ANNO LXXII - N. 2 
APRILE - GIUGNO 2020 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: Michele 
Dipace. Componenti: Franco Coppi 
-Giuseppe 
Guarino Natalino 
Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Alessandro 
Belli, 
Alessandro 
D’Amico, 
Gesualdo 
d’Elia, 
Gianna 
Maria 
De 
Socio, 
Beatrice 
Favero, 
Michele 
Gerardo, 
Andrea 
Lipari, 
Gabrile 
Luzi, 
Anna 
Elena 
Madera, 
Gaetana 
Natale, 
Vincenzo 
Nunziata, 
Paola 
Palmieri, 
Gianfranco 
Pignatone, 
Valentino 
Ravagnani, 
Valeria 
Romano, 
Giorgio 
Santini, 
Fabio 
Ratto 
Trabucco, 
Tito 
Varrone, 
Lorenza 
Vignato. 


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giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it 
maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
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IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
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05, 
causale 
di 
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la 
spedizione, 
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fiscale 
del 
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I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
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di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


In ricordo di Ivo Maria Braguglia 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

CONTENZIOSO 
NAZIONALE 


Valentino Ravagnani, Le Sezioni Unite avallano la c.d. nullità selettiva 
degli ordini di investimento. Quali ricadute, sul livello di tutela degli investitori? 
(Cass. civ., Sez. Un., sent. 4 novembre 2019 n. 28314) 
. . . . . . 

Gaetana 
Natale, 
Un 
sentenza 
storica 
in 
tema 
di 
contratti 
derivati 
stipulati 
tra 
banche 
ed 
enti 
locali 
(Cass. 
civ., 
Sez. 
Un., 
sent. 
12 
maggio 
2020 
n. 
8770) 


Gabriele Luzi, La responsabilità della P.A. per spoils system costituzionalmente 
illegittimo: 
la 
“soggettivazione” 
dell’Amministrazione 
e 
il 
punto 
di 
contatto 
tra 
le 
concezioni 
privatistica 
e 
pubblicistica 
della 
revoca 
delle 
funzioni 
dirigenziali 
(Cass. 
civ., 
Sez. 
VI, 
ord. 
8 
ottobre 
2019 
n. 
25189). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Beatrice favero, Sull’interpretazione dell’art. 118, co. 3, vecchio codice 
appalti (C. app. Trieste, Sez. I civ., sent. 1 ottobre 2020 n. 426) 
. . . . . . . 

Anna Elena Madera, Responsabilità per pratiche di adozione non andate 
a 
buon 
fine. 
Una 
interessante 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Bologna 
(Trib. 
Bologna, Sez. II civ., sent. 28 settembre 2020 n. 1314) 
. . . . . . . . . . . . . . 

Alessandro 
Belli, 
L’accesso 
civico 
generalizzato 
in 
materia 
di 
appalti 
alla 
luce della Plenaria n. 10/2020 
(Cons. St., Ad. Plen., sent. 2 aprile 2020 


n. 10). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Lorenza 
Vignato, 
Il 
Consiglio 
di 
Stato, 
con 
adunanza 
plenaria, 
n. 
23/2020, esclude l’applicabilità della clausola di salvaguardia artt. 92, 
94 D.lgs. 159/11 ai finanziamenti pubblici (Cons. St., Ad. Plen., sent. 26 
ottobre 2020 n. 23) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Wally 
ferrante, 
Interpretatio 
abrogans 
dell’art. 
121 
TULPS. 
Il 
discrimine 
tra attività di cartomanzia e ciarlataneria (Cons. St., Sez. III, sent. 1 luglio 
2020 n. 4189). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Wally 
ferrante, 
Scioglimento 
di 
consiglio 
comunale, 
declaratoria 
di 
inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse ed effetto 
devolutivo dell’appello 
(Cons. St., Sez. III, sent. 22 settembre 2020 


n. 5548). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Remissione in Corte di Giustizia e sussistenza del “ra-gionevole 
dubbio” (“soggettività” dell’attività interpretativa) 
(Cons. St., 
Sez. VI, ord. 24 settembre 2020 n. 5588). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 


Sergio 
fiorentino, 
Agevolazioni 
pubbliche 
contrarie 
al 
diritto 
Ue, 
la 
Commissione 
non impone di recuperare gli aiuti già concessi (i.e. esecuzione 
dei giudicati?) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

pag. 
1 
›› 
38 
›› 
53 
›› 
61 
›› 
72 
›› 
80 
›› 
123 
›› 
141 
›› 
152 
›› 
180 
›› 
187 



Gianfranco Pignatone, Gianna 
Maria 
De 
Socio, Sull’istituto della prenotazione 
a debito del 
contributo unificato; il 
caso delle 
Autorità Indipendenti 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
194 
Gesualdo d’Elia, Sentenza di 
proscioglimento ai 
sensi 
dell’art. 529 c.p.p. 
a seguito di 
remissione 
di 
querela. Rilevanza in sede 
di 
formazione 
delle 
aliquote di valutazione del personale militare 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
210 
Giacomo 
Aiello, 
Intervento 
pubblico 
a 
favore 
delle 
cooperative 
agricole, 
l’accollo 
del 
debito 
ex 
lege 
da 
parte 
dello 
Stato 
(art. 
1, 
co. 
1 
bis, 
l. 
237/1993) a copertura delle garanzie concesse da soci. . . . . . . . . . . . . . ›› 
216 
Valeria 
Romano, 
L’istituto 
della 
prelazione 
c.d. 
urbana 
nell’ambito 
di 
una procedura di liquidazione coatta amministrativa 
. . . . . . . . . . . . . . . ›› 
222 
Vincenzo Nunziata, Andrea 
Lipari, Codice 
dei 
contratti 
pubblici, normativa 
in 
tema 
di 
conflitto 
di 
interessi 
e 
procedure 
di 
aggiudicazione 
(il 
progettista 
e l’appaltatore esecutore dei lavori) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
232 
Giorgio Santini, Sul 
patrocinio erariale 
(ex 
art. 43 r.d. 1611/1933) a favore 
degli 
enti 
regionali 
per 
il 
diritto allo studio universitario nella Regione 
Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
240 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Michele 
Gerardo, 
Nozione, 
regime 
e 
vicende 
dell’ente 
pubblico. 
Rapporto 
con la nozione di pubblica amministrazione 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
249 
Alessandro 
D’Amico, 
Il 
Giudice 
penale 
e 
la 
legge 
scientifica. 
Il 
punto 
della giurisprudenza penale in materia di causalità ed amianto 
. . . . . . . ›› 
277 



COMUNICATO 
DELL'AVVOCATO 
GENERALE 
(*) 


Con 
profonda 
tristezza 
comunico 
che 
nella 
giornata 
di 
ieri 
è 
deceduto 
il 
Collega 
e 
Amico 
Ivo Maria Braguglia, Avvocato Generale Onorario. 


Nell’esprimere 
le 
più sentite 
condoglianze 
alla 
Famiglia, anche 
a 
nome 
dei 
Colleghi 
e 
di 
tutto il 
Personale 
dell’Avvocatura, desidero ricordare 
la 
Sua 
figura 
di 
Avvocato dello Stato 
e 
di 
Uomo che, nel 
corso della 
Sua 
esemplare 
carriera, ha 
dato sempre 
lustro all’Istituto, sia 
innanzi 
alle 
Giurisdizioni 
nazionali, 
sia 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
ove 
ne 
sono 
ancora 
vivi il ricordo, la stima e l’alta considerazione. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


Un grande giurista, un vero signore, un maestro e un amico 


Arrivato da 
poco all’Avvocatura 
generale, mi 
capitò di 
andare 
a 
un convegno al 
Consiglio 
di 
Stato. Con leggero ritardo sull’inizio dei 
lavori 
arrivò Ivo Braguglia, all’epoca 
ancora 
non 
Vice 
Avvocato 
Generale, 
che 
si 
accingeva 
a 
prendere 
posto 
tra 
l’uditorio 
nella 
Sala 
di 
Pompeo. Il 
Presidente 
de 
Roberto, che 
aveva 
la 
parola, si 
interruppe 
per salutarlo espressamente 
e 
pubblicamente 
(cosa 
che 
non aveva 
fatto con alcuno degli 
altri 
ritardatari). Questa 
stessa 
stima 
e 
considerazione 
l’ho 
percepita 
sempre, 
ogni 
qualvolta, 
in 
qualsiasi 
sede, 
venisse 
fatto il 
nome 
di 
Ivo Braguglia. Avendolo poi 
imparato a 
conoscere 
meglio, ho potuto capire 
quanto fosse meritata. 


Sergio Fiorentino 


... quando i 
suoi 
occhi 
azzurri 
ti 
scrutavano, lasciando per un momento le 
carte 
in cui 
era 
assorto, si 
provava 
un momento di 
ansia 
nell’attesa 
della 
sua 
opinione, alla 
quale 
sarebbe 
seguito il sollievo dell’indicazione giusta per la soluzione del problema. 


Insieme 
a 
Piergiorgio Ferri, Ignazio Caramazza, Oscar Fiumara 
ed altri 
eccellenti 
colleghi 
della 
sua 
generazione 
ha 
aperto la 
strada, all’epoca 
quasi 
pionieristica, della 
dialettica 
tra diritto comunitario e diritto interno. 


Ci 
ha 
poi 
lasciato per una 
parentesi 
al 
MAE 
come 
Capo del 
Contenzioso Diplomatico, 
occupando una posizione che era stata ad esclusivo appannaggio di Professori universitari. 


Anche lì ha lasciato un ricordo indelebile. 


Voglio 
ricordare 
anche 
la 
sua 
romanità 
che 
ogni 
tanto 
gli 
consentiva 
una 
certa 
ironia 
capace 
di incrinare la sua scorza apparentemente severa. .... 


Giacomo Aiello 


Ivo era 
uno di 
quelli 
dai 
quali 
avevi 
molto da 
imparare 
in tutti 
i 
sensi. Ti 
affascinava 
parlando di 
mercato agricolo e 
di 
dogane, come 
di 
diritto antitrust 
e 
delle 
comunicazioni, materie 
che 
fu uno dei 
primi 
a 
trattare, trasmettendoti 
la 
sua 
esperienza 
con umiltà 
e 
naturalezza, 


(*) E-mail Segreteria Particolare - martedì 27 ottobre 2020. 



come 
sanno fare 
i 
veri 
maestri. E 
con la 
stessa 
semplicità 
ti 
coinvolgeva 
in una 
piacevole 
ora 
di 
distrazione, alla 
vigilia 
di 
una 
causa 
complicata 
e 
in una 
serata 
piovosa 
e 
un po’ 
noiosa 
a 
Lussemburgo, 
chiacchierando 
davanti 
a 
una 
choucroute 
e 
a 
un 
buon 
bicchiere 
di 
Riesling. 
Un 
indimenticabile collega e un grande esempio di umanità. 

Danilo Del Gazio 


Uomo di 
profonda 
cultura 
ed elevatissimo stile, tratto, signorilità, Ivo, schietto e 
onestissimo 
Grand Commis 
de 
l'état 
anche 
come 
Agente 
dello Stato presso le 
Corti 
sovranazionali, 
insegnava 
e 
persuadeva, 
senza 
mai 
intendere 
la 
Sua 
funzione 
come 
di 
potere. 
Una 
perdita 
che, 
però, 
ci 
lascia 
l'esempio 
di 
come 
si 
dovrebbe 
essere 
come 
Avvocato 
dello 
Stato, 
investito 
di grandi responsabilità.... 


Roberto De Felice 


Ivo Braguglia 
è 
stato il 
Presidente 
della 
commissione 
del 
mio concorso a 
Procuratore 
dello Stato, ormai ventinove anni fa. 

Pensare 
a 
me 
come 
ad una 
Sua 
collega 
ancora 
oggi 
mi 
è 
impossibile. E 
ciò non solo e 
non tanto perché, nel 
mio immaginario, Ivo resterà 
sempre 
il 
Presidente 
della 
commissione 
ed io un suo "pesciolino " 
(pescato nella 
rete 
delle 
prove 
concorsuali, come 
ebbe 
affettuosamente 
a 
dire 
una 
volta) ma 
perché 
Ivo è 
stato un Maestro, uno degli 
esponenti 
della 
generazione 
formidabile 
(Giancarlo 
Mandò, 
Giorgio 
D'Amato, 
Glauco 
Nori, 
Ignazio 
Caramazza, 
l'indimenticabile 
Sergio Laporta, Marcello Conti, Antonio Palatiello per citarne 
solo alcuni) 
che hanno reso grande il nostro Istituto, in una stagione che credo irripetibile. 

Dobbiamo a 
tutti 
questi 
Maestri 
ciò che 
siamo adesso e 
credo che 
il 
miglior modo per 
prendere 
commiato da 
Ivo sia 
ricordare 
che 
tutto quanto di 
buono abbiamo fatto e 
facciamo 
lo dobbiamo all'esser nani sulle spalle dei Giganti.... 


Roberta Guizzi 


Molto 
addolorata, 
non 
posso 
non 
unirmi 
al 
ricordo 
affettuoso 
tratteggiato 
da 
Roberta 
Guizzi. 

Ivo è 
stato il, severo ma 
sorridente, Presidente 
di 
Commissione 
del 
nostro concorso da 
Procuratore dello Stato e da allora ci ha sempre fatti sentire come sue creature. 


In 
seguito 
non 
mi 
sono 
mai 
mancati, 
anche 
a 
distanza, 
i 
suoi 
consigli 
e 
le 
sue 
indicazioni, 
sempre illuminanti e generose. 


Conserverò il ricordo di un grande giurista, un vero signore, un maestro e un amico. 


Maria Assunta Mercati 



Un documento a suo modo storico, per ricordare Ivo. 


L’AIGE, d’intesa 
con l’Avvocatura 
dello Stato e 
con il 
Consiglio dell’Ordine 
degli 
Avvocati 
di 
Roma, sta 
organizzando per l’inizio del 
prossimo anno un nuovo corso sul 
processo 
europeo, che pensa ai più giovani e che sarà dedicato alla figura di Ivo. 


Paolo Gentili 



ASSOCIAZIONE 
ITALIANA 
GIURISTI 
EUROPEI 


SEMINARIO 
SUL 
PROCESSO 
COMUNITARIO 


PROGRAMMA 


Mercoledì 12 dicembre 1990, ore 16 
Francesco 
CAPOTORTI, presidente 
dell'AIGE 
-prof. ord. nell'Università 
di 
Roma 
I, "La 
Sapienza" 


La giurisdizione nel diritto comunitario 


Giovedì 20 dicembre 1990, ore 16 
Antonio SAGGIO, giudice al 
Tribunale di primo grado delle C.E. 
Gli organi della giustizia comunitaria 



Lunedì 14 gennaio 1991, ore 16 
Antonio TIZZANO, prof. ord. nell'Università 
dì 
Napoli 
-Consigliere 
giuridico alla 
Rappresentanza 
Permanente dell'Italia presso le C.E. 


Il processo nel diritto comunitario 



Venerdì 18 gennaio 1991, ore 16 
Antonino 
ABATE, 
Consigliere 
giuridico 
principale 
al 
Servizio 
Giuridico 
della 
Commissione 
delle C.E. 


Le procedure di infrazione e i loro effetti per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive 



Mercoledì 23 gennaio 1991, ore 16 
Ivo M. BRAGUGLIA, Avvocato dello Stato 
Le domande di pronuncia pregiudiziale 



Mercoledì 30 gennaio 1991, ore 16 
Emilio CAPPELLI, Avvocato del Foro di Roma 
Controllo 
di 
legittimità, 
controllo 
sui 
comportamenti 
omissivì 
e 
responsabilità 
extracontrattuale 



Responsabili del Seminario: avv. Ivo Braguglia 
avv. Emilio Cappelli 


Assistente: dr. proc. Andrea Bandini 
Sede del Seminario: 
I 
S 
P 
E 
S 
, Via di Monte Giordano 36 (Palazzo Taverna) 


ContenzioSonazionaLe
Le Sezioni Unite avallano la c.d. nullità selettiva 
degli ordini di investimento. Quali ricadute, 
sul livello di tutela degli investitori? 


Nota 
a 
CassazioNe 
Civile, sezioNi 
UNite, seNteNza 
4 Novembre 
2019 N. 28314 


Valentino Ravagnani* 


sommario: 1. Premessa: il 
caso concreto, la materia e 
le 
ragioni 
di 
interesse 
per 
il 
civilista 
-2. Peculiarità della disciplina dei 
servizi 
di 
investimento: dall’atto all’attività, ipertrofia 
normativa 
e 
precarietà 
dell’apparato 
rimediale. 
Cenni 
-3. 
orientamenti 
e 
opzioni 
teoriche 
per 
una corretta ricostruzione 
delle 
dinamiche 
negoziali 
-4. la sentenza: la buona 
fede 
come 
“criterio ordinante” 
e 
una soluzione 
mediana in punto di 
effetti 
delle 
nullità protettive 
-5. 
limiti 
e 
fisiologiche 
insufficienze 
dell’arresto 
-6. 
Considerazioni 
conclusive: 
electa 
una via non datur 
recursus 
ad alteram. Una diversa (e 
forse 
minore) intonazione 
protettiva 
delle tutele, tra opacità ricostruttive ed equivoci di fondo. 


1. Premessa: il 
caso concreto, la materia e 
le 
ragioni 
di 
interesse 
per 
il 
civilista. 
Con sentenza 
del 
9 aprile 
-4 novembre 
2019, n. 28314, le 
Sezioni 
Unite 
si 
sono pronunciate 
sulla 
ammissibilità 
della 
c.d. nullità 
selettiva 
degli 
ordini 
di 
investimento. Precisamente, il 
custode 
della 
nomofilachia 
è 
stato investito, 
dalla 
Sezione 
I, della 
questione 
circa 
la 
latitudine 
degli 
effetti 
dell’azione 
di 
nullità 
indirizzata 
dall’investitore 
a 
specifici 
ordini 
di 
investimento, fondata 
tuttavia sul difetto di forma del c.d. master agreement 
(1). 

(*) Dottore 
in Giurisprudenza, ammesso alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
dello Stato (avv. St. 
Emanuele Manzo). 

(1) Il 
termine 
inglese 
è 
volutamente 
impiegato, in luogo delle 
comuni 
espressioni 
“contratto quadro” 
o “contratto quadro-normativo” 
percorrenti 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità, per la 
sua 
neutralità 
rispetto 
alle 
diverse 
opzioni 
ricostruttive 
della 
fattispecie 
contrattuale 
di 
cui 
all’art. 23 T.u.f., per le 
quali 
si rinvia al par. 3. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


la 
pronuncia 
in oggetto interviene 
a 
un lustro di 
distanza 
dalle 
note 
sentenze 
gemelle 
nn. 
26242 
e 
26243 
del 
2014, 
con 
le 
quali 
veniva 
redatto 
un 
primo 
fondamentale 
capitolo 
dello 
statuto 
normativo 
delle 
nullità 
di 
protezione 
(2), parametrando minuziosamente 
i 
poteri 
del 
giudice 
sulla 
distinzione 
tra 
rilevabilità 
e 
dichiarazione 
dell’invalidità, 
e 
un 
anno 
dopo 
la 
sentenza 
n. 
898/2018 sulla 
tenuta 
dei 
contratti 
“monofirma” 
(3). Se 
i 
nodi 
teorici 
possono 
quindi 
dirsi 
collocati 
in un retroterra 
giurisprudenziale 
parzialmente 
arato, il 
pomo della 
discordia 
rimane 
un grande 
classico: 
contratti 
di 
investimento in 
obbligazioni 
argentine. 
Come 
supra 
accennato, 
il 
cliente 
ne 
chiedeva 
la 
dichiarazione 
di 
nullità, con conseguenti 
restituzioni, derivandola 
dal 
difetto di 
forma 
scritta 
del 
master 
agreement 
in 
violazione 
dell’art. 
23, 
comma 
3 
del 
T.u.f.; 
la 
banca 
resistente, per parte 
sua, proponeva 
domanda 
riconvenzionale 
(riqualificata 
in secondo grado come 
eccezione 
di 
compensazione) per la 
restituzione 
delle 
cedole 
riscosse 
relative 
agli 
investimenti 
andati 
a 
buon fine, 
derivanti 
dal 
medesimo 
contratto. 
In 
primo 
grado, 
entrambe 
le 
domande 
furono 
accolte, con condanna 
dell’investitore 
al 
pagamento della 
differenza 
residua 
a 
debito. 
la 
soluzione 
veniva 
confermata 
in 
grado 
d’appello, 
ove 
si 
escludeva 
radicalmente un uso selettivo della nullità relativa. 

Ancora 
in 
esordio, 
preme 
evidenziare 
la 
rilevanza 
della 
materia 
dei 
servizi 
e 
attività 
di 
investimento -già 
“intermediazione 
mobiliare” 
(4) -sul 
versante 
propriamente 
civilistico. 
Accantonate 
le 
regole 
di 
governance, 
la 
disciplina 
de 
qua 
si 
è 
dimostrata 
uno 
straordinario 
laboratorio 
di 
indagine 
e, 
financo, 
ripensamento 
di 
alcune 
tra 
le 
più classiche 
categorie 
dogmatiche, nell’ottica 
di 
fornire 
risposte 
crescentemente 
accettabili 
all’incalzante 
domanda 
sociale 
di 
giustizia. Molteplici 
sono stati 
gli 
istituti 
coinvolti, variamente 
stridenti, nella 
propria 
fisionomia 
tradizionale, con le 
dinamiche 
peculiari 
dei 
rapporti 
di 
intermediazione 
finanziaria. Tra 
essi, si 
segnalano: 
una 
«riduzione 
della “forbice” 
fra 
correttezza 
e 
diligenza» 
(5), 
la 
natura 
del 
master 
agreement 
e 


(2) S. PAGlIAnTInI, le 
stagioni 
della nullità selettiva (e 
del 
“di 
protezione”), in 
Contratti, 2020, 
I, p. 11. 
(3) 
E. 
ToSI, 
il 
contratto 
asimmetrico 
bancario 
e 
di 
investimento 
monofirma: 
la 
forma 
informativa 
e 
il 
problema della sottoscrizione 
unilaterale 
alla luce 
della lettura funzionale 
delle 
sezioni 
Unite 
della 
Cassazione, in Contratto e impr., 2019, I, pp. 197 e ss. 
(4) 
Sulle 
ragioni 
dell’attuale 
obsolescenza 
del 
sintagma 
“intermediazione 
mobiliare”, 
diffusamente, 
l. EnrIqUES, Dalle 
attività di 
intermediazione 
mobiliare 
ai 
servizi 
di 
investimento, in riv. soc., 
1998, pp. 1013-1038. 
(5) M. lobUono, la responsabilità degli 
intermediari 
finanziari, 1999, Edizioni 
Scientifiche 
Italiane, 
p. 
139. 
Più 
in 
dettaglio, 
fu 
osservato 
dalla 
dottrina 
che 
«sembra 
(…) 
poco 
credibile 
che, 
in 
subjecta 
materia, 
la 
correttezza 
debba 
godere 
soltanto 
di 
rilevanza 
sociale 
e 
non 
anche 
professionale. 
trattandosi 
di 
una regola a destinatario necessario (l’intermediario autorizzato) corollario (…) è 
ritenere 
che 
la 
correttezza 
richiesta 
sia 
quella 
indotta 
e 
resa 
specifica 
dalla 
natura 
dell’attività 
da 
esso 
esercitata. 
Non 
vi 
sarebbe 
dunque 
divaricazione, a questo riguardo, tra diligenza e 
correttezza. 
(…) 
tanto il 
comportamento 
diligente 
come 
quello 
corretto 
vanno 
individuati 
sulla 
base 
del 
parametro 
della 
professionalità»; 
A. DI 
MAjo, la correttezza nell’attività di 
intermediazione 
mobiliare, in banca borsa e 
titoli 
di 
credito, 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


soprattutto 
degli 
ordini 
di 
investimento 
(6), 
la 
natura 
della 
responsabilità 
civile 
degli 
intermediari 
e 
i 
connotati 
della 
responsabilità 
precontrattuale 
(7), il 
rapporto 
tra 
regole 
di 
condotta 
e 
regole 
di 
validità 
(8), gli 
effetti 
delle 
nullità 
di 
protezione e i limiti alla ripetizione dell’indebito. 

ben evidenti 
appaino, dunque, le 
ragioni 
dell’evocato interesse 
del 
civilista 
per l’argomento. in primis, i 
rapporti 
di 
investimento, «chiamano frontalmente 
in 
causa 
problemi, 
principi 
e 
categorie 
(...) 
propri 
della 
sua 
disciplina»; 
in secundis, risulta 
«forte 
e 
netta (...) 
la tendenza a ricondurre 
gli 
specifici 
obblighi 
(...) 
dell’intermediario 
(...) 
a 
più 
generali 
principi 
cari 
al 
diritto civile», tra i quali, in apicibus, la buona fede (9). 

Infine, le 
ragioni 
genetiche 
degli 
interrogativi 
teorici 
richiamati 
sono le 
più varie 
e 
la 
vastità 
del 
tema 
non ne 
consente 
una 
ricognizione, neppure 
sinottica, 
in questa 
sede. Possono tuttavia 
menzionarsi 
due 
macro-fattori 
determinanti: 
la 
globalizzazione 
e 
l’evoluzione 
del 
diritto comunitario ed europeo, 
vieppiù a partire dai tardi anni ’80 dello scorso secolo. 

riguardo 
al 
primo, 
tralasciando 
le 
ormai 
note 
implicazioni 
di 
sistema 
(10), giova 
tener a 
mente 
la 
lectio magistralis 
tenuta 
da 
Piero Schlesinger in 
occasione 
del 
convegno 
intitolato 
“verso 
un 
superameno 
del 
diritto? 
il 
destino 
del 
diritto e 
la volontà di 
potenza della tecnica”, organizzato nel 
2014 dalla 
fondazione 
Italiana 
del 
notariato: 
la 
prima 
disciplina 
ad essere 
propriamente 
globalizzata 
fu 
la 
finanza, 
che 
dall’associazionismo 
professionale 
londinese 
si 
diffuse 
a 
macchia 
d’olio, perseguendo un indirizzo di 
semplificazione 
delle 
forme 
e 
dei 
procedimenti 
e 
prescindendo 
da 
qualsiasi 
sfera 
di 
territorialità. 
Ebbene, 
il 
settore 
finanziario 
recava 
seco 
le 
sue 
-pur 
programmaticamente 
esili 
-sovrastrutture 
giuridiche, i 
cui 
modelli 
circolarono (11), in alcuni 
casi 
palesemente, innestandosi 
con più o meno rigide 
resistenze 
nei 
diversi 
ordi


1993, pp. 292, 293; 
cfr. D. MAffEIS, Discipline 
preventive 
nei 
servizi 
di 
investimento: le 
sezioni 
Unite 
e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono nere, in 
i contratti, 2008, p. 407. 

(6) infra, par. 3. 
(7) v. roPPo, G. AffErnI, Dai 
contratti 
finanziari 
al 
contratto in genere: punti 
fermi 
della Cassazione 
su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, in Danno e responsabilità, 2006. 
(8) Diffusamente: 
G. PErlInGIErI, l'inesistenza della distinzione 
tra regole 
di 
comportamento e 
di validità nel diritto italo-europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013. 
(9) v. roPPo, la tutela del 
risparmiatore 
fra nullità, risoluzione 
e 
risarcimento (ovvero, l’ambaradan 
dei rimedi contrattuali), in Contratto e impresa, 2005, p. 897. 
(10) 
Per 
le 
quali 
si 
rinvia, 
ex 
plurimis, 
a 
f. 
GAlGAno, 
la 
globalizzazione 
nello 
specchio 
del 
diritto, 
2005, Il 
Mulino; 
G. AzzArITI, il 
costituzionalismo moderno può sopravvivere?, 2013, Edizioni 
laterza, 
pp. 47 e ss. 
(11) 
Sulla 
circolazione 
dei 
modelli 
giuridici, 
nonché, 
a 
monte, 
sull’importanza 
della 
comparazione 
giuridica 
in 
materia 
di 
protezione 
degli 
investitori: 
M.j. 
bonEll, 
Comparazione 
giuridica 
e 
unificazione 
del 
diritto, in G. AlPA, M.j. bonEll, D. CorAPI, l. MoCCIA, v. zEno-zEnCovICh, A. zoPPInI, Diritto 
privato comparato. istituti 
e 
problemi, 2012, Editori 
laterza, p. 28; 
G. AlPA, Comparative 
law as 
the 
Comparison of 
Cases 
in the 
Harmonization Process 
of 
european law -Protecting the 
investors, in G. 
AlPA, markets 
and Comparative 
law, 2010, british institute 
of 
international 
and Comparative 
law, 
pp. 97-99. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


namenti. Da 
qui, le 
criticità 
sistematiche, che 
possono compendiarsi 
nella 
felice 
espressione 
di 
luigi 
Mengoni, 
secondo 
cui 
«probabilmente 
siamo 
di 
fronte 
a un caso di 
empirismo legislativo non riducibile 
a categorie 
logico-sistematiche
» (12). 

riguardo 
al 
secondo 
macro-fattore 
di 
crisi 
delle 
tradizionali 
categorie 
codicistiche, 
giova 
segnalare 
l’avvertita 
necessità 
di 
abbandono del 
rigido dogmatismo 
tradizionale 
e, 
per 
contro, 
l’inevitabile 
resa 
a 
una 
concettualizzazione 
«flessibile» (13), la 
sola 
in grado «di 
far 
convivere 
il 
massimo di 
efficienza e 
di effettività con il minimo investimento assiologico» possibile (14). 

2. 
Peculiarità 
della 
disciplina 
dei 
servizi 
di 
investimento: 
dall’atto 
all’attività, 
ipertrofia normativa e debolezza dell’apparato rimediale. Cenni. 
Si 
ritiene, esaurite 
le 
premesse, di 
dover porre 
qualche 
punto fermo (per 
sommi 
capi, beninteso) in merito alle 
tendenze 
evolutive 
della 
disciplina 
dei 
servizi 
e 
attività 
di 
investimento, limitandosi 
agli 
aspetti 
che 
si 
assumono utili 
per una migliore intellegibilità del presente commento. 

Il 
settore 
in 
analisi, 
notoriamente, 
si 
caratterizza 
per 
la 
necessaria 
presenza 
di 
un «professionista dell’intermediazione» (15), istituzionalmente 
deputato 
a 
veicolare 
operazioni 
di 
allocazione 
ottimale 
del 
risparmio diffuso. Ebbene, 
sin dalla 
legge 
n. 1/1991 (c.d. “legge 
Sim”), pur risultando evidente 
l’intentio 
legis 
di 
collocare 
l’intermediazione 
mobiliare 
in un solido impianto contrattuale, 
la 
materia 
de 
qua veniva 
innervata 
da 
una 
dicotomia 
tra 
atto e 
attività. 
Come 
è 
evidente, 
vieppiù 
dopo 
la 
rivoluzione 
apportata 
dal 
c.d. 
sistema 
MifID, la 
centralità 
è 
ormai 
assunta 
dai 
servizi 
piuttosto che 
dalle 
vesti 
negoziali 
tramite 
i 
quali 
sono erogati 
(16), di 
talché 
il 
contratto è 
parso -e 
par tutt’ora 
-ricoprire 
un 
ruolo 
volutamente 
strumentale, 
come 
sede 
di 
tutele 
formali 
non troppo distanti 
da 
quelle 
presenti 
in nuce 
negli 
artt. 1341 e 
1342 c.c. In 
altri 
termini, 
deve 
osservarsi 
come, 
sull’onda 
di 
quello 
che 
venne 
definito 
“neo-formalismo negoziale”, il 
contratto veniva 
inteso come 
sedes 
elettiva 
di 
traduzione 
degli 
obblighi 
informativi 
in effettivi 
strumenti 
di 
tutela. In un set


(12) l. MEnGonI, Problemi 
di 
integrazione 
della disciplina dei 
«contratti 
del 
consumatore» nel 
sistema del 
codice 
civile, in 
studi 
in onore 
di 
rescigno, vol. III, obbligazioni 
e 
contratti, 1998, Giuffré 
editore, p. 541; 
nello specifico, fu rilevato che 
«il 
contratto quadro non 
[fu] inventato dal 
regolamento 
Consob 1998», bensì 
rappresentò null’altro che 
la 
positivizzazione 
di 
una 
prassi 
risalente 
ad opera 
della 
legge 
SIM: 
così 
di 
C. bElfIorE, si 
può fare 
a meno del 
contratto quadro nei 
servizi 
di 
investimento?, 
in Giurisprudenza di merito, 2007, pp. 1916, 1917. 
(13) S. roDoTà, il Codice civile e il processo costituente europeo, in riv. crit. dir. priv., 2005. 
(14) S. MAzzAMUTo, il contratto di diritto europeo, Iv ed., 2020, Giappichelli, p. 15. 
(15) G. AlPA, sub 
art. 23, in Commentario al 
testo Unico delle 
disposizioni 
in materia di 
intermediazione 
finanziaria, diretto da 
AlPA 
e CAPrIGlIonE, Padova, 1998, p. 256. 
(16) A. TUCCI, tipicità dei 
contratti 
di 
investimento e 
disciplina codicistica, in f. CAPrIGlIonE 
(a 
cura 
di), i contratti 
dei 
risparmiatori, 2013, Giuffré 
editore, p. 87; 
M. lobUono, i contratti 
aventi 
ad 
oggetto servizi 
di 
investimento, in r. boCChInI 
(a 
cura 
di), i contratti 
di 
somministrazione 
di 
servizi, 
2006, Giappichelli, pp. 242, 243. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


tore 
dominato 
dalle 
asimmetrie 
informative, 
la 
prescrizione 
della 
forma 
scritta 
ad substantiam 
(17) e, in alcuni 
casi, di 
un contenuto minimo, divenivano il 
veicolo 
dei 
dati 
informativi 
necessari 
per 
riequilibrare 
i 
gap 
prodotti 
da 
un 
mutato 
«stato 
di 
fisiologia 
sociale» 
(18) 
dei 
paciscenti, 
in 
perfetta 
consonanza 
con gli 
obiettivi 
di 
armonizzazione 
e 
integrazione 
nel 
mercato unico europeo. 
Si 
delineava 
così 
un tertium 
genus: 
una 
forma 
ad protectionem 
(19), ben distinta 
dalla 
forma 
contrattuale 
tout 
court 
per 
essere 
null’altro 
che 
«l’involucro 
nel 
quale 
sono 
(...) 
versati 
set 
di 
obblighi 
informativi 
consustanziali 
ad ogni 
contratto asimmetrico» (20). 

la 
disciplina 
in 
esame 
ha 
inoltre 
conosciuto 
una 
«ipertrofia 
normativa» 
(21), 
ossia 
una 
imponente 
produzione 
di 
regole 
di 
condotta 
crescentemente 
minuziose, 
nell’ottica 
di 
una 
vigorosa 
«procedimentalizzazione 
dell’agire» 
degli 
intermediari 
(22), 
asseritamente 
funzionale 
tanto 
all’apparato 
amministrativo-
sanzionatorio 
quanto 
alla 
tutela 
degli 
investitori. 
non 
si 
tratta, 
beninteso, 
di 
un 
indirizzo 
di 
politica 
del 
diritto 
isolato, 
quanto 
piuttosto 
di 
una 
soluzione 
di 
matrice 
eurounitaria 
adottata 
ab 
origine 
per 
il 
diritto 
dei 
consumatori 
(23). 
Ciò 
è 
debitamente 
rilevato 
dai 
giudici 
della 
nomofilachia 
nella 
sentenza 
in 
commento, 
che 
tuttavia, 
per 
le 
specificità 
del 
caso 
concreto, 
circoscrivono 
la 
contiguità 
tra 
le 
due 
materie 
alle 
vulnerabilità 
della 
parte 
debole 
sul 
solo 
versante 
informativo 
(24), 
sì 
tralasciando 
l’esame 
degli 
obblighi 
organizzativi, 
di 
astensione 
e 
dei 
recentissimi 
doveri 
di 
product 
governance. 


Infine, 
parte 
della 
dottrina 
ha 
constatato 
una 
certa 
distonia 
di 
fondo 
in 
subiecta 
materia: 
all’echeggiata 
ipertrofia 
nella 
regolazione 
ex 
ante, 
ossia 
in 
punto 
di 
regole 
di 
condotta 
degli 
intermediari, 
si 
accompagna 
-specular


(17) In queste 
ipotesi, può parlarsi 
propriamente 
di 
«nullità conformativa», programmaticamente 
«posta a tutela di 
norme 
volte 
a dare 
una determinata conformazione 
al 
regolamento contrattuale»: 
A. 
CATAUDEllA, i contratti. Parte generale, 2019, Giappichelli, p. 331. 
(18) S. MAzzAMUTo, op. cit., p. 182. 
(19) l. DI 
DonnA, remedies 
for 
breach of 
the 
Duty 
to inform 
Consumers, in 
european business 
law review, 2012, p. 254. 
(20) 
S. 
PAGlIAnTInI, 
sub 
art. 
1350 
-atti 
che 
devono 
farsi 
per 
iscritto, 
in 
Commentario 
del 
Codice 
Civile 
diretto da E. GAbrIEllI, Dei contratti in generale, artt. 1350-1386, 2011, UTET, pp. 18 e ss. 
(21) v. zEno-zEnCovICh, Profili 
di 
uno statuto dell’informazione 
economica e 
finanziaria, in il 
diritto dell’informazione 
e 
dell’informatica, 2005, p. 934. Da 
ultimo, sulla 
overregulation 
dei 
mercati 
finanziari, v. r. lEnEr, 
il 
paradigma dei 
settori 
regolati 
e 
la democrazia dell’algoritmo. Note 
introduttive, 
in riv. dir. banc., 2020, pp. 193 e ss. 
(22) f. AnnUnzIATA, la disciplina del mercato mobiliare, 2017, Giappichelli Editore, p. 141. 
(23) 
l’ispirazione 
della 
disciplina 
dei 
servizi 
di 
investimento 
a 
quella 
dei 
contratti 
dei 
consumatori 
rappresenta 
un 
trend 
recente 
nella 
regolazione 
di 
settore, 
tanto 
da 
portare 
la 
più 
attenta 
dottrina 
a 
parlare 
di 
«consumerisation 
of 
investor 
protection 
regulation»: 
così 
n. 
MolonEy 
the 
investor 
model 
Underlying 
the 
eU’s 
investor 
Protection 
regime: 
Consumers 
or 
investors?, 
in 
european 
business 
organization 
law review, 2012, pp. 173, 180. 
(24) Per una 
accurata 
disamina 
dei 
profili 
di 
vulnerabilità 
del 
consumatore, che 
possono agevolmente 
riferirsi 
anche 
all’investitore, v. P. CArTwrIGhT, Understanding and Protecting vulnerable 
Financial 
Consumers, in Journal of Consumer Policy, 2015, pp. 118-138. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


mente 
-un’opposta 
«atrofia 
regolatoria» 
(25) 
dell’ordinamento 
dell’Unione 
Europea, 
in 
materia 
di 
rimedi 
civilistici 
a 
tutela 
degli 
investitori. 
In 
sintesi, 
tale 
conclusione 
pare 
eccessiva: 
sebbene 
il 
punto 
nautico 
dell’approccio 
eurounitario 
pare 
tutt’ora 
compendiarsi 
negli 
approdi 
della 
sentenza 
bankinter 
(26), 
ove 
i 
giudici 
del 
lussemburgo 
statuirono 
che 
«spetta 
all’ordinamento 
giuridico 
interno 
di 
ciascuno 
stato 
membro 
disciplinare 
le 
conseguenze 
contrattuali 
del 
mancato 
rispetto 
degli 
obblighi 
in 
materia 
di 
valutazione 
previsti 
dall’articolo 
19, 
paragrafi 
4 
e 
5, 
della 
direttiva 
2004/39 
da 
parte 
di 
un’impresa 
di 
investimento 
che 
propone 
un 
servizio 
di 
investimento, 
fermo 
restando 
il 
rispetto 
dei 
principi 
di 
equivalenza 
e 
di 
effettività”, 
il 
quadro 
complessivo 
è 
più 
articolato. 


in 
primis, 
autorevole 
dottrina 
(27) 
ammoniva 
sulla 
predisposizione, 
da 
parte 
del 
legislatore 
europeo, di 
«rimedi 
nuovi», tra 
i 
quali 
emergono il 
c.d. 
ius 
poenitendi 
-nelle 
sue 
declinazioni 
di 
«recesso, (…) 
revoca dell’accettazione 
(…) 
[o] 
diritto di 
risoluzione 
unilaterale 
del 
contratto» che 
caratterizzano 
le 
discipline 
delle 
vendite 
fuori 
dai 
locali 
commerciali, delle 
vendite 
a 
distanza 
di 
prodotti 
finanziari 
e 
della 
promozione 
e 
collocamento a 
distanza 
di 
servizi 
e 
attività 
di 
investimento 
e 
strumenti 
finanziari 
-e, 
ovviamente, 
proprio 
la nullità di protezione. 

in secundis, non può trascurarsi 
l’abbondanza 
delle 
soluzioni 
offerte, in 
chiave 
fatalmente 
suppletiva, dal 
diritto comune 
(nullità 
per vizi 
di 
forma 
o 
per contrarietà 
a 
norme 
imperative, annullabilità 
per errore 
o per dolo, risoluzione 
per inadempimento, risarcimento del 
danno) cui 
tuttavia 
si 
accompagna 
una 
pericolosa 
confusione 
provocata 
dal 
loro 
effettivo 
impiego 
da 
parte 
di 
dottrina 
e giurisprudenza, dimostratesi piuttosto ondivaghe (28). 

In 
sostanza, 
deve 
concludersi 
che 
il 
nodo 
gordiano 
risiede 
nell’insufficiente 
grado 
di 
uniformazione, 
a 
livello 
europeo, 
delle 
discipline 
della 
responsabilità 
civile 
e 
del 
contratto. 
Ciò, 
a 
ben 
vedere, 
rappresenta 
il 
vero 
comun 
denominatore 
tra 
le 
posizioni 
dei 
commentatori. 
Che 
tale 
riluttanza 
a 
intervenire 
sia 
dovuta 
o 
meno 
a 
fenomeni 
di 
lobbying, 
il 
divario 
tra 
una 
regolazione 
ampiamente 
armonizzata 
e 
l’incertezza 
(nonché 
l’ingiustizia) 
derivante 
dalle 
persistenti 
differenze 
tra 
gli 
ordinamenti 
degli 
Stati 
membri, 
in 
materie 
che, 
indubbiamente, 
costituiscono 
i 
pilastri 
delle 
rispettive 
tradizioni 
giuridiche, 
rimane 
un 
problema 
ancora 
attuale 
(29). 
nemmeno 
con 


(25) G.A. PAPAConSTAnTInoU, “investment 
bankers 
in Conflict: the 
regime 
of 
inducements 
in 
miFiD 
ii and the 
member 
states’ 
struggle 
for 
Fairness”, in 
european review of 
Contract 
law, 2016, 
p. 318. 
(26) Genil 
48 sl 
e 
Comercial 
Hostelera de 
Grandes 
vinos 
sl 
v. bankinter 
sa 
e 
banco bilbao 
vizcaya argentaria sa, caso 604/11 del 30 maggio 2013. 
(27) G. AlPA, Gli 
obblighi 
informativi 
precontrattuali 
nei 
contratti 
di 
investimento finanziario. 
Per 
l’armonizzazione 
dei 
modelli 
regolatori 
e 
per 
l’uniformazione 
delle 
regole 
di 
diritto 
comune, 
in 
Contratto e impresa, 2008, p. 891. 
(28) v. roPPo, op. cit., p. 899. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


le 
più 
recenti 
riforme, 
infatti, 
si 
sono 
raggiunti, 
sul 
punto, 
traguardi 
accettabili 
(30). 


3. orientamenti 
e 
opzioni 
teoriche 
per 
una corretta ricostruzione 
delle 
dinamiche 
negoziali. 
Si 
ritiene 
che 
una 
ricognizione 
delle 
diverse 
posizioni 
dottrinali 
e 
giurisprudenziali 
intorno 
alle 
dinamiche 
negoziali 
proprie 
dei 
servizi 
di 
investimento 
sia 
essenziale 
e 
non 
possa 
omettersi, 
al 
fine 
di 
cogliere 
le 
perduranti 
deficienze 
del 
corredo 
rimediale 
disponibile 
per 
l’investitore 
nonché, 
a 
fortiori, 
per 
contestualizzare 
debitamente 
la 
portata 
innovativa 
della 
sentenza 
in 
commento. 


Con riferimento alla 
fattispecie 
di 
cui 
all’art. 23 T.u.f., si 
è 
detto che 
la 
norma, 
in 
un’ottica 
(prima 
facie 
ossimorica) 
di 
«paternalismo 
libertario» 
(31), 
impone 
la 
forma 
scritta 
ad substantiam, accompagnata 
da 
un obbligo di 
consegna 
al cliente del documento contrattuale (32). 


Il 
difetto di 
forma, cosi 
come 
le 
pattuizioni 
di 
rinvio agli 
usi 
per la 
determinazione 
del 
corrispettivo 
e 
degli 
oneri 
a 
carico 
dell’investitore, 
è 
sanzionato 
dalla 
nullità 
relativa 
che, ai 
sensi 
del 
comma 
3 (e 
in deroga 
agli 
artt. 1418 e 
ss. c.c.) «può essere 
fatta valere 
solo dal 
cliente». la 
rigidità 
della 
norma 
è 
temperata, 
al 
medesimo 
comma, 
dalla 
possibilità 
per 
la 
Consob, 
sentita 
la 
banca 
d’Italia, di 
prevedere 
con regolamento che, per motivate 
ragioni 
o in 
relazione 
alla 
natura 
professionale 
dei 
contraenti, particolari 
tipi 
di 
contratto 
possano 
o 
debbano 
essere 
stipulati 
in 
altra 
forma, 
assicurando 
nei 
confronti 
dei clienti al dettaglio un appropriato livello di garanzia. 

A 
livello regolamentare, la 
Consob dispone 
poi 
obblighi 
maggiori 
per le 
ipotesi 
oggettivamente 
o 
soggettivamente 
più 
critiche, 
prescrivendo 
un 
c.d. 
contenuto 
minimo, 
sub 
specie 
di 
informativa 
minima 
indefettibile, 
facendo 
salvo il contenuto delle obbligazioni (33). 

(29) 
o.o. 
ChErEDnyChEnko, 
Fundamental 
rights, 
Contract 
law 
and 
the 
Protection 
of 
the 
Weaker 
Party: a 
Comparative 
analysis 
of 
the 
Constitutionalisation of 
Contract 
law, with emphasis 
on risky 
Financial transactions, 
seiller european law Publishers, 2007, pp. 496 e ss. 
(30) 
n. 
MolonEy, 
liability 
of 
asset 
managers: 
a 
comment, 
in 
Capital 
markets 
law 
Journal, 
2012, 
p. 
421: 
l’A. 
sottolinea 
che 
il 
“Private 
enforcement 
is 
not, 
however, 
significantly 
enhanced 
under 
the 
miFiD ii reforms”. 
(31) 
C.r. 
SUnSTEIn, 
r.h. 
ThAlEr, 
libertarian 
Paternalism 
is 
Not 
an 
oxymoron, 
in 
the 
University 
of 
Chicago 
law 
review, 
2003, 
pp. 
1159 
e 
ss. 
Ci 
si 
limita 
a 
indicare 
come 
gli 
Autori 
si 
facciano 
sostenitori 
di 
una 
tesi 
che, sebbene 
non rinneghi 
l’importanza 
della 
c.d. 
freedom 
of 
choice 
di 
matrice 
liberale, ritengano 
inevitabili 
temperamenti 
in chiave 
paternalistica 
di 
direzionamento delle 
scelte, ritenendo dimostrata 
l’erroneità 
della 
teoria 
secondo 
cui 
soggetti 
del 
mercato 
agiscono 
sempre 
in 
maniera 
razionale. 
(32) Ad oggi, la 
previsione 
è 
generica 
e, a 
differenza 
del 
passato, sembra 
perciò ricomprendere 
la 
consulenza 
in materia 
di 
investimenti; 
tuttavia, l’art. 58 del 
regolamento UE 
565/2017 ne 
circoscrive 
la 
portata 
solo ai 
casi 
in cui 
il 
servizio in questione 
preveda 
una 
effettuazione 
periodica 
dell’adeguatezza. 
(33) l’art. 37, comma 
3 del 
regolamento Intermediari 
prescrive, per i 
contratti 
con clienti 
al 
dettaglio, 
di: 
a) 
specificare 
i 
servizi 
forniti 
e 
le 
loro caratteristiche, indicando il 
contenuto delle 
prestazioni 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Ciò premesso, il 
primo interrogativo che 
animò la 
dottrina 
fu se, con il 
T.u.f., si 
fosse 
dato vita 
a 
un autonomo tipo contrattuale 
(34), se 
-più semplicemente 
-doveva 
trattarsi 
di 
un c.d. “contratto quadro” 
di 
programmazione 
delle 
operazioni 
future, 
ovvero 
infine 
se 
non 
si 
fosse 
difronte 
a 
un’inedita 
manifestazione 
di figure già note. 

Dalla 
letteratura 
in 
materia, 
pare 
emergere 
il 
monito 
che 
la 
riflessione 
debba 
muovere 
anzitutto dalla 
definizione 
del 
suo oggetto come 
«una categoria 
tutt’altro 
che 
omogenea», 
con 
scarse 
«possibilità 
di 
ricondurre 
a 
un 
contratto unico l’attività eseguita dall’intermediario» (35). non sembra 
dunque 
potersi 
rinvenire 
un 
particolare 
tipo 
contrattuale 
nell’economia 
dell’art. 
23, nonostante 
le 
fattispecie 
presentino denominatori 
comuni, dalla 
più ovvia 
«destinazione 
del 
risparmio a finalità di 
investimento di 
natura finanziaria» 


(36) alla 
citata 
presenza 
di 
un «professionista dell’intermediazione» (37). Ci 
si 
troverebbe, piuttosto, al 
cospetto di 
un corpus 
di 
norme 
funzionale 
alla 
realizzazione 
mediata 
degli 
obiettivi 
principiati 
nell’art. 21 T.u.f.: 
quello «strumentale, 
di 
proteggere 
una 
presunta 
parte 
debole» 
e 
quello 
«finale, 
di 
correggere situazioni di fallimento del mercato» (38). 
Può così 
tracciarsi 
a 
una 
prima 
conclusione: 
i 
contratti 
de 
quibus 
costituiscono 
piuttosto 
una 
“categoria”, 
ossia 
una 
figura 
operante 
-secondo 
una 
tecnica 
legislativa 
già 
impiegata 
per i 
contratti 
del 
consumatore 
-su un piano 
qualitativamente 
distinto dai 
tipi 
negoziali, fisiologicamente 
idonea 
a 
ricomprenderne 
una 
pluralità 
e 
«sensibile 
all’operazione 
economica e 
al 
suo concreto 
atteggiarsi» (39). 

dovute 
e 
delle 
tipologie 
di 
strumenti 
finanziari 
e 
di 
operazioni 
interessate; 
b) stabilire 
il 
periodo di 
efficacia 
e 
le 
modalità 
di 
rinnovo 
del 
contratto, 
nonché 
le 
modalità 
da 
adottare 
per 
le 
modificazioni 
del 
contratto 
stesso; 
c) 
indicare 
le 
modalità 
attraverso 
cui 
il 
cliente 
può 
impartire 
ordini 
e 
istruzioni; 
d) 
prevedere 
la 
frequenza, 
il 
tipo 
e 
i 
contenuti 
della 
documentazione 
da 
fornire 
al 
cliente, 
rendiconto 
dell'attività 
svolta; 
e) 
indicare 
i 
corrispettivi 
spettanti 
all’intermediario 
o 
i 
criteri 
oggettivi 
per 
la 
loro 
determinazione, 
specificando 
le 
relative 
modalità 
di 
percezione 
e, 
ove 
non 
diversamente 
comunicati, 
gli 
incentivi 
ricevuti 
in conformità 
al 
Titolo v; 
f) 
indicare 
se 
e 
con quali 
modalità 
e 
contenuti 
in connessione 
con il 
servizio 
di 
investimento può essere 
prestata 
la 
consulenza 
in materia 
di 
investimenti; 
g) 
indicare 
le 
altre 
condizioni 
contrattuali 
convenute 
con l'investitore 
per la 
prestazione 
del 
servizio; 
h) 
indicare 
le 
procedure 
di 
risoluzione 
stragiudiziale 
di 
controversie, definite 
ai 
sensi 
dell’articolo 32-ter 
del 
Testo Unico. Indicazioni 
aggiuntive 
devono necessariamente 
accompagnare 
il 
contratto di 
gestione 
portafogli 
ai 
sensi 
del-
l’art. 38, in continuità 
con il 
tipo di 
informativa 
da 
corrispondere 
in fase 
pre-negoziale 
ai 
sensi 
dei 
citati 
artt. 24-bis 
T.U.f. e 44, comma 4 del regolamento UE n. 565/2017. 


(34) A. TUCCI, tipicittà dei 
contratti 
di 
investimento e 
disciplina codicistica, in f. CAPrIGlIonE 
(a 
cura 
di), op. cit., p. 83; 
v. roPPo, investimento in valori 
mobiliari 
(contratto di), in Contratto e 
impresa, 
1986, pp. 261 e ss. 
(35) M. lobUono, i contratti 
aventi 
ad oggetto servizi 
di 
investimento, in r. boCChInI 
(a 
cura 
di), 
i contratti di somministrazione di servizi, 2006, Giappichelli, p. 245. 
(36) A. TUCCI, op. cit., p. 84. 
(37) G. AlPA, sub 
art. 23, ivi. 
(38) 
E. 
GAbrIEllI, 
r. 
lEnEr, 
mercati, 
strumenti 
finanziari 
e 
contratti 
di 
investimento 
dopo 
la 
miFiD, in E. GAbrIEllI, r. lEnEr, 
Contratti del mercato finanziario, 2011, UTET, pp. 40, 41. 
(39) 
E. 
GAbrIEllI, 
r. 
lEnEr, 
ivi, 
pp. 
46, 
47; 
A. 
TUCCI, 
ivi, 
pp. 
84, 
85. 
questa 
soluzione 
ha 
il 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


Una 
decisa 
risposta 
ad 
alcuni 
degli 
interrogativi 
supra 
tratteggiati 
è 
fornita 
da 
f. Galgano, secondo cui 
il 
T.u.f. non avrebbe 
introdotto un quid novi, bensì 
meramente 
normato una 
fattispecie 
già 
da 
tempo qualificata 
dalla 
giurisprudenza 
come 
«contratto misto di 
conto corrente 
e 
di 
mandato» (40). In particolare, 
nel 
contratto di 
negoziazione 
(storico contraltare 
al 
servizio gestorio) 
«lo 
schema 
causale 
del 
contratto 
regolato 
dagli 
artt. 
1852-1857 
c.c. 
balzerebbe 
agli 
occhi 
evidente»: 
si 
tratterebbe 
precisamene 
di 
un mandato ad acquistare 
o a 
vendere 
strumenti 
finanziari. questa 
è 
la 
tesi 
tutt’ora 
dominante 
nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
confermata 
da 
ultimo 
dalle 
sentenze 
gemelle 
delle 
Sezioni 
Unite 
nn. 
26724 
e 
25725 
del 
2007, 
ove 
si 
ammette 
expressis 
verbis 
il 
contratto di 
intermediazione 
finanziaria 
«può essere 
accostato al 
mandato», e 
dalla 
citata 
pronuncia 
delle 
Sezioni 
Unite 
in materia 
di 
contratti 
“monofirma” 
n. 898/2018. Da 
tali 
premesse, l’echeggiata 
dottrina 
prende 
le 
mosse 
per 
censurare 
il 
richiamo 
alla 
figura 
atipica 
di 
un 
«asserito, 
e 
non 
meglio 
qualificato, contratto quadro», impropriamente 
apparentato a 
un c.d. master 
agreement, al 
pari 
di 
quello impiegato nelle 
contrattazioni 
internazionali 
per 
la pianificazione di strategie d’affari comuni a più imprese (41). 

Per 
inciso, 
è 
probabile 
che 
la 
riconduzione 
al 
contratto 
di 
mandato 
discenda 
da 
due 
fattori, 
uno 
storico 
e 
l’altro 
propriamente 
di 
diritto 
positivo. 
Col 
primo si 
allude 
al 
ruolo assunto da 
tale 
figura 
come 
archetipo delle 
fattispecie 
negoziali 
di 
“cooperazione 
nell’altrui 
attività 
giuridica” 
(ergo, di 
intermediazione): 
nato 
per 
esigenze 
di 
commercio, 
si 
sostanziava, 
dapprima 
solo 
sul 
piano del 
costume 
e 
della 
morale 
sociale, in un accordo per l’affidamento di 
affari 
determinati 
a 
persone 
di 
fiducia 
(42). 
Il 
secondo 
è 
costituito 
invece 
dalla 
lettera 
dell’art. 
13, 
comma 
10 
della 
legge 
1/1991, 
la 
quale, 
nel 
disciplinare 
l’onere 
della 
prova 
spettante 
ai 
soggetti 
abilitati, faceva 
espresso riferimento 
alla «diligenza del mandatario». 


Come 
già 
annunciato, altre 
voci 
si 
mostrarono decisamente 
contrarie 
alla 
ricostruzione testé illustrata. 


A.M. Mancini, nell’indagare 
le 
difformità 
del 
contratto di 
negoziazione 
rispetto 
al 
mandato, 
fa 
anzitutto 
leva 
sul 
«ruolo 
determinante 
e 
attivo 
del 
pregio di 
essere 
in consonanza 
con gli 
approdi 
di 
quella 
dottrina 
che 
si 
vide 
critica 
dell’inscindibilità 
tra 
tipo e 
causa, asserendo che 
«Non è 
dubbio che 
il 
codice 
del 
’42 ha guardato alla sostanza economica 
della singola operazione 
tipica, ed ha dettato una disciplina confacente, senza troppe 
preoccupazioni 
d’ordine dogmatico»: così G. DE 
novA, Nuovi contratti, 1990, UTET, pp. 17, 18. 


(40) 
Cass. 
27 
luglio 
1972, 
n. 
2545; 
Trib. 
napoli, 
10 
settembre 
1996; 
App. 
Cagliari, 
13 
luglio 
1984; 
Trib. Milano, 12 luglio 1984. 
(41) 
f. 
GAlGAno, 
i 
contratti 
di 
investimento 
e 
gli 
ordini 
dell’investitore 
all’intermediario, 
in 
Contratto 
e 
impresa, 2005, pp. 892-894. la 
posizione 
dell’A. è 
confermata, financo con maggior vigore, in 
il 
contratto di 
intermediazione 
finanziaria davanti 
alle 
sezioni 
Unite 
della Cassazione, in Contratto e 
impresa, 2008, pp. 1-6. 
(42) S. SErrAvAllE, i contratti 
di 
intermediazione 
e 
la garanzia prestata dall’intermediario, Edizioni 
Scientifiche Italiane, napoli, 2004, pp. 18, 19. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


cliente 
(…) nella fase 
di 
esecuzione», osservando come, prima 
che 
questi 
impartisca 
ordini 
specifici 
in relazione 
alle 
singole 
operazioni, «la prestazione 
dell’intermediario 
(…) 
è 
del 
tutto 
generica 
e 
l’oggetto 
di 
essa 
è 
indeterminato
». In aggiunta, se 
è 
vero che 
in alcune 
ipotesi 
il 
mandatario ha 
la 
facoltà 


o 
financo 
l’obbligo 
di 
discostarsi 
dalle 
istruzioni 
della 
controparte 
-in 
funzione 
della 
fides 
bona 
e 
della 
correttezza 
nell’adempimento -«non è 
consentito all’intermediario 
discostarsi 
dall’ordine 
ricevuto», 
salvo 
il 
caso 
dell’obbligo 
di 
astensione 
a 
seguito di 
un esito negativo del 
giudizio di 
adeguatezza. I rilievi 
suesposti 
portano 
alla 
qualificazione 
della 
fattispecie 
in 
esame 
nei 
termini 
«contratto 
quadro», 
caldeggiandone 
la 
vicinanza 
al 
concetto 
di 
«contratto 
normativo
», 
concepito 
come 
un 
momento 
dell’iter 
negoziale 
in 
cui 
la 
cooperazione 
si 
sublima 
nella 
programmazione 
di 
un 
«reticolo 
normativo 
volto 
a 
disciplinare i futuri rapporti tra l’intermediario e l’investitore» (43). 
Altra 
dottrina 
si 
mostrava 
più 
cauta. 
M. 
lobuono, 
preliminarmente, 
isolava 
dalle 
altre 
figure 
negoziali 
ex 
art. 
1, 
comma 
5 
T.u.f. 
il 
contratto 
di 
gestione 
di 
portafogli 
di 
investimento, 
il 
solo 
dotato 
di 
un 
oggetto 
(inteso 
come 
«oggetto 
della 
prestazione 
dedotta 
nel 
rapporto 
obbligatorio») 
determinabile, 
dunque 
«riconducibile 
allo 
schema 
del 
contratto 
unitario» 
e, 
in 
particolare, 
al 
contratto 
di 
durata. 
Meditando 
quindi 
sull’opportunità 
di 
servirsi 
della 
figura 
del 
contratto 
quadro, 
con 
riferimento 
alle 
altre 
fattispecie, 
ne 
rintracciava 
il 
discrimen 
rispetto 
al 
contratto 
normativo 
nella 
immediata 
determinazione 
di 
un 
«obbligo, 
unilaterale 
o 
bilaterale, 
di 
concludere 
i 
singoli 
contratti 
successivi», 
laddove 
il 
secondo 
avrebbe 
il 
mero 
scopo 
di 
cristallizzare 
preventivamente 
il 
contenuto 
e 
a 
disciplina 
di 
negozi 
giuridici 
futuri 
e, 
soprattutto, 
eventuali. 
veniva 
quindi 
osservato 
come 
il 
vincolo 
alla 
stipulazione 
di 
contratti 
successivi 
potesse 
incontrare 
un 
ostacolo 
nell’esito 
negativo 
della 
valutazione 
di 
adeguatezza. 
Infine, 
rifiutando 
le 
posizioni 
(minoritarie) 
di 
chi 
negava 
l’efficacia 
vincolante 
del 
contratto 
normativo, 
per 
lo 
più 
argomentando 
in 
modo 
dubbio 
a 
partire 
dal 
menzionato 
obbligo 
di 
astensione 
(44), 
si 
ammoniva 
che 
quest’ultima 
figura 
dovesse 
ritenersi 
la 
più 
confacente, 
sebbene 
notoriamente 
ambigua 
e 
divisiva 
(45). 


Ulteriori 
lumi 
sono 
forniti 
da 
una 
penna 
autorevole, 
ancorché 
più 
risalente. 


(43) A.M. MAnCInI, la tutela del 
risparmiatore 
nel 
mercato finanziario tra culpa in contrahendo 
e 
vizi 
del 
consenso, 
in 
rassegna 
di 
diritto 
civile, 
2007, 
pp. 
57-60; 
conformemente, 
G. 
CASCEllA, 
i 
singoli 
ordini 
di 
acquisto costituiscono contratti 
autonomi 
e 
non atti 
esecutivi 
di 
un unico mandato. 
tribunale 
Cuneo, 31 maggio 2012, n. 358, est. Dott. r. bonaudi, p. 14, consultabile 
all’indirizzo www.comparazionedirittocivile.
it.; 
f. 
DUrAnTE, 
intermediari 
finanziari 
e 
tutela 
dei 
risparmiatori, 
2009, 
Giuffrè 
editore, 
p. 
61. 
Alla 
figura 
del 
contratto 
normativo 
fa 
espresso 
e 
convinto 
riferimento 
D. 
MAffEIS, 
Discipline 
preventive 
nei 
servizi 
di 
investimento: le 
sezioni 
Unite 
e 
la notte 
(degli 
investitori) in cui 
tutte 
le 
vacche 
sono nere, in 
i contratti, 2008, p. 406. 
(44) 
A. 
orESTAno, 
intese 
prenegoziali 
a 
struttura 
“normativa” 
e 
profili 
di 
responsabilità 
precontrattuale, 
in rivista critica di diritto privato, 1995, pp. 63 e ss. 
(45) 
M. 
lobUono, 
op. 
ult. 
cit., 
pp. 
251, 
252. 
Cfr. 
App. 
brescia, 
sent. 
n. 
739/2007 
in 
www.ilcaso.it. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


f. 
Messineo 
allocava 
il 
nodo 
gordiano, 
sul 
piano 
del 
diritto 
positivo, 
nella 
compatibilità 
del 
contratto 
normativo 
con 
la 
nozione 
legale 
di 
contratto 
in 
senso tecnico, fornita 
dall’art. 1321 c.c., insistendo sulla 
diversità 
di 
funzioni 
tra 
la 
regola 
negoziale 
e 
la 
norma 
giuridica. Avversata 
la 
dottrina, di 
origine 
germanica, secondo cui 
all’istituto del 
contratto andrebbe 
comunemente 
assegnata 
anche 
una 
«funzione 
disciplinare», in quanto «fonte 
di 
produzione 
di 
norme 
giuridiche», «precetto (o somma di 
precetti) dell’autonomia privata», 
si 
poneva 
anzitutto l’accento sulla 
funzione 
eminentemente 
dispositiva 
dello 
stesso, il 
quale 
«provvede 
direttamente 
e 
concretamente 
a dare 
assetto ad interessi 
patrimoniali 
delle 
parti, 
(…) 
consumando, 
così, 
tutto 
il 
proprio 
effetto». 
beninteso, al 
contratto normativo non era 
negata 
in toto 
la 
cittadinanza 
nel-
l’ordinamento 
italiano: 
cionondimeno, 
se 
ne 
ammetteva 
una 
configurabilità 
solo episodica, nelle 
ipotesi 
in cui 
il 
sistema, mediante 
«delegazione 
di 
potestà
», ammetta 
margini 
di 
autodisciplina. In tal 
senso, pare 
possa 
trovarsi 
un 
addentellato 
nell’art. 
1322 
c.c., 
il 
quale 
attribuirebbe 
«pur 
se 
non 
esplicitamente, 
un potere 
normativo». non si 
trascurava, poi, il 
problema 
terminologico, 
avanzando la 
tesi 
di 
esser difronte 
a 
un quid 
affatto diverso dal 
contratto 
tout 
court, 
che 
«sarebbe 
preferibile 
qualificare 
altrimenti», ed eludendo così 
le 
difficoltà 
di 
riconduzione 
a 
nozioni 
legali. Era, in conclusione, preferibile 
la 
dizione 
di 
«accordo normativo», uno «schema di 
disciplina, 
(…) soltanto 
obbligatorio, 
[che] 
dà 
luogo 
a 
un 
sinallagma 
funzionale», 
divergendo 
dal 
contratto 
preliminare 
per non obbligare 
alla 
conclusione 
di 
un contratto futuro e 
determinato (46). 
Per 
inciso, 
tra 
le 
«figure 
concrete 
di 
contratto 
normativo» 
alcune 
voci 
menzionano 
il 
conto 
corrente 
bancario 
(47), 
per 
la 
sua 
funzione 
di 
regolazione 
dei 
futuri 
rapporti 
correntista-banca: 
ciò potrebbe 
avere 
il 
pregio di 
ridurre 
la 
distanza 
tra 
l’approdo cui 
si 
è 
testé 
giunti 
e 
l’opposta 
visione 
di 
f. Galgano, 
nonché della prestigiosa giurisprudenza di legittimità da questi richiamata. 

All’esito 
dell’orientamento 
da 
ultimo 
descritto, 
emergono 
perplessità, 
circa 
la 
vocazione 
suppletiva 
che 
par sorreggere 
e 
financo condizionare 
l’accoglimento 
stesso della 
figura 
di 
cui 
sopra, la 
quale, sembra 
dunque 
relegata 
in 
una 
dimensione 
interstiziale 
e 
riempitiva 
di 
aree 
ignote 
all’ordinamento. 
All’opposto, in subiecta materia, l’attenzione 
del 
legislatore 
(italiano e 
europeo) 
è 
massima, con una 
regolamentazione 
minuziosa 
che 
pervade 
ogni 
momento 
dell’iter 
negoziale, fin dai 
primi 
contatti 
tra 
parti 
anche 
solo potenziali 


(e.g. la disciplina dei prospetti informativi). 
In consonanza 
con quanto osservato nel 
paragrafo precedente, deve 
rite(
46) 
f. 
MESSInEo, 
voce 
Contratto 
normativo 
e 
contratto-tipo, 
in 
enciclopedia 
del 
diritto, 
X, 
1962, 
pp. 116-124. 
(47) G. SAnTInI, il 
bancogiro, bologna, 1949, pp. 84 e 
ss.; 
f. MArTorAno, il 
conto corrente 
bancario, 
napoli, 1955, pp. 113, 114. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


nersi 
di 
essere 
in presenza 
di 
«processo di 
sostituzione 
della tradizionale 
libertà 
di 
autodeterminazione 
caratteristica 
dell’autonomia 
privata 
con 
un’autonomia 
funzionale» (48), mediatamente, all’integrità 
del 
mercato. Di 
più. Si 
assisterebbe 
a 
una 
ricostruzione 
in 
via 
eteronoma 
dello 
schema 
negoziale 
come 
«strumento di 
selezione 
degli 
interessi 
perseguiti 
attraverso i 
contratti 
di 
investimento
» (49). 


Passando 
all’analisi 
degli 
ordini 
di 
investimento, 
si 
intendono 
toccare 
eminentemente 
due 
punti: 
la 
natura 
degli 
stessi 
e, a 
monte, la 
necessaria 
derivazione 
degli stessi da un precedente contratto quadro/normativo. 


Procedendo a 
ritroso, occorre 
constatare 
come, nonostante 
la 
presenza 
in 
dottrina 
di 
pareri 
a 
sostegno 
della 
ammissibilità 
del 
compimento 
di 
singole 
operazioni 
di 
investimento senza 
alcun previo accordo generale 
in funzione 
di 
retroterra 
disciplinare 
(50), l’opinione 
maggioritaria, confermata 
in alcune 
pronunce 
di 
merito, 
ne 
caldeggiava 
l’indefettibilità, 
derivandone 
di 
conseguenza 
la 
nullità 
dei 
singoli 
ordini 
per difetto di 
«fondamento causale» (51). 
la 
questione 
è 
stata 
ben aggredita 
da 
M. Maggiolo (52), il 
quale 
si 
mostrò in 
primis 
critico verso alcune 
tesi 
secondo cui, in difetto del 
master 
agreement, 
i 
singoli 
ordini 
sarebbero «destinati 
a perfezionarsi 
secondo lo schema della 
proposta seguita dall’inizio di 
esecuzione, ai 
sensi 
dell’art. 1327 c.c. (…) 
che 
però, in assenza di 
una dichiarazione 
di 
accettazione 
da parte 
dell’intermediario, 
non 
sarebbe 
compatibile 
con 
(…) 
l’art. 
23, 
comma 
1, 
t.U.F»: 
nulla 
impedisce 
il 
perfezionarsi 
delle 
operazioni 
secondo il 
modello del 
1326 c.c., 
perfettamente 
compatibile 
con gli 
oneri 
formali 
e 
contenutistici 
imposti 
dalla 
normativa di settore (53). 

vi 
sarebbero, 
in 
sostanza, 
margini 
per 
sostenere, 
come 
pure 
la 
giurisprudenza 
di 
merito 
non 
mancò 
di 
fare 
(54), 
che 
la 
sequenza 
negoziale 
contratto 
qua


(48) f. SArTorI, autodeterminazione 
e 
formazione 
eteronoma del 
regolamento negoziale. il 
problema 
dell’effettività delle regole di condotta, in rivista di Diritto Civile, 2009, p. 99. 
(49) ivi, pp. 100-102. 
(50) «(…) la fattispecie 
bipartita a formazione 
progressiva 
(…) “contratto quadro-ordine 
di 
acquisto” 
non è 
necessaria ai 
fini 
della valida stipulazione 
di 
un contratto di 
compravendita di 
servizi 
di 
investimento, potendo questo risolversi 
anche 
in un unico atto negoziale 
purché 
in possesso degli 
elementi 
previsti 
per 
il 
contratto 
quadro 
e 
per 
il 
singolo 
contratto 
di 
acquisto»: 
così 
b. 
InzITArI, 
v. 
PICCInInI, 
la tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, 2008, CEDAM, p. 2, nt. 1. 
(51) Trib. Cagliari, sent. n. 120/2007, ove 
pure 
si 
sostiene 
che 
«il 
vincolo tra il 
contratto (…), 
l’ordine 
del 
cliente 
e 
l’esecuzione 
da parte 
dell’intermediario è 
(…) per 
legge 
indissolubile»; 
App. Milano, 
13 giugno 2003. 
(52) M. MAGGIolo, servizi 
ed attività di 
investimento. Prestatori 
e 
prestazione, in Trattato di 
diritto 
civile 
e 
commerciale, già 
diretto da 
A. CICU, f. MESSInEo, l. MEnGonI, 
continuato da 
P. SChlESIn-
GEr, 
2012, Giuffrè editore, p. 486. 
(53) l. SCoDITTI, intermediazione 
finanziaria e 
formalismo protettivo, in Foro.it, 2009, pp. 190 
e ss. 
(54) Trib. Milano, 20 febbraio 1997 in banca, borsa, titoli di credito, 2000, p. 82. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


dro 
-ordini 
di 
investimento 
non 
integri 
una 
«bipartizione 
legalmente 
necessaria 
della 
fattispecie», 
bensì 
solo 
la 
comune 
articolazione 
delle 
operazioni 
in 
questione 
(55). 
l’obbligatoria 
precedenza 
di 
un 
accordo 
scritto, 
imposta 
a 
livello 
regolamentare, 
dovrebbe 
intendersi 
come 
precedenza 
logico-funzionale 
(fondata 
sul 
ruolo 
“garantista” 
dell’art. 
23 
T.u.f.) 
e 
non 
cronologica, 
come 
invece 
sostenne 
una 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(56), 
per 
altro 
di 
recente 
superata 
(57). 


In conclusione, la 
legge 
impone, oggi 
come 
ieri, requisiti 
di 
forma 
e 
di 
contenuto minimo, normalmente 
funzionali 
al 
contratto quadro, che 
devono 
ritenersi 
soddisfatti 
anche 
laddove, per ipotesi, convivano nel 
medesimo documento 
con 
un 
ordine 
all’intermediario. 
In 
altre 
parole, 
«il 
singolo 
ordine 
(…) 
è 
salvo anche 
se 
il 
contratto quadro è 
nullo, purché 
esso contenga tutti 
i 
requisiti 
(…) 
prescritti per il contratto di investimento» (58). 

Il 
dibattito 
intorno 
alla 
natura 
degli 
ordini 
di 
investimento 
è 
senza 
dubbio 
il 
più complesso, se 
non altro per la 
riluttanza 
della 
questione 
a 
poter essere 
indagata 
asetticamente: 
essa 
porta 
con sé 
inevitabilmente 
riflessioni 
sul 
contratto 
ex 
art. 23 T.u.f. e 
financo sulla 
stessa 
struttura 
giuridica 
dell’operazione 
economica di investimento. 

È 
comprensibile, 
perciò, 
che 
autori 
come 
f. 
Galgano, 
fervido 
sostenitore 
dell’accostamento 
del 
contratto 
ex 
art. 
23 
al 
mandato, 
sottolinei 
«l’erroneità 
[del] 
diffuso 
convincimento 
(…) 
secondo 
il 
quale 
gli 
ordini 
(…) 
darebbero 
luogo 
ad 
altrettanti 
contratti». 
Si 
avrebbe 
dunque, 
in 
caso 
di 
negoziazione, 
solo 
un 
eventuale 
distinto 
contratto 
di 
compravendita 
tra 
intermediario 
e 
terzo, 
i 
cui 
effetti 
si 
produrrebbero 
nella 
sfera 
giuridica 
dell’investitore 
secondo 
il 
comune 
paradigma 
del 
mandato 
senza 
rappresentanza, 
di 
cui 
all’art. 
1706 
c.c. 
Gli 
ordini 
impartiti 
dal 
cliente 
sarebbero 
null’altro 
che 
atti 
esecutivi 
-beninteso, 
di 
natura 
negoziale 
-di 
un 
precedente 
mandato, 
«privi 
di 
una 
propria 
causa» 
e 
appartenenti 
alla 
notoria 
categoria 
dei 
«negozi 
di 
attuazione», 
figura 
comune 
anche 
ad 
altre 
fattispecie, 
quale 
il 
contratto 
di 
factoring 
(59). 


quella 
letteratura 
che, 
all’opposto, 
qualifica 
la 
fattispecie 
ex 
art. 
23 
come 
contratto normativo o contratto quadro, tende 
invece 
ad attribuire 
agli 
ordini 
natura 
di 
veri 
e 
propri 
contratti 
i 
quali, pur dotati 
di 
autonomia, derivano dal 
master 
agreement 
e 
costituiscono 
momento 
attuativo/realizzativo 
del 
programma 
ivi 
divisato (60). Molte 
sono le 
voci 
in tal 
senso, che 
osteggiano du


(55) C. bElfIorE, si 
può fare 
a meno del 
contratto quadro nei 
servizi 
di 
investimento?, in Giurisprudenza 
di merito, 2007, pp. 1916, 1917. 
(56) Per un’ampia 
rassegna, si 
rinvia 
a 
G. Gobbo, C.E. SAloDInI, 
i servizi 
di 
investimento nella 
giurisprudenza più recente, in Giurisprudenza commerciale, 2006, pp. 5 e ss. 
(57) Cass., sent. n. 3261/2018. 
(58) ibidem. 
(59) f. GAlGAno, i contratti, cit., pp. 893, 894; ID., il contratto di intermediazione, cit., pp. 4-6. 
(60) v. roPPo, op. cit., pp. 896, 897. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


ramente 
la 
tesi 
sulla 
natura 
di 
mere 
«istruzioni» del 
cliente-mandante 
ex 
art. 
1711 c.c. degli 
ordini 
di 
investimento, o di 
semplici 
dichiarazioni 
di 
volontà 
non 
negoziale 
con 
funzione 
esclusivamente 
determinativa 
di 
mezzi 
e 
modalità 
di 
esecuzione 
della 
prestazione. Alcune 
ne 
hanno caldeggiato la 
riconduzione 
ai 
c.d. «contratti 
nucleo» (61), ossia 
collegati 
a 
un precedente 
rapporto contrattuale 
(tra 
intermediario 
e 
cliente), 
e.g. 
un 
deposito 
o 
un 
conto 
corrente 
bancario 
(62). 
Più 
precisamente, 
se 
ne 
è 
offerta 
la 
qualificazione 
di 
«dichiarazioni 
negoziali 
(unilaterali), 
poste 
a 
fondamento 
di 
autonomi 
contratti 
consensuali, 
ad effetti obbligatori e a prestazioni corrispettive, tra cliente e intermediario 
da 
ritenersi 
conclusi 
secondo 
lo 
schema 
dell’art. 
1327 
c.c.» 
(63). 
questo 
orientamento 
descrive 
poi 
il 
rapporto di 
intermediazione 
finanziaria 
come 
fattispecie 
-solo normalmente, secondo l’id quod plerumque 
accidit 
-«bifasica» o 
«bipartita», ove 
gli 
ordini 
si 
porrebbero come 
momenti 
contrattuali 
attuativi 
del 
programma 
negoziale 
assunto a 
cornice 
col 
contratto quadro (64). Esse, 
premono sulla 
già 
indagata 
differenza 
tra 
mandato e 
contratto ex 
art. 23 T.u.f., 
riguardo il 
quantum 
di 
determinazione 
del 
programma 
negoziale. Per quanto 
generica 
possa 
ammettersi 
essere 
la 
prestazione 
secondo 
il 
modello 
codicistico 
degli 
artt. 
1703 
e 
ss. 
c.c., 
«i 
servizi 
di 
investimento 
si 
rivelano 
lungi 
dall’essere 
elencati 
analiticamente, 
(…) 
di 
guisa 
che 
dal 
contratto 
quadro 
non 
è 
possibile 
evincere, neppure 
in via di 
approssimazione, quali 
sono gli 
investimenti 
che 
il 
risparmiatore 
concretamente 
andrà ad eseguire» (65). nelle 
ipotesi 
in questione, 
gli 
ordini 
del 
cliente 
integrerebbero perciò manifestazioni 
volitive 
determinanti 
la 
stessa 
venuta 
ad 
esistenza 
delle 
singole 
prestazioni 
(66). 
In 
particolare, si 
tratterebbe, secondo alcuni, di 
una 
ipotesi 
di 
collegamento negoziale 
tra 
un contratto di 
cooperazione 
(a 
effetti 
solo obbligatori) e 
uno o più 
contratti 
di 
mandato o di 
commissione 
(67). A 
voler essere 
ancor più precisi, 
dovrebbero distinguersi 
le 
ipotesi 
di 
negoziazione 
“per proprio conto” 
e 
“per 
conto terzi” 
(art. 1, comma 
5, lett. rispettivamente 
a) e 
b) T.u.f.): 
«nel 
primo 
caso 
il 
tipo 
contrattuale 
di 
riferimento 
è 
la 
compravendita; 
nel 
secondo, 
il 
mandato. 
In entrambe le fattispecie, il contratto produrrebbe 
effetti reali» (68). 

(61) 
v. 
SAnGIovAnnI, 
inosservanza 
delle 
norme 
di 
comportamento: 
la 
Cassazione 
esclude 
la 
nullità, 
in 
i 
contratti, 
2008; 
A. 
lUMInoSo, 
Contratti 
di 
investimeno, 
mala 
gestio 
dell’intermediario 
e 
rimedi 
esperibili 
dal 
risparmiatore, 
in responsabilità civile 
e 
previdenza, 2007, pp. 1426, 1427, ove 
l’A. non 
manca 
di 
sottolineare 
come, a 
livello regolamentare, siano previsti 
«doveri 
informativi 
relativi 
alla fase 
di attuazione dell’operazione esecutiva e di svolgimento dell’attività di negoziazione». 
(62) G. CASCEllA, op. cit., p. 9. 
(63) f. DUrAnTE, op. cit., p. 57. 
(64) b. MEolI, 
i contratti 
di 
prestazione 
di 
servizi 
di 
investimento, in la tutela del 
consumatore, 
trattato di diritto privato, diretto da M. bESSonE, 2009, Giappichelli editore, vol. XXX, pp. 471-473. 
(65) G. CASCEllA, op. cit., p. 13. 
(66) A.M. MAnCInI, op.cit., pp. 56 e ss. 
(67) G. CASCEllA, 
op. cit., p. 9; M. lobUono, la responsabilità, cit., pp. 106 e ss. 
(68) M. DEllACASA, Collocamento di 
prodotti 
finanziari 
e 
regole 
di 
informazione: la scelta del 
rimedio applicabile, in Danno e responsabilità, 2005, p. 1242. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


Come 
già 
accennato, 
la 
giurisprudenza 
prevalente 
è 
di 
diverso 
avviso. 
Un’indicazione 
forte, invero preceduta 
(69) da 
qualche 
pronuncia 
di 
merito, 
proviene 
dalle 
celebri 
sentenze 
delle 
Sezioni 
Unite 
n. 
26724 
e 
n. 
26725 
del 
2007, 
richiamate 
dalla 
sentenza 
della 
Sezione 
I 
n. 
3773/2009, 
ove 
si 
affermava 
che: 
«le 
successive 
operazioni 
(…), benché 
possano a loro volta consistere 
in 
atti 
di 
natura 
negoziale, 
costituiscono 
pur 
sempre 
il 
momento 
attuativo 
del 
precedente 
contratto d’intermediazione 
(…)». Pur ammettendone 
il 
collegio, 
in alcune 
ipotesi, la 
«natura bicefala (negoziale 
ed esecutiva)» (70), è 
senza 
dubbio la 
seconda 
(quella 
esecutiva) a 
prevalere. non sono mancate 
tuttavia, 
prima 
e 
dopo 
l’intervento 
in 
questione, 
posizioni 
contrarie, 
massimamente 
incarnate 
da 
alcuni 
giudici 
di 
merito riluttanti 
ad adeguarsi 
a 
un sì 
autorevole 
precedente (71). 

4. la sentenza: la buona fede 
come 
“criterio ordinante” 
e 
una soluzione 
mediana 
in punto di effetti delle nullità protettive. 
Sondato 
il 
retroterra 
disciplinare 
e 
dogmatico, 
può 
procedersi 
con 
l’analisi 
dell’arresto 
oggetto 
di 
commento, 
evidenziandone 
i 
profili 
di 
interesse 
in 
chiave diacronica e debitamente contestualizzata. 

Preliminarmente, 
giova 
ricordare 
che 
le 
Sezioni 
Unite 
sono 
state 
investite 
della 
questione 
di 
cui 
al 
secondo 
motivo 
di 
ricorso, 
«relativa 
all’esatta 
determinazione 
degli 
effetti 
e 
delle 
conseguenze 
giuridiche 
dell'azione 
di 
nullità 
proposta 
dal 
cliente 
in 
relazione 
a 
specifici 
ordini 
di 
acquisto 
di 
titoli 
che 
derivi, 
tuttavia, 
dall'accertamento 
del 
difetto 
di 
forma 
del 
contratto 
quadro». 
nello 
specifico, 
«il 
punto 
controverso 
riguarda 
l'estensione 
degli 
effetti 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
anche 
alle 
operazioni 
che 
non 
hanno 
formato 
oggetto 
della 
domanda 
proposta 
dal 
cliente 
ed, 
eventualmente, 
i 
limiti 
di 
tale 
estensione». 


Procedendo con ordine, le 
ragioni 
decisorie 
si 
aprono con una 
notazione 
di 
forte 
importanza, 
in 
merito 
alla 
fisionomia 
degli 
ordini 
di 
investimento. 
Come 
si 
evince 
dal 
panorama 
delle 
opzioni 
teoriche 
illustrate 
in precedenza, 
la 
questione 
richiede 
la 
preventivamente 
risoluzione 
dell’interrogativo circa 


(69) Trib. Catania, 22 novembre 
2005, secondo cui: 
«l’ordine 
(…) costituisce 
solo momento esecutivo 
e 
non un accordo»; 
Trib. rovereto, 18 gennaio 2006, secondo cui: 
«né 
l’ordine, né 
l’atto di 
negoziazione 
dei 
titoli, nemmeno se 
considerati 
unitariamente, possono, invero, essere 
riguardati 
come 
atti di autonomia contrattuale». 
(70) f. DUrAnTE, op. cit., p. 58. 
(71) Cass., sez. I, sent. n. 28260/2005 ove, seppure 
con riferimento ad appositi 
ordini 
di 
borsa 
di 
acquisto a 
premio semplice, denominato «dont», espressamente 
si 
discorre 
di 
distinti 
contratti 
di 
mandato; 
Trib. Cagliari, 2 gennaio 2006, visionabile 
su www.ilcaso.it, ove 
si 
afferma 
che: 
«le 
violazioni 
ai 
doveri 
informativi 
e 
di 
diligenza, pur 
avendo luogo nella fase 
successiva alla stipulazione 
del 
contratto 
quadro, intervengono nella fase 
genetica dell’ulteriore 
e 
diverso contratto di 
mandato ad acquisire 
gli 
specifici 
prodotti 
finanziari 
oggetto di 
negoziazione»; 
Trib. Torino, 1 febbraio 2008, ove 
si 
ravvisa 
«un 
duplice 
momento contrattuale»; 
Trib. napoli, sent 
n. 13184/2010; 
Trib. Cuneo, sent. n. 358/2012, ove 
si 
sostiene 
la 
tesi 
secondo cui 
l’indubbia 
finalità 
esecutiva 
o attuativa 
degli 
ordini 
non sia 
in alcun modo 
ostativa a una loro qualifica negoziale. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


la 
corretta 
qualificazione 
del 
contratto 
ex 
art. 
23 
T.u.f., 
essendo 
a 
quest’ultimo 
intimamente 
legata 
in un binomio concettuale 
pressoché 
inscindibile. Il 
termine 
di 
paragone 
rimane 
attualmente 
rappresentato, in giurisprudenza, dalle 
statuizioni 
delle 
cc.dd. sentenze 
“rordord” 
del 
2007 (supra), giacché 
la 
pronuncia 
del 
2018 
in 
materia 
di 
contratti 
“monofirma” 
vi 
rinvia 
in 
toto 
e 
le 
citate 
sentenze 
gemelle 
del 
2014 sono, sul 
punto, inconferenti, e 
in dottrina, dalle 
descritte posizioni di f. Galgano. 


in primis, occorre 
premettere 
che, con riferimento al 
master 
agreement, 
la 
sentenza 
in 
commento 
impiega 
diffusamente 
il 
sintagma 
«contratto 
quadro
», 
accompagnandovi 
espressamente, 
accanto 
alla 
funzione 
dispositiva, 
quella 
«normativa». Inoltre, un espresso riferimento allo schema 
del 
mandato 
compare 
solo in sede 
di 
ricostruzione 
dei 
fatti 
di 
causa, nell’illustrazione 
del-
l’iter 
argomentativo seguito dal 
giudice 
d’appello. rispetto alla 
valenza 
degli 
ordini, invece, le 
Sezioni 
Unite 
paiono porsi 
in decisa 
avversione 
del 
consolidato 
orientamento precedente, che 
configurava 
quest’ultimi 
come 
fattispecie 
attuative 
di 
un 
contratto 
riconducibile 
allo 
schema 
tipico 
del 
mandato, 
statuendone 
la 
natura 
esecutiva 
e, solo sporadicamente, negoziale 
ed escludendo radicalmente 
qualsivoglia autonomia sul piano strutturale. 

In aperto dissenso, il 
par. 6 della 
pronuncia 
si 
apre 
con l’espressa 
amissione, 
per gli 
ordini 
di 
investimento, di 
«una propria autonoma valenza negoziale 
che 
postula 
la 
formazione 
di 
un 
consenso 
ad 
hoc 
per 
la 
loro 
esecuzione 
mediante 
la 
prestazione 
dell'intermediario». 
A 
corroborazione 
di 
tale 
ricostruzione 
-o, 
meglio, 
in 
negativo, 
a 
riprova 
dell’inaccettabilità 
della 
soluzione 
contraria 
-vengono 
addotte 
anche 
argomentazioni 
di 
carattere 
eminentemente 
processuale, 
fondate 
sull’assunto 
che 
il 
requisito 
dell’interesse 
ad 
agire 
ai 
sensi 
dell’art. 100 c.p.c., quale 
regola 
attuativa 
del 
cardinale 
principio di 
economia 
degli 
atti 
e 
delle 
decisioni, 
integrerebbe 
una 
circostanza 
ostativa 
all’allocazione, 
in capo all’investitore, di 
un onere 
di 
censura 
globale 
delle 
operazioni 
svolte 
con la 
cooperazione 
del 
singolo intermediario. la 
tesi 
avversa 
produrrebbe, 
in 
altri 
termini, 
la 
pericolosa 
conseguenza 
di 
disinnescare 
la 
portata 
(ergo, 
di 
tradire 
la 
vocazione) 
protettiva 
della 
nullità 
in 
questione, 
subordinando 
l’azionabilità 
del 
rimedio 
de 
quo 
a 
una 
previa, 
meditata, 
analisi 
del 
trade-off 
tra il valore dei singoli investimenti effettuati. 

Andando oltre, può osservarsi 
come 
l’iter 
argomentativo muova 
da 
una 
prospettiva 
metodologica 
di 
tipo 
comparatistico: 
la 
Suprema 
Corte 
analizza 
sì 
l’art. 23 T.u.f., ma 
ne 
dà 
una 
lettura 
sistematica, estesa 
alle 
«aree 
contigue» di 
cui 
agli 
artt. 117 T.u.b. e 
36, comma 
3 del 
Codice 
del 
Consumo. In sostanza, 
quindi, oggetto di 
scrutinio è 
il 
rimedio caducatorio per come 
esso si 
presenta 
(rectius, 
deve 
presentarsi) 
nel 
prisma 
delle 
discipline 
di 
tutela 
della 
parte 
astrattamente 
debole. 
Dal 
mero 
confronto 
delle 
invocate 
disposizioni, 
si 
evince 
una 
non 
perfetta 
corrispondenza 
delle 
espressioni: 
da 
un 
lato, 
i 
Testi 
Unici, 
parlano 
di 
nullità 
che 
«può essere 
fatta valere 
solo dal 
cliente»; 
dall’altro, il 
d.lgs. n. 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


206/2005 prevede 
un rimedio che 
«opera soltanto a vantaggio del 
consumatore
» (72). 

Se 
si 
optasse 
per un’interpretazione 
letterale 
e 
asettica, dovrebbe 
ammettersi 
di 
esser difronte 
a 
una 
differenza 
di 
non poco conto. A 
una 
prima 
lettura, 
le 
prescrizioni 
de 
quibus 
sembrerebbero infatti 
porsi 
su piani 
distinti, logicamente 
e 
cronologicamente: 
nel 
primo 
caso, 
l’azionabilità 
del 
rimedio, 
e 
in 
specie, 
la 
latitudine 
della 
legittimazione 
attiva; 
nel 
secondo, 
la 
portata 
degli 
effetti 
e 
la 
platea 
dei 
beneficiari. Sebbene 
le 
espressioni 
«nullità relativa» e«nullità 
di 
protezione» 
siano 
generalmente 
intese 
come 
equipollenti 
(tanto 
da 
congiungersi, 
sovente, 
nell’endiadi 
«nullità 
relativa 
di 
protezione»), 
si 
potrebbe 
essere 
portati 
a 
pensare, prima facie, che 
la 
prima 
vada 
riferita 
a 
quelle 
norme 
che 
paiono esaurire 
il 
tratto differenziale 
del 
regime 
speciale 
nella 
sola 
compressione 
del 
novero 
dei 
legittimati 
(le 
sole 
parti 
deboli, 
artt. 
23 
T.u.f. 
e 
117 
T.u.b), 
mentre 
la 
seconda 
-ove 
l’aggettivazione 
indubbiamente 
richiama 
un più forte 
indirizzo di 
politica 
del 
diritto, imprimendovi 
una 
precisa 
direttiva 
funzionale 


-si 
adatti 
meglio all’art. 36, comma 
3 del 
Codice 
del 
Consumo, che 
ne 
prescrive 
invece un’esplicita unidirezionalità operativa. 
nondimeno, 
una 
interpretazione 
condotta 
«in 
modo 
costituzionalmente 
orientato e 
coerente 
con i 
principi 
del 
diritto eurounitario» consente 
di 
ricondurre 
ad unità 
l’echeggiata 
disciplina, individuandone 
il 
quid proprium 
nella 
«vocazione 
funzionale, ancorché 
non esclusiva, alla correzione 
parziale 
del 
contratto». 

Ancora, si 
è 
già 
insistito (73) sulla 
intima 
connessione 
tra 
ricostruzione 
della 
fattispecie 
negoziale 
complessa 
e 
dinamiche 
dell’apparato 
rimediale. 
Ciò 
è 
espressamente 
ammesso dalla 
sentenza 
in commento, che 
tuttavia 
persevera 
nel 
considerare 
strutturalmente 
fisiologica 
la 
«conformazione 
bifasica 
dell’impegno 
negoziale». 


Il 
cuore 
della 
ratio decidendi, deve 
rinvenirsi 
nella 
centralità 
assunta 
dal 
principio 
di 
buona 
fede 
che, 
in 
aperta 
continuità 
con 
gli 
approdi 
della 
sentenza 


n. 898/2018, viene 
assunta 
a 
criterio guida 
per «verificare 
se 
può configurarsi 
un esercizio del 
diritto a far 
valere, da parte 
dell'esclusivo legittimato, le 
nul(
72) Trattandosi 
di 
discipline 
di 
derivazione 
europea 
o -se 
si 
preferisce, di 
«existing european 
private 
law» 
-non 
appare 
peregrino 
avanzare 
il 
sospetto 
che 
la 
disarmonia 
terminologica 
interna 
integri 
null’altro che 
l’ennesimo capitolo delle 
annose 
problematiche 
della 
traduzione 
giuridica. Sul 
punto, la 
letteratura 
è 
vastissima: 
inter 
alia, 
v. 
G. 
AlPA, 
la 
responsabilità 
degli 
“intermediari” 
nel 
diritto 
comune, 
nel 
diritto speciale 
e 
nel 
diritto comunitario, in Corr. merito, 2005, pp. 11 e 
ss.; 
ID., Decreto eurosim: 
la tutela dei 
consumatori, in società, 1996, pp. 1062 e 
ss.; 
r. SACCo, riflessioni 
di 
un giurista sulla lingua 
(la lingua del 
diritto uniforme, e 
il 
diritto al 
servizio di 
una lingua uniforme), in riv. crit. dir. priv., 
1996, pp. 57 e 
ss.; 
G. bEnEDETTI, l’elogio dell’interpretazione 
traducente 
nell’orizzonte 
del 
diritto europeo, 
in europa dir. priv., 2010, pp. 413 e 
ss.; 
D. MEMMo, la lingua nel 
diritto. il 
rischio linguistico 
nella dichiarazione 
contrattuale, in Contr. impr., 1985, p. 468; 
C. CASTronovo, Profili 
della disciplina 
nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, in europa dir. priv., 1998, p. 7. 
(73) supra, par. 3. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


lità di 
protezione 
in un modo selettivo». Di 
più: 
se 
dottrina 
e 
giurisprudenza 
(74), non senza 
qualche 
voce 
contraria, pacificamente 
riconducono le 
regole 
di 
condotta 
al 
«nucleo 
normativo 
della 
buona 
fede» 
(75), 
tradizionalmente 
assunta 
-nella 
sua 
accezione 
correttiva 
-ad archetipo delle 
clausole 
di 
governo 
dell’agire 
delle 
parti 
(76), 
la 
Suprema 
Corte 
sembra 
di 
fatto 
conferire 
alla 
clausola 
generale 
il 
mandato 
di 
realizzare 
una 
actio 
finium 
regundorum 
dell’intero 
perimetro disciplinare di tutela dell’investitore. 


nel 
delineare 
il 
corretto statuto di 
tale 
peculiare 
nullità, il 
giudice 
della 
nomofilachia 
passa 
in 
rassegna 
le 
divergenti 
posizioni 
della 
Sezione 
I, 
origine 
del 
contrasto 
interpretativo, 
rappresentate 
nelle 
pronunce 
nn. 
6664/2018 
e 
8395/2016. 


Il 
primo orientamento, in sintesi, esaurisce 
la 
specialità 
della 
nullità 
de 
qua 
nella 
restrizione 
del 
novero dei 
legittimati, allocandone 
il 
quid proprium 
interamente 
sul 
piano 
pregiudiziale 
dell’accesso 
al 
rimedio. 
Esperito 
quest’ultimo, 
«gli 
effetti 
caducatori 
e 
restitutori 
che 
ne 
derivano possono essere 
fatti 
valere 
da entrambe 
le 
parti», versandosi 
nella 
disciplina 
classica 
della 
ripetizione 
dell’indebito. 

la 
seconda 
tesi, all’opposto, estende 
la 
portata 
derogatoria 
dell’istituto 
sul 
piano degli 
effetti, che 
ne 
diventano il 
terreno elettivo, nel 
senso dell’idoneità 
degli 
stessi 
a 
prodursi 
solo a 
vantaggio del 
cliente. In negativo, potrebbe 
dirsi 
che 
la 
più 
volte 
evocata 
intonazione 
protettiva 
si 
pone 
come 
elemento 
ostativo, 
a 
livello 
genetico, 
della 
produzione 
di 
qualsivoglia 
conseguenza 
pregiudizievole, 
per 
la 
parte 
debole 
connaturata 
al 
ricorso 
all’invalidità. 
E 
ciò, 
espressamente, 
«anche 
ove 
l’invalidità 
riguardi 
l’intero 
contratto». 
Ciò, 
come 
già 
si 
annunciava, si 
riverbera 
sensibilmente 
sulla 
disciplina 
della 
ripetizione 
dell’indebito, cui 
è 
affidata 
la 
regolazione 
delle 
restituzioni, che 
“si 
colora” 
di 
accessorietà, 
per 
essere 
«direttamente 
incisa 
dallo 
“statuto” 
speciale 
della 
nullità cui 
si 
riferisce». In altri 
termini, i 
confini 
dell’applicabilità 
della 
disciplina 
di 
cui 
agli 
artt. 2033 e 
ss. c.c. sono tracciati, da 
lato dell’intermediario, 
dalle 
norme 
imperative 
di 
settore, che 
verrebbero all’opposto eluse 
ove 
si 
accedesse 
all’orientamento precedente. 

le 
Sezioni 
Unite 
non accolgono alcuna 
delle 
opzioni 
di 
cui 
sopra, ma 
ne 
raccolgono 
le 
istanze, 
nell’elaborazione 
di 
una 
terza 
via 
mediana 
sotto 
l’egida 
del 
principio 
di 
buona 
fede, 
strumento 
elettivo 
per 
bilanciare 
l’unilateralità 
del 


(74) in apicibus, Cass. Sez. Un., nn. 26724 e 26725 del 2007. 
(75) M. bArCEllonA, mercato mobiliare 
e 
tutela del 
risparmio. l’intermediazione 
mobiliare 
e 
la responsabilità di 
banche 
e 
Consob, 2009, Giuffré 
editore, p. 48. l’A., piuttosto critico, ammonisce 
che: 
«in 
realtà, 
l’ascrizione 
di 
questo 
nuovo 
genere 
di 
norme 
imperative 
al 
nucleo 
normativo 
della 
buona 
fede 
risponde 
solo 
ad 
un 
senso 
comune 
che 
ha 
fondamento 
esclusivamente 
nell’impropria 
e 
fuorviante 
dilatazione 
cui 
questa veneranda clausola generale 
viene 
sottoposta e 
che, comunque, ha scarso 
riscontro nei dispositivi normativi da queste discipline realmente introdotti». 
(76) A. DI 
MAjo, la buona fede 
correttiva di 
regole 
contrattuali, 
in Corriere 
Giuridico, 2000, p. 
1486. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


rimedio protettivo con l’equilibrio contrattuale 
effettivo. Ebbene, la 
lettura 
in 
chiave 
solidaristica 
della 
nullità 
di 
protezione, sotto la 
lente 
della 
buona 
fede, 
non è 
-com’è 
ovvio -neutra 
e, anzi, conduce 
a 
risultati 
tutt’altro che 
scontati. 
la 
menzionata 
unidirezionalità 
operativa 
del 
rimedio, astrattamente 
posto ad 
esclusivo vantaggio dell’investitore, viene 
in fatti 
temperata 
dall’«ambito di 
operatività 
trasversale» 
della 
clausola 
generale, 
che 
dunque 
si 
assume 
espressamente 
«non limitata soltanto alla definizione 
del 
sistema di 
protezione 
del 
cliente» e 
non sconfessanti 
«un obbligo di 
lealtà dell’investitore». Tuttavia, 
anche 
le 
soluzioni, dottrinali 
e 
pretorie, informate 
al 
canone 
della 
buona 
fede 
non si 
sono poste 
come 
univoche, assumendo diverse 
nuances 
e 
rigidità. vale 
la pena, dunque, darne brevemente conto. 


Un 
primo 
orientamento 
stigmatizzava 
fortemente 
l’uso 
selettivo 
delle 
nullità 
di 
protezione, ritenuto abusivo ex 
se, in quanto percorso da 
un palese 
intento 
opportunistico. ne 
conseguiva 
il 
riconoscimento automatico del 
ricorso 
alla 
exceptio 
doli 
generalis 
(77) 
in 
capo 
all’intermediario, 
tuttavia 
con 
funzione 
«esclusivamente 
paralizzante», ergo 
senza 
aprire 
la 
via 
alla 
ripetizione 
dell’indebito. 
le 
criticità 
di 
questa 
tesi 
sono 
evidenti: 
se 
non 
è 
negata 
l’astratta 
operatività 
della 
nullità 
di 
protezione, nella 
sua 
unidirezionalità, se 
ne 
rifiuta 
in toto 
qualsivoglia 
uso selettivo, con ciò trascurando i 
principi 
costituzionali 
sottostanti alla disciplina (solidarietà, eguaglianza, tutela del risparmio). 


Un 
diverso 
orientamento, 
meno 
rigido, 
ammette 
la 
exceptio 
doli 
generalis 
nei 
solo 
casi 
concreti 
in 
cui 
l’uso 
selettivo 
del 
rimedio 
sia 
effettivamente 
avvenuto 
in 
malafede, 
da 
accertare 
sulla 
base 
di 
diversi 
parametri, 
assumendo 
i 
connotati 
dell’abuso 
del 
diritto. 
In 
assonanza 
con 
le 
critiche 
da 
ultimo 
avanzate, 
la 
salvaguardia 
della 
vocazione 
protettiva 
della 
nullità 
(e 
della 
relativa 
tutela 
giurisdizionale) 
osta 
a 
un’automatica 
legittimazione 
dell’intermediario 
ad 
opporre 
l’exceptio 
doli. 
quest’ultima 
sarà 
invece 
invocabile 
ove 
il 
cliente 
abbia 
tenuto, 
in 
violazione 
del 
menzionato 
obbligo 
di 
lealtà, 
una 
condotta 
«soggettivamente 
connotata 
da 
malafede 
o 
frode». 
In 
altri 
termini, 
la 
trasversalità 
della 
clausola 
di 
buona 
fede 
impone 
all’investitore 
un 
autocontrollo 
del 
proprio 
agire 
e 
non 
consente 
che 
il 
regime 
protettivo 
si 
risolva 
in 
sostanziale 
irresponsabilità. 
Il 
dissenso 
delle 
Sezioni 
Unite, 
qui, 
si 
incentra 
sulla 
considerazione 
della 
buona 
fede 
in 
senso 
soggettivo, 
negando 
peso 
alla 
«oggettiva 
determinazione 
di 
un 
ingiustificato 
e 
sproporzionato 
sacrificio 
di 
una 
sola 
controparte 
contrattuale». 
Inoltre, 
non 
può 
ritenersi 
abusivo 
l’impiego 
di 
uno 
strumento 
imperativo 
di 
tutela 
sol 
perché 
diretto 
a 
conseguire 
un 
vantaggio 
economico, 
essendo 
piuttosto 


(77) Cosa 
debba 
precisamente 
intendersi 
per «dolo generale» è 
chiarito dalla 
ordinanza 
n. 23927 
del 
2018: 
si 
tratta 
dello «strumento volto ad ottenere 
la disapplicazione 
delle 
norme 
positive 
nei 
casi 
in 
cui 
la rigorosa applicazione 
delle 
stesse 
risulterebbe 
-in ragione 
di 
una condotta abusiva -sostanzialmente 
iniqua». 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


necessaria 
una 
incoerenza 
tra 
il 
fine 
legale 
e 
quello 
concretamente 
perseguito 
dal 
cliente, 
ovvero 
una 
sproporzione 
inaccettabile, 
sul 
piano 
delle 
conseguenze 
giuridiche. 


Mantenendo fermo l’impiego del 
principio di 
buona 
fede 
quale 
criterio 
direttivo, le 
Sezioni 
Unite 
risolvono la 
questione 
di 
legittimità 
muovendo da 
un 
secco 
rifiuto 
della 
declinazione 
della 
clausola 
de 
qua 
sia 
come 
exceptio 
doli generalis 
sia come abuso del diritto. 

la 
conclusione 
del 
Supremo 
Collegio, 
quindi, 
individua 
alcuni 
punti 
fermi, 
assunti 
a 
premessa 
delle 
statuizioni. 
in 
primis, 
giova 
rimarcarlo, 
i 
giudici 
confermano la 
doppia 
anima 
dell’istanza 
protettiva, comprensiva 
della 
legittimazione 
esclusiva, 
sul 
piano 
processuale, 
e 
dell’operatività 
ad 
esclusivo 
vantaggio 
dell’investitore, 
sul 
piano 
sostanziale. 
Da 
ciò, 
ne 
viene 
derivato 
il 
corollario 
che 
una 
radicale 
disapprovazione 
dell’impiego 
selettivo 
della 
nullità 
contrasta 
con 
le 
rationes 
della 
disciplina 
di 
settore 
precisamente 
in 
quanto 
implica 
una 
inaccettabile 
«equivalenza (…) 
tra uso selettivo delle 
nullità e 
violazione 
del canone di buona fede». 

Il 
vero 
nodo 
interpretativo 
risiede 
però 
nell’individuazione 
di 
un 
parametro 
univoco e 
coerente 
di 
modulazione 
dell’impiego del 
canone 
della 
buona 
fede 
nelle 
fattispecie 
concrete. A 
tal 
fine, rifiutati 
gli 
indicatori 
soggettivi, si 
prescrive 
un esame 
olistico degli 
investimenti 
effettuati, procedendo poi 
alla 
comparazione 
tra 
le 
operazioni 
colpite 
dall’azione 
di 
nullità 
-beninteso, per 
vizio 
di 
forma 
del 
master 
agreement 
-e 
quelle 
non 
aggredite. 
Più 
precisamente, 
il 
metodo per saggiare 
la 
coerenza 
dell’uso selettivo della 
nullità 
con 
la 
ratio 
protettiva 
della 
disciplina 
consiste 
in null’altro che 
in un calcolo algebrico: 
se, sottratti 
gli 
investimenti 
“salvati” 
a 
quelli 
“colpiti”, il 
risultato è 
di 
segno negativo per il 
cliente, nel 
senso della 
permanenza 
in capo a 
quest’ultimo 
di 
un 
pregiudizio 
patrimoniale, 
l’azione 
è 
pienamente 
ammissibile. 
In 
caso contrario, è 
riconosciuta 
all’intermediario una 
eccezione 
di 
buona 
fede 
(78), 
«al 
solo 
effetto 
di 
paralizzare 
gli 
effetti 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
degli 
ordini 
selezionati» e 
al 
precipuo «fine 
di 
non determinare 
un ingiustificato 
sacrificio economico in capo all’intermediario stesso». 

Si 
ritiene 
di 
dover 
concludere 
con 
un 
ultimo 
chiarimento. 
Il 
paragrafo 
22.3 
della 
sentenza, 
vieppiù 
in 
raffronto 
al 
quadro 
sinottico 
tracciato 
nel 
successivo 
(par. 
23), 
ma 
anche 
singolarmente 
preso, 
può 
rivelarsi 
fuorviante. 
Si 
consideri 
il 
seguente 
passo: 
«Può 
accertarsi 
che 
gli 
ordini 
non 
colpiti 
dall’azione 
di 
nullità 
abbiano 
prodotto 
un 
rendimento 
economico 
superiore 
al 
pregiudizio 
confluito 
nel 
petitum. 
in 
tale 
ipotesi, 
può 
essere 
opposta 
(…) 
l’eccezione 
di 
buona 
fede». 
Ad 
una 
prima 
lettura, 
potrebbe 
intendersi 
l’ipotesi 
de 
qua 
non 
solo, 
come 


(78) Che 
la 
pronuncia 
chiarisce 
non potersi 
tecnicamente 
qualificare 
come 
eccezione 
tout 
court, 
«non agendo sui 
fatti 
costitutivi 
dell'azione 
(di 
nullità) dalla quale 
scaturiscono gli 
effetti 
restitutori, 
ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti». 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


supra 
accennato, 
come 
condizione 
di 
esperibilità 
del 
rimedio 
in 
modo 
selettivo 
ma 
pure 
-sul 
versante 
opposto 
-come 
condizione 
di 
opponibilità 
dell’eccezione 
di 
buona 
fede. 
In 
realtà, 
è 
presto 
chiarito 
dalle 
Sezioni 
Unite 
che 
la 
predetta 
eccezione 
è 
sempre 
disponibile 
per 
l’intermediario, 
mentre 
a 
variarne 
è 
la 
portata 
“paralizzante”: 
nel 
caso 
in 
cui 
i 
rendimenti 
degli 
investimenti 
relativi 
a 
ordini 
non 
aggrediti 
sia 
superiore 
a 
quelli 
oggetto 
di 
nullità 
selettiva, 
la 
neutralizzazione 
è 
totale; 
nell’ipotesi 
opposta, 
è 
limitata 
al 
«vantaggio 
ingiustificato 
conseguito
». 
In 
altre 
parole, 
la 
latitudine 
operativa 
della 
nullità 
in 
questione 
è 
circoscritta 
«entro 
il 
limite 
del 
pregiudizio 
per 
l’investitore 
accertato 
in 
giudizio
», 
determinato 
all’esito 
di 
una 
valutazione 
olistica 
delle 
operazioni 
effettuate 
nel 
contesto 
del 
singolo 
master 
agreement; 
oltre, 
interviene 
la 
clausola 
di 
buona 
fede, 
in 
chiave 
correttivo-riequilibratrice, 
consegnando 
all’intermediario 
una 
eccezione 
dalla 
incisività 
variabile 
(nel 
senso 
supra 
illustrato). 


5. limiti e fisiologiche insufficienze dell’arresto. 
Si 
è 
già 
parlato 
della 
necessità 
di 
contestualizzare 
la 
portata 
effettiva 
della 
sentenza 
in commento, collocandola 
nell’iter 
diacronico delle 
conquiste 
giurisprudenziali 
in subiecta materia. 
Un limite 
fisiologico (79) deriva 
propriamente 
dalla 
fattispecie 
concreta 
all’origine 
dell’intervento 
nomofilattico: 
un’ipotesi 
di 
nullità 
testuale 
del 
contratto di 
cui 
all’art. 23 T.u.f. per vizio di 
forma 
prescritta 
ad substantiam 
actum. Come 
la 
dottrina 
non ha 
mancato di 
osservare, 
tale 
circostanza, 
in 
una 
con 
l’avallo 
del 
contratto 
“monofirma”, 
confina 
il 
valore 
di 
precedente 
dell’arresto in commento in una 
dimensione 
assolutamente 
interstiziale, quella 
dei 
«contratti 
non sottoscritti 
dal 
cliente 
o con 
sottoscrizione 
non autentica o mai 
stipulati» (80). È 
solo in questi 
ristretti 
limiti 
che 
va 
collocandosi 
il 
pur commendevole 
completamento dello “statuto 
normativo” 
delle 
nullità 
di 
protezione, 
pur 
nella 
piena 
consapevolezza 
del 
ruolo del 
master 
agreement 
come 
sedes 
elettiva 
di 
traduzione 
degli 
obblighi 
informativi in effettivi strumenti di tutela. 


6. Considerazioni 
conclusive: electa una via, non datur recursus ad alteram. 
Una diversa (e 
forse 
minore) intonazione 
protettiva delle 
tutele, tra opacità 
ricostruttive ed equivoci di fondo. 
volendo tirar le 
fila 
del 
discorso, in via 
di 
conclusione, si 
ritiene 
di 
concentrarsi 
su due punti. 

(79) n. IrTI, Per 
un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Calcolabilità giuridica, a 
cura 
di 
A. 
CArlEo, bologna, 2017, p. 24. 
(80) 
D. 
MAffEIS, 
Nullità 
selettive: 
la 
"particolare 
importanza" 
di 
selezionare 
i 
rimedi 
calcolando 
i 
probabili 
vantaggi 
e 
il 
processo civile 
come 
contesa fra opportunisti, in Corriere 
Giur., 2019, p. 173, 
ove 
l’A. 
usa 
un’espressione 
di 
straordinaria 
efficacia, 
sostenendo 
che 
si 
stia 
«frustando 
un 
cavallo 
morto, 
o moribondo»; 
ancor più severo pare 
C. SCoGnAMIGlIo, le 
sezioni 
unite 
e 
le 
nullità selettive: un nuovo 
spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, in Corriere Giur., 2020, pp. 5 e ss. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


In 
prima 
istanza, 
deve 
darsi 
conto 
dell’avvenuto 
giusto 
temperamento, 
in 
subiecta materia, del 
rigore 
disciplinare 
della 
restitutio in integrum, in uno nondimeno 
-col 
fatale 
disvelamento del 
«deficit 
di 
deterrenza che 
si 
annida 
in 
un 
diritto 
comune 
delle 
restituzioni». 
Pur 
condividendosi, 
sul 
piano 
teorico, 
il 
redress 
settoriale 
del 
regime 
della 
ripetizione 
dell’indebito, vien tuttavia 
da 
chiedersi 
quanto questo possa 
tradursi, a 
valle, in un consistente 
risultato di 
giustizia. Il 
contenimento del 
ricorso alla 
clausola 
generale 
di 
buona 
fede, in 
una 
dimensione 
esclusivamente 
paralizzante, ha 
certamente 
evitato agli 
investitori 
l’inconveniente 
di 
vedersi 
tradotto il 
diritto dell’intermediario alla 
ripetizione 
in 
un 
loro 
«obbligo 
di 
dover 
restituire 
la 
differenza 
residua 
a 
debito», 
ove 
il 
volume 
dei 
rendimenti 
(delle 
operazioni 
nascenti 
dal 
contratto quadro) 
avesse 
superato le 
passività 
(81). Sul 
piano delle 
ricadute 
pratiche, si 
tratta, 
tuttavia, di 
un salvavita 
destinato ai 
soli 
clienti 
che 
avessero incontrato resistenze 
pretorie 
all’uso selettivo della 
nullità 
conformativa 
-eventualità 
scongiurata 
per il futuro proprio dal 
decisum 
in commento. 

Codesto primo rilievo, al 
netto di 
quanto si 
dirà 
a 
breve, è 
sufficiente 
per 
testimoniare 
l’insufficienza 
del 
ricorso, in via 
suppletiva, alle 
categorie 
civilistiche 
di 
diritto comune, per rimediare 
alle 
carenze 
della 
menzionata 
atrofia 
normativa 
di 
settore. Giova 
rammentare, peraltro, che 
elementi 
di 
deterrence 
non sono estranei 
al 
diritto dei 
consumatori, di 
cui 
sovente 
si 
paventa 
l’ultrattività 
nell’intero 
universo 
del 
«contratto 
con 
asimmetria 
di 
potere 
contrattuale
» (82): 
come 
acutamente 
segnalato dalla 
migliore 
dottrina 
(83), l’art. 7, 
par. 1 della 
direttiva 
93/13/CEE 
disvela 
un obiettivo dissuasivo di 
lungo periodo, 
imponendo agli 
Stati 
membri 
di 
«fornire 
mezzi 
adeguati 
ed efficaci 
per 
far 
cessare 
l'inserzione 
di 
clausole 
abusive 
nei 
contratti 
stipulati 
tra un professionista 
e dei consumatori» (84). 

In 
seconda 
battuta, 
le 
considerazioni 
muovono 
dal 
rilievo 
preliminare 
che, 
con l’arresto delle 
Sezioni 
Unite, la 
clausola 
di 
buona 
fede 
conquista 
nuove 
aree delle invalidità negoziali. 

A 
riguardo, può avanzarsi 
il 
timore 
che 
il 
“prezzo” 
dell’uniformità 
interpretativa 
raggiunta 
con 
riferimento 
alla 
nullità 
di 
protezione 
sia 
in 
realtà 
quello 
di 
una 
deminutio 
di 
tutela, per l’investitore. vien da 
chiedersi, infatti, se 
le 
già 
illustrate 
critiche 
a 
una 
dilazione 
eccessiva 
del 
principio in questione, con ri


(81) S. PAGlIAnTInI, op. cit. 
Diffusamente, ID., la nullità selettiva quale 
epifania di 
una deroga 
all'integralità 
delle 
restituzioni: 
l'investitore 
è 
come 
il 
contraente 
incapace?, 
in 
Persona 
e 
mercato, 
2019, pp. 123 e ss. 
(82) S. MAzzAMUTo, op. cit., p. 183; 
v. roPPo, Parte 
generale 
del 
contratto, contratti 
del 
consumatore 
e 
contratti 
asimmetrici 
(con postilla sul 
«terzo contratto»), in riv. dir. priv., 2007, pp. 669 e 
ss. 
(83) G. AlPA, Diritto Privato europeo, 2016, Giuffré editore, p. 266. 
(84) Proprio la 
citata 
disposizione 
è 
stata 
invocata 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
Europea 
per 
impedire 
alle 
corti 
nazionali 
di 
rimodellare 
il 
contenuto 
delle 
clausole 
abusive, 
invece 
di 
dichiararne 
l’espunzione 
dal 
regolamento 
contrattuale: 
Corte 
Giust. 
UE, 
Prima 
sezione, 
14 
giugno 
2012, 
causa 
banco 
español de Crédito 
(C-618/10). 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


ferimento alle 
discipline 
preventive 
(conduct 
of 
business 
rules) (85), possano 
valere 
altresì 
per il 
corredo rimediale. In altri 
termini, ci 
si 
può domandare 
se 
la 
declinazione 
solidaristica 
di 
un 
principio 
informativo 
di 
vicende 
di 
rapporto 
giuridico obbligatorio tra 
parti 
astrattamente 
paritetiche 
-e 
che 
si 
traduce 
in 
invalidità 
che 
intervengono 
in 
ipotesi 
di 
asimmetrie 
patologiche 
(ci 
si 
riferisce 
all’annullabilità 
del 
contratto per errore 
o per dolo (86)) -sia 
pienamente 
trasferibile 
nell’universo del contratto asimmetrico. 


Al 
di 
là 
di 
ciò, 
anche 
a 
voler 
condividere 
siffatto 
impiego 
del 
canone 
della 
buona 
fede, essa 
si 
insinua 
nel 
terreno della 
nullità 
in maniera 
inadeguata, innalzando 
cioè 
lo sgradito vessillo di 
una 
«impropria» compensatio lucri 
cum 
damno, 
con 
ciò 
consegnando 
portata 
dirimente 
all’«inappagante 
pragmatismo
» (87) della 
c.d. teoria 
differenziale 
(88), nell’intento realizzativo di 
una 
crasi tra tutela caducatoria e tutela restitutoria (89). 

Se 
così 
è, 
ben 
si 
comprende 
la 
reazione 
di 
quei 
commentatori 
che 
hanno 
auspicato 
un 
“ritorno” 
alle 
statuizioni 
delle 
più 
volte 
citate 
sentenze 
“rordorf” 
del 
2007, 
che 
negavano 
cittadinanza 
alla 
nullità 
e, 
a 
fortiori, 
delle 
restituzioni 
per 
imprimere 
il 
dominio 
in 
subiecta 
materia 
della 
risoluzione 
e 
del 
risarcimento 
del 
danno 
(90). 
questo, 
vieppiù, 
ove 
si 
abbia 
cura 
di 
notare 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
il 
vulnus 
è 
di 
fatto 
allocato 
in 
un 
classico 
deficit 
informativo 
causato 
dall’intermediario, 
con 
riferimento 
a 
taluni 
ordini: 
la 
mancata 
firma 
del 
master 
agreement 
da 
parte 
dell’investitore 
ha 
perciò 
rappresentato 
un 
mero 
espediente 
per 
deviare 
la 
strategia 
difensiva 
sul 
più 
agile 
terreno 
dei 
difetti 
strutturali, 
aggredendo 
la 
forma 
piuttosto 
che 
la 
costanza 
del 
rapporto. 


Ciò testimonia 
la 
perdurante 
propensione 
dei 
clienti 
a 
ricorrere, ove 
possibile, 
al 
rimedio demolitorio, evidentemente 
più confacente 
alle 
di 
loro esigenze, 
al 
netto delle 
agevolazioni 
probatorie 
di 
cui 
all’art. 23, comma 
6 T.u.f. 


Sulla 
scorta 
di 
quanto illustrato, può quindi 
concludersi 
avanzando l’opportunità 
di 
promuovere 
una 
più 
appagante 
propagazione 
della 
clausola 
generale 
di 
buona 
fede 
nel 
terreno 
delle 
invalidità 
negoziali, 
ricusando 
definitivamente 
il 
tralatizio 
principio 
di 
non 
interferenza 
tra 
regole 
di 
condotta 


(85) supra, nt. 79. 
(86) G. D’AMICo, regole 
di 
validità e 
regole 
di 
comportamento nella formazione 
del 
contratto, 
in rivista di 
diritto civile, 2002, p. 45; 
A. jAnnArEllI, la disciplina dell’atto e 
dell’attività: i 
contratti 
tra imprese 
e 
tra imprese 
e 
consumatori, in n. lIPArI 
(a 
cura 
di), Diritto privato europeo, II, 1997, pp. 
509, 510. 
(87) C. SCoGnAMIGlIo, le 
sezioni 
Unite 
e 
le 
nullità selettive 
tra statuto normativo delle 
nullità 
di protezione ed eccezione di buona fede, 
in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 176 e ss. 
(88) S. MonTICEllI, la nullità selettiva secondo il 
canone 
delle 
sezioni 
unite: un responso fuori 
partitura, in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 163 e ss. 
(89) S. PAGlIAnTInI, op. cit. 
(90) M. GIrolAMI, l'uso selettivo della nullità di 
protezione: un falso problema?, in Nuova giur. 
civ. comm., 
2020, pp. 154 e ss. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


e 
regole 
di 
validità 
e 
ammettendo che 
le 
conclamate 
violazioni, da 
parte 
degli 
intermediari, delle 
discipline 
preventive 
possano condurre 
alla 
-più canonica 
-nullità 
virtuale 
del 
contratto 
per 
contrarietà 
a 
norme 
imperativa 
di 
cui 
all’art. 
1418, comma 
1 c.c., eventualmente 
accompagnata 
dal 
rimedio risarcitorio. E 
ciò 
dando 
conto 
delle 
ormai 
diffusamente 
segnalate 
«parziali 
interferenze 
e 
commistioni 
tra 
i 
due 
campi 
di 
regole» 
(91) 
e, 
beninteso, 
previa 
qualificazione 
degli 
ordini 
di 
investimento come 
autonome 
fattispecie 
negoziali, aggredibili 
individualmente 
senza 
il 
necessario 
tramite 
del 
master 
agreement, 
onde 
evitare 
una 
ritrosia 
del 
livello di 
tutela 
finora 
conquistato. Interverrebbe 
in soccorso 
quella 
dottrina 
secondo 
cui 
un’osmosi 
tra 
regole 
di 
condotta 
e 
regole 
di 
validità 
(che 
invece 
si 
vorrebbero 
stagne) 
sarebbe 
rinvenibile 
nello 
stesso 
codice 
civile, 
agli 
artt. 
1338 
e 
1431, 
essendo 
i 
criteri 
di 
verificazione 
della 
conoscibilità 
della 
causa 
di 
invalidità 
i 
medesimi 
che 
informano 
il 
giudizio 
di 
riconoscibilità 
dell’errore. Inoltre, torna 
in soccorso la 
disciplina 
delle 
clausole 
abusive 
(art. 
33 
Cod. 
Cons.), 
secondo 
alcuni 
realizzativa 
di 
un 
«trascinamento 
del 
principio 
di 
buona fede», la 
quale 
assurge, in qualità 
di 
metro dell’agere 
privatistico, a 
criterio «per 
predicare 
la vessatorietà (…) 
sul 
terreno del 
giudizio di 
validità 
del contratto» (92). 


In sostanza, delle 
due 
l’una: 
o si 
ritiene 
che 
la 
disciplina 
di 
settore 
sia 
informata 
al 
canone 
della 
buona 
fede, e 
allora 
a 
quest’ultimo deve 
consentirsi 
l’ingresso nei 
rimedi 
caducatori 
nei 
termini 
supra 
descritti; 
oppure 
si 
sostiene 
che 
essa 
sia 
innervata 
da 
logiche 
altre, ammettendo giocoforza 
l’incompatibilità 
del 
carattere 
trasversale 
del 
principio de 
quo 
con l’unidirezionalità 
della 
tutela della parte contrattualmente debole. 


Cassazione 
civile, Sezione 
Unite, sentenza 4 novembre 
2019 n. 28314 -Primo Pres. f.f. 
G. 
Mammone, 
rel. 
M. 
Acierno 
-r.f. 
(avv.ti 
A. 
Antonucci 
e 
r. 
vassalle) 
c. 
bAnCA 
AnTonIAnA 
vEnETA S.P.A. (ora bAnCA MonTE DEI PASChI DI SIEnA S.P.A.). 


fATTI DI CAUSA 


1. Il 
Tribunale 
di 
Mantova 
ha 
accolto la 
domanda 
proposta 
da 
r.f., volta 
a 
far dichiarare 
la 
nullità 
di 
due 
contratti 
d'investimento in obbligazioni 
argentine 
stipulati 
il 
4 maggio 1999 e 
il 
26 agosto 1999 con condanna 
della 
intermediaria 
banca 
Antoniana 
Popolare 
veneta 
alle 
restituzioni 
dovute 
in 
relazione 
a 
tali 
investimenti. 
la 
nullità 
degli 
ordini 
di 
acquisto 
era 
derivata 
dal 
difetto di 
forma 
scritta 
del 
contratto quadro stipulato tra 
le 
parti 
del 
giudizio. Il 
Tribunale, 
(91) v. roPPo, la tutela del 
risparmiatore 
fra nullità, risoluzione 
e 
risarcimento, in f. GAlGAno, 
G. 
vISInTInI, 
trattato 
di 
diritto 
commerciale 
e 
di 
diritto 
pubblico 
dell’economia, 
XlIII, 
2006, 
CEDAM, 
pp. 133 e ss. 
(92) 
ID., il 
contratto del 
2000, II ed., 2005, Giappichelli, pp. 47-51; 
f. GrECo, verso la contrattualizzazione 
dell’informazione precontrattuale, in 
rassegna di diritto civile, 2007, pp. 1148, 1149. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


peraltro, 
ha 
accolto 
anche 
la 
domanda 
riconvenzionale 
proposta 
dalla 
banca 
convenuta, 
avente 
ad oggetto la 
restituzione 
di 
cedole 
riscosse 
in forza 
di 
operazioni 
in esecuzione 
del 
contratto 
quadro ritenuto affetto da 
radicale 
nullità. All'esito dell'operata 
compensazione 
l'investitore 
è 
stato condannato al pagamento della differenza residua a debito. 

2. la 
Corte 
d'Appello, investita 
dell'impugnazione 
dal 
r., in parziale 
riforma 
della 
pronuncia 
di 
primo grado, ha 
affermato, in primo luogo che 
sussiste 
il 
difetto di 
legittimazione 
dell'appellante 
r. in relazione 
all'ordine 
del 
4/5/99 relativo a 
35000 obbligazioni 
Argentina-08 Tr% 
DEM 
del 
controvalore 
di 
35.840.668, 
formulato 
dalla 
madre 
dell'appellante 
dal 
momento 
che 
la 
stessa 
ha 
agito 
in 
nome 
proprio 
e 
non 
in 
rappresentanza 
del 
figlio. 
Al 
riguardo 
è 
stata 
esclusa 
la 
prova 
della 
"contemplatio domini" 
con la 
conseguenza 
che 
unica 
obbligata 
verso l'intermediaria 
deve 
ritenersi 
la 
mandataria 
senza 
rappresentanza. Il 
mandante 
non ha 
il 
potere 
in 
questa 
ipotesi 
di 
esercitare 
azioni 
contrattuali 
quali 
quella 
di 
risoluzione 
del 
contratto che 
rimangono 
in capo al mandatario. 
Deve 
escludersi 
anche 
che 
vi 
sia 
stata 
una 
ratifica 
valida 
desumibile 
dallo "attestato di 
eseguito" 
proveniente 
dalla 
banca 
che 
trova 
giustificazione 
per 
l'esclusiva 
titolarità 
del 
c/c 
in 
capo all'appellante. 
2.1. nel 
merito, è 
vero che 
la 
nullità 
D.lgs. n. 58 del 
1998, ex art. 23, comma 
3, può essere 
fatta 
valere 
soltanto dal 
cliente, ma 
una 
volta 
dichiarata, si 
ripercuote 
su tutte 
le 
operazioni 
eseguite 
in 
attuazione 
dell'atto 
negoziale 
viziato. 
la 
nullità 
di 
protezione 
non 
determina 
anche 
il 
potere 
dell'investitore 
di 
limitazione 
degli 
effetti 
della 
nullità 
soltanto ad alcuni 
degli 
ordini 
secondo la 
sua 
scelta. l'invalidità 
si 
espande 
sull'intero rapporto ed investe 
tutti 
gli 
ordini 
di 
acquisto. 
Pertanto, 
in 
forza, 
della 
normativa 
in 
materia 
d'indebito, 
il 
cliente 
è 
tenuto 
a 
restituire 
alla 
banca 
i 
titoli 
acquistati, le 
cedole 
riscosse 
ed ogni 
altra 
utilità, così 
come 
la 
intermediaria 
è 
tenuta 
a 
restituire 
alla 
banca 
l'importo erogato per l'acquisto dei 
titoli. Tuttavia, nella 
specie 
la 
Corte 
ha 
escluso che 
fosse 
stata 
proposta 
una 
domanda 
riconvenzionale 
di 
restituzione, ritenendo 
validamente 
introdotta 
in giudizio esclusivamente 
un'eccezione 
di 
compensazione, 
idonea, di conseguenza, esclusivamente a paralizzare la domanda restitutoria dell'attore. 
2.2. È 
stato inoltre 
precisato che 
alla 
soluzione 
adottata 
non è 
di 
ostacolo il 
fatto che 
la 
banca 
abbia 
acquistato titoli 
da 
un collocatore 
terzo. Il 
venire 
meno del 
mandato ha 
mantenuto in 
capo all'intermediario la 
proprietà 
dei 
titoli 
acquistati 
sul 
mercato dal 
momento che 
la 
nullità 
del 
contratto 
di 
negoziazione 
non 
incide 
sull'acquisto 
tra 
la 
banca 
ed 
il 
terzo 
ma 
solo 
sull'effetto 
di 
cui 
all'art. 
1706 
c.c. 
del 
ritrasferimento 
automatico 
al 
mandante. 
le 
cedole, 
sebbene 
erogate 
da 
un 
soggetto 
terzo, 
(nella 
specie 
lo 
Stato 
emittente) 
in 
virtù 
della 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
originario, 
rimangono 
di 
proprietà 
della 
banca, 
non 
essendosi 
perfezionato 
l'acquisto 
dei 
titoli 
nella sfera giuridica del cliente. 
2.3. 
È 
stata 
dichiarata 
inammissibile 
perchè 
proposta 
per 
la 
prima 
volta 
in 
appello 
la 
domanda 
del 
r., 
volta 
ad 
ottenere 
il 
danno 
da 
mancata 
rendita 
riguardante 
sia 
gli 
utili 
e 
i 
dividendi 
sulle 
cedole 
la 
cui 
restituzione 
era 
stata 
disposta 
dal 
Tribunale, 
sia 
quelli 
maturandi 
nel 
periodo 
successivo all'incasso dell'ultima cedola. 
2.4. È 
stata 
confermata 
la 
statuizione 
del 
Tribunale 
riguardante 
la 
decorrenza 
degli 
interessi 
dovuti 
all'investitore 
con 
decorrenza 
dalla 
domanda, 
non 
essendovi 
prova 
della 
malafede 
della 
intermediaria. 
l'indebito 
sorge 
dalla 
mancata 
sottoscrizione 
del 
contratto 
quadro 
da 
parte 
della 
banca, nella 
copia 
dimessa 
in causa 
(non oggetto d'impugnazione) e 
tale 
mancanza 
non può 
che ritenersi frutto di mero errore. 
3. Avverso tale 
pronuncia 
ha 
proposto ricorso per cassazione 
r.f. affidato a 
sei 
motivi. non 
ha svolto difese la parte intimata. la parte ricorrente ha depositato memoria. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


4. la 
prima 
sezione 
civile 
ha 
rimesso alle 
S.U. di 
questa 
Corte 
la 
questione 
sollevata 
nel 
secondo 
motivo 
di 
ricorso 
relativa 
all'esatta 
determinazione 
degli 
effetti 
e 
delle 
conseguenze 
giuridiche 
dell'azione 
di 
nullità 
proposta 
dal 
cliente 
in relazione 
a 
specifici 
ordini 
di 
acquisto 
di 
titoli 
che 
derivi, 
tuttavia, 
dall'accertamento 
del 
difetto 
di 
forma 
del 
contratto 
quadro. 
Il 
punto controverso riguarda 
l'estensione 
degli 
effetti 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
anche 
alle 
operazioni 
che 
non hanno formato oggetto della 
domanda 
proposta 
dal 
cliente 
ed, eventualmente, 
i limiti di tale estensione. 
rAGIonI DEllA DECISIonE 


5. 
nel 
primo 
motivo 
di 
ricorso 
viene 
dedotta 
la 
violazione 
degli 
artt. 
1292, 
1388, 
1704 
e 
1705 
c.c. 
e 
art. 
61 
reg. 
Consob 
n. 
11522 
del 
1998 
in 
relazione 
alla 
ritenuta 
carenza 
di 
legittimazione 
attiva 
del 
ricorrente 
in 
relazione 
all'operazione 
del 
4/5/99. 
Afferma 
il 
ricorrente 
che 
il 
contratto 
d'intermediazione 
e 
quello di 
conto corrente 
erano cointestati 
a 
lui 
ed a 
sua 
madre. Ciascuno 
di 
essi, 
secondo 
quanto 
stabilito 
nel 
contratto 
poteva 
impartire 
ordini 
di 
acquisto 
titoli. 
Da 
ciò 
conseguiva 
che 
essi, anche 
singolarmente, agivano anche 
in rappresentanza 
dell'altro cointestatario 
ed avevano entrambi 
legittimazione 
ad agire 
in giudizio a 
tutela 
dei 
propri 
investimenti. 
Inoltre 
l'attestato 
di 
eseguito 
recava 
l'espressa 
dizione 
"vi 
informiamo 
di 
avere 
eseguito 
(...) 
la 
seguente 
operazione 
da 
voi 
disposta". 
Secondo 
quanto 
stabilito 
nell'art. 
61 
reg. 
Consob 
tale 
informazione 
viene 
fornita 
all'investitore 
e 
non ad altri. Doveva 
pertanto trovare 
applicazione 
l'art. 1704 c.c. in relazione 
alla 
ratifica 
e 
non l'art. 1705 c.c. oltre 
che 
l'art. 1399 c.c. Infine, 
anche 
applicando l'art. 1705 c.c. il 
credito derivante 
dall'azione 
di 
nullità 
poteva 
essere 
esercitato dal mandante. 
6. nel 
secondo motivo viene 
dedotta 
la 
violazione 
dell'art. 23 T.U.f. in relazione 
all'accoglimento 
dell'eccezione 
riconvenzionale 
di 
compensazione 
formulata 
dalla 
intermediaria. 
In 
primo luogo il 
ricorrente 
rileva 
che 
l'accertamento della 
nullità 
dell'intero contratto quadro è 
stata 
richiesta 
in via 
meramente 
incidentale 
e 
strumentale 
alla 
declaratoria 
di 
nullità 
dei 
due 
ordini 
sopra 
identificati. Tale 
limitazione 
risulta 
legittima 
in quanto gli 
ordini 
hanno una 
propria 
autonoma 
valenza 
negoziale 
che 
postula 
la 
formazione 
di 
un consenso ad hoc 
per la 
loro 
esecuzione 
mediante 
la 
prestazione 
dell'intermediario. 
Al 
riguardo 
non 
può 
pretendersi, 
in 
violazione 
patente 
dell'art. 100 c.p.c., che 
l'investitore 
debba 
denunziare 
la 
nullità 
di 
operazioni, 
eseguite 
in perfetta 
buona 
fede 
e 
che 
hanno comportato un utile, con ciò aggravando il 
danno già 
subito. ove 
l'investitore 
dovesse 
scegliere 
tra 
il 
far valere 
la 
nullità 
dell'intero rapporto 
o subire, per evitare 
un maggior danno, la 
violazione 
dell'intermediario, ciò farebbe 
venire 
meno il 
carattere 
protettivo della 
nullità 
ed anche 
la 
funzione 
di 
tutelare 
l'integrità 
e 
la 
correttezza del mercato. 
7. 
nel 
terzo 
motivo 
viene 
dedotto 
il 
vizio 
di 
ultrapetizione 
della 
sentenza 
impugnata, 
per 
essere 
stata 
accertata 
con 
valore 
di 
giudicato 
la 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
laddove 
ne 
era 
stato chiesto l'accertamento soltanto incidenter tantum. 
8. nel 
quarto motivo viene 
dedotta 
la 
violazione 
del 
D.lgs. n. 5 del 
2003, art. 10, comma 
2 
bis, 
per 
l'erronea 
affermazione 
contenuta 
nella 
sentenza 
impugnata 
riguardante 
la 
asserita 
non 
contestazione 
dell'entità 
delle 
cedole 
incassate 
dalla 
intermediaria 
in relazione 
agli 
ordini 
di 
acquisti 
scaturenti 
dal 
contratto quadro nullo. I documenti 
da 
cui 
si 
desume 
il 
fatto non contestato 
sono gli 
estratti 
conto prodotti 
dalla 
banca 
che 
riportano genericamente 
accrediti 
ed 
addebiti 
senza 
alcuna 
distinzione 
tra 
le 
operazioni 
disposte 
dai 
singoli 
cointestatari 
o cedole 
o dividendi 
provenienti 
da 
operazioni 
diverse. Il 
ricorrente, peraltro, riportando ampi 
stralci 
del 
quarto motivo d'appello, precisa 
di 
aver contestato anche 
in relazione 
alla 
legittimazione 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


attiva 
della 
banca 
la 
riconduzione 
dell'importo 
complessivo 
a 
titolo 
di 
cedole 
nel 
rapporto 
giustificato dal 
contratto quadro. l'effetto probante 
della 
non contestazione 
non può prodursi 
se 
è 
necessario che 
i 
fatti 
accertati 
siano integrati 
da 
ulteriori 
prove 
e 
se 
abbia 
ad oggetto solo 
fatti 
secondari. l'applicazione 
illegittima 
del 
principio di 
non contestazione 
ha 
determinato 
nella specie l'alterazione della regola di giudizio fissata nell'art. 2697 c.c. 

9. nel 
quinto motivo viene 
dedotta 
la 
violazione 
degli 
artt. 820, 1148 e 
2033 c.c. in relazione 
al 
dedotto obbligo dell'investitore 
di 
restituire 
le 
cedole 
riscosse 
in buona 
fede 
nel 
corso del 
rapporto. Il 
ricorrente 
aveva 
già 
prospettato il 
rilievo in questione 
precisando che 
le 
cedole 
nella 
specie 
erano state 
pagate 
dagli 
emittenti 
dei 
titoli 
e 
non dalla 
banca 
con la 
conseguenza 
che 
la 
stessa 
difettava 
di 
legittimazione. l'affermazione, secondo la 
quale, con la 
declaratoria 
di 
nullità 
i 
titoli 
restavano di 
proprietà 
della 
banca 
non faceva 
venire 
meno la 
conseguenza 
che 
il 
pagamento delle 
cedole 
era 
stato effettuato in buona 
fede 
al 
soggetto che 
in virtù del 
possesso 
del 
titolo 
figurava 
esserne 
il 
proprietario. 
le 
norme 
sopra 
indicate 
stabiliscono 
il 
principio secondo il 
quale 
il 
possesso di 
buona 
fede 
fa 
sì 
che 
i 
frutti 
riscossi 
siano dovuti 
solo 
dal 
giorno 
della 
domanda 
e 
non 
dal 
momento 
della 
loro 
materializzazione. 
Il 
giudice 
d'appello 
ha 
errato 
nel 
dare 
rilievo 
invece 
che 
al 
possesso 
di 
buona 
fede 
alla 
titolarità 
delle 
obbligazioni. 
Essendo 
stata 
esclusa 
la 
malafede 
della 
banca 
doveva 
a 
maggior 
ragione 
essere 
esclusa 
la 
malafede 
del 
cliente. la 
corte 
d'Appello ha 
erroneamente 
ritenuto la 
banca 
legittimata 
alla 
ripetizione 
di indebito oggettivo. 
10. nel 
sesto motivo viene 
dedotta 
la 
violazione 
degli 
artt. 1147, 1338 e 
2033 c.c. nonchè 
del 
D.lgs. 
n. 
59 
del 
1998, 
art. 
23 
in 
relazione 
al 
rigetto 
della 
domanda 
attorea 
di 
pagamento 
degli 
interessi 
sulla 
somma 
investita 
dalla 
data 
degli 
investimenti 
anzichè 
dalla 
domanda. Il 
difetto 
di 
sottoscrizione 
del 
contratto 
quadro 
da 
parte 
della 
banca 
porta 
a 
ritenere 
accertato 
che 
la 
stessa 
fosse 
a 
conoscenza 
dell'invalidità 
dello stesso e 
degli 
ordini 
relativi 
ai 
titoli 
argentini 
con 
la 
conseguenza 
dell'indebito 
originario 
in 
relazione 
ai 
pagamenti 
per 
i 
loro 
acquisti. 
l'obbligo 
di 
forma 
è 
posto 
ad 
esclusiva 
tutela 
del 
cliente 
e 
costituisce 
il 
primo 
livello 
di 
tutela 
del-
l'asimmetria 
informativa. ne 
consegue 
la 
presunzione 
di 
consapevolezza 
della 
banca 
che 
a 
colmare tale squilibrio è tenuta. 
11. la 
questione 
di 
cui 
sono state 
investite 
le 
Sezioni 
Unite 
è 
affrontata 
nel 
secondo motivo 
di 
ricorso. Il 
contrasto che 
si 
è 
determinato all'interno della 
prima 
sezione 
riguarda, come 
già 
rilevato, la 
legittimità 
della 
limitazione 
degli 
effetti 
derivanti 
dall'accertamento della 
nullità 
del 
contratto quadro ai 
soli 
ordini 
oggetto della 
domanda 
proposta 
dall'investitore, contrapponendosi 
a 
tale 
impostazione, quella, ad essa 
alternativa, che 
si 
fonda 
sull'estensione 
degli 
effetti 
di 
tale 
dichiarazione 
di 
nullità 
anche 
alle 
operazioni 
di 
acquisto 
che 
non 
hanno 
formato 
oggetto della 
domanda 
proposta 
dal 
cliente, con le 
conseguenze 
compensative 
e 
restitutorie 
che 
ne 
possono derivare 
ove 
trovino ingresso nel 
processo come 
eccezioni 
o domande 
riconvenzionali. 
12. Prima 
di 
esaminare 
il 
secondo motivo di 
ricorso è 
necessario affrontare 
il 
terzo motivo 
relativo al 
vizio di 
ultrapetizione, nel 
quale 
sarebbe 
incorsa 
la 
sentenza 
impugnata 
per aver 
ritenuto che 
l'accertamento della 
nullità 
del 
contratto quadro avesse 
valore 
di 
giudicato. Al 
riguardo 
deve 
osservarsi 
che 
la 
parte 
ricorrente 
ha 
affermato che 
l'accertamento della 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
era 
stata 
richiesta 
soltanto 
"incidenter 
tantum", 
ed 
esclusivamente 
al 
fine 
di 
far valere 
l'invalidità 
degli 
ordini 
di 
acquisto indicati 
nella 
domanda. Secondo questa 
prospettazione, 
l'eccezione 
di 
compensazione, accolta 
dalla 
Corte 
d'Appello, è 
viziata 
da 
extra-
petizione 
perchè 
fondata 
sull'accertamento con valore 
di 
giudicato, della 
nullità 
del 
contratto 
quadro, e sulla conseguente invalidità di tutti gli ordini di acquisto con efficacia ex tunc. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


13. la 
censura 
non è 
fondata. In primo luogo deve 
rilevarsi 
che 
l'accertamento "incidenter 
tantum" 
può 
riguardare 
soltanto 
un 
rapporto 
diverso 
da 
quello 
dedotto 
in 
giudizio 
che 
si 
ponga 
come 
mero antecedente 
logico della 
decisione 
da 
adottare. la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
individuato le 
caratteristiche 
distintive 
di 
tale 
accertamento, ad efficacia 
esclusivamente 
endoprocessuale, rispetto a 
quello con valore 
di 
giudicato, attraverso gli 
orientamenti 
relativi 
al 
regolamento 
di 
competenza 
sui 
provvedimenti 
di 
sospensione 
del 
processo, 
la 
cui 
legittimità 
è 
stata 
limitata 
agli 
accertamenti 
giurisdizionali 
che 
si 
pongano in relazione 
di 
pregiudizialità 
tecnica 
o giuridica 
con quello o quelli 
inerenti 
il 
processo sospeso. Alla 
luce 
dei 
principi 
indicati, 
l'accertamento ha 
valore 
di 
giudicato quando riguarda 
un presupposto giuridico eziologicamente 
collegato 
con 
la 
domanda 
tanto 
da 
costituirne 
premessa 
ineludibile. 
Ulteriore 
caratteristica 
distintiva 
è 
l'attitudine 
ad 
avere 
rilievo 
autonomo 
ed 
efficacia 
che 
può 
propagarsi 
oltre 
il 
perimetro endoprocessuale. (Cass.14578 del 
2005, nella 
quale 
è 
stato escluso che 
l'accertamento 
della 
proprietà 
di 
un muro in una 
causa 
di 
risarcimento dei 
danni 
dovuta 
al 
suo 
crollo 
potesse 
essere 
idonea 
alla 
formazione 
giudicato, 
trattandosi 
di 
rapporto 
diverso 
da 
quello 
dedotto in giudizio e 16995 del 2007). 
nella 
fattispecie 
dedotta 
nel 
presente 
giudizio 
l'accertamento 
della 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
costituisce 
il 
presupposto 
non 
solo 
logico 
ma 
tecnico-giuridico 
della 
domanda 
oltre 
ad 
essere 
stato 
posto 
a 
base 
da 
parte 
dell'intermediario, 
dell'eccezione 
riconvenzionale 
di 
compensazione. 
13.1 l'attitudine 
al 
giudicato dell'accertamento relativo alla 
nullità 
del 
contratto quadro e 
la 
conseguente 
infondatezza 
della 
censura 
prospettata 
nel 
terzo motivo, non esclude, tuttavia, la 
necessità 
di 
affrontare 
la 
correlata 
questione, relativa 
alla 
legittimazione 
ad agire 
dell'intermediario, 
in via 
di 
azione 
o di 
eccezione, al 
fine 
di 
far valere 
gli 
effetti 
della 
nullità 
del 
contratto 
quadro anche 
in relazione 
ad ordini 
di 
acquisto diversi 
di 
quelli 
indicati 
nella 
domanda. 
Tale 
profilo costituisce 
parte 
integrante 
della 
censura 
formulata 
nel 
secondo motivo e 
della 
questione 
sottoposto 
all'esame 
delle 
Sezioni 
Unite, 
dovendo 
essere 
affrontata 
alla 
luce 
del 
peculiare 
regime 
delle 
nullità 
di 
protezione, all'interno delle 
quali 
si 
colloca, incontestatamente, 
la 
nullità 
per difetto di 
forma 
del 
contratto quadro, stabilita 
nell'art. 23 del 
t.u. n. 58 del 
1998. 
14. 
l'esame 
del 
secondo 
motivo 
richiede 
una 
precisazione 
preliminare. 
nel 
giudizio 
di 
merito 
si 
è 
formato 
il 
giudicato 
sulla 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
per 
difetto 
di 
forma, 
nonostante 
emerga 
dal 
ricorso 
(pag. 
8), 
e 
dalla 
sentenza 
impugnata 
(pag. 
7 
in 
fine) 
che 
il 
predetto 
contratto 
(quello del 
25/8/98) sia 
stato sottoscritto dagli 
investitori 
(il 
ricorrente 
e 
sua 
madre). l'esistenza 
di 
un testo completo e 
sottoscritto da 
uno dei 
contraenti, ancorchè 
costituisca 
circostanza 
irrilevante, 
in 
relazione 
all'accertamento 
della 
nullità, 
perchè 
coperta 
da 
giudicato, 
non 
può 
essere 
del 
tutto 
ignorata, 
in 
relazione 
alla 
valutazione 
della 
legittimità 
delle 
diverse 
forme 
di tutela dell'intermediario determinate dall'uso selettivo delle nullità di protezione. 
14.1 in particolare, deve 
escludersi 
l'applicabilità, nel 
caso di 
specie, dei 
principi 
contenuti 
nell'ordinanza 
della 
prima 
sezione 
civile, n. 10116 del 
2018, secondo i 
quali 
l'intermediario 
non può legittimamente 
opporsi 
ad un'azione 
fondata 
sull'uso selettivo della 
nullità 
ex art. 23 
T.U.f. 
quando 
un 
contratto 
quadro 
manchi 
del 
tutto, 
nè 
attraverso 
l'exceptio 
doli 
(di 
cui 
si 
tratterà 
nei 
par. 18,19,20) nè, in ragione 
della 
protrazione 
nel 
tempo del 
rapporto, per effetto 
della 
sopravvenuta 
sanatoria 
del 
negozio nullo per rinuncia 
a 
valersi 
della 
nullità 
o per convalida 
di 
esso, 
l'una 
e 
l'altra 
essendo 
prospettabili 
solo 
in 
relazione 
ad 
un 
contratto 
quadro 
formalmente 
esistente. 
15. Si 
ritiene 
necessaria, in primo luogo, la 
ricognizione 
del 
quadro legislativo delle 
nullità 
di 
protezione 
non limitando l'esame 
soltanto alle 
norme 
del 
T.U.f 
ratione 
temporis 
applicabili, 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


ma 
estendendo l'indagine 
ad aree 
contigue, in modo da 
avere 
un prospetto comparativo della 
peculiarità del regime giuridico di tale tipologia di nullità. 

15.1 Al 
rapporto dedotto in giudizio si 
applica 
il 
D.lgs. n. 58 del 
1998, art. 23 nella 
sua 
formulazione 
originaria. Il 
testo normativo è, infatti, entrato in vigore 
il 
1/7/1998 ed il 
contratto 
quadro 
è 
stato 
stipulato 
nell'agosto 
del 
1998. 
Gli 
ordini 
di 
cui 
si 
chiede 
la 
dichiarazione 
di 
nullità sono stati emessi nel 1999. 
Il testo normativo ratione temporis applicabile è il seguente: 
1. i contratti 
relativi 
alla prestazione 
dei 
servizi 
di 
investimento e 
accessori 
sono redatti 
per 
iscritto e 
un esemplare 
è 
consegnato ai 
clienti. la CoNsob, sentita la banca d'italia, può 
prevedere 
con regolamento che, per 
motivate 
ragioni 
tecniche 
o in relazione 
alla natura professionale 
dei 
contraenti, particolari 
tipi 
di 
contratto possano o debbano essere 
stipulati 
in 
altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo. 
2. È 
nulla ogni 
pattuizione 
di 
rinvio agli 
usi 
per 
la determinazione 
del 
corrispettivo dovuto 
dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. in tal casi nulla è dovuto. 
3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. 
Il comma 3 non è mutato nella versione della norma attualmente vigente. 
Analogo sistema 
di 
tutela 
del 
cliente 
si 
rinviene 
nel 
D.lgs. n. 385 del 
1993 (d'ora 
in avanti 
denominato 
T.U. 
bancario), 
sia 
in 
relazione 
alla 
previsione 
della 
nullità 
del 
contratto 
per 
difetto 
di 
forma 
(art. 
117, 
commi 
1 
e 
3, 
rimasti 
immutati), 
sia 
in 
relazione 
all'applicazione 
delle 
nullità 
di protezione disciplinate nell'art. 127, così formulato: 


"1. le 
disposizioni 
del 
presente 
titolo sono derogabili 
solo in senso più favorevole 
al 
cliente. 

2. le nullità previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente". 
Con 
la 
modifica 
introdotta 
dal 
D.lgs. 
n. 
141 
del 
2010, 
art. 
4, 
comma 
3, 
l'attuale 
formulazione 
dell'art. 127, comma 
4, si 
è 
conformata 
al 
regime 
giuridico del 
Codice 
del 
Consumo (D.lgs. 


n. 206 del 
2005) ed è 
la 
seguente: 
"le 
nullità previste 
dal 
presente 
titolo operano soltanto a 
vantaggio del cliente e possono essere rilevate d'ufficio dal giudice". 
Deve, infatti 
rilevarsi, che 
le 
nullità 
di 
protezione 
sono state 
introdotte 
nel 
codice 
civile 
in relazione 
all'inefficacia 
delle 
clausole 
vessatorie 
nei 
contratti 
conclusi 
con i 
consumatori. Al 
riguardo 
nell'art. 
1469 
quinquies 
c.c., 
ratione 
temporis 
applicabile, 
è 
stato 
previsto 
che 


"l'inefficacia opera soltanto a vantaggio del 
consumatore 
e 
può essere 
rilevata d'ufficio dal 
giudice". 
Con 
l'introduzione 
del 
Codice 
del 
Consumo 
(D.lgs. 
n. 
206 
del 
2005), 
e 
l'abrogazione 
delle 
norme 
codicistiche 
in tema 
di 
clausole 
vessatorie, l'art. 36, comma 
3, ha 
esteso la 
tutela 
prevista 
per 
le 
clausole 
vessatorie 
alla 
nullità, 
stabilendo 
che: 
"la 
nullità 
opera 
soltanto 
a 
vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice". 


15.2. 
Il 
confronto 
tra 
le 
norme 
sopra 
illustrate 
pone 
in 
luce 
come, 
pur 
in 
presenza 
di 
differenze 
testuali 
non 
prive 
di 
rilievo, 
il 
tratto 
unificante 
del 
regime 
giuridico 
delle 
nullità 
di 
protezione 
sia 
la 
legittimazione 
esclusiva 
del 
cliente 
ad 
agire 
in 
giudizio. 
le 
conseguenze 
sostanziali 
di 
questo 
regime 
peculiare 
di 
legittimazione 
sono 
espresse 
nella 
regola 
normativa: 
"la 
nullità 
opera 
soltanto 
a 
vantaggio 
del 
consumatore 
e 
può 
essere 
rilevata 
d'ufficio 
dal 
giudice", 
che, 
tuttavia, 
non 
è 
testualmente 
riprodotta 
nell'art. 
23 
T.U.f. 
Al 
riguardo 
deve 
osservarsi 
che 
il 
rilievo 
officioso 
delle 
nullità 
di 
protezione 
deve 
ritenersi 
generalmente 
applicabile 
a 
tutte 
le 
tipologie 
di 
contratti 
nei 
quali 
è 
previsto 
in 
favore 
del 
cliente 
tale 
regime 
di 
protezione 
in 
considerazione 
dei 
principi 
stabiliti 
nella 
sentenza 
delle 
S.U. 
n. 
26642 
del 
2014 
così 
massimati: 
"la 
rilevabilità 
officiosa 
delle 
nullità 
negoziali 
deve 
estendersi 
anche 
a 
quelle 
cosiddette 
di 
protezione, 
da 
configurarsi, 
alla 
stregua 
delle 
indicazioni 
provenienti 
dalla 
Corte 
di 
giustizia, 
come 
una 
"species" 
del 
più 
ampio 
"genus" 
rappresentato 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


dalle 
prime, 
tutelando 
le 
stesse 
interessi 
e 
valori 
fondamentali 
-quali 
il 
corretto 
funzionamento 
del 
mercato 
(art. 
41 
Cost.) 
e 
l'uguaglianza 
almeno 
formale 
tra 
contraenti 
forti 
e 
deboli 
(art. 
3 
Cost.) 
-che 
trascendono 
quelli 
del 
singolo", 
(cfr. 
anche 
la 
più 
recente 
Cass. 
26614 
del 
2018, 
nella 
quale 
si 
precisa 
che 
il 
rilievo 
d'ufficio 
è, 
tuttavia, 
subordinato 
ad 
una 
manifestazione 
d'interesse 
del 
legittimato). 
Il 
testo, 
immutato, 
dell'art. 
23, 
comma 
3, 
deve, 
pertanto, 
essere 
interpretato 
in 
modo 
costituzionalmente 
orientato 
e 
coerentemente 
con 
i 
principi 
del 
diritto 
eurounitario, 
così 
da 
non 
escluderne 
nè 
il 
rilievo 
d'ufficio 
nè 
l'operatività 
a 
vantaggio 
esclusivo 
del 
cliente. 
Deve, 
tuttavia, 
rilevarsi 
che 
la 
configurazione 
normativa 
e 
l'elaborazione 
giurisprudenziale 
relativa 
alle 
nullità 
di 
protezione 
ne 
evidenziano 
la 
vocazione 
funzionale, 
ancorchè 
non 
esclusiva, 
alla 
correzione 
parziale 
del 
contratto, limitatamente 
alle 
parti 
che 
pregiudicano la 
parte 
contraente 
che 
in via 
esclusiva 
può farle 
valere. Tale 
carattere 
è 
stato largamente 
sottolineato 
dalla 
dottrina 
che 
più autorevolmente 
si 
è 
occupata 
della 
loro collocazione 
nel 
sistema 
dei 
rimedi 
e 
delle 
disfunzioni 
del 
contratto. 
l'originaria 
destinazione 
all'eliminazione 
delle 
clausole 
inefficaci 
ne 
sottolinea 
tale 
profilo ed evidenzia 
le 
difficoltà 
di 
adattamento dello strumento 
in 
relazione 
alla 
produzione 
dell'effetto 
dell'invalidità 
dell'intero 
contratto. 
questo 
ampliamento 
dell'ambito 
di 
applicazione 
delle 
nullità 
di 
protezione 
costituisce 
il 
nucleo 
problematico 
della 
questione 
sottoposta 
all'esame 
delle 
S.U. 
Può, 
infatti, 
rilevarsi 
che 
l'incidenza 
diretta 
sui 
requisiti 
di 
forma 
ad 
substantiam 
è 
prevista 
in 
particolare 
per 
i 
contratti 
bancari 
e 
per 
i 
contratti 
d'investimento. Per questi 
ultimi 
si 
pone 
in concreto l'interrogativo della 
legittimità 
e 
liceità 
dello 
strumento 
delle 
nullità 
cd. 
selettive. 
È 
la 
conformazione 
bifasica 
dell'impegno 
negoziale 
assunto 
dalle 
parti 
a 
determinare 
l'insorgenza 
delle 
criticità 
applicative 
del 
regime 
delle 
nullità 
di 
protezione. 
Il 
contratto 
quadro 
ha 
una 
funzione 
conformativa 
e 
normativa. 
Deve 
a 
pena 
d'invalidità, 
essere 
redatto 
per 
iscritto, 
contenendo 
la 
definizione 
specifica 
della 
tipologia 
d'investimenti 
da 
eseguire, 
il 
range 
di 
rischio 
coerente 
con 
il 
profilo 
del 
cliente 
e 
la 
determinazione 
degli 
obblighi 
che 
l'intermediario è 
tenuto ad adempiere 
(Cass. 12937 del 
2017). Il 
suo perfezionamento, 
tuttavia, costituisce 
la 
condizione 
necessaria 
ma 
non sufficiente 
perchè 
si 
realizzino 
tutti 
gli 
effetti 
scaturenti 
dal 
vincolo 
negoziale 
assunto 
dalle 
parti. 
Ad 
esso 
deve 
seguire 
l'effettuazione 
degli 
investimenti 
finanziari, 
attraverso 
l'esecuzione 
degli 
ordini 
di 
acquisto 
da 
parte 
dell'intermediario. nonostante 
l'impegno economico per il 
cliente 
si 
determini 
con 
la 
trasmissione 
degli 
ordini, la 
forma 
scritta, in linea 
generale, è 
imposta 
soltanto per il 
contratto 
quadro, 
salvo 
diversa 
disposizione 
contrattuale 
voluta 
dalle 
parti, 
perchè 
in 
questo 
testo 
negoziale 
si 
cristallizzano gli 
obblighi 
dell'intermediario che 
il 
legislatore 
ha 
inteso rendere 
trasparenti, in primo luogo, con la 
predisposizione 
di 
un regolamento scritto. Tale 
obbligo, 
come 
specificato nella 
recente 
sentenza 
delle 
S.U. n. 898 del 
2018 ha 
natura 
e 
contenuto funzionali 
e 
costituisce 
il 
primo, (ma 
non l'unico) ineliminabile 
strumento di 
superamento dello 
squilibrio contrattuale 
e 
dell'asimmetria 
informativa 
delle 
parti. l'obbligo della 
forma 
scritta, 
nell'impostazione 
funzionale 
prescelta 
dalle 
S.U., deve 
ritenersi 
assolto anche 
se 
il 
contratto 
quadro è 
sottoscritto soltanto dall'investitore, essendo destinato alla 
protezione 
effettiva 
del 
cliente 
senza 
tuttavia 
legittimare 
l'esercizio dell'azione 
di 
nullità 
in forma 
abusiva, in modo 
da trarne ingiusti vantaggi. 
Deve, 
pertanto, 
rilevarsi, 
come 
già 
nella 
sentenza 
delle 
S.U. 
n. 
898 
del 
2018, 
siano 
state 
adombrate 
le 
criticità 
applicative 
che 
possono 
derivare 
dall'adozione 
del 
regime 
giuridico 
delle 
nullità 
di 
protezione 
per 
forme 
d'invalidità 
che 
colpiscano 
l'intero 
testo 
contrattuale. 
l'opzione, 
fortemente 
funzionalistica, 
adottata 
dalle 
S.U. 
nella 
conformazione 
dell'obbligo 
della 
forma 
scritta, 
contenuto 
nell'art. 
23 
T.U. 
n. 
58 
del 
1998, 
è 
determinata 
dall'esigenza 
di 
non 
trascurare 
l'appli



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


cazione 
dei 
principi 
di 
buona 
fede 
e 
correttezza 
anche 
nell'esercizio 
dei 
diritti 
in 
sede 
giurisdizionale. 
nell'affrontare 
il 
quesito 
posto 
dall'ordinanza 
di 
rimessione, 
il 
Collegio 
ritiene 
di 
dover 
dare 
continuità 
al 
richiamo 
contenuto 
nei 
principi 
elaborati 
nella 
sentenza 
n. 
898 
del 
2018, 
al 
fine 
di 
verificare 
se 
può 
configurarsi 
un 
esercizio 
del 
diritto 
a 
far 
valere, 
da 
parte 
dell'esclusivo 
legittimato, 
le 
nullità 
di 
protezione 
in 
un 
modo 
selettivo 
o 
se 
tale 
esercizio 
possa 
ed 
in 
quali 
limiti 
qualificarsi 
abusivo 
o 
contrario 
al 
canone, 
costituzionalmente 
fondato, 
della 
buona 
fede. 


15.3. 
Per 
poter 
svolgere 
l'indagine 
sopra 
delineata 
occorre 
in 
primo 
luogo 
definire 
l'ambito 
effettivo 
della 
deroga 
ai 
principi 
generali 
riguardanti 
il 
regime 
d'invalidità 
dei 
contratti 
desumibile 
dal 
peculiare 
regime 
giuridico 
delle 
nullità 
protettive. 
Sarà 
necessario, 
inoltre, 
verificare 
se 
possa 
configurarsi 
una 
disciplina 
generale 
comune 
a 
tutte 
le 
nullità 
di 
protezione, 
salvo 
differenze 
di 
dettaglio 
ove 
previste 
da 
una 
normativa 
specifica 
di 
settore 
o 
se 
vi 
sia 
la 
coesistenza 
di 
differenziate 
forme 
di 
nullità 
di 
protezione, 
ciascuna 
dotata 
di 
un 
proprio 
statuto 
giuridico 
autonomo 
eventualmente 
anche 
in 
relazione 
all'esercizio 
selettivo 
dell'azione 
di 
nullità. 
16. Il 
regime 
giuridico della 
legittimazione 
a 
far valere 
tale 
forma 
di 
nullità 
contrasta 
con il 
disposto dell'art. 1421 c.c.: 
le 
nullità 
di 
protezione, sia 
che 
investano singole 
clausole 
sia 
che 
riguardino l'intero contratto non possono essere 
fatte 
valere 
che 
da 
una 
sola 
parte, salvo il 
rilievo 
d'ufficio 
del 
giudice 
nei 
limiti 
indicati 
dalle 
S.U. 
nella 
pronuncia 
n. 
26442 
del 
2014, 
proprio in applicazione 
del 
principio solidaristico e 
costituzionalmente 
fondato, della 
buona 
fede. 
la 
legittimazione 
dell'altra 
parte 
è 
radicalmente 
esclusa, 
trattandosi 
di 
nullità 
che 
operano 
al 
fine 
di 
ricomporre 
un equilibrio quanto meno formale 
(S.U. 26442 del 
2014) tra 
le 
parti. 
Tale 
esclusione 
è 
il 
frutto 
della 
predeterminazione 
legislativa 
della 
posizione 
di 
squilibrio 
contrattuale 
tra le parti in relazione ad alcune tipologie contrattuali. 
Con riferimento ai 
contratti 
d'investimento, lo squilibrio che 
viene 
ad emersione 
giuridica 
ha 
carattere 
prevalentemente 
conoscitivo-informativo, fondandosi 
sull'elevato grado di 
competenza 
tecnica 
richiesta 
a 
chi 
opera 
nell'ambito degli 
investimenti 
finanziari. I rimedi 
volti 
a 
limitare 
od 
a 
colmare 
l'asimmetria 
informativa, 
riconosciuta 
come 
elemento 
caratterizzante 
l'intervento 
correttivo 
del 
legislatore, 
non 
sono 
riconducibili 
soltanto 
alle 
nullità 
di 
protezione. 
Proprio 
in 
funzione 
dell'effettiva 
attuazione 
del 
principio 
di 
buona 
fede, 
la 
nullità 
di 
protezione, 
applicata 
in via 
generale 
ed indifferenziata 
ad esclusivo vantaggio del 
cliente, opera 
sul 
requisito 
della 
forma 
(peraltro in chiave 
funzionale, come 
chiarito da 
S.U. 898 del 
2018) del 
contratto 
quadro 
ma 
non 
in 
relazione 
a 
tutti 
gli 
obblighi 
informativi 
dell'intermediario, 
essendo 
la 
gran 
parte 
di 
essi 
conformati 
sul 
profilo 
del 
cliente 
e 
sul 
grado 
di 
rischiosità 
contrattualmente 
assunto. ristabilito l'equilibrio formale 
con il 
testo contrattuale 
scritto, la 
condizione 
soggettiva 
dell'investitore 
e 
le 
scelte 
d'investimento 
connotano 
peculiarmente 
gli 
obblighi 
informativi 
dell'intermediario ed incidono sullo scrutinio dell'adempimento dell'intermediario ai 
fini 
del 
risarcimento 
del 
danno 
o 
della 
risoluzione 
del 
contratto, 
tenendo 
conto 
in 
concreto 
della 
buona 
fede 
del 
cliente 
al 
momento 
della 
discovery 
delle 
sue 
caratteristiche 
d'investitore 
e 
del 
suo 
grado 
di 
conoscenza 
delle 
dinamiche 
degli 
investimenti 
finanziari 
(S.U. 
26724 
del 
2007). 
Deve, pertanto, ritenersi 
che 
il 
principio di 
buona 
fede 
e 
correttezza 
contrattuale, così 
come 
sostenuto dai 
principi 
solidaristici 
di 
matrice 
costituzionale, operi, in relazione 
agli 
interessi 
dell'investitore, 
mediante 
la 
predeterminazione 
legislativa 
delle 
nullità 
di 
protezione 
predisposte 
a 
suo esclusivo vantaggio, in funzione 
di 
riequilibrio generale 
ed astratto delle 
condizioni 
negoziali 
garantite 
dalla 
conoscenza 
del 
testo del 
contratto quadro, nonchè 
in concreto 
mediante 
la 
previsione 
di 
un 
rigido 
sistema 
di 
obblighi 
informativi 
a 
carico 
dell'intermediario. 
Tuttavia, non può escludersi 
la 
configurabilità 
di 
un obbligo di 
lealtà 
dell'investitore 
in funzione 
di 
garanzia 
per l'intermediario che 
abbia 
correttamente 
assunto le 
informazioni 
neces

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


sarie 
a 
determinare 
il 
profilo soggettivo del 
cliente 
al 
fine 
di 
conformare 
gli 
investimenti 
alle 
sue caratteristiche, alle sue capacità economiche e alla sua propensione al rischio. 
Può, pertanto, rilevarsi 
che 
anche 
nei 
contratti, quali 
quello dedotto nel 
presente 
giudizio, caratterizzati 
da 
uno statuto di 
norme 
non derogabili 
dall'autonomia 
contrattuale 
volte 
a 
proteggere 
il 
contraente 
che 
strutturalmente 
è 
in 
una 
posizione 
di 
squilibrio 
rispetto 
all'altro, 
il 
principio di 
buona 
fede 
possa 
avere 
un ambito di 
operatività 
trasversale 
non limitata 
soltanto 
alla 
definizione 
del 
sistema 
di 
protezione 
del 
cliente, in particolare 
se 
gli 
strumenti 
normativi 
di 
riequilibrio 
possono 
essere 
utilizzati, 
anche 
in 
sede 
giurisdizionale, 
non 
soltanto 
per 
rimuovere 
le 
condizioni 
di 
svantaggio di 
una 
parte 
derivanti 
dalla 
violazione 
delle 
regole 
imposte 
al 
contraente 
"forte" 
ma 
anche 
per arrecare 
un ingiustificato pregiudizio all'altra, pur se 
applicate 
conformemente al paradigma legale. 

17. 
ritiene, 
pertanto, 
il 
Collegio, 
che 
la 
questione 
della 
legittimità 
dell'uso 
selettivo 
delle 
nullità 
di 
protezione 
nei 
contratti 
aventi 
ad 
oggetto 
servizi 
d'investimento 
debba 
essere 
affrontata 
assumendo come 
criterio ordinante 
l'applicazione 
del 
principio di 
buona 
fede, al 
fine 
di 
accertare 
se 
sia 
necessario alterare 
il 
regime 
giuridico peculiare 
di 
tale 
tipologia 
di 
nullità, sotto 
il 
profilo della 
legittimazione 
e 
degli 
effetti, per evitare 
che 
l'esercizio dell'azione 
in sede 
giurisdizionale 
possa 
produrre 
effetti 
distorsivi 
ed estranei 
alla 
ratio riequilibratrice 
in funzione 
della quale lo strumento di tutela è stato introdotto. 
17.1. Per svolgere 
in modo esauriente 
tale 
indagine 
è 
necessario, in primo luogo, illustrare 
le 
opzioni 
alternative 
che 
si 
confrontano in dottrina 
e 
sono rappresentate 
in due 
pronunce 
della 
prima sezione civile, la n. 8395 del 2016 e la n. 6664 del 2018. 
17.1.1. Il 
nucleo centrale 
della 
divergenza 
risiede 
proprio nella 
diversa 
declinazione 
dell'ambito 
di 
operatività 
delle 
nullità 
di 
protezione, in relazione 
alla 
correlazione 
tra 
legittimazione 
e 
propalazione 
degli 
effetti. ove 
si 
ritenga 
che 
il 
regime 
di 
protezione 
si 
esaurisca 
nella 
legittimazione 
esclusiva 
del 
cliente 
(o nella 
rilevabilità 
d'ufficio, nei 
limiti 
precisati 
nel 
par.15.2) 
a 
far 
valere 
la 
nullità 
per 
difetto 
di 
forma, 
una 
volta 
dichiarata 
l'invalidità 
del 
contratto 
quadro, 
gli 
effetti 
caducatori 
e 
restitutori 
che 
ne 
derivano possono essere 
fatti 
valere 
da 
entrambe 
le 
parti. Il 
principio, posto a 
base 
dell'accurata 
requisitoria 
dell'Avvocato Generale, è 
stato così 
espresso in Cass. n. 6664 del 
2018: 
"una volta che 
sia privo di 
effetti 
il 
contratto d'intermediazione 
finanziaria destinato a regolare 
i 
successivi 
rapporti 
tra le 
parti 
in quanto esso sia 
dichiarato nullo, operano le 
regole 
comuni 
dell'indebito (art. 2033 c.c.) non altrimenti 
derogate. 
la disciplina del 
pagamento dell'indebito è 
invero richiamata dall'art. 1422 c.c.: accertata 
la mancanza di 
una causa adquirendi 
-in caso di 
nullità 
(...) 
l'azione 
accordata dalla 
legge 
per 
ottenere 
la restituzione 
di 
quanto prestato in esecuzione 
dello stesso è 
quella di 
ripetizione 
dell'indebito oggettivo; la pronuncia del 
giudice 
è 
l'evenienza che 
priva di 
causa 
giustificativa 
le 
reciproche 
obbligazioni 
dei 
contraenti 
e 
dà 
fondamento 
alla 
domanda 
del 
solvens di restituzione della prestazione rimasta senza causa". 
17.1.2. l'opinione 
radicalmente 
contraria 
si 
fonda 
invece 
sull'operatività 
piena, processuale 
e 
sostanziale, del 
regime 
giuridico delle 
nullità 
di 
protezione 
esclusivamente 
a 
vantaggio del 
cliente 
(nella 
specie 
dell'investitore), anche 
ove 
l'invalidità 
riguardi 
l'intero contratto. l'intermediario 
non 
può 
avvalersi 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
in 
relazione 
alle 
conseguenze, 
in 
particolare 
restitutorie, che 
ne 
possono scaturire 
a 
suo vantaggio, dal 
momento che 
il 
regime 
delle 
nullità 
di 
protezione 
opera 
esclusivamente 
in favore 
dell'investitore. Il 
contraente 
privo 
della 
legittimazione 
a 
far valere 
le 
nullità 
di 
protezione 
può, di 
conseguenza, subire 
soltanto 
gli 
effetti 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
selettivamente 
definiti 
nell'azione 
proposta 
dalla 
parte 
esclusiva 
legittimata, non potendo far valere 
qualsiasi 
effetto "vantaggioso" 
che 
consegua 
a 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


tale 
declaratoria. 
l'indebito, 
così 
come 
previsto 
nell'art. 
1422 
c.c., 
può 
operare 
solo 
ove 
la 
legge 
non limiti 
con norma 
inderogabile 
la 
facoltà 
di 
far valere 
la 
nullità 
ed i 
suoi 
effetti 
in 
capo ad uno dei 
contraenti, essendo direttamente 
inciso dallo "statuto" 
speciale 
della 
nullità 
cui 
si 
riferisce. 
le 
nullità 
di 
protezione 
sono 
poste 
a 
presidio 
esclusivo 
del 
cliente. 
Egli 
ex 
lege 
ne 
può 
trarre 
i 
vantaggi 
(leciti) 
che 
ritiene 
convenienti. 
la 
selezione 
degli 
ordini 
sui 
quali 
dirigere 
la 
nullità 
è 
una 
conseguenza 
dell'esercizio di 
un diritto predisposto esclusivamente 
in suo favore. Una 
diversa 
interpretazione 
del 
sistema 
delle 
nullità 
di 
protezione 
condurrebbe 
all'effetto, certamente 
non voluto dal 
legislatore, della 
sostanziale 
abrogazione 
dello speciale 
regime 
d'intangibilità 
ed impermeabilità 
proprio delle 
nullità 
di 
protezione 
(Cass. 8395 del 
2016). 
In 
particolare, 
con 
riferimento 
alla 
tipologia 
contrattuale 
oggetto 
del 
presente 
giudizio, 
l'investitore, 
ove 
fosse 
consentito 
all'intermediario 
di 
agire 
ex 
art. 
2033 
c.c., 
non 
potrebbe 
mai 
far valere 
il 
difetto di 
forma 
di 
alcuni 
ordini 
in relazione 
ad un rapporto di 
lunga 
durata 
che 
abbia 
avuto 
parziale 
esecuzione, 
perchè 
le 
conseguenze 
economico 
patrimoniali 
sarebbero 
per lui 
verosimilmente 
quasi 
sempre 
pregiudizievoli, così 
vanificandosi 
la 
previsione 
legale 
di un regime di protezione destinato ad operare a suo esclusivo vantaggio. 

18. vi 
è 
una 
terza 
opzione 
che 
rinviene 
nel 
principio della 
buona 
fede, variamene 
declinato, 
lo strumento più adeguato, per affrontare 
il 
tema 
dell'uso eventualmente 
distorsivo dello strumento 
delle 
nullità 
di 
protezione 
in funzione 
selettiva, perchè, senza 
alterarne 
il 
regime 
giuridico 
ed 
in 
particolare 
l'unilateralità 
dello 
strumento 
di 
tutela 
legislativamente 
previsto, 
consente, per la 
sua 
adattabilità 
al 
caso concreto, di 
ricostituire 
l'equilibrio effettivo della 
posizione 
contrattuale 
delle 
parti, 
impedendo 
effetti 
di 
azioni 
esercitate 
in 
modo 
arbitrario 
o 
nelle 
quali 
può cogliersi 
l'abuso dello strumento di 
"protezione" 
ad esclusivo detrimento del-
l'altra 
parte. Già 
nelle 
ordinanze 
interlocutorie 
n. 12388, 12389 e 
12390 del 
2017, nelle 
quali 
la 
questione 
della 
legittimità 
dell'uso 
selettivo 
della 
nullità 
era 
subordinata 
a 
quella 
principale 
relativa 
alla 
validità, sotto il 
profilo del 
requisito di 
forma, del 
contratto quadro sottoscritto 
dal 
solo investitore, era 
stata 
prospettata 
l'esperibilità 
dell'exceptio doli 
generalis, al 
fine 
di 
paralizzare 
l'uso 
selettivo 
della 
nullità, 
ritenendo 
centrale 
nell'esaminare 
la 
questione, 
il 
rilievo 
della 
buona 
fede 
"come 
criterio valutativo della 
regola 
contrattuale". nell'ordinanza 
interlocutoria 
n. 23927 del 
2018, dalla 
quale 
è 
scaturito il 
presente 
giudizio, anche 
alla 
luce 
degli 
orientamenti, ancorchè 
non univoci 
che 
sono intervenuti 
medio tempore 
(Cass. 6664 e 
10116 
del 
2018) 
è 
stata 
posta 
in 
evidenza 
la 
questione 
della 
compatibilità 
tra 
il 
peculiare 
regime 
delle 
nullità 
protettive 
nei 
contratti 
d'intermediazione 
finanziaria 
e 
l'opponibilità 
della 
"eccezione 
di 
correttezza 
e 
di 
buona 
fede", in funzione 
della 
individuazione 
di 
un punto di 
equilibrio tra 
le 
esigenze 
di 
garanzia 
degli 
investimenti 
dei 
privati 
in relazione 
alla 
collocazione 
dei 
propri 
risparmi 
(art. 47 Cost.) e 
la 
tutela 
dell'intermediario anche 
in funzione 
della 
certezza 
dei 
mercati 
in materia d'investimenti finanziari. 
19. 
la 
dottrina 
non 
ha 
prospettato 
soluzioni 
univoche, 
formulando 
indicazioni 
variamente 
assimilabili 
a 
quelle 
che 
hanno caratterizzato gli 
orientamenti 
giurisprudenziali 
sopra 
illustrati. 
Come 
riscontrato 
anche 
nel 
confronto 
tra 
le 
due 
ordinanze 
interlocutorie 
che 
hanno 
posto 
alle 
S.U. la 
questione 
della 
legittimità 
dell'uso selettivo delle 
nullità 
di 
protezione, il 
principio di 
buona 
fede 
non 
è 
stato 
preso 
in 
considerazione 
in 
modo 
univoco. 
Si 
è 
affermato 
che 
attraverso 
la 
formulazione 
dell'exceptio doli 
generalis 
si 
possa 
impedire 
in via 
generale 
l'uso selettivo 
delle 
nullità 
di 
protezione, in quanto dettato esclusivamente 
dall'intento di 
colpire 
gli 
investimenti 
non redditizi 
(la 
tesi 
viene 
prospettata 
seppure 
in via 
ipotetica 
nelle 
ordinanze 
interlocutorie 
nn. 12388, 12389, 12390 del 
2017). In questa 
lettura 
l'azione 
di 
nullità, ove 
sia 
diretta 
a 
colpire 
alcuni 
soltanto degli 
ordini 
eseguiti, viene 
ritenuta 
intrinsecamente 
connotata 
da 
un 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


intento opportunistico che 
va 
oltre 
la 
funzione 
di 
protezione 
voluta 
dal 
legislatore. rispetto 
alla 
tesi 
illustrata 
nel 
par. 17.1.1, la 
differenza 
si 
può cogliere 
nell'effetto esclusivamente 
paralizzante 
conseguente 
alla 
formulazione 
dell'eccezione, 
rimanendo 
preclusa 
all'intermediario 
l'esercizio dell'azione di ripetizione dell'indebito. 
la 
tesi 
esposta 
postula 
che 
l'uso selettivo delle 
nullità 
di 
protezione 
determini 
sempre 
la 
violazione 
del 
canone 
di 
buona 
fede. l'investitore, ove 
intraprenda 
l'azione, si 
pone 
nella 
condizione 
di 
produrre 
un 
pregiudizio 
economico 
ingiustificato 
all'altra 
parte 
dovuto 
alla 
natura 
potestativa 
ed unilaterale 
della 
selezione 
operata. l'exceptio doli, così 
configurata, ricorrerebbe 
sempre 
in 
via 
generale 
ed 
astratta 
e 
deriverebbe 
dall'uso 
della 
nullità 
selettiva, 
ancorchè 
astrattamente 
lecito. la 
tesi 
viene 
criticata 
per la 
sua 
assolutezza 
perchè, pur non escludendo 
la 
formale 
applicazione 
dello statuto normativo delle 
nullità 
di 
protezione, ne 
trascura 
la 
funzione 
di 
reintegrazione 
di 
una 
preesistente 
condizione 
di 
squilibrio strutturale 
che 
permea 
le 
fattispecie 
contrattuali 
nelle 
quali 
trova 
applicazione 
e 
d'inveramento del 
sistema 
assiologico 
fondato sui 
principi 
di 
uguaglianza, solidarietà 
e 
tutela 
del 
risparmiatore 
ritraibili 
dalla 
Costituzione. 
Inoltre, con tale 
impostazione, si 
trascura 
la 
strutturale 
vocazione 
delle 
nullità 
protettive 
ad 
un 
uso 
selettivo, 
ancorchè 
non 
arbitrario, 
in 
quanto 
correlato 
alla 
operatività 
a 
vantaggio esclusivo di uno dei contraenti. 

20. nel 
solco dell'applicazione 
in chiave 
riequilibratrice 
del 
principio di 
buona 
fede 
si 
collocano 
posizioni 
intermedie 
che, partendo dalla 
legittimità 
dell'azione 
di 
nullità 
cd. selettiva 
da 
parte 
del 
cliente, 
ovvero 
di 
una 
domanda 
formulata 
in 
relazione 
ad 
alcuni 
ordini 
d'investimento, 
ritengono che 
da 
parte 
dell'intermediario possa 
essere 
fatta 
valere 
l'exceptio doli 
generalis 
ove 
l'esercizio del 
diritto da 
parte 
dell'investitore 
sia 
avvenuto in malafede 
attraverso 
una 
valutazione 
che 
deve 
essere 
svolta 
in concreto secondo parametri 
oggettivi 
e 
soggettivi 
sui quali, tuttavia, non si riscontra unitarietà di vedute. 
viene 
escluso, al 
riguardo, che 
il 
possibile 
conflitto tra 
la 
specifica 
istanza 
di 
solidarietà 
costituita 
dal 
regime 
peculiare 
delle 
nullità 
di 
protezione 
e 
quella 
che 
scaturisce 
dal 
principio di 
affidamento, possa 
trovare 
una 
soluzione, stabilendo un criterio di 
prevalenza 
applicabile 
in 
ogni 
ipotesi, tenuto conto che 
la 
dinamica 
selettiva 
è 
ipotizzabile 
esclusivamente 
nelle 
nullità 
di 
protezione. 
l'affidamento, 
che 
costituisce 
il 
nucleo 
costitutivo 
della 
nozione 
di 
buona 
fede, 
ha 
un sicuro ancoraggio costituzionale 
nell'art. 2 Cost. le 
nullità 
di 
protezione, come 
evidenziato 
da 
S.U. 26242 del 
2014, fondano l'inderogabilità 
del 
loro statuto, contrassegnato dal-
l'operatività 
a 
"vantaggio" 
del 
cliente, 
non 
solo 
sull'art. 
2 
ma 
anche 
sull'art. 
3 
(essendo 
finalizzate 
a 
rimuovere 
il 
primo 
grado 
dell'asimmetria 
informativa) 
e 
sull'art. 
41 
cui 
si 
aggiunge, 
per l'intermediazione 
finanziaria, la 
tutela 
del 
risparmio (art. 47 Cost.). Poichè 
le 
nullità 
di 
protezione 
costituiscono, dunque, una 
diretta 
attuazione 
di 
principi 
costituzionali, tale 
qualificazione 
non è 
priva 
di 
conseguenze 
in relazione 
alla 
concorrente 
operatività 
del 
principio 
di 
buona 
fede 
come 
criterio arginante 
l'uso arbitrario dello strumento di 
tutela. ne 
consegue 
che 
la 
mera 
invocazione 
di 
effetti 
selettivi 
da 
parte 
del 
cliente 
non può giustificare 
di 
per 
sè 
-pena 
lo 
svuotamento 
e 
la 
vanificazione 
della 
funzione 
delle 
nullità 
di 
protezione 
e 
della 
connessa 
tutela 
giurisdizionale, 
-l'automatica 
opponibilità 
da 
parte 
dell'intermediario 
dell'exceptio 
doli 
generalis. 
l'eccezione, 
secondo 
una 
delle 
tesi 
in 
campo, 
può 
essere 
proposta 
per paralizzare 
l'azione 
volta 
a 
far valere 
le 
nullità 
di 
protezione 
in funzione 
selettiva, tutte 
le 
volte 
che 
l'investitore 
ponga 
in essere 
una 
condotta 
soggettivamente 
connotata 
da 
malafede 
o 
frode 
ovvero preordinata 
alla 
produzione 
di 
un pregiudizio per l'intermediario, non ravvisandosi 
alcuna 
incompatibilità 
tra 
l'esercizio 
dell'azione 
di 
nullità 
e 
la 
predetta 
eccezione 
ma 
solo 
la 
necessità 
di 
un 
adeguato 
bilanciamento 
da 
svolgersi 
secondo 
il 
paradigma 
contenuto 
nell'art. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


1993 c.c., comma 
2, e 
art. 2384 c.c., comma 
2, individuabile 
nel 
non potere 
agire, neanche 
attraverso l'esercizio di 
un proprio diritto, arrecando intenzionalmente 
danno all'altra 
parte. 
lo statuto protettivo dell'investitore 
non può determinare 
a 
suo vantaggio, un regime 
di 
sostanziale 
irresponsabilità 
ed esonerarlo dal 
controllo della 
conformità 
del 
suo agire, in quanto 
la 
regola 
di 
buona 
fede, assiologicamente 
espressiva 
del 
dovere 
di 
solidarietà 
costituzionale 
e 
costituente 
il 
tessuto connettivo dei 
rapporti 
contrattuali, impone 
tale 
verifica 
di 
conformità 
purchè svolta in concreto. 
In 
conclusione, 
secondo 
questa 
prospettazione, 
occorre 
verificare 
se 
l'azione 
è 
stata 
preordinata 
alla produzione di un pregiudizio per l'altro contraente. 

21. 
la 
tesi 
sopra 
illustrata 
si 
espone 
a 
rilievi 
critici 
per 
aver 
limitato 
l'opponibilità 
dell'exceptio 
doli 
alla 
valutazione 
della 
buona 
fede 
soggettiva 
così 
da 
escludere 
ogni 
rilevanza 
alla 
oggettiva 
determinazione 
di 
un ingiustificato e 
sproporzionato sacrificio di 
una 
sola 
controparte 
contrattuale. 
Al 
fine 
di 
poter svolgere 
un giudizio comparativo che 
tenga 
conto anche 
della 
eventuale 
violazione 
della 
buona 
fede 
sotto il 
profilo oggettivo del 
pregiudizio arrecabile 
ad una 
sola 
delle 
parti, si 
è 
fatto ricorso alla 
categoria 
dell'abuso del 
diritto, in relazione 
al 
quale 
non 
è 
sufficiente 
che 
una 
parte 
del 
contratto 
abbia 
tenuto 
una 
condotta 
non 
idonea 
a 
salvaguardare 
gli 
interessi 
dell'altra, quando tale 
condotta 
persegua 
un risultato lecito attraverso mezzi 
legittimi, 
essendo, 
invece, 
configurabile 
allorchè 
il 
titolare 
di 
un 
diritto 
soggettivo, 
pur 
in 
assenza 
di 
divieti 
formali, lo eserciti 
con modalità 
non necessarie 
ed irrispettose 
del 
dovere 
di 
correttezza 
e 
buona 
fede, 
al 
fine 
di 
conseguire 
risultati 
diversi 
ed 
ulteriori 
rispetto 
a 
quelli 
per 
i 
quali 
quei 
poteri 
o facoltà 
sono attribuiti 
(Cass. 15885 del 
2013; 
10568 del 
2018). non è 
configurabile 
un 
abuso 
che 
derivi 
soltanto 
dall'aver 
voluto 
conseguire 
un 
proprio 
vantaggio 
economico 
mediante 
uno strumento di 
tutela 
previsto dall'ordinamento che, peraltro, deriva, dall'attivazione 
di 
uno statuto di 
tutela 
inderogabile, essendo necessario che 
il 
fine 
dell'azione 
sia 
incoerente 
rispetto 
a 
quello 
legale 
in 
funzione 
del 
quale 
è 
stato 
attribuito 
il 
diritto 
di 
agire 
(Cass. 
29792 del 
2017, in relazione 
alla 
configurabilità 
dell'abuso del 
diritto potestativo dei 
soci 
di 
una 
società 
di 
capitali 
che 
rappresentino un terzo del 
capitale 
sociale, di 
chiedere 
il 
differimento 
dell'assemblea 
ove 
dichiarino 
di 
non 
essere 
stati 
sufficientemente 
informati) 
o 
determini 
effetti del tutto sproporzionati rispetto al fine di tutela per cui si è agito. 
22. Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
svolte, ritiene 
il 
Collegio, in risposta 
al 
quesito formulato 
nel 
par. 17, di 
dovere, preliminarmente, escludere 
entrambe 
le 
opzioni 
che 
prescindono del 
tutto dalla 
considerazione 
del 
principio di 
buona 
fede 
o perchè 
negano la 
legittimità 
dell'uso 
selettivo 
delle 
nullità 
di 
protezione 
fino 
al 
riconoscimento 
del 
diritto 
a 
richiedere 
la 
ripetizione 
dell'indebito 
in 
relazione 
agli 
investimenti 
non 
selezionati 
dall'investitore 
ma 
travolti 
dalla 
nullità 
del 
contratto 
quadro, 
o 
perchè 
ne 
considerano 
legittima 
l'azione 
senza 
alcun 
limitazione, 
ritenendo tale 
soluzione 
l'unica 
coerente 
con l'operatività 
ad esclusivo vantaggio del 
cliente 
delle 
nullità 
di 
protezione. 
In 
contrasto 
con 
le 
tesi 
criticate, 
il 
Collegio 
reputa 
che 
la 
questione 
della 
legittimità 
dell'uso 
selettivo 
delle 
nullità 
di 
protezione 
nei 
contratti 
aventi 
ad 
oggetto 
servizi 
d'investimento, possa 
essere 
risolta 
ricorrendo, come 
criterio ordinante, al 
principio 
di 
buona 
fede, da 
assumere, tuttavia, in modo non del 
tutto coincidente 
con le 
illustrate 
declinazioni 
dell'exceptio doli generalis e dell'abuso del diritto. 
22.1. Al 
riguardo si 
ritiene 
di 
dover ribadire 
che, in relazione 
ai 
contratti 
d'investimento che 
costituiscono l'oggetto del 
presente 
giudizio, della 
dichiarata 
invalidità 
del 
contratto quadro, 
ancorchè 
accertata 
con valore 
di 
giudicato, come 
già 
rilevato nei 
par.13 e 
13.1, può avvalersi 
soltanto 
l'investitore, 
sia 
sul 
piano 
sostanziale 
della 
legittimazione 
esclusiva 
che 
su 
quello 
sostanziale 
dell'operatività ad esclusivo vantaggio di esso. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


22.2 
l'uso 
selettivo 
del 
rilievo 
della 
nullità 
del 
contratto 
quadro 
non 
contrasta, 
in 
via 
generale, 
con 
lo 
statuto 
normativo 
delle 
nullità 
di 
protezione 
ma 
la 
sua 
operatività 
deve 
essere 
modulata 
e 
conformata 
dal 
principio 
di 
buona 
fede 
secondo 
un 
parametro 
da 
assumersi 
in 
modo 
univoco 
e 
coerente. ove 
si 
ritenga 
che 
l'uso selettivo delle 
nullità 
di 
protezione 
sia 
da 
stigmatizzare 
ex 
se, come 
contrario alla 
buona 
fede, solo perchè 
limitato ad alcuni 
ordini 
di 
acquisto, si 
determinerà 
un effetto sostanzialmente 
abrogativo del 
regime 
giuridico delle 
nullità 
di 
protezione, 
dal 
momento che 
si 
stabilisce 
un'equivalenza, senza 
alcuna 
verifica 
di 
effettività, tra 
uso selettivo 
delle 
nullità 
e 
violazione 
del 
canone 
di 
buona 
fede. Deve 
rilevarsi, tuttavia, l'insufficienza 
anche 
della 
esclusiva 
valorizzazione 
della 
buona 
fede 
soggettiva, ove 
ravvisabile 
solo 
se 
si 
dimostri 
un 
intento 
dolosamente 
preordinato 
a 
determinare 
effetti 
pregiudizievoli 
per 
l'altra parte. 
22.3 Al 
fine 
di 
modulare 
correttamente 
il 
meccanismo di 
riequilibrio effettivo delle 
parti 
contrattuali 
di 
fronte 
all'uso selettivo delle 
nullità 
di 
protezione, non può mancare 
un esame 
degli 
investimenti 
complessivamente 
eseguiti, ponendo in comparazione 
quelli 
oggetto dell'azione 
di 
nullità, derivata 
dal 
vizio di 
forma 
del 
contratto quadro, con quelli 
che 
ne 
sono esclusi, al 
fine 
di 
verificare 
se 
permanga 
un pregiudizio per l'investitore 
corrispondente 
al 
petitum 
azionato. 
In questa 
ultima 
ipotesi 
deve 
ritenersi 
che 
l'investitore 
abbia 
agito coerentemente 
con la 
funzione 
tipica 
delle 
nullità 
protettive, 
ovvero 
quella 
di 
operare 
a 
vantaggio 
di 
chi 
le 
fa 
valere. 
Pertanto, per accertare 
se 
l'uso selettivo della 
nullità 
di 
protezione 
sia 
stato oggettivamente 
finalizzato ad arrecare 
un pregiudizio all'intermediario, si 
deve 
verificare 
l'esito degli 
ordini 
non colpiti 
dall'azione 
di 
nullità 
e, ove 
sia 
stato vantaggioso per l'investitore, porlo in correlazione 
con 
il 
petitum 
azionato 
in 
conseguenza 
della 
proposta 
azione 
di 
nullità. 
Può 
accertarsi 
che 
gli 
ordini 
non 
colpiti 
dall'azione 
di 
nullità 
abbiano 
prodotto 
un 
rendimento 
economico 
superiore 
al 
pregiudizio confluito nel 
petitum. In tale 
ipotesi, può essere 
opposta, ed al 
solo 
effetto 
di 
paralizzare 
gli 
effetti 
della 
dichiarazione 
di 
nullità 
degli 
ordini 
selezionati, 
l'eccezione 
di 
buona 
fede, al 
fine 
di 
non determinare 
un ingiustificato sacrificio economico in capo all'intermediario 
stesso. Può, tuttavia, accertarsi 
che 
un danno per l'investitore, anche 
al 
netto dei 
rendimenti 
degli 
investimenti 
relativi 
agli 
ordini 
non colpiti 
dall'azione 
di 
nullità, si 
sia 
comunque 
determinato. 
Entro 
il 
limite 
del 
pregiudizio 
per 
l'investitore 
accertato 
in 
giudizio, 
l'azione 
di 
nullità 
non contrasta 
con il 
principio di 
buona 
fede. oltre 
tale 
limite, opera, ove 
sia 
oggetto di 
allegazione, l'effetto paralizzante 
dell'eccezione 
di 
buona 
fede. ne 
consegue 
che, 
se, come 
nel 
caso di 
specie, i 
rendimenti 
degli 
investimenti 
non colpiti 
dall'azione 
di 
nullità 
superino il 
petitum, l'effetto impeditivo è 
integrale, ove 
invece 
si 
determini 
un danno per l'investitore, 
anche 
all'esito della 
comparazione 
con gli 
altri 
investimenti 
non colpiti 
dalla 
nullità 
selettiva, 
l'effetto 
paralizzante 
dell'eccezione 
opererà 
nei 
limiti 
del 
vantaggio 
ingiustificato 
conseguito. 
23. la 
soluzione 
della 
questione 
sottoposta 
all'esame 
del 
Collegio può, in conclusione, così 
essere sintetizzata. 
Anche 
in 
relazione 
al 
D.lgs. 
n. 
58 
del 
1998, 
art. 
23, 
comma 
3, 
il 
regime 
giuridico 
delle 
nullità 
di 
protezione 
opera 
sul 
piano 
della 
legittimazione 
processuale 
e 
degli 
effetti 
sostanziali 
esclusivamente 
a 
favore 
dell'investitore, in deroga 
agli 
artt. 1421 e 
1422 c.c. l'azione 
rivolta 
a 
far 
valere 
la 
nullità 
di 
alcuni 
ordini 
di 
acquisto 
richiede 
l'accertamento 
dell'invalidità 
del 
contratto 
quadro. Tale 
accertamento ha 
valore 
di 
giudicato ma 
l'intermediario, alla 
luce 
del 
peculiare 
regime 
giuridico 
delle 
nullità 
di 
protezione, 
non 
può 
avvalersi 
degli 
effetti 
diretti 
di 
tale 
nullità 
e 
non è 
conseguentemente 
legittimato ad agire 
in via 
riconvenzionale 
od in via 
autonoma 
ex 
artt. 1422 e 
2033 c.c. I principi 
di 
solidarietà 
ed uguaglianza 
sostanziale, di 
derivazione 
co

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


stituzionale 
(artt. 2, 3, 41 e 
47 Cost., quest'ultimo con specifico riferimento ai 
contratti 
d'investimento) 
sui 
quali 
le 
S.U., 
con 
la 
pronuncia 
n. 
26642 
del 
2014, 
hanno 
riposto 
il 
fondamento 
e 
la 
ratio 
delle 
nullità 
di 
protezione 
operano, 
tuttavia, 
anche 
in 
funzione 
di 
riequilibrio 
effettivo 
endocontrattuale 
quando l'azione 
di 
nullità, utilizzata, come 
nella 
specie, in forma 
selettiva, 
determini 
esclusivamente 
un sacrificio economico sproporzionato nell'altra 
parte. limitatamente 
a 
tali 
ipotesi, 
l'intermediario 
può 
opporre 
all'investitore 
un'eccezione, 
qualificabile 
come 
di 
buona 
fede, 
idonea 
a 
paralizzare 
gli 
effetti 
restitutori 
dell'azione 
di 
nullità 
selettiva 
proposta 
soltanto 
in 
relazione 
ad 
alcuni 
ordini. 
l'eccezione 
sarà 
opponibile, 
nei 
limiti 
del 
petitum 
azionato, 
come 
conseguenza 
dell'azione 
di 
nullità, 
ove 
gli 
investimenti, 
relativi 
agli 
ordini 
non 
coinvolti 
dall'azione, abbiano prodotto vantaggi 
economici 
per l'investitore. ove 
il 
petitum 
sia 
pari 
od 
inferiore 
ai 
vantaggi 
conseguiti, 
l'effetto 
impeditivo 
dell'azione 
restitutoria 
promossa 
dall'investitore 
sarà 
integrale. l'effetto impeditivo sarà, invece, parziale, ove 
gli 
investimenti 
non colpiti 
dall'azione 
di 
nullità 
abbiano prodotto risultati 
positivi 
ma 
questi 
siano di 
entità inferiore al pregiudizio determinato nel petitum. 
l'eccezione 
di 
buona 
fede 
operando 
su 
un 
piano 
diverso 
da 
quello 
dell'estensione 
degli 
effetti 
della 
nullità 
dichiarata, non è 
configurabile 
come 
eccezione 
in senso stretto non agendo sui 
fatti 
costitutivi 
dell'azione 
(di 
nullità) dalla 
quale 
scaturiscono gli 
effetti 
restitutori, ma 
sulle 
modalità 
di 
esercizio dei 
poteri 
endocontrattuali 
delle 
parti. Deve 
essere, tuttavia, oggetto di 
specifica allegazione. 

24. 
la 
soluzione 
della 
questione 
di 
massima 
di 
particolare 
importanza 
rimessa 
all'esame 
delle 
S.U. può essere risolta alla luce del seguente principio di diritto: 
"la nullità per 
difetto di 
forma scritta, contenuta nel 
D.lgs. n. 58 del 
1998, art. 23, comma 
3, 
può 
essere 
fatta 
valere 
esclusivamente 
dall'investitore 
con 
la 
conseguenza 
che 
gli 
effetti 
processuali 
e 
sostanziali 
dell'accertamento 
operano 
soltanto 
a 
suo 
vantaggio. 
l'intermediario, 
tuttavia, ove 
la domanda sia diretta a colpire 
soltanto alcuni 
ordini 
di 
acquisto, può opporre 
l'eccezione 
di 
buona fede, se 
la selezione 
della nullità determini 
un ingiustificato sacrificio 
economico a suo danno, alla luce 
della complessiva esecuzione 
degli 
ordini, conseguiti 
alla 
conclusione del contratto quadro". 

25. ne 
consegue, in relazione 
al 
secondo motivo di 
ricorso, che 
deve 
essere 
confermata, con 
correzione 
della 
motivazione 
ex art. 384 c.p.c., u.c., la 
statuizione 
contenuta 
nella 
pronuncia 
impugnata, 
alla 
luce 
del 
principio 
di 
diritto 
di 
cui 
al 
par. 
24. 
rigettati 
il 
secondo 
e 
terzo 
motivo, 
è 
rimesso 
all'esame 
della 
prima 
sezione 
civile 
l'esame 
dei 
rimanenti 
e 
la 
statuizione 
sulle 
spese 
processuali del presente procedimento. 
P.q.M. 
rigetta 
il 
secondo e 
terzo motivo. rimette 
l'esame 
degli 
altri 
alla 
sezione 
semplice, anche 
in 
relazione alle spese del presente procedimento. 
Così deciso in roma, nella Camera di Consiglio, il 9 aprile 2019. 


rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Una sentenza storica in tema di contratti 
derivati stipulati tra banche ed enti locali 


CassazioNe 
Civile, sezioNi 
UNite, seNteNza 
12 maGGio 
2020 N. 8770 


lo scorso 12 maggio la 
Cassazione 
ha 
pronunciato una 
sentenza 
storica 
in tema di contratti derivati stipulati tra banche ed enti locali. 


Chiamata 
a 
decidere 
su un contenzioso tra 
bnl 
e 
il 
Comune 
di 
Cattolica 
per tre 
"interest 
rate 
swap" 
conclusi 
tra 
il 
2003 e 
il 
2004, la 
Suprema 
Corte, 
nell'accogliere 
le 
ragioni 
del 
Comune, 
ha 
affermato 
che, 
fino 
al 
divieto 
subentrato 
nel 
2013, gli 
enti 
potevano stipulare 
derivati 
solo in presenza 
dell'informativa 
sul 
valore 
di 
mercato 
(c.d. 
mark 
to 
market 
o 
MTM), 
gli 
scenari 
probabilistici e i costi occulti del contratto. 

In 
quanto 
scommesse 
finanziarie 
-osserva 
la 
Cassazione 
-i 
derivati 
hanno 
una 
spiccata 
aleatorietà 
che 
si 
pone 
in forte 
disarmonia 
con la 
certezza 
degli 
impegni 
di 
spesa 
richiesta 
dalla 
contabilità 
pubblica. Pertanto, questi 
contratti 
sono 
leciti 
solo 
se 
le 
parti 
trovano 
un 
accordo 
sull'alea 
che, 
quindi, 
deve 
essere 
esplicitata 
ex 
ante 
anche 
attraverso 
gli 
scenari 
probabilistici, 
poiché 
solo 
il 
MTM "comunica poco in ordine alla consistenza dell'alea". 

Attirate 
dalla 
possibilità 
di 
un incasso immediato (upfront) e 
sprovviste 
delle 
informazioni 
su probabilistici 
scenari 
e 
MTM, le 
pubbliche 
amministrazioni 
hanno 
sovente 
stipulato 
contratti 
capaci 
di 
compromettere 
l'equilibrio 
finanziario 
futuro. I dati 
della 
banca 
d'Italia 
sulle 
operazioni 
in derivati 
delle 
amministrazioni, soprattutto locali, con banche 
operanti 
in Italia 
indicano un 
mark 
to 
market 
costantemente 
negativo 
per 
gli 
enti 
a 
livello 
aggregato, 
in 
media oltre un miliardo di euro dal 2008 in poi. 

Tale 
sentenza 
della 
Cassazione 
sarà 
fondamentale 
per 
dirimere 
le 
questioni 
relative 
ai 
derivati 
dello Stato. le 
informazioni 
contenute 
negli 
scenari 
probabilistici 
potrebbero evidentemente 
supportare 
le 
decisioni 
delle 
amministrazioni 
centrali 
in sede 
di 
stipula 
di 
nuovi 
derivati 
e 
di 
rinegoziazione 
di 
quelli esistenti sulla base dei principi della trasparenza e del 
caveat emptor. 


Gaetana Natale* 


Cassazione, 
Sezione 
Unite 
Civili, 
sentenza 
12 
maggio 
2020 
n. 
8770 
-Primo 
Pres. 
f.f. 
S. 
Petitti, rel. Pres. di 
sez. 
f.A. Genovese 
-bnl 
-banca 
nazionale 
del 
lavoro S.P.A. (avv.ti 


G. Graziadei, f. Trotta, A. Clarizia 
e 
G. Alpa) c. Comune 
di 
Cattolica 
(avv. ti 
G. Cedrini, l. 
zamagni e D. Maffeis). 
fATTI DI CAUSA 


1. 
-Il 
Tribunale 
di 
bologna 
ha 
respinto 
le 
domande 
che 
il 
Comune 
di 
Cattolica 
aveva 
proposto 
(*) Avvocato dello Stato, Consigliere 
Giuridico del 
Ministero del 
lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali, Professore 
a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno. 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


nei 
confronti 
di 
banca 
nazionale 
del 
lavoro 
S.p.A. 
(d'ora 
in 
avanti, 
semplicemente: 
bnl 
o 
banca) 
in 
riferimento 
ad 
alcuni 
contratti 
(formalmente, 
contenuti 
in 
quattro 
scritture) 
di 
interest 
rate 
swap, 
conclusi 
fra 
le 
menzionate 
parti 
in 
tre 
diverse 
date 
(il 
15 
maggio 
2003, 
il 
1° 
dicembre 
2003 
e 
il 
22 
ottobre 
2004), 
e 
rivolte 
alla 
declaratoria 
della 
nullità, 
all'annullamento, 
o 
all'accertamento 
dell'inefficacia 
sopravvenuta 
ex 
D.M. 
1° 
dicembre 
2003, 
n. 
389, 
dei 
predetti 
negozi, 
oltre 
che 
alla 
condanna 
della 
convenuta 
alla 
restituzione 
dei 
pagamenti 
ex 
art. 
2033 
c.c. 
e, 
in 
subordine, 
al 
risarcimento 
del 
danno, 
quantificabile 
in 
relazione 
ai 
"differenziali 
negativi 
attesi". 


2. -la 
Corte 
di 
appello di 
bologna, accogliendo il 
gravame 
dell'Ente 
ed in riforma 
dell'anzidetta 
decisione, 
ha 
dichiarato 
la 
nullità 
e 
l'inefficacia 
dei 
contratti 
menzionati, 
che 
pure 
ha 
annullato, 
e 
ha 
disposto, poi, la 
ripetizione 
degli 
importi, di 
tempo in tempo, corrisposti 
dalla 
banca 
al 
Comune 
fino 
al 
30 
gennaio 
2010 
(Euro 
555.738,76) 
e 
da 
quest'ultimo 
alla 
prima 
(Euro 
1.031.393,17), 
"oltre 
ad 
eventuali 
reciproci 
pagamenti 
successivi 
intercorsi 
fra 
le 
parti 
per gli stessi titoli", con gli interessi legali dal giorno della domanda. 
2.1. -Per quanto di interesse in questa sede, ed in estrema sintesi, la Corte emiliana ha: 
a) ritenuto fondato il 
rilievo del 
Comune 
per il 
quale 
il 
contratto di 
swap 
ed in particolare 
ma 
non solo -quello che 
prevede 
una 
clausola 
di 
iniziale 
upfront, costituisse, proprio per la 
sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l'ente pubblico, attuale o potenziale; 
b) aggiunto che 
in nessuno dei 
contratti 
al 
suo esame 
figurava 
la 
determinazione 
del 
valore 
attuale 
degli 
stessi 
al 
momento della 
stipulazione 
(cd. mark 
to market), che 
un'attenta 
e 
condivisibile 
giurisprudenza 
di 
merito riteneva 
"elemento essenziale 
dello stesso ed integrativo 
della sua causa tipica (un'alea razionale 
e 
quindi 
misurabile) da esplicitare 
necessariamente 
ed indipendentemente dalla sua finalità di copertura (hedging) o speculativa"; 
c) 
osservato 
che 
la 
potenziale 
passività 
insita 
in 
ogni 
contratto 
di 
swap 
trova 
una 
sua 
evidenza 
concreta 
ed 
attuale 
nella 
clausola 
di 
upfront, 
in 
fatto 
presente 
in 
due 
dei 
tre 
rapporti 
sostanziali 
oggetto di giudizio. 
2.2. 
-Per 
la 
Corte 
di 
merito, 
inoltre, 
il 
fatto 
che 
la 
norma 
che 
qualifica 
l'upfront 
come 
indebitamento 
fosse 
entrata 
in 
vigore 
successivamente 
ad 
uno 
o 
più 
dei 
contratti 
in 
questione 
non 
significava 
che 
gli 
stessi 
non 
potessero 
essere 
anche 
precedentemente 
interpretati 
in 
quel 
senso. 
2.3. 
-la 
stessa 
Corte 
ha 
reputato 
non 
sussistere 
"incompatibilità 
alcuna, 
nè 
astratta 
nè 
concreta, 
fra 
le 
norme 
civilistiche 
ed 
amministrative 
disciplinanti 
lo 
swap 
"puro" 
rispetto 
a 
quelle 
in 
ipotesi 
regolatrici 
di 
una 
enucleabile 
sottocategoria 
di 
swaps 
connotati 
da 
una 
specifica 
forma 
di 
indebitamento 
possibilmente 
individuabile 
nella 
clausola 
di 
upfront, 
con 
conseguente 
integrazione 
della 
relativa 
disciplina, 
se 
anche 
più 
restrittiva 
per 
la 
sottocategoria 
individuata". 
2.4. -ha 
ritenuto poi 
fondato il 
rilievo del 
Comune 
per il 
quale, ex 
art. 42, comma 
2, lett. i), 
T.u.e.l. (Testo Unico delle 
leggi 
sull'ordinamento degli 
enti 
locali, approvato con D.lgs. n. 
267 
del 
2000), 
le 
delibere 
di 
accensione 
degli 
swap 
dovessero 
essere 
assunte 
dal 
consiglio 
comunale, in quanto prevedevano spese 
che 
impegnano i 
bilanci 
per gli 
esercizi 
successivi. 
E, a 
tale 
ultimo proposito, ha 
rilevato che 
la 
speciale 
Delib. Consiliare 
27 marzo 2003, prevedeva 
una 
mera 
"linea 
di 
indirizzo", 
successivamente 
posta 
in 
atto 
dalla 
giunta 
e 
dal 
dirigente, 
quanto al primo contratto; e solo da determinazione dirigenziale, per i successivi. 
2.5. -la 
Corte 
ha 
riconosciuto, inoltre, come 
fondato il 
rilievo per il 
quale 
i 
contratti 
in questione 
violerebbero, 
oltre 
che 
l'art. 
119 
Cost., 
u.c., 
anche 
la 
l. 
n. 
289 
del 
2002, 
art. 
30, 
comma 
15 e 
l'art. 202 T.u.e.l., in quanto non sarebbe 
risultato che 
l'indebitamento insito, implicito e 
prevedibile 
nei 
contratti 
in 
questione 
(esplicito 
quanto 
alle 
clausole 
di 
upfront) 
fosse 
stato 
contratto "per 
finanziare 
spese 
di 
investimento" 
(la 
documentazione 
prodotta 
dal 
Comune 
attestando, 
anzi, una diversa destinazione). 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


2.6. -ha 
affermato, infine, che 
in nessuno dei 
tre 
contratti 
(contenuti 
nelle 
quattro scritture) 
vi 
fosse 
un puntuale 
riferimento ai 
mutui 
sottostanti 
in relazione 
ai 
quali 
i 
negozi 
sarebbero 
stati 
stipulati, facendo discendere 
da 
ciò la 
mancata 
emersione 
della 
causa 
concreta 
delle 
singole 
operazioni, della 
quale 
non era 
quindi 
dimostrata 
l'esistenza; 
allo stesso modo, secondo 
la 
Corte 
di 
appello, non poteva 
dirsi 
che 
i 
contratti 
fossero muniti 
di 
un oggetto avente 
i 
requisiti 
di 
cui 
all'art. 
1346 
c.c.: 
con 
la 
conseguenza 
che 
i 
negozi 
in 
questione 
dovevano 
reputarsi 
tutti affetti da nullità. 
3. -Contro la 
sentenza, la 
banca 
ha 
proposto ricorso per cassazione 
affidato a 
cinque 
motivi, 
contro 
cui 
ha 
resistito 
il 
Comune 
che, 
a 
sua 
volta, 
ha 
spiegato 
ricorso 
incidentale 
condizionato, 
basato su di un motivo. 
4. 
-la 
prima 
sezione 
civile 
di 
questa 
Corte, 
investita 
dell'esame 
del 
ricorso, 
ha 
ritenuto 
di 
dover esaminare 
congiuntamente, per ragioni 
di 
connessione, i 
primi 
tre 
motivi 
del 
ricorso 
principale. 
4.1. -ha osservato la sezione che il ricorso, nei primi tre motivi, pone due 
questioni, strettamente 
connesse 
e 
cruciali 
per vagliare 
la 
validità 
dei 
contratti 
di 
swap 
conclusi, in generale, 
dai 
Comuni: 
a) 
quella 
relativa 
alla 
possibilità 
di 
qualificare 
l'assunzione 
dell'impegno 
dell'ente 
locale 
che 
stipuli 
il 
contratto, avente 
ad oggetto il 
nominato derivato, come 
indebitamento finalizzato 
a 
finanziare 
spese 
diverse 
dall'investimento; 
b) 
quella 
concernente 
l'individuazione 
dell'organo chiamato a 
deliberare 
un'operazione 
siffatta 
(che 
nel 
caso in esame 
è 
stata 
disciplinata 
dal consiglio comunale attraverso delle mere 
"linee di indirizzo"). 
4.2. 
-E, 
in 
relazione 
a 
tali 
problematiche, 
la 
Prima 
sezione 
civile 
(con 
ordinanza 
n. 
493 
del 
10 
gennaio 
2019) 
ha 
rimesso 
la 
causa 
al 
Primo 
Presidente, 
per 
l'eventuale 
assegnazione 
alle 
Sezioni 
unite, 
ai 
sensi 
dell'art. 
374 
c.p.c., 
comma 
2, 
delle 
questioni 
così 
sintetizzate: 
a) 
"se 
lo 
swap, 
in 
particolare 
quello 
che 
preveda 
un 
upfront 
-e 
non 
sia 
disciplinato 
ratione 
temporis 
dalla 
l. 
n. 
133 
del 
2008, 
di 
conversione 
del 
D.l. 
n. 
112 
del 
2008 
-, 
costituisca 
per 
l'ente 
locale 
un'operazione 
che 
generi 
un 
indebitamento 
per 
finanziare 
spese 
diverse 
da 
quelle 
di 
investimento, 
a 
norma 
della 
l. 
n. 
289 
del 
2002, 
art. 
30, 
comma 
15"; 
b) 
"se 
la 
stipula 
del 
relativo 
contratto 
rientri 
nella 
competenza 
riservata 
al 
Consiglio 
comunale, 
implicando 
una 
Delibera 
di 
spesa 
che 
impegni 
i 
bilanci 
per 
gli 
esercizi 
successivi, 
giusta 
l'art. 
42, 
comma 
2, 
lett. 
i), 
T.u.e.l.". 
4.3. -A 
tal 
uopo, ha 
richiamato le 
diverse 
norme 
che 
assumono rilievo, nel 
quadro delle 
censure 
svolte: 
i) 
anzitutto, 
l'art. 
119 
Cost., 
comma 
6, 
il 
quale 
prevede 
che 
i 
Comuni, 
le 
Province, 
le 
Città 
metropolitane 
e 
le 
regioni 
possano 
ricorrere 
all'indebitamento 
solo 
per 
finanziare 
spese 
di 
investimento; 
ii) 
l'art. 
202 
T.u.e.l., 
per 
il 
quale 
il 
ricorso 
all'indebitamento 
da 
parte 
degli 
enti 
locali 
è 
ammesso 
esclusivamente 
nelle 
forme 
previste 
dalle 
leggi 
vigenti 
in materia 
e 
per la 
realizzazione 
degli 
investimenti; 
iii) 
la 
l. n. 448 del 
2001, art. 41, comma 
1, ove 
è 
previsto che, con decreto del 
Ministero del-
l'economia 
e 
delle 
finanze, siano approvate 
le 
norme 
relative 
all'ammortamento del 
debito e 
all'utilizzo degli 
strumenti 
derivati 
da 
parte 
dei 
detti 
enti; 
nonchè 
il 
comma 
2 dello stesso articolo, 
che 
contempla 
inoltre 
la 
facoltà, 
di 
tali 
enti, 
di 
emettere 
titoli 
obbligazionari 
o 
contrarre 
mutui 
"previa costituzione, al 
momento dell'emissione 
o dell'accensione, di 
un fondo di 
ammortamento 
del debito, o previa conclusione di swap 
per l'ammortamento del debito"; 
iv) 
la 
l. n. 289 del 
2002, art. 30, comma 
15, ove 
si 
commina 
la 
nullità 
degli 
atti 
e 
dei 
contratti 
con cui 
gli 
enti 
territoriali 
ricorrono all'indebitamento per finanziare 
spese 
diverse 
da 
quelle 
di investimento, in violazione dell'art. 119 Cost.; 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


v) 
il 
D.M. n. 389 del 
2003, emanato in attuazione 
della 
l. 448 del 
2001, art. 41 cit., che 
disponeva 
espressamente, 
all'art. 
3, 
comma 
1, 
la 
regola 
secondo 
cui 
gli 
enti 
locali 
potessero 
concludere 
operazioni 
derivate 
consistenti 
in swap 
di 
tasso di 
interesse 
e, in termini 
più generali, 
operazioni 
derivate 
finalizzate 
alla 
ristrutturazione 
del 
debito (qualora 
esse 
non prevedessero 
una 
scadenza 
posteriore 
a 
quella 
associata 
alla 
sottostante 
passività 
e 
ove 
i 
flussi 
con 
esse 
ricevuti 
dagli 
enti 
interessati 
fossero uguali 
a 
quelli 
pagati 
nella 
sottostante 
passività 
e 
non 
implicassero, 
al 
momento 
del 
loro 
perfezionamento, 
un 
profilo 
crescente 
dei 
valori 
attuali 
dei 
singoli 
flussi 
di 
pagamento, "ad eccezione 
di 
un eventuale 
sconto o premio da regolare 
al 
momento del 
perfezionamento delle 
operazioni 
non superiore 
a 1% del 
nozionale 
della sottostante 
passività"). 
4.3.1. -ha 
però chiarito che 
quest'ultima 
disposizione 
(non applicabile 
ratione 
temporis 
ai 
due 
contratti 
con previsione 
di 
upfront, conclusi 
tra 
le 
parti 
in causa) è 
stata 
successivamente 
superata 
con le 
modifiche 
apportate 
alla 
l. n. 350 del 
2003, art. 3, comma 
17, l. n. 133 del 
2008 (con cui 
è 
stato convertito il 
D.l. n. 112 del 
2008): 
per effetto di 
tale 
intervento legislativo 
è 
stato infatti 
previsto, per la 
prima 
volta, che 
costituisca 
indebitamento, ai 
sensi 
dell'art. 
119 
Cost., 
comma 
6, 
"sulla 
base 
dei 
criteri 
definiti 
in 
sede 
europea 
dall'Ufficio 
statistico 
delle 
Comunità europee 
(eUrostat), l'eventuale 
premio incassato al 
momento del 
perfezionamento 
delle 
operazioni 
derivate" 
(E 
il 
detto 
approdo 
è 
rimarcato 
nelle 
successiva 
versione 
dell'art. 3, comma 
17, cit., come 
risultante 
dal 
D.lgs. n. 118 del 
2011, art. 75, comma 
1, lett. 
a), secondo cui 
integra 
indebitamento "l'eventuale 
somma incassata al 
momento del 
perfezionamento 
delle operazioni derivate di swap (cosiddetto upfront)"). 
4.3.2. -ha 
poi 
osservato che, in forza 
della 
l. n. 147 del 
2013, art. 1, comma 
572, è 
venuta 
meno, in via 
generale 
(e 
salve 
eccezioni 
specificamente 
previste) la 
possibilità, da 
parte 
degli 
enti 
locali, di 
stipulare 
i 
contratti 
relativi 
agli 
strumenti 
finanziari 
derivati 
previsti 
dall'art. 1, 
comma 3, del 
T.u.f. (D.lgs. n. 58 del 1998). 
4.4. 
-Con 
riguardo 
alle 
competenze 
in 
materia 
di 
spesa 
nell'ambito 
del 
Comune, 
ha 
richiamato 
infine 
l'art. 42 T.u.e.l. che, al 
comma 
2, lett. i), assegna 
al 
consiglio comunale 
il 
compito di 
deliberare 
in 
ordine 
alle 
spese 
che 
impegnino 
i 
bilanci 
per 
gli 
esercizi 
successivi, 
escluse 
quelle 
relative 
alle 
locazioni 
di 
immobili 
ed 
alla 
somministrazione 
e 
fornitura 
di 
beni 
e 
servizi 
a carattere continuativo. 
5. -questo essendo il 
quadro normativo di 
riferimento, la 
Corte 
si 
è 
chiesta 
se, nel 
periodo 
che 
interessa, fosse 
consentita 
la 
conclusione 
di 
contratti 
derivati 
da 
parte 
degli 
enti 
locali; 
anche 
considerato 
che, 
nella 
fattispecie, 
i 
due 
contratti 
conclusi 
nel 
2003, 
a 
differenza 
del 
terzo, perfezionato nel 
2004, contemplavano altrettante 
clausole 
di 
upfront 
(rispettivamente 
per Euro 315.000,00 e per Euro 655.000,00). 
5.1. 
-Essa 
ha 
osservato 
che, 
se 
è 
vero 
che 
il 
legislatore 
ha 
definito 
per 
la 
prima 
volta 
l'upfront 
come 
"indebitamento", 
con 
il 
D.l. 
n. 
112 
del 
2008, 
art. 
62, 
comma 
9, 
che 
ha 
novellato 
la 
l. 
n. 
350 
del 
2003, 
art. 
3, 
comma 
17, 
ciò 
tuttavia 
non 
implicherebbe 
che 
le 
somme 
siano 
state 
versate 
legittimamente 
a 
quel 
titolo, 
in 
epoca 
precedente 
all'entrata 
in 
vigore 
della 
nuova 
disciplina. 
5.2. -ha, perciò, ricordato che, avendo riguardo ai 
contratti 
conclusi 
dagli 
enti 
locali, si 
registrano 
responsi 
non univoci 
da 
parte 
della 
stessa 
Corte 
dei 
Conti, richiamando i 
relativi 
precedenti. 
5.3. -E, con riferimento alla 
seconda 
questione, correlata 
all'altra 
(e 
attinente 
alla 
contestata 
validità 
dei 
contratti 
conclusi, siccome 
preceduti 
da 
una 
Delibera 
del 
consiglio comunale 
che 
conteneva 
una 
mera 
linea 
di 
indirizzo), si 
è 
chiesta 
se 
la 
conclusione 
di 
contratti 
swap 
(specie 
se 
prevedano un upfront: 
quindi 
una 
somma 
suscettibile 
di 
rimborso nel 
corso del 
rapporto) 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


possa 
essere 
sottratta 
alla 
competenza 
che 
a 
quell'organo è 
riservata 
in caso di 
"spese 
che 
impegnino 
i bilanci per gli esercizi successivi", a norma dell'art. 42, comma 2, lett. 
i), T.u.e.l. 

6. -la causa è stata perciò fissata per la discussione delle parti, all'odierna udienza. 
6.1. -Con memoria 
ex 
art. 378 c.p.c., la 
banca, ha 
riproposto ed illustrato le 
sue 
ragioni 
di 
doglianza 
e, a 
sua 
volta, il 
Comune 
le 
sue 
eccezioni 
e 
le 
conclusioni 
svolte 
nel 
controricorso. 
6.2. 
-Il 
P.G., nella 
persona 
dell'Avv. Gen. renato finocchi 
Ghersi, ha 
depositato requisitoria 
scritta, 
concludendo 
affinchè 
la 
Corte 
respinga 
il 
ricorso 
principale 
e 
dichiari 
assorbito 
quello 
incidentale. 
rAGIonI DEllA DECISIonE 


1. -Il ricorso principale della banca è articolato in cinque mezzi di cassazione: 
1.1. -Il 
primo motivo (che 
ipotizza 
una 
violazione 
e 
falsa 
applicazione, ex 
art. 360 c.p.c., n. 
3, l. n. 448 del 
2001, art. 41, D.M. Economia 
e 
finanze 
1 dicembre 
2003, n. 389, art. 3, l. 
24 
dicembre 
2003, 
n. 
350, 
art. 
3, 
commi 
16 
e 
17 
e 
successive 
modifiche; 
della 
l. 
27 
dicembre 
2006, n. 296, art. 1, comma 
739, D.l. n. 112 del 
2008, art. 62, convertito dalla 
l. n. 133 del 
2008, a 
sua 
volta 
modificato dall'art. 3 della 
l. n. 203 del 
2008, nonchè 
dell'art. 11 preleggi), 
ha 
ad 
oggetto 
l'affermazione 
della 
sentenza 
impugnata 
secondo 
cui 
il 
contratto 
di 
swap, 
in 
specie 
se 
con previsione 
di 
una 
clausola 
iniziale 
di 
upfront, costituisce, per la 
sua 
natura 
aleatoria, 
una forma di indebitamento per l'ente pubblico, attuale o potenziale. 
1.2. -Il 
secondo (intitolato: 
violazione 
e 
falsa 
applicazione, ex 
art. 360 c.p.c., n. 3, D.lgs. n. 
267 del 
2000, artt. 42, 107, 192 e 
202, l. n. 289 del 
2002, art. 30, comma 
15, l. n. 448 del 
2001, art. 41, D.M. Economia 
e 
finanze 
1 dicembre 
2003, n. 389, art. 3), è 
incentrato sull'affermazione, 
pure 
contenuta 
nella 
sentenza 
impugnata, per cui 
le 
delibere 
di 
accensione 
degli 
swap 
debbano essere 
adottate 
dal 
consiglio comunale, in quanto vertenti 
su "spese 
che 
impegnino 
i bilanci per gli esercizi successivi". 
1.3. -Il 
terzo (con il 
quale 
si 
lamenta 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione, ex 
art. 360 c.p.c., n. 
3, l. n. 289 del 
2002, art. 30, comma 
15, D.lgs. n. 267 del 
2000, art. 202, l. n. 448 del 
2001, 
art. 41, D.M. Economia 
e 
finanze 
1 dicembre 
2003, n. 389, art. 3), è 
svolto in rapporto all'assunto 
per cui 
l'upfront 
avrebbe 
dovuto essere 
esplicitamente 
destinato ab origine 
(ossia, sin 
dal 
2003-2004) a 
spese 
di 
investimento. Il 
mezzo censura 
altresì 
il 
principio, perchè 
-a 
dire 
della 
ricorrente 
totalmente 
privo di 
base 
normativa 
positiva, secondo cui 
occorresse 
indicare, 
negli 
atti 
amministrativi 
approvativi 
delle 
operazioni, 
una 
presunta 
destinazione 
a 
spese 
di 
investimento, 
atteso che, come 
diffusamente 
dedotto con il 
primo motivo, lo swap 
non ha 
una 
funzione 
di 
investimento, ma 
di 
riequilibrio del 
debito sottostante, con conseguente 
inapplicabilità 
della causa di nullità di cui alla l. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15. 
1.4. -Il 
quarto (deducente 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione, ex 
art. 360 c.p.c., n. 3, l. n. 448 
del 
2001, art. 41, D.M. Economia 
e 
finanze 
1 dicembre 
2003, n. 389, art. 3 e 
degli 
artt. 1346, 
1367, 1418, 1419, 2729 e 
2697 c.c.), è 
posto in relazione 
alla 
necessità, risultante 
dalla 
decisione 
impugnata, di 
indicare 
specificamente 
i 
mutui 
sottostanti 
nei 
contratti 
di 
swap, a 
pena 
di nullità di questi ultimi, per difetto di causa e di oggetto. 
1.5. -Il 
quinto (che 
lamenta 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione, ex 
art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 
1418, 1467 e 
1469 c.c., nonchè 
del 
D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, comma 
2, lett. δ) 
art. 21 e 
art. 23, comma 
5, l. n. 448 del 
2001, art. 41, D.M. Economia 
e 
finanze 
1 dicembre 
2003, 
n. 
389, 
art. 
3) 
investe 
l'affermazione 
della 
sentenza 
impugnata 
secondo 
cui 
la 
previsione 
esplicita 
del 
valore 
attuale 
dei 
derivati 
al 
momento della 
stipulazione 
costituirebbe 
elemento 
essenziale dell'interest rate swap, previsto a pena di nullità. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


2. -l'unico mezzo di 
ricorso incidentale 
condizionato del 
Comune 
(che 
deduce 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell'art. 
360 
c.p.c., 
n. 
3, 
e 
dell'art. 
30, 
commi 
6 
e 
7, 
T.u.f.), 
infine, 
riguarda 
la 
dichiarata 
non 
applicazione 
della 
disciplina 
del 
ius 
poenitendi 
alla 
fattispecie 
decisa 
(in 
quanto 
applicabile 
al 
solo 
consumatore 
sprovveduto 
colto 
di 
sorpresa 
dall'intermediario) 
e 
investe 
un aspetto della 
vicenda 
che 
la 
Corte 
di 
appello ha 
espressamente 
qualificato assorbito. 
3. 
-la 
prima 
sezione 
civile 
ha 
già 
rilevato 
che 
il 
ricorso 
pone 
due 
questioni, 
strettamente 
connesse, 
che 
sono centrali 
per vagliare 
la 
validità 
dei 
contratti 
di 
swap 
conclusi, in generale, dai 
Comuni: 
quella 
relativa 
alla 
possibilità 
di 
qualificare 
l'assunzione 
dell'impegno 
dell'ente 
locale 
che 
stipuli 
il 
contratto avente 
ad oggetto il 
nominato derivato come 
indebitamento finalizzato 
a 
finanziare 
spese 
diverse 
dall'investimento; 
quella 
concernente 
l'individuazione 
dell'organo 
chiamato 
a 
deliberare 
un'operazione 
siffatta 
(che 
nel 
caso 
in 
esame 
è 
stata 
disciplinata 
dal 
consiglio 
comunale 
solo 
attraverso 
"linee 
di 
indirizzo"); 
e 
che, 
con 
riguardo 
al 
primo 
dei 
temi 
indicati, ci 
si 
deve 
chiedere 
se, nel 
periodo che 
interessa, fosse 
consentita 
la 
conclusione 
di 
contratti derivati da parte degli enti locali. 
3.1. -Si 
pone, perciò, la 
necessità 
-prima 
di 
mettere 
a 
fuoco i 
temi 
oggetto di 
rimessione 
da 
parte 
della 
sezione 
semplice 
-di 
allargare 
lo 
sguardo 
al 
fenomeno 
sottostante 
alla 
odierna 
controversia. 
4. -la 
materia 
dei 
derivati, che 
interessa 
varie 
branche 
del 
diritto, è 
oggetto dell'attenzione 
di 
dottrina 
e 
giurisprudenza 
da 
anni, 
risultando 
controversa 
anche 
l'esistenza 
di 
una 
definizione 
unificante 
del 
fenomeno dei 
derivati. Infatti, la 
mancanza 
nel 
nostro ordinamento di 
una 
definizione 
generale 
di 
"contratto derivato" 
si 
spiega 
con la 
circostanza 
che 
i 
derivati 
sono stati 
creati 
dalla 
prassi 
finanziaria 
e, solo in seguito, sono stati 
in qualche 
misura 
recepiti 
dalla 
regolazione 
del 
sistema 
giuridico. 
la 
notevole 
varietà 
delle 
fattispecie 
che 
concorrono 
a 
formare 
la 
categoria 
dei 
derivati 
rende, però, complessa 
l'individuazione 
della 
ricercata 
nozione 
unitaria, 
dovendosi 
tenere 
conto che 
il 
fenomeno è 
forse 
comprensibile 
in maniera 
globale 
solo 
in un'ottica economica. 
4.1. 
-Ciò 
giustifica, 
quindi, 
la 
previsione 
dell'art. 
1, 
comma 
2 
bis, 
T.u.f., 
che 
contiene 
una 
delega 
al 
Ministro 
dell'Economia 
e 
finanze 
per 
identificare 
nuovi 
potenziali 
contratti 
derivati: 
nella 
sostanza 
il 
legislatore 
italiano 
ha 
seguito 
quello 
Eurounitario, 
optando 
per 
una 
elencazione 
di 
molteplici 
figure 
e 
lasciando 
all'interprete 
il 
compito 
della 
reductio 
ad 
unum, 
laddove 
possibile. 
4.2. -il 
caso che 
ci 
occupa 
vede 
al 
centro dell'indagine 
lo swap 
e, in particolare, quello più 
diffuso di 
tutti, il 
cd. interest 
rate 
swap 
(altrimenti, IrS, specie 
nella 
sua 
forma 
più diffusa 
o 
di 
base: 
il 
cd. 
plain 
vanilla), 
ossia 
quel 
contratto 
di 
scambio 
(swap) 
di 
obbligazioni 
pecuniarie 
future 
che, in sostanza, si 
traduce 
nel 
dovere 
di 
un Tale 
di 
dare 
all'Altro la 
cifra 
δ 
(dove 
δ 
è 
la 
somma 
corrispondente 
al 
capitale 
1 
per il 
tasso di 
interesse 
W) a 
fronte 
dell'impegno assunto 
dell'Altro di 
versare 
al 
Tale 
la 
cifra 
y 
(dove 
y 
è 
la 
somma 
corrispondente 
al 
capitale 
1 
per il 
tasso di interesse 
z). 
4.3. 
-l'interest 
rate 
swap 
è 
perciò 
definito 
come 
un 
derivato 
cd. 
over 
the 
counter 
(oTC) 
ossia 
un contratto: 
a) 
in cui 
gli 
aspetti 
fondamentali 
sono dati 
dalle 
parti 
e 
il 
contenuto non è 
etero-
regolamentato come, invece, accade 
per gli 
altri 
derivati, cd. standardizzati 
o uniformi, essendo 
elaborato in funzione 
delle 
specifiche 
esigenze 
del 
cliente 
(per questo, detto bespoke); 
b) 
perciò non standardizzato e, quindi, non destinato alla 
circolazione; 
c) 
consistente 
in uno 
strumento finanziario rispetto al 
quale 
l'intermediario è 
tendenzialmente 
controparte 
diretta 
del proprio cliente. 
4.4. -Come 
per molti 
derivati, soprattutto quelli 
oTC, lo swap, per quanto appena 
detto, non 
ha 
le 
caratteristiche 
intrinseche 
degli 
strumenti 
finanziari, e 
particolarmente 
non ha 
la 
cd. ne

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


goziabilità, cioè 
quella 
capacità 
di 
rappresentare 
una 
posizione 
contrattuale 
in forme 
idonee 
alla 
circolazione, in quanto esso tende 
a 
non divenire 
autonomo rispetto al 
negozio che 
lo ha 
generato. Inoltre, benchè 
siano stipulati 
nell'ambito della 
prestazione 
del 
servizio di 
negoziazione 
per conto proprio, ex 
art. 23, comma 
5, Tuf, nei 
derivati 
oTC l'intermediario stipula 
un 
contratto (con il cliente) ponendosi quale sua controparte. 

4.5. -Posto che 
l'interest 
rate 
swap 
è 
il 
contratto derivato che 
prevede 
l'impegno reciproco 
delle 
parti 
di 
pagare 
l'una 
all'altra, 
a 
date 
prestabilite, 
gli 
interessi 
prodotti 
da 
una 
stessa 
somma 
di 
denaro, 
presa 
quale 
astratto 
riferimento 
e 
denominato 
nozionale, 
per 
un 
dato 
periodo 
di 
tempo, gli 
elementi 
essenziali 
di 
un interest 
rate 
swap 
sono stati 
individuati, dalla 
stessa 
giurisprudenza 
di merito, ne: 
a) la data di stipulazione del contratto (trade date); 
b) 
il 
capitale 
di 
riferimento, 
detto 
nozionale 
(notional 
principal 
amount), 
che 
non 
viene 
scambiato 
tra le parti, e serve unicamente per il calcolo degli interessi; 
c) la 
data 
di 
inizio (effective 
date), dalla 
quale 
cominciano a 
maturare 
gli 
interessi 
(normalmente 
due giorni lavorativi dopo la 
trade date); 
d) la data di scadenza (maturity date 
o termination date) del contratto; 
e) le 
date 
di 
pagamento (payment 
dates), cioè 
quelle 
in cui 
sono scambiati 
i 
flussi 
di 
interessi; 
f) i diversi tassi di interesse (interest rate) da applicare al detto capitale. 
4.6. -va, peraltro, ancora 
precisato che 
se 
lo swap 
stipulato dalle 
parti 
è 
non par, con riferimento 
alle 
condizioni 
corrispettive 
iniziali, 
lo 
squilibrio 
così 
emergente 
esplicitamente 
dal 
negozio 
può 
essere 
riequilibrato 
con 
il 
pagamento, 
al 
momento 
della 
stipulazione, 
di 
una 
somma 
di 
denaro al 
soggetto che 
accetta 
le 
pattuizioni 
deteriori: 
questo importo è 
chiamato 
upfront 
(e 
i 
contratti 
non 
par 
che 
non 
prevedano 
la 
clausola 
di 
upfront 
hanno 
nel 
valore 
iniziale 
negativo dello strumento il 
costo dell'operazione: 
nella 
prassi, il 
compenso dell'intermediario 
per il servizio fornito). 
4.7. -Invero, l'IrS 
può atteggiarsi 
ad operazione 
non par 
non solo in punto di 
partenza, ma 
può divenir tale 
anche 
con il 
tempo. In un dato momento lo squilibrio futuro (sopravvenuto) 
fra 
i 
flussi 
di 
cassa, che 
sia 
attualizzato al 
presente, può essere 
oggetto di 
nuove 
prognosi 
ed 
indurre 
le 
parti 
a 
sciogliere 
il 
contratto. Per compiere 
queste 
operazioni 
assume 
rilievo il 
cd. 
mark 
to market 
(MTM) o costo di 
sostituzione 
(meglio, il 
suo metodo di 
stima), ossia 
il 
costo 
al 
quale 
una 
parte 
può 
anticipatamente 
chiudere 
il 
contratto 
o 
un 
terzo 
estraneo 
all'operazione 
è 
disposto, alla 
data 
della 
valutazione, a 
subentrare 
nel 
derivato: 
così 
da 
divenire, in pratica, 
il 
valore 
corrente 
di 
mercato dello swap 
(il 
metodo de 
quo consiste, insomma, in una 
simulazione 
giornaliera 
di 
chiusura 
della 
posizione 
contrattuale 
e 
di 
stima 
del 
conseguente 
debito/credito 
delle parti). 
4.7.1. -nei 
fatti, per MTM 
s'intende 
principalmente 
la 
stima 
del 
valore 
effettivo del 
contratto 
ad una 
certa 
data 
(anche 
se, in astratto, il 
mark 
to market 
non esprime 
un valore 
concreto ed 
attuale, ma 
una 
proiezione 
finanziaria). Il 
mark 
to market 
è, dunque, tecnicamente 
un valore 
e 
non 
un 
prezzo, 
una 
grandezza 
monetaria 
teorica 
calcolata 
per 
l'ipotesi 
di 
cessazione 
del 
contratto 
prima 
del 
termine 
naturale. Più precisamente 
è 
un metodo di 
valutazione 
delle 
attività 
finanziarie 
che 
si 
contrappone 
a 
quello storico o di 
acquisizione 
attualizzato mediante 
indici 
di 
aggiornamento 
monetario, 
che 
consiste 
nel 
conferire 
a 
dette 
attività 
il 
valore 
che 
esse 
avrebbero 
in caso di 
rinegoziazione 
del 
contratto o di 
scioglimento del 
rapporto prima 
della 
scadenza 
naturale. 
5. 
-In 
un 
tale 
quadro 
di 
illustrazioni 
del 
fenomeno 
che 
va 
sotto 
il 
nome 
di 
IrS 
è 
assai 
discussa 
la questione della causa dello swap. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


5.1. -Una 
giurisprudenza, con l'appoggio di 
parte 
della 
dottrina, tende 
a 
vedere 
nello swap 
la 
causa 
della 
scommessa. 
Ma 
è 
difficile 
accogliere 
l'idea 
che 
un'operazione 
di 
interest 
rate 
swap, 
destinata 
a 
regolare 
una 
pluralità 
di 
rapporti 
per molti 
anni, muovendo ingentissimi 
capitali 
su 
importanti 
mercati 
internazionali, 
sia 
da 
considerare 
come 
una 
qualsiasi 
lotteria, 
apparendo 
palese 
come 
lo swap 
abbia 
ben poco in comune 
con lo schema 
della 
scommessa 
di 
cui 
agli 
artt. da 
1933 a 
1935 c.c., della 
natura 
contrattuale 
della 
quale 
vi 
è 
pure 
stata 
discussione 
in 
dottrina. 
5.2. 
-Ciò 
che 
distingue 
l'IrS 
dalla 
comune 
scommessa 
è 
proprio 
la 
complessità 
della 
vicenda 
e 
la 
professionalità 
dei 
soggetti 
coinvolti, sicchè 
l'impostazione 
più attenta 
rinviene 
la 
causa 
dell'IrS 
nella 
negoziazione 
e 
nella 
monetizzazione 
di 
un rischio, atteso che 
quello strumento 
contrattuale: 
-si 
forma 
nel 
mercato finanziario, con regole 
sue 
proprie; 
di 
frequente 
consuetudinarie 
e 
tipiche 
della 
comunità 
degli 
investitori; 
riguarda 
un 
rischio 
finanziario 
che 
può 
essere 
delle 
parti, ma può pure non appartenere loro; 
-concerne 
dei 
differenziali 
calcolati 
su 
dei 
flussi 
di 
denaro 
destinati 
a 
formarsi 
durante 
un 
lasso temporale più o meno lungo; 
-è 
espressione 
di 
una 
logica 
probabilistica, non avendo ad oggetto un'entità 
specificamente 
ed esattamente determinata; 
- è il risultato di una tradizione giuridica diversa dalla nostra. 
5.3. -A 
fini 
puramente 
descrittivi 
e 
semplificativi, si 
potrebbe 
dire 
che 
l'IrS 
consiste 
in una 
sorta 
di 
scommessa 
finanziaria 
differenziale 
(in quest'ultimo aggettivo essendo presente 
un 
riferimento 
alla 
determinazione 
solo 
probabilistica 
dei 
suoi 
effetti 
ed 
alla 
durata 
nel 
tempo 
del rapporto). 
6. -Sicchè 
si 
pone 
con immediatezza 
un primo problema, riguardante 
la 
validità 
dello strumento 
contrattuale 
che 
abbia 
al 
suo 
interno 
questo 
particolare 
atteggiarsi 
della 
causa 
dello 
swap. 
6.1. -In particolare, ci 
si 
pone 
il 
problema 
-che 
è 
preliminare 
ad ogni 
altro pure 
sollevato 
dalla 
sezione 
semplice 
-se 
tali 
tipi 
di 
contratti 
perseguano 
interessi 
meritevoli 
di 
tutela 
ai 
sensi dell'art. 1322 c.c. e siano muniti di una valida causa in concreto. 
6.2. 
-Infatti, 
appare 
necessario 
verificare 
-ai 
fini 
della 
liceità 
dei 
contratti 
-se 
si 
sia 
in 
presenza 
di 
un accordo tra 
intermediario ed investitore 
sulla 
misura 
dell'alea, calcolata 
secondo criteri 
scientificamente 
riconosciuti 
ed 
oggettivamente 
condivisi, 
perchè 
il 
legislatore 
autorizza 
questo 
genere 
di 
"scommesse 
razionali" 
sul 
presupposto dell'utilità 
sociale 
delle 
scommesse 
razionali, 
intese 
come 
specie 
evoluta 
delle 
antiche 
scommesse 
di 
pura 
abilità. E 
tale 
accordo 
non deve 
limitarsi 
al 
mark 
to market, ma 
investire, altresì, gli 
scenari 
probabilistici, poichè 
il 
primo 
è 
semplicemente 
un 
numero 
che 
comunica 
poco 
in 
ordine 
alla 
consistenza 
dell'alea. 
Esso 
dovrebbe 
concernere 
la 
misura 
qualitativa 
e 
quantitativa 
dell'alea 
e, 
dunque, 
la 
stessa 
misura dei costi pur se impliciti. 
6.3. 
-Sotto 
tale 
ultimo 
profilo, 
va 
rilevato 
che 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
nascenti 
dal 
derivato 
non 
sono 
mere 
obbligazioni 
omogenee 
di 
dare 
somme 
di 
denaro 
fungibile, 
perchè 
in 
relazione 
alla 
loro quantificazione 
va 
data 
la 
giusta 
rilevanza 
ai 
parametri 
di 
calcolo delle 
stesse, che 
sono determinati 
in funzione 
delle 
variazioni 
dei 
tassi 
di 
interesse 
(nell'IrS) e 
di 
cambio nel 
tempo. 
Sicchè 
l'importanza 
dei 
menzionati 
parametri 
di 
calcolo 
consegue 
alla 
circostanza 
che 
tramite 
essi 
si 
può 
realizzare 
la 
funzione 
di 
gestione 
del 
rischio 
finanziario, 
con 
la 
particolarità 
che il parametro scelto assume alla scadenza l'effetto di una molteplicità di variabili. 
6.4. -A 
tale 
proposito, va 
richiamato l'art. 23, comma 
5, del 
TUf, il 
quale 
dispone 
che 
"Nel

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


l'ambito della prestazione 
dei 
servizi 
e 
attività di 
investimento, agli 
strumenti 
finanziari 
derivati 
nonchè 
a quelli 
analoghi 
individuati 
ai 
sensi 
dell'art. 18, comma 5, lett. a), non si 
applica 
l'art. 
1933 
c.c.". 
Ma 
tale 
previsione 
non 
intende 
autorizzare 
sic 
et 
simpliciter 
una 
scommessa, 
ma 
delimitare, 
con 
un 
criterio 
soggettivo, 
la 
causa 
dello 
swap, 
ricollegandola 
espressamente 
al 
settore 
finanziario. In questo modo, è 
disegnato un modello, ponendosi 
al 
massimo ancora 
il 
problema 
se 
tutti 
i 
derivati 
rispondano ad un unico tipo o se 
la 
distinzione 
tra tali tipi riguardi le classi di derivati o i singoli 
swaps. 

6.5. -Infatti, l'intermediario finanziario è 
un mandatario dell'investitore, tenuto a 
fornire 
raccomandazioni 
personalizzate 
al 
suo assistito; 
sicchè 
ove 
l'intermediario, nella 
prestazione 
del 
servizio, 
compia 
l'operazione 
quando 
doveva 
astenersi 
o 
senza 
il 
consenso 
dell'investitore, 
gli 
atti 
compiuti 
non 
possono 
avere 
efficacia, 
a 
prescindere 
dal 
fatto 
che 
la 
condotta 
dell'agente 
sia 
qualificata 
in 
termini 
di 
inadempimento 
o 
di 
nullità, 
con 
conseguente 
risarcimento 
del 
danno. 
6.6. -In tale 
quadro di 
corretto adempimento dell'attività 
d'intermediazione 
occorre 
rilevare 
anche 
la 
deduzione 
dei 
cd. 
costi 
impliciti, 
riconducendosi 
ad 
essi 
lo 
squilibrio 
iniziale 
dell'alea, 
misurato in termini probabilistici. 
6.6.1. 
-Assume 
rilievo, 
perciò, 
la 
questione 
del 
conflitto 
di 
interessi 
fra 
intermediario 
e 
cliente, 
poichè 
nei 
derivati 
oTC, a 
differenza 
che 
in quelli 
uniformi, tale 
conflitto è 
naturale, discendendo 
dall'assommarsi 
nel 
medesimo 
soggetto 
delle 
qualità 
di 
offerente 
e 
consulente. 
va 
escluso 
il 
rilievo, 
ai 
fini 
della 
individuazione 
della 
causa 
tipica, 
delle 
funzioni, 
di 
speculazione 
o di 
copertura, dei 
derivati 
oTC perseguite 
dalle 
parti, anche 
se 
dà 
ad esse 
peso, ad esempio, 
per il 
giudizio di 
conformità 
all'interesse 
ex 
art. 21 TUf 
e 
per quello di 
adeguatezza 
ed appropriatezza. 
6.7. -Appare 
perciò utile 
considerare 
gli 
swap 
come 
negozi 
a 
causa 
variabile, perchè 
suscettibili 
di 
rispondere 
ora 
ad una 
finalità 
assicurativa 
ora 
di 
copertura 
di 
rischi 
sottostanti; 
così 
che 
la 
funzione 
che 
l'affare 
persegue 
va 
individuata 
esaminando 
il 
caso 
concreto 
e 
che, 
perciò, 
in mancanza 
di 
una 
adeguata 
caratterizzazione 
causale, detto affare 
sarà 
connotato da 
una 
irresolutezza 
di 
fondo 
che 
renderà 
nullo 
il 
relativo 
contratto 
perchè 
non 
caratterizzato 
da 
un 
profilo causale chiaro e definito (o definibile). 
7. -Dopo aver fatto queste 
necessarie 
premesse 
può passarsi 
ad esaminare 
la 
questione 
(che 
è 
la 
base 
dei 
quesiti 
posti 
dalla 
sezione 
semplice) relativa 
alla 
stipulazione 
dei 
derivati, swap 
ed IrS, da parte degli enti pubblici in generale e degli enti locali, in particolare. 
7.1. -va innanzitutto compiuto una disamina del quadro normativo. 
7.1.1. -Il 
primo richiamo è 
alla 
l. n. 724 del 
1994, art. 35, che 
ha 
stabilito espressamente 
la 
possibilità 
per gli 
enti 
territoriali 
di 
ricorrere 
al 
mercato dei 
capitali 
attraverso l'emissione 
di 
prestiti 
obbligazionari 
destinati 
esclusivamente 
al 
finanziamento degli 
investimenti, e 
all'art. 
2 del 
regolamento di 
attuazione 
n. 420 del 
1996, nella 
parte 
in cui 
ha 
previsto il 
ricorso a 
strumenti 
derivati 
mediante 
l'attivazione 
di 
un 
currency 
swap 
come 
copertura 
obbligatoria 
del 
rischio di 
cambio nel 
caso di 
emissioni 
obbligazionarie 
in valuta, la 
cui 
finalità 
è 
quella 
di 
evitare 
l'esposizione 
al 
rischio di 
cambio, con precipua 
attenzione, come 
espressamente 
evidenziato 
dal legislatore, a non "introdurre elementi di rischio". 
7.1.2. -la 
prima 
parte 
dell'art. 2 del 
regolamento n. 420 del 
1996 disponeva 
che 
"Per 
la copertura 
del 
rischio di 
cambio tutti 
i 
prestiti 
in valuta estera devono essere 
accompagnati, al 
momento 
dell'emissione, 
da 
una 
corrispondente 
operazione 
di 
swap. 
l'operazione 
di 
swap 
dovrà trasformare, per 
l'emittente, l'obbligazione 
in valuta in un'obbligazione 
in lire, senza 
introdurre elementi di rischio". 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


7.1.3. 
-In 
tale 
contesto, 
un 
cambiamento 
avviene 
con 
la 
l. 
n. 
448 
del 
2001, 
art. 
41 
(finanziaria 
per il 
2002), con il 
quale, al 
fine 
di 
contenere 
il 
costo dell'indebitamento e 
di 
monitorare 
gli 
andamenti 
di 
finanza 
pubblica 
(comma 
1), è 
stata 
estesa 
agli 
enti 
locali 
la 
facoltà 
di 
emettere 
titoli 
obbligazionari 
(e 
di 
contrarre 
mutui) 
con 
rimborso 
del 
capitale 
in 
un'unica 
soluzione 
alla 
scadenza 
-cd. 
titoli 
bullet 
-previa 
costituzione 
di 
un 
fondo 
di 
ammortamento 
del 
debito 
o 
conclusione 
di 
swaps 
per l'ammortamento del 
debito (comma 
2, previsione 
poi 
abrogata 
dal 
D.l. n. 112 del 
2008, art. 62, comma 
10, come 
modificato dalla 
l. n. 203 del 
2008, art. 3), il 
tutto 
sottoposto 
ad 
un 
potere 
di 
coordinamento 
finanziario 
in 
capo 
al 
Ministero 
dell'economia 
e delle finanze. 
7.1.4. 
-risulta 
evidente 
come 
il 
legislatore 
del 
2001 
abbia 
cercato 
di 
impedire 
il 
moral 
hazard 
di 
emettere 
debito, imponendo un fondo di 
ammortamento o un amortizing swap, cioè 
uno 
swap 
che 
costringesse 
l'ente 
pubblico ad effettuare 
pagamenti 
alla 
controparte 
dello swap 
in 
una 
misura 
per cd. equivalente 
ad un ipotetico piano di 
ammortamento del 
debito contratto 
dall'ente 
medesimo 
[lo 
swap 
appena 
descritto 
ha 
finalità 
certamente 
non 
speculative 
(ammortamento 
del 
debito) e, comunque, richiede, contestualmente, la 
convenienza 
economica 
dell'operazione. Si 
è 
fatto notare 
come 
il 
legislatore 
abbia 
in fatto prescritto all'ente 
pubblico 
di 
guadagnare 
senza 
rischiare, il 
tutto all'interno del 
mercato dell'intermediazione 
finanziaria 
dove, connaturata all'operazione, è l'alea di rischio]. 
7.1.5. -la 
maggior parte 
delle 
operazioni 
in esame 
sono state 
realizzate 
dagli 
enti 
locali 
proprio 
nella 
vigenza 
della 
l. n. 448 del 
2001, art. 41. Successivamente, il 
D.M. n. 389 del 
2003 
e 
la 
circolare 
del 
27 maggio 2004 del 
Ministero dell'economia 
e 
delle 
finanze 
hanno regolato 
l'accesso al 
mercato dei 
capitali 
da 
parte 
degli 
enti 
territoriali 
relativamente 
alle 
operazioni 
derivate 
effettuate 
e 
agli 
ammortamenti 
costituiti 
dopo il 
4 febbraio 2004, elencando le 
operazioni 
di 
finanza 
derivata 
vietate 
e 
consentite 
(unicamente 
nella 
forma 
plain 
vanilla) 
agli 
enti 
pubblici, i 
quali 
dovevano trattare 
solo con intermediari 
titolari 
di 
un rating 
non inferiore 
a 
quello indicato. 
7.1.6. -la 
l. n. 244 del 
2007 (finanziaria 
per il 
2008) ha 
chiarito la 
necessità 
che 
le 
modalità 
contrattuali, 
gli 
oneri 
e 
gli 
impegni 
finanziari 
in 
derivati 
siano 
espressamente 
dichiarati 
in 
una 
nota 
allegata 
al 
bilancio e 
che 
gli 
enti 
locali 
attestino di 
essere 
a 
conoscenza 
dei 
rischi 
e 
delle 
caratteristiche 
degli 
strumenti 
finanziari 
utilizzati. Tale 
ultima 
legge 
ha 
rafforzato il 
regime 
dei 
poteri 
di 
verifica 
esterni 
con un richiamo ad un obbligo di 
trasparenza, con disposizioni 
poi 
abrogate 
del 
D.l. n. 112 del 
2008, art. 62, comma 
10 (intitolato "Contenimento dell'uso 
degli 
strumenti 
derivati 
e 
dell'indebitamento delle 
regioni 
e 
degli 
enti 
locali"), per essere 
riformulate 
in termini 
più stringenti 
dalla 
l. n. 147 del 
2013, art. 1, comma 
572 (legge 
di 
stabilità 
per 
il 
2014), 
che 
ha 
modificato 
l'art. 
62, 
vietando 
definitivamente, 
salvo 
nei 
casi 
individuati 
dalla 
stessa 
norma, 
alle 
Province 
autonome 
di 
Trento 
e 
di 
bolzano 
e 
agli 
enti 
locali 
di 
"3. (...) a) stipulare 
contratti 
relativi 
agli 
strumenti 
finanziari 
derivati 
(...); b) procedere 
alla 
rinegoziazione 
dei 
contratti 
derivati 
in 
essere 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
presente 
disposizione; c) stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate". 
7.2. 
-Esaminando 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell'art. 
62 
(Contenimento 
dell'uso 
degli 
strumenti 
derivati 
e 
dell'indebitamento delle 
regioni 
e 
degli 
enti 
locali) del 
D.l. 25 giugno 
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla 
l. 6 agosto 2008, n. 133, la 
Corte 
costituzionale 
-con 
la 
sentenza 
n. 
52 
del 
2010 
-l'ha 
ritenuta 
non 
fondata 
in 
relazione 
ai 
due 
parametri evocati (gli artt. 70 e 77 Cost.) ed ha dato chiarimenti valevoli anche per il futuro. 
7.2.1. -Secondo il 
Giudice 
delle 
leggi, infatti, la 
disciplina 
introdotta 
con le 
disposizioni 
del 
richiamato art. 62, era 
diretta 
a 
contenere 
l'esposizione 
delle 
regioni 
e 
degli 
altri 
enti 
locali 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


territoriali 
a 
indebitamenti 
che, per il 
rischio che 
comportano, possono esporre 
le 
rispettive 
finanze 
ad 
accollarsi 
oneri 
impropri 
e 
non 
prevedibili 
all'atto 
della 
stipulazione 
dei 
relativi 
contratti 
aventi 
ad oggetto i 
cosiddetti 
derivati 
finanziari 
(così 
che, nel 
caso specificamente 
esaminato, sussistevano oggettivamente 
quelle 
ragioni 
di 
straordinarietà 
e 
urgenza 
che 
giustificavano 
il 
ricorso 
al 
Decreto 
legge, 
volto, 
da 
un 
lato, 
alla 
disciplina 
a 
regime 
del 
fenomeno 
e, 
dall'altro, 
al 
divieto 
immediato 
per 
gli 
enti 
stessi 
di 
ricorrere 
ai 
predetti 
strumenti 
finanziari). 

7.3. -Considerato tale 
basilare 
insegnamento, la 
l. n. 147 del 
2013 (la 
cd. legge 
di 
stabilità 
per il 
2014) ha, quindi, stabilito che, salvo eccezioni, l'accesso ai 
derivati 
è 
precluso (a 
pena 
di nullità eccepibile dal solo ente) agli enti locali. 
7.3.1. -Si 
tratta 
di 
una 
normativa 
primaria 
di 
grande 
importanza 
la 
cui 
ratio, sul 
presupposto 
della 
spiccata 
aleatorietà 
delle 
negoziazioni 
aventi 
ad 
oggetto 
gli 
strumenti 
finanziari 
in 
esame 
(come 
espressa 
dalla 
Corte 
costituzionale, con la 
menzionata 
decisione 
n. 52 del 
2010, nel-
l'esigenza 
di 
"evitare 
che 
possa essere 
messa in pericolo la disponibilità delle 
risorse 
finanziarie 
pubbliche 
utilizzabili 
dagli 
enti 
stessi 
per 
il 
raggiungimento 
di 
finalità 
di 
carattere 
pubblico 
e, 
dunque, 
di 
generale 
interesse 
per 
la 
collettività"), 
ha 
portato 
il 
legislatore, 
con 
l'art. 
1, 
comma 
572, 
lett. 
d), 
di 
tale 
legge, 
a 
prevedere, 
a 
pena 
di 
nullità 
rilevabile 
unicamente 
dall'ente, la 
necessità 
di 
un'attestazione 
scritta 
dell'organo pubblico, competente 
a 
firmare 
tali 
tipi 
di 
contratti, 
di 
avere 
una 
specifica 
conoscenza 
dei 
rischi 
e 
delle 
caratteristiche 
del 
derivato, 
nonchè delle variazioni intervenute nella copertura del sottostante indebitamento. 
7.3.2. -non si 
mostrerà 
stupore, perciò, riguardo al 
fatto che 
l'attuale 
regolamentazione 
sia 
ritenuta, in dottrina, un valido punto di 
equilibrio; 
infatti, le 
problematiche 
discusse 
permangono 
rispetto ai contratti stipulati in passato dalla P.A. 
8. 
-osserva 
la 
Corte 
che 
il 
menzionato 
percorso 
normativo, 
per 
quanto 
tormentato 
e 
non 
sempre 
lineare, consente 
di 
poter concludere 
che, anche 
per il 
periodo di 
vigenza 
dell'art. 41 della 
legge 
finanziaria 
per 
il 
2002 
e, 
quindi, 
fino 
al 
2008 
(anno 
in 
cui 
il 
legislatore 
ha 
inserito 
limiti 
più stringenti 
alla 
capacità 
degli 
enti 
di 
concludere 
derivati) il 
potere 
contrattuale 
degli 
enti locali incontrava sicuri limiti. 
8.1. -Innanzitutto, il 
derivato per essere 
ammissibile, doveva 
essere 
economicamente 
conveniente 
essendo 
vietato 
concludere 
derivati 
speculativi. 
la 
Corte 
costituzionale, 
infatti, 
ha 
chiarito, 
con la decisione n. 52 del 2010 (che si ricollega a quella n. 376 del 2003), che il divieto 
di 
concludere 
contratti 
speculativi 
può essere 
ricondotto, in prima 
battuta, dell'art. 119 Cost., 
commi 
4 
e 
6, 
che 
rispettivamente 
enunciano 
il 
vincolo 
dell'equilibrio 
finanziario 
e 
la 
necessaria 
finalizzazione 
dell'indebitamento 
alle 
spese 
di 
investimento 
(conclusione 
che 
è 
stata 
rafforzata 
con l'ulteriore 
richiamo all'esistenza 
della 
materia 
di 
legislazione 
concorrente 
del 
"coordinamento 
della finanza pubblica" 
di cui all'art. 117 Cost., comma 3). 
8.2. 
-Infatti, 
i 
contratti 
derivati, 
in 
quanto 
aleatori, 
sarebbero 
già 
di 
per 
sè 
non 
stipulabili 
dalla 
P.A., 
poichè 
l'aleatorietà 
costituisce 
una 
forte 
disarmonia 
nell'ambito 
delle 
regole 
relative 
alla 
contabilità 
pubblica, introducendo variabili 
non compatibili 
con la 
certezza 
degli 
impegni 
di 
spesa. 
Perciò 
bisogna 
concludere 
che, 
le 
disposizioni 
normative 
sopra 
passate 
in 
rassegna, 
che 
tali 
possibilità 
prevedevano, consentivano solo ciò che, normalmente, sarebbe 
stato vietato, 
con la 
conseguenza 
che 
dette 
previsioni 
erano anzitutto di 
natura 
eccezionale 
e 
di 
stretta 
interpretazione, 
avendo 
reso 
i 
derivati 
stipulati 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni 
come 
contratti 
tipici, diversamente 
da 
quelli 
innominati 
conclusi 
dai 
privati 
(per quanto appartenenti 
all'amplissimo 
e medesimo genus). 
8.3. -Sicchè, alla 
luce 
del 
quadro normativo e 
assiologico così 
delineato, può già 
formularsi 
una prima conclusione, secondo la quale: 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


il 
riconoscimento della 
legittimazione 
dell'Amministrazione 
a 
concludere 
contratti 
derivati, 
sulla 
base 
della 
disciplina 
vigente 
fino al 
2013 (quando la 
l. n. 147 del 
2013, ne 
ha 
escluso 
la 
possibilità) e 
della 
distinzione 
tra 
i 
derivati 
di 
copertura 
e 
i 
derivati 
speculativi, in base 
al 
criterio 
del 
diverso 
grado 
di 
rischiosità 
di 
ciascuno 
di 
essi, 
comportava 
che 
solamente 
nel 
primo caso l'ente locale potesse dirsi legittimato a procedere alla loro stipula. 

9. 
-E 
però, 
tanto 
non 
esaurisce 
il 
problema 
portato 
all'esame 
di 
queste 
Sezioni 
unite, 
dovendosi 
-pur 
nell'ambito 
del 
percorso 
astrattamente 
ammissibile 
-verificare 
se 
non 
siano 
riscontrabili 
altri limiti alla liceità di siffatti tipi contrattuali per la PA. 
9.1. 
-restano 
infatti 
aperti 
i 
problemi 
generali 
relativi 
alla 
determinatezza 
(o 
determinabilità) 
dell'oggetto del 
contratto; 
quelli 
secondo i 
quali 
la 
validità 
dell'accordo va 
verificato in presenza 
di 
un negozio (tra 
intermediario ed ente 
pubblico o investitore) che 
indichi 
(o meno) la 
misura 
dell'alea, calcolata 
secondo criteri 
riconosciuti 
ed oggettivamente 
condivisi, perchè 
il 
legislatore 
autorizza 
solo questo genere 
di 
scommesse 
sul 
presupposto dell'utilità 
sociale 
di 
quelle razionali, intese come specie evoluta delle scommesse di pura abilità. 
9.2. -E 
tale 
accordo sulla 
misurabilità/determinazione 
dell'oggetto non deve 
limitarsi 
al 
criterio 
del 
mark 
to 
market, 
ma 
investire, 
altresì, 
gli 
scenari 
probabilistici, 
poichè 
il 
primo 
è 
semplicemente 
un 
numero 
che 
comunica 
poco 
in 
ordine 
alla 
consistenza 
dell'alea. 
Esso 
deve 
concernere 
la 
misura 
qualitativa 
e 
quantitativa 
dell'alea 
e, dunque, la 
stessa 
misura 
dei 
costi, 
pur se impliciti. 
9.3. -Infatti, l'importanza 
dei 
menzionati 
parametri 
di 
calcolo consegue 
alla 
circostanza 
che 
tramite 
essi 
si 
può 
realizzare 
la 
funzione 
di 
gestione 
del 
rischio 
finanziario, 
con 
la 
particolarità 
che il parametro scelto assume alla scadenza l'effetto di una molteplicità di variabili. 
9.4. -Si 
è 
già 
richiamato l'art. 23, comma 
5, del 
TUf, il 
quale 
dispone 
che 
"Nell'ambito della 
prestazione 
dei 
servizi 
e 
attività di 
investimento, agli 
strumenti 
finanziari 
derivati 
nonchè 
a 
quelli 
analoghi 
individuati 
ai 
sensi 
dell'art. 18, comma 5, lett. a), non si 
applica l'art. 1933 
c.c.", così 
autorizzandosi 
non sic 
et 
simpliciter 
una 
scommessa, ma 
delimitando, con un criterio 
soggettivo, la causa dello swap, ricollegata espressamente al settore finanziario. 
9.5. -Del 
resto, l'intermediario finanziario è 
tenuto a 
fornire 
raccomandazioni 
personalizzate 
al 
suo 
assistito; 
anche 
attraverso 
la 
deduzione 
dei 
cd. 
costi 
impliciti, 
altrimenti 
riconducendosi 
ad essi 
lo squilibrio iniziale 
dell'alea, misurato in termini 
probabilistici, sull'assunto che 
ciò 
costituisca 
un 
incentivo 
affinchè 
l'intermediario 
raccomandi 
all'investitore 
strumenti 
oTC, 
nei 
quali 
la 
remunerazione 
è 
occultata, 
piuttosto 
che 
strumenti 
da 
acquisire 
sul 
mercato, 
presso 
cui il compenso ha la forma della commissione da concordare. 
9.6. -Con la 
possibilità 
di 
riconoscere 
una 
ipotesi 
di 
conflitto di 
interessi 
fra 
intermediario e 
cliente, poichè 
nei 
derivati 
oTC, a 
differenza 
che 
in quelli 
uniformi, tale 
conflitto è 
naturale, 
discendendo dall'assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente. 
9.7. 
-Appare 
perciò 
corretto 
l'esame 
condotto 
caso 
per 
caso, 
attraverso 
un 
approccio 
concreto; 
quell'approccio che 
ha 
portato il 
giudice 
di 
merito ad affermare 
le 
conseguenze 
sanzionatorie 
in 
quei 
rapporti 
contrattuali, 
considerato 
che: 
a) 
in 
nessuno 
dei 
contratti 
al 
suo 
esame 
figurava 
la 
determinazione 
del 
valore 
attuale 
degli 
stessi 
al 
momento della 
stipulazione 
(cd. mark 
to 
market), 
che 
un'attenta 
e 
condivisibile 
giurisprudenza 
di 
merito 
riteneva 
"elemento 
essenziale 
dello stesso ed integrativo della sua causa tipica (un'alea razionale 
e 
quindi 
misurabile) da 
esplicitare 
necessariamente 
ed indipendentemente 
dalla sua finalità di 
copertura (hedging) 
o 
speculativa"; 
b) 
la 
potenziale 
passività 
insita 
in 
ogni 
contratto 
di 
swap 
trova 
una 
sua 
evidenza 
concreta 
ed 
attuale 
nella 
clausola 
di 
upfront, 
in 
fatto 
presente 
in 
due 
dei 
tre 
rapporti 
sostanziali 
oggetto di giudizio. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


9.8. -In relazione, a 
tali 
profili, pertanto i 
mezzi 
di 
ricorso n. 3, 4 e 
5 sono infondati 
e 
devono 
essere respinti dovendosi affermare la 
regula iuris, secondo la quale: 
in 
tema 
di 
contratti 
derivati, 
stipulati 
dai 
Comuni 
italiani 
sulla 
base 
della 
disciplina 
normativa 
vigente 
fino al 
2013 (quando la 
l. n. 147 del 
2013, ha 
escluso la 
possibilità 
di 
farvi 
ulteriore 
ricorso) e 
della 
distinzione 
tra 
i 
derivati 
di 
copertura 
e 
i 
derivati 
speculativi, in base 
al 
criterio 
del 
diverso grado di 
rischiosità 
di 
ciascuno di 
essi, pur potendo l'ente 
locale 
procedere 
alla 
stipula 
dei 
primi 
con qualificati 
intermediari 
finanziari 
nondimeno esso poteva 
utilmente 
ed 
efficacemente 
procedervi 
solo 
in 
presenza 
di 
una 
precisa 
misurabilità/determinazione 
dell'oggetto 
contrattuale, comprensiva 
sia 
del 
criterio del 
mark 
to market 
sia 
degli 
scenari 
probabilistici, 
sia 
dei 
cd. costi 
occulti, allo scopo di 
ridurre 
al 
minimo e 
di 
rendere 
consapevole 
l'ente 
di 
ogni 
aspetto 
di 
aleatorietà 
del 
rapporto, 
costituente 
una 
rilevante 
disarmonia 
nell'ambito 
delle 
regole 
relative 
alla 
contabilità 
pubblica, introduttiva 
di 
variabili 
non compatibili 
con la 
certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio. 
10. -E 
però, tanto non esaurisce 
il 
problema 
portato all'esame 
di 
queste 
Sezioni, in ragione 
dei 
restanti 
motivi 
(1 e 
2) di 
ricorso, aventi 
ad oggetto il 
problema 
dell'indebitamento degli 
enti pubblici e della competenza a deliberare in ordine ad esso. 
10.1. -Al 
fine 
di 
considerare 
risolto tale 
problema, non basta, infatti, una 
mera 
riduzione 
del 
tasso d'interesse 
nell'esercizio finanziario, dovendosi 
tenere 
conto, altresì, dei 
rischi 
connessi 
alle 
diverse 
condizioni 
di 
indebitamento, alla 
durata 
del 
debito e 
alle 
modalità 
di 
estinzione 
della 
passività. 
In 
questa 
ottica, 
si 
è 
affermato 
che 
una 
rinegoziazione 
non 
può 
essere 
uno 
strumento 
da 
utilizzare 
immediatamente 
per 
fare 
fronte 
alla 
spesa 
corrente, 
soprattutto 
qualora 
il suo esito sia di allungare i termini di pagamento del debito originario. 
10.1.1. 
-Preliminarmente, però, bisogna 
prendere 
posizione 
sul 
concetto di 
indebitamento e 
su quello stesso di 
upfront. 
10.1.2. 
-In 
ordine 
a 
tale 
ultima 
clausola, 
un 
condivisibile 
orientamento 
(sia 
dottrinale 
che 
giurisprudenziale) qualifica le somme così percepite quale finanziamento. 
10.1.3. -Gli 
importi 
ricevuti 
a 
titolo di 
upfront 
costituiscono indebitamento ai 
fini 
della 
normativa 
di 
contabilità 
pubblica 
e 
dell'art. 119 Cost., anche 
per il 
periodo antecedente 
l'approvazione 
del 
D.l. 
n. 
112 
del 
2008, 
art. 
62, 
comma 
9, 
come 
modificato 
dalla 
l. 
n. 
133 
del 
2008, 
in 
sede 
di 
conversione 
e, 
successivamente, 
sostituito 
dalla 
l. 
n. 
203 
del 
2008, 
art. 
3 
(finanziaria 
per 
il 
2009), 
il 
quale 
ha 
stabilito 
che 
"sulla 
base 
dei 
criteri 
definiti 
in 
sede 
europea 
dall'Ufficio 
statistico 
delle 
Comunità 
europee 
(eUrostat), 
l'eventuale 
premio 
incassato 
al 
momento 
del 
perfezionamento delle 
operazioni 
derivate 
costituisce 
indebitamento dell'ente". 
la 
normativa 
del 
2008 ha 
perciò preso atto della 
natura 
di 
indebitamento di 
quanto conseguito con 
l'upfront, senza innovare l'ordinamento. 
10.1.4. -Peraltro, se 
il 
denaro ottenuto con l'upfront 
è 
da 
considerare 
indebitamento, lo stesso 
non può dirsi 
degli 
IrS 
conclusi 
dagli 
enti 
pubblici, i 
quali, eventualmente, possono presupporre 
un 
indebitamento. 
Infatti, 
l'operazione 
di 
swap 
va 
guardata 
nel 
complesso, 
perchè 
il 
suo 
effetto può, sostanzialmente, consistere 
in un indebitamento, com'è 
dimostrato da 
quegli 
enti 
locali 
che 
sono 
stati 
capaci 
di 
utilizzare 
gli 
IrS 
alla 
stregua 
di 
mutui 
e, 
tramite 
essi, 
in 
concreto, 
modificare 
e 
gestire 
il 
livello dell'indebitamento (Senza 
dire 
che 
detti 
IrS 
si 
fondavano tendenzialmente, 
per legge, su un precedente indebitamento). 
10.2. -In ordine 
all'organo comunale 
tenuto ad autorizzare 
il 
ricorso agli 
IrS, la 
dottrina 
e 
la 
giurisprudenza 
perciò 
attribuiscono, 
in 
grande 
prevalenza 
e 
condivisibilmente, 
la 
relativa 
competenza 
al Consiglio comunale. 
10.3. -Più in generale, si 
tratta 
di 
valutare 
sia 
il 
caso della 
ristrutturazione 
dei 
debiti 
da 
parte 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


dei 
Comuni 
e 
sia 
quello del 
loro finanziamento mediante 
la 
previsione 
di 
una 
clausola 
di 
up-
front: 
se 
in entrambi 
i 
casi 
si 
tratti 
o meno di 
una 
forma 
d'indebitamento e, quindi, di 
materia 
di 
competenza 
consiliare. Poichè, com'è 
noto, l'art. 42, comma 
2, lett. i), TUEl, stabiliva 
che 
"il 
consiglio ha competenza limitatamente 
ai 
seguenti 
atti 
fondamentali: (...) -spese 
che 
impegnino 
i 
bilanci 
per 
gli 
esercizi 
successivi, escluse 
quelle 
relative 
alle 
locazioni 
di 
immobili 
ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo". 


10.4. -A 
favore 
della 
scelta 
consiliare, oltre 
che 
le 
condizioni 
sostanziali 
di 
tali 
forme 
di 
finanziamento, 
depone 
anche 
la 
necessità 
di 
assicurare 
il 
coinvolgimento 
degli 
schieramenti 
assembleari 
di 
minoranza, i 
quali 
sono chiamati 
ad esercitare 
un controllo sull'operazione 
finanziaria. 
Infatti, la 
possibilità 
che 
i 
contratti 
derivati 
oggetto del 
contendere, seppur pattuiti 
da 
un Comune 
con lo scopo di 
rinegoziare 
in termini 
più favorevoli 
i 
mutui 
precedenti, comportino 
spese 
per 
l'amministrazione 
che 
li 
stipula 
e 
che 
tali 
spese 
gravino 
a 
carico 
degli 
esercizi 
successivi 
a 
quello 
di 
sottoscrizione 
del 
contratto 
è 
un'eventualità 
non 
remota, 
ma 
connaturata 
alla natura aleatoria del negozio. 
10.4.1. -l'organo consiliare 
deve 
valutare 
la 
convenienza 
di 
operazioni 
che 
porranno vincoli 
all'utilizzo di 
risorse 
future, precisando che 
l'attività 
negoziale 
dell'ente 
territoriale 
deve 
avvenire 
secondo 
le 
regole 
della 
contabilità 
pubblica 
che 
disciplinano 
lo 
svolgimento 
dei 
compiti 
propri 
dell'ente 
che 
utilizza 
risorse 
della 
collettività. 
Pertanto, 
ove 
il 
Comune 
intenda 
procedere 
ad un'operazione 
di 
ristrutturazione 
del 
debito, deve 
individuare 
le 
principali 
caratteristiche 
e 
le 
modalità 
attuative 
di 
essa 
e, poi, selezionare 
con una 
gara 
la 
migliore 
offerta 
in relazione 
non 
solo 
allo 
scopo 
che 
mira 
a 
raggiungere, 
ma 
anche 
alle 
modalità 
che 
vuole 
seguire, 
dovendo 
la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica. 
10.4.2. -Deve 
tenersi 
conto che 
gli 
enti 
locali 
erano obbligati 
a 
concludere 
swaps 
con fini 
di 
copertura 
dichiarati. Ciò significa 
che 
era 
presente 
un collegamento negoziale 
ex 
lege 
e 
che 
tale 
circostanza 
rendeva 
necessario l'intervento del 
Consiglio comunale, poichè 
il 
contratto 
precedente 
era 
comunemente 
un mutuo e, dunque, il 
collegamento de 
quo 
riguardava 
atti 
che 
costituivano indebitamento. 
10.5. -Peraltro, la 
conclusione 
degli 
IrS 
si 
traduceva 
sovente 
nell'estinzione 
dei 
precedenti 
rapporti. 
ne 
derivava 
che, 
venendo 
meno 
un 
contratto 
che 
costituiva 
indebitamento, 
l'IrS 
doveva 
essere 
approvato dal 
Consiglio comunale. Se, invece, il 
precedente 
mutuo fosse 
rimasto 
in 
vita, 
ma, 
nella 
sostanza, 
il 
rapporto 
fosse 
stato 
modificato 
(ad 
esempio, 
allungando 
nel 
tempo l'esposizione 
debitoria), l'intervento consiliare 
sarebbe 
stato, in ogni 
caso, necessario, 
perchè 
le 
condizioni 
dell'indebitamento sarebbero mutate, incidendo sui 
costi 
pluriennali 
di 
bilancio. 
10.6. -Deve 
perciò affermarsi 
che, ove 
l'IrS 
negoziato dal 
Comune 
incida 
sull'entità 
globale 
dell'indebitamento 
dell'ente, 
l'operazione 
economica 
debba, 
a 
pena 
di 
nullità 
della 
pattuizione 
conclusa, essere 
autorizzata 
dal 
Consiglio comunale, tenendo presente 
che 
la 
ristrutturazione 
del 
debito va 
accertata 
considerando l'operazione 
nel 
suo complesso, comprendendo -per il 
principio 
di 
trasparenza 
della 
contabilità 
pubblica 
-anche 
i 
costi 
occulti 
che 
gravano 
sulla 
concreta disciplina del rapporto di 
swap. 
10.7. 
-ne 
deriva 
che 
non 
è 
censurabile 
la 
sentenza 
impugnata 
che 
ha 
ritenuto 
pienamente 
fondato il 
rilievo del 
Comune 
per il 
quale 
il 
contratto di 
swap 
ed in particolare 
-ma 
non solo 
-quello che 
prevedeva 
una 
clausola 
di 
iniziale 
upfront, costituisse, proprio per la 
sua 
natura 
aleatoria, una forma di indebitamento per l'ente pubblico, attuale o potenziale. 
10.8. 
-In 
conclusione, 
anche 
tali 
ulteriori 
motivi 
devono 
essere 
respinti, 
in 
ossequio 
alla 
regula 
iuris 
secondo cui: 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


l'autorizzazione 
alla 
conclusione 
di 
un contratto di 
swap 
da 
parte 
dei 
Comuni 
italiani, specie 
se 
del 
tipo con finanziamento upfront, ma 
anche 
in tutti 
quei 
casi 
in cui 
la 
sua 
negoziazione 
si 
traduce 
comunque 
nell'estinzione 
dei 
precedenti 
rapporti 
di 
mutuo 
sottostanti 
ovvero 
anche 
nel 
loro 
mantenimento 
in 
vita, 
ma 
con 
rilevanti 
modificazioni, 
deve 
essere 
data, 
a 
pena 
di 
nullità, 
dal 
Consiglio comunale 
ai 
sensi 
dell'art. 42, comma 
2, lett. i), TUEl 
di 
cui 
al 
D.lgs. n. 
267 del 
2000 (laddove 
stabilisce 
che 
"il 
consiglio ha competenza limitatamente 
ai 
seguenti 
atti 
fondamentali: (...) "spese 
che 
impegnino i 
bilanci 
per 
gli 
esercizi 
successivi 
(...)"); 
non 
potendosi 
assimilare 
ad un semplice 
atto di 
gestione 
dell'indebitamento dell'ente 
locale 
con 
finalità 
di 
riduzione 
degli 
oneri 
finanziari 
ad esso inerenti, adottabile 
dalla 
giunta 
comunale 
in virtù della sua residuale competenza gestoria 
ex 
art. 48, comma 2, stesso Testo Unico. 

11. 
-Il 
ricorso 
principale, 
complessivamente 
infondato 
deve 
essere 
respinto, 
con 
assorbimento 
dell'unico motivo del ricorso incidentale condizionato, del Comune. 
11.1. -le spese processuali sono compensate per la novità e controvertibilità delle questioni 
ora decise. 
P.q.M. 
la Corte, a Sezioni Unite; 
rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale. 
Spese compensate. 
Ai 
sensi 
del 
D.P.r. n. 115 del 
2002, art. 13, comma 
1 quater, 
inserito dalla 
l. n. 228 del 
2012, 
art. 1, comma 
17, dichiara 
che 
sussistono i 
presupposti 
per il 
versamento, da 
parte 
del 
ricorrente 
principale, dell'ulteriore 
importo a 
titolo di 
contributo unificato pari 
a 
quello dovuto per 
il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis. 
Così 
deciso 
in 
roma, 
nella 
Camera 
di 
consiglio 
delle 
Sezioni 
Unite 
Civili 
della 
Suprema 
Corte di Cassazione, l’8 ottobre 2019. 


ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


La responsabilità della P.a. per 
spoils system 
costituzionalmente illegittimo: la “soggettivizzazione” 
dell’amministrazione e il punto di contatto 
tra le concezioni privatistica e pubblicistica 
della revoca delle funzioni dirigenziali 


Nota 
a 
CassazioNe, sesta 
sezioNe 
Civile, orDiNaNza 
8 ottobre 
2019 N. 25189 


Gabriele Luzi* 

in 
caso 
di 
illegittima 
risoluzione 
anticipata 
d’un 
incarico 
dirigenziale 
in 
base 
a 
norma 
poi 
dichiarata 
costituzionalmente 
illegittima, 
al 
dirigente 
spetta 
il 
risarcimento 
del 
danno; 
tale 
danno, 
considerato 
che 
la 
colpa 
dell’agente 
è 
elemento essenziale 
dell’illecito, è 
risarcibile 
solo dal 
giorno successivo alla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale, 
ove 
l’amministrazione 
non 
si 
sia 
conformata 
alla 
sentenza 
dichiarativa 
di 
illegittimità 
costituzionale 
e 
a condizione 
che 
a detta data non fosse 
già decorso anche 
il 
termine 
finale 
previsto nel contratto di conferimento dell’incarico. 


sommario: 1. Premessa -2. il 
caso -3. la soluzione 
della suprema Corte 
-4. spunti 
di 
riflessione. Conclusioni. 


1. Premessa. 
nell’ordinanza 
in commento la 
Corte 
di 
Cassazione 
ritorna 
su un tema 
di 
particolare 
importanza 
e 
frequenza: 
la 
configurabilità 
di 
un illecito da 
parte 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
nel 
caso di 
sopravvenuta 
dichiarazione 
di 
incostituzionalità 
della 
disciplina 
sul 
c.d. spoils 
system. Con tale 
ultimo termine 
si 
indica, come 
noto, una 
fattispecie 
di 
decadenza 
automatica 
dagli 
incarichi 
dirigenziali, connessa al cambio dell’esecutivo (1). 


l’interrogativo che 
si 
pone 
è 
il 
seguente: 
dato che 
la 
sentenza 
di 
accoglimento 
del 
Giudice 
delle 
leggi 
è 
destinata 
a 
produrre 
effetti 
ex 
tunc, 
eliminando 
la 
norma 
incostituzionale 
dal 
momento della 
sua 
entrata 
in vigore, potrebbe 
configurarsi 
un comportamento dell’Amministrazione 
-che 
comunica 
la 
scadenza 
dall’incarico al 
dirigente 
-anch’esso illecito ex 
tunc, in quanto sin dal-
l’inizio non più conforme ad alcuna norma dell’ordinamento? 


2. il caso. 
la 
pronuncia 
in questione 
prende 
le 
mosse 
da 
un contenzioso decennale 


(*) Dottore 
in Giurisprudenza, ammesso alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato 
(avv. St. verdiana fedeli). 


(1) Si 
veda 
anche 
la 
corrispondente 
voce 
in treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/spoilssystem. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


afferente 
all’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato, 
relativo 
a 
una 
fattispecie 
di 
spoils 
system 
verificatasi 
con 
il 
passaggio 
dalla 
Xv 
alla 
XvI 
legislatura 
della 
repubblica. A 
un dirigente 
dell’Istat, che 
aveva 
ottenuto l’incarico quinquennale 
per il 
coordinamento della 
Direzione 
generale 
per il 
volontariato, l’associazionismo 
e 
le 
formazioni 
sociali 
del 
Ministero per la 
solidarietà 
(l’odierno 
Ministero del 
lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali) il 
31 luglio 2007, veniva 
comunicata 
la 
scadenza 
ope 
legis 
del 
suo incarico il 
13 agosto 2008 in base 
alla 
disposizione dell’art. 19 comma 8 d.lgs. 165/2001. 


Tale 
articolo, nella 
formulazione 
anteriore 
alla 
modifica 
intervenuta 
con 
l’art. 40 d.lgs. 150/2009, prevedeva 
che 
venissero dichiarati 
decaduti 
decorsi 
90 giorni 
dal 
voto di 
fiducia 
alla 
nuova 
compagine 
governativa 
(2) non solo 
gli 
incarichi 
dirigenziali 
di 
carattere 
apicale 
(quindi 
inevitabilmente 
connessi 
con il 
potere 
politico, come 
ad esempio il 
“segretario generale 
di 
ministeri, 
gli 
incarichi 
di 
direzione 
di 
strutture 
articolate 
al 
loro interno in uffici 
dirigenziali 
generali 
e 
quelli 
di 
livello 
equivalente” 
(3)), 
ma 
anche 
quelli 
attribuiti 
a 
soggetti 
“esterni” 
non incardinati 
nei 
ruoli 
dirigenziali 
previsti 
dalla 
stessa 
amministrazione 
di 
appartenenza 
-fossero 
soggetti 
comunque 
inquadrati 
nelle 
Amministrazioni 
pubbliche, come 
il 
dirigente 
dell’Istat 
nel 
caso in analisi, o 
selezionati 
tra 
coloro con esperienza 
di 
almeno cinque 
anni 
in funzioni 
analoghe 
nel settore privato oppure con particolare formazione professionale. 


l’ormai 
ex 
dirigente 
per 
il 
coordinamento 
della 
Direzione 
generale 
per 
il 
volontariato, 
l’associazionismo 
e 
le 
formazioni 
sociali 
ricorreva 
al 
Tribunale 
di 
roma 
per 
ottenere 
l’annullamento 
della 
revoca 
dell’incarico, 
con 
conseguente 
reintegrazione 
anche 
in 
una 
funzione 
equivalente 
e 
la 
condanna 
del 
Ministero 
alla 
corresponsione 
delle 
differenze 
retributive 
tra 
il 
compenso 
per 
la 
mansione 
svolta 
presso 
il 
Ministero 
e 
quanto 
percepito 
presso 
l’Istat 
fino 
alla 
reintegra, 
oltre 
al 
risarcimento 
del 
danno 
professionale 
subito. 
Con 
il 
ricorso 
chiedeva 
anche 
al 
giudice 
di 
rilevare 
una 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
del 
citato 
art. 
19 
comma 
8, 
in 
quanto 
applicabile 
alla 
fattispecie 
in 
causa. 


nel 
frattempo, 
il 
legislatore 
interveniva 
sull’art. 
19 
con 
il 
d.lgs. 
150/2009, 
espungendo dal 
comma 
8 il 
riferimento ai 
soggetti 
che 
non rivestissero posizioni 
dirigenziali 
di 
tipo apicale. Stante 
la 
mancanza 
di 
una 
espressa 
clausola 
di 
retroattività, il 
problema 
continuava 
a 
porsi 
per i 
soggetti 
che 
fossero stati 
dichiarati 
decaduti 
antecedentemente 
alla 
riforma, 
come 
l’ex 
dirigente 
del 
caso 
di 
specie. Il 
Tribunale 
di 
roma, nel 
frattempo, riteneva 
la 
questione 
rilevante 
e 
non 
manifestamente 
infondata, 
rimettendola 
alla 
Corte 
Costituzionale. 
Il 
Giudice 
delle 
leggi, con sentenza 
dell’11 aprile 
2011, n. 124 dichiarava 
l’incostituzionalità 
dell’art. 19 comma 
8 precedente 
versione, nella 
parte 
in cui 


(2) Sulla 
ricostruzione 
dell’evoluzione 
normativa 
di 
tale 
disposizione, per la 
verità 
piuttosto travagliata, 
si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 124/2011. 
(3) Art. 19 comma 3 d.lgs. 165/2001. 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


disponeva 
che 
gli 
incarichi 
di 
funzione 
dirigenziale 
generale 
(limitatamente 
al 
personale 
non appartenente 
ai 
ruoli 
della 
stessa 
amministrazione) cessano 
decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo. 


la 
Corte 
rilevava 
che 
“questa Corte 
ha più volte 
affermato l'illegittimità 
costituzionale 
di 
meccanismi 
di 
spoils 
system 
riferiti 
ad incarichi 
dirigenziali 
che 
comportino l'esercizio di 
compiti 
di 
gestione, cioè 
di 
«funzioni 
amministrative 
di 
esecuzione 
dell'indirizzo 
politico» 
(sentenze 
n. 
224 
e 
n. 
34 
del 
2010, 


n. 390 e 
351 del 
2008, n. 104 e 
n. 103 del 
2007), ritenendo, di 
converso, costituzionalmente 
legittimo lo spoils 
system 
quando riferito a posizioni 
apicali 
(…) Non vi 
è 
dubbio che 
la disposizione 
censurata si 
riferisca ad incarichi 
che 
comportano 
esercizio 
di 
funzioni 
di 
gestione 
amministrativa”. 
D’altra 
parte, 
il 
Giudice 
delle 
leggi 
aveva 
precedentemente 
affermato 
che 
“la 
natura 
esterna dell'incarico non costituisce 
un elemento in grado di 
diversificare 
in 
senso fiduciario il 
rapporto di 
lavoro dirigenziale, che 
deve 
rimanere 
caratterizzato, 
sul 
piano funzionale, da una netta e 
chiara separazione 
tra attività 
di 
indirizzo 
politico-amministrativo 
e 
funzioni 
gestorie”, 
concludendo 
che 
“anche 
per 
i 
dirigenti 
esterni 
il 
rapporto di 
lavoro instaurato con l'amministrazione 
che 
attribuisce 
l'incarico 
deve 
… 
assicurare 
la 
tendenziale 
continuità 
dell'azione 
amministrativa 
e 
una 
chiara 
distinzione 
funzionale 
tra 
i 
compiti 
di 
indirizzo politico-amministrativo e 
quelli 
di 
gestione” 
(4). la 
pronuncia 
n. 
124/2011 
traeva 
dunque 
le 
fila 
del 
discorso 
osservando 
che, 
vista 
la 
precedente 
dichiarazione 
di 
incostituzionalità 
dello spoils 
system 
transitorio per gli 
incarichi 
dirigenziali 
dello stesso tipo di 
quello svolto dall’ex dirigente, la 
disposizione 
in esame era da considerarsi illegittima (5). 
Il 
ricorrente 
riassumeva 
quindi 
il 
giudizio e 
il 
Tribunale, con sentenza 
n. 
18287/2011, 
condannava 
il 
Ministero 
alla 
reintegra 
nell’incarico 
del 
dirigente 
fino alla 
scadenza 
originariamente 
prevista 
per il 
31 luglio 2012, nonché 
al 
risarcimento 
del 
danno 
in 
misura 
pari 
alla 
differenza 
tra 
il 
trattamento 
retributivo 
percepito 
a 
seguito 
del 
conferimento 
dell’incarico, 
poi 
cessato 
per 
effetto 
dello 
spoils 
system, 
e 
quello 
percepito 
presso 
l’Istat 
in 
seguito 
alla 
nuova 
immissione 
nei ruoli. 


Il 
Ministero e 
lo stesso dirigente 
impugnavano la 
sentenza 
per profili 
diversi 
di 
fronte 
alla 
Corte 
d’Appello 
di 
roma 
che, 
in 
parziale 
accoglimento 
dell’appello incidentale 
proposto dal 
privato, condannava 
l’Amministrazione 
al 
risarcimento del 
danno in misura 
pari 
alle 
differenze 
stipendiali 
e 
sin dalla 
data 
di 
messa 
in 
mora 
del 
28 
ottobre 
2008, 
fino 
all’effettiva 
reintegrazione 
dell’incarico o, in mancanza, fino al 31 luglio 2012. 


(4) C. Cost., sent. n. 161/2008. 
(5) È 
da 
rilevare 
che 
il 
Giudice 
delle 
leggi 
sarebbe 
tornato sul 
punto pochi 
mesi 
dopo (sent. 25 
luglio 2011, n. 246), dichiarando l’incostituzionalità 
dell’art. 19 comma 
8 d.lgs. 165/2001 anche 
nella 
parte 
in cui 
disponeva 
l’operatività 
dello spoils 
system 
per i 
dirigenti 
provenienti 
dal 
settore 
privato oppure 
con particolare formazione professionale (art. 19 comma 6 d.lgs. cit.). 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Contro 
tale 
assunto 
proponeva 
ricorso 
per 
cassazione 
il 
Ministero 
del 
lavoro, 
sostenendo che 
il 
momento iniziale 
per il 
calcolo del 
risarcimento del 
danno 
dovuto 
dall’Amministrazione 
fosse 
da 
individuare 
nel 
giorno 
successivo 
a 
quello 
della 
pubblicazione 
della 
pronuncia 
della 
Corte 
Costituzionale 
(e 
dunque 
il 
12 
aprile 
2011) 
e 
non 
prima, 
stante 
l’effettiva 
vigenza 
fino 
a 
quel 
tempo 
della 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 19 comma 
8 d.lgs. 165/2001, seppure 
intrinsecamente 
illegittima. 


3. la soluzione della suprema Corte. 
la 
questione 
arrivata 
all’analisi 
della 
Cassazione 
imponeva 
un 
aut-aut: 
la 
prima 
possibilità 
era 
ritenere 
perfezionato 
l’illecito 
del 
Ministero 
sostanzialmente 
fin 
dal 
momento 
della 
risoluzione 
anticipata 
del 
rapporto 
lavorativo, 
in 
quanto 
la 
pronuncia 
del 
Giudice 
delle 
leggi 
avrebbe 
reso 
illegittimo 
l’art. 
19 
comma 
8 
d.lgs. 
citato 
ex 
tunc, 
in 
ossequio 
alla 
costante 
ricostruzione 
dottrinale 
e 
giurisprudenziale 
dell’efficacia 
delle 
sentenze 
della 
Corte 
Costituzionale; 
l’altro 
esito 
era, 
fermo 
restando 
l’effetto 
caducatorio 
della 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
sulla 
norma, 
ritenere 
verificato 
l’illecito 
dal 
momento 
in 
cui 
veniva 
proclamata 
l’illegittimità 
del 
sopra 
menzionato 
articolo. 


la 
scelta 
della 
Suprema 
Corte 
è 
stata 
in questo secondo senso, traendo 
spunto da 
un orientamento già 
espresso dalle 
Sezioni 
Unite 
negli 
anni 
’70 e 
più recentemente 
ripreso proprio in tema 
di 
decadenza 
automatica 
dalle 
funzioni 
dirigenziali 
successivamente 
dichiarata 
incostituzionale 
(Cass. civ, sez. 
lav., n. 29169/2018; 
Cass. civ, sez. lav., n. 20100/2015; 
Cass. civ., sez. lav., n. 
355/2013). Gli 
effetti 
retroattivi 
della 
pronuncia 
di 
incostituzionalità 
riguardano 
la 
sola 
illegittimità 
delle 
norme, 
ma 
non 
l’eventuale 
configurabilità 
della 
colpa 
in capo ai 
soggetti, requisito soggettivo dell’illecito. Proprio perché 
la 
colpa 
è 
uno stato soggettivo meritevole 
di 
un effettivo accertamento, che 
non 
può essere 
sostituito da 
una 
mera 
fictio juris, la 
responsabilità 
dell’Amministrazione 
è 
stata 
configurata 
dalla 
pronuncia 
di 
incostituzionalità 
(rectius, dal 
giorno successivo alla 
pubblicazione 
della 
stessa, ex 
art. 136 Cost.). Da 
quel 
momento, 
infatti, 
l’Amministrazione 
era 
resa 
edotta 
dell’invalidità 
della 
norma 
ed aveva 
la 
possibilità 
di 
immettere 
nuovamente 
nelle 
sue 
funzioni 
l’ex dirigente, 
il cui incarico non era scaduto. 


4. spunti di riflessione. Conclusioni. 
Come 
si 
è 
avuto modo di 
analizzare 
sub 
punto 3, la 
soluzione 
dei 
Giudici 
di 
legittimità 
non si 
caratterizza 
per innovatività 
rispetto ai 
precedenti 
orientamenti, 
ma 
fornisce 
l’occasione 
per 
fare 
un’osservazione 
sulla 
responsabilità 
dell’Amministrazione. 


l’atto 
di 
revoca 
dalle 
funzioni 
dirigenziali 
è 
stato 
considerato, 
nel 
caso 
di 
specie, 
avente 
natura 
privatistica 
(6) 
e 
ciò 
ha 
legittimato 
il 
richiamo 
ai 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


concetti 
di 
responsabilità 
disciplinati 
dal 
codice 
civile. 
Quid 
juris 
se, 
accedendo 
alla 
tesi 
opposta 
esistente 
sul 
tema 
(7), 
si 
volesse 
considerare 
la 
revoca 
come 
un 
provvedimento 
amministrativo? 
Il 
cambiamento 
della 
disciplina 
a 
cui 
l’atto 
è 
sottoposto 
avrebbe 
fondato 
una 
responsabilità 
dell’Amministrazione 
indipendentemente 
dall’elemento 
soggettivo 
(in 
questo 
caso, 
la 
colpa)? 
Si 
ritiene 
che 
i 
risultati 
a 
cui 
la 
Suprema 
Corte 
perviene 
non 
sarebbero 
affatto 
cambiati. 


In 
dottrina 
(8) 
e 
in 
giurisprudenza 
(9), 
successivamente 
alla 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
n. 500/99, si 
è 
ritenuto che 
la 
responsabilità 
dell’Amministrazione 
necessariamente 
integrasse 
un 
momento 
oggettivo 
ed 
uno 
soggettivo. 
In particolar modo, è 
stata 
ricostruita 
la 
colpa 
come 
violazione 
dei 
parametri 
dell’imparzialità, della 
correttezza 
e 
del 
buon andamento, ovvero come 
inescusabile 
negligenza, 
omissione 
o 
errore 
interpretativo 
di 
norme, 
non 
potendo 
ritenersi 
(generalmente) 
in 
re 
ipsa 
nell’adozione 
di 
un 
provvedimento 
invalido. 
nonostante 
permangano 
orientamenti 
contrari 
(10), 
l’illegittimità 
dell’atto 
adottato è 
solamente 
un indizio della 
colpa, la 
quale 
deve 
però essere 
apprezzata 
come vero e proprio status 
soggettivo. 


fondamentale 
a 
questo proposito è 
la 
distinzione 
tra 
le 
categorie 
dell’illegittimità 
e dell’illiceità dell’atto amministrativo. 


Con il 
termine 
illegittimità 
(o invalidità) si 
indica 
l’atto in contrasto con 
lo schema 
legale: 
si 
tratta 
di 
una 
ampia 
categoria, che 
comprende 
le 
patologie 
della 
nullità, dell’annullabilità 
e 
(per chi 
ne 
ammette 
la 
separata 
esistenza 
rispetto 
alla 
nullità) dell’inesistenza. Con illiceità 
si 
intende 
invece 
il 
comportamento 
dell’Amministrazione, 
lesivo 
di 
una 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
tutelata 
dall’ordinamento. le 
due 
situazioni 
possono coesistere 
nella 
prassi, 
come anche rimanere distinte (11). 


Il 
caso qui 
in esame 
costituirebbe 
un esempio di 
entrambe 
le 
ipotesi. Si 
deve 
ritenere 
che, 
in 
un 
primo 
momento, 
l’Amministrazione 
non 
avrebbe 
compiuto 
un illecito per difetto dell’elemento soggettivo, pur avendo adottato un 


(6) In adesione 
all’orientamento prevalente 
nella 
giurisprudenza 
ordinaria: 
Cass. civ., SS.UU., n. 
21671/2013; Cass. civ., SS.UU., n. 6330/2012. 
(7) 
Che 
privilegia 
la 
distinzione 
tra 
atto 
che 
conferisce 
l’incarico 
(e 
la 
speculare 
revoca) 
e 
contratto 
che 
regolamenta 
l’incarico, nonché 
l’espressa 
definizione 
di 
“provvedimento” 
usata 
dal 
legislatore 
per 
il primo atto nell’art. 19 comma 2 d.lgs. 165/2001. 
(8) r. GArofolI 
(a 
cura 
di), Compendio di 
Diritto amministrativo. Parte 
Generale 
e 
speciale, 
Molfetta 2019, p. 791. 
(9) 
Cass. 
civ., 
sez. 
III, 
n. 
31567/2018; 
Cass. 
Civ., 
sez. 
I, 
n. 
16196/2018; 
Cons. 
St., 
sez. 
III, 
n. 
3134/2018. 
(10) Di 
matrice 
eurounitaria, che 
ravvisano nell’illegittimità 
“grave” 
dell’atto (considerati 
i 
vizi 
dell’atto, 
il 
margine 
di 
discrezionalità 
della 
P.A., 
i 
precedenti 
giurisprudenziali) 
riprova 
della 
colpa 
della 
P.A. 
(11) In giurisprudenza, sostanzialmente 
conforme 
(pur in relazione 
alla 
sola 
culpa in eligendo/in 
vigilando), Cons. St., sez. Iv, n. 1808/2016, che 
afferma 
la 
responsabilità 
per colpa 
della 
P.A. pur in assenza 
di un atto illegittimo. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


atto illegittimo in quanto contrastante 
con i 
dettami 
costituzionali 
(12). Successivamente 
alla 
pronuncia 
della 
Corte 
Costituzionale, con il 
mancato reintegro 
nel 
posto di 
lavoro dell’ex dirigente, all’illegittimità 
dell’atto si 
sarebbe 
raccordata 
l’illiceità 
del 
comportamento 
dell’Amministrazione. 
Il 
risarcimento 
al 
privato spetterebbe 
solamente 
in quest’ultimo momento, e 
ciò costituisce 
esattamente 
la 
stessa 
conclusione 
alla 
quale 
si 
addiviene 
considerando l’atto 
di revoca come atto avente natura privatistica. 


Da 
quanto 
precede 
discende 
che, 
a 
prescindere 
dall’opzione 
per 
la 
tesi 
della 
natura 
privatistica 
o 
pubblicistica 
della 
revoca 
dell’incarico 
dirigenziale, 
le conclusioni in tema di responsabilità della P.A. sono le medesime. 

Corte 
di 
Cassazione, Sesta Sezione 
Civile, ordinanza 8 ottobre 
2019 n. 25189 
-Pres. 
P. 
Curzio, rel. 
A. Doronzo -Ministero del 
lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali 
(avv. gen. Stato) c. 


n.z. (avv. T. Di nitto) e nei confronti di S.G.M. 
Rilevato che: 


n. 
z., 
dirigente 
di 
ricerca 
di 
primo 
livello 
professionale, 
in 
organico 
nei 
ruoli 
dell’Istat, 
aveva 
ottenuto con decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
31/7/2007, ai 
sensi 
dell’art. 
19, commi 
4 e 
5 bis, del 
d.lgs. n. 165/2001, l’incarico dirigenziale 
della 
durata 
di 
cinque 
anni 
per il 
coordinamento della 
Direzione 
generale 
per il 
volontariato, l’associazionismo e 
le 
formazioni 
sociali 
del 
Ministero per la 
solidarietà 
(attualmente 
Ministero del 
lavoro e 
delle 
politiche 
sociali); 
a 
seguito dell’insediamento del 
nuovo governo, con nota 
del 
21/7/2008 il 
Capo di 
gabinetto 
del 
Ministro 
in 
carica 
pro 
tempore 
aveva 
comunicato 
che 
l’incarico 
al 
dottor 
z. 
sarebbe 
venuto 
a 
scadenza 
ope 
legis 
il 
13/8/2008 ai 
sensi 
dell’art. 19, comma 
8, d.lgs. cit., e, con successiva 
nota del 24/7/2008, la revoca era stata comunicata all’Istat e all’interessato; 
lo z. adiva 
pertanto il 
Tribunale 
di 
roma 
per ottenere 
l’annullamento della 
revoca, con conseguente 
reintegrazione 
nell’incarico o in una 
funzione 
equivalente, e 
la 
condanna 
del 
Ministero 
alla 
corresponsione 
delle 
differenze 
retributive 
tra 
quanto spettantegli 
come 
dirigente 
e 
quanto percepito presso la 
amministrazione 
di 
appartenenza 
fino alla 
reintegra, oltre 
al 
risarcimento 
del danno professionale subito; 
il 
Tribunale 
sollevava 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 
19, 
comma 
8, 
del 
decreto 
legislativo n. 165/2001; 
con sentenza 
n. 124/2011 la 
Corte 
costituzionale 
dichiarava 
l’illegittimità 
della 
norma; 
riassunto 
il 
giudizio, il 
Tribunale 
accoglieva 
la 
domanda 
e 
condannava 
il 
Ministero alla 
riassegnazione 
dell’incarico 
allo 
z. 
fino 
alla 
sua 
naturale 
scadenza 
(31/7/2012), 
nonché 
al 
risarcimento del 
danno, pari 
al 
pagamento dell’importo medio mensile 
della 
differenza 
tra 
il 
trattamento 
retributivo 
percepito 
a 
seguito 
del 
conferimento 
dell’incarico 
poi 
revocato 
e 
quello 
percepito presso l’amministrazione 
di 
appartenenza 
dal 
5/11/2008 al 
9/4/2009, mentre 
rigettava 
la domanda di risarcimento danni per la lesione della dignità professionale; 
(12) 
In 
dottrina 
è 
concorde 
GArofolI 
(op. 
cit., 
p. 
792) 
che, 
relativamente 
ad 
atti 
adottati 
seguendo 
disposizioni 
successivamente 
dichiarate 
incostituzionali, ha 
affermato che 
si 
sarebbe 
di 
fronte 
ad un errore 
scusabile da parte dell’Amministrazione. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


la 
Corte 
d’appello di 
roma, con sentenza 
pubblicata 
il 
29/4/2016, rigettava 
l’impugnazione 
del 
Ministero e, in accoglimento dell’appello incidentale 
dello z., condannava 
il 
Ministero 
alle 
differenze 
stipendiali 
dalla 
data 
di 
messa 
in mora, contenuta 
nell’istanza 
del 
tentativo di 
conciliazione 
del 
28/10/2008, fino all’effettiva 
reintegrazione 
dell’incarico, o, in mancanza, 
fino al 31/7/2012; 
contro la 
sentenza 
ricorre 
il 
Ministero del 
lavoro e 
delle 
Politiche 
Sociali 
e 
articola 
un unico 
motivo, illustrato da 
memoria, al 
quale 
resiste 
con controricorso lo z.; 
è 
rimasto invece 
intimato 
il S.; 
la 
proposta 
del 
relatore 
sensi 
dell’art. 
380 
bis 
cod. 
proc. 
civ. 
è 
stata 
notificata, 
alle 
parti 
unitamente 
al 
decreto 
presidenziale 
di 
fissazione 
dell’adunanza 
camerale 
non 
partecipata 
alle 
parti. 
Considerato che: 
con l’unico motivo di 
ricorso il 
Ministero denuncia 
la 
violazione 
e 
la 
falsa 
applicazione 
degli 
artt. 1218, 1256 cod. civ., in relazione 
all’art. 19, comma 
8, del 
d.lgs. n. 165/2001, e 
censura 
la 
sentenza 
nella 
parte 
in cui 
ha 
ritenuto illecita 
la 
condotta 
dell’amministrazione, che 
pure 
si 
era 
conformata 
al 
disposto 
della 
norma 
citata, 
anche 
per 
il 
periodo 
precedente 
alla 
declaratoria 
della 
sua 
illegittimità 
costituzionale; 
precisa 
al 
riguardo che 
solo con la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
dell’11/4/2011, n. 124, che 
aveva 
dichiarato l’illegittimità 
costituzionale 
della 
norma, 
nel 
testo 
vigente 
prima 
dell’entrata 
in 
vigore 
dell’art. 
40 
del 
d.lgs. 
27/10/2009, 
n. 
150, 
la 
sua 
condotta 
poteva 
ritenersi 
contra 
ius 
e 
richiama 
il 
precedente 
delle 
Sezioni 
Unite 
del 
21/8/1972, n. 2697 (oltre a Cass. Sez. Un. 37 due 1993, n. 8478); 
il 
motivo 
è 
fondato 
alla 
luce 
dei 
principi 
più 
volte 
affermati 
da 
questa 
Corte 
(Cass. 
07/10/2015, 


n. 20100; 
Cass. 13/11/2018, n. 29169 e, prima 
ancora, Cass. 9/1/2013, n. 355) secondo cui 
la 
retroattività 
delle 
pronunce 
di 
illegittimità 
costituzionale 
riguarda 
l'antigiuridicità 
delle 
norme 
investite, non più applicabili 
neanche 
ai 
rapporti 
pregressi 
non ancora 
esauriti, ma 
non consente 
di 
configurare 
retroattivamente 
e 
fittiziamente 
una 
colpa 
del 
soggetto che, prima 
della 
declaratoria 
di 
incostituzionalità, 
abbia 
conformato 
il 
proprio 
comportamento 
alle 
norme 
solo 
successivamente invalidate dalla Corte costituzionale; 
si 
tratta 
di 
un indirizzo giurisprudenziale 
che 
ha 
origini 
remote, atteso che 
già 
con la 
sentenza 
n. 2697/72 le 
S.U. di 
questa 
Corte 
avevano sostenuto che, se 
può riconoscersi 
efficacia 
retroattiva 
alla 
cosiddetta 
antigiuridicità, non può ammettersi 
che 
si 
configuri 
retroattivamente 
la 
colpa 
intesa 
quale 
atteggiamento psichico del 
soggetto, che 
non può ravvisarsi, neppure 
sotto 
forma 
di 
una 
sorta 
di 
fìctio iuris, riguardo ad un comportamento imposto da 
una 
norma 
cogente, 
anche se incostituzionale, fino a che essa sia in vigore; 
applicando questi 
principi 
alle 
domande 
aventi 
ad oggetto pretese 
risarcitorie 
in caso di 
illegittima 
risoluzione 
anticipata 
d'un incarico dirigenziale 
in base 
a 
norma 
poi 
dichiarata 
costituzionalmente 
illegittima, 
al 
dirigente 
spetta 
il 
risarcimento 
del 
danno, 
ma 
tale 
danno, 
considerato che 
la 
colpa 
dell’agente 
è 
elemento essenziale 
dell’illecito, è 
risarcibile 
solo dal 
giorno successivo alla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
-e 
non dalla 
data 
di 
cessazione 
del 
rapporto -ove 
l’amministrazione 
non si 
sia 
conformata 
alla 
sentenza 
dichiarativa 
di 
illegittimità 
costituzionale 
e 
a 
condizione 
che 
a 
detta 
data 
non 
fosse 
già 
decorso 
anche 
il 
termine 
finale 
originariamente 
previsto 
nel 
contratto 
di 
conferimento 
dell'incarico 
(in 
tal senso, Cass. n. 29169/2018); 
a 
questi 
principi 
la 
corte 
territoriale 
non si 
è 
attenuta, avendo riconosciuto il 
risarcimento del 
danno 
dal 
momento 
della 
costituzione 
in 
mora, 
ovvero 
dalla 
richiesta 
di 
tentativo 
obbligatorio 
di 
conciliazione 
del 
28/10/2008, mentre 
la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
risulta 
pubblicata 
in data 11/4/2011; 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


nel 
controricorso lo z. assume 
che 
la 
revoca 
dell’incarico dirigenziale 
era 
già 
di 
per sé 
illegittima, 
e 
che 
pertanto sussisteva 
una 
colpa 
dell’amministrazione 
a 
prescindere 
dalla 
dichiarazione 
di illegittimità costituzionale dell’art. 19 cit.; 
ciò sul 
presupposto che 
vi 
erano state 
altre 
pronunce 
della 
Corte 
costituzionale 
che 
avevano 
dichiarato illegittimo il 
meccanismo dello spoils 
system 
previsto da 
altre 
norme, nonché 
per 
vizi 
che 
inficiavano l’atto di 
revoca 
(mancanza 
di 
valutazioni 
negative 
sul 
suo operato, mancato 
rispetto di norme procedimentali); 
si 
tratta 
di 
affermazioni 
che 
non trovano riscontro nella 
sentenza 
impugnata, la 
quale 
ha 
confermato 
la 
sentenza 
del 
tribunale 
che 
-dopo aver ritenuto rilevante 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 19 e 
sollevato la 
stessa 
dinanzi 
alla 
Corte 
costituzionale 
(ove 
infatti 
avesse 
ritenuto il 
provvedimento già 
viziato la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
non sarebbe 
stata 
rilevante) -ha 
ritenuto illegittima 
la 
revoca 
per l’unica 
ragione 
data 
dalla 
intervenuta 
caducazione dell’art. 19, comma 8, d.lgs. cit.; 
né 
il 
ricorrente 
specifica 
quando, in che 
termini 
e 
con quale 
atto gli 
altri 
profili 
di 
colpa 
nel-
l’amministrazione 
o gli 
altri 
vizi 
di 
legittimità 
del 
provvedimento sarebbero stati 
dedotti 
in 
giudizio, le 
ragioni 
del 
loro eventuale 
rigetto da 
parte 
del 
tribunale 
e 
la 
riproposizione 
degli 
stessi 
dinanzi 
al 
giudice 
d’appello, e 
ciò al 
fine 
di 
evitare 
una 
statuizione 
di 
inammissibilità 
delle questioni in quanto nuove (Cass. 09/08/2018, n. 20694); 
in conclusione 
il 
ricorso deve 
essere 
accolto e 
la 
sentenza 
cassata 
con rinvio alla 
Corte 
d'Appello 
di 
roma, in diversa 
composizione, che 
si 
uniformerà 
al 
principio di 
diritto su indicato 
e alla quale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità. 

P.Q.M. 
la 
Corte 
accoglie 
il 
ricorso; 
cassa 
la 
sentenza 
impugnata 
e 
rinvia, anche 
per le 
spese 
del 
presente 
giudizio, alla Corte d’appello di roma, in diversa composizione. 
Così deciso in roma, nell’adunanza camerale del 8 maggio 2019. 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


Sull’interpretazione dell’art. 118, co. 3, vecchio codice appalti 


Corte 
aPPello 
Di 
trieste, sezioNe 
i Civile, seNteNza 
1 ottobre 
2020 N. 426 


In tema 
di 
possibilità 
per l’impresa 
subappaltatrice 
di 
agire 
direttamente 
nei 
confronti 
della 
stazione 
appaltante 
per ottenere 
il 
pagamento delle 
proprie 
fatture 
relative 
a 
prestazioni 
svolte 
a 
titolo 
di 
fornitura 
e 
a 
titolo 
di 
subappalto, 
la 
decisione 
favorevole 
sull’interpretazione 
dell’art. 
118, 
comma 
III, 
d.lgs. 
163/2006, ancora 
ratione 
temporis 
applicabile 
per numerose 
fattispecie, nonché 
dell’art. 13, comma 
2, lett. a), legge 
180/2011, è 
stata 
confermata 
in appello 
con 
un 
sempre 
utile 
chiarimento 
preliminare 
sul 
principio 
di 
sussidiarietà 
delle 
azioni 
e 
sull’inesperibilità 
(tanto 
meno 
in 
fase 
di 
gravame, 
ove 
si 
sia 
formato 
giudicato interno sulla 
domanda 
di 
merito) dell’azione 
residuale 
di 
ingiusto 
arricchimento in caso di 
esito negativo dell’azione 
contrattuale 
tipica, 
non per carenza 
del 
titolo o per inefficacia 
dell’accordo, ma 
per infondatezza 
nel merito della domanda. 

In allegato l’atto difensivo in appello. 


Beatrice Favero* 


CT 392/2018/fA 


CorTE D’APPEllo DI TrIESTE 


Sezione Civile 


Ud. cit. 6 febbraio 2020 


CoMPArSA DI rISPoSTA 
per 
l’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine, 
C.f. 
80014550307, 
in 
persona 
del 
rettore 
in 
carica, 
con 
sede 
in Udine, via 
Palladio n. 8, rappresentata 
e 
difesa 
per legge 
dall’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Trieste, C.f. 80025500325, con sede 
in Trieste, Piazza 
Dalmazia 
n. 3, presso 
cui 
è 
per 
legge 
domiciliata 
e 
presso 
cui 
andranno 
inviate 
le 
comunicazioni 
di 
Cancelleria, 
giusta 
il 
disposto di 
cui 
all’ultima 
parte 
dell’ultimo comma 
dell’art. 176 c.p.c., al 
numero di 
telefax 
040-361109, ovvero all’indirizzo PEC: ads@mailcert.avvocaturatato.it, 

appellata 


avverso 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l., P.Iva 
03237180352, n. rEA 
SA 
280484, in persona 
del 
legale 
rappresentante 
pro tempore 
(omissis), rappresentata 
e 
difesa 
dall’Avvocato Pierluigi 
vicidomini 
del 
foro di 
Salerno ed elettivamente 
domiciliata 
presso lo studio di 
quest’ultimo in Salerno, 
alla 
via Paolo de Granita n. 14, 

appellante 
nel 
giudizio 
d’impugnazione 
della 
sentenza 
n. 
1060/2019 
emessa 
dal 
Tribunale 
di 
Udine, 
Giudice 
dott.ssa 
Antonini 
a 
conclusione 
del 
procedimento 
rG 
n. 
1491/2018 
e 
pubblicata 
il 
17.9.2019. 


(*) Procuratore 
dello Stato, che 
ne 
ha 
curato il 
contenzioso unitamente, in primo grado, alla 
proc. St. 
laura zoppo. 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


* 


l’Università 
si 
costituisce 
nel 
giudizio d’appello chiedendo il 
rigetto del 
gravame 
e 
la 
conferma 
integrale 
della 
sentenza 
impugnata, che 
appare 
corretta 
in fatto e 
in diritto e 
non efficacemente 
contrastata dai motivi d’appello, per i seguenti motivi di 


fATTo 
l’Impresa 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l. assumeva 
la 
qualità 
di 
impresa 
subappaltatrice 
della 
società 
lIbrA 
S.p.A., 
la 
quale 
risultava 
aggiudicataria 
della 
procedura 
di 
appalto 
indetta 
dal-
l’Università 
di 
Udine 
con 
bando 
di 
gara 
di 
data 
27.3.2014 
ed 
avente 
ad 
oggetto 
lavori 
di 
ristrutturazione 
e 
adeguamento funzionale 
del 
complesso denominato “ex scuola 
bianchini 
corpo C” a Udine (doc. 1 fascicolo di parte di primo grado, doc. a). 
In 
particolare, 
in 
ossequio 
al 
dettato 
di 
cui 
all’art. 
118 
del 
D.lgs. 
n. 
163/2006, 
con 
provvedimento 
dirigenziale 
n. 
453 
di 
data 
12.11.2015, 
l’Università 
appaltante 
autorizzava 
l’impresa 
lIbrA 
S.p.A. 
a 
subappaltare 
alla 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l. 
la 
realizzazione 
della 
fondazione 
in 
cemento 
armato, 
tamponature 
esterne 
e 
interne, 
massetti 
per 
pavimenti, 
intonaci 
per 
un 
importo 
presunto 
pari 
ad 
euro 
100.000,00 
(doc. 
2 
e 
3 
fascicolo 
di 
parte 
di 
primo 
grado, 
doc. 
a). 
A 
seguito di 
comunicazioni 
di 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l. aventi 
ad oggetto il 
mancato pagamento 
delle 
loro 
spettanze, 
la 
stazione 
appaltante 
richiedeva 
all’impresa 
appaltatrice 
contezza 
di 
un tanto, comunicando che 
avrebbe 
dato corso ai 
pagamenti 
solo a 
seguito di 
inoltro delle 
fatture quietanzate dei subappaltatori (doc. 4 fascicolo di parte di primo grado, doc. a). 
l’Impresa 
lIbrA 
S.p.A. 
rispondeva 
a 
tale 
richiesta 
con 
una 
nota 
nella 
quale 
si 
limitava 
ad 
inoltrare 
solo 
due 
fatture 
quietanzate, 
omettendo 
l’invio 
delle 
ulteriori 
fatture 
che 
avrebbero 
dovuto 
essere 
quietanzate 
(fattura 
n. 7 dd. 06.05.2016 pari 
ad euro 44.415,00 e 
fattura 
n. 10 dd. 
29.06.2016 
pari 
ad 
euro 
15.000. 
00), 
espressamente 
dichiarando 
di 
non 
aver 
alcun 
ulteriore 
rapporto 
contrattuale 
con 
fornitori 
o 
subfornitori 
e 
che 
pertanto 
sarebbe 
stata 
da 
ritenersi 
illegittima 
ogni 
altra 
richiesta 
da 
parte 
di 
questi 
ultimi 
(doc. 
5 
fascicolo 
di 
parte 
di 
primo 
grado, 
doc. 
a). 
Ad ogni 
buon conto e 
in virtù delle 
diffide 
inoltrate 
da 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l. (doc. 6 fascicolo 
di 
parte 
di 
primo 
grado, 
doc. 
a), 
l’Università 
provvedeva 
in 
via 
cautelativa 
a 
trattenere 
parte 
delle 
somme 
di 
presunta 
spettanza 
dell’Impresa 
subappaltatrice 
(doc. 
7 
fascicolo 
di 
parte 
di primo grado, doc. a). 
In 
data 
21.6.2017 
veniva 
comunicato 
all’Università 
che, 
con 
sentenza 
n. 
76 
del 
Tribunale 
di 
firenze, 
depositata 
in 
data 
23.5.2017, 
era 
stato 
dichiarato 
il 
fallimento 
di 
lIbrA 
S.p.A., 
nelle 
more 
trasformata 
in 
lIbrA 
S.r.l. 
in 
liquidazione 
(doc. 
8 
fascicolo 
di 
parte 
di 
primo 
grado, 
doc. 
a). 
Con 
ricorso 
per 
ingiunzione 
di 
pagamento 
di 
data 
2.12.2017 
(doc. 
9 
fascicolo 
di 
parte 
di 
primo 
grado, doc. a), GAETA CoSTrUzIonI S.r.l. rappresentava: 
-che 
tra 
la 
società 
stessa 
e 
la 
lIbrA 
S.p.A. 
erano 
intercorsi: 
il 
contratto 
di 
fornitura 
del 
11.5.2016 e 
contratto di 
subappalto relativo ai 
lavori 
per ristrutturazione 
e 
adeguamento funzionale 
del complesso denominato “ex scuola blanchini”; 


-che 
in esecuzione 
dei 
suddetti 
contratti 
la 
società 
aveva 
eseguito opere 
e 
fornito materiali 
per la complessiva somma di euro 197.153,00; 
- che la 
lIbrA 
S.p.A. si rendeva inadempiente al pagamento del dovuto. 
Su tali 
basi, chiedeva 
a 
Codesto Ill.mo Tribunale 
di 
emettere 
ingiunzione 
di 
pagamento a 
carico 
dell’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine 
per la 
capital 
somma 
di 
euro 197.153,00 oltre 
agli 
interessi 
e 
alle 
spese 
legali, invocando l’applicazione 
della 
nuova 
disciplina 
del 
subappalto 
dettata dal D.lgs. n. 50/2016. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


In 
accoglimento, 
il 
Tribunale 
emetteva 
il 
decreto 
n. 
72/2018, 
r.G. 
5503/2017, 
in 
data 
17.1.2018 (doc. 10 fascicolo di parte di primo grado, doc. a). 
l’Università 
di 
Udine, a 
mezzo dello scrivente 
patrocinio, proponeva 
opposizione 
al 
decreto 
ingiuntivo (doc. 11 fascicolo di parte di primo grado, doc. a). 
Si 
costituiva 
nel 
giudizio di 
opposizione 
la 
società 
ingiungente, ribadendo la 
sua 
domanda 
di 
pagamento 
diretto 
delle 
opere 
e 
delle 
forniture 
da 
essa 
eseguite 
come 
impresa 
subappaltatrice 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante 
e, 
in 
subordine, 
chiedendo 
di 
essere 
indennizzata 
per 
ingiusto 
arricchimento ex art. 2041 c.c. o di essere risarcita ex art. 2043 c.c. 
Alla 
prima 
udienza 
del 
17.9.2018 il 
Giudice 
rigettando l’istanza 
di 
concessione 
della 
provvisoria 
esecutività 
del 
decreto 
ingiuntivo 
opposto 
concedeva 
alle 
parti 
i 
termini 
ex 
art. 
183, 
comma 6, c.p.c. 
ritenuta 
la 
causa 
matura 
per 
la 
decisione, 
il 
Giudice 
fissava 
udienza 
di 
precisazione 
delle 
conclusioni, che si teneva il 17.9.2019. 
All’esito il 
Tribunale pronunciava la sentenza n. 1060/2019 (doc. b) con cui: 


-rigettava 
la 
domanda 
principale 
dell’attrice 
sostanziale, ritenendo correttamente 
e 
testualmente 
che 
“non 
sussiste 
un 
diritto di 
Gaeta Costruzioni 
srl 
in 
qualità di 
impresa subappaltatrice 
ad ottenere 
il 
pagamento diretto da parte 
dell’Università degli 
Studi 
di 
Udine, quale 
committente. 
Ne 
consegue 
che 
quest’ultima potrà legittimamente 
eseguire 
il 
versamento di 
quanto dovuto nelle 
mani 
del 
curatore 
fallimentare 
dell’impresa appaltatrice 
libra srl. la 
subappaltatrice, 
odierna 
convenuta 
opposta, 
potrà 
trovare 
eventuale 
soddisfazione 
del 
proprio 
credito 
presentando 
istanza 
di 
ammissione 
al 
passivo 
(come 
invero 
ha 
già 
provveduto 
a 
fare)” 
(capo i della sentenza); 
-specificava 
poi 
che 
gli 
importi 
azionati 
da 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
a 
titolo 
di 
forniture 
esulassero 
completamente 
dalla 
disciplina 
richiamata 
dalla 
società, 
limitata 
ai 
soli 
rapporti 
di 
subappalto, 
e 
che 
dunque 
a 
maggior 
ragione 
“nessun 
diritto 
può 
essere 
vantato 
dalla 
convenuta 
opposta 
nei 
confronti 
della 
stazione 
appaltante 
in 
ragione 
delle 
mere 
forniture” 
(capo 
ii 
della 
sentenza); 
-rigettava 
la 
domanda 
subordinata 
di 
pagamento ex art. 1676 c.c., ritenendola 
correttamente 
riservata ai dipendenti dell’impresa supappaltatrice (capo iii della sentenza); 
-rigettava 
altresì 
la 
domanda 
di 
indennizzo per ingiusto arricchimento ex art. 2041 c.c., sulla 
semplice 
e 
ineccepibile 
constatazione 
che 
non sia 
in questione 
la 
debenza 
del 
corrispettivo 
per le opere svolte, ma soltanto il soggetto a cui pagarlo (capo iV della sentenza); 
-rigettava 
infine 
la 
domanda 
di 
risarcimento del 
danno ex art. 2043 c.c., ritenendo correttamente 
insussistente 
qualunque 
elemento oggettivo e 
soggettivo, avendo agito l’Università 
di 
Udine 
optimo jure 
(capo V della sentenza). 
Con atto di 
citazione 
in appello notificato nei 
confronti 
dell’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine 
presso l’Avvocatura 
dello Stato in data 
24.10.2019 (doc. c), la 
società 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
impugnava la sentenza n. 1060/2019 articolando il gravame in tre motivi: 
I) presunto erroneo rigetto della 
domanda 
di 
ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.; 
II) presunto erroneo rigetto della 
domanda 
di 
pagamento del 
corrispettivo dovuto per le 
forniture 
eseguite in favore della stazione appaltante; 
III) presunto erroneo rigetto della domanda di 
risarcimento ex art. 2043 c.c. 
Ebbene, 
come 
anticipato, 
l’impugnazione 
andrà 
dichiarata 
inammissibile 
e 
comunque 
rigettata 
nel 
merito 
per 
essere 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
corretta 
sotto 
ogni 
profilo 
e 
meritevole 
di 
piena conferma per i seguenti motivi di 
DIrITTo 


1. Inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Corre 
l’obbligo di 
eccepire 
in via 
assolutamente 
preliminare 
che 
l’impugnazione, così 
come 
formulata, appare 
ictu oculi 
infondata, al 
punto da 
risultare 
anche 
inammissibile 
ai 
sensi 
del-
l’art. 348 bis 
c.p.c. 
Controparte 
totalmente 
soccombente 
nel 
merito 
in 
primo 
grado, 
infatti, 
non 
impugna 
il 
capo 
i 
della sentenza 
(rigetto della domanda principale 
di 
pagamento diretto della subappaltatrice 
da parte 
della stazione 
appaltante), che 
dunque 
dovrà ritenersi 
passato il 
giudicato, 
limitandosi 
invece 
a 
contestare 
il 
rigetto 
delle 
domande 
subordinate 
(salvo 
poi 
in 
conclusioni 
chiedere, genericamente 
e 
senza 
alcun collegamento con i 
motivi 
enucleati 
nel 
corpo dell’atto, il 
rigetto dell’originaria 
opposizione 
a 
decreto ingiuntivo proposta 
dall’Università 
di 
Udine!, con domanda 
che 
non potrà 
nemmeno essere 
esaminata, vista 
la 
non attinenza 
con i motivi d’appello ex 
art. 342 cpc). 
Tuttavia, nel 
caso di 
specie, la 
statuizione 
(capo i 
della sentenza impugnata) che 
esclude 
il 
diritto di 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
di 
ottenere 
dall’appaltante 
Università 
di 
Udine 
il 
pagamento 
diretto 
del 
corrispettivo 
per 
le 
opere 
svolte, 
essendo 
divenuta 
definitiva 
e 
inattaccabile 
e 
ormai 
facendo stato tra 
le 
parti, esplica 
i 
suoi 
effetti 
anche 
nei 
confronti 
delle 
domande 
di 
arricchimento 
sine causa 
e di risarcimento dei danni, che vengono così private di sostanza. 
nel 
momento 
in 
cui, 
infatti, 
sia 
stata 
confermata, 
a 
seguito 
dell’esperimento 
dell’azione 
ex 
contractu, 
la 
non 
debenza 
alla 
subappaltatrice 
del 
pagamento 
richiesto 
né 
per 
le 
opere 
né 
tanto 
meno 
per 
le 
forniture, 
non 
residuano 
margini 
per 
chiedere 
(e 
ottenere) 
da 
parte 
dell’impresa 
somme 
a 
titolo 
di 
indennizzo 
o 
di 
risarcimento 
che 
trovino 
la 
loro 
causa 
nel 
medesimo 
titolo 
(mancato 
pagamento 
del 
corrispettivo 
dall’Università 
appaltante 
all’impresa 
subappaltatrice). 
In altri 
termini, come 
esplicitato anche 
dalla 
giurisprudenza 
di 
merito: 
“va dichiarata inammissibile 
la 
domanda 
subordinata 
dell’appellante 
di 
ingiustificato 
arricchimento, 
una 
volta 
che 
quella medesima pretesa, fatta valere 
ex contractu, è 
stata rigettata per 
difetto di 
titolarità 
passiva delle 
dedotta obbligazione 
in 
capo alla convenuta, e 
non 
già sotto il 
profilo 
della carenza ab origine 
dell’azione 
stessa, per 
difetto del 
titolo posto a suo fondamento” 
(Corte d’appello di Venezia, sentenza n. 1608 del 13.4.2019). 


Tant’è 
vero che 
nel 
giudizio di 
primo grado la 
domanda 
principale 
(decisa 
sub 
capo I di 
sentenza) 
non 
veniva 
rigettata 
nel 
rito 
per 
inammissibilità 
o 
comunque 
per 
impossibilità 
in 
astratto 
per 
la 
subappaltatrice 
di 
agire 
verso 
la 
stazione 
appaltante, 
ma 
veniva 
rigettata 
proprio 
nel 
merito per infondatezza, non essendo dovuto il 
pagamento diretto da 
parte 
dell’Università 
a 
Gaeta costruzioni srl. 
Del 
resto, come 
confermato dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità: 
“l’azione 
di 
ingiustificato arricchimento 
è 
contraddistinta da un carattere 
di 
residualità che 
ne 
postula l’inammissibilità 
ogni 
qual 
volta il 
danneggiato per 
farsi 
indennizzare 
del 
pregiudizio subito, possa esercitare, 
tanto contro l’arricchito che 
nei 
confronti 
di 
una diversa persona, altra azione, secondo una 
valutazione 
da 
compiersi 
in 
astratto 
e 
prescindendo 
quindi 
dal 
relativo 
esito” 
(Corte 
di 
cassazione, 
sentenza n. 29988 del 20.11.2018). 


ovvero, 
la 
circostanza 
che 
la 
società 
subappaltatrice 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
abbia 
visto 
rigettata 
nel 
merito 
la 
sua 
domanda 
principale, 
azionata 
ex 
contractu 
con 
azione 
esistente 
e 
ammissibile 
non fa 
rivivere 
la 
possibilità 
di 
agire 
ex 
art. 2041 c.c., perché 
l’azione 
residuale 
di 
ingiusto arricchimento 
è 
concessa 
soltanto se 
in astratto, a priori 
non vi 
sia 
azione, non 
se 
quell’azione 
vi sia ma sia stata infruttuosamente esperita. 

E 
un tanto emerge 
già 
dalla 
sola 
lettura 
dell’atto di 
gravame, ragion per cui 
si 
chiede 
in via 
preliminare 
che 
l’appello venga 
rigettato in rito per palese 
infondatezza 
e 
dunque 
per inammissibilità 
ex 
art. 348 bis 
c.p.c. 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


In via 
tuzioristica, ad ogni 
modo, si 
replica 
punto per punto alle 
doglienze 
avverse, seguendo 
l’ordine dei motivi articolati. 


2. Sull’infondatezza del primo motivo d’appello. 
fermo quanto detto sull’inammissibilità 
della 
domanda 
ex art. 2041 c.c. quando, come 
nel 
caso 
di 
specie, 
vi 
sia 
un’azione 
tipica 
per 
ottenere 
ristoro 
del 
pregiudizio 
asseritamente 
subito, 
essa 
sia 
stata 
esercitata, ma 
sia 
stata 
dichiarata 
infondata, si 
eccepisce 
anche 
l’infondatezza 
nel 
merito del 
primo motivo d’appello, che 
censura 
il 
capo Iv 
di 
sentenza, che 
a 
sua 
volta 
rigettava 
la domanda 
ex 
art. 2041 c.c. 
Controparte 
appellante 
poggia 
il 
suo 
motivo 
d’impugnazione 
sull’assunto 
che 
l’Università 
appellante 
non avrebbe 
adempiuto o non avrebbe 
adempiuto integralmente 
alle 
sue 
obbligazioni 
nei 
confronti 
della 
società 
appaltatrice 
(la 
libra 
spa, ovvero alla 
sua 
curatela 
fallimentare), 
con ciò ingiustamente 
arricchendosi 
ai 
danni 
della 
subappaltatrice 
che 
avrebbe 
invece 
eseguito i lavori per il totale. 
Tuttavia, 
se 
la 
subappaltatrice 
(Gaeta 
Costruzioni 
srl) 
avesse 
voluto 
surrogarsi 
nei 
diritti 
vantati 
dalla 
sua 
diretta 
dante 
causa 
(libra 
spa) verso il 
debitor 
debitoris 
(l’Università 
appaltante) 
avrebbe 
dovuto appunto esperire 
azione 
surrogatoria ex art. 2900 c.c.: 
non solo non consta 
che 
tale 
azione 
sia 
stata 
esercitata, essendo peraltro dubbio che 
la 
subappaltatrice 
sia 
ancora 
in 
termini 
per 
farlo, 
ma 
l’esistenza 
stessa 
del 
rimedio, 
in 
astratto, 
priva 
di 
fondatezza 
l’odierna 
reieterata domanda di indennizzo per presunto arricchimento senza causa. 
Di più. 
l’eventuale 
azione 
surrogatoria 
proposta 
dalla 
subappaltatrice 
sarebbe 
(stata) comunque 
destinata 
all’insuccesso, 
in 
quanto 
medio 
tempore 
la 
società 
appaltatrice 
libra 
spa 
veniva 
dichiarata 
fallita: 
l’apertura della procedura concorsuale 
impedisce 
oggi 
in astratto prima 
ancora 
che 
in concreto a 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
di 
agire 
vantando crediti 
in assunto di 
titolarità 
dell’appaltatrice 
“surrogata” 
verso 
la 
stazione 
appaltante, 
proprio 
perché 
quest’ultima 
potrebbe 
onorare 
tali 
crediti 
solo e 
soltanto all’interno della 
cornice 
fallimentare, pena 
la 
violazione 
della 
par 
condicio 
creditorum 
per 
illecita 
sottrazione 
di 
un 
cespite 
dall’attivo 
fallimentare. 

Ad 
ogni 
modo, 
al 
di 
fuori 
di 
un’ipotetica 
(e 
ormai 
come 
detto 
impossibile) 
azione 
surrogatoria, 
non 
si 
vede 
quale 
sia 
il 
titolo 
di 
legittimazione 
della 
subappaltatrice 
-che 
per 
statuizione 
passata in 
giudicato non 
può vantare 
in 
via diretta alcun 
diritto verso la stazione 
appaltante 
-nella 
domanda 
di 
adempimento totale 
di 
crediti 
riferibili 
soggettivamente 
soltanto all’impresa 
appaltatrice (libra spa). 
In via 
meramente 
tuzioristica 
si 
rileva 
ad ogni 
modo la 
totale 
assenza 
di 
riscontri 
probatori 
da 
parte 
dell’appellante 
sul 
fatto che 
l’Università 
non abbia 
adempiuto o non abbia 
adempiuto 
totalmente 
nei 
confronti 
della 
sua 
diretta 
avente 
causa 
libra 
spa, 
ma 
si 
ribadisce 
con 
decisione 
come tale questione esuli completamente dall’oggetto del presente giudizio. 

3. Sull’infondatezza del secondo motivo d’appello. 
Con il 
secondo motivo, in sostanza, l’appellante 
ribadisce 
che 
si 
sarebbe 
verificato ingiusto 
arricchimento 
dell’Università 
appaltante 
ex 
art. 
2041 
c.c. 
anche 
sotto 
il 
profilo 
della 
fruizione 
di 
subforniture 
provenienti 
dalla 
subappaltatrice, non pagate 
o non pagate 
integralmente 
al-
l’appaltatrice libra spa. 
Sul 
punto, 
a 
confutazione 
del 
motivo 
d’appello 
che 
si 
ritiene 
infondato, 
si 
richiamano 
in 
tutto 
e 
per 
tutto 
le 
argomentazioni 
testé 
svolte 
sub 
paragrafo 
2 
con 
riferimento 
all’inammissibilità 
e 
comunque 
all’infondatezza 
di 
una 
domanda 
presentata 
ex 
art. 
2041 
c.c. 
in 
presenza 
di 
azioni 
contrattuali 
tipiche 
esperite 
infruttuosamente 
(domanda 
di 
pagamento 
diretto 
di 
opere 
e 
forniture 
rigettata 
con 
sentenza 
n. 
1060/2019) 
o 
addirittura 
non 
esperite 
(azione 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


surrogatoria 
ex 
art. 
2900 
c.c.) 
e 
comunque 
non 
più 
esperibili 
in 
presenza 
di 
una 
procedura 
fallimentare 
in 
atto. 
Si 
constata 
peraltro che 
anche 
il 
capo ii 
della 
sentenza 
impugnata, che 
statuiva 
che 
“nessun 
diritto può essere 
vantato dalla convenuta opposta nei 
confronti 
della stazione 
appaltante 
in 
ragione 
delle 
mere 
forniture” 
non è 
stato impugnato nel 
merito e 
dunque 
è 
passato in 
giudicato, 
essendo 
divenuto 
pertanto 
accertamento 
definitivo 
il 
fatto 
che 
alla 
subappaltatrice 
nulla 
è 
dovuto 
in 
via 
diretta 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante 
nemmeno 
in 
corrispettivo 
delle forniture. 


Il 
secondo motivo d’appello risulta 
pertanto infondato e 
dovrà 
essere 
rigettato, a 
nulla 
rilevando 
le 
considerazioni 
sul 
presunto 
“approfittamento” 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante 
delle 
forniture 
ricevute, che 
avrebbero appunto dovuto essere 
semmai 
fatte 
valere 
da 
altro soggetto 
legittimato (l’appaltatrice 
libra 
spa) o comunque 
in altro contesto (in ipotesi 
in via 
surrogatoria), 
pur sempre al di fuori di una procedura concorsuale che invece è in corso. 

* 
In via 
meramente 
prudenziale, qualora 
codesta 
Ecc.ma 
Corte 
ritenesse 
che 
mediante 
le 
argomentazioni 
svolte 
incidentalmente 
dall’appellante 
nel 
corpo del 
secondo motivo d’appello che 
pure 
indica 
come 
“parte 
di 
sentenza 
censurata” 
unicamente 
quella 
relativa 
al 
rigetto della 
domanda 
di 
indennizzo 
ex 
art. 
2041 
c.c. 
relativamente 
alle 
forniture 
-controparte 
abbia 
inteso 
impugnare 
anche 
il 
capo II della 
sentenza, che 
rigettava 
nel 
merito la 
domanda 
escludendo 
l’obbligo di 
pagamento diretto delle 
forniture 
da 
parte 
dell’appaltante 
in favore 
della 
subappaltatrice, 
si 
contesta 
espressamente 
il 
motivo e 
si 
ribadisce 
la 
bontà 
della 
decisione 
del 
Tribunale 
di 
Udine 
sul 
punto, per i 
motivi 
già 
puntualmente 
espressi 
in primo grado e 
che 
qui 
di 
seguito si ribadiscono 
Ebbene, l’Università di 
Udine 
è 
del 
tutto estranea alle 
prestazioni 
inerenti 
le 
fatture 
relative 
a 
forniture 
(fattura 
n. 
8 
dd. 
13.05.2016 
pari 
ad 
euro 
42.700,00, 
fattura 
n. 
9 
dd. 
29.06.2016 pari ad euro 54.900,00, fattura n. 24 dd. 06.12.2016 pari ad euro 40.138,00). 
l’allora 
vigente 
art. 
118, 
comma 
11, 
D.lgs. 
163/2006 
stabiliva 
espressamente 
che: 
“ai 
fini 
del 
presente 
articolo 
è 
considerato 
subappalto 
qualsiasi 
contratto 
avente 
ad 
oggetto 
attività 
ovunque 
espletate 
che 
richiedono 
l'impiego 
di 
manodopera, 
quali 
le 
forniture 
con 
posa 
in 
opera 
e 
i 
noli 
a 
caldo, 
se 
singolarmente 
di 
importo 
superiore 
al 
2 
per 
cento 
dell'importo 
delle 
prestazioni 
affidate 
o 
di 
importo 
superiore 
a 
100.000 
euro 
e 
qualora 
l'incidenza 
del 
costo 
della 
manodopera 
e 
del 
personale 
sia 
superiore 
al 
50 
per 
cento 
dell'importo 
del 
contratto 
da 
affidare”. 
Appare 
chiaro come 
con tale 
disposizione 
il 
legislatore 
abbia 
inteso far assumere 
rilevanza 
non 
alle 
mere 
forniture 
di 
materiale, bensì 
al 
cosiddetto “subappalto di 
fornitura”, dove 
a 
rilevare 
sono sia 
il 
peculiare 
valore 
della 
prestazione 
richiesta 
(maggiore 
del 
2% del 
valore 
complessivo dell’appalto e/o comunque 
superiore 
a 
euro 100.000), sia 
la 
tipologia 
delle 
prestazioni 
che, in termini 
di 
fare, devono acquistare 
un rilievo economico superiore 
alla 
metà 
dell’ammontare complessivo riconosciuto alla prestazione da affidare in subappalto. 
Tuttavia, nessuna 
delle 
prestazioni 
poste 
in essere 
da 
GAETA 
CoSTrUzIonI S.r.l. e 
collegate 
alle 
fatture 
sopracitate 
rientrano nell’ambito di 
applicazione 
del 
richiamato comma 
11 
dell’art. 118. 
nel 
caso di 
specie, inoltre, non è 
nemmeno necessario affrontare 
il 
problema 
interpretativo di 
cosa 
si 
intenda 
per 
“subappalto 
di 
fornitura” 
e 
se 
le 
prestazioni 
per 
le 
quali 
la 
ricorrente 
agisce 
vi 
rientrino, posto che 
l’affidatario ha 
disatteso l’obbligo di 
comunicazione 
sancito dal 
medesimo 
comma 
11 dell’art. 118, ultimo periodo (“È 
fatto obbligo all'affidatario di 
comunicare 
alla 
stazione 
appaltante, 
per 
tutti 
i 
sub-contratti 
stipulati 
per 
l'esecuzione 
dell'appalto, 
il 
nome 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


del 
sub-contraente, 
l'importo 
del 
contratto, 
l'oggetto 
del 
lavoro, 
servizio 
o 
fornitura 
affidati”). 
l’Impresa 
lIbrA 
S.p.A., infatti, non ha 
comunicato alcuna 
fornitura 
relativa 
al 
cantiere 
bianchini 
affidata 
all’Impresa 
GAETA 
CoSTrUzIonI, pertanto, all’Università 
nulla 
consta 
in merito 
a forniture effettuate dalla controparte alla 
lIbrA 
S.p.A. 
Un tanto è stato più volte comunicato a 
GAETA 
dall’opponente (v. doc. 7). 
Anzi, come 
già 
sopra 
esposto, l’appaltatrice 
ha 
negato espressamente 
di 
avere 
ulteriori 
pendenze 
contrattuali nei confronti di fornitori o subfornitori (v. doc. 5). 
In 
conclusione, 
dei 
pagamenti 
relativi 
al 
contratto 
di 
fornitura 
stipulato 
tra 
lIbrA 
S.p.A. 
e 
GAETA 
CoSTrUzIonI 
S.r.l. non può in alcun modo essere 
chiamata 
a 
rispondere 
l’Università 
di 
Udine, che 
quel 
contratto (ulteriore 
e 
diverso rispetto al 
contratto di 
subappalto e 
in alcun 
modo 
riconducibile 
alla 
nozione 
di 
subappalto 
dettata 
dalla 
legge) 
non 
solo 
mai 
ha 
autorizzato 
ma di cui neppure è stata messa a conoscenza. 
Del 
resto, il 
fatto che 
l’art. 118 consenta 
il 
ricorso al 
subappalto entro determinati 
e 
stringenti 
limiti 
si 
spiega 
sia 
con la 
necessità 
di 
tutelare 
l’interesse 
della 
P.A. committente 
all’immutabilità 
dell’affidatario, sia 
con l’esigenza 
di 
evitare 
che, nella 
fase 
esecutiva 
del 
contratto, si 
pervenga, 
attraverso 
modifiche 
sostanziali 
dell’assetto 
di 
interessi 
scaturito 
dalla 
gara 
selettiva, 
a 
vanificare 
proprio quell’interesse 
pubblico fondamentale 
alla 
scelta 
dell’offerta 
più idonea 
in vista della soddisfazione delle esigenze della collettività cui l’appalto è preordinato. 
Pertanto, 
non 
ogni 
contratto 
stipulato 
tra 
l’appaltatrice 
e 
un’impresa 
terza 
può, 
di 
per 
sé 
e 
al 
di 
fuori 
dell’ambito 
di 
applicazione 
della 
suddetta 
norma, 
essere 
qualificato 
come 
subappalto 
e 
dar 
luogo 
alle 
relative 
conseguenze, 
pena 
la 
vanificazione 
delle 
indicate 
fondamentali 
esigenze. 
Si 
chiede 
pertanto la 
conferma 
della 
sentenza 
impugnata 
ex 
adverso 
anche 
sotto questo profilo. 


4. Sull’infondatezza del terzo motivo d’appello. 
Pure 
l’ultimo motivo di 
appello, con cui 
si 
censura 
il 
rigetto della 
domanda 
risarcitoria 
presentata 
in via 
subordinata 
in primo grado ai 
sensi 
dell’art. 2043 c.c., appare 
palesemente 
infondato. 
Il 
Tribunale 
di 
Udine, infatti, ha 
correttamente 
motivato il 
rigetto per 
relationem, sulla 
base 
della 
comprovata 
non 
antigiuridicità 
oggettiva 
della 
condotta 
omissiva 
serbata 
dall’Università 
di 
Udine, che 
non ha 
pagato in via 
diretta 
la 
subappaltatrice, non sussistendo per legge 
o per 
lex 
specialis 
(bando di 
gara) alcun obbligo in tal 
senso, come 
riconosciuto dalla 
statuizione 
passata 
in giudicato (capo i 
della sentenza, non 
impugnato), ed escludendo altresì 
la 
sussistenza 
dell’elemento soggettivo doloso o colposo in capo all’Università, proprio per essersi 
la stazione appaltante uniformata alle previsioni testuali del bando. 
non si 
comprende 
dunque 
la 
pertinenza 
delle 
doglianze 
avversarie, che 
pretendono di 
configurare 
un diritto risarcitorio derivante 
ora 
dalla 
presunta 
violazione 
dell’art. 118, comma 
3, 
D.lgs. n. 163/2006 (p. 23 appello), che 
però prevede 
soltanto una facoltà 
di 
adempimento 
diretto 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante 
nei 
confronti 
della 
subappaltatrice 
e 
non 
certo 
un 
obbligo, 
la 
cui 
violazione 
comporti 
(peraltro!) 
una 
lesione 
aquiliana 
e 
non 
una 
normale 
azione 
contrattuale, ora 
dalla 
presunta 
preesistenza 
di 
una 
procedura 
di 
concordato preventivo (p. 24 
appello) durante 
la 
quale 
sarebbero stati 
individuati 
dei 
diritti 
creditori 
diretti 
della 
subappaltatrice: 
tuttavia 
da 
un lato nessuna 
domanda 
può oggi 
trovare 
titolo in tale 
concordato preventivo, 
che 
non ha 
avuto alcun esito ed è 
stato poi 
superato dal 
fallimento 
sopravvenuto 
della 
società 
libra 
spa, dall’altro lato tutte 
le 
norme 
citate 
da 
controparte 
che 
avrebbero disciplinato 
la 
procedura 
parlano ancora 
una 
volta 
solo e 
soltanto di 
una 
facoltà 
per la 
stazione 
appaltante di adempimento diretto e mai di un obbligo. 


rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Sotto 
qualunque 
profilo 
si 
consideri 
la 
vicenda, 
risulta 
inconfigurabile 
una 
lesione 
antigiuridica 
e 
colpevole 
di 
pretesi 
diritti 
dell’appellante 
da 
parte 
dell’Università 
di 
Udine, ragion per cui 
si chiede il rigetto anche del terzo motivo d’appello. 

* 
In via 
meramente 
prudenziale, qualora 
codesta 
Ecc.ma 
Corte 
ritenesse 
che 
mediante 
le 
argomentazioni 
svolte 
incidentalmente 
dall’appellante 
nel 
corpo del 
terzo motivo d’appello -che 
pure 
indica 
come 
“parte 
di 
sentenza 
censurata” 
unicamente 
quella 
relativa 
al 
rigetto della 
domanda 
di 
risarcimento del 
danno ex 
art. 2043 c.c. -controparte 
abbia 
inteso impugnare 
anche 
il 
capo I della 
sentenza, che 
rigettava 
nel 
merito la 
domanda 
principale 
escludendo l’obbligo 
di 
pagamento 
diretto 
da 
parte 
dell’appaltante 
in 
favore 
della 
subappaltatrice, 
si 
contesta 
espressamente 
il 
motivo e 
si 
ribadisce 
la 
bontà 
della 
decisione 
del 
Tribunale 
di 
Udine 
sul 
punto, per 
i motivi già puntualmente espressi in primo grado e che qui di seguito si ribadiscono. 
Atteso che 
il 
bando relativo all’appalto di 
cui 
trattasi 
è 
stato pubblicato prima 
del 
19 aprile 
2016 (data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
nuovo codice 
dei 
Contratti 
pubblici), tutte 
le 
vicende 
scaturenti 
dalla 
procedura 
di 
appalto 
de 
qua 
sono 
pacificamente 
soggette 
alla 
previgente 
disciplina 
normativa. Un tanto per l’effetto del 
disposto di 
cui 
all’art. 216 D.lgs. 50/2016, il 
quale 
racchiude 
il generale principio del 
tempus regit actum. 
Pertanto, è 
pacificamente 
applicabile 
al 
caso che 
ci 
occupa 
l’art. 118, comma 
3, del 
D.lgs. 
163/2006, 
il 
quale 
prevede 
il 
pagamento 
diretto 
dalla 
stazione 
appaltante 
al 
subappaltatore 
solo e unicamente se previsto dal bando. 
Ma 
nel 
caso di 
specie 
il 
bando di 
gara esclude 
espressamente 
tale 
pagamento diretto laddove 
si 
legge, a 
pag. 8, con riferimento all’indicazione 
nella 
domanda 
dei 
lavori 
da 
subappaltare: 
“obbligo 
di 
indicazione 
dei 
lavori 
di 
categoria 
os£= 
che, 
eventualmente, 
si 
deve 
in 
parte 
e/o totalmente 
subappaltare 
per 
assenza dei 
requisiti, nonché 
delle 
parti 
di 
lavori 
della 
categoria os28 che, eventualmente, si 
deve 
parzialmente 
subappaltare 
(nell’ambito del 
30% 
della categoria medesima) per 
insufficienza dei 
requisiti. La stazione 
appaltante 
non 
provvede 
al pagamento diretto dei subappaltatori” 
(v. doc. 1). 
quindi 
nella 
presente 
fattispecie 
non 
vi 
era 
e 
non 
vi 
è 
il 
diritto 
della 
GAETA 
CoSTrUzIonI 


S.r.l. 
ad 
ottenere 
dall’Università 
appaltante 
il 
pagamento 
diretto 
delle 
opere 
e 
delle 
forniture 
effettuate. 
non 
in 
virtù 
dell’art. 
105 
D.lgs. 
50/2016, 
non 
applicabile 
alla 
procedura 
in 
questione, 
né 
in 
virtù 
della 
previgente 
normativa, 
essendo 
stata 
la 
corresponsione 
diretta 
degli 
importi 
dovuti 
per 
le 
prestazioni 
eseguite 
dai 
subappaltatori 
espressamente 
esclusa 
dal 
bando 
di 
gara. 
Si 
insiste 
dunque 
per 
la 
conferma 
della 
decisione 
di 
primo 
grado 
che 
ha 
escluso 
la 
sussistenza 
di 
un obbligo per la 
stazione 
appaltante 
di 
eseguire 
il 
pagamento in via 
diretta 
in favore 
della 
subappaltatrice. 
5. Sulle istanze istruttorie. 
Si 
chiede 
infine 
il 
rigetto 
di 
tutte 
le 
istanze 
di 
assunzione 
di 
prove 
testimoniali, 
di 
celebrazione 
di 
interrogatorio formale 
e 
di 
espletamento di 
ctu avanzate 
da 
controparte, essendo le 
prove 
orali 
inammissibili 
perché 
tutte 
vertenti 
su circostanze 
provate 
o provabili 
documentalmente 
oltre 
che 
irrilevanti 
ai 
fini 
della 
dimostrazione 
dell’assunto attoreo (si 
ricorda 
che 
parte 
appellante 
intende 
fare 
oggetto del 
presente 
giudizio soltanto il 
presunto arricchimento senza 
causa 
e 
il 
presunto 
danno 
extracontrattuale, 
rimanendo 
pertanto 
del 
tutto 
estranee 
le 
valutazioni 
sulla 
corretta 
esecuzione 
dei 
lavori, che 
riguardano semmai 
il 
titolo contrattuale 
che 
legava 
Gaeta 
Costruzioni 
srl 
a 
libra 
spa 
e 
non può riguardare, per statuizione 
passata 
in giudicato, 
rapporti 
tra 
Gaeta 
e 
l’Università 
di 
Udine) 
e 
la 
prova 
tecnica 
inammissibile 
e 
comunque 
inutile 
perché, 
ancora 
una 
volta, 
tesa 
a 
dimostrare 
il 
valore 
di 
lavori 
(e 
forniture) 
eseguiti 
e 
non 
pagati 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


da 
una 
parte 
estranea 
al 
giudizio (libra 
spa) nel 
contesto di 
un inadempimento contrattuale 
che 
non 
può 
essere 
fatto 
valere 
nella 
presente 
sede 
nei 
confronti 
della 
stazione 
appaltante, 
per 
statuizione passata in giudicato. 

*** 
Alla 
luce 
di 
quanto precede, l’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine, come 
sopra 
rappresentata 
e 
difesa, 
rassegna le seguenti 


ConClUSIonI 
voglia l’Ecc.ma Corte d’appello adita 
-in 
via 
preliminare, 
dichiarare 
inammissibile 
l’appello 
per 
manifesta 
infondatezza 
ai 
sensi 
dell’art. 348 bis 
cpc; 


-in subordine, nel 
merito, rigettare 
l’appello per infondatezza 
di 
ciascuno dei 
motivi 
proposti 
e confermare la sentenza n. 1060/2019 del 
Tribunale di Udine in ogni sua parte; 
- in ogni caso, rigettare tutte le istanze istruttorie avanzate da parte appellante. 
Con vittoria di spese del doppio grado di giudizio. 
(...) 
Trieste, 16 gennaio 2020 
beatrice Favero 
Procuratore dello stato 


Corte 
di 
appello di 
trieste, Sezione 
prima civile, sentenza 1 ottobre 
2020 n. 426 
-Pres. 
est. 
G. 
de 
rosa 
-Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. 
(avv. 
P. 
vicidomini) 
c. 
Università 
degli 
Studi 
di 
Udine (avv. distr. St. Trieste). 


svolgimento del processo 


Con atto di 
citazione 
28.3.2018 l’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine, premesso che 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. era 
stata 
l’impresa 
autorizzata 
al 
sub appalto dei 
lavori 
assunti 
da 
libra 
S.p.a. 
(aggiudicataria 
dell’appalto indetto dall’Università 
il 
27.3.2014 per opere 
di 
ristrutturazione 
edilizia) per eseguire 
lavori 
pari 
ad un valore 
di 
euro 100.000, che 
il 
sub appaltatore 
aveva 
lamentato 
mancati 
pagamenti, che 
libra 
S.p.a, in sede 
di 
chiarimenti, aveva 
trasmesso due 
sole 
fatture 
quietanzate 
(nn. 
7/2016 
per 
euro 
44.415 
e 
nn. 
10/2016 
per 
euro15.000) 
negando 
vi 
fossero altre 
pendenze, che, comunque, erano state 
trattenute 
somme 
a 
garanzia 
del 
sub appaltatore, 
che 
il 
23.5.2017 era 
stato dichiarato il 
fallimento di 
libra 
S.p.a., che 
il 
2.12.2017 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. aveva 
chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo per euro 197.153 perché 
libra 
S.p.a. era 
rimasta 
inadempiente, che 
il 
decreto era 
da 
considerarsi 
nullo e 
di 
nessun effetto 
posto che 
non vi 
erano le 
condizioni 
per ottenere 
il 
pagamento diretto da 
parte 
del 
sub 
appaltatore 
(applicazione 
dell’art. 118, comma 
III, d.lgs. 163/2006), poiché 
il 
bando non lo 
prevedeva, che, in ogni 
caso, alcune 
delle 
fatture 
allegate 
al 
decreto ingiuntivo riguardavano 
forniture 
cui 
l’Università 
era 
estranea, che, inoltre, l’eventuale 
pagamento diretto al 
sub appaltatore 
avrebbe 
violato la 
par condicio creditorum, citata 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l., chiedeva 
che il decreto venisse dichiarato nullo e di nessun effetto. 
ritualmente 
citata 
si 
costituiva 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. contestando le 
affermazioni 
attoree 
e, 
in 
particolare, 
rilevato 
che 
al 
caso 
andava 
applicato 
il 
disposto 
dell’art. 
105 
d.lgs. 
50 
del 
2016, 
oppure 
quello 
degli 
artt. 
1641 
cc. 
o 
2041 
cc., 
chiedeva 
il 
rigetto 
dell’opposizione 
e 
la 
condanna 
dell’opponente al risarcimento del danno. 
Con sentenza 
n. 1060/2019 del 
17.9.2019 il 
Tribunale 
di 
Udine, ritenuto applicabile 
al 
caso 
il 
d.lgs. n. 163/2006 convertito in legge 
n. 9/2014, in particolare 
l’art. 118, comma 
III, e 
la 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


norma 
dell’art. 13, comma 
II, lett. a) legge 
n. 180/2011 in tema 
di 
piccole 
e 
medie 
imprese 
e 
ritenuto che 
nessun diritto avesse 
la 
sub appaltatrice 
di 
ottenere 
il 
pagamento diretto dal 
committente, 
in 
quanto 
il 
bando 
non 
l’aveva 
previsto, 
che 
le 
domande 
formulate 
ex 
artt. 
1676, 
2041 e 
2043 cc. erano infondate 
in quanto la 
norma 
dell’art. 1676 cc. riguardava 
i 
dipendenti 
dell’appaltatore, quella 
di 
cui 
all’art. 2041 cc. era 
inapplicabile 
perchè 
non vi 
era 
stato alcun 
arricchimento dell’appaltatore 
stesso e, infine, quella 
dell’art. 2043 cc. egualmente 
inapplicabile 
perché 
difettava 
l’elemento soggettivo e 
quello oggettivo dell’illecito, revocava 
il 
decreto 
opposto e condannava Greta Costruzioni S.r.l. al pagamento delle spese di lite. 
Con 
atto 
di 
citazione 
24.10.2019 
Greta 
Costruzioni 
S.r.l. 
impugnava 
la 
decisione, 
chiedendone 
la riforma per i motivi già sollevati avanti il 
Tribunale. 
ritualmente 
citata 
si 
costituiva 
l’Università 
degli 
Studi 
di 
Udine 
chiedendo il 
rigetto dell’impugnazione. 
la 
causa 
veniva 
trattenuta 
in decisione 
sulle 
conclusioni 
delle 
parti 
all’udienza 
del 
12.5.2020 


motivi della decisione 


risulta 
passato in giudicato per acquiescenza 
(cfr., oltre 
la 
mancanza 
espressa 
di 
un motivo 
di 
impugnazione 
sul 
punto, ad esempio, anche 
l’affermazione 
fatta 
a 
pag. 19 dell’atto d’appello) 
l’accertamento compiuto dal 
Tribunale 
di 
Udine 
relativo alla 
normativa 
applicabile 
all’appalto 
di 
cui 
si 
discute 
(d.lgs 
n. 163/2006 convertito in legge 
n. 9/2014, art. 118, comma 
III), con la 
conseguente 
definitiva 
statuizione 
della 
mancanza 
di 
qualunque 
obbligo da 
parte 
dell’Università 
di 
effettuare 
pagamenti 
diretti 
a 
favore 
della 
sub appaltatrice, poiché 
non previsti 
nel bando. 
Ciò premesso risultano infondate le domande formulate ex artt. 2041 e 2043 cc. 
nel 
primo caso, infatti, l’azione, di 
per sé 
residuale, non può essere 
esercitata 
sostenendo che 
l’Università 
si 
è 
arricchita 
a 
causa 
delle 
opere 
acquisite 
e 
delle 
forniture 
avute, perché 
non vi 
è 
prova 
che 
abbia 
pagato 
tutto 
quanto 
dovuto 
all’appaltatore. 
Giova 
ricordare 
che 
“…se 
è 
vero 
che 
il 
requisito 
della 
sussidiarietà 
della 
tutela 
di 
cui 
all'art. 
2041 
c.c. 
non 
è 
escluso 
dalla 
proposizione, 
anche 
in via contestuale 
e 
con esito negativo, di 
altra azione 
tipica, ciò vale 
solo 
quando tale 
domanda sia stata respinta per 
carenza ab origine 
dell’azione 
stessa, per 
difetto 
del 
titolo 
posto 
a 
suo 
fondamento 
(Cass. 
5.3.1991 
n. 
2283; 
26.11.1986 
n. 
6981), 
ma 
non 
anche 
quando, come 
nel 
caso in esame, la domanda tipica contrattuale 
sia stata respinta nel 
merito 
perché 
infondata” 
(tra 
le 
tante, 
a 
titolo 
d’esempio, 
cfr. 
Cass. 
20.3.1995 
n. 
3228; 
Cass. 
2.4.2009 


n. 8020). E, ancora 
“…va osservato, infatti, che, secondo il 
costante 
insegnamento di 
questa 
Corte, l’azione 
di 
arricchimento può essere 
proposta in via subordinata rispetto all’azione 
contrattuale 
proposta 
in 
via 
principale 
soltanto 
qualora 
l’azione 
tipica 
dia 
esito 
negativo 
per 
carenza “ab origine” 
dell’azione 
stessa derivante 
da un difetto del 
titolo posto a suo fondamento, 
ma non anche 
nel 
caso in cui 
il 
contratto dedotto in giudizio, validamente 
stipulato 
tra le 
parti, si 
sia rivelato improduttivo di 
effetti 
nel 
senso divisato dall’attore, con il 
conseguente 
rigetto nel 
merito della domanda di 
adempimento proposta sulla base 
del 
contratto 
medesimo” 
(Cass. 7.2.2017 n. 3188). 
ne 
viene 
che 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. avendo esercitato l’azione 
tipica 
ed avendo subito il 
rigetto 
della 
stessa 
non 
per 
carenza 
del 
titolo 
(ad 
esempio, 
per 
ragioni 
di 
nullità) 
o 
per 
inefficacia 
dell’accordo, ma 
per l’infondatezza 
nel 
merito della 
domanda, non può sostenere 
il 
diritto all’indennizzo 
per l’evidente 
motivo per cui, una 
volta 
ritenuto insussistente 
il 
diritto avanzato, 
non può essere 
ristorato l’attore 
per indebito arricchimento del 
convenuto, perché 
ciò violerebbe 
il 
canone 
della 
sussidiarietà 
(vi 
sarebbe 
alternatività 
fra 
le 
azioni) 
rendendo 
inutile 
l’accertamento 
giudiziale sul motivo principale di azione. ovvero la causa contrattuale. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


quanto 
alla 
domanda 
formulata 
ex 
art. 
2043 
cc., 
la 
stessa 
è 
ugualmente 
infondata, 
posto 
che 
non 
avendo 
alcun 
obbligo 
l’Università 
di 
effettuare 
il 
pagamento 
diretto, 
la 
stessa 
non 
può 
essere 
imputata 
di 
comportamento 
antigiuridico 
e 
lesivo 
della 
sfera 
patrimoniale 
dell’appellante. 
Sotto questo profilo ed anche 
a 
voler tacere 
il 
complesso problema 
dei 
limiti 
dell’intervenuto 
giudicato 
endoprocessuale, 
questione 
sulla 
quale 
le 
parti 
nulla 
hanno 
dedotto, 
non 
è 
pertinente 
il 
richiamo fatto dall’appellante 
all’art. 118 (comma 
III, seconda 
parte 
e 
III bis) del 
d.lgs 
n. 
163/2006, posto che 
anche 
il 
pagamento diretto, previsto in caso di 
crisi 
di 
liquidità 
o in pendenza 
di 
procedura 
concordataria 
con continuità 
aziendale 
(per libra 
S.p.a. prima 
della 
dichiarazione 
dei 
fallimento), conservava 
natura 
discrezionale, ove 
non fosse 
stato previsto dal 
bando. 
lo stesso va 
detto per quanto riguarda 
l’applicazione 
(pur invocata) dell’art. 13, comma 
II, 
legge n. 180 del 2011 (riportata in sentenza). 
non 
ignora 
la 
Corte 
che 
l’interpretazione 
della 
norma, 
ampiamente 
discussa, 
non 
ha 
consentito 
di 
giungere 
ad alcuna 
posizione 
definitiva, tuttavia 
appare 
preferibile, nell’ambito di 
una 
lettura 
sistematica 
della 
disciplina 
sul 
pagamento 
del 
compenso 
al 
sub 
appaltatore, 
nella 
cornice 
normativa 
di 
riferimento 
ratione 
temporis 
applicabile 
e 
prima 
delle 
modifiche 
che 
il 
pagamento 
diretto 
hanno 
disposto, 
condividere 
la 
tesi 
di 
coloro 
che 
ritengono 
che 
anche 
per 
la 
norma 
in 
commento 
il 
pagamento 
diretto 
dovesse 
essere 
espressamente 
previsto 
dal 
bando 
(cfr., ad esempio la 
tesi 
secondo cui 
“…se 
anche 
il 
legislatore 
del 
2011 ha lasciato sopravvivere 
la trasmissione 
delle 
fatture 
quietanzate 
(estendendone 
l’obbligo ai 
subcontratti 
di 
fornitura 
e 
posa in opera) significa che 
ha lasciato sopravvivere 
il 
pagamento all’appaltatore 
delle 
prestazioni 
subappaltate”). 
Che, 
cioè, 
la 
norma 
già 
richiamata 
dell’art. 
118 
d.lgs 
n. 
163/2016 non sia stata derogata. 
Infine, le 
prove 
richieste 
oltre 
ad essere 
superflue 
sono inammissibili, perché 
mai 
riproposte 
in sede di precisazione delle conclusioni avanti il 
Tribunale. 
le spese seguono la soccombenza. 


p.q.m. 
la 
Corte 
d’Appello di 
Trieste, Sezione 
I^ 
civile, definitivamente 
pronunciando nella 
causa 
come indicata in epigrafe così provvede: 


- rigetta l’appello e per l’effetto conferma la sentenza 17.9.2019 Tribunale di Udine; 
-condanna 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. 
al 
pagamento 
delle 
spese 
del 
grado 
liquidate 
in 
complessivi 
euro 7.600 di cui euro 230 per spese oltre spese generali ed accessori di legge; 
-dà 
atto che 
sussistono in capo a 
Gaeta 
Costruzioni 
S.r.l. le 
condizioni 
per il 
pagamento nel 
doppio del contributo unificato-
Trieste, lì 14 settembre 2020. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


Responsabilità per pratiche di adozione non andate a buon 
fine. Una interessante sentenza del tribunale di Bologna 


tribUNale 
Di 
boloGNa, seCoNDa 
sezioNe 
Civile, seNteNza 
28 settembre 
2020 N. 1314 


l’interessante 
ed importante 
sentenza 
resa 
dal 
Tribunale 
di 
bologna 
concerne 
una 
causa di responsabilità 
per pratiche di adozione 
internazionale 
non 
andate a buon fine. 


In particolare 
il 
Tribunale 
di 
bologna, nel 
condividere 
e 
fare 
proprie 
le 
argomentazioni 
svolte 
da 
parte 
convenuta, Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
-Commissione 
Adozioni 
Internazionali, 
concernenti 
la 
qualificazione 
ed i 
contenuti 
dell'obbligazione 
gravante 
nel 
caso di 
specie 
sull'ente 
non lucrativo 
gestore 
della 
pratica 
di 
adozione 
internazionale 
per conto della 
coppia 
di 
aspiranti 
genitori, ha 
significativamente 
statuito che 
"occorre, infatti, considerare 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
l’obbligazione 
gravante 
sul 
mandatario 
è 
rappresentata 
principalmente 
dalla 
messa 
in 
atto 
di 
tutte 
le 
attività 
necessarie 
per 
curare 
per 
conto dei 
mandanti 
la pratica di 
adozione, ma non può spingersi 
fino a pretendere 
il 
buon esito della stessa, come 
previsto nella clausola 
negoziale 
che 
regola l’oggetto ed il 
contenuto dell’incarico, posto che 
è 
considerata 
determinante “in merito, la volontà delle 
autorità straniere”. 

Dunque, 
a 
voler 
prendere 
in 
prestito 
delle 
note 
categorie 
dottrinali, 
molto 
efficaci, 
e 
astraendo 
dalle 
indubbie 
peculiarità 
del 
caso 
di 
specie, 
l'obbligazione 
gravante 
sull'ente 
gestore 
è, e 
resta, una 
"obbligazione 
di 
mezzi", senza 
poter 
arrivare 
ad 
assumere 
i 
caratteri 
di 
una 
più 
pregnante 
"obbligazione 
di 
risultato" 
(i.e. l'effettiva adozione di un minore). 


E 
il 
"fattore 
geopolitico" 
rappresenta 
condizione 
eziologicamente 
rilevante, 
anche 
in maniera 
decisiva, sull'esito della 
pratica 
di 
adozione. In altri 
termini, i 
pur legittimi 
desideri 
della 
coppia 
di 
aspiranti 
genitori 
adottivi 
devono 
inevitabilmente 
relazionarsi 
e 
confrontarsi 
con la 
(altrettanto legittima) 
ineliminabile 
discrezionalità 
di 
cui 
godono, in materia, le 
Autorità 
Pubbliche 
competenti dello Stato di provenienza del minore adottando. 


Ed infatti 
l'organo Giudicante 
richiama 
espressamente 
l'attenzione 
sulla 
consapevolezza 
che 
la 
coppia 
di 
aspiranti 
genitori 
doveva 
ben avere 
sulla 
circostanza 
per 
cui 
"la 
responsabilità 
della 
onlus 
era 
esclusa, 
come 
pattiziamente 
convenuto, 
nel 
caso 
di 
allungamento 
dei 
tempi, 
previsti 
o 
prevedibili 
per 
il 
perfezionamento dell’adozione, ovvero, interruzione 
del 
procedimento adottivo, 
causata da: eventi 
politici, revoca dell’adottabilità dell’adottato, modifiche 
normative 
/ 
legislative, calamità, guerre 
o altre 
circostanze 
impreviste 
e 
imprevedibili”. 


nel 
caso 
di 
specie 
sono 
state 
dunque 
valorizzate, 
in 
maniera 
decisiva, 
la 
ratifica 
della 
Convenzione 
dell’Aja 
da 
parte 
dello 
Stato 
di 
provenienza 
dell'adottando, 
il 
mutamento 
del 
giudice 
competente 
in 
materia 
e 
la 
stessa 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


revoca 
dell’adottabilità 
dell’adottato 
affidato 
in 
via 
preferenziale 
ad 
una 
coppia 
locale. 


Inoltre 
la 
sentenza 
richiama 
l'attenzione 
anche 
sull'onere 
gravante 
sulla 
coppia 
di 
aspiranti 
genitori 
adottivi 
di 
farsi 
comunque 
sempre 
parte 
attiva 
e 
diligente 
nell'acquisire 
informazioni 
sullo stato della 
loro pratica, affermando 
significativamente 
che 
"inoltre 
l’art. 22 l. adozioni 
al 
comma secondo stabilisce 
che 
“in 
ogni 
momento 
a 
coloro 
che 
intendono 
adottare 
devono 
essere 
fornite, 
se 
richieste, 
notizie 
sullo 
stato 
del 
procedimento”; 
sebbene 
tale 
norma 
sia collocata nella parte 
che 
disciplina l’affidamento preadottivo, e 
non direttamente 
i 
rapporti 
con 
le 
organizzazioni 
che 
si 
occupano 
di 
adozioni, 
è 
evidente 
che 
nel 
corso 
dei 
periodici 
incontri 
con 
le 
coppie 
tali 
informazioni 
potevano essere richieste" 
(le sottolineature sono nostre). 


Si 
tratta, 
a 
mio 
avviso, 
di 
un 
pronunciamento 
importante, 
le 
cui 
statuizioni, 
pur 
con 
le 
indubbie 
peculiarità 
del 
caso 
concreto, 
oltre 
che 
condivisibili, 
paiono 
utilmente 
spendibili 
nelle 
difese 
dell'Amministrazione 
interessata 
in 
casi similari. 


Anna Elena Madera* 


tribunale 
di 
Bologna, 
Seconda 
Sezione 
Civile, 
sentenza 
28 
settembre 
2020 
n. 
1314 
-Giud. 


C. Gentili 
-(omissis) (avv. M. bianchi) c. la 
Primogenita 
International 
Adoption onlus 
(avv. 
A. barbieri, D. Piccolo, f. Montalto); 
Commissione 
per le 
Adozioni 
Internazionali 
presso la 
Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. St. bologna). 
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione 


Con citazione 
notificata 
il 
30 maggio 2018 i 
coniugi 
(omissis) hanno convenuto in giudizio 
l’associazione 
"la 
Primogenita 
International 
Adoption 
onlUS” 
(d’ora 
in 
poi 
solo 
la 
Primogenita 
o la 
onlus) e 
la 
Commissione 
per le 
Adozioni 
Internazionali, presso la 
Presidenza 
del Consiglio dei Ministri (d’ora in poi solo CAI), esponendo in fatto quanto segue: 
-nel 
novembre 
2011 
essi 
si 
rivolgevano 
all’associazione 
"la 
Primogenita 
International 
Adoption 
onlUS", 
sede 
di 
brescia, 
per 
incaricarla 
di 
svolgere 
la 
pratica 
di 
adozione 
internazionale 
per bimbi provenienti da 
Africa e, specificamente, Senegal; 


-nel 
gennaio 2012 la 
convenuta 
proponeva 
l'adozione 
di 
un bimbo nella 
città 
di 
fatik, per cui 
gli attori predisponevano e inviavano tutta la documentazione necessaria; 
-nel 
settembre 
2013 apprendevano che 
la 
richiesta 
era 
stata 
dirottata 
al 
Tribunale 
di 
Dakar e 
nel 
mese 
di 
novembre 
dello stesso anno venivano avvisati 
dal 
sig. (omissis), presidente 
del-
l’associazione, di prepararsi alle vaccinazioni; 
-che 
tali 
comunicazioni 
si 
protraevano 
per 
i 
successivi 
due 
anni, 
senza 
che 
venisse 
mai 
fornita 
alcuna indicazione scritta a giustificazione della mancata conclusione delle pratiche 
in loco; 
-solo nel 
novembre 
2015 veniva 
comunicato l'abbinamento con un bimbo di 
circa 
un anno e 
(*) Procuratrice 
dello Stato, la 
quale 
ha 
gestito la 
fase 
conclusiva 
del 
giudizio, precedentemente 
curato, 
tra gli altri, dalla proc. St. Michela Manente. 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


veniva 
formulata 
la 
richiesta 
di 
pagamento di 
€ 5.400,00, che 
venivano immediatamente 
versati, 
senza ottenere alcun risultato; 


-nel 
dicembre 
2016 veniva 
indicato un nuovo abbinamento con una 
bambina, ma 
anche 
in 
questo caso non vi era stato alcun seguito; 
-nell'ottobre 
2017 
veniva 
mandata 
una 
missiva 
da 
parte 
del 
legale 
attoreo 
sia 
alla 
Primogenita 
sia 
alla 
CAI, 
a 
cui 
quest’ultima 
rispondeva, 
dichiarando 
che 
in 
Senegal 
sin 
dalla 
fine 
del 
2011 
si 
era 
creata 
una 
situazione 
di 
stallo nelle 
adozioni 
internazionali 
a 
causa 
dell'istituzione 
di 
un'autorità 
centrale 
per effetto della 
Convenzione 
dell'Aja 
del 
1993 e 
che 
sarebbero state 
portate 
a conclusione solamente le procedure depositate prima del 1 dicembre 2011; 
- gli attori nel mese di marzo 2018 revocano quindi il mandato conferito a la Primogenita. 
In diritto hanno dedotto la 
sussistenza, a 
carico della 
onlus, della 
violazione 
delle 
norme 
in 
materia 
di 
adozione 
(l. 184/1983) e 
di 
correttezza 
e 
buona 
fede 
nell’esecuzione 
del 
mandato, 
in specie 
con riferimento al 
dovere 
di 
informare 
i 
coniugi 
(omissis), che 
dal 
1 dicembre 
2011 
le 
adozioni 
in Senegal 
erano sospese, illudendoli 
fino all’ottobre 
2017, allorquando essi 
avevano 
ricevuto la 
missiva 
da 
parte 
di 
CAI sopra 
citata; 
stigmatizzava 
altresì 
il 
comportamento 
tenuto dalla 
onlus, che, da 
un lato, aveva 
continuato a 
richiedere 
somme 
asseritamente 
necessarie 
per le 
procedure 
in Italia 
ed all’estero, per i 
percorsi 
formativi 
e 
altro, inducendoli 
a 
sostenere 
costi 
rivelatisi 
inutili 
(vaccinazioni, etc.) ed illudendoli 
del 
buon esito delle 
procedure, 
dall’altro, gli aveva impedito di valutare alternative di adozione. 
quanto 
alla 
responsabilità 
in 
capo 
alla 
CAI, 
la 
carenza 
di 
controllo 
e 
la 
vigilanza 
sulla 
condotta 
de 
la 
Primogenita 
appariva 
evidente 
e 
gli 
inadempimenti 
verificatisi 
avrebbero dovuto comportare 
la 
revoca 
dell’autorizzazione; 
di 
conseguenza 
essa 
doveva 
ritenersi 
responsabile 
solidalmente 
con l’associazione. 
Il 
danno 
patito 
era 
rappresentato 
a 
titolo 
di 
danno 
patrimoniale 
dall’importo 
complessivamente 
versato 
pari 
ad 
€ 
17.700,00, 
oltre 
al 
costo 
delle 
vaccinazioni 
per 
€ 
403,00 
nonché 
per 
una 
nuova 
pratica 
di 
adozione 
ed il 
pregiudizio non patrimoniale, rappresentato dalla 
lesione 
del-
l’affidamento 
riposto 
nella 
onlus 
di 
poter 
adottare 
un 
bambino, 
perdendo 
così 
la 
chance 
di 
averne 
uno in prospettiva 
per via 
del 
tempo ormai 
trascorso e 
dell’età 
avanzata, essendo stabilito 
che l’età dei coniugi incideva sull’età dell’adottando. 
Gli 
attori 
hanno 
quindi 
chiesto 
la 
risoluzione 
del 
contratto 
per 
inadempimento 
e 
la 
restituzione 
di 
quanto versato (€ 17.700,00, oltre 
ai 
costi 
per le 
vaccinazioni 
pari 
ad € 403,00), dal 
momento 
che 
la 
controparte 
era 
perfettamente 
a 
conoscenza 
della 
normativa 
italiana 
e 
straniera; 
nonché 
il 
risarcimento del 
danno non patrimoniale, quantificato in € 100.000,00, sia 
nei 
confronti 
della 
Primogenita 
sia 
della 
Commissione 
Adozioni 
Internazionali 
(CAI), 
in 
quanto 
aveva 
omesso la vigilanza dovuta. 
la 
convenuta 
CAI 
nel 
costituirsi 
ha 
evidenziato 
che 
il 
Senegal 
aveva 
ratificato 
la 
Convenzione 
dell'Aja 
del 
1993 soltanto il 
24/08/2011 e 
da 
allora 
le 
adozioni 
erano state 
fortemente 
ridotte, 
ma 
non 
erano 
cessate 
completamente; 
infatti 
dal 
dicembre 
2011 
per 
l'adottabilità 
era 
necessario 
che 
il 
minore 
fosse 
stato 
dichiarato 
abbandonato 
o 
che 
i 
genitori 
o 
il 
consiglio 
di 
famiglia 
avessero prestato consenso all'adozione; 
essa 
si 
era 
interessata 
alle 
adozioni 
in tale 
Paese, inviando 
la 
missiva 
del 
14.3.2012, 
per 
sollecitare 
tutte 
le 
associazioni 
che 
si 
occupavano 
di 
adozioni 
ed 
operavano 
a 
livello 
locale 
a 
fornire 
le 
indicazioni 
sulle 
adozioni 
pendenti 
e 
con 
missive 
successive 
a 
non accettare 
altre 
richieste 
riguardanti 
bambini 
senegalesi; 
la 
commissione 
aveva 
sempre 
vigilato sull'operato della 
Primogenita, che 
aveva 
compiuto tutto quanto 
era 
nelle 
sue 
possibilità, 
portando 
a 
termine 
altre 
procedure 
(6) 
di 
adozione 
in 
Senegal 
pendenti 
al 
settembre 
2012, per cui 
l'allungamento dei 
tempi 
procedimentali 
era 
dovuto alle 
autorità 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


senegalesi, che 
avevano poteri 
discrezionali 
nelle 
procedure; 
in particolare, dopo la 
segnalazione 
degli 
attori 
nell'ottobre 
2017, aveva 
operato i 
dovuti 
controlli 
e 
chiesto chiarimenti 
alla 
Primogenita, 
la 
quale 
con 
nota 
del 
24.10.2017 
aveva 
dichiarato 
essere 
in 
corso 
di 
conclusione 
la 
procedura 
adottiva 
presentata 
dagli 
attori, 
in 
quanto 
in 
attesa 
della 
ordinanza 
di 
abbinamento; 
inoltre 
la 
sussistenza 
di 
un eventuale 
inadempimento in capo a 
la 
Primogenita 
non 
implicava 
automaticamente 
la 
propria 
responsabilità 
per 
omissione 
in 
vigilando, 
avendo 
controllato 
sulle 
procedure 
attive 
e 
concluse, interpellando tutti 
gli 
enti 
autorizzati 
ad operare 
in 
Senegal 
circa 
l’andamento delle 
procedure 
ivi 
pendenti, riscontrando le 
informazioni 
fornite 
con quelle 
tratte 
dal 
paese 
africano in questione, con la 
conseguenza 
che 
non era 
rinvenibile 
alcun comportamento negligente dell’associazione. 
CAI ha, inoltre, contestato l'an 
del 
danno subito dagli 
attori, per avere 
costoro concorso nella 
tardiva 
segnalazione 
dell'asserito 
inadempimento 
di 
la 
Primogenita, 
e 
anche 
il 
quantum, 
rappresentato 
dal 
danno 
per 
mancato 
coronamento 
del 
desiderio 
di 
genitorialità, 
trattandosi 
di 
mero interesse 
legittimo, conseguente 
alla 
dichiarazione 
di 
idoneità 
all'adozione, non tutelato 
né 
costituzionalmente, né 
dalle 
Convenzioni 
internazionali, che 
proteggono solo l'interesse 
del minore ad essere cresciuto in una famiglia. 
la 
CAI ha 
pertanto concluso per il 
rigetto delle 
avverse 
pretese 
e, in subordine, per l’applicazione 
dell'art. 1227 c.c. con riguardo al 
danno patrimoniale 
ed il 
rigetto per quello non patrimoniale, 
non potendo trovare 
tutela 
costituzionale 
il 
mancato coronamento del 
desiderio 
di genitorialità adottiva. 
A 
sua 
volta 
la 
Primogenita, premesso di 
essere 
presente 
in Senegal 
da 
oltre 
15 anni, durante 
i 
quali 
si 
era 
conquistata 
la 
fiducia 
delle 
autorità 
locali 
e 
giudiziarie, avendo realizzato, quasi 
interamente 
a 
proprie 
spese, numerosi 
progetti 
(costruzione 
di 
un ospedale 
a 
kaolack, sistemazione 
e 
realizzazione 
di 
orfanatrofio 
a 
Dakar, 
la 
realizzazione 
di 
asilo/orfanatrofio 
a 
Diourbel, 
acquisti 
e 
rifornimenti 
di 
attrezzature 
e 
materiale 
didattico per diverse 
scuole 
materne 
di 
varie 
regioni 
del 
Senegal) e 
svolgendo in generale 
attività 
umanitaria 
e 
di 
assistenza 
alle 
popolazioni 
locali, ha 
evidenziato che 
per i 
coniugi 
(omissis) la 
provenienza 
dell’adottando dal 
suddetto Paese 
costituiva 
una 
condizione 
necessaria 
per l’adozione 
ed era 
il 
motivo per cui 
si 
erano ad essa 
rivolti; 
di 
aver subito informato i 
coniugi 
che 
era 
più prudente 
presentare 
la 
domanda 
anche 
presso un altro Tribunale 
dei 
minori, pendendo davanti 
a 
quello di 
Dakar altre 
6 domande, conclusesi 
tra 
settembre 
2012 ed agosto 2014; 
per tale 
ragione 
dall’ottobre 
2014 
aveva 
preso contatto con l’autorità 
giudiziaria 
ed alla 
fine 
di 
novembre 
2015 aveva 
ottenuto 
l’abbinamento di 
un bambino; 
tuttavia 
il 
nuovo presidente 
dell’ufficio, da 
poco insediatosi, 
aveva 
revocato l’abbinamento, affidando il 
bambino ad una 
coppia 
locale; 
per tale 
ragione 
i 
coniugi 
erano stati 
informati 
e 
consigliati 
di 
presentare 
domanda 
presso altro tribunale, nella 
specie 
Djourbel, dove, a 
seguito di 
numerosi 
viaggi 
e 
lunghe 
trattative 
con l’autorità 
locale, 
nel 
mese 
di 
luglio 2016 veniva 
proposto un abbinamento degli 
attori 
ad una 
bambina, ma 
i 
tempi 
si 
erano dilatati 
a 
causa 
di 
rinvii 
continui 
dell’udienza 
da 
parte 
del 
Presidente 
del 
Tribunale, 
fino 
a 
quando 
era 
pervenuta 
la 
revoca 
dell’incarico 
da 
parte 
degli 
attori, 
per 
cui 
la 
bambina veniva abbinata ad altra coppia italiana con cui si stava concludendo l’adozione. 
In diritto ha 
sostenuto l’assenza 
di 
inadempimento, spiegando difese 
analoghe 
alla 
CAI per 
quando riguardava 
la 
situazione 
delle 
adozioni 
in Senegal; 
con riguardo al 
proprio operato ha 
evidenziato di 
aver concluso procedure 
di 
adozione 
depositate 
dalla 
medesima 
anche 
dopo il 
2011, nonostante 
i 
rallentamenti 
subiti, e 
che, quanto alle 
obbligazioni 
negoziali, la 
clausola 
riguardante 
l’oggetto ed il 
contenuto dell’incarico precisava 
espressamente 
che 
“l’ente 
non 
può garantire 
il 
buon esito della pratica di 
adozione 
internazionale 
essendo determinante, in 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


merito, la volontà delle 
autorità straniere” 
e 
che 
era 
esclusa 
la 
responsabilità 
della 
stessa 
nei 
casi 
“di 
allungamento dei 
tempi 
previsti 
o prevedibili 
per 
il 
perfezionamento dell’adozione, 
ovvero, interruzione 
del 
procedimento adottivo causata da eventi 
politici, revoca dell’adottabilità 
dell’adottando, modifiche 
normative/legislative, calamità, guerre 
o altre 
circostanza 
impreviste 
e 
imprevedibili”; 
infine 
ha 
rilevato che 
la 
prova 
dell’adempimento dell’incarico 
era 
costituita 
dalla 
conclusione 
della 
pratica 
con 
l’abbinamento 
della 
bambina 
Diara 
agli 
attori 
e rimanendo la restante attività in capo a questi ultimi. 
In punto quantum 
debeatur, sotto l’aspetto patrimoniale, ha 
contestato che 
costituisse 
danno 
-come 
tale 
rimborsabile 
-i 
contributi 
volontari, 
le 
quote 
associative 
e 
le 
spese 
di 
vaccinazione, 
mentre 
sotto l’aspetto non patrimoniale 
la 
richiesta 
era 
infondata 
e 
comunque 
spropositata, 
concludendo per il rigetto di ogni pretesa 
ex adverso 
formulata. 
la 
causa 
veniva 
istruita 
documentalmente 
e 
mediante 
assunzione 
di 
prove 
orali 
per 
interpello 
del 
legale 
rappresentante 
de 
la 
Primogenita 
e 
per testi 
dedotti 
da 
parte 
attrice 
e 
la 
onlus; 
veniva 
quindi 
trattenuta 
in decisione 
all’udienza 
del 
13 febbraio 2020, previa 
concessione 
dei 
termini ex art.190 c.p.c. 

1. la 
prima 
domanda 
proposta 
dai 
coniugi 
(omissis) è 
diretta 
alla 
risoluzione 
del 
contratto di 
mandato 
concluso 
in 
data 
18 
dicembre 
2011 
con 
la 
Primogenita 
(doc. 
2 
attoreo) 
con 
condanna 
di 
quest’ultima 
alla 
restituzione 
delle 
somme 
ricevute 
nell’ambito dell’incarico conferitole, 
il 
tutto per complessivi 
€ 18.103,00, ed al 
risarcimento del 
danno patrimoniale 
e 
non patito, 
quantificato in € 100.000,00. 
Il 
contratto stabiliva 
i 
costi 
dell’adozione, disciplinati 
nell’allegato A, di 
cui 
€ 5000,00 per il 
costo 
per 
l’espletamento 
della 
procedura 
amministrativa 
in 
Italia, 
ed 
un 
costo 
variabile 
nei 
paesi 
esteri 
(€ 9.000.00 per il 
Senegal) per la 
preparazione 
dei 
documenti 
e 
le 
relazioni 
di 
aggiornamento, 
l’invio dei 
documenti, traduzioni, deposito presso autorità 
straniera, assistenza 
professionale 
in 
loco, 
spostamenti 
interni, 
mantenimento 
del 
minore 
e 
preparazione 
documenti 
del 
predetto; 
non sono contestate 
da 
la 
Primogenita 
le 
somme 
versate 
dagli 
attori, seppure 
a 
vario titolo. 
Assumono gli 
attori 
che 
l’ente, abilitato dalla 
CAI, abbia 
violato tutti 
i 
doveri 
che 
gli 
sono 
imposti 
per legge, tra 
cui 
in particolare 
quello di 
informare 
i 
mandanti 
della 
circostanza 
che 
a 
far data 
dal 
1 dicembre 
del 
2011 le 
adozioni 
in Senegal 
fossero sostanzialmente 
sospese, 
avendo ricevuto a 
partire 
dal 
marzo 2012 plurime 
comunicazione 
di 
CAI in tal 
senso (doc.1 
CAI) in ragione 
della 
situazione 
del 
predetto Paese, che 
avrebbe 
“deciso di 
sospendere 
l’accettazione 
di 
nuove 
istanze 
di 
adozione 
internazionale 
fino 
all’avvenuta 
implementazione 
della 
Convenzione 
de 
l’Aja 
recentemente 
ratificata”, con richiesta 
di 
riferire 
in merito alle 
attività 
in corso in Senegal, precisando quali 
procedure 
fossero “attualmente 
pendenti 
e 
con 
quali prospettive di definizione”. 
Ciò 
avrebbe 
loro 
impedito 
di 
valutare 
un 
differente 
paese 
di 
origine 
per 
il 
bimbo 
da 
adottare, 
come 
risultava 
dall’incarico 
conferito, 
in 
cui 
essi 
avevano 
indicato, 
oltre 
al 
Senegal, 
altri 
due 
paesi, 
India 
e 
kirghzistan, 
secondo 
quanto 
risultante 
dall’estratto 
del 
sito 
CAI 
(doc. 
14 
attoreo). 
I 
testi 
di 
parte 
Primogenita 
hanno 
tuttavia 
riferito 
che 
la 
coppia 
aveva 
sin 
da 
subito 
manifestato 
una 
netta 
preferenza 
per 
il 
Senegal, 
anche 
se 
non 
in 
via 
esclusiva, 
come 
riferito 
dal 
teste 
(omissis) 
di 
parte 
attrice, 
ed 
è 
evidente 
che 
la 
onlus 
non 
potesse 
presentare 
domande 
in 
paesi 
diversi 
contemporaneamente. 
Premesso 
che 
costituisce 
circostanza 
pacifica, 
che 
il 
Senegal 
avesse 
ratificato 
la 
Convenzione 
dell’Aja 
soltanto in data 
24.8.2011 e 
che 
la 
stessa 
fosse 
entrata 
in vigore 
in data 
1.12.2011, 
per cui 
il 
paese 
doveva 
procedere 
all’adeguamento del 
quadro istituzionale 
e 
procedurale 
ai 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


principi 
dettati 
dalla 
convenzione 
medesima, 
la 
documentazione 
acquisita 
soprattutto 
da 
parte 
di 
CAI comprova 
che 
le 
adozioni 
in tale 
paese 
sono state 
molto rallentate, ma 
non sono del 
tutto cessate. 
Inoltre 
è 
emerso dalle 
deposizioni 
testimoniali 
(teste 
(omissis)) che, in una 
riunione 
organizzata 
da 
la 
Primogenita 
in data 
7 dicembre 
2015 con tutte 
le 
coppie 
interessate 
alle 
adozioni 
in Senegal, l’ente 
avesse 
informato dei 
rallentamenti, anche 
se 
non che 
la 
CAI avesse 
sconsigliato 
le adozioni in tale Paese. 
Sussiste 
quindi 
effettivamente 
a 
partire 
dalla 
fine 
del 
2012 la 
violazione 
da 
parte 
dell’organizzazione 
dell’obbligo 
informativo, 
stabilito 
dall’art.1710 
c.c.: 
“Il 
mandatario 
è 
tenuto 
a 
rendere 
note 
al 
mandante 
le 
circostanze 
sopravvenute 
che 
possono 
determinare 
la 
revoca 
o 
la 
modificazione del mandato”. 
Infatti 
il 
mandatario è 
tenuto ad osservare 
tale 
obbligazione, al 
fine 
di 
rendere 
edotto il 
mandante 
delle 
circostanze 
che 
siano non solo sopravvenute, tale 
intendendosi 
anche 
quelle 
preesistenti 
delle 
quali 
il 
mandatario 
abbia 
avuto 
conoscenza 
successivamente 
al 
conferimento 
del 
mandato, ma 
anche 
le 
circostanze 
conosciute 
prima 
del 
mandato ovvero assunte 
contestualmente, 
che 
possono determinare 
la 
revoca 
o la 
modificazione 
del 
mandato, ai 
sensi 
dell’art.
1710 c.c. (Cass. 1929 del 24/02/1987). 
Infatti 
grava 
sul 
mandatario l’obbligo di 
compiere 
gli 
atti 
giuridici 
previsti 
dal 
contratto con 
la 
diligenza 
del 
buon padre 
di 
famiglia 
(Cass. 11419 del 
18/05/2009 e 
19778 del 
23/12/2003 
sul fatto del terzo per liberarlo da responsabilità). 
Anche 
la 
stessa 
circostanza 
dell’allungamento 
dei 
tempi, 
conseguenti 
al 
cambio 
dei 
riferimenti 
normativi 
dopo la 
ratifica 
della 
Convenzione 
dell’Aja 
da 
parte 
del 
Senegal, non risulta 
chiaramente 
comunicata 
alla 
coppia 
in esame, la 
quale 
è 
stata 
al 
contrario sempre 
illusa, verosimilmente 
in 
buona 
fede, 
della 
possibilità 
del 
buon 
fine 
della 
pratica, 
quantomeno 
fino 
alla 
riunione 
del 
7 dicembre 
2015 (cui 
si 
riferisce 
il 
capitolo 9 della 
prova 
per testi 
attorea), allorquando 
le 
coppie 
in attesa 
di 
adozione 
in Senegal 
furono informate 
dell’incertezza 
dei 
tempi 
per via del cambiamento dei giudici che si occupavano di adozione. 
Se 
quindi 
sotto l’aspetto fattuale 
risulta 
incontestata 
la 
presentazione 
della 
domanda 
di 
adozione 
presso il 
Tribunale 
di 
fatik in data 
10 dicembre 
2012, seppur non sia 
stata 
rilasciata 
alcuna 
ricevuta, e 
che 
sia 
stata 
in seguito depositata 
domanda 
presso il 
Tribunale 
di 
Dakar nel 
mese 
di 
maggio 2014 (come 
da 
relativa 
ricevuta, doc. 23), così 
come 
l’espletamento delle 
attività 
compiute 
in 
seguito, 
relativamente 
alla 
proposta 
di 
abbinamento 
della 
coppia 
ad 
un 
bambino, 
che 
poi 
venne 
affidato 
ad 
una 
coppia 
senegalese, 
come 
pure 
della 
proposta 
di 
abbinamento di 
una 
bambina 
nel 
2017, nonché 
di 
quelle 
a latere 
necessarie 
per preparare 
il 
terreno 
per 
l’accoglimento 
delle 
stesse 
(mediante 
la 
realizzazione 
delle 
opere 
previste 
dal 
mandato tipo piccoli 
ospedali, orfanatrofi, asili, assistenza 
di 
vario tipo), non può affermarsi 
che il dovere di comunicazione sia stato adempiuto con diligenza. 
Al 
contrario 
la 
scarsa 
trasparenza 
nella 
gestione 
della 
procedura 
di 
adozione, 
specialmente 
per quanto riguarda 
l’aspetto degli 
obblighi 
informativi, che 
contemplavano anche 
l’onere 
di 
proporre 
altre 
soluzioni 
con 
riferimento 
ai 
due 
Stati 
indicati 
nella 
scheda 
(doc.14), 
rappresenta 
indubitabilmente un inadempimento. 
È 
tuttavia 
difficile 
configurare 
una 
violazione 
di 
tale 
gravità 
da 
giustificare 
la 
domanda 
risolutoria, 
potendo 
ciò 
rilevare 
al 
fine 
di 
fondare 
la 
legittimità 
della 
revoca 
del 
mandato 
e 
la 
conseguente 
riduzione 
dei 
compensi 
spettanti 
alla 
onlus, 
come 
disciplinati 
dalla 
clausola 
che 
recita: 
“qualora 
il 
rapporto 
tra 
Ente 
e 
la 
coppia 
si 
interrompa, 
a 
fronte 
di 
somme 
versate, 
l’Ente tratterrà l’importo di competenza (vedi allegato A punto 6)”. 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


occorre, infatti, considerare 
che, nel 
caso di 
specie, l’obbligazione 
gravante 
sul 
mandatario è 
rappresentata 
principalmente 
dalla 
messa 
in atto di 
tutte 
le 
attività 
necessarie 
per curare 
per 
conto 
dei 
mandanti 
la 
pratica 
di 
adozione, 
ma 
non 
può 
spingersi 
fino 
a 
pretendere 
il 
buon 
esito della 
stessa, come 
previsto nella 
clausola 
negoziale 
che 
regola 
l’oggetto ed il 
contenuto 
dell’incarico, posto che 
è 
considerata 
determinante 
“in merito, la 
volontà 
delle 
Autorità 
straniere”. 
Gli 
stessi 
coniugi 
(omissis) dovevano essere 
consapevoli 
che 
la 
responsabilità 
della 
onlus 
era 
esclusa, come 
pattiziamente 
convenuto, nel 
caso di 
allungamento dei 
tempi 
previsti 


o 
prevedibili 
per 
il 
perfezionamento 
dell’adozione, 
ovvero, 
interruzione 
del 
procedimento 
adottivo, causata 
da: 
eventi 
politici, revoca 
dell’adottabilità 
dell’adottato, modifiche 
normative/
legislative, calamità, guerre o altre circostanze impreviste e imprevedibili”. 
orbene, 
rappresenta 
circostanza 
non 
imputabile 
alla 
condotta 
della 
onlus 
la 
modifica 
della 
procedura 
di 
adozione 
a 
seguito della 
ratifica 
della 
Convenzione 
dell’Aja 
proprio nell’anno 
2011 da 
parte 
dello stato senegalese, come 
pure 
il 
cambio del 
giudice 
competente 
in materia 
presso il 
Tribunale 
di 
Dakar, come 
pure 
la 
revoca 
dell’adottabilità 
dell’adottato affidato ad 
una coppia locale avvenuta con il minore Eduard Alì keyta nel novembre 2015. 
Ciò che 
si 
imputa 
a 
la 
Primogenita 
è, come 
già 
detto, la 
poca 
trasparenza 
e 
comunicazione 
di 
tutti 
questi 
elementi, che 
avrebbero magari 
indotto la 
coppia 
a 
revocare 
prima 
l’incarico 
oppure 
dirottare 
le 
energie 
per la 
presentazione 
della 
domanda 
nei 
residui 
paesi 
individuati 
al 
momento del conferimento dell’incarico. 
Inoltre 
l’art. 22 l. Adozioni 
al 
comma 
secondo stabilisce 
che 
“in ogni 
momento a 
coloro che 
intendono adottare 
devono essere 
fornite, se 
richieste, notizie 
sullo stato del 
procedimento”; 
sebbene 
tale 
norma 
sia 
collocata 
nella 
parte 
che 
disciplina 
l’affidamento preadottivo, e 
non 
direttamente 
i 
rapporti 
con le 
organizzazioni 
che 
si 
occupano di 
adozioni, è 
evidente 
che 
nel 
corso dei periodici incontri con le coppie tali informazioni potevano essere richieste. 
nulla 
di 
tutto ciò è 
stato provato dagli 
attori, che 
non risultano aver richiesto notizie 
o chiarimenti 
fino alla missiva inviata a mezzo PEC dall’Avv.to bianchi alla CAI ed a la favorita 
nel mese di ottobre 2017 (doc. 5 attoreo). 
A 
ciò si 
aggiunga 
che 
rappresenta 
fatto notorio che, nell’ambiente 
delle 
coppie 
che 
aspirano 
ad adottare 
minori 
stranieri, siano in atto iniziative 
di 
vario tipo per consentire 
lo scambio di 
informazioni 
in maniera 
costante 
e 
continuativa, per cui 
è 
verosimile 
che 
ben prima 
della 
riunione 
del 
dicembre 
2015 i 
coniugi 
(omissis) fossero a 
conoscenza 
della 
situazione 
creatasi 
in 
Senegal, del 
rallentamento delle 
pratiche 
di 
adozione 
in tale 
Paese, come 
riferito dal 
teste 
bastoni 
Simone: 
“tuttavia la procedura in senegal 
aveva avuto dei 
rallentamenti 
per 
problemi 
burocratici; 
abbiamo 
atteso 
quasi 
un 
anno 
ad 
aspettare 
la 
ratifica 
della 
Convenzione 
dell’aja 
da parte del senegal, circostanza che ci fu detta subito”. 
D’altra 
parte 
è 
documentato che 
le 
adozioni 
in tale 
Paese 
fossero diminuite 
a 
causa 
del 
rallentamento 
delle 
procedure 
e 
della 
limitazione 
degli 
spazi 
a 
seguito della 
ratifica 
della 
Convenzione 
de 
l’Aja, ma 
non fossero completamente 
bloccate, come 
dichiarato alla 
CAI dalle 
autorità 
senegalesi 
e 
come 
confermato 
dalla 
circostanza 
che 
dal 
2011 
le 
procedure 
di 
adozione 
in tale 
Stato sono state 
34, di 
cui 
la 
maggior parte 
hanno riguardato minori 
nati 
dopo il 
2011. 
Essendo la 
pratica 
degli 
attori 
stata 
presentata 
presso il 
Tribunale 
di 
fatik in data 
10.12.2012 
e 
non avendo la 
CAI mai 
vietato o sospeso le 
procedure 
di 
adozione 
in corso, tra 
cui 
quella 
dei 
coniugi 
(omissis), comunicata 
in data 
10.5.2013 da 
la 
Primogenita, essa 
ha 
continuato la 
procedura, nella 
speranza 
di 
portarla 
avanti 
in altri 
tribunali 
del 
paese, come 
poi 
fece 
adoperandosi 
per ottenere 
un abbinamento presso il 
Tribunale 
di 
Djourbel, avendo nel 
frattempo 
definito altre procedure di adozione. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


Del 
resto il 
doc. 9 prodotto dalla 
CAI, che 
rappresenta 
l’elenco delle 
procedure 
di 
adozione 
conclusesi 
in Senegal 
tramite 
varie 
organizzazioni, tra 
cui 
la 
stessa 
la 
Primogenita, seppur 
contestato 
da 
parte 
attrice 
in 
quanto 
unilateralmente 
formato, 
dimostra 
che 
negli 
anni 
dal 
2012 
al 
2015 le 
adozioni 
sono state 
portate 
a 
termine; 
trattandosi 
di 
procedimenti 
per i 
quali 
vige 
riservatezza 
assoluta, la 
scrivente 
non ha 
ritenuto di 
dover richiedere 
ulteriori 
informazioni 
ai 
sensi dell’art. 213 c.p.c. 
Del 
resto il 
teste 
senegalese 
ha 
riferito che 
alla 
coppia 
degli 
attori 
vennero proposti 
due 
abbinamenti, 
il 
primo revocato dal 
Tribunale 
di 
Dakar nell’anno 2015, come 
confermato dalla 
dichiarazione 
(resa 
in data 
20 febbraio 2019) dal 
Presidente 
del 
Tribunale 
regionale 
di 
Dakar 
all’epoca 
dei 
fatti, 
Aminata 
ly 
ndiaye 
(doc. 
42 
la 
Primogenita), 
ed 
il 
secondo 
nel 
luglio 
2016 
presso il 
Tribunale 
di 
Djourbel, che 
gli 
stessi 
non hanno portato avanti, avendo revocato l’incarico. 
la 
domanda 
nei 
confronti 
di 
la 
Primogenita 
va 
quindi 
respinta 
e 
ciò 
comporta 
l’assorbimento 
delle questioni riguardanti la CAI. 
le 
spese 
di 
lite 
vanno poste 
a 
carico degli 
attori 
in considerazione 
della 
loro soccombenza 
e 
sono liquidate 
in dispositivo secondo i 
valori 
medi 
delle 
cause 
di 
valore 
compreso tra 
lo scaglione 
da 
€ 52.001,00 ad € 260.000,00, posta 
la 
lunghezza 
degli 
accertamenti 
istruttori 
e 
la 
particolare singolarità della vicenda. 


P.q.M. 
Il 
Tribunale, definitivamente 
pronunciando, ogni 
diversa 
istanza 
ed eccezione 
disattesa 
o assorbita, 
così dispone: 
rigetta le domande tutte formulate da parte degli attori; 
condanna 
gli 
attori 
in solido tra 
loro a 
rimborsare 
alle 
parti 
convenute 
le 
spese 
di 
lite, che 
si 
liquidano in € 13.000,00 per compenso, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali; 
bologna, 17 settembre 2020. 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


L’accesso civico generalizzato in materia 
di appalti alla luce della Plenaria n. 10/2020 


Nota 
a 
CoNsiGlio 
Di 
stato, aDUNaNza 
PleNaria, seNteNza 
2 aPrile 
2020 N. 10 


Alessandro Belli* 


Con 
l’adunanza 
Plenaria 
n. 
10/2020, 
il 
Consiglio 
di 
stato 
risolve 
il 
contrasto 
interpretativo 
relativo 
all’applicabilità 
dell’accesso 
civico 
generalizzato 
di 
cui 
al 
d.lgs. 33/2013 in materia di 
appalti, offrendo spunti 
di 
riflessione 
sulla 
dibattuta questione della natura giuridica di tale strumento di accesso. 

sommario: 1. la vicenda -2. l’accesso civico generalizzato -3. l’accesso in materia 
di 
appalti 
ex 
art. 53 d.lgs. 50/2016 -4. il 
contrasto interpretativo -5. la soluzione 
dell’adunanza 
Plenaria 
-6. 
sulla 
natura 
giuridica 
del 
diritto 
di 
accesso 
civico 
alla 
luce 
dell’adunanza 
Plenaria. 


1. la vicenda. 
Una 
società 
impugna 
innanzi 
al 
TAr Toscana 
la 
nota 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
che 
nega 
l’istanza 
di 
accesso 
ai 
documenti 
relativi 
all’esecuzione 
del 
“servizio integrato energia per le Pubbliche 
amministrazioni”. 

l’appellante 
contesta 
il 
diniego alla 
richiesta 
di 
accesso ai 
documenti 
di 
gara 
ai 
sensi 
della 
l. 
241/1990 
esponendo 
di 
essere 
titolare 
di 
un 
interesse, 
qualificato 
e 
differenziato, come 
partecipante 
alla 
gara 
per l’affidamento del 
servizio 
in oggetto, classificatosi al secondo posto in graduatoria. 


lamenta 
inoltre 
l’erroneità 
del 
rifiuto della 
P.A. alla 
richiesta 
di 
accesso 
civico generalizzato in quanto, uti 
civis, avrebbe 
diritto di 
accedere 
ai 
dati 
e 
documenti detenuti dalla P.A. 

Il 
Tar 
Toscana 
con 
sentenza 
577/2019 
respinge 
il 
ricorso 
ritenendo 
l’istanza meramente esplorativa. 


Avverso tale 
sentenza 
la 
società 
ricorre 
al 
Consiglio di 
Stato per violazione 
della 
l. 241/1990 in materia 
di 
accesso e 
del 
d.lgs. 33/2013 in materia 
di 
accesso civico generalizzato. 


Con l’ordinanza 
16 dicembre 
2019, n. 8501, la 
III Sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
ravvisando 
un 
contrasto 
giurisprudenziale 
in 
ordine 
alle 
questioni 
oggetto 
del giudizio, rimette all’Adunanza Plenaria tre quesiti: 


a) 
se 
sia 
configurabile 
o 
meno, 
in 
capo 
all’operatore 
economico, 
utilmente 
collocato 
nella 
graduatoria 
dei 
concorrenti, 
determinata 
all’esito 
della 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica 
per 
la 
scelta 
del 
contraente, 
la 
titolarità 
di 
un 
interesse 
giu(*) 
Dottore 
in Giurisprudenza, ammesso alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato 
(avv. St. Antonio Grumetto). 



ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


ridicamente 
protetto, 
ai 
sensi 
dell’art. 
22 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
ad 
avere 
accesso 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
delle 
prestazioni, 
in 
vista 
della 
eventuale 
sollecitazione 
del 
potere 
dell’amministrazione 
di 
provocare 
la 
risoluzione 
per 
inadempimento 
dell’appaltatore 
ed 
il 
conseguente 
interpello 
per 
il 
nuovo 
affidamento 
del 
contratto, 
secondo 
la 
regola 
dello 
scorrimento 
della 
graduatoria; 


b) 
se 
la 
disciplina 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
n. 
33 
del 
2013, 
come 
modificato 
dal 
d.lgs. 
n. 
97 
del 
2016, 
sia 
applicabile, 
in 
tutto 
o 
in 
parte, 
in 
relazione 
ai 
documenti 
relativi 
alle 
attività 
delle 
amministrazioni 
disciplinate 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, 
inerenti 
al 
procedimento 
di 
evidenza 
pubblica 
e 
alla 
successiva 
fase 
esecutiva, 
ferme 
restando 
le 
limitazioni 
ed 
esclusioni 
oggettive 
previste 
dallo 
stesso 
codice; 
c) 
se, in presenza 
di 
una 
istanza 
di 
accesso ai 
documenti 
espressamente 
motivata 
con 
esclusivo 
riferimento 
alla 
disciplina 
generale 
di 
cui 
alla 
l. 
241/1990, 
o 
ai 
suoi 
elementi 
sostanziali, 
la 
pubblica 
amministrazione, 
una 
volta 
accertata 
la 
carenza 
del 
necessario presupposto legittimante 
della 
titolarità 
di 
un 
interesse 
differenziato 
in 
capo 
al 
richiedente, 
ai 
sensi 
dell’art. 
22 
della 
l. 241 del 
1990, sia 
comunque 
tenuta 
ad accogliere 
la 
richiesta, qualora 
sussistano 
le 
condizioni 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
di 
cui 
al 
d.lgs. 
n. 
33/2013; 
e 
se 
di 
conseguenza 
il 
giudice, in sede 
di 
esame 
del 
ricorso avverso 
il 
diniego 
di 
una 
istanza 
di 
accesso 
motivata 
con 
riferimento 
alla 
disciplina 
ordinaria, di 
cui 
alla 
l. 241/1990 o ai 
suoi 
presupposti 
sostanziali, abbia 
il 
potere-
dovere 
di 
accertare 
la 
sussistenza 
del 
diritto del 
richiedente 
secondo i 
più 
ampi 
parametri 
di 
legittimazione 
attiva 
stabiliti 
dalla 
disciplina 
dell’accesso 
civico generalizzato. 
Tra 
le 
questioni 
sollevate 
suscita 
particolare 
interesse 
la 
seconda 
in 
quanto: 


-interviene 
a 
risolvere 
il 
contrasto giurisprudenziale 
relativo all’applicabilità 
dell’accesso civico generalizzato alle 
informazioni 
e 
documenti 
che, in 
materia 
di 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, servizi 
e 
forniture, ineriscono al 
procedimento 
di evidenza pubblica e alla successiva fase esecutiva; 
-stimola 
una 
riflessione 
sulla 
natura 
giuridica 
del 
diritto di 
accesso generalizzato. 
Per comprendere 
appieno le 
radici 
del 
problema 
che 
la 
Plenaria 
risolve, 
è 
bene 
tratteggiare 
brevemente 
la 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato 
nonché quella dettata dall’art. 53, d.lgs 50/2016. 

2. l’accesso civico generalizzato. 
l’accesso civico generalizzato, introdotto con il 
d.lgs. 97/2016, si 
ispira 
al 
modello statunitense 
del 
foIA 
(Freedom 
of 
information act) (1). questo 


(1) Per una 
disamina 
del 
modello statunitense, ispiratore 
dei 
sistemi 
di 
accesso generalizzato europeo 
e 
degli 
Stati 
nazionali, si 
veda 
DIAnA 
UrAnIA 
GAlETTA, 
la trasparenza, per 
un nuovo rapporto 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


istituto segna 
il 
passaggio dal 
c.d. need to know al 
c.d. right 
to know: 
dal 
bisogno 
di 
conoscere, 
soddisfatto 
mediante 
il 
diritto 
di 
accesso 
ex 
241/1990, 
strumentale 
alla 
protezione 
di 
un interesse 
individuale, al 
diritto di 
conoscere, 
volto a garantire la massima trasparenza dell’attività amministrativa (2). 

l’accesso civico generalizzato implica 
la 
possibilità 
per chiunque 
di 
accedere 
a 
documenti 
dati 
e 
informazioni 
posseduti 
dalla 
P.A., 
a 
prescindere 
dalla 
titolarità 
di 
un 
interesse 
personale, 
concreto 
e 
attuale 
riferito 
alla 
tutela 
di 
una 
situazione 
giuridica 
differenziata, 
richiesto 
invece 
in 
materia 
di 
accesso 
documentale 
dall’art. 
22, 
legge 
241/1990 
(3). 
l’accesso 
di 
terza 
generazione, 
introdotto 
dopo 
l’accesso 
documentale 
e 
l’accesso 
civico 
semplice, 
è 
definito 
reattivo 
perché, 
a 
differenza 
dell’accesso 
civico 
semplice, 
definito 
invece 
proattivo 
(4), 
non 
tende 
all’adempimento 
da 
parte 
della 


P.A. 
degli 
obblighi 
di 
pubblicazione 
ma 
mira 
a 
soddisfare 
la 
richiesta 
del 
singolo 
cittadino 
ad 
informarsi 
sull’attività 
della 
P.A. 
(5). 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
può 
avere 
ad 
oggetto 
oltre 
a 
documenti, 
anche 
dati 
e 
informazioni 
di 
cui 
la 
P.A. 
sia 
in 
possesso 
(6). 
C’è 
quindi 
una 
maggiore 
estensione 
quantitativa 
rispetto 
all’accesso 
documentale 
sia 
soggettivamente, 
in 
quanto 
qualsiasi 
cittadino 
è 
legittimato 
a 
presentare 
istanza 
di 
accesso 
civico, 
che 
tra 
cittadino 
e 
pubblica 
amministrazione: 
un’analisi 
storico-evolutiva, 
in 
una 
prospettiva 
di 
diritto 
comparato 
ed europeo, in rivista italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fascicolo 5, pp. 1019 e ss. 


(2) v. il 
Parere 
del 
Consiglio di 
Stato n. 515/2016 che 
ha 
evidenziato come 
«il 
passaggio dal 
bisogno 
di 
conoscere 
al 
diritto 
di 
conoscere 
(from 
need 
to 
right 
to 
know, 
nella 
definizione 
inglese 
F.o.i.a.) 
rappresenta per 
l’ordinamento nazionale 
una sorta di 
rivoluzione 
copernicana, potendosi 
davvero evocare 
la nota immagine 
(…) della Pubblica amministrazione 
trasparente 
come 
una “casa di 
vetro”». 
la 
tematica 
della 
trasparenza 
della 
pubblica 
amministrazione 
è 
stata 
diffusamente 
affrontata 
in dottrina 
si 
vedano GIUSEPPE 
AnTonIo 
ArEnA, trasparenza amministrativa, in SAbIno 
CASSESE 
(a 
cura 
di), Dizionario 
di 
diritto 
pubblico, 
Milano, 
2006, 
pp. 
5945 
e 
ss.; 
AlDo 
MAzzInI 
SAnDUllI, 
la 
trasparenza 
amministrativa 
e 
l'informazione 
ai 
cittadini, 
in 
GIUlIo 
nAPolITAno 
(a 
cura 
di), 
Diritto 
amministrativo 
comparato, Milano, 2007, pp. 158 e ss. 
(3) 
v. 
sui 
presupposti 
del 
diritto 
di 
accesso 
documentale 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
III, 
n. 
1578/2018; 
in dottrina 
per una 
diffusa 
ricostruzione 
dell’istituto si 
rinvia 
a 
SArA 
SErGIo, l’azione 
amministrativa: 
partecipazione, trasparenza e accesso, napoli, 2019, pp. 167 e ss. 
(4) Sull’accesso civico semplice 
si 
veda 
SArA 
SErGIo, l’azione 
amministrativa: partecipazione, 
trasparenza 
e 
accesso, 
napoli, 
2019, 
p. 
150, 
secondo 
la 
quale 
con 
il 
d.lgs. 
33/2013 
viene 
ideata 
una 
nuova 
concezione 
di 
trasparenza 
amministrativa, nella 
misura 
in cui 
le 
informazioni 
in possesso delle 
Amministrazioni 
non sono più accessibili 
soltanto su richiesta 
dell’interessato ma, grazie 
ad un’azione 
positiva 
della 
P.A., sono pubblicate 
sui 
siti 
istituzionali 
e 
messe 
a 
disposizione 
di 
chiunque 
abbia 
interesse. 
(5) v. Corte 
cost., n. 155/2002, secondo la 
quale 
la 
visibilità 
del 
potere 
garantisce 
la 
necessaria 
democraticità 
del 
processo continuo di 
informazione 
e 
formazione 
dell’opinione 
pubblica; 
v. anche 
di 
recente 
Corte 
Cost., sentenza 
n. 20/2019 che 
rimarca 
come 
il 
diritto dei 
cittadini 
ad accedere 
ai 
dati 
in 
possesso 
della 
P.A., 
risponde 
a 
principi 
di 
pubblicità 
e 
trasparenza 
riferiti 
al 
principio 
democratico 
espresso dall’art. 1 Costituzione 
nonché 
ai 
principi 
di 
imparzialità 
e 
buon andamento della 
P.A. ai 
sensi 
dell’art. 97 Costituzione. 
(6) Sul 
concetto di 
informazioni 
si 
vedano le 
linee 
guida Foia, allegate 
alla 
delibera 
Anac 
del 
28.12.2016, n. 1309 che 
le 
qualificano come 
“le 
rielaborazioni 
di 
dati 
detenuti 
dalle 
amministrazioni 
effettuate per propri fini contenuti in distinti documenti”. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


oggettivamente, 
in 
quanto 
la 
richiesta 
può 
avere 
ad 
oggetto 
non 
solo 
documenti 
ma 
anche 
dati 
e 
informazioni. 


A 
questa 
maggiore 
estensione 
corrisponde 
però rispetto all’accesso della 
241/1990 una 
minore 
profondità 
nel 
senso che 
i 
limiti 
che 
la 
P.A. può opporre 
all’accesso sono maggiori (7). 


Chiunque 
ha 
quindi 
diritto di 
accedere 
ma 
nel 
rispetto dei 
limiti 
posti 
per 
la 
tutela 
di 
situazioni 
giuridicamente 
rilevanti 
secondo 
quanto 
previsto 
dal 
decreto 
(8). 

Ci 
sono 
pertanto 
i 
c.d. 
interessi 
limite, 
cioè 
interessi 
la 
cui 
tutela 
giustifica 
il 
diniego 
della 
richiesta 
di 
accesso 
generalizzato. 
Esistono 
due 
tipologie 
di 
eccezioni: 


-Eccezioni 
assolute, rispetto alle 
quali 
il 
legislatore 
prevede 
che 
vi 
sono 
una 
serie 
di 
documenti 
ex 
se 
esclusi 
dall’accesso perché 
coperti 
dal 
segreto di 
Stato o sussistono specifici 
divieti 
di 
divulgazione 
(9). le 
eccezioni 
assolute 
del 
diritto 
di 
accesso, 
disciplinate 
dall’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
d.lgs. 
33/2013, 
escludono l’accesso nei 
casi 
di 
Segreto di 
Stato, negli 
altri 
casi 
di 
divieto di 
accesso 
o 
divulgazione 
previsti 
dalla 
legge 
«ivi 
compresi 
i 
casi 
in 
cui 
l’accesso 
è 
subordinato dalla disciplina vigente 
al 
rispetto di 
specifiche 
condizioni/modalità 
o limiti 
inclusi 
quelli 
di 
cui 
all’art. 24 comma 1 della 241 del 
90». Il 
senso di 
quest’ultimo inciso è 
all’origine 
della 
questione 
risolta 
dalla 
Plenaria 
e perciò sarà esaminato più approfonditamente in seguito; 
-Eccezioni 
relative, 
la 
cui 
individuazione 
è 
demandata 
ad 
una 
valutazione 
discrezionale 
della 
P.A. che 
può negare 
l’accesso con considerazioni 
da 
fare 


(7) v. in tal 
senso AlfrEDo 
MolITErnI, la natura giuridica dell’accesso civico generalizzato nel 
sistema di 
trasparenza nei 
confronti 
dei 
pubblici 
poteri, in Diritto amministrativo, fascicolo 3, 2019, 
pp. 577 e ss. 
(8) Sulla 
importanza 
delle 
eccezioni 
nel 
sistema 
informativo dettato dal 
d.lgs. 33/2013, v. MArIo 
fIlICE, i limiti 
all’accesso civico generalizzato: tecniche 
e 
problemi 
applicativi, in Diritto amministrativo, 
fascicolo 4, 2019, p. 861 ove 
afferma 
che 
«le 
eccezioni 
(…) 
rappresentano un punto cruciale 
del-
l’architettura normativa della libertà di 
accesso in italia come 
in tutti 
i 
sistemi 
Foia; giacchè 
servono 
a 
garantire 
quel 
difficile 
equilibrio 
fra 
la 
conoscibilità 
delle 
informazioni 
pubbliche 
e 
la 
tutela 
di 
alcuni 
interessi qualificati». 
(9) 
v. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
Iv, 
n. 
2496/2020 
la 
quale 
sulla 
funzione 
delle 
eccezioni 
assolute, 
afferma 
che 
«le 
eccezioni 
assolute 
sono 
state 
previste 
dal 
legislatore 
per 
garantire 
un 
livello 
di 
protezione 
massima a determinati 
interessi, ritenuti 
di 
particolare 
rilevanza per 
l’ordinamento giuridico, come 
è 
in 
modo 
emblematico 
per 
il 
segreto 
di 
stato, 
sicchè 
il 
legislatore 
ha 
operato 
già 
a 
monte 
una 
valutazione 
assiologica e 
li 
ha ritenuti 
superiori 
rispetto alla conoscibilità diffusa di 
dati 
e 
documenti 
amministrativi
» 
e 
aggiunge 
che 
«in 
questo 
caso 
la 
pubblica 
amministrazione 
esercita 
un 
potere 
vincolato, 
che 
deve 
essere 
necessariamente 
preceduto 
da 
un’attenta 
e 
motivata 
valutazione 
in 
ordine 
alla 
ricorrenza, 
rispetto 
alla singola istanza, di 
una eccezione 
assoluta e 
dalla sussunzione 
del 
caso nell’ambito dell’eccezione 
assoluta, 
che 
è 
di 
stretta 
interpretazione»; 
nello 
stesso 
senso 
si 
esprime 
in 
dottrina 
MArIo 
fIlICE, 
i 
limiti 
all’accesso civico generalizzato: tecniche 
e 
problemi 
applicativi, in Diritto amministrativo, fascicolo 
4, 
2019, 
p. 
862 
il 
quale 
afferma 
che 
la 
natura 
vincolata 
del 
potere 
in 
caso 
di 
eccezioni 
assolute 
non 
esima 
la 
P.A. dalla 
necessaria 
verifica 
che 
il 
dato o documento rientri 
nella 
tipologia 
oggetto dell’eccezione 
assoluta, curando esaustivamente le ragioni alla base del diniego. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


volta 
per volta 
e 
in concreto, tra 
l’esigenza 
di 
trasparenza 
sottesa 
all’accesso 
civico 
generalizzato 
e 
la 
riservatezza 
o 
la 
tutela 
degli 
interessi 
che 
in 
vario 
modo giustificano il diniego (10). 


Infine, 
alla 
luce 
del 
principio 
di 
proporzionalità, 
i 
successivi 
commi 
4 
e 
5 
dell’art. 
5-bis 
prevedono 
la 
possibilità 
per 
la 
P.A. 
di 
escludere 
l’accesso 
solo 
rispetto 
ad 
alcuni 
dati 
o 
alcune 
parti 
del 
documento 
richiesto, 
o 
di 
fare 
ricorso 
al 
potere 
di 
differimento 
ove 
sufficiente 
a 
garantire 
la 
tutela 
dei 
suddetti 
interessi. 


3. l’accesso in materia di appalti ex art. 53 d.lgs. 50/2016. 
l’accesso 
in 
materia 
di 
appalti 
si 
caratterizza 
per 
la 
sua 
specialità 
rispetto 
alla 
disciplina 
generale, 
vista 
la 
rilevanza 
degli 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
che devono essere garantiti in questa materia (11). 


la 
norma 
di 
riferimento è 
l’art. 53 del 
Codice 
dei 
Contratti 
Pubblici 
che 
richiama 
la 
disciplina 
generale 
in 
materia 
di 
accesso 
documentale 
ai 
sensi 
della 
241/1990, salvo quanto espressamente 
previsto dal 
Codice 
stesso in materia 
di 
accesso 
agli 
atti. 
questo 
prevede 
che, 
fatta 
salva 
la 
disciplina 
per 
gli 
appalti 
secretati 
o la 
cui 
esecuzione 
richiede 
speciali 
misure 
di 
sicurezza, cui 
non si 
applica 
la 
disciplina 
dell’accesso documentale 
nè 
quello dell’accesso civico 
generalizzato, sussiste un differimento temporale: 


-nelle 
procedure 
aperte, 
in 
relazione 
all’elenco 
dei 
soggetti 
che 
hanno 
presentato l’offerta, fino alla scadenza del termine. 


-nelle 
procedure 
ristrette 
e 
negoziate, in relazione 
ai 
soggetti 
che 
hanno 
fatto richiesta 
di 
essere 
invitati 
o hanno manifestato il 
loro interesse, fino alla 
scadenza del termine per la presentazione delle offerte medesime. 
- in relazione alle offerte, fino all’aggiudicazione; 
-in relazione 
al 
procedimento di 
verifica 
della 
anomalia 
dell'offerta, fino 
all'aggiudicazione. 
rispetto a 
tali 
documenti 
quindi 
non c’è 
un’esclusione 
in assoluto ma 
un 


(10) 
Sono 
elencate 
dall’art. 
5-bis, 
comma 
1 
che 
individua 
gli 
interessi 
pubblici 
che 
possono 
escludere 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
ovvero 
la 
sicurezza 
pubblica, 
le 
questioni 
internazionali, 
le 
questioni 
militari, la 
stabilità 
finanziaria, le 
indagini 
sui 
reati, il 
regolare 
svolgimento delle 
attività 
ispettive. Il 
secondo 
comma 
in materia 
di 
interessi 
privati 
afferma 
che 
l’accesso può essere 
escluso se 
il 
diniego è 
necessario 
per 
evitare 
un 
pregiudizio 
concreto 
alla 
riservatezza, 
alla 
libertà 
e 
segretezza 
della 
corrispondenza, agli 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
di 
una 
persona 
fisica 
e 
giuridica 
compresa 
la 
tutela 
della 
proprietà 
intellettuale, 
del 
diritto 
d’autore 
e 
dei 
segreti 
commerciali. 
Sulla 
struttura 
del 
processo 
valutativo che 
la 
P.A. deve 
compiere 
si 
veda 
ancora 
MArIo 
fIlICE, i limiti 
all’accesso civico generalizzato: 
tecniche 
e 
problemi 
applicativi, 
in 
Diritto 
amministrativo, 
fascicolo 
4, 
2019, 
p. 
870 
il 
quale 
afferma 
che 
le 
amministrazioni 
sono chiamate 
a 
valutare 
comparativamente 
se 
la 
diffusione 
di 
quanto richiesto 
soddisfi 
meglio 
l’interesse 
generale 
rispetto 
al 
diniego 
dell’accesso; 
nello 
stesso 
senso 
si 
veda 
AnnA 
CorrADo, 
Conoscere 
per 
partecipare: 
la 
strada 
tracciata 
dalla 
trasparenza 
amministrativa, 
napoli, 
2018, pp. 178-180. 
(11) 
Per 
una 
analisi 
più 
approfondita 
della 
disciplina 
speciale 
sull’accesso 
nel 
settore 
dei 
contratti 
pubblici 
si 
rimanda 
a 
lUCIA 
MInErvInI, accesso agli 
atti 
e 
procedure 
di 
affidamento ed esecuzione 
di 
contratti pubblici, in Foro ammministrativo, fascicolo 5, 2019, pp. 949 e ss. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


differimento 
nell’accesso. 
le 
ragioni 
di 
tale 
differimento 
sono 
evidenti: 
un 
accesso 
immediato creerebbe 
il 
rischio di 
alterare 
il 
regolare 
svolgimento della 
gara. 
Si 
prevede 
quindi 
o 
che 
la 
gara 
sia 
conclusa 
(lett. 
c) 
e 
d) 
comma 
2) 
oppure 
che 
sia 
scaduto il 
termine 
per presentare 
le 
offerte 
(laddove 
l’accesso riguardi 
l’offerta 
medesima, 
o 
meglio 
il 
nominativo 
del 
soggetto 
che 
ha 
presentato 
l’offerta 
nella 
procedura 
aperta 
oppure 
ha 
chiesto di 
essere 
invitato in quella 
ristretta). 


la 
ratio 
è 
quella 
di 
preservare 
la 
regolare 
competizione 
tra 
i 
concorrenti 
e 
il 
buon andamento della 
procedura 
di 
gara 
da 
indebite 
influenze, intromissioni 
e 
turbamenti 
prima 
della 
conclusione 
della 
gara 
(o prima 
che 
si 
sia 
perlomeno 
esaurita 
una 
certa 
fase 
della 
gara) nei 
confronti 
di 
chiunque, sia 
che 
agisca 
uti singolus 
sia che agisca 
uti civis. 


Altre 
eccezioni 
rispetto al 
diritto d’accesso sono contenute 
nel 
comma 
5, 
che 
prevede 
un’esclusione 
assoluta 
del 
diritto di 
accesso in relazione 
ad una 
serie di atti che sono: 


-ai 
sensi 
della 
lett. a) 
le 
«informazioni 
fornite 
nell'ambito dell'offerta o 
a giustificazione 
della medesima che 
costituiscano, secondo motivata e 
comprovata 
dichiarazione 
dell'offerente, segreti 
tecnici 
o commerciali». la 
ratio 
è 
di 
tutela 
della 
riservatezza 
commerciale 
dell’impresa. Si 
vuole 
evitare 
che 
l’accesso possa 
rappresentare 
un mezzo per carpire 
segreti 
commerciali 
e 
tecnici, 
ad esempio il 
know how 
produttivo; 
-ai 
sensi 
della 
lett. d) 
le 
«soluzioni 
tecniche 
e 
ai 
programmi 
per 
elaboratore 
utilizzati 
dalla stazione 
appaltante 
o dal 
gestore 
del 
sistema informatico 
per 
le 
aste 
elettroniche, 
ove 
coperti 
da 
diritti 
di 
privativa 
intellettuale». 
Anche 
qui 
c’è 
un’esigenza 
di 
tutela 
della 
proprietà 
intellettuale 
sulla 
soluzione 
tecnica 
e sul 
software 
utilizzato; 
-le 
eccezioni 
di 
cui 
alle 
lett. b) 
e 
c) 
prevedono invece 
la 
non accessibilità 
rispettivamente: 
«ai 
pareri 
legali 
acquisiti 
dai 
soggetti 
tenuti 
all'applicazione 
del 
presente 
codice, per 
la soluzione 
di 
liti, potenziali 
o in atto, relative 
ai 
contratti 
pubblici
»; 


«alle 
relazioni 
riservate 
del 
direttore 
dei 
lavori, del 
direttore 
dell'esecuzione 
e 
dell'organo 
di 
collaudo 
sulle 
domande 
e 
sulle 
riserve 
del 
soggetto 
esecutore 
del contratto». 


Si 
tratta 
di 
atti 
che 
potrebbero essere 
rilevanti 
in un contenzioso già 
pendente 
o comunque 
potenziale 
tra 
la 
stazione 
appaltante 
e 
colui 
che 
ha 
partecipato 
alla 
gara 
o 
che 
sta 
eseguendo 
il 
contratto. 
C’è 
quindi 
l’esigenza 
di 
preservare il diritto di difesa dell’amministrazione. 


Infine, dal 
combinato disposto dei 
commi 
5 e 
6 dell’art. 53, si 
evince 
che 
la 
tutela 
del 
segreto tecnico e 
commerciale 
è 
recessiva 
rispetto al 
diritto di 
accesso 
quando questo sia 
strumentale 
alla 
tutela 
in giudizio del 
richiedente. In 
tal 
caso, per giustificare 
il 
rifiuto è 
necessaria 
una 
specifica 
motivazione 
che 



rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


evidenzi 
le 
ragioni 
di 
“concreta 
segretezza 
commerciale” 
dell’offerta 
da 
parte 
dell’offerente 
e 
la 
stazione 
appaltante 
dovrà 
escludere 
l’effettiva 
utilità 
e/o 
pertinenza 
della 
documentazione 
richiesta 
ai 
fini 
della 
difesa 
in giudizio (12). 

4. il contrasto interpretativo. 
Esaminate 
brevemente 
la 
disciplina 
sull’accesso 
in 
materia 
di 
appalti 
e 
quella 
relativa 
all’accesso pubblico generalizzato, è 
possibile 
delineare 
i 
termini 
del contrasto risolto dall’Adunanza Plenaria. 

l’ordinanza 
di 
rimessione 
offre 
un quadro esaustivo del 
dibattito giurisprudenziale 
che 
si 
declina 
in 
due 
posizioni 
che 
emergono 
rispettivamente 
dalla 
sentenza 
della 
Sezione 
III 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
5 
giugno 
2019, 
n. 
3780 
e dalle sentenze gemelle della Sezione 
v, 2 agosto 2019, nn. 5502 e 5503. 


Secondo il 
primo orientamento (13), espresso dalla 
prima 
delle 
sentenze 
indicate, l’art. 53 del 
d.lgs. n. 50/2016, nel 
rinviare 
agli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 
241/1990, 
non 
implica 
l’esclusione 
totale 
dell’accesso 
pubblico 
generalizzato 
in 
relazione 
ai 
contratti 
pubblici 
perché 
il 
richiamo 
a 
specifiche 
condizioni, 
modalità 
e 
limiti 
(14), si 
riferisce 
a 
determinati 
casi 
in cui, per una 
materia 
altrimenti 
ricompresa 
per 
intero 
nella 
possibilità 
di 
accesso 
generalizzato, 
norme 
speciali 
o l’art. 24, comma 
1, della 
l. 241 del 
1990 possono prevedere 
specifiche 
restrizioni. Secondo la 
III Sezione 
è 
da 
privilegiare 
un’interpretazione 
conforme 
al 
principio 
di 
buon 
andamento 
ed 
imparzialità 
dell’amministrazione 
ex 
art. 
97 
Costituzione 
e 
tendente 
a 
valorizzare 
l’impatto 
“orizzontale” 
del-
l’accesso civico generalizzato, non limitabile 
da 
norme 
preesistenti 
ma 
solo 
da norme speciali, da interpretare restrittivamente. 


Il 
secondo orientamento (15), espresso dalla 
v 
Sezione 
del 
Consiglio di 
Stato (16), valorizzando il 
principio di 
specialità, afferma 
che 
l’eccezione 
as


(12) v. sul 
punto lUCIA 
MInErvInI, accesso agli 
atti 
e 
procedure 
di 
affidamento ed esecuzione 
di 
contratti pubblici, in Foro ammministrativo, fascicolo 5, 2019, pp. 949 e ss. 
(13) In dottrina 
si 
veda 
per un commento alla 
sentenza 
robErTo 
SChnEIDEr, il 
Consiglio di 
stato 
riconosce 
l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli 
atti 
di 
una procedura di 
gara, in l’amministrativista, 
2019. 
nella 
giurisprudenza 
di 
primo grado tale 
orientamento era 
già 
emerso, si 
veda 
per tutti 
Tar napoli 
n. 
5837/2019 che 
sottolinea 
l’importanza 
dell’applicazione 
della 
disciplina 
dell’accesso civico in materia 
di 
appalti, ove 
il 
rischio di 
corruzione 
è 
maggiore. Pertanto una 
volta 
che 
la 
gara 
si 
sia 
conclusa 
e 
sia 
venuta 
meno l’esigenza 
di 
tutelare 
la 
par 
condicio 
dei 
concorrenti, la 
possibilità 
di 
accesso civico risponde 
proprio ai 
canoni 
generali 
di 
controllo diffuso sul 
perseguimento dei 
compiti 
istituzionali 
e 
sul-
l’utilizzo delle risorse pubbliche, di cui all’art. 5-bis, d.lgs. n. 33/2013. 
(14) 
l’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
d.lgs. 
33/2013 
afferma 
infatti 
che 
il 
diritto 
accesso 
civico 
generalizzato 
«è 
escluso 
nei 
casi 
di 
segreto 
di 
stato 
e 
negli 
altri 
casi 
di 
divieto 
di 
accesso 
o 
divulgazione 
previsti 
dalla 
legge, ivi 
compresi 
i 
casi 
in cui 
l’accesso è 
subordinato dalla disciplina vigente 
al 
rispetto di 
specifiche 
condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della legge 241/1990». 
(15) Si 
vedano nella 
Giurisprudenza 
di 
primo grado Tar Emilia 
romagna, Parma, n. 197/2018; 
Tar lombardia, Milano, n. 630/2019. 
(16) Per una 
più approfondita 
analisi 
della 
sentenza 
si 
rinvia 
a 
MArGIoTTA 
GIUSI, accesso civico 
generalizzato in materia di 
affidamento e 
di 
esecuzione 
di 
contratti 
pubblici, in lamministrativista.it, 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


soluta, 
contemplata 
nell’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
del 
d.lgs. 
n. 
33/2013 
possa 
essere 
riferita 
a 
tutte 
le 
ipotesi 
in cui 
vi 
sia 
una 
disciplina 
speciale 
regolante 
il 
diritto 
di 
accesso 
in 
riferimento 
a 
determinati 
ambiti 
o 
materie. 
In 
materia 
di 
contratti 
pubblici 
la 
specialità 
della 
disciplina 
escluderebbe 
l’applicabilità 
della 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato in modo da 
soddisfare 
la 
trasparenza 
nel 
necessario 
bilanciamento 
con 
altri 
interessi 
sia 
pubblici 
che 
privati, 
attuando 
«specifiche 
direttive 
europee 
di 
settore 
che, tra l’altro, si 
preoccupano 
già di 
assicurare 
la trasparenza e 
la pubblicità negli 
affidamenti 
pubblici, nel 
rispetto di 
altri 
principi 
di 
rilevanza eurounitaria, in primo luogo di 
concorrenza, 
oltre 
che 
di 
economicità, 
efficacia 
e 
imparzialità» 
(17). 
Secondo 
questo 
orientamento, 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
non 
sarebbe 
nemmeno 
necessario 
in 
tale 
settore 
in 
quanto 
le 
finalità 
di 
trasparenza 
sono 
già 
soddisfatte 
dal 
ruolo 
di 
vigilanza 
svolto 
sui 
contratti 
pubblici 
dall’AnAC 
e 
dall’accesso 
civico 
semplice 
previsto 
dagli 
artt. 
3 
e 
5, 
comma 
1, 
del 
d.lgs. 
n. 
33/2013, 
vista 
l’ampiezza 
degli 
obblighi 
di 
pubblicazione 
previsti 
in 
capo 
alla 
pubblica 
amministrazione 
in tale contesto ordinamentale. 


Sulla 
base 
di 
queste 
considerazioni 
la 
v 
Sezione 
esclude 
l’applicazione 
dell’accesso civico generalizzato nel settore degli appalti. 

5. la soluzione dell’adunanza Plenaria. 
la 
Plenaria 
nell’ambito di 
una 
ricostruzione 
sistematica 
di 
ampio respiro 
in materia 
di 
accesso civico generalizzato (18), giunge 
ad elevarlo al 
rango di 
diritto fondamentale. 

l’accesso civico, ad avviso della 
Plenaria, è 
infatti 
espressione 
della 
libertà 
di 
manifestazione 
del 
pensiero 
intesa 
non 
solo 
come 
libertà 
di 
informare 
ma 
anche 
di 
informarsi 
per manifestare 
il 
pensiero, per diffondere 
notizie 
veritiere 
e 
costituisce 
una 
sorta 
di 
requisito necessario al 
buon funzionamento 
della 
democrazia 
che 
presuppone 
la 
trasparenza 
e 
la 
conoscibilità 
dei 
documenti, 
dei dati e delle informazioni (19). 

2019 
e 
a 
PATrIzIo 
rUbEChInI, 
appalti 
pubblici 
e 
diritto 
di 
accesso, 
in 
Giornale 
di 
Diritto 
amministrativo, 
fascicolo 2, 2020, pp. 232 e ss. 


(17) Così Consiglio di Stato, Sezione 
v, n. 5503/2019. 
(18) Il 
Consiglio di 
Stato in Adunanza 
Plenaria 
ancora 
infatti 
il 
diritto di 
accesso civico generalizzato 
non solo agli 
artt. 1, 2, 97, 117 Cost. ma 
anche 
all’art. 42 della 
Carta 
di 
nizza 
e 
10 della 
CEDU; 
v. anche 
Consiglio di 
Stato, Sezione 
Iv, sentenza 
n. 2496/2020 che 
nel 
fornire 
una 
prima 
applicazione 
del 
principio di 
diritto dell’Adunanza 
Plenaria, afferma 
che 
«la disciplina delle 
eccezioni 
assolute 
al 
diritto di 
accesso generalizzato è 
coperta da una riserva di 
legge, desumibile 
in modo chiaro dall’art. 
10 CeDU, secondo il 
quale 
la libertà di 
espressione 
include 
“la libertà di 
ricevere 
(…) 
informazioni 
(…) 
senza che 
vi 
possa essere 
ingerenza da parte 
delle 
autorità pubbliche”, e 
l’esercizio delle 
libertà 
garantite 
“può 
essere 
sottoposto 
alle 
formalità, 
condizioni, 
restrizioni 
o 
sanzioni 
che 
sono 
previste 
dalla 
legge 
e 
che 
costituiscono misure 
necessarie, in una società democratica” 
alla tutela di 
una serie 
di 
interessi, 
pubblici 
e 
privati 
-quale 
norma interposta ai 
sensi 
dell’art. 117 Cost., e 
la loro interpretazione 
non può che essere stretta, tassativizzante». 
(19) v. Adunanza 
Plenaria 
10/2020 la 
quale 
afferma 
che 
«bene 
si 
è 
osservato che 
il 
diritto di 
ac

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


quanto 
alla 
questione 
che 
qui 
si 
analizza 
l’Adunanza 
Plenaria, 
rinvenendo 
le 
origini 
del 
contrasto 
interpretativo 
nella 
“infelice 
formulazione 
della 
disposizione” 
di 
cui 
all’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
d.lgs. 
33/2013, 
supera 
l’interpretazione 
offerta 
dalla 
v 
Sezione 
che 
perviene 
a 
«spezzare 
l’indubbio 
nesso 
sistematico, 
già 
evidente 
nella 
formulazione 
del 
comma 
(“ivi 
compresi… 
inclusi”) 
fra 
i 
tre 
casi di eccezioni assolute al diritto di accesso previste da codesta norma». Il 
Consiglio di 
Stato giunge 
infatti 
a 
ritenere 
preferibile 
una 
«lettura unitaria a 
partire 
dall’endiadi 
“segreti 
e 
altri 
divieti 
di 
divulgazione”-evitando 
di 
scomporla e 
di 
trarne 
con ciò stesso dei 
nuovi, autonomi 
l’uno dagli 
altri, limiti, 
perché 
una lettura sistematica, convenzionalmente 
e 
costituzionalmente 
orientata, impone 
un necessario approccio restrittivo (ai 
limiti) secondo una 
interpretazione tassativizzante». 

Prosegue 
poi 
il 
Consiglio di 
Stato affermando che 
«la disposizione 
non 
può 
invero 
essere 
intesa 
nel 
senso 
di 
esentare 
dall’accesso 
generalizzato 
interi 
ambiti 
di 
materie 
per 
il 
sol 
fatto che 
esse 
prevedano casi 
di 
accesso limitato e 
condizionato, compresi 
quelli 
regolati 
dalla l. 241/1990, perché 
se 
così 
fosse, 
il 
principio di 
specialità condurrebbe 
sempre 
all’esclusione 
di 
quella materia 
dall’accesso, con la conseguenza, irragionevole, che 
la disciplina speciale 
o, 
addirittura, anche 
quella generale 
dell’accesso documentale, in quanto e 
per 
quanto richiamata per 
relationem 
dalla singola disciplina speciale, assorbirebbe 
e “fagociterebbe” l’accesso civico generalizzato». 


quindi 
l’art. 5-bis, 
comma 
3, d.lgs. n. 33/2013 disciplina 
eccezioni 
assolute 
come 
quelle 
del 
segreto di 
Stato o altri 
previsti 
dalle 
varie 
leggi 
settoriali 
(20). 
Per 
tali 
casi 
il 
rispetto 
della 
disciplina 
speciale, 
in 
virtù 
della 
ratio 
ad 
essa 
sottesa, preclude 
l’accessibilità 
totale 
di 
dati 
e 
documenti 
che 
è 
incompatibile 
con la tipologia di documento. 

Al 
di 
là 
di 
tali 
casi 
però il 
rapporto tra 
le 
due 
discipline 
dell’accesso documentale 
e 
dell’accesso civico generalizzato non può essere 
risolto in base 
al 
criterio 
di 
specialità 
ma 
«secondo 
un 
canone 
ermeneutico 
di 
completamento/
inclusione, in quanto la logica di 
fondo sottesa alla relazione 
tra le 
discipline 
non 
è 
quella 
della 
separazione; 
ma 
quella 
dell’integrazione 
dei 
diversi 
regimi, pur 
nelle 
loro differenze, in vista della tutela preferenziale 
dell’interesse 
conoscitivo che 
rifugge 
in sé 
da una segregazione 
assoluta “per 
materia” 
delle 
singole 
discipline». 
Sarà 
quindi 
compito 
dell’interprete 
indagare 
caso per caso -l’art. 5-bis, comma 
3, d.lgs. 33/2013 parla 
infatti 
di 
«altri 
casi 


cesso 
civico 
è 
precondizione, 
in 
questo 
senso, 
per 
l’esercizio 
di 
ogni 
altro 
diritto 
fondamentale 
nel 
nostro 
ordinamento perché 
solo conoscere 
consente 
di 
determinarsi, in una visione 
nuova del 
rapporto tra potere 
e 
cittadino 
che, 
improntata 
ad 
un 
aperto 
e, 
perciò 
stesso, 
dialettico 
confronto 
tra 
l’interesse 
pubblico 
e quello privato, fuoriesce dalla logica binaria e conflittuale autorità/libertà». 


(20) 
v. 
a 
titolo 
esemplificativo 
il 
segreto 
statistico 
ex 
art. 
9 
d.lgs. 
n. 
322 
del 
1989; 
il 
segreto 
militare 
disciplinato 
dal 
r.D. 
161/1941; 
il 
segreto 
bancario 
previsto 
dall’art. 
7, 
d.lgs. 
n. 
385/1993; 
il 
segreto 
scientifico e il segreto industriale di cui all’art. 623 c.p. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


di 
divieti 
di 
accesso o divulgazione 
previsti 
dalla legge» -se 
il 
«filtro posto 
dal 
legislatore 
a determinati 
casi 
di 
accesso sia radicalmente 
incompatibile 
con l’accesso civico generalizzato». 


quanto 
al 
rapporto 
tra 
la 
disciplina 
dell’accesso 
generalizzato 
e 
quella 
dell’accesso in materia 
di 
contratti 
pubblici, l’Adunanza 
Plenaria 
afferma 
che 
nell’art. 
53 
del 
d.lgs. 
50/2016 
non 
possa 
rinvenirsi 
una 
eccezione 
assoluta 
alla 
prima 
in quanto la 
limitazione 
temporale 
all’accesso prevista 
per alcuni 
documenti 
(art. 53, comma 
2, d.lgs. 50/2016) e 
il 
divieto di 
pubblicazione 
previsto 
per 
altri 
(art. 
53, 
comma 
5, 
d.lgs. 
50/2016) 
non 
può 
comportare 
l’esclusione 
dell’intera 
materia 
dall’applicazione 
dell’accesso civico generalizzato 
«che 
riacquista la sua naturale 
vis 
expansiva una volta venute 
meno 
le ragioni che giustificano siffatti limiti, condizioni o modalità di accesso». 


Al 
di 
fuori 
di 
questi 
casi 
l’accesso 
è 
consentito 
ed 
è 
rimesso, 
come 
accade 
per 
l’accesso 
civico 
generalizzato, 
alla 
valutazione 
discrezionale 
dell’amministrazione. 


la 
norma 
rilevante 
è 
in particolare 
l’art. 5 
bis, comma 
2, d.lgs. 33/2013 
in tema 
di 
eccezioni 
relative 
all’accesso civico generalizzato a 
tutela 
di 
interessi 
privati. l’accesso in tali 
casi 
può essere 
negato motivatamente 
quando 
sono in gioco gli 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
della 
persona 
fisica 
e 
giuridica, 
ivi compresa la proprietà intellettuale (21). 


non 
c’è 
dubbio 
quindi 
che 
in 
materia 
di 
appalti, 
al 
momento 
dell’accesso, 
operi 
questo limite. l’amministrazione 
potrà, sulla 
base 
di 
quello che 
la 
Plenaria 
chiama 
il 
“test 
di 
proporzionalità”, respingere 
la 
richiesta 
di 
accesso civico 
generalizzato. 
Si 
tratta 
però 
di 
un’esclusione 
in 
concreto 
in 
quanto 
la 
materia non è esclusa in astratto (22). 


quindi 
l’accesso civico generalizzato è 
ammissibile 
anche 
in materia 
di 
appalti 
salvo i 
limiti 
giustificati 
dai 
particolari 
interessi 
tutelati 
dalla 
relativa 
disciplina speciale. 

questo chiarisce 
anche 
il 
senso della 
disposizione 
che 
esclude 
l’accesso 
civico generalizzato nel 
caso di 
segreto e 
nel 
caso in cui 
la 
disciplina 
vigente 
subordini 
l’accesso al 
rispetto di 
particolari 
limiti, definita 
di 
“infelice 
formu


(21) Sul 
punto la 
Plenaria 
afferma 
che 
«questo obiettivo può e 
deve 
essere 
conseguito appunto, 
in 
una 
equilibrata 
applicazione 
del 
limite 
previsto 
dall’art. 
5-bis, 
comma 
2, 
lett. 
c), 
del 
d.lgs. 
n. 
33/2013, 
secondo un canone 
di 
proporzionalità, proprio del 
test 
del 
danno (c.d. harm 
test), che 
preservi 
il 
knowhow 
industriale 
e 
commerciale 
dell’aggiudicatario o di 
altro operatore 
economico partecipante 
senza 
sacrificare 
del 
tutto l’esigenza di 
una anche 
parziale 
conoscibilità di 
elementi 
fattuali, estranei 
a tale 
know-how o comunque 
ad essi 
non necessariamente 
legati, e 
ciò nell’interesse 
pubblico a conoscere, 
per 
esempio, 
come 
certe 
opere 
pubbliche 
di 
rilevanza 
strategica 
siano 
realizzate 
o 
certi 
livelli 
essenziali 
di assistenza vengano erogati da pubblici concessionari». 
(22) v. Consiglio di 
Stato, sez. Iv, 20 aprile 
2020 n. 2496, ove 
si 
afferma 
che 
se 
il 
giudice 
non 
ravvisa 
la 
presenza 
di 
eccezioni 
assolute 
-previste 
dal 
legislatore 
per garantire 
un livello di 
protezione 
massima 
a 
determinati 
interessi, ritenuti 
di 
particolare 
rilevanza 
per l’ordinamento giuridico, «procede 
con approccio restrittivo a valutare 
il 
pregiudizio per 
il 
c.d. interesse-limite 
contrapposto, nell’ottica 
del riscontro del pregiudizio concreto che connota le c.d. eccezioni relative». 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


lazione” 
dall’Adunanza 
Plenaria. la 
disposizione 
esprime 
il 
principio in base 
al 
quale, data 
la 
struttura 
dell’accesso civico generalizzato e 
dell’accesso documentale, 
non possono essere 
conosciuti 
con il 
primo, documenti 
cui 
non si 
potrebbe 
accedere 
con il 
secondo. In altre 
parole, se 
un documento non può 
essere 
conosciuto neanche 
se 
l’istante 
ha 
un interesse 
attuale 
e 
concreto collegato 
ad una 
situazione 
giuridica, a 
maggior ragione 
non lo si 
potrà 
ottenere 
con 
l’accesso 
civico 
generalizzato, 
vista 
la 
minore 
profondità 
offerta 
dallo 
strumento dell’accesso civico generalizzato (23). 


6. sulla natura del 
diritto di 
accesso civico alla luce 
dell’adunanza Plenaria. 
In 
materia 
di 
accesso 
documentale 
di 
cui 
alla 
l. 
241 
del 
1990 
la 
P.A. 
è 
chiamata 
ad una 
attività 
di 
accertamento quasi 
vincolata 
in cui 
a 
fronte 
di 
una 
richiesta 
di 
accesso 
deve 
accertare 
se 
ci 
sono 
le 
condizioni 
di 
legge, 
non 
spendendo 
normalmente 
discrezionalità. l’esito del 
giudizio di 
bilanciamento tra 
l’interesse 
alla 
conoscenza 
del 
documento e 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
del 
controinteressato (24), è 
già 
predeterminato dal 
legislatore 
che 
all’art. 24 
stabilisce 
già 
ciò che 
è 
e 
ciò che 
non è 
accessibile 
se 
contiene 
dati 
personali, 
se non a certe condizioni. 

nell’accesso civico generalizzato invece, oltre 
alle 
eccezioni 
assolute 
in 
cui l’acceso non opera, sono disciplinate le eccezioni relative. 


In tale 
seconda 
ipotesi, di 
fronte 
ad una 
richiesta 
di 
accesso civico generalizzato, 
l’amministrazione 
è 
chiamata 
ad una 
sorta 
di 
test 
di 
proporzionalità 
ed a 
vedere 
di 
volta 
in volta 
se 
la 
tutela 
di 
un determinato interesse 
giustifica 
il 
non accoglimento o l’accoglimento solo parziale 
della 
richiesta 
di 
accesso. 
Emerge 
quindi 
un 
potere 
di 
bilanciamento 
che 
sembra 
evocare 
i 
tratti 
tipici 
della 
discrezionalità 
amministrativa 
il 
cui 
tratto caratteristico consiste 
nel 
bilanciamento 
di interessi. 


Se 
la 
Plenaria 
n. 6/2006 qualifica 
l’accesso documentale 
come 
una 
situazione 
strumentale, 
un 
mezzo 
di 
tutela 
di 
situazioni 
giuridiche 
che 
possono 
avere 
la 
consistenza 
di 
diritti 
e 
interessi 
giuridicamente 
rilevanti 
che 
non assurgono 
al 
rango nè 
di 
diritti 
soggettivi 
nè 
di 
interessi 
legittimi, l’accesso civico 
generalizzato 
invece 
viene 
qualificato 
dalla 
Plenaria 
che 
si 
esamina 
come 


(23) v. in tale 
senso MArIo 
fIlICE, i limiti 
all’accesso civico generalizzato: tecniche 
e 
problemi 
applicativi, in Diritto amministrativo, fascicolo 4, 2019 p. 864 secondo il 
quale 
il 
senso dell’ultimo inciso 
dell’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
d.lgs. 
33/2013 
che 
in 
tema 
di 
eccezioni 
assolute 
al 
diritto 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
rinvia 
alle 
ipotesi 
di 
esclusione 
previste 
dall’art. 
24, 
comma 
1, 
l. 
241/1990 
è 
quello 
di 
evitare 
«la 
situazione 
paradossale 
per 
cui 
uno 
stesso 
soggetto, 
utilizzando 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
-quindi 
senza motivare 
l’istanza né 
dimostrare 
uno specifico interesse 
-riesca a ottenere 
il 
rilascio di 
atti, precluso invece 
a fronte 
di 
una richiesta di 
accesso procedimentale 
suffragata dalla dimostrazione 
di un interesse qualificato». 
(24) Ai 
sensi 
dell’art. 22, legge 
241/1990, “controinteressato” 
in materia 
di 
accesso è 
il 
soggetto, 
individuato 
o 
facilmente 
individuabile 
in 
base 
alla 
natura 
del 
documento 
richiesto, 
che 
dall’esercizio 
dell’accesso vedrebbe compromesso il suo diritto alla riservatezza. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


un 
diritto 
fondamentale, 
addirittura 
come 
una 
sorta 
di 
precondizione 
per 
l’esercizio 
di 
tutti 
i 
diritti 
fondamentali, sul 
presupposto che 
l’accesso significa 
conoscenza 
e 
la 
conoscenza 
è 
alla 
base 
di 
tutto, anche 
dei 
diritti 
fondamentali 
della persona (25). 


la 
constata 
esistenza 
del 
potere 
discrezionale 
in 
capo 
alla 
P.A. 
porta 
qualcuno 
a 
ritenere 
che 
lo schema 
sia 
quello tipico dell’interesse 
legittimo in cui 
per accedere 
al 
bene 
della 
vita, cioè 
al 
documento o all’informazione, sia 
necessario 
l’esercizio di 
un potere 
amministrativo che 
va 
a 
bilanciare 
l’interesse 
del 
richiedente 
con altri 
interessi 
limite 
(26) che 
vanno a 
giustificare 
l’accoglimento 
dell’istanza. Se 
di 
diritto fondamentale 
si 
può parlare, sarebbe 
più 
corretto 
qualificare 
tale 
situazione 
come 
“interesse 
legittimo 
fondamentale” 
perché 
viene 
in rilievo una 
situazione 
di 
interesse 
legittimo, considerato che, 
l’esito positivo dell’istanza, soggiace 
ad un potere 
di 
bilanciamento della 
P.A. 
che 
può 
decidere 
che 
l’interesse 
dell’istante 
sia 
sacrificabile 
sull’altare 
di 
altri 
interessi limite (27). 


Consiglio 
di 
Stato, 
adunanza 
Plenaria, 
sentenza 
2 
aprile 
2020 
n. 
10 
-Pres. 
f. 
Patroni 
Griffi, 
est. 
M. 
noccelli 
-Diddi 
s.r.l. 
(avv. 
P. 
Adami) 
c. 
Azienda 
U.S.l. 
Toscana 
Centro, 
(avv.ti 


G.P. 
Mosca 
e 
M. 
foglia); 
C.n.S. 
Consorzio 
nazionale 
Servizi 
Società 
Cooperativa 
(avv.ti 
G.r. notarnicola, A. Police e f. Cintioli); Comune di Chiaramonte Gulfi (avv. A. Cariola). 
fATTo e DIrITTo 


1. l’odierna 
appellante, Diddi 
s.r.l., ha 
proposto ricorso avanti 
al 
Tribunale 
amministrativo 
(25) 
Parlano 
di 
un 
nuovo 
diritto 
costituzionale 
“emergente” 
da 
far 
rientrare 
“nel 
patrimonio 
irretrattabile 
della 
persona 
umana”, 
da 
ricondurre 
tra 
i 
diritti 
inviolabili 
dell’individuo 
CArlo 
ColAPIETro, 
MArCo 
rUoTolo, 
Diritti 
e 
libertà, 
in 
Diritto 
pubblico, 
a 
cura 
di 
frAnCo 
MoDUGno, 
Torino, 
2017, 
pp. 
592 
e 
ss. 
(26) 
In 
alcuni 
casi 
addirittura 
di 
merito 
politico: 
v. 
Consiglio 
di 
Stato 
n. 
1121/2020 
che, 
nel 
rifiutare 
l’accesso ai 
documenti 
relativi 
alle 
operazioni 
SAr, evidenzia 
che 
«(…) 
il 
diniego eventualmente 
opposto 
all’istanza, presupponendo una valutazione 
eminentemente 
discrezionale 
che 
non di 
rado può involgere 
-ratione 
materiae 
-profili 
di 
insindacabile 
merito politico, non potrebbe 
in alcun modo essere 
superato da una parallela valutazione 
del 
giudice 
amministrativo, il 
cui 
sindacato in materia va strettamente 
circoscritto alle 
ipotesi 
di 
manifesta e 
macroscopica contraddittorietà o irragionevolezza. il 
giudice 
amministrativo può quindi 
sindacare 
le 
valutazioni 
dell’amministrazione 
in ordine 
al 
diniego 
opposto 
solamente 
sotto 
il 
profilo 
della 
logicità, 
ragionevolezza 
ed 
adeguatezza 
dell’istruttoria, 
ma 
non 
procedere 
ad un’autonoma verifica della necessità del 
diniego opposto o della sua eventuale 
superabilità, 
sia 
pure 
parziale. 
Una 
siffatta 
valutazione, 
infatti, 
verrebbe 
ad 
integrare 
un’inammissibile 
invasione 
della sfera propria della pubblica amministrazione: tale 
sindacato rimane 
dunque 
limitato ai 
casi 
di 
macroscopiche 
illegittimità, quali 
errori 
di 
valutazione 
gravi 
ed evidenti, oppure 
valutazioni 
abnormi 
o 
inficiate da errori di fatto». 
(27) Sul 
concetto di 
interesse pubblico fondamentale 
si 
veda 
MArCo 
MAzzAMUTo, la discrezionalità 
come 
criterio di 
riparto della giurisdizione 
e 
gli 
interessi 
legittimi 
fondamentali, in giustizia amministrativa.
it, gennaio 2020 il 
quale 
nel 
definirli 
afferma 
che 
«se 
proprio si 
vogliono poi 
declinare, in 
chiave 
processuale, i 
diritti 
fondamentali 
ai 
fini 
del 
riparto, ben potrà affermarsi 
che 
tali 
posizioni 
soggettive, 
ogni 
qual 
volta si 
incuneino in rapporti 
di 
diritto pubblico, diano luogo a “interessi 
legittimi 
fondamentali”». 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


regionale 
per 
la 
Toscana 
avverso 
la 
nota 
dall’Azienda 
USl 
Toscana 
Centro 
del 
2 
gennaio 
2019 (di 
qui 
in avanti, per brevità, l’Azienda), che 
reca 
il 
diniego dell’istanza 
di 
accesso agli 
atti, presentata 
il 
6 dicembre 
2018, avente 
ad oggetto i 
documenti 
relativi 
all’esecuzione 
del 
«servizio integrato energia per 
le 
Pubbliche 
amministrazioni», svolto dal 
r.t.i. composto dal 
CnS 
-Consorzio 
nazionale 
Servizi 
Società 
Cooperativa 
(di 
seguito, 
per 
brevità, 
CnS) 
e 
dalle 
società Prima 
vera - Exitone -Termotecnia Sebina - Sof. 


1.1. A 
supporto di 
tale 
richiesta, l’appellante 
ha 
esposto di 
essere 
titolare 
di 
uno specifico interesse, 
qualificato 
e 
differenziato, 
avendo 
partecipato 
alla 
gara 
per 
l’affidamento 
del 
servizio 
in oggetto, nella 
qualità 
di 
mandante 
del 
r.t.i. costituito con altre 
società, classificatosi 
al 
secondo 
posto della graduatoria, relativa al lotto n. 5, concernente la regione 
Toscana. 
1.2. la 
dichiarata 
finalità 
dell’accesso era 
quella 
di 
verificare 
se 
l’esecuzione 
del 
contratto si 
stesse 
svolgendo nel 
rispetto del 
capitolato tecnico e 
dell’offerta 
migliorativa 
presentata 
dal-
l’aggiudicataria, 
poiché 
l’accertamento 
di 
eventuali 
inadempienze 
dell’appaltatore 
avrebbe 
determinato l’obbligo della 
pubblica 
amministrazione 
di 
procedere 
alla 
risoluzione 
del 
contratto 
e 
al 
conseguente 
affidamento del 
servizio alla 
stessa 
appellante, secondo le 
regole 
dello 
scorrimento 
della 
graduatoria 
di 
cui 
all’art. 
140 
del 
d. 
lgs. 
n. 
163 
del 
2006, 
applicabile 
ratione 
temporis 
alla vicenda in esame. 
1.3. 
l’istanza 
non 
si 
è 
richiamata 
espressamente 
ed 
esclusivamente 
alla 
disciplina 
dell’accesso 
documentale, prevista 
dalla 
l. n. 241 del 
1990, o a 
quello dell’accesso civico generalizzato, 
introdotto dal d. lgs. n. 97 del 2016. 
1.4. l’atto di 
diniego di 
accesso, opposto dalla 
pubblica 
amministrazione, è 
incentrato sulla 
motivazione 
per la 
quale 
«la documentazione 
richiesta concerne 
una serie 
di 
dati 
inerenti 
ad 
aspetti 
relativi 
all’esecuzione 
del 
rapporto 
contrattuale 
scaturito 
dalla 
gara 
in 
oggetto, 
e 
perciò 
ricompresi 
nel 
concetto 
più 
generale 
di 
atti 
delle 
procedure 
di 
affidamento 
e 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici», con la 
conseguente 
applicazione 
dei 
limiti, stabiliti 
dalla 
l. n. 241 del 
1990, tra 
i 
quali 
connessi 
alla 
necessaria 
titolarità, in capo al 
richiedente 
l’accesso, di 
un interesse 
qualificato. 
1.5. Secondo l’Azienda, Diddi 
s.r.l. non avrebbe 
dimostrato la 
concreta 
esistenza 
di 
una 
posizione 
qualificata, idonea a giustificare l’istanza di accesso. 
1.6. 
In 
ogni 
caso, 
a 
parere 
dell’Azienda, 
l’istanza 
di 
accesso 
non 
può 
essere 
accolta 
nemmeno 
in base 
alla 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato, poiché 
tale 
normativa 
non trova 
applicazione 
nel settore dei contratti pubblici. 
2. l’odierna 
appellante, come 
si 
è 
premesso (par. 1), ha 
impugnato ai 
sensi 
dell’art. 116 c.p.a. 
avanti 
al 
Tribunale 
amministrativo regionale 
per la 
Toscana 
il 
diniego di 
accesso, articolando 
due motivi, e ne ha chiesto l’annullamento. 
2.1. 
Diddi 
s.r.l. 
ha 
dedotto 
in 
prime 
cure, 
con 
un 
primo 
motivo, 
l’illegittimità 
del 
diniego 
perché, 
a 
suo 
dire, 
essa 
aveva 
un 
interesse 
qualificato 
e 
concreto, 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
22 
e 
ss. 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
a 
conoscere 
eventuali 
inadempienze 
verificatesi 
nell’esecuzione 
dell’appalto. 
2.2. 
Con 
un 
secondo 
motivo, 
poi, 
la 
ricorrente 
ha 
lamentato 
comunque 
l’erroneità 
del 
diniego 
opposto 
dall’Azienda 
anche 
con 
riferimento 
all’art. 
5 
del 
d. 
lgs. 
n. 
33 
del 
2013 
perché, 
secondo 
a 
sua 
tesi, con il 
nuovo accesso civico generalizzato avrebbe 
comunque 
diritto, uti 
civis, ad 
accedere ai documenti e ai dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni. 
2.3. nel 
primo grado del 
giudizio si 
sono costituite 
l’Azienda 
resistente, che 
ha 
eccepito il 
proprio difetto di 
legittimazione 
passiva, essendo essa 
priva 
della 
qualità 
di 
stazione 
appaltante, 
e 
comunque 
nel 
merito 
l’infondatezza 
della 
domanda 
di 
accesso 
proposta 
nonché 
S.n.C., 
controinteressata, 
che 
ha 
evidenziato 
come 
il 
Tribunale 
amministrativo 
regionale 
per 
il 
lazio, 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


sede 
di 
roma, con la 
sentenza 
n. 425 del 
14 gennaio 2019, avesse 
già 
respinto il 
ricorso avverso 
il 
diniego oppostole 
da 
Consip s.p.a. per l’accesso agli 
atti 
relativi 
alla 
fase 
di 
realizzazione 
della gara, ed ha comunque anch’essa concluso per l’infondatezza del ricorso. 


2.4. Il 
Tribunale 
amministrativo regionale 
per la 
Toscana, con la 
sentenza 
n. 577 del 
17 aprile 
2019, ha respinto il ricorso. 
2.5. Secondo il 
primo giudice, infatti, l’istanza 
di 
Diddi 
s.r.l., per il 
modo in cui 
è 
formulata, 
si 
tradurrebbe 
in una 
indagine 
esplorativa 
tesa 
alla 
ricerca 
di 
una 
qualche 
condotta 
inadempiente 
dell’attuale 
aggiudicataria, di 
per sé 
inammissibile, non risultando da 
alcuna 
fonte 
di 
provenienza 
delle 
amministrazioni 
interessate 
né 
avendo 
la 
ricorrente 
altrimenti 
fornito 
alcun 
elemento o indicato concrete circostanza in tal senso. 
2.6. 
quanto 
alla 
controversa 
applicabilità 
dell’accesso 
civico 
generalizzato 
anche 
alla 
materia 
dei 
contratti 
pubblici, poi, il 
primo giudice, nel 
dare 
atto di 
un contrasto giurisprudenziale 
sul 
punto, ha ritenuto che debba trovarsi il necessario punto di equilibrio risultante dall’applicazione 
dell’art. 
53 
del 
d. 
lgs. 
50 
del 
2016, 
che 
rinvia 
alla 
disciplina 
di 
cui 
agli 
artt. 
22 
e 
ss. 
della 
l. n. 241 del 1990 e dell’art. 5-bis, comma 3, del d. lgs. n. 33 del 2013. 
2.7. ne 
deriverebbe, a 
suo giudizio, una 
«disciplina complessa», risultante 
dall’applicazione 
dei 
diversi 
istituti 
dell’accesso ordinario e 
di 
quello civico, che 
hanno un diverso ambito di 
operatività e un diverso grado di profondità. 
2.8. In particolare, per quanto riguarda 
gli 
atti 
e 
i 
documenti 
della 
fase 
pubblicistica 
del 
procedimento, 
oltre 
all’accesso ordinario è 
consentito anche 
l’accesso civico generalizzato, allo 
scopo di 
favorire 
forme 
diffuse 
di 
controllo sul 
perseguimento delle 
funzioni 
istituzionali 
e 
sull’utilizzo 
delle 
risorse 
pubbliche 
nonché 
per 
promuovere 
la 
partecipazione 
al 
dibattito 
pubblico, 
mentre, 
per 
quanto 
attiene 
agli 
atti 
e 
ai 
documenti 
della 
fase 
esecutiva 
del 
rapporto 
contrattuale, 
l’accesso ordinario è 
consentito, ai 
sensi 
degli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 241 del 
1990, 
nel 
rispetto 
delle 
condizioni 
e 
dei 
limiti 
individuati 
dalla 
giurisprudenza, 
che 
nel 
caso 
di 
specie 
non sarebbero stati rispettati. 
3. 
Avverso 
tale 
sentenza 
ha 
proposto 
ricorso 
Diddi 
s.r.l. 
che, 
nell’articolare 
due 
distinti 
motivi 
di 
censura 
rispettivamente 
incentrati 
sulla 
violazione, da 
parte 
del 
primo giudice, delle 
disposizioni 
della 
l. n. 241 del 
1990 e 
di 
quelle 
dettate 
dal 
d. lgs. n. 33 del 
2013, ha 
ribadito le 
tesi 
esposte 
nel 
ricorso di 
prime 
cure 
e 
ha 
affermato la 
propria 
legittimazione 
a 
chiedere 
sia 
l’accesso 
documentale 
che 
quello 
civico 
generalizzato, 
e 
ha 
chiesto 
così 
la 
riforma 
della 
sentenza, 
con il 
conseguente 
accoglimento del 
ricorso originario e 
l’ostensione 
dei 
documenti 
richiesti. 
3.1. Si 
sono costituite 
l’Azienda 
appellata, che 
ha 
riproposto l’eccezione 
di 
difetto di 
legittimazione 
passiva 
e 
nel 
merito 
ha 
contestato 
la 
legittimazione 
di 
Diddi 
s.r.l. 
a 
richiedere 
sia 
l’accesso 
procedimentale 
che 
quello 
generalizzato, 
e 
il 
C.n.S., 
che 
ha 
anche 
contestato 
la 
fondatezza 
del ricorso. 
3.2. 
Con 
l’ordinanza 
n. 
8501 
del 
16 
dicembre 
2019 
la 
III 
Sezione 
di 
questo 
Consiglio 
di 
Stato, 
nel 
ravvisare 
un contrasto giurisprudenziale 
in ordine 
alle 
questioni 
oggetto del 
giudizio, ha 
rimesso a questa 
Adunanza plenaria tre quesiti: 
a) 
se 
sia 
configurabile, o meno, in capo all’operatore 
economico, utilmente 
collocato nella 
graduatoria 
dei 
concorrenti, determinata 
all’esito della 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica 
per la 
scelta 
del 
contraente, la 
titolarità 
di 
un interesse 
giuridicamente 
protetto, ai 
sensi 
dell’art. 22 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
ad 
avere 
accesso 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
delle 
prestazioni, 
in 
vista 
della 
eventuale 
sollecitazione 
del 
potere 
dell’amministrazione 
di 
provocare 
la 
risoluzione 
per inadempimento dell’appaltatore 
e 
il 
conseguente 
interpello per il 
nuovo affidamento del 
contratto, secondo la regole dello scorrimento della graduatoria; 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


b) 
se 
la 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato, di 
cui 
al 
d. lgs. n. 33 del 
2013, come 
modificato 
dal 
d. lgs. n. 97 del 
2016, sia 
applicabile, in tutto o in parte, in relazione 
ai 
documenti 
relativi 
alle 
attività 
delle 
amministrazioni 
disciplinate 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, inerenti 
al 
procedimento di 
evidenza 
pubblica 
e 
alla 
successiva 
fase 
esecutiva, 
ferme restando le limitazioni ed esclusioni oggettive previste dallo stesso codice; 
c) 
se, 
in 
presenza 
di 
una 
istanza 
di 
accesso 
ai 
documenti 
espressamente 
motivata 
con 
esclusivo 
riferimento 
alla 
disciplina 
generale 
di 
cui 
alla 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
o 
ai 
suoi 
elementi 
sostanziali, 
la 
pubblica 
amministrazione, una 
volta 
accertata 
la 
carenza 
del 
necessario presupposto legittimante 
della 
titolarità 
di 
un interesse 
differenziato in capo al 
richiedente, ai 
sensi 
dell’art. 22 
della l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le 
condizioni 
dell’accesso civico generalizzato, di 
cui 
al 
d. lgs. n. 33 del 
2013; 
e 
se 
di 
conseguenza 
il 
giudice, in sede 
di 
esame 
del 
ricorso avverso il 
diniego di 
una 
istanza 
di 
accesso 
motivata 
con riferimento alla 
disciplina 
ordinaria, di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990 o ai 
suoi 
presupposti 
sostanziali, abbia 
il 
potere-dovere 
di 
accertare 
la 
sussistenza 
del 
diritto del 
richiedente, 
secondo 
i 
più 
ampi 
parametri 
di 
legittimazione 
attiva 
stabiliti 
dalla 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato. 
3.3. quanto al 
primo quesito, anzitutto, l’ordinanza 
di 
rimessione, nel 
valorizzare 
l’orientamento 
più recente 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
UE, che 
ha 
ripetutamente 
sottolineato la 
rilevanza 
dell’interesse 
strumentale 
dell’operatore 
economico 
che 
aspiri 
all’affidamento 
di 
un 
operatore 
pubblico, prospetta 
il 
dubbio che 
detto operatore, secondo classificato, non potrebbe 
essere 
assimilato al 
quisque 
de 
populo, ai 
fini 
dell’attivazione 
dell’istanza 
ostensiva, perché 
la 
sua 
posizione 
funge 
da 
presupposto attributivo di 
un “fascio” 
di 
situazioni 
giuridiche, di 
carattere 
oppositivo 
o 
sollecitatorio, 
finalizzate 
alla 
salvaguardia 
di 
un 
interesse 
tutt’altro 
che 
emulativo, 
in 
quanto 
radicato 
sulla 
valida, 
anche 
se 
non 
pienamente 
satisfattiva, 
partecipazione 
alla 
gara. 
3.4. quanto secondo quesito, la 
Sezione 
rimettente, nell’esporre 
le 
ragioni 
del 
contrasto tra 
l’orientamento, 
fatto 
proprio 
dalla 
stessa 
Sezione, 
incline 
a 
riconoscere 
l’applicazione 
del-
l’accesso civico generalizzato ai 
contratti 
pubblici 
e 
quello, seguito invece 
dalla 
v 
Sezione 
(v., in particolare, le 
sentenze 
n. 5502 e 
n. 5503 del 
2 agosto 2019), contrario a 
tale 
applicazione, 
suggerisce 
una 
soluzione 
che 
operi 
una 
reductio 
ad 
unitatem 
delle 
due 
discipline, 
quella 
dell’accesso documentale 
e 
quella 
dell’accesso civico generalizzato, negando comunque 
che 
l’art. 53 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016 abbia 
inteso dettare 
una 
disciplina 
esaustiva 
ed esclusiva 
dell’accesso 
in 
questa 
materia, 
con 
la 
conseguente 
impossibilità 
di 
consentire 
l’accesso 
civico 
generalizzato agli 
atti 
di 
gara 
per via 
della 
preclusione 
assoluta 
di 
cui 
all’art. 5-bis, comma 
3, 
del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, e 
proponendo una 
lettura 
fondata 
sul 
rapporto di 
coordinamento-integrazione 
tra le suddette discipline. 
3.5. 
quanto 
al 
terzo 
quesito, 
infine, 
la 
Sezione 
rimettente, 
pur 
avendo 
premesso, 
correttamente, 
che 
l’istanza 
di 
accesso, proposta 
da 
Diddi 
s.r.l., non è 
stata 
univocamente 
formulata 
ai 
sensi 
degli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 241 del 
1990 e 
che 
la 
connoterebbe 
il 
solo fine 
ostensivo perseguito, 
ha 
domandato a 
questa 
Adunanza 
plenaria 
di 
chiarire 
se 
sia 
consentito al 
giudice 
di 
verificare 
la 
sussistenza 
dei 
presupposti 
legittimanti 
l’accesso 
civico 
qualora 
il 
richiedente 
abbia 
speso una 
sua 
eventuale 
qualità 
differenziata 
e 
questa, tuttavia, non attinga 
i 
requisiti 
di 
legittimazione 
delineati 
dalla 
l. n. 241 del 
1990, con particolare 
riguardo all’ipotesi 
in cui 
la 
pubblica 
amministrazione, 
nella 
motivazione 
dell’atto 
negativo, 
si 
sia 
espressa 
in 
senso 
sfavorevole per il cittadino, anche in ordine al primo profilo. 
3.6. le 
parti, in vista 
dell’udienza 
pubblica 
del 
19 febbraio 2020 fissata 
avanti 
a 
questa 
Adunanza, 
hanno depositato le loro memorie ai sensi dell’art. 73 c.p.a. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


3.7. Il 
18 febbraio 2020 è 
intervenuto ad opponendum 
nella 
presente 
fase 
del 
giudizio anche 
il Comune di Chiaramonte Gulfi (rG). 
3.8. 
nella 
pubblica 
udienza 
del 
19 
febbraio 
2020 
il 
Collegio, 
sentiti 
i 
difensori 
delle 
parti, 
che 
hanno esposto le loro tesi, ha trattenuto la causa in decisione. 
4. In via 
preliminare 
deve 
essere 
esaminata 
l’ammissibilità 
dell’intervento ad opponendum 
spiegato 
nella 
fase 
del 
giudizio 
avanti 
a 
questa 
Adunanza 
plenaria 
da 
parte 
del 
Comune 
di 
Chiaramonte Gulfi (rG). 
4.1.1. questo deduce 
di 
essere 
parte 
in un giudizio, pendente 
al 
Consiglio di 
Giustizia 
Amministrativa 
per 
la 
regione 
Siciliana, 
nel 
quale 
si 
controverte 
dell’accesso 
documentale 
richiesto 
dall’Impresa 
Ecologica 
busso 
Sebastiano 
s.r.l. 
agli 
atti 
relativi 
all’esecuzione 
dell’appalto 
del 
servizio 
di 
raccolta 
e 
trasporto 
dei 
rifiuti 
urbani 
e 
speciali 
e 
dei 
servizi 
di 
igiene urbana nell’ambito di detto Comune, appalto aggiudicato a MECo GEST s.r.l. 
4.1.2. Il 
Consiglio di 
Giustizia 
Amministrativa 
per la 
regione 
Siciliana, nella 
camera 
di 
consiglio 
del 
16 gennaio 2020, ha 
rinviato la 
trattazione 
della 
vicenda 
alla 
camera 
di 
consiglio 
dell’8 aprile 
2020, in attesa 
della 
decisione 
di 
questa 
Adunanza 
plenaria 
sulla 
medesima 
questione 
di diritto. 
4.1.3. Sulla 
base 
di 
questo presupposto il 
Comune 
interveniente 
assume 
di 
essere 
titolare 
di 
un interesse 
a 
partecipare 
alla 
sede 
giurisdizionale 
in cui 
si 
definisce 
la 
regola 
di 
diritto da 
applicare successivamente alla risoluzione della controversia di cui è parte. 
4.1.4. 
Ad 
avviso 
del 
Comune, 
la 
funzione 
nomofilattica 
esercitata 
da 
questa 
Adunanza 
giustificherebbe 
l’intervento, 
nel 
giudizio 
che 
si 
celebra 
davanti 
ad 
essa, 
di 
tutti 
i 
soggetti 
interessati 
dalla 
risoluzione 
di 
analoghe 
controversie 
sulla 
medesima 
questione 
di 
diritto, 
non 
dissimilmente 
dall’intervento, 
ora 
ammesso 
dalle 
Norme 
integrative 
per 
i 
giudizi 
avanti 
alla 
Corte 
costituzionale 
adottate 
l’8 
gennaio 
2020, 
da 
parte 
di 
soggetti 
«titolari 
di 
un 
interesse 
qualificato, 
inerente 
in 
modo 
diretto 
e 
immediato 
al 
rapporto 
dedotto 
in 
giudizio» 
(art. 
4, 
comma 
7) 
o, 
addirittura, 
da 
parte 
di 
«formazioni 
sociali 
senza 
scopo 
di 
lucro» 
e 
di 
«soggetti 
istituzionali, 
portatori 
di 
interessi 
collettivi 
o 
diffusi 
attinenti 
alla 
questione 
di 
costituzionalità» 
(art. 
4-ter). 
4.2. l’intervento volontario ad opponendum 
del 
Comune 
di 
Chiaramonte 
Gulfi, proposto ai 
sensi dell’art. 28, comma 2, c.p.a., è inammissibile. 
4.2.1. Trovano infatti 
applicazione 
anche 
al 
caso di 
specie 
i 
principî 
affermati 
dalla 
costante 
giurisprudenza 
di 
questo Consiglio e, in particolare, da 
questa 
stessa 
Adunanza 
plenaria 
nella 
sentenza n. 23 del 4 novembre 2016. 
4.2.2. la 
domanda 
di 
intervento non è 
ascrivibile 
a 
nessuna 
delle 
figure 
tipicamente 
riconducibili 
all’istituto 
dell’intervento 
nel 
processo 
amministrativo, 
per 
come 
da 
ultimo 
disciplinato 
dall’articolo 28 c.p.a. nonché - per il grado di appello - dall’art. 97 c.p.a. 
4.2.3. In particolare, come 
ha 
affermato questa 
Adunanza 
plenaria 
nella 
pronuncia 
n. 23 del 
2016 sopra 
richiamata, non è 
sufficiente 
a 
consentire 
l’intervento la 
sola 
circostanza 
che 
l’interventore 
sia 
parte 
di 
un giudizio in cui 
venga 
in rilievo una 
quaestio iuris 
analoga 
a 
quella 
oggetto del giudizio nel quale intende intervenire. 
4.2.4. osta 
al 
riconoscimento di 
una 
situazione 
che 
lo legittimi 
a 
intervenire 
l’obiettiva 
diversità 
di 
petitum 
e 
di 
causa petendi 
che 
distingue 
i 
due 
processi, sì 
da 
non potersi 
configurare 
in capo al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem. 
4.2.5. Al 
contrario, laddove 
si 
ammettesse 
la 
possibilità 
di 
spiegare 
l’intervento volontario a 
fronte 
della 
sola 
analogia 
fra 
le 
quaestiones 
iuris 
controverse 
nei 
due 
giudizi, si 
finirebbe 
per 
introdurre 
nel 
processo 
amministrativo 
una 
nozione 
di 
interesse 
del 
tutto 
peculiare 
e 
svincolata 
dalla 
tipica 
valenza 
endoprocessuale 
connessa 
a 
tale 
nozione 
e 
potenzialmente 
foriera 
di 
ini

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


ziative 
anche 
emulative, 
scisse 
dall’oggetto 
specifico 
del 
giudizio 
cui 
l’intervento 
si 
riferisce. 


4.3. non a 
caso, in base 
a 
un orientamento del 
tutto consolidato, nel 
processo amministrativo 
l’intervento 
ad 
adiuvandum 
o 
ad 
opponendum 
può 
essere 
proposto 
solo 
da 
un 
soggetto 
titolare 
di 
una 
posizione 
giuridica 
collegata 
o dipendente 
da 
quella 
del 
ricorrente 
in via 
principale 
(v. 
ex 
plurimis, sul 
punto, Cons. St., sez. Iv, 29 febbraio 2016, n. 853; 
Cons. St., sez. v, 2 agosto 
2011, n. 4557). 
4.4. Si 
tratta, come 
è 
del 
tutto evidente, di 
un presupposto che 
non ricorre 
nel 
caso in esame, 
pacifica 
essendo in tale 
ipotesi 
l’assoluta 
estraneità 
fra 
la 
posizione 
del 
Comune 
interventore 
e quella dell’odierna appellante, Diddi s.r.l. 
4.5. Ed è 
appena 
il 
caso di 
ricordare, come 
ha 
già 
chiarito questa 
Adunanza 
nella 
sentenza 
n. 
23 
del 
4 
novembre 
2016, 
che 
risulterebbe 
peraltro 
sistematicamente 
incongruo 
ammettere 
l’intervento 
volontario 
in 
ipotesi, 
come 
quella 
qui 
esaminata, 
che 
si 
risolvessero 
nel 
demandare 
ad 
un 
giudice 
diverso 
da 
quello 
naturale 
(art. 
25, 
comma 
primo, 
Cost.) 
il 
compito 
di 
verificare 
in concreto l’effettività 
dell’interesse 
all’intervento (e, con essa, la 
concreta 
rilevanza 
della 
questione 
ai 
fini 
della 
definizione 
del 
giudizio 
a quo), in assenza 
di 
un adeguato quadro conoscitivo 
di 
carattere 
processuale, 
ove 
si 
pensi, 
solo 
a 
mo’ 
di 
esempio, 
alla 
necessaria 
verifica 
che 
il 
giudice 
ad 
quem 
sarebbe 
chiamato 
a 
svolgere, 
ai 
fini 
del 
richiamato 
giudizio 
di 
rilevanza, 
circa 
l’effettiva 
sussistenza 
in capo all’interveniente 
dei 
presupposti 
e 
delle 
condizioni 
per la 
proposizione del giudizio a quo. 
4.6. non giova 
al 
Comune 
interventore 
richiamare 
le 
recenti 
Norme 
integrative 
per 
i 
giudizi 
avanti 
alla 
Corte 
costituzionale, adottate 
dalla 
stessa 
Corte 
l’8 gennaio 2020, poiché 
esse 
ammettono 
l’intervento di 
soggetti 
titolari 
di 
un interesse 
qualificato, che 
sia 
appunto inerente 
in 
modo diretto e immediato al concreto rapporto dedotto in giudizio e non semplicemente alle 
stesse 
o simili, astratte, questioni 
di 
diritto, o al 
più a 
tutti 
quei 
soggetti 
privati, senza 
scopo 
di 
lucro, portatori 
di 
interessi 
collettivi 
e 
diffusi, attinenti 
alla 
questione 
di 
costituzionalità, 
che rivestano il ruolo di c.d. 
amicus curiae. 
4.7. In nessuna 
di 
tali 
figure 
rientra, anche 
a 
volere 
ammettere 
per ipotesi 
la 
totale 
assimilazione 
delle 
regole 
vigenti 
per il 
giudizio incidentale 
di 
costituzionalità 
a 
quelle 
previste 
per il 
processo amministrativo, quella dell’odierno Comune interventore. 
4.8. 
ne 
discende 
l’inammissibilità 
dell’intervento 
ad 
opponendum 
spiegato 
dal 
Comune 
di 
Chiaramonte Gulfi. 
5. 
venendo 
all’esame 
delle 
questioni 
poste 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, 
questa 
Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che, per un più chiaro e 
corretto esame 
di 
queste 
secondo un rigoroso ordine 
di 
consecuzione 
logico-giuridica, sia 
imprescindibile 
anzitutto, sul 
piano processuale, inquadrare 
i 
fatti 
rilevanti 
ai 
fini 
del 
presente 
giudizio e 
quindi, anzitutto, individuarne 
l’esatto oggetto, 
delimitato dall’originaria 
istanza 
di 
accesso, presentata 
il 
6 novembre 
2018 da 
Diddi 
s.r.l., e dal provvedimento di diniego, adottato il 2 gennaio 2019 dall’Azienda. 
6. 
Diddi 
s.r.l., 
nel 
premettere 
che 
il 
suo 
intento 
è 
di 
«mera 
collaborazione 
con 
le 
amministrazioni
», 
si 
è 
rivolta 
all’Azienda 
con 
la 
propria 
istanza 
di 
accesso 
perché 
ha 
inteso 
verificare 
se 
l’esecuzione 
del 
servizio 
integrato 
di 
energia 
per 
le 
pubbliche 
amministrazioni, 
per 
il 
lotto 
5, 
si 
svolga 
nel 
pieno 
rispetto 
di 
quanto 
richiesto 
dal 
capitolato 
tecnico, 
e 
in 
particolare 
di 
quelle 
concernenti 
lo standard 
qualitativo delle 
prestazioni, nonché 
di 
quanto offerto in sede 
di 
gara 
dall’a.t.i. 
guidata 
da 
C.n.S., 
risultata 
aggiudicataria 
del 
lotto 
n. 
5, 
e 
attuale 
gestrice 
del 
servizio. 
6.1 «eventuali 
inadempienze 
-si 
legge 
nell’istanza, a 
p. 2 -rispetto ai 
suddetti 
obblighi 
comporterebbero 
con ogni 
probabilità la risoluzione 
del 
contratto per 
inadempimento, ed il 
conseguente 
affidamento 
del 
servizio 
alla 
scrivente 
società, 
nella 
sua 
qualità 
di 
mandante 
dell’ati 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


seconda in graduatoria», sicché 
ne 
conseguirebbe 
«l’interesse 
della Diddi 
s.r.l. a sapere 
se 
in concreto il 
servizio viene 
attualmente 
svolto nel 
rispetto della disciplina di 
gara e 
dell’offerta 
ritenuta migliore» e 
a 
tal 
fine 
«si 
rende 
indispensabile 
concedere 
l’accesso alla relativa 
documentazione 
[…] 
che 
attesa 
(documentalmente) 
la 
corretta 
esecuzione 
delle 
prestazioni». 


6.2. l’istanza 
elenca 
poi, punto per punto, i 
singoli 
documenti 
richiesti 
per ogni 
previsione 
e/o 
prestazione 
del 
capitolato 
tecnico 
e 
si 
conclude 
con 
la 
richiesta, 
riassuntiva 
di 
accesso 
alla 
documentazione relativa al contratto, attestante l’esecuzione delle prestazioni promesse. 
6.3. l’Azienda, con la 
nota 
prot. n. 340 del 
2 gennaio 2019, anche 
in seguito all’opposizione 
manifestata da C.n.S, ha ritenuto di non poter accogliere l’istanza formulata in quanto: 
a) 
Diddi 
s.r.l. 
non 
avrebbe 
alcun 
interesse 
diretto, 
specifico, 
concreto, 
ai 
sensi 
dell’art. 
22, 
comma 
2, 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
che 
giustifichi 
l’accesso 
documentale, 
che 
non 
è 
funzionale 
ad un controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione; 
b) 
parimenti, 
anche 
ove 
Diddi 
s.r.l. 
avesse 
inteso 
esercitare 
con 
la 
sua 
istanza 
un 
accesso 
civico 
generalizzato, la 
materia 
dei 
contratti 
pubblici 
sarebbe 
sottratta 
all’applicabilità 
di 
tale 
forma 
di 
accesso 
per 
l’eccezione 
assoluta 
prevista 
dall’art. 
5-bis, 
comma 
3, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
33 
del 
2013, 
il 
quale 
esclude 
tale 
forma 
di 
accesso 
laddove 
l’accesso 
sia 
subordinato 
dalla 
disciplina 
vigente 
al 
rispetto di 
specifiche 
condizioni, modalità 
e 
limiti, nel 
caso di 
specie 
stabiliti 
dall’art. 13 
dell’abrogato d. lgs. n. 163 del 2006 e, ora, dall’art. 53 del vigente d. lgs. n. 50 del 2016. 
6.4. questi 
sono, in essenziale 
sintesi, i 
fatti 
salienti, che 
delimitano il 
thema decidendum 
del 
presente 
giudizio, promosso ai 
sensi 
dell’art. 116 c.p.a. da 
Diddi 
s.r.l. per ottenere 
l’accesso 
alla documentazione richiesta. 
6.5. Il 
provvedimento impugnato, a 
fronte 
di 
una 
istanza, come 
subito si 
vedrà, duplice 
o, per 
meglio 
dire, 
ancipite, 
oppone 
un 
diniego 
motivato 
con 
riferimento 
sia 
all’accesso 
documentale 
che a quello civico generalizzato. 
7. la 
corretta 
delimitazione 
della 
questione 
controversa 
consente 
all’Adunanza 
di 
muovere 
all’esame 
delle 
questioni 
poste 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, non senza 
però la 
preventiva 
disposizione 
delle stesse secondo il loro corretto ordine logico-giuridico. 
7.1. la 
terza 
questione, posta 
dall’ordinanza, è 
logicamente 
antecedente 
alle 
altre, in quanto, 
se, 
per 
ipotesi, 
l’istanza 
sia 
stata 
richiesta 
e 
respinta 
solo 
per 
una 
specifica 
tipologia 
di 
accesso 
(procedimentale 
o civico generalizzato), il 
tema 
controverso dovrebbe 
essere 
limitato all’esistenza 
dei 
presupposti 
del 
solo accesso richiesto, giacché, come 
si 
vedrà, sarebbe 
precluso al 
giudice 
riconoscere 
o 
negare 
in 
sede 
giurisdizionale 
i 
presupposti 
dell’altro, 
se 
questi 
non 
siano stati nemmeno rappresentati in sede procedimentale 
ab initio 
dall’istante. 
7.2. l’ordine delle questioni deve essere affrontato nel modo seguente: 
a) 
se, 
in 
presenza 
di 
una 
istanza 
di 
accesso 
ai 
documenti 
espressamente 
motivata 
con 
esclusivo 
riferimento alla 
disciplina 
generale 
della 
l. n. 241 del 
1990, o ai 
suoi 
elementi 
sostanziali, la 
pubblica 
amministrazione, una 
volta 
accertata 
la 
carenza 
del 
necessario presupposto legittimante 
della 
titolarità 
di 
un interesse 
differenziato in capo al 
richiedente, ai 
sensi 
dell’art. 22 
della l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le 
condizioni 
dell’accesso civico generalizzato, previste 
dal 
d. lgs. n. 33 del 
2013, e 
se 
di 
conseguenza 
il 
giudice, in sede 
di 
esame 
del 
ricorso avverso il 
diniego di 
una 
istanza 
di 
accesso 
motivata 
con riferimento alla 
disciplina 
ordinaria, di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990 o ai 
suoi 
presupposti 
sostanziali, abbia 
il 
potere-dovere 
di 
accertare 
la 
sussistenza 
del 
diritto del 
richiedente, 
secondo 
i 
più 
ampi 
parametri 
di 
legittimazione 
attiva 
stabiliti 
dalla 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato. 
b) 
se 
sia 
configurabile, o meno, in capo all’operatore 
economico, utilmente 
collocato nella 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


graduatoria 
dei 
concorrenti, determinata 
all’esito della 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica 
per la 
scelta 
del 
contraente, la 
titolarità 
di 
un interesse 
giuridicamente 
protetto, ai 
sensi 
dell’art. 22 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
ad 
avere 
accesso 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
delle 
prestazioni, 
in 
vista 
della 
eventuale 
sollecitazione 
del 
potere 
dell’amministrazione 
di 
provocare 
la 
risoluzione 
per inadempimento dell’appaltatore 
e 
il 
conseguente 
interpello per il 
nuovo affidamento del 
contratto, secondo la regole dello scorrimento della graduatoria; 


c) 
se 
la 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato, di 
cui 
al 
d. lgs. n. 33 del 
2013, come 
modificato 
dal 
d. lgs. n. 97 del 
2016, sia 
applicabile, in tutto o in parte, in relazione 
ai 
documenti 
relativi 
alle 
attività 
delle 
amministrazioni 
disciplinate 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, inerenti 
al 
procedimento di 
evidenza 
pubblica 
e 
alla 
successiva 
fase 
esecutiva, 
ferme restando le limitazioni ed esclusioni oggettive previste dallo stesso codice. 
8. 
Così 
impostato 
l’ordo 
quaestionum, 
secondo 
la 
loro 
necessaria 
consecuzione 
logica, 
occorre 
anzitutto esaminare il terzo quesito, posto dall’ordinanza, divenuto primo. 
8.1. l’istanza 
di 
accesso documentale 
ben può concorrere 
con quella 
di 
accesso civico generalizzato 
e 
la 
pretesa 
ostensiva 
può essere 
contestualmente 
formulata 
dal 
privato con riferimento 
tanto all’una che all’altra forma di accesso. 
8.2. l’art. 5, comma 
11, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 ammette 
chiaramente 
il 
concorso tra 
le 
diverse 
forme 
di 
accesso, allorquando specifica 
che 
restano ferme, accanto all’accesso civico 
c.d. semplice 
(comma 
1) e 
quello c.d. generalizzato (comma 
2), anche 
«le 
diverse 
forme 
di 
accesso degli interessati previste dal capo v della legge 7 agosto 1990, n. 241». 
8.3. 
la 
giurisprudenza 
di 
questo 
Consiglio 
è 
consolidata 
e 
uniforme 
nell’ammettere 
il 
concorso 
degli 
accessi, 
al 
di 
là 
della 
specifica 
questione 
qui 
controversa 
circa 
la 
loro 
coesistenza 
in 
rapporto 
alla 
specifica 
materia 
dei 
contratti 
pubblici: 
«nulla infatti, nell’ordinamento, preclude 
il 
cumulo anche 
contestuale 
di 
differenti 
istanze 
di 
accesso» (v., sul 
punto, Cons. St., sez. v, 
2 agosto 2019, n. 5503). 
8.4. 
Il 
solo 
riferimento 
dell’istanza 
ai 
soli 
presupposti 
dell’accesso 
documentale 
non 
preclude 
alla 
pubblica 
amministrazione 
di 
esaminare 
l’istanza 
anche 
sotto 
il 
profilo 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, laddove 
l’istanza 
contenga 
sostanzialmente 
tutti 
gli 
elementi 
utili 
a 
vagliarne 
l’accoglimento sotto il 
profilo “civico”, salvo che 
il 
privato abbia 
inteso espressamente 
far 
valere e limitare il proprio interesse ostensivo solo all’uno o all’altro aspetto. 
8.5. 
Se 
è 
vero 
che 
l’accesso 
documentale 
e 
quello 
civico 
generalizzato 
differiscono 
per 
finalità, 
requisiti 
e 
aspetti 
procedimentali, infatti, la 
pubblica 
amministrazione, nel 
rispetto del 
contraddittorio 
con eventuali 
controinteressati, deve 
esaminare 
l’istanza 
nel 
suo complesso, nel 
suo “anelito ostensivo”, evitando inutili 
formalismi 
e 
appesantimenti 
procedurali 
tali 
da 
condurre 
ad una defatigante duplicazione del suo esame. 
8.6. Con riferimento al 
dato procedimentale, infatti, in materia 
di 
accesso opera 
il 
principio 
di 
stretta 
necessità, 
che 
si 
traduce 
nel 
principio 
del 
minor 
aggravio 
possibile 
nell’esercizio 
del 
diritto, con il 
divieto di 
vincolare 
l’accesso a 
rigide 
regole 
formali 
che 
ne 
ostacolino la 
soddisfazione. 
8.7. la 
coesistenza 
dei 
due 
regimi 
e 
la 
possibilità 
di 
proporre 
entrambe 
le 
istanze, anche 
uno 
actu, è 
certo uno degli 
aspetti 
più critici 
dell’attuale 
disciplina 
perché, come 
ha 
bene 
messo 
in rilievo l’AnAC nelle 
linee 
guida 
di 
cui 
alla 
delibera 
n. 1309 del 
28 dicembre 
2016 (par. 
2.3, p. 7) -di 
qui 
in avanti, per brevità, linee 
guida 
-l’accesso agli 
atti 
di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990 continua 
certamente 
a 
sussistere, ma 
parallelamente 
all’accesso civico (generalizzato e 
non), operando sulla 
base 
di 
norme 
e 
presupposti 
diversi, e 
la 
proposizione 
contestuale 
di 
entrambi 
gli 
accessi, può comportare 
un «evidente 
aggravio per 
l’amministrazione 
(del 
quale 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


l’interprete 
non 
può 
che 
limitarsi 
a 
prendere 
atto), 
dal 
momento 
che 
dovrà 
applicare 
e 
valutare 
regole e limiti differenti» (Cons. St., sez. v, 2 agosto 2019, n. 5503). 


9. Tenere 
ben distinte 
le 
due 
fattispecie 
è 
essenziale 
per calibrare 
i 
diversi 
interessi 
in gioco 
allorché 
si 
renda 
necessario un bilanciamento caso per caso tra 
tali 
interessi 
e 
tuttavia, come 
si 
è 
detto, le 
due 
fattispecie 
di 
accesso ben possono concorrere, senza 
reciproca 
esclusione, e 
completarsi, secondo quanto si chiarirà. 
9.1. Il 
bilanciamento è, infatti, ben diverso nel 
caso dell’accesso previsto dalla 
l. n. 241 del 
1990, dove 
la 
tutela 
può consentire 
un accesso più in profondità 
a 
dati 
pertinenti, e 
nel 
caso 
dell’accesso 
generalizzato, 
dove 
le 
esigenze 
di 
controllo 
diffuso 
del 
cittadino 
devono 
consentire 
un accesso meno in profondità 
(se 
del 
caso, in relazione 
all’operatività 
dei 
limiti), ma 
più 
esteso, 
avendo 
presente 
che 
l’accesso 
in 
questo 
caso 
comporta, 
di 
fatto, 
una 
larga 
conoscibilità 
(e diffusione) di dati, documenti e informazioni. 
9.2. l’AnAC ha 
osservato che 
i 
dinieghi 
di 
accesso agli 
atti 
e 
documenti 
di 
cui 
alla 
l. n. 241 
del 
1990, se 
motivati 
con esigenze 
di 
“riservatezza” 
pubblica 
o privata, devono essere 
considerati 
attentamente 
anche 
ai 
fini 
dell’accesso generalizzato, ove 
l’istanza 
relativa 
a 
quest’ultimo 
sia 
identica 
e 
presentata 
nel 
medesimo contesto temporale 
a 
quella 
dell’accesso di 
cui 
alla l. n. 241 del 1990, indipendentemente dal soggetto che l’ha proposta. 
9.3. Con ciò essa 
ha 
inteso «dire, cioè, che 
laddove 
l’amministrazione, con riferimento agli 
stessi 
dati, documenti 
e 
informazioni, abbia negato il 
diritto di 
accesso ex 
l. 241/1990, motivando 
nel 
merito, cioè 
con la necessità di 
tutelare 
un interesse 
pubblico o privato prevalente, 
e 
quindi 
nonostante 
l’esistenza 
di 
una 
posizione 
soggettiva 
legittimante 
ai 
sensi 
della 
241/1990, per 
ragioni 
di 
coerenza sistematica e 
a garanzia di 
posizioni 
individuali 
specificamente 
riconosciute 
dall’ordinamento, si 
deve 
ritenere 
che 
le 
stesse 
esigenze 
di 
tutela dell’interesse 
pubblico 
o 
privato 
sussistano 
anche 
in 
presenza 
di 
una 
richiesta 
di 
accesso 
generalizzato, anche presentata da altri soggetti». 
9.4. Se 
questo è 
vero, non può nemmeno escludersi 
tuttavia, per converso, che 
un’istanza 
di 
accesso documentale, non accoglibile 
per l’assenza 
di 
un interesse 
attuale 
e 
concreto, possa 
essere 
invece 
accolta 
sub specie 
di 
accesso civico generalizzato, come 
è 
nel 
caso presente, 
fermi 
restando i 
limiti 
di 
cui 
ai 
cennati 
commi 
1 e 
2 dell’art. 5-bis 
d. lgs. n. 33 del 
2013, limiti 
che, come 
ha 
ricordato anche 
l’ordinanza 
di 
rimessione, sono certamente 
più ampi 
e 
oggetto 
di 
una 
valutazione 
a 
più 
alto 
tasso 
di 
discrezionalità 
(v., 
su 
questo 
punto, 
anche 
Cons. 
St., 
sez. 
v, 20 marzo 2019, n. 1817). 
9.5. Correttamente 
l’Azienda 
appellata, come 
del 
resto rileva 
l’ordinanza 
di 
rimessione, ha 
qualificato ed esaminato l’istanza 
di 
Diddi 
s.r.l. anche 
sotto il 
profilo dell’aspetto civico generalizzato, 
per quanto sia 
poi 
giunta 
ad escludere 
l’applicazione 
della 
relativa 
disciplina 
al 
caso di specie sulla base di argomenti non condivisibili. 
9.6. A 
fronte 
di 
una 
istanza, come 
quella 
dell’odierna 
appellante, che 
non fa 
riferimento in 
modo 
specifico 
e 
circostanziato 
alla 
disciplina 
dell’accesso 
procedimentale 
o 
a 
quella 
dell’accesso 
civico generalizzato e 
non ha 
inteso ricondurre 
o limitare 
l’interesse 
ostensivo all’una 
o all’altra 
disciplina, ma 
si 
muove 
sull’incerto crinale 
tra 
l’uno e 
l’altro, la 
pubblica 
amministrazione 
ha 
il 
dovere 
di 
rispondere, in modo motivato, sulla 
sussistenza 
o meno dei 
presupposti 
per riconoscere 
i 
presupposti 
dell’una 
e 
dell’altra 
forma 
di 
accesso, laddove 
essi 
siano 
stati comunque, e sostanzialmente, rappresentati nell’istanza. 
9.7. 
A 
tale 
conclusione 
non 
osta 
il 
fatto 
che 
l’istanza 
di 
accesso 
civico 
generalizzato 
non 
debba 
rappresentare 
l’esistenza 
di 
un 
interesse 
qualificato, 
a 
differenza 
di 
quella 
relativa 
all’accesso 
documentale, 
e 
che 
non 
debba 
essere 
nemmeno 
motivata, 
perché 
l’interesse 
e 
i 
motivi 
rappre

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


sentati, 
indistintamente 
ed 
eventualmente, 
al 
fine 
di 
sostenere 
l’esistenza 
di 
un 
interesse 
uti 
singulus, 
ai 
fini 
dell’art. 
22 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
ben 
possono 
essere 
considerati 
dalla 
pubblica 
amministrazione 
per 
valutare 
l’esistenza 
dei 
presupposti 
atti 
a 
riconoscere 
l’accesso 
generalizzato 
uti 
civis, 
quantomeno 
per 
il 
limitato 
profilo, 
di 
cui 
oltre 
si 
tratterà, 
del 
c.d. 
public 
interest 
test. 


9.8. In questo senso si 
è 
espresso anche 
il 
Ministro per la 
pubblica 
amministrazione 
e 
la 
semplificazione 
nella 
Circolare 
n. 2 del 
6 giugno 2017 sull’attuazione 
delle 
norme 
sull’accesso 
civico generalizzato (c.d. Foia) 
-di 
qui 
in avanti, per brevità, Circolare 
foIA 
n. 2/2017 laddove, 
nel 
valorizzare 
il 
criterio 
della 
tutela 
preferenziale 
dell’interesse 
conoscitivo, 
ha 
chiarito 
al 
par. 
2.2 
che 
«dato 
che 
l’istituto 
dell’accesso 
generalizzato 
assicura 
una 
più 
ampia 
tutela all’interesse 
conoscitivo, qualora non sia specificato un diverso titolo giuridico della 
domanda (ad es. procedimentale, ambientale, ecc.), la stessa dovrà essere 
trattata dall’amministrazione 
come richiesta di accesso generalizzato». 
10. Solo ove 
l’istante 
abbia 
inteso, espressamente 
e 
inequivocabilmente, limitare 
l’interesse 
ostensivo ad uno specifico profilo, quello documentale 
o quello civico, la 
pubblica 
amministrazione 
dovrà 
limitarsi 
ad esaminare 
quello specifico profilo, senza 
essere 
tenuta 
a 
pronunciarsi 
sui presupposti dell’altra forma di accesso, non richiesta dall’interessato. 
10.1. Ma 
non è 
questo il 
caso in esame 
ove, a 
fronte 
di 
una 
istanza 
formulata 
in modo indistinto, 
duplice 
o, se 
si 
preferisce, “ancipite” 
nella 
quale 
Diddi 
s.r.l. sembra 
rappresentare 
ora 
un proprio interesse 
specifico, quale 
seconda 
classificata, e 
ora 
un più generale 
interesse 
collaborativo 
con 
la 
pubblica 
amministrazione 
nell’interesse 
pubblico, 
l’Azienda 
ha 
vagliato 
l’esistenza 
dei 
presupposti 
per 
consentire 
sia 
l’una 
che 
l’altra 
forma 
di 
accesso. 
né 
si 
pongono 
problemi 
di 
garanzia 
del 
contraddittorio, in quanto l’Azienda 
ha 
interpellato la 
controinteressata 
C.n.S., che ha manifestato la sua opposizione all’istanza. 
10.2. Il 
quesito posto dall’ordinanza 
di 
rimessione, dunque, non attiene 
propriamente 
al 
caso 
di 
specie, come 
del 
resto riconosce 
la 
stessa 
ordinanza, perché 
l’istanza 
di 
Diddi 
s.r.l. si 
presenta 
indistinta, ancipite, e 
una 
corretta 
applicazione 
del 
principio di 
tutela 
preferenziale 
del-
l’interesse 
conoscitivo 
nella 
sua 
più 
ampia 
estensione, 
oltre 
che 
di 
non 
aggravamento 
procedimentale, ha 
indotto l’Azienda 
ad esaminare 
l’istanza 
sotto il 
duplice 
profilo e 
a 
dare 
una 
risposta 
“onnicomprensiva” 
per 
quanto, 
lo 
si 
è 
detto, 
non 
satisfattiva 
sul 
piano 
sostanziale 
per Diddi s.r.l. 
10.3. la 
reiezione 
dell’istanza 
sotto il 
duplice 
profilo dell’accesso documentale 
e 
di 
quello 
civico generalizzato individua 
correttamente 
il 
thema decidendum 
del 
presente 
giudizio, proposto 
ai 
sensi 
dell’art. 116 c.p.a., sicché 
non si 
pone 
alcun problema 
di 
conversione 
o di 
pronuncia 
ultra petita 
da parte del giudice nella presente controversia. 
11. Il 
quesito posto dall’ordinanza 
pone 
tuttavia 
una 
questione 
di 
interesse 
generale, al 
di 
là 
della 
specifica 
vicenda, 
che 
questa 
Adunanza 
plenaria 
ritiene 
di 
esaminare, 
anche 
ai 
sensi 
dell’art. 99, comma 5, c.p.a. 
11.1. 
Al 
riguardo, 
deve 
ritenersi 
che, 
in 
presenza 
di 
una 
istanza 
di 
accesso 
ai 
documenti 
espressamente 
motivata 
con esclusivo riferimento alla 
disciplina 
generale 
della 
l. n. 241 del 
1990, 
o ai 
suoi 
elementi 
sostanziali, la 
pubblica 
amministrazione, una 
volta 
accertata 
la 
carenza 
del 
necessario presupposto legittimante 
della 
titolarità 
di 
un interesse 
differenziato in capo al 
richiedente, 
ai 
sensi 
dell’art. 22, comma 
1, lett. b), della 
l. n. 241 del 
1990, non può esaminare 
la 
richiesta 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
a 
meno 
che 
non 
sia 
accertato 
che 
l’interessato 
abbia 
inteso richiedere, al 
di 
là 
del 
mero riferimento alla 
l. n. 241 del 
1990, anche 
l’accesso 
civico generalizzato e 
non abbia 
inteso limitare 
il 
proprio interesse 
ostensivo al 
solo accesso 
documentale, uti singulus. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


11.2. Diversamente, infatti, la 
pubblica 
amministrazione 
si 
pronuncerebbe, con una 
sorta 
di 
diniego 
difensivo 
“in 
prevenzione”, 
su 
una 
istanza, 
quella 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
mai 
proposta, 
nemmeno 
in 
forma, 
per 
così 
dire, 
implicita 
e/o 
congiunta 
o, 
comunque, 
ancipite 
dall’interessato, che si è limitato a richiedere l’accesso ai sensi della l. n. 241 del 1990. 
11.3. ne 
discende 
che 
al 
giudice 
amministrativo, in sede 
di 
esame 
del 
ricorso avverso il 
diniego 
di 
una 
istanza 
di 
accesso motivata 
con riferimento alla 
disciplina 
ordinaria, di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990 o ai 
suoi 
presupposti 
sostanziali, è 
precluso di 
accertare 
la 
sussistenza 
del 
diritto del 
richiedente 
secondo i 
più ampi 
parametri 
di 
legittimazione 
attiva 
stabiliti 
dalla 
disciplina 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
stante 
l’impossibilità 
di 
convertire, 
in 
sede 
di 
ricorso 
giurisdizionale, il 
titolo dell’accesso eventualmente 
rappresentato all’amministrazione 
sotto 
l’uno o l’altro profilo. 
11.4. 
Deve 
trovare 
in 
questo 
senso 
conferma 
l’orientamento, 
già 
espresso 
da 
questo 
Consiglio 
di 
Stato, secondo cui 
è 
preclusa 
la 
possibilità 
di 
immutare, anche 
in corso di 
causa, il 
titolo 
della 
formalizzata 
actio ad exhibendum, pena 
la 
violazione 
del 
divieto di 
mutatio libelli 
e 
di 
introduzione 
di 
ius 
novorum 
(cfr. Cons. St., sez. Iv, 28 marzo 2017, n. 1406; 
Cons. St., sez. 
v, 20 marzo 2019, n. 1817; Cons. St., sez. v, 2 agosto 2019, n. 5503). 
11.5. 
In 
altri 
termini, 
electa 
una 
via 
in 
sede 
procedimentale, 
alla 
parte 
è 
preclusa 
la 
conversione 
dell’istanza 
da 
un modello all’altro, che 
non può essere 
né 
imposta 
alla 
pubblica 
amministrazione 
né 
ammessa 
-ancorché 
su impulso del 
privato -in sede 
di 
riesame 
o di 
ricorso giurisdizionale, 
ferma 
restando 
però, 
come 
si 
è 
già 
rilevato, 
la 
possibilità 
di 
strutturare 
in 
termini 
alternativi, cumulativi o condizionati la pretesa ostensiva in sede procedimentale. 
11.6. nemmeno ad opera 
o a 
favore 
del 
privato può realizzarsi, insomma, quell’inversione 
tra 
procedimento e 
processo che 
si 
verifica 
quando nel 
processo vengono introdotte 
pretese 
o 
ragioni mai prima esposte, come era doveroso, in sede procedimentale. 
11.7. Se 
è 
vero che 
il 
rapporto tra 
le 
diverse 
forme 
di 
accesso, generali 
e 
anche 
speciali, deve 
essere 
letto secondo un criterio di 
integrazione 
e 
non secondo una 
logica 
di 
irriducibile 
separazione, 
per la 
miglior soddisfazione 
dell’interesse 
conoscitivo, è 
d’altro lato innegabile 
che 
questo interesse 
conoscitivo nella 
sua 
integralità 
e 
multiformità 
deve 
essere 
stato fatto valere 
e 
rappresentato, anzitutto, in sede 
procedimentale 
dal 
diretto interessato e 
valutato dalla 
pubblica 
amministrazione 
nell’esercizio del 
suo potere, non potendo il 
giudice 
pronunciarsi 
su 
un potere 
non ancora 
esercitato, stante 
il 
divieto dell’art. 34, comma 
2, c.p.a., per non essere 
stato nemmeno sollecitato dall’istante. 
11.8. È 
vero che 
il 
giudizio in materia 
di 
accesso, pur seguendo lo schema 
impugnatorio, non 
ha 
sostanzialmente 
natura 
impugnatoria, 
ma 
è 
rivolto 
all’accertamento 
della 
sussistenza 
o 
meno del 
diritto dell’istante 
all’accesso medesimo e, in tal 
senso, è 
dunque 
un “giudizio sul 
rapporto”, 
come 
del 
resto 
si 
evince 
dall’art. 
116, 
comma 
4, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
104 
del 
2010, 
secondo 
cui 
il 
giudice, sussistendone 
i 
presupposti, «ordina l’esibizione 
dei 
documenti 
richiesti» (v., 
per la 
giurisprudenza 
consolidata 
di 
questo Consiglio sul 
punto anche 
ante 
codicem, Cons. 
Stato, sez. vI, 9 maggio 2002, n. 2542 e, più di 
recente, Cons. St., sez. v, 19 giugno 2018, n. 
3956). 
11.9. Ma 
il 
c.d. giudizio sul 
rapporto, pur in sede 
di 
giurisdizione 
esclusiva, non può essere 
la 
ragione 
né 
la 
sede 
per esaminare 
la 
prima 
volta 
avanti 
al 
giudice 
questo rapporto perché 
è 
il 
procedimento 
la 
sede 
prima, 
elettiva, 
immancabile, 
nella 
quale 
la 
composizione 
degli 
interessi, 
secondo 
la 
tecnica 
del 
bilanciamento, 
deve 
essere 
compiuta 
da 
parte 
del 
soggetto 
pubblico 
competente, senza alcuna inversione tra procedimento e processo. 
12. Il 
secondo quesito posto a 
questa 
Adunanza 
plenaria 
consiste 
nel 
chiarire 
se 
sia 
configu

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


rabile, 
o 
meno, 
in 
capo 
all’operatore 
economico, 
utilmente 
collocato 
nella 
graduatoria 
dei 
concorrenti, determinata 
all’esito della 
procedura 
di 
evidenza 
pubblica 
per la 
scelta 
del 
contraente, 
la 
titolarità 
di 
un 
interesse 
diretto, 
concreto 
e 
attuale, 
corrispondente 
ad 
una 
situazione 
giuridicamente 
tutelata, 
ai 
sensi 
dell’art. 
22, 
comma 
1, 
lett. 
b), 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
ad 
avere 
accesso agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
delle 
prestazioni, in vista 
della 
eventuale 
sollecitazione 
del 
potere 
dell’amministrazione 
di 
provocare 
la 
risoluzione 
per 
inadempimento 
dell’appaltatore 
e 
il 
conseguente 
interpello per il 
nuovo affidamento del 
contratto, secondo la 
regole 
dello scorrimento della graduatoria. 


12.1. 
Diversamente 
da 
quanto 
ha 
ritenuto 
il 
Tribunale 
amministrativo 
regionale 
per 
la 
Toscana 
nella 
sentenza 
qui 
impugnata, 
e 
nel 
condividere, 
invece, 
le 
osservazioni 
esposte 
dall’ordinanza 
di 
rimessione, 
questa 
Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che 
gli 
operatori 
economici, 
che 
abbiano 
preso 
parte 
alla 
gara, sono legittimati 
ad accedere 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva, con le 
limitazioni 
di 
cui 
all’art. 
53 
del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016, 
purché 
abbiano 
un 
interesse 
attuale, 
concreto 
e 
diretto 
a conoscere tali atti. 
12.2. la 
giurisprudenza 
di 
questo Consiglio di 
Stato è 
univoca 
nell’ammettere 
l’accesso documentale, 
ricorrendone 
le 
condizioni 
previste 
dagli 
artt. 
22 
e 
ss. 
dell’art. 
241 
del 
1990, 
anche 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
(v., ex 
plurimis, Cons. St., sez. v, 25 febbraio 2009, n. 1115) laddove 
funzionale, ad esempio, a 
dimostrare, attraverso la 
prova 
dell’inadempimento delle 
prestazioni 
contrattuali, 
l’originaria 
inadeguatezza 
dell’offerta 
vincitrice 
della 
gara, 
contestata 
dall’istante nel giudizio promosso contro gli atti di aggiudicazione del servizio. 
12.3. 
l’accesso 
documentale 
agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
è 
ammesso 
espressamente 
dallo 
stesso art. 53, comma 
1, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, laddove 
esso rimette 
alla 
disciplina 
degli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 241 del 
1990, «il 
diritto di 
accesso agli 
atti 
delle 
procedure 
di 
affidamento 
e 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici», ma 
anche 
e 
più in generale 
dalla 
l. n. 241 del 
1990, richiamata dall’art. 53 testé citato. 
12.4. 
questa, 
dopo 
la 
riforma 
della 
l. 
n. 
15 
del 
2015 
che 
ha 
recepito 
l’orientamento 
consolidato 
di 
questa 
stessa 
Adunanza 
plenaria 
(v., sul 
punto, la 
fondamentale 
pronuncia 
di 
questo Cons. 
St., Ad. plen., 22 aprile 
1999, n. 5, secondo cui 
«l’amministrazione 
non può 
[…] negare 
l’accesso 
agli 
atti 
riguardanti 
la sua attività di 
diritto privato solo in ragione 
della loro natura 
privatistica», 
ma 
in 
tal 
senso 
v. 
già 
Cons. 
St., 
sez. 
Iv, 
4 
febbraio 
1997, 
n. 
42), 
ha 
espressamente 
riconosciuto l’accesso ad atti 
«concernenti 
attività di 
pubblico interesse, indipendentemente 
dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale» (art. 22, comma 
1, 
lett. e) della l. n. 241 del 1990). 
12.5. non rileva, pertanto, che 
la 
fase 
esecutiva 
del 
rapporto negoziale 
sia 
tendenzialmente 
disciplinata 
da 
disposizioni 
privatistiche, poiché 
anche 
e, si 
direbbe, soprattutto questa 
fase 
rimane 
ispirata 
e 
finalizzata 
alla 
cura 
in concreto di 
un pubblico interesse, lo stesso che 
è 
alla 
base 
dell’indizione 
della 
gara 
e/o 
dell’affidamento 
della 
commessa, 
che 
anzi 
trova 
la 
sua 
compiuta 
realizzazione 
proprio nella 
fase 
di 
realizzazione 
dell’opera 
o del 
servizio; 
e 
lo stesso accesso 
documentale, 
attese 
le 
sue 
rilevanti 
finalità 
di 
pubblico 
interesse, 
costituisce, 
come 
prevede 
l’art. 22, comma 
2, della 
l. n. 241 del 
1990, siccome 
sostituito dall’art. 10 della 
l. n. 
69 del 
2009, «principio generale 
dell’attività amministrativa al 
fine 
di 
favorire 
la partecipazione 
e 
di 
assicurarne 
l’imparzialità 
e 
la 
trasparenza» 
dell’attività 
amministrativa, 
quindi, 
considerata nel suo complesso. 
12.6. Esiste, in altri 
termini, una 
rilevanza 
pubblicistica 
(anche) della 
fase 
di 
esecuzione 
del 
contratto, dovuta 
alla 
compresenza 
di 
fondamentali 
interessi 
pubblici, che 
comporta 
una 
disciplina 
autonoma 
e 
parallela 
rispetto 
alle 
disposizioni 
del 
codice 
civile 
-applicabili 
«per 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


quanto non espressamente 
previsto dal 
presente 
codice 
e 
negli 
atti 
attuativi»: 
art. 30, comma 
8, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016) 
-e 
questa 
disciplina 
si 
traduce 
sia 
nella 
previsione 
di 
disposizioni 
speciali 
nel 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(artt. 100-113-bis 
del 
d. lgs. n. 50 del 
2016), sia 
in 
penetranti 
controlli 
da 
parte 
delle 
autorità 
preposte 
a 
prevenire 
e 
a 
sanzionare 
l’inefficienza, 
la 
corruzione 
o 
l’infiltrazione 
mafiosa 
manifestatasi 
nello 
svolgimento 
del 
rapporto 
negoziale. 


12.7. 
Sotto 
tale 
ultimo 
profilo, 
basti 
menzionare, 
tra 
gli 
altri, 
le 
funzioni 
di 
vigilanza 
attribuite 
all’AnAC dall’art. 213, comma 
3, lett. b) 
e 
c), del 
d. lgs. n. 50 del 
2016 in materia 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici, o i 
controlli 
antimafia 
da 
parte 
del 
prefetto, con gli 
effetti 
interdittivi 
di cui all’art. 88, comma 4-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011. 
12.8. 
Sotto 
il 
profilo 
degli 
interessi 
pubblici 
sottesi 
alla 
fase 
dell’esecuzione 
del 
rapporto, 
vanno richiamati il principio di trasparenza e quello di concorrenza. 
12.9. la 
trasparenza, nella 
forma 
della 
pubblicazione 
degli 
atti 
(c.d. discosclure 
proattiva), è 
espressamente 
disciplinata 
dall’art. 29 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016; 
alla 
disciplina 
dell’accesso 
agli 
atti 
è 
dedicato l’art. 53 dello stesso codice 
dei 
contratti 
pubblici, che 
tuttavia 
rinvia, in 
generale, alla 
disciplina 
della 
l. n. 241 del 
1990, salvi 
gli 
specifici 
limiti 
all’accesso e 
alla 
divulgazione 
previsti dal comma 2 al comma 6 dello stesso art. 53. 
13. Ma 
a 
esigenze 
di 
trasparenza, che 
sorregge 
il 
correlativo diritto alla 
conoscenza 
degli 
atti 
anche 
nella 
fase 
di 
esecuzione 
del 
contratto, conducono anche 
il 
principio di 
concorrenza 
e 
il 
tradizionale 
principio 
dell’evidenza 
pubblica 
che 
mira 
alla 
scelta 
del 
miglior 
concorrente, 
principio che 
non può non ricomprendere 
la 
realizzazione 
corretta 
dell’opera 
affidata 
in esecuzione 
all’esito della gara. 
13.1. 
È 
vero 
che 
il 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
pur 
nell’esigenza 
che 
l’esecuzione 
dell’appalto 
garantisca 
la 
qualità 
delle 
prestazioni, menziona 
i 
principî 
di 
libera 
concorrenza, non discriminazione, 
trasparenza 
solo in riferimento alla 
fase 
pubblicistica 
dell’affidamento di 
appalti 
e 
di 
concessioni, ma 
non vi 
è 
dubbio che 
la 
fase 
dell’esecuzione, se 
si 
eccettuano le 
varianti 
in 
corso 
d’opera 
ammesse 
dalla 
legge 
e 
le 
specifiche 
circostanze 
sopravvenute 
tali 
da 
incidere 
sullo svolgimento del 
rapporto contrattuale, deve 
rispecchiare 
e 
rispettare 
l’esito della 
gara 
condotto secondo le regole della trasparenza, della non discriminazione e della concorrenza. 
13.2. l’attuazione 
in concreto dell’offerta 
risultata 
migliore, all’esito della 
gara, e 
l’adempimento 
delle 
connesse 
prestazioni 
dell’appaltatore 
o del 
concessionario devono dunque 
essere 
lo specchio fedele 
di 
quanto risultato all’esito di 
un corretto confronto in sede 
di 
gara, perché 
altrimenti 
sarebbe 
facile 
aggirare 
in 
sede 
di 
esecuzione 
proprio 
le 
regole 
del 
buon 
andamento, 
della 
trasparenza 
e, non da 
ultimo, della 
concorrenza, formalmente 
seguite 
nella 
fase 
pubblicistica 
anteriore e prodromica all’aggiudicazione. 
13.3. Il 
delineato quadro normativo e 
di 
principî 
rende 
ben evidente 
l’esistenza 
di 
situazioni 
giuridicamente 
tutelate 
in 
capo 
agli 
altri 
operatori 
economici, 
che 
abbiano 
partecipato 
alla 
gara 
e, in certe 
ipotesi, che 
non abbiano partecipato alla 
gara, interessati 
a 
conoscere 
illegittimità 
o 
inadempimenti 
manifestatisi 
dalla 
fase 
di 
approvazione 
del 
contratto 
sino 
alla 
sua 
completa 
esecuzione, non solo per far valere 
vizi 
originari 
dell’offerta 
nel 
giudizio promosso 
contro l’aggiudicazione 
(Cons. St., sez. v, 25 febbraio 2009, n. 1115), ma 
anche 
con riferimento 
alla 
sua 
esecuzione, per potere, una 
volta 
risolto il 
rapporto con l’aggiudicatario, subentrare 
nel contratto od ottenere la riedizione della gara con chance 
di aggiudicarsela. 
13.4. 
la 
persistenza 
di 
un 
rilevante 
interesse 
pubblico 
nella 
fase 
esecutiva 
del 
contratto, 
idoneo 
a 
sorreggere 
situazioni 
sostanziali 
e 
strumentali 
di 
altri 
soggetti 
privati, in primis 
il 
diritto a 
una corretta informazione sulle vicende contrattuali, è dimostrato, sul piano positivo, da una 
serie di disposizioni che si vengono a richiamare. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


13.5. 
vanno 
anzitutto 
ricordate, 
a 
monte 
del 
costituendo 
rapporto, 
le 
regole 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
che 
prevedono in generale 
i 
controlli 
di 
legittimità 
sull’aggiudicatario previsti 
dalle 
disposizioni 
proprie 
delle 
stazioni 
appaltanti, il 
cui 
esito positivo costituisce 
condizione 
sospensiva 
del 
contratto 
insieme 
con 
l’approvazione 
del 
contratto 
stesso 
(artt. 
32, 
comma 12, e 33, comma 2, del d. lgs. n. 50 del 2016). 
13.6. nel 
corso del 
rapporto, poi, rilevano le 
molteplici, complesse, ipotesi 
di 
recesso facoltativo 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante, che 
configurano, in realtà, altrettante 
ipotesi 
di 
autotutela 
pubblicistica, 
frutto 
di 
valutazione 
discrezionale 
e 
riconducibili 
al 
generale 
paradigma 
dell’art. 
21-nonies 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990 
(v., 
sul 
punto, 
Cons. 
St., 
comm. 
spec., 
28 
novembre 
2016, n. 2777, par. 5.6.-5.6.1.). 
13.7. Ci 
si 
riferisce 
in particolare, tra 
le 
ipotesi 
che 
consentono il 
recesso facoltativo -contemplate, 
rispettivamente 
per i 
contratti 
e 
le 
concessioni, dall’art. 108, comma 
1, e 
dall’art. 
176, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
codice 
-alle 
eventuali 
modifiche 
sostanziali 
del 
contratto, 
che 
avrebbero 
richiesto una 
nuova 
procedura 
di 
appalto ai 
sensi 
dell’art. 106 (art. 108, comma 
1, lett. a), del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016); 
al 
manifestarsi 
di 
una 
delle 
cause 
di 
esclusione 
dalla 
gara, 
previste 
dal-
l’art. 80 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, al 
momento dell’aggiudicazione; 
alla 
violazione 
di 
gravi 
obblighi 
derivanti 
dai 
trattati, come 
riconosciuta 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
in un procedimento di infrazione ai sensi dell’art. 258 TfUE. 
13.8. vi 
sono poi 
specifiche 
ipotesi 
di 
risoluzione 
di 
natura 
privatistica 
ammesse 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, oltre 
a 
quelle 
previste 
in via 
generale 
dal 
codice 
civile, per gravi 
inadempimenti 
da 
parte 
dell’appaltatore, 
tali 
da 
compromettere 
la 
buona 
riuscita 
delle 
prestazioni, 
accertate 
dal 
direttore 
dei 
lavori 
o dal 
responsabile 
dell’esecuzione 
del 
contratto, se 
nominato 
(art. 108, comma 
3, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016) o comunque, anche 
al 
di 
fuori 
delle 
ipotesi 
di 
grave 
inadempimento, 
ipotesi 
di 
ritardi 
per 
negligenza 
dell’appaltatore 
rispetto 
alle 
previsioni 
del contratto (art. 108, comma 4, del d. lgs. n. 50 del 2016). 
13.9. E 
deve 
qui 
ricordarsi, peraltro, che 
i 
gravi 
e 
persistenti 
inadempimenti 
dell’operatore 
economico nell’esecuzione 
di 
precedenti 
contratti 
di 
appalto o di 
concessione, che 
ne 
hanno 
causato 
la 
risoluzione 
per 
inadempimento 
o 
la 
condanna 
al 
risarcimento 
del 
danno 
o 
altre 
sanzioni 
comparabili, costituiscono, ai 
sensi 
dell’art. 80, comma 
5, lett. c-ter, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, 
causa 
di 
esclusione 
dalla 
gara 
e 
tali 
circostanze 
assumono 
particolare 
rilievo 
ai 
fini 
della 
partecipazione alla gara. 
13.10. Ancora, più radicalmente, peraltro, la 
rilevanza 
della 
vicenda 
contrattuale 
anche 
nella 
fase 
di 
esecuzione 
è 
confermata 
dalle 
ipotesi 
di 
recesso 
obbligatorio 
dal 
rapporto 
contrattuale, 
previste 
dall’art. 110, comma 
2, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, che 
in realtà 
configurano forme 
di 
autotutela 
pubblicistica 
c.d. 
doverosa 
(con 
la 
conseguente, 
pacifica, 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo: 
Cons. St., sez. Iv, 29 aprile 
2014, n. 2212), per l’intervenuta 
decadenza 
del-
l’attestazione 
di 
qualificazione 
per aver prodotto falsa 
documentazione 
o dichiarazioni 
mendaci 
o 
per 
il 
sopraggiungere 
di 
un 
provvedimento 
definitivo, 
che 
dispone 
l’applicazione 
di 
una 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
previste 
dal 
d. lgs. n. 159 del 
2011, con effetto interdittivo 
antimafia; 
o per l’intervenuta 
sentenza 
di 
condanna 
passata 
in giudicato per uno dei 
reati 
di 
cui 
all’art. 80 (art. 108, comma 
2, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016); 
o, ancora, per il 
recesso di 
cui 
all’art. 
88, 
comma 
4-ter, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
159 
del 
2011, 
in 
seguito 
a 
comunicazione 
o 
informazione 
antimafia adottata dal Prefetto (art. 110, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016). 
13.11. In tutte 
queste 
ipotesi 
l’art. 110, comma 
1, del 
vigente 
d. lgs. n. 50 del 
2016 prevede 
che 
la 
stazione 
appaltante, se 
intende 
mantenere 
l’affidamento alle 
medesime 
condizioni 
già 
proposte 
dall’originario aggiudicatario in sede 
di 
offerta, proceda 
allo scorrimento della 
gra

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


duatoria, esercitando quella 
che 
pur sempre, nonostante 
il 
contrario avviso di 
autorevole 
dottrina, 
è 
rimasta 
anche 
nel 
nuovo codice 
dei 
contratti 
pubblici 
una 
facoltà 
discrezionale 
della 
pubblica 
amministrazione, 
come 
è 
reso 
manifesto 
dalla 
lettera 
dell’art. 
108, 
comma 
8, 
del 
medesimo 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016, 
laddove 
menziona 
«la 
facoltà 
prevista 
dall’art. 
110, 
comma 
1». 


14. la 
circostanza 
che 
tuttavia 
la 
stazione 
appaltante, al 
ricorrere 
delle 
ipotesi 
di 
risoluzione 
di 
cui 
all’art. 108, comma 
1, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, abbia 
la 
mera 
facoltà 
di 
procedere 
allo 
scorrimento 
della 
graduatoria, 
con 
il 
subentro 
del 
secondo 
classificato 
o 
dei 
successivi 
secondo 
l’ordine 
della 
stessa, o di 
indire 
una 
nuova 
gara 
per il 
soddisfacimento delle 
proprie 
esigenze, 
laddove 
permangano 
immutate 
-e 
salva, 
ovviamente, 
l’eccezionale 
facoltà 
di 
revocare 
l’intera 
procedura 
gara 
stessa, 
se 
queste 
esigenze 
siano 
addirittura 
venute 
meno, 
e 
di 
non 
bandirne 
più nessuna 
-non rende 
tuttavia 
evanescente 
l’interesse 
dell’operatore 
economico, che 
abbia 
partecipato alla 
gara, quantomeno a 
conoscere 
illegittimità, afferenti 
alla 
pregressa 
fase 
pubblicistica 
ma 
emerse 
solo 
in 
sede 
di 
esecuzione 
(ipotesi 
di 
c.d. 
recesso 
pubblicistico 
o, 
più 
precisamente, forme 
di 
annullamento in autotutela, discrezionale 
o doverosa, secondo le 
ipotesi 
sopra 
ricordate 
in via 
esemplificativa), o comunque 
inadempimenti 
manifestatisi 
in fase 
di esecuzione (ipotesi di c.d. recesso privatistico). 
14.1. l’esecuzione 
del 
pubblico contratto o della 
pubblica 
concessione, se 
riguardata 
infatti 
anche 
dal 
necessario 
versante 
del 
diritto 
amministrativo 
e 
delle 
norme 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, che 
pure 
la 
regolano in ossequio ai 
dettami 
del 
diritto dell’Unione, non è 
una 
“terra 
di 
nessuno”, un rapporto rigorosamente 
privatistico tra 
la 
pubblica 
amministrazione 
e 
il 
contraente 
escludente 
qualsivoglia 
altro rapporto o interesse, ma 
è 
invece 
soggetta, oltre 
al 
controllo 
dei 
soggetti 
pubblici, 
anche 
alla 
verifica 
e 
alla 
connessa 
conoscibilità 
da 
parte 
di 
eventuali soggetti controinteressati al subentro o, se del caso, alla riedizione della gara. 
14.2. 
l’interesse 
legittimo 
degli 
operatori 
economici 
nel 
settore 
dei 
rapporti 
contrattuali 
e 
concessori 
pubblici 
ha 
assunto ormai 
una 
configurazione 
di 
ordine 
anche 
solo strumentale, 
certo inedita nella sua estensione, ma di sicuro impatto sistematico. 
14.3. Ciò si 
desume 
non solo dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
UE 
-che, come 
è 
noto, 
propugna 
una 
(sin 
troppo 
ampia) 
concezione 
dell’interesse 
strumentale 
in 
materia 
di 
gara 
(sentenza 
della 
X 
sezione, 5 settembre 
2019, in C-333/18) -ma 
dalla 
stessa 
giurisprudenza 
di 
questa 
Adunanza 
plenaria 
(sentenza 
n. 
6 
dell’11 
maggio 
2018) 
la 
quale 
ha 
ben 
chiarito 
che 
il 
legislatore 
può 
conferire 
rilievo 
a 
determinati 
interessi 
strumentali, 
che 
assurgono 
al 
rango di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
giuridicamente 
tutelate 
in via 
autonoma 
rispetto al 
bene della vita finale, ancorché ad esso legati. 
14.4. 
Anche 
la 
Corte 
costituzionale, 
nella 
recente 
sentenza 
n. 
271 
del 
13 
dicembre 
2019 
-respingendo 
le 
questioni 
di 
costituzionalità 
sollevate 
da 
diversi 
Tribunali 
amministrativi 
regionali 
sul 
comma 
2-bis 
dell’art. 
120 
c.p.a., 
ora 
abrogato 
in 
seguito 
all’intervento 
del 
d.l. 
n. 
32 
del 
2019, 
conv. 
in 
l. 
n. 
55 
del 
2019 
-ha 
chiarito 
che 
«se 
è 
vero 
che 
gli 
artt. 
24, 
103 
e 
113 
Cost., 
in 
linea 
con 
le 
acquisizioni 
della 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
stato, 
hanno 
posto 
al 
centro 
della 
giurisdizione 
amministrativa 
l’interesse 
sostanziale 
al 
bene 
della 
vita, 
deve 
anche 
riconoscersi 
che 
attribuire 
rilevanza, 
in 
casi 
particolari, 
ad 
interessi 
strumentali 
può 
comportare 
un 
ampliamento 
della 
tutela 
attraverso 
una 
sua 
anticipazione 
e 
non 
è 
distonico 
rispetto 
ai 
ricordati 
precetti 
costituzionali, 
sempre 
che 
sussista 
un 
solido 
collegamento 
con 
l’interesse 
finale 
e 
non 
si 
tratti 
di 
un 
espediente 
per 
garantire 
la 
legalità 
in 
sé 
dell’azione 
amministrativa, 
anche 
al 
costo 
di 
alterare 
l’equilibrio 
del 
rapporto 
tra 
le 
parti 
proprio 
dei 
processi 
a 
carattere 
dispositivo». 
14.5. 
la 
latitudine 
di 
questo 
intesse 
legittimo 
“strumentale” 
non 
solo 
all’aggiudicazione 
della 
commessa, quale 
bene 
della 
vita 
finale, ma 
anche, per l’eventuale 
riedizione 
della 
gara, quale 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


bene 
della 
vita 
intermedio, secondo quel 
“polimorfismo” 
del 
bene 
della 
vita 
alla 
quale 
tende 
per graduali 
passaggi 
l’interesse 
legittimo, schiude 
la 
strada 
ad una 
visione 
della 
materia, che 
fuoriesce 
dall’angusto confine 
di 
una 
radicale 
visione 
soggettivistica 
del 
rapporto tra 
il 
solo, 
singolo, 
concorrente 
e 
la 
pubblica 
amministrazione 
e 
che 
vede 
la 
confluenza 
e 
la 
tutela 
di 
molteplici 
interessi 
anche 
in 
ordine 
alla 
sorte 
e 
alla 
prosecuzione 
del 
contratto, 
fermo 
pur 
sempre 
il carattere soggettivo della giurisdizione amministrativa in questa materia. 


14.6. Applicando le 
medesime 
coordinate 
anche 
alla 
fase 
privatistica 
del 
contratto pubblico, 
il 
riconoscimento di 
un interesse 
strumentale 
giuridicamente 
tutelato quantomeno ai 
soggetti 
che 
abbiano partecipato alla 
gara, e 
non ne 
siano stati 
definitivamente 
esclusi 
per l’esistenza 
di 
preclusioni 
che 
impedirebbero loro di 
partecipare 
a 
qualsiasi 
gara 
(si 
pensi 
ad una 
impresa 
colpita 
da 
informazione 
antimafia), 
a 
conoscere 
gli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
non 
configura 
quindi 
una 
“iperestensione” 
del 
loro interesse, con conseguente 
allargamento “a 
valle” 
della 
giurisdizione 
amministrativa, tutte 
le 
volte 
in cui, a 
fronte 
di 
vicende 
di 
natura 
pubblicistica 
o privatistica 
già 
verificatesi 
incidenti 
sulla 
prosecuzione 
del 
rapporto, sia 
configurabile, se 
non il 
necessario, obbligatorio, scorrimento della 
graduatoria 
(c.d. bene 
finale), quantomeno 
la 
realistica 
possibilità 
di 
riedizione 
della 
gara 
(c.d. bene 
intermedio) per conseguire 
l’aggiudicazione 
della stessa (c.d. bene finale), in un “solido collegamento” con il bene finale. 
14.7. l’interesse 
concorrenziale 
alla 
corretta 
esecuzione 
del 
contratto riacquista 
concretezza 
ed attualità, in altri 
termini, in tutte 
le 
ipotesi 
in cui 
la 
fase 
dell’esecuzione 
non rispecchi 
più 
quella 
dell’aggiudicazione, conseguita 
all’esito di 
un trasparente, imparziale, corretto gioco 
concorrenziale, o per il 
manifestarsi 
di 
vizi 
che 
già 
in origine 
rendevano illegittima 
l’aggiudicazione 
o 
per 
la 
sopravvenienza 
di 
illegittimità 
che 
precludano 
la 
prosecuzione 
del 
rapporto 
(c.d. 
risoluzione 
pubblicistica, 
facoltativa 
o 
doverosa) 
o 
per 
inadempimenti 
che 
ne 
determinino 
l’inefficacia 
sopravvenuta 
(c.d. 
risoluzione 
privatistica), 
sì 
che 
emerga 
una 
distorsione 
di 
tutte 
quelle 
regole 
concorrenziali 
che 
avevano condotto all’aggiudicazione 
della 
gara 
in favore 
del 
miglior concorrente per la miglior soddisfazione dell’interesse pubblico. 
15. Tanto chiarito sulla 
sussistenza 
di 
un interesse, e 
sulla 
conseguente 
legittimazione 
che 
deriva 
dalla 
titolarità 
dello stesso, alla 
conoscenza 
dello svolgimento del 
rapporto contrattuale, 
occorre 
però, 
ai 
fini 
dell’accesso, 
che 
l’interesse 
dell’istante, 
pur 
in 
astratto 
legittimato, 
possa 
considerarsi 
concreto, attuale, diretto, e, in particolare, che 
preesista 
all’istanza 
di 
accesso e 
non ne 
sia, invece, conseguenza; 
in altri 
termini, che 
l’esistenza 
di 
detto interesse 
-per il 
verificarsi, 
ad esempio, di 
una 
delle 
situazioni 
che 
legittimerebbe 
o addirittura 
imporrebbe 
la 
risoluzione 
del 
rapporto con l’appaltatore, ai 
sensi 
dell’art. 108, commi 
1 e 
2, del 
d. lgs. n. 50 
del 
2016, e 
potrebbero indurre 
l’amministrazione 
a 
scorrere 
la 
graduatoria 
-sia 
anteriore 
all’istanza 
di 
accesso 
documentale 
che, 
quindi, 
non 
deve 
essere 
impiegata 
e 
piegata 
a 
“costruire” 
ad hoc, con una finalità esplorativa, le premesse affinché sorga 
ex post. 
15.1. 
Diversamente, 
infatti, 
l’accesso 
documentale 
assolverebbe 
ad 
una 
finalità, 
espressamente 
vietata 
dalla 
legge, perché 
preordinata 
ad un non consentito controllo generalizzato sull’attività, 
pubblicistica 
o privatistica, delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(art. 24, comma 
4, della 
l. 
n. 241 del 1990). 
15.2. 
Invero, 
la 
situazione 
dell’operatore 
economico 
che 
abbia 
partecipato 
alla 
gara, 
collocandosi 
in graduatoria, non gli 
conferisce 
infatti, nemmeno ai 
fini 
dell’accesso, una 
sorta 
di 
superlegittimazione 
di 
stampo popolare 
a 
conoscere 
gli 
atti 
della 
fase 
esecutiva, laddove 
egli 
non 
possa 
vantare 
un 
interesse 
corrispondente 
ad 
una 
situazione 
giuridicamente 
tutelata 
e 
collegata 
al 
documento al 
cui 
accesso aspira 
(art. 22, comma 
1, lett. b), della 
l. n. 241 del 
1990). 
15.3. Se 
l’accesso documentale 
soddisfa, come 
questo Consiglio ha 
rilevato nel 
parere 
n. 515 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


del 
24 
febbraio 
2016 
della 
Sezione 
consultiva 
per 
gli 
atti 
normativi 
(v., 
in 
particolare, 
par. 
11.2), un bisogno di 
conoscenza 
(c.d. need to know) strumentale 
alla 
difesa 
di 
una 
situazione 
giuridica, che 
peraltro non necessariamente 
deve 
sfociare 
in un esito contenzioso (essendo la 
situazione 
legittimante 
all’accesso 
autonoma 
e 
distinta 
da 
quella 
legittimante 
all’impugnativa 
giudiziale 
e 
dall’esito stesso di 
questa 
impugnativa: 
v. Cons. St., sez. v, 27 giugno 2018, n. 
3956, 
già 
citata), 
questa 
situazione 
giuridica 
deve 
necessariamente 
precedere 
e, 
per 
di 
più, 
motivare l’accesso stesso. 


15.4. 
né 
giova 
opporre 
che 
l’accesso 
documentale 
è 
proprio 
finalizzato 
a 
fornire 
la 
prova 
di 
questo 
riattualizzato 
interesse, 
come 
sembra 
postulare 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
nel 
suggerire 
un’assimilazione 
tra 
la 
posizione 
di 
Diddi 
s.r.l. 
e 
quella 
del 
concorrente 
che 
aspiri 
a 
conoscere 
i 
documenti 
dell’offerta 
dell’aggiudicataria, 
perché 
altro 
è 
il 
bisogno 
di 
conoscere 
per 
tutelare 
una 
interesse 
collegato 
ad 
una 
situazione 
competitiva 
già 
esistente 
o 
chiaramente 
delineatasi, 
laddove 
il 
principio 
di 
concorrenza 
già 
opera 
in 
fase 
di 
gara 
e 
al 
fine 
eventuale 
di 
impugnare 
il 
provvedimento 
di 
aggiudicazione, 
e 
altro, 
evidentemente, 
il 
desiderio 
di 
conoscere 
per 
sapere 
se 
questa 
situazione 
possa 
crearsi 
per 
l’occasione, 
del 
tutto 
eventuale, 
di 
un 
inadempimento 
contrattuale. 
15.5. E 
proprio nella 
distanza 
che 
intercorre 
tra 
bisogno di 
conoscenza 
e 
desiderio di 
conoscenza 
sta 
del 
resto il 
tratto distintivo che, al 
di 
là 
di 
ulteriori 
aspetti, connota 
l’accesso documentale 
rispetto 
a 
quello 
civico 
generalizzato, 
nel 
quale 
la 
conoscenza 
si 
atteggia 
quale 
diritto 
fondamentale 
(c.d. right 
to know), in sé, che 
è 
premessa 
autonoma 
e 
fondamentale 
per l’esercizio 
di qualsivoglia altro diritto. 
16. Alla 
luce 
delle 
premesse 
sin qui 
svolte, nel 
caso di 
specie 
deve 
però negarsi 
che 
sussista 
un interesse 
anche 
solo strumentale, nel 
senso sopra 
descritto, alla 
conoscenza 
di 
tali 
atti 
in 
capo 
a 
Diddi 
s.r.l., 
che 
nemmeno 
ha 
adombrato 
nella 
propria 
istanza, 
come 
pure 
ha 
rammentato 
l’ordinanza 
di 
rimessione, l’esistenza 
di 
un qualsivoglia 
inadempimento, essendosi 
limitata 
ad 
allegare, 
nella 
stessa 
istanza, 
che 
«eventuali 
inadempienze 
rispetto 
ai 
suddetti 
obblighi 
comporterebbero con ogni 
probabilità la risoluzione 
del 
contratto per 
inadempimento, ed il 
conseguente 
affidamento 
del 
servizio 
alla 
scrivente 
società, 
nella 
sua 
qualità 
di 
mandante 
dell’ati seconda in graduatoria». 
16.1. Una 
volta 
chiarito che 
la 
posizione 
sostanziale 
è 
la 
causa 
e 
il 
presupposto dell’accesso 
documentale 
e 
non la 
sua 
conseguenza 
e 
che 
la 
sua 
esistenza 
non può quindi 
essere 
costruita 
sulle 
risultanze, eventuali, dell’accesso documentale, va 
rilevato, per contro, che, nel 
caso di 
specie, 
l’istanza 
di 
accesso 
è 
tesa 
all’acquisizione 
di 
documenti 
che 
non 
impediscono 
od 
ostacolano 
il 
soddisfacimento 
di 
una 
situazione 
sostanziale, 
già 
delineatasi 
chiaramente, 
ed 
è 
volta 
a 
invocare 
circostanze, 
da 
verificare 
tramite 
l’accesso, 
che 
in 
un 
modo 
del 
tutto 
eventuale, 
ipotetico, dubitativo potrebbero condurre 
al 
subentro nel 
contratto, nemmeno delineando una 
seria 
prospettiva 
di 
risoluzione 
del 
rapporto, sempre 
necessaria 
per radicare 
un interesse 
concreto 
e attuale (Cons. St., sez. v, 11 giugno 2012, n. 3398). 
16.2. Si 
rivela, così, nella 
fattispecie 
in esame, un’istanza 
di 
accesso con finalità 
meramente 
esplorativa, finalizzata 
ad acclarare 
se 
un inadempimento vi 
sia, che 
presupporrebbe, in capo 
agli 
altri 
operatori 
economici, un inammissibile 
ruolo di 
vigilanza 
sulla 
regolare 
esecuzione 
delle 
prestazioni 
contrattuali 
e 
sull’adempimento delle 
proprie 
obbligazioni 
da 
parte 
dell’aggiudicatario. 
16.3. Si 
avrebbe 
così 
una 
sorta 
di 
interesse 
oggettivo, seppure 
ai 
fini 
dell’accesso, che 
non 
può essere 
accolta 
pur tenendo conto, come 
si 
è 
detto, della 
lettura 
che 
di 
questo interesse 
offrono, 
in 
quel 
dialogo 
incessante 
che 
costituisce 
l’osmosi 
tra 
il 
diritto 
interno 
e 
quello 
europeo, 
le Corti nazionali e quelle sovranazionali. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


16.4. la 
configurazione 
di 
un interesse 
strumentale 
così 
amplificato e 
dilatato anche 
in fase 
esecutiva 
conferirebbe 
alle 
imprese 
del 
settore, 
partecipanti 
alla 
gara, 
una 
superlegittimazione 
che, come 
meglio si 
chiarirà, le 
direttive 
del 
2014 in materia 
di 
appalti 
non consentono loro, 
pur riconoscendo, invece, la 
facoltà 
di 
segnalare 
eventuali 
irregolarità, anche 
nella 
fase 
esecutiva, 
ad 
un’apposita 
autorità 
nazionale 
(nel 
caso 
di 
specie, 
come 
meglio 
si 
chiarirà 
più 
avanti, 
l’AnAC). 
16.5. 
Per 
contro, 
questa 
Adunanza 
plenaria, 
proprio 
con 
riguardo 
all’accesso 
documentale, 
ha 
precisato 
che 
essere 
titolare 
di 
una 
situazione 
giuridicamente 
tutelata 
non 
è 
una 
condizione 
sufficiente 
perché 
l’interesse 
rivendicato 
possa 
considerarsi 
«diretto, 
concreto 
e 
attuale», 
poiché 
è 
anche 
necessario che 
la 
documentazione 
cui 
si 
chiede 
di 
accedere 
sia 
collegata 
a 
quella 
posizione 
sostanziale, 
impedendone 
o 
ostacolandone 
il 
soddisfacimento 
(Cons. 
St., 
Ad. 
plen., 
24 aprile 2012, n. 7). 
17. Escluso che, almeno nel 
caso di 
specie, sia 
applicabile 
l’accesso documentale 
di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990, occorre 
esaminare 
ora 
conseguentemente 
l’ultimo quesito, posto dall’ordinanza 
di 
rimessione, 
e 
cioè 
se 
la 
disciplina 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
di 
cui 
al 
d. 
lgs. n. 33 del 
2013, come 
modificato dal 
d. lgs. n. 97 del 
2016, sia 
applicabile, in tutto o in 
parte, in relazione 
ai 
documenti 
relativi 
alle 
attività 
delle 
amministrazioni 
disciplinate 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
lavori, servizi 
e 
forniture, inerenti 
al 
procedimento di 
evidenza 
pubblica 
e 
alla 
successiva 
fase 
esecutiva, 
ferme 
restando 
le 
limitazioni 
ed 
esclusioni 
oggettive 
previste dallo stesso d. lgs. n. 33 del 2013. 
18.1. l’art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, introdotto dall’art. 6 del 
d. lgs. n. 97 
del 
2016, prevede 
testualmente 
che 
il 
diritto di 
accesso civico generalizzato, di 
cui 
all’art. 5, 
comma 
2, del 
medesimo d. lgs. n. 33 del 
2013, «è 
escluso nei 
casi 
di 
segreto di 
stato e 
negli 
altri 
casi 
di 
divieti 
di 
accesso o divulgazione 
previsti 
dalla legge, ivi 
compresi 
i 
casi 
in cui 
l’accesso è 
subordinato dalla disciplina vigente 
al 
rispetto di 
specifiche 
condizioni, modalità 
o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990». 
18.2. l’art. 53, comma 
1, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016 prevede, a 
sua 
volta, che 
«il 
diritto di 
accesso 
agli 
atti 
delle 
procedure 
di 
affidamento e 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici, ivi 
comprese 
le 
candidature 
e 
le 
offerte, 
è 
disciplinato 
dagli 
articoli 
22 
e 
seguenti 
della 
legge 
7 
agosto 
1990, n. 241». 
18.3. Come 
ben ha 
rammentato l’ordinanza 
di 
rimessione, che 
ha 
offerto un esaustivo quadro 
del 
dibattito giurisprudenziale, sulla 
possibilità 
di 
ammettere 
l’accesso civico generalizzato 
la 
giurisprudenza 
stessa 
di 
questo Consiglio di 
Stato, non meno di 
quella 
di 
primo grado, si 
è 
attestata 
su due 
posizioni, contrastanti, che 
fanno capo, rispettivamente, alla 
sentenza 
della 
sez. III, 5 giugno 2019, n. 3780 e 
alle 
sentenze 
gemelle 
della 
sez. v, 2 agosto 2019, n. 5502 e 
n. 5503. 
19. Giova ripercorre in sintesi le posizioni e gli argomenti del contrasto. 
20. 
Secondo 
l’orientamento 
espresso 
dalla 
sentenza 
n. 
3780 
del 
5 
giugno 
2019 
(condiviso, 
anche 
nella 
giurisprudenza 
di 
primo grado, da 
numerose 
pronunce), il 
richiamo dell’art. 53 
del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, nella 
parte 
in cui 
rinvia 
agli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 241 del 
1990, 
non 
può 
condurre 
alla 
generale 
esclusione 
dell’accesso 
civico 
generalizzato 
in 
relazione 
ai 
contratti 
pubblici 
perché 
il 
richiamo a 
specifiche 
condizioni, modalità 
e 
limiti 
si 
riferisce 
a 
determinati 
casi 
in cui, per una 
materia 
altrimenti 
ricompresa 
per intero nella 
possibilità 
di 
accesso, norme 
speciali 
o l’art. 24, comma 
1, della 
l. n. 241 del 
1990 possono prevedere 
specifiche 
restrizioni. 
20.1. Ciò non implicherebbe, però, che 
intere 
materie 
siano sottratte 
all’accesso civico gene

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


ralizzato, se 
è 
vero che 
l’ambito delle 
materie 
sottratte 
deve 
essere 
definito senza 
possibilità 
di 
estensione 
o analogia 
interpretativa, dovendosi 
distinguere, nell’ambito delle 
eccezioni 
assolute 
previste 
dall’art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, tra 
materie 
sottratte 
interamente 
e 
singoli 
casi 
sottratte 
nell’ambito 
di 
materie 
altrimenti 
aperte 
all’accesso 
generalizzato. 
Mentre 
il 
riferimento alla 
disciplina 
degli 
artt. 22 e 
ss. della 
l. n. 241 del 
1990 costituirebbe 
il 
mero frutto di un mancato coordinamento del legislatore tra le due normative. 


20.2. 
la 
III 
sezione 
di 
questo 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
perciò 
rifiutato 
una 
interpretazione, 
definita 
“statica” 
e 
non costituzionalmente 
orientata, che 
condurrebbe 
a 
precludere 
l’accesso civico 
generalizzato ogniqualvolta 
una 
norma 
di 
legge 
richiami 
la 
disciplina 
dell’art. 22 della 
l. n. 
241 del 
1990; 
e 
sostiene 
che, al 
contrario, occorre 
privilegiare 
una 
interpretazione 
conforme 
ai 
canoni 
dell’art. 97 Cost. e 
valorizzare 
l’impatto “orizzontale” 
dell’accesso civico generalizzato, 
non 
limitabile 
da 
norme 
preesistenti 
e 
non 
coordinate 
con 
il 
nuovo 
istituto, 
ma 
soltanto 
dalle 
prescrizioni 
speciali, da 
interpretare 
restrittivamente, rinvenibili 
all’interno della 
disciplina 
di riferimento. 
20.3. Sul 
piano ordinamentale, richiamando le 
osservazioni 
svolte 
nel 
parere 
n. 515 del 
24 
febbraio 2016 di 
questo Consiglio, la 
III sezione 
ha 
sottolineato il 
fondamentale 
valore 
della 
trasparenza, perseguito dal 
riconoscimento dell’accesso civico generalizzato anche 
in questa 
materia, come 
strumento fondamentale 
di 
prevenzione 
e 
contrasto alla 
corruzione, anche 
secondo 
la 
chiara 
posizione 
assunta 
dalla 
Commissione 
europea, la 
quale 
ha 
sottolineato la 
necessità 
che 
l’ordinamento italiano promuova 
la 
trasparenza 
dei 
processi 
decisionali 
in ogni 
ambito e, particolarmente, nel settore delle pubbliche gare, prima e dopo l’aggiudicazione. 
21. Un diverso orientamento, come 
si 
è 
accennato, ha 
seguito invece 
la 
v 
sezione 
di 
questo 
Consiglio di Stato, insieme con numerose altre pronunce dei giudici di primo grado. 
21.1. Anzitutto, sul 
piano della 
interpretazione 
letterale, questo secondo orientamento ritiene 
che 
l’eccezione 
assoluta, contemplata 
nell’art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 33 del 
2016, ben 
possa 
essere 
riferita 
a 
tutte 
le 
ipotesi 
in cui 
vi 
sia 
una 
disciplina 
vigente 
che 
regoli 
specificamente 
il 
diritto di 
accesso, in riferimento a 
determinati 
ambiti 
o materie 
o situazioni, e 
che 
l’eccezione 
non riguardi 
quindi 
soltanto le 
ipotesi 
in cui 
la 
disciplina 
vigente 
abbia 
quale 
suo 
unico 
contenuto 
un 
divieto 
assoluto 
o 
relativo 
di 
pubblicazione 
o 
di 
divulgazione 
«se 
non 
altro perché 
tale 
ipotesi 
è 
separatamente 
contemplata nella medesima disposizione» (Cons. 
St., sez. v, 2 agosto 2019, n. 5503). 
21.2. Si 
tratterebbe, insomma, di 
effettuare 
un coordinamento volta 
per volta, verificando se 
la 
disciplina 
settoriale, 
da 
prendere 
prioritariamente 
in 
considerazione 
in 
ossequio 
al 
principio 
di specialità, consenta la reciproca integrazione ovvero assuma portata derogatoria. 
21.3. nella 
materia 
dei 
contratti 
pubblici, tuttavia, la 
prevalenza 
della 
disciplina 
speciale 
sarebbe 
data 
dalla 
sua 
autosufficienza, anche 
nel 
soddisfare 
le 
esigenze 
di 
trasparenza 
nel 
necessario 
bilanciamento con altri 
contrapposti 
interessi, di 
ordine 
pubblico e 
privato, dacché 
«questa 
disciplina 
attua 
specifiche 
direttive 
europee 
di 
settore 
che, 
tra 
l’altro, 
si 
preoccupano 
già 
di 
assicurare 
la 
trasparenza 
e 
la 
pubblicità 
negli 
affidamenti 
pubblici, 
nel 
rispetto 
di 
altri 
principî 
di 
rilevanza 
eurounitaria, 
in 
primo 
luogo 
il 
principio 
di 
concorrenza, 
oltre 
che 
di 
economicità, 
efficacia 
ed 
imparzialità», 
sicché, 
in 
tale 
contesto, 
la 
qualificazione 
del 
soggetto 
richiedente 
l’accesso, 
al 
fine 
di 
vagliare 
la 
meritevolezza 
della 
pretesa 
di 
accesso 
individuale, 
sarebbe ampiamente giustificata. 
21.4. Per di 
più, avuto riguardo allo specifico contesto ordinamentale, il 
perseguimento delle 
finalità 
di 
trasparenza, 
proprie 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
sarebbe 
garantito, 
da 
un 
lato, 
dal 
ruolo di 
vigilanza 
e 
controllo sui 
contratti 
pubblici 
svolto dall’AnAC e, dall’altro, dal

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


l’accesso civico c.d. semplice, previsto dagli 
artt. 3 e 
5, comma 
1, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, 
dato 
che 
molto 
ampia 
sarebbe 
la 
portata 
dell’obbligo 
previsto 
dalla 
normativa 
vigente, 
in 
capo 
alle 
pubbliche 
amministrazioni, 
di 
pubblicare 
documenti, 
informazioni 
o 
dati 
riguardanti 
proprio 
i contratti pubblici. 


21.5. 
la 
soluzione 
seguita 
dalla 
v 
sezione, 
quanto 
ai 
valori 
e 
agli 
interessi 
in 
conflitto, 
conduce 
alla 
conseguenza 
di 
escludere 
qualsivoglia 
rilevanza 
diretta 
al 
limite 
relativo, di 
cui 
all’art. 5bis, 
comma 
2, lett. c), del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 («gli 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
di 
una persona fisica o giuridica, ivi 
compresa la proprietà intellettuale, il 
diritto d’autore 
e 
i 
segreti commerciali» e sottolinea al riguardo che, diversamente ritenendo: 
a) l’amministrazione 
che 
detiene 
i 
documenti 
per i 
quali 
è 
chiesto l’accesso dovrebbe 
tenere 
conto, 
caso 
per 
caso, 
delle 
ragioni 
di 
opposizione 
degli 
operatori 
economici 
coinvolti, 
con 
prevedibile 
soccombenza, nella 
maggioranza 
dei 
casi, dello stesso principio di 
trasparenza, 
che 
si 
intende 
in astratto tutelare, poiché 
maggiori 
sono i 
limiti 
che 
si 
oppongono all’accesso 
civico generalizzato; 
b) 
notevole 
sarebbe 
l’incremento dei 
costi 
di 
gestione 
del 
procedimento di 
accesso da 
parte 
delle 
singole 
pubbliche 
amministrazioni 
coinvolte, del 
quale 
si 
è 
fatto carico l’interprete, ma 
che, in una 
prospettiva 
di 
diffusa 
applicazione 
dell’accesso civico generalizzato a 
tutti 
gli 
atti 
delle 
procedure 
di 
affidamento e 
di 
esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici, necessiterebbe 
di 
una 
apposita disposizione di legge; 
c) 
l’ammissione 
dell’accesso generalizzato finirebbe 
per privare 
di 
senso il 
richiamo dell’art. 
53, 
comma 
1, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016 
all’art. 
22 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990 
e, 
comunque, 
farebbe 
sì 
che 
esso si 
presti 
alla 
soddisfazione 
di 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
del 
singolo operatore, 
nell’intento 
di 
superare 
i 
limiti 
interni 
dei 
rimedi 
specificamente 
posti 
dall’ordinamento 
a 
tutela 
di 
tali 
interessi 
ove 
compromessi 
dalla 
conduzione 
delle 
procedure 
di 
affidamento e 
di esecuzione dei contratti pubblici. 
21.6. l’orientamento appena 
esaminato perviene 
così 
alla 
conclusione 
che 
la 
legge 
propenda 
per l’esclusione 
assoluta 
della 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato in riferimento agli 
atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici. 
21.7. Tale 
esclusione 
conseguirebbe 
«non ad incompatibilità morfologica o funzionale, ma 
al 
delineato rapporto positivo tra norme, 
che 
non è 
compito dell’interprete 
variamente 
atteggiare, 
richiedendosi 
allo 
scopo, 
per 
l’incidenza 
in 
uno 
specifico 
ambito 
di 
normazione 
speciale, 
un intervento esplicito del legislatore». 
22. questa 
Adunanza 
plenaria 
ritiene 
che 
l’accesso civico generalizzato debba 
trovare 
applicazione, 
per le ragioni che si esporranno, anche alla materia dei contratti pubblici. 
22.1. 
Come 
è 
stato 
esattamente 
osservato, 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
introdotto 
nel 
corpus 
normativo del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 dal 
d. lgs. n. 97 del 
2016, in attuazione 
della 
delega 
contenuta 
nell’art. 7 della 
l. n. 124 del 
2015, come 
diritto di 
“chiunque”, non sottoposto ad alcun 
limite 
quanto 
alla 
legittimazione 
soggettiva 
del 
richiedente 
e 
senza 
alcun 
onere 
di 
motivazione 
circa 
l’interesse 
alla 
conoscenza, viene 
riconosciuto e 
tutelato «allo scopo di 
favorire 
forme 
diffuse 
di 
controllo sul 
perseguimento delle 
funzioni 
istituzionali 
e 
sull’utilizzo delle 
risorse 
pubbliche 
e 
di 
promuovere 
la partecipazione 
al 
dibattito pubblico» (art. 5, comma 
2, del 
d. 
lgs. n. 33 del 2013). 
22.2. l’esplicita 
precisazione 
del 
legislatore 
evidenzia 
proprio la 
volontà 
di 
superare 
quello 
che 
era 
e 
resta 
il 
limite 
connaturato all’accesso documentale 
che, come 
si 
è 
detto, non può essere 
preordinato ad un controllo generalizzato sull’attività 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(art. 24, comma 3, della l. n. 241 del 1990). 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


22.3. nell’accesso documentale 
ordinario, “classico”, si 
è 
dunque 
al 
cospetto di 
un accesso 
strumentale 
alla 
protezione 
di 
un interesse 
individuale, nel 
quale 
è 
l’interesse 
pubblico alla 
trasparenza 
ad essere, come 
taluno ha 
osservato, “occasionalmente 
protetto” 
per il 
c.d. need 
to 
know, 
per 
il 
bisogno 
di 
conoscere, 
in 
capo 
al 
richiedente, 
strumentale 
ad 
una 
situazione 
giuridica 
pregressa. Per converso, nell’accesso civico generalizzato si 
ha 
un accesso dichiaratamente 
finalizzato 
a 
garantire 
il 
controllo 
democratico 
sull’attività 
amministrativa, 
nel 
quale 
il 
c.d. right 
to know, l’interesse 
individuale 
alla 
conoscenza, è 
protetto in sé, se 
e 
in quanto 
non vi 
siano contrarie 
ragioni 
di 
interesse 
pubblico o privato, ragioni 
espresse 
dalle 
cc.dd. eccezioni 
relative di cui all’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 33 del 2013. 
22.4. nel 
sopra 
citato parere 
n. 515 del 
24 febbraio 2016 questo Consiglio di 
Stato, fornendo 
indicazioni 
sulle 
modifiche 
normative 
da 
introdurre 
nel 
d. lgs. n. 33 del 
2013, ha 
evidenziato 
nel 
par. 11.2 che 
«il 
passaggio dal 
bisogno di 
conoscere 
al 
diritto di 
conoscere 
(from 
need to 
right 
to 
know, 
nella 
definizione 
inglese 
F.o.i.a.) 
rappresenta 
per 
l’ordinamento 
nazionale 
una 
sorta 
di 
rivoluzione 
copernicana, 
potendosi 
davvero 
evocare 
la 
nota 
immagine 
[…] 
della 
Pubblica amministrazione trasparente come una “casa di vetro”». 
22.5. 
Anche 
nel 
nostro 
ordinamento 
l’evoluzione 
della 
visibilità 
del 
potere, 
con 
la 
conseguente 
accessibilità 
generalizzata 
dei 
suoi 
atti 
sul 
modello del 
foIA, è 
la 
storia 
del 
lento cammino 
verso la 
democrazia 
e, con il 
progressivo superamento degli 
arcana imperii 
di 
tacitiana 
memoria, 
garantisce 
la 
necessaria 
democraticità 
del 
processo continuo di 
informazione 
e 
formazione 
dell’opinione pubblica (Corte cost., 7 maggio 2002, n. 155). 
22.6. Il 
principio di 
trasparenza, che 
si 
esprime 
anche 
nella 
conoscibilità 
dei 
documenti 
amministrativi, 
rappresenta 
il 
fondamento 
della 
democrazia 
amministrativa 
in 
uno 
Stato 
di 
diritto, 
se 
è 
vero che 
la 
democrazia, secondo una 
celebre 
formula 
ricordata 
dallo stesso parere 
n. 515 
del 
24 febbraio 2016, è 
il 
governo del 
potere 
pubblico in pubblico, ma 
costituisce 
anche 
un 
caposaldo del 
principio di 
buon funzionamento della 
pubblica 
amministrazione, quale 
“casa 
di 
vetro” 
improntata 
ad imparzialità, intesa 
non quale 
mera 
conoscibilità, garantita 
dalla 
pubblicità, 
ma anche come intelligibilità dei processi decisionali e assenza di corruzione. 
22.7. la 
stessa 
Corte 
costituzionale, ancor di 
recente 
(sent. n. 20 del 
21 febbraio 2019), ha 
rimarcato 
che 
il 
diritto dei 
cittadini 
ad accedere 
ai 
dati 
in possesso della 
pubblica 
amministrazione, 
sul 
modello 
del 
c.d. 
foIA 
(Freedom 
of 
information 
act), 
risponde 
a 
principî 
di 
pubblicità 
e 
trasparenza, riferiti 
non solo, quale 
principio democratico (art. 1 Cost.), a 
tutti 
gli 
aspetti 
rilevanti 
dalla 
vita 
pubblica 
e 
istituzionale, 
ma 
anche, 
ai 
sensi 
dell’art. 
97 
Cost., 
al 
buon funzionamento della 
pubblica 
amministrazione 
(v. anche 
sentt. n. 69 e 
n. 177 del 
2018 
nonché sent. n. 212 del 2017). 
22.8. la 
stessa 
impostazione 
si 
rinviene 
ormai 
anche 
nel 
consolidato orientamento di 
questo 
Consiglio 
di 
Stato 
non 
solo 
in 
sede 
consultiva, 
come 
nel 
più 
volte 
citato 
parere 
n. 
515 
del 
2016, ma 
anche 
in sede 
giurisdizionale, laddove 
numerose 
pronunce 
rimarcano che 
il 
nuovo 
accesso 
civico 
risponde 
pienamente 
ai 
principi 
del 
nostro 
ordinamento 
nazionale 
di 
trasparenza 
e 
imparzialità 
dell’azione 
amministrativa 
e 
di 
partecipazione 
diffusa 
dei 
cittadini 
alla 
gestione 
della 
“cosa 
pubblica”, ai 
sensi 
degli 
artt. 1 e 
2 Cost., nonché, ovviamente, dell’art. 97 Cost., 
secondo il 
principio di 
sussidiarietà 
orizzontale 
di 
cui 
all’art. 118 Cost. (Cons. St., sez. III, 6 
marzo 2019, n. 1546)). 
23. 
Il 
foIA 
si 
fonda 
sul 
riconoscimento 
del 
c.d. 
“diritto 
di 
conoscere” 
(right 
to 
know) 
alla 
stregua 
di 
un diritto fondamentale, al 
pari 
di 
molti 
altri 
ordinamenti 
europei 
ed extraeuropei, 
come 
del 
resto si 
evince 
espressamente 
anche 
dall’art. 1, comma 
3, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, 
secondo cui 
le 
disposizioni 
dello stesso decreto, tra 
le 
quali 
anzitutto quelle 
dettate 
per l’ac

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


cesso civico, costituiscono livello essenziale 
delle 
prestazioni 
erogate 
dalle 
amministrazioni 
pubbliche 
ai 
fini 
di 
trasparenza, prevenzione, contrasto della 
corruzione 
e 
della 
cattiva 
amministrazione, 
a norma dell’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. 


23.1. 
non 
solo, 
peraltro, 
l’accesso 
civico 
generalizzato, 
nel 
quale 
la 
trasparenza 
si 
declina 
come 
“accessibilità totale” 
(Corte 
cost., 21 febbraio 2019, n. 20), è 
un diritto fondamentale, 
in sé, ma 
contribuisce, nell’ottica 
del 
legislatore 
(v., infatti, art. 1, comma 
2, del 
d. lgs. n. 33 
del 
2013), al 
miglior soddisfacimento degli 
altri 
diritti 
fondamentali 
che 
l’ordinamento giuridico 
riconosce alla persona. 
23.2. bene 
si 
è 
osservato che 
il 
diritto di 
accesso civico è 
precondizione, in questo senso, per 
l’esercizio di 
ogni 
altro diritto fondamentale 
nel 
nostro ordinamento perché 
solo conoscere 
consente 
di 
determinarsi, 
in 
una 
visione 
nuova 
del 
rapporto 
tra 
potere 
e 
cittadino 
che, 
improntata 
ad 
un 
aperto 
e, 
perciò 
stesso, 
dialettico 
confronto 
tra 
l’interesse 
pubblico 
e 
quello 
privato, 
fuoriesce dalla logica binaria e conflittuale autorità/libertà. 
23.3. Come 
questo Consiglio di 
Stato ha 
già 
rilevato nel 
più volte 
citato parere 
n. 515 del 
24 
febbraio 2016, la 
trasparenza 
si 
pone 
non solo come 
forma 
di 
prevenzione 
dei 
fenomeni 
corruttivi, 
ma 
come 
strumento 
ordinario 
e 
primario 
di 
riavvicinamento 
del 
cittadino 
alla 
pubblica 
amministrazione, «destinata sempre 
più ad assumere 
i 
contorni 
di 
una “casa di 
vetro”, nel-
l’ambito 
di 
una 
visione 
più 
ampia 
dei 
diritti 
fondamentali 
sanciti 
dall’art. 
2 
della 
Costituzione, 
che non può prescindere dalla partecipazione ai pubblici poteri». 
23.4. 
la 
luce 
della 
trasparenza 
feconda 
il 
seme 
della 
conoscenza 
tra 
i 
cittadini 
e 
concorre, 
da 
un 
lato, 
al 
buon 
funzionamento 
della 
pubblica 
amministrazione 
ma, 
dall’altro, 
anche 
al 
soddisfacimento 
dei 
diritto 
fondamentali 
della 
persona, 
se 
è 
vero 
che 
organizzazione 
amministrativa 
e 
diritti 
fondamentali 
sono 
strettamente 
interrelati, 
come 
questo 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
già 
affermato 
(v., 
ex 
plurimis, 
Cons. 
St., 
Ad. 
plen., 
12 
aprile 
2016, 
n. 
7 
nonché 
Cons. 
St., 
sez. 
III, 
2 
settembre 
2014, 
n. 
4460), 
sulla 
scorta 
dell’insegnamento 
secondo 
cui 
«non 
c’è 
organizzazione 
che, 
direttamente 
o 
almeno 
indirettamente, 
non 
sia 
finalizzata 
a 
diritti, 
così 
come 
non 
c’è 
diritto 
a 
prestazione 
che 
non 
condizioni 
l’organizzazione» 
(Corte 
cost., 
27 
novembre 
1998, 
n. 
383). 
23.5. 
la 
natura 
fondamentale 
del 
diritto 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
oltre 
che 
essere 
evincibile 
dagli 
artt. 1, 2, 97 e 
117 Cost. e 
riconosciuta 
dall’art. 42 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
per gli 
atti 
delle 
istituzioni 
europee, deve 
però collocarsi 
anche 
in 
una 
prospettiva 
convenzionale 
europea, 
laddove 
essa 
rinviene 
un 
sicuro 
fondamento 
nell’art. 
10 CEDU, come 
hanno rilevato le 
citate 
linee 
guida 
dell’AnAC, nel 
par. 2.1, e 
le 
Circolari 
foIA n. 2/2017 (par. 2.1) e n. 1/2019 (par. 3). 
23.6. 
l’art. 
10 
CEDU 
sancisce, 
al 
comma 
1, 
che 
ogni 
persona 
ha 
diritto 
alla 
libertà 
di 
espressione 
e 
che 
tale 
diritto 
include 
«la 
libertà 
di 
ricevere 
[…] 
informazioni 
[…] 
senza 
che 
vi 
possa 
essere 
ingerenza 
da 
parte 
delle 
autorità 
pubbliche», 
mentre 
il 
successivo 
comma 
2 
stabilisce 
che 
l’esercizio 
delle 
libertà 
garantite 
«può 
essere 
sottoposto 
alle 
formalità, 
condizioni, 
restrizioni 
o 
sanzioni 
che 
sono 
previste 
dalla 
legge 
e 
che 
costituiscono 
misure 
necessarie, 
in 
una 
società 
democratica» 
alla 
tutela 
di 
una 
serie 
di 
interessi, 
pubblici 
e 
privati, 
pressoché 
corrispondenti 
alle 
eccezioni 
relative 
previste 
dall’art. 
5-bis, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
33 
del 
2013. 
23.7. la 
riconducibilità 
dell’accesso ai 
documenti 
pubblici 
alla 
tutela 
della 
libertà 
d’espressione 
garantita 
dall’art. 10 CEDU, inteso non più come 
una 
libertà 
negativa, ma 
anche 
come 
libertà 
positiva, 
ha 
trovato 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
EDU, 
Grande 
Camera, 
8 
novembre 
2016, 
magyar 
Helsinki 
bizottsàg v. Hungary, in ric. n. 18030/11, uno storico ancorché 
travagliato 
riconoscimento, 
allorché 
la 
Corte 
di 
Strasburgo 
ha 
ritenuto 
che 
la 
disponibilità 
del 
patrimonio 
informativo 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
sia 
indispensabile 
per 
assicurare 
un 
esercizio 
ef

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


fettivo del 
diritto individuale 
di 
esprimersi 
e 
per alimentare 
il 
dibattito pubblico su materie 
di 
interesse generale. 


23.8. 
la 
disciplina 
delle 
eccezioni 
assolute 
al 
diritto 
di 
accesso 
generalizzato 
è 
coperta, 
dunque, 
da 
una 
riserva 
di 
legge, 
desumibile 
in 
modo 
chiaro 
dall’art. 
10 
CEDU, 
quale 
norma 
interposta 
ai 
sensi 
dell’art. 
117 
Cost., 
e 
la 
loro 
interpretazione 
non 
può 
che 
essere 
stretta, 
tassativizzante. 
24. ricostruita 
così 
la 
natura 
del 
c.d. accesso civico generalizzato, quale 
“terza 
generazione” 
del 
diritto all’accesso, dopo quello documentale 
di 
cui 
alla 
l. n. 241 del 
1990 e 
quello civico 
c.d. semplice 
di 
cui 
all’originaria 
formulazione 
del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, occorre 
interrogarsi 
sulle 
c.d. eccezioni 
assolute, previste 
dal 
già 
richiamato art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 50 
del 2016, con particolare riferimento alla materia qui controversa. 
24.1. nella 
disciplina 
delle 
c.d. eccezioni 
relative 
ed assolute, infatti, il 
nostro ordinamento 
ha 
seguito 
una 
soluzione 
simile 
a 
quella 
adottata 
dall’ordinamento 
anglosassone, 
che 
distingue 
tra 
absolute exemptions 
e 
qualified exemptions. 
24.2. questa 
disposizione 
dètta, a 
ben vedere, tre 
ipotesi 
di 
eccezioni 
assolute: 
i 
documenti 
coperti 
da 
segreto di 
Stato; 
gli 
altri 
casi 
di 
divieti 
previsti 
dalla 
legge, compresi 
quelli 
in cui 
l’accesso è 
subordinato al 
rispetto di 
specifiche 
condizioni, modalità 
e 
limiti; 
le 
ipotesi 
contemplate 
dall’art. 24, comma 1, della l. n. 241 del 1990. 
24.3. le 
eccezioni 
assolute 
sono state 
previste 
dal 
legislatore 
per garantire 
un livello di 
protezione 
massima 
a 
determinati 
interessi, 
ritenuti 
di 
particolare 
rilevanza 
per 
l’ordinamento 
giuridico, come 
è 
in modo emblematico per il 
segreto di 
Stato, sicché 
il 
legislatore 
ha 
operato 
già 
a 
monte 
una 
valutazione 
assiologica 
e 
li 
ha 
ritenuti 
superiori 
rispetto 
alla 
conoscibilità 
diffusa 
di dati e documenti amministrativi. 
24.4. 
In 
questo 
caso 
la 
pubblica 
amministrazione 
esercita 
un 
potere 
vincolato, 
che 
deve 
essere 
necessariamente 
preceduto da 
un’attenta 
e 
motivata 
valutazione 
in ordine 
alla 
ricorrenza, rispetto 
alla 
singola 
istanza, di 
una 
eccezione 
assoluta 
e 
alla 
sussunzione 
del 
caso nell’ambito 
dell’eccezione assoluta, che è di stretta interpretazione. 
24.5. l’interpretazione 
letterale 
propugnata 
dalla 
v 
sezione, pur mossa 
dal 
comprensibile 
intento 
di 
ritagliare 
un 
raggio 
applicativo 
autonomo 
a 
ciascuna 
delle 
tre 
ipotesi 
previste 
dal 
comma 
3, perviene 
però a 
spezzare 
l’indubbio nesso sistematico, già 
evidente 
nella 
formulazione 
del comma («ivi compresi…. inclusi») che esiste tra le singole ipotesi. 
24.6. 
questa 
Adunanza 
plenaria, 
pur 
consapevole 
della 
infelice 
formulazione 
della 
disposizione, 
ne 
ritiene 
preferibile 
una 
lettura 
unitaria 
-a 
partire 
dall’endiadi 
«segreti 
e 
altri 
divieti 
di 
divulgazione
» 
-evitando 
di 
scomporla 
e 
di 
trarne 
con 
ciò 
stesso 
dei 
nuovi, 
autonomi 
l’uno 
dagli 
altri, 
limiti, 
perché 
una 
lettura 
sistematica, 
costituzionalmente 
e 
convenzionalmente 
orientata, 
impone 
un 
necessario 
approccio 
restrittivo 
(ai 
limiti) 
secondo 
una 
interpretazione 
tassativizzante. 
24.7. la 
disposizione 
non può invero essere 
intesa 
nel 
senso di 
esentare 
dall’accesso generalizzato 
interi 
ambiti 
di 
materie 
per il 
sol 
fatto che 
esse 
prevedano casi 
di 
accesso limitato e 
condizionato, 
compresi 
quelli 
regolati 
dalla 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
perché, 
se 
così 
fosse, 
il 
principio 
di 
specialità 
condurrebbe 
sempre 
all’esclusione 
di 
quella 
materia 
dall’accesso, con la 
conseguenza, 
irragionevole, che 
la 
disciplina 
speciale 
o, addirittura, anche 
quella 
generale 
dell’accesso 
documentale, in quanto e 
per quanto richiamata 
per 
relationem 
dalla 
singola 
disciplina 
speciale, assorbirebbe e “fagociterebbe” l’accesso civico generalizzato. 
24.8. 
verrebbe 
meno 
così, 
radicalmente, 
il 
concorso 
tra 
le 
due 
forme 
di 
accesso 
-documentale 
e 
generalizzato -che, per quanto problematico, è 
fatto salvo dall’art. 5, comma 
11, del 
d. lgs. 
n. 33 del 
2013, che 
mantiene 
ferme 
«le 
diverse 
forme 
di 
accesso degli 
interessati 
previste 
dal 
Capo v della legge 7 agosto 1990, n. 241». 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


24.9. l’art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 ha 
insomma 
inteso rammentare 
che 
vi 
sono 
appunto 
casi 
di 
eccezioni 
assolute, 
come 
quello 
del 
segreto 
di 
Stato, 
o 
altri, 
previsti 
dalle 
varie 
leggi 
settoriali 
come, ad esempio, il 
segreto statistico, regolamentato dall’art. 9 del 
d. 
lgs. n. 322 del 
1989; 
il 
segreto militare 
disciplinato dal 
r.D. 11 luglio 1941, n. 161; 
le 
classifiche 
di 
segretezza 
di 
atti 
e 
documenti 
di 
cui 
all’art. 42 della 
l. n. 124 del 
2007; 
il 
segreto bancario 
previsto 
dall’art. 
7 
del 
d. 
lgs. 
n. 
385 
del 
1993; 
le 
disposizioni 
sui 
contratti 
secretati 
previste 
dall’art. 162 dello stesso d. lgs. n. 50 del 
2016; 
il 
segreto scientifico e 
il 
segreto industriale 
di 
cui 
all’art. 623 del 
c.p. (per una 
più ampia 
e 
pressoché 
esaustiva 
indicazione 
dei 
divieti di accesso e divulgazione v le linee guida 
AnAC, par. 6.2.). 
25. Per tali 
casi, anche 
quando dette 
leggi 
richiamino i 
limiti 
generali 
dell’art. 24, comma 
1, 
della 
l. n. 241 del 
1990, il 
rispetto delle 
specifiche 
restrizioni 
fissate 
dalla 
legge 
all’accesso, 
per la 
ratio 
ad esse 
sottesa, preclude 
la 
conoscibilità 
generalizzata 
(ma 
giammai 
-va 
ribadito 
-per 
interi 
ambiti 
di 
materie), 
in 
quanto 
l’accessibilità 
totale 
di 
dati 
e 
documenti 
è 
radicalmente 
incompatibile 
o 
con 
la 
tipologia 
di 
documento 
(ad 
esempio 
perché 
coperto 
da 
segreto 
di 
Stato) 
o con la particolare sensibilità dell’interesse protetto. 
25.1. Ma 
in linea 
generale 
il 
rapporto tra 
le 
due 
discipline 
generali 
dell’accesso documentale 
e 
dell’accesso 
civico 
generalizzato 
e, 
a 
sua 
volta, 
il 
rapporto 
tra 
queste 
due 
discipline 
generali 
e 
quelle 
settoriali 
-si 
pensi, tra 
le 
più importanti, all’accesso civico di 
cui 
all’art. 10 del 
d. 
lgs. n. 267 del 
2000 e 
a 
quello ambientale 
di 
cui 
all’art. 3 del 
d. lgs. n. 195 del 
2005 -non può 
essere 
letto unicamente 
e 
astrattamente, secondo un criterio di 
specialità 
e, dunque, di 
esclusione 
reciproca, ma 
secondo un canone 
ermeneutico di 
completamento/inclusione, in quanto 
la 
logica 
di 
fondo 
sottesa 
alla 
reazione 
tra 
le 
discipline 
non 
è 
quella 
della 
separazione, 
ma 
quella 
dell’integrazione 
dei 
diversi 
regimi, pur nelle 
loro differenze, in vista 
della 
tutela 
preferenziale 
dell’interesse 
conoscitivo che 
rifugge 
in sé 
da 
una 
segregazione 
assoluta 
“per materia” 
delle singole discipline. 
25.2. occorre, cioè, indagare 
circa 
la 
portata 
e 
il 
senso di 
tali 
limiti 
per verificare, caso per 
caso (la 
disposizione, appunto parla 
di 
“casi”) e 
non per interi 
ambiti 
di 
materia, se 
il 
filtro 
posto 
dal 
legislatore 
a 
determinati 
casi 
di 
accesso 
sia 
radicalmente 
incompatibile 
con 
l’accesso 
civico 
generalizzato 
quale 
esercizio 
di 
una 
libertà 
fondamentale 
da 
parte 
dei 
consociati. 
Anche 
le 
eccezioni 
assolute 
insomma, 
come 
osservato 
pure 
in 
dottrina, 
non 
sono 
preclusioni 
assolute 
perché 
l’interprete 
dovrà 
valutare, appunto, la 
volontà 
del 
legislatore 
di 
fissare 
in determinati 
casi limiti più stringenti all’accesso civico generalizzato. 
25.3. la 
stessa 
v 
sezione 
ha 
evidenziato la 
necessità, in linea 
di 
principio, che 
nei 
rapporti 
tra 
discipline 
generali 
e 
discipline 
settoriali 
sull’accesso queste 
ultime 
non abbiano sempre 
e 
comunque 
portata 
derogatoria, «quanto piuttosto che 
[…] occorra, volta a volta, verificare 
la 
compatibilità dell’accesso generalizzato con le 
«condizioni, modalità e 
limiti» fissati 
dalla 
disciplina speciale» (Cons. St., sez. v, 2 agosto 2019, n. 5503). 
25.4. 
Un 
diverso 
ragionamento 
interpretativo, 
che 
identificasse 
interi 
ambiti 
di 
materia 
esclusi 
dall’applicazione 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
avallerebbe 
il 
rischio, 
ben 
avvertito 
in 
dottrina, 
che 
i 
casi 
del 
comma 
3 
dell’art. 
5-bis 
del 
d. 
lgs. 
n. 
33 
del 
2013, 
letti 
in 
modo 
frazionato 
e 
non 
sistematico, 
si 
trasformino 
in 
un 
“buco 
nero” 
della 
trasparenza 
-frutto 
anche 
di 
un 
sistema 
di 
limiti 
che 
si 
apre 
ad 
altri 
che 
rinviano 
ad 
ulteriori 
con 
un 
potenziale 
circolo 
vizioso 
e 
un 
regressus 
ad 
infinitum 
-ove 
è 
risucchiato 
l’accesso 
generalizzato, 
con 
un 
ritorno 
all’opacità 
del-
l’azione 
amministrativa 
per 
effetto 
di 
una 
interpretazione 
che 
trasforma 
l’eccezione 
in 
regola 
e 
conduce 
fatalmente 
alla 
creazione 
in 
via 
pretoria 
di 
quelli 
che, 
con 
felice 
espressione, 
sono 
stati 
definiti 
“segreti 
di 
fatto” 
accanto 
ai 
“segreti 
di 
diritto”, 
espressamente 
contemplati 
dalla 
legge. 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


25.5. Tale 
interpretazione, peraltro, introdurrebbe 
un limite 
-quello di 
materia 
-non previsto 
espressamente 
dal 
legislatore 
e 
configurerebbe 
una 
eccezione 
assoluta 
che, per la 
riserva 
di 
legge 
in materia 
ai 
sensi 
dell’art. 10 CEDU, non può essere 
rimessa 
alla 
discrezionalità 
della 
pubblica amministrazione o all’opera dell’esegeta. 
26. 
né 
una 
base 
normativa 
a 
tale 
eccezione 
assoluta 
si 
può 
rinvenire, 
a 
giudizio 
di 
questa 
Adunanza, 
nell’art. 
53 
del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016, 
disposizione 
speciale 
dettata 
dal 
codice 
dei 
contratti. 
27. l’art. 53, comma 
2, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016 prevede 
infatti 
che 
-fatta 
salva 
la 
disciplina 
dettata 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
per gli 
appalti 
secretati 
o la 
cui 
esecuzione 
richiede 
speciali 
misure 
di 
sicurezza 
(ipotesi 
straordinarie 
sicuramente 
rientranti 
tra 
le 
eccezioni 
accesso 
di 
cui 
all’art. 5-bis, comma 
3, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 per il 
divieto assoluto di 
divulgazione 
e 
accesso) 
-il 
diritto 
di 
accesso 
sia 
semplicemente 
differito, 
in 
relazione 
al 
nominativo 
dei 
soggetti 
che 
nelle 
procedure 
aperte 
hanno presentato offerte 
o, nelle 
procedure 
ristrette 
e 
negoziate 
e 
nelle 
gare 
informali, in relazione 
all’elenco dei 
soggetti 
che 
hanno fatto richiesta 
di 
invito e 
che 
hanno manifestato il 
loro interesse 
e 
in relazione 
alle 
offerte 
stesse, fino alla 
scadenza 
del 
termine 
per la 
presentazione 
delle 
medesime 
offerte; 
in relazione 
alle 
offerte 
e 
al procedimento di verifica dell’anomalia, fino all’aggiudicazione. 
27.1. 
questi 
atti, 
fino 
alla 
scadenza 
di 
termini 
indicati, 
«non 
possono 
essere 
comunicati 
a 
terzi 
o resi 
in qualsiasi 
altro modo noti» (art. 53, comma 
2, del 
d. lgs. n. 50 del 
2016) e 
la 
trasgressione 
di tale divieto è presidiata dalla sanzione penale di cui all’art. 326 c.p. 
27.2. 
È 
questa 
una 
esclusione 
assoluta 
del 
diritto 
di 
accesso, 
per 
quanto 
temporalmente 
limitata, 
incompatibile 
con 
il 
diritto 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
ai 
sensi 
dell’art. 
5-bis, 
comma 
2, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
33 
del 
2013, 
perché 
finalizzata 
a 
preservare 
la 
regolare 
competizione 
tra 
i 
concorrenti 
e 
il 
buon 
andamento 
della 
procedura 
di 
gara 
da 
indebite 
influenze, 
intromissioni, 
e 
turbamenti, 
e 
quindi 
dalla 
conoscenza 
di 
tali 
atti, 
prima 
della 
gara, 
da 
parte 
di 
chiunque, 
uti 
singulus 
ed 
uti 
civis. 
27.3. viene 
qui 
in rilievo una 
disciplina 
speciale, il 
cui 
nucleo centrale 
è 
costituito dalla 
conoscibilità 
progressiva 
della 
documentazione 
di 
gara, regolata 
da 
precise 
scansioni 
temporali 
volte 
a 
contemperare 
le 
ragioni 
dell’accesso con l’esigenza 
di 
assicurare 
il 
regolare 
svolgimento 
delle procedure selettive. 
27.4. 
l’art. 
53, 
comma 
5, 
del 
d. 
lgs. 
n. 
50 
del 
2016 
prevede, 
parimenti, 
una 
esclusione 
assoluta 
del diritto di accesso in relazione: 
a) 
alle 
informazioni 
fornite 
nell’ambito dell’offerta 
o a 
giustificazione 
della 
medesima 
che 
costituiscano, secondo motivata 
e 
comprovata 
dichiarazione 
dell’offerente, segreti 
tecnici 
e 
commerciali; 
b) 
ai 
pareri 
legali 
acquisiti 
dai 
soggetti 
tenuti 
all’applicazione 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
per la soluzione delle liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici; 
c) alle 
relazioni 
riservate 
del 
direttore 
dei 
lavori, del 
direttore 
dell’esecuzione 
e 
dell’organo 
di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto; 
d) 
alle 
soluzioni 
tecniche 
e 
ai 
programmi 
per elaboratore 
utilizzati 
dalla 
stazione 
appaltante 
o 
dal 
gestore 
del 
sistema 
informatico per le 
aste 
elettroniche, ove 
coperti 
da 
diritti 
di 
privativa 
intellettuale. 
27.5. l’unica 
deroga 
a 
queste 
eccezioni 
assolute 
è 
prevista, nel 
comma 
6 dell’art. 53 del 
d. 
lgs. n. 50 del 
2016, per l’accesso documentale 
c.d. difensivo del 
concorrente 
in ordine 
alle 
informazioni 
contenute 
nell’offerta 
o nelle 
giustificazioni 
di 
altro concorrente 
per la 
tutela 
in 
giudizio dei 
propri 
interessi 
in relazione 
alla 
procedura 
di 
affidamento del 
contratto, in linea, 
del 
resto, con quanto prevede 
in generale 
l’art. 23, comma 
6, della 
l. n. 241 del 
1990 per la 
prevalenza dell’accesso documentale c.d. difensivo. 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


27.6. l’eccezione 
di 
cui 
alla 
lett. 
a) 
è 
posta 
a 
tutela 
della 
riservatezza 
aziendale, al 
fine 
di 
evitare 
che 
gli 
operatori 
economici 
in diretta 
concorrenza 
si 
servano dell’accesso per acquisire 
informazioni 
riservate 
sul 
know-how 
del 
concorrente, 
costituenti 
segreti 
tecnici 
e 
commerciali, 
e 
ottenere 
così 
un indebito vantaggio e 
ha 
una 
natura 
assoluta 
perché, nel 
bilanciamento tra 
gli 
opposti 
interessi, 
il 
legislatore 
ha 
privilegiato 
quello, 
prevalente, 
della 
riservatezza, 
a 
tutela 
di 
un leale 
gioco concorrenziale, delle 
caratteristiche 
essenziali 
dell’offerta 
quali 
beni 
essenziali 
per lo sviluppo e 
per la 
stessa 
competizione 
qualitativa, che 
sono prodotto patrimoniale 
della 
capacità 
ideativa 
o acquisitiva 
della 
singola 
impresa 
(Cons. St., sez. v, 7 gennaio 2020, 
n. 64), salva 
la 
necessità, per un altro concorrente, di 
difendersi 
in giudizio, unica 
eccezione 
all’eccezione ammessa (art. 53, comma 6, del d. lgs. n. 50 del 2016). 
27.7. Analoga 
ratio 
di 
tutela 
della 
privativa 
intellettuale 
giustifica 
anche 
la 
previsione 
della 
lett. d), per le 
soluzioni 
tecniche 
e 
i 
programmi 
per elaboratore 
utilizzati 
dalla 
stazione 
appaltante 
o 
dal 
gestore 
del 
sistema 
informatico 
per 
le 
aste 
elettroniche, 
ove 
coperti 
da 
diritti 
di 
privativa intellettuale. 
27.8. le 
eccezioni 
di 
cui 
alla 
lett. 
b) 
e 
alla 
lett. c) dell’art. 53 mirano ad impedire 
la 
divulgazione 
di 
atti 
che, quando riferibili 
ad un contenzioso attuale 
o potenziale 
con l’appaltatore, 
sono investiti 
da 
specifiche 
esigenze 
di 
riservatezza 
volte 
a 
tutelare 
le 
ragioni 
di 
ordine 
patrimoniale 
della 
stazione 
appaltante, 
la 
quale 
deve 
negare 
l’accesso 
per 
tutelare 
se 
stessa 
di 
fronte 
al 
privato 
che 
intenda 
accedere 
«ad 
atti 
interni 
che 
riguardino 
la 
sfera 
delle 
libere 
valutazioni 
dell’amministrazione 
in ordine 
alla convenienza delle 
scelte 
da adottare» (Ad. plen., 13 settembre 
2007, n. 11). 
28. la 
portata 
limitata 
anche 
temporalmente 
e 
motivata 
di 
questi 
casi, peraltro di 
stretta 
interpretazione, 
non può comportare 
ex 
se 
l’esclusione 
dell’intera 
materia 
dall’applicazione 
del-
l’accesso civico generalizzato, che 
riacquista 
la 
sua 
naturale 
vis 
expansiva 
una 
volta 
venute 
meno le ragioni che giustificano siffatti limiti, condizioni o modalità di accesso. 
28.1. Se 
dunque 
i 
limiti 
previsti 
per l’accesso ai 
documenti 
amministrativi 
di 
cui 
agli 
artt. 22 
e 
seguenti 
della 
legge 
n. 241 del 
1990 e 
quelli 
dettati 
dalle 
singole 
discipline 
settoriali 
non 
possono 
essere 
superati 
ricorrendo 
strumentalmente 
all’istituto 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
deve 
ritenersi 
che, 
una 
volta 
venute 
meno 
le 
ragioni 
di 
questi 
limiti, 
tra 
cui 
quelli 
appena 
accennati 
dell’art. 53 del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, sul 
piano sia 
temporale 
sia 
contenutistico, 
l’accesso civico generalizzato opera 
di 
diritto, senza 
che 
sia 
necessaria 
nel 
nostro ordinamento 
una 
specifica 
disposizione 
di 
legge 
che 
ne 
autorizzi 
l’operatività 
anche 
in specifiche 
materie, come 
quella 
dei 
contratti 
pubblici, con la 
conseguenza 
che 
l’accesso civico generalizzato, 
ferme 
le 
eccezioni 
relative 
di 
cui 
all’art. 5-bis, commi 
1 e 
2, del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, 
è ammissibile in ordine agli atti della fase esecutiva. 
29. 
le 
conclusioni 
sin 
qui 
raggiunte 
si 
rinvengono 
sostanzialmente 
anche 
nella 
delibera 
AnAC 
n. 317 del 
29 marzo 2017 nella 
quale 
l’Autorità 
ha 
chiarito che, se 
è 
esatto che 
tra 
i 
limiti 
all’accesso 
civico generalizzato di 
cui 
agli 
artt. 5 e 
5-bis 
del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 ci 
sono le 
pertinenti 
disposizioni 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, deve 
per converso ritenersi 
che, una 
volta 
venute 
meno le 
condizioni 
che 
sorreggevano quei 
limiti, e 
quindi 
successivamente 
al-
l’aggiudicazione 
della 
gara, 
il 
diritto 
di 
accesso 
debba 
essere 
consentito 
a 
chiunque, 
ancorché 
nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 33 del 2013. 
30. 
Con 
specifico 
riferimento 
alla 
materia 
dei 
contratti 
pubblici, 
le 
esigenze 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
assumono, 
a 
ben 
vedere, 
una 
particolare 
e 
più 
pregnante 
connotazione, 
perché 
costituiscono 
la 
«fisiologica 
conseguenza» 
dell’evidenza 
pubblica, 
in 
quanto 
che 
ciò 
che 
è 
pubblicamente 
evidente, 
per 
definizione, 
deve 
anche 
essere 
pubblicamente 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


conoscibile, 
salvi, 
ovviamente, 
i 
limiti 
di 
legge 
e 
solo 
di 
legge, 
per 
le 
ragioni 
già 
esposte. 


30.1. È 
vero che 
la 
l. n. 190 del 
2012 ha 
previsto, nel 
comma 
32, numerosi 
obblighi 
di 
pubblicazione 
degli 
atti 
di 
gara 
e 
l’art. 37 del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, in attuazione 
di 
tale 
delega, 
stabilisce 
un generale 
regime 
di 
pubblicità 
per tali 
atti. E 
l’art. 29 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, 
come 
si 
è 
già 
accennato, ha 
disciplinato in modo analitico la 
pubblicazione 
di 
tali 
atti. Ma 
la 
sussistenza 
di 
obblighi 
di 
pubblicazione 
di 
numerosi 
atti 
in materia 
di 
gara 
non può condurre 
all’esclusione 
dell’accesso 
civico 
generalizzato 
sul 
rilievo 
che 
gli 
obblighi 
“proattivi” 
di 
pubblicazione 
soddisferebbero già, in questa 
materia, il 
bisogno o, comunque, il 
desiderio di 
conoscenza 
che contraddistingue il principio di trasparenza. 
30.2. 
Una 
siffatta 
lettura, 
ancora 
una 
volta, 
sconta 
una 
logica 
di 
separatezza 
anzi 
che 
di 
integrazione 
tra 
le 
diverse 
tipologie 
di 
accesso 
che 
il 
legislatore 
ha 
inteso 
lasciar 
coesistere 
nel 
nostro 
ordinamento. 
Per 
contro, 
è 
proprio 
questa 
logica 
ermeneutica 
di 
integrazione 
che 
induce 
a 
ritenere 
che 
la 
obbligatoria 
pubblicità 
di 
determinati 
atti 
(c.d. 
disclosure 
proattiva) 
è 
solo 
un 
aspetto, 
pur 
fondamentale, 
della 
trasparenza, 
che 
tuttavia 
si 
manifesta 
e 
si 
completa 
nell’accessibilità 
degli 
atti 
(c.d. 
disclosure 
reattiva) 
nei 
termini 
previsti 
per 
l’accesso 
civico 
generalizzato. 
30.3. 
Del 
resto 
la 
configurazione 
di 
una 
trasparenza 
che 
risponda 
a 
“un 
controllo 
diffuso” 
della 
collettività 
sull’azione 
amministrativa 
è 
particolarmente 
avvertita 
nella 
materia 
dei 
contratti 
pubblici 
e 
delle 
concessioni 
e, 
in 
particolare, 
nell’esecuzione 
di 
tali 
rapporti, 
dove 
spesso 
si 
annidano 
fenomeni 
di 
cattiva 
amministrazione, 
corruzione 
e 
infiltrazione 
mafiosa, 
con 
esiti 
di 
inefficienza 
e 
aree 
di 
malgoverno 
per 
le 
opere 
costruite 
o 
i 
servizi 
forniti 
dalla 
pubblica 
amministrazione 
e 
gravi 
carenze 
organizzative 
tali 
da 
pregiudicare 
persino 
il 
godimento 
di 
diritti fondamentali da parte dei cittadini nella loro pretesa ai cc.dd. diritti sociali. 
30.4. non è 
più possibile 
affermare, in un quadro evolutivo così 
complesso che 
impone 
una 
visione 
d’insieme 
anche 
alla 
luce 
delle 
coordinate 
costituzionali, 
eurounitarie 
e 
convenzionali, 
che 
l’accesso agli 
atti 
di 
gara 
costituisca 
un microcosmo normativo compiuto (v., in questo 
senso, Cons. St., sez. v, 9 dicembre 2008, n. 6121) e chiuso. 
30.5. la 
lettura 
unitaria, armonizzante, integratrice 
tra 
le 
singole 
discipline, divenuta 
predominante 
nella 
giurisprudenza 
di 
questo 
Consiglio 
già 
nel 
rapporto 
tra 
l’accesso 
agli 
atti 
di 
gara 
e 
l’accesso documentale 
della 
l. n. 241 del 
1990 in termini 
di 
complementarietà 
(v., in 
particolare, Cons. St., sez. vI, 30 luglio 2010, n. 5062), deve 
essere 
estesa 
a 
tutte 
le 
tipologie 
di 
accesso, ivi 
incluso quello civico, semplice 
e 
generalizzato, come 
suggerisce 
condivisibilmente 
l’ordinanza 
di 
rimessione, 
senza 
peraltro 
dover 
fare 
riferimento 
alla 
pur 
raffinata 
tecnica 
del 
rinvio “mobile” 
dell’art. 53 alla 
l. n. 241 del 
1990, per le 
ragioni 
tutte 
esplicitate, alle 
disposizioni 
della 
l. n. 241 del 
1990 siccome 
integrate/combinate 
con il 
complesso normativo 
del d. lgs. n. 33 del 2013. 
31. l’esigenza 
di 
una 
conoscenza 
diffusa 
dei 
cittadini 
nell’esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici 
è 
con forza 
avvertita 
nella 
normativa 
europea, come 
ha 
ben messo in rilievo questo Consiglio 
di Stato nella sopra richiamata sentenza n. 3780 del 2019. 
31.1. Il 
considerando 
126 della 
Direttiva 
n. 2014/24/UE 
ricorda, a 
tacer d’altro, che 
la 
tracciabilità 
e 
la 
trasparenza 
del 
processo 
decisionale 
nelle 
procedure 
di 
appalto 
«è 
essenziale 
per 
garantire 
procedure 
leali 
nonché 
combattere 
efficacemente 
la corruzione 
e 
le 
frodi», sicché 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
dovrebbero conservare 
le 
copie 
dei 
contratti 
conclusi 
di 
valore 
elevato 
per 
garantire 
alle 
parti 
interessate 
l’accesso 
a 
tali 
documenti, 
conformemente 
alle 
norme applicabili in materia di accesso alla documentazione. 
31.2. Ancor più chiaramente 
e 
nettamente, poi, il 
considerando 
n. 122 della 
stessa 
Direttiva 
osserva 
che 
«i 
cittadini, 
i 
soggetti 
interessati, 
organizzati 
o 
meno, 
e 
altre 
persone 
od 
organismi 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


che 
non hanno accesso alle 
procedure 
di 
ricorso di 
cui 
alla Direttiva 98/665/Ce 
hanno comunque 
un interesse 
legittimo in qualità di 
contribuenti 
a un corretto svolgimento delle 
procedere 
di 
appalto» 
e 
«dovrebbero 
avere 
la 
possibilità, 
con 
modalità 
diverse 
dal 
sistema 
di 
ricorso di 
cui 
alla Direttiva 89/665/Ce 
e 
senza che 
ciò comporti 
necessariamente 
una loro 
azione 
dinanzi 
a corti 
e 
tribunali, di 
segnalare 
le 
eventuali 
violazioni 
della presente 
Direttiva 
all’autorità o alla struttura competente». 


31.3. le 
sentenze 
n. 5502 e 
n. 5503 del 
2 agosto 2019 della 
v 
sezione 
hanno ben richiamato 
l’essenziale 
ruolo di 
vigilanza 
svolto dall’AnAC in questo settore, ma 
non va 
trascurato il 
ruolo 
che 
un 
controllo 
generalizzato 
sull’aggiudicazione 
e 
sull’esecuzione 
del 
contratto 
svolge 
proprio 
l’accesso 
civico 
generalizzato, 
come 
ridisegnato 
dal 
d. 
lgs. 
n. 
96 
del 
2017, 
con 
la 
conseguente 
possibilità 
di 
effettuare 
segnalazioni 
documentate 
da 
parte 
di 
terzi, 
una 
volta 
ottenuta 
la 
relativa 
documentazione 
con l’accesso, anche 
all’AnAC, che 
può esercitare 
il 
suo potere 
di 
raccomandazione 
ai 
sensi 
dell’art. 213 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016 anche 
nella 
fase 
esecutiva. 
31.4. 
Il 
vigente 
regolamento 
sull’esercizio 
dell’attività 
di 
vigilanza 
in 
materia 
di 
contratti 
pubblici, adottato dall’AnAC e 
pubblicato sulla 
G.U. del 
16 ottobre 
2018, prevede, all’art. 
12, comma 
1, lett. b), che 
il 
procedimento di 
vigilanza 
possa 
concludersi, infatti, con «l’accertamento 
di 
atti 
illegittimi 
o irregolari 
della procedura di 
gara o dell’esecuzione 
del 
contratto, 
eventualmente 
accompagnato 
da 
raccomandazioni, 
rivolte 
alle 
stazioni 
appaltanti 
interessate, 
a 
rimuovere 
le 
illegittimità 
o 
irregolarità 
riscontrate, 
ovvero 
ad 
adottare 
atti 
volti 
a 
prevenire, 
per 
il 
futuro, 
il 
ripetersi 
di 
tali 
illegittimità 
e 
irregolarità». 
E 
particolare 
attenzione 
a 
sua 
volta 
l’art. 24 del 
regolamento, dedica, sempre 
in relazione 
alla 
fase 
esecutiva, alle 
varianti 
in corso d’opera. 
31.5. risulta 
così 
confermato che, nel 
nostro ordinamento, l’esecuzione 
del 
contratto non è 
una 
terra 
di 
nessuno, lasciata 
all’arbitrio dei 
contraenti 
e 
all’indifferenza 
dei 
terzi, ma 
sottoposta 
all’attività 
di 
vigilanza 
da 
parte 
dell’AnAC, trattandosi 
di 
una 
fase 
rilevante 
per l’ordinamento 
giuridico, come 
dimostrano le 
funzioni 
pubbliche 
di 
vigilanza 
e 
controllo previste, 
nella 
cui 
cornice 
trova 
spazio, 
in 
funzione 
si 
direbbe 
complementare 
e 
strumentale, 
anche 
l’accesso generalizzato dei cittadini. 
31.6. questo, invero, non solo non è 
escluso dall’attività 
di 
vigilanza 
dell’AnAC, ma 
anzi 
può ben porsi 
rispetto alla 
stessa 
in funzione, come 
si 
è 
appena 
ricordato, strumentale; 
può 
consentire, infatti, che, tramite 
l’accesso civico generalizzato, siano valutate 
«le 
segnalazioni 
di 
violazione 
della normativa in materia di 
contratti 
pubblici 
presentate 
da terzi, compatibilmente 
con 
le 
esigenze 
organizzative 
e 
di 
funzionamento 
degli 
uffici, 
tenendo 
conto 
in 
via 
prioritaria 
della gravità della violazione 
e 
della rilevanza degli 
interessi 
coinvolti 
dall’appalto» 
(art. 4, comma 
4, del 
regolamento) e 
che 
l’apposito modulo della 
segnalazione, predisposto 
dall’AnAC, sia 
«corredato della eventuale 
documentazione» (art. 5, comma 
2, del 
regolamento) 
acquisita 
in occasione 
dell’accesso generalizzato, essendo altrimenti 
di 
fatto impossibile 
per 
il 
cittadino 
“contribuente” 
segnalare 
eventuali 
violazioni 
all’Autorità 
di 
settore, 
come 
invece auspica il 
considerando 
n. 122, in maniera consapevole e documentata. 
32. nel 
parere 
n. 2777 del 
28 dicembre 
2016 la 
Commissione 
speciale 
di 
questo Consiglio di 
Stato 
ha 
più 
volte 
evidenziato 
questo 
ruolo 
di 
controllo 
diffuso 
che 
ciascun 
cittadino 
può 
esercitare 
nella 
materia 
dei 
contratti 
pubblici 
accanto e, si 
direbbe, in ausilio al 
ruolo istituzionale 
di 
vigilanza 
rivestito dall’AnAC, proprio valorizzando le 
chiare 
indicazioni 
provenienti 
dal 
considerando 
n. 122 della Direttiva 2014/24/UE. 
32.1. In detto parere, questo Consiglio ha 
osservato che 
la 
possibilità 
di 
consentire 
la 
segnalazione 
a 
qualsivoglia 
cittadino che 
ne 
abbia 
interesse 
risponde 
al 
principio di 
vigilanza 
sulla 

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


legittimità 
degli 
atti 
di 
gara, 
«quale 
interesse 
a 
carattere 
generale 
ed 
azionabile 
anche 
dal 
cittadino contribuente», e 
ha 
rammentato che 
la 
via 
d’elezione 
per far valere 
l’interesse 
alla 
trasparenza 
non è 
la 
segnalazione, che 
richiede 
almeno un fumus 
di 
illegittimità 
di 
uno o più 
atti, bensì 
l’accesso civico di 
cui 
al 
d. lgs. n. 33 del 
2013, come 
modificato dal 
d. lgs. n. 97 
del 2016. 


32.2. 
l’accesso 
generalizzato, 
quale 
via 
elettiva 
della 
trasparenza, 
soddisfa 
dunque 
ampiamente 
questo 
diffuso 
desiderio 
conoscitivo 
finalizzato 
alla 
garanzia 
della 
legalità 
nei 
contratti 
pubblici, 
che 
è 
per 
così 
dire 
la 
rinnovata 
e 
moderna 
cifra 
dell’evidenza 
pubblica 
non 
solo 
nella 
tradizionale 
fase 
dell’aggiudicazione 
ma 
anche 
nell’esecuzione, dovendo questa, come 
detto, 
rispettarne specularmente condizioni, contenuti e limiti. 
32.3. le 
ragioni 
sin qui 
esposte 
spiegano perché 
l’accesso civico generalizzato non solo sia 
consentito, in questa 
materia, ma 
sia 
doveroso perché 
connaturato, per così 
dire, all’essenza 
stessa 
dell’attività 
contrattuale 
pubblica 
e 
perché 
esso 
operi, 
in 
funzione 
della 
c.d. 
trasparenza 
reattiva, soprattutto in relazione 
a 
quegli 
atti, rispetto ai 
quali 
non vigono i 
pur numerosi 
obblighi 
di pubblicazione (c.d. trasparenza proattiva) previsti. 
33. Argomenti 
di 
carattere 
letterale, teleologico e 
sistematico come 
quelli 
esposti 
depongono, 
dunque, 
nel 
senso 
di 
una 
accessibilità 
totale 
degli 
atti 
di 
gara, 
seppur 
sempre 
nel 
rispetto 
degli 
interessi-limite, pubblici 
e 
privati, e 
delle 
conseguenti 
eccezioni 
relative 
di 
cui 
all’art. 5-bis, 
commi 1 e 2, del d. lgs. n. 33 del 2013. 
34. occorre 
tenere 
conto, tuttavia, delle 
ulteriori 
importanti 
questioni 
poste 
dalla 
v 
sezione 
nelle citate sentenze n. 5502 e n. 5503 del 2019 e sopra ricordate ed esposte nel par. 21.4. 
35. quanto alla 
prima 
questione, di 
cui 
alla 
lett. a) 
del 
21.5., concernente 
il 
delicato bilanciamento 
tra 
il 
valore, fondamentale, dell’accesso e 
quello, altrettanto fondamentale, della 
riservatezza, 
la 
circostanza 
che 
l’accesso possa 
prevedibilmente 
soccombere 
di 
fronte 
alle 
ragioni 
normativamente 
connesse 
alla 
riservatezza 
dei 
dati 
dei 
concorrenti 
non 
può 
condurre 
a 
un’aprioristica esclusione dell’accesso. 
35.1. 
Tutte 
le 
eccezioni 
relative 
all’accesso 
civico 
generalizzato 
implicano 
e 
richiedono 
un 
bilanciamento 
da 
parte 
della 
pubblica 
amministrazione, 
in 
concreto, 
tra 
l’interesse 
pubblico 
alla 
conoscibilità 
e 
il 
danno 
all’interesse-limite, 
pubblico 
o 
privato, 
alla 
segretezza 
e/o 
alla 
riservatezza, 
secondo 
i 
criteri 
utilizzati 
anche 
in 
altri 
ordinamenti, 
quali 
il 
cd. 
test 
del 
danno 
(harm 
test), 
utilizzato 
per 
esempio 
in 
Germania, 
o 
il 
c.d. 
public 
interest 
test 
o 
public 
interest 
override, 
tipico 
dell’ordinamento 
statunitense 
o 
di 
quello 
dell’Unione 
europea 
(art. 
4, 
par. 
2, 
del 
reg. 
(CE) 
n. 
1049/2001: 
v., 
per 
un’applicazione 
giurisprudenziale, 
Trib. 
UE, 
sez. 
I, 
7 
febbraio 
2018, 
in 
T-851/16), 
in 
base 
al 
quale 
occorre 
valutare 
se 
sussista 
un 
interesse 
pubblico 
al 
rilascio 
delle 
informazioni 
richieste 
rispetto 
al 
pregiudizio 
per 
l’interesse-limite 
contrapposto. 
35.2. È 
vero, infatti, che 
escludere 
dall’accesso anche 
generalizzato la 
documentazione 
suscettibile 
di 
rivelare 
gli 
aspetti 
tecnologici, 
produttivi, 
commerciali 
e 
organizzativi, 
costituenti 
i 
punti 
di 
forza 
o 
di 
debolezza 
delle 
offerte 
nel 
confronto 
competitivo, 
costituisce 
un 
obiettivo 
delle 
norme 
in materia 
di 
appalti 
pubblici 
dell’Unione, e 
che 
per conseguire 
tale 
obiettivo è 
necessario 
che 
le 
autorità 
aggiudicatrici 
non 
divulghino 
informazioni 
il 
cui 
contenuto 
potrebbe 
essere 
utilizzato per falsare 
la 
concorrenza, (Trib. I grado UE, sez. II, 29 gennaio 2013, in T339/
10 e in T-532/10 nonché Corte Giust UE, sez. III, 14 febbraio 2008, in C-450/06). 
35.3. E 
tuttavia 
questo obiettivo può e 
deve 
essere 
conseguito appunto, in una 
equilibrata 
applicazione 
del 
limite 
previsto dall’art. 5-bis, comma 
2, lett. c), del 
d. lgs. n. 33 del 
2013, secondo 
un canone 
di 
proporzionalità, proprio del 
test 
del 
danno (c.d. 
harm 
test), che 
preservi 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


il 
know-how 
industriale 
e 
commerciale 
dell’aggiudicatario 
o 
di 
altro 
operatore 
economico 
partecipante 
senza 
sacrificare 
del 
tutto l’esigenza 
di 
una 
anche 
parziale 
conoscibilità 
di 
elementi 
fattuali, estranei 
a 
tale 
know-how 
o comunque 
ad essi 
non necessariamente 
legati, e 
ciò nel-
l’interesse 
pubblico a 
conoscere, per esempio, come 
certe 
opere 
pubbliche 
di 
rilevanza 
strategica 
siano 
realizzate 
o 
certi 
livelli 
essenziali 
di 
assistenza 
vengano 
erogati 
da 
pubblici 
concessionari. 


35.4. va 
ribadito -concludendo sul 
punto -che 
ciò che 
distingue 
le 
eccezioni 
relative 
dalle 
eccezioni 
assolute 
è 
proprio il 
fatto che 
non sussista 
a 
monte, nella 
scala 
valoriale 
del 
legislatore, 
una 
priorità 
ontologica 
o una 
prevalenza 
assiologica 
di 
alcuni 
interessi 
rispetto ad altri, 
sicché 
è 
rimesso all’amministrazione 
effettuare 
un adeguato e 
proporzionato bilanciamento 
degli interessi coinvolti. 
36. quanto alla 
seconda 
questione, di 
cui 
alla 
lett. b) 
del 
punto 21.4, sopra 
ricordata, non persuade 
nemmeno 
l’argomento 
secondo 
cui 
notevole 
sarebbe 
l’aumento 
dei 
costi 
di 
gestione 
del 
procedimento di 
accesso, da 
parte 
delle 
singole 
pubbliche 
amministrazioni, aumento che, 
in una 
prospettiva 
di 
diffusa 
applicazione 
dell’accesso civico generalizzato anche 
ai 
contratti 
pubblici, necessiterebbe di apposita disposizione di legge. 
36.1. 
Se 
il 
nostro 
ordinamento 
ha 
ormai 
accolto 
il 
c.d. 
modello 
foIA 
non 
è 
l’accesso 
pubblico 
generalizzato degli 
atti 
a 
dover essere, ogni 
volta, ammesso dalla 
legge, ma 
sono semmai 
le 
sue eccezioni a dovere rinvenire un preciso, tassativo, fondamento nella legge. 
36.2. 
non 
deve 
nemmeno 
essere 
drammatizzato 
l’abuso 
dell’istituto, 
che 
possa 
condurre 
a 
una sorta di 
eccesso di accesso. 
36.3. Innanzi 
tutto, va 
rilevato che 
l’esperienza 
applicativa 
del 
foIA 
nei 
primi 
tre 
anni 
dalla 
sua 
introduzione, come 
emerge 
dai 
dati 
pubblicati 
dal 
Dipartimento della 
funzione 
pubblica, 
rivela 
un 
uso 
“normale” 
delle 
istanze 
di 
accesso 
civico; 
infatti, 
le 
istanze 
pervenute 
ai 
ministeri 
sono aumentate 
da 
1146 nel 
2017 a 
1818 nel 
2018, con una 
media, nel 
secondo anno, di 
11 
richieste 
mensili 
per ministero, assolutamente 
in linea 
con la 
media 
europea 
e 
con un tasso di 
risposte 
evase 
da 
parte 
dei 
ministeri 
nel 
termine 
di 
legge 
(trenta 
giorni), in aumento, dal 
74% 
nel 2017 all’83% nel 2018. 
36.4. In secondo luogo, è 
ovvio che 
l’accesso, finalizzato a 
garantire, con il 
diritto all’informazione, 
il 
buon 
andamento 
dell’amministrazione 
(art. 
97 
Cost.), 
non 
può 
finire 
per 
intralciare 
proprio il 
funzionamento della 
stessa, sicché 
il 
suo esercizio deve 
rispettare 
il 
canone 
della 
buona 
fede 
e 
il 
divieto di 
abuso del 
diritto, in nome, anzitutto, di 
un fondamentale 
principio 
solidaristico (art. 2 Cost.). 
36.5. Il 
diritto di 
accesso civico generalizzato, se 
ha 
un’impronta 
essenzialmente 
personalistica, 
quale 
esercizio di 
un diritto fondamentale, conserva 
una 
connotazione 
solidaristica, nel 
senso che 
l’apertura 
della 
pubblica 
amministrazione 
alla 
conoscenza 
collettiva 
è 
funzionale 
alla 
disponibilità 
di 
dati 
di 
affidabile 
provenienza 
pubblica 
per informare 
correttamente 
i 
cittadini 
ed 
evitare 
il 
propagarsi 
di 
pseudoconoscenze 
e 
pseudocoscienze 
a 
livello 
diffuso, 
in 
modo -come 
è 
stato efficacemente 
detto -da 
«contribuire 
a salvare 
la democrazia dai 
suoi 
demoni, fungendo da antidoto alla tendenza 
[…] 
a manipolare i dati di realtà». 
36.6. 
Sarà 
così 
possibile 
e 
doveroso 
evitare 
e 
respingere: 
richieste 
manifestamente 
onerose 
o 
sproporzionate 
e, 
cioè, 
tali 
da 
comportare 
un 
carico 
irragionevole 
di 
lavoro 
idoneo 
a 
interferire 
con 
il 
buon 
andamento 
della 
pubblica 
amministrazione; 
richieste 
massive 
uniche 
(v., 
sul 
punto, 
Circolare 
foIA 
n. 
2/2017, 
par. 
7, 
lett. 
d; 
Cons. 
St., 
sez. 
vI, 
13 
agosto 
2019, 
n. 
5702), 
contenenti 
un 
numero 
cospicuo 
di 
dati 
o 
di 
documenti, 
o 
richieste 
massive 
plurime, 
che 
pervengono 
in 
un 
arco 
temporale 
limitato 
e 
da 
parte 
dello 
stesso 
richiedente 
o 
da 
parte 
di 
più 
ri

ConTEnzIoSo 
nAzIonAlE 


chiedenti 
ma 
comunque 
riconducibili 
ad 
uno 
stesso 
centro 
di 
interessi; 
richieste 
vessatorie 
o 
pretestuose, 
dettate 
dal 
solo 
intento 
emulativo, 
da 
valutarsi 
ovviamente 
in 
base 
a 
parametri 
oggettivi. 


37. quanto alla 
terza 
questione, di 
cui 
alla 
lett. c), nemmeno convince 
l’argomento secondo 
cui 
l’ammissibilità 
dell’accesso 
civico 
generalizzato, 
in 
questa 
materia, 
verrebbe 
utilizzato 
per la 
soddisfazione 
di 
interessi 
economici 
e 
commerciali 
del 
singolo operatore, nell’intento 
di 
superare 
i 
limiti 
interni 
dei 
rimedi 
specificamente 
posti 
dall’ordinamento a 
tutela 
di 
tali 
interessi, 
ove 
compromessi 
dalla 
conduzione 
delle 
procedure 
di 
affidamento 
e 
di 
esecuzione 
dei contratti pubblici. 
37.1. 
la 
circostanza 
che 
l’interessato 
non 
abbia 
un 
interesse 
diretto, 
attuale 
e 
concreto 
ai 
sensi 
dell’art. 22 della 
l. n. 241 del 
1990, non per questo rende 
inammissibile 
l’istanza 
di 
accesso 
civico 
generalizzato, 
nata 
anche 
per 
superare 
le 
restrizioni 
imposte 
dalla 
legittimazione 
all’accesso 
documentale. 
37.2. non si 
deve 
confondere 
da 
questo punto di 
vista 
la 
ratio 
dell’istituto con l’interesse 
del 
richiedente, che 
non necessariamente 
deve 
essere 
altruistico o sociale 
né 
deve 
sottostare 
ad 
un 
giudizio 
di 
meritevolezza, 
per 
quanto, 
come 
detto, 
certamente 
non 
deve 
essere 
pretestuoso 
o contrario a buona fede. 
37.3. Ciò che 
va 
tutelato è 
l’interesse 
alla 
conoscenza 
del 
dato e 
questa 
conoscenza 
non può 
essere 
negata, anche 
ai 
sensi 
del 
considerando 
n. 122 della 
richiamata 
direttiva, anche 
e 
anzitutto 
all’operatore economico del settore, come è Diddi s.r.l. 
38. 
l’Adunanza 
plenaria, 
conclusivamente, 
enuncia, 
sulle 
questioni 
postele, 
i 
seguenti 
princìpi 
di diritto, anche ai sensi dell’art. 99, comma 5, c.p.a.: 
a) la 
pubblica 
amministrazione 
ha 
il 
potere-dovere 
di 
esaminare 
l’istanza 
di 
accesso agli 
atti 
e 
ai 
documenti 
pubblici, formulata 
in modo generico o cumulativo dal 
richiedente 
senza 
riferimento 
ad una 
specifica 
disciplina, anche 
alla 
stregua 
della 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato, 
a 
meno 
che 
l’interessato 
non 
abbia 
inteso 
fare 
esclusivo, 
inequivocabile, 
riferimento 
alla 
disciplina 
dell’accesso 
documentale, 
nel 
qual 
caso 
essa 
dovrà 
esaminare 
l’istanza 
solo con specifico riferimento ai 
profili 
della 
l. n. 241 del 
1990, senza 
che 
il 
giudice 
amministrativo, adìto ai 
sensi 
dell’art. 116 c.p.a., possa 
mutare 
il 
titolo dell’accesso, definito 
dall’originaria 
istanza 
e 
dal 
conseguente 
diniego adottato dalla 
pubblica 
amministrazione 
all’esito 
del procedimento; 
b) 
è 
ravvisabile 
un interesse 
concreto e 
attuale, ai 
sensi 
dell’art. 22 della 
l. n. 241 del 
1990, e 
una 
conseguente 
legittimazione, ad avere 
accesso agli 
atti 
della 
fase 
esecutiva 
di 
un contratto 
pubblico da 
parte 
di 
un concorrente 
alla 
gara, in relazione 
a 
vicende 
che 
potrebbero condurre 
alla 
risoluzione 
per inadempimento dell’aggiudicatario e 
quindi 
allo scorrimento della 
graduatoria 
o 
alla 
riedizione 
della 
gara, 
purché 
tale 
istanza 
non 
si 
traduca 
in 
una 
generica 
volontà 
da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale; 
c) la 
disciplina 
dell’accesso civico generalizzato, fermi 
i 
divieti 
temporanei 
e/o assoluti 
di 
cui 
all’art. 53 del 
d. lgs. n. 50 del 
2016, è 
applicabile 
anche 
agli 
atti 
delle 
procedure 
di 
gara 
e, in 
particolare, all’esecuzione 
dei 
contratti 
pubblici, non ostandovi 
in senso assoluto l’eccezione 
del 
comma 
3 dell’art. 5-bis 
del 
d. lgs. n. 33 del 
2013 in combinato disposto con l’art. 53 e 
con 
le 
previsioni 
della 
l. n. 241 del 
1990, che 
non esenta 
in toto 
la 
materia 
dall’accesso civico generalizzato, 
ma 
resta 
ferma 
la 
verifica 
della 
compatibilità 
dell’accesso 
con 
le 
eccezioni 
relative 
di 
cui 
all’art. 5-bis, comma 
1 e 
2, a 
tutela 
degli 
interessi-limite, pubblici 
e 
privati, previsti 
da 
tale 
disposizione, nel 
bilanciamento tra 
il 
valore 
della 
trasparenza 
e 
quello della 
riservatezza. 
39. 
riassuntivamente 
e 
conclusivamente, 
l’appello 
della 
società 
è 
in 
parte 
infondato, 
per 

rASSEGnA 
AvvoCATUrA 
DEllo 
STATo -n. 2/2020 


quanto attiene 
alla 
richiesta 
di 
accesso ai 
sensi 
della 
l. n. 241 del 
1990, sia 
pure 
per una 
motivazione 
diversa da quella contenuta nella sentenza impugnata. 


40. 
l’ammissibilità 
dell’istanza 
di 
accesso 
civico, 
viceversa, 
dovrà 
essere 
esaminata 
dalla 
Sezione 
rimettente, cui 
l’affare 
va 
restituito per ogni 
definitiva 
statuizione, che 
si 
uniformerà 
ai 
princìpi di diritto su enunciati. 
P.q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Adunanza 
Plenaria), non definitivamente 
pronunciando 
sull’appello, proposto da Diddi s.r.l.: 


a) dichiara inammissibile l’intervento del Comune di Chiaramonte Gulfi; 
b) 
rigetta 
in parte 
l’appello e 
conferma, con diversa 
motivazione, la 
sentenza 
n. 577 del 
17 
aprile 
2019 del 
Tribunale 
amministrativo per la 
Toscana 
nella 
parte 
concernente 
l’accesso ai 
sensi della l. n. 241 del 1990; 
c) 
restituisce, per la 
restante 
parte, gli 
atti 
alla 
Sezione 
per la 
definizione 
della 
controversia 
secondo i 
princìpi 
di 
diritto enunciati 
al 
par. 38 della 
parte 
motiva 
nonché 
per la 
statuizione 
sulle spese. 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 
Così deciso in roma, nella camera di consiglio del giorno 19 febbraio 2020. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Il Consiglio di Stato, con adunanza plenaria n. 23/2020, 
esclude l’applicabilità della clausola di salvaguardia 
artt. 92, 94 D.lgs. 159/11 ai finanziamenti pubblici 


Consiglio 
di 
stato, adunanza 
Plenaria, sentenza 
26 ottobre 
2020 n. 23 (*) 


L’allegata 
decisione 
della 
adunanza 
plenaria 
ha 
ritenuto che, in caso di 
adozione 
di 
interdittiva 
antimafia, la 
clausola 
di 
salvezza 
del 
pagamento delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso del 
rimanente 
“nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite”- 
di 
cui 
agli 
articoli 
92, co. 3, e 
94, co. 2, del 
d. Lgs. n. 159/2011 -sia 
riferibile 
solo 
al 
recesso 
dai 
contratti 
di 
appalto 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, 
con 
esclusione, dunque, delle 
ipotesi 
connesse 
alla 
concessione 
di 
finanziamenti 
pubblici e sovvenzioni. 


La 
sentenza 
supera 
dunque 
il 
recente 
orientamento 
estensivo 
espresso 
dal 
Consiglio di 
Giustizia 
Amministrativa 
della 
Regione 
Sicilia 
(v. CGA 
nn. 3 e 
19 del 
2019) -seguito da 
numerosi 
TAR -secondo cui 
la 
clausola 
di 
salvaguardia 
si 
applicherebbe 
anche 
ai 
finanziamenti 
e 
sovvenzioni 
pubbliche 
consentendo 
al 
soggetto destinatario dell’interdittiva, in caso di 
realizzazione 
del 
programma finanziato, di trattenere le somme ottenute. 

Consiglio di 
Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 26 ottobre 
2020 n. 23 -Pres. F. Patroni 
Griffi, 
est. 
O. 
Forlenza 
-Agea-Agenzia 
per 
le 
erogazioni 
in 
agricoltura 
(avv. 
gen. 
St.) 
c. 
Azienda 
Agricola 
Ofanto, soc 
agricola 
a 
r.l. (avv. G. Iacoviello); 
Ufficio Territoriale 
del 
Governo 
Potenza (avv. gen. St.). 


FATTO 


1. Con sentenza 
non definitiva 
23 dicembre 
2019 n. 8672, la 
Terza 
Sezione 
del 
Consiglio di 
Stato ha deferito alla 
Adunanza Plenaria il seguente quesito: 
“se 
il 
limite 
normativo delle 
“utilità 
conseguite”, di 
cui 
all'inciso finale 
contenuto sia 
nell'art. 
92 comma 
terzo, sia 
nell'art. 94 secondo comma 
del 
D. Lgs. n. 159/2011, è 
da 
ritenersi 
applicabile 
ai 
soli 
contratti 
di 
appalto pubblico, ovvero anche 
ai 
finanziamenti 
e 
ai 
contributi 
pubblici 
erogati per finalità di interesse collettivo”. 
1.1. 
La 
sentenza 
espone 
che 
la 
vicenda 
trae 
origine 
dalla 
delibera 
della 
Giunta 
Regionale 
n. 
1014 
del 
27 
luglio 
2012 
con 
la 
quale 
la 
Regione 
Basilicata, 
nell’ambito 
del 
Bando 
relativo 
all’attuazione 
della 
Misura 
121 
-Pif 
Aglianico 
del 
Vulture, 
ha 
ritenuto 
finanziabile 
la 
domanda 
di 
aiuto 
avanzata 
dall’Azienda 
Ofanto 
s.r.l., 
finalizzata 
all’acquisto 
di 
attrezzature 
e 
macchinari 
per 
la 
costruzione 
e 
l’ampliamento 
di 
una 
cantina 
vinicola 
aziendale, 
per 
la 
somma 
di 
€ 
251.342,50. 
A 
seguito dell’esito positivo dell’istruttoria, l’AGEA 
ha 
liquidato alla 
Ofanto s.r.l. la 
somma 
complessiva di € 248.756,99, ripartita in diverse 
tranches. 
In previsione 
dell’erogazione 
del 
contributo la 
Regione 
aveva 
richiesto il 
rilascio dell’informativa 
antimafia 
in 
data 
26 
dicembre 
2012 
e 
successivamente 
in 
data 
22 
dicembre 
2014, 
senza 
tuttavia ricevere alcuna risposta da parte della Prefettura competente. 
(*) Segnalazione avv. St. Lorenza Vignato. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Solo con nota 
prot. n. 87158 del 
23 maggio 2017, la 
Regione 
Basilicata 
ha 
comunicato all’Organismo 
pagatore 
che 
l’azienda 
finanziata 
era 
stata 
attinta 
da 
una 
informativa 
antimafia 
positiva, emessa dalla Prefettura di Potenza in data 10 febbraio 2016. 
Per 
l’effetto, 
in 
attuazione 
dell’art. 
92, 
comma 
3, 
d.lgs. 
159/2011, 
l’AGEA 
ha 
adottato 
il 
provvedimento 
prot. 
n. 
52438 
del 
21 
giugno 
2017, 
con 
il 
quale 
ha 
disposto 
la 
revoca 
dei 
contributi 
concessi per l’attuazione della Misura 121, intimandone la restituzione. 
Con 
lo 
stesso 
provvedimento, 
l’AGEA 
ha 
altresì 
revocato 
e 
chiesto 
in 
restituzione 
i 
contributi 
erogati 
per 
la 
Domanda 
Unica, 
relativi 
alle 
campagne 
agrarie 
2015 
e 
2016, 
dell’importo 
complessivo 
di € 1.014,02. 
L’Azienda Ofanto s.r.l. è stata destinataria di tre interdittive antimafia: 


- la prima del 10 febbraio 2016; 
- la seconda del 25 maggio 2017; 
- la terza (confermativa delle precedenti) emessa nel corso del 2018. 
Le 
prime 
due 
interdittive 
sono 
state 
impugnate 
con 
distinti 
ricorsi, 
la 
terza 
con 
ricorso 
per 
motivi aggiunti nell’ambito del secondo giudizio. 
Infine, un terzo giudizio è stato instaurato avverso gli atti di revoca dei finanziamenti. 
Le 
tre 
cause 
sono state 
definite 
dal 
TAR per la 
Basilicata, sez. I, con la 
sentenza 
n. 707/2018, 
con la quale sono stati rigettati i primi due ricorsi e accolto il terzo. 
1.2. 
L’AGEA 
ha 
proposto 
appello 
avverso 
la 
sentenza 
ora 
citata, 
contestando 
l’interpretazione 
degli 
artt. 92, comma 
3, e 
94, comma 
2, d.lgs. 159/2011 e 
la 
conseguente 
statuizione 
di 
illegittimità 
dei provvedimenti di revoca dei finanziamenti. 
2. Questo Consiglio di 
Stato, con la 
sentenza 
parziale 
che 
ha 
disposto anche 
la 
rimessione 
all’Adunanza 
Plenaria, ha, in particolare: 
- rigettato l’appello incidentale proposto dalla 
Azienda Ofanto s.r.l.; 
-respinto le 
eccezioni 
preliminari 
di 
inammissibilità 
sollevate 
dalla 
parte 
appellata 
avverso 
l’appello dell’AGEA; 
- respinto i motivi assorbiti in primo grado e riproposti dalla parte appellata. 
2.1. nell’esaminare 
l’appello principale, la 
sentenza 
ha 
ricordato che, nel 
corso del 
giudizio 
di 
primo grado, l’Azienda 
Agricola 
Ofanto S.r.l. ha 
impugnato le 
determinazioni 
di 
revoca 
dei 
finanziamenti 
relativi 
alla 
Misura 
121, chiedendone 
l’annullamento per i 
seguenti 
motivi: 
i) 
la 
revoca 
sarebbe 
illegittima 
anzitutto 
per 
violazione 
dell’art. 
92, 
d.lgs. 
159/2011, 
in 
quanto 
AGEA 
non ha 
tenuto conto delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
dei 
benefici 
collettivi 
prodottisi 
attraverso 
l’impiego 
dei 
contributi 
erogati, 
così 
disattendendo 
il 
principio, 
condiviso 
da 
ampia 
parte 
della 
giurisprudenza, secondo il 
quale 
la 
clausola 
di 
salvaguardia 
prevista 
dagli 
artt. 92, 
comma 
3, e 
94, comma 
2 d.lgs. 159/2011, deve 
ritenersi 
operante 
non solo per gli 
appalti 
di 
lavori 
pubblici 
ma 
anche 
per 
i 
finanziamenti 
pubblici 
destinati 
ad 
aziende 
private. 
In 
entrambi 
i 
casi 
sarebbe 
infatti 
rinvenibile 
quell’elemento 
dell’utilità 
pubblicistica 
che 
fonda 
la 
ratio 
dell’effetto conservativo avuto di mira dalla norma; 
ii) la 
revoca 
sarebbe 
illegittima 
anche 
per la 
violazione 
dell’art. 7, L. 241/1990, non essendo 
stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento; 
iii) 
infine, 
sarebbe 
stata 
resa 
una 
falsa 
applicazione 
dell’art. 
92, 
d.lgs. 
159/2011, 
poiché 
AGEA 
ha 
revocato anche 
contributi 
erogati 
in data 
antecedente 
all’emissione 
dell’informazione 
antimafia 
positiva, ed è 
intervenuta 
allorché 
l’opera 
oggetto di 
finanziamento (costruzione 
ed 
ampliamento di 
cantina 
aziendale 
per la 
produzione 
e 
commercializzazione 
dei 
vini) era 
stata 
compiutamente realizzata. 
2.2. 
Il 
Tar 
Basilicata 
ha 
accolto 
il 
ricorso 
in 
relazione 
al 
primo 
capo 
di 
censura, 
così 
motivando: 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


“il 
Collegio condivide 
l'orientamento giurisprudenziale, richiamato dall'azienda 
agricola 
ricorrente, 
… TAR napoli 
Sez. I Sentenze 
n. 3237 del 
13.6.2017 e 
n. 52 del 
3.1.2018, secondo 
cui 
gli 
artt. 92, comma 
3, e 
94, comma 
2, D.Lg.vo n. 159/2011, nella 
parte 
in cui 
fanno "salvo 
il 
pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
ed il 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per l'esecuzione 
del 
rimanente, 
nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite, 
vanno 
applicati, 
oltre 
che 
alle 
revoche 
dei 
contratti 
di 
appalto pubblico, le 
cui 
utilità 
sono stabilmente 
acquisite 
dalla 
Pubblica 
Amministrazione, 
anche 
alle 
revoche 
dei 
finanziamenti 
e/o contributi 
pubblici, che 
vengono corrisposti 
per finalità di interesse collettivo (…)”. 
A 
supporto della 
interpretazione 
prescelta, il 
Tar ha 
inoltre 
evidenziato la 
necessità 
di 
tenere 
“conto 
del 
bilanciamento 
tra 
l’interesse 
pubblico, 
di 
impedire 
l’erogazione 
di 
denaro 
pubblico 
in favore 
di 
soggetti 
economici 
privati, condizionati 
dall’infiltrazione 
mafiosa, ed il 
principio 
di 
affidamento, in quanto si 
tratta 
di 
soggetti 
che 
non sono indiziati 
di 
appartenenza 
alla 
criminalità 
organizzata, 
che 
devono 
essere 
sanzionati 
per 
le 
loro 
condotte 
illecite, 
ma 
solo 
di 
persone 
sottoposte 
al 
rischio 
dell’infiltrazione 
mafiosa, 
che 
va 
prevenuta 
con 
la 
non 
futura 
erogazione 
del 
pubblico denaro, ma 
non con la 
restituzione 
di 
quello già 
speso, come, nella 
specie, 
il 
contributo 
di 
€ 
249.771,01, 
erogato 
per 
l’ammodernamento 
dell’azienda 
agricola 
ricorrente mediante l’acquisto di attrezzature e macchinari per la cantina”. 


2.2.1. L’interpretazione 
del 
giudice 
di 
primo grado è 
stata 
censurata 
dall’attuale 
appellante, 
sia 
perché 
ritenuta 
contraria 
alla 
ratio 
della 
clausola 
di 
salvaguardia 
di 
cui 
agli 
artt. 92 e 
94 
del 
d.lgs. 
159/2011; 
sia 
perché 
segnalata 
in 
evidente 
contrasto 
con 
la 
recente 
e 
più 
condivisibile 
lettura 
delle 
medesime 
disposizioni 
fornita 
dalla 
terza 
sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
nella 
decisione n. 5578 del 28 settembre 2018. 
Sotto il 
primo aspetto, l’appellante 
argomenta 
circa 
la 
necessità 
di 
valorizzare 
canoni 
di 
interpretazione 
restrittiva 
in tutte 
le 
ipotesi 
in cui 
vengano in rilievo disposizioni 
derogatorie 
ai 
principi ispiratori della normativa antimafia. 
Sotto 
il 
secondo 
aspetto, 
la 
parte 
appellante 
evidenzia 
come 
proprio 
il 
dato 
letterale 
della 
clausola 
di 
salvaguardia, di 
cui 
all’art. 92 comma 
3 d.lgs. 159/2011, abbia 
indotto la 
terza 
sezione 
del 
Consiglio di 
Stato, nella 
già 
citata 
sentenza 
n. 5578/18, a 
farne 
applicazione 
limitata 
al 
caso della 
revoca 
del 
contratto, escludendo dalla 
portata 
della 
disposizione 
la 
diversa 
ipotesi 
della revoca del finanziamento. 
nondimeno, consapevole 
del 
fatto che 
una 
opposta 
soluzione 
interpretativa 
è 
stata 
proposta 
da 
altra 
parte 
della 
giurisprudenza 
(da 
ultimo nelle 
pronunce 
del 
Consiglio di 
Giustizia 
Amministrativa 
della 
Regione 
Sicilia 
n. 
3 
e 
n. 
19 
del 
2019), 
l’amministrazione 
appellante 
ha 
avanzato 
istanza 
di 
deferimento del 
ricorso all’esame 
dell’Adunanza 
Plenaria, onde 
pervenire 
al 
risultato 
di 
una 
univoca 
interpretazione 
delle 
clausole 
di 
cui 
agli 
artt. 
92 
comma 
3 
e 
94 
comma 
2, d.lgs. 159/2011. 
2.2.2. 
Con 
un 
secondo 
motivo, 
svolto 
in 
via 
subordinata, 
l’appellante 
assume 
che 
anche 
un’interpretazione 
“estensiva” 
della 
clausola 
di 
salvaguardia 
imporrebbe, comunque, una 
verifica 
del 
fatto 
che 
le 
risorse 
concesse 
siano 
state 
impiegate 
in 
modo 
effettivamente 
vantaggioso 
per 
l’interesse 
pubblico e 
rispondente 
alle 
finalità 
sottese 
al 
programma 
di 
finanziamento; 
valutazione 
che, nel caso di specie, sarebbe stata del tutto omessa da parte del primo giudice. 
La 
censura 
viene 
poi 
argomentata 
anche 
con riferimento al 
fatto che 
dalle 
prove 
in atti 
non si 
desume 
alcun concreto elemento dimostrativo del 
riconoscimento, da 
parte 
pubblica, di 
una 
tale 
utilità 
pubblicistica, e 
che 
non risulta 
in alcun modo provato che 
l’esecuzione 
della 
specifica 
e 
controversa 
misura 
di 
sostegno abbia 
fornito un qualche 
apporto alla 
realizzazione 
degli scopi generali che il programma di finanziamento aveva di mira. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


2.2.3. Infine, con un terzo motivo, l’appellante 
invoca 
l’annullamento della 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in 
cui 
ha 
annullato 
la 
revoca 
dei 
contributi 
relativi 
alla 
campagna 
2015 
2016, 
nonostante 
questa 
specifica 
determinazione 
amministrativa 
(pure 
inserita 
nel 
medesimo 
provvedimento controverso) risultasse 
del 
tutto estranea 
al 
petitum 
del 
ricorso intentato dalla 
società Ofanto. 
2.3 L’appellata 
Azienda 
Ofanto richiama 
anche 
nella 
presente 
sede 
di 
appello l’orientamento 
giurisprudenziale 
espresso, 
in 
contrasto 
con 
quello 
della 
Sezione 
III, 
dal 
Consiglio 
di 
Giustizia 
Amministrativa 
della 
Regione 
Sicilia 
con 
le 
pronunce 
nn. 
3 
e 
19 
del 
2019; 
e 
sottolinea 
i 
riflessi 
di 
utilità 
collettiva 
derivanti 
dal 
programma 
di 
investimento compiutamente 
realizzato con le 
risorse erogate in attuazione della Misura 121- Pif Aglianico Del 
Vulture. 
3. Tanto premesso, la 
sentenza 
non definitiva, nell’argomentare 
le 
ragioni 
che 
la 
inducono a 
rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, sottolinea come, nel caso di specie: 
“si 
tratta 
di 
definire 
l’ambito delle 
conseguenze 
connesse 
all'adozione 
di 
una 
informativa 
interdittiva 
in relazione 
alla 
pregressa 
percezione 
di 
benefìci 
economici 
di 
fonte 
pubblica 
che 
hanno incentivato un'iniziativa imprenditoriale ormai interamente realizzata. 
I tratti 
distintivi 
del 
caso oggetto di 
indagine, dunque, attengono al 
fatto che: 
i) il 
programma 
finanziato 
è 
stato 
interamente 
eseguito 
senza 
che 
sia 
stato 
mosso 
alcun 
rilievo 
alla 
sua 
corretta 
realizzazione; 
ii) l'informativa 
interdittiva 
è 
intervenuta 
soltanto dopo il 
completamento del-
l'opera finanziata (si tratta dell'ipotesi di c.d. "informativa sopravvenuta"). 
A 
tali 
fini, l’art. 92, co. 4 sembrerebbe 
giustificare 
sempre 
e 
comunque 
l'adozione 
del 
provvedimento 
di 
revoca 
in ragione 
della 
sola 
adozione 
dell'interdittiva 
e 
indipendentemente 
dai 
profili 
temporali 
della 
vicenda; 
il 
comma 
3, 
a 
parziale 
correzione 
del 
comma 
4, 
parrebbe 
connotare 
in termini 
di 
sostanziale 
“corrispettività” 
le 
poste 
reciproche 
tra 
privato e 
amministrazione, 
legittimando 
l'operatore 
economico 
attinto 
da 
informativa 
interdittiva 
ad 
invocare 
il 
pagamento 
degli 
importi 
corrispondenti 
alla 
parte 
del 
programma 
che 
sia 
stata 
concretamente 
realizzata, entro il limite, tuttavia, delle "utilità conseguite". 
La sentenza rileva come si pongano due opposti orientamenti giurisprudenziali. 
3.1. In base 
a 
un primo orientamento (cd. estensivo), la 
norma 
innanzi 
richiamata 
dovrebbe 
essere 
intesa 
nel 
senso di 
consentire 
lo ius 
ritentionis 
da 
parte 
dell'operatore 
attinto da 
informativa 
interdittiva 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
il 
programma 
beneficiato da 
finanziamento pubblico 
sia 
stato correttamente 
realizzato e 
quindi 
risulti 
soddisfatto, anche 
in via 
indiretta, l'interesse 
generale sotteso all'erogazione. 
Si 
propone, 
quindi, 
una 
nozione 
ampia 
e 
onnicomprensiva 
del 
concetto 
di 
"utilità 
conseguite", 
svincolandone 
il 
riferimento dalle 
utilità 
economiche 
direttamente 
ritraibili 
dall'amministrazione 
concedente 
-come 
nel 
caso dei 
contratti 
di 
appalto, in cui 
è 
più evidente 
il 
nesso di 
corrispettività 
fra 
l'erogazione 
di 
risorse 
pubbliche 
e 
l'acquisizione 
di 
utilità 
sotto forma 
di 
beni 
e 
servizi; 
ed estendendolo anche 
a 
quei 
vantaggi 
di 
ordine 
generale 
che 
sono sottesi 
a 
qualunque 
iniziativa 
privata 
finanziata 
dall'amministrazione 
e 
che, per ciò stesso, non possono che 
mirare al conseguimento di scopi di interesse pubblico. 
Si 
assume, in sostanza, che 
poiché 
ogni 
attività 
della 
PA 
che 
importa 
erogazione 
di 
provvidenze 
economiche 
è 
finalizzata 
(sia 
pure 
di 
riflesso) a 
scopi 
di 
interesse 
pubblico e 
questi 
ultimi 
si 
sostanziano 
in 
benefici 
collettivi, 
immediatamente 
o 
mediatamente 
riconducibili 
all’esercizio del 
potere, la 
nozione 
di 
“utilità 
conseguite” 
andrebbe 
estesa 
anche 
a 
quei 
vantaggi 
generali 
perseguiti 
attraverso l’esecuzione 
di 
programmi 
oggetto di 
finanziamento o di 
contributo pubblico. 
3.2. 
In 
base 
ad 
un 
secondo 
orientamento 
(cd. 
restrittivo), 
la 
nozione 
di 
"utilità 
conseguite" 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


non 
sarebbe 
dilatabile 
sino 
al 
punto 
da 
ricomprendervi 
anche 
l'ipotesi 
del 
finanziamento 
andato 
a 
buon fine 
mercé 
l'integrale 
realizzazione 
del 
programma 
finanziato, e 
ciò in quanto in tale 
evenienza 
l'interesse 
pubblico risulterebbe 
essere 
soltanto “indiretto” 
(Cons. Stato, sez. III, 
nn. 1108 e 5578 del 2018). 
In tal 
senso, si 
sottolinea 
la 
differenza 
che 
sussiste 
tra 
i 
rapporti 
contrattuali, come 
quelli 
derivanti 
dalla 
stipula 
di 
contratti 
di 
appalto, in cui 
è 
più evidente 
il 
nesso di 
corrispettività 
sussistente 
fra 
le 
reciproche 
prestazioni; 
e 
le 
erogazioni 
di 
benefìci 
pubblici 
derivanti 
da 
atti 
unilaterali, 
in 
cui 
la 
reciprocità 
degli 
impegni 
e 
la 
corrispettività 
delle 
prestazioni 
offerte 
risulta 
certamente più attenuata. 
Ed anche 
il 
termine 
“utilità” 
deve 
essere 
colto in un senso più limitato e 
strettamente 
patrimoniale, 
tale, dunque, da 
applicarsi 
alle 
sole 
opere 
o ai 
soli 
servizi 
che 
accrescono il 
patrimonio 
dell’Amministrazione 
e 
che 
per quest’ultima 
rappresentano un valore 
economicamente 
valutabile: 
dal 
che 
discende 
l’applicabilità 
della 
disciplina 
di 
salvezza 
di 
cui 
all’art. 
92 
comma 
3 ai soli contratti di appalto nei quali la pubblica 
Amministrazione è parte committente. 


3.3. 
Il 
Giudice 
remittente 
rileva 
come 
l’art. 
92 
comma 
3 
contenga 
“indici 
testuali 
e 
sistematici 
che 
depongono 
a 
favore 
della 
seconda 
delle 
due 
tesi 
sopra 
illustrate 
(l’orientamento 
restrittivo)”. 
E 
ciò sia 
per argomenti 
di 
carattere 
semantico-testuale, sia 
per argomenti 
di 
tipo logico -sistematico. 
Quanto ai primi: 
a1) -l’elemento lessicale 
della 
“utilità 
conseguita”, più che 
alludere 
all’effetto conseguente 
alla 
mera 
esecuzione 
di 
una 
attività 
programmata, 
sembra 
rinvenire 
la 
sua 
specifica 
accezione 
nell’effetto positivo, residuale 
e 
incrementale, che 
ridonda 
all’esito di 
tale 
attività 
e 
si 
riconduce 
alla sfera giuridica dell’accipiens, singolarmente considerato; 
a2) -di 
contro, è 
lecito ritenere 
che 
se 
la 
disposizione 
normativa 
avesse 
inteso premiare 
con 
lo ius 
retentionis 
un impiego delle 
risorse 
erogate 
conforme 
alla 
destinazione 
programmata, 
essa 
si 
sarebbe 
limitata 
a 
rendere 
testualmente 
questo concetto, senza 
introdurre 
la 
più stringente 
(e a questo punto surrettizia) nozione di “utilità conseguite”; 
a3) -il 
valore 
disgiuntivo da 
attribuire 
all’espressione 
“o recedono dai 
contratti”, contenuta 
sia 
nell’art. 92 comma 
terzo, sia 
nell’art. 94 secondo comma 
del 
codice 
antimafia, rende 
poi 
l’inciso finale 
dei 
due 
commi 
più verosimilmente 
riferibile 
ai 
soli 
“contratti” 
e 
non anche 
alle 
autorizzazioni 
ed alle 
concessioni, ovvero ai 
contributi, ai 
finanziamenti 
ed alle 
agevolazioni 
(v. Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 5578 del 2018); 
a4) 
-anche 
il 
concetto 
di 
“esecuzione” 
delle 
“opere” 
dal 
quale 
l’amministrazione 
trae 
“utilità”, 
sembra 
riferibile 
ad una 
condizione 
di 
reciprocità 
delle 
prestazioni 
corrispettive, scarsamente 
compatibile 
con 
l’ipotesi 
di 
un’erogazione 
o 
di 
un 
finanziamento 
destinato 
a 
beneficio 
riflesso 
non di uno specifico ente od apparato della P.A, ma della indistinta collettività pubblica”. 
Quanto ai secondi: 
b1) “il 
comma 
3 dell’art. 92 . . . riconosce 
al 
soggetto attinto dall’informativa 
antimafia 
non 
già 
il 
diritto a 
ritenere 
l’erogazione 
nella 
misura 
corrispondente 
al 
valore 
dell’investimento 
realizzato, come 
sarebbe 
logico se 
la 
sola 
conformità 
allo scopo programmato realizzasse 
la 
“utilità” 
pubblica 
insita 
nel 
programma 
di 
finanziamento, in quanto tale 
meritevole 
di 
preservazione”; 
al 
contrario “ciò che 
il 
comma 
3 riconosce 
al 
soggetto interdetto è, diversamente, 
il 
diritto 
a 
vedersi 
corrisposto 
un 
compenso 
limitato 
all’utilità 
conseguita 
dall’amministrazione, 
onde 
evitare 
che 
quest’ultima, 
dall’esecuzione 
dell’opera, 
possa 
trarre 
un 
ingiustificato 
arricchimento (v. Cass., sez. un, n. 28345/2008). 
L’investimento 
realizzato 
“in 
conformità 
al 
programma” 
di 
finanziamento 
non 
coincide 
quindi 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


con la 
“utilità 
conseguita”, che 
è 
nozione 
riferibile 
ad una 
parte 
specifica 
e 
da 
questa 
apprezzabile 
attraverso il 
filtro selettivo di 
una 
valutazione 
di 
“convenienza”, tipica 
dell’operatore 
economico-giuridico “individuale”; 
b2) “l’interpretazione 
che 
considera 
come 
utilità 
da 
preservare 
l’investimento realizzato “in 
conformità 
al 
programma” 
di 
finanziamento, sottende 
una 
tacita 
o implicita 
abrogazione 
del-
l’art. 92 comma 
3 (e 
della 
clausola 
di 
salvezza 
ivi 
contenuta), in quanto il 
mancato raggiungimento 
dello scopo pubblico per il 
quale 
il 
finanziamento viene 
erogato costituisce 
ragione 
di 
per sé 
sufficiente 
per farne 
discendere 
la 
revoca, senza 
alcuna 
necessità 
di 
attingere 
allo 
strumentario offerto dalla normativa antimafia (così Cons. Stato, sez. III, n. 5578/2018)”; 
b3) “sul 
piano applicativo, lo ius 
retentionis 
appare 
razionalmente 
giustificabile 
nel 
contesto 
di 
prestazioni 
corrispettive, preventivamente 
concordate 
dalle 
parti 
in quanto rispondenti 
ai 
loro specifici 
interessi. La 
stabilizzazione 
dei 
relativi 
effetti 
costituisce, in siffatto contesto, 
una 
scelta 
di 
minor costo e 
di 
sicuro vantaggio rispetto a 
quella 
del 
ripristino dello status 
quo 
ante; 
ed 
il 
mantenimento 
delle 
prestazioni 
eseguite 
preserva 
l'equilibrio 
contrattuale 
senza 
che si renda necessaria alcuna restituzione. 
nell’ipotesi 
del 
contributo 
pubblico, 
al 
contrario, l’utilità 
riflessa 
che 
da 
tale 
investimento 
può 
refluire 
a 
vantaggio 
della 
collettività 
è 
in 
molti 
casi 
condizionata 
dall’ampiezza 
della 
platea 
dei 
soggetti 
privati 
che 
aderiscono ai 
programmi 
di 
finanziamento, dalla 
reiterazione 
di 
analoghe 
contribuzioni 
nel 
tempo e 
dalla 
convergente 
e 
sistematica 
esecuzione 
delle 
misure 
facenti 
capo ad una 
medesima 
azione 
strategica. ne 
viene 
che 
le 
ricadute 
positive 
-apprezzabili 
ex 
post 
sotto 
forma 
di 
benefici 
generali, 
indiretti 
e 
di 
lunga 
durata, 
poiché 
riguardanti 
ampi 
settori 
della 
dimensione 
collettiva 
(l’ambiente, 
l’agricoltura, 
l’imprenditoria, 
etc..) 
-possono 
essere 
stimate 
solo attraverso parametri 
macroeconomici 
ad esse 
congruenti, proporzionati 
alla 
tipologia, all’estesa 
latitudine 
degli 
interventi 
programmati 
e 
alla 
loro distribuzione 
nel 
lungo 
periodo. 
Si 
tratta 
di 
dati 
che 
inevitabilmente 
eccedono 
il 
singolo 
progetto 
finanziabile 
e 
rendono 
assai 
evanescente 
o 
difficilmente 
percepibile 
il 
riflesso 
di 
“utilità 
su 
scala 
collettiva” 
che lo stesso è in grado di generare”. 
b4) inoltre, “anche 
un’interpretazione 
“estensiva” 
della 
clausola 
di 
salvaguardia 
imporrebbe, 
in ogni 
caso, una 
verifica 
in concreto del 
fatto che 
le 
risorse 
concesse 
siano state 
impiegate 
in 
modo effettivamente 
vantaggioso per l’interesse 
pubblico e 
rispondente 
alle 
finalità 
sottese 
al programma di finanziamento”. 


3.4. 
Agli 
argomenti 
desumibili 
dall’esegesi 
dell’art. 
92 
comma 
3, 
il 
Giudice 
remittente 
aggiunge 
ulteriori considerazioni. 
3.4.1. La 
prima 
di 
queste 
attiene 
all’incidenza 
del 
fattore 
“temporale” 
sul 
carattere 
“precario” 
del 
beneficio erogato, che 
tale 
(cioè 
precario) rimane 
sino al 
definitivo compimento del 
programma 
agevolato. 
“Sul 
punto, il 
più restrittivo dei 
due 
orientamenti 
ermeneutici 
sostiene 
che 
la 
pretesa 
restituzione 
delle 
somme 
erogate 
è 
giustificata 
proprio dal 
carattere 
ontologicamente 
“provvisorio” 
del 
beneficio erogato e 
dal 
fatto che 
tale 
provvisorietà 
è 
destinata 
a 
protrarsi 
sino al 
momento 
della definitiva chiusura del programma agevolato (Tar Catania, n. 2132/2017). 
Il 
provvedimento di 
revoca 
viene 
infatti 
adottato in attuazione 
dell’art. 92, comma 
3, d.lgs. 
159/2011, stando al 
quale 
i 
contributi, i 
finanziamenti, le 
agevolazioni 
e 
le 
altre 
erogazioni 
di 
cui 
all'articolo 
67 
sono 
corrisposti 
sotto 
“condizione 
risolutiva” 
di 
una 
eventuale 
informazione 
antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento. 
Poiché, quindi, i 
contributi 
risultano “concessi 
in via 
provvisoria”, l’atto cd. di 
“revoca” 
non 
rappresenta 
affatto 
(come 
farebbe 
pensare 
il 
nomen) 
un 
nuovo 
provvedimento, 
di 
secondo 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


grado, adottato in autotutela 
dall’Amministrazione, nell’esercizio di 
un potere 
discrezionale; 
ma 
un 
mero 
atto 
ricognitivo 
che 
constata 
l’avvenuta 
verificazione 
della 
“condizione 
risolutiva” 
afferente al contributo ancora “precario”. 
Per 
l’effetto, 
risulta 
improprio 
ogni 
richiamo 
agli 
artt. 
21-quinques 
e 
21-nonies 
L. 
n. 
241/91990 -che 
riguardano rispettivamente 
i 
provvedimenti 
di 
revoca 
(in senso proprio) e 
di 
annullamento adottabili 
giustappunto nell’esercizio di 
un potere 
di 
autotutela; 
e 
altresì 
inappropriato 
risulta 
ogni 
riferimento al 
principio dell’affidamento, che 
mai 
potrebbe 
sorgere 
a 
fronte 
dell’originario provvedimento di 
concessione 
“in via 
provvisoria” 
del 
contributo (Tar 
Catania, 
sez. 
IV, 
n. 
2132/2017). 
Soltanto 
rispetto 
alla 
produzione 
in 
via 
definitiva 
degli 
effetti 
del 
provvedimento di 
concessione 
e, quindi, solo al 
compimento di 
tutte 
le 
procedure 
di 
contabilizzazione 
e 
di 
chiusura 
della 
procedura 
di 
finanziamento, 
potrebbe 
essere 
invocato 
un 
effetto 
di “stabilizzazione” del beneficio astrattamente opponibile al potere interdittivo”. 
A 
fronte 
di 
tali 
argomentazioni, “il 
più estensivo orientamento obietta 
che, anche 
a 
voler condividere 
l'ottica 
della 
provvisorietà 
del 
beneficio 
economico, 
tale 
condizione 
iniziale 
dovrebbe 
pur sempre 
avere 
una 
durata 
definita 
nel 
tempo, affinché 
"ciò che 
nasce 
provvisorio diventi 
il 
prima 
possibile 
definitivo; 
pena, 
altrimenti, 
l'impossibilità 
di 
qualunque 
previsione 
e 
di 
qualunque 
calcolo da parte di cittadini ed imprese". 
Dunque, 
il 
sopraggiungere 
dell'informativa 
negativa 
non 
potrebbe 
sortire 
effetti 
preclusivi 
nei 
confronti 
di 
un rapporto di 
durata 
che 
si 
sia 
ormai 
in massima 
parte 
dispiegato, raggiungendo 
gli obiettivi prefissati dalla stessa amministrazione. 
Questa 
soluzione 
viene 
ritenuta 
particolarmente 
calzante 
al 
caso dei 
rapporti 
cd. “esauriti”, o 
che 
tali 
sarebbero dovuti 
essere 
da 
tempo e 
non lo siano divenuti 
per ragioni 
imputabili 
alla 
pubblica 
amministrazione. 
Sottesa 
all’impostazione 
in 
esame 
è 
la 
preoccupazione 
che 
i 
ritardi 
e 
le 
inefficienze 
dell’azione 
amministrativa 
vengano premiati 
e 
persino incentivati, andando 
a ledere le garanzie fondamentali delle parti private”. 


3.4.2. 
Una 
seconda 
argomentazione 
riguarda 
la 
compatibilità 
delle 
diverse 
opzioni 
con 
quanto 
affermato dall'Adunanza 
plenaria 
con la 
sentenza 
n. 3 del 
2018, secondo la 
quale 
il 
provvedimento 
di 
c.d. "interdittiva 
antimafia' 
determina, in capo al 
soggetto (persona 
fisica 
o giuridica) 
che 
ne 
è 
colpito, una 
particolare 
forma 
di 
incapacità 
ex 
lege, parziale 
(in quanto limitata 
a 
specifici 
rapporti 
giuridici 
con 
la 
pubblica 
amministrazione) 
e 
tendenzialmente 
temporanea, 
con la 
conseguenza 
che 
al 
soggetto stesso è 
precluso avere 
con la 
pubblica 
amministrazione 
rapporti riconducibili a quanto disposto dall'art. 67, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. 
Il 
Giudice 
rimettente 
si 
chiede 
“se 
l'adesione 
al 
più 
estensivo 
dei 
richiamati 
orientamenti 
giurisprudenziali 
(che 
ammette 
la 
ritenzione 
delle 
somme 
percepite 
in 
forza 
di 
un 
programma 
di 
finanziamento 
interamente 
realizzato) 
risulti 
compatibile 
con 
la 
linea 
di 
estremo 
rigore 
che 
caratterizza 
oramai 
la 
giurisprudenza 
dell'Adunanza 
plenaria, 
la 
quale 
riconnette 
all'adozione 
dell'informativa 
interdittiva 
una 
sorta 
di 
incapacità 
giuridica 
parziale 
a 
carico 
del 
soggetto 
che 
ne 
è 
colpito”. 
A 
tal 
proposito, 
la 
sentenza 
non 
definitiva 
rileva 
come 
il 
Consiglio 
di 
Giustizia 
Amministrativa 
della 
Regione 
Sicilia, 
con 
sentenza 
n. 
3/2019, 
“pur 
non 
disattendendo 
in 
modo 
espresso 
le 
statuizioni 
rese 
dall'Adunanza 
plenaria, 
ne 
sterilizza 
l’effettiva 
incidenza, 
giustificando 
tale 
soluzione 
in 
ragione 
della 
peculiarità 
del 
caso 
di 
specie 
esaminato” 
e 
ciò 
in 
quanto 
i 
princìpi 
di 
diritto 
di 
cui 
alla 
sentenza 
n. 
3 
del 
2018 
(che 
prendono 
le 
mosse 
dalla 
ritenuta 
incapacità 
giuridica 
parziale 
ad 
accipiendum 
in 
capo 
all'operatore 
attinto 
da 
un'informativa 
interdittiva) 
non 
potrebbero 
comunque 
valere 
"per 
i 
rapporti 
esauriti 
o 
che 
sarebbero 
dovuti 
esserlo 
da 
tempo 
e 
che 
non 
lo 
sono 
stati 
per 
ragioni 
imputabili 
alla 
pubblica 
amministrazione". 
Se 
così 
non 
fosse 
-si 
sostiene 
-il 
complessivo 
regime 
normativo 
in 
tema 
di 
comunicazioni 
e 
informazioni 
anti

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


mafia 
determinerebbe 
inammissibili 
profili 
di 
incertezza 
e 
insicurezza 
nei 
traffici 
giuridici; 
e 
detta 
incertezza 
si 
protrarrebbe 
di 
fatto 
sine 
die 
anche 
laddove 
-come 
nel 
caso 
scrutinato 
dalla 
sentenza 
n. 
3/2019 
-sia 
decorso 
un 
tempo 
rilevante 
e 
la 
stessa 
amministrazione 
abbia 
adottato 
nel 
tempo 
informative 
di 
carattere 
liberatorio 
nei 
confronti 
dell'operatore 
economico. 
Sul 
punto, 
il 
Giudice 
remittente 
rileva 
una 
contraddizione 
tra 
la 
pronuncia 
n. 
3/2018 
di 
questa 
Adunanza 
Plenaria 
e 
la 
citata 
giurisprudenza 
del 
Consiglio di 
giustizia 
amministrativa, ed afferma: 
“da 
un lato (Adunanza 
Plenaria), si 
assume 
che 
l'adozione 
di 
un'informativa 
interdittiva 
nei 
confronti 
di 
un operatore 
determina 
sempre 
e 
comunque 
in capo allo stesso uno stato di 
parziale 
incapacità 
giuridica, sì 
da 
determinare 
"la 
insuscettività 
.. ad essere 
titolare 
di 
quelle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
(diritti 
soggettivi, 
interessi 
legittimi) 
che 
determinano 
(sul 
proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica 
Amministrazione”. 
Da 
parte 
del 
giudice 
d’appello siciliano si 
osserva, di 
contro, che 
la 
forma 
di 
incapacità 
elaborata 
dall’Adunanza 
plenaria 
conosce 
taluni 
limiti 
di 
ordine 
pubblico economico come, ad 
esempio, quelli 
conseguenti 
all'integrale 
realizzazione 
del 
programma 
beneficiato, al 
lungo 
tempo 
trascorso 
ovvero 
al 
rilascio 
in 
favore 
della 
medesima 
impresa 
di 
precedenti 
informative 
di carattere liberatorio”. 
Osserva 
il 
Collegio 
remittente 
che 
“tali 
limiti 
di 
ordine 
pubblico 
non 
risultano 
adeguatamente 
tracciati 
e 
motivati 
nei 
loro presupposti, ma 
rimessi 
ad una 
valutazione 
“casistica” 
ed “equitativa” 
formulabile 
dal 
giudice 
in relazione 
alle 
singole 
fattispecie 
esaminate”. Viene 
precisato: 


a) 
“Quanto 
al 
carattere 
“esaurito” 
del 
rapporto 
giuridico, 
esso, 
come 
si 
è 
visto, 
non 
è 
predicabile 
nel 
caso 
in 
cui 
le 
risorse 
siano 
state 
impiegate 
solo 
in 
parte 
ovvero 
il 
programma 
finanziato 
sia 
ancora 
in 
corso 
di 
conclusione. 
Peraltro, 
l’eventuale 
“esaurimento” 
del 
rapporto, 
anche 
laddove 
effettivamente 
sussistente, 
non 
dissolverebbe 
ogni 
dubbio 
interpretativo, 
se 
è 
vero 
che 
nel 
ragionamento 
svolto 
dall’Adunanza 
Plenaria 
l’effetto 
inabilitante 
dell’interdittiva 
è 
tale 
da 
travolgere 
retroattivamente 
qualunque 
utilità 
promanante 
dalla 
pubblica 
amministrazione, 
persino 
se 
riconosciuta 
al 
privato 
con 
sentenza 
passata 
in 
giudicato 
(di 
per 
sé 
insensibile 
ad 
ogni 
sopravvenienza, 
eccettuate 
quelle 
che 
non 
si 
siano 
verificate 
prima 
della 
sua 
notifica)”; 
b) “gli 
argomenti 
di 
contrasto all’ipotesi 
di 
uno ius 
retentionis 
esteso anche 
all’erogazione 
di 
contributi 
pubblici 
paiono 
superabili 
-a 
giudizio 
di 
questo 
Collegio 
-solo 
a 
condizione 
di 
ampliare 
la 
portata 
della 
clausola 
di 
salvezza 
delle 
“utilità 
conseguite” 
di 
cui 
all’art. 
92 
comma 
3, 
poiché 
in 
questa 
specifica 
eventualità 
l’eccezione 
al 
generale 
effetto 
“inabilitante” 
del 
provvedimento 
antimafia 
potrebbe 
giustificarsi 
sulla 
base 
del 
dettato normativo e 
non richiederebbe, 
pertanto, alcun intervento di 
ortopedia 
correttiva 
dei 
principi 
affermati 
dall’Adunanza 
plenaria”; 
c) “una 
siffatta 
lettura 
estensiva 
appare 
. . . difficilmente 
coniugabile 
con il 
principio secondo 
il 
quale 
le 
disposizioni 
che 
introducono una 
eccezione 
o deroga 
ad un principio generale 
devono 
soggiacere 
ad una 
regola 
di 
stretta 
interpretazione. nell’ambito della 
normativa 
antimafia, 
l’effetto 
inabilitante 
conseguente 
alla 
interdittiva 
è 
regola 
generale 
nei 
rapporti 
con 
la 
pubblica 
amministrazione 
-o 
come 
tale 
si 
connota 
nella 
lettura 
che 
ne 
ha 
reso 
nel 
2018 
l’Adunanza 
plenaria; 
mentre 
la 
salvezza 
prevista 
dall’art. 92 comma 
3 d.lgs. 159/2011 è 
una 
eccezione 
a 
tale 
effetto inabilitante 
oltre 
che 
alla 
regola 
generale 
della 
retroattività 
della 
revoca 
del 
rapporto in essere 
tra 
parte 
pubblica 
e 
parte 
privata. ne 
viene 
che 
detta 
eccezione 
è 
apprezzabile 
nei ristretti e tassativi limiti delle ipotesi in essa espressamente contemplate”. 
4. Sulla 
base 
di 
tutte 
le 
argomentazioni 
esposte 
-e 
rilevato il 
contrasto di 
giurisprudenza 
-la 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Sezione 
Terza 
ha 
deferito il 
ricorso in appello (per la 
parte 
non già 
decisa 
con la 
sentenza 
non 
definitiva) all’Adunanza 
Plenaria 
perché 
la 
stessa 
possa, in particolare, pronunciarsi 
sul 
seguente 
quesito: 
“se 
il 
limite 
normativo delle 
“utilità 
conseguite”, di 
cui 
all'inciso finale 
contenuto sia 
nell'art. 
92 comma 
terzo, sia 
nell'art. 94 secondo comma 
del 
D. Lgs. n.159/2011, è 
da 
ritenersi 
applicabile 
ai 
soli 
contratti 
di 
appalto pubblico, ovvero anche 
ai 
finanziamenti 
e 
ai 
contributi 
pubblici 
erogati per finalità di interesse collettivo”. 


4.1. È 
intervenuta 
in giudizio la 
ditta 
individuale 
(omissis), che 
ha 
precisato come 
il 
proprio 
interesse 
ad intervenire 
ad opponendum 
nel 
presente 
giudizio è 
un interesse 
diretto e 
non correlato 
alla 
sola 
circostanza 
che 
lo stesso sia 
parte 
in un giudizio pendente 
avanti 
al 
Consiglio 
di 
giustizia 
amministrativa”, poiché 
tale 
Giudice, dopo avere 
riservato in decisione 
la 
controversia 
della 
quale 
la 
ditta 
(omissis) è 
parte, “ha 
rimesso la 
causa 
sul 
ruolo motivando che 
vi 
è 
necessità, ai 
fini 
della 
decisione, di 
attendere 
la 
decisione” 
dell’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di Stato (ord. n. 336/2020). 
Infine, all’udienza pubblica di discussione, la causa è stata riservata in decisione. 
DIRITTO 


5. 
L’Adunanza 
Plenaria 
deve, 
innanzi 
tutto, 
dichiarare 
l’inammissibilità 
dell’intervento 
ad 
opponendum 
della ditta (omissis). 
Quest’ultima 
afferma 
di 
spiegare 
il 
proprio 
intervento 
sulla 
base 
dell’art. 
28, 
co. 
2, 
cpa, 
in 
base 
al 
quale 
“chiunque 
non 
sia 
parte 
del 
giudizio 
e 
non 
sia 
decaduto 
dall’esercizio 
delle 
relative 
azioni, 
ma 
vi 
abbia 
interesse, 
può 
intervenire 
accettando 
lo 
stato 
e 
il 
grado 
in 
cui 
il 
giudizio 
si 
trova”. 
Afferma, in particolare, di 
avere 
“certamente 
un interesse 
diretto rispetto al 
giudizio in cui 
interviene 
ad opponendum 
rispetto all’appello proposto dall’appellante 
AGEA 
atteso che 
il 
proprio giudizio . . . vertente 
sul 
medesimo principio di 
diritto . . . è 
stato rinviato per la 
decisione” 
in attesa 
della 
pronuncia 
di 
questa 
Adunanza 
Plenaria 
(v. pag. 3 atto di 
intervento del 
30 giugno 2020). 
Orbene, 
come 
questa 
Adunanza 
Plenaria 
ha 
già 
avuto 
modo 
di 
affermare 
(sentenze 
27 
febbraio 
2019 
n. 
4; 
30 
agosto 
2018 
n. 
13 
e 
4 
novembre 
2016 
n. 
23), 
non 
è 
sufficiente 
a 
consentire 
l'istanza 
di 
intervento 
la 
sola 
circostanza 
per 
cui 
il 
proponente 
tale 
istanza 
sia 
parte 
in 
un 
giudizio 
in 
cui 
venga 
in 
rilievo 
una 
quaestio 
iuris 
analoga 
a 
quella 
divisata 
nell'ambito 
del 
giudizio 
principale. 
Osta, infatti, in modo radicale 
a 
tale 
riconoscimento l'obiettiva 
diversità 
di 
petitum 
e 
di 
causa 
petendi 
che 
distingue 
i 
due 
procedimenti, sì 
da 
non configurarsi 
in capo al 
richiedente 
uno 
specifico interesse all'intervento nel giudizio ad quem. 
Si 
è 
chiarito (Ad. Plen. n. 23/2016 cit.) che 
"laddove 
si 
ammettesse 
la 
possibilità 
di 
spiegare 
l'intervento 
volontario 
a 
fronte 
della 
sola 
analogia 
fra 
le 
quaestiones 
iuris 
controverse 
nei 
due 
giudizi, si 
finirebbe 
per introdurre 
nel 
processo amministrativo una 
nozione 
di 
interesse 
del 
tutto 
peculiare 
e 
svincolata 
dalla 
tipica 
valenza 
endoprocessuale 
connessa 
a 
tale 
nozione 
e 
potenzialmente 
foriera 
di 
iniziative 
anche 
emulative, 
in 
toto 
scisse 
dall'oggetto 
specifico 
del 
giudizio 
cui l'intervento si riferisce". 
non a 
caso, del 
resto, in base 
ad un orientamento del 
tutto consolidato della 
giurisprudenza 
di 
questo 
Consiglio 
di 
Stato 
(da 
ultimo, 
Sez. 
IV, 
30 
giugno 
2020 
n. 
4134; 
Sez. 
V, 
1 
aprile 
2019 
n. 2123; 
Cons. giust. amm., 1 aprile 
2019 n. 301), nel 
processo amministrativo l'intervento, 
ad 
adiuvandum 
o 
ad 
opponendum, 
può 
essere 
proposto 
solo 
da 
un 
soggetto 
titolare 
di 
una 
posizione 
giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. 
Le 
considerazioni 
innanzi 
esposte 
non mutano per il 
solo fatto che 
il 
Giudice 
innanzi 
al 
quale 
pende 
il 
giudizio, 
in 
cui 
è 
parte 
chi 
(successivamente) 
spiega 
intervento 
innanzi 
all’Adunanza 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Plenaria, abbia 
ritenuto di 
disporre 
la 
sospensione 
del 
medesimo, in attesa 
della 
enunciazione 
del principio di diritto, cui conformare la propria successiva pronuncia. 
Si 
tratta, in questo caso, di 
sospensione 
disposta 
dal 
Giudice, ai 
sensi 
degli 
articoli 
79, co. 1, 
cpa 
e 
295 cpc., che, per un verso, è 
sorretta 
da 
ponderate 
ragioni 
di 
opportunità 
e, per altro 
verso, non incide 
direttamente 
sul 
thema decidendum, ma 
consente 
al 
medesimo Giudice 
di 
vagliare 
gli 
approdi 
cui 
perviene 
l’Adunanza 
Plenaria 
in funzione 
nomofilattica. Ciò, per di 
più, senza 
che 
la 
pronuncia 
attesa 
possa 
inevitabilmente 
condizionare 
l’esito del 
giudizio in 
cui 
è 
parte 
chi 
ha 
spiegato intervento, ben potendo il 
Giudice 
di 
tale 
controversia 
non condividere 
il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 97, co. 3 cpa. 
Per le ragioni esposte, l’intervento deve essere, dunque, giudicato inammissibile. 


6. L’Adunanza 
Plenaria 
ritiene 
che 
la 
salvezza 
del 
“pagamento delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso del 
rimanente, nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite”, di 
cui 
agli 
articoli 
92, co. 3, e 
94, 
co. 2, del 
d. Lgs. n.159/201 (così 
precisata 
la 
questione 
di 
diritto ad essa 
sottoposta) vada 
riferita 
solo al 
recesso dai 
contratti 
di 
appalto di 
lavori, servizi 
e 
forniture, con esclusione, dunque, 
delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili. 
Occorre 
precisare, preliminarmente, che 
la 
questione 
deferita 
all’esame 
dell’Adunanza 
Plenaria 
dalla 
Sezione 
nei 
seguenti 
termini 
-“se 
il 
limite 
normativo delle 
“utilità 
conseguite”, di 
cui 
all'inciso finale 
contenuto sia 
nell'art. 92 comma 
terzo, sia 
nell'art. 94 secondo comma 
del 
D. 
Lgs. 
n.159/2011, 
è 
da 
ritenersi 
applicabile 
ai 
soli 
contratti 
di 
appalto 
pubblico, 
ovvero 
anche 
ai 
finanziamenti 
e 
ai 
contributi 
pubblici 
erogati 
per finalità 
di 
interesse 
collettivo” 
-abbisogna 
di una diversa e più ampia formulazione. 
Le 
disposizioni 
considerate 
prevedono, 
in 
modo 
sostanzialmente 
simile, 
che 
i 
soggetti 
di 
cui 
all’art. 
83, 
nel 
caso 
di 
informazione 
antimafia 
interdittiva, 
“revocano 
le 
autorizzazioni 
e 
le 
concessioni 
o 
recedono 
dai 
contratti, 
fatto 
salvo 
il 
pagamento 
del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
per 
l’esecuzione 
del 
rimanente, 
nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite”. 
Stabilire, 
dunque, 
se 
“il 
limite 
normativo” 
delle 
“utilità 
conseguite” 
si 
riferisca 
solo 
ai 
contratti 
di 
appalto di 
lavori, servizi 
e 
forniture, oppure 
anche 
ai 
finanziamenti 
e 
contributi 
pubblici, 
così 
come 
richiede 
il 
Giudice 
del 
deferimento, 
presuppone 
innanzi 
tutto 
stabilire 
se 
la 
salvezza 
“del 
pagamento 
del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
per 
l’esecuzione del rimanente” si riferisca solo ai predetti contratti o anche ai finanziamenti. 
Difatti, è 
la 
“salvezza” 
del 
pagamento il 
vero “limite” 
normativo (ovvero l’eccezione 
agli 
effetti 
della 
revoca 
e 
del 
recesso dai 
contratti), contribuendo invece 
il 
limite 
delle 
“utilità 
conseguite” 
solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente. 
In 
sostanza, 
è 
solo 
nei 
casi 
in 
cui 
si 
riconosce 
la 
salvezza 
del 
pagamento 
(“an” 
dell’eccezione 
alla 
revoca 
e 
al 
recesso) che 
può poi 
verificarsi 
il 
limite 
(il 
“quantum”) del 
pagamento da 
disporre, 
di 
modo 
che, 
sul 
piano 
logico-giuridico 
-e 
proprio 
per 
dare 
compiuta 
risposta 
alla 
questione di diritto deferita - occorre: 
-in 
primo 
luogo, 
stabilire 
se 
la 
“salvezza” 
del 
pagamento, 
nei 
termini 
normativamente 
previsti, 
si 
applichi 
solo 
ai 
contratti 
di 
appalto 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture 
ovvero 
anche 
alle 
concessioni 
di 
finanziamenti 
e 
contributi 
(essendo 
più 
propriamente 
questa 
la 
questione 
da 
risolvere); 
-in secondo luogo, e 
solo in caso di 
esito positivo della 
prima 
verifica, occorre 
stabilire 
-al 
fine 
di 
definire 
il 
quantum 
di 
un pagamento già 
riconosciuto (salvato) nell’“an” 
-cosa 
si 
intenda 
per utilità conseguita. 
Che 
poi 
quest’ultimo aspetto possa 
costituire 
argomento a 
sostegno della 
soluzione 
ermeneutica 
è 
fuor di 
dubbio, ma 
si 
tratta 
di 
argomento “di 
rinforzo” 
per una 
o l’altra 
soluzione, laddove 
il 
problema 
dell’ambito 
di 
applicazione 
della 
norma 
di 
eccezione 
(e 
dunque 
la 
vera 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


questione 
oggetto di 
esame 
da 
parte 
dell’Adunanza 
Plenaria) riguarda 
la 
salvezza 
del 
pagamento, 
e 
non già, almeno in prima 
battuta, il 
significato e 
la 
misura 
delle 
utilità 
conseguite 
dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico. 


7. Tanto precisato in ordine 
alla 
questione 
sottoposta 
al 
presente 
giudizio, occorre 
ricordare 
che, 
con 
sentenza 
6 
aprile 
2018 
n. 
3, 
questa 
Adunanza 
Plenaria 
ha 
già 
avuto 
modo 
di 
affermare, 
formulando il 
“principio di 
diritto”, che 
il 
provvedimento di 
cd. “interdittiva 
antimafia” 
determina 
una 
particolare 
forma 
di 
incapacità 
giuridica 
in ambito pubblico, e 
dunque 
la 
insuscettività 
del 
soggetto (persona 
fisica 
o giuridica) che 
di 
esso è 
destinatario ad essere 
titolare 
di 
quelle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
(diritti 
soggettivi, interessi 
legittimi) che, sul 
loro 
cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica 
Amministrazione. 
Come 
è 
stato affermato, si 
tratta 
di 
una 
incapacità 
prevista 
dalla 
legge 
a 
garanzia 
di 
valori 
costituzionalmente 
garantiti 
-in equilibrata 
ponderazione 
tra 
libertà 
di 
impresa 
e 
tutela 
dei 
fondamentali 
beni 
che 
presidiano 
il 
principio 
di 
legalità 
sostanziale 
(Cons. 
Stato, 
sez. 
III, 
9 
febbraio 2017 n. 565, ricordata 
anche 
da 
Corte 
cost., n. 27 marzo 2020 n. 57) -e 
conseguente 
all’adozione 
di 
un provvedimento che 
giunge 
all’esito di 
un procedimento normativamente 
tipizzato 
e 
nei 
confronti 
del 
quale 
sono 
previste 
indispensabili 
garanzie 
di 
tutela 
giurisdizionale 
del soggetto di esso destinatario. 
Tale incapacità è: 
-parziale, in quanto limitata 
ai 
rapporti 
giuridici 
con la 
pubblica 
amministrazione 
(di 
modo 
che 
può 
parlarsi 
di 
una 
sorta 
di 
“incapacità 
giuridica 
pubblica”), 
ed 
anche 
nei 
confronti 
di 
questa 
limitatamente 
a 
quelli 
di 
natura 
contrattuale, 
ovvero 
intercorrenti 
con 
esercizio 
di 
poteri 
provvedimentali, 
e 
comunque 
limitatamente 
ai 
precisi 
casi 
espressamente 
indicati 
dalla 
legge 
(art. 67 d. lgs. n. 159/2011); 
-tendenzialmente 
temporanea, potendo venire 
meno per il 
tramite 
di 
un successivo provvedimento 
dell’autorità 
amministrativa 
competente 
(e 
la 
temporaneità 
della 
misura 
e 
dunque 
delle 
sue 
conseguenze 
in termini 
di 
incapacità 
assume 
un carattere 
particolarmente 
rilevante 
ai fini della compatibilità costituzionale: Corte cost., n. 57/2020 cit.). 
7.1. Il 
legislatore 
ha 
adottato, dunque, un sistema 
di 
estremo rigore, onde 
evitare 
che 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
(o, più precisamente, i 
soggetti 
indicati 
all’art. 83, co. 1 e 
2 del 
d. lgs. 
n. 
159/2011) 
possano 
entrare 
in 
contatto 
con 
soggetti 
colpiti 
da 
cause 
di 
decadenza, 
di 
sospensione 
o di 
divieto, di 
cui 
all’art. 67, ovvero che 
siano destinatari 
di 
un tentativo di 
infiltrazione 
mafiosa; 
e 
ciò al 
fine 
di 
evitare 
che 
tali 
soggetti 
possano condizionare 
le 
scelte 
e 
gli 
indirizzi 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, ledendo i 
principi 
di 
legalità, imparzialità 
e 
buon 
andamento riconosciuti 
dall’art. 97 Cost., ovvero possano incidere 
sul 
leale 
e 
corretto svolgimento 
della 
concorrenza 
tra 
imprese 
ovvero ancora 
possano appropriarsi 
a 
qualunque 
titolo 
di risorse pubbliche (beni, danaro o altre utilità). 
Di 
qui 
la 
costruzione 
della 
condizione 
del 
soggetto 
destinatario 
della 
informazione 
antimafia 
come 
una 
forma 
di 
incapacità 
(nei 
sensi 
innanzi 
descritti), 
il 
che 
comporta 
-alla 
luce 
della 
disciplina 
speciale 
di 
cui 
al 
d. 
lgs. 
n. 
159/2011 
-l’insuscettività 
di 
avere 
rapporti, 
in 
particolare 
patrimoniali, 
con 
la 
pubblica 
amministrazione 
(nei 
sensi 
e 
limiti 
innanzi 
precisati) 
e 
la 
nullità 
dei 
negozi 
eventualmente 
posti 
in 
essere 
-in 
violazione 
dell’interdittiva 
-da 
o 
con 
il 
soggetto 
incapace. 
7.2. 
Tale 
forma 
di 
incapacità, 
di 
natura 
temporanea 
(che 
dura, 
come 
si 
è 
detto, 
fino 
all’adozione 
di 
un 
diverso 
provvedimento 
da 
parte 
dell’autorità 
competente), 
non 
può 
essere 
nemmeno 
esclusa 
nel 
caso 
di 
rapporti 
intrattenuti 
con 
la 
pubblica 
amministrazione 
che 
avrebbero 
dovuto 
essere 
esauriti 
da 
tempo 
e 
che 
non 
lo 
sono 
stati 
per 
ragioni 
imputabili 
alla 
stessa 
pubblica 
amministrazione 
(ad 
esempio, 
un 
ritardo 
nella 
rendicontazione 
e, 
dunque, 
nell’emissione 
del 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


provvedimento 
di 
definitiva 
attribuzione 
dell’ausilio 
finanziario, 
così 
desumendo 
dall’ipotesi 
dell’esclusione 
l’impossibilità 
del 
recupero di 
somme 
già 
erogate 
ovvero della 
mancata 
erogazione 
di somme a fronte di opere oggetto di finanziamento già eseguite dal privato). 
Si 
è 
affermato 
(Cons. 
giust. 
amm. 
4 
gennaio 
2019 
n. 
3) 
che, 
in 
difetto 
di 
esclusione 
in 
tali 
casi 
dell’incapacità 
derivante 
dall’interdittiva 
antimafia, 
“i 
ritardi 
e 
le 
inefficienze 
dell’azione 
amministrativa 
sarebbero premiati 
e 
persino incentivati, ledendo le 
garanzie 
fondamentali 
delle 
parti 
private 
. 
. 
. 
e 
contribuendo 
a 
determinare 
un 
senso 
di 
incertezza 
ed 
insicurezza 
nei 
traffici 
commerciali 
e 
nella 
serietà 
degli 
impegni 
giuridici, 
che 
concorre 
a 
definire 
il 
grado 
di 
legalità 
di un Paese”. 
Con riferimento a 
tali 
considerazioni, occorre 
osservare, innanzi 
tutto, che 
la 
interdittiva 
antimafia 
attiene 
ad una 
valutazione 
del 
soggetto in quanto tale, al 
di 
là 
del 
singolo rapporto intrattenuto 
con 
l’amministrazione 
pubblica, 
e 
che, 
ove 
sopravvenuta, 
riverbera 
le 
proprie 
conseguenze 
ab externo 
su tale rapporto. 
non si 
tratta, dunque, del 
riconoscimento alla 
pubblica 
amministrazione 
di 
un potere 
autoritativo, 
unilateralmente 
e 
discrezionalmente 
(se 
non liberamente) esercitato onde 
influire 
sul 
rapporto 
instaurato 
con 
il 
privato, 
bensì 
dell’accertamento 
dell’insussistenza 
della 
capacità 
del 
soggetto 
(per 
pericolo 
di 
infiltrazioni 
mafiose) 
ad 
essere 
titolare 
di 
rapporti 
con 
la 
pubblica 
amministrazione. 
Benché 
intervenga 
in 
occasione 
di 
uno 
specifico 
rapporto 
con 
l’amministrazione, 
tale 
accertamento 
ha 
per 
oggetto 
fenomeni 
a 
questo 
esterni 
(e 
non 
afferenti 
al 
contenuto 
del 
provvedimento 


o 
del 
negozio 
giuridico), 
i 
quali 
coinvolgono, 
più 
in 
generale, 
la 
persona 
(fisica 
o 
giuridica) 
del 
privato, 
determinando 
una 
forma 
di 
incapacità 
del 
soggetto. 
ne 
consegue 
che 
l’accertamento 
del 
fenomeno 
di 
infiltrazione 
mafiosa, 
stante 
la 
sua 
descritta 
natura, 
non 
può 
essere 
imputato 
(anche 
se 
eventualmente 
intervenuto 
al 
di 
là 
del 
termine 
previsto) 
di 
“determinare 
un 
senso 
di 
incertezza 
e 
di 
insicurezza 
nei 
traffici 
commerciali 
e 
nella 
serietà 
degli 
impegni 
giuridici”. 
E 
ciò in quanto corre 
una 
evidente 
differenza 
tra 
l’intervento unilaterale 
sull’oggetto del 
rapporto 
giuridico 
(che 
potrebbe 
determinare, 
ancor 
di 
più 
ove 
non 
temporizzato, 
una 
“incertezza 
e 
insicurezza 
nei 
traffici 
commerciali 
e 
nella 
serietà 
degli 
impegni 
giuridici”) 
e 
la 
verifica 
della sussistenza della capacità di chi, anche di quel rapporto, è parte. 
E 
in 
aggiunta 
a 
ciò 
va 
ricordato 
come 
le 
norme 
evidenzino 
in 
modo 
chiaro 
e 
netto 
la 
precarietà 
del 
rapporto 
instaurato 
con 
il 
privato 
non 
ancora 
provvisto 
di 
dichiarazione 
antimafia, 
e 
dunque 
a provvisorietà degli effetti derivanti dagli atti adottati. 
nel 
caso 
considerato, 
è 
la 
pubblica 
amministrazione 
a 
dover 
essere 
tutelata 
da 
soggetti 
che 
presentano 
le 
caratteristiche 
dell’infiltrazione 
mafiosa. 
né 
si 
tratta 
di 
“premiare” 
o 
“incentivare” 
-per 
il 
tramite 
della 
impossibilità 
di 
adempiere 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
del-
l’amministrazione 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
incapace 
-“i 
ritardi 
e 
le 
inefficienze 
dell’azione 
amministrativa”, 
bensì 
di 
non 
pregiudicare 
l’interesse 
pubblico 
e 
valori 
costituzionalmente 
tutelati 
e 
riconosciuti 
procedendo 
o 
continuando 
ad 
attribuire 
o 
consentendo 
di 
ritenere 
benefici 
economici 
ad 
un 
soggetto 
che 
si 
è 
accertato 
essere 
suscettibile 
di 
infiltrazioni 
mafiose. 
D’altra 
parte, come 
è 
noto, l’ordinamento 
prevede 
plurimi 
strumenti 
di 
tutela, amministrativa 
e 
giurisdizionale 
(si 
pensi, tra 
gli 
altri, a 
quanto previsto dall’art. 2 della 
legge 
n. 241/1990 
ovvero 
all’azione 
avverso 
il 
silenzio 
inadempimento 
della 
pubblica 
amministrazione, 
prevista 
dagli 
articoli 
31 e 
117 cpa), che 
consentono al 
privato in rapporto con la 
pubblica 
amministrazione 
di uscire dallo stato di incertezza derivante dal ritardo dell’azione amministrativa. 
L’affermazione 
della 
incapacità 
conseguente 
a 
informativa 
antimafia 
interdittiva, 
nei 
limiti 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


innanzi 
ricordati, 
non 
può 
incontrare, 
dunque, 
un 
limite 
costituito 
da 
quei 
rapporti 
con 
la 
pubblica 
amministrazione 
che, ancorché 
non esauriti, sarebbero dovuti 
esserlo da 
tempo ma 
che 
non lo sono per causa imputabile ad eventuali ritardi della stessa amministrazione. 
Fermo 
quanto 
innanzi 
affermato, 
l’incapacità 
non 
può 
incontrare 
limiti 
di 
ordine 
pubblico 
economico 
(integrale 
realizzazione 
del 
programma 
beneficiato, 
lungo 
tempo 
trascorso, 
rilascio 
in 
favore 
della 
medesima 
impresa 
di 
precedenti 
informative 
di 
carattere 
liberatorio), 
posto 
che 
-come 
condivisibilmente 
affermato 
dal 
Giudice 
remittente 
-“tali 
limiti 
di 
ordine 
pubblico 
non risultano adeguatamente 
tracciati 
e 
motivati 
nei 
loro presupposti, ma 
rimessi 
ad una 
valutazione 
“casistica” 
ed “equitativa”, formulabile 
dal 
giudice 
in relazione 
alle 
singole 
fattispecie 
esaminate”. 
Limiti, 
dunque, 
che 
-oltre 
a 
non 
trovare 
conforto 
nelle 
previsioni 
normative 
-contribuirebbero 
a 
rendere 
incerte 
le 
conseguenze 
dell’interdittiva 
antimafia 
e, 
in 
primis, 
l’ambito stesso dell’incapacità nei confronti della pubblica amministrazione. 


8. Da 
quanto esposto consegue 
che 
-a 
fronte 
dell’estremo rigore 
risultante 
dal 
complessivo 
sistema 
normativo disciplinante 
l’informazione 
antimafia 
e 
le 
sue 
conseguenze 
(posto, lo si 
ribadisce, 
a 
tutela 
di 
essenziali 
valori 
costituzionali) 
-costituiscono 
norme 
di 
eccezione, 
e 
come 
tali 
di 
stretta 
interpretazione 
(ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: 
v. Cons. Stato, sez. IV, 28 
ottobre 
2011 
n. 
5799), 
quelle 
che, 
pur 
in 
presenza 
di 
una 
riconosciuta 
situazione 
di 
incapacità, 
consentono la 
conservazione 
da 
parte 
di 
un soggetto destinatario di 
informazione 
interdittiva 
di 
attribuzioni 
patrimoniali 
medio tempore 
eventualmente 
acquisite 
ovvero la 
possibilità 
di 
procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni. 
Pertanto, l’esame 
ermeneutico degli 
articoli 
92, co. 3 e 
94, co. 2 del 
d lgs. n. 159/2011, nella 
parte 
in cui 
questi 
consentono la 
salvezza 
del 
“pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente, nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite” 
-da 
accertare 
se 
con riferimento ai 
contratti 
da 
cui 
si 
recede 
ovvero anche 
ai 
finanziamenti 
o 
simili 
medio 
tempore 
erogati 
-deve 
rispondere 
alla 
regola 
di 
stretta 
interpretazione 
propria delle norme di eccezione. 
9. 
In 
aggiunta 
a 
quanto 
ora 
esposto, 
occorre 
rilevare 
che 
gli 
articoli 
più 
volte 
citati 
disciplinano, 
di 
per sé, non già 
la 
situazione 
“ordinaria” 
di 
particolari 
rapporti 
giuridici 
con le 
pubbliche 
amministrazioni, bensì 
una 
situazione 
che 
costituisce 
già 
essa 
stessa 
“deroga” 
all’ordinario 
procedimento volto alla adozione di atti ovvero alla costituzione di rapporti contrattuali. 
9.1. La 
disciplina 
ordinaria, infatti, prevede 
che 
il 
rilascio di 
autorizzazioni, concessioni, ovvero 
la 
stipula 
di 
contratti 
o subcontratti 
(v. art. 91 d. lgs. n. 159/2011), da 
parte 
dei 
soggetti 
pubblici 
di 
cui 
all’art. 83, deve 
essere 
preceduta 
necessariamente 
dalla 
acquisizione 
dell’informazione 
antimafia. 
E 
ciò 
proprio 
al 
fine 
di 
realizzare 
quelle 
finalità 
di 
tutela 
di 
valori 
costituzionalmente 
previsti, 
innanzi ricordate. 
A 
fronte 
di 
ciò, tuttavia, si 
è 
prevista 
una 
disciplina 
(che 
si 
è 
definita 
“derogatoria”), che 
consente 
-nel 
caso 
in 
cui 
il 
Prefetto 
non 
abbia 
provveduto 
a 
comunicare 
l’informazione 
antimafia 
entro i 
termini 
previsti 
dall’art. 92, co. 2, ovvero nei 
casi 
di 
urgenza 
(“lavori 
o forniture 
di 
somma 
urgenza”, come 
si 
esprime 
l’art. 94, co. 2) -ai 
soggetti 
pubblici 
di 
procedere 
anche 
in 
assenza dell’informazione. 
Si 
tratta, 
in 
quest’ultimo 
caso, 
di 
un 
evidente 
bilanciamento 
della 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
approntata 
dalla 
disciplina 
antimafia, e 
segnatamente 
da 
quella 
relativa 
all’informazione 
interdittiva, 
con 
altri 
interessi, 
anch’essi 
meritevoli 
di 
tutela, 
quali 
possono 
essere 
sia 
i 
differenti 
interessi 
pubblici 
alla 
immediata 
acquisizione 
di 
lavori 
o forniture 
o servizi 
(per la 
soddisfazione 
di 
ulteriori 
interessi 
pubblici 
cui 
questi 
ultimi 
sono destinati), sia 
gli 
stessi 
interessi 
del 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


privato che 
entra 
in contatto con la 
pubblica 
amministrazione, il 
quale 
non può ricevere 
pregiudizio 
dal ritardo dell’azione amministrativa. 
Tuttavia, nel 
caso della 
disciplina 
“derogatoria”, proprio perché 
essa 
consente 
di 
procedere 
alla 
instaurazione 
di 
rapporti 
con 
un 
privato 
del 
quale, 
allo 
stato, 
non 
si 
conosce 
la 
sussistenza 
della 
capacità 
ad avere 
tali 
rapporti 
con la 
pubblica 
amministrazione, viene 
altresì 
cautelativamente 
precisato che: 


-“i 
contributi, i 
finanziamenti, le 
agevolazioni 
e 
le 
altre 
erogazioni 
di 
cui 
all’articolo 67 sono 
corrisposti 
sotto condizione 
risolutiva” 
e 
i 
soggetti 
pubblici 
“revocano le 
autorizzazioni 
e 
le 
concessioni o recedono dai contratti” (art. 92, co. 3) 
-“la 
revoca 
e 
il 
recesso . . . si 
applicano anche 
quando gli 
elementi 
relativi 
a 
tentativi 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
siano accertati 
successivamente 
alla 
stipula 
del 
contratto, alla 
concessione 
dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto” (art. 92, co. 4). 
In sostanza, ciò che, in contemperamento della 
pluralità 
di 
esigenze 
connesse 
alla 
tutela 
di 
interessi 
pubblici 
e 
privati, viene 
effettuato dai 
soggetti 
di 
cui 
all’articolo 83 (rilascio di 
autorizzazioni 
o 
concessioni, 
erogazione 
di 
contributi 
e 
simili, 
stipulazione 
di 
contratti) 
avviene 
sotto 
la 
rigida 
condizione 
dell’accertamento 
della 
stessa 
capacità 
del 
soggetto 
privato 
ad 
essere 
parte 
del 
rapporto con la 
pubblica 
amministrazione, con la 
ovvia 
conseguenza 
che 
-laddove 
per il 
tramite 
dell’informazione 
antimafia 
interdittiva 
tale 
capacità 
venga 
accertata 
come 
insussistente 
-non possono che 
manifestarsi 
in termini 
di 
nullità 
sia 
i 
provvedimenti 
amministrativi 
rilasciati 
(per difetto di 
un elemento essenziale 
del 
medesimo, ex art. 21-septies 
l. n. 
241/1990), sia il contratto stipulato con soggetto incapace. 
Giova 
precisare 
che 
ciò che 
consegue 
alla 
interdittiva 
antimafia 
non costituice 
un “fatto” 
sopravvenuto 
che 
determina 
la 
revoca 
del 
provvedimento 
emanato 
ovvero 
la 
risoluzione 
del 
contratto 
per 
factum 
principis, 
bensì 
il 
(pur 
tardivo) 
accertamento 
della 
insussistenza 
della 
capacità 
del 
soggetto ad essere 
parte 
del 
rapporto con l’amministrazione 
pubblica: 
quella 
incapacità 
che 
-laddove 
fosse 
stata, come 
di 
regola, previamente 
accertata 
-avrebbe 
escluso in 
radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti. 
In 
questo 
senso, 
può 
concordarsi 
con 
quanto 
affermato 
dalla 
sentenza 
parziale 
che 
ha 
disposto 
il 
deferimento, 
laddove 
la 
stessa 
ritiene 
che 
“poiché 
i 
contributi 
risultano 
concessi 
in 
via 
provvisoria, 
l’atto 
c.d. 
di 
revoca 
non 
rappresenta 
affatto 
(come 
farebbe 
pensare 
il 
nomen) 
un 
nuovo 
provvedimento adottato in autotutela 
dall’amministrazione 
nell’esercizio di 
un potere 
discrezionale, 
ma 
un mero atto ricognitivo che 
constata 
l’avvenuta 
verificazione 
della 
condizione 
risolutiva afferente al contributo ancora precario”. 
E 
ciò con la 
sola 
precisazione 
che 
le 
disposizioni 
degli 
articoli 
92 e 
94 intendono affermare 
per il 
tramite 
del 
non appropriato riferimento agli 
istituti 
della 
“revoca” 
(del 
provvedimento) 
e 
del 
“recesso” 
(dal 
contratto), 
che 
l’accertamento 
dell’intervenuta 
“condizione 
risolutiva” 
altro 
non 
è 
che 
l’accertamento 
successivo 
(consentito 
dalla 
legge) 
dell’incapacità 
giuridica 
del 
soggetto 
ad 
essere 
destinatario 
di 
provvedimenti 
amministrativi 
ovvero 
ad 
essere 
parte 
del contratto ad evidenza pubblica. 
A 
ciò 
consegue, 
quanto 
ai 
provvedimenti 
di 
concessione 
di 
benefici 
economici, 
comunque 
denominati, 
che 
l’intervenuto 
accertamento 
dell’incapacità 
del 
soggetto, 
cui 
si 
riconnette 
la 
“precarietà” 
degli 
effetti 
dei 
medesimi, 
espressamente 
enunciata 
dalle 
norme, 
esclude 
che 
possa 
esservi 
legittima 
ritenzione 
delle 
somme 
da 
parte 
del 
soggetto 
beneficiario 
(ma 
giuridicamente 
incapace). 
né 
è 
possibile 
ipotizzare, in presenza 
di 
un chiaro riferimento normativo alla 
“precarietà” 
dei 
provvedimenti 
adottati 
o 
del 
provvedimento 
stipulato, 
l’insorgere 
di 
un 
“affidamento” 
in 
capo 
al soggetto privato. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Allo stesso modo, nelle ipotesi di contratto stipulato con la pubblica amministrazione, l’accertamento 
dell’incapacità comporta l’insuscettività dello stesso ad essere fonte di obbligazioni 
in capo alla pubblica amministrazione nei confronti del soggetto incapace. 


9.2. A 
tale 
assetto degli 
effetti, discendente 
dai 
principi 
generali 
e 
dalla 
specifica 
normativa 
antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune “eccezioni”: 
-gli 
articoli 
92, co. 4 e 
94, co. 2 (oggetto del 
quesito deferito a 
questa 
Adunanza 
Plenaria), 
prevedono testualmente 
che 
i 
soggetti 
di 
cui 
all’art. 83 “revocano le 
autorizzazioni 
o le 
concessioni 
o recedono dai 
contratti 
fatto salvo il 
pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente, nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite”; 
-l’art. 
94, 
co. 
3 
dispone 
che 
i 
soggetti 
di 
cui 
all’art. 
83 
“non 
procedono 
alle 
revoche 
o 
ai 
recessi 
di 
cui 
al 
comma 
precedente 
nel 
caso in cui 
l’opera 
sia 
in corso di 
ultimazione 
ovvero, 
in 
caso 
di 
fornitura 
di 
beni 
e 
servizi 
ritenuta 
essenziale 
per 
il 
perseguimento 
dell’interesse 
pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”. 
Si 
tratta, come 
è 
evidente, di 
norme 
“di 
eccezione” 
ai 
principi 
generali, rese 
necessarie 
dai 
“postumi” 
dell’applicazione 
di 
una 
disciplina 
essa 
stessa 
“derogatoria” 
(e 
dunque 
essa 
stessa 
“eccezionale”) rispetto all’ordinario modus 
procedendi 
imposto all’amministrazione 
(quella, 
cioè, che 
ha 
consentito di 
emanare 
i 
provvedimenti 
e/o di 
stipulare 
i 
contratti 
in assenza 
della 
tempestiva informativa antimafia). 
Si tratta, dunque, di norme di strettissima interpretazione: 
- sia in ossequio all’art. 14 delle cd. preleggi; 
-sia 
in considerazione 
del 
fatto che 
esse, in concreto, consentono l’inverarsi 
di 
attribuzioni 
patrimoniali 
in favore 
di 
un soggetto incapace, ed altresì 
(a 
voler tacere 
del 
dirimente 
aspetto 
dell’incapacità) 
prive 
di 
una 
causa 
di 
attribuzione 
positivamente 
apprezzata 
dall’ordinamento 
(non 
potendo 
l’interesse 
pubblico 
perseguito 
dall’amministrazione 
essere 
curato 
e/o 
realizzato 
per il 
tramite 
di 
soggetti, oltre 
che 
mafiosi, anche 
solo esposti 
al 
rischio di 
infiltrazione 
mafiosa); 
-sia, infine, perché 
tali 
attribuzioni 
intervengono in accertato pericolo per valori 
primari 
del-
l’ordinamento, costituzionalmente tutelati. 
9.2.1. nel 
primo caso, occorre 
evidenziare 
-necessariamente 
precisando, come 
si 
è 
innanzi 
anticipato (sub par. 6) l’oggetto del 
quesito sottoposto all’Adunanza 
Plenaria 
-che 
la 
norma 
di 
eccezione 
riguarda 
la 
“salvezza” 
del 
pagamento 
delle 
“opere 
già 
eseguite” 
ovvero 
del 
“rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente”, mentre 
il 
riferimento “nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite” 
riguarda 
il 
“quantum” 
dovuto, di 
modo che, intanto potrà 
procedersi 
alla 
verifica 
della 
“utilità 
conseguita” 
(dall’amministrazione 
o, più in generale, dall’interesse 
pubblico), in quanto si ritenga ammissibile la predetta salvezza. 
9.2.2. Fermo quanto innanzi 
esposto sui 
limiti 
afferenti 
all’interpretazione 
della 
normativa 
in 
esame, occorre 
osservare 
come 
anche 
il 
dato letterale 
della 
disposizione 
si 
opponga 
ad una 
sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti. 
La 
sentenza 
non 
definitiva 
rileva, 
condivisibilmente, 
come 
il 
valore 
disgiuntivo 
da 
attribuire 
al-
l’espressione 
“o 
recedono 
dai 
contratti”, 
contenuta 
nelle 
due 
disposizioni 
in 
esame, 
“rende 
poi 
l’inciso 
finale 
dei 
due 
commi 
più 
verosimilmente 
riferibile 
ai 
soli 
contratti 
e 
non 
anche 
alle 
autorizzazioni 
e 
alle 
concessioni, 
ovvero 
ai 
contributi, 
ai 
finanziamenti 
ed 
alle 
agevolazioni”. 
A 
ciò va 
aggiunto, sempre 
sul 
piano dell’esame 
letterale, che 
la 
locuzione 
“fatto salvo il 
pagamento 
del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso delle 
spese 
sostenute” 
non può che 
essere 
riferita 
unicamente 
al 
caso di 
contratti 
per i 
quali, stante 
l’informazione 
antimafia 
in

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


terdittiva, si 
procede 
al 
“recesso”. La 
disposizione 
parla 
chiaramente 
di 
“opere 
già 
eseguite”, 
ovvero di 
“spese 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente”, con ciò facendo evidente 
riferimento, 
per il tramite dei lemmi “opere” ed “esecuzione” ai contratti di appalti di lavori. 
Occorre 
anzi 
precisare 
che, intanto è 
possibile 
l’applicazione 
della 
norma 
(co. 2, che 
parla 
di 
pagamento di 
“opere 
già 
eseguite”) anche 
ai 
contratti 
di 
servizi 
e 
forniture 
in quanto il 
successivo 
comma 
3 dell’art. 94 -nel 
riferirsi, al 
fine 
di 
escluderli, “alle 
revoche 
o ai 
recessi 
di 
cui 
al 
comma 
precedente”, 
accomuna 
gli 
appalti 
di 
lavori 
(“nel 
caso 
in 
cui 
l’opera 
sia 
in 
corso 
di 
ultimazione”) ai 
contratti 
di 
fornitura 
di 
beni 
e 
di 
servizi 
(laddove 
la 
loro prosecuzione 
sia 
“ritenuta 
essenziale 
per il 
perseguimento dell’interesse 
pubblico” 
e 
sempre 
che 
“il 
soggetto 
che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”). 
Ma 
occorre 
ancora, e 
più risolutivamente, aggiungere 
a 
quanto esposto che 
sia 
le 
regole 
che 
disciplinano la 
stretta 
interpretazione 
delle 
norme 
eccezionali, sia 
la 
complessa 
natura 
delle 
attribuzioni 
patrimoniali 
riconducibili 
ai 
“finanziamenti”, 
escludono 
che 
la 
norma 
che 
dispone 
la possibilità di pagamenti sia riferibile anche alle “concessioni” e, dunque, a questi ultimi. 
Questa 
Adunanza 
Plenaria, 
con 
la 
sentenza 
n. 
3/2018 
(anche 
a 
conferma 
e 
rafforzamento 
della 
propria 
decisione 
n. 9/2012), ha 
affermato (con enunciazione 
del 
principio di 
diritto) in riferimento 
all’art. 67, co. 1, lett. g), -secondo il 
quale 
non possono erogarsi 
e 
riceversi 
“contributi, 
finanziamenti 
o 
mutui 
agevolati 
ed 
altre 
erogazioni 
dello 
stesso 
tipo, 
comunque 
denominate” - che: 
“la 
finalità 
del 
legislatore 
è, in generale, quella 
di 
evitare 
ogni 
“esborso di 
matrice 
pubblicistica” 
in 
favore 
di 
imprese 
soggette 
ad 
infiltrazioni 
criminali. 
In 
sostanza 
-ed 
è 
questa 
la 
ratio 
della 
norma 
-il 
legislatore 
intende 
impedire 
ogni 
attribuzione 
patrimoniale 
da 
parte 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
in favore 
di 
tali 
soggetti, di 
modo che 
l’art. 67, comma 
1, lett. g) del 
Codice 
delle 
leggi 
antimafia 
non 
può 
che 
essere 
interpretato 
se 
non 
nel 
senso 
di 
riferirsi 
a 
qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A.”. 
nel 
caso 
considerato 
nella 
presente 
sede, 
l’operazione 
interpretativa 
che 
dovrebbe 
comportare 
l’estensione 
-per il 
tramite 
della 
presenza 
nel 
testo del 
riferimento alle 
“concessioni” 
-della 
salvezza 
del 
pagamento di 
quanto realizzato sulla 
base 
di 
finanziamenti, comporta 
sul 
piano 
ermeneutico un duplice passaggio estensivo dell’interpretazione: 


-in primo luogo, quello di 
estendere 
la 
salvezza 
del 
pagamento dal 
caso di 
recesso dal 
contratto 
(in aderenza 
al 
quale 
è 
prevista 
nel 
testo la 
salvezza 
dei 
pagamenti) anche 
alle 
“concessioni” 
precedentemente 
citate 
e, come 
si 
è 
già 
detto, non collocate 
nel 
testo con immediata 
aderenza alla “salvezza”; 
-in 
secondo 
luogo, 
quello 
di 
operare 
una 
interpretazione 
“selettiva” 
del 
termine 
“concessioni”, 
ritagliando 
nel 
più 
ampio 
ambito 
proprio 
di 
tale 
genus, 
quelle 
di 
esse 
(e 
solo 
quelle) 
che 
hanno 
per oggetto attribuzioni 
patrimoniali 
(contributi, finanziamenti 
e 
simili) dalle 
quali 
dipende 
la “esecuzione di opere”. 
Si 
tratta, 
a 
tutta 
evidenza, 
di 
una 
operazione 
ermeneutica 
per 
così 
dire 
“di 
doppio 
grado”, 
molto lontana 
dai 
limiti 
propri 
della 
interpretazione 
delle 
norme 
eccezionali 
e, dunque, non 
consentita. 
9.2.3. Le 
eccezioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
92, co. 3 e 
94, co. 2 rappresentano una 
precisa 
scelta 
del 
legislatore, che 
si 
giustifica 
in ragione 
di 
un “bilanciamento” 
delle 
conseguenze 
derivanti 
da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia. 
Se 
è 
pur 
vero 
che 
la 
stipula 
del 
contratto 
e 
la 
sua 
esecuzione 
sono 
avvenute 
“sub 
condicione”, 
è 
altrettanto 
vero 
che 
appare 
confliggente 
con 
evidenti 
ragioni 
di 
equità, 
oltre 
che 
con 
i 
princìpi 
dell’attribuzione 
causale, addossare 
tutto il 
peso delle 
conseguenze 
di 
ciò in capo al 
privato 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


contraente, 
consentendo 
all’amministrazione, 
che 
pure 
ha 
tenuto 
un 
comportamento 
non 
coerente 
con 
le 
disposizioni 
normative 
(il 
ritardo 
nell’informativa 
antimafia) 
di 
conseguire 
un 
indebito arricchimento. 
Allo stesso modo, sono ragioni 
evidenti 
di 
opportuno perseguimento dell’interesse 
pubblico 


-inerente 
all’acquisizione 
di 
un’opera 
ormai 
terminata, ovvero inerente 
alla 
prosecuzione 
di 
una 
fornitura 
o di 
un servizio per i 
quali 
la 
sostituzione 
del 
soggetto prestatore 
non potrebbe 
intervenire 
in tempi 
rapidi 
-quelle 
che 
sorreggono l’art. 94, co. 3, evitando in via 
eccezionale 
“revoche” 
e 
“recessi”. Ed in quest’ultimo caso, le 
ragioni 
che 
sorreggono la 
prosecuzione 
del 
contratto, 
proprio 
perché 
questa 
costituisce 
una 
forte 
eccezione 
alle 
normali 
conseguenze 
del-
l’interdittiva 
antimafia, devono essere 
rappresentate 
dall’amministrazione 
con atto congruamente 
motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore. 
nel 
più specifico caso di 
cui 
agli 
articoli 
92, co. 3 e 
94, co. 2, la 
salvezza 
del 
pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
del 
rimborso delle 
spese 
già 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente, deve 
essere 
commisurata 
“all’utilità 
conseguita”, intendendosi 
per tale 
l’arricchimento 
derivante al patrimonio dell’amministrazione. 
9.3. 
A 
quanto 
ricavabile 
dal 
dato 
letterale 
e 
finora 
esposto, 
la 
sentenza 
non 
definitiva, 
con 
contestuale 
deferimento, aggiunge 
anche 
quanto desumibile 
dall’uso dell’espressione 
“utilità 
conseguite”, onde 
definire 
il 
limite 
cui 
sottoporre 
il 
pagamento delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”. E ciò: 
-sia 
sul 
piano dell’interpretazione 
letterale, sembrando l’espressione 
riferirsi 
“ad una 
condizione 
di 
reciprocità 
delle 
prestazioni 
corrispettive, scarsamente 
compatibile 
con l’ipotesi 
di 
una 
erogazione 
o di 
un finanziamento destinato a 
beneficio riflesso non di 
uno specifico ente 
o apparato della P.A., ma della indistinta collettività pubblica”; 
-sia 
sul 
piano logico sistematico, poiché 
con l’espressione 
“utilità 
conseguita” 
si 
intende 
riconoscere 
“al 
soggetto interdetto . . . il 
diritto a 
vedersi 
corrisposto un compenso limitato al-
l’utilità 
conseguita 
dall’amministrazione, 
onde 
evitare 
che 
quest’ultima, 
dall’esecuzione 
dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento”. 
Anche 
il 
riferimento alle 
“utilità 
conseguite” 
-come 
misura 
del 
“quantum” 
dovuto dall’amministrazione 
al 
privato colpito da 
interdittiva 
-contribuisce 
ad escludere 
che 
la 
norma 
di 
eccezione 
relativa 
alla 
salvezza 
dei 
pagamenti 
possa 
estendersi 
anche 
ai 
finanziamenti 
ed 
ai 
contributi. 
L’ 
“utilità 
conseguita” 
non 
corrisponde 
all’investimento 
realizzato 
in 
conformità 
al 
programma 
di finanziamento. 
Essa 
“è 
nozione 
riferibile 
ad una 
parte 
specifica 
e 
da 
questa 
apprezzabile 
attraverso il 
filtro 
selettivo di 
una 
valutazione 
di 
convenienza, tipica 
dell’operatore 
economico-giuridico individuale”; 
pertanto, 
essa 
deve 
essere 
intesa 
in 
un 
senso 
più 
limitato 
e 
strettamente 
patrimoniale, 
tale 
da 
applicarsi 
alle 
sole 
opere, servizi 
o forniture 
che 
accrescono il 
patrimonio dell’amministrazione 
e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile. 
Al 
contrario, nel 
caso del 
finanziamento, non può parlarsi 
di 
una 
“utilità” 
per l’amministrazione, 
soggettivamente 
intesa, ma 
più esattamente 
di 
un interesse 
pubblico che 
trascende 
la 
mera 
(sia 
pur completa 
e 
corretta) realizzazione 
del 
programma 
(che 
invece, ove 
non realizzato, 
comporta 
ex se 
conseguenze 
quali 
la 
revoca 
sanzionatoria 
del 
finanziamento, oltre 
alla 
possibile configurazione di un illecito penale). 
Si 
tratta 
di 
un interesse 
pubblico per il 
perseguimento del 
quale 
il 
programma 
realizzato (e 
che 
molto spesso consiste 
in opere 
che 
restano in proprietà 
del 
privato) costituisce 
un mezzo 
e non un fine. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Se 
è 
vero che 
“ogni 
attività 
della 
pubblica 
amministrazione 
che 
importa 
erogazione 
di 
provvidenze 
economiche 
è 
(deve 
essere) finalizzata 
a 
scopi 
di 
interesse 
pubblico e 
questi 
ultimi 
si 
sostanziano 
in 
benefici 
collettivi, 
immediatamente 
o 
mediatamente 
riconducibili 
all’esercizio 
del 
potere” 
(in tal 
senso, Cgars, n. 3/2019 cit.), appare 
evidente 
come 
non sia 
possibile 
ricondurre 
alla 
“utilità 
conseguita”, presente 
nel 
testo normativo, anche 
più generali 
interessi 
pubblici, 
per i quali: 


-per un verso, l’accertamento appare 
non rispondere 
(o non rispondere 
sempre) a 
parametri 
giuridici, 
bensì 
a 
parametri 
macroeconomici, 
proporzionati 
alla 
tipologia, 
alla 
estesa 
latitudine 
degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo; 
-per altro verso, essi 
stessi 
prescindono da 
una 
vera 
e 
propria 
possibilità 
di 
“misurazione” 
in 
senso giuridico o economico, afferendo alla 
migliore 
esplicazione 
di 
diritti 
politici 
o economici, 
ovvero ad aspetti 
di 
sviluppo sociale 
o culturale 
(si 
pensi 
alla 
costruzione 
di 
una 
biblioteca 
o di 
un teatro di 
proprietà 
privata 
ma 
con ausili 
pubblici, al 
fine 
di 
realizzare 
la 
crescita 
culturale di una comunità). 
D’altra 
parte, occorre 
non dimenticare 
che 
il 
testo normativo (del 
quale 
qui 
si 
nega 
l’interpretazione 
estensiva) prevede 
“la 
salvezza 
del 
pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
del 
rimborso delle 
spese 
già 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente”; 
ciò rende 
valutabile 
l’utilità 
conseguita 
dall’amministrazione 
anche 
attraverso un opera 
incompiuta 
-perché 
al-
l’amministrazione 
resta 
un bene 
che 
comunque 
ne 
accresce 
il 
patrimonio -ma 
non rende 
altrettanto 
valutabile 
un interesse 
pubblico derivante 
da 
un programma 
finanziato ma 
solo in 
parte realizzato. 
Il 
che 
comporta 
ulteriori 
“distinguo” 
interpretativi 
che 
rendono ancor più evidente 
l’impossibilità 
di 
una 
lettura 
estensiva 
che, già 
dubbia 
con queste 
modalità 
ermeneutiche 
per norme 
ordinarie, è da escludere per norme eccezionali. 
10. Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sin qui 
esposte, l’Adunanza 
Plenaria 
formula 
il 
seguente 
principio di diritto: 
“la 
salvezza 
del 
pagamento del 
valore 
delle 
opere 
già 
eseguite 
e 
il 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per l’esecuzione 
del 
rimanente, nei 
limiti 
delle 
utilità 
conseguite, previsti 
dagli 
articoli 
92, comma 
3, e 
94, comma 
2, del 
d.lgs. 6 settembre 
2011 n. 159, si 
applicano solo con riferimento 
ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”. 
11. L’Adunanza 
Plenaria 
dispone 
la 
restituzione 
del 
giudizio alla 
sezione 
remittente, per ogni 
ulteriore 
decisione 
nel 
merito 
e 
sulle 
spese 
ed 
onorari 
del 
giudizio, 
ivi 
compresi 
quelli 
inerenti 
alla presente fase. 
P.Q.M. 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), 
pronunciando sull’appello proposto da 
AGEA 
-Agenzia 
per le 
erogazioni 
in agricoltura 
(n. 
4345/2019 r.g.): 


- dichiara inammissibile l’intervento ad opponendum; 
- enuncia il principio di diritto di cui in motivazione al punto 10; 
- restituice per il resto il giudizio alla sezione remittente. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2020. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Interpretatio abrogans dell’art. 121 TULPS. 
Il discrimine tra attività di cartomanzia e ciarlataneria 


Consiglio 
di 
stato, sezione 
terza, sentenza 
1 luglio 
2020 n. 4189 


La 
sfavorevole 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
n. 
4189/2020 
fornisce 
un’interpretatio abrogans 
dell’art. 121 TULPS 
(R.D. n. 773/1931) e 
dell’art. 
231 del 
relativo regolamento di 
esecuzione 
(R.D. n. 635/ 
1940) che 
vietano il 
mestiere di ciarlatano, nel quale rientra quello di cartomante. 


La 
sentenza 
mi 
pare 
interessante 
e 
molto ben argomentata 
nella 
parte 
in 
cui 
ha 
ritenuto necessario “interpretare 
evolutivamente, alla luce 
delle 
modificazioni 
intervenute 
nel 
contesto 
giuridico 
e 
socio-economico 
generale 
rispetto 
a 
quello 
esistente 
alla 
data 
della 
loro 
introduzione, 
le 
disposizioni 
sulle 
quali 
fa leva l’amministrazione 
con il 
provvedimento interdittivo impugnato 
in primo grado: norme 
che, venute 
in essere 
in un contesto storico dominato 
dal 
mito dello stato etico, devono confrontarsi 
con la nuova funzione 
da esso 
assunta di 
definitore 
in “negativo” 
dei 
limiti 
entro i 
quali 
i 
cittadini 
individuano, 
in libertà e 
autonomia, i 
fini 
cui 
tendere 
nel 
loro percorso esistenziale 
ed 
i 
mezzi 
per 
realizzarli” 
anche 
alla 
luce 
della 
normativa 
sopravvenuta, 
in 
particolare 
l’art. 
28 
del 
Codice 
del 
Consumo 
(D.Lgs. 
n. 
206/2005) 
recante 
“rafforzamento 
della 
tutela 
del 
consumatore 
in 
materia 
di 
televendite” 
che 
regolamenta, seppure a specifici fini, l’attività di cartomanzia. 


Forse 
la 
strada 
maestra 
avrebbe 
potuto 
essere 
la 
rimessione 
della 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
suddetta 
normativa 
alla 
Corte 
costituzionale 
o quanto meno la 
rimessione 
all’Adunanza 
Plenaria 
in ragione 
del 
precedente 
contrario (Cons. Stato n. 814/2006) in base 
al 
quale 
la 
normativa 
richiamata 
“a) è 
ancor 
in vigore 
e 
annovera specificamente 
tra le 
attività vietate 
(perché 
di 
per 
sé 
idonee 
"a speculare 
sull'altrui 
credulità, o a sfruttare 
od alimentare 
l'altrui 
pregiudizio") quella di 
cartomante, in qualunque 
luogo 
essa sia svolta, anche 
all'interno di 
una abitazione 
(Cass. 19 aprile 
1951); b) 
risulta ragionevole, in ragione 
degli 
interessi 
pubblici 
e 
privati 
tutelati, che 
consistono nell'esigenza di 
dare 
tutela ai 
soggetti 
che 
-per 
ragioni 
di 
ordine 
psicologico o comunque 
personale 
-sono potenzialmente 
esposti 
agli 
altrui 
approfittamenti, al 
rischio di 
subire 
turbamenti 
della propria sfera personale 
e 
di 
diventare 
soggetti 
passivi 
di 
reati 
quali 
la truffa o l'abuso della credulità 
popolare”… 
“in considerazione 
del 
suo testo e 
della sua ratio, il 
divieto desumibile 
dall'art. 
121 
del 
testo 
unico 
e 
dall'art. 
231 
del 
regolamento 
non 
si 
applica 
soltanto 
quando 
l'attività 
(comunque 
nel 
totale 
rispetto 
dei 
valori 
della 
persona) non possa essere 
qualificata come 
'mestiere' 
nei 
confronti 
delle 
persone 
cui 
si 
rivolge, 
e 
cioè: 
quando 
sia 
direttamente 
rivolta 
al 
pubblico 
in 
totale 
assenza dello scopo di 
lucro e 
di 
qualunque 
corrispettivo (ad esempio, per 
un 
intrattenimento 
del 
tutto 
saltuario, 
per 
gioco 
o 
per 
manifestare 
la 
propria 
abi



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


lità 
dialettica); 
quando 
l'attività 
sia 
retribuita 
da 
un 
solo 
contraente 
(che 
persegua 
un interesse 
meritevole 
di 
tutela, quale 
quello di 
consentire 
uno spettacolo 
gratuito 
in 
favore 
del 
pubblico), 
in 
totale 
assenza 
di 
qualunque 
corrispettivo da parte 
delle 
persone 
che 
abbiano contatti 
con il 
cartomante” 


e ovviamente non era il caso di specie trattandosi di attività a pagamento. 


Del 
resto 
la 
condanna 
nel 
2009 
di 
una 
nota 
teleimbonitrice 
testimonia 
che, 
anche 
all’attualità, 
l’attività 
di 
cartomanzia 
può 
ancora 
prestarsi 
allo 
“sfruttamento della credulità altrui” 
e sconfinare nel reato di truffa. 


In allegato il ricorso in appello dell’Avvocatura. 


Wally Ferrante* 


CT 7462/18 avv. Ferrante 


AVVOCATURA GEnERALE DELLO STATO 


COnSIGLIO DI STATO 


In SEDE GIURISDIzIOnALE 


RICORSO In 
APPELLO COn ISTAnzA DI SOSPEnSIOnE 


Per il 
MInISTERO 
DELL’InTERnO 
(C.F. 97149560589), in persona 
del 
Ministro pro tempore, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
80224030587) 
presso 
i 
cui 
uffici 
è 
per legge 
domiciliato in Roma, via 
dei 
Portoghesi 
12 (per il 
ricevimento degli 
atti, FAX 06/96514000 e PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) 


C O nT R O 


(omissis) S.r.l. in persona 
del 
legale 
rappresentante 
pro tempore, rappresentata 
e 
difesa 
dagli 
Avv.ti 
Maurizio 
Politi 
e 
Alessandro 
Bovari 
ed 
elettivamente 
domiciliata 
presso 
lo 
studio 
del primo in Perugia, via Martiri dei Lager, 158 


PER L’AnnULLAMEnTO PREVIA SOSPEnSIOnE 


della sentenza del 
TAR Umbria del 5 giugno 2019, n. 295 


* * * 


Con ricorso al 
TAR Umbria 
ritualmente 
notificato, la 
società 
ricorrente 
ha 
chiesto l’annullamento, 
previa 
sospensione, del 
decreto di 
cessazione 
dell’attività 
di 
servizio telefonico 
di 
cartomanzia 
emesso 
il 
5.8.2017 
dal 
Questore 
di 
Perugia 
e 
di 
ogni 
atto 
presupposto, 
connesso 


o conseguenziale. 
Con ordinanza del 5.12.2017, n. 203, il 
TAR ha accolto l’istanza cautelare. 
Successivamente, il 
TAR, con la sentenza in epigrafe, ha accolto il ricorso. 
Avverso 
tale 
sentenza, 
l’amministrazione 
in 
epigrafe 
propone 
appello, 
con 
istanza 
di 
sospensione, per i seguenti motivi in 
FATTO 


In data 
31.07.2017, la 
Questura 
di 
Perugia 
effettuava, unitamente 
al 
personale 
Aliquota 
Carabinieri 
del 
nucleo Ispettorato del 
Lavoro di 
Perugia, una 
verifica 
amministrativa 
presso 
la 
Società 
(omissis), con sede 
legale 
ed operativa 
nel 
Comune 
di 
(omissis), allo scopo di 
accertare 
una eventuale attività illecita di cartomanzia. 

(*) Avvocato dello Stato. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Giunto all’interno della 
sede, il 
personale 
riscontrava 
la 
presenza 
di 
(omissis), identificata 
quale 
Amministratore 
unico della 
predetta 
Società, nonché 
di 
(omissis), dipendente 
della 
suddetta 
Società 
con mansioni 
di 
centralinista; 
il 
personale 
si 
avvedeva 
che 
nei 
locali 
erano 
presenti 
7 
postazioni 
fisse 
dotate 
di 
telefono 
che, 
al 
momento 
dell’ingresso, 
erano 
libere 
e 
quindi senza operatrici. 

L’amministratrice, 
escussa 
a 
sommarie 
informazioni, 
riferiva 
che 
l’impresa 
rendeva 
servizio 
di 
cartomanzia 
telefonico e 
che 
il 
predetto servizio veniva 
pubblicizzato sia 
su internet 
che 
alla 
televisione. Riferiva, inoltre, che 
il 
servizio veniva 
reso tramite 
una 
utenza 
telefonica 
con 
numero 
a 
radice 
fissa 
(omissis), 
o 
tramite 
l’utenza 
telefonica 
(omissis). 
Aggiungeva, 
inoltre, 
che 
se 
i 
clienti 
utilizzavano, per la 
conversazione 
con la 
cartomante, l’utenza 
fissa, il 
pagamento 
del 
servizio 
era 
anticipato 
e 
avveniva 
con 
bonifico 
e 
carta 
di 
credito, 
lasciando 
i 
relativi 
dati 
alla 
centralinista; 
se 
invece 
veniva 
utilizzava 
l’utenza 
con radice 
(omissis) la 
telefonata 
veniva 
direttamente 
trasferita 
alla 
cartomante, 
ed 
il 
cliente 
si 
trovava 
l’addebito 
sulla 
sua 
bolletta 
telefonica. 
L’amministratrice 
rappresentava, 
infine, 
che 
l’attività 
veniva 
svolta 
con l’ausilio di 3 dipendenti centraliniste e 7 collaboratori. 

Il 
personale 
raccoglieva, altresì, spontanee 
dichiarazioni 
della 
dipendente 
(omissis), la 
quale 
dichiarava 
di 
svolgere 
la 
mansione 
di 
cartomante, e 
la 
dipendente 
(omissis), la 
quale 
riferiva 
di 
lavorare 
con 
contratto 
part-time 
a 
tempo 
determinato, 
e 
che 
“gli 
operatori 
svolgevano 
servizio di cartomanzia”. 

L’attività 
di 
cartomanzia, 
già 
evidenziata 
dalle 
dichiarazioni 
rese 
dalla 
titolare 
e 
dalle 
altre 
dipendenti, 
veniva 
ulteriormente 
avvalorata 
da 
alcune 
immagini 
acquisite 
dal 
personale 
e 
tratte 
dal 
sito 
web 
della 
Società, 
dove 
si 
faceva 
propaganda 
di 
plurimi 
servizi, 
quali 
“Onomanzia”, 
“Cartomanzia”, 
“Oroscopo”, 
“Sviluppo 
personale”, 
“Tarocchi 
online”, 
“Le 
Rune”, 
... 


Pertanto alla 
luce 
di 
quanto rilevato, in data 
02.08.2017, la 
Questura 
di 
Perugia, notificava 
alla 
(omissis) srl 
verbale 
di 
accertamento di 
violazione 
amministrativa 
ai 
sensi 
della 
L. 
24.11.1981 nr. 689 per attività 
illecita 
di 
cartomanzia 
di 
cui 
agli 
artt. 121 T.U.L.P.S. -R.D. 
18.06.1931 nr. 773 e 
231 Reg. Esec. T.U.L.P.S. -R.D. 06.05.1940 nr. 635 la 
cui 
sanzione 
è 
prevista dall’art. 17/bis 
TULP - R.D. 18.06.1931 nr. 773. 

Successivamente, 
il 
Questore, 
con 
decreto 
datato 
05.08.2017 
e 
notificato 
in 
data 
09.08.2017, disponeva l’immediata cessazione dell’attività di cartomanzia. 
DIRITTO 


Il 
TAR, premettendo erroneamente 
che 
l’amministrazione 
intimata 
“non ha 
depositato 
né 
documentazione, né 
memorie 
difensive”, ha 
accolto il 
ricorso ritenendo che, pur vietando 
espressamente 
l’art. 
121 
T.U.L.P.S. 
il 
mestiere 
di 
ciarlatano, 
l’attività 
di 
cartomanzia, 
nel 
mutato 
contesto 
storico 
-sociale, 
“anche 
se 
non 
certo 
regolata”, 
è 
tuttavia 
presa 
in 
considerazione 
da 
diverse 
norme 
interne 
idonee 
“a 
far ritenere 
la 
cartomanzia 
attività 
economica 
non vietata 
in sé 
e 
per sé 
ma 
solo laddove 
venga 
svolta 
con modalità 
idonee 
ad abusare 
dell’altrui 
ignoranza 
e superstizione”. 


Innanzitutto, 
va 
precisato 
che 
l’amministrazione 
resistente 
si 
è 
costituita 
in 
giudizio 
con 
atto 
di 
costituzione 
del 
24.11.2017 
e, 
successivamente, 
in 
data 
1.12.2017 
ha 
depositato 
memoria 
difensiva 
e 
documentazione, 
come 
risulta 
dal 
mero 
esame 
del 
sito 
di 
giustizia 
amministrativa. 


L’affermazione 
del 
TAR è 
pertanto frutto di 
evidente 
errore 
e 
dimostra 
che 
il 
giudice 
di 
primo grado ha 
accolto il 
ricorso senza 
nemmeno esaminare 
le 
deduzioni 
difensive 
dell’amministrazione. 


Le 
statuizioni 
del 
TAR che 
hanno condotto all’accoglimento del 
ricorso non possono 
essere condivise. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Contrariamente 
a 
quanto affermato dal 
TAR, infatti, devono ritenersi 
sussistenti 
i 
presupposti 
per 
l’emanazione 
del 
provvedimento 
impugnato, 
come 
disciplinati 
dall’art. 
121 
T.U.L.P.S. 

L’art. 
121 
del 
Testo 
Unico 
Legge 
di 
Pubblica 
Sicurezza 
T.U.L.P.S., 
recita 
espressamente: 
“è vietato il mestiere di ciarlatano”. 

L’art. 231 del 
relativo regolamento di 
esecuzione 
specifica: 
“sotto la denominazione 
di 
mestiere 
di 
ciarlatano si 
comprende 
ogni 
attività diretta a speculare 
sull’altrui 
credulità o a 
sfruttare 
o altrimenti 
l’altrui 
pregiudizio, come 
gli 
indovini, gli 
interpreti 
di 
sogni, i 
cartomanti, 
coloro che 
esercitano giochi 
di 
sortilegio, incantesimi, esorcismi 
o millantano o affettano 
il 
pubblico grande 
valentia nella propria arte 
o professione, o magnificano ricette 


o 
specifici, 
cui 
attribuiscono 
virtù 
straordinarie 
o 
miracolose”. 
Il 
D.L. 
n. 
480 
del 
13/07/1994 
ha 
aggravato 
le 
sanzioni 
previste 
“pagamento 
di 
una 
somma 
da 
lire 
1.000.000 
a 
lire 
6.000.000” 
all’art. 3.4. 
La 
circolare 
del 
Ministero dell’Interno n° 
559/lec/200, 112-bis 
del 
03/10/1994, ha 
invitato, 
in 
particolare, 
Prefetti, 
Commissari 
del 
Governo, 
Questori 
ad 
applicare 
sanzioni 
previste 
“per 
le 
infrazioni 
alle 
seguenti 
disposizioni 
del 
t.u.l.P.s. 
tra 
cui 
la 
violazione 
del 
divieto 
d’esercizio del mestiere di ciarlatano e ad ordinare la cessazione dell’attività”. 

Si 
tratta 
di 
norme 
imperative 
di 
ordine 
pubblico, ancorché 
di 
natura 
amministrativa 
a 
seguito della 
depenalizzazione 
avviata 
a 
partire 
della 
legge 
nr. 689/81. norme 
che 
superano i 
dubbi 
sulla 
dibattuta 
opportunità 
della 
tutela 
per la 
parte 
più debole 
e 
sprovveduta 
della 
collettività, 
di 
fronte 
a 
fenomeni 
del 
genere 
e 
che 
appaiono chiaramente 
riferibili 
anche 
alla 
fattispecie 
in esame, posto che 
la 
risonanza 
mediatica 
e 
le 
odierne 
tecniche 
di 
comunicazione, 
accentuano e 
amplificano il 
pericolo e 
quindi 
il 
rischio del 
danno che 
ne 
costituisce 
il 
fondamento 
e la giustificazione. 

Il 
perimetro 
della 
disposizione 
in 
parola, 
ovvero 
dell’art. 
121, 
è 
stato 
chiarito 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
secondo 
cui 
“l’attività 
di 
mago, 
giuridicamente, 
s’inquadra 
nel 
mestiere 
di 
ciarlatano 
espressamente 
vietato 
dall’art. 
121, 
ultimo 
comma 
t.u.l.P.s.” 
(Cassazione 
Penale, 
sez. I nr. 5582/95, Pisano). La 
Suprema 
Corte 
ha 
ricordato come 
l’attività 
di 
“mago” 
vada 
riportata 
all’espresso 
divieto 
dell’art. 
121 
T.U.L.P.S., 
evidenziando 
altresì 
che 
lo 
“sfruttamento 
della credulità altrui, proprio di 
chi 
si 
professi 
“mago”, porta facilmente 
a sconfinare 
nel 
reato di truffa”. 


Il 
Giudice 
di 
primo 
grado 
ha 
richiamato 
l’orientamento 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(sentenza 
510/2006) secondo il 
quale 
l’attività 
di 
cartomante 
(come 
le 
altre 
di 
chiromante, veggente, 
occultista) 
è 
sanzionata 
solo 
quando, 
a 
seguito 
di 
un’approfondita 
analisi 
della 
fattispecie 
concreta, 
costituisce 
manifestazione 
di 
vera 
e 
propria 
ciarlataneria 
e 
tale 
è 
ogni 
attività 
diretta 
a 
speculare sull’altrui credulità o a sfruttare o alimentare l’altrui pregiudizio. 

Sul 
punto va 
detto che, secondo altra 
pronuncia 
del 
Consiglio di 
Stato, l'art. 231 del 
regolamento 
approvato 
col 
r.d. 
n. 
635 
del 
1940 
“a) 
è 
ancor 
in 
vigore 
e 
annovera 
specificamente 
tra 
le 
attività 
vietate 
(perché 
di 
per 
sé 
idonee 
"a 
speculare 
sull'altrui 
credulità, 
o 
a 
sfruttare 
od 
alimentare 
l'altrui 
pregiudizio") 
quella 
di 
cartomante, 
in 
qualunque 
luogo 
essa 
sia 
svolta, anche 
all'interno di 
una abitazione 
(Cass. 19 aprile 
1951); b) risulta ragionevole, in 
ragione 
degli 
interessi 
pubblici 
e 
privati 
tutelati, che 
consistono nell'esigenza di 
dare 
tutela 
ai 
soggetti 
che 
-per 
ragioni 
di 
ordine 
psicologico o comunque 
personale 
-sono potenzialmente 
esposti 
agli 
altrui 
approfittamenti, 
al 
rischio 
di 
subire 
turbamenti 
della 
propria 
sfera 
personale 
e 
di 
diventare 
soggetti 
passivi 
di 
reati 
quali 
la truffa o l'abuso della credulità popolare”. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Il 
Consiglio di 
Stato, conclude 
affermando che 
“in considerazione 
del 
suo testo e 
della 
sua ratio, il 
divieto desumibile 
dall'art. 121 del 
testo unico e 
dall'art. 231 del 
regolamento 
non 
si 
applica soltanto quando l'attività 
(comunque 
nel 
totale 
rispetto dei 
valori 
della persona) 
non 
possa 
essere 
qualificata 
come 
'mestiere' 
nei 
confronti 
delle 
persone 
cui 
si 
rivolge, 
e 
cioè: quando sia direttamente 
rivolta al 
pubblico 
in 
totale 
assenza dello scopo di 
lucro e 
di 
qualunque 
corrispettivo (ad esempio, per 
un intrattenimento del 
tutto saltuario, per 
gioco o 
per manifestare la propria abilità dialettica); quando l'attività sia retribuita da un solo contraente 
(che 
persegua un interesse 
meritevole 
di 
tutela, quale 
quello di 
consentire 
uno spettacolo 
gratuito in favore 
del 
pubblico), in totale 
assenza di 
qualunque 
corrispettivo da parte 
delle persone che abbiano contatti con il cartomante 
(Consiglio di Stato, n. 814, 2006). 

Ciò premesso nel 
caso in questione, va 
innanzitutto evidenziato che, come 
ricostruito 
in fatto, l’amministrazione 
ha 
accertato che 
l’attività 
di 
cartomanzia 
veniva 
espletata 
a 
scopo 
di 
lucro, individuando le 
concrete 
modalità 
di 
versamento del 
corrispettivo a 
seconda 
che 
la 
chiamata 
fosse 
al 
numero 
di 
rete 
fissa 
(bonifico 
o 
carta 
di 
credito) 
ovvero 
al 
numero 
con 
radice 
(omissis) (tramite addebito sulla bolletta telefonica). 


Per altro verso, si 
sottolinea 
che 
il 
provvedimento questorile 
inibitorio incide 
esclusivamente 
sul 
divieto 
di 
esercizio 
dell’attività 
di 
“cartomanzia” 
e 
non 
sugli 
altri 
eventuali 
servizi 
offerti 
dalla 
medesima 
società, ben potendo la 
stessa 
continuare 
a 
svolgere 
la 
propria 
attività 
lavorativa 
di 
call 
center, offrendo altri 
servizi 
consentiti 
dalla 
legge 
e 
dall’ordinamento giuridico, 
e 
senza 
quindi 
dover necessariamente 
licenziare 
i 
propri 
dipendenti 
che, grazie 
alla 
società, 
traggono il sostentamento economico per le loro famiglie. 

Inoltre, non può condividersi 
quanto affermato dal 
TAR in ordine 
al 
fatto che 
l’attività 
di cartomanzia non può essere considerata 
ex se 
esercizio del mestiere di ciarlatano. 

In merito, soccorre 
l’orientamento giurisprudenziale 
da 
ultimo ribadito con la 
sentenza 
nr. 
195 
del 
2015 
del 
CGARS 
che 
ha 
riformato 
una 
sentenza 
del 
Tar 
Sicilia 
relativa 
ad 
un 
provvedimento 
di 
ordine 
di 
immediata 
cessazione 
dell’attività 
di 
cartomanzia 
del 
Questore 
di 
Palermo, 
che 
aveva 
accolto il 
ricorso del 
ricorrente 
ritenendo fondato il 
motivo di 
insufficienza 
della 
motivazione, in quanto il 
Questore 
non doveva 
limitarsi 
alla 
contestazione 
dell’attività 
svolta, 
ma 
aveva 
il 
dovere 
di 
valutare 
in 
concreto, 
attraverso 
apposita 
istruttoria 
e 
conseguente 
sufficiente 
motivazione, 
l’oggettiva 
idoneità 
dell’attività 
ad 
integrare 
l’ipotesi 
di 
ciarlataneria. 

Riformando tale 
sentenza, il 
CGARS 
ha sancito, con 
una valutazione 
diametralmente 
opposta, che 
il 
semplice 
richiamo alle 
norme 
di 
cui 
agli 
artt. 121 TULPS 
-R.D 
18.06.1931 
nr. 
773 
e 
231 
reg. 
esec. 
T.U.L.P.S. 
è 
sufficiente 
ad 
escludere 
la 
necessità 
di 
una 
puntuale istruttoria per l’adozione dell’ordinanza di cessazione dell’attività. 

Secondo tale 
orientamento, infatti, “la normativa vigente 
vieta lo svolgimento del 
mestiere 
di 
cartomante 
perché 
comporta, secondo l’id plerumque 
accidit, ragionevolmente 
valutato 
dall’art. 
231 
reg 
esec. 
tulPs 
il 
rischio 
dell’approfittamento 
dell’altrui 
credulità 
(pregiudizievole 
sotto 
il 
profilo 
patrimoniale 
e 
personale) 
anche 
se 
non 
sono 
in 
concreto 
commessi 
reati”. 

In perfetta 
armonia 
a 
tali 
principi, il 
Questore 
di 
Perugia 
ha 
disposto la 
cessazione 
del-
l’attività 
illecita 
riscontrata 
da 
parte 
della 
Società 
(omissis) srl 
e 
pertanto, non può che 
essere 
riformata 
la 
statuizione 
della 
sentenza 
impugnata 
secondo 
la 
quale, 
non 
emergendo 
dal 
verbale 
di 
contestazione 
che 
la 
predetta 
attività 
fosse 
esercitata 
con modalità 
truffaldine 
o comunque 
idonee 
ad 
abusare 
della 
credulità 
popolare, 
non 
ricorrerebbero 
i 
presupposti 
per 
l’applicazione 
del divieto di cui agli articoli 121 TULPS e 231 del R.D. 635/1940. 


non 
v’è 
chi 
non 
veda, 
del 
resto, 
come 
sia 
evidente 
lo 
sfruttamento 
lucroso 
della 
credulità 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


popolare 
nel 
fornire 
per 
telefono 
servizi 
di 
lettura 
delle 
carte, 
essendo 
palese 
a 
chiunque 
l’impossibilità 
del 
fornire 
realmente 
servizi 
che 
possano dare 
un qualsivoglia 
effettivo beneficio 
al destinatario della prestazione. 


Ad ogni 
modo, nel 
caso in questione, l’attività 
di 
cartomanzia 
è 
stata 
ampiamente 
dimostrata, 
sia 
in “flagranza” 
durante 
il 
controllo amministrativo effettuato dal 
personale, sia 
attraverso 
le 
emersioni 
pubblicitarie 
rinvenute 
sul 
web, 
sia 
attraverso 
l’assunzione 
di 
sommarie 
informazioni 
della 
stessa 
titolare 
dell’impresa, 
approfondendo 
le 
modalità 
con 
cui 
in 
concreto 
l’attività 
era 
esercitata 
e 
risulta 
associata 
non casualmente 
alle 
arti 
divinatorie 
(vedasi 
anche 
pagine web) a comprova ulteriore dell’intento di sfruttare la credulità popolare. 

né 
infine 
può dirsi 
che 
la 
cartomanzia 
sia 
ritenuta 
un’attività 
sempre 
lecita 
sol 
perché 
nei 
suoi 
confronti 
viene 
disposta 
una 
maggior 
tutela 
a 
favore 
del 
consumatore 
in 
base 
al 
D.Lvo 
206/2005, invocato dal 
Giudice 
di 
primo grado, finalizzato evidentemente 
non già 
a 
rendere 
lecito ciò che 
lecito non è 
ma 
a 
non sottrarre 
dalle 
maglie 
della 
sua 
applicazione 
anche 
quelle 
situazioni 
(assai 
rare 
a 
dire 
il 
vero) ove 
la 
cartomanzia 
può dirsi 
legittimamente 
svolta. né 
a 
maggior 
ragione 
può 
darsi 
qualche 
rilievo 
alle 
altre 
“fonti” 
richiamate 
dal 
TAR 
per 
supportare 
l’avvenuto 
recepimento 
della 
cartomanzia 
quale 
attività 
sempre 
lecita, 
trattandosi 
all’evidenza 
di 
provvedimenti 
mai 
da 
intendere 
nel 
senso fatto prospettato da 
controparte 
e 
fatto proprio 
dal 
TAR comunque non aventi forza normativa. 

ISTAnzA DI SOSPEnSIOnE 


Quanto al 
periculum 
in mora, si 
evidenza 
che 
la 
Società 
può continuare 
ad operare 
con 
gli 
altri 
servizi, come 
si 
evince 
dalla 
stampa 
del 
suo sito web. In ogni 
caso l’esigenza 
di 
assicurare 
sostentamento nei 
confronti 
dei 
lavoratori 
non può essere 
prevalente 
sul 
pieno rispetto 
della 
legalità 
e 
sulla 
necessità 
che 
persone 
in situazione 
di 
debolezza 
siano salvaguardate 
dal 
miraggio 
di 
soluzioni 
taumaturgiche 
che 
si 
risolvono 
solo 
con 
l’indebito 
arricchimento 
del 
prestatore del servizio di cartomanzia. 

nonostante 
la 
crisi 
economica, infatti, da 
anni 
si 
registra 
un fenomeno allarmante 
e 
in 
continua 
crescita: 
sempre 
più 
italiani 
si 
rivolgono 
a 
maghi 
e 
cartomanti 
con 
la 
speranza 
di 
trovare una soluzione ai propri problemi o, semplicemente, un po’ di conforto. 


Disperazione 
e 
vulnerabilità 
vanno ad alimentare 
un giro d’affari 
ingente 
che 
in molti 
casi 
nasconde 
truffe 
e 
manipolazioni 
psicologiche. Si 
parla 
di 
un business 
da 
molti 
miliardi 
all’anno, molti 
dei 
quali 
“in nero”. Secondo il 
rapporto di 
una 
delle 
più note 
associazioni 
a 
tutela 
dei 
consumatori, gli 
italiani 
che 
almeno una 
volta 
in un anno si 
sono rivolti 
a 
maghi 
e 
cartomanti 
per 
essere 
tranquillizzati 
sul 
futuro 
sono 
passati 
da 
10 
milioni 
nel 
2006 
a 
13 
milioni 
calcolati a fine 2013. 


Mentre 
gli 
operatori 
telefonici 
che 
si 
improvvisano esperti 
di 
magia 
-con operatori 
di 
call 
center spesso mal 
retribuiti 
-crescono a 
dismisura. Un settore 
opaco e 
sommerso che 
è 
in continua 
espansione, anche 
per via 
della 
presenza 
massiccia 
sul 
web. Se 
una 
volta, infatti, 
gli 
“esperti 
dell’occulto” 
venivano 
contattati 
soprattutto 
tramite 
passaparola 
e 
si 
fissavano 
incontri 
di 
persona, oggi 
due 
volte 
su tre 
il 
primo approccio avviene 
su internet, magari 
per curiosità. 
Mentre 
i 
sedicenti 
sensitivi 
-che 
spesso fanno parte 
di 
organizzazioni 
ben ramificate 


-si 
sono adeguati 
ai 
tempi 
che 
cambiano e 
offrono la 
possibilità 
di 
scaricare 
applicazioni 
a 
pagamento su smartphone e tablet. 
I 
siti 
offrono 
vastissima 
scelta, 
anche 
di 
personale. 
I 
maghi 
e 
le 
cartomanti 
molto 
spesso 
sono presentati 
con una 
foto ad effetto accompagnata 
a 
una 
breve 
biografia 
che 
spiega 
le 
loro 
specializzazioni. 


nella 
maggior parte 
dei 
casi, però, non si 
tratta 
di 
studiosi 
esperti 
di 
esoterismo, ma 
di 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


operatori 
di 
call 
center che 
hanno ricevuto come 
unica 
direttiva 
quella 
di 
trattenere 
il 
cliente 
al 
telefono il 
più a 
lungo possibile 
e 
di 
creare 
in lui 
una 
sorta 
di 
“dipendenza 
psicologica”. 
L’anonimato 
garantito 
da 
Internet 
fa 
sentire 
protetto 
il 
“cliente” 
ma 
allo 
stesso 
tempo 
lo 
espone 
a un rischio ancora più alto di finire in balìa di truffatori e ciarlatani. 

Tutto ciò premesso, l’amministrazione in epigrafe, come sopra rappresentata e difesa, 
CHIEDE 
che 
il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale, in accoglimento del 
presente 
appello, 
voglia annullare, previa sospensione, la sentenza impugnata. 


Ai 
fini 
della 
prenotazione 
a 
debito, ai 
sensi 
della 
l. 488/99, si 
dichiara 
che 
il 
contributo 
unificato ammonta 
ad euro 650,00, a 
norma 
dell’art. 13, comma 
6-bis, lettera 
e) del 
D.P.R. 
30.5.2002, n. 115, aumentato della metà ex art. 1, comma 27, l. 24.12.2012, n. 228. 


Roma, 19 dicembre 2019 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 


(...) 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
Terza, sentenza 1 luglio 2020 n. 4189 -Pres. F. Frattini, est. E. 
Fedullo - Ministero Interno (avv. gen. St.) c. (omissis) s.r.l. (avv.ti M. Politi e 
A. Bovari). 


FATTO e DIRITTO 
Con la 
sentenza 
appellata, il 
T.A.R. Umbria 
ha 
accolto il 
ricorso proposto dalla 
(omissis) s.r.l. 
avverso il decreto emesso in data 5 agosto 2017 dal Questore di Perugia, con il quale veniva 
ordinata 
la 
cessazione 
dell’attività, da 
essa 
svolta 
presso la 
sede 
di 
(omissis), qualificata 
“illecita” 
dall’Amministrazione, siccome 
consistente 
in un servizio telefonico di 
cartomanzia, 
in affermata violazione dell’art. 121 T.U.L.P.S. 
Il 
T.A.R., premesso che 
“l’art. 121 T.U.L.P.S. vieta 
espressamente 
il 
mestiere 
di 
ciarlatano”, 
per cui 
“ove 
la 
cartomanzia 
fosse 
ritenuta 
attività 
in se 
e 
per sé 
vietata 
dall’ordinamento, in 
quanto 
ricompresa 
nell’art. 
121, 
il 
provvedimento 
impugnato 
sarebbe 
ovviamente 
del 
tutto 
legittimo”, 
ha 
rilevato 
che 
“tale 
possibile 
opzione 
risulta 
però 
nel 
nostro 
ordinamento 
smentita 
oltre 
che 
da 
una 
lettura 
del 
T.U.L.P.S. 
adeguata 
al 
mutato 
contesto 
storico-sociale 
e 
compatibile 
con l’art. 41 Cost. (T.A.R. Piemonte, sez. I, 27 giugno 2014, n. 1138) dall’essere 
l’attività 
di 
cartomanzia, anche 
se 
non certo regolata, tuttavia 
presa 
espressamente 
in considerazione 
da 
diverse 
norme 
interne, nel 
presupposto dunque 
della 
sua 
liceità. Segnatamente, il 
decreto legislativo 
6 settembre 
2005, n. 206 (Codice 
del 
Consumo), all’art. 28, detta 
una 
specifica 
disciplina 
in materia 
di 
servizi 
di 
astrologia, cartomanzia 
e 
assimilabili, vietando unicamente 
quelle 
comunicazioni 
che, 
al 
pari 
dell’art. 
121 
T.U.L.P.S., 
siano 
tali 
da 
indurre 
in 
errore 
o 
sfruttare 
la 
credulità 
del 
consumatore. Anche 
il 
Regolamento recante 
la 
disciplina 
dei 
servizi 
a 
sovrapprezzo di 
cui 
al 
D.M. n. 145/2006 contempla, tra 
gli 
altri, i 
servizi 
di 
astrologia 
e 
cartomanzia, 
concludendo nel 
senso che 
“trattasi 
di 
riferimenti 
normativi 
idonei 
a 
far ritenere 
la 
cartomanzia 
attività 
economica 
non vietata 
in se 
e 
per sé 
ma 
solo laddove 
venga 
svolta 
con 
modalità 
idonee 
ad 
abusare 
dell'altrui 
ignoranza 
e 
superstizione”, 
laddove 
“dal 
provvedimento 
impugnato e 
dal 
presupposto verbale 
del 
31 luglio 2017 non emergono elementi 
atti 
a 
dimostrare 
che 
l’attività 
svolta 
dalla 
ricorrente 
fosse 
esercitata 
con 
modalità 
truffaldine 
o 
comunque 
idonee ad abusare della credulità popolare”. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


La 
sentenza 
suindicata 
viene 
contestata, 
nei 
sopra 
sintetizzati 
presupposti 
motivazionali 
e 
negli 
esiti 
dispositivi, 
dall’appellante 
Ministero 
dell’Interno, 
mentre 
si 
oppone 
all’appello, 
anche 
eccependone 
sotto plurimi 
profili 
l’improcedibilità 
e 
l’inammissibilità, la 
società 
originariamente 
ricorrente. 
Tanto 
premesso, 
l’appello 
non 
è 
meritevole 
di 
accoglimento: 
il 
che 
esime 
dalla 
disamina 
delle 
eccezioni in rito formulate dalla parte resistente. 
Come 
accennato, costituisce 
oggetto del 
giudizio l’appartenenza 
dell’attività 
di 
cartomanzia, 
esercitata 
nella 
specie 
in 
forma 
telefonica 
dalla 
società 
appellata, 
alla 
sfera 
della 
illiceità, 
come 
ritenuto 
dall’Amministrazione 
appellante 
con 
il 
provvedimento 
inibitorio 
impugnato 
in 
primo 
grado, ovvero la 
sua 
riconducibilità 
al 
novero delle 
attività 
economiche 
lecitamente 
realizzabili, 
laddove 
svolte 
secondo 
modalità 
intese 
a 
salvaguardare 
gli 
interessi 
coinvolti 
dal 
loro 
svolgimento: 
questione 
che 
involge, essenzialmente, l’interpretazione 
dell’art. 121 del 
Testo 
Unico 
Legge 
di 
Pubblica 
Sicurezza 
(R.D. 
n. 
773/1931), 
ai 
sensi 
del 
quale 
“è 
vietato 
il 
mestiere 
di 
ciarlatano”, in combinato disposto con l’art. 231 del 
relativo Regolamento di 
esecuzione 


(R.D. n. 635/1940), a 
mente 
del 
quale 
“Sotto la 
denominazione 
di 
"mestiere 
di 
ciarlatano", ai 
fini 
dell'applicazione 
dell'art. 121, ultimo comma, della 
Legge, si 
comprende 
ogni 
attività 
diretta 
a 
speculare 
sull’altrui 
credulità, o a 
sfruttare 
o alimentare 
l’altrui 
pregiudizio, come 
gli 
indovini, 
gli 
interpreti 
di 
sogni, 
i 
cartomanti, 
coloro 
che 
esercitano 
giochi 
di 
sortilegio, 
incantesimi, 
esorcismi 
o 
millantano 
o 
affettano 
in 
pubblico 
grande 
valentia 
nella 
propria 
arte 
o 
professione, 
o 
magnificano 
ricette 
o 
specifici, 
cui 
attribuiscono 
virtù 
straordinarie 
o 
miracolose”. 
Premesso che 
il 
Regolamento approvato con il 
Regio Decreto n. 635/1940, in virtù della 
sua 
funzione 
esecutiva 
del 
T.U.L.P.S., deve 
essere 
interpretato ed applicato coerentemente 
con la 
posizione 
gerarchicamente 
subordinata 
che 
riveste 
nel 
quadro 
delle 
fonti 
statutarie, 
ergo 
senza 
attribuire 
alle 
sue 
disposizioni 
contenuti 
dissonanti 
rispetto 
alle 
corrispondenti 
norme 
del 
Regio Decreto n. 773/1931, la 
suindicata 
questione 
ermeneutica 
si 
risolve 
in quella 
intesa 
a 
verificare 
se 
l’attività 
di 
cartomanzia 
sia 
inquadrabile 
tout 
court 
come 
espressione 
di 
“ciarlataneria”, 
secondo 
quanto 
lascerebbe 
arguire 
il 
tenore 
letterale 
dell’art. 
231 
Reg. 
esec. 
del 
T.U.L.P.S., 
ovvero 
se, 
a 
tal 
fine, 
devono 
ricorrere 
attribuiti 
ulteriori, 
che 
lo 
stesso 
Regolamento 
di 
esecuzione, 
nell’incipit 
dell’art. 
231, 
identifica 
nella 
“speculazione 
sull’altrui 
credulità” 
ovvero 
nello 
“sfruttamento 
o 
alimentazione 
dell’altrui 
pregiudizio”: 
attributi 
che, 
quindi, 
concorrerebbero 
a marcare la distinzione tra la prima (lecita) e la seconda (illecita). 
Iniziando dalla 
disposizione 
primaria, recante 
come 
si 
è 
visto il 
divieto di 
esercitare 
“il 
mestiere 
di 
ciarlatano”, 
deve 
chiarirsi 
che, 
sulla 
base 
della 
definizione 
semantica 
del 
termine, 
dopo 
averlo 
opportunamente 
sfrondato 
da 
soverchi 
relitti 
storico-letterario 
(come 
quello 
inteso 
a 
rievocare 
la 
figura 
romantica 
del 
venditore 
girovago di 
pozioni 
miracolose 
o filtri 
magici), 
tale 
può considerarsi, nel 
contesto storico attuale, chi 
non si 
limita 
ad offrire 
al 
pubblico un 
servizio o prodotto, per quanto di 
scientificamente 
indimostrata 
ed indimostrabile 
utilità 
ed 
efficacia, ma 
ne 
esalta 
le 
proprietà 
e 
le 
virtù con il 
ricorso a 
tecniche 
persuasive 
atte 
ad indebolire 
e vincere le capacità critiche e discretive dei possibili acquirenti. 
Deve 
invero osservarsi 
che 
nell’ambito di 
un ordinamento giuridico imperniato, come 
quello 
vigente, 
sul 
principio 
di 
libera 
determinazione 
degli 
individui, 
in 
cui 
lo 
Stato 
ha 
pressoché 
dismesso 
ogni 
funzione 
latamente 
paternalistico-protettiva 
e 
di 
orientamento 
etico 
nei 
confronti 
dei 
consociati, anche 
le 
dinamiche 
di 
mercato sono tendenzialmente 
affidate, dal 
lato della 
domanda 
e 
dell’offerta, alla 
libera 
interazione 
dei 
suoi 
protagonisti, i 
quali, con le 
loro scelte, 
determinano 
l’oggetto 
dello 
scambio, 
ne 
apprezzano, 
secondo 
insindacabili 
valutazioni 
di 
carattere 
soggettivo, l’utilità 
e 
ne 
determinano, infine, il 
valore 
(economico): 
sempre 
che, natu

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


ralmente, non vengano compromessi 
beni 
e 
valori 
di 
carattere 
superiore 
(come 
l’ordine 
pubblico, 
il 
buon costume, la 
salute 
dei 
cittadini 
ecc.), di 
cui 
lo Stato conserva 
l’irrinunciabile 
funzione di tutela. 
In tale 
contesto, anche 
un servizio che, in apparenza, sia 
oggettivamente 
privo o comunque 
di 
indimostrabile 
utilità, quale 
può essere 
considerata 
l’attività 
divinatoria 
propria 
del 
cartomante, 
in quanto riconducibile 
alle 
cd. scienze 
occulte 
o esoteriche 
(per definizione 
non sottoponibili 
a 
prove 
di 
verificabilità), 
può 
rappresentare 
un 
bene 
“commerciabile”, 
perché 
idoneo 
a 
rispondere 
ad 
una 
esigenza, 
per 
quanto 
illusoria 
ed 
opinabile, 
meritevole 
di 
soddisfacimento 
e, 
in 
quanto 
tale, 
suscettibile 
di 
generare, 
in 
termini 
mercantili, 
una 
corrispondente 
“domanda”. 
Tale 
può essere, appunto, quella 
di 
chi 
cerchi 
l’alleviamento dei 
suoi 
dubbi 
esistenziali 
o la 
rassicurazione 
delle 
sue 
certezze 
nei 
“segni” 
ricavabili, 
attraverso 
la 
mediazione 
del 
cartomante, 
dalla lettura ed interpretazione delle “carte”. 
Del 
resto, proprio la 
complessità 
del 
mondo attuale, generatrice 
di 
incertezza 
e 
smarrimento, 
fa 
sì 
che 
la 
cartomanzia, 
con 
la 
sua 
aspirazione 
a 
trovare 
un 
ordine 
invisibile 
in 
una 
realtà 
frammentata 
e 
incoerente, assuma 
una 
funzione 
(non solo non dannosa, ma) anche 
-socialmente 
o individualmente 
-utile, fornendo (o tentando di 
fornire), a 
chi 
non sappia 
o voglia 
trovarlo su più affidabili terreni, riparo dalle paure e dalle contraddizioni della modernità. 
Inoltre, 
è 
evidente 
che 
se 
in 
un 
contesto 
sociale 
di 
bassa 
alfabetizzazione, 
quindi 
di 
maggiore 
esposizione 
del 
pubblico 
alle 
lusinghe 
di 
spregiudicati 
imbonitori, 
quale 
era 
quello 
degli 
inizi 
del 
secondo 
ventesimo, 
la 
soglia 
della 
difesa 
sociale 
era 
opportunamente 
fissata 
ad 
un 
livello 
inferiore, 
questa 
non 
potrebbe 
che 
attestarsi 
ad 
un 
punto 
più 
avanzato 
una 
volta 
che 
la 
stessa 
società, 
grazie 
al 
processo 
di 
diffusione 
culturale 
realizzatosi 
nei 
decenni 
successivi 
(fino 
a 
raggiungere 
l’acme 
nel 
tempo 
attuale), 
ha 
generato 
gli 
“anticorpi” 
necessari 
a 
proteggere 
i 
suoi 
componenti 
dalla 
tentazione 
di 
cedere 
alle 
fragili 
quanto 
illusorie 
speranze 
di 
precognizione 
del 
futuro: 
ciò 
che 
induce 
a 
ritenere 
che 
chi 
si 
rivolge 
al 
cartomante 
non 
è 
necessariamente 
mosso 
da 
ingenua 
credulità 
(ma, 
ad 
esempio, 
da 
semplice 
curiosità 
o 
desiderio 
di 
svago) 
né 
fatalmente 
abdica 
al 
proprio 
spirito 
critico, 
abbandonandosi 
remissivamente 
alle 
sue 
suggestioni. 
In tale 
quadro, di 
cui 
non può non tenere 
conto l’interpretazione 
di 
disposizioni 
nate 
in un diverso 
e 
ben più risalente 
(dal 
punto di 
vista 
socio-economico ed istituzionale) contesto, deve 
rilevarsi 
che, come 
anticipato, la 
stessa 
fattispecie 
regolamentare 
pone 
l’accento sulle 
specifiche 
modalità 
di 
svolgimento dell’attività 
del 
cartomante, disponendo che 
essa, per non tracimare 
nella 
sfera 
operativa 
del 
divieto, 
non 
debba 
tradursi 
nella 
“speculazione 
sull’altrui 
credulità” ovvero nello “sfruttamento o alimentazione dell’altrui pregiudizio”. 
Ebbene, 
premesso 
che 
anche 
il 
servizio 
cartomantico 
implica 
l’impegno 
di 
energie 
(materiali 
ed 
intellettuali), 
e 
quindi 
ha 
una 
sua 
concreta 
tangibilità 
economica, 
atta 
a 
fungere 
da 
elemento 
corrispettivo 
del 
contratto 
stipulato 
con 
il 
richiedente 
(sebbene 
nelle 
forme 
semplificate 
proprie 
del 
contatto 
telefonico 
o 
comunque 
“a 
distanza”), 
e 
che 
i 
concetti 
stessi 
di 
“speculazione” 
e 
di 
“sfruttamento” 
implicano 
la 
ricerca 
ed 
il 
conseguimento 
di 
un 
utile 
sovradimensionato 
rispetto 
alle 
risorse 
impiegate 
o 
all’effettivo 
valore 
economico 
del 
bene 
e/o 
servizio 
scambiato, 
ciò 
che 
assume 
non 
secondario 
rilievo, 
per 
i 
fini 
de 
quibus, 
è 
appunto 
la 
sussistenza 
di 
un 
rapporto 
di 
proporzione 
tra 
il 
“servizio” 
divinatorio 
offerto 
ed 
il 
prezzo 
richiesto 
e 
pagato 
per 
riceverlo: 
con 
la 
conseguenza 
che, 
a 
segnare 
il 
discrimine 
tra 
attività 
di 
cartomanzia 
e 
ciarlataneria, 
ovvero 
al 
fine 
di 
identificare 
la 
connotazione 
“speculativa” 
o 
“profittatrice” 
della 
stessa, 
sono 
proprio 
i 
mezzi 
e 
le 
modalità 
impiegate 
al 
fine 
di 
offrire 
al 
pubblico 
la 
“prestazione” 
profetica. 
Da 
tale 
punto 
di 
vista, 
lo 
sconfinamento 
nell’area 
della 
“ciarlataneria” 
si 
verifica 
appunto 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


quando 
il 
“messaggio” 
commerciale 
che 
accompagna 
l’offerta 
del 
servizio 
tende 
a 
rappresentare 
la 
prestazione 
divinatoria 
non 
nella 
sua 
impalpabile 
valenza 
predittiva, 
ma 
come 
strumento 
realmente 
efficace 
ed 
infallibile 
per 
la 
preveggenza 
del 
futuro, 
con 
la 
connessa 
richiesta 
di 
una 
contropartita 
commisurata 
al 
maggior valore 
che 
la 
prestazione, per come 
artatamente 
rappresentata, 
assumerebbe, 
ovvero 
quando, 
per 
le 
modalità 
e/o 
le 
circostanze 
in 
cui 
si 
svolge 
la 
relazione 
tra 
cartomante 
e 
cliente, essa 
denota 
l’approfittamento da 
parte 
del 
primo della 
eventuale situazione di particolare debolezza psicologica del secondo. 
In altre 
parole, finché 
la 
prestazione 
cartomantica 
viene 
offerta 
nella 
sua 
reale 
essenza 
ed il 
corrispettivo pattuito conserva 
un ragionevole 
equilibrio con la 
stessa, non è 
dato discutere 
di 
“speculatività” 
dell’attività 
del 
soggetto erogatore; 
laddove, invece, alla 
stessa 
vengano attribuite 
proprietà 
prodigiose 
o taumaturgiche 
e, facendo leva 
su di 
esse, sia 
richiesto un corrispettivo 
sproporzionato 
rispetto 
alla 
sua 
valenza 
meramente 
“consolatoria”, 
potrà 
dirsi 
integrata l’ipotesi (vietata) della “ciarlataneria”. 
A 
fini 
ulteriormente 
esplicativi, è 
possibile 
fare 
riferimento alla 
fattispecie 
dei 
concorsi 
pronostici 
o più in generale 
delle 
lotterie, in cui 
la 
posta, per essere 
conforme 
al 
principio di 
sinallagmaticità 
(nella 
specifica 
configurazione 
che 
esso 
assume 
nei 
contratti 
con 
causa 
aleatoria), deve 
essere 
proporzionata 
alla 
chance 
di 
ottenimento del 
premio: 
sì 
che 
potrebbe 
essere 
tacciato 
di 
ciarlataneria 
anche 
il 
bookmaker 
che, 
nel 
promuovere 
la 
partecipazione 
degli 
scommettitori, vanti 
una 
possibilità 
di 
successo (o addirittura 
una 
certezza) superiore 
a 
quella 
statisticamente effettiva. 
Deve 
aggiungersi 
che 
la 
soluzione 
interpretativa 
proposta 
è 
la 
sola 
in grado di 
coniugare 
le 
disposizioni 
citate 
con 
quelle 
sopravvenute 
nell’ordinamento 
(e 
quindi, 
rispetto 
ad 
esse, 
dotate 
di 
virtuale 
capacità 
abrogativa 
tacita, anche 
solo parziale), le 
quali 
prevedono, quale 
attività 
regolamentata a specifici fini e per questo consentita, l’attività appunto di cartomanzia. 
Viene 
in rilievo in particolare 
-come 
evidenziato dal 
giudice 
di 
primo grado -l’art. 28 d.lvo 


n. 206 del 
6 settembre 
2005 (Codice 
del 
consumo), il 
quale 
introduce 
il 
capo intitolato “Rafforzamento 
della 
tutela 
del 
consumatore 
in materia 
di 
televendite” 
e 
prevede 
che 
“le 
disposizioni 
del 
presente 
capo 
si 
applicano 
alle 
televendite, 
come 
definite 
nel 
regolamento 
in 
materia 
di 
pubblicità 
radiotelevisiva 
e 
televendite, adottato dall’Autorità 
per le 
garanzie 
nelle 
comunicazioni 
con 
delibera 
n. 
538/01/CSP 
del 
26 
luglio 
2001, 
comprese 
quelle 
di 
astrologia, 
di 
cartomanzia 
ed assimilabili 
e 
di 
servizi 
relativi 
a 
concorsi 
o giochi 
comportanti 
ovvero strutturati 
in guisa di pronostici”. 
Inoltre, non meno significativo, ai 
fini 
della 
delimitazione 
dell’attività 
di 
cartomanzia 
lecitamente 
esercitabile, 
ad 
ulteriore 
conferma 
delle 
conclusioni 
precedentemente 
raggiunte, 
è 
il 
successivo art. 29, ai 
sensi 
del 
quale, per quanto di 
interesse, “le 
televendite 
devono evitare 
ogni 
forma 
di 
sfruttamento della 
superstizione, della 
credulità 
o della 
paura”: 
ciò a 
dimostrazione 
del 
fatto 
che 
non 
è 
il 
mero 
svolgimento 
dell’attività 
di 
cartomanzia 
ad 
integrare 
una 
forma 
di 
speculazione 
sulla 
credulità, 
ma 
la 
sua 
rappresentazione 
secondo 
modalità 
e 
con 
scopi “profittatori” (quali si sono innanzi delineati). 
nello stesso senso, infine, vale 
la 
pena 
richiamare 
l’art. 30, comma 
2, del 
Codice, secondo 
cui 
“le 
televendite 
non 
devono 
contenere 
dichiarazioni 
o 
rappresentazioni 
che 
possono 
indurre 
in errore gli utenti o i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni, 
in particolare 
per ciò che 
riguarda 
le 
caratteristiche 
e 
gli 
effetti 
del 
servizio…”: 
indicativo anch’esso 
del 
fatto che 
il 
fulcro del 
giudizio di 
liceità 
in subiecta materia coincide 
con la 
sussistenza 
di 
un rapporto di 
conformità 
tra 
il 
servizio proposto e 
la 
rappresentazione 
che 
ne 
viene 
data, senza alcuna forma di esaltazione delle sue effettive (recte, dimostrabili) utilità. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Deve 
quindi 
concludersi 
nel 
senso 
della 
necessità 
di 
interpretare 
evolutivamente, 
alla 
luce 
delle 
modificazioni 
intervenute 
nel 
contesto giuridico e 
socio-economico generale 
rispetto a 
quello esistente 
alla 
data 
della 
loro introduzione, le 
disposizioni 
sulle 
quali 
fa 
leva 
l’Amministrazione 
con il 
provvedimento interdittivo impugnato in primo grado: 
norme 
che, venute 
in essere 
in un contesto storico dominato dal 
mito dello Stato etico, devono confrontarsi 
con 
la 
nuova 
funzione 
da 
esso assunta 
di 
definitore 
in “negativo” 
dei 
limiti 
entro i 
quali 
i 
cittadini 
individuano, in libertà 
e 
autonomia, i 
fini 
cui 
tendere 
nel 
loro percorso esistenziale 
ed i 
mezzi 
per realizzarli. 
Come 
anticipato, l’infondatezza 
dell’appello esime 
dall’esame 
delle 
eccezioni 
di 
inammissibilità/
improcedibilità dello stesso, diffusamente formulate dalla parte appellata. 
L’originalità 
dell’oggetto 
della 
controversia 
giustifica 
infine 
la 
compensazione 
delle 
spese 
del 
giudizio di appello. 


P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
Spese del giudizio di appello compensate. 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Così 
deciso in Roma 
nella 
camera 
di 
consiglio, svolta 
con modalità 
telematica, del 
giorno 25 
giugno 2020. 


RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Scioglimento di consiglio comunale, declaratoria 
di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza 
di interesse ed effetto devolutivo dell’appello 


Consiglio 
di 
stato, sezione 
terza, sentenza 
22 settembre 
2020 n. 5548 


La 
sentenza 
del 
Consiglio di 
Stato del 
22 settembre 
2020, n. 5548 -pur 
riformando 
la 
sentenza 
del 
TAR 
Lazio 
nella 
parte 
in 
cui 
aveva 
dichiarato 
l’inammissibilità 
del 
ricorso per carenza 
di 
interesse 
avverso la 
nomina 
della 
commissione 
straordinaria 
ex 
art. 143 TUEL 
atteso che 
il 
consiglio comunale 
era 
stato già 
sciolto ex 
art. 141 TUEL 
per dimissioni 
del 
sindaco, con conseguente 
impossibilità 
per i 
ricorrenti 
di 
riottenere 
le 
cariche 
elettive 
in precedenza 
ricoperte 
e 
non 
potendosi 
configurare 
nemmeno 
un 
loro 
interesse 
a 
ricorrere 
in 
qualità 
di 
cittadini 
elettori 
del 
Comune 
-ha 
respinto 
nel 
merito 
l’appello avversario. 


In 
ordine 
all’interesse 
a 
ricorrere 
degli 
amministratori 
cessati, 
il 
Consiglio 
di 
Stato -decidendo diversamente 
rispetto ad analogo precedente 
(Consiglio 
di 
Stato, sez. III, 12 novembre 
2019, n. 7762 (1)) riguardante 
la 
proroga 
dello 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale, 
ha 
precisato 
che 
“lo 
scioglimento 
del 
Consiglio comunale 
di 
omissis 
è 
stato disposto sull’assunto che 
l’amministrazione 
sarebbe 
stata condizionata da forme 
di 
ingerenza della criminalità organizzata, 
compromettendo 
il 
buon 
andamento 
e 
l’imparzialità 
dell’attività 
comunale. 
Non 
può 
quindi 
negarsi 
un 
interesse, 
quanto 
meno 
morale, 
a 
che 
gli 
amministratori 
del 
disciolto Consiglio facciano dichiarare 
l’erroneità di 
tale 
affermazione 
e 
quindi 
l’inesistenza di 
forme 
di 
pressione 
e 
di 
vicinanza 
della compagine 
governativa alla malavita organizzata. 
È 
quindi 
la motivazione 
sottesa al 
provvedimento impugnato dinanzi 
al 
tar 
lazio a radicare 
la 
persistenza dell’interesse, potendo essere 
senza dubbio lesa l’immagine 
degli 
amministratori 
locali 
ricorrenti, 
ai 
quali 
viene 
addebitato 
di 
aver 
risentito, 
nelle 
scelte 
compiute 
nell’espletamento del 
mandato, dell’influenza della criminalità 
organizzata (Cons. st., sez. iii, n. 4074 del 24 giugno 2020). 


Affermata la sussistenza dell’interesse 
a ricorrere, si 
può procedere 
ad 
esaminare 
il 
merito, dal 
momento che 
l’erronea declaratoria, da parte 
del 
Tar, 
di 
inammissibilità 
del 
ricorso 
per 
difetto 
di 
interesse 
non 
determina 
l’annullamento 
della sentenza con 
rinvio al 
primo giudice 
(Cons. St., Ad. Plen., 
28 settembre 2018, n. 15). 


l’erronea 
decisione 
in 
rito 
adottata 
dal 
giudice 
di 
primo 
grado 
comporta 
l’assorbimento, 
per 
effetto 
della 
fondatezza 
del 
primo 
motivo, 
del 
secondo 
motivo 
di 
appello, con il 
quale 
era stata affermata l’erroneità della sentenza del 
tar 
che 
ha omesso di 
pronunciare 
sulla domanda di 
accertamento degli 
atti 


(1) In questa 
rass., Vol. III, 2019, pp. 186 ss. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


impugnati 
ai 
sensi 
degli 
artt. 34, comma 3, e 
32, comma 2, c.p.a., nonché 
del 
terzo e 
quarto motivo, con i 
quali 
si 
chiedeva la rimessione 
della questione 
alla 
Corte 
costituzionale 
e 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
ue 
perché 
accertassero, 
secondo 
le 
rispettive 
competenze, l’illegittimità della mancata previsione 
della 
legittimazione 
a proporre 
ricorso avverso lo scioglimento del 
Consiglio comunale 
da parte di amministratori cessati”. 


Invero, la 
mancata 
rimessione 
della 
causa 
al 
giudice 
di 
primo grado sembra 
aver 
comportato 
l’omissione 
di 
un 
grado 
di 
giudizio 
non 
solo 
perché 
il 
TAR aveva 
ritenuto assorbiti 
tutti 
i 
motivi 
attinenti 
al 
merito ma 
anche 
perché 
in primo grado erano stati 
prodotti 
solo il 
D.P.R. di 
scioglimento del 
consiglio 
comunale 
e 
il 
verbale 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e 
non 
anche 
tutta 
la 
documentazione 
classificata 
RISERVATO 
che 
solitamente 
viene 
prodotta 
in analoghi 
giudizi 
solo su impulso del 
giudice 
amministrativo e 
con le 
cautele 
previste 
dalla 
legge 
per l’ostensibilità 
di 
tale 
documentazione. né 
di 
tale 
documentazione 
è 
stata ordinata la produzione in appello. 


Il 
che 
sembra 
confermare 
che, 
in 
virtù 
dell’effetto 
devolutivo 
dell’appello, 
non sussiste 
innanzi 
al 
Giudice 
amministrativo il 
principio del 
doppio grado 
di 
giudizio. La 
citata 
sentenza 
dell’Adunanza 
Plenaria 
n. 15/2018 afferma 
infatti 
sul 
punto 
che 
“la 
nuova 
nomenclatura 
contenuta 
nel 
vigente 
art. 
105 


c.p.a. non ammette 
tout 
court 
l’erronea declaratoria d’inammissibilità del 
ricorso 
per 
difetto di 
interesse 
quale 
sussumibile 
nella categoria della lesione 
dei 
diritti 
di 
difesa, 
sol 
perché 
su 
talune 
questioni 
di 
merito 
non 
si 
attua 
il 
doppio 
grado di giudizio”. 
Si riproduce integralmente la memoria difensiva dell’Avvocatura. 


Wally Ferrante* 


CT 1966/20 avv. Ferrante 


AVVOCATURA GEnERALE DELLO STATO 


COnSIGLIO DI STATO 


In SEDE GIURISDIzIOnALE 


SEz. III - R.G. 2208/20 - UDIEnzA 16.4.2020 


MEMORIA DIFEnSIVA 
Per 
la 
PRESIDEnzA 
DEL 
COnSIGLIO 
DEI 
MInISTRI 
(C.F. 
80188230587), 
in 
persona 
del 
Presidente 
pro tempore 
e 
il 
MInISTERO 
DELL’InTERnO 
(C.F. 97149560589) in persona 
del 
Ministro pro 
tempore, 
rappresentati 
e 
difesi 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
80224030587) 
presso 
i 
cui 
uffici 
sono 
per 
legge 
domiciliati 
in 
Roma, 
via 
dei 
Portoghesi 
12 
(per 
il 
ricevimento 
degli atti, FAX 06/96514000 e PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) 


C O nT R O 
(omissis) come in atti rappresentati e difesi 


(*) Avvocato dello Stato. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


E nEI COnFROnTI 


Del 
(omissis), 
in 
persona 
della 
commissione 
straordinaria 
e 
legale 
rappresentante 
pro 
tempore 


** ** ** 


Con ricorso al 
T.A.R. Lazio, ritualmente 
notificato, i 
ricorrenti 
hanno chiesto l’annullamento, 
previa 
sospensione, del 
decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
22 ottobre 
2019 con 
il 
quale 
è 
stato disposto l’affidamento della 
gestione 
del 
comune 
di 
(omissis) a 
una 
commissione 
straordinaria 
ai 
sensi 
dell’art. 143 del 
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 pubblicato 
nella 
Gazzetta 
Ufficiale 
della 
Repubblica 
Italiana 
-Serie 
Generale 
n. 266 del 
13 
novembre 
2019 (all. 1); 
della 
deliberazione 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
adottata 
nella 
seduta 
del 
15 ottobre 
2019, di 
cui 
si 
produce 
copia 
dell’estratto del 
processo verbale 
(all. 2); 
della 
proposta 
del 
Prefetto di 
Foggia 
in data 
22 luglio 2019; 
della 
relazione 
della 
commissione 
di 
indagine 
depositata 
il 
9 
luglio 
2019; 
dei 
verbali 
della 
seduta 
in 
data 
19 
luglio 
2019 
del 
comitato 
provinciale 
per l’ordine 
e 
la 
sicurezza 
pubblica; 
del 
decreto prefettizio del 
7 gennaio 2019 di 
nomina 
della 
commissione 
di 
indagine; 
della 
nota 
del 
successivo 2 aprile 
con il 
quale 
la 
predetta 
commissione 
ha 
chiesto 
la 
proroga 
del 
proprio 
mandato; 
del 
decreto 
prefettizio 
del 
4 
aprile 
2019 di 
proroga 
del 
mandato della 
commissione 
di 
indagine; 
del 
decreto ministeriale 
del 
19 
dicembre 
2018 
adottato 
dal 
Ministro 
dell’interno 
ai 
sensi 
dell’1, 
comma 
4, 
del 
decreto-
legge 
6 
settembre 
1982, 
n. 
629, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
13 
settembre 
1982, 


n. 726; di tutti gli atti e provvedimenti connessi, presupposti, e consequenziali. 
Le 
amministrazioni 
in epigrafe 
si 
costituivano in giudizio eccependo l’inammissibilità 
e comunque l’infondatezza del ricorso. 
Il 
TAR, con la 
sentenza 
del 
(omissis) ex 
adverso 
impugnata, ha 
dichiarato l’inammissibilità 
del 
ricorso per carenza 
di 
interesse 
avverso la 
nomina 
della 
commissione 
straordinaria 
ex art. 143 TUEL 
atteso che 
il 
consiglio comunale 
di 
(omissis) era 
stato sciolto ex art. 141 
TUEL 
per dimissioni 
del 
sindaco, con conseguente 
impossibilità 
per i 
ricorrenti 
di 
riottenere 
le 
cariche 
elettive 
in precedenza 
ricoperte 
e 
non potendosi 
configurare 
nemmeno un loro interesse 
a ricorrere in qualità di cittadini elettori del Comune. 


Avverso tale sentenza i ricorrenti hanno proposto appello. 


Con 
decreto 
del 
(omissis), 
codesto 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
respinto 
l’istanza 
di 
misura 
cautelare monocratica. 
L’appello è infondato e va respinto per i seguenti motivi in 

FATTO 


L’accesso 
presso 
il 
comune 
di 
(omissis) 
è 
stato 
disposto 
con 
decreto 
del 
Prefetto 
di 
Foggia 
del 
7 gennaio 2019, successivamente 
prorogato, a 
seguito di 
un attento monitoraggio dal 
quale 
sono emersi 
elementi 
sintomatici 
di 
oggettive 
ingerenze 
da 
parte 
della 
criminalità 
organizzata 
nell’attività dell’istituzione locale. 


Dagli 
accertamenti 
svolti 
è 
risultata 
evidente 
la 
sussistenza 
di 
collegamenti 
diretti 
ed 
indiretti 
degli 
organi 
elettivi 
con le 
consorterie 
territorialmente 
egemoni 
e 
forme 
di 
condizionamento 
degli 
stessi, che 
hanno sviato il 
perseguimento dei 
fini 
istituzionali 
con pregiudizio 
dei principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza. 


Pertanto, con relazione 
del 
successivo 22 luglio, il 
Prefetto ha 
ravvisato i 
presupposti 
per l’adozione 
della 
misura 
prevista 
dal 
richiamato art. 143 e 
con successivo decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
in data 
22 ottobre 
2019 è 
stato disposto l’affidamento della 
gestione 
dell’ente 
a 
una 
commissione 
straordinaria, 
atteso 
che 
l’organo 
consiliare 
era 
stato 
già 
sciolto 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
21 
maggio 
2019 
ai 
sensi 
dell’art. 
141, 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


comma 1, lettera b), numero 2, del 
decreto legislativo n. 267 del 
2000, a seguito delle 
dimissioni 
rassegnate dal sindaco e divenute irrevocabili a termini di legge. 


In particolare, con D.M. n. 17102/128/32(6)-Uff.V-Affari 
Territoriali 
del 
19 dicembre 
2018, 
veniva 
conferita 
al 
Prefetto 
di 
Foggia 
la 
delega 
ai 
fini 
dell’esercizio 
dei 
poteri 
di 
accesso 
nei 
confronti 
dell’Amministrazione 
comunale 
di 
(omissis), ai 
sensi 
dell’art. 1, comma 
4, del 


D.L. n. 629/1982, convertito con modificazioni dalla legge n. 726/1982. 
L’esigenza 
di 
avviare 
accertamenti 
in 
ordine 
all’Amministrazione 
comunale 
di 
(omissis) 
è 
scaturita 
dagli 
approfondimenti 
informativi 
svolti 
dalle 
Forze 
di 
Polizia, anche 
sulla 
base 
di 
esposti 
che 
segnalavano 
contiguità 
tra 
il 
Sindaco 
e 
altri 
amministratori 
con 
ambienti 
della 
criminalità 
organizzata. 


Conseguentemente, con decreto prefettizio veniva 
nominata 
la 
Commissione 
di 
indagine, 
incaricata 
dell’effettuazione 
degli 
accertamenti 
volti 
a 
verificare 
l’eventuale 
sussistenza 
di 
infiltrazioni 
e 
condizionamenti 
della 
criminalità 
organizzata, 
nell’ambito 
della 
gestione 
del 
Comune 
di 
(omissis). La 
Commissione 
si 
è 
insediata 
il 
9 gennaio 2019; 
il 
termine 
per l’espletamento 
delle 
attività 
di 
accertamento, 
fissato 
in 
3 
mesi 
decorrenti 
dalla 
data 
di 
insediamento, 
è stato prorogato, con provvedimento n. 226/O.P.S.(2) del 4 aprile 2019, di ulteriori 3 mesi. 

La 
Commissione 
ha 
rassegnato 
la 
propria 
Relazione 
il 
giorno 
8 
luglio 
2019, 
protocollata 
al n. 499/OPS(2) il giorno stesso. 


Gli 
esiti 
dell’accesso 
sono 
stati 
esaminati 
dal 
Comitato 
Provinciale 
per 
l’Ordine 
e 
la 
Sicurezza 
Pubblica, 
in 
data 
19 
luglio 
2019, 
con 
la 
partecipazione 
del 
Procuratore 
Distrettuale 
Antimafia 
di 
Bari 
e 
del 
Procuratore 
della 
Repubblica 
di 
Foggia. 
All’esito 
della 
predetta 
riunione, 
veniva 
espresso 
l’avviso 
che 
sussistessero 
le 
condizioni, 
previste 
dall’articolo 
143 
del 
D.Lgs. 
18 
agosto 
2000, 
n. 
267 
Testo 
Unico 
delle 
Leggi 
sull’Ordinamento 
degli 
Enti 
Locali, 
per 
dar 
luogo 
all’avvio 
del 
procedimento 
di 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale 
di 
(omissis). 


In considerazione 
degli 
elementi 
emersi 
nel 
corso dell’accesso e 
tenuto conto delle 
risultanze 
della 
predetta 
riunione, 
con 
nota 
indirizzata 
al 
Ministro 
dell’Interno, 
il 
Prefetto 
di 
Foggia 
ha 
espresso l’avviso che 
sussistessero i 
presupposti 
per il 
provvedimento di 
rigore 
di 
cui all’art. 143 del 
T.U.O.E.L. nei confronti del comune di (omissis). 


Come 
si 
è 
detto, 
il 
Consiglio 
comunale 
di 
(omissis) 
era 
stato, 
nelle 
more, 
sciolto 
ai 
sensi 
dell’art. 
141 
del 
TUOEL, 
a 
seguito 
delle 
dimissioni 
del 
Sindaco 
pro 
tempore, 
(omissis), 
odierno ricorrente, con Decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
21 maggio 2019, pubblicato 
nella 
G.U. 
del 
7 
giugno 
2019, 
Serie 
generale 
n° 
132. 
Contestualmente 
era 
stato 
nominato 
il commissario straordinario per la provvisoria gestione dell’Ente. 


Con D.P.R. del 
22 ottobre 
2019, previa 
deliberazione 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
del 
15 
ottobre 
2019, la 
gestione 
del 
comune 
di 
(omissis) è 
stata 
affidata 
per la 
durata 
di 
18 mesi 
alla 
commissione straordinaria ai sensi dell’art. 143 del 
TUOEL. 


Da 
ultimo, ai 
fini 
dell’eventuale 
applicazione 
di 
misure 
di 
prevenzione 
e 
della 
dichiarazione 
di incandidabilità degli amministratori ritenuti responsabili dell’adozione della misura 
dissolutoria, sono stati 
attivati 
i 
procedimenti 
di 
cui 
ai 
commi 
8 e 
11 del 
più volte 
citato art. 
143 dinanzi al 
Tribunale di Foggia. 


DIRITTO 


1) 
Sul primo motivo di appello. 
Con 
il 
primo 
motivo 
di 
appello, 
viene 
invocato 
un 
“Error 
in 
iudicando 
in 
merito 
alla 
pronuncia 
di 
inammissibilità 
per carenza 
di 
interesse 
del 
ricorso di 
primo grado. Violazione 
e/o 
falsa 
applicazione 
degli 
articoli 
24, 
103, 
113 
Cost., 
art. 
100 
c.p.c., 
degli 
artt. 
1 
e 
39, 
comma 
1, c.p.a., dell’art. 143, comma 12, del d.lgs. n. 267/2000. Denegata giustizia”. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


La censura è priva di pregio. 

1.1. Correttamente 
il 
TAR ha 
dichiarato l’inammissibilità 
del 
ricorso in quanto i 
ricorrenti 
rivestono la 
qualità 
di 
ex amministratori 
del 
comune 
di 
(omissis) il 
quale 
-come 
sopra 
evidenziato -prima 
di 
essere 
destinatario del 
provvedimento di 
cui 
al 
più volte 
citato art. 143 
TUEL, 
era 
stato 
sciolto 
ex 
art. 
141 
del 
medesimo 
testo 
unico 
delle 
leggi 
sull’ordinamento 
degli enti locali. 
Anzitutto tralasciano i 
ricorrenti 
i 
principi 
generali 
in materia 
di 
condizioni 
dell’azione 
in 
sede 
giurisdizionale 
ovvero 
la 
possibilità 
giuridica 
di 
ottenere 
la 
posizione 
giuridica 
sostanziale 
invocata 
con l’annullamento del 
provvedimento da 
cui 
si 
assumono lesi: 
il 
diritto al 
ricorso costituisce 
una 
proiezione 
dell’interesse 
sostanziale 
perché 
volto ad ottenere 
la 
tutela 
di 
una 
posizione 
giuridica 
sostanziale, giuridicamente 
configurabile 
al 
momento dell’atto introduttivo 
del giudizio. 


Orbene, nel 
caso di 
specie, la 
posizione 
giuridica 
sostanziale 
che 
i 
ricorrenti 
intendono 
tutelare 
non può essere 
che 
lo status 
di 
amministratore, che 
al 
momento del 
ricorso in primo 
grado e, prima 
ancora, al 
momento dell’adozione 
del 
provvedimento di 
scioglimento ex art. 
143 TUEL 
del 
consiglio comunale 
di 
(omissis), gli 
stessi 
non possedevano più a 
causa 
delle 
dimissioni 
dalla 
carica 
del 
sindaco pro tempore, che 
avevano determinato lo scioglimento ex 
art. 141 del 
TUOEL del civico consesso di (omissis). 


Il 
giudice 
di 
prime 
cure, 
pertanto, 
ha 
confermato 
l’inammissibilità 
del 
ricorso 
per 
carenza 
di 
interesse 
a 
ricorrere 
in 
capo 
agli 
odierni 
ricorrenti 
nella 
qualità 
di 
ex 
amministratori 
del 
Comune di (omissis). 


Il 
consiglio comunale 
di 
(omissis) è 
stato sciolto con DPR del 
21 maggio 2019, ai 
sensi 
dell’art. 
141 
del 
TUOEL, 
a 
seguito 
delle 
dimissioni 
del 
Sindaco 
pro 
tempore, 
(omissis), 
odierno ricorrente, come 
sopra 
riferito, e, pertanto, non è 
ipotizzabile 
ricollegare 
agli 
atti 
impugnati 
quantomeno una 
perdita 
di 
status 
dei 
ricorrenti 
-già 
dismesso con lo scioglimento ex 
art. 
141 
TUEL 
-e 
all’eventuale 
annullamento 
degli 
atti 
impugnati 
un 
utile 
effetto 
ripristinatorio 
a 
favore 
dei 
ricorrenti, 
i 
quali 
non 
potrebbero 
comunque 
riottenere 
le 
cariche 
elettive 
ricoperte 
prima 
dello scioglimento del 
civico consesso, disposto per dimissioni 
del 
sindaco (ex 
multis 
TAR Lazio-Roma, Sez. I, n. 5584 del 
3 maggio 2019; 
Cons. Stato, Sez. III n. 7762 del 
12 novembre 
2019). 


In tale 
direzione, si 
è 
espressa 
la 
più recente 
giurisprudenza 
precisando che 
il 
gravame 
proposto dagli 
ex amministratori 
di 
un comune 
già 
sciolto in via 
ordinaria 
è 
inammissibile 
per carenza 
di 
interesse 
a 
ricorrere 
in capo ai 
ricorrenti, per non essere 
gli 
stessi 
portatori 
di 
un interesse 
diretto, concreto ed attuale 
all’annullamento del 
provvedimento con cui 
è 
stata 
disposta 
la 
dissoluzione 
dell’ente 
per 
infiltrazioni 
della 
criminalità 
organizzata. 
Ed 
invero, 
«un’eventuale 
pronuncia 
favorevole 
non 
potrebbe 
essere 
di 
alcuna 
utilità 
per 
i 
ricorrenti, 
che 
non potrebbero reinsediarsi 
nelle 
cariche 
di 
amministratori 
locali» (ex 
multis, T.A.R per il 
Lazio -Sezione 
I, sentenza 
3 maggio 2019, n. 5584; 
Id., sentenza 
2 marzo 2018, n. 2327; 
Id., 
sentenza 29 marzo 2018, n. 3542). 


1.2. La 
sentenza 
impugnata 
ha 
ritenuto il 
ricorso parimenti 
inammissibile 
per difetto di 
legittimazione 
attiva 
degli 
odierni 
ricorrenti, nella 
qualità 
di 
cittadini 
elettori 
del 
comune 
di 
(omissis), 
in 
quanto, 
come 
ha 
confermato 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
“l’impugnazione 
dello 
scioglimento 
dell’organo 
consiliare 
non 
è 
annoverabile 
tra 
le 
azioni 
proponibili 
dai 
singoli 
elettori 
ai 
sensi 
dell’art. 
9 
del 
tuel, 
e 
ciò 
in 
quanto 
la 
misura 
dissolutoria 
di 
cui 
all’art. 
143, 
mentre 
incide 
sulle 
situazioni 
soggettive 
dei 
componenti 
degli 
organi 
elettivi, i 
quali, per 
effetto di 
essa, vengono a subire 
una perdita di 
status, non altrettanto incide 
sull’ente 
locale, titolare 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


di 
posizioni 
autonome 
e 
distinte, che, anzi, nella misura vede 
uno strumento di 
tutela e 
di 
garanzia 
dell’amministrazione” 
(Cass. Civ. Sez. I, 10 giugno 2016, n. 11994). 

Anche 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
ha 
escluso 
una 
legittimazione 
ad 
agire 
in 
qualità 
di 
“cittadini 
elettori” 
in base 
alla 
considerazione 
che 
«la misura dissolutoria di 
cui 
all’art. 
143, 
mentre 
incide 
su 
situazioni 
soggettive 
dei 
singoli 
componenti 
degli 
organi 
elettivi, 
i 
quali, 
per 
effetto di 
essa, vengono a subire 
una perdita di 
status, non altrettanto incide 
su quella 
dell’ente 
locale, 
titolare 
di 
posizioni 
autonome 
e 
distinte, 
che, 
anzi, 
nella 
misura 
vede 
uno 
strumento 
di 
tutela 
e 
di 
garanzia 
dell’amministrazione”, 
così 
che, 
oltre 
a 
non 
potersi 
ravvisare 
in 
capo 
ai 
ricorrenti 
quella 
lesione 
concreta 
ed 
attuale 
della 
loro 
posizione 
giuridica, 
la 
quale 
unica radica l’interesse 
a ricorrere, non può neppure 
configurarsi 
in capo agli 
stessi 
una legittimazione 
ai 
sensi 
dell’art. 9 del 
tuel, non essendo l’azione 
avverso lo scioglimento del-
l’organo consiliare 
annoverabile 
tra quelle 
proponibili 
dall’ente 
locale» (cfr. Consiglio di 
Stato del 
12 novembre 
2019, n. 7762; 
T.A.R. per il 
Lazio -Roma, Sezione 
I, sentenza 
20 
febbraio 2018, n. 1935; Id., sentenza 29 marzo 2018, n. 3542). 


1.3. 
Il 
pronunciamento 
censurato 
ha, 
infine, 
escluso 
la 
configurabilità 
di 
un 
interesse 
“morale” 
dei 
ricorrenti 
all’annullamento degli 
atti 
impugnati, in qualità 
di 
ex amministratori, 
in 
quanto 
il 
provvedimento 
dissolutorio 
ex 
art. 
143 
del 
TUOEL 
non 
ha 
neppure 
latamente 
una 
funzione 
sanzionatoria 
“ma 
assolve 
alla 
diversa 
funzione 
di 
salvaguardare 
la 
corretta 
funzionalità 
dell'amministrazione 
pubblica, rivestendo perciò il 
carattere 
di 
atto di 
alta 
amministrazione, 
nella 
misura 
in 
cui 
resta 
dotato 
di 
forza 
tale 
da 
determinare 
la 
prevalenza 
delle 
esigenze 
connesse 
al 
contrasto alle 
mafie 
rispetto all’interesse 
(pure 
costituzionalmente 
protetto) alla 
conservazione degli esiti delle consultazioni elettorali” (Cons. St. 00748/2016). 
Dalla 
ratio, così 
come 
sopra 
evidenziata, del 
provvedimento di 
rigore 
ex art. 143 del 
TUOEL 
discende 
la 
carenza 
di 
interesse 
a 
ricorrere 
degli 
odierni 
appellanti 
anche 
in 
relazione 
alla 
possibilità 
di 
essere 
sottoposti 
al 
giudizio di 
incandidabilità 
ex art. 143, comma 
11, del 
TUOEL: 
la 
pronuncia 
di 
incandidabilità, come 
configurata 
dalla 
norma 
citata, non è, infatti, 
conseguenza 
automatica 
dello 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale 
per 
condizionamento 
mafioso 
ma 
richiede 
una 
valutazione 
della 
posizione 
dei 
singoli 
amministratori, con riferimento 
a 
condotte 
attive 
o omissive 
che 
evidenzino un’agevolazione 
anche 
indiretta 
degli 
interessi 
della 
criminalità 
organizzata 
attraverso la 
mala gestio 
della 
cosa 
pubblica 
(Cass. Civ. Sez. I, 
11 gennaio 2017 n. 516; 
TAR Lazio-Roma, Sez. I, n. 5584 del 3 maggio 2019). 


La 
giurisprudenza 
ha 
infatti 
chiarito 
che, 
ad 
evitare 
la 
declaratoria 
di 
inammissibilità 
del 
gravame, non potrebbe 
valere 
l’argomentazione 
che 
«i 
ricorrenti 
conserverebbero un interesse 
al 
ricorso, in quanto, in conseguenza dello scioglimento del 
Consiglio Comunale 
per 
presunti 
condizionamenti 
mafiosi, gli 
stessi 
sono stati 
sottoposti 
a giudizio di 
incandidabilità 
ex 
art. 143, comma 11, d.lgs. 18.8.2000 n. 267 … 
oltre 
che 
un interesse 
di 
natura morale, atteso 
che 
i 
provvedimenti 
impugnati 
fonderebbero lo scioglimento del 
Consiglio Comunale 
su 
valutazioni che attengono anche, ma non solo, all’operato della giunta». 

Infatti, 
«lo 
scioglimento 
del 
Consiglio 
comunale 
prescinde 
dall’accertamento 
di 
responsabilità 
di 
singoli 
soggetti 
ed 
è 
rimedio 
attraverso 
il 
quale 
il 
legislatore 
ha 
inteso 
ovviare 
ad 
una 
condizione 
patologica 
dell’ente 
nel 
suo 
complesso. 
il 
provvedimento 
di 
scioglimento 
non 
è 
quindi 
la 
conseguenza 
di 
responsabilità 
del 
singolo 
amministratore 
… 
l’unico 
provvedimento 
al 
quale 
si 
potrebbe 
quindi 
semmai 
riconoscere 
natura 
sanzionatoria, 
è, 
invece, 
quello, 
diverso 
ex 
art. 
143, 
co. 
11 
tuel, 
con 
il 
quale 
viene 
decretata 
l’incandidabilità 
ed 
il 
quale 
è 
adottabile 
nei 
confronti 
dei 
soggetti 
ritenuti 
responsabili 
dello 
scioglimento». 
Ma 
«si 
tratta 
di 
giudizi 
autonomi 
che 
hanno 
ad 
oggetto 
accertamenti 
distinti, 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


quello 
di 
incandidabilità 
una 
valutazione 
delle 
singole 
posizioni 
e 
dei 
singoli 
comportamenti, 
laddove 
il 
presente 
giudizio 
verte 
sulla 
legittimità 
del 
provvedimento 
di 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale, 
il 
quale, 
a 
sua 
volta, 
prescinde 
dall’accertamento 
di 
responsabilità 
dei 
singoli»(ex 
multis, 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
12 
novembre 
2019, 
n. 
7762; 
T.A.R 
per 
il 
Lazio 
-Sezione 
I, 
sentenza 
3 
maggio 
2019, 
n. 
5584; 
Id., 
sentenza 
2 
marzo 
2018, 
n. 
2327; 
Id., 
sentenza 
29 
marzo 
2018, 
n. 
3542). 


2) 
Sul secondo motivo di appello. 
Con il 
secondo motivo di 
appello, viene 
invocato l’“Error in iudicando in merito alla 
domanda 
di 
accertamento 
[dell’illegittimità] 
degli 
atti 
impugnati, 
proposta 
-in 
via 
subordinata 


-nel 
ricorso introduttivo. Violazione 
e/o falsa 
applicazione 
degli 
articoli 
34, comma 
3, e 
32, 
comma 2, c.p.a. Denegata giustizia”. 


Anche tale censura è infondata. 


In 
via 
preliminare, 
si 
osserva 
che 
l’art. 
34, 
comma 
3, 
del 
c.p.a., 
invocato 
impropriamente 


dai 
ricorrenti, 
prevede 
che 
“Quando, 
nel 
corso 
del 
giudizio, 
l’annullamento 
del 
provvedimento 
non risulti 
più utile 
per 
il 
ricorrente, il 
giudice 
accerta l’illegittimità dell’atto se 
sussiste 
l’interesse 
ai fini risarcitori”. 


È 
evidente 
che 
la 
norma 
si 
riferisce 
all’ipotesi 
di 
sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse 
nel 
corso 
di 
un 
giudizio 
instaurato 
in 
presenza 
di 
tutti 
i 
presupposti 
dell’azione, 
per 
il 
quale 
il 
giudice 
adito ha 
effettuato la 
prima 
delibazione 
sulle 
condizioni 
del 
ricorso, giudicandolo ammissibile. 
nel 
caso 
di 
specie, 
invece, 
il 
TAR 
ha 
dichiarato 
la 
insussistenza 
dell’interesse 
e 
della legittimazione al ricorso, sotto i profili sopra specificati. 


non è 
chi 
non veda, infatti, che 
i 
ricorrenti, in evidente 
contraddizione, dopo aver sostenuto 
che 
l’interesse 
a 
ricorrere 
esiste 
nel 
caso di 
specie 
ab initio, sostengono poi 
apoditticamente 
che lo stesso sarebbe venuto meno in corso di causa. 


La 
norma 
suddetta 
è 
invocata 
dai 
ricorrenti 
in maniera 
impropria 
anche 
nel 
merito: 
la 
stessa 
prospettazione 
dei 
ricorrenti 
ricollega 
l’invocato danno all’immagine 
non al 
provvedimento 
di 
scioglimento o agli 
allegati 
-non sarebbe 
ipotizzabile 
nel 
caso nessun danno all’immagine, 
poiché 
gli 
atti 
sono 
oscurati 
laddove 
riportano 
dati 
sensibili 
-ma 
ad 
un 
prodotto 
documentale 
che 
è 
circolato e 
che 
non ha 
alcun crisma 
di 
autenticità 
che 
lo colleghi 
al 
provvedimento 
di scioglimento del consiglio comunale di (omissis). 


Il 
TAR, 
pertanto, 
ha 
giustamente 
escluso 
l’interesse 
a 
ricorrere 
anche 
in 
presenza 
di 
una 
domanda 
risarcitoria, 
“sia 
per 
l’assoluta 
genericità 
della 
sua 
prospettazione 
sia 
perché, 
quanto al 
presunto danno all’immagine 
subito dai 
ricorrenti 
a seguito della diffusione 
di 
notizie 
“non filtrate” 
presso gli 
organi 
di 
stampa, si 
tratta di 
una questione 
che 
non afferisce 
alla 
illegittimità 
degli 
atti 
impugnati 
o, 
più 
in 
generale, 
all’esercizio 
del 
potere 
amministrativo, 
ed è, conseguentemente, irrilevante ai fini dell’ammissibilità del giudizio”. 


È 
il 
caso 
di 
ricordare 
che 
la 
“diffusione 
di 
notizie 
“non 
filtrate” 
presso 
gli 
organi 
di 
stampa”, 
che 
avrebbe 
determinato 
l’invocato 
danno 
all’immagine 
dei 
ricorrenti, 
è 
stata 
oggetto 
di 
denuncia 
da 
parte 
del 
Prefetto di 
Foggia 
alla 
Procura 
della 
Repubblica 
di 
Foggia, anche 
in 
relazione 
alle 
dichiarazioni 
dell’ex sindaco (omissis), odierno appellante, apparse 
su un quotidiano, 
in cui 
lo stesso dichiara 
di 
aver ricevuto la 
Relazione 
della 
Commissione 
di 
indagine 
prima 
dell’adozione 
del 
provvedimento impugnato. Qui 
è 
sufficiente 
soggiungere 
che 
pende 
un procedimento penale in merito alla questione denunciata dal Prefetto di Foggia. 


Ad 
ogni 
modo, 
non 
può 
essere 
revocato 
in 
dubbio 
che 
il 
gravame 
risulta 
del 
tutto 
carente 
sotto 
il 
profilo 
dell’allegazione 
-ancor 
prima 
che 
sul 
piano 
della 
prova 
-degli 
elementi 
richiesti 
per l’integrazione 
della 
fattispecie 
risarcitoria 
ex art. 2043 c.c., ossia 
la 
sussistenza 
di: 
a) un 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


danno ingiusto; 
b) il 
nesso causale 
tra 
condotta 
illecita 
ed evento; 
c) la 
colpa 
o il 
dolo del-
l’amministrazione. 


In 
particolare, 
la 
giurisprudenza 
ha 
precisato 
che 
il 
danno 
non 
patrimoniale 
non 
può 
ritenersi 
in re 
ipsa, ma 
deve 
essere 
puntualmente 
allegato e 
provato, sia 
pure 
mediante 
presunzioni, 
trattandosi 
di 
un danno-conseguenza 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
VI, 
sentenza 
15 
settembre 
2015, 
n. 
4286; 
T.A.R. 
per 
la 
Calabria 
-Reggio 
Calabria, 
sentenza 
13 
gennaio 
2016, 
n. 
39). 


3) 
Sul terzo e quarto motivo di appello. 
Con il 
terzo e 
quarto motivo di 
appello, controparte 
eccepisce 
l’illegittimità 
costituzionale 
e la non conformità al diritto dell’Unione Europea della normativa applicata. 


Anche tale motivo è manifestamente infondato. 


Per 
i 
motivi 
più 
diffusamente 
esposti 
sub 
1 
e 
2, 
non 
esiste 
infatti 
alcuna 
violazione 
nell’interpretazione 
dell’art. 100 c.p.c. e 
dell’art. 1 c.p.a. sull’interesse 
ad agire, né 
degli 
articoli 
1, 34, comma 
3 e 
32, comma 
2 c.p.a. e 
dell’art. 143 TUEL 
-degli 
agli 
articoli 
3, 11, 24, 
103, 113, 117, comma 1 Cost., in relazione agli art. 6 CEDU e 47, comma 1 CDFUE. 

4) 
Sul quinto motivo di appello. 
Con il 
quinto motivo di 
appello, controparte 
ripropone 
i 
motivi 
del 
ricorso introduttivo 
non esaminati dal 
TAR. 


Anche tale motivo è infondato. 


Gli 
interessati 
sostanzialmente 
eccepiscono che 
nel 
caso in esame 
non sarebbero ravvisabili 
gli 
elementi 
concreti, univoci 
e 
rilevanti 
previsti 
dall’art. 143 del 
decreto legislativo n. 
267 del 2000 ai fini dell’adozione del contestato provvedimento di rigore. 


Al 
riguardo, 
si 
osserva 
che 
dall’attività 
ispettiva 
è 
emerso 
un 
quid 
pluris 
rispetto 
al 
mero 
compimento di 
atti 
illegittimi, attestante 
la 
presenza 
di 
un rapporto di 
vicinanza 
tra 
esponenti 
politici 
e 
burocratici 
dell’ente, da 
un lato, e 
soggetti 
controindicati, dall’altro. Gli 
elementi 
di 
contatto sono risultati 
suffragati 
da 
obiettive 
risultanze 
e 
tali 
da 
rendere 
pregiudizievole 
per i 
legittimi 
interessi 
della 
collettività 
amministrata 
il 
permanere 
alla 
sua 
guida 
degli 
organi 
eletti. 


In proposito, merita 
altresì 
rammentare 
che, alla 
stregua 
del 
costante 
orientamento giurisprudenziale, 
per l’apparato probatorio preordinato a 
confermare 
la 
ricorrenza 
di 
condizionamenti 
criminali 
«è 
sufficiente 
la 
presenza 
di 
elementi 
“indizianti”, 
che 
consentano 
d’individuare 
la sussistenza di 
un rapporto inquinante 
tra l’organizzazione 
mafiosa e 
gli 
amministratori 
dell’ente 
considerato “infiltrato”» (cfr. T.A.R. per il 
Lazio -Roma, Sezione 
I, 
sentenza 18 giugno 2019, n. 7862). 


È 
stato anche 
precisato che 
le 
valutazioni 
concernenti 
la 
legittimità 
del 
provvedimento 
dissolutorio si 
devono «fondare 
sulla regola del 
“più probabile 
che 
non”, la quale 
ha una 
portata generale 
… 
per 
l’intero diritto della prevenzione, compresa, dunque, anche 
la fattispecie 
… 
dell’art. 143 t.u.e.l. che 
… 
ha finalità preventiva e 
non punitiva» (ex 
multis, Consiglio 
di Stato, Sezione III, sentenza 18 luglio 2019, n. 5077). 


È 
compito dell’istituzione 
locale 
scongiurare 
il 
pericolo che 
l’Amministrazione 
sia 
permeabile 
all’influenza 
delle 
consorterie 
malavitose 
e 
ciò non si 
è 
verificato per la 
compagine 
eletta alle consultazioni amministrative del 31 maggio 2015. 


Pertanto, 
una 
volta 
acclarato 
che 
la 
pressione 
della 
criminalità 
non 
ha 
consentito 
il 
libero 
e 
corretto esercizio del 
mandato elettivo di 
cui 
all’art. 51 della 
Costituzione, si 
è 
reso necessario 
intervenire 
con 
il 
contestato 
provvedimento 
di 
rigore 
per 
garantire 
la 
fisiologica 
vita 
democratica 
dell’ente. 


Del 
resto, il 
predetto provvedimento si 
connota 
quale 
misura 
di 
carattere 
straordinario 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


e 
sottende 
una 
finalità 
di 
prevenzione 
e 
salvaguardia 
della 
funzionalità 
dell’ente 
locale 
e 
della 
rispondenza a fondamentali canoni di legalità del suo apparato. 


Ed invero, la 
misura 
dissolutoria 
in argomento deve 
ritenersi 
espressione 
di 
una 
logica 
di 
anticipazione 
della 
soglia 
di 
difesa 
sociale, 
ai 
fini 
di 
una 
tutela 
avanzata 
nel 
campo 
del 
contrasto 
alla 
criminalità 
organizzata. 
In 
quanto 
tale, 
la 
stessa 
prescinde 
dalle 
rilevanze 
probatorie 
proprie 
di 
un eventuale 
processo penale, essendo sufficiente, per la 
sua 
emissione, un quadro 
indiziario che 
sia 
reale 
ed effettivo (ex 
multis, T.A.R. per il 
Lazio -Roma, Sezione 
I, sentenza 
16 luglio 2019, n. 9381). 


La 
misura 
di 
rigore 
interviene, infatti, ancor prima 
che 
si 
determinino i 
presupposti 
per 
il procedimento penale o anche per il solo procedimento di prevenzione. 


La 
costante 
giurisprudenza 
in materia, confermata 
dagli 
orientamenti 
più recenti, valorizza 
«il 
differente 
grado di 
sufficienza del 
valore 
indiziario dei 
dati 
nel 
procedimento di 
cui 
qui 
si 
tratta 
rispetto 
a 
quello 
richiesto 
in 
sede 
penale» 
(cfr. 
T.A.R. 
per 
il 
Lazio 
-Roma, 
Sezione 
I, sentenza 18 giugno 2019, n. 7937). 


Sulla 
base 
delle 
circostanze 
raccolte 
e 
dei 
riscontri 
effettuati 
sono stati 
individuati 
gli 
elementi 
di 
cui 
all’art. 
143, 
comma 
1, 
del 
decreto 
legislativo 
n. 
267 
del 
2000, 
che 
hanno 
portato 
all’adozione dell’impugnato decreto del Presidente della Repubblica del 22 ottobre 2019. 


Sul 
punto, si 
evidenzia 
come 
gli 
interessati 
tendano ad atomizzare 
le 
varie 
circostanze 
che 
sono state 
prese 
in considerazione 
per evincere 
il 
livello intollerabile 
di 
condizionamento 
mafioso sull’attività 
comunale, estrapolandole 
dal 
contesto e 
in tal 
modo sminuendone 
l’effettiva 
consistenza e significatività. 

Sennonché, è 
noto come 
la 
qualificazione 
della 
concretezza, univocità 
e 
rilevanza 
delle 
circostanze 
poste 
a 
fondamento del 
provvedimento dissolutorio vada 
riferita 
non atomistica-
mente 
e 
partitamente 
ad ogni 
singolo elemento o accadimento preso in esame 
dalla 
Commissione 
di 
indagine, ma 
ad una 
valutazione 
complessiva 
del 
coacervo di 
elementi 
acquisiti. E 
invero, «lo scioglimento del 
Consiglio comunale 
“per 
infiltrazioni 
mafiose” 
costituisce 
una 
misura straordinaria di 
prevenzione 
… 
che 
l’ordinamento ha apprestato per 
rimediare 
a situazioni 
patologiche 
di 
compromissione 
del 
naturale 
funzionamento dell’autogoverno locale 
… 
le 
vicende 
che 
costituiscono 
il 
presupposto 
sulla 
base 
del 
quale 
può 
essere 
disposto 
il 
provvedimento di 
scioglimento ex 
art. 143 tuel 
devono essere, pertanto, considerate 
“nel 
loro insieme”, non atomisticamente, e 
devono risultare 
idonee 
a delineare, con una ragionevole 
ricostruzione, 
il 
quadro 
complessivo 
del 
condizionamento 
“mafioso”»(ex 
multis, 
T.A.R. 
per il Lazio - Roma, Sezione I, sentenza 11 giugno 2019, n. 7575). 

In 
definitiva, 
gli 
elementi 
concreti 
si 
sostanziano 
nella 
presenza 
di 
puntuali 
riscontri 
fattuali; 
la 
caratteristica 
della 
univocità 
è 
data 
dalla 
coerenza 
di 
insieme 
di 
tutti 
i 
dati 
raccolti 
che 
non 
devono 
prestarsi 
ad 
ambivalenti 
interpretazioni; 
la 
rilevanza 
consegue 
al 
processo 
elaborativo 
e 
valutativo 
dei 
fatti 
accertati 
e 
degli 
elementi 
riscontrati, 
i 
quali 
possono 
ritenersi 
rilevanti 
se 
ed in quanto significativi 
di 
forme 
di 
condizionamento o interferenza 
(cfr. T.A.R. 
per il Lazio - Roma, Sezione I, sentenza 28 maggio 2019, n. 6647). 

L’attività 
di 
indagine 
ha 
raccolto circostanze, confluite 
nella 
relazione 
prefettizia 
ed in 
quella 
ministeriale, sintomatiche 
di 
anomale 
cointeressenze 
degli 
esponenti 
politici 
e 
burocratici 
dell’ente, ritenute 
idonee 
a 
suffragare 
la 
proposta 
di 
adozione 
della 
misura 
di 
rigore 
prevista 
dall’art. 143 del 
decreto legislativo n. 267 del 
2000, in quanto sono emersi 
i 
seguenti 
elementi, che 
risultano emblematici 
e 
da 
soli 
in grado di 
costituire 
i 
presupposti 
di 
fatto e 
di 
diritto, come tracciati dalla recente giurisprudenza, del provvedimento impugnato: 


- sostanziale continuità con le pregresse consiliature; 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


-rapporti 
parentela, 
di 
frequentazione 
e 
comunanza 
di 
interessi 
tra 
alcuni 
amministratori 
e dipendenti comunali con esponenti di ambienti criminali; 


-ripetute 
irregolarità 
e/o 
illegittimità 
nelle 
procedure 
poste 
in 
essere 
dall’ente 
nei 
settori 
dell’amministrazione 
locale 
maggiormente 
esposti 
ai 
condizionamenti 
della 
criminalità 
organizzata; 


-carente 
esercizio dei 
poteri 
di 
controllo e 
vigilanza 
da 
parte 
degli 
organi 
elettivi 
e 
burocratici. 
I 
rilievi 
mossi 
al 
civico 
consesso 
non 
nascono 
da 
mere 
congetture 
o 
ragionamenti 
di 
tipo 
deduttivo, ma 
da 
elementi 
fattuali, da 
vicende 
e 
accadimenti 
storicamente 
verificatisi 
ed accertati, 
quindi da elementi “concreti”. 

Uno 
di 
tali 
elementi 
è 
rappresentato, 
come 
riferito 
dal 
Prefetto, 
dal 
reticolo 
di 
relazioni 
di 
parentela, affinità, frequentazione 
e 
convergenze 
di 
interessi 
che 
legano diversi 
membri 
degli 
organi 
elettivi 
e 
dell’apparato 
burocratico 
del 
comune 
-alcuni 
dei 
quali 
con 
pregiudizi 
di 
natura 
penale 
-a 
persone 
controindicate 
ovvero 
a 
personaggi 
anche 
di 
spicco dei sodalizi localmente dominanti. 


Una 
vicenda 
fortemente 
sintomatica 
è 
poi 
quella 
concernente 
le 
assidue 
frequentazioni 
tra un 
personaggio di 
primo piano della criminalità organizzata garganica e 
il 
vicesindaco, 
il 
quale, a seguito delle 
consultazioni 
amministrative 
del 
2015, è 
risultato il 
candidato 
che 
ha 
conseguito 
il 
maggior 
numero 
di 
preferenze. 
Inoltre, 
gli 
esiti 
delle 
intercettazioni 
telefoniche 
esperite 
nell’ambito dell’operazione 
condotta dalla direzione 
distrettuale 
antimafia di 
Bari 
sulla c.d. strage 
di 
San 
Marco in 
Lamis, consumatasi 
ad 
agosto 2017, hanno disvelato i 
rapporti 
di 
vicinanza tra alcuni 
componenti 
dei 
rispettivi 
nuclei familiari del citato vicesindaco e del personaggio in questione. 


Assume 
altresì 
rilevanza 
emblematica 
la 
circostanza 
che, a 
febbraio 2018, il 
sindaco dimessosi 
a 
marzo 2019 e 
al 
suo secondo mandato consecutivo quale 
organo di 
vertice 
del-
l’amministrazione 
comunale, della 
quale 
aveva 
già 
fatto parte, in qualità 
di 
assessore 
e 
poi 
di 
consigliere, 
dal 
1992 
al 
2003 
-ha 
reso 
omaggio 
alla 
memoria 
di 
un 
istruttore 
sportivo, 
stretto 
parente 
di 
un 
soggetto 
di 
notevole 
spessore 
criminale, 
pubblicando 
parole 
di 
stima 
e cordoglio su un noto social network. 


La 
commissione 
di 
indagine 
ha 
poi 
rilevato 
una 
sistematica 
violazione 
delle 
regole 
poste 
a salvaguardia della legittimità e trasparenza dell’azione amministrativa. 


Il 
disordine 
organizzativo degli 
uffici 
e 
le 
diffuse 
irregolarità 
nonché 
l’assenza 
di 
atti 
dei 
vertici 
politici 
idonei 
a 
ripristinare 
la 
legalità 
hanno favorito la 
permeabilità 
dell’ente 
ai 
condizionamenti malavitosi. 


ne 
costituiscono 
eloquente 
esempio: 
I) 
le 
gravi 
e 
reiterate 
anomalie 
e 
irregolarità 
riscontrate 
nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
l’esercizio 
di 
stabilimenti 
balneari 
-stigmatizzate 
anche 
dalla 
ragioneria 
generale 
dello 
Stato 
a 
seguito 
di 
controllo 
ispettivo 
effettuato 
a 
luglio 
2018 
-relativamente 
al 
quale 
è 
altresì 
emersa 
la 
sistematica 
disapplicazione 
del 
protocollo 
d’intesa 
sottoscritto 
con 
la 
Prefettura 
di 
Foggia 
a 
luglio 
2017, 
in 
base 
al 
quale 
il 
comune 
di 
(omissis) 
si 
era 
impegnato 
a 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
in 
caso 
di 
presentazione 
di 
una 
segnalazione 
certificata 
di 
inizio 
attività 
ovvero 
di 
una 
domanda 
di 
consenso 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
19 
e 
20 
della 
legge 
7 
agosto 
1990, 
n. 
241; 
II) 
la 
circostanza 
che 
in 
violazione 
del 
predetto 
protocollo 
d’intesa, 
soltanto 
ad 
agosto 
2018 
-su 
sollecitazione 
della 
Prefettura 
-il 
comune 
ha 
provveduto 
a 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
con 
riferimento 
alla 
segnalazione 
certificata 
di 
inizio 
attività 
presentata, 
a 
giugno 
2018, 
da 
un’impresa 
-successivamente 
destinataria 
di 
un’infor



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


mativa 
interdittiva 
-della 
quale 
risulta 
socio 
un 
consigliere 
comunale 
e 
il 
cui 
amministratore 
unico 
nonché 
socio 
di 
maggioranza 
è 
parente 
convivente 
di 
un 
soggetto 
considerato 
al 
vertice 
della 
locale 
famiglia 
malavitosa 
nonché 
legato 
da 
stretti 
vincoli 
familiari 
ad 
altri 
esponenti 
di 
quella 
famiglia; 
III) 
l’ulteriore 
circostanza 
che 
nel 
settore 
delle 
autorizzazioni 
alla 
somministrazione 
di 
alimenti 
e 
bevande 
-anch’esse 
ricadenti 
nel-
l’ambito 
di 
applicazione 
del 
richiamato 
protocollo 
d’intesa 
-l’ente 
ha 
omesso 
di 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
nei 
confronti 
di 
una 
società 
titolare 
di 
un 
chiosco 
bar, 
pur 
dopo 
che 
l’amministratore 
unico 
pro 
tempore 
della 
stessa 
è 
stato 
tratto 
in 
arresto 
il 
16 
ottobre 
2018, 
in 
esecuzione 
di 
un’ordinanza 
applicativa 
di 
misure 
restrittive 
della 
libertà 
personale 
emessa 
dal 
giudice 
per 
le 
indagini 
preliminari 
presso 
il 
tribunale 
di 
Bari, 
a 
conclusione 
della 
summenzionata 
operazione 
condotta 
dalla 
direzione 
distrettuale 
antimafia 
di 
Bari 
sulla 
c.d. 
strage 
di 
San 
Marco 
in 
Lamis; 
IV) 
l’omessa 
richiesta 
di 
informazioni 
antimafia 
in 
ordine 
alle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
impianti 
di 
acquicoltura, 
essendosi 
riscontrato 
che 
il 
comune 
si 
è 
limitato 
in 
alcuni 
casi 
ad 
acquisire 
una 
semplice 
comunicazione 
antimafia 
ovvero 
una 
mera 
autocertificazione 
da 
parte 
dei 
concessionari, 
in 
violazione 
degli 
artt. 
89 
e 
91 
del 
decreto 
legislativo 
6 
settembre 
2011, 
n. 
159; 
V) 
la 
circostanza 
che 
i 
rappresentanti 
legali 
di 
due 
delle 
ditte 
titolari 
di 
concessione 
demaniale 
per 
impianti 
di 
acquicoltura 
annoverano 
rispettivamente 
vincoli 
di 
affinità 
ovvero 
rapporti 
di 
frequentazione 
con 
esponenti 
del 
clan 
territorialmente 
egemone 
e 
un 
dipendente 
di 
un’altra 
delle 
imprese 
concessionarie 
è 
stretto 
parente 
di 
un 
personaggio 
di 
vertice 
di 
quel 
clan; 
VI) 
la 
circostanza 
che 
per 
lo 
svolgimento 
del 
servizio, 
su 
disposizione 
della 
pubblica 
autorità, 
di 
trasporto 
di 
persone 
decedute, 
l’amministrazione 
comunale 
ha 
continuato 
ad 
avvalersi, 
tra 
le 
altre, 
di 
una 
ditta 
di 
onoranze 
funebri 
già 
destinataria 
di 
un’informazione 
interdittiva 
antimafia, 
emessa 
dalla 
Prefettura 
di 
Foggia 
a 
gennaio 
2019; 
VII) 
la 
riconducibilità 
a 
soggetti 
vicini 
o 
intranei 
alla 
criminalità 
organizzata 
di 
numerosi 
manufatti 
abusi 
per 
i 
quali 
il 
comune 
non 
ha 
intrapreso 
alcuna 
azione 
sanzionatoria 
e 
tra 
cui 
è 
compreso 
un 
impianto 
sportivo 
realizzato 
da 
un 
noto 
capoclan 
sottoposto 
a 
sequestro 
dal 
corpo 
forestale 
dello 
Stato 
e 
dalla 
polizia 
di 
Stato 
a 
febbraio 
2013 
-rispetto 
al 
quale 
l’ente 
risulta 
avere 
introitato 
una 
cospicua 
somma 
a 
titolo 
di 
oblazione, 
pur 
trattandosi 
di 
un 
abuso 
edilizio 
non 
sanabile; 
VIII) 
la 
circostanza 
che 
in 
forza 
di 
un 
contratto 
stipulato 
nel 
2007 
con 
scadenza 
a 
dicembre 
2016, 
la 
cui 
durata 
è 
stata 
poi 
ripetutamente 
prorogata 
in 
violazione 
dell’art. 
106, 
comma 
11, 
del 
decreto 
legislativo 
18 
aprile 
2018, 
n. 
50, 
il 
servizio 
di 
riscossione 
dei 
tributi 
locali 
è 
stato 
svolto 
da 
una 
società 
mista 
-con 
partecipazione 
maggioritaria 
del 
comune 
di 
(omissis)-che 
annovera 
tra 
i 
propri 
dipendenti 
e 
organi 
direttivi 
soggetti 
vicini 
per 
rapporti 
familiari 
o 
di 
frequentazione 
a 
figure 
apicali 
dei 
sodalizi 
locali; 
VIII) 
la 
circostanza 
che 
uno 
di 
tali 
soggetti 
riveste 
altresì 
la 
carica 
di 
amministratore 
dell’impresa 
subentrata 
nella 
predetta 
società 
mista, 
in 
luogo 
dell’originario 
socio 
privato, 
e 
che 
soltanto 
il 
30 
novembre 
2017 
-successivamente 
alla 
presa 
d’atto 
del 
subentro, 
avvenuta 
con 
determina 
dirigenziale 
del 
2 
ottobre 
2017 
-l’ente 
ha 
inoltrato 
richiesta 
di 
informazioni 
antimafia 
nei 
confronti 
della 
impresa 
subentrante, 
risultata 
poi 
destinataria 
di 
interdittiva 
antimafia. 


In conseguenza 
degli 
effetti 
prodotti 
nella 
gestione 
comunale 
dai 
collegamenti 
evidenziati, 
la 
struttura 
politica 
e 
burocratica 
dell’ente 
è 
risultata 
compromessa 
ed inadeguata 
a 
garantire 
gli interessi della collettività. 


Il 
descritto contesto generale 
di 
diffusa 
illegalità, messo in luce 
dall’attività 
di 
indagine 
espletata, 
denota 
come 
la 
cura 
dell’interesse 
pubblico 
connesso 
al 
mandato 
conferito 
agli 
am



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


ministratori 
sia 
stata 
del 
tutto 
pretermessa 
e 
come 
l’impegno 
assunto 
nei 
confronti 
degli 
elettori 
non sia stato rispettato. 


Al 
riguardo, 
si 
rammenta 
che 
«la 
giurisprudenza 
ha 
più 
volte 
affermato 
-a 
tale 
proposito 


-che 
lo scioglimento ex 
art. 143 cit., in virtù della natura “non sanzionatoria” 
che 
lo contraddistingue, 
è 
legittimo sia qualora sia riscontrato il 
coinvolgimento diretto degli 
organi 
di 
vertice 
politico-amministrativo 
sia 
anche, 
più 
semplicemente, 
per 
l’inadeguatezza 
dello 
stesso 
vertice 
politico-amministrativo a svolgere 
i 
propri 
compiti 
di 
vigilanza e 
di 
verifica nei 
confronti 
della 
burocrazia 
e 
dei 
gestori 
di 
pubblici 
servizi 
del 
Comune, 
che 
impongono 
l’esigenza 
di 
intervenire 
e 
apprestare 
tutte 
le 
misure 
e 
le 
risorse 
necessarie 
per 
una 
effettiva 
e 
sostanziale 
cura e 
difesa dell’interesse 
pubblico dalla compromissione 
derivante 
da ingerenze 
estranee 
riconducibili 
all’influenza ed all’ascendente 
esercitati 
da gruppi 
di 
criminalità organizzata» 
(cfr. T.A.R. per il Lazio - Roma, Sezione I, sentenza 5 febbraio 2019, n. 1433). 
Si 
legge 
inoltre 
nel 
gravame 
che 
«il 
provvedimento impugnato e 
i 
suoi 
atti 
presupposti 
(proposta del 
ministro e 
relazione 
della Prefettura) hanno completamente 
omesso di 
considerare 
le 
azioni 
condotte 
dagli 
odierni 
ricorrenti 
durante 
il 
loro mandato, al 
fine 
di 
contrastare 
l’illegalità e il fenomeno mafioso». 

Sennonché, l’Amministrazione 
procedente 
non aveva 
alcun onere 
di 
prendere 
in considerazione 
eventuali 
iniziative 
“legalitarie” 
poste 
in essere 
dall’istituzione 
locale 
atteso che 
«compito dell’organo ispettivo era quello di 
delineare 
i 
fatti 
ritenuti 
rilevanti 
per 
la dimostrazione 
del 
rischio di 
condizionamento da parte 
della criminalità organizzata dell’amministrazione 
dell’ente 
e 
del 
suo 
apparato 
burocratico, 
sicché 
una 
volta 
acquisiti 
gli 
elementi 
fattuali 
necessari 
per 
sostenere 
la 
richiesta 
di 
scioglimento, 
correttamente 
nella 
relazione 
non si 
è 
fatto cenno agli 
elementi 
contrari 
(quali 
ad esempio gli 
atti 
amministrativi 
regolari, 
le 
delibere 
conformi 
a legge, e 
quindi 
anche 
le 
iniziative 
richiamate 
dai 
ricorrenti), in quanto 
ritenuti 
insufficienti 
-in comparazione 
con la complessità degli 
elementi 
negativi 
emersi 
in 
sede 
istruttoria 
-a 
far 
cadere 
l’impianto 
“accusatorio” 
(Cons. 
Stato 
n. 
2895/2013). 
Del 
resto 


-se 
bastasse 
qualche 
operazione 
“di 
facciata” 
per lenire 
il 
rischio di 
dissoluzione 
-sarebbe 
ben 
agevole 
farvi 
ricorso, 
eludendo 
in 
questo 
semplice 
modo 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
di 
cui 
all’art. 143 (cfr. T.A.R. per il 
Lazio -Roma, Sezione 
I, sentenza 
24 settembre 
2018, n. 
9544; Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 31 luglio 2018, n. 4727). 
E 
invero, 
«il 
provvedimento 
di 
scioglimento 
del 
Consiglio 
Comunale 
ex 
art. 
143 
t.u.e.l. 
non richiede 
alcun giudizio di 
bilanciamento di 
circostanze 
favorevoli 
e 
non favorevoli, alla 
stregua di 
quanto avviene 
nel 
procedimento penale, dato che 
l’azione 
amministrativa deve 
essere 
sempre 
ispirata 
ai 
principi 
di 
legalità 
e 
di 
buon 
andamento 
ed 
è, 
in 
quanto 
tale, 
attività 
doverosa che 
in nessun caso può essere 
invocata come 
esimente 
di 
condotte 
parallele 
che 
a 
tali 
principio non sono conformi» (cfr. T.A.R. per il 
Lazio -Roma, Sezione 
I, sentenza 
16 luglio 
2019, n. 9381; Id., sentenza 3 aprile 2018, n. 3675). 


Parimenti 
priva 
di 
pregio è 
la 
doglianza 
secondo cui 
gli 
atti 
impugnati 
«sono inficiati 
dalla violazione 
del 
principio di 
proporzionalità … 
posto che 
al 
momento della nomina della 
commissione 
straordinaria, il 
Comune 
di 
(omissis) era già amministrato (sempre 
in via straordinaria) 
da un commissario prefettizio -ai 
sensi 
dell’art. 141 tuel. Pertanto … 
il 
ministro 
degli 
interni 
non 
avrebbe 
dovuto 
proporre 
la 
(sproporzionata) 
misura 
della 
gestione 
commissariale 
per 
diciotto mesi, ma (più proporzionalmente) le 
misure 
necessarie, a carico dei 
soggetti 
non amministratori, per 
porre 
rimedio alla situazione, ai 
sensi 
dell’art. 143, comma 
5, tuel». 


Tale 
argomentazione 
è 
palesemente 
capziosa 
e 
infondata, 
alla 
luce 
del 
chiaro 
dettato 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


normativo del 
più volte 
citato art. 143, il 
quale, al 
comma 
13, espressamente 
dispone 
che 
«si 
fa 
luogo 
comunque 
allo 
scioglimento 
degli 
organi, 
a 
norma 
del 
presente 
articolo, 
quando 
sussistono le 
condizioni 
indicate 
nel 
comma 1, ancorché 
ricorrano le 
condizioni 
previste 
dal-
l’articolo 141». 


La 
norma, 
pertanto, 
non 
esclude 
affatto 
che 
la 
misura 
dissolutoria 
per 
infiltrazioni 
della criminalità organizzata sia adottata in 
un 
momento cronologicamente 
successivo 
all’affidamento della gestione 
amministrativa dell’ente 
a un 
commissario straordinario 
nominato per altra causa. 


Del 
resto, la 
prevalenza 
accordata 
a 
tale 
soluzione 
corrisponde 
anche 
alla 
necessità 
di 
evitare 
che 
la 
complessa 
procedura 
di 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale, 
conseguente 
a 
fenomeni 
di 
infiltrazione 
e 
di 
condizionamento di 
stampo mafioso, possa essere 
vanificata 
da 
una 
iniziativa 
strumentale 
degli 
stessi 
consiglieri 
comunali 
o 
del 
sindaco 
che, 
con 
l’espediente 
delle 
dimissioni, potrebbero in 
qualunque 
momento impedire 
l’intervento 
dell’Amministrazione centrale, volto a contrastare gli anzidetti fenomeni criminali. 


E 
invero, 
come 
precisato 
in 
giurisprudenza, 
le 
due 
misure 
previste 
rispettivamente 
dagli 
artt. 141 e 
143 del 
decreto legislativo n. 267 del 
2000 rispondono a 
fattispecie 
ed a 
finalità 
diverse 
e 
non sono quindi 
sovrapponibili. Il 
provvedimento adottato ai 
sensi 
dell’art. 143 sostituisce 
il 
commissario 
precedentemente 
nominato 
con 
una 
commissione 
straordinaria 
composta 
di 
tre 
membri, ritenuta 
dalla 
vigente 
normativa 
maggiormente 
adeguata 
a 
fronteggiare 
fenomeni 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
nelle 
istituzioni 
(cfr. Consiglio di 
Stato, Sezione 
IV, sentenza 
26 gennaio 2009, n. 447; 
Id., Sezione 
I, parere 
26 maggio 2010, n. 3811/2009; 
T.A.R. per il 
Lazio - Roma, Sezione I, sentenza 20 luglio 2015, n. 9873). 


Per quanto poi 
riguarda 
il 
richiamo alle 
misure 
di 
cui 
all’art. 143, comma 
5 -in disparte 
ogni 
considerazione 
sulla 
circostanze 
che 
la 
valutazione 
in 
ordine 
alla 
sussistenza 
dei 
presupposti 
previsti 
dalla 
norma 
da 
ultimo 
citato 
è 
rimessa 
alla 
discrezionalità 
dell’Amministrazione 


-è 
sufficiente 
richiamare 
il 
pacifico principio giurisprudenziale 
in base 
al 
quale 
sulla 
legittimità 
della 
misura 
dissolutoria 
«non può incidere 
la circostanza che 
il 
condizionamento mafioso 
sia 
esercitato 
da 
dipendenti 
all’insaputa 
degli 
amministratori 
o 
da 
alcuni 
degli 
amministratori 
ad insaputa degli 
altri: non trattandosi, infatti, di 
una misura sanzionatoria, 
essa non è 
finalizzata a punire 
condotte 
illecite 
caratterizzate 
da coscienza e 
volontà; ciò che 
conta, in definitiva, è 
la constatazione 
che 
l’attività dell’ente 
risulti 
asservita, anche 
solo in 
parte, agli 
interessi 
delle 
consorterie 
mafiose, giacché 
tale 
constatazione 
denuncia che 
l’organo 
politico 
non 
è 
in 
grado, 
per 
complicità, 
connivenza, 
timore 
o 
mera 
incompetenza, 
di 
prevenire 
o 
di 
contrastare 
efficacemente 
il 
condizionamento 
mafioso» 
(cfr. 
T.A.R. 
per 
il 
Lazio 
-Roma, 
Sezione 
I, 
sentenza 
28 
maggio 
2019, 
n. 
6647; 
Id., 
sentenza 
5 
febbraio 
2019, 
n. 
1433). 
Ancora, ad avviso dei 
ricorrenti 
«il 
provvedimento che 
ha adottato la misura della gestione 
commissariale 
straordinaria, quale 
atto conclusivo dell’iter 
previsto dall’art. 143 del 
tuel, 
è 
illegittimo 
anche 
per 
ragioni 
procedimentali: 
nello 
specifico, 
per 
violazione 
del 
termine 
per 
la conclusione 
dei 
lavori 
della commissione 
incaricata dal 
Prefetto di 
Foggia a svolgere 
le 
indagini 
di 
rito presso il 
Comune 
di 
(omissis) … 
dalla relazione 
prefettizia risulta che 
la 
Commissione 
di 
accesso si 
è 
insediata in data 9 gennaio 2019 e, su richiesta, ha ottenuto … 
dal 
Prefetto di 
Foggia una proroga di 
ulteriori 
tre 
mesi 
per 
concludere 
i 
lavori. Pertanto, la 
Commissione 
di 
accesso avrebbe 
dovuto terminare 
gli 
accertamenti 
e 
rassegnare 
le 
proprie 
conclusioni 
entro 
il 
3 
luglio 
2019, 
ossia 
nei 
successivi 
tre 
mesi 
decorrenti 
dalla 
data 
della 
concessione 
della proroga prefettizia (4 aprile 
2019) o, in ogni 
caso, entro l’8 luglio 2019, 
considerando sei 
mesi 
dalla data di 
insediamento della Commissione 
di 
accesso (9 gennaio 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


2020). in entrambe 
le 
ipotesi, il 
termine 
di 
legge 
per 
la conclusione 
dei 
lavori 
non risulta rispettato 
perché 
la 
relazione 
prefettizia 
attesta 
che 
la 
Commissione 
di 
accesso 
“ha 
depositato, 
in data 9 luglio 2019, la propria relazione». 


Sennonché, anche tale eccezione risulta palesemente infondata. 
Ed 
invero, 
la 
relazione 
della 
commissione 
di 
indagine 
-se 
pur 
depositata 
il 
9 
luglio 
2020 


-porta 
la 
data 
dell’8 luglio 2020. Inoltre, per regola 
generale, il 
termine 
a 
mesi 
si 
verifica 
nel 
mese 
di 
scadenza 
nel 
giorno corrispondente 
al 
giorno del 
mese 
iniziale 
(cfr. art. 2963 del 
codice 
civile). 
In ogni 
caso -come 
è 
dato evincere 
dalla 
giurisprudenza 
più recente 
-i 
termini 
di 
cui 
all’art. 143 devono considerarsi 
non perentori 
e 
manifestano l’intenzione 
del 
legislatore 
a 
indirizzare 
l’Amministrazione 
ad 
attivarsi 
nel 
più 
breve 
tempo 
possibile 
(cfr. 
T.A.R. 
per 
il 
Lazio 


-Roma, Sezione 
I, sentenza 
8 giugno 2016, n. 2454, le 
cui 
considerazioni 
-concernenti 
il 
termine 
di 
45 giorni 
previsto dalla 
norma 
per la 
relazione 
del 
Prefetto -sono chiaramente 
estensibili 
anche al caso in esame). 
Infine, 
per 
mero 
scrupolo 
difensivo, 
si 
soggiunge 
che 
per 
giurisprudenza 
pacifica 
-contrariamente 
a 
quanto 
ipotizzato 
dai 
ricorrenti 
-eventuali 
errori 
o 
inesattezze 
nella 
rappresentazione 
dei 
fatti 
posti 
a 
fondamento 
della 
misura 
dissolutoria 
sono 
del 
tutto 
«ininfluenti, 
in 
quanto 
giustificabili 
alla 
luce 
dell’ampiezza 
e 
complessità 
del 
materiale 
istruttorio 
propedeutico 
all’adozione 
del 
provvedimento 
di 
rigore» 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
III, 
ordinanza 
3 
ottobre 
2013, 
n. 
3891; 
Id., 
sentenza 
2 
luglio 
2014, 
n. 
3340). 
Inoltre, 
«la 
declaratoria 
di 
illegittimità 
del 
provvedimento 
di 
scioglimento 
non 
può 
… 
discendere 
dall’accertamento 
dell’insussistenza 
di 
qualche 
elemento, 
tra 
i 
tanti 
posti 
a 
base 
del 
provvedimento 
impugnato, 
essendo 
necessario 
dimostrare 
la 
complessiva 
illogicità 
della 
valutazione 
dell’insieme 
degli 
elementi 
acquisiti 
in 
sede 
istruttoria, 
valutati 
in 
connessione 
tra 
loro, 
come 
dimostrativi 
dell’esistenza 
di 
collegamenti 
degli 
amministratori 
con 
la 
criminalità 
organizzata, 
di 
forme 
di 
condizionamento 
degli 
amministratori 
stessi 
tali 
da 
alterare 
la 
loro 
libertà 
di 
autodeterminazione 
compromettendo 
il 
buon 
andamento 
dell’amministrazione 
comunale, 
nonché 
il 
regolare 
svolgimento 
dei 
servizi 
in 
modo 
da 
arrecare 
un 
grave 
e 
perdurante 
pregiudizio 
per 
lo 
stato 
della 
sicurezza 
pubblica» 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
III, 
sentenza 
2 
ottobre 
2017, 
n. 
4578). 


Per 
quanto 
esposto, 
si 
ritiene 
che 
il 
provvedimento 
impugnato 
non 
solo 
risponda 
ai 
criteri 
individuati 
dall’orientamento 
giurisprudenziale 
che 
si 
è 
formato 
in 
materia, 
ma 
anche 
che 
sia 
sorretto 
dalla 
presenza 
di 
quegli 
elementi 
concreti, 
univoci 
e 
rilevanti 
attraverso 
i 
quali 
si 
articolano 
e 
sviluppano 
gli 
ambiti 
di 
operatività 
del 
citato 
art. 
143, 
essendo 
emerso 
un 
quadro 
indiziario 
grave, 
adeguatamente 
trasfuso 
nella 
motivazione 
del 
decreto 
presidenziale 
di 
scioglimento. 


A 
supporto 
della 
legittimità 
della 
misura 
dissolutoria 
va 
infine 
considerato 
che 
«se 
è 
vero che 
gli 
elementi 
raccolti 
devono essere 
“concreti, univoci 
e 
rilevanti”, come 
è 
richiesto 
dalla “nuova formulazione” 
dell’art. 143, comma 1, tuel, è 
solo dall’esame 
complessivo di 
tali 
elementi 
che 
si 
può 
ricavare, 
da 
un 
lato, 
il 
quadro 
e 
il 
grado 
del 
condizionamento 
mafioso 
e, dall’altro, la ragionevolezza della ricostruzione 
operata quale 
presupposto per 
la misura 
dello 
scioglimento 
degli 
organi 
dell’ente, 
potendo 
essere 
sufficiente 
allo 
scopo 
anche 
soltanto 
un 
atteggiamento 
di 
debolezza, 
omissione 
di 
vigilanza 
e 
controllo, 
incapacità 
di 
gestione 
della 
“macchina” 
amministrativa da parte 
degli 
organi 
politici 
che 
sia stato idoneo a beneficiare 
soggetti 
riconducibili 
ad ambienti 
“controindicati”» (ex 
multis, T.A.R. per il 
Lazio -Roma, 
Sezione I, sentenza 26 luglio 2019, n. 10056). 


RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Tanto 
più 
che 
«per 
consolidato 
orientamento 
… 
lo 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale 
ai 
sensi 
dell’art. 143 t.u.e.l. non si 
giustifica, necessariamente, solo a fronte 
del 
riscontro 
di 
una molteplicità di 
aree 
di 
compromissione 
e, correlativamente, di 
canali 
di 
infiltrazione 
e 
condizionamento della criminalità organizzata di 
stampo mafioso nella vita dell’ente, potendo 
essere 
sufficiente 
a tale 
scopo, a seconda dei 
casi, anche 
l’individuazione 
di 
alcune 
situazioni, 
o 
anche 
di 
una 
sola, 
in 
cui 
si 
evidenzia 
l’asservimento 
dell’ente 
a 
vantaggio 
di 
simili 
sodalizi» (cfr. T.A.R. per il Lazio - Roma, Sezione I, sentenza 18 giugno 2019, n. 7862). 


Quanto 
alla 
domanda 
di 
risarcimento 
dei 
presunti 
danni 
subiti 
dagli 
interessati, 
la 
stessa 
si 
appalesa 
del 
tutto 
infondata, 
posto 
che, 
da 
un 
lato, 
la 
palese 
infondatezza 
del 
ricorso 
-e 
quindi 
la 
piena 
legittimità 
dell’operato 
dell’Amministrazione 
-esclude 
che 
vi 
sia 
stata 
lesione 
di 
qualsivoglia 
situazione 
soggettiva 
tutelata 
dall’ordinamento. D’altro canto, vi 
è 
totale 
carenza 
nel 
gravame 
-sotto il 
profilo dell’allegazione, ancor prima 
che 
sul 
piano della 
prova 
degli 
elementi 
richiesti 
per l’integrazione 
della 
fattispecie 
risarcitoria 
ex art. 2043 c.c., ossia 
la 
sussistenza 
di 
un danno ingiusto, del 
nesso causale 
tra 
condotta 
illecita 
ed evento e 
della 
colpa o dolo dell’amministrazione. 


Al 
riguardo, 
si 
rammenta 
inoltre 
che 
recentemente 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
rigettato 
analoghe 
richieste 
risarcitorie, 
sulla 
scorta 
della 
considerazione 
che 
l’eventuale 
illegittimità 
del 
provvedimento 
di 
scioglimento 
non 
è 
di 
per 
sé 
sufficiente 
«al 
fine 
della 
ravvisabilità 
dell’indispensabile 
presupposto 
della 
colpa 
dell’amministrazione. 
e 
ciò 
perché, 
in 
primo 
luogo, 
va 
tenuto 
conto 
delle 
<caratteristiche 
di 
quel 
provvedimento, 
conclusivo 
di 
un 
procedimento 
così 
complesso 
e 
articolato 
e 
basato 
su 
valutazioni 
altamente 
discrezionali 
di 
elementi 
e 
fatti 
anche 
avulsi 
da 
singoli 
addebiti 
personali 
o 
da 
risultanze 
e 
indagini 
penali, 
talvolta 
non 
univoci 
ma 
che 
nel 
loro 
insieme 
evidenziano, 
per 
il 
loro 
valore 
indiziario, 
un 
plausibile 
quadro 
sintomatico, 
nella 
realtà 
contingente 
del 
momento, 
della 
infiltrazione 
mafiosa 
e 
dell’assoggettamento/condizionamento 
dell’amministrazione 
comunale, 
come 
emerge 
da 
un 
controllo 
di 
natura 
preventiva 
e 
che 
giustifica 
un 
intervento 
rapido 
e 
deciso>. 
ne 
consegue 
… 
che 
risulta 
“indubbia” 
<l’insussistenza 
della 
colpa 
dell’amministrazione, 
il 
cui 
comportamento 
deve 
essere 
valutato 
nella 
contingenza 
e 
nella 
doverosità 
di 
sovvenire 
a 
esigenze 
di 
celerità, 
quindi 
al 
momento 
dell’emanazione 
del 
provvedimento, 
e 
non 
emergono 
elementi 
che 
denotino 
mala 
fede 
o 
gravi 
irregolarità 
o 
riprovevoli 
o 
poco 
commendevoli 
mancanze 
né 
un 
manifesto 
intendimento 
volto 
a 
“nuocere” 
l’interessato, 
posto 
che 
il 
provvedimento 
non 
intende 
reprimere 
la 
posizione 
dei 
singoli 
ma 
salvaguardare 
la 
P.a.» 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
III, 
sentenza 
12 
febbraio 
2015, 
n. 
748; 
Id., 
sentenza 
11 
giugno 
2018, 
n. 
3495). 


SULL’ISTAnzA DI SOSPEnSIOnE 
In ordine 
poi 
alla 
richiesta 
di 
sospensiva, la 
stessa 
si 
appalesa 
del 
tutto infondata, posto 
che 
la 
manifesta 
inconsistenza 
del 
gravame 
esclude 
che, 
nella 
fattispecie, 
sia 
ravvisabile 
il 


fumus boni iuris. 


Quanto 
al 
periculum 
in 
mora, 
occorre 
considerare 
che 
l’eventuale 
sospensione 
della 
sentenza 
impugnata 
verrebbe 
a 
compromettere 
l’azione 
di 
recupero 
della 
legalità 
proficuamente 
avviata 
dalla 
commissione 
straordinaria. E 
infatti, in questa 
sede 
non può che 
ritenersi 
prevalente 
l’interesse 
pubblico generale 
a 
mantenere 
una 
netta 
cesura 
tra 
la 
gestione 
amministrativa 
e 
influenze 
esterne, atteso altresì 
che 
ogni 
proseguimento dell’attività 
di 
governo del-
l’ente 
da 
parte 
di 
un’amministrazione 
locale 
disciolta 
sulla 
base 
degli 
elementi 
descritti 
negli 
atti 
impugnati 
determinerebbe 
un pregiudizio al 
bene 
comune 
della 
trasparenza, imparzialità 
e 
buon 
andamento 
(cfr. 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sezione 
III, 
ordinanza 
21 
settembre 
2017, 
n. 
3978). 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Tutto ciò premesso, le amministrazioni in epigrafe, come sopra rappresentate e difese 


CHIEDOnO 
che 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
sede 
giurisdizionale, 
previo 
rigetto 
dell’istanza 
di 
sospensione, 
voglia respingere l’appello avversario perché infondato, con il favore delle spese. 
Roma, 10 aprile 2020 


Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
Terza, sentenza 22 settembre 
2020 n. 5548 -Pres. F. Frattini, 
est. G. Ferrari 
-(omissis) (avv.ti 
M. Giustiniani 
e 
n. Moravia) c. la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
il 
Ministero 
dell’Interno, 
la 
Prefettura 
-Ufficio 
Territoriale 
del 
Governo 
di 
Foggia 
(avv. gen. St.). 


FATTO 


1. Con decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
22 ottobre 
2019, registrato dalla 
Corte 
dei 
Conti 
il 
25 ottobre 
2019 e 
pubblicato sulla 
GU 
Serie 
Generale 
n. 266 del 
13 novembre 
2019, 
è 
stata 
nominata 
la 
commissione 
straordinaria 
per la 
gestione 
del 
(omissis), ai 
sensi 
dell’art. 
143, d.lgs. n. 267 del 
2000, sul 
presupposto che, all’esito di 
approfonditi 
accertamenti 
sono 
emerse 
forme 
di 
ingerenza 
della 
criminalità 
organizzata 
che 
hanno 
esposto 
l’amministrazione 
a 
pressanti 
condizionamenti, 
compromettendo 
il 
buon 
andamento 
e 
l’imparzialità 
dell’attività 
comunale. 
Al 
tempo 
dell’emanazione 
di 
tale 
d.P.R., 
era 
già 
stato 
disposto, 
con 
d.P.R. 
del 
21 
maggio 
2019, 
lo 
scioglimento 
del 
Comune 
ai 
sensi 
dell’art. 
141, 
d.lgs. 
267 
del 
2000, 
a 
causa 
delle 
dimissioni 
del 
sindaco di 
(omissis), con conseguente 
gestione 
provvisoria 
dello stesso da 
parte 
del 
commissario 
straordinario. 
2. Con ricorso proposto innanzi 
al 
Tar Lazio, sede 
di 
Roma, sez. I, gli 
amministratori 
cessati 
hanno impugnato, tra 
l’altro, il 
d.P.R. del 
22 ottobre 
2019 chiedendone 
l’annullamento e, in 
via 
subordinata, l’accertamento dell’illegittimità 
per la 
condanna 
al 
risarcimento del 
danno, 
ex artt. 34, comma 3 e 32, comma 2, c.p.a. 
3. 
Con 
sentenza, 
resa 
in 
forma 
semplificata, 
(omissis), 
il 
Tar 
Lazio 
ha 
dichiarato 
il 
ricorso 
inammissibile per carenza di interesse a ricorrere. 
In particolare, il 
primo giudice 
ha 
ritenuto che 
la 
circostanza 
che 
gli 
organi 
comunali 
fossero 
già 
stati 
disciolti 
a 
causa 
delle 
dimissioni 
del 
Sindaco, avrebbe 
determinato l’impossibilità 
di 
configurare 
un 
efficace 
effetto 
ripristinatorio 
delle 
cariche 
elettive 
in 
precedenza 
ricoperte, 
sicché 
i 
ricorrenti 
non 
avrebbero 
potuto 
trarre 
alcun 
effetto 
utile 
e 
concreto 
dall’annullamento 
degli atti avversati. 
4. La 
citata 
sentenza 
(omissis) è 
stata 
impugnata 
con appello notificato e 
depositato in data 
5 
marzo 2020, riproducendo sostanzialmente 
le 
censure 
non accolte 
e 
assorbite 
in primo grado 
e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata. 
In particolare, il 
Tar avrebbe errato: 
a) nel 
non riconoscere 
un interesse 
meritevole 
di 
tutela 
in capo agli 
odierni 
appellanti 
sulla 
base 
della 
mera 
assenza 
dell’effetto ripristinatorio delle 
cariche 
elettive 
precedentemente 
ricoperte. 
Al 
contrario, 
la 
circostanza 
che 
il 
provvedimento 
amministrativo 
associ 
gli 
appellanti 
alla 
criminalità 
organizzata 
e 
che 
affermi 
che 
la 
gestione 
amministrativa 
dell’ente 
dagli 
stessi 
esple

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


tata 
abbia 
favorito l’infiltrazione 
mafiosa, sarebbe 
sufficiente 
ai 
fini 
del 
radicamento dell’interesse 
a 
ricorrere, dato che 
lederebbe 
diritti 
costituzionalmente 
garantiti 
quali 
la 
dignità 
personale, 
l’onore e la reputazione; 


b) nell’omettere 
di 
pronunciarsi 
in merito alla 
domanda 
di 
accertamento degli 
atti 
impugnati 
proposta, in via subordinata, ai sensi degli artt. 34, comma 3 e 32, comma 2, c.p.a. 
Al 
contrario, il 
Tar avrebbe 
dovuto scrutinare 
la 
domanda 
di 
accertamento dell’illegittimità 
degli 
atti, al 
fine 
di 
pronunciarsi 
sulla 
pretesa 
risarcitoria 
avanzata 
relativa, in particolare, al 
danno all’immagine subito dagli odierni appellanti; 
c) nel 
fornire 
un’interpretazione 
degli 
artt. 100 c.p.c., 1 c.p.a. e 
143 del 
d.lgs. n. 267 del 
2000 
contrastante 
con 
gli 
artt. 
3, 
11, 
24, 
103, 
113, 
117, 
comma 
1, 
Cost., 
in 
relazione 
agli 
artt. 
6 
CEDU e 47, comma 1, della Carta di nizza. 
Il 
mancato 
riconoscimento 
di 
un 
interesse 
diretto, 
concreto 
e 
attuale 
in 
capo 
agli 
ex 
componenti 
dell’amministrazione 
comunale 
avrebbe 
determinato un vuoto di 
tutela 
e 
un sostanziale 
diniego 
di 
giustizia. 
Per 
questo 
motivo 
gli 
appellanti 
hanno 
chiesto 
che 
venga 
sospeso 
il 
giudizio 
e che venga rinviata la questione alla Corte costituzionale; 
d) nel 
fornire 
un’interpretazione 
degli 
artt. 100 c.p.c., 1 c.p.a. e 
143, d.lgs. n. 267 del 
2000 
che contrasta con l’art. 47, comma 1 della Carta di nizza. 
Per questo motivo gli 
appellanti 
hanno chiesto che 
venga 
sospeso il 
giudizio e 
che 
venga 
disposta, 
ai sensi dell’art. 267 TFUE, il rinvio alla Corte di Giustizia; 
e) nell’omettere 
di 
valutare 
le 
attività 
di 
contrasto all’illegalità 
e 
alla 
criminalità 
organizzata 
poste in essere dagli amministratori durante il loro mandato. 
L’amministrazione 
comunale, rinnovata 
nelle 
consultazioni 
elettorali 
del 
31 maggio 2015 e 
sciolta 
in 
data 
21 
maggio 
2019, 
si 
sarebbe 
contraddistinta 
per 
innumerevoli 
atti 
amministrativi, 
iniziative 
socio-culturali, atti 
di 
denuncia, indirizzati 
all’affermazione 
della 
legalità 
e 
in contrasto 
con il fenomeno mafioso; 
f) nel 
non rilevare 
che 
gli 
atti 
avversati 
sarebbero caratterizzati 
da 
numerosi 
errori 
ed inesattezze 
sia 
con riferimento alle 
posizioni 
dei 
singoli 
amministratori 
coinvolti, sia 
in relazione 
all’attività amministrativa svolta dal (omissis). 
Gli 
elementi 
sintomatici 
del 
condizionamento 
mafioso 
che 
sono 
emersi 
non 
sarebbero 
concreti, 
univoci 
e 
rilevanti 
e 
non avrebbero una 
valenza 
tale 
da 
determinare 
un’alterazione 
del 
procedimento 
di 
formazione 
della 
volontà 
degli 
organi 
elettivi 
e 
amministrativi 
e 
da 
compromettere 
il buon andamento e l’imparzialità dell’ente comunale; 
g) nel 
non rilevare 
che 
il 
d.P.R. del 
22 ottobre 
2019 e 
i 
relativi 
atti 
presupposti 
sarebbero inficiati 
dalla violazione del principio di proporzionalità. 
Il 
Ministero 
dell’Interno 
non 
avrebbe 
dovuto 
proporre 
la 
sproporzionata 
misura 
della 
gestione 
commissariale 
per 
diciotto 
mesi 
ma, 
proporzionalmente, 
le 
misure 
previste 
dall’art. 
143, 
comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, a carico degli soggetti non amministratori; 
h) nel 
non ritenere 
che 
il 
d.P.R. del 
22 ottobre 
2019 -quale 
atto conclusivo dell’iter che 
ha 
condotto 
alla 
nomina 
della 
commissione 
straordinaria 
per 
la 
gestione 
dell’ente 
comunale 
fosse 
illegittimo anche 
per ragioni 
procedimentali, dato che 
sarebbe 
stato violato il 
termine 
di 
cui 
all’art. 143, comma 
2, d.lgs. n. 267 del 
2000 per la 
conclusione 
dei 
lavori 
della 
commissione 
di 
accesso incaricata 
dal 
Prefetto di 
Foggia 
a 
svolgere 
le 
indagini 
di 
rito presso il 
(omissis). 
5. La 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, il 
Ministero dell’Interno, la 
Prefettura 
-Ufficio 
Territoriale 
del 
Governo di 
Foggia 
si 
sono costituiti 
in giudizio, sostenendo l’inammissibilità 
e, comunque, l’infondatezza dell’appello. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


6. Il Consiglio dei Ministri non si è costituito in giudizio. 
7. Il (omissis) non si è costituito in giudizio. 
8. Con decreto cautelare 
(omissis) è 
stata 
respinta 
l’istanza 
di 
sospensione 
di 
efficacia 
della 
sentenza, resa 
in forma 
semplificata, del 
Tar Lazio, sede 
di 
Roma, sez. I, (omissis) ed è 
stata 
fissata, per la discussione collegiale, la camera di consiglio del 16 aprile 2020. 
9. Con ordinanza 
cautelare 
n. 1985 del 
17 aprile 
2020 è 
stata 
respinta 
l’istanza 
di 
sospensione 
cautelare 
della 
sentenza, 
resa 
in 
forma 
semplificata, 
del 
Tar 
Lazio, 
sede 
di 
Roma, 
sez. 
I, 
(omissis). 
10. All’udienza del 30 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione. 
DIRITTO 
1. Come 
esposto in narrativa, il 
Tar Lazio, con l’impugnata 
sentenza 
(omissis), ha 
dichiarato 
il 
ricorso inammissibile 
per carenza 
di 
interesse 
sul 
rilievo che 
da 
un lato non è 
configurabile 
una 
azione 
popolare 
da 
parte 
dei 
cittadini 
elettori, dall’altro, la 
circostanza 
che 
gli 
organi 
comunali 
-eletti 
a 
seguito delle 
consultazioni 
elettorali 
del 
31 maggio 2015 -fossero già 
stati 
disciolti 
a 
causa 
delle 
dimissioni 
del 
Sindaco, avrebbe 
determinato l’impossibilità 
di 
configurare 
un efficace 
effetto ripristinatorio delle 
cariche 
elettive 
in precedenza 
ricoperte, sicché 
i 
ricorrenti 
non avrebbero potuto trarre 
alcun effetto utile 
e 
concreto dall’annullamento degli 
atti avversati. 
I motivi di appello, rivolti avverso tale sentenza che decide la causa in rito, sono infondati. 
Ed invero, lo scioglimento del 
Consiglio comunale 
di 
(omissis) è 
stato disposto sull’assunto 
che 
l’amministrazione 
sarebbe 
stata 
condizionata 
da 
forme 
di 
ingerenza 
della 
criminalità 
organizzata, 
compromettendo il 
buon andamento e 
l’imparzialità 
dell’attività 
comunale. non 
può quindi 
negarsi 
un interesse, quanto meno morale, a 
che 
gli 
amministratori 
del 
disciolto 
Consiglio facciano dichiarare 
l’erroneità 
di 
tale 
affermazione 
e 
quindi 
l’inesistenza 
di 
forme 
di 
pressione 
e 
di 
vicinanza 
della 
compagine 
governativa 
alla 
malavita 
organizzata. È 
quindi 
la 
motivazione 
sottesa 
al 
provvedimento impugnato dinanzi 
al 
Tar Lazio a 
radicare 
la 
persistenza 
dell’interesse, 
potendo 
essere 
senza 
dubbio 
lesa 
l’immagine 
degli 
amministratori 
locali 
ricorrenti, ai 
quali 
viene 
addebitato di 
aver risentito, nelle 
scelte 
compiute 
nell’espletamento 
del 
mandato, dell’influenza 
della 
criminalità 
organizzata 
(Cons. St., sez. III, n. 4074 del 
24 
giugno 2020). 
2. Affermata 
la 
sussistenza 
dell’interesse 
a 
ricorrere, si 
può procedere 
ad esaminare 
il 
merito, 
dal 
momento che 
l’erronea 
declaratoria, da 
parte 
del 
Tar, di 
inammissibilità 
del 
ricorso per 
difetto di 
interesse 
non determina 
l’annullamento della 
sentenza 
con rinvio al 
primo giudice 
(Cons. St., Ad. Plen., 28 settembre 2018, n. 15). 
L’erronea 
decisione 
in rito adottata 
dal 
giudice 
di 
primo grado comporta 
l’assorbimento, per 
effetto 
della 
fondatezza 
del 
primo 
motivo, 
del 
secondo 
motivo 
di 
appello, 
con 
il 
quale 
era 
stata 
affermata 
l’erroneità 
della 
sentenza 
del 
Tar 
che 
ha 
omesso 
di 
pronunciare 
sulla 
domanda 
di 
accertamento degli 
atti 
impugnati 
ai 
sensi 
degli 
artt. 34, comma 
3, e 
32, comma 
2, c.p.a., 
nonché 
del 
terzo e 
quarto motivo, con i 
quali 
si 
chiedeva 
la 
rimessione 
della 
questione 
alla 
Corte 
costituzionale 
e 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
Ue 
perché 
accertassero, 
secondo 
le 
rispettive 
competenze, l’illegittimità 
della 
mancata 
previsione 
della 
legittimazione 
a 
proporre 
ricorso 
avverso lo scioglimento del Consiglio comunale da parte di amministratori cessati. 
nel 
merito gli 
appellanti 
deducono l’illegittimità 
del 
decreto di 
scioglimento del 
Consiglio 
comunale 
-e, dunque, della 
sentenza 
del 
Tar Lazio -per non essere 
state 
valutate 
le 
azioni 
compiute 
dagli 
amministratori 
nell’esercizio del 
loro mandato e 
per aver disposto lo scioglimento 
in mancanza di elementi concreti, univoci e rilevanti. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


3. Prima 
di 
passare 
all’esame 
dei 
motivi 
dedotti 
avverso le 
singole 
contestazioni, al 
fine 
del 
decidere 
appare 
al 
Collegio utile 
richiamare 
i 
principi 
che 
la 
giurisprudenza 
del 
giudice 
amministrativo 
e, ancora 
prima, quella 
del 
giudice 
delle 
leggi, hanno univocamente 
enunciato 
con specifico riferimento alle 
ipotesi 
di 
collegamenti 
diretti 
o indiretti 
degli 
amministratori 
comunali 
con la 
criminalità 
organizzata 
locale 
ovvero al 
condizionamento dei 
primi 
ad opera 
della 
seconda, il 
tutto per effetto della 
presenza 
di 
fenomeni 
criminali 
radicati 
e 
organizzati 
nel territorio. 
Ha 
premesso la 
Corte 
costituzionale 
19 marzo 1993, n. 103 che 
il 
potere 
di 
scioglimento in 
questione 
deve 
essere 
esercitato 
in 
presenza 
di 
situazioni 
di 
fatto 
che 
compromettono 
la 
libera 
determinazione 
degli 
organi 
elettivi, 
suffragate 
da 
risultanze 
obiettive 
e 
con 
il 
supporto 
di 
adeguata 
motivazione; 
tuttavia, 
la 
presenza 
di 
risultanze 
obiettive 
esplicitate 
nella 
motivazione, 
anche 
ob relationem, del 
provvedimento di 
scioglimento non deve 
coincidere 
con la 
rilevanza 
penale 
dei 
fatti, né 
deve 
essere 
influenzata 
dall'esito degli 
eventuali 
procedimenti 
penali. Detta 
misura, ai 
sensi 
dell'art. 143, t.u. 18 agosto 2000, n. 267, non ha 
natura 
di 
provvedimento 
di 
tipo sanzionatorio ma 
preventivo, con la 
conseguenza 
che, ai 
fini 
della 
sua 
adozione, 
è 
sufficiente 
-come 
meglio 
si 
chiarirà 
-la 
presenza 
di 
elementi 
che 
consentano 
di 
individuare 
la 
sussistenza 
di 
un 
rapporto 
tra 
l'organizzazione 
mafiosa 
e 
gli 
amministratori 
del-
l'ente 
considerato infiltrato (Cons. St., sez. III, 11 ottobre 
2019, n. 6918; 
id. 10 gennaio 2018, 
n. 96; id. 7 dicembre 2017, n. 5782). 
In questa 
logica 
-che, come 
acutamente 
osserva 
Cons. St., sez. V, 14 maggio 2003, n. 2590, 
non ha 
finalità 
repressive 
nei 
confronti 
di 
singoli, ma 
di 
salvaguardia 
dell’amministrazione 
pubblica 
di 
fronte 
alla 
pressione 
e 
all’influenza 
della 
criminalità 
organizzata 
-trovano giustificazione 
i 
margini, 
particolarmente 
ampi, 
della 
potestà 
di 
apprezzamento 
di 
cui 
fruisce 
l'Amministrazione 
e 
la 
possibilità 
di 
dare 
peso 
anche 
a 
situazioni 
non 
traducibili 
in 
addebiti 
personali, ma 
tali 
da 
rendere 
plausibile, nella 
concreta 
realtà 
contingente 
e 
in base 
ai 
dati 
del-
l'esperienza, l'ipotesi 
di 
una 
possibile 
soggezione 
degli 
amministratori 
alla 
criminalità 
organizzata, 
quali 
i 
vincoli 
di 
parentela 
o di 
affinità, i 
rapporti 
di 
amicizia 
o di 
affari, le 
notorie 
frequentazioni, ecc. 
La 
misura 
dello scioglimento risponde, dunque, ad un’esigenza 
di 
prevenzione 
anticipata 
di 
fronte 
alla 
minaccia 
della 
criminalità 
organizzata 
e 
si 
connota 
quale 
misura 
di 
carattere 
straordinario 
per fronteggiare 
un’emergenza 
straordinaria; 
di 
conseguenza 
sono giustificati 
margini 
ampi 
nella 
potestà 
di 
apprezzamento dell’Amministrazione 
nel 
valutare 
gli 
elementi 
su 
collegamenti 
diretti 
o 
indiretti, 
non 
traducibili 
in 
singoli 
addebiti 
personali, 
ma 
tali 
da 
rendere 
plausibile 
il 
condizionamento degli 
amministratori, anche 
quando, come 
si 
è 
detto, il 
valore 
indiziario dei 
dati 
non è 
sufficiente 
per l’avvio dell’azione 
penale, essendo assi 
portanti 
della 
valutazione 
di 
scioglimento, da 
un lato, l’accertata 
o notoria 
diffusione 
sul 
territorio della 
criminalità 
organizzata 
e, 
dall’altro, 
le 
precarie 
condizioni 
di 
funzionalità 
dell’ente 
in 
conseguenza 
del 
condizionamento criminale. L’art. 143, d.lgs. n. 267 del 
2000 delinea, in sintesi, 
un modello di 
valutazione 
prognostica 
in funzione 
di 
un deciso avanzamento del 
livello istituzionale 
di 
prevenzione, con riguardo ad un evento di 
pericolo per l’ordine 
pubblico quale 
desumibile 
dal 
complesso degli 
effetti 
derivanti 
dai 
“collegamenti” 
o dalle 
“forme 
di 
condizionamento” 
in termini 
di 
compromissione 
della 
“libera 
determinazione 
degli 
organi 
elettivi, 
del 
“buon andamento delle 
amministrazioni”, nonché 
del 
“regolare 
funzionamento dei 
servizi”, 
ovvero in termini 
di 
“grave 
e 
perdurante 
pregiudizio per lo stato della 
sicurezza 
pubblica”: 
perciò, anche 
per “situazioni 
che 
non rivelino né 
lascino presumere 
l’intenzione 
degli 
amministratori 
di 
assecondare 
gli 
interessi 
della 
criminalità 
organizzata”, 
giacché, 
in 
tal 
caso, 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


sussisterebbero 
i 
presupposti 
per 
l'avvio 
dell'azione 
penale 
o, 
almeno, 
per 
l'applicazione 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
a 
carico degli 
amministratori, mentre 
la 
scelta 
del 
legislatore 
è 
stata 
quella 
di 
non subordinare 
lo scioglimento del 
consiglio comunale 
né 
a 
tali 
circostanze 
né 
al 
compimento di 
specifiche 
illegittimità 
(Cons. St., sez. V, 15 luglio 2005, n. 3784; 
id., sez. IV, 
10 
marzo 
2004, 
n. 
1156). 
È 
stato 
ripetutamente 
affermato 
che, 
rispetto 
alla 
pur 
riscontrata 
commissione 
di 
atti 
illegittimi 
da 
parte 
dell’Amministrazione, 
è 
necessario 
un 
quid 
pluris, 
consistente 
in 
una 
condotta, 
attiva 
od 
omissiva, 
condizionata 
dalla 
criminalità 
anche 
in 
quanto 
subita, riscontrata 
dall’Amministrazione 
competente 
con discrezionalità 
ampia, ma 
non disancorata 
da 
situazioni 
di 
fatto suffragate 
da 
obiettive 
risultanze 
che 
diano attendibilità 
alle 
ipotesi 
di 
collusione, così 
da 
rendere 
pregiudizievole, per i 
legittimi 
interessi 
della 
comunità 
locale, il 
permanere 
alla 
sua 
guida 
degli 
organi 
elettivi. Ciò in quanto l’art. 143 t.u.e.l. precisa 
le 
caratteristiche 
di 
obiettività 
delle 
risultanze 
da 
identificare, 
richiedendo 
che 
esse 
siano 
concrete, 
e 
perciò 
fattuali, 
univoche, 
ovvero 
non 
di 
ambivalente 
interpretazione, 
rilevanti, 
in 
quanto 
significative 
di 
forme 
di 
condizionamento 
(Corte 
cost. 
19 
marzo 
1993, 
n. 
103; 
id., 
sez. 
IV, 10 marzo 2011, n. 1547; 
id. 24 aprile 
2009, n. 2615; 
id. 21 maggio 2007, n. 2583; 
id., sez. 
VI, 10 marzo 2011, n. 1547; id. 17 gennaio 2011, n. 227; id. 15 marzo 2010, n. 1490). 
Peraltro, 
come 
chiarito 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
(sez. 
III, 
2 
luglio 
2014, 
n. 
3340), 
proprio 
la 
straordinarietà 
di 
tale 
misura 
e 
la 
sua 
fondamentale 
funzione 
di 
contrasto alla 
ormai 
capillare 
diffusione 
della 
criminalità 
mafiosa 
sull’intero territorio nazionale 
hanno portato a 
ritenere 
che 
“la 
modifica 
normativa 
al 
t.u.e.l., per la 
quale 
gli 
elementi 
fondanti 
i 
provvedimenti 
di 
scioglimento 
devono essere 
‘concreti, univoci 
e 
rilevanti’, non implica 
la 
regressione 
della 
ratio 
sottesa 
alla 
disposizione”, poiché 
“la 
finalità 
perseguita 
dal 
legislatore 
è 
rimasta 
quella 
di 
offrire 
uno strumento di 
tutela 
avanzata, in particolari 
situazioni 
ambientali, nei 
confronti 
del 
controllo 
e 
dell’ingerenza 
delle 
organizzazioni 
criminali 
sull’azione 
amministrativa 
degli 
enti 
locali, in presenza 
anche 
di 
situazioni 
estranee 
all’area 
propria 
dell’intervento penalistico o 
preventivo” 
(Cons. St., sez. III, 23 aprile 
2014, n. 2038). Ciò nell’evidente 
consapevolezza 
della 
scarsa 
percepibilità, in tempi 
brevi, delle 
varie 
concrete 
forme 
di 
connessione 
o di 
contiguità 
e, 
dunque, 
di 
condizionamento 
fra 
le 
organizzazioni 
criminali 
e 
la 
sfera 
pubblica 
e 
nella 
necessità 
di 
evitare, con immediatezza, che 
l’amministrazione 
dell’ente 
locale 
rimanga 
permeabile all’influenza della criminalità organizzata. 
L’operazione 
in 
cui 
consiste 
l’apprezzamento 
giudiziale 
delle 
collusioni 
e 
dei 
condizionamenti 
non può essere 
effettuata 
mediante 
l’estrapolazione 
di 
singoli 
fatti 
ed episodi, al 
fine 
di 
contestare 
l'esistenza 
di 
taluni 
di 
essi 
ovvero di 
sminuire 
il 
rilievo di 
altri 
in sede 
di 
verifica 
del 
giudizio conclusivo sull'operato consiliare; 
ciò in quanto, in presenza 
di 
un fenomeno di 
criminalità 
organizzata 
diffuso 
nel 
territorio 
interessato 
dalla 
misura 
di 
cui 
si 
discute, 
gli 
elementi 
posti 
a 
conferma 
di 
collusioni, collegamenti 
e 
condizionamenti 
vanno considerati 
nel 
loro insieme, 
e 
non atomisticamente, poiché 
solo dal 
loro esame 
complessivo può ricavarsi 
la 
ragionevolezza 
della 
ricostruzione 
di 
una 
situazione 
identificabile 
come 
presupposto 
per 
l’adozione 
della 
misura 
stessa 
(Cons. St., sez. III, 10 gennaio 2018, n. 96; 
id. 7 dicembre 
2017, n. 5782; 
id. 2 luglio 2014, n. 3340; 
id. 14 febbraio 2014, n. 727; 
id., sez. IV, 6 aprile 
2005, n. 1573; 
id. 
4 febbraio 2003, n. 562; 
id., sez. V, 22 marzo 1998, n. 319; 
id. 3 febbraio 2000, n. 585). Peraltro, 
idonee 
a 
costituire 
presupposto per lo scioglimento dell’organo comunale 
sono anche 
situazioni 
che, 
di 
per 
sé, 
non 
rivelino 
direttamente, 
né 
lascino 
presumere 
l'intenzione 
degli 
amministratori 
di 
assecondare 
gli 
interessi 
della 
criminalità 
organizzata 
(Cons. St., sez. VI, 
24 aprile 2009, n. 2615 e id. 6 aprile 2005, n. 1573). 
In sostanza, il 
provvedimento di 
scioglimento degli 
organi 
comunali 
deve 
essere 
la 
risultante 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


di 
una 
ponderazione 
comparativa 
tra 
valori 
costituzionali 
parimenti 
garantiti, quali 
l'espressione 
della 
volontà 
popolare, 
da 
un 
lato, 
e, 
dall'altro, 
la 
tutela 
dei 
principi 
di 
libertà, 
uguaglianza 
nella 
partecipazione 
alla 
vita 
civile, nonché 
di 
imparzialità, di 
buon andamento e 
di 
regolare 
svolgimento dell'attività 
amministrativa, rafforzando le 
garanzie 
offerte 
dall'ordinamento 
a 
tutela 
delle 
autonomie 
locali. Il 
livello istituzionale 
degli 
organi 
competenti 
ad adottare 
tale 
provvedimento 
(il 
provvedimento 
è 
disposto 
con 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica, previa 
deliberazione 
del 
Consiglio dei 
Ministri, su proposta 
del 
Ministro dell'interno, 
formulata 
con apposita 
relazione 
di 
cui 
forma 
parte 
integrante 
quella 
inizialmente 
elaborata 
dal 
prefetto) garantisce 
l'apprezzamento del 
merito e 
la 
ponderazione 
degli 
interessi 
coinvolti. 
La 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
è 
andata 
oltre, 
osservando 
(sez. 
III, 
24 
giugno 
2020, n. 4074; 
sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 665) che 
nel 
provvedimento di 
scioglimento 
non vi 
è 
contrapposizione, ma 
sostanziale 
identità 
di 
tutela 
tra 
diritto costituzionale 
di 
elettorato 
e 
lotta 
alla 
criminalità 
proprio 
perché 
la 
norma, 
che 
legittima 
lo 
scioglimento 
dei 
Consigli, 
lo condiziona 
al 
presupposto dell'emersione, da 
un'approfondita 
istruttoria, di 
forme 
di 
pressione 
della criminalità che non consentono il libero esercizio del mandato elettivo. 
Tutto 
quanto 
sopra 
chiarito 
spiega 
perché, 
nell’ipotesi 
di 
scioglimento 
del 
Consiglio 
comunale 
per infiltrazioni 
mafiose 
-finalizzato, dunque, a 
contrastare 
una 
patologia 
del 
sistema 
democratico 
-l’Amministrazione 
gode 
di 
ampia 
discrezionalità, considerato che 
non si 
richiede 
né 
che 
la 
commissione 
di 
reati 
da 
parte 
degli 
amministratori, né 
che 
i 
collegamenti 
tra 
l’amministrazione 
e 
le 
organizzazioni 
criminali 
risultino da 
prove 
inconfutabili, dimostrandosi 
sufficienti 
elementi 
univoci 
e 
coerenti 
volti 
a 
far 
ritenere 
un 
collegamento 
tra 
l’Amministrazione 
e 
i 
gruppi 
criminali. 
Il 
sindacato 
del 
giudice 
amministrativo 
sulla 
ricostruzione 
dei 
fatti 
e 
sulle 
implicazioni 
desunte 
dagli 
stessi 
non può quindi 
spingersi 
oltre 
il 
riscontro della 
correttezza 
logica 
e 
del 
non travisamento dei 
fatti, essendo rimesso il 
loro apprezzamento alla 
più ampia 
discrezionalità dell’autorità amministrativa (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2014, n. 4845). 
Il 
controllo sulla 
legittimità 
dei 
provvedimenti 
adottati 
si 
caratterizza 
come 
estrinseco, nei 
limiti 
del 
vizio di 
eccesso di 
potere 
quanto all’adeguatezza 
dell’istruttoria, alla 
ragionevolezza 
del 
momento 
valutativo, 
nonché 
alla 
congruità 
e 
proporzionalità 
rispetto 
al 
fine 
perseguito 
(Cons. St., sez. III, 10 gennaio 2018, n. 96). In sede 
giurisdizionale 
non è 
dunque 
necessario, 
come 
si 
è 
detto, un puntiglioso e 
cavilloso accertamento di 
ogni 
singolo episodio, più o meno 
in 
sé 
rivelatore 
della 
volontà 
degli 
amministratori 
di 
assecondare 
gli 
interessi 
della 
criminalità 
organizzata, né 
delle 
responsabilità 
personali, anche 
penali, di 
questi 
ultimi 
(Cons. St., sez. 
III, 6 marzo 2012, n. 1266). 


4. Tutto ciò premesso, si 
può ora 
passare 
all’esame 
dei 
singoli 
profili 
di 
doglianza, che 
risultano 
infondati, 
resistendo 
l’impugnato 
scioglimento 
ai 
motivi 
dedotti 
avverso 
l’esito 
degli 
accertamenti 
esperiti 
dall’organo 
ispettivo, 
che 
hanno 
fatto 
emergere 
un 
quadro 
fattuale 
ancorato 
a 
prassi 
amministrative 
illegittime 
che 
denunciano una 
obiettiva 
permeabilità 
dell’ente 
alle 
pregiudizievoli 
ingerenze 
delle 
organizzazioni 
criminali 
presenti 
nell’area 
su 
cui 
insiste 
il 
(omissis) (in particolare, (omissis)), che 
esercitano un forte 
potere 
di 
intimidazione 
nei 
confronti 
delle 
comunità 
locali, contrapponendosi 
spesso, anche 
di 
recente, in sanguinose 
faide 
sfociate 
in episodi 
di 
lupara 
bianca 
ed in efferati 
omicidi, portati 
ad esecuzione 
con modalità 
spregiudicate ed eclatanti e con una particolare pericolosità e ferocia. 
La 
permeabilità 
dell’Amministrazione 
comunale 
alla 
locale 
criminalità 
organizzata 
-anche 
attraverso 
una 
mala 
gestio 
della 
cosa 
pubblica 
-emerge 
in 
tutta 
la 
sua 
evidenza 
dalla 
relazione 
depositata 
dalla 
Commissione 
insediatasi 
il 
9 
gennaio 
2019 
per 
effettuare, 
presso 
il 
(omissis), 
gli 
accertamenti 
previsti 
dall'art. 
1, 
comma 
4, 
d.l. 
n. 
629 
del 
1982, 
convertito 
con 
l. 
n. 
726 
del 
1982. 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


Una 
visione 
globale 
e 
non atomistica 
degli 
episodi 
rappresentati 
dalla 
Commissione 
di 
indagine 
supporta 
il 
decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
che 
ha 
disposto lo scioglimento del 
Consiglio comunale, sulla 
base 
della 
proposta 
del 
Ministro dell’interno e 
della 
relativa 
relazione 
prefettizia. 
In particolare, sono stati 
individuati, quali 
episodi 
che 
rendono, nel 
loro insieme, “più probabile 
che 
non” 
la 
contiguità 
dell’Amministrazione 
locale 
agli 
ambienti 
della 
criminalità 
organizzata: 
a) 
le 
assidue 
frequentazioni 
tra 
un 
personaggio 
di 
primo 
piano 
della 
criminalità 
garganica 
e 
alcuni 
componenti 
del 
nucleo familiare 
del 
vice 
Sindaco, il 
quale, a 
seguito delle 
consultazioni 
amministrative 
del 
2015, è 
risultato il 
candidato che 
ha 
conseguito il 
maggior 
numero 
di 
preferenze; 
b) 
il 
fatto 
che 
a 
febbraio 
2018, 
il 
sindaco 
-dimessosi 
nello 
scorso 
mese 
di 
marzo 
ed 
al 
suo 
secondo 
mandato 
consecutivo 
quale 
organo 
di 
vertice 
dell’amministrazione 
comunale, della 
quale 
aveva 
già 
fatto parte, in qualità 
di 
assessore 
e 
poi 
di 
consigliere, dal 
1992 al 
2003 -ha 
reso omaggio alla 
memoria 
di 
un istruttore 
sportivo, stretto parente 
di 
un 
soggetto di 
notevole 
spessore 
criminale, pubblicando parole 
di 
stima 
e 
cordoglio su un noto 
social 
network; 
c) 
la 
circostanza 
che 
nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
l’esercizio di 
stabilimenti 
balneari 
sono state 
rilevate 
gravi, reiterate 
anomalie 
ed irregolarità 
nonché la 
sistematica 
disapplicazione 
del 
protocollo d’intesa 
sottoscritto con la 
Prefettura di 
Foggia 
a 
luglio 
2017, 
in 
base 
al 
quale 
il 
(omissis) 
si 
era 
impegnato 
a 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
ex art. 91, d.lgs. 6 settembre 
2011, n. 159 in caso di 
presentazione 
di 
una 
segnalazione 
certificata di inizio attività ovvero di una domanda di consenso ai sensi degli artt. 19 e 
20, l. 7 luglio 1990, n. 241; 
d) che 
il 
Comune 
ha 
omesso di 
richiedere 
tempestivamente 
le 
informazioni 
antimafia 
con 
riferimento 
alla 
segnalazione 
certificata 
di 
inizio 
attività 
presentata, 
a 
giugno 2018, da 
un’impresa 
della 
quale 
risulta 
socio un consigliere 
comunale 
ed il 
cui 
amministratore 
unico nonché 
socio di 
maggioranza 
è 
parente 
convivente 
di 
un soggetto considerato 
al 
vertice 
della 
locale 
famiglia 
malavitosa; 
il 
citato 
amministratore 
unico 
annovera 
stretti 
vincoli 
familiari 
con altri 
esponenti 
di 
quella 
famiglia, tra 
i 
quali 
il 
defunto capostipite 
e 
due 
noti 
capoclan, di 
cui 
uno assassinato nel 
2009 e 
l’altro ad agosto 2017 nella 
c.d. strage 
di 
San Marco in Lamis; 
solo su sollecitazione 
della 
Prefettura, ad agosto 2018, il 
Comune 
ha 
provveduto a 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
nei 
confronti 
dell’impresa 
in argomento, 
la 
quale 
è 
stata 
successivamente 
destinataria 
di 
un’informativa 
interdittiva; 
e) che 
il 
Comune 
ha 
omesso di 
richiedere 
le 
informazioni 
antimafia 
nei 
confronti 
di 
una 
società 
titolare 
di 
un 
chiosco bar, pur dopo che 
l’amministratore 
unico pro tempore 
della 
stessa 
è 
stato tratto in arresto 
il 
16 ottobre 
2018, in esecuzione 
di 
un’ordinanza 
applicativa 
di 
misure 
restrittive 
della 
libertà 
personale 
emessa 
dal 
giudice 
per le 
indagini 
preliminari 
presso il 
Tribunale 
di 
Bari 
a 
conclusione 
delle 
operazione 
condotta 
dalla 
locale 
direzione 
distrettuale 
antimafia 
sulla 
c.d. 
strage 
di 
San Marco in Lamis 
di 
agosto 2017; 
f) che 
nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per impianti 
di 
acquacoltura 
le 
verifiche 
svolte 
in sede 
ispettiva 
hanno posto in rilievo 
gravi 
e 
diffuse 
anomalie. Inoltre, con specifico riferimento alle 
concessioni 
rilasciate 
a 
decorrere 
dal 
2017, la 
Commissione 
di 
indagine 
ha 
rilevato che 
il 
Comune 
ha 
omesso di 
richiedere 
le 
prescritte 
informazioni 
antimafia, limitandosi 
in alcuni 
casi 
ad acquisire 
una 
semplice 
comunicazione 
antimafia 
ovvero 
una 
mera 
autocertificazione 
da 
parte 
dei 
concessionari, 
in violazione 
degli 
artt. 89 e 
91, d.lgs. n. 159 del 
2011; 
alcune 
imprese 
titolari 
di 
concessioni 
demaniali 
marittime 
per 
impianti 
di 
acquacoltura 
sono 
risultate 
vicine 
ad 
ambienti 
malavitosi, 
atteso 
che 
il 
rappresentante 
legale 
dell’una 
annovera 
rapporti 
di 
frequentazione 
con 
esponenti 
della 
criminalità 
organizzata 
ed un dipendente 
dell’altra 
è 
stretto parente 
di 
un soggetto ritenuto 
personaggio di 
vertice 
di 
una 
consorteria 
locale; 
g) la 
circostanza 
che 
per il 
servizio di 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


trasporto di 
persone 
decedute, l’amministrazione 
comunale 
ha 
continuato ad avvalersi, tra 
le 
altre, di 
una 
ditta 
di 
onoranze 
funebri 
pur dopo che 
la 
stessa 
era 
stata 
destinataria 
di 
un’informativa 
interdittiva 
adottata 
dalla 
Prefettura 
di 
Foggia; 
h) 
che 
nel 
settore 
urbanistico 
sono 
stati 
riscontrati 
diffusi 
fenomeni 
di 
abusivismo edilizio riconducibile 
a 
soggetti 
vicini 
o intranei 
alla 
criminalità 
organizzata 
locale 
nei 
confronti 
dei 
quali 
l’ente 
è 
rimasto 
sostanzialmente 
inerte, omettendo di 
porre 
in essere 
i 
dovuti 
accertamenti 
e 
di 
adottare 
le 
prescritte 
sanzioni 
ovvero 
di 
portare 
ad 
esecuzione 
le 
diffide 
di 
sgombero 
e 
demolizione; 
tra 
i 
manufatti 
in 
parola 
è 
compreso un impianto sportivo realizzato da 
un noto capoclan e 
che 
in relazione 
a 
tale 
impianto 
l’ente 
risulta 
avere 
introitato una 
cospicua 
somma 
a 
titolo di 
oblazione, pur trattandosi 
di 
un abuso edilizio non sanabile; 
i) il 
servizio di 
riscossione 
dei 
tributi 
locali 
è 
stato svolto 
da 
una 
società 
mista 
con partecipazione 
maggioritaria 
del 
(omissis), in forza 
di 
un contratto 
di 
servizio stipulato nel 
2007 con scadenza 
a 
dicembre 
2016. Sennonché, la 
durata 
del 
contratto 
in questione 
è 
stata 
ripetutamente 
prorogata 
con determine 
dirigenziali 
adottate 
in violazione 
dell’art. 106, comma 
11, d.lgs. 18 aprile 
2016, n. 50, nonostante 
l’amministrazione 
comunale 
fosse 
stata 
invitata 
ad 
espletare 
la 
prescritta 
procedura 
ad 
evidenza 
pubblica 
per 
l’affidamento del 
servizio sia 
dall’Autorità 
nazionale 
anticorruzione 
con apposito parere 
indirizzato 
al 
sindaco 
a 
luglio 
2017 
sia, 
ripetutamente, 
dal 
Segretario 
generale 
dell’ente 
in 
qualità 
di 
responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione; 
in relazione 
a 
tale 
vicenda, è 
emerso che 
nell’ambito degli 
organi 
direttivi 
nonché 
tra 
i 
dipendenti 
della 
società 
mista 
a 
suo tempo affidataria 
del 
servizio di 
riscossione 
dei 
tributi 
figurano soggetti 
vicini 
per rapporti 
familiari 
o 
di 
frequentazione 
a 
figure 
di 
spicco dei 
sodalizi 
radicati 
nel 
territorio. Uno di 
tali 
soggetti 
riveste 
altresì 
la 
carica 
di 
amministratore 
dell’impresa 
subentrata 
nella 
predetta 
società 
mista 
in luogo dell’originario socio privato, a 
seguito della 
cessione 
del 
ramo di 
azienda 
da 
parte 
di 
quest’ultimo; 
soltanto il 
successivo 30 novembre 
ha 
inoltrato richiesta 
di 
informazioni 
antimafia 
nei 
confronti 
della 
menzionata 
impresa 
subentrante, la 
quale 
è 
risultata 
poi 
destinataria 
di 
un 
provvedimento 
interdittivo 
emesso 
dalla 
Prefettura 
di 
Foggia 
il 
16 
settembre 
2019; 
anche 
tra 
i 
dipendenti 
di 
un’altra 
società 
partecipata 
dal 
Comune 
ed 
affidataria 
del 
servizio 
di 
raccolta 
dei 
rifiuti 
solidi 
urbani, è 
stata 
riscontrata 
la 
presenza 
di 
persone 
intranee 
ovvero vicine 
per 
rapporti familiari ad ambienti criminali. 

5. I motivi dedotti dagli appellanti sulla rilevanza di tali questioni non sono fondati. 
non 
è 
fondato 
il 
quinto 
motivo, 
con 
il 
quale 
si 
deduce 
che 
illegittimamente 
l’Amministrazione 
non ha 
considerato le 
attività 
poste 
in essere 
dall’amministrazione 
comunale 
per contrastare 
la 
criminalità 
organizzata 
locale, 
quali: 
la 
convocazione 
da 
parte 
del 
(omissis) 
di 
una 
riunione 
del 
Comitato nazionale 
per l’ordine 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, presso il 
Municipio di 
(omissis); 
l’adesione, il 
2 luglio 2012, al 
c.d. “Patto per la 
sicurezza 
tra 
Prefettura 
di 
Foggia, Provincia 
di 
Foggia 
e 
i 
Comuni 
dell’area 
garganica”; 
nell’aprile 
2011, 
la 
messa 
a 
disposizione 
di 
un 
bene 
confiscato 
alla 
mafia 
per 
l’ufficio 
decentrato 
della 
Direzione 
distrettuale 
antimafia 
di 
Bari; 
nel 
luglio 
2010, 
la 
richiesta, 
da 
parte 
l’Amministrazione 
comunale, 
di 
realizzare 
una 
nuova 
sede 
per il 
Commissariato della 
Polizia 
di 
Stato; 
la 
sottoscrizione, in data 
9 novembre 
2012, di 
un Protocollo di 
intesa 
tra 
la 
Prefettura 
UTG 
di 
Foggia 
e 
il 
(omissis) per la 
gestione 
dei 
ricorsi 
ex art. 203 del 
Codice 
della 
strada, al 
fine 
di 
incrementare 
e 
rendere 
maggiormente 
tempestivo il 
flusso di 
informazioni 
che 
gli 
organi 
accertatori 
devono rendere 
al 
Prefetto ai 
sensi 
del 
Codice 
della 
Strada; 
la 
deliberazione 
di 
Giunta 
comunale 
n. 
17 
del 
27 
gennaio 
2017, 
con 
la 
quale 
l’Amministrazione 
comunale 
ha 
approvato 
il 
Protocollo 
d'Intesa 
con 
la 
Prefettura 
UTG 
di 
Foggia 
e 
gli 
altri 
comuni 
limitrofi, avente 
ad oggetto: 
"Le 
autorizzazioni 
e 
le 
licenze 
amministrative: 
le 
nuove 
frontiere 
degli 
interessi 
mafiosi 
e 
le 
attività 
di 
prevenzione"; 
con ri

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


ferimento 
al 
fenomeno 
dell’abusivismo 
edilizio, 
la 
firma 
del 
Protocollo 
di 
intesa 
tra 
il 
(omissis) 
e 
la 
Procura 
della 
Repubblica 
di 
Foggia, approvato con la 
deliberazione 
di 
Giunta 
comunale 
il 
10 
aprile 
2019, 
finalizzato 
a 
rendere 
più 
efficace 
la 
sinergia 
tra 
l’Autorità 
giudiziaria 
e 
quella 
amministrativa 
nel 
contrasto 
dell’abusivismo 
edilizio 
e 
nell’esecuzione 
degli 
interventi 
di 
demolizione 
in danno da 
parte 
del 
Comune; 
l’approvazione 
del 
“Patto per l’attuazione 
della 
sicurezza 
urbana” 
(deliberazione 
della 
Giunta 
comunale 
n. 
118 
del 
14 
giugno 
2018) 
per 
la 
prevenzione 
e 
il 
contrasto alle 
forme 
di 
illegalità 
nel 
territorio comunale; 
l’adozione, con deliberazione 
di 
Giunta 
comunale 
n. 21 del 
24 marzo 2018, del 
regolamento sulle 
sale 
da 
gioco 
e 
sui 
giochi 
leciti 
per contrastare 
il 
fenomeno della 
ludopatia; 
il 
sostegno, dopo la 
strage 
di 
San 
Marco 
in 
Lamis, 
avvenuta 
il 
9 
agosto 
2017, 
alle 
iniziative 
finalizzate 
alla 
istituzione 
delle 
sedi 
distaccate 
della 
Corte 
d’appello di 
Bari, della 
Direzione 
nazionale 
antimafia 
e 
della 
Direzione 
distrettuale 
antimafia 
e 
contro 
la 
soppressione 
di 
quelle 
già 
esistenti; 
24 
encomi 
solenni 
agli 
operatori 
delle 
forze 
dell’ordine; 
l’impego, durante 
il 
primo mandato, di 
contrasto alla 
criminalità 
di 
stampo 
mafioso; 
10 
iniziative 
socio 
-culturali 
costituendi 
segni 
tangibili 
di 
lotta 
alla malavita locale. 
Rileva 
il 
Collegio come 
correttamente 
tutti 
questi 
episodi 
non sono stati 
considerati 
nella 
relazione 
della 
Commissione 
di 
indagine, essendo la 
gran parte 
di 
essi 
riferita 
alla 
prima 
consiliatura, 
con la 
conseguenza 
che 
alcuna 
rilevanza 
avrebbero potuto avere 
per comprovare 
la 
mancanza 
di 
contiguità 
con gli 
ambienti 
malavitosi; 
i 
pochi 
fatti, invece, riferiti 
al 
secondo 
mandato 
non 
sono 
certo 
tali, 
per 
quantità 
e 
contenuto, 
a 
costituire 
neanche 
un 
principio 
di 
prova della lotta alla malavita che gli amministratori avrebbero condotto. 

6. Con il 
sesto motivo gli 
appellanti 
deducono l’illegittimità 
dell’impugnato decreto di 
scioglimento 
per essere 
la 
relazione 
della 
Commissione 
di 
indagine 
generica 
e 
per contenere 
riferimenti 
al 
contesto 
territoriale 
ed 
ambientale 
nonché 
a 
fatti 
temporalmente 
collocabili 
al 
primo mandato. 
Deve 
essere 
respinta 
la 
prima 
censura 
dedotta 
con 
il 
sesto 
motivo, 
alla 
luce 
di 
un 
costante 
orientamento 
di 
questa 
Sezione 
(11 
ottobre 
2019, 
n. 
6918). 
Ed 
invero, 
gli 
elementi 
individuati 
dalla 
Commissione 
di 
indagine 
vanno 
contestualizzati 
territorialmente, 
tenuto 
conto 
della 
valenza 
che determinate condotte possono assumere in particolari contesti ambientali. 
La 
Sezione 
ha 
osservato (18 luglio 2019, n. 5077; 
17 giugno 2019, n. 4026) che 
il 
condizionamento 
ambientale 
può rilevare 
come 
fattore 
funzionale, allorquando, cioè, le 
cosche 
incidono 
sulla 
gestione 
amministrativa 
dell’ente, 
ricevendone 
sicuri 
vantaggi, 
e 
solo 
una 
valutazione 
complessiva, 
contestualizzata 
anche 
sul 
piano 
territoriale, 
può 
condurre 
ad 
un 
appropriato 
esame 
della 
delibera 
di 
scioglimento, quale 
tutela 
avanzata 
approntata 
dall’ordinamento 
giuridico, in virtù di 
una 
valutazione 
degli 
elementi, posti 
a 
base 
della 
delibera, che 
costituisca bilanciata sintesi e mai mera sommatoria dei singoli elementi stessi. 
Correttamente 
dunque 
la 
Commissione 
prima 
e 
la 
Prefettura 
poi 
hanno messo in luce 
il 
contesto 
territoriale 
su cui 
ricade 
il 
(omissis) -limitrofo ai 
Comuni 
(omissis), i 
cui 
Consigli 
comunali 
sono stati 
sciolti 
ex art. 143, t.u. n. 267 del 
2000, con provvedimenti 
confermati 
dal 
giudice 
amministrativo -e 
le 
pesanti 
ingerenze 
che 
in questo contesto hanno le 
cosche 
locali 
-che, diversamente 
da 
quanto sembra 
affermare 
parte 
appellante, comunque 
resistono ai 
pur 
tanti 
interventi 
dello Stato -le 
quali 
riescono ad aumentare 
i 
profitti 
dei 
loschi 
affari 
proprio 
insinuandosi nelle 
Amministrazioni locali. 
7. 
Con 
la 
seconda 
censura, 
anch’essa 
dedotta 
con 
il 
sesto 
motivo, 
parte 
appellante 
afferma 
l’erronea 
valutazione 
dei 
richiamati 
fatti 
a 
supporto della 
decisione 
di 
sciogliere 
il 
Consiglio 
comunale. 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Rileva 
il 
Collegio che 
dei 
molteplici 
fatti 
che 
la 
Prefettura 
ha 
segnalato quali 
indici 
rilevatori 
della 
vicinanza 
dell’amministrazione 
locale 
alla 
criminalità 
organizzata 
è 
sufficiente 
confermare 
la fondatezza di alcuni di essi, dovendo tali episodi essere visti nella loro totalità e non 
in modo atomistico. 
Ebbene, 
la 
frequentazione 
del 
vice 
Sindaco, 
signor 
(omissis), 
non 
è 
smentibile 
perché 
è 
emersa 
dalle 
intercettazioni 
telefoniche 
raccolte 
nell’ambito 
della 
condotta 
dalla 
direzione 
distrettuale 
antimafia 
di 
Bari 
sulla 
c.d. strage 
di 
San Marco in Lamis 
dell’agosto 2017. non rileva 
l’assunto 
secondo cui 
il 
(omissis) non era 
un personaggio “di 
spicco” 
della 
malavita 
né 
che 
non 
fosse 
“notoriamente 
avvertito come 
un personaggio di 
prim’ordine 
nelle 
dinamiche 
criminali 
del 
Gargano”, ben potendo le 
consorterie 
criminali 
servirsi 
di 
uomini 
di 
basso livello per stabilire 
un contatto con soggetti 
noti 
dai 
quali 
attendono “favori”. non c’è 
dubbio, infatti, che 
un 
componente 
l’Amministrazione 
comunale 
che 
frequenti 
più 
o 
meno 
assiduamente 
un 
esponente 
noto della 
malavita 
organizzata 
attiri 
su di 
sé 
l’attenzione 
molto di 
più che 
nell’ipotesi 
in cui il tramite degli accordi sia persona sconosciuta alle Forze dell’Ordine. 
non può ritenersi 
sufficientemente 
smentito neanche 
che 
il 
fratello del 
(omissis) come 
dimostrato 
dal 
fatto 
che 
avesse 
accompagnato 
i 
parenti 
e 
la 
compagna 
di 
quest’ultimo 
presso 
il 
Comando 
provinciale dei Carabinieri di Foggia. 
Lo 
stesso 
(omissis) 
ha 
avuto, 
nell’esercizio 
della 
propria 
attività 
imprenditoriale 
nel 
settore 
del-
l’edilizia, 
cointeressenze 
con 
la 
malavita 
organizzata 
attraverso 
la 
collaborazione 
lavorativa 
con 
(omissis), 
fratello 
di 
(omissis), 
considerato 
dalla 
stampa 
locale 
reggente 
del 
clan 
Li 
Bergolis. 
Sintomo 
della 
vicinanza 
del 
Sindaco 
alla 
malavita 
organizzata 
garganica 
è 
l’espressione 
di 
cordoglio 
che 
questi 
ha 
espresso 
alla 
morte 
di 
(omissis), 
fratello 
di 
(omissis), 
reo 
confesso 
dell’assassinio di 
un esponente 
malavitoso; 
si 
tratta 
di 
fatto grave, non sminuito dalla 
circostanza 
che 
il 
Sindaco avesse 
espresso parole 
di 
cordoglio anche 
in occasione 
della 
morte 
di 
altri 
noti 
cittadini 
del 
Comune, 
ben 
potendo 
omettere 
qualsiasi 
manifestazione 
nel 
caso 
di 
scomparsa 
di 
cittadini 
vicini 
alle 
organizzazioni 
criminali 
organizzate. In altri 
termini, l’aver 
espresso 
per 
altre 
74 
volte 
espressioni 
di 
cordoglio 
per 
la 
scomparsa 
di 
personaggi 
di 
(omissis) 
non 
toglie 
che 
non 
può 
il 
primo 
cittadino 
del 
Comune 
partecipare 
pubblicamente, 
nella 
qualità 
di Sindaco, la morte di persone vicine alla malavita. 
Preme 
inoltre 
al 
Collegio evidenziare 
-anche 
con riferimento ad altri 
episodi 
indicati 
nella 
relazione 
come 
indice 
di 
cointeressenza 
-che 
il 
ruolo ricoperto da 
un amministratore 
locale 
deve 
indurre 
alla 
massima 
prudenza 
nelle 
frequentazioni 
anche 
private, sia 
personali 
che 
sui 
social, 
stante 
la 
sottile 
linea 
di 
confine 
che 
c’è, 
per 
chi 
svolge 
attività 
istituzionale, 
tra 
pubblico 
e 
privato. In altri 
termini, il 
Sindaco, l’assessore 
e 
il 
consigliere 
comunale, per la 
durata 
del 
mandato, non si spogliano mai completamente dello status che ricoprono. 
Ancora 
più in generale, va 
rilevato che 
l’inquinamento delle 
interferenze 
criminali 
non si 
verifica 
solo quando si 
determinano vincoli 
consapevoli 
di 
complicità, ma 
anche 
in casi 
di 
connivenza 
o contiguità 
quando essa 
coinvolga 
l’esercizio di 
un munus 
publicum, il 
che 
si 
rivela 
alquanto insidioso nella 
misura 
in cui 
il 
fenomeno si 
manifesta 
nelle 
forme 
atipiche 
dell’ingerenza 
e 
dell’assoggettamento 
o 
in 
legami 
e 
connessioni 
trasversali. 
È 
in 
tal 
modo 
che 
entrano 
nel 
procedimento 
situazioni 
intrinsecamente 
non 
riconducibili 
in 
addebiti 
personali 
ma 
tali 
da 
rendere 
ragionevole, 
nella 
concreta 
realtà 
contingente 
e 
in 
base 
ai 
dati 
dell’esperienza, 
l’ipotesi 
di 
una 
“permeabilità” 
o di 
una 
soggezione 
degli 
amministratori 
all’influenza 
della 
criminalità organizzata. 
Sono confermate 
anche 
le 
numerose 
anomalie 
nel 
settore 
delle 
concessioni 
demaniali 
marittime, 
che 
assumono 
significativa 
rilevanza 
in 
un 
territorio 
a 
forte 
vocazione 
turistico-balneare 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


quale 
è 
quello 
del 
(omissis). 
La 
Commissione 
di 
indagine 
ha 
evidenziato 
la 
ripetuta 
violazione 
del 
Protocollo di 
intesa, stipulato in data 
31 marzo 2017 tra 
la 
Prefettura 
di 
Foggia 
ed alcuni 
Comuni 
della 
costa 
del 
Gargano, tra 
i 
quali 
proprio il 
(omissis), che 
obbligava 
l’amministrazione 
locale 
a 
richiedere 
l’informativa 
antimafia 
all’atto della 
presentazione 
della 
s.c.i.a. ovvero 
di 
una 
domanda 
di 
consenso 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
19 
e 
20, 
l. 
7 
agosto 
1990, 
n. 
241; 
omissioni 
tanto più gravi 
perché 
in due 
casi 
i 
rappresentanti 
legali 
delle 
società 
erano legati 
da 
vincoli 
di 
affinità 
ovvero 
rapporti 
di 
frequentazione 
con 
esponenti 
del 
clan 
territorialmente 
egemone. 
Analoghe 
omissioni 
sono state 
riscontrate 
nel 
rilascio di 
licenze 
per la 
somministrazione 
di 
bevande. 
non risulta 
sufficientemente 
smentito, inoltre, che 
tra 
le 
ditte 
di 
onoranze 
funebri 
di 
cui 
si 
è 
servito 
il 
Comune 
una, 
riconducibile 
a 
(omissis) 
era 
destinataria 
di 
un’informazione 
interdittiva 
antimafia, emessa 
dalla 
Prefettura 
di 
Foggia 
a 
gennaio 2019. Evidenti 
poi 
le 
irregolarità 
nella 
proroga 
del 
servizio di 
riscossione 
tributi, affidate 
ad una 
società 
nella 
cui 
compagine 
societaria 
erano presenti 
soggetti 
legati 
da 
vincoli 
di 
parentela 
con esponenti 
della 
criminalità 
organizzata. 
Giova 
aggiungere 
che 
diversamente 
da 
quanto 
afferma 
parte 
appellante 
nei 
contesti 
sociali, in cui 
attecchisce 
il 
fenomeno mafioso (e 
la 
zona 
del 
garganico certamente 
lo è, come 
dimostrano le 
sue 
stragi 
di 
mafia), all’interno della 
famiglia 
si 
può verificare 
una 
“influenza 
reciproca” 
di 
comportamenti 
e 
possono 
sorgere 
legami 
di 
cointeressenza, 
di 
solidarietà, 
di 
copertura 
o quanto meno di 
soggezione 
o di 
tolleranza; 
una 
tale 
influenza 
può essere 
desunta 
non dalla 
considerazione 
(che 
sarebbe 
in sé 
errata 
e 
in contrasto con i 
principi 
costituzionali) 
che 
il 
parente 
di 
un mafioso sia 
anch’egli 
mafioso, ma 
per la 
doverosa 
considerazione, per 
converso, che 
la 
complessa 
organizzazione 
della 
mafia 
ha 
una 
struttura 
clanica, si 
fonda 
e 
si 
articola, a 
livello particellare, sul 
nucleo fondante 
della 
‘famiglia’, sicché 
in una 
‘famiglia’ 
mafiosa 
anche 
il 
soggetto, 
che 
non 
sia 
attinto 
da 
pregiudizio 
mafioso, 
può 
subire, 
nolente, 
l’influenza 
del 
‘capofamiglia’ 
e 
dell’associazione. 
Hanno 
dunque 
rilevanza 
circostanze 
obiettive 
(a 
titolo meramente 
esemplificativo, ad es., la 
convivenza, la 
cointeressenza 
di 
interessi 
economici, il 
coinvolgimento nei 
medesimi 
fatti, che 
pur non abbiano dato luogo a 
condanne 
in sede 
penale) e 
rilevano le 
peculiari 
realtà 
locali 
(quale, nella 
specie, quella 
garganica), ben 
potendo quindi 
assumere 
significato, per l’ingerenza 
del 
sodalizio, la 
presenza 
del 
parente 
di 
un mafioso in una 
società, anche 
se 
non sia 
stato accertato che 
sia 
anch’egli 
mafioso, (Cons. 
St., sez. III, 26 febbraio 2019, n. 1349). 
Correttamente 
è 
stato rilevato dalla 
Commissione 
un immobilismo a 
fronte 
di 
abusi 
edilizi, 
riconducibili 
anche 
ad esponenti 
della 
criminalità 
organizzata 
(in particolare, relativi 
ad impianto 
sportivo). 
Dei 
tanti 
episodi 
rappresentati 
nella 
relazione 
della 
Commissione 
di 
indagine 
questi 
sopra 
descritti 
sono sufficienti 
a 
rappresentare 
-ove 
siano letti 
nel 
loro insieme 
e 
non secondo criteri 
anatomistici 
-un indice 
rilevatore 
della 
vicinanza 
dell’Amministrazione 
locale 
alla 
malavita 
del 
Gargano e 
sono dunque 
tali 
da 
supportare 
-senza 
peraltro snaturare 
la 
portata 
dei 
molti 
altri 
descritti 
nella 
relazione 
-il 
provvedimento impugnato. Trattandosi 
in questo caso di 
ricostruire 
un “contesto” 
piuttosto che 
di 
accertare 
responsabilità 
individuali, gli 
elementi 
indicativi 
dei 
condizionamenti 
criminali 
vanno 
dunque 
considerati 
nel 
loro 
insieme, 
sotto 
il 
profilo non tanto della 
loro specifica 
gravità 
e 
concludenza, quanto della 
loro idoneità 
a 
di-
svelare 
una 
distorsione 
dell’azione 
amministrativa 
nei 
sensi 
più 
sopra 
precisati 
(Cons. 
St., 
sez. VI, 26 novembre 2007, n. 6040; id., sez. IV, 2 marzo 2007, n. 1004). 
Conclusivamente, 
dunque, 
le 
censure 
di 
violazione 
di 
legge 
ed 
eccesso 
di 
potere 
fondate 
sulla 
mancanza 
dei 
presupposti 
normativamente 
previsti 
per l'adozione 
del 
decreto oggetto di 
gra



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


vame, quanto alla 
concretezza, univocità 
e 
rilevanza 
degli 
elementi 
comprovanti 
la 
permeabilità 
dell'amministrazione 
comunale 
ad 
illeciti 
condizionamenti 
ed 
interferenze, 
non 
possono 
essere 
ritenute 
fondate, in quanto la 
commissione 
d'indagine 
ha 
preso in esame 
l'attività 
gestionale 
dell'ente, il 
contesto ambientale 
e 
la 
radicata 
presenza 
di 
fenomeni 
camorristici 
sul 
territorio, 
con 
particolare 
riguardo 
ai 
rapporti 
tra 
gli 
amministratori 
e 
le 
locali 
consorterie, 
evidenziando plurime 
irregolarità 
ed illegittimità 
sintomatiche 
di 
pregiudizievoli 
cointeressenze 
degli organi elettivi e dell'apparato burocratico. 
Tali 
circostanze, non atomisticamente 
e 
partitamente 
considerate 
bensì 
valutate 
complessivamente, 
costituiscono "elementi 
concreti" 
nel 
senso indicato dalla 
norma. Sussiste, inoltre, il 
requisito della 
"univocità", che 
si 
sostanzia 
nella 
coerenza 
d’insieme 
degli 
indizi 
raccolti, la 
cui 
significatività 
e 
"rilevanza" 
hanno trovato conferma 
all'esito del 
processo elaborativo e 
valutativo dei 
fatti 
accertati 
e 
degli 
elementi 
riscontrati. Di 
conseguenza, non risulta 
irragionevole 
la 
valutazione 
data 
dall’Amministrazione 
circa 
la 
struttura 
politica 
e 
burocratica 
del-
l'ente, ritenuta compromessa ed inadeguata a garantire gli interessi della collettività. 

8. Anche 
il 
sesto motivo non è 
suscettibile 
di 
positiva 
valutazione 
alla 
luce 
di 
una 
costante 
giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 447). 
L’art. 143, al 
comma 
13, testualmente 
prevede 
che 
“Si 
fa 
luogo comunque 
allo scioglimento 
degli 
organi, 
a 
norma 
del 
presente 
articolo, 
quando 
sussistono 
le 
condizioni 
indicate 
nel 
comma 1, ancorché ricorrano le situazioni previste dall'art. 141”. 
La 
norma, pertanto, non esclude 
che 
la 
suddetta 
misura 
straordinaria 
sia 
adottata 
in un momento 
cronologicamente 
successivo all'affidamento del 
Consiglio comunale 
ad un commissario 
straordinario nominato per altra causa. 
Peraltro, così come dedotto dall’Amministrazione, le due misure rispondono a fattispecie ed 
a finalità diverse e non sono quindi sovrapponibili. 
L’art. 143, d.lgs. n. 267 del 
2000 disciplina 
le 
fattispecie 
nelle 
quali 
possono essere 
sciolti 
gli 
organi 
consiliari 
degli 
Enti 
locali 
in 
ulteriori 
ipotesi 
rispetto 
a 
quelle 
già 
previste 
dal 
precedente 
art. 141 (a 
seguito del 
compimento di 
atti 
contrari 
alla 
Costituzione, in conseguenza 
di 
gravi 
e 
persistenti 
violazioni 
di 
legge, ovvero per gravi 
motivi 
di 
ordine 
pubblico; 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
non possa 
essere 
assicurato il 
normale 
funzionamento degli 
organi 
e 
dei 
servizi: 
per l’impedimento 
permanente, la 
rimozione, la 
decadenza 
od il 
decesso del 
Sindaco e 
del 
Presidente 
della 
Provincia, per le 
dimissioni 
del 
Sindaco o del 
Presidente 
della 
Provincia; 
per la 
cessazione 
dalla 
carica 
-a 
seguito 
di 
dimissioni 
contestuali, 
ovvero 
rese 
anche 
con 
atti 
separati 
purché 
contemporaneamente 
presentati 
al 
protocollo dell’ente 
-della 
metà 
più uno dei 
membri 
assegnati, 
per 
l’intervenuta 
riduzione 
dei 
membri 
dell’organo 
consiliare, 
stante 
l’impossibilità 
di 
surrogare 
almeno la 
metà 
dei 
componenti 
del 
medesimo organo collegiale; 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
non sia 
approvato -nei 
termini 
prefissati 
dalla 
vigente 
normativa 
-il 
bilancio, annuale 
e 
pluriennale, di previsione). 
L’enunciazione 
di 
cui 
all’art. 
143, 
comma 
1, 
è 
indeterminata 
e 
particolarmente 
ampia, 
dal 
momento 
che 
lo scioglimento dei 
Consigli 
comunali 
e 
provinciali 
può essere 
disposto a 
fronte 
della 
palese 
sussistenza 
(la 
norma, 
letteralmente, 
utilizza 
il 
verbo 
“emergono”) 
di: 
a) 
elementi 
su collegamenti 
diretti 
o indiretti 
degli 
amministratori 
con la 
criminalità 
organizzata; 
b) elementi 
su forme di condizionamento degli amministratori stessi. 
La 
ratio della 
disposizione 
coincide, pertanto, con la 
necessità 
di 
preservare 
l’indipendenza 
degli 
amministratori 
locali 
unitamente 
al 
buon 
andamento 
delle 
relative 
amministrazioni: 
l’accento 
è 
posto non tanto sulle 
possibili 
forme 
assunte 
dai 
rapporti 
tra 
amministratori 
ad esponenti 
della 
criminalità 
organizzata 
(la 
lettera 
della 
disposizione 
risultando sul 
punto piuttosto 

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


sfuggente 
e 
riferendosi 
a 
meri 
“collegamenti 
diretti 
o 
indiretti” 
ed 
a 
“forme 
di 
condizionamento”), 
quanto piuttosto sugli 
effetti 
determinati 
dall’influenza 
malavitosa 
sugli 
Enti 
locali 
o 
-ribaltando 
l’angolo 
di 
visuale 
-dalla 
“permeabilità” 
delle 
amministrazioni 
comunali 
e 
provinciali 
rispetto a tali condizionamenti. 
Come 
condivisibilmente 
affermato 
dalle 
Amministrazioni 
resistenti 
nei 
propri 
scritti 
difensivi, 
la 
prevalenza 
accordata 
a 
tale 
soluzione 
corrisponde 
anche 
alla 
necessità 
di 
evitare 
che 
la 
complessa 
procedura 
di 
scioglimento del 
Consiglio comunale, conseguente 
a 
fenomeni 
di 
infiltrazione 
e 
di 
condizionamento di 
stampo mafioso, possa 
essere 
vanificata 
da 
una 
iniziativa 
strumentale 
degli 
stessi 
consiglieri 
comunali 
o del 
Sindaco che, con l’espediente 
delle 
dimissioni, 
potrebbero 
in 
qualunque 
momento 
impedire 
l’intervento 
dell’Amministrazione 
centrale, 
volto a contrastare gli anzidetti fenomeni criminali. 
A 
fronte 
del 
fine 
sotteso 
all’istituto 
dello 
scioglimento 
del 
Consiglio 
comunale 
per 
infiltrazione 
mafiosa 
-id est 
la 
tutela 
della 
democrazia 
su ci 
si 
basa 
-appare 
tutt’altro che 
sproporzionata 
la 
misura 
adottata 
della 
gestione 
commissariale 
per 
diciotto 
mesi. 
La 
gravità 
dei 
fatti 
che 
hanno portato all’adozione 
del 
decreto prefettizio costituisce 
motivazione 
sufficiente 
e 
rende 
tutt’altro 
che 
sproporzionata 
la 
misura 
contestata 
pur 
a 
fronte 
della 
cessazione 
dalla 
carica 
degli amministratori. 


9. non è 
suscettibile 
di 
positiva 
valutazione 
neanche 
l’ultimo motivo, con il 
quale 
è 
dedotta 
la 
violazione 
del 
termine 
per la 
conclusione 
dei 
lavori 
della 
commissione 
incaricata 
dal 
Prefetto 
di 
Foggia 
a 
svolgere 
le 
indagini 
di 
rito presso il 
(omissis). La 
natura 
non recettizia 
della 
relazione rende sufficiente che sia stata adottata, e non anche ricevuta, nel termine di legge. 
10. L’infondatezza 
nel 
merito del 
ricorso comporta 
il 
rigetto della 
domanda 
di 
risarcimento 
del 
danno atteso che 
l'illegittimità 
del 
provvedimento impugnato è 
condizione 
necessaria 
per 
accordare 
il 
risarcimento richiesto; 
la 
reiezione 
della 
parte 
impugnatoria 
del 
gravame 
impedisce 
infatti 
che 
il 
danno stesso possa 
essere 
considerato ingiusto o illecita 
la 
condotta 
tenuta 
dall'Amministrazione 
(Cons. 
St., 
sez. 
V, 
1 
ottobre 
2015, 
n. 
4588; 
id., 
sez. 
IV, 
29 
dicembre 
2014, 
n. 
6417; 
id., 
sez. 
V, 
5 
dicembre 
2014, 
n. 
6013; 
id. 
27 
agosto 
2014, 
n. 
4382; 
id. 
13 
gennaio 
2014, n. 85; id., sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4628; id., sez. V, 15 gennaio 2013, n. 176). 
11. In conclusione, per i 
suesposti 
motivi, l’appello va 
respinto e 
va, dunque, confermata 
la 
sentenza 
del 
Tar 
Lazio, 
sede 
di 
Roma, 
sez. 
I, 
(omissis), 
che 
ha 
respinto 
il 
ricorso 
di 
primo 
grado. 
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
Condanna 
l'appellante 
al 
pagamento, in favore 
delle 
costituite 
Amministrazioni, delle 
spese 
del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 10.000,00 (euro diecimila/00). 
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 
Ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'art. 
52, 
comma 
1, 
d.lgs. 
30 
giugno 
2003, 
n. 
196, 
a 
tutela 
dei 
diritti 
o 
della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento delle 
generalità 
nonché 
di 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare 
l’appellante. 
Così 
deciso in Roma 
nella 
camera 
di 
consiglio del 
giorno 30 luglio 2020, svoltasi 
da 
remoto 
in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020. 



RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


Remissione in Corte di Giustizia e 
sussistenza del “ragionevole dubbio” 
(“soggettività” dell’attività interpretativa) 


Consiglio 
di 
stato, sezione 
sesta, ordinanza 
24 settembre 
2020 n. 5588 (*) 


Segnalo l’interessante ordinanza del Consiglio di Stato di remissione in 
Corte 
di 
Giustizia 
UE, 
recentemente 
depositata, 
non 
tanto 
con 
riferimento 
alla 
questione 
di 
merito 
(annosa 
questione 
della 
bolletta 
a 
28 
gg.), 
quanto 
per 
l’evidente 
tentativo del Consiglio di Stato di ottenere una rivisitazione dei criteri 
dettati 
dalla 
sentenza 
Cilfit 
e 
giurisprudenza 
successiva 
sulla 
insussistenza 
del 
“ragionevole dubbio” che obbligherebbe il Giudice nazionale alla remissione 
ai sensi dell’art. 267 TFUE. 

Pur dichiarando espressamente di escludere “la ricorrenza di ragionevoli 
dubbi interpretativi nella soluzione da fornire alle questioni pregiudiziali rilevanti 
nel caso di specie -avuto riguardo al testo, al contesto e agli obiettivi di 
tutela sottesi alle relative disposizioni europee, oltre che all’attuale stadio di 
evoluzione 
del 
diritto 
europeo” 
il 
Collegio 
osserva 
“non 
è 
possibile 
dimostrare 
con certezza che l’interpretazione da dare alle pertinenti disposizioni si affermi 
soggettivamente, con evidenza, anche presso i giudici nazionali 
degli 
altri Stati membri e presso la stessa Corte di Giustizia”, senza peraltro indicare 
alcun tipo di ipotesi interpretativa contraria (v. sent. parr. 51 e ss.). 

È 
vero 
che 
abbiamo 
già 
assistito 
a 
remissioni 
“facili”, 
anche 
al 
fine 
di 
non incorrere in responsabilità e comprendo anche il tentativo del Consiglio 
di 
Stato 
di 
ottenere 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
“istruzioni 
per 
l’uso” 
più 
dettagliate 
(sempre 
che 
il 
tentativo 
riesca) 
ma 
dopo 
questa 
ordinanza 
dobbiamo 
aspettarci 
una 
remissione 
per 
ogni 
avvocato 
che 
semplicemente 
adombri 
un 
possibile 
contrasto con il diritto comunitario? 

Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ordinanza 24 settembre 2020 n. 5588 -Pres. G. Monte-
doro, est. F. De Luca -Fastweb S.p.A. (avv.ti A. Guarino, E. Cerchi) c. Autorità per le Garanzie 
nelle 
Comunicazioni 
(avv. 
gen. 
St.); 
Telecom 
Italia 
S.p.A. 
(avv.ti 
A 
Catricalà, 
F. 
Cardarelli, D. Lipani, F. Lattanzi); Vodafone Italia S.p.A. (avv.ti F. Cintioli, G. Lo Pinto); (...) 
(Reg. ric. 4892/2018) ed altri. 


(...) 


IV. 
LE MOTIVAzIOnI DEL RInVIO PREGIUDIzIALE 
IV.1 Sulla portata dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. 
48. 
Questo Consiglio di Stato, giudice di ultima istanza nell’ambito dell’ordinamento processuale 
italiano, è chiamato a pronunciare su una controversia nazionale in cui rilevano alcune 
questioni di interpretazione e di corretta applicazione di disposizioni e principi unionali. 
(*) Segnalazione di redazione. 



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


49. In particolare, nell’ambito della 
causa 
principale 
è 
stata 
già 
emessa 
una 
sentenza 
non definitiva 
sui 
motivi 
di 
impugnazione 
non influenzati 
dalla 
disciplina 
unionale: 
per statuire 
sui 
rimanenti 
motivi 
di 
appello, 
occorre, 
invece, 
ricostruire 
il 
quadro 
normativo 
armonizzato 
espresso dalle 
direttive 
2002/19/CE, 2002/20/CE, 2002/21/CE 
e 
2002/22/CE, nonché 
applicare 
i 
principi 
di 
libera 
concorrenza, 
libera 
circolazione 
dei 
servizi, 
libertà 
di 
stabilimento, 
proporzionalità 
e 
non discriminazione, in maniera 
da 
verificare 
se 
le 
misure 
adottate 
dall’Autorità 
nazionale 
di 
regolamentazione, con cui 
sono stati 
fissati 
limiti 
alla 
cadenza 
di 
rinnovo 
delle 
offerte 
commerciali 
e 
di 
fatturazione, abbiano una 
base 
normativa, siano proporzionate 
e 
non determinino una 
irragionevole 
discriminazione 
tra 
operatori 
di 
telefonia 
fissa 
e 
di 
telefonia 
mobile. 
50. Trattasi 
di 
questioni 
interpretative 
che 
rilevano nell’ambito di 
una 
causa 
principale 
nazionale 
in cui 
si 
fa 
questione 
di 
misure 
di 
regolamentazione, da 
un lato, adottate 
da 
un’Autorità 
nazionale 
(altresì) in applicazione 
di 
disposizioni 
interne 
di 
recepimento del 
diritto europeo, 
dall’altro, riguardanti 
l’intero territorio nazionale 
e 
applicate 
anche 
ad operatori 
partecipati 
da 
imprese 
straniere 
(cfr. Fastweb è 
una 
società 
a 
socio unico soggetta 
alla 
direzione 
ed al 
coordinamento 
di 
Swisscom 
AG 
e 
Wind Tre 
S.p.A. è 
una 
società 
con socio unico, Direzione 
e 
Coordinamento 
VIP-CKH 
Luxembourg 
S.àr.l.); 
il 
che 
dimostra 
la 
rilevanza 
del 
diritto 
unionale 
per la soluzione di una controversia avente carattere transfrontaliero. 
51. 
La 
giurisprudenza 
di 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia, 
a 
partire 
dalla 
sentenza 
del 
6 
ottobre 
1982, 
Cilfit 
e 
a., 
in 
causa 
C 
283/81, 
ha 
precisato 
che, 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
in 
un 
qualsiasi 
Stato 
membro 
si 
consolidi 
una 
giurisprudenza 
nazionale 
in 
contrasto 
con 
le 
norme 
del 
diritto 
dell’Unione, 
qualora 
non sia 
previsto alcun ricorso giurisdizionale 
avverso la 
decisione 
di 
un giudice 
nazionale, 
quest’ultimo 
è, 
in 
linea 
di 
principio, 
tenuto 
a 
rivolgersi 
alla 
Corte 
ai 
sensi 
dell’articolo 
267, 
terzo 
comma, 
TFUE 
quando 
è 
chiamato 
a 
pronunciarsi 
su 
una 
questione 
d’interpretazione 
del diritto europeo. 
52. 
L’obbligo 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
ex 
art. 
267 
TFUE, 
gravante 
sul 
giudice 
di 
ultima 
istanza, 
rientra, infatti, nell’ambito della 
cooperazione 
istituita 
al 
fine 
di 
garantire 
la 
corretta 
applicazione 
e 
l’interpretazione 
uniforme 
del 
diritto 
dell’Unione 
nell’insieme 
degli 
Stati 
membri, 
fra 
i 
giudici 
nazionali, in quanto incaricati 
dell’applicazione 
del 
diritto dell’Unione, e 
la 
Corte 
(Corte di Giustizia, sentenza del 15 marzo 2017, in causa C-3/16, aquino, punto 32). 
53. La 
violazione 
di 
tale 
obbligo è 
idonea 
a 
configurare 
un inadempimento dello Stato membro, 
la 
cui 
responsabilità 
può 
essere 
affermata 
indipendentemente 
dall’organo 
statale 
che 
abbia 
dato luogo alla 
trasgressione, anche 
se 
si 
tratti 
di 
un’istituzione 
costituzionalmente 
indipendente, 
qual 
è 
il 
giudice 
nazionale 
(Corte 
di 
Giustizia, sentenza 
del 
4 ottobre 
2018, in causa 
C416/
17, Commissione c. repubblica francese, punto 107). 
54. 
Gli 
organi 
giurisdizionali 
non 
sono, 
invece, 
tenuti 
a 
disporre 
il 
rinvio 
pregiudiziale 
qualora 
constatino che 
la 
questione 
sollevata 
non sia 
rilevante 
o che 
la 
disposizione 
del 
diritto del-
l’Unione 
di 
cui 
trattasi 
sia 
già 
stata 
oggetto d’interpretazione 
da 
parte 
della 
Corte, ovvero che 
la 
corretta 
applicazione 
del 
diritto dell’Unione 
si 
imponga 
con tale 
evidenza 
da 
non lasciar 
adito a ragionevoli dubbi. 
55. 
Con 
riferimento 
a 
tale 
ultima 
condizione, 
come 
indicato 
da 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
sentenza 
Cilfit 
cit., occorrerebbe 
accertare 
che 
“la corretta applicazione 
del 
diritto comunitario 
può imporsi 
con tale 
evidenza da non lasciar 
adito ad alcun ragionevole 
dubbio 
sulla soluzione 
da dare 
alla questione 
sollevata. Prima di 
giungere 
a tale 
conclusione, il 
giudice 
nazionale 
deve 
maturare 
il 
convincimento che 
la stessa evidenza si 
imporrebbe 
anche 
ai 
giudici 
degli 
altri 
stati 
membri 
ed alla Corte 
di 
giustizia. solo in presenza di 
tali 
condizioni 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


il 
giudice 
nazionale 
può astenersi 
dal 
sottoporre 
la questione 
alla corte 
risolvendola sotto la 
propria responsabilità” 
(sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit 
e a., in causa 283/81, punto 16). 


56. La 
configurabilità 
di 
una 
simile 
eventualità 
dovrebbe 
essere 
valutata 
in funzione 
delle 
caratteristiche 
proprie 
del 
diritto dell’Unione 
e 
delle 
particolari 
difficoltà 
che 
la 
sua 
interpretazione 
presenta, 
in 
maniera 
da 
evitare 
il 
rischio 
di 
divergenze 
giurisprudenziali 
all’interno 
dell’Unione. 
57. 
In 
particolare, 
occorrerebbe: 
a) 
provvedere 
ad 
un 
raffronto 
tra 
le 
varie 
versioni 
linguistiche 
in cui 
la 
disposizione 
è 
stata 
redatta; 
b) anche 
nel 
caso di 
piena 
concordanza 
delle 
versioni 
linguistiche, considerare 
che 
il 
diritto europeo impiega 
una 
terminologia 
che 
gli 
è 
propria 
e 
che 
le 
nozioni 
giuridiche 
non 
presentano 
necessariamente 
lo 
stesso 
contenuto 
nel 
diritto 
unionale 
e 
nei 
vari 
diritti 
nazionali; 
nonché 
c) collocare 
ogni 
disposizione 
di 
diritto europeo nel 
proprio 
contesto, 
interpretandola 
alla 
luce 
dell’insieme 
delle 
disposizioni 
componenti 
il 
diritto 
unionale, delle 
sue 
finalità 
e 
del 
suo stadio di 
evoluzione 
al 
momento in cui 
va 
data 
applicazione 
alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale. 
58. La 
giurisprudenza 
successiva 
ha 
confermato i 
principi 
espressi 
dalla 
sentenza 
Cilfit 
cit., 
ribadendo che, al 
fine 
di 
escludere 
ogni 
ragionevole 
dubbio sulla 
soluzione 
da 
dare 
alla 
questione 
di 
interpretazione 
del 
diritto unionale 
e, pertanto, al 
fine 
di 
escludere 
la 
necessità 
del 
rinvio pregiudiziale 
ex art. 267 TFUE, “il 
giudice 
nazionale 
di 
ultima istanza deve 
maturare 
il 
convincimento 
che 
la 
stessa 
evidenza 
si 
imporrebbe 
anche 
ai 
giudici 
degli 
altri 
stati 
membri 
ed alla Corte. solo in presenza di 
tali 
condizioni, il 
giudice 
nazionale 
può astenersi 
dal 
sottoporre 
la questione 
alla Corte 
risolvendola sotto la propria responsabilità” 
(Corte 
di 
Giustizia, 
sentenza 
del 
28 
luglio 
2016, 
in 
causa 
C-379/15, 
association 
France 
nature 
environnement, punto 48); 
con la 
precisazione, da 
un lato, che 
“il 
giudice 
nazionale, le 
cui 
decisioni 
non siano più soggette 
a ricorso giurisdizionale, è 
tenuto a rivolgersi 
alla Corte 
in 
via pregiudiziale 
in presenza del 
minimo dubbio riguardo all’interpretazione 
o alla corretta 
applicazione 
del 
diritto 
dell’unione” 
(Id. 
sentenza 
del 
28 
luglio 
2016, 
in 
causa 
C-379/15, 
association 
France 
nature 
environnement, punto 51); 
dall’altro, che 
“l’assenza di 
dubbi 
in tal 
senso necessita di 
prova circostanziata” 
(Id. sentenza 
del 
28 luglio 2016, in causa 
C-379/15, 
association France nature environnement, punto 52). 
59. Le 
condizioni 
poste 
da 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia, per escludere 
l’obbligo di 
rinvio pregiudiziale 
gravante 
sul 
giudice 
di 
ultima 
istanza 
ex art. 267 TFUE, risultano di 
difficile 
accertamento 
nella 
parte 
in cui 
fanno riferimento alla 
necessità 
che 
il 
giudice 
procedente, certo 
dell’interpretazione 
e 
dell’applicazione 
da 
dare 
al 
diritto unionale 
rilevante 
per la 
soluzione 
della 
controversia 
nazionale, 
provi 
in 
maniera 
circostanziata 
che 
la 
medesima 
evidenza 
si 
imponga 
anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte. 
60. La 
ricostruzione 
del 
significato precettivo da 
assegnare 
alle 
norme 
giuridiche, siano esse 
di 
fonte 
sovranazionale 
o 
nazionale, 
per 
propria 
natura, 
è 
esposta 
alla 
soggettività 
dell’attività 
interpretativa, che, per quanto possa 
essere 
limitata, non risulta 
in radice 
eliminabile; 
sicché 
appare 
arduo, 
se 
non 
impossibile, 
escludere 
nel 
caso 
concreto 
ogni 
“minimo 
dubbio” 
(Id. 
sentenza 
del 
28 
luglio 
2016, 
in 
causa 
C-379/15, 
association 
France 
nature 
environnement, 
punto 
51) in ordine 
all’eventualità 
che 
altro giudice 
nazionale 
appartenente 
ad uno Stato membro o 
la 
stessa 
Corte 
di 
Giustizia 
decida 
la 
medesima 
questione 
pregiudiziale 
in 
maniera, 
anche 
soltanto 
in parte, divergente da quanto ritenuto dal giudice nazionale procedente. 
61. La 
prova 
circostanziata 
di 
una 
tale 
evidenza 
si 
tradurrebbe, in particolare, in una 
probatio 
diabolica, con la 
conseguenza 
che 
il 
giudice 
nazionale 
di 
ultima 
istanza 
sarebbe 
costretto al 
rinvio 
pregiudiziale 
ex 
art. 
267 
TFUE, 
ogniqualvolta 
la 
questione 
interpretativa 
posta 
nel 
giu

COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


dizio 
nazionale, 
rilevante 
ai 
fini 
della 
soluzione 
della 
controversia, 
non 
sia 
materialmente 
identica 
ad 
altra 
questione, 
sollevata 
in 
relazione 
ad 
analoga 
fattispecie, 
che 
sia 
già 
stata 
decisa 
in via pregiudiziale. 


62. 
Al 
fine 
di 
evitare 
il 
rischio 
di 
inadempimento 
dello 
Stato 
membro 
di 
appartenenza 
(foriero, 
altresì, 
di 
responsabilità 
risarcitoria, 
come 
ritenuto 
da 
codesta 
Corte, 
ex 
aliis, 
con 
sentenza 
del 
30 settembre 
2003, in causa 
C 224/01, Köbler 
e 
del 
13 giugno 2006, in causa 
C‑173/03, 
traghetti 
del 
mediterraneo), il 
giudice 
nazionale 
di 
ultima 
istanza, riscontrando l’assenza 
di 
precedenti 
afferenti 
ad 
identica 
questione 
decisa 
da 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia, 
sarebbe, 
infatti, 
indotto 
al 
rinvio 
pregiudiziale, 
anche 
ove 
non 
ritenesse 
dubbia 
la 
soluzione 
da 
fornire 
alla 
questione 
pregiudiziale 
unionale, 
alla 
luce 
del 
tenore 
letterale 
delle 
pertinenti 
disposizioni 
europee 
rilevanti 
nel 
caso 
concreto, 
del 
loro 
contesto 
e 
degli 
obiettivi 
perseguiti 
dalla 
normativa 
di 
cui 
fanno parte, come 
ricostruibili 
sulla 
base 
dei 
principi 
generali 
di 
diritto espressi 
dal 
diritto 
primario e interpretati da codesta Corte di Giustizia. 
63. 
In 
maniera 
da 
assicurare 
una 
concreta 
possibilità 
di 
applicazione 
delle 
condizioni 
enunciate 
da 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia 
come 
deroga 
all’obbligo 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
ex 
art. 
274 
TFUE, nella 
parte 
in cui 
si 
riferiscono all’evidenza 
nella 
corretta 
applicazione 
del 
diritto europeo 
“tale 
da non lasciar 
adito ad alcun ragionevole 
dubbio sulla soluzione 
da dare 
alla 
questione 
sollevata”, occorre, quindi, un chiarimento da 
parte 
di 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia, 
richiesto nell’ambito della 
stretta 
cooperazione 
tra 
la 
Corte 
e 
i 
giudici 
degli 
Stati 
membri 
alla 
base 
del 
procedimento pregiudiziale 
(cfr. punto 2 raccomandazioni 
all’attenzione 
dei 
giudici 
nazionali, 
relative 
alla 
presentazione 
di 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
-2018/C 
257/01). 
64. In particolare, per escludere 
ogni 
ragionevole 
dubbio da 
dare 
alla 
questione 
sollevata 
e, 
quindi, per ritenere 
derogato l’obbligo di 
rinvio pregiudiziale 
ex art. 267 TFUE 
gravante 
sul 
giudice 
di 
ultima 
istanza, si 
chiede 
di 
chiarire 
se 
“il 
convincimento che 
la stessa evidenza si 
imporrebbe anche ai giudici degli altri stati membri ed alla Corte di giustizia”: 
a) debba 
essere 
accertato in senso soggettivo, motivando in ordine 
alla 
possibile 
interpretazione 
suscettibile 
di 
essere 
data 
alla 
medesima 
questione 
dai 
giudici 
degli 
altri 
Stati 
membri 
e dalla Corte di Giustizia ove investiti di identica questione; ovvero 
b) come 
ritenuto da 
questo Consiglio, al 
fine 
di 
evitare 
una 
probatio diabolica 
e 
consentire 
la 
concreta 
attuazione 
delle 
circostanze 
derogatorie 
all’obbligo di 
rinvio pregiudiziale 
indicate 
da 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia, se 
sia 
sufficiente 
accertare 
la 
manifesta 
infondatezza 
della 
questione 
pregiudiziale 
(di 
interpretazione 
e 
corretta 
applicazione 
della 
disposizione 
europea 
rilevante 
nel 
caso 
concreto) 
sollevata 
nell’ambito 
del 
giudizio 
nazionale, 
escludendo 
la 
sussistenza 
di 
ragionevoli 
dubbi 
al 
riguardo, tenuto conto, sul 
piano meramente 
oggettivo senza 
un’indagine 
sul 
concreto 
atteggiamento 
interpretativo 
che 
potrebbero 
tenere 
distinti 
organi 
giurisdizionali 
-della 
terminologia 
e 
del 
significato 
propri 
del 
diritto 
unionale 
attribuibili 
alle 
parole 
componenti 
la 
disposizione 
europea 
(rilevante 
nel 
caso 
di 
specie), 
del 
contesto 
normativo 
europeo 
in 
cui 
la 
stessa 
è 
inserita 
e 
degli 
obiettivi 
di 
tutela 
sottesi 
alla 
sua 
previsione, 
considerando lo stadio di 
evoluzione 
del 
diritto europeo al 
momento in cui 
va 
data 
applicazione 
alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale. 
65. La 
soluzione 
da 
fornire 
a 
tale 
quesito interpretativo rileva 
nell’ambito del 
giudizio nazionale, 
tenuto 
conto 
che 
questo 
Consiglio 
di 
Stato, 
in 
qualità 
di 
giudice 
di 
ultima 
istanza, 
è 
chiamato 
a 
risolvere 
una 
controversia 
in 
cui 
rilevano 
questioni 
pregiudiziali, 
concernenti 
la 
corretta 
interpretazione 
ed 
applicazione 
di 
principi 
e 
disposizioni 
europei 
afferenti 
alla 
materia 
dei 
servizi 
di 
comunicazioni 
elettroniche 
(in 
specie, 
il 
quadro 
normativo 
armonizzato 
espresso 
dalle 
direttive 
2002/19/CE, 
2002/20/CE, 
2002/21/CE 
e 
2002/22/CE, 
nonché 
i 
principi 
di 
libera 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


concorrenza, libera 
circolazione 
dei 
servizi, libertà 
di 
stabilimento, proporzionalità 
e 
di 
non 
discriminazione), 
non 
materialmente 
identiche 
ad 
altra 
questione 
sollevata 
in 
relazione 
ad 
analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale da codesta Corte di Giustizia. 


66. Benché 
questo Consiglio di 
Stato escluda 
la 
ricorrenza 
di 
ragionevoli 
dubbi 
interpretativi 
nella 
soluzione 
da 
fornire 
alle 
questioni 
pregiudiziali 
rilevanti 
nel 
caso di 
specie 
-avuto riguardo 
al 
testo, al 
contesto e 
agli 
obiettivi 
di 
tutela 
sottesi 
alle 
relative 
disposizioni 
europee, 
oltre 
che 
all’attuale 
stadio di 
evoluzione 
del 
diritto europeo -, non è 
possibile 
dimostrare 
con 
certezza 
che 
l’interpretazione 
da 
dare 
alle 
pertinenti 
disposizioni 
si 
affermi 
soggettivamente, 
con 
evidenza, 
anche 
presso 
i 
giudici 
nazionali 
degli 
altri 
Stati 
membri 
e 
presso 
la 
stessa 
Corte 
di Giustizia. 
67. In siffatte 
ipotesi, occorre, dunque, ottenere 
un chiarimento da 
codesta 
Corte, al 
fine 
di 
verificare se operi comunque l’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. 
(...) 


V. Formulazione dei quesiti 
129. Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
svolte, questo Consiglio di 
Stato solleva 
questione 
di 
pregiudizialità 
invitando la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
europea, ai 
sensi 
dell’art. 267 TFUE, 
a pronunciarsi sul seguente quesito: 
“a) se 
la corretta interpretazione 
dell’art. 267 tFue 
imponga al 
giudice 
nazionale, avverso 
le 
cui 
decisioni 
non possa proporsi 
un ricorso giurisdizionale 
di 
diritto interno, di 
operare 
il 
rinvio 
pregiudiziale 
su 
una 
questione 
di 
interpretazione 
del 
diritto 
unionale 
rilevante 
nell’ambito 
della controversia principale, anche 
qualora possa escludersi 
un dubbio interpretativo 
sul 
significato da attribuire 
alla pertinente 
disposizione 
europea -tenuto conto della terminologia 
e 
del 
significato propri 
del 
diritto unionale 
attribuibili 
alle 
parole 
componenti 
la relativa 
disposizione, del 
contesto normativo europeo in cui 
la stessa è 
inserita e 
degli 
obiettivi 
di 
tutela sottesi 
alla sua previsione, considerando lo stadio di 
evoluzione 
del 
diritto europeo 
al 
momento in cui 
va data applicazione 
alla disposizione 
rilevante 
nell’ambito del 
giudizio 
nazionale 
-, ma non sia possibile 
provare 
in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, 
avuto 
riguardo 
alla 
condotta 
di 
altri 
organi 
giurisdizionali, 
che 
l’interpretazione 
fornita 
dal 
giudice 
procedente 
sia la stessa di 
quella suscettibile 
di 
essere 
data dai 
giudici 
degli 
altri 
stati membri e dalla Corte di giustizia ove investiti di identica questione”. 


Per 
l’ipotesi 
in 
cui 
codesta 
Corte 
di 
Giustizia 
dovesse 
ritenere 
cogente 
l’obbligo 
di 
rinvio 
pregiudiziale 
ex art. 267 TFUE 
ove 
non sia 
possibile 
dimostrare 
in maniera 
circostanziata 
l’interpretazione 
suscettibile 
di 
essere 
data 
alla 
medesima 
questione, rilevante 
nell’ambito della 
causa 
principale, dai 
giudici 
degli 
altri 
Stati 
membri 
e 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
-prova, riguardante 
l’atteggiamento 
soggettivo 
di 
altri 
organi 
giurisdizionali, 
che 
non 
può 
essere 
fornita 
nella 
fattispecie 
esaminata 
da 
questo 
Consiglio 
di 
Stato 
-, 
si 
sollevano 
i 
seguenti 
ulteriori 
quesiti 
pregiudiziali: 


“b) se 
la corretta interpretazione 
degli 
artt. 49 e 
56 tFue, nonché 
del 
quadro normativo armonizzato 
espresso dalle 
direttive 
2002/19/Ce, 2002/20/Ce, 2002/21/Ce 
e 
2002/22/Ce 
e, in 
particolare, 
dagli 
artt. 
8, 
par. 
2 
e 
par. 
4, 
direttiva 
2002/21/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/140/Ce, 
dall’art. 
3 
direttiva 
2002/20/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/140/Ce, 
e 
dagli 
artt. 
20, 
21 
e 
22 
direttiva 
2002/22/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/136/Ce, 
osti 
ad una norma nazionale, quale 
quella desumibile 
dal 
combinato disposto degli 
artt. 13, 
70 e 
71 d. lgs. n. 259/03, 2, comma 12, lett. h) e 
l) l. n. 481/1995 e 
1, comma 6, n. 2, l. n. 
249/1997, che 
attribuisce 
all’autorità nazionale 
di 
regolamentazione 
nel 
settore 
delle 
comu



COnTEnzIOSO 
nAzIOnALE 


nicazioni 
elettroniche 
il 
potere 
di 
imporre: i) per 
la telefonia mobile, una cadenza di 
rinnovo 
delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
non inferiore 
a quattro settimane 
con la contestuale 
previsione 
dell’obbligo 
per 
i 
relativi 
operatori 
economici 
che 
adottino 
una 
cadenza 
di 
rinnovo 
delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
su base 
diversa da quella mensile, di 
informare 
prontamente 
l’utente, 
tramite 
l’invio 
di 
un 
sms, 
dell’avvenuto 
rinnovo 
dell’offerta; 
ii) 
per 
la 
telefonia 
fissa, 
una cadenza di 
rinnovo delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
su base 
mensile 
o suoi 
multipli; iii) 
in caso di 
offerte 
convergenti 
con la telefonia fissa, l’applicazione 
della cadenza relativa a 
quest’ultima; 


c) se 
la corretta interpretazione 
ed applicazione 
del 
principio di 
proporzionalità, in combinazione 
con 
gli 
artt. 
49 
e 
56 
tFue 
e 
il 
quadro 
normativo 
armonizzato 
espresso 
dalle 
direttive 
2002/19/Ce, 2002/20/Ce, 2002/21/Ce 
e 
2002/22/Ce 
e, in particolare, dagli 
artt. 8, par. 2 e 
par. 4, direttiva 2002/21/Ce, come 
modificata dalla direttiva 2009/140/Ce, dall’art. 3 direttiva 
2002/20/Ce, come 
modificata dalla direttiva 2009/140/Ce, e 
dagli 
artt. 20, 21 e 
22 
direttiva 
2002/22/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/136/Ce, 
osti 
all’adozione 
di 
misure 
regolatorie 
assunte 
dall’autorità nazionale 
di 
regolamentazione 
nel 
settore 
delle 
comunicazioni 
elettroniche 
volte 
a 
imporre: 
i) 
per 
la 
telefonia 
mobile, 
una 
cadenza 
di 
rinnovo 
delle 
offerte 
e 
della 
fatturazione 
non 
inferiore 
a 
quattro 
settimane 
con 
la 
contestuale 
previsione 
dell’obbligo per 
i 
relativi 
operatori 
economici 
che 
adottino una cadenza di 
rinnovo delle 
offerte 
e 
della 
fatturazione 
su 
base 
diversa 
da 
quella 
mensile, 
di 
informare 
prontamente 
l’utente, 
tramite 
l’invio di 
un sms, dell’avvenuto rinnovo dell’offerta; ii) per 
la telefonia fissa, una 
cadenza di 
rinnovo delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
su base 
mensile 
o suoi 
multipli; iii) in 
caso 
di 
offerte 
convergenti 
con 
la 
telefonia 
fissa, 
l’applicazione 
della 
cadenza 
relativa 
a 
quest’ultima; 
d) 
se 
la 
corretta 
interpretazione 
ed 
applicazione 
dei 
principi 
di 
non 
discriminazione 
e 
di 
parità 
di 
trattamento, 
in 
combinazione 
con 
gli 
artt. 
49 
e 
56 
tFue 
e 
il 
quadro 
normativo 
armonizzato 
espresso 
dalle 
direttive 
2002/19/Ce, 
2002/20/Ce, 
2002/21/Ce 
e 
2002/22/Ce 
e, 
in 
particolare, 
dagli 
artt. 
8, 
par. 
2 
e 
par. 
4, 
direttiva 
2002/21/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/140/Ce, 
dall’art. 
3 
direttiva 
2002/20/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/140/Ce, 
e 
dagli 
artt. 
20, 
21 
e 
22 
direttiva 
2002/22/Ce, 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/136/Ce, 
osti 
all’adozione 
di 
misure 
regolatorie 
assunte 
dall’autorità nazionale 
di 
regolamentazione 
nel 
settore 
delle 
comunicazioni 
elettroniche 
volte 
a imporre: i) per 
la telefonia mobile, una 
cadenza di 
rinnovo delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
non inferiore 
a quattro settimane 
con la 
contestuale 
previsione 
dell’obbligo per 
i 
relativi 
operatori 
economici 
che 
adottino una cadenza 
di 
rinnovo delle 
offerte 
e 
della fatturazione 
su base 
diversa da quella mensile, di 
informare 
prontamente 
l’utente, tramite 
l’invio di 
un sms, dell’avvenuto rinnovo dell’offerta; ii) 
per 
la 
telefonia 
fissa, 
una 
cadenza 
di 
rinnovo 
delle 
offerte 
e 
della 
fatturazione 
su 
base 
mensile 
o suoi 
multipli; iii) in caso di 
offerte 
convergenti 
con la telefonia fissa, l’applicazione 
della 
cadenza relativa a quest’ultima”. 
130. Ai 
sensi 
delle 
“Raccomandazioni 
all’attenzione 
dei 
Giudici 
nazionali, relative 
alla 
presentazione 
di 
domande 
di 
pronuncia 
pregiudiziale” 
2012/C 338/01 in G.U.C.E. 6 novembre 
2012, 
vanno 
trasmessi, 
a 
cura 
della 
segreteria 
della 
Sezione, 
in 
copia 
alla 
cancelleria 
della 
Corte 
mediante 
plico 
raccomandato 
gli 
atti 
componenti 
il 
fascicolo 
di 
causa, 
nonché 
i 
seguenti 
atti 
con relativa 
numerazione: 
delibera 
n. 462/16/COnS 
(doc. 1); 
delibera 
n. 252/16/COnS 
(doc. 2); 
delibera 
n. 121/17/COnS 
(doc. 3); 
art. 1 L. 14 novembre 
1995, n. 481 (doc. 4); 
art. 
2 L. n. 481/1995 cit. (doc. 5); 
art. 1 Legge 
31 luglio 1997, n. 249 (doc. 6); 
art. 13 D. Lgs. 1 
agosto 2003, n. 259 (doc. 7); 
art. 70 D. Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (doc. 8); 
art. 71 D. Lgs. 1 

RASSEGnA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2020 


agosto 2003, n. 259 (doc. 9); 
art. 72 D. Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (doc. 10); 
art. 1339 c.c. 
(doc. 11); art. 1374 (doc. 12). 
P.Q.M. 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta): 


-rimette 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’Unione 
europea 
le 
questioni 
pregiudiziali 
indicate 
in motivazione; 
-ordina 
alla 
Segreteria 
della 
Sezione 
di 
trasmettere 
alla 
medesima 
Corte 
copia 
conforme 
al-
l’originale 
della 
presente 
ordinanza, nonché 
copia 
integrale 
degli 
atti 
indicati 
in motivazione 
e del fascicolo di causa; 
- sospende il processo nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2020. 

PAreridelComitAtoConsUltivo
Agevolazioni pubbliche contrarie al diritto Ue, 
la Commissione non impone di recuperare gli aiuti 
già concessi (i.e. esecuzione dei giudicati?) 

Parere 
del 
06/12/2019-675845, al 49697/2019, avv. Sergio 
Fiorentino 


Con la 
nota 
in riferimento Codesto Ufficio ha 
chiesto il 
parere 
della 
scrivente 
in ordine 
alla 
compatibilità 
dell’attività 
di 
esecuzione 
di 
alcune 
(dodici) 
sentenze 
emesse 
nei 
confronti 
dell’INPS 
e 
in favore 
di 
imprese 
private, con le 
prescrizioni 
della 
decisione 
della 
Commissione 
europea 
C (2015) 5549 final 
del 14 agosto 2015. 


Tale 
decisione 
ha 
riguardato un regime 
di 
aiuti 
originariamente 
previsto 
in favore 
dei 
cittadini 
e 
delle 
imprese 
colpite 
dal 
terremoto che 
si 
verificò, in 
data 13 dicembre 1990, nella Sicilia sud-orientale. 


Questo 
regime, 
che 
prevedeva 
-fra 
l’altro 
-la 
riduzione 
al 
10% 
della 
contribuzione 
dovuta 
dalle 
imprese 
per 
il 
periodo 
dal 
1995 
al 
1997, 
fu 
esteso 
anche 
ai soggetti interessati dagli eventi alluvionali occorsi in Piemonte nel 1994. 


Ciò, per effetto dell’art. 4, comma 
90, della 
legge 
24 dicembre 
2003, n. 
350, con il 
quale 
si 
stabilì 
che 
«(l)e 
disposizioni 
di 
cui 
all’articolo 9, comma 
17, 
della 
legge 
27 
dicembre 
2002, 
n. 
289, 
si 
applicano 
ai 
soggetti 
colpiti 
dagli 
eventi 
alluvionali 
del 
novembre 
1994, destinatari 
dei 
provvedimenti 
agevolativi 
in materia di 
versamento delle 
somme 
dovute 
a titolo di 
tributi, contributi 
e 
premi 
di 
cui 
ai 
commi 
2, 3 e 
7-bis 
dell’articolo 6 del 
decreto-legge 
24 novembre 
1994, 
n. 
646, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
21 
gennaio 
1995, n. 22, che 
possono regolarizzare 
la propria posizione 
relativa agli 
anni 
1995, 1996 e 
1997, entro il 
31 luglio 2004, ovvero secondo le 
modalità di 
rateizzazione 
previste 
dal 
citato comma 17 dell’articolo 9 della legge 
n. 289 del 
2002. la presente 
disposizione 
si 
applica entro il 
limite 
di 
spesa di 
5 milioni 
di euro annui a decorrere dal 2004». 


Si 
può 
prescindere 
dall’esaminare 
nel 
dettaglio 
i 
termini 
concreti 
del 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


regime 
di 
aiuti, 
essendo 
tale 
profilo 
indifferente 
ai 
fini 
del 
presente 
parere. 


Il 
17 ottobre 
2012 la 
Commissione 
europea, sulla 
base 
di 
un’ordinanza 
comunicatale 
il 
18 febbraio 2011 dal 
Tribunale 
di 
Cuneo, ha 
avviato un procedimento 
di 
indagine 
formale 
per 
aiuti 
di 
Stato 
illegali 
[SA.33083 
(2012 
N/N)], in relazione 
alle 
sovvenzioni 
concesse 
in connessione 
con il 
sisma 
siciliano 
e con le altre calamità naturali alle quali le misure agevolative furono 
estese. 


Contestualmente, la 
Commissione 
ha 
emesso un’ingiunzione 
di 
sospensione 
della 
concessione 
degli 
aiuti, nelle 
more 
della 
definizione 
del 
procedimento 
di 
indagine, ai 
sensi 
dell’articolo 11, par. 1, del 
reg. (CE) n. 659/1999 
del Consiglio. 


A 
chiusura 
del 
procedimento, la 
Commissione 
europea, con decisione 
14 
agosto 2015, n. C(2015) 5549 final 
(in prosieguo, per brevità, la 
«decisione 
della Commissione 
europea»), relativamente 
agli 
aiuti 
qui 
in esame, ha 
stabilito 
che: 


-il 
regime 
inizialmente 
introdotto dall’art. 9, comma 
17, della 
legge 
n. 
289 del 2002 costituisce un aiuto di Stato; 
- tale regime di aiuti è, altresì, incompatibile con il mercato interno; 
-gli 
aiuti 
individuali 
concessi 
in base 
a 
tale 
regime, tuttavia, non costituiscono 
aiuti 
di 
Stato illegali 
se, al 
momento della 
loro concessione, soddisfacevano 
le 
condizioni 
previste 
dal 
reg. n. 1407/2013 o dal 
reg. n. 707/2014; 
-inoltre, gli 
aiuti 
individuali 
concessi 
in base 
a 
tale 
regime 
che, al 
momento 
della 
loro concessione, soddisfacevano le 
condizioni 
previste 
dal 
regolamento 
adottato 
in 
applicazione 
dell’art. 
1 
reg. 
n. 
994/98 
o 
da 
ogni 
altro 
regime 
di 
aiuti 
approvato, sono compatibili 
con il 
mercato interno fino a 
concorrenza 
dell’intensità massima prevista per questo tipo di aiuti. 
Tuttavia, 
la 
decisione 
ha 
stabilito 
che 
la 
Repubblica 
italiana 
non 
era 
tenuta 
a 
recuperare 
gli 
aiuti 
concessi 
(a 
meno che 
essi 
non avessero addirittura 
interessato 
soggetti 
che, 
al 
momento 
dell’evento, 
non 
avevano 
una 
sede 
operativa 
nell’area colpita da calamità naturale). 


*** 
Nel 
contesto 
sopra 
sommariamente 
descritto, 
riferisce 
Codesto 
Ufficio 
che 
-sulla 
scorta 
di 
un orientamento interpretativo formatosi 
presso la 
Corte 
di 
cassazione 
(si 
vedano, per tutte, le 
sentenze 
nn. 11133 del 
7 maggio 2010 e 
11247 del 
10 maggio 2010) -l’INPS 
è 
risultato soccombente 
in alcuni 
giudizi 
vertenti sulla spettanza delle agevolazioni in questione. 
Questi 
giudicati 
si 
sono formati 
in epoca 
compresa 
tra 
il 
29 gennaio e 
il 
5 luglio 2011. 
Relativamente 
a 
tali 
casi, si 
pone 
il 
problema 
di 
far eventualmente 
valere 
nella 
fase 
di 
esecuzione 
il 
divieto di 
corresponsione 
degli 
aiuti 
che 
ha 
fonte 
nella 
Decisione 
della 
Commissione 
europea, nei 
limiti 
in cui 
tale 
divieto si 
ritenga 
operare ai sensi della decisione medesima. 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


la 
questione 
riguarda, in altre 
parole, la 
possibilità 
di 
sottrarsi 
al 
giudicato, 
sul 
presupposto della 
sua 
contrarietà 
al 
diritto dell’Unione 
europea 
e/o 
dell’allegazione 
di 
fatti 
sopravvenuti 
alla 
formazione 
del 
titolo 
giudiziale 
nella 
specie 
la 
decisione 
della 
Commissione 
europea 
del 
2015 -essendo tali 
fatti, per principio generale, sempre invocabili in sede esecutiva. 

ora, si 
è 
visto che 
la 
decisione 
della 
Commissione 
europea, se 
da 
un lato 
vieta 
l’ulteriore 
corresponsione 
di 
aiuti 
oggetto del 
regime 
dichiarato illegale 
e 
incompatibile 
con 
il 
mercato 
interno, 
dall’altro 
lato 
non 
impone 
di 
recuperare 
gli aiuti già “concessi”. 


Si 
pone 
dunque, innanzitutto, la 
questione 
di 
definire 
-in assenza 
di 
utili 
precedenti 
della 
Corte 
di 
giustizia 
(1) 
-la 
nozione 
ai 
nostri 
fini 
rilevante 
di 
“aiuto concesso”: 
in particolare, se 
essa 
si 
riferisca 
solo agli 
aiuti 
di 
cui 
il 
beneficiario 
abbia 
materialmente 
goduto (nella 
forma 
della 
fruizione 
dell’esenzione 
o 
dell’effettivo 
rimborso 
della 
corrispondente 
somma) 
ovvero 
se 
essa 
possa 
comprendere 
anche 
quegli 
aiuti 
oggetto di 
un credito che 
può considerarsi 
definitivamente 
acquisito nel 
patrimonio dell’interessato, in quanto accertato 
con sentenza passata in giudicato. 


Ritiene 
la 
scrivente 
che, 
in 
favore 
della 
seconda 
delle 
alternative 
descritte, 
militi 
la 
considerazione 
che 
-diversamente 
opinando -il 
diritto o meno del-
l’interessato a 
ritenere 
il 
rimborso dipenderebbe 
dalla 
maggiore 
o minore 
sollecitudine 
impiegata 
dall’Amministrazione 
nell’eseguire 
la 
sentenza 
passata 
in cosa 
giudicata. In altri 
termini, l’adesione 
alla 
soluzione 
opposta 
consentirebbe 
all’INPS 
di 
far valere 
il 
proprio stesso ritardo quale 
causa 
di 
estinzione 
del 
diritto al 
rimborso dell’interessato. Nessuno dubiterebbe, infatti, dell’inesistenza 
dell’obbligo di 
recupero nel 
caso in cui 
ai 
giudicati 
qui 
in esame, risalenti 
al 
2011, 
fosse 
stata 
data 
immediata 
esecuzione, 
prima 
dell’apertura 
della procedura di indagine per aiuti di Stato illegali. 

ove 
si 
accedesse 
alla 
proposta 
interpretazione, 
l’obbligo, 
scaturente 
dalla 
decisione 
della 
Commissione 
europea, di 
non dare 
ulteriore 
esecuzione 
al 
regime 
di 
aiuto, andrebbe 
letto come 
obbligo di 
non dare 
ulteriore 
esecuzione 
alle 
disposizioni 
di 
legge 
che 
attribuiscono l’aiuto, e 
dunque 
a 
opporsi 
anche 
in sede 
giudiziale 
alla 
loro applicazione, alla 
condizione, tuttavia, che 
si 
tratti 


(1) In differenti 
contesti, la 
Corte 
di 
giustizia 
ha 
avuto, in effetti, occasione 
di 
affermare 
che 
il 
momento 
della 
concessione 
dell’aiuto 
dovrebbe 
farsi 
risalire 
al 
momento 
dell’acquisizione, 
da 
parte 
del 
beneficiario, del 
relativo diritto. Cfr. sentenza 
del 
Tribunale 
del 
18 giugno 2019, cause 
riunite 
T-624/15, 
T-694/15 e 
T-704/15, eurofood e 
a. c/Commissione, cit. (attualmente 
sottoposta 
a 
impugnazione), per 
la 
quale 
«(…) 
secondo la giurisprudenza, gli 
aiuti 
di 
Stato devono essere 
considerati 
concessi 
nel 
momento 
in cui 
il 
diritto di 
riceverli 
è 
conferito al 
beneficiario ai 
sensi 
della normativa nazionale 
applicabile, 
tenuto 
conto 
dell’insieme 
dei 
requisiti 
stabiliti 
dal 
diritto 
nazionale 
per 
l’ottenimento 
dello 
stesso 
(v., in tal 
senso, sentenze 
del 
21 marzo 2013, Magdeburger 
Mühlenwerke, C‑129/12, eU:C:2013:200, 
punti 40 e 41, e del 6 luglio 2017, nerea, C‑245/16, eU:C:2017:521, punto 32)» (punto 69). 
Questa 
nozione 
di 
“aiuto concesso” 
non è 
evidentemente 
utilizzabile 
ai 
nostri 
fini, giacché 
essa 
porterebbe 
a considerare l’intero regime di aiuti “già concesso”. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


di 
giudizi 
di 
cognizione. 
Solo 
in 
tali 
giudizi, 
infatti, 
può 
tuttora 
farsi 
questione 
dell’applicazione 
delle 
norme 
reputate 
illegittime 
dalla 
decisione 
della 
Commissione. 
Relativamente 
alle 
controversie 
definite 
con 
sentenza 
passata 
in 
giudicato, 
tale 
questione 
è, 
infatti, 
assorbita 
dall’effetto 
normativo 
(e 
novativo 
del 
rapporto 
contributivo) 
del 
giudicato 
medesimo. 
Questi 
ultimi 
casi, 
dunque, 
vanno equiparati 
agli 
aiuti 
soggetti 
a 
recupero, ma 
è 
appunto la 
decisione 
qui 
rilevante 
che 
-eccezionalmente 
-dispensa 
le 
autorità 
italiane 
dell’esecuzione 
del recupero. 


In 
senso 
contrario, 
non 
potrebbe 
invocarsi 
l’art. 
1, 
comma 
665, 
della 
legge 
23 
dicembre 
2014, 
n. 
190 
(legge 
di 
stabilità 
2015), 
a 
tenore 
del 
quale 
«(i) 
soggetti 
colpiti 
dal 
sisma del 
13 e 
16 dicembre 
1990, che 
ha interessato le 
province 
di 
Catania, 
ragusa 
e 
Siracusa, 
individuati 
ai 
sensi 
dell’articolo 
3 
dell’ordinanza 
del 
Ministro 
per 
il 
coordinamento 
della 
protezione 
civile 
21 
dicembre 
1990, 
pubblicata 
nella 
gazzetta 
Ufficiale 
n. 
299 
del 
24 
dicembre 
1990, 
che 
hanno 
versato 
imposte 
per 
il 
triennio 
1990-1992 
per 
un 
importo 
superiore 
al 
10 per 
cento previsto dall’articolo 9, comma 17, della legge 
27 dicembre 
2002, 
n. 
289, 
e 
successive 
modificazioni, 
hanno 
diritto, 
con 
esclusione 
di 
quelli 
che 
svolgono attività d’impresa, per 
i 
quali 
l’applicazione 
dell’agevolazione 
è 
sospesa 
nelle 
more 
della 
verifica 
della 
compatibilità 
del 
beneficio 
con 
l’ordinamento 
dell’Unione 
europea, 
al 
rimborso 
di 
quanto 
indebitamente 
versato, 
a 
condizione 
che 
abbiano 
presentato 
l’istanza 
di 
rimborso 
ai 
sensi 
dell’articolo 21, comma 2, del 
decreto legislativo 31 dicembre 
1992, n. 546, 
e 
successive 
modificazioni. il 
termine 
di 
due 
anni 
per 
la presentazione 
della 
suddetta istanza è 
calcolato a decorrere 
dalla data di 
entrata in vigore 
della 
legge 
28 febbraio 2008, n. 31, di 
conversione 
del 
decreto-legge 
31 dicembre 
2007, n. 248 (…)». 


Anche 
a 
voler ritenere 
la 
norma 
estensibile 
al 
nostro caso (il 
che 
pare 
discutibile, 
giacché 
essa 
si 
riferiva 
alle 
«imposte» 
ed 
era 
circoscritta 
al 
territorio 
di 
alcune 
province 
siciliane), occorrerebbe 
infatti 
considerare 
che, da 
un lato, 
anche 
la 
disposizione 
in esame 
è 
sopravvenuta 
alla 
formazione 
del 
giudicato 
e, dall’altro lato, che 
la 
stessa 
decisione 
della 
Commissione, come 
si 
è 
visto, 
è 
interpretabile 
nel 
senso 
di 
far 
ritenere 
“aiuti 
concessi” 
quelli 
definitivamente 
attribuiti 
dall’autorità 
giudiziaria 
all’interessato, con sentenza 
passata 
in giudicato 
(di 
guisa 
che 
lo stesso contenuto della 
decisione 
verrebbe 
a 
costituire 
causa di cessazione della sospensione 
ex lege). 

*** 


le 
considerazioni 
che 
precedono, come 
si 
è 
visto, consentirebbero di 
far 
ritenere 
definitivamente 
acquisito 
il 
diritto 
al 
rimborso 
per 
ragioni 
di 
carattere 
sostanziale, che 
portano a 
equiparare 
all’aiuto “concesso”, non soggetto a 
ripetizione, 
l’aiuto 
definitivamente 
attribuito 
all’interessato 
con 
sentenza 
passata 
in giudicato, intervenuta 
prima 
dell’adozione 
della 
decisione 
della 
Commissione 
europea e prima dell’avvio della relativa indagine. 


PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Anche 
ammesso di 
ipotizzare 
il 
contrario, occorrerebbe 
verificare 
se 
ragioni 
di 
ordine 
procedurale 
precludano 
di 
far 
valere 
la 
contrarietà 
al 
diritto 
dell’Unione europea del rimborso. 


viene 
nuovamente 
in 
considerazione 
la 
situazione 
giuridica 
del 
giudicato, 
ma 
questa 
volta 
nella 
sua 
dimensione 
processuale, 
preclusiva 
del 
riesame 
delle 
questioni che ne formano oggetto. 


In altri 
termini, che 
la 
concessione 
del 
rimborso sia 
contraria 
alle 
norme 
dell’Unione 
in materia 
di 
aiuti 
e 
alla 
decisione 
della 
Commissione 
europea 
è 
questione 
che 
andrebbe 
accertata 
in sede 
giudiziale, ma 
a 
tale 
accertamento 
potrebbe opporsi appunto l’esistenza della preclusione da giudicato. 


Il 
tema 
riguarda, dunque, la 
possibilità 
di 
superare, in fase 
esecutiva, il 
giudicato con l’argomento della sua contrarietà al diritto dell’Unione. 


Sul 
punto, esiste 
copiosa 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia, tra 
cui 
si 
segnala 
-proprio in quanto si 
è 
ex 
professo 
occupata 
dell’eccezione 
di 
contrarietà 
al 
diritto dell’Unione 
opposta 
in seno a 
un giudizio di 
esecuzione 
(sia 
pure 
un giudizio di 
ottemperanza 
innanzi 
al 
giudice 
amministrativo) -la 
sentenza 
10 luglio 2014, causa 231/13, impresa Pizzarotti. 


Nell’occasione, la Corte ha affermato che (sottolineature nostre): 


-«59 
(…) 
il 
diritto 
dell’Unione 
non 
impone 
a 
un 
giudice 
nazionale 
di 
disapplicare 
le 
norme 
procedurali 
interne 
che 
attribuiscono 
forza 
di 
giudicato 
a 
una 
pronuncia 
giurisdizionale, 
neanche 
quando 
ciò 
permetterebbe 
di 
porre 
rimedio 
a 
una 
situazione 
nazionale 
contrastante 
con 
detto 
diritto 
(v., 
in 
tal 
senso, 
sentenze 
eco 
Swiss, 
C 
126/97, 
eU:C:1999:269, 
punti 
46 
e 
47; 
Kapferer, 
eU:C:2006:178, 
punti 
20 
e 
21; 
Fallimento 
olimpiclub, 
eU:C:2009:506, 
punti 
22 
e 
23; 
asturcom 
telecomunicaciones, 
C 
40/08, 
eU:C:2009:615, 
punti 
da 
35 
a 
37, 
nonché 
Commissione/Slovacchia, 
C 
507/08, 
eU:C:2010:802, 
punti 
59 
e 
60)»; 


«60 
il 
diritto 
dell’Unione 
non 
esige, 
dunque, 
che, 
per 
tener 
conto 
dell’interpretazione 
di 
una disposizione 
pertinente 
di 
tale 
diritto offerta dalla Corte 
posteriormente 
alla decisione 
di 
un organo giurisdizionale 
avente 
autorità di 
cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione»; 


«61 
la 
sentenza 
lucchini 
(C 
119/05, 
eU:C:2007:434), 
citata 
dal 
giudice 
del 
rinvio, non è 
atta a rimettere 
in discussione 
l’analisi 
sopra svolta. infatti, 
è 
stato 
in 
una 
situazione 
del 
tutto 
particolare, 
in 
cui 
erano 
in 
questione 
principi 
che 
disciplinano 
la 
ripartizione 
delle 
competenze 
tra 
gli 
Stati 
membri 
e 
l’Unione 
europea in materia di 
aiuti 
di 
Stato, che 
la Corte 
ha statuito, in sostanza, 
che 
il 
diritto 
dell’Unione 
osta 
all’applicazione 
di 
una 
disposizione 
nazionale, 
come 
l’articolo 
2909 
del 
codice 
civile 
italiano, 
che 
mira 
a 
consacrare 
il 
principio 
dell’intangibilità 
del 
giudicato, 
nei 
limiti 
in 
cui 
la 
sua 
applicazione 
impedirebbe 
il 
recupero di 
un aiuto di 
Stato concesso in violazione 
del 
diritto 
dell’Unione 
e 
dichiarato incompatibile 
con il 
mercato comune 
da una decisione 
della 
Commissione 
europea 
divenuta 
definitiva 
(v., 
in 
tal 
senso, 
sentenza 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Fallimento 
olimpiclub, 
eU:C:2009:506, 
punto 
25). 
la 
presente 
causa, 
invece, 
non solleva simili questioni di ripartizione delle competenze»; 


«62 
Ciò 
osservato, 
qualora 
le 
norme 
procedurali 
interne 
applicabili 
prevedano 
la possibilità, a determinate 
condizioni, per 
il 
giudice 
nazionale 
di 
ritornare 
su 
una 
decisione 
munita 
di 
autorità 
di 
giudicato, 
per 
rendere 
la 
situazione 
compatibile 
con 
il 
diritto 
nazionale, 
tale 
possibilità 
deve 
essere 
esercitata, conformemente 
ai 
principi 
di 
equivalenza e 
di 
effettività, e 
sempre 
che 
dette 
condizioni 
siano soddisfatte, per 
ripristinare 
la conformità della situazione 
oggetto del 
procedimento principale 
alla normativa dell’Unione 
in 
materia di appalti pubblici di lavori». 


Nello 
stesso 
senso 
si 
vedano 
le 
(successive) 
sentenze 
6 
ottobre 
2015, 
causa 
69/14, târșia, punti 
da 
28 a 
30 (2) e 
21 luglio 2016, causa 
C-226/15 P, 
apple and Pear 
australia, punto 51. 

Si 
vede, 
quindi, 
come 
-a 
giudizio 
della 
Corte 
di 
giustizia 
-neanche 
la 
contrarietà 
al 
diritto dell’Unione 
accertata 
dalla 
Corte 
medesima 
è 
situazione 
che 
impone 
di 
non dare 
esecuzione 
al 
giudicato, se 
a 
ciò si 
oppongono regole 
procedurali interne. 


In sede 
di 
ottemperanza, il 
giudice 
dell’esecuzione 
deve 
utilizzare 
tutti 
i 
margini 
di 
intervento di 
cui 
dispone 
per “rendere 
la 
situazione 
compatibile” 
con il diritto dell’Unione, ma non è tenuto a superare il giudicato. 

In altre 
parole, un residuo margine 
di 
intervento dell’autorità 
giudiziaria 
può 
ipotizzarsi 
in 
quelle 
situazioni, 
tipiche 
del 
processo 
amministrativo, 
in 
cui 
il 
giudizio 
di 
ottemperanza 
abbia 
una 
funzione 
anche 
integrativa 
del 
giudicato: 
in questi 
casi 
il 
giudice 
deve 
privilegiare, tra 
diverse 
soluzioni 
tutte 
astrattamente 
compatibili 
con il 
giudicato della 
cui 
esecuzione 
si 
tratti, quella 
da 
cui 
non derivi una violazione del diritto dell’Unione europea. 


Tale 
fattispecie 
non ricorre 
nel 
nostro caso, giacché, in sede 
di 
ottemperanza 
(e 
tanto 
più 
ove 
gli 
interessati 
ricorressero 
alle 
forme 
del 
processo 
di 
esecuzione 
civile), 
verrebbero 
in 
questione 
pretese 
di 
natura 
paritetica 
e 
di 
contenuto meramente economico. 


Né 
pare 
ricorrere 
l’eccezionale 
situazione 
che 
ha 
dato 
luogo 
alla 
giurisprudenza 
lucchini, sovente 
richiamata 
in casi 
consimili: 
basti 
rilevare 
che, 
in quel 
caso, la 
decisione 
di 
illegalità 
dell’aiuto emessa 
dalla 
Commissione, 
del 
20 giugno 1990, era 
anteriore 
alla 
formazione 
del 
giudicato e 
anche 
alla 


(2) Si 
veda 
in particolare 
il 
punto 28: 
«laddove 
alla restituzione 
di 
un tributo dichiarato incompatibile 
con il 
diritto dell’Unione 
osti, eventualmente, l’esistenza di 
una pronuncia giurisdizionale 
definitiva 
che 
ingiunge 
il 
pagamento 
del 
suddetto 
tributo, 
va 
ricordata 
l’importanza 
che 
riveste, 
sia 
nell’ordinamento giuridico dell’Unione 
che 
negli 
ordinamenti 
giuridici 
nazionali, il 
principio dell’intangibilità 
del 
giudicato. infatti, al 
fine 
di 
garantire 
tanto la stabilità del 
diritto e 
dei 
rapporti 
giuridici 
quanto 
una 
buona 
amministrazione 
della 
giustizia, 
è 
importante 
che 
le 
decisioni 
giurisdizionali 
divenute 
definitive 
dopo l’esaurimento dei 
mezzi 
di 
ricorso disponibili 
o dopo la scadenza dei 
termini 
previsti 
per 
tali 
ricorsi 
non possano più essere 
rimesse 
in discussione 
(sentenza impresa Pizzarotti, C 213/13, 
eU:C:2014:2067, punto 58 e giurisprudenza citata)». 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


decisione 
nazionale 
di 
primo grado (la 
sentenza 
del 
Tribunale 
era 
del 
24 giugno 
1991 e 
la 
decisione 
della 
Corte 
d’Appello, poi 
passata 
in giudicato, era 
del 6 maggio 1994). 


Per contro, come 
si 
è 
già 
più volte 
rilevato, le 
sentenze 
qui 
rilevanti 
sono 
state 
emesse 
in 
data 
anteriore 
alla 
Decisione 
della 
Commissione 
europea 
e 
sono passate 
in giudicato addirittura 
prima 
dell’avvio dell’indagine 
formale 
per aiuti di Stato illegali. 


In 
conclusione, 
non 
sembra 
che, 
nelle 
circostanze 
descritte 
da 
Codesto 
Ufficio, si 
disporrebbe 
di 
strumenti 
giuridici 
utili 
a 
opporsi 
a 
eventuali 
iniziative 
di 
esecuzione 
dei 
giudicati 
le 
quali 
potrebbero anche 
esporre 
a 
ulteriori 
aggravi per spese di giudizio. 

*** 
Si 
resta 
a 
disposizione 
per 
ogni 
eventuale 
approfondimento 
che 
si 
ritenesse 
necessario. 
Sulle 
questioni 
oggetto 
del 
presente 
parere 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo, 
che si è espresso in conformità nella seduta del 6 dicembre 2019. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


sull’istituto della prenotazione a debito del contributo 
unificato; il caso delle 
Autorità indipendenti 


Parere 
del 
14/01/2020-21530, al 51786/2018, 
vag gianFranCo 
Pignatone, avv. gianna 
Maria 
de 
SoCio 


Con 
la 
nota 
indicata 
a 
margine 
viene 
chiesto 
il 
parere 
della 
Scrivente 
in 
relazione 
a 
due 
quesiti 
concernenti 
la 
disciplina 
del 
contributo 
unificato 
previsto 
dal 
D.P.R. 
115/2002: 
il 
primo 
quesito 
è 
volto 
ad 
chiarire 
se 
gli 
Uffici 
della 
giustizia 
Amministrativa 
possano 
procedere 
al 
recupero 
delle 
spese 
prenotate 
a 
debito, 
e 
in 
particolare 
del 
contributo 
unificato, 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
dello 
Stato 
soccombenti; 
il 
secondo 
quesito 
è 
volto 
a 
chiarire 
se 
possa 
essere 
accolta 
l’istanza 
dell’Autorità 
garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
mercato 
(A.g.C.m.) 
di 
essere 
ammessa 
alla 
procedura 
di 
prenotazione 
a 
debito. 


1.-In ordine al primo quesito. 


1.1 
Com’è 
noto, il 
contributo unificato per le 
spese 
degli 
atti 
giudiziari 
(1), ritenuto entrata 
di 
natura 
fiscale 
(2), è 
soggetto ad una 
disciplina 
particolare 
quando 
parte 
in 
causa 
è 
una 
Pubblica 
Amministrazione. 
Questa 
disciplina 
(contenuta 
nel 
Titolo v 
"Processo in cui 
è 
parte 
l'amministrazione 
pubblica" 
(1) Il 
contributo unificato è 
stato istituito con l’art. 9 l. 488/1999 in sostituzione 
dei 
vari 
tributi 
che 
in 
precedenza 
gravavano 
sui 
procedimenti 
giurisdizionali 
(imposta 
di 
bollo, 
tassa 
di 
iscrizione 
a 
ruolo, diritti 
di 
cancelleria) e 
successivamente 
ridenominato contributo unificato di 
iscrizione 
a 
ruolo e 
disciplinato 
dal 
D.P.R. 
30 
maggio 
2002, 
n. 
115 
(testo 
unico 
delle 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari 
in materia di 
spese 
di 
giustizia). Il 
riordino della 
materia 
nasce 
dall'esigenza 
di 
semplificazione 
e 
coordinamento 
delle 
numerose 
norme 
che 
in precedenza 
si 
riferivano alle 
spese 
connesse 
con l'attività 
giurisdizionale. 
la 
competenza 
a 
recuperare 
il 
contributo unificato, benché 
ne 
sia 
stata 
affermata 
la 
natura 
tributaria, 
spetta 
alla 
cancelleria/segreteria 
dell’ufficio 
giudiziario 
e 
non 
all’Amministrazione 
finanziaria. 
Sul 
punto, dopo dubbi 
iniziali 
di 
natura 
interpretativa, si 
sono espressi 
tanto, con riferimento al 
giudice 
ordinario, il 
ministero della 
giustizia 
(circolare 
n. 28/6/2002 n. 4/2002) e 
tanto l’Agenzia 
delle 
Entrate 
che 
in vari 
documenti 
di 
prassi 
(v. Ris. n. 319/E 
del 
4/10/2002, 43/E 
del 
7/4/2005 e 
Ris. n. 242/E 
del 
7/9/2007 
-cfr 
10, 
11 
e 
12) 
ha 
affermato 
che 
la 
materia 
del 
contributo 
unificato 
è 
estranea 
alla 
competenza 
dell’Agenzia delle Entrate, rientrando nella competenza degli Uffici giudiziari. 
(2) giova 
ricordare 
che 
la 
Corte 
Costituzionale, nella 
decisione 
dell’11/2/2005 n. 73, emessa 
in 
relazione 
ad un conflitto di 
attribuzione 
promosso dalla 
Regione 
Sicilia, ha 
affermato “la natura tributaria 
erariale 
del 
predetto contributo unificato”, natura che 
“si 
desume, indipendentemente 
dal 
nomen 
juris 
utilizzato, dalla normativo che 
lo disciplina: in particolare 
….dal 
fatto che 
esso….è 
commisurato 
forfettariamente 
al 
valore 
della causa e 
non al 
costo del 
servizio reso”, sicché 
il 
contributo avrebbe 
le 
“caratteristiche 
essenziali 
del 
tributo, e 
cioè 
la doverosità della prestazione 
e 
il 
collegamento di 
questa 
ad 
una 
pubblica 
spesa, 
qual 
è 
quella 
per 
il 
servizio 
giudiziario”. 
Tale 
tesi, 
inizialmente 
contrastata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione, è 
stata 
poi 
condivisa 
anche 
in sede 
di 
legittimità 
con ciò che 
ne 
consegue 
ai 
fini 
della 
giurisdizione, cfr. Cass. civ. Sez. Unite 
17.4.2012, n. 5994, in cui 
si 
legge: 
“l'opposizione 
ex 
art. 
617 c.p.c. con la quale 
si 
fanno valere 
asseriti 
vizi 
della cartella di 
pagamento emessa in esito ad iscrizione 
a ruolo del 
contributo unificato previsto dall'art. 9 d.p.r. 115/2002, rientra nella competenza giurisdizionale 
del 
giudice 
tributario, atteso che 
il 
contributo unificato in 
oggetto ha natura di 
entrata 
tributaria 
e 
che 
il 
controllo 
della 
legittimità 
delle 
cartelle 
esattoriali, 
che 
costituiscono 
atti 
di 
riscossione 
a non di 
esecuzione 
forzata, spetta, quando le 
cartelle 
riguardino tributi, al 
giudice 
tributario in base 
alla previsione degli artt. 2, comma 1, e 19 d. lgs. 546/1992”. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


inserito 
nella 
PARTE 
Iv 
del 
D.P.R. 
115/2002 
intitolata 
"Processi 
particolari"), 
si incentra sull’istituto della prenotazione a debito. 


Secondo la 
definizione 
contenuta 
nell'art. 3 punto s) del 
T.U. 115/2002, 
la 
prenotazione 
a 
debito 
è 
“l’annotazione 
a 
futura 
memoria 
di 
una 
voce 
di 
spesa per 
la quale 
non vi 
è 
pagamento, ai 
fini 
di 
un eventuale 
successivo recupero”. 


Detta 
disciplina 
(giusta 
modifica 
normativa 
introdotta 
per 
effetto 
del 
D.l. 
98/2011, conv. in l. n. 111/2011) si 
applica 
a 
tutti 
i 
processi 
(civili, amministrativi 
e 
tributari); 
l’art. 
158 
D.P.R. 
115/2002 
(3), 
prevede 
infatti 
quanto 
segue: 


“nel 
processo in cui 
è 
parte 
l'amministrazione 
pubblica, sono prenotati 
a debito, se a carico dell'amministrazione: 


a) 
il 
contributo 
unificato 
nel 
processo 
civile, 
nel 
processo 
amministrativo 
e nel processo tributario…”. 
Il successivo comma 3 prevede poi che: 


“le 
spese 
prenotate 
a 
debito 
e 
anticipate 
dall'erario 
sono 
recuperate 
dal-
l'amministrazione, 
insieme 
alle 
altre 
spese 
anticipate, 
in 
caso 
di 
condanna 
dell'altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore”. 


Dunque 
nei 
confronti 
delle 
Amministrazioni 
che 
possono giovarsi 
di 
tale 
meccanismo (ossia, come 
meglio si 
vedrà, le 
Amministrazioni 
dello Stato e 
le 
altre 
amministrazioni 
pubbliche 
previste 
dalla 
legge 
(4)) 
non 
sono 
posti 
esborsi 
effettivi, 
ma 
la 
semplice 
“prenotazione” 
della 
spesa 
che, 
al 
definitivo 
esito 
del 
giudizio, sarà 
o annullata 
(in caso di 
condanna 
alle 
spese 
delle 
Amministrazioni 
suddette), 
ovvero 
recuperata 
dall’Amministrazione 
parte 
in 
causa 
nei 
confronti della controparte (in caso di condanna di quest’ultima) (5). 

In sostanza 
si 
tratta 
di 
un sistema 
di 
evidenziazione 
solo contabile 
della 
spesa 
(prevista 
anche 
per 
l'imposta 
di 
registro 
degli 
atti 
giudiziari 
e 
per 
il 
bollo 
dovuto nei 
giudizi 
contabili 
(6)), che 
esonera 
le 
amministrazioni 
beneficiarie 


(3) la 
Suprema 
Corte 
ha 
infatti 
precisato che 
“l'istituto della prenotazione 
a debito, pertanto, se 
per 
un 
verso 
esenta 
la 
pubblica 
amministrazione 
dal 
pagamento 
degli 
importi 
delle 
imposte 
e 
delle 
tasse 
-ivi 
compresi 
quelli 
afferenti 
al 
contributo unificato -che 
gravano sul 
processo, assolve, altresì, alla 
funzione, sotto il 
profilo amministrativo contabile, di 
evitare 
che 
di 
detta esenzione 
possa giovarsi 
la 
controparte in caso di soccombenza e di sua condanna alle spese” 
(Cass. civ. 29.1.2016, n. 1778). 
(4) l’art. 3 lett. q) del 
D.P.R. 115/2002 definisce 
quale 
“amministrazione 
pubblica ammessa alla 
prenotazione 
a debito”, “l'amministrazione 
dello Stato, o altra amministrazione 
pubblica, ammessa da 
norme di legge alla prenotazione a debito di imposte o di spese a suo carico”. 
(5) occorre 
chiarire 
che 
nella 
terminologia 
del 
citato T.U. 115/2002, l'espressione 
“amministrazione” 
si 
riferisce 
pacificamente 
all'amministrazione 
parte 
in causa, mentre 
l'apparato strumentale 
al-
l'amministrazione 
giudiziaria 
(di 
seguito per comodità 
definite 
“cancellerie”) viene 
definito "ufficio" 
e 
quello strumentale 
all'amministrazione 
fiscale 
viene 
definito "ufficio finanziario" 
[v. definizioni 
punti 
g) ed h) dell'art 3 T.U. 115/2002]. 
(6) Il 
testo integrale 
dell'art. 158 del 
T.U. 115/2002 ("Spese 
nel 
processo in cui 
è 
parte 
l'amministrazione 
pubblica ammessa alla prenotazione a debito e recupero delle stesse") è il seguente: 
1. nel 
processo in cui 
è 
parte 
l'amministrazione 
pubblica, sono prenotati 
a debito, se 
a carico dell'amministrazione: 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


dal 
pagamento dell’imposta 
dovuta 
all’atto della 
instaurazione 
di 
un giudizio 
civile, amministrativo o tributario. 

All’atto pratico dall’art. 158 D.P.R. 115/2002, secondo l’interpretazione 
della Cassazione, si evince la seguente regola generale: 


-se 
l’Amministrazione 
viene 
condannata 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
lite 
(tra 
le 
quali 
rientra 
il 
contributo unificato), la 
posta 
contabile 
viene 
annullata; 


-se 
è 
la 
controparte 
ad 
essere 
condannata 
al 
pagamento 
delle 
spese 
di 
lite, le 
spese 
per contributo unificato (se 
vi 
è 
stata 
prenotazione 
a 
debito) sono 
recuperate dall'Amministrazione pubblica parte in causa; 


-in 
caso 
di 
compensazione: 
la 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 
con 
orientamento 
costante 
ritiene 
che 
il 
contributo 
unificato 
può 
essere 
recuperato 
a 
carico 
della 
controparte 
nella 
misura 
del 
50% del 
suo importo (7), mentre 
per 
l’Amministrazione prenotante a debito, l’articolo di credito viene annullato. 


Per il 
giudizio amministrativo 
l’art. 13 co. 6-bis, nel 
testo vigente 
fino al 
richiamato D.l. n. 138/2011 non prevedeva 
particolari 
disposizioni 
derogatorie 
al suddetto quadro generale. 


Con l’art. 13 co.-6 bis 
nuovo testo, introdotto dal 
D.l. 138/2011, viene 
sancito 
-in 
difformità 
dal 
quadro 
generale 
sopra 
esposto 
-che 
l’onere 
del 
contributo 
unificato “è 
dovuto in ogni 
caso dalla parte 
soccombente, anche 
nel 
caso 
di 
compensazione 
giudiziale 
delle 
spese 
e 
anche 
se 
essa 
non 
si 
è 
costituita 
in giudizio”. 


Indubbiamente 
la 
disposizione 
contiene 
una 
deroga 
al 
principio 
generale. 
È, tuttavia, chiaro che 
detta 
disposizione 
intende 
derogare 
(e 
lo fa 
esplicitamente) 
non al 
“privilegio” 
della 
prenotazione 
a 
debito (ed eventuale 
successivo 
annullamento 
del 
contributo 
unificato 
dovuto 
dall’amministrazione 
statale), bensì 
solo al 
principio (saldo nella 
giurisprudenza 
della 
Cassazione) 
secondo 
cui 
l’individuazione 
dei 
soggetti 
tenuti 
al 
pagamento 
(anche 
nelle 
cause 
inter 
privatos) 
è 
determinata 
sulla 
base 
della 
statuizione 
del 
giudice 


a) il contributo unificato nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo tributario; 
b) l'imposta di bollo nel processo contabile; 
c) 
l'imposta 
di 
registro 
ai 
sensi 
dell'articolo 
59, 
comma 
1, 
lettere 
a) 
e 
b), 
del 
decreto 
del 
Presidente 
della 
repubblica 26 aprile 1986, n. 131, nel processo civile e amministrativo; 
d) l'imposta ipotecaria e 
catastale 
ai 
sensi 
dell'articolo 16, comma 1, lettera e), del 
decreto legislativo 
31 ottobre 1990, n. 347; 
e) le spese forfettizzate per le notificazioni a richiesta d'ufficio nel processo civile. 
2. Sono anticipate 
dall'erario le 
indennità di 
trasferta o le 
spese 
di 
spedizione 
degli 
ufficiali 
giudiziari 
per le notificazioni e gli atti di esecuzione a richiesta dell'amministrazione. 
3. le 
spese 
prenotate 
a debito e 
anticipate 
dall'erario sono recuperate 
dall'amministrazione, insieme 
alle 
altre 
spese 
anticipate, in caso di 
condanna 
dell'altra parte 
alla rifusione 
delle 
spese 
in proprio favore”. 
(7) Cfr. Cass. n. 29681/2017, e 
29679/2017, che 
conferma 
il 
principio pacifico secondo cui 
nel-
l'ipotesi 
in cui 
il 
ricorrente 
risulti 
vittorioso in giudizio, ottenendo l'annullamento dell'atto impositivo, 
ma 
il 
giudice 
decida 
per la 
compensazione 
delle 
spese 
tra 
le 
parti, l'ente 
impositore 
è 
obbligato alla 
rifusione 
del contributo unificato, per un ammontare pari alla sua metà. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


sull’addebito delle 
spese 
di 
lite 
(tra 
le 
quali, come 
confermato dall’espressa 
disposizione, dettata 
per il 
processo tributario 
dall’art. 15 co. 2-ter 
D.lgs. 31 
dicembre 
1992 n. 546, rientra 
il 
contributo unificato). Inoltre 
la 
disposizione 
introduce 
una 
regola 
espressa 
per i 
casi 
di 
compensazione, che 
vengono anch’essi 
regolati 
secondo 
il 
criterio 
della 
“soccombenza” 
(in 
deroga 
alla 
regola 
applicata 
dalla 
giurisprudenza 
nei 
giudizi 
civili 
e 
tributari, secondo cui, ai 
fini 
del 
contributo 
unificato, 
la 
compensazione 
equivale 
ad 
una 
condanna 
al 
50%). 

1.2 
Tanto chiarito sotto il 
profilo generale, è 
avviso della 
Scrivente 
che 
la 
tesi 
prospettata 
dubitativamente 
da 
codesto Segretariato generale 
(possibilità 
di 
recuperare 
il 
contributo unificato nei 
confronti 
delle 
Amministrazioni 
dello Stato soccombenti) non può essere 
avallata 
sulla 
base 
del 
disposto del-
l’art. 
13 
co. 
6-bis 
T.U. 
115/2002, 
e 
in 
particolare 
della 
locuzione 
“in 
ogni 
caso” 
ivi prevista. 
In 
effetti, 
se 
si 
esclude 
che 
la 
disposizione 
abbia 
un 
contenuto 
derogatorio 
alla 
disciplina 
generale 
della 
prenotazione 
a 
debito (ed abbia 
invece 
i 
diversi 
scopi 
fatti 
palesi 
dal 
suo testo e 
confermati 
dalle 
citate 
sentenze 
dalla 
Cassazione 
nonché 
da 
copiosa 
giurisprudenza 
amministrativa, 
v. 
per 
tutti 
C.d.S. 
355/2019), non ha 
fondamento la 
tesi 
secondo cui 
solo per i 
giudizi 
amministrativi 
la 
prenotazione 
a 
debito (che 
non è 
in discussione) sia 
destinata 
a 
sfociare, 
in caso di 
soccombenza 
della 
P.A., non -come 
da 
regola 
generale 
-in 
un annullamento dell’articolo di 
credito, bensì 
in un pagamento a 
carico della 
parte pubblica. 

A 
ciò si 
aggiunga 
che, in base 
al 
meccanismo previsto dall’art. 158 co. 3 
del 
T.U. 
115/2002, 
al 
“recupero” 
del 
contributo 
unificato 
delle 
spese 
prenotate 
a 
debito e 
anticipate 
dall’erario procede 
l’Amministrazione 
parte 
in causa 
e 
non la 
segreteria 
della 
giustizia 
Amministrativa 
(la 
quale 
effettua 
il 
recupero 
solo a 
carico delle 
parti 
tenute 
al 
pagamento del 
contributo). Nella 
tesi 
prospettata 
il 
“recupero” 
dovrebbe 
essere 
però 
eseguito 
dalle 
stesse 
segreterie 
della 
giustizia 
Amministrativa 
(8), 
in 
implicita 
ulteriore 
deroga, 
dunque, 
anche 
all’art. 158 co. 3. 

Senonché 
in 
tal 
modo, 
a 
ben 
vedere, 
viene 
messa 
in 
discussione 
non 
solo 
l’esclusione 
dal 
contributo unificato delle 
Amministrazioni 
dello Stato, ma 
lo 
stesso istituto della 
prenotazione 
a 
debito che, di 
fatto, perderebbe 
la 
sua 
funzione 
di 
sospensione 
del 
pagamento 
in 
vista 
del 
successivo 
annullamento 
della 
partita 
contabile, per diventare 
un (inutile) strumento di 
sospensione 
del 
pagamento 
in vista 
del 
successivo recupero 
a 
carico della 
medesima 
Amministrazione 
dello Stato. 


Ebbene, 
non 
può 
non 
ritenersi 
azzardato 
ipotizzare 
che 
una 
regola 
certa


(8) 
Ciò 
direttamente 
sulla 
base 
dell’art. 
3 
punto 
s) 
del 
T.U. 
115/2002 
secondo 
cui 
“la 
prenotazione 
a 
debito 
è 
l’annotazione 
a 
futura 
memoria 
…ai 
fini 
di 
un 
eventuale 
successivo 
recupero” 
che 
nella 
lettura proposta dovrebbe poter essere eseguito anche a carico delle 
Amministrazioni dello Stato. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


mente 
dirompente 
come 
quella 
qui 
prospettata 
possa 
ritenersi 
affidata 
non 
ad 
una 
previsione 
legislativa 
espressa, 
bensì 
ad 
una 
semplice 
locuzione 
(“in 
ogni 
caso”), 
peraltro 
suscettibile 
di 
essere 
ben 
più 
linearmente 
spiegata 
in 
altro 
modo 
(ossia 
con 
l’intento 
del 
legislatore 
di 
derogare 
al 
criterio 
della 
“condanna”). 


1.3 
Il 
secondo 
elemento 
evidenziato 
da 
codesto 
Segretariato 
a 
sostegno 
della 
tesi 
dell’assoggettamento 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato 
al 
pagamento 
del 
contributo 
unificato 
è 
connesso 
alla 
considerazione 
che 
la 
giustizia 
Amministrativa 
ha 
un 
bilancio 
autonomo 
ai 
sensi 
dell’art. 
5-bis 
l. 
27 
aprile 
1982 
n. 
186. 
Il 
dato 
normativo 
che 
darebbe 
rilevanza 
a 
tale 
dato 
fattuale 
è 
l’art. 
3 
punto 


s) del 
T.U. 115/2002 secondo cui 
“la prenotazione 
a debito è 
l’annotazione 
a 
futura 
memoria 
…ai 
fini 
di 
un 
eventuale 
successivo 
recupero”. 
Ebbene 
le 
somme 
che 
la 
giustizia 
Amministrativa 
dovrebbe 
“recuperare” 
a 
carico 
delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato 
andrebbero 
a 
confluire 
nell’autonomo 
capitolo 
di 
bilancio 
della 
giustizia 
Amministrativa 
(situazione 
questa 
non 
riconducibile 
a 
quella, 
sottesa 
al 
meccanismo 
della 
prenotazione 
a 
debito) 
in 
cui 
lo 
Stato 
paga 
se 
stesso, sicchè 
non vi 
sarebbe 
ragione 
di 
annullare 
la 
partita 
contabile. 
A parere della Scrivente tale tesi non può essere accolta. 


Da 
una 
parte, infatti, la 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 
appare 
incline 
a 
ravvisare 
il 
fondamento 
della 
prenotazione 
a 
debito 
non 
già 
nel 
principio 
della 
“confusione” 
bensì 
nel 
principio della 
" 
esenzione" 
(9), rispetto al 
quale 
l’autonomia 
finanziaria 
di 
cui 
gode 
la 
giustizia 
Amministrativa 
è 
irrilevante; 
d’altro 
lato l’autonomia 
finanziaria 
suddetta 
si 
traduce 
in una 
autonomia 
di 
spesa 
e 
non 
di 
entrata, 
sicchè 
è 
difficile 
escludere 
quella 
“alterità” 
rispetto 
all'Erario, 
che sola potrebbe impedire il fenomeno della confusione. 

2. 
In ordine al secondo quesito. 
2.1 
Con 
il 
secondo 
quesito 
si 
intende 
chiarire 
se 
possa 
essere 
accolta 
l’istanza 
dell’Autorità 
garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
mercato 
(di 
seguito 
A.g.C.m.) di 
essere 
ammessa 
alla 
prenotazione 
a 
debito ai 
sensi 
dell'art. 158 
del menzionato D.P.R. 115/2002. 
A 
quanto 
espone 
codesto 
Segretariato, 
il 
quesito 
nasce 
dalla 
richiesta 
del-
l'Autorità 
suddetta 
di 
essere 
esonerata 
dal 
pagamento del 
contributo unificato 
nella 
sua 
indiscutibile 
veste 
di 
Amministrazione 
dello Stato, che 
si 
avvale 
per 
di 
più 
della 
rappresentanza 
e 
difesa 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell'art. 
1 R.D. 1611/1933. 


(9) Al 
principio della 
confusione 
fanno riferimento varie 
sentenze 
della 
Corte 
di 
Cassazione, in 
cui 
si 
afferma 
il 
principio 
secondo 
cui 
lo 
Stato 
non 
è 
tenuto 
a 
versare 
le 
imposte 
che 
gravano 
sul 
processo 
“per 
la 
evidente 
ragione 
che 
lo 
Stato 
verrebbe 
ad 
essere 
al 
tempo 
stesso 
debitore 
e 
creditore 
di 
sé 
stesso 
con 
la 
conseguenza 
che 
l'obbligo 
non 
sorge" 
(Cass., 
SS.UU. 
civ., 
8 
maggio 
2014, 
n. 
9938). 
In 
definitiva 
lo Stato non paga 
se 
stesso. Tuttavia 
l’orientamento più solido della 
Cassazione 
è 
quello che 
configura 
il 
fondamento 
della 
confusione 
nel 
principio 
della 
“esenzione”, 
cfr. 
Cass. 
1778/2016 
la 
cui 
motivazione 
è riassunta in nota 25. 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


2.2 Sul punto si osserva quanto segue. 
l'art. 3 lett. q) del 
D.P.R. 115/2002 fornisce 
un chiarimento della 
locuzione 
usata 
nella 
rubrica 
dell'art. 
158, 
definendo, 
quale 
“amministrazione 
pubblica 
ammessa alla prenotazione 
a debito”, “l'amministrazione 
dello Stato, o 
altra 
amministrazione 
pubblica, 
ammessa 
da 
norme 
di 
legge 
alla 
prenotazione 
a debito di imposte o di spese a suo carico”. 


Dunque 
devono 
considerarsi 
legittimate 
a 
beneficiare 
della 
prenotazione 
a 
debito: 
a) 
l'Amministrazione 
dello 
Stato, 
b) 
altre 
Amministrazioni 
pubbliche 
ammesse da norme di legge al suddetto meccanismo. 

2.3 
Nel 
caso in esame, con riferimento all'A.g.C.m. non ricorre 
l'ipotesi 
sub 
b) 
(espressa 
disposizione 
di 
legge) 
(10). 
Si 
tratta 
dunque 
di 
stabilire 
se 
l'Autorità possa considerarsi quale 
“amministrazione dello Stato”. 
la 
questione 
appare 
particolarmente 
complessa 
in quanto accanto a 
rilevanti 
elementi 
normativi 
che 
depongono in senso favorevole 
alla 
tesi 
dell’inclusione 
delle 
Autorità 
indipendenti 
nel 
novero delle 
Amministrazioni 
dello 
Stato, e 
al 
loro conseguente 
esonero dal 
pagamento del 
contributo unificato, 
si 
segnalano anche 
alcuni 
elementi 
di 
segno contrario, dei 
quali 
pure 
si 
darà 
conto nel seguito del parere. 


2.4 la 
tesi 
secondo cui 
le 
Autorità 
indipendenti 
possono essere 
incluse 
nel 
novero delle 
Amministrazioni 
dello Stato, non è 
incompatibile 
con i 
principi 
amministrativistici e costituzionali rilevanti in materia. 
In 
via 
preliminare 
occorre 
rilevare 
che 
dal 
complesso 
delle 
norme 
dell'ordinamento 
non 
si 
rinviene 
un 
concetto 
univoco 
di 
«amministrazione 
dello 
Stato», 
mentre 
si 
può 
delimitare, 
abbastanza 
chiaramente, 
il 
novero 
delle 
«amministrazioni 
pubbliche» 
(queste 
ultime, 
infatti, 
si 
trovano 
ormai 
definite 
dal 
D.lgs. 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165, 
norme 
generali 
sull'ordinamento 
del 
lavoro 
alle 
dipendenze 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, 
il 
cui 
art. 
1 
comma 
2 
viene 
considerato 
quale 
parametro 
normativo 
di 
riferimento 
per 
definire 
l'estensione 
del 
concetto 
(11)). 


In ordine 
alla 
nozione 
di 
“amministrazione 
dello Stato”, invece, la 
giurisprudenza 
e 
la 
stessa 
dottrina 
amministrativistica 
non riescono a 
fornire, in 


(10) Si 
noti 
che 
per consentire 
l'applicazione 
dell'art. 158 D.P.R. 115/2002 alle 
Agenzie 
fiscali 
il 
legislatore 
è 
intervenuto 
con 
l'art. 
12, 
comma 
5, 
D.l. 
2 
marzo 
2012, 
n. 
16, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla l. 26 aprile 2012, n. 44. 
(11) Il 
citato art. 1 comma 
2 prevede 
che: 
“Per 
amministrazioni 
pubbliche 
si 
intendono tutte 
le 
amministrazioni 
dello Stato, ivi 
compresi 
gli 
istituti 
e 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado e 
le 
istituzioni 
educative, 
le 
aziende 
ed amministrazioni 
dello Stato ad ordinamento autonomo, le 
regioni, le 
Province, i 
Comuni, le 
Comunità montane, e 
loro consorzi 
e 
associazioni, le 
istituzioni 
universitarie, gli 
istituti 
autonomi 
case 
popolari, le 
Camere 
di 
commercio, industria, artigianato e 
agricoltura e 
loro associazioni, 
tutti 
gli 
enti 
pubblici 
non economici 
nazionali, regionali 
e 
locali, le 
amministrazioni, le 
aziende 
e 
gli 
enti 
del 
Servizio sanitario nazionale, l'agenzia per 
la rappresentanza negoziale 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(aran) e 
le 
agenzie 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione 
organica della disciplina di 
settore, le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
decreto continuano ad applicarsi 
anche al Coni”. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


mancanza 
di 
indicazioni 
legislative 
espresse, criteri 
di 
identità 
univoci 
e 
condivisi 
(12). 

Accrescendosi 
la 
complessità 
dell’ordinamento e, con essa, l’esigenza 
di 
decentramento, la 
cura 
di 
alcuni 
interessi 
pubblici 
un tempo affidata 
direttamente 
allo Stato-persona 
è 
stata 
attribuita 
ad organismi 
dotati 
di 
soggettività 
giuridica 
e 
di 
autonomia 
di 
bilancio, che 
agiscono quali 
“amministrazioni 
indirette” 
dello Stato. 

Il 
modello 
organizzativo 
delle 
Autorità 
indipendenti 
risponde 
all’esigenza 
di 
garantire 
l’autonomia 
di 
funzionamento 
e 
l’indipendenza 
dall’indirizzo 
politico, 
sicché 
di 
per 
sé 
tale 
modello 
non 
può 
essere 
considerato 
indice 
della 
“estraneità” 
di 
tali 
soggetti 
dall’ambito 
“statale” 
ma, 
all’opposto, 
tenuto 
conto 
che 
gli 
interessi 
pubblici 
affidati 
a 
dette 
Autorità 
afferiscono 
intimamente 
allo 
Stato, 
detto 
modello 
organizzativo 
rappresenta 
un’esaltazione 
dell’imparzialità 
amministrativa 
di 
cui 
all’art. 97 Cost. (13). Sotto tale 
profilo appare 
rilevante 
l’inquadramento 
della 
Cassazione 
che, 
con 
riferimento 
all’Autorità 
garante 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali, ne 
segnala 
la 
“posizione 
particolare 
nell’ambito dello Stato-comunità” 
(14). 


la 
collocazione 
delle 
Autorità 
indipendenti 
nel 
novero delle 
amministrazioni 
dello 
Stato 
trova 
indiretta 
conferma 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale, 
laddove 
nega 
la 
legittimazione 
delle 
Autorità 
suddette 
ad essere 
parte 
di 
un 
conflitto 
di 
attribuzioni 
tra 
poteri 
dello 
Stato 
oppure 
a 
sollevare 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
in 
via 
incidentale 
davanti 
alla 
Consulta. 
A 
tal 
riguardo 
l’orientamento 
della 
Corte 
costituzionale 
è 
nettamente 
e 
costantemente 
negativo 
in 
quanto, 
nonostante 
la 
particolare 
posizione 
di 
indipendenza 
loro riservata 
nell’ordinamento, esclude 
che 
dette 
Autorità 
posseggano 
la 
competenza 
di 
“dichiarare 
in 
via 
definitiva 
la 
volontà 
di 
uno 
dei 
poteri 
dello 
Stato” 
(15). 

(12) 
Si 
vedano, 
al 
riguardo, 
per 
tutti, 
SANDUllI, 
(Manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
Napoli, 
1989, 
I, 
p 
340 
ss).; 
P. 
vIRgA, 
(diritto 
amministrativo 
vol. 
1, 
milano, 
1995, 
9 
ss.). 
All'interno 
della 
Stato, 
inteso 
come 
persona 
giuridica, 
possono 
distinguersi 
molti 
soggetti 
dotati 
di 
soggettività 
giuridica 
e 
di 
autonomia 
di 
bilancio, ai 
quali 
viene 
affidata 
la 
cura 
di 
interessi 
pubblici, che 
agiscono quali 
“amministrazioni 
indirette
». Questa 
“plurisoggettività” 
pubblica 
induce 
la 
dottrina 
a 
parlare 
di 
superamento del 
concetto 
di 
“Stato 
persona" 
(ritenuta 
"metafora” 
utile 
in 
passato 
per 
configurare 
lo 
Stato 
come 
soggetto 
unitario, 
capace 
attraverso i 
suoi 
organi, di 
volontà 
e 
di 
azioni) quale 
costruzione 
dogmatica 
ora 
non più attuale. 
Sul 
punto 
cfr. 
PARlATo: 
Principi, 
tecnica 
legislativa 
e 
Corte 
costituzionale, 
in 
AA.vv., 
l'evoluzione 
dell'ordinamento 
tributario 
italiano 
-atti 
del 
convegno 
«i 
settanta 
anni 
di 
"diritto 
e 
pratica 
tributaria"» 
(genova, 2-3 luglio 1999) coordinati da 
v. UCkmAR, Padova, 2000, 220 ss. 
(13) Come 
osservato in tempi 
risalenti 
dal 
Consiglio di 
Stato in sede 
consultiva, l’indipendenza 
rispetto 
all’indirizzo 
politico 
rappresenta 
non 
una 
violazione 
dell’art. 
95 
Cost., 
bensì 
un’esaltazione 
del-
l’imparzialità 
amministrativa 
di 
cui 
all’art. 
97 
Cost. 
Del 
resto, 
dalla 
Carta 
costituzionale 
non 
è 
ricavabile 
un 
modello 
unitario 
di 
pubblica 
amministrazione 
identificabile 
solo 
ed 
esclusivamente 
con 
l’art. 
95 
Cost. 
e 
inoltre 
l’art. 
98 
Cost. 
sancisce 
che 
i 
pubblici 
funzionari 
sono 
al 
servizio 
esclusivo 
non 
tanto 
del 
governo 
quanto piuttosto della Nazione (Cons. Stato comm. spec., 29 maggio 1998). 
(14) Cass. Sez. II, 24.6.2014 n. 14326. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Da 
questa 
conclusione 
si 
può dunque 
desumere 
che 
le 
Autorità 
indipendenti 
sono da collocare all’interno dei 
“poteri dello Stato” 
(16). 


Sul 
piano 
amministrativo 
la 
questione 
della 
riconducibilità 
delle 
Autorità 
indipendenti 
al 
novero 
delle 
Amministrazioni 
“statali” 
è 
stato 
affrontato 
in 
relazione 
al 
problema 
di 
individuare 
la 
gestione 
previdenziale, pubblica 
(INPDAP) 
ovvero privata 
(INPS), competente 
ad assicurare 
il 
relativo personale. 


Sul 
punto il 
Consiglio di 
Stato, nel 
sostenere 
la 
correttezza 
della 
prima 
soluzione, 
con 
un 
parere 
non 
recente 
(n. 
260/1999), 
ha 
configurato 
le 
Autorità 
indipendenti 
quali 
“amministrazioni 
dello Stato ad ordinamento autonomo” 
(in una 
successiva 
consultazione, parere 
n. 4489/2005, pur confermandosi 
la 
natura 
pubblica 
delle 
Autorità, è 
stato sfumato il 
passaggio relativo alla 
loro 
connotazione come 
Amministrazioni dello Stato). 


Sullo stesso piano si 
pone 
anche 
la 
consistente 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(cfr. 
C.d.S. 
n. 
1433/2019, 
che 
richiama 
tra 
tante 
C.d.S. 
5154/2014) 
secondo 
cui 
le 
Autorità 
indipendenti 
sono 
”amministrazioni 
statali 
che 
seppur 
dotate 
di 
indipendenza sono pur 
sempre 
amministrazioni 
statali 
e 
non enti distinti dallo Stato” 
(17). 

2.5 Sotto altro connesso profilo si 
deve 
considerare 
il 
fatto che 
l’Autorità 
garante 
della 
Concorrenza 
è 
inclusa 
fra 
le 
Amministrazioni 
istituzionalmente 
rappresentate 
e 
difese 
dall'Avvocatura 
dello Stato ai 
sensi 
dell’art. 1 R.D. 30 
ottobre 
1933, n. 1611 (Cons. Stato. Sez. vI, 2 marzo 2004, n. 926; 
id. 
25 novembre 
1994, 
n. 
1716; 
TAR 
lazio, 
III 
ter, 
15.3.2013 
n. 
2720) 
(18). 
Questa 
(15) la 
Corte 
ha 
sempre 
mantenuto ferma 
nel 
tempo la 
sua 
giurisprudenza 
che 
nega 
alle 
autorità 
la 
legittimazione 
ad essere 
parte 
nei 
conflitti 
di 
attribuzione 
fra 
poteri 
dello Stato. Così 
l’ordinanza 
n. 
137 del 
2000 ha 
affermato che 
le 
attribuzioni 
dell’AgCom 
sono disciplinate 
da 
legge 
ordinaria 
e 
“non 
assumono 
uno 
specifico 
rilievo 
costituzionale 
né 
sono 
tali 
da 
giustificare 
-nonostante 
la 
particolare 
posizione 
di 
indipendenza 
riservata 
all’organo 
nell’ordinamento 
-il 
riferimento 
all’organo 
stesso 
della 
competenza a dichiarare 
in via definitiva la volontà di 
uno dei 
poteri 
dello Stato” 
(cfr. anche 
ord. 2 giugno 
1995, n. 226, con riferimento al 
garante 
per la 
radiodiffusione 
e 
l’editoria, di 
cui 
l’AgCom 
costituisce 
un’evoluzione). 
Parimenti 
la 
Corte 
è 
ferma 
nel 
giudicare 
manifestamente 
inammissibile 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
sollevata 
in 
via 
incidentale 
da 
un’Autorità 
indipendente, 
in 
quanto 
proposta da un soggetto privo di legittimazione. 
(16) In particolare, escludendo la 
legittimazione 
dell’A.g.C.m. (ma 
il 
ragionamento è 
ben estensibile 
a 
tutte 
le 
Autorità 
indipendenti, comprese 
quelle 
di 
regolazione) a 
sollevare 
questioni 
di 
costituzionalità, 
la 
Corte 
ne 
ha 
valorizzato l’assenza 
di 
“terzietà” 
rispetto alle 
Amministrazioni 
dello Stato. In 
buona 
sostanza 
l’iter argomentativo è 
incentrato sulla 
posizione 
di 
“parte 
resistente” 
nei 
giudizi 
aventi 
ad oggetto l’impugnazione 
dei 
relativi 
provvedimenti, posizione 
desumibile 
dal 
fatto che 
detti 
provvedimenti 
sono 
tutti 
sottoposti 
al 
vaglio 
del 
giudice; 
ebbene 
proprio 
la 
veste 
processuale 
di 
“parte” 
riflette 
la 
natura 
del 
potere 
attribuito all’Autorità, che, a 
detta 
del 
giudice 
costituzionale, è 
“una funzione 
amministrativa 
discrezionale, 
il 
cui 
esercizio 
comporta 
la 
ponderazione 
dell’interesse 
primario 
con 
gli 
altri interessi pubblici e privati in gioco” 
(cfr. Corte cost., 31 gennaio 2019, n. 13). 
(17) 
Il 
principio 
è 
stato 
affermato 
in 
relazione 
al 
problema 
del 
luogo 
di 
notifica 
degli 
atti 
giudiziari 
(nella 
specie 
un 
appello 
nei 
confronti 
dell’A.g.C.m.) 
che 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
affermato 
debba 
essere 
eseguita presso l’Avvocatura dello Stato. 
(18) 
Con 
riferimento 
al 
garante 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
invece, 
l’art. 
17 
del 
Reg. 
2/2000 prevede il patrocinio dell’Avvocatura ai sensi dell’art. 43 del R.D. 1611/1933. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


circostanza 
costituisce 
una 
rilevante 
conferma 
dell’applicabilità 
alla 
suddetta 
Autorità indipendente anche dell’art. 158 del D.P.R. 115/2002. 

Ciò 
anzitutto 
in 
ragione 
della 
considerazione 
che 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
motivato 
le 
sue 
decisioni 
proprio 
sulla 
base 
dell’assunto 
che 
l’Autorità 
in 
questione 
appartiene 
al 
novero 
delle 
amministrazioni 
dello 
Stato 
ad 
ordinamento 
autonomo, 
ciò 
che 
di 
per 
sé 
comporta 
testualmente 
l’applicabilità 
dell’esenzione 
dal 
pagamento 
del 
contributo 
unificato 
disposta 
dall’art. 
158 
T.U. 
115/2002 
(19). 


D’altra 
parte 
la 
ratio 
sottesa 
al 
servizio 
di 
assistenza 
giuridica 
reso 
in 
via 
istituzionale 
dall'Avvocatura 
dello 
Stato 
(20) 
è, 
tra 
altre 
di 
maggior 
rilievo, 
anche 
quella 
di 
sollevare 
le 
Amministrazioni 
che 
ne 
fruiscono 
dal-
l'onere 
economico 
che 
esse 
dovrebbero 
sostenere 
per 
l'assistenza 
di 
avvocati 
del 
libero 
foro, 
e, 
dunque, 
in 
buona 
sostanza 
la 
norma 
mira 
ad 
agevolarne 
l’accesso 
alla 
giustizia. 


A 
ben 
vedere 
al 
medesimo 
risultato 
conduce 
l’art. 
158 
del 
D.P.R. 
115/2002, 
che 
solleva 
le 
Amministrazioni 
“statali” 
(e 
le 
altre 
Amministrazioni 
previste 
dalla 
legge) 
dall'onere 
di 
pagare 
il 
particolare 
tributo 
(appunto 
il 
contributo 
unificato) 
che 
fa 
carico 
a 
chi 
intende 
accedere 
ai 
servizi 
della 
giustizia. 


l'una 
e 
l'altra 
disposizione 
sono volte 
ad assicurare, su piani 
diversi 
ma 
strettamente 
correlati, un accesso agevolato alla 
difesa 
in giudizio degli 
interessi 
di cui sono portatrici le 
Amministrazioni dello Stato. 


Ebbene, il 
fatto che 
le 
autorità 
indipendenti 
fruiscano del 
patrocinio obbligatorio 
dell'Avvocatura 
erariale 
costituisce 
un 
ulteriore 
elemento 
che 
sembra 
deporre 
nel 
senso del 
loro diritto ad avvalersi 
anche 
del 
beneficio della 
prenotazione 
a 
debito, volto al 
medesimo fine 
di 
favorire 
l'ingresso alla 
tutela 
giurisdizionale 
degli 
interessi 
curati 
dalle 
Amministrazioni 
“statali” 
(e 
dalle 
altre 
di volta in volta riconosciute dalla legge). 

2.6 
Tali 
considerazioni 
indurrebbero dunque 
a 
configurare 
le 
Autorità 
in(
19) 
occorre 
rilevare 
che, 
al 
contrario 
delle 
altre 
Autorità 
indipendenti, 
il 
garante 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali, ai 
sensi 
dell’art. 17 del 
Reg. 2/2000, fruisce 
del 
patrocinio “facoltativo” 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’art. 
43 
del 
R.D. 
1611/1933. 
Non 
sembra 
peraltro 
che 
tale 
scelta 
legislativa 
derogatoria, le 
cui 
ragioni 
politiche 
non rilevano in questa 
sede, possa 
comportare 
né 
un trattamento del 
garante 
suddetto diverso -ai 
fini 
che 
qui 
interessano -da 
quello delle 
altre 
Autorità, né 
tanto meno che 
possa 
inficiare 
la 
motivazione 
sostanziale 
e 
di 
principio 
(intrinseca 
appartenenza 
delle 
Autorità 
al 
novero 
delle 
Amministrazioni dello Stato) su cui è fondata la giurisprudenza poc’anzi richiamata. 
(20) 
I 
tratti 
distintivi 
del 
patrocinio 
obbligatorio 
sono 
riassunti 
come 
segue 
dalla 
Cassazione: 
«...attribuzione 
della rappresentanza, patrocinio e 
assistenza in giudizio delle 
"amministrazioni 
dello 
Stato, anche 
se 
organizzate 
ad ordinamento autonomo", alla avvocatura dello Stato (art. 1, comma 1); 
. non necessità del 
mandato (art. 1, comma 2); ... impossibilità per 
le 
amministrazioni 
dello Stato di 
richiedere 
l'assistenza di 
avvocati 
del 
libero foro, se 
non per 
ragioni 
assolutamente 
eccezionali, inteso il 
parere 
dell'avvocato generale 
dello Stato (art. 5); ... individuazione, nelle 
cause 
in cui 
è 
parte 
una amministrazione 
dello Stato, di 
uno specifico foro dello Stato (art. 6); ...obbligo della notifica degli 
atti 
giudiziali 
alle 
amministrazioni 
dello Stato presso l'avvocatura dello Stato (art. 11)» 
(Cass., Sez. Unite, 
sent. 10 maggio 2006, n. 10700). 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


dipendenti 
tra 
le 
Amministrazioni 
statali, non tenute 
al 
pagamento del 
contributo 
unificato. 


Non 
si 
possono 
sottacere, 
peraltro, 
almeno 
due 
argomenti 
che, 
quanto 
meno 
con 
riferimento 
all’A.g.C.m., 
potrebbero 
militare 
in 
senso 
contrario 
alle conclusioni sopra esposte, e dei quali si deve dare conto: 


a) la 
circostanza 
che 
la 
suddetta 
Autorità, ai 
sensi 
dell’art. 10 della 
l. 10 
ottobre 
1990, n. 287, alimenta 
il 
proprio bilancio con entrate 
del 
tutto proprie 
ed autonome (e non provenienti dal bilancio dello Stato), 
b) la 
circostanza 
che 
l’art. 21 bis 
l. 287/1990 attribuisce 
all’Autorità 
la 
facoltà 
di 
proporre 
ricorsi 
al 
giudice 
amministrativo avverso gli 
atti 
amministrativi 
che determinano distorsioni della concorrenza. 
2.6.1 
l'art. 
10 
della 
l. 
10 
ottobre 
1990, 
n. 
287 
(norme 
per 
la 
tutela 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato), 
stabilisce 
che 
l'Autorità 
provvede 
all'autonoma 
gestione 
delle 
spese 
per 
il 
proprio 
funzionamento 
avvalendosi 
di 
un 
contributo 
obbligatorio 
(di 
importo 
pari 
allo 
0,08 
per 
mille 
del 
fatturato 
risultante 
dall'ultimo 
bilancio 
approvato 
dalle 
società 
di 
capitale) 
che 
deve 
essere 
versato 
dalle 
imprese 
direttamente 
all’Autorità 
senza 
transitare 
dal 
bilancio 
della 
Stato 
(21). 
(21) l'art. 10 inserito nel 
Titolo II (istituzione 
e 
compiti 
dell'autorità garante 
della concorrenza 
e 
del 
mercato) 
capo 
I 
(istituzione 
dell'autorità) 
contiene 
le 
norme 
generali 
sulla 
istituzione 
dell' 
A.g.C.m. 
Si 
riportano di 
seguito i 
commi 
7 e 
seguenti 
del 
richiamato art. 10 della 
l. 287/1990, come 
modificato 
dall'art. 
5-bis, 
comma 
2, 
lett. 
a), 
D.l. 
24 
gennaio 
2012, 
n. 
1, 
convertito, 
con 
mod. 
dalla 
l. 
24 
marzo 
2012, n. 27, a decorrere dal 1° gennaio 2013.: 
“7. 
L'Autorità 
provvede 
all'autonoma 
gestione 
delle 
spese 
per 
il 
proprio 
funzionamento 
nei 
limiti 
del 
contributo 
di 
cui 
al 
comma 
7-ter. 
la 
gestione 
finanziaria 
si 
svolge 
in 
base 
al 
bilancio 
di 
previsione 
approvato 
dall'autorità 
entro 
il 
31 
dicembre 
dell'anno 
precedente 
a 
quello 
cui 
il 
bilancio 
si 
riferisce. 
il 
contenuto 
e 
la 
struttura 
del 
bilancio 
di 
previsione, 
il 
quale 
deve 
comunque 
contenere 
le 
spese 
indicate 
entro 
i 
limiti 
delle 
entrate 
previste, 
sono 
stabiliti 
dal 
regolamento 
di 
cui 
al 
comma 
6, 
che 
disciplina 
anche 
le 
modalità 
per 
le 
eventuali 
variazioni. 
il 
rendiconto 
della 
gestione 
finanziaria, 
approvato 
entro 
il 
30 
aprile 
dell'anno 
successivo, 
è 
soggetto 
al 
controllo 
della 
Corte 
dei 
conti. 
il 
bilancio 
preventivo 
e 
il 
rendiconto 
della 
gestione 
finanziaria 
sono 
pubblicati 
nella 
gazzetta 
Ufficiale 
della 
repubblica 
italiana. 


[...] 


7-ter. 
All'onere 
derivante 
dal 
funzionamento 
dell'Autorità 
garante 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato 
si 
provvede 
mediante 
un 
contributo di 
importo pari 
allo 0,08 per 
mille 
del 
fatturato risultante 
dall'ultimo bilancio approvato dalle 
società di 
capitale, con ricavi 
totali 
superiori 
a 50 milioni 
di 
euro, 
fermi 
restando i 
criteri 
stabiliti 
dal 
comma 2 dell'articolo 16 della presente 
legge. la soglia massima 
di 
contribuzione 
a carico di 
ciascuna impresa non può essere 
superiore 
a cento volte 
la misura minima. 

7-quater. Ferme 
restando, per 
l'anno 2012, tutte 
le 
attuali 
forme 
di 
finanziamento, ivi 
compresa 
l'applicazione 
dell'articolo 2, comma 241, della legge 
23 dicembre 
2009, n. 191, in sede 
di 
prima applicazione, 
per 
l'anno 
2013, 
il 
contributo 
di 
cui 
al 
comma 
7-ter 
è 
versato 
direttamente 
all'Autorità 
con 
le 
modalità determinate 
dall'Autorità medesima con 
propria deliberazione, entro il 
30 ottobre 
2012. 
Per 
gli 
anni 
successivi, a decorrere 
dall'anno 2014, il 
contributo è 
versato, entro il 
31 luglio di 
ogni 
anno, direttamente 
all'Autorità con 
le 
modalità determinate 
dall'Autorità medesima con 
propria deliberazione. 
eventuali 
variazioni 
della 
misura 
e 
delle 
modalità 
di 
contribuzione 
possono 
essere 
adottate 
dall'autorità medesima con propria deliberazione, nel 
limite 
massimo dello 0,5 per 
mille 
del 
fatturato 
risultante 
dal 
bilancio 
approvato 
precedentemente 
all'adozione 
della 
delibera, 
ferma 
restando 
la 
soglia 
massima di contribuzione di cui al comma 7-ter”. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Quanto sopra 
potrebbe 
creare 
difficoltà 
logiche 
ad applicare 
la 
prenotazione 
a 
debito, della 
quale 
non si 
verificherebbe 
il 
presupposto in tesi 
rappresentato 
dalla 
futura 
estinzione 
per 
confusione 
dell’imposta 
gravante 
sull’Amministrazione 
statale 
soccombente. 
Infatti, 
nella 
misura 
in 
cui 
l’A.g.C.m. forma 
il 
suo bilancio a 
valere 
sul 
mondo “privato” 
e 
non a 
valere 
sul 
bilancio dello Stato, non potrebbe 
dirsi 
che, in ipotesi 
di 
assoggettamento 
al pagamento del contributo unificato, lo Stato pagherebbe se stesso. 

Senonché, come 
sopra 
accennato, la 
ratio 
dell’istituto non è 
stata 
individuata 
in modo del 
tutto univoco dalla 
giurisprudenza 
nel 
senso di 
misura 
finalizzata 
alla 
confusione. Se 
alcune 
pronunce 
della 
Suprema 
Corte 
mettono 
senz’altro 
in 
evidenza 
soprattutto 
l’esigenza 
di 
evitare, 
con 
il 
meccanismo 
sopra 
descritto, 
che 
lo 
Stato 
paghi 
se 
stesso 
(22), 
numerose 
decisioni 
della 
stessa 
Corte 
di 
Cassazione 
danno 
della 
norma 
una 
portata 
meno 
restrittiva, 
considerando la 
prenotazione 
a 
debito come 
una 
forma 
di 
“esenzione” 
(23) 
dal 
versamento del 
contributo unificato (del 
quale 
è 
stata 
frattanto definitivamente 
chiarita 
la 
natura 
tributaria 
(24)), in tal 
modo sganciando l’istituto dai 
presupposti della 
“confusione” 
in senso proprio. 

la 
questione 
si 
collega, 
a 
livello 
dogmatico, 
al 
più 
generale 
problema 
della 
capacità 
dell'Amministrazione 
statale, e 
dell'Amministrazione 
pubblica 
in genere, di essere soggetto passivo di imposta. 


la 
risalente 
tesi 
negativa, argomentata 
dalla 
assenza 
di 
dualità 
del 
rapporto 
obbligatorio 
tributario 
qualora 
soggetto 
passivo 
fosse 
lo 
Stato 
(25) 
e 
dalla 
considerazione 
che 
il 
pagamento 
delle 
imposte 
da 
parte 
dello 
Stato 
comporterebbe 
una 
semplice 
partita 
di 
giro 
(26), 
a 
ben 
vedere 
non 
trova 
piena 


(22) 
l’art. 
158 
T.U. 
115/2002 
sarebbe 
dunque 
diretta 
applicazione 
del 
principio 
generale 
della 
“confusione” 
in base 
al 
quale 
“lo Stato e 
le 
altre 
amministrazioni 
parificate 
non sono tenute 
a versare 
imposta 
o 
tasse 
che 
gravano 
sul 
processo 
per 
la 
evidente 
ragione 
che 
lo 
Stato 
verrebbe 
ad 
essere 
al 
tempo stesso debitore 
e 
creditore 
di 
sé 
stesso con la conseguenza che 
l’obbligo non sorge” 
(Cass. SS. 
UU. 8.5.2014 n. 9938). 
(23) In particolare 
la 
sentenza 
n. 1778/2016, pur ribadendo il 
principio tradizionale 
che 
individua 
la 
ratio 
della 
prenotazione 
a 
debito nella 
“evidente 
ragione 
che 
lo Stato verrebbe 
ad essere 
al 
tempo 
stesso debitore 
e 
creditore 
di 
se 
stesso con la conseguenza che 
l'obbligazione 
non sorge”, poi 
di 
fatto 
spiega 
il 
meccanismo della 
prenotazione 
a 
debito in termini 
di 
“esenzione”, categoria 
giuridica 
di 
fatto 
ritenuta 
meglio idonea 
ad inquadrare 
il 
fenomeno in base 
al 
quale 
l’obbligazione 
tributaria 
(ri-)sorge 
qualora 
a 
soccombere 
sia 
la 
parte 
privata. 
Infatti 
la 
Corte 
spiega 
che 
“si 
tratta… 
sostanzialmente 
di 
una esenzione 
fiscale, ma che 
vale 
esclusivamente 
nei 
confronti 
dell'amministrazione 
pubblica. 
21. 
difatti 
nella ipotesi 
cui 
la controparte 
è 
soccombente 
relativamente 
alle 
spese, la stessa è 
tenuta al 
pagamento 
in favore 
dell'erario delle 
spese 
prenotate 
a debito analogamente 
a quanto sarebbe 
avvenuto 
nei 
confronti 
di 
qualsiasi 
altra parte 
vittoriosa”. 22. L'istituto della prenotazione 
a debito… 
se 
per 
un 
verso esenta la pubblica amministrazione 
dal 
pagamento degli 
importi 
delle 
imposte 
e 
delle 
tasse 
-ivi 
compresi 
quelli 
afferenti 
al 
contributo unificato -che 
gravano sul 
processo, assolve, altresì, alla funzione, 
sotto il 
profilo amministrativo contabile, di 
evitare 
che 
di 
detta esenzione 
possa giovarsi 
la controparte 
in caso di soccombenza e di sua condanna alle spese”. 
(24) Cfr. nota 2. 
(25) la 
coincidenza 
del 
soggetto attivo e 
di 
quello passivo in capo all'ente 
impositore, farebbe 
venire meno la plurisoggettività, che è un elemento essenziale di ogni rapporto obbligatorio. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


conferma 
nel 
diritto 
positivo, 
che 
non 
contiene 
norme 
volte 
ad 
escludere 
in 
via 
di 
principio l’assoggettamento ad imposta 
dello Stato, ma 
singole 
disposizioni 
specifiche 
che, con riferimento ai 
vari 
tributi, ammettono o escludono 
la 
soggettività 
passiva 
dello Stato (27), sicché 
la 
dottrina 
più recente 
è 
pervenuta 
ad affermare 
che 
nessuna 
esigenza 
di 
carattere 
logico-giuridico ovvero 
costituzionale 
vincola 
il 
legislatore 
a 
tassare 
o non tassare 
le 
Amministrazioni 
statali (28). 


Dunque, in assenza 
di 
ragioni 
«di 
principio» 
vincolanti, viene 
oggi 
riconosciuta 
una 
certa 
discrezionalità 
al 
legislatore 
con 
riferimento 
alla 
tassazione 


o meno delle 
Amministrazioni statali (29). 
Alla 
luce 
dei 
suddetti 
principi 
si 
deve 
dunque 
concludere 
che 
l’autonomia 
di 
entrata 
di 
cui 
gode 
l’A.g.C.m. 
difficilmente 
potrebbe 
essere 
configurata 
quale elemento impeditivo all'applicazione dell’art. 158 D.P.R. 115/2002. 


In effetti, se 
le 
Autorità 
indipendenti, e 
in particolare 
l’A.g.C.m., si 
de


(26) 
la 
tesi 
si 
fonda 
sulla 
considerazione 
secondo 
cui 
il 
fondamento 
dell'imposizione 
è 
il 
concorso 
alle 
spese 
pubbliche 
ex 
art. 
53 
Cost. 
lo 
Stato 
non 
potrebbe 
essere 
soggetto 
ad 
imposta 
poiché 
il 
prelievo 
fiscale 
a 
carico dell’Erario non comporterebbe 
alcun effettivo concorso ed “incremento” 
delle 
somme 
destinate 
alle 
spese 
pubbliche, ma, addirittura, si 
tradurrebbe 
in una 
diminuzione 
di 
ricchezza 
derivante 
dai 
costi 
di 
amministrazione 
necessari 
per il 
versamento del 
tributo (SCoCA, gli 
enti 
pubblici 
impositori 
quali 
soggetti 
passivi 
dell'imposizione, in riv. it. dir. fin., 1937, I, 209 ss.; 
ID., Se 
lo Stato sia sottoposto 
normalmente ai tributi locali, in riv. dir. fin., 1937, II, 250 ss.) 
(27) Prima 
della 
riforma 
tributaria 
il 
legislatore 
non si 
occupava 
della 
soggettività 
passiva 
dello 
Stato 
nelle 
obbligazioni 
tributarie. 
l'art. 
151 
del 
T.U. 
del 
1958, 
si 
limitava 
a 
disporre 
che 
le 
aziende 
dello Stato di 
cui 
agli 
artt. 145 e 
146 del 
regolamento sulla 
contabilità 
dello Stato (r.d. 23 maggio 1924, 
n. 827) erano esenti da imposta. 
Tuttavia, a 
partire 
dalla 
riforma 
degli 
anni 
1971-1973, il 
legislatore 
ha 
cominciato ad introdurre 
speciali 
disposizioni 
agevolative 
in favore 
degli 
dello Stato o enti 
pubblici. In materia 
di 
imposte 
dirette, il 
problema 
è 
stato affrontato in termini 
generali 
soltanto nel 
1986, quando con l'art. 88 del 
testo unico delle 
imposte 
sui 
redditi 
(oggi, 
art. 
74), 
ha 
escluso 
la 
soggettività 
passiva 
dello 
Stato 
e 
degli 
enti 
pubblici. 
Con 
riferimento 
alle 
altre 
imposte 
sono 
previste 
norme 
specifiche 
che 
di 
volta 
in 
volta 
ammettono 
o 
escludono la 
soggettività 
passiva 
delle 
Amministrazioni 
dello Stato, cfr: 
in materia 
di 
IvA, l'art. 4, 4° 
comma 
del 
d.p.r. 
n. 
633 
del 
1972 
(invece, 
se 
le 
Amministrazioni 
pubbliche 
rivestono 
la 
posizione 
di 
consumatori 
finali 
non si 
prevedono, al 
di 
fuori 
dell'art. 10 D.P.R. 633, esenzioni 
o esclusioni 
generali 
di 
carattere 
soggettivo riferibili 
alla 
natura 
pubblica 
dell'amministrazione 
cessionaria 
o committente); 
in materia 
di 
registro, l'art. 57, 7° 
ed 8°co., nonché 
59 del 
d.p.r. n. 131 del 
1986; 
in materia 
di 
IRAP, 
l'art. 2 del 
d.lgs. n. 446 del 
1997, che 
non prevede 
limiti 
alla 
soggettività 
tributaria 
passiva 
dello Stato 
in relazione 
ai 
tributi 
delle 
regioni 
e 
degli 
altri 
enti 
locali; 
in materia 
di 
contributo unificato, l’art. 158 
D.P.R. 115/2002. 
(28) Si 
è 
affermato in dottrina 
che 
non è 
necessaria 
la 
presenza 
di 
più “persone 
giuridiche” 
(plurisoggettività) 
per configurare 
un rapporto di 
imposta, ma 
è 
sufficiente 
che 
il 
rapporto intercorra 
tra 
distinti 
soggetti 
giuridici, 
intendendo 
con 
tale 
espressione 
la 
capacità 
di 
essere 
titolare 
di 
diritti 
e 
di 
obblighi 
(BERlIRI, Principi 
di 
diritto tributario, milano, 1967, I, pag. 364); 
quanto al 
criterio del 
“concorso alla 
spesa pubblica”, si 
è 
evidenziato che 
le 
somme 
versate 
da 
singole 
amministrazioni 
sono destinate 
ad 
essere 
riassegnate 
a 
soggetti 
pubblici 
diversi, 
sicché 
l'assoggettamento 
ad 
imposta 
avrebbe 
una 
funzione 
redistributiva. 
(29) 
È 
significativo 
rilevare 
che 
nella 
relazione 
all'art. 
88 
del 
T.u.i.r. 
(oggi, 
art. 
74) 
si 
legge 
quanto 
segue: 
«la questione 
della soggettività passiva dello Stato nel 
rapporto tributario, soprattutto con riferimento 
ai 
tributi 
di 
sua spettanza, è 
sempre 
stata ampiamente 
dibattuta in dottrina ed ha trovato nel 
diritto positivo soluzioni generalmente limitate nell'ambito di specifici tributi». 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


vono 
ritenere 
incluse 
nel 
concetto 
di 
Amministrazioni 
statali 
(come 
sembra 
doversi 
concludere 
sulla 
base 
delle 
considerazioni 
sopra 
esposte 
ai 
punti 
2.4 
e 
2.5), il 
beneficio della 
prenotazione 
a 
debito -nella 
interpretazione 
più elastica 
avallata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
sopra 
richiamata 
-non 
può 
essere 
fondatamente 
negato per il 
mero fatto che 
il 
loro bilancio viene 
alimentato con 
risorse private. 


È 
vero che 
l’assoggettamento ad imposta 
in astratto sarebbe 
suscettibile 
di 
tradursi 
in 
un 
effettivo 
“incremento” 
delle 
somme 
destinate 
alle 
spese 
pubbliche, 
ai 
sensi 
dell’art. 53 Cost., e 
non costituirebbe 
una 
semplice 
“partita di 
giro” 
(presupposto 
questo 
tipico 
della 
confusione), 
ma 
detto 
punto 
finisce 
per 
non essere 
dirimente, laddove 
si 
riconosca 
la 
natura 
“statale” 
delle 
predette 
Autorità. 


2.6.2 
Il 
secondo 
elemento 
che 
potrebbe 
indurre 
a 
dubitare 
dell’applicabilità 
del 
principio 
della 
prenotazione 
a 
debito 
in 
riferimento 
all’A.g.C.m. 
è 
costituito 
dalla 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 
21 
bis 
della 
l. 
287/1990 
che 
attribuisce 
all’Autorità 
la 
facoltà 
di 
proporre 
ricorsi 
al 
giudice 
amministrativo 
avverso 
gli 
atti 
amministrativi 
che 
determinano 
distorsioni 
della 
concorrenza 
(30). 
Al 
proposito 
giova 
ricordare 
che 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
ha 
dato 
un’applicazione 
tendenzialmente 
molto ampia 
della 
norma, della 
quale 
l’Autorità 
si 
è 
avvalsa, non infrequentemente, per agire 
anche 
contro Amministra


(30) l’art. 21-bis 
(introdotto dall’art. 35, co. 1, D.l. 2011, n. 201, conv. con mod. dalla 
l. 2011, 
n. 
214), 
intitolato 
Poteri 
dell'autorità 
garante 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato 
sugli 
atti 
amministrativi 
che determinano distorsioni della concorrenza, prevede che: 
«1. l'autorità garante 
della concorrenza e 
del 
mercato è 
legittimata ad agire 
in giudizio contro gli 
atti 
amministrativi 
generali, 
i 
regolamenti 
ed 
i 
provvedimenti 
di 
qualsiasi 
amministrazione 
pubblica 
che 
violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. 
2. 
l'autorità 
garante 
della 
concorrenza 
e 
del 
mercato, 
se 
ritiene 
che 
una 
pubblica 
amministrazione 
abbia emanato un atto in violazione 
delle 
norme 
a tutela della concorrenza e 
del 
mercato, emette, entro 
sessanta giorni, un parere 
motivato, nel 
quale 
indica gli 
specifici 
profili 
delle 
violazioni 
riscontrate. Se 
la pubblica amministrazione 
non si 
conforma nei 
sessanta giorni 
successivi 
alla comunicazione 
del 
parere, 
l'autorità 
può 
presentare, 
tramite 
l'avvocatura 
dello 
Stato, 
il 
ricorso, 
entro 
i 
successivi 
trenta 
giorni. 
3. 
ai 
giudizi 
instaurati 
ai 
sensi 
del 
comma 
1 
si 
applica 
la 
disciplina 
di 
cui 
al 
libro 
iv, 
titolo 
v, 
del 
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». 
Secondo 
parte 
della 
dottrina 
si 
tratta 
di 
uno 
strumento 
che 
deroga 
ad 
alcuni 
caratteri 
radicati 
del 
processo 
amministrativo, e 
si 
presenta 
come 
innovativo anche 
rispetto alle 
previsioni 
che 
consentono ad altre 
autorità 
indipendenti 
di 
ricorrere 
a 
un giudice 
(si 
pensi 
ai 
ricorsi 
della 
Banca 
d'Italia 
contro certe 
delibere 
delle 
banche 
che 
comunque 
rientrano nello schema 
del 
processo tra 
una 
parte 
pubblica 
e 
una 
privata, 
con la 
particolarità 
che 
a 
ricorrere 
è 
la 
prima; 
ovvero ai 
ricorsi 
dell'Autorità 
di 
regolazione 
dei 
trasporti 
che 
pure 
ha 
un potere 
di 
ricorso al 
giudice 
amministrativo) (cfr. BERNARDo 
gIoRgIo 
mATTAREllA, 
i ricorsi 
dell'autorità antitrust 
al 
giudice 
amministrativo 
in giornale 
dir. amm., 2016, 3, 291). la 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
invece, 
ha 
svalutato 
la 
sovversività 
dell’istituto 
rilevando 
che 


"l'autorità non gode 
in questi 
casi 
di 
poteri 
particolari 
di 
supremazia nei 
confronti 
del 
destinatario del 
parere", infatti 
quello dell'art. 21 bis 
è 
uno strumento poco invasivo, alquanto rispettoso dell'autonomia 
delle singole amministrazioni (Cons. Stato, Sez. Iv, 28 gennaio 2016, n. 323). 
Di 
fatto all’Autorità 
non è 
stato attribuito alcun potere 
autoritativo (infatti 
non ha 
la 
potestà 
di 
annullamento), 
ma ha solo la possibilità di adire un giudice. 


PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


zioni 
dello 
Stato 
(varie 
controversie 
si 
segnalano 
avverso 
il 
ministero 
delle 
Infrastrutture) (31). 


Nel 
pronunciarsi, in particolare, sul 
ricorso di 
cui 
al 
comma 
2 dell’art. 21 
bis, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
affermato 
che 
il 
ricorso 
al 
TAR 
costituisce 
uno 
strumento di 
“risoluzione 
del 
conflitto tra due 
soggetti 
pubblici” 
da 
considerare 
peraltro 
quale 
“extrema 
ratio” 
visto 
l’evidente 
“disfavore” 
del 
legislatore 
verso 
le 
situazioni 
in 
cui 
“due 
soggetti 
pubblici 
si 
rivolgano 
direttamente 
e 
solo 
al 
giudice 
per 
la 
tutela 
di 
un 
interesse 
pubblico 
primario, 
comune 
ad 
entrambi” 
(C.d.S. Sez. Iv, Sent. 28 gennaio 2016, n. 323) (32). 

Non sembra 
dubbio, dunque, che 
nel 
contesto di 
un giudizio ai 
sensi 
del-
l’art. 
21 
bis, 
l’A.g.C.m. 
si 
pone 
in 
rapporto 
di 
intersoggettività 
rispetto 
al-
l’Amministrazione statale in ipotesi convenuta. 

Tuttavia 
tale 
circostanza 
a 
ben 
vedere 
non 
appare 
sufficiente 
a 
mettere 
fondatamente 
in 
discussione 
la 
natura 
di 
Amministrazione 
statale 
riconosciuta 
all’A.g.C.m. asseverata dagli argomenti sopra esposti al punto 2.4 e 2.5. 

In 
effetti 
se 
l’Autorità 
in 
esame 
gode 
ed 
esercita 
la 
particolare 
prerogativa 
di 
poter promuovere 
un giudizio nei 
confronti 
di 
altra 
Amministrazione 
dello 
Stato, non solo per questo può perdere 
la 
natura 
di 
Amministrazione 
statale 
(come 
comprovato 
dallo 
stesso 
legislatore 
che 
ne 
prevede 
il 
mantenimento 
del 
patrocinio da 
parte 
dell’Avvocatura 
dello Stato -art. 21 co. 2 (33)). Si 
tratta 


(31) 
l'art. 
21-bis 
attribuisce 
all’autorità 
la 
facoltà 
di 
agire 
contro 
"qualsiasi 
pubblica 
amministrazione". 
Il 
Consiglio di 
Stato ha 
affermato che 
in tale 
ampia 
nozione 
rientrano organismi 
di 
diritto pubblico, 
enti 
privati 
concessionari 
di 
un servizio pubblico e, nei 
"settori 
speciali", le 
imprese 
pubbliche, 
ed infine 
ogni 
soggetto, anche 
formalmente 
privato, che 
eserciti 
attività 
rivolte 
al 
conseguimento di 
interessi 
pubblici 
nel 
rispetto 
delle 
regole 
del 
procedimento 
amministrativo 
(Cons. 
Stato, 
Sez. 
vI, 
26 
maggio 
2015, 
n. 
2660). 
la 
speciale 
legittimazione 
di 
cui 
all’art. 
21 
bis 
l. 
287/1990 
viene 
dunque 
considerata 
operante 
nei 
confronti 
di 
Amministrazioni 
dello Stato, come 
pure 
nei 
riguardi 
delle 
"altre" 
Autorità 
amministrative 
indipendenti 
le 
quali, nell'esercizio delle 
loro funzioni, adottano atti 
e 
regolamenti 
che 
incidono 
sulla concorrenza. (T.A.R. lazio, Roma, Sez. I, 1° luglio 2015, n. 8778). 
(32) Si 
legge 
nella 
sentenza 
che 
C.d.S. Sez. Iv, Sent. 28-01-2016, n. 323 “l'adizione 
di 
questo 
giudice, da parte 
di 
tal 
autorità, è 
necessariamente 
preceduta, a pena d'inammissibilità, da una fase 
precontenziosa caratterizzata dall'emanazione, da parte 
sua, di 
un parere 
motivato rivolto alla P.a. i 
cui 
atti 
sono sospettati 
di 
tal 
lesione. nel 
parere 
sono segnalate 
le 
violazioni 
riscontrate 
e 
sono indicati 
i 
rimedi 
per 
eliminarli 
e 
ripristinare 
il 
corretto funzionamento della concorrenza e 
del 
mercato, donde 
la duplice 
funzione 
di 
esso. da un lato, serve 
a sollecitare 
la P.a. a rivedere 
quanto statuito, mercé 
la 
conformazione 
di 
questa 
agli 
indirizzi 
dell'autorità, 
se 
del 
caso 
con 
uno 
speciale 
esercizio 
della 
funzione 
d'autotutela 
giustificato 
dalla 
particolare 
rilevanza 
dell'interesse 
pubblico 
così 
coinvolto. 
dall'altro, 
mira a tutelare 
quest'ultimo anzitutto all'interno della stessa P.a., sì 
da concepire 
il 
ricorso a questo 
giudice 
quale 
extrema ratio nella risoluzione 
del 
conflitto tra due 
soggetti 
pubblici. Sicché 
la fase 
precontenziosa 
costituisce 
un significativo strumento di 
deflazione 
del 
contenzioso, essendo ragionevole 
ritenere 
che 
il 
legislatore 
guardi 
con disfavore 
le 
situazioni 
in cui 
due 
soggetti 
pubblici 
si 
rivolgano direttamente 
e solo al giudice per la tutela di un interesse pubblico primario, comune ad entrambi”. 
(33) 
Benché 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
abbia 
ammesso 
che 
l’eventuale 
conflitto 
si 
deve 
risolvere 
ai 
sensi 
dell’art. 43 del 
R.D. n. 1611 del 
1933 (nella 
citata 
sentenza 
si 
legge 
al 
proposito che 
“si 
deve 
far 
sempre 
riferimento all'ordinario metodo di 
risoluzione 
indicato nell'art. 43 del 
r.d. n. 1611 del 
1933, 
che 
ne 
implica la soluzione 
a favore 
della P.a. attrice 
o ricorrente. tuttavia, nel 
caso in esame, è 
intervenuto 
un parere 
dell'avvocato generale 
dello Stato che 
non ha ravvisato i 
presupposti 
per 
proporre 
ri

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


solo 
del 
riflesso 
processuale 
del 
fenomeno 
(non 
raro 
in 
un 
ordinamento 
sempre 
più 
multipolare) 
in 
base 
al 
quale 
-avendo 
il 
legislatore 
scelto 
di 
limitarsi 
a 
definire 
le 
competenze 
di 
vari 
soggetti 
pubblici 
senza 
predisporre 
meccanismi 
di 
raccordo amministrativo -il 
giudice 
è 
chiamato a 
risolvere 
il 
conflitto tra 
i 
vari interessi pubblici in gioco (34). 


In 
effetti 
-per 
quanto 
concerne 
la 
tematica 
ora 
in 
oggetto 
-la 
natura 
statale 
di 
entrambe 
le 
parti 
del 
giudizio, 
comporta 
solo 
che 
in 
fase 
di 
iscrizione 
a 
ruolo 
il 
contributo 
unificato 
deve 
essere 
prenotato 
a 
debito, 
e 
che 
all’esito 
della 
causa, né 
la 
soccombenza 
dell’Autorità 
nè 
la 
soccombenza 
dell’Amministrazione 
statale 
parte 
in causa 
consentiranno all’altra 
di 
eseguire 
il 
recupero ai 
sensi dell’art. 158 co. 3 T.U. 115/2002. 


2.7 
In conclusione, le 
considerazioni 
sopra 
esposte 
inducono ad avallare 
la 
tesi 
della 
applicabilità 
dell’istituto 
della 
prenotazione 
a 
debito 
delle 
Autorità 
indipendenti. 
2.8 
occorre 
evidenziare, 
infine, 
che 
constano 
alcune 
pronunce 
della 
Cassazione 
a 
SS.UU. nei 
confronti 
dell'Autorità 
per le 
garanzie 
nelle 
Comunicazioni 
(A.g.Com.), in cui 
la 
Corte 
con identiche 
statuizioni 
riprodotte 
in tutte 
le 
decisioni 
citate 
ha 
affermato che 
“non ricorrono i 
presupposti 
per 
l'applicazione 
del 
d.P.r. n. 115 del 
2002, art. 13, comma 1-quater, perché 
la parte 
ricorrente 
rientra tra le 
amministrazioni 
pubbliche 
ammesse 
alla prenotazione 
a debito del 
contributo unificato, ai 
sensi 
dell'art. 158 del 
medesimo 
D.P.R. (in generale, per 
le 
amministrazioni 
dello Stato ed equiparate, vedi 
ex 
plurimis 
Cass. 
n. 
1778 
del 
2016 
e 
n. 
5955 
del 
2014) 
(35)”(Cass. 
civ. 
Sez. 
Unite, Sentt., 17 gennaio 2017, nn. 953, 955, 957 e 958). 
Si 
ritiene 
che 
il 
principio affermato dalla 
Corte 
(benché 
espresso senza 


corso con il 
patrocinio dell'avvocatura erariale 
a favore 
dell'agCM. Sicché 
rettamente 
quest'ultima, 
esaurita la fase 
precontenziosa, s'è 
rivolta ad un avvocato del 
libero foro per 
adire 
il 
tar, senz'uopo 
d'ulteriori attese o spiegazioni stante il chiaro tenore di quest'ultimo parere”). 


(34) È 
una 
dinamica 
non rara 
negli 
ordinamenti 
complessi: 
si 
pensi 
a 
quello europeo, in cui 
la 
Corte 
di 
giustizia 
risolve 
conflitti 
tra 
la 
Commissione 
e 
gli 
Stati 
o, 
comunque, 
tra 
diversi 
poteri 
pubblici. 
Una 
dinamica 
simile 
si 
riscontra 
con riferimento alle 
altre 
autorità 
indipendenti, che 
hanno -se 
non il 
potere 
di 
rivolgersi 
a 
un giudice 
-poteri 
suscettibili 
di 
generare 
contenzioso con altre 
PP.AA.: 
si 
pensi 
alle 
sanzioni 
che 
il 
garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
può 
irrogare 
anche 
a 
PP.AA. 
o 
agli 
ordini 
che l'Autorità nazionale anticorruzione può rivolgere ad altre amministrazioni. 
(35) l'art. 13 comma 
1-quater 
del 
D.P.R. 115/2002 prevede 
che 
“Quando l'impugnazione, anche 
incidentale, 
è 
respinta 
integralmente 
o 
è 
dichiarata 
inammissibile 
o 
improcedibile, 
la 
parte 
che 
l'ha 
proposta è 
tenuta a versare 
un ulteriore 
importo a titolo di 
contributo unificato pari 
a quello dovuto 
per 
la 
stessa impugnazione, principale 
o incidentale, a norma del 
comma 1-bis. il 
giudice 
dà atto nel 
provvedimento della sussistenza dei 
presupposti 
di 
cui 
al 
periodo precedente 
e 
l'obbligo di 
pagamento 
sorge 
al 
momento del 
deposito dello stesso”. 
Secondo la 
Cassazione 
tale 
conclusione 
è 
coerente 
con la 
natura 
tributaria 
del 
contributo unificato, che 
non viene 
meno “anche 
relativamente 
al 
raddoppio, ...atteso 
che 
la finalità deflattiva e 
sanzionatoria della nuova norma non vale 
a certamente 
modificarne 
la 
sostanziale 
natura 
di 
tributo. 
Stante, 
pertanto, 
la 
non 
debenza 
della 
amministrazione 
pubblica 
ricorrente 
del 
versamento del 
contributo unificato..(deve) 
darsi 
atto della insussistenza dei 
presupposti 
di 
cui 
al 
primo periodo del d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater”. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


particolare 
motivazione) 
sia 
coerente 
con 
le 
considerazioni 
sopra 
esposte 
e 
dunque confermi l’esattezza delle conclusioni raggiunte. 


Trattandosi 
di 
parere 
concernente 
il 
contributo unificato dovuto nei 
giudizi 
relativi 
a 
varie 
giurisdizioni, se 
ne 
trasmette 
copia 
anche 
agli 
Uffici 
in indirizzo 
per i provvedimenti di competenza. 


Il 
presente 
parere 
è 
stato 
sottoposto 
all'esame 
del 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura 
dello Stato di 
cui 
all’art. 26 della 
legge 
3 aprile 
979 n. 103, 
che si è espresso in conformità nella riunione del 17 dicembre 2019. 


RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


sentenza 
di 
proscioglimento 
ai 
sensi 
dell’art. 
529 
c.p.p. 
a 
seguito 
di 
remissione 
di 
querela. 
rilevanza 
in 
sede 
di 
formazione 
delle 
aliquote 
di 
valutazione 
del 
personale 
militare 


Parere 
dell’11/05/2020-235317, al 42661/2019, avv. geSUaldo 
d’elia 


Codesta 
Direzione 
generale 
ha 
chiesto 
il 
parere 
di 
questa 
Avvocatura 
sulla seguente questione. 


Un (omissis), ex 
Ufficiale 
dell'Arma 
dei 
Carabinieri 
in congedo, condannato 
in primo grado per il 
reato di 
diffamazione, e 
poi 
prosciolto dalla 
Corte 
di 
Appello 
ai 
sensi 
dell'art. 
529, 
primo 
comma, 
c.p.p. 
per 
remissione 
della 
querela, 
ritualmente accettata, deve essere valutato per l'avanzamento. 


osserva 
codesta 
Amministrazione 
che 
l'art. 
1085, 
terzo 
comma, 
del 
D.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (Codice 
dell'ordinamento militare 
-Com), che 
disciplina 
la 
"Cessazione 
delle 
cause 
impeditive 
della 
valutazione 
o 
della 
promozione 
degli 
ufficiali", 
prevede 
che 
"3. 
agli 
ufficiali, 
imputati 
in 
procedimento 
penale, 
che 
sono 
stati 
assolti 
con 
sentenza 
definitiva, 
fatta 
salva 
la 
definizione 
dell'eventuale 
procedimento disciplinare, si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 1090, commi 
1, 2 e 
3. la valutazione 
o il 
rinnovo del 
giudizio 
va 
effettuato 
entro 
sei 
mesi 
dalla 
cessazione 
dell’impedimento". 
l'art. 
1090, richiamato dalla 
norma, detta 
le 
disposizioni 
che 
regolano le 
modalità 
del rinnovo di giudizi annullati in sede amministrativa o giurisdizionale. 


Codesta 
Direzione 
generale 
chiede 
quindi 
se 
la 
dizione 
dell'art. 
1085, 
che 
fa 
riferimento 
esclusivamente 
alle 
ipotesi 
in 
cui 
gli 
ufficiali 
siano 
stati 
"assolti 
con sentenza definitiva", sia 
di 
stretta 
interpretazione 
ovvero se 
a 
detta 
ipotesi 
possa 
essere 
assimilata 
quella, verificatasi 
nel 
caso di 
specie, di 
proscioglimento 
per 
remissione 
della 
querela 
o 
per 
un'altra 
delle 
fattispecie 
riconducibili 
all'art. 529 c.p.p. 


Questa 
Avvocatura osserva quanto segue. 


l'art. 1085, comma 
3, del 
C.o.m. subordina 
la 
valutazione 
o il 
rinnovo 
del 
giudizio 
di 
avanzamento 
(da 
effettuarsi 
in 
base 
al 
dettato 
dell'art. 
1090, 
commi 
1, 
2 
e 
3, 
C.o.m.) 
dell'ufficiale 
imputato 
in 
procedimento 
penale, 
ad 
una sentenza definitiva per mezzo della quale egli venga 
"assolto". 


Il 
Codice 
di 
procedura 
penale, libro vII, Titolo III, Capo II, Sezione 
I, 
disciplina le diverse ipotesi di sentenze di proscioglimento, prevedendo: 


a) 
all'art. 529, i 
casi 
di 
proscioglimento per difetto originario o sopravvenuto 
di una causa di procedibilità; 
b) 
all'art. 530, i casi di assoluzione estesa al merito; 
c) 
all'art. 531, i casi di proscioglimento per estinzione del reato. 
Ciò 
posto, 
si 
deve 
rilevare 
come 
la 
remissione 
di 
querela 
ex 
art. 
340 
c.p.p. 
costituisca 
una 
causa 
di 
estinzione 
del 
reato e 
come, pertanto, tale 
atto integri 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


uno dei 
possibili 
presupposti 
giuridici 
(insieme, ad esempio, alla 
prescrizione 
del reato o alla morte dell'imputato) per la sentenza di proscioglimento. 


Alla 
luce 
del 
così 
delineato 
quadro 
normativo 
si 
deve 
procedere 
a 
stabilire 
quale sia l'effettivo ambito di applicazione dell'art. 1085, comma 3. 


Il 
dubbio 
interpretativo, 
come 
correttamente 
osservato 
da 
codesta 
Amministrazione, 
nasce 
a 
causa 
di 
una 
decontestualizzazione 
dell'espressione 
"assolto" 
rispetto 
ad 
ogni 
altro 
riferimento 
normativo 
e 
circostanziale, 
sicché 
non 
risulta 
chiaro 
se 
il 
legislatore, 
utilizzando 
detta 
locuzione, 
intenda 
riferirsi 
alle 
sentenze 
stricto sensu 
assolutorie, ossia 
a 
quelle 
di 
cui 
all'art. 530 c.p.p., oppure 
se 
voglia 
estendere 
l'obbligo di 
procedere 
alla 
valutazione 
o al 
rinnovo 
del 
giudizio 
di 
avanzamento 
anche 
alle 
pronunce 
di 
proscioglimento 
di 
cui 
all'art. 
531 c.p.p. Il 
dubbio è 
alimentato dalla 
chiarezza 
che 
invece 
contraddistingue 
altri 
atti 
normativi, quale 
la 
legge 
11 maggio 2004, n. 126, che, come 
ricorda 
codesta 
Amministrazione, nel 
regolare 
la 
reintegrazione 
nel 
posto di 
lavoro 
del 
pubblico 
dipendente 
licenziato 
a 
causa 
della 
sua 
qualità 
di 
imputato 
in 
un 
procedimento 
penale, 
associa 
diverse 
posizioni 
giuridiche 
-identificabili 
di 
volta 
in volta 
come 
diritti 
soggettivi 
o interessi 
legittimi 
-alle 
diverse 
tipologie 
di pronunce emesse all'esito del processo penale. 


Il 
solo criterio interpretativo letterale, pur costituendo un "indicatore" 
significativo, 
risulta 
pertanto insufficiente 
a 
risolvere 
la 
questione 
ermeneutica 
in discorso, e 
la 
voluntas 
legis 
deve 
essere 
desunta 
facendo ricorso a 
criteri 
suppletivi, quale quello della interpretazione storico-sistematica. 


A 
tal 
riguardo, bisogna 
in primo luogo osservare 
come, con l'entrata 
in 
vigore 
del 
d.lgs. n. 66/2010, il 
menzionato articolo 1085, comma 
3, disciplini 
la 
medesima 
materia 
precedentemente 
regolata 
dall'art. 
49, 
comma 
2, 
della 
legge 
12 
novembre 
1955, 
n. 
1137. 
Tale 
ultima 
norma 
prevedeva 
che 
l'Ufficiale 
imputato in un procedimento penale, qualora 
avesse 
visto concludersi 
la 
vicenda 
processuale 
"in senso 
[a 
lui] favorevole", sarebbe 
stato titolare 
di 
un diritto 
ad essere 
valutato (per la 
prima 
volta 
o nuovamente) in base 
a 
modalità 
parzialmente 
coincidenti 
con quelle 
di 
cui, oggi, all'art. 1090, commi 
1, 2, 3, 
C.o.m. 


la 
citata 
norma, abrogata 
con l'entrata 
in vigore 
del 
C.o.m., adottando 
la 
locuzione 
generica 
"in senso favorevole" 
imponeva 
all'Amministrazione 
di 
valutare 
o 
rinnovare 
il 
giudizio 
per 
l'avanzamento 
di 
carriera 
in 
tutte 
quelle 
ipotesi 
in 
cui 
l'ufficiale-imputato 
avesse 
ottenuto 
una 
pronuncia 
liberatoria, 
indifferentemente 
di 
rito o di 
merito. Prima 
della 
novella 
legislativa, quindi, 
l'art. 
49 
della 
legge 
1137 
del 
1955 
trovava 
applicazione 
in 
presenza 
di 
una 
pronuncia di proscioglimento sia 
ex 
art. 530 che 
ex 
art. 531 c.p.p. 


la 
più 
recente 
scelta 
del 
legislatore 
di 
utilizzare 
l'espressione 
"agli 
ufficiali 
[...] 
assolti 
con 
sentenza 
definitiva" 
nell'art. 
1085 
e 
di 
non 
riprodurre 
quella 
di 
cui 
al 
richiamato 
articolo 
49, 
("all'ufficiale 
nei 
cui 
riguardi 
il 
procedimento 
penale 
o 
disciplinare 
si 
sia 
concluso 
in 
senso 
favorevole"), 
va, 
ad 
avviso 
della 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Scrivente, 
interpretata 
come 
chiara 
manifestazione 
della 
volontà 
di 
specificare 
che 
la 
valutazione 
o 
il 
rinnovo 
del 
giudizio 
di 
avanzamento, 
entro 
i 
successivi 
sei 
mesi 
e 
secondo 
i 
parametri 
fissati 
nell'art. 
1090, 
commi 
1, 
2, 
3, 
C.o.m., 
debba 
avvenire 
nei 
soli 
casi 
di 
assoluzione 
definitiva 
in 
senso 
stretto. 


la 
ratio legis 
è 
dunque 
quella 
di 
esigere, ai 
fini 
dell'applicazione 
dell'art. 
1085, comma 
3, del 
C.o.m., che 
l'Ufficiale 
imputato nella 
vicenda 
penale 
sia 
assolto 
definitivamente 
con 
una 
pronuncia 
pienamente 
liberatoria 
(che 
accerti 
nel 
merito la 
mancata 
violazione 
della 
norma 
incriminatrice 
da 
parte 
dell'Ufficiale) 
ex 
art. 530 c.p.p., alla 
quale 
non può essere 
equiparata 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento 
per 
estinzione 
del 
reato 
per 
remissione 
della 
querela 
(di 
questo 
avviso, 
con 
riferimento 
al 
caso 
di 
proscioglimento 
per 
estinzione 
del 
reato 
per 
intervenuta 
prescrizione: 
T.A.R. Sicilia 
Palermo, I Sez., 12 gennaio 2018 n. 
1642, 
par. 
3.4; 
T.A.R. 
lazio, 
Sez. 
1-bis, 
n. 
124 
dell'8 
gennaio 
2020, 
nella 
quale 
si 
dice 
"( ... ) 
essendosi 
la vicenda penale 
definita, non già a seguito di 
assoluzione, 
bensì 
a seguito di 
estinzione 
per 
prescrizione 
del 
reato ascritto al 
ricorrente, 
risulta 
evidente 
che 
la 
fattispecie 
all'odierno 
esame 
cadeva 
fuori 
dell'ambito di 
operatività dell'art.. 1085 del 
Codice, sopra richiamato, di 
cui 
pure il 
(omissis) 
invoca l'applicazione"). 


l'impossibilità 
di 
procedere 
ad un'equiparazione 
fra 
le 
due 
tipologie 
di 
pronunce 
favorevoli 
trae 
giustificazione 
anche 
dal 
richiamo operato dall'art. 
531 all'art. 129 c.p.p., comma 
2. Tale 
disposizione 
prevede 
che 
"Quando ricorre 
una 
causa 
di 
estinzione 
del 
reato 
ma 
dagli 
atti 
risulta 
evidente 
che 
ilfatto 
non 
sussiste 
o 
che 
l'imputato 
non 
lo 
ha 
commesso 
o 
che 
il 
fatto 
non 
costituisce 
reato o non è 
previsto dalla legge 
come 
reato, il 
giudice 
pronuncia sentenza 
di 
assoluzione 
o 
di 
non 
luogo 
a 
procedere 
con 
la 
formula 
prescritta". 
Ciò, 
come 
rilevato 
in 
giurisprudenza, 
sta 
ad 
indicare 
che, 
pur 
in 
presenza 
di 
una 
causa 
di 
estinzione 
del 
reato, il 
giudice 
è 
pur sempre 
chiamato in via 
preliminare 
ad 
accertare 
che 
non 
sussistano 
i 
presupposti 
per 
l'assoluzione 
nel 
merito; 
per cui 
la 
pronuncia 
di 
una 
sentenza 
di 
non doversi 
procedere 
per estinzione 
del 
reato 
a 
seguito 
di 
remissione 
di 
querela 
(o 
negli 
altri 
casi 
di 
estinzione) 
implica 
la 
riscontrata 
impossibilità 
da 
parte 
dell'autorità 
giudiziaria 
di 
emettere 
una 
sentenza 
pienamente 
liberatoria 
ex 
art. 530 c.p.p. (cfr. sempre 
T.A.R. Sicilia 
Palermo citata). 


In questo senso si 
è 
pronunciata 
espressamente 
la 
Corte 
di 
Cassazione: 
"in presenza della causa di 
estinzione 
del 
reato integrata dalla remissione 
di 
querela 
il 
giudice, 
prima 
di 
prosciogliere 
con 
la 
corrispondente 
formula, 
è 
tenuto 
a 
verificare 
se 
sussistano 
le 
condizioni 
per 
il 
proscioglimento 
nel 
merito, 
condizione 
che, nelle 
fasi 
anteriori 
al 
dibattimento caratterizzate 
da un limitato 
materiale 
probatorio, 
si 
verifica 
solo 
se 
dagli 
atti 
già 
acquisiti 
risulti 
"evidente" 
la 
innocenza 
dell'imputato" 
(Cass. 
pen. 
Sez. 
v, 
6 
ottobre 
2004, 
n. 
42260). 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Infine, 
vi 
è 
da 
osservare 
che 
l'adozione 
da 
parte 
del 
legislatore, 
all'art. 
1085, 
comma 
3, 
C.o.m., 
del 
termine 
processualpenalistico 
"assolto" 
non 
consente 
di 
ritenere 
violato il 
principio della 
parità 
di 
trattamento fra 
l'Ufficiale 
prosciolto 
per 
estinzione 
del 
reato 
per 
remissione 
di 
querela 
e 
l'ufficiale 
assolto 
ex 
art. 530, stante 
la 
possibilità, riconosciuta 
all'imputato dall'ordinamento, di 
non 
accettare 
la 
remissione 
della 
querela 
al 
fine 
di 
perseguire 
la 
più 
favorevole 
assoluzione nel merito (art. 340 c.p.p.). 


In 
conclusione, 
ad 
avviso 
di 
questa 
Avvocatura, 
sia 
il 
criterio 
ermeneutico 
basato sull'interpretazione 
letterale 
delle 
norme 
esaminate 
che 
quello dell'interpretazione 
storico-sistematica 
inducono ad escludere 
la 
possibilità 
di 
equiparare 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento ex 
art. 531 per remissione 
della 
querela 
a quella assolutoria richiesta dal terzo comma dell'art. 1085 C.o.m. 


Per maggiore 
chiarezza, si 
deve 
evidenziare 
il 
rapporto intercorrente 
tra 
l'art. 1085, terzo comma, e l'art. 1051 del C.o.m. 


l' 
art. 1051, al 
secondo comma, indica 
le 
cause 
che 
impediscono l'inserimento 
nell'aliquota 
di 
avanzamento o la 
valutazione, fra 
le 
quali 
la 
sottoposizione 
a 
procedimento penale. Al 
settimo comma 
viene 
poi 
stabilito che 
"al 
venir 
meno delle 
predette 
cause, salvo che 
le 
stesse 
non comportino la cessazione 
dal 
servizio 
permanente, 
gli 
interessati 
sono 
inclusi 
nella 
prima 
aliquota 
utile 
per 
la valutazione 
o sono sottoposti 
a valutazione". l'ottavo comma 
del-
l'art. 
1051 
C.o.m., 
infine, 
prevede 
che 
"il 
personale 
militare 
inserito 
nei 
ruoli 
del 
servizio permanente 
che 
è 
stato condannato con sentenza definitiva a una 
pena 
non 
inferiore 
a 
due 
anni 
per 
delitto 
non 
colposo 
compiuto 
mediante 
comportamenti 
contrari 
ai 
doveri 
di 
fedeltà alle 
istituzioni 
ovvero lesivi 
del 
prestigio 
dell'amministrazione 
e 
dell'onore 
militare 
è 
escluso da ogni 
procedura 
di avanzamento e dalla possibilità di transito da un ruolo a un altro". 


Di 
converso, l'art. 1085, terzo comma, costituisce 
norma 
di 
carattere 
derogatorio 
rispetto al 
settimo comma 
dell'art. 1051 C.o.m., prevedendo che 
i 
militari 
assolti 
con 
sentenza 
definitiva 
(fatta 
salva 
la 
definizione 
dell'eventuale 
procedimento disciplinare) sono valutati 
-a 
norma 
dell'art. 1090, commi 
1, 2, 
3, C.o.m. e, quindi, con una 
valutazione 
"ora 
per allora" 
-entro il 
sesto mese 
dal 
cessare 
della 
causa 
impeditiva 
(di 
questo avviso la 
già 
citata 
TAR lazio, 
Sez. 1-bis, n. 124 dell'8 gennaio 2020). In sostanza, l'art. 1085, terzo comma, 
del 
D.lgs. n. 66 del 
2010 introduce 
una 
disciplina 
di 
maggior favore 
nei 
confronti 
dei 
militari 
che 
sono 
stati 
tratti 
nell'agone 
processuale 
e 
che 
ne 
sono 
usciti 
con 
sentenza 
di 
assoluzione 
ex 
art. 
530 
c.p.p., 
in 
relazione 
ai 
quali 
viene 
riconosciuto, 
da 
un 
lato, 
il 
diritto 
soggettivo 
ad 
una 
valutazione 
entro 
il 
più 
stringente 
termine 
di 
sei 
mesi, 
rispetto 
a 
quello 
di 
cui 
all'art. 
1051, 
settimo 
comma, 
C.o.m., 
e 
dall'altro, 
il 
diritto 
ad 
essere 
valutati 
"ora 
per 
allora" 
ai 
sensi 
dell'art. 1090, commi 1, 2, 3, C.o.m. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Schematicamente: 


1. militare 
condannato a 
pena 
non inferiore 
ad anni 
2 di 
reclusione 
per 
delitto non colposo: 
escluso da 
ogni 
valutazione 
ex 
art. 1051 ottavo comma 
C.o.m.; 
2. 
militari 
prosciolti 
o 
condannati 
a 
pena 
inferiore 
ad 
anni 
2 
di 
reclusione: 
sono inclusi 
nella 
prima 
aliquota 
utile 
per la 
valutazione 
o sono sottoposti 
a 
valutazione 
ex 
art. 1051, settimo comma, C.o.m. con efficacia 
ex nunc; 
3. 
militari 
assolti 
"in senso tecnico" 
(art. 530 c.p.p.): 
sono valutati 
entro 
6 mesi 
ai 
sensi 
dell'art. 1085, terzo comma, in deroga 
all'art. 1051, comma 
7, 
C.o.m., 
con 
una 
valutazione 
"ora 
per 
allora" 
ai 
fini 
dell'anzianità: 
la 
citata 
T.A.R lazio, Sez. 1-bis, n. 124/2020 afferma 
che 
"( ... ) 
il 
successivo comma 
3, del ripetuto art. 1085 del Codice, in deroga al criterio dettato in via generale 
dall'art. 1051, comma 7, stabilisce 
che 
al 
militare 
impedito ai 
sensi 
del-
l'articolo 1051, comma 2, lett. a), assolto con sentenza definitiva, fatta salva 
la 
definizione 
dell'eventuale 
procedimento 
disciplinare, 
'si 
applicano 
le 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 1090, commi 
1, 2 e 
3. la valutazione 
o il 
rinnovo del 
giudizio va effettuato entro sei mesi dalla cessazione dell'impedimento". 
Il 
caso oggetto della 
presente 
consultazione 
rientra 
nell'ipotesi 
di 
cui 
al 
n. 2. 


Il 
sistema 
della 
legge 
appare 
dunque 
completo e 
coerente, ponendo una 
disciplina 
articolata 
per le 
varie 
ipotesi, con attenzione 
al 
differente 
grado di 
gravità 
delle 
diverse 
fattispecie, severa 
per le 
condanne 
gravi, più indulgente 
per quelle 
di 
minore 
importanza, di 
pieno ristoro nei 
casì 
di 
totale 
esclusione 
della responsabilità penale. 


Per completezza 
di 
trattazione 
dell'argomento va 
fatto un breve 
cenno ad 
una ipotesi particolare. 


Per ragioni 
di 
eguaglianza 
sostanziale, ai 
fini 
dell'applicazione 
della 
disciplina 
di 
cui 
all'art. 1085, comma 
3, va 
tenuto presente 
che 
ai 
militari 
"assolti" 
vanno 
equiparati 
i 
militari 
che 
siano 
stati 
"prosciolti" 
ai 
sensi 
dell'art. 
529 c.p.p. nell'ipotesi 
di 
violazione 
del 
principio del 
ne 
bis 
in idem 
(art. 649 
c.p.p.). 
Si 
faccia 
il 
caso 
dell'ufficiale 
"assolto" 
definitivamente 
con 
formula 
piena 
ex 
art. 
530 
c.p.p.: 
qualora 
costui 
venisse, 
in 
violazione 
dell'art. 
649 
c.p.p., 
erroneamente 
sottoposto a 
nuovo procedimento penale 
per il 
medesimo fatto 
e 
il 
giudice, in esito al 
dibattimento, rilevasse 
il 
verificarsi 
della 
preclusione 
processuale, l'Ufficiale 
verrebbe 
prosciolto 
ex 
art. 529 c.p.p. (e 
non assolto 
ex 
art. 530), vedendosi 
così 
esposto, in teoria, all'impossibilità 
di 
accedere 
alla 
valutazione 
o al 
rinnovo del 
giudizio per l'avanzamento di 
carriera 
secondo le 
più 
favorevoli 
modalità 
di 
cui 
all'art. 
1085 
comma 
3 
C.o.m., 
pur 
essendo 
stato 
egli 
in 
realtà 
assolto 
con 
pronuncia 
estesa 
al 
merito 
proprio 
in 
relazione 
al 
medesimo 
fatto. 


In 
una 
simile, 
particolare 
fattispecie 
l'Amministrazione 
non 
potrebbe 
non 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


tener conto che 
sulla 
vicenda 
in cui 
è 
stato coinvolto l'Ufficiale 
è 
stata 
pronunciata, 
all'origine, una 
sentenza 
che 
ha 
escluso nel 
merito la 
responsabilità 
penale 
dell'imputato, ex 
art. 530 c.p.p., ed applicare 
di 
conseguenza 
la 
previsione 
del terzo comma dell'art. 1085 C.o.m. 


Si resta a disposizione per ulteriori chiarimenti. 


Sul 
presente 
parere 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura 
dello Stato, che si è espresso in conformità. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


intervento pubblico a favore delle cooperative agricole, 
l’accollo del debito ex lege da parte dello stato (art. 1, co. 1 
bis, l. 237/1993) a copertura delle garanzie concesse da soci 


Parere 
del 
15/05/2020-245405, al 16110/2019, avv. giaCoMo 
aiello 
Parere 
reSo 
in 
via 
ordinaria 
del 
17/06/2020-306494, al 16110/2019, avv. giaCoMo 
aiello 


Con la 
nota 
che 
si 
riscontra 
è 
stato chiesto il 
parere 
della 
Scrivente 
in ordine 
all’attuazione 
della 
norma 
indicata 
in 
oggetto 
in 
considerazione 
delle 
decisioni 
assunte 
in subiecta materia da parte del giudice di legittimità. 


l’art. 1, comma 
1 bis 
del 
Dl 
149/93, convertito con modificazioni 
dalla 


l. 
n. 
388/2000 
prevede 
che 
“le 
garanzie 
concesse, 
prima 
della 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
presente 
decreto, da soci 
di 
cooperative 
agricole, a favore 
delle 
cooperative 
stesse, di 
cui 
sia stata previamente 
accertata l'insolvenza, sono 
assunte 
a carico del 
bilancio dello Stato. a 
tal 
fine 
è 
stanziata la somma di 
lire 
20 
miliardi 
annui 
a 
decorrere 
dall'anno 
1993 
per 
un 
periodo 
di 
dieci 
anni. 
al 
relativo onere 
si 
provvede, per 
gli 
anni 
1993, 1994 e 
1995, mediante 
corrispondente 
riduzione 
dello 
stanziamento 
iscritto, 
ai 
fini 
del 
bilancio 
triennale 
1993-1995, al 
capitolo 6856 dello stato di 
previsione 
del 
Ministero del 
tesoro 
per 
l'anno 1993, all'uopo parzialmente 
utilizzando l'accantonamento relativo 
al 
Ministero 
del 
tesoro, 
con 
imputazione 
sulla 
quota 
iscritta 
come 
limite 
d'impegno”. 
Detta 
disposizione 
è 
stata 
integrata 
per 
effetto 
dell’art. 
126 
della 
l. 
n. 
388/2000 che 
nei 
commi 
3 e 
3 bis 
a 
sua 
volta 
dispone: 
“3. l'intervento dello 
Stato, 
ai 
sensi 
dell'articolo 
1, 
comma 
1-bis, 
del 
decreto-legge 
20 
maggio 
1993, 


n. 149, convertito, con modificazioni, dalla legge 
19 luglio 1993, n. 237, nei 
confronti 
di 
soci, come 
individuati 
ai 
sensi 
del 
comma 2 del 
presente 
articolo, 
che 
abbiano rilasciato garanzie, individualmente 
o in solido con altri 
soci 
di 
una stessa cooperativa, determina la liberazione di tutti i soci garanti. 
3-bis. resta salvo il 
diritto dello Stato di 
ripetere 
quanto corrisposto a 
seguito dell'intervento, nei 
confronti 
dei 
soci 
che 
abbiano comunque 
contribuito 
alla insolvenza della cooperativa o che 
in ogni 
caso non abbiano titolo 
a beneficiare dell'intervento, subentrando nelle relative garanzie”. 


la 
legge 
n. 388/2000 del 
Parlamento italiano, che 
è 
basata 
sullo stesso 
quadro 
di 
riferimento 
della 
legge 
n. 
237/1993, 
prevede 
all'articolo 
126 
una 
nuova 
autorizzazione 
di 
spesa 
per 
l'importo 
di 
11.8785.086,79 
EUR 
volta 
a 
completare 
l'importo 
fissato 
all'origine 
(10.3291.379,82 
EUR) 
per 
la 
dotazione 
finanziaria 
della 
legge 
n. 
237/1993 
che 
era 
insufficiente 
per 
realizzare 
integralmente 
l'intervento 
previsto, 
al 
fine 
di 
evitare 
una 
discriminazione 
e 
una 
disparità di trattamento tra i beneficiari potenziali. 


la 
giurisprudenza 
ormai 
consolidata 
della 
Cassazione 
ha 
inquadrato siffatto 
meccanismo 
d’intervento 
pubblico 
a 
favore 
delle 
cooperative 
agricole 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


nell’ambito 
dell’accollo 
ex 
lege 
da 
parte 
dello 
Stato 
a 
copertura 
delle 
garanzie 
concesse 
da 
soci 
di 
cooperative 
agricole 
di 
cui 
sia 
stata 
accertata 
l’insolvenza. 


Queste 
misure 
sono state 
considerate 
compatibili 
con il 
mercato comune 
considerato che, la 
sottocapitalizzazione 
strutturale 
di 
cui 
ha 
sofferto nel 
passato 
il 
sistema 
cooperativo agricolo italiano, ha 
comportato un diffuso ricorso 
al 
capitale 
di 
debito basato sulle 
garanzie 
personali. (Cfr. Decisioni 
del 
Consiglio 
dell’Unione Europea 22 luglio 1997 e 8 aprile 2003). 


l’accollo 
funziona 
in 
modo 
automatico 
per 
effetto 
dell’inserimento 
degli 
aventi 
diritto nell’allegato ai 
Dm 
2 ottobre 
1995 e 
Dm 
18 dicembre 
1995, facendo 
sorgere 
a 
favore 
dei 
soci 
beneficiati 
un diritto soggettivo ad ottenere 
la 
provvista finanziaria da parte dello Stato. 


l’effetto esdebitativo dei 
garanti 
nei 
confronti 
delle 
società 
cooperative 
agricole avviene immediatamente ed indipendentemente dal pagamento. 


Resta 
ferma 
in 
ogni 
caso 
la 
possibilità 
dell’azione 
di 
regresso 
da 
parte 
dello 
Stato 
nei 
confronti 
dei 
soggetti 
che 
sono 
stati 
liberati 
senza 
averne 
diritto 
e 
cioè 
i 
fideiussori 
non soci 
della 
cooperativa, i 
fideiussori 
soci 
che 
con dolo 
abbiano causato l’insolvenza 
o che 
abbiano precedenti 
penali 
(Cass. 17 luglio 
2014, n. 16407, III, 10 ottobre 
2017, n. 23670, III 11 ottobre 
2018, n. 25163). 


l’assunzione 
del 
debito da 
parte 
dello Stato avviene 
con le 
modalità 
predette 
ed a 
prescindere 
dall’effettuazione 
di 
un accertamento di 
carattere 
costitutivo, 
avente 
le 
caratteristiche 
di 
una 
vera 
a 
e 
propria 
istruttoria, 
in 
ordine 
alla 
ricorrenza 
dei 
presupposti 
soggettivi 
(la 
qualità 
di 
socio e 
non solo di 
fideiussore 
delle 
cooperative 
agricole, il 
non avere 
provocato lo stato d’insolvenza, 
l’essere 
esente 
da 
procedimenti 
penali 
in corso) ed oggettivi 
(determinazione 
delle 
somme 
accollate, 
tenendo 
conto 
degli 
importi 
ammessi 
allo 
stato 
passivo 
delle 
società 
cooperative 
fallite 
e 
verifica 
della 
sufficienza 
dello 
stanziamento). 


lo stesso giudice 
di 
legittimità 
riconosce 
tuttavia 
la 
necessità 
che 
ai 
fini 
dell’esecuzione 
del 
pagamento da 
parte 
dell’Amministrazione 
il 
debito altrui 
risulti determinato sia nell’an 
che nel 
quantum. 


Come 
già 
convenuto nelle 
vie 
brevi 
e 
pur facendo salvo il 
principio della 
generale 
operatività 
automatica 
dell’accollo statale, si 
conferma 
pertanto che, 
prima 
di 
procedere 
al 
pagamento, codesta 
Amministrazione 
è 
tenuta 
a 
verificare 
l’an 
(valutando 
anche 
l’eventuale 
prescrizione 
del 
credito 
azionato 
e 
l’effettiva 
sussistenza 
della 
qualità 
di 
socio) 
ed 
il 
quantum 
della 
pretesa 
creditoria 
(perché 
in alcuni 
casi 
ad esempio i 
fideiussori 
possono avere 
estinto parzialmente 
il 
loro debito o perché 
si 
deve 
verificare 
l’ammontare 
del 
credito ammesso 
nello stato passivo della società cooperativa agricola). 


Codesto 
Ufficio 
evidenzia 
altresì 
nella 
richiesta 
di 
parere 
le 
peculiari 
ipotesi 
nelle 
quali, tra 
i 
soci 
fideiussori 
ve 
ne 
siano alcuni 
che 
abbiano colpevolmente 
concorso 
allo 
stato 
d’insolvenza 
delle 
cooperative 
agricole 
od 
addirittura se ne siano resi responsabili nella loro totalità. 


Rispetto 
a 
queste 
ipotesi, 
che 
non 
sembrano 
essere 
state 
ancora 
scrutinate 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


dalla 
Corte 
di 
Cassazione, 
occorre 
allora 
valutare 
se 
possano 
residuare 
margini 
d’apprezzamento dell’Amministrazione 
circa 
la 
corresponsione 
del 
dovuto al 
creditore del socio fideiussore. 


Per rispondere 
al 
quesito, si 
deve 
anzitutto osservare 
che 
la 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 1, comma 
1 
bis, del 
Dl 
n. 149/93 deve 
essere 
necessariamente 
interpretata 
in combinato disposto con l’art. 126 della 
l. n. 388/2000 ed 
in particolare con i commi 3 e 3 bis 
di detto ultimo precetto. 


Come 
è 
stato osservato anche 
dal 
giudice 
di 
legittimità, la 
norma 
non 
parla 
di 
pagamento da 
parte 
dello Stato, ma 
di 
“intervento” 
dello stesso, specificandolo, 
attraverso il 
richiamo del 
predetto art. 1, comma 
1 
bis 
del 
Dl 
n. 
149/93, 
in 
termini 
di 
mera 
assunzione 
del 
debito. 
Coerentemente 
dunque 
il 
comma 
3 bis 
dell’art. 126 della 
l. n. 388/2000, fa 
salvo il 
diritto dello Stato di 
ripetere 
quanto 
corrisposto 
a 
seguito 
dell’intervento, 
nei 
confronti 
dei 
soci 
che 
non 
avevano 
titolo 
a 
beneficiare 
dell’intervento 
o 
che 
avevano 
comunque 
contribuito 
all’insolvenza 
della 
cooperativa 
(Cass. III 19 febbraio 2013, n. 4014). 

Se 
dunque 
si 
può e 
si 
deve 
distinguere 
tra 
la 
corresponsione 
del 
dovuto 
ai 
creditori 
e 
l’accollo 
del 
debito, 
si 
concorda 
nel 
ritenere 
che 
laddove 
codesto 
Ufficio abbia 
già 
verificato che 
sussistono cause 
che 
imporrebbero in seguito 
il 
recupero 
di 
quanto 
corrisposto 
nei 
confronti 
del 
socio 
fideiussore, 
non 
si 
debba procedere al pagamento nei confronti del creditore. 


Ciò 
in 
quanto 
il 
meccanismo 
dell’accollo 
ed 
il 
conseguente 
subentro 
dello 
Stato nella 
posizione 
del 
socio garante, presuppone 
la 
buona 
fede 
di 
quest’ultimo, 
mentre 
non 
può 
certo 
operare 
laddove 
il 
medesimo 
socio 
abbia 
concorso 
con la 
sua 
condotta 
penalmente 
rilevante 
a 
determinare 
la 
situazione 
di 
decozione 
della cooperativa agricola. 


Ammettere 
l’automaticità 
dell’accollo anche 
in queste 
condizioni, condurrebbe 
del 
resto a 
conseguenze 
paradossali, onerandosi 
l’Amministrazione 
di 
pagamenti 
che, in spregio di 
elementari 
principi 
di 
corretta 
gestione 
del 
bilancio 
statale, 
finirebbero 
per 
premiare 
ingiustamente 
soggetti 
che 
hanno 
posto 
in essere 
comportamenti 
criminosi 
ed equivarrebbe 
ad ammettere 
la 
liceità 
di 
un contratto in frode alla legge. 


la 
ratio legis 
delle 
disposizioni 
in commento, come 
statuito dalla 
Corte 
di 
Cassazione, è 
invece 
quella 
di 
elargire 
una 
provvidenza 
ai 
soci 
di 
cooperative 
agricole 
che 
hanno prestato garanzia 
in favore 
delle 
stesse, in un’ottica 
di 
sostegno della 
produzione 
e 
del 
mercato agricolo, nei 
casi 
in cui 
l’insolvenza 
delle 
cooperative 
agricole, sia 
dipesa 
da 
fattori 
economici 
congiunturali 
e 
non 
anche quando la stessa sia stato il frutto di condotte penalmente rilevanti. 

occorre 
inoltre 
rilevare 
che 
le 
misure 
in 
commento 
sono 
state 
considerate 
una 
forma 
di 
aiuto compatibile 
con il 
diritto comunitario in esito a 
due 
procedure 
d’infrazione 
definite 
con le 
decisioni 
del 
Consiglio dell’Unione 
Europea 
del 
22 
luglio 
1997 
e 
8 
aprile 
2003, 
per 
cui 
anche 
nel 
rispetto 
di 
consolidati 
principi 
definiti 
dal 
diritto 
comunitario, 
non 
può 
essere 
ammessa 
l’erogazione 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


dei 
sostegni 
economici 
in dipendenza 
di 
comportamenti 
fraudolenti 
dei 
beneficiari. 


Alla 
stregua 
di 
quanto 
precede, 
si 
deve 
dunque 
ritenere 
che 
l’obbligo 
dell’azione 
di 
regresso di 
cui 
all’art. 126 comma 
3 
bis 
della 
l. n. 388/2000 riguardi 
le 
ipotesi 
di 
accertamento 
“postumo” 
(in 
quanto 
successivo 
al 
pagamento 
dei 
creditori) della 
responsabilità 
dei 
soci 
rispetto alla 
determinazione 
dello stato d’insolvenza della cooperativa agricola. 


Quando 
invece 
di 
tale 
responsabilità, 
per 
di 
più 
acclarata 
da 
provvedimenti 
del 
giudice 
penale, l’Amministrazione 
abbia 
contezza 
in un momento 
precedente 
è 
chiaro che 
la 
medesima 
possa 
rifiutarsi 
di 
pagare 
sulla 
base 
di 
una sorta di 
exceptio doli. 


Tornando alle 
ipotesi 
prospettate 
da 
codesto Ufficio, il 
pagamento dovrà 
essere 
quindi 
denegato nell’ipotesi 
in cui 
tutti 
i 
soci 
fideiussori 
risultino avere 
concorso all’insolvenza 
della 
cooperativa 
agricola 
(sulla 
base 
di 
sentenze 
di 
condanna 
o 
di 
applicazione 
della 
pena 
patteggiata, 
parificate 
alle 
prime 
quanto 
all’accertamento della 
sussistenza 
del 
fatto. Cfr. ex 
multis 
Cass. III, 11 marzo 
2020, n. 7014), mentre 
dovrà 
essere 
effettuato nel 
caso in cui 
solo alcuni 
di 
essi ne siano stati responsabili. 


valuterà 
inoltre 
codesta 
Amministrazione 
l’eventuale 
ricorrenza 
dei 
presupposti 
di 
fatto e 
di 
diritto per un intervento in via 
di 
autotutela 
volto a 
depennare 
dagli 
elenchi 
di 
cui 
ai 
Decreti 
ministeriali 
sopra 
richiamati, 
i 
nominativi 
dei 
soci 
fideiussori 
che 
abbiano 
concorso 
con 
il 
loro 
comportamento 
penalmente 
rilevante 
allo stato d’insolvenza 
della 
società 
cooperativa 
agricola. 


È 
stata 
allegata 
alla 
nota 
che 
si 
riscontra 
la 
richiesta 
di 
un terzo creditore 
(omissis) che 
rivendica 
il 
pagamento di 
somme 
a 
suo tempo erogate 
in favore 
della 
Cooperativa 
(omissis), 
pur 
in 
presenza 
di 
garanzie 
sottoscritte 
da 
soggetti 
tutti 
destinatari 
di 
una 
sentenza 
di 
patteggiamento 
emessa 
dal 
Tribunale 
(omissis) 
con 
cui 
i 
medesimi 
sono 
stati 
condannati, 
anche 
nella 
loro 
espressa 
qualità 
di 
membri 
del 
CdA, 
giacchè, 
in 
concorso 
tra 
loro 
e 
con 
i 
sindaci 
della 
predetta 
Cooperativa, 
sono 
stati 
coinvolti 
in 
fatti 
che 
ne 
hanno 
determinato 
l’insolvenza. 


Nel 
parere 
allegato 
alla 
richiesta 
di 
che 
trattasi, 
la 
fattispecie 
astratta 
viene 
qualificata 
nei 
termini 
dell’espromissione 
di 
fonte 
legale 
e 
la 
ragione 
di 
questa 
costruzione 
teorica 
è 
evidentemente 
quella 
di 
pervenire 
all’applicazione 
del-
l’art. 1272, comma 
3 che 
limiterebbe 
le 
eccezioni 
opponibili 
al 
creditore 
solo 
a quelle che avrebbe potuto opporre il debitore originario. 


Ne 
conseguirebbe 
l’esclusione 
dal 
novero delle 
eccezioni 
opponibili 
di 
quelle 
relative 
ai 
rapporti 
tra 
espromittente 
ed 
espromissario 
(che 
nel 
caso 
esaminato 
sarebbero 
rispettivamente 
lo 
Stato 
ed 
il 
socio 
garante 
della 
cooperativa 
agricola). 


Questa impostazione ermeneutica non sembra tuttavia corretta. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Intanto 
contrasta 
con 
la 
pacifica 
interpretazione 
del 
giudice 
di 
legittimità 
che 
si 
è 
avuto 
modo 
di 
richiamare 
in 
precedenza 
e 
che 
inquadra, 
in 
senso 
univo 
ed ormai 
anche 
pacifico, l’intervento dello Stato nell’ambito dell’istituto del-
l’accollo ex lege. 


la 
lettura 
delle 
disposizioni 
sopra 
richiamate 
e 
la 
finalità 
della 
tutela 
dei 
soci 
garanti 
di 
cooperative 
agricole 
che 
incolpevolmente 
si 
trovino esposti 
al 
loro 
stato 
d’insolvenza, 
che 
dalle 
medesime 
emerge 
palese, 
sembra 
confermare 
l’esegesi 
della 
giudice 
di 
legittimità 
in quanto la 
volontà 
del 
legislatore 
appare 
quella 
di 
definire 
uno schema 
legale 
che 
consenta 
allo Stato di 
assumere 
il debito dei soci predetti. 


lo scopo della 
norma 
è 
quello d’incentivare 
le 
imprese 
agricole 
che 
prevedevano 
espressamente 
il 
ricorso alla 
garanzia 
dei 
propri 
soci 
in quanto ciò 
facilita l’accesso al finanziamento da parte delle banche. 


l’avere 
svolto una 
funzione 
di 
supporto al 
miglioramento del 
merito creditizio 
delle 
cooperative 
agricole 
di 
cui 
sono 
soci 
giustifica 
in 
un 
secondo 
tempo la 
copertura 
da 
parte 
dello Stato dei 
soci 
garanti 
medesimi 
che 
rimangono 
esposti 
al 
fallimento della 
cooperativa 
per eventi 
estranei 
al 
loro ambito 
di responsabilità. 


Rispetto 
a 
questo 
schema 
normativo 
la 
figura 
del 
creditore 
rimane 
del 
tutto estranea 
e 
non entra 
in alcun modo nel 
procedimento che 
determina 
l’inclusione 
dei soggetti beneficiari negli allegati ai Dm sopra richiamati. 


Nell’ambito dell’espromissione 
il 
rapporto, che 
porta 
alla 
stipulazione 
di 
un negozio di 
natura 
contrattuale, si 
instaura 
invece 
tra 
il 
terzo ed il 
creditore. 


ma, dalle 
disposizioni 
regolatrici 
della 
materia, non è 
dato evincere 
l’attribuzione 
di alcuna rilevanza o funzione alla figura del creditore. 


Sul 
presente 
parere 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
consultivo 
che, 
nella 
seduta 
del 6 maggio 2020, si è espresso in conformità. 


*** ** *** 


Con la 
nota 
che 
si 
riscontra, sono stati 
chiesti 
chiarimenti 
in relazione 
al 
parere 
reso 
dalla 
Scrivente 
con 
nota 
del 
15 
maggio 
u.s. 
in 
ordine 
all'attuazione 
della 
norma 
indicata 
in 
oggetto 
in 
considerazione 
delle 
decisioni 
assunte 
in 
subiecta materia da parte del giudice di legittimità. 


Codesto 
Ufficio 
chiede 
in 
particolare 
di 
conoscere 
se, 
con 
riferimento 
alle 
sentenze 
di 
patteggiamento pronunciate 
nei 
confronti 
di 
soci 
garanti 
per fatti 
connessi 
allo stato d'insolvenza 
delle 
Cooperative 
agricole 
che 
intendono godere 
dei 
benefici 
di 
cui 
alla 
normativa 
indicata 
in oggetto, debba 
limitarsi 
a 
tenere 
conto solo di 
siffatte 
decisioni 
e 
non debba 
piuttosto effettuare 
ulteriori 
accertamenti 
e 
se 
tanto valga 
anche 
con riguardo alla 
Cooperativa 
(omissis) 
che 
si 
accingerebbe 
ad intraprendere 
un'azione 
monitoria 
contro codesta 
Amministrazione. 


Tanto 
premesso 
si 
ritiene 
che 
codesto 
Ufficio 
possa 
denegare 
l'accollo 
del 
debito 
a 
copertura 
delle 
garanzie 
concesse 
dai 
soci 
di 
cooperative 
agricole, 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


di 
cui 
sia 
stata 
accertata 
l'insolvenza, 
per 
tutte 
le 
ragioni 
già 
espresse 
nella 
precedente 
consultazione 
sopra 
indicata, 
laddove 
dalla 
sentenza 
emessa 
ex 
art. 
444 
cpp 
possa 
evincersi 
che 
gli 
stessi 
abbiano 
materialmente 
concorso 
alla 
causazione dello stato d'insolvenza. 


A 
tale 
fine 
appare 
sufficiente 
la 
conoscenza 
della 
sentenza 
con 
cui 
il 
socio 
garante 
sia 
stato 
condannato 
alla 
pena 
patteggiata, 
senza 
che 
sia 
necessario 
svolgere 
ulteriori 
approfondimenti 
sugli 
atti 
ed 
i 
documenti 
acquisiti 
nel 
corso 
del procedimento penale. 


Non si 
ravvisa 
infatti 
in relazione 
all'adempimento degli 
obblighi 
posti 
dalla 
legge 
a 
carico 
di 
codesta 
Amministrazione 
un 
margine 
di 
apprezzamento 
discrezionale 
di 
circostanze 
fattuali 
considerato 
anche 
che 
le 
stesse 
apparirebbero 
comunque 
superate 
dall'applicazione 
della 
pena 
su richiesta 
ex 
art. 444 
cpp. 


Ad 
analoghe 
conclusioni 
si 
ritiene 
di 
potere 
pervenire, 
allo 
stato 
degli 
atti, 
anche 
nei 
confronti 
della 
Cooperativa 
(omissis) 
in 
relazione 
alla 
quale 
codesto 
Ufficio 
non 
ha 
rappresentato 
alcun 
elemento 
fattuale 
utile 
a 
dìfferenziarne 
la 
specifica 
posizione 
giuridica 
rispetto ai 
principi 
di 
carattere 
generale 
posti a fondamento del precedente parere. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


l’istituto della prelazione c.d. urbana nell’ambito di una 
procedura di liquidazione coatta amministrativa 


Parere 
del 
25/06/2020-323429, al 14089/2020, ProC. valeria 
roMano 


1. Il quesito. 
Si 
riscontra 
la 
nota 
in 
riferimento 
con 
la 
quale 
è 
stato 
chiesto 
alla 
Scrivente 
di 
esprimersi 
in 
ordine 
alla 
questione 
se 
l’istituto 
della 
prelazione 
c.d. 
urbana 
-disciplinato 
dall'art. 
38 
della 
legge 
27 
luglio 
1978, 
n. 
392 
quanto 
agli 
immobili 
locati 
ad 
uso 
non 
abitativo 
e 
dall’art. 
3 
lett. 
g) 
della 
legge 
9 
dicembre 
1998, 
n. 
431 
per 
le 
unità 
immobiliari 
locate 
ad 
uso 
abitativo 
-trovi 
o 
meno 
applicazione 
nel 
caso 
in 
cui 
la 
vendita 
del 
bene 
oggetto 
del 
rapporto 
locativo 
sia 
disposta 
nell’ambito 
di 
una 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
(1). 


Più 
in 
particolare, 
l’Ente 
in 
indirizzo 
ha 
rappresentato 
che 
nel 
proprio 
patrimonio 
immobiliare 
“sono presenti 
diversi 
immobili 
condotti 
in locazione” 
specificando altresì 
che, in caso di 
autorizzazione 
da 
parte 
del 
ministero vigilante, 
si 
procederà 
alla 
vendita 
dei 
cespiti 
locati 
attraverso 
un’asta 
pubblica 
espletata 
dal 
Consiglio Nazionale 
del 
Notariato di 
Roma 
secondo il 
disciplinare 
d’asta 
all’uopo 
predisposto 
che, 
per 
quel 
che 
in 
questa 
sede 
interessa, 


(1) 
Sul 
piano 
del 
metodo, 
occorre 
muovere 
dalla 
premessa 
per 
cui 
l’analisi 
del 
problema 
dell’operatività 
del 
diritto di 
prelazione 
c.d. urbana 
nel 
caso di 
vendite 
coattive 
presuppone 
come 
concluso, in 
senso 
affermativo, 
il 
vaglio 
da 
operarsi 
“a 
monte” 
circa 
la 
ricorrenza, 
nei 
casi 
di 
volta 
in 
volta 
in 
rilievo, 
dei 
presupposti 
stabiliti 
per il 
riconoscimento del 
diritto ad essere 
preferiti 
fissati 
dalla 
legge 
27 luglio 
1978, 
n. 
392 
e 
dalla 
legge 
9 
dicembre 
1998, 
n. 
431. 
Dette 
fonti 
normative 
subordinano, 
infatti, 
l’esercizio 
del 
diritto di 
prelazione 
c.d. urbana 
al 
ricorrere 
di 
specifiche 
condizioni 
il 
cui 
difetto, da 
valutarsi 
caso 
per caso, renderebbe 
-in concreto -logicamente 
assorbita 
la 
più generale 
questione, posta 
dall’Ente 
in 
indirizzo, 
relativa 
al 
se 
la 
prelazione 
c.d. 
urbana 
trovi 
o 
meno 
applicazione 
nel 
caso 
di 
vendite 
lato 
sensu 
forzate. 
Pare 
allora 
il 
caso 
di 
specificare 
che 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
costantemente 
affermato 
che 
il 
diritto di 
prelazione 
e 
riscatto di 
cui 
all’art. 38 della 
legge 
27 luglio 1978, n. 392 spetta 
al 
conduttore 
di 
un 
immobile 
urbano 
con 
destinazione 
non 
abitativa 
“sempre 
che 
egli 
eserciti 
un’attività 
produttiva 
a contatto diretto con il 
pubblico, sia pure 
come 
contitolare 
o consocio di 
una società di 
persone 
cui 
partecipino anche 
soggetti 
estranei 
alla titolarità del 
rapporto locativo” 
(Cass. Civ., 19 dicembre 
1996 
n. 11363; 
Cass. Civ., 22 luglio 1997 n. 6410, Cass. Civ., 30 maggio 1996 n. 5009). È 
stato altresì 
puntualizzato 
nella 
produzione 
pretoria 
in materia 
che 
il 
diritto di 
prelazione 
di 
cui 
all’art. 3 lett. g) della 
legge 
9 dicembre 
1998, n. 431 spetta 
al 
conduttore 
dell’immobile 
adibito ad uso abitativo nei 
confronti 
del 
terzo acquirente 
“solo nel 
caso in cui 
il 
locatore 
abbia intimato disdetta per 
la prima scadenza, manifestando 
in 
tale 
atto 
l'intenzione 
di 
vendere 
a 
terzi 
l'unità 
immobiliare, 
rispondendo 
la 
scelta 
normativa 
all'esigenza 
di 
compensare 
il 
mancato 
godimento 
dell'immobile 
per 
l'ulteriore 
quadriennio 
a 
fronte 
del-
l'utilità per 
il 
locatore 
di 
poter 
alienare 
il 
bene 
ad un prezzo corrispondente 
a quello di 
mercato degli 
immobili 
liberi. ne 
consegue 
che, in caso di 
disdetta immotivata per 
la detta scadenza, il 
conduttore 
ha 
unicamente 
il 
diritto alla rinnovazione 
del 
contratto” 
(Cass. civ. Sez. III Sent., 30 settembre 
2016, n. 
19417). Infine, si 
deve 
notare 
che 
il 
diritto di 
prelazione 
e 
il 
correlato diritto di 
riscatto di 
cui 
agli 
artt. 
38 e 
39 della 
legge 
n. 392 del 
1978 presuppongono la 
perfetta 
identità 
tra 
il 
bene 
venduto e 
quello condotto 
in 
locazione, 
sicché 
la 
giurisprudenza 
esclude 
il 
sorgere 
in 
capo 
al 
conduttore 
di 
tali 
diritti 
nel 
caso 
di 
“vendite 
in blocco” 
(Cass. civ. Sez. III Sent., 17 settembre 
2008, n. 23747, Cass. civ. Sez. III ordinanza, 
4 agosto 2017, n. 19502). 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


prevede 
che 
le 
unità 
immobiliari 
locate 
oggetto della 
procedura 
siano offerte 
in prelazione 
ai 
conduttori 
entro dieci 
giorni 
lavorativi 
dalla 
data 
dell’aggiudicazione 
provvisoria 
e 
che 
l'aggiudicazione 
definitiva 
del 
bene 
sia 
condizionata 
al mancato esercizio del diritto di prelazione. 


Tanto 
premesso, 
l’Amministrazione 
in 
indirizzo 
chiede 
di 
chiarire 
se 
l’avviso 
espresso 
da 
questa 
Avvocatura 
(2) 
in 
riferimento 
alla 
c.d. 
prelazione 
agraria 
di 
cui 
all’art. 
8 
della 
legge 
26 
maggio 
1965, 
n. 
590 
-nel 
senso 
che 
all’affittuario 
dei 
beni 
aggiudicati 
non 
compete 
l’esercizio 
dello 
ius 
prelationis 
sul 
fondo 
nel 
caso 
di 
vendita 
del 
terreno 
agricolo 
disposta 
nell'ambito 
della 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
-sia 
o 
meno 
estendibile 
alla 
prelazione 
c.d. 
urbana. 


Il 
quesito 
innanzi 
delineato 
pone, 
invero, 
un 
problema 
ermeneutico 
quello 
della 
spettanza 
o 
meno 
del 
diritto 
di 
prelazione 
c.d. 
urbana 
nelle 
ipotesi 
di 
vendita 
coattiva 
e 
di 
atti 
di 
alienazione 
posti 
in 
essere 
nel 
corso 
di 
procedure 
concorsuali 
-sul 
quale, in assenza 
di 
una 
disciplina 
positiva 
espressa, come 
nel 
caso della 
prelazione 
agraria, la 
giurisprudenza 
si 
è 
pronunciata 
in senso 
non sempre 
uniforme 
concorrendo a 
delineare 
un quadro pretorio e 
dottrinale 
essenzialmente riconducibile a due contrapposti orientamenti interpretativi. 


2. La tesi 
della operatività dell’istituto della prelazione 
c.d. urbana nel 
caso 
di vendita coattiva del bene oggetto del rapporto locatizio. 
Secondo un primo indirizzo seguito in alcune 
pronunzie 
di 
merito (3) e 
dalla 
dottrina 
maggioritaria 
al 
conduttore 
dell'immobile 
oggetto 
di 
vendite 
forzose 
o concorsuali 
compete, nei 
confronti 
dell'amministrazione 
fallimentare 


o degli 
organi 
della 
liquidazione, il 
diritto di 
prelazione 
di 
cui 
all’art. 38 della 
legge 
27 
luglio 
1978, 
n. 
392 
con 
la 
conseguenza 
che 
sarebbe 
ravvisabile 
in 
capo al 
curatore 
oppure 
al 
commissario liquidatore 
l’obbligo di 
comunicare 
le 
condizioni 
della 
vendita 
al 
conduttore 
affinché 
quest'ultimo sia 
messo nelle 
condizioni 
di 
esercitare 
il 
proprio diritto ad essere 
preferito nei 
confronti 
del 
terzo offerente nella qualità di aggiudicatario provvisorio. 
Tale 
impostazione 
ermeneutica 
è 
stata 
argomentata 
ponendo in rilievo le 
differenze 
che, 
sul 
piano 
della 
disciplina 
positiva, 
connotano 
la 
prelazione 
c.d. 
urbana 
rispetto 
alla 
prelazione 
c.d. 
agraria. 
È 
stato, 
infatti, 
evidenziato 
che, 
mentre 
il 
disposto dell’art. 8 della 
legge 
26 maggio 1965, n. 590, occupandosi 
della 
prelazione 
agraria, 
espressamente 
ne 
esclude 
l'operatività 
in 
caso 
di 
“vendita 
forzata, 
liquidazione 
coatta, 
fallimento”, 
l’art. 
38 
della 
legge 
27 
luglio 


(2) In risposta 
alla 
vostra 
nota 
prot. 3149 del 
19 marzo 2020 Asta 
pubblica 
terreni 
siti 
in mortara 
(Pv) lotto 3/38. 
(3) In questo senso, Tribunale 
di 
vigevano, 13 luglio 1981 in Foro it., 1982, I, 1412, Tribunale 
Ancona, 13 febbraio 1981 in giur. di 
Merito, 
1983, 651; 
Tribunale 
di 
Roma, 10 luglio 1981, in giur. di 
Merito, 
1983, 651 secondo cui 
“il 
diritto di 
prelazione 
introdotto dall'art. 38 l. n. 392 del 
1978 a favore 
del 
conduttore 
di 
locale 
adibito ad uso commerciale 
può essere 
esercitato anche 
se 
l'alienazione 
del-
l'immobile avvenga in sede d'asta, in esito ad una procedura concorsuale”. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


1978, 
n. 
392, 
richiamato 
dall’art. 
3 
lett. 
g) 
della 
legge 
9 
dicembre 
1998, 
n. 
431, non prevede 
detta 
esclusione 
sicché, in applicazione 
del 
noto brocardo 
ubi 
lex 
voluit 
dixit 
ubi 
noluit 
tacuit, sarebbe 
dato trarre 
la 
conclusione 
della 
spettanza 
del 
diritto di 
prelazione 
in capo al 
conduttore 
dell’immobile 
urbano 
oggetto 
di 
vendita 
coattiva 
o 
comunque 
di 
un 
atto 
di 
alienazione 
posto 
in 
essere 
nell’ambito di una procedura concorsuale (4). 

3. La tesi 
della dell’inconciliabilità “oggettiva” o “di 
sistema” del 
diritto di 
prelazione 
c.d. 
urbana 
nel 
caso 
di 
alienazione 
forzata 
o 
concorsuale 
dell'immobile 
locato. 
Un’opposta 
tesi 
interpretativa 
ha, 
al 
contrario, 
sostenuto 
l'inoperatività 
del 
diritto di 
prelazione 
del 
conduttore 
ex 
art. 38 della 
legge 
27 luglio 1978 in 
caso di 
alienazione 
lato sensu 
forzata 
o concorsuale 
dell'immobile 
locato (5). 

Detto orientamento muove 
dall’analisi 
del 
dato testuale 
dell’art. 38 della 
legge 
27 luglio 1978, n. 392 a 
mente 
del 
quale 
“nel 
caso in cui 
il 
locatore 
intenda 
trasferire 
a 
titolo 
oneroso 
l'immobile 
locato, 
deve 
darne 
comunicazione 
al 
conduttore 
con 
atto 
notificato 
a 
mezzo 
di 
ufficiale 
giudiziario”. 
I 
sostenitori 
dell’impostazione 
in esame 
inferiscono dalla 
formulazione 
dell’incipit 
della 
norma 
innanzi 
richiamata 
la 
conclusione 
per 
cui 
l’operatività 
dell’istituto 
della 
prelazione 
c.d. urbana 
sarebbe 
subordinata 
al 
carattere 
volontario dell’alienazione, 
sicchè 
lo 
ius 
prelationis 
di 
cui 
all’art. 38 della 
legge 
27 luglio 1978, n. 
392 non troverebbe 
applicazione 
quando gli 
atti 
di 
alienazione 
non risultano 
riconducibili 
ad una 
libera 
determinazione 
del 
proprietario, bensì 
si 
configurano 
come 
atti 
adempitivi 
degli 
obblighi 
di 
liquidazione 
dei 
cespiti 
imposti 
dalla sottoposizione del patrimonio del locatore a procedure concorsuali. 

Siffatta 
conclusione 
sarebbe, in base 
all’orientamento in parola, confermata 
e 
non smentita 
-come 
invece 
sostenuto dall’opposto indirizzo -proprio 
dall’art. 8 della 
legge 
26 maggio 1965, n. 590. Ed infatti, il 
comma 
1 di 
detta 
disposizione 
testualmente 
recita 
“in caso di 
trasferimento a titolo oneroso di 
fondi 
concessi 
in affitto a coltivatori 
diretti 
l'affittuario, il 
mezzadro, il 
colono 


(4) Anche 
parte 
della 
dottrina 
v., BUSNEllI, la prelazione 
nell'impresa familiare, rn, 1981, 810, 
822 esclude 
che 
quanto specificamente 
previsto dal 
legislatore 
in materia 
di 
prelazione 
agraria, possa 
considerarsi 
espressione 
di 
una 
logica 
generale, 
con 
conseguente 
esclusione 
dell'applicazione 
analogica 
o 
estensiva 
nel 
caso 
della 
prelazione 
urbana. 
Secondo 
BoRRÈ, 
vendite 
forzate 
e 
prelazione 
del 
conduttore 
urbano, in Foro it., 1981, I, 6 non è 
possibile 
escludere 
il 
diritto di 
cui 
all'art. 38 della 
legge 
27 luglio 
1978, n. 392 in ragione 
della 
sola 
«impronta 
volontaristica 
della 
norma». l'assenza 
nel 
testo normativo 
di 
un'indicazione 
delle 
vendite 
forzate 
come 
ipotesi 
di 
esclusione 
della 
prelazione 
sull'immobile 
non 
abitativo locato sarebbe, invece, sufficiente 
a 
giustificare 
il 
riconoscimento del 
diritto del 
conduttore. 
In senso analogo, SANDUllI 
"esecuzioni" fallimentari e terzi, in esecuzione forzata, 2005, 1. 
(5) Nel 
senso dell’inoperatività 
del 
diritto di 
prelazione 
del 
conduttore 
in caso di 
alienazione 
forzata 
o 
concorsuale 
si 
è 
espressa 
la 
prevalente 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
si 
v., 
inter 
alia, 
Cass. 
civ. 
Sez. III, Sent., 29 marzo 2012, n. 5069; 
Cass. civ. Sez. III, 6 aprile 
1990, n. 2900; 
Cass. civ. Sez. III, 19 
marzo 2004, n. 5601; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 1996, n. 11225. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


o il 
compartecipante, a parità di 
condizioni, ha diritto di 
prelazione” 
mentre 
il 
comma 
2 stabilisce, come 
anticipato, che 
“la prelazione 
non è 
consentita 
nei 
casi 
di 
permuta, 
vendita 
forzata, 
liquidazione 
coatta, 
fallimento”. 
l’espressa 
esclusione 
del 
diritto di 
prelazione 
sancita 
al 
richiamato comma 
2 
si 
giustificherebbe, secondo la 
tesi 
in esame, con l’impiego, al 
primo comma 
dell’art. 8 della 
legge 
26 maggio 1965, n. 590, della 
generica 
formula 
"trasferimento 
a titolo oneroso" 
senza 
alcun riferimento al 
profilo della 
volontarietà 
dell’alienazione 
che, 
invece, 
come 
detto, 
connota 
la 
dizione 
normativa 
dell’art. 
38 della 
legge 
27 luglio 1978, n. 392. In altri 
termini, dal 
raffronto del 
dettato 
normativo 
viene 
desunto 
il 
logico 
corollario 
per 
cui 
l’espressa 
esclusione 
dello 
ius 
prelationis 
sarebbe 
stata 
superflua 
nell’ipotesi 
di 
prelazione 
c.d. urbana 
la 
cui 
operatività 
è 
già 
logicamente 
preclusa 
per le 
vendite 
forzose 
e 
per le 
alienazioni 
inscritte 
in 
procedure 
concorsuali 
trattandosi 
di 
vendite 
coatte, 
incompatibili 
con 
il 
carattere 
liberamente 
dispositivo 
dell’atto 
di 
trasferimento 
dell'immobile postulato dall’art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392. 


l’orientamento secondo il 
quale 
lo ius 
prelationis 
non può trovare 
applicazione 
quando gli 
atti 
di 
alienazione 
non sono riconducibili 
ad una 
libera 
determinazione 
del 
proprietario è 
stato argomentato anche 
valorizzando i 
tratti 
distintivi 
tra 
la 
compravendita 
consensuale 
e 
le 
vendite 
forzate 
o concorsuali. 

Da 
siffatto angolo prospettico, è 
stato evidenziato che 
nella 
vendita 
volontaria 
il 
proprietario-alienante 
sceglie, esercitando la 
propria 
autodeterminazione 
negoziale, 
l'acquirente 
e, 
con 
questi, 
stabilisce 
nel 
corso 
delle 
trattative 
il 
prezzo e 
le 
condizioni 
dell’atto traslativo sicché 
la 
prevista 
denuntiatio 
in 
favore 
del 
conduttore 
è 
diretta 
alla 
tutela 
del 
prelazionario 
al 
quale 
il 
legislatore 
ha 
inteso garantire 
la 
conoscenza 
del 
libero intento del 
dominus 
di 
alienare 
e 
delle 
condizioni 
alle 
quali 
il 
locatore 
intende 
trasferire 
il 
bene 
locato nonché 
la 
possibilità 
di 
conservare 
il 
godimento 
dell'immobile 
essendo 
preferito, 
a 
parità 
di condizioni, agli altri potenziali acquirenti. 

Nella 
vendita 
coattiva 
e 
negli 
atti 
di 
alienazione 
posti 
in 
essere 
nell’ambito 
di 
una 
procedura 
concorsuale, 
viceversa, 
l'organo 
incaricato 
realizza 
la 
vendita 
nell’ambito di 
procedure 
pubblicizzate 
che 
consentono a 
chiunque, e 
quindi 
anche al conduttore, di partecipare alla gara ed acquistare il bene. 

È 
stato inoltre 
rilevato come 
nella 
vendita 
concorsuale, all’interesse 
del 
titolare 
del 
diritto di 
preferenza 
si 
contrapponga 
quello dei 
creditori 
del 
locatore 
alla 
più ampia 
partecipazione 
alla 
procedura 
affermandosi 
altresì 
che 
la 
previsione 
di 
una 
aggiudicazione 
condizionata 
al 
mancato 
esercizio 
del 
diritto 
di 
prelazione 
sarebbe 
idonea 
a 
comportare 
un effetto deflattivo della 
partecipazione 
di 
possibili 
acquirenti 
alla 
procedura 
di 
vendita 
ponendosi 
così 
in 
contrasto 
con l’esigenza 
di 
non intralciare 
le 
finalità 
di 
tutela 
del 
ceto creditorio 
perseguite dalle procedure concorsuali (6). 

(6) v., Cass. civ., 30 maggio 1984, n. 3298. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


muovendo da 
siffatte 
premesse 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
riconosciuto 
natura 
preminente 
all’interesse 
della 
massa 
dei 
creditori 
sul 
rilievo 
per cui 
“le 
norme 
sul 
diritto di 
prelazione 
dirette 
a tutelare 
interessi 
di 
natura 
privatistica non possano che 
incontrare 
un limite 
nell'attività di 
natura pubblicistica 
degli 
organi 
fallimentari 
diretta 
alla 
liquidazione 
dei 
beni 
del 
fallito 
per 
il 
soddisfacimento 
dei 
creditori 
sicchè 
l’interesse 
dei 
prelazionari 
-qui 
certant 
de 
lucro captando -non potrà che 
essere 
considerato subvalente 
rispetto 
a quello dei 
creditori 
-qui 
certant 
de 
damno vitando” 
(7). Sulla 
scorta 
degli 
argomenti 
innanzi 
riassunti 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ha 
pertanto, 
in 
taluni 
arresti, 
teorizzato 
il 
principio 
“dell’incompatibilità 
oggettiva 
della 
prelazione nelle procedure concorsuali” 
(8). 


4. Profili di criticità dell’uno e dell’altro orientamento giurisprudenziale. 
Tanto rappresentato al 
fine 
di 
apprezzare 
la 
natura 
composita 
del 
quadro 
giurisprudenziale 
delineatosi 
in subiecta materia, occorre 
rilevare 
come 
nessuna 
delle 
tesi 
enunciate 
sia, ad avviso della 
Scrivente, immune 
da 
profili 
di 
criticità argomentativa. 

la 
prima 
tesi, che 
equipara, sotto il 
profilo dell’operatività 
dello ius 
prelationis, 
due 
fattispecie 
-quali 
la 
compravendita 
consensuale 
e 
la 
vendita 
coattiva 
-oggettivamente 
differenti 
sotto 
il 
profilo 
“morfologico 
e 
della 
funzione” 
(9), risulta, a 
parere 
della 
Scrivente, inconciliabile 
con il 
dato letterale 
dell’art. 
38 
della 
legge 
27 
luglio 
1978, 
n. 
392, 
anche 
prescindendo 
dal 
profilo della 
volontarietà 
dell’alienazione 
ricavabile 
dall’incipit 
della 
disposizione. 
Ed 
infatti, 
nel 
regolare 
il 
diritto 
di 
prelazione 
del 
conduttore, 
la 
norma 
menziona 
esplicitamente, al 
comma 
2, il 
solo contratto di 
“compravendita”, 
quale 
unico negozio tipico presupposto all'operatività 
dell’istituto. Coerentemente, 
nel 
prosieguo, la 
medesima 
disposizione 
si 
riferisce 
alla 
"stipulazione 
del 
contratto 
di 
compravendita 
o 
del 
contratto 
preliminare" 
(comma 
4) 
nonché 
al 
"prezzo 
di 
acquisto" 
(comma 
4) 
convenuto 
tra 
le 
parti. 
Il 
successivo 
articolo 
39, 
inoltre, 
contempla 
espressamente 
gli 
elementi 
del 
"corrispettivo 
[dell'] 
atto 
di 
trasferimento a titolo oneroso", l'ipotesi 
della 
"trascrizione 
del 
contratto", 
il 
"versamento 
del 
prezzo" 
e, 
da 
ultimo, 
la 
figura 
dell'"acquirente”. 
Detti 
indici 
testuali 
conducono a 
ritenere 
che 
l’espressa 
menzione 
dello schema 
contrattuale 
tipico 
della 
compravendita 
abbia 
natura 
escludente 
di 
altre 
e 
diverse 
forme 
di 
trasferimento del 
diritto di 
proprietà 
quali 
presupposto per l’operatività 
del 
diritto di 
prelazione 
che, in quanto auto-vincolo al 
diritto di 
disporre 
dei 
propri 
beni, deve 
essere 
interpretato, a 
parere 
della 
Scrivente, in senso letterale 
e restrittivo. 

(7) v., Cass. civ., 7 luglio 1999 n. 7056. 
(8) v., Cass. civ., 7 luglio 1999 n. 7056. 
(9) v., Cass. civ., 19 marzo 2004, n. 5601. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Anche 
la 
tesi 
dell’inconciliabilità 
“oggettiva” 
o 
“di 
sistema” 
non 
è 
esente 
da 
obiezioni. 
Come 
detto, 
l’orientamento 
si 
fonda 
su 
due 
sostanziali 
argomenti: 
il 
primo sull’inconciliabilità 
del 
carattere 
lato sensu 
coatto delle 
vendite 
concorsuali 
con il 
carattere 
liberamente 
dispositivo della 
cessione 
dell'immobile 
postulato dall’art. 38 della 
legge 
27 luglio 1978, n. 392, il 
secondo sulla 
ritenuta 
conflittualità 
tra 
l’interesse 
del 
titolare 
dello 
ius 
prelationis 
rispetto 
a 
quello dei 
creditori 
e 
sulla 
preminenza 
del 
secondo rispetto a 
quello del 
prelazionario. 


Il 
primo rilievo non è 
stato dalla 
giurisprudenza 
unanime 
condiviso. In 
proposito 
è 
stato 
notato 
che 
“Sembra 
agevole 
osservare 
che 
siffatta 
incompatibilità 
oggettiva 
è 
innanzitutto 
smentita 
dallo 
stesso 
legislatore, 
che 
un 
diritto 
di 
prelazione 
esercitabile 
proprio 
nelle 
procedure 
concorsuali 
ha 
attribuito 
alle 
"cooperative 
di 
dipendenti 
di 
imprese 
soggette 
a 
procedure 
concorsuali" 
con 
l'art. 
14 
della 
legge 
n. 
49/1985 
(provvedimenti 
per 
il 
credito 
e 
la 
cooperazione 
e 
misure 
urgenti 
a 
salvaguardia 
dei 
livelli 
di 
occupazione) 
nonché 
"all'imprenditore 
affittuario 
di 
aziende 
appartenenti 
ad 
imprese 
assoggettate 
alle 
procedure 
"concorsuali" 
indicate, 
con 
la 
legge 
n. 
223 
del 
1991 
(provvedimenti 
di 
legge 
entrambi 
successivi 
alla 
sentenza 
n. 
3298 
del 
1984 
cui 
le 
altre 
suindicate 
si 
sono 
richiamate). 
e 
a 
nulla 
varrebbe 
ricordare 
il 
carattere 
senza 
dubbio 
speciale 
delle 
suddette 
disposizioni 
di 
legge, 
dal 
momento 
che 
la 
specialità 
riguarda 
ed 
è 
riferibile 
certamente 
alle 
ipotesi 
di 
prelazione, 
mentre 
proprio 
il 
problema 
di 
coordinamento 
dell'esercizio 
della 
prelazione 
con 
le 
procedure 
di 
liquidazione 
dell'attivo 
fallimentare 
sembra 
dalle 
stesse 
disposizioni 
di 
legge 
tacitamente 
risolto 
nel 
senso 
della 
compatibilità. 
Per 
di 
più, 
proprio 
perché 
le 
disposizioni 
medesime 
hanno 
omesso 
di 
dettare 
una 
specifica 
disciplina 
delle 
modalità 
di 
esercizio 
del 
diritto 
di 
prelazione 
possono 
da 
tale 
silenzio 
del 
legislatore 
essere 
tratti 
argomenti 
di 
segno 
contrario 
a 
… 
[una] 
incompatibilità 
oggettiva 
e 
"di 
sistema" 
tra 
prelazione 
e 
vendita 
fallimentare” 
(10). 


Neppure 
immune 
da 
rilievi 
critici 
può 
dirsi, 
a 
parere 
della 
Scrivente, 
l’altro 
argomento 
a 
sostegno 
della 
tesi 
della 
“inconciliabilità 
assoluta” 
e 
secondo 
il 
quale 
sarebbe 
rinvenibile 
in 
un’ontologica 
conflittualità 
tra 
l’interesse 
privatistico 
del 
titolare 
dello 
ius 
prelationis 
e 
quello 
dei 
creditori 
alla 
liquidazione 
del 
patrimonio. 
In 
proposito, 
ritiene 
la 
Scrivente 
che, 
a 
ben 
guardare, 
appare 
difficilmente 
ravvisabile 
un 
conflitto 
tra 
le 
delineate 
posizioni 
poiché 
una 
situazione 
di 
conflitto 
con 
i 
creditori 
pecuniari 
può 
di 
fatto 
determinarsi 
solo 
allorché 
vengano 
sottratti 
al 
ceto 
creditorio 
diritti 
suscettibili 
di 
entrare 
a 
far 
parte 
della 
massa 
attiva 
e 
di 
essere, 
quindi, 
per 
effetto 
della 
liquidazione, 
loro 
attribuiti 
in 
misura 
proporzionale, 
ma 
la 
prelazione 
nulla 
sottrae 
alla 
massa 
attiva. 
l’istituto 
della 
prelazione, 
infatti, 
ha 
lo 
scopo 
di 
risolvere 
il 
conflitto 
tra 
il 
prelazionario 
ed 
il 
terzo 
aspirante 
acquirente 
nell’ambito 
della 
procedura 
di 
vendita 
senza 


(10) Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2004, n. 2576 (rv. 570034), in arch. Civ., 
2004, 1453. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


pregiudizio 
economico 
per 
il 
venditore 
e, 
quindi, 
nel 
caso 
di 
vendita 
concorsuale, 
per 
la 
massa 
dei 
creditori 
perché, 
per 
definizione, 
le 
condizioni 
alle 
quali 
il 
diritto 
finale 
è 
offerto 
devono 
essere 
identiche 
sia 
per 
i 
terzi 
che 
per 
il 
prelazionario 
essendo 
-in 
definitiva 
-indifferente 
per 
la 
procedura, 
interessata 
alla 
sola 
liquidazione, 
il 
soggetto 
tenuto 
a 
pagare 
il 
corrispettivo 
(11). 


5. Soluzione del quesito. 
Sulla 
scorta 
del 
quadro 
giurisprudenziale 
tracciato 
sembra 
evidente 
come 
il 
quesito posto dall’Ente 
in indirizzo non possa 
essere 
risolto operando un’ 
opzione 
“in astratto” 
o “di 
principio” 
tra 
l’indirizzo che 
equipara 
le 
modalità 
di 
esercizio del 
diritto di 
prelazione 
nelle 
alienazioni 
consensuali 
e 
negli 
atti 
traslativi 
coattivi 
e 
l’opposto 
orientamento 
che 
sostiene 
l’incompatibilità 
strutturale 
tra 
ius 
prelationis 
e 
vendita 
concorsuale 
poiché, 
in 
primo 
luogo, 
entrambe 
le 
tesi 
non 
risultano 
immuni 
da 
criticità 
sul 
piano 
logico 
e 
giuridico 
ed, 
in 
seconda 
battuta, 
perché 
l’adozione 
dell’uno 
o 
dell’altro 
orientamento 
pare 
comunque 
idonea 
ad esporre 
l’Ente 
ad un ineliminabile 
rischio di 
iniziative 
giudiziarie 
rispettivamente 
del 
terzo 
offerente 
pretermesso 
o 
del 
prelazionario 
non 
preferito. 
Per 
tali 
ragioni 
pare 
opportuno, 
come 
suggerito 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
intervenuta 
sul 
controverso tema 
in esame, adottare 
“una 
metodologia 
di 
indagine 
ermeneutica 
scevra 
da 
apriorismi” 
per 
“affrontare 
con il 
necessario spirito pragmatico” 
(12) il 
problema 
giuridico 
posto dal quesito formulato. 


Ebbene, nel 
caso in esame 
pare 
fuor di 
dubbio che 
la 
vendita 
competitiva 
nell’ambito 
della 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
dell’Ente 
in 
indirizzo sia 
da 
considerarsi, sotto il 
profilo della 
struttura 
e 
degli 
effetti, una 
vendita 
coattiva 
in 
quanto 
a) 
gestita 
dagli 
organi 
della 
liquidazione 
sostituitisi 
ex 
lege 
al 
debitore-proprietario privato del 
potere 
di 
disporre 
dei 
beni; 
b) 
indipendente 
dalla 
volontà 
del 
debitore 
sotto 
il 
profilo 
dell’an 
perché 
decisa 
dagli 
organi 
della 
procedura 
e 
perché 
subordinata 
all’autorizzazione 
del 
ministero 
vigilante; 
c) 
indipendente 
dalla 
volontà 
del 
debitore 
sotto 
il 
profilo 
degli 
effetti 
in quanto soggetta 
a 
procedura 
competitiva 
per l’individuazione 
dell’aggiudicatario ed espletata 
nell’interesse 
del 
ceto creditorio. l’assunto è 
confermato, 
sul 
piano 
normativo, 
dal 
tenore 
dell’art. 
4, 
comma 
1, 
lettera 
c) 


(11) 
Dello 
stesso 
avviso 
si 
v., 
Tribunale 
di 
Bolzano, 
Uff. 
Fall., 
ordinanza 
9 
maggio 
2018: 
“ad 
opinione 
di 
questo 
tribunale, 
la 
prelazione 
non 
parrebbe 
essere, 
in 
linea 
di 
principio, 
incompatibile 
con il 
sistema delle 
vendite 
coattive, posto che 
si 
sostanzia in un diritto che 
il 
prelazionario eserciterà 
a parità di 
condizioni 
rispetto agli 
offerenti 
in competizione. tale 
meccanismo salvaguarderebbe 
certamente 
il 
prelazionario, ma ciò comunque 
nel 
pieno rispetto del 
meccanismo pubblicistico della vendita 
competitiva 
in 
una 
procedura 
concorsuale, 
che 
non 
pregiudica 
affatto 
l’opportunità 
di 
liquidare 
nel 
migliore 
dei 
modi 
il 
patrimonio fallimentare 
o concordatario, né 
attribuirebbe 
ingiustificati 
vantaggi 
al 
prelazionario in luogo di 
terzi 
o a terzi 
in luogo del 
prelazionario, né, infine, comprometterebbe 
il 
principio 
della par condicio creditorum”. 
(12) v., Cass. civ., 29 marzo 2012, n. 5069. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


del 
D.lgs. 28 settembre 
2012, n. 178 che 
individua 
nella 
dismissione 
del 
patrimonio 
immobiliare 
dell’Ente 
in indirizzo un preciso obbligo del 
Commissario 
liquidatore (13). 


la 
vendita 
in esame, tuttavia, non è 
solo qualificabile 
come 
una 
vendita 
lato sensu 
forzata 
posta 
in essere 
nell’interesse 
del 
ceto creditorio, ma 
-più 
precisamente 
-come 
una 
vendita 
coattiva 
preordinata 
dalla 
legge, 
ancor 
prima 
che 
dalla 
lex 
specialis 
e 
dal 
disciplinare 
d’asta 
che 
ne 
regolano le 
fasi, al 
perseguimento 
di 
interessi 
di 
rango 
pubblicistico 
direttamente 
assegnati 
dal 
D.lgs. 28 settembre 2012, n. 178. 


Con maggior impegno esplicativo, se 
in linea 
generale, è 
stato sostenuto 
che 
“per 
le 
procedure 
di 
vendita nell'ambito della liquidazione 
coatta amministrativa, 
dall'art. 210, comma 1, della legge 
fallimentare 
dettata dal 
r.d. n. 
267 del 
1942 emerge 
come 
l'azione 
dei 
commissari 
sia finalizzata al 
soddisfacimento 
più 
pieno 
delle 
ragioni 
dei 
creditori 
e, 
dunque, 
unicamente 
alla 
realizzazione 
dell'interesse 
di 
una 
schiera 
circoscritta 
di 
soggetti” 
(14), 
la 
peculiarità 
della 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
cui 
è 
sottoposto 
l’Ente 
in indirizzo in base 
alle 
disposizioni 
del 
D.lgs. 28 settembre 
2012, n. 
178 risiede 
nella 
circostanza 
per cui 
gli 
organi 
alla 
stessa 
preposti 
non perseguono 
unicamente 
finalità 
di 
smobilitazione 
coattiva 
del 
patrimonio del 
debitore 
nell'interesse 
esclusivo 
e 
specifico 
dei 
creditori, 
ma 
finalizzano 
la 
propria 
attività 
anche, 
e 
soprattutto, 
alla 
realizzazione 
di 
interessi 
di 
tipo 
pubblicistico 
direttamente indicati dal legislatore. 


Ed infatti, come 
emerge, inter 
alia, dall’art. 2 del 
D.lgs. 28 settembre 


(13) 
Art. 
4, 
comma 
1, 
lettera 
c) 
del 
D.lgs. 
28 
settembre 
2012, 
n. 
178 
“il 
Commissario 
e 
successivamente 
il 
Presidente 
nazionale 
(…) 
dismettono, 
nella 
fase 
transitoria 
e 
in 
deroga 
alla 
normativa 
vigente 
in 
materia 
economico-finanziaria 
e 
di 
contabilità 
degli 
enti 
pubblici 
non 
economici, 
nei 
limiti 
del 
debito 
accertato 
anche 
a 
carico 
dei 
bilanci 
dei 
singoli 
comitati 
e 
con 
riferimento 
ai 
conti 
consuntivi 
consolidati 
e 
alle 
esigenze 
di 
bilancio 
di 
previsione 
a 
decorrere 
dall'anno 
2013, 
gli 
immobili 
pervenuti 
alla 
Cri, 
a 
condizione 
che 
non 
provengano 
da 
negozi 
giuridici 
modali 
e 
che 
non 
siano 
necessari 
al 
perseguimento 
dei 
fini 
statutari 
e 
allo 
svolgimento 
dei 
compiti 
istituzionali 
e 
di 
interesse 
pubblico 
dell'associazione”. 
(14) Più in particolare 
nella 
sentenza 
T.A.R. lazio Roma 
Sez. II bis, 31 gennaio 2018, n. 1127 si 
afferma: 
“da quanto previsto, in linea generale, per 
le 
procedure 
di 
vendita nell'ambito della liquidazione 
coatta amministrativa, dall'art. 210, comma 1, della legge 
fallimentare 
dettata dal 
r.d. n. 267 
del 
1942 -ai 
sensi 
del 
quale 
"il 
commissario ha tutti 
i 
poteri 
necessari 
per 
la liquidazione 
dell'attivo, 
salve 
le 
limitazioni 
stabilite 
dall'autorità che 
vigila sulla liquidazione" 
emerge 
come 
l'azione 
dei 
commissari 
sia finalizzata al 
soddisfacimento più pieno delle 
ragioni 
dei 
creditori 
(e, ove 
residui 
un attivo 
finale, 
degli 
azionisti) 
e, 
dunque, 
unicamente 
alla 
realizzazione 
dell'interesse 
di 
una 
specifica 
categoria 
di 
soggetti, la cui 
tutela costituisce 
la ratio della disciplina e 
lo scopo che 
permea tutte 
le 
operazioni 
di 
liquidazione. 
tale 
interesse, 
che, 
come 
detto, 
appartiene 
ad 
una 
schiera 
circoscritta 
di 
soggetti, 
non 
appare 
configurare, 
se 
non 
a 
costo 
di 
una 
forzatura, 
un 
"interesse 
pubblico" 
propriamente 
inteso, 
né 
poter 
tantomeno 
fondare 
una 
qualificazione 
in 
senso 
pubblicistico 
dei 
commissari 
liquidatori 
incaricati 
di 
perseguirlo. 
né 
tale 
attività, 
in 
quanto 
svolta 
-coerentemente 
con 
la 
finalizzazione 
della 
stessa 
alla 
tutela dei 
creditori 
-mediante 
operazioni 
aventi 
la forma di 
negozi 
giuridici 
privatistici 
volti 
al 
perseguimento 
del 
miglior 
realizzo 
dell'attivo, 
unitamente 
alla 
fisionomia 
impressa 
all'organo 
liquidatore 
dalla 
normativa 
di 
riferimento, 
può 
essere 
ritenuta 
di 
natura 
pubblicistica, 
non 
costituendo 
espressione 
di poteri pubblicistici in senso proprio e non presentando profili di discrezionalità in senso tecnico”. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


2012, n. 178 l’interesse 
tutelato dalla 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
dell’Esacri, 
prima 
ancora 
che 
interesse 
della 
classe 
creditoria, 
è 
l'interesse 
pubblico 
legato 
alla 
necessità 
di 
garantire 
continuità 
e 
“concorrere 
temporaneamente 
allo 
sviluppo” 
dell’Associazione 
della 
Croce 
Rossa 
italiana. 

Ne 
consegue, 
per 
quel 
che 
in 
questa 
sede 
interessa, 
il 
logico 
corollario 
per cui 
gli 
organi 
della 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
cui 
è 
sottoposto 
Esacri 
non 
sono 
chiamati 
a 
tutelare 
esclusivamente 
gli 
interessi 
dei 
creditori 
che, in sè 
considerati, non possono essere 
ritenuti 
-per le 
ragioni 
innanzi 
esposte 
-antagonisti 
rispetto a 
quelli 
del 
prelazionario, ma 
debbono -in 
un’ottica 
pubblicistica 
-garantire 
“il 
buon 
andamento 
dell'incanto” 
salvaguardando, 
pertanto, anche 
l’interesse 
partecipativo degli 
offerenti 
(questi 
sì 
in potenziale 
contrasto con la 
posizione 
del 
prelazionario) e 
preservando, pertanto, 
lo svolgimento della 
procedura 
di 
vendita 
“dall'intervento del 
conduttore 
(che 
intanto 
aveva 
ritenuto 
opportuno 
astenersi 
dal 
concorrere) 
che 
costituisce 
un 
condizionamento 
capace 
di 
turbare 
lo 
svolgimento 
degli 
incanti 
e 
perciò assolutamente 
incompatibile 
con il 
relativo sistema di 
vendita" 
(15). 


In 
definitiva, 
la 
Scrivente 
ritiene 
che 
la 
rilevanza 
ascritta 
agli 
interessi 
pubblicistici 
da 
perseguire 
nella 
procedura 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa 
dell’Ente 
in indirizzo consente 
di 
trarre, in assenza 
di 
un chiaro dato normativo, 
la 
conclusione 
per cui 
se 
vi 
è 
una 
casistica 
di 
inoperatività 
del 
diritto 
di 
prelazione 
nel 
caso 
di 
vendite 
lato 
sensu 
forzose 
(16), 
in 
detta 
casistica 
debbano 
ritenersi 
rientrare 
le 
alienazioni 
disposte 
nell’ambito di 
procedure 
di 
liquidazione 
coatta 
amministrativa, 
come 
quella 
in 
esame, 
poiché 
non 
solo 
vendite 
coattive, 
in 
quanto 
indipendenti 
nell’an 
e 
negli 
effetti 
dalla 
volontà 
del 
debitore, 
ma 
anche 
perché 
funzionalizzate 
dal 
legislatore 
al 
perseguimento 
di 
interessi 
pubblici 
la 
cui 
realizzazione 
giustifica 
il 
sacrificio dell’interesse 
privatistico sotteso all’esercizio del diritto di prelazione (17). 

(15) Cass. civ., 30 maggio 1984, n. 3298. 
(16) 
l’operatività 
del 
diritto 
di 
prelazione 
è 
stata 
esclusa, 
sulla 
scorta 
della 
natura 
coattiva 
del 
trasferimento 
in 
caso 
di 
a) 
concordato 
preventivo 
con 
cessione 
dei 
beni 
ai 
creditori, 
sulla 
base 
di 
analoghe 
considerazioni 
(Cass. 
Civ. 
S.U. 
27 
luglio 
2004 
n. 
14083; 
Cass. 
6 
aprile 
1990, 
n. 
2900; 
Cass. 
14 
gennaio 
1994, 
n. 
339); 
b) 
vendita 
forzata 
in 
sede 
di 
esecuzione 
per 
espropriazione 
(Cass. 
16 
dicembre 
1996, 
n. 
11225); 
c) 
vendita 
all’asta 
in 
sede 
di 
divisione 
giudiziale 
(Cass. 
18 
settembre 
1991, 
n. 
9748); 
d) 
di 
vendita 
di 
quote 
societarie 
(Cass. 
21 
marzo 
2001, 
n. 
4020); 
e) 
assegnazione 
dei 
beni 
al 
socio 
per 
recesso 
o 
liquidazione 
(Cass. 
24 
ottobre 
1983, 
n. 
6256); 
f) 
conferimento 
dell’immobile 
in 
società 
(Cass. 
21 
luglio 
2000, 
n. 
9592); 
g) 
di 
permuta 
(Cass. 
30 
luglio 
2007, 
n. 
16853; 
Cass. 
22 
giugno 
2006, 
n. 
14455). 
Casisitica 
riportata 
in 
DI 
mARzIo 
Prelazione 
e 
riscatto 
di 
immobili 
urbani 
in 
immobili 
e 
proprietà, 
2011, 
8. 
(17) 
la 
natura 
privatistica 
dell’interesse 
del 
titolare 
del 
diritto 
di 
prelazione 
non 
sembra 
smentita, 
ma 
valorizzata 
dal 
passaggio della 
già 
citata 
sentenza 
Cass. civ. Sez. III, 29 marzo 2012, n. 5069 nella 
parte 
in cui 
si 
afferma: 
“l’interesse 
del 
conduttore 
ad acquisire 
la proprietà delle 
mura ove 
svolge 
la 
sua attività, ha sì 
natura privatistica, ma è 
di 
rilievo generale, rientrando certamente 
tra i 
fini 
dell’ordinamento 
il 
consolidamento 
e 
l’espansione 
dell’apparato 
produttivo 
del 
Paese”. 
Come 
rilevato 
in 
dottrina, 
infatti, 
"non 
necessariamente 
tratto 
distintivo 
dell'interesse 
pubblico 
è 
la 
generalità 
e 
tratto 
distintivo di 
quello privato è 
la particolarità" 
v., S. CASSESE 
imparzialità amministrativa e 
sindacato 
giurisdizionale, in riv. it. sc. giur., 1968, p. 98. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Alla 
stregua 
delle 
considerazioni 
esposte 
si 
conclude 
per l’inoperatività 
nel 
caso in esame 
del 
diritto di 
prelazione, conformemente 
alla 
tesi 
avallata 
dalla 
giurisprudenza 
maggioritaria, quanto meno di 
legittimità, e 
tenendo altresì 
conto 
del 
fatto 
che, 
sul 
piano 
pratico, 
la 
proposta 
lettura 
pone 
codesto 
Ente 
maggiormente 
al 
riparo da 
esiti 
giudiziari 
infausti 
poiché 
-in definitiva 


-più coerente 
con il 
primo e 
principale 
criterio interpretativo dei 
testi 
normativi 
rappresentato 
dal 
tenore 
letterale 
e 
dal 
senso 
delle 
parole 
e 
delle 
espressioni 
impiegate 
dal 
legislatore 
(18) 
nella 
disciplina 
di 
un 
istituto 
non 
potendosi 
negare 
che - con l’impiego della forma verbale “intenda” di cui all’art. 38 della 
legge 
27 
luglio 
1978, 
n. 
392 
-il 
legislatore 
abbia 
ritenuto 
comunque 
“non 
neutro” 
l’atteggiarsi 
dello 
stato 
psicologico 
dell’alienante 
richiedendo 
il 
compimento 
di 
un atto di 
libera 
determinazione 
negoziale 
la 
cui 
ricorrenza 
è 
nel, 
caso in esame, invece 
testualmente 
escluso dalla 
lettera 
del 
richiamato art. 4, 
comma 1, lettera c) del D.lgs. 28 settembre 2012, n. 178. 
In un’ottica 
preventiva 
del 
contenzioso si 
suggerisce, infine, di 
operare 
le 
conseguenti 
modifiche 
del 
testo 
del 
disciplinare 
d’asta 
nella 
parte 
in 
cui 
prevede 
che 
le 
unità 
immobiliari 
locate 
oggetto della 
procedura 
siano offerte 
in 
prelazione 
ai 
conduttori 
entro dieci 
giorni 
lavorativi 
dalla 
data 
dell’aggiudicazione 
provvisoria 
e 
che 
l'aggiudicazione 
definitiva 
del 
bene 
sia 
condizionata 
al mancato esercizio del diritto di prelazione. 

Trattandosi 
di 
questione 
di 
massima 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
consultivo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
che 
si 
è 
espresso 
in 
conformità 
nella 
seduta 
del 
10 giugno 2020. 


(18) Art. 12 disp. prel. c.c. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Codice dei contratti pubblici, normativa in tema 

di conflitto di interessi e procedure di aggiudicazione 


(il progettista e l’appaltatore esecutore dei lavori) 


Parere 
del 
26/07/2020-382382, al 23502/2020, 

v.a.g. vinCenzo 
nUnziata, ProC. andrea 
liPari 
Con 
la 
nota 
in 
epigrafe, 
codesta 
Amministrazione 
ha 
chiesto 
a 
questa 
Avvocatura 
un parere 
in merito ad una 
situazione 
di 
possibile 
incompatibilità 
rilevata 
nell'ambito della procedura di gara in oggetto. 


In particolare, codesto Provveditorato ha 
rappresentato di 
aver avuto notizia 
della 
sussistenza 
di 
un rapporto di 
coniugio tra 
uno dei 
soci 
di 
una 
delle 
Società 
concorrenti 
alla 
gara 
(omissis) ed il 
professionista 
incaricato della 
redazione 
del progetto posto a base di appalto, arch. (omissis). 


Infatti, 
a 
seguito 
di 
approfondimenti 
da 
parte 
dell'Ufficio 
Amministrativo 
competente, sarebbe 
emerso che 
la 
sig.ra 
(omissis), moglie 
del 
professionista 
incaricato, è 
socia 
dell'omonima 
Società 
che 
ha 
presentato offerta 
nella 
procedura 
in oggetto. Non sarebbe 
stato peraltro possibile 
accertare 
i 
rapporti 
di 
convivenza 
tra 
la 
Sig.ra 
(omissis) 
e 
il 
progettista, 
in 
quanto 
tale 
verifica 
sarebbe 
afferente 
ad una 
fase 
successiva 
dell'attuale 
procedura 
di 
gara, in sede 
di 
informativa 
ex d.lgs. 159/2011, qualora 
la 
Società 
in questione 
risultasse 
aggiudicataria 
dei lavori in oggetto. 


Ha 
evidenziato 
codesto 
Provveditorato 
che 
la 
questione 
assume 
rilevanza 
in ragione 
dell'obbligo di 
vigilanza 
posto in capo alla 
stazione 
appaltante 
già 
dalla 
fase 
di 
aggiudicazione, 
imposto 
dall'art. 
42 
del 
d.lgs 
50/2016 
e 
ss.mm.ii., 
per prevenire eventuali situazioni di conflitto. 


Infine, codesta 
Amministrazione 
ritiene 
che 
sia 
necessario un approfondimento 
sulle 
motivazioni 
di 
un 
eventuale 
provvedimento 
di 
esclusione 
del 
concorrente, in quanto la 
fattispecie 
sopra 
descritta 
non sembrerebbe 
trovare 
un 
pronto 
e 
univoco 
riferimento 
nelle 
disposizioni 
dell'art. 
24 
comma 
7 
del 
d.lgs. 50/2016 e ss.mm.ii. 


Pertanto, 
è 
stato 
richiesto 
il 
parere 
della 
Scrivente, 
allo 
scopo 
di 
consentire 
il 
tempestivo svolgimento della 
procedura 
di 
gara 
di 
che 
trattasi 
nel 
pieno rispetto 
delle disposizioni normative. 


*** 


Al 
fine 
di 
rendere 
il 
parere 
richiesto, occorre 
anzitutto richiamare 
la 
normativa 
in tema di conflitto di interessi. 


È 
bene 
precisare 
che 
le 
disposizioni 
che 
di 
seguito si 
riportano risultano 
in 
linea 
di 
principio 
applicabili 
anche 
ai 
casi 
di 
appalti 
sotto 
soglia 
(come 
quello di 
cui 
si 
discute, il 
cui 
importo a 
base 
d'asta 
-secondo quanto comunicato 
per 
vie 
brevi 
da 
codesta 
Amministrazione 
-risulta 
pari 
a 
535.162,46 
euro). 


A 
tale 
conclusione 
si 
perviene, 
in 
particolare, 
analizzando 
il 
contenuto 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


dell'art. 36 del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
(Contratti 
sotto soglia), in forza 
del 
quale 
l'affidamento e 
l'esecuzione 
di 
lavori, servizi 
e 
forniture 
di 
importo 
inferiore 
alle 
soglie 
di 
rilevanza 
comunitaria 
avvengono nel 
rispetto dei 
principi 
di 
cui 
all'art. 30, comma 
1 (che 
richiama, tra 
l'altro, i 
principi 
di 
correttezza, 
libera 
concorrenza 
e 
non 
discriminazione) 
e 
all'art. 
42 
(recante 
la 
disciplina generale sul conflitto di interessi). 


viene 
in primo luogo in rilievo l'art. 24, co. 7, del 
d.lgs. n. 50 del 
2016, 
che 
individua 
le 
ipotesi 
di 
incompatibilità 
dei 
progettisti, ricalcando la 
formulazione 
dell'art. 90, comma 
8 e 
8 bis, del 
d.lgs. n. 163 del 
2006, e 
stabilendo 
che 
gli 
affidatari 
di 
incarichi 
di 
progettazione 
per progetti 
posti 
a 
base 
di 
gara 
non possono essere 
affidatari 
degli 
appalti 
o delle 
concessioni 
di 
lavori 
pubblici, 
nonché 
degli 
eventuali 
subappalti 
o cottimi, per i 
quali 
abbiano svolto 
la 
suddetta 
attività 
di 
progettazione. la 
norma 
estende 
il 
divieto ai 
dipendenti 
dell'affidatario dell'incarico di 
progettazione 
o di 
attività 
di 
supporto, ai 
suoi 
collaboratori 
e 
ai 
loro 
dipendenti; 
prevede, 
invece, 
l'inapplicabilità 
del 
divieto 
"laddove 
i 
soggetti 
ivi 
indicati 
dimostrino 
che 
l'esperienza 
acquisita 
nell'espletamento 
degli 
incarichi 
di 
progettazione 
non 
è 
tale 
da 
determinare 
un 
vantaggio 
che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori". 


Come 
sopra 
accennato, l'art. 42, d.lgs. n. 50/2016 disciplina, in generale, 
l'istituto 
del 
conflitto 
di 
interessi, 
disponendo 
quanto 
segue: 
«1. 
le 
stazioni 
appaltanti 
prevedono 
misure 
adeguate 
per 
contrastare 
le 
frodi 
e 
la 
corruzione 
nonché 
per 
individuare, prevenire 
e 
risolvere 
in modo efficace 
ogni 
ipotesi 
di 
conflitto 
di 
interesse 
nello 
svolgimento 
delle 
procedure 
di 
aggiudicazione 
degli 
appalti 
e 
delle 
concessioni, 
in 
modo 
da 
evitare 
qualsiasi 
distorsione 
della 
concorrenza 
e garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici. 


2. 
Si 
ha conflitto d'interesse 
quando il 
personale 
di 
una stazione 
appaltante 
o di 
un prestatore 
di 
servizi 
che, anche 
per 
conto della stazione 
appaltante, 
interviene 
nello 
svolgimento 
della 
procedura 
di 
aggiudicazione 
degli 
appalti 
e 
delle 
concessioni 
o può influenzarne, in qualsiasi 
modo, il 
risultato, 
ha, direttamente 
o indirettamente, un interesse 
finanziario, economico o altro 
interesse 
personale 
che 
può essere 
percepito come 
una minaccia alla sua imparzialità 
e 
indipendenza 
nel 
contesto 
della 
procedura 
di 
appalto 
o 
di 
concessione. 
in 
particolare, 
costituiscono 
situazione 
di 
conflitto 
di 
interesse 
quelle 
che 
determinano 
l'obbligo 
di 
astensione 
previste 
dall'articolo 
7 
del 
decreto 
del Presidente della repubblica 16 aprile 2013, n. 62. 
3. 
il 
personale 
che 
versa nelle 
ipotesi 
di 
cui 
al 
comma 2 è 
tenuto a darne 
comunicazione 
alla 
stazione 
appaltante, 
ad 
astenersi 
dal 
partecipare 
alla 
procedura 
di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni ... 
4. 
le 
disposizioni 
dei 
commi 
1, 2 e 
3 valgono anche 
per 
la fase 
di 
esecuzione 
dei contratti pubblici. 
5. 
la 
stazione 
appaltante 
vigila 
affinché 
gli 
adempimenti 
di 
cui 
ai 
commi 
3 e 4 siano rispettati». 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


la 
norma 
recepisce 
gli 
artt. 24 della 
direttiva 
2014/24/UE, 42 della 
direttiva 
2014/25/UE 
e 
35 
della 
direttiva 
2014/23/UE, 
espressione 
della 
volontà 
di 
creare 
meccanismi 
di 
prevenzione 
dei 
fenomeni 
corruttivi 
anche 
mediante 
l'individuazione 
e 
la 
regolazione 
delle 
situazioni 
di 
conflitto di 
interessi 
(cfr. 
Corte giust. UE, 12 marzo 2015, C-538/131). 


Il 
secondo comma 
dell'art. 42 perimetra 
il 
conflitto di 
interessi 
rilevante, 
statuendo che 
la 
fattispecie 
si 
concretizza 
quando il 
personale 
di 
una 
stazione 
appaltante 
che 
possa 
influenzare, in qualsiasi 
modo, il 
risultato di 
un'aggiudicazione, 
"ha, direttamente 
o indirettamente, un interesse 
finanziario, economico 
o altro interesse 
personale 
che 
può essere 
percepito come 
una minaccia 
alla sua imparzialità e 
indipendenza nel 
contesto della procedura di 
appalto 


o di concessione". 
A 
sua 
volta, l'art. 7, D.P.R. n. 62/2013, richiamato dall'art. 42 del 
Codice, 
esige 
l'astensione 
del 
dipendente 
pubblico 
«dal 
partecipare 
all'adozione 
di 
decisioni 
o ad attività che 
possano coinvolgere 
interessi 
propri, ovvero di 
suoi 
parenti, affini 
entro il 
secondo grado, del 
coniuge 
o di 
conviventi, oppure 
di 
persone 
con 
le 
quali 
abbia 
rapporti 
di 
frequentazione 
abituale, 
ovvero, 
di 
soggetti 
od 
organizzazioni 
con 
cui 
egli 
o 
il 
coniuge 
abbia 
causa 
pendente 
o 
grave 
inimicizia o rapporti 
di 
credito o debito significativi, ovvero di 
soggetti 
od organizzazioni 
di 
cui 
sia tutore, curatore, procuratore 
o agente, ovvero di 
enti, 
associazioni 
anche 
non 
riconosciute, 
comitati, 
società 
o 
stabilimenti 
di 
cui 
sia 
amministratore 
o 
gerente 
o 
dirigente. 
il 
dipendente 
si 
astiene 
in 
ogni 
altro 
caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza». 


Infine, l'art. 80, co. 5 del 
D.lgs. 50/2016 regola 
le 
conseguenze 
della 
sussistenza 
del 
conflitto di 
interessi 
così 
declinato, stabilendo che: 
«le 
stazioni 
appaltanti 
escludono dalla partecipazione 
alla procedura d'appalto un operatore 
economico in una delle 
seguenti 
situazioni, anche 
riferita a un suo subappaltatore 
nei 
casi 
di 
cui 
all'articolo 
105, 
comma 
6, 
qualora: 
... 
d) 
la 
partecipazione 
dell'operatore 
economico 
determini 
una 
situazione 
di 
conflitto 
di 
interesse 
ai 
sensi 
dell'articolo 
42, 
comma 
2, 
non 
diversamente 
risolvibile...». 


*** 


Tanto 
premesso, 
si 
tratta 
di 
verificare 
se 
nel 
caso 
di 
specie 
si 
configuri 
una 
situazione 
di 
conflitto di 
interessi 
rilevante 
ai 
fini 
della 
normativa 
richiamata, 
atteso che, come 
rilevato da 
codesta 
Amministrazione, la 
fattispecie 
descritta 
nella 
richiesta 
di 
parere 
"non 
sembra 
trovare 
un 
pronto 
e 
univoco 
riferimento 
nelle 
disposizioni 
dell'art. 
24 
comma 
7 
del 
d.lgs. 
50/2016 
e 
ss.mm.ii.". 


la 
Scrivente 
reputa 
che 
la 
fattispecie 
descritta 
ricada 
nelle 
ipotesi 
di 
conflitto 
di 
interessi 
contemplate 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
alla 
stregua 
delle considerazioni che seguono. 


In 
primo 
luogo, 
occorre 
tenere 
a 
mente 
la 
giurisprudenza 
sviluppatasi 
con 
riferimento alle 
previsioni 
dell'art. 90, co. 8 e 
8 bis, del 
d.lgs. n. 163 del 
2006, 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


corrispondenti 
a 
quelle 
del 
richiamato art. 24, co. 7, del 
d.lgs. n. 50 del 
2016. 


Invero, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
affermato, 
tra 
l'altro, 
che 
la 
disciplina 
sulle 
incompatibilità 
degli 
affidatari 
di 
incarichi 
di 
progettazione 
per progetti 
posti 
a 
base 
di 
gara 
è 
espressione 
di 
un principio generale 
in forza 
del 
quale 
ai 
concorrenti 
ad una 
procedura 
di 
scelta 
del 
contraente 
da 
parte 
della 
Pubblica 
Amministrazione 
deve 
essere 
riconosciuta 
una 
posizione 
omogenea, 
di 
per 
sé 
implicante la più rigorosa parità di trattamento. 


In 
particolare, 
nelle 
ipotesi 
di 
svolgimento 
di 
pregressi 
affidamenti 
presso 
la 
stessa 
stazione 
appaltante 
occorre 
verificare 
se 
tale 
situazione 
possa 
aver 
creato, per taluno dei 
concorrenti 
stessi, degli 
speciali 
vantaggi 
incompatibili 
con i 
principi 
di 
libera 
concorrenza 
e 
di 
parità 
di 
trattamento (Cons. Stato, Iv, 
23 aprile 2012, n. 2402). 


Per quanto qui 
specificamente 
rileva, è 
stato altresì 
precisato che 
la 
ratio 
del 
previgente 
art. 90, comma 
8 va 
individuata 
nell'esigenza 
di 
garantire 
che 
il 
progettista, 
potendo 
svolgere 
una 
funzione 
sostanziale 
di 
ausilio 
alla 
P.A. 
nella 
verifica 
di 
conformità 
tra 
il 
progetto e 
i 
lavori 
realizzati, si 
collochi 
in 
posizione di imparzialità rispetto all'appaltatore esecutore dei lavori. 


Se 
le 
posizioni 
di 
progettista 
e 
di 
appaltatore 
-esecutore 
dei 
lavori 
coincidessero 
(ma 
il 
ragionamento può essere 
applicato anche 
in caso di 
convergenza 
di 
interessi), 
vi 
sarebbe 
il 
rischio 
di 
vedere 
attenuata 
la 
valenza 
pubblicistica 
della 
progettazione, con la 
possibilità 
di 
elaborare 
un "progetto 
su misura" 
per una 
impresa 
alla 
quale 
l'autore 
della 
progettazione 
sia 
legato, 
così 
agevolando 
tale 
impresa 
nell'aggiudicazione 
dell'appalto 
(cfr. 
Cons. 
Stato, 
v, 21 giugno 2012, n. 3656; id., 2 dicembre 2015, n. 5454). 


Da 
un 
diverso 
angolo 
prospettico, 
si 
può 
osservare 
come 
la 
disciplina 
delineata 
dal 
vecchio art. 90, co. 8, e 
oggi 
riprodotta 
dall'art. 24 cit., sia 
rivolta 
ad impedire, in un'ottica 
pro-concorrenziale, che 
un partecipante 
alla 
gara 
si 
possa 
avvalere 
del 
supporto di 
conoscenza 
e 
di 
informazioni 
del 
progettista, 
sì 
da 
presentare 
un'offerta 
tecnica 
pienamente 
rispondente 
alle 
esigenze 
del-
l'Amministrazione appaltante. 


Tanto potrebbe 
accadere 
nel 
caso di 
specie, considerato che 
il 
rapporto 
di 
coniugio tra 
il 
progettista 
e 
una 
socia 
della 
società 
partecipante 
induce 
a 
ritenere 
esistente 
il 
pericolo 
che 
la 
società 
possa 
giovarsi 
delle 
informazioni 
rese 
dal progettista. 


occorre 
poi 
analizzare 
l'art. 42, d.lgs. n. 50/2016, che 
disciplina 
in generale 
le ipotesi di conflitto di interessi. 


la 
norma 
ha 
carattere 
integrativo e 
rafforzativo delle 
altre 
disposizioni 
del 
Codice 
finalizzate 
a 
prevenire 
conflitti 
di 
interesse 
relativamente 
a 
specifiche 
attività 
(quale 
l'art. 
24, 
co. 
7 
per 
gli 
incarichi 
di 
progettazione). 
Pertanto, 
essa pare pienamente applicabile al caso di specie. 


D'altro canto, l'art. 42 regola 
il 
fenomeno del 
conflitto da 
una 
diversa 
angolazione 
rispetto 
all'art. 
24, 
co. 
7: 
quest'ultima 
disposizione 
guarda 
essen



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


zialmente 
alla 
figura 
del 
progettista, 
individuando 
le 
ipotesi 
di 
incompatibilità 
dello 
stesso; 
la 
norma 
generale 
sul 
conflitto 
di 
interessi 
è 
invece 
volta 
ad 
orientare 
i 
comportamenti 
delle 
stazioni 
appaltanti 
nello svolgimento delle 
procedure 
di 
aggiudicazione 
degli 
appalti 
e 
delle 
concessioni, in modo da 
evitare 
distorsioni 
della 
concorrenza 
e 
assicurare 
la 
parità 
di 
trattamento di 
tutti 
gli 
operatori economici. 


l'art. 
42 
deve 
essere 
letto 
tenendo 
a 
mente 
il 
riferimento 
del 
co. 
2 
al 
"prestatore 
di 
servizi", 
che 
recepisce 
le 
previsioni 
delle 
direttive 
europee. 
Ad 
esempio, 
l'art. 
24 
della 
Dir. 
2014/24/UE 
dispone 
che: 
"il 
concetto 
di 
conflitti 
di 
interesse 
copre 
almeno i 
casi 
in cui 
il 
personale 
di 
un'amministrazione 
aggiudicatrice 
o di 
un prestatore 
di 
servizi 
che 
per 
conto dell'amministrazione 
aggiudicatrice 
interviene 
nello svolgimento della procedura di 
aggiudicazione 
degli 
appalti 
o può influenzare 
il 
risultato di 
tale 
procedura ha, direttamente 


o indirettamente, un interesse 
finanziario, economico o altro interesse 
personale 
che 
può essere 
percepito come 
una minaccia alla sua imparzialità e 
indipendenza 
nel contesto della procedura di appalto". 
Stante 
la 
formulazione 
della 
norma, 
nella 
previsione 
dell'art. 
42, 
co. 
2 
parrebbe 
dunque 
rientrare 
il 
caso del 
progettista 
esterno incaricato dalla 
stazione 
appaltante 
della 
redazione 
del 
progetto 
posto 
a 
base 
di 
gara 
il 
quale 
per 
le 
più varie 
ragioni 
-abbia 
un interesse 
personale 
all'aggiudicazione 
in favore 
di 
un 
determinato 
operatore 
economico 
e 
sia 
in 
grado 
di 
condizionare 
tale 
aggiudicazione 
(in tal 
senso Consiglio di 
Stato, sentenza 
n. 2853 del 
14 
maggio 2018). 


Né 
sembrerebbe 
rilevare 
il 
mancato intervento del 
soggetto esterno nella 
procedura 
di 
aggiudicazione. Invero, l'art. 42, co. 2, contempla 
l'ipotesi 
in cui 
esso 
abbia 
la 
possibilità 
di 
"influenzarne, 
in 
qualsiasi 
modo, 
il 
risultato": 
l'ampia 
portata 
della 
norma 
induce 
a 
ritenere 
che 
nel 
suo ambito di 
applicazione 
siano 
ricompresi 
tutti 
coloro 
che, 
con 
qualsiasi 
modalità, 
siano 
in 
grado 
di 
condizionare 
l'esito della procedura. 


Quanto 
all'interesse 
rilevante 
per 
l'insorgenza 
del 
conflitto, 
l'art. 
42 
viene 
definito 
una 
norma 
di 
pericolo 
(Cons. 
Stato, 
Sez. 
III, 
14 
gennaio 
2019, 
n. 
355), 
nel 
senso che 
essa 
e 
le 
misure 
che 
contempla 
operano per il 
solo pericolo di 
pregiudizio 
che 
la 
situazione 
conflittuale 
possa 
determinare, 
indipendentemente 
dal 
concretizzarsi 
di 
un vantaggio, a 
salvaguardia 
della 
genuinità 
della 
gara 
da 
assicurare 
mediante 
gli 
obblighi 
di 
astensione 
e 
la 
prescrizione 
del 
divieto 
di partecipazione (cfr. Cons. Stato, v, 11 luglio 2017, n. 3415). 


Il 
conflitto 
di 
interessi, 
infatti, 
secondo 
la 
più 
recente 
giurisprudenza, 
"non 
presuppone 
la realizzazione 
di 
un vantaggio competitivo, ma il 
potenziale 
rischio 
di 
minaccia alla imparzialità amministrativa" 
(Cons. Stato, Sez. v, 28 
ottobre 2019, n. 7389). 


le 
considerazioni 
appena 
esposte 
si 
riflettono 
anche 
sul 
riparto 
dell'onere 
probatorio in materia. 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


Si 
ritiene, infatti, che 
per l'applicabilità 
delle 
misure 
volte 
a 
risolvere 
il 
conflitto 
non 
sia 
necessaria 
la 
prova, 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante, 
del 
concreto vantaggio conseguito da una delle imprese concorrenti. 


Più 
precisamente, 
secondo 
l'orientamento 
giurisprudenziale 
prevalente, 
una 
volta 
che 
l'Amministrazione 
abbia 
dato 
conto 
dell'interesse 
personale 
e 
del 
ruolo 
rivestito 
dal 
funzionario 
o 
comunque 
dal 
soggetto 
che 
sia 
intervenuto 
nello svolgimento della 
procedura 
di 
aggiudicazione, è 
a 
carico dell'impresa 
la 
dimostrazione 
che 
non vi 
è 
stata 
violazione 
del 
principio delle 
pari 
opportunità 
nella 
formulazione 
dei 
termini 
delle 
offerte 
per tutti 
gli 
offerenti, né 
si 
è 
determinato alcun rischio reale 
di 
pratiche 
atte 
a 
falsare 
la 
concorrenza 
tra 
gli offerenti (Cons. Stato, Sez. v, 14 maggio 2020, n. 3048). 


orbene, nel 
caso di 
specie, dalla 
rappresentazione 
dei 
fatti 
svolta 
da 
codesta 
Amministrazione 
sembrerebbe 
evincersi 
la 
sussistenza 
dei 
due 
elementi 
indiziari 
idonei 
ad inferire 
in via 
presuntiva 
l'esistenza 
di 
un conflitto: 
da 
un 
lato la 
possibilità 
per il 
progettista, sia 
pure 
non facente 
parte 
della 
commissione 
aggiudicatrice, di 
influenzare 
l'esito della 
gara, specie 
alla 
luce 
del 
significativo 
rilievo 
assunto 
dalla 
progettazione 
nell'esecuzione 
dei 
lavori 
pubblici 
(1); 
dall'altro, l'interesse 
personale 
del 
progettista 
derivante 
dal 
rapporto 
di 
coniugio 
con 
la 
sig.ra 
(omissis), 
socia 
dell'omonima 
società 
che 
ha 
presentato offerta. 


Su quest'ultimo punto, conviene 
richiamare 
il 
consolidato orientamento 
per il 
quale 
i 
rapporti 
di 
parentela 
e 
coniugio costituiscono elementi 
rivelatori 
di 
una 
comunanza 
di 
interessi 
(in tal 
senso, Cons. Stato, Sez. v, 14 novembre 
2017, n. 5246); 
per altro, tali 
rapporti 
sono oggi 
espressamente 
presi 
in considerazione 
dal 
legislatore 
del 
Codice 
mediante 
il 
richiamo, 
ad 
opera 
dell'art. 
42, comma 2, alle fattispecie tipiche dell'art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013. 


la 
sussistenza 
di 
un 
conflitto 
di 
interessi 
sembrerebbe 
confortata 
dall'ampia 
portata 
dell'art. 42, co. 2, che, come 
detto, attribuisce 
rilevanza 
ad ogni 
situazione 
di 
interesse, 
diretto 
od 
indiretto, 
di 
qualsivoglia 
natura, 
nonché 
a 
qualsivoglia 
posizione 
del 
soggetto in conflitto di 
interessi 
che 
gli 
consenta 
di 
influenzare il risultato dell'aggiudicazione. 


E 
ciò 
anche 
a 
prescindere 
dalla 
prova 
che, 
nel 
caso 
di 
specie, 
la 
posizione 
del 
progettista, 
dott. 
(omissis), 
abbia 
concretamente 
giovato 
alla 
società 
(omissis), 
che ha presentato l'offerta. 


(1) Sul 
punto, si 
veda 
Cons. Stato, Sez. v, 21 febbraio 2017, n. 772: 
"nell'attuale 
panorama della 
disciplina pubblicistica dei 
lavori 
e 
della realizzazione 
delle 
opere 
... la progettazione 
costituisce 
il 
baricentro 
dell'attività 
posta 
a 
monte 
dell'esecuzione 
dei 
lavori: 
determina 
il 
quadro 
delle 
esigenze 
da 
soddisfare 
e 
delle 
specifiche 
prestazioni 
da 
fornire, 
la 
fattibilità 
amministrativa 
e 
tecnica; 
predetermina 
i 
costi 
in relazione 
ai 
benefici 
previsti; descrive 
le 
caratteristiche 
dimensionali, volumetriche, tipologiche, 
funzionali 
e 
tecnologiche 
dei 
lavori 
da 
realizzare. 
a 
livello 
di 
progettazione 
definitiva 
individua 
compiutamente 
i 
lavori 
da realizzare, nel 
rispetto delle 
esigenze, dei 
criteri, dei 
vincoli, degli 
indirizzi 
e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare". 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Preme 
infatti 
ribadire 
che 
l'interesse 
del 
progettista 
rileva 
per il 
solo pericolo 
di pregiudizio alla genuinità della gara. 


Invero, come 
già 
riportato, per i 
giudici 
Amministrativi 
il 
conflitto di 
interessi 
disciplinato 
dal 
Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
non 
è 
solo 
quello 
realmente 
accertato, ma 
anche 
quello potenzialmente 
esistente: 
tanto si 
desume, 
in 
particolare, 
dal 
riferimento 
normativo 
all'interesse 
personale 
del 
funzionario 
che 
possa 
essere 
"percepito come 
una minaccia alla sua imparzialità e 
indipendenza 
nel 
contesto della procedura di 
appalto o di 
concessione" 
(art. 42, 
co. 
2). 
la 
disposizione 
opera 
in 
presenza 
di 
una 
asimmetria 
informativa 
anche 
solo potenziale 
di 
cui 
abbia 
potuto godere 
un concorrente; 
del 
pari, può configurarsi 
anche 
solo 
potenziale 
il 
conseguente, 
indebito 
vantaggio 
competitivo 
conseguito, in violazione 
dei 
principi 
di 
imparzialità, buon andamento e 
par 
condicio competitorum 
(così 
Cons. Stato, sez. III, 14 gennaio 2019, n. 355; 
Cons. Stato, Sez. v, n. 3048/2020). 


Sul 
piano 
dei 
rimedi, 
occorre 
ricordare 
che 
il 
legislatore 
nazionale 
e 
quello 
europeo 
non 
hanno 
indicato 
con 
precisione 
le 
misure 
che 
le 
stazioni 
appaltanti 
debbono adottare 
per prevenire 
e 
risolvere 
in modo efficace 
le 
ipotesi 
di 
conflitto 
di interesse. 


Tuttavia, 
l'art. 
80, 
comma 
5, 
dispone 
che, 
quando 
la 
situazione 
di 
conflitto 
non 
sia 
altrimenti 
risolvibile, 
l'operatore 
economico 
debba 
essere 
escluso 
dalla 
partecipazione alla procedura. 


Pertanto, 
sebbene 
sulla 
stazione 
appaltante 
non 
gravi 
un 
obbligo 
assoluto 
di 
escludere 
sistematicamente 
gli 
offerenti 
che 
versino 
in 
una 
situazione 
di 
conflitto 
di 
interessi, 
l'esclusione 
si 
rivela 
indispensabile 
qualora 
non 
esista 
un 
rimedio 
più 
adeguato 
per 
evitare 
una 
violazione 
dei 
principi 
di 
parità 
di 
trattamento tra gli offerenti e di trasparenza. 


giova 
sul 
punto richiamare 
le 
linee 
guida 
n. 15 approvate 
dall'ANAC 
con delibera n. 494 del 5 giugno 2019, che così dispongono: 


"9.1 
l'esclusione 
del 
concorrente 
dalla 
gara 
ai 
sensi 
dell'articolo 
80, 
comma 
5, 
lettera 
d) 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
è 
disposta, 
come 
extrema 
ratio, quando sono assolutamente 
e 
oggettivamente 
impossibili 
sia la sostituzione 
del 
dipendente 
che 
versa 
nella 
situazione 
di 
conflitto 
di 
interesse, 
sia 
l'avocazione 
dell'attività al 
responsabile 
del 
servizio, sia il 
ricorso a formule 
organizzative 
alternative 
previste 
dal 
codice 
dei 
contratti 
pubblici. l'impossibilità 
di 
sostituire 
il 
dipendente, 
di 
disporre 
l'avocazione 
o 
di 
ricorrere 
a 
formule 
alternative 
deve 
essere 
assoluta, 
oggettiva, 
puntualmente 
ed 
esaustivamente motivata e dimostrata". 


Prima 
di 
procedere 
all'esclusione 
dell'impresa 
concorrente, 
pertanto, 
la 
stazione 
appaltante 
ha 
il 
compito di 
verificare 
la 
percorribilità 
di 
soluzioni 
alternative 
idonee alla risoluzione del conflitto di interessi. 


Ne 
consegue 
il 
dovere 
dell'Amministrazione 
-che 
costituisce 
applicazione 
dei 
principi 
di 
correttezza, 
parità 
di 
trattamento, 
trasparenza 
e 
pubblicità 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


-di 
garantire 
all'impresa 
interessata 
la 
facoltà 
di 
interloquire 
in sede 
procedi-
mentale sulla rilevata situazione di conflitto. 
l'attivazione 
di 
una 
forma 
di 
contraddittorio 
con 
la 
società 
(omissis)è 
funzionale 
anche 
a 
consentire 
a 
quest'ultima 
di 
poter dimostrare 
che 
non vi 
è 
stata 
violazione 
del 
principio 
delle 
pari 
opportunità 
nella 
formulazione 
dei 
termini 
delle 
offerte 
per tutti 
i 
partecipanti, e 
che 
non si 
è 
determinato alcun rischio 
reale di pratiche atte a falsare la concorrenza. 


Conclusivamente, 
alla 
stregua 
di 
quanto 
esposto, 
sembrerebbe 
che 
nel 
caso di 
specie 
sia 
configurabile 
un conflitto di 
interessi 
rilevante 
ai 
sensi 
del 
codice 
dei 
contratti 
pubblici, 
e 
che 
-previa 
instaurazione 
di 
un 
contraddittorio 
con la 
società 
(omissis), e 
in assenza 
di 
ipotesi 
alternative 
di 
risoluzione 
del 
conflitto 
-possa 
trovare 
applicazione, 
come 
extrema 
ratio, 
la 
misura 
dell'esclusione 
dalla procedura della ridetta società. 


Si rimane comunque a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti. 
le 
questioni 
oggetto 
del 
presente 
parere 
sono 
state 
sottoposte 
al 
Comitato 
Consultivo che, nella Seduta del 23 luglio 2020, si è espresso in conformità. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


sul patrocinio autorizzato (ex art. 43 r.d. 1611/1933) 
a favore degli enti regionali per il diritto allo 
studio universitario nella regione sicilia 


Parere 
Co.Co. del 
26/09/2020-463493/97, al 12825/2020, avv. giorgio 
Santini 


i. sulla richiesta di parere. 
a) la richiesta di 
parere 
dell’Avvocatura distrettuale 
dello stato di 
Palermo. 
1.1 Con la 
nota 
del 
21 marzo 2020 codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ha 
ritenuto 
opportuno acquisire 
il 
parere 
della 
Scrivente 
Avvocatura 
generale 
in 
ordine 
alla 
sussistenza 
del 
patrocinio 
dell’Ente 
Regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
Studio 
Universitario 
di 
Palermo 
(ERSU), 
in 
seguito 
a 
recenti 
interlocuzioni 
avute con quest’ultimo. 
A 
tal 
riguardo 
codesta 
Avvocatura 
premette 
che 
il 
predetto 
ente 
regionale: 


a) è 
stato istituito dalla 
Regione 
Siciliana, in sostituzione 
della 
disciolta 
opera 
Universitaria, con la 
l.r. 20 del 
25 novembre 
2002, recante 
“interventi 
per l’attuazione del diritto allo studio universitario in Sicilia”; 
b) ha 
una 
propria 
autonomia 
in forza 
della 
previsione 
contenuta 
nell’art. 
7, 
terzo 
comma 
l.r. 
cit. 
secondo 
cui 
“gli 
enti, 
già 
opere 
universitarie 
[…] 
sono 
persone 
giuridiche 
di 
diritto 
pubblico 
dotate 
di 
proprio 
patrimonio, 
autonomia 
organizzativa 
e 
gestionale 
e 
di 
personale 
individuato 
ai 
sensi 
dell’art. 
20 
e 
operano sotto l’indirizzo, la vigilanza ed il 
controllo dell’assessorato regionale 
dei beni culturali”; 
1.2 
Alla 
luce 
dell’autonomia 
dei 
suddetti 
Enti 
per 
il 
diritto 
allo 
studio, 
codesta 
Avvocatura 
-con 
le 
note 
che 
sono 
state 
trasmesse 
in 
allegato 
(1) 
-ha 
sempre 
declinato 
il 
proprio 
patrocinio, 
in 
assenza 
di 
un 
apposito 
provvedimento 
autorizzativo della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri 
ex 
art. 43 del 
r.d. 1611/1933 riferito all’ERSU di Palermo. 
Tale 
scelta 
-si 
precisa 
nella 
richiesta 
di 
parere 
-ha 
trovato conferma 
nel 
D.P.C.m. del 
7 settembre 
2005 con cui 
l’avvocatura dello Stato è 
autorizzata 
ad 
assumere 
e 
continuare 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
dell’erSU 
di 
Messina 
nei giudizi attivi e passivi 
[…]. 
Ad 
esclusione 
dell’Ente 
Regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
di 
messina, 
gli 
altri 
Enti 
istituti 
nei 
diversi 
poli 
universitari 
siciliani 
-ivi 
compreso 
l’ERSU 
di 
Palermo -hanno mantenuto la 
loro autonomia 
in ordine 
alla 
decisione 
di 
conferire il patrocinio all’Avvocatura dello Stato. 

1.3 Purtuttavia, codesta 
Avvocatura, approfondendo nuovamente 
il 
tema 
(1) 
nota 
prot. 
n. 
16560 
del 
24/10/2005 
(ct 
13377/2005 
-avv. 
Pollara) 
e 
nota 
prot. 
n. 
544 
del 
28/1/1998 (ct 1115/1998 - avv. Pollara). 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


del 
patrocinio dell’Ente 
Regionale 
per il 
Diritto allo Studio, anche 
mediante 
il 
confronto con il 
locale 
Ufficio legale 
dell’ERSU 
di 
Palermo, ha 
segnalato 
alcune 
criticità 
nell’interpretazione 
sino ad ora 
seguita 
sollecitando sul 
punto 
un intervento chiarificatore. 


A 
tal 
proposito 
viene 
segnalato 
che, 
in 
seguito 
a 
ricerche 
effettuate 
sul 
sito istituzionale, sarebbe 
emerso che 
con DPCm 
3 aprile 
2012, l’avvocatura 
dello Stato è 
autorizzata ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa dell’ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
universitario 
nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità 
giudiziarie, 
i 
collegi 
arbitrali, 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
e speciali”. 


Nonostante 
l’ampio tenore 
del 
decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
che 
sembrerebbe 
propendere 
per il 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello 
Stato in favore 
dell’Ente 
Regionale 
per il 
diritto allo Studio, inteso quale 
organo 
unitario, 
suddiviso 
in 
articolazioni 
territoriali, 
l’Ufficio 
legale 
del-
l’ERSU 
di 
Palermo 
ha 
precisato 
che 
lo 
stesso 
sarebbe 
limitato 
solamente 
all’ERSU di Catania. 


Ciò in quanto: 


a) il 
DPCm 
del 
3 aprile 
2012 ha 
autorizzato esclusivamente 
il 
patrocinio 
dell’ERSU 
di 
Catania 
che 
ha 
presentato apposita 
istanza 
con la 
nota 
prot. n. 
6272 del 24 ottobre 2011; 
b) la 
nota 
prot. n. 14934 del 
13 gennaio 2012 dello Scrivente 
generale 
Ufficio ha 
precisato che 
la 
predetta 
nota, proveniente 
dall’ERSU 
di 
Catania, 
era indirizzata per conoscenza solamente all’ERSU di Catania; 
c) 
il 
sito 
internet 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
ha 
precisato 
con 
una 
nota 
che il patrocinio autorizzato sarebbe limitato all’Ente etneo. 
1.4 
Ad 
avviso 
di 
codesta 
Avvocatura 
le 
delucidazioni 
fornite 
dall’Ufficio 
legale, 
pur 
astrattamente 
condivisibili, 
non 
appaiono 
dirimenti, 
in 
quanto, 
pur 
nell’autonomia 
che 
contraddistingue 
ogni 
singolo 
ente 
per 
il 
diritto 
allo 
studio: 
1) il 
dato testuale 
del 
D.P.C.m. del 
3 aprile 
2012 non fa 
specifico riferimento 
all’Ente 
Regionale 
di 
Catania 
e, a 
tal 
riguardo, alcun valore 
legale 
potrebbe 
essere 
attribuito alla 
circostanza 
che, sul 
sito web della 
Presidenza 
del 
Consiglio, sotto la 
voce 
enti 
autorizzati, viene 
riportato esclusivamente 
la 
seguente 
denominazione 
“ente 
regionale 
per 
il 
diritto allo studio universitario 
di Catania”; 
2) nella 
nota 
della 
Scrivente 
Avvocatura 
generale 
del 
13 gennaio 2012 
non è menzionato in modo specifico l’ERSU di Catania. 
Tali 
incertezze 
interpretative 
in ordine 
al 
patrocinio dell’Ente 
Regionale 
per il 
diritto allo Studio di 
Palermo e, in particolare, l’esigenza 
di 
un indirizzo 
univoco con riferimento al 
patrocinio degli 
enti 
presenti 
in ambito regionale, 
hanno 
determinato 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
a 
chiedere 
l’intervento 
dello 
Scrivente 
generale 
Ufficio 
al 
fine 
di 
chiarire 
i 
confini 
del 
patrocinio 
erariale. 



RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


b) la richiesta di 
parere 
dell’Avvocatura distrettuale 
dello stato di 
Caltanissetta. 
1.6 
Con 
nota 
del 
3 
aprile 
2020 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Caltanissetta, 
cui 
la 
richiesta 
di 
parere 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Palermo 
veniva 
trasmessa 
per 
conoscenza, 
ha 
rappresentato 
che, 
di 
recente, 
l’Ente 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
di 
Enna 
ha 
sottoposto 
alcuni 
quesiti 
in 
merito 
alla 
locazione 
e 
all’acquisto 
di 
due 
immobili 
da 
destinare 
alla 
propria 
sede, 
per 
finalità 
istituzionali. 
In 
particolare, 
con 
la 
nota 
prot. 
n. 
495 
del 
26 
febbraio 
2020, 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Caltanissetta, 
riscontrando 
la 
predetta 
richiesta 
di 
parere, 
ha 
invitato 
l’ERSU 
di 
Enna 
ad 
attivare 
il 
procedimento 
autorizzatorio 
del 
patrocinio 
erariale di cui all’art. 43 del r.d. 1611/1933. 


viene 
segnalato 
che 
la 
richiesta 
di 
patrocinio 
ex 
art. 
43 
r.d. 
cit. 
è 
pervenuta 
allo Scrivente generale Ufficio ed assunta al protocollo n. 120957. 

1.7 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Caltanissetta, 
nel 
confermare 
l’interesse 
ad acquisire 
le 
valutazioni 
dello Scrivente 
generale 
Ufficio in ordine 
all’esistenza 
del 
patrocinio 
dell’Ente 
per 
il 
diritto 
allo 
studio, 
ha 
chiesto 
di 
conoscere 
se 
possa 
seguirsi 
l’interpretazione 
fornita 
dalla 
Consorella 
di 
Palermo in precedenza 
riportata. 
ove 
l’interpretazione 
dell’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Palermo 
non 
dovesse 
trovare 
conferma, viene 
chiesto il 
parere 
dello Scrivente 
generale 
Ufficio 
in 
ordine 
all’attivazione, 
per 
l’ERSU 
di 
Enna, 
del 
procedimento 
di 
cui 
all’art. 43 r.d. cit. 


veniva 
comunque, espresso parere 
favorevole 
all’assunzione 
del 
patrocinio 
dell’ERSU di Enna. 


** 


Al 
fine 
di 
riscontrare 
la 
richiesta 
di 
parere 
con 
cui 
si 
sollecita 
un 
intervento 
chiarificatore 
dello 
Scrivente 
generale 
Ufficio, 
è 
necessario 
prendere 
in 
esame, 
preliminarmente, 
il 
quadro 
della 
normativa 
regionale 
che 
istituisce 
gli 
Enti 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
nella 
regione 
siciliana, 
per 
poi 
soffermarsi 
-nello 
specifico 


-sulla 
questione 
interpretativa 
del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato in 
favore dei predetti enti regionali e, in particolare, dell’ERSU di Palermo. 
Infine 
sarà 
affrontata 
la 
questione 
posta 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
Caltanissetta 
che, 
per 
lo 
più, 
è 
interessata 
alla 
soluzione 
interpretativa 
della 
Scrivente 
Avvocatura 
generale, 
con 
particolare 
riferimento 
all’ERSU 
di 
Enna. 


** 


ii. 
sul 
quadro 
normativo 
in 
materia 
di 
enti 
regionali 
per 
il 
diritto 
allo studio nella regione siciliana. 
2.1 
Con la 
legge 
regionale 
del 
25 novembre 
2002, n. 20 recante 
“interventi 
per 
l’attuazione 
del 
diritto allo studio universitario in Sicilia. trasformazione 
in 
fondazione 
degli 
enti 
lirici, 
sinfonici 
e 
del 
comitato 
taormina 
arte. 
Scuole 
Materne 
regionali 
paritarie”, la 
Regione 
Siciliana 
al 
fine 
di 
rendere 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


effettivo il 
diritto allo studio universitario, ha 
istituito -per ognuna 
delle 
Università 
aventi 
sede 
nella 
Regione 
Sicilia 
-enti 
regionali 
in numero corrispondente 
a quello degli atenei siciliani, nei comuni in cui questi hanno sede. 


l’art. 7 della 
predetta 
legge, rubricato “enti 
regionali 
per 
il 
diritto allo 
studio 
universitario” 
stabilisce, 
al 
terzo 
comma, 
che 
“gli 
enti, 
già 
opere 
Universitarie, 
di 
cui 
al 
comma 
1 
(2), 
assumono 
la 
denominazione 
di 
ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
universitario 
(di 
seguito 
denominati 
E.R.S.U.), 
aggiungendovi 
l'indicazione 
della 
rispettiva 
sede, sono persone 
giuridiche 
di 
diritto 
pubblico 
dotate 
di 
proprio 
patrimonio, 
autonomia 
amministrativa 
e 
gestionale 
e 
di 
personale 
individuato ai 
sensi 
dell'articolo 20 e 
operano sotto l'indirizzo, 
la 
vigilanza 
ed 
il 
controllo 
dell'Assessorato 
regionale 
dei 
beni 
culturali 
ed 
ambientali 
e della pubblica istruzione”. 


In 
particolare, 
il 
quarto 
comma 
della 
medesima 
disposizione 
precisa 
“Ciascun 
ente 
individua 
la 
propria 
struttura 
organizzativa 
ai 
sensi 
dell'articolo 11, 
lettera 
e) ed istituisce 
in ognuna 
delle 
province 
regionali 
ove 
ha 
sede 
il 
consorzio 
universitario di 
cui 
all'articolo 66 della 
legge 
regionale 
26 marzo 2002, 


n. 2, […], uno sportello periferico per garantire 
agli 
studenti 
che 
ne 
hanno diritto 
gli 
interventi 
previsti 
dalla 
presente 
legge. lo sportello è 
gestito direttamente 
dall'ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
universitario 
(E.R.S.U.) 
territorialmente 
competente, 
nell'ambito 
di 
una 
programmazione 
di 
valenza 
regionale. gli 
enti 
locali 
possono altresì 
aprire 
ulteriori 
sportelli 
informativi”. 
Infine, il 
quinto comma 
della 
predetta 
norma 
prevede 
che 
“gli 
E.R.S.U. 
possono avvalersi, sulla 
base 
di 
apposite 
convenzioni, di 
servizi 
resi 
da 
enti 
pubblici, da 
soggetti 
privati 
o da 
associazioni 
studentesche 
e 
cooperative 
costituite 
ed operanti nelle Università o nel relativo territorio”. 


2.2 
l’esame 
di 
tale 
disciplina 
mostra, 
fin 
dall’esame 
della 
rubrica 
dell’art. 
7 cit., la 
presenza 
nella 
Regione 
Siciliana, di 
una 
pluralità 
di 
enti 
a 
base 
regionale 
dotati 
di 
autonomia 
amministrativa, 
patrimoniale-finanziaria 
e 
gestionale. 
In altri 
termini, non si 
è 
in presenza 
di 
un Ente 
regionale 
per il 
diritto allo 
studio unico a 
livello regionale 
suddiviso in diverse 
articolazioni 
territoriali, 
prive 
di 
autonoma 
soggettività 
giuridica 
ed autonomia 
sul 
piano amministrativo, 
patrimoniale 
e 
gestionale 
bensì 
enti 
diversi, autonomi 
tra 
loro, con una 
propria 
dotazione 
organica, 
qualificati 
come 
“persone 
giuridiche 
di 
diritto 
pubblico”, 
riconducibili 
alla 
categoria 
degli 
enti 
pubblici 
non economici 
ognuno 
dei 
quali 
persegue 
l’obiettivo di 
rendere 
effettivo il 
diritto allo studio universitario 
(cfr. art. 1 l., secondo comma, cit.). 


Tale 
autonomia 
si 
rinviene 
altresì 
sul 
piano 
del 
potere 
latu 
sensu 
negoziale 
riconosciuto 
agli 
enti 
regionali 
di 
stipulare 
convenzioni 
per 
avvalersi 
di 
servizi 


(2) Il 
comma 
1 stabilisce 
“gli 
interventi 
in materia 
di 
diritto allo studio universitario sono attuati, 
per ognuna 
delle 
Università 
aventi 
sede 
nella 
Regione, da 
enti 
regionali, istituiti 
in numero corrispondente 
a quello degli atenei siciliani, nei comuni in cui questi hanno sede”. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


resi 
da 
altri 
enti 
pubblici, oltre 
che 
soggetti 
privati, associazioni 
studentesche 
e cooperative. 

iii. 
sul 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
stato 
in 
favore 
degli 
enti 
regionali 
per il diritto allo studio, in particolare l’ersU di Palermo. 
3.1 Tale 
premessa 
di 
carattere 
generale 
in ordine 
alla 
soggettività 
degli 
enti 
regionali 
per il 
diritto allo studio, dotati 
di 
autonomia 
amministrativa, finanziaria 
e 
gestionale, consente 
di 
approfondire 
in questa 
sede 
il 
tema 
della 
sussistenza 
del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello Stato in favore 
degli 
Enti 
regionali 
per il diritto allo studio, in particolare dell’ERSU di Palermo. 
3.1.1 
occorre 
in 
questa 
sede 
svolgere 
due 
considerazioni 
di 
carattere 
preliminare 
tra loro connesse. 
In 
primo 
luogo 
il 
patrocinio 
autorizzato 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ex 
art. 
43 
r.d. 
1611/1933 
non 
può 
ritenersi 
conferito, 
nel 
complesso, 
in 
favore 
dell’Ente 
regionale 
per il 
diritto allo studio, dovendosi 
-per le 
ragioni 
prima 
suesposte 
-riferirsi 
al 
singolo ente 
regionale 
per il 
diritto allo studio, dotato 
di propria autonomia. 


In secondo luogo, nessuna 
previsione 
di 
legge 
o regolamento applicabile 
agli 
enti 
regionali 
per il 
diritto allo studio autorizza 
-in base 
al 
citato art. 43 la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
delle 
suddette 
persone 
giuridiche 
di 
diritto pubblico 
da parte dell’Avvocatura dello Stato. 


In altri 
termini, per tali 
enti 
regionali, non vi 
è 
una 
disposizione 
di 
carattere 
generale 
come 
l’art. 56, comma 
1, T.U. 31 agosto 1933, n. 1592 che 
riconosce 
alle 
Università 
e 
agli 
Istituti 
superiori 
di 
poter “essere 
rappresentati 
e 
difesi 
dall’avvocatura dello Stato nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
l'autorità 
giudiziaria, i 
collegi 
arbitrali 
e 
le 
giurisdizioni 
amministrative 
speciali, sempreché 
non trattisi di contestazioni contro lo Stato”. 


3.2 
Dalle 
considerazioni 
suesposte 
discende, 
dunque, 
che 
ogni 
ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
può 
presentare, 
previa 
deliberazione 
degli 
organi 
competenti, 
richiesta 
di 
autorizzazione 
a 
fruire 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
con 
le 
forme 
e 
nei 
modi 
di 
cui 
all’art. 
43 
del 
r.d. 
1611 
del 
1933. 
In 
base 
a 
quest’ultima 
previsione 
“l'avvocatura 
dello 
Stato 
può 
assumere 
la rappresentanza e 
la difesa nei 
giudizi 
attivi 
e 
passivi 
avanti 
le 
autorità giudiziarie, 
i 
Collegi 
arbitrali, le 
giurisdizioni 
amministrative 
e 
speciali, di 
amministrazioni 
pubbliche 
non statali 
ed enti 
sovvenzionati, sottoposti 
a tutela 
od anche 
a sola vigilanza dello Stato, sempre 
che 
sia autorizzata da disposizione 
di 
legge, di 
regolamento o di 
altro provvedimento approvato con regio 
decreto. 
[…] le 
disposizioni 
e 
i 
provvedimenti 
anzidetti 
debbono essere 
promossi 
di 
concerto coi 
Ministri 
per 
la grazia e 
giustizia e 
per 
le 
finanze. le 
disposizioni 
di 
cui 
ai 
precedenti 
commi 
sono estese 
agli 
enti 
regionali, previa 
deliberazione degli organi competenti”. 



PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


la 
richiesta 
di 
autorizzazione 
al 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
va 
inoltrata 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri 
-Ufficio contenzioso e 
per la consulenza giuridica, per la relativa istruttoria. 

Sulla 
richiesta 
l’Ufficio 
competente 
istituito 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
acquisisce 
il 
parere 
dell’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato 
e 
del 
ministero 
competente 
per materia 
ed il 
concerto dei 
ministeri 
della 
giustizia 
e 
dell’economia 
e delle finanze. 


Il 
procedimento 
di 
autorizzazione 
all’assunzione 
del 
patrocinio 
di 
parte 
si 
conclude 
con 
un 
provvedimento 
che 
assume 
la 
forma 
del 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
(3), 
che, 
dopo 
le 
formalità 
di 
registrazione, 
viene 
pubblicato 
nella 
gazzetta 
ufficiale 
della 
Repubblica 
italiana, 
a 
fini 
notiziali. 


A 
tal 
riguardo, 
si 
prende 
atto 
che 
tale 
procedimento 
è 
stato 
attivato 
esclusivamente 
dall’ERSU 
di 
messina 
e 
di 
Catania, 
i 
quali, 
rispettivamente, 
con 
DPCm 
del 
7 
settembre 
2005 
e 
DPCm 
del 
3 
aprile 
2012, 
sono 
stati 
autorizzati 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
ai 
sensi 
dell’art. 
43 
r.d. 
cit. 


3.3 
Allo 
stato, 
dunque, 
l’ERSU 
di 
Palermo 
e 
i 
rimanenti 
enti 
regionali 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
istituiti 
nella 
Regione 
Siciliana, 
ad 
esclusione 
di 
quelli 
di 
messina 
e 
Catania, 
non 
fruiscono 
del 
patrocinio 
autorizzato 
dell’Avvocatura 
dello Stato, non risultando alcuna 
previsione 
di 
legge 
o Decreti 
del 
Presidente 
del 
consiglio dei 
ministri 
che 
abbiano ulteriormente 
esteso il 
patrocinio erariale 
in favore di altri enti. 
Tale 
orientamento, 
già 
condiviso 
anche 
da 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, 
merita di essere confermato ad avviso di codesto generale Ufficio. 


A 
tal 
riguardo, le 
ragioni 
indicate 
da 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, riportate 
a 
pag. 
2 
del 
presenta 
parere, 
non 
pare 
possano 
condurre 
ad 
una 
diversa 
conclusione, 
condividendosi 
sul 
punto 
i 
rilievi 
formulati 
dall’Ufficio 
legale 
dell’ERSU 
Palermo con le 
precisazioni 
e 
per le 
motivazioni 
che 
di 
seguito si 
procede ad esaminare. 


3.4.1 
Quanto 
all’argomento 
fondato 
sul 
dato 
letterale 
del 
DPCm 
del 
3 
aprile 2012 si osserva quanto segue. 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
con 
il 
predetto 
decreto, 
si 
è 
pronunciata 
in modo espresso sulla 
richiesta 
proveniente 
dall’ERSU 
di 
Catania 
del 
24 ottobre 
2011 con cui 
veniva 
chiesta 
l’autorizzazione 
ad avvalersi 
del 
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. 


(3) 
Si 
v. 
art. 
2, 
secondo 
comma 
legge 
12 
gennaio 
1991 
“1. 
gli 
atti 
amministrativi, 
diversi 
da 
quelli 
previsti 
dall'articolo 1, per 
i 
quali 
è 
adottata alla data di 
entrata in vigore 
della presente 
legge 
la 
forma del 
decreto del 
Presidente 
della repubblica, sono emanati 
con decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
o con decreto ministeriale, a seconda della competenza a formulare 
la proposta sulla 
base 
della normativa vigente 
alla data di 
cui 
sopra. 2.2. gli 
atti 
amministrativi 
di 
cui 
al 
comma 1, ove 
proposti 
da 
più 
Ministri 
sono 
emanati 
nella 
forma 
del 
decreto 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri”; 
si 
v. altresì 
l’art. 11, primo comma 
lett. c) del 
Decreto sel 
Segretario generale 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei ministri del 24 agosto 2011. 

RASSEgNA 
AvvoCATURA 
DEllo 
STATo -N. 2/2020 


Nell'interpretare 
il 
DPCm 
si 
premette 
che 
valenza 
prioritaria 
assume 
il 
criterio letterale, da 
cui 
emerge 
la 
volontà 
riconducibile 
alla 
pubblica 
amministrazione. 


gli 
altri 
"elementi 
esterni" 
all'atto 
-tuttavia 
-sono 
presi 
in 
esame 
in 
quanto costituiscono un valido ausilio, potendo sussistere 
dubbi 
in ordine 
al 
contenuto dell'atto stesso. 


3.4.1.1 
Sulla 
base 
del 
tenore 
letterale 
del 
DPCm 
del 
3 
aprile 
2012 
lo 
stesso si 
riferisce, al 
singolare, all’Ente 
regionale 
per il 
diritto allo studio, e 
non 
al 
plurale, 
come 
fa 
l’art. 
7 
della 
legge 
regionale 
n. 
20/2002 
rubricato 
“enti 
regionali per il diritto allo studio”. 
l’eventuale 
formulazione 
al 
plurale 
avrebbe, 
eventualmente, 
fatto 
sorgere 
il 
dubbio 
sollevato 
da 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
in 
ordine 
all’ambito 
soggettivo 
del 
provvedimento 
autorizzativo 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri. 

3.4.1.2 vi 
sono, comunque, una 
serie 
di 
elementi 
esterni 
all’atto che 
rappresentano 
un utile ausilio per giungere alle medesime conclusioni. 
Il 
riferimento generale 
contenuto nelle 
premesse 
del 
DPCm 
del 
3 aprile 
2012 
dove 
si 
legge 
testualmente 
“Considerata 
l'opportunità 
di 
autorizzare 
l'avvocatura dello Stato ad assumere 
la rappresentanza e 
la difesa dell'ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
universitario” 
non 
può 
che 
riferirsi 
al-
l’ERSU 
di 
Catania 
tenuto conto, anzitutto, dell’assenza 
di 
un unico ente 
regionale 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
universitario 
nella 
Regione 
Siciliana 
e, 
in 
particolare, 
avuto 
riguardo 
alla 
circostanza 
che 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
si 
è 
pronunciata 
-in base 
al 
(e 
all’esito del) procedimento descritto 
dall’art. 43 r.d. cit. -a 
fronte 
di 
una 
specifica 
istanza 
proveniente 
da 
un’amministrazione 
pubblica non statale, nel caso di specie un ente regionale. 


3.4.2 
Quanto 
all’ulteriore 
argomento 
rappresentato 
dal 
tenore 
letterale 
dell’oggetto della 
nota 
del 
13 gennaio 2012 dell’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato, competente 
ad esprime 
il 
proprio parere 
in ordine 
all’opportunità 
di 
assumere 
il 
patrocinio 
dell’ERSU 
di 
Catania, 
si 
richiamano 
le 
considerazioni 
già espresse in ordine al DPCm del 3 aprile 2012. 
In particolare, il 
parere 
favorevole 
espresso dalla 
Scrivente 
Avvocatura 
generale, con la 
richiamata 
nota, non poteva 
che 
riferirsi, anche 
nell’oggetto, 
all’ERSU 
di 
Catania, tenuto conto che 
la 
richiesta 
di 
autorizzazione 
ad avvalersi 
del 
patrocinio 
erariale 
proveniva 
esclusivamente 
da 
quest’ultimo, 
inserito 
quale 
destinatario 
-sia 
pure 
per 
conoscenza 
-della 
predetta 
missiva 
del 
13 
gennaio 2012. 


3.4.3 
Tale 
interpretazione 
può 
essere 
altresì 
avvalorata 
da 
un 
ulteriore 
elemento 
esterno al 
DPCm 
del 
3 aprile 
2012 che, in disparte 
il 
valore 
giuridico, 
è 
il 
contenuto del 
sito web istituzionale 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio ove 
risulta 
tra 
gli 
Enti 
autorizzati 
(ad avvalersi 
del 
patrocinio dell’Avvocatura 
dello 
Stato) nell’anno 2012 - l’Ente Regionale per il diritto allo studio di Catania. 

PARERI 
DEl 
ComITATo 
CoNSUlTIvo 


viene 
infatti 
riportato al 
di 
sotto del 
nominativo dell’ERSU 
di 
Catania 
il 
DPCm 
3 
aprile 
2012 
pubblicato 
in 
g.U. 
23 
maggio 
2012 
n. 
119, 
ulteriore 
conferma 
dell’interpretazione sopra riportata. 


iv. Conclusioni. 
4.1 Alla 
luce 
delle 
argomentazioni 
suesposte 
si 
formulano di 
seguito le 
seguenti 
considerazioni 
conclusive, in riscontro al 
quesito sottoposto da 
codesta 
Avvocatura Distrettuale: 
a) 
Non 
sussiste 
il 
patrocinio 
autorizzato 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
in 
favore 
di 
tutti 
gli 
enti 
regionali 
per 
il 
diritto 
allo 
studio 
nella 
Regione 
Siciliana, 
ad eccezione 
di 
coloro che 
hanno attivato, con successo, il 
procedimento di 
cui all’art. 43 del r.d. 1611/1933, tra cui l’ERSU di messina e di Catania. 
Un 
significato 
contrario, 
per 
le 
ragioni 
esposte 
in 
narrativa, 
non 
pare 
possa 
discendere 
dal 
D.P.C.m. 
del 
3 
aprile 
2012 
il 
quale 
-sia 
pure 
non 
specificando 
il 
riferimento 
all’Ente 
per 
il 
diritto 
agli 
studi 
di 
Catania 
-deve 
intendersi 
limitato 
all’autorizzazione 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
in 
favore 
di 
quest’ultimo 
che 
ha 
presentato 
apposita 
istanza 
ex 
art. 
43 
r.d. 
cit. 


b) Alla 
luce 
delle 
predette 
considerazioni 
si 
esclude 
che 
sussista 
il 
patrocinio 
erariale 
dell’ERSU 
di 
Palermo, 
non 
essendovi 
alcuna 
previsione 
che 
autorizzi 
la rappresentanza e la difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato. 
4.2 
Tali 
conclusioni 
valgono 
altresì 
con 
riferimento 
a 
quanto 
richiesto 
dall’Avvocatura 
Distrettuale 
dello 
Stato 
di 
Caltanissetta 
la 
quale 
correttamente 
ha 
consigliato all’ERSU 
di 
Enna 
di 
attivare 
il 
procedimento di 
cui 
all’art. 43 
r.d. 
1611/1933, 
non 
avendo 
allo 
stato 
il 
patrocinio 
(nel 
caso 
di 
specie) 
per 
l’attività 
consultiva 
che 
-in forza 
di 
quanto prevede 
l’art. 47 r.d. cit. -è 
limitato 
all’attività degli enti dei quali assume la rappresentanza e la difesa. 


Si 
segnala, 
tuttavia, 
che 
la 
richiesta 
di 
autorizzazione 
ad 
avvalersi 
del 
patrocinio 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
deve 
essere 
inoltrata, 
dall’ERSU 
di 
Enna 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
-Ufficio 
contenzioso 
e 
per 
la 
consulenza 
giuridica, 
per 
la 
relativa 
istruttoria, 
in 
seguito 
alla 
quale 
viene 
acquisito 
il 
parere 
della 
Scrivente 
Avvocatura 
generale 
in 
ordine 
all’opportunità 
di 
rilasciare 
la 
predetta 
autorizzazione 
al 
conferimento 
della 
rappresentanza 
e 
difesa. 


Si 
invita, 
pertanto, 
l’Avvocatura 
Distrettuale 
di 
Caltanissetta 
cui 
il 
seguente 
parere 
viene 
trasmesso, 
a 
notiziare 
l’Ente 
in 
ordine 
alla 
necessità 
di 
inoltrare la richiesta di patrocinio al predetto Ufficio. 

4.3 
Si 
trasmette 
il 
presente 
parere, 
per 
conoscenza, 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, anche 
per le 
considerazioni 
di 
carattere 
interpretativo 
svolte in ordine alla portata del DPCm del 3 aprile 2012. 
*** 


Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che, nella 
seduta 
del 23 settembre 2020, si è espresso in conformità. 



CONTRIBUTIDIDOTTRINA
Nozione, regime e vicende dell’ente pubblico. 
Rapporto con la nozione di pubblica amministrazione 


Michele Gerardo* 


SommArIo: 1. Nozione 
di 
ente 
pubblico -2. regime 
giuridico dell’ente 
pubblico -3. Apparato 
organizzativo dell’ente 
pubblico -4. Attribuzioni 
dell’ente 
pubblico e 
modo del 
loro 
svolgimento -5. Vicende 
degli 
enti 
pubblici 
-6. Nozione 
di 
ente 
pubblico e 
rapporto con la 
nozione di pubblica amministrazione (o amministrazione pubblica). 


1. Nozione di ente pubblico. 
L’ente 
pubblico è 
un ente 
collettivo avente 
lo scopo della 
cura 
concreta 
di 
un interesse 
pubblico, di 
soddisfare 
interessi 
pubblici. Un interesse 
è 
pubblico 
quando 
la 
legge 
-statale 
o 
regionale 
a 
seconda 
della 
sfera 
di 
competenza 


- lo attribuisce alla tutela di un ente pubblico (1). 
Perché 
esista 
un ente 
pubblico, oltre 
alla 
normale 
plurisoggettività 
-con 
il 
conseguente 
apparato organizzativo -allo scopo e 
al 
patrimonio è 
richiesto 
il 
riconoscimento legale; 
difatti 
a 
termini 
dell’art. 4 L. 20 marzo 1975, n. 70 
“nessun 
nuovo 
ente 
pubblico 
può 
essere 
istituito 
o 
riconosciuto 
se 
non 
per 
legge”, 
statale 
o 
regionale 
secondo 
l’ordine 
delle 
competenze 
di 
cui 
all’art. 
117 
cost. 
L’art. 
4 
citato 
costituisce 
applicazione 
del 
principio 
di 
legalità 
di 
cui 
all’art. 97, commi 
2 e 
3, cost. secondo cui 
“I pubblici 
uffici 
sono organizzati 
secondo 
disposizioni 
di 
legge” 
e 
“Nell'ordinamento 
degli 
uffici 
sono 
determi


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) Sull’ente 
pubblico: 
V. OttAViAnO, voce 
Ente 
pubblico, in Enc. del 
Diritto, vol. XiV, Giuffré 
1965, pp. 963-975; 
G.M. De 
FrAnceScO, voce 
Persona giuridica (diritto privato e 
pubblico), in Novissimo 
Digesto, 
vol. 
Xii, 
Utet, 
1965, 
pp. 
1035-1053; 
G. 
ArenA 
voce 
Enti 
pubblici, 
in 
Novissimo 
Digesto. 
Appendice, vol. iii, Utet, 1982, pp. 401-413; 
c. FrAnchini, voce 
Enti 
pubblici, in Il 
diritto. Enciclopedia 
giuridica del Sole 24 ore, vol. 6, Corriere della Sera Il Sole 24 ore, 2007, pp. 48-58. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


nate 
le 
sfere 
di 
competenza, le 
attribuzioni 
e 
le 
responsabilità proprie 
dei 
funzionari” 
(2). La 
disposizione 
costituzionale 
esprime 
il 
principio secondo cui 
spetta 
all’ordinamento generale 
e 
alle 
sue 
fonti 
individuare 
le 
soggettività 
che 
operano al suo interno (3). 


L’art. 4 prevede, attesa 
la 
sua 
formulazione, una 
riserva 
di 
legge 
relativa. 
Sicché 
non è 
necessario che 
l’ente 
venga 
creato con atto legislativo per qualificarlo 
ente 
pubblico, 
cosa 
che 
può 
comunque 
avvenire 
ed 
avviene 
di 
frequente 
spesso in tempi 
recenti 
(4). All’uopo è 
sufficiente 
che 
venga 
creato in 
conformità 
ad una 
disposizione 
legislativa 
avente 
ad oggetto la 
disciplina 
di 
uno specifico ente 
attributario di 
un interesse 
pubblico. La 
legge 
istitutiva 
di 
un singolo ente 
o di 
categorie 
di 
enti 
ne 
individua 
le 
finalità, l’assetto organizzativo, 
i poteri. 


Questo 
vale 
per 
gli 
enti 
di 
nuova 
costituzione; 
in 
questa 
evenienza 
occorre 
anche 
accertare 
-in 
base 
ad 
una 
qualificazione 
espressa 
o 
dai 
connotati 
di 
sistema 
-se 
l’ente 
è 
dotato 
o 
meno 
della 
persona 
giuridica; 
ciò 
al 
limitato 
fine 
di 
acclarare 
la 
sussistenza 
o 
meno 
della 
autonomia 
patrimoniale 
perfetta. 
Per 
quelli 
già 
esistenti, 
in 
primis 
lo 
Stato 
e 
gli 
altri 
enti 
territoriali, 
vale 
la 
tradizione 
storica 
e 
la 
stratificazione 
prodotta 
dall’evoluzione 
della 
normativa 
in 
materia. 


La 
summa divisio 
tra gli enti pubblici è quella tra 


a) 
enti 
territoriali 
(Stato, 
articolantesi 
in 
Presidenza 
del 
consiglio 
dei 
Ministri, 
Ministeri 
e 
Aziende 
autonome 
dello 
Stato 
o 
amministrazioni 
dello 
Stato 
ad 
ordinamento 
autonomo; 
regioni; 
comuni 
e 
Province; 
città 
metropolitane); 
b) 
enti ancillari agli enti territoriali. Ossia: 
-enti 
ausiliari 
dello Stato 
(consiglio nazionale 
dell'economia 
e 
del 
lavoro; 
consiglio 
di 
Stato 
nello 
svolgimento 
delle 
funzioni 
consultive; 
corte 
dei 
conti 
nello 
svolgimento 
delle 
funzioni 
di 
controllo; 
Avvocatura 
dello 
Stato; 
Agenzia per i servizi sanitari regionali-AGenAS); 
-enti 
strumentali 
dello Stato 
(enti 
pubblici 
nazionali 
svolgenti 
attività 
di 
previdenza 
e 
assistenza; 
enti 
pubblici 
nazionali 
non 
svolgenti 
attività 
di 
previdenza 
e 
assistenza 
ex 
D.L.vo 29 ottobre 
1999, n. 419; 
agenzie 
disciplinate 
dal 
D.L.vo n. 300/1999 ed altri 
enti); 
enti 
strumentali 
delle 
regioni 
(enti 
del 
Servizio sanitario nazionale 
ed altri 
enti); 
enti 
strumentali 
degli 
enti 
locali 
(comunità 
montane; 
comunità 
isolane; 
unione 
di 
comuni; 
consorzi 
ex 
art. 31 
D.L.vo n. 267/2000; 
Aziende speciali; istituzioni); 
(2) Per tale 
rilievo: 
V. OttAViAnO, voce 
Ente 
pubblico, cit., p. 971; 
G. cOrSO, manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
Viii 
edizione, 
Giappichelli, 
2017, 
p. 
70; 
e. 
cASettA, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
XVi edizione, Giuffré, 2014, p. 83. 
(3) conf.: 
L. MAzzArOLLi, G. PericU, A. rOMAnO, F.A. rOVerSi 
MOnAcO, F.G. ScOcA 
(a 
cura 
di), Diritto amministrativo, vol. i, Monduzzi, 2005, p. 151. 
(4) Ad esempio l’“Agenzia delle 
entrate-riscossione”, ente 
pubblico economico ed altresì 
ente 
strumentale 
dell'Agenzia 
delle 
entrate, è 
stato istituito con l’art. 1, comma 
3, D.L. 22 ottobre 
2016, n. 
193, conv. L. 1 dicembre 2016, n. 225. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


c) 
enti 
autonomi 
dagli 
enti 
territoriali 
(Università 
degli 
Studi; 
camere 
di 
commercio, 
industria, 
Artigianato 
ed 
Agricoltura; 
Ordini 
e 
collegi 
professionali); 
d) 
enti indipendenti 
(cd. Autorità amministrative indipendenti); 
e) 
enti 
pubblici 
economici 
(cd. 
impresa 
pubblica 
di 
diritto 
comune 
o 
impresa-
organo). 


come individuare l’ente pubblico? 


La 
mera 
qualificazione 
normativa 
quale 
ente 
pubblico, in un caso in cui 
l’ente 
non tuteli 
un interesse 
pubblico, è 
inidonea. ciò anche 
per i 
limiti 
costituzionali 
che 
tutelano le 
formazioni 
sociali, la 
libertà 
di 
associazione 
e 
altre 
attività 
private. Ad esempio una 
legge 
delle 
Stato che 
qualificasse 
ente 
pubblico 
-senza 
altra 
innovazione 
-le 
fondazioni 
di 
carattere 
culturale 
non 
avrebbe 
la 
virtù di 
rendere 
“veramente” 
pubblici 
i 
detti 
enti. emblematica 
è 
la 
vicenda 
relativa 
alla 
pubblicizzazione 
delle 
opere 
pie 
e 
degli 
enti 
morali 
aventi 
il 
fine 
di 
prestare 
assistenza 
ai 
poveri 
e 
di 
procurarne 
l’educazione, 
l’istruzione, 
l’avviamento al 
lavoro e 
il 
miglioramento morale 
e 
economico: 
l’art. 1 L. 17 
luglio 1890, n. 6972 (c.d. legge 
crispi), che 
qualificava 
tali 
enti 
come 
istituzioni 
pubbliche 
di 
assistenza 
e 
beneficenza, 
è 
stato 
dichiarato 
illegittimo 
dalla 
corte 
costituzionale 
-con sentenza 
7 aprile 
1988, n. 396 -nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che 
le 
iPAB regionali 
e 
infraregionali 
possano continuare 
a 
sussistere 
assumendo la 
personalità 
giuridica 
di 
diritto privato, qualora 
abbiano 
tuttora 
i 
requisiti 
di 
un'istituzione 
privata; 
ciò 
per 
il 
contrasto 
con 
l’art. 
38 
della 
costituzione tutelante la libertà di assistenza privata. 


Allo 
stesso 
modo 
la 
mera 
qualificazione 
normativa 
quale 
ente 
privato 
(ad 
esempio: 
s.p.a.), 
in 
un 
caso 
in 
cui 
l’ente 
tuteli 
un 
interesse 
pubblico, 
egualmente 
è inidonea. 

il 
requisito necessario e 
sufficiente 
perché 
esista 
un ente 
pubblico è 
che, 
come 
detto 
innanzi, 
un 
ente 
collettivo 
abbia 
lo 
scopo 
di 
soddisfare 
un 
interesse 
pubblico. Su tale 
presupposto la 
qualificazione 
normativa 
rende 
chiaro ed indiscutibile 
la natura dell’ente. 


nella 
giurisprudenza 
stratificata 
degli 
ultimi 
decenni 
sono 
stati 
individuati 
vari 
indici di riconoscimento della qualità di ente pubblico 
(5), tra cui: 


a) creazione 
per legge 
o in base 
ad una 
legge 
per la 
cura 
di 
un interesse 
pubblico. La legge può essere sia statale che regionale; 
b) carattere generale dell’interesse curato; 
c) l’attribuzione per legge di poteri autoritativi, pubblicistici; 
d) 
carattere 
necessario 
dell’ente, 
cioè 
il 
fatto 
che 
la 
sua 
esistenza 
è 
per 
legge 
obbligatoria 
-con 
la 
conseguenza 
che 
l’ente 
non 
ha 
la 
possibilità 
di 
(5) Sui 
quali 
ex 
plurimis: 
V. OttAViAnO, voce 
Ente 
pubblico, cit., pp. 965-966; 
A.M. SAnDULLi, 
manuale 
di 
diritto amministrativo, vol. i, XV 
edizione, Jovene, 1989, pp. 194-195; 
M.S. GiAnnini, Diritto 
amministrativo, vol. i, ii edizione, Giuffré, 1988, p. 182; 
M. cLArich, manuale 
di 
diritto amministrativo, 
iii 
edizione, 
il 
Mulino, 
2017, 
pp. 
344-345; 
e. 
cASettA, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
cit., 
p. 84. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


estinguersi 
in 
via 
volontaria 
-perché 
legata 
alla 
natura 
pubblica 
delle 
funzioni 
affidate; 


e) 
il finanziamento a carico dell’ente di riferimento (Stato o regione); 
f) nomina 
e 
revoca 
degli 
organi 
amministrativi 
e/o di 
controllo e/o finanziamento 
dell’ente da parte di un ente territoriale o altro ente di riferimento. 
Per 
gli 
enti 
pubblici 
nazionali 
l’art. 
3, 
comma 
1, 
L. 
23 
agosto 
1988, 
n. 
400 
dispone 
che 
le 
nomine 
alla 
presidenza 
di 
enti, 
istituti 
o 
aziende 
di 
carattere 
nazionale, di 
competenza 
dell'amministrazione 
statale 
sono effettuate 
con decreto 
del 
Presidente 
della 
repubblica 
emanato su proposta 
del 
Presidente 
del 
consiglio 
dei 
ministri, 
previa 
deliberazione 
del 
consiglio 
dei 
ministri 
adottata 
su proposta 
del 
ministro competente. La 
L. 24 gennaio 1978, n. 14 reca 
poi 
norme 
per 
il 
controllo 
parlamentare 
sulle 
nomine 
negli 
enti 
pubblici 
nazionali: 
“Il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri, il 
Consiglio dei 
ministri 
ed i 
singoli 
ministri, 
prima 
di 
procedere, 
secondo 
le 
rispettive 
competenze, 
a 
nomine, 
proposte 
o designazioni 
di 
presidenti 
e 
vicepresidenti 
di 
istituti 
e 
di 
enti 
pubblici, 
anche 
economici, 
devono 
richiedere 
il 
parere 
parlamentare 
previsto 
dalla 
presente 
legge” 
(art. 1). Per gli 
enti 
pubblici 
regionali 
è 
previsto, all’art. 10 della 


L. n. 14/1978, che 
per le 
nomine, le 
proposte 
o le 
designazioni 
dei 
presidenti 
e 
dei 
vicepresidenti 
degli 
enti 
ed istituti 
pubblici, anche 
economici, di 
competenza 
del 
presidente 
della 
regione, 
della 
giunta 
regionale 
o 
dei 
singoli 
assessori, 
le 
regioni 
provvedono 
ad 
emanare 
norme 
legislative 
nei 
limiti 
dei 
principi 
fondamentali 
risultanti 
dalla 
presente 
legge 
entro 
il 
termine 
di 
cui 
al 
secondo 
comma dell'articolo 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62; 
g) potere 
di 
indirizzo, controllo e 
vigilanza 
-da 
parte 
dell’ente 
di 
riferimento 
-sulla 
attività 
mediante 
l’approvazione 
degli 
atti 
più rilevanti 
(bilanci 
preventivi, rendiconti 
consuntivi, pianta 
organica, scioglimento degli 
organi 
di amministrazione, ecc.). 
Per gli 
enti 
del 
parastato gli 
artt. 29 e 
30 L. n. 70/1975 prevedono l'approvazione 
da 
parte 
dei 
Ministeri 
vigilanti 
delle 
delibere 
con cui 
gli 
enti 
adottano 
o 
modificano 
il 
regolamento 
organico, 
definiscono 
o 
modificano 
la 
consistenza 
organica 
di 
ciascuna 
qualifica, il 
numero dei 
dirigenti 
degli 
uffici 
e 
degli 
addetti 
agli 
uffici 
stessi, 
provvedono 
ad 
aumentare 
o 
modificare 
gli 
stanziamenti 
relativi 
a 
spese 
generali 
e 
di 
personale; 
ed inoltre, dei 
bilanci 
di 
previsione 
(con 
allegata 
la 
pianta 
organica 
vigente 
comprendente 
la 
consistenza 
numerica 
del 
personale 
di 
ciascuna 
qualifica) 
e 
dei 
conti 
consuntivi 
degli enti; 


h) controllo di legittimità affidato alla corte dei conti. 
All’uopo 
l’art. 
3, 
comma 
4, 
L. 
14 
gennaio 
1994, 
n. 
20 
dispone: 
“La 
Corte 
dei 
conti 
svolge, 
anche 
in 
corso 
di 
esercizio, 
il 
controllo 
successivo 
sulla 
gestione 
del 
bilancio 
e 
del 
patrimonio 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, 
nonché 
sulle 
gestioni 
fuori 
bilancio 
e 
sui 
fondi 
di 
provenienza 
comunitaria, 
verificando 
la 
legittimità 
e 
la 
regolarità 
delle 
gestioni, 
nonché 
il 
funzionamento 
dei 
controlli 



cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


interni 
a 
ciascuna 
amministrazione”. 
Per 
gli 
enti 
del 
parastato 
l’art. 
30, 
ultimo 
comma, 
L. 
n. 
70/1975 
dispone 
che 
questi 
sono 
sottoposti 
al 
controllo 
della 
corte 
dei 
conti, 
secondo 
le 
norme 
contenute 
nella 
legge 
21 
marzo 
1958, 
n. 
259; 


l) ammissione 
dell’ente 
ad avvalersi 
dei 
servizi 
propri 
dello Stato o della 
regione. Ad esempio: 
la 
difesa 
in giudizio e 
l’attività 
consultiva 
dell’Avvocatura 
dello Stato (artt.1 e 
43 r.D. 30 ottobre 
1933, n. 1611; 
art. 107, comma 
3, D.P.r. 24 luglio 1977, n. 616); 
l’utilizzo di 
uffici 
tecnici 
e 
corpi 
consultivi 
(art. 107, commi 1 e 2, D.P.r. n. 616/1977). 
All’evidenza 
il 
primo 
indice 
sopraindicato 
è 
autosufficiente 
e 
replica 
quanto 
previsto 
dall’art. 
4 
L. 
n. 
70/1975. 
tutti 
gli 
altri 
non 
sono 
autosufficienti, 
vanno 
combinati 
tra 
loro, 
onde 
pervenire 
-considerati 
nel 
loro 
complesso 
alla 
individuazione dell’ente pubblico. 


Alla 
stregua 
di 
quanto esposto le 
Università 
c.d. libere, mancando i 
detti 
indici, non sono enti pubblici (6). 


L’ente 
pubblico, in quanto soggetto di 
diritto, è 
dotato di 
autonoma 
capacità 
di 
imputazione 
giuridica, operante 
sia 
nel 
campo sostanziale 
-ponendo in 
essere 
atti 
amministrativi 
o negozi 
giuridici 
od operazioni 
materiali 
-che 
la 
capacità di stare in giudizio, rectius: processuale 
ex 
art. 75 c.p.c. 


2. regime giuridico dell’ente pubblico. 
La 
qualificazione 
dell’ente 
come 
pubblico 
determina 
l’applicazione 
di 
un 
peculiare 
regime 
giuridico, 
come 
riconosciuto 
dall’art. 
11 
c.c. 
secondo 
cui 
“Le 
province 
e 
i 
comuni, nonché 
gli 
enti 
pubblici 
riconosciuti 
come 
persone 
giuridiche 
godono 
dei 
diritti 
secondo 
le 
leggi 
e 
gli 
usi 
osservati 
come 
diritto 
pubblico”. 
Le 
persone 
giuridiche 
pubbliche 
-rectius: 
gli 
enti 
pubblici 
-sono 
sottratte 
alla 
disciplina 
del 
codice 
civile 
e 
sottoposte 
ad uno speciale 
regime 
appositamente 
creato per esse. tuttavia 
la 
disciplina 
degli 
enti 
pubblici 
è 
solo 
una 
disciplina 
di 
specie. La 
disciplina 
di 
genere 
dovrà 
essere 
ricavata 
dal 
codice 
civile: 
a 
questo 
si 
dovrà 
attingere 
ogni 
qual 
volta 
si 
tratterà 
di 
individuare, 
al 
di 
là 
della 
disciplina 
specifica 
contenuta 
nella 
legge 
speciale, 
la 
generica 
disciplina 
richiamata 
con la 
qualificazione 
dell’ente 
pubblico come 
persona 
giuridica. 
tanto 
al 
riguardo, 
ad 
esempio, 
alla 
disciplina 
della 
capacità 
giuridica 
e 
di 
agire, 
alla 
proprietà, 
alle 
obbligazioni, 
alla 
tutela 
dei 
diritti. 
Potranno 
essere 
applicate 
agli 
enti 
pubblici 
-sempre 
in assenza 
di 
disciplina 
specifica 
-anche 
disposizioni che regolano, le singole figure di persone giuridiche private (7). 


Gli aspetti qualificanti del detto peculiare regime (8) sono i seguenti: 


(6) conf. cons. di Stato, 11 luglio 2016, n. 3043. 
(7) Per tali 
rilievi: 
F. GALGAnO, Delle 
persone 
giuridiche, in Commentario del 
Codice 
Civile 
a 
cura di 
A. SciALOJA 
e G. BrAncA, Zanichelli 
-Foro Italiano, 1969, pp. 116-121. 
(8) 
Su 
tali 
aspetti: 
e. 
cASettA, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
cit., 
pp. 
87-93, 
il 
quale 
evidenzia 
altresì 
(p. 87) che 
la 
presenza 
di 
taluni 
aspetti 
del 
regime 
giuridico spesso sono considerati 
come 
indice 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


a) 
l’autarchia, 
ossia 
la 
possibilità 
di 
agire 
per 
il 
conseguimento 
dei 
propri 
fini 
mediante 
l’esercizio 
del 
potere 
amministrativo 
(atti, 
provvedimenti, 
accordi, 
comportamenti, 
riconducibili 
anche 
mediatamente 
al 
potere 
amministrativo). 
non 
tutti 
gli 
enti 
pubblici, 
in 
via 
ordinaria, 
esercitano 
poteri 
amministrativi 
a 
mezzo 
di 
provvedimenti 
amministrativi. 
tuttavia, 
ogni 
ente 
pubblico 
esercita 
un 
minimum 
di 
potestà 
pubblica. 
consistente 
quanto 
meno 
di 
una 
potestà 
di 
certificazione, 
produttiva 
di 
certezza 
giuridica. 
inoltre, 
almeno 
sul 
versante 
della 
propria 
organizzazione 
ogni 
ente 
dispone 
di 
una 
potestà 
organizzativa 
che 
si 
esercita 
nei 
limiti 
stabiliti 
dalla 
legge 
-che 
si 
esprime 
attraverso 
atti 
organizzativi 
relativi, 
tra 
l’altro, 
all’istituzione 
e 
soppressione 
degli 
uffici, 
al 
decentramento 
degli 
stessi, 
ai 
regolamenti 
di 
organizzazione 
e 
del 
personale; 
atti 
che 
hanno 
la 
natura 
di 
atti 
amministrativi: 
regolamenti 
o 
provvedimenti 
amministrativi. 
infine 
tutti 
gli 
enti 
pubblici 
dispongono 
della 
prerogativa 
dell’autotutela. 
i 
detti 
rilievi 
valgono 
anche 
per 
gli 
enti 
pubblici 
economici 
(9); 


b) 
l’autonomia. 
Questa 
può 
avere 
diversi 
ambiti 
(10), 
concorrenti 
od 
esclusivi: 
-normativa, 
ossia 
emanare 
-sussistente 
il 
potere 
in 
base 
a 
una 
norma 
sulla 
produzione 
giuridica 
-norme 
che 
abbiano 
efficacia 
nell’ordinamento 
generale 
(es.: regolamenti); 


-politica, di 
indirizzo, ossia 
la 
possibilità 
di 
darsi 
obiettivi 
anche 
diversi 
da quelli statuali (ciò vale per gli enti territoriali); 
-finanziaria, ossia 
la 
possibilità 
di 
decidere 
in ordine 
alle 
spese 
e 
di 
disporre 
di entrate autonome; 
-organizzativa, ossia 
la 
possibilità 
di 
darsi 
un assetto organizzativo -derivante 
normalmente 
da 
uno statuto, talora 
soggetto ad approvazione 
dell’autorità 
vigilante - diverso rispetto a modelli generali; 


- tributaria, ossia la possibilità di disporre di propri tributi; 
rivelatore 
della 
pubblicità, per cui 
vi 
è 
una 
certa 
sovrapposizione 
tra 
indici 
e 
regime; 
F.G. ScOcA 
(a 
cura 
di), Diritto amministrativo, iii edizione, Giappichelli, 2014, p. 130. 


(9) 
Ex 
plurimis: 
A.M. 
SAnDULLi, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., 
p. 
196; 
V. 
cerULLi 
ireLLi, 
Lineamenti 
del 
diritto 
amministrativo, 
cit., 
p. 
169. 
All’uopo 
si 
rileva 
che 
“non 
è 
affatto 
detto 
che 
tutti 
gli 
enti 
che 
pur 
debbono 
dirsi 
pubblici, 
siano 
dotati 
di 
simili 
poteri 
pubblicistici. 
Il 
che 
equivale 
a dire 
che 
la mancata attribuzione 
ad un ente 
di 
poteri 
del 
genere, il 
conseguente 
riconoscimento solo 
della sua capacità di 
diritto privato, non esclude 
affatto che, ciò nonostante, esso debba essere 
qualificato 
pubblico. Perché 
quel 
che 
è 
essenziale 
per 
la sua pubblicità, è 
la sua funzionalizzazione 
nei 
sensi 
accennati. E, questa, non deve 
investire 
necessariamente 
poteri 
pubblicistici, la loro attribuzione 
e 
il 
loro esercizio. Può incidere 
anche 
nell’esplicazione 
di 
capacità che 
sono solo privatistiche 
e 
di 
diritto 
comune: di 
qui, la possibilità che 
siano pubblici 
anche 
enti 
dotati 
solo di 
esse; e 
nel 
compimento di 
attività 
di 
mero fatto, in particolare 
nella prestazione 
di 
servizi: di 
qui 
la possibilità che 
siano pubblici 
anche 
enti 
il 
cui 
ruolo 
sia 
circoscritto 
solo 
a 
queste 
altre”: 
così: 
L. 
MAzzArOLLi, 
G. 
PericU, 
A. 
rOMAnO, 
F.A. rOVerSi 
MOnAcO, F.G. ScOcA 
(a cura di), Diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 155. 
(10) 
i 
diversi 
ambiti 
dell’autonomia 
possono 
anche 
afferire 
agli 
uffici 
e 
organi 
di 
un 
ente 
pubblico. 
in questa 
evenienza 
un organo o un ufficio può avere 
maggiore 
indipendenza 
o maggiori 
poteri 
rispetto 
ad altri 
organi 
o uffici 
dello stesso ente; 
su tali 
aspetti: 
M.S. GiAnnini, Diritto amministrativo, vol. i, 
cit., pp. 240-241. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


-contabile, ossia 
la 
potestà 
al 
normale 
procedimento previsto per l’erogazione 
di 
spese 
e 
l’introito di 
entrate; 
in particolare 
costituisce 
espressione 
di tale autonomia la sussistenza di un bilancio distinto da quello di altri enti; 
c) 
l’autotutela. 
Agli 
enti 
pubblici 
è 
riconosciuta 
la 
potestà 
di 
farsi 
ragione 
da 
sé 
(naturalmente 
secondo diritto) per le 
vie 
amministrative 
(e 
salvo ogni 
sindacato 
giurisdizionale: 
art. 
113 
cost.), 
ossia 
di 
risolvere 
un 
conflitto 
attuale 
o 
potenziale 
di 
interessi 
e, 
in 
particolare, 
di 
sindacare 
la 
validità 
dei 
propri 
atti, 
producendo effetti 
incidenti 
su di 
essi 
a 
prescindere 
da 
una 
verifica 
giurisdizionale. 
Si distingue tra autotutela 
-decisoria, esprimentesi 
mediante 
l’adozione 
di 
provvedimenti 
(sospensione, 
convalida, revoca, annullamento d’ufficio). ciò sulla 
base 
della 
previsione, 
in via generale, contenuta nel capo iV 
bis 
L. 7 agosto 1990, n. 241; 
-giustiziale, ossia 
le 
decisioni 
dei 
ricorsi 
amministrativi. Anche 
questo è 
un potere 
di 
carattere 
generale, sulla 
base 
delle 
previsioni 
di 
cui 
al 
D.P.r. 24 
novembre 1971, n. 1199; 
-esecutiva, 
mediante 
il 
compimento 
di 
operazioni 
(es: 
demolizione 
di 
opere 
abusive; 
art. 
54 
cod. 
nav. 
nel 
caso 
di 
occupazioni 
od 
innovazioni 
abusive 
sul 
demanio marittimo), e 
sanzionatoria 
(accertamento di 
infrazioni 
amministrative 
ed adozione 
delle 
conseguenti 
sanzioni). Questo potere 
non è 
di 
carattere 
generale 
ed 
è 
ammesso 
solo 
nei 
casi 
per 
i 
quali 
la 
legge 
lo 
prevede 
(11); 


d) 
l’autogoverno, 
ossia 
la 
facoltà 
di 
amministrarsi 
attraverso 
organi 
i 
cui 
membri 
sono stai 
eletti 
dai 
soggetti 
che 
ne 
fanno parte. ciò vale 
solo nei 
casi 
previsti dalla legge (es.: enti territoriali); 
e) le 
persone 
fisiche 
legate 
da 
un rapporto di 
servizio agli 
enti 
pubblici 
sono assoggettate 
ad un particolare 
regime 
di 
responsabilità 
penale 
(artt. 314 
e ss. c.p.), civile e amministrativa; 
f) l’attività 
che 
costituisce 
l’esercizio di 
poteri 
amministrativi 
è 
retta 
da 
principi 
e 
regole 
peculiari, quali 
quelli 
contenuti 
nella 
L. n. 241/1990 relativa 
ai 
procedimenti 
amministrativi. Anche 
l’attività 
che 
gli 
enti 
svolgono utilizzando 
gli 
strumenti 
di 
diritto 
comune 
è 
disciplinata 
da 
norme 
specifiche, 
volte 
-ad esempio -ad assicurare 
che 
la 
scelta 
del 
contraente 
sia 
effettuata 
nel 
rispetto 
dei principi di imparzialità e di economicità; 
g) i 
beni 
strumentali 
alla 
realizzazione 
dell’interesse 
pubblico del 
quale 
l’ente 
è 
attributario 
sono 
sottoposti 
ad 
un 
regime 
speciale. 
trattasi 
dei 
beni 
del 
demanio e del patrimonio indisponibile; 
h) 
sono 
soggetti 
alle 
norme 
della 
contabilità 
pubblica 
-specie 
con 
riguardo 
alla 
tutela 
della 
sostenibilità 
finanziaria 
-ed al 
controllo della 
corte 
dei conti; 
i) 
per 
la 
riscossione 
dei 
loro 
crediti 
possono 
utilizzare 
strumenti 
per 
conseguire 
anche 
coattivamente, 
a 
mezzo 
dell’autotutela, 
la 
soddisfazione 
dei 
loro 
(11) Ex plurimis: 
A.M. SAnDULLi, manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., pp. 196-197. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


interessi. 
Viene 
in 
rilievo 
il 
ruolo, 
con 
riguardo 
alle 
entrate 
di 
diritto 
pubblico; 
l’ingiunzione 
fiscale, 
con 
riguardo 
alle 
entrate 
di 
diritto 
pubblico 
ed 
altresì 
per 
le 
entrate 
patrimoniali 
di 
diritto 
privato 
(art. 
1 
r.D. 
14 
aprile 
1910, 
n. 
639) 
(12); 


l) 
la 
partecipazione 
degli 
enti 
pubblici 
al 
capitale 
delle 
società 
per azioni, 
determina una peculiare disciplina sui relativi poteri (artt. 2449 e 2451 c.c.); 
m) 
gli 
enti 
pubblici 
-perseguendo finalità 
la 
realizzazione 
delle 
quali 
è 
considerata 
essenziale 
e 
indispensabile 
dall’ordinamento 
-non 
possono 
essere 
dichiarati 
falliti 
(art. 2221 c.c.) e 
non possono estinguersi 
per atto di 
volontà 
(e 
ancor meno per propria 
volontà), sia 
pure 
mediante 
fusione 
con altri 
enti, 
se 
non alle 
condizioni 
stabilite 
dall’ordinamento. Occorre 
dunque 
una 
legge 
o 
un atto amministrativo posto in esecuzione 
di 
una 
legge: 
ciò vale 
anche 
per 
gli enti territoriali (artt. 132-133 cost.) (13); 
n) 
ulteriore 
caratteristica 
degli 
enti 
pubblici 
è 
una 
particolare 
posizione 
di 
soggezione 
di 
essi 
nei 
confronti 
degli 
enti 
di 
riferimento, 
massimamente 
dello 
Stato 
o 
della 
regione, 
destinata 
essenzialmente 
ad 
assicurare 
l’osservanza 
della 
legalità 
e 
l’unitarietà 
della 
funzione 
amministrativa 
nel 
quadro 
del 
rispettivo sistema. 
il 
Governo 
dispone 
del 
potere 
di 
sottoporre 
gli 
enti 
che 
mettono 
capo 
allo 
Stato (come 
descritto nel 
precedente 
paragrafo), e 
le 
stesse 
regioni 
(art. 126 
cost.), ad amministrazione 
straordinaria 
in caso di 
gravi 
illegittimità 
o di 
impossibilità 
di 
funzionamento 
dell’amministrazione 
ordinaria; 
e 
di 
altrettali 
poteri 
è 
da 
ritenere 
che 
dispongano le 
regioni 
nei 
confronti 
degli 
enti 
che 
a 
loro 
mettono capo. il 
Governo dispone 
inoltre 
del 
potere 
di 
annullare 
di 
ufficio, a 
tutela 
dell'unità 
dell'ordinamento, 
atti 
amministrativi 
illegittimi 
di 
qualsivoglia 
ente 
pubblico, 
con 
l’eccezione 
degli 
atti 
amministrativi 
illegittimi 
delle 
regioni 
e 
delle 
Province 
autonome 
(art. 
2, 
comma 
3, 
lettera 
p, 
L. 
23 
agosto 
1988, 


n. 400). nel 
quadro unitario dell’azione 
amministrativa, tutti 
gli 
enti 
pubblici 
sono 
soggetti 
alla 
potestà 
statale 
di 
coordinazione, 
nel 
sistema 
della 
quale 
spicca 
la 
programmazione. essi 
inoltre 
sono soggetti 
ad una 
certa 
potestà 
di 
indirizzo dello Stato o dell’altro ente 
pubblico (regione, comune, ecc.) di 
riferimento 
(14). 
(12) L’art. 21 ter 
del 
L. n. 241/1990 dispone: 
“1. Nei 
casi 
e 
con le 
modalità stabiliti 
dalla legge, 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
possono 
imporre 
coattivamente 
l'adempimento 
degli 
obblighi 
nei 
loro 
confronti. 
Il 
provvedimento costitutivo di 
obblighi 
indica il 
termine 
e 
le 
modalità dell'esecuzione 
da parte 
del 
soggetto 
obbligato. 
Qualora 
l'interessato 
non 
ottemperi, 
le 
pubbliche 
amministrazioni, 
previa 
diffida, 
possono provvedere 
all'esecuzione 
coattiva nelle 
ipotesi 
e 
secondo le 
modalità previste 
dalla legge. 2. 
Ai 
fini 
dell'esecuzione 
delle 
obbligazioni 
aventi 
ad 
oggetto 
somme 
di 
denaro 
si 
applicano 
le 
disposizioni 
per 
l'esecuzione 
coattiva 
dei 
crediti 
dello 
Stato”. 
All’evidenza, 
in 
virtù 
del 
comma 
2, 
le 
disposizioni 
per 
l'esecuzione 
coattiva 
dei 
crediti 
dello 
Stato 
contenute 
nel 
r.D. 
n. 
639/1910 
si 
applicano 
alle 
pubbliche 
amministrazioni (cui al primo comma), ossia agli enti pubblici. 
(13) A.M. SAnDULLi, 
manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 199. 
(14) Su tali aspetti: 
A.M. SAnDULLi, manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 198. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


3. Apparato organizzativo dell’ente pubblico. 
Per 
organizzazione 
s’intende 
un 
disegno 
preordinato 
di 
uffici 
e 
di 
relative 
attribuzioni 
(15), la 
predisposizione 
di 
strumenti 
per il 
raggiungimento di 
dati 
risultati 
(16). 
L’organizzazione, 
giusta 
le 
previsioni 
dell’art. 
97, 
comma 
2 
e 
95, comma 
3, cost. -costituisce 
oggetto di 
riserva 
relativa 
di 
legge; 
sicché 
le 
disposizioni 
di 
legge 
possono 
regolare 
integralmente 
la 
materia 
o 
limitarsi, 
cosa che di solito avviene, alla regolazione degli elementi caratterizzanti. 


Le 
amministrazioni 
pubbliche 
sono 
organizzazioni 
complesse 
nelle 
quali 
gli 
uffici 
si 
aggregano 
secondo 
linee 
di 
sviluppo 
verticali 
e 
orizzontali, 
in 
modo 
che 
finiscono per apparire 
morfologicamente 
come 
piramidi, ai 
diversi 
livelli 
delle 
quali 
si 
situano 
gli 
uffici 
secondo 
un 
criterio 
denominato 
-in 
scienza 
dell’amministrazione 
-gerarchico. Difatti, nell’ambito di 
una 
qualsiasi 
struttura 
organizzata, nella 
quale 
operino una 
pluralità 
di 
uffici 
allo scopo di 
raggiungere 
un obiettivo comune 
è 
ineliminabile 
il 
fenomeno dell’autorità. tutte 
le 
attività 
che 
nell’organizzazione 
si 
svolgono 
ai 
diversi 
livelli 
della 
scala 
sono 
incardinate 
in un sistema 
di 
vincoli, intesi 
ad evitare 
che 
l’attività 
posta 
in essere 
da 
alcuni 
uffici 
si 
riveli 
inidonea 
a 
perseguire 
il 
fine 
o i 
fini 
dell’organizzazione 
oppure 
si 
ponga 
in contrasto con le 
attività 
svolte 
da 
altri 
uffici. ed è 
mediante 
il 
sistema 
dei 
vincoli 
che 
al 
profilo dell’autorità 
può essere 
ricollegato 
il profilo della responsabilità. 


ciascun ufficio ha 
una 
sua 
collocazione 
nella 
scala 
o “linea” 
gerarchica 
(line), 
cosicché 
tali 
uffici 
sono 
detti 
anche 
uffici 
di 
line. 
Possono 
peraltro 
aversi 
nella 
struttura 
organizzativa 
anche 
uffici 
che 
restano fuori 
dalla 
linea 
gerarchica, 
ed 
ai 
quali 
sono 
affidati 
compiti 
o 
ruoli 
ausiliari, 
indirettamente 
collegati 
con gli scopi della organizzazione: essi vengono denominati uffici di 
staff. 


Sicché, 
a 
seconda 
del 
livello 
che, 
nella 
struttura 
organizzativa 
hanno 
il 
criterio aggregativo gerarchico (di 
line) o il 
criterio aggregativo funzionale 
(o 
di 
staff), 
le 
strutture 
stesse 
possono 
essere 
di 
tipo 
gerarchico 
(strutture 
di 
line), 
di 
tipo funzionale 
(strutture 
di 
staff), o di 
tipo gerarchico-funzionale 
(strutture 
di 
line-staff). 
Le 
amministrazioni 
pubbliche 
tendono 
sempre 
più 
ad 
essere 
modellate 
secondo il 
criterio 
line-staff, prevalente 
rimanendo peraltro la 
costruzione 
gerarchica o verticale (17). 


L’ente 
pubblico può presentare 
una 
organizzazione 
compatta, ove 
consti 
di 
una 
entità 
formalmente 
unitaria 
(pur nella 
pluralità 
dei 
suoi 
uffici), oppure 
una 
organizzazione 
disaggregata, ove 
consti 
-al 
suo interno -di 
una 
pluralità 


(15) L. MAzzArOLLi, G. PericU, A. rOMAnO, F.A. rOVerSi 
MOnAcO, F.G. ScOcA 
(a 
cura 
di), Diritto 
amministrativo, vol. i, cit., p. 282. 
(16) 
G. 
PALeOLOGO, 
voce 
organizzazione 
amministrativa, 
in 
Enc. 
del 
Diritto, 
Vol. 
XXXi, 
Giuffré, 
1981, p. 135. 
(17) Sulla 
piramide 
gerarchica: 
L. MAzzArOLLi, G. PericU, A. rOMAnO, F.A. rOVerSi 
MOnAcO, 
F.G. ScOcA 
(a cura di), Diritto amministrativo, vol. i, cit., pp. 355-356. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


di 
organizzazioni 
formalmente 
intese 
(come 
avviene 
nell’ambito dello Stato, 
il quale è un coacervo di soggetti di diritto). 


L’ente 
si 
articola 
in uffici 
semplici 
o complessi, a 
seconda 
degli 
interessi 
e 
delle 
dimensioni 
dell’ente. Alcuni 
degli 
uffici 
sono altresì 
organi 
dell’ente, 
ossia preposti all’emanazione di manifestazioni di volontà o di giudizio. 

L’ente 
pubblico 
ha 
degli 
organi 
necessari 
e 
degli 
organi 
eventuali. 
Organi 
necessari 
sono 
gli 
organi 
di 
governo 
con 
funzioni 
di 
indirizzo 
politico 
e 
gli 
organi 
dirigenziali 
con compiti 
di 
concreta 
gestione. Organo necessario è 
altresì 
l’Organismo 
indipendente 
di 
valutazione 
della 
performance 
(art. 
14 
D.L.vo 
27 ottobre 
2009, n. 150). Organi 
eventuali 
sono, ad esempio, gli 
uffici 
tecnici, 
quali 
un ufficio legale, la 
cui 
presenza 
non è 
necessaria 
perché 
sia 
configurabile 
l’ente. 


4. Attribuzioni dell’ente pubblico e modo del loro svolgimento. 
L’attribuzione 
è 
il 
complesso 
degli 
interessi 
affidati, 
dalla 
legge, 
alla 
cura 
di 
un ente 
pubblico. trattasi 
dei 
compiti 
conferiti 
all’ente. La 
violazione 
delle 
norme 
in tema 
di 
attribuzione 
determina 
la 
nullità 
del 
provvedimento amministrativo 
(art. 21 septies 
L. n. 241/1990). 


nella 
evenienza 
che 
l’ente 
abbia 
più di 
un organo viene 
in gioco il 
concetto 
di 
competenza: 
la 
competenza 
è 
la 
frazione 
di 
attribuzione 
spettante 
all’organo. 
Ove 
l’ente 
abbia 
un 
unico 
organo 
la 
competenza 
si 
risolve 
nella 
attribuzione. 
ciascun 
organo 
ha 
dalla 
legge 
individuato 
l’ambito 
delle 
proprie 
funzioni 
(art. 97, comma 
3, cost.), che 
in quanto tale 
non può essere 
derogato 
(a 
pena 
di 
illegittimità) 
per 
volontà 
dell’amministrazione. 
tale 
regola 
si 
estende 
sia 
all’ambito delle 
relazioni 
di 
equiordinazione, che 
alle 
relazioni 
di 
sopraordinazione 
sub specie 
di 
direttiva, restando escluso l’ambito delle 
relazioni 
di 
sopraordinazione 
sub specie 
di 
gerarchia, dove 
non opera 
il 
principio 
di 
competenza. La 
violazione 
delle 
norme 
in tema 
di 
competenza 
determina 
l’annullabilità 
del 
provvedimento amministrativo (art. 21 octies, comma 
1, L. 
n. 241/1990) (18). 


L’unico 
organo 
o 
gli 
organi 
esercitano, 
poi 
-rispettivamente 
-l’attribuzione 


o 
lo 
spicchio 
di 
attribuzione 
dei 
quali 
hanno 
la 
titolarità. 
in 
dati 
casi 
l’esercizio 
del 
compito 
spetta 
non 
all’organo 
titolare, 
ma 
ad 
organi 
diversi 
dello 
stesso 
ente 
o 
di 
un 
diverso 
ente; 
tanto 
accade 
nei 
casi 
di 
avocazione, 
delega 
e 
sostituzione. 
Vi 
è 
poi 
la 
ipotesi, 
diversa 
dalle 
precedenti, 
dell’avvalimento 
(19). 
Avocazione 


nella 
fattispecie 
dell’avocazione 
un ente 
decide 
di 
esercitare, sulla 
base 


(18) 
Su 
attribuzione 
e 
competenza, 
ex 
plurimis: 
M.S. 
GiAnnini, 
Diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., pp. 233-237. 
(19) Su tali figure: 
AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, Giappichelli, 2017, pp. 78-79. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 
259 


di 
motivi 
di 
interesse 
pubblico 
o 
comunque 
di 
giustificate 
ragioni 
di 
ordine 
organizzativo o funzionale, un potere 
attribuito alla 
competenza 
di 
altro ente 
e 
indipendentemente 
dall’inadempimento 
dell’avocato 
istituzionalmente 
competente. 
ciò, con atto discrezionale, tutte 
le 
volte 
che 
occorre 
per la 
cura 
di 
un 
determinato 
interesse 
pubblico 
concreto. 
L’avocazione 
opera 
anche 
nei 
rapporti 
interorganici 
(un 
organo 
si 
sostituisce 
ad 
un 
altro 
organo 
dello 
stesso 
ente 
nell’esercizio del potere). 


tale 
potere 
sussiste 
in via 
generale, a 
prescindere 
da 
una 
puntuale 
disposizione, 
nell’ambito 
delle 
relazioni 
di 
sopraordinazione 
sub 
specie 
di 
gerarchia, 
mentre 
non 
sussiste 
in 
via 
generale 
-attesa 
la 
inderogabilità 
dell’ordine 
legale 
delle 
competenze 
-nell’ambito delle 
relazioni 
di 
equiordinazione 
e 
di 
sopra-
ordinazione 
sub 
specie 
di 
direttiva 
salvi 
i 
casi 
di 
espressa 
previsione 
normativa. 
in coerenza 
con tali 
rilievi 
-atteso il 
rapporto di 
direzione 
e 
non di 
gerarchia 
tra 
gli 
organi 
politici 
e 
la 
dirigenza 
-“Il 
ministro 
non 
può 
revocare, 
riformare, 
riservare 
o avocare 
a sé 
o altrimenti 
adottare 
provvedimenti 
o atti 
di 
competenza 
dei 
dirigenti. In caso di 
inerzia o ritardo il 
ministro può fissare 
un termine 
perentorio 
entro 
il 
quale 
il 
dirigente 
deve 
adottare 
gli 
atti 
o 
i 
provvedimenti. Qualora l'inerzia permanga, o in caso di 
grave 
inosservanza 
delle 
direttive 
generali 
da 
parte 
del 
dirigente 
competente, 
che 
determinino 
pregiudizio per 
l'interesse 
pubblico, il 
ministro può nominare, salvi 
i 
casi 
di 
urgenza previa contestazione, un commissario ad acta, dando comunicazione 
al 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
del 
relativo provvedimento” 
(art. 14, 
comma 3, D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165). 


Delega 


normalmente 
l’ente 
cura 
in modo diretto gli 
interessi 
dei 
quali 
è 
attributario. 
in 
determinati 
casi 
previsti 
dalla 
legge 
-attese 
le 
previsioni 
di 
cui 
all’art. 
97, commi 
2 e 
3, cost. -e 
salve 
le 
relazioni 
di 
sopraordinazione 
sub specie 
di 
gerarchia, 
la 
cura 
dei 
detti 
interessi 
può 
essere 
affidata 
ad 
un 
altro 
ente. 
Lo 
strumento con il 
quale 
vi 
è 
l’affidamento è 
la 
delega 
(20). La 
delega 
oltrecché 
intersoggettiva, può essere 
anche 
interorganica 
(delegante 
e 
delegato sono organi 
dello stesso ente). 


Si 
ricorre 
alla 
delega 
allorché 
l’ente 
titolare 
delle 
funzioni 
non è 
in grado 
di 
svolgerle 
in maniera 
adeguata 
oppure 
allorché 
un dato ente, o altro organo 
dello 
stesso 
ente, 
ha 
una 
specifica 
professionalità 
in 
un 
dato 
settore 
sicché 
può 
essere opportuno affidargli un dato compito. 


con 
la 
delega 
la 
titolarità 
della 
funzione 
resta 
in 
capo 
al 
delegante, 
l’eser


(20) 
Sulla 
delega: 
G. 
cOLzi, 
voce 
Delegazione 
amministrativa, 
in 
Novissimo 
Digesto, 
vol. 
V, 
Utet, 1960, pp. 351-355; 
G. MieLe, voce 
Delega (diritto amministrativo), in Enc. del 
Diritto, vol. Xi, 
Giuffré, 
1962, 
pp. 
905-918; 
M.S. 
GiAnnini, 
Diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit.; 
A.M. 
SAnDULLi, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., 
p. 
232; 
e. 
cASettA, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
cit., 
pp. 
164-165. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


cizio viene 
affidato al 
delegato. La 
natura 
dell’atto di 
delega 
può essere 
o direttamente 
la 
legge 
oppure 
un 
provvedimento 
amministrativo, 
nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge. Viene, comunque, in rilievo un atto unilaterale 
rispetto al 
quale 
non è richiesto un atto di adesione del delegato. 


i caratteri 
essenziali 
della 
delega 
sono stati 
così 
individuati: 
è 
un atto dispositivo 
di 
un soggetto o di 
un organo di 
un soggetto con cui 
questo, fondandosi 
sulla 
propria 
competenza 
a 
provvedere 
su 
un 
determinato 
oggetto 
attribuisce 
ad altro soggetto o organo i 
poteri 
e 
le 
facoltà 
che 
reputa 
necessari 
affinché 
questi 
possa, in modo altrettanto legittimo ed efficace 
che 
il 
primo, 
provvedere 
in 
ordine 
all’oggetto 
stesso, 
entro 
i 
limiti 
e 
secondo 
i 
criteri 
stabiliti 
nell’atto di 
delegazione 
(vi 
è 
una 
estensione 
della 
competenza 
dal 
delegante 
al delegato) (21). 


L’oggetto della 
delega 
può esser costituito dall’emanazione 
-una 
o più 
volte 
-di 
un determinato atto, o di 
più tipi 
di 
atto o di 
tutti 
gli 
atti 
relativi 
a 
una data materia. 


La 
circostanza 
se 
la 
delega 
crei 
nel 
delegato una 
legittimazione 
esclusiva 
in 
ordine 
all’oggetto 
della 
delega 
(con 
impedimento 
del 
delegante 
all’esercizio 
della 
propria 
competenza 
in 
ordine 
al 
detto 
oggetto) 
o 
una 
legittimazione 
concorrente 
a quella del delegante è una questione d’interpretazione delle disposizioni 
che prevedono i singoli casi di delega (22). 


il 
contenuto 
del 
particolare 
rapporto 
che 
viene 
istituito 
fra 
delegante 
e 
delegato 
in seguito alla 
delega 
pone 
il 
primo in una 
situazione 
di 
supremazia 
rispetto 
al 
secondo, 
essendo 
elementi 
di 
esso 
alcuni 
poteri 
e 
diritti 
del 
primo 
cui 
fanno riscontro, rispettivamente, uno stato di 
soggezione 
ed obblighi 
del 
secondo. 
Anzi, 
prima 
ancora, 
occorre 
dire 
che 
la 
delega 
è 
efficace 
per 
la 
sola 
statuizione 
del 
delegante: 
ciò sia 
nel 
senso che 
non è 
richiesto il 
consenso del 
delegato, sia 
nel 
senso che 
questo non può né 
rifiutare, né 
rinunciare 
alla 
delega, 
né 
trasferire 
ad altri 
l’esercizio della 
funzione 
(delegatus 
delegare 
non 
potest), ma darvi applicazione (23). 

tra 
i 
poteri 
e 
diritti 
del 
delegante 
si 
richiama: 
impartire, 
nell’atto 
di 
delega 


o 
successivamente, 
direttive 
-anche 
vincolanti 
-al 
delegato 
per 
l’esercizio 
della 
funzione, 
stabilendo 
altresì 
istruzioni, 
criteri, 
obiettivi 
e 
durata; 
esercitare 
la 
vigilanza 
ed il 
controllo sulla 
attività 
posta 
in essere 
dal 
delegato; 
revocare, 
in 
ogni 
momento, 
la 
delega 
per 
sopravenute 
esigenze 
di 
interesse 
pubblico; 
(21) così G. MieLe, voce 
Delega (diritto amministrativo), cit., p. 909. 
(22) 
così: 
G. 
MieLe, 
voce 
Delega 
(diritto 
amministrativo), 
cit., 
pp. 
911-912. 
contrario 
M.S. 
GiAnnini, 
Diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 318 secondo cui 
“il 
delegante, pur 
avendo conferito ad altri 
l’esercizio del 
potere 
di 
cui 
è 
titolare, in linea di 
principio può ancora esercitarlo: l’atto di 
delega non 
ha effetto privativo; è 
eccezionale 
il 
caso in cui 
ha invece 
tale 
effetto, onde 
il 
delegante 
abbisogna di 
un 
atto 
di 
avocazione 
per 
riprendere 
l’esercizio 
del 
proprio 
potere”; 
egualmente 
contrario 
A.M. 
SAnDULLi, 
manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 622. 
(23) Per tali aspetti: 
G. MieLe, voce 
Delega (diritto amministrativo), cit., pp. 914-915. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


avocare 
l’esercizio 
di 
uno 
specifico 
compito 
l’atto 
di 
delega 
nei 
casi 
di 
trasgressione 
delle 
direttive; 
annullare 
per illegittimità 
gli 
atti 
emanati 
dal 
delegato 
in base alla delegazione. 

il 
delegato svolge 
i 
compiti 
affidatigli 
con la 
propria 
organizzazione 
amministrativa; 
i 
costi 
dello 
svolgimento 
dell’attività 
delegata 
devono 
ovviamente 
essere 
ristorati 
dal 
delegante. La 
disciplina 
degli 
aspetti 
finanziari 
è, di 
solito, 
regolata all’atto della delega. 


Gli 
atti 
posti 
in 
essere 
dal 
delegato 
nell’esercizio 
della 
delega 
si 
imputano 
a 
quest’ultimo e 
non al 
delegante. Difatti 
non viene 
in rilievo -nella 
delega 
alcun 
rapporto 
organico; 
il 
delegato 
non 
è 
un 
organo 
del 
delegante, 
ma 
un 
soggetto 
distinto, con imputazioni 
distinte. Sicché 
è 
il 
delegato, ad esempio, a 
rispondere 
di 
eventuali 
atti 
illeciti 
(art. 2043 c.c.) posti 
in essere 
nell’esercizio 
della delega (24). 


il 
risultato 
dell’attività 
del 
delegato 
si 
imputa, 
invece, 
al 
delegante, 
atteso 
che vengono in rilievo interessi affidati alla cura di quest’ultimo. 


La 
delega 
dà 
luogo al 
fenomeno che 
viene 
indicato come 
esercizio indiretto 
della funzione amministrativa (25). 


L’art. 
16, 
comma 
1, 
lett. 
d, 
D.L.vo 
n. 
165/2001 
prevede, 
in 
via 
generale, 
che 
i 
dirigenti 
degli 
uffici 
dirigenziali 
generali 
possano 
delegare 
l’esercizio 
degli 
atti 
rientranti 
nella 
competenza 
dei 
propri 
uffici 
nei 
confronti 
dei 
dirigenti, 
i 
quali 
svolgono 
tutti 
i 
compiti 
ad 
essi 
delegati 
(art. 
17 
comma 
1, 
lett. 
c, 
D.L.vo 


n. 
165/2001). 
Questi 
ultimi, 
al 
loro 
volta 
-ex 
art. 
17 
comma 
1 
bis, 
D.L.vo 
n. 
165/2001 
-per 
specifiche 
e 
comprovate 
ragioni 
di 
servizio, 
possono 
delegare 
per 
un 
periodo 
di 
tempo 
determinato, 
con 
atto 
scritto 
e 
motivato, 
alcune 
delle 
competenze 
comprese 
nelle 
funzioni 
di 
cui 
alle 
lettere 
b), 
d) 
ed 
e) 
del 
comma 
1 
a 
dipendenti 
che 
ricoprano 
le 
posizioni 
funzionali 
più 
elevate 
nell'ambito 
degli 
uffici 
ad 
essi 
affidati 
(non 
si 
applica 
in 
ogni 
caso 
l'art. 
2103 
c.c.). 
La 
L. 
23 
agosto 
1988, 
n. 
400 
-recante 
la 
disciplina 
dell'attività 
di 
Governo 
e 
ordinamento della 
Presidenza 
del 
consiglio dei 
Ministri 
-prevede 
due 
casi 
di 
deleghe: 
deleghe 
di 
funzioni 
dal 
Presidente 
del 
consiglio 
dei 
Ministri 
ai 
Ministri 
senza 
portafoglio, 
o 
in 
mancanza 
di 
questi, 
ad 
altri 
Ministri 
(art. 
9, 
commi 
1 
e 
2); 
deleghe 
di 
compiti 
da 
parte 
dei 
Ministri 
ai 
sottosegretari 
di 
Stato (art. 
10, comma 3). 


L’art. 
54, 
comma 
10, 
D.L.vo 
18 
agosto 
2000, 
n. 
267 
prevede 
la 
delega 
dell'esercizio 
delle 
funzioni 
di 
competenza 
statale 
dal 
sindaco 
al 
presidente 
del 
consiglio circoscrizionale; 
ove 
non siano costituiti 
gli 
organi 
di 
decentra


(24) Arg. ex 
art. 18, comma 
3, D.P.r. 10 gennaio 1957, n. 3 secondo cui: 
“L'impiegato, invece, è 
responsabile 
se 
ha 
agito 
per 
delega 
del 
superiore”. 
La 
circostanza 
è 
pacifica 
in 
dottrina 
e 
giurisprudenza: 
ex 
plurimis 
A.M. 
SAnDULLi, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., 
p. 
622; 
e. 
cASettA, 
manuale 
di diritto amministrativo, cit., p. 164. 
(25) Ex 
plurimis: 
L. MAzzArOLLi, G. PericU, A. rOMAnO, F.A. rOVerSi 
MOnAcO, F.G. ScOcA 
(a 
cura di), Diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 400. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


mento 
comunale, 
il 
sindaco 
può 
conferire 
la 
delega 
a 
un 
consigliere 
comunale 
per l'esercizio delle funzioni nei quartieri e nelle frazioni. 


Dalla 
delega 
in 
senso 
proprio, 
va 
distinta 
la 
cd. 
delega 
di 
firma. 
nella 
delega 
di 
firma 
un 
organo, 
mantenendo 
l’esercizio 
di 
un 
dato 
potere, 
delega 
un 
altro 
organo 
o 
un 
altro 
funzionario 
non 
titolare 
di 
organo 
il 
compito 
della 
firma 
degli 
atti 
nei 
quali 
il 
potere 
stesso 
si 
esercita. 
La 
delega 
di 
firma 
è 
generalmente 
ammessa 
da 
parte 
del 
Ministro 
in 
favore 
dei 
sottosegretari 
di 
Stato, 
nonché 
dei 
dirigenti. 
L’atto 
firmato 
dal 
delegato, 
anche 
se 
è 
il 
frutto 
dell’attività 
decisionale 
di 
quest’ultimo, 
resta 
imputato 
all’organo 
delegante, 
il 
quale 
ne 
risponde 
nei 
confronti 
dei 
terzi, 
diversamente 
da 
quanto 
valevole 
nel 
caso 
di 
delega 
in 
senso 
proprio; 
la 
figura 
è 
avvicinabile 
all’istituto 
della 
rappresentanza 
(26). 


Sostituzione 


in molti 
casi 
la 
normazione 
prevede 
in capo ad un ente 
nei 
confronti 
di 
un altro ente 
(in genere 
si 
tratta 
di 
enti 
sottoposti 
alla 
vigilanza 
del 
primo) il 
potere 
di 
sostituirsi 
ad esso nel 
compimento di 
determinate 
operazioni 
o nel-
l’adozione 
di 
determinati 
atti 
che 
siano obbligatori 
per legge, nella 
evenienza 
di 
inerzie 
o di 
conflitti 
di 
interesse 
o per far fronte 
ad esigenze 
straordinarie 
e 
d’urgenza 
(27). 
La 
sostituzione 
può 
essere 
anche 
interorganica 
(sostituto 
e 
sostituito 
sono organi 
dello stesso ente). La 
giurisprudenza 
sottolinea 
che 
il 
legittimo 
esercizio del 
potere 
di 
sostituzione, salvi 
i 
casi 
d’urgenza, richiede 
la 
previa diffida (28). 


tale 
potere 
sussiste 
in 
via 
generale 
-a 
prescindere 
da 
una 
puntuale 
disposizione 
-nell’ambito delle 
relazioni 
di 
sopraordinazione 
sub specie 
di 
gerarchia; 
può 
sussistere, 
ove 
previsto, 
nelle 
attività 
di 
controllo; 
mentre 
non 
sussiste 
in via 
generale 
-attesa 
la 
inderogabilità 
dell’ordine 
legale 
delle 
competenze 
-nell’ambito 
delle 
relazioni 
di 
equiordinazione, 
e 
di 
sopraordinazione 
sub 
specie 
di 
direttiva, 
con 
l’eccezione 
del 
potere 
sostitutivo 
nei 
casi 
di 
inerzia 
e salvi i casi di espressa previsione normativa. 


ciò per il principio di continuità delle funzioni amministrative. 


nella 
costituzione 
un simile 
potere 
è 
previsto nell’art. 120, comma 
2, a 
termini 
del 
quale 
“Il 
Governo 
può 
sostituirsi 
a 
organi 
delle 
regioni, 
delle 
Città 
metropolitane, 
delle 
Province 
e 
dei 
Comuni 
nel 
caso 
di 
mancato 
rispetto 
di 
norme 
e 
trattati 
internazionali 
o 
della 
normativa 
comunitaria 
oppure 
di 
pericolo 
grave 
per 
l'incolumità 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, 
ovvero 
quando 
lo 
richiedono 
la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e 
in particolare 
la 
tutela 
dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
sociali, 
prescindendo dai 
confini 
territoriali 
dei 
governi 
locali. La legge 
definisce 
le 


(26) in tal senso G. MieLe, voce 
Delega (diritto amministrativo), cit., p. 917. 
(27) caso da 
ricondurre 
a 
questa 
fattispecie 
è 
quello della 
Giunta 
municipale 
che 
si 
sostituisce 
in 
simili casi al consiglio comunale nelle variazioni di bilancio: art. 42, comma 4, D.L.vo n. 267/2000. 
(28) Su tale figura e. cASettA, manuale di diritto amministrativo, cit., pp. 102-103. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


procedure 
atte 
a garantire 
che 
i 
poteri 
sostitutivi 
siano esercitati 
nel 
rispetto 
del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. 


nell’illustrare 
sopra 
l’avocazione 
già 
si 
è 
fatto cenno alla 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 
14, 
comma 
3, 
D.L.vo 
n. 
165/2001 
dei 
poteri 
sostitutivi 
attivabili 
dal Ministro a fronte di inerzie della dirigenza. 


il 
potere 
sostitutivo in caso di 
inerzia 
può essere 
esercitato direttamente 
da 
un 
organo 
dell’ente 
sostituto 
ovvero 
da 
un 
commissario 
nominato 
dall’ente 
sostituto. 


Quando 
si 
esercitano 
i 
poteri 
sostitutivi 
il 
sostituto 
imputa 
al 
sostituto, 
oltrecché 
il 
risultato 
dell’attività 
anche 
l’atto; 
in 
tale 
ruolo 
il 
sostituto 
agisce 
quale 
organo 
straordinario 
del 
sostituto. 
Gli 
organi 
ordinari 
dell’ente 
possono 
continuare 
a 
svolgere 
la 
propria 
attività, 
fatta 
eccezione 
per 
la 
specifica 
funzione 
nella 
quale 
sono 
sostituiti 
con 
la 
perdita 
della 
legittimazione 
all’esercizio. 


La 
fattispecie 
in esame 
attiene 
alla 
sostituzione 
nell’esercizio della 
funzione 
e 
va 
distinta 
dalla 
sostituzione 
degli 
organi 
dell’ente, 
conseguenza 
dello 
scioglimento 
dell’organo 
o 
degli 
organi 
dell’ente 
con 
la 
nomina 
di 
altri 
soggetti 
(spesso 
denominati 
commissari) 
quali 
organi 
straordinari 
che 
gestiscono 
l’ente 
per un limitato periodo di 
tempo. Anche 
tale 
potere 
può sussistere, ove 
previsto, 
nelle attività di controllo. 


Avvalimento 


nella 
fattispecie 
dell’avvalimento 
un 
ente, 
nella 
cura 
degli 
interessi 
dei 
quali 
è 
attributario, 
utilizza, 
a 
proprie 
spese, 
per 
il 
compimento 
di 
attività 
istruttorie, 
preparatorie, 
tecniche, 
esecutive, 
gli 
uffici 
(personale 
ed 
attrezzature) 
di 
un 
altro 
ente. 
Questi 
uffici 
operano, 
per 
il 
compimento 
delle 
attività 
oggetto 
dell’avvalimento, 
alle 
dipendenze 
funzionali 
dell’ente 
che 
di 
essi 
si 
avvale 
-al 
quale 
si 
imputa 
l’attività 
-pur 
restando 
incardinati 
nella 
struttura 
organizzativa 
loro 
propria. 
non 
vi 
è 
un 
trasferimento 
di 
funzioni, 
né 
alcuna 
deroga 
all’ordine 
delle 
competenze, 
trattandosi 
di 
vicenda 
interna 
di 
tecnica 
organizzatoria 
(29). 


Questo modello è 
tipico delle 
c.d. amministrazioni 
aperte 
ed è 
volto ad 
evitare 
l’inutile 
proliferazione 
di 
strutture 
ed assetti 
organizzativi, ossia 
un rigonfiamento 
burocratico (30). 


La 
figura 
è 
utilizzata 
nei 
rapporti 
coinvolgenti 
gli 
enti 
territoriali. 
Ad 
esempio, ai 
sensi 
dell’art. 29, comma 
2, D.L.vo 30 luglio 1999, n. 300 “Il 
ministero 
delle 
attività produttive 
si 
avvale 
degli 
uffici 
territoriali 
di 
Governo, 
nonché, sulla base 
di 
apposite 
convenzioni, delle 
camere 
di 
commercio, indu


(29) Su tale 
figura 
A.M. SAnDULLi, manuale 
di 
diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 238; 
V. cerULLi 
ireLLi, 
Lineamenti 
del 
diritto amministrativo, cit., pp. 97-98; 
e. cASettA, manuale 
di 
diritto amministrativo, 
cit., pp. 101-102. 
(30) così: 
L. MAzzArOLLi, G. PericU, A. rOMAnO, F.A. rOVerSi 
MOnAcO, F.G. ScOcA 
(a 
cura 
di), Diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 400 e 
F.G. ScOcA 
(a 
cura 
di), Diritto amministrativo, cit., p. 
125. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


stria, artigianato e 
agricoltura”. inoltre, ai 
sensi 
dell’art. 02, comma 
3, D.L. 
4 dicembre 
1993, n. 496, conv. L. 21 gennaio 1994, n. 61, le 
province 
esercitano 
le 
funzioni 
amministrative 
di 
autorizzazione 
e 
di 
controllo per la 
salvaguardia 
dell'igiene 
dell'ambiente 
avvalendosi 
dei 
presìdi 
multizonali 
di 
prevenzione e dei competenti servizi delle unità sanitarie locali. 


come 
per la 
delega, anche 
nell’avvalimento si 
può far ricorso soltanto in 
presenza di una espressa disposizione di legge. 

5. Vicende degli enti pubblici. 
L’ente 
pubblico 
-come 
qualsivoglia 
soggetto 
di 
diritto 
-nasce, 
vive, 
muore. Anche 
lo Stato, la 
più importante 
delle 
entità, non si 
sottrae 
alla 
caducità 
delle 
cose 
umane. Lo Stato italiano è 
nato in epoca 
relativamente 
recente; 
vi 
sono comuni 
vecchi 
di 
mille 
anni 
rispetto allo Stato, trovando le 
proprie 
origini nell’Alto medioevo. 


Istituzione dell’Ente pubblico 


La 
maggior 
parte 
degli 
enti 
pubblici, 
basta 
ricordare 
il 
caso 
dei 
comuni, 
sono 
stati 
creati 
nei 
secoli 
passati, 
sicché 
la 
loro 
esistenza 
costituisce 
un 
dato 
di 
cui 
ricognitivamente 
prende 
atto, 
in 
varie 
occasioni 
(31), 
il 
sistema 
normativo. 
Gli 
enti 
locali 
esistenti 
alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
costituzione 
sono 
riconosciuti 
ex 
art. 
5 
cost. 
dalla 
repubblica 
e 
non 
creati 
ex 
nihilo. 
La 
creazione 
di 
nuove 
regioni 
avviene 
mediante 
legge 
costituzionale 
ex 
art. 
132, 
comma 
1, 
cost. 
L’istituzione 
di 
nuove 
Province 
è 
stabilita 
con 
legge 
dello 
Stato 
(art. 
133, 
comma 
1, 
cost.), 
mentre 
la 
nascita 
di 
un 
nuovo 
comune 
esige 
invece 
sempre 
l’intervento 
di 
una 
legge 
della 
regione 
ex 
art. 
133, 
comma 
2, 
cost. 


L’ente 
esistente 
viene 
qualificato 
pubblico, 
quando 
possiede 
i 
requisiti 
sopraindicati: 
normale 
plurisoggettività, scopo di 
tutela 
di 
un interesse 
pubblico, 
patrimonio (substrato materiale), ricognizione 
da 
parte 
degli 
interpreti 


o dal sistema normativo (substrato formale). 
L’istituzione 
di 
nuovi 
enti 
deve 
avvenire 
in 
conformità 
all’art. 
4 
L. 
n. 
70/1975 
per 
cui 
“nessun 
nuovo 
ente 
pubblico 
può 
essere 
istituito 
o 
riconosciuto 
se 
non 
per 
legge”. 
Attesa 
la 
riserva 
di 
legge 
relativa, 
purché 
esistente 
il 
substrato 
materiale, 
l’ente 
può 
essere 
istituito 
con 
atto 
legislativo 
o 
con 
atto 
amministrativo, 
in 
conformità 
ad 
una 
disposizione 
legislativa 
fissante 
le 
linee 
generali 
della 
disciplina 
di 
uno 
specifico 
ente 
attributario 
di 
un 
interesse 
pubblico. 


L’atto istitutivo indica, quale 
contenuto minimo, la 
denominazione 
del-
l’ente, l’interesse 
pubblico in attribuzione, il 
patrimonio, la 
sede, l’individuazione 
degli organi ed il loro funzionamento. 

Diversa dalla istituzione è la costituzione dell’ente. 


(31) Ad esempio in occasioni 
delle 
periodiche 
leggi 
di 
bilancio, della 
definizione 
di 
pubblica 
amministrazione 
(art. 1, comma 
2, D.L.vo n. 165/2001) ai 
fini 
della 
disciplina 
dei 
rapporti 
di 
lavoro pubblico. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


La 
costituzione 
consiste 
nella 
concreta 
organizzazione 
dell’ente 
funzionale 
all’inizio 
dello 
svolgimento 
dei 
suoi 
compiti, 
come 
l’attivazione 
della 
sede 
(con l’acquisto della 
qualità 
di 
patrimonio indisponibile 
degli 
edifici 
destinati 
a 
sede 
di 
pubblici 
uffici 
ex 
art. 826, comma 
3, c.c.), il 
reperimento e 
la 
disponibilità 
delle 
risorse 
umane. Spesso passa 
un notevole 
lasso di 
tempo tra 
l’istituzione e la costituzione dell’ente. 


modificazione dell’Ente pubblico 


Durante 
il 
suo funzionamento l’ente 
può mutare 
i 
suoi 
elementi 
costitutivi. 
La 
modificazione 
avviene, 
per 
il 
principio 
di 
simmetria, 
con 
una 
atto 
avente la stessa forma dell’atto istitutivo. 


Sicché 
ogni 
mutamento che 
riguardi 
il 
passaggio di 
una 
sfera 
di 
attribuzione 
da 
un ente 
ad un altro, la 
denominazione 
dell’ente, l’interesse 
pubblico 
in attribuzione, il 
patrimonio, la 
sede, l’individuazione 
degli 
organi 
ed il 
loro 
funzionamento, la 
modificazione 
territoriale 
degli 
enti 
territoriali 
integra 
una 
modificazione 
dell’ente. 
Va 
fatta 
una 
precisazione 
circa 
l’elemento 
costitutivo 
del 
patrimonio: 
ove 
si 
dismetta 
il 
patrimonio 
originario 
vale 
il 
principio 
di 
simmetria; 
ove 
si 
ampli 
il 
patrimonio 
-con 
acquisti, 
donazioni 
successioni, 
ecc. -non occorre 
un atto analogo a 
quello costitutivo atteso che 
l’ente 
nel-
l’esercizio della 
sua 
normale 
capacità 
di 
imputazione 
non dispone 
dell’originario 
patrimonio. 


Estinzione dell’Ente pubblico, senza successione nel munus 


A 
un certo punto l’ente 
può cessare 
di 
esistere 
(32). L’atto di 
estinzione, 
per il principio di simmetria, ha la stessa forma dell’atto istitutivo. 


Le 
ragioni 
per le 
quali 
la 
legge 
-disponente 
direttamente 
l’estinzione 
o 
fissante 
i 
principi, le 
linee 
guida 
alla 
base 
dell’atto amministrativo disponente 
l’estinzione - prevede l’estinzione sono intuitive: 


-l’interesse 
pubblico in attribuzione 
è 
stato realizzato (33). Ad esempio: 
ente 
pubblico avente 
la 
finalità 
di 
gestire 
una 
specifica 
fiera, svolta 
la 
fiera 
lo 
scopo è esaurito; 
-l’interesse 
pubblico 
in 
attribuzione 
è 
divenuto 
impossibile. 
Ad 
esempio: 
si 
decide 
che 
la 
competenza 
della 
Difesa 
e 
delle 
forze 
armate 
spetta 
in 
via 
esclusiva 
all’Unione 
europea. 
All’evidenza 
tutti 
gli 
enti 
in 
materia 
devono 
estinguersi perché la loro finalità è impossibile; 


-l’interesse 
pubblico in attribuzione 
viene 
reputato non più attuale 
(o reputato 
di scarsa utilità o viene degradato ad interesse privato); 
-oppure 
per una 
diversa 
allocazione 
dell’interesse 
pubblico, con conseguente 
fusione e/o assorbimento con enti analoghi o di riferimento; 


(32) Sulla 
materia: 
G. ViGnOcchi, voce 
Successione 
tra enti 
pubblici, in Novissimo Digesto, vol. 
XViii, Utet, 1971, pp. 615-634. 
(33) V. OttAViAnO, voce 
Ente pubblico, cit., p. 973. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


-per il 
venire 
meno della 
plurisoggettività, del 
corpo sociale 
che 
ne 
costituisce 
il 
sostrato 
materiale 
e 
per 
le 
ragioni 
previste 
nell’atto 
costitutivo 
o 
nello statuto (34); 
- per l’insufficienza del patrimonio (35). 
Quelle 
indicate 
sono alcune 
delle 
più ricorrenti 
fattispecie 
di 
cause 
estintive 
previste 
nel 
sistema 
normativo, come 
confermato dall’importante 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
1 
L. 
4 
dicembre 
1956, 
n. 
1404 
-relativa 
alla 
soppressione 
e 
messa 
in liquidazione 
di 
enti 
di 
diritto pubblico e 
di 
altri 
enti 
sotto qualsiasi 
forma 
costituiti, soggetti 
a 
vigilanza 
dello Stato e 
comunque 
interessanti 
la 
finanza 
statale 
-secondo cui: 
“Gli 
enti 
di 
diritto pubblico e 
gli 
altri 
enti 
sotto 
qualsiasi 
forma 
costituiti, 
soggetti 
a 
vigilanza 
dello 
Stato 
e 
interessanti 
comunque 
la finanza statale, i 
cui 
scopi 
sono cessati 
o non più perseguibili, o 
che 
si 
trovano 
in 
condizioni 
economiche 
di 
grave 
dissesto 
o 
sono 
nella 
impossibilità 
concreta 
di 
attuare 
i 
propri 
fini 
statutari, 
devono 
essere 
soppressi 
e 
posti 
in liquidazione 
con le 
modalità stabilite 
dalla presente 
legge 
ovvero incorporati 
in enti 
similari. I provvedimenti 
di 
soppressione, liquidazione 
o incorporazione 
degli 
enti 
di 
cui 
al 
comma 
precedente, 
e 
le 
relative 
norme 
di 
attuazione 
sono promossi 
dal 
ministro per 
il 
tesoro ed emanati 
con decreto 
Presidenziale. 
Alle 
operazioni 
di 
liquidazione 
provvede 
il 
ministro 
per 
il 
tesoro 
a mezzo di speciale Ufficio liquidazione”. 


Va 
rimarcato 
che 
l’estinzione 
è 
possibile 
solo 
ove 
prevista 
nel 
sistema 
normativo; 
volontariamente 
-ove 
il 
sistema 
normativo non preveda 
la 
fattispecie 
volontaria 
-l’ente 
non può decidere 
di 
estinguersi. Difatti 
l’ente, per 
definizione, provvede 
alla 
istituzionale 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
e 
non ne 
può, pertanto disporre 
liberamente. e 
l’estinzione 
è 
il 
modo massimo di 
disposizione. 
estinzione 
volontaria, invece, consentita 
agli 
enti 
privati 
(art. 21, 
comma 
3, c.c. per le 
associazioni; 
art. 2272 n. 3 c.c. per le 
società 
di 
persone; 
2484, comma 1, n. 6, c.c. per le società di capitale). 


L’avveramento 
della 
causa 
di 
estinzione 
non 
comporta, 
di 
solito, 
secondo 
le 
previsioni 
del 
sistema 
normativo, 
l’immediata 
cessazione 
dell’ente, 
atteso 
che 
si 
apre 
la 
fase 
di 
liquidazione 
diretta 
a 
definire 
i 
rapporti 
pendenti 
e 
a 
trasferire 
il 
patrimonio 
residuo. 
tanto 
accade 
allorché 
all’esito 
della 
estinzione 
non 
vi 
è 
il 
trasferimento 
delle 
attribuzioni 
ad 
un 
altro 
ente 
pubblico 
(c.d. 
successione 
nel 
munus) 
in 
conseguenza 
della 
diversa 
allocazione 
dell’interesse 
pubblico 
con 
conseguente 
fusione 
e/o 
assorbimento 
con 
enti 
analoghi 
o 
di 
riferimento. 


All’attività 
liquidatoria 
provvede 
un 
liquidatore, 
o 
più 
nei 
casi 
complessi, 
il 
quale 
riveste 
la 
qualità 
di 
pubblico ufficiale. Durante 
la 
fase 
di 
liquidazione 
l’ente 
è 
ancora 
in 
vita. 
Muta 
tuttavia 
lo 
scopo: 
allo 
scopo 
di 
tutelare 
l’interesse 


(34) V. OttAViAnO, voce 
Ente 
pubblico, cit., p. 973; 
A.M. SAnDULLi, manuale 
di 
diritto amministrativo, 
vol. i, cit., p. 211. 
(35) V. OttAViAnO, voce 
Ente pubblico, cit., p. 973. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


pubblico 
in 
attribuzione 
si 
sostituisce 
lo 
scopo 
di 
estinguere 
i 
rapporti 
giuridici 
pendenti, liquidando, se 
necessario, il 
patrimonio e 
trasferendo i 
residui 
beni 
ad 
un 
dato 
soggetto 
di 
diritto. 
Fino 
al 
momento 
del 
trasferimento 
i 
beni 
restano 
nella titolarità dell’ente in liquidazione (36). 


Solo 
quando 
la 
liquidazione 
è 
terminata 
l’ente 
cessa 
di 
esistere, 
viene 
meno, si 
estingue. Al 
termine 
della 
liquidazione 
vi 
è 
la 
successione 
in favore 
di 
un dato soggetto. il 
successore 
-in base 
alle 
previsioni 
normative 
-potrà 
essere 
un ente 
pubblico avente 
un fine 
analogo, oppure 
l’ente 
di 
riferimento 
(ad esempio la 
soppressione 
di 
ente 
ausiliario o strumentale 
dello Stato comporta, 
di 
solito, la 
successione 
in favore 
dello Stato (37)), o anche 
un ente 
privato 
(specie 
quando 
l’interesse 
pubblico 
viene 
degradato 
ad 
interesse 
privato). 
in assenza 
di 
una 
previsione 
normativa 
deve 
ritenersi 
che 
i 
beni 
residui 
degli 
enti 
estinti 
vadano attribuiti 
all’ente 
di 
riferimento, ossia 
allo Stato o alla 
regione, 
a seconda della sfera di azione dell’ente estinto (38). 


La 
tipologia 
di 
successione 
dipende 
dalla 
disciplina 
del 
sistema 
normativo 
(39): 


a) 
se, 
con 
previsione 
espressa 
o 
dal 
complesso 
della 
disciplina, 
è 
statuito 
che 
l’ente 
subentrante 
succede 
in 
tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
facenti 
capo 
all’ente 
estinto, 
la 
successione 
è 
a 
titolo 
universale 
(in 
universum 
ius). 
L’ente 
subentrante, 
pertanto, 
per 
i 
principi 
risponde 
dei 
debiti 
anche 
ultra 
vires. 
inoltre 
i 
processi 
civili 
pendenti 
al 
momento 
della 
successione 
subiscono 
l’interruzione 
(artt. 
110 
e 
299-304 
c.p.c.), 
a 
tutela 
del 
contraddittorio 
e 
del 
diritto 
di 
difesa, 
con 
la 
possibilità 
della 
prosecuzione 
o 
riassunzione 
pena 
l’estinzione 
del 
giudizio; 
b) 
se, l’ente 
subentrante 
succede 
solo in determinati 
rapporti 
giuridici 
facenti 
capo 
all’ente 
estinto, 
la 
successione 
è 
a 
titolo 
particolare 
(in 
singulas 
res). Questo è 
quello che 
di 
solito accade 
quando vi 
è 
il 
procedimento liquidatorio, 
a 
meno che 
vi 
sia 
comunque 
una 
previsione 
normativa 
secondo cui 
l’ente 
subentrante 
-anche 
all’esito della 
liquidazione 
-succede 
in tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
facenti 
capo 
all’ente 
estinto. 
La 
natura 
particolare 
della 
successione 
all’esito 
della 
liquidazione 
è 
ricavabile 
sistematicamente 
(36) il 
momento del 
trasferimento è 
rilevante, ad esempio, per accertare 
la 
soggettività 
passiva 
di 
un'obbligazione 
risarcitoria 
(caso esaminato in cass. civ. 18 agosto 1997, n. 7655 nel 
caso della 
successione 
degli 
iAcP 
nelle 
situazioni 
attive 
e 
passive 
e 
nei 
rapporti 
processuali 
inerenti 
agli 
immobili 
già 
appartenenti all'ises-istituto sviluppo edilizia sociale). 
(37) conf., con riguardo alla 
liquidazione 
di 
enti 
di 
diritto pubblico e 
di 
altri 
enti 
soggetti 
a 
vigilanza 
dello Stato: 
art. 14, comma 
1, L. n. 1404/1956, secondo cui 
“Gli 
avanzi 
finali 
delle 
liquidazioni 
degli 
enti 
per 
i 
quali 
siano adottati 
i 
provvedimenti 
previsti 
dalla presente 
legge, sono devoluti, salvo 
diversa specifica destinazione 
stabilita dalle 
norme 
istitutive 
degli 
enti 
medesimi 
o da norme 
speciali, 
allo Stato”. 
(38) così: 
A.M. SAnDULLi, 
manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 213. 
(39) Si 
evidenzia 
in dottrina 
che 
“non sempre 
è 
agevole 
sulla base 
della legge 
stabilire 
se 
in caso 
di 
soppressione 
totale 
o 
parziale, 
di 
persone 
giuridiche 
si 
abbia 
successione 
a 
titolo 
particolare 
o 
a 
titolo universale”: G. MOnteLeOne, Diritto processuale civile, i, Viii edizione, ceDAM, p. 238. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


dall’art. 31, comma 
3, c.c. -relativo alla 
devoluzione 
dei 
beni 
di 
associazioni 
e 
fondazioni, 
ma 
espressivo 
di 
un 
principio 
generale 
in 
materia 
di 
enti 
con 
fine 
superindividuale, tra 
i 
quali 
anche 
gli 
enti 
pubblici 
-secondo cui: 
“I creditori 
che 
durante 
la 
liquidazione 
non 
hanno 
fatto 
valere 
il 
loro 
credito 
possono 
chiedere 
il 
pagamento 
a 
coloro 
ai 
quali 
i 
beni 
sono 
stati 
devoluti, 
entro 
l'anno 
dalla chiusura della liquidazione, in proporzione 
e 
nei 
limiti 
di 
ciò che 
hanno 
ricevuto” 
(40). 
Ulteriore 
conferma 
di 
quanto 
esposto 
si 
ha 
con 
l’art. 
13, 
ultimo 
comma, L. n. 1404/1956, relativo alla 
liquidazione 
di 
enti 
di 
diritto pubblico 
soggetti 
a 
vigilanza 
dello Stato, secondo cui 
i 
crediti 
dell’ente 
liquidato sono 
soddisfatti in proporzione dell'avanzo risultante dalla liquidazione. 


L’ente subentrante risponde quindi dei debiti solo intra vires. 

Una 
fattispecie 
di 
successione 
a 
titolo particolare 
è 
disciplinata 
dall’art. 
15, 
comma 
1, 
D.L. 
6 
luglio 
2011, 
n. 
98, 
conv. 
L. 
15 
luglio 
2011, 
n. 
111 
il 
quale, 
tra l’altro, prevede che 


-quando la 
situazione 
economica, finanziaria 
e 
patrimoniale 
di 
un ente 
sottoposto 
alla 
vigilanza 
dello 
Stato 
raggiunga 
un 
livello 
di 
criticità 
tale 
da 
non potere 
assicurare 
la 
sostenibilità 
e 
l'assolvimento delle 
funzioni 
indispensabili, 
ovvero l'ente 
stesso non possa 
fare 
fronte 
ai 
debiti 
liquidi 
ed esigibili 
nei 
confronti 
dei 
terzi, con decreto del 
Ministro vigilante, di 
concerto con il 
Ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze, 
l'ente 
è 
posto 
in 
liquidazione 
coatta 
amministrativa; 
i 
relativi 
organi 
decadono ed è 
nominato un commissario che 
provvede 
alla 
liquidazione 
dell'ente, 
non 
procede 
a 
nuove 
assunzioni, 
neanche 
per la 
sostituzione 
di 
personale 
in posti 
che 
si 
rendono vacanti 
e 
provvede 
al-
l'estinzione 
dei 
debiti 
esclusivamente 
nei 
limiti 
delle 
risorse 
disponibili 
alla 
data 
della 
liquidazione 
ovvero di 
quelle 
che 
si 
ricavano dalla 
liquidazione 
del 
patrimonio 
dell'ente; 
ogni 
atto 
adottato 
o 
contratto 
sottoscritto 
in 
deroga 
a 
quanto previsto nel presente periodo è nullo; 
-le 
funzioni, 
i 
compiti 
ed 
il 
personale 
a 
tempo 
indeterminato 
dell'ente 
sono 
allocati 
con 
decreto 
del 
Presidente 
del 
consiglio 
dei 
Ministri, 
su 
proposta 
del 
Ministro 
vigilante, 
di 
concerto 
con 
il 
Ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze, 
nel 
Ministero vigilante, in altra 
pubblica 
amministrazione, ovvero in 
una 
agenzia 
costituita 
ai 
sensi 
dell'articolo 8 D.L.vo n. 300/1999, con la 
conseguente 
attribuzione 
di 
risorse 
finanziarie 
comunque 
non 
superiori 
alla 
misura 
del contributo statale già erogato in favore dell'ente. 

i 
processi 
civili 
pendenti 
al 
momento 
della 
successione 
particolare 
non 
subiscono 
l’interruzione, 
ma 
sono 
sottoposti 
alla 
particolare 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 
111 
c.p.c. 
sulla 
successione 
a 
titolo 
particolare 
nel 
diritto 
controverso. 


(40) Si 
rileva 
in dottrina 
che 
le 
norme 
civilistiche 
in tema 
di 
estinzione 
e 
liquidazione 
di 
persone 
giuridiche 
(art. 27 e 
ss. c.c.) e 
di 
società 
(libro V 
c.c.) non possono, per loro natura, non avere 
carattere 
generale, salve 
le 
norme 
integrative 
dettate, volta 
per volta, da 
leggi 
speciali 
(così 
G. ViGnOcchi, voce 
Successione tra enti pubblici, cit., pp. 625-626, nota 3). 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


Quanto 
illustrato 
circa 
la 
sorte 
dei 
processi 
civili 
nei 
casi 
di 
interruzione 
per 
successione 
a 
titolo 
universale 
vale 
anche 
per 
la 
sorte 
dei 
processi 
amministrativi 
(art. 
79, 
comma 
2, 
e 
80 
D.L.vo 
2 
luglio 
2010, 
n. 
104), 
per 
la 
sorte 
dei 
processi 
contabili 
(artt. 
7, 
comma 
1, 
e 
108-109 
D.L.vo 
26 
agosto 
2016, 
n. 
174) 
e 
per 
la 
sorte 
dei 
processi 
tributari 
(artt. 
40-43 
D.L.vo 
31 
dicembre 
1992, 
n. 
546). 


il 
sistema 
normativo tuttavia 
può prevedere 
la 
soppressione 
di 
un ente, 
senza 
l’apertura 
della 
fase 
liquidatoria, 
con 
diretta 
disciplina 
della 
sorte 
dei 
rapporti 
pendenti 
e 
del 
patrimonio. All’uopo può essere 
previsto il 
diretto trasferimento 
ad un destinatario -ente 
pubblico o privato -dei 
rapporti 
pendenti 
e 
del 
patrimonio e/o estinzione 
ex 
lege 
dei 
rapporti 
pendenti, ove 
ciò non sia 
irragionevole (41). 

Trasferimento 
delle 
attribuzioni 
tra 
enti 
pubblici 
(c.d. 
successione 
nel 
munus) 


in tutti 
i 
casi 
in cui, a 
seguito della 
modificazione 
o dell’estinzione 
di 
un 
ente 
pubblico, 
le 
sue 
attribuzioni 
vengano 
ad 
essere 
parzialmente 
o 
interamente 
assorbite 
da 
un 
altro 
ente 
(ente 
sottentrante), 
sia 
di 
nuova 
costituzione 
che 
preesistente, 
sorge 
il 
problema 
della 
sorte 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
e 
dei 
rapporti 
facenti 
capo al 
primo o a 
quel 
particolare 
settore 
della 
struttura 
del 
primo (parte 
della 
comunità 
territoriale, ramo del 
servizio, ecc.) delle 
cui 
attribuzioni si tratti. 


Di solito tale materia viene regolata espressamente dal legislatore. 


Ove 
difetti 
una 
disciplina 
espressa 
si 
deve 
ritenere 
che 
l’ente 
subentrante 
succede 
(in toto nel 
caso di 
estinzione; 
in parte 
qua in relazione 
al 
particolare 
complesso 
di 
attribuzioni 
di 
cui 
trattasi 
nel 
caso 
di 
modificazione 
(42)) 
in 
tutte 


(41) Un esempio di 
soppressione 
senza 
liquidazione 
può essere 
rinvenuto nell’art. 4 della 
L.r. 
campania 
23 dicembre 
2015, n. 20 disponente: 
“1. L'Agenzia regionale 
sanitaria (ArSAN) […] 
è 
soppressa 
e 
le 
relative 
funzioni, 
comprese 
quelle 
di 
supporto 
all'attuazione 
del 
Piano 
di 
rientro 
dal 
disavanzo 
del 
Settore 
sanitario 
sono 
svolte 
dalle 
competenti 
strutture 
amministrative 
della 
regione 
Campania. 
[…]. 2. Per 
effetto della soppressione 
dell'ArSAN, alla data di 
entrata in vigore 
della presente 
legge, 
cessano gli 
incarichi 
di 
direzione 
e 
di 
dirigenza ed i 
rapporti 
di 
collaborazione 
di 
durata temporanea 
o occasionale 
o coordinata e 
continuativa o di 
lavoro subordinato o autonomo relativi 
alla soppressa 
Agenzia. Entro il 
31 dicembre 
2015, la Giunta regionale 
procede 
alla ricognizione 
delle 
risorse 
umane 
esclusivamente 
già in comando presso gli 
uffici 
dell'ArSAN e 
all'analisi 
delle 
relative 
professionalità 
per 
verificare 
la 
possibilità 
di 
assegnare 
ai 
competenti 
uffici 
delle 
strutture 
amministrative 
regionali 
alcune 
delle 
suddette 
risorse 
umane 
in comando nel 
rispetto di 
quanto previsto dalla normativa vigente 
in materia. 3. Salvo quanto previsto al 
comma 2, la regione 
Campania succede 
in tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
facenti 
capo all'ArSAN. 4. Entro 60 giorni 
dalla data di 
entrata in vigore 
della 
presente 
legge 
la Giunta regionale 
effettua una ricognizione 
dei 
progetti 
già proposti 
dalla soppressa 
ArSAN 
per 
l'ammissione 
a 
finanziamento 
sui 
fondi 
UE 
al 
fine 
di 
disciplinarne 
l'attuazione 
in 
via 
diretta 
a mezzo delle 
strutture 
regionali, ovvero con assegnazione 
delle 
funzioni 
ad altro soggetto attuatore. 
[…]. 


(42) conf. G. ViGnOcchi, voce 
Successione 
tra enti 
pubblici, cit., p. 623, il 
quale 
rileva 
che 
non 
vi 
è 
incompatibilità 
tra 
il 
principio della 
successione 
universale 
e 
l’applicazione 
in concreto del 
medesimo, 
in ordine 
a 
complessi 
particolari 
dotati 
di 
una 
loro propria 
organicità 
perché, anche 
in tali 
casi, il 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


le 
situazioni 
soggettive 
inerenti 
alle 
attribuzioni 
assorbite, e 
quindi 
in tutti 
i 
rapporti 
in 
atto 
e 
nei 
procedimenti 
in 
corso 
(43); 
si 
trasferiscono 
anche 
le 
strutture 
burocratiche, se 
non diversamente 
disposto dalla 
norma 
(44). Vi 
è 
quindi 
in 
questa 
evenienza 
una 
successione 
a 
titolo 
universale, 
anche 
quando 
avvenga 
non in toto, ma 
in parte qua. 


Sicché 


-mantengono 
vigore 
gli 
atti 
amministrativi 
emanati 
dall’ente 
estinto 
e/o 
dimidiato 
(es. 
autorizzazioni 
e 
concessioni), 
in 
uno 
-per 
gli 
atti 
che 
diano 
luogo 
ad 
effetti 
giuridici 
protraentisi 
nel 
tempo 
-ai 
rapporti 
amministrativi 
pendenti; 


-vi 
è 
la 
continuazione 
in capo all’ente 
successore 
nei 
rapporti 
di 
lavoro 
con l’ente estinto e/o dimidiato; 
-vi 
è 
il 
trasferimento 
automatico 
dei 
diritti 
e 
situazioni 
patrimoniali 
attive 
(diritti 
soggettivi 
assoluti 
e 
relativi, interessi 
legittimi, aspettative 
giuridiche) 
e 
passive 
(obbligazioni 
contrattuali 
ed extracontrattuali) dal 
vecchio al 
nuovo 
ente. tra 
i 
diritti 
soggettivi 
assoluti 
vengono in rilievo anche 
i 
beni 
e 
diritti 
di 
carattere 
demaniale 
ed 
i 
beni 
del 
patrimonio 
indisponibile, 
i 
quali 
conservano, 
nella successione, i loro caratteri; 


-vi 
è 
la 
successione 
nei 
complessi 
normativi, 
ossia 
delle 
norme 
giuridiche 
adottate 
dall’ente 
estinto 
e/o 
dimidiato, 
specie 
con 
riguardo 
ai 
regolamenti 
(es. 
regolamenti 
edilizi 
e 
Piano regolatore 
Generale 
per la 
parte 
in cui 
abbia 
contenuto 
normativo 
adottati 
dai 
comuni 
soppressi/o 
dimidiati), 
salve 
le 
eventuali 
emanazioni, da 
parte 
dell’ente 
successore, di 
norme 
surrogatrici 
rivolte 
ad assicurare 
l’unità e l’armonia del sistema. 


ciò 
fatti 
salvi 
i 
limiti 
oltre 
i 
quali 
le 
situazioni 
giuridiche 
del 
vecchio 
ente 
appaiano 
incompatibili 
con 
le 
attribuzioni 
ed 
i 
principi 
istituzionali 
propri 
dell’ente 
successore; 
in 
questa 
evenienza 
i 
rapporti 
sono 
intrasferibili 
e, 
se 
non 
diversamente 
disposto dalle 
norme, per tali 
rapporti 
si 
apre 
un procedimento 
di liquidazione, a cui provvede il nuovo ente con gestione separata. 


tale 
tipo di 
successione 
-a 
titolo universale 
-è 
tipica 
nel 
caso di 
modifiche 
territoriali, fusione 
ed istituzione 
di 
enti 
territoriali 
(per gli 
enti 
locali: 
art. 


subingresso da 
parte 
del 
nuovo ente, si 
verifica 
non in singoli 
ed isolati 
rapporti, ma 
nella 
universalità 
delle 
situazioni 
e 
relazioni 
che 
ai 
complessi 
in 
parola 
si 
ricollegano 
con 
recezione 
anche 
dell’ordinamento 
giuridico che istituzionalmente vi inseriva. 


(43) 
A.M. 
SAnDULLi, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., 
p. 
213; 
M.S. 
GiAnnini, 
Diritto 
amministrativo, 
vol. 
i, 
cit., 
pp. 
354-355. 
conf. 
corte 
di 
cassazione, 
15 
giugno 
1979, 
n. 
3372; 
cons. 
Stato, 16 marzo 1987, n. 141. 
(44) nel 
caso della 
soppressione 
dell'Autorità 
per la 
vigilanza 
sui 
contratti 
pubblici 
(AVcP) e 
il 
subentro 
nelle 
competenze 
dell'ente 
soppresso 
da 
parte 
dell'Autorità 
nazionale 
Anticorruzione, 
con 
riassetto 
di 
apparati 
organizzativi, si 
è 
ritenuto che 
si 
è 
verificata 
non una 
successione 
a 
titolo universale, 
ma 
una 
"successione 
nel 
munus": 
fenomeno di 
natura 
pubblicistica, concretizzato nel 
passaggio di 
attribuzioni 
fra 
amministrazioni 
pubbliche, 
con 
trasferimento 
della 
titolarità 
sia 
delle 
strutture 
burocratiche 
sia 
dei 
rapporti 
amministrativi 
pendenti, contraddistinta 
da 
una 
stretta 
linea 
di 
continuità 
tra 
l'ente 
che 
si 
estingue 
e 
l'ente 
che 
subentra 
senza, 
quindi, 
maturazione 
dei 
presupposti 
per 
aversi 
evento 
interruttivo 
nel caso i cui sia pendente un giudizio (t.A.r. Lazio roma, sent. 28 ottobre 2014, n. 10779). 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


15 D.L.vo 18 agosto 2000, n. 267 (45)), attesi 
i 
caratteri 
di 
necessità 
ed indispensabilità 
della 
permanenza 
degli 
elementi 
strutturali 
e 
organizzativi, collegati 
ai momenti costitutivi della popolazione e del territorio (46). 


nel 
caso, invece, dell’estinzione 
dell’ente 
senza 
trasferimento del 
munus 
i 
rapporti 
amministrativi 
pendenti 
si 
estinguono; 
se 
essi 
hanno un contenuto 
patrimoniale, può essere 
istituito un apposito ufficio (c.d. ufficio stralcio), o 
liquidazione, per provvedere 
agli 
atti 
necessari 
all’assetto patrimoniale 
(47). 
ciò vale anche con i rapporti di lavoro pendenti (48). 


Trasformazione dell’ente pubblico in soggetto di diritto privato 


non sussiste 
successione 
di 
alcun genere 
-né 
universale, né 
particolare 
quando 
si 
abbia 
soltanto la 
trasformazione 
dell’ente 
pubblico in soggetto di 
diritto privato (o addirittura 
un semplice 
cambio di 
denominazione). Alcuna 
successione, ad esempio, si 
è 
avuta 
nella 
fattispecie 
della 
trasformazione 
-al


(45) “1. A 
norma degli 
articoli 
117 e 
133 della Costituzione, le 
regioni 
possono modificare 
le 
circoscrizioni 
territoriali 
dei 
comuni 
sentite 
le 
popolazioni 
interessate, 
nelle 
forme 
previste 
dalla 
legge 
regionale. 
Salvo 
i 
casi 
di 
fusione 
tra 
più 
comuni, 
non 
possono 
essere 
istituiti 
nuovi 
comuni 
con 
popolazione 
inferiore 
ai 
10.000 
abitanti 
o 
la 
cui 
costituzione 
comporti, 
come 
conseguenza, 
che 
altri 
comuni 
scendano 
sotto tale 
limite. 2. I comuni 
che 
hanno dato avvio al 
procedimento di 
fusione 
ai 
sensi 
delle 
rispettive 
leggi 
regionali 
possono, 
anche 
prima 
dell'istituzione 
del 
nuovo 
ente, 
mediante 
approvazione 
di 
testo 
conforme 
da parte 
di 
tutti 
i 
consigli 
comunali, definire 
lo statuto che 
entrerà in vigore 
con l'istituzione 
del 
nuovo comune 
e 
rimarrà vigente 
fino alle 
modifiche 
dello stesso da parte 
degli 
organi 
del 
nuovo 
comune 
istituito. Lo statuto del 
nuovo comune 
dovrà prevedere 
che 
alle 
comunità dei 
comuni 
oggetto 
della fusione 
siano assicurate 
adeguate 
forme 
di 
partecipazione 
e 
di 
decentramento dei 
servizi. 3. Al 
fine 
di 
favorire 
la fusione 
dei 
comuni, oltre 
ai 
contributi 
della regione, lo Stato eroga, per 
i 
dieci 
anni 
decorrenti 
dalla fusione 
stessa, appositi 
contributi 
straordinari 
commisurati 
ad una quota dei 
trasferimenti 
spettanti 
ai 
singoli 
comuni 
che 
si 
fondono. 
4. 
La 
denominazione 
delle 
borgate 
e 
frazioni 
è 
attribuita 
ai comuni ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione”. 
(46) così G. ViGnOcchi, voce 
Successione tra enti pubblici, cit., pp. 623-624. 
(47) M.S. GiAnnini, Diritto amministrativo, vol. i, cit., p. 354. conf. cass. civ., sent. 27 ottobre 
2015, n. 21797 che 
così 
enuncia: 
“In tema di 
soppressione 
di 
enti 
pubblici, la successione 
si 
attua in 
modo 
diverso 
a 
seconda 
che 
la 
legge 
o 
l'atto 
amministrativo 
che 
hanno 
disposto 
la 
soppressione 
abbiano 
considerato il 
permanere 
delle 
finalità dell'ente 
soppresso ed il 
loro trasferimento ad altro ente, unitamente 
al 
passaggio, 
sia 
pure 
parziale 
delle 
strutture 
e 
del 
complesso 
delle 
posizioni 
giuridiche 
già 
facenti 
capo al 
primo ente, ovvero abbiano disposto la soppressione 
"previa liquidazione"; nel 
primo 
caso 
deve 
ritenersi 
che 
la 
successione 
si 
attui 
in 
"universum 
ius", 
con 
la 
conseguenza 
che 
tutti 
i 
rapporti 
giuridici 
che 
facevano capo all'ente 
soppresso passano all'ente 
subentrante, mentre, nel 
secondo caso, 
difettando 
la 
contemplazione 
del 
permanere 
degli 
scopi 
dell'ente 
soppresso, 
non 
avrebbe 
senso 
una 
successione 
a titolo universale 
nelle 
strutture 
organizzative 
che 
fosse 
attuata ai 
soli 
fini 
del 
loro scioglimento, 
e 
deve, pertanto, ritenersi 
che 
la successione 
avvenga a titolo particolare, limitata ai 
soli 
beni 
che 
residuino alla procedura di 
liquidazione, con la conseguenza che 
l'ente 
liquidatore 
non solo non si 
sostituisce 
nella titolarità della sfera giuridica originaria, ma non assume 
neppure 
alcuna diretta responsabilità 
patrimoniale 
per 
le 
obbligazioni 
contratte 
dall'ente 
estinto 
che 
già 
risultassero 
all'atto 
della liquidazione (Cass., 18 gennaio 2002, n. 535)”. 
(48) nel 
caso di 
soppressione 
e 
messa 
in liquidazione 
di 
enti 
di 
diritto pubblico e 
di 
altri 
enti 
soggetti 
a 
vigilanza 
dello Stato, l’art. 12, comma 
1, L. n. 1404/1956 dispone 
che 
il 
rapporto di 
impiego tra 
gli 
enti 
posti 
in liquidazione 
ed il 
personale 
risultante 
in servizio alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
provvedimento 
di 
messa 
in liquidazione 
cessa 
con la 
fine 
del 
mese 
successivo a 
quello dell'entrata 
in vigore 
del provvedimento stesso. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


l’inizio degli 
anni 
’90 del 
secolo scorso -delle 
banche 
di 
diritto pubblico, o 
aventi 
la 
veste 
di 
ente 
pubblico, in società 
per azioni, ed anche 
le 
c.d. “privatizzazioni”, 
quando 
esse 
comportino 
soltanto 
il 
mutamento 
strutturale 
di 
un 
ente 
pubblico economico in società 
per azione 
(come 
nel 
caso dell’ente 
Ferrovie 
dello 
Stato) 
(49). 
La 
trasformazione 
in 
soggetto 
di 
diritto 
privato 
non 
può realizzarsi 
se 
non in virtù di 
una 
legge. in conseguenza 
della 
trasformazione 
in 
persona 
privata, 
l’ente 
perde 
ogni 
potestà 
pubblica 
e 
i 
rapporti 
nei 
quali sia parte assumono ex nunc 
natura privatistica (50). 


6. 
Nozione 
di 
ente 
pubblico 
e 
rapporto 
con 
la 
nozione 
di 
pubblica 
amministrazione 
(o amministrazione pubblica). 
La 
nozione 
di 
ente 
pubblico, 
come 
ricostruita, 
si 
soprappone 
-parzialmente 
-a 
quella 
di 
pubblica 
amministrazione 
(o 
amministrazione 
pubblica 
che 
dir si voglia). 

Mentre 
il 
concetto di 
ente 
pubblico richiama 
una 
disciplina 
tendenzialmente 
omogenea, non altrettanto si 
può dire 
con riguardo al 
concetto di 
pubblica 
amministrazione. nel 
sistema 
non vi 
è 
un concetto unitario di 
pubblica 
amministrazione 
valevole 
per ogni 
aspetto della 
disciplina 
(ad esempio: 
per 
la 
provvista 
delle 
risorse, 
per 
la 
contabilità, 
per 
i 
procedimenti 
amministrativi). 
Difatti, spesso il concetto vale solo in un determinato ambito. 


in dati 
casi 
il 
concetto di 
pubblica 
amministrazione 
è 
qualcosa 
di 
meno 
rispetto 
a 
quello 
di 
ente 
pubblico, 
come 
nel 
caso 
della 
disciplina 
del 
lavoro 
alle 
dipendenze 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
privatizzato. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
1, 
comma 
2, 
D.L.vo 
n. 
165/2001 
“Per 
amministrazioni 
pubbliche 
si 
intendono 
tutte 
le 
amministrazioni 
dello Stato, ivi 
compresi 
gli 
istituti 
e 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado e 
le 
istituzioni 
educative, le 
aziende 
ed amministrazioni 
dello 
Stato ad ordinamento autonomo, le 
regioni, le 
Province, i 
Comuni, le 
Comunità 
montane, 
e 
loro 
consorzi 
e 
associazioni, 
le 
istituzioni 
universitarie, 
gli 
Istituti 
autonomi 
case 
popolari, le 
Camere 
di 
commercio, industria, artigianato 
e 
agricoltura 
e 
loro 
associazioni, 
tutti 
gli 
enti 
pubblici 
non 
economici 
nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio 
sanitario 
nazionale, 
l'Agenzia 
per 
la 
rappresentanza 
negoziale 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(ArAN) e 
le 
Agenzie 
di 
cui 
al 
decreto legislativo 30 
luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione 
organica della disciplina di 
settore, le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
presente 
decreto 
continuano 
ad 
applicarsi 
anche 
al 
CoNI”. 
Difatti, anche 
gli 
enti 
pubblici 
economici 
-esercitando un minimum 
di 
funzioni 
amministrative 
-sono 
pubbliche 
amministrazioni. 
ridotta 
all’osso 
la 
descritta 
definizione 
coincide 
con quella 
relativa 
a 
tutti 
gli 
enti 
pubblici, ad 
esclusione 
degli 
enti 
pubblici 
economici. il 
campo di 
applicazione 
soggettivo 


(49) così anche G. MOnteLeOne, Diritto processuale civile, cit., p. 238. 
(50) A.M. SAnDULLi, manuale di diritto amministrativo, vol. i, cit., pp. 211-212. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


ora 
delineato viene 
richiamato nella 
disciplina 
di 
varie 
materie, ad esempio in 
materia 
di 
trasparenza 
(art. 
11, 
comma 
1, 
D.L.vo 
14 
marzo 
2013, 
n. 
33), 
di 
amministrazione 
digitale 
(art. 2, coma 
2, lett. a, D.L.vo 7 marzo 2005, n. 82), 
degli 
organi 
consultivi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
(art. 16, comma 
1, L. 
n. 241/1990). 


nella 
maggior parte 
dei 
casi, invece, il 
concetto di 
pubblica 
amministrazione 
è 
qualcosa 
di 
più rispetto a 
quello di 
ente 
pubblico, con un ambito puntualmente 
descritto 
dalla 
norma 
e 
valevole 
ai 
fini 
della 
relativa 
disciplina. 
All’uopo 
si 
richiamano 
le 
seguenti 
definizioni 
di 
amministrazione 
pubblica 
e/o ambito di applicazione di istituti di diritto amministrativo: 


a) 
ai 
fini 
della 
applicazione 
delle 
disposizioni 
in 
materia 
di 
finanza 
pubblica, 
e 
in 
specie 
dell’inserimento 
nel 
conto 
economico 
consolidato. 
in 
virtù 
dell’ 
art. 
1, 
commi 
2 
e 
3, 
L. 
31 
dicembre 
2009, 
n. 
196 
è 
amministrazione 
pubblica 
-oltre 
alle 
amministrazioni 
di 
cui 
all'articolo 
1, 
comma 
2, 
del 
D.L.vo 
n. 
165/2001 
e 
alle 
Autorità 
indipendenti 
-quella 
individuata 
mediante 
elenco 
redatto 
ogni 
anno 
dall’iStAt 
(51), 
sulla 
base 
delle 
definizioni 
di 
cui 
agli 
specifici 
regolamenti 
dell'Unione 
europea 
(52). 
Dell’elenco 
fanno 
parte 
amministrazioni 
centrali 
(organi 
costituzionali 
e 
di 
rilievo 
costituzionale; 
Presidenza 
del 
consiglio 
dei 
Ministri 
e 
Ministeri; 
Autorità 
indipendenti; 
enti 
pubblici, 
come 
ente 
nazionale 
per 
l'aviazione 
civile 
-enAc; 
Agenzie, 
tra 
cui 
quelle 
fiscali; 
Associazioni, 
come 
FormezPA; 
fondazioni, 
come 
la 
Fondazione 
La 
biennale 
di 
Venezia; 
società, 
come 
Anas 
S.p.a. 
e 
cOnSiP 
S.p.a.), 
Amministrazioni 
locali 
(regioni 
e 
province 
autonome; 
Province 
e 
città 
metropolitane; 
comuni; 
comunità 
montane; 
Unioni 
di 
comuni; 
Agenzie 
ed 
enti; 
Autorità 
di 
sistema 
portuale; 
Aziende 
ospedaliere, 
aziende 
ospedaliero-universitarie, 
policlinici 
e 
istituti 
di 
ricovero 
e 
cura 
a 
carattere 
scientifico 
pubblici; 
Aziende 
sanitarie 
locali; 
camere 
di 
commercio, 
industria, 
artigianato 
e 
agricoltura 
e 
unioni 
regionali; 
fondazioni 
ed 
associazioni; 
società; 
consorzi), 
Università 
e 
istituti 
di 
istruzione 
universitaria 
pubblici, 
enti 
nazionali 
di 
previdenza 
e 
assistenza; 


b) 
ai 
fini 
dell’applicazione 
del 
codice 
dei 
contratti 
ex 
D.L.vo n. 50 del 
2016. 
Per stazioni 
appaltanti 
(amministrazioni 
aggiudicatrici 
nel 
caso del 
con


(51) Si richiama, da ultimo, il comunicato iStAt del 4 novembre 2020. 
(52) A 
partire 
dal 
regolamento (ce) n. 2223/96 del 
consiglio dell'Unione 
europea, del 
25 giugno 
1996 relativo al 
sistema 
europeo dei 
conti 
nazionali 
e 
regionali 
nella 
comunità. i criteri 
per individuare 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
e 
per distinguerle 
dal 
settore 
delle 
imprese 
fissati 
dal 
regolamento sono i 
seguenti: 
deve 
trattarsi 
di 
enti 
che 
producono 
beni 
e 
servizi 
che 
non 
siano 
destinati 
alla 
vendita 
sul 
libero 
mercato; 
i 
beni 
e 
i 
servizi 
devono essere 
messi 
a 
disposizione 
della 
collettività 
gratuitamente 
(o sulla 
base 
di 
prezzi 
economicamente 
non 
significativi); 
l’attività 
dell’ente 
deve 
essere 
finanziata 
in 
prevalenza 
a 
carico 
delle 
finanze 
pubbliche; 
la 
loro 
funzione 
principale 
è 
quella 
di 
redistribuzione 
del 
reddito 
e 
della 
ricchezza 
del 
paese. Su tali 
criteri, in sintesi: 
M. cLArich, manuale 
di 
diritto amministrativo, cit., 
p. 325. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


tratto di 
appalto; 
enti 
aggiudicatori 
nel 
caso del 
contratto di 
concessione; 
soggetti 
aggiudicatori 
nel 
caso del 
Partenariato pubblico privato) si 
intendono: 
le 
amministrazioni 
dello Stato; 
gli 
enti 
pubblici 
territoriali; 
gli 
altri 
enti 
pubblici 
non economici; 
gli 
organismi 
di 
diritto pubblico; 
le 
associazioni, unioni, consorzi, 
comunque 
denominati, costituiti 
da 
detti 
soggetti; 
le 
imprese 
pubbliche 
(53); 
gli 
enti 
diversi 
da 
quelli 
innanzi 
indicati, ma 
operanti 
sulla 
base 
di 
diritti 
speciali 
o 
esclusivi; 
soggetti 
pubblici 
o 
privati 
assegnatari 
dei 
fondi 
(art. 
3, 
comma 
1, 
lettere 
a, 
e, 
f, 
D.L.vo 
n. 
50/2016). 
All’evidenza, 
l’ambito 
applicativo 
è 
molto ampio essendovi 
compresi 
anche 
soggetti 
formalmente 
privati, come 
gli 
organismi 
di 
diritto pubblico, le 
imprese 
pubbliche 
e 
gli 
enti 
operanti 
sulla 
base 
di 
diritti 
speciali 
o esclusivi. tanto al 
fine 
di 
estendere 
al 
massimo grado 
l’ambito 
dei 
soggetti 
tenuti 
ad 
applicare 
la 
normativa 
unionistica 
sull’evidenza 
pubblica in funzione della massima concorrenza; 


c) 
i 
criteri 
di 
economicità, di 
efficacia, di 
imparzialità, di 
pubblicità 
e 
di 
trasparenza 
ed 
i 
principi 
dell'ordinamento 
comunitario 
devono 
essere 
assicurati 
oltrecché 
dalle 
pubbliche 
amministrazioni 
anche 
dai 
soggetti 
privati 
preposti 
all'esercizio di 
attività 
amministrative 
(art. 1, comma 
1 ter, 
L. n. 241/1990), 
espressione 
quest’ultima 
che 
può riferirsi 
tanto a 
funzioni 
pubbliche 
in senso 
stretto, quanto ai servizi pubblici (54); 
d) 
ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
norme 
in materia 
di 
procedimento amministrativo 
e 
di 
diritto 
di 
accesso 
ai 
documenti 
amministrativi 
contenute 
nella 
L. 
n.241/1990, 
le 
disposizioni 
della 
detta 
legge 
si 
applicano 
altresì, 
alle 
società 
con 
totale 
o 
prevalente 
capitale 
pubblico, 
limitatamente 
all'esercizio 
delle 
funzioni 
amministrative 
(art. 
29, 
comma 
1, 
L. 
n. 
241/1990). 
Anche 
in 
questo 
caso 
può 
trattarsi 
tanto 
di 
funzioni 
pubbliche 
in 
senso 
stretto, 
quanto 
ai 
servizi 
pubblici 
(55); 
e) ai 
fini 
del 
diritto di 
accesso ai 
documenti 
amministrativi 
per "pubblica 
amministrazione", si 
intendono tutti 
i 
soggetti 
di 
diritto pubblico e 
i 
soggetti 
di 
diritto privato limitatamente 
alla 
loro attività 
di 
pubblico interesse 
disciplinata 
dal 
diritto 
nazionale 
o 
comunitario 
(art. 
22, 
comma 
1, 
lett. 
e, 
L. 
n. 
241/1990). 
Si 
precisa 
poi 
che 
il 
diritto 
di 
accesso 
si 
esercita 
nei 
confronti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, delle 
aziende 
autonome 
e 
speciali, degli 
enti 
pubblici 
e dei gestori di pubblici servizi (art. 23, L. n. 241/1990); 
(53) “le 
imprese 
sulle 
quali 
le 
amministrazioni 
aggiudicatrici 
possono esercitare, direttamente 
o 
indirettamente, un'influenza dominante 
o perché 
ne 
sono proprietarie, o perché 
vi 
hanno una partecipazione 
finanziaria, o in virtù delle 
norme 
che 
disciplinano dette 
imprese. L'influenza dominante 
è 
presunta 
quando 
le 
amministrazioni 
aggiudicatrici, 
direttamente 
o 
indirettamente, 
riguardo 
all'impresa, 
alternativamente 
o 
cumulativamente: 
1) 
detengono 
la 
maggioranza 
del 
capitale 
sottoscritto; 
2) 
controllano 
la maggioranza dei 
voti 
cui 
danno diritto le 
azioni 
emesse 
dall'impresa; 3) possono designare 
più della metà dei 
membri 
del 
consiglio di 
amministrazione, di 
direzione 
o di 
vigilanza dell'impresa;”. 
(54) conf. M. D’ALBerti, Lezioni 
di 
diritto amministrativo, iV 
edizione, Giappichelli, 2019, p. 
81. 
(55) conf. M. D’ALBerti, Lezioni di diritto amministrativo, cit., p. 81. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


f) 
ai 
fini 
del 
controllo 
e 
della 
giurisdizione 
della 
corte 
dei 
conti 
(artt. 
100, 
comma 
2, e 
103, comma 
2, cost.). La 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
dei 
giudici 
comuni 
ha 
nel 
tempo 
ampliato 
il 
novero 
dei 
soggetti 
sottoposti 
al 
controllo 
e 
della 
giurisdizione 
della 
corte 
dei 
conti, includendovi 
anche 
soggetti 
di 
natura 
privata, purché 
siano stabilmente 
finanziati 
dallo Stato e 
da 
enti 
pubblici 
anche 
non territoriali, ovvero svolgano attività 
o servizi 
pubblici 
con risorse 
pubbliche e nell’interesse dell’amministrazione; 
g) 
ai 
fini 
della 
delimitazione 
dei 
soggetti 
sottoposti 
alla 
giurisdizione 
amministrativa, 
l’art. 7, comma 
2, D.L.vo 4 luglio 2010, n. 104 precisa 
che 
“Per 
pubbliche 
amministrazioni, 
ai 
fini 
del 
presente 
codice, 
si 
intendono 
anche 
i 
soggetti 
ad esse 
equiparati 
o comunque 
tenuti 
al 
rispetto dei 
principi 
del 
procedimento 
amministrativo”. 
All’evidenza 
il 
richiamo, 
come 
desumibile 
dal 
tenore 
lessicale, 
è 
fatto 
ai 
soggetti 
privati 
preposti 
all' 
esercizio 
di 
attività 
amministrative di cui all’art. 1, comma 1 ter, L. n. 241/1990. 
Alla 
stregua 
di 
quanto 
ricostruito 
alcuni 
enti, 
come 
gli 
enti 
territoriali, 
sono immancabilmente amministrazioni pubbliche. 


invece 
altri 
enti, ad esempio, i 
gestori 
di 
pubblici 
servizi 
sono amministrazioni 
pubbliche 
a 
geometrie 
variabili, 
ossia 
solo 
in 
particolari 
materie 
(come 
in 
quella 
dell’accesso 
ai 
documenti 
amministrativi); 
vengono 
in 
rilievo, 
quindi, persone 
giuridiche 
private 
di 
rilievo pubblicistico (o enti 
privati 
di 
interesse 
pubblico), una 
sorta 
di 
categoria 
intermedia 
tra 
gli 
enti 
pubblici 
e 
gli 
enti 
privati. Vi 
è 
il 
ricorso ad una 
nozione 
funzionale 
di 
pubblica 
amministrazione, 
diretta a garantire l’applicazione di una specifica normativa (56). 


Preso 
atto 
dell’assenza 
di 
un 
concetto 
unitario 
di 
pubblica 
amministrazione 
valevole 
per ogni 
aspetto della 
disciplina, si 
pone 
il 
problema 
del 
perimetro 
della 
pubblica 
amministrazione 
negli 
ambiti 
non 
fatti 
oggetto 
di 
puntuale 
disciplina. Ad esempio l’art. 29, comma 
1, della 
L. n. 241/1990 dispone 
che 
“Le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
2-bis 
[conseguenze 
per 
il 
ritardo 
dell'amministrazione 
nella 
conclusione 
del 
procedimento], 11 
[Accordi 
integrativi 
o sostitutivi 
del 
provvedimento], 15 [Accordi 
fra 
pubbliche 
amministrazioni] 
e 
25, commi 
5, 5-bis 
e 
6 
[Modalità 
di 
esercizio del 
diritto di 
accesso 
e 
ricorsi], nonché 
quelle 
del 
capo IV-bis 
[efficacia 
ed invalidità 
del 
provvedimento 
amministrativo. revoca 
e 
recesso] si 
applicano a tutte 
le 
amministrazioni 
pubbliche”. 
Ma 
la 
legge 
non 
contiene 
specificazioni 
sulla 
nozione 
di 
amministrazioni 
pubbliche. 
Analogo 
discorso 
deve 
farsi 
per 
il 
concetto 
di 
pubbliche 
amministrazioni 
ai 
fini 
dell’ambito di 
applicazione 
oggettivo e 
soggettivo 
della 
disciplina 
relativa 
alla 
documentazione 
amministrativa 
(artt. 2 e 
3 


D.P.r. 28 dicembre 
2000, n. 445): 
concetto enunciato, ma 
non definito, non 
esplicato. 
(56) L. tOrchiA 
(a cura di), 
Il sistema amministrativo italiano, il Mulino, 2009, p. 24. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


Quid iuris? 

Deve 
ritenersi 
che 
in assenza 
di 
una 
definizione 
puntuale 
la 
nozione 
di 
pubblica 
amministrazione 
coincide 
con quella 
di 
ente 
pubblico, ossia 
una 
categoria 
comprendente 
gli 
enti 
territoriali 
ed i 
loro enti 
ausiliari 
e 
strumentali, 
gli 
enti 
autonomi 
dagli 
enti 
territoriali, gli 
enti 
indipendenti 
e 
gli 
enti 
pubblici 
economici 
(57). 
ciò 
alla 
stregua 
del 
sistema 
normativo, 
nel 
quale 
le 
due 
espressioni 
sono usate 
-tranne 
che 
nei 
casi 
innanzi 
esemplificati 
nei 
quali 
vi 
è 
la 
descrizione 
dell’ambito -come 
sinonimi. conforta 
la 
detta 
conclusione, quindi, 
l’argomento della costanza terminologica. 


(57) 
Per 
autorevole 
dottrina 
“Volendo 
provare 
a 
sintetizzare 
i 
tratti 
caratterizzanti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, ricavandoli 
induttivamente 
dagli 
elenchi 
e 
dai 
criteri 
posti 
dalle 
principali 
normative 
speciali, si 
può anzitutto dire, in negativo, che 
esse 
si 
collocano al 
di 
fuori 
del 
mercato, nel 
senso che 
esse 
non producono beni 
e 
servizi 
resi 
sulla base 
di 
prezzi 
che 
consentano di 
realizzare 
i 
ricavi 
atti 
a 
coprire 
i 
costi 
(e 
a produrre 
utili). In positivo, la caratteristica propria delle 
pubbliche 
amministrazioni 
è 
quella di 
produrre 
beni 
pubblici 
materiali 
o immateriali, quelli 
che 
cioè 
il 
mercato non è 
in grado di 
garantire 
in modo adeguato (ordine 
pubblico, sicurezza, difesa, giustizia, pubblica istruzione, salute, 
ecc.) con finalità anche 
redistributive. Il 
finanziamento di 
tali 
attività è 
posto in ultima analisi 
in prevalenza 
a carico della collettività attraverso il 
ricorso alla tassazione. Tali 
attività possono consistere, 
a 
seconda 
delle 
funzioni 
attribuite 
alla 
singola 
amministrazione, 
sia 
(e 
in 
alcuni 
casi 
soltanto) 
nell’emanazione 
di 
atti 
o 
provvedimenti 
amministrativi, 
sia 
in 
attività 
materiali 
(prestazioni 
sanitarie 
o 
assistenziali, 
istruzione 
scolastica, 
ecc.), 
sia 
in 
erogazione 
di 
danaro 
(trattamenti 
pensionistici, 
contributi 
finanziari 
alle 
imprese, ecc.)”: 
così 
M. cLArich, manuale 
di 
diritto amministrativo, cit., pp. 325-326. 
La 
definizione 
offerta 
esclude, all’evidenza, gli 
enti 
pubblici 
economici, quale 
ad esempio l’Agenzia 
del Demanio. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


Il giudice penale e la legge scientifica. 
Il punto della giurisprudenza penale 
in materia di causalità ed amianto 


Alessandro D’Amico* 


SommArIo: 
1. 
Il 
modello 
della 
sussunzione 
sotto 
leggi 
scientifiche 
-2. 
Il 
necessario 
grado di 
probabilità -3. L’intervento delle 
Sezioni 
Unite: la sentenza Franzese 
-4. L’incertezza 
scientifica nel processo penale: un problema ancora aperto. 


1. Il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche. 
Una 
delle 
problematiche 
di 
maggiore 
rilievo che 
concernono il 
rapporto 
tra 
diritto penale 
e 
scienza 
è 
quella 
relativa 
al 
nesso causale 
fra 
condotta 
ed 
evento. 

nel 
corso degli 
ultimi 
decenni, il 
criterio per affermare 
l’esistenza 
di 
un 
legame tra gli elementi del reato è totalmente mutato. 

Un 
tempo, 
la 
teoria 
maggiormente 
utilizzata 
per 
accertare 
il 
nesso 
causale 
è 
stata 
quella 
della 
causalità 
naturale, anche 
detta 
della 
condicio sine 
qua non, 


o ancora, dell'equivalenza. 
A 
partire 
dagli 
anni 
’90 del 
secolo corso, tuttavia, la 
giurisprudenza 
ha 
iniziato ad adottare il criterio unitario della spiegazione scientifica. 
Sono infatti 
noti 
i 
limiti 
della 
teoria 
condizionalistica. in primo luogo, si 
tratta 
di 
un criterio puramente 
logico che 
va 
incontro a 
dei 
risultati 
in alcuni 
casi 
convincenti 
ed in altri 
paradossali. in particolare 
in dottrina 
si 
evidenzia 
il 
problematico 
“regresso 
all’infinito” 
a 
cui 
può 
condurre 
la 
rigida 
applicazione 
di 
tale 
criterio. 
Se 
ci 
si 
pone 
su 
un 
piano 
meramente 
logico, 
infatti, 
tutti 
i 
fattori 
vengono posti 
sullo stesso piano e 
conseguentemente 
risultano di 
per sé 
condicio 
sine qua non dell’evento (1). 


in 
secondo 
luogo, 
anche 
su 
un 
diverso 
piano 
di 
indagine 
emergono 
alcune 
incertezze 
dall’applicazione 
della 
teoria 
condizionalistica 
nella 
ricostruzione 
del rapporto di causalità. 

Si 
tratta 
dei 
limiti 
che 
il 
criterio della 
condicio sine 
qua 
non incontra 
nel 
momento in cui 
occorre 
accertare 
il 
nesso causale 
rispetto ad eventi 
che 
necessitano 
di 
una 
spiegazione 
scientifica. in questi 
casi 
la 
teoria 
condizionali


(*) Dottore 
in Giurisprudenza, già 
praticante 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato (avv. St. 
Alessandra Bruni). 
Lo 
studio 
è 
stato 
redatto 
dall’Autore 
su 
indicazione 
dell’avv. 
St. 
affidatario 
unitamente 
all’avv. 
St. 
Massimo 
Giannuzzi. 


(1) Proprio per ovviare 
a 
questi 
inconvenienti 
sono stati 
introdotti 
dei 
correttivi 
al 
criterio della 
condicio sine 
qua non. in particolare 
è 
stata 
attribuita 
efficacia 
interruttiva 
del 
nesso ai 
fattori 
sopravvenuti 
c.d. eccezionali (non previsti, né prevedibili) ai sensi dell’art. 41, comma secondo, c.p. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


stica 
non 
è 
da 
sola 
in 
grado 
di 
svolgere 
la 
funzione 
imputativa 
attribuitale 
dall’ordinamento (2). 

il 
criterio della 
“eliminazione 
mentale” 
-caratteristico di 
tale 
teoria 
-si 
rivela 
infatti 
una 
formula 
vuota 
che 
necessita 
di 
ulteriori 
contenuti 
affinché 
possa essere applicato ai casi concreti (3). 

il 
giudizio 
causale, 
pertanto, 
per 
fornire 
una 
spiegazione 
adeguata 
del-
l’evento 
concreto, 
deve 
essere 
riempito 
di 
contenuti 
che 
vanno 
necessariamente 
desunti 
da 
leggi 
scientifiche. Le 
quali 
costituiscono degli 
enunciati 
che 
esprimono successioni 
regolari 
di 
accadimenti, frutto dell’osservazione 
sistematica 
della realtà fisica o psichica (4). 


il 
modello che 
prevede 
l’integrazione 
della 
teoria 
condizionalistica 
con 
l’utilizzazione 
della 
c.d. 
legge 
(scientifica) 
di 
copertura 
prende 
il 
nome 
di 
“sussunzione 
sotto leggi scientifiche”. 


il 
passaggio al 
modello di 
sussunzione 
sotto leggi 
scientifiche 
si 
realizza 
negli 
anni 
novanta 
con la 
storica 
sentenza 
della 
corte 
di 
cassazione 
sul 
disastro 
di Stava (5). 

L’integrazione 
della 
teoria 
condizionalistica 
tramite 
la 
sussunzione 
rimane, 
tuttavia, 
un’operazione 
non 
sempre 
obbligata. 
in 
certi 
casi 
può 
risultare 
superflua 
ed essere 
pertanto tacitamente 
supposta 
(6). Ad esempio ciò accade 
qualora 
sia 
fuori 
discussione 
che, 
eliminata 
mentalmente 
la 
condotta, 
l’evento 
non si sarebbe verificato. 

L’uso 
del 
modello 
della 
sussunzione 
risulta, 
invece, 
indispensabile 
in 
tutti 
i 
casi 
“problematici”. Ossia 
quando, eliminata 
mentalmente 
la 
condotta, si 
rimanga 
in dubbio circa il verificarsi o meno dell’evento. 


2. Il necessario grado di probabilità. 
Le 
leggi 
scientifiche 
di 
copertura 
possono essere 
di 
due 
tipologie: 
da 
un 
lato vi 
sono le 
leggi 
c.d. universali, ossia 
quelle 
leggi 
che 
affermano che 
il 
ve


(2) r. BArtOLi, Diritto penale 
e 
prova scientifica, in 
G. cAnziO 
e 
L. LUPAriA, Prova scientifica e 
processo penale, Milano, Wolters Kluwer-cedam, 2018, p. 100. 
(3) in particolare 
il 
metodo dell’eliminazione 
mentale 
non svolge 
correttamente 
il 
suo ruolo di 
“spiegazione 
causale” 
in tutti 
quei 
casi 
in cui 
non si 
sappia 
in anticipo se 
sul 
piano generale 
sussistano 
o meno rapporti 
di 
derivazione 
fra 
determinati 
antecedenti 
e 
determinati 
conseguenti. in tal 
senso, G. 
FiAnDAcA, e. MUScO, Diritto Penale, Parte generale, Bologna, zanichelli, 2014, pp. 244 s. 
(4) 
cfr. 
G. 
MArinUcci, 
e. 
DOLcini, 
G.L. 
GAttA, 
manuale 
di 
diritto 
penale. 
Parte 
generale, 
7a 
ed., 
2018, p. 228. 
(5) cass. Pen., iV, 6 dicembre 
1990, Bonetti, in Cass. Pen., 1992, p. 2726, n. 1411 e 
in Foro It. 
1992, 
ii, 
p. 
36. 
Per 
la 
verità 
anche 
prima 
di 
tale 
pronuncia 
la 
cassazione 
aveva, 
sia 
pur 
con 
un 
linguaggio 
meno chiaro, ritenuto indispensabile 
il 
ricorso a 
generalizzazioni 
nella 
spiegazione 
dell’evento (cass. 
Pen., iV, 24 giugno 1986, Ponte, in mass. Uff., 1986, nn. 174511-174512). inoltre 
in precedenza 
tale 
modello -di 
origine 
tedesca 
-era 
già 
stato accolto in italia 
da 
FeDericO 
SteLLA 
nel 
suo scritto 
Leggi 
scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Giuffrè, Milano 1975. 
(6) 
P.F. 
PirAS, 
Nesso 
di 
causalità 
e 
imputazione 
a 
titolo 
di 
colpa. 
Nota 
a 
Cass. 
Pen., 
IV, 
12 
giugno 
(30 settembre) 1997, Valleri e altro, in 
Dir. pen. e proc., 1998, p. 1522. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


rificarsi 
di 
un 
evento 
è 
invariabilmente 
accompagnato 
dal 
verificarsi 
di 
un 
altro evento; 
dall’altro lato vi 
sono le 
leggi 
statistiche, ossia 
leggi 
che 
asseriscono 
che 
il 
rapporto di 
successione 
tra 
l’evento A 
e 
l’evento B sussiste 
solo 
in una certa percentuale di casi (7). 

L’esigenza 
di 
non 
vanificare 
gli 
scopi 
preventivo-repressivi 
del 
diritto 
penale 
sembra 
imporre 
all’interprete 
il 
ricorso non solo alle 
leggi 
universali 
ma 
anche 
alle 
leggi 
di 
tipo 
statistico. 
Da 
ciò 
discende 
che, 
in 
sede 
giudiziale, 
spesso 
risulta 
indispensabile 
doversi 
accontentare 
di 
una 
spiegazione 
in 
termini 
meramente probabilistici (8). 

negli 
ultimi 
decenni 
si 
è 
tuttavia 
posto il 
problema 
di 
capire 
quale 
sia 
il 
grado di 
probabilità 
necessario e 
sufficiente 
per poter affermare 
la 
sussistenza 
del 
nesso causale. La 
soluzione 
a 
tale 
problema 
assume, infatti, delle 
conseguenze 
particolarmente rilevanti sul piano pratico. 


All’interrogativo 
in 
merito 
al 
grado 
di 
probabilità 
richiesta 
sono 
state 
date 
risposte 
differenti 
a 
seconda 
che 
ci 
si 
trovasse 
dinnanzi 
ad ipotesi 
di 
causalità 
attiva o di causalità omissiva. 

nel 
caso di 
condotta 
attiva 
(commissiva) sia 
la 
dottrina 
che 
la 
giurisprudenza 
maggioritaria 
hanno ritenuto che 
per attribuire 
l’evento all’agente 
deve 
potersi 
affermare 
che, in mancanza 
della 
sua 
azione, l’evento con alto grado 
di probabilità non si sarebbe verificato (9). 

nel 
caso 
di 
condotta 
omissiva, 
gli 
orientamenti 
in 
merito 
all’accertamento 
della 
causalità 
non hanno assunto contorni 
ben definiti. in dottrina, infatti, si 
è 
più volte 
sottolineata 
la 
netta 
difformità 
tra 
la 
natura 
della 
causalità 
attiva 
e 
quella 
della 
causalità 
omissiva. 
in 
particolare, 
il 
nesso 
tra 
omissione 
ed 
evento 
non rifletterebbe 
un vero e 
proprio rapporto causale 
in senso fisico-naturalistico, 
ma 
avrebbe 
esclusivamente 
natura 
normativa. 
La 
causalità 
omissiva 
avrebbe, quindi, i 
caratteri 
di 
“causalità 
ipotetica” 
e, in sede 
di 
accertamento, 
non si 
potrebbe 
esigere 
lo stesso livello di 
rigore 
richiesto per il 
nesso causale 
attivo. 
Ai 
fini 
dell’accertamento 
della 
causalità, 
pertanto, 
ci 
si 
potrebbe 
dunque 
“accontentare” 
della 
prova 
che 
l’azione 
doverosa, 
supposta 
mentalmente 
come 
realizzata, sarebbe 
valsa 
ad impedire 
l’evento con “serie 
ed apprezzabili 
probabilità 
di successo”. 

È 
proprio 
sulla 
base 
della 
strutturale 
differenza 
tra 
causalità 
attiva 
ed 
omissiva 
che 
si 
è 
sviluppato e 
ha 
trovato fondamento teorico l’orientamento 


(7) G. FiAnDAcA, Causalità (rapporto di), in Digdp, ii, torino, 1988, p. 140. 
(8) 
P.F. 
PirAS, 
Nesso 
di 
causalità 
e 
imputazione 
a 
titolo 
di 
colpa. 
Nota 
a 
Cass. 
Pen., 
IV, 
12 
giugno 
(30 settembre) 1997, Valleri e altro, cit., p. 1525. 
(9) tale 
soluzione 
è 
stata 
accolta 
anche 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(cfr. cass. Pen., iV, 27 
settembre 
(16 novembre) 1993, rossello, in Giur. it., 1994, ii, p. 634, con nota 
di 
A. GriLLi 
e 
in Cass. 
Pen., 
1995, 
p. 
291, 
n. 
221). 
in 
particolare 
i 
giudici 
sottolineano 
che, 
ai 
fini 
dell’accertamento 
del 
rapporto 
di 
causalità, 
è 
necessario 
che 
l’esistenza 
del 
nesso 
causale 
venga 
riscontrata 
con 
sufficiente 
grado 
di 
certezza. Quest’ultima, ancorché 
non assoluta, deve 
essere 
di 
un grado tale 
da 
fondare 
su basi 
solide 
un’affermazione 
di 
responsabilità, 
non 
essendo 
sufficiente 
a 
tal 
fine 
un 
giudizio 
di 
mera 
verosimiglianza. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


giurisprudenziale 
dominante 
fino 
alla 
pronuncia 
delle 
Sezioni 
Unite 
(Franzese) 
dell’11 settembre 2002. 


La 
prima 
pronuncia 
espressione 
di 
tale 
indirizzo giurisprudenziale 
è 
una 
sentenza 
di 
merito della 
corte 
d’Appello di 
Venezia, in cui 
per la 
prima 
volta 
si 
afferma 
che, 
in 
tema 
di 
interventi 
medici, 
il 
rapporto 
di 
causalità 
va 
ravvisato 
adottando 
un 
criterio 
di 
“rilevante 
probabilità” 
e 
non 
di 
“certezza 
assoluta” 
(10). 
Poco 
dopo 
anche 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
avalla 
tale 
orientamento. 
in 
particolare, 
sempre 
in 
ambito 
di 
responsabilità 
sanitaria, 
la 
iV 
Sezione 
della 
corte 
di 
cassazione 
afferma 
che 
nella 
ricerca 
del 
nesso di 
causalità 
tra 
la 
condotta 
e 
l’evento, in materia 
di 
responsabilità 
per colpa 
professionale 
sanitaria, 
al 
criterio della 
certezza 
degli 
effetti 
della 
condotta 
si 
possa 
sostituire 
quello 
della 
probabilità 
di 
tali 
effetti 
(e 
della 
idoneità 
della 
condotta 
a 
produrli). 
il 
rapporto causale, infatti, sussiste 
anche 
quando l’opera 
del 
sanitario, se 
correttamente 
e 
tempestivamente 
intervenuta, avrebbe 
avuto non già 
la 
certezza 
quanto soltanto “serie 
ed apprezzabili 
possibilità 
di 
successo”, tali 
che 
la 
vita 
del 
paziente 
sarebbe 
stata 
probabilmente 
salvata 
(11). in alcune 
pronunce, addirittura, 
la 
corte 
omette 
di 
quantificare 
le 
probabilità 
richieste 
ai 
fini 
della 
sussistenza 
del 
nesso 
causale. 
Vi 
sono 
alcune 
decisioni, 
infatti, 
in 
cui 
il 
criterio 
probabilistico 
viene 
confermato 
adottando 
unicamente 
la 
formula 
(vaga) 
delle 
serie 
ed apprezzabili 
probabilità 
di 
successo, senza 
alcuna 
ulteriore 
specificazione 
(12). 

Questa 
tendenza 
è 
stata 
criticata 
dalla 
dottrina 
perché 
contrasta 
con 
il 
tradizionale 
modello 
condizionalistico 
integrato 
dalla 
sussunzione 
sotto 
leggi 
scientifiche. Secondo tale 
modello i 
giudici 
non possono fare 
a 
meno dell’ausilio 
dei 
periti 
per emettere 
una 
condanna. Sono i 
consulenti 
che 
devono indicare 
al 
giudice 
in termini 
percentuali 
le 
possibilità 
per la 
condotta 
doverosa 


(10) corte 
d’Appello Venezia, 29 aprile 
1981, De 
Vido, in Foro It., rep., 1982, voce 
reato in genere, 
n. 11, p. 2438 e 
in riv. it. med. leg., 1982, p. 249. richiamata 
anche 
in r. BLAiOttA, Causalità e 
colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, in Cass. Pen. 
2000, p. 1194. 
(11) cass. Pen., iV, 7 gennaio (12 maggio) 1983, Melis, in Cass. pen., 1984, pp. 1142-1145, n. 
820, in riv. It. med. leg., 1984, pp. 871-875, in Foro It., 
1986, ii, pp. 351-356, con nota 
di 
L. renDA, 
Sull’accertamento della responsabilità omissiva nella responsabilità medica, in Giust. Pen., 1986, ii, 
p. 8 con nota 
di 
F. LUBini, M.G. Sini, In tema di 
rapporto di 
causalità tra condotta medico-chirurgica 
ed evento infausto. 
(12) cfr., tra 
le 
altre, cass. Pen., iii, 20 gennaio (22 febbraio) 1993, conte, in C.E.D. Cass., n. 
193052 e 
in riv. pen., 1993, pp. 1003 ss.; 
cass. Pen., iV, 30 aprile 
(7 luglio) 1993, De 
Giovanni, in Giurispr. 
It., 
1994, 
n. 
50, 
in 
Giust. 
Pen., 
1994, 
ii, 
p. 
269, 
in 
riv. 
Pen., 
1994, 
p. 
954, 
in 
Guida 
al 
diritto, 
2002, n. 38, p. 73; 
cass. Pen., iV, 27 aprile 
1993, Messina, in Giur. It., 1994, ii, pp. 668 ss.; 
cass. Pen., 
2 marzo 1999, Facchinetti, in Giust. Pen., 2000, ii, p. 623; 
cass. Pen., V, 14 luglio 2000, Falvo, in CED 
Cass., n. 217149. inoltre 
è 
stato evidenziato che 
tale 
atteggiamento rigoristico della 
giurisprudenza 
ha 
portato in un caso la 
cassazione 
ad introdurre 
una 
sorta 
d’inversione 
dell’onere 
della 
prova 
del 
nesso 
causale 
in ambito medico. i giudici, infatti, hanno sostenuto che 
debba 
ritenersi 
responsabile 
il 
sanitario 
che 
tenga 
una 
condotta 
negligente 
e 
imprudente, sempre 
che 
non provi 
che 
il 
paziente 
sarebbe 
ugualmente 
deceduto, 
nelle 
stesse 
condizioni, 
pur 
se 
fossero 
state 
approntate 
le 
cure 
più 
adeguate 
(cass. 
Pen., 
iV, 9 marzo 1989, n. 3602, carapezza, in C.E.D. Cass., n. 180736). 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


omessa 
di 
impedire 
l’evento. Pertanto, in tutti 
quei 
casi 
in cui 
il 
perito non è 
in grado di 
individuare 
correttamente 
in termini 
percentuali 
la 
probabilità 
salvifica 
della 
condotta 
omessa, il 
procedimento dovrebbe 
concludersi 
con una 
sentenza di assoluzione. 


La 
dottrina 
ha 
evidenziato, inoltre, che 
l’orientamento giurisprudenziale 
dominante 
-con 
le 
citate 
sentenze 
-abbia 
di 
fatto 
abbandonato 
lo 
schema 
condizionalistico 
per abbracciare quello del c.d. aumento del rischio. 

Secondo 
tale 
teoria 
(13) 
nei 
reati 
omissivi 
impropri, 
per 
l’imputazione 
oggettiva 
del 
fatto 
di 
reato 
al 
soggetto 
agente, 
sarebbe 
sufficiente 
che 
l’azione 
doverosa 
omessa 
sia 
in grado di 
aumentare 
le 
probabilità 
di 
salvezza 
del 
bene 
giuridico minacciato. Pertanto, ai 
fini 
della 
sussistenza 
del 
nesso, risulta 
sufficiente 
l’accertamento 
che 
l’inosservanza 
della 
regola 
cautelare 
ha 
comunque 
determinato un rilevante 
aumento del 
rischio di 
verificazione 
dell’evento lesivo. 
e 
ciò 
a 
prescindere 
che 
vi 
sia 
o 
meno 
la 
certezza 
che 
la 
condotta 
diligente 
avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento (14). 


Successivamente, in alcune 
decisioni, la 
cassazione, in perfetta 
antitesi 
rispetto all’orientamento probabilista, ha 
assunto un atteggiamento estremamente 
rigoroso. Si 
inizia 
ad affermare 
che 
per spiegare 
l’evento, si 
debbano 
utilizzare 
solo leggi 
di 
copertura 
a 
carattere 
universale, esigendosi 
il 
raggiungimento 
della 
certezza. 
in 
particolare 
è 
a 
partire 
dagli 
anni 
duemila 
che 
la 
corte 
di 
cassazione 
inizia 
a 
prendere 
le 
distanze 
dall’orientamento giurisprudenziale 
dominante 
delle 
“serie 
ed 
apprezzabili 
probabilità” 
e 
inaugura 
quello 
che, sinteticamente, viene indicato come il filone della “certezza”. 

La 
Sezione 
iV 
della 
corte, 
con 
tre 
sentenze 
del 
medesimo 
anno 
(15), 
mostra 
di 
aderire 
integralmente 
all’elaborazione 
del 
problema 
causale 
data 
da 
una 
parte 
della 
dottrina 
(16) che 
postula 
l’assoluta 
omogeneità 
fra 
causalità 
attiva 
e causalità omissiva. 

La 
cassazione 
afferma 
che 
sia 
in 
caso 
di 
azione, 
sia 
in 
caso 
di 
omissione, 
il 
giudizio 
avrà 
natura 
probabilistica 
e 
il 
giudice 
potrà 
affermare 
la 
sussistenza 
del 
nesso 
causale 
solo 
se 
l’azione 
o 
l’omissione 
è 
stata 
causa 
dell’evento 
con 
“alto 
grado 
di 
probabilità 
o 
credibilità 
razionale”. 
A 
tale 


(13) Si 
tratta 
di 
una 
teoria 
di 
origine 
tedesca, particolarmente 
avversata 
dalla 
dottrina 
italiana 
(M. 
rOMAnO, Commentario sistematico del 
codice 
penale. Artt. 40 e 
41, Giuffrè, Milano, 1995, p. 351; 
A. 
creSPi, medico -chirurgo, in Dig. Disc. Pen., Vii, 1993, p. 598; 
r. BLAiOttA, Causalità e 
colpa nella 
professione 
medica 
tra 
probabilità 
e 
certezza, 
cit., 
p. 
1207; 
G. 
FiAnDAcA, 
reati 
omissivi 
e 
responsabilità 
penale per omissione, in Arch. Pen., 1983, p. 43). 
(14) G.F. iADecOLA, In tema di 
causalità e 
di 
causalità medica, in riv. it. med. leg., 2001, p. 530. 
(15) cass. Pen., iV, 28 settembre 
2000, (9 marzo 2001), n. 1688, Baltrocchi; 
cass. Pen., iV, 28 
novembre 
2000, n. 2123, Di 
cintio; 
cass. Pen., iV, 29 novembre 
2000, n. 2139, Musto, in riv. It. dir. 
proc. pen., 2001, p. 277. 
(16) F. SteLLA, 
La nozione 
penalmente 
rilevante 
di 
causa: la condizione 
necessaria, in 
riv. it. 
dir. proc. pen., 1988, p. 1252. iD., Giustizia e 
modernità. La protezione 
dell’innocente 
e 
la tutela delle 
vittime, Giuffrè, Milano, 2002, pp. 342 e ss. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


espressione, 
peraltro, 
deve 
necessariamente 
essere 
attribuito 
lo 
stesso 
significato 
che 
le 
viene 
riconosciuto 
in 
ambito 
scientifico: 
perciò, 
“intanto 
il 
giudice 
può 
affermare 
che 
una 
azione 
od 
omissione 
sono 
state 
causa 
di 
un 
evento, 
in 
quanto 
possa 
effettuare 
il 
giudizio 
controfattuale 
avvalendosi 
di 
una 
legge 
o 
proposizione 
scientifica 
che 
enunci 
una 
connessione 
tra 
eventi 
in 
una 
percentuale 
vicina 
a 
cento” 
(17). 


3. L’intervento delle Sezioni Unite: la sentenza Franzese. 
nei 
primi 
anni 
duemila 
sorge, dunque, un contrasto interpretativo all’interno 
della 
iV 
Sezione 
della 
corte 
di 
cassazione. in merito sono intervenute 
le 
Sezioni 
Unite 
con la 
decisione 
adottata 
nell’udienza 
pubblica 
del 
10 luglio 
2002 
e 
depositata 
l’11 
settembre 
dello 
stesso 
anno, 
che 
ha 
rappresentato 
un 
momento di svolta nel dibattito in tema di causalità omissiva. 

i 
giudici 
delle 
Sezioni 
Unite 
richiamano 
innanzitutto 
il 
contrasto 
giurisprudenziale 
sorto 
all’interno 
della 
medesima 
Sezione, 
delineando 
i 
due 
orientamenti 
principali. 
Da 
una 
parte 
quello 
tradizionale 
e 
maggioritario 
delle 
“serie 
ed 
apprezzabili 
probabilità 
di 
successo”; 
dall’altra 
quello 
più 
recente 
per 
il 
quale 
è 
richiesta 
la 
prova 
che 
il 
comportamento 
alternativo 
dell’agente 
avrebbe 
impedito 
l’evento 
lesivo 
con 
un 
elevato 
grado 
di 
probabilità 
“prossimo 
alla 
certezza”, e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”. 

con 
la 
sentenza 
Franzese 
le 
Sezioni 
Unite 
sembrano 
prendere 
le 
distanze 
da 
entrambi 
gli 
indirizzi 
giurisprudenziali 
citati, adottando una 
posizione 
che 
può definirsi mediana (18). 

i 
giudici 
criticano 
i 
due 
orientamenti 
evidenziando 
come 
sia 
del 
tutto 
utopistico 
ragionare 
in 
termini 
di 
“certezza 
assoluta”, 
e 
dall’altra 
parte 
come 
risulti 
evidente 
che 
la 
spiegazione 
di 
un 
evento 
non 
può 
essere 
ritenuta 
soddisfacente 
sulla base di giudizi meramente probabilistici (19). 

i giudici 
aderiscono integralmente 
al 
modello condizionalistico integrato 
dalla 
“sussunzione 
sotto leggi 
scientifiche” 
ed esprimono un netto rifiuto nei 
confronti 
della 
possibilità 
di 
ricorrere 
al 
criterio 
dell’aumento 
o 
della 
mancata 
diminuzione del rischio. 


con 
la 
sentenza 
Franzese 
viene 
evidenziato 
che 
il 
vero 
problema 
della 
causalità 
non 
risiede 
nei 
richiesti 
livelli 
di 
certezza 
o 
probabilità 
espressi 
dalla 
legge 
scientifica, 
ma 
nell’accertamento 
del 
nesso 
in 
ambito 
processuale. 
La 
verifica 
della 
causalità 
fra 
condotta 
ed 
evento 
deve, 
infatti, 
essere 
in 
definitiva 
operata sul piano della prova e del processo penale. 

Le 
Sezioni 
Unite 
precisano che 
l’unica 
certezza 
conseguibile 
dal 
giudice 


(17) in tal 
senso, cass. Pen., Sezione 
iV, 28 settembre 
2000, (9 marzo 2001), n. 9780, Baltrocchi. 
(18) espressione 
utilizzata 
da 
F. AnGiOni, Note 
sull'imputazione 
dell'evento colposo con particolare 
riferimento all'attività medica, in Studi in onore di Giorgio marinucci, Giuffrè, 2006, p. 1318. 
(19) t. MASSA, Le 
Sezioni 
Unite 
davanti 
a nuvole 
e 
orologi: osservazioni 
sparse 
sul 
principio di 
causalità, in Cass. Pen, 2002, p. 3663. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


sia 
quella 
“processuale”, ossia 
quella 
certezza 
che 
si 
raggiunge 
tramite 
il 
ricorso 
ai 
criteri 
di 
valutazione 
della 
prova 
previsti 
dall’ordinamento 
penale. 
Solo a 
seguito di 
tale 
valutazione 
può debitamente 
affermarsi 
la 
sussistenza 
del 
rapporto 
causale 
in 
termini 
di 
“alto 
grado 
di 
credibilità 
razionale” 
o 
di 
“elevata 
probabilità logica”. 

il 
ragionamento dei 
giudici 
muove 
su due 
piani 
ben distinti. Da 
un lato 
vi 
è 
quello della 
causalità 
generale, regolato da 
leggi 
scientifiche 
-universali 


o statistiche; 
dall’altro vi 
è 
quello della 
causalità 
individuale. La 
causalità 
generale 
è 
riferita 
all’accertamento dell’evento astratto tipizzato dalla 
norma 
incriminatrice. 
La 
causalità 
individuale, 
per 
contro, 
deve 
essere 
accertata 
in 
relazione 
al 
singolo evento concreto (verificatosi 
hic 
et 
nunc). Ai 
fini 
dell’imputazione 
di 
un 
determinato 
evento 
alla 
condotta 
posta 
in 
essere 
dall’imputato 
è, 
pertanto, 
necessario 
un 
accertamento 
che 
si 
svolga 
su 
entrambi 
i 
piani 
di 
indagine. 
in un primo momento occorre 
verificare 
la 
sussistenza 
di 
una 
legge 
scientifica 
in 
grado 
di 
“spiegare” 
la 
riconducibilità 
dell’evento 
in 
astratto 
-delineato 
dalla 
norma 
-alla 
condotta. in un secondo momento, il 
giudice 
penale 
deve 
accertare 
se 
quella 
particolare 
legge 
scientifica 
trovi 
applicazione 
anche 
nel caso concreto oggetto di giudizio. 
il 
giudice, pertanto, deve 
compiere 
due 
accertamenti 
distinti, i 
quali 
soggiacciono 
a regole diverse. 


L’accertamento della 
causalità 
generale 
può avvenire 
sulla 
base 
di 
leggi 
scientifiche 
sia 
di 
natura 
“universale” 
sia 
“statistica”. 
La 
sussistenza 
della 
“causalità 
individuale”, per contro, richiede 
un “alto o elevato grado di 
credibilità 
razionale" o "probabilità logica". 


Sulla 
base 
di 
tali 
premesse, 
la 
sentenza 
Franzese 
afferma, 
innanzitutto, 
che 
una 
“legge 
di 
copertura” 
ha 
diritto di 
accesso nel 
processo penale 
a 
prescindere 
dalla 
sua 
natura: 
universale 
o meramente 
probabilistica. Pertanto la 
mancanza 
di 
una 
legge 
di 
copertura 
con coefficiente 
statistico pari 
o prossimo 
al 
100% non potrebbe 
impedire 
al 
giudice 
l’ascrizione 
causale 
di 
un evento 
ad 
una 
condotta 
(20). 
Allo 
stesso 
tempo, 
anche 
in 
presenza 
di 
leggi 
scientifiche 
universali 
-le 
quali 
garantiscono che 
verificatosi 
un dato antecedente 
invariabilmente 
si 
produce 
un certo evento -non è 
possibile 
affermare 
tout 
court 
che 


(20) così 
la 
sentenza 
Franzese 
(cass., sez. un. Pen., 10 luglio 2002, n. 30328) 
“non è 
sostenibile 
che 
si 
elevino a schemi 
di 
spiegazione 
del 
condizionamento necessario solo le 
leggi 
scientifiche 
universali 
e 
quelle 
statistiche 
che 
esprimano un coefficiente 
probabilistico "prossimo ad 1", cioè 
alla "certezza", 
quanto all'efficacia impeditiva della prestazione 
doverosa e 
omessa rispetto al 
singolo evento. 
(…) È 
indubbio che 
coefficienti 
medio-bassi 
di 
probabilità c.d. frequentista per 
tipi 
di 
evento, rivelati 
dalla legge 
statistica (e 
ancor 
più da generalizzazioni 
empiriche 
del 
senso comune 
o da rilevazioni 
epidemiologiche), 
impongano 
verifiche 
attente 
e 
puntuali 
sia 
della 
fondatezza 
scientifica 
che 
della 
specifica 
applicabilità nella fattispecie 
concreta. ma nulla esclude 
che 
anch'essi, se 
corroborati 
dal 
positivo riscontro 
probatorio, condotto secondo le 
cadenze 
tipiche 
della più aggiornata criteriologia medico-legale, 
circa 
la 
sicura 
non 
incidenza 
nel 
caso 
di 
specie 
di 
altri 
fattori 
interagenti 
in 
via 
alternativa, 
possano 
essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


tra 
la 
condotta 
in concreto posta 
in essere 
e 
l’evento occorso sussista 
un nesso 
di causalità (21). 


Accertata 
la 
causalità 
in termini 
probabilistici 
sul 
piano astratto, il 
ragionamento 
probatorio impone 
al 
giudice 
di 
valutare 
le 
possibili 
“spiegazioni 
alternative” 
dell’evento 
in 
concreto 
verificatosi. 
Solo 
in 
assenza 
di 
“fattori 
causali 
alternativi” 
è 
possibile, 
infatti, 
accertare 
il 
nesso 
con 
“alto 
grado 
di 
probabilità 
logica”. 
nel 
giudizio 
le 
probabilità 
rilevanti 
ai 
fini 
dell’accertamento 
processuale 
del 
nesso causale 
non sono quelle 
statistiche 
ma 
quelle 
logiche. 
Le 
leggi 
statistiche 
sono 
necessarie 
ma 
sono 
pur 
sempre 
strumentali 
rispetto al raggiungimento del giudizio di probabilità logica (22). 

Lo schema 
del 
ragionamento probatorio delineato dalle 
Sezioni 
Unite 
è 
dunque 
composto 
da 
due 
differenti 
momenti, 
l’abduzione 
e 
l’induzione. 
in 
prima 
battuta 
è 
necessario formulare 
in via 
generale 
quella 
che 
è 
considerata 
la 
più 
probabile 
ipotesi 
ricostruttiva; 
solo 
dopo, 
si 
dovrà 
invece 
partire 
dal 
fatto storico concretamente 
verificatosi 
per confrontare 
in maniera 
critica 
le 
evidenze 
disponibili 
con le 
ipotesi 
avanzate. Al 
termine 
di 
tale 
confronto tra 
l’ipotesi 
avanzata 
e 
il 
quadro fattuale 
concreto, l’ipotesi 
potrà 
risultare 
corroborata 
o falsificata (23). 


in 
conclusione, 
nel 
percorso 
argomentativo 
delineato 
dalle 
Sezioni 
Unite, 
ai 
fini 
dell’accertamento 
della 
causalità 
risulta 
decisivo 
non 
tanto 
il 
coefficiente 
percentuale 
più o meno elevato di 
“probabilità 
frequentista” 
ricavabile 
dalla 
legge 
di 
copertura 
utilizzata. 
ciò 
che 
conta 
è 
la 
“certezza 
processuale”: 
ovvero 
il 
poter 
ritenere 
-con 
“elevato 
grado 
di 
credibilità 
razionale” 
-che 
quella 
legge 
statistica 
trovi 
applicazione 
anche 
nel 
caso 
oggetto 
di 
giudizio 
(24). 
e 
per 
compiere 
tale 
verifica 
il 
giudice 
penale 
deve 
giungere 
ad escludere 
i 
differenti 
fattori 
causali 
alternativi 
che 
possano aver cagionato l’evento lesivo 
hic 
et 
nunc 
verificatosi. 


(21) in tal 
senso, ancora 
la 
sentenza 
Franzese 
“viceversa, livelli 
elevati 
di 
probabilità statistica o 
schemi 
interpretativi 
dedotti 
da leggi 
di 
carattere 
universale 
(invero assai 
rare 
nel 
settore 
in esame), 
pur 
configurando un rapporto di 
successione 
tra eventi 
rilevato con regolarità o in numero percentualmente 
alto di 
casi, pretendono sempre 
che 
il 
giudice 
ne 
accerti 
il 
valore 
eziologico effettivo, insieme 
con l'irrilevanza nel 
caso concreto di 
spiegazioni 
diverse, controllandone 
quindi 
la "attendibilità" 
in 
riferimento al singolo evento e all'evidenza disponibile”. 
(22) in tal 
senso, c. BrUScO, La causalità giuridica nella più recente 
giurisprudenza della Corte 
di 
Cassazione, in Cass. Pen., 2004, p. 2617. il 
giudice, infatti, non può giungere 
ad una 
decisione 
di 
condanna 
o assoluzione 
applicando acriticamente 
le 
leggi 
scientifiche 
a 
propria 
disposizione. egli 
deve 
considerare 
innanzitutto 
tutte 
le 
emergenze 
processuali 
acquisite 
e 
valutarle 
impiegando 
criteri 
di 
ordine 
logico; 
deve 
poi 
accertare 
la 
correttezza 
e 
la 
pertinenza 
della 
legge 
di 
copertura 
rispetto 
al 
caso 
concreto, 
nonché l’effettiva riconducibilità di quest’ultimo alla legge stessa. 
(23) M. SAntiSe, Coordinate 
ermeneutiche 
di 
diritto civile, Giappichelli, torino, 2017, pp. 916 
ss. 
(24) G. FiAnDAcA, e. MUScO, Diritto Penale, Parte generale, cit., pp. 249 s. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


4. L’incertezza scientifica nel processo penale: un problema ancora aperto. 
La 
sentenza 
Franzese 
è 
intervenuta 
in materia 
di 
causalità 
con l’obiettivo 
di 
chiarire 
le 
questioni 
controverse 
ed 
appianare 
i 
problemi 
interpretativi 
in 
materia di accertamento. 


tuttavia, è 
stato rilevato dalla 
dottrina 
e 
dalla 
successiva 
giurisprudenza 
-anche 
di 
legittimità 
-che 
permangono 
alcune 
questioni 
irrisolte. 
il 
principale 
nodo 
problematico 
attiene 
all’atteggiamento 
che 
deve 
assumere 
il 
giudice 
dinnanzi 
all’incertezza 
scientifica. Le 
Sezioni 
Unite 
Franzese 
ammettono l’utilizzabilità 
di 
leggi 
scientifiche 
di 
natura 
probabilistica. 
tuttavia 
non 
si 
soffermano sul 
ruolo che 
deve 
essere 
assunto dal 
giudice 
dinnanzi 
all’eventuale 
incertezza 
esplicativa 
della 
legge 
di 
copertura. Si 
tratta 
di 
una 
incertezza 
che 
non attiene 
al 
piano probatorio processuale 
e 
pertanto non può essere 
superata 
valorizzando 
la 
presenza 
di 
“fattori 
causali 
alternativi” 
idonei 
a 
fondare 
il ragionevole dubbio. 


Si 
ha 
incertezza 
scientifica 
quando è 
contestata 
la 
stessa 
legge 
di 
spiegazione 
di 
un determinato decorso causale 
sul 
piano scientifico. in tal 
caso, ci 
si 
chiede 
quale 
debba 
essere 
il 
contegno che 
deve 
tenere 
il 
giudice 
dinnanzi 
all’incertezza 
sul piano esplicativo. 


Sulla 
base 
della 
rigorosa 
applicazione 
dei 
principi 
“Franzese”, 
il 
giudice 
dovrebbe 
rilevare 
il 
dibattito 
scientifico 
in 
merito 
all’efficacia 
esplicativa 
di 
una 
determinata 
legge 
e 
concludere 
per 
l’irresponsabilità 
dell’imputato. 
L’incertezza 
della 
legge 
di 
copertura 
rende, 
infatti, 
inesplicabile 
il 
decorso 
causale. 


Allo 
stesso 
tempo 
è 
stata 
evidenziata 
l’esigenza 
di 
un 
certo 
vaglio 
da 
parte 
del 
giudice 
in 
ordine 
alla 
affidabilità 
di 
una 
determinata 
legge 
di 
copertura 
che 
si 
pone 
in discussione. Altrimenti 
si 
dovrebbe 
ammettere 
che 
sia 
sufficiente 
un minimo dubbio sull’efficacia 
esplicativa 
di 
una 
legge 
scientifica 
per giungere 
alla conclusione del proscioglimento del reo. 

i 
maggiori 
problemi 
in 
ordine 
all’incertezza 
scientifica 
si 
sono 
posti 
in 
materia 
di 
accertamento 
della 
causalità 
nei 
processi 
per 
esposizione 
a 
sostanze 
tossiche, utilizzate nell’ambito di processi produttivi. 


in 
particolare 
l’ipotesi 
paradigmatica 
di 
incertezza, 
piuttosto 
frequente 
nella 
prassi, 
riguarda 
il 
c.d. 
effetto 
acceleratore 
prodotto 
sul 
mesotelioma 
pleurico 
dalle 
successive 
esposizioni 
all’amianto. 
La 
questione 
sorge 
a 
causa 
della 
natura 
del 
mesotelioma. 
Si 
tratta 
infatti 
di 
una 
patologia 
caratterizzata 
da 
lunghi 
tempi 
di 
latenza 
che 
si 
manifesta 
a 
seguito 
di 
esposizioni 
che 
si 
estendono 
spesso 
nell’arco 
temporale 
di 
interi 
decenni. 
Da 
ciò 
consegue 
l’esigenza 
di 
individuare, 
tra 
tutti 
coloro 
che 
si 
sono 
succeduti 
nella 
gestione 
dell’impresa 
in 
quell’arco 
temporale, 
il 
soggetto 
o 
i 
soggetti 
cui 
si 
debba 
attribuire 
l’esposizione 
che 
abbia 
innescato 
il 
processo 
patologico 
(25). 



rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


in materia 
di 
esposizioni 
all’amianto, l’incertezza 
attiene 
in primo luogo 
alla 
evidente 
difficoltà 
di 
individuare 
condivise 
leggi 
scientifiche 
in grado di 
accertare 
il 
momento preciso in cui 
una 
determinata 
esposizione 
alla 
sostanza 
nociva 
abbia 
innescato 
il 
processo 
patogenetico 
che 
ha 
condotto 
alla 
morte 
della 
persona 
offesa. in secondo luogo, ancora 
più problematica 
risulta 
l’ulteriore 
verifica 
in merito alle 
successive 
esposizioni: 
in particolare 
se 
queste 
ultime 
abbiano 
interagito 
nel 
caso 
concreto 
accorciando 
i 
tempi 
di 
latenza 
o 
aggravando la 
malattia 
rispetto a 
quanto sarebbe 
accaduto nel 
caso in cui 
la 
vittima 
non fosse 
stata 
esposta 
al 
fattore 
tossico addebitato all’imputato (26). 


Proprio 
in 
materia 
di 
amianto 
e 
di 
effetto 
acceleratore 
è 
intervenuta 
la 
cassazione con la nota sentenza “cozzini” del 17 settembre 2010. 


tale 
sentenza 
ha 
fatto da 
spartiacque 
fra 
due 
periodi 
caratterizzati 
da 
distinti 
orientamenti 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità. 
nelle 
pronunce 
della 
cassazione, infatti, fino alla 
sentenza 
cozzini 
si 
registrava 
un contrasto interpretativo. 


Per un primo indirizzo -senza 
dubbio maggioritario -le 
esposizioni 
successive 
aggraverebbero 
il 
mesotelioma 
(27). 
Altro 
filone 
giurisprudenziale, 
invece, 
non 
prendeva 
posizione 
sulla 
questione. 
Si 
limitava 
ad 
evidenziare 
l’esistenza 
di 
dubbi 
esplicativi 
e 
a 
cassare 
le 
sentenze 
con rinvio sul 
presupposto 
che 
giudice 
di 
merito 
si 
fosse 
limitato 
ad 
aderire 
ad 
una 
determinata 
teoria 
senza 
motivare 
adeguatamente 
in 
ordine 
alla 
non 
persuasività 
della 
tesi 
contraria (28). 

con la 
sentenza 
cozzini, la 
Suprema 
corte 
prende 
atto di 
come 
vi 
sia 
in


(25) D. PULitAnò, Diritto penale, ii ed., torino, Giappichelli, 2007, p. 202. 
(26) F. ViGAnò, Il 
rapporto di 
causalità nella giurisprudenza penale 
a dieci 
anni 
dalla sentenza 
Franzese, in www. dirittopenalecontemporaneo.it, 3/2013, p. 385. 
(27) 
cass. 
pen., 
Sez. 
iii, 
21 
gennaio 
2009 
-17 
marzo 
2009, 
chivilò, 
in 
CED 
Cass., 
n. 
11570/2009; 
cass. pen., Sez. iV, 11 aprile 
2008 -3 giugno 2008, Mascarin, ivi, n. 22165/2008; 
cass. pen., Sez. iV, 
12 luglio 2005 -27 ottobre 
2005, chivilò, ivi, n. 39393/2005, cass. pen., Sez. iV, 29 novembre 
2004 1° 
marzo 2005, Marchiorello, ivi, n. 7630/2005; 
cass. pen., Sez. iV, 9 maggio 2003 -9 maggio 2003, 
Monti, cit.; 
cass. pen., Sez. iV, 12 marzo 2002 -16 aprile 
2002, Balbo di 
Vinadio, in CED 
Cass., n. 
14400/2002; 
cass. pen., Sez. iV, 11 luglio 2002 -14 gennaio 2003, Macola, ivi, n. 988/2002. in tali 
sentenze 
la corte prende, dunque, posizione in materia di “effetto acceleratore”. 
(28) in tal 
senso, cass. pen., Sez. iV, 10 giugno 2010 -4 novembre 
2010, Quaglierini; 
cass. pen., 
Sez. 
iV, 
24 
novembre 
2009 
-26 
gennaio 
2010, 
cavallucci. 
in 
particolare 
nella 
prima 
pronuncia 
si 
afferma 
che 
“la 
sentenza 
impugnata 
solo apparentemente 
motiva 
sulla 
sussistenza 
della 
legge 
scientifica 
di 
copertura, 
in 
quanto, 
dopo 
avere 
delineato 
due 
orientamenti 
teorici 
prevalenti, 
della 
“dose 
risposta” 
(meglio 
conosciuta 
come 
“teoria 
del 
multistadio della 
cancerogenesi”) e 
quello contrapposto della 
irrilevanza 
causale 
delle 
dosi 
successive 
a 
quella 
“killer”, dichiara 
di 
aderire 
al 
primo orientamento, senza 
però indicare 
dialetticamente 
le 
argomentazioni 
dei 
consulenti 
che 
sostengono detta 
tesi 
e 
le 
argomentazioni 
di 
quelli 
che 
la 
contrastano e 
le 
ragioni 
dell’opzione 
causale. in sostanza 
il 
giudice 
di 
merito, più che 
utilizzare 
la 
legge 
scientifica, se 
ne 
è 
fatto artefice”. inoltre 
viene 
sottolineato che 
“nella 
valutazione 
della 
sussistenza 
del 
nesso di 
causalità, quando la 
ricerca 
della 
legge 
di 
copertura 
deve 
attingere 
al 
“sapere 
scientifico”, la 
funzione 
strumentale 
e 
probatoria 
di 
quest’ultimo impone 
al 
giudice 
di 
valutare 
dialetticamente 
le 
specifiche 
opinioni 
degli 
esperti 
e 
di 
motivare 
la 
scelta 
ricostruttiva 
della 
causalità, ancorandola 
ai concreti elementi scientifici raccolti”. 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


certezza 
sul 
piano 
scientifico 
e 
contraddittorietà 
all’interno 
della 
giurisprudenza 
(29) e 
tratteggia 
il 
ruolo che 
deve 
essere 
assunto dal 
giudice 
dinnanzi 
all’incertezza scientifica. 


nel 
far ciò i 
giudici 
della 
iV 
Sezione 
penale 
assumono una 
posizione 
di 
equilibrio fra due esigenze contrapposte. 

infatti 
da 
una 
parte, non può essere 
attribuito al 
giudice 
il 
potere 
di 
scelta 
tra 
più 
opzioni 
ricostruttive. 
in 
tal 
modo, 
infatti, 
assumerebbe 
il 
ruolo 
di 
“scienziato” 
che 
non gli 
compete. Dall’altra 
parte 
è 
necessario che 
gli 
siano almeno 
riconosciuti 
alcuni 
margini 
valutativi 
in 
ordine 
all’affidabilità 
delle 
teorie 
scientifiche 
prospettate 
dai 
consulenti. 
in 
caso 
contrario, 
dinnanzi 
anche 
ad 
una 
lieve 
incertezza 
nella 
comunità 
scientifica, dovrebbe 
sempre 
concludere 
per l’irresponsabilità dell’imputato. 


La 
corte, 
pertanto, 
ricolloca 
innanzitutto 
il 
giudice 
nella 
sua 
posizione 
di 
fruitore 
-e 
non di 
produttore 
-delle 
leggi 
scientifiche 
(30), affermando anche 
che 
la 
stessa 
“Corte 
di 
legittimità 
non 
è 
per 
nulla 
detentrice 
di 
proprie 
certezze 
in ordine 
all’affidabilità della scienza, sicché 
non può essere 
chiamata a decidere, 
neppure 
a 
Sezioni 
Unite, 
se 
una 
legge 
scientifica 
di 
cui 
si 
postula 
l’utilizzabilità 
nell’inferenza probatoria sia o meno fondata” 
(31). 

in 
secondo 
luogo 
cassa 
la 
sentenza 
impugnata 
e 
rinvia 
ai 
giudici 
di 
merito, 
richiedendo 
loro, 
non 
“di 
valutare 
dialetticamente 
le 
specifiche 
opinioni 
degli 
esperti 
e 
di 
motivare 
la 
scelta 
ricostruttiva 
della 
causalità, 
ancorandola 
ai 
concreti 
elementi 
scientifici 
raccolti”, 
bensì 
di 
verificare 
“se 
presso 
la 
comunità 
scientifica 
sia 
sufficientemente 
radicata, 
su 
solide 
ed 
obiettive 
basi, 
una 
legge 
scientifica 
in 
ordine 
all’effetto 
acceleratore 
della 
protrazione 
del-
l’esposizione”. 
A 
tale 
scopo, 
indica 
inoltre 
al 
giudice 
di 
merito 
alcuni 
criteri 
di 
valutazione 
critica 
in 
ordine 
alla 
attendibilità 
scientifica 
delle 
leggi 
esplicative 
(esame 
degli 
studi 
che 
la 
sorreggono; 
ampiezza, 
rigorosità 
oggettiva 
della 
ricerca; 
grado 
di 
sostegno 
che 
i 
fatti 
accordano 
alla 
tesi; 
discussione 
cri


(29) 
Si 
afferma 
infatti 
che 
“sul 
tema 
scientifico 
dell’accelerazione 
dei 
processi 
eziologici 
si 
registra 
nella 
giurisprudenza 
una 
situazione 
che, magari 
giustificata 
all’interno di 
ciascun processo e 
delle 
informazioni 
e 
valutazioni 
scientifiche 
che 
vi 
penetrano, risulta 
tuttavia 
inaccettabile 
nel 
suo complesso. 
Si 
fa 
riferimento al 
fatto che, come 
nel 
presente 
giudizio, il 
ridetto effetto acceleratore 
viene 
ammesso, 
escluso, 
o 
magari 
riconosciuto 
solo 
parzialmente, 
con 
apprezzamenti 
difformi 
dai 
giudici 
di 
merito”. 
cass. pen., Sez. iV, 17 settembre 
2010 -13 dicembre 
2010, cozzini, in Cass. pen., 2011, pp. 1679 e 
ss. 
(30) r. BArtOLi, responsabilità penale 
da amianto: una sentenza destinata a segnare 
un punto 
di svolta?, in 
Cass. pen., 2011, n. 5, p. 1714. 
(31) 
in 
tal 
senso 
si 
è 
espressa 
la 
Suprema 
corte 
anche 
in 
un 
recente 
arresto. 
Da 
un 
lato, 
si 
è 
ribadito 
che 
“le 
Sezioni 
Unite 
non potrebbero attestare 
l’esistenza 
o l’assenza 
della 
legge 
dell’effetto acceleratore”. 
non 
si 
tratta, 
infatti, 
“di 
interpretazioni 
giuridiche, 
ma 
di 
giudizi 
di 
fatto 
di 
segno 
opposto, 
rispetto 
ai 
quali 
non 
si 
crede 
che 
le 
Sezioni 
Unite 
possano 
prendere 
una 
posizione”; 
dall’altro 
lato, 
si 
è 
evidenziato 
che 
“le 
poche 
decisioni 
che 
prendono posizione 
sulla 
maggiore 
validità 
di 
una 
teoria 
scientifica 
rispetto 
ad altra 
(...) non fanno che 
negare 
l’assunto di 
un giudice 
fruitore 
di 
leggi 
causali 
che 
rinvengono nel 
contesto scientifico il 
marchio di 
validità”. cass., Sez. iV, 3 novembre 
2016, n. 12175, Bordogna, in 
Dir. e pratica lav., 2017, 15, pp. 944 ss. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


tica; 
attitudine 
esplicativa; 
grado 
di 
consenso 
nella 
comunità 
scientifica) 
(32). 


Le 
pronunce 
successive 
alla 
sentenza 
cozzini 
non sempre 
si 
dimostrano 
ossequiose 
dei 
principi 
affermati 
dalla 
cassazione. infatti, si 
sviluppano due 
orientamenti 
che, pur giungendo a 
soluzioni 
contrastanti, sostengono di 
porsi 
nel totale rispetto degli insegnamenti della sentenza cozzini. 

Da 
una 
parte 
vi 
sono 
alcune 
sentenze 
che 
finiscono 
per 
ritenere 
plausibile 
il 
ragionamento 
dei 
giudici 
di 
merito 
in 
ordine 
all’effetto 
acceleratore 
delle 
esposizioni successive, con conseguente condanna degli imputati (33). 


Dall’altra 
vi 
sono alcune 
pronunce 
che 
giungono alla 
soluzione 
opposta. 
Ovvero alla 
negazione 
della 
sussistenza 
di 
un effetto acceleratore 
con la 
conseguente 
assoluzione degli imputati (34). 

(32) così, r. BArtOLi, Diritto penale e prova scientifica, cit., p. 105. 
(33) 
in 
tal 
direzione, 
cass. 
pen., 
Sez. 
iV, 
25 
giugno 
2013 
-21 
agosto 
2013, 
Baracchi, 
in 
CED 
Cass., n. 35309; 
cass. pen., Sez. iV, 19 aprile 
2012 -30 novembre 
2012, Stringa, cit.; 
cass. pen., Sez. 
iV, 
24 
maggio 
2012 
-27 
agosto 
2012, 
ramaciotti, 
ivi, 
n. 
33311/2012; 
cass. 
pen., 
Sez. 
iV, 
22 
marzo 
2012 -21 giugno 2012, Pittarello, ivi, n. 24997/2012; 
cass. pen., Sez. iV, 27 maggio 2011 -27 ottobre 
2011, tupini, ivi, n. 38879/2011. nello stesso senso finisce 
per collocarsi 
un’altra 
nota 
sentenza 
di 
legittimità 
(cass. pen., Sez. iV, 27 febbraio 2014 -8 maggio 2014, negroni) la 
quale, pur cassando con 
rinvio la 
sentenza 
della 
corte 
d’Appello di 
torino che 
aveva 
assolto gli 
imputati 
per la 
sostanziale 
mancanza 
di 
legge 
di 
copertura 
in ordine 
all’effetto acceleratore 
delle 
esposizioni 
successive, finisce 
implicitamente 
per ammettere 
la 
plausibilità 
dell’effetto acceleratore, che 
dovrà 
essere 
vagliato dai 
giudici 
di 
merito. in tal 
senso, r. BArtOLi, La responsabilità penale 
da esposizione 
dei 
lavoratori 
ad amianto, in 
Dir. 
pen. 
contemp., 
p. 
42, 
e 
c. 
cOnti, 
Scienza 
controversa 
e 
processo 
penale: 
la 
Cassazione 
e 
il 
“discorso 
sul metodo”, in Diritto penale e processo, 2019, pp. 848 e ss. 
(34) in alcuni 
casi, infatti, le 
sentenze 
che 
hanno rinvenuto la 
legge 
di 
copertura 
dell’effetto acceleratore 
sono 
state 
annullate. 
cfr. 
sez. 
4 
n. 
43786 
del 
17 
aprile 
2010, 
cozzini 
e 
altri; 
n. 
30206 
del 
2013, ciriminna 
e 
altri 
(Aerosicula 
Metalmeccanica), in cui 
si 
è 
avallata 
in termini 
di 
razionalità, respingendosi 
la 
censura 
di 
contraddittorietà 
articolata 
dall’inAiL 
ricorrente, la 
conclusione 
del 
giudice 
del 
merito secondo cui 
sarebbe 
stato impossibile 
determinare 
con certezza 
l'esistenza 
stessa 
di 
una 
reale 
incidenza 
dell'esposizione 
nel 
periodo 
in 
considerazione 
sul 
decorso 
della 
malattia 
e, 
quindi, 
non 
essendo 
possibile 
quantificare 
il 
grado di 
incidenza 
dell'esposizione 
sul 
decorso della 
malattia, non sarebbe 
possibile 
neanche 
ritenere 
che 
tale 
incidenza 
vi 
sia 
stata; 
n. 27163 del 
2016, cataoli 
(Officine 
Grandi 
riparazioni 
di 
Bologna) che 
merita 
però una 
precisazione: 
l’annullamento in questo caso è 
dipeso non già 
da 
una 
ingiustificata 
attribuzione 
di 
un valore 
scientifico probabilistico alla 
teoria 
dell’acceleratore 
sul 
piano della 
causalità 
generale, ma 
dalla 
mancata 
corroborazione 
di 
quell’ipotesi 
nel 
caso concreto; 
n. 
5273 del 
21 settembre 
2016 Ud. (dep. 3 febbraio 2017), Ferrentino (Montefibre 
1 -Acerra); 
n. 12175 
del 
2017, Bordogna 
e 
altri 
(Montefibre 
2 Stabilimento di 
Verbania 
Pallanza); 
sez. 4 n. 55005 del 
10 novembre 
2017, 
Pesenti, 
n. 
16705 
del 
2018, 
cirocco 
e 
altri 
(petrolchimico 
Mantova) 
che, 
al 
§ 
3.1., 
si 
occupa 
proprio del 
giudice, delle 
parti 
e 
del 
sapere 
esperto (all’esito dell’amplissima 
disamina, la 
corte 
giunge 
alla 
conclusione 
secondo cui 
anche 
in questo caso il 
giudice 
d’appello non avrebbe 
effettuato la 
verifica 
dell’inverarsi 
dell’effetto nel 
caso concreto, precisando che, a 
tal 
fine, sono necessarie, almeno, 
informazioni 
cronologiche 
ed 
occorre 
poter 
dire 
che 
il 
processo 
patogenetico 
si 
è 
sviluppato 
in 
un 
periodo 
significativamente 
più breve 
rispetto a 
quello richiesto nei 
casi 
in cui 
all'iniziazione 
non segua 
un'ulteriore 
esposizione, che 
devono essere 
noti 
i 
fattori 
che 
nell'esposizione 
protratta 
accelerano il 
processo e 
che 
essi 
devono essere 
presenti 
nella 
concreta 
vicenda 
processuale); 
da 
ultimo si 
possono citare: 
sez. 
iV, 
sent. 
13 
giugno 
2019 
n. 
45935, 
Pres. 
izzo, 
est. 
Dovere, 
in 
cui 
i 
giudici 
di 
legittimità, 
pur 
apprezzando 
lo sforzo ricostruttivo operato dalla 
sentenza 
impugnata, ravvisano “una 
palese 
violazione 
delle 
regole 
del 
ragionamento probatorio che 
implica 
un dato di 
conoscenza 
per il 
quale 
il 
giudice 
è 
debitore 
della 
scienza; 
ed altresì 
il 
fraintendimento in ordine 
al 
ruolo che 
svolge 
l’incertezza 
in questi 
casi” 
e 
sez. iii, 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


in 
alcuni 
casi, 
infine, 
è 
la 
stessa 
Suprema 
corte 
a 
prendere 
posizione 
sulla 
maggiore 
validità 
di 
una 
teoria 
scientifica 
rispetto ad un’altra, anziché 
verificare 
se 
nel 
caso 
concreto 
la 
valutazione 
operata 
dal 
giudice 
di 
merito 
sia 
o 
meno corretta sul piano metodologico. 

recentemente 
è 
intervenuta 
una 
sentenza 
di 
legittimità 
che 
ha 
chiarito 
quale 
debba 
essere 
il 
rapporto fra 
sapere 
scientifico e 
processo penale. in particolare 
si 
afferma 
che 
il 
giudizio penale 
non può essere 
“il 
luogo nel 
quale 
si 
forma il 
sapere 
scientifico, che 
è 
processo di 
estrema complessità, di 
imprevedibile 
proiezione 
temporale 
e 
di 
necessaria 
dimensione 
universale 
(nel 
senso 
del 
coinvolgimento dell’intera comunità degli 
esperti)”. il 
sapere 
scientifico, 
altrove 
consolidatasi, 
giunge 
nel 
rito 
penale 
attraverso 
gli 
studiosi 
ed 
al 
giudice 
spetta 
il 
compito di 
assicurare 
la 
competenza 
e 
l’imparzialità 
di 
giudizio del-
l’esperto 
e 
“verificare 
con 
l’ausilio 
di 
questi, 
attraverso 
una 
documentata 
analisi 
della letteratura scientifica universale 
in materia, l’esistenza e 
l’apporto 
della legge scientifica” 
(35). 


È 
stato inoltre 
ribadito che 
-in merito alla 
questione 
della 
sussistenza 
di 
una 
legge 
statistica 
di 
copertura 
in ordine 
all'effetto acceleratore 
sul 
mesotelioma 
dell'esposizione 
ad 
amianto 
nella 
fase 
successiva 
a 
quella 
dell'insorgenza 
della 
malattia 
-non si 
può ricercare 
nelle 
pronunce 
della 
corte 
di 
legittimità 
la 
validazione 
di 
una 
teoria 
scientifica, in quanto il 
precedente 
giurisprudenziale 
non costituisce il 
"nomos" 
del sapere scientifico (36). 

infatti 
è 
orientamento consolidato che 
l’oggetto di 
prova 
non è 
il 
merito 
della 
teoria 
scientifica, 
bensì 
l’accreditamento 
della 
stessa 
nella 
comunità 
degli 
esperti. 
Pertanto 
la 
valutazione 
dei 
giudici 
di 
merito 
non 
deve 
attenere 
alla 
configurabilità 
o 
meno 
di 
un 
effetto 
acceleratore, 
bensì 
all’esistenza 
di 
un 
suf


sent. 14 marzo 2019, n. 11451 Pres. Di 
nicola, est. zunica 
in cui 
la 
corte 
“ha 
rimarcato la 
necessità 
che 
l'eventuale 
incidenza 
di 
ciascuna 
esposizione 
al 
fattore 
cancerogeno sia 
oggetto di 
una 
rigorosa 
ricostruzione 
scientifica 
che 
ne 
chiarisca 
i 
caratteri, dovendosi 
altresì 
precisare, in caso di 
verifica 
positiva, 
la 
natura, 
universale 
o 
probabilistica, 
della 
legge 
di 
spiegazione 
causale 
utilizzata”. 
in 
seguito 
nella 
pronuncia 
si 
afferma 
che 
“a 
tale 
questione 
non risulta 
essere 
stata 
fornita 
una 
risposta 
adeguata 
nel 
caso di 
specie, 
essendosi 
rivelati 
non 
pertinenti 
sia 
i 
richiami 
alle 
diverse 
conclusioni 
dei 
consulenti 
tecnici 
escussi 
in primo grado, rispetto alle 
cui 
affermazioni 
è 
mancata 
un'attenta 
verifica 
oggettiva, oltre 
che 
soggettiva, sia 
i 
riferimenti 
alle 
sentenze 
di 
questa 
corte, che, lungi 
dall'esprimere 
posizioni 
contrarie 
rispetto alla 
pronuncia 
rescindente, confermavano al 
contrario l'utilità 
delle 
indicazioni 
metodologiche 
fornite rispetto agli approfondimenti probatori da svolgere”. 


(35) Sez. 4, n. 12175 del 
3 novembre 
2016, dep. 2017, Bordogna, rv. 270385, in Dir. Pen. Cont., 
31 
maggio 
2017, 
con 
nota 
di 
S. 
zirULLA, 
Amianto: 
la 
Cassazione 
annulla 
le 
condanne 
nel 
processo 
montefibre-bis, sulla scia del precedente “Cozzini”. 
(36) Sez. 4, n. 16715 del 
14 novembre 
2017, dep. 2018, cirocco, rv. 273094, in Dir. Pen. Cont., 
9 luglio 2018. in particolare 
nella 
pronuncia 
si 
afferma 
che 
appaia 
opportuno “rilevare 
che 
nella disamina 
delle 
fonti 
citate 
dal 
Tribunale 
ci 
si 
imbatte 
anche 
nel 
richiamo 
della 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, che 
attesterebbe 
l'esistenza di 
un ampio consenso della comunità scientifica verso la tesi 
dell'effetto 
acceleratore. Va subito osservato, al 
proposito, che 
in alcun modo si 
può ricercare 
nelle 
pronunce 
del 
giudice 
di 
legittimità la 'validazione' 
di 
questa o quella teoria scientifica. Il 
precedente 
giurisprudenziale 
non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico”. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


ficiente 
consenso sul 
punto che 
raggiunga 
“quella elevata probabilità logica 
e 
credibilità 
razionale 
richiesta 
per 
poter 
addivenire 
ad 
una 
pronuncia 
di 
condanna 
degli 
imputati 
che 
hanno 
assunto 
posizioni 
di 
garanzia 
nel 
periodo 
successivo 
al 
completamento 
del 
periodo 
di 
induzione 
per 
ciascuno 
dei 
lavoratori”; 
e 
che 
“le 
acquisizioni 
scientifiche 
cui 
è 
possibile 
attingere 
nel 
giudizio penale sono quelle più generalmente accolte, più condivise” 
(37). 

Dalle 
pronunce 
richiamate 
si 
ricava 
che, in materia 
di 
sapere 
scientifico 
e 
processo 
penale, 
sussista 
la 
necessità 
per 
il 
giudice 
di 
merito 
di 
comprendere 
non solo e 
non tanto il 
personale 
punto di 
vista 
del 
singolo, pur qualificato, 
esperto, quanto piuttosto di accertare lo stato complessivo delle conoscenze. 

il 
problema 
è, allora, valutare 
se 
esista 
una 
teoria 
sufficientemente 
affidabile 
ed 
in 
grado 
di 
fornire 
concrete, 
significative 
ed 
attendibili 
informazioni 
idonee 
a 
sorreggere 
l'argomentazione 
probatoria 
inerente 
allo specifico caso 
esaminato. Una 
teoria, dunque, sulla 
quale 
si 
registra 
un preponderante, condiviso 
consenso. 

tale 
compito è 
affidato al 
giudice 
di 
merito, il 
quale 
tuttavia 
non dispone 
delle 
conoscenze 
e 
delle 
competenze 
per esperire 
un'indagine 
siffatta. È 
necessario, 
pertanto, 
che 
le 
informazioni 
relative 
alle 
differenti 
teorie, 
alle 
diverse 
scuole 
di 
pensiero, 
dovranno 
essere 
veicolate 
nel 
processo 
dagli 
esperti, 
ai 
quali 
dovrà 
quindi 
chiedersi 
di 
profilare 
lo 
scenario 
degli 
studi 
e 
fornire 
gli 
elementi 
di 
giudizio che 
consentano al 
giudice 
di 
comprendere 
se 
possa 
pervenirsi 
ad una 
teoria 
scientifica 
in grado di 
guidare 
affidabilmente 
l'indagine 
da svolgersi in concreto. 


Allo 
stesso 
tempo 
non 
è 
consentito 
al 
giudice 
di 
defilarsi 
con 
un 
“non 
liquet”. 
È 
suo 
compito, 
invece, 
dare 
conto, 
attraverso 
la 
motivazione, 
della 
legge 
scientifica 
che 
ritiene 
più 
o 
meno 
persuasiva 
e 
idonea 
a 
spiegare 
l’ef


(37) Sez. 4, del 
12 ottobre 
2018, Beduschi, rv. 274272. nello stesso senso è 
stato recentemente 
affermato che 
“in tema 
di 
rapporto di 
causalità 
tra 
esposizione 
ad amianto e 
morte 
del 
lavoratore, ai 
fini 
dell'accertamento sull'esistenza 
di 
una 
legge 
scientifica 
di 
copertura 
relativa 
all'effetto acceleratore 
sul 
mesotelioma 
della 
esposizione 
ad 
amianto, 
anche 
nella 
fase 
successiva 
a 
quella 
dell'insorgenza 
della 
malattia, 
il 
giudice 
di 
merito, 
tramite 
una 
documentata 
analisi 
della 
letteratura 
scientifica 
in 
materia, 
con l'ausilio di 
esperti 
qualificati 
ed indipendenti, è 
tenuto a 
valutare 
l'attendibilità 
di 
una 
determinata 
teoria 
attraverso la 
rigorosa 
verifica 
di 
una 
serie 
di 
parametri 
oggettivi, tra 
cui 
la 
validità 
degli 
studi 
che 
la 
sorreggono, le 
basi 
fattuali 
su cui 
gli 
stessi 
sono stati 
condotti, l'ampiezza 
e 
la 
serietà 
della 
ricerca, le 
sue 
finalità, il 
grado di 
consenso che 
raccoglie 
nella 
comunità 
scientifica 
e 
l'autorevolezza 
e 
l'indipendenza 
di 
chi 
ha 
elaborato detta 
tesi” 
(Sez. 3, n. 11451 del 
6 novembre 
2018 -dep. 14 marzo 2019, rv. 
27517401). 
Da 
ultimo, 
tali 
principi 
sono 
stati 
applicati 
dalla 
Suprema 
corte 
anche 
in 
materia 
di 
revisione. 
in particolare 
è 
stato escluso che 
costituisca 
“prova 
nuova, ai 
sensi 
dell'art. 630, comma 
1, lett. c), cod. 
proc. pen., quella 
fondata 
su nuovi 
studi 
che, pur giungendo a 
diverse 
valutazioni 
degli 
elementi 
di 
fatto 
già 
apprezzati, non neghino la 
validità 
scientifica 
del 
sapere 
posto a 
base 
della 
condanna, risolvendosi, 
in tal 
caso, la 
richiesta 
di 
revisione 
della 
pronuncia 
irrevocabile 
nella 
domanda 
di 
un diverso apprezzamento 
critico di 
dati 
di 
fatto processualmente 
acquisiti 
in via 
definitiva 
ovvero di 
una 
loro lettura 
alternativa 
rispetto a 
quella 
contenuta 
nella 
sentenza”(Sez. 3, n. 31309 del 
21 maggio 2019 -dep. 17 luglio 
2019, rv. 27659401). 

cOntriBUti 
Di 
DOttrinA 


ficacia 
causale 
di 
una 
determinata 
condotta, 
tenendo 
conto 
sempre 
di 
tre 
parametri 
di 
valutazione: 
la 
preventiva 
dialettica 
tra 
le 
varie 
opinioni 
scientifiche; 
il 
ruolo 
del 
giudice 
che 
non 
crea 
la 
legge, 
ma 
la 
rileva; 
la 
necessità 
che 
l’affermazione 
del 
legame 
causale 
avvenga 
al 
di 
là 
di 
ogni 
ragionevole 
dubbio 
(38). 


tale 
arduo compito affidato al 
giudice 
di 
merito è 
sottoposto all’attento 
scrutinio 
della 
Suprema 
corte. 
infatti 
sulle 
valutazioni 
operate 
in 
sede 
di 
primo 
e 
secondo 
grado 
di 
giudizio, 
la 
cassazione 
esplicherà 
il 
controllo 
di 
legittimità, 
non 
già 
per 
sancire 
la 
validità/affidabilità 
della 
legge 
scientifica 
utilizzata 
che 
attiene 
all’accertamento in fatto proprio del 
giudizio di 
merito -ma 
la 
logicità 
del 
percorso seguito dal 
giudice 
del 
merito nell’apprezzare 
la 
validità 
del 
sapere 
scientifico 
e 
nell’utilizzarlo 
quale 
strumento 
di 
accertamento 
del 
fatto. 

in conclusione, e 
con particolare 
riguardo all’esposizione 
all’amianto, si 
evidenzia 
che 
spesso 
nel 
prendere 
atto 
della 
naturale 
deficienza 
nel 
sapere 
scientifico, il 
giudice 
di 
merito deve 
pervenire 
ad una 
sentenza 
assolutoria 
in 
tutti 
quei 
casi 
in cui 
nel 
dibattimento non si 
sia 
dimostrato: 
o il 
momento in 
cui 
in 
cui 
la 
patologia 
tumorale 
sia 
insorta 
o 
se 
le 
esposizioni 
successive 
a 
quella di innesco abbiano avuto rilievo causale. 


non 
può 
non 
sottolinearsi, 
infatti, 
che 
ogni 
elemento 
costitutivo 
del 
reato, 
quindi 
anche 
il 
nesso causale, deve 
essere 
provato rigorosamente 
al 
di 
là 
di 
ogni ragionevole dubbio. 


tali 
ragioni, 
ispirate 
da 
criteri 
di 
ragionevolezza 
ed 
equità, 
inducono 
i 
giudici 
a 
pervenire 
ad una 
declaratoria 
di 
assoluzione 
perché 
il 
fatto non sussiste. 


ciò non toglie 
che 
le 
vittime 
hanno il 
diritto che 
venga 
individuato un responsabile 
e 
che 
siano riparati 
tutti 
i 
danni 
cagionati. Peraltro, in ossequio ai 
principi 
della 
responsabilità 
a 
titolo 
personale 
(art. 
27 
comma 
primo 
della 
costituzione), 
della 
legalità 
o 
tipicità 
oggettiva 
degli 
elementi 
costitutivi 
del 
fatto-
reato 
(art. 
25 
comma 
2) 
e 
della 
presunzione 
d'innocenza, 
queste 
risposte, 
doverose, 
non 
possono 
essere 
trovate 
per 
le 
fattispecie 
in 
esame 
in 
sede 
penale, 
bensì 
negli 
ambiti 
previdenziale 
e 
civile, nei 
quali 
operano un diverso statuto 
della causalità ed un diverso regime dell'onere probatorio. 

Va 
infatti 
osservato 
che 
in 
tema 
di 
nesso 
di 
causalità, 
mentre 
nel 
processo 
penale 
vige 
la 
regola 
della 
prova 
“oltre 
il 
ragionevole 
dubbio” 
(39), 
in 
materia 
civile 
opera 
la 
diversa 
regola 
dell’ascrivibilità 
in 
termini 
di 
preponderanza 


(38) tali 
principi 
sono stati 
chiaramente 
espressi 
nella 
sentenza 
della 
sez. 4 n. 38991 del 
2010, 
Quaglieri e altri. 
(39) e 
pertanto in termini 
di 
-quasi 
-certezza: 
v. cass., Sez. Un. pen., 10 luglio 2002, n. 30328, 
e, conformemente, cass., pen., 25 agosto 2015, n. 41158; cass., pen., 19 marzo 2015, n. 22378. 

rASSeGnA 
AVVOcAtUrA 
DeLLO 
StAtO -n. 2/2020 


dell’evidenza 
o del 
“più probabile 
che 
non” 
dell’evento lesivo alla 
condotta 
dolosa o colposa dell’agente (40). 


La 
responsabilità 
in sede 
civile 
può essere, peraltro, accertata 
anche 
a 
seguito 
di una pronuncia di assoluzione nel processo penale. 


infatti 
le 
ragioni 
che 
possono 
condurre 
il 
giudice 
penale 
ad 
una 
pronuncia 
di 
assoluzione 
possono 
fondarsi 
anche 
sull’insufficienza 
della 
prova 
raggiunta 
su un elemento costitutivo del 
reato. in tal 
caso il 
giudizio su tale 
elemento 
può 
essere 
valutato 
diversamente 
nel 
processo 
civile, 
che 
segue 
la 
regola 
della 
preponderanza dell’evidenza. 


ne 
consegue 
che 
il 
giudice 
civile 
ha 
quindi 
il 
potere 
di 
valutare 
autonomamente 
gli 
elementi 
di 
prova 
che 
sono stati 
assunti 
nel 
processo penale 
e 
di 
giungere ad una soluzione diversa. 


Alla 
luce 
di 
quanto 
rappresentato 
sopra 
è 
evidente 
che 
la 
via 
del 
processo 
penale, dal 
lato prospettico dei 
danneggiati, non è 
quella 
più funzionale 
ad assicurare 
il 
pieno 
ristoro 
dei 
danni 
subiti. 
Sembrerebbe, 
infatti, 
che 
negli 
ultimi 
tempi 
molte 
delle 
vittime 
inizino ad optare 
per le 
cause 
civili. tale 
tendenza 
è 
particolarmente 
evidente 
nelle 
cause 
instaurate 
dalle 
c.d. “vittime 
del 
dovere” 
(41). 
in 
questi 
casi 
le 
malattie 
per 
causa 
di 
servizio 
(come 
l’infermità, 
che 
può 
portare 
fino al 
decesso) sono spesso dovute 
ad esposizioni 
a 
sostanze 
nocive, 
fra cui l'amianto costituisce il principale fattore di rischio. 


in questo ambito il 
processo civile 
risulta 
maggiormente 
satisfattivo per 
i 
danneggiati. 
infatti, 
mentre 
nel 
processo 
penale 
-sottoposto 
al 
principio 
della 
“personalità” 
della 
responsabilità 
-il 
diritto al 
risarcimento è 
subordinato alla 
condanna 
dell’imputato 
che 
si 
trovava 
nella 
posizione 
di 
garanzia, 
nel 
processo 
civile 
le 
vittime 
possono chiedere 
direttamente 
la 
condanna 
del 
Ministero responsabile, 
per i profili di responsabilità extracontrattuale. 

A 
ciò si 
aggiunge 
che 
sull’Amministrazione 
erariale, in sede 
civile, incombe 
l’onere 
di 
provare 
di 
aver adottato tutte 
le 
misure 
che, secondo la 
particolarità 
del 
lavoro, 
l'esperienza 
e 
la 
tecnica, 
sono 
necessarie 
a 
tutelare 
l'integrità 
fisica 
e 
la 
personalità 
morale 
dei 
prestatori 
di 
lavoro 
(art. 
2087 
c.c.). 
tale 
norma 
configura 
una 
ipotesi 
di 
responsabilità 
contrattuale 
del 
datore 
di 
lavoro. Pertanto al 
dipendente 
danneggiato spetterà 
solo di 
provare 
il 
nesso di 
causalità 
fra 
condotta 
ed 
evento, 
mentre 
la 
p.a. 
convenuta 
dovrà 
provare 
di 
aver 
adottato 
tutte 
le 
cautele 
necessarie 
ad 
evitare 
il 
danno 
rapportate 
alla 
specificità 
del caso ed ai rischi intrinseci connessi al tipo di attività lavorativa. 


(40) in tal 
senso, cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576; 
cass., 16 ottobre 
2007, n. 21619. e, 
da ultimo, cass., 12 ottobre 2018, n. 25365. 
(41) Si 
tratta 
di 
soggetti 
-fra 
i 
quali 
si 
inseriscono i 
dipendenti 
del 
Ministero della 
Difesa 
e 
del 
comparto sicurezza 
-che 
hanno subito lesioni 
o danni 
fisici 
in servizio di 
contrasto ad ogni 
tipo di 
criminalità, 
nello 
svolgimento 
di 
servizi 
di 
ordine 
pubblico, 
nella 
vigilanza 
ad 
infrastrutture 
civili 
e 
militari, 
in operazioni 
di 
soccorso, in attività 
di 
tutela 
della 
pubblica 
incolumità, a 
causa 
di 
azioni 
recate 
nei 
loro 
confronti in contesti di impiego internazionale (art. 1, comma 563, della Legge 266 del 2005). 

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