere 
garantiti 
in tutto il 
territorio nazionale” 
che 
la 
Cost. -all’art. 117, 
comma 1 - affida alla competenza esclusiva dello Stato. 

tribunale 
amministrativo 
Regionale 
per 
la 
Calabria, 
sezione 
Prima, 
sentenza 
9 
maggio 
2020 n. 841 
-pres. G. Pennetti, est. F. Tallaro -Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Minsitri 
(avv. 
distr. 
St. 
Catanzaro) 
c. 
Regione 
Calabria 
(avv.ti 
A. 
Di 
Porto, 
M. 
Manna, 
O. 
Morcavallo) 
+ 
altri. 


FATTO e DIRITTO 


I – l’iter processuale 


1. – Oggetto dell’odierno giudizio è 
l’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
del 
29 
aprile 2020, n. 37. 
Con tale 
provvedimento, adottato ai 
sensi 
dell’art. 32, comma 
3 l. 23 dicembre 
1978, n. 833, 
sono state 
dettate 
misure 
per la 
prevenzione 
e 
la 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica 
da 
COvID-19. 
In particolare, si 
controverte 
della 
legittimità 
del 
punto n. 6, con il 
quale 
è 
stato disposto che, 
sin dalla 
data 
di 
adozione 
dell’ordinanza, è 
consentita, nel 
territorio della 
Regione 
Calabria, 
la 
ripresa 
dell’attività 
di 
ristorazione, non solo con consegna 
a 
domicilio e 
con asporto, ma 
anche 
mediante 
servizio al 
tavolo, purché 
all’aperto e 
nel 
rispetto di 
determinate 
precauzioni 
di carattere igienico sanitario. 
2. – Ad impugnare 
l’ordinanza, chiedendone 
l’annullamento a 
questo Tribunale 
Amministrativo 
Regionale, 
è 
stata 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
con 
ricorso 
notificato 
a 
mezzo 
PEC e depositato il 4 maggio 2020. 
ha resistito la Regione Calabria, la quale si è costituita nella medesima data. 
3. 
– 
unitamente 
al 
ricorso 
è 
stata 
proposta 
domanda 
cautelare 
di 
sospensione 
degli 
effetti 
dell’ordinanza, nella 
parte 
impugnata, accompagnata 
dalla 
richiesta 
di 
decreto cautelare 
monocratico 
ai sensi dell’art. 56 c.p.a. 
In data 
5 maggio 2020 il 
Presidente 
di 
questo Tribunale 
Amministrativo Regionale 
ha 
sentito 
informalmente e separatamente le difese delle amministrazioni. 
Esse, 
nell’interesse 
generale 
della 
giustizia, 
avuto 
riguardo 
oltretutto 
alla 
delicatezza 
dei 
temi 
trattati 
in ricorso, che 
toccano i 
rapporti 
fra 
Stato e 
Regioni 
dal 
punto di 
vista 
dei 
rispettivi 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


poteri 
di 
intervento 
nell’attuale 
drammatica 
fase 
epidemica 
in 
atto, 
hanno 
concordato 
sulla 
necessità 
di 
addivenire 
in tempi 
molto brevi 
a 
una 
decisione 
collegiale, eventualmente 
anche 
quale sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. 
Pertanto, l’Avvocatura 
dello Stato ha 
rinunciato all’istanza 
di 
tutela 
cautelare 
monocratica 
ai 
sensi 
dell’art. 56 c.p.a.; 
entrambe 
le 
parti 
hanno rinunciato ai 
termini 
a 
difesa 
di 
cui 
all’art. 
55, comma 5 c.p.a. 


4. – È stata dunque fissata la camera di consiglio del 9 maggio 2020. 
5. – Al giudizio hanno inteso intervenire anche altre amministrazioni. 
In 
particolare, 
in 
data 
6 
maggio 
2020 
si 
è 
costituito, 
ad 
adiuvandum, 
il 
Comune 
di 
Reggio 
Calabria; 
al 
contrario, 
si 
sono 
costituiti 
ad 
opponendum 
nella 
medesima 
data 
del 
6 
maggio 
2020 
il 
Comune 
di 
Amendolara 
e 
nella 
successiva 
data 
del 
7 
maggio 
2020 
il 
Comune 
di 
Tropea. 
In data 
7 maggio 2020 si 
è 
costituito ad opponendum 
anche 
CODACONS 
-Coordinamento 
delle 
associazioni 
e 
dei 
comitati 
di 
tutela 
dell'ambiente 
e 
dei 
diritti 
degli 
utenti 
e 
dei 
consumatori. 
In data 
8 maggio 2020 si 
sono costituiti, in pretesa 
applicazione 
dell’art. 28, comma 
1 c.p.a., 
alcuni 
operatori 
del 
settore 
della 
ristorazione, meglio individuati 
nell’epigrafe 
della 
sentenza. 
In vista 
della 
decisione 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
e 
la 
Regione 
Calabria 
hanno 
depositato memorie ad ulteriore supporto delle argomentazioni difensive utilizzate. 
6. 
– 
Il 
ricorso 
è 
stato 
trattato 
collegialmente 
in 
data 
9 
maggio 
2020 
ai 
sensi 
dell’art. 
84, 
comma 
5 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod con l. 24 aprile 
2020, n. 27, e, ricorrendone 
i 
presupposti, 
è stato deciso nel merito ai sensi dell’art. 60 c.p.a. 
ii – le posizioni delle parti 


7. – La 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
ha 
dedotto l’illegittimità 
dell’ordinanza 
impugnata, 
nella parte di interesse, sotto tre diverse prospettive. 
7.1. – In primo luogo, essa 
violerebbe 
gli 
artt. 2, comma 
1, e 
3, comma 
1 d.l. 25 marzo 2020, 
n. 19, e sarebbe stata emanata in carenza di potere per incompetenza assoluta. 
Infatti, l’art. 2, comma 
1 dell’atto normativo citato attribuisce 
la 
competenza 
ad adottare 
le 
misure 
urgenti 
per evitare 
la 
diffusione 
del 
COvID-19 e 
le 
ulteriori 
misure 
di 
gestione 
del-
l’emergenza 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri, che 
provvede 
con propri 
decreti 
previo 
adempimento degli oneri di consultazione specificati. 
Per quel 
che 
rileva, il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
ha 
provveduto con d.P.C.M. del 
26 
aprile 
2020 
che, 
con 
efficacia 
dal 
4 
maggio 
2020 
al 
17 
maggio 
2020, 
dispone 
la 
sospensione 
delle 
attività 
dei 
servizi 
di 
ristorazione 
(fra 
cui 
bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) e, in 
via 
di 
eccezione, consente 
la 
ristorazione 
con consegna 
a 
domicilio nel 
rispetto delle 
norme 
igienico-sanitarie 
sia 
per 
l’attività 
di 
confezionamento 
che 
di 
trasporto, 
nonché 
la 
ristorazione 
con asporto, fermo restando l’obbligo di 
rispettare 
la 
distanza 
di 
sicurezza 
interpersonale 
di 
almeno un metro, il 
divieto di 
consumare 
i 
prodotti 
all’interno dei 
locali 
e 
il 
divieto di 
sostare 
nelle immediate vicinanze degli stessi. 
Come 
visto, l’ordinanza 
regionale, in contrasto con quanto disposto dal 
d.P.C.M., ha 
autorizzato 
anche la ristorazione con servizio al tavolo. 
Ma 
tale 
intervento 
integrativo 
non 
sarebbe 
consentito 
dalla 
normativa 
applicabile, 
in 
quanto 
l’art. 
3, 
comma 
1 
d.l. 
n. 
19 
del 
2020 
prevede 
che 
le 
Regioni 
possano 
adottare 
misure 
di 
efficacia 
locale 
«nell’ambito 
delle 
attività 
di 
loro 
competenza 
e 
senza 
incisione 
delle 
attività 
produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza 
strategica 
per 
l’economia 
nazionale», 
ma 
tale 
potere 
è 
subordinato 
a 
tre 
condizioni, 
e 
cioè 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
destinati 
a 
operare 
nelle 
more 
dell’adozione 
di 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


un 
nuovo 
d.P.C.M.; 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
giustificati 
da 
«situazioni 
sopravvenute 
di 
aggravamento 
del 
rischio 
sanitario» 
proprie 
della 
Regione 
interessata; 
che 
si 
tratti 
di 
misure 
«ulteriormente 
restrittive» 
delle 
attività 
sociali 
e 
produttive 
esercitabili 
nella 
regione. 
Né 
l’ordinanza 
impugnata 
potrebbe 
trovare 
fondamento nell’art. 32, comma 
3 l. n. 833 del 
1978, e 
perché 
derogato dalla 
disciplina 
dettata 
dal 
d.l. n. 19 del 
2020, e 
perché 
l’emergenza 
sanitaria 
ha 
carattere 
nazionale, e 
dunque 
impone 
l’intervento da 
parte 
del 
Governo centrale. 


7.2. 
– 
Con 
il 
secondo 
motivo 
di 
ricorso 
si 
deduce 
che 
l’ordinanza 
sarebbe 
priva 
di 
un’adeguata 
motivazione, non sarebbe 
stata 
supportata 
da 
una 
valida 
istruttoria, sarebbe 
illogica 
e 
irrazionale. 
In 
particolare, 
non 
emergerebbero 
condizioni 
peculiari 
che 
giustifichino, 
nel 
solo 
territorio 
della 
Regione 
Calabria, l’abbandono del 
principio di 
precauzione; 
non sarebbe 
stato adottato 
un 
valido 
metodo 
scientifico 
nella 
valutazione 
del 
rischio 
epidemiologico; 
si 
porrebbe 
a 
rischio 
la coerente gestione della crisi epidemiologica da parte del Governo. 
7.3. – Infine, l’ordinanza 
sarebbe 
viziata 
da 
eccesso di 
potere, evidenziato dalla 
violazione 
del principio di leale collaborazione. 
Invero, l’ordinanza 
sarebbe 
stata 
emessa 
in assenza 
di 
qualunque 
interlocuzione 
con il 
Governo. 
8. – La 
Regione 
Calabria 
ha 
posto una 
questione 
pregiudiziale 
di 
giurisdizione 
e 
si 
è 
difesa 
nel merito. 
8.1. 
– 
Pregiudizialmente 
ha 
dedotto 
che 
il 
ricorso 
è 
volto 
ad 
assumere 
che 
l’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
invada 
una 
sfera 
di 
attribuzioni 
propria 
del 
Governo centrale, 
sottraendogli così la possibilità di esercizio di una propria prerogativa. 
La 
controversia 
assumerebbe, così, un tono costituzionale 
che 
attribuirebbe 
la 
giurisdizione 
alla 
Corte 
costituzionale, quale 
giudice 
dei 
conflitti 
di 
attribuzione 
ai 
sensi 
dell’art. 134 Cost. 
8.2. 
– 
Nel 
merito, 
l’ordinanza 
impugnata 
troverebbe 
un 
sicuro 
fondamento 
nell’art. 
32, 
comma 
3 l. n. 833 del 
1978 e 
sarebbe 
pienamente 
informata 
ai 
principi 
di 
adeguatezza 
e 
proporzionalità 
espressamente 
richiamati 
dall’art. 1, comma 
2 d.l. n. 19 del 
2020, i 
quali 
richiedono di 
modulare 
i 
provvedimenti 
volti 
al 
contrasto dell’epidemia 
al 
rischio effettivamente 
presente 
su specifiche parti del territorio. 
Al 
contrario, 
a 
tali 
principi 
non 
si 
conformerebbe 
il 
d.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020, 
che 
sottopone 
a 
una 
disciplina 
unitaria 
tutto 
il 
territorio 
nazionale, 
senza 
tener 
conto 
delle 
differenze 
fattuali. 
Peraltro 
lo 
strumento 
normativo 
utilizzato 
dal 
Governo 
(un 
d.P.C.M.) 
sarebbe 
palesemente 
inadeguato perché 
la 
Costituzione 
non prevede 
la 
delegabilità 
dei 
poteri 
di 
decretazione 
d’urgenza 
di cui all’art. 77 Cost. 
8.3. – Per altro verso, la 
regolamentazione 
dettata 
dal 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
non 
sarebbe 
in contrasto con il 
contenuto del 
d.P.C.M. del 
26 aprile 
2020, essendo invece 
da 
interpretare 
quale 
disposizione 
di 
dettaglio della 
medesima, in funzione 
delle 
specificità 
della 
situazione 
epidemiologica 
presente 
nel 
territorio regionale 
ed in presenza 
di 
alcune 
“misure 
minime” da adottare a tutela della salute pubblica e del rischio di contagio. 
Il ricorso, dunque, non dovrebbe essere esaminato per difetto di interesse. 
8.4. 
– 
Infine, 
l’ordinanza 
sarebbe 
supportata 
da 
un 
impianto 
motivazionale 
sufficiente, 
nel 
quale 
si 
dà 
atto che 
l’analisi 
dei 
dati 
prodotta 
dal 
Dipartimento Tutela 
della 
Salute 
e 
Politiche 
Sanitarie 
della 
Regione 
Calabria 
ha 
fatto rilevare, alla 
data 
del 
27 aprile 
2020, un valore 
del 
Rapporto di 
replicazione 
(Rt) con daily 
time 
lag 
a 
5 giorni, pari 
a 
0,63; 
in generale, valori 
inferiori 
ad 1 indicano che la diffusione dell’infezione procede verso la regressione. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


9. – Gli interventori hanno arricchito il giudizio con le loro deduzioni. 
9.1. – Il 
Comune 
di 
Reggio Calabria, invero, ha 
inteso condividere 
in tutto i 
contenuti 
del 
ricorso 
presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 
9.2. – Il 
Comune 
di 
Amendolara 
ha 
aderito all’eccezione 
di 
difetto di 
giurisdizione 
di 
questo 
giudice 
amministrativo in favore 
della 
Corte 
costituzionale 
e 
ha 
affermato l’infondatezza 
dei 
motivi di ricorso. 
ha 
aggiunto 
che 
il 
d.l. 
n. 
19 
del 
2020, 
al 
quale 
non 
sarebbe 
aderente 
l’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione, sarebbe 
in contrasto con gli 
artt. 77, 13, 14, 15, 16, 17 e 
41, 117, co. 3 e 
120, 
co. 2, Cost. 
Partendo dal 
presupposto che 
l’ordinamento costituzionale 
italiano non prevede 
lo “stato di 
emergenza”, la 
normativa 
in questione 
sarebbe 
in contrasto con gli 
artt. 77, 13, 14, 15, 16, 17 
e 
41 
Cost. 
in 
quanto 
demanderebbe 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
il 
potere 
di 
limitare 
le libertà garantite dalla Costituzione. 
Peraltro, 
si 
tratterebbe 
di 
normativa 
non 
essenziale 
per 
affrontare 
l’attuale 
stato 
di 
emergenza, 
in 
quanto 
nell’ordinamento 
sono 
contemplate 
diverse 
ipotesi 
in 
cui 
è 
consentita 
l’emanazione 
di ordinanze contingibili e urgenti per affrontare situazioni urgenti. 
Sotto altro profilo, il 
d.l. n. 19 del 
2020 priverebbe 
le 
Regioni 
della 
potestà 
normativa 
concorrente 
in 
materia 
di 
salute, 
prevista 
dall’art. 
117 
Cost. 
e 
rappresenterebbe 
esercizio 
di 
potere 
sostitutivo da parte dello Stato non previsto dall’art. 120 Cost. 
9.3. – Il 
Comune 
di 
Tropea 
ha 
aderito anch’esso all’eccezione 
pregiudiziale 
di 
difetto di 
giurisdizione. 
ha 
poi 
eccepito l’illegittimità 
costituzionale 
del 
d.l. n. 19 del 
2020, che 
rappresenterebbe 
un 
indebito 
esercizio 
di 
potere 
sostitutivo 
da 
parte 
dello 
Stato 
in 
violazione 
degli 
artt. 
117, 
comma 
5 e 120 Cost., e una violazione dei principi di sussidiarietà e leale cooperazione. 
Nel 
merito, 
l’ordinanza 
sarebbe 
giustificata 
dall’art. 
32, 
comma 
3 
l. 
n. 
833 
del 
1978 
e 
sarebbe 
coerente 
con 
i 
principi 
di 
adeguatezza 
e 
proporzionalità, 
violati 
invece 
dalla 
decisione 
del 
Governo 
di predisporre una disciplina unitaria per tutto il territorio nazionale. 
L’ordinanza 
avrebbe 
alla 
base 
l’analisi 
dei 
dati 
epidemiologici 
regionali 
e, 
a 
ben 
guardare, 
nemmeno 
si 
porrebbe 
in 
contrasto 
con 
il 
d.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020, 
di 
cui 
è 
mera 
specificazione. 
9.4. – CODACONS 
ha 
argomentato nel 
senso che 
la 
lite, qualificabile 
in termini 
di 
conflitto 
di 
attribuzioni, sarebbe 
devoluta 
ai 
sensi 
dell’art. 134 Cost. alla 
giurisdizione 
della 
Corte 
costituzionale, 
cui ha chiesto di trasmettere gli atti. 
9.5. 
– 
Gli 
operatori 
della 
ristorazione, 
infine, 
si 
sono 
qualificati 
in 
termini 
di 
controinteressati 
e, 
costituitisi 
ai 
sensi 
dell’art. 
28, 
comma 
1, 
hanno 
domandato 
il 
differimento 
dell’udienza 
camerale 
con 
assegnazione 
di 
termini 
per 
poter 
esercitare 
correttamente 
il 
proprio 
diritto 
di 
difesa. 
Nel merito, hanno aderito alle tesi difensive della Regione Calabria. 
9.6. – va 
infine 
notato che 
la 
Regione 
Calabria, nella 
memoria 
depositata 
in data 
9 maggio 
2020, ha 
lamentato di 
non aver potuto prendere 
posizione 
sui 
numerosi 
interventi 
che 
si 
sono 
succeduti 
e 
ha 
invitato il 
Tribunale 
a 
valutare 
se, rispetto a 
tale 
vulnus 
al 
diritto di 
difesa, si 
rendesse necessario o anche solo opportuno, un differimento della Camera di consiglio. 
iii – le questioni pregiudiziali e preliminari 


iii.1. – La questione di giurisdizione. 
10. 
– 
È 
opinione 
del 
Tribunale 
di 
essere 
dotato 
di 
giurisdizione 
sul 
ricorso 
proposto 
dalla 
Presidenza 
del Consiglio dei Ministri. 
Tale conclusione si basa su tre, concatenate osservazioni. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


10.1. 
– 
È 
innegabile 
che 
il 
provvedimento 
emanato 
dal 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
abbia 
natura 
di 
ordinanza 
contingibile 
e 
urgente 
in materia 
di 
igiene 
e 
sanità, nel 
quadro della 
disciplina dettata dall’art. 32 l. n. 833 del 1978. 
Si 
tratta, dunque, di 
esercizio di 
potere 
amministrativo, sul 
quale 
il 
sindacato giurisdizionale 
è naturalmente attribuito al giudice della funzione pubblica, cioè il giudice amministrativo. 
10.2. – Il 
fatto che 
le 
ragioni 
di 
illegittimità 
dedotte 
da 
parte 
ricorrente 
siano inerenti 
anche 
ai 
confini 
delle 
attribuzioni 
assegnate 
ai 
diversi 
poteri 
dello Stato non è 
sufficiente 
ad attribuire 
alla controversia un tono costituzionale. 
In 
proposito, 
si 
richiama 
la 
costante 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale, 
secondo 
la 
quale 
il 
tono 
costituzionale 
del 
conflitto 
sussiste 
quando 
il 
ricorrente 
non 
lamenti 
una 
lesione 
qualsiasi, 
ma 
una 
lesione 
delle 
proprie 
attribuzioni 
costituzionali 
(ex 
plurimis, 
Corte 
cost. 
14 
febbraio 
2020; 
Id. 
14 
febbraio 
2018, 
n. 
28; 
Id. 
15 
maggio 
2015, 
n. 
87; 
Id. 
28 
marzo 
2013, 
n. 
52). 
È 
stato, 
in 
particolare, 
chiarito 
(da 
Corte 
cost. 
29 
ottobre 
2019, 
n. 
224) 
che 
non 
basta 
che 
nella 
materia 
in questione 
vengano in gioco competenze 
e 
attribuzioni 
previste 
dalla 
Costituzione, 
perché 
la 
controversia 
assuma 
un tono costituzionale. La 
natura 
costituzionale 
delle 
competenze, 
infatti, così 
come 
il 
potere 
discrezionale 
che 
ne 
connota 
i 
relativi 
atti 
di 
esercizio, non 
esclude 
la 
sindacabilità 
nelle 
ordinarie 
sedi 
giurisdizionali 
degli 
stessi 
atti, 
quando 
essi 
trovano 
un 
limite 
«nei 
principi 
di 
natura 
giuridica 
posti 
dall’ordinamento, 
tanto 
a 
livello 
costituzionale 
quanto a livello legislativo» (Corte cost. 5 aprile 2012, n. 81 del 2012). 
Ebbene, il 
ricorso con il 
quale 
è 
stato innescato il 
sindacato giurisdizionale 
da 
parte 
di 
questo 
Tribunale 
Amministrativo Regionale 
fa 
valere 
la 
dedotta 
violazione, da 
parte 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria, dei 
limiti 
che 
dalla 
legge, e 
in particolare 
dal 
d.l. 25 marzo 2020, n. 
19, 
derivano 
all’esercizio 
delle 
competenze 
in 
materia 
di 
igiene 
e 
sanità 
spettanti 
al 
Presidente 
della Regione Calabria. 
In 
questa 
prospettiva, 
l’atto 
è 
giustiziabile 
d’innanzi 
al 
giudice 
della 
funzione 
pubblica, 
giacché 
questo giudice 
non è 
chiamato a 
regolare 
il 
conflitto sulle 
attribuzioni 
costituzionali 
tra 
gli 
Enti 
coinvolti 
nella 
controversia, ma 
solo a 
valutare 
la 
legittimità, secondo i 
parametri 
legislativi 
indicati nei motivi di ricorso, dell’atto impugnato. 
10.3. – In ogni 
caso, se 
pure 
si 
opinasse 
che 
nel 
caso di 
specie 
fosse 
attivabile, da 
parte 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, il 
conflitto di 
attribuzione 
d’innanzi 
alla 
Corte 
costituzionale, 
ciò non esclude 
che 
sia 
legittimamente 
esperibile 
anche 
la 
via 
del 
ricorso d’innanzi 
al giudice amministrativo. 
Secondo il 
costante 
insegnamento delle 
Sezioni 
unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
(cfr. Cass. 
Civ., Sez. un., 19 luglio 2013, n. 17656; 
in precedenza, Id. 20 maggio 1978, n. 2492; 
Id. 28 
maggio 
1977, 
n. 
2184; 
Id. 
13 
dicembre 
1973, 
n. 
3379; 
Id. 
10 
novembre 
1973, 
n. 
2966), 
infatti, 
vi 
è 
diversità 
di 
struttura 
e 
finalità 
fra 
il 
giudizio per conflitto di 
attribuzione 
tra 
Stato e 
Regione 
ed il 
sindacato giurisdizionale 
davanti 
al 
giudice 
amministrativo: 
il 
primo è 
finalizzato 
a 
restaurare 
l'assetto complessivo dei 
rispettivi 
ambiti 
di 
competenza 
degli 
Enti 
in conflitto; 
il 
secondo, viceversa, si 
svolge 
sul 
piano oggettivo di 
verifica 
di 
legalità 
dell'azione 
amministrativa, 
con l'esclusivo scopo della 
puntuale 
repressione 
dell'atto illegittimo. Ciò comporta 
la 
possibilità 
della 
loro 
simultanea 
proposizione, 
sicché 
deve 
escludersi 
che 
in 
tali 
ipotesi 
sussista 
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. 
Anche 
il 
Consiglio di 
Stato (cfr. Cons. Stato, sez. vI, 27 dicembre 
2011, n. 6834), dal 
canto 
suo, 
ha 
affermato 
che 
il 
soggetto 
legittimato 
ad 
impugnare 
l'atto 
autoritativo 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo può valutare 
se 
sussistono i 
presupposti 
per sollevare 
un conflitto di 
attribuzione, 
ovvero se 
avvalersi 
del 
rimedio di 
carattere 
generale 
della 
giurisdizione 
generale 
di 
le

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


gittimità. Tale 
conclusione 
risulta 
corroborata 
dalla 
considerazione 
per cui, mentre 
la 
Corte 
costituzionale 
può decidere 
le 
censure 
attinenti 
al 
riparto delle 
attribuzioni, il 
giudice 
amministrativo, 
ai 
sensi 
dell'art. 
113 
Cost., 
può 
decidere 
su 
ogni 
profilo 
di 
illegittimità 
dell'atto, 
anche 
su dedotti 
aspetti 
di 
eccesso di 
potere, sicché, anche 
per esigenze 
di 
concentrazione, 
l’Ente 
in conflitto ben può scegliere 
se, anziché 
proporre 
due 
giudizi 
e 
devolvere 
alla 
Corte 
costituzionale 
l'esame 
dei 
profili 
sul 
difetto di 
attribuzione, sia 
il 
caso di 
proporre 
un solo ricorso 
al giudice amministrativo, deducendo tutti i possibili motivi di illegittimità dell'atto. 


iii.2 – Le condizioni dell’azione. 
11. – Benché 
la 
Regione 
Calabria 
non abbia 
contestato la 
legittimazione 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
a 
ricorrere 
nel 
caso 
di 
specie 
al 
giudice 
amministrativo, 
la 
verifica 
delle 
sussistenza di tale condizione dell’azione deve essere operata d’ufficio. 
11.1. – Il 
Tribunale 
ritiene, dunque, di 
dover esplicitare 
che 
sussiste 
la 
legittimazione 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
a 
impugnare 
un’ordinanza 
ex 
art. 32, comma 
3 l. n. 833 
del 
1978 
del 
Presidente 
di 
una 
Regione 
in 
virtù 
delle 
funzioni 
ad 
essa 
attribuite 
con 
riferimento 
al rapporto tra il Governo e le 
Autonomie di cui la Repubblica si compone. 
11.2. – Limitando l’esame 
ai 
rapporti 
tra 
Stato, Regioni 
e 
Province 
autonome, e 
senza 
alcuna 
pretesa 
di 
esaustività, si 
rileva 
che 
spetta 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
il 
compito 
di 
promuovere 
e 
coordinare 
“l'azione 
del 
governo per 
quanto attiene 
ai 
rapporti 
con le 
regioni 
e 
le 
province 
autonome 
di 
Trento e 
di 
bolzano” 
(art. 5, comma 
3, lett. b) 
l. 23 agosto 
1988, 
n. 
400), 
nonché 
di 
promuovere 
lo 
sviluppo 
della 
collaborazione 
tra 
Stato, 
Regioni 
e 
Autonomie locali (art. 4 d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303). 
Per svolgere 
tali 
funzioni, il 
Presidente 
si 
avvale 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
(art. 2, comma 
2, lett. d) d.lgs. n. 303 del 
1999), presso la 
quale 
è 
istituito un Dipartimento 
per gli 
Affari regionali (art. 4, comma 2 d.lgs. n. 303 del 1999). 
Presso la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
è 
costituita 
la 
Conferenza 
permanente 
per i 
rapporti 
tra 
lo Stato, le 
Regioni 
e 
le 
Province 
autonome, che 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio è 
presieduta 
e 
che 
deve 
essere 
consultata 
sui 
criteri 
generali 
relativi 
all'esercizio delle 
funzioni 
statali 
di 
indirizzo e 
di 
coordinamento inerenti 
ai 
rapporti 
tra 
lo Stato, le 
Regioni, le 
Province 
autonome e gli enti infraregionali (art. 12 l. n. 400 del 1988). 
Spetta, infine, al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
“promuove 
le 
iniziative 
necessarie 
per 
l'ordinato 
svolgimento 
dei 
rapporti 
tra 
Stato, 
regioni 
e 
autonomie 
locali 
ed 
assicura 
l'esercizio 
coerente 
e 
coordinato dei 
poteri 
e 
dei 
rimedi 
previsti 
per 
i 
casi 
di 
inerzia e 
di 
inadempienza” 
(art. 4, comma 1 d.lgs. n. 303 del 1999). 


11.3. – In sintesi, la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
costituisce 
il 
fulcro del 
necessario 
coordinamento dell’attività 
amministrativa 
posta 
in essere 
dallo Stato e 
dalle 
Autonomie 
di 
cui la Repubblica si compone. 
In altri 
termini, in capo ad essa 
si 
sintetizzano i 
vari 
interessi 
alla 
cura 
dei 
quali 
le 
amministrazioni 
pubbliche, statali, regionali e locali, sono preposte. 
Alla 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
è 
attribuito 
il 
compito 
di 
assicurare 
l’esercizio 
coerente 
e 
coordinato dei 
poteri 
amministrativi; 
cosicché 
è 
logica 
conseguenza 
ritenere 
che 
ad 
essa 
sia 
assegnato dall’ordinamento anche 
il 
potere 
di 
agire 
giudizialmente, in alternativa 
all’esercizio 
delle 
funzioni 
di 
controllo e 
sostitutive 
previsti 
dalla 
Costituzione, laddove 
l’esercizio 
dei poteri amministrativi avvenga in maniera disarmonica o addirittura antitetica. 
12. – Sussiste anche l’altra condizione dell’azione, invero messa in dubbio dalla difesa della 
Regione Calabria, e cioè l’interesse ad agire. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


In effetti, allo stato risultano in vigore 
sia 
l’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
oggetto di impugnativa, sia il d.P.C.M. del 26 aprile 2020. 
Benché 
sia 
stato 
negato 
in 
giudizio 
che 
il 
provvedimento 
regionale 
sia 
in 
contrasto 
con 
il 
d.P.C.M., di 
cui 
costituirebbe 
invece 
mera 
specificazione, osserva 
il 
Tribunale 
che 
il 
provvedimento 
impugnato 
ammette 
una 
nuova 
e 
diversa 
eccezione 
alla 
sospensione 
delle 
attività 
dei 
servizi 
di 
ristorazione. 
Dunque, 
l’ordinanza 
impugnata 
ha 
un 
contenuto 
parzialmente 
difforme 
dal d.P.C.M., rispetto al quale si pone in posizione di antinomia. 
Sicché, essendo effettivo ed attuale 
il 
contrasto tra 
i 
due 
provvedimenti, sussiste 
l’interesse 
all’odierna decisione. 


iii.3. 
– Sui controinteressati, gli interventori e la loro posizione processuale. 
13. – La 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
ha, in via 
prudenziale, notificato il 
ricorso a 
un 
potenziale 
controinteressato, identificato in un imprenditore 
titolare 
di 
un esercizio di 
ristorazione, 
il quale non si è costituito in giudizio. 
13.1. – Tuttavia, è 
evidente 
che 
il 
provvedimento impugnato ha 
natura 
generale, sicché 
non 
sono individuabili controinteressati. 
Infatti, 
la 
figura 
del 
controinteressato 
in 
senso 
formale, 
peculiare 
del 
processo 
amministrativo, 
ricorre 
soltanto nel 
caso in cui 
l'atto sul 
quale 
è 
richiesto il 
controllo giurisdizionale 
di 
legittimità 
si 
riferisca 
direttamente 
ed immediatamente 
a 
soggetti, singolarmente 
individuabili, i 
quali 
per effetto di 
detto atto abbiano già 
acquistato una 
posizione 
giuridica 
di 
vantaggio; 
per 
definizione, tale 
figura 
non è 
ravvisabile 
nei 
riguardi 
dell'atto generale, atteso che 
esso non 
riguarda 
specifici 
destinatari, che 
sia 
a 
priori 
che 
a 
posteriori 
non sono individuabili 
(cfr., per 
tutte, Cons. Stato, Sez. vI, 15 dicembre 2014, n. 6153). 
Poiché, 
dunque, 
nel 
caso 
di 
specie 
il 
terzo 
destinatario 
della 
notifica 
è 
sostanzialmente 
estraneo 
alla 
presente 
controversia, 
la 
sua 
mancata 
costituzione 
non 
impedisce 
la 
definizione 
del 
giudizio. 
13.2. 
– 
Le 
medesime 
considerazioni 
valgono 
con 
riferimento 
all’intervento 
degli 
operatori 
del settore della ristorazione. 
A 
fronte 
di 
un 
atto 
amministrativo 
generale, 
essi 
non 
rivestono 
ruolo 
di 
controinteressati, 
e 
il 
loro 
intervento, 
da 
riqualificare 
in 
termini 
di 
intervento 
adesivo 
ai 
sensi 
dell’art. 
28, 
comma 
2 
c.p.a., 
non 
comporta 
alcuna 
specifica 
necessità 
di 
salvaguardia 
dei 
diritti 
della 
difesa, 
giacché, 
come 
infra 
sarà 
ricordato, 
essi 
debbono 
accettare 
lo 
stato 
e 
il 
grado 
in 
cui 
si 
trova 
il 
giudizio. 
14. – Occorre 
dunque 
occuparsi 
degli 
interventi 
adesivi 
spiegati, onde 
verificarne 
l’ammissibilità. 
14.1. – L’art. 28, comma 
2 c.p.a. stabilisce 
che 
chiunque 
non sia 
parte 
del 
giudizio e 
non sia 
decaduto dall'esercizio delle 
relative 
azioni, ma 
vi 
abbia 
interesse, può intervenire 
accettando 
lo stato e il grado in cui il giudizio si trova. 
In 
via 
generale, 
si 
deve 
osservare 
che 
tale 
norma 
recepisce 
una 
consolidata 
tradizione 
pretoria, 
per cui 
l'intervento in giudizio va 
riconosciuto ammissibile 
anche 
in presenza 
di 
un interesse 
di mero fatto, dipendente o riflesso rispetto a quello delle parti. 
Gli 
intervenienti, tuttavia, sono tenuti 
a 
chiarire 
nell'atto di 
intervento e 
a 
dimostrare 
quale 
sia l'interesse che intendono tutelare (cfr. CGA 3 gennaio 2017, n. 1). 
14.2. 
– 
Quanto 
all’intervento 
ad 
adiuvandum, 
è 
ammesso 
dalla 
giurisprudenza 
più 
recente 
anche 
da 
parte 
del 
cointeressato, purché 
non sia 
decaduto dall'esercizio delle 
relative 
azioni 
e 
vi 
abbia 
interesse, 
senza 
tuttavia 
potere 
ampliare 
il 
thema 
decidendum; 
l'intervento 
del 
cointeressato 
è, quindi, ammesso nei 
limiti 
della 
domanda 
già 
proposta, in conformità 
allo strumento 
azionato, il 
quale 
comporta 
per l'interveniente 
di 
accettare, ex 
art. 28 comma 
2, c.p.a. 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


lo stato e 
il 
grado in cui 
il 
giudizio si 
trova 
(Cons. Stato, Sez. v, 30 ottobre 
2017, n. 4973; 
cfr. 
anche 
TAR Campania - Napoli, Sez. III, 14 gennaio 2019 , n. 201). 


14.3. – Alla 
stregua 
di 
tali 
criteri, si 
deve 
ritenere 
ammissibile 
l’intervento degli 
Enti 
locali 
e 
degli operatori del settore della ristorazione. 
Quanto al 
Comune 
di 
Reggio Calabria, intervenuto ad adiuvandum, esso ha 
espressamente 
dedotto che 
l’ordinanza 
di 
cui 
si 
discorre 
incide 
in maniera 
grave 
sul 
diritto alla 
salute 
dei 
cittadini 
di 
cui 
è 
Ente 
esponenziale 
e 
che 
l’auspicato accoglimento del 
ricorso comporterà 
un 
indiretto ma 
rilevante 
vantaggio nei 
confronti 
del 
Comune 
di 
Reggio Calabria. Tanto più che 
il 
Sindaco del 
Comune 
ha 
adottato in data 
30 aprile 
2020 l’ordinanza 
contingibile 
e 
urgente 
n. 44 con cui 
ha 
disposto l’applicazione, sul 
territorio comunale, esclusivamente 
delle 
misure 
adottate dal Governo. 
Anche 
il 
Comune 
di 
Tropea, intervenuto 
ad opponendum, ha 
illustrato gli 
interessi 
che 
hanno 
animato la 
sua 
iniziativa 
processuale, sebbene 
questi 
si 
pongano in una 
prospettiva 
ribaltata 
rispetto al 
Comune 
di 
Reggio Calabria. Infatti, il 
territorio su cui 
è 
costituito l’Ente 
ha 
forte 
vocazione 
turistica, sicché 
la 
chiusura 
forzata 
degli 
operatori 
della 
ristorazione 
per attenuare 
i 
contagi 
da 
COvID-19 ha 
avuto effetti 
devastanti 
sull’intero comparto economico, essendo 
state 
azzerate 
le 
presenze 
turistiche 
per i 
mesi 
di 
aprile 
e 
maggio. La 
conservazione 
del 
provvedimento 
impugnato rappresenta, in questo contesto, un vantaggio per la 
comunità 
di 
cui 
il 
Comune di 
Tropea è ente esponenziale, consentendo di riavviare le attività imprenditoriali. 
Le medesime considerazioni valgono per il Comune di 
Amendolara. 
L’interesse 
fattuale 
degli 
operatori 
della 
ristorazione 
alla 
conservazione 
dell’ordinanza 
regionale 
impugnata 
è, dal 
canto suo, evidentemente 
individuabile 
nella 
possibilità 
di 
riprendere 
le attività imprenditoriali. 
14.4. 
– 
Al 
contrario, 
è 
inammissibile 
l’intervento 
del 
CODACONS 
-Coordinamento 
delle 
associazioni 
e dei comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori. 
In 
effetti, 
esso 
ha 
depositato 
in 
giudizio 
il 
proprio 
Statuto, 
da 
cui 
si 
evince 
che 
persegue 
il 
fine 
di 
«tutelare 
con ogni 
mezzo legittimo, ivi 
compreso il 
ricorso allo strumento giudiziario, 
i 
diritti 
e 
gli 
interessi 
dei 
consumatori 
ed utenti 
[…] tale 
tutela si 
realizza nei 
confronti 
dei 
soggetti 
pubblici 
e 
privati, produttori 
e/o erogatori 
di 
beni 
e 
servizi, anche 
al 
fine 
di 
contribuire 
ad 
eliminare 
le 
distorsioni 
del 
mercato 
determinate 
dalla 
commissione 
di 
abusi 
e 
di 
altre fattispecie di reati contro la p.a.». 
Ma 
non ha 
specificato quale 
interesse, sussistente 
in modo omogeneo in capo agli 
associati, 
l’intervento è inteso a tutelare. 
15. – va 
infine 
esaminata 
la 
sollecitazione 
della 
difesa 
della 
Regione 
Calabria 
affinché 
il 
Tribunale 
differisca 
l’udienza 
camerale 
allo scopo di 
consentirle 
di 
prendere 
posizione 
sugli 
atti 
di intervento. 
Ebbene, 
poiché 
gli 
interventi 
spiegati, 
siano 
essi 
ad 
adiuvandum 
o 
ad 
opponendum, 
non 
hanno 
condotto a 
un ampliamento dell’oggetto del 
giudizio, in nessuno dei 
suoi 
aspetti, in quanto 
un 
simile 
ampliamento 
è 
vietato 
dall’ordinamento 
processuale, 
non 
sussiste 
alcuna 
lesione 
del 
diritto 
di 
difesa 
dell’amministrazione 
regionale, 
che 
ha 
avuto 
modo 
di 
argomentare 
su 
ciascuno 
dei motivi di ricorso proposti dalla Presidenza del Consigli dei Ministri. 
iv – esame dei motivi di ricorso. 

16. – Si può finalmente passare all’esame dei motivi di ricorso. 
Nondimeno, il 
forte 
interesse 
che 
nell’opinione 
pubblica 
ha 
suscitato l’odierno giudizio giustifica 
alcune sintetiche considerazioni di carattere generale. 

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


Non 
è 
compito 
del 
giudice 
amministrativo 
sostituirsi 
alle 
amministrazioni 
e, 
dunque, 
stabilire 
quale 
contenuto debbano avere, all’esito del 
bilanciamento tra 
i 
molteplici 
interessi 
pubblici 


o privati in gioco, i provvedimenti amministrativi. 
Tale 
principio, valido in via 
generale, è 
da 
affermare 
ancora 
con più forza 
quando, come 
nel 
caso 
di 
specie, 
il 
provvedimento 
amministrativo 
oggetto 
di 
sindacato 
sia 
stato 
adottato 
dal 
vertice 
politico-amministrativo, dotato di 
legittimazione 
democratica 
in quanto eletto a 
suffragio 
universale, di 
una 
delle 
Autonomie 
da 
cui 
la 
Repubblica 
è 
formata; 
e 
ad impugnarlo 
sia 
l’organo di 
vertice 
del 
potere 
esecutivo, anch’esso dotato di 
legittimazione 
democratica 
in quanto sostenuto dalla fiducia delle Camere. 
In questa 
prospettiva, l’operato dell’Autorità 
giurisdizionale, in questo caso del 
giudice 
amministrativo 
quale 
giudice 
naturale 
della 
funzione 
pubblica, 
è 
meramente 
tecnica, 
e 
finalizzata 
a verificare la conformità del provvedimento oggetto di attenzione al modello legale. 
17. – Si è già accennato al § 7.1. al contenuto del d.l. n. 19 del 2020. 
L’art. 1 prevede, per quel 
che 
in questa 
sede 
rileva, che, allo scopo di 
contenere 
e 
contrastare 
i 
rischi 
sanitari 
derivanti 
dalla 
diffusione 
del 
virus 
COvID-19, 
su 
specifiche 
parti 
del 
territorio 
nazionale 
ovvero, occorrendo, sulla 
totalità 
di 
esso, possono essere 
adottate 
una 
o più misure 
che, secondo principi 
di 
adeguatezza 
e 
proporzionalità 
al 
rischio effettivamente 
presente 
su 
specifiche 
parti 
del 
territorio nazionale 
ovvero sulla 
totalità 
di 
esso, possono prevedere, tra 
l’altro, la 
limitazione 
o sospensione 
delle 
attività 
di 
somministrazione 
al 
pubblico di 
bevande 
e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti. 
Il 
successivo art. 2, comma 
1, attribuisce 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
il 
potere 
di 
emanare, con d.P.C.M., tali misure. 
L’art. 3, comma 
1 consente 
alle 
Regioni 
di 
adottare 
misure 
di 
efficacia 
locale 
«nell’ambito 
delle 
attività di 
loro competenza e 
senza incisione 
delle 
attività produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza 
strategica per 
l’economia nazionale». Ma 
ciò è 
possibile 
solo a 
condizione 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
destinati 
a 
operare 
nelle 
more 
dell’adozione 
di 
un nuovo d.P.C.M.; 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
giustificati 
da 
«situazioni 
sopravvenute 
di 
aggravamento del 
rischio sanitario» 
proprie 
della 
Regione 
interessata; 
che 
si 
tratti 
di 
misure 
«ulteriormente 
restrittive» 
delle 
attività 
sociali e produttive esercitabili nella Regione. 
Il 
comma 
3 dell’art. 3, infine, precisa 
che 
«le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
articolo si 
applicano 
altresì 
agli 
atti 
posti 
in essere 
per 
ragioni 
di 
sanità in forza di 
poteri 
attribuiti 
da ogni 
disposizione di legge previgente». 
18. – Il 
Tribunale 
ritiene 
che 
non ci 
siano gli 
estremi 
per sospendere 
il 
giudizio e 
sollevare 
d’innanzi 
alla 
Corte 
costituzionale 
questione 
di 
legittimità 
del 
decreto legge 
il 
cui 
contenuto 
è stato illustrato. 
18.1. – Innanzitutto, va 
ricordato che 
l’odierna 
controversia 
riguarda 
esclusivamente 
la 
possibilità 
di 
svolgere, 
dal 
4 
maggio 
2020 
al 
17 
maggio 
2020, 
l’attività 
di 
ristorazione 
con 
servizio 
al tavolo. 
In 
proposito, 
si 
osserva 
che 
l’art. 
41 
Cost., 
nel 
riconoscere 
libertà 
di 
iniziativa 
economica, 
prevede 
che 
essa 
non possa 
svolgersi 
in modo da 
recare 
danno alla 
sicurezza, alla 
libertà, alla 
dignità umana. 
Come 
noto, non è 
prevista 
una 
riserva 
di 
legge 
in ordine 
alle 
prescrizioni 
da 
imporre 
all’imprenditore 
allo scopo di 
assicurare 
che 
l’iniziativa 
economica 
non sia 
di 
pregiudizio per la 
salute 
pubblica, 
sicché 
tali 
prescrizioni 
possono 
essere 
imposte 
anche 
con 
un 
atto 
di 
natura 
amministrativa. 
Non 
si 
coglie 
dunque 
un 
contrasto, 
in 
particolare 
nell’attuale 
situazione 
di 
emergenza 
sanitaria, 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


tra 
la 
citata 
norma 
costituzionale 
e 
una 
disposizione 
legislativa 
che 
demandi 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
di 
disporre, con provvedimento amministrativo, limitazione 
o sospensione 
delle 
attività 
di 
somministrazione 
al 
pubblico 
di 
bevande 
e 
alimenti, 
nonché 
di 
consumo 
sul 
posto 
di 
alimenti 
e 
bevande, 
compresi 
bar 
e 
ristoranti, 
allo 
scopo 
di 
affrontare 
l’emergenza 
sanitaria dovuta alla diffusione del virus COvID-19. 
Tanto più che, come 
rivela 
l’esame 
dell’art. 1 del 
d.l. n. 19 del 
2020, il 
contenuto del 
provvedimento 
risulta 
predeterminato 
(«limitazione 
o 
sospensione 
delle 
attività 
di 
somministrazione 
al 
pubblico di 
bevande 
e 
alimenti, nonché 
di 
consumo sul 
posto di 
alimenti 
e 
bevande 
(...)»), 
mentre 
alla 
discrezionalità 
dell’Autorità 
amministrativa 
è 
demandato 
di 
individuare 
l’ampiezza 
della limitazione in ragione dell’esame epidemiologico. 


18.2. 
– 
Non 
vi 
può 
essere 
dubbio 
che 
lo 
Stato 
rinvenga 
la 
competenza 
legislativa 
all’adozione 
del 
decreto de 
quo 
innanzitutto nell’art. 117, comma 
2, lett. q) 
Cost., che 
gli 
attribuisce 
competenza 
esclusiva in materia di «profilassi internazionale». 
Ma 
la 
competenza 
legislativa 
si 
rinviene 
anche 
nel 
terzo comma 
del 
medesimo art. 117 Cost., 
che 
attribuisce 
allo Stato competenza 
concorrente 
in materia 
di 
«tutela della salute» e«protezione 
civile». 
18.3. 
– 
A 
tale 
ultimo 
proposito, 
occorrono 
alcune 
ulteriori 
osservazioni, 
che 
traggono 
le 
mosse 
dal 
duplice 
rilievo critico secondo cui 
l’impianto normativo delineato dal 
d.l. n. 19 del 
2020 
comporterebbe 
un’inammissibile 
delega 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
potere 
di 
restringere 
le 
libertà 
costituzionali 
dei 
cittadini 
e 
comporterebbe 
un’alterazione 
alla 
ripartizione 
dei compiti amministrativi delineata dall’art. 118 Cost. 
Limitando, 
per 
evidenti 
ragioni, 
il 
campo 
dell’analisi 
alla 
sola 
possibilità 
di 
limitare 
o 
sospendere 
le 
attività 
di 
somministrazione 
al 
pubblico di 
cibi 
e 
bevande, il 
Tribunale 
ritiene 
di 
dover 
innanzitutto ribadire 
quanto già 
anticipato al 
§ 18.1., e 
cioè 
che 
è 
la 
legge 
a 
predeterminare 
il 
contenuto della 
restrizione 
alla 
libertà 
di 
iniziativa 
economica, demandando ad un atto amministrativo 
la commisurazione dell’estensione di tale limitazione. 
Ciò 
posto, 
il 
fatto 
che 
la 
legge 
abbia 
attribuito 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
il 
potere 
di 
individuare 
in 
concreto 
le 
misure 
necessarie 
ad 
affrontare 
un’emergenza 
sanitaria 
trova 
giustificazione 
nell’art. 118, comma 
1 Cost.: 
il 
principio di 
sussidiarietà 
impone 
che, trattandosi 
di 
emergenza 
a 
carattere 
internazionale, 
l’individuazione 
delle 
misure 
precauzionali 
sia 
operata 
al livello amministrativo unitario. 
18.4. – Ma, una 
volta 
accertato che 
l’individuazione 
nel 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
dell’Autorità 
che 
deve 
individuare 
le 
specifiche 
misure 
necessarie 
per affrontare 
l’emergenza 
è 
conforme 
al 
principio di 
sussidiarietà 
di 
cui 
all’art. 118 Cost., deve 
altresì 
essere 
affermato 
che 
ciò giustifica 
l’attrazione 
in capo allo Stato della 
competenza 
legislativa, pur in materie 
concorrenti quali la «tutela della salute» e la «protezione civile». 
È 
noto, infatti, che 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
ritenuto (sin dalla 
sentenza 
dell’1 ottobre 
2003, 
n. 303, con cui 
ha 
per la 
prima 
volta 
teorizzato la 
c.d. chiamata 
in sussidiarietà) che 
l’avocazione 
della 
funzione 
amministrativa 
si 
deve 
accompagnare 
all’attrazione 
della 
competenza 
legislativa 
necessaria 
alla 
sua 
disciplina, 
onde 
rispettare 
il 
principio 
di 
legalità 
dell’azione 
amministrativa, 
purché 
all’intervento 
legislativo 
per 
esigenze 
unitarie 
si 
accompagnino 
forme 
di 
leale 
collaborazione 
tra 
Stato e 
Regioni 
nel 
momento dell’esercizio della 
funzione 
amministrativa 
(cfr., sul punto, Corte cost. 22 luglio 2010, n. 278). 
Nel 
caso di 
specie, conformemente 
al 
principio enucleato dalla 
Corte 
costituzionale, l’art. 2 
d.l. n. 19 del 
2020 prevede 
espressamente 
che 
il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
adotti 
i 
decreti 
sentiti 
-anche 
-i 
Presidenti 
delle 
Regioni 
interessate, 
nel 
caso 
in 
cui 
riguardino 
esclu

CONTENzIOSO 
NAzIONALE 


sivamente 
una 
regione 
o 
alcune 
specifiche 
regioni, 
ovvero 
il 
Presidente 
della 
Conferenza 
delle 
Regioni e delle Province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale. 


18.5. – Quanto illustrato ai 
§§ che 
precedono esclude 
che 
si 
possa 
affermare 
che 
nel 
caso di 
specie 
siano 
stati 
attribuiti 
all’amministrazione 
centrale 
dello 
Stato 
poteri 
sostituitivi 
non 
previsti 
dalla Costituzione. 
L’art. 120, comma 
2 Cost., invero, prevede 
che 
«il 
governo può sostituirsi 
a organi 
delle 
regioni, 
delle 
Città metropolitane, delle 
province 
e 
dei 
Comuni 
nel 
caso di 
mancato rispetto di 
norme 
e 
trattati 
internazionali 
o della normativa comunitaria oppure 
di 
pericolo grave 
per 
l'incolumità 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, 
ovvero 
quando 
lo 
richiedono 
la 
tutela 
dell'unità 
giuridica 
o dell'unità economica e 
in particolare 
la tutela dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». 
In tali casi deve essere seguita la procedura prevista dall’art. 8 l. 5 giugno 2003, n. 131. 
Ma, come 
supra 
specificato, nel 
caso di 
specie 
non vi 
è 
stato un intervento sostitutivo dello 
Stato, 
bensì 
avocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
in 
ragione 
del 
principio 
di 
sussidiarietà, 
accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa. 
18.6. – va 
conclusivamente 
affermato che 
le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
del 
d.l. n. 
19 del 
2020 sollevate 
appaiono manifestamente 
infondate, onde 
non occorre 
rimetterle 
alla 
Corte costituzionale. 
19. – Il 
d.P.C.M. 26 aprile 
2020, dal 
canto suo, non è 
un atto a 
carattere 
normativo, bensì 
un 
atto amministrativo generale. 
Esso 
non 
può 
essere 
oggetto 
di 
disapplicazione 
da 
parte 
del 
giudice 
amministrativo, 
essendo 
piuttosto 
onere 
del 
soggetto 
interessato 
promuovere 
tempestivamente 
l’azione 
di 
annullamento. 
20. – Giunti 
a 
questo punto, emerge 
chiaramente 
l’illegittimità 
dell’ordinanza 
del 
Presidente 
della Regione Calabria denunciata con il primo motivo di ricorso. 
Spetta 
infatti 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
individuare 
le 
misure 
necessarie 
a 
contrastare 
la 
diffusione 
del 
virus 
COvID-19, 
mentre 
alle 
Regioni 
è 
dato 
intervenire 
solo 
nei 
limiti 
delineati 
dall’art. 
3, 
comma 
1 
d.l. 
n. 
19 
del 
2020, 
che 
però 
nel 
caso 
di 
specie 
è 
indiscusso 
che non risultino integrati. 
Né 
l’ordinanza 
di 
cui 
si 
discute 
potrebbe 
trovare 
un 
fondamento 
nell’art. 
32 
l. 
n. 
833 
del 
1978. 
Infatti, come 
correttamente 
messo in evidenza 
dall’Avvocatura 
dello Stato, i 
limiti 
al 
potere 
di 
ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
delineati 
dall’art. 3, comma 
1 d.l. n. 19 del 
2020 
valgono, ai 
sensi 
del 
successivo terzo comma, per tutti 
gli 
«atti 
posti 
in essere 
per 
ragioni 
di 
sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente». 
21. – È fondato, nei limiti di seguito specificati, anche il secondo motivo di ricorso. 
Invero, l’ordinanza 
regionale 
motiva 
la 
nuova 
deroga 
alla 
sospensione 
dell’attività 
di 
ristorazione, 
mediante 
l’autorizzazione 
al 
servizio al 
tavolo, con il 
mero riferimento del 
rilevato valore 
di 
replicazione 
del 
virus 
COvID-19, 
che 
sarebbe 
stato 
misurato 
in 
un 
livello 
tale 
da 
indicare una regressione dell’epidemia. 
È 
però 
ormai 
fatto 
notorio 
che 
il 
rischio 
epidemiologico 
non 
dipende 
soltanto 
dal 
valore 
attuale 
di 
replicazione 
del 
virus 
in un territorio circoscritto quale 
quello della 
Regione 
Calabria, ma 
anche 
da 
altri 
elementi, 
quali 
l’efficienza 
e 
capacità 
di 
risposta 
del 
sistema 
sanitario 
regionale, 
nonché 
l’incidenza 
che 
sulla 
diffusione 
del 
virus 
producono 
le 
misure 
di 
contenimento 
via 
via 
adottate 
o revocate 
(si 
pensi, in proposito, alla 
diminuzione 
delle 
limitazioni 
alla 
circolazione 
extraregionale). 
Non a 
caso, le 
restrizioni 
dovute 
alla 
necessità 
di 
contenere 
l’epidemia 
sono state 
adottate, e 
vengono 
in 
questa 
seconda 
fase 
rimosse, 
gradualmente, 
in 
modo 
che 
si 
possa 
misurare, 
di 

RASSEGNA 
AvvOCATuRA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


volta 
in 
volta, 
la 
curvatura 
assunta 
dall’epidemia 
in 
conseguenza 
delle 
variazioni 
nella 
misura 
delle interazioni sociali. 
un tale 
modus 
operandi 
appare 
senza 
dubbio coerente 
con il 
principio di 
precauzione, che 
deve 
guidare 
l’operato dei 
poteri 
pubblici 
in un contesto di 
emergenza 
sanitaria 
quale 
quello 
in 
atto, 
dovuta 
alla 
circolazione 
di 
un 
virus, 
sul 
cui 
comportamento 
non 
esistono 
certezze 
nella 
stessa comunità scientifica. 
Si 
badi, che 
detto principio, per cui 
ogni 
qual 
volta 
non siano conosciuti 
con certezza 
i 
rischi 
indotti 
da 
un'attività 
potenzialmente 
pericolosa, l'azione 
dei 
pubblici 
poteri 
debba 
tradursi 
in 
una 
prevenzione 
anticipata 
rispetto 
al 
consolidamento 
delle 
conoscenze 
scientifiche 
(cfr. 
Cons. 
Stato, Sez. III, 3 ottobre 
2019, n. 6655), deve 
necessariamente 
presidiare 
un ambito così 
delicato 
per la 
salute 
di 
ogni 
cittadino come 
è 
quello della 
prevenzione 
(Corte 
cost. 18 gennaio 
2018, n. 5). 
È 
chiaro che, in un simile 
contesto, ogni 
iniziativa 
volta 
a 
modificare 
le 
misure 
di 
contrasto 
all’epidemia 
non possono che 
essere 
frutto di 
un’istruttoria 
articolata, che 
nel 
caso di 
specie 
non sussiste. 


22. – va infine rilevata la fondatezza anche dell’ultimo motivo di ricorso. 
Sul 
punto, 
occorre 
ricordare 
come 
la 
violazione 
del 
principio 
di 
leale 
collaborazione 
costituisca 
elemento 
sintomatico 
del 
vizio 
dell’eccesso 
di 
potere 
(cfr. 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen. 
14 
dicembre 
2001, n. 9). 
Nel 
caso di 
specie, non risulta 
che 
l’emanazione 
dell’ordinanza 
oggetto di 
impugnativa 
sia 
stata 
preceduta 
da 
qualsivoglia 
forma 
di 
intesa, consultazione 
o anche 
solo informazione 
nei 
confronti del Governo. 
Anzi, il 
contrasto nei 
contenuti 
tra 
l’ordinanza 
regionale 
e 
il 
d.P.C.M. 26 aprile 
2020 denota 
un evidente 
difetto di 
coordinamento tra 
i 
due 
diversi 
livelli 
amministrativi, e 
dunque 
la 
violazione 
da 
parte 
della 
Regione 
Calabria 
del 
dovere 
di 
leale 
collaborazione 
tra 
i 
vari 
soggetti 
che 
compongono la 
Repubblica, principio fondamentale 
nell’assetto di 
competenze 
del 
titolo 
v della Costituzione. 
23. – In conclusione, per tutte 
le 
ragioni 
esposte 
l’ordinanza, nella 
parte 
oggetto di 
impugnativa, 
deve essere annullata. 
La 
novità, 
la 
complessità, 
la 
delicatezza 
della 
tematiche 
trattate 
giustifica 
l’integrale 
compensazione 
tra le parti delle spese e competenze di lite. 
P.Q.M. 
Il 
Tribunale 
Amministrativo Regionale 
per la 
Calabria 
(Sezione 
Prima), definitivamente 
pronunciando 
sul ricorso, come in epigrafe proposto: 


a) dichiara 
inammissibile 
l’intervento di 
CODACONS 
-Coordinamento delle 
associazioni 
e 
dei comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori; 
b) 
accoglie 
il 
ricorso 
e, 
per 
gli 
effetti, 
annulla 
l’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
del 
29 aprile 
2020, n. 37, nella 
parte 
in cui, al 
suo punto 6, dispone 
che, a 
partire 
dalla 
data 
di 
adozione 
dell’ordinanza 
medesima, sul 
territorio della 
Regione 
Calabria, è 
«consentita la ripresa 
delle 
attività 
di 
bar, 
pasticcerie, 
ristoranti, 
pizzerie, 
agriturismo 
con 
somministrazione 
esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto»; 
c) 
compensa tra le parti le spese e le competenze di lite. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2020. 

LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ
L’arte come strumento di evoluzione 
dell’economia: le prospettive future 


Gaetana Natale* 


Musae 
non 
dant 
panem, 
ossia 
l’arte 
e 
la 
cultura 
non 
costituiscono 
una 
fonte sicura di reddito e di ricchezza. Ma oggi è davvero così? 


Il 
mercato dell’arte 
in questi 
ultimi 
anni 
sta 
cambiando e 
crescendo notevolmente 
con un valore 
stimato ormai 
superiore 
ai 
67 miliardi 
di 
dollari. È 
un’evoluzione 
che 
evidenzia 
diverse 
contaminazioni 
e 
connessioni 
anche 
con 
mondi solo apparentemente lontani e diversi come quello finanziario. 

Oggi 
l’arte 
si 
sta 
dimostrando come 
un asset 
di 
investimento sia 
diretto 
che 
indiretto, ponendo al 
giurista 
un quesito di 
fondo: 
fino a 
che 
punto la 
valorizzazione 
economica 
del 
bene 
culturale 
si 
può conciliare 
con la 
sua 
tutela 
e conservazione nel rispetto dell’art. 9 della nostra Costituzione? 


Per 
capire 
la 
complessità 
del 
fenomeno 
occorre 
esaminare 
alcuni 
fenomeni 
di 
questa 
nuova 
evoluzione 
dell’arte 
in 
territori 
finanziari, 
fino 
a 
poco 
tempo 
fa, 
quasi 
sconosciuti 
come, 
ad 
esempio, 
l’art 
lending. 
Questo 
strumento, 
che 
possiamo 
anche 
definire 
“prestito 
garantito 
dall’arte” 
è 
in 
Italia 
ancora 
embrionale, 
ma 
già 
individuabile 
nei 
servizi 
di 
art 
advisory 
della 
divisione 
wealth 
management 
delle 
banche 
più 
evolute 
che 
offrono 
strumenti 
finanziari 
innovativi. 


In un recente 
libro pubblicato lo scorso 28 gennaio 2020 da 
Andrea 
Concas 
intitolato 
“Professione 
arte: 
i 
protagonisti, 
le 
opportunità 
di 
investimento, 
le 
nuove 
sfide 
digitali” 
edito da 
Mondadori 
viene 
evidenziato un nuovo concetto 
di 
art 
entrepreneur 
che 
grazie 
alle 
nuove 
tecnologie 
può determinare 
un 


(*) Avvocato dello Stato, Consigliere 
Giuridico del 
Ministero del 
Lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali, Professore 
a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


dinamismo 
culturale 
volto 
ad 
offrire 
diverse 
opportunità 
lavorative 
nel 
campo 
dell’arte. 
Si 
pensi 
alla 
start 
up 
Backers 
che 
supporta 
gli 
artisti, 
gli 
enti 
pubblici 
e 
privati 
nella 
produzione 
di 
opere 
d’arte 
o anche 
all’Art 
Rights, una 
piattaforma 
per 
la 
gestione 
e 
la 
certificazione 
delle 
opere 
d’arte 
con 
tecnologia 
blockchain 
e 
intelligenza 
artificiale. Si 
pensi 
anche 
alle 
nuove 
professioni 
che 
vengono a 
delinearsi 
nel 
mondo dell’arte 
per una 
loro valorizzazione 
economica, 
ad esempio il 
registrar. La 
sua 
definizione 
è 
contenuta 
nella 
Carta 
nazionale 
delle 
professioni 
museali 
di 
ICOM 
2008: 
“Il 
registrar 
assicura 
dal 
punto di 
vista organizzativo la movimentazione 
delle 
opere, la relativa documentazione 
e 
le 
procedure 
che 
regolano, 
soprattutto 
in 
connessione 
ai 
prestiti. 
In particolare 
redige, documenta e 
organizza gli 
atti 
relativi 
all’acquisizione, 
al 
prestito, 
all’assicurazione, 
alla 
spedizione 
e 
alla 
sicurezza 
delle 
opere, 
segue 
l’iter 
inerente 
al 
trasferimento delle 
stesse 
all’esterno e 
all’interno del 
museo, 
è 
responsabile 
delle 
procedure 
di 
prestito 
in 
entrata, 
nel 
caso 
di 
mostre 
organizzate 
dal 
museo, collabora con il 
responsabile 
della sicurezza e 
della 
conservazione nello svolgimento dei propri compiti”. 


Negli 
Stati 
Uniti 
questa 
figura 
professionale 
è 
attiva 
dagli 
anni 
cinquanta 
e 
i 
professionisti 
attivi 
in tale 
settore 
sono riuniti 
nel 
Registrar’s 
Committee 
dal 
1978, un comitato professionale 
riconosciuto dall’AAM 
(American Associations 
of 
Museums). 
In 
Gran 
Bretagna 
la 
figura 
del 
registrar 
nasce 
negli 
anni 
settanta 
e 
precisamente 
nel 
1979 viene 
fondato lo UK Registrar’s 
Group, che 
conta 
attualmente 
circa 
trecento membri. Da 
qualche 
anno la 
figura 
del 
registrar 
esiste 
anche 
nei 
maggiori 
musei 
europei, soprattutto in Francia 
e 
Germania. 
In 
Italia 
questa 
figura 
professionale 
è 
appena 
nata 
e 
attualmente 
il 
Museo 
Egizio 
si 
è 
dimostrato 
all’avanguardia 
dotandosi 
di 
dipendenti 
che 
possano 
svolgere 
tali 
delicate 
mansioni. Non essendoci 
attualmente 
in Italia 
requisiti 
specifici 
per 
diventare 
registrar, 
molte 
delle 
funzioni 
relative 
alla 
movimentazione 
delle 
opere 
sono ancora 
affidate 
al 
direttore 
o al 
curatore 
del 
museo. 
Nel 
decreto 
del 
10 
maggio 
2001 
sull’Organizzazione 
e 
il 
Funzionamento 
dei 
Musei 
Statali 
tuttavia 
si 
auspicava 
un 
incentivo 
alla 
professione 
del 
registrar 
per 
facilitare 
gli 
scambi 
con 
i 
musei 
esteri, 
abituati 
a 
riferire 
ad 
un’unica 
persona 
per scambi 
e 
prestiti. Il 
registrar 
ha 
ruolo importantissimo, 
quello 
di 
controllare 
la 
tenuta 
della 
cosiddetta 
catena 
procedurale, 
evitando 
che 
ci 
siano anelli 
deboli 
come 
rischi 
per la 
sicurezza, la 
tutela 
e 
la 
conservazione 
delle opere (1). 

Il 
pensiero non può che 
correre 
alla 
nota 
vicenda 
dell’uomo vitruviano 
di 
Leonardo 
da 
Vinci 
decisa 
dal 
TAR 
Veneto 
con 
sentenza 
del 
16 
ottobre 
2019 


n. 
436 
(2). 
Tale 
vicenda 
ha 
affrontato 
due 
questioni 
centrali 
del 
diritto 
dei 
beni 
(1) 
Vedi 
https://patrimonioculturale.unibo.it/frameblog/indexphp/15.2.218/registrar.professionemuseale 
by 
Martina 
Fabbri 
e 
“Professioni 
culturali; 
la 
figura 
del 
registrar” 
di 
Fabio 
Brotto 
in 
https//www.collezionedatiffany.com 
del 14 maggio 2019. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


culturali, ossia 
se 
a 
decidere 
se 
autorizzare 
i 
prestiti 
temporanei 
all’estero di 
opere 
d’arte 
sia 
competente 
il 
ministro o i 
dirigenti 
del 
ministero e 
quali 
siano 
i 
limiti 
del 
sindacato del 
giudice 
amministrativo sul 
provvedimento di 
autorizzazione 
(questione 
della 
cd “full 
jurisdiction”). In tale 
contenzioso il 
TAR 
Veneto nell’ambito della 
delibazione 
in sede 
cautelare, ha 
statuito che 
al 
Ministero 
deve 
essere 
riconosciuto 
e 
riservato 
l’ambito 
di 
valutazione 
politica 
sull’opportunità 
ed utilità 
di 
promuovere 
la 
collaborazione 
e 
gli 
scambi 
con 
singole 
istituzioni 
culturali 
straniere 
ex 
art. 66 del 
Codice 
dei 
Beni 
Culturali 
Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (articolo che 
fa 
riferimento al 
cd. 
scambio di 
“alto livello”) nel 
rispetto delle 
proprie 
competenze 
in materia 
di 
collaborazione 
internazionale, essendo stato stipulato nel 
caso di 
specie 
con 
la 
Francia 
il 
“Memorandum 
di 
intesa”, avente 
ad oggetto lo scambio temporaneo 
del 
disegno di 
Leonardo con dipinti 
di 
Raffaello. Viceversa 
spetta 
ai 
dirigenti 
del 
ministero, 
nell’ambito 
della 
cd. 
discrezionalità 
tecnica 
della 
pubblica 
amministrazione 
definita 
dalla 
dottrina 
tedesca 
“Uberstimmterechbegriff” 
valutare 
se, in caso di 
prestito, sarebbero assicurate 
o assicurabili 
l’integrità 
e 
la 
sicurezza 
del 
bene; 
come 
anche 
compete 
ai 
dirigenti 
dei 
vari 
istituti 


o luoghi 
della 
cultura 
(art. 101 del 
Codice 
dei 
Beni 
Culturali) valutare 
se 
un 
certo bene 
costituisca 
o meno “il 
fondo principale 
di 
una determinata ed organica 
sezione di un museo” 
(nel qual caso ne è precluso il prestito) (3). 
In 
tale 
valutazione 
strettamente 
tecnica 
della 
protezione 
del 
bene 
nelle 
procedure 
di 
trasferimento all’estero (sulla 
quale 
il 
sindacato del 
giudice 
amministrativo 
non può che 
essere 
un sindacato intrinseco debole 
non di 
tipo sostitutivo 
per 
manifesta 
illogicità, 
incongruità, 
travisamento 
o 
macroscopici 
difetti 
di 
motivazione 
e 
di 
istruttoria), certamente 
la 
figura 
del 
registrar 
può 
assumere un ruolo centrale all’interno di un polo museale. 


Ma 
se 
il 
registrar 
si 
occupa 
della 
sicurezza 
del 
bene 
artistico, 
l’art 
lender 
ne 
sviluppa 
le 
potenzialità 
economiche. La 
figura 
dell’art 
lender 
(4) è 
colui 
che 
permette 
al 
collezionista 
o 
al 
professionista 
di 
impegnare 
opere 
dal 
valore 
elevato, 
ma 
stabile 
sul 
mercato, 
in 
cambio 
di 
liquidità 
(liquidity), 
utilizzandone 
come 
un bene 
posto a 
garanzia 
(collateral) per l’ottenimento di 
un prestito finanziario. 
Molto 
ambito 
oggi 
è 
pure 
il 
ruolo 
dell’exhibition 
manager, 
a 
cui 
compete 
la 
gestione, definizione 
e 
messa 
in opera 
della 
regia 
complessiva 
di 


(2) Vedi 
S. AMOROSINO, “Il 
prestito al 
Louvre 
del 
disegno di 
Leonardo Da Vinci 
‘L’Uomo Vitruviano’” 
in “Urbanistica e appalti”, 2019, 6, 746. 
(3) Vedi 
A. SIMONATI, 
“Commento all’art. 66” 
in AA.VV., “Codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio”, 
a 
cura 
di 
M.A. SANDULLI, Milano, 2019, 564 ss.; 
S. AMOROSINO, “Diritto dei 
Beni 
culturali”, 
Milano, 
2019, 
191 
ss.; 
sul 
concetto 
di 
discrezionalità 
tecnica, 
vedi 
R. 
ChIEPPA 
-R. 
GIOVAGNOLI, 
“Manuale 
di 
diritto amministrativo”, Milano, 2017, 330 ss. e 
452 ss.; 
E. FOLLIERI, “La discrezionalità tecnica”, 
in AA.VV., “Diritto amministrativo”, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2015, 194 ss. 
(4) 
Vedi 
Byron 
Associati 
http:// 
www.byronassociati.it/,“Art 
Lending: 
l’arte 
di 
investire 
nell’arte” 
del 10 novembre 2019. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


un evento o di 
una 
mostra 
d’arte. Addentrandoci, invece, nel 
settore 
assicurativo, 
troviamo il 
risk 
manager 
fine 
art, figura 
che 
individua 
e 
analizza 
i 
potenziali 
rischi 
in cui 
può incorrere 
una 
raccolta 
d’arte 
pubblica 
o privata 
con 
il 
compito 
di 
limitarne 
l’esposizione 
ai 
sinistri 
valutando 
e 
individuando 
quali 
opere 
possono 
essere 
assicurate 
e 
quali 
no. 
Tra 
le 
professioni 
dell’arte 
definite 


3.0 
non 
si 
può 
non 
menzionare 
l’art 
trustee, 
colui 
che 
assume 
l’obbligo 
di 
amministrare 
i 
beni 
avuti 
in consegna 
a 
favore 
di 
un trust, un istituto giuridico 
che 
consente 
a 
una 
o più persone, detti 
settlor 
o disponenti, di 
trasferire 
beni 
e 
diritti 
della 
propria 
collezione 
di 
arte 
e 
non solo a 
favore 
di 
uno o più beneficiari. 
La 
nascita 
di 
tali 
figure 
professionali 
è 
sintomatica 
di 
una 
evoluzione 
del 
concetto di 
bene 
artistico che 
da 
una 
visione 
statica 
di 
tutela 
e 
protezione 
sta 
mutando in una 
visione 
dinamica 
della 
cultura 
artistica, volta 
a 
diventare 
un 
vero 
e 
proprio 
strumento 
di 
propulsione 
dell’attività 
economica. 
L’opera 
d’arte 
non viene 
più concepita 
come 
un bene 
fine 
a 
se 
stesso, ma 
diviene 
uno strumento 
indirettamente 
finanziario che 
può far ricavare 
dalla 
sua 
stessa 
natura 
un reddito fisso (additional capital). 

L’art 
lending 
sopra 
citata 
ad esempio ha 
visto la 
sua 
maggiore 
crescita 
negli 
Stati 
Uniti 
dove 
in ambito bancario si 
stima 
che 
sono stati 
concessi 
prestiti 
dagli 
istituti 
bancari 
per 
oltre 
20 
miliardi 
di 
dollari, 
garantiti 
da 
opere 
d’arte, mentre 
in Europa 
solo recentemente 
si 
sta 
notando un suo graduale 
incremento. 
A 
ben ragionare 
si 
può assolutamente 
affermare 
che 
l’art 
lending 
avrebbe 
proprio nel 
vecchio continente 
il 
suo habitat 
naturale 
dato che 
il 
mercato 
delle 
opere 
d’arte 
e 
tutti 
i 
suoi 
principali 
attori 
risiedono 
qui. 
Questo 
strumento, 
oltre 
a 
non comportare 
i 
tipici 
costi 
di 
transazione 
o le 
imposte 
sulle 
plusvalenze 
che 
si 
verificano in occasione 
di 
una 
vendita, ha 
il 
pregio di 
permettere 
al 
collezionista 
di 
continuare 
a 
possedere 
l’opera 
pur realizzando la 
liquidità 
necessaria 
per ulteriori 
investimenti. L’art 
lending 
può essere 
strutturato 
con 
finanziamenti 
a 
scadenza 
a 
breve 
o 
lunga, 
con 
un 
rapporto 
prestito/valore 
basso o elevato, pro soluto 
o pro solvendo. Esiste 
il 
caso in cui 
istituti 
finanziari 
mettono 
i 
titoli 
garantiti 
da 
beni 
artistici 
sul 
mercato, 
permettendo 
a 
privati, family 
office 
o altri 
gestori 
patrimoniali 
di 
investire 
indirettamente 
in 
opere 
d’arte 
con 
rendimenti 
proficui. 
In 
questo 
caso, 
i 
finanziamenti, 
a 
loro volta 
direttamente 
garantiti 
da 
collezioni, prendono il 
nome 
di 
cartolarizzazioni 
(5), realizzate 
attraverso strumenti 
separati 
a 
basso rischio di 
fallimento. 
Bisogna, 
però, 
considerare 
che 
come 
accade 
per 
le 
cartolarizzazioni 
di 
mutui 
cd. subprime 
(da 
cui 
è 
scaturita 
la 
grande 
crisi 
del 
2008) chi 
acquista 
uno 
di 
questi 
titoli 
deve 
fare 
molta 
attenzione 
a 
conoscere 
in 
anticipo 
quali 


(5) 
Vedi 
https://patrimoniefinanza,com 
del 
18.8.2019, 
“Art 
Lending 
e 
cartolarizzazione 
delle 
opere: un ponte tra Arte e Finanza per dare trasparenza al mercato”. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


opere 
d’arte 
sono 
comprese 
tra 
i 
collateral 
del 
titolo, 
il 
quale 
sarà 
regolarmente 
provvisto di 
codice 
ISIN 
internazionale 
e 
sarà 
scambiato in modo tale 
da 
permettere 
agli 
investitori 
di 
sottoscriverlo facilmente 
sul 
mercato, attratti 
come 
sono dal 
fatto che 
il 
rapporto rischio/rendimento di 
questi 
strumenti 
è 
direttamente 
collegato alle collezioni d’arte a cui sono esposti. 

Nei 
paesi 
orientali 
maggiormente 
industrializzati, il 
processo di 
avvicinamento 
tra 
il 
mercato 
dell’arte 
e 
mercato 
finanziario 
è 
già 
una 
realtà 
avanzata. 
Infatti, tra 
il 
2009 e 
il 
2011 sono nate 
in Cina 
delle 
borse 
valori 
specializzate 
nella 
compravendita 
di 
certificati 
rappresentativi 
di 
opere 
d’arte. 
In 
questo 
modo 
ogni 
collezionista/investitore 
ha 
potuto 
acquistare 
e 
vendere 
in 
borsa 
uno o più certificati, che 
corrispondono a 
un “pezzettino” 
delle 
opere 
presenti 
sul 
listino: 
così, anche 
i 
collezionisti 
che 
non possono permettersi 
di 
investire 
somme 
ingenti 
possono 
diventare 
comproprietari 
di 
opere 
d’arte 
e 
beneficiare 
dell’eventuale 
incremento di 
valore 
dei 
certificati 
quotati 
in borsa. Tale 
mercato, 
però, non è 
ancora 
perfettamente 
regolamentato sebbene 
il 
consiglio di 
stato Cinese 
e 
la 
Banca 
Popolare 
Cinese 
abbiano avviato un processo di 
regolamentazione 
con l’intento di 
tutelare 
gli 
interessi 
degli 
investitori. Alcune 
di 
queste 
borse 
valori, 
peraltro, 
sono 
partecipate 
da 
governi 
e 
dalle 
banche 
locali, 
e 
hanno rapidamente 
assunto la 
caratteristica 
di 
veri 
e 
propri 
centri 
culturali, 
come lo Shanghai Culture 
Assets and Equity Exchange. 


I fenomeni 
sopradescritti 
dimostrano con chiarezza 
che 
la 
tesi 
dei 
cd. puristi 
dell’arte, ossia 
di 
coloro che 
temono la 
contaminante 
del 
mondo artistico 
da 
parte 
del 
mondo dell’economia 
e 
della 
finanza 
cominci 
ad essere 
intaccata 
dalla 
concreta 
necessità 
di 
far compenetrare 
il 
bene 
artistico nel 
tessuto economico 
ed imprenditoriale 
di 
un paese 
al 
fine 
di 
una 
sua 
maggiore 
tutela 
e 
valorizzazione. 
In 
questo 
senso 
si 
è 
mossa 
di 
recente 
anche 
la 
legislazione 
fiscale, 
prevedendo, ad esempio in Italia 
il 
cd. Art 
bonus 
che 
permette 
a 
tutti 
di 
diventare 
mecenati 
e 
di 
tutelare 
l’eccezionale 
ricchezza 
del 
patrimonio 
culturale 
italiano, 
A 
chi 
effettua, 
infatti, 
erogazioni 
liberali 
a 
sostegno 
della 
cultura 
e 
dello 
spettacolo, 
l’Art 
Bonus 
riconosce 
un 
beneficio 
fiscale 
del 
65%. 
Grazie 
a 
questa 
misura, 
introdotta 
nel 
2014 
dal 
MiBact, 
sono 
stati 
finora 
raccolti 
oltre 
400 
milioni 
di euro da 13mila benefattori. 


Alla 
luce 
di 
quanto 
sopra 
esposto, 
occorre 
valutare 
la 
compatibilità 
di 
tale 
visione 
dinamica 
e 
non certamente 
mercantistica 
del 
bene 
artistico con la 
previsione 
costituzionale 
dell’art. 9 Cost., avendo ben presente 
la 
distinzione 
tra 
attività 
di 
regolazione 
che 
compete 
alla 
sfera 
pubblica 
e 
attività 
di 
gestione 
che 
può ammettere 
una 
partecipazione 
privata 
(ex 
art. 115, comma 
4 del 
Codice 
dei 
Beni 
Culturali 
Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42) nel 
rispetto 
del principio di sussidiarietà 
ex 
art. 118 Cost. 


L’art. 
9 
della 
Cost. 
recita: 
“La 
Repubblica 
promuove 
lo 
sviluppo 
della 
cultura 
e 
la 
ricerca 
scientifica 
e 
tecnica. 
Tutela 
il 
patrimonio 
storico 
e 
artistico 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


della Nazione”. Se 
è 
vero che 
nel 
testo della 
norma 
sono utilizzati 
due 
verbi: 
“promuove” 
riferito 
allo 
sviluppo 
della 
cultura 
e 
“tutela” 
riferito 
al 
patrimonio 
storico e 
artistico, non si 
può negare 
che 
lo sviluppo della 
cultura 
possa 
realizzarsi 
anche 
attraverso 
una 
“tutela 
dinamica” 
del 
patrimonio 
storico 
artistico 
che, nel 
rispetto della 
sua 
conservazione 
ed integrità, può assumere 
attraverso 
un 
adeguato 
change 
management 
il 
requisito 
della 
redditività 
nel 
pieno 
rispetto 
dell’art. 97 Cost. 

Se 
spostiamo l’analisi 
sul 
piano sovranazionale 
del 
diritto eurounitario, 
rinveniamo nella 
decisione 
dell’Unione 
Europea 
n. 864 del 
2017 una 
nozione 
di 
governance 
partecipata 
e 
multilivello con diversi 
portatori 
di 
interessi 
per 
la 
valorizzazione 
dei 
beni 
culturali 
basata 
su 
un 
concetto 
di 
redditività 
non 
fine 
a 
sé 
stessa, ma 
volta 
a 
creare 
nuove 
opportunità 
di 
lavoro. Gli 
incassi 
dei 
musei 
sono aumentati 
di 
recente 
del 
45% una 
percentuale 
doppia 
del 
turismo 
e 
la 
Banca 
D’Italia 
ha 
valutato un impatto di 
circa 
30 miliardi 
di 
euro sul 
PIL. 


Ciò si 
è 
realizzato grazie 
ad una 
normativa 
di 
soft 
law 
costituita 
da 
linee 
di 
indirizzo 
del 
Ministero, 
dai 
vademecum 
dei 
direttori 
generali 
contenenti 
istruzioni 
prescrittive 
e 
propulsive 
oltre 
che 
ad una 
recente 
fioritura 
di 
quella 
che 
è 
definita 
“la letteratura grigia” 
dei 
funzionari 
(6), ossia 
di 
coloro che 
operando nel 
settore 
individuano le 
modalità 
concretamente 
operative 
per valorizzare 
i 
beni 
culturali 
attraverso una 
pluralità 
di 
strumenti 
che 
vanno dagli 
enti 
non 
profit 
delle 
fondazioni 
(si 
pensi 
all’esempio 
virtuoso 
della 
Fondazione 
dei musei civici di 
Venezia) ai contratti di sponsorizzazione. 


Sempre 
sul 
piano del 
diritto eurounitario occorre 
considerare 
che 
l’“eccezione 
culturale” 
delimita 
in 
maniera 
significativa 
la 
nozione 
di 
aiuto 
di 
Stato 
ex 
art. 107 del 
TFUE e di libera concorrenza (7). 


Occorre 
allora 
un 
superamento 
del 
concetto 
di 
arte 
come 
“vincolo 
di 
conservazione”: 
è, infatti, significativo che 
nel 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
su 184 
articoli, la 
maggior parte 
riguardino i 
vincoli 
e 
le 
sanzioni 
e 
20 riguardino la 
valorizzazione. 
Ancora 
più 
significativo 
è 
il 
dato 
che 
nell’art. 
9 
bis 
del 
suddetto 
codice 
contenente 
l’elenco dei 
professionisti 
siano compresi 
storici 
dell’arte, 
archeologi, architetti, ma non giuristi ed economisti. 


L’economia 
non presenta 
caratteri 
di 
estrema 
idiosincrasia 
con il 
mondo 
dell’arte. Occorre 
riflettere 
sul 
dato che 
l’attuale 
Ragioniere 
Capo dello Stato 
Biagio 
Mazzotta 
sia 
stato 
un 
revisore 
dei 
conti 
in 
un 
museo, 
mostrandosi 
sempre 
contrario ai tagli verticali nel settore culturale. 


Occorre 
allora 
chiedersi 
quali 
possono 
essere 
i 
più 
idonei 
strumenti 
di 
valorizzazione 
dell’arte, considerato anche 
che 
il 
sistema 
dei 
Musei 
è 
un punto 


(6) Vedi 
A.L. TARASCO, “Diritto e gestione del patrimonio culturale”, Bari Roma, 2019. 
(7) Vedi 
F.G. ALBISINNI, “L’identità storico-culturale 
dei 
centri 
storici 
come 
eccezione 
culturale 
al 
principio di 
concorrenza” 
in “Giornale 
Dir. Amm.”, 2019, 3, 387, nota 
alla 
sentenza 
Cons. Stato, 
Sez. V, 3 settembre 2018, n. 5157. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


nodale 
del 
rapporto tra 
Stato, Regioni 
e 
Comuni 
e 
che 
il 
cd. “talento sotterrato” 
può anche costituire una forma di danno erariale per lo Stato (8). 

Una 
prova 
concreta 
di 
quanto 
sia 
difficile 
il 
coordinamento 
di 
più 
soggetti 
coinvolti 
nel 
mondo 
dei 
musei 
è 
rappresentata 
dal 
parere 
del 
10 
dicembre 
2018 


n. 2838 reso dalla 
sezione 
consultiva 
del 
Consiglio di 
Stato sullo schema 
del 
regolamento 
approvato 
con 
d.m. 
11 
dicembre 
1997 
n. 
507, 
recante 
“Norme 
per 
l’istituzione 
del 
biglietto d’ingresso ai 
monumenti, musei, gallerie, scavi 
di 
antichità, parchi 
e 
giardini 
monumentali 
dello Stato” 
in materia 
di 
pagamento 
del 
biglietto 
di 
ingresso 
ai 
monumenti 
e 
ai 
musei. 
Gli 
obiettivi 
perseguiti 
erano: 
a) 
l’ampliamento 
delle 
giornate 
di 
libero 
accesso 
con 
razionalizzazione 
e 
diversificazione 
dei 
relativi 
periodi, 
attraverso 
una 
maggiore 
flessibilità 
dell’offerta 
basata 
sulle 
esigenze 
dei 
relativi 
bacini 
di 
utenza; 
b) la 
gestione 
del 
flusso 
degli 
utenti 
ai 
fini 
di 
una 
ordinata 
fruizione 
dei 
luoghi 
di 
cultura 
compatibile 
con la 
tutela 
dei 
beni 
culturali; 
c) la 
valorizzazione 
dei 
musei 
e 
dei 
luoghi 
della 
cultura 
meno noti, attraverso il 
miglioramento delle 
politiche 
di 
incentivazione 
della 
fruizione 
dei 
musei 
da 
parte 
della 
collettività; 
d) l’incremento 
dell’affluenza 
dei 
giovani 
tra 
i 
diciotto 
e 
i 
venticinque 
anni 
ai 
luoghi 
della 
cultura, attraverso la 
riduzione 
del 
costo del 
biglietto a 
due 
euro. Il 
Consiglio 
di 
Stato in tale 
occasione 
ha 
ricordato che 
la 
sua 
funzione 
in sede 
consultiva 
non è 
limitata 
alla 
verifica 
della 
legittimità 
delle 
norme 
proposte 
ma 
si 
estende 
ai 
profili 
di 
congruità 
e 
“fattibilità” 
degli 
interventi, alla 
efficienza 
ed 
efficacia 
dell’intervento normativo, in sostanza 
al 
merito dell’azione 
amministrativa, 
e 
alla 
coerenza 
delle 
disposizioni 
con altre 
norme 
dell’ordinamento. 
Ciò premesso, in tale 
caso la 
sezione 
consultiva 
ha 
ritenuto che 
il 
solo ricorso 
agli 
ordinari 
strumenti 
di 
coordinamento tra 
le 
diverse 
articolazioni 
del 
Ministero 
per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali 
in materia 
con le 
Regioni 
e 
gli 
Enti 
territoriali 
attraverso le 
Intese 
e 
il 
criterio della 
titolarità 
o disponibilità 
del 
bene 
non sono sufficienti 
ad assicurare 
un adeguato e 
tempestivo allineamento dei 
diversi 
uffici 
coinvolti 
in modo da 
definire 
un sistema 
di 
intervento che 
tenga 
conto e 
componga 
opportunamente 
le 
diverse 
finalità, istanze 
e 
peculiarità 
a 
livello centrale e locale. 
Sempre 
nell’ambito della 
sua 
attività 
consultiva 
è 
da 
ricordare 
il 
parere 
del 
2 marzo 2018 n. 545 con il 
quale 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
affermato che 
per effetto dell’abrogazione 
espressa 
dell’art. 126 del 
t.u.l.p.s., non deve 
ritenersi 
implicitamente 
abrogato 
anche 
il 
successivo 
art. 
128, 
con 
il 
conseguente 
venir meno dell’obbligo di 
tenere 
un registro per coloro che 
esercitano l’attività 
liberalizzata 
del 
commercio di 
cose 
antiche. Il 
parere 
ha 
chiarito che 
la 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 126, ora 
abrogata, non consentiva 
l’esercizio 
del 
commercio 
di 
cose 
antiche 
senza 
una 
preventiva 
dichiarazione 
all’autorità 


(8) La 
definizione 
è 
contenuta 
in A.L. TARASCO, “Il 
talento sotterrato. Il 
patrimonio culturale 
fra 
valorizzazione ed equilibrio dei bilanci pubblici”, in “Riv. Giur. Edil.”, 2018, 6. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


locale 
di 
pubblica 
sicurezza, regolando, quindi, le 
modalità 
di 
accesso all’attività 
che 
si 
è 
voluto 
rendere 
libera. 
La 
seconda 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 
128 
ha, 
invece, 
la 
funzione 
di 
rendere 
possibile 
un 
controllo 
sulle 
attività 
svolte 
dai 
soggetti 
in 
essa 
indicati 
e 
quindi 
anche 
sulle 
attività 
di 
commercio 
compiute 
sulle 
cose 
antiche 
o usate. È, quindi, ben possibile 
che 
una 
attività 
commerciale, 
riguardante 
cose 
antiche 
o usate, possa 
essere 
oggi 
avviata 
ed esercitata 
senza 
possibili 
controlli 
all’accesso, ma 
che 
permanga 
il 
controllo sulle 
successive 
transazioni 
delle 
cose 
antiche 
o 
usate. 
Del 
resto 
è 
ben 
noto 
che 
il 
settore 
della 
vendita 
di 
beni 
antichi 
è 
particolarmente 
esposto 
a 
possibili 
azioni 
illecite. 
Il 
controllo 
sulle 
transazioni 
che 
è 
reso 
possibile 
attraverso 
l’annotazione 
delle 
stesse 
su 
un 
apposito 
registro, 
reso 
obbligatorio 
dall’art. 
128 
del 
t.u.l.p.s, 
rende 
così 
possibile 
l’attività 
di 
contrasto del 
mercato illegale 
di 
beni 
che 
hanno un 
valore 
artistico-culturale. 
Ulteriore 
elemento 
che 
conferma 
la 
permanenza 
nell’ordinamento della 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 128 del 
t.u.l.p.s 
è 
costituita 
dal 
fatto che 
il 
D.lgs 
n. 42 del 
gennaio 2004, recante 
il 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio 
(art. 
63 
e 
ss.) 
e 
le 
relative 
disposizioni 
applicative 


(d.m. 15 maggio 2009 n. 95) che 
sono pacificamente 
vigenti, hanno inteso disciplinare 
nel 
dettaglio, con riferimento ai 
beni 
oggetto di 
tutela, le 
modalità 
per l’esercizio del controllo dello Stato sulle transazioni. 
Sono 
numerose 
le 
sentenze 
del 
Supremo 
Consesso 
amministrativo 
che 
in 
tema 
di 
beni 
di 
valore 
artistico 
riaffermano 
un 
ruolo 
centrale 
della 
autorità 
statale. 
Si 
ricorda 
come 
esempio 
la 
nota 
sentenza 
del 
3 
ottobre 
2018 
n. 
5671 
della 
sesta 
sezione 
riguardante 
i 
beni 
immobili 
soggetti 
a 
prelazione 
storico-
artistica, 
chiarendo 
che 
il 
possesso 
ventennale 
ad 
usucapionem 
di 
tale 
bene 
non 
estingue 
il 
diritto 
di 
prelazione 
spettante 
allo 
Stato 
in 
base 
ad 
un 
precedente 
atto 
di 
alienazione 
non 
denunciato, 
se 
non 
sia 
stato 
esercitato 
secondo 
modalità 
confliggenti 
con 
il 
diritto 
di 
prelazione 
stesso. 
Premesso 
che 
tale 
diritto 
di 
prelazione 
ex 
art. 
59 
del 
D.lgs 
del 
22 
gennaio 
2004 
n. 
42 
non 
è 
quello 
disciplinato 
dal 
codice 
civile, 
in 
quanto 
configura 
un 
vero 
e 
proprio 
potere 
pubblicistico 
di 
tipo 
ablatorio 
(9), 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
chiarito 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
1158 
c.c. 
e 
seguenti, 
la 
proprietà 
di 
un 
bene 
si 
acquista 
a 
titolo 
originario 
in 
forza 
del 
possesso 
pubblico, 
pacifico, 
continuato 
e 
non 
interrotto 
del 
bene 
stesso 
per 
un 
periodo 
variabile, 
nella 
specie 
ventennale, 
trattandosi 
di 
un 
bene 
immobile. 
ha, 
però, 
puntualizzato 
che, 
nel 
silenzio 
della 
legge 
in 
proposito, 
non 
esiste 
una 
logica 
incompatibilità 
fra 
l’usucapione 
di 
un 
bene 
e 
l’eventuale 
permanenza 
sullo 
stesso 
di 
pretese 
altrui 
tra 
le 
quali 
il 
diritto 
di 
prelazione 
dello 
Stato. 
Il 
problema 
si 
pone 
per 
i 
beni 
immobili, 
per 
i 
quali 
non 
esiste 
una 
norma 
analoga 
all’art. 
1153, 
comma 
2 
c.c., 
per 
cui 
la 
proprietà 
di 
un 
bene 
mobile 
acquistata 
in 
buona 
fede 
da 
chi 
non 
sia 
proprietario 
si 
acquista 
libera 
da 
diritti 
altrui 
sulla 
cosa 
che 
non 
risultino 
dal 
titolo. 
La 
proble


(9) Vedi G.F. BASINI, “La prelazione artistica” 
in “Contratti”, 2019, 4, 462. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


matica 
cui 
si 
riferisce 
parlando 
di 
ammissibilità 
dell’usucapio 
libertatis, 
ovvero 
di 
presunta 
retroattività 
dell’usucapione 
(10), 
non 
ha 
trovato 
una 
compiuta 
analisi 
in 
giurisprudenza, 
affermando 
alcune 
sentenze 
che 
nel 
nostro 
ordinamento 
la 
usucapio 
libertatis 
non 
esisterebbe 
(Cass. 
civ., 
Sez. 
II, 
27 
marzo 
2001 
n. 
4412) 
ed 
altre 
(Cass. 
civ., 
Sez. 
II, 
28 
giugno 
2000 
n. 
8972) 
che 
l’usucapione 
avrebbe, 
invece, 
effetto 
retroattivo, 
e 
quindi 
le 
pretese 
altrui 
sul 
bene 
si 
estinguerebbero. 
Un’analisi 
più 
approfondita 
viene, 
invece, 
dalla 
prassi 
notarile, 
la 
quale 
sottolinea 
la 
necessità 
di 
risolvere 
caso 
per 
caso 
l’interrogativo, 
avuto 
riguardo 
da 
un 
lato 
alle 
caratteristiche 
del 
possesso 
esercitato 
e 
dall’altra 
alla 
natura 
della 
pretesa 
altrui 
che 
si 
vorrebbe 
estinta: 
l’estinzione 
si 
verificherà 
tutte 
le 
volte 
in 
cui, 
in 
generale, 
il 
possesso 
ventennale 
sia 
stato 
esercitato 
in 
modo 
confliggente 
con 
la 
pretesa 
in 
esame. 
Si 
fa 
l’esempio 
di 
una 
servitù 
di 
passaggio 
sul 
fondo 
usucapito 
che 
non 
si 
estingue 
se, 
nel 
periodo 
dell’usucapione, 
il 
titolare 
di 
essa 
ha 
potuto 
continuare 
a 
passare 
sul 
fondo 
interessato 
cosi 
come 
la 
servitù 
gli 
permette. 
Il 
Consiglio 
di 
Stato, 
applicando 
tale 
principio 
al 
caso 
concreto, 
conclude 
nel 
senso 
che 
mancano 
gli 
elementi 
per 
ritenere 
che 
il 
possesso 
ventennale, 
in 
sé 
non 
controverso, 
da 
parte 
dei 
ricorrenti 
appellanti, 
sia 
stato 
esercitato 
in 
modo 
confliggente 
con 
la 
prelazione 
dello 
Stato 
sul 
bene 
immobile 
di 
valore 
artistico-culturale 
sì 
da 
estinguerla. 
È 
una 
pronunzia 
che 
riafferma 
il 
principio 
della 
prevalenza 
dell’interesse 
statale 
alla 
conservazione 
dei 
beni 
di 
interesse 
culturale 
sulla 
libera 
circolazione 
di 
tali 
beni 
nel 
mercato. 


Come 
si 
possono allora 
conciliare 
questi 
due 
concetti, quello della 
tutela 
e 
quello 
della 
valorizzazione 
volta 
a 
garantire 
una 
redditività 
intrinseca 
del 
bene 
di 
valore 
artistico e 
culturale 
per finanziare 
sempre 
più costose 
spese 
di 
restauro conservativo e per offrire nuove opportunità di lavoro ai giovani. 

Una 
figura 
che 
occorre 
analizzare 
per poter ritenere 
possibile 
tale 
conciliazione 
è 
rappresentata 
dalle 
fondazioni 
e 
in genere 
dagli 
enti 
non profit, attualmente 
disciplinati 
dal 
Codice 
del 
Terzo 
settore 
(D.lgs 
3 
luglio 
2017 
n. 
117). 
Si 
è 
sempre 
discusso 
se 
per 
qualificare 
un 
ente 
quale 
non 
profit 
che 
si 
inserisce 
tra 
la 
crisi 
dello Stato sociale 
(goverment 
failure) e 
la 
crisi 
dell’economia 
di 
mercato (market 
failure), fosse 
necessaria 
e 
sufficiente 
l’assenza 
di 
un lucro 
soggettivo -con apertura, dunque, anche 
agli 
enti 
connotati 
da 
una 
causa 
di 
mutualità 
interna 
-ovvero 
se 
occorresse 
l’ulteriore 
elemento 
del 
perseguimento 
di 
fini 
solidaristici 
(11). 
La 
nozione 
di 
ente 
“non 
profit” 
è 
stata 
per 


(10) Vedi 
S. NOBILE 
DE 
SANTIS, “Possesso ad usucapionem 
e 
beni 
culturali”, in “Nuova Giur. 
Civ.”, 2019, 3, 509. 
(11) Vedi 
P. SChLESINGER, “Categorie 
dogmatiche 
e 
normative 
in tema di 
«non profit 
organizations
»”, in “Enti 
«non profit» in Italia”, a 
cura 
di 
PONzANELLI, Padova, 1994, 273 ss.; 
A. zOPPINI, “I 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


molti 
versi 
il 
tentativo 
di 
elaborare 
un 
concetto 
unificante 
rispetto 
all’altra 
nozione, 
quella 
di 
cd. Terzo settore 
che 
fino ad oggi 
era 
sostanzialmente 
una 
nozione 
di 
tipo 
sociologico. 
Il 
Terzo 
settore 
-è 
noto 
-è 
nozione 
che 
si 
è 
affiancata 
a 
quella 
di 
“Primo settore” 
relativo al 
Pubblico in generale 
ed a 
quello di 
“Secondo 
settore” relativo all’impresa privata. 


Così 
gli 
enti 
del 
terzo 
settore, 
pur 
perseguendo 
attività 
sociali 
senza 
scopo 
di 
lucro 
ed 
essendo 
sovente 
finanziati 
dallo 
Stato 
(o 
da 
altri 
enti 
pubblici) 
hanno 
operato 
secondo 
le 
regole 
del 
mercato 
e 
della 
concorrenza. 
Essi 
non 
costituiscono 
né 
istituzioni 
commerciali, perché 
diversamente 
da 
queste 
perseguono 
finalità 
altruistiche 
ed è 
precluso la 
divisione 
sia 
diretta 
che 
indiretta 
degli 
utili 
(non distribution constraint); 
né 
enti 
pubblici 
in senso stretto, difettando 
dei 
requisiti 
ontologici 
di 
questi. Nondimeno gli 
enti 
non profit 
instaurano 
frequenti 
rapporti 
di 
collaborazione 
con 
soggetti 
pubblici, 
presenti 
ed operando sul mercato come qualsiasi società lucrativa (12). 

Limitando il 
campo di 
indagine 
alle 
fondazioni 
così 
presenti 
nel 
mondo 
dell’arte, occorre 
richiamare 
autorevole 
dottrina 
(13) che 
definisce 
la 
fondazione 
“un figlio illegittimo della codificazione 
francese: essa non trova un riconoscimento 
esplicito, 
né 
definizione 
e 
disciplina 
del 
code 
civil 
che 
le 
dedica 
un 
fugace 
e 
indiretto 
richiamo 
nell’art. 
910 
“Les 
dispositions 
entre 
vifs 
ou 
par 
testament, au profit 
des 
hospices, des 
pauvres 
d’une 
commune, où d’establissement 
d’utilitè 
publique,n’auront 
leur 
effets 
qu’autant 
qu’elle 
seront 
autorisèes 
par 
une 
ordonnance 
royale”. Al 
momento della redazione 
del 
code 
civil 
il 
ripudio dell’istituto aveva trovato la sua giustificazione 
sia in ragioni 
ideologiche, 
quali 
l’autoritarismo napoleonico e 
l’ostilità dell’ideologia illuminista 
per 
i 
corpi 
intermedi 
tra 
il 
cittadino 
e 
lo 
Stato; 
sia 
nel 
programma 
politico 
volto 
a 
favorire 
la 
circolazione 
della 
ricchezza, 
che 
insieme 
alla 
abolizione 
dei 
fedecommessi 
-quali 
forme 
di 
conservazione 
e 
di 
trasmissione 
del 
privilegio 
e 
della ricchezza -alla imposizione 
di 
limiti 
temporali 
all’usufrutto, al-
l’affermazione 
della 
tipicità 
dei 
vincoli 
di 
natura 
reale 
sui 
beni, 
aveva 
travolto 
la 
fondazione. 
Infine, 
una 
ragione 
di 
carattere 
tecnico-giuridico, 
quale 
la 
concezione 
unitaria del 
patrimonio aveva condotto alla manifesta ostilità della 
dottrina nei confronti dei patrimoni autonomi”. 


Del 
resto anche 
autorevole 
dottrina 
italiana 
(14) parla 
della 
fondazione 


soggetti: 
l’associazione 
Europea”, 
in 
“Trattato 
di 
diritto 
privato 
europeo”, 
a 
cura 
di 
LIPARI, 
II, 
Padova, 
2003, 249; 
U. RESCIGNO, “Le 
formazioni 
sociali 
intermedie” 
in “Riv. dir. civ.”, 1998, I, 306; 
sulle 
non 
profit 
organizations 
e 
corporations 
vedi 
BERMANN, “The 
Lega Framework 
of 
Fondation in theUnited 
States”, in “Le fondazioni”, a cura di 
ALPA, Padova, 1988. 


(12) Vedi 
M. CEDOLIN, “Il 
cd. Codice 
del 
terzo settore 
d.lgs. 3 luglio 2017 n.117: un’occasione 
mancata?” 
in “Le Nuove Leggi Civili Commentate” 
Anno XLI, 1-40. 
(13) Vedi 
A. zOPPINI 
“Le 
fondazioni: dalla tipicità alle 
tipologie” 
in “Riv. dir. civ.”, 1991, I, 573. 
(14) Vedi 
F. GALGANO, “Delle 
persone 
giuridiche”, in “Commentario del 
cod.civ.”, a 
cura 
di 
A. 
SCIALOIA 
E 
G. BRANCA, I, “Delle 
persone 
e 
della famiglia” 
(art.11-35), Bologna-Roma, 1969; 
P. RESCIGNO, 
voce 
“Fondazione” 
(dir. 
civ.), 
in 
“Enc. 
del 
dir.”, 
vol. 
XVII, 
Milano, 
1968, 
790 
ss.; 
ID., 
“Fondazione 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


come 
di 
«un dato sociale 
negativo, perché 
tendenzialmente 
sottrae 
beni 
alla 
normale circolazione giuridica e agli investimenti patrimoniali» 
(15). 


Se 
questo 
è 
vero, 
è 
altrettanto 
vero 
che 
nella 
fondazione 
sono 
state 
inserite 
di 
recente 
strategie 
di 
impresa 
che 
ne 
hanno 
mutato 
radicalmente 
la 
natura. 
Questo 
è 
stato 
possibile 
grazie 
all’elaborazione 
del 
concetto 
di 
neutralità 
delle 
forme 
giuridiche 
rispetto 
ai 
contenuti 
economici, 
l’Unternehmenstragerstiftung 
dell’esperienza 
tedesca, ossia 
l’impresa 
che 
abbia 
assunto la 
forma 
giuridica 
della 
fondazione, 
secondo 
un 
modello 
che 
può 
apparire 
da 
un 
lato 
l’approdo 
naturale 
di 
un 
processo 
di 
oggettivizzazione 
e 
pubblicizzazione 
dell’interesse 
sociale, dall’altro una 
modalità 
possibile 
di 
razionalizzazione 
e 
di stabilizzazione dell’attività imprenditoriale. 

In 
caso 
di 
fondazioni 
che 
operano 
nel 
settore 
artistico-culturale 
per 
le 
quali 
il 
sistema 
concessorio 
di 
riconoscimento 
della 
personalità 
giuridica 
disciplinata 
dal 
D.P.R. 
361/2000 
da 
parte 
del 
Prefetto 
richiede 
anche 
una 
previa 
valutazione 
del 
Ministero 
per 
i 
Beni 
e 
le 
Attività 
culturali, 
occorre 
considerare 
che 
le 
tipologie 
possono 
essere 
le 
più 
varie 
a 
seconda 
degli 
scopi 
che 
ciascuna 
fondazione 
si 
prefigge. 
Si 
possono 
trovare 
fondazioni 
aziendali, 
di 
famiglia, 
fondazioni 
scolastiche 
o 
universitarie, 
fondazioni 
liriche 
e 
musicali 
o 
fondazioni 
ecclesiastiche 
o 
di 
partecipazione 
(16). 
Queste 
ultime, 
le 
fondazioni 
di 
partecipazione, 
sono 
abbastanza 
recenti 
e 
si 
caratterizzano 
per 
una 
partecipazione 
fra 
soggetti 
pubblici 
e 
privati 
per 
la 
gestione 
di 
enti 
ospedalieri, 
istituzioni 
di 
formazione 
specialistica, 
nonché 
di 
istituzioni 
culturali. 


Riguardo a 
queste 
ultime 
un esempio caratteristico in Italia 
a 
livello nazionale 
è 
rappresentato 
dal 
FAI, 
il 
Fondo 
Ambiente 
Italiano 
che 
è 
nato 
sul 
modello 
del 
National 
Trust 
inglese 
nell’ambito 
delle 
charity 
corporations. 
È 
interessante, infatti, notare 
come 
questa 
istituzione 
abbia 
in un certo senso ricalcato 
gli 
scopi 
e 
gli 
obiettivi 
morali 
e 
culturali 
di 
istituzione 
inglese, 
ma 
configurandosi 
giuridicamente 
in 
un’altra 
tipologia 
di 
ente, 
quale 
quella 
della 
fondazione. Questo esempio mette 
chiaramente 
in luce 
come 
in Italia 
sia 
più 
forte 
e 
radicata 
l’esperienza 
delle 
fondazioni 
che 
possiedono una 
propria 
normativa 
di 
riferimento e 
una 
tradizione 
alle 
spalle 
a 
differenza 
dell’istituto del 
trust. Le 
fondazioni 
sono istituti 
che, nel 
corso del 
tempo, (si 
pensi 
alle 
Piae 


e 
impresa”, in “Riv. soc.”, 1967, 812 e 
ss.; 
ID., Negozio privato di 
fondazione 
e 
atto amministrativo di 
riconoscimento, in “Giur. it.”, 1968, I, 1, c. 1353 ss. (ora 
in “Persona e 
comunità”, II, [1967-1987], 
Padova, 1988, rispettivamente 
alle 
pp. 1 ss., 5 ss., 91 ss., cui 
si 
riferiscono le 
citazioni 
che 
seguono); 
G. 
ALPA 
(a 
cura 
di), “Le 
fondazioni, tradizione 
e 
modernità”, Padova, 1988; 
P. RESCIGNO, “Le 
fondazioni: 
prospettive 
e 
linee 
di 
riforma” 
in ID. 
(a 
cura 
di), “Le 
fondazioni 
in Italia e 
all’estero”, Padova, 1989, 
469 ss. 

(15) Così C.M. BIANCA, “La norma giuridica - I soggetti”, in “Diritto civile”, Milano, 1984. 
(16) Maggiori 
informazioni 
sulle 
fondazioni 
presenti 
in Italia 
con i 
relativi 
censimenti 
e 
indagini 
sulle 
erogazioni 
si 
possono consultare 
sul 
sito del 
Centro di 
Documentazione 
sulle 
Fondazioni 
CDF 
all’indirizzo 
internet 
http:www.fondazioni.it. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


causae, Opere 
pie 
e 
Monti 
di 
Pietà 
promosse 
dalla 
Chiesa 
cattolica), hanno 
subito una 
forte 
evoluzione 
sia 
a 
livello di 
organizzazione 
che 
di 
espansione 
territoriale, passando da 
una 
semplice 
forma 
di 
mecenatismo ad una 
struttura 
giuridica ben definita. 

A 
livello di 
finanziamenti 
le 
fondazioni 
tendono non solo a 
trovare 
sponsorizzazioni 
saltuarie 
per singoli 
eventi, ma 
a 
creare 
forme 
di 
contributi 
duraturi 
sia 
da 
parte 
di 
privati 
che 
di 
enti 
pubblici, sostenendo forme 
di 
raccolta 
fondi 
per 
progetti 
sempre 
più 
ambiziosi 
e 
importanti. 
A 
livello 
economico, 
l’unico 
problema 
che 
rimane 
è 
quello 
della 
trasparenza, 
perché 
se 
le 
fondazioni 
bancarie 
dichiarano i 
propri 
fondi, le 
entrate 
e 
le 
diverse 
erogazioni 
annue, il 
resto delle 
fondazioni 
non solo non è 
tenuto a 
dichiarare 
tali 
informazioni, ma 
non 
li 
rende 
mai 
pubblici. 
Una 
fondazione 
può 
trovare 
origine 
sia 
dalla 
volontà 
di 
una 
persona 
fisica 
che 
di 
una 
persona 
giuridica, 
anche 
se 
le 
motivazioni 
possono essere 
le 
più varie 
e 
differenti. In Italia 
la 
maggior parte 
delle 
fondazioni 
trae 
origine 
da 
persone 
fisiche, siano essi 
singoli 
individui 
o gruppi 
familiari. 
A 
seguire 
si 
trovano 
le 
fondazioni 
che 
nascono 
da 
istituzioni 
non 
profit, 
come 
associazioni 
e 
comitati 
e 
quelle 
riconducibili 
a 
istituzioni 
pubbliche 
o 
imprese (17). 


Nel 
caso in cui 
una 
persona 
fisica 
possedesse 
una 
cospicua 
collezione 
di 
opere 
d’arte, alcune 
motivazioni 
che 
potrebbero spingerlo (tali 
da 
indurlo) a 
creare una fondazione potrebbero essere: 


-perseguire 
scopi 
filantropici 
finalizzati 
alla 
tutela 
e 
alla 
protezione 
del 
suo patrimonio artistico; 
- valorizzare il suo patrimonio artistico rendendolo fruibile al pubblico; 
-incentivare 
gli 
artisti 
emergenti 
attraverso 
concorsi 
e 
mostre 
o 
avvicinare 
e 
sensibilizzare 
la 
collettività 
verso 
il 
settore 
dell’arte 
attraverso 
seminari, 
convegni 
e altre attività educative; 


- ricercare anche vantaggi fiscali a tutela della propria collezione; 
-assumere 
una 
forma 
giuridica 
che 
consenta 
di 
accettare 
lasciti 
e 
donazioni 
da 
parte 
di 
privati, oppure 
di 
servirsi 
di 
attività 
di 
volontariato, col 
fine 
di 
sostenere 
nel 
migliore 
dei 
modi 
operazioni 
di 
manutenzione 
e 
conservazione 
che 
interessano i 
beni 
della 
collezione, aumentare 
e 
migliorare 
i 
servizi 
verso 
i 
cittadini 
e 
la 
possibilità 
di 
incrementare 
il 
patrimonio 
artistico 
attraverso 
nuove acquisizioni; 
-realizzare 
attività 
di 
fundraising 
per reperire 
nuovi 
fondi 
utili 
alla 
conservazione 
della collezione e per lo svolgimento delle attività collaterali. 
In questo senso la 
fondazione 
può essere 
intesa 
come 
uno strumento giuridico 
utile 
e 
flessibile, sia 
per singole 
persone 
che 
per persone 
giuridiche, per 
il 
perseguimento di 
scopi 
filantropici, per migliorare 
la 
propria 
immagine 
con 


(17) Vedi 
E. BORTPLUzzI 
DUBACh, “Lavorare 
con le 
fondazioni, Guida operativa”, Enciclopedia 
zanichelli, 2004, 65-71. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


attività 
culturalmente 
utili 
o perpetuare 
nel 
tempo una 
collezione 
di 
un familiare 
scomparso, tra 
l’altro mantenendo il 
nome 
di 
quest’ultimo. In qualsiasi 
caso gli 
scopi 
che 
il 
fondatore 
o i 
fondatori 
si 
sono prefissati 
e 
che 
si 
trovano 
nell’atto di 
fondazione 
devono mantenersi 
tali, a 
meno che 
non si 
richieda 
un 
cambiamento, entro i 
limiti 
del 
vincolo del 
fondatore, all’interno dell’atto da 
parte 
dell’autorità 
governativa. 
Questo 
perché 
una 
fondazione 
è 
prima 
di 
tutto 
un patrimonio vincolato al perseguimento di un certo scopo. 

Tradizionalmente 
entro il 
novero delle 
istituzioni 
di 
carattere 
privato riconosciute 
come 
persone 
giuridiche, alle 
associazioni, quali 
universitas 
personarum, 
ovvero 
pluralità 
di 
persone 
associate 
per 
il 
perseguimento 
di 
uno 
scopo comune, vengono contrapposte 
le 
fondazioni, concepite 
come 
universitas 
bonorum, dove 
l’elemento personale 
cede 
il 
posto all’elemento patrimoniale, 
elemento sul 
quale 
si 
incentra 
la 
definizione 
classica 
della 
fondazione, 
quale 
complesso di 
beni 
destinato al 
perseguimento di 
uno scopo. È 
proprio 
rispetto alla 
fondazione 
che 
si 
è 
posto storicamente 
il 
problema 
di 
enucleare 
in 
campo 
privatistico, 
il 
concetto 
di 
persona 
giuridica, 
di 
ammettere 
l’esistenza 
di 
un 
ente 
che, 
benché, 
privo 
di 
membri, 
potesse 
essere 
titolare 
di 
rapporti 
giuridici. 
Il 
concetto di 
fondazione 
quale 
autonomo soggetto di 
diritto cui 
attribuire 
la 
proprietà 
del 
patrimonio 
destinato 
ad 
uno 
scopo, 
compare 
per 
la 
prima 
volta 
agli 
inizi 
dell’Ottocento, 
ad 
opera 
di 
Savigny 
(cd. 
Teoria 
della 
finzione). 


Prima 
di 
allora, in epoca 
intermedia, la 
figura 
era 
delineata 
a 
prescindere 
dal 
concetto 
di 
persona 
giuridica: 
i 
beni 
destinati 
da 
una 
persona 
(il 
fondatore) 
ad 
uno 
scopo 
determinato 
erano 
concepiti 
o 
come 
beni 
appartenenti 
ai 
soggetti 
beneficiari 
della 
fondazione, 
collettivamente 
considerati, 
o 
come 
beni 
attribuiti 
in 
proprietà 
fiduciaria 
ai 
gestori, 
configurazione 
quest’ultima, 
peraltro, 
tuttora 
presente 
nei 
paesi 
di 
Common Law, ove 
la 
fondazione 
è 
considerata 
applicazione 
dell’istituto del 
trust 
(18). 

Si 
pensi 
al 
National 
Trust 
inglese, 
un 
istituto 
nato 
a 
Londra 
nel 
1895, 
dalla 
volontà 
di 
tre 
persone, 
Octavia 
hill, 
Robert 
hunter 
e 
hardwicke 
Rawnsley, 
con l’intento inizialmente 
di 
salvaguardare 
i 
beni 
paesaggistici 
dai 
danni 
ambientali 
provocati 
dall’incontrollato 
sviluppo 
e 
il 
conseguente 
impatto 
causato 
dall’avvento 
dell’industrializzazione. 
Il 
National 
Trust 
è 
un 
ente 
benefico, 
nato 
su esigenze 
filantropiche 
e 
senza 
scopo di 
lucro ed è 
riconosciuto ancora 
oggi 
come 
uno 
dei 
più 
autorevoli 
enti 
per 
la 
tutela 
dell’ambiente 
e 
dei 
beni 
culturali. 
Oggi 
il 
National 
Trust 
possiede 
più di 
240 mila 
ettari 
di 
beni 
paesaggistici 
dislocati 
tra 
Inghilterra, Galles 
e 
Irlanda 
del 
Nord, che 
si 
dividono in riserve 
naturali, 
zone 
agricole 
e 
costiere 
e 
più di 
700 miglia 
di 
linee 
costiere. Fra 
i 
beni 
che 
compongono 
l’istituto 
vi 
sono 
anche 
quelli 
di 
interesse 
artistico 
come 
i 
200 edifici 
e 
giardini 
di 
interesse 
storico e 
culturale, nonché 
mobili 
antichi, 
opere 
d’arte 
e 
altri 
oggetti 
importanti 
dislocati 
fra 
le 
dimore 
storiche 
e 
i 
mo


(18) Vedi F. CARINGELLA 
- L. BUFFONI, “Manuale di diritto civile”, Roma, 2018, 130. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


numenti 
di 
archeologia 
industriale 
accessibili 
al 
pubblico. 
Si 
tratta 
di 
una 
serie 
di 
beni 
paesaggistici 
e 
artistici, per i 
quali 
non solo viene 
garantita 
sicurezza, 
conservazione 
e 
valorizzazione, 
ma 
anche 
fruizione 
per 
il 
pubblico, 
poiché 
viene 
data 
la 
possibilità 
sia 
ai 
membri 
che 
alle 
altre 
persone 
di 
poterli 
visitare 
e 
ammirare. Infatti 
gli 
obiettivi 
principali 
del 
National 
trust 
sono la 
conservazione 
e 
la 
salvaguardia 
dei 
beni 
paesaggistici 
e 
culturali 
che 
si 
trovano sotto 
la 
sua 
tutela, la 
promozione 
turistica 
dei 
beni, la 
trasmissione 
culturale 
attraverso 
iniziative 
che 
coinvolgano il 
pubblico, come 
dibattiti 
e 
convegni, l’incremento 
della 
ricerca 
scientifica 
applicata 
alla 
cura 
dei 
beni 
artistici. 
L’istituzione 
conta 
più di 
3 milioni 
e 
mezzo di 
membri 
che 
appoggiano il 
National 
Trust 
attraverso sia 
lasciti 
e 
elargizioni 
di 
tipo finanziario sia 
attraverso 
donazioni 
di 
collezioni 
e 
patrimoni 
artistici. Le 
maggiori 
entrate 
economiche 
sono, infatti, rappresentate 
dagli 
aiuti 
dei 
membri, ma 
il 
National 
Trust 
può 
anche 
contare 
sulla 
collaborazione 
e 
sull’aiuto 
di 
volontari 
provenienti 
da 
tutto 
il mondo, che oggi ammontano a quasi 43 milioni di persone. 

Proprio sull’esempio del 
National 
Trust 
inglese 
è 
stato costituito in Italia 
il 
FAI 
Fondo 
Ambientale 
Italiano, 
un 
ente 
senza 
scopo 
di 
lucro 
i 
cui 
scopi 
sono 
affini 
a 
quelli 
perseguiti 
dal 
trust 
in 
questione. 
La 
differenza 
sostanziale 
è 
nella 
forma 
giuridica, poiché 
il 
FAI si 
configura 
come 
una 
fondazione, un istituto 
diffuso e 
ben radicato in Italia, si 
pensi 
alla 
Fondazione 
Agnelli 
o alla 
Fondazione 
Monte 
dei 
Paschi 
di 
Siena 
tra 
le 
oltre 
4000 fondazioni 
oggi 
esistenti 
in 
Italia. 

Un esempio di 
come 
si 
possa 
conciliare 
attività 
turistica 
e 
tutela 
del 
patrimonio 
artistico attraverso il 
modello del 
trust 
è 
rappresentato sempre 
in Inghilterra 
dal 
Landmark 
Trust. 
Quest’ultima 
è 
un’importante 
organizzazione 
per 
la 
tutela 
e 
la 
valorizzazione 
del 
patrimonio 
artistico 
e 
culturale 
nata 
in 
Gran 
Bretagna 
nel 
1965 per volere 
di 
Sir John Smith e 
Lady Smith. La 
Landmark 
Trust 
è 
un ente 
senza 
scopo di 
lucro che 
si 
occupa 
di 
salvaguardare 
e 
promuovere 
una 
serie 
di 
beni, 
in 
particolare 
edifici 
e 
dimore 
storiche 
di 
vario 
tipo, 
site 
nel 
territorio della 
Gran Bretagna. Si 
occupa 
del 
recupero e 
del 
restauro delle 
proprietà 
più danneggiate 
riportandole 
in vita 
e 
mettendole 
anche 
a 
disposizioni 
per piacevoli 
vacanze. Infatti, tutti 
gli 
edifici 
sono fruibili 
da 
parte 
dei 
visitatori 
sia 
in orari 
prestabiliti, ma 
anche 
attraverso il 
loro affitto. Infatti, il 
Landmark 
Trust 
permette 
soggiorni 
a 
pagamento, 
che 
consentono 
parte 
del 
sostentamento e 
delle 
opere 
di 
restauro che 
gli 
edifici 
richiedono. Scopo primario 
è 
la 
conservazione 
del 
patrimonio sotto la 
sua 
tutela, insieme 
a 
finalità 
educative 
che 
si 
esplicano nei 
soggiorni 
dei 
quali 
le 
persone 
possono fruire. 
Un’esperienza 
abitativa 
in una 
dimora 
storica 
e 
di 
alto valore 
architettonico 
può contribuire 
a 
sensibilizzare 
le 
persone 
verso la 
storia 
e 
i 
beni 
artistici 
e, 
soprattutto, è un’occasione unica per volgere lo sguardo al passato. 


Negli 
Stati 
Uniti 
riscontriamo una 
gestione 
privata 
dei 
beni 
culturali 
che 
rappresenta 
un 
modello 
totalmente 
opposto 
alla 
gestione 
pubblica 
di 
Paesi 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


come 
l’Italia. 
La 
maggior 
parte 
dei 
musei 
americani 
sono 
istituzioni 
non 
profit 
giuridicamente 
ordinate 
secondo la 
formula 
giuridica 
del 
trust 
e 
governati 
da 
un Board of 
Trustees 
che 
rappresentano spesso i 
personaggi 
economicamente 
più forti 
della 
città 
e 
dello Stato. Essi 
detengono un potere 
decisionale 
su questioni 
come 
la 
politica 
culturale 
che 
il 
museo deve 
perseguire, gli 
acquisti 
e 
i 
metodi 
di 
finanziamento 
del 
loro 
museo, 
volontà, 
alle 
quali, 
molto 
spesso, 
anche 
il 
direttore 
del 
museo 
deve 
sottostare. 
I 
controlli 
sull’operato 
dei 
trustees 
e 
sugli 
statuti 
dei 
trust 
sono effettuati 
periodicamente 
e 
con severità 
dagli 
attorney 
generals, 
ovvero 
dall’amministrazione 
della 
giustizia, 
nell’interesse 
pubblico. 
Questa 
struttura 
privatistica 
dei 
musei 
è 
stata 
favorita 
anche 
dalle 
agevolazioni 
fiscali 
per coloro che 
sostengono la 
promozione 
e 
la 
valorizzazione 
di 
attività 
culturali. L’esempio che 
qui 
si 
vuole 
descrivere 
è 
quello del 
Paul 
Getty 
Trust, 
le 
cui 
origini 
risalgono 
all’istituzione 
del 
Paul 
Getty 
Museum, 
da 
parte 
del 
magnate 
del 
petrolio e 
collezionista 
Paul 
Getty nel 
1953. 
Successivamente 
Paul 
Getty 
fece 
costruire 
un 
secondo 
museo 
a 
Malibù 
in 
California, 
una 
sorta 
di 
villa-museo, ispirata 
alle 
ville 
romane. Si 
tratta 
di 
una 
ricostruzione 
perfetta 
della 
Villa 
dei 
Papiri 
di 
Ercolano 
dove 
sono 
custodite 
alcune 
delle 
antichità 
greche 
e 
romane 
appartenenti 
alla 
collezione 
di 
Paul 
Getty. Tale 
villa 
insieme 
al 
Getty 
Center 
a 
Los 
Angeles 
rappresenta 
oggi 
uno 
dei 
centri 
culturali 
più 
importanti 
al 
mondo, 
gestito 
dal 
Paul 
Getty 
Trust, 
un’istituzione 
culturale 
e 
filantropica 
che 
opera 
a 
livello internazionale 
e 
che 
ha 
come 
scopo quello di 
promuovere 
la 
conoscenza 
e 
la 
salvaguardia 
del 
patrimonio 
artistico mondiale, in particolare 
verso il 
settore 
dell’arte 
visiva, riconoscendo 
nell’arte la capacità di ispirare e rafforzare i valori dell’umanità. 

Negli 
esempi 
sopra 
riportati 
che 
non sono certo esaustivi 
(si 
pensi 
anche 
al 
noto caso del 
Guggeinheim 
UK Charitable 
Trust) si 
nota 
quanto la 
filantropia 
e 
il 
volontariato siano due 
caratteristiche 
di 
queste 
istituzioni 
non profit. 
Ma 
occorre 
chiedersi 
se 
la 
filantropia 
sia 
conciliabile 
con una 
vera 
e 
propria 
attività 
di 
impresa 
e 
in che 
termini 
per una 
tutela 
effettiva 
dei 
beni 
culturali 
(19). 
Per 
filantropia 
si 
intende 
un 
comportamento 
caritatevole 
tipico 
delle 
persone 
altruistiche, un atteggiamento studiato attentamente 
in economia 
e 
che 
nasce 
da 
diverse 
aspirazioni, 
come 
quello 
di 
auto 
soddisfazione 
nei 
propri 
confronti, 
la 
volontà 
di 
mantenere 
una 
collezione 
a 
beneficio 
della 
collettività, 
sostenere 
opere 
di 
restauro 
o 
altro 
con 
un 
ritorno 
di 
immagine 
di 
sé 
stesso 
o 
della 
propria 
azienda. Gli 
esempi 
del 
National 
Trust 
o del 
Getty 
Trust 
sono di 
per 
sé 
esempi 
di 
filantropia 
che 
si 
servono 
a 
loro 
volta 
di 
atteggiamenti 
filantropici 
da 
parte 
di 
terzi. 
Tutte 
queste 
istituzioni, 
infatti, 
sostengono 
e 
promuovono 
donazioni 
e 
lasciti 
da 
parte 
dei 
privati 
nonché 
aiuto e 
collaborazione 
da 
parte 
di 
volontari. Per quanto riguarda 
l’Italia, il 
complesso delle 
imprese 
culturali 
da 


(19) Vedi 
A. BESANA, “L’arte in chiave economica”, Milano, 2003. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


quelle 
profit 
a 
quelle 
non profit 
come 
biblioteche, musei, compagnie 
teatrali, 
associazioni 
e 
fondazioni 
può contare 
su una 
filantropia 
privata 
per una 
percentuale 
che 
varia 
tra 
il 
5% e 
il 
15% delle 
risorse 
finanziarie 
necessarie. La 
realtà 
statunitense, 
invece, 
è 
ben 
diversa, 
soprattutto, 
per 
quanto 
riguarda 
i 
musei. Come 
negli 
esempi 
sopra 
riportati, quelli 
del 
Paul 
Getty 
Museum 
o del 
Solomon 
Guggenheim 
Museum, 
le 
entrate 
principali 
sono 
rappresentate 
da 
donazioni 
private e di imprese, circa il 30% delle risorse finanziarie totali. 

Esiste 
un’enorme 
differenza, 
infatti, 
tra 
la 
cultura 
americana 
privata 
e 
quella 
pubblica 
di 
paesi 
come 
l’Italia. 
L’idea 
che 
si 
possa 
conciliare 
la 
gestione 
privata 
con una 
regolazione 
pubblica 
non è 
del 
tutto peregrina: 
basti 
pensare 
alla 
Fondazione 
Italia 
sociale, istituita 
dall’art. 10 della 
Legge 
6 giugno 2016. 
Tale 
Fondazione 
-operativa 
dal 
febbraio 2018 a 
seguito della 
nomina 
del 
Comitato 
di 
gestione 
-è 
una 
persona 
giuridica 
di 
diritto privato (la 
Pubblica 
Amministrazione 
nomina 
tre 
membri 
su 
10 
dell’organo 
di 
amministrazione) 
sottoposta 
alla 
vigilanza 
del 
Ministero del 
Lavoro e 
delle 
politiche 
Sociali 
e 
al 
controllo 
della 
Corte 
dei 
Conti 
sulla 
gestione 
finanziaria. 
Per 
legge 
le 
risorse 
devono provenire 
prevalentemente 
da 
privati. Il 
pubblico ha 
conferito 1 milione 
in sede 
di 
avviamento e 
nel 
primo anno di 
attività 
la 
Fondazione 
ha 
già 
ricevuto 
3 
milioni 
di 
euro 
dai 
partecipanti 
privati. 
In 
quanto 
“fondazione 
di 
partecipazione” 
nel 
corso 
del 
primo 
anno 
si 
è 
progressivamente 
ampliata 
la 
base 
dei 
partecipanti 
comprendendo alcune 
importanti 
imprese 
come 
Banca 
Mediolanum, 
Fondazione 
Adriano 
Olivetti, 
Lottomatica. 
L’adesione 
comporta 
per le 
imprese 
l’impegno ad attivare 
una 
raccolta 
fondi 
permanente 
attraverso 
le 
proprie 
reti 
commerciali 
(clienti, utenti, fornitori) o i 
propri 
dipendenti, destinata 
ad alimentare uno specifico Fondo filantropico. 

Tale 
Fondazione 
si 
differenzia 
dagli 
altri 
enti 
filantropici 
presenti 
nel 
panorama 
nazionale 
(fondazioni 
di 
origine 
bancaria, 
fondazioni 
di 
impresa, 
fondazioni 
di 
comunità, 
fondazioni 
di 
famiglia), 
in 
quanto 
non 
ha 
vincoli 
territoriali 
e 
nasce 
per 
colmare 
una 
lacuna 
negli 
strumenti 
di 
sostegno 
finanziario 
al 
Terzo 
settore. 
Un’importante 
funzione 
di 
tale 
fondazione, 
messa 
a 
punto 
nel 
corso 
del 
2019 
e 
in 
fase 
di 
avviamento, 
riguarda 
la 
messa 
a 
disposizione 
di 
una 
serie 
di 
servizi 
per 
incentivare 
e 
facilitare 
la 
destinazione 
di 
donazioni 
e 
lasciti 
ad 
enti 
di 
terzo 
settore 
e 
altre 
organizzazioni 
di 
interesse 
sociale 
(scuole, 
ospedali, 
musei, 
istituzioni 
culturali). 
Sul 
modello 
delle 
fondazioni 
nazionali 
in 
Francia 
e 
in 
Belgio, 
tale 
fondazione 
offre 
servizi 
di 
consulenza 
e 
intermediazione 
filantropica 
rivolti 
a 
donatori 
che 
anziché 
creare 
delle 
proprie 
fondazioni 
individuali 
reputano 
più 
vantaggioso 
costituire 
sotto 
l’ombrello 
e 
le 
garanzie 
di 
Fondazione 
Italia 
Sociale 
dei 
fondi 
“donor 
advised”, 
quasi 
sul 
modello 
di 
un 
fondo 
strategico 
di 
investimento. 
In 
questo 
caso 
la 
Fondazione 
offre 
il 
servizio 
di 
gestione 
mentre 
le 
finalità 
sono 
fissate 
dal 
donatore. 


L’utilizzo 
dei 
servizi 
messi 
a 
disposizione 
dalla 
Fondazione 
presenta 
vantaggi 
in 
termini 
di 
costi, 
efficacia 
esecutiva 
e 
garanzia 
di 
durata 
nel 
tempo. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Tale 
Fondazione 
agisce 
anche 
come 
advisor 
delle 
istituzioni 
pubbliche 
per la 
gestione 
di 
risorse 
destinate 
a 
Terzo settore 
e 
per incrementare 
l’efficacia 
nel-
l’utilizzo delle 
risorse 
pubbliche 
regionali, nazionale 
ed europee 
destinate 
ai 
progetti 
sociali. In partenariato con soggetti 
pubblici, inoltre, può sviluppare 
progetti 
istituzionali 
e 
gestire 
risorse 
pubbliche. È 
da 
precisare 
che 
se 
è 
vero 
che 
gli 
enti 
filantropici 
rientrano nel 
cd. Terzo settore, ai 
sensi 
dell’art. 4 del 
D.lgs 
n. 117/17, questo comporta, in presenza 
dell’esercizio di 
un’attività 
impresa 
ex 
art. 2082 c.c. (che 
oggi 
può essere 
svolta 
anche 
da 
enti 
non aventi 
natura 
societaria), 
l’applicabilità 
a 
tali 
enti 
delle 
norme 
di 
diritto 
societario 
secondo un principio di 
compatibilità 
funzionale. In tale 
ottica 
si 
muove 
la 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Terzo settore, prevedendo, oltre 
ad un registro nazionale 
unico degli 
enti, l’applicabilità 
a 
tali 
enti 
di 
tutta 
la 
normativa 
in tema 
di 
scritture contabili e di modulistiche dei bilanci 
ex 
art. 7 del D.lgs n. 117/17. 


Se 
si 
consente 
ad 
una 
fondazione 
o 
associazione 
di 
esercitare 
attività 
di 
impresa, 
nel 
rispetto 
del 
principio 
della 
non 
distribution 
constraint, 
non 
si 
può 
non 
prevedere 
una 
trasposizione 
in 
termini 
di 
compatibile 
applicazione 
a 
tali 
enti 
delle 
norme 
di 
diritto 
societario 
volte 
al 
controllo 
e 
alla 
trasparenza 
dell’attività 
espletata 
soprattutto 
quando 
tale 
attività 
è 
finanziata 
da 
risorse 
pubbliche. 


La 
riprova 
di 
questa 
tendenziale 
equiparazione 
tra 
fondazione 
e 
società 
commerciale 
sotto 
il 
profilo 
dell’attività 
imprenditoriale 
concretamente 
esercitata 
è 
rinvenibile 
nell’art. 
42 
bis 
del 
codice 
civile 
introdotto 
di 
recente 
dal 
codice 
del 
terzo 
settore 
che 
testualmente 
recita: 
«Se 
non 
è 
espressamente 
escluso 
dall’atto 
costitutivo 
o 
dallo 
statuto, 
le 
associazioni 
riconosciute 
e 
non 
riconosciute 
e 
le 
fondazioni… 
possono 
operare 
reciproche 
trasformazioni, 
fusioni 
o 
scissioni. 
La 
trasformazione 
produce 
gli 
effetti 
di 
cui 
all’articolo 
2498 
c.c.». 


L’analisi 
fin qui 
svolta 
consente 
tre 
ordini 
di 
considerazioni 
: 
1) la 
prima 
attiene 
alla 
ridefinizione 
del 
tipo normativo fondazione 
nell’ottica 
della 
neutralità 
delle 
forme 
giuridiche 
rispetto 
ai 
contenuti 
economici 
finalizzati 
alla 
tutela 
dei 
beni 
culturali; 
2) la 
seconda 
alla 
qualificazione 
delle 
relazioni 
giuridiche 
legate 
al 
fenomeno del 
«mecenatismo» 
e 
della 
«sponsorizzazione»; 
3) 
la 
terza 
al 
rapporto 
fra 
forme 
giuridiche 
e 
politiche 
culturali 
che 
tengano 
conto 
dell’evoluzione dell’economia. 


Riguardo al 
primo profilo occorre 
considerare 
che 
l’individuazione 
di 
un 
Idealtypus 
di 
fondazione 
-secondo la 
terminologia 
weberiana 
fatta 
propria 
da 
una 
dottrina 
tedesca 
-ambisce 
alla 
definizione 
di 
una 
immagine 
concettuale 
che 
depurata 
dalle 
specificità 
nazionali 
sia 
idonea 
a 
sussumere 
la 
molteplicità 
fenomenica. 
Si 
tratta 
di 
un 
modello 
euristico, 
ossia 
un 
Funktion 
typus, 
che 
viene 
a 
delinearsi 
rispetto al 
collegamento tra 
scopo e 
patrimonio (20). A 
que


(20) Vedi h. KRONKE, “Stiftungstypus und Unternehmenstragerstiftung”, Tubingen, 1988. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


sto proposito, per consentire 
il 
passaggio da 
forme 
di 
sfruttamento statico a 
forme 
di 
sfruttamento dinamico del 
patrimonio il 
diritto anglosassone 
ha 
sviluppato 
la 
cd. 
cy-press 
rule, 
regola 
formatasi 
in 
seno 
alla 
Charity 
Commission, 
volta 
a 
consentire 
la 
modifica 
e 
l’adattamento alle 
mutate 
circostanze 
dell’attività 
del 
trust. Tale 
istituto non ha 
completamente 
attecchito nel 
nostro ordinamento, 
ma 
indubbiamente 
i 
suoi 
elementi 
di 
dinamismo 
gestionale 
sono 
penetrati 
anche 
nella 
fondazione 
che 
oggi 
può 
costituire 
uno 
strumento 
più 
flessibile 
per 
la 
tutela 
degli 
interessi 
di 
utilità 
sociale, 
tra 
cui 
rientrano 
senz’altro 
quelli legati alla tutela dei beni culturali. 


Riguardo al 
secondo profilo sopra 
delineato, occorre 
considerare 
che 
il 
progressivo inserimento della 
fondazione 
nella 
strategia 
di 
impresa 
porta 
a 
ripensare 
in senso critico anche 
il 
profilo della 
natura 
liberale 
dell’atto di 
dotazione 
verso l’ente, analisi 
che 
può svilupparsi 
in parallelo alla 
distinzione 
dei 
criteri 
discretivi 
tra 
mecenatismo 
e 
sponsorizzazione. È 
questo un aspetto su 
cui 
si 
è 
concentrata 
l’attenzione 
della 
dottrina 
italiana 
che, posto il 
carattere 
sinallagmatico del 
contratto di 
sponsorizzazione, in ciò ha 
identificato il 
momento 
differenziale 
rispetto al 
mecenatismo che 
andrebbe 
ricondotto alla 
categoria 
degli 
atti 
di 
liberalità 
(21). 
Nella 
sponsorizzazione 
l’evento 
di 
interesse 
sociale 
è 
un mezzo per il 
conseguimento di 
un obiettivo proprio dell’impresa, 
mentre 
per il 
mecenate 
il 
mezzo è 
l’impresa 
e 
la 
cultura 
il 
fine. Ossia 
il 
mecenate 
vuole 
promuovere 
la 
cultura 
attraverso il 
finanziamento privato, mentre 
lo sponsor, tramite 
il 
finanziamento alla 
cultura, persegue 
un interesse 
commerciale 
o pubblicitario d’impresa. Una 
distinzione 
quella 
tra 
mecenatismo e 
sponsorizzazione 
rilevante 
anche 
ai 
fini 
fiscali, in quanto la 
diversa 
considerazione 
delle 
spese 
in 
punto 
di 
detraibilità 
deriva 
dalla 
qualificazione 
delle 
erogazioni, se a titolo oneroso o gratuito. 


Ora 
è 
innegabile 
che 
nell’attuale 
contesto economico-finanziario connotato 
da 
una 
persistente 
crisi 
economica 
che 
impone 
tagli 
nei 
bilanci 
della 
PA 
assume 
una 
funzione 
di 
primaria 
importanza 
la 
ricerca 
di 
finanziamenti 
privati 
attraverso i 
quali 
valorizzare 
i 
beni 
del 
patrimonio culturale 
nazionale 
con un 
ruolo svolto proprio dalle 
autonomie 
locali 
che, detenendone 
una 
parte 
rilevante, 
possono 
avvalersi 
del 
nuovo 
contratto 
di 
sponsorizzazione 
reso 
più 
agile 
dal 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(22). In quest’ottica 
la 
sponsorizzazione 
assume 
un 
ruolo 
maggiormente 
propulsivo 
rispetto 
al 
mecenatismo, 
perché 
crea 
un’intima 
connessione 
e 
un legame 
per così 
dire 
più evolutivo tra 
arte 
e 
impresa. 


Mentre 
l’art. 
120 
del 
Codice 
dei 
Beni 
culturali 
stabilisce 
che 
oggetto 
della 
sponsorizzazione 
è 
ogni 
contributo 
di 
soggetti 
privati 
anche 
in 
beni 
e 
in 
servizi 


(21) Vedi M. BIANCA, “I contratti di sponsorizzazione”, Rimini, 1990. 
(22) Vedi 
S. GARDINI, “La sponsorizzazione 
dei 
beni 
culturali 
come 
paradigma dinamico di 
valorizzazione”, 
in “Il diritto dell’economia” 
2016, 2, 591. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


erogato per progettare 
o attuare 
le 
iniziative 
in ordine 
alla 
tutela 
ovvero alla 
valorizzazione 
del 
patrimonio 
culturale 
nazionale 
con 
lo 
scopo 
di 
promuovere 
il 
nome, il 
marchio, l’immagine, l’attività 
o il 
prodotto delle 
attività 
del 
soggetto 
sponsorizzante, il 
Codice 
dei 
Contratti 
pubblici 
all’art. 151 del 
D.lgs 
18 
aprile 
2016 
n. 
50 
distingue 
tra 
sponsorizzazione 
pura, 
sponsorizzazione 
tecnica 
e sponsorizzazione mista. 


a) 
La sponsorizzazione pura. 
La 
sponsorizzazione 
pura 
ha 
per oggetto l’erogazione 
di 
solo denaro costituendo 
una 
tipologia 
di 
contratto attraverso il 
quale 
lo sponsor 
si 
impegna 
unicamente 
a 
finanziare 
le 
obbligazioni 
di 
pagamento 
dell’appalto 
dovute 
dall’amministrazione 
alle 
imprese 
che 
intervengono 
nell’esecuzione 
di 
lavori, 
opere, 
servizi 
o 
forniture. 
Considerato 
il 
carattere 
di 
contratto 
attivo, 
in 
quanto 
non comporta 
l’utilizzo di 
denaro pubblico, sin dalla 
sua 
comparsa 
la 
sponsorizzazione 
pura 
è 
stata 
sottratta 
all’applicazione 
delle 
norme 
contenute 
nel 
vecchio 
codice 
dei 
contratti 
(D.lgs 
n. 
163/2006). 
A 
tal 
proposito 
l’Autorità 
di 
vigilanza 
sui 
contratti 
pubblici 
(AVPC), 
ora 
Autorità 
Nazionale 
Anticorruzione 
(ANAC) ha 
ritenuto che 
la 
sponsorizzazione 
pura, come 
tutti 
i 
contratti 
che 
comportano 
un’entrata 
per 
l’amministrazione, 
fosse 
sottoposta 
soltanto 
alle 
norme 
di 
contabilità 
di 
Stato, le 
quali, comunque, richiedono l’esperimento di 
procedimenti 
da 
svolgere 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
di 
legalità, 
buon 
andamento, 
trasparenza 
dell’azione 
amministrativa. L’art. 151, comma 
1, D.lgs 
18 aprile 
2016 
n. 
50 
contempla 
la 
sponsorizzazione 
pura 
che, 
quindi, 
entra 
a 
pieno 
titolo 
nell’area 
dei 
contratti 
pubblici, 
ma 
con 
una 
serie 
di 
semplificazioni 
procedurali 
che 
la 
differenziano in maniera 
sostanziale 
da 
tutta 
la 
complessa 
famiglia 
dei 
negozi 
giuridici 
nei 
quali 
sia 
parte 
una 
pubblica 
amministrazione. Difatti, il 
legislatore 
ha 
previsto 
che 
l’amministrazione 
procedente 
debba 
limitarsi 
a 
pubblicare 
l’avviso per la 
ricerca 
dello sponsor 
sul 
proprio sito istituzionale 
per 
un arco temporale 
non inferiore 
a 
trenta 
giorni 
consecutivi 
indicando in esso 
l’oggetto del 
finanziamento privato, l’importo, la 
durata 
del 
progetto e 
le 
occasioni 
di 
pubblicità 
garantite 
all’impresa 
finanziatrice. 
Decorso 
il 
predetto 
termine 
per la 
pubblicazione 
dell’avviso il 
contratto può venire 
liberamente 
negoziato nel 
rispetto dei 
principi 
di 
imparzialità 
e 
di 
parità 
di 
trattamento fra 
gli 
operatori 
economici 
(imprese) 
che 
abbiano 
manifestato 
interesse, 
fermo 
restando l’applicazione 
dell’art. 80 del 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
che 
analiticamente 
indica 
i 
motivi 
di 
esclusione 
delle 
imprese 
dalle 
procedure 
di 
evidenza 
pubblica. 


b) 
La Sponsorizzazione tecnica. 
La 
sponsorizzazione 
tecnica 
consiste 
in una 
forma 
di 
partenariato estesa 
alla 
progettazione 
e 
alla 
realizzazione 
di 
parte 
o di 
tutto l’intervento a 
cura 
e 
a spese dello sponsor. 


Questa 
tecnica 
è 
una 
sponsorizzazione 
in 
cui 
oltre 
ai 
lavori, 
le 
prestazioni 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


rese 
dallo 
sponsor 
potranno 
consistere 
in 
servizi 
e 
forniture 
strumentali 
ai 
primi, come 
ad esempio, i 
servizi 
di 
installazione 
e 
montaggio di 
attrezzature 
e 
impianti, 
forniture 
di 
arredi 
da 
collocare 
nei 
locali 
o 
in 
servizi 
e 
forniture 
autonomi, come 
i 
servizi 
necessari 
all’organizzazione 
di 
mostre 
all’interno di 
istituti di cultura pubblici quali i musei. 


Dal 
punto 
di 
vista 
della 
disciplina 
normativa 
la 
sponsorizzazione 
tecnica: 


-è 
soggetta 
all’applicazione 
dell’art. 151, Codice 
dei 
contratti 
pubblici, i 
cui principi hanno una portata di carattere generale; 
-per quanto concerne 
le 
modalità 
di 
svolgimento del 
procedimento per 
la 
scelta 
del 
contraente 
privato (soggetto sponsorizzante) trova 
applicazione 
l’art. 19 del 
predetto Codice. La 
stessa 
giurisprudenza 
amministrativa 
(Cons. 
Stato, Sez. VI, 31 luglio 2013 n. 4034) sostiene 
che 
quando la 
PA 
sottoscriva 
un contratto di 
sponsorizzazione 
che 
non comporti 
alcun onere 
finanziario, in 
quanto 
si 
traduce 
in 
un 
risparmio, 
l’accordo 
negoziale 
non 
è 
qualificabile 
come 
contratto passivo e 
in quanto tale 
non è 
assoggettabile 
alla 
disciplina 
comunitaria 
e 
nazionale 
sugli 
appalti 
pubblici, pur restando applicabili 
i 
principi 
del 
trattato dell’unione 
Europea 
in materia 
di 
scelta 
della 
controparte 
e 
più in generale 
in 
tema 
di 
economicità, 
efficacia, 
imparzialità, 
parità 
di 
trattamento, 
trasparenza e proporzionalità. 
c) 
Sponsorizzazione mista. 
La 
sponsorizzazione 
mista 
risulta 
dalla 
combinazione 
della 
sponsorizzazione 
pura 
con quella 
tecnica 
e 
si 
connota 
per il 
fatto che 
lo sponsor 
può, ad 
esempio, 
curare 
direttamente 
e 
fornire 
la 
sola 
progettazione, 
limitandosi 
ad 
erogare il finanziamento per le lavorazioni previste nel contratto. 

Orbene, la 
duttilità 
di 
tali 
strumenti 
di 
finanziamento che 
vedono sempre 
più 
il 
coinvolgimento 
del 
privato 
nella 
gestione 
dei 
beni 
culturali, 
induce 
a 
fare 
una 
riflessione 
di 
fondo corrispondente 
al 
punto 3 sopra 
indicato, ossia 
il 
rapporto tra forme giuridiche e politiche culturali. 

Storicamente 
l’affermarsi 
della 
sovranità 
nazionale 
ha 
comportato 
l’identificazione 
tra 
le 
attività 
di 
mecenatismo che 
il 
sovrano realizzava 
per mezzo 
del 
patrimonio 
della 
corona 
e 
l’iniziativa 
pubblica 
volta 
alla 
promozione 
di 
attività 
culturali. 
Su 
queste 
basi 
si 
afferma 
un 
modello 
politico-ideologico 
dello 
Stato -inteso come 
apparato -quale 
unico depositario della 
gestione 
della 
politica 
culturale 
per 
lungo 
tempo 
dominante 
in 
Italia 
come, 
anche, 
e 
soprattutto, 
in Francia 
dove 
anzi 
esso è 
stato teorizzato da 
filosofi 
quali 
Comte 
o giuristi 
quali Duguit. 

Si 
tratta 
di 
un modello che 
è 
entrato in profonda 
crisi: 
la 
raggiunta 
consapevolezza 
della 
coesistenza 
di 
più 
opzioni 
culturali 
che 
accompagna 
una 
società 
pluralista 
e 
la 
forte 
richiesta 
sul 
piano 
della 
domanda 
culturale 
cui 
ha 
corrisposto insieme 
la 
riduzione 
del 
budget 
di 
spesa 
del 
settore 
necessitata 
da 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


esigenze 
di 
bilancio 
ha 
spinto 
a 
cercare 
un 
modello 
di 
social 
committment, 
ossia 
un 
modello 
che 
favorisca 
la 
compartecipazione 
dei 
privati 
sul 
piano 
della 
determinazione 
e 
sul 
piano del 
contributo economico alla 
gestione 
della 
politica 
culturale. 
Esemplare 
da 
questo 
punto 
di 
vista 
-anche 
se 
gli 
Stati 
Uniti 
come 
sopra 
esposto si 
pongono su una 
posizione 
di 
politica 
culturale 
affatto 
diversa 
da 
quella 
di 
matrice 
statualista 
-è 
stato l’Economic 
Recovery 
Tax 
varato 
dall’amministrazione 
Reagan che 
ha 
costituito un vero e 
proprio riconoscimento 
del 
mecenatismo 
di 
impresa. 
Si 
tratta 
di 
un 
mutamento 
politico-ideologico 
sostanziale: 
il 
privato 
è 
parte 
di 
un 
processo 
di 
co-decisione 
della 
politica 
culturale, 
anzi 
il 
modello 
«contrattualistico» 
nella 
sua 
dimensione 
più 
pura 
vuole 
essere 
uno 
strumento 
«efficiente», 
perché 
serve 
a 
favorire 
una 
risposta 
più immediata 
alla 
domanda 
dei 
consumatori 
del 
«prodotto culturale
», provvedendo nel 
contempo alla 
sua 
tutela 
e 
alla 
sua 
valorizzazione. 
Non 
debbono, 
però, 
essere 
tralasciati 
i 
rischi 
di 
tale 
operazione: 
quando 
la 
proposta 
culturale 
è 
monopolizzata 
dai 
detentori 
delle 
forze 
di 
produzione 
essa 
perde 
inevitabilmente 
qualsiasi 
capacità 
critica 
e 
si 
conforma 
ai 
rapporti 
di 
forza 
esistenti 
nella 
società. 
Diversamente 
potrebbe 
essere 
se 
fosse 
data 
la 
possibilità, 
e 
fossero 
predisposti 
gli 
strumenti 
giuridici, 
perché 
tutti 
i 
cittadini 
partecipino 
alle scelte che attengono la proposta culturale. 

Lo Stato deve 
svolgere 
certamente 
un ruolo centrale 
nell’attività 
di 
controllo 
e 
di 
vigilanza 
dei 
beni 
culturali, provvedendo al 
recupero dei 
beni 
illegittimamente 
esportati 
e 
ricettati 
all’estero. Si 
tratta 
di 
un’attività 
che 
-come 
ha 
affermato l’Avvocato Generale 
dello Stato Gabriella 
Palmieri 
nel 
suo discorso 
di 
insediamento 
del 
22 
novembre 
2019 
-“grazie 
ad 
una 
felice 
sinergia 
con il 
Ministero dei 
Beni 
Culturali, con il 
Nucleo di 
tutela del 
patrimonio culturale 
dell’Arma dei 
Carabinieri 
e 
con i 
pool 
specializzati 
costituiti 
presso la 
Procura 
della 
Repubblica 
-ha 
dato 
negli 
anni 
scorsi 
risultati 
molto 
lusinghieri: 
cito il 
rientro in Italia del 
vaso di 
Eufronio ….e 
della Dea di 
Morgantina”. 


Accanto 
a 
questa 
attività 
di 
controllo 
e 
vigilanza 
connessa 
a 
quella 
di 
stretta 
regolazione 
del 
settore 
culturale 
di 
esclusiva 
competenza 
statale, 
occorre 
oggi 
modulare 
con schemi 
operativi 
flessibili, come 
quelli 
che 
si 
è 
cercato di 
descrivere 
sopra, 
anche 
l’attività 
gestoria 
dei 
beni 
di 
interesse 
artistico 
dei 
privati, 
nella 
consapevolezza 
che 
l’arte 
può 
costituire 
uno 
strumento 
di 
evoluzione 
del 
sistema 
economico 
di 
un 
paese 
nella 
misura 
in 
cui 
tale 
contaminazione 
sia 
sempre 
finalizzata 
a 
mantenere 
viva 
l’identità 
storica 
e 
culturale di una nazione. 


RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La disciplina dell’azione di classe italiana ex lege n. 31 
del 2019 e comparazione tra la disciplina della class action 
nel diritto statunitense e l’azione di classe italiana 


Giuseppe Gerardo* 


SoMMARIo: 1. Le 
azioni 
di 
classe 
in Italia. Disciplina contenuta nel 
codice 
di 
procedura 
civile 
all’esito della novella di 
cui 
alla l. 12 aprile 
2019, n. 31. Aspetti 
generali 
-2. I protagonisti 
del 
procedimento -3. oggetto dell’azione 
di 
classe 
-4. I diritti 
tutelabili 
con l’azione 
di 
classe 
-5. Atto introduttivo del 
giudizio e 
fasi 
del 
procedimento -6. Prima fase 
del 
procedimento: 
giudizio di 
ammissibilità dell’azione 
-7. Seconda fase 
del 
procedimento: giudizio 
diretto 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva, 
ovvero 
di 
questioni 
comuni 
alla 
classe 
-8. 
Terza 
fase 
del 
procedimento: 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
degli 
aderenti 
-9. L’adesione 
del 
componente 
la classe 
-10. Spese 
del 
procedimento 


11. Adempimento del 
decreto di 
accoglimento, in tutto o in parte, della domanda di 
adesione 
-12. Composizioni 
amichevoli 
della lite 
(rinunce 
e 
transazioni) -13. Efficacia soggettiva ed 
oggettiva del 
procedimento e 
consumazione 
dell’azione 
di 
classe 
-14. Finalità della azione 
di 
classe 
-15. Azione 
inibitoria collettiva -16. Comparazione 
tra la disciplina della class 
action 
nel diritto statunitense e l’azione di classe italiana. 
1. Le 
azioni 
di 
classe 
in Italia. Disciplina contenuta nel 
codice 
di 
procedura 
civile 
all’esito della novella di 
cui 
alla l. 12 aprile 
2019, n. 31. Aspetti 
generali. 
La 
legge 
12 aprile 
2019, n. 31 contiene 
la 
nuova 
disciplina 
dell’azione 
di 
classe 
-mediante 
una 
integrazione 
del 
codice 
di 
procedura 
civile 
(inserimento 
degli 
articoli 
da 
840 bis 
a 
840 sexiesdecies) -con sostituzione 
di 
quella 
contenuta 
nel 
D.L.vo 
6 
settembre 
2005, 
n. 
206, 
c.d. 
Codice 
del 
Consumo, 
nell’art. 
140 bis 
(circa 
l’azione 
risarcitoria) e 
nell’art. 140 (circa 
l’azione 
inibitoria). 
Tale 
disciplina 
non è 
ancora 
entrata 
in vigore. Con questa 
modifica 
la 
tutela 
collettiva 
compie 
un 
significativo 
passo 
in 
avanti 
all’interno 
dell’ordinamento 
italiano, 
sostituendo 
e 
migliorando 
la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo. 


2. I protagonisti del procedimento. 
a) Il 
giudice. 
Venendo in rilievo diritti 
soggettivi, la 
cognizione 
della 
lite 
-secondo le 
ordinarie 
regole 
del 
riparto di 
giurisdizione 
-spetta 
al 
giudice 
ordinario. 
Il 
primo comma 
dell’art. 840 ter 
prevede 
che 
la 
domanda 
avente 
ad oggetto 
l’azione 
di 
classe 
si 
propone 
con ricorso esclusivamente 
davanti 
alla 
sezione 
specializzata 
in materia 
di 
impresa 
competente 
per il 
luogo ove 
ha 
sede 


(*) Dottore in Giurisprudenza. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


la 
parte 
resistente. 
Nella 
nuova 
disciplina 
è 
confermata 
la 
competenza 
del 
Giudice 
ordinario. 
Tuttavia 
la 
controversia 
non 
spetta 
più 
alla 
cognizione 
delle 
sezioni 
ordinarie, ma 
ad una 
sezione 
specializzata, la 
quale 
opera 
in composizione 
collegiale. 


Analogamente 
alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, il 
giudice 
ha 
un ruolo centrale, dotato di 
notevoli 
poteri, come 
si 
desume 
dai 
casi 
di 
intervento 
in 
momenti 
rilevanti 
del 
procedimento, 
soprattutto 
nella 
fase 
di 
ammissibilità 
dell’azione 
e 
nella 
fase 
istruttoria 
(nella 
quale 
ha 
notevoli 
poteri 
in 
ordine all’esibizione delle prove). 


b) Le parti. 
Le parti sono l’attore e il convenuto. 
L’attore 
è 
chi 
propone 
l’azione 
di 
classe. 
Il 
convenuto 
è 
il 
soggetto 
contro 
cui 
l’azione 
è 
rivolta 
sulla 
affermazione 
(attorea) che 
ha 
tenuto un comportamento 
illecito. 

Le 
parti 
del 
procedimento sono individuate 
nei 
commi 
2 e 
3 dell’art. 840 
bis. 
Il 
comma 
2 
individua 
i 
soggetti 
che 
possono 
promuovere 
l’azione 
di 
classe. La 
titolarità 
dell’azione, in continuità 
con la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, spetta 
alla 
classe, che 
agisce 
mediante 
un proponente 
che 
sia 
“in grado di 
curare 
adeguatamente 
i 
diritti 
individuali 
omogenei” 
dei 
suoi 
componenti, e 
non versi 
in una 
situazione 
di 
conflitto di 
interessi 
ex 
art. 
840 ter, comma 4. 

L’attore 
fino alla 
nomina 
del 
rappresentante 
comune 
con la 
sentenza 
di 
accoglimento 
dell’azione 
di 
classe 
al 
termine 
della 
seconda 
fase, 
è 
l’unico 
soggetto 
abilitato ad agire 
e 
contraddire 
in sede 
processuale 
nell’interesse 
della 
classe, sia 
per quanto riguarda 
le 
questioni 
comuni 
che 
per quanto concerne 
quelle 
relative 
ai 
singoli 
aderenti 
che 
scelgano di 
supportare 
l’azione 
già 
durante 
il 
processo (1). Autorevole 
dottrina 
evidenzia 
che 
l’ordinanza 
di 
ammissione 
dell’azione 
di 
classe 
è 
costitutiva 
della 
classe 
come 
ente 
ai 
fini 
del 
processo, qualificandola come parte rappresentata dal ricorrente (2). 


La legittimazione attiva spetta a due tipologie di soggetti: 


a) ciascun componente 
della 
classe. La 
novità 
più rilevante 
-rispetto alla 
precedente 
disciplina 
-è 
data 
dall’eliminazione 
del 
requisito soggettivo della 
qualità 
di 
consumatore: 
la 
nuova 
azione 
di 
classe 
è 
proponibile 
anche 
da 
parte 
di 
soggetti 
che 
non agiscano nella 
qualità 
di 
consumatori, e 
in relazione 
a 
rapporti 
non di “consumo” (3); 
b) 
un’organizzazione 
o 
un’associazione 
senza 
scopo 
di 
lucro 
i 
cui 
obiettivi 
statutari 
comprendano 
la 
tutela 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei, 
purché 
iscritte 
(1) In tal 
senso ANGELO 
DANILO 
DE 
SANTIS, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 
aprile 2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, Pisa, Pacini Giuridica, 2019, p. 131. 
(2) ANDREA 
GIUSSANI, La riforma dell’azione di classe, in Riv. dir. proc. 
2019, 6, p. 1578. 
(3) MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, in Diritto bancario 
10 settembre 2019, p. 3. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


in 
un 
elenco 
pubblico 
istituito 
presso 
il 
Ministero 
della 
giustizia. 
L’art. 
196 
ter 
disp. att. c.p.c. -inserito con l’art. 2 della 
L 
n. 31/2019 -contiene 
disposizioni 
relative 
all’elenco 
delle 
organizzazioni 
e 
associazioni 
legittimate 
al-
l’azione 
di 
classe. 
Non 
vi 
è 
la 
diretta 
disciplina 
della 
tenuta 
dell’elenco, 
in 
quanto questa 
è 
rimessa 
ad un decreto che 
dovrà 
essere 
adottato dal 
Ministro 
della 
giustizia, di 
concerto con il 
Ministro dello sviluppo economico, previo 
parere 
delle 
Commissioni 
parlamentari 
competenti. 
Con 
tale 
decreto 
sono 
stabiliti 
i 
requisiti 
per l’iscrizione 
nell’elenco delle 
organizzazioni 
o delle 
associazioni 
legittimate 
all’azione 
in 
esame, 
i 
criteri 
per 
la 
sospensione 
e 
la 
cancellazione 
delle 
organizzazioni 
e 
associazioni 
iscritte, 
nonché 
il 
contributo 
dovuto 
ai 
fini 
dell’iscrizione 
e 
del 
mantenimento 
della 
stessa 
(fissato 
in 
misura 
tale 
da 
consentire 
comunque 
di 
far fronte 
alle 
spese 
di 
istituzione, di 
sviluppo 
e 
di 
aggiornamento 
dell’elenco). 
Con 
il 
medesimo 
decreto 
sono 
stabilite 
le 
modalità 
di 
aggiornamento dell’elenco. È 
previsto che 
“I requisiti 
per 
l’iscrizione 
comprendono 
la 
verifica 
delle 
finalità 
programmatiche, 
dell’adeguatezza 
a rappresentare 
e 
tutelare 
i 
diritti 
omogenei 
azionati 
e 
della stabilità e 
continuità 
delle 
associazioni 
e 
delle 
organizzazioni 
stesse, nonché 
la verifica delle 
fonti 
di 
finanziamento 
utilizzate”. 
È 
evidente 
la 
funzione 
di 
filtro 
che 
viene 
rivestita 
dalla 
previsione 
dei 
detti 
requisiti, 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
serietà, 
la 
solidità 
e 
la 
adeguata 
rappresentazione 
della 
classe, evitando organizzazioni 
o 
associazioni 
“gialle”, ossia 
finanziate 
o espressione 
di 
imprese 
e 
pubblici 
gestori 
potenziali 
destinatari 
di 
azioni 
di 
classe. A 
quest’ultimo riguardo l’indipendenza 
finanziaria 
dell’ente 
esponenziale 
da 
imprese 
e 
pubblici 
gestori, 
oltre 
a 
sussistere 
al 
momento dell’iscrizione 
nell’apposito elenco, deve 
permanere 
nel tempo. 

Alla 
stregua 
degli 
indicati 
requisiti 
dell’ente 
collettivo, è 
esclusa 
la 
legittimazione 
attiva 
di 
comitati 
costituiti 
ad 
hoc 
-ad 
iniziativa 
dei 
componenti 
della 
classe 
-i 
quali 
difetterebbero 
dei 
requisiti 
di 
stabilità 
e 
continuità 
richiesti 
per l’iscrizione nell’elenco ministeriale. 


La 
legittimazione 
autonoma 
degli 
enti 
esponenziali 
all’esperimento del-
l’azione 
collettiva 
è 
-rispetto alla 
precedente 
disciplina 
-un’autentica 
novità. 
Nella 
disciplina 
consumeristica 
dettata 
dall’art. 140 bis 
del 
Codice 
del 
Consumo 
non era 
attribuito alle 
associazioni 
di 
categoria 
un autonomo diritto di 
azione: 
il 
singolo 
“componente 
della 
classe” 
poteva 
semplicemente 
farsi 
rappresentare 
in giudizio da tali organizzazioni. 


L’ampliamento 
della 
legittimazione 
ad 
agire 
-rispetto 
alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo 
-contribuisce 
senz’altro 
alla 
deterrenza 
rispetto 
a 
condotte 
dannose, ossia 
ad una 
delle 
finalità 
più importanti 
collegate 
all’esercizio delle 
azioni 
di 
classe. Difatti, quanto più diffusa 
è 
l’abilitazione 
nell’esercizio dell’azione 
di 
classe 
tanto più efficace 
si 
presenta 
la 
funzione 
complementare 
di 
enforcement 
privato che 
questa 
assolve, in aggiunta 
all’attività 
pubblica di controllo sulla correttezza degli operatori del mercato (4). 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


La 
nuova 
disciplina 
non 
contempla 
più 
la 
possibilità 
per 
il 
singolo 
“componente 
della classe” 
di 
agire 
“mediante 
associazioni” 
(art. 140 bis, comma 
1, 
citato); 
in 
dottrina 
si 
rileva 
che 
non 
sembra 
preclusa 
al 
singolo 
la 
possibilità 
di 
conferire 
un mandato con rappresentanza 
a 
simili 
associazioni 
o organizzazioni 
ai 
fini 
dell’instaurazione 
di 
un’azione 
di 
classe 
ex 
art. 
840 
bis. 
Si 
tratterà, 
tuttavia, 
di 
un 
ordinario 
rapporto 
di 
mandato, 
con 
tutte 
le 
conseguenze 
sul 
piano 
processuale, 
anche 
in 
punto 
di 
capacità 
del 
rappresentante 
di 
stare 
in 
giudizio (5). 


I detti 
soggetti 
possono agire 
nei 
confronti 
dell’autore 
della 
condotta 
lesiva 
per l’accertamento della 
responsabilità 
e 
per la 
condanna 
al 
risarcimento 
del danno e alle restituzioni. 

Il 
comma 
3 individua 
i 
legittimati 
passivi: 
“L’azione 
di 
classe 
può essere 
esperita nei 
confronti 
di 
imprese 
ovvero nei 
confronti 
di 
enti 
gestori 
di 
servizi 
pubblici 
o di 
pubblica utilità, relativamente 
ad atti 
e 
comportamenti 
posti 
in 
essere nello svolgimento delle loro rispettive attività”. 


Per 
la 
vecchia 
disciplina 
potevano 
essere 
convenuti 
anche 
i 
professionisti. 
Ciò 
non 
è 
previsto 
testualmente 
nella 
nuova 
disciplina. 
Deve 
ritenersi, 
tuttavia, 
che, in virtù dell’interpretazione 
sistematica, la 
legittimazione 
passiva 
spetti, 
nella 
nuova 
disciplina, 
anche 
ai 
professionisti. 
È 
noto 
che 
nell’ordinamento 
dell’Unione 
Europea, in materia 
di 
concorrenza, vi 
è 
un concetto lato di 
impresa; 
per 
impresa, 
specie 
in 
virtù 
dell’interpretazione 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
si 
intende 
qualsiasi 
persona 
fisica 
o 
giuridica 
che 
svolge 
una 
attività 
produttiva 
rivolta 
al 
mercato; 
in tale 
concetto vengono compresi 
-tra 
gli 
altri 
-i 
professionisti 
(6). Tale concetto lato può essere accolto anche nel nostro caso. 


Circa 
l’ambito 
soggettivo, 
va 
rilevato 
che 
nella 
disciplina 
precedente 
l’istituto dell’azione 
di 
classe 
riguardava 
solo la 
tutela 
dei 
consumatori 
e 
non 
aveva invece portata applicativa generale. 

In 
conclusione, 
con 
la 
nuova 
disciplina, 
si 
è 
ampliato 
l’ambito 
soggettivo 
-ed 
anche 
oggettivo 
come 
di 
seguito 
si 
illustrerà 
-delle 
situazioni 
protette 
dall’azione rispetto alla disciplina contenuta nel Codice del Consumo. 

Il 
secondo 
ed 
ultimo 
periodo 
del 
comma 
3 
dell’art. 
840 
bis, 
stabilisce: 
“Sono 
fatte 
salve 
le 
disposizioni 
in 
materia 
di 
ricorso 
per 
l’efficienza 
delle 
amministrazioni 
e 
dei 
concessionari 
di 
servizi 
pubblici”. Il 
riferimento è 
alla 


c.d. 
azione 
di 
classe 
pubblicistica 
ex 
d.lgs. 
20 
dicembre 
2009, 
n. 
198, 
il 
cui 
art. 1, comma 
6, prevede 
espressamente 
che 
“il 
ricorso non consente 
di 
otte(
4) Così 
ANTONIO 
CARRATTA, La class 
action riformata -I nuovi 
procedimenti 
collettivi: considerazioni 
a prima lettura, in Giur. It., 2019, 10, pp. 2297 e ss. 
(5) Conf. ANDREA 
GIUSSANI, 
La riforma dell’azione 
di 
classe, cit., p. 1574 e 
MANUELA 
MALAVASI, 
Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi 
delle 
principali 
disposizioni, cit., pag. 3. 
(6) 
Su 
tali 
aspetti: 
GIUSEPPE 
TESAURO, 
Diritto 
dell’Unione 
Europea, 
VII 
edizione, 
Padova, 
CEDAM, 2012, p. 640. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


nere 
il 
risarcimento 
del 
danno 
cagionato 
dagli 
atti 
e 
dai 
comportamenti 
di 
cui 
al 
comma 1; a tal 
fine, restano fermi 
i 
rimedi 
ordinari”. Tra 
le 
due 
azioni 
di 
classe 
non vi 
è, comunque, piena 
complementarietà, in ragione 
della 
diversità 
di presupposti soggettivi e oggettivi e di disciplina processuale (7). 


c) 
L’aderente 
all’azione 
di 
classe. 
In 
continuità 
con 
la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, il 
componente 
la 
classe 
-diverso dall’attore 
-viene 
coinvolto 
nel 
procedimento 
solo 
con 
un 
proprio 
atto 
di 
adesione 
e 
non 
acquista 
la 
qualità 
di 
parte, come 
confermato dal 
comma 
5 dell’art. 840 bis, secondo 
cui 
non è 
ammesso l’intervento volontario dei 
terzi 
ai 
sensi 
dell’articolo 105 
c.p.c. La 
ratio 
della 
norma 
è 
volta 
a 
preservare 
il 
meccanismo dell’azione 
di 
classe 
come 
semplificazione 
del 
processo 
collettivo 
in 
processo 
di 
due 
sole 
parti. Da 
una 
parte 
la 
classe, rappresentata 
dal 
proponente, e 
dall’altro lato il 
resistente (8). 
Nuove 
-rispetto alla 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Consumo -sono le 
modalità 
con le 
quali 
si 
ottiene 
l’eventuale 
adesione 
di 
altri 
soggetti 
appartenenti 
alla 
medesima 
classe 
nel 
caso 
dell’azione 
collettiva 
risarcitoria. 
Il 
procedimento 
di 
adesione 
non ha 
più una 
sola 
finestra 
temporale 
per le 
adesioni, ma 
due. 
Difatti, 
viene 
riproposta 
anche 
nella 
nuova 
versione 
la 
possibilità, 
già 
prevista 
dall’art. 140 bis 
c. cons., che 
l’adesione 
avvenga 
nel 
corso del 
processo 
collettivo, 
nel 
termine 
indicato 
dall’ordinanza 
che 
ha 
ammesso 
la 
domanda 
collettiva 
(art. 
840 
quinquies, 
1° 
comma). 
Ma 
si 
introduce 
anche 
la 
possibilità, 
senza 
dubbio 
più 
conveniente 
per 
chi 
la 
eserciti, 
dell’adesione 
successiva 
alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
di 
accoglimento 
(art. 
840 
sexies, 
1° 
comma, lett. e). 


La 
scelta 
è 
stata 
dunque 
quella 
di 
mantenere 
l’istituto dell’opt-in, ma 
nel 
contempo 
di 
ammorbidirlo 
con 
la 
possibilità 
di 
aderire 
all’azione 
anche 
in 
una 
fase 
successiva 
alla 
sentenza 
che 
definisce 
il 
giudizio. Non è 
stato recepito, 
quindi, il 
modello statunitense 
dell’opt-out, ove, chiunque, in possesso dei 
requisiti 
indicati 
dalla 
Corte, entra 
a 
far parte 
della 
classe 
a 
meno che, ricevuta 
la notizia del suo inserimento, non decida di rimanerne fuori. 


Nella 
prassi 
si 
è 
rilevato 
che 
il 
meccanismo 
dell’opt-in 
spesso 
si 
è 
rivelato 
incapace 
di 
raggiungere 
una 
massa 
critica 
di 
aderenti 
che 
scelgano di 
entrare 
nell’azione. 
Laddove, 
invece, 
l’esperienza 
statunitense 
rivela 
che 
la 
chiave 
dell’efficacia, in quell’ordinamento, è 
proprio il 
sistema 
dell’opt-out, che 
si 
è 
dimostrato 
capace 
di 
vincere 
l’indifferenza 
dei 
danneggiati, 
che 
potrebbero 
non voler perdere 
tempo per avere 
piccolissimi 
risarcimenti, andando così 
a 
colpire 
gli 
enormi 
profitti 
che, in quel 
sistema 
economico, le 
grandi 
società 


(7) MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 3. 
(8) RICCARDO 
FRATINI, 
in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31 
a 
cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 144. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


della 
Top 500 Fortune 
lucrano perpetrando micro-illeciti 
che 
coinvolgono decine 
di milioni di consumatori o stakeholders 
(9). 


I soggetti 
diversi 
da 
quello che 
instaura 
l’azione 
di 
classe 
possono solo 
aderire 
al 
procedimento. L’adesione 
non determina 
l’acquisto della 
qualità 
di 
parte, 
con 
tutte 
le 
conseguenze 
in 
ordine 
agli 
oneri 
e 
poteri 
processuali. 
L’aderente 
non risponde 
delle 
spese 
di 
soccombenza. Lo stesso non può esercitare 
alcun 
potere 
processuale, 
incluso 
quello 
di 
proporre 
eccezioni 
o 
difese, 
né 
chiedere 
prove 
ulteriori 
rispetto a 
quelle 
già 
individuate 
e 
prodotte 
in allegato 
all’adesione 
stessa, non potendo nemmeno modificare 
o precisare 
le 
sue 
domande 
o 
conclusioni; 
non 
essendo 
egli 
parte 
del 
processo, 
le 
vicende 
personali 
dell’aderente 
non influiscono sulla 
procedura, non applicandosi, ad esempio, 
la 
disciplina 
dell’interruzione 
del 
processo (10). L’unico potere 
dell’aderente 
consiste 
nell’ampliare 
l’oggetto 
del 
giudizio 
in 
corso 
di 
causa 
dal 
punto 
di 
vista quantitativo. 

L’adesione 
comporta 
che 
l’effetto 
dei 
provvedimenti 
conclusivi 
delle 
fasi 
processuali si può estendere, a date condizioni, agli aderenti. 

La 
domanda 
di 
adesione 
produce 
gli 
effetti 
della 
domanda 
giudiziale 
(art. 
840 
septies). 
Come 
è 
noto, 
gli 
effetti 
della 
domanda 
sono 
di 
ordine 
processuale 


o 
sostanziale. 
Non 
dovrebbero 
prodursi 
effetti 
di 
ordine 
processuale, 
in 
quanto 
l’aderente 
non ha 
la 
qualità 
di 
parte 
processuale; 
l’unico effetto processuale 
dovrebbe 
essere 
quello della 
litispendenza 
ex 
art. 39 c.p.c. con riguardo alla 
proposizione 
in forma 
individuale 
dello stesso diritto oggetto della 
adesione 
all’azione 
di 
classe. Quindi, si 
producono principalmente 
gli 
effetti 
di 
ordine 
sostanziale, in primo luogo l’interruzione della prescrizione. 
d) 
Il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti. 
Il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
è 
un pubblico ufficiale 
(allo stesso si 
applicano le 
disposizioni 
relative 
al 
curatore 
fallimentare). 
Egli, 
nella 
fase 
del 
procedimento 
relativa 
all’accertamento 
e 
liquidazione 
dei 
diritti 
individuali, 
agisce 
nell’interesse 
degli 
aderenti 
nella 
veste 
di 
loro rappresentante 
esclusivo in virtù del 
potere 
conferito 
dall’aderente 
con 
l’atto 
di 
adesione 
ex 
art. 
840 
septies, 
lett. 
h). 
L’atto 
di 
adesione 
integra 
un 
mandato 
con 
rappresentanza, 
con 
potere 
di 
disporre 
dei 
diritti dell’aderente nella sede del progetto di liquidazione. 
Va 
precisato che 
il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
è 
qualificabile 
anche 
quale 
rappresentante 
della 
classe 
degli 
stessi 
e 
che 
il 
mandato conferitogli 
è 
in rem 
propriam, dato che 
il 
rappresentante 
percepisce 
il 
compenso direttamente 
dal 
resistente 
ai 
sensi 
dell’art. 840 novies, comma 
1, sottoposto, in 
esplicita 
deroga 
alla 
regola 
di 
cui 
all’art. 
1723, 
comma 
2, 
c.c., 
alla 
revoca 


(9) Per tali 
rilievi: 
RICCARDO 
FRATINI, 
in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a cura di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 144. 
(10) 
In 
tali 
termini 
RICCARDO 
FRATINI, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 146. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


anche 
senza 
giusta 
causa 
sia 
da 
parte 
dell’aderente, 
sia, 
ex 
art. 
840 
sexies, 
comma 2, da parte del giudice delegato (11). 


e) Il 
difensore. 
Le 
parti 
del 
giudizio -attore 
e 
convenuto -devono stare 
in giudizio col 
ministero o con l’assistenza 
di 
un difensore, secondo le 
regole 
ordinarie 
ex 
art. 
82 
e 
ss. 
c.p.c. 
L’aderente, 
invece, 
può 
effettuare 
l’adesione 
senza il ministero di un difensore. 
Nel 
tentativo 
di 
rendere 
efficace 
il 
rimedio 
dell’azione 
di 
classe, 
vi 
è 
sull’esempio 
della 
disciplina 
statunitense 
-una 
specifica 
disciplina 
in tema 
di 
spese processuali diretta a premiare il difensore. 


3. oggetto dell’azione di classe. 
Analogamente 
alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, l’oggetto 
dell’azione 
di 
classe 
è 
duplice: 
accertamento della 
responsabilità 
e 
condanna 
al 
risarcimento 
del 
danno 
e 
alle 
restituzioni 
(art. 
840 
bis, 
comma 
1), 
dovendosi 
tenere 
conto dell’art. 840 octies, comma 
5, nella 
parte 
in cui 
è 
previsto 
che 
la 
condanna 
al 
risarcimento 
del 
danno 
e 
alle 
restituzioni 
si 
può 
riferire 
non solo a somme in denaro, ma anche a cose. 


4. I diritti tutelabili con l’azione di classe. 
a) L’omogeneità delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive. 
Le 
situazioni 
tutelate 
sono individuate 
nel 
primo comma 
dell’art. 840 bis, che 
dispone: 
“I diritti 
individuali 
omogenei 
sono tutelabili 
anche 
attraverso l’azione 
di 
classe, 
secondo le 
disposizioni 
del 
presente 
titolo”. Circa 
il 
requisito della 
“omogeneità”, 
vi 
è 
continuità 
tra 
vecchia 
e 
nuova 
disciplina. L’omogeneità 
viene 
intesa 
come 
identità 
di 
an 
debeatur, 
ovvero 
degli 
elementi 
oggettivi 
dell’azione, 
mentre 
può 
differire 
la 
specificazione 
del 
quantum 
dovuto 
a 
ogni 
singolo 
consumatore 
(12). 
Per far parte 
della 
classe 
ed aderire 
all’azione, i 
diritti 
al 
risarcimento o 
alle 
restituzioni 
che 
i 
titolari 
vantano 
nei 
confronti 
dell’impresa 
o 
dell’ente 
devono 
derivare 
da 
un 
unico 
illecito 
con 
attitudine 
plurioffensiva 
o 
da 
illeciti 
uguali 
tra 
loro, ripetuti 
e 
numerosi, atti 
ciascuno a 
ledere 
i 
singoli 
soggetti, i 
diritti 
dei 
membri 
della 
classe 
(13). 
È 
altresì 
necessario 
che 
i 
membri 
della 
classe 
abbiano 
sofferto 
un 
pregiudizio 
il 
cui 
accertamento 
giudiziale 
possa 
essere 
condotto 
unitariamente, 
prescindendo 
totalmente 
da 
questioni 
individuali. 
In questo senso, ad esempio, i 
danni 
alla 
salute 
mal 
si 
attagliano ad essere 
tu


(11) ANDREA 
GIUSSANI, La riforma dell’azione di classe, cit., p. 1593. 
(12) Sul 
punto: 
ELISABETTA 
CORAPI, in Liber 
amicorum 
Guido Alpa, Capitolo XXI, Appunti 
sul-
l’ambito 
di 
applicazione 
soggettivo 
ed 
oggettivo 
della 
class 
action 
nella 
legge 
di 
riforma, 
CEDAM, 
2019, p. 490. 
(13) ANDREA 
GIUSSANI, 
La riforma dell’azione di classe, cit., p. 1573. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


telati 
con 
l’azione 
di 
classe, 
poiché 
essi 
necessitano 
di 
un’indagine 
circa 
lo 
stato 
di 
salute 
iniziale 
di 
ciascun 
singolo 
danneggiato. 
L’azione 
di 
classe 
è, 
invece, 
adatta 
a 
far valere 
i 
diritti 
alle 
restituzioni 
che 
vantano una 
pluralità 
di 
soggetti 
in conseguenza 
dell’applicazione 
da 
parte 
di 
un’impresa 
di 
oneri 
non 
dovuti, ovvero in conseguenza 
della 
vendita 
di 
un bene 
o prodotto privo delle 
qualità 
promesse. È, infine, necessario l’accertamento del 
nesso di 
causalità 
tra condotta lesiva ed evento dannoso. 


Sicché 
l’azione 
di 
classe 
si 
risolve 
in una 
connessione 
impropria 
ex 
art. 
103, comma 
1, ultima 
parte, c.p.c. secondo cui 
più cause 
possono essere 
trattate 
congiuntamente 
in un unico processo “quando la decisione 
dipende, totalmente 
o 
parzialmente, 
dalla 
risoluzione 
di 
identiche 
questioni”, 
che 
nel 
caso di specie sono di fatto e di diritto (14). 


In continuità 
rispetto alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, 
i 
diritti 
individuali 
omogenei, 
come 
si 
evince 
dal 
testo 
del 
primo 
comma, 
sono 
tutelabili, oltre 
che 
con l’azione 
di 
classe, anche 
con l’ordinaria 
azione 
individuale 
da 
parte 
dell’interessato. Ciò è 
confermato anche 
dal 
quarto comma 
dell’art. 840 bis 
c.p.c. il 
quale 
dispone: 
“In ogni 
caso, resta fermo il 
diritto 
all'azione 
individuale, salvo quanto previsto all'articolo 840-undecies, nono 
comma”. 


b) La generalità dei 
diritti 
tutelabili. 
La 
grande 
novità 
introdotta 
dalla 
L. 
n. 
31/2019 
è 
la 
portata 
generale 
dei 
diritti 
tutelabili, 
non 
più 
collegati 
alla 
tutela 
del 
consumatore. 
Nella 
nuova 
disciplina 
non 
vi 
è 
più 
-come 
nel 
comma 
2 
dell’art. 
140 
bis 
del 
Codice 
del 
Consumo 
-la 
precisazione 
delle 
tre 
le 
tipologie 
di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
protette 
collegate, 
come 
detto, 
alla 
tutela 
del consumatore. 
Si 
rileva 
in dottrina 
che 
l’azione 
di 
classe 
si 
candida 
ad essere 
impiegata 
per fronteggiare 
tutti 
i 
tipi 
di 
“mass 
torts”, ad esempio permettendo alle 
persone 
che, per il 
fatto di 
abitare 
in un’area 
sottoposta 
a 
esalazioni 
tossiche 
ovvero 
a 
campi 
magnetici 
nocivi, abbiano risentito dei 
relativi 
pregiudizi 
(non 
necessariamente 
attinenti 
alla 
sfera 
della 
salute) 
di 
ottenere 
una 
decisione 
sulle 
loro istanze 
risarcitorie 
in un unico contesto, senza 
costringerle 
ad avanzare 
ciascuna 
la 
propria 
pretesa 
in tanti 
giudizi 
separati. Viene 
anche 
aperta 
la 
possibilità 
all’impiego 
della 
class 
action 
in 
tema 
di 
tutela 
dei 
diritti 
dei 
risparmiatori 
(15). 


In 
conclusione, 
con 
la 
nuova 
disciplina, 
si 
è 
ampliato 
l’ambito 
soggettivo 
ed oggettivo delle 
situazioni 
protette 
dall’azione 
rispetto alla 
disciplina 
contenuta 
nel Codice del Consumo. 

(14) 
Per 
tali 
aspetti: 
ChIARA 
PETRILLO, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 59-61. 
(15) Per tale 
rilievo: 
ELISABETTA 
CORAPI, in Liber 
amicorum 
Guido Alpa, Capitolo XXI, 
Appunti 
sull’ambito 
di 
applicazione 
soggettivo 
ed 
oggettivo 
della 
class 
action 
nella 
legge 
di 
riforma, 
cit., 
p. 
493. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Circa 
l’ambito 
soggettivo, 
va 
rilevato 
che 
nella 
disciplina 
precedente 
l’istituto dell’azione 
di 
classe 
riguardava 
solo la 
tutela 
dei 
consumatori 
e 
non 
aveva 
invece 
portata 
applicativa 
generale. Questo limite 
è 
stato superato dalla 
legge 
di 
riforma, che 
ha 
eliminato ogni 
riferimento a 
consumatori 
e 
utenti 
e, 
conseguentemente, ha 
spostato l’istituto dal 
Codice 
di 
Consumo e 
lo ha 
inserito 
nel 
codice 
di 
procedura 
civile 
alla 
fine 
del 
libro IV 
dedicato ai 
procedimenti 
speciali. L’unico vincolo che, invece, pone 
la 
nuova 
disciplina 
si 
trae 
dall’individuazione 
dei 
legittimati 
passivi, che 
sono costituiti 
ex 
art. 840 bis, 
comma 
3, dalle 
imprese 
o dagli 
enti 
gestori 
di 
servizi 
pubblici 
o di 
pubblica 
utilità, 
relativamente 
ad 
atti 
e 
comportamenti 
posti 
in 
essere 
nello 
svolgimento 
delle 
loro rispettive 
attività. Restano, quindi 
esclusi 
dall’ambito di 
tutela 
del-
l’azione 
di 
classe 
i 
diritti 
individuali 
omogenei 
lesi 
da 
soggetti 
diversi 
dalle 
imprese 
od enti, quali 
l’attacco informatico di 
un hacher, il 
phishing, lo smishing, 
ecc. (16). 


Circa 
l’ambito oggettivo, si 
rileva 
che 
le 
ipotesi 
di 
responsabilità 
oggetto 
dell’azione 
di 
classe 
comprendono anche 
tutte 
le 
ipotesi 
di 
responsabilità 
extracontrattuale 
e 
non 
soltanto, 
come 
nella 
precedente 
disciplina, 
quelle 
relative 
alle 
pratiche 
commerciali 
scorrette 
ed 
ai 
comportamenti 
anticoncorrenziali 
(17). Sicché, la 
nuova 
previsione 
della 
disposizione 
copre 
tutta 
l’amplissima 
area 
della 
responsabilità 
civile 
precontrattuale, 
contrattuale 
ed 
extracontrattuale 
in tutte 
le 
sue 
più svariate 
declinazioni 
e 
non si 
rivolge 
in via 
esclusiva 
ai 
consumatori, bensì 
anche 
ai 
professionisti, alle 
imprese, alle 
associazioni 
senza 
scopo di 
lucro, agli 
investitori, agli 
azionisti, ovvero a 
tutte 
quelle 
categorie 
di 
soggetti, persone 
fisiche 
o giuridiche, che 
in precedenza 
non avevano 
accesso alla tutela di classe, inclusi anche i lavoratori (18). 


Insomma, è 
tutelabile 
qualsivoglia 
categoria 
di 
diritti 
individuali 
omogenei 
di qualsiasi classe di soggetti. 


5. Atto introduttivo del giudizio e fasi del procedimento. 
Ai 
sensi 
dell’art. 840 ter 
“La domanda per 
l’azione 
di 
classe 
si 
propone 
con 
ricorso 
esclusivamente 
davanti 
alla 
sezione 
specializzata 
in 
materia 
di 
impresa competente per il luogo ove ha sede la parte resistente”. 


L’azione 
di 
classe 
è 
un 
tipo 
di 
procedimento, 
un 
rito 
speciale, 
che 
diverge 
largamente 
dal 
modello 
ordinario. 
Il 
procedimento, 
a 
grandi 
tratti, 
è 
costituito 


(16) 
ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 44. 
(17) In tale 
senso: 
ELISABETTA 
CORAPI, in Liber 
amicorum 
Guido Alpa, Capitolo XXI, Appunti 
sull’ambito di 
applicazione 
soggettivo ed oggettivo della class 
action nella legge 
di 
riforma, cit., pp. 
483-484; 
MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 2. 
(18) ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 7. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


da 
tre 
fasi: 
giudizio 
di 
ammissibilità 
dell’azione; 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva 
della 
parte 
imprenditoriale, 
ovvero 
di 
questioni 
comuni 
alla 
classe; 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei, 
ovvero 
di 
tutte 
le 
questioni 
personali 
dalla 
cui 
soluzione 
dipende 
la 
condanna 
al 
pagamento 
delle 
somme 
dovute 
a 
titolo 
risarcitorio 
e/o 
restitutorio. 


Nelle 
prime 
due 
fasi, 
in 
giudizio 
sono 
presenti 
ricorrente 
e 
resistente 
(parti 
in senso sostanziale 
e 
processuale 
e 
necessarie); 
nella 
seconda 
fase 
possono 
essere 
presenti 
anche 
gli 
aderenti 
all’azione 
(parti 
in senso solo sostanziale 
e 
meramente 
eventuali). Il 
legislatore 
precisa 
-con riguardo alla 
seconda 
fase 
che 
l’aderente 
“non assume 
la qualità di 
parte”, ma 
ha 
comunque 
il 
diritto 
di: 
(i) accedere 
al 
fascicolo informatico del 
giudizio; 
(ii) ricevere 
tutte 
le 
comunicazioni 
effettuate 
dalla 
cancelleria; 
(iii) 
offrire 
prove 
documentali, 
ivi 
compresa una forma di testimonianza scritta. 


Nella 
terza 
fase, 
invece, 
non 
è 
presente 
il 
ricorrente 
(unico 
soggetto 
in 
relazione 
al 
quale 
la 
sentenza 
che 
definisce 
il 
merito determina 
anche 
la 
misura 
del 
risarcimento 
o 
delle 
restituzioni 
dovute) 
e 
il 
ruolo 
d’impulso 
alla 
procedura 
viene 
affidato 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti, 
nominato 
dal 
tribunale 
con 
la 
sentenza 
ex 
art. 
840 
sexies, 
il 
quale 
opera 
quale 
pubblico 
ufficiale, 
sotto 
la vigilanza del giudice delegato nominato con la sentenza (19). 


Rispetto 
alla 
vecchia 
disciplina, 
vi 
è 
una 
netta 
autonomia 
tra 
la 
fase 
diretta 
all’accertamento e 
quella 
diretta 
alla 
definizione 
delle 
pretese 
degli 
aderenti. 
In dottrina 
si 
rileva 
che 
l’articolazione 
del 
procedimento in tre 
fasi 
può costituire 
un 
fattore 
che 
ostacola 
la 
più 
ampia 
attivazione 
dell’azione 
di 
classe. 
Tale 
circostanza 
rende 
il 
procedimento molto defatigante 
in termini 
di 
tempo (20). 


6. Prima fase del procedimento: giudizio di ammissibilità dell’azione. 
Tale 
fase 
è 
diretta 
a 
valutare 
l’ammissibilità 
dell’azione 
e 
si 
chiude 
con 
una 
ordinanza 
e 
segue 
le 
regole, 
per 
quanto 
non 
diversamente 
disposto, 
del 
rito sommario di 
cognizione 
ex 
art. 702 bis 
c.p.c. Vi 
è 
una 
specie 
di 
filtro. Si 
passa alla fase successiva solo se l’azione è ritenuta ammissibile. 


La 
forma 
e 
ammissibilità 
della 
domanda 
sono regolate 
dall’art. 840 ter. 
Viene 
previsto 
che 
il 
ricorso, 
unitamente 
al 
decreto 
di 
fissazione 
dell’udienza, 
è 
pubblicato, 
a 
cura 
della 
cancelleria, 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
gestito 
dal 
Ministero 
della 
giustizia, 
in 
modo 
da 
assicurare 
l’agevole 
reperibilità delle informazioni in esso contenute. 

Entro il 
termine 
di 
trenta 
giorni 
dalla 
prima 
udienza 
il 
tribunale 
decide 
con 
ordinanza 
sull’ammissibilità 
della 
domanda, 
ma 
può 
sospendere 
il 
giudizio 
quando sui 
fatti 
rilevanti 
ai 
fini 
del 
decidere 
è 
in corso un’istruttoria 
davanti 


(19) MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 7. 
(20) Così GIULIO 
PONzANELLI, La nuova class action, in Danno e resp., 2019, 3, pp. 306 e ss. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


ad 
un’autorità 
indipendente 
ovvero 
un 
giudizio 
davanti 
al 
giudice 
amministrativo. 
La 
domanda 
è 
dichiarata 
inammissibile: 
a) quando è 
manifestamente 
infondata; 
b) quando il 
tribunale 
non ravvisa 
omogeneità 
dei 
diritti 
individuali 
tutelabili 
ai 
sensi 
dell’articolo 840 bis; 
c) quando il 
ricorrente 
versa 
in stato di 
conflitto di 
interessi 
nei 
confronti 
del 
resistente; 
d) quando il 
ricorrente 
non 
appare 
in 
grado 
di 
curare 
adeguatamente 
i 
diritti 
individuali 
omogenei 
fatti 
valere in giudizio. 


Ai 
fini 
della 
ammissibilità 
della 
domanda 
il 
ricorrente 
deve 
dimostrare 
che 
la 
condotta 
è 
-quantomeno potenzialmente 
-plurioffensiva, talché 
vi 
sia 
una classe di soggetti accomunati dall’essere lesi dal medesimo illecito. 

Il 
Tribunale, nell’ordinanza 
di 
ammissibilità, fissa 
altresì 
un termine 
per 
l’adesione 
dei 
componenti 
la 
classe 
e 
definisce 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei che consentono l’inserimento nella classe. 


La 
valutazione 
della 
non manifesta 
infondatezza 
della 
domanda 
riguarda 
la 
prospettazione 
in diritto posta 
a 
fondamento della 
pretesa 
(ad esempio accertamento 
delle 
questioni 
pregiudiziali 
di 
rito 
o 
delle 
condizioni 
dell’azione); 
non 
riguarda 
anche 
la 
veridicità 
dei 
fatti 
costitutivi, 
a 
meno 
che 
questa 
non 
sia 
di 
per sé 
ragionevolmente 
esclusa 
dalle 
prove 
allegate 
agli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio (21). 


La 
valutazione 
della 
sussistenza 
di 
conflitto di 
interessi 
tra 
ricorrente 
e 
resistente 
mira 
a 
ridurre 
la 
possibilità 
di 
accordi 
collusivi 
tra 
attore 
e 
convenuto, 
volti, ad esempio, ad ottenere 
una 
pronuncia 
di 
rigetto, a 
seguito di 
una 
voluta cattiva conduzione della lite. 


Quando 
l’inammissibilità 
è 
dichiarata 
a 
norma 
della 
sopracitata 
lettera 


a) 
vi 
è 
una 
parziale 
portata 
preclusiva, 
perché 
il 
ricorrente 
può 
riproporre 
l’azione 
di 
classe 
quando 
si 
siano 
verificati 
mutamenti 
delle 
circostanze 
o 
vengano 
dedotte 
nuove 
ragioni 
di 
fatto 
o 
di 
diritto. 
La 
disciplina 
è 
la 
stessa 
della 
ordinanza 
che 
rigetta 
nel 
merito 
la 
domanda 
cautelare 
(art. 
669 
septies, 
comma 
1, 
c.p.c.). 
L’ordinanza 
non 
riguarda 
il 
solo 
rito, 
ma 
anche 
il 
merito 
della 
controversia 
(22). 
Più 
in 
generale, 
sembra 
potersi 
affermare 
che 
l’ordinanza 
che 
dichiara 
inammissibile 
un’azione 
di 
classe 
ha 
una 
limitata 
portata 
preclusiva, sicché 
venuto 
meno uno qualsiasi 
dei 
motivi 
di 
inammissibilità 
rilevati 
dal 
tribunale 
in prima istanza - l’azione di classe potrà essere riproposta (23). 


L’ordinanza 
che 
decide 
sull’ammissibilità 
è 
pubblicata, a 
cura 
della 
cancelleria, 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici, 
entro 
quindici 


(21) 
ANGELO 
DANILO 
DE 
SANTIS, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 92-95. 
(22) ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 47. 
(23) MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 7. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


giorni 
dalla 
pronuncia 
ed 
è 
reclamabile 
dalle 
parti 
davanti 
alla 
Corte 
di 
appello 
nel 
termine 
di 
trenta 
giorni 
dalla 
sua 
comunicazione 
o dalla 
sua 
notificazione, 
se 
anteriore. Sul 
reclamo la 
Corte 
di 
appello decide, in camera 
di 
consiglio, 
con ordinanza. In caso di 
accertamento dell’ammissibilità 
della 
domanda, la 
Corte 
di 
appello trasmette 
gli 
atti 
al 
tribunale 
adito per la 
prosecuzione 
della 
causa. 
Il 
reclamo 
avverso 
le 
ordinanze 
ammissive 
non 
sospende 
il 
procedimento 
davanti al tribunale. 


Con l’ordinanza 
di 
inammissibilità 
e 
con quella 
che, in sede 
di 
reclamo, 
conferma 
l’ordinanza 
di 
inammissibilità, il 
giudice 
regola 
le 
spese. La 
previsione 
del 
reclamo esclude 
che 
l’ordinanza 
possa 
essere 
modificata 
o revocata 
dal giudice che l’ha adottata. 


La 
legge 
non 
disciplina 
il 
regime 
dell’ordinanza 
della 
Corte 
di 
appello 
definitoria 
del 
reclamo. Autorevole 
dottrina 
ritiene 
che 
valgano i 
principi 
generali 
sulla 
ricorribilità 
in cassazione 
in via 
straordinaria 
avverso l’ordinanza 
che 
dichiara 
inammissibile 
l’azione 
di 
classe 
per 
manifesta 
infondatezza, 
atteso 
l’effetto 
(limitato) 
preclusivo 
della 
riproponibilità 
dell’azione. 
Ciò 
perché 
“l’ordinanza della Corte 
di 
appello appare 
definitiva, in quanto a seguito di 
essa non potrà più farsi 
valere 
in un successivo processo la medesima azione 
di 
classe 
se 
non 
in 
ipotesi 
in 
cui 
“si 
siano 
verificati 
mutamenti 
delle 
circostanze 
o vengano dedotte 
nuove 
ragioni 
di 
fatto e 
di 
diritto” 
(art. 840 bis, 6° 
comma c.p.c.), e 
poiché 
il 
provvedimento appare 
decisorio, in quanto esclude 
in 
via 
definitiva 
il 
diritto 
all’azione 
di 
classe, 
l’ordinanza 
in 
questione 
dovrebbe 
essere ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.” 
(24). 


Rispetto alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo diversa 
è 
la 
natura 
giuridica 
del 
procedimento, che 
non è 
più di 
volontaria 
giurisdizione, 
ma 
è 
un rito sommario di 
cognizione 
ex 
artt. 702 bis 
e 
seguenti 
c.p.c. con elementi 
di 
specialità. 
La 
specialità 
emerge, 
ad 
esempio, 
sotto 
il 
profilo 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
l’ordinanza 
che 
decide 
sulla 
ammissibilità 
dell’azione: 
il 
ricorso 
non 
è 
ammissibile 
nella 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Consumo 
(in 
quanto la 
fase 
è 
inidonea 
al 
giudicato). Il 
ricorso per cassazione, nella 
nuova 
disciplina, deve 
ritenersi 
sempre 
ammesso, sia 
nel 
caso di 
ordinanza 
dichiarativa 
della 
inammissibilità 
che 
della 
ammissibilità 
dell’azione 
di 
classe. Ed è 
ammissibile 
nella 
disciplina 
della 
L. n. 31/2019 (in quanto la 
fase 
ha 
natura 
di 
cognizione ed è, quindi, idonea al giudicato). 


Al 
fine 
di 
garantire 
l’unitarietà 
del 
procedimento, una 
volta 
proposta 
una 
azione 
di 
classe 
-azione 
già 
naturalmente 
complessa 
circa 
l’ambito 
soggettivo 
-viene 
predisposta 
una 
apposita 
disciplina 
con 
l’art. 
840 
quater 
c.p.c. 
nel 
caso 
di pluralità delle azioni di classe (25). 

(24) Così 
GIULIANO 
SCARSELLI, La nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 n. 31, 
cit.; 
in 
senso 
analogo 
ChIARA 
PETRILLO, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 47-48. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


7. 
Seconda 
fase 
del 
procedimento: 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva, ovvero di questioni comuni alla classe. 
Questa 
fase 
è 
volta 
ad accertare 
la 
condotta 
plurioffensiva. Come 
per la 
prima 
fase, anche 
in questo caso si 
passa 
alla 
fase 
successiva 
solo se 
la 
sentenza 
è 
di 
accoglimento. Fino alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
si 
seguono le 
regole 
del 
rito 
sommario 
di 
cognizione 
di 
cui 
agli 
articoli 
702 
bis 
e 
seguenti 
c.p.c., con degli 
elementi 
di 
specialità, tra 
cui 
la 
forma 
del 
provvedimento definitorio 
del 
procedimento, 
che 
non 
è 
un’ordinanza 
ma 
una 
sentenza. 
Non 
può 
essere disposto il mutamento del rito (art. 840 ter, comma 3). 


In 
questa 
fase 
del 
giudizio 
è 
possibile 
l’adesione 
dei 
soggetti 
componenti 
la 
classe. L’adesione, come 
si 
vedrà, è 
possibile 
anche 
in seguito (una 
sorta 
di 
seconda 
finestra). 
Viene 
delineato 
un 
procedimento, 
poi, 
per 
decidere 
in 
un’unica 
sede 
tutte 
le 
adesione, sia 
quelle 
proposte 
entro il 
primo termine 
che 
quelle proposte entro il secondo termine. 


L’art. 
840 
quinquies 
dispone 
che 
con 
l’ordinanza 
con 
cui 
ammette 
l’azione 
di 
classe, 
il 
tribunale 
fissa 
un 
termine 
perentorio, 
non 
inferiore 
a 
sessanta 
giorni 
e 
non 
superiore 
a 
centocinquanta 
giorni 
dalla 
data 
di 
pubblicazione 
dell’ordinanza 
nel 
portale 
dei 
servizi 
telematici, 
per 
l’adesione 
al-
l’azione 
medesima 
da 
parte 
dei 
soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
omogenei 
e 
provvede 
in 
ordine 
alle 
domande 
risarcitorie 
o 
restitutorie 
proposte 
dal 
ricorrente, 
quando 
l’azione 
è 
stata 
proposta 
da 
un 
soggetto 
diverso 
da 
un 
ente 
collettivo. 


Si 
applica 
in quanto compatibile 
l’articolo 840 septies 
in ordine 
alle 
modalità 
di 
adesione 
all’azione 
di 
classe. 
L’aderente 
non 
assume 
la 
qualità 
di 
parte 
e 
ha 
diritto ad accedere 
al 
fascicolo informatico e 
a 
ricevere 
tutte 
le 
comunicazioni 
a 
cura 
della 
cancelleria. 
I 
diritti 
di 
coloro 
che 
aderiscono 
sono 
accertati 
secondo le 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 840 octies 
-contenente 
la 
disciplina 
del 
progetto 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
degli 
aderenti 
-successivamente 
alla pronuncia della sentenza che accoglie l’azione di classe. 


L’art. 840 quinquies 
precisa 
poi 
che 
il 
tribunale, omessa 
ogni 
formalità 


(25) “Decorsi 
sessanta giorni 
dalla data di 
pubblicazione 
del 
ricorso nell’area pubblica del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
di 
cui 
all’articolo 840-ter, secondo comma, non possono essere 
proposte 
ulteriori 
azioni 
di 
classe 
sulla 
base 
dei 
medesimi 
fatti 
e 
nei 
confronti 
del 
medesimo 
resistente 
e 
quelle 
proposte 
sono cancellate 
dal 
ruolo. Le 
azioni 
di 
classe 
proposte 
tra la data di 
deposito del 
ricorso e 
il 
termine 
di 
cui 
al 
primo 
periodo 
sono 
riunite 
all’azione 
principale. 
Il 
divieto 
di 
cui 
al 
primo 
comma, 
primo periodo, non opera quando l’azione 
di 
classe 
introdotta con il 
ricorso di 
cui 
al 
predetto comma 
è 
dichiarata 
inammissibile 
con 
ordinanza 
definitiva 
né 
quando 
la 
medesima 
causa 
è 
cancellata 
dal 
ruolo 
ovvero è 
definita con provvedimento che 
non decide 
nel 
merito. Ai 
fini 
di 
cui 
al 
presente 
comma, i 
provvedimenti 
di 
cui 
al 
primo periodo sono pubblicati 
immediatamente 
nell’area pubblica del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
a cura della cancelleria. Quando una nuova azione 
di 
classe 
è 
proposta fuori 
dei 
casi 
di 
cui 
al 
secondo 
comma, 
la 
causa 
è 
cancellata 
dal 
ruolo 
e 
non 
è 
ammessa 
la 
riassunzione. 
È 
fatta 
salva 
la proponibilità delle 
azioni 
di 
classe 
a tutela dei 
diritti 
che 
non potevano essere 
fatti 
valere 
entro la 
scadenza di cui al primo comma”. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


non essenziale 
al 
contraddittorio, procede 
nel 
modo che 
ritiene 
più opportuno 
agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del giudizio. 


L’istruttoria 
è 
caratterizzata 
dai 
notevoli 
poteri 
ufficiosi 
del 
giudice 
diretti 
all’accertamento 
dei 
fatti 
costitutivi 
dell’azione; 
tanto 
sul 
presupposto 
che 
l’attore 
è 
la 
parte 
debole 
del 
rapporto processuale 
e 
che, pertanto, al 
fine 
di 
riequilibrare 
la 
posizione 
processuale 
delle 
parti 
e 
garantire 
la 
effettività 
dei 
diritti, 
è 
necessario 
un 
intervento 
in 
favore 
della 
parte 
attrice. 
Sotto 
questo 
profilo, 
due sono gli aspetti rilevanti. 


a) 
Carico 
delle 
spese 
della 
C.T.U. 
in 
capo 
al 
convenuto. 
La 
regola 
generale 
ex 
art. 
8 
D.P.R. 
30 
maggio 
2002, 
n. 
115 
è 
che 
l’anticipazione 
delle 
spese 
spetta 
alla 
parte 
che 
richiede 
il 
mezzo 
istruttorio. 
Ciò 
vale 
anche 
per 
le 
spese 
della 
C.T.U. 
ove 
richiesta 
-come 
di 
solito 
avviene 
-dall’attore. 
Le 
cause 
aventi 
ad 
oggetto 
le 
azioni 
di 
classe 
hanno 
fatti 
costitutivi 
complessi, 
sicché 
le 
spese 
della 
C.T.U. 
sono 
notevoli. 
Nel 
timore 
che 
l’anticipazione 
delle 
spese 
possa 
dissuadere 
l’attore 
ad 
agire 
è 
previsto 
che 
quando 
è 
nominato 
un 
consulente 
tecnico 
d’ufficio, 
l’obbligo 
di 
anticipare 
le 
spese 
e 
l’acconto 
sul 
compenso 
a 
quest’ultimo 
spettanti 
è 
posto, 
salvo 
che 
sussistano 
specifici 
motivi, 
a 
carico 
del 
resistente; 
l’inottemperanza 
all’obbligo 
di 
anticipare 
l’acconto 
sul 
compenso 
a 
norma 
del 
presente 
comma 
non 
costituisce 
motivo 
di 
rinuncia 
all’incarico. 
b) Incisivo ordine 
di 
esibizione. Vi 
è 
una 
specifica 
disciplina 
che 
deroga 
alle 
regole 
generali 
sull’ordine 
di 
esibizione 
delle 
prove 
di 
cui 
agli 
artt. 210 e 
seguenti 
e 
118 c.p.c. e 
che 
ricalca 
pedissequamente 
la 
disciplina 
descritta 
in 
tema 
di 
esibizione 
delle 
prove 
di 
cui 
all’art. 3 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3 in 
materia 
di 
antitrust 
private 
enforcement, 
salva 
la 
mancata 
previsione 
della 
soggezione 
del 
terzo 
agli 
ordini 
di 
esibizione 
contemplati 
nella 
disciplina 
del-
l’azione di classe. 
È 
previsto 
che, 
su 
istanza 
motivata 
del 
ricorrente, 
contenente 
l’indicazione 
di 
fatti 
e 
prove 
disponibili 
dalla 
controparte 
sufficienti 
a 
sostenere 
la 
plausibilità 
della 
domanda, 
il 
giudice 
può 
ordinare 
al 
resistente 
l’esibizione 
delle 
prove 
rilevanti che rientrano nella sua disponibilità. 


Il 
giudice 
procede 
individuando 
specificamente 
e 
in 
modo 
circoscritto 
gli 
elementi 
di 
prova 
o 
le 
rilevanti 
categorie 
di 
prove 
oggetto 
della 
richiesta 
o 
dell’ordine 
di 
esibizione. La 
categoria 
di 
prove 
è 
individuata 
mediante 
il 
riferimento 
a 
caratteristiche 
comuni 
dei 
suoi 
elementi 
costitutivi, come 
la 
natura, 
il 
periodo 
durante 
il 
quale 
sono 
stati 
formati, 
l’oggetto 
o 
il 
contenuto 
degli 
elementi 
di 
prova 
di 
cui 
è 
richiesta 
l’esibizione 
e 
che 
rientrano nella 
stessa 
categoria. 


Il 
giudice 
ordina 
l’esibizione 
nei 
limiti 
di 
quanto è 
proporzionato alla 
decisione 
e 
in particolare: 
a) esamina 
in quale 
misura 
la 
domanda 
è 
sostenuta 
da 
fatti 
e 
prove 
disponibili 
che 
giustificano l’ordine 
di 
esibizione; 
b) esamina 
la 
portata 
e 
i 
costi 
dell’esibizione; 
c) valuta 
se 
le 
prove 
di 
cui 
è 
richiesta 
l’esibizione 
contengono informazioni riservate, specialmente se riguardanti terzi. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Quando la 
richiesta 
o l’ordine 
di 
esibizione 
hanno per oggetto informazioni 
riservate, 
il 
giudice 
dispone 
specifiche 
misure 
a 
tutela 
della 
riservatezza. 
La 
parte 
nei 
cui 
confronti 
è 
rivolta 
l’istanza 
di 
esibizione 
ha 
diritto di 
essere 
sentita prima che il giudice provveda. 


Alla 
parte 
che 
rifiuta 
senza 
giustificato 
motivo 
di 
rispettare 
l’ordine 
di 
esibizione 
del 
giudice 
o non adempie 
allo stesso, il 
giudice 
applica 
una 
sanzione 
amministrativa 
pecuniaria 
da 
euro 
10.000 
a 
euro 
100.000, 
che 
è 
devoluta 
a 
favore 
della 
Cassa 
delle 
ammende. Salvo che 
il 
fatto costituisca 
reato, alla 
parte 
o al 
terzo che 
distrugge 
prove 
rilevanti 
ai 
fini 
del 
giudizio il 
giudice 
applica 
una 
sanzione 
amministrativa 
pecuniaria 
da 
euro 10.000 a 
euro 100.000, 
che è devoluta a favore della Cassa delle ammende. 


Ferma 
restando l’applicazione 
delle 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie, 
se 
la 
parte 
rifiuta 
senza 
giustificato motivo di 
rispettare 
l’ordine 
di 
esibizione 
del 
giudice 
o non adempie 
allo stesso, ovvero distrugge 
prove 
rilevanti 
ai 
fini 
del 
giudizio di 
risarcimento, il 
giudice, valutato ogni 
elemento di 
prova, può 
ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce. 


La 
ratio 
della 
disciplina 
relativa 
all’ordine 
di 
esibizione 
è 
finalizzata 
a 
garantire 
l’accesso 
alla 
prova 
non 
disponibile 
in 
capo 
ai 
danneggiati, 
la 
cui 
esistenza, 
in 
controversie 
di 
massa, 
potrebbe 
non 
essere 
nota 
alla 
parte 
istante, 
al 
fine 
di 
colmare 
il 
divario 
informativo 
che 
contraddistingue 
le 
azioni 
di 
classe. 
In 
queste 
controversie 
la 
parte 
convenuta 
ha 
il 
potere 
di 
incidere 
su 
una 
pluralità 
di 
situazioni 
soggettive 
di 
vantaggio ed è 
dotata 
di 
mezzi 
e 
di 
conoscenze 
superiori 
a 
quelle 
di 
coloro che 
subiscono gli 
effetti 
dannosi 
della 
condotta 
o delle condotte seriali (26). 


Il 
tribunale 
accoglie 
o 
rigetta 
nel 
merito 
la 
domanda 
con 
sentenza, 
che 
deve 
essere 
pubblicata 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
entro quindici giorni dal deposito. 

L’art. 
840 
sexies 
dispone 
che, 
con 
la 
sentenza 
che 
accoglie 
l’azione 
di 
classe, il tribunale, tra l’altro: 


a) 
provvede 
in 
ordine 
alle 
domande 
risarcitorie 
o 
restitutorie 
proposte 
dal 
ricorrente, 
quando 
l’azione 
è 
stata 
proposta 
da 
un 
soggetto 
diverso 
da 
un’organizzazione 
o 
da 
un’associazione 
inserita 
nell’elenco 
di 
cui 
all’articolo 
840 
bis, 
secondo 
comma 
(ossia 
la 
domanda 
è 
stata 
proposta 
da 
un 
componente 
della 
classe). 
In 
questa 
ipotesi, 
il 
legislatore 
ha 
escluso 
la 
partecipazione 
del 
ricorrente 
alla 
terza 
fase 
del 
procedimento. 
A 
differenza 
di 
quanto 
previsto 
in 
generale 
per 
la 
classe, 
il 
ricorrente 
otterrà 
(in 
caso 
di 
accoglimento) 
una 
condanna 
specifica, 
vedendo 
quindi 
immediatamente 
soddisfatta 
la 
propria 
pretesa 
(27); 
(26) 
ANGELO 
DANILO 
DE 
SANTIS, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 113. 
(27) MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova class 
action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 11. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


b) accerta 
che 
il 
resistente, con la 
condotta 
addebitatagli 
dal 
ricorrente, 
ha leso diritti individuali omogenei; 
c) definisce 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
di 
cui 
alla 
lettera 
b), 
specificando 
gli 
elementi 
necessari 
per 
l’inclusione 
nella 
classe 
dei 
soggetti 
di cui alla lettera e); 
d) stabilisce 
la 
documentazione 
che 
deve 
essere 
eventualmente 
prodotta 
per fornire 
prova 
della 
titolarità 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
di 
cui 
alla 
lettera 
b); 
e) dichiara 
aperta 
la 
procedura 
di 
adesione 
e 
fissa 
il 
termine 
perentorio, 
non 
inferiore 
a 
sessanta 
giorni 
e 
non 
superiore 
a 
centocinquanta 
giorni, 
per 
l’adesione 
all’azione 
di 
classe 
da 
parte 
dei 
soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
omogenei 
di 
cui 
alla 
lettera 
b), 
nonché 
per 
l’eventuale 
integrazione 
degli 
atti 
e 
per il 
compimento delle 
attività 
da 
parte 
di 
coloro che 
hanno aderito a 
norma 
dell’articolo 
840 
quinquies, 
primo 
comma; 
il 
termine 
decorre 
dalla 
data 
di 
pubblicazione 
della 
sentenza 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
di cui all’articolo 840 ter, secondo comma; 
f) nomina il giudice delegato per la procedura di adesione; 
g) nomina 
il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
tra 
i 
soggetti 
aventi 
i 
requisiti per la nomina a curatore fallimentare; 
Il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
è 
pubblico 
ufficiale. 
Il 
giudice 
delegato può, dopo averlo sentito, revocare 
il 
rappresentante 
comune 
in ogni 
tempo con decreto. 


Alla 
luce 
di 
quanto esposto, occorre 
distinguere 
due 
possibili 
esiti, a 
seconda 
del soggetto che abbia instaurato il giudizio. 


a) 
Qualora 
l’azione 
sia 
stata 
proposta 
dal 
singolo 
componente 
della 
classe, 
il 
Tribunale 
provvede 
in 
ordine 
alle 
domande 
risarcitorie 
o 
restitutorie 
proposte 
dal 
ricorrente, ossia 
decide 
con sentenza 
definitiva 
sul 
diritto dedotto in giudizio 
dal 
ricorrente, pronunciando l’accertamento e 
la 
condanna 
dell’impresa 
o dell’ente resistente al risarcimento o alle restituzioni. 
b) 
Tale 
esito 
non 
è 
invece 
consentito 
nell’ipotesi 
in 
cui 
il 
giudizio 
sia 
stato 
instaurato da 
un’organizzazione 
o da 
un’associazione. In tale 
ipotesi, infatti, 
la 
lettera 
a) dell’art. 840 sexies 
sancisce 
che 
il 
Tribunale 
non può pronunciare 
una 
sentenza 
di 
condanna; 
l’oggetto 
del 
giudizio 
è 
individuato 
esclusivamente 
dalla 
lettera 
b) 
dell’art. 
840 
sexies, 
ai 
sensi 
del 
quale 
il 
Tribunale 
deve 
limitarsi 
ad accertare 
che 
il 
resistente, con la 
condotta 
addebitatagli 
dal 
ricorrente, ha 
leso diritti individuali omogenei. 
Il 
legislatore 
ha 
previsto, 
all’art. 
840 
quinquies, 
comma 
1, 
che 
i 
diritti 
di 
coloro 
che 
aderiscono 
nel 
corso 
di 
questa 
seconda 
fase 
del 
giudizio 
“sono 
accertati 
secondo 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 
840-octies, 
successivamente 
alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
che 
accoglie 
l’azione 
di 
classe”, 
con 
ciò 
rendendo 
palese 
che 
l’accertamento 
dell’esistenza 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
dei 
membri 
della 
classe 
esula 
dalla 
seconda 
fase 
ed 
è 
oggetto 
della 
suc



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


cessiva 
terza 
fase. 
Di 
conseguenza, 
l’accertamento 
di 
cui 
alla 
lettera 
b) 
del-
l’art. 
840 
sexies 
è 
limitato 
all’accertamento 
della 
illegittimità 
della 
condotta 
del 
resistente 
che 
sia 
potenzialmente 
lesiva 
dei 
diritti 
appartenenti 
ai 
componenti 
della 
classe, 
salva 
l’ipotesi 
della 
sostituzione 
dell’aderente 
all’originario 
ricorrente 
che 
abbia 
conciliato 
la 
controversia 
con 
l’impresa 
ex 
art. 
840 
bis, 
ultimo 
comma, 
nel 
qual 
caso 
è 
possibile 
la 
pronuncia 
della 
sentenza 
di 
condanna 
(28). 


Il 
contenuto minimo ed indefettibile 
della 
sentenza 
di 
accoglimento consiste, 
quindi, nell’accertamento dell’esistenza 
di 
una 
condotta 
plurioffensiva 
del 
convenuto idonea 
a 
ledere 
i 
diritti 
individuali 
omogenei 
dei 
componenti 
della 
classe, con conseguente 
determinazione 
delle 
caratteristiche 
che 
questi 
devono avere 
per essere 
considerati 
oggetto di 
adesione. A 
tale 
contenuto si 
può 
aggiungere 
la 
condanna 
dell’impresa 
al 
risarcimento 
o 
alle 
restituzioni 
ove l’attore sia un componente della classe. 


Deve 
ritenersi 
che 
la 
sentenza 
in 
esame 
-per 
la 
parte 
in 
cui 
non 
pronuncia 
sulla 
domanda 
dell’attore 
che 
sia 
componente 
della 
classe 
-ha 
un contenuto 
equiparabile 
a 
quello di 
una 
condanna 
generica 
ex 
art. 278 c.p.c.: 
il 
tribunale 
“accerta 
che 
il 
resistente, 
con 
la 
condotta 
addebitatagli 
dal 
ricorrente, 
ha 
leso 
i 
diritti 
individuali 
omogenei” 
(art. 840 sexies, comma 
1, lett. b), e 
“definisce 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
… 
specificando gli 
elementi 
necessari 
per 
l’inclusione 
nella classe” 
(29). Di 
conseguenza, la 
sentenza 
è 
suscettibile 
di riserva d’impugnazione 
ex 
art. 340 c.p.c. 

Di 
diverso 
avviso, 
circa 
la 
natura 
giuridica 
della 
sentenza 
di 
accoglimento, 
è 
altra 
dottrina, la 
quale 
osserva 
che 
la 
sentenza 
in questione 
non definisce 
affatto 
il 
giudizio 
avente 
ad 
oggetto 
l’azione 
di 
classe 
ed 
è 
da 
considerare, 
a 
tutti 
gli 
effetti, per il 
suo contenuto composito, quale 
un ibrido, una 
sentenza 
interlocutoria: 
non è 
una 
sentenza 
definitiva 
perché 
non definisce 
il 
giudizio, che 
prosegue 
per 
la 
quantificazione 
e 
liquidazione 
delle 
somme; 
non 
può 
nemmeno 
definirsi 
una 
sentenza 
non definitiva, poiché 
ad essa 
non segue 
una 
sentenza 
definitiva 
e 
ad essa 
non possono applicarsi 
le 
regole 
della 
riserva 
di 
impugnazione 
di cui all’art. 340 c.p.c. (30). 


Ulteriore 
dottrina 
qualifica 
la 
sentenza 
in 
esame 
come 
definitiva 
anche 
rispetto alle 
pretese 
degli 
aderenti, ossia 
ritiene 
che 
si 
tratti 
di 
provvedimento 
assimilabile, ai 
fini 
della 
differibilità 
del 
gravame, a 
quello di 
condanna 
generica 
reso come sentenza definitiva (31). 


(28) Su tali 
aspetti 
ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 48-55. 
(29) Così 
MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, La nuova 
class action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 3. 
(30) Per tali 
rilievi: 
GIULIANO 
SCARSELLI, La nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 n. 31, cit. 
(31) ANDREA 
GIUSSANI, La riforma dell’azione di classe, cit., pp. 1586-1587. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


L’art. 840 decies 
regola 
l’impugnazione 
della 
sentenza 
di 
accoglimento. 
Viene 
stabilito che 
gli 
atti 
di 
impugnazione 
della 
sentenza 
di 
cui 
all’articolo 
840 sexies 
e 
i 
provvedimenti 
che 
definiscono i 
giudizi 
di 
impugnazione 
sono 
pubblicati 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
di 
cui 
all’articolo 
840 ter, secondo comma. 


Ai 
fini 
dell’impugnazione 
della 
sentenza 
non 
si 
applica 
l’articolo 
325 


c.p.c. 
sui 
termini 
brevi; 
è 
ammessa 
l’impugnazione 
della 
sentenza 
di 
classe 
nel 
solo 
termine 
lungo 
dell’art. 
327 
c.p.c.; 
ciò 
al 
fine 
di 
porre 
le 
parti 
nella 
migliore 
condizione 
per valutare, non tanto se 
proporre 
o meno l’impugnazione, 
quanto 
soprattutto 
se 
dar 
seguito 
alla 
soluzione 
transattiva 
prevista 
dall’art. 
840 quaterdecies, comma 
2; 
difatti, solo decorso il 
termine 
per aderire 
fissato 
da 
quest’ultima 
norma 
le 
parti 
saranno in possesso di 
tutti 
gli 
elementi 
per determinare 
la 
propria 
strategia 
processuale 
ed assumere 
condotte 
razionali: 
il 
contenuto della 
sentenza, il 
numero degli 
aderenti, nonché 
il 
contenuto delle 
domande di adesione. 
Sicché 
l’art. 840 decies, comma 
3, deroga 
all’art. 702 quater 
c.p.c. relativo 
al 
rito 
sommario 
di 
cognizione, 
rito 
applicabile, 
in 
quanto 
compatibile, 
alla 
prima 
e 
alla 
seconda 
fase 
del 
procedimento di 
classe 
in virtù del 
richiamo 
contenuto nell’art. 840 ter. L’art. 702 quater 
prevede 
che 
il 
termine 
per proporre 
l’appello avverso il 
provvedimento definitorio del 
rito sommario di 
cognizione 
è 
di 
trenta 
giorni 
e 
decorre 
dalla 
comunicazione 
o 
dalla 
notificazione 
della 
ordinanza. 
Vi 
è 
la 
deroga 
attesa 
la 
specialità 
della 
previsione 
dell’art. 
840 
decies, 
comma 
3, 
e 
tenuto 
conto 
che 
il 
termine 
di 
cui 
all’art. 
702 
quater 
risponde 
ad una 
finalità 
acceleratoria 
che 
è 
del 
tutto incompatibile 
con la 
ratio 
sottesa all’esclusione del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c. (32). 


La 
legge 
non precisa 
quali 
siano le 
parti 
legittimate 
a 
proporre 
appello. 
Certamente 
potranno appellare 
il 
ricorrente 
e 
il 
resistente; 
residua 
il 
problema 
dell’appello degli 
aderenti. Nella 
logica 
del 
legislatore 
gli 
aderenti 
non possono 
appellare; 
il 
secondo 
comma 
dell’art. 
840 
decies 
attribuisce 
agli 
aderenti 
l’impugnazione 
per revocazione 
(quando ricorrono i 
presupposti 
previsti 
dal-
l’articolo 
395 
c.p.c. 
o 
quando 
la 
sentenza 
medesima 
è 
l’effetto 
della 
collusione 
tra 
le 
parti), col 
che, implicitamente, si 
intende 
escludere 
il 
diritto degli 
stessi 
all’appello (33). 

(32) In tal 
senso ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, 
n. 
31, 
a 
cura 
di 
BRUNO 
SASSANI, 
cit., 
pp. 
201-202. 
In 
senso 
contrario 
GIULIANO 
SCARSELLI, 
La 
nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 n. 31, cit., secondo cui, tenuto conto che 
il 
procedimento 
di 
azione 
di 
classe, seppur “definito con sentenza” 
è 
“regolato dal 
rito sommario di 
cognizione” 
(art. 
840 
ter, 
terzo 
comma 
c.p.c.), 
deve 
ritenersi 
che 
la 
disposizione 
statuisce 
che 
la 
sentenza 
possa 
essere 
appellata 
solo ai 
sensi 
dell’art. 702-quater 
c.p.c., con esclusione 
di 
ogni 
termine 
lungo e 
con esclusione del termine di cui all’art. 325 c.p.c. 
(33) In tal 
senso: 
GIULIANO 
SCARSELLI, 
La nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 
n. 
31, 
cit. 
ed 
altresì 
ROMOLO 
DONzELLI, 
in 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 
12 
aprile 
2019, n. 31, a cura di B. SASSANI, cit., p. 207. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Nella 
legge 
non vi 
è 
la 
disciplina 
della 
sentenza 
allorché 
viene 
rigettata 
la 
domanda. Attesa 
tale 
carenza, si 
applicano i 
principi 
generali, ossia 
viene 
in 
rilievo 
una 
sentenza 
di 
accertamento 
mero 
negativo 
idonea 
a 
passare 
in 
giudicato 
ex 
art. 324 c.p.c. (cosa 
giudicata 
formale) ed 
ex 
art. 2909 c.c. (cosa 
giudicata 
sostanziale). 

8. 
Terza 
fase 
del 
procedimento: 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
dei 
diritti 
individuali omogenei degli aderenti. 
La 
terza 
fase 
del 
procedimento è 
rivolta 
all’accertamento dell’esistenza 
dei 
diritti 
individuali 
vantati 
dagli 
aderenti 
sulla 
scorta 
delle 
indicazioni 
contenute 
nella 
sentenza 
definitoria 
della 
seconda 
fase. ha 
ad oggetto altresì 
la 
quantificazione 
e 
liquidazione 
degli 
importi 
dovuti 
ai 
singoli 
aderenti 
e 
termina 
con un decreto. 


La 
fase 
è 
eventuale. Non solo essa 
si 
svolge 
solo qualora 
la 
precedente 
fase 
si 
sia 
conclusa 
con 
una 
sentenza 
di 
accoglimento, 
ma 
lo 
svolgimento 
della 
stessa 
è 
condizionata 
al 
deposito 
di 
istanze 
di 
adesione 
da 
parte 
dei 
componenti 
della 
classe. La 
stessa 
ricalca 
il 
procedimento di 
accertamento dello stato passivo 
disciplinato dagli artt. 92 e seguenti della legge fallimentare (34). 


Gli 
artt. 
840 
septies 
e 
seguenti 
disciplinano 
questa 
fase 
del 
procedimento. 
Il 
legislatore 
non 
precisa 
la 
natura 
giuridica 
di 
tale 
fase 
del 
procedimento. 
Deve 
ritenersi 
che 
questa 
fase 
è 
regolata 
dalle 
norme 
che 
disciplinano il 
processo 
ordinario 
di 
cognizione, 
alla 
luce 
del 
fatto 
che 
all’esito 
di 
tale 
fase 
il 
giudice 
delegato, 
con 
decreto 
motivato, 
accoglie 
o 
respinge 
la 
domanda 
di 
adesione 
(art. 
840 
octies, 
comma 
5) 
e, 
quindi, 
decide 
sui 
diritti 
individuali 
omogenei degli aderenti con efficacia di giudicato ex 
art. 2909 c.c. (35). 


L’art. 
840 
septies 
regola 
le 
modalità 
di 
adesione 
all’azione 
di 
classe. 
Trattasi 
della 
seconda 
finestra 
per aderire, secondo quanto stabilito nella 
sentenza 
di accoglimento ex 
art. 840 sexies 
lett. e). 


L’adesione 
all’azione 
di 
classe 
si 
propone 
mediante 
inserimento della 
relativa 
domanda 
nel 
fascicolo informatico, avvalendosi 
di 
un’area 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici. I soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
possono aderire 
con un atto che 
non necessita 
di 
un difensore, che 
va 
predisposto secondo un 
modello fissato dal 
Ministero della 
Giustizia, che 
contiene 
necessariamente 
il 
conferimento 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
del 
potere 
di 
rappresentare 
l'aderente 
e 
di 
compiere 
nel 
suo interesse 
tutti 
gli 
atti, sia 
sostanziali 
che 


(34) In tal 
senso ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura 
di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 19, anche 
ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento 
sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 59. 
(35) In tal 
senso ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura 
di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 45 e 
ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico 
alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 220. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 
189 


processuali. La 
domanda 
deve 
contenere, a 
pena 
di 
inammissibilità, determinati 
requisiti, tra 
cui 
la 
determinazione 
dell’oggetto della 
domanda, l’esposizione 
dei 
fatti 
costituenti 
le 
ragioni 
della 
domanda 
di 
adesione 
e 
il 
conferimento 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti, 
già 
nominato 
o 
che 
sarà 
nominato dal 
giudice, del 
potere 
di 
rappresentare 
l’aderente 
e 
di 
compiere 
nel 
suo interesse 
tutti 
gli 
atti, di 
natura 
sia 
sostanziale 
che 
processuale, relativi 
al 
diritto individuale omogeneo esposto nella domanda di adesione. 


L’aderente 
può produrre 
dichiarazioni 
di 
terzi, capaci 
di 
testimoniare, rilasciate 
ad un avvocato che 
attesta 
l’identità 
del 
dichiarante 
secondo le 
disposizioni 
dell’articolo 252 c.p.c.; 
l’avvocato che 
procede 
a 
norma 
dell’art. 840 
septies 
è 
considerato pubblico ufficiale 
ad ogni 
effetto. Le 
dichiarazioni 
dei 
terzi 
sono valutate 
dal 
giudice 
secondo il 
suo prudente 
apprezzamento. Con 
tale 
mezzo 
di 
prova 
è 
stato 
introdotto 
nel 
nostro 
ordinamento 
l’istituto 
dell’affidavit 
degli ordinamenti di 
common law. 


L’adesione 
diventa 
inefficace 
in 
caso 
di 
revoca 
del 
potere 
di 
rappresentanza 
conferito 
al 
rappresentante 
comune. 
L’inefficacia 
opera 
di 
diritto 
ed 
è 
rilevabile 
d’ufficio. 
La 
revoca 
è 
opponibile 
all’impresa 
o 
all’ente 
gestore 
di 
servizi 
pubblici 
o 
di 
pubblica 
utilità 
da 
quando 
è 
inserita 
nel 
fascicolo 
informatico. 


L’art. 
840 
octies 
regola 
il 
progetto 
di 
accertamento 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
degli 
aderenti. 
Il 
rappresentante 
comune, 
all’esito 
del 
contraddittorio 
con 
il 
resistente 
e 
gli 
aderenti, 
predispone 
il 
progetto 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
degli 
aderenti 
e 
lo 
deposita 
nel 
fascicolo 
informatico. 
Il 
giudice 
delegato, 
con 
decreto 
motivato, 
quando 
accoglie 
in 
tutto 
o 
in 
parte 
la 
domanda 
di 
adesione, 
condanna 
il 
resistente 
al 
pagamento 
delle 
somme 
o 
delle 
cose 
dovute 
a 
ciascun 
aderente 
a 
titolo 
di 
risarcimento 
o 
di 
restituzione. 
Il 
provvedimento 
costituisce 
titolo 
esecutivo 
ed 
è 
comunicato 
al 
resistente, 
agli 
aderenti, 
al 
rappresentante 
comune 
e 
ai 
difensori 
di 
cui 
all’articolo 
840 
novies, 
sesto 
e 
settimo 
comma. 
Al 
difensore 
di 
cui 
l’aderente 
si 
sia 
avvalso 
è 
dovuto 
un 
compenso. 


L’art. 840 undecies 
disciplina 
l’impugnazione 
del 
decreto. Contro il 
decreto 
definitorio della 
terza 
fase 
può essere 
proposta 
opposizione 
con ricorso 
depositato presso la cancelleria del tribunale. 

L’opposizione 
ha 
carattere 
impugnatorio, con la 
conseguenza 
che, in assenza 
di 
una 
specifica 
disciplina, si 
applicano le 
regole 
generali 
riguardanti 
i 
mezzi 
di 
impugnazione 
(36) ed altresì 
quelle 
dell’appello. Deve 
ritenersi, infatti, 
che 
il 
giudizio 
di 
opposizione 
abbia 
una 
natura 
sostitutiva, 
in 
quanto 
l’oggetto 
dell’impugnazione 
è 
il 
medesimo 
della 
prima 
fase 
sommaria, 
ossia 
corrisponde 
alle 
domande 
a 
contenuto risarcitorio e 
restitutorio fatte 
valere 
in 
via di adesione (37). 


(36) In tal 
senso ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 221. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Il 
ricorso non sospende 
l’esecuzione 
del 
decreto, fatta 
salva 
la 
facoltà 
del 
tribunale 
di 
disporre 
diversamente 
su 
istanza 
di 
parte 
in 
presenza 
di 
gravi 
e 
fondati 
motivi. Esso deve 
contenere 
specifici 
requisiti, tra 
cui, l’esposizione 
dei 
fatti 
e 
degli 
elementi 
di 
diritto su cui 
si 
basa 
l’opposizione, con le 
relative 
conclusioni. Il 
presidente 
del 
Tribunale 
designa 
il 
relatore 
e 
fissa 
con decreto 
l’udienza 
di 
comparizione. Il 
giudice 
delegato non può far parte 
del 
collegio. 
Il 
ricorso, 
unitamente 
al 
decreto 
di 
fissazione 
dell’udienza, 
deve 
essere 
comunicato 
ai 
controinteressati. Il 
resistente 
deve 
costituirsi 
almeno cinque 
giorni 
prima 
dell’udienza, depositando una 
memoria 
contenente 
l’esposizione 
delle 
difese 
in 
fatto 
e 
in 
diritto. 
L’intervento 
di 
qualunque 
interessato 
non 
può 
avere 
luogo oltre 
il 
termine 
stabilito per la 
costituzione 
della 
parte 
resistente, con le 
modalità per questa previste. 


Il 
ricorso può essere 
proposto dal 
resistente, dal 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
e 
dagli 
avvocati 
di 
cui 
all’articolo 840 novies, sesto e 
settimo 
comma, nel 
termine 
perentorio di 
trenta 
giorni 
dalla 
comunicazione 
del 
provvedimento. 
Gli 
avvocati 
possono 
proporre 
motivi 
di 
opposizione 
relativi 
esclusivamente 
ai 
compensi 
e 
alle 
spese 
liquidati 
con 
il 
decreto 
impugnato. 
Nel 
difetto di 
comunicazione, il 
decreto è 
impugnabile 
nel 
termine 
lungo ex 
art. 
327 c.p.c. I soggetti 
menzionati 
sono legittimati 
ad impugnare 
solo le 
statuizioni 
concernenti 
i 
rapporti 
sostanziali 
a 
loro 
riferibili. 
Ciò 
trova 
giustificazione 
nel 
fatto che, da 
un lato, il 
resistente, quale 
parte 
sostanziale 
passiva 
dei 
diversi 
rapporti, è 
sempre 
legittimato a 
impugnare 
laddove 
sia 
soccombente 
e, 
dall’altro, 
il 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
è 
legittimato 
ad 
impugnare 
non solo i 
capi 
del 
provvedimento che 
lo riguardano a 
titolo personale 
ma 
anche 
i 
capi, ben più numerosi, che, al 
contrario, attengono alla 
posizione 
degli aderenti. 


L’aderente 
non 
ha 
legittimazione 
all’opposizione. 
Ciò 
in 
quanto 
il 
rappresentante 
comune 
agisce 
in sua 
rappresentanza, in virtù del 
potere 
conferito 
con la 
domanda 
di 
adesione 
all’azione 
di 
classe 
ai 
sensi 
dell’art. 840 septies, 
comma 
2, lett. h). Cosicché, se 
un aderente 
si 
vede 
respinta 
la 
domanda 
risarcitoria 
e 
il 
rappresentante 
comune 
non ritiene 
di 
dover opporre 
il 
decreto, il 
decreto 
di 
rigetto 
può 
diventare 
definitivo. 
Questo 
comporta 
che 
l’aderente 
perde 
l’azione 
individuale, atteso che 
l’azione 
individuale 
resta 
salva 
solo se 
l’aderente 
revoca 
l’adesione 
prima 
che 
il 
decreto diventi 
definitivo (art. 840 
undecies, ultimo comma) (38). Sicché 
la 
revoca 
dell’aderente 
è 
intesa 
quale 
equo 
contrappeso 
alla 
sua 
incapacità 
di 
influire 
dal 
di 
dentro 
sulla 
conduzione 
della causa. 


(37) ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 223. 
(38) In tal 
senso: 
GIULIANO 
SCARSELLI, 
La nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 
n. 31, cit. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Dunque, 
stando 
alla 
legge, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
l’aderente 
si 
sia 
vista 
respinta 
la 
domanda, 
egli 
deve 
accertarsi 
se 
il 
rappresentante 
comune 
intende 
interporre 
per lui 
opposizione 
al 
decreto oppure 
no; 
e, se 
no, l’aderente 
deve 
revocare 
l’adesione 
prima 
che 
il 
decreto diventi 
definitivo, perché 
altrimenti 
egli perde la possibilità di agire in via individuale in separato giudizio. 

Ora, 
un 
meccanismo 
di 
questo 
genere 
poggia 
sul 
termine 
dell’opposizione, 
nel 
senso 
che 
l’aderente, 
per 
evitare 
di 
perdere 
l’azione 
individuale, 
deve 
revocare 
l’adesione 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
per l’opposizione. 

Il 
termine 
è 
fissato in trenta 
giorni 
“dalla comunicazione 
del 
provvedimento” 
(art. 840 undecies, secondo comma), e 
visto che 
il 
decreto è 
comunicato 
anche 
all’aderente 
(art. 840 octies, quinto comma), l’aderente 
è 
tenuto a 
prendere 
tempestivi 
contatti 
con il 
rappresentante 
comune 
e, se 
del 
caso, revocare 
entro 
trenta 
giorni 
l’adesione 
per 
evitare 
di 
perdere 
l’azione 
individuale. 

Va 
precisato che, per evitare 
la 
moltiplicazione 
delle 
opposizioni 
dei 
decreti 
di 
cui 
all’art. 
840 
octies, 
la 
legge 
ha 
previsto 
che 
tutte 
le 
opposizioni 
debbano 
essere 
decise 
in un unico procedimento in camera 
di 
consiglio dinanzi 
al 
medesimo ufficio giudiziario. 

I singoli 
aderenti, seppur non legittimati 
all’opposizione, vengono però 
definiti 
“controinteressati”, 
ed 
hanno 
in 
questo 
modo 
diritto 
a 
ricevere 
comunicazione 
del 
decreto 
che 
fissa 
l’udienza 
in 
camera 
di 
consiglio, 
e 
diritto 
altresì 
ad intervenire 
nel 
procedimento depositando memoria 
difensiva 
(art. 840 undecies, 
commi 
5 
e 
6). 
Il 
Tribunale, 
in 
composizione 
collegiale, 
“conferma 
modifica 
o 
revoca 
il 
provvedimento 
impugnato” 
(art. 
840 
undecies, 
penultimo 
comma); 
ciò in coerenza 
con la 
natura 
sostitutiva 
del 
rimedio. L’aderente 
che 
intervenga 
nel 
giudizio 
di 
opposizione 
non 
perde 
la 
possibilità 
di 
revocare 
l’adesione 
prima 
della 
definitività 
del 
provvedimento che 
decide 
sulle 
opposizioni 
al fine di salvaguardare l’azione individuale. 


Non 
sono 
ammessi, 
di 
regola, 
nuovi 
mezzi 
di 
prova 
e 
non 
possono 
essere 
prodotti 
nuovi 
documenti. Il 
tribunale 
provvede 
con decreto motivato, con il 
quale conferma, modifica o revoca il provvedimento impugnato. 


Il 
decreto 
che 
definisce 
l’opposizione, 
non 
essendo 
altrimenti 
impugnabile 


o 
revocabile 
ed 
accertando 
al 
contempo 
diritti 
soggettivi 
degli 
aderenti 
con 
efficacia 
di 
giudicato, 
stante 
il 
disposto 
dell’ultimo 
comma 
dell’art. 
840 
undecies, 
deve 
ritenersi 
ricorribile, 
in 
via 
straordinaria 
in 
Cassazione 
ai 
sensi 
dell’art. 
111 
Cost. 
da 
parte 
degli 
stessi 
soggetti 
legittimati 
a 
proporre 
l’opposizione 
(39). 
9. L’adesione del componente la classe. 
Come 
innanzi 
descritto, 
la 
riforma 
prevede 
che 
si 
possa 
aderire 
all’azione 
in due distinti momenti del complesso procedimento: 


(39) ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 227. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


-nella 
fase 
immediatamente 
successiva 
all’ordinanza 
che 
ammette 
l’azione 
ex 
art. 
840 
quinquies 
(aderente 
preventivo). 
In 
questo 
caso, 
è 
lo 
stesso 
Tribunale, nell’ordinanza 
di 
ammissibilità, a 
fissare 
un termine 
per l’adesione 
e 
a 
definire 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
che 
consentono l’inserimento 
nella 
classe. L’effettivo diritto ad aderire 
all’azione 
di 
classe 
è 
verificato 
solo dopo la sentenza che definisce il giudizio; 


-il 
Tribunale, poi, con la 
sentenza 
che 
accoglie 
l’azione, assegna 
un termine 
per l’adesione 
ex 
art. 840 sexies 
(aderente successivo). 
Quindi 
la 
legge, con la 
adozione 
di 
due 
diversi 
provvedimenti, assegna 
parimenti 
un 
termine 
ai 
terzi 
per 
aderire 
al 
procedimento 
e 
prescrive 
al 
giudice 
di 
definire 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei; 
ciò 
avviene 
la 
prima 
volta 
con 
l’art. 
840 
quinquies 
con 
riferimento 
all’ordinanza 
che 
ammette 
l’azione 
di 
classe, e 
avviene 
la 
seconda 
volta 
con riferimento alla 
sentenza 
di 
accoglimento dell’azione di classe nell’art. 840 sexies, lettere e) e c). 

In entrambe 
le 
disposizioni 
viene 
previsto che 
il 
Tribunale 
dà 
un termine 
perentorio, sempre 
non inferiore 
a 
sessanta 
e 
non superiore 
a 
centocinquanta 
giorni, 
per 
l’adesione 
all’azione 
medesima 
da 
parte 
dei 
soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
omogenei, ed inoltre 
l’art. 840 quinquies 
asserisce 
che 
con 
l’ordinanza 
il 
giudice 
“provvede 
secondo 
quanto 
previsto 
dall’articolo 
840 
sexies 
primo comma, lettera c)” 
(ovvero provvede 
a 
definire 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali omogenei). 

Ciò sembra 
costituire 
una 
mera 
ripetizione; 
tuttavia 
le 
due 
disposizioni 
possono coordinarsi tra loro. 

Ed 
infatti, 
a 
seguito 
dell’ammissibilità 
dell’azione 
di 
classe, 
i 
soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
omogenei 
possono già 
aderire 
al 
procedimento 
che prosegue per l’accoglimento o meno dell’azione. 

È 
chiaro 
che 
se 
l’azione 
di 
classe 
non 
viene 
accolta, 
anche 
l’adesione 
verrà 
meno, e 
resterà 
salvo il 
diritto di 
ognuno di 
far valere 
quel 
medesimo 
diritto nelle vie ordinarie. 

Con la 
sentenza 
che 
accoglie 
l’azione 
di 
classe, di 
nuovo, il 
Tribunale 
assegna 
un ulteriore 
termine 
per le 
adesioni 
da 
parte 
dei 
soggetti 
portatori 
di 
diritti 
individuali 
omogenei, 
e, 
a 
seguito 
di 
questo 
nuovo 
termine, 
nuovi 
soggetti 
potranno aderire, mentre 
quelli 
che 
avevano già 
spiegato atto di 
adesione 
con 
l’ordinanza 
di 
ammissibilità, potranno, se 
del 
caso, integrare 
gli 
atti 
e 
la 
documentazione 
anche 
alla 
luce 
delle 
precisazioni 
fatte 
in sentenza 
circa 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
e 
circa 
la 
documentazione 
che 
deve 
essere 
prodotta, rispetto alle precedenti indicazioni già contenute nell’ordinanza. 

Si 
tratta, così, più che 
di 
una 
ripetizione, di 
una 
doppia 
possibilità 
che 
la 
legge 
assegna 
ai 
titolari 
di 
diritti 
individuali 
omogenei, relativa 
a 
due 
diversi 
momenti della procedura. 

La 
scelta, in linea 
con l’orientamento europeo, è 
stata 
dunque 
quella 
di 
mantenere 
l’istituto dell’opt-in, ma 
nel 
contempo di 
ammorbidirlo con la 
pos



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


sibilità 
di 
aderire 
all’azione 
anche 
in una 
fase 
successiva 
alla 
sentenza 
che 
definisce 
la seconda fase del procedimento. 


Questa 
scelta 
non recepisce 
l’istituto dell’opt-out 
statunitense, nel 
quale 
chiunque 
in possesso dei 
requisiti 
indicati 
dalla 
Corte 
entra 
a 
far parte 
della 
classe 
a 
meno che, ricevuta 
la 
notizia 
del 
suo inserimento, non decida 
di 
rimanerne 
fuori. 


Il 
componente 
che 
aderisce 
al 
giudizio, sia 
in via 
preventiva 
ai 
sensi 
del-
l’art. 
840 
quinquies, 
comma 
1, 
sia 
successivamente 
all’accoglimento 
della 
domanda 
di 
classe 
ai 
sensi 
dell’art. 840 septies, non può agire 
in via 
individuale. 
Tanto è 
chiarito dall’art. 840 bis, comma 
4, secondo cui 
“In ogni 
caso, resta 
fermo il 
diritto all’azione 
individuale, salvo quanto previsto all’articolo 840 
undecies, 
nono 
comma”. 
Quest’ultima 
disposizione 
stabilisce 
che 
“L’aderente 
può proporre 
azione 
individuale 
a condizione 
che 
la domanda di 
adesione 
sia 
stata 
revocata 
prima 
che 
il 
decreto 
sia 
divenuto 
definitivo 
nei 
suoi 
confronti”. 
Tanto all’evidente fine di evitare una duplicità di azioni sulla stessa pretesa. 


10. Spese del procedimento. 
L’art. 
840 
novies 
disciplina 
le 
spese 
del 
procedimento, 
con 
regole 
che 
vanno a 
deviare 
rispetto alla 
disciplina 
ordinaria, con l’introduzione 
del 
compenso 
c.d. quota 
lite, ossia 
la 
somma 
che 
l’impresa 
deve 
corrispondere 
al 
rappresentante 
comune degli aderenti e all’avvocato del ricorrente vittorioso. 


Viene 
stabilito 
che 
con 
il 
decreto 
che 
chiude 
la 
terza 
fase 
del 
procedimento 
il 
giudice 
delegato condanna 
altresì 
il 
resistente 
a 
corrispondere 
direttamente 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti, 
a 
titolo 
di 
compenso, 
un 
importo 
stabilito 
in 
considerazione 
del 
numero 
dei 
componenti 
la 
classe 
in 
misura 
progressiva. Si 
prevede 
che 
all’aumento del 
numero degli 
aderenti 
si 
riduce 
la 
percentuale 
del 
compenso calcolata 
sul 
quantum 
globale 
riconosciuto 
agli 
aderenti. La 
percentuale 
oscilla 
dal 
9% (quando gli 
aderenti 
sono da 
1 a 


500) allo 0,5% (quando gli 
aderenti 
sono oltre 
1.000.000). È 
altresì 
dovuto il 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
e 
documentate. L’autorità 
giudiziaria 
può aumentare 
o 
ridurre 
l’ammontare 
del 
compenso 
liquidato 
in 
misura 
non 
superiore 
al 
50 per cento, sulla 
base 
dei 
seguenti 
criteri: 
a) complessità 
dell’incarico; 
b) 
ricorso all’opera 
di 
coadiutori; 
c) qualità 
dell’opera 
prestata; 
d) sollecitudine 
con cui sono state condotte le attività; e) numero degli aderenti. 
Con 
il 
medesimo 
decreto 
che 
chiude 
la 
terza 
fase 
del 
procedimento, 
il 
giudice 
delegato 
condanna 
altresì 
il 
resistente 
a 
corrispondere 
direttamente 
all’avvocato che 
ha 
difeso il 
ricorrente 
fino alla 
pronuncia 
della 
sentenza 
di 
accoglimento 
nell’an 
di 
cui 
all’articolo 
840 
sexies 
un 
importo 
ulteriore 
rispetto 
alle 
somme 
dovute 
a 
ciascun 
aderente 
a 
titolo 
di 
risarcimento 
e 
di 
restituzione. 
Il 
predetto importo viene 
liquidato a 
titolo di 
compenso premiale, con applicazione 
degli 
stessi 
criteri 
stabiliti 
per 
la 
liquidazione 
del 
compenso 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti. 
Queste 
disposizioni 
si 
applicano 
anche 
ai 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


difensori 
che 
hanno 
difeso 
i 
ricorrenti 
delle 
cause 
riunite 
risultati 
vittoriosi. 
Tale 
incentivo economico ha 
la 
finalità 
di 
incoraggiare 
l’interesse 
alla 
proposizione 
delle azioni di classe. 


Parte 
della 
dottrina 
rileva 
che 
il 
sistema 
“premiale” 
appena 
descritto appare 
fortemente 
inopportuno, 
se 
non 
costituzionalmente 
illegittimo. 
Ciò 
quantomeno 
per due 
ragioni: 
1) da 
un lato, nell’ordinamento italiano sono previsti 
dei 
limiti, anche 
deontologici, in forza 
dei 
quali 
appare 
inverosimile 
che 
il 
difensore 
del 
ricorrente 
possa 
farsi 
pubblico 
promotore 
dell’azione; 
2) 
dall’altro, 
il 
riconoscimento 
di 
una 
legittimazione 
individuale 
iure 
proprio 
agli 
enti 
esponenziali 
rende 
comunque 
assai 
improbabile 
che 
le 
azioni 
di 
classe 
vengano 
promosse, organizzate 
e 
strutturate 
da 
uno studio legale, anziché 
da 
simili 
organizzazioni 
(40). 


11. 
Adempimento 
del 
decreto 
di 
accoglimento, 
in 
tutto 
o 
in 
parte, 
della 
domanda 
di adesione. 
L’adempimento al 
provvedimento che 
determina 
l’ammontare 
del 
danno 
può essere spontaneo o coattivo. 

L’art. 840 duodecies 
regola l’adempimento spontaneo. 

L’art. 
840 
terdecies 
-nella 
evenienza 
che 
non 
vi 
sia 
l’adempimento 
spontaneo 
-disciplina 
l’esecuzione 
forzata 
collettiva. 
Questa 
non 
è 
altro 
che 
un’esecuzione 
individuale 
promossa 
da 
un 
unico 
soggetto, 
il 
rappresentante 
comune, 
ai 
fini 
dell’adempimento 
del 
mandato 
conferitogli 
dagli 
aderenti, 
con 
obiettivi 
di 
semplificazione 
e 
di 
efficienza. Di 
collettivo vi 
è 
solo la 
pluralità 
degli 
interessi 
retrostanti. Non è, quindi, una procedura concorsuale (41). 


Le 
esecuzioni 
esperibili 
sono l’espropriazione 
forzata 
e 
l’esecuzione 
per 
consegna 
e 
rilascio. 
Difatti, 
ai 
sensi 
dell’art. 
840 
octies, 
comma 
5, 
la 
condanna 
può 
avere 
ad 
oggetto 
il 
“pagamento 
delle 
somme 
o 
delle 
cose 
dovute 
a 
ciascun 
aderente 
a titolo di 
risarcimento o di 
restituzione”. È 
esclusa, quindi, l’esecuzione 
forzata 
degli 
obblighi 
di 
fare 
e 
di 
non 
fare. 
Il 
titolo 
esecutivo 
è 
costituito 
dal 
decreto definitorio della 
terza 
fase, il 
quale 
può articolarsi 
in una 
pluralità 
di capi condannatori. 


Esula 
dall’azione 
esecutiva 
collettiva 
l’esecuzione 
fondata 
sugli 
accordi 
di 
natura 
transattiva 
di 
cui 
all’art. 840 quaterdecies, dal 
momento che 
questa 
disposizione non richiama l’art. 840 terdecies. 


L’esecuzione 
forzata 
è 
promossa 
dal 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti, 
che 
compie 
tutti 
gli 
atti 
nell’interesse 
degli 
aderenti, ivi 
compresi 
quelli 
relativi 
agli 
eventuali 
giudizi 
di 
opposizione. 
Il 
suo 
potere 
rappresentativo 


(40) Per tali 
rilievi: 
MANUELA 
MALAVASI, Partner, GIACOMO 
RICCIARDI, Associate, BonelliErede, 
La nuova class action: analisi delle principali disposizioni, cit., p. 12. 
(41) FABIO 
COSSIGNANI, 
in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 180-181. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


comprende 
l’intera 
gamma 
delle 
attività 
strumentali 
alla 
soddisfazione 
coattiva 
del 
credito, dalla 
notificazione 
del 
titolo esecutivo e 
del 
precetto fino alla 
ricezione 
del 
pagamento delle 
somme 
liquidate 
ovvero alla 
consegna 
o al 
rilascio 
delle 
cose 
oggetto 
dell’esecuzione 
in 
forma 
specifica. 
Non 
è 
mai 
ammessa 
l’esecuzione 
forzata 
del 
decreto 
su 
iniziativa 
di 
soggetti 
diversi 
dal 
rappresentante 
comune. 

All’evidenza, 
il 
legislatore 
prevede 
una 
legittimazione 
esclusiva 
in 
via 
esecutiva 
del 
rappresentante 
comune. Da 
ciò consegue 
che 
il 
suddetto rappresentante 
può sia 
intraprendere, nell’interesse 
degli 
aderenti, l’esecuzione, sia 
effettuare 
interventi 
ex 
art. 499 c.p.c. in procedure 
esecutive 
già 
intraprese 
da 
altri creditori del resistente. 


Alla 
stessa 
maniera, 
gli 
altri 
creditori 
dell’esecutato 
potranno 
intervenire 
nell’esecuzione 
collettiva 
promossa 
dal 
rappresentante 
comune. 
Tra 
questi, 
in 
primis, 
vanno 
compresi 
quelli 
il 
cui 
credito 
è 
incorporato 
dallo 
stesso 
titolo 
esecutivo 
azionabile 
nell’interesse 
degli 
aderenti: 
il 
rappresentante 
comune, 
in 
proprio, 
per 
il 
diritto 
al 
compenso 
ex 
art. 
840 
novies, 
comma 
1, 
e 
gli 
avvocati 
dei 
proponenti 
ex 
art. 
840 
novies, 
commi 
6 
e 
7, 
per 
il 
c.d. 
compenso 
premiale. 


Peraltro, con la 
esclusione 
dell’esecuzione 
-sia 
collettiva 
sia 
a 
mezzo di 
esecuzioni 
forzate 
individuali 
-ad istanza 
dei 
singoli 
aderenti, creditori 
per la 
tutela 
dei 
crediti 
contenuti 
nel 
decreto di 
cui 
all’art. 840 octies, comma 
5, il 
legislatore 
della 
novella 
ha 
voluto 
evitare 
che 
dai 
singoli 
crediti 
(spesso 
di 
importo 
contenuto) vantati 
dagli 
aderenti 
derivino una 
serie 
di 
azioni 
esecutive 
singolari, 
che 
potrebbero 
avere 
ad 
oggetto 
beni 
diversi 
e/o 
comunque 
risultare 
difficilmente coordinabili tra loro. 


Devono essere 
trattenute 
e 
depositate 
nei 
modi 
stabiliti 
dal 
giudice 
del-
l’esecuzione 
le 
somme 
ricavate 
per 
effetto 
di 
provvedimenti 
provvisoriamente 
esecutivi e non ancora divenuti definitivi. 


Le 
disposizioni 
innanzi 
descritte 
non 
si 
applicano 
relativamente 
ai 
crediti 
riconosciuti 
con il 
decreto di 
cui 
all’articolo 840 octies, quinto comma, c.p.c. 
in 
favore 
del 
rappresentante 
comune 
e 
degli 
avvocati 
di 
cui 
all’articolo 
840 
novies, sesto e settimo comma, c.p.c. 


Il 
compenso dovuto al 
rappresentante 
comune 
è 
liquidato dal 
giudice 
in 
misura 
non superiore 
a 
un decimo della 
somma 
ricavata, tenuto conto dei 
criteri 
di cui all’articolo 840 novies, quarto comma. 


Il 
rappresentante 
comune 
non 
può 
stare 
in 
giudizio 
senza 
l’autorizzazione 
del 
giudice 
delegato, 
salvo 
che 
per 
i 
procedimenti 
promossi 
per 
impugnare 
atti del giudice delegato o del tribunale. 


Ai 
sensi 
dell’art. 840 quinquiesdecies 
la 
procedura 
di 
adesione 
si 
chiude: 


a) quando le 
ripartizioni 
agli 
aderenti, effettuate 
dal 
rappresentante 
comune, 
raggiungono l’intero ammontare 
dei 
crediti 
dei 
medesimi 
aderenti; 
b) quando 
nel 
corso 
della 
procedura 
risulta 
che 
non 
è 
possibile 
conseguire 
un 
ragionevole 
soddisfacimento delle 
pretese 
degli 
aderenti, anche 
tenuto conto dei 
costi 
che 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


è 
necessario sostenere. La 
chiusura 
della 
procedura 
di 
adesione 
è 
dichiarata 
con decreto motivato del 
giudice 
delegato, reclamabile 
a 
norma 
dell’articolo 
840 undecies. 
Gli 
aderenti 
riacquistano il 
libero esercizio delle 
azioni 
verso il 
debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi. 


12. Composizioni amichevoli della lite (rinunce e transazioni). 
L’art. 840 quaterdecies 
c.p.c. regola gli accordi di natura transattiva. 

Conciliazione 
intervenuta 
nella 
seconda 
fase 
del 
procedimento, 
ossia 
durante 
il giudizio diretto alla adozione della sentenza ex art. 840 sexies. 


L’accordo può aversi 
tra 
il 
ricorrente 
ed il 
resistente 
o tra 
gli 
aderenti 
ed 
il resistente. 


a) Accordi 
con il 
ricorrente. Viene 
stabilito che 
il 
tribunale, fino alla 
discussione 
orale 
della 
causa 
del 
giudizio 
diretto 
alla 
adozione 
della 
sentenza 
ex 
art. 840 sexies, formula, ove 
possibile, avuto riguardo al 
valore 
della 
controversia 
e 
all’esistenza 
di 
questioni 
di 
facile 
e 
pronta 
soluzione 
di 
diritto, una 
proposta 
transattiva 
o 
conciliativa. 
Ovviamente 
l’accordo 
si 
può 
realizzare 
anche a prescindere dall’impulso del giudice. 
L’accordo 
transattivo 
o 
conciliativo 
concluso 
tra 
le 
parti 
è 
inserito 
nel-
l’area 
pubblica 
ed 
è 
comunicato 
all’indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
ovvero 
al 
servizio 
elettronico 
di 
recapito 
certificato 
qualificato 
indicato 
da 
ciascun 
aderente, 
il 
quale 
può 
dichiarare 
di 
voler 
accedere 
all’accordo 
medesimo 
mediante 
dichiarazione 
inserita 
nel 
fascicolo informatico nel 
termine 
indicato 
dal 
giudice. Da 
tale 
norma 
si 
conferma 
che 
all’accordo non debbono partecipare 
gli 
aderenti. Ovviamente, se 
gli 
aderenti 
non partecipano, è 
previsto che 
la 
conciliazione 
non 
ha 
effetto 
nei 
loro 
riguardi. 
Questi 
possono 
agire 
con 
l’azione individuale a tutela dei loro diritti. 

La 
legge 
prevede 
altresì, in questa 
evenienza, un meccanismo di 
successione 
nella 
veste 
di 
parte 
ricorrente. Ai 
sensi 
dell’ultimo comma 
dell’art. 840 
bis, nel 
caso in cui, a 
seguito di 
accordi 
transattivi 
o conciliativi 
intercorsi 
tra 
le 
parti, 
vengano 
a 
mancare 
in 
tutto 
le 
parti 
ricorrenti, 
il 
Tribunale 
assegna 
agli 
aderenti 
un termine, non inferiore 
a 
sessanta 
giorni 
e 
non superiore 
a 
novanta 
giorni, per la 
prosecuzione 
della 
causa, che 
deve 
avvenire 
con la 
costituzione 
in 
giudizio 
di 
almeno 
uno 
degli 
aderenti 
mediante 
il 
ministero 
di 
un 
difensore. 
In questa 
evenienza 
l’aderente 
diventa 
parte 
del 
giudizio, in sostituzione 
del-
l’originario attore. Si 
rileva 
in dottrina, che 
il 
giudice, con ordinanza 
reclamabile, 
dovrà 
accertare 
che 
l’aderente 
-come 
il 
proponente 
-sia 
in 
grado 
di 
curare 
adeguatamente 
i 
diritti 
individuali 
omogenei 
dei 
suoi 
componenti 
e 
non versi 
in una 
situazione 
di 
conflitto di 
interessi 
(42). Nel 
caso in cui, decorso inutil


(42) ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 39-40. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


mente 
tale 
termine, 
non 
avvenga 
la 
prosecuzione 
del 
procedimento, 
il 
tribunale 
ne 
dichiara 
l’estinzione. A 
seguito dell’estinzione, resta 
comunque 
salvo il 
diritto 
all’azione 
individuale 
dei 
soggetti 
aderenti 
oppure 
all’avvio 
di 
una 
nuova 
azione di classe. 


b) Accordi 
con gli 
aderenti. In virtù dell’autonomia 
privata 
è 
possibile 
la 
conclusione 
di 
un accordo tra 
il 
resistente 
e 
tutti 
o parte 
degli 
aderenti 
per la 
bonaria definizione delle pretese. 
Conciliazione 
intervenuta 
nella 
terza 
fase 
del 
procedimento, 
ossia 
dopo 
la 
pronuncia della sentenza ex art. 840 sexies. 


a) Accordi 
con gli 
aderenti. Dopo la 
pronuncia 
della 
sentenza 
ex 
art. 840 
sexies 
definitoria 
della 
seconda 
fase 
del 
procedimento, il 
rappresentante 
comune, 
nell’interesse 
degli 
aderenti, 
può 
predisporre 
con 
l’impresa 
o 
con 
l’ente 
gestore 
di 
servizi 
pubblici 
o 
di 
pubblica 
utilità 
uno 
schema 
di 
accordo 
di 
natura 
transattiva. Ciò per tutti o alcuni aderenti. 
Lo schema 
è 
inserito nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
ed 
è 
comunicato 
all’indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
ovvero 
al 
servizio 
elettronico 
di 
recapito 
certificato 
qualificato 
indicato 
da 
ciascun 
aderente. 
Entro quindici 
giorni 
dalla 
comunicazione, ciascun aderente 
può inserire 
nel 
fascicolo 
informatico 
le 
proprie 
motivate 
contestazioni 
allo 
schema 
di 
accordo. 
Nei 
confronti 
degli 
aderenti 
che 
non 
formulano 
contestazioni 
a 
norma 
del 
presente 
comma, lo schema 
di 
accordo si 
considera 
non contestato. Entro trenta 
giorni 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
da 
ultimo 
indicato, 
il 
giudice 
delegato, 
avuto 
riguardo 
agli 
interessi 
degli 
aderenti, 
può 
autorizzare 
il 
rappresentante 
comune 
a stipulare l’accordo transattivo. 


Circa 
i 
criteri 
in base 
ai 
quali 
concedere 
l’autorizzazione, in dottrina 
si 
rileva 
che 
è 
senz’altro 
indefettibile 
la 
valutazione 
dei 
presupposti 
di 
regolarità 
formale 
dell’atto e 
di 
conformità 
dello stesso alle 
norme 
imperative 
dell’ordinamento, 
“ma non è 
chiaro se, come 
accade 
negli 
Stati 
Uniti, debba anche 
verificarsi 
che 
il 
contenuto 
dell’accordo 
non 
sia 
eccessivamente 
difforme 
dall’attualizzazione 
del 
valore 
delle 
pretese 
degli 
aderenti, e 
non sia iniquamente 
discriminatorio nei confronti di alcuni aderenti” 
(43). 


Il 
provvedimento 
del 
giudice 
delegato 
è 
inserito 
nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
di 
cui 
all’articolo 840 ter, secondo comma, ed è 
comunicato 
all’indirizzo 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
ovvero 
al 
servizio 
elettronico 
di 
recapito certificato qualificato indicato da 
ciascun aderente 
nonché 
al 
ricorrente. 
Entro 
quindici 
giorni 
dalla 
comunicazione, 
l’aderente 
che 
ha 
formulato 
le 
contestazioni 
può privare 
il 
rappresentante 
comune 
della 
facoltà 
di 
stipulare l’accordo transattivo a cui le medesime contestazioni si riferiscono. 


(43) Così 
ANDREA 
GIUSSANI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 
31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 158. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


L’accordo 
transattivo 
autorizzato 
dal 
giudice 
delegato 
e 
stipulato 
dal 
rappresentante 
comune 
costituisce 
titolo 
esecutivo 
e 
per 
l’iscrizione 
di 
ipoteca 
giudiziale 
e 
deve 
essere 
integralmente 
trascritto nel 
precetto ai 
sensi 
dell’articolo 
480, 
secondo 
comma, 
c.p.c.. 
Il 
rappresentante 
comune 
certifica 
l’autografia 
delle sottoscrizioni apposte all’accordo transattivo. 


b) Accordi 
con il 
ricorrente. Il 
ricorrente 
può aderire 
all’accordo transattivo 
entro quindici 
giorni 
dalla 
comunicazione 
del 
provvedimento del 
giudice 
delegato che 
autorizza 
il 
rappresentante 
comune 
a 
stipulare 
l’accordo transattivo; 
in tal 
caso, l’accordo transattivo costituisce 
titolo esecutivo e 
per l’iscrizione 
di ipoteca giudiziale anche in suo favore. 
Le 
disposizioni 
sugli 
accordi 
di 
natura 
transattiva 
si 
applicano, in quanto 
compatibili, 
anche 
quando 
l’azione 
è 
promossa 
da 
un’organizzazione 
o 
un’associazione, 
e l’accordo può avere riguardo anche al risarcimento del danno o 
alle 
restituzioni 
in favore 
degli 
aderenti 
che 
abbiano accettato o non si 
siano 
opposti all’accordo medesimo. 


Anche 
in 
questo 
caso 
è 
previsto 
che 
all’accordo 
non 
debbono 
partecipare 
gli 
aderenti, ma 
il 
loro rappresentante. Ovviamente, se 
l’aderente 
che 
ha 
formulato 
le 
contestazioni 
abbia 
poi 
privato 
il 
rappresentante 
comune 
della 
facoltà 
di 
stipulare 
l’accordo 
transattivo 
a 
cui 
le 
medesime 
contestazioni 
si 
riferiscono, 
la 
conciliazione 
non 
ha 
effetto 
nei 
suoi 
riguardi. 
Questi 
può 
agire 
con 
l’azione 
individuale a tutela dei propri diritti. 

13. Efficacia soggettiva ed oggettiva del 
procedimento e 
consumazione 
del-
l’azione di classe. 
Efficacia soggettiva. 


I soggetti 
coinvolti 
nel 
procedimento che 
ha 
ad oggetto l’azione 
di 
classe 
sono 
l’attore, 
il 
convenuto 
e 
gli 
aderenti 
individuati 
nel 
decreto 
di 
accertamento 
delle 
domande 
di 
adesione 
ex 
art. 840 octies, comma 
5, a 
meno che 
la 
domanda 
di 
adesione 
sia 
stata 
revocata 
prima 
che 
il 
decreto sia 
divenuto definitivo 
nei 
suoi 
confronti, 
oppure 
l’adesione 
sia 
dichiarata 
inammissibile 
o 
venga 
accertato 
che 
l’aderente 
non 
appartiene 
alla 
classe. 
In 
questa 
ultima 
evenienza 
l’aderente può proporre azione individuale. 

a) Efficacia soggettiva della sentenza definitoria della seconda fase. 
Il 
passaggio in giudicato della 
sentenza 
che 
accoglie 
la 
domanda 
collettiva, 
accertando 
che 
la 
parte 
imprenditoriale 
ha 
posto 
in 
essere 
la 
condotta 
che 
gli 
stata 
addebitata, 
ha 
efficacia 
per 
l’attore 
e 
per 
il 
convenuto. 
Non 
ha 
efficacia 
-ostandovi 
l’art. 2909 c.c. -nei 
confronti 
dei 
componenti 
la 
classe; 
tuttavia 
può 
essere 
fatto 
valere 
da 
tutti 
i 
componenti 
della 
classe, 
anche 
se 
non 
abbiano 
aderito 
nel 
corso 
della 
seconda 
fase 
nei 
confronti 
del 
resistente 
ai 
fini 
della 
determinazione del 
quantum. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Il 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 
che 
rigetta 
la 
domanda 
collettiva, 
accertando che 
la 
parte 
imprenditoriale 
non ha 
posto in essere 
la 
condotta 
che 
gli 
stata 
addebitata, ha 
anch’esso efficacia 
per l’attore 
e 
per il 
convenuto. Non 
vincola 
i 
componenti 
della 
classe 
che 
non abbiano ancora 
aderito all’azione. 
Non vincola 
neppure 
i 
componenti 
della 
classe 
che 
abbiano aderito all’azione 
prima 
della 
pronuncia 
della 
sentenza, atteso che 
gli 
stessi 
non sono coinvolti 
nell’accertamento contenuto nella sentenza (44). 


b) Efficacia soggettiva del decreto definitorio della terza fase. 
Il 
passaggio 
in 
giudicato 
del 
decreto 
emesso 
ai 
sensi 
dell’art. 
840 
septies, 
che 
pronunci 
sul 
merito della 
domanda 
proposta 
in via 
di 
adesione 
da 
un dato 
aderente, 
fa 
stato 
tra 
la 
parte 
imprenditoriale 
e 
lo 
specifico 
aderente. 
Gli 
effetti 
del 
procedimento 
non 
coinvolgono 
i 
componenti 
della 
classe 
che 
non 
abbiano 
aderito. 
Sul 
punto 
la 
disciplina 
contenuta 
nella 
L. 
n. 
31/2019 
è 
-nella 
sostanza 


- in continuità con quanto stabilito nel Codice del Consumo. 
Efficacia oggettiva. 


In continuità 
con la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, il 
giudizio 
ha 
quale 
oggetto l’accertamento della 
fondatezza 
di 
un’unica 
domanda 
di 
classe. Oggetto del 
procedimento è 
l’accertamento dell’esistenza 
(con conseguente 
condanna 
del 
convenuto) 
o 
meno 
dei 
diritti 
soggettivi 
individuali 
azionati 
con 
la 
domanda 
introduttiva 
dal 
proponente 
o 
con 
separati 
atti 
di 
adesione 
dagli 
altri 
consumatori, 
salva 
la 
revoca. 
Per 
mezzo 
dell’adesione 
i 
crediti 
dei 
soggetti 
danneggiati 
vengono cumulativamente 
dedotti 
in giudizio e 
vincolati 
dal procedimento. 

Consumazione dell’azione di classe. 


Il 
corretto esercizio del 
potere 
di 
azione 
di 
classe 
conduce 
ad una 
definizione 
del 
procedimento che 
consuma 
il 
potere 
di 
azione. Gli 
effetti 
di 
consumazione 
del 
potere 
di 
azione 
di 
classe 
colpiscono 
tanto 
la 
classe 
attiva, 
ovvero 
il 
proponente 
e 
gli 
aderenti, 
quanto 
la 
classe 
passiva, 
ovvero 
i 
componenti 
della 
classe 
non 
aderenti 
che, 
nonostante 
la 
doppia 
finestra 
di 
pubblicizzazione 
dell’azione di classe, abbiano ritenuto di non aderire al giudizio. 

Circa 
la 
classe 
attiva, si 
rileva 
che 
l’adesione 
comporta 
-oltreché 
l’improponibilità 
di 
una 
autonoma 
azione 
di 
classe 
-la 
rinuncia 
a 
ogni 
azione 
restitutoria 
o 
risarcitoria 
individuale 
fondata 
sul 
medesimo 
titolo, 
come 


(44) In tal 
senso ChIARA 
PETRILLO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura 
di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 53 e 
ANDREA 
GIUSSANI, La riforma dell’azione 
di 
classe, 
cit., p. 1578. In 
senso 
contrario 
ANGELO 
DANILO 
DE 
SANTIS, in Class 
action. Commento sistematico 
alla 
legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura 
di 
BRUNO 
SASSANI, cit., p. 119 secondo cui 
la 
sentenza 
di 
rigetto vincola 
coloro che abbiano aderito già nella fase di cognizione. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


confermato 
dall’ultimo 
comma 
dell’art. 
840 
undecies, 
secondo 
cui 
“L’aderente 
può proporre 
azione 
individuale 
a condizione 
che 
la domanda di 
adesione 
sia stata revocata prima che 
il 
decreto sia divenuto definitivo nei 
suoi 
confronti”. 


Circa 
la 
classe 
passiva, si 
rileva 
che 
la 
pubblicità 
della 
proposizione 
del-
l’azione 
di 
classe 
preclude 
ai 
componenti 
la 
classe 
la 
proposizione 
autonoma 
della 
stessa 
azione 
di 
classe, 
come 
confermato 
dall’art. 
840 
quater 
soprariportato. 
Il 
componente 
la 
classe 
può 
agire 
solo 
con 
l’ordinaria 
azione 
individuale. 


Si 
deve 
ritenere 
che, nel 
caso in cui 
il 
processo sull’azione 
di 
classe 
non 
si 
definisca 
con 
la 
sentenza 
che 
pronunci 
sul 
merito 
delle 
pretese 
del 
ricorrente 
oppure 
-con riguardo alle 
pretese 
degli 
aderenti 
-con il 
decreto che 
pronunci 
sul 
merito 
delle 
domande 
di 
adesione, 
l’azione 
di 
classe 
e 
le 
azioni 
individuali 
siano nuovamente proponibili. 

Sicché 
l’azione 
di 
classe 
-oltreché, ovviamente, le 
azioni 
individuali 
-è 
proponibile 
ex 
novo 
se 
il 
giudizio diretto all’accertamento dell’an 
si 
definisce 
con una 
sentenza 
processuale, idonea 
a 
passare 
solo in cosa 
giudicata 
formale 
ex 
art. 324 c.p.c., quale 
una 
sentenza 
che 
chiuda 
il 
giudizio in rito (dichiarazione 
di 
inammissibilità 
per carenza 
dei 
presupposti 
processuali 
o delle 
condizioni 
dell’azione 
o per nullità, oppure 
dichiarazione 
di 
improcedibilità 
o di 
estinzione 
del 
processo). Tanto è 
confermato dall’ultimo comma 
dell’art. 840 
bis, 
che 
dispone, 
tra 
l’altro, 
che 
“A 
seguito 
dell’estinzione, 
resta 
comunque 
salvo il 
diritto all’azione 
individuale 
dei 
soggetti 
aderenti 
oppure 
all’avvio di 
una nuova azione di classe”. 


Le 
azioni 
individuali, da 
parte 
degli 
aderenti, sono proponibili 
nel 
caso 
in cui 
non si 
giunga 
-nella 
terza 
fase 
del 
procedimento -alla 
adozione 
del 
decreto 
che pronunci sulle domande di adesione. 


14. Finalità della azione di classe. 
Deve 
registrarsi 
continuità 
con 
la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo 
circa 
le 
finalità 
collegate 
alla 
proposizione 
dell’azione 
di 
classe. 
Con 
l’azione 
di 
classe 
si 
ha 
quale 
obiettivo 
a) 
la 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale; 
b) 
la 
deterrenza 
rispetto 
a 
condotte 
dannose; 
c) 
l’economia 
processuale 
(45). 


a) Effettività della tutela giurisdizionale. 
La 
tutela 
collettiva 
risarcitoria, 
rispetto 
ad 
un 
giudizio 
individuale, 
dovrebbe 
conseguire 
in primo luogo lo scopo di 
innalzare 
il 
grado di 
effettività 
della tutela giurisdizionale. Ciò in una duplice direzione. 


(45) Così 
ROMOLO 
DONzELLI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, 
n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 23. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


In 
primo 
luogo, 
sul 
piano 
giurisdizionale 
la 
tutela 
collettiva 
risarcitoria 
tende 
a 
consentire 
l’emersione 
di 
un 
contenzioso, 
che, 
in 
assenza 
di 
strumenti 
collettivi, 
ovvero 
mediante 
la 
tradizionale 
tutela 
individuale, 
rimane 
in 
genere 
latente. 
L’elemento 
che 
più 
di 
ogni 
altro 
caratterizza 
queste 
controversie 
è 
la 
forte 
disparità 
di 
posizione 
tra 
parte 
professionale 
e 
singolo 
individuo; 
difatti, 
realizzatosi 
l’illecito, 
il 
vantaggio 
economico 
globale, 
ovvero 
aggregato, 
che 
l’autore 
della 
condotta 
antigiuridica 
è 
in 
grado 
di 
conseguire 
è 
decisamente 
elevato, 
ma 
di 
contro 
il 
vantaggio 
economico 
che 
ciascun 
soggetto 
può 
ottenere 
da 
una 
eventuale 
vittoria 
è 
troppo 
esiguo 
per 
giustificare 
i 
costi 
che 
dovrebbe 
sobbarcarsi 
per 
affrontare 
il 
giudizio. 
In 
questo 
contesto, 
dunque, 
la 
tutela 
collettiva 
tende 
a 
compensare 
la 
posizione 
di 
svantaggio 
del 
singolo 
rispetto 
alla 
parte 
professionale, 
poiché 
l’accertamento 
collettivo 
delle 
diverse 
pretese 
sorte 
in 
conseguenza 
dell’illecito, 
compensa 
l’asimmetria 
ora 
indicata, 
in 
quanto 
rende 
più 
vantaggioso 
il 
giudizio 
abbattendone 
i 
costi 
relativi. 


In secondo luogo, l’azione 
collettiva 
può consentire 
di 
superare 
la 
diversità 
di 
forza 
processuale 
delle 
parti 
in liti 
che 
coinvolgono rilevanti 
beni 
giuridici, 
nelle 
quali 
la 
pretesa 
del 
danneggiato assume 
un valore 
significativo se 
non 
anche 
elevato. 
A 
fronte 
di 
questa 
situazione 
si 
realizza 
comunque 
un’asimmetria 
tra 
singolo 
e 
professionista 
in 
riferimento 
alle 
difficoltà 
di 
gestione 
della 
controversia 
e 
in 
riferimento 
alla 
conseguente 
incertezza 
circa 
l’esito 
del 
giudizio, sicché, anche 
in questa 
ipotesi, i 
soggetti 
lesi 
possono parimenti 
nutrire 
una 
scarsa 
propensione 
ad adire 
la 
via 
giurisdizionale. Ciò che 
determina 
il 
fenomeno ora 
indicato è 
la 
complessità 
delle 
questioni 
giuridiche 
appartenenti 
alla 
causa; 
complessità 
che 
può interessare 
questioni 
in punto di 
diritto, 
ma 
più 
frequentemente 
riguarda 
l’accertamento 
del 
fatto, 
come 
sovente 
accade 
in riferimento alla 
verifica 
della 
sussistenza 
del 
nesso di 
causalità 
materiale. 
Sussiste 
una 
disparità 
di 
forze 
tra 
il 
soggetto attivo e 
il 
soggetto passivo del 
rapporto. 
Il 
danneggiante 
possiede, 
infatti, 
un 
maggiore 
bagaglio 
di 
conoscenze 
rispetto al 
singolo soggetto pregiudicato, in quanto è 
naturalmente 
più 
informato 
riguardo 
agli 
aspetti 
tecnici 
e 
giuridici 
che 
interessano 
lo 
svolgimento 
della 
propria 
attività 
professionale 
ed in ogni 
caso ha 
maggiori 
possibilità 
economiche 
per 
acquisire 
le 
ulteriori 
conoscenze 
necessarie 
per 
affrontare 
la 
difesa 
in giudizio. Significative 
esemplificazioni 
di 
questa 
tipologia 
di 
controversie 
sono le 
cause 
riguardanti 
il 
danno da 
fumo o le 
controversie 
relative 
all’assunzione 
di 
medicinali 
nocivi 
o sostanze 
tossiche, nelle 
quali 
tra 
la 
causa 
e 
la 
produzione 
dell’evento 
dannoso 
può 
intercorrere 
un 
ampio lasso temporale 
che 
rende 
meno visibile 
la 
relazione 
sussistente 
tra 
i 
due 
elementi 
della 
catena 
causale, 
consentendo 
inoltre 
che 
ulteriori 
fattori 
possano 
concorrere 
nella 
produzione 
dell’evento. Se 
ben strutturata, nonché 
adeguatamente 
supportata 
sul 
piano 
degli 
incentivi 
e 
degli 
strumenti 
idonei 
ad 
acquisire 
le 
informazioni 
necessarie 
al 
processo, 
l’azione 
collettiva 
avrà, 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


quindi, 
anche 
in 
queste 
ipotesi, 
il 
compito 
di 
riallineare 
le 
posizioni 
dei 
soggetti 
coinvolti nell’illecito. 


I diritti 
che 
con difficoltà 
avrebbero ricevuto tutela 
all’interno di 
giudizi 
individuali 
vedono accrescere 
le 
possibilità 
di 
ricevere 
la 
dovuta 
protezione 
all’interno del 
giudizio collettivo, con effetti 
positivi 
in termini 
di 
effettività 
della tutela giurisdizionale. 


b) Deterrenza rispetto a condotte dannose. 
La 
tutela 
collettiva 
può svolgere 
un ruolo di 
deterrenza. Difatti, aumentando 
le 
possibilità 
che 
eventuali 
illeciti 
vengano 
effettivamente 
sanzionati 
secondo 
le 
regole 
che 
l’ordinamento 
impone, 
si 
realizza 
un 
evidente 
effetto 
conformativo 
delle 
condotte 
materiali. 
In 
altri 
termini 
l’azione 
collettiva 
risarcitoria 
ha 
un 
effetto 
deterrente, 
che 
rafforza 
la 
precettività 
delle 
disposizioni 
sostanziali che tutelano gli interessi dei soggetti coinvolti. 


c) Economia processuale. 
La 
tutela 
collettiva 
risarcitoria 
risponde, poi, alla 
fondamentale 
esigenza 
di 
conseguire 
significativi 
risultati 
deflattivi 
del 
contenzioso 
giudiziale 
seriale. 
La 
trattazione 
e 
la 
decisione 
congiunta 
di 
una 
pluralità 
di 
controversie 
realizza, 
infatti, una 
efficienza 
processuale 
che 
fa 
preferire 
un giudizio collettivo unico 
ad infiniti giudizi individuali. 


15. Azione inibitoria collettiva. 
L’azione 
inibitoria 
collettiva 
è 
disciplinata 
già 
dal 
Codice 
del 
Consumo 
(art. 
140 
D.Lgs. 
n. 
206/2005). 
La 
nuova 
disciplina 
-contenuta 
nell’art. 
840 
sexiesdecies 
-è 
più completa. A 
tal 
fine 
si 
evidenzia: 
viene 
estesa 
la 
legittimazione 
attiva 
anche 
al 
singolo 
individuo, 
laddove 
nella 
precedente 
disciplina 
l’azione 
spettava 
solo alle 
associazioni 
dei 
consumatori 
e 
degli 
utenti; 
si 
applica 
la 
disciplina 
del 
procedimento 
in 
camera 
di 
consiglio; 
i 
diritti 
tutelati 
con 
l’azione 
inibitoria 
non sono più collegati 
alla 
tutela 
del 
consumatore, ma 
riguardano 
-in via 
generale 
-tutti 
i 
diritti 
spettanti 
in modo omogeneo ad una 
pluralità 
di 
persone; 
viene 
meglio disciplinata 
l’astraintes 
collegata 
all’accoglimento 
dell’azione, con l’applicazione 
della 
misura 
coercitiva 
generale 
del-
l’art. 
614 
bis 
c.p.c. 
Per 
il 
resto, 
la 
disciplina 
non 
si 
discosta 
da 
quella 
contenuta 
nel Codice del Consumo. 


Legittimazione attiva. 


a) 
Singolo 
individuo 
Si 
prevede 
che 
chiunque 
abbia 
interesse 
alla 
pronuncia 
di 
una 
inibitoria 
di 
atti 
e 
comportamenti, posti 
in essere 
in pregiudizio 
di 
una 
pluralità 
di 
individui 
o 
enti, 
può 
agire 
per 
ottenere 
l’ordine 
di 
cessazione 
o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva. 
Il 
singolo 
individuo 
agisce 
iure 
proprio, 
in 
forza 
della 
affermata 
titolarità 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


di 
un diritto o di 
un interesse 
che 
egli 
ha 
sul 
piano sostanziale 
prima 
e 
a 
prescindere 
dalla 
previsione 
di 
cui 
all’art. 840 sexiesdecies. 
Si 
consente, quindi, 
al 
singolo individuo di 
ottenere 
un ordine 
di 
cessazione 
o divieto di 
reiterazione 
di 
condotte 
omissive 
o 
commissive 
riguardanti 
una 
pluralità 
di 
individui 


o enti: 
nell’agire 
per la 
propria 
situazione 
sostanziale, l’individuo ottiene 
una 
tutela 
inibitoria 
a 
proprio vantaggio, ma, una 
volta 
attuata, anche 
a 
vantaggio 
di tutti gli altri coinvolti dagli stessi comportamenti (46). 
b) Enti 
esponenziali. Le 
organizzazioni 
o le 
associazioni 
senza 
scopo di 
lucro, 
i 
cui 
obiettivi 
statutari 
comprendano 
la 
tutela 
degli 
interessi 
pregiudicati 
dalla 
condotta 
di 
cui 
al 
primo 
periodo, 
sono 
legittimate 
a 
proporre 
l’azione 
qualora iscritte nell’elenco di cui all’articolo 840 bis, secondo comma, c.p.c. 
Anche 
gli 
enti 
esponenziali 
agiscono 
iure 
proprio, 
ma 
grazie 
alla 
creazione 
di 
una 
loro situazione 
sostanziale 
da 
parte 
della 
norma 
stessa, sulla 
base 
dello scopo statutario e dell’iscrizione nell’elenco. 


Legittimazione passiva. 


L’azione 
può essere 
esperita 
nei 
confronti 
di 
imprese 
o di 
enti 
gestori 
di 
servizi 
pubblici 
o 
di 
pubblica 
utilità 
relativamente 
ad 
atti 
e 
comportamenti 
posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività. 


Rispetto 
alle 
disposizioni 
previgenti 
non 
vengono 
considerati 
i 
professionisti. 
Tuttavia, come 
già 
per l’azione 
di 
classe, si 
può intendere 
in senso lato 
il concetto di impresa ed includervi anche i professionisti. 


Procedimento camerale. 


La 
domanda 
si 
propone 
con 
le 
forme 
del 
procedimento 
camerale, 
regolato 
dagli 
articoli 
737 e 
seguenti 
c.p.c., in quanto compatibili, esclusivamente 
dinanzi 
alla 
sezione 
specializzata 
in materia 
di 
impresa 
competente 
per il 
luogo 
dove 
ha 
sede 
la 
parte 
resistente. Si 
applica 
l’articolo 840 quinquies, c.p.c. in 
quanto compatibile. 

Con la 
condanna 
alla 
cessazione 
della 
condotta 
omissiva 
o commissiva, 
il 
tribunale 
può, 
su 
istanza 
di 
parte, 
adottare 
i 
provvedimenti 
di 
cui 
all’articolo 
614 bis 
c.p.c. in tema 
di 
misure 
di 
coercizione 
indiretta, anche 
fuori 
dei 
casi 
ivi 
previsti. Con la 
condanna 
alla 
cessazione 
della 
condotta 
omissiva 
o commissiva, 
il 
tribunale 
può, su richiesta 
del 
pubblico ministero o delle 
parti, ordinare 
che 
la 
parte 
soccombente 
adotti 
le 
misure 
idonee 
ad eliminare 
o ridurre 
gli 
effetti 
delle 
violazioni 
accertate. Il 
giudice, su istanza 
di 
parte, condanna 
la 
parte 
soccombente 
a 
dare 
diffusione 
al 
provvedimento, 
nei 
modi 
e 
nei 
tempi 
definiti 
nello 
stesso, 
mediante 
utilizzo 
dei 
mezzi 
di 
comunicazione 
ritenuti 
più 
appropriati. 


(46) DAVIDE 
AMADEI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 230-234. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Caratteri del provvedimento definitorio del giudizio e sua impugnazione. 


Il 
legislatore 
non 
individua 
la 
forma 
del 
provvedimento 
definitorio 
del 
giudizio, 
ma 
fa 
riferimento 
solo 
al 
contenuto. 
Si 
ritiene 
in 
dottrina 
che 
la 
forma 
sia 
quella 
della 
sentenza, venendo in rilievo uno strumento a 
tutela 
dei 
diritti. 

È 
orientamento 
consolidato 
che 
-come 
eccezione 
alla 
regola 
secondo 
cui 
il 
provvedimento 
definitorio 
del 
procedimento 
di 
volontaria 
giurisdizione 
è 
inidoneo 
al 
giudicato 
-in 
date 
circostanze 
il 
provvedimento 
può 
passare 
in 
giudicato. Ciò si 
ha 
quando lo stesso pronuncia 
in modo definitivo su diritti 
soggettivi, come ad esempio quando pronuncia sulle spese (47). 


La 
sentenza 
definitoria 
dell’azione 
inibitoria 
rientra 
nei 
casi 
eccezionali 
in cui 
vi 
è 
l’idoneità 
al 
giudicato. Sicché, tale 
sentenza 
è 
irrevocabile 
ed immodificabile 
da 
parte 
del 
giudice 
che 
l’ha 
emessa 
(al 
contrario del 
decreto camerale 
ex 
art. 
742 
c.p.c.), 
è 
idonea 
alla 
stabilità 
della 
cosa 
giudicata 
ed 
è 
appellabile 
dinanzi 
alla 
Corte 
d’Appello nel 
cui 
distretto sta 
il 
tribunale 
delle 
imprese 
che 
ha 
deciso, e 
inoltre, trattandosi 
di 
provvedimento su diritti, potenzialmente 
definitivo, è ricorribile per cassazione (48). 


Rapporti con l’azione di classe. 


Il 
legislatore 
vuole 
tenere 
ben 
separata 
l’azione 
inibitoria 
da 
quella 
di 
classe. 
È 
stato 
previsto 
che 
“Quando 
l’azione 
inibitoria 
collettiva 
è 
proposta 
congiuntamente 
all’azione 
di 
classe, 
il 
giudice 
dispone 
la 
separazione 
delle 
cause”. 
Probabilmente 
si 
è 
immaginato 
e 
temuto 
che 
l’inibitoria 
potesse 
appesantire 
il 
procedimento 
di 
classe, 
se 
le 
due 
tutele 
fossero 
state 
richieste 
insieme 
ed 
il 
giudice 
avesse 
dovuto 
affrontarle 
entrambe 
nella 
stessa 
sentenza 
(49). 


16. Comparazione 
tra la disciplina della class 
action nel 
diritto statunitense 
e l’azione di classe italiana. 
Uno sguardo d’insieme 
sulla 
disciplina 
della 
class 
action 
nel 
diritto statunitense 
(50) e 
dell’azione 
collettiva 
risarcitoria 
italiana 
(51) consente 
di 
ri


(47) Sul 
punto GIAMPIERO 
BALENA, 
Istituzioni 
di 
diritto processuale 
civile, III vol., IV 
edizione, 
Bari, Cacucci editore, 2017, p. 342. 
(48) DAVIDE 
AMADEI 
in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 237-238. 
(49) DAVIDE 
AMADEI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, a 
cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 241. 
(50) Per un primo quadro informativo: 
GEOFFREy 
C. hAzARD 
-MIChELE 
TARUFFO, La giustizia 
civile 
negli 
Stati 
Uniti, Bologna, Il 
Mulino, 1993, pp. 187-190; 
MIChELE 
TARUFFO, Diritto processuale 
civile 
nei 
paesi 
anglosassoni, 
in 
Digesto 
delle 
discipline 
privatistiche, 
sez. 
civ., 
VI, 
UTET, 
Torino, 
1989, 
pp. 340 e 
ss.; 
ANDREA 
GIUSSANI, Studi 
sulle 
“class 
actions”, Padova, CEDAM, 1996; 
SARA 
ALICE 
PERERA, 
La 
class 
action 
negli 
Stati 
Uniti, 
Dipartimento 
di 
scienze 
giuridiche 
-CERADI 
-Centro 
di 
ricerca 
per il diritto d’impresa, LUISS Guido Carli, giugno 2007. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


levare 
immediatamente 
che 
i 
connotati 
della 
disciplina 
italiana 
sulla 
materia 
risentono del modello degli USA. 

Difatti, la 
proposizione 
di 
una 
azione 
collettiva, il 
filtro di 
ammissibilità, 
la 
decisione 
estesa 
-potenzialmente 
-alla 
classe, sono tecniche 
della 
nostra 
legislazione in materia che ricalcano il modello base. 

Ruolo delle azioni collettive nei sistemi processuali statunitense ed italiano. 


Le 
azioni 
collettive 
negli 
Stati 
Uniti 
sono 
presenti 
ormai 
da 
molti 
anni 
nell’ordinamento; 
già 
nel 
XIX 
sec. Joseph Story, padre 
della 
giustizia 
statunitense 
noto 
con 
il 
soprannome 
di 
Justice 
Story, 
ritenne 
ammissibile 
la 
class 
action, 
quale eccezione alla 
Necessary Parties Rule. 


La 
disciplina 
è 
regolata, 
attualmente 
a 
livello 
federale, 
dalla 
Rule 
23 
delle 
Federal 
Rules 
of 
Civil 
Procedure 
del 
1938, ma 
essa 
è 
stata 
introdotta 
fin dal 
1842. 
L’Equity 
Rule 
48 
prevedeva 
che 
qualora 
una 
lite 
coinvolgesse 
un 
ampio 
numero 
di 
parti, 
si 
potesse 
procedere 
senza 
che 
tutte 
fossero 
presenti, 
sulla 
base 
del 
principio 
di 
rappresentatività. 
Il 
giudicato 
non 
era 
però 
vincolante 
per 
gli 
assenti. Nel 
1912 l’Equity 
Rule 
38 andò a 
sostituire 
la 
precedente 
Rule 
48. 
In questa 
nuova 
versione 
la 
class 
action 
non solo aveva 
effetto per coloro che 
vi avevano preso parte, ma anche nei confronti degli assenti (52). 


Vi 
sono, 
inoltre, 
norme 
speciali 
disciplinanti 
le 
azioni 
collettive 
in 
materie 
particolari, come 
le 
previsioni 
contenute 
nello Sherman Act 
del 
1890, nel 
Securities 
Act 
del 
1993 e 
nel 
Securities 
Exchange 
Act 
del 
1934, nella 
section 27 
del 
Private Securities Litigation Reform 
Act 
del 1995. 


Il 
fenomeno 
delle 
class 
actions 
costituisce 
uno 
dei 
punti 
fondamentali 
del 
sistema 
processuale 
nordamericano. Esso consente 
infatti, grazie 
alla 
flessibilità 
delle 
norme 
e 
alla 
creatività 
delle 
corti, 
di 
fornire 
efficaci 
forme 
di 
tutela 
alle 
varie 
situazioni 
a 
rilevanza 
sovraindividuale 
che 
emergono nei 
settori 
più 
vari 
della 
società; 
d’altra 
parte, 
e 
proprio 
per 
questa 
ragione, 
esso 
ha 
fatto 
emergere 
i 
limiti 
della 
concezione 
individualistica 
della 
giustizia 
civile, 
dando 
luogo 
ad 
un 
modello 
diverso 
di 
processo 
che 
rappresenta 
il 
momento 
evolutivo 
più rilevante dell’ordinamento statunitense (53). 


In Italia, diversamente 
dall’esperienza 
statunitense, l’introduzione 
delle 
azioni 
collettive 
nell’ordinamento giuridico è 
recente, con l’inserimento, nel 
2007, dell’art. 140 
bis 
nel 
Codice 
del 
Consumo (D.Lgs. 6 settembre 
2005, n. 
206). 

(51) Per un primo quadro informativo: 
ROMOLO 
DONzELLI, L’azione 
di 
classe 
a tutela dei 
consumatori, 
Napoli, 
Jovene, 
2011; 
BRUNO 
SASSANI 
(a 
cura 
di), 
Class 
action. 
Commento 
sistematico 
alla 
legge 12 aprile 2019, n. 31, cit. 
(52) 
Sugli 
sviluppi 
storici 
della 
class 
action 
negli 
U.S.A., 
in 
sintesi: 
SARA 
ALICE 
PERERA, 
La 
class 
action negli Stati Uniti, cit. 
(53) 
Su 
tali 
aspetti: 
MIChELE 
TARUFFO, 
Diritto 
processuale 
civile 
nei 
paesi 
anglosassoni, 
in 
Digesto 
delle discipline privatistiche, sez. civ., cit., pp. 340 e ss. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La 
disciplina 
contenuta 
nel 
codice 
del 
consumo ha 
avuto una 
scarsa 
applicazione 
in 
giurisprudenza. 
A 
comprova 
di 
ciò, 
le 
sentenze 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
sono, in un decennio di 
applicazione, appena 
una 
decina 
(54), intervenute 
-per la 
maggior parte 
-a 
dichiarare 
la 
inammissibilità 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
l’ordinanza-filtro. 
Le 
cause 
di 
tale 
insuccesso 
sono 
molteplici. 


In primo luogo la 
complessità 
e 
la 
novità 
del 
procedimento ha 
impedito 
una 
diffusa 
applicazione 
del 
rito. Si 
tratta, infatti, di 
un rito differenziato sostanzialmente 
nuovo 
nel 
nostro 
ordinamento 
giuridico, 
ispirato 
ad 
un 
modello, 
quello degli 
USA, collaudato da 
un paio di 
secoli 
in un ambiente 
giuridico diverso 
dal 
nostro sotto svariati 
aspetti, tra 
cui 
il 
meccanismo di 
selezione 
dei 
giudici, la 
presenza 
della 
giuria, l’esistenza 
di 
grandi 
studi 
professionali 
con 
attitudini imprenditoriali. 


Altra 
causa 
sono i 
notevoli 
costi 
che 
deve 
anticipare 
l’attore 
al 
fine 
di 
acquisire 
la 
complessa 
prova 
dei 
fatti 
costitutivi 
dell’azione, specie 
con consulenze 
di 
parte, in uno al 
carico dell’anticipazione 
delle 
spese 
della 
consulenza 
tecnica 
di 
ufficio. 
A 
ciò 
si 
aggiunga 
la 
circostanza 
che 
a 
poter 
proporre 
l’azione 
di 
classe 
è 
unicamente 
il 
singolo componente 
la 
classe 
e 
non anche 
un ente 
esponenziale 
degli 
interessi 
collettivi, 
che 
è 
solitamente 
solido 
finanziariamente. 
Ove 
quest’ultimo potesse 
agire, vi 
sarebbe 
evidentemente 
uno stimolo 
maggiore all’attivazione dell’azione di classe. 


Inoltre, ha 
inciso sull’insuccesso l’assenza 
di 
incentivi 
all’avvocato patrocinatore 
nell’azione 
di 
classe, congiunta 
alla 
circostanza 
che 
l’avvocato in 
Italia, in gran parte, lavora 
in modo individuale. Sono assenti, in sostanza, nel 
nostro Paese 
i 
grandi 
studi 
d’oltreoceano, con centinaia 
di 
avvocati, dotati 
di 
spiccata 
capacità 
imprenditoriale 
nell’individuare 
la 
convenienza 
-sul 
piano 
dei 
compensi 
ai 
componenti 
la 
classe 
e 
sul 
piano del 
compenso professionale 


-ad attivare 
l’azione 
di 
classe, procacciandosi 
gli 
adeguati 
finanziamenti. Sul 
punto 
autorevole 
dottrina 
evidenzia 
che 
“il 
sistema 
dell’azione 
di 
classe 
si 
può 
dimostrare 
efficiente 
soprattutto 
a 
causa 
delle 
implicazioni 
che 
comporta 
sul 
piano 
degli 
incentivi 
laddove 
si 
accompagni, 
anche 
se 
solo 
indirettamente, 
a un più sofisticato regime 
di 
responsabilità per 
le 
spese 
che, pur 
non necessariamente 
prevedendo che 
la parte 
attrice 
risponda per 
la soccombenza, soprattutto 
contempli 
che 
in caso di 
soccombenza del 
convenuto, ma solo in tal 
caso, 
la 
quantificazione 
degli 
onorari 
a 
suo 
carico 
sia 
incrementata 
in 
ragione 
(54) Cass. civ. Sez. III, sentenza 
31 maggio 2019, n. 14886; 
Cass. civ. Sez. I, sentenza 
15 maggio 
2019, n. 12997; 
Cass. civ. Sez. III, sentenza, 23 ottobre 
2018, n. 26725; 
Cass. civ. Sez. III, ordinanza 
23 
marzo 2018, n. 7244; 
Cass. civ. Sez. VI -3, ordinanza, 23 marzo 2017, n. 7504; 
Cass. civ. Sez. Unite, 
sentenza 
1 febbraio 2017, n. 2610; 
Cass. civ. Sez. VI -3 ordinanza, 25 gennaio 2017, n. 1925; 
Cass. civ. 
Sez. I, sentenza, 21 novembre 
2016, n. 23631; 
Cass. civ. Sez. Unite, ordinanza 
30 settembre 
2015, n. 
19453; 
Cass. civ. Sez. Unite, ordinanza 
30 settembre 
2015, n. 19454; 
Cass. civ. Sez. III, ordinanza 
24 
aprile 2015, n. 8433; Cass. civ. Sez. I, sentenza, 14 giugno 2012, n. 9772. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


dell'ampiezza del 
gruppo interessato: tale 
meccanismo, infatti, assicura una 
più 
efficiente 
allocazione 
delle 
risorse 
giurisdizionali 
accentuando 
la 
rilevanza 
dell'apparenza 
di 
fondatezza 
della 
domanda 
nella 
scelta 
dell'iniziativa 
processuale” 
(55). 


In conseguenza 
del 
sostanziale 
fallimento della 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, 
più 
volte 
i 
vari 
governi 
succedutisi 
negli 
anni 
hanno 
proposto 
diverse 
modifiche 
normative 
(56), 
sfociate 
poi 
nella 
novella 
(57) 
operata 
con 
L. 
12 
aprile 
2019, 
n. 
31, 
finalizzata 
alla 
sostituzione 
della 
regolazione 
precedente, ampliandola 
e 
migliorandola. La 
novella 
operata 
con la 
legge 
n. 
31/2019 non è 
ancora 
entrata 
in vigore 
(l’entrata 
in vigore 
è 
prevista 
per il 
19 
novembre 2020). 

Rispetto alla 
disciplina 
sostituita 
vi 
è 
-a 
grandi 
tratti 
-una 
continuità 
di 
impostazione. Ad esempio, non viene 
alterato il 
meccanismo dell’opt-in. Vi 
è, 
tuttavia, 
un 
miglioramento 
di 
disciplina, 
ancorché 
la 
dottrina 
-nei 
primi 
commenti - sottolinea comunque la insufficienza della stessa (58). 


In continuità 
con il 
Codice 
del 
Consumo, viene 
predisposto, per le 
controversie 
coinvolte 
nell’azione 
di 
classe, 
un 
rito 
speciale 
in 
ossequio 
al 
canone 
della c.d. tutela differenziata. 


Incidenza dell’ambiente giuridico sulla dinamica delle azioni collettive. 


Sia 
nel 
sistema 
americano sia 
in quello italiano, le 
azioni 
collettive 
si 
caratterizzano 
per la 
complessità 
del 
procedimento. Complessità 
soggettiva, in 
ragione 
dei 
soggetti 
coinvolti. Complessità 
anche 
oggettiva, in ragione 
delle 
fasi del procedimento. 


In 
tale 
contesto, 
il 
tipo 
di 
ambiente 
giuridico 
nel 
quale 
l’azione 
è 
esercitata 
è 
da 
ritenersi 
decisivo 
per 
il 
successo 
e 
per 
l’utilizzo 
dell’azione 
collettiva. 
Per ambiente 
giuridico si 
intende 
la 
posizione 
ed il 
ruolo del 
giudice 
e 
dei 
difensori. 


Circa 
il 
ruolo del 
giudice, molto differente 
il 
criterio di 
selezione 
dei 
giudici 
negli Stati Uniti ed in Italia. 


(55) 
Così 
ANDREA 
GIUSSANI, 
Le 
azioni 
di 
classe 
dei 
consumatori 
dalle 
esperienze 
statunitensi 
agli 
sviluppi europei, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1, 2019, pp. 160-161. 
(56) GIULIO 
PONzANELLI, 
La nuova class action, in Danno e resp., 2019, 3, pp. 306 e ss. 
(57) Mediante 
una 
integrazione 
del 
codice 
di 
procedura 
civile 
(inserimento degli 
articoli 
da 
840 
bis 
a 840 sexiesdecies). 
(58) In dottrina 
si 
rileva 
che 
la 
legge 
n. 31/2019 è 
una 
legge 
complessa, scritta 
in modo confuso, 
che 
come 
tale 
necessita 
di 
essere 
integrata 
con una 
serie 
di 
osservazioni 
e 
precisazioni; 
si 
rileva 
ancora 
che, essendo il 
codice 
di 
procedura 
civile 
composto di 
840 articoli, non è 
chiara 
la 
ragione 
per la 
quale 
il 
legislatore 
abbia 
inserito nel 
codice 
gli 
articoli 
da 
840 bis 
a 
840 sexiesdecies, e 
non abbia 
semplicemente 
proseguito 
nella 
numerazione 
dall’art. 
841 
all’art. 
855 
(in 
tal 
senso: 
GIULIANO 
SCARSELLI, 
La 
nuova azione 
di 
classe 
di 
cui 
alla legge 
12 aprile 
2019 n. 31, in Judicium. 
In senso analogo ANTONIO 
Carratta, La class 
action riformata -I nuovi 
procedimenti 
collettivi: considerazioni 
a prima lettura, in 
Giur. It. 2019, 10, pp. 2297 e ss.). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


In Italia, come 
nella 
maggior parte 
dei 
paesi 
del 
mondo, il 
potere 
giudiziario 
è 
politicamente 
neutrale. 
I 
giudici 
vengono 
nominati 
con 
metodi 
non 
politici. 
Difatti, 
di 
regola, 
si 
può 
accedere 
alla 
carriera 
giudiziaria 
tramite 
concorso 
pubblico, 
al 
quale 
può 
partecipare 
solo 
chi 
è 
laureato 
in 
Giurisprudenza. 
Tanto emerge 
dai 
principi 
costituzionali 
(artt. 101, comma 
2; 
104, comma 
1; 
106, comma 1; 107, comma 1; 111, comma 2, Cost.) (59). 


I giudici, quindi, sono asettici 
rispetto al 
potere 
politico. Si 
è 
osservato 
che 
il 
giudice 
dovrebbe 
essere 
come 
la 
moglie 
di 
Cesare, 
ossia 
non 
deve 
essere 
neanche sospettato (60). 


Diversamente 
dall’ordinamento 
giuridico 
italiano, 
i 
metodi 
di 
nomina 
dei 
giudici 
negli 
Stati 
Uniti 
sono tipicamente 
politici. I controlli 
politici 
sulla 
nomina 
e 
la 
promozione 
dei 
giudici 
funzionano 
come 
limiti 
democratici 
dell’autonomia 
del 
potere 
giudiziario. La 
nomina 
dei 
giudici 
federali 
è 
prevista 
dalla 
Costituzione 
federale. I giudici 
della 
Corte 
Suprema 
federale 
sono nominati 
dal 
Presidente 
degli 
Stati 
Uniti 
e 
devono 
essere 
confermati 
dal 
Senato 
con 
una 
maggioranza 
di 
due 
terzi. 
La 
nomina 
dei 
giudici 
delle 
corti 
federali 
distrettuali 
e 
d’appello 
avviene 
secondo 
modalità 
analoghe 
(nomina 
del 
Presidente 
e 
conferma 
del Senato). 


Dunque, 
almeno 
teoricamente, 
il 
Presidente 
potrebbe 
nominare 
chiunque, 
senza 
tenere 
conto 
della 
qualificazione 
professionale. 
Nella 
realtà, 
vengono 
nominati 
giuristi 
che 
hanno svolto un’effettiva 
attività 
professionale 
pubblica 


o privata, raramente 
per meno di 
dieci 
anni. In quasi 
tutti 
i 
casi 
i 
giudici 
della 
Corte 
Suprema 
vengono 
nominati 
tra 
gli 
appartenenti 
al 
partito 
politico 
del 
Presidente. Tradizionalmente 
i 
giudici 
distrettuali 
vengono scelti 
tra 
i 
giudici 
e 
gli 
avvocati 
del 
distretto 
per 
cui 
avviene 
la 
nomina. 
La 
stessa 
tradizione 
vale 
in genere anche per le Corti di appello. 
Da 
quanto appena 
osservato, si 
evince 
dunque 
che 
la 
base 
della 
formazione 
professionale 
dei 
giudici 
è 
nella 
pratica 
del 
diritto, 
soprattutto 
nella 
qualità 
di 
avvocati 
e 
pubblici 
ministeri. 
La 
loro 
nomina 
è 
compiuta 
da 
organi 
politici 
che 
nelle 
loro scelte 
tengono conto di 
fattori 
politici. In pratica 
la 
possibilità 
di 
essere 
candidati 
per la 
nomina 
presuppone 
esperienza 
in politica 
o 
in attività pubbliche (61). 


(59) 
Sulle 
garanzie 
costituzionali 
della 
magistratura 
italiana 
ex 
plurimis: 
AUGUSTO 
BARBERA, 
CARLO 
FUSARO, Corso di 
diritto costituzionale, II edizione, Bologna, Il 
Mulino, 2014, pp. 484 e 
s.; 
TEMISTOCLE 
MARTINEz, Diritto costituzionale, III edizione, Milano, Giuffré, 1984, pp. 501 e 
ss.; 
ROBERTO 
BIN, GIOVANNI 
PITRUzzELLA, Diritto costituzionale, VIII edizione, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 271 e 
ss.; 
GIAMPIERO 
BALENA, Istituzioni 
di 
diritto processuale 
civile, I vol., cit., pp. 63 e 
ss.; 
FRANCESCO 
P. 
LUISO, Diritto processuale 
civile, vol. I, VII edizione, Milano, Giuffré, 2013, pp. 38 e 
ss.; 
a 
cura 
di 
SABINO 
CASSESE, Istituzioni di diritto amministrativo, V edizione, Milano, Giuffré, 2015, pp. 666 e ss. 
(60) Per tale 
osservazione: 
VIRGILIO 
ANDRIOLI, Diritto processuale 
civile, vol. I, Napoli, Jovene, 
1979, p. 213. 
(61) Sulla 
nomina 
politica 
dei 
giudici 
americani: 
GEOFFREy 
C. hAzARD 
-MIChELE 
TARUFFO, La 
giustizia civile negli Stati, cit., pp. 73-78. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


La 
maggiore 
politicità 
del 
giudice 
statunitense 
ha 
evidenti 
ricadute 
sulla 
effettività 
dell’azione 
di 
classe. Difatti, il 
giudice, a 
seconda 
del 
suo orientamento 
ideologico, sarà 
propenso a 
dare 
massimo impulso ai 
suoi 
poteri 
(ove 
condivida 
lo strumento della 
class 
action) oppure 
-viceversa 
-a 
rallentarne 
l’iter. Nel 
corso di 
circa 
due 
secoli 
di 
vita 
le 
class 
actions 
hanno avuto un successo 
straordinario, anche 
grazie 
alla 
sensibilità 
dei 
giudici 
che 
hanno accolto 
le 
istanze 
proposte. 
Si 
richiama 
sul 
punto 
il 
successo 
della 
injunctive 
class 
action, 
ossia 
la 
seconda 
categoria 
di 
class 
actions 
prevista 
dalla 
Rule 
23 (b) (2), 
per la 
tutela 
dei 
civil 
rights 
contro le 
discriminazioni 
per ragioni, ad esempio, 
di 
sesso, razza, lavoro subordinato. Oppure 
la 
diffusione 
della 
damages 
class 
action, terza 
categoria 
di 
class 
actions 
prevista 
dalla 
Rule 
23 (b) (3), per la 
tutela 
dei 
diritti 
dei 
consumatori 
a 
fronte 
delle 
condotte 
delle 
grandi 
imprese 
operanti in situazione di monopolio o di oligopolio. 


Ancora. Il 
ruolo e 
i 
poteri 
processuali 
del 
giudice 
nella 
specifica 
materia 
delle 
azioni 
collettive 
sono diversi 
nei 
sistemi 
giudiziari 
degli 
USA 
e 
dell’Italia. 


Negli 
Stati 
Uniti 
il 
ruolo del 
giudice 
-soprattutto nelle 
class 
actions 
-è 
notevole, essendo egli 
dotato di 
ampi 
poteri 
che 
utilizza 
frequentemente 
durante 
il 
corso del 
procedimento. I poteri 
che 
il 
giudice 
esercita 
nelle 
class 
actions 
sono indicati 
nella 
quarta 
sottosezione, ossia 
nella 
lettera 
d) 
della 
Rule 
23. 


Nel 
nostro 
ordinamento, 
invece, 
il 
giudice 
non 
ha 
gli 
stessi 
poteri 
del 
giudice 
americano. 
Sono 
previsti 
poteri 
discrezionali 
(ad 
esempio 
in 
sede 
di 
filtro) 
e 
poteri 
ufficiosi 
(questi 
ultimi 
potenziati 
con la 
novella 
del 
2019) maggiori 
che 
nel 
procedimento ordinario, ma 
non nella 
misura 
esistente 
negli 
USA. Si 
richiama un solo caso per tutti: il potere liquidatorio nei danni punitivi. 


I 
notevoli 
poteri 
processuali 
del 
giudice 
statunitense 
costituiscono 
-in 
uno alla 
sua 
sensibilità 
politica 
-una 
delle 
ragioni 
del 
successo e 
dell’importanza 
delle 
class actions 
negli Stati Uniti. 


Circa 
il 
ruolo dei 
difensori, si 
rileva 
che 
notevolmente 
diverso è 
il 
modo 
di 
esercizio della 
professione 
legale 
negli 
Stati 
Uniti 
e 
in Italia, con notevoli 
ricadute in tema di attivazione delle azioni di classe. 


Negli 
Stati 
Uniti 
la 
professione 
è 
spesso 
svolta 
da 
grandi 
studi 
legali 
(law 
firms), 
con 
centinaia 
di 
avvocati 
ed 
altresì 
con 
importanti 
finanziatori. 
Nel 
1985 i 
venti 
studi 
legali 
più grandi 
degli 
Stati 
Uniti 
contavano una 
media 
di 
374 avvocati; 
uno studio di 
cinquanta 
avvocati 
è 
considerato medio-piccolo 
negli 
Stati 
Uniti 
(62). Verosimilmente, i 
grandi 
studi 
legali, avendo a 
disposizione 
consistenti 
capitali 
da 
investire, sono gli 
unici 
che 
hanno la 
possibilità 
di 
sopportare 
le 
ingenti 
spese 
giudiziali 
necessarie 
per 
dare 
inizio 
ad 
una 
class 


(62) Per tali 
dati 
UGO 
MATTEI, Common Law. Il 
diritto anglo-americano, Torino, UTET, 1992, p. 
312. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


action. A 
fronte 
del 
carattere 
imprenditoriale 
che 
assume 
la 
class 
action, è 
lo 
studio legale 
che 
assiste 
la 
classe 
ad assumere 
il 
ruolo di 
dominus, sostituendosi 
così, di 
fatto, al 
rappresentante 
di 
classe 
(lead plaintiff) nella 
conduzione 
del 
processo. Sicché 
al 
dato formale 
secondo cui 
la 
class 
action 
è 
promossa 
da 
un attore 
“adeguatamente 
rappresentativo”, si 
contrappone 
il 
dato sostanziale 
per il 
quale 
sono le 
grosse 
law firms 
a 
“reclutare” 
di 
propria 
iniziativa 
il 
class representative 
e a finanziare la lite. 


Dunque, nel 
caso specifico delle 
class 
actions, accade 
nella 
prassi 
che 
a 
sostenere 
le 
azioni 
di 
classe 
sono i 
grandi 
studi 
legali, le 
law firms, che 
anticipano 
tutte 
le 
spese 
del 
processo (e 
sono anche 
gli 
unici 
che 
possono farlo), 
assumendosi il rischio economico dell’iniziativa giudiziale. 


Ciò 
che 
spinge 
gli 
avvocati 
a 
rivolgere 
un 
grande 
interesse 
all’istituto 
delle 
class 
actions 
è 
il 
principio della 
contingency 
fee. 
La 
contingency 
fee 
è 
un parametro di 
liquidazione 
degli 
onorari 
che 
viene 
utilizzato nelle 
damages 
class 
actions. 
L’avvocato 
riceve 
una 
remunerazione, 
che 
gli 
viene 
liquidata 
solamente 
in caso di 
vittoria, sulla 
base 
di 
una 
percentuale 
del 
valore 
globale 
del 
risarcimento; 
questo istituto è 
stato poi 
modificato nel 
2003 a 
fronte 
dei 
numerosi 
abusi 
e 
illeciti. 
Nell’ordinamento 
statunitense, 
allora, 
l’avvocato 
assume 
nella 
maggioranza 
dei 
casi 
la 
posizione 
di 
vero 
e 
proprio 
finanziatore 
della 
class 
action; 
possiamo quindi 
constatare 
che 
l’attività 
svolta 
dall’avvocato 
in occasione 
di 
queste 
azioni 
può essere 
definita 
imprenditoriale 
(managing 
lawyer). Ciò è il motore del successo della 
class action americana. 


In Italia 
il 
ruolo dell’avvocato è 
ben diverso. Non esistono, in modo diffuso, 
grandi 
studi 
legali 
con notevoli 
risorse 
economiche. Le 
associazioni 
tra 
avvocati 
e 
multidisciplinari 
(63) 
e 
l’esercizio 
della 
professione 
forense 
in 
forma 
societaria 
(64) non sono frequenti. Ricordiamo che 
la 
società 
tra 
avvocati 
non è 
soggetta 
a 
fallimento (art. 16, comma 
3, D.L.vo 2 febbraio 2001, n. 
96), 
anche 
perché 
in 
Italia 
gli 
avvocati 
-come 
tutti 
i 
professionisti 
intellettuali 


-non vengono considerati 
imprenditori 
(arg. ex 
art. 2238, comma 
1, c.c. secondo 
cui 
“Se 
l’esercizio della professione 
costituisce 
elemento di 
un’attività 
organizzata in forma di 
impresa, si 
applicano anche 
le 
disposizioni 
del 
titolo 
II” 
, titolo quest’ultimo relativo all’imprenditore) (65). Tale 
stato di 
cose, all’evidenza, 
è 
di 
ostacolo al 
successo dell’attivazione 
delle 
azioni 
collettive 
su 
impulso sostanziale del difensore, alla stregua del modello americano. 
Tuttavia 
va 
osservato 
che, 
con 
la 
L. 
n. 
31/2019, 
si 
è 
cercato 
di 
modificare 


(63) Art. 4 L. 31 dicembre 
2012, n. 247 avente 
ad oggetto la 
“Nuova disciplina dell'ordinamento 
della professione forense”. 
(64) Art. 4 bis 
L. n. 247/2012. 
(65) Sulla 
circostanza 
che 
i 
liberi 
professionisti 
intellettuali 
non sono mai, in quanto tali, imprenditori: 
GIAN 
FRANCO 
CAMPOBASSO, Diritto commerciale, vol. I, V 
edizione, Torino, UTET, 2006, pp. 42 
e 
ss. Sulla 
società 
tra 
avvocati: 
GIAN 
FRANCO 
CAMPOBASSO, Diritto commerciale, vol. II, VI edizione, 
Torino, UTET, 2006, pp. 22 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


questo 
stato 
di 
cose, 
di 
invogliare 
l’avvocato 
ad 
essere 
dinamico 
nell’esercizio 
della 
professione 
con 
la 
previsione 
-ma 
con 
molti 
limiti 
-di 
un 
compenso 
premiale, 
superiore 
agli 
ordinari 
valori, di 
cui 
alle 
tabelle 
dei 
parametri 
forensi 
allegate 
al 
D.M 
n. 55/2014 ( regolamento recante 
la 
determinazione 
dei 
parametri 
per 
la 
liquidazione 
dei 
compensi 
per 
la 
professione 
forense, 
ai 
sensi 
dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247). 


Posizione delle parti nei giudizi collettivi. 


Per 
quanto 
riguarda 
la 
regolazione 
delle 
parti 
del 
processo 
deve 
registrarsi 


-in sostanza 
-una 
analogia 
di 
disciplina, tanto con riguardo all’attore, quanto 
con riguardo al convenuto, tra il sistema americano e quello italiano. 
Difatti, in ambedue 
i 
sistemi 
è 
legittimato ad agire 
qualsiasi 
componente 
della 
classe 
(c.d 
parte 
rappresentativa). 
Ossia, 
non 
vi 
è 
nessuna 
limitazione 
soggettiva, per cui 
qualunque 
soggetto di 
diritto portatore 
di 
interessi 
omogenei 
può esercitare 
l’azione 
di 
classe; 
possiamo quindi 
affermare 
che 
la 
disciplina 
si 
basa 
su 
un 
sistema 
di 
legittimazione 
diffusa. 
Negli 
USA, 
viene 
definito 
“named o class 
representative” 
o “lead plaintiff” 
quel 
soggetto che 
esercita 
l’azione 
collettiva 
nell’interesse 
della 
classe 
stessa, ossia 
nell’interesse 
suo e 
di tutti gli altri danneggiati. 


In ambedue 
i 
sistemi 
l’attore, colui 
che 
promuove 
e 
segue 
la 
causa 
(lead 
plaintiff 
americano) 
deve 
avere 
determinati 
requisiti 
per 
garantire 
un 
esercizio 
consapevole 
ed 
efficace 
dell’azione 
collettiva. 
Si 
richiede 
che 
lo 
stesso 
appaia 
in 
grado 
di 
curare 
adeguatamente 
l’interesse 
della 
classe 
(adequancy 
of 
representation) 
e che vi sia l’assenza di conflitti di interessi. 


Ed 
in 
ambedue 
i 
sistemi 
vi 
è 
il 
filtro, 
il 
controllo 
del 
giudice 
in 
limine 
litis 
sui 
requisiti 
soggettivi 
dell’attore 
(certification 
statunitense 
e 
ordinanza 
di 
ammissibilità 
della domanda italiana). 


Una 
differenza 
di 
disciplina, 
invero, 
tra 
il 
modello 
americano 
e 
quello 
italiano 
risulta 
dalla 
novella 
operata 
dalla 
L. n. 31/2019: 
nell’ordinamento italiano 
la 
legittimazione 
spetta 
anche 
ad organizzazioni 
o ad associazioni 
senza 
scopo di 
lucro i 
cui 
obiettivi 
statutari 
comprendano la 
tutela 
dei 
diritti 
individuali 
omogenei, purché 
iscritte 
in un elenco pubblico istituito presso il 
Ministero 
della giustizia. 


In ambedue 
i 
sistemi 
il 
convenuto è 
il 
soggetto contro cui 
l’azione 
è 
rivolta 
sulla affermazione (attorea) che ha tenuto un comportamento illecito. 

Posizione del componente della classe nei giudizi collettivi. 


Nettamente 
differenti 
sono 
le 
modalità 
con 
le 
quali 
il 
componente 
del-
l’azione 
di 
classe 
-diverso dall’attore 
-partecipa 
al 
procedimento ed è 
coinvolto 
dagli effetti della decisione definitiva. 


Negli 
USA 
il 
sistema, nel 
caso più diffuso, ossia 
della 
damages 
class 
action, 
è 
quello 
dell’opt-out. 
Proposta 
la 
class 
action, 
il 
componente 
della 
classe 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


è 
ex 
lege 
coinvolto nel 
procedimento; 
la 
sentenza 
si 
estende 
a 
tutti 
i 
soggetti 
che 
rientrano nella 
definizione prevista per la 
classe. Il danneggiato, però, ha 
la 
possibilità 
di 
essere 
escluso dal 
giudizio esercitando il 
c.d. opt-out, che 
impedisce 
il 
formarsi 
del 
giudicato anche 
nei 
suoi 
confronti. Inoltre, il 
componente 
della 
classe 
ha 
il 
diritto 
di 
effettuare 
un 
vero 
e 
proprio 
intervento 
in 
senso 
pieno 
(intervention 
of 
right) 
allorché 
vi 
sia 
un 
difetto 
di 
adeguatezza 
della 
rappresentanza 
nei suoi riguardi. 


Meccanismo opposto opera 
in Italia. Difatti, il 
componente 
della 
classe 
non è 
ex 
lege 
coinvolto nel 
procedimento, ma 
per poter aderire 
all’azione 
collettiva 
lo stesso deve 
depositare 
un proprio atto di 
adesione. Non è 
ammesso 
l’intervento ma 
solo l’adesione, che 
non determina 
l’acquisto della 
qualità 
di 
parte 
processuale; 
l’adesione 
comporta 
semplicemente 
che 
l’effetto dei 
provvedimenti 
conclusivi 
delle 
fasi 
processuali 
si 
estende 
agli 
aderenti. 
Vige, 
cioè, 
il sistema dell’opt-in. 

Dagli 
osservatori, come 
si 
preciserà 
di 
seguito, si 
rileva 
che 
una 
delle 
ragioni 
decisive 
del 
successo delle 
azioni 
collettive 
negli 
USA 
è 
proprio il 
meccanismo 
dell’opt-out. 


oggetto dell’azione collettiva. 


Notevoli 
differenze 
nei 
due 
modelli 
sussistono in ordine 
alla 
tipologia 
di 
azioni 
esercitabili 
con 
la 
tutela 
collettiva. 
Difatti, 
il 
modello 
statunitense 
è 
molto più ricco ed articolato di 
quello italiano: 
negli 
USA 
con la 
class 
action 
è 
possibile 
esercitare 
sia 
azioni 
costitutive 
che 
di 
accertamento 
ed 
altresì 
di 
condanna 
(separatamente 
o 
congiuntamente); 
nell’ordinamento 
italiano 
è 
possibile 
la 
proposizione, purché 
congiunta, di 
azioni 
di 
accertamento e 
di 
condanna 
e 
-con modalità 
particolari 
e 
con un rito diverso dall’azione 
collettiva 


-di azioni inibitorie. 
La 
Rule 23 prevede tre categorie di 
class actions. 
La 
prima 
azione 
-Rule 
23 
(b) 
(1) 
-contempla 
due 
ipotesi 
di 
litisconsorzio 
necessario 
(66). 
La 
stessa, 
specialmente 
la 
prima 
ipotesi 
diretta 
ad 
evitare 
contrasti 
di 
giudicati, 
ha 
un 
carattere 
di 
azione 
costitutiva, 
ossia 
diretta 
a 
costituire, 
modificare 
o 
estinguere 
rapporti 
giuridici 
(art. 
2908 
c.c.) 
(67). 
È 
analoga 
ai 
nostri 
processi 
litisconsortili, con l’evidente 
differenza 
che 
nel 
nostro sistema 


(66) 
In 
primo 
luogo 
nel 
caso 
in 
cui 
l’eventuale 
proposizione 
di 
azioni 
individuali 
possa 
comportare 
un 
contrasto 
di 
giudicati 
e, 
di 
conseguenza, 
un 
convenuto 
sia 
costretto 
a 
tenere 
comportamenti 
non 
omogenei 
nei 
confronti 
dei 
componenti 
della 
classe. Inoltre 
nel 
caso in cui 
la 
risoluzione 
della 
lite 
nei 
confronti 
di 
alcuni 
soltanto dei 
litisconsorti 
possa 
comportare 
un pregiudizio pratico per gli 
altri, rendendo 
estremamente 
difficile 
la 
tutela 
dei 
diritti 
di 
altri 
membri 
della 
classe 
rimasti 
estranei 
al 
giudizio (c.d. limited 
fund class 
actions: 
il 
rischio che 
il 
patrimonio del 
debitore 
comune 
non sia 
sufficiente 
per il 
soddisfacimento 
di tutti i danneggiati). 
(67) Sulle 
azioni 
costitutive 
ex 
plurimis: 
GIAMPIERO 
BALENA, Istituzioni 
di 
diritto processuale, I 
vol, cit., pp. 48 e 
ss.; 
CRISANTO 
MANDRIOLI, ANTONIO 
CARRATTA, Diritto processuale 
civile, I vol., XXV 
edizione, Giappichelli, 2016, pp. 82 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


il 
litisconsorzio 
necessario 
impone 
la 
partecipazione 
di 
tutti 
i 
titolari 
dei 
diritti 
oggetto 
del 
processo, 
mentre 
nell’ordinamento 
statunitense 
è 
permesso 
di 
procedere 
in forma rappresentativa. 


La 
seconda 
azione 
-Rule 
23 
(b) 
(2) 
-viene 
definita 
injunctive 
class 
action 
e 
può essere 
utilizzata 
per censurare 
quei 
comportamenti 
non uniformi 
tenuti, 


o che 
potrebbero essere 
tenuti, dal 
convenuto nei 
confronti 
dei 
membri 
della 
classe. Lo scopo di 
questa 
tipologia 
di 
azione 
è 
la 
pronuncia 
di 
provvedimenti 
inibitori 
(injunctions) oppure 
meramente 
dichiarativi, di 
mero accertamento 
(declaratory judgements) in favore di una classe (68). 
La 
terza 
e 
ultima 
azione 
-Rule 
23 (b) (3) 
-di 
condanna 
(69), è 
definita 
damages 
class 
action 
e 
per 
poterla 
esercitare 
è 
necessario 
che 
sussista 
una 
pretesa 
di 
carattere 
risarcitorio in capo a 
tutta 
una 
serie 
di 
soggetti 
che 
vantano 
una 
coincidenza 
delle 
questioni 
di 
fatto o di 
diritto, prevalenti 
su ogni 
altra 
situazione 
di carattere strettamente individuale (70). 

Quanto all’ordinamento italiano si osserva quanto segue. 


Sia 
nella 
disciplina 
presente 
nel 
codice 
del 
Consumo, che 
in quella 
prevista 
dalla 
nuova 
legge 
n. 31/2019, l’oggetto dell’unica 
categoria 
di 
azione 
di 
classe 
è 
duplice: 
l’accertamento della 
responsabilità 
e 
la 
condanna 
al 
risarcimento 
del 
danno e 
alle 
restituzioni. La 
tipologia 
di 
azione 
è, quindi, analoga 
alla terza categoria delle 
class actions 
(damages class actions). 


Non 
vi 
una 
previsione 
in 
tema 
di 
azione 
costitutiva 
sul 
modello 
della 
prima categoria delle 
class actions. 
Invece, con un rito differenziato, autonomo e 
diverso da 
quello relativo 


(68) Sulle 
azioni 
di 
accertamento 
ex 
plurimis: 
GIAMPIERO 
BALENA, Istituzioni 
di 
diritto processuale, 
I vol, cit., pp. 34 e 
ss.; 
CRISANTO 
MANDRIOLI, ANTONIO 
CARRATTA, Diritto processuale 
civile, I 
vol, cit., pp. 71 e ss. 
(69) Sulle 
azioni 
di 
condanna 
ex 
plurimis: 
GIAMPIERO 
BALENA, Istituzioni 
di 
diritto processuale, 
I vol, cit., pp. 37 e 
ss.; 
CRISANTO 
MANDRIOLI, ANTONIO 
CARRATTA, Diritto processuale 
civile, I vol, cit., 
pp. 73 e ss. 
(70) Per ammettere 
questa 
tipologia 
di 
azione, è 
necessario che 
sussistano i 
requisiti 
della 
superiority 
e 
della 
predominance. Il 
requisito della 
“superiority” 
implica 
che 
la 
class 
action 
deve 
essere 
il 
mezzo processuale 
più idoneo per trattare 
in modo “fair 
and efficient” 
la 
controversia. Quello del 
“predominate 
criterion” 
richiede 
che 
le 
questioni 
(di 
fatto o di 
diritto) comuni 
alla 
classe 
siano prevalenti 
rispetto a 
ciascuna 
questione 
individuale. Possiamo avere 
vari 
tipi 
di 
fattispecie 
applicative 
delle 
damages 
class 
actions. Il 
primo caso (“individually 
unrecoverable 
claims”) è 
relativo a 
quelle 
situazioni 
in 
cui 
piccoli 
risparmiatori 
o consumatori 
avanzino delle 
pretese 
il 
cui 
valore 
è 
inferiore 
al 
costo del 
processo 
che 
il 
danneggiato 
dovrebbe 
affrontare 
in 
via 
individuale. 
In 
questo 
caso 
siamo 
di 
fronte 
alla 
class 
action come 
unico strumento che 
realmente 
garantisce 
la 
tutela 
del 
cittadino. Le 
damages 
class 
actions 
possono essere 
fatte 
valere 
anche 
a 
fronte 
di 
entità 
molto cospicue: 
sono i 
casi 
in cui 
è 
ragionevole 
che 
i 
soggetti 
agiscano anche 
in via 
individuale. È 
un caso di 
cumulo di 
azioni 
parallele 
presso una 
singola 
corte 
a 
fronte 
della 
comunanza 
di 
situazioni 
di 
diritto o di 
fatto al 
fine 
di 
garantire 
la 
miglior efficienza 
nell’utilizzo delle 
finanze 
destinate 
all’attività 
giuridica. Una 
terza 
categoria 
di 
ipotesi 
applicative 
sono 
i 
mass 
tort 
personal 
injury 
litigations. 
Possono 
essere 
esperite 
azioni 
dirette 
a 
tutelare 
le 
vittime 
di 
illeciti 
di 
massa 
causati 
dalla 
circolazione 
di 
prodotti 
industriali 
dannosi 
e 
pericolosi 
(product 
liability 
mass 
torts) o da vere e proprie catastrofi di impresa (mass accidents). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


alle 
azioni 
di 
classe, 
vi 
è 
una 
azione 
analoga 
alla 
injunctive. 
Trattasi 
dell’azione 
inibitoria 
collettiva, finalizzata 
ad ottenere 
l’ordine 
di 
cessazione 
o il 
divieto 
di 
reiterazione 
della 
condotta 
omissiva 
o 
commissiva 
pregiudizievole, 
a 
favore 
di 
una 
pluralità 
di 
soggetti, 
indeterminati 
ed 
indeterminabili 
a 
priori. 
Tale 
azione 
è 
disciplinata 
nell’art. 140 del 
Codice 
del 
Consumo e, con miglioramenti, 
nell’art. 840 sexiesdecies 
c.p.c., all’esito della 
novella 
operata 
con la 


L. n. 31/2019. L’azione 
inibitoria 
collettiva, regolata 
dalla 
legge 
con una 
disciplina 
autonoma 
rispetto all’azione 
collettiva 
risarcitoria, non ha 
la 
natura 
giuridica 
di 
un’azione 
di 
classe, di 
un’azione 
rappresentativa. Da 
ciò deriva 
che 
alla 
stessa 
non si 
può applicare 
la 
disciplina 
in tema 
di 
azione 
di 
classe. 
Sicché, ad esempio, deve 
ritenersi 
che 
il 
meccanismo per il 
quale 
una 
volta 
pubblicizzata 
l’azione 
di 
classe 
non 
è 
possibile 
ai 
componenti 
della 
stessa 
proporre 
una 
successiva 
ed 
identica 
azione, 
non 
operi 
con 
riguardo 
all’azione 
collettiva 
inibitoria, 
atteso 
che 
per 
quest’ultima 
non 
è 
prevista 
una 
simile 
preclusione normativa. 
Ambito dei diritti tutelabili con l’azione di classe. 


Negli 
USA, tramite 
le 
tre 
tipologie 
di 
azioni 
indicate 
precedentemente, 
sono 
tutelabili 
tutti 
i 
tipi 
di 
diritti 
in 
via 
generale, 
purché 
aventi 
i 
requisiti 
fissati 
nella 
Rule 
23, sottosezioni 
a) e 
b), a 
prescindere 
da 
un determinato ambito, da 
una determinata materia. La tutela ha un carattere di generalità. 


Nell’ordinamento 
italiano, 
nella 
vigente 
disciplina 
del 
Codice 
del 
consumo, 
la 
sfera 
dei 
diritti 
tutelabili 
è 
molto 
limitata. 
Difatti 
i 
diritti 
tutelabili 
con l’azione 
di 
classe 
sono limitati 
alla 
materia 
consumeristica, purché 
aventi 
il 
requisito 
della 
omogeneità. 
Ad 
agire 
possono 
essere 
solo 
i 
consumatori 
e 
gli 
utenti 
nelle 
tre 
tipologie 
di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
protette 
descritte 
nel comma 2 dell’art. 140 bis 
del Codice del Consumo. 


Con la 
nuova 
disciplina 
contenuta 
nella 
legge 
n. 31/2019, si 
è 
ampliato 
l’ambito soggettivo ed oggettivo delle 
situazioni 
protette 
dall’azione 
rispetto 
alla 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, allineando -nella 
sostanza 
-la 
disciplina 
nazionale 
alla 
terza 
categoria 
(damages 
class 
action) 
del 
modello 
statunitense. 

La 
legge 
di 
riforma 
ha 
eliminato ogni 
riferimento a 
consumatori 
e 
utenti. 
La 
grande 
novità 
introdotta 
dalla 
detta 
legge 
è 
la 
portata 
generale 
dei 
diritti 
tutelabili, 
non 
più 
collegati 
alla 
tutela 
del 
consumatore. 
Nella 
nuova 
disciplina 
non vi 
è 
più -come 
nel 
comma 
2 dell’art. 140 bis 
del 
Codice 
del 
Consumo la 
precisazione 
delle 
tre 
tipologie 
di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
protette 
collegate, come detto, alla tutela del consumatore. 


La 
novella, conseguentemente, ha 
spostato l’istituto dal 
Codice 
di 
Consumo 
e 
lo ha 
inserito nel 
codice 
di 
procedura 
civile 
alla 
fine 
del 
libro IV 
dedicato 
ai procedimenti speciali. 

In continuità 
con la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo, è 
ri



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


chiesto 
il 
requisito 
della 
omogeneità 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive. 
Tale 
requisito 
richiama 
quello 
del 
“predominate 
criterion” 
delle 
damages 
class actions. 

L’azione 
di 
classe, con la 
novella 
operata 
nel 
2019, è 
uno strumento processuale 
che 
può essere 
impiegato per fronteggiare 
tutti 
i 
tipi 
di 
“mass 
torts”, 
ad esempio permettendo alle 
persone 
che, per il 
fatto di 
abitare 
in un’area 
sottoposta 
a 
esalazioni 
tossiche 
ovvero a 
campi 
magnetici 
nocivi, abbiano risentito 
dei 
relativi 
pregiudizi 
di 
ottenere 
una 
decisione 
sulle 
loro 
istanze 
risarcitorie 
in 
un 
unico 
contesto, 
senza 
costringerle 
ad 
avanzare 
ciascuna 
la 
propria 
pretesa 
in tanti 
giudizi 
separati. Viene 
anche 
aperta 
la 
possibilità 
del-
l’impiego della 
class action 
in tema di tutela dei diritti dei risparmiatori. 


Aspetti generali del procedimento nei due sistemi. 


A 
grandi 
linee 
-salva 
la 
fondamentale 
differenza 
circa 
il 
modo 
con 
il 
quale 
i 
componenti 
della 
classe 
partecipano 
al 
procedimento 
-le 
fasi 
essenziali 
del 
procedimento 
sono 
simili, 
con 
un 
primo 
momento 
dedicato 
alla 
valutazione 
della 
ammissibilità 
dell’azione 
ed 
un 
momento 
successivo 
relativo 
al 
giudizio 
sul merito. Tanto sulla falsariga della disciplina contenuta nella 
Rule 23. 


Va 
rilevato che 
i 
due 
momenti 
hanno una 
diversa 
complessità, nei 
due 
sistemi. 


Nel 
sistema 
statunitense 
è 
molto complesso ed elaborato il 
momento dedicato 
alla 
valutazione 
di 
ammissibilità 
della 
class 
action 
(fasi 
della 
“precertification” 
e 
della 
“certification”), 
mentre 
ha 
una 
minore 
complessità 
il 
giudizio sul merito, avente un carattere unitario. 


Nel 
sistema 
italiano, invece 
ha 
una 
minore 
complessità 
la 
fase 
di 
filtro, 
mentre 
è 
molto complesso e 
macchinoso il 
giudizio sul 
merito, addirittura 
con 
la novella del 2019 - strutturato in due distinti giudizi. 


Le caratteristiche del filtro di ammissibilità. 


In entrambi 
i 
paesi 
riscontriamo la 
presenza 
di 
una 
fase 
preliminare, che 
ha 
come 
scopo quello di 
filtrare 
le 
azioni 
di 
classe 
esercitate 
dagli 
attori, accertando 
che 
queste 
abbiano 
determinati 
requisiti, 
tra 
cui 
quello 
che 
non 
siano 
manifestamente 
infondate. La 
manifesta 
infondatezza 
riguarda 
una 
prognosi 
in 
iure, 
cioè 
la 
prospettazione 
in 
diritto 
posta 
a 
fondamento 
della 
pretesa 
e 
non 
la 
veridicità 
dei 
fatti 
costitutivi, a 
meno che 
questa 
non sia 
di 
per sé 
ragionevolmente 
esclusa dalle prove allegate agli atti introduttivi del giudizio. 


Tale 
vaglio 
preventivo 
è 
ispirato 
da 
regole 
di 
ragionevolezza. 
L’azione 
di 
classe 
-atteso 
il 
numero 
indeterminato 
di 
soggetti 
coinvolgibili 
nella 
lite 
-mette 
in 
moto 
un 
complesso 
apparato 
organizzativo, 
un 
notevole 
impegno 
degli 
uffici 
giudiziari, 
notevoli 
risorse 
economiche. 
Sicché, 
prima 
di 
attivare 
un 
meccanismo 
mastodontico, 
l’ordinamento 
opera 
degli 
accertamenti 
su 
determinati 
requisiti 
preliminari, 
il 
cui 
difetto 
preclude 
il 
prosieguo 
del 
procedimento. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Negli 
USA 
il 
filtro si 
articola 
nelle 
fasi 
della 
“precertification”, diretta 
all’esame 
delle 
questioni 
preliminari 
e 
preparatorie 
del 
giudizio e 
della 
“certification”, 
che 
consiste 
nella 
effettiva 
valutazione 
dell’ammissibilità 
della 
class action, ossia l’autorizzazione a procedere in forma rappresentativa. 

Già 
nella 
fase 
della 
“precertification” 
vi 
è 
una 
pubblicità 
dell’azione, 
all’esito 
della 
notifica 
“preliminare” 
ai 
membri 
della 
classe 
eseguita 
dal 
counsel 
ad interim 
nominato dal giudice in sede di 
pretrial conference. 

Ma 
il 
vero 
e 
proprio 
filtro 
del 
procedimento 
si 
ha 
nella 
fase, 
descritta 
come 
certification, 
della 
valutazione 
della 
ammissibilità 
o 
meno 
della 
class 
action, ossia 
l’autorizzazione 
a 
procedere 
in forma 
rappresentativa. In questa 
fase 
avviene 
l’individuazione 
della 
classe; 
se 
la 
“class 
definition” 
include 
soggetti 
con domande 
simili, ma 
interessi 
divergenti, il 
giudice 
può ordinare 
una 
divisione 
in 
subclasses 
e 
l’accertamento 
che 
i 
class 
representatives 
siano 
membri 
della 
classe. Quindi 
il 
giudice 
valuta 
la 
sussistenza 
dei 
requisiti 
per la 
certificazione 
indicati 
nella 
sottosezione 
a) 
della 
Rule 
23 
-cd. 
prerequisites 
(
numerosity; 
commonality; 
typicality; 
adequacy 
of 
representation) 
e 
nella 
sottosezione 
b) 
della 
Rule 
23 
(ossia 
la 
class 
deve 
ricadere 
in uno dei 
tre 
tipi 
indicati 
nella detta sottosezione). 


All’esito 
di 
un’udienza 
preliminare 
e 
con 
esame 
sommario, 
se 
sussistono 
tutti 
i 
requisiti 
per l’ammissibilità 
della 
class 
action, il 
giudice 
pronuncia 
la 
certification, ossia 
una 
sorta 
di 
atto di 
autorizzazione 
che 
non entra 
nel 
merito 
della 
controversia, produttivo di 
vari 
effetti, tra 
i 
quali 
la 
determinazione 
dei 
limiti 
soggettivi 
di 
efficacia 
della 
pronuncia, 
con 
il 
dichiarato 
obiettivo 
di 
massimizzare 
la 
possibilità 
di 
estenderli 
agli 
assenti. Difatti, la 
conseguenza 
più 
importante 
della 
certification 
è 
l’estensione 
degli 
effetti 
della 
sentenza 
a 
tutti 
i 
soggetti 
che 
rientrano 
nella 
definizione 
prevista 
per 
la 
classe, 
salva 
la 
facoltà 
di autoescludersi nelle categorie di 
class actions ex Rule 23 (b) (3). 


Il 
giudice 
riveste 
un 
potere 
centrale, 
come 
detto 
precedentemente. 
Difatti, 
nel 
procedimento statunitense 
il 
giudice 
gode 
di 
ampi 
poteri, tra 
i 
quali 
decidere 
sulle 
istanze 
riguardanti 
la 
giurisdizione, il 
valore 
della 
causa, l’ammissibilità 
della 
domanda 
e 
la 
richiesta 
di 
giudizio 
sommario, 
nominare 
un 
consuel 
ad 
interim, 
raccogliere 
informazioni 
sulla 
pendenza, 
di 
fronte 
ad 
altre 
corti 
federali 
o 
statali, 
di 
procedimenti 
collegati 
con 
la 
class 
action 
proposta 
e 
gli 
altri 
poteri indicati nel primo capitolo. 

La 
certification 
non è 
un atto definitivo, il 
giudice 
può emendarla, modificarla 
nel 
corso del 
procedimento, fino alla 
pronuncia 
del 
verdetto, o addirittura 
revocarla; la stessa può essere appellata. 


In 
Italia, 
con 
minore 
complessità 
procedimentale, 
viene 
seguito 
l’impianto 
del modello statunitense. 


Nel 
Codice 
del 
Consumo il 
filtro si 
ha 
in una 
fase 
preliminare 
del 
giudizio, 
che 
segue 
la 
disciplina 
della 
volontaria 
giurisdizione. Il 
Tribunale 
decide 
con 
ordinanza 
sull’ammissibilità 
della 
domanda. 
La 
domanda 
è 
dichiarata 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


inammissibile 
quando: 
a) è 
manifestamente 
infondata; 
b) sussiste 
un conflitto 
di 
interessi; 
c) il 
giudice 
non ravvisa 
l’omogeneità 
dei 
diritti 
individuali 
tutelabili; 
d) 
il 
proponente 
non 
appare 
in 
grado 
di 
curare 
adeguatamente 
l’interesse 
della classe. 


Tali 
requisiti, 
nella 
sostanza, 
ricalcano 
quelli 
del 
modello 
americano. 
La 
manifesta 
infondatezza 
-attesa 
la 
sua 
generalità 
-ricalca 
l’assenza 
dei 
requisiti 
indicati 
nelle 
sottosezioni 
a) 
e 
b) 
della 
Rule 
23. 
Più 
specificamente, 
poi, 
il 
requisito 
dell’omogeneità 
dei 
diritti 
individuali 
tutelabili 
ricalca 
il 
requisito 
della 
commonality 
ed 
il 
requisito 
della 
idoneità 
del 
proponente 
a 
curare 
adeguatamente 
l’interesse 
della 
classe 
ricalca 
il 
requisito 
della 
adequacy 
of 
representation. 


Al 
giudice 
sono 
riconosciuti 
ampi 
poteri 
di 
gestione 
processuale 
della 
controversia. 


Come 
la 
certification, 
anche 
l’ordinanza 
che 
dichiara 
l’ammissibilità 
non 
è 
un atto definitivo: 
essa 
è 
impugnabile 
con il 
reclamo ed è 
revocabile 
e 
modificabile 
dal giudice che l’ha pronunciata. 


La 
nuova 
legge 
n. 31/2019, nella 
sostanza, mantiene 
l’impianto del 
Codice 
del 
Consumo; 
ad esempio vengono iterati 
-con precisazioni 
-i 
quattro 
requisiti 
di 
ammissibilità 
fissati 
nel 
Codice 
del 
Consumo. Vi 
è, tuttavia, una 
significativa 
novità: 
il 
procedimento segue 
le 
regole 
del 
processo sommario 
di 
cognizione 
e 
non quelle 
della 
volontaria 
giurisdizione, circostanza 
che 
ha 
delle 
ricadute 
sul 
regime 
della 
ordinanza 
che 
pronuncia 
sulla 
ammissibilità 
dell’azione 
di 
classe. La 
detta 
ordinanza 
è 
reclamabile 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Appello ed è 
ricorribile 
-in via 
straordinaria 
ex 
art. 111, comma 
7, Cost. -dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Cassazione. 
La 
sostanziale 
portata 
decisoria 
dell’ordinanza 
in esame 
esclude 
che 
la 
stessa 
sia 
revocabile 
e 
modificabile 
dal 
giudice 
che 
l’ha pronunciata. 


Pubblicità del 
superamento del 
filtro di 
ammissibilità e 
sistema dell’opt-out 
e 
dell’opt-in. 


Una 
volta 
superato 
il 
filtro 
dell’ammissibilità, 
per 
entrambi 
gli 
ordinamenti, 
è 
disposta 
la 
pubblicità; 
ovvero deve 
essere 
data 
comunicazione 
a 
tutti 
i membri della classe della pendenza del giudizio. 

Viene 
in rilievo, negli 
USA, la 
notice, la 
quale 
deve 
indicare: 
le 
modalità 
e 
il 
termine 
perentorio entro cui 
i 
destinatari 
possono far pervenire 
la 
propria 
dichiarazione 
di 
dissenso 
ed 
esclusione 
dal 
giudizio; 
l’avvertimento 
che, 
in 
mancanza, ogni 
pronuncia 
emessa 
nell’ambito del 
procedimento (favorevole 


o sfavorevole 
che 
sia) diverrà 
vincolante 
anche 
nei 
loro confronti; 
la 
comunicazione 
al 
componente 
della 
classe 
che 
potrà 
comparire 
in 
giudizio 
tramite 
un 
difensore. 
La 
pubblicità 
-per quanto riguarda 
le 
categorie 
di 
class 
actions 
di 
cui 
ai 
numeri 
1) e 
2) della 
sottosezione 
b) della 
Rule 
23 
-non è 
necessaria 
ma 
facoltativa, 
è 
rimessa 
alla 
discrezionalità 
del 
giudice. Difatti, anche 
in assenza 
di 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


notifica, 
coloro 
che 
rientrano 
nella 
definizione 
di 
classe, 
certificata 
dal 
giudice, 
saranno 
vincolati 
dalla 
sentenza 
(si 
parla 
infatti 
di 
mandatory 
classes, 
in 
quanto i 
membri 
non hanno il 
potere 
di 
escludersi 
dall’azione). In questi 
casi 
il 
sistema 
reputa 
prevalenti 
le 
esigenze 
di 
concentrazione 
e 
unitarietà 
del 
giudizio 
su quelle del 
due process of law. 


Nelle 
azioni 
ex 
Rule 
23 (b) (3), invece, la 
notifica 
è 
obbligatoria 
e 
deve 
essere 
inviata 
a 
tutti 
i 
membri 
della 
classe, affinché 
essi 
possano scegliere 
di 
escludersi 
dall’azione 
esercitando 
il 
loro 
diritto 
di 
opt-out. 
Il 
singolo 
che 
scelga 
di 
non aderire 
alla 
classe 
in giudizio conserva 
il 
diritto di 
intraprendere 
successivamente 
un’iniziativa 
processuale 
a 
titolo individuale. Vi 
è 
un collegamento 
tra 
notice 
ed opt-out: 
per consentire 
all’interessato di 
autoescludersi 
è 
necessario che la 
certification 
gli venga notificata. 


Negli Stati Uniti, dunque, è stato adottato il sistema dell’opt-out. 


In 
Italia 
-tanto 
nel 
Codice 
del 
Consumo, 
quanto 
nella 
novella 
conseguente 
alla 
L. n. 31/2019 -la 
pubblicità 
si 
consegue 
con la 
divulgazione 
del-
l’ordinanza 
ammissiva 
dell’azione 
di 
classe, 
la 
quale, 
tra 
l’altro, 
fissa 
un 
termine 
per 
l’adesione 
dei 
componenti 
la 
classe 
e 
definisce 
i 
caratteri 
dei 
diritti 
individuali omogenei che consentono l’inserimento nella classe. 

Nell’ordinamento italiano la 
pubblicità 
è 
un requisito necessario del 
procedimento 
e 
costituisce 
condizione 
di 
procedibilità 
della 
domanda, ossia 
un 
presupposto processuale. Ove 
non venga 
effettuata, il 
giudizio si 
dovrà 
concludere 
con una 
sentenza 
di 
rito che 
dichiara 
inammissibile 
l’azione. Essa 
ha 
una duplice funzione: 


-per 
chi 
vuole 
aderire 
all’azione, 
la 
pubblicità 
indica 
i 
caratteri 
del-
l’azione 
e 
le 
modalità 
dell’adesione. 
L’adesione 
comporta 
rinuncia 
a 
ogni 
azione 
restitutoria 
o risarcitoria 
individuale 
fondata 
sul 
medesimo titolo, oltreché 
l’improponibilità di una autonoma azione di classe; 


-per 
chi 
non 
vuole 
aderire 
all’azione, 
la 
pubblicità 
della 
proposizione 
dell’azione 
di 
classe 
è 
importante 
perché 
preclude 
ai 
componenti 
la 
classe 
la 
proposizione 
autonoma 
della 
stessa 
azione 
di 
classe. Il 
componente 
la 
classe 
può agire solo con l’ordinaria azione individuale. 


Con la 
novella 
operata 
con la 
L. n. 31/2019 si 
è 
innovato alla 
disciplina 
della 
adesione, prevedendo un secondo termine 
per aderire. L’adesione 
è 
possibile, 
oltre 
che 
entro 
il 
termine 
indicato 
nell’ordinanza 
filtro, 
anche 
in 
seguito 
(una 
sorta 
di 
seconda 
finestra), ossia 
entro il 
termine 
indicato nella 
sentenza 
diretta all’accertamento della condotta plurioffensiva. 

Entro il 
termine 
perentorio indicato nell’ordinanza 
filtro (nel 
sistema 
del 
Codice 
del 
Consumo), oppure 
entro le 
due 
finestre 
previste 
con la 
novella 
di 
cui 
alla 
L. 
n. 
31/2019, 
l’interessato 
può 
aderire 
all’azione 
collettiva, 
ossia 
chiedere 
la 
tutela 
delle 
proprie 
ragioni. Solo con l’adesione 
sarà 
coinvolto dall’efficacia 
soggettiva 
dell’azione 
collettiva 
e 
dal 
conseguente 
provvedimento 
definitorio del merito della lite. 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


All’evidenza, in Italia è stato adottato il sistema dell’opt-in. 


Corollario di 
quanto detto è 
che 
una 
differenza 
fondamentale 
tra 
le 
due 
discipline, 
in 
tema 
di 
procedimento, 
sta 
proprio 
nella 
necessità 
o 
meno 
dell’atto 
di adesione. 

La 
scelta 
del 
sistema 
dell’opt-out 
o 
dell’opt-in 
non 
è 
neutra 
rispetto 
al 
successo dell’esperimento dell’azione collettiva. 


La 
chiave 
dell’efficacia, 
nell’ordinamento 
statunitense, 
delle 
class 
actions 
è 
proprio il 
sistema 
dell’opt-out, che 
si 
è 
rivelato capace 
di 
vincere 
l’indifferenza 
dei 
danneggiati, 
-che 
potrebbero 
non 
voler 
perdere 
tempo 
per 
avere 
piccolissimi 
risarcimenti 
-e 
di 
andare 
così 
a 
colpire 
gli 
enormi 
profitti 
che, 
in 
quel 
sistema 
economico, le 
grandi 
società 
della 
Top 500 Fortune 
(71) lucrano 
perpetuando micro-illeciti 
che 
coinvolgono decine 
di 
milioni 
di 
consumatori 


o stakeholders. 
I 
benefici 
dell’opt-out, 
prescelto 
nella 
class 
action 
americana 
rispetto 
all’opposto 
modello 
di 
opt-in, 
sono 
confermati 
da 
un 
recente 
studio 
svolto 
sull’esperienza 
americana 
dedicato 
alla 
comparazione 
tra 
i 
livelli 
di 
partecipazione 
in 
entrambi 
i 
modelli. 
Il 
dato 
di 
partenza 
di 
tale 
studio 
è 
che 
appare 
più 
alto 
il 
livello 
di 
inoperosità 
-la 
quale 
porta 
i 
privati, 
inclusi 
nella 
classe 
sulla 
base 
del 
sistema 
opt-out, 
a 
non 
esercitare 
la 
facoltà 
di 
autoesclusione 
dalla 
medesima 
rispetto 
a 
quello 
di 
dinamismo 
-il 
quale 
spinge 
il 
singolo 
consumatore 
ad 
attivarsi 
al 
fine 
della 
sua 
inclusione 
nell’azione 
di 
classe. 
Nell’analisi 
delle 
class 
actions 
attivate 
in 
un 
arco 
temporale 
di 
un 
decennio 
è, 
infatti, 
emerso 
che 
in 
media 
solo 
due 
individui 
su 
mille 
hanno 
deciso 
di 
esercitare 
l’opt-out, 
mentre 
per 
quanto 
riguarda 
le 
class 
actions 
modellate 
sul 
meccanismo 
di 
adesione, 
solo 
la 
metà 
dei 
membri 
dell’intera 
potenziale 
classe 
esercitano 
l’opt-in. 
Da 
tale 
studio 
si 
trae 
la 
conclusione 
che 
la 
scelta 
effettuata 
nel 
sistema 
statunitense 
garantisce 
una 
più 
estesa 
tutela 
a 
quelle 
categorie 
di 
soggetti 
che, 
nel 
subire 
un 
danno 
di 
modesta 
entità, 
sono 
forse 
intimoriti 
dal 
dispendio 
di 
tempo 
e 
di 
denaro 
e 
quindi 
inconsciamente 
più 
portati 
a 
rinunciare 
a 
qualsiasi 
tipo 
di 
azione 
piuttosto 
che 
ad 
intraprendere 
attivamente 
un’azione 
giurisdizionale 
(72). 


Per la 
piena 
efficacia 
dell’azione 
di 
classe 
sarebbe 
stato utile 
adottare, in 
sede 
di 
novella 
sfociata 
nella 
L. 
n. 
31/2019, 
il 
modello 
americano. 
Autorevole 
dottrina 
ha 
rilevato 
che 
“l’adesione 
preventiva 
[...] 
-stante 
il 
ruolo 
inverso 
della razionale 
apatia del 
consumatore, che 
lo induce 
a evitare 
rischi, anche 
minimi 
e 
disagi 
connessi 
all’attivazione 
giudiziale 
-si 
traduce 
in bilanci 
desolanti 
[per 
l’azione 
di 
classe]. 
I 
risultati 
positivi 
latitano. 
Li 
si 
conta 
sulle 


(71) Fortune 
500 
è 
una 
lista 
annuale 
compilata 
e 
pubblicata 
dalla 
rivista 
Fortune 
che 
classifica 
le 
500 maggiori imprese societarie statunitensi misurate sulla base del loro fatturato. 
(72) Su tale 
studio: 
ELISABETTA 
CORAPI, in Liber 
amicorum 
Guido Alpa, Capitolo XXI, Appunti 
sull’ambito 
di 
applicazione 
soggettivo 
ed 
oggettivo 
della 
class 
action 
nella 
legge 
di 
riforma, 
cit., 
p. 
485, 
nota 10. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


punte 
delle 
dita 
di 
una 
mano 
(monca...)” 
(73). 
Si 
è 
altresì 
rilevata 
l’inefficienza 
del 
meccanismo 
dell’adesione 
e, 
quindi, 
dell’opt-in 
anche 
nel 
caso 
dell’azione 
di 
classe 
che 
in Italia 
ha 
contato il 
maggior numero di 
aderenti, ossia 
quella 
in 
tema 
di 
danno da 
emissioni 
di 
ossido d’azoto promossa 
avanti 
al 
Tribunale 
di 
Venezia 
nei 
confronti 
di 
una 
nota 
compagnia 
automobilistica 
tedesca, puntualizzandosi: 
“davanti 
al 
Tribunale 
di 
Venezia, 
l’azione 
di 
classe 
più 
grande 
numericamente 
mai 
proposta in Italia e 
che 
conta diverse 
decine 
di 
migliaia di 
class 
members, ha determinato enormi 
difficoltà di 
gestione 
della ricezione 
degli 
atti 
di 
adesione 
e 
di 
organizzazione 
dei 
documenti 
e 
dei 
fascicoli 
e 
ha 
richiesto misure organizzative straordinarie” 
(74). 


Tuttavia, i 
timori 
di 
una 
lesione 
del 
diritto di 
difesa 
conseguenti 
all’adozione 
del 
modello 
americano 
dell’opt-out 
e 
la 
decisa 
contrarietà 
del 
panorama 
industriale 
italiano hanno determinato il 
legislatore 
a 
perseverare 
nella 
scelta 
prudenziale 
di 
proseguire 
con la 
strada 
dell’opt-in, che 
troppo spesso si 
è 
rivelata 
incapace 
di 
raggiungere 
una 
massa 
critica 
di 
aderenti 
che 
scelgano di 
entrare nell’azione (75). 

I suddetti 
timori 
di 
una 
lesione 
del 
diritto di 
difesa 
sono fondati 
sul 
principio 
enunciato 
dall’art. 
24 
Cost., 
secondo 
cui 
“Tutti 
possono 
agire 
in 
giudizio 
per 
la 
tutela 
dei 
propri 
diritti 
e 
interessi 
legittimi”. 
Nel 
processo 
civile, 
quindi, 
opera 
la 
regola 
della 
disponibilità 
dei 
diritti 
da 
parte 
del 
titolare 
(tutela 
dei 
propri 
diritti). 
Nell’azione 
collettiva 
con 
il 
meccanismo 
dell’opt-out 
accade 
che 
un 
soggetto 
(l’attore) 
dispone 
di 
un 
diritto 
altrui 
(il 
componente 
della 
classe 
non attore). Difatti, il 
componente 
della 
classe 
non attore 
potrebbe 
benissimo 
scegliere 
di 
non agire 
o agire 
con azione 
individuale, mentre 
il 
coinvolgimento 
nell’azione 
di 
classe 
lo 
priverebbe 
del 
potere 
di 
disporre 
in 
via 
esclusiva ed autonoma - in positivo e in negativo - del proprio diritto. 


A 
ben 
vedere, 
però, 
l’adozione 
del 
meccanismo 
del 
modello 
americano 
del-
l’opt-out 
non 
appare 
lesiva 
di 
principi 
costituzionali, 
specie 
del 
diritto 
di 
azione. 


Deve 
ritenersi 
che 
la 
facoltà 
di 
autoescludersi, 
integrante 
un 
onere 
in 
capo 
al 
titolare 
del 
diritto (76), sterilizzi 
l’“intrusione” 
causata 
dall’esercizio del-
l’azione altrui. 

Entra 
anche 
in 
gioco 
-nel 
reputare 
compatibile 
con 
la 
nostra 
Costituzione 
il 
meccanismo dell’opt-out 
-il 
bilanciamento degli 
interessi, dei 
valori 
costituzionali 
(77). Viene 
in rilievo il 
“giusto processo”, integrante 
un principio 


(73) ROBERTO 
PARDOLESI, La classe in azione. Finalmente, in Danno e Resp., 2019, p. 305. 
(74) ANGELO 
DANILO 
DE 
SANTIS, L'azione 
di 
classe 
a dieci 
anni 
dalla sua entrata in vigore, in 
Foro it., 2019, I, c. 2180. 
(75) RICCARDO 
FRATINI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 122. 
(76) Sull’onere, ex 
plurimis 
C. MASSIMO 
BIANCA, Istituzioni 
di 
diritto privato, Milano, Giuffré, 
2014, p. 56; 
FERNANDO 
BOCChINI, ENRICO 
QUADRI, 
Diritto privato, VII edizione, Torino, Giappichelli, 
2018, pp. 142-143. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


costituzionale 
(art. 111, comma 
1, Cost.), sicuramente 
più garantito dal 
meccanismo 
dell’opt-out 
rispetto 
a 
quello 
dell’opt-in, 
da 
bilanciare 
con 
il 
principio 
costituzionale 
della 
disponibilità 
della 
tutela 
giurisdizionale 
(art. 24, comma 
1, Cost.). 


Nel 
bilanciamento 
è 
possibile 
dare 
prevalenza 
al 
principio 
del 
“giusto 
processo”, 
declinato 
con 
il 
meccanismo 
dell’opt-out, 
rispetto 
al 
principio 
della 
disponibilità 
della 
tutela, tenuto conto che 
il 
titolare 
del 
diritto può autoescludersi 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
altri 
disponga 
delle 
proprie 
situazioni 
giuridiche 
soggettive (78). 


Incidenza della proposizione dell’azione di classe sulle azioni analoghe. 


Nell’ordinamento americano la 
proposizione 
di 
una 
azione 
di 
classe 
da 
parte 
di 
un soggetto non inibisce 
la 
proposizione 
di 
analoghe 
azioni 
di 
classe 
da 
parte 
di 
altri 
soggetti 
appartenenti 
alla 
classe. È 
previsto solo che 
nella 
seconda 
fase 
del 
procedimento -ossia 
nella 
precertification 
dedicata 
all’esame 
delle 
questioni 
preliminari 
e 
preparatorie 
al 
giudizio -è 
possibile 
esaminare 
le 
problematiche 
del 
rapporto 
tra 
domanda 
di 
certification 
ed 
altri 
procedimenti 
pendenti, 
per 
giungere 
agli 
opportuni 
raccordi. 
Qualora 
un 
giudice 
federale 
rilevi 
una 
litispendenza 
o 
continenza 
di 
azioni, 
le 
soluzioni 
possono 
essere 
molteplici: 


-se 
tutti 
i 
procedimenti 
sono stati 
avviati 
di 
fronte 
a 
corti 
federali, si 
può 
applicare 
la 
disciplina 
delle 
Multidistrict 
Litigations 
(MDL), attraverso cui 
le 
questioni di fatto e di diritto comuni vengono decise da un giudice unico; 
-se 
non 
si 
ricorre 
alla 
MDL 
e 
le 
diverse 
azioni 
sono 
tutte 
proposte 
di 
fronte 
a 
giudici 
federali, costoro possono coordinarsi 
fra 
loro attraverso procedure 
informali o formalizzate; 


-nel 
caso in cui 
i 
procedimenti 
pendano davanti 
a 
giudici 
di 
grado diffe(
77) Sul 
bilanciamento degli 
interessi: 
RICCARDO 
GUASTINI, 
Interpretare 
e 
argomentare, Milano, 
Giuffré, 2011, pp. 206-211. 
(78) Anche 
SILVIA 
MONTI, LUCIANO 
CASTELLI, opt-out 
e 
diritto italiano: non c'è 
incompatibilità, 
in 
Danno 
e 
Resp., 
2019, 
p. 
699, 
reputano 
compatibile 
il 
meccanismo 
dell’opt-out 
nel 
nostro 
ordinamento 
giuridico, con le 
seguenti 
argomentazioni: 
“(i) sotto il 
profilo tecnico, se 
accompagnato da adeguate 
forme 
di 
pubblicità volte 
a informare 
della pendenza del 
procedimento di 
tutela collettiva i 
vari 
componenti 
della classe, sembrerebbe 
ben lungi 
dall'essere 
incompatibile 
con i 
principi 
che 
caratterizzano 
il 
nostro sistema processuale, primo fra tutti 
il 
principio del 
contraddittorio; (ii) sotto il 
profilo pratico, 
sarebbe 
più 
idoneo 
a 
garantire 
la 
tutela 
dei 
diritti 
dei 
membri 
della 
classe 
(storicamente 
apatici 
rispetto 
alla 
prospettiva 
di 
una 
tutela 
giudiziale 
delle 
proprie 
ragioni 
e 
a 
favorire 
la 
definizione 
transattiva 
della 
controversia, consentendo al 
convenuto di 
stimare, in base 
al 
numero dei 
membri 
della classe, i 
costi 
di 
un'eventuale 
soccombenza; (iii) sotto il 
profilo sistematico, da un lato, sarebbe 
compatibile 
con la Raccomandazione 
396/2013 UE 
della Commissione 
europea che, pur 
esprimendosi 
in linea generale 
a favore 
del 
meccanismo 
dell'opt-in, 
non 
ha 
escluso 
il 
ricorso 
al 
meccanismo 
dell'opt-out, 
e, 
dall'altro, 
sarebbe 
coerente 
con 
la 
tendenza 
-riscontrata 
in 
altri 
ordinamenti 
europei 
-di 
estendere 
gli 
effetti 
della 
sentenza 
o 
della 
transazione 
collettiva, 
in 
assenza 
di 
una 
loro 
contraria 
manifestazione 
di 
volontà, 
anche 
ai titolari di situazioni omogenee rimasti estranei rispetto all'iniziativa processuale”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


rente, 
federali 
e 
statali, 
l’ordinamento 
consente 
l’elasticità 
necessaria 
a 
gestire 
le controversie in modo omogeneo. 


Nell’ordinamento italiano, diversamente 
da 
quello americano, è 
previsto 
che 
la 
proposizione 
di 
una 
azione 
di 
classe 
da 
parte 
di 
un soggetto inibisce 
la 
proposizione 
di 
analoghe 
azioni 
di 
classe 
da 
parte 
di 
altri 
soggetti 
appartenenti 
alla classe. Vi è una sorta di effetto di prevenzione. 


Tanto 
sia 
nella 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Consumo 
che 
in 
quella 
contenuta 
nella 
novella 
del 
2019. 
Sul 
punto, 
l’art. 
140 
bis, 
comma 
14, 
D.Lgs. 
n. 
206/2005, 
nei 
confronti 
della 
classe 
passiva 
prevede 
che 
“non 
sono 
proponibili 
ulteriori 
azioni 
di 
classe 
per 
i 
medesimi 
fatti”. 
Ciò 
significa 
che 
i 
consumatori 
appartenenti 
alla 
classe, ma 
che 
non aderiscono, perdono comunque 
la 
possibilità 
di 
agire 
in un secondo momento in via 
collettiva. Per chi 
non vuole 
aderire 
all’azione, 
la 
pubblicità 
della 
proposizione 
dell’azione 
di 
classe 
è 
importante, 
perché 
preclude 
ai 
componenti 
la 
classe 
la 
proposizione 
autonoma 
della 
stessa 
azione 
di 
classe. Il 
componente 
la 
classe 
può agire 
solo con l’ordinaria 
azione individuale. 


Analogamente 
dispone 
l’art. 840 quater 
c.p.c., secondo cui 
decorsi 
sessanta 
giorni 
dalla 
data 
di 
pubblicazione 
del 
ricorso nell’area 
pubblica 
del 
portale 
dei 
servizi 
telematici 
di 
cui 
all’articolo 
840 
ter, 
secondo 
comma, 
non 
possono 
essere 
proposte 
ulteriori 
azioni 
di 
classe 
sulla 
base 
dei 
medesimi 
fatti 
e 
nei 
confronti 
del 
medesimo resistente 
e 
quelle 
proposte 
sono cancellate 
dal 
ruolo. 
Le 
azioni 
di 
classe 
proposte 
tra 
la 
data 
di 
deposito 
del 
ricorso 
e 
il 
termine 
di cui al primo periodo sono riunite all’azione principale. 


Conciliazione della controversia. 


In entrambe 
le 
discipline, nel 
corso del 
processo attivato con l’azione 
di 
classe 
la 
parte 
proponente 
ed il 
convenuto possono conciliare 
la 
controversia 
e la conciliazione va ratificata dal giudice. 


Negli 
Stati 
Uniti 
-dove 
la 
maggior parte, nell’ordine 
dell’80-90 %, delle 
class 
actions 
terminano 
proprio 
con 
una 
transazione 
-è 
possibile 
trovare 
la 
conciliazione, 
definita 
“Certification 
for 
settlement”, 
solo 
prima 
della 
sentenza 
definitiva. Il 
giudice 
deve 
approvare 
(certification) ogni 
settlement 
che 
venga 
raggiunto dalle 
parti, con valutazione 
sia 
formale 
che 
sostanziale; 
a 
quest’ultimo 
riguardo 
andrà 
valutato 
se 
il 
settlement 
proposto 
sia 
“fair, 
adequate 
e 
reasonable”. 
L’approvazione 
dell’accordo 
è 
vincolante 
per 
tutti 
i 
membri 
della 
classe. 
Nel 
2018 
è 
stata 
introdotta 
la 
previsione 
della 
Federal 
Rule 
of 
Civil 
Procedure 
23(e)(2)(D), 
esplicitamente 
ostativa 
alla 
omologazione 
di 
conciliazioni 
iniquamente 
discriminatorie, generalizzando regole 
già 
contemplate 
dal 
Class 
Action Fairness 
Act 
del 2005. 


Anche 
in 
Italia 
-secondo 
la 
disciplina 
del 
Codice 
del 
Consumo 
-nel 
corso 
del 
processo attivato dall’azione 
di 
classe 
la 
parte 
proponente 
ed il 
convenuto 
possono conciliare 
la 
controversia. L’accordo bonario, ove 
abbia 
ad oggetto i 



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


diritti 
individuali 
omogenei 
anche 
di 
tutti 
o 
parte 
degli 
aderenti 
all’azione 
collettiva, 
non pregiudica 
i 
diritti 
degli 
aderenti 
che 
non vi 
hanno espressamente 
consentito. 

Questo 
impianto 
è 
stato 
mantenuto 
con 
la 
novella 
operata 
con 
la 
L. 
n. 
31/2019, 
con 
delle 
specificazioni 
e 
la 
possibilità 
che 
la 
definizione 
bonaria 
possa 
intervenire 
sia 
prima 
che 
dopo 
la 
sentenza 
diretta 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva 
ex 
art. 840 sexies 
c.p.c. Rimane 
tuttavia 
incerto, nel 
dettato dell’art. 840 quaterdecies 
c.p.c., in base 
a 
quali 
criteri 
l’approvazione 
debba 
o meno concedersi: 
è 
senz’altro indefettibile 
una 
valutazione 
dei 
presupposti 
di 
regolarità 
formale 
dell’atto 
e 
di 
conformità 
dello 
stesso 
alle 
norme 
imperative 
dell’ordinamento, 
ma 
non 
è 
chiaro 
se, 
come 
accade 
negli 
Stati 
Uniti, debba 
anche 
verificarsi 
che 
il 
contenuto dell’accordo non sia 
eccessivamente 
difforme 
dall’attualizzazione 
del 
valore 
delle 
pretese 
degli 
aderenti, 
e non sia iniquamente discriminatorio nei confronti di alcuni aderenti (79). 


Procedimento sul merito della controversia. 


Superato il 
filtro di 
ammissibilità, il 
procedimento giudiziario nei 
due 
sistemi 
è 
molto diversificato. Più compatto negli 
Stati 
Uniti 
(con le 
fasi 
della 
discovery 
e 
del 
Trial 
e 
Judgement), più complesso e 
frammentato, specie 
all’esito 
della 
novella 
del 
2019, 
in 
Italia. 
Invero, 
la 
novella 
del 
2019 
da 
una 
parte 
ha 
complicato 
il 
procedimento, 
dall’altra 
parte, 
però, 
ha 
rafforzato 
i 
poteri 
istruttori 
del 
giudice, 
superando 
le 
lacune 
della 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del Consumo. 


Negli 
U.S.A. dopo la 
discovery 
si 
apre 
il 
dibattimento, in cui 
prima 
l’attore 
e 
poi 
il 
convenuto presentano la 
loro prospettazione 
della 
causa 
e 
si 
raccolgono 
le 
dichiarazioni 
dei 
testimoni 
e 
dei 
periti 
e 
le 
altre 
prove. 
Normalmente 
(tranne 
che 
in ipotesi 
specifiche) il 
giudice 
è 
affiancato da 
una 
giuria 
popolare. 
All’esito 
del 
trial 
(in 
USA 
si 
tiene 
conto 
del 
verdetto 
della 
giuria), il 
giudice 
emette 
la 
sentenza 
(judgment). Il 
giudice 
ha 
un forte 
potere 
discrezionale. 


In Italia 
la 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo delinea 
un procedimento 
che 
dovrebbe 
essere 
-salvo il 
rispetto del 
contraddittorio -rapido 
e 
snello, attribuendo a 
tal 
fine 
incisivi 
poteri 
al 
giudice. All’esito del 
giudizio, 
ove 
accolta 
la 
domanda, il 
tribunale 
pronuncia 
sentenza 
di 
condanna, con cui 
liquida 
in 
via 
equitativa 
le 
somme 
definitive 
dovute 
a 
coloro 
che 
hanno 
aderito 
all’azione. 
Con 
tale 
statuizione 
il 
giudizio 
si 
chiude. 
Tuttavia 
vi 
può 
essere 
una 
frammentazione: 
la 
legge 
prevede 
che 
in 
alternativa 
alla 
sentenza 
di 
liquidazione 
definitiva 
-nel 
caso in cui 
non sia 
possibile 
condannare 
il 
convenuto 
al 
risarcimento del 
danno o alle 
restituzioni 
-la 
sentenza 
può limitarsi 
a 


(79) ANDREA 
GIUSSANI, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 31, 
a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 158. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


stabilire 
il 
criterio omogeneo di 
calcolo per la 
liquidazione 
delle 
somme 
definitive 
dovute 
a 
coloro 
che 
hanno 
aderito 
all’azione. 
In 
quest’ultima 
evenienza, 
dopo la 
sentenza 
-se 
non si 
addivenga 
ad un accordo inter 
partes 
sulla 
liquidazione 
del 
danno -seguiranno giudizi 
di 
completamento individuali 
di 
liquidazione, 
che 
costituiscono 
l’ineludibile 
appendice 
di 
una 
unica 
vicenda 
di 
tutela collettiva. 


Con 
la 
novella 
del 
2019 
il 
quadro 
si 
è 
ulteriormente 
complicato. 
In 
prima 
analisi, 
come 
abbiamo 
già 
accennato 
in 
precedenza, 
è 
possibile 
aderire 
all’azione 
di 
classe 
anche 
in 
un 
secondo 
momento 
(oltre 
la 
fase 
nella 
quale 
l’azione 
è 
dichiarata 
ammissibile), 
ossia 
dopo 
la 
pronuncia 
della 
sentenza 
di 
accoglimento 
dell’azione 
di 
classe 
ex 
art. 
840 
sexies, 
lettere 
e) 
e 
c). 
Inoltre 
il 
procedimento 
è 
stato 
spezzato 
in 
due 
distinte 
fasi 
con 
autonomi 
provvedimenti 
definitori: 


a) 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva, 
ovvero 
di 
questioni 
comuni 
alla 
classe, che 
termina 
con una 
sentenza 
che, quando accoglie 
in tutto o in parte 
la 
domanda 
dell’attore, pronuncia 
l’accertamento e 
la 
condanna 
dell’impresa 
o dell’ente 
resistente 
al 
risarcimento o alle 
restituzioni 
in favore del solo attore. 
L’istruttoria 
è 
caratterizzata 
dai 
notevoli 
poteri 
ufficiosi 
del 
giudice 
diretti 
all’accertamento dei 
fatti 
costitutivi 
dell’azione, sul 
presupposto che 
l’attore 
è 
la 
parte 
debole 
del 
rapporto processuale 
e 
che, pertanto, al 
fine 
di 
riequilibrare 
la 
posizione 
processuale 
delle 
parti 
e 
garantire 
la 
effettività 
dei 
diritti, è 
necessario 
un 
intervento 
in 
favore 
della 
parte 
attrice. 
Sotto 
questo 
profilo, 
circa 
il 
primo 
giudizio, 
due 
sono 
gli 
aspetti 
rilevanti: 
a) 
carico 
delle 
spese 
della 


C.T.U. in capo al 
convenuto; 
b) incisivo ordine 
di 
esibizione, con una 
sorta 
di 
discovery 
intesa 
a 
garantire 
anche 
nei 
procedimenti 
collettivi 
l’accesso 
alle 
prove 
che 
non sono nell’immediata 
disponibilità 
della 
parte 
che 
se 
ne 
vuole 
servire (80); 
b) ove 
superato positivamente 
il 
primo giudizio, vi 
sarà 
un secondo giudizio 
diretto all’accertamento dei 
diritti 
individuali 
omogenei 
degli 
aderenti 
che 
termina 
con 
un 
decreto 
che, 
quando 
accoglie 
in 
tutto 
o 
in 
parte 
la 
domanda 
di 
adesione, 
condanna 
il 
resistente 
al 
pagamento 
delle 
somme 
o 
delle 
cose 
dovute 
a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione. 
Alla 
luce 
dei 
caratteri 
del 
procedimento 
sul 
merito 
nei 
due 
sistemi, 
emerge 
che 
il 
modello americano appare 
più funzionale, in confronto al 
modello italiano, 
specie 
all’esito 
dell’ultima 
modifica, 
rispetto 
all’ordinato 
e 
sollecito 
svolgimento del 
giudizio. Tra 
l’altro, il 
meccanismo della 
doppia 
finestra 
potrebbe 
rendere 
difficile 
definizioni 
transattive 
che, 
sul 
modello 
americano, 
dovrebbero 
costituire 
la 
regola. 
Autorevole 
dottrina 
evidenzia 
-con 
riguardo 
alla 
seconda 
finestra, 
che 
“questo 
meccanismo 
temporale, 
allarga 
incredibilmente 


(80) Per tale 
rilievo: 
GIULIA 
MAzzAFERRO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 
aprile 2019, n. 31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 172. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


il 
numero 
dei 
membri 
della 
classe, 
potendo 
determinare 
la 
nascita 
di 
comportamenti 
opportunistici. 
L’esperienza 
nordamericana 
ci 
rivela 
che, 
anche 
in 
relazione 
a due 
centrali 
caratteristiche 
dell’american tort 
law (cioè 
la regola 
in virtù della quale 
ciascuna parte 
è 
gravata delle 
spese 
processuali, non essendo 
prevista 
una 
soccombenza 
e 
quella 
per 
la 
quale 
possono 
essere 
concessi 
i 
punitive 
damages), le 
class 
action sono quasi 
sempre 
oggetto di 
intese 
transattive 
(settlement 
out 
of 
court) e 
quasi 
mai 
sono decise. In Italia, con la previsione 
di 
una 
adesione 
successiva 
alla 
sentenza, 
questa 
strada 
si 
rivelerà 
più 
difficilmente 
percorribile, 
determinando 
un 
aggravamento 
delle 
incertezze 
collegate a questo contenzioso” 
(81). 


Quantum della condanna del convenuto nelle azioni collettive. 


Una 
delle 
più significative 
differenze 
tra 
la 
disciplina 
americana 
e 
quella 
italiana 
attiene 
alla 
ammissibilità 
o meno della 
condanna 
del 
convenuto, ove 
accolta 
la 
domanda 
di 
classe, ai 
c.d. danni 
punitivi, ossia 
ulteriori 
rispetto ai 
danni effettivamente subiti. 


Una 
caratteristica 
del 
sistema 
americano sono i 
punitive 
damages, atteso 
anche 
il 
legame 
che 
sussiste 
tra 
l’ammontare 
del 
risarcimento 
e 
gli 
onorari 
degli 
avvocati. 
La 
sentenza 
di 
condanna, 
definitoria 
della 
class 
action, 
può 
svolgere 
una 
funzione 
non 
solo 
riparatoria 
e 
risarcitoria 
(compensatory 
damages), 
ma 
anche 
punitiva 
con 
finalità 
deterrente 
(exemplary/punitive 
damages). 
Se 
viene 
constatato un comportamento socialmente 
e 
civilmente 
censurabile 
(dolo, colpa 
grave), il 
giudice 
può condannare 
il 
convenuto a 
pagare 
non solo 
il risarcimento in senso stretto ma anche i cd. danni punitivi. 


Circa 
i 
danni 
punitivi 
si 
è 
rilevato 
che 
-sulla 
premessa 
secondo 
cui 
a 
nessuno 
dovrebbe 
essere 
concessa 
la 
possibilità 
di 
trarre 
profitto 
dal 
compimento 
di 
una 
condotta 
illecita 
-“questa 
articolazione 
risarcitoria 
conferisce 
alla 
vittima 
dell’illecito 
l’opportunità 
di 
ottenere 
una 
sanzione 
esemplare 
nei 
confronti 
di 
chi 
ha 
commesso 
in 
mala 
fede 
un 
atto 
particolarmente 
grave 
e 
riprovevole” 
(82). 


(81) GIULIO 
PONzANELLI, La nuova class action, in Danno e resp., cit., pp. 306 e ss. 
(82) 
Così 
RICCARDO 
PARDOLESI, 
voce 
Danni 
punitivi, 
in 
Dig. 
disc. 
priv. 
(sez. 
civ. 
-Aggiornamento), 
Torino, UTET, 2007, I, pp. 452 ss., il 
quale 
individua 
delle 
specifiche 
ipotesi 
legislative 
riconducibili 
alle 
fattispecie 
di 
danni 
punitivi 
nel 
nostro ordinamento giuridico, quali 
l’ipotesi 
dell’art. 125 D.l.vo 10 
febbraio 2005, n. 30 contenente 
il 
Codice 
della 
Proprietà 
Industriale 
(“1. Il 
risarcimento dovuto al 
danneggiato 
è 
liquidato secondo le 
disposizioni 
degli 
articoli 
1223, 1226 e 
1227 del 
codice 
civile, tenuto 
conto 
di 
tutti 
gli 
aspetti 
pertinenti, 
quali 
le 
conseguenze 
economiche 
negative, 
compreso 
il 
mancato 
guadagno, del 
titolare 
del 
diritto leso, i 
benefici 
realizzati 
dall'autore 
della violazione 
e, nei 
casi 
appropriati, 
elementi 
diversi 
da quelli 
economici, come 
il 
danno morale 
arrecato al 
titolare 
del 
diritto dalla 
violazione. 
[…]”) 
e 
la 
riparazione 
pecuniaria 
ex 
art. 
12 
L. 
8 
febbraio 
1948, 
n. 
47 
sulla 
stampa 
(“Nel 
caso di 
diffamazione 
commessa col 
mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre 
il 
risarcimento 
dei 
danni 
ai 
sensi 
dell'art. 
185 
del 
Codice 
penale, 
una 
somma 
a 
titolo 
di 
riparazione. 
La 
somma 
è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato”). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


I 
punitive 
damages 
svolgono 
una 
importante 
influenza 
sulle 
scelte 
del 
convenuto 
durante 
il 
processo. 
Per 
la 
presenza 
massiccia 
dei 
danni 
punitivi 
all’interno dell’ammontare 
dei 
risarcimenti, l’eventualità 
di 
una 
condanna 
al 
pagamento di 
ingenti 
risarcimenti 
incide 
non poco sulla 
valutazione 
del 
convenuto 
circa 
la 
convenienza 
di 
addivenire 
ad un accordo. Le 
aziende 
statunitensi 
sono 
ben 
consapevoli 
delle 
ripercussioni 
negative 
che 
i 
danni 
punitivi 
posso avere 
nel 
sistema 
economico e 
cercano di 
chiudere 
nel 
modo più immediato 
la controversia, con proposte di composizione amichevole. 


Diversamente 
dall’ordinamento 
americano, 
nell’ordinamento 
giuridico 
italiano la 
regola 
è 
che 
il 
danno risarcibile 
è 
determinato in via 
primaria 
dal 
principio di 
causalità: 
il 
debitore 
è 
tenuto al 
risarcimento del 
danno che 
è 
conseguenza 
immediata 
e 
diretta 
dell’inadempimento 
(art. 
1223 
c.c., 
disposizione 
richiamata, 
in 
materia 
di 
danno 
aquiliano, 
dall’art. 
2056 
c.c.). 
Alla 
base 
di 
questa 
regola 
sta 
il 
principio del 
danno effettivo: 
l’obbligo del 
risarcimento deve 
adeguarsi 
al 
danno effettivamente 
subito dal 
creditore, il 
quale 
non deve 
ricevere 
né 
più 
né 
meno 
di 
quanto 
necessario 
a 
rimuovere 
gli 
effetti 
economici 
negativi 
dell’inadempimento 
o 
dell’illecito. 
Non 
sono 
ammessi, 
pertanto, 
a 
legislazione 
vigente, i 
c.d. danni 
punitivi. Non è, cioè, ammesso il 
risarcimento 
in 
funzione 
punitiva 
del 
danneggiante. 
È 
infatti 
estranea 
al 
nostro 
ordinamento 
l’idea 
che 
il 
risarcimento del 
danno possa 
avere 
una 
funzione 
afflittiva 
per il 
danneggiante (83). 


Questa 
è 
la 
regola. 
L’ordinamento 
potrebbe 
tuttavia, 
con 
una 
legge 
ad 
hoc, introdurre 
-per la 
tutela 
di 
interessi 
costituzionalmente 
tutelati 
-ipotesi 
di danni punitivi. 


Al 
riguardo si 
evidenzia 
altresì, in dottrina, che 
il 
panorama 
legislativo 
che 
regola 
la 
tutela 
giurisdizionale 
dei 
diritti 
è 
disseminato 
di 
sanzioni 
processuali 
che 
si 
presentano 
caratterizzate 
da 
aspetti 
comuni, 
quali 
la 
provenienza 
da 
parte 
del 
giudice, 
l’irrilevanza 
dell’accertamento 
dell’elemento 
soggettivo della 
condotta, l’indifferenza 
dell’esistenza 
del 
danno e 
del 
nesso 
di 
causalità, 
la 
predeterminazione 
dell’entità 
nonché 
la 
loro 
“portata 
esemplare”. 
Rientrano in questa 
categoria 
la 
misura 
coercitiva 
di 
cui 
all’art. 614 
bis 
c.p.c. 
e 
la 
condanna 
alla 
responsabilità 
aggravata 
ex 
art. 
96, 
comma 
3, 
c.p.c., 
norme 
entrambe 
introdotte 
dalla 
legge 
del 
18 
giugno 
2009, 
n. 
69 
e 
chiari 
indici 
della 
funzione 
deterrente, 
punitiva 
ed 
esemplare 
che 
vuole 
andare 
ad 
assumere 
il 
processo 
civile, 
poiché, 
rispettivamente 
oltre 
al 
risarcimento 
e 
alla 
reintegrazione 
in 
forma 
specifica, 
prevedono 
la 
comminatoria 
di 
una 
sanzione 
(84). Da 
ultimo, il 
Supremo consesso della 
Corte 
di 
legittimità, in occasione 


(83) Per tali 
aspetti: 
C. MASSIMO 
BIANCA, Diritto civile. 5. La responsabilità, II edizione, Milano, 
Giuffré, 2012, pp. 140-141. 
(84) GIULIA 
MAzzAFERRO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 
31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., pp. 176-177. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


della 
pronuncia 
sulla 
delibazione 
di 
sentenze 
statunitensi, 
ha 
riconosciuto 
non 
ontologicamente 
incompatibile 
con l’ordinamento italiano l’istituto dei 
risarcimenti 
punitivi, 
a 
condizione 
che 
la 
sentenza 
straniera 
da 
delibare, 
contenente 
una 
liquidazione 
dei 
danni 
a 
titolo 
di 
sanzione, 
“sia 
stata 
resa 
nell’ordinamento 
straniero su basi 
normative 
che 
garantiscono la tipicità delle 
ipotesi 
di 
condanna, 
la 
prevedibilità 
della 
stessa 
ed 
i 
limiti 
quantitativi, 
dovendosi 
avere 
riguardo, in sede 
di 
delibazione, unicamente 
agli 
effetti 
dell’atto straniero e 
alla loro compatibilità con l’ordine pubblico” 
(85). 

Quindi, 
da 
un 
punto 
di 
vista 
sistematico 
nulla 
osterebbe 
ad 
accogliere 
anche 
nell’ordinamento giuridico italiano la 
previsione 
di 
danni 
punitivi, specie 
nelle 
fattispecie 
di 
danni 
arrecati 
con 
microlesioni 
da 
imprese 
in 
situazioni 
di 
monopolio od oligopolio. Una 
tale 
previsione, deve 
ritenersi, conferirebbe 
maggiore funzionalità al sistema delle tutele. 


Tuttavia 
va 
registrato 
che 
-con 
riguardo 
alle 
azioni 
collettive 
risarcitorie 
-né 
la 
disciplina 
prevista 
dal 
Codice 
del 
Consumo 
né 
la 
legge 
n. 
31/2019 
hanno 
introdotto 
questo 
istituto 
peculiare 
che 
caratterizza 
profondamente 
il 
funzionamento 
delle 
class 
actions 
statunitensi, 
e 
che 
anzi 
ne 
costituisce 
uno 
degli 
elementi 
principali, 
ossia 
la 
condanna 
ai 
punitive 
damages. 
Occorre 
rilevare 
che, 
nell’operare 
questa 
scelta 
preclusiva, 
il 
legislatore 
interno 
è 
stato 
probabilmente 
influenzato 
dalla 
normativa 
comunitaria 
in 
materia: 
infatti, 
la 
Raccomandazione 
2013/396/UE 
suggerisce 
il 
divieto 
dei 
risarcimenti 
punitivi 
che 
hanno 
come 
conseguenza 
un 
risarcimento 
eccessivo 
a 
favore 
della 
parte 
ricorrente. 


Invece, 
nelle 
azioni 
collettive 
inibitorie 
-sia 
nella 
disciplina 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo (art. 140, commi 
7 ed 8) che 
nella 
legge 
n. 31/2019 
(art. 840 sexiesdecies 
c.p.c.) -vi 
è 
la 
previsione 
di 
comminatoria 
di 
danni 
punitivi 
nella 
evenienza 
che 
l’ingiunzione 
venga 
disattesa 
dal 
destinatario. 
Anzi, 
con 
la 
novella 
del 
2019 
viene 
meglio 
disciplinata 
l’astraintes 
collegata 
all’accoglimento 
dell’azione, 
con 
l’applicazione 
della 
misura 
coercitiva 
generale 
dell’art. 614 bis 
c.p.c. 


Spese di lite. 


Notevolmente 
diversa 
è 
la 
disciplina 
delle 
spese 
di 
lite 
nei 
due 
sistemi 
in 
comparazione, 
conseguenza 
delle 
regole 
generali 
valevoli 
per 
i 
rispettivi 
processi 
civili. 
Il 
governo 
delle 
spese 
negli 
USA 
è 
uno 
dei 
fattori 
del 
successo 
della 
class 
action. 
In 
Italia, 
con 
la 
novella 
del 
2019, 
proprio 
nella 
materia 
delle 
azioni 
collettive 
è 
stata 
introdotta 
una 
normativa 
che, 
alla 
lontana, 
richiama 
il 
modello 
statunitense, 
in 
chiara 
funzione 
di 
incentivo 
all’azione 
di 
classe. 


Negli 
USA 
il 
funzionamento 
del 
processo 
civile 
è 
fortemente 
influenzato 
da due regole peculiari che riguardano le spese e gli onorari degli avvocati. 


(85) Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 5 luglio 2017, n. 16601. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


La 
prima 
è 
l’American rule 
che 
riguarda 
la 
ripartizione 
delle 
spese 
della 
causa 
tra 
il 
vincitore 
e 
il 
soccombente. 
Questa 
regola 
implica 
che 
ognuna 
delle 
parti 
sopporta 
le 
spese 
processuali 
che 
ha 
incontrato, compresi 
gli 
onorari 
dei 
suoi avvocati, salvo che regole generali dicano qualcosa di diverso. 

Questo 
contrasta 
con 
i 
principi 
esistenti 
nella 
maggior 
parte 
degli 
altri 
ordinamenti, 
tra 
i 
quali 
quello italiano, per cui 
il 
soccombente 
deve 
rimborsare 
le 
spese 
processuali 
del 
vincitore, o una 
parte 
di 
esse. In Italia, sul 
punto l’art. 
91 c.p.c. statuisce: 
“Il 
giudice, con la sentenza che 
chiude 
il 
processo davanti 
a 
lui, 
condanna 
la 
parte 
soccombente 
al 
rimborso 
delle 
spese 
a 
favore 
del-
l’altra 
parte 
e 
ne 
liquida 
l’ammontare 
insieme 
con 
gli 
onorari 
di 
difesa”, 
salvo 
che 
sussistano 
ragioni 
per 
compensare 
le 
spese 
di 
lite 
secondo 
la 
disciplina 
contenuta nell’art. 92 c.p.c. 


La 
seconda 
regola 
tipica 
del 
sistema 
americano -già 
evidenziata 
in precedenza 
-è 
che 
sono ammesse 
le 
contingent 
fees, ossia 
il 
“patto di 
quota 
lite”. 
Secondo l’accordo consentito da 
questa 
regola, il 
difensore 
non riceve 
alcun 
onorario 
per 
la 
sua 
attività, 
salvo 
una 
percentuale 
concordata 
delle 
somme 
che 
vengono recuperate 
dalla 
causa. Questo sistema 
è 
normale 
per l’attore 
nelle 
cause 
per risarcimento dei 
danni 
da 
lesioni 
personali, in certi 
tipi 
di 
cause 
in 
materia 
finanziaria 
o commerciale 
e 
nelle 
class 
actions, mentre 
è 
usato raramente 
dal convenuto. 

L’American 
rule, 
a 
parità 
di 
tutte 
le 
altre 
condizioni, 
tende 
a 
favorire 
gli 
attori 
che 
hanno 
limitate 
risorse, 
più 
di 
quanto 
accade 
secondo 
le 
regole 
che 
prevalgono 
negli 
altri 
sistemi. 
Un 
accordo 
sulle 
contingent 
fees 
consente 
al-
l’attore 
di 
proporre 
la 
sua 
causa, 
con 
l’assistenza 
di 
un 
avvocato, 
senza 
rischiare 
di 
dover 
pagare 
l’avvocato 
se 
la 
domanda 
non 
viene 
accolta. 
L’avvocato 
investe 
il 
tempo 
necessario 
per 
preparare 
la 
causa 
e 
svolgere 
le 
attività 
di 
difesa; 
per 
consuetudine 
egli 
provvede 
anche 
a 
pagare 
le 
spese 
accessorie, 
come 
quelle 
relative 
alla 
discovery 
e 
agli 
esperti. 
L’accordo 
normale 
è 
che 
l’avvocato 
riceve 
un 
terzo 
della 
somma 
che 
recupera, 
oltre 
al 
rimborso 
delle 
spese 
di 
causa 
che 
ha 
anticipato. 
In 
realtà, 
l’accordo 
sulle 
contingent 
fees 
fa 
diventare 
l’avvocato 
una 
sorta 
di 
socio 
del 
cliente 
nello 
svolgimento 
della 
causa. 
È 
per 
questo 
che 
nella 
maggior 
parte 
degli 
ordinamenti 
esso 
è 
proibito, 
poiché 
l’avvocato 
finisce 
con 
l’avere 
un 
interesse 
economico 
personale 
nella 
causa. 
Di 
solito 
gli 
avvocati 
non 
accettano 
cause 
sulla 
base 
di 
contingent 
fees, 
a 
meno 
che 
vi 
sia 
una 
buona 
probabilità 
di 
ottenere 
somme 
elevate 
in 
rapporto 
all’investimento 
in 
tempo 
e 
in 
denaro 
che 
spetta 
all’avvocato 
(86). 


In 
Italia 
fino 
alla 
entrata 
in 
vigore 
del 
D.L. 
4 
luglio 
2006, 
n. 
233 
(più 
noto 
come 
decreto 
Bersani), 
conv. 
L. 
4 
agosto 
2006, 
n. 
248, 
era 
nullo 
il 
patto 


(86) Sulle 
spese 
di 
lite 
negli 
USA: 
GEOFFREy 
C. hAzARD 
-MIChELE 
TARUFFO, La giustizia civile 
negli Stati Uniti, cit., pp. 114-116. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


di quota lite. Difatti il comma 3 dell’art. 2233 c.c. stabiliva 
“Gli avvocati, i 
procuratori 
e 
i 
patrocinatori 
non 
possono, 
neppure 
per 
interposta 
persona, 
stipulare 
con 
i 
loro 
clienti 
alcun 
patto 
relativo 
ai 
beni 
che 
formano 
oggetto 
delle 
controversie 
affidate 
al 
loro 
patrocinio, 
sotto 
pena 
di 
nullità 
e 
dei 
danni”. 
La 
ratio 
del 
divieto 
del 
patto 
di 
quota 
lite 
era 
da 
individuarsi 
nella 
garanzia 
della 
piena 
estraneità 
alle 
sorti 
della 
lite 
del 
soggetto 
che, 
per 
quella 
lite, 
presta 
assistenza. 
Anche 
secondo 
la 
giurisprudenza 
il 
divieto 
del 
patto 
di 
quota 
lite 
tra 
l’avvocato 
ed 
il 
suo 
cliente 
si 
ricollegava 
essenzialmente 
all’esigenza 
di 
assoggettare 
a 
disciplina 
il 
contenuto 
patrimoniale 
di 
un 
peculiare 
rapporto 
di 
opera 
intellettuale 
al 
fine 
di 
tutelare 
l’interesse 
del 
cliente 
e 
la 
dignità 
e 
la 
moralità 
della 
professione 
forense, 
che 
sarebbe 
risultata 
pregiudicata 
quando 
nella 
convenzione 
concernente 
il 
compenso 
era 
comunque 
ravvisabile 
la 
partecipazione 
del 
professionista 
agli 
interessi 
economici 
finali 
ed 
esterni 
alla 
prestazione, 
giudiziale 
o 
stragiudiziale, 
richiestagli 
(87). 
L’art. 
2 
del 
decreto 
Bersani 
ha 
abolito, 
salva 
ovviamente 
l’applicazione 
dell’art. 
1261 
c.c. 
(88), 
il 
divieto 
del 
patto 
di 
quota 
lite, con 
la 
riformulazione 
dell’art. 
2233, 
comma 
3, 
c.c. 
il 
cui 
attuale 
testo 
è 
il 
seguente: 
“Sono 
nulli, 
se 
non 
redatti 
in 
forma 
scritta, 
i 
patti 
conclusi 
tra 
gli 
avvocati 
ed 
i 
praticanti 
abilitati 
con 
i 
loro 
clienti 
che 
stabiliscono 
i 
compensi 
professionali”. 
La 
modifica 
non 
è 
effettuata 
nel 
senso 
di 
sopprimere 
direttamente 
ed 
espressamente 
il 
divieto 
del 
patto 
di 
quota 
lite; 
la 
disposizione 
si 
riferisce 
infatti 
in 
generale 
ai 
patti 
sui 
compensi. 
Tuttavia, 
la 
sostituzione 
implica 
che 
viene 
meno 
il 
divieto 
esplicito 
e 
preciso 
concernente 
i 
patti 
“relativi 
a 
beni 
che 
formano 
oggetto 
della 
controversia”. 
Fatto 
salvo 
l’obbligo 
di 
dare 
all’accordo 
forma 
scritta, 
viene 
dunque 
meno 
il 
divieto 
di 
stabilire 
i 
compensi 
professionali 
a 
prescindere 
dalle 
griglie 
tracciate 
dal 
“tariffario 
forense” 
e 
di 
individuare 
nei 
beni 
e/o 
diritti 
in 
causa 
la 
fonte 
dalla 
quale 
attingere 
per 
soddisfare 
le 
pretese 
professionali 
dell’avvocato. 
Il 
decreto 
Bersani, 
dunque, 
elimina 
il 
divieto 
per 
i 
legali 
di 
convenire 
compensi 
parametrati 
ai 
risultati 
da 
conseguire, 
concedendo 
la 
facoltà 
di 
pattuire 
accordi 
“tra 
avvocati 
e 
praticanti 
abilitati 
con 
i 
loro 
clienti 
che 
stabiliscano 
i 
compensi 
professionali”, 
all’unica 
condizione 
che 
siano 
redatti 
in 
forma 
scritta. 
Il 
Consiglio 
Nazionale 
Forense, 
di 
conseguenza, 
ha 
modificato 
con 
delibera 
del 
18 
gennaio 
2007 
l’art. 
45 
del 
codice 
deontologico 
forense 
(che 
vietava 
il 
patto 
di 
quota 
lite). 
Il 
nuovo 
testo 
dell’art. 
45 
recita 
che 
“è 
consentito 
all’avvocato 
pattuire 
con 


(87) Così Cass. civ. Sez. II, 19 novembre 1997, n. 11485. 
(88) “I magistrati 
dell'ordine 
giudiziario, i 
funzionari 
delle 
cancellerie 
e 
segreterie 
giudiziarie, 
gli 
ufficiali 
giudiziari, gli 
avvocati, i 
procuratori, i 
patrocinatori 
e 
i 
notai 
non possono, neppure 
per 
interposta 
persona, rendersi 
cessionari 
di 
diritti 
sui 
quali 
è 
sorta contestazione 
davanti 
l'autorità giudiziaria 
di 
cui 
fanno parte 
o nella cui 
giurisdizione 
esercitano le 
loro funzioni, sotto pena di 
nullità e 
dei 
danni. 
La 
disposizione 
del 
comma 
precedente 
non 
si 
applica 
alle 
cessioni 
di 
azioni 
ereditarie 
tra 
coeredi, 
né a quelle fatte in pagamento di debiti o per difesa di beni posseduti dal cessionario”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


il 
cliente 
compensi 
parametrati 
al 
raggiungimento 
degli 
obiettivi 
perseguiti, 
fermo 
il 
divieto 
dell’articolo 
1261 
c.c. 
e 
sempre 
che 
i 
compensi 
siano 
proporzionati 
all’attività 
svolta”. 
Anche 
la 
nuova 
disciplina 
dell’ordinamento 
della 
professione 
forense 
prevede 
che 
“la 
pattuizione 
dei 
compensi 
è 
libera”, 
con 
la 
precisazione 
che 
è 
ammessa 
la 
pattuizione, 
tra 
l’altro, 
“a 
percentuale 
sul 
valore 
dell’affare 
o 
su 
quanto 
si 
prevede 
possa 
giovarsene, 
non 
soltanto 
a 
livello 
strettamente 
patrimoniale, 
il 
destinatario 
della 
prestazione” 
(art. 
13, 
comma 
3, 
L. 
n. 
247/2012). 


L’ammissione, 
dall’anno 
2006, 
del 
patto 
di 
quota 
lite 
nell’ordinamento 
italiano, tuttavia, non ha 
avuto nella 
pratica 
una 
evoluzione 
del 
tipo statunitense. 
Difatti, il 
patto di 
quota 
lite 
è 
raro nella 
pratica, anche 
a 
causa 
di 
vari 
limiti 
legislativi. 

In 
primo 
luogo 
un 
notevole 
limite 
di 
sistema 
è 
la 
regola 
secondo 
cui 
“L’esercizio 
dell’attività 
di 
avvocato 
deve 
essere 
fondato 
sull’autonomia 
e 
sulla indipendenza dell’azione 
professionale 
e 
del 
giudizio intellettuale” 
(art. 
3, 
comma 
1, 
L. 
n. 
247/2012). 
Un 
patto 
di 
quota 
lite 
“all’americana” 
con 
la 
previsione 
che 
la 
terza 
parte 
della 
vittoria 
spetti 
al 
difensore 
-creando 
una 
evidente 
cointeressenza 
tra 
parte 
e 
difensore 
-rende 
“partigiana” 
e 
non 
autonoma 
ed indipendente l’attività difensiva. 


Inoltre 
il 
comma 
4 del 
citato art. 13 L. n. 247/2012, attesa 
la 
vigenza 
del-
l’art. 
1261 
c.c., 
stabilisce 
“Sono 
vietati 
i 
patti 
con 
i 
quali 
l’avvocato 
percepisca 
come 
compenso 
in 
tutto 
o 
in 
parte 
una 
quota 
del 
bene 
oggetto 
della 
prestazione 


o 
della 
ragione 
litigiosa”. 
Tale 
disposizione 
rende 
problematico 
il 
rapporto 
con 
le 
statuizioni 
di 
cui 
al 
precedente 
comma 
3 
dell’art. 
13, 
rilevandosi 
in 
dottrina 
una 
limitazione 
del 
contenuto 
del 
patto 
di 
quota 
lite 
(89) 
o 
addirittura 
una reintroduzione parziale del divieto del patto di quota lite (90). 
Attesi 
i 
limiti 
sopraevidenziati 
del 
patto di 
quota 
lite, nell’evidente 
tentativo 
di 
individuare 
incentivi 
per 
rendere 
“interessato”, 
motivato, 
l’avvocato 
alla 
efficacia 
della 
proposizione 
dell’azione 
di 
classe 
è 
stata 
introdotta 
la 
disciplina 
contenuta nell’art. 840 novies 
c.p.c. 


L’art. 
840 
novies 
descrive 
la 
regolazione 
delle 
spese 
del 
procedimento 
per l’esclusivo esito di 
soccombenza 
del 
resistente, introducendo la 
figura 
del 
compenso c.d. quota 
lite, ossia 
la 
somma 
che 
l’impresa 
deve 
corrispondere 
al 
rappresentante 
comune 
degli 
aderenti 
e 
all’avvocato del 
ricorrente 
vittorioso. 
Ciò in aggiunta alla sorta capitale. 

Il 
legislatore 
interno, nel 
normare 
tale 
disciplina, sembra 
essersi 
ispirato 
alla 
normativa 
federale 
in 
materia, 
la 
quale, 
come 
innanzi 
precisato, 
riconosce 


(89) GIUSEPPE 
CONTE, La tormentata disciplina del 
"patto di 
quota lite" 
e 
le 
equivoche 
novità introdotte 
con la riforma forense, in Contratto e Impr., 2013, 4-5, pp. 1109 e ss. 
(90) UGO 
PEREFETTI, 
La nuova legge 
sulla professione 
forense. Riflessioni 
a margine 
del 
divieto 
del patto di quota lite, in Riv. Dir. Civ., 2013, 2, pp. 413 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


un 
ruolo 
predominante 
alla 
figura 
dell’avvocato 
(rectius, 
lead 
consuel), 
il 
quale, 
per 
mezzo 
del 
proprio 
studio 
legale, 
assume 
nella 
maggioranza 
dei 
casi 
la 
posizione 
di 
vero e 
proprio finanziatore 
della 
class 
action, con la 
disciplina 
della 
contingency 
fees. Negli 
Stati 
Uniti, se 
da 
un lato l’utilizzo di 
tale 
meccanismo 
consente 
di 
ottenere 
ingenti 
guadagni 
per i 
professionisti, dall’altro 
lato 
tali 
profitti 
derivano 
da 
una 
ripartizione 
tra 
cliente 
e 
avvocato 
della 
somma 
liquidata 
globalmente 
(91). Al 
contrario, la 
novella 
legislativa 
della 
disciplina 
delle 
azioni 
di 
classe 
nel 
nostro 
ordinamento, 
ai 
fini 
della 
liquidazione 
del 
compenso premiale 
del 
difensore, impone 
una 
voce 
aggiuntiva 
di 
spesa 
sulla 
controparte. 

Efficacia soggettiva ed oggettiva del procedimento. 


L’ambito soggettivo del 
procedimento è 
il 
corollario del 
diverso meccanismo 
-opt-out 
/ 
opt-it 
-previsto. A 
grandi 
tratti, negli 
Stati 
Uniti 
l’efficacia 
della 
sentenza 
colpisce 
tutti 
i 
class 
members 
di 
una 
class 
action 
che 
non 
hanno 
esercitato 
l’opt-out. 
Tuttavia 
questi 
ultimi 
possono 
comunque 
evitare 
i 
vincoli 
del 
giudicato agendo in un autonomo giudizio nel 
caso che 
la 
sentenza 
che 
li 
pregiudichi 
sia 
affetta 
da 
gravi 
vizi 
processuali. 
Al 
contrario, 
nell’ordinamento 
italiano la 
sentenza 
pronunciata 
all’esito dell’azione 
di 
classe 
fa 
stato solo tra 
le parti e gli aderenti. 


Oggetto del 
giudicato è 
l’accertamento dell’esistenza 
(con conseguente 
condanna 
del 
convenuto) 
o 
meno 
dei 
diritti 
soggettivi 
individuali 
azionati. 
Negli 
Stati 
Uniti, come 
già 
accennato, la 
sentenza 
ha 
un contenuto più ampio 
di 
quello ammesso nell’ordinamento italiano: 
può avere 
tre 
tipi 
di 
effetti: 
accertamento, 
costitutivo e 
di 
condanna. Nell’ordinamento italiano non si 
ammette 
la sentenza costitutiva nelle azioni di classe. 


Finalità della azione di classe. 


Le 
finalità 
perseguite 
dai 
due 
ordinamenti 
sono analoghe: 
si 
punta 
a 
raggiungere 
l’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale, la 
deterrenza 
rispetto a 
condotte 
dannose e l’economicità processuale. 

Negli 
Stati 
Uniti, tuttavia, la 
class 
action 
-in specie 
quella 
riconducibile 
alla 
categoria 
di 
cui 
alla Rule 
23 (b) (1) 
-consente 
di 
realizzare 
una 
finalità 
ulteriore, costituita 
dalla 
adeguata 
tutela 
dei 
litisconsorti 
necessari. Ciò è 
da 
ricollegare 
alla 
peculiarità 
della 
nozione 
di 
litisconsorzio necessario nell’ordinamento 
americano, risultante 
dalla 
disciplina 
introdotta 
dalla 
riforma 
del 
1966 con la modifica della 
Rule 19 
della 
Federal of Civil Procedure. 
Impatto pratico della disciplina dell’azione di classe. 


(91) GIULIA 
MAzzAFERRO, in Class 
action. Commento sistematico alla legge 
12 aprile 
2019, n. 
31, a cura di BRUNO 
SASSANI, cit., p. 165. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Si 
è 
evidenziato che 
le 
class 
actions 
sono un istituto di 
“successo” 
negli 
Stati Uniti. 


In Italia, invece, la 
normativa 
prevista 
dal 
Codice 
del 
Consumo -per le 
ragioni 
innanzi 
illustrate 
-non ha 
avuto molto successo, anzi 
possiamo definirla 
di impatto pratico fallimentare. 

Allo stato, non è 
possibile 
compiere 
un bilancio pratico sulle 
novità 
introdotte 
dalla 
legge 
n. 31/2019 visto che 
il 
procedimento deve 
ancora 
entrare 
in vigore, a 
causa 
della 
lunga 
vacatio legis 
prevista 
nell’art. 7, comma 
1, della 
detta 
legge 
secondo cui 
“Al 
fine 
di 
consentire 
al 
Ministero della giustizia di 
predisporre 
le 
necessarie 
modifiche 
dei 
sistemi 
informativi 
per 
permettere 
il 
compimento 
delle 
attività 
processuali 
con 
modalità 
telematiche, 
le 
disposizioni 
di 
cui 
alla presente 
legge 
entrano in vigore 
decorsi 
dodici 
mesi 
dalla pubblicazione 
della 
medesima 
legge 
nella 
Gazzetta 
Ufficiale”. 
La 
pubblicazione 
della 
legge 
è 
avvenuta 
il 
18 
aprile 
2019. 
Peraltro 
il 
legislatore, 
con 
l’art. 
8, 
comma 
5, D.L. 30 dicembre 
2019, n. 162, conv. L. 28 febbraio 2020, n. 8, ha 
portato a 
diciannove 
mesi 
il 
periodo di 
vacatio, sicché 
le 
disposizioni 
dovrebbero 
entrare in vigore il 19 novembre 2020. 


È 
tuttavia 
probabile 
che, tenuto conto dell’attuale 
contingenza 
sanitaria 
dovuta 
alla 
pandemia 
causata 
dall’infezione 
COVID 
19, determinante 
disservizi 
e 
sospensione 
dei 
giudizi 
civili 
(art. 83 D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. 


L. 24 aprile 
2020, n. 27), e 
della 
ostilità 
diffusa 
del 
mondo imprenditoriale, il 
termine di entrata in vigore verrà ulteriormente differito. 
In chiave 
di 
previsione 
sul 
successo del 
procedimento novellato, deve 
rilevarsi 
che 
la 
nuova 
disciplina 
migliora 
in più punti 
quella 
contenuta 
nel 
Codice 
del 
Consumo (ad esempio sul 
regime 
dell’ambito oggettivo e 
soggettivo 
dell’azione, delle 
prove 
e 
degli 
incentivi 
per gli 
avvocati), ma 
nel 
complesso 
non 
introduce 
quelle 
radicali 
novità 
-sul 
modello 
statunitense 
-necessarie 
per 
la diffusione operativa dell’istituto. 


Si 
intende 
far riferimento al 
meccanismo di 
efficacia 
per la 
classe. Solo 
il 
meccanismo dell’opt-out 
rende 
efficace 
il 
procedimento, consente 
la 
realizzazione 
delle 
finalità 
connesse 
alle 
azioni 
collettive. E 
tale 
meccanismo non è 
stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. 


Inoltre, il 
procedimento si 
presenta 
inutilmente 
complesso: 
la 
farraginosità 
viene 
addirittura 
aggravata 
dalla 
“doppia 
finestra” 
per 
le 
adesioni 
dei 
componenti 
la 
classe 
e 
la 
divisione 
del 
giudizio 
di 
merito 
in 
due 
distinte 
fasi: 
il 
giudizio 
diretto 
all’accertamento 
della 
condotta 
plurioffensiva, 
ovvero 
di 
questioni 
comuni 
alla 
classe 
e, superato positivamente 
questo, il 
giudizio diretto 
all’accertamento dei diritti individuali omogenei degli aderenti. 


Manca, poi, una 
disciplina 
sui 
danni 
punitivi, essenziale 
per la 
realizzazione 
della 
funzione 
di 
deterrenza 
rispetto a 
condotte 
dannose, funzione 
che 
costituisce uno dei connotati dell’azione collettiva risarcitoria. 


Un 
legislatore 
sensibile 
alla 
realizzazione 
delle 
finalità 
connesse 
all’eser



LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


cizio dell’azione 
di 
classe, all’evidenza, in sede 
di 
novella 
della 
novella, dovrebbe: 


- introdurre il meccanismo dell’opt-out; 
- semplificare il procedimento; 
-prevedere 
i 
danni 
punitivi 
con 
riguardo 
all’azione 
collettiva 
risarcitoria. 
Infine, 
va 
tenuta 
nel 
debito 
conto 
l’incidenza 
dell’ambiente 
giuridico 
ruolo 
del giudice e degli avvocati - sulla dinamica delle azioni collettive. 
In 
un 
ambiente 
giuridico, 
come 
quello 
americano, 
in 
cui 
il 
giudice 
è 
molto 
politicizzato, 
giudici 
“progressisti” 
sicuramente 
contribuiscono 
al 
successo 
delle 
azioni 
di 
classe, 
essendo 
più 
disponibili 
a 
tutelare 
le 
istanze 
di 
parti 
deboli 
a fronte di monopolisti, oligopolisti o multinazionali. 


Inoltre 
-e 
questo è 
il 
punto veramente 
decisivo -è 
coessenziale 
al 
successo 
delle 
azioni 
di 
classe 
la 
presenza 
di 
avvocati 
dinamici, capaci 
di 
finanziarsi 
e 
di 
fiutare 
le 
occasioni 
favorevoli 
al 
fine 
di 
contribuire 
alla 
proposizione 
di 
azioni 
giudiziarie 
con probabilità 
di 
accoglimento nell’interesse 
dei 
componenti 
della classe e con un tornaconto proprio. 


In 
Italia 
l’aspetto 
relativo 
al 
ruolo 
dei 
giudici 
-indipendenti 
e 
non 
politici 


- è, a Costituzione vigente, immodificabile. 
Invece, 
la 
novella 
sul 
governo 
delle 
spese 
ex 
art. 
840 
novies 
c.p.c. 
potrebbe 
determinare 
la 
nascita 
di 
un nuovo modello di 
avvocato, più dinamico 
nel 
senso anzidetto, oppure 
attirare 
la 
venuta 
nel 
territorio nazionale 
di 
studi 
legali 
stranieri 
pronti 
a 
cogliere 
le 
opportunità 
aperte 
dalle 
previsioni 
dell’art. 
840 novies 
c.p.c. Lo stimolo ad un diverso ruolo dell’avvocato, ovviamente, 
sarebbe 
maggiore, 
ove 
vi 
fosse 
una 
ampia 
modifica 
della 
legislazione 
sulle 
spese di lite sul modello del 
contingency fee 
statunitense. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Il contrasto al finanziamento del terrorismo: 
un duro compromesso tra esigenze di tutela 
e garanzie di offensività e determinatezza 


Massimiliano Stagno* 


L’autonoma 
incriminazione 
del 
finanziamento di 
condotte 
con finalità 
di 
terrorismo se 
da 
un 
lato, rappresenta 
la 
definita 
presa 
di 
coscienza 
circa 
l’importanza 
di 
contrastare 
un simile 
fenomeno, 
dall’altro, personifica 
-ancora 
una 
volta 
-la 
figura 
di 
un legislatore 
“debole” 
complice 
di 
un declino della 
legalità. L’articolo, dopo una 
breve 
analisi 
delle 
fonti 
sovranazionali 
e 
nazionali 
relative 
al 
finanziamento 
del 
terrorismo, 
si 
incentra, 
assunto 
come 
perno 
normativo 
l’art. 
270-quinquies.1 
c.p., 
sull’ennesimo 
sacrificio 
dei 
principi 
di 
offensività 
e 
determinatezza 
nelle 
scelte 
d’incriminazione, il 
quale 
favorisce 
sempre 
più lo sviluppo del 
c.d. diritto giurisprudenziale. 


SoMMARIo: 
1. 
Considerazioni 
introduttive 
-2. 
Il 
paradigma 
criminale 
del 
finanziamento 
in ottica sovranazionale 
e 
nazionale 
-3. La multiformità dei 
metodi 
di 
finanziamento -4. Il 
finanziamento 
di 
condotte 
con 
finalità 
di 
terrorismo: 
un 
ennesimo 
ricorso 
all’atto 
preparatorio 
come 
fonte 
d’incriminazione 
-4.1 L’anticipazione 
della tutela oltre 
i 
limiti 
dell’offensività 


4.2 
Ancora 
un 
esempio 
di 
fattispecie 
a 
tipicità 
mancata 
-5. 
Un 
compromesso 
coatto: 
l’ausilio 
della giurisprudenza per il recupero della legalità. 
1. Considerazioni introduttive. 
Prescindendo da qualsivoglia riferimento normativo, per una prima definizione 
del 
concetto 
di 
terrorismo 
-su 
un 
piano 
più 
psicoanalitico 
-si 
potrebbero 
citare 
le 
parole 
di 
Luigi 
zoja 
secondo 
cui 
«[il 
terrorismo] 
è 
il 
maggior 
pericolo 
non 
per 
l’esistenza 
fisica, 
ma 
per 
l’equilibrio 
psichico 
del 
cittadino» 
(1). 


Va 
da 
sé 
che 
non 
è 
certo 
questa 
la 
nozione 
che 
può 
attribuirsi 
al 
fenomeno 
terroristico, per lo meno in termini 
giuridici. Ad onor del 
vero, non esiste, ad 
oggi, 
una 
vera 
e 
propria 
definizione 
univoca 
e 
comune: 
il 
terrorismo 
è 
fin 
dalle 
sue 
origini, 
un 
fenomeno 
-prima 
ancora 
che 
di 
difficile 
prevenzione 
-di 
ardua 
comprensione e definizione (2). 

Negli 
ultimi 
decenni, infatti, il 
terrorismo ha 
assunto connotati 
operativi 
sempre 
più incerti 
tanto da 
far tornare 
attuale 
il 
problema 
della 
prevenzione 
e 
della 
difesa 
dei 
singoli 
Stati 
dalle 
aggressioni 
delle 
organizzazioni 
terroristiche, 
mettendo in evidenza 
la 
necessità 
di 
un “piano comune” 
di 
contrasto, il 
quale 


(*) Dottore 
in Giurisprudenza, ammesso alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato 
(avv. St. Luigi Simeoli). 


(1) Così, L. zOJA, Nella mente 
di 
un terrorista. Conversazione 
con omar 
Bellicini, Torino, 2017. 
(2) 
In 
merito 
alla 
definizione 
di 
terrorismo, 
v. 
tra 
tutti 
A. 
VALSECChI, 
Il 
problema 
della 
definizione 
di terrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1127. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


si 
presenta 
tanto 
più 
complesso 
se 
si 
pensa 
al 
fatto 
che, 
affinché 
un 
gruppo 
terroristico 
operi 
portando 
a 
termine 
i 
propri 
scopi, 
non 
è 
sufficiente 
che 
questo 
sia 
spinto 
da 
una 
comune 
ideologia 
di 
fondo; 
serve 
altro: 
in 
primo 
luogo, 
strumenti 
e 
mezzi 
idonei 
a 
reperire 
i 
fondi 
necessari 
per portare 
a 
compimento i 
propri 
propositi, 
manifestandosi 
per 
tale 
aspetto 
l’importanza 
del 
fenomeno 
del 
finanziamento, come 
principale 
canale 
di 
contrasto al 
più generale 
fenomeno 
del 
terrorismo, 
tanto 
da 
avere 
‘necessitato’ 
in 
materia 
penale 
una 
sua 
autonoma incriminazione ai sensi dell’art. 270-quinquies.1 c.p. 

2. Il 
paradigma criminale 
del 
finanziamento del 
terrorismo in ottica sovranazionale 
e nazionale. 
In 
un 
sistema 
normativo 
multilivello 
di 
contrasto 
al 
finanziamento 
del 
terrorismo, l’individuazione 
di 
una 
nozione 
pressoché 
univoca 
di 
“finanziamento” 
risulta un compito particolarmente complesso (3). 


Nel 
panorama 
internazionale, 
dapprima 
con 
la 
“Convenzione 
internazionale 
per 
la 
repressione 
del 
finanziamento 
del 
terrorismo” 
(meglio 
nota 
come 
Convenzione 
di 
New 
york) 
del 
9 
dicembre 
1999, 
e 
successivamente 
con 
la 
Risoluzione 
del 
Consiglio 
di 
Sicurezza 
ONU 
n. 
1373/2001 
e 
la 
raccomandazione 
del 
Financial 
Action 
Task 
Force 
il 
finanziamento, 
da 
mera 
ipotesi 
di 
complicità 
o, 
comunque, 
di 
sostegno 
materiale 
alla 
realizzazione 
o 
programmazione 
di 
un 
atto 
terroristico, 
a 
prescindere 
dalla 
definizione 
di 
terrorismo 
accolta 
(art. 
2 
Convenzione 
financing) 
(4), 
ha 
assunto, 
nel 
nuovo 
millennio, 
il 
rango 
di 
fattispecie 
autonoma, 
rendendo 
il 
finanziatore 
responsabile 
anche 
laddove 
i 
fondi 
vengano 
destinati 
solo 
all’organizzazione 
e 
non 
ai 
singoli 
atti 
terroristici. 


Anche 
sul 
fronte 
comunitario, 
solo 
in 
risposta 
al 
noto 
attentato 
dell’11 
settembre 
2001, 
si 
avvertì 
l’esigenza 
di 
intervenire 
in 
maniera 
più 
incisiva 
per 
contrastare 
il 
terrorismo; 
così, 
dunque, 
il 
pur 
tardivo 
(5) 
intervento 
comunitario 


(3) Tale 
problematica 
viene 
ripresa 
da 
C. DI 
STASIO, La lotta multilivello al 
terrorismo internazionale. 
Garanzia di sicurezza versus tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2010. 
(4) 
Così, 
G. 
DI 
VETTA, 
Nuove 
disposizioni 
penali 
di 
contrasto 
al 
terrorismo. 
La 
repressione 
del 
circuito 
di 
finanziamento, 
commento 
alla 
L. 
153/2016, 
in 
LP, 
5 
ottobre 
2017, 
p. 
5; 
Cfr. 
anche 
V. 
ARAGONA, 
Il 
contrasto 
al 
finanziamento 
del 
terrorismo. 
Criticità 
e 
innovazioni 
della 
nuova 
disciplina 
italiana, 
in 
Dir. 
pen. 
cont., 
2017, 
1, 
p. 
98. 
L’art. 
2, 
par. 
1, 
della 
Convenzione 
di 
New 
york 
1999, 
individua 
il 
finanziamento 
come 
la 
volontaria 
attività 
di 
fornitura 
di 
fondi 
con 
qualsiasi 
mezzo 
diretto 
o 
indiretto 
(elemento 
oggettivo), 
unitamente 
alla 
consapevolezza 
che 
essi 
saranno 
usati 
per 
svolgere 
azioni 
illecite 
(elemento 
soggettivo) 
individuate 
in 
«a) 
un 
atto 
che 
costituisce 
reato 
ai 
sensi 
e 
secondo 
la 
definizione 
di 
uno 
dei 
trattati 
enumerati 
nell’allegato; 
b) 
ogni 
altro 
atto 
destinato 
ad 
uccidere 
o 
a 
ferire 
gravemente 
un 
civile 
o 
ogni 
altra 
persona 
che 
non 
partecipa 
direttamente 
alle 
ostilità 
in 
una 
situazione 
di 
conflitto 
armato 
quando, 
per 
sua 
natura 
o 
contesto, 
tale 
atto 
sia 
finalizzato 
ad 
intimidire 
una 
popolazione 
o 
a 
costringere 
un 
governo 
o 
un’organizzazione 
internazionale 
a 
compiere 
o 
ad 
astenersi 
dal 
compiere, 
un 
atto 
qualsiasi». 
(5) Sul 
punto, cfr. G. DI 
VETTA, Nuove 
disposizioni, cit., pp. 6 ss., secondo il 
quale 
dovrebbe 
rivestire 
«un 
particolare 
significato 
l’interrogativo 
intorno 
alle 
ragioni 
che 
hanno 
determinato 
un 
così 
considerevole 
ritardo nell’adozione 
a 
livello internazionale 
di 
una 
specifica 
strategia 
di 
contrasto al 
fenomeno 
del finanziamento». 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


è 
stato fin da 
subito caratterizzato -a 
differenza 
di 
quello internazionale 
-da 
una 
particolare 
attenzione 
anche 
al 
fenomeno del 
finanziamento, fornendone 
una 
concezione 
in termini 
di 
fattispecie 
autonoma 
(6), per poi 
intervenire 
tramite 
una 
serie 
di 
atti 
il 
cui 
obiettivo primario (da 
conseguirsi 
tramite 
attività 
di 
controllo e 
di 
congelamento dei 
fondi) era 
la 
prevenzione 
e 
la 
protezione 
di 
attività destinate a finanziare i gruppi terroristici (7). 


In un’ottica 
nazionale, l’estrema 
instabilità 
del 
fenomeno terroristico ha 
registrato 
un 
cospicuo 
intervento 
del 
legislatore 
tramite 
una 
stratificazione 
normativa, 
spesso 
al 
limite 
del 
c.d. 
“diritto 
penale 
d’autore” 
(8), 
caratterizzata 
dal 
frequente 
ricorso 
alla 
legislazione 
d’urgenza, 
sfociata 
in 
una 
“ipertrofia 
normativa” 
(9) resa 
più evidente 
dal 
diverso trend 
seguito in risposta 
agli 
interventi 
sovranazionali: 
solo a 
partire 
dal 
2005 si 
inizia 
a 
privilegiare 
aspetti 
più 
preventivi 
che 
repressivi, 
tramite 
una 
incisiva 
anticipazione 
della 
tutela 
penale 
(10), per poi 
assumere, in tempi 
molto più recenti, una 
maggiore 
con


(6) 
Segnatamente, 
con 
la 
decisione 
del 
Consiglio 
d’Europa 
n. 
475/2002, 
è 
stata 
inclusa 
tra 
le 
varie 
condotte 
di 
partecipazione 
ad un gruppo terroristico anche 
quella 
di 
fornitura 
di 
risorse 
materiali 
o finanziarie, 
con la 
consapevolezza 
che 
tale 
partecipazione 
avrebbe 
contribuito all’attività 
terroristica 
del 
gruppo. 
(7) A 
titolo esemplificativo è 
possibile 
citare 
il 
regolamento n. 467/2001 (successivamente 
abrogato) 
il 
quale 
imponeva 
il 
congelamento 
di 
tutti 
i 
tipi 
di 
fondi 
appartenenti 
a 
persone 
fisiche 
o 
giuridiche 
specificatamente 
indicate 
in 
un 
apposito 
elenco; 
e, 
ancora, 
la 
dichiarazione 
sulla 
lotta 
al 
terrorismo 
adottata 
dal Consiglio Europeo del 25 marzo 2004. 
(8) La 
problematica 
è 
affrontata 
da 
F. FASANI, Le 
nuove 
fattispecie 
antiterrorismo: una prima lettura, 
in Dir. pen. proc., 2015, 8, pp. 926 ss. Il 
rischio che 
il 
diritto penale 
del 
fatto, nella 
materia 
antiterrorismo, 
sfoci 
nella 
diversa 
forma 
del 
diritto 
penale 
d’autore 
sembra 
ormai 
nella 
prassi 
legislativa 
concretizzatosi proprio nelle disposizioni degli artt. 270-bis 
e ss. c.p. 
Con 
la 
formula 
“diritto 
penale 
d’autore” 
si 
allude, 
in 
termini 
equivalenti 
all’espressione 
“diritto 
penale 
del 
nemico”, 
ad 
una 
draconiana 
anticipazione 
della 
soglia 
della 
punibilità, 
sanzionando 
“il 
tipo 
di 
autore”. 
Tra 
gli 
altri, 
cfr. 
R. 
BARTOLI, 
Lotta 
al 
terrorismo 
internazionale. 
Tra 
diritto 
penale 
del 
nemico, 
jus 
in 
bello 
del 
criminale 
e 
annientamento 
del 
nemico 
assoluto, 
Torino, 
2008; 
G. 
FLORA, 
Verso 
un 
diritto 
penale 
del 
tipo 
d’autore? 
in 
Riv. 
it. 
dir. 
proc. 
pen., 
2008, 
pp. 
559 
ss.; 
M. 
DONINI, 
Lotta 
al 
terrorismo 
e 
ruolo 
della 
giurisdizione. 
Dal 
codice 
delle 
indagini 
preliminari 
a 
quello 
postdibattimentale, 
in 
Questione 
Giustizia 
(edizione 
speciale), 
2016, 
pp. 
113 
ss.; 
F. 
MANTOVANI, 
Il 
diritto 
penale 
del 
nemico, 
il 
diritto 
penale 
del-
l’amico, 
il 
nemico 
del 
diritto 
penale 
e 
l’amico 
del 
diritto 
penale, 
in 
Riv. 
it. 
dir. 
proc. 
pen., 
2007, 
p. 
484. 
(9) 
Numerosi 
gli 
interventi 
del 
legislatore 
attuati 
mediante 
il 
sistema 
della 
“decretazione 
d’urgenza”, 
spesso 
oggetto 
di 
critiche 
da 
parte 
della 
più 
attenta 
dottrina. 
Si 
è 
passati, 
infatti, 
dal 
d.l. 
n. 
374/2001, 
convertito 
dalla 
l. 
n. 
438/2001, 
per 
transitare 
dal 
d.l. 
n. 
144/2005, 
convertito 
dalla 
l. 
n. 
155/2005, fino al 
d.l. n. 7/2015, convertito dalla 
l. n. 43/2015, adottati 
tutti 
all’indomani 
di 
clamorosi 
e 
famigerati 
attacchi 
terroristici. Sul 
punto, A. CAVALIERI, Considerazioni 
critiche 
intorno al 
D.L. antiterrorismo, 
n. 
7 
del 
18 
febbraio 
2015, 
in 
Dir. 
pen. 
cont., 
2015, 
3, 
pp. 
228 
ss. 
Per 
una 
ricostruzione 
dettagliata 
degli 
interventi 
comunitari 
cfr. 
S. 
SANTINI, 
L’Unione 
Europea 
compie 
un 
nuovo 
passo 
nel 
cammino 
della 
lotta al terrorismo: una prima lettura della direttiva 2017/541, in Dir. pen. cont., 2017, 7-8, pp. 14 ss. 
(10) Con l’intervento ad opera 
della 
l. n. 155/2005 il 
legislatore 
ha 
inserito nel 
codice 
penale 
i 
reati 
di 
cui 
agli 
artt. 
270-quater 
(Arruolamento 
con 
finalità 
di 
terrorismo 
internazionale); 
270-quinquies 
(Addestramento ad attività 
di 
terrorismo anche 
internazionale); 
270-sexies 
(Condotte 
con finalità 
di 
terrorismo). 
A 
commento della 
riforma, v. R. WENIN, Una riflessione 
comparata sulle 
norme 
in materia di 
addestramento per 
finalità di 
terrorismo, in www.dirittopenalecontemporaneo.it 
, 23 gennaio 2017; 
A. 
VALESChI, Brevi osservazioni di diritto penale sostanziale, in Dir. pen. proc., 2005, p. 1228. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


sapevolezza 
circa 
l’opportunità 
di 
colpire 
le 
organizzazioni 
terroristiche 
sul 
piano 
del 
sostentamento 
economico, 
mediante 
disposizioni 
volte 
principalmente 
a “congelarne” i beni (11). 


Proprio in quest’ambito si 
inserisce 
l’intervento del 
legislatore 
tramite 
la 


l. 
n. 
153 
del 
2016, 
recante 
“Norme 
per 
il 
contrasto 
al 
terrorismo”, 
con 
la 
quale 
il 
Parlamento ha 
ratificato cinque 
Convenzioni 
internazionali 
(12) (il 
cui 
baricentro 
orbita 
intorno 
al 
contrasto 
del 
terrorismo, 
ma 
che 
al 
contempo 
toccano 
temi 
quali 
riciclaggio, sequestro e 
confisca 
dei 
beni 
ad esso strettamente 
funzionali), 
assumendo 
tale 
novella 
legislativa 
fin 
da 
subito 
particolare 
rilievo 
per 
avere 
frattanto 
introdotto 
nel 
codice 
penale 
l’art. 
270-quinquies.1, 
rubricato 
“Finanziamento di condotte con finalità di terrorismo” (13). 
Nell’evoluzione 
più recente, il 
terrorismo (così 
come 
il 
finanziamento) è 
ormai 
slegato da 
un contesto prettamente 
nazionale 
e 
la 
dimensione 
interna 
è 
andata 
sovrapponendosi 
a 
quella 
internazionale 
in modo tale 
da 
rendere 
sempre 
più complessa 
l’individuazione 
della 
fonte 
della 
minaccia: 
«il 
rischio terroristico 
diventa per così dire ubiquitario» (14). 


3. La multiformità dei metodi di finanziamento del terrorismo. 
Per 
completezza 
pare, 
inoltre, 
opportuna 
qualche 
ulteriore 
considerazione 
relativa 
ai 
sistemi 
maggiormente 
utilizzati 
dalle 
organizzazioni 
terroristiche 
per procurarsi i mezzi necessari alle loro attività. 


(11) Cfr. G. MARINO, Lo “statuto del 
terrorista”: tra simbolo ed anticipazione, in Riv. trim. dir. 
pen. cont., 2017, 1, p. 46, secondo il 
quale 
«quest’ultima 
strategia 
[basata 
sul 
congelamento dei 
beni], 
chiaramente, 
esprime 
un 
minor 
grado 
di 
pericolosità 
rispetto 
all’anticipazione 
della 
soglia 
dell’intervento 
penale 
offerta 
dalla 
prima». Il 
diverso modo di 
operare 
del 
legislatore 
è 
rinvenibile 
nell’introduzione, 
ad opera 
della 
l. n. 153/2016, dei 
reati 
di 
cui 
agli 
artt. 270-quinquies.2 (Sottrazione 
di 
beni 
o denaro sottoposti 
a 
sequestro 
per 
prevenire 
il 
finanziamento 
delle 
condotte 
con 
finalità 
di 
terrorismo) 
e 
270-septies 
(Confisca nel caso di condanna per delitto con finalità terroristica). 
(12) In particolare, si 
tratta 
della 
Convenzione 
del 
Consiglio d’Europa 
per la 
prevenzione 
del 
terrorismo, 
stipulata 
a 
Varsavia 
il 
16 
maggio 
2005, 
unitamente 
a 
quella 
sul 
riciclaggio, 
la 
ricerca, 
il 
sequestro 
e 
la 
confisca 
dei 
proventi 
di 
reato, e 
del 
relativo Protocollo addizionale, stipulato a 
Riga 
il 
22 ottobre 
2015, della 
Convenzione 
ONU 
per la 
oppressione 
di 
atti 
di 
terrorismo nucleare 
del 
14 settembre 
2005 
e, infine, del 
Protocollo di 
emendamento alla 
Convenzione 
europea 
per la 
repressione 
del 
terrorismo, 
stipulato a Strasburgo il 15 maggio 2003. 
(13) 
L’intervento 
normativo 
si 
lascia 
ulteriormente 
apprezzare 
per 
l’attenzione 
posta 
al 
terrorismo 
nucleare 
tramite 
la 
previsione 
dell’art. 280-ter 
c.p., e 
per l’introduzione 
di 
una 
speciale 
ipotesi 
di 
confisca. 
Cfr. sul 
punto, F. FASANI, Un nuovo intervento di 
contrasto al 
terrorismo internazionale, in Dir. 
pen. proc., 2016, 12. L’attenzione 
verso il 
finanziamento non è 
nuova 
nel 
nostro ordinamento: 
si 
pensi, 
infatti, al 
d.lgs. 109/2007, attuativo della 
Direttiva 
2005/60/CE. Per un’attenta 
analisi 
delle 
disposizioni 
del 
d.lgs. 109/2007 cfr. M. SAVINO, La disciplina italiana della lotta al 
finanziamento del 
terrorismo, in 
Giornale 
di 
diritto amministrativo, 2008, 5, pp. 497 ss. In tempi 
più recenti 
rileva 
il 
d.lgs. n. 90/2017, 
attuativo 
della 
c.d. 
Quarta 
direttiva. 
Per 
una 
compiuta 
analisi 
del 
contenuto 
del 
d.lgs. 
n. 
90/2017, 
v. 
anche 
T. GIACOMETTI, O. FORMENTI, La nuova disciplina in materia di 
prevenzione 
del 
riciclaggio e 
di 
finanziamento del terrorismo (D.lgs. 25 maggio 2017, n. 90), in Dir. pen. cont., 2017, 7-8, pp. 195 ss. 
(14) Così, V. MILITELLO, Terrorismo e 
sistema penale: realtà, prospettive 
e 
limiti, in Riv. trim. dir. 
pen. cont., 2017, 1, p. 5. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Basti 
pensare, a 
tal 
proposito, alla 
diffusione 
su scala 
mondiale 
nei 
mercati 
ed alla 
facilità 
di 
utilizzo dei 
bitcoins, i 
quali, garantendo l’anonimato assoluto 
degli 
utenti, 
complice 
l’assenza 
di 
un 
quadro 
normativo 
regolatore, 
contribuiscono 
alla 
diffusione 
di 
meccanismi 
che 
mantengono 
le 
caratteristiche 
della 
moneta 
prescindendo 
da 
un 
supporto 
cartaceo, 
il 
che 
rende 
maggiormente 
complessa 
l’individuazione 
e 
il 
“congelamento” 
tramite 
le 
opportune 
misure 
ablatorie (15). 


Non è 
certo una 
novità 
che 
il 
terrorismo si 
alimenti 
coi 
proventi 
derivanti 
dalla 
realizzazione 
di 
reati, primo tra 
tutti 
il 
sequestro di 
persone 
a 
scopo di 
estorsione 
(16), 
ai 
quali 
si 
sommano 
fondi 
di 
provenienza 
lecita: 
la 
cultura 
islamica 
e 
lo zakat, terzo pilastro dell’Islam, inteso come 
“debito verso Dio”, 
impongono a 
determinati 
soggetti 
-in primis 
moschee 
ed enti 
di 
beneficienza 


(17) -il 
pagamento di 
somme 
di 
denaro come 
prezzo per la 
purificazione 
del-
l’anima, le 
quali 
incombono nel 
rischio di 
essere 
stornate 
a 
favore 
di 
organizzazioni 
terroristiche. 
Sul 
diverso versante 
dei 
sistemi 
di 
smistamento, un ruolo di 
primaria 
importanza 
-senza, tuttavia, sottovalutare 
l’utilizzo di 
circuiti 
legali 
(18) -può 
assegnarsi 
a 
quel 
meccanismo definito comunemente 
Hawala, un sistema 
di 
“intermediazione 
umana” 
di 
denaro 
in 
contanti 
(e 
non 
solo), 
svincolato 
da 
qualsivoglia 
processo burocratico e 
fondato su una 
regola 
immutabile: 
«il 
denaro 
non 
lascia 
mai 
il 
paese 
in 
cui 
si 
trova» 
(19); 
a 
ciò 
affiancandosi 
fenomeni, 


(15) In generale 
sulla 
funzione 
del 
bitcoin, cfr. M. MANCINI, Valute 
virtuali 
e 
Bitcoin, in Analisi 
giuridica dell’economia, 2015, 1, p. 117. 
(16) Il 
sequestro a 
scopo di 
estorsione 
si 
è 
trasformato in un vero e 
proprio business 
che 
frutta, 
secondo le 
stime 
del 
GAFI, dai 
20 ai 
40 milioni 
di 
dollari, ma 
non è 
l’unica 
fonte 
di 
finanziamento derivante 
da 
attività 
illecite; 
ad esso si 
affiancano le 
più disparate 
attività 
che 
vanno dal 
favoreggiamento 
dell’immigrazione 
clandestina, al 
traffico di 
sostanze 
stupefacenti. Di 
recente, un’ulteriore 
fonte 
di 
finanziamento 
che 
è 
risultata 
dalle 
indagini 
svolte 
riguarda 
il 
commercio 
di 
auto 
rubate, 
a 
riprova 
del 
fatto 
che 
il 
fenomeno può sfuggire 
dall’ottica 
di 
prevenzione 
per poi 
rientrarvi 
solo dopo un’attenta 
analisi 
delle autorità competenti. 
(17) A. POPOLI, 
I canali 
di 
finanziamento al 
terrorismo e 
le 
strutture 
di 
contrasto, in 
Iura orientalia 
II, 
2006, cit., p. 137 il 
quale 
afferma 
che 
«la 
raccolta 
delle 
donazioni 
ammonterebbe, nella 
sola 
Arabia Saudita, in media, ai 3-4 miliardi di dollari su base annua (spesso in contanti)». 
(18) Stando ai 
dati 
riportati 
nell’“Analisi 
nazionale 
dei 
rischi 
di 
riciclaggio di 
denaro e 
di 
finanziamento 
del 
terrorismo 
elaborata 
dal 
Comitato 
di 
sicurezza 
nazionale 
-aggiornato 
al 
2018”, 
in 
www.dt.mef.gov.it, tra 
l’anno 2017 e 
il 
2018 il 
ricorso a 
sistemi 
di 
money 
transfer 
come 
canale 
di 
finanziamento 
ha 
subito un notevole 
incremento che 
testimonia 
l’aumento della 
percezione 
del 
rischio al 
riguardo, 
dovuto 
anche 
al 
costante 
aumento 
degli 
operatori 
-compresi 
gli 
esercizi 
commerciali 
-che 
offrono servizi 
di 
money 
transfer. 
Sul 
funzionamento di 
tale 
meccanismo cfr. F. zAMPONI, Il 
finanziamento 
del terrorismo internazionale, fattispecie e strumenti di contrasto, in www.diritto.it, pp. 6 ss. 
(19) Così, A. POPOLI, I canali, cit., p. 137. Di 
seguito, si 
ripropone 
l’esempio fornito dall’Autore 
che 
consente 
di 
comprendere 
l’operare 
del 
meccanismo: 
«Da 
Islamabad un uomo chiama 
il 
suo “contatto”, 
a 
New 
york. Gli 
dice: 
verrà 
da 
te 
Khalid, dagli 
quello che 
gli 
serve. Il 
“contatto di 
New 
york” 
riceve, 
dunque, Khalid con cortesia. Poco dopo Khalid ha 
in tasca 
la 
cifra 
che 
gli 
occorre. A 
Islamabad, 
nel 
frattempo, qualcuno di 
al 
Qaida 
consegnerà 
ad un familiare 
dell’uomo di 
New 
york l’importo anticipato
». 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 
239 


quali 
il 
riciclaggio, che 
vanno (o andrebbero) tenuti 
distinti 
in termini 
di 
strategie 
di 
contrasto; 
ciò 
nondimeno, 
molto 
spesso 
il 
legislatore 
comunitario 
è 
intervenuto prevedendo identici 
strumenti 
di 
tutela 
per contrastare 
i 
due 
fenomeni, 
sulla 
base 
di 
una 
sostanziale 
identificazione 
degli 
stessi 
(20), il 
cui 
intreccio 
risulterebbe 
ancor 
più 
evidente 
laddove 
si 
consideri 
che 
il 
finanziamento del 
terrorismo ben può rappresentare 
il 
reato presupposto del 
riciclaggio, il 
quale 
è 
a 
sua 
volta 
utilizzato dalle 
organizzazioni 
terroristiche 
per l’immissione nei circuiti legali di proventi illeciti (21). 


4. 
Il 
finanziamento 
di 
condotte 
con 
finalità 
di 
terrorismo: 
un 
ennesimo 
ricorso 
all’atto preparatorio come fonte di incriminazione. 
Come 
in precedenza 
osservato, l’intervento del 
legislatore 
con l. n. 153 
del 
2016, consapevole 
del 
rilievo pratico e 
materiale 
che 
ha 
il 
finanziamento 
nella 
crescita 
del 
terrorismo, ha 
assunto una 
portata 
dirompente 
nel 
nostro ordinamento 
prevedendo -in maniera 
apprezzabile 
quantomeno sul 
piano delle 
intenzioni 
-l’incriminazione 
autonoma 
di 
condotte 
di 
finanziamento del 
terrorismo 
(art. 
270-quinquies.1 
c.p.) 
indipendentemente 
dalla 
loro 
realizzazione 
nella cornice degli artt. 270-bis 
e 270-ter 
c.p. 


Segnatamente, la 
norma 
punisce 
al 
primo comma 
«chiunque, al 
di 
fuori 
dei 
casi 
di 
cui 
agli 
artt. 270-bis 
e 
270-quater.1, raccoglie, eroga 
o mette 
a 
disposizione 
beni 
o denaro, in qualunque 
modo realizzati, destinati 
ad essere 
in 
tutto o in parte 
utilizzati 
per il 
compimento delle 
condotte 
con finalità 
di 
terrorismo 
di 
cui 
all’art. 
270-sexies 
[…] 
indipendentemente 
dall’effettivo 
utilizzo 
dei fondi per la commissione delle citate condotte». 


Premessa 
la 
discutibile 
formulazione 
della 
norma, 
che 
lascia 
spazio 
a 
molti 
interrogativi 
e 
dubbi 
di 
legittimità 
(non certo nuovi 
alla 
materia 
antiterrorismo), 
sembra 
comunque 
possibile 
evidenziare 
alcuni 
elementi 
certi: 
innanzitutto, 
la 
clausola 
di 
riserva 
posta 
nell’incipit 
della 
norma 
esclude 
il 
concorso tra 
tale 
reato e 
le 
diverse 
fattispecie 
di 
“associazione 
con finalità 
di 
terrorismo” 
e 
di 
“finanziamento o propaganda 
di 
viaggi 
all’estero con finalità 
di 
terrorismo”, da 
ciò evincendosi 
che 
l’intenzione 
del 
legislatore 
era 
quella 
di 
punire 
il 
soggetto “estraneo” 
all’organizzazione, o meglio escludere 
la 
punibilità 
di chi «è già terrorista» (22). 


Quanto 
poi 
all’elemento 
soggettivo: 
si 
tratta 
di 
una 
fattispecie 
che, 
richiedendo 
il 
dolo specifico, concentra 
l’attenzione 
sulla 
figura 
del 
finanziatore 
e, 
di 
conseguenza, il 
riferimento esplicito alla 
destinazione 
dei 
fondi 
(“ad essere 
in tutto o in parte 
utilizzati 
per il 
compimento di 
attività 
con finalità 
di 
terro


(20) La 
stretta 
sovrapposizione 
tra 
i 
due 
fenomeni, secondo alcuni 
autori, rappresenta 
“la 
causa” 
del 
ritardo nella 
previsione 
di 
un’autonoma 
fattispecie 
del 
finanziamento del 
terrorismo. Sul 
punto, v. 
G. DI 
VETTA, Nuove disposizioni, cit., pp. 6 ss. 
(21) Così, V. ARAGONA, Il contrasto, cit., p. 97. 
(22) Così, V. ARAGONA, Il contrasto, cit., p. 102. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


rismo”) 
non 
può 
che 
essere 
interpretato 
come 
lo 
scopo 
che 
muove 
l’intenzione 
dell’agente, la 
finalizzazione 
teleologica 
della 
sua 
condotta 
(23); 
tanto è 
evidente 
nella 
misura 
in cui 
si 
consideri 
che 
-in maniera 
(forse) pleonastica 
-la 
norma 
non richiede 
espressamente 
il 
verificarsi 
di 
tale 
scopo ai 
fini 
della 
realizzazione 
del reato (24). 


Emerge 
sul 
punto il 
delicato problema, analizzato in dottrina 
e 
giurisprudenza, 
della 
c.d. “oggettivizzazione” 
del 
dolo specifico; 
in sintesi: 
nei 
reati 
a 
dolo specifico, per evitare 
che 
il 
disvalore 
penalmente 
sanzionato si 
esaurisca 
in un mero atteggiamento interiore, si 
imporrebbe 
che 
la 
finalità 
che 
muove 
l’atteggiamento psicologico del 
soggetto si 
rifletta, in termini 
oggettivi, sulla 
concreta 
idoneità 
degli 
atti 
a 
raggiungerla 
(25), con l’ulteriore 
precisazione, 
però, che 
questa 
interpretazione 
non consente 
di 
recuperare 
in relazione 
a 
tale 
fattispecie 
quell’offensività 
che 
manca 
in astratto, in ragione 
dell’incommensurabile 
distanza 
cronologica 
tra 
la 
condotta 
rilevante 
e 
l’oggetto 
della 
finalità. 

Una 
simile 
impostazione, dunque, consente 
di 
affermare 
che 
il 
dolo specifico 
non 
può 
rimanere 
circoscritto 
al 
paradigma 
dell’elemento 
soggettivo 
del 
reato; 
le 
peculiari 
formule 
rinvenibili 
nelle 
varie 
disposizioni 
penali 
(“al 
fine 
di”, 
“allo 
scopo 
di”) 
non 
identificano 
soltanto 
l’intenzione 
che 
muove 
l’agente, ma 
si 
legano ad un altro preciso elemento del 
reato, la 
condotta, costituendo 
l’oggettiva 
tendenza 
dell’azione. Si 
tratta 
di 
un’impostazione 
che, 
in altri 
termini, mira 
a 
ricercare 
la 
finalità 
di 
terrorismo non tanto nella 
mente 
del 
reo, 
quanto 
piuttosto 
nei 
suoi 
concreti 
atteggiamenti, 
attribuendo 
allo 
stesso 
un 
ruolo 
concorrente 
rispetto 
alla 
qualificazione 
giuridica 
di 
un 
fatto 
come 
penalmente 
rilevante. 

Del 
resto, tale 
oggettivizzazione 
del 
dolo specifico sembra 
aver trovato 
anche 
un 
riscontro 
legislativo 
nell’art. 
270-sexies 
c.p., 
rubricato 
“condotte 
con 
finalità 
di 
terrorismo”, nel 
quale 
oltre 
alla 
descrizione 
delle 
finalità 
sono ricompresi 
anche 
elementi 
di 
carattere 
obiettivo che 
consentono di 
misurare 
la 
specifica offensività dei fatti contemplati. 


Se 
così 
stanno 
le 
cose, 
in 
relazione 
alle 
fattispecie 
che 
prevedono 
condotte 
lecite 
cui 
accedono fini 
illeciti, non si 
potrebbe 
ritenere 
configurato il 
reato a 
dolo 
specifico 
quando 
l’agente 
-pur 
essendo 
animato 
dallo 
scopo 
richiesto 


(23) Si 
sottolinea, però, che 
la 
formulazione 
della 
norma 
lascia 
impregiudicata 
la 
possibilità 
che 
il 
finanziatore 
possa 
rispondere 
a 
titolo di 
concorso nelle 
singole 
condotte 
di 
terrorismo realizzate; 
in 
tal 
caso sarà 
necessario dimostrare 
la 
consapevolezza 
del 
finanziatore 
di 
concorrere 
alla 
realizzazione 
dello specifico fatto di reato posto in essere. 
(24) Secondo taluni 
proprio in ragione 
della 
normale 
operatività 
del 
dolo specifico appare 
superfluo 
l’inciso 
conclusivo 
del 
primo 
comma 
«indipendentemente 
dall’effettivo 
utilizzo 
dei 
fondi 
per 
la 
commissione delle citate condotte». Sul punto, F. FASANI, Un nuovo intervento, cit., p. 1559. 
(25) Sul 
punto, G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Corso di 
diritto penale, 3a 
ed., Milano, 2001, p. 583. 
In 
giurisprudenza 
favorevole 
a 
questa 
impostazione 
dottrinale, 
con 
riguardo 
all’art. 
270-bis 
c.p., 
v. 
Cass. 
pen., Sez. I, 10 luglio 2007, n. 34989; 
mentre, con riguardo all’art. 270-quinquies 
c.p., cfr. Cass. pen., 
Sez. VI, 25 luglio 2011, n. 29670. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


dalla 
norma 
-abbia 
realizzato una 
condotta 
inidonea 
al 
perseguimento di 
tale 
scopo. Se 
non è, dunque, necessario che 
il 
fine 
del 
dolo specifico si 
realizzi, 
sarà 
al 
più indispensabile 
che 
sul 
piano fattuale 
la 
condotta 
dell’agente 
abbia 
quantomeno 
generato 
un 
pericolo; 
in 
altre 
parole, 
i 
reati 
a 
dolo 
specifico 
in 
realtà si configurano come reati di pericolo concreto con dolo di danno (26). 

Dunque, l’ennesimo (e 
forse 
eccessivo) utilizzo del 
“diritto penale 
emergenziale” 
ha 
comportato 
la 
creazione 
di 
una 
fattispecie 
che, 
al 
pari 
di 
altre 
funzionali 
a 
contrastare 
il 
terrorismo, sanziona 
comportamenti 
fin troppo lontani 
dalla 
realizzazione 
di 
un 
fatto 
offensivo. 
Una 
legislazione, 
quella 
emergenziale, 
che 
per far fronte 
a 
istanze 
di 
preoccupazione 
sociale, attrae 
su di 
sé 
i 
caratteri 
di 
una 
vera 
e 
propria 
lotta 
contro 
l’individuo 
“criminale” 
verso 
i 
quali 
i 
tradizionali 
canoni 
punitivi 
non sembrano “appagare”; 
in altre 
parole, è 
noto 
che 
nella 
tradizione 
del 
diritto penale 
emergenziale 
si 
collocano fattispecie 
di 
tipo associativo e 
fattispecie 
che 
sanzionano i 
c.d. atti 
preparatori, entrambe 
fondate 
su 
una 
tecnica 
di 
incriminazione 
caratterizzata 
dall’anticipazione 
della 
tutela 
penale 
(27), ma 
che 
-a 
ben guardare 
-presentano differenze 
“qualitative” 
in termini di lontananza della condotta incriminata (28). 


Ciò 
premesso, 
tuttavia, 
il 
reato 
di 
cui 
all’art. 
270-quinquies.1 
c.p. 
non 
può 
essere 
ricondotto 
nel 
paradigma 
della 
fattispecie 
associativa. 
Si 
è 
detto, 
infatti, 
che 
la 
condotta, per espressa 
previsione 
legislativa, deve 
essere 
realizzata 
da 
un soggetto estraneo all’associazione 
punita 
ai 
sensi 
dell’art. 270-bis 
c.p. e, 
pertanto, non può ricondursi 
nel 
“programma 
criminoso” 
di 
reati 
che 
l’associazione 
si 
pone 
il 
fine 
di 
perseguire; 
anzi, la 
presenza 
di 
un’autonoma 
fattispecie 
associativa 
determina 
una 
marginale 
applicazione 
della 
norma 
incriminatrice 
del 
finanziamento risultando ciò tanto più evidente 
quanto più 
si 
concentra 
l’attenzione 
sulla 
prassi 
sviluppatasi 
intorno all’art. 270-bis 
c.p. 
Difatti, il 
rapporto interferenziale 
che 
intercorre 
tra 
la 
condotta 
autonoma 
di 
finanziamento 
e 
il 
finanziamento 
associativo 
di 
cui 
al 
primo 
comma 
della 
menzionata 
disposizione 
è 
rimarcata 
dalla 
presenza 
della 
clausola 
di 
sussidiarietà 
poc’anzi evidenziata. 

(26) Sul 
punto, cfr. G. MARINUCCI, Soggettivismo e 
oggettivismo nel 
diritto penale, uno schizzo 
dogmatico e 
politico-criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1, pp. 49 e 
115 s.; 
L. BRIzI, L’illecito penale 
costruito ex 
latere 
subiecti: la “finalità di 
terrorismo” 
alla prova del 
diritto penale 
del 
fatto, in 
Riv. trim. dir. pen. cont., 2017, 1, p. 20 s.; 
in generale 
sulle 
plurime 
funzioni 
che 
l’elemento finalistico 
può svolgere 
nei 
reati 
a 
dolo specifico cfr. G. MARINO, “Il 
filo di 
Arianna”. Dolo specifico e 
pericolo 
nel diritto penale della sicurezza, in Dir. pen. cont., 2018, 1, pp. 41 ss. 
(27) Cfr. R. BARTOLI, Legislazione 
e 
prassi 
in tema di 
contrasto al 
terrorismo internazionale: un 
nuovo paradigma emergenziale?, in Dir. pen. cont., 2017, 3, pp. 233 ss. 
(28) In breve: 
l’incriminazione 
degli 
atti 
preparatori 
assume 
sempre 
come 
punto di 
riferimento la 
realizzazione 
di 
uno specifico reato storicamente 
determinato; 
pertanto, la 
specifica 
finalità 
criminosa 
rappresenta 
il 
perno 
intorno 
al 
quale 
attribuire 
rilevanza 
a 
fatti 
che 
costituiscono 
una 
manifestazione 
oggettiva 
e 
significativa 
di 
tale 
fenomeno. D’altra 
parte, invece, la 
fattispecie 
associativa 
ruota 
intorno al 
programma 
di 
reati, dove 
ciò che 
viene 
determinato è 
proprio il 
programma 
e 
non i 
singoli 
reati 
mentre 
il disvalore si ripercuote proprio sull’organizzazione di mezzi e persone. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


Il 
rapporto tra 
due 
le 
norme, dunque, si 
risolve 
nella 
“soccombenza” 
del-
l’autonoma 
fattispecie 
di 
finanziamento tutte 
le 
volte 
in cui 
la 
condotta 
di 
sostegno 
economico 
-direttamente 
rivolto 
all’associazione 
in 
sé 
considerata 
sia 
posta 
in essere 
da 
un soggetto interno all’organizzazione; 
di 
contro, tuttavia, 
queste 
presentano un nucleo comune, rinvenibile 
sul 
piano dell’elemento 
oggettivo della 
condotta 
di 
finanziamento (raccolta, elargizione 
o messa 
a 
disposizione) 
ma, per il 
resto, la 
norma 
difetta 
del 
requisito dell’appartenenza 
del 
soggetto all’associazione 
e 
della 
destinazione 
dei 
fondi 
al 
sostentamento 
economico dell’associazione. 

V’è, tuttavia, chi 
riconosce 
che 
l’esiguo margine 
applicativo delle 
condotte 
delittuose 
di 
finanziamento sia 
dovuto anche 
alla 
possibile 
configurabilità, 
quantomeno 
in 
astratto, 
del 
concorso 
esterno 
nell’associazione 
con 
finalità 
di 
terrorismo, istituto dotato di 
incontrollabile 
capacità 
espansiva 
(29), ma 
pur 
ammettendolo 
-l’elemento 
di 
discernimento 
rispetto 
all’art. 
270-quinquies.
1 
c.p. 
sarebbe 
comunque 
rappresentato 
dalla 
circostanza 
che 
la 
condotta 
di finanziamento sia rivolta direttamente all’ente associativo (30). 


D’altronde, si 
afferma 
che 
in ragione 
di 
queste 
peculiari 
caratteristiche, 
l’ambito applicativo dell’autonoma 
fattispecie 
di 
finanziamento si 
rivolge 
ai 
casi 
in 
cui 
le 
condotte 
di 
supporto 
economico 
non 
siano 
dirette 
a 
favore 
di 
soggetti 
inquadrati 
nelle 
fila 
di 
un’associazione 
terroristica, 
ma 
avvenga, 
piuttosto, 
in favore 
di 
possibili 
“lupi 
solitari” 
intenzionati 
a 
commettere 
in proprio atti 
di terrorismo (31). 


In aggiunta, l’ulteriore 
problema 
di 
coordinamento dipende 
dalla 
circostanza 
che 
il 
finanziamento (sub specie 
la 
raccolta, l’elargizione 
o la 
messa 
a 
disposizione 
di 
denaro o beni) ben può integrare 
la 
condotta 
di 
partecipazione 
all’associazione 
di 
cui 
all’art. 270-bis, co. 2, c.p., specie 
in ragione 
di 
un inquadramento 
della 
struttura 
associativa 
(nelle 
ipotesi 
di 
terrorismo 
internazionale), 
basata 
su 
un’interpretazione 
«decisamente 
flessibilizzata» 
(32), 
la 
quale 


(29) 
M. 
DONINI, 
Il 
concorso 
esterno 
“alla 
vita 
dell’associazione” 
ed 
il 
principio 
di 
tipicità 
penale, 
in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 gennaio 2017, il 
quale 
fornisce 
in generale 
un’ampia 
riflessione 
sul rapporto tra i concorrenti interni e la fattispecie di concorso esterno nel reato associativo. 
(30) Cfr. G. DI 
VETTA, Nuove disposizioni, cit., p. 45. 
(31) 
Così, 
R. 
BERTOLESI, 
Ancora 
nuove 
norme 
in 
materia 
di 
terrorismo, 
in 
www.dirittopenalecontemporaneo.
it, 
19 
ottobre 
2016, 
secondo 
il 
quale 
l’ulteriore 
spazio 
applicativo 
autonomo 
della 
fattispecie 
riguarderebbe 
poi 
i 
casi 
in cui 
manchi 
la 
prova 
dell’inserimento del 
soggetto finanziato in un’associazione 
terroristica, o, in aggiunta, laddove 
sia 
il 
finanziatore 
a 
non conoscere 
il 
legame 
di 
affiliazione 
del 
soggetto finanziato all’associazione terroristica. 
(32) 
R. 
BARTOLI, 
Legislazione 
e 
prassi, 
cit., 
p. 
239, 
mette 
in 
evidenza 
come 
la 
giurisprudenza 
tende 
ad 
accogliere 
un’interpretazione 
della 
fattispecie 
associativa 
fortemente 
destrutturata, 
evidenziando 
il 
diverso modo di 
concepire 
la 
struttura 
dell’organizzazione 
nelle 
diverse 
ipotesi 
di 
terrorismo interno 
e 
terrorismo internazionale: 
nel 
primo caso, infatti, si 
tende 
ad utilizzare 
criteri 
interpretativi 
particolarmente 
rigorosi; 
nel 
secondo, come 
detto, si 
tratta 
di 
un’interpretazione 
più flessibile. La 
ragione 
di 
ciò 
si 
rinviene 
nella 
circostanza 
che 
rispetto al 
terrorismo internazionale 
si 
«tende 
a 
imporsi 
una 
logica 
fortemente 
preventiva, potremmo dire 
a 
“rischio attentati 
zero”, sia 
in ragione 
del 
fatto che 
là 
dove 
gli 
at

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


comporta 
la 
conseguenza 
che 
la 
partecipazione 
risulti 
integrata 
a 
prescindere 
dall’effettivo incardinamento del 
singolo nel 
tessuto organizzativo di 
un’autonoma 
struttura associativa. 

Pertanto, 
assumono 
rilievo 
-tramite 
l’utilizzo 
di 
principi 
fin 
troppi 
elastici 
la 
cui 
applicazione 
tende 
ad anticipare 
“la 
soglia 
di 
partecipazione” 
dell’associazione 
terroristica 
(quasi 
escludendo la 
voluntas 
legis 
di 
prevedere 
condotte 
di 
assistenza, arruolamento e 
finanziamento in autonome 
fattispecie 
(33)) -in 
termini 
di 
partecipazione 
all’associazione 
ai 
sensi 
dell’art. 270-bis, co. 2, le 
condotte 
di 
supporto materiale, tra 
le 
quali 
quelle 
di 
finanziamento, realizzate 
dai 
singoli 
componenti 
di 
una 
“cellula” 
prestate 
a 
favore 
di 
altre 
organizzazioni 
terroristiche pacificamente riconosciute. 


Dunque, il 
rapporto interferenziale 
con l’art. 270-quinquies.1 si 
risolve 
ancora 
una 
volta 
in 
sfavore 
di 
quest’ultima 
norma 
nei 
casi 
in 
cui 
risulti 
provata 
“l’intraneità” associativa del soggetto attivo (34). 


Esclusa, dunque, la 
possibilità 
di 
individuare 
il 
referente 
normativo del-
l’art. 270-quinquies.1 c.p. nella 
fattispecie 
associativa, essa 
può dirsi 
inquadrata 
in 
quella 
peculiare 
forma 
di 
tutela 
che 
incrimina 
e 
sanziona 
gli 
atti 
preparatori 
i 
quali, com’è 
noto, da 
un punto di 
vista 
strutturale 
si 
collocano in 
una 
fase 
anteriore 
rispetto a 
quella 
del 
tentativo punibile 
ai 
sensi 
dell’art. 56 


c.p. (35) (per il 
quale 
è 
richiesta 
l’idoneità 
e 
la 
non equivocità 
della 
direzione 
degli 
atti) e 
la 
cui 
incriminazione 
si 
fonda 
sulla 
necessità 
di 
“fermare 
sul 
nascere” 
l’iter criminis. 
Dunque, se 
la 
ratio 
della 
loro incriminazione 
è 
quella 
di 
evitare 
che 
da 
tali 
condotte 
preparatorie 
possa 
poi 
derivare 
la 
realizzazione 
di 
ulteriori 
reati 
che 
determinino una 
compromissione 
dell’interesse 
tutelato, è 
stato osservato 
come 
le 
stesse 
non siano «sufficienti, di 
per sé 
sole, a 
sfociare 
nella 
lesione 
di 


tacchi 
terroristici 
sono stati 
realizzati, essi 
sono stati 
posti 
in essere 
da 
singole 
persone 
o da 
cellule 
le 
cui 
strutture 
sono davvero molto leggere, sia 
perché 
si 
tratta 
di 
attacchi 
particolarmente 
imprevedibili 
e 
indeterminati, andando a 
colpire 
persone 
innocenti 
e 
con la 
mera 
finalità 
di 
creare 
terrore 
nella 
popolazione
». 


(33) 
Così, 
L. 
D’AGOSTINO, 
I 
margini 
applicativi 
della 
condotta 
di 
partecipazione 
all’associazione 
terroristica: 
adesione 
psicologica 
e 
contributo 
causale 
all’esecuzione 
del 
programma 
criminoso, 
in 
Riv. 
trim. 
dir. 
pen. 
cont., 
2017, 
1, 
p. 
82. 
In 
giurisprudenza 
sul 
punto 
cfr. 
Cass. 
pen., 
Sez. 
V, 
8 
ottobre 
2015, 
n. 
2651. 
(34) Così, G. DI 
VETTA, Nuove disposizioni, cit., p. 46. 
(35) 
Per 
quanto 
concerne 
la 
possibilità 
di 
includere 
gli 
atti 
meramente 
preparatori 
nella 
fattispecie 
di 
cui 
all’art. 56 c.p. con relativi 
riferimenti 
giurisprudenziali 
v. E. MEzzETTI, Diritto penale, casi 
e 
materiali, 
2a 
ed., 
edizione, 
Bologna, 
2017, 
pp. 
475 
ss., 
il 
quale, 
sul 
punto, 
muove 
una 
critica 
all’orientamento 
giurisprudenziale 
che 
ritiene 
punibili 
anche 
gli 
atti 
meramente 
preparatori 
purché 
abbiano la 
capacità, 
sulla 
base 
di 
valutazioni 
ex 
ante 
ed in relazione 
alle 
circostanze 
del 
caso concreto, di 
raggiungere 
il 
risultato 
prefissato 
e 
ad 
esso 
siano 
univocamente 
diretti. 
L’Autore, 
infatti, 
mostra 
le 
sue 
perplessità 
in 
merito 
a 
tale 
impostazione 
tendente 
ad 
un’eccesiva 
anticipazione 
della 
tutela 
penale 
sul 
versante 
dell’individuazione 
del 
momento preciso dell’iter 
criminis 
rispetto al 
quale 
inizia 
a 
concretizzarsi 
il 
pericolo 
penalmente 
rilevante 
per gli 
interessi 
protetti 
dalla 
norma 
incriminatrice, rischiando di 
porre 
seri 
problemi rispetto all’offesa al bene giuridico. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


uno o più beni 
giuridici, ma 
semplicemente 
creano le 
condizioni 
perché 
in un 
momento 
successivo 
il 
medesimo 
soggetto 
o 
un 
terzo 
possa 
realizzare 
una 
condotta direttamente lesiva del bene giuridico» (36). 


In 
sostanza, 
la 
scelta 
in 
ordine 
alla 
meritevolezza 
dell’incriminazione 
degli 
atti 
preparatori 
si 
basa 
su una 
prognosi 
astratta 
di 
pericolosità 
della 
condotta, 
fondata 
sulla 
strumentalità 
della 
stessa 
per la 
realizzazione 
di 
ulteriori 
reati, a 
loro volta 
lesivi 
degli 
interessi 
tutelati; 
di 
per sé, infatti, il 
mero atto 
preparatorio 
non 
determina 
la 
lesione 
di 
alcun 
bene 
giuridico 
(37), 
da 
ciò 
l’inevitabile 
problema 
di 
accertare 
proprio 
il 
requisito 
dell’idoneità 
della 
condotta, 
per non incorre 
nel 
rischio di 
sanzionare 
condotte 
neutre 
in termini 
di 
adeguatezza 
rispetto al fine (terroristico in questo caso). 

Ed 
è 
proprio 
quanto 
accade 
nella 
materia 
di 
cui 
si 
discute: 
l’art. 
270-quinquies.
1 c.p., a 
ben guardare, comporta 
una 
sostanziale 
rinuncia 
al 
principio di 
offensività 
che, 
com’è 
noto, 
impone 
di 
non 
attribuire 
rilevanza 
penale 
al 
modo 
di essere di una persona. 

4.1 L’anticipazione della tutela penale oltre i limiti dell’offensività. 
Le 
condotte 
incriminate 
dall’art. 270-quinquies.1 c.p. risultano, infatti, 
neutre 
e 
prive 
di 
offensività 
rispetto 
agli 
interessi 
individuali 
oggetto 
di 
tutela, 
quali 
la 
vita 
e 
l’integrità 
fisica, dando per tale 
via 
luogo ad una 
presunzione 
di 
pericolosità 
della 
condotta 
di 
finanziamento; 
con l’ulteriore 
conseguenza 
che 
essendo sufficiente 
la 
“raccolta” 
di 
denaro con l’intenzione 
che 
un qualcuno 
la 
utilizzi 
per un atto di 
terrorismo, si 
anticipa 
notevolmente 
la 
soglia 
del 
tentativo 
punibile 
(38). Si 
tratta 
di 
un errore 
prospettico che 
accomuna 
le 
varie 
norme 
antiterrorismo: 
«voler attribuire 
al 
fatto un sostrato offensivo che 
non 
può strutturalmente appartenergli» (39). 


Ecco, dunque, che 
l’esigenza 
di 
incriminazione 
trascende 
dalle 
garanzie 
costituzionali 
per approdare 
sul 
piano di 
quel 
modello soggettivistico del 
diritto 
penale 
(conosciuto come 
“diritto penale 
d’autore”), addebitando la 
sanzione 
penale 
non sulla 
base 
di 
“quello che 
uno fa”, ma 
di 
“quello che 
uno è” 
(40), finendo col 
reprimere 
condotte 
neutre, basandosi 
sull’intenzione 
terrori


(36) Cfr. F. VIGANò, Incriminazione 
di 
atti 
preparatori 
e 
principi 
costituzionali 
di 
garanzia nella 
vigente legislazione antiterrorismo, in ius17@unibo.it, 2009, 1, p. 174. 
(37) Sulla 
tendenza 
del 
legislatore 
antiterrorismo a 
sanzionare 
condotte 
preparatorie, significativamente 
distanti 
dalla 
soglia 
del 
tentativo punibile 
e 
perciò neutre 
rispetto a 
referente 
teleologico di 
tutela, 
v. 
F. 
FASANI, 
I 
martiri 
invisibili. 
Quale 
ruolo 
per 
il 
diritto 
penale 
nella 
lotta 
al 
terrorismo 
islamico?, 
in Criminalia, 2015, p. 490 s. 
La 
criminalizzazione 
degli 
atti 
preparatori 
nel 
diritto penale 
costituisce 
«un tema 
tra 
i 
più dibattuti 
nel 
diritto penale 
che 
ha 
portato i 
giuristi 
quasi 
alla 
disperazione», così 
F. ANTOLISEI, Manuale 
di 
diritto penale, 
parte 
generale, 16a 
ed., Milano, 2003, p. 486; 
v. anche 
R. GAROFOLI, Compendio di 
diritto penale, 
parte generale, 7a 
ed., 2019, p. 484; F. VIGANò, 
Incriminazione, cit., pp. 171 ss. 
(38) Così, F. FASANI, Un nuovo intervento, cit., p. 1561. 
(39) Cfr. G. DI 
VETTA, Nuove disposizioni, cit., p. 31. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


stica 
dell’agente 
e 
prescindendo dal 
concreto ed effettivo danno al 
bene 
giuridico 
(e, dunque, punendo il soggetto per la sua “indole criminale”). 


Sebbene 
l’idea 
del 
diritto 
penale 
del 
nemico 
(41) 
non 
sia 
agevolmente 
compatibile 
con 
i 
principi 
costituzionali, 
v’è, 
tuttavia, 
chi 
ritiene 
che 
non 
possa 
essere 
ignorato 
il 
fatto 
che 
gli 
autori 
degli 
atti 
terroristici 
esemplificano 
nel 
modo più chiaro il 
“delinquente 
per convinzione”, ponendo -come 
si 
è 
visto 
-delicati 
problemi 
in 
merito 
alla 
strategia 
politico 
criminale 
da 
seguire 
per 
contrastarli (42). 


È 
possibile, 
dunque, 
delineare 
quantomeno 
due 
modelli 
del 
diritto 
penale: 
da 
una 
parte, quello oggettivistico, nel 
quale 
l’attenzione 
è 
rivolta 
esclusivamente 
al 
fatto individuando il 
fondamento della 
sanzione 
nella 
realizzazione 
di 
un fatto concretizzatosi 
nell’offesa 
ad un bene 
giuridico, il 
cui 
punto di 
arrivo 
è 
il 
rango 
costituzionale 
del 
principio 
di 
offensività; 
dall’altro 
lato, 
il 
modello 
soggettivistico 
che, 
invece, 
si 
rivolge 
all’aspetto 
“interiore” 
del 
soggetto, 
al 
suo 
modo 
di 
essere 
come 
individuo 
pericoloso 
o 
nemico 
della 
società 
e 
dello 
Stato, nel 
quale, come 
visto, sembrano abbandonate 
le 
garanzie 
che 
il 
diritto 
penale 
dovrebbe 
offrire 
ad ogni 
cittadino per approdare 
ad una 
logica 
d’intervento 
meramente preventiva. 

Le 
fattispecie 
antiterrorismo, 
come 
detto, 
rappresentano 
uno 
degli 
esempi 


(40) Sul punto in maniera più approfondita, v. G. MARINUCCI, Soggettivismo, cit., pp. 2 ss. 
(41) 
Sul 
concetto 
di 
“diritto 
penale 
del 
nemico”, 
cfr. 
G. 
JAKOBS, 
Terroristen 
als 
Personen 
im 
Recht? in Zeitschrift 
für 
die 
gesamte 
Strafrechtswissenschaft, IV, 2005, pp. 117 ss. L’Autore 
classifica 
il 
delinquente 
in due 
distinte 
categorie: 
da 
una 
parte 
chi, nonostante 
delinqua, accetta 
l’esistenza 
della 
norma 
e 
dello Stato, dall’altra 
parte 
chi, nel 
realizzare 
la 
propria 
attività 
delinquenziale, non riconosce 
né 
l’una 
né 
l’altro. Ebbene, solo il 
primo criminale 
acquisisce 
il 
titolo di 
cittadino, ed in quanto tale, 
avendo egli 
sottoscritto il 
contratto sociale, merita 
la 
tutela 
e 
le 
garanzie 
previste 
dalla 
legislazione 
ordinaria. 
Diversamente, 
il 
secondo 
delinquente, 
non 
sottoscrivendo 
il 
contratto, 
non 
può 
essere 
qualificato 
come 
un cittadino, ma 
come 
un “nemico” 
dotato di 
particolare 
pericolosità; 
da 
ciò discende 
la 
sottoposizione 
ad una legislazione differenziata, connotata da forti restrizioni di diritti e garanzie. 
Il 
diritto penale 
del 
nemico, in una 
prospettiva 
più moderna, evoca, dunque, un concetto secondo cui 
ciò 
che 
viene 
punito 
non 
è 
più 
il 
fatto, 
ma 
il 
reo, 
in 
contrasto 
con 
un 
sistema 
improntato 
sul 
diritto 
penale 
del 
fatto. 
Viene 
punito 
un 
modo 
di 
essere 
del 
reo, 
ovvero 
l’aver 
informato 
la 
propria 
vita 
al 
crimine, 
trattandosi, secondo alcuni, «di 
uno strumento utile 
a 
decifrare 
le 
politiche 
penali 
avviate 
contro il 
terrorismo, 
ma 
non per legittimarle». Così 
testualmente 
M. PELISSERO, Contrasto al 
terrorismo internazionale 
e 
il 
diritto 
penale 
al 
limite, 
in 
Questione 
Giustizia 
(ed. 
speciale) 
2016, 
p. 
100. 
Sul 
punto, 
v. 
anche 
L. FERRAJOLI, Il 
diritto penale 
del 
nemico e 
la dissoluzione 
del 
diritto penale, in Questione 
Giustizia, 
2006, 4, p. 797; 
M. DONINI, Diritto penale 
di 
lotta v. diritto penale 
del 
nemico, in A. GAMBERINI, R. ORLANDI 
(a 
cura 
di), 
Delitto 
politico 
e 
diritto 
penale 
del 
nemico. 
Nuovo 
revisionismo 
penale, 
Bologna, 
2007, p. 131, evidenzia 
appunto come 
il 
concetto di 
“diritto penale 
del 
nemico” 
tende 
ad allontanare 
dal 
diritto 
penale 
dell’offesa, 
per 
perseguire 
l’obiettivo 
di 
neutralizzare 
gli 
autori 
pericolosi; 
ID., 
Il 
diritto 
penale 
di 
fronte 
al 
nemico, in Cass. pen., 2006, fascicolo speciale, pp. 735 ss.; 
F. PALAzzO, Contrasto 
al 
terrorismo, diritto penale 
del 
nemico e 
princìpi 
fondamentali, in Questione 
Giustizia, 2006, 4, pp. 
666 
ss.; 
F. 
VIGANò, 
Terrorismo, 
guerra 
e 
sistema 
penale, 
in 
Riv. 
it. 
dir. 
proc. 
pen., 
2006, 
p. 
648; 
F. 
FASANI, 
Terrorismo islamico e 
diritto penale, Milano, 2016, pp. 147 ss.; 
in senso critico sul 
ricorso al 
diritto penale 
del 
nemico, v. anche 
G. INSOLERA, Terrorismo internazionale 
tra delitto politico e 
diritto penale 
del nemico, in Dir. pen. proc., 2006, 7, pp. 897 ss. 
(42) Così, V. MILITELLO, Terrorismo, cit., p. 5. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


più lampanti 
di 
quest’eccessiva 
prevenzione, essendo una 
legislazione 
costellata 
dall’incriminazione 
di 
atti 
preparatori 
con momenti 
finalistici. Ma 
la 
casistica, 
in 
realtà, 
è 
molto 
più 
ampia, 
tanto 
da 
delineare 
una 
sorta 
di 
sistema 
normativo autonomo, un nuovo modello di 
diritto penale 
appunto, il 
cui 
baricentro 
ruota 
intorno ad una 
generalizzata 
frizione 
con i 
principi 
fondamentali 
del 
diritto 
penale: 
si 
tratta, 
in 
primo 
luogo, 
di 
ipotesi 
in 
cui 
il 
legislatore 
sembra 
aver 
svuotato 
del 
contenuto 
offensivo 
i 
fatti 
incriminati 
(reati 
di 
pericolo 
astratto, 
reati 
di 
pericolo 
indiretto, 
reati 
di 
sospetto); 
ipotesi 
in 
cui 
sembra 
concretizzarsi 
una 
vera 
e 
propria 
rinuncia 
alla 
necessaria 
offesa 
al 
bene 
(reati 
di 
attentato, 
reati 
a 
dolo 
specifico) 
in 
cui 
si 
punisce 
sulla 
base 
della 
mera 
volontà 
di 
offendere; 
ed, 
infine, 
in 
maniera 
discutibile 
secondo 
taluni, 
andrebbe 
ricompresa 
la 
categoria 
dei 
reati 
omissivi, 
in 
cui 
verrebbe 
sanzionata 
la 
disobbedienza 
in quanto tale (43). 


La 
scelta 
legislativa 
è, dunque, quella 
di 
incriminare 
atti 
che 
non hanno 
una 
diretta 
lesività 
rispetto 
al 
bene 
giuridico 
finale, 
ma 
che 
generano 
piuttosto 
un 
pericolo 
del 
pericolo, 
e 
per 
questo 
si 
pongono 
in 
netta 
contrapposizione 
con l’istituto del 
tentativo, posto che 
in quest’ultimo caso i 
requisiti 
dell’idoneità 
e 
inequivocità 
della 
condotta 
mostrano un connotato della 
stessa 
come 
adatto alla formazione di un pericolo diretto al bene. 

Non va 
dimenticato, inoltre, che 
il 
principio di 
offensività 
non esaurisce 
la 
sua 
portata 
garantista 
nello scrutinio sulla 
scelta 
di 
incriminazione 
(sul 
precetto 
penale), ma 
impone 
un rapporto di 
proporzionalità 
tra 
l’offesa 
arrecata 
e la sanzione irrogata (44). 

Anche 
in merito a 
tale 
profilo si 
manifestano alcune 
perplessità: 
fa 
riflettere, 
infatti, 
che 
il 
legislatore, 
tramite 
un’equiparazione 
in 
termini 
sanzionatori 
evidentemente 
sproporzionata, 
sanziona 
con 
la 
pena 
della 
reclusione 
da 
7 
a 
15 anni 
tanto l’autore 
delle 
condotte 
di 
cui 
all’art. 270-quinquies.1 c.p. (estraneo 
al 
contesto associativo), quanto colui 
che 
dell’associazione 
ne 
risulti 
organizzatore 
o 
promotore, 
ai 
sensi 
dell’art. 
270-bis, 
co. 
1 
c.p.; 
a 
ciò 
aggiungendosi, 
l’ulteriore 
evidente 
sproporzione 
che 
emerge 
dal 
raffronto 
con 
l’art. 270-quater.1 c.p., posto che 
colui 
che 
organizza 
il 
viaggio del 
terrorista 


o lo finanzia è punito con la pena da 5 a 8 anni (45). 
La 
messa 
a 
fuoco dell’art. 270-quinquies.1 c.p., pertanto, mette 
in luce 
la 
(43) La 
classificazione 
si 
basa 
esclusivamente 
sul 
rapporto tra 
la 
fattispecie 
e 
l’offesa 
e 
viene 
riproposta 
da G. MARINUCCI 
- E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 595 s. 
(44) 
Sul 
punto, 
non 
sono 
mancate 
nel 
nostro 
ordinamento 
declaratorie 
di 
incostituzionalità 
di 
cornici 
sanzionatorie 
ritenute 
in 
contrasto 
con 
i 
principi 
di 
offensività 
(di 
proporzionalità 
della 
penale 
e 
rieducazione 
del 
condannato). Sul 
punto, si 
veda 
Corte 
Cost., 10 novembre 
2016, n. 236 (concernente 
la 
pena 
prevista 
per il 
reato di 
alterazione 
di 
stato ex 
art. 567, co. 2, c.p.) o Corte 
Cost., 23 gennaio 2019, 
n. 40 (con la 
quale 
è 
stata 
dichiarata 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 73, co. 1 D.P.R. n. 309/1990, 
nella 
parte 
in cui, per effetto della 
pronuncia 
n. 32/2014 della 
Corte 
Costituzionale, prevede 
la 
pena 
minima 
edittale di otto anni anziché di quella di sei anni, introdotta con l’art. 4-bis 
d.l. n. 272 del 2005). 
(45) La problematica è affrontata anche da 
V. ARAGONA, Il contrasto, cit., p. 104 s. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


problematica 
riconducibilità 
della 
stessa 
ai 
caratteri 
tradizionali 
del 
diritto 
penale 
del 
fatto 
e 
dell’offesa, 
rendendo, 
dunque, 
legittimo 
l’auspicio 
fatto 
proprio 
da 
chi 
riteneva 
necessaria 
una 
maggiore 
tipizzazione 
degli 
elementi 
costitutivi 
della 
fattispecie, ancorando la 
condotta 
a 
parametri 
quantitativi, qualitativi 
o 
di 
idoneità 
rispetto al 
fine 
perseguito; 
tuttavia, nella 
realtà 
concreta, viene 
a 
delinearsi 
un sistema 
nel 
quale 
sembra 
non potersi 
rinvenire 
altra 
soluzione 
che 
quella 
di 
affiancare 
al 
“diritto penale 
del 
cittadino” 
il 
“diritto penale 
del 
nemico”, attraverso un’anticipazione 
massima 
della 
tutela 
penale 
che 
finisce 
col punire la sola finalità e la pericolosità del soggetto (46). 


In un simile 
contesto, dunque, il 
giurista 
è 
posto davanti 
ad un bivio: 
da 
un lato, accettare 
l’idea 
di 
un diritto penale 
flessibilizzato, in qualche 
misura 
caratterizzato da 
sistemi 
differenziati 
in ragione 
della 
gravità 
dei 
fenomeni 
da 
contrastare, 
ammettendo 
una 
tecnica 
fondata 
sull’anticipazione 
della 
tutela 
(47); 
dall’altro, rimanere 
fedele 
al 
sistema 
di 
garanzie 
tradizionali 
del 
diritto 
penale, senza 
rassegnarsi 
all’idea 
di 
un’indebita 
soppressione 
dei 
principi 
di 
offensività e materialità (48). 


Il 
nodo problematico è 
rappresentato dal 
fatto che 
il 
finanziamento di 
cui 
all’art. 270-quinquies.1 c.p. è 
governato, diversamente 
da 
quanto accade 
per 
altre 
fattispecie 
in 
materia 
antiterrorismo, 
dall’impossibilità 
di 
ricorrere 
a 
quel-
l’interpretazione 
oggettivizzante 
del 
dolo 
specifico 
spesso 
valorizzata 
dalla 
giurisprudenza 
(49) 
a 
causa 
dell’estrema 
lontananza 
delle 
condotte 
ivi 
sanzionate 
rispetto alla 
concreta 
offensività 
del 
bene 
giuridico che 
rende 
arduo -se 
non addirittura 
impossibile 
-quel 
giudizio di 
idoneità 
della 
condotta 
al 
compimento 
di 
atti 
con finalità 
di 
terrorismo; 
questo si 
dovrebbe 
risolvere 
in una 


(46) Cfr. L. BRIzI, L’illecito penale, cit., p. 19 il 
quale 
parla 
di 
“necessitas 
non habet 
legem” 
riferendosi 
alla 
circostanza 
secondo cui 
in simili 
contesti 
(volti 
a 
fronteggiare 
il 
terrorismo) non vi 
sarebbe 
altro rimedio se 
non quello di 
attribuire 
al 
diritto penale 
un ruolo di 
neutralizzazione, di 
difesa 
e 
di 
sicurezza. 
Per un’analisi 
critica 
di 
questi 
ed altri 
temi 
legati 
allo stato di 
necessità, si 
rinvia 
naturalmente 
a 
E. MEzzETTI, Necessitas 
non habet 
legem? Sui 
confini 
tra “Impossibile” 
ed “Inesigibile” 
nella struttura 
dello stato di necessità, Torino, 2001. 
(47) F. VIGANò, Terrorismo, cit., p. 694 secondo cui 
è 
inevitabile 
lo spostamento «al 
paradigma 
della 
repressione 
di 
un fatto già 
commesso a 
quello della 
prevenzione 
di 
fatti 
non ancora 
commessi, al 
fine di assicurare una più efficace tutela della sicurezza della collettività». 
(48) Sul punto, R. BARTOLI, Legislazione e prassi, cit., p. 254. 
(49) La 
giurisprudenza 
in alcune 
occasioni 
ha 
ribadito l’oggettivizzazione 
del 
dolo specifico nel-
l’ambito di 
alcuni 
delitti 
contro la 
personalità 
dello Stato. Sul 
punto, è 
possibile 
confrontare 
Cass. pen., 
Sez. I, 17 gennaio 2007, n. 1072; 
Cass. pen., Sez. I, 10 luglio 2007, n. 34989, in www.dejure.it, concernente 
l’art. 270-bis 
c.p., laddove 
si 
legge 
«è 
indubbio che 
la 
struttura 
organizzativa 
deve 
presentare 
un 
grado 
di 
effettività 
tale 
da 
rendere 
almeno 
possibile 
l’attuazione 
del 
progetto 
criminoso 
e 
da 
giustificare, 
quindi, la 
valutazione 
di 
pericolosità 
correlata 
alla 
idoneità 
della 
struttura 
alla 
realizzazione 
della 
serie 
indeterminata 
di 
reati 
per il 
cui 
compimento l’associazione 
è 
costituita»; 
più di 
recente, con riguardo al 
diverso 
reato 
di 
cui 
all’art. 
270-quinquies 
c.p., 
cfr. 
Cass. 
pen., 
Sez. 
VI, 
25 
luglio 
2011, 
n. 
29670, 
secondo 
la 
quale 
«la 
consumazione 
anticipata 
nei 
reati 
a 
dolo specifico, perché 
il 
fatto non si 
esaurisca 
entro una 
fattispecie 
in cui 
assume 
un rilevo esorbitante 
l’elemento della 
volontà 
di 
scopo, che 
sussistano atti 
che 
oggettivamente rendano detta volontà idonea a realizzare lo scopo». 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


valutazione 
quantitativa 
delle 
risorse 
messe 
a 
disposizione 
con 
l’inconveniente, 
però, che 
anche 
un esiguo finanziamento può essere 
utilmente 
impiegato 
per il 
compimento di 
un atto terroristico. Il 
dolo specifico, pertanto, non 
può ritenersi selettivo rispetto all’entità del finanziamento. 

D’altronde, un giudizio in termini 
quantitativi 
del 
finanziamento non rispecchia 
il 
paradigma 
normativo in relazione 
al 
quale 
ciò che 
viene 
richiesto 
è 
la 
circostanza 
che 
le 
risorse 
vengano utilizzate 
per il 
compimento di 
atti 
con 
finalità 
di 
terrorismo; 
ciò significa 
che, in concreto, il 
giudice 
dovrà 
accertare 
unicamente 
che 
i 
fondi 
siano stati 
acquisiti 
o messi 
a 
disposizione 
per il 
generico 
compimento 
di 
attività 
terroristiche, 
prescindendo 
dall’entità 
del 
finanziamento. 


Dunque, 
è 
perfettamente 
lecito 
interrogarsi 
su 
come 
“salvare” 
la 
fattispecie 
prevista 
dall’art. 270-quinquies.1 c.p. recuperando quella 
offensività 
che 
consenta il rispetto dei limiti costituzionali del diritto penale. 

La 
soluzione 
-come 
già 
evidenziato da 
taluni 
-potrebbe 
transitare 
dal-
l’attribuzione 
all’atto preparatorio del 
carattere 
plurisoggettivo, così 
da 
individuare 
quel 
programma 
criminoso 
assente, 
pretendendo 
dal 
giudice 
un’operazione 
volta 
a 
individuare 
l’inserimento dell’atto preparatorio in una 
relazione 
intersoggettiva, 
alla 
luce 
della 
quale 
la 
finalizzazione 
teleologica 
delle 
risorse 
raccolte 
assuma 
una 
sua 
evidenza 
(50): 
dunque, non paiono punibili 
i 
comportamenti 
di 
raccolta 
e 
generica 
messa 
a 
disposizione 
di 
denaro 
in quanto atti 
monosoggettivi. Quel 
che 
è 
certo è 
che 
sarà 
imprescindibile 
un 
lavoro 
giurisprudenziale 
che 
ponga 
un 
freno 
alla 
portata 
dirompente 
di 
tale 
norma (così come di altre in materia). 


4.2 Ancora un esempio di fattispecie a tipicità mancata. 
Al 
di 
là 
delle 
frizioni 
con il 
principio di 
stretta 
offensività 
(51), la 
fatti


(50) Tale soluzione è proposta da R. BARTOLI, Legislazione e prassi, cit., pp. 255 s. 
(51) In generale, G. MARINUCCI, E. DOLCINI, 
Corso di 
diritto penale, cit., p. 560, mettono in evidenza 
come 
nel 
nostro ordinamento creano una 
forte 
tensione 
con il 
principio di 
offensività 
i 
c.d. reati 
di 
pericolo indiretto, tra 
i 
quali 
rientrano quelli 
con “finalità 
di 
terrorismo” 
e, dunque, anche 
il 
finanziamento 
ex 
art. 270-quinquies.1. c.p. Si 
tratta, infatti, di 
scelte 
incriminatrici 
in cui 
il 
legislatore 
anticipa 
notevolmente 
la 
soglia 
di 
punibilità 
arretrandola 
al 
pericolo di 
pericolo di 
lesione 
di 
un bene 
giuridico, 
ma, 
nonostante 
la 
riconosciuta 
frizione 
col 
principio 
di 
offensività, 
la 
dottrina 
in 
questione 
afferma 
anche 
la 
necessità 
di 
procedere 
con cautela 
senza 
dichiarare 
l’incompatibilità 
tout 
court 
con la 
Costituzione 
di 
simili 
fattispecie; 
F. VIGANò, Terrorismo, cit., p. 678 ss., il 
quale 
si 
mostra 
favorevole 
a 
forme 
di 
anticipazione 
notevole 
della 
tutela 
penale 
per 
la 
salvaguardia 
di 
beni 
quali 
la 
sicurezza 
pubblica, 
tuttavia, 
proprio 
in 
relazione 
alle 
fattispecie 
antiterrorismo, 
lo 
stesso 
propone 
l’uso 
del 
principio 
di 
offensività 
quale 
canone 
ermeneutico per recuperare 
un margine 
di 
apprezzabilità 
della 
norma; 
A. NAPPI, Manuale 
di 
diritto 
penale. Parte 
generale, Milano, 2010, pp. 78 ss., si 
interroga, più in generale, sul 
rapporto tra 
le 
varie 
ipotesi 
di 
anticipazione 
della 
soglia 
di 
punibilità 
e 
il 
principio 
di 
offensività, 
rinvenendone 
una 
parvenza di liceità mediante il ricorso al principio di precauzione. 
Di 
dubbia 
costituzionalità 
con i 
principi 
di 
offensività 
e 
materialità 
si 
pongono anche 
i 
c.d. reati 
di 
sospetto 
(compresi 
nel 
genus 
dei 
reati 
di 
pericolo indiretto), nei 
quali 
si 
incrimina 
il 
mero possesso di 
una 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


specie 
pone, inoltre, qualche 
interrogativo anche 
in relazione 
al 
principio di 
tassatività/determinatezza (52). 

Nel 
testo 
della 
norma 
vi 
è 
un 
evidente 
equivoco 
terminologico: 
nella 
prima 
parte, infatti, si 
fa 
riferimento al 
concetto di 
“beni” 
e 
“denaro”, per poi 
ricorrere 
alla 
diversa 
locuzione 
di 
“fondi” 
relativa 
alla 
loro destinazione 
(53) 
e, sul 
punto, le 
criticità 
da 
taluno evidenziate 
possono essere 
superate 
valorizzando 
la 
dimensione 
topologica 
del 
finanziamento, limitando le 
condotte 
rilevanti 
a 
quelle 
condotte 
che 
presentano, in relazione 
all’oggetto materiale, una 
connotazione economico-patrimoniale. 

Del 
resto, il 
legislatore 
già 
nella 
rubrica 
utilizza 
il 
generico concetto di 
“finanziamento”, 
alludendo 
probabilmente 
a 
tutte 
le 
varie 
modalità 
di 
sovvenzione 
economico-patrimoniale 
del 
terrorismo, 
aggiungendosi 
l’ulteriore 
circostanza 
che 
la 
fattispecie 
di 
cui 
si 
discute 
è 
stata 
introdotta 
proprio per far 
fronte 
a 
obblighi 
di 
carattere 
internazionale, 
nel 
quale, 
infatti, 
il 
finanziamento 
è 
inteso come 
forma 
di 
apprestamento di 
risorse 
economiche, sottolineando 
la 
natura 
patrimoniale 
delle 
stesse 
(54); 
ne 
discende 
il 
ricorso ad una 
nozione 


cosa 
sul 
sospetto 
che 
possa 
servire 
a 
commettere 
un 
reato; 
in 
altre 
parole, 
si 
tratta 
di 
condotte 
che 
lasciano 
presumere 
la 
commissione 
non 
accertata 
di 
reati. 
Si 
assiste, 
in 
sostanza, 
all’insorgere 
di 
un 
diritto 
penale 
“preventivo”. Sul 
punto E. MEzzETTI, Diritto penale, cit., p. 173; 
la 
problematica 
è 
affrontata 
anche 
da 


R. CALISTI, Il 
sospetto nei 
reati. Profili 
costituzionali 
e 
prospettive 
attuali, Milano 2003, pp. 25 ss.; 
F. 
MANTOVANI, Diritto penale, parte 
generale, cit., pp. 226 ss. il 
quale, mettendo in luce 
una 
sorta 
di 
funzione 
classificatoria 
dell’offensività, è 
solito parlare 
di 
“reati 
senza 
offesa” 
indicando una 
categoria 
generale 
che 
ricomprende 
i 
reati 
a 
dolo 
specifico, 
i 
reati 
di 
sospetto, 
i 
delitti 
di 
attentato 
e 
i 
reati 
c.d. 
ostativi. 
In senso critico verso ogni 
possibile 
forma 
di 
deroga 
e 
allontanamento dal 
principio di 
offensività, cfr. 
A. CAVALIERE, Riflessioni 
sul 
ruolo dell’offensività nella teoria del 
reato costituzionalmente 
orientata, 
in G. GIOSTRA, G. INSOLERA 
(a 
cura 
di), AA. VV. 
Costituzione, diritto e 
processo penale, Milano, 1983, 
pp. 156 ss. 
(52) Anche 
se 
con riferimento al 
precedente 
d.l. n. 7/2015, sul 
punto cfr. A. CAVALIERE, Considerazioni 
critiche, cit., p. 228, secondo cui 
«tale 
vaghezza 
corrisponde 
all’intento di 
consentire 
un’esasperata 
anticipazione 
della 
tutela 
ai 
più 
remoti 
atti 
preparatori 
e, 
in 
sostanza, 
a 
qualsiasi 
condotta 
sintomatica 
del 
mero atteggiamento interiore»; 
per ulteriori 
rilievi 
critici 
sui 
precedenti 
interventi 
legislativi 
in materia 
antiterrorismo cfr. V. MASARONE, Politica criminale 
e 
diritto penale 
nel 
contrasto al 
terrorismo internazionale. Tra normativa interna, europea ed internazionale, Napoli 2013, pp. 117 ss. 
In generale, per un’analisi 
specifica 
sul 
principio di 
tassatività 
e 
determinatezza 
è 
possibile 
confrontare 
tra 
gli 
altri 
F. PALAzzO, Legalità e 
determinatezza della legge 
penale: significato linguistico, interpretazione 
e 
conoscibilità della regola iuris, in G. VASSALLI 
(a 
cura 
di), Diritto penale 
e 
giurisprudenza 
costituzionale, Napoli-Roma, 2006, pp. 49 ss.; 
ID., Il 
principio di 
determinatezza nel 
diritto penale, Padova, 
1979; 
P. 
SIRACUSANO, 
Principio 
di 
precisione 
e 
definizione 
legislativa 
di 
parte 
speciale, 
in 
E. 
DOLCINI, 
C.E. PALIERO 
(a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, pp. 739 ss. 
(53) Le 
maggiori 
perplessità, ricollegate 
anche 
a 
possibili 
risvolti 
pratici, vengono manifestate 
da 
V. ARAGONA, Il 
contrasto, cit., p. 103, la 
quale, infatti, pone 
in evidenza 
il 
problema 
circa 
la 
possibilità 
di 
ritenere 
consumato 
il 
reato 
nell’ipotesi 
concreta 
in 
cui 
il 
fiancheggiatore 
metta 
a 
disposizione 
uno 
strumento 
tecnologico 
il 
quale 
può 
essere 
inquadrato 
nel 
concetto 
di 
“bene”, 
ma 
non 
in 
quello 
di 
“fondo”. 
(54) 
A 
livello 
internazionale 
di 
particolare 
interesse 
sul 
punto 
è 
la 
definizione 
di 
“fondi” 
fornita 
dall’art. 
1 
della 
Convenzione 
internazionale 
per 
la 
repressione 
del 
finanziamento 
del 
terrorismo, 
secondo 
il 
quale 
vanno 
ricompresi 
«beni 
di 
ogni 
genere, 
materiali 
o 
immateriali, 
mobili 
o 
immobili, 
acquisiti 
con 
qualsiasi 
mezzo, 
nonché 
documenti 
o 
atti 
giuridici 
in 
qualsivoglia 
forma, 
compresa 
la 
forma 
elettronica 
o 
numerica, 
attestanti 
un 
diritto 
di 
proprietà 
o 
un 
interesse 
su 
questi 
beni, 
e 
in 
particolare 
crediti 
bancari, 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


di 
“fondi” 
in senso tecnico: 
l’oggetto materiale 
rilevante 
è 
ogni 
utilità 
economica-
patrimoniale 
che 
ben 
può 
incorporarsi 
in 
un 
“bene” 
(mobile 
o 
immobile) 
«facilmente monetizzabile» (55). 


L’indeterminatezza 
della 
fattispecie 
si 
riflette 
ulteriormente 
sulle 
condotte 
incriminate, 
sub 
specie 
“raccolta, 
erogazione 
e 
messa 
a 
disposizione”, 
provando 
a 
tipizzare 
le 
quali 
si 
può affermare: 
per “raccolta” 
si 
intende 
quell’attività 
con 
cui 
l’agente 
si 
procura, 
o 
comunque 
ottiene 
la 
disponibilità 
materiale, 
anche 
solo temporanea, di 
beni 
o denaro; 
“erogazione” 
è, invece, la 
condotta 
di 
chi 
corrisponde 
a 
terzi 
una 
somma 
di 
denaro 
o 
beni 
di 
cui 
ha 
la 
disponibilità; 
infine, 
similmente, 
la 
“messa 
a 
disposizione” 
consiste 
nel 
destinare 
o 
riservare 
una 
somma 
di 
denaro o beni 
affinché 
siano utilizzati 
per sostenere 
un attacco 
terroristico. 

Anche 
sotto 
tale 
profilo 
si 
manifesta 
l’irragionevolezza 
sanzionatoria 
della 
norma: 
premesso che 
-come 
visto -si 
tratta 
di 
condotte 
di 
fatto “neutre” 
rispetto alla 
lesione 
del 
bene 
giuridico, che 
di 
per sé 
determina 
un eccessivo 
trattamento sanzionatorio, l’irragionevolezza 
è 
ancora 
più evidente 
tramite 
il 
raffronto con il 
comma 
2 della 
medesima 
fattispecie, il 
quale 
punisce 
con la 
reclusione 
da 
5 a 
10 anni 
«chiunque 
deposita 
o custodisce 
i 
beni 
o il 
denaro di 
cui al primo comma». 


Si 
tratta 
di 
condotte 
tra 
loro 
interferenti, 
in 
quanto 
quelle 
del 
primo 
comma 
implicano 
la 
realizzazione 
di 
quelle 
di 
cui 
al 
comma 
successivo 
(come 
è 
possibile 
raccogliere 
soldi 
senza 
custodirli? 
E 
viceversa, come 
si 
può custodire 
ciò che ancora non è stato raccolto?). 

Alla 
luce 
di 
ciò, dunque, in 
primis 
appare 
irragionevole 
la 
previsione 
di 
una 
così 
netta 
differenza 
sanzionatoria 
tra 
le 
condotte 
che 
si 
pongono come 
una 
progressione 
criminosa, 
cui 
si 
aggiunge, 
nella 
realtà 
concreta, 
il 
problema 
del 
possibile 
discernimento del 
titolo di 
reato nelle 
ipotesi 
in cui 
un soggetto 
dopo 
aver 
raccolto 
denaro 
o 
altri 
beni 
(co. 
1), 
in 
un 
secondo 
momento 
si 
renda 
autore dell’autonoma condotta di custodia o deposito (co. 2). 


Sul 
punto, 
taluni 
ritengono 
che 
l’attività 
di 
conservazione, 
in 
quanto 
strumentale 
alla 
raccolta 
o messa 
a 
disposizione, risulterebbe 
in essa 
assorbita 
e, 
in ragione 
della 
logica 
sottesa 
a 
tale 
principio, la 
custodia 
o il 
deposito rappresenterebbero 
“antefatti” 
o 
“postfatti” 
non 
punibili, 
reputandosi 
concretamente 
applicabile la fattispecie più grave del primo comma (56). 


assegni 
di 
viaggio, 
assegni 
bancari, 
vaglia, 
azioni, 
titoli, 
obbligazioni, 
cambiali 
e 
lettere 
di 
cambio». 
Ed 
ancora, 
il 
recente 
d.lgs. 
90/2017 
fornisce 
una 
definizione 
di 
finanziamento 
nella 
quale 
rileva 
l’utilizzo 
del 
concetto di 
“fondi 
e 
risorse 
economiche”, anziché 
quello di 
“beni” 
utilizzato nel 
codice 
penale. Secondo 
taluni, infatti, si 
tratta 
di 
un elemento sistematico da 
non sottovalutare 
ai 
fini 
dell’interpretazione 
della 
formula 
codicistica 
per escludere 
una 
nozione 
più ampia 
di 
finanziamento. Sul 
punto, F. FASANI, 
Un nuovo intervento, cit., p. 1558. 


(55) Così, F. FASANI, Un nuovo intervento, cit., p. 1558. 
(56) Si ripropongono le considerazioni di G. DI 
VETTA, Nuove disposizioni, cit., p. 44. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


In una 
diversa 
prospettiva, invece, intesa 
a 
considerare 
le 
condotte 
di 
cui 
al 
comma 
primo con una 
consistenza 
fattuale 
autonoma 
rispetto alla 
conservazione 
delle 
utilità, 
sembrerebbe 
impossibile 
prescindere 
da 
un 
duplice 
titolo 
di 
responsabilità, 
configurandosi 
un’ipotesi 
di 
reato 
continuato 
ai 
sensi 
dell’art. 
81, co. 2, c.p. 


Poste 
tali 
problematiche, può comunque 
ritenersi 
apprezzabile 
l’intento 
del 
legislatore 
di 
sanzionare 
tutte 
le 
condotte 
che 
connotano 
la 
catena 
di 
finanziamento, 
in qualche misura ponendo un intervento completo. 

Le 
considerazioni 
fino ad ora 
svolte 
pongono il 
giurista 
dinnanzi 
ad un 
interrogativo di 
fondo: 
si 
vuole 
davvero rinunciare 
alla 
stretta 
legalità 
ed alla 
necessaria 
chiarezza 
delle 
leggi 
penali? 
Il 
ricorso ad una 
sempre 
maggiore 
legislazione 
“caotica”, 
frutto 
di 
una 
legislazione 
d’emergenza 
-sempre 
più 
adoperata 
per 
fronteggiare 
istanze 
sociali 
e 
di 
natura 
politica 
indirizzate 
a 
una 
maggiore 
sicurezza 
-che 
difetta 
delle 
qualità 
tecniche 
(tassatività 
e 
determinatezza) 
imposte 
dalla 
Costituzione 
per le 
norme 
penali, sembrano condurre 
verso una risposta affermativa. 

La 
crisi 
della 
determinatezza, espressione 
di 
un diritto penale 
simbolico, 
può, dunque, dirsi 
dettata 
da 
un continuo “inseguimento” 
del 
diritto penale 
rispetto 
a 
fattispecie 
complesse 
che 
emergono a 
fronte 
di 
un continuo e 
rapido 
mutamento 
della 
realtà 
(economica 
e 
tecnologica), 
finendo 
col 
«condurre 
il 
legislatore 
verso 
una 
forzata 
abdicazione 
del 
suo 
ruolo 
fondamentale, 
lasciando 
alla 
giurisprudenza 
e 
alle 
fonti 
secondarie 
il 
ruolo di 
riempire 
le 
più o 
meno 
volute 
lacune 
del 
tessuto 
normativo» 
(57). 
Non 
sembra, 
tuttavia, 
corretto 
attribuire 
la 
causa 
dell’erosione 
di 
un simile 
corollario in via 
esclusiva 
all’attività 
legislativa, posto che 
la 
stessa 
Corte 
costituzionale 
ha 
affermato che 
la 
verifica 
circa 
il 
rispetto del 
principio di 
determinatezza 
va 
effettuata 
mediante 
il 
raffronto tra 
il 
singolo elemento descrittivo dell’illecito e 
gli 
altri 
costitutivi 
della 
fattispecie, 
cosicché, 
nonostante 
l’uso 
di 
espressioni 
sommarie, 
vocaboli 
polisensi 
o 
clausole 
generali, 
l’indeterminatezza 
della 
fattispecie 
è 
esclusa 
nella 
misura 
in cui 
«la 
descrizione 
complessiva 
del 
fatto incriminato consenta 
al 
giudice 
[…] di 
stabilire 
il 
significato di 
tale 
elemento mediante 
un’operazione 
interpretativa 
non 
esorbitante 
dall’ordinario 
compito 
a 
lui 
affidato» 
(58). 


Ci 
si 
rende 
conto, dunque, che 
la 
presenza 
di 
un elemento indeterminato 
nella 
fattispecie 
non 
comporta 
tout 
court 
la 
sua 
illegittimità 
sul 
piano 
dei 
principi 
costituzionali, ma 
viene 
rimesso in seno alla 
giurisprudenza 
un lavoro -a 
questo punto fondamentale 
-d’interpretazione 
della 
norma, volto ad individuare 
in concreto i 
confini 
applicativi 
della 
fattispecie, rimanendo, tutt’al 
più, 
fedele 
agli 
obiettivi 
di 
politica 
criminale 
che 
hanno mosso l’intervento del 
le


(57) 
Così, 
E. 
MEzzETTI, 
Casi 
e 
materiali, 
cit., 
p. 
10; 
sulla 
crisi 
della 
determinatezza 
v. 
anche 
G. 
VASSALLI, 
I 
principi 
generali 
del 
diritto 
nell’esperienza 
penalistica, 
in 
Riv. 
it. 
dir. 
proc. 
pen., 
1991, 
p. 
720 
s. 
(58) Cfr. Corte Cost., 1 agosto 2008, n. 327. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


gislatore, 
nonché 
allo 
specifico 
contesto 
normativo 
nel 
quale 
si 
inserisce 
la 
fattispecie. 

Al 
pari 
dell’offensività 
si 
può, dunque, distinguere 
tra 
determinatezza 
in 
astratto ed in concreto (59): 
la 
prima, riferita 
al 
momento della 
formulazione 
della 
norma, 
mentre 
la 
seconda 
rappresenta 
la 
regola 
individuata 
dall’interprete 
e 
applicata 
al 
caso concreto. Pertanto, nelle 
varie 
ipotesi 
-come 
accade 
nella 
materia 
antiterrorismo 
-in 
cui 
sembra 
legittimarsi, 
in 
astratto, 
il 
ricorso 
a 
concetti 
caratterizzati 
da 
una 
dose 
di 
indeterminatezza 
per tutelare 
beni 
ritenuti 
di 
primaria 
importanza 
e 
per 
far 
fronte 
ad 
esigenze 
sociali, 
non 
pare 
ugualmente 
possibile, in concreto, prescindere 
dal 
risultato interpretativo ragionevolmente 
prevedibile nei confronti del destinatario. 

Tuttavia, 
ciò 
che 
sembra 
delinearsi 
è 
proprio 
un 
intreccio 
di 
poteri 
che 
l’art. 
25, 
co. 
2 
Cost. 
è 
volto 
a 
scongiurare; 
il 
c.d. 
nullum 
crimen 
sine 
lege, 
che 
trova 
compiuta 
attuazione 
in 
presenza 
di 
norme 
penali 
determinate 
e 
tassative, 
mira, 
da 
un 
lato, 
a 
garantire 
la 
separazione 
dei 
poteri 
per 
il 
tramite 
della 
riserva 
di 
legge, 
che 
impedisce 
al 
giudice 
di 
sostituirsi 
al 
legislatore 
nell’individuazione 
dei 
fatti 
penalmente 
rilevanti; 
dall’altro, 
consente 
la 
libera 
autodeterminazione 
del 
cittadino 
consentendogli 
di 
conformare 
il 
proprio 
comportamento 
alle 
condotte 
doverose 
sanzionate. 
Ciò 
nonostante, 
come 
si 
è 
visto, 
in 
relazione 
a 
quelle 
norme 
espressione 
della 
decretazione 
d’urgenza, 
non 
si 
fa 
altro 
che 
attribuire 
alla 
giurisprudenza 
un 
ruolo 
di 
prim’ordine 
nel-
l’individuazione 
delle 
condotte 
penalmente 
rilevanti 
e, 
al 
contempo, 
si 
pone 
l’individuo 
in 
una 
situazione 
d’incertezza 
tramite 
la 
predisposizione 
di 
formule 
pressoché 
indeterminate. 


In 
ultima 
analisi, 
avuto 
riguardo 
all’inciso 
«in 
qualunque 
modo 
realizzati
», 
riferito 
al 
denaro 
o 
ai 
beni 
oggetto 
della 
condotta, 
sembra 
potersi 
aderire 
al 
pensiero di 
chi 
ritiene 
che 
tale 
presupposto «nulla 
aggiunge 
alla 
condotta 
stessa». Tutt’al 
più, lo stesso manifesta 
l’intenzione 
del 
legislatore 
di 
specificare 
quanto 
già 
noto 
ai 
tecnici 
del 
settore 
antiterrorismo, 
ovvero 
l’origine 
lecita 
dei fondi (60). 


5. 
Un 
compromesso 
coatto: 
l’ausilio 
della 
giurisprudenza 
per 
il 
recupero 
della 
legalità. 
L’esigenza 
di 
intervenire 
per 
arginare 
il 
dilagante 
fenomeno 
del 
terrorismo 
e 
del 
suo 
finanziamento, 
come 
si 
è 
cercato 
di 
dire, 
ha 
spinto 
il 
legislatore 
ad 
un 
intervento 
sempre 
più 
rivolto 
all’abbandono 
delle 
garanzie 
del 
diritto 
penale. 


Si 
può dire 
che, quantomeno nella 
materia 
del 
terrorismo internazionale, 
il 
legislatore, presa 
coscienza 
della 
criticità 
del 
fenomeno, si 
sia 
“arreso” 
al


(59) Cfr. F. PALAzzO, Legalità e determinatezza, cit., p. 54. 
(60) Così, F. FASANI, Un nuovo intervento, cit., p. 1559. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


l’idea 
che 
questa 
sia 
l’unica 
forma 
di 
intervento possibile 
per contrastarne 
le 
conseguenze; 
a 
dimostrazione 
di 
ciò, le 
varie 
disposizioni 
del 
codice 
penale 
si 
basano -come 
più volte 
sottolineato -su un’eccessiva 
anticipazione 
della 
tutela penale, la cui conformità a Costituzione è fortemente discutibile. 


Si 
assiste, infatti, ad una 
sempre 
più frequente 
violazione 
del 
principio di 
materialità 
e 
offensività, non essendo richiesto un comportamento funzionale 
alla 
realizzazione 
di 
un 
programma 
criminoso; 
del 
principio 
di 
tassatività 
e 
determinatezza, 
con 
previsioni 
legislative 
dai 
contorni 
poco 
chiari 
e 
spesso 
indefiniti; 
del 
principio di 
proporzionalità 
e, conseguentemente 
del 
principio di 
rieducazione 
della 
pena, spesso elusi 
tramite 
cornici 
sanzionatorie 
eccessive 
rispetto alle condotte (neutre) incriminate. 


È 
pur vero che 
sembrano delinearsi 
all’orizzonte 
poche 
speranze 
per una 
diversa 
forma 
di 
intervento, sia 
perché 
la 
flessione 
della 
garanzia 
si 
giustifica 
con la 
necessità 
di 
contrastare 
questi 
fenomeni 
criminali 
estremamente 
pericolosi 
e 
complessi, 
sia 
perché 
a 
livello 
sovranazionale 
viene 
imposto 
un 
simile 
intervento. 

L’intervento 
correttivo 
di 
tali 
norme, 
in 
altre 
parole, 
potrebbe 
difficilmente 
transitare 
attraverso una 
riforma 
legislativa, ma 
piuttosto mediante 
un 
lavoro interpretativo della 
giurisprudenza 
che 
ne 
ridimensioni 
la 
loro portata 
dirompente; 
in altre 
parole, accettare 
un simile 
modello di 
diritto penale 
equivale 
a 
convivere 
con la 
consapevolezza 
che 
dinnanzi 
ad 
un “debole” 
esercizio 
del 
potere 
legislativo 
seguirà 
inevitabilmente 
l’attribuzione 
di 
un 
“forte” 
potere 
giudiziario. 


Si 
è 
già 
in più occasioni 
evidenziato come 
la 
giurisprudenza 
sia 
intervenuta 
aderendo a 
quell’interpretazione 
oggettivizzante 
del 
dolo specifico volta 
a 
recuperare 
l’offensività 
a 
prima 
vista 
assente 
in alcune 
fattispecie 
incriminatrici; 
in 
altre 
occasioni, 
invece, 
il 
contributo 
della 
giurisprudenza 
è 
stato 
funzionale 
all’inclusione, 
a 
certe 
condizioni, 
anche 
degli 
atti 
preparatori 
nel 
paradigma 
normativo del 
tentativo, per garantirne 
la 
punibilità; 
ed ancora, la 
casistica 
giurisprudenziale 
è 
ricca 
di 
pronunce 
volte 
a 
“salvare” 
norme 
in 
possibile 
contrasto 
con 
i 
canoni 
di 
determinatezza 
(61). 
Tali 
ipotesi 
non 
fanno 
altro che 
dimostrare 
la 
centralità 
del 
ruolo “sostitutivo” 
della 
giurisprudenza, 
la 
quale 
è 
chiamata 
a 
svolgere 
un compito che, a 
ben vedere, non le 
dovrebbe 
appartenere. 

Insomma, potremmo essere 
dinnanzi 
a 
un punto di 
non ritorno: 
il 
crollo 
del 
monopolio 
della 
legge 
nella 
materia 
penale 
ha 
comportato 
inevitabilmente 


(61) Sull’inclusione 
degli 
atti 
preparatori 
nel 
paradigma 
del 
tentativo, cfr. Cass. pen., Sez. II, 20 
novembre 
2012, n. 46776; 
Cass. pen., Sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612; 
in merito alla 
legittimità 
costituzionale 
delle 
norme 
sospettate 
di 
essere 
in contrasto con il 
principio di 
determinatezza 
cfr. Corte 
Cost., 13 febbraio 1995, n. 34; 
Corte 
Cost., 13 gennaio 2004, n. 5; 
Corte 
Cost., 1 agosto 2008, n. 327; 
Corte Cost., 11 giugno 2014, n. 172. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 1/2020 


l’accrescere 
del 
potere 
normativo della 
giurisprudenza: 
il 
giudice, oggi, non è 
più soltanto mero esecutore 
della 
legge, ma 
è 
colui 
che 
la 
interpreta 
e 
nell’interpretarla 
svolge anche una funzione creativa (62). 


Ciò 
che 
ormai 
sembra 
un 
dato 
assodato 
è 
la 
nascita 
di 
una 
“nuova 
legalità” 
(63), intesa 
come 
valorizzazione 
dell’interpretazione 
giudiziale, nella 
quale, 
dunque, il 
ruolo del 
giudice 
va 
ben oltre 
quello di 
garante 
e 
mero applicatore 
della 
legge 
(non più) scritta 
e 
determinata 
dal 
legislatore, ma 
finisce 
per divenire 
parte 
integrante 
della 
produzione 
penale 
fornendone 
un 
peculiare 
apporto. 

E 
dunque 
le 
consuete 
difficoltà 
del 
potere 
politico 
di 
intervenire 
dinnanzi 
alle 
nuove 
emergenze 
sociali 
ed 
economiche 
incrementano 
sempre 
di 
più 
il 
ruolo 
di 
“supplenza” 
giudiziaria, 
quale 
forma 
di 
deresponsabilizzazione 
del 
potere 
legislativo, che 
non fa 
altro che 
favorire 
la 
divaricazione 
tra 
law in the 
books e law in action (64). 


Se 
da 
un 
lato, 
può 
fungere 
da 
“scriminante” 
per 
il 
legislatore 
la 
circostanza 
che 
non 
è 
sempre 
agevole 
riuscire 
a 
costruire 
un 
precetto 
chiaro 
e 
determinato 
in 
tutte 
le 
sue 
possibili 
forme, 
dovendo 
sempre 
fare 
i 
conti 
con 
la 
realtà 
concreta 
dei 
fatti 
e 
dei 
fenomeni 
in 
continua 
evoluzione, 
dall’altro, 
tale 
assunto 
non 
può 
certo 
essere 
invocato 
tutte 
le 
volte 
in 
cui 
l’organo 
legislativo, 
con 
piena 
consapevolezza 
e 
volontà 
di 
agire, 
rimette 
di 
fatto 
il 
proprio 
compito 
alla 
giurisprudenza, 
risultando 
per 
tale 
aspetto 
il 
principale 
artefice 
del 
declino 
della 
legalità. 


In altre 
parole, vi 
sono situazioni 
in cui 
il 
legislatore, per trascuratezza 
o 
per 
superficialità 
finisce 
col 
delineare 
fattispecie 
che 
presentano 
un 
livello 
minimo 
di 
determinatezza, che 
consenta 
loro di 
non incorrere 
in un’evidente 
declaratoria 
di 
illegittimità 
costituzionale 
ma 
che 
necessitano 
ugualmente 
di 
precisazione 
contenutistica; 
altre 
volte, invece, (probabilmente) conscio delle 
difficoltà 
d’intervento in relazione 
a 
una 
determinata 
materia 
o, nel 
delineare 
i 
tipi 
criminosi, adotta 
formule 
omnicomprensive 
e 
volutamente 
vaghe, esplicitando 
il 
necessario 
intervento 
dell’organo 
giurisprudenziale 
ai 
fini 
della 
loro 
determinazione (65). 


Icasticamente, si 
potrebbe 
dire 
che 
l’odierna 
(e 
quasi 
incessante) indeterminatezza 
delle 
norme 
penali 
dipende 
in alcuni 
casi 
da 
un atteggiamento ne


(62) Sulla 
funzione 
creativa 
del 
giudice, cfr., tra 
gli 
altri, A. CADOPPI, Il 
valore 
del 
precedente 
nel 
diritto penale, 2a 
ed., Torino, 2014, pp. 107 ss. 
(63) Per una 
maggiore 
analisi 
del 
concetto di 
“nuova 
legalità” 
rapportato a 
quello di 
“vecchia 
legalità”, 
cfr. R. BARTOLI, Le garanzie della “nuova legalità”, in Sist. pen., 2020, 3, pp. 143 ss. 
(64) Su tali 
concetti, v. F.C. PALAzzO, Legalità fra law in the 
books 
e 
law in action, in Dir. pen. 
cont., 2016, 3, pp. 2 ss. 
(65) Un esempio di 
quanto detto è 
rinvenibile 
nei 
lavori 
preparatori 
della 
riforma 
sulle 
false 
comunicazioni 
sociali 
con l. n. 69/2015; 
segnatamente 
in relazione 
alla 
delicata 
questione 
del 
falso valutativo 
il 
legislatore 
espressamente 
ha 
assegnato alla 
Corte 
di 
Cassazione 
il 
compito di 
«dover valutare 
se 
gli 
elementi 
valutativi 
e 
le 
stime 
possano o meno rientrare 
all’interno di 
un concetto che 
implica 
fatti 
materiali rilevanti». 
Sul punto, E. MEzzETTI, La ricomposizione disarticolata del falso in bilancio, in LP, 2016, pp. 3 ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


gligente 
del 
legislatore 
(colpa?) 
e, 
in 
altri 
casi, 
da 
una 
consapevolezza 
del 
proprio 
agire 
e 
dall’accettazione 
delle 
relative 
conseguenze, cioè 
del 
necessario 
intervento dell’interprete per rimediare ai propri “errori” (dolo eventuale?). 


Certamente, 
l’idea 
di 
un 
legislatore 
al 
quale 
imputare 
una 
qualsiasi 
forma 
di 
responsabilità, sia 
essa 
colposa 
o dolosa, nel 
formulare 
un precetto penale 
indeterminato è 
ben lontana 
da 
quanto richiede 
la 
nostra 
Costituzione 
e 
dal-
l’interpretazione 
tradizionale 
dei 
principi 
in essa 
contenuta; 
ma 
è 
innegabile 
che, così 
come 
il 
giurista, anche 
il 
legislatore 
deve 
fare 
i 
conti 
con la 
realtà, 
con la 
sua 
articolata 
complessità, con l’evoluzione 
dei 
fenomeni 
e 
delle 
esigenze 
di tutela. 

Ed è 
esattamente 
quanto accaduto con riferimento alla 
fattispecie 
di 
cui 
all’art. 270-quinquies.1 c.p., in relazione 
alla 
quale 
il 
legislatore 
si 
è 
ancora 
una 
volta 
spogliato 
delle 
vesti 
di 
garante 
della 
legalità 
per 
far 
fronte 
ad 
istanze 
di 
protezione 
sociale. In qualche 
misura, sembra 
che 
il 
legislatore 
abbia 
agito 
con 
piena 
consapevolezza 
nella 
formulazione 
di 
una 
norma 
indeterminata 
e 
lontana 
dal 
paradigma 
classico dell’offensività, quasi 
“nascondendosi” 
dietro 
ad una 
giurisprudenza 
più volte 
intervenuta, proprio nella 
materia 
antiterrorismo, 
in sua sostituzione e pronta a farlo anche in tal caso. 

Riprendendo 
quanto 
detto 
poc’anzi, 
dunque, 
con 
riferimento 
all’autonoma 
fattispecie 
di 
finanziamento, si 
potrebbe 
azzardare 
attribuendo al 
legislatore 
una 
responsabilità 
a 
titolo 
di 
dolo 
eventuale, 
tutt’al 
più 
in 
qualche 
misura 
“scriminata” 
da 
uno stato di 
necessità 
diretto alla 
salvaguardia 
di 
beni 
di 
primaria 
importanza. 
Del 
resto, 
sembra 
ormai 
questo 
il 
trend 
seguito, 
quantomeno 
nella 
materia 
di 
cui 
si 
discute: 
un legislatore 
non tanto superficiale, 
quanto 
piuttosto 
perfettamente 
consapevole 
delle 
sue 
scelte 
di 
allontanarsi 
dai 
canoni 
tradizionali 
del 
diritto penale 
e 
ormai 
complice 
di 
un dilagante 
diritto 
giurisprudenziale. 

Ma 
se 
questo è 
il 
modus 
operandi 
che 
il 
legislatore 
intende 
seguire, non 
resta 
che 
affidare 
alla 
giurisprudenza 
il 
compito, nel 
suo ruolo di 
interprete, 
di 
non farsi 
assorbire 
da 
queste 
pressanti 
esigenze 
di 
prevenzione, evitando di 
mettersi 
al 
servizio 
di 
una 
politica 
di 
lotta, 
frutto 
di 
una 
visione 
sovranazionale, 
prima ancora che nazionale, per non incorrere nel rischio di distruggere definitivamente 
lo stato di diritto. 


ContrIbutIdIdottrIna
Covid-19 e ordinanze del Governo. In particolare, 
i decreti del Presidente del Consiglio quali 
strumento necessario per far fronte alla pandemia 


Stefano Pizzorno* 


Sommario: 1. L’esercizio del 
potere 
di 
ordinanza -2. i DPCm del 
Governo e 
la Costituzione; 
l’inadeguatezza del 
decreto-legge 
come 
mezzo di 
gestione 
delle 
emergenze 
-3. Una 
proposta. 

Come 
noto, il 
Governo ha 
emesso una 
serie 
di 
ordinanze 
(soprattutto decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, ma 
anche 
del 
Ministero della 
Salute, 
solo 
ed 
in 
concerto 
con 
il 
Ministero 
dell’Interno) 
al 
fine 
di 
fronteggiare 
l’epidemia 
determinata 
di 
Covid-19. Queste 
ordinanze 
hanno stabilito gravi 
limitazioni 
a 
taluni 
diritti 
fondamentali 
previsti 
dalla 
Costituzione, in particolare 
alla 
libertà 
di 
circolazione 
e 
al 
diritto di 
riunione, oltre 
a 
incidere 
comunque 
su 
molteplici 
rapporti 
etico-sociali, 
quali 
la 
libertà 
di 
culto 
e 
il 
diritto 
all’istruzione. Le 
basi 
normative 
che 
ne 
hanno costituito il 
fondamento sono 
stati 
il 
decreto-legge 
23 febbraio 2020 n. 6 (1) (che 
ha 
fatto seguito alla 
dichiarazione, 
da 
parte 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
in 
data 
31 
gennaio, 
dello 
stato 
di 
emergenza 
nazionale), e 
il 
decreto-legge 
25 marzo 2020 n. 19 (2), i 
quali 
hanno previsto espressamente 
che 
le 
misure 
necessarie 
per contenere 
l’epidemia 
venissero adottate 
con uno o più decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri. 
Il 
decreto-legge 
6/2020 
prevedeva 
alcune 
misure 
che 
potevano 
essere 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) Convertito dalla 
l. 5 marzo 2020 n. 13; 
abrogato quasi 
integralmente 
dall’articolo 5 del 
de-
creto-legge 
25 marzo 2020, n. 19, il 
quale, all’articolo 2, comma 
3, ha 
fatto salve 
le 
ordinanze 
adottate 
in forza del precedente. 
(2) Convertito dalla l. 22 maggio 2020, n. 35. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


adottate 
con DPCM 
senza 
però fornirne 
un elenco tassativo (3), mentre 
il 
decreto 
19/2020 ha 
eliminato le 
clausole 
aperte, determinando in modo più specifico 
le misure eventualmente oggetto dei futuri decreti (4). 

1. L’esercizio del potere di ordinanza. 
I decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio volti 
a 
gestire 
l’epidemia 
di 
coronavirus 
rientrano nella 
categoria 
delle 
ordinanze 
di 
necessità 
(5), la 
cui 
compatibilità 
con 
la 
Costituzione 
è 
stata 
affermata 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
a 
condizione 
che 
vengano rispettati 
le 
norme 
costituzionali 
e 
i 
principi 
dell’ordinamento 
giuridico, vi 
sia 
adeguata 
motivazione 
e 
abbiano efficacia 
limitata 
nel 
tempo, in relazione 
alla 
necessità 
e 
all’urgenza 
(6). Secondo la 
Corte 
tali 
ordinanze 
non 
sono 
certamente 
ricomprese 
tra 
le 
fonti 
del 
nostro 
ordinamento 
giuridico; 
non 
innovano 
al 
diritto 
oggettivo; 
né, 
tanto 
meno, 
sono 
equiparabili 
ad 
atti 
con 
forza 
di 
legge, 
per 
il 
sol 
fatto 
di 
essere 
eccezionalmente 
autorizzate 
a 
provvedere 
in deroga 
alla 
legge 
stessa 
(7). nell’ultimo decennio si 
è 
verificato 
un ampliamento significativo dei 
settori 
in cui 
è 
ammesso l’utilizzo delle 
ordinanze 
di 
necessità, 
sia 
con 
riferimento 
a 
quelle 
del 
Sindaco, 
quale 
ufficiale 
del 
governo (8) e 
come 
rappresentante 
del 
Comune 
(9), sia 
in relazione 
alle 
ordinanze di protezione civile. 


(3) Infatti 
il 
comma 
2 dell’art. 1 del 
D.L. stabiliva 
che 
tra 
le 
misure 
da 
adottarsi 
allo scopo di 
evitare 
il 
diffondersi 
del 
Covid-19 
potevano 
essere 
adottate 
anche 
quelle 
successivamente 
elencate. 
Inoltre 
secondo l’art. 2 Le 
autorità competenti 
possono adottare 
ulteriori 
misure 
di 
contenimento e 
gestione 
dell'emergenza, 
al 
fine 
di 
prevenire 
la 
diffusione 
dell'epidemia 
da 
CoViD-19 
anche 
fuori 
dai 
casi 
di 
cui all'articolo 1, comma 1. 
(4) Il 
decreto 19/20 ha 
abrogato il 
precedente 
decreto-legge, peraltro già 
convertito, facendo però 
salvi 
gli 
effetti 
prodotti 
e 
gli 
atti 
adottati 
sulla 
base 
dei 
decreti 
e 
delle 
ordinanze 
emanati 
ai 
sensi 
del 
d.l. 
6/2020. 
(5) I dpcm 
emessi 
in occasione 
della 
pandemia 
sono di 
ampio respiro, presentano aspetti 
regolamentari, 
ma 
ciò nondimeno sono ordinanze. Così 
anche 
LuCIAnI, il 
sistema delle 
fonti 
del 
diritto alla 
prova dell’emergenza, 
www.rivistaaic.it, 2/2020. Sono invece 
regolamenti 
per FILICe 
-LoCAtI, Lo Stato 
democratico di 
diritto alla prova del 
contagio, in www.questionegiustizia.it. Sulle 
caratteristiche 
di 
tali 
atti 
v. tra 
le 
molte 
Cass. S.u. 12 gennaio 2011 n. 505; 
Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015 n. 701. In 
dottrina 
la 
letteratura 
è 
ampia; 
si 
veda 
RAzzAno, Le 
ordinanze 
di 
necessità e 
urgenza nell’attuale 
ordinamento 
costituzionale, in Scritti in onore di michele Scudiero, napoli, 2008. 
(6) 
Sent. 
8/1956. 
Vedi 
anche 
sentenze 
n. 
4/1977, 
n. 
617/1987, 
n. 
32/1991, 
n. 
418/1992, 
n. 
127/1995. 
La 
sent. 
26/1961 
dichiarò 
l’illegittimità 
dell’art. 
2 
t.u. 
pubblica 
sicurezza 
R.D. 
773/1931 
nei 
limiti 
in cui 
la 
norma 
attribuiva 
ai 
Prefetti 
il 
potere 
di 
emettere 
ordinanze 
di 
necessità 
senza 
il 
rispetto 
dei principi dell’ordinamento giuridico. 
(7) V. sentenza 
4/1977. Questa 
affermazione 
è 
da 
rivedere 
alla 
luce 
dello sviluppo che 
hanno assunto 
le 
ordinanze 
“emergenziali”. Al 
momento sembra 
più rispondente 
al 
vero quanto affermato dal 
Consiglio di 
Stato secondo cui 
le 
ordinanze 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, in qualsiasi 
modo 
le 
si 
voglia 
collocare 
nella 
gerarchia 
delle 
fonti 
normative, sono certamente 
idonee 
a 
innovare 
l’ordinamento 
giuridico attraverso prescrizioni 
generali 
e 
astratte, v. Cons. Stato sez. IV, 16 novembre 
2011, n. 
6050. 
Infatti 
seppure 
l’efficacia 
delle 
ordinanze 
è 
temporalmente 
limitata 
(almeno 
in 
astratto) 
sono 
spesso definitivi gli effetti giuridici da esse prodotte. 
(8) Ad opera del D.L. 92/2008, convertito nella legge 125/2008. 
(9) Per via del D.L. 14/2017 convertito nella legge 48/2017. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


In generale 
il 
potere 
di 
ordinanza 
vive, per così 
dire, una 
stagione 
d’oro, 
prendendo 
sempre 
più 
piede 
nell’ordinamento. 
I 
decreti 
del 
Presidente 
del 
consiglio 
concernenti 
il 
coronavirus, conosciuti 
dall’intera 
collettività 
nazionale 
per 
l’impatto 
che 
hanno 
avuto 
sulla 
vita 
delle 
persone, 
si 
inseriscono 
in 
un 
quadro che 
ha 
visto l’esercizio sempre 
più frequente 
del 
potere 
di 
ordinanza 
rispetto all’utilizzo del decreto-legge. 


In 
occasione 
della 
pandemia 
di 
coronavirus 
si 
è 
seguito 
un 
doppio 
binario. 
Da 
un 
lato 
si 
è 
seguito 
il 
procedimento 
indicato 
dal 
codice 
della 
protezione 
civile 
(d.lgs 
2 gennaio 2018 n. 1) che, all’art. 24 (Deliberazione 
dello stato di 
emergenza 
di 
rilievo nazionale), prevede 
che 
al 
verificarsi 
degli 
eventi 
di 
cui 
all’art. 7, comma 
1, lettera 
c) (10), ovvero nella 
loro imminenza, il 
Consiglio 
dei 
Ministri, su proposta 
del 
Presidente 
del 
Consiglio, anche 
su richiesta 
del 
Presidente 
della 
regione 
interessata 
e 
comunque 
acquisitane 
l'intesa, deliberi 
lo stato di 
emergenza, fissandone 
la 
durata 
e 
determinandone 
l’estensione 
territoriale 
con 
specifico 
riferimento 
alla 
qualità 
degli 
eventi 
e 
autorizzando 
l’esercizio 
del 
potere 
di 
ordinanza. 
Il 
successivo 
art. 
25 
precisa 
che 
le 
ordinanze 
possono 
essere 
adottate 
in 
deroga 
ad 
ogni 
disposizione 
vigente, 
nei 
limiti 
e 
con le 
modalità 
indicate 
nella 
deliberazione 
dello stato di 
emergenza 
e 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
generali 
dell'ordinamento 
giuridico 
e 
delle 
norme 
del-
l'unione 
europea. Dopo la 
dichiarazione 
dello stato di 
emergenza 
da 
parte 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
in data 
31 gennaio 2020, con l’attribuzione 
al 
Capo del 
dipartimento 
della 
protezione 
civile 
del 
potere 
di 
emanare 
ordinanze 
in 
deroga 
a 
ogni 
disposizione 
vigente 
e 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
generali 
dell'ordinamento 
giuridico, è 
comunque 
intervenuto il 
D.L. 6/2020 che 
ha 
previsto esso stesso 
l’emanazione 
di 
ordinanze 
nella 
forma 
di 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
(11). In sostanza 
ad esempio per operare 
in deroga 
alla 
disciplina 
dei 
contratti 
pubblici, si 
è 
operato con ordinanze 
del 
Capo della 
protezione 
civile, mentre 
per 
gli 
interventi 
che 
coinvolgevano 
anche 
le 
libertà 
delle 
persone, 
con 
i 
DPCM previsti da decreti-legge (12). 


(10) Calamità 
naturali 
o connesse 
con l'attività 
dell'uomo che 
in ragione 
della 
loro intensità 
ed 
estensione 
debbono, con immediatezza 
d'intervento, essere 
fronteggiate 
con mezzi 
e 
poteri 
straordinari 
da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo. 
(11) Sull’intreccio tra 
ordinanze 
emergenziali 
e 
decreti 
legge 
v. ARCuRI, il 
Governo delle 
emergenze: 
i 
rapporti 
tra decreti-legge 
e 
ordinanze 
di 
protezione 
civile 
dal 
terremoto de 
L’aquila al 
crollo 
del 
ponte 
morandi, in osservatorio sulle 
fonti, n. 2, 2019, www.osservatorio sullefonti.it; 
CARDone, il 
rapporto tra ordinanze 
del 
Governo e 
decreti-legge 
alla luce 
della prassi 
più recente 
e 
delle 
modifiche 
ordinamentali 
del 
potere 
extra 
ordinem: 
alcune 
tendenze 
costanti 
che 
vanno 
oltre 
le 
“nuove” 
dinamiche 
della normazione 
al 
tempo della crisi 
economica, ibidem, 3/2016; 
zACCARIA 
-ALbAneSI, Le 
ordinanze 
di 
protezione 
civile 
“per 
l’attuazione” 
di 
decreti-legge 
(ed altri 
scostamenti 
dalla l. n. 225/92), in Giur. 
cost., 2009, n. 3; 
PIneLLI, Un sistema parallelo. Decreti-legge 
e 
ordinanze 
d’urgenza nell’esperienza 
italiana, in Diritto Pubblico, 2009, pp. 317 ss. 
(12) In realtà 
il 
sistema 
messo in atto è 
ancora 
più complesso; 
sono intervenute 
infatti 
anche 
ordinanze 
del 
Ministro 
della 
Salute 
ex 
art. 
32 
l. 
833/1978. 
Inoltre 
il 
d.l. 
18/2020 
ha 
istituito 
il 
Commissario 
straordinario 
per 
l’attuazione 
e 
il 
coordinamento 
delle 
misure 
di 
contenimento 
e 
contrasto 
dell’emergenza 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


Le 
ordinanze 
del 
Capo del 
dipartimento della 
Protezione 
civile, seppure 
l’attenzione 
si 
è 
rivolta 
quasi 
esclusivamente 
sui 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio, hanno svolto una 
funzione 
cruciale 
in occasione 
della 
crisi 
provocata 
dalla 
pandemia. Con esse 
tra 
l’altro sono stati 
stabiliti 
il 
divieto, per le 
imprese 
operanti 
in Italia, di 
esportazione 
dei 
dispositivi 
di 
protezione 
individuale, 
la 
sospensione 
del 
pagamento delle 
rate 
dei 
mutui, la 
distribuzione 
di 
risorse 
da 
destinare 
a 
misure 
urgenti 
di 
solidarietà 
alimentare 
e 
in 
generale 
molteplici misure relative alla gestione dell’emergenza. 

Senza 
pretese 
di 
trattazione 
anche 
solo parziale 
della 
materia 
(13), ci 
si 
limita 
qui 
a 
ricordare 
alcuni 
principi 
affermati 
dalla 
giurisprudenza, in particolare 
costituzionale, a proposito di questo tipo di ordinanze. 


La 
Corte 
Costituzionale 
ha 
precisato che, con riferimento agli 
eventi 
indicati 
ora 
nell’art. 
7, 
comma 
1, 
lettera 
c) 
del 
codice 
della 
protezione 
civile 
(14) 
ovvero le 
calamità 
che 
in ragione 
della 
loro natura 
devono essere 
fronteggiate 
immediatamente 
con 
poteri 
straordinari, 
le 
funzioni 
di 
intervento 
rientrano 
nella 
competenza 
dello Stato, avendo le 
medesime 
rilievo nazionale, in considerazione 
delle 
esigenze 
di 
unitarietà, 
coordinamento 
e 
direzione 
(15). 
Anche 
i 
Commissari 
Delegati 
dal 
Governo 
(16), 
devono 
considerarsi 
longa 
manus 
del 
Governo 
stesso 
(17) 
e 
i 
loro 
provvedimenti 
devono 
essere 
considerati 
quali 
atti dell’Amministrazione centrale dello Stato. 

D’altro canto, secondo la 
Corte, le 
norme 
che 
attribuiscono allo Stato i 
poteri 
di 
intervento con ordinanza 
a 
seguito di 
calamità 
non costituiscono una 
lesione 
delle 
attribuzioni 
regionali, in quanto sono espressione 
di 
un principio 
fondamentale 
della 
materia 
della 
protezione 
civile; 
ne 
consegue 
che 
lo Stato 
è 
legittimato a 
regolamentare, in considerazione 
della 
peculiare 
connotazione 
che 
assumono i 
“principi 
fondamentali” 
quando sussistono ragioni 
di 
urgenza 
che 
giustificano 
l’intervento 
unitario 
del 
legislatore 
statale, 
gli 
eventi 
di 
natura 
straordinaria 
di 
cui 
all’art. 2, comma 
1, lettera 
c), della 
legge 
n. 225 del 
1992 
(ora 
art. 7 comma 
1, lettera 
c) del 
d.lgs 
1/2018), anche 
mediante 
l’adozione 
di 


epidemiologica 
CoVID-19. 
D’altro 
canto 
anche 
in 
precedenti 
occasioni, 
come 
nell’epidemia 
di 
Sars 
nel 
2003 e 
per quella 
di 
H1n1 nel 
2009 le 
ordinanze 
di 
protezione 
civile 
concorsero con ordinanze 
del 
Ministro della Salute 
ex 
art. 32 l. 833/1978. 


(13) Per la 
quale 
si 
rinvia 
all’ampia 
dottrina, v. tra 
i 
molti 
MARzuoLI, il 
diritto amministrativo 
dell’emergenza: fonti 
e 
poteri, in annuario dell’associazione 
italiana dei 
professori 
di 
diritto amministrativo, 
2005, Milano 2006; 
CARDone, Le 
ordinanze 
di 
necessità e 
urgenza del 
Governo, osservatorio 
sulle 
fonti 
2006, a 
cura 
di 
P. CARettI, torino 2007, 236 ss.; 
GAnDInI 
-MontAGnI, La protezione 
civile, 
Milano 2007; 
PeDRInI, Le 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
in materia di 
protezione 
civile, in AA.VV., 
La prassi degli organi costituzionali, a cura di 
A. bARbeRA 
-t.F. GIuPPonI, bologna 2008, 183 ss. 
(14) 
Che 
ha 
sostituito 
con 
identica 
formulazione 
l’articolo 
2, 
comma 
1, 
lett. 
c) 
della 
legge 
225/1992, abrogata dal Codice della protezione civile. 
(15) Sentenze 284/2006, 82/2006. 


(16) 
nominati 
in 
virtù 
dell’art. 
25 
comma 
7 
del 
d.lgs 
1/2018, 
sostitutivo 
dell’art. 
5 
comma 
4 
della 
l. 225/1992. 
(17) ord. 92/2008, sent. 237/2007. 



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


specifiche 
ordinanze 
autorizzate 
a 
derogare, 
in 
presenza 
di 
determinati 
presupposti, 
alle stesse norme primarie (18). 

Le 
medesime 
disposizioni 
non comportano del 
resto un sacrificio illimitato 
dell’autonomia 
regionale, in quanto circoscrivono il 
potere 
di 
ordinanza 
in 
modo 
da 
non 
compromettere 
il 
nucleo 
essenziale 
delle 
attribuzioni 
regionali, 
sia 
attraverso il 
riconoscimento della 
necessità 
di 
un nesso di 
adeguatezza 
e 
proporzione 
tra 
le 
misure 
adottate 
e 
la 
qualità 
e 
natura 
degli 
eventi, sia 
mediante 
la 
previsione 
di 
adeguate 
forme 
di 
leale 
collaborazione 
e 
di 
concertazione 
(19). 


Le 
ordinanze 
emesse 
a 
seguito 
della 
dichiarazione 
dello 
stato 
di 
emergenza 
hanno, 
in 
ogni 
caso, 
natura 
di 
provvedimenti 
amministrativi 
e 
sono 
sottoposte 
ai normali controlli giurisdizionali (20). 

Al 
riguardo la 
giurisprudenza 
ha 
ritenuto di 
poter sindacare 
la 
stessa 
dichiarazione 
dello stato di 
emergenza. Infatti, pur sostenendo che 
la 
medesima 
rientra 
nell’amplissima 
discrezionalità 
dell’Amministrazione 
(21), essa 
ha 
affermato 
che 
un margine 
di 
sindacabilità 
esiste 
relativamente 
all’esistenza 
ovvero 
alla 
gravità 
della 
situazione 
di 
fatto che 
giustificherebbe 
la 
declaratoria 
dell’emergenza; 
a 
tal 
fine 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
può 
dispiegarsi 
anche 
in 
relazione 
all’istruttoria 
e 
alla 
motivazione 
che 
ne 
costituiscono 
il 
fondamento 
(22). 

non è 
comunque 
necessario che 
si 
tratti 
di 
una 
situazione 
nuova 
ed imprevedibile 
perché 
ciò 
che 
rileva 
è 
la 
necessità 
ed 
urgenza 
attuale 
di 
intervenire 
in difesa 
degli 
interessi 
da 
tutelare. D’altro canto, deve 
escludersi 
che 
il 
Governo 
non abbia 
il 
potere 
di 
reiterare 
il 
provvedimento emergenziale, atteso 
che 
il 
potere 
attribuito 
al 
Consiglio 
dei 
Ministri 
non 
si 
estingue 
per 
decorrenza 
del 
termine, 
ma 
perdura 
fino 
a 
quando 
sussista 
la 
situazione 
di 
emergenza 
(23). 


Con 
queste 
premesse 
ben 
si 
comprende 
come 
situazioni 
di 
emergenza, 
con 
il 
connesso 
potere 
derogatorio 
della 
normativa 
primaria, 
siano 
durate 
anni, 
fino 
al 
caso 
estremo 
dell’emergenza 
dei 
rifiuti 
in 
Campania, 
che 
si 
è 
prolungata 
per 
più 
di 
15 
anni. 
È 
vero 
che 
è 
stata 
introdotta 
una 
disposizione 
che 
disciplina 


(18) Sentenza 284/2006. 


(19) ibidem. 
(20) ibidem. Al 
riguardo l’art. 135 c.p.a. prevede 
la 
competenza 
funzionale 
del 
tar Lazio per le 
controversie 
aventi 
ad 
oggetto 
le 
ordinanze 
e 
i 
provvedimenti 
commissariali 
adottati 
in 
tutte 
le 
situazioni 
di 
emergenza 
dichiarate 
ai 
sensi 
dell'articolo 5, comma 
1, della 
legge 
24 febbraio 1992, n. 225 nonché 
gli 
atti, 
i 
provvedimenti 
e 
le 
ordinanze 
emanati 
ai 
sensi 
dell'articolo 
5, 
commi 
2 
e 
4 
della 
medesima 
legge 
n. 
225 
del 
1992; 
tale 
disposizione 
è 
stata 
ritenuta 
conforme 
a 
Costituzione 
dal 
Giudice 
delle 
Leggi, 
sentenza 237/2007. 
(21) Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 2006 n. 1270; Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 2000 n. 2361. 
(22) 
Cons. 
Stato 
16 
novembre 
2001 
n. 
6050, 
che 
esclude 
che 
l’evento 
posto 
a 
base 
dell’emergenza 
dichiarata 
in alcune 
Regioni 
in relazione 
all’insediamento di 
alcune 
comunità 
nomadi, rientrasse 
nel-
l’ambito dell’art. 2 lett. c) l. 225/1992. 
(23) Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 654. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


la 
durata 
massima 
dello stato di 
emergenza 
(24), ma 
anche 
ammettendo che 
sia 
esclusa 
una 
nuova 
dichiarazione, visto che 
la 
normativa 
ha 
comunque 
carattere 
di 
legge 
ordinaria, è 
comunque 
sufficiente 
riattribuire 
i 
poteri 
di 
ordinanza 
facendo uso della decretazione d’urgenza. 


Le 
ordinanze 
emanate 
ai 
sensi 
dell’art. 
24 
d.lgs 
1/2018 
devono 
essere 
motivate 
e 
devono 
contenere 
l’indicazione 
esplicita 
delle 
norme 
di 
legge 
derogate 
(art. 25, comma 
1) (25). Questi 
principi 
peraltro possono valere 
per le 
ordinanze 
del 
Capo della 
protezione 
civile 
o dei 
Commissari 
delegati, che 
hanno 
come 
fondamento la 
dichiarazione 
dello stato di 
emergenza 
e 
il 
d.lgs 
1/2018, 
non per i dpcm che si fondano sui decreti-legge del Governo. 


Le 
ordinanze 
adottate 
sulla 
base 
del 
d.lgs 
1/2018 sono anche 
sottratte 
al 
controllo preventivo di 
legittimità 
della 
Corte 
dei 
Conti 
(26), a 
differenza 
dei 
dpcm 
previsti 
dai 
d.l. 6/2020 e 
19/2020, che 
rimangono sottoposti 
al 
visto pur 
con termine ridotto alla metà. 


2. i DPCm del 
Governo e 
la Costituzione; l’inadeguatezza del 
decreto-legge 
come mezzo di gestione delle emergenze. 
Se 
del 
potere 
di 
ordinanza 
si 
è 
fatto 
ampiamente 
uso 
negli 
ultimi 
anni, 
non se 
ne 
era 
però registrato l’utilizzo per limitare 
in modo così 
penetrante, 
ed inoltre 
su tutto il 
territorio nazionale, le 
libertà 
fondamentali, personali 
ed 
economiche, 
come 
avvenuto 
per 
fronteggiare 
l’emergenza 
determinata 
dal 
Covid-19. Si 
comprende 
quindi 
come 
da 
più parti 
siano stati 
sollevati 
dubbi 
sia 
sull’opportunità 
sia 
sulla 
legittimità 
delle 
ordinanze 
emesse, in particolare 
sui decreti del Presidente del Consiglio. 


La 
questione 
circa 
la 
legittimità 
costituzionale 
dell’utilizzo 
dello 
strumento 
dell’ordinanza 
va 
considerata 
sotto due 
distinti 
aspetti. Da 
un lato, la 
possibilità 
di 
incidere 
con limitazioni 
sul 
diritto alla 
libertà 
di 
circolazione 
e 
sugli 
altri 
diritti 
(27). Dall’altro la 
possibilità 
di 
far ricorso proprio allo strumento 
dell’ordinanza 
in 
sé 
considerato, 
ritenendosi 
che 
la 
Costituzione, 
nel 
prevedere 
l’utilizzo 
del 
decreto-legge 
per 
far 
fronte 
alle 
situazioni 
di 
emergenza, 
abbia escluso ogni altro strumento. 


Sotto il 
primo profilo, i 
dpcm 
emessi 
dal 
Governo possono ritenersi 
legittimi, 
in quanto l’art. 16 della 
Costituzione, secondo cui 
la 
legge 
stabilisce 


(24) Art. 24, comma 
3, d.lgs 
1/2018: 
La durata dello stato di 
emergenza di 
rilievo nazionale 
non 
può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi. 
(25) Cass. 1 ottobre 2019 n. 24490; Cass. 29 maggio 2018 n. 13482. 
(26) Sul 
punto criticamente 
v. CARDone, il 
rapporto tra ordinanze 
del 
Governo e 
decreti-legge 
alla luce 
della prassi 
più recente 
e 
delle 
modifiche 
ordinamentali 
del 
potere 
extra ordinem: alcune 
tendenze 
costanti 
che 
vanno oltre 
le 
“nuove” 
dinamiche 
della normazione 
al 
tempo della crisi 
economica, 
cit.; 
MARAzzItA, il 
conflitto tra autorità e 
regole: il 
caso del 
potere 
di 
ordinanza, in Forum 
di 
Quaderni 
costituzionali 
5 dicembre 2009, www.forumcostituzionale.it. 
(27) Ad esempio, il 
diritto all’istruzione, alla 
libertà 
religiosa, di 
riunione, oltre 
alle 
libertà 
economiche. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


limitazioni 
alla 
libertà 
di 
circolazione 
per motivi 
di 
sanità 
e 
di 
sicurezza, pone 
una 
riserva 
di 
legge 
relativa 
(28), anche 
se 
resta 
qualche 
dubbio in relazione 
alle 
clausole 
aperte 
poste 
dal 
d.l. 
6/2020 
che 
potrebbe 
comportare 
l’illegittimità 
della 
sanatoria, ad opera 
del 
d.l. 19/20, degli 
effetti 
prodotti 
dalle 
ordinanze 
assunte sulla base di quelle medesime clausole (29). 


Per quanto riguarda 
il 
secondo aspetto, la 
questione 
è 
più delicata 
e 
su di 
esso si sono incentrate le critiche maggiori (30). 


Come 
è 
noto, 
nella 
nostra 
Costituzione 
non 
esiste 
alcun 
modo 
o 
speciale 
procedura 
che 
permetta 
al 
potere 
esecutivo 
di 
sospendere 
anche 
solo 
per 
un 
breve 
periodo 
diritti 
fondamentali 
previsti 
dalla 
Costituzione 
o 
in 
generale 
di 
derogare 
a 
norme 
e 
principi 
costituzionali. 
In 
sede 
di 
Assemblea 
Costituente 
se 
ne 
discusse 
e 
furono 
proposti 
emendamenti 
in 
modo 
da 
garantire 
che 
in 
situazioni 
eccezionali 
vi 
fosse 
questa 
possibilità 
(31). 
Prevalse 
però 
l’opinione 
di 
escludere 
in 
radice 
ogni 
ipotesi 
di 
questo 
tipo. 
Si 
scelse 
invece 
di 
introdurre, 
dopo 
molte 
discussioni 
e 
dubbi, 
l’istituto 
del 
decreto-legge, 
già 
conosciuto 
nel 
nostro 
ordinamento 
ed 
ampiamente 
utilizzato 
da 
tutti 
i 
Governi 
prerepubblicani, 
pur 
se 
lo 
Statuto 
Albertino 
non 
lo 
prevedeva. 
Proprio 
per 
l’abuso 
che 
ne 
era 
stato 
fatto 
all’epoca 
dello 
Statuto 
(32), 
molti 
non 
volevano 


(28) ALLeGRettI, il 
trattamento dell’epidemia di 
“coronavirus” 
come 
problema costituzionale 
e 
amministrativo, 
in 
Forum 
di 
Quaderni 
costituzionali, 
25 
marzo 
2020, 
www.forumcostituzionale.it; 
CAn-
DIDo, Poteri 
normativi 
del 
Governo e 
libertà di 
circolazione 
al 
tempo del 
Covid-19, ibidem, 10 marzo 
2020. 
La 
Corte 
Costituzionale 
ha 
sempre 
ritenuto 
la 
riserva 
posta 
dall’art. 
16 
come 
relativa, 
sentt. 
2/1956, 
68/1964; 
CARAVItA, L’italia ai 
tempi 
del 
coronavirus: rileggendo la Costituzione 
italiana, in www.federalismi.
it.; 
bIGnAMI, 
Chiacchiericcio 
sulle 
libertà 
costituzionali 
al 
tempo 
del 
coronavirus, 
in 
www.questionegiustizia.
it. 
V. 
anche 
AzzARItI, 
Le 
misure 
sono 
costituzionali 
a 
patto 
che 
siano 
a 
tempo 
determinato, 
in 
www.repubblica.it; 
toDeRo, 
il 
governo 
per 
contenere 
il 
coronavirus 
limita 
alcune 
libertà 
dei cittadini. Può farlo? 
su il Foglio 
del 5 marzo 2020. 
(29) Come osservato da LuCIAnI, il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, cit. 
(30) tra 
gli 
altri, scusandomi 
per le 
omissioni, GuzzettA, La rincorsa alla paura che 
rischia di 
colpire 
al 
cuore 
la 
democrazia, 
il 
Dubbio, 
20 
marzo 
2020 
nonché 
Una 
democratica 
cultura 
dell’ordine, 
solo antidoto alla pandemia del 
diritto, ibidem, 21 aprile 
2020. GuzzettA 
si 
è 
fatto anche 
promotore 
di 
un appello al 
Presidente 
della 
Repubblica 
con il 
quale 
chiedeva 
al 
Capo dello Stato di 
attivarsi 
per difendere 
la 
Costituzione; 
D’ALoIA, L’emergenza e 
…i 
suoi 
infortuni, www.dirittifondamentali.it; 
tRAbuCCo, 
Sull’(ab)uso dei 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
al 
tempo del 
Coronavirus: tra 
legalità formale 
e 
legalità sostanziale, in astrid rassegna, 5/2020; 
zuCCHeLLI, Lo stato di 
“eccezione” 
e 
i 
pericoli 
per 
la 
Costituzione 
che 
finisce 
violata, 
il 
Dubbio, 
4 
aprile 
2020; 
AInIS, 
il 
bisticcio 
del 
potere, 
in La repubblica, 3 marzo 2020; 
CuoCoLo, intervista 
su Genova24.it, 11 marzo 2020; 
CLeMentI, Coronavirus, 
quando 
l’emergenza 
restringe 
le 
libertà 
meglio 
un 
decreto 
legge 
che 
un 
Dpcm, 
il 
Sole 
24ore, 
13 marzo 2020; 
CASARottI, L’emergenza per 
decreto, www.jacobinitalia.it, 13 marzo 2020; 
PLutIno, i 
decreti 
di 
Conte 
sul 
Coronavirus, il 
riformista, 14 marzo 2020; 
oLIVettI, Coronavirus. Così 
le 
norme 
contro il virus possono rievocare il «dictator», avvenire, 11 marzo 2020. 
(31) In particolare 
l’on. Crispo propose 
il 
seguente 
emendamento: 
l'esercizio dei 
diritti 
di 
libertà 
può 
essere 
limitato 
o 
sospeso 
per 
necessità 
di 
difesa, 
determinate 
dal 
tempo 
e 
dallo 
stato 
di 
guerra, 
nonché 
per 
motivi 
di 
ordine 
pubblico, durante 
lo stato d'assedio. Nei 
casi 
suddetti 
le 
Camere, anche 
se 
sciolte, 
saranno 
immediatamente 
convocate 
per 
ratificare 
o 
respingere 
la 
proclamazione 
dello 
stato 
d'assedio e i provvedimenti relativi. 
(32) Intervento dell’onorevole 
Persico: 
onorevoli 
colleghi, la lucida e 
dotta orazione 
dell'onore

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


saperne 
del 
decreto-legge, 
ma 
prevalse 
l’opinione 
che 
esso 
dovesse 
essere 
conservato 
per 
i 
casi 
di 
necessità, 
visto 
che 
la 
necessità 
non 
si 
può 
prevedere 
né 
eliminare 
(33); 
si 
decise 
quindi 
di 
inserire 
l’istituto 
nella 
Costituzione, 
circondandolo 
di 
limiti 
e 
cautele, 
quali 
l’obbligo 
di 
immediata 
presentazione 
alle 
Camere, 
la 
previsione 
della 
riunione 
delle 
stesse 
entro 
cinque 
giorni 
nel 
caso 
in 
cui 
fossero 
sciolte 
e 
la 
cessazione 
dell’efficacia 
del 
decreto 
ex 
tunc 
in 
caso 
di 
mancata 
conversione 
in 
legge 
entro 
sessanta 
giorni. 
Peraltro, 
si 
escluse 
radicalmente 
che 
il 
decreto-legge 
potesse 
modificare 
le 
norme 
della 
Costituzione, 
in 
quanto 
al 
Governo 
veniva 
concessa 
la 
facoltà 
di 
intervenire, 
in 
casi 
straordinari 
di 
necessità 
e 
urgenza, 
ma 
con 
il 
solo 
potere 
di 
incidere 
nella 
legislazione 
ordinaria 
(34). 


I Costituenti 
non vollero quindi 
costituzionalizzare 
stato di 
eccezione 
e 
poteri 
straordinari, limitandosi 
alla 
previsione 
del 
decreto-legge 
che, oltre 
all’obbligo 
di 
presentazione 
immediata 
al 
Parlamento, alla 
previsione 
dell’immediata 
riunione 
delle 
Camere 
nel 
caso 
in 
cui 
queste 
siano 
sciolte, 
alla 
necessità 
di 
conversione 
entro 
sessanta 
giorni, 
comporta 
anche 
la 
deliberazione 
collegiale 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e 
la 
firma 
del 
Presidente 
della 
Repubblica. 
tutte 
queste 
garanzie 
non esistono nel 
caso dei 
dpcm. Si 
potrebbe 
allora 
sostenere 
che 
l’unico strumento possibile 
per far fronte 
alle 
situazioni 
di 
emergenza 
sia 
il 
decreto-legge, con esclusione 
di 
ogni 
fonte 
che 
non abbia 
rango 
legislativo (35). 


D’altro 
canto 
è 
vero 
che 
nella 
Costituzione 
non 
è 
comunque 
vietato 
l’uso 


vole 
Codacci 
Pisanelli 
ha 
spianato 
completamente 
la 
via, 
perché 
egli 
ha 
fatto 
tutta 
la 
storia 
dei 
decreti-
legge, da quello primo del 
1849 in occasione 
dello stato d'assedio di 
Genova 
fino 
alla legge 
del 
31 gennaio 
1926, 
n. 
100, 
legge 
famosa 
del 
regime 
fascista, 
e 
ci 
ha 
dimostrato 
come 
l'istituto 
del 
decreto-legge, 
sorto per 
cause 
eccezionali 
e 
destinato ad essere 
applicato soltanto per 
cause 
eccezionali, fosse 
negli 
ultimi 
tempi 
diventato addirittura la normalità, cosicché 
le 
Camere 
vennero ad essere 
completamente 
esautorate, poiché a tutto si provvedeva con decreti-legge. 


(33) Calamandrei 
disse: 
ma, insomma, potrà avvenire 
che 
si 
verifichi 
la necessità e 
l'urgenza, di 
fronte 
alla quale 
il 
normale 
procedimento legislativo non sarà sufficiente: il 
terremoto, l'eruzione 
di 
un 
vulcano. Credete 
che 
si 
possa mettere 
nella Costituzione 
un articolo il 
quale 
dica che 
sono vietati 
i 
terremoti? 
Se 
non si 
può mettere 
un articolo di 
questa natura, bisognerà pure 
prevedere 
la possibilità di 
questi 
cataclismi 
e 
disporre 
una forma di 
legislazione 
di 
urgenza, che 
è 
più provvido disciplinare 
e 
limitare 
piuttosto che ignorarla. 
(34) Intervento onorevole 
bozzi: 
Naturalmente, questa possibilità di 
decretare 
di 
urgenza è 
limitata 
alle 
leggi 
ordinarie. in questo, io accetto il 
punto di 
vista dell'onorevole 
Codacci 
Pisanelli. Non so 
se 
sia il 
caso di 
dirlo espressamente; io penserei 
di 
no, ma non è 
configurabile 
che 
il 
Governo decreti 
di 
urgenza in materia costituzionale. in questa materia costituzionale 
vi 
è 
tutta una procedura speciale, 
per 
cui 
credo che 
nessuno potrebbe 
mai 
pensare 
che 
il 
Governo possa legiferare 
con ordinanza di 
urgenza 
in materia di questo genere. 
(35) Secondo una 
tesi 
presente 
in parte 
della 
dottrina 
che 
si 
è 
occupata 
delle 
ordinanze 
di 
protezione 
civile, 
cfr. 
MARAzzItA, 
L’emergenza 
costituzionale. 
Definizione 
e 
modelli, 
Milano, 
2003; 
AGoStA, 
ruolo del 
Presidente 
della repubblica e 
ordinanze 
contingibili 
ed urgenti 
del 
Governo, in Forum 
dei 
Quaderni 
costituzionali, 
8 febbraio 2011, www.forumcostituzionale.it; 
beRnAbeI, ordinanza di 
protezione 
civile 
e 
riserva di 
decretazione 
d'urgenza, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2, 2015, pp. 
280 ss. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


di 
strumenti 
diversi 
dal 
decreto-legge 
per far fronte 
alle 
emergenze 
e 
quindi, 
al di là delle intenzioni dei Costituenti, questi non possono essere esclusi. 


occorre 
anche 
tenere 
presente 
che 
nel 
nostro 
ordinamento 
esistono 
disposizioni 
che 
prevedono l’utilizzo di 
poteri 
straordinari 
in caso di 
situazioni 
di 
pericolo. oltre 
alle 
ordinanze 
di 
protezione 
civile, è 
possibile 
ricordare 
gli 
artt. 214, 216 e 
217 del 
testo unico di 
Pubblica 
Sicurezza 
(R.D. 773/1931). 
In particolare 
è 
previsto che 
nel 
caso di 
pericolo di 
disordini 
il 
Ministro del-
l'interno 
con 
l'assenso 
del 
Capo 
del 
Governo 
(da 
intendersi 
previa 
delibera 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
visto 
il 
mutamento 
nella 
forma 
di 
Governo), 
o 
i 
prefetti, 
per 
delegazione, 
possano 
dichiarare, 
con 
decreto, 
lo 
stato 
di 
pericolo 
pubblico 
(art. 214), e 
qualora 
la 
dichiarazione 
di 
pericolo pubblico si 
estenda 
all'intero 
territorio nazionale, il 
Ministro dell'interno possa 
emanare 
ordinanze, anche 
in deroga 
alle 
leggi 
vigenti, sulle 
materie 
che 
abbiano comunque 
attinenza 
al-
l'ordine 
pubblico o alla 
sicurezza 
pubblica 
(art. 216). Qualora 
poi 
sia 
necessario 
affidare 
all'autorità 
militare 
la 
tutela 
dell'ordine 
pubblico, 
il 
Ministro 
dell'interno, con l'assenso del 
Capo del 
Governo, o i 
prefetti, per delegazione, 
possono dichiarare, con decreto, lo stato di 
guerra 
(interna, lo stato d’assedio) 
e, in tal 
caso, la 
facoltà 
di 
emanare 
ordinanze 
spetta 
all'autorità 
che 
ha 
il 
comando 
delle forze militari (art. 217). 


Queste 
disposizioni 
non 
sono 
mai 
state 
dichiarate 
incostituzionali 
e 
sono 
tutt’ora 
presenti 
nel 
nostro 
ordinamento. 
In 
dottrina 
se 
ne 
è 
sostenuta 
l’abrogazione 
per 
contrasto 
con 
la 
Costituzione 
repubblicana 
(36) 
ma 
in 
caso 
di 
crisi 
grave 
non 
è 
escluso 
che 
ad 
esse 
si 
faccia 
ricorso 
(37) 
e 
comunque 
il 
Governo 
con 
decreto-legge 
potrebbe 
assegnare 
alle 
autorità 
civili 
e 
militari 
poteri 
di 
ordinanza 
in 
deroga 
alle 
leggi, 
com’è 
avvenuto 
in 
occasione 
della 
pandemia. 


In realtà, al 
di 
là 
dei 
discorsi 
teorici, l’uso del 
potere 
di 
ordinanza, autorizzato 
dal 
decreto-legge, 
nelle 
circostanze 
concrete 
della 
prima 
fase 
emergenziale 
provocata 
dalla 
pandemia, era 
inevitabile. Vi 
era 
la 
necessità 
di 
uno 
strumento 
flessibile 
che 
non 
passasse 
dalla 
deliberazione 
collegiale, 
dalla 
firma 
del 
Presidente 
della 
Repubblica, 
andando 
a 
ingolfare 
un 
Parlamento 
che 
avrebbe 
avuto enormi 
difficoltà, per non dire 
che 
si 
sarebbe 
trovato nell’impossibilità, 
di 
convertire 
i 
decreti-legge 
che 
avessero preso il 
posto dei 
dpcm. 
In quella fase, del dpcm non si poteva fare a meno. 


Il 
decreto-legge 
ha 
mostrato 
in 
questa 
circostanza 
la 
sua 
fragilità 
come 
strumento 
per 
fronteggiare 
un’assoluta 
emergenza. 
Il 
disegno 
che 
avevano 
in 
mente 
i 
Costituenti 
si 
è 
rivelato 
debole. 
essi 
pensarono 
al 
decreto-legge 


(36) 
CuoCoLo, 
Gli 
atti 
dello 
Stato 
aventi 
forza 
di 
legge, 
Milano, 
1961. 
Le 
disposizioni 
citate 
sono 
vigenti 
per MoDuGno 
e 
noCILLA, Stato d’assedio 
in Nov. Dig. it.; 
SAnDuLLI, manuale 
di 
diritto amministrativo, 
napoli, 1989. È 
da 
considerarsi 
certamente 
abrogato l’art. 215 per incompatibilità 
con l’art. 
13 della Costituzione. 
(37) Cfr. DottoRI, L’italia alla prova dello stato d’eccezione, Limes, 4/20. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


come 
mezzo 
per 
far 
fronte 
ad 
avvenimenti 
gravi, 
come 
terremoti 
e 
pandemie, 
mentre 
per 
il 
resto 
si 
sarebbe 
provveduto 
con 
la 
legislazione 
ordinaria. 
Però 
l’assetto 
da 
essi 
costruito 
non 
ha 
retto 
alla 
prova 
dei 
fatti. 
Il 
decreto-legge 
è 
divenuto 
lo 
strumento 
principale 
di 
legislazione 
ordinaria 
a 
causa 
della 
farraginosità 
del 
procedimento 
legislativo. 
Allo 
stesso 
tempo 
esso 
si 
è 
rivelato 
inadeguato 
a 
far 
fronte 
alle 
vere 
emergenze, 
tanto 
è 
vero 
che, 
per 
gestire 
quest’ultime, 
non 
solo 
in 
occasione 
della 
pandemia 
causata 
dal 
Covid-19, 
da 
decenni 
si 
provvede 
con 
ordinanze 
(38). 
Il 
decreto-legge 
quindi 
non 
può 
sostituirsi 
al 
dpcm 
ma 
deve 
costituire 
il 
fondamento 
di 
legittimità 
di 
quest’ultimo. 


3. Una proposta. 
È 
pur vero, pur non potendosi 
fare 
a 
meno in determinate 
circostanze 
del 
DPCM, che 
appare 
evidente 
la 
necessità 
di 
un maggiore 
coinvolgimento del 
Parlamento, 
al 
di 
là 
del 
controllo 
esercitato 
in 
sede 
di 
conversione 
del 
decreto-
legge. 
Al 
riguardo 
la 
previsione 
originariamente 
contenuta 
nel 
d.l. 
19/2020 
secondo 
cui 
i 
provvedimenti 
concernenti 
le 
misure 
di 
contenimento 
della 
pandemia 
sono 
comunicate 
alle 
Camere 
entro 
il 
giorno 
successivo 
alla 
loro 
deliberazione, 
con 
l’obbligo 
del 
Governo 
di 
riferire 
ad 
esse 
ogni 
quindici 
giorni 
sulle 
misure 
adottate 
(art. 2, comma 
5), non sembra 
sufficiente. Come 
non sembra 
sufficiente, al 
di 
là 
della 
situazione 
contingente, l’emendamento 
approvato 
in 
sede 
di 
conversione 
del 
d.l. 
19/2020 
secondo 
cui 
i 
provvedimenti 
sono 
illustrati 
preventivamente 
alle 
Camere 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio 
al 
fine 
di 
tener conto degli 
indirizzi 
formulati 
dalle 
stesse, sempre 
che 
ciò non 
sia impedito dall’urgenza, nel qual caso si limiterà a riferire a posteriori. 


Al 
di 
là 
delle 
critiche 
che 
possono essere 
mosse 
al 
contenuto della 
disposizione 
(39), si 
tratta 
pur sempre 
di 
legge 
ordinaria 
mentre 
sarebbe 
opportuno 
agire 
con disposizioni 
di 
ordine 
costituzionale 
che 
mettano al 
sicuro il 
ruolo 
del 
Parlamento 
in 
eventuali 
crisi 
future, 
pur 
non 
impedendo 
la 
necessaria 
flessibilità 
delle misure. 

Al 
riguardo un riferimento potrebbe 
essere 
l’art. 116 della 
Costituzione 
spagnola 
che 
prevede 
tre 
ipotesi 
di 
emergenza, estado de 
alerta 
(40), estado 
de 
excepción 
e 
estado de 
sitio, che 
corrispondono grosso modo alle 
tre 
situa


(38) Si 
veda 
MARAzzItA, L’irresistibile 
tentazione 
del 
potere 
di 
ordinanza, in osservatorio sulle 
fonti 
2/2011, www.osservatoriosullefonti.it. 
(39) GuzzettA, Le 
bugie 
di 
Conte 
orwell: il 
Parlamento ridotto a barboncino del 
Capo, il 
riformista, 
12 maggio 2020. occorre 
peraltro osservare 
che 
finora 
le 
periodiche 
relazioni 
si 
sono svolte 
mediante 
”informativa” 
(istituto 
non 
contemplato 
dai 
regolamenti 
parlamentari 
ma 
introdotto 
fin 
dai 
passati 
anni 
’90 e 
disciplinato in via 
di 
prassi, che 
prevede 
un dibattito limitato a 
un oratore 
per gruppo e 
non 
consente 
votazione 
su atti 
d’indirizzo conclusivi). La 
possibilità 
di 
formulare 
“indirizzi” 
presuppone 
la 
procedura 
formale 
delle 
comunicazioni 
del 
Governo, 
con 
successivo 
dibattito, 
replica 
del 
Governo 
e 
possibilità 
di 
presentare 
atti 
d’indirizzo conclusivi 
da 
sottoporre 
al 
voto dell’Assemblea; 
cfr. CuRReRI 
e 
MAnnIno, Diritto parlamentare, Milano, 2019. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


zioni 
che 
esistono nel 
nostro ordinamento e 
che 
sono contemplate 
dagli 
artt. 
24 d.lgs 
1/2018, 216 e 
217 tuPS. Per tutti 
i 
tre 
casi 
la 
Costituzione 
spagnola 
rinvia 
a 
una 
legge 
organica 
(41), ma 
stabilisce 
determinate 
garanzie, variabili 
a 
seconda 
dello stato di 
emergenza 
dichiarato, e 
alcune 
regole 
fondamentali 
comuni 
(42). 
Del 
resto 
occorre 
rimettere 
mano 
alle 
disposizioni 
contenute 
negli artt. 216 e 217 tuPS e stabilire delle garanzie (43). 


Proprio perché 
è 
necessario difendere 
le 
libertà, occorre 
conciliare 
l’utilizzo 
di 
strumenti 
flessibili 
con i 
necessari 
presidi, preparandosi 
ad ogni 
possibile 
scenario. 


(40) In occasione 
della 
pandemia 
in Spagna 
è 
stato dichiarato el 
estado de 
alerta. Sulle 
misure 
adottate 
all’estero per fronteggiare 
il 
coronavirus 
v. CuoCoLo, 
i diritti 
costituzionali 
di 
fronte 
all’emergenza 
Covid-19. Una prospettiva comparata, in www. federalismi.it. 
(41) Ley 4/1981. 


(42) 
Art. 
116: 
una 
ley 
orgánica 
regulará 
los 
estados 
de 
alarma, 
de 
excepción 
y 
de 
sitio, 
y 
las 
competencias 
y limitaciones correspondientes. 
2. el 
estado de 
alarma 
será 
declarado por el 
Gobierno mediante 
decreto acordado en Consejo de 
Ministros 
por un plazo máximo de 
quince 
días, dando cuenta 
al 
Congreso de 
los 
Diputados, reunido inmediatamente 
al 
efecto 
y 
sin 
cuya 
autorización 
no 
podrá 
ser 
prorrogado 
dicho 
plazo. 
el 
decreto 
determinará 
el ámbito territorial a que se extienden los efectos de la declaración. 
3. el 
estado de 
excepción será 
declarado por el 
Gobierno mediante 
decreto acordado en Consejo de 
Ministros, 
previa 
autorización del 
Congreso de 
los 
Diputados. La 
autorización y proclamación del 
estado 
de 
excepción deberá 
determinar expresamente 
los 
efectos 
del 
mismo, el 
ámbito territorial 
a 
que 
se 
extiende 
y su duración, que 
no podrá 
exceder de 
treinta 
días, prorrogables 
por otro plazo igual, con los 
mismos requisitos. 
4. el 
estado de 
sitio será 
declarado por la 
mayoría 
absoluta 
del 
Congreso de 
los 
Diputados, a 
propuesta 
exclusiva del Gobierno. el Congreso determinará su ámbito territorial, duración y condiciones. 
5. no podrá 
procederse 
a 
la 
disolución del 
Congreso mientras 
estén declarados 
algunos 
de 
los 
estados 
comprendidos 
en el 
presente 
artículo, quedando automáticamente 
convocadas 
las 
Cámaras 
si 
no estuvieren 
en período de 
sesiones. Su funcionamiento, así 
como el 
de 
los 
demás 
poderes 
constitucionales 
del 
estado, 
no 
podrán 
interrumpirse 
durante 
la 
vigencia 
de 
estos 
estados. 
Disuelto 
el 
Congreso 
o 
expirado 
su mandato si 
se 
produjere 
alguna 
de 
las 
situaciones 
que 
dan lugar a 
cualquiera 
de 
dichos 
estados, las 
competencias del Congreso serán asumidas por su Diputación Permanente. 
6. La 
declaración de 
los 
estados 
de 
alarma, de 
excepción y de 
sitio no modificarán el 
principio de 
responsabilidad 
del Gobierno y de sus agentes reconocidos en la Constitución y en las leyes 
(43) 
Inoltre, 
anche 
se 
l’argomento 
esula 
dagli 
argomenti 
trattati 
nel 
presente 
articolo, 
occorre 
prendere 
in considerazione 
l’ipotesi 
che 
il 
Parlamento, per una 
qualunque 
ragione, si 
trovi 
nell’assoluta 
impossibilità 
di 
riunirsi 
nelle 
forme 
ordinarie. Al 
riguardo sono stati 
presentati 
due 
disegni 
di 
legge 
costituzionale 
(Ac 
2438 e 
Ac 
2452) che 
prevedono, derogando al 
principio del 
bicameralismo, la 
formazione 
di 
un 
organo 
collegiale 
bicamerale, 
il 
cui 
regolamento 
possa 
prevedere, 
ove 
necessario, 
lo 
svolgimento delle riunioni e delle votazioni anche a distanza. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


Lo stato di emergenza da CoVId-19 e il diritto 
dell’immigrazione, nella cornice della 
Convenzione europea dei diritti dell’uomo 


Lorenzo D’Ascia* 


La 
pandemia 
da 
Covid-19 
ha 
avuto 
sulle 
libertà 
delle 
popolazioni 
europee 
importanti 
conseguenze, attraverso le 
misure 
restrittive 
che 
gli 
Stati 
sono stati 
chiamati 
ad adottare 
e 
che 
hanno comportato degli 
effetti 
che 
hanno messo in 
discussione, 
tra 
gli 
altri, 
anche 
alcuni 
meccanismi 
operativi 
della 
disciplina 
del diritto degli stranieri. 


Mi soffermerei, a titolo esemplificativo, su alcune misure: 


-la 
chiusura 
temporanea 
degli 
uffici 
pubblici 
tra 
cui 
le 
Questure, 
chiamati 
a rilasciare permessi di soggiorno, e gli uffici giudiziari; 


-il 
divieto di 
recarsi 
in ospedale, in assenza 
di 
una 
prescrizione 
del 
medico 
di 
base 
o della 
guardia 
medica, quando si 
presentino sintomi 
di 
positività 
al Covid-19; 
-la 
chiusura 
temporea 
delle 
frontiere 
italiane 
interne 
ed 
esterne 
all’unione 
europea, anche 
a 
seguito delle 
decisioni 
di 
altri 
Stati 
di 
non accettare 
persone 
provenienti 
dall’Italia, e 
il 
conseguente 
blocco delle 
procedure 
di 
presa 
in carico 
e 
trasferimento 
dei 
cc.dd. 
dublinanti 
verso 
l’Italia 
e 
di 
rimpatrio 
degli 
stranieri 
espulsi dall’Italia; 


-la 
sospensione 
temporanea 
della 
classificazione 
di 
place 
of 
safety 
(luogo 
sicuro) dei 
porti 
italiani 
ai 
fini 
della 
convenzione 
di 
Amburgo, con l’adozione 
del 
decreto ministeriale 
17 aprile 
2020 n. 150 adottato dal 
Ministero delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti, di 
concerto con i 
Ministeri 
dell’interno, degli 
affari 
esteri e della salute; 


-la 
chiusura 
di fabbriche 
ed esercizi 
commerciali, che 
ha 
determinato la 
perdita 
del 
lavoro e 
di 
reddito per il 
sostentamento per molte 
persone, ivi 
inclusi 
gli 
stranieri, alcuni 
dei 
quali 
senza 
permesso di 
soggiorno e 
presenti 
irregolarmente 
sul territorio italiano; 
-l’obbligo per i 
migranti 
appena 
giunti 
in Italia 
di 
sottoporsi 
allo screening 
da 
parte 
delle 
autorità 
sanitarie 
competenti 
e 
a 
un periodo di 
quarantena 
di quattordici giorni. 
Queste 
misure 
derogatorie, 
in 
qualche 
modo 
tutte 
riconducibili 
all’obbligo 
di 
confinamento della 
popolazione 
al 
fine 
di 
evitare 
ulteriori 
contagi, hanno 
avuto implicazioni 
per i 
diritti 
e 
le 
libertà 
dei 
migranti 
in Italia, sia 
in termini 
di 
misure 
restrittive 
delle 
loro libertà, sia 
in termini 
di 
adozione 
di 
necessarie 
misure 
protettive 
e 
ampliative, frutto di 
obbligazioni 
positive 
convenzionali 


(*) Avvocato dello Stato. 



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


legate 
principalmente 
agli 
articoli 
2 e 
3 della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo. 


tutto 
parte 
dalle 
forti 
misure 
restrittive 
adottate 
in 
via 
generale 
dall’Italia 
e 
dalla 
maggior 
parte 
dei 
Paesi 
europei, 
per 
lo 
più 
senza 
notificare 
al 
segretario 
generale del Consiglio d’europa la deroga di cui all’art. 15, CeDu. 

La 
CeDu 
prevede, 
da 
un 
lato, 
lo 
strumento 
della 
deroga 
generalizzata 
ex 
art. 15 (salvo i 
diritti 
del 
nucleo duro indicati 
nel 
suo par. 2) e, dall’altro, deroghe/
limitazioni/restrizioni 
contenute, in via 
esplicita 
o implicita, nelle 
singole 
norme convenzionali. 

Da 
un punto di 
vista 
astratto, queste 
ultime 
sono limitazioni 
interne 
alla 
Convenzione, 
quella 
di 
cui 
all’art. 
15 
è 
il 
prodotto 
di 
una 
decisione 
degli 
Stati. 


Le 
limitazioni 
interne 
alla 
Convenzione 
sono previste 
da 
singole 
norme, 
costituiscono 
dunque 
eccezioni 
e 
sono, 
pertanto, 
di 
stretta 
applicazione. 
Lo 
stesso non vale per la deroga notificata ai sensi dell’art. 15. 


Credo, tuttavia, che 
in entrambi 
i 
casi, sia 
nell’applicazione 
delle 
limitazioni 
interne 
alla 
Convezione 
che 
nella 
c.d. deroga 
emergenziale 
dell’art. 15, 
ciò 
che 
rileva, 
in 
concreto, 
è 
sempre 
l’applicazione 
del 
principio 
di 
proporzionalità, 
che 
consente 
di 
intervenire 
in maniera 
restrittiva 
più o meno spinta, a 
seconda del livello dell’emergenza in atto. 

Quando la 
pandemia 
è 
a 
un livello più elevato di 
contagio e 
di 
rischio per 
la 
collettività, 
la 
Corte 
dovrebbe 
applicare 
un 
controllo 
più 
elastico 
e 
flessibile; 
quando la 
pandemia 
sarà 
in declino, è 
ovvio che 
le 
misure 
dovranno proporzionalmente 
allentarsi 
e 
la 
Corte 
non tollererà 
il 
permanere 
di 
restrizioni 
non 
più giustificate. 


Si 
può quindi 
ritenere 
che 
la 
deroga 
notificata 
ai 
sensi 
dell’art. 15 possa 
non presentare 
differenze 
così 
sensibili 
con le 
eccezioni 
delle 
singole 
norme 
convenzionali, e 
che 
ben difficilmente 
la 
Corte 
tratterà 
in maniera 
diversa 
le 
stesse 
misure 
restrittive, se 
adottate 
da 
paesi 
che 
hanno -prudenzialmente 
notificato 
lo stato di emergenza convenzionale, o da tutti gli altri Paesi. 

Ricorrere 
all’art. 15 permette 
di 
ridurre 
i 
rischi 
giuridici 
sulla 
compatibilità 
convenzionale 
delle 
misure 
eccezionali, ma 
certo non consente 
di 
sospendere 
la 
convenzione: 
nessuna 
deroga 
può essere 
apportata 
ai 
diritti 
del 
nucleo 
duro, 
ma 
anche 
per 
i 
diritti 
derogabili 
(processo 
equo, 
libertà 
circolazione, 
proprietà) 
la 
Corte 
non 
può 
essere 
esonerata 
dai 
suoi 
poteri 
di 
controllo, 
anche 
se 
si 
tratterà 
di 
un controllo più attenuato, alla 
stregua 
di 
quanto succede 
con 
le limitazioni convenzionali interne alle varie disposizioni. 

tutto si giocherà sul test di proporzionalità delle misure derogatorie. 


ovviamente 
bisognerà 
attendere 
il 
responso della 
Corte, sappiamo tutti 
che 
la 
situazione 
in cui 
ci 
troviamo è 
senza 
precedenti, e 
questo è 
sicuramente 
un aspetto non da 
poco rispetto a 
un organo giudiziario come 
la 
Corte 
che 
lavora 
soprattutto sui 
propri 
precedenti. La 
Corte 
si 
fonda 
su un corredo di 
pre



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


cedenti 
e 
principi 
consolidati 
che 
rendono 
prevedibili 
le 
sue 
decisioni. 
Ma 
una 
situazione 
come 
questa 
non è 
stata 
mai 
affrontata 
e 
vi 
possono essere 
molti 
dubbi sul modo in cui i singoli casi saranno affrontati e decisi. 


La 
scelta 
della 
maggior parte 
dei 
Paesi 
della 
Convenzione, di 
non esercitare 
la 
deroga 
di 
cui 
all’art. 15, mi 
pare 
risponda 
a 
valutazioni 
circa 
la 
non necessità 
assoluta 
(in 
considerazione 
del 
tipo 
di 
misure 
adottate) 
di 
una 
formalizzazione 
della 
deroga, visto il 
limitato impatto che 
avrebbero nel 
quadro 
della 
Convenzione, e 
dall’altro lato, il 
rischio di 
impatto psicologico sulla 
collettività: 
proclamare 
una 
deroga 
ai 
diritti 
dell’uomo sarebbe 
stato, indubbiamente, 
un atto simbolicamente forte. 

bisognerà 
anche 
valutare 
se 
la 
notifica 
al 
Segretario generale 
del 
Consiglio 
d’europa 
dello 
stato 
di 
emergenza 
convenzionale 
di 
cui 
al 
terzo 
paragrafo 
dell’art. 15 costituisca 
-come 
pare 
in effetti 
-un presupposto costitutivo del-
l’applicazione 
del 
primo 
paragrafo 
dell’art. 
15, 
o 
se 
sia 
invece 
solo 
un 
obbligo 
convenzionale 
tutt’al 
più 
suscettibile 
di 
sanzione 
ma 
non 
dirimente 
ai 
fini 
dell’applicazione della deroga. 


Su 
questo 
punto 
la 
dottrina 
non 
è 
del 
tutto 
concorde, 
vi 
è 
una 
parte 
di 
essa 
che ha una posizione più elastica. 


Sappiamo 
che 
l’art. 
15 
indica 
alcuni 
presupposti 
sostanziali: 
la 
situazione 
di 
pericolo pubblico che 
minacci 
la 
vita 
della 
nazione 
(1), l’imminenza 
e 
attualità 
del pericolo. 


Su quest’ultimo punto si 
è 
progressivamente 
precisato come 
questo non 
debba 
essere 
inteso 
in 
maniera 
così 
restrittiva 
da 
imporre 
allo 
Stato 
che 
voglia 
fronteggiare 
un’emergenza 
potenzialmente 
disastrosa 
«to wait 
for 
disaster 
to 
strike 
before 
taking 
measures 
to 
deal 
with 
it» 
(2). 
In 
altri 
termini, 
la 
valutazione 
di 
attualità 
e 
imminenza 
viene 
valutata 
in 
termini 
comunque 
potenziali 
e, 
anzi, 
un’eventuale 
inazione 
statuale 
può 
essere 
giudicata 
in 
senso 
opposto 
come 
presupposto 
per 
imputare 
allo 
Stato 
la 
situazione 
di 
emergenza 
che 
ha 
imposto 
l’adozione di misure in deroga della Convenzione. 

tale 
eventualità, che 
non riguarda 
l’Italia 
e 
la 
Francia 
-che 
hanno immediatamente 
adottato misure 
emergenziali 
analoghe 
e 
molto incisive, può semmai 
riguardare 
l’approccio 
attendista 
adottato 
da 
altri 
Stati 
contraenti 
quali, 
ad esempio, il 
Regno unito che, com’è 
noto, nei 
primi 
mesi 
dell’emergenza 
ha 
volutamente 
tardato 
l’adozione 
delle 
misure 
di 
contenimento 
per 
accelerare 
il raggiungimento dell’immunità di gregge. 


ebbene, 
indubbiamente 
la 
pandemia 
da 
CoVID-19 
che 
l’europa 
ha 
dovuto 


(1) «an exceptional 
situation of 
crisis 
of 
emergency 
which affects 
the 
whole 
population and constitutes 
a threat 
to the 
organised life 
of 
the 
community 
of 
which the 
State 
is 
composed» Corte 
eDu, Lawless 
v. ireland (no. 3), 1 July 1961, p. 27, § 28, Series 
a 
no. 3. 
(2) Corte eDu, a. and others v. the United Kingdom 
[GC], no. 3455/05, § 177, ECHr 
2009. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


fronteggiare 
rientra 
nella 
nozione 
di 
pericolo 
pubblico 
sopra 
richiamata: 
pur 
non 
trattandosi 
-come 
del 
resto 
molte 
definizioni 
contenute 
nella 
Convenzione 
-di 
un 
concetto 
rispetto 
al 
quale 
lo 
Stato 
possa 
godere 
di 
un 
assoluto 
margine 
di 
apprezzamento, 
appare 
incontestabile 
(e 
supportato 
dalla 
valutazione 
di 
autorevoli 
organizzazioni 
internazionali, 
come 
l’organizzazione 
mondiale 
della 
sanità 
(3)) 
come 
l’emergenza 
sanitaria 
abbia 
fin 
da 
subito 
acquisito 
un 
livello 
emergenziale 
tale 
da 
giustificare 
l’adozione 
di 
misure 
di 
contenimento 
straordinarie. 


Sotto il 
profilo procedurale, l’articolo 15 richiede 
che 
il 
diritto di 
deroga 
venga esercitato nel rispetto di alcune formalità. 

In particolare, lo Stato ha 
l’obbligo di 
informazione 
del 
Segretario generale 
del 
Consiglio d’europa 
sulle 
misure 
prese 
e 
sui 
motivi 
che 
le 
hanno determinate 
(art. 
15, 
par. 
3, 
CeDu). 
La 
ratio 
della 
norma 
è 
costituita 
dalla 
necessità 
di 
un’adeguata 
pubblicità 
della 
deroga 
in 
modo 
da 
consentire 
un 
adeguato 
controllo sulle relative misure. 


Pur in assenza 
di 
una 
formale 
notifica, la 
gran parte 
degli 
Stati 
europei 
(Italia, Francia, Spagna, Germania) ha 
dato sufficiente 
pubblicità 
della 
necessità 
di 
adozione 
di 
misure 
straordinarie 
(in Italia, ad esempio, con la 
dichiarazione 
dello stato di 
emergenza 
avvenuta 
con delibera 
del 
31 gennaio 2020 da 
parte del Consiglio dei ministri (4)). 


Può essere 
considerata 
sufficiente 
ai 
fini 
dell’applicazione 
di 
una 
deroga 
più ampia quale quella che, secondo alcuni, connota l’art. 15? 


Circa 
la 
natura 
dell’obbligo 
di 
informazione 
quale 
presupposto 
costitutivo 
del 
diritto di 
deroga 
ovvero quale 
mera 
e 
autonoma 
obbligazione 
che 
non pregiudica 
l’operatività 
dell’art. 
15, 
par. 
1, 
la 
Corte 
non 
sembra 
avere 
ancora 
preso 
una posizione netta. 


La 
scheda 
tecnica 
presente 
sul 
sito della 
Corte 
sembra 
affermare 
la 
tesi 
del presupposto formale costitutivo del diritto di deroga. 


In passato, la 
Corte 
ha 
affermato che 
l’art. 15 richiede 
«some 
formal 
and 
public 
act 
of 
derogation, 
such 
as 
a 
declaration 
of 
martial 
law 
or 
state 
of 
emergency
», e 
che 
ove 
questo atto non sia 
stato proclamato dalla 
parte 
contraente 
l’art. 15 non possa 
applicarsi 
(cfr. CeDu, Cyprus 
v. Turkey, nos 
6780/74 and 
6950/75, § 527, Commission report of 10 July 1976). 


(3) 
Cfr. 
la 
Comunicazione 
dell’organizzazione 
Mondiale 
della 
Sanità 
(oMS), 
WoRLD 
He-
ALtH 
oRGAnIzAtIon, 
Statement 
on 
the 
second 
meeting 
of 
the 
International 
Health 
organization 
(2005) 
emergency 
Committee 
regarding 
the 
outbreak 
of 
novel 
coronavirus 
(2019-nCoV) 
20 
gennaio 
2020 
[https://www.who.int/news-room/detail/30-01-2020-statement-on-the-second-meeting-of-theinternational-
health-regulations-(2005)-emergency-committee-regarding-the-outbreak-of-novelcoronavirus-(
2019-ncov), 
ultima 
consultazione 
9 
giugno 
2020] 
che 
qualifica 
la 
crisi 
sanitaria 
come 
«Public 
Health 
Emergency 
of 
international 
Concern». 
In 
tal 
senso 
anche, 
L. 
ACConCIAMeSSA, 
CoViD19 
e 
diritti 
umani: 
le 
misure 
di 
contenimento 
alla 
luce 
della 
CEDU, 
in 
ius 
in 
itinere 
[https://www.iusinitinere.
it/covid-19-e-diritti-umani-le-misure-di-contenimento-alla-luce-della-cedu-26455 
(ultima 
consultazione, 9 giugno 2020)]. 
(4) https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/02/01/20a00737/sg. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


È 
sufficiente 
allora 
un atto formale 
pubblico che 
sancisca 
l’esistenza 
di 
uno stato emergenziale 
corrispondente 
ai 
presupposti 
sostanziali 
dell’art. 15 
par. 
1 
o 
è 
necessario 
che 
lo 
stesso 
sia 
seguito 
da 
un 
ulteriore 
atto 
formale 
ossia 
la notifica al Segretario generale del Consiglio d’europa? 


La 
notifica 
al 
Segretario generale 
è 
pacificamente 
un obbligo convenzionale, 
ma 
è 
anche 
un onere 
per poter beneficiare 
del 
regime 
di 
derogabilità 
di 
cui all’art. 15 par. 1? 


La 
finalità 
della 
notifica 
al 
Segretario generale 
è 
quella 
di 
consentire 
il 
controllo sullo Stato che sta ponendo in essere tali misure derogatorie. 


Ma 
è 
anche 
vero che 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
uno Stato contraente 
ponga 
in 
essere 
atti 
derogatori 
della 
convenzione, per giunta 
di 
portata 
generalizzata, 
senza 
notificarli 
al 
Segretario generale, questi 
è 
comunque 
chiamato a 
effettuare 
un controllo della 
situazione, per accertarsi 
che 
non si 
stia 
verificando 
una 
violazione 
sistemica 
della 
convenzione, 
attivando 
il 
potere 
di 
inchiesta 
attribuitogli 
dall’art. 52 della Convenzione eDu. 


La 
sensazione 
è 
che 
in 
concreto 
il 
controllo 
della 
giustificazione, 
adeguatezza 
e 
proporzionalità 
della 
misura 
sarà 
analogo per tutti 
gli 
Stati 
contraenti, 
ai 
quali 
sarà 
riconosciuto 
un 
certo 
margine 
di 
apprezzamento 
nella 
scelta 
delle 
misure 
risolutive, 
con 
una 
differenza 
in 
astratto 
sul 
piano 
probatorio 
che 
vedrà 
facilitati 
i 
Paesi 
che 
hanno formalizzato lo stato di 
deroga 
convenzionale 
notificandolo 
al Segretario generale ai sensi dell’art. 15 par. 3. 


Dico in astratto perché 
la 
situazione 
epidemica 
dei 
vari 
Paesi 
è 
oggetto 
di 
un 
numero 
sterminato 
di 
rapporti 
e 
analisi 
di 
organismi 
anche 
internazionali 
terzi, da 
non poter escludere 
che 
possa 
configurarsi 
un appiattimento della 
situazione 
di 
tutti 
i 
Paesi 
sotto 
il 
profilo 
dell’attenuazione 
della 
severità 
del 
controllo 
da parte della Corte. 


Le 
misure 
adottate 
dal 
Governo 
italiano, 
che 
hanno 
inciso 
sulla 
posizione 
degli 
stranieri, 
hanno 
riguardato 
innanzi 
tutto 
la 
chiusura 
degli 
uffici 
pubblici, 
la 
sospensione 
dei 
procedimenti 
di 
rilascio 
e 
rinnovo 
dei 
permessi 
di 
soggiorno, 
la chiusura parziale degli uffici giudiziari. 


Questi 
provvedimenti 
non hanno determinato, in realtà, effetti 
pregiudizievoli 
per gli 
stranieri 
in attesa 
del 
permesso di 
soggiorno, dal 
momento che 
sono stati 
accompagnati 
e 
bilanciati 
dalla 
sospensione 
dei 
termini 
per la 
presentazione 
della 
richiesta 
di 
primo rilascio o di 
rinnovo del 
permesso, e 
della 
proroga 
al 
15 giugno 2020 di 
tutti 
i 
permessi 
in scadenza 
nel 
periodo tra 
il 
31 
gennaio e il 15 aprile. 


Per 
quanto 
riguarda 
i 
richiedenti 
asilo, 
è 
stata 
registrata 
l’impossibilità 
di 
presentare 
e 
formalizzare 
la 
domanda 
di 
asilo 
e 
di 
protezione 
internazionale. 
È 
intervenuta 
l’autorità 
giudiziaria, 
adita 
dai 
singoli 
interessati, 
per 
ordinare 
alle 
Questure 
di 
provvedere 
alla 
formalizzazione 
dell’acquisizione 
della 
domanda 
di 
asilo 
che 
costituisce 
la 
condizione 
per 
beneficiare 
del 
si



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


stema 
di 
accoglienza 
per 
i 
richiedenti 
asilo 
e 
dell’accesso 
per 
gli 
stessi 
ai 
diritti 
sociali. 


Il 
tribunale 
di 
Roma 
e 
quello di 
torino, ad esempio, hanno riconosciuto 
il 
diritto soggettivo dei 
migranti 
(e 
quindi 
la 
propria 
giurisdizione) a 
vedere 
formalizzata la loro domanda, accogliendo i relativi ricorsi 
ex 
art. 700. 

Dal 
punto 
di 
vista 
del 
diritto 
all’accesso 
alla 
giustizia, 
le 
misure 
emergenziali 
hanno 
determinato, 
nella 
prima 
fase 
(dal 
9 
marzo 
all’11 
maggio) 
il 
differimento ex 
lege 
delle 
udienze 
(art. 83 co. 1, decreto legge 
n. 18/2020) e 
la 
sospensione 
dei 
termini 
processuali 
(art. 
83 
co. 
2), 
ma 
questo 
non 
ha 
riguardato 
indiscriminatamente tutti i giudizi. 

Si 
può 
porre 
un 
problema 
di 
rispetto 
dell’articolo 
6 
della 
Convenzione 
eDu, sotto il 
profilo dell’equa 
durata 
(ma 
solo se 
la 
sospensione 
dovesse 
durare 
per un tempo superiore 
ad alcuni 
mesi) e 
sotto il 
profilo dell’accesso alla 
giustizia 
e 
della 
tutela 
dei 
diritti 
di 
cui 
agli 
articoli 
2 e 
3, quando vi 
sia 
la 
necessità 
di 
un provvedimento giurisdizionale 
urgente 
e 
non differibile 
a 
tutela 
di 
un 
diritto 
fondamentale 
(si 
veda 
il 
caso 
opuz 
c. 
Turchia, 
n. 
33401/02, 
9 
giugno 
2009). 


Anche 
qui 
il 
legislatore 
italiano ha 
operato un bilanciamento delle 
varie 
esigenze, escludendo dalla 
sospensione 
alcuni 
procedimenti 
che 
ex 
lege, o su 
valutazione 
del 
giudice, risultassero urgenti 
e 
indifferibili: 
le 
cause 
sui 
minori 
stranieri 
non accompagnati, la 
convalida 
di 
espulsione, allontanamento e 
trattenimento 
di cittadini stranieri. 

Sono rimasti 
sospesi 
i 
procedimenti 
di 
impugnazione 
dei 
provvedimenti 
di 
espulsione 
e 
allontanamento, in quanto giudizi 
ordinari 
e 
non di 
convalida, 
per 
i 
quali 
tutt’al 
più 
è 
stata 
esclusa 
dalla 
sospensione 
l’eventuale 
giudizio 
cautelare di sospensione dei loro effetti. 


Del 
pari 
sono rimasti 
sospesi 
i 
ricorsi 
avverso i 
provvedimenti 
di 
diniego 


o revoca 
della 
protezione 
internazionale, considerato che 
in questi 
casi 
l’instaurazione 
del 
giudizio 
determina 
di 
per 
sé 
effetti 
automaticamente 
sospensivi 
del provvedimento. 
Questo 
non 
è 
valso 
nei 
casi 
in 
cui 
il 
ricorso 
non 
ha 
effetti 
sospensivi, 
come 
quelli 
di 
declaratoria 
di 
inammissibilità 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale. 


Sono stati 
celebrati 
dunque 
i 
processi 
di 
impugnazione 
d’urgenza 
ex 
art. 
35 
bis, 
d.lgs. 
n. 
25/2008 
e, 
come 
abbiamo 
accennato, 
i 
procedimenti 
ex 
art. 
700, c.p.c. che si sono resi necessari per la tutela dei richiedenti asilo. 


Sotto il 
profilo del 
rito processuale, della 
equità 
del 
processi 
e 
della 
effettività 
del 
diritto 
di 
difesa, 
in 
relazione 
tanto 
alla 
seconda 
fase 
(dal 
12 
maggio 
al 
31 luglio), quanto allo svolgimento delle 
attività 
già 
consentite 
nella 
prima 
fase, è 
stato previsto che 
i 
capi 
degli 
uffici 
giudiziari 
potessero adottare, insieme 
ad altri 
provvedimenti 
organizzativi, talune 
misure 
tipiche 
relative 
alla 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


fissazione 
e 
trattazione 
degli 
affari 
giudiziari, allo scopo di 
evitare 
assembramenti 
all’interno degli uffici e contatti ravvicinati tra le persone. 

L’art. 
83 
co. 
7, 
lettere 
e), 
f), 
g) 
e 
h), 
decreto 
legge 
n. 
18/2020 
detta 
quattro 
diverse 
misure 
concernenti 
le 
udienze 
civili. Si 
badi 
che 
il 
legislatore 
non ha 
inteso imporre 
alcuna 
gerarchia 
tra 
questi 
strumenti, riservandone 
la 
scelta 
all’apprezzamento 
dei 
capi 
degli 
uffici 
giudiziari 
e, rispetto al 
singolo procedimento, 
del 
giudice 
istruttore 
della 
causa 
in relazione 
alla 
natura 
e 
specificità 
della 
stessa: 
sono incluse 
l’udienza 
da 
remoto e 
la 
trattazione 
solo cartolare 
con scambio e deposito telematico di memorie scritte. 


Con riferimento al 
tema 
che 
ci 
occupa, l’udienza 
da 
remoto può finanche 
favorire 
le 
opportunità 
di 
audizione 
del 
ricorrente 
(nei 
ricorsi 
in 
materia 
di 
protezione 
internazionale), purché 
si 
proceda 
in quella 
sede 
ad una 
seria 
identificazione 
dell’interessato e dell’interprete. 


Quando 
una 
simile 
partecipazione 
contestuale 
non 
sia 
necessaria, 
è 
la 
trattazione 
cartolare 
la 
modalità 
da 
favorire. 
non 
può 
infatti 
negarsi 
che 
anche 
un 
simile 
meccanismo consenta 
comunque 
il 
completo dispiegarsi 
del 
contraddittorio 
delle parti fra loro e fra queste e il giudice. 

La 
piena 
compatibilità 
di 
questa 
modalità 
con 
il 
parametro 
del 
giusto 
processo 
è 
tanto più testimoniata 
dalla 
decisione 
di 
esplicitare 
il 
ricorso alla 
trattazione 
cartolare 
con riguardo alla 
protezione 
internazionale 
nell’ambito dei 
Protocolli siglati nell’intesa tra uffici giudiziari e ordini degli avvocati. 

Per esempio, il 
Protocollo adottato tra 
il 
tribunale 
di 
Genova 
e 
il 
relativo 
ordine 
degli 
avvocati 
ha 
disposto 
il 
rinvio 
a 
data 
successiva 
al 
30 
giugno 
2020 
di 
tutti 
i 
procedimenti 
non urgenti 
e 
previsto che 
i 
procedimenti 
relativi 
alla 


c.d. 
protezione 
internazionale 
siano 
inerenti 
a 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
ma 
senza 
rientrare 
nelle 
cause 
urgenti 
di 
cui 
all’art. 83 comma 
3 del 
decreto 
legge 
n. 
18/2020. 
La 
trattazione 
di 
tali 
procedimenti 
può 
quindi 
avvenire 
esclusivamente 
con le 
modalità 
di 
cui 
all’art. 83, comma 
7, lett. h), decreto legge 
n. 18/2020, cioè 
con la 
trattazione 
cartolare, fatta 
salva 
ogni 
successiva 
valutazione 
del 
Collegio circa 
la 
necessità 
di 
procedere 
alla 
audizione 
della 
parte 
ricorrente e l’espressa motivata richiesta della stessa parte. 
un’altra 
questione 
emersa 
per 
effetto 
delle 
misure 
di 
confinamento 
è 
quella 
del 
regime 
dei 
c.d. 
dublinanti, 
in 
un 
contesto 
nel 
quale 
la 
Commissione 
europea 
e 
i 
vari 
Stati 
dell’unione 
hanno 
previsto 
la 
chiusura 
delle 
frontiere 
interne, 
così 
rendendo 
impossibile 
le 
procedure 
di 
ricollocamento 
nei 
Paesi 
risultati 
come 
competenti 
ad 
esaminare 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale. 


Si 
è 
verificata 
nei 
mesi 
del 
lock 
down 
una 
situazione 
di 
oggettiva 
impraticabilità 
del 
meccanismo di 
presa 
in carico e 
trasferimento di 
cui 
agli 
artt. 18 
e 29 del Regolamento Dublino III, n. 604/2013. 


In 
primo 
luogo, 
in 
via 
generale, 
si 
è 
determinata 
una 
situazione 
di 
chiusura 



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


delle 
frontiere 
dei 
vari 
Paesi 
coinvolti 
nella 
pandemia, sia 
per loro iniziativa, 
sia per iniziativa dei Paesi verso cui dovrebbero avvenire i trasferimenti. 


La 
necessità 
di 
fronteggiare 
l’emergenza 
sanitaria 
ha 
portato la 
Commissione 
europea 
a 
sospendere 
temporaneamente 
l’esercizio della 
libera 
circolazione 
all’interno 
dell’unione. 
La 
limitazione 
del 
traffico 
nei 
confini 
interni 
tra 
Stati 
oltre 
che 
una 
più energica 
chiusura 
delle 
frontiere 
esterne 
sono avvenute 
attraverso strumenti 
di 
soft 
law, vale 
a 
dire 
atti 
privi 
di 
efficacia 
giuridica 
vincolante. 

La 
Commissione 
il 
16 
marzo 
2020 
ha 
adottato 
gli 
orientamenti 
“CoViD19 
Guidelines 
for 
border 
management 
measures 
to protect 
health and ensure 
the 
availability 
of 
goods 
and 
essential 
services” 
(5), 
nonché 
la 
Comunicazione 
al 
Parlamento europeo, al 
Consiglio europeo e 
al 
Consiglio “CoViD-19 Temporary 
restriction on Non-Essential Travel to the EU” 
(6). 


una 
comunicazione 
più dettagliata 
è 
stata 
resa 
il 
30 marzo 2020 (7) con 
specifico 
riferimento 
alla 
circolazione 
dei 
lavoratori 
all’interno 
dell’unione 
europea, con l’obiettivo di continuare a 
garantire una 
circolazione 
transfrontaliera 
nei 
limiti 
in cui 
i 
singoli 
Stati 
la 
ritengano sicura 
sul 
piano sanitario e, 
al 
contempo, di 
garantire 
il 
libero transito di 
lavoratori 
che 
esercitano professioni 
critiche, ai quali la libertà di circolazione non può essere negata. 


Si 
tratta 
di 
provvedimenti 
atipici, 
di 
cui 
già 
in 
passato 
le 
istituzioni 
europee 
si 
sono 
avvalse 
per 
provvedere 
alla 
disciplina 
di 
talune 
situazioni 
di 
emergenza 
che 
non 
permettono 
di 
attendere 
l’emanazione 
dei 
tipici 
atti 
normativi 
europei. 


Il 
duplice 
scopo perseguito con queste 
linee 
guida 
è 
quello, da 
una 
parte, 
di 
proteggere 
la 
salute 
dei 
cittadini 
impedendo la 
diffusione 
del 
virus 
tra 
gli 
Stati 
europei 
e, 
dall’altra, 
di 
garantire 
la 
circolazione 
delle 
persone 
che 
devono 
viaggiare 
per motivi 
essenziali 
di 
lavoro o di 
ricongiungimento, nonché 
la 
disponibilità 
di beni e servizi essenziali. 


Solo 
con 
l’attenuarsi 
della 
contagiosità 
del 
virus, 
la 
Commissione 
ha 
provveduto ad allentare 
le 
suddette 
misure 
attraverso un approccio graduale. 
In risposta 
all’invito del 
Consiglio europeo del 
26 marzo, il 
15 aprile 
2020, la 
Commissione 
ha 
presentato, in cooperazione 
con il 
presidente 
del 
Consiglio 
europeo, una 
“Tabella di 
marcia europea verso la revoca delle 
misure 
di 
contenimento 
del coronavirus”. 

Rispetto 
alle 
frontiere 
interne, 
agli 
Stati 
membri 
è 
stata 
attribuita 
la 
facoltà 
di 
«ripristinare 
i 
controlli 
di 
frontiera temporanei 
alle 
frontiere 
interne 
se 
ciò 


(5) 
Il 
testo 
degli 
orientamenti 
è 
reperibile 
al 
sito 
internet 
https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/
files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20200316_covid-19-guidelines-forborder-
management.pdf. 
(6) Il testo è reperibile sul sito di euR-Lex 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=Com:2020:115:FiN. 


(7) Cfr. su euR-Lex 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/iT/TXT/HTmL/?uri=CELEX:52020XC0330(03)&from=EN. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


è 
giustificato da ragioni 
di 
ordine 
pubblico o di 
sicurezza interna 
[…] 
in conformità 
del 
codice 
frontiere 
Schengen» (in particolare, cfr. Codice 
Schengen, 
Capo II, artt. 25 ss.). I controlli 
devono rispettare 
i 
principi 
di 
proporzionalità 
e non discriminazione. 

Per 
altro 
verso, 
il 
blocco 
sostanziale 
dei 
trasferimenti 
in 
Italia 
dopo 
la 
presa 
in carico dei 
dublinanti 
sconta 
il 
problema 
della 
possibile 
applicazione 
dell’articolo 3, par. 2 del 
Regolamento Dublino III n. 604/2013, secondo cui: 


“Qualora 
sia 
impossibile 
trasferire 
un 
richiedente 
verso 
lo 
Stato 
membro 
inizialmente 
designato come 
competente 
in quanto si 
hanno fondati 
motivi 
di 
ritenere 
che 
sussistono 
carenze 
sistemiche 
nella 
procedura 
di 
asilo 
e 
nelle 
condizioni 
di 
accoglienza 
dei 
richiedenti 
in 
tale 
Stato 
membro, 
che 
implichino 
il 
rischio 
di 
un 
trattamento 
inumano 
o 
degradante 
ai 
sensi 
dell’articolo 
4 
della 
Carta dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, lo Stato membro che 
ha 
avviato la procedura di 
determinazione 
dello Stato membro competente 
prosegue 
l’esame 
dei 
criteri 
di 
cui 
al 
capo 
iii 
per 
verificare 
se 
un 
altro 
Stato 
membro 
possa 
essere 
designato 
come 
competente”. 
Qualora 
non 
sia 
possibile 
eseguire 
il 
trasferimento a norma del 
presente 
paragrafo verso un altro Stato 
membro designato in base 
ai 
criteri 
di 
cui 
al 
capo iii o verso il 
primo Stato 
membro 
in 
cui 
la 
domanda 
è 
stata 
presentata, 
lo 
Stato 
membro 
che 
ha 
avviato 
la procedura di determinazione diventa lo Stato membro competente”. 


nel 
caso di 
specie 
nel 
periodo di 
massima 
espansione 
in Italia 
della 
pandemia, 
alcuni 
Paesi 
europei 
(in 
cui 
l’emergenza 
sanitaria 
era 
più 
lieve) 
non 
hanno potuto procedere 
al 
trasferimento dei 
dublinanti 
verso l’Italia, in considerazione 
anche 
dell’estrema 
pressione 
gravante 
sul 
sistema 
sanitario 
nazionale 
italiano e 
della 
impossibilità 
di 
assicurare 
agli 
interessati 
una 
condizione 
di adeguata assistenza e tutela sanitaria. 


Sappiamo che 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ue 
ha 
ritenuto che 
il 
divieto di 
trasferimento 
possa 
operare 
non 
solo 
in 
presenza 
di 
carenze 
sistemiche 
del 
sistema 
di 
accoglienza, 
ma 
di 
qualsiasi 
altra 
situazione 
che 
possa 
colpire 
i 
diritti 
fondamentali 
dell’individuo 
(sentenza 
16 
febbraio 
2017, 
causa 
578-16: 
il 
caso 
di 
un migrante 
con problemi 
psichiatrici 
per il 
quale 
il 
trasferimento stesso in 
altro Paese, ancorché 
privo di 
carenze 
sistemiche 
nell’accoglienza, poteva 
infliggergli 
un trattamento inumano e degradante). 


La 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
precisato che 
l’applicazione 
della 
norma 
non è 
giustificata 
da 
qualsiasi 
carenza 
dei 
sistemi 
di 
asilo e 
di 
accoglienza, ma 
solo 
in 
quei 
casi 
in 
cui 
l’interessato 
possa 
trovarsi, 
indipendentemente 
dalla 
sua 
volontà 
e 
dalle 
sue 
scelte 
personali, in una 
situazione 
di 
estrema 
deprivazione 
materiale 
e 
di 
completa 
dipendenza 
dalla 
assistenza 
pubblica 
(sentenza 
19 
marzo 2019, causa 163-17). 

nel 
caso 
della 
pandemia, 
in 
cui 
uno 
Stato 
ha 
dovuto 
adottare 
misure 
stringenti 
di 
confinamento e 
chiusura 
della 
gran parte 
degli 
uffici, delle 
fabbriche, 
degli 
esercizi 
commerciali, 
vi 
può 
essere 
il 
rischio 
che 
il 
cittadino 
straniero 



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


trasferito 
si 
trovi 
in 
una 
grave 
situazione 
di 
emarginazione 
e 
deprivazione 
materiale 
che 
prescinde 
dalle 
sue 
scelte 
personali. L’art. 3 del 
Regolamento Dublino 
III 
potrebbe 
allora 
trovare 
applicazione 
impedendo 
il 
trasferimento 
dell’interessato. 


Questa 
temporanea 
impossibilità, per vari 
motivi, di 
procedere 
al 
trasferimento, 
potrebbe 
comportare 
il 
decorso del 
termine 
di 
sei 
mesi 
(dalla 
accettazione 
della 
presa 
in carico o dalla 
decisione 
definitiva 
su un ricorso) di 
cui 
all’articolo 
29, 
Regolamento 
Dublino 
III, 
decorso 
il 
quale 
la 
competenza 
è 
trasferita 
allo Stato richiedente. Sappiamo come 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
abbia 
ribadito 
più volte il carattere perentorio di detto termine. 


L’anomalia 
di 
questa 
situazione 
è 
che 
normalmente 
la 
decisione 
di 
dare 
applicazione 
o 
meno 
all’art. 
3 
spetta, 
in 
base 
al 
principio 
di 
sovranità, 
allo 
Stato 
richiedente 
(e 
alla 
sua 
autorità 
giudiziaria 
in 
caso 
di 
ricorso), 
mentre 
in 
questo 
caso 
anche 
la 
chiusura 
momentanea 
delle 
frontiere, 
unilaterale, 
da 
parte 
dello 
Stato 
competente 
alla 
presa 
in 
carico, 
può 
dar 
luogo 
al 
mancato 
trasferimento. 


non può peraltro escludersi, che 
per motivi 
analoghi, l’unione 
europea 
possa 
adottare 
nuove 
misure 
di 
ricollocamento generalizzato dei 
richiedenti 
asilo, in particolare 
adottando politiche 
straordinarie 
in nome 
del 
principio di 
solidarietà ed equa ripartizione di cui all’art. 80 tFue. 


Per 
quanto 
riguarda 
le 
frontiere 
esterne, 
l’indirizzo 
della 
Commissione 
consente 
agli 
Stati 
di 
sottoporre 
«tutte 
le 
persone, cittadini 
dell’UE 
e 
non, che 
attraversano 
le 
frontiere 
esterne 
per 
entrare 
nello 
spazio 
Schengen 
[…] 
a 
controlli 
[sanitari] 
sistematici 
ai 
valichi 
di 
frontiera» 
nonché 
«la 
possibilità 
di 
rifiutare 
l’ingresso ai 
cittadini 
di 
paesi 
terzi 
non residenti 
qualora presentino 
sintomi 
rilevanti 
o siano stati 
particolarmente 
esposti 
al 
rischio di 
infezione 
e siano considerati una minaccia per la salute pubblica». 

Misure 
alternative 
al 
rifiuto 
d’ingresso, 
quali 
l’isolamento 
o 
la 
quarantena, 
possono essere 
applicate 
qualora 
siano considerate 
più efficaci. Qualsiasi 
decisione 
di rifiuto d’ingresso deve essere proporzionata e non discriminatoria. 

una 
misura 
è 
considerata 
proporzionata 
a 
condizione 
che 
sia 
stata 
adottata 
previa 
consultazione 
delle 
autorità 
sanitarie 
e 
che 
sia 
stata 
da 
queste 
considerata 
adeguata e necessaria per raggiungere l’obiettivo di sanità pubblica. 


Ma 
la 
questione 
delle 
frontiere 
esterne 
ha 
avuto 
un 
ulteriore 
sviluppo 
con 
l’adozione 
da 
parte 
del 
Governo italiano della 
sospensione 
temporanea 
della 
classificazione 
di 
place 
of 
safety 
(luogo sicuro) dei 
porti 
italiani 
ai 
fini 
della 
convenzione 
di 
Amburgo, 
con 
il 
decreto 
ministeriale 
17 
aprile 
2020 
n. 
150 
adottato 
dal 
Ministero 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
trasporti, 
di 
concerto 
con 
i 
Ministeri 
dell’interno, degli affari esteri e della salute. 


Il 
decreto, che 
aveva 
una 
efficacia 
fino al 
31 luglio, è 
stato impugnato dinanzi 
al 
tAR Lazio per violazione 
del 
diritto di 
soccorso in mare, del 
diritto 
di asilo e del divieto di 
refoulement. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


Il 
tAR Lazio (con ordinanza 
n. 3934-2020) ha 
respinto la 
domanda 
cautelare 
ritenendo che 
vi 
è 
la 
necessità 
di 
un bilanciamento degli 
interessi 
contrapposti, 
tipico 
della 
fase 
cautelare, 
poiché 
l’atto 
impugnato 
è 
motivato 
“mediante 
argomenti 
seri 
circa l’attuale 
situazione 
di 
emergenza da CoViD19, 
e 
la conseguente 
impossibilità di 
fornire 
un “luogo sicuro”, senza compromettere 
la 
funzionalità 
delle 
strutture 
nazionali 
sanitarie, 
logistiche 
e 
di 
sicurezza impegnate 
nel 
contenimento della diffusione 
del 
contagio e 
di 
assistenza 
e 
cura ai 
pazienti 
CoViD-19”. Inoltre 
il 
tAR Lazio ha 
osservato che 
“il 
pericolo per 
i 
migranti 
(attuali 
o potenziali) che 
siano esposti 
al 
rischio di 
naufragio 
in 
mare 
deve 
essere 
correttamente 
inquadrato 
nell’ambito 
di 
un 
articolato 
assetto normativo (nazionale 
ed internazionale) nel 
quale 
è, comunque, 
garantita 
assistenza 
alle 
persone 
eventualmente 
soccorse 
in 
mare, 
prestando misure 
adeguate 
rispetto a situazioni 
di 
minaccia per 
le 
loro vite, 
il 
soddisfacimento delle 
necessità primarie 
e 
l’accesso a servizi 
fondamentali 
sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico”. 


Gli 
obblighi 
di 
soccorso 
in 
mare 
derivanti 
dalle 
convenzioni 
internazionali 
in materia 
(in primis 
la 
convenzione 
di 
Amburgo) presentano, per il 
singolo 
Stato, intensità 
differenziate 
a 
seconda 
della 
zona 
SAR in cui 
il 
soccorso avvenga. 
In particolare: 


-su 
tutti 
gli 
Stati 
aderenti 
al 
trattato 
grava 
un 
generalizzato 
dovere 
di 
cooperazione; 


-sullo Stato responsabile 
della 
zona 
di 
ricerca 
e 
salvataggio ovvero -in 
caso 
di 
mancata 
risposta 
di 
quest’ultimo 
-su 
quello 
che 
per 
primo 
abbia 
avuto 
contatto con le 
persone 
in mare 
grava, invece, il 
dovere 
di 
coordinare 
le 
operazioni 
di 
salvataggio e 
di 
individuare 
un luogo sicuro di 
sbarco. L’adempimento 
di 
tale 
ultimo obbligo può ritenersi 
soddisfatto allorché 
sia 
individuata 
una 
zona 
di 
sbarco 
in 
cui 
la 
vita 
dei 
sopravvissuti 
sia 
al 
riparo 
da 
ogni 
minaccia 
ed in cui sia assicurato il soddisfacimento delle necessarie cure mediche. 
Alla 
luce 
di 
quanto rilevato, qualora 
il 
soccorso avvenga 
al 
di 
fuori 
della 
propria 
zona 
SAR, lo Stato aderente 
alla 
Convenzione 
SAR non ha 
l’obbligo 
di 
fornire 
un 
PoS 
(porto 
sicuro) 
e 
tantomeno 
deve 
“auto-dichiararsi” 
PoS, 
ma 
è tenuto solo a cooperare con le altre Parti per la salvezza dei naufraghi. 


Il 
decreto non ha 
determinato una 
violazione 
degli 
obblighi 
assunti 
a 
livello 
internazionale 
ma 
ha 
solo 
attenuato 
parzialmente 
l’impegno 
di 
assumere 
la 
responsabilità 
del 
soccorso e 
di 
fornire 
un porto sicuro ai 
migranti 
soccorsi 
in mare 
in modo da 
renderlo non troppo gravoso per il 
sistema 
assistenziale 
e 
sanitario interno. 


Peraltro, 
considerata 
la 
situazione 
di 
eccezionale 
sovraccarico 
del 
sistema 
sanitario, il 
decreto ha 
limitato l’accesso ai 
porti 
ai 
soli 
casi 
di 
soccorsi 
effettuati 
in zona 
SAR italiana 
o comunque 
realizzati 
da 
navi 
battenti 
bandiera 
italiana 
o nei casi di “sbarchi autonomi”. 


In queste 
ipotesi, l’unico responsabile 
del 
soccorso ai 
profughi 
risulta 
es



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


sere 
lo Stato italiano, cosicché 
l’unico epilogo possibile 
-nonostante 
il 
concreto 
rischio per la 
tenuta 
del 
sistema 
sanitario -risulta 
essere 
lo sbarco in territorio 
nazionale. 


Viceversa, 
nelle 
diverse 
ipotesi 
in 
cui 
le 
operazioni 
di 
salvataggio 
siano 
condotte 
in 
zona 
SAR 
non 
italiana, 
da 
navi 
battenti 
bandiera 
straniera, 
devono 
presentarsi 
alternative 
più 
idonee 
e 
meno 
rischiose 
per 
la 
salute 
stessa 
dei 
naufraghi 
tratti 
in 
salvo; 
alla 
individuazione 
di 
un 
porto 
sicuro 
sono 
tenuti, 
infatti, 
soggetti 
diversi 
dallo 
Stato 
italiano 
(ossia 
lo 
Stato 
nella 
cui 
SAR 
è 
avvenuto 
il 
salvataggio, 
o 
quello 
di 
bandiera 
della 
nave 
che 
ha 
provveduto 
al 
salvataggio). 


Con 
il 
decreto 
interministeriale, 
dunque, 
non 
si 
è 
prodotta 
né 
una 
generalizzata 
esclusione 
dell’obbligo 
di 
soccorso 
in 
mare 
gravante 
sullo 
Stato 
italiano, 
né 
una 
deroga 
al 
principio 
giurisdizionale 
di 
cui 
all’art. 
1 
della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
anche 
nella 
sua 
interpretazione 
più 
estensiva 
e 
funzionale 
affermata 
dalla 
Corte 
eDu. 
nel 
caso 
Hirsi 
c. 
italia 
(Grande 
Camera 
23 
febbraio 
2012, 
ricorso 
n. 
27765-2009) 
il 
link 
giurisdizionale 
era 
costituito 
dalla 
situazione 
di 
controllo 
dell’Italia 
dovuto 
al 
fatto 
che 
il 
salvataggio 
era 
avvenuto 
da 
parte 
di 
una 
nave 
battente 
bandiera 
italiana, 
esercitando 
così 
un 
controllo 
de 
jure 
o 
de 
facto. 
Ma 
il 
semplice 
coordinamento 
delle 
misure 
di 
soccorso 
non 
costituisce 
di 
per 
sé 
un 
link 
sufficiente 
a 
determinare 
l’obbligo 
di 
soccorso 
e 
la 
giurisdizione 
dello 
Stato 
italiano. 


Con riguardo al 
principio di 
“non respingimento” 
(art. 33 della 
Convenzione 
di 
Ginevra 
del 
1951 
sui 
rifugiati), 
lo 
stesso 
non 
è 
stato 
violato 
dal 
decreto 
ministeriale, dal 
momento che 
esso postulava 
il 
previo ingresso nel 
territorio 
dello 
Stato 
con 
conseguente 
respingimento/espulsione: 
circostanza 
che 
risulta 
assente nel caso di specie. 


La 
chiusura 
delle 
frontiere 
ha 
influito anche 
sulle 
possibilità 
di 
rimpatrio 
degli stranieri destinatari di misure di espulsione e allontanamento. 


Secondo alcuni 
tribunali, chiamati 
a 
convalidare 
la 
proroga 
della 
detenzione, 
ciò ha 
determinato l’applicazione 
dell’art. 15 par. 4 della 
direttiva 
rimpatri 
2008/115 secondo cui: 


“Quando risulta che 
non esiste 
più alcuna prospettiva ragionevole 
di 
allontanamento 
per 
motivi 
di 
ordine 
giuridico o per 
altri 
motivi 
o che 
non sussistono 
più 
le 
condizioni 
di 
cui 
al 
paragrafo 
1, 
il 
trattenimento 
non 
è 
più 
giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”. 


Si 
è 
affermato anche 
che 
l’art. 15 par. 4 è 
norma 
immediatamente 
precettiva 
che 
consente 
di 
adire 
l’autorità 
giudiziaria 
per 
ottenere 
il 
rilascio 
dal 
centro 
di 
detenzione. 
Sul 
punto, 
si 
erano 
già 
pronunciate 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
nel 
caso El Dridi 
e la Corte di Cassazione (n. 22932/2017). 


Questa 
giurisprudenza 
consente 
in primo luogo di 
comprovare, a 
livello 
di 
Convenzione 
eDu, che 
esiste 
un rimedio rapido ed effettivo per ottenere 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


la 
revoca 
della 
detenzione 
amministrativa 
nei 
centri 
di 
permanenza 
per il 
rimpatrio 
(anche 
ai 
fini 
della 
verifica 
del 
requisito 
del 
preventivo 
esaurimento 
dei 
mezzi di ricorso interni). 


Dall’altro, l’orientamento di 
questi 
tribunali 
(Roma, triste) avrebbe 
potuto 
portare 
ad 
affermare 
l’apertura 
generalizzata 
dei 
centri 
di 
permanenza 
per 
il rimpatrio, come in alcuni Paesi europei è stato fatto. 


Ciò non è 
avvenuto in Italia, sia 
per esigenze 
di 
confinamento, sia 
perché 
la 
durata 
della 
chiusura 
delle 
frontiere 
e 
dell’impossibilità 
di 
rimpatrio non è 
stata 
tale 
da 
escludere 
in via 
definitiva 
ogni 
prospettiva 
ragionevole, magari 
dopo qualche 
mese 
(e 
quindi 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
massimo previsto 
dalla direttiva), di esecuzione dell’allontanamento. 


occorreva, dunque, verificare 
caso per caso, per lo meno, se 
la 
posizione 
dell’interessato fosse 
quella 
di 
un imminente 
scadenza 
del 
termine 
massimo 
di detenzione nei centri di permanenza per il rimpatrio. 


Per 
quanto 
riguarda, 
infine, 
gli 
obblighi 
solidaristici 
conseguenti 
alla 
crisi 
derivante 
dalla 
pandemia, 
con 
l’oCDPC 
n. 
658/2020 
sono 
stati 
stanziati 
fondi 
per buoni 
alimentari 
a 
favore 
delle 
persone 
che 
si 
trovano in stato di 
bisogno. 
Alcuni 
comuni 
hanno posto qualche 
limitazione 
o distinzione, precisando che 
si 
debba 
trattare 
di 
nuclei 
familiari 
residenti 
nel 
comune 
in 
cui 
si 
trovano 
e 
nel 
quale 
potranno utilizzare 
i 
buoni 
alimentari. Altri 
comuni 
hanno escluso dal 
novero dei 
beneficiari 
gli 
stranieri 
che 
si 
trovano irregolarmente 
sul 
territorio 
italiano. 


La 
questione 
è 
stata 
affrontata 
dal 
giudice 
amministrativo e 
dal 
giudice 
ordinario. 


Il 
tAR Abruzzo, da 
un lato, ha 
puntualizzato che 
ogni 
diversificazione 
non 
trova 
fondamento 
nell’ordinanza 
n. 
658, 
che 
pone 
come 
requisito 
solo 
quello dello stato di bisogno. 


Il 
tribunale 
di 
Roma, con ordinanza 
cautelare 
ex 
art. 700, c,p.c. ha 
del 
pari 
affermato che 
hanno diritto a 
questa 
misura 
di 
sostegno tutti 
coloro che 
ne 
hanno bisogno, senza 
possibilità 
di 
escludere 
gli 
stranieri 
irregolari, trattandosi 
di 
diritti 
fondamentali 
incomprimibili 
(alla 
salute, alla 
sopravvivenza, 
all’alimentazione) che 
rispondono a 
bisogni 
primari, e 
considerato che, come 
ripetutamente 
affermato dalla 
corte 
costituzionale, lo straniero gode 
di 
tutti 
i 
diritti 
fondamentali 
di 
cui 
all’art. 
2 
della 
Costituzione, 
che 
il 
criterio 
non 
è 
quello della 
cittadinanza 
o della 
residenza, ma 
unicamente 
quello personalistico 
(v. Corte Cost., sentenza n. 198/2000). 


Il 
problema 
si 
pone 
più un generale 
per tutte 
le 
situazioni 
di 
vulnerabilità 
che 
richiedano 
un 
intervento 
di 
tutela 
dello 
Stato. 
Ad 
esempio 
le 
cure 
mediche 
sono assicurate, ai 
sensi 
dell’art. 35, tuI, a 
tutti 
gli 
stranieri 
anche 
irregolari, 
sia 
pure 
con 
modalità 
diverse 
da 
quelli 
titolari 
di 
regolare 
permesso 
di 
soggiorno. 



ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


La 
Corte 
eDu 
si 
è 
posta 
il 
problema 
della 
tutela 
dei 
minori 
non accompagnati 
ordinando, ad esempio, alla 
Francia, ai 
sensi 
dell’art. 39, di 
assicurare 
un alloggio, vitto e 
cure 
mediche 
a 
un minore 
che 
si 
trovava 
in stato di 
abbandono, 
fino a 
conclusione 
dello stato di 
emergenza 
sanitaria 
in Francia 
(ricorso 
15457/2020). 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


La gestione delle emergenze sanitarie 
nell’ordinamento italiano 


Loredana Pileggi* 
Salvatore Paolo Putrino Gallo** 


Sommario: 1. Premessa -2. La normativa in materia di 
emergenza sanitaria: dal 
t.u. 
sulle 
leggi 
sanitarie 
ai 
decreti 
d’urgenza del 
governo Conte 
ii -3. il 
rapporto fra lo Stato e 
le 
regioni 
-3.1. (segue) 
La sussidiarietà amministrativa -3.2. (segue) 
La sussidiarietà legislativa 
-3.3. (segue) 
La sussidiarietà nella gestione 
dell’emergenza -4. Gli 
strumenti 
di 
attuazione 
delle 
disposizioni 
in 
materia 
di 
contenimento 
e 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19 
-4.1. 
(segue) 
i 
D.P.C.m. 
-4.2. 
(segue) 
Le 
o.P.G.r. 
-4.3. 
(segue) 
Le 
ordinanze 
comunali 
-5. La gestione 
della giustizia nel 
periodo emergenziale 
-6. Considerazioni 
conclusive. 

1. Premessa. 
L’emergenza 
sanitaria 
da 
SARS-CoV-2 
(di 
seguito 
anche 
«Coronavirus») 
offre 
spunti 
di 
riflessione 
sulle 
modalità 
di 
gestione 
della 
nota 
pandemia 
e, 
più 
in generale, delle emergenze sanitarie. 


Le 
principali 
questioni 
in 
ordine 
alla 
legittimità 
dell’azione 
pubblica 
nella 
gestione 
dell’attuale 
crisi 
sono 
sorte 
soprattutto 
in 
conseguenza 
del 
rapido 
susseguirsi 
di 
diverse 
disposizioni 
di 
differente 
natura 
(1), 
talvolta 
frammentarie, 
discordanti 
e 
prive 
di 
chiarezza 
(2), che 
hanno inciso su alcuni 
diritti 
fondamentali 
riconosciuti 
dalla 
Costituzione. In particolare, si 
è 
registrato un succedersi 
di 
decreti 
legge, decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, di 
ordinanze 
del 
Ministro 
della 
Salute, 
di 
quelle 
dei 
Presidenti 
delle 
regioni 
e, 
infine, 
di 
ordinanze 
sindacali 
volte 
alla 
regolamentazione 
delle 
attività 
economiche 
e sociali di tutta la nazione. 


In ambito statale, non sono mancate 
anche 
disposizioni 
che 
hanno inciso 
sul funzionamento del sistema giudiziario italiano, di cui si dirà 
sub 
5. 

(*) Dottoressa 
in Giurisprudenza, abilitata 
all’esercizio della 
professione 
forense, già 
praticante 
presso 
l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catanzaro (avv. St. Alfonso Mezzotero). 
(**) Avvocato del 
libero Foro, già 
praticante 
presso l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Catanzaro 
(avv. St. Alfonso Mezzotero). 


(1) 
Sul 
punto, 
si 
v. 
A. 
CeLotto, 
Emergenza 
e 
ordinanze 
comunali: 
l’«isola 
della 
ragione 
nel 
caos 
delle 
opinioni» 
(a 
prima 
lettura 
del 
parere 
7 
aprile 
2020, 
n. 
260/2020), 
in 
www.giustiziaamministrativa.
it, 2020; 
cfr., inoltre, M. oRICCHIo, La questione 
istituzionale 
in italia al 
tempo della 
pandemia, in www.lexitalia.it, 2020. 
(2) Riguardo al 
processo amministrativo, si 
segnala, per il 
momento, F. VoLPe, ancora sulla disciplina 
emergenziale 
del 
processo amministrativo (commento all’art. 4, del 
d.l. 30 aprile 
2020, n. 28), 
in www.lexitalia.it, 2020, alle cui osservazioni si rinvia. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


2. La normativa in materia sanitaria: dal 
t.u. sulle 
leggi 
sanitarie 
ai 
decreti 
d’urgenza del governo Conte ii. 
L’attuale 
situazione 
emergenziale 
ha 
determinato 
un 
corposo 
aumento 
delle 
disposizioni 
in materia 
sanitaria, con un progressivo spostamento delle 
competenze fissate dalle norme già vigenti. 


Ai 
fini 
di 
una 
ricognizione 
della 
normativa 
più 
rilevante 
in 
materia 
di 
competenze 
nella 
gestione 
delle 
emergenze 
sanitarie, occorre 
premettere 
che 
l’attività 
sanitaria 
qui 
in 
esame 
attiene 
specificamente 
all’azione 
volta 
alla 
prevenzione 
e 
al 
contenimento 
della 
diffusione 
di 
malattie 
infettive 
a 
carattere 
epidemico, 
rimanendo, 
pertanto, 
escluso 
dallo 
spettro 
della 
presente 
trattazione 
la 
materia 
sanitaria 
intesa 
come 
organizzazione 
del 
sistema 
assistenziale 
e 
di 
quello ospedaliero. 


una 
prima 
disciplina 
organica 
in 
materia 
è 
rappresentata 
dal 
t.u. 
sulle 
leggi 
sanitarie 
di 
cui 
al 
R.d. 27 luglio 1934, n. 1265, ove 
sono confermate 
le 
funzioni 
di 
tutela 
della 
salute 
pubblica 
del 
Ministro dell’Interno già 
attribuite 
dal 
R.d. 
9 
ottobre 
1861, 
n. 
255. 
La 
materia 
sanitaria, 
dunque, 
era 
genericamente 
ricondotta 
sotto la 
gestione 
degli 
affari 
interni 
dello Stato. Per l’istituzione 
del 
Ministero 
della 
Sanità, 
con 
al 
vertice 
un 
organo 
del 
Governo, 
infatti, 
si dovette attendere la l. 13 marzo 1958, n. 296. 


tuttavia, 
sebbene 
dal 
1958 
il 
compito 
di 
provvedere 
alla 
tutela 
della 
salute 
pubblica 
è 
affidato 
al 
Ministero 
della 
Sanità, 
a 
livello 
nazionale, 
le 
competenze 
in materia 
sanitaria 
non sono state 
conferite 
in via 
esclusiva 
a 
quest’organo, 
in ragione 
del 
fatto che 
la 
stessa 
legge 
istitutiva 
di 
tale 
dicastero fa 
salve 
le 
disposizioni 
legislative 
attributive 
di 
tale 
potere 
in capo alle 
altre 
Amministrazioni 
dello Stato (3). 


La 
successiva 
l. 
23 
dicembre 
1978, 
n. 
833, 
istitutiva 
del 
Servizio 
sanitario 
nazionale 
(Ssn), 
non 
ha 
mutato 
il 
quadro 
su 
indicato. 
Infatti, 
una 
volta 
ribadita 
la 
competenza 
statale 
in materia 
di 
profilassi 
delle 
malattie 
infettive 
(4), con 
delega 
alle 
regioni 
dell’esercizio 
delle 
relative 
funzioni 
amministrative 
(5), 
sebbene 
venga 
attribuito 
al 
Ministro 
della 
Sanità 
il 
potere 
di 
emissione 
di 
“ordinanze 
di 
carattere 
contingibile 
e 
urgente, in materia di 
igiene 
e 
sanità pubblica 
e 
di 
polizia 
veterinaria, 
con 
efficacia 
estesa 
all’intero 
territorio 


(3) Ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
3, l. n. 296/1958, infatti, “qualora la legge 
non disponga diversamente, 
i 
provvedimenti 
in 
materia 
di 
sanità 
rientrano 
nella 
competenza 
del 
ministero 
della 
sanità”. 
Pertanto, 
la 
clausola 
di 
riserva 
di 
cui 
all’art. 1, comma 
3, cit., la 
mancata 
abrogazione 
dell’art. 1 t.u. leggi 
sanitarie 
e 
l’assenza 
sempre 
in 
quest’ultimo 
articolo 
di 
una 
disposizione 
esclusiva 
di 
competenze 
in 
materia 
in 
capo 
ad 
altri 
organi 
comportano 
l’attribuzione 
in 
capo 
alle 
due 
Amministrazioni 
(Interno 
e 
Sanità) 
del 
medesimo 
potere. 
Contra, 
G. 
MARAzzItA, 
il 
conflitto 
tra 
autorità 
e 
regole: 
il 
caso 
del 
potere 
di 
ordinanza, 
in 
riv. 
aiC, 
n. 
4/2010, 
secondo 
cui 
il 
potere 
conferito 
dall’art. 
32, 
l. 
n. 
833/1978 
al 
Ministro 
della 
Salute 
“sembra 
per 
alcuni 
aspetti 
sovrapporsi, 
con 
effetti 
probabilmente 
abrogativi, 
alla 
disciplina 
del-
l’art. 261 T.U.L.S.”. 
(4) Cfr. art. 6, l. n. 833/1978. 
(5) Cfr. art. 7, l n. 833/1978. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


nazionale 
o a parte 
di 
esso comprendente 
più regioni” 
(art. 32, comma 
1, l. n. 
833/1978), rimangono comunque 
“salvi 
i 
poteri 
degli 
organi 
dello Stato preposti 
in 
base 
alle 
leggi 
vigenti 
alla 
tutela 
dell’ordine 
pubblico” 
(art. 
32, 
comma 5, l. n. 833/1978), ossia quelli del Ministro dell’Interno (6). 


La 
giustificazione 
della 
salvezza 
del 
potere 
di 
intervento 
in 
questa 
materia 
del Ministro dell’Interno è da ravvisare nel concetto di ordine pubblico. 

A 
livello 
normativo, 
l’«ordine 
e 
sicurezza 
pubblica» 
(7) 
sono 
definiti 
come 
“il 
complesso dei 
beni 
giuridici 
fondamentali 
e 
degli 
interessi 
pubblici 
primari 
sui 
quali 
si 
regge 
l’ordinata e 
civile 
convivenza nella comunità nazionale, 
nonché 
[…] 
la 
sicurezza 
delle 
istituzioni, 
dei 
cittadini 
e 
dei 
loro 
beni” 
(art. 159, comma 
2, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112), come 
quello alla 
salute, riconosciuto 
espressamente 
dall’art. 
32 
Cost. 
come 
fondamentale 
diritto 
del-
l’individuo e interesse della collettività. 


Sempre 
in ragione 
dell’ampiezza 
concettuale 
di 
«ordine 
e 
sicurezza 
pubblica
», anche 
i 
servizi 
di 
protezione 
civile 
(8) furono inizialmente 
incardinati 
presso il 
Ministero dell’Interno (9). Al 
Ministro dell’Interno, infatti, fu attribuito 
il 
potere 
di 
impartire 
“direttive 
generali 
in materia di 
protezione 
civile 
e, in caso di 
calamità naturali 
o catastrofe, assume[re: 
n.d.r.] la direzione 
ed 
[…] 
il 
coordinamento di 
tutte 
le 
attività svolte 
nella circostanza dalle 
amministrazioni 
dello Stato, dalle 
regioni 
e 
dagli 
enti 
pubblici 
territoriali 
ed istituzionali” 
(art. 2, comma 2, l. 8 dicembre 1970, n. 996). 


Sebbene 
precedute 
da 
disposizioni 
particolari, 
finalizzate 
al 
superamento 
di 
specifiche 
situazioni 
emergenziali 
venutesi 
a 
creare 
a 
seguito di 
calamità 
di 
natura 
sismica 
(10), 
disposizioni 
effettivamente 
innovative 
in 
ordine 
ai 
soggetti 


(6) non risulta 
esercitata 
la 
delega 
di 
cui 
all’art. 62, l. n. 833/1978, che 
autorizzava 
il 
Governo a 
emanare, entro due 
anni 
dall’entrata 
in vigore 
della 
stessa 
legge, disposizioni 
volte 
a 
“modificare, integrare, 
coordinare 
e 
riunire 
in testo unico le 
disposizioni 
vigenti 
in materia di 
profilassi 
internazionale, 
ivi 
compresa la zooprofilassi, e 
di 
malattie 
infettive 
e 
diffusive”, chiarendo che 
“sino all’emanazione 
del 
predetto 
testo 
unico, 
si 
applicano, 
in 
quanto 
non 
in 
contrasto 
con 
le 
disposizioni 
della 
presente 
legge, 
le 
norme 
del 
testo unico delle 
leggi 
sanitarie 
approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 e 
successive 
modificazioni ed integrazioni, nonché le altre disposizioni vigenti in materia”. 
(7) Sul 
quale 
V. LoPILAto, manuale 
di 
diritto amministrativo, 2018, Giappichelli, 1214, evidenzia 
che, in dottrina, i 
termini 
in esame 
sono considerati 
“un’endiadi 
e, cioè, non rappresent[a]no valori 
diversi, 
come 
dimostra 
la 
circostanza 
che 
la 
legislazione 
amministrativa 
«richiama 
ripetutamente 
le 
due 
locuzioni 
in 
maniera 
congiunta 
e 
mostra 
di 
volere 
esprimere 
un 
unico 
concetto 
per 
mezzo 
di 
due 
termini 
coordinati»”. 
(8) termine 
con il 
quale 
si 
definisce 
“l’insieme 
delle 
competenze 
e 
delle 
attività volte 
a tutelare 
la vita, l’integrità fisica, i 
beni, gli 
insediamenti, gli 
animali 
e 
l’ambiente 
dai 
danni 
o dal 
pericolo di 
danni 
derivanti 
da 
eventi 
calamitosi 
di 
origine 
naturale 
o 
derivanti 
dall’attività 
dell’uomo” 
(attualmente, 
si v. art. 1, comma 1, d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1 - «Codice della protezione civile»). 
(9) Art. 3, l. 8 dicembre 
1970, n. 996: 
“ai 
fini 
di 
cui 
al 
precedente 
articolo è 
istituito, presso il 
ministero dell’interno, il 
Comitato interministeriale 
della protezione 
civile. il 
Comitato è 
costituito con 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
è 
presieduto 
dal 
ministro 
per 
l’interno 
e 
di 
esso 
fanno 
parte 
i 
ministri 
per 
il 
tesoro, per 
la difesa, per 
i 
lavori 
pubblici, per 
i 
trasporti 
e 
l’aviazione 
civile, per 
l’agricoltura e le foreste e per la sanità”. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


coinvolti 
in via 
ordinaria 
nella 
gestione 
delle 
emergenze 
sanitarie 
si 
rinvengono 
nella 
l. 24 febbraio 1992, n. 225, istitutiva 
del 
Servizio nazionale 
di 
protezione 
civile. 


Con la 
l. n. 225 cit., infatti, le 
competenze 
in materia 
di 
protezione 
civile 
sono state 
trasferite 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, al 
quale 
è 
stato 
affidato, dunque, il 
potere 
di 
promuovere 
e 
coordinare 
“le 
attività delle 
amministrazioni 
dello Stato, centrali 
e 
periferiche, delle 
regioni, delle 
province, 
dei 
comuni, 
degli 
enti 
pubblici 
nazionali 
e 
territoriali 
e 
di 
ogni 
altra 
istituzione 
ed organizzazione 
pubblica e 
privata presente 
sul 
territorio nazionale” 
(art. 
1, comma 2, l. n. 225/1992), in precedenza gestite dal Ministro dell’Interno. 


Per 
lo 
svolgimento 
delle 
nuove 
funzioni, 
la 
stessa 
l. 
n. 
225, 
inoltre, 
ha 
istituito presso la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
il 
Dipartimento della 
protezione 
civile 
(11), struttura 
al 
vertice 
della 
quale 
è 
posto il 
Capo del 
Dipartimento 
della protezione civile. 


Da 
ultimo, la 
normativa 
in materia 
di 
protezione 
civile 
è 
stata 
riordinata 
a 
seguito 
dell’emanazione, 
in 
esercizio 
della 
delega 
conferita 
al 
Governo 
dalla 


l. 
16 
marzo 
2017, 
n. 
30, 
del 
codice 
della 
protezione 
civile 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
2 
gennaio 2018, n. 1. 
una 
prima 
rilevante 
novità 
del 
codice 
della 
protezione 
civile 
è 
l’espresso 
riconoscimento dei 
principi 
di 
leale 
collaborazione 
e 
di 
sussidiarietà 
tra 
i 
vari 
livelli 
di 
governo nell’esercizio delle 
funzioni 
di 
protezione 
civile 
(12). Altra 
novità 
di 
rilievo è 
riscontrabile 
all’art. 16 cod. prot. civ., ove 
sono indicati 
in 
maniera 
analitica 
le 
tipologie 
di 
rischi 
in precedenza 
ricondotte 
dall’abrogato 
art. 
2, 
l. 
n. 
225/1992 
sotto 
i 
concetti 
generici 
di 
«eventi 
naturali 
o 
connessi 
con 
l’attività 
dell’uomo» e 
di 
«calamità 
naturali, catastrofi 
o altri 
eventi» (13). In 
particolare, una 
volta 
rassegnate 
le 
attività 
storicamente 
riconducibili 
agli 
interventi 
della 
protezione 
civile 
(14), 
viene 
espressamente 
sancito 
che 
“l’azione 
del 
Servizio 
nazionale 
è 
suscettibile 
di 
esplicarsi, 
altresì, 
per 
[…] 
i 
rischi: 
chimico, 
nucleare, 
radiologico, 
tecnologico, 
industriale, 
da 
trasporti, 
ambientale, 
igienico-sanitario e 
da rientro incontrollato di 
oggetti 
e 
detriti 
spaziali” 
(art. 


(10) A 
titolo esemplificativo e 
non esaustivo, si 
fa 
riferimento a: 
d.l. 2 aprile 
1982, n. 129, convertito, 
con modificazioni, in l. 29 maggio 1982, n. 303, in materia 
di 
interventi 
in favore 
delle 
popolazioni 
colpite 
dal 
terremoto del 
21 marzo 1982 con epicentro nel 
Golfo di 
Policastro; 
d.l. 10 luglio 1982, 
n. 428, convertito, con modificazioni, in l. 12 agosto 1982, n. 428, concernente 
misure 
urgenti 
di 
protezione 
civile. Si 
segnala 
che 
nelle 
disposizioni 
citate 
la 
gestione 
delle 
emergenze 
è 
stata 
affidata 
ad un 
organo ad hoc: il Ministro per la protezione civile. 
(11) Si v. art. 1, comma 3, l. n. 225/1992. Si v., attualmente, anche art. 8, d.lgs. n. 1/2018. 
(12) Cfr. art. 1, l. n. 30/2017, il preambolo al cod. prot. civ. e l’art. 3 del medesimo codice. 
(13) L’art. 2, l. n. 225/1992 («tipologia 
degli 
eventi 
ed ambiti 
di 
competenze») è 
stato riprodotto 
all’art. 7 cod. prot. civ. («tipologia degli eventi emergenziali di protezione civile»). 
(14) ossia, quelli 
relativi 
ai 
rischi 
“sismico, vulcanico, da maremoto, idraulico, idrogeologico, 
da 
fenomeni 
meteorologici 
avversi, 
da 
deficit 
idrico 
e 
da 
incendi 
boschivi” 
(art. 
16, 
comma 
1, 
cod. 
prot. 
civ.). 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


16, comma 
2, cod. prot. civ.), con la 
specificazione 
che 
“non rientrano nel-
l’azione 
di 
protezione 
civile 
gli 
interventi 
e 
le 
opere 
per 
eventi 
programmati 


o programmabili 
in tempo utile 
che 
possono determinare 
criticità organizzative” 
(art. 16, comma 3, cod. prot. civ.). 
Anche 
in questo caso, dunque, sono confermate 
“le 
competenze 
dei 
soggetti 
ordinariamente 
individuati 
ai 
sensi 
della vigente 
normativa di 
settore 
e 
le conseguenti attività” 
(art. 16, comma 2, cit.). 


Dal 
quadro 
normativo 
fin 
qui 
ricostruito 
emerge 
che, 
attualmente, 
in 
linea 
generale, hanno potere 
in materia 
sanitaria 
il 
Ministro dell’Interno (15) 
(16), 
il 
Ministro 
della 
Salute 
(17) 
e 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
quest’ultimo 
nell’ipotesi 
in cui, in sede 
di 
deliberazione 
dello stato di 
emergenza 
di 
rilievo 
nazionale, 
decida 
di 
non 
conferire 
il 
potere 
di 
ordinanza 
di 
protezione 
civile al Capo del relativo dipartimento (18). 


nonostante 
l’intervenuto esercizio dei 
poteri 
di 
protezione 
civile 
(19), si 
è 
deciso, comunque, di 
introdurre 
una 
disciplina 
ad hoc 
per far fronte 
alla 
diffusione 
del virus SARS-CoV-2 (20). 


Con 
d.l. 
23 
febbraio 
2020, 
n. 
6, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
in 
l. 
5 
marzo 
2020, 
n. 
13, 
è 
stato 
attribuito 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
il 
potere 
di 
emanare 
“uno 
o 
più 
decreti 
[…] 
su 
proposta 
del 
ministro 
della 
salute, 
sentito 
il 
ministro 
dell’interno, 
il 
ministro 
della 
difesa, 
il 
ministro 
dell’economia 
e 
delle 
finanze 
e 
gli 
altri 
ministri 
competenti 
per 
materia, 
nonché 
i 
Presidenti 
delle 
regioni 
competenti, 
nel 
caso 
in 
cui 
riguardino 
esclusivamente 
una 
sola 
regione 
o 
alcune 
specifiche 
regioni, 
ovvero 
il 
Presidente 
della 
Conferenza 
dei 
presidenti 
delle 
regioni, 
nel 
caso 
in 
cui 
riguardino 
il 
territorio 
nazionale” 


(15) 
Art. 
261, 
l. 
n. 
1265/1934: 
“il 
ministro 
per 
l’interno, 
quando 
si 
sviluppi 
nel 
regno 
una 
malattia 
infettiva a carattere 
epidemico, può emettere 
ordinanze 
speciali 
per 
la visita e 
disinfezione 
delle 
case, 
per 
l’organizzazione 
di 
servizi 
e 
soccorsi 
medici 
e 
per 
le 
misure 
cautelari 
da 
adottare 
contro 
la 
diffusione della malattia stessa”. 
(16) Contra, si v. nota 3. 
(17) Art. 32, l. n. 833/1978: 
“il 
ministro della sanità può emettere 
ordinanze 
di 
carattere 
contingibile 
e 
urgente, in materia di 
igiene 
e 
sanità pubblica e 
di 
polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero 
territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni”. 
(18) Art. 5 cod. prot. civ.: 
“il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri, per 
il 
conseguimento delle 
finalità 
del 
Servizio nazionale, detiene 
i 
poteri 
di 
ordinanza in materia di 
protezione 
civile, che 
può esercitare, 
salvo che 
sia diversamente 
stabilito con la deliberazione 
di 
cui 
all’articolo 24, per 
il 
tramite 
del 
Capo del Dipartimento della protezione civile”. 
(19) 
Si 
fa 
riferimento 
alla 
«Dichiarazione 
dello 
stato 
di 
emergenza 
in 
conseguenza 
del 
rischio 
sanitario 
connesso 
all’insorgenza 
di 
patologie 
derivanti 
da 
agenti 
virali 
trasmissibili» 
di 
cui 
alla 
delibera 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
del 
31 
gennaio 
2020 
(in 
Gazz. 
Uff., 
serie 
generale, 
n. 
26 
dell’1 
febbraio 
2020) 
e 
alla 
«Proroga dello stato di 
emergenza in conseguenza del 
rischio sanitario connesso all’insorgenza 
di 
patologie 
derivanti 
da agenti 
virali 
trasmissibili» di 
cui 
alla 
delibera 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
29 luglio 2020 (in Gazz. Uff., serie generale, n. 190 del 30 luglio 2020). 
(20) 
Sulla 
specialità 
delle 
disposizioni 
in 
materia 
di 
contenimento 
dell’emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19, cfr. t.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, decr. 27 agosto 2020, n. 842, in www.giustizia-amministrativa.
it. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


(art. 
3, 
comma 
1, 
d.l. 
n. 
6/2020), 
al 
fine 
di 
adottare 
una 
o 
più 
misure 
di 
contenimento 
dell’epidemia 
indicate 
dall’art. 
1, 
comma 
2, 
dello 
stesso 
decreto. 


Lo stesso d.l., inoltre, fa 
salvo il 
potere 
di 
ordinanza 
di 
cui 
all’art. 32, l. 


n. 
833/1978 
del 
Ministro 
della 
Salute, 
da 
utilizzare, 
tuttavia, 
in 
via 
sussidiaria, 
“nelle 
more 
dell’adozione 
dei 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri” 
(art. 3, comma 2, d.l. n. 6/2020). 


Le 
disposizioni 
su 
indicate 
sono 
state 
riprodotte, 
con 
correttivi 
volti 
alla 
riconduzione 
a 
legittimità 
costituzionale 
delle 
relative 
norme 
(21), 
nel 
d.l. 
25 
marzo 
2020, 
n. 
19, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
in 
l. 
22 
maggio 
2020, 
n. 
35 
(22). 


3. il rapporto fra lo Stato e le regioni. 
La 
previsione 
di 
misure 
di 
contenimento 
e 
di 
contrasto 
alla 
diffusione 
del 
virus 
SARS-CoV-2, da 
applicare 
uniformemente 
“su specifiche 
parti 
del 
territorio 
nazionale 
e, all’occorrenza, sulla totalità di 
esso” 
(23), ha 
costituito 
la 
principale 
risorsa 
nella 
lotta 
all’emergenza 
epidemiologica 
e 
ha 
trovato 
giustificazione 
nei 
principi 
che 
presidiano 
la 
ripartizione 
dei 
compiti 
amministrativi 
fra i diversi livelli di governo. 


3.1. (segue) 
La sussidiarietà amministrativa. 
La 
distribuzione 
delle 
funzioni 
amministrative 
fra 
i 
diversi 
livelli 
di 
governo 
risponde 
al 
principio di 
sussidiarietà 
(24), menzionato nei 
trattati 
europei 
(25) 
e 
recepito 
nella 
Costituzione 
all’art. 
118 
con 
l. 
costituzionale 
18 
ottobre 
2001, 
n. 
3, 
recante 
“modifiche 
al 
titolo 
V 
della 
parte 
seconda 
della 
Costituzione”. 


Prima 
della 
modifica 
del 
titolo V 
della 
Costituzione, le 
funzioni 
amministrative 
erano allocate 
secondo il 
principio del 
parallelismo della 
funzione 
legislativa 
e 
amministrativa. tale 
principio, di 
matrice 
pretoria, rispondeva 
alla 
regola 
generale 
secondo cui, rispetto ad un ambito materiale 
prefissato dalla 
Costituzione, alla 
titolarità 
della 
funzione 
legislativa 
si 
accompagnava 
la 
tito


(21) 
Sui 
dubbi 
di 
costituzionalità 
del 
d.l. 
n. 
6/2020, 
si 
v. 
S. 
CASSeSe, 
La 
pandemia 
non 
è 
una 
guerra. i pieni 
poteri 
al 
governo non sono legittimi, in il 
Dubbio, 14 aprile 
2020; 
G.L. GAttA, Corona-
virus, limitazione 
di 
diritti 
e 
libertà fondamentali, e 
diritto penale: un deficit 
di 
legalità da rimediare, 
in www.sistemapenale.it, 2020. 
(22) In argomento, G.L. GAttA, Un rinnovato assetto del 
diritto dell’emergenza CoViD-19, più 
aderente 
ai 
principi 
costituzionali, e 
un nuovo approccio al 
problema sanzionatorio: luci 
ed ombre 
nel 
d.l. 25 marzo 2020, n. 19, in www.sistemapenale.it, 2020. 
(23) Cfr. art. 1, comma 1, d.l. 25 marzo 2020, n. 19. 
(24) Ci 
si 
riferisce 
al 
principio di 
sussidiarietà 
verticale 
e 
non anche 
a 
quello di 
sussidiarietà 
orizzontale. 
(25) trattato u.e. di 
Maastricht 
del 
7 febbraio 1992: 
cfr., in part., art. 3b, che 
ha 
formalmente 
riconosciuto 
a 
livello 
comunitario 
il 
principio 
di 
sussidiarietà. 
Sull’evoluzione 
del 
principio 
di 
sussidiarietà 
nel 
contesto europeo, v. S. PAPA, La sussidiarietà alla prova: i 
poteri 
sostitutivi 
nel 
nuovo ordinamento 
costituzionale, 2008, Giuffrè; 
ID., Sussidiarietà, primazia comunitaria e 
sovranismo, 2019, in www.federalismi.
it, rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


larità 
della 
funzione 
amministrativa, 
sicché 
alla 
competenza 
di 
emanare 
le 
leggi 
corrispondeva 
la 
competenza 
a 
garantire 
la 
loro 
esecuzione 
attraverso 
l’adozione di atti amministrativi (26). 


tale 
ricostruzione 
trovava 
fondamento normativo nella 
lettura 
congiunta 
degli 
artt. 
117 
e 
118 
Cost. 
ante 
riforma, 
da 
cui 
emergeva 
come 
l’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa 
fosse 
prerogativa 
delle 
Regioni 
e 
strettamente 
correlato 
alla 
competenza 
delle 
medesime 
di 
adottare, per le 
materie 
riportate 
nel-
l’art. 117 (27), “norme 
legislative 
nei 
limiti 
dei 
principi 
fondamentali 
stabiliti 
dalle leggi dello Stato”. 

La 
titolarità 
generale 
delle 
competenze 
amministrative 
in capo alle 
Regioni 
incontrava, 
tuttavia, 
due 
correttivi 
a 
vantaggio 
degli 
altri 
enti 
territoriali. 

Per un verso, si 
riconosceva 
al 
Parlamento un’ampia 
discrezionalità 
nel-
l’individuazione 
degli 
«interessi 
esclusivamente 
locali» da 
affidare 
alla 
cura 
di 
Province 
e 
Comuni 
e, 
per 
altro 
verso, 
si 
richiedeva 
alle 
Regioni 
di 
esercitare 
«normalmente» la 
funzione 
amministrativa 
nel 
senso della 
delegazione 
in favore 
delle realtà istituzionali di livello immediatamente inferiore (28). 

Come 
accennato, 
con 
la 
revisione, 
nel 
2001, 
del 
titolo 
V 
della 
Costituzione 
sono state 
riordinate 
le 
competenze 
amministrative 
secondo il 
principio 
di 
sussidiarietà, recepito, unitamente 
ai 
corollari 
di 
adeguatezza 
e 
differenziazione 
(29), al comma 1 dell’art. 118 Cost. (30). 


Alla 
stregua 
del 
principio in discorso si 
delinea 
un sistema 
per cui, nella 
ripartizione 
dei 
compiti 
amministrativi, il 
Comune, quale 
livello di 
governo 
più vicino ai 
cittadini, e, come 
tale, più adeguato a 
rispondere 
alle 
esigenze 
della 
collettività 
amministrata, 
viene 
preferito 
nella 
titolarità 
ed 
esercizio 
delle 
funzioni 
amministrative 
agli 
organismi 
di 
livello superiore, cui 
si 
impone 
di 
intervenire 
solo 
se 
e 
nella 
misura 
in 
cui 
le 
finalità 
dell’azione 
prevista 
non 
possano 
essere 
sufficientemente 
realizzate 
a 
livello 
comunale 
(31) 
(32). 
In 
altri 


(26) Sul 
parallelismo delle 
funzioni, si 
v. M. CLARICH, manuale 
di 
diritto amministrativo, Quarta 
edizione, 2013, Il 
Mulino; 
si 
v. anche 
V. LoPILAto, Le 
funzioni 
amministrative, in il 
diritto amministrativo 
dopo le 
riforme 
costituzionali, a 
cura 
di 
G. CoRSo 
e 
V. LoPILAto, 2006, Giuffrè 
e 
M. PICCHI, L’autonomia 
amministrativa delle regioni, 2005, Giuffrè. 
(27) Sul 
carattere 
tassativo delle 
attribuzioni 
amministrative 
regionali, si 
v. Corte 
Cost., 23 luglio 
1974, n. 250 (in materia 
di 
assistenza 
scolastica); 
id., 20 maggio 1976, n. 126 (in materia 
di 
assistenza 
sociale). 
(28) 
Sulle 
deroghe 
al 
principio 
del 
parallelismo, 
per 
approfondimenti, 
si 
v. 
L. 
MACCARRone, 
Profili 
di riforma e controriforma nell’assetto delle funzioni amministrative locali, 2013, Giappichelli. 
(29) Per una 
puntuale 
descrizione 
dei 
criteri 
di 
adeguatezza 
e 
differenziazione, v. b.G. MAttA-
ReLLA, Lezioni 
di 
diritto amministrativo, 2018, Giappichelli; 
A. D’AtenA, Diritto regionale, Seconda 
edizione, 2013, Giappichelli. 
(30) Il 
principio di 
sussidiarietà 
quale 
criterio generale 
di 
riparto nell’allocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
è 
stato 
introdotto 
nell’ordinamento 
italiano, 
a 
livello 
di 
normazione 
primaria, 
dalla 
legge 
15 marzo 1997, n. 59 (c.d. Legge bassanini I). 
(31) In tal 
senso, S. CASSeSe, 
il 
diritto amministrativo e 
i 
suoi 
principi, in istituzioni 
di 
diritto 
amministrativo, a cura di S. CASSeSe, 2015, Giuffrè. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


termini, 
con 
la 
riforma 
del 
2001 
s’introduce 
un 
sistema 
basato 
sulla 
regola 
della 
generale 
preferenza 
dell’ente 
comunale, rispetto alla 
quale 
ogni 
diversa 
soluzione 
allocativa 
assume 
il 
carattere 
dell’eccezionalità, 
da 
giustificare 
in 
base ai criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (33). 


La 
ripartizione 
dei 
compiti 
amministrativi, 
così 
come 
tratteggiata 
nel 
primo 
comma 
dell’art. 
118 
Cost., 
non 
risulta 
più 
rispondente 
alla 
necessaria 
correlazione 
fra 
esercizio 
delle 
competenze 
legislative 
ed 
amministrative, 
propria 
del 
sistema 
previgente 
(34). 
Lo 
Stato 
e 
le 
Regioni, 
infatti, 
quali 
enti 
deputati 
alla 
produzione 
normativa, 
non 
risultano 
titolari 
di 
una 
“diretta 
e 
tendenzialmente 
statica 
attribuzione 
delle 
funzioni 
amministrative” 
(35), 
ma 
competenti 
in 
relazione 
alla 
loro 
allocazione. 
Depone 
in 
tal 
senso 
il 
dettato 
normativo 
di 
cui 
all’art. 
118, 
comma 
2, 
Cost., 
secondo 
cui 
lo 
Stato 
e 
le 
Regioni 
procedono 
con 
legge 
a 
regolamentare, 
ciascuno 
con 
riguardo 
al 
proprio 
ambito 
di 
competenza, 
l’esercizio 
delle 
funzioni 
amministrative, 
ovverosia 
ad 
individuare 
il 
livello 
territoriale 
preposto 
allo 
svolgimento 
dei 
compiti 
amministrativi. 


Più specificatamente, il 
riformato art. 118 prevede 
che 
il 
legislatore 
ordinario 
determini 
con legge 
statale 
o regionale, a 
seconda 
che 
la 
materia 
da 
regolamentare 
in 
via 
amministrativa 
ricada 
nella 
potestà 
legislativa 
esclusiva 
dello 
Stato, 
concorrente 
dello 
Stato 
e 
delle 
Regioni 
o 
residuale 
regionale, 
l’ente 
territoriale 
di 
governo all’uopo competente 
(comma 
2), con l’onere 
di 
“considerare 
come 
prima 
ipotesi 
la 
titolarità 
comunale, 
ed 
accedere 
ad 
una 
diversa 
collocazione 
ove 
risulti 
negativo per 
i 
Comuni 
il 
test 
condotto sulla base 
dei 
criteri 
enunciati 
dalla norma” 
(36). ne 
consegue 
che 
nella 
dimensione 
del-
l’azione 
amministrativa 
il 
principio 
di 
sussidiarietà 
“presenta 
una 
valenza 
giuridica 
supportata 
dal 
principio 
di 
legalità”, 
sicché 
“occorre 
una 
legge 
statale 
di 
conferimento delle 
funzioni 
amministrative 
dello Stato alle 
regioni 
ed una 
legge 
della 
regione 
per 
il 
conferimento 
di 
relative 
funzioni 
amministrative 
agli enti infraregionali” 
(37) 
(38). 


(32) 
La 
sussidiarietà 
“termine 
che 
nasce 
fuori 
dall’ambito 
giuridico, 
nella 
dimensione 
sociale 
[…] 
reca come 
significato il 
riferimento ad una operazione 
di 
ausilio, aiuto, sostituzione 
di 
un soggetto 
(sussidiante) rispetto ad un altro (sussidiato)” 
(così 
D. D’ALeSSAnDRo, il 
riparto costituzionale 
delle 
funzioni 
amministrative, 
in 
Diritto 
regionale 
e 
degli 
enti 
locali, 
II 
ed., 
a 
cura 
di 
S. 
GAMbIno, 
2009, 
Giuffrè). 
(33) In tal 
senso, b.G. MAttAReLLA, La riforma del 
titolo V: bilancio e 
prospettive, in Giorn. dir. 
amm., 2015, 6, 731. 
(34) Si 
assiste, in altri 
termini, al 
superamento del 
principio del 
parallelismo delle 
funzioni. Al 
riguardo, 
A. D’AtenA, in Diritto regionale, op. cit., pag. 192, osserva 
che 
“L’abbandono di 
questo principio 
trova la sua espressione 
più eloquente 
nella circostanza che, mentre 
la legislazione 
è 
di 
spettanza 
dello Stato e 
delle 
regioni, le 
funzioni 
amministrative 
sono, in principio, attribuite 
ai 
Comuni, i 
quali, 
in base 
alla nuova disciplina, sono titolari 
di 
una competenza amministrativa residuale 
(analoga alla 
competenza legislativa residuale attribuita alle regioni)”. 
(35) Così 
V. LoPILAto, manuale, 
cit., 233. 
(36) Così S. bARtoLe, R. bIn, G. FALCon 
e R. toSI, Diritto regionale, 2005, Il Mulino. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


3.2. 
(segue) 
La sussidiarietà legislativa. 
Sebbene 
il 
nuovo 
assetto 
costituzionale 
abbia 
delineato 
un 
sistema 
di 
funzioni 
mobili 
e 
posto i 
criteri 
per la 
loro migrazione, l’effettiva 
distribuzione 
delle 
funzioni 
amministrative 
fra 
i 
diversi 
livelli 
di 
governo ha 
nella 
pratica 
incontrato non poche 
difficoltà, in gran parte 
riferibili 
all’individuazione 
dei 
soggetti 
legittimati 
ad 
allocare 
le 
funzioni 
nelle 
materie 
in 
cui 
sussiste 
la 
competenza 
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni. 


In relazione 
alla 
previsione 
normativa 
di 
cui 
all’art. 117, comma 
3, Cost. 
e, 
dunque, 
all’ambito 
materiale 
ricadente 
nella 
potestà 
legislativa 
concorrente, 
si 
sono posti 
due 
interrogativi: 
i) 
chi, fra 
lo Stato e 
le 
Regioni, sia 
competente 
ad allocare 
le 
funzioni 
amministrative 
fra 
i 
diversi 
livelli 
di 
governo e 
ii) 
chi, 
fra 
lo 
Stato 
e 
le 
Regioni, 
sia 
deputato 
a 
regolamentarne 
l’esercizio 
in 
presenza 
di esigenze di carattere unitario. 

Dirimente, sul punto, l’intervento della Corte Costituzionale. 


Quanto al 
primo dei 
su indicati 
quesiti, la 
giurisprudenza 
costituzionale 
ha 
sostenuto 
che 
“in 
tali 
materie 
il 
legislatore 
statale 
debba 
limitarsi 
a 
fissare 
norme 
sulla allocazione 
e 
non norme 
di 
allocazione 
delle 
funzioni, non spettando, 
di 
regola, al 
legislatore 
statale 
la puntuale 
distribuzione 
delle 
funzioni 
amministrative” 
(39). 

In 
tale 
direzione, 
si 
richiama 
la 
sentenza 
28 
gennaio 
2005, 
n. 
50 
(40), 
con 
la 
quale 
la 
Consulta 
ha 
valorizzato 
il 
ruolo 
dell’ente 
regionale 
nel 
procedimento 
di 
allocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
per le 
materie 
di 
legislazione 
concorrente, 
ammettendo 
la 
possibilità 
per 
la 
Regione, 
quale 
ente 
territoriale 
all’uopo competente, di 
disattendere 
le 
previsioni 
statali 
«di 
dettaglio
» 
(41) 
e 
addivenire, 
con 
propria 
disciplina, 
ad 
una 
diversa 
allocazione 
delle 
funzioni amministrative. 


(37) Così 
R. DICkMAnn, Sussidiarietà e 
potere 
sostitutivo. osservazioni 
in occasione 
di 
una recente 
pronuncia del 
Consiglio di 
Stato (ad. Gen. n. 2 del 
2002), in Foro amministrativo CdS, 3, 2002, 
849. 
(38) La 
stessa 
Corte 
Costituzionale 
ha 
confermato, a 
più riprese, la 
previsione 
di 
riserva 
di 
legge 
per l’allocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
fra 
i 
diversi 
livelli 
territoriali 
di 
governo: 
ex 
multis, v. 
sent. 29 ottobre 
2003, n. 324 e 
11 giugno 2004, n. 172, entrambe 
in www.cortecostituzionale.it, ove 
si 
legge 
che: 
“la concreta allocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
ai 
vari 
livelli 
di 
governo non può prescindere 
da 
un 
intervento 
legislativo 
(statale 
o 
regionale, 
a 
seconda 
della 
ripartizione 
della 
competenza 
legislativa in materia), che 
deve, di 
volta in volta, manifestare 
la prevalenza del 
criterio generale 
di 
allocazione 
al 
livello comunale 
ovvero la necessaria preminente 
considerazione 
di 
esigenze 
unitarie 
che 
impongono una allocazione diversa”. 
(39) Così 
C. nAPoLI, Le 
funzioni 
amministrative 
nel 
Titolo V 
della Costituzione, Contributo allo 
studio dell’art. 118, primo e secondo comma, 2011, Giappichelli, ove ulteriori riferimenti dottrinali. 
(40) In www.cortecostituzionale.it. 
(41) L’intervento normativo «di 
dettaglio» dello Stato nella 
dislocazione 
dei 
compiti 
amministrativi 
per 
le 
materie 
di 
legislazione 
concorrente 
viene 
giustificato 
alla 
stregua 
del 
suo 
carattere 
provvisorio 
(rectius: 
transitorio). Per approfondimenti, v. S. MuSoLIno, i rapporti 
Stato-regioni 
nel 
nuovo titolo V: 
alla luce dell’interpretazione della Corte costituzionale, 2007, Giuffrè. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


La 
soluzione 
al 
secondo 
dei 
su 
indicati 
quesiti 
viene, 
invece, 
offerta 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
con la 
storica 
sentenza 
1 ottobre 
2003, n. 303 (42), con 
la 
quale 
la 
Consulta 
ha 
legittimato lo Stato a 
regolamentare 
con legge 
l’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa 
per 
le 
materie 
ricadenti 
nelle 
ipotesi 
di 
potestà 
legislativa 
concorrente 
alla 
stregua 
della 
c.d. 
«chiamata 
in 
sussidiarietà», 
nota anche con il nome di «attrazione in sussidiarietà» (43). 


Muovendo 
dalla 
previsione 
normativa 
di 
cui 
al 
primo 
comma 
dell’art. 
118 
Cost. 
e, 
segnatamente, 
dalla 
natura 
dinamica 
del 
principio 
di 
sussidiarietà, 
che, 
come 
supra 
evidenziato, 
giustifica 
lo 
spostamento 
verso 
l’alto 
delle 
competenze 
amministrative 
in 
presenza 
di 
esigenze 
di 
carattere 
unitario 
(44), 
la 
Consulta 
ha 
attribuito allo Stato, unitamente 
alla 
titolarità 
ed esercizio della 
funzione 
amministrativa, 
anche 
il 
potere 
di 
regolamentare 
con 
legge 
l’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa 
attratta, a 
livello centrale, per effetto del 
moto 
ascendente 
del 
principio 
di 
sussidiarietà, 
ovverosia 
il 
potere 
di 
introdurre 
norme 
di 
dettaglio in punto di 
allocazione 
delle 
competenze 
amministrative 
per le 
materie 
di 
cui 
al 
comma 
3 dell’art. 117 Cost. (45). tanto sul 
rilievo che, 
per consentire 
l’esercizio centralizzato, “non basta che 
la funzione 
venga attratta 
a livello superiore; è 
altresì 
necessario una disciplina uniforme 
che 
regoli 
le modalità di esercizio della funzione attratta” 
(46) 
(47). 


(42) 
Sulla 
quale, 
ex 
pluribus, 
A. 
D’AtenA, 
L’allocazione 
delle 
funzioni 
amministrative 
in 
una 
sentenza 
ortopedica 
della 
Corte 
Costituzionale 
e 
Q. 
CAMeRLenGo, 
Dall’amministrazione 
alla 
legge, 
seguendo 
il 
principio di 
sussidiarietà. riflessioni 
in merito alla sentenza n. 303 del 
2003 della Corte 
costituzionale, 
entrambe 
reperibili 
in 
www.forumcostituzionale.it; 
si 
v. 
anche 
R. 
DICkMAn, 
La 
Corte 
costituzionale 
attua 
(ed 
integra) 
il 
titolo 
V 
(osservazioni 
a 
Corte 
Cost., 
1° 
ottobre 
2003, 
n. 
303), 
in 
www.federalismi.it, secondo cui 
“la più importante 
rivoluzionaria affermazione 
contenuta in tale 
sentenza 
è 
che 
il 
conferimento legislativo di 
funzioni 
amministrative, finora avvenuto solo verso il 
basso a 
partire 
dalla 
legge 
15 
marzo 
1997, 
n. 
59, 
possa 
disporsi 
anche 
verso 
l’alto 
(attraendo 
temporaneamente 
allo Stato funzioni 
già conferite 
o di 
spettanza di 
regioni 
o province 
autonome) se 
ciò corrisponda all’esigenza 
di garantire il rispetto delle istanze unitarie”. 
(43) Sulla 
scorta 
del 
principio di 
sussidiarietà, e, più specificatamente, del 
c.d. moto ascendente 
della 
sussidiarietà, 
in 
combinato 
disposto 
con 
il 
principio 
di 
legalità, 
la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
elaborato 
l’istituto 
della 
chiamata 
in 
sussidiarietà, 
quale 
espediente 
per 
il 
superamento 
del 
rigido 
schema 
di 
riparto 
legislativo 
delineato 
dall’art. 
117 
Cost. 
a 
seguito 
della 
modifica 
del 
titolo 
V 
della 
Costituzione. 
Sul-
l’operatività 
della 
chiamata 
in 
sussidiarietà 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale, 
v. 
Senato 
della 
Repubblica, Servizio Studi, La giurisprudenza costituzionale 
sulla novella del 
Titolo V 
di 
F. MAR-
CeLLI 
e 
V. GIAMMuSSo, Quaderni di documentazione 
n. 44/2006, in www.senato.it. 
(44) Sulla 
giustiziabilità 
del 
principio di 
sussidiarietà, v. G. SCACCIA, Note 
sull’avocazione 
delle 
competenze 
in sussidiarietà, in Giur. cost., 2, 2008, 1555 e 
L.P. VAnonI, Fra Stato e 
Unione 
Europea: 
il 
principio di 
sussidiarietà sotto esame 
della Corte 
costituzionale 
e 
della Corte 
di 
giustizia, in riv. it. 
dir. pubbl. comp., 6, 2004, 1457. 
(45) 
Sull’attrazione 
in 
sussidiarietà 
delle 
materie 
di 
competenza 
legislativa 
residuale, 
per 
un 
primo 
riconoscimento, si v. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 6, in www.cortecostituzionale.it 
(46) Così 
R. CHIePPA 
e 
V. LoPILAto, Studi 
di 
diritto amministrativo, 2007, Giuffrè. In senso conforme, 
Q. CAMeRLenGo, Nota a sentenza Corte 
costituzionale 
13 gennaio 2004, n. 6, in riv. giur. edilizia, 
3, 2004, 793, secondo cui 
“allorquando, al 
di 
fuori 
delle 
materie 
di 
competenza esclusiva statale, 
i 
canoni 
generali 
della sussidiarietà, adeguatezza e 
differenziazione 
determinano il 
conferimento delle 
funzioni 
amministrative 
alle 
autorità statali, la cornice 
normativa di 
origine 
regionale 
non è 
più suffi

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


3.3. (segue) 
La sussidiarietà nella gestione dell’emergenza. 
nel 
regolamentare 
l’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa 
nel 
corso 
dell’emergenza 
epidemiologica 
derivante 
dalla 
diffusione 
del 
Coronavirus, 
i 


d.l. 
n. 
6/2020 
e 
n. 
19/2020, 
prima, 
e 
il 
d.l. 
n. 
33/2020, 
dopo, 
hanno 
attribuito 
al 
Governo 
centrale 
la 
competenza 
ad 
adottare 
misure 
di 
contenimento 
e 
di 
contrasto 
ai 
rischi 
sanitari 
derivanti 
dalla 
diffusione 
del 
virus. 
Segnatamente, 
i 
provvedimenti 
normativi 
ora 
richiamati 
nell’affermare 
la 
generale 
competenza 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
nella 
previsione 
delle 
su 
indicate 
misure 
precauzionali 
(48), 
adottate 
secondo 
schemi 
procedurali 
predeterminati 
(49) 
e 
applicabili, 
all’occorrenza, 
sull’intero 
territorio 
nazionale, 
hanno 
configurato 
la 
centralità 
dello 
Stato 
nella 
lotta 
all’emergenza 
sanitaria 
(50). 
tale 
ruolo centrale 
ha 
trovato giustificazione 
nei 
principi 
che 
presidiano 
la 
ripartizione 
dei 
compiti 
amministrativi 
fra 
lo Stato e 
gli 
enti 
territoriali 
sub-
statali, secondo i 
quali 
le 
funzioni 
amministrative 
possono essere 
allocate 
in 
favore 
di 
un livello di 
governo diverso da 
quello più prossimo ai 
cittadini 
in 
presenza 
di 
esigenze 
di 
carattere 
unitario 
che 
ne 
legittimino 
lo 
spostamento 
verso l’alto. 

La 
peculiarità 
del 
quadro emergenziale 
delineato dal 
Coronavirus, ovverosia 
il 
carattere 
internazionale 
della 
pandemia, il 
rapido e 
massiccio diffondersi 
del 
contagio, 
il 
necessario 
contemperamento 
di 
diversi 
valori 
costituzionali 
(dalla 
tutela 
del 
bene 
primario 
della 
salute 
alla 
salvaguardia 
dell’interesse 
pubblico alla 
tenuta 
dei 
bilanci), ha 
infatti 
legittimato l’accentramento 
al 
livello amministrativo unitario delle 
competenze 
atte 
ad arginare 
l’emergenza. 


ciente 
ed anzi, per 
certi 
versi, non ha più ragion d’essere. il 
principio di 
legalità esige 
che 
ogni 
manifestazione 
dell'azione 
amministrativa sia disciplinata da una fonte 
primaria. Tale 
condizione 
di 
legittimità 
permane 
anche 
allorché 
il 
potere 
amministrativo passi 
allo Stato. ma la legge 
regionale 
non può 
garantire 
razionalmente 
il 
soddisfacimento di 
tale 
condizione 
in quanto, per 
evidenti 
motivi, l’amministrazione 
statale non potrebbe operare applicando diversificate discipline legislative regionali”. 


(47) Sulla 
idoneità 
della 
fonte 
statale 
a 
dettare 
una 
disciplina 
uniforme 
circa 
l’esercizio della 
funzione 
amministrativa 
attratta, 
è 
sufficiente 
richiamare 
il 
Considerato 
in 
diritto 
n. 
2.1 
della 
sentenza 
citata 
nel 
testo 
in 
argomento, 
secondo 
cui: 
“Ciò 
non 
può 
restare 
senza 
conseguenze 
sull'esercizio 
della 
funzione 
legislativa, giacché 
il 
principio di 
legalità, il 
quale 
impone 
che 
anche 
le 
funzioni 
assunte 
per 
sussidiarietà 
siano 
organizzate 
e 
regolate 
dalla 
legge, 
conduce 
logicamente 
ad 
escludere 
che 
le 
singole 
regioni, 
con discipline 
differenziate, possano organizzare 
e 
regolare 
funzioni 
amministrative 
attratte 
a livello 
nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”. 
(48) Le 
misure 
precauzionali 
sono tassativamente 
elencate 
al 
comma 
2 dell’art. 1, d.l. n. 19/2020 
e all’art. 1, d.l. n. 33/2020. 
(49) 
Le 
modalità 
di 
adozione 
delle 
misure 
precauzionali 
sono 
descritte 
al 
comma 
1 
dell’art. 
2, 
d.l. 
n. 19/2020, cui l’art. 1, d.l. n. 33/2020 fa espresso rinvio. 
(50) Sulla 
sovranità 
dello Stato al 
tempo del 
Coronavirus, v. F. FRACCHIA, Coronavirus, senso del 
limite, deglobalizzazione 
e 
diritto amministrativo: nulla sarà più come 
prima? Diritto e 
emergenza sanitaria, 
in www.ildirittodelleconomia.it. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


In disparte 
al 
merito delle 
misure 
precauzionali 
concretamente 
adottate, 
il 
potere 
governativo di 
introdurre 
misure 
di 
contenimento e 
di 
contrasto alla 
diffusione 
del 
virus 
ha 
trovato altresì 
avallo nelle 
disposizioni 
costituzionali 
inerenti 
all’esercizio della 
funzione 
legislativa 
e, in particolare, nell’art. 117 
Cost., che, nel 
ripartire 
la 
competenza 
legislativa 
fra 
lo Stato e 
le 
Regioni, riconduce 
alla 
competenza 
esclusiva 
dello Stato la 
materia 
della 
“profilassi 
internazionale” 
e 
alla 
competenza 
concorrente 
dello 
Stato 
e 
delle 
Regioni 
la 
materia della 
“tutela della salute” 
e della 
“protezione civile” 
(51). 


Come 
già 
osservato, la 
circostanza 
che 
gli 
ambiti 
della 
tutela 
della 
salute 
e 
della 
protezione 
civile 
appartengano 
alla 
competenza 
legislativa 
di 
tipo 
concorrente 
non 
esclude 
ex 
se 
la 
possibilità 
per 
lo 
Stato 
di 
introdurre 
norme 
di 
dettaglio e, quindi, di 
intervenire 
attivamente 
nella 
regolazione 
dell’esercizio 
delle 
funzioni 
amministrative. Invero, lo Stato, che, in presenza 
di 
esigenze 
di 
carattere 
unitario, abbia 
attratto in sussidiarietà 
una 
data 
competenza 
amministrativa, 
diviene 
al 
contempo competente 
in relazione 
all’esercizio della 
corrispondente 
funzione 
legislativa, di 
modo da 
garantire 
l’uniforme 
applicazione 
della funzione amministrativa attratta (52). 

non sembra, infatti, contestabile 
che 
affidare 
alla 
normativa 
statale 
la 
regolamentazione 
dell’esercizio 
della 
funzione 
amministrativa 
abbia 
scongiurato 
il 
proliferare 
di 
interventi 
normativi 
locali 
disomogenei, 
assicurando 
l’efficacia 
dell’azione 
pubblica 
nella 
lotta 
all’emergenza 
epidemiologica 
e 
la 
certezza 
nei 
rapporti giuridici (53). 

Del 
resto, il 
sistema 
normativo delineato dai 
sopra 
citati 
decreti, auspicando 
una 
cooperazione 
fra 
Stato 
e 
autonomie 
territoriali, 
capace 
di 
meglio 
arginare 
i 
rischi 
sanitari 
derivanti 
dalla 
diffusione 
del 
virus 
e 
assicurare 
l’uniformità 
della 
tutela 
sul 
piano amministrativo, ha 
proceduto a 
regolamentare 
l’ingerenza 
degli 
enti 
territoriali 
sub-statali 
nella 
dimensione 
emergenziale, 


(51) Sul 
punto, si 
segnala 
la 
riflessione 
di 
t. ePIDenDIo, il 
diritto nello “stato di 
eccezione” 
ai 
tempi 
dell’epidemia da Coronavirus, secondo cui: 
“la normazione 
emergenziale 
trova sì 
la sua causa 
legittimante 
in una situazione 
extra-giuridica di 
emergenza, che 
giustifica, sotto il 
profilo della ragionevolezza 
e 
della 
accettabilità 
politica, 
una 
disciplina 
di 
particolare 
rigore 
che, 
tuttavia, 
non 
attribuisce 
poteri 
extra-ordinem, nel 
senso di 
poteri 
attribuiti 
a soggetti 
che 
normalmente 
ne 
sono privi 
e 
rispetto 
a quali non è possibile alcun controllo sul loro esercizio”, in www.giustiziainsieme.it. 
(52) Si 
v., t.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 9 maggio 2020, n. 841, in www.giustizia-amministrativa.
it.: 
tale 
decisione 
è 
stata 
emessa 
a 
definizione 
del 
giudizio 
avente 
ad 
oggetto 
l’annullamento 
dell’ordinanza 
del 
Presidente 
della 
Regione 
Calabria 
n. 37/2020, recante, almeno in parte, misure 
precauzionali 
contrastanti 
con 
quelle 
individuate 
a 
livello 
centrale 
dal 
D.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020. 
Il 
t.A.R. 
calabrese, dopo aver richiamato l’istituto della 
chiamata 
in sussidiarietà, ha 
affermato come 
“l’avocazione 
della 
funzione 
amministrativa” 
da 
parte 
del 
Governo 
centrale 
(rectius: 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri) 
“si 
deve 
accompagnare 
all’attrazione 
della 
competenza 
legislativa 
necessaria 
alla 
sua 
disciplina”. 
(53) Cfr., art. 3, d.l. n. 19/2020, la 
cui 
finalità 
è 
evitare 
che 
l’efficacia 
delle 
misure 
statali, dirette 
a 
contenere 
la 
diffusione 
del 
virus, 
possa 
essere 
ridotta 
dalla 
compresenza 
di 
altre 
iniziative 
istituzionali 
in contrasto. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


prevedendone 
un coinvolgendo nel 
procedimento di 
definizione 
delle 
misure 
precauzionali 
(54) 
e 
ammettendone, 
entro 
limiti 
prestabiliti, 
una 
partecipazione 
attiva 
alla 
stregua 
dell’emanazione 
di 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti. Al 
riguardo, 
il 
d.l. 
n. 
33/2020, 
sul 
presupposto 
della 
necessaria 
interazione 
fra 
«centro
» 
e 
«periferia», 
ha 
riconosciuto 
agli 
enti 
regionali 
la 
possibilità 
di 
introdurre, 
limitatamente 
alle 
attività 
produttive, sociali 
ed economiche, misure 
derogatorie, 
ampliative 
e 
restrittive, rispetto a 
quelle 
individuate 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio dei Ministri 
ex 
art. 2, d.l. n. 19/2020 (55). 

4. Gli 
strumenti 
di 
attuazione 
delle 
disposizioni 
in materia di 
contenimento e 
gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. 
In ossequio ai 
principi 
su indicati, le 
disposizioni 
in materia 
di 
contenimento 
della 
diffusione 
del 
Coronavirus 
hanno 
attribuito 
un 
potere 
di 
intervento 
ai vari livelli di governo. 

4.1. 
(segue) 
i D.P.C.m. 
La 
gestione 
dell’epidemia 
da 
SARS-CoV-2, dunque, è 
stata 
affidata, in 
via 
principale, al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, al 
quale 
è 
stato conferito 
il 
potere 
di 
adottare 
specifiche 
misure 
utili 
al 
contenimento 
della 
diffusione 
del contagio. 


tali 
provvedimenti 
hanno inciso su alcune 
libertà 
fondamentali 
garantite 
al 
cittadino, come 
il 
diritto di 
circolare 
e 
soggiornare 
nel 
territorio dello Stato 
di 
cui 
all’art. 16 Cost., il 
diritto di 
riunione 
di 
cui 
all’art. 17 Cost. o, ancora, il 
diritto di 
cui 
all’art. 20 Cost. di 
professare 
la 
propria 
religione 
in forma 
associata 
e 
di 
esercitarla 
in 
quest’ultima 
forma 
tanto 
in 
luoghi 
privati 
quanto 
in 
luoghi pubblici (56). 


Lo strumento scelto per l’adozione 
a 
livello nazionale 
delle 
misure 
concrete 
di 
contenimento 
del 
contagio 
è 
quello 
del 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei Ministri (D.P.C.M.). 


In generale, non è 
rinvenibile 
nell’ordinamento una 
normativa 
precisa 
su 
tale 
tipologia 
di 
atto. Dunque, deve 
essere 
“valutata, caso per 
caso, la natura 
del 
d.p.c.m. (se 
regolamentare, atto amministrativo generale, atto di 
alta amministrazione)” 
(57). 

(54) 
Sulla 
scorta 
dei 
commi 
1 
e 
2 
dell’art. 
2, 
d.l. 
n. 
19/2020, 
le 
Regioni 
sono 
chiamate 
ad 
esprimere 
un proprio parere 
(obbligatorio e 
non vincolante) circa 
le 
misure 
di 
contenimento e 
di 
contrasto alla 
diffusione 
del virus da adottare con D.P.C.M. 
(55) tale 
norma, contenuta 
al 
comma 
14 dell’art. 1 del 
d.l. n. 33/2020, innova, almeno in parte, 
il 
sistema 
previgente, atteso che 
l’art. 3, d.l. n. 19/2020 riconosce(va) alle 
Regioni 
la 
sola 
possibilità 
di 
adottare 
misure 
derogatorie 
“ulteriormente 
restrittive” 
e, 
al 
contempo, 
preclude(va) 
loro 
di 
incidere 
sulle attività produttive. 
(56) In argomento, si 
segnala 
G.M. CAPoRALe 
e 
L. tRAPASSI, La libertà di 
esercizio di 
culto cattolico 
in italia all’epoca di 
CoViD-19. Una questione 
di 
diritto internazionale, in www.federalismi.it, 
20 maggio 2020. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


Qualora 
si 
opti 
per 
la 
sua 
natura 
regolamentare, 
il 
D.P.C.M. 
è 
ascritto 
nella 
categoria 
delle 
c.d. 
«fonti 
secondarie» 
e 
il 
suo 
fondamento 
giuridico 
viene 
ricondotto nell’art. 17, comma 
3, l. 23 agosto 1988, n. 400 (58), con la 
conseguenza 
che 
con 
tale 
tipologia 
di 
atto 
“possono 
essere 
adottati 
regolamenti 
nelle 
materie 
di 
competenza […] quando la legge 
espressamente 
conferisca 
tale potere” 
(art. 17, comma 3, cit.). 


È 
noto che 
i 
regolamenti 
costituiscono atti 
formalmente 
amministrativi, 
ma 
sostanzialmente 
normativi 
(59), in quanto le 
relative 
disposizioni 
sono caratterizzate 
dai requisiti di innovatività, astrattezza e generalità (60). 


Stante 
la 
natura 
formalmente 
amministrativa, 
in 
giurisprudenza 
è 
stato 
chiarito che 
i 
regolamenti, pur condividendone 
il 
carattere 
della 
generalità, si 
differenziano 
dai 
provvedimenti 
amministrativi 
generali, 
in 
quanto 
“quest’ultimi 
costituiscono espressione 
di 
una semplice 
potestà amministrativa e 
sono 
diretti 
alla cura concreta di 
interessi 
pubblici, con effetti 
diretti 
nei 
confronti 
di 
una pluralità di 
destinatari 
non necessariamente 
determinati 
nel 
provvedimento, 
ma determinabili. i regolamenti, invece, sono espressione 
di 
una potestà 
normativa 
attribuita 
all’amministrazione, 
secondaria 
rispetto 
alla 
potestà 
legislativa, 
e 
disciplinano 
in 
astratto 
tipi 
di 
rapporti 
giuridici 
mediante 
una 
regolazione 
attuativa 
o 
integrativa 
della 
legge, 
ma 
ugualmente 
innovativa 
rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti 
che 
presentano appunto 
i 
caratteri 
della 
generalità 
e 
dell’astrattezza, 
intesi 
essenzialmente 
come 
ripetibilità nel 
tempo dell’applicazione 
delle 
norme 
e 
non determinabilità dei 
soggetti cui si riferiscono” 
(61). 


Si 
condivide 
la 
tesi 
che 
ricostruisce 
in termini 
di 
atto amministrativo generale 
i 
decreti 
presidenziali 
che 
si 
sono susseguiti 
nella 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica 
(62), 
considerando 
che 
sono 
“1) 
[…] 
strettamente 
attuativi 
delle 
previsioni 
normative 
contenute 
nel 
decreto 
legge 
n. 
19 
del 
2020, 
in considerazione 
delle 
valutazioni 
tecnico-politiche 
conseguenti 
dall’anda


(57) o. RoSeLLI, La riforma della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri: problematiche 
inerenti 
alle fonti del diritto, in osservatorio sulle fonti 1999, Giappichelli, 1999, 54. 
(58) Cfr. C. GRISoLIA, osservazioni 
in tema di 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio a contenuto 
regolamentare, in u. De 
SIeRVo 
(a 
cura 
di), il 
potere 
regolamentare 
nell’amministrazione 
centrale, Il 
Mulino, 1992, 155 ss. Contra 
o. RoSeLLI, cit. A 
conferma 
del 
primo, invece, si 
v., ad es., il 
preambolo 
all’abrogato D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40. I D.P.C.M. ad effetti 
interni 
aventi 
ad oggetto l’organizzazione 
degli 
uffici 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
trovano, invece, espresso fondamento 
nell’art. 9, comma 
7, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303, il 
quale 
prevede, tra 
l’altro, che 
per tali 
decreti 
organizzativi 
non è applicabile 
“la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400”. 
(59) Cfr. V. LoPILAto, manuale 
cit., 64. 
(60) Cfr. F. CARInGeLLA, manuale di diritto amministrativo, 2018, Dike Giuridica editrice, 444. 
(61) Cons. St., sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 823; 
Cons. St., ad. plen., 4 maggio 2012, n. 9, entrambe 
in www.giustizia-amministrativa.it. 
(62) t.A.R. Calabria, Catanzaro, n. 841/2020, cit., ove, in relazione 
al 
D.P.C.M. 26 aprile 
2020 ma 
il 
principio è 
estendibile 
a 
tutti 
i 
decreti 
presidenziali 
emessi 
nel 
periodo emergenziale 
-si 
afferma 
che 
“non è un atto a carattere normativo, bensì un atto amministrativo generale”. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


mento epidemiologico del 
virus; 2) perché 
non innovativi 
rispetto alle 
previsioni 
dei 
decreti-legge 
che 
ne 
costituiscono il 
presupposto giuridico 
[…]; 3) 
perché 
volti 
a curare 
l’interesse 
pubblico in riferimento a fattispecie 
concrete 
e 
determinate 
e 
non a porre 
regole 
di 
comportamento destinate 
a ripetersi 
indefinitamente 
nel 
tempo; 4) soprattutto per 
l’obbligo di 
interpretazione 
costituzionalmente 
conforme, 
anche 
perché, 
diversamente, 
si 
ammetterebbe 
la 
possibilità di 
limitare 
diritti 
di 
libertà con atti 
normativi 
non dotati 
di 
forza di 
legge, 
sottratti 
ai 
presidi 
garantistici 
degli 
organi 
costituzionali 
(Parlamento, 
Presidente della repubblica, Corte costituzionale) 
(63) 
(64)” (65). 


La 
scelta 
dell’uso di 
atti 
amministrativi 
potrebbe, tuttavia, risultare 
confliggente 
con i principi fondamentali dell’ordinamento. 


Si 
osserva, al 
riguardo, che 
problemi 
sulla 
tipologia 
di 
atto da 
utilizzare 
non sorgono in ordine 
a 
quelle 
libertà 
non coperte 
da 
riserva 
di 
legge. Si 
fa 
riferimento 
al 
diritto 
di 
riunione 
o 
a 
quello 
di 
mero 
assembramento, 
quest’ultimo 
ricondotto all’art. 17 Cost. (66), o, ancora, alla 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
di 
cui 
all’art. 41 Cost., per i 
quali 
non è 
posta 
una 
riserva 
di 
legge 
in ordine 
alla 
loro 
limitazione 
(67), 
ma, 
anzi, 
in 
relazione 
ai 
primi 
è 
già 
riconosciuta 
dallo stesso dettato costituzionale 
all’autorità 
di 
pubblica 
sicurezza 
la 
possibilità, 
tramite 
l’esercizio di 
un potere 
amministrativo, di 
limitare 
tale 
diritto 
“per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”. 


Quindi, 
in assenza 
della 
garanzia 
della 
riserva 
di 
legge, 
ma 
sempre 
nel 
generale 
rispetto del 
principio di 
legalità, dunque, le 
limitazioni 
ad un diritto 
soggettivo 
costituzionalmente 
riconosciuto 
potrebbero 
avvenire, 
in 
astratto, 


(63) In senso difforme, Cass. civ., sez. III, 25 luglio 2000, n. 9738, in DeJure, Giuffrè. 
(64) 
Al 
riguardo, 
sempre 
in 
senso 
difforme, 
M. 
CoRRADIno, 
il 
diritto 
amministrativo 
alla 
luce 
della recente 
giurisprudenza, 2007, CeDAM, 31-32, ricorda 
che 
“la giurisprudenza costituzionale, a 
partire 
dal 
1994, ha introdotto un sistema che 
le 
consente 
il 
sindacato sui 
regolamenti 
illegittimi 
che 
danno esecuzione 
a norme 
di 
legge: il 
c.d. sindacato indiretto: «le 
leggi 
non vivono di 
vita propria ma 
hanno una vita effettiva nella realtà concreta per 
il 
tramite 
dei 
regolamenti 
attuativi 
(c.d. diritto vivente) 
e 
i 
principi 
fissati 
dalla legge 
trovano poi 
concreta e 
immediata applicazione 
nella specificazione 
e 
nell’esecuzione 
che 
ne 
danno i 
regolamenti» (Corte 
cost., sent. n. 456/1994 e 
successivamente 
anche 
Corte 
cost., 09/07/1999, n. 283). Secondo questa interpretazione, infatti, il 
vaglio di 
legittimità costituzionale 
sulle 
leggi 
non ha ad oggetto semplicemente 
la norma astratta, così 
come 
formulata dal 
legislatore, 
ma 
il 
modo 
concreto 
con 
cui 
questa 
si 
adatta 
all’ordinamento. 
a 
tal 
scopo 
assume 
un 
ruolo 
fondamentale 
il 
regolamento 
con 
cui 
viene 
data 
attuazione 
alla 
legge: 
il 
senso 
di 
quest’ultima 
può 
essere 
ricavato dal 
suo combinato disposto con il 
regolamento di 
attuazione. 
Pertanto se 
l’attuazione 
della 
norma primaria da parte 
dell’autorità amministrativa, attraverso il 
regolamento, si 
rivela in contrasto 
con i 
principi 
costituzionali, la corte 
può dichiarare 
l’illegittimità della norma nel 
suo concreto operare 
e, quindi, recuperare 
il 
vaglio sui 
regolamenti 
attraverso il 
sindacato sulla legge 
che 
ne 
ha previsto 
l’emanazione”. 
(65) Così 
A. SAIttA, F. SAIttA 
e 
F.F. PAGAno, il 
giudice 
amministrativo stoppa la ripartenza anticipata 
della regione 
Calabria: sul 
lockdown è 
lo Stato a dettare 
legge, in www.giustizia-amministrativa.
it, 4 giugno 2020. 
(66) Cfr. L. MezzettI, manuale breve di diritto costituzionale, 2018, Giuffré, 516. 
(67) Cfr. t.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, n. 841/2020, cit. Contra, A. SAIttA, F. SAIttA 
e 
F.F. 
PAGAno, cit. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


anche 
mediante 
un 
atto 
avente 
natura 
esclusivamente 
amministrativa 
(68), 
come 
le 
ordinanze. 
una 
definizione 
di 
«ordinanza» 
fornita 
dalla 
dottrina 
è 
quella 
secondo cui 
tali 
atti 
consistono in provvedimenti 
autoritativi 
espressivi 
di 
discrezionalità 
amministrativa 
con 
i 
quali 
vengono 
imposti, 
vietati 
o 
regolati 
determinati 
comportamenti 
(69). nel 
novero delle 
ordinanze 
su indicate 
rientrano 
anche 
quelle 
di 
necessità 
e 
urgenza, 
le 
quali 
si 
differenziano 
rispetto 
alle 
ordinanze 
in generale 
per l’atipicità 
e 
l’indeterminatezza 
del 
contenuto, per la 
provvisorietà 
e 
per la 
capacità 
di 
deroga 
alla 
legge. È 
pacifico che 
il 
potere 
di 
derogare 
alla 
legge 
delle 
ordinanze 
extra ordinem 
è 
limitato dal 
rispetto dei 
principi 
fondamentali 
dell’ordinamento 
giuridico 
e, 
in 
particolare, 
dei 
precetti 
costituzionali. 


Di 
contro, la 
limitazione 
di 
un diritto soggettivo di 
rango costituzionale 
garantito da 
riserva 
di 
legge, dunque, non potrebbe 
avvenire 
mediante 
l’uso 
di 
ordinanze 
di 
necessità 
e 
urgenza. La 
riserva 
di 
legge, infatti, è 
posta 
dal-
l’ordinamento 
in 
funzione 
di 
garanzia 
dei 
diritti 
fondamentali 
da 
decisioni 
prese 
da 
organi 
diversi 
da 
quello rappresentativo del 
potere 
sovrano, privi 
di 
delega di quest’ultimo delle proprie funzioni. 


L’istituto della 
riserva 
di 
legge, tuttavia, si 
atteggia 
in modi 
diversi 
a 
seconda 
del diritto cui si riferisce. 

Al 
riguardo, 
in 
giurisprudenza 
si 
ritiene 
che 
il 
diritto 
di 
circolazione 
è 
garantito 
da 
una 
riserva 
di 
legge 
relativa. 
In 
particolare, 
si 
è 
osservato 
che 
“la 
riserva 
di 
legge 
statale 
di 
cui 
all’art. 
16 
cost. 
comporta 
che 
il 
legislatore 
ordinario, 
il 
quale 
ha 
l’obbligo 
di 
stabilire 
le 
ipotesi 
generali 
in 
cui 
è 
lecito 
limitare 
la 
libertà 
di 
circolazione 
dei 
cittadini, 
può 
demandare 
all’autorità 
amministrativa 
di 
specificare 
le 
dette 
ipotesi 
in 
forza 
di 
atti 
normativi 
secondari” 
(70). 


Pertanto, nell’emergenza 
epidemiologica 
da 
Coronavirus, una 
eventuale 
prolungata 
limitazione 
del 
diritto di 
circolazione 
di 
cui 
all’art. 16 Cost. mediante 
lo strumento dell’ordinanza 
contingibile 
e 
urgente 
sarebbe 
stata 
viziata 
da 
illegittimità 
per violazione 
della 
riserva 
di 
legge 
posta 
dalla 
Costituzione. 
Profili 
ulteriori 
di 
illegittimità 
sarebbero ipoteticamente 
ravvisabili 
anche 
in 
ragione 
del 
rilievo 
che 
il 
potere 
extra 
ordinem 
può 
essere 
esercitato 
nell’ipotesi 
in 
cui 
non 
si 
possa 
fare 
ricorso 
agli 
ordinari 
strumenti 
tipizzati 
dalla 
legge 
(71) 
e 
per il 
tempo strettamente 
necessario affinché 
si 
possa 
intervenire 
in via 
ordinaria 
(72). 
In 
relazione 
a 
quest’ultimo 
aspetto, 
si 
osserva 
che, 
stante 
l’attuale 
insussistenza 
di 
certezze 
in ordine 
alla 
durata 
effettiva 
dell’epidemia 
in atto, 


(68) Cfr. t.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, n. 841/2020, cit. 
(69) Cfr. V. LoPILAto, manuale 
cit., 101-102. 
(70) Cass. civ., sez. III, n. 9738/2000, cit. 
(71) Cfr., da 
ultimo, t.A.R. Campania, napoli, sez. V, 6 febbraio 2020, n. 565, in www.giustiziaamministrativa.
it. 
(72) Cfr., t.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 26 settembre 
2016, n. 2268, in www.giustizia-amministrativa.
it. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


l’eventuale 
reiterazione 
di 
ordinanze 
speciali 
si 
porrebbe 
contro i 
principi 
da 
ultimo indicati. 

La 
scelta 
di 
confinare 
tale 
forma 
di 
potere 
come 
strumento 
sussidiario 
(73), in attesa 
di 
un intervento del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, dunque, 
risulta più coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento. 


4.2. (segue) 
Le o.P.G.r. 
Come 
osservato in precedenza, anche 
gli 
enti 
territoriali 
sub-statali 
sono 
stati coinvolti nella gestione dell’emergenza in esame. 


Il 
d.l. n. 19/2020, infatti, ha 
attribuito alle 
Regioni 
la 
possibilità 
di 
“introdurre 
misure 
ulteriormente 
restrittive, 
tra 
quelle 
di 
cui 
all’articolo 
1, 
comma 
2, 
esclusivamente 
nell’ambito 
delle 
attività 
di 
loro 
competenza 
e 
senza 
incisione 
delle 
attività produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza strategica per 
l’economia 
nazionale”. 


Si 
tratta, tuttavia, anch’esso di 
un potere 
sussidiario, in ragione 
del 
fatto 
che 
lo 
stesso 
può 
essere 
esercitato 
“solo 
a 
condizione 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
destinati 
a 
operare 
nelle 
more 
dell’adozione 
di 
un 
nuovo 
d.P.C.m.; 
che 
si 
tratti 
di 
interventi 
giustificati 
da «situazioni 
sopravvenute 
di 
aggravamento del 
rischio 
sanitario» proprie 
della regione 
interessata; che 
si 
tratti 
di 
misure 
«ulteriormente 
restrittive» 
delle 
attività 
sociali 
e 
produttive 
esercitabili 
nella 
regione” 
(74). 


Quanto 
alla 
giustificazione 
dell’intervento 
regionale 
in 
questa 
materia, 
in 
un primo momento, tale 
potere 
di 
ordinanza 
ha 
trovato fondamento nell’art. 
32, l. n. 833/1978, in quanto il 
d.l. n. 6/2020 -abrogato in parte 
qua 
dal 
successivo 
d.l. n. 19 cit. -sanciva 
la 
possibilità 
di 
adottare 
in via 
di 
urgenza 
le 
misure 
previste 
dagli 
artt. 1 e 
2 “ai 
sensi 
dell’articolo 32 della legge 
23 dicembre 
1978, n. 833” 
(art. 3, comma 2). 


tale 
ultimo articolo, a 
sua 
volta, conferisce 
-ma 
in via 
generale 
-in materia 
sanitaria 
al 
Presidente 
della 
Giunta 
regionale 
il 
potere 
di 
emettere 
“ordinanze 
di 
carattere 
contingibile 
ed 
urgente, 
con 
efficacia 
estesa 
[…] 
alla 
regione 
o a parte 
del 
suo territorio comprendente 
più comuni” 
(art. 32, terzo 
comma, l. n. 833/1978). 


Successivamente, come 
detto, l’art. 3, d.l. n. 19/2020 ha 
ribadito la 
possibilità 
di 
intervento delle 
Regioni 
nell’adozione 
delle 
misure 
di 
cui 
all’art. 1, 


(73) Si 
v. art. 2, comma 
2, d.l. n. 19/2020. Si 
ritiene 
che 
il 
potere 
di 
ordinanza 
conferito dall’art. 
2, 
comma 
2, 
cit. 
al 
Ministro 
della 
Salute 
non 
sia 
quello 
extra 
ordinem, 
ma 
sia 
una 
duplicazione 
di 
quello 
attribuito 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri. 
In 
particolare, 
sebbene 
l’adozione 
delle 
ordinanze 
del 
Ministro della 
Salute 
non sia 
soggetta 
alla 
procedura 
di 
consultazione 
prevista 
per i 
D.P.C.M., tali 
ordinanze, 
essendo limitate 
nei 
contenuti 
alle 
stesse 
misure 
previste 
per i 
decreti 
presidenziali 
(ossia, quelle 
indicate 
all’art. 1 dello stesso d.l.), sono prive 
del 
carattere 
dell’atipicità 
contenutistica 
che 
connota, di 
contro, le ordinanze di cui all’art. 32, l. n. 833/1978. 
(74) t.A.R. Calabria, Catanzaro, n. 841/2020, cit. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


comma 
2, dello stesso decreto, tuttavia, non richiamando, come 
fatto in precedenza, 
l’art. 32, l 
n. 833/1978 e 
limitando l’ambito di 
intervento a 
“misure 
ulteriormente restrittive” 
rispetto a quelle già adottate a livello centrale (75). 


Pertanto, a 
seguito dell’entrata 
in vigore 
del 
d.l. n. 19 cit., durante 
il 
periodo 
emergenziale, il 
potere 
di 
ordinanza 
delle 
Regioni 
non trova 
più fondamento 
nell’art. 32, l. n. 833/1978, bensì 
nello stesso art. 3, comma 
1. Ciò in 
quanto “i 
limiti 
al 
potere 
di 
ordinanza del 
Presidente 
della regione 
delineati 
dall’art. 3, comma 1 d.l. n. 19 del 
2020 valgono, ai 
sensi 
del 
successivo terzo 
comma, 
per 
tutti 
gli 
«atti 
posti 
in 
essere 
per 
ragioni 
di 
sanità 
in 
forza 
di 
poteri 
attribuiti da ogni disposizione di legge previgente” 
(76). 


In ordine 
alla 
natura 
giuridica 
delle 
ordinanze 
regionali, essendo sostanzialmente 
assimilabili 
ai 
D.P.C.M., vale 
quanto osservato in ordine 
ai 
decreti 
presidenziali e alle ordinanze emesse da altri organi in materia di cui sopra. 

4.3. 
(segue) 
Le ordinanze comunali. 
Infine, 
anche 
i 
sindaci, 
inizialmente, 
hanno 
avuto 
un 
ruolo 
attivo 
nella 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica, essendo il 
Comune, in quanto prossimo 
alla 
comunità 
locale, 
l’ente 
più 
adeguato 
a 
rispondere 
alle 
esigenze 
della 
stessa collettività amministrata. 


Anche 
in relazione 
a 
tale 
livello di 
governo si 
è 
avuta 
una 
successione 
di 
norme. 


Il 
potere 
sussidiario 
dei 
sindaci 
ha 
trovato 
un 
primo 
espresso 
fondamento 


-mediante 
rinvio -nell’“articolo 117 del 
decreto legislativo 31 marzo 1998, 
n. 112, e 
[n]ell’articolo 50 del 
testo unico delle 
leggi 
sull’ordinamento degli 
enti 
locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267” 
(art. 3, 
comma 2, d.l. n. 6/2020). 
L’art. 3, comma 
2, d.l. n. 6/2020, pertanto, anche 
in relazione 
a 
questo livello 
di 
governo, non ha 
avuto portata 
innovativa, in considerazione 
del 
fatto 
che 
tanto l’art. 117 cit. quanto l’art. 50 t.u.e.l. già 
in via 
generale 
sanciscono 
che 
“in caso di 
emergenze 
sanitarie 
o di 
igiene 
pubblica a carattere 
esclusivamente 
locale 
le 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
sono adottate 
dal 
sindaco, 
quale 
rappresentante 
della comunità locale” 
(art. 117, comma 
1, primo periodo, 
d.lgs. 
n. 
112/1998 
e 
art. 
50, 
comma 
5, 
primo 
periodo, 
d.lgs. 
n. 
267/2000). tra 
l’altro, gli 
stessi 
artt. cit., in ossequio al 
principio di 
sussidiarietà, 
dispongono 
anche 
che 
“negli 
altri 
casi 
l’adozione 
dei 
provvedimenti 


(75) Anche 
in relazione 
ai 
provvedimenti 
delle 
Regioni, si 
richiamano le 
osservazioni 
di 
cui 
alla 
nota 
73 sulla 
natura 
delle 
ordinanze 
ministeriali. Quanto ai 
contenuti, il 
potere 
delle 
regioni 
è 
ulteriormente 
delimitato a 
interventi 
“esclusivamente 
nell’ambito delle 
attività di 
loro competenza e 
senza incisione 
delle 
attività 
produttive 
e 
di 
quelle 
di 
rilevanza 
strategica 
per 
l’economia 
nazionale” 
(art. 
3, 
comma 1, d.l. n. 19/2020). 
(76) 
t.A.R. 
Calabria, 
Catanzaro, 
n. 
841/2020, 
cit. 
Cfr., 
anche, 
t.A.R. 
Sicilia, 
Palermo, 
n. 
842/2020 
cit. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


d’urgenza, 
ivi 
compresa 
la 
costituzione 
di 
centri 
e 
organismi 
di 
referenza 
o 
assistenza, 
spetta 
allo 
Stato 
o 
alle 
regioni 
in 
ragione 
della 
dimensione 
del-
l’emergenza e 
dell’eventuale 
interessamento di 
più ambiti 
territoriali 
regionali” 
(art. 
117, 
comma 
1, 
secondo 
periodo, 
d.lgs. 
n. 
112/1998 
e 
art. 
50, 
comma 
5, ultimo periodo, d.lgs. n. 267/2000). 


novità, invece, erano riscontrabili 
nelle 
disposizioni 
del 
d.l. n. 19/2020, 
ove 
era 
disposto che 
“i 
Sindaci 
non possono adottare, a pena di 
inefficacia, 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
dirette 
a 
fronteggiare 
l’emergenza 
in 
contrasto 
con 
le 
misure 
statali 
e 
regionali, 
né 
eccedendo 
i 
limiti 
di 
oggetto 
cui 
al 
comma 
1” 
(art. 3, comma 
2, d.l. n. 19/2020). In relazione 
ai 
sindaci, dunque, nel 
periodo 
di 
emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19, il 
fondamento dell’attività 
provvedimentale 
era 
rinvenibile 
nel 
combinato disposto tra 
gli 
artt. 3 d.l. n. 
19/2020, 117 d.lgs. n. 112/1988 e 50 d.lgs. n. 267/2000. 


nella 
c.d. 
«fase 
tre» 
dell’emergenza 
Coronavirus 
sembra 
prima 
facie 
che 
i 
sindaci 
siano stati 
estromessi 
dalla 
gestione 
dell’emergenza 
sanitaria. L’art. 
18 
d.l. 
16 
luglio 
2020, 
n. 
76, 
infatti, 
ha 
abrogato 
l’art. 
3, 
comma 
2, 
d.l. 
n. 
19/2020, 
ma 
ha 
prodotto 
come 
effetto 
la 
rimozione 
dei 
limiti 
contenutistici 


(77) 
fissati 
dallo 
articolo 
abrogato, 
attribuendo, 
quindi, 
nuovamente, 
ai 
sindaci 
il 
potere 
extra 
ordinem 
previsto, 
in 
linea 
generale, 
dagli 
artt. 
117, 
d.lgs. 
n. 
112/1988 e 50, d.lgs. n. 267/2000. 
Si 
rimanda 
anche 
in questo caso a 
quanto osservato al 
par. 4.1. in ordine 
alla natura giuridica delle ordinanze sindacali (78). 


5. La gestione della giustizia nel periodo emergenziale. 
Sul 
crinale 
processuale 
l’emergenza 
sanitaria 
in discorso ha 
avuto un notevole 
impatto, potendosi 
rinvenire 
sia 
disposizioni 
aventi 
effetti 
temporanei 
limitati al periodo emergenziale sia interventi strutturali. 


tra 
gli 
interventi 
ad effetti 
temporanei 
più rilevanti, si 
evidenzia 
l’istituzione 
di 
un periodo straordinario di 
sospensione 
delle 
attività 
processuali 
e 
la 
creazione 
di 
un 
c.d. 
«rito 
emergenziale», 
articolato 
nelle 
due 
forme 
del-
l’udienza 
in videoconferenza 
e 
del 
c.d. «contraddittorio cartolare». tale 
rito, 
“che 
non si 
tratta di 
una disciplina processuale 
autosufficiente” 
(79), trova 
necessaria 
applicazione 
in tutte 
le 
giurisdizioni 
in relazione 
alle 
attività 
processuali 
indicate 
negli 
artt. 83, 84 e 
85, d.l. n. 18/2020, ferma 
restando per le 
altre 
la 
possibilità 
di 
differire 
le 
relative 
udienze 
a 
data 
successiva 
al 
31 luglio 
2020. 


(77) Consistenti: 
a) nell’adozione 
di 
una 
delle 
misure 
indicate 
dall’art. 1, comma 
2, dello stesso 
decreto e b) nell’impossibilità che tali misure siano in contrasto con quelle statali e regionali. 
(78) In relazione 
alle 
ordinanze 
sindacali 
emesse 
in vigenza 
dell’art. 3, comma 
2, d.l. n. 19/2020 
valgono, ancora una volta, le osservazioni svolte in nota 73. 
(79) In questi 
termini, direttiva 
prot. n. 7400 del 
20 aprile 
2020 del 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato, in www.giustizia-amministrativa.it. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


In ogni 
caso, fino al 
31 ottobre 
2020, in ambito civile, 
“il 
giudice 
può disporre 
che 
le 
udienze 
[…] 
che 
non richiedono la presenza di 
soggetti 
diversi 
dai 
difensori 
delle 
parti 
siano sostituite 
dal 
deposito telematico di 
note 
scritte 
contenenti 
le 
sole 
istanze 
e 
conclusioni” 
(art. 221, comma 
4, d.l. 19 maggio 
2020, 
n. 
34, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
in 
l. 
17 
luglio 
2020, 
n. 
77). 
Il 
mancato 
deposito delle 
note 
di 
trattazione 
scritta 
è 
considerato mancata 
comparizione 
all’udienza 
ai 
sensi 
dell’art. 
181 
c.p.c. 
(80). 
tuttavia, 
d’ufficio, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
non 
sia 
richiesta 
la 
presenza 
di 
soggetti 
diversi 
dai 
difensori, 
dalle 
parti 
e 
dagli 
ausiliari 
del 
giudice 
e, 
comunque, 
previo 
consenso 
delle 
parti 
(81), o su istanza 
di 
parte 
(82), la 
partecipazione 
alle 
udienze 
civili 
può 
avvenire mediante collegamento audiovisivo da remoto. 


Quanto 
al 
citato 
periodo 
di 
sospensione 
straordinaria, 
inizialmente 
circoscritto 
ai 
soggetti 
residenti 
o 
operanti 
nelle 
c.d. 
«zone 
rosse» 
(83), 
“il 
decorso 
dei 
termini 
perentori, 
legali 
e 
convenzionali, 
sostanziali 
e 
processuali, 
comportanti 
prescrizioni 
e 
decadenze 
da 
qualsiasi 
diritto, 
azione 
ed 
eccezione, 
nonché 
dei 
termini 
per 
gli 
adempimenti 
contrattuali 
è 
[stato: 
n.d.r.] 
sospeso 
dal 
22 
febbraio 
2020 
fino 
al 
31 
marzo 
2020” 
(art. 
10, 
comma 
4, 
d.l. 
2 
marzo 
2020, 
n. 
9; 
per 
la 
giustizia 
amministrativa 
si 
v. 
il 
successivo 
comma 
17 
dell’art. 
10 
cit.). 


Successivamente, 
con 
efficacia 
estesa 
a 
tutto 
il 
territorio 
nazionale, 
la 
sospensione 
dei 
termini 
processuali 
è 
stata 
fissata 
dal 
9 al 
22 marzo 2020 (84); 
termine 
prorogato, una 
prima 
volta, al 
15 aprile 
(85) e, infine, all’11 maggio 
2020 per la giurisdizione civile, penale, contabile, tributaria e militare (86). 

In ordine 
alla 
giustizia 
amministrativa, invece, si 
segnala 
che 
sono stati 
sospesi 
“dal 
16 aprile 
al 
3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente 
i 
termini 
per 
la notificazione 
dei 
ricorsi” 
(art. 36, comma 
2, d.l. n. 23/2020). Pertanto, dal 
15 aprile 
2020 è 
ripreso il 
decorso degli 
altri 
termini 
processuali 
previsti 
dal 
codice 
del 
processo amministrativo, tra 
i 
quali 
non vi 
rientrano quelli 
per la 
proposizione 
de 
“i 
motivi 
aggiunti, 
i 
ricorsi 
incidentali, 
tutte 
le 
impugnazioni, 
e 
cioè 
revocazione, opposizione 
di 
terzo, opposizione 
a perenzione, nonché 
la 
riassunzione 
del 
processo, la riproposizione 
a seguito di 
translatio, la trasposizione 
del ricorso straordinario in sede giurisdizionale” 
(87). 


(80) Cfr. art. 221, comma 4, ultimo periodo, d.l. n. 34/2020. 
(81) Art. 221, comma 7, d.l. n. 34/2020. 
(82) Art. 221, comma 6, d.l. n. 34/2020. 
(83) Come 
richiamato dallo stesso art. 10, comma 
4, d.l. n. 9/2020, si 
tratta 
dei 
Comuni 
di 
cui 
all’allegato 
1 al 
D.P.C.M. 1 marzo 2020, ossia: 
“1) nella 
Regione 
Lombardia: 
a) bertonico; 
b) Casalpusterlengo; 
c) Castelgerundo; 
d) Castiglione 
D’Adda; 
e) Codogno; 
f) Fombio; 
g) Maleo; 
h) San Fiorano; 
i) Somaglia; l) terranova dei Passerini. 2) nella Regione 
Veneto: a) Vò”. 
(84) Si v. artt. 1, comma 2, e 3, comma 1, d.l. 8 marzo 2020, n. 11. 
(85) Si 
v. artt. 83, comma 
2, e 
84, comma 
1, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, 
in l. 24 aprile 2020, n. 27. 
(86) Si v. art. 36, commi 1 e 4, d.l. 8 aprile 2020, n. 23. 
(87) Così 
la 
direttiva 
prot. n. 7400 del 
20 aprile 
2020 del 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato, cit. Si 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


Sempre 
nella 
medesima 
giurisdizione, 
in 
accoglimento 
degli 
auspici 
contenuti 
nella 
direttiva 
prot. 
n. 
7400 
del 
20 
aprile 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
inoltre, 
l’art. 
4, 
d.l. 
30 
aprile 
2020, 
n. 
28, 
ha 
esteso 
anche 
alla 
giustizia 
amministrativa 
la 
possibilità 
dello 
svolgimento 
dell’udienze 
tramite 
collegamento 
da 
remoto, 
attenuando, 
ma 
non 
eliminando 
(88), 
il 
c.d. 
“rito 
cartolare 
coatto” 
(89), 
inizialmente 
unica 
forma 
di 
trattazione 
dei 
giudizi 
innanzi 
al 
g.a. 
(90). 
L’art. 
4, 


v., 
inoltre, 
in 
materia 
di 
tutela 
cautelare, 
n. 
DuRAnte, 
il 
procedimento 
cautelare 
ai 
tempi 
dell’emergenza, 
in www.giustizia-amministrativa.it, 
2020, ove, in relazione 
alla 
tutela 
cautelare 
nel 
processo amministrativo, 
vengono identificati 
“quattro distinti 
regimi 
cautelari, vigenti 
a seconda del 
periodo intertemporale 
interessato”. Si 
v., anche, C. SALteLLI, Note 
sulla tutela cautelare 
dell’art. 84 del 
d.l. 27 marzo 
2020 n. 18, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020, ove 
si 
rileva 
che 
“la tutela cautelare 
derogatoria 
(delineata dal 
quarto, quinto e 
sesto periodo dell’art. 84, comma 1) costituisce 
ad un tempo, sotto il 
profilo sistematico, come 
l’eccezione 
e 
il 
rimedio al 
rinvio ex 
lege 
delle 
udienze, camerali 
e 
pubbliche, 
calendarizzate 
nel 
periodo tra l’8 marzo ed il 
15 aprile 
2020, ad una data successiva a quest’ultima 
data, e 
alla conseguente 
impossibilità, a causa dell’emergenza sanitaria, per 
il 
giudice 
di 
trattare 
in 
particolare 
i 
procedimenti 
cautelari 
fissati 
per 
la decisione 
nel 
predetto periodo. È 
stato così 
prescelto 
come 
strumento 
operativo 
il 
decreto 
monocratico 
cautelare, 
istituto 
già 
esistente, 
modificandone 
tuttavia 
la funzione 
e 
i 
presupposti 
e 
alterandone 
conseguentemente 
anche 
la natura giuridica”, che 
rimane 
pur 
sempre 
strumentale 
e 
ancillare, ma 
che 
“assume 
una connotazione 
speciale 
proprio per 
la diversità dei 
presupposti che la legittimano (rispetto a quelli della dell’art. 56 c.p.a.)”. 


(88) Rimangono, infatti, in vigore le disposizioni di cui all’art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020. 
(89) 
L’espressione 
è 
mutuata 
da 
Cons. 
St., 
sez. 
VI, 
ord. 
21 
aprile 
2020, 
n. 
2539, 
in 
www.giustiziaamministrativa.
it. 
In 
argomento, 
in 
senso 
critico, 
F. 
SAIttA, 
Da 
Palazzo 
Spada 
un 
ragionevole 
no 
al 
«contraddittorio 
cartolare 
coatto» 
in 
sede 
cautelare. 
ma 
il 
successivo 
intervento 
legislativo 
sembra 
configurare 
un’oralità… 
a 
discrezione 
del 
presidente 
del 
collegio, 
in 
www.federalismi.it, 
2020. 
I. 
LAGRottA, 
il 
contraddittorio 
cartolare 
coatto 
tra 
interpretazione 
conforme 
a 
Costituzione 
e 
dubbi 
di 
legittimità, 
in 
www.fedaralismi.it, 
2020. 
Cfr., 
anche, 
F. 
VoLPe, 
op. 
cit., 
secondo 
cui 
“se 
le 
dotazioni 
tecniche 
non 
consentissero 
di 
celebrare 
l’udienza 
con 
modalità 
telematiche, 
la 
soluzione 
non 
dovrebbe 
essere 
-almeno 
per 
quanto 
concerne 
l’udienza 
di 
merito 
-quella 
di 
stabilire 
che 
la 
discussione 
non 
si 
celebri 
affatto”. 
(90) Si 
riporta 
l’art. 4, d.l. n. 28/2020, come 
emendato, in sede 
di 
conversione, dalla 
l. 25 giugno 
2020, n. 70: 
“a 
decorrere 
dal 
30 maggio e 
fino al 
31 luglio 2020 può essere 
chiesta discussione 
orale 
con istanza depositata entro il 
termine 
per 
il 
deposito delle 
memorie 
di 
replica ovvero, per 
gli 
affari 
cautelari, fino a cinque 
giorni 
liberi 
prima dell’udienza in qualunque 
rito, mediante 
collegamento da 
remoto con modalità idonee 
a salvaguardare 
il 
contraddittorio e 
l’effettiva partecipazione 
dei 
difensori 
all’udienza, 
assicurando 
in 
ogni 
caso 
la 
sicurezza 
e 
la 
funzionalità 
del 
sistema 
informatico 
della 
giustizia 
amministrativa 
e 
dei 
relativi 
apparati 
e 
comunque 
nei 
limiti 
delle 
risorse 
attualmente 
assegnate 
ai 
singoli 
uffici. L’istanza è 
accolta dal 
presidente 
del 
collegio se 
presentata congiuntamente 
da tutte 
le 
parti 
costituite. 
Negli 
altri 
casi, il 
presidente 
del 
collegio valuta l’istanza, anche 
sulla base 
delle 
eventuali 
opposizioni 
espresse 
dalle 
altre 
parti 
alla 
discussione 
da 
remoto. 
Se 
il 
presidente 
ritiene 
necessaria, 
anche 
in 
assenza 
di 
istanza 
di 
parte, 
la 
discussione 
della 
causa 
con 
modalità 
da 
remoto, 
la 
dispone 
con 
decreto. 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
sia disposta la discussione 
da remoto, la segreteria comunica, almeno tre 
giorni 
[ante 
conversione 
in l., “un giorno”: 
n.d.r.] 
prima della trattazione, l’avviso dell’ora e 
delle 
modalità 
di 
collegamento. 
Si 
dà 
atto 
a 
verbale 
delle 
modalità 
con 
cui 
si 
accerta 
l’identità 
dei 
soggetti 
partecipanti 
e 
la libera volontà delle 
parti, anche 
ai 
fini 
della disciplina sulla protezione 
dei 
dati 
personali. il 
luogo 
da 
cui 
si 
collegano 
i 
magistrati, 
gli 
avvocati 
e 
il 
personale 
addetto 
è 
considerato 
udienza 
a 
tutti 
gli 
effetti 
di 
legge. in alternativa alla discussione 
possono essere 
depositate 
note 
di 
udienza fino alle 
ore 
12 del 
giorno antecedente 
a quello dell’udienza stessa [ante 
conversione 
in l., “fino alle 
ore 
9 antimeridiane 
del 
giorno dell’udienza stessa”: 
n.d.r.] o richiesta di 
passaggio in decisione 
e 
il 
difensore 
che 
deposita tali 
note 
o tale 
richiesta è 
considerato presente 
a ogni 
effetto in udienza. il 
decreto di 
cui 
al 
comma 2 stabilisce i tempi massimi di discussione e replica”. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


d.l. 
n. 
28 
cit., 
dunque, 
ha 
permesso 
di 
“tornare 
a 
quella 
forma 
di 
contraddittorio 
che 
postula 
la 
oralità 
tra 
presenti 
in 
aula” 
(91). 
Pertanto, 
durante 
il 
periodo 
di 
applicazione 
del 
processo 
emergenziale, 


“se 
è 
stata 
chiesta 
la 
discussione 
orale, 
si 
applica 
esclusivamente 
l’art. 
4, 
comma 2, del 
d.l. n. 28/2020 con tutte 
le 
sue 
previsioni 
“interne” 
in tema di 
discussione 
orale 
e 
di 
modalità alternative 
alla discussione 
orale; in particolare, 
se 
venga 
richiesta 
la 
discussione 
da 
una 
sola 
parte, 
nulla 
vieta 
che 
l’altra 
partecipi 
alla discussione 
o, “in alternativa alla discussione”, presenti 
note 
di 
udienza fino alle 
ore 
9 del 
giorno di 
udienza 
[…]; 
b) se 
nessuno ha chiesto 
la discussione 
orale, si 
applica esclusivamente 
l’art. 84, comma 5, del 
d.l. n. 
18/2020, e 
cioè 
il 
processo cd. cartolare 
(id est, passaggio in decisione 
sulla 
base 
degli 
scritti) con termine 
sino a due 
giorni 
liberi 
dall’udienza per 
il 
deposito 
di brevi note” 
(92). 


tra 
gli 
interventi 
strutturali, 
in 
materia 
di 
processo 
telematico, 
si 
segnala 
l’inclusione 
(93) 
del 
pubblico 
registro 
di 
cui 
all’art. 
6-ter, 
d.lgs. 
7 
marzo 
2005, 


n. 
82 
(c.d. 
«Indice 
PA» 
(94)) 
tra 
i 
domicili 
digitali 
presso 
cui 
è 
possibile 
effettuare 
validamente 
le 
notificazioni 
“alle 
pubbliche 
amministrazioni 
degli 
atti 
in 
materia 
civile, 
penale, 
amministrativa, 
contabile 
e 
stragiudiziale” 
(art. 
16-ter, 
comma 
1-ter, 
d.l. 
n. 
179/2012 
(95)). 
In 
materia 
tributaria 
era 
già 
prevista 
la 
possibilità 
di 
notificazione 
presso 
gli 
indirizzi 
indicati 
nel 
registro 
su 
indicato 
(96). 
nell’ottica 
di 
una 
maggiore 
efficienza 
della 
P.A. 
nella 
costituzione 
in 
giudizio, 
di 
particolare 
interesse 
è 
l’ulteriore 
previsione 
secondo 
cui 
“le 
amministrazioni 
pubbliche 
possono 
comunicare 
altresì 
gli 
indirizzi 
di 
posta elettronica 
certificata 
di 
propri 
organi 
o 
articolazioni, 
anche 
territoriali, 
presso 
cui 
eseguire 
le 
comunicazioni 
o 
notificazioni 
per 
via 
telematica 
nel 
caso 
in 
cui 
sia 
stabilito 
presso 
questi 
l’obbligo 
di 
notifica 
degli 
atti 
introduttivi 
di 


(91) In questi termini la direttiva prot. n. 7400 cit. 
(92) Così 
le 
Linee 
Guida 
del 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato del 
25 maggio 2020 sulle 
udienze 
da 
remoto con la 
partecipazione 
degli 
avvocati 
ex 
art. 4, d.l. n. 28 del 
2020, in www.giustizia-amministrativa.
it. 
(93) In verità, reinclusione, in quanto 
“inizialmente 
annoverato nella tipologia dei 
“registri 
pubblici” 
ai 
sensi 
del 
comma 8 dell’art. 16 del 
d.l. n. 185/2008, ma poi 
improvvisamente 
scomparso alla 
stregua della disposizione 
di 
cui 
all’art. 16 ter 
del 
d.l. n. 179/2012, modificato dall’art. 45 bis, comma 
2 lettera a) del 
d.l. n. 90/2014 che, non richiamando il 
succitato art. 16, ha espunto da quella tipologia 
proprio il 
registro iPa” 
(così 
F. SIGILLò, Notifica a mezzo PEC: la strana sorte 
del 
registro iPa, in 
www.altalex.it, 2019). Sulla 
validità 
delle 
notifiche 
ante 
d.l. n. 76/2020 presso gli 
indirizzi 
presenti 
sul 
c.d. «Indice 
PA», si 
v. t.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 24 marzo 2020, n. 545; 
Cons. St., sez. III, 27 
febbraio 2019, n. 1379 e 
Cons. St., sez. V, 12 dicembre 
2018, n. 7026, tutte 
in 
www.giustizia-amministrativa.
it. 
(94) Da 
non confondere 
con il 
c.d. «Registro P.A.», disciplinato, invece, dall’art. 16, comma 
12, 
d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, in l. 17 dicembre 2012, n. 221. 
(95) Come introdotto dall’art. 28, d.l. 16 luglio 2020, n. 76. 
(96) Cfr. art. 16-bis, comma 
3, d.lgs. 31 dicembre 
1992, n. 546 e 
artt. 2, comma 
2, 5, comma 
1, 
7, comma 5, e 9, comma 1, D.M. economia e Finanze 23 dicembre 2013, n. 163. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


giudizio 
in 
relazione 
a 
specifiche 
materie 
ovvero 
in 
caso 
di 
autonoma 
capacità 
o 
legittimazione 
processuale” 
(art. 
16, 
comma 
12, 
terzo 
periodo, 
d.l. 
n. 
179/2012) 
e, 
dunque, 
la 
possibilità 
di 
eseguire 
le 
notificazioni 
presso 
tali 
domicili 
digitali 
(97). 


Inoltre, nel 
caso di 
“costituzione 
in giudizio tramite 
propri 
dipendenti, le 
amministrazioni 
pubbliche 
possono 
altresì 
comunicare 
ulteriori 
indirizzi 
di 
posta 
elettronica 
certificata, 
riportati 
in 
una 
speciale 
sezione 
dello 
stesso 
elenco di 
cui 
al 
presente 
articolo e 
corrispondenti 
a specifiche 
aree 
organizzative 
omogenee, presso cui 
eleggono domicilio ai 
fini 
del 
giudizio” 
(art. 16, 
comma 12, quarto periodo, d.l. n. 179/2012). 

Pertanto, 
nei 
procedimenti 
civili 
e 
in 
quelli 
amministrativi 
(98) 
sono 
nulle 
le 
comunicazioni 
e 
le 
notificazioni 
effettuate 
presso gli 
indirizzi 
di 
posta 
elettronica 
certificata 
indicati 
dai 
dipendenti 
nei 
propri 
scritti 
difensivi, nel 
caso 
in 
cui 
tali 
indirizzi 
non 
siano 
contenuti 
nel 
c.d. 
«Indice 
PA» 
o 
nel 
c.d. 
«Registro 
P.A.». Ciò in quanto “tutte 
le 
comunicazioni 
e 
le 
notificazioni 
alle 
pubbliche 
amministrazioni 
che 
stanno in giudizio avvalendosi 
direttamente 
di 
propri 
dipendenti 
sono effettuate 
esclusivamente 
agli 
indirizzi 
di 
posta elettronica comunicati 
a norma del 
comma 12” 
(art. 16, comma 
7, secondo periodo, d.l. n. 
179/2012). 


In 
materia 
di 
giustizia 
amministrativa, 
rileva, 
inoltre, 
la 
scelta 
politica, 
ormai 
consolidata 
in 
altri 
ambiti, 
di 
affidare 
la 
regolamentazione 
di 
materie 
connotate 
da 
elevato tecnicismo e/o da 
rapida 
mutevolezza 
a 
organi 
diversi 
e 
autonomi 
dal 
potere 
politico, in vista 
di 
una 
maggiore 
efficienza 
ed efficacia 
dell’azione pubblica. 


Infatti, 
l’art. 
4, 
d.l. 
n. 
28/2020 
ha 
disposto: 
a) 
la 
modifica 
del 
comma 
1 
dell’art. 
13 
dell’allegato 
2 
al 
d.lgs. 
2 
luglio 
2010, 
n. 
104, 
trasferendo 
il 
potere 
di 
regolamentazione 
del 
processo 
amministrativo 
telematico 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
sulla 
falsariga 
della 
disciplina 
in 
materia 
di 
processo 
contabile 
telematico 
(99); 
b) 
la 
conseguente 
abrogazione 
del 
regolamento 
di 
cui 
al 
D.P.C.M. 
16 
febbraio 
2016, 
n. 
40, 
recante 
le 
regole 
tecnico-operative 
per 
l’attuazione 
del 
processo 
amministrativo 
telematico, 
a 
decorrere 
dal 
quinto 
giorno 
successivo 
a 
quello 
della 
pubblicazione 
nella 
Gazz. 
Uff. 
del 
primo 
decreto 
adottato 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
di 
cui 
al 
riformato 
comma 
1 
dell’articolo 
13 
cit., 
e 
c) 
l’attribuzione 
al 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
potere 
di 
emanare 
regole 
tecnico-operative 
per 
la 
sperimentazione 
e 
la 
graduale 
applicazione 
degli 
aggiornamenti 
del 
processo 
amministrativo 
telematico 
anche 
in 
ordine 
al 
“procedimento 
per 
ricorso 
straordinario” 
(art. 
4, 
comma 
2, 
primo 
periodo, 
d.l. 
n. 
28/2020), 
fornendo, 
in 


(97) Cfr. art. 16-ter, comma 1-ter, d.l. n. 179/2012. 
(98) Cfr. art. 16, comma 17-bis, d.l. n. 179/2012. 
(99) Cfr. art. 20-bis, d.l. n. 179/2012. 

ContRIbutI 
DI 
DottRInA 


quest’ultimo 
caso, 
ulteriori 
argomentazioni 
all’ormai 
consolidata 
opinione 
della 
natura 
giurisdizionale 
del 
ricorso 
straordinario 
al 
Capo 
dello 
Stato. 


Si 
segnala, 
inoltre, 
che 
con 
D.P.C.S. 
n. 
134 
del 
22 
maggio 
2020 
(100) 
sono state 
emanate 
le 
nuove 
regole 
tecnico-operative 
per l’attuazione 
del 
processo 
amministrativo telematico, entrate in vigore dal 2 giugno 2020. 


Sempre 
con 
riferimento 
al 
processo 
amministrativo, 
altra 
novità 
di 
rilievo 
consiste, infine, nell’abrogazione 
dell’art. 7, comma 
4, d.l. 31 agosto 2016, n. 
168, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
in 
l. 
25 
ottobre 
2016, 
n. 
197 
(101), 
il 
quale 
disponeva 
che 
“a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 2017 per 
i 
giudizi 
introdotti 
con i 
ricorsi 
depositati, 
in 
primo 
o 
in 
secondo 
grado, 
con 
modalità 
telematiche 
deve 
essere 
depositata, 
anche 
a 
mezzo 
del 
servizio 
postale 
(102), 
almeno 
una 
copia 
cartacea del 
ricorso e 
degli 
scritti 
difensivi, con l’attestazione 
di 
conformità 
al 
relativo 
deposito 
telematico” 
(103). 
Pertanto, 
per 
tutti 
i 
ricorsi 
depositati 
dal 
30 giugno 2020, anche 
una 
volta 
superato il 
periodo emergenziale, non è 
più previsto il 
deposito presso la 
Segreteria 
della 
copia 
cartacea 
“d’obbligo” 


(104) munita di attestazione di conformità. 
6. Considerazioni conclusive. 
Rimettere 
la 
contrazione 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
fondamentali 
della 
persona 
ad un atto amministrativo scevro dal 
controllo politico dell’organo rappresentativo 
della 
volontà 
popolare 
e 
dal 
sindacato del 
Giudice 
delle 
leggi 
ha 
costituito uno degli 
aspetti 
più controversi 
della 
gestione 
dell’emergenza, sollevando 
seri 
dubbi 
circa 
la 
legittimità 
dell’operato 
del 
Governo 
in 
punto 
di 
osservanza 
delle 
garanzie 
che 
la 
Costituzione 
appronta 
alla 
limitazione 
dei 
diritti 
e delle libertà costituzionali. 

Di 
fronte 
ad 
eventi 
straordinari 
ed 
urgenti, 
che 
esigono 
una 
risposta 
immediata, 
incompatibile 
con 
le 
lungaggini 
dell’ordinario 
iter 
legislativo, 
l’ordinamento 
costituzionale 
reagisce, 
di 
regola, 
nelle 
forme 
della 
decretazione 
d’urgenza, 
riconoscendo 
all’esecutivo 
il 
potere 
di 
adottare 
atti 
normativi 
aventi 
forza 
di 
legge, 
vincolati 
al 
controllo 
preventivo 
di 
legittimità 
del 
Presidente 
della 
Repubblica, 
successivo 
del 
Parlamento 
ed 
eventuale 
della 
Corte 
Costituzionale. 


Sulla 
scorta 
di 
tale 
previsione, 
si 
è 
arrivati 
ad 
ipotizzare 
come 
indebita 
l’ingerenza 
dello Stato nella 
sfera 
individuale 
del 
cittadino, limitato nell’eser


(100) In Gazz. Uff., serie generale, n. 135 del 27 maggio 2020. 
(101) Abrogato dall’art. 4, comma 
1, secondo periodo, del 
d.l. n. 28/2020, come 
emendato, in sede 
di conversione, dalla l. n. 70/2020. 
(102) Inciso inserito, inizialmente, dall’art. 3, comma 
10, d.l. n. 11/2020, poi 
riprodotto nell’art. 
84, comma 10, primo periodo, d.l. n. 18/2020. 
(103) Si 
segnala 
che, prima 
dell’abrogazione 
della 
disposizione 
in esame, inizialmente 
dall’art. 
3, 
comma 
10, 
d.l. 
n. 
11/2020, 
e, 
successivamente, 
dall’art. 
84, 
comma 
10, 
secondo 
periodo, 
d.l. 
n. 
18/2020, era 
previsto che 
“dall’8 marzo e 
fino al 
31 luglio 2020 è 
sospeso l’obbligo di 
cui 
al 
predetto 
articolo 7, comma 4”. 
(104) Cfr. Cons. St., sez. VI, ord. 3 marzo 2017, n. 880. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 1/2020 


cizio delle 
libertà 
costituzionali 
in difetto di 
un atto normativo di 
rango primario 
e, pertanto, in spregio alle 
garanzie 
della 
riserva 
di 
legge 
e 
di 
giurisdizione 
che 
la 
Costituzione 
talora 
esige 
per 
la 
compressione, 
anche 
temporanea, 
dei diritti e delle libertà fondamentali. 

Ad 
una 
simile 
osservazione 
si 
potrebbe, 
tuttavia, 
obiettare 
che, 
per 
far 
fronte 
all’emergenza 
epidemiologica 
da 
Coronavirus, 
il 
Governo 
è 
ricorso 
allo 
strumento 
normativo 
della 
decretazione 
d’urgenza, 
facendo 
confluire 
nel 


d.l. 
n. 
19/2020 
l’individuazione 
astratta 
delle 
misure 
di 
contrasto 
ai 
rischi 
sanitari 
derivanti 
dalla 
diffusione 
del 
virus 
e 
l’espressa 
previsione 
della 
loro 
concreta 
esecuzione 
per 
effetto 
di 
un 
successivo 
atto 
amministrativo, 
il 
D.P.C.M. 
Sicché, 
il 
potere 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
di 
incidere, 
mediante 
atto 
amministrativo, 
sulla 
sfera 
individuale 
del 
cittadino, 
e, 
più 
in 
particolare, 
sulle 
libertà 
costituzionalmente 
garantitegli, 
ha 
trovato 
copertura 
costituzionale. 
In 
previsione 
di 
un’eventuale 
futura 
emergenza 
sanitaria, 
al 
fine 
di 
fugare 
possibili 
illegittimità 
e 
tenuto conto della 
mancanza 
di 
una 
disciplina 
costituzionale 
inerente 
alla 
fattispecie 
emergenziale 
tout 
court, risulterebbe 
utile 
un 
intervento legislativo (costituzionale 
e/o ordinario) organico volto alla 
regolamentazione 
in 
via 
generale: 
a) 
delle 
ipotesi 
di 
emergenza 
sanitaria 
e 
della 
relativa 
competenza 
alla 
loro 
dichiarazione 
e 
b) 
delle 
misure 
(tassative) 
applicabili 
in ogni 
emergenza 
sanitaria 
e 
della 
competenza 
in ordine 
alla 
loro attuazione. 



RECENSIONI
ANTONIO 
MITROTTI 
(*), 
L’interesse 
nazionale 
nell’ordinamento 
italiano. Itinerari della genesi ed evoluzione di un’araba fenice. 


(COLLANA: RICERCHE 
GIURIDICHE, DIRETTA 
DA 
A. CELOTTO, F. LIGUORI, L. ZOPPOLI) 
(EDITORIALE 
SCIENTIFICA, 2020, PP. 428) 


Presentazione 


Il 
volume 
di 
Antonio 
Mitrotti 
sull’interesse 
nazionale 
nei 
rapporti 
fra 
Stato e 
Regioni 
reca 
un contributo importante, nel 
metodo e 
nel 
merito, allo 
studio della complessa materia. 


L’Autore 
esamina 
con 
attenzione 
il 
sistema 
normativo 
previgente 
rispetto 
alla 
riforma 
del 
2001 e 
ripercorre 
le 
fasi 
della 
sua 
elaborazione 
non solo nei 
lavori 
preparatori 
della 
“Costituente”, 
nel 
suo 
progressivo 
slittamento 
a 
limite 
di 
pura 
legittimità, con obliterazione 
delle 
originarie 
valenze 
di 
merito, nella 
prassi 
e 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale, sino alla 
famosa 
sentenza 
n. 177 del 
1988 che 
tentò una 
prima 
sistemazione 
giuridica 
dell’istituto 
in 
questione 
(che, 
apparentemente, 
pone 
un 
limite 
negativo 
ma, 
in 
effetti, 
anche presenta non meno importanti valenze positive). 


L’interesse 
nazionale, non più esplicitamente 
menzionato nel 
testo della 
Costituzione 
dopo la 
riforma 
del 
2001, riprende 
corpo in istituti 
solo apparentemente 
di 
settore, ma, in effetti, centrali: 
come 
la 
previsione 
di 
competenze 
legislative 
trasversali, che 
uniscono insieme 
una 
implicita 
clausola 
di 
supremazia 
con 
una 
definizione 
puramente 
teleologica 
della 
loro 
consistenza, 
la 
“chiamata 
in 
sussidiarietà 
legislativa” 
elaborata 
dalla 
Corte 
costituzionale 
con 
la 
sentenza 
n. 
303 
del 
2003, 
che 
l’A. 
considera 
quasi 
parallela 
rispetto 
alla 
sentenza 
n. 177 del 
1988, la 
previsione 
di 
un potere 
surrogatorio del 
Governo 
quando 
si 
riscontrino 
gravi 
inadempienze 
regionali, 
specificamente 
qualificate 


(*) Già 
Praticante 
forense 
presso l’Avvocatura 
dello Stato, Dottore 
di 
ricerca 
in Diritto pubblico comparato 
- Univesità degli Studi di 
Teramo. 



RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 1/20120 


(art. 120 Cost.), non solo in campo amministrativo ma, come 
l’A. finemente 
argomenta e documenta, anche a livello di normazione primaria. 


L’elaborazione 
della 
giurisprudenza 
è 
stata 
fondamentale 
nella 
configurazione 
di 
queste 
fattispecie 
a 
volte 
“enucleate” 
da 
un testo costituzionale 
laconico, 
altre 
volte 
“costruite” 
integrando con il 
sistema 
quel 
che 
la 
legge 
di 
revisione costituzionale del 2001 espressamente dice. 


E 
questa 
elaborazione 
è 
entrata 
in contatto con quella, del 
pari 
creativa, 
concernente 
il 
principio di 
leale 
collaborazione, variamente 
modulato con riguardo 
agli 
intrecci, talvolta 
inestricabili, fra 
materie, ai 
concorrenti 
“titoli 
di 
competenza” 
statali 
e 
regionali, oltre 
che 
con riguardo all’attrazione 
in sussidiarietà, 
alle 
competenze 
trasversali, ed alle 
normali 
intersezioni 
fra 
materie 
confinanti: 
intesa 
forte, 
intesa 
debole, 
parere, 
altri 
raccordi 
procedimentali, 
procedimento 
di 
intesa, 
etc. 
Tale 
principio 
si 
ripresenta, 
del 
resto, 
in 
forme 
proprie 
nell’ipotesi 
di 
intervento statale 
surrogatorio (art. 120 Costituzione). 
Forse 
il 
legislatore 
avrebbe 
dovuto sostenere 
la 
Corte 
in questa 
difficile 
elaborazione 
in misura 
maggiore 
di 
quanto non abbia 
fatto. Oltre 
alla 
giurisprudenza 
l’unico, ulteriore, riferimento è 
dato dalla 
esile 
legge 
n. 131 del 
2003, 
che 
talvolta 
l’A. richiama 
nei 
suoi 
sviluppi 
argomentativi. Ma 
anche 
il 
principio 
di 
leale 
collaborazione, 
nelle 
sue 
varie 
forme, 
mostra 
elementi 
di 
sofferenza 
di cui è cenno in questo articolato e documentato contributo. 

Il 
quale 
si 
segnala, appunto, per la 
finezza 
dell’analisi 
giuridica 
(ricordo 
le 
pagine 
sui 
“poteri 
sostitutivi” 
e 
l’analisi 
della 
diversa 
disciplina 
dell’an, 
del 
quid, 
del 
quando 
e 
del 
quomodo, che 
consente 
di 
inserirli 
senza 
strappi 
nel 
sistema 
anche 
ad un livello legislativo), per l’accurata 
documentazione 
di 
giurisprudenza 
e 
dottrina, 
per 
l’impiego 
sagace 
dell’argumentum 
a 
comparatione. 

Lo 
studio 
del 
limite 
di 
interesse 
nazionale 
diviene 
quasi 
un 
prisma 
nel 
quale 
si 
riflette 
l’intero 
complesso 
dei 
rapporti 
fra 
Stato 
e 
Regioni, 
ma 
è 
anche 
un 
elemento 
dinamico 
che 
contribuisce 
a 
renderlo 
ragionevole 
se 
non 
razionale. 


L’argomentazione 
dogmatica 
è, 
inoltre, 
sovrastata 
da 
una 
consapevolezza 
sistematica 
più profonda, per cui 
il 
limite 
(negativo e 
positivo) dell’interesse 
nazionale 
deriva, 
prima 
ancora 
che 
da 
singoli 
istituti 
costituzionali 
o 
legislativi, 
dall’essere stesso di un sistema federale o regionale. 

L’esplicito 
riconoscimento 
di 
unità 
ed 
indivisibilità 
della 
Repubblica 
scolpito 
nell’articolo 
5 
della 
nostra 
Costituzione 
con 
parole, 
come 
sempre, 
semplici 
ed efficaci 
-forse 
aggiunge 
elementi 
normativi 
ad un principio che 
ha radice, prima ancora, nelle cose. 


Ciò 
ricorda 
alcune 
riflessioni 
di 
Santi 
Romano 
sulla 
consistenza 
giuridica 
e 
sulle 
valenze 
normative 
implicite 
del 
dato 
istituzionale, 
come 
anche 
avvalora 
uno 
dei 
possibili 
utilizzi 
della 
comparazione 
giuridica 
in 
questa 
sede 
sviluppata 
con riguardo all’esperienza 
della 
Germania 
federale, quasi 
fattore 
utile 
a 
di-
svelare 
principi 
nascosti 
nelle 
pieghe 
del 
sistema 
(ricordo anche 
Biscaretti 
di 
Ruffia). 


RECEnSIOnI 
309 


Di 
qui 
il 
passo 
ad 
un’analisi 
economica 
delle 
istituzioni, 
utile 
in 
sede 
giuridica 
attraverso l’argomentazione 
dalle 
conseguenze, sembra 
davvero breve. 

Augusto Cerri 



RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 1/20120 


ANDREA 
CARBONE 
(*), 
Potere 
e 
situazioni 
soggettive 
nel 
diritto 
amministrativo. 
I. 
Situazioni 
giuridiche 
soggettive 
e 
modello 
procedurale di accertamento. 


(GIAPPICHELLI 
EDITORE, 2020, PP. 560) 


Il 
presente 
volume 
rappresenta 
una 
prima 
sistemazione 
dell’elaborazione 
che 
ci 
si 
è 
prefissati 
di 
effettuare 
in 
ordine 
alle 
situazioni 
giuridiche 
che 
si 
rapportano 
con 
il 
potere 
amministrativo, 
e 
alla 
possibilità 
della 
loro 
considerazione 
quale 
oggetto del 
processo amministrativo, insieme 
alla 
declinazione 
in 
concreto del relativo giudizio. 


In 
questa 
prima 
parte, 
l’attenzione 
è 
dedicata 
soprattutto 
alla 
ricostruzione 
della 
situazione 
giuridica 
che 
assume 
rilievo 
sotto 
il 
profilo 
sostanziale; 
mentre, 
alla 
sua 
considerazione 
quale 
oggetto 
del 
processo 
amministrativo, 
alla 
struttura 
del 
relativo 
giudizio, 
così 
come 
all’elaborazione 
delle 
situazioni 
giuridiche 
da 
definirsi 
di 
carattere 
(prettamente) 
procedurale, 
sarà 
riservata 
la 
parte 
II 
del 
lavoro, 
ancorché 
talune 
considerazioni 
in 
proposito 
verranno 
effettuate 
già 
in 
chiusura 
del 
presente 
volume. 
La 
parte 
II 
sarà 
oggetto 
di 
un 
volume 
autonomo, 
ancora 
in 
fase 
di 
elaborazione 
(e 
rispetto 
al 
quale 
potrebbe 
anche 
procedersi 
ad 
una 
risistemazione 
di 
questo 
stesso 
volume, 
ora 
pubblicato 
fuori 
collana, 
laddove 
se 
ne 
ravvisi 
la 
necessità 


o 
l’opportunità). 
L’idea 
di 
pubblicare 
intanto 
questa 
prima 
parte 
è 
maturata 
-oltre 
che 
dalla 
volontà 
di 
prendere 
parte 
ad 
un 
dibattito 
sull’argomento 
che 
risulta 
molto 
vivo 
nell’attuale 
esperienza 
della 
scienza 
amministrativa 
-dalla 
circostanza 
che 
essa 
assume 
una 
sua 
compiutezza 
e 
autonomia, 
se 
posta 
in 
relazione 
con 
quanto 
si 
è 
già 
avuto 
modo 
di 
rappresentare 
in 
precedenti 
lavori 
(in 
particolare, 
L’azione 
di 
adempimento nel 
processo amministrativo, L’azione 
di 
condanna 
ad un facere 
e 
Il 
contraddittorio procedimentale). Le 
considerazioni 
effettuate 
sul 
punto in quelle 
occasioni, infatti, hanno potuto facilmente 
essere 
riprese, 
e 
adattate, nei 
loro termini 
fondamentali, alle 
conclusioni 
qui 
raggiunte, attraverso 
le 
precisazioni 
che 
si 
sono effettuate 
nelle 
considerazioni 
finali, le 
quali 
anticipano quanto appunto si 
verrà 
più compiutamente 
a 
rappresentare 
nella 
parte II del nostro studio. 


(*) 
Professore 
associato 
di 
Diritto 
amministrativo 
presso 
il 
Dipartimento 
di 
Scienze 
giuridiche 
della 
Sapienza 
Università 
di 
Roma. Ha 
conseguito all’unanimità 
l’abilitazione 
di 
prima 
fascia 
nella 
medesima 
materia. È 
stato visiting Scholar presso il 
Max-Planck-Institut 
für ausländisches 
öffentliches 
Recht 
und 
völkerrecht 
di 
Heidelberg e 
ha 
svolto numerosi 
soggiorni 
di 
studio e 
ricerca 
all’estero; 
è 
membro dello 
European Group of Public 
Law 
dell’EPLO. Ha 
pubblicato saggi 
e 
contributi 
di 
diritto amministrativo e 
diritto 
processuale 
amministrativo, 
tra 
cui, 
per 
i 
tipi 
della 
Giappichelli, 
le 
monografie 
L’azione 
di 
adempimento 
nel processo amministrativo (2012) e Il contraddittorio procedimentale. 
Ordinamento nazionale e diritto europeo-convenzionale (2016). 



RECEnSIOnI 
311 


nel 
momento di 
licenziare 
questa 
parte, un sincero ringraziamento va 
a 
quanti, in questo periodo di 
emergenza 
generale, sono stati 
d’aiuto nel 
reperimento 
dei 
testi 
la 
cui 
consultazione 
è 
stata 
necessaria 
per la 
realizzazione 
del-
l’opera; 
e 
a 
coloro 
che, 
con 
i 
loro 
preziosi 
consigli, 
hanno 
contribuito 
a 
chiarire 
dubbi 
e 
a 
fornire 
elementi 
che 
potessero 
consolidare 
la 
ricostruzione 
in 
questa 
sede effettuata. 


Roma, 4 maggio 2020 
A.C. 



Finito di stampare nel mese di ottobre 2020 
Stabilimenti 
Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 
Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma